JOANNE HARRIS LA SCUOLA DEI DESIDERI (Gentlemen And Players, 2005) A Derek Fry uno della vecchia scuola «Ogni scuola è un po' un casino.» Geoffrey Williams, Abbasso la squola! PEDONE 1. Se c'è una cosa che ho imparato negli ultimi quindici anni, è questa: che l'omicidio non è poi un granché. È solo un confine arbitrario come tutti gli altri, una linea tracciata nel terreno. Come il cartello gigante DIVIETO DI ACCESSO sul viale di St Oswald, che cavalcava l'aria simile a una sentinella. All'epoca del nostro primo incontro avevo nove anni e già allora mi incombeva addosso, come la minaccia ringhiosa di un bullo della scuola. DIVIETO DI ACCESSO PROIBITO SUPERARE QUESTO PUNTO SENZA AUTORIZZAZIONE È UN ORDINE TASSATIVO Altri bambini avrebbero potuto farsi intimidire dal comando. Ma nel mio caso la curiosità prevaleva sull'istinto. Per ordine di chi? Perché questo punto e non un altro? E, ancor più importante, cosa sarebbe successo se avessi oltrepassato quella linea? Naturalmente sapevo già che la scuola era proibita. Allora vivevo nella sua ombra da sei mesi, e quel dogma appariva ormai esagerato tra i comandamenti della mia giovane vita, secondo quanto stabilito da John Snyde. Non fare la femminuccia. Fatti gli affari tuoi. Lavora sodo. Gioca pesante. Un goccetto non ha mai fatto male a nessuno. E soprattutto: Stai alla larga da St Oswald, sottolineato di tanto in tanto da un: Stai alla larga e basta, per il tuo bene o da un pugno d'ammonimento nella parte superiore del braccio. I pugni volevano essere affettuosi, lo sapevo. Però facevano
male. Il ruolo di genitore non era fra quelli in cui John Snyde dava il meglio di sé. Tuttavia, i primi mesi, obbedii senza problemi. Papà era estremamente fiero del suo nuovo lavoro di portiere: una vecchia scuola così raffinata, una tale reputazione, e avremmo abitato nella vecchia portineria, dove prima di noi erano vissute generazioni di portieri. Nelle sere d'estate avremmo preso il tè sul prato, e sarebbe stato l'inizio di qualcosa di meraviglioso. Forse, quando avesse visto come sapevamo cavarcela bene, la mamma sarebbe tornata a casa. Ma le settimane passavano e non accadde nulla di simile. La portineria era un edificio dichiarato di interesse storico, con piccole finestre dai vetri impiombati che lasciavano entrare poca luce. C'era un perenne odore di umido e non avevamo il permesso di mettere un'antenna parabolica perché avrebbe abbassato il livello. La maggior parte dei mobili apparteneva a St Oswald - pesanti sedie di quercia e credenze polverose - e le nostre cose, recuperate dal vecchio appartamento popolare di Abbey Road, apparivano dozzinali e fuori luogo. Mio padre dedicava tutto il tempo al nuovo lavoro e imparai in fretta a essere indipendente - a non avere pretese, per esempio pasti regolari o lenzuola pulite, classificate come tipiche di una femminuccia - a non disturbare mio padre nei fine settimana e a chiudere sempre a chiave la mia stanza il sabato sera. La mamma non scriveva mai: anche solo citarla rientrava nelle cose da femminuccia e dopo un po' cominciai a scordarmi che aspetto avesse. Però mio padre teneva una bottiglia del suo profumo nascosta sotto il materasso e, a volte, quando era fuori per i suoi giri d'ispezione, o giù all'Engineers, il pub, con gli amici, sgattaiolavo in camera sua per spruzzare una goccia di quel profumo - si chiamava Cinnabar - sul mio cuscino e facevo finta che la mamma stesse guardando la TV nella stanza accanto o che avesse appena fatto un salto in cucina per prendermi una tazza di latte e che sarebbe tornata per leggermi una storia. Una sciocchezza, in realtà: anche quando stava a casa, la mamma non aveva mai fatto queste cose. A un certo punto, papà fece sparire la bottiglia, e non riuscii più a ricordarmi quale odore avesse mia madre. Si avvicinava Natale, portando con sé il brutto tempo e ancor più lavoro per il Portiere, così non potevamo mai prendere il tè sul prato. Ma di solito ero abbastanza felice. Una creatura solitaria già allora: un po' goffa in compagnia, invisibile a scuola. Durante il primo trimestre rimasi per conto mio: me ne stavo fuori di casa, giocavo nei boschi innevati dietro a St O-
swald ed esploravo il perimetro della scuola, badando a non superare mai la linea proibita. Scoprii che St Oswald rimaneva quasi interamente nascosta: l'edificio principale da una lunga fila di tigli, ora spogli, che costeggiavano il viale d'ingresso, i terreni da muri e siepi che circondavano ogni lato. Ma attraverso i cancelli potevo vedere questi prati, tutti tagliati alla perfezione da mio padre, il campo di cricket con le siepi proporzionate, la cappella con il segnavento e le iscrizioni in latino. Al di là si spiegava un mondo tanto estraneo e distante ai miei occhi quanto Oz o Narnia, un mondo a cui non avrei mai potuto appartenere. La mia scuola si chiamava Abbey Road Junior: un piccolo edificio tozzo nel quartiere di case popolari del comune, con un campo giochi accidentato costruito su un pendio e due cancelli d'ingresso con sopra le scritte «Scuola maschile» e «Scuola femminile» su pietra fuligginosa. Non mi era mai piaciuta, tuttavia temevo il mio arrivo a Sunnybank Park, la caotica scuola secondaria. Sin dal primo giorno a Abbey Road avevo osservato i Sunnybanker felpe verdi a buon mercato con il logo della scuola, zaini di nylon, mozziconi di sigaretta, gel per capelli - con crescente sgomento. Mi avrebbero odiato, lo sapevo. Mi avrebbero dato un'occhiata e mi avrebbero odiato. Lo percepii all'istante. Ero pelle e ossa, di statura inferiore alla media; avrei fatto i compiti perché mi veniva naturale. Sunnybank Park mi avrebbe divorato in un boccone. Tormentavo mio padre: «Perché? Perché il Park? Perché lì?» «Non fare la femminuccia. Non c'è nulla che non vada col Park, pulcino. È solo una scuola. Sono tutte maledettamente uguali.» Be', questa sì che era una bugia. Lo sapevo anch'io. Mi riempiva di curiosità e di risentimento. E ora, mentre la primavera si risvegliava sopra la terra nuda e boccioli bianchi spuntavano dalle siepi di prugnolo, guardai ancora una volta il cartello DIVIETO D'ACCESSO, scritto in diligente stampatello da mio padre, e fra me e me pensai: per ORDINE di chi? Perché questo punto e non un altro? E con un'impazienza crescente: cosa sarebbe successo se l'avessi superato? Qui non c'era un muro, nessun confine visibile di sorta. Non era necessario. C'erano solamente la strada, la siepe di prugnolo di fianco e, qualche metro a sinistra, il cartello. Più oltre, sul lato opposto, immaginavo un ter-
ritorio pericoloso, inesplorato. Qualsiasi cosa avrebbe potuto aspettarmi laggiù: campi minati, trappole, guardie giurate, telecamere nascoste. Ah, in realtà l'aspetto era abbastanza sicuro: non diverso dal lato su cui mi trovavo io. Ma il cartello dichiarava altrimenti. Più in là c'era l'ORDINE. C'era l'autorità. Qualsiasi infrazione sarebbe stata punita con un castigo misterioso quanto terribile. Non ne dubitai nemmeno per un momento; il fatto che non fossero specificati i dettagli rafforzava la minaccia. Così mi sedetti a una distanza rispettosa e osservai l'area vietata. Era stranamente consolatorio sapere che almeno qui l'ORDINE veniva fatto rispettare. Avevo visto le macchine della polizia fuori da Sunnybank Park. Avevo visto i graffiti sui muri dell'edificio e i ragazzi che lanciavano sassi alle auto nel viale. Li avevo sentiti gridare ai professori mentre uscivano da scuola e avevo adocchiato i fitti fasci di filo spinato che proteggevano il posteggio riservato agli insegnanti. Una volta avevo visto un gruppo di quattro o cinque mettere spalle al muro un ragazzo. Aveva soltanto qualche anno più di me, ed era vestito con più cura della maggior parte dei Sunnybanker. Seppi che le avrebbe prese appena notai i libri della biblioteca che teneva sottobraccio. I lettori sono sempre bersagli inevitabili in posti come Sunnybank. St Oswald era un altro mondo. Sapevo che qui non ci sarebbero stati graffiti, né rifiuti, né vandalismi, nemmeno una finestra rotta. Era il cartello a dirlo; e provai l'improvvisa e muta convinzione che era questo il posto a cui appartenevo davvero, questo posto dove si potevano piantare alberi giovani senza che qualcuno tagliasse i rami la notte, dove nessuno veniva abbandonato per strada sanguinante; dove non c'erano visite a sorpresa del poliziotto di quartiere o manifesti che invitavano a lasciare i coltelli a casa. Qui ci sarebbero stati insegnanti austeri con toghe nere d'antica foggia; portieri arcigni come mio padre; alti prefetti. Qui, fare i compiti non significava essere un vigliacco, né un secchione né un finocchio. Qui c'era la sicurezza. Qui era casa. Ero in totale solitudine: nessuno si era spinto tanto in là. Gli uccelli andavano e venivano sul terreno proibito. A loro non accadeva nulla. Poco dopo un gatto uscì con andatura spavalda da sotto la siepe e si sedette di fronte a me, leccandosi la zampa. Ancora nulla. Allora mi avvicinai, aprendomi un varco nell'oscurità per poi acquattarmi ai piedi del cartello. La mia ombra si mosse furtiva. La mia ombra aveva superato il confine. Per un attimo fu abbastanza elettrizzante. Ma non per molto: in me c'era
già troppa ribellione per accontentarmi di una trasgressione tecnica. Con il piede pestai leggermente l'erba sul lato opposto, quindi mi ritirai con un brivido delizioso, come un bambino che fa il primo passo nell'oceano. Naturalmente non avevo mai visto l'oceano, ma l'istinto era quello, la sensazione di aver fatto un passo in un elemento alieno dove poteva succedere qualunque cosa. Nulla. Feci un altro passo e questa volta non mi tirai indietro. Ancora nulla. Il cartello torreggiava come il mostro di un film dell'orrore, ma era curiosamente immobile, oltraggiato dalla mia impudenza. Era il momento buono, così attraversai di corsa il campo ventoso in direzione della siepe, tenendomi rasoterra, in tensione per un eventuale attacco. Raggiunsi la siepe e mi gettai nella sua ombra, senza fiato per la paura. Adesso era fatta. Ora sarebbero arrivati. C'era un varco nella siepe, a pochi metri da me. Mi pareva l'occasione migliore. Avanzai adagio, tenendomi al riparo, e mi chinai per passare attraverso il piccolo spazio. Potevano raggiungermi da entrambi i lati, pensai: se fossero arrivati avrei dovuto darmela a gambe. Avevo notato che, col tempo, gli adulti tendevano a dimenticarsi le cose, e avevo la ragionevole certezza che se me la fossi svignata in fretta, avrei potuto sfuggire alla punizione. Aspettai, trepidante. Il nodo alla gola si sciolse a poco a poco. Il cuore rallentò fino a un battito quasi normale. Mi resi conto di quanto mi circondava, prima con curiosità, poi con un malessere crescente. C'erano delle spine che attraverso la T-shirt mi pungevano la schiena. Sentivo l'odore di sudore, di terra, e quello intenso della siepe. Da qualche parte lì vicino proveniva un canto d'uccelli, più in là il rumore di un tosaerba, un ronzio soporifero come di insetti in un prato. Nient'altro. Sulle prime sorrisi di piacere: avevo sconfinato, riuscendo a sfuggire alla cattura; poi avvertii l'insoddisfazione, un palpito di sdegno tra le coste. Dov'erano le telecamere? I campi minati? Le guardie? Dov'era l'ORDlNE, così sicuro di sé da essere scritto in lettere maiuscole? E, cosa più importante di tutte, dov'era mio padre? Mi alzai, sempre con circospezione, e lasciai l'ombra della siepe. Il sole mi colpì in faccia e dovetti alzare la mano per proteggere gli occhi. Feci un passo verso lo spazio aperto, quindi un altro. Di sicuro adesso sarebbero venute le guardie, le figure oscure dell'ordine e dell'autorità. Ma passavano i secondi, poi i minuti, e non succedeva nien-
te. Non venne nessuno: non un prefetto, non un insegnante e neppure un portiere. Allora mi prese il panico, corsi in mezzo al campo e agitai le braccia, come un naufrago su un'isola deserta che fa segnalazioni a un aereo di soccorso. Non importava nulla? Avevo oltrepassato il confine. Non mi avevano visto? «Qui!» Ero in preda a un'indignazione delirante. «Sono qui! Qui! Qui!» Niente. Non un suono. Neanche l'abbaiare lontano di un cane o il minimo urlo di una sirena d'allarme. Fu allora che mi resi conto, con rabbia e una sorta di eccitazione vischiosa, che era stata tutta una colossale bugia. Nel campo non c'era altro se non erba e alberi. Solo una linea nel terreno, che mi sfidava a superarla. E avevo osato. Avevo sfidato l'ORDlNE. Tuttavia sentivo comunque puzza d'imbroglio, come mi accadeva spesso quando mi confrontavo con le minacce e le rassicurazioni del mondo adulto, che promette tanto e concede poco. Mentono, pulcino. Era la voce di mio padre, solo un po' storpiata, nella mia mente. Ti promettono il mondo, pulcino, ma sono tutti uguali. Mentono. «No che non mentono! Non sempre...» Allora provaci. Avanti. Ti sfido. Vediamo fin dove arrivi. E così mi spinsi oltre, seguendo la siepe su per una collinetta, verso un boschetto. Lì c'era un altro cartello: I TRASGRESSORI SARANNO PUNITI A NORMA DI LEGGE. Ormai il primo passo era stato fatto e la minaccia implicita mi fece rallentare appena. Ma al di là degli alberi trovai una sorpresa. Avevo immaginato di vedere una strada, forse una ferrovia, un fiume, qualcosa che dimostrasse l'esistenza di un mondo al di fuori di St Oswald. Ma da dove mi trovavo, e fin dove riuscivo a vedere, tutto era St Oswald: la collina, il boschetto, i campi da tennis, il campo di cricket, i prati fragranti e più oltre le lunghe distese erbose. E qui, da dietro agli alberi, vidi dei ragazzi. Ragazzi di ogni età; alcuni poco più grandi di me, altri con l'aria adulta, spavalda in modo pericoloso. Alcuni erano vestiti con la divisa bianca del cricket, altri indossavano pantaloncini da corsa e magliette colorate con dei numeri. E oltre a loro riuscivo a vedere un grande edificio di pietra coperta dalla fuliggine, file di finestre ad arco che riflettevano il sole, un lungo tetto d'ardesia costellato dalle luci del cielo, una torre, un segnavento, una massa irregolare di edifici annessi, una cappella, una scalinata sottile che portava giù verso un pra-
to, alberi, aiuole. Cortili d'asfalto separati l'uno dall'altro da ringhiere. Anche lì c'erano dei ragazzi. Alcuni sedevano sui gradini. Alcuni se ne stavano a chiacchierare sotto gli alberi. Certi erano vestiti con blazer blu e pantaloni grigi, altri in tenuta sportiva. Il rumore che facevano, un suono che fino ad allora non avevo notato, mi raggiunse come uno stormo di uccelli esotici. Mi resi subito conto che erano di una razza diversa: dorati non solo dalla luce del sole, ma da qualcosa di meno tangibile: un'aria disinvolta di sicurezza, una patina misteriosa. In seguito, certo, la conobbi per ciò che era davvero. La decadenza signorile dietro le linee eleganti. Il marciume. Ma a quella prima occhiata proibita, St Oswald mi parve una gloria irraggiungibile: era Xanadu; era Asgard e Babilonia, tutto in una volta sola. Entro i suoi terreni giovani dèi poltrivano e facevano capriole. Capii allora che, in fondo, questo era più di una linea nel terreno. Era una barriera che nessuna spacconeria o desiderio, per quanto grande, mi avrebbe permesso di attraversare. Ero un corpo estraneo; all'improvviso divenni consapevole dei miei jeans sporchi, delle scarpe da ginnastica consumate, della faccia emaciata e dei capelli flosci. Non mi sentivo più come un esploratore coraggioso. Non avevo il diritto di essere lì. In qualche modo ero inferiore, volgare: una spia, un piccolo essere spregevole, sudicio, gli occhi famelici e la mano lesta. Invisibile o no, così mi avrebbero visto sempre. Ecco cos'ero. Soltanto un esempio di Sunnybanker. Vedete, era già cominciato. Quella era St Oswald, quello era il suo effetto sulla gente. La rabbia divampò dentro di me come un'ulcera. Rabbia, e il germe della rivolta. Così non facevo parte del gruppo. E allora? Qualsiasi regola può essere infranta. L'accesso a una proprietà privata, come ogni crimine, rimane impunito se nessuno lo vede. Le parole, per quanto talismaniche, restano sempre parole. Allora non lo sapevo, ma quello fu il momento in cui dichiarai guerra a St Oswald. Non mi voleva? Me la sarei presa. Me la sarei presa, e nulla, nessuno, nemmeno mio padre, avrebbe potuto fermarmi. La linea era stata tracciata. Un altro confine da superare, un inganno più sofisticato, questa volta, granitico nella sua antica arroganza, inconsapevole che proprio in questo era contenuto il germe della sua distruzione. Un'altra linea, che mi sfidava ad attraversarla. Come un omicidio.
RE 1. St Oswald's Grammar School for Boys lunedì, 6 settembre - Primo trimestre Fa novantanove, secondo i miei calcoli, con l'odore di gesso, disinfettanti e l'incomprensibile odore biscottato, di criceto, dei ragazzi. Novantanove trimestri appesi attraverso gli anni come polverose lanterne cinesi. Trentatré anni. È come una condanna alla prigione. Mi ricorda la vecchia barzelletta sul pensionato condannato per omicidio. «Trentatré anni, Vostro Onore», protesta. «È troppo! Non ce la farò mai!» E il giudice: «Be', faccia tutti quelli che può...» A pensarci bene, non è divertente. A novembre compirò sessantacinque anni. Non che importi. A St Oswald non c'è il pensionamento obbligatorio. Seguiamo le nostre regole. L'abbiamo sempre fatto. Ancora un trimestre e avrò raggiunto la mia Centuria. Finalmente un punto per l'Albo d'onore. Adesso riesco a vederla, la scritta in caratteri gotici: Roy Hubert Straitley (Dottore in Lettere), Centurione Anziano della Scuola. Mi viene da ridere. Non avrei mai immaginato di finire qui. Avevo terminato un periodo di dieci anni a St Oswald nel 1954, e l'ultima cosa che mi aspettavo era di ritrovarmici e, chi l'avrebbe mai detto, da insegnante, mantenere l'ordine, assegnare pagine da riempire di aste e punizioni. Ma con sorpresa ho scoperto che quegli anni mi hanno conferito una sorta di perspicacia nell'insegnamento. E ora non c'è trucco che io non conosca. In fondo li ho provati quasi tutti in prima persona: da adulto, da ragazzo e a metà strada. Ed eccomi qui, di ritorno a St Oswald per un altro trimestre. Si potrebbe pensare che non riesca a starne lontano. Mi accendo una Gauloise: la mia unica concessione dall'avvento delle lingue moderne. In senso tecnico, va da sé, non è permesso; ma oggi, nella privacy della mia aula, è improbabile che qualcuno ci presti attenzione. La giornata di oggi è, per tradizione, senza ragazzi e riservata alle questioni amministrative: conta dei libri di testo, distribuzione della cancelleria, ultime revisioni degli orari, raccolta di moduli, inserimento dei nuovi insegnanti, riunioni di dipartimento. Io sono un dipartimento, è pacifico. Un tempo Direttore degli studi clas-
sici, a capo di una sezione che prosperava di servi deferenti, ora relegato in un angolo polveroso della nuova sezione di lingue, come una prima edizione scialba che nessuno ha il coraggio di buttare. Tutti i miei disertori hanno abbandonato la nave, tutti a parte i ragazzi. Insegno ancora a tempo pieno, con lo sconcerto di Mr Strange, il Vicepreside, che considera il latino irrilevante, e il segreto imbarazzo del Nuovo Rettore. Eppure, i ragazzi continuano a optare per la mia irrilevante materia, e nell'insieme i risultati sono piuttosto buoni. Mi piace pensare che ciò sia dovuto al mio carisma personale. Non che non provi affetto per i miei colleghi di lingue moderne, anzi, anche se ho più cose in comune con i sovversivi Galli piuttosto che con i Teutoni, privi di spirito. C'è Pearman, il Direttore di francese, tondo, allegro, a volte brillante, ma di una disorganizzazione senza speranza, e Kitty Teague, che a volte divide con me i biscotti del pranzo davanti a una tazza di tè, ed Eric Scoones, un mezzo Centurione borioso (pure lui un Veterano, un ex alunno) di sessantadue anni che, quando è in vena, ha una straordinaria capacità di ricordare alcuni degli exploit più estremi della mia lontana giovinezza. Poi c'è Isabelle Tapi, decorativa ma alquanto inutile, con le gambe lunghe e quel modo assai gallico, oggetto di tanta ammirazione nei graffiti dello spogliatoio. Tutto sommato un dipartimento piuttosto divertente, i cui membri tollerano le mie eccentricità con encomiabile pazienza e buon umore, e di rado interferiscono con i miei metodi anticonvenzionali. Nel complesso i Tedeschi sono meno congeniali: Geoff e Penny Nations (la «Lega delle Nazioni»), un duo con mire sulla mia aula; Gerry Grachvogel, uno stupidotto pieno di buone intenzioni con una predilezione per l'alfabetario, e infine il dott. «Acerbo» Devine, Direttore di dipartimento e grande sostenitore di un'ulteriore espansione del Grande Impero, che mi vede come un sovversivo e un bracconiere di allievi, è privo di qualunque interesse nei confronti dei classici e dev'essere convinto che carpe diem significhi «pesce del giorno». Ha l'abitudine di passare davanti alla mia aula fingendosi indaffarato mentre sbircia sospettoso dal vetro, come per controllare tracce di condotta immorale, e so che oggi, figurarsi, sarà solo questione di tempo prima di poter ammirare la sua sagoma priva di gioia che mi sbircia. Ecco qua. Cosa vi ho detto? Tempismo perfetto.
«'giorno, Devine!» Ho domato l'impulso di fare un saluto militare, nascondendo la Gauloise fumata a metà sotto la scrivania, e gli ho rivolto il più largo dei miei sorrisi. Ho notato che stava portando una grande scatola con una pila altissima di libri e carte. Mi ha guardato con quello che più tardi ho dedotto essere malcelato compiacimento, quindi ha proseguito con l'aria di chi ha cose importanti da fare. Incuriosito, mi sono alzato e ho visto lungo il corridoio Gerry Grachvogel e la Lega delle Nazioni scomparire furtivi dietro di lui, tutti muniti di cartoni simili. Sconcertato, mi sono seduto alla vecchia cattedra e ho ispezionato il mio modesto impero. Aula 59, il mio territorio negli ultimi trent'anni. Spesso conteso, mai ceduto. Oggi solo i Tedeschi ci provano ancora. È un'aula grande, a suo modo bella, anche se la posizione nella torre campanaria mi fa salire più scale di quante vorrei, e si trova a circa ottocento metri in linea d'aria dal mio piccolo ufficio nel corridoio superiore. Avrete notato che, come cane e padrone col tempo finiscono per assomigliarsi, lo stesso vale per gli insegnanti e le aule. Questa mi si addice come la mia vecchia giacca di tweed, e ha più o meno lo stesso odore, un confortante composto di libri, gesso e sigarette illecite. Una grande e venerabile lavagna domina la stanza: i tentativi del dott. Devine di introdurre il termine «lavagna bianca», non hanno riscosso, sono lieto di riferirlo, alcun successo. I banchi sono antichi e portano le cicatrici delle battaglie, e ho resistito a ogni tentativo di farli sostituire con gli onnipresenti tavoli di plastica. Se mi annoio, posso sempre leggere i graffiti. Un quantitativo lusinghiero riguarda me. Attualmente il mio preferito è Hic magister podex est, scritto più anni orsono di quanto mi piaccia ricordare. Quando ero ragazzo io, nessuno avrebbe osato dare del podex a un insegnante. Sconveniente. Eppure, chissà perché, continua a farmi sorridere. La cattedra non è meno disdicevole: un catafalco scurito dal tempo con cassetti enormi e molteplici iscrizioni. È collocata su un'alta pedana, costruita in origine per consentire l'accesso alla lavagna a un professore di studi classici piuttosto basso, e da questo cassero posso guardare in giù con benevolenza i miei tirapiedi e lavorare al cruciverba del «Times» senza farmi vedere. Ci sono topi che vivono dietro gli armadietti metallici. Lo so perché il
venerdì pomeriggio escono a frotte e annusano sotto il calorifero mentre i ragazzi fanno il test settimanale di vocabolario. Non mi lamento: i topi mi piacciono. Il Vecchio Rettore una volta provò il veleno, ma una soltanto: il puzzo di topo morto era più malefico di qualsiasi cosa un qualsiasi essere vivente potesse ambire a generare, e resistette per settimane. Finché John Snyde, all'epoca Portiere capo, venne chiamato per staccare il battiscopa e togliere i cadaveri dall'odore pungente. Da allora in avanti i topi e io abbiamo reciprocamente goduto di un tranquillo approccio «vivi e lascia vivere». Se solo i Tedeschi riuscissero a fare lo stesso. Ho sollevato lo sguardo dalla mia fantasticheria e ho visto il dott. Devine passare di nuovo davanti alla stanza con il suo seguito. Si picchiettava con insistenza il polso, come per indicare l'ora. Dieci e trenta. Ah. Certo. Riunione del corpo insegnante. Riluttante, ho concesso il punto, ho lanciato la cicca della sigaretta nel cestino e mi sono avviato verso la Sala professori, fermandomi solo per prendere la toga sciupata appesa vicino all'armadio delle scorte. Il Vecchio Rettore insisteva sempre sulle toghe per le occasioni formali. Oggigiorno sono rimasto il solo a indossarne una durante le riunioni, anche se la maggior parte di noi lo fa durante il Giorno di fine anno. Ai genitori piace. Dà il senso della tradizione. A me piace perché offre un buon mascheramento e permette di risparmiare sui vestiti. Quando sono uscito, Gerry Grachvogel stava chiudendo a chiave la sua porta. «Ah. Salve, Roy.» Mi ha rivolto un sorriso più nervoso del solito. È un giovanotto allampanato, con buone intenzioni e poco controllo della classe. Mentre la porta si richiudeva ho visto una pila di cartoni ammassati contro il muro. «Giornata piena, oggi?» gli ho chiesto, indicando le scatole. «Che cos'è? Invasione della Polonia?» Gerry ha fatto uno scatto. «No, ah... solo lo spostamento di qualche cosa. Ah... al nuovo ufficio del dipartimento.» L'ho scrutato attentamente. In quella frase risuonava un che di infausto. «Che ufficio del dipartimento?» «Ah... mi scuso. Devo andare. Riunione col Rettore. Non posso fare tardi.» Questo è uno scherzo. Gerry è in ritardo su tutto. «Quale nuovo ufficio? È morto qualcuno?» «Ah... mi scuso, Roy. Ci vediamo dopo.» E si è diretto verso la Sala pro-
fessori come un piccione viaggiatore. Mi sono infilato la toga e l'ho seguito con passo più dignitoso, perplesso e carico di presentimenti. Ho raggiunto la Sala professori appena in tempo. Il Nuovo Rettore stava arrivando, con Pat Bishop, il preside, e la sua segretaria, Marlene, un genitore che si è unito a noi alla morte del figlio. Il Nuovo Rettore è freddo, elegante e lievemente sinistro, come Christopher Lee in Dracula. Il Vecchio Rettore era di cattivo carattere, dispotico, duro e sicuro di essere nel giusto: proprio ciò che mi piace di più in un Rettore. A quindici anni dalla sua partenza, mi manca ancora. Prima di raggiungere la mia sedia mi sono fermato per versarmi una tazza di tè dal distributore. Ho constatato con approvazione che sebbene la Sala professori fosse affollata e alcuni dei membri più giovani stessero in piedi, il mio posto a sedere non era stato occupato. Terzo dalla finestra, proprio sotto l'orologio. Ho tenuto in equilibrio la tazza sulle ginocchia mentre sprofondavo fra i cuscini, e ho notato che la sedia mi andava un po' stretta. Devo aver messo su un po' di peso durante le vacanze. «Ehm, ehm.» Una tossetta secca dal Nuovo Rettore, che la maggior parte di noi ha ignorato. Marlene, sulla cinquantina, divorziata, capelli biondo platino e aspetto wagneriano, ha attirato la mia attenzione e ha corrugato la fronte. Percependo la sua disapprovazione, la Sala professori si è acquietata. Non è un segreto che sia Marlene a dirigere la baracca. Solo il Nuovo Rettole non se n'è accorto. «Bentornati.» Questo era Pat Bishop, riconosciuto all'unanimità come il volto umano della scuola. Grosso, allegro, ancora giovanile per i suoi cinquantacinque anni: ha sempre il fascino da naso rotto e rubicondo di uno scolaro fuori misura. Però è un brav'uomo, gentile, gran lavoratore, strenuamente devoto alla scuola, dove anche lui un tempo è stato allievo, ma non troppo intelligente, malgrado l'istruzione ricevuta a Oxford. Un uomo d'azione, il nostro Pat, compassionevole, non un intellettuale; più adatto alla classe e al campo di rugby che al comitato di gestione e al Consiglio d'amministrazione. Ma non gliene vogliamo. Di intelligenza ce n'è più che a sufficienza a St Oswald: la cosa di cui abbiamo veramente bisogno è una maggiore umanità, come quella di Bishop. «Ehm, ehm.» Ancora il rettore. Non è una novità che ci sia tensione fra i due. Bishop, essendo Bishop, fa di tutto per assicurarsi che non si noti. Tuttavia, la sua popolarità fra i ragazzi e il personale ha sempre infastidito
il Nuovo Rettore, le cui capacità come uomo di mondo non sono affatto evidenti. «Ehm, ehm!» Il colorito di Bishop, sempre acceso, si è fatto un po' più intenso. Marlene, che è si è dedicata a Pat (in segreto, crede lei) durante gli ultimi quindici anni, appariva annoiata. Ignaro, il Rettore ha fatto un passo avanti. «Punto numero uno: raccolta fondi per il nuovo padiglione degli sport. È stato deciso di creare un secondo posto di lavoro amministrativo per trattare la questione della raccolta fondi. Il candidato idoneo verrà selezionato fra una rosa di sei e gli sarà conferito il titolo di Direttore delle pubbliche relazioni responsabile di...» Sono riuscito a distrarmi dalla maggior parte di quanto è seguito, lasciando che il confortevole tono salmodiante della voce del Nuovo Rettore impartisse il suo sermone. La solita litania, immagino: mancanza di fondi, il post mortem rituale sugli scarsi risultati della scorsa estate, l'inevitabile programma per reclutare allievi, un ennesimo tentativo di imporre il computer a tutto il corpo insegnante, una proposta ottimistica da parte della scuola femminile per una collaborazione, una ventilata (e molto temuta) ispezione scolastica in dicembre, un breve atto d'accusa sulla linea di gestione, un piccolo gemito sulla disciplina in classe e sul decoro personale (a questo punto Acerbo Devine mi ha rivolto un'occhiata dura), e sulle vertenze in corso (tre a oggi, non male per settembre). Ho passato il tempo alla ricerca di facce nuove. Questo trimestre immaginavo di vederne: qualche ergastolano ha finalmente gettato la spugna l'estate scorsa e supponevo che sarebbe stato sostituito. Kitty Teague mi ha fatto l'occhiolino per attirare la mia attenzione. «Punto undici. Ridistribuzione delle aule e degli uffici. A causa della rinumerazione delle stanze seguita al completamento della nuova Ala di informatica...» Ah ah. Una matricola. Di solito potete individuarle, da quanto stanno ritte. Sull'attenti, come cadetti militari. E il vestito, naturalmente, sempre stirato di fresco e vergine di gesso. Non che duri a lungo: la polvere di gesso è una sostanza perfida che persiste perfino nelle aree politicamente corrette della scuola, dove la lavagna, e la sua cugina compita, la tavola d'ardesia, sono state entrambe abolite. La matricola se ne stava accanto all'informatico. Cattivo segno. A St Oswald, tutti gli informatici hanno la barba: è la regola. Fatta eccezione per il Coordinatore di sezione, Mr Beard, il quale, con una timida sfida alle convenzioni, sfoggia solo dei baffetti.
«... dal che ne consegue che le aule dalla 24 alla 36 saranno rinumerate come aule dalla 114 alla 126 compresa, che l'aula 59 diventerà d'ora in poi la 75 e l'aula 75, il defunto ufficio degli studi classici, sarà assegnato al laboratorio del Dipartimento di tedesco.» «Cosa?» Un altro vantaggio dell'indossare la toga durante le riunioni dei docenti: il contenuto di una tazza di tè rovesciato in grembo lascia a malapena un segno. «Rettore, ritengo che abbia letto male l'ultimo punto. L'ufficio degli studi classici è ancora in servizio. E cosa certissima, non è defunto. E non lo sono neppure io», ho aggiunto sottovoce, con uno sguardo di fuoco ai Tedeschi. Il Nuovo Rettore mi ha rivolto la sua occhiata glaciale. «Mr Straitley», ha detto. «Tutti questi argomenti amministrativi sono già stati discussi durante la riunione del corpo insegnante dell'ultimo trimestre e qualsiasi obiezione da parte sua doveva essere sollevata allora.» Vedevo che i Tedeschi mi stavano osservando. Gerry, un pessimo bugiardo, ha avuto la buona grazia di mostrarsi imbarazzato. Mi sono rivolto al dott. Devine. «Sa perfettamente che non ero presente alla riunione. Stavo sovrintendendo agli esami.» Acerbo ha fatto un sorrisetto compiaciuto: «Le ho inviato io stesso il verbale per e-mail». «Sa benissimo che non bazzico le e-mail.» Il rettore appariva più gelido che mai. A lui piace la tecnologia (o così dà a intendere), si vanta di essere aggiornato. La colpa è di Bob Strange, il Vicepreside, il quale ha sostenuto chiaramente che non c'è posto nella scuola attuale per l'analfabeta del computer, e di Mr Beard, che l'ha aiutato a creare un sistema di comunicazione interno di tale complessità ed eleganza da aver completamente annullato la parola orale. Ragione per cui, chiunque in qualunque ufficio può contattare chiunque, in qualsiasi altro ufficio senza quell'inopportuno impegno di alzarsi, aprire la porta, percorrere il corridoio e parlare davvero a una persona (un'idea così perversa, con lo sgradevole contatto umano che implica). I dissidenti del computer come me sono una razza in estinzione, e per l'amministrazione siamo sordi, muti e ciechi. «Signori», è scattato il Rettore. «Non è il momento appropriato per discutere di questo. Mr Straitley, suggerisco che metta ogni sua obiezione per iscritto e che la invii per e-mail a Mr Bishop. E ora continuiamo!» Mi sono seduto. «Ave, Caesar, morituri te salutant.» «E questo che cos'era, Mr Straitley?»
«Non so. Forse quello che ha sentito è stato il crollo garbato dell'ultimo avamposto della civiltà, Rettore.» Non un inizio di trimestre di buon auspicio. Una reprimenda dal Nuovo Rettore potevo sopportarla, ma che Acerbo Devine fosse riuscito a soffiarmi l'ufficio proprio sotto il naso era intollerabile. In ogni caso, mi sono detto, non me ne sarei andato in silenzio. Intendevo rendere l'occupazione molto, ma molto, difficile per il Tedesco. «E adesso, diamo il benvenuto ai nostri nuovi colleghi.» Il Rettore ha lasciato che un minimo di calore riscaldasse la sua voce. «Mi auguro che li farete sentire a casa, e che loro si dimostreranno dediti a St Oswald quanto voi.» Dediti? Avrebbero dovuto essere messi sotto chiave. «Ha detto qualcosa, Mr Straitley?» «Un suono inafferrabile di approvazione, Rettore.» «Ehm.» «Precisamente.» C'erano in tutto cinque matricole: uno era un informatico, come avevo temuto. Non ho colto il suo nome, ma i Barba sono intercambiabili, come i Doppiopetto. In ogni modo, è un dipartimento in cui, per ovvie ragioni, mi avventuro di rado. Una giovane donna a lingue moderne (capelli scuri, bei denti, fin qui piuttosto promettente); un Doppiopetto a geografia, che sembrava aver dato inizio a una collezione; un insegnante di educazione fisica in un paio di chiassosi e inquietanti pantaloncini in Lycra; più un giovane di bell'aspetto a inglese, per il quale non ho ancora trovato una categoria. Quando avete visto tante sale professori quante ne ho viste io, cominciate a riconoscere la fauna che vi si raduna. Ogni scuola ha il suo ecosistema e mix sociale, ma alcune specie tendono a predominare ovunque. Doppiopetto, naturalmente (e in numero sempre maggiore: dopo l'arrivo del Nuovo Rettore, si muovono in branco), e il loro nemico naturale, la Giacca di Tweed. Un animale solitario, che marca il proprio territorio, la Giacca di Tweed, la quale, pur volendo spassarsela di tanto in tanto, tende a non fare comunella; ciò spiega perché siamo in calo. Poi c'è lo Stacanovista, di cui i miei colleghi tedeschi Geoff e Penny Nation sono tipici esempi, il Pignolo, che legge il «Mirror» durante le riunioni dei docenti, si vede di rado senza una tazza di caffè ed è sempre in ritardo alle lezioni, lo Yogurt a basso contenuto di grassi (invariabilmente femmina, questo animale, e molto occupata dal pettegolezzo e dalla dieta), il Coniglio di entrambi i sessi (che se la dà a gambe non appena si intravede un problema), più una quantità di
Cerberi, Teneroni, Bizzarri, Veterani, cioè gli ex alunni, Giovani Killer ed eccentrici di ogni tipo. Di solito riesco a collocare ogni matricola nella categoria appropriata nel giro di qualche minuto di conoscenza. Il geografo, Mr Easy, è un Doppiopetto tipico: capace, ammodo e fatto per le scartoffie. L'uomo di educazione fisica, dio ci aiuti, è un classico Pignolo. Mr Meek, l'uomo dei computer, sa di Coniglio sotto la barba soffice. La linguista, Miss Dare, potrebbe essere un'apprendista Cerbero se non fosse per la piega spiritosa della bocca: devo ricordarmi di metterla alla prova, per vedere di che pasta è fatta. Il nuovo insegnante di inglese, Mr Keane, potrebbe non risultare altrettanto facile: non propriamente un Doppiopetto, né uno Stacanovista, ma di gran lunga troppo giovane per la consorteria del Tweed. Il Nuovo Rettore tiene in gran conto questa ricerca di sangue giovane: il futuro della professione, dice, dipende dal concorso di nuove idee. Gli ergastolani come me, certo, non si lasciano ingannare. Il sangue giovane costa meno. Ho detto queste cose a Pat Bishop più tardi, dopo la riunione. «Dagli un'opportunità», ha risposto. «Falli almeno cominciare, prima di criticare.» A Pat piace la gente giovane, certo, fa parte del suo fascino. I ragazzi riescono a sentirlo: la cosa lo rende disponibile. Tuttavia lo rende anche credulone; e la sua incapacità di vedere il lato cattivo di chiunque, in passato ha spesso causato delle grane. «Jeff Light è un ottimo sportivo, corretto», aveva aggiunto. Ho pensato all'insegnante di educazione fisica con gli short in Lycra e sono inorridito fra me e me. «Chris Keane ci è stato molto raccomandato.» Questo mi risultava più facile crederlo. «E l'insegnante di francese sembra molto sensata.» Certo, ho pensato. Bishop aveva avuto un colloquio con tutti. «Be', speriamo sia così», ho detto dirigendomi alla torre campanaria. Dopo l'attacco frontale da parte del dott. Devine, non volevo altri problemi. 2. Vedete: è stato fin troppo semplice. Non appena verificate le mie credenziali hanno abboccato. È buffo quanta fiducia la gente riponga nei pezzi di carta: certificati, diplomi, lauree, referenze. E a St Oswald è peggio che altrove. In fondo, l'intera macchina funziona a scartoffie. E in più, da quanto deduco, funziona male, ora che il lubrificante fondamentale scar-
seggia. È il denaro a ungere le ruote, era solito dire mio padre: e aveva ragione. Non è cambiata molto dal primo giorno. Ora i campi da gioco non sono più in aperta campagna, dato che i nuovi progetti abitativi hanno cominciato a espandersi; e c'è un'alta recinzione, filo spinato su pilastri di cemento, a rincalzare i cartelli di VIETATO L'ACCESSO. Ma nella sostanza St Oswald è pressoché immutata. Il modo giusto per avvicinarsi è dalla parte anteriore, certo. La facciata, con l'imponente viale d'ingresso e i cancelli di ferro battuto, è costruita per fare colpo. E lo fa, quella sua miscela di arroganza vecchio stile e di evidente disfacimento - per la bellezza di seimila sterline l'anno ad allievo non manca mai di fruttare clienti. St Oswald continua a essere specializzata in titoli pomposi. Qui il Direttore è il Preside, la Sala professori è la Sala comune dei docenti; perfino gli addetti alle pulizie sono tradizionalmente chiamati «preposti alle camerate», benché St Oswald dal 1918 non abbia allievi pensionanti, e quindi niente letti. Ma i genitori amano questo genere di cose: in oswaldiano antico (o «Ossie», come vuole la tradizione) il compito diventa «prep»; la vecchia sala da pranzo viene ancora chiamata il nuovo refettorio» e gli stessi edifici - per quanto cadenti - sono suddivisi in una moltitudine di angoli e luoghi nascosti dal nome eccentrico: la Rotonda, la Dispensa, la Residenza del Rettore, la Saracinesca, la Specola, la Porte-Cochère. Oggigiorno, va da sé, quasi nessuno usa i nomi ufficiali, ma nelle brochure fanno una bella figura. Mio padre, a dire il vero, era straordinariamente orgoglioso del titolo di Portiere capo. Era un semplice lavoro di guardiano: ma quel titolo - con la sua implicita autorità - eclissava la maggior parte degli affronti e degli insulti meschini che avrebbe ricevuto durante il suo primo anno alla Scuola. Aveva abbandonato gli studi a sedici anni, senza un titolo, e per lui St Oswald rappresentava un pinnacolo a cui non osava nemmeno aspirare. Di conseguenza, considerava la gioventù dorata di St Oswald con ammirazione e disprezzo. Ammirazione per l'eccellenza fisica, le prodezze sportive, la superiore struttura ossea, lo sfoggio di denaro. Disprezzo per la mollezza, il compiacimento, l'esistenza protetta. Sapevo che stava mettendo a confronto noi e quei ragazzi e, crescendo, mi rendevo sempre più conto della mia inadeguatezza e della sua silenziosa, ma sempre più amara, delusione. Mio padre, vedete, avrebbe voluto un figlio a sua immagine: un ragazzo
che condividesse la passione per il calcio e i gratta e vinci, il fish and chips, la diffidenza nei confronti delle donne, l'amore per l'aria aperta. In mancanza di quello, un ragazzo di St Oswald; un gentleman player, un giocatore gentiluomo, un capitano di cricket, un ragazzo con la grinta necessaria a superare il proprio ceto e a realizzare qualcosa, anche se questo implicava staccarsi dal proprio padre. Invece aveva me. Né carne né pesce, un essere che faceva inutili sogni a occhi aperti, con la passione della lettura e dei film di serie B, un esserino introverso, magro, pallido, insipido, senza interesse per gli sport, dalla personalità solitaria quanto la sua era socievole. Tuttavia faceva del suo meglio. Ci provava, anche quando io ne avrei fatto a meno. Mi portava alle partite di calcio, durante le quali mi annoiavo a morte. Mi comprò una bicicletta, su cui pedalavo con ubbidiente regolarità intorno alla cinta esterna della scuola. E, cosa ancor più significativa, durante il primo anno della nostra vita laggiù si mantenne convenientemente sobrio. Avrei dovuto essergli riconoscente, suppongo. Ma non lo ero. Proprio come lui desiderava un figlio a sua immagine, io desideravo ardentemente un padre che corrispondesse alla mia. Avevo già in mente il modello, scelto fra centinaia di libri e fumetti. Anzitutto sarebbe stato un uomo autorevole, severo, ma giusto. Dotato di coraggio fisico e forte intelligenza. Un lettore, uno studioso un intellettuale. Un uomo che capiva. Lo cercai in John Snyde. In un paio di occasioni pensai persino di averlo trovato. La via all'età adulta è piena di contraddizioni, ed ero ancora abbastanza giovane da riuscire quasi a credere alle bugie che lastricano quella strada. Papà sa come si fa. Lascia fare a me. Rispetta chi è più vecchio di te. Fa' come ti ho detto. Ma nel mio cuore vedevo già il golfo che si allargava fra noi. Per tutta la mia gioventù ho avuto delle ambizioni, mentre John Snyde, malgrado la sua esperienza, non sarebbe mai stato altro che un Portiere. Eppure vedevo che era un buon Portiere. Svolgeva i suoi compiti fedelmente. Di notte chiudeva a chiave i cancelli, di sera percorreva il parco, innaffiava le piante, seminava i prati del cricket, tosava l'erba, accoglieva i visitatori, salutava i docenti, organizzava le riparazioni, puliva i canali di scolo, riferiva i danni, toglieva i graffiti, spostava i mobili, distribuiva le chiavi degli armadietti metallici, smistava la posta e consegnava messaggi. In cambio alcuni degli insegnanti lo chiamavano John, e mio padre si infervorava di orgoglio e gratitudine. Adesso c'è un nuovo Portiere, un tipo che si chiama Fallow. È pesante,
scontento, negligente. Ascolta la radio nella portineria invece di sorvegliare l'ingresso. John Snyde non l'avrebbe mai tollerato. La mia stessa nomina è avvenuta in stile St Oswald. In isolamento. Non ho mai incontrato gli altri candidati. Ho avuto un colloquio con il Coordinatore di sezione, il Rettore, il Preside e il Vicepreside. Li ho riconosciuti all'istante, certo. In quindici anni Pat Bishop si è fatto più grasso, più rosso e più allegro, una versione a fumetti di ciò che è stato, ma Bob Strange è proprio lo stesso, a dispetto dei capelli radi: un uomo magro, dai tratti duri, con occhi scuri e una brutta carnagione. Naturalmente allora era soltanto un giovane insegnante d'inglese ambizioso con una predisposizione per le cose amministrative. Ora è l'éminence grise della scuola, un maestro degli orari, un impiccione navigato, un veterano di innumerevoli corsi d'aggiornamento e di formazione. Inutile dire che ho riconosciuto il Rettore. Il Nuovo Rettore, a quel tempo: meno che quarantenne, anche se già allora prematuramente ingrigito, alto, rigido e compunto. Non mi ha riconosciuto, - e perché avrebbe dovuto? - ma mi ha stretto la mano con dita fredde, flaccide. «Spero che abbia avuto tempo di dare un'occhiata alla Scuola in modo soddisfacente.» La maiuscola era implicita nella voce. Ho sorriso: «Oh, sì. È davvero notevole. Soprattutto il nuovo Dipartimento di informatica. Nuovi strumenti dinamici in un ambiente accademico tradizionale.» Il Rettore ha annuito. L'ho visto archiviare mentalmente la frase, forse per la brochure dell'anno successivo. Dietro di lui Pat Bishop ha emesso un suono che avrebbe potuto essere di scherno o di approvazione. Bob Strange mi ha guardato e basta. «La cosa che mi ha particolarmente colpito...» Si era aperta la porta ed era entrata la segretaria con un vassoio per il tè. Il che mi ha bloccato a metà frase - la sorpresa di vedere lei, più di qualsiasi altra cosa, immagino; non temevo davvero che lei mi riconoscesse - poi ho proseguito: «La cosa che mi ha particolarmente colpito è stato il modo invisibile in cui il moderno si è innestato sull'antico per creare il meglio dei due mondi. Una scuola che non teme di trasmettere questo messaggio, e cioè che pur potendo permettersi la più recente delle innovazioni, non ha semplicemente ceduto alle mode popolari passeggere, ma le ha usate per rafforzare la propria tradizione di eccellenza accademica.» Il Rettore ha annuito di nuovo. La segretaria - gambe lunghe, anello di
smeraldo, soffio di Chanel Numero 5 - ha versato il tè. L'ho ringraziata con una voce che è riuscita a essere insieme distante e riconoscente. Il cuore mi batteva più veloce, ma in un modo che mi divertiva. Era il mio primo esame, e sapevo di averlo superato. Ho sorseggiato il tè, osservando Bishop mentre la segretaria portava via il vassoio. «Grazie, Marlene.» Lui beve il tè come faceva mio padre - tre zollette di zucchero, magari quattro - e le mollette d'argento sembravano pinze fra le sue grosse dita. Strange non ha detto nulla. Il Rettore aspettava, gli occhi come sassolini. «Tutto bene», ha detto Bishop guardandomi. «Adesso passiamo al sodo, direi. Abbiamo sentito come parla. Ma sappiamo tutti che si può parlare in gergo durante un colloquio. La mia domanda è, com'è lei in classe?» Buon vecchio Bishop. Piaceva a mio padre, sapete: lo vedeva come uno dei ragazzi, non riuscendo assolutamente a coglierne la reale astuzia. Al sodo. Tipica espressione da Bishop. Si può quasi scordare che dietro l'accento dello Yorkshire e la faccia da giocatore di rugby c'è una laurea a Oxford (una buona votazione, ma non il massimo dei voti). No. Non si deve sottovalutare Bishop. Gli ho sorriso e ho posato la tazza. «In classe ho i miei metodi, signore, come sono certo li abbia lei. Fuori di lì, mi assumo il compito di conoscere ogni genere di gergo che mi si presenti. È mia convinzione che se puoi fare la lezione, e ottieni i risultati, diventa irrilevante che si siano seguite o meno le ultime direttive del governo. La maggior parte dei genitori non sa niente dell'insegnamento. L'unica cosa che vogliono è essere sicuri di spendere bene il loro denaro. Non è d'accordo?» Bishop ha grugnito una risposta. La franchezza, vera o presunta, è un tipo di moneta che capisce. Nella sua espressione ho percepito un'ammirazione forzata. Esame numero due: passato anche questo. «E dove si vede fra cinque anni?» Questo era Strange, che era rimasto zitto per la maggior parte del colloquio. Un uomo ambizioso, lo sapevo, intelligente sotto l'aspetto formale, attento a salvaguardare il suo piccolo impero. «In classe, signore», ho replicato all'istante. «È la mia vita, ed è la cosa che mi piace.» L'espressione di Strange non è mutata, ma lui ha annuito una volta, rassicurato sul fatto che non fossi lì per usurparlo. Esame numero tre. Un'altra promozione.
Non avevo dubbi: fra i candidati non c'era nessuno migliore di me. Le mie qualifiche erano ottime, le mie referenze di primo livello. E così dovevano essere: avevo passato tanto di quel tempo a falsificarle. Il tocco più bello era il nome, attentamente selezionato da un Albo d'onore del corridoio di mezzo. Penso mi si addica; in più ho la certezza che a mio padre avrebbe fatto piacere vedersi ricreato come un Ossie, un Veterano di St Oswald. L'affare di John Snyde risale a parecchio tempo fa: è improbabile che nemmeno gli anziani come Roy Straitley o Hillary Monument ne ricordino granché. Ma l'avere un padre ex allievo giustifica la familiarità con la scuola, l'affetto per il luogo, il desiderio di insegnare lì. Ancor più della laurea a pieni voti a Cambridge, dell'accento rassicurante e dei vestiti costosi ma sobri, mi rende la persona adatta. Ho inventato alcuni dettagli convincenti per sostenere la storia: una madre svizzera, un'infanzia oltremare. Dopo una pratica tanto lunga riesco a visualizzare mio padre abbastanza facilmente: un uomo elegante, preciso, con le mani da musicista e l'amore per i viaggi. Uno studioso brillante a Trinity - proprio lì, a Cambridge, aveva incontrato mia madre - che in seguito sarebbe diventato un leader nella sua professione. Entrambi morti tragicamente, in un incidente di funivia vicino a Interlaken, lo scorso Natale. Per sicurezza ho aggiunto un paio di fratelli: una sorella a St Moritz, un fratello all'università di Tokyo. Ho fatto il mio anno di tirocinio alla Harwood Grammar School nell'Oxfordshire, prima di scegliere di traslocare a nord, verso un incarico più permanente. Come ho detto, è stato sin troppo facile. Qualche lettera su una carta intestata di grande effetto, un CV pittoresco, qualche referenza facile da falsificare. Non hanno controllato neppure i dettagli - deludente, dato che avevo fatto ogni sforzo per farli bene. Perfino le targhette con i relativi diplomi rilasciati lo stesso anno. Non a me, è naturale. Ma queste persone si fanno abbagliare così facilmente. Perfino più grande della loro stupidità, è l'arroganza, la certezza che nessuno oserebbe superare la linea. E poi è una partita di imbrogli, non è così? Ha tutto a che vedere con le apparenze. Se la mia laurea fosse venuta da una città del nord, se avessi avuto un accento ordinario e vestiti a buon mercato, pur con le migliori referenze del mondo non avrei avuto neanche un'opportunità. Mi telefonarono la sera stessa. Ce l'avevo fatta.
3. St Oswald's Grammar School for Boys lunedì, 6 settembre La prima cosa che ho fatto dopo la riunione è stata cercare Pearman. L'ho trovato nel suo ufficio, insieme alla nuova linguista, Dianne Dare. «Non badi a Straitley», le ha detto in tono allegro Pearman nel presentarci. «Ha una fissa sui nomi. Oggi si divertirà molto col suo, so che sarà così.» Ho ignorato il commento indegno. «Stai lasciando che il tuo dipartimento venga invaso dalle donne, Pearman», ho detto in tono grave. «Nel giro di poco ti intenderai di chintz.» Miss Dare mi ha rivolto un'occhiata satirica. «Ho sentito tutto su di lei», ha detto. «E tutto negativo, vero?» «Non sarebbe professionale da parte mia fare commenti.» «Hmm.» È una ragazza snella, con intelligenti occhi castani. «Be', è troppo tardi adesso per fare marcia indietro», ho detto. «Una volta che St Oswald ti cattura, sei qui per la vita. Fiacca lo spirito, sa. Guardi Pearman: un'ombra di quel che è stato; difatti ha ceduto il mio ufficio al Tedesco.» Pearman ha sospirato. «Avevo intuito che non ti sarebbe piaciuto.» «Ah, e a te?» «Roy, o si faceva così, o si perdeva l'aula 59. E siccome tu non usi mai il tuo ufficio...» Aveva ragione, in un certo senso, ma non l'avrei ammesso. «Cosa vuoi dire, perdere l'aula 59? È stata la mia classe per trent'anni. Ne faccio virtualmente parte. Sai come mi chiamano i ragazzi? Quasimodo, il gobbo di Nôtre Dame. Perché assomiglio a un doccione e vivo nella torre campanaria.» Miss Dare è rimasta impassibile, ma solo leggermente. Pearman ha scosso la testa. «Guarda, solleva la questione con Bob Strange, se ti va. Ma questa è la cosa migliore che potessi fare. Riesci a mantenere l'aula 59 per la maggior parte del tempo e c'è sempre la Stanza del silenzio se qualcuno sta facendo lezione nell'aula e tu vuoi correggere un po' di compiti.» La cosa aveva un che di inquietante. Correggo sempre i compiti nella mia aula quando sono libero. «Stai dicendo che dovrò condividere l'aula 59?»
Pearman aveva l'espressione di chi volesse scusarsi, «Be', la maggior parte di noi condivide», ha risposto. «Altrimenti non c'è abbastanza spazio. Non hai visto il tuo orario?» Be', certo che no. Lo sanno tutti che non lo guardo mai finché non ne ho bisogno. Furioso, ho rovistato nella mia casella e ho tirato fuori un pezzo di carta da computer accartocciato e un memo di Danielle, la segretaria di Strange. Mi sono preparato a ricevere cattive notizie. «Quattro persone? Devo condividere la mia aula con quattro Nuovi venuti e un incontro della Casa?» «La cosa peggiora, temo», ha detto Miss Dare. «Uno dei quattro Nuovi venuti sono io.» La dice lunga su Dianne Dare il fatto che mi abbia perdonato per quanto ho detto allora. Certo, mi sono lasciato trasportare dalla foga del momento: parole pronunciate in fretta, e così via. Ma chiunque altro - Isabelle Tapi, per esempio - avrebbe potuto offendersi. Lo so: è già successo. Isabelle ha i nervi deboli, e qualsiasi rivendicazione - per un trauma emotivo, ad esempio - è presa sul serio dall'economato. Ma Miss Dare si è difesa bene. E per renderle giustizia, non ha mai lasciato la mia aula in disordine dopo avervi insegnato, non ha risistemato le mie carte, né urlato per i topi o fatto commenti sulla bottiglia di sherry medicinale in fondo al mio armadio, così mi è parso di non essermi comportato troppo male con lei. Tuttavia, provavo del risentimento per questo attacco al mio piccolo impero e non avevo dubbi su chi ci fosse dietro. Il dott. Devine, Direttore di tedesco e, forse ancor più rilevante, Direttore di Amadeus House: Casa che, per coincidenza, da adesso in poi, dovrebbe riunirsi nella mia aula ogni giovedì mattina. Fatemi spiegare. A St Oswald ci sono cinque Case. Amadeus, Parkinson, Birkby, Christchurch e Stubbs. Hanno a che fare principalmente con attrezzature sportive, club e cappella, ragione per cui non mi riguardano più di tanto. Un sistema di Case basato principalmente su cappella e docce fredde non mi va granché a genio. Tuttavia, queste Case si riuniscono il giovedì mattina nelle stanze più grandi disponibili per discutere gli eventi della settimana, e sono stato molto infastidito dalla scelta della mia stanza come loro luogo di riunione. Prima di tutto significava che Acerbo Devine avrebbe avuto la possibilità di ficcanasare in tutti i cassetti della mia cattedra, e in secondo luogo significava una confusione terrificante mentre un
centinaio di ragazzi lottava per stiparsi in un'aula destinata a trenta. Mi sono luttuosamente detto che era solo una volta alla settimana. Eppure, mi sentivo a disagio. Non mi piaceva il modo rapido con cui Acerbo era riuscito a intrufolarsi. Gli altri intrusi, devo dire, mi preoccupavano meno. Miss Dare la conoscevo già. Gli altri tre erano matricole: Meek, Keane e Easy. Non è insolito per un nuovo membro del corpo insegnante dover fare lezione in una decina di aule diverse: a St Oswald c'è sempre stata mancanza di spazio, e quest'anno la ristrutturazione della nuova Ala di informatica ha portato la cosa a uno stato di crisi. Con riluttanza mi sono preparato ad aprire la mia fortezza al pubblico. Mi aspettavo poche difficoltà dal nuovo personale. Era Devine l'uomo da vigilare. Ho trascorso il resto della giornata nel mio sancta sanctorum, a meditare sulle scartoffie. Il mio orario è stato una sorpresa: solo ventotto ore di lezione la settimana rispetto alle trentaquattro dell'anno prima. Anche le mie classi sembravano essere diminuite di numero. Meno lavoro per me, è logico: ma non avevo dubbi che avrei fatto supplenze ogni giorno. Parecchie persone sono venute a trovarmi: Gerry Grachvogel ha messo dentro la testa e gli è rimasta sul collo per un soffio (ha domandato quando pensavo di sgombrare il mio ufficio); Fallow, il Portiere, è venuto per cambiare in 75 il numero sulla porta; Hillary Monument, il Direttore di matematica, è venuto per fumarsi in pace una sigaretta lontano dai suoi vice che disapprovano; Pearman per depositare dei libri di testo e leggermi una poesia oscena di Rimbaud; Marlene per portarmi il registro; e Kitty Teague per chiedermi come stavo. «Bene, immagino», ho risposto cupo. «E non siamo ancora alle idi di marzo, Dio sa cosa succederà allora.» Mi sono acceso una Gauloise, tanto valeva farlo finché potevo, mi sono detto. Ci sarebbero state pochissime occasioni di una fumata tranquilla, una volta che Devine si fosse insediato. Kitty è parsa comprensiva. «Si va giù insieme nel refettorio?» ha proposto. «Ti sentirai meglio una volta che avrai mangiato qualcosa.» «Che cosa? Per vedere Acerbo che mi sbircia durante il pranzo?» In effetti avevo programmato di fare un salto al Thirsty Scholar per una birra, ma adesso non me la sentivo. «Vacci», ha insistito Kitty quando gliel'ho detto. «Ti sentirai meglio fuori di qui.» Lo Scholar è, almeno in teoria, vietato agli studenti. Ma è a meno di un
chilometro di strada da St Oswald e bisognerebbe essere un innocente assoluto per credere che metà della sesta non ci vada all'ora di pranzo. Malgrado prediche truci da parte del Rettore, Pat Bishop, che si occupa di far osservare la disciplina, tende a ignorare l'infrazione. E così faccio io, purché i ragazzi si tolgano cravatte e blazer: in questo modo, sia io sia loro possiamo fingere che non li abbia riconosciuti. Questo intervallo era tranquillo. Al bar non c'era molta gente. Ho intravisto Fallow, il Portiere, con Mr Roach - uno storico che porta i capelli lunghi e a cui piace farsi chiamare Robbie dai ragazzi - e Jimmy Watt, il tuttofare della scuola, abile con le mani, ma privo di una grande mente. Nel vedermi si è illuminato. «Mr Straitley! Buona vacanza?» «Sì, grazie, Jimmy.» Ho imparato a non metterlo alla prova con parole troppo lunghe. Alcune persone non sono altrettanto gentili: vedendo la sua faccia da luna piena e la bocca spalancata, è facile dimenticare il suo buon carattere. «Cosa beve?» Jimmy si è illuminato di nuovo. «Una mezza pinta di shandy, grazie, capo. Devo fare un po' di impianto elettrico 'sto pomeriggio.» Ho portato la mia bevanda e la sua a un tavolo libero. Ho notato, qualche tavolo più in là, Easy, Meek e Keane seduti insieme in un angolo con Light, il nuovo uomo di Educazione Fisica, Isabelle Tapi, che si diverte sempre a socializzare coi nuovi docenti, e Miss Dare, leggermente sulle sue. Non sono stato sorpreso nel vederli insieme. Stare in gruppo dà sicurezza, e St Oswald può fare soggezione a chi è appena arrivato. Posando il drink di Jimmy, mi sono diretto al loro tavolo e mi sono presentato. «A quanto pare alcuni di voi condivideranno la mia stanza», ho detto. «Anche se non vedo come farete a insegnarci informatica» - questo era per il barbuto Meek - «o è soltanto un'altra fase nel vostro piano per ereditare la terra?» Keane ha sorriso. Light e Easy apparivano solo sconcertati. «Io... Io sono un part-time», ha risposto Meek nervoso. «I-io i-insegno m-matematica il ve-venerdì.» Oh Dio. Se io lo spaventavo, un venerdì pomeriggio la 5F se lo sarebbe mangiato vivo. Detestavo pensare al caos che avrebbero fatto nella mia aula. Mi sono preso l'appunto mentale di farmi trovare a portata di mano qualora ci fosse stato un segnale di rivolta. «Ottimo posto per un pub, però», ha detto Light trangugiando la sua birra, «potrei prenderci l'abitudine per l'ora di pranzo.» Easy ha sollevato un sopracciglio. «Non farai formazione, o sorveglian-
za extracurricolare, o rugby, o qualcosa del genere?» «Abbiamo diritto tutti a un intervallo per pranzo, no?» Non solo un pignolo, ma un sindacalista, dèi del cielo! Ci mancava proprio questo. «Oh. Ma il Rettore è stato... Voglio dire, ho detto che mi sarei occupato del Circolo di geografia. Pensavo che a tutti fosse richiesto di fare extracurricolare.» Light ha alzato le spalle. «Be', è da lui dire una cosa del genere, no? Io ti dico che non c'è verso che io faccia degli sport doposcuola e partite nei fine settimana e rinunci anche alla mia birra dell'intervallo di pranzo. Che cos'è, un maledetto campo di prigionia tipo Colditz?» «Be', tu non hai lezioni da preparare, o compiti da correggere...», ha cominciato Easy. «Ah, questo è tipico», ha interrotto Light, la faccia che arrossiva. «Tipico di voi accademici. A meno che non sia su carta, non conta, è così? Posso dirtelo, quei ragazzi riceveranno più dalle mie lezioni che non imparando quella fottuta capitale del Khazistan, o comunque si chiami...» Easy pareva colto alla sprovvista. Meek ha immerso la faccia nella sua limonata e si è rifiutato di uscirne. Miss Dare fissava fuori dalla finestra. Isabelle ha lanciato un'occhiata d'ammirazione a Light da sotto le ciglia color fumo. Keane ha sorriso. Sembrava godersi l'alterco. «E lei?» ho chiesto. «Che pensa di St Oswald?» Mi ha guardato. Tra i venticinque e i trenta: magro, capelli scuri, con la frangia; T-shirt nera sotto un vestito nero. Sembra molto sicuro di sé per essere tanto giovane, e la voce, anche se gradevole, ha una punta di autorità. «Da bambino ho vissuto qui vicino per un po'. Fatto un anno alla secondaria locale, Sunnybank Park. In confronto, St Oswald è un altro mondo.» Be', questo non mi ha sorpreso. Sunnybank Park si mangia vivi i bambini, specie quelli intelligenti. «Buona cosa che se ne sia fuggito», ho detto. «Già.» Ha sorriso. «Ci siamo trasferiti a sud, e ho cambiato scuole. Sono stato fortunato. Un altro anno e quel posto mi avrebbe ridotto uno straccio. Però è tutto materiale buono se decidessi di scrivere un romanzo.» Oddio, ho pensato. Non un Autore in erba. Ne capitano a volte, specialmente fra i docenti di inglese, e sebbene non difficili come i sindacalisti o i Pignoli, di solito non portano nient'altro che problemi. Robbie Roach era un poeta ai tempi della sua giovinezza. Perfino Eric Scoones scrisse una
commedia, una volta. Nessuno dei due si è mai ripreso del tutto. «È uno scrittore?» ho domandato. «Rigorosamente un hobby», ha risposto Keane. «Sì, be'... mi pare che il genere horror non renda più come una volta», ho detto con un'occhiata diretta a Light che, aiutato dalla birra, stava mostrando un groviglio di bicipite a Easy. Ho guardato di nuovo verso Keane, che aveva seguito il mio sguardo. A prima vista mostrava del potenziale. Speravo che non si rivelasse un altro Roach. Gli insegnanti di inglese hanno così spesso la tendenza fatale: quell'ostinazione di essere qualcosa di più, qualcosa d'altro rispetto a un semplice maestro di scuola. Di solito finisce in pianti, è scontato: la fuga da Alcatraz sembra veramente una cosa da bambini se paragonata alla fuga dall'insegnamento. Ho guardato Keane alla ricerca di tracce di marcio: devo dire che a prima vista non ne ho notata alcuna. «Ho scritto un l-libro, una volta», ha detto Meek. «Si chiamava Javascript e altre...» «Ho letto un libro, una volta», ha ribattuto Light con un sorrisetto furbo. «Però non mi è parso un granché.» Easy ha riso. Sembrava aver superato il passo falso compiuto all'inizio con Light. Al tavolo vicino, Jimmy ha sorriso e si è avvicinato un po' di più al gruppo, ma Easy, la faccia rivolta altrove, è riuscito a evitare di incrociarne lo sguardo. «Ora, se avessi detto internet...» Light ha spostato la sedia di qualche centimetro, bloccando Jimmy, e ha teso la mano verso la birra finita a metà. «Lì c'è un sacco di roba da leggere, se non hai paura di diventare cieco, sai cosa intendo...» Jimmy ha trangugiato la sua shandy, con l'aria un po' mortificata. Non è così lento come certa gente crede, e poi, l'affronto era più che evidente perché tutti lo notassero. Di colpo ho pensato ad Anderton-Pullitt, il tipo solitario della mia classe, che mangiava panini da solo in aula mentre gli altri ragazzi giocavano a football nella corte centrale. Ho guardato di sottecchi Keane, che stava osservando, senza essere d'accordo né contrario, ma con un bagliore di apprezzamento negli occhi grigi. Lui ha ammiccato, e gli ho ricambiato un sorriso, divertito dal fatto che la più promettente delle nostre matricole fosse un Sunnybanker. 4.
Il primo passo è sempre il più difficile. Feci molti altre incursioni illecite dentro a St Oswald, guadagnando fiducia, avvicinandomi sempre di più ai campi, ai cortili e alla fine agli edifici stessi. Passarono i mesi, i trimestri; un poco alla volta la vigilanza di mio padre diminuì. Le cose non si svolsero proprio come aveva sperato. Gli insegnanti che lo chiamavano John non erano meno sprezzanti dei ragazzi che lo chiamavano Snyde; in inverno la portineria era umida, e tra la birra, il calcio e la sua passione per i gratta e vinci, non c'erano mai abbastanza soldi. Malgrado le sue idee grandiose, St Oswald non era nulla di più che un altro lavoro da guardiano, pieno di umiliazioni quotidiane. Occupava tutta la sua vita. Non ci fu mai tempo per il tè sul prato e la mamma non tornò a casa. Invece mio padre si mise con una vistosa diciannovenne di nome Pepsi, che si occupava di un salone di bellezza in città, si metteva troppo lucidalabbra e amava divertirsi. Aveva una casa, ma stava spesso da noi, e alla mattina mio padre aveva gli occhi pesanti ed era di cattivo umore, e la casa odorava di pizza fredda e di birra. In quei giorni, e in altri, sapevo di dover stare alla larga da lui. I sabato sera erano i peggiori. L'umore di mio padre era esacerbato dalla birra e, le tasche vuote dopo una serata a far baldoria, il più delle volte sceglieva me come bersaglio del suo rancore. «Ehi tu», farfugliava attraverso la porta della camera da letto. «Come faccio a sapere chi è tuo padre? Chi garantisce che ti abbia fatto io?» E se commettevo la sciocchezza di aprire la porta, ecco che cominciava: spintoni, urla, bestemmie e alla fine la lenta sventola pesante che, nove volte su dieci, colpiva il muro e lo spediva a terra scomposto, ubriaco. Non avevo paura. Prima, sì: ma col tempo, sapete, ci si abitua a qualsiasi cosa e ormai badavo pochissimo alle sue furie, come gli abitanti di Pompei al vulcano che un giorno li avrebbe distrutti. La maggior parte delle cose, se ripetute spesso, possono diventare routine; e la mia era semplicemente chiudere a chiave la porta della camera da letto, qualunque cosa accadesse, e starmene alla larga la mattina dopo. Sulle prime Pepsi cercò di tirarmi dalla sua parte. A volte mi portava dei regalini, o tentava di preparare la cena, anche se non era una gran cuoca. Ma io rimanevo ostinatamente sulle mie. Non che non mi piacesse - con le unghie finte e le sopracciglia così depilate la consideravo troppo stupida per essere antipatica - o che ce l'avessi con lei. No, era quel suo modo terribile di fare l'amica a offendermi: l'implicazione che io e lei potessimo avere qualcosa in comune. Che un giorno, forse, avremmo fatto amicizia.
Fu allora che St Oswald divenne il mio terreno di gioco. Ufficialmente era ancora proibita, ma a quel punto mio padre aveva cominciato a perdere il tono dottrinale dell'inizio, ed era contento di chiudere un occhio sulle mie saltuarie infrazioni alla regola, purché fossero commesse con discrezione e senza attirare l'attenzione. In ogni caso, per quanto ne sapeva John Snyde, io mi limitavo a giocare sui terreni. Ma le chiavi del Portiere erano sempre etichettate con grande cura, ciascuna al suo posto nella scatola di vetro dietro l'ingresso della portineria, e a mano a mano che aumentavano la curiosità e l'ossessione, mi riusciva sempre più difficile resistere alla sfida. Un piccolo furto, e la scuola fu mia. Adesso nessuna porta mi era preclusa; passe-partout alla mano, durante i fine settimana scorrazzavo per gli edifici deserti mentre mio padre guardava la TV, o scendeva al pub con gli amici. Col risultato che ora del mio decimo compleanno, conoscevo la scuola meglio di ogni allievo, ed ero in grado di passare, invisibile e senza farmi sentire, senza nemmeno sollevare un granello di polvere. Conoscevo gli armadi dove si teneva l'attrezzatura per le pulizie, l'infermeria, le prese di corrente, gli archivi. Conoscevo tutte le aule, quelle di geografia rivolte a sud, insopportabilmente calde d'estate; quelle fresche di scienze, rivestite di pannelli; le scale scricchiolanti, le stanze dalla forma bislacca nella torre campanaria. Conoscevo la piccionaia, la cappella, la specola col soffitto a cupola di vetro, i piccoli studi con le file di cassettiere in metallo. Leggevo frasi fantasma dalle lavagne semipulite. Conoscevo il personale insegnante, almeno di fama. Aprivo armadietti con il passepartout. Sentivo l'odore di gesso, pelle, cucina e lucido per il legno. Mi provavo le uniformi sportive lasciate in giro. Leggevo libri proibiti. E cosa ancora migliore, e più pericolosa, esploravo il tetto. Il tetto di St Oswald era una faccenda complessa, che si distendeva ovunque, increspata come un brontosauro di lastre di pietra sovrapposte. Era una piccola città in sé. Con torri e corti proprie che rispecchiavano le torri e le corti della scuola di sotto. Grandi comignoli, con corone imperiali, svettavano sopra i colmi sghembi; gli uccelli vi facevano il nido; sambuchi errabondi affondavano le radici in crepacci umidi e attecchivano in modo improbabile, gocciolando fiori nelle fessure tra le tegole. C'erano canali e fossi di scolo e cornicioni come araucarie che portavano sopra i tetti; c'erano lucernari e balconi, pericolosamente accessibili da alti parapetti. Sulle prime mi muovevo con cautela, ricordandomi la mia goffaggine alle lezioni di ginnastica. Ma facendo di testa mia, acquistai sicurezza, impa-
rai a stare in equilibrio, ad arrampicarmi in silenzio sopra tegole lisce e travi scoperte, a usare una sbarra di metallo per saltare da un alto cornicione su un balconcino e, da lì, giù per un gomito spesso e irsuto di rampicante, in un camino giallastro di edera e muschio. Amavo il tetto. Mi piaceva il suo odore pungente, l'umidità stillante nei giorni piovosi, le rosette di lichene giallo che fiorivano e si diffondevano sulle pietre. Qui finalmente mi godevo la libertà di essere ciò che ero. C'erano scale per la manutenzione che uscivano da varie aperture, ma queste erano perlopiù in cattive condizioni, alcune ridotte a una filigrana letale di ruggine e metallo, e le ho sempre disdegnate, aprendo un mio varco al regno del tetto, sbloccando finestre sigillate con la vernice decenni prima, avvolgendo pezzi di corda intorno al fumaiolo dei camini per facilitare la salita, esplorando i pozzi e i passaggi e le grosse grondaie piombate. Non avevo paura dell'altezza né di cadere. Con mia grande sorpresa scoprii di avere un'agilità innata: sui tetti la mia corporatura leggera era un autentico vantaggio e lassù non c'erano attaccabrighe a prendere in giro le mie gracili gambe. Ovviamente sapevo da tempo che la manutenzione del tetto era un lavoro che mio padre detestava. Se la cavava con una tegola rotta (purché accessibile da una finestra), ma il piombo che sigillava le grondaie era tutt'altra storia. Per raggiungerlo, bisognava scendere carponi lungo uno spiovente di tegole verso l'estremo limite del tetto, dove c'era un parapetto in pietra che girava attorno alla grondaia e da lì inginocchiarsi, con novanta metri di aria verdeazzurra di St Oswald tra sé e la terra, per controllarne la tenuta. Non svolse mai quest'incombenza necessaria, accampò una moltitudine di ragioni per non farlo, ma quando le scuse alla fine si esaurirono, io, gongolando, indovinai la verità. John Snyde soffriva di vertigini. Vedete, i segreti mi affascinavano già. Una bottiglia di sherry in fondo a un armadio delle scorte, un fascio di lettere in una scatola dietro a un pannello, qualche rivista in un archivio chiuso a chiave, un elenco di nomi in un vecchio libro contabile. Per me, nessun segreto era banale, nessuna notizia piccante troppo marginale per sfuggire al mio interesse. Sapevo chi tradiva la moglie, chi soffriva di nervi, chi era ambizioso, chi leggeva romanzi d'amore, chi usava di nascosto la fotocopiatrice. Se sapere è potere, quel posto mi apparteneva. Ero ormai all'ultimo trimestre presso le elementari di Abbey Road. Non era stato un successo. Avevo lavorato sodo, evitando i pasticci, ma avevo ripetutamente fallito nel farmi degli amici. Nel tentativo di combattere le
vocali del nord di mio padre, avevo provato, con un risultato disastroso, a imitare le voci e le pose dei ragazzi di St Oswald, guadagnandomi così il soprannome di «Snyde Tumistufi». Perfino alcuni degli insegnanti lo adoperavano: li avevo sentiti nella sala professori, la porta pesante che si spalancava su una nebbia di fumo e risate. «Snyde Tumistufi», proclamava una voce di donna. «Oh, questa sì che è bella. Snyde Tumistufi.» Non mi illudevo che a Sunnybank Park sarebbe andata meglio. La maggior parte degli studenti proveniva dal quartiere di Abbey Road, un isolato deprimente di case popolari rivestite di ghiaietto e di condomini in cartone con il bucato appeso e vani delle scale che puzzavano di piscio. Anch'io avevo vissuto lì. Sapevo cosa attendermi. C'era un recinto di sabbia riempito con pepite di cacche di cane, un campo giochi con altalene e uno spargimento letale di vetri rotti, muri di graffiti, bande di maschi e femmine dal vocabolario scurrile e dalla faccia sporca sin dalla nascita. I loro padri bevevano con il mio giù all'Engineers; le loro mamme erano andate con Sharon Snyde al Dancing Cenerentola il sabato sera. «Devi fare uno sforzo, pulcino», mi disse mio padre. «Dagli un'opportunità e presto ti inserirai.» Ma io non avevo voglia di fare quello sforzo. Non volevo inserirmi a Sunnybank Park. «E allora, cos'è che vuoi?» Ah. Questa era la domanda. In totale solitudine nei corridoi echeggianti della scuola, sognavo di iscrivere il mio nome sull'Albo d'onore, di condividere scherzi con i ragazzi di St Oswald, di imparare il latino e il greco invece di lavori in legno e disegno tecnico, di fare prep anziché i compiti sui grandi banchi di legno. In diciotto mesi, la mia invisibilità da talento si era mutata in maledizione: volevo che mi si vedesse, mi ingegnavo per avere un mio posto, mi facevo in quattro per correre rischi ancora più grossi nella speranza che un giorno, forse, St Oswald mi avrebbe riconosciuto e portato a casa. Così incisi le mie iniziali accanto a quelle di generazioni di ex Oswaldiani sui pannelli di quercia del refettorio. Guardavo gli incontri sportivi del fine settimana da un nascondiglio sul retro del padiglione di educazione fisica. Arrancavo sino in cima all'albero di sicomoro al centro della vecchia corte e facevo smorfie ai doccioni sul bordo del tetto. Dopo scuola correvo più veloce che potevo fino a St Oswald per guardare i ragazzi che andavano via; sentivo le risate e le lamentele, spiavo le loro lotte, respiravo i vapori dello scappamento delle macchine costose dei loro genitori come
fossero incenso. La Sala di lettura della nostra scuola non era particolarmente fornita, c'erano soprattutto tascabili e fumetti, ma nella grande biblioteca claustrale di St Oswald, leggevo avidamente: Ivanhoe e Grandi speranze, e Tito di Gormenghast, Le nuove notti arabe e Le miniere di Re Salomone. Spesso trafugavo un libro fino a casa, alcuni non erano usciti dalla biblioteca dagli anni Quaranta. Il mio preferito era L'uomo invisibile. Di sera, percorrendo i corridoi di St Oswald, annusando l'odore del gesso della giornata e quello della cucina che indugiava tenue, sentendo l'eco morta di voci allegre e guardando le ombre degli alberi ricadere sui pavimenti appena lucidati, sapevo esattamente, e con il dolore profondo del desiderio, come si era sentito lui. L'unica cosa che volevo, vedete, era farne parte. La mia prima scuola, l'Abbey Road Junior, era malconcia e fatiscente, un tributo mancato al liberalismo degli anni Sessanta. Ma Sunnybank Park era molto, molto peggio. Mi presi regolarmente delle botte per la mia cartella di cuoio (quell'anno tutti portavano sacche Adidas) e il mio disprezzo verso gli sport; per la mia saccenteria, l'amore per i libri, i miei vestiti, e il fatto che mio padre lavorava in quella scuola di lusso (a loro non importava che fosse solo il guardiano). Imparai a correre veloce e a tenere bassa la testa. Mi immaginavo in esilio, lontano dagli altri, e che un giorno mi avrebbero richiamato nel posto a cui appartenevo. Nel profondo pensavo che se mi mettevo alla prova, in qualche modo, se riuscivo a resistere al bullismo e alle piccole umiliazioni, allora un giorno St Oswald mi avrebbe accolto. Quando compii undici anni e il dottore decise che avevo bisogno di occhiali, mio padre diede la colpa alle letture. Ma in segreto sapevo che avevo raggiunto un'altra pietra miliare sulla via per St Oswald, e anche se «Snyde Tumistufi» divenne in breve «Snyde Quattrocchi», provai comunque una contentezza oscura. Mi esaminai nello specchio del bagno e decisi che avevo quasi l'aspetto giusto. Lo faccio ancora, anche se gli occhiali sono stati sostituiti da lenti a contatto (non si sa mai). I capelli sono un po' più scuri di quanto fossero allora, e tagliati meglio. Anche i miei vestiti sono di buona fattura, anche se non troppo formali - non voglio fare la figura di chi ci sta provando troppo. Ma è la voce a darmi una soddisfazione particolare: nessuna traccia dell'accento di mio padre, e la falsa finezza che aveva reso Snyde Tumistufi così terribile e supponente è scomparsa. Il mio nuovo personaggio è amabile senza essere invadente, sa ascoltare: giusto le qualità necessarie a-
gli assassini e alle spie. Nel complesso si può essere soddisfatti della mia esibizione di oggi. Forse una parte di me ha ancora voglia di farsi riconoscere, ma il brivido del pericolo è stato vivo tutto il giorno, mentre cercavo di non ostentare troppa familiarità con gli edifici, le regole, le persone. La parte dell'insegnamento è, sorprendentemente, la più facile. Ho sempre le classi inferiori della mia disciplina, grazie all'eccezionale metodo per stabilire gli orari di Strange (i docenti anziani ottengono invariabilmente le classi migliori, lasciando la feccia alle nuove nomine) e ciò significa che, sebbene il mio orario sia pieno, non è troppo impegnativo. So abbastanza della mia materia per ingannare almeno i ragazzi; e se ci sono dubbi, per aiutarmi uso i manuali per gli insegnanti. Per il mio scopo è sufficiente. Nessuno sospetta, non ho gruppi di primo livello o allievi di sesta a sfidarmi. Né intravedo alcun problema di disciplina. Questi ragazzi sono molto diversi dagli allievi di Sunnybank Park, e ho l'intera infrastruttura disciplinare di St Oswald per rafforzare la mia posizione, nel caso ce ne fosse bisogno. Tuttavia sento che non ne avrò. Questi ragazzi sono clienti paganti. Sono abituati a obbedire ai loro insegnanti: la cattiva condotta si limita a saltare qualche prep, o al mormorio in classe. La verga non si usa più: non è necessaria di fronte alla maggiore e imprecisata minaccia. È piuttosto buffo, in realtà, buffo e semplice in modo ridicolo. È un gioco, certo: una battaglia di volontà tra me e la marmaglia. Sappiamo tutti che non potrei fare nulla se a un tratto l'intera classe decidesse di lasciare l'aula. Lo sappiamo tutti, ma nessuno osa mettere le carte in tavola. Però non devo distrarmi. La mia copertura è buona, ma perfino un piccolo passo falso in questa fase potrebbe rivelarsi disastroso. Quella segretaria, per esempio. Non che la sua presenza cambi alcunché, ma serve a dimostrare che non si può prevedere ogni mossa. Faccio anche attenzione a Roy Straitley. Né il Rettore, né Bishop e nemmeno Strange mi hanno degnato di una seconda occhiata, ma Straitley è diverso. I suoi occhi sono ancora perspicaci come quindici anni fa, e il suo cervello pure. I ragazzi l'hanno sempre rispettato, anche quando i suoi colleghi non lo facevano. Molti dei pettegolezzi che ho orecchiato durante gli anni a St Oswald avevano in qualche modo a che fare con lui, e sebbene il suo ruolo in quanto accadde sia stato minimo, fu pur sempre significativo. È invecchiato, certo. Ora deve essere vicino alla pensione. Ma non è
cambiato. Sempre le stesse pose: la toga, la giacca di tweed, le frasi in latino. Oggi ho provato per lui quasi affetto, come se fosse un vecchio zio che non vedevo da anni. Ma riesco a riconoscerlo dietro il travestimento, anche se lui non mi guarda. Conosco il mio nemico. In un certo senso avevo sperato di sentire che era andato in pensione. Per alcuni aspetti avrebbe reso le cose più semplici. Ma oggi sono felice che sia ancora qui. Aggiunge un brivido esaltante alla situazione. E poi, il giorno che farò crollare St Oswald, voglio che Roy Straitley sia presente. 5. St Oswald's Grammar School for Boys martedì, 7 settembre Il primo giorno c'è sempre un particolare genere di caos. Ragazzi in ritardo, ragazzi persi, libri da ritirare, cancelleria da distribuire. I cambiamenti di aula non hanno aiutato: il nuovo orario non teneva conto della rinumerazione delle aule, per cui è stato seguito da un promemoria che nessuno ha letto. Più volte ho intercettato colonne di ragazzi in marcia verso il nuovo ufficio del Dipartimento di tedesco invece che verso la torre campanaria, e ho dovuto dirottarli. Il dott. Devine sembrava stressato. Non avevo ancora svuotato il mio vecchio ufficio, ovvio: tutti gli armadi dell'archivio erano chiusi, e solo io avevo la chiave. Poi c'erano i registri, compiti delle vacanze da ritirare, assegni con le rette da mandare all'economato, chiavi degli armadietti da distribuire, istruzioni da impartire per l'assegnazione dei posti a sedere, regolamenti da applicare. Per fortuna quest'anno non ho una nuova classe. I miei ragazzi, trentuno in tutto, sono vecchi galeotti, e sanno che cosa li attende. Si sono abituati a me e io a loro. C'è Pink, un tipo tranquillo, originale, con un senso dell'umorismo curiosamente adulto, e il suo amico Tayler; ci sono i miei Stanlio e Ollio, Allen-Jones e McNair, due stravaganti burloni che si prendono meno detenzioni di quante meritano perché mi fanno ridere; poi Sutcliff Testarossa; quindi Niu, un ragazzo giapponese, molto attivo nell'orchestra scolastica, e Knight, di cui non mi fido; il piccolo Jackson, che ogni giorno deve dar prova del proprio valore attaccando briga con qualcuno; il grande Brasenose, che viene facilmente tormentato, e Anderton-Pullitt, un ragazzo intelligente, solitario e pedante che ha diverse allergie, compresa, se dobbiamo credergli, una forma d'asma speciale che implica il suo esonero da
qualsiasi tipo di sport, così come da matematica, francese, RELI, dai compiti del lunedì, dagli Incontri della Casa, assemblee e cappella. Ha anche l'abitudine di seguirmi in giro - il che ha indotto Kitty Teague a fare delle battute a spese del mio amichetto speciale - costringendomi a prestare attenzione alle sue passioni (aerei della Prima guerra mondiale, videogiochi, la musica di Gilbert and Sullivan). Di regola non ci faccio troppo caso, è un ragazzo strano, emarginato dai suoi coetanei, e penso che possa sentirsi solo, ma d'altro canto ho del lavoro da sbrigare, e nessun desiderio di passare il tempo libero che mi resta a intrattenere Anderton-Pullitt. Certo, le cotte degli scolari fanno parte dell'insegnamento, un fatto con cui impariamo a confrontarci come meglio possiamo. È capitato a tutti, una volta o l'altra, perfino ai tipi come me o Hillary Monument che (diciamo le cose come stanno) siamo, bisogna ammetterlo, la coppia più orrenda che si sia mai vista. Ciascuno di noi ha una propria maniera per trattare la cosa, anche se credo che in verità Isabelle Tapi incoraggi i ragazzi, e di sicuro lei ha una quantità di amichetti speciali, così come Robbie Roach e Penny Nation. Quanto a me, trovo che un modo di fare spiccio e una politica di benevolo disinteresse di solito scoraggino l'eccessiva familiarità negli Anderton-Pullitt di questo mondo. Però, nel complesso, non un pessimo gruppo, la 3S. Durante le vacanze sono cresciuti e alcuni hanno un aspetto quasi adulto. Questo dovrebbe farmi sentire vecchio, ma non è così: provo invece una sorta d'orgoglio riluttante. Mi piace pensare di trattare tutti i ragazzi allo stesso modo, ma ho maturato un affetto speciale per questa classe, che è stata con me negli ultimi due anni. Mi piace pensare che ci capiamo a vicenda. «Oh, siiiiii-gnoooore!» Ci sono stati dei gemiti mentre distribuivo a ciascuno la prova di latino. «È il primo giorno, signore!» «Non potremmo fare un questionario, signore?» «Non possiamo giocare all'impiccato in latino?» «Quando le avrò insegnato tutto quello che so, Mr Allen-Jones, allora forse troveremo il tempo per concederci passatempi futili.» Allen-Jones ha sorriso, e ho visto che nello spazio intestato «Aula» sulla copertina del suo libro di latino, aveva scritto «Già nota come 59.» C'è stato un colpo alla porta, e il dott. Devine ha messo dentro la testa. «Mr Straitley?» «Quid agis, Medice?»
La classe ha ridacchiato. Acerbo, che non ha mai fatto studi classici, pareva scocciato. «Mi dispiace disturbarla, Mr Straitley. Potremmo scambiare due parole?» Siamo usciti nel corridoio, mentre continuavo a dare un'occhiata ai ragazzi attraverso il pannello nella porta. McNair stava già cominciando a scrivere qualcosa sul suo banco e ho dato un colpetto di ammonimento sul vetro. Acerbo mi ha squadrato con aria critica. «Speravo veramente di riorganizzare il laboratorio del dipartimento questa mattina», ha detto. «I suoi archivi...» «Oh, me ne occuperò», ho risposto. «Lasci fare a me.» «E poi c'è la scrivania, e i libri, per non dire di tutte quelle enormi piante...» «Faccia come a casa sua», ho detto in tono frivolo. «Non badi affatto alle mie cose.» In quella scrivania c'erano trent'anni di carte assortite. «Se è libero, forse desidera trasferire alcuni dei fascicoli nell'archivio», ho suggerito in modo collaborativo. «Preferirei di no», è sbottato Acerbo. «E già che ci siamo, forse mi può dire chi ha tolto il nuovo numero 59 dalla porta del laboratorio del dipartimento e l'ha sostituita con questo?» Mi ha mostrato un pezzo di carta, sul quale qualcuno aveva scritto: «Già nota come 75» con un esuberante (e piuttosto familiare) scarabocchio giovanile. «Mi spiace, dott. Devine. Non ne ho la minima idea.» «Bene, non è nient'altro che un furto. Queste targhe per le porte costano quattro sterline ciascuna. Il che, per ventotto aule, ammonta a centododici sterline, e sei sono già svanite. Non so perché stia sorridendo, Straitley, ma...» «Sorridendo, ha detto? Niente affatto. Manomettere i numeri delle aule! Deplorevole.» Questa volta sono riuscito a restare serio, sebbene Acerbo non sembrasse affatto convinto. «Bene, farò delle indagini, e sarei grato se lei tenesse gli occhi aperti per trovare il colpevole. Non possiamo permettere che succedano cose del genere. È vergognoso. Sono anni che la vigilanza di questa scuola è nel caos.» Il dott. Devine reclama telecamere di sorveglianza nel corridoio di mezzo, col pretesto della sicurezza, ma in realtà vuole essere in grado di vedere che cosa fanno tutti: chi lascia guardare l'incontro internazionale di cricket ai ragazzi invece di ripassare per gli esami, chi fa le parole crociate durante
l'analisi logica, chi è sempre in ritardo di venti minuti, chi fa un salto fuori per una tazza di caffè, chi permette l'indisciplina, chi prepara i materiali di lavoro in anticipo, chi li prepara durante il lavoro. Ah, come gli piacerebbe che queste cose fossero riprese per essere in possesso della prova concreta delle nostre piccole mancanze, delle nostre piccole incompetenze. Poter dimostrare (durante un'ispezione scolastica, per esempio), che Isabelle è spesso in ritardo alle lezioni e a volte Pearman si dimentica del tutto di arrivare. Che Eric Scoones si irrita e ogni tanto dà uno scappellotto a un ragazzo e io di rado uso sussidi visivi, e che Grachvogel, malgrado i suoi metodi moderni, ha difficoltà nel controllare la classe. Io tutte queste cose le so. Devine le sospetta solamente. So anche che la madre di Eric è affetta da Alzheimer, e che lui sta combattendo per tenerla a casa; che la moglie di Pearman ha il cancro; e che Grachvogel è omosessuale e ha paura. Acerbo non ne sa nulla, chiuso com'è nella sua torre d'avorio del vecchio ufficio degli studi classici. E per di più non gli importa. Informazione, non comprensione, è il nome del suo gioco. Dopo la lezione, ho usato con discrezione il passe-partout per entrare nell'armadietto di Allen-Jones. Le sei targhe delle porte erano lì, insieme a una serie di piccoli cacciaviti e alle viti rimosse: ho portato via tutto quanto. Avrei chiesto a Jimmy di sostituire le targhe all'ora di pranzo. Fallow avrebbe fatto domande, e avrebbe perfino potuto riferire al dott. Devine. Non vedevo il motivo per prendere ulteriori provvedimenti. Se AllenJones aveva un po' di buonsenso, neppure lui ne avrebbe fatto cenno. Mentre richiudevo l'armadietto, ho intravisto un pacchetto di sigarette e un accendino dietro una copia di Giulio Cesare, ma ho deciso di non badarci. Sono stato libero per la maggior parte del pomeriggio. Mi sarebbe piaciuto rimanere nella mia aula, ma lì dentro c'era Meek con una classe di matematica di terza, così ho ripiegato sulla Stanza del silenzio (purtroppo una zona non fumatori) per una tranquilla chiacchierata con qualunque collega disponibile. La Stanza del silenzio è ovviamente un nome improprio. Una sorta di ufficio comune con i banchi nel mezzo e gli armadietti ai lati: è qui che tutto il passaparola degli insegnanti affonda le sue radici. Ed è qui, che con il pretesto di dover correggere, vengono diffuse le notizie. Ha il vantaggio aggiuntivo di essere proprio sotto la mia aula, e questa fortunata coincidenza significa che, se necessario, posso lasciare una classe a lavorare in silenzio mentre mi bevo una tazza di tè o leggo il «Times» in un ambiente
congeniale. Ogni rumore da sopra è chiaramente udibile, comprese le singole voci, ed è cosa di un attimo alzarmi, catturare e punire qualsiasi ragazzo crei disturbo. In questo modo ho ottenuto una reputazione di onniscienza, il che mi torna utile. Nella Stanza del silenzio ho trovato Chris Keane, Kitty Teague, Robbie Roach, Eric Scoones e Paddy McDonaugh, l'insegnante di RELI. Keane stava leggendo e ogni tanto prendeva appunti su un taccuino rosso. Kitty e Scoones scorrevano le schede di un verbale di dipartimento. McDonaugh beveva il tè sfogliando le pagine dell'Enciclopedia di demoni e demonologia. A volte penso che quell'uomo prenda il suo lavoro troppo sul serio. Roach era totalmente assorto nel «Mirror». «Ancora trentasette?» ha detto. Silenzio. Quando nessuno ha fatto domande sulla sua frase ha aggiunto: «Trentasette giorni lavorativi fino a metà trimestre». McDonaugh ha chiesto sbuffando: «E da quando lavoreresti, tu?» «Ho già fatto la mia parte», ha risposto Roach, voltando una pagina. «Non dimenticare che sono al campo da agosto.» Il campo estivo è il contributo di Robbie al programma extracurricolare della scuola: per tre settimane all'anno va in Galles con un minibus di ragazzi per capitanare escursioni, canoe, guerre simulate e go-kart. È questo che lo diverte: si mette i jeans ogni giorno e i ragazzi lo chiamano per nome, però sostiene che è un grande sacrificio, e pretende che sia suo diritto prendersela con comodo per il resto dell'anno. «Campo», ha detto McDonaugh in tono di scherno. Scoones li ha squadrati con aria contrariata. «Pensavo che questa fosse la Stanza del silenzio», ha sottolineato gelido, prima di ritornare alle sue schede. C'è stato silenzio per un momento. Eric è un bravo tipo, ma umorale; in un'altra giornata avrebbe potuto essere lui stesso foriero di pettegolezzi; oggi aveva un'aria tetra. Si trattava probabilmente della nuova aggiunta al Dipartimento di francese, ho pensato fra me. Miss Dare è giovane, ambiziosa e intelligente, una persona in più da cui guardarsi. E per giunta donna; e un tipo all'antica come Scoones non ama lavorare fianco a fianco a una donna di trent'anni più giovane. Ha atteso una promozione da un momento all'altro negli ultimi quindici anni, ma adesso non l'otterrà. È troppo vecchio, e poco malleabile. Lo sanno tutti tranne lui, e ogni cambiamento nell'assetto del dipartimento serve solo a ricordargli che non ringiovanisce. Kitty mi ha rivolto un'occhiata divertita che confermava i miei sospetti.
«Un sacco di lavoro amministrativo arretrato da smaltire», ha sussurrato. «L'ultimo trimestre c'è stata un po' di confusione e per qualche ragione questi resoconti sono stati trascurati.» Intendeva dire che era stato Pearman a trascurarli. Ho visto il suo ufficio - traboccante di lavoro dimenticato, fascicoli importanti che affogano in un mare di memo non letti, programmi persi, quaderni, vecchie tazze di caffè, documenti d'esame, appunti fotocopiati e ghirigori intricati che disegna quando è al telefono. Il mio ufficio potrebbe apparire uguale, ma perlomeno io so dove si trova ogni cosa. Pearman non saprebbe che pesci pigliare se non ci fosse Kitty a stargli dietro. «Com'è la nuova ragazza?» ho chiesto provocatorio. Scoones, risentito: «Troppo sveglia per il suo stesso bene.» Kitty ha fatto un sorriso contrito. «Idee nuove», ha spiegato. «Sono sicura che metterà la testa a posto.» «Pearman l'ammira moltissimo», ha detto Scoones con un ghigno. «Tipico.» Pearman coltiva un vivace apprezzamento della bellezza femminile. Gira voce che Isabelle Tapi non sarebbe mai stata assunta a St Oswald se non fosse stato per il miniabito che indossava durante il colloquio. «Posso dirvi di cosa è dotatissima», ha borbottato Scoones, «però è a buon mercato, non è così? In men che non si dica, ci sostituiranno tutti con Nuovi venuti dalla faccia foruncolosa e diplomi che non valgono nulla. Così si risparmia un mucchio di soldi.» Ho notato che Keane stava ascoltando: nel prendere appunti sorrideva. Altro materiale per il Grande Romanzo Inglese, ho immaginato. McDonaugh studiava i suoi demoni. Robbie Roach ha annuito amaramente. Kitty è stata conciliante, come sempre. «Be', dobbiamo risparmiare tutti», ha detto. «Perfino il budget per i libri di testo...» «Parliamone!» ha interrotto Roach. «Storia ha perso il 40%, la mia aula è una vergogna, piove dal soffitto. Lavoro fino a ore impossibili e loro cosa fanno? Sprecano trentamila sterline in computer che nessuno vuole. E le riparazioni al tetto? E il lettore per DVD di cui ho fatto richiesta da dio sa quando?» McDonaugh ha brontolato. «Anche la cappella ha bisogno di lavori», ha fatto presente. «Aumentare di nuovo le rette scolastiche, ecco tutto. Non possiamo evitarlo, questa volta.» «Le rette non aumenteranno», ha replicato Scoones, dimenticando il suo bisogno di pace e tranquillità. «Perderemmo metà degli allievi se lo faces-
simo. Ci sono altre scuole secondarie, sapete. Migliori di questa, a dire il vero.» «C'è un mondo anche altrove», ho citato in modo sommesso. «Ho sentito che c'è chi ha fatto pressione per vendere qualche terreno della scuola», ha detto Roach, prosciugando la tazza di caffè. «Quali, i campi da gioco?» Scoones, un devoto rugbista, era scioccato. «Non il campo di rugby», ha spiegato Roach tranquillizzante. «Solo i terreni dietro il tennis. Nessuno li usa più, tranne quando i ragazzi scappano di soppiatto per una paglia. E in ogni caso non servono a nulla per gli sport, sempre impregnati d'acqua come sono. Sarebbe meglio venderli come terreno edificabile, o qualcosa del genere.» Edificabile. Un suono minaccioso. Un centro commerciale, forse, o un Superbowl dove i Sunnybanker avrebbero potuto andare dopo la scuola per la dose quotidiana di birra e birilli. «Al Rett, non piacerà l'idea», ha detto asciutto McDonaugh. «Non vuole passare alla storia come l'uomo che ha venduto St Oswald.» «Forse diventeremo misti», ha suggerito Roach sognante. «Pensateci... tutte quelle ragazze con l'uniforme.» Scoones ha scrollato le spalle. «Uh! Preferisco di no.» Nella calma che è seguita, mi sono reso conto all'improvviso del rumore sopra la mia testa; pestar di piedi, sedie che graffiavano il pavimento e voci alzate. Ho guardato in su. «La tua classe?» Ho scosso la testa. «È la nuova Barba di informatica. Meek, detto il Coniglio.» «Pare proprio così», ha detto Scoones. I colpi e il calpestio sono continuati, alzandosi in un improvviso crescendo, dentro il quale mi pareva di distinguere appena il flebile belare della voce del maestro. «Forse dovrei dare un'occhiata.» È sempre un po' imbarazzante punire la classe di un altro insegnante. Di norma non lo farei, a St Oswald tendiamo a farci gli affari nostri, ma era la mia aula, e mi sentivo vagamente responsabile. Ho salito le scale a passo di carica fino alla torre campanaria e, sospettavo, non per l'ultima volta. A mezza strada ho incontrato il dott. Devine. «È la sua, quella classe che fa un baccano spaventoso?» Ero offeso. «Certo che no», ho risposto risentito. «È quella di Meek il Coniglio. Ecco cosa succede quando si cerca di portare informatica alle
masse. Roba da pazzi.» «Be', spero che se ne occupi», ha detto Acerbo. «Sentivo il rumore fin dal corridoio di mezzo.» Che faccia tosta. «Sto solo riprendendo fiato», ho replicato con dignità. Quelle scale diventano ogni anno più ripide. Devine ha sghignazzato. «Se non fumasse così tanto, riuscirebbe a fare un po' di gradini.» Poi se ne era andato, svelto come sempre. L'incontro con Acerbo non ha migliorato il mio umore. Mi sono avventato immediatamente sulla classe, ignorando il povero Coniglio alla scrivania dell'insegnante, e mi sono infuriato nel vedere in mezzo al gruppo alcuni dei miei allievi. Il pavimento era cosparso di aeroplanini di carta. Un banco era stato rovesciato. Knight se ne stava vicino alla finestra, inscenando all'apparenza una qualche farsa, perché il resto della classe rideva convulsamente. Quando sono entrato il silenzio è sceso pressoché all'istante - ho sentito un sibilo, Quasi!, e Knight ha tentato, troppo tardi, di togliere la toga che aveva indosso. Knight si è voltato verso di me e si è risistemato subito, con aria spaventata. Vorrei ben vedere. Sorpreso a indossare la mia toga, nella mia aula, a impersonare me - perché non c'erano dubbi su chi volessero rappresentare quell'espressione scimmiesca e quel passo zoppicante - deve aver pregato che l'inferno lo inghiottisse. Ammetto che ero sorpreso da Knight, un ragazzo subdolo, insicuro, solitamente contento di lasciare che gli altri si facessero avanti mentre lui si godeva lo spettacolo. Il fatto che persino lui avesse osato comportarsi male non deponeva a favore della disciplina di Meek. «Lei. Fuori.» In questi casi un sussurro percussivo è più efficace che non alzare la voce. Knight ha esitato per un attimo. «Signore, non era...» «Fuori!» Knight è fuggito. Mi sono rivolto al resto del gruppo. Per un momento ho lasciato che il silenzio riecheggiasse tra di noi. Nessuno mi ha guardato. «Quanto a voi, se capiterà che io debba intervenire così un'altra volta, se sento anche una sola voce alzarsi da quest'aula, vi tratterrò in detenzione dopo la scuola, tutti allo stesso modo: colpevoli, complici e sostenitori. È chiaro?» Teste che annuivano. Tra le facce ho visto Allen-Jones e McNair, Sutcliff, Jackson e Anderton-Pullitt. Metà della mia classe. Ho scosso la testa
in preda al disgusto. «Avevo maggiore considerazione di voi, 3S. Pensavo foste gentiluomini.» «Scusi, signore», ha borbottato Allen-Jones, fissando il coperchio del suo banco. «Penso che sia Mr Meek a dover ricevere delle scuse», ho detto. «Scusi, signore.» «Signore.» «Signore.» Meek si teneva eretto sulla pedana. La mia cattedra fuori misura lo faceva apparire ancor più piccolo e insignificante. Il volto afflitto sembrava tutto occhi e barba, non tanto un coniglio quanto una scimmia cappuccina. «Io... hm... grazie, Mr Straitley. Io penso ch-che po-posso cavarmela, adesso. Ragazzi... ah, hm.» Mentre lasciavo l'aula mi sono girato per richiudere la porta con il pannello di vetro. Per un secondo ho visto Meek che mi guardava dal suo trespolo. Ha volto lo sguardo altrove quasi all'istante, ma non così presto da non vedere l'aria che aveva dipinta in volto. Nessun dubbio in proposito: oggi mi sono fatto un nemico. Tranquillo, ma pur sempre un nemico. Più tardi sarebbe salito a trovarmi nella Sala professori per ringraziarmi dell'intervento, ma per quanto fingessimo, nulla poteva cancellare il fatto che era stato umiliato di fronte a una classe, e che io avevo assistito alla cosa. Tuttavia quell'aria mi ha allarmato. Era come se un volto segreto si fosse aperto dietro la comica barbetta e gli occhi da galagone: un volto d'odio, debole ma implacabile. 6. Mi sento come un bambino in un negozio di dolciumi nel giorno della paghetta. Da dove cominciare? Sarà Pearman, oppure Bishop? Oppure Straitley, o Strange? Oppure dovrei cominciare più giù, dal grasso Fallow, che ha preso il posto di mio padre con tale smidollata arroganza? Con quello stupido semideficiente di Jimmy? Con uno dei novellini? Con lo stesso Rettore? Ammetto che mi piace l'idea. Ma questo sarebbe troppo facile; e poi voglio colpire St Oswald al cuore, non alla testa. Voglio che crolli tutta: abbattere solo qualche doccione non basta. I posti come St Oswald hanno il vizio di ritornare in vita: le guerre passano, gli scandali svaniscono, perfi-
no gli omicidi alla fine vengono dimenticati. In attesa dell'ispirazione, credo che attenderò il momento opportuno. Mi ritrovo a provare lo stesso piacere di essere qui che ho provato nell'infanzia: quella sensazione di deliziosa intrusione. Molto poco è cambiato: nuovi computer poggiano precari sui nuovi banchi di plastica mentre i nomi degli ex Oswaldiani fissano dall'alto dell'Albo d'onore. L'odore è lievemente cambiato, meno cavolo e più plastica, meno polvere e più deodoranti, anche se la torre campanaria (grazie a Straitley) ha mantenuto la formula originaria di topi, gesso e scarpe da ginnastica scaldate dal sole. Ma le aule in sé rimangono le stesse, come le pedane su cui gli insegnanti camminavano a grandi passi simili a bucanieri sul cassero e i pavimenti di legno, macchiati d'inchiostro viola e lucidati fino a un lustro letale ogni venerdì sera. Anche la Sala professori è la stessa, con le sedie che cadono a pezzi; così l'Aula Magna; così la torre campanaria. È una decrepitezza signorile, di cui St Oswald sembra godere e, cosa di maggiore importanza, sussurra tradizione ai genitori che pagano le rette. Una volta sentivo il peso di quella tradizione come un dolore fisico. St Oswald era talmente diversa da Sunnybank Park, con le aule scialbe e l'odore di abrasivi. A Sunnybank ero a disagio, sentivo che gli altri allievi mi evitavano, e provavo disprezzo per i professori che si vestivano in jeans e ci chiamavano per nome. Volevo che mi chiamassero «Snyde», come avrebbero fatto a St Oswald; volevo portare un'uniforme e chiamarli «Signore». Gli insegnanti di St Oswald usavano ancora la verga; al confronto la mia scuola sembrava indulgente e permissiva. La mia insegnante di classe era una donna, Jenny McCauleigh. Era giovane, bonaria e piuttosto attraente (molti compagni si presero una cotta per lei), ma l'unica cosa che provavo era un risentimento profondo. A St Oswald non c'erano insegnanti donne. Di nuovo, mi era stata data una sostituta mediocre. Per mesi fui preda di dispetti, sfottimenti, angherie da parte di insegnanti e allievi. I soldi per il pranzo mi venivano rubati, i vestiti stracciati, i libri gettati sul pavimento. Ben presto Sunnybank Park divenne insopportabile. Non avevo bisogno di fingere una malattia: durante il primo anno ebbi l'influenza più spesso di quanto l'avessi mai avuta prima; soffrivo di mal di testa, di incubi; ogni lunedì mattina portava con sé un malessere così violento che perfino mio padre cominciò ad accorgersene. Ricordo una volta in cui provai a parlargli. Era un venerdì sera, e per cambiare aveva deciso di restare a casa. Queste serate in casa erano rare
per lui, ma Pepsi aveva ottenuto un lavoro part-time in un pub in città, io avevo avuto un'ennesima influenza e lui rimase e preparò la cena: niente di speciale, solo una bustina di plastica messa a bollire, e patatine fritte, ma per me significava che lui stava facendo uno sforzo. E fu anche mite: il pacco da sei di birre finite a metà accanto a lui sembravano aver smussato la sua rabbia perenne. La TV era accesa, un episodio dei Professionals, e lo stavamo guardando in un silenzio che per una volta era affabile anziché cupo. Il fine settimana ci attendeva, due giornate intere alla larga da Sunnybank Park, e anch'io mi sentivo di buon umore, quasi felice. C'erano anche giornate così, sapete: giornate in cui avrei quasi creduto che far parte della famiglia Snyde non fosse la fine del mondo e pensavo di intravedere una sorta di luce alla fine di Sunnybank Park, un tempo in cui non avrebbe contato più nulla. Girai gli occhi verso mio padre e lo vidi guardarmi con un'espressione curiosa, una bottiglia tra le dita robuste. «Potrei averne un po'?» domandai, sentendomi più forte. Considerò la bottiglia. «Va bene», rispose passandomela. «Ma non di più, bada bene. Non voglio che ti sbronzi.» Bevvi, gustando il sapore amaro. Avevo già provato prima la birra, certo, ma mai con l'approvazione di mio padre. Gli sorrisi, e con mia sorpresa mi ricambiò il sorriso, stranamente con un'aria abbastanza giovane, pensai, quasi come il ragazzo che doveva essere un tempo, quando lui e la mamma si erano incontrati. Per la prima volta in verità mi venne in mente che se lo avessi incontrato allora, avrebbe potuto anche piacermi quanto era piaciuto a lei, quel ragazzo grosso, tenero, che faceva baldoria, e magari io e lui saremmo diventati amici. «Ce la caviamo bene senza di lei, non è vero pulcino?» disse mio padre, e sentii una scossa di sorpresa alla bocca dello stomaco. Mi aveva letto nel pensiero. «So che è stata dura», disse. «Tua mamma e tutto quanto, e adesso la nuova scuola. Scommetto che hai avuto un bel daffare ad abituarti, eh, pulcino?» Annuii, non osando quasi sperare. «Quei mal di testa, e tutto quanto. Quei brutti voti. Hai avuto problemi a scuola? È quello? Altri ragazzi ti hanno menato?» Annuii ancora. Adesso, lo sapevo, si sarebbe girato dall'altra parte. Mio padre disprezzava i vigliacchi. Colpire per primi e veloci, era il suo mantra personale, insieme a Più grossi sono, più cadono col botto, e Mi piego ma non mi spezzo. Invece non si girò. Guardò diritto verso di me e disse, «Non
preoccuparti pulcino, sistemerò tutto io. Prometto.» Ora sbocciava, spaventoso, dentro al cuore. Il sollievo, la speranza, il principio della gioia. Mio padre aveva indovinato. Mio padre aveva capito. Aveva promesso di sistemare la faccenda. Ebbi un'improvvisa, stupefacente visione di lui che si avvicinava a grandi passi ai cancelli di Sunnybank Park, mio padre, alto sei metri e splendido per la rabbia e la fermezza. Lo vidi avvicinarsi ai miei aguzzini, afferrare le loro teste e picchiarle una contro l'altra, correre verso Mr Bray, il professore di educazione fisica, e metterlo al tappeto; e cosa migliore e più piacevole di tutte, affrontare Miss McCauleigh, la mia insegnante di classe, e dirle: «Che vada a farsi fottere la tua dannata scuola, carina: ci siamo trovati un altro posto.» Papà stava ancora guardandomi con quel sorriso felice in volto. «Magari non lo pensi, pulcino, ma ci sono passato anch'io, proprio come te. Gli attaccabrighe, ragazzi più grandi, sono sempre lì fuori, sempre pronti a provarci. Neanch'io ero molto grosso da bambino; all'inizio non avevo tanti amici. Credici o no, so come ti senti. E so che cosa bisogna fare, e tutto quanto.» Ancor oggi riesco a ricordare quel momento. La sensazione di beatitudine, di confidenza, di ordine ristabilito. Allora ebbi di nuovo sei anni, con la fiducia che si ha a quell'età, con la certezza che papà sa come si fa. «Cosa?» chiesi in modo quasi inudibile. Mio padre fece l'occhiolino. «Lezioni di karate.» «Lezioni di karate.» «Giusto. Kung Fu, Bruce Lee, e così via. Conosco un tipo, lo vedo giù al pub di tanto in tanto. Tiene lezione il sabato mattina. Ah, pulcino, dai», disse, vedendo la mia espressione. «Un paio di settimane di lezioni di karate e starai benissimo. Colpire per primi e veloci. Non farti prendere a pesci in faccia da nessuno.» Lo fissai, incapace di parlare. Ricordo la bottiglia di birra che avevo in mano, la sua condensa fredda; sullo schermo, Bodie e Doyle dei Professionals non si facevano prendere a pesci in faccia da nessuno. Sul lato opposto del divano, John Snyde mi stava ancora guardando con attesa gioiosa, come se si aspettasse la mia inevitabile reazione di piacere e gratitudine. Dunque era questa la sua meravigliosa soluzione, vero? Lezioni di karate. Da un uomo che andava al pub. Non avessi avuto il cuore spezzato, avrei riso forte. Adesso riuscivo a vederla, quella lezione del sabato: una ventina di teppisti dalle case popolari, cresciuti a Street Fighter e Kick
Boxer 2: con un po' di fortuna avrei potuto perfino imbattermi in qualcuno dei miei aguzzini di Sunnybank Park e concedere loro l'opportunità di picchiarmi in un ambiente del tutto diverso. «Allora?» chiese mio padre. Stava ancora sorridendo e senza troppo sforzo riuscivo a vedere comunque il ragazzo che era stato, lo scolaro lento, l'aspirante bullo. Era così compiaciuto di sé. E così lontano dal vero che non provai disprezzo o rabbia come avevo immaginato, ma una pena profonda, non certo infantile. «Sì, ok», dissi infine. «Ti avevo detto che mi sarei inventato qualcosa, non è vero?» Annuii, assaporando amarezza. «Vieni qui, pulcino, abbraccia un po' il tuo vecchio babbo.» E lo feci, sempre con quel sapore in fondo alla gola, sentendo l'odore delle sue sigarette, del sudore e del fiato birroso, delle palline di naftalina sul maglione di lana; e quando chiusi gli occhi, pensai fra me: non ho nessuno al mondo. Cosa che ha del sorprendente, fece meno male del previsto. Dopodiché tornammo ai Professionals e per un po' finsi di andare alle lezioni di karate, almeno fino a quando l'attenzione di mio padre si rivolse altrove. Passarono i mesi e la mia vita a Sunnybank Park si stabilizzò in una routine di squallore. Tiravo avanti come meglio potevo; soprattutto, e sempre più spesso, evitandola. All'ora di pranzo marinavo la scuola e me ne andavo nei terreni di St Oswald. Di sera ritornavo di corsa per guardare gli appuntamenti sportivi doposcuola o spiare dalle finestre. A volte entrai perfino negli edifici durante l'orario scolastico. Conoscevo ogni nascondiglio: riuscivo sempre a girare senza farmi vedere oppure, indossando un'uniforme messa insieme da capi di vestiario persi o rubati, potevo addirittura passare per un allievo in un corridoio. Nel corso dei mesi mi feci più audace. Mi unii alla folla durante un giorno di gare sportive della scuola, indossando una maglietta troppo grande trafugata da un armadietto nel corridoio superiore. Mi persi in quel gran daffare e, forte del successo, mi intrufolai perfino in una gara di 800m della media inferiore, fingendo di provenire da Amadeus House dove frequentavo il primo anno. Non dimenticherò mai come i ragazzi si rallegrarono quando superai la linea del traguardo, o il modo in cui l'insegnante di turno - era Pat Bishop, allora più giovane: atletico con i pantaloncini da corsa e la felpa della scuola - mi arruffò la testa coi capelli tagliati corti e disse:
«Ben fatto ragazzo, due punti alla tua Casa e presentati alla squadra lunedì!» Certo, sapevo che era fuori questione far parte di una squadra. La tentazione c'era, ma nemmeno io osavo spingermi a tanto. Le visite a St Oswald erano già frequenti, ogni volta che mi riusciva, e anche se la mia faccia era indefinita al punto dell'invisibilità, sapevo che se non avessi fatto attenzione, un giorno mi avrebbero riconosciuto. Ma era una dipendenza: con il passare del tempo correvo rischi più grandi. Andavo dentro la scuola durante l'intervallo e compravo dolci allo spaccio. Guardavo partite di calcio, sventolando il mio fazzoletto di St Oswald contro i tifosi della scuola rivale. Mi sedevo all'ombra degli spogliatoi del cricket, un perenne giocatore di riserva. Mi unii perfino all'annuale fotografia di tutta la scuola, infilandomi tra i nuovi allievi della prima inferiore. Nel corso del secondo anno trovai un modo per visitare la scuola durante le lezioni, saltando l'ora di educazione fisica. Era facile: il lunedì pomeriggio c'era sempre una corsa campestre di cinque chilometri che, in un ampio anello, ci portava intorno ai campi da gioco di St Oswald e poi di nuovo alla nostra scuola. Gli altri allievi la odiavano. Per loro era come se i campi stessi fossero un insulto, che suscitava scherno e fischi. A volte, dopo il loro passaggio, sulla cinta esterna in mattoni apparivano dei graffiti, e io provavo una vergogna profonda e penetrante perché chi ci vedeva poteva pensare che facessi parte del gruppo dei responsabili. Poi scoprii che se mi nascondevo dietro un cespuglio finché gli altri non erano passati, era abbastanza facile tornare indietro, concedendomi così un intero pomeriggio libero a St Oswald. Sulle prime feci attenzione: mi nascondevo nei terreni e cronometravo l'arrivo della classe di educazione fisica. Pianificavo meticolosamente. Avevo due ore abbondanti prima che la maggior parte dei corridori ritornasse ai cancelli della scuola. Sarebbe stato facile indossare di nuovo il mio equipaggiamento e riunirmi alla coda del gruppo senza farmi vedere. Ci accompagnavano due insegnanti, uno davanti, uno in fondo. Mr Bray era uno sportivo mancato con una vanità colossale e uno spirito sciocco, che favoriva gli allievi atletici e le ragazze carine, e trattava tutti gli altri con assoluto disprezzo. Miss Potts era una tirocinante, che di solito si trovava in fondo al gruppo dove teneva banco, lei lo chiamava «orientamento», a una piccola claque di ammiratrici. Nessuno dei due faceva caso a me, nessuno dei due avrebbe notato la mia assenza.
Nascondevo la mia uniforme rubata da St Oswald - maglione e pantaloni grigi, cravatta della scuola, blazer blu (con lo stemma della scuola e il motto Audere, augere, auferre, ricamato in oro sulla tasca) - sotto i gradini del padiglione degli sport e lì mi cambiavo. Nessuno mi vedeva, i pomeriggi di educazione fisica a St Oswald si svolgevano di mercoledì e giovedì, e così nessuno mi avrebbe disturbato. E purché tornassi per la fine della mia giornata scolastica, l'assenza sarebbe passata inosservata. All'inizio la novità di essere dentro la scuola durante le lezioni mi bastò. Percorrevo i corridoi senza che nessuno facesse domande. Certe classi erano chiassose. Altre stranamente silenziose. Attraverso pannelli di vetro sbirciavo teste chine sui banchi, freccette di carta lanciate surrettiziamente alle spalle di un insegnante, compiti passati in segreto. Appoggiai l'orecchio a porte e studi chiusi. Ma il mio rifugio preferito era la torre campanaria. Un coacervo di stanzette usate di rado - ripostigli, piccionaie, armadi per il magazzinaggio - e due aule, una grande e una piccola, entrambe appartenenti al dipartimento degli studi classici, oltre a un balcone di pietra traballante da cui potevo accedere, senza farmi vedere, al tetto. Lì mi sdraiavo sulle tegole calde, ascoltavo il ronzio di voci dalle finestre aperte lungo il corridoio di mezzo, e prendevo appunti sui quaderni rubati. In quel modo seguii parecchie lezioni di latino del primo anno di Mr Straitley, la fisica di Mr Bishop di seconda, la storia dell'arte di Mr Langdon. Lessi Il signore delle mosche con la terza di Bob Strange e consegnai perfino un paio di temi alla sua casella nel corridoio di mezzo (li presi di nascosto il giorno dopo dall'armadietto di Strange, corretti, con il voto e la parola «Nome??» scarabocchiata a penna rossa). Finalmente avevo trovato il mio posto. Era un posto solitario, ma questo non aveva importanza. St Oswald, e tutti i suoi tesori, erano a mia disposizione. Che altro potevo volere? Poi incontrai Leon. E cambiò tutto. Era un giorno soleggiato di fine primavera, uno di quei giorni in cui amavo St Oswald con una passione tale che nessun allievo vero avrebbe potuto imitare, e mi sentivo più intraprendente del solito. Fin dal nostro primo incontro, la mia guerra unilaterale contro la scuola era passata attraverso molte fasi. Odio, ammirazione, rabbia, ricerca. Quella primavera, però, avevamo raggiunto una sorta di tregua. Mentre rifiutavo Sunnybank Park avevo cominciato a sentire che St Oswald iniziava ad accogliermi, lentamente; i miei movimenti nelle sue vene non erano più quelli di un invaso-
re, ma di qualcuno che è quasi amico, come l'inoculazione di una sostanza che appare tossica ma in seguito si rivela utile. Certo, ero ancora furente per l'ingiustizia; per le rette che mio padre non avrebbe mai potuto permettersi; perché, rette o no, non avrei mai osato sperare di farmi accettare. Malgrado tutto questo, avevo un rapporto. Una simbiosi benigna, forse. Come lo squalo e la lampreda. Cominciai a capire che non avevo bisogno di essere un parassita; potevo lasciare che St Oswald mi usasse così come io l'avevo usata. Di recente avevo iniziato a prendere nota delle cose che andavano fatte nella scuola: vetri incrinati, piastrelle staccate, banchi rotti. Copiavo i dettagli nel registro delle riparazioni della portineria, firmandoli con le iniziali di insegnanti diversi per evitare sospetti. Ligio al dovere, mio padre se ne occupava e io provavo orgoglio perché, nel mio piccolo, avevo contribuito; St Oswald mi ringraziava e mi approvava. Era un lunedì. Avevo girovagato per il corridoio di mezzo, origliando alle porte. La mia lezione pomeridiana di latino era finita, e stavo prendendo in considerazione se andare in biblioteca, o alla palazzina delle belle arti, e mescolarmi con i ragazzi dell'ora di studio. Forse avrei potuto entrare nel refettorio: a quel punto il personale di cucina doveva essersene andato, e potevo rubare alcuni biscotti lasciati per la riunione doposcuola degli insegnanti. Con simili pensieri, mentre svoltavo nel corridoio superiore per poco non mi scontrai con un ragazzo che si trovava in piedi, le mani in tasca, la faccia rivolta al muro, sotto l'Albo d'onore. Aveva un paio d'anni più di me, immaginai quattordici, con una faccia dai tratti marcati, intelligente e vivaci occhi grigi. I capelli castani, notai, erano piuttosto lunghi per St Oswald e l'estremità della cravatta, che penzolava in modo sconveniente fuori dal maglione, era stata tagliata con le forbici. Capii, con una certa ammirazione, che stavo osservando un ribelle. «Guarda dove vai», disse il ragazzo. Era la prima volta che un ragazzo di St Oswald si degnava di rivolgermi la parola. Lo fissai in preda alla fascinazione. «Che ci fai qui?» Sapevo che la stanza in fondo al corridoio superiore era lo studio di un insegnante. Un paio di volte ci avevo anche messo piede: un piccolo posto senza aria, con casse fino alle ginocchia e parecchie piante robuste e indistruttibili che si allungavano inquietanti da una finestra alta e stretta. Il ragazzo sorrise. «Mi ha mandato Quasi. Me la caverò con un ammo-
nimento, o una DETE. Quasi non prende mai a vergate nessuno.» «Quasi?» Il nome mi era familiare, orecchiato durante conversazioni pomeridiane fra i ragazzi. Sapevo che era un soprannome, ma non potevo dargli una faccia. «Vive nella torre campanaria? Assomiglia a un doccione?» Il ragazzo sorrise di nuovo. «Un po' un podex, ma in realtà è un bravo tipo. Gli farò cambiare idea.» Fissai il ragazzo con crescente soggezione. La sua disinvoltura mi affascinava. Il modo in cui parlava di un professore, non come una creatura di terrificante autorevolezza, ma una figura divertente, mi faceva ammutolire per l'ammirazione. E ancora meglio, questo ragazzo, questo ribelle che osava deridere St Oswald, mi stava parlando come a un pari, e non aveva la minima idea di chi fossi! Fino ad allora non avevo mai immaginato che lì avrei potuto trovare un alleato. Le mie visite a St Oswald erano tristemente private. Non avevo compagni di scuola a cui dirlo, confidarmi con mio padre o Pepsi era impensabile. Ma questo ragazzo... Finalmente ritrovai la voce. «Cos'è un podex?» Il nome del ragazzo era Leon Mitchell. Gli dissi che il mio era Julian Pinchbeck, e che ero del primo anno. Data la mia statura, bassa per l'età, pensai fosse meglio passare per un alunno di un altro anno. In questo modo Leon non avrebbe fatto domande sulla mia assenza dall'assemblea delle terze o dalle lezioni di educazione fisica. Mi sentii quasi svenire per l'enormità del mio bluff, ma provavo anche euforia. Era davvero facile. Se potevo convincere un ragazzo, allora perché non altri, magari addirittura gli insegnanti? D'un tratto mi immaginai di entrare in club e squadre, di frequentare apertamente le lezioni. Perché no? Conoscevo la scuola meglio di qualsiasi allievo. Portavo l'uniforme. Perché qualcuno avrebbe dovuto farmi domande? Nella scuola doveva esserci un migliaio di ragazzi. Da nessuno, nemmeno dal Rettore, ci si poteva aspettare che li conoscesse uno per uno. Ancora meglio, avevo tutta la preziosa tradizione di St Oswald dalla mia parte: nessuno aveva mai sentito di un inganno come il mio. Nessuno avrebbe sospettato una cosa tanto oltraggiosa. «Non devi andare a una lezione?» C'era un luccichio malizioso negli occhi grigi del ragazzo. «Finirai nei casini se sei in ritardo.» Sentii che era una sfida. «Non mi importa», dissi. «Mr Bishop mi ha
mandato con un messaggio per l'ufficio. Posso dire che la segretaria era al telefono e che ho dovuto aspettare.» «Non male. Questa me la dovrò ricordare.» L'approvazione di Leon mi spinse a esagerare: «Io taglio sempre la corda», gli raccontai. «Nessuno mi ha mai beccato.» Annuì, sorridendo. «E allora oggi che cos'è?» Per poco non dissi educazione fisica, mi fermai appena in tempo: «RELI». Leon fece una boccaccia. «Vae! Non posso darti torto. Molto meglio i pagani. Perlomeno loro avevano il permesso di fare sesso.» Io ridacchiai. «Chi è il tuo insegnante di classe?» domandai. Se lo avessi saputo, avrei potuto scoprire di quale anno era. «Viscido Strange. Inglese. Un vero cimex. E il tuo?» Esitai. Non volevo raccontare a Leon nulla che potesse essere smentito troppo facilmente. Ma prima di poter rispondere ci fu un improvviso tramestio di passi strascicati nel corridoio. Si stava avvicinando qualcuno. Leon si ricompose immediatamente. «È Quasi», mi avvertì in un rapido bisbiglio. «Meglio smammare.» Mi girai verso i passi che avanzavano, l'animo indeciso tra il sollievo di non dover rispondere alla domanda sull'insegnante di classe e la delusione perché la nostra conversazione era stata così breve. Cercai di imprimermi la faccia di Leon nella memoria: la ciocca riccia che gli cascava casualmente sulla fronte, gli occhi chiari, la bocca ironica. Ridicolo immaginare che l'avrei visto di nuovo. Pericoloso perfino provarci. Mantenni un'espressione neutrale mentre l'insegnante entrava nel corridoio superiore. Conoscevo Roy Straitley soltanto dalla voce. Avevo seguito le sue lezioni, riso ai suoi scherzi, ma solo da lontano avevo scorto la sua faccia. Adesso lo vedevo: una silhouette curva con una toga lisa e mocassini di pelle. Chinai la testa mentre si avvicinava, ma dovevo avere l'aria colpevole, perché si fermò e mi guardò con durezza. «Ragazzo, dico a lei. Che ci fa qui, fuori dalle lezioni?» Mormorai qualcosa su Mr Bishop e un messaggio. Mr Straitley non parve convinto. «L'ufficio è nel corridoio inferiore. A chilometri da qui!» «Sì, signore. Dovevo andare al mio armadietto, signore.» «Cosa? Durante le lezioni?» «Signore.»
Mi accorsi che non mi credeva. Il cuore galoppava. Osai un'occhiata, e vidi il volto di Straitley, la sua faccia brutta, intelligente, bonaria che incombeva su di me. Avevo paura, ma dietro il timore c'era qualcosa d'altro: un senso irrazionale e mozzafiato di speranza. Mi aveva visto? Qualcuno finalmente mi aveva visto? «Come si chiama, figliolo?» «Pinchbeck, signore.» «Pinchbeck, eh?» Capivo che stava pensando cosa fare. Se interrogarmi oltre, come gli dettava l'istinto. O semplicemente lasciarmi andare e occuparsi del suo allievo. Mi studiò ancora per qualche secondo, gli occhi erano dello sbiadito giallo-blu del jeans sporco, e poi sentii cadere il peso del suo scrutinio. Non ero abbastanza importante, aveva deciso. Un ragazzino della media inferiore, fuori dalla classe senza permesso; nessuna minaccia; problema di qualcun altro. Per un secondo la rabbia eclissò la mia naturale prudenza. Nessuna minaccia? Non valevo la pena? O in tutti quegli anni di nascondino e imboscate, avevo davvero raggiunto lo stato della completa e irrevocabile invisibilità? «Va bene, figliolo. Non si faccia più vedere da me. E ora fili via.» E così feci, adesso con sollievo. Nel correre, sentii in modo distinto la voce di Leon che dietro di me sussurrava: «Ehi, Pinchbeck! Dopo la scuola. Ok?» Mi girai e vidi che mi faceva l'occhiolino. 7. St Oswald's Grammar School for Boys mercoledì, 8 settembre Dramma sottocoperta: la grande fregata confusionaria che è St Oswald ha colpito un banco di scogli all'inizio dell'anno. Prima cosa, la data dell'imminente ispezione scolastica è stata annunciata per il 6 dicembre. Questo provoca sempre scompiglio su larga scala, in particolare tra gli alti gradi del personale amministrativo. Seconda, e dal mio punto di vista ben più devastante, stamattina, a mezzo posta ordinaria, sono stati annunciati insoliti aumenti di retta per il prossimo trimestre, causando costernazione alla tavola della colazione in tutta la contea. Il nostro capitano continua a sostenere che questo è perfettamente normale e in totale armonia con il tasso d'inflazione, anche se tutt'ora non è
disposto a rilasciare commenti. Si sono sentiti alcuni reprobi borbottare che se noi, il corpo insegnante, fossimo stati informati della possibilità di aumento, allora forse non saremmo stati colti così di sorpresa dall'afflusso di telefonate adirate di questa mattina. Bishop, se interrogato, sostiene il Rettore. Però è mentitore modesto. Piuttosto che affrontare la Sala professori questa mattina, ha fatto dei giri di corsa intorno alla pista di atletica fino all'assemblea, sostenendo di essere fuori forma e di aver bisogno di esercizio. Nessuno ci ha creduto, ma mentre salivo i gradini verso l'aula 59 l'ho visto attraverso la finestra della torre campanaria: stava ancora correndo, rimpicciolito a proporzioni misere dalla prospettiva elevata. La mia classe ha ricevuto la notizia dell'aumento di retta con il consueto sano cinismo. «Signore, significa che quest'anno avremo un insegnante come si deve?» Allen-Jones sembrava impassibile sia all'incidente sulla numerazione delle aule, sia alle mie minacce del giorno prima. «No, significa solo un armadio delle bevande meglio rifornito nello studio segreto del Rettore.» Risolini maliziosi dalla classe. Solo Knight appariva cupo. In seguito all'episodio di ieri, questo sarebbe stato il suo secondo giorno di punizione, ed era già stato sbeffeggiato mentre percorreva a grandi passi i terreni con un blusotto arancione vivace, raccogliendo cartacce e ficcandole in un enorme sacco di plastica. Vent'anni fa sarebbero stati la verga e il rispetto dei suoi compagni; il che dimostra che non tutte le innovazioni sono nocive. «Mia madre dice che è una disgrazia», è intervenuto Sutcliff. «Ci sono altre scuole lì fuori, sa.» «Sì, ma qualsiasi zoo sarebbe contento di accoglierla», ho detto vagamente, cercando il registro nella mia scrivania. «Maledizione, dov'è il registro? So che era qui.» Tengo sempre il registro nel primo cassetto. Posso apparire disorganizzato, ma di solito so dove sono le cose. «Quando aumenterà il suo stipendio, signore?» Sutcliff: «È già miliardario!» Allen-Jones: «Questo perché non spreca mai soldi per i vestiti». Knight, a bassa voce: «O il sapone». Mi sono raddrizzato e ho guardato Knight. In qualche modo la sua espressione riusciva a essere insolente e servile allo stesso tempo. «Allora, le è piaciuto il suo giro da spazzino, ieri?» ho domandato. «Vorrebbe of-
frirsi volontario per un'altra settimana?» «Agli altri non lo ha detto, però», ha mormorato Knight. «Perché gli altri conoscono il confine tra umorismo e maleducazione.» «Ce l'ha con me.» La voce di Knight era più bassa che mai. I suoi occhi evitavano i miei. «Cosa?» Ero sinceramente sorpreso. «Ce l'ha con me, signore. Ce l'ha con me perché...» «Perché cosa?» sono scattato. «Perché sono ebreo, signore.» «Cosa?» Ero seccato con me stesso. Ero così preoccupato per il registro mancante da essere cascato nel più vecchio tranello del mondo, e avevo permesso a un allievo di trascinarmi in uno scontro pubblico. Il resto della classe stava in silenzio, e ci guardava entrambi con aria d'attesa. Ho riguadagnato la calma. «Scemenze. Io non ce l'ho con lei perché è ebreo. Ce l'ho con lei perché non riesce mai a tenere il becco chiuso e ha stercus al posto del cervello.» McNair, Sutcliff o Allen-Jones avrebbero riso, e le cose si sarebbero sistemate. Perfino Tayler avrebbe riso, e indossa un yarmulke in classe. Ma l'espressione di Knight non è cambiata. Ho visto invece qualcosa che non avevo mai osservato prima: un nuovo tipo di ostinazione. Per la prima volta Knight ha sostenuto il mio sguardo. Per un secondo ho pensato che stesse per dire dell'altro, poi ha abbassato gli occhi nel modo familiare e ha borbottato qualcosa di impercettibile. «Che cos'era questo?» «Niente, signore.» «Sicuro?» «Sicurissimo.» «Bene.» Mi sono voltato verso la scrivania. Il registro poteva anche essersi smarrito, ma conosco tutti i miei ragazzi: nel momento in cui fossi entrato in aula, avrei saputo se uno di loro era assente. Ho intonato comunque l'appello, il mantra del maestro di scuola: non smette mai di calmarli. Più tardi ho gettato un'occhiata a Knight, ma la faccia era china, e non c'era alcunché nella sua espressione immusonita che indicasse la rivolta. La normalità era stata ristabilita, ho deciso. La piccola crisi era terminata. 8.
Ho riflettuto a lungo prima di rispettare l'appuntamento di Leon. Volevo incontrarlo, più di qualsiasi altra cosa, volevo che fossimo amici, anche se era un limite che non avevo mai superato, e in questa occasione la posta era più alta che mai. Ma Leon mi piaceva, mi era piaciuto da subito, e questo mi rendeva imprudente. Nella mia scuola, chiunque mi rivolgesse la parola rischiava la persecuzione da parte degli aguzzini del cortile. Leon veniva da un altro mondo. E ne faceva parte, malgrado i capelli lunghi e la cravatta mutilata. Non mi riunii al gruppo della corsa campestre. Il giorno dopo avrei falsificato una lettera di mio padre, in cui si diceva che durante la corsa avevo avuto un attacco d'asma e che mi proibiva di partecipare di nuovo. Non avevo rimpianti. Odiavo educazione fisica. Soprattutto odiavo Mr Bray, l'insegnante, con la finta abbronzatura e la catenina d'oro al collo, che sbandierava il suo senso dell'umorismo da uomo di Neanderthal a quella piccola cerchia di adulatori, a spese dei deboli, dei goffi, di chi era incapace di esprimersi: dei perdenti come me. Così mi nascosi dietro il padiglione, gli abiti di St Oswald ancora addosso, e aspettai, con qualche preoccupazione, la campana di fine scuola. Nessuno mi rivolse un'occhiata, nessuno mi chiese che diritto avessi di trovarmi lì. Intorno a me, ragazzi, alcuni in blazer o in maniche di camicia, altri ancora con la tenuta sportiva, saltavano sulle automobili, inciampavano in mazze da cricket, si scambiavano battute, libri, appunti per le lezioni da preparare. Un uomo massiccio, dall'aria chiassosa si fece carico della coda all'autobus - era Mr Bishop, il professore di fisica - mentre un uomo più anziano con una toga nera e rossa presidiava i cancelli della cappella. Questo, lo sapevo, era il dott. Shakeshafte, il Rettore, detto il dott. Bastone. Mio padre parlava di lui con rispetto e un po' di soggezione, in fondo gli aveva dato il lavoro. Uno della vecchia scuola, diceva mio padre con approvazione: Duro ma giusto. Speriamo che il nuovo sia altrettanto bravo. Ufficialmente, va da sé, non sapevo nulla degli eventi che avevano portato alla nomina del Nuovo Rettore. Mio padre riusciva a essere stranamente puritano a proposito di certe cose, e suppongo ritenesse che fosse sleale verso St Oswald discutere la questione con me. Tuttavia, alcuni giornali locali avevano già iniziato ad avere sentore della cosa, e avevo appreso il resto orecchiando conversazioni tra mio padre e Pepsi: per evitare pubblicità ostile, il Vecchio Rettore sarebbe rimasto fino alla fine del tri-
mestre, in apparenza per introdurre il nuovo incaricato e aiutarlo a sistemarsi, dopodiché se ne sarebbe andato con una pensione generosa offerta dalla proprietà. St Oswald bada ai propri affari: ci sarebbe stato anche un cospicuo indennizzo extragiudiziale per le parti offese, con l'intesa, è ovvio, che non si facesse cenno alle circostanze. Di conseguenza osservai il dott. Shakeshafte, il Bastone, con una certa curiosità dalla mia postazione ai cancelli della scuola. Un uomo con la faccia dai tratti marcati, di circa sessant'anni, non massiccio quanto Bishop, ma con la stessa corporatura da ex rugbista, appariva ai ragazzi come un doccione. Un predicatore della verga, seppi da mio padre, Ottima cosa, insegna un po' di disciplina a questi ragazzi. Nella mia scuola, la verga era già stata bandita da anni. Al suo posto, gente come Miss Potts e Miss McCauleigh preferiva l'approccio empatico, per cui teppistelli e attaccabrighe erano invitati a discutere i loro sentimenti prima di essere congedati con un ammonimento. Mr Bray, a sua volta un bullo veterano, preferiva l'approccio diretto, del tutto simile a quello di mio padre, in cui a chi si lamentava veniva consigliato Smetti di lagnarti e combatti le tue battaglie, per amor del cielo. Valutai l'esatta natura della battaglia sfociata nell'involontario pensionamento del Rettore e mi chiesi come fosse stata combattuta. Stavo ancora interrogandomi quando, dieci minuti dopo, arrivò Leon. «Ehi, Pinchbeck.» Portava il blazer su una spalla e la camicia fuori. La cravatta mozzata sporgeva dal colletto impudente come una lingua. «Che stai combinando?» Deglutii, cercando di darmi un'aria indifferente. «Niente di speciale. Com'è andata con Quasi?» «Pactum factum», disse Leon sorridendo. «DETE venerdì, come predetto.» «Sfortuna», scossi la testa. «E allora cos'hai fatto?» Fece un gesto per scacciare la cosa. «Ah, nulla», rispose. «Un po' di libera espressione della mia personalità sul coperchio del banco. Ti va di andare in città?» Feci un rapido calcolo mentale. Potevo permettermi di arrivare con un'ora di ritardo; mio padre aveva i suoi giri da fare, le porte da chiudere, le chiavi da ritirare, e non sarebbe rientrato a casa prima delle cinque. Pepsi, ammesso che ci fosse stata, sarebbe stata a guardare la TV o a preparare la cena. Da tempo aveva smesso di cercare di diventarmi amica: potevo godermi la libertà.
Provate a immaginare quell'ora, se vi riesce. Leon aveva un po' di soldi e ci prendemmo caffè e ciambelle nella saletta da tè vicino alla stazione, poi facemmo un giro nei negozi di dischi, dove Leon liquidò i miei gusti musicali definendoli «banali», ed espresse una preferenza per i gruppi come gli Stranglers e gli Squeeze. Passai un brutto momento quando incrociammo un gruppo di ragazze della mia scuola, e uno peggiore quando la Capri bianca di Mr Bray si fermò a un semaforo mentre stavamo attraversando la strada, ma presto mi resi conto che, con l'uniforme di St Oswald, era come se fossi invisibile. Per qualche secondo Mr Bray e io fummo abbastanza vicini da toccarci. Mi domandai cosa sarebbe successo se avessi dato un colpetto al finestrino e avessi detto, «Lei è un podex fatto e finito, signore.» Il pensiero mi fece ridere tanto e così all'improvviso che riuscivo appena a respirare. «Chi era?» «Nessuno», dissi frettolosamente. «Un tipo.» «La ragazza, idiota.» «Ah.» Era seduta dalla parte del passeggero, leggermente voltata verso di lui. La riconobbi: Tracey Delacey, un paio d'anni più grande di me, attuale pin up della quarta. Portava un gonnellino da tennis, e sedeva con le gambe accavallate e sollevate. «Banale», dissi, usando la parola di Leon. «Io me la farei», disse Leon. «Davvero?» «Tu no?» Pensai a Tracey, che si titilla sempre i capelli e ha l'odore persistente di gomme alla frutta. «Uh. Forse», dissi senza entusiasmo. Leon sorrise e la piccola automobile si allontanò. Il mio nuovo amico era nella Amadeus House. I suoi genitori, un assistente universitario e una funzionaria pubblica, erano divorziati («Ma questo è ok, così ho il doppio della paga»). Aveva una sorella più piccola, Charlotte, un cane di nome Captain Sensible, un terapista personale, una chitarra elettrica e, così mi sembrava, una libertà senza limiti. «Mamma dice che devo fare esperienze oltre i confini del sistema patriarcale giudaico-cristiano. Non è veramente d'accordo con St Os, ma è papà quello che paga il conto. Lui è stato a Eton. Pensa che gli scolari non pen-
sionanti siano dei proletari.» «Giusto.» Cercai di pensare a qualcosa di onesto da dire sui miei genitori, ma non ne fui capace: in meno di un'ora di conoscenza, avevo già la sensazione che questo ragazzo occupasse un posto più importante nel mio cuore di quanto avessero fatto John o Sharon Snyde. Quindi, li reinventai senza pietà. Mia madre era morta, mio padre era un ispettore di polizia (il mestiere più altisonante cui riuscissi a pensare allora). Vivevo con lui parte dell'anno, e il resto del tempo con uno zio in città. «Sono venuto a St Oswald a metà trimestre», spiegai. «Non sono qui da molto.» Leon annuì. «Giusto. Ho pensato che fossi un novellino. Cos'è successo con l'altro posto? Sei stato espulso?» Il suggerimento mi piaceva. «Era un postaccio. Mio padre mi ha ritirato.» «Io sono stato buttato fuori dalla mia ultima scuola», disse Leon. «Papà era livido. Diecimila sterline all'anno si prendevano, e mi hanno sbattuto fuori senza precedenti penali. Che banale! Ci si aspettava che ci provassero un po' di più, no? In ogni modo, poteva andarci peggio che a St Os. Soprattutto adesso che Shakeshafte, il dott. Bastone, se ne va, la canaglia...» Vidi la mia occasione. «Comunque, perché se ne va?» Gli occhi di Leon si spalancarono in modo buffo. «Sei davvero un novellino!» Abbassò la voce. «Mettiamola così: ho sentito che stava facendo qualcosa di più che agitare il bastone e basta...» Le cose da allora sono cambiate, perfino a St Oswald. In quei giorni potevi ricorrere al denaro per risolverlo e uno scandalo si sarebbe dissolto. Adesso tutto questo è cambiato. Non siamo più intimiditi dalle sue guglie brunite: sotto il fulgore riusciamo a distinguere la corruzione. Ed è fragile: un sasso lanciato come si deve potrebbe farla diroccare. Un sasso, o qualcosa d'altro. Riesco a identificarmi in un ragazzo come Knight. Piccolo, esile, incapace d'esprimersi, evidentemente un estraneo. Evitato dai compagni di classe, non per una questione di religione, ma per una ragione più elementare. Non si tratta di qualcosa che è in grado di modificare: è nei contorni della sua faccia, nel non colore dei capelli flosci, nella lunghezza delle sue ossa. Può darsi che la sua famiglia abbia dei soldi, adesso, ma in lui, sino al midollo, ci sono generazioni di povertà. Lo so. St Oswald accetta tipi del
genere con riluttanza in un periodo di crisi finanziaria, ma un ragazzo come Knight non si inserirà mai. Il suo nome non apparirà mai sull'Albo d'onore, gli insegnanti si dimenticheranno di lui. Non verrà mai scelto per una squadra, i suoi tentativi per farsi accettare si concluderanno sempre con un disastro. Ha uno sguardo negli occhi che riconosco troppo bene: lo sguardo diffidente, risentito di un bambino che da tempo ha smesso di cercare approvazione. L'unica cosa che può fare è odiare. Naturalmente ho sentito quasi subito della scena con Straitley. Le voci a St Oswald corrono in fretta: qualsiasi incidente viene riferito in giornata. Oggi era stato un giorno particolarmente negativo per Colin Knight. All'appello, il battibecco con Straitley; all'intervallo, un incidente con Robbie Roach a proposito di un compito a casa mancante; all'ora di pranzo, una rissa divampata con Jackson, anche lui della 3S, che si è conclusa così: Jackson spedito a casa con il naso rotto e Knight sospeso per tutta la settimana. Ero di turno sui campi quando è accaduto. Riuscivo a vedere Knight con un grembiule protettivo, che raccoglieva tetro la spazzatura dalle aiuole di rose. Una punizione intelligente, crudele: ben più umiliante delle pagine di aste o della detenzione. Per quanto ne so, solo Roy Straitley la usa. È dello stesso tipo che mio padre indossava e che quel semideficiente di Jimmy si mette adesso: grande, di un arancione brillante e immediatamente visibile attraverso i campi da gioco. Chiunque lo indossi diventa una facile preda. Knight aveva provato senza successo a nascondersi dietro un angolo dell'edificio. Un crocchio di ragazzini si era raggruppato lì e lo stava prendendo in giro, indicandogli brandelli di spazzatura che lui non aveva raccolto. Jackson, un ragazzo piccolo, aggressivo, il quale sa che solo la presenza di un perdente come Knight gli impedisce di essere maltrattato, stava ciondolando lì vicino con un paio di altri del terzo anno. Pat Bishop era in servizio, ma non a portata d'udito, circondato da ragazzi, sull'altro lato del campo di cricket. Anche Roach, l'insegnante di storia, era di turno, ma sembrava più interessato a parlare a un gruppo di quinta che a ripristinare la disciplina. Avvicinandomi a Knight gli ho detto: «Questa cosa non dev'essere tanto divertente». Knight ha scosso cupo la testa. La faccia era pallida e giallastra, tranne per una macchia rossa sugli zigomi. Jackson, che era rimasto a guardarmi, si è staccato dal gruppetto e cautamente si è avvicinato. Vedevo che mi misurava con gli occhi, come per determinare la minaccia che rappresenta-
vo. Gli sciacalli fanno più o meno la stessa cosa quando girano attorno a un animale morente. «Vuoi unirti a lui?» gli ho domandato duramente, e Jackson se l'è squagliata verso il suo gruppo. Knight mi ha rivolto un'occhiata furtiva di gratitudine. «Non è giusto», ha detto a bassa voce. «Se la prendono sempre con me.» Ho annuito con aria comprensiva. «Lo so.» «Lo sa?» «Oh sì», ho risposto tranquillamente. «Ti ho osservato.» Knight mi ha guardato. I suoi occhi erano ardenti e scuri, e assurdamente speranzosi. «Ascoltami, Colin. Non è così che ti chiami?» Ha annuito. «Devi imparare a reagire, Colin», ho detto. «Non essere una vittima. Fagliela pagare.» «Pagare?» Knight sembrava sbigottito. «Perché no?» «Mi metterei nei pasticci.» «Non lo sei già?» Mi ha guardato. «E allora che hai da perdere?» A quel punto è suonata la campana di fine intervallo, e non avevo tempo per aggiungere altro, ma in ogni caso non ce n'era bisogno: i semi erano sparsi. Lo sguardo speranzoso di Knight mi ha seguito lungo la corte, e per l'ora di pranzo l'impresa era compiuta: Jackson era a terra con Knight sopra di lui e Roach correva verso di loro con il fischietto che saltava sul petto e gli altri se ne stavano lì stupiti, a bocca aperta davanti alla vittima che aveva finalmente deciso di contrattaccare. Ho bisogno di alleati, vedete. Non fra i miei colleghi, ma più in giù, nei substrati di St Oswald. Colpire alla base e alla fine la testa cadrà. Ho provato una fuggevole fitta di pietà per l'ignaro Knight, che sarà la mia vittima sacrificale, ma devo ricordarmi che in ogni guerra ci devono essere delle vittime, e che, se le cose vanno secondo i piani, ce ne saranno molte prima che St Oswald frani in uno schianto di idoli spezzati e sogni infranti. KNIGHT, IL CAVALLO
1. St Oswald's Grammar School for Boys giovedì, 9 settembre Questa mattina la classe era insolitamente spenta quando ho fatto l'appello (registro ancora introvabile) su un pezzo di carta: Jackson assente, Knight sospeso e altri tre implicati in quello che stava trasformandosi rapidamente un incidente caotico. Il padre di Jackson si era lamentato, naturale. Così come quello di Knight: secondo il figlio, l'unica cosa che aveva fatto era stata rispondere a un'intollerabile provocazione degli altri, spalleggiata, così sosteneva, dal loro insegnante di classe. Il Rettore, ancora innervosito dalle numerose proteste per l'aumento delle rette, aveva risposto in modo poco energico, promettendo di indagare, con il risultato che Sutcliff, McNair e Allen-Jones hanno trascorso la maggior parte della mia lezione fuori dall'ufficio di Pat Bishop, essendo stati citati fra gli aguzzini di Knight, e io ho ricevuto una convocazione, tramite il dott. Devine, per spiegare la situazione al Rettore non appena mi fosse stato possibile. Ovviamente l'ho ignorata. Alcuni di noi hanno lezioni da fare, doveri cui adempiere, carte da leggere, per non dire degli armadi d'archivio nel nuovo ufficio di Tedesco che vanno svuotati, come ho fatto notare al dott. Devine quando ha consegnato il messaggio. Tuttavia, ero infastidito dall'interferenza del Rettore. Questa era una vicenda domestica, che poteva e doveva essere risolta da un docente di classe. Dio ci preservi da un amministratore che ha troppo tempo: quando un Rettore comincia a essere coinvolto in questioni disciplinari, i risultati possono essere catastrofici. Allen-Jones mi ha detto la stessa cosa all'ora di pranzo. «Lo stavamo solo stuzzicando», mi ha spiegato con aria impacciata. «Abbiamo solo esagerato un po'. Lei sa com'è.» Lo sapevo. E così Bishop. Ma sapevo anche che il Rettore non lo sapeva. Dieci a uno che sospetta una qualche cospirazione. Già vedo settimane di telefonate, lettere a casa, detenzioni multiple, sospensioni e altre scocciature burocratiche prima che la vicenda venga sistemata. Mi scoccia. Sutcliff è qui grazie a una borsa di studio, che può essere ritirata in caso di cattiva condotta; il padre di McNair è un attaccabrighe e non accetterà docilmente una sospensione; e Allen-Jones senior è un uomo militare la cui
esasperazione nei confronti del figliolo intelligente e ribelle tende troppo spesso alla violenza. Potendo fare di testa mia, avrei gestito i colpevoli in modo rapido e efficiente, senza la necessità di un'intrusione genitoriale - ascoltare i ragazzi è pessimo, ascoltare i loro genitori è fatale - ma ormai è troppo tardi. Ero di umore nero mentre scendevo le scale verso la Sala professori, e quando l'idiota Meek mi ha sbattuto contro sulla soglia, facendomi quasi cadere, io l'ho mandato a quel paese con un epiteto ingiurioso. «Accidenti, chi le ha rotto le scatole?» ha detto Jeff Light, l'insegnante di educazione fisica, muovendosi scomposto da sotto la sua copia del «Mirror». Ho guardato dov'era seduto. Terzo dalla finestra, sotto l'orologio. È sciocco, lo so, ma la Giacca di Tweed è una creatura che difende il proprio territorio, e io ero stato pungolato quasi oltre il limite della sopportazione. Certo, non mi aspettavo che le matricole lo sapessero, ma Pearman e Roach erano lì, a bere caffè, Kitty Teague stava annotando dei libri accanto a loro, e McDonaugh si trovava al solito posto, a leggere. Tutti e quattro hanno lanciato un'occhiata a Light come fosse un liquido rovesciato che qualcuno avesse dimenticato di ripulire. Roach ha tossito in modo collaborativo. «Penso che si sia seduto sulla sedia di Roy», ha detto. Light ha scrollato le spalle, ma non si è mosso. Accanto a lui Easy, il geografo dalla faccia sabbiosa, stava mangiando del budino di riso freddo da un tupperware. Keane, il futuro romanziere, guardava fuori dalla finestra, da cui scorgevo appena la figura solitaria di Pat Bishop che faceva i suoi giri di corsa. «Dico davvero, amico», ha detto Roach. «Si siede sempre lì. Fa praticamente parte dell'arredamento.» Light ha allungato le interminabili gambe, guadagnandosi un'occhiata focosa da Isabelle Tapi nell'angolo dello yogurt. «Latino, non è vero?» ha detto. «Omosessuali in toga. Preferisco di gran lunga una bella corsa campestre.» «Ecce, stercorem pro cerebro habes», gli ho risposto, facendo accigliare McDonaugh e annuire Pearman, come se avesse vagamente riconosciuto una citazione. Penny Nation mi ha rivolto uno di quei sorrisi pietosi e ha dato un colpetto sul sedile di fianco al suo. «Va bene», ho detto. «Non mi trattengo.» Non ero così disperato, giuro. E invece ho messo il bollitore sul fornello e ho aperto l'armadio sopra il la-
vandino in cerca della mia tazza. Si può dedurre molto della personalità di un insegnate dalla sua tazza da caffè. Geoff e Penny Nation hanno tazze gemelle con scritto CAPITAINE e SOUS-FIFRE. Roach ha HOMER SIMPSON; Grachvogel ha X-FILES. L'immagine burbera di Hillary Monument è tradita quotidianamente da una tazza da mezzo litro con scritto «Il nonno migliore del mondo» in stentate lettere infantili. Quella di Pearman è stata comperata durante un viaggio scolastico a Parigi e riporta una fotografia del poeta Jacques Prévert che fuma una sigaretta. Il dott. Devine disdegna del tutto l'umile tazza e usa il servizio di porcellana del Rettore, un privilegio riservato agli ospiti, ai Doppiopetto anziani e allo stesso Rettore; Bishop, sempre apprezzato dai ragazzi, ha un nuovo personaggio dei fumetti ogni trimestre (questo trimestre l'orso Yoghi), doni della sua classe. La mia è una tazza del giubileo di St Oswald, edizione limitata del 1990. Anche Eric Scoones ne ha una, come parecchi della Vecchia Guardia, ma la mia ha il manico sbeccato che permette di distinguerla dalle altre. Con il ricavato dalla tazza abbiamo costruito il nuovo padiglione di educazione fisica, e io sfoggio la mia con orgoglio. O meglio, lo farei, se riuscissi trovarla. «Al diavolo. Prima il maledetto registro e adesso la maledetta tazza.» «Prendi in prestito la mia», ha detto McDonaugh (Carlo e Diana, leggermente scheggiata). «Non si tratta di questo.» Ed era così: prendere la tazza di un insegnante dal suo posto è grave quasi quanto occupargli la sedia. La sedia, l'ufficio, l'aula, e adesso la tazza. Stavo cominciando a sentirmi decisamente sotto assedio. Keane mi ha rivolto un'occhiata ironica mentre versavo il tè nella tazza sbagliata. «È bello sapere che non sono il solo ad avere una giornata no», ha detto. «Ah sì?» «Oggi ho perso entrambe le mie ore libere. 5G. La lezione di lett. inglese di Bob Strange.» Ahi. Naturalmente lo sa chiunque che Mr Strange ha molto da fare: essendo il Vicepreside e responsabile dell'orario, nel corso degli anni è riuscito a costruirsi un sistema di corsi, doveri, riunioni, lavori amministrativi e altre cose indispensabili che non gli lasciano quasi tempo per il contatto vero e proprio con gli allievi. Ma Keane sembrava sufficientemente capa-
ce, in fondo era sopravvissuto a Sunnybank Park. «Me la caverò», ha detto Keane quando ho espresso la dovuta simpatia. «E poi, è tutto materiale buono per il libro.» Ah sì, il libro. «Qualsiasi cosa per far passare il tempo», ho detto, chiedendomi se fosse serio o no. C'è una sorta di tranquilla arguzia in Keane, un pizzico del Nuovo venuto, che mi fa venire voglia di mettere in dubbio tutto quello che dice. Ma comunque lo preferisco di gran lunga al nerboruto Light, o al servile Easy, o al timoroso Meek. «A proposito, il dott. Devine chiedeva di lei», ha proseguito Keane. «Qualcosa riguardo a un vecchio armadio d'archivio?» «Bene.» Era la notizia migliore di tutta la giornata. Anche se, dopo il trambusto con la 3S, perfino beccarsi con i Tedeschi aveva perso una parte del gusto. «Ha chiesto a Jimmy di metterli in cortile», ha detto Keane. «E alla svelta, anche.» «Cosa?» «Ostruiscono una via principale, mi pare che abbia detto. Qualcosa a che vedere con salute e sicurezza.» Ho bestemmiato. Acerbo doveva volere veramente l'ufficio. La manovra «Salute e sicurezza» è una di quelle a cui solo pochi esseri infimi osano abbassarsi. Ho finito il mio tè e mi sono avviato a grandi passi decisi verso l'ex ufficio degli studi classici, solo per trovare Jimmy, cacciavite in mano, che applicava un qualche aggeggio elettronico alla porta. «È un cicalino, capo», ha spiegato Jimmy, notando la mia sorpresa. «Così il dott. Devine sa se c'è qualcuno alla porta.» «Capisco.» Ai miei tempi si bussava e basta. Tuttavia Jimmy era felicissimo. «Quando vede la luce rossa, è con qualcuno», ha detto. «Se è verde, segnala di entrare.» «E la luce gialla?» Jimmy ha aggrottato le ciglia. «Se è gialla», ha detto infine, «allora il dott. Devine mette fuori il naso per vedere chi è...» ha fatto una pausa, corrugando la fronte, «e se è qualcuno di importante, allora lo fa entrare!» «Molto teutonico.» L'ho oltrepassato e sono entrato nel mio ufficio. All'interno regnava un ordine palese e sgradevole. Nuovi armadi, contrassegnati da colori diversi, un bel distributore d'acqua fresca, una grande scrivania di mogano con il computer, un antico tampone per l'inchiostro e una fotografia incorniciata di Mrs Acerbo. Il tappeto era stato pulito; i miei clorofiti, le polverose piante veterane con le cicatrici della siccità e della
trascuratezza, disposte con ordine; appesi al muro un cartello compiaciuto di VIETATO FUMARE e un orario laminato che indicava le riunioni di dipartimento, i turni, i club e i gruppi di lavoro. Per un po' sono rimasto senza parole. «Ho la sua roba, capo», ha detto Jimmy. «Vuole che gliela porti su io?» Perché prendersela? Sapevo quando venivo battuto. Mi sono avviato con le spalle curve alla Sala professori per affogare i miei dispiaceri nel tè. 2. Nelle settimane che seguirono, Leon e io facemmo amicizia. Non fu rischioso come può sembrare, in parte perché eravamo in Case diverse, lui in Amadeus, mentre io fingevo di essere in Birkby, e in anni diversi. Lo incontravo di mattina, indossando i miei vestiti sotto l'uniforme di St Oswald, e arrivavo in ritardo alle lezioni, con una serie di scuse ingegnose. Saltavo educazione fisica, lo stratagemma dell'asma aveva funzionato benissimo, e passavo i pranzi e gli intervalli sui terreni di St Oswald. Cominciai a pensare di essere davvero un Ossie: tramite Leon conoscevo gli insegnanti in servizio, i pettegolezzi, il gergo. Con lui andavo in biblioteca, giocavo a scacchi, oziavo sulle panchine nella corte come tutti gli altri. Con lui provavo un senso di appartenenza. Non avrebbe funzionato se Leon fosse stato uno studente più socievole, più popolare; ma imparai presto che anche lui era uno spostato, anche se, diversamente da me, si teneva in disparte per scelta piuttosto che per necessità. Sunnybank Park lo avrebbe ucciso nel giro di una settimana; ma St Oswald apprezza l'intelligenza più di qualsiasi altra cosa, e lui era abbastanza sveglio da usare la sua nel modo più vantaggioso. Con gli insegnanti era educato e rispettoso, almeno in loro presenza, e scoprii che questo gli dava un vantaggio immenso nei momenti problematici, che erano molti. Di fatto sembrava che Leon cercasse problemi ovunque andava: era specializzato in scherzi, piccole vendette efficaci, gesti di sfida nascosti. Veniva preso di rado. Se io ero Knight, lui era Allen-Jones: l'incantatore, il truffatore, il ribelle elusivo. Eppure gli piacevo. Eppure eravamo amici. Inventai racconti della mia precedente scuola per divertirlo, attribuendomi il ruolo che si aspettava da me. Di tanto in tanto introducevo personaggi della mia altra vita: Miss Potts, Miss McCauleigh, Mr Bray. Parlavo di Bray con odio autentico, ricordando le sue osservazioni sarcastiche e il suo atteggiamento, e Leon mi ascoltava con un'aria attenta che non era
proprio di simpatia. «Peccato che tu non ti sia vendicato di questo tipo», commentò una volta. «Rendigli pan per focaccia.» «Che cosa suggerisci?» dissi. «Voodoo?» «No», rispose Leon pensieroso. «Non esattamente.» Ormai conoscevo Leon da più di un mese. Nell'aria si annusava la fine del trimestre estivo, il profumo di erba tagliata e di libertà: nel giro di qualche settimana tutte le scuole sarebbero finite (otto settimane e mezza: un tempo senza limiti, inimmaginabile) e non ci sarebbero più stati cambiamenti di uniforme o assenze pericolose da scuola, giustificazioni falsificate o scuse. Avevamo già fatto dei piani, Leon e io: spedizioni al cinema, passeggiate nei boschi, escursioni in città. A Sunnybank Park, gli esami, per quel che valevano, erano già finiti. Le lezioni erano allo sfascio, la disciplina allentata. Alcuni insegnanti avevano esonerato del tutto dalle loro materie e lasciavano vedere Wimbledon alla televisione, mentre altri dedicavano il loro tempo ai giochi e allo studio privato. La fuga a Oz non era mai stata così facile. Fu il periodo più felice della mia vita. Poi, il disastro. Non avrebbe mai dovuto accadere: una stupida coincidenza, tutto qui. Ma fece precipitare il mio mondo, minacciò tutto ciò in cui avevo sperato, e la sua causa fu l'insegnante di educazione fisica, Mr Bray. Nell'eccitazione generale avevo quasi dimenticato Mr Bray. Non andavo più a educazione fisica, non avevo mai dimostrato attitudine, e avevo dedotto che non sentissero la mia mancanza. Anche senza Bray, educazione fisica era stato un tormento settimanale: i miei vestiti gettati nella doccia, l'equipaggiamento sportivo nascosto o rubato, gli occhiali rotti, i miei tiepidi sforzi di partecipare accolti da risate e disprezzo. Bray stesso era l'ispiratore principale di queste sessioni di ludibrio, mi selezionava ripetutamente per «dimostrazioni» in cui ogni mio limite fisico veniva rimarcato con precisione inesorabile. Avevo gambe magre, con le ginocchia sporgenti; e quando dovevo prendere in prestito da scuola l'equipaggiamento da ginnastica (il mio era «scomparso» una volta di troppo e mio padre si rifiutava di comprarne uno nuovo), Bray mi fornì di un paio di giganteschi pantaloni corti di flanella, che sbattevano in modo ridicolo quando correvo, facendomi guadagnare il soprannome di «Braghe di tuono».
I suoi ammiratori trovarono la cosa estremamente divertente, e Braghe di tuono rimasi. Dal nomignolo a decidere che avessi problemi di flatulenza, il passo fu breve: Snyde Quattrocchi divenne Snyde la Puzzola; e subii quotidiani bombardamenti di scherzi sui fagioli in scatola, e durante le partite di classe (nelle quali mi toccava sempre l'ultimo turno), Bray urlava agli altri giocatori: «Attenzione, squadra! Snyde ha mangiato di nuovo i fagioli!» Come ho detto, non rappresentavo una perdita per la materia né, pensavo, per l'insegnante. Ma non avevo tenuto conto della assoluta malvagità di quell'uomo. A lui non bastava tener banco alla sua piccola corte di ammiratori e sicofanti. E non gli bastava nemmeno mangiarsi con gli occhi le ragazze (e, di quando in quando, osare una palpatina veloce con il pretesto di una «dimostrazione») o umiliare i ragazzi con il suo spirito da troll. Ogni attore ha bisogno di un pubblico, ma Bray voleva di più. Bray voleva una vittima. Avevo già saltato quattro lezioni di educazione fisica. Immaginavo i commenti: «Allora, ragazzi, dov'è Braghe di tuono?» «Non so, signore. In biblioteca, signore. In bagno, signore. Ha una giustificazione per educazione fisica, signore. Asma, signore.» «Scoreggia, più probabile.» Col tempo si sarebbero dimenticati. Bray avrebbe trovato un altro bersaglio, ce n'erano tanti in giro. La grassa Peggy Johnsen, o il foruncoloso Harold Mann, o Lucy Robbins con la faccia da focaccina, oppure Jeffrey Stuarts che correva come una ragazza. Alla fine avrebbe rivolto il suo sguardo su uno di loro, e loro lo sapevano, e mi guardavano con ostilità crescente in classe o in assemblea, odiandomi perché mi era riuscito fuggire. Erano loro, i perdenti, che non avrebbero lasciato correre, che perpetuavano gli scherzi su Braghe di tuono, che battevano incessantemente su fagioli e asma finché ogni lezione senza di me si trasformava in uno spettacolo di mostri senza i mostri, e alla fine Mr Bray cominciò a nutrire sospetti. Non so con certezza se mi avesse scoperto. Forse mi aveva osservato mentre sgattaiolavo dalla biblioteca. Ormai mi muovevo in modo spericolato: Leon mi riempiva la vita e al confronto Bray e quelli della sua specie erano soltanto ombre. In ogni caso la mattina dopo mi stava aspettando: venni a sapere più tardi che aveva scambiato i turni di sorveglianza con un
altro insegnante per essere sicuro di beccarmi. «Bene, bene, hai fatto un bel pieno di fagioli malgrado l'asma così terribile», disse mentre passavo correndo dall'ingresso per i ritardatari. Lo fissai, con una paura che quasi mi paralizzava. Sorrideva maligno, come il totem bronzeo di un culto sacrificale. «Allora? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» «Sono in ritardo, signore», balbettai, cercando di guadagnare tempo. «Mio padre è...» Percepivo il suo disprezzo mentre mi sovrastava. «Forse tuo padre saprebbe dirmi qualcosa di più di questa tua asma», disse. «Guardiano, non è così, alla scuola privata? Viene nel nostro pub, di tanto in tanto.» Respiravo a stento. Per un istante riuscii quasi a credere di avere l'asma: che i polmoni sarebbero scoppiati per il terrore. Speravo che succedesse, la morte sembrava infinitamente preferibile alle possibili alternative. Bray se ne accorse e il suo sorriso si indurì. «Ci vediamo fuori dagli spogliatoi stasera, dopo la scuola», disse. «E non essere in ritardo.» Passai la giornata in preda a un terrore confusionale. Mi era venuta la diarrea, non ero in grado di concentrarmi, entrai nelle aule sbagliate, non riuscii a mangiare il mio pranzo. All'intervallo del pomeriggio ero in un tale stato di panico che Miss Potts, l'insegnante in tirocinio, se ne accorse e mi chiese cosa avessi. «Niente, Miss», risposi per il terrore di richiamare ulteriori attenzioni. «Solo un po' di mal di testa.» «Più di un mal di testa», disse avvicinandosi. «Sei di un pallore...» «Non è nulla, Miss. Davvero.» «Penso che dovresti andare a casa. Forse stai covando qualcosa.» «No!» Mi fu impossibile fare a meno di alzare la voce. Questo avrebbe peggiorato ulteriormente le cose: se avessi mancato l'appuntamento, Bray avrebbe parlato con mio padre e ogni opportunità di sfuggire alla scoperta sarebbe stata persa. Miss Potts aggrottò le ciglia. «Guardami. C'è qualcosa che non va?» Scossi la testa, in silenzio. Miss Potts era solo una tirocinante, non molto più vecchia della ragazza di mio padre. Le piaceva essere popolare, importante: una ragazza della mia classe, Wendy Lowell, aveva vomitato durante l'ora di pranzo, e quando Miss Potts l'aveva scoperto, aveva telefonato al Telefono Amico per i disturbi alimentari. Parlava spesso di identità sessuale, era un'esperta di discriminazioni razziali; aveva partecipato a corsi sull'autoaffermazione, sul bullismo e le
droghe. Sentivo che Miss Potts stava cercando una causa, ma sapevo che sarebbe rimasta a scuola soltanto fino alla conclusione del trimestre e che nel giro di qualche settimana se ne sarebbe andata. «Per favore, signorina», sussurrai. «Su, tesoro», disse Miss Potts, carezzevole. «Di certo a me lo puoi dire.» Il segreto era semplice, come tutti i segreti. I posti come St Oswald, e per certi versi come Sunnybank Park, avevano un proprio sistema di sicurezza, costruito non su rivelatori antifumo o telecamere nascoste, ma su una spessa patina di inganno. Nessuno distrugge un insegnante, nessuno pensa di distruggere una scuola. E perché? Il servilismo istintivo al cospetto dell'autorità, quella paura che supera di molto la paura di essere scoperti. Un insegnante è sempre «signore» per i suoi allievi, non importa quanti anni sono trascorsi; anche da adulti scopriamo che gli antichi riflessi non sono scomparsi, ma si sono soltanto mitigati, per riemergere immutati al comando giusto. Chi oserebbe andare a vedere quel bluff gigante? Chi? Era inconcepibile. Ma io ero in preda alla disperazione. Da una parte c'erano St Oswald, Leon, tutto quello che avevo desiderato, tutto quello che avevo costruito. Dall'altra, Mr Bray, che incombeva come la parola di Dio. Avrei osato, io? E avrei potuto vincere? «Su, tesoro», disse Miss Potts gentilmente, cogliendo un'opportunità. «A me puoi dirlo, non lo racconterò ad anima viva.» Finsi di esitare. Poi, a bassa voce, parlai. «Si tratta di Mr Bray», dissi incrociando il suo sguardo. «Mr Bray e Tracey Delacey.» 3. St Oswald's Grammar School for Boys venerdì, 10 settembre È stata una settimana senza fine. Lo è sempre, ma quest'anno in modo particolare, la stagione morta sembra essere cominciata in anticipo. Anderton-Pullitt oggi è assente (una delle sue reazioni allergiche, dice la madre), ma Knight e Jackson sono tornati a lezione, e Jackson sfoggia un vistoso occhio nero abbinato al naso rotto; McNair, Sutcliff e Allen-Jones hanno ricevuto una nota in condotta (Allen-Jones ha un livido su una guancia con il chiarissimo segno di quattro dita, che lui sostiene essersi fatto giocando a calcio). Meek ora si occupa del Circolo di geografia, che, grazie a Bob Strange,
si riunisce ogni settimana nella mia aula; Bishop si è fatto male al tendine d'Achille durante una corsa troppo entusiastica; Isabelle Tapi ha preso ad aggirarsi per il Dipartimento di educazione fisica in una serie di gonne sempre più osé: l'invasione dell'ufficio di studi classici da parte del dott. Devine ha subito una temporanea battuta d'arresto in seguito alla scoperta di una tana di topo dietro un pannello; la mia tazza e il mio registro risultano sempre introvabili, cosa che mi ha guadagnato il biasimo di Marlene, e giovedì, quando sono tornato nell'aula dopo pranzo, ho scoperto che la mia penna preferita, laccata in verde, Parker, con il pennino d'oro, era scomparsa dalla cattedra. È stata quest'ultima perdita a seccarmi sul serio, in parte perché sono uscito dall'aula solo per mezz'ora e, ragione più grave, perché è successo durante l'ora di pranzo, la qual cosa mi ha suggerito che il ladro fosse un membro della classe. La mia 3S, bravi ragazzi, o così pensavo, e devoti nei miei confronti. A quell'ora Jeff Light era di turno nei corridoi e, per caso, anche Isabelle Tapi, ma (circostanza poco sorprendente) nessuno dei due aveva notato visitatori insoliti all'aula 59. Ho accennato alla perdita alla 3S durante il pomeriggio, sperando che qualcuno avesse preso in prestito la penna dimenticando di restituirla, ma in cambio ho ricevuto solo sguardi vacui. «Come, nessuno ha visto nulla? Tayler? Jackson?» «Nulla, signore. No, signore.» «Pryce? Pink? Sutcliff?» «No, signore.» «Knight?» Knight ha guardato altrove, sogghignando. ...Knight? Ho fatto l'appello su un pezzo di carta e ho mandato via i ragazzi, sentendomi chiaramente a disagio. Mi feriva doverlo fare, ma c'era un unico modo per scoprire il colpevole, cioè rovistare negli armadietti dei ragazzi. Si dà il caso che nel pomeriggio fossi libero e così ho preso il passepartout e una lista di numeri di armadietti, ho lasciato Meek a occuparsi dell'aula 59 con un piccolo gruppo di sesta inferiore che era improbabile potesse causare un qualunque scompiglio e mi sono avviato verso il corridoio di mezzo e lo spogliatoio della terza. Ho frugato in ordine alfabetico, riservando un'attenzione speciale ai contenuti degli astucci, senza trovare altro che una mezza stecca di sigarette nell'armadietto di Allen-Jones e una rivista porno in quello di Jackson.
Poi veniva quello di Knight, quasi straripante di carte, libri e paccottiglia varia. Una scatola portamatite a forma di calcolatrice è scivolata fra due cartellette: l'ho aperta, ma non c'era alcuna penna. Il successivo era quello di Leon, poi quello di Niu, quello di Pink, quello di Anderton-Pullitt, con un'alta pila di libri sulla sua passione divorante, gli aerei della Prima guerra mondiale. Ho rovistato da cima a fondo tutti gli armadietti: ho trovato un gruzzolo nascosto di carte da gioco proibite e un paio di pin-up, ma nessuna penna Parker. Ho passato più di un'ora nello spogliatoio dei ragazzi, abbastanza perché suonasse la campana e il corridoio si riempisse, anche se, per fortuna, nessun allievo ha deciso di recarsi al suo armadietto tra una lezione e l'altra. Me ne sono andato più seccato di prima: non tanto per la perdita della penna che in fondo si poteva sostituire, ma perché una parte del mio divertimento con i ragazzi era stato rovinato dall'incidente, e perché fino a quando il ladro non fosse stato identificato, non avrei potuto fidarmi di nessuno di loro. Adesso ero di turno doposcuola, a osservare la coda dell'autobus; Meek si trovava nella corte principale, appena visibile in mezzo alla massa di ragazzi in partenza; Monument, invece, presidiava i gradini della cappella per supervisionare la condotta dall'alto. «Arrivederci, signore, buon weekend!» Questo era McNair, che schizzava con la cravatta a mezz'asta e la camicia fuori dai pantaloni. Con lui c'era Allen-Jones, che al solito correva come se fosse in pericolo di vita. «Rallenti», gli ho gridato. «Si romperà l'osso del collo.» «Scusi, signore», ha urlato Allen-Jones, senza frenare il passo. Sono stato costretto a sorridere. Mi ricordo di aver corso allo stesso modo, di certo non così tanto tempo fa, quando i fine settimana sembravano lunghi come campi da gioco. Oggigiorno se ne vanno in un batter di ciglia: settimane, mesi, anni, tutti svaniti nello stesso cappello di prestigiatore. Ma comunque la cosa mi incuriosisce: perché i ragazzi corrono sempre? E quando ho smesso di correre? «Mr Straitley.» C'era tanto rumore che non avevo sentito il Nuovo Rettore avvicinarsi dietro di me. Perfino di venerdì pomeriggio era perfetto: camicia bianca, abito grigio, cravatta annodata, con la giusta inclinazione. «Rettore.» Gli dà fastidio essere chiamato Rettore. Gli ricorda che nella storia di St
Oswald non è unico né insostituibile. «Era un allievo della sua classe?» ha chiesto. «Quello che è passato a rotta di collo con la camicia di fuori?» «Sono sicuro di no», ho mentito. Il Nuovo Rettore ha una fissazione amministrativa per le camicie, le calze e altre futilità da uniforme. La mia risposta non l'ha convinto. «Ho notato un certo disprezzo delle regole sulla divisa, questa settimana. Spero che lei inculchi nei ragazzi l'importanza di fare buona figura fuori dei cancelli della scuola.» «Certo, Rettore.» In vista dell'imminente ispezione scolastica, fare una Buona Impressione è diventata una delle priorità principali del Nuovo Rettore. La King's Henry Grammar School vanta un codice d'abbigliamento rigoroso, con pagliette in estate e cilindri per il coro della cappella, che lui ritiene contribuiscano alla posizione superiore di quella scuola nelle graduatorie. I miei reprobi imbrattati d'inchiostro hanno una visione meno lusinghiera dei loro rivali, o «Henriettas», le Enrichette come vengono chiamati per tradizione a St Oswald, verso i quali ammetto di provare una certa simpatia. La ribellione sartoriale è un rito di passaggio, e gli alunni della scuola, la 3S in particolare, esprimono la loro rivolta attraverso camicie di fuori, cravatte tagliate e calze sovversive. Ho cercato di spiegarlo al Nuovo Rettore, ma ho incontrato uno sguardo talmente inorridito che ho desiderato non averlo fatto. «Calze, Mr Straitley?» ha chiesto, come se lo avessi introdotto a una nuova impensata perversione. «Be', sì», ho risposto. «Sa, Homer Simpson, South Park, Scooby-Doo.» «Ma noi abbiamo calze regolamentari», ha replicato il Rettore. «Lana grigia, lunghe al polpaccio, righe gialle e nere. Ottantanove penny al paio dai fornitori della scuola.» Ho scrollato le spalle impotente. Quindici anni come Rettore di St Oswald, e ancora non si è reso conto che nessuno, nessuno!, in nessun momento, indossa le calze dell'uniforme. «Be', mi aspetto da lei che metta fine alla cosa», ha detto il Rettore innervosito. «Ogni ragazzo dovrebbe essere in uniforme, sempre. Dovrò mandare un memo.» Mi sono chiesto se il Rettore, da ragazzo, avesse indossato l'uniforme, l'alta uniforme, in qualsiasi occasione. Ho provato a immaginarlo, e mi sono reso conto che era possibile. Ho fatto un sospiro. «Fac ut vivas, Rettore.» «Cosa?»
«Assolutamente, signore.» «E, a proposito di memo... La mia segretaria le ha scritto per e-mail tre volte oggi chiedendole di presentarsi nel mio ufficio.» «Davvero, Rettore?» «Sì, Mr Straitley.» Il tono era glaciale. «Abbiamo ricevuto un reclamo.» Era stato Knight, ovvio. O meglio, la madre di Knight, una bionda ossigenata di età incerta e di carattere volubile, con la fortuna di un abbondante accordo sugli alimenti e del conseguente tempo libero per presentare reclami su base trimestrale. Questa volta si trattava della vittimizzazione di suo figlio a causa della sua ebraicità. «L'antisemitismo è un reclamo molto serio», ha annunciato il Rettore. «Il venticinque percento dei nostri clienti, cioè i genitori, appartiene alla comunità ebraica, e non devo rammentarle che...» «No, Rettore, non deve.» Avevamo superato il limite. Prendere le parti di un ragazzo contro un insegnante, e in un posto pubblico, dove chiunque poteva ascoltare, era più che sleale. Sentivo la stizza aumentare. «È una questione di personalità, nient'altro, ed esigo che lei mi appoggi del tutto davanti a questa accusa completamente infondata. E già che ci siamo, posso ricordarle l'esistenza di una struttura piramidale preposta alla disciplina che comincia con il docente di classe, e non accetto che le mie mansioni siano svolte da altri senza essere consultato.» «Mr Straitley!» Il Rettore aveva l'aria piuttosto scossa. «Sì, Rettore.» «C'è dell'altro.» Ho aspettato il seguito, ancora furibondo. «Mrs Knight dice che una penna di valore, un regalo di bar mitzvah a suo figlio, è scomparsa dal suo armadietto ieri pomeriggio. E lei, Mr Straitley, è stato visto aprire gli armadietti delle terze proprio ieri pomeriggio.» «Vae!» mi sono maledetto mentalmente. Avrei dovuto stare più attento; avrei dovuto, secondo le regole, rovistare negli armadietti alla presenza degli stessi ragazzi. Ma quelli della 3S sono la mia classe, per molti versi la mia classe preferita. Più facile fare come sempre: recarmi dal colpevole in segreto, eliminare la prova, e lasciar perdere. Aveva funzionato con Allen-Jones e le targhe per le porte; avrebbe funzionato con Knight. Solo che nell'armadietto di Knight non avevo scoperto nulla, anche se l'istinto mi diceva ancora che era colpevole, e di certo non avevo portato via niente. Il Rettore aveva trovato il ritmo giusto. «Mrs Knight non la accusa solo di aver ripetutamente vittimizzato e umiliato il ragazzo», ha detto, «ma di
averlo più o meno accusato del furto, e quando lui ha negato, di aver rimosso di nascosto un oggetto di valore dal suo armadietto, forse nella speranza di farlo confessare.» «Capisco. Bene, adesso vorrei dirle cosa penso io di Mrs Knight...» «L'assicurazione della scuola coprirà la perdita, naturalmente. Ma solleva la questione...» «Cosa?» quasi non riuscivo a trovare le parole. I ragazzi perdono cose ogni giorno. In questo caso risarcire il valore equivaleva a confermare che ero colpevole. «Non ci sto. Dieci a uno che quella maledetta roba salterà fuori da sotto il suo letto o qualcosa di simile.» «Preferisco affrontare la questione a questo livello piuttosto che il reclamo finisca agli amministratori», ha detto il Rettore con insolita franchezza. «L'avrei scommesso», ho risposto. «Ma se lo fa, avrà le mie dimissioni sulla scrivania entro lunedì mattina.» Il Rettore è sbiancato. «Non la prenda così, Roy...» «Non me la prendo proprio. Il dovere di un Rettore è restare al fianco del suo personale insegnante. Non fuggire spaventato alle prime ciarle malevole.» È seguito un silenzio piuttosto freddo. Mi sono reso conto che la mia voce, da tempo adeguata all'acustica della torre campanaria, si era fatta piuttosto alta. Diversi ragazzi e i loro genitori si aggiravano a portata d'orecchio, e il piccolo Meek, che era ancora in servizio, mi stava osservando a bocca aperta. «Molto bene, Mr Straitley», ha detto il Nuovo Rettore con voce severa. E con ciò se ne è andato per la sua strada, lasciandomi con la sensazione che nell'ipotesi migliore avevo ottenuto una vittoria di Pirro e, nella peggiore, avevo realizzato il più devastante degli autogol. 4. Povero vecchio Straitley, oggi aveva l'aria così depressa quando ha lasciato la scuola che quasi mi è dispiaciuto avergli rubato la penna. Sembrava vecchio, ho pensato, non più terribile, ma semplicemente vecchio, un triste commediante avvizzito che ha conosciuto giorni migliori. Tutto sbagliato, va da sé. C'è del vero coraggio in Roy Straitley; un'intelligenza autentica, pericolosa. Tuttavia, chiamatela nostalgia se vi pare, o perversione, oggi mi era più simpatico di quanto mi fosse mai stato. Dovrei fargli un
favore, mi chiedo? In nome dei vecchi tempi? Sì, forse. Forse lo farò. Ho festeggiato la mia prima settimana con una bottiglia di champagne. La partita è ancora all'inizio, certo, ma ho già sparso un discreto numero dei miei semi avvelenati, e questo è soltanto il principio. Knight si sta dimostrando uno strumento prezioso, quasi un amichetto speciale, come lo chiama Straitley, mi parla praticamente a ogni intervallo e si beve ogni mia parola. Ah, nulla che possa essere incriminante - figurarsi se non so come si fa - ma con l'aiuto di allusioni e aneddoti penso di riuscire a guidarlo nella direzione giusta. Sua madre non ha presentato reclamo agli amministratori, naturalmente. Non immaginavo che lo facesse davvero, malgrado il suo istrionismo. Non questa volta, comunque. Però tutte queste cose vengono archiviate. Nel profondo, dove conta. Scandalo, il marciume che fa sgretolare le fondamenta. St Oswald ha avuto la sua parte, per cui ha pagato dazio come si deve tramite gli amministratori. L'affare Shakeshafte, il dott. Bastone, per esempio, o quella brutta vicenda con il guardiano, quindici anni fa. Come si chiamava? Snyde? Non riesco a ricordare i dettagli, poveraccio, ma la cosa serve a dimostrare che non ci si può fidare di nessuno. Nel caso di Mr Bray e della mia scuola, non c'erano amministratori a prendere in mano la questione. Miss Potts ascoltò con occhi che si spalancavano e una bocca che passò in meno di un minuto da un broncio suadente all'acidità di una mela selvatica. «Ma Tracey ha quindici anni», disse Miss Potts (che si era sempre sforzata di apparire carina durante le lezioni di Mr Bray e ora mostrava un volto inflessibile). «Quindici!» Annuii. «Non lo racconti a nessuno», dissi. «Mi ucciderà se scopre che gliel'ho detto.» Questa era l'esca, e lei abboccò, come sapevo avrebbe fatto. «Non ti succederà niente», disse Miss Potts decisa. «L'unica cosa che devi fare è raccontarmi tutto.» Non rispettai l'appuntamento del pomeriggio con Bray. Mi sedetti invece fuori dall'ufficio del preside, tremante di paura e d'eccitazione, e ascoltai il dramma che si svolgeva all'interno. Bray, era ovvio, negò tutto; ma l'infatuata Tracey pianse in modo violento per il suo pubblico tradimento, si paragonò a Giulietta, minacciò di uccidersi e alla fine dichiarò di essere incinta e a questo annuncio la riunione si dissolse in panico e recriminazioni.
Bray si allontanò di corsa per chiamare il suo rappresentante sindacale e Miss Potts minacciò di informare i giornali locali se non veniva fatto immediatamente qualcosa per proteggere le ragazze più innocenti da questo pervertito del quale, disse, lei aveva sempre sospettato e che avrebbe dovuto essere rinchiuso. Il giorno dopo, Mr Bray fu sospeso in attesa di un'inchiesta, e alla luce dei risultati non tornò più. Il trimestre successivo, Tracey rivelò che in fondo non era incinta (con palese sollievo di più d'uno degli allievi di quinta), c'era una nuova e giovanissima insegnante di educazione fisica di nome Miss Applewhite che accettò la mia scusa dell'asma senza domande e, perfino senza il beneficio delle lezioni di karate, capii di aver guadagnato un rispetto, seppure di dubbio genere, tra i miei coetanei per aver osato oppormi a quel bastardo di Bray. Come ho detto, un sasso ben piazzato può abbattere un gigante. Bray fu il primo. Il caso pilota, se vi pare. Forse i miei compagni di classe intuirono che in qualche modo avevo preso gusto nel contrattaccare perché, dopo quell'episodio, molte delle angherie che mi avevano reso insopportabile la vita scolastica giunsero a una pacifica conclusione. Non ero più popolare di prima, certo; ma mentre sin lì la gente aveva fatto di tutto per tormentarmi, adesso mi lasciavano perdere, insegnanti e allievi allo stesso modo. Troppo poco, troppo tardi. A quel punto andavo a St Oswald quasi ogni giorno. Mi appostavo nei corridoi, parlavo a Leon durante gli intervalli e all'ora di pranzo: ero sconsideratamente felice. Venne la settimana degli esami, e Leon ebbe il permesso di ripassare in biblioteca, così insieme fuggivamo in città, guardavamo i dischi e a volte li rubavamo, sebbene Leon non avesse bisogno di farlo, disponendo di denaro sufficiente per le piccole spese. Io, però, no. In effetti, tutto il mio denaro, e questo comprendeva la piccola mancia settimanale come i soldi per il pranzo che non spendevo più a scuola, se ne andava per perpetuare il mio inganno a St Oswald. Le spese relative erano stupefacenti. Libri, cartoleria, bevande e snack dallo spaccio della scuola, tariffe dell'autobus per partite lontane e, naturalmente, l'uniforme. Avevo presto scoperto che, pur indossando tutti i ragazzi la stessa uniforme, occorreva mantenere un certo standard. Nel presentarmi a Leon avevo detto di essere un nuovo allievo, il figlio di un ispettore di polizia; impensabile, quindi, continuare a indossare i vestiti di seconda mano che avevo sottratto all'ufficio oggetti smarriti, o le scarpe da ginnastica consunte e infangate che portavo a casa. Mi servivano una nuo-
va uniforme, scarpe lucide, una cartella di pelle. Alcuni di questi articoli li rubai dagli armadietti fuori dell'orario di lezione, togliendo i nomi e sostituendoli con il mio. Alcuni li comprai con i miei risparmi. In un paio di occasioni presi i soldi per la birra di mio padre quando lui era fuori, sapendo che sarebbe tornato a casa ubriaco e sperando si dimenticasse la cifra esatta che aveva speso. Funzionò, ma mio padre era più attento di quanto avessi immaginato e al secondo tentativo per poco non mi colse in fallo. Per fortuna c'era un'altra persona più sospettabile di me; ne seguì un litigio tremendo e Pepsi indossò gli occhiali da sole per le due settimane successive, mentre io non osai mai più rapinare mio padre. Rubai invece dai negozi. Con Leon fingevo che fosse per divertimento; facevamo gare di furto di dischi e ci dividevamo il bottino nel nostro «circolo» nei boschi dietro la scuola. Mi dimostrai abile nella gara, ma Leon aveva un talento innato: totalmente privo di paura, aveva adattato un lungo cappotto proprio allo scopo, e faceva scivolare dischi e CD dentro a grosse tasche nella fodera finché riusciva a camminare a stento per il peso accumulato. Una volta quasi ci beccarono: proprio mentre raggiungevamo l'uscita, la fodera si strappò, facendo scivolare dischi e copertine dappertutto. La ragazza alla cassa ci guardò stupita; i clienti ci fissarono a bocca aperta; perfino l'ispettore del negozio sembrava paralizzato dallo stupore. Fui veloce a scappare, ma Leon non fece altro che sorridere come per scusarsi, raccolse i dischi con cura e soltanto allora scappò, le ali del cappotto che nella corsa battevano dietro di lui. Ci volle molto tempo prima che osassi entrare di nuovo in quel negozio, anche se alla fine ci andammo su insistenza di Leon; ma, come disse lui, ne avevamo già portato via la maggior parte. È una questione di attitudine. Me lo ha insegnato Leon; ma se avesse saputo del mio inganno, sospetto che pure lui avrebbe ammesso la mia superiorità nel gioco. Tuttavia questo era impossibile. Per Leon, la maggioranza delle persone era «banale». I Sunnybanker erano «marmaglia»; e la gente che viveva nelle case popolari del comune (compresi gli appartamenti di Abbey Road, dove io e i miei genitori un tempo avevamo abitato) erano «incazzatissimi», «puttanelle» «buoni a nulla» e «prolet». Certo, condividevo il suo disprezzo; ma se non altro il mio odio era più profondo. Conoscevo cose che Leon, con la sua bella casa, il suo latino e la chitarra elettrica non poteva conoscere. La nostra amicizia non era un'amicizia fra uguali. Il mondo che avevamo inventato fra di noi non avrebbe tollerato nessun figlio di John e Sharon Snyde.
Il mio solo rimpianto fu che la gara non potesse durare per sempre. Ma a dodici anni non si pensa spesso al futuro, e se c'erano nubi scure al mio orizzonte, la nuova amicizia mi abbagliava ancora troppo perché me ne accorgessi. 5. St Oswald Grammar School for Boys mercoledì, 15 settembre Quando sono entrato in classe dopo il pranzo, c'era un disegno fissato alla bacheca: una cruda caricatura di me stesso con baffi alla Hitler e un fumetto che diceva «Juden 'raus!» Avrebbe potuto attaccarla chiunque, qualcuno della squadra di Devine, che era stato dentro dopo l'intervallo, o uno dei geografi di Meek, perfino un prefetto in servizio con un senso dell'umorismo distorto, ma io sapevo che era stato Knight. Potevo dedurlo dall'aria compiaciuta, melliflua, che aveva in faccia, dal modo in cui non incontrò mai il mio sguardo, dal piccolo ritardo tra i suoi «Sì» e i suoi «Signore», un'impertinenza che solo io ho notato. Ho tolto il disegno, è evidente, e l'ho accartocciato senza neppure aver l'aria di guardarlo, ma sentivo odore di insurrezione. Tutto è calmo, ma sono stato qui troppi anni per farmi ingannare: questa è soltanto la calma speciosa dell'epicentro, la crisi deve ancora scatenarsi. Non ho mai scoperto chi mi ha visto nello spogliatoio dei ragazzi. Poteva essere una qualsiasi fra le persone che vogliono tirar acqua al proprio mulino: Geoff e Penny Nation sono entrambi i tipi, riferiscono sempre di «anomalie procedurali», in quel modo pio che nasconde il loro reale malanimo. Si dà il caso che quest'anno insegni a loro figlio, un ragazzino intelligente e incolore del primo anno, e da quando gli orari sono stati stampati, hanno dedicato un'attenzione malsana ai miei metodi. O avrebbe potuto essere Isabelle Tapi, a cui non sono mai piaciuto, o Meek, che ha le sue ragioni, o perfino uno dei ragazzi. Non che importi, va da sé. Ma sin dal giorno del rientro, ho avuto la sensazione che qualcuno mi osservasse, da vicino e senza gentilezza. Immagino che Cesare abbia provato lo stesso con l'avvicinarsi delle idi di marzo. In classe, tutto come al solito. Un gruppo di latino del primo anno, ancora sotto la fatale impressione che un verbo sia «una parola che fa qualcosa»; un gruppo di studenti di sesta non superiori alla media, che arrancava
volonteroso attraverso il IX dell'Eneide; la mia 3S, che lottava con il gerundio (per la terza volta) tra commenti arguti di Sutcliff e Allen-Jones (irrefrenabile, come sempre) e osservazioni più tediose da parte di AndertonPullitt, il quale considera il latino uno spreco di tempo che sarebbe meglio impiegare nello studio degli aerei della Prima guerra mondiale. Nessuno ha guardato Knight, che procedeva col suo lavoro senza proferire parola. Il piccolo test che ho assegnato alla fine della lezione mi ha convinto che la maggior parte di loro fosse ormai a suo agio con il gerundio come un allievo del terzo anno può ragionevolmente essere. Come sorpresa, al test Sutcliff aveva aggiunto una serie di piccoli disegni impertinenti, che mostravano «specie di gerundio nel loro habitat naturale» e «quello che succede quando un gerundio incontra una gerundia». Prima o poi dovrò ricordarmi di parlare a Sutcliff. Nel frattempo i disegni sono attaccati con lo scotch sul ripiano della mia cattedra, un piccolo antidoto allegro al caricaturista misterioso di stamattina. Nel dipartimento ci sono alti e bassi. Dianne Dare sembra procedere bene, meno male, dato che Pearman è al minimo dell'efficienza. Non è del tutto colpa sua - ho un debole per Pearman, malgrado la sua mancanza di organizzazione: il tipo non è privo di cervello - ma sull'onda della nuova nomina, Scoones tormenta e spettegola a un tale livello che il tranquillo Pearman è perennemente sul punto di perdere la calma, e anche Kitty ha smarrito un po' del suo splendore. Solo la Tapi sembra indenne: forse un risultato della sua nuova intimità con l'odioso Light, con il quale è stata vista in più occasioni al Thirsty Scholar, oltre a dividere un sandwich rivelatore nel refettorio. I Tedeschi, d'altro canto, si stanno godendo il loro periodo di supremazia. Bene così. I topi se ne saranno magari andati via, vittime dei regolamenti «salute e sicurezza» del dott. Devine, ma il fantasma di Straitley resiste, scuote le sue catene, provocando di tanto in tanto una baraonda. Al prezzo di un bicchiere, allo Scholar ho acquistato una chiave del nuovo ufficio di Tedesco, nel quale ora mi ritiro ogni volta che Devine ha un incontro della Casa. Sono solo dieci minuti, lo so, ma mi bastano per riuscire a creare quel tanto di disordine spontaneo - tazze da caffè sulla scrivania, il telefono agganciato male, parole incrociate sulla copia personale del «Times» di Acerbo - per ricordargli della mia costante presenza. I miei armadi d'archivio sono stati annessi alla vicina Sala di lettura: un altro elemento di disturbo per il dott. Devine, il quale, fino a poco tempo fa, non sapeva della porta fra le due stanze e che io ora ho ripristinato. Dal-
la sua scrivania riesce a sentire il fumo delle mie sigarette, dice, e invoca Salute e sicurezza con un'espressione di pio autocompiacimento, così tanti libri costituiscono di sicuro un pericolo d'incendio, protesta, e dice di voler installare un rivelatore antifumo. Grazie a dio, Bob Strange, che nella sua mansione di Vicepreside sovrintende a tutte le spese del dipartimento, ha detto chiaro che finché l'ispezione non è conclusa non devono esserci spese superflue: Acerbo è costretto a sopportare la mia presenza, mentre è certo che sta pianificando la prossima mossa. Intanto il Rettore continua l'offensiva alle calze. L'assemblea di lunedì è stata interamente incentrata sul tema, con il risultato che, da allora, tutti i ragazzi della mia classe portano le calze più controverse; in alcuni casi con la stravaganza aggiuntiva di vivaci giarrettiere. Fin qui ho contato: un Bugs Bunny, tre Bart Simpson, un South Park, quattro Beavis e Buttheads e, da Allen-Jones, un paio rosa shocking con le Powerpuff Girls ricamate a lustrini. È una fortuna, quindi, che io non ci veda più come una volta e non noti mai questo genere di cose. È chiaro che nessuno è stato fatto fesso dall'improvviso interesse del Nuovo Rettore per l'abbigliamento da caviglia. La data dell'ispezione scolastica si avvicina inesorabile e, dopo i deludenti esami della scorsa estate (grazie a un sovraccarico di programmi e alle ultime disposizioni del governo), non può permettersi un rapporto poco brillante. Di conseguenza, questo trimestre calze, camicie, cravatte e consimili saranno bersagli primari, al pari di graffiti, Salute e sicurezza, topi, computer e camminare sempre sul lato sinistro del corridoio. Ci sarà una valutazione interna per tutti gli insegnanti in tirocinio; si sta già stampando una nuova brochure; è stato formato un sottocomitato per discutere la possibilità di migliorare l'immagine della scuola, ed è stata introdotta una fila aggiuntiva di posti auto per disabili nel parcheggio dei visitatori. Sull'onda di quest'insolita attività, il Portiere, Fallow, è inopportuno al massimo. Benedetto dalla fortuna di apparire molto occupato mentre evita ogni tipo di lavoro, ha preso l'abitudine di appostarsi negli angoli e fuori dalle aule, portablocco in mano, per supervisionare le riparazioni di Jimmy. In questo modo origlia parecchie conversazioni del personale docente, la maggior parte delle quali, sospetto, riferisce poi al dott. Devine. Sta di fatto che Acerbo, sebbene in apparenza disdegni il tam-tam della Sala professori, sembra notevolmente informato. Questo pomeriggio Miss Dare era nella mia aula a sostituire Meek, che è
malato. Influenza di stomaco, o qualcosa di simile, mi dice Bob Strange, anche se io ho i miei sospetti. Alcune persone sono nate per insegnare, altre no, e sebbene Meek non batterà il record di tutti i tempi - quello appartiene a un insegnante di matematica di nome Jerome Fentimann, che scomparve durante l'intervallo del suo primo giorno, e non si fece vedere mai più - non sarei sorpreso se ci lasciasse a metà trimestre, in conseguenza di qualche nebuloso acciacco. Per fortuna Miss Dare è fatta di una pasta più dura. La posso sentire dalla Stanza del silenzio, mentre parla agli informatici di Meek. Le sue maniere calme sono ingannevoli: sotto sotto è intelligente e capace. Mi rendo conto che il suo essere appartata non dipende dalla timidezza. Si diverte semplicemente a stare per conto suo e ha poco a che fare con le altre reclute. La vedo abbastanza spesso, tutto sommato dividiamo un'aula, e sono colpito dalla velocità con cui si è adattata alla disordinata topografia di St Oswald, alla moltitudine di aule, alle tradizioni e ai tabù, alle infrastrutture. È amichevole con i ragazzi senza cadere nella trappola dell'intimità, sa come punire senza provocare risentimento, conosce la sua materia. Oggi, prima di scuola, l'ho trovata che correggeva i compiti nella mia aula, e ho potuto osservarla per qualche secondo prima che si accorgesse della mia presenza. Magra, efficiente con una camicetta bianca stirata di fresco e bei pantaloni grigi, capelli neri, corti e tagliati bene. Ho fatto alcuni passi: mi ha visto e si è alzata all'istante, liberando la mia sedia. «Buongiorno, signore. Non la aspettavo così presto.» Erano le sette e quarantacinque. Light, tipico, arriva ogni mattina alle nove meno cinque; Bishop arriva presto, ma solo per eseguire i suoi interminabili giri di corsa, e perfino Gerry Grachvogel non è mai in aula prima delle otto. E quel rivolgersi a me con signore... ho sperato che la donna non si rivelasse una leccapiedi. D'altra parte non mi piacciono le matricole che si prendono la libertà di chiamarmi per nome, come se fossi l'idraulico, o qualcuno che hanno incontrato giù al pub. «Cos'è che non va con la Stanza del silenzio?» ho domandato. «Mr Pearman e Mr Scoones stavano discutendo le nomine recenti. Ho pensato che fosse più rispettoso ritirarmi.» «Capisco.» Mi sono seduto e ho acceso una Gauloise mattiniera. «Mi spiace, signore. Avrei dovuto chiederle il permesso.» Il tono era educato, ma gli occhi scintillavano. Ho deciso che era un nuovo arrivo, e quindi mi è piaciuta ancor di più. «Sigaretta?»
«No, grazie, non fumo.» «Niente vizi, eh?» Per amor del cielo, non un altro Acerbo. «Mi creda, ne ho tantissimi.» «Ehm.» «Uno dei suoi ragazzi mi ha detto che lei è stato in quest'aula per oltre vent'anni.» «Di più, se conta gli anni da recluso.» In quei tempi c'era un intero impero di studi classici; il francese era una sola Giacca di Tweed nutrita di méthode Assimil; il tedesco era poco patriottico. O tempora! O mores! Ho fatto un profondo sospiro. Orazio al ponte, che con una mano sola respinge le orde barbare. Miss Dare stava sorridendo. «Be', è un diversivo rispetto alle cattedre di plastica e alle lavagne bianche. Penso che lei abbia ragione a resistere. E poi, mi piacciono i suoi latinisti. Non devo insegnare loro la grammatica. E riescono a scrivere correttamente.» Chiaro, ho pensato, una ragazza intelligente. Mi chiedevo cosa volesse da me. Ci sono vie più veloci all'albero della cuccagna che non attraverso la torre campanaria, e se quella era la sua ambizione, le sue lusinghe avrebbero agito meglio su Bob Strange, o Pearman, oppure Devine. «Deve fare attenzione ad aggirarsi da queste parti», le ho detto. «Prima che se ne renda conto, si ritroverà a sessant'anni, sovrappeso e ricoperta di gesso.» Miss Dare ha sorriso e ha raccolto i suoi compiti. «Sono sicura che ha del lavoro da sbrigare», ha detto avviandosi alla porta. Poi si è fermata. «Mi scusi se glielo chiedo, signore, ma non ha in mente di andare in pensione quest'anno, vero?» «Pensione? Sta scherzando. Durerò un secolo.» L'ho guardata bene. «Perché, qualcuno ha detto qualcosa?» Miss Dare pareva imbarazzata. «È solo che...» Ha esitato. «Come membro giovane della scuola, Mr Strange mi ha chiesto di occuparmi della redazione della rivista scolastica. E dato che stavo scorrendo le liste del corpo insegnante e dei dipartimenti, mi è capitato di notare...» «Notare cosa?» Ora la sua gentilezza cominciava a darmi sui nervi. «Fuori la verità, per amor del cielo!» «È solo che... non mi sembra ci sia una voce che la riguardi», ha detto Miss Dare. «È come se il Dipartimento di studi classici fosse stato...» Ha fatto un'altra pausa, cercando la parola, e mi sono ritrovato oltre i limiti della pazienza, «Cosa? Cosa? Emarginato? Fuso? Al diavolo la terminologia e mi dica
cosa pensa! Cos'è successo al dannato Dipartimento di studi classici?» «Buona domanda, signore», ha risposto Miss Dare, tranquilla. «Per quanto riguarda gli opuscoli della scuola - brochure pubblicitarie, elenchi dei dipartimenti, rivista della scuola - semplicemente non c'è.» Ha fatto ancora una pausa. «E, signore... Secondo gli elenchi dei docenti, non c'è nemmeno lei.» 6. lunedì, 20 settembre Entro la fine della settimana tutta la scuola ne era al corrente. Date le circostanze, era logico immaginare che il vecchio Straitley se ne sarebbe stato tranquillo per un po', per rivedere le sue scelte e mantenere un profilo basso, ma non è nella sua natura farlo, anche quando sarebbe l'unica cosa saggia. Ma essendo Straitley, ha marciato direttamente fino all'ufficio di Strange non appena i fatti sono stati confermati e ha imposto un confronto. Strange, naturale, ha negato di aver fatto qualunque cosa sottobanco. Il nuovo dipartimento, ha detto, si sarebbe chiamato soltanto lingue straniere, il che comprendeva le lingue classiche e moderne, oltre a due nuove materie, Consapevolezza linguistica e Architettura linguistica, che si sarebbero tenute una volta alla settimana nei laboratori di informatica, non appena fosse arrivato il relativo software (sarebbe stato sul posto, è stato rassicurato, per l'ispezione scolastica del 6 dicembre). Gli studi classici non erano stati né retrocessi né emarginati, ha detto Strange: l'intero profilo delle lingue straniere, invece, era stato potenziato per rispettare le linee guida del curriculum. St Henry, gli risultava, aveva già fatto così quattro anni prima, e in un mercato competitivo... Cosa Roy Straitley pensasse di questo non si sa. Per fortuna, da quanto ho sentito, la maggior parte degli insulti era in latino, ma anche così fra i due permane una freddezza educata e meticolosa. «Bob» è diventato «Mr Strange». Per la prima volta nella sua carriera, Straitley ha adottato un atteggiamento da sciopero bianco verso i suoi doveri; insiste nell'essere informato non più tardi delle otto e mezza se deve perdere un'ora libera, il che, anche se corretto secondo i regolamenti, obbliga Strange ad arrivare più di venti minuti prima del solito. Di conseguenza, Straitley ottiene più della giusta quota del turno d'intervallo nelle giornate piovose e supplenze del venerdì pomeriggio, il che non fa nulla per alleviare la tensione fra loro.
Tuttavia, per quanto possa risultare divertente, questo rimane un piccolo diversivo. St Oswald ha fatto fronte a mille piccoli drammi dello stesso genere. La mia seconda settimana è passata: sono più che a mio agio nel ruolo e sebbene abbia la tentazione di godere un po' più a lungo della nuova situazione, so che non ci saranno tempi migliori per colpire. Ma dove? Non Bishop, non il Rettore. Straitley? La cosa mi tenta. Dovrà andarsene prima o poi; ma la partita mi diverte troppo per perderlo così presto. No. C'è un solo posto da cui cominciare. Il Portiere. Quella era stata una cattiva estate per John Snyde. Aveva bevuto più di quanto avesse mai fatto, e alla fine la cosa cominciava a vedersi. Corpulento da sempre, si era ispessito a poco a poco e in modo quasi impercettibile nel corso degli anni e ora, così sembrava, all'improvviso era grasso. Per la prima volta ne fui consapevole: consapevole dei ragazzi di St Oswald che superavano i cancelli, consapevole della lentezza di mio padre, degli occhi iniettati di sangue, del temperamento astioso, da sbronzo. Anche se emergeva di rado durante le ore di lavoro, sapevo che era lì, come un nido di vespe sotterraneo, in attesa di qualcuno che lo molestasse. Il dott. Tidy, l'economo, soprannominato dott. Ordine, aveva avanzato dei commenti, sebbene mio padre fosse riuscito a evitare una reprimenda ufficiale. Anche i ragazzi lo sapevano, specialmente i piccoli; durante quell'estate lo tormentavano senza pietà, urlando: «John, ehi, John!» con la loro voce da bambine, seguendolo a gruppi mentre svolgeva le sue mansioni, correndo dietro il tosaerba mentre lo guidava con metodo intorno ai campi di cricket e di football, il grosso deretano da orso che sporgeva dal piccolo sedile. Aveva una quantità di soprannomi: Johnny Trippone, John Crapa Pelata (era diventato sensibile a proposito della chiazza che si assottigliava in cima alla testa e che cercava di camuffare imbrillantinando una lunga striscia di capelli sul cocuzzolo), Joe Pagnotta, prof. John Grassodipatata. Il tosaerba era una perenne fonte di allegria; i ragazzi lo chiamavano la Macchina infernale o il Macinino di John, si rompeva in continuazione, correva voce che funzionasse con il grasso per friggere le patate usato da John sui capelli, che lui lo guidasse perché era più veloce della sua automobile. Qualche volta, di mattina, i ragazzi avevano notato un odore viziato, di birra, nel fiato di mio padre, e da allora c'erano stati molti scherzi sull'alitosi: i ragazzi fingevano di venire ubriacati dal fiato del guardiano, si chiedevano di quanto avesse superato il limite e se fosse legale che guidasse la Mac-
china infernale. Inutile dire che di solito mi tenevo alla larga da questi ragazzi durante le mie incursioni nella scuola; pur avendo la certezza che mio padre non mi riconobbe mai sotto l'uniforme di St Oswald, la sua vicinanza mi faceva vergognare. In queste occasioni mi sembrava di non avere mai visto davvero mio padre; e quando, alla fine, spinto a dare una risposta indecente, lui sbottò, prima con la voce e poi con i pugni, io fremetti in preda all'imbarazzo e mi odiai. Molto di questo era la diretta conseguenza della mia amicizia con Leon. Per quanto fosse un ribelle, con i capelli lunghi e le scorrerie di taccheggio, rimaneva in gran parte un prodotto del suo ambiente, parlava con disprezzo di quelli che chiamava i «prolet» e gli «ordinari», sbeffeggiando i miei coetanei di Sunnybank Park con precisione cattiva e implacabile. Per parte mia, mi univo alla presa in giro senza riserve. Avevo sempre detestato Sunnybak Park; non provavo lealtà nei confronti degli alunni di laggiù e abbracciai la causa di St Oswald senza esitare. Era quello il posto cui appartenevo, e mi assicurai che ogni cosa di me, capelli, voce, modi, riflettessero quella devozione. All'epoca desideravo più di ogni altra cosa che la mia finzione fosse vera, desideravo il padre ispettore della mia immaginazione e odiavo più di quanto le parole potessero esprimere il grasso guardiano dal linguaggio scurrile e il suo pancione gonfio, da bevitore. Con me era diventato sempre più irritabile: il fiasco delle lezioni di karate aveva aggravato la sua delusione. E in più occasioni lo trovai che mi osservava con manifesta e schietta antipatia. Eppure, una volta o due, fece un piccolo sforzo, esitante. Mi chiese di andare a una partita di calcio, mi diede i soldi per il cinema. Ma la maggior parte del tempo non era così. Lo osservavo sprofondare di giorno in giorno nella sua routine di televisione, birra, takeaway, e nel tentativo rumoroso (e fallimentare) del sesso. Dopo un po' anche quello cessò, e le visite di Pepsi si fecero sempre meno frequenti. La vidi un paio di volte in città, e una volta al parco con un uomo giovane. Lui indossava una giacca di pelle e aveva una mano sul maglioncino di angora rosa di Pepsi. Dopodiché lei non venne praticamente più a trovarci. Per pura ironia, la sola cosa che salvò mio padre durante quelle settimane fu la stessa che cominciava a odiare. St Oswald era stata la sua vita, la sua speranza, il suo orgoglio: ora sembrava criticarlo per la sua inadeguatezza. Perfino così, lui teneva duro, eseguiva il lavoro in modo fedele, se non senza amore, voltava ostinato le spalle ai ragazzi che lo irridevano e
gli cantavano delle canzonette volgari dal campo giochi. Lo sopportava per me; per me lui tenne duro quasi fino allo stremo. Lo so, adesso che è troppo tardi; ma a dodici anni sono moltissime le cose nascoste, moltissime le cose da scoprire. «Ehi, Pinchbeck!» Eravamo seduti nella corte sotto i faggi. Il sole era caldo e John Snyde stava tagliando il prato. Mi ricordo quell'odore, l'odore dei giorni di scuola, dell'erba tagliata, di polvere e di cose che crescono troppo in fretta e fuori controllo. «Guarda, si direbbe che John Trippone sia alle prese con un bel grattacapo.» Guardai. Così era: al limite del prato di cricket la Macchina infernale si era fermata di nuovo, e mio padre stava cercando di rimetterla in moto, bestemmiando e sudando, mentre si tirava su la cintura cascante dei jeans. I ragazzini avevano già cominciato a farsi sotto, formando un cordone, come pigmei intorno a un rinoceronte ferito. «John, ehi, John!» Potevo sentirli attraverso il prato del cricket, con le voci da pappagallino nel calore caliginoso che balzavano e rimbalzavano, sfidandosi l'un l'altro a farsi un po' più vicino ogni volta. «Sciò, via di qui!» Agitava le braccia verso di loro come un uomo che vuole spaventare gli uccelli. Il suo grido birroso ci raggiunse un secondo dopo, seguito da risate acute. Strillando, i ragazzi si dispersero; qualche secondo dopo stavano già tornando furtivi, ridacchiando come ragazzine. Leon sorrise: «Vieni», disse, «ci faremo una risata.» Lo seguii riluttante, tenendomi dietro, togliendo gli occhiali che avrebbero potuto farmi riconoscere. Non ne valeva la pena: mio padre era ubriaco. Ubriaco, su tutte le furie per il caldo e i ragazzini che non lo lasciavano in pace. «Mi scusi Mr Snyde, signore», disse Leon dietro di lui. Si girò boccheggiando, colto di sorpresa da quel signore. Leon gli stava di fronte, educato e sorridente. «Il dott. Ordine vorrebbe vederla nell'ufficio dell'economo», disse. «Ha detto che è importante.» Mio padre odiava l'economo, un uomo intelligente dalla lingua mordace, che dirigeva le finanze della scuola da un uffici etto immacolato vicino alla portineria. Sarebbe stato difficile non cogliere l'ostilità fra loro. Tidy era preciso, ossessivo, meticoloso. Si recava in cappella ogni mattina, beveva camomilla per calmare i nervi, coltivava orchidee da concorso nella serra della scuola. Tutto quanto in John Snyde sembrava calcolato per ferirlo: l'andatura goffa, la rozzezza, il modo in cui i pantaloni scendevano sotto l'elastico delle mutande ingiallite.
«Il dott. Tidy?» domandò mio padre, gli occhi stretti. «Sì, signore», rispose Leon. «Merda.» Si avviò come un sacco di patate verso l'ufficio. Leon mi sorrise. «Mi chiedo, cosa dirà il dott. Ordine quando sentirà quell'alito?» disse, facendo scorrere le dita sul fianco sfasciato della Macchina infernale. Poi si girò, un lampo criminale negli occhi. «Ehi, Pinchbeck, vuoi fare un giro?» Scossi la testa, con orrore, ma anche con eccitazione. «Su, Pinchbeck. È un'opportunità troppo bella per lasciarsela sfuggire.» E con un balzo leggero fu sulla macchina, premendo sul bottone dello starter, mandandola su di giri... «Ultima occasione, Pinchbeck.» Non potevo rifiutare la sfida. Balzai sul parafango, mantenendo l'equilibrio mentre la Macchina infernale si metteva traballante in movimento. I ragazzini delle inferiori si misero in fuga, squittendo. Leon stava ridendo in modo selvaggio; l'erba si sventagliava dietro le ruote in una trionfante spuma verde e sul prato John Snyde avanzò correndo, troppo lento per impensierirci ma furioso, schiumante di rabbia: «Voi ragazzi, laggiù! Fottuti ragazzi!» Leon mi guardò. Ormai stavamo avvicinandoci al limite estremo del prato, la Macchina infernale faceva un rumore terribile, dietro di noi vedevamo John Snyde, ormai distante e impotente, e dietro di lui, il dott. Tidy, la faccia una macchia confusa di sdegno. Per un secondo la gioia mi conquistò. Eravamo magici. Eravamo Buca e Sundance, che saltavano dal ciglio del dirupo, che saltavano dal tosaerba in una bruma di erba e gloria e se la davano a gambe, correndo come dannati mentre la Macchina infernale continuava a procedere verso gli alberi in una maestosa, inarrestabile marcia al rallentatore. Non ci presero mai. I piccoli non ci identificarono, e l'economo era così adirato per il comportamento di mio padre, per il linguaggio scurrile nella sede della scuola, e ancor di più per la sbronza e la negligenza nelle sue funzioni, che tralasciò ogni indizio in suo possesso. A Mr Roach, che era di turno, fu data una lavata di capo dal Rettore, e mio padre ricevette un ammonimento ufficiale e il conto per i danni. Niente di tutto ciò ebbe effetto su di me. Un'altra linea era stata superata e io ero esultante. Perfino farla pagare a quel bastardo di Bray non mi aveva dato una sensazione bella come questa, e per giorni camminai su una nuvola rosa, attraverso cui non si vedeva, sentiva né udiva nulla, tranne
Leon. Era amore. All'epoca non osai pensarlo in questi termini. Leon era mio amico. Questo era tutto ciò che avrebbe mai potuto essere. Eppure era così: amore bruciante, quasi cieco, ultrainfatuato, insonne. Tutto nella mia vita veniva filtrato dalla lente della speranza dell'amore: era il mio primo pensiero alla mattina, l'ultimo alla sera. L'infatuazione non arrivava al punto di farmi credere che miei sentimenti fossero in qualche modo ricambiati; per Leon io ero solamente uno del primo anno, abbastanza divertente, ma di gran lunga inferiore. A volte lui passava l'intervallo di pranzo con me, altre volte mi lasciava ad aspettare tutta l'ora, ignaro dei rischi che correvo ogni giorno per stare con lui. Tuttavia ero felice. Non avevo bisogno della presenza costante di Leon perché la mia felicità prosperasse; per il momento era sufficiente sapere che era vicino. Dovevo essere intelligente, mi dicevo; dovevo essere paziente. Ma più di ogni altra cosa sentivo di non dover diventare invadente, e nascondevo i miei sentimenti dietro una barriera di arguzie mentre elucubravo maniere ancora più ingegnose per adorarlo in segreto. Scambiai con lui i maglioni della scuola e per una settimana portai il suo intorno al collo. Di sera aprivo l'armadietto di Leon con il passe-partout di mio padre e rovistavo fra le sue cose, leggevo gli appunti presi in classe, i libri, guardavo i ghirigori che disegnava quando si annoiava, mi esercitavo a fare la sua firma. Al di fuori del mio ruolo di allievo di St Oswald, lo guardavo a distanza, a volte passando da casa sua nella speranza di vederlo di sfuggita, o magari anche la sorella, che adoravo per associazione. Imparai a memoria la targa della macchina di sua madre. Davo da mangiare al suo cane di nascosto. Mi pettinavo i capelli castani lisci così che sembrassero uguali ai suoi, coltivavo le sue espressioni e i suoi gusti. Lo conoscevo da più di sei settimane. Aspettavo le vacanze estive con sollievo e insieme con preoccupazione. Sollievo perché lo sforzo di frequentare due scuole, seppure in modo discontinuo, stava cominciando a esigere il suo tributo. Miss McCauleigh si era lamentata di compiti a casa non fatti e di assenze frequenti, e anche se ormai ero in grado di falsificare perfettamente la firma di mio padre, rimaneva sempre il pericolo che qualcuno lo incontrasse e svelasse la mia copertura. Preoccupazione perché anche se fra poco avrei avuto la libertà di incontrare Leon a mio piacimento, avrei corso ancora più rischi, perché
continuavo l'inganno in borghese. Per fortuna avevo completato il lavoro preparatorio all'interno della scuola. Il resto dipendeva dalla scelta di tempo, di luogo e di un paio di puntelli ben scelti, soprattutto vestiti, che mi avrebbero imposto come l'individuo benestante che pretendevo di essere. Rubai un paio di scarpe da ginnastica costose da un negozio in città, e una nuova bici da corsa (la mia sarebbe stata del tutto inadeguata) fuori da una bella casa non troppo vicina. La ridipinsi, per sicurezza, e vendetti la mia al mercato del sabato. Se mio padre se ne fosse accorto, gli avrei raccontato che avevo scambiato la mia vecchia bicicletta con un modello di seconda mano perché stava diventando troppo piccola. Era una buona storia, e probabilmente avrebbe funzionato, ma a quel punto, con la fine del trimestre, mio padre stava cominciando a ridursi in pezzi, e non notò più nulla. Adesso Fallow ha preso il suo posto. Il grasso Fallow, con le labbra flosce e un vecchio giaccone. Ha anche l'andatura goffa di mio padre, dovuta ad anni di guida del tosaerba e, come a mio padre, il pancione gli fuoriesce in modo osceno dalla cintura stretta e scintillante. Secondo una tradizione, tutti i portieri della scuola si chiamano John, ed è vero pure per Fallow, anche se i ragazzi non lo tormentano di insulti come facevano con mio padre. Me ne rallegro, perché se lo facessero dovrei intervenire, e in questa fase non voglio farmi notare. Ma Fallow mi offende. Ha orecchie pelose e legge «News of the World» nel suo piccolo alloggio, indossando vecchie ciabatte sui piedi nudi, bevendo tè al latte e trascurando quello che gli succede attorno. Il semideficiente Jimmy fa il lavoro vero: lavori in muratura e di falegnameria, impianto elettrico, canali di scolo. Fallow risponde alle telefonate. Si diverte a far aspettare chi chiama, a volte anche per interi minuti: madri preoccupate desiderose di notizie sui figli che si sono sentiti male, padri ricchi trattenuti a una riunione dell'ultimo minuto con i dirigenti; intanto lui finisce il tè e scarabocchia il messaggio su un pezzo di carta gialla. Gli piace viaggiare e a volte parte per gite di un giorno in Francia, organizzate dal suo club maschile, durante le quali va al supermarket, mangia delle chips accanto al bus e si lamenta dei Francesi. Sul lavoro è a turno villano o deferente, secondo il livello sociale di chi lo va a trovare; fa pagare una sterlina ai ragazzi per aprire gli armadietti con il passe-partout; guarda le gambe delle insegnanti quando salgono le
scale. Con i docenti di grado inferiore è pomposo e supponente; dice: «Non so se mi spiego» e «Glielo dirò gratis, amico». Con i gradi più alti è ossequioso, con i veterani amichevole in modo nauseante; con i giovani come me, brusco e occupato, senza tempo da perdere in chiacchiere. Il venerdì pomeriggio, dopo la scuola, sale nell'Ala di informatica in apparenza per spegnere le macchine, in realtà per navigare nei siti porno fino a tardi, mentre fuori, nei corridoi, Jimmy usa la lucidatrice, la passa lentamente sulle assi del pavimento, e riporta il vecchio legno a un caldo splendore. Occorre meno di un minuto per azzerare un'ora di lavoro. Alle otto e mezza di lunedì mattina i pavimenti saranno polverosi e rigati come se Jimmy non ci fosse passato affatto. Fallow lo sa: e sebbene non faccia lui stesso le pulizie, prova comunque un oscuro risentimento, come se il personale e i ragazzi fossero un ostacolo al buon funzionamento delle cose. Ne consegue che la sua vita è punteggiata di piccole e astiose vendette. Nessuno lo osserva davvero, un Portiere è invisibile, e sono così tanti a prendersi delle libertà col sistema, che nessuno se ne accorge. I membri del personale ne sono perlopiù all'oscuro, ma io ho guardato. Dalla mia posizione nella torre campanaria posso vedere la sua piccola portineria e il suo andirivieni senza farmi vedere. C'è un furgoncino dei gelati parcheggiato fuori dai cancelli della scuola. Mio padre non l'avrebbe mai permesso, ma Fallow lo tollera, e spesso lì davanti si forma una coda di ragazzi dopo la scuola o all'ora di pranzo. Alcuni mangiano il gelato sul posto, altri tornano con le tasche rigonfie e il sorriso furtivo di chi ha raggirato il sistema. Ufficialmente, i ragazzi non possono uscire dai confini della scuola, ma il camioncino è solo a pochi metri e Pat Bishop lo accetta purché nessuno attraversi la strada trafficata. Inoltre gli piace il gelato, e l'ho visto spesso mangiarsi un cono mentre sorveglia i ragazzi nella corte. Anche Fallow frequenta il furgoncino. Ci va al mattino, quando le lezioni sono cominciate, girando intorno agli edifici in senso orario ed evitando di passare sotto la finestra della Sala professori. A volte ha con sé una borsa di plastica, non è pesante, ma piuttosto voluminosa, che lascia sotto il banco. A volte torna con un cono, altre volte a mani vuote. In quindici anni, molti dei passe-partout della scuola sono stati cambiati. C'era da immaginarselo, St Oswald è sempre stato un bersaglio e la sicurezza va mantenuta: ma la portineria è una delle eccezioni. In fondo perché qualcuno dovrebbe entrare con la forza nell'alloggio di un Portiere? Lì non
c'è nulla tranne una vecchia poltrona, una stufa a gas, un bollitore, un telefono e qualche rivista per soli uomini nascosta sotto il banco. C'è anche un altro nascondiglio, ben più sofisticato, dietro il pannello vuoto che maschera il sistema di aerazione, anche se questo è un segreto che viene tramandato da un Portiere all'altro. Non è molto grande, ma può contenere facilmente due confezioni da sei di birra, come aveva scoperto mio padre, e così mi disse allora, i capi non devono sempre sapere tutto. Mentre guidavo verso casa oggi mi sentivo bene. L'estate è quasi finita, e ci sono un giallore e una consistenza granulosa nella luce che mi ricordano i programmi televisivi della mia adolescenza. Le notti si stanno facendo fredde: nel mio appartamento in affitto a sei chilometri dal centro cittadino, presto dovrò accendere la stufa a gas. L'appartamento non è particolarmente attraente, una stanza con cucina annessa e un piccolo bagno, ma è il più economico che ho trovato e, va da sé, non intendo fermarmi a lungo. Praticamente è senza mobili. Un divano-letto, una scrivania, una lampada, un computer e un modem. Con ogni probabilità, li lascerò qui quando me ne andrò. Il computer è vuoto, o lo sarà, quando avrò cancellato le cose incriminanti dall'hard disk. La macchina è in affitto, e sarà già stata completamente ripulita dalla ditta che la noleggia quando la polizia la farà risalire a me. La mia anziana padrona di casa è una pettegola. Si domanda perché una persona piacevole, pulita e professionale come me debba scegliere di stare in una casa di appartamenti dall'affitto basso, piena di tossici, ex galeotti e disoccupati. Le ho detto che coordino le vendite per una grande società internazionale di software; che la mia società ha accettato di darmi una casa, ma che gli operai mi hanno tradito. Al che scuote la testa, lamentandosi per l'inettitudine dei muratori in qualunque luogo del mondo, e spera che io possa abitare nella mia nuova casa entro Natale. «Perché deve essere deprimente, vero, non possedere un proprio angolino. E specialmente a Natale...» Gli occhi deboli si sono appannati, sentimentali. Valuto se dirle che la maggior parte dei decessi fra le persone anziane si verifica durante i mesi invernali; che tre quarti degli aspiranti suicidi fa il gran passo durante il periodo delle feste. Ma per il momento devo mantenere la finzione; così rispondo alle domande meglio che posso, ascolto i suoi ricordi: sono irreprensibile. Per gratitudine lei ha decorato la mia piccola stanza con tende di chintz e un vaso di polverosi fiori di carta. «La pensi come il suo rifugio lontano da casa», mi dice. «E se avesse biso-
gno di qualcosa, io sono sempre qui.» 7. St Oswald's Grammar School for Boys giovedì, 23 settembre Il problema è cominciato lunedì, e ho capito che era successo qualcosa quando ho visto le automobili. C'era la Volvo di Pat Bishop, al solito sempre il primo ad arrivare e a volte, nei periodi in cui c'è tanto da fare, passa addirittura la notte in ufficio - ma era quasi inaudito vedere l'auto di Bob Strange prima delle otto, e c'erano anche l'Audi del Rettore, e la Jag del cappellano e un'altra mezza dozzina di vetture, compresa una macchina bianca e nera della polizia, tutte parcheggiate nel posteggio del personale fuori dalla portineria. Quanto a me, preferisco l'autobus. Nel traffico è più veloce e, in ogni caso, non devo mai percorrere più di qualche chilometro per andare al lavoro o ai negozi. E poi ora ho il mio abbonamento gratuito e, sebbene non possa impedirmi di pensare che ci dev'essere un errore (sessantaquattro, come possono essere sessantaquattro, per tutti gli dèi?), fa risparmiare. Ho camminato per il lungo viale verso St Oswald. I tigli stavano cambiando, dorati dall'avvicinarsi dell'autunno e piccole colonne di vapore bianco si innalzavano dall'erba rugiadosa. Nel passare ho guardato dentro la portineria. Fallow non c'era. Nessuno nella Sala professori sapeva esattamente cosa stesse succedendo. Strange e Bishop erano nell'ufficio del Rettore con il dott. Tidy e il sergente Ellis, l'ufficiale di collegamento. Ma Fallow era ancora introvabile. Mi sono domandato se ci fosse stata un'irruzione. Ogni tanto succede, anche se in linea di massima Fallow svolge un buon lavoro nel sorvegliare il posto. Un po' servile con la direzione e, si sa, ha fatto la cresta per anni. Piccole cose, un sacco di carbone, un pacchetto di biscotti dalle cucine, oltre alla sterlina ogni volta che apre gli armadietti, ma è abbastanza leale, e se si pensa che guadagna un decimo del salario di un insegnante di grado inferiore, si impara a chiudere un occhio. Ho sperato che non fosse accaduto niente a Fallow. Come sempre, i ragazzi l'hanno saputo per primi. Le voci si erano rincorse selvagge per tutta la mattina: Fallow ha avuto un attacco di cuore, Fallow ha minacciato il Rettore, Fallow è stato sospeso. Ma sono stati Su-
tcliff, McNair e Allen-Jones che mi hanno cercato durante l'intervallo e mi hanno chiesto con quell'aria allegra, infida che assumono quando non sono loro a trovarsi nei pasticci, se fosse vero che Fallow era stato arrestato. «Chi ve lo ha detto?» ho chiesto con un sorriso di deliberata ambiguità. «Oh, ho sentito girare la voce.» I segreti sono moneta pregiata in qualsiasi scuola, e non mi immaginavo che McNair rivelasse il suo informatore ma, è normale, alcune fonti sono più affidabili di altre. Dall'espressione del ragazzo ho capito che questa era arrivata da qualcuno vicino al vertice. «Hanno strappato dei pannelli in portineria», ha detto Sutcliff. «Hanno portato via un sacco di roba.» «Del genere?» Allen-Jones ha scrollato le spalle. «Chi lo sa?» «Sigarette, forse?» I ragazzi si son guardati l'un l'altro. Sutcliff è arrossito leggermente. Allen-Jones ha fatto un sorrisino. «Forse.» Più tardi, la storia è venuta a galla: Fallow aveva usato i suoi viaggi di un giorno in Francia per importare sigarette illegali, esenti da imposte, da rivendere ai ragazzi attraverso l'uomo dei gelati che era suo amico. I guadagni erano ottimi: una sigaretta costava fino a una sterlina, secondo l'età dei ragazzi, ma gli studenti di St Oswald sono pieni di soldi e poi il brivido di infrangere le regole sotto il naso del Preside era quasi irresistibile. L'intrigo è andato avanti per mesi, forse anni; la polizia aveva trovato circa quattro dozzine di stecche nascoste dietro un pannello nella portineria, e molte altre centinaia nel garage di Fallow, impilate dal pavimento al soffitto dietro una serie di scaffalature in disuso. Sia Fallow sia l'uomo dei gelati hanno confermato la storia. Delle altre cose trovate nella portineria, Fallow ha negato di sapere alcunché, anche se non ha saputo spiegarne la presenza. Knight ha identificato la penna del suo bar mitzvah e più tardi, con una certa riluttanza, ho reclamato la mia vecchia Parker verde. In un certo senso mi sono sentito sollevato che non fossero state rubate da un ragazzo della mia classe; ma d'altra parte sapevo che questo era l'ennesimo piccolo chiodo nella bara di John Fallow, che in un colpo solo aveva perso la casa, il lavoro, e forse anche la libertà. Non ho mai scoperto da chi sia venuta la soffiata alle autorità. Una lettera anonima, ho sentito, o una cosa così; in ogni caso non si è fatto avanti nessuno. Deve essere stato qualcuno all'interno, dice Robbie Roach (fumatore, già buon amico di Fallow); qualche piccolo spione voglioso di creare problemi. Ha probabilmente ragione, anche se odio il pensiero della re-
sponsabilità di un collega. Un ragazzo, quindi? Per certi versi sembra ancora peggio: il pensiero che uno dei nostri ragazzi possa causare da solo un tale danno. Un ragazzo come Knight, forse? Non era soltanto un pensiero; ma c'è una nuova sufficienza in Knight, uno sguardo di consapevolezza che mi piace ancor meno della sua naturale astiosità. Knight? Non c'era ragione per pensare così. Tuttavia ho pensato così, nel profondo, là dove conta. Chiamatelo pregiudizio, chiamatelo istinto. Il ragazzo sapeva qualcosa. Nel frattempo il piccolo scandalo segue il suo corso. Ci sarà un'indagine della Dogana e dell'Ufficio delle imposte; e pur essendo improbabile che la scuola insista per un'incriminazione - qualsiasi cenno di cattiva pubblicità provoca degli spasmi al Rettore - sin qui Mrs Knight ha rifiutato di ritirare il suo reclamo. Gli amministratori dovranno essere informati, ci saranno domande sul ruolo del Portiere, sulla sua nomina (il dott. Ordine è già sulle difensive e sta richiedendo rapporti della polizia su tutto il personale di servizio), e la sua probabile sostituzione. In breve, il caso Fallow ha creato mormorii in tutta la scuola, dall'economato fino alla Stanza del silenzio. I ragazzi lo percepiscono e sono stati straordinariamente impetuosi, mettendo alla prova i confini della nostra disciplina. Un membro della scuola si è comportato in modo indegno, benché fosse solamente un Portiere, e tira aria di rivolta; martedì Meek è emerso dalle sue lezioni di informatica alla quinta con l'aria pallida e scossa; McDonaugh ha distribuito una serie di punizioni cattive, Robbie Roach si è misteriosamente ammalato, facendo infuriare l'intero dipartimento, che ha dovuto sostituirlo. Bob Strange ha stabilito supplenze per tutte le sue lezioni perché troppo occupato con altre cose e oggi il Rettore ha tenuto un'assemblea disastrosa durante la quale ha annunciato (con generale, sebbene inespresso, divertimento) che non c'era nulla di vero nelle voci che riguardavano Fallow, e che qualsiasi ragazzo le avesse diffuse, sarebbe stato «trattato con la massima severità». Ma è Pat Bishop, il Preside, il più colpito dal Fallowgate, come AllenJones ha soprannominato la sfortunata vicenda. In parte, ritengo; perché una cosa del genere è del tutto al di fuori della sua comprensione: la lealtà di Pat nei confronti di St Oswald risale a oltre trent'anni fa e quali che siano i suoi altri difetti, è onesto e scrupoloso. Tutta la sua filosofia (per quel che è, dato che Pat non è un filosofo) è basata sul presupposto che la gente è fondamentalmente onesta e desidera, nel cuore, fare bene, anche quando viene condotta fuori strada. Questa capacità di vedere il bene in chiunque è al centro del suo modo di trattare con i ragazzi e funziona a meraviglia: i
deboli di carattere e le canaglie vengono fatti arrossire dalle sue maniere gentili, ferme, e anche il personale ha soggezione di lui. Ma Fallow ha generato una specie di crisi. Primo, perché Pat è stato ingannato - si autoaccusa per non essersi accorto di quanto stava accadendo e secondo, per il disprezzo implicito nell'inganno. Che Fallow, il quale è sempre stato trattato da Pat con educazione e rispetto, lo ripaghi con una moneta tanto velenosa lo costerna e lo umilia. Si ricorda dell'affare John Snyde e si chiede se in questo caso sia in qualche modo colpevole. Non ne parla, ma ho notato che sorride meno del solito, durante il giorno rimane nel suo ufficio, al mattino corre di più, e spesso lavora fino a tardi. Quanto al Dipartimento di lingue, ha sofferto meno degli altri. In parte grazie a Pearman, il cui naturale cinismo fa da gradito contrasto al distacco di Strange o alle minacce vanamente ansiose del Rettore. Le lezioni di Gerry Grachvogel sono un po' più rumorose del normale, ma non abbastanza da richiedere il mio intervento. Geoff e Penny Nation sono rattristati, ma non sorpresi, e scuotono la testa per la bestialità della natura umana. Il dott. Devine usa l'affare Fallow per terrorizzare il povero Jimmy. Eric Scoones è irascibile, anche se non troppo più del solito. Dianne Dare, come il creativo Keane, segue l'intera cosa con fascinazione. «Questo posto funziona come una soap opera complicata», mi ha detto stamattina nella Sala professori. «Non si sa mai che cosa succederà dopo.» Ho ammesso che ogni tanto c'era da ricavare divertimento da questo vecchio, caro posto. «È per questo che lei è rimasto? Voglio dire...» Si è interrotta, conscia, forse, dell'implicazione poco lusinghiera. «Sono rimasto, per dirla gentilmente come lei, perché sono abbastanza antiquato da credere che i nostri ragazzi possano trarre qualche piccolo beneficio dalle mie lezioni e, cosa più importante, perché infastidisce Mr Strange.» «Mi scuso», ha detto. «Non lo faccia. Non le si addice.» È difficile spiegare St Oswald; ancora più difficile attraverso un arco di più di quarant'anni. È giovane, bella, intelligente; un giorno si innamorerà, forse avrà dei bambini. Avrà una casa, che sarà una dimora vera e non un annesso secondario della Sala di lettura; farà le vacanze in posti lontani. Perlomeno, lo spero: l'alternativa è unirsi al resto degli schiavi della galea e restare incatenata alla nave finché qualcuno non ti butta fuori bordo. «Non intendevo offenderla, signore», ha detto Miss Dare.
«Non mi ha offeso.» Forse in vecchiaia sto diventando indulgente, o forse l'affare di Fallow mi ha turbato più di quanto credessi. «È solo che mi sento molto kafkiano stamattina. Sarà colpa del dott. Devine.» Ha riso, come pensavo. Eppure nella sua espressione restava qualcosa. Si è adattata abbastanza bene alla vita di St Oswald: la vedo andare alle sue lezioni con la cartella e un fascio di libri; la sento parlare ai ragazzi, col tono frizzante di una vice caposala. Come Keane, ha un controllo dei nervi che torna utile nell'ambiente, dove ciascuno deve lottare per difendere i propri interessi e chiedere aiuto è un segno di debolezza. Può fingere rabbia o nasconderla quando le serve, sapendo che un docente deve essere soprattutto un attore, sempre padrone del proprio pubblico e al comando del palcoscenico. È insolito vedere questa qualità in un'insegnante così giovane; sospetto che Miss Dare e Mr Keane siano nati per la professione, esattamente al contrario di Meek. «Sicuramente è arrivata in un periodo interessante», ho detto. «Ispezioni, ristrutturazioni, tradimenti, intrigo. Il bene strumentale di St Oswald. Se riesce a sopravvivere a questo...» «I miei genitori erano insegnanti. So cosa mi attende.» Questo spiega tutto. Lo si capisce sempre. Ho preso una tazza (non la mia, ancora scomparsa) dalla rastrelliera accanto al lavello. «Tè?» Ha sorriso. «La cocaina dell'insegnante.» Ho ispezionato il contenuto del distributore del tè e ho versato per entrambi. Nel corso degli anni mi sono abituato a bere il tè nella sua forma più elementare, ma anche così, la melma marrone che si depositava nella tazza aveva un'aria palesemente tossica. Ho alzato le spalle e aggiunto latte e zucchero. Ciò che non uccide fortifica. Un motto appropriato, forse, per un posto come St Oswald, perennemente sull'orlo della tragedia o della farsa. Ho dato un'occhiata ai miei colleghi, seduti a gruppi nella vecchia Sala professori, e ho provato una fitta profonda e inaspettata di affetto. C'era McDonaugh, che leggeva il «Mirror» nel suo angolo; accanto a lui Monument, che leggeva il «Telegraph», Pearman, che discuteva di pornografia francese del XIX secolo con Kitty Teague; Isabelle Tapi che si controllava il rossetto; la Lega delle Nazioni che condivideva una casta banana. Vecchi amici, collaboratori con cui ci si sente a proprio agio. Come ho detto, è difficile spiegare St Oswald: il rumore al mattino, l'eco confusa dei piedi dei ragazzi contro i gradini di pietra, l'odore di toast bruciati dal refettorio, il particolare suono di sacche sportive strapiene che
vengono trascinate lungo i pavimenti lustri. L'Albo d'onore, con i nomi dipinti in oro che risalgono a prima del mio bis-bisnonno, il monumento ai caduti, le fotografie delle squadre, le giovani facce vivaci virate al seppia con il trascorrere del tempo. Una metafora dell'eternità. Dèi, sto diventando sentimentale. È l'età: un momento fa piangevo la mia sorte e adesso eccomi qui con gli occhi velati di lacrime. Sarà il tempo. Eppure, dice Camus, dobbiamo immaginarci Sisifo felice. Sono infelice, io? Tutto quello che so è che qualcosa ci ha scosso, scosso alle fondamenta. È nell'aria, un soffio di rivolta, e in qualche modo so che va più a fondo dell'affare Fallow. Di qualsiasi cosa si tratti, non è finita. Ed è solo settembre. EN PASSANT 1. lunedì, 27 settembre Malgrado gli sforzi del Rettore, Fallow è finito sui giornali. Non «News of the World», sarebbe stato troppo attendersi una cosa del genere, ma il nostro «Examiner», il che va quasi altrettanto bene. Il tradizionale screzio tra la scuola e la città è tale, che le cattive notizie da St Oswald viaggiano veloci e vengono accolte dai più con grida di gioia feroce e terribile. Di conseguenza il pezzo era trionfalisticamente al vetriolo: ritraeva al contempo Fallow come un impiegato di lungo corso della scuola, licenziato (in modo sommario e senza una rappresentanza del sindacato) per un crimine ancora da dimostrare e una simpatica canaglia che per anni si era vendicato di un sistema composto da fighetti cafoni, burocrati senza volto e accademici poco aggiornati. È diventata una lotta fra Davide e Golia, con Fallow simbolo della classe dei lavoratori che combatte le mostruose macchine della ricchezza e del privilegio. L'autore del pezzo, che si firma soltanto «Talpa», riesce anche a insinuare che St Oswald sia piena di truffe simili e di piccole corruzioni, che l'insegnamento sia terribilmente datato, che il fumo (e forse l'uso di droghe) imperversi e che gli stessi edifici abbiano tanto bisogno di ristrutturazioni da rendere pressoché inevitabile un incidente grave. Un editoriale intitolato: «Scuole private: devono essere smantellate?» affianca il pezzo e i lettori sono invitati a inviare le proprie riflessioni e lamentele contro St Oswald e la rete di ex alunni che la protegge.
Devo dire che il pezzo mi soddisfa abbastanza. L'hanno stampato praticamente senza correggerlo e ho promesso di tenerli informati di qualsiasi ulteriore sviluppo. Nella mia e-mail ho alluso al fatto di essere una fonte vicina alla scuola, un ex alunno, un allievo, un amministratore, forse perfino un membro del corpo insegnante, mantenendo i dettagli sul vago (può darsi che in seguito li debba cambiare). Ho usato uno dei miei indirizzi e-mail secondari -
[email protected] per sventare ogni tentativo di scoprire la mia identità. Non che qualcuno all'«Examiner» potrebbe provarci, sono più abituati a mostre canine e alla politica locale che al giornalismo d'inchiesta, ma non si sa mai dove andrà a parare una storia del genere. Non lo so del tutto neanch'io; il che, immagino, è ciò che la rende divertente. All'arrivo a scuola stamattina stava piovendo. Il traffico era più lento del solito, e ho dovuto sforzarmi per tenere sotto controllo l'impazienza mentre avanzavo piano attraverso la città. Una delle cose per cui qui se la prendono con St Oswald è il traffico che provoca durante l'ora di punta; le centinaia di Jaguar pulite e fiammanti, le ragionevoli Volvo, le auto a trazione integrale e i pulmini che ogni mattina si mettono in fila sulle strade con il loro carico di ragazzi puliti e scintillanti in blazer e berretto. Alcuni prendono la macchina anche se casa loro è a meno di un chilometro. Dio non voglia che il ragazzo pulito e scintillante debba scavalcare delle pozzanghere o respirare l'inquinamento o (ancor peggio) essere contaminato dagli allievi squallidi e marci della vicina Sunnybank Park: i ragazzi sboccati, scomposti, con le giacche di nylon e le scarpe da ginnastica consumate a furia di strascicarle, le ragazze che berciano con le gonne corte e i capelli tinti. Quando avevo la loro età andavo a scuola a piedi; portavo scarpe a buon mercato e calze sporche; e a volte, mentre guido per recarmi al lavoro nella mia auto a noleggio, riesco ancora a sentire la rabbia che mi monta dentro, la terribile rabbia verso chi ero e chi desideravo essere. Mi ricordo una volta, alla fine di quell'estate. Leon era annoiato: la scuola era finita, e stavamo ciondolando per il parco giochi pubblico (ricordo la giostra, con la vernice usurata fino al metallo da generazioni di giovani mani), a fumare Camel (Leon fumava, così fumavo anch'io) e a guardare i Sunnybanker che passavano. «Barbari. Marmaglia. Prolet.» Aveva le dita lunghe e sottili, macchiate
in profondità di inchiostro e nicotina. Sul sentiero si avvicinava un piccolo capannello di Sunnybanker, che trascinavano le cartelle, coi piedi impolverati nel pomeriggio caldo. Nessuna minaccia per noi, anche se c'erano situazioni in cui dovevamo scappare di corsa, inseguiti da una delle loro bande. Una volta che non c'ero avevano messo alle corde Leon, giù dove ci sono i bidoni sul retro della scuola, e l'avevano preso a calci. Per questo li odiavo ancora di più; più dello stesso Leon: erano la mia gente, in fondo. Ma queste erano soltanto ragazze, quattro, in gruppo, più un'altra, rimasta indietro, del mio stesso anno, ragazze rumorose, che masticavano gomme, le gonne corte sulle gambe macchiate, che ridevano e sbraitavano mentre correvano lungo il sentiero. La ritardataria, notai, era Peggy Johnsen, la grassona della classe di educazione fisica di Mr Bray, e mi voltai dall'altra parte istintivamente, ma non prima che Leon attirasse la mia attenzione e facesse l'occhiolino. «Allora?» Conoscevo quello sguardo. Lo riconobbi dalle nostre scorrerie in città, dai furti nei negozi di dischi, dai nostri piccoli gesti di ribellione. Lo sguardo birbantesco di Leon, gli occhi vivaci di Leon trafiggevano Peggy mentre lei trotterellava per raggiungere le altre. «Allora cosa?» Le altre quattro erano ben più avanti. Peggy, con la faccia sudata e l'aria ansiosa, d'un tratto si ritrovò sola. «Oh no», dissi. La verità era che non avevo nulla contro Peggy: una ragazza lenta, innocua, poco meno che deficiente. Mi faceva persino un po' compassione. Leon mi rivolse un'occhiata sprezzante. «Chi è, Pinchbeck, la tua ragazza?» disse. «Su, dai!» E se ne era andato di corsa, compiendo un arco attraverso il parco giochi con un urlo euforico. Lo seguii: mi dissi che non avrei potuto fare nient'altro. Le strappammo le sacche, Leon prese la tenuta da ginnastica nella sua sporta di Woolworth, io afferrai lo zainetto di tela con i cuoricini disegnati in Tipp-ex. Poi ci mettemmo a correre, troppo veloci perché Peggy ci seguisse, lasciandola urlante nella nostra scia di polvere. Volevo solo andarmene prima che mi riconoscesse: ma nello slancio avevo finito per scontrarmi con lei, facendola cadere per terra. Al che Leon aveva riso, ma lo feci anch'io, in modo cattivo, sapendo che in un'altra vita sarebbe potuto toccare a me di sedere lì sul sentiero, avrei potuto essere io a urlare «Ah, stronzi, bastardi schifosi», tra le lacrime
mentre le mie scarpe da ginnastica legate con le stringhe, venivano lanciate fra i rami più alti di un vecchio albero e i miei libri facevano svolazzare le pagine come coriandoli nella calda aria estiva. Mi spiace, Peggy. Era quasi vero. Non era la peggiore di loro, neanche lontanamente. Ma era lì, ed era disgustosa, con i capelli unti e la faccia rossa arrabbiata avrebbe anche potuto essere figlia di mio padre. E così io calpestai i suoi libri, svuotai le sue sacche, sparsi la sua roba da ginnastica (riesco ancora a vedere quei calzoncini blu, sformati come le mie leggendarie Braghe di tuono) nella polvere gialla. «Ossie bastardi!» Sopravvivenza del più forte, risposi in silenzio, sentendomi furente per lei, furente per me, ma molto su di giri, come se avessi passato un esame; come se così facendo avessi ridotto ancor di più il divario fra me e St Oswald, fra quello che ero e quello che intendevo essere. «Bastardi.» Il semaforo era verde, ma la coda era troppo lunga perché riuscissi a passare. Un paio di ragazzi hanno visto l'opportunità di attraversare - ho riconosciuto McNair, uno dei preferiti di Straitley, Jackson, il teppistello in miniatura della stessa classe, e l'andatura pesante e sghemba, da granchio, di Anderton-Pullitt - e proprio in quel momento il traffico davanti a me ha cominciato a scorrere. Jackson ha attraversato di corsa. Così ha fatto McNair. C'era uno spazio di cinquanta metri davanti a me, nel quale, facendo veloce, avrei potuto passare. Altrimenti il semaforo sarebbe cambiato di nuovo e avrei dovuto sostare all'incrocio per altri cinque minuti mentre l'interminabile coda procedeva adagio. Ma Anderton-Pullitt non si è messo a correre. Un ragazzo corpulento, già di mezza età a tredici anni, ha attraversato con comodo, senza guardarmi nemmeno quando ho suonato, come se ignorandomi potesse cancellare la mia esistenza. Valigetta in una mano, portavivande nell'altra, ha fastidiosamente girato intorno alla pozzanghera al centro della strada così che, quando si è allontanato da me, il semaforo era scattato e ho dovuto per forza aspettare. Insignificante, lo so. Ma c'è un'arroganza in questo, un disprezzo pigro che è puro St Oswald. Mi chiedo che cosa avrebbe fatto se avessi semplicemente guidato verso, o di fatto, contro di lui. Si sarebbe messo a correre? Oppure sarebbe rimasto immobile, fiducioso, stupido, declamando fino all'ultimo: «Non vorrà... Non può...!»
Purtroppo, era impossibile investire Anderton-Pullitt. Per cominciare, ho bisogno della macchina, e la società che la noleggia potrebbe insospettirsi se la riportassi indietro con la parte anteriore danneggiata. Però ci sono un sacco di altri modi, ho pensato, e mi dovevo un piccolo festeggiamento. Ho sorriso mentre aspettavo al semaforo rosso, e ho acceso la radio. Per la prima mezz'ora di pranzo non ho fatto che starmene nell'aula 59. Grazie a Bob Strange, Straitley era fuori, o annidato in quella sua Sala di lettura, o in servizio a pattugliare i corridoi. L'aula era piena di ragazzi. Alcuni facevano i compiti, altri giocavano a scacchi o chiacchieravano, dando di tanto in tanto una sorsata a bevande gassate o mangiando patatine. Tutti gli insegnanti odiano le giornate piovose; i ragazzi non possono andare da nessuna parte e devono essere sorvegliati; è fangoso e accadono incidenti; è affollato e rumoroso; i battibecchi si tramutano in scontri. Ho dovuto intervenire di persona in uno fra Jackson e Brasenose (un ragazzo tenero, grasso, che non ha ancora imparato il trucco perché la mole giochi a suo favore), ho controllato il riordino dell'aula, segnalato un errore di sillabazione nel compito di Tayler, accettato una menta Polo da Pink e una nocciolina da Knight, parlato per qualche minuto con i ragazzi che mangiavano la colazione al sacco nell'ultima fila, quindi, compiuto il mio dovere, ho ripreso la strada verso la Sala professori per aspettare gli sviluppi davanti a una tazza di tè torbido. Naturalmente non ho un'aula. Nessuno del nuovo personale ce l'ha. Ci dà tempo libero e una prospettiva più ampia: posso osservare da dietro le linee e conosco i momenti di debolezza, i periodi pericolosi, le sezioni senza sorveglianza della scuola, i minuti vitali, i secondi, durante i quali se il disastro dovesse colpire, il ventre molle del gigante sarebbe più esposto. La campana dopo il pranzo è uno di questi. L'appello non è ancora iniziato, anche se, a questo punto, l'ora di intervallo è ufficialmente terminata. In teoria è un avviso di cinque minuti, un momento di passaggio in cui gli insegnanti ancora seduti nella Sala professori si dirigono verso le loro classi, e il personale addetto ai turni del pranzo ha qualche minuto per raccogliere le proprie cose (e forse dare un'occhiata al giornale) prima dell'appello. A tutti gli effetti, però, sono cinque minuti di vulnerabilità in un'operazione che altrimenti funziona regolarmente. Nessuno è di turno; buona parte del corpo insegnante, e a volte dei ragazzi, si sta ancora spostando da un posto all'altro. Non è quindi sorprendente che la maggior parte degli inci-
denti accada in questo momento: guai, furti, piccoli atti di vandalismo, episodi casuali di cattiva condotta perpetrati di passaggio, col favore dell'ondata di attività che precede le lezioni del pomeriggio. È per questo che ci sono voluti cinque minuti prima che qualcuno si accorgesse che AndertonPullitt era stramazzato a terra. Sarebbe stato meno grave se fosse stato popolare. Ma non lo era: seduto un po' in disparte dagli altri, a mangiare i suoi sandwich (Marmite e formaggio fresco su pane senza glutine, sempre gli stessi) a bocconi lenti, laboriosi, sembrava più una tartaruga che un tredicenne. Ce n'è uno come lui ogni anno: precoce, occhialuto, ipocondriaco, evitato perfino oltre l'intimidazione, in apparenza sordo agli insulti e all'emarginazione; coltiva un modo pedante di parlare, da uomo anziano, il che gli conferisce una reputazione di intelligenza, è cortese con i professori, il che lo rende uno dei preferiti. Straitley lo trova divertente, ma c'è da immaginarselo: da ragazzo era probabilmente uguale. Io lo trovo scocciante: durante l'assenza di Straitley mi segue in giro quando sono in servizio in cortile e mi sottopone a conferenze ponderose sulle sue varie passioni (fantascienza, computer, aerei della prima guerra mondiale) e i suoi disturbi, veri e immaginari (asma, intolleranze alimentari, agorafobia, allergie, ansia, eruzioni cutanee). Dalla Stanza del silenzio, dove mi trovavo ora, mi divertivo a stabilire dai rumori che provenivano da sopra la mia testa, se Anderton-Pullitt avesse avuto una vera indisposizione o meno. Nessun altro se ne è accorto, nessun altro stava ascoltando. Robbie Roach, che l'ora successiva era libero e che a sua volta non ha una classe (troppi impegni extra curricolari), stava frugando nel suo armadietto. Lì dentro ho notato un pacchetto di sigarette francesi (un regalo di Fallow), che ha rapidamente nascosto dietro una pila di libri. Isabelle Tapi, che insegna part-time e quindi non ha una classe, stava bevendo da una bottiglia di acqua Evian mentre leggeva un tascabile. Ho sentito la campana dei cinque minuti seguita da un baccano, la melodia scatenata dei ragazzi senza sorveglianza, il rumore di qualcosa (una sedia?) che cadeva. Poi voci alzate - Jackson e Brasenose che riprendevano la lotta - un'altra sedia che cadeva, poi silenzio. Ho immaginato che fosse entrato Straitley. Di certo, a quel punto c'è stato il suono della sua voce, un mormorio sommesso da parte dei ragazzi, poi la cadenza domestica dell'appello, familiare come quelle dei gol il sabato pomeriggio. «Adamczyk?»
«Signore.» «Almond?» «Signore.» «Allen-Jones?» «Sì, signore.» «Anderton-Pullitt?» Pausa. «Anderton-Pullitt?» 2. St Oswald's Grammar School for Boys mercoledì, 29 settembre Ancora nessuna notizia dagli Anderton-Pullitt. Lo interpreto come un buon segno - mi dicono che in casi estremi la reazione si può rivelare fatale nel giro di secondi - ma pure così, il pensiero che uno dei miei ragazzi avrebbe potuto morire - morire veramente, nella mia classe, sotto la mia sorveglianza - mi fa annaspare il cuore e sudare i palmi. Nel corso di tutti gli anni di insegnamento, ho visto morire tre dei miei ragazzi. Le loro facce mi guardano ogni giorno dalle fotografie di classe lungo il corridoio di mezzo: Hewitt, morto di meningite durante le vacanze di Natale del 1972 e Constable, 1986, investito da una macchina nella sua via mentre correva per recuperare un pallone perduto; e, naturalmente, Mitchell, 1989; Mitchell, il cui caso non ha mai smesso di turbarmi. Tutti al di fuori dell'orario scolastico; eppure, in ogni circostanza (ma specialmente nella sua), mi sento in colpa, come se avessi dovuto stare in guardia. Poi ci sono gli ex alunni. Jamestone, cancro a trentadue anni; Deakin, tumore al cervello; Stanley, incidente di macchina; Poulson, suicida, nessuno sa perché, dieci anni fa, lasciando una moglie e una figlia di otto anni con la sindrome di Down. Sono sempre i miei ragazzi, tutti quanti, e quando li penso, provo ancora un vuoto e una sofferenza, mescolati a quella strana, dolorosa e inesplicabile sensazione che avrei dovuto essere lì. Sulle prime ho pensato stesse fingendo. Erano su di giri: Jackson stava litigando con qualcuno nell'angolo, io ero di fretta. Forse era incosciente quando sono entrato; secondi preziosi sono trascorsi intanto che calmavo la classe, trovavo la penna. Choc anafilattico, lo chiamano - dio solo sa se non ne ho sentito parlare abbastanza proprio dal ragazzo, anche se ho sempre ritenuto che i suoi disturbi riguardassero più la madre iperprotettiva
che la sua reale condizione fisica. Era tutto nella sua scheda, come ho scoperto troppo tardi; insieme alle molte raccomandazioni che lei ci aveva mandato a proposito della dieta, dell'attività fisica, delle esigenze per la divisa (i tessuti sintetici gli provocano un'eruzione cutanea), fobie, antibiotici, istruzioni religiose e integrazione sociale. Sotto «allergie»: grano (lieve intolleranza) e, in lettere maiuscole, evidenziato da un asterisco e diversi punti esclamativi, NOCI!!! Naturalmente, Anderton-Pullitt non mangia noci. Consuma solo cibo decretato privo di rischi dalla madre e che, inoltre, corrisponde alla sua idea piuttosto limitata di cosa sia accettabile. Ogni giorno il contenuto del suo portavivande comprende esattamente le stesse cose: due sandwich al formaggio fresco e Marmite su pane senza glutine tagliati in quattro, un pomodoro, una banana, un pacchetto di gomme assortite (delle quali scarta tutto tranne quelle rosse), e una lattina di Fanta. Sta di fatto che gli ci vuole tutto l'intervallo per consumare questo pranzo; non va mai allo spaccio, né accetta mai cibo da un altro ragazzo. Non chiedetemi come sono riuscito a portarlo giù. È stato uno sforzo: i ragazzi mi giravano attorno a vuoto per l'eccitazione o la confusione; ho chiesto aiuto, ma non è venuto nessuno tranne Gerry Grachvogel dalla porta accanto, che ha guardato e - ci mancava poco che svenisse - senza fiato ha detto: «Santo cielo! Santo cielo!» torcendo le piccole mani da coniglio e lanciando occhiate nervose da una parte all'altra. «Gerry, chiedi aiuto», ho ordinato, tenendo in equilibrio AndertonPullitt su una spalla. «Chiama un'ambulanza. Modo fac.» Grachvogel non ha fatto altro che guardarmi a bocca aperta. È stato Allen-Jones a reagire, correndo giù per le scale due gradini alla volta, quasi travolgendo Isabelle Tapi, che stava salendo. McNair è schizzato via in direzione dell'ufficio di Pat Bishop. Pink e Tayler mi hanno aiutato a sostenere il ragazzo incosciente. Quando abbiamo raggiunto il corridoio inferiore mi sentivo come se avessi i polmoni pieni di piombo fuso, ed è stato con autentica gratitudine che ho passato il mio fardello a Bishop. Il quale sembrava rallegrato di aver qualcosa di fisico da fare, e ha sollevato AndertonPullitt come fosse un bebé. Dietro di me, ero vagamente consapevole di Sutcliff che aveva finito di fare l'appello. Di Allen-Jones al telefono con l'ospedale - «Dicono che si fa prima se lo porta in macchina lei al pronto soccorso, signore!». Di Grachvogel che stava cercando di ritrovare la sua classe, la quale ci aveva seguito en masse per vedere cosa stava succedendo. E del Nuovo Rettore che
ora emergeva dal suo ufficio, l'aria inorridita, con Pat Bishop al fianco e Marlene che sbirciava preoccupata da sopra la sua spalla. «Mr Straitley!» perfino in un'emergenza come questa mantiene una certa curiosa rigidità, come se fosse fatto di una materia diversa dalla carne: gesso, o forse una stecca di balena. «Potrebbe spiegarmi, per favore...» Ma il mondo si era fatto pieno di rumori e fra questi il battito del mio cuore era il più impellente; mi sono venute in mente le epiche della giungla della mia infanzia, nelle quali gli avventurieri scalavano vulcani alla sinistra cacofonia di tamburi indigeni. Mi sono appoggiato al muro del corridoio inferiore, mentre d'un tratto le gambe compivano una trasformazione da osso, vene, tendine, a qualcosa di più simile alla gelatina. I polmoni mi facevano male; c'era una zona, vicino al bottone più alto del gilé, contro cui sembrava che qualcuno stesse premendo ripetutamente con un grosso indice teso, come per evidenziare un punto. Mi sono guardato attorno alla ricerca di una sedia, ma era troppo tardi: il mondo si è capovolto e ho cominciato a scivolare lungo il muro. «Mr Straitley!» Dalla prospettiva capovolta, il Rettore aveva un'aria più sinistra che mai. Una testa rinsecchita, ho pensato confuso. Proprio ciò che serve per placare il Dio del Vulcano - e malgrado il dolore al petto non riuscivo quasi a trattenermi dal ridere. «Mr Straitley! Mr Bishop! Qualcuno mi può dire per favore cosa sta succedendo?» Il dito invisibile mi ha colpito di nuovo, e mi sono seduto sul pavimento. Marlene, sempre efficiente, ha reagito per prima: si è inginocchiata di fianco a me senza esitazione e mi ha aperto la giacca per sentire il cuore. I tamburi pulsavano: ora potevo intuire piuttosto che sentire il movimento intorno a me. «Mr Straitley, tenga duro!» Odorava di qualcosa di farinoso e femminile; volevo fare qualche commento spiritoso, ma non mi è venuto in mente nulla. Il petto mi faceva male, i timpani ruggivano: ho provato ad alzarmi ma non ce la facevo. Sono scivolato ancora un po', ho colto l'immagine delle Powerpuff Girls sulle calze di Allen-Jones e ho cominciato a ridere. L'ultima cosa che ricordo prima di perdere i sensi è la faccia del Nuovo Rettore, che appariva nel mio campo visivo mentre dicevo: «Bwana, gli indigeni non entreranno nella Città proibita». Mi sono risvegliato all'ospedale. Ero fortunato, mi ha detto il dottore: c'era stato quello che lui chiamava un episodio cardiaco minore, causato da ansia e sforzo eccessivo. Volevo alzarmi immediatamente, ma non me
lo ha permesso, dicendo che dovevo rimanere sotto controllo per almeno tre o quattro giorni. Poi un'infermiera di mezza età dai capelli rosa e i modi da asilo mi ha rivolto delle domande, trascrivendo le risposte con un'espressione di leggero rimprovero, come se fossi un bambino che continua a bagnare il letto. «Allora, Mr Straitley, quante sigarette fumiamo alla settimana?» «Non saprei dirlo, signora. Non ho sufficiente intimità con il suo vizio del fumo.» L'infermiera è parsa turbata. «Ah, si stava rivolgendo a me», ho detto. «Mi scusi, ho pensato che lei potesse essere un membro della Famiglia Reale.» I suoi occhi si sono ristretti. «Mr Straitley, ho un lavoro da fare.» «Anch'io», ho detto. «Latino di terza, gruppo 2, ora 5.» «Sono sicura che se la caveranno senza di lei per un po'», ha detto l'infermiera. «Nessuno è indispensabile.» Un pensiero malinconico. «Credevo che lei dovesse farmi sentire meglio.» «E così sarà, non appena abbiamo terminato con queste pratiche.» Bene, nel giro di trenta minuti, Roy Hubertus Straitley (Dottore in Lettere) era riassunto in quello che assomigliava parecchio a un registro di scuola - abbreviazioni criptiche e segni di spunta nelle caselle - e l'infermiera appariva abbastanza compiaciuta. Devo dire che non sembrava eccellente: età, sessantaquattro; lavoro, sedentario; fumatore, moderato; unità di alcol per settimana, assai vivaci; peso, da qualche parte tra un leggero embonpoint e un genuino avoirdupois. Il dottore l'ha letto tutto con un'espressione di macabra soddisfazione. Era un avvertimento, ha concluso: un segnale dagli dèi. «Non ha vent'anni, sa», mi ha detto. «Ci sono cose che semplicemente non deve più fare.» È una vecchia tecnica, la conosco bene. «Lo so, lo so. Niente fumo, niente alcol, niente fish and chips, niente scatti da centometristi, niente belle donne, niente...» Mi ha interrotto. «Ho parlato con il suo medico curante. Un certo dott. Bevans, giusto?» «Bevans. Lo conosco bene. Dal 1975 al 1979. Ragazzo brillante. Ha avuto un ottimo in latino al diploma. Ha frequentato medicina a Durham.» «Esatto.» La parola denunciava un biasimo più che eloquente. «Mi ha detto di essere preoccupato per lei già da un po'.» «Davvero?» «Sì.»
Uffa. Ecco cosa succede ai ragazzi quando ricevono un'istruzione classica. Si rivoltano contro di te, i piccoli porci, si rivoltano contro di te e prima che tu ti renda conto di cosa sta accadendo, ti ritrovi a fare una dieta priva di grassi, a indossare i pantaloni della tuta e a ispezionare le case di riposo per anziani. «Su, mi dica il peggio. Che cos'ha raccomandato questa volta il piccolo parvenu? Birra calda? Magnetismo? Sanguisughe? Lo ricordo quando era nella mia classe, un ragazzino rotondo, sempre nei pasticci. E ora dice a me quello che devo fare?» «Le è molto affezionato, Mr Straitley.» Ci siamo, ho pensato. «Ma lei ha sessantacinque anni...» «Sessantaquattro. Il mio compleanno è il 5 novembre. La Notte del Falò.» Ha liquidato il falò scrollando la testa. «Ed è convinto di poter andare avanti all'infinito come ha sempre fatto...» «Qual è l'alternativa? Esposizione su uno spuntone roccioso?» Il dottore ha sospirato. «Sono sicuro che un uomo istruito come lei troverebbe la pensione gratificante e stimolante. Potrebbe dedicarsi a un hobby...» Un hobby, affé! «Non vado in pensione.» «Sia ragionevole, Mr Straitley...» St Oswald è stato il mio mondo per più di trent'anni. Che altro c'è? Mi sono alzato sul letto a rotelle e ho gettato le gambe da un lato. «Mi sento bene.» 3. giovedì, 30 settembre Povero vecchio Straitley. Non potevo non andare a trovarlo, appena finita la scuola, ma ho scoperto che si era già fatto dimettere dal reparto di cardiologia, con il biasimo del personale medico. Ma il suo indirizzo era nella guida di St Oswald e prima di andare a casa sua ho comprato una piantina in vaso dal negozio dell'ospedale. Prima di allora non l'avevo mai visto fuori parte. Adesso era impossibile non rendersi conto che era un uomo vecchio, con un'ispida barba bianca da uomo vecchio sotto il mento e ossuti piedi bianchi da uomo vecchio nelle pantofole di cuoio logore. Sembrava contento di vedermi, in modo quasi
commovente. «Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi», ha dichiarato, «tornerò domani mattina.» «Davvero? Così presto?» Quasi lo amavo per questo, però mi faceva anche preoccupare. La nostra partita mi sta divertendo troppo per permettergli di andarsene per uno stupido principio. «Non dovrebbe riposarsi, almeno qualche giorno?» «Non cominci anche lei», ha detto. «Ne ho già sentite abbastanza dall'ospedale. Si trovi un hobby, dice lui, qualcosa di tranquillo come la tassidermia o il macramé: numi, perché non mi dà la cicuta e la facciamo finita?» Ho pensato che stesse drammatizzando troppo, e gliel'ho detto. «Be'», ha risposto Straitley con una smorfia. «È quello che so fare bene.» La sua è una casetta a schiera di due piani a circa dieci minuti a piedi da St Oswald. L'ingresso è pieno di libri, alcuni su scaffali, altri no, così è impossibile distinguere il colore della tappezzeria. I tappeti sono consunti fino in fondo alla trama, tranne nel salottino, dove aleggia il fantasma di un tappeto Axminster marrone. La casa odora di polvere, di lucido e del cane che è morto cinque anni fa; nell'ingresso un grosso radiatore da scuola emette un'impietosa folata di calore; c'è una cucina con un pavimento di piastrelle a mosaico; e, a ricoprire ogni scampolo di muro non ingombro, una moltitudine di foto di classe. Mi ha offerto il tè in una tazza di St Oswald, e dei biscotti al cioccolato dall'aspetto dubbio provenienti da una scatola di latta sul camino. Ho notato che a casa sembra più piccolo. «Come sta Anderton-Pullitt?» All'ospedale, a quanto pare, ha ripetuto la stessa domanda ogni dieci minuti, anche quando il ragazzo era fuori pericolo. «Hanno scoperto cosa è successo?» Ho scosso la testa. «Di sicuro nessuno accusa lei, Mr Straitley.» «Non è questo il punto.» E non lo era: lo dicevano le fotografie sui muri, con le doppie file di facce giovani; chissà se lì in mezzo, da qualche parte, c'era anche Leon. Che cos'avrei fatto se avessi visto la sua faccia adesso, in casa di Straitley? E cos'avrei fatto se avessi visto anche la mia, di fianco alla sua, con il berretto calato sugli occhi, il blazer abbottonato stretto sopra la camicia di seconda mano? «Le disgrazie non vengono mai sole», ha detto Straitley, allungando la mano per prendere un biscotto, per poi cambiare idea. «Prima Fallow, a-
desso Anderton-Pullitt... Sto aspettando di vedere chi sarà il prossimo.» Ho sorriso. «Non immaginavo che fosse superstizioso, signore.» «Superstizioso? Fa parte del gioco.» Alla fine ha preso il biscotto e l'ha inzuppato nel tè. «Non si può lavorare a St Oswald a lungo come me senza credere a segni e portenti e...» «Fantasmi?» ho suggerito subdolamente. Non mi ha ricambiato il sorriso. «Certo», ha detto. «Quel maledetto posto ne è pieno.» In quel momento c'era da chiedersi se stesse pensando a mio padre. O a Leon. Per un momento, c'era da domandarsi se non fossi un fantasma anch'io. 4. Fu durante quell'estate che John Snyde cominciò - a poco a poco e in modo quasi invisibile - a ridursi in pezzi. All'inizio piccole cose, appena percepibili nel quadro più grande della mia vita, dove Leon era in primo piano e tutto il resto era ridotto a vaghe costruzioni su un orizzonte lontano e caliginoso. Ma con l'approssimarsi di luglio e l'imminente fine del trimestre, il suo cattivo umore, sempre presente, divenne una costante. Più di tutto ricordo la sua rabbia. Quell'estate, mio padre sembrava sempre infuriato. Con me, con la scuola, con i misteriosi graffitari che dipingevano il lato del padiglione degli sport. Con i bambini più piccoli che lo sbeffeggiavano quando andava sul grosso tosaerba. Con i due ragazzi più grandi che quella volta l'avevano guidato e gli avevano procurato un rimprovero ufficiale. Con i cani dei vicini e i loro piccoli doni indesiderati sul prato del cricket, che lui doveva togliere usando una borsa di plastica arrotolata e della carta igienica. Con il governo, con il proprietario del pub, con la gente che si spostava sull'altro lato del marciapiede per evitarlo quando ritornava a casa dal supermercato, borbottando fra sé. Un lunedì mattina, a pochi giorni dalla fine del trimestre, scoprì un ragazzino del primo anno che frugava sotto il banco della portineria. In apparenza alla ricerca di una borsa perduta, ma John Snyde sapeva che le cose non stavano così e non credette a quella storia. Le intenzioni del ragazzo erano evidenti dalla sua faccia -furto, vandalismo o un altro mezzo per screditare John Snyde - e infatti aveva già scoperto la bottiglietta di whisky irlandese nascosta sotto una pila di vecchi giornali, e i suoi occhietti baluginavano di malignità e soddisfazione. Così pensò mio padre; e riconoscendo uno dei suoi giovani aguzzini - un bambino con la faccia da scim-
mia e modi insolenti - si preparò a dargli una lezione. Ah, non credo che gli avesse fatto veramente male. La sua lealtà nei confronti di St Oswald era piena di livore ma autentica, e sebbene a quel punto odiasse parecchi individui - l'economo, il Rettore e molti ragazzi -, l'istituzione in sé meritava ancora il suo rispetto. Ma il ragazzino provò a minacciare, disse mio padre, «Non mi può toccare»; chiese di uscire dalla portineria e alla fine, con una voce che perforò la testa di mio padre come un trapano (la serata della domenica si era protratta fino tardi, e questa volta si vedeva) strillò: «Mi faccia uscire, mi faccia uscire, mi faccia uscire», finché le urla non allertarono il dott. Tidy nel vicino economato facendolo accorrere. A quel punto il bambino dalla faccia di scimmia, Matthews, si chiamava, stava piangendo. John Snyde era un uomo grosso, che incuteva timore anche quando non era furioso, e quel giorno era molto, ma molto arrabbiato. Tidy vide gli occhi iniettati di sangue di mio padre e l'abbigliamento sgualcito; vide la faccia piena di lacrime del bambino, la chiazza bagnata che si allargava sui pantaloni grigi dell'uniforme, e trasse l'inevitabile conclusione. Era l'ultima goccia: John Snyde venne convocato nell'ufficio del Rettore la mattina stessa, alla presenza di Pat Bishop (per garantire la correttezza della procedura), e nel giro di un secondo gli venne impartito un ammonimento finale. Il Vecchio Rettore non lo avrebbe fatto. Mio padre ne era convinto. Shakeshafte conosceva lo stress del lavoro interno a una scuola; avrebbe saputo come sdrammatizzare la situazione senza provocare una scenata. Ma quello nuovo proveniva dal settore statale, era versato in correttezza politica e attivismo da strapazzo. Inoltre, sotto l'apparenza inflessibile, era un debole e l'opportunità che gli si offriva adesso di affermarsi come un capo forte, decisionista (senza correre alcun rischio professionale) era troppo buona per mancarla. Ci sarebbe stata un'inchiesta, disse. Per il momento Snyde doveva continuare a occuparsi delle sue mansioni, rivolgendosi ogni giorno all'economo per ricevere istruzioni, ma non poteva avere alcun contatto con i ragazzi. Qualsiasi ulteriore incidente - la parola venne pronunciata con il compiacimento perbenista dell'astemio che va in chiesa - si sarebbe concluso con un licenziamento immediato. Mio padre continuò a essere certo che Bishop fosse dalla sua parte. Buon vecchio Bishop, disse: sprecato in quel lavoro da ufficio, avrebbe dovuto essere Rettore. Va da sé che a mio padre sarebbe piaciuto:
quell'uomo grosso, franco, con il naso da giocatore di rugby e i gusti proletari. Ma Bishop era leale nei confronti di St Oswald: e per quanto simpatizzasse con le lagnanze di mio padre, sapevo che, in caso di scelta, avrebbe dimostrato tutto il suo attaccamento alla scuola. Tuttavia, disse, le vacanze avrebbero dato a mio padre il tempo di rimettersi in sesto. Aveva bevuto troppo, questo lo sapeva, si era lasciato andare. Ma era un brav'uomo, aveva servito la scuola con fedeltà per quasi cinque anni: avrebbe superato questa fase. Tipica frase da Bishop: Può superare questa fase. Parla ai ragazzi nello stesso modo cameratesco, come un allenatore di rugby che chiama a raccolta la squadra. Le sue conversazioni, come quelle di mio padre, erano piene di cliché. Può superare questa fase. La prenda da uomo. Più grossi sono, più cadono col botto. Era un linguaggio che mio padre amava e capiva, e per un po' lo rianimò. Per amore di Bishop, ridusse l'alcol. Si fece tagliare i capelli, e si vestì con maggior cura. Consapevole di essersi lasciato andare, come aveva detto Bishop, cominciò perfino a fare esercizi di sera, serie di flessioni davanti alla TV mentre io leggevo un libro e sognavo che non fosse mio padre. Poi vennero le vacanze e la pressione su di lui diminuì. Anche i suoi compiti furono ridotti; non c'erano ragazzi a rendergli la vita impossibile; tagliava i prati indisturbato e pattugliava i terreni da solo, attento agli artisti delle bombolette spray e ai cani randagi. In quei momenti potevo credere che mio padre fosse quasi felice: chiavi in una mano, lattina di birra nell'altra, percorreva il suo piccolo impero con la sicurezza di sapere che lì aveva un posto, quello di una rotellina, piccola ma necessaria, in una macchina gloriosa. Bishop aveva detto così, per cui doveva essere vero. Quanto a me, avevo altre preoccupazioni. Concessi a Leon tre giorni interi prima di telefonargli per organizzare di incontrarci; fu amichevole, sì, ma non dimostrò alcuna impazienza, e mi disse che sua madre avrebbe avuto alcuni ospiti, e lui doveva intrattenerli. Fu un colpo, dopo tutto quello che avevo accuratamente pianificato; ma lo accettai senza lamentarmi, poiché sapevo che la maniera migliore per trattare con la rara cattiveria di Leon era di ignorarla e di lasciarlo fare a modo suo. «Queste persone sono amici di tua madre?» domandai, più per continuare a farlo parlare che per avere informazioni. «Già. I Tynan e creatura. È un po' una rottura, ma Charlie e io dobbiamo fare comunella. Sai, passare i sandwich al cetriolo, versare lo sherry, e tut-
ta quella roba lì.» Sembrava dispiaciuto, ma non riuscivo a togliermi dalla testa che stesse sorridendo. «Creatura?» chiesi, con visioni di uno scolaro intelligente, allegro, che mi avrebbe completamente eclissato agli occhi di Leon. «Ehm, Francesca. Una bambinetta grassa, pazza per i pony. Meno male che Charlie è qui; altrimenti è probabile che dovrei occuparmi anche di lei.» «Ah», non riuscii a fare a meno di sembrare un po' triste. «Non preoccuparti», mi disse Leon. «Non durerà tanto. Ti chiamerò, ok?» Questo mi spaventava, certo, non potevo rifiutarmi di dare a Leon il mio numero. Ma il pensiero che mio padre potesse rispondere alla sua telefonata mi riempiva di inquietudine. «Allora ciao», dissi, «non c'è problema.» E così aspettai. Ma mi annoiavo oltre ogni dire, per non parlare dell'agitazione: da una parte volevo stare vicino al telefono nel caso Leon chiamasse, dall'altra provavo la pulsione altrettanto forte di andare con la bici vicino a casa sua nella speranza di incontrarlo «per caso». Non avevo altri amici: leggere mi rendeva impaziente; non potevo neppure ascoltare i dischi perché mi facevano pensare a Leon. Era una bella estate, quel genere d'estate che esiste solo nella memoria e in certi libri, calda, verdeazzurra e piena di api e mormorii, ma per me avrebbe anche potuto piovere ogni giorno. Senza Leon non esisteva alcun piacere: io mi appostavo, rubavo dai negozi solo per dispetto. Dopo qualche tempo, mio padre se ne accorse. Le sue buone intenzioni, per un po', lo avevano risvegliato, e cominciò a fare commenti sulla mia svogliatezza e sulla mia irascibilità. Dolori della crescita, diceva, e mi raccomandava di fare un po' di moto e di stare all'aria aperta. Certo, stavo crescendo. Avrei compiuto tredici anni in agosto ed ero nel pieno sviluppo. Ero sempre di una magrezza da uccellino, però mi rendevo conto che l'uniforme di St Oswald si era fatta troppo stretta, specialmente il blazer (a breve avrei avuto bisogno di procurarmene un altro), e che i pantaloni lasciavano intravedere un buon cinque centimetri di caviglia. Passò una settimana e la maggior parte di una seconda. Sentivo le vacanze scivolare via e non potevo farci nulla. Leon era partito? Passando da casa sua con la nuova bici, avevo visto una porta a zanzariera aperta che portava al patio; avevo sentito risa e voci nell'aria calda, anche se non riuscivo a decifrarne il numero, né se la voce del mio amico fosse fra queste.
Mi domandavo come fossero gli ospiti. Un banchiere, aveva detto, e una segretaria potente di qualche tipo, come la madre di Leon. Professionisti, che mangiavano tartine al cetriolo e sorseggiavano drink sulla veranda. Il tipo di persone che John e Sharon Snyde non sarebbero mai state, indipendentemente dai soldi. Il genere di genitori che avrei voluto io. Il pensiero mi ossessionava: cominciai a visualizzare i Tynan, lui con una giacca leggera di lino, lei con un vestito estivo bianco; accanto a loro Mrs Mitchell, con una brocca di Pimm's e un vassoio di bicchieri alti, Leon e sua sorella, Charlie, seduti sull'erba, tutti dorati per la luce e qualcosa di più. Quel qualcosa che li rendeva diversi da me e che avevo intravisto per la prima volta a St Oswald, il giorno in cui avevo superato la linea. Quella linea. Mi apparve davanti una volta di più, e una volta di più mi provocava con la sua vicinanza. Adesso mi sembrava di vederla, la linea dorata che mi separava da tutto ciò che desideravo. Che altro potevo fare? Non avevo passato gli ultimi tre mesi alla corte dei miei nemici, come un lupo smarrito che si unisce ai cani da caccia per rubare loro il cibo? Perché allora quel senso di isolamento? Perché Leon non aveva chiamato? Aveva forse percepito la mia diversità e si vergognava di farsi vedere con me? Nel mio nascondiglio della portineria, col timore di uscire nel caso qualcuno mi vedesse, ne avevo ormai la certezza. C'era qualcosa di dozzinale in me, un odore, forse, il lustro da poliestere, che lo aveva messo in guardia. Non avevo fatto abbastanza, mi aveva scoperto. Mi stava facendo impazzire. Dovevo saperlo, e quella domenica mi vestii con cura e pedalai fino a casa di Leon. Era una mossa ardita. Non ci avevo mai messo piede, passarci davanti in bicicletta non contava, e mi accorsi che mi tremavano un po' le mani mentre aprivo il cancello e camminavo sul lungo viale verso il portico. Era una grande casa edoardiana con finestre su entrambi i lati dell'ingresso, prati sul davanti e su un fianco e un giardino alberato sul retro con un chiosco e un frutteto cintato da un muro. Denaro antico, come avrebbe detto mio padre con invidia e disprezzo; ma per me era il mondo di cui avevo letto nei libri; era i Famous Five; era limonata sul prato; era collegio; erano picnic al mare e un cuoco allegro che faceva pasticcini e una madre elegante che si sdraiava su un sofà e un padre che fumava la pipa e aveva sempre ragione, un padre sempre benevolo, anche se stava poco a casa. Non avevo ancora tredici anni, e già mi sentivo di una vecchiaia esasperante, come se l'infanzia mi fosse stata in
qualche modo negata, quell'infanzia, almeno: quella che meritavo. Bussai; sentivo voci provenire da dietro la casa. La madre di Leon, che diceva qualcosa a proposito di Mrs Thatcher e i sindacati, una voce maschile - «L'unico modo per farlo è...» - e il tintinnio smorzato di qualcuno che versava da una brocca piena di cubetti di ghiaccio. Poi la voce di Leon, che risuonava molto vicina, dire: «Vae, tutto ma non la politica, per favore. Chi vuole una vodka lemon col ghiaccio?» «Sì!» Questa era Charlie, la sorella di Leon. Poi un'altra voce, quella di una ragazza, bassa e ben modulata: «Certo, ok.» Questa doveva essere Francesca. Mi era sembrato un nome piuttosto sciocco quando Leon me lo aveva detto al telefono, ma all'improvviso non mi parve più così. Mi allontanai lentamente dalla porta verso il lato della casa - se qualcuno mi avesse visto, avrei detto che avevo bussato ma che non avevo avuto risposta - e sbirciai dietro all'angolo dell'edificio. Era pressappoco come me l'ero immaginata. C'era una veranda dietro alla casa, ombreggiata da un grande albero che proiettava un mosaico di luce e ombra sulle tavole e le sedie sistemate sotto. Ecco Mrs Mitchell, bionda e carina in jeans e un'impeccabile camicia bianca, che la facevano sembrare molto giovane, quindi Mrs Tynan, con i sandali e un fresco abito di lino, e poi c'era Charlotte seduta su un'altalena fatta in casa; e, di fronte a me, con i jeans, le scarpe da ginnastica rovinate e la T-shirt degli Stranglers sbiadita, c'era Leon. Era cresciuto, pensai. In tre settimane i suoi tratti si erano affilati, il corpo allungato e i capelli, che già erano al limite secondo le regole di St Oswald, ora gli ricadevano sugli occhi. Senza uniforme avrebbe potuto essere chiunque; sembrava un ragazzo qualsiasi della mia scuola, tranne per quel fulgore: la patina che viene da una vita vissuta in una casa come questa, di latino imparato con Quasi nella torre campanaria, di blini al salmone affumicato e di vodka lemon ghiacciata invece di una birra e di fish and chips, di serate del sabato passate senza dover chiudere a chiave la propria camera da letto. Un'ondata di amore e desiderio mi travolse, non solo per Leon ma per tutto quello che rappresentava. Fu così potente, e così adulta, così mistica per intensità, che per un momento notai appena la ragazza al suo fianco, Francesca, la ragazza grassa dei pony su cui sembrava così sprezzante al telefono. Poi la vidi, e per una volta me ne stetti a guardare, dimenticando perfino di nascondermi per lo stupore e lo sgomento.
Un tempo sarà stata anche la bambinetta grassa dei pony, ma ora non c'erano parole per descriverla. Qualsiasi paragone sarebbe stato sbagliato. La mia personale esperienza su ciò che costituiva essere desiderabili si limitava a esempi come Pepsi, le donne nelle riviste di mio padre e le ragazze alla Tracey Delacey. Io non riuscivo a vederlo ma, di nuovo, come avrei potuto? Pensai a Pepsi e alle sue unghie finte e al perenne odore di lacca per capelli; a Tracey che masticava la gomma, con le gambe macchiate e la faccia imbronciata; e alle donne nelle riviste, civettuole ma in qualche modo carnivore, aperte come qualcosa sul tavolo di un patologo. Pensai a mia madre, e al Cinnabar. Questa ragazza era di una razza del tutto diversa, quattordici anni, forse quindici, magra, fulva. L'incarnazione dello splendore: capelli legati con noncuranza all'indietro in una coda di cavallo; lunghe gambe lisce sotto short kaki. Una piccola croce d'oro annidata nell'incavo della gola. Piedi flessi da ballerina; viso screziato nel verde d'estate. Ecco la ragione per cui Leon non aveva chiamato: questa ragazza, questa bellissima ragazza. «Ehi! Ehi, Pinchbeck!» Mio dio, mi aveva visto. Meditai di scappare, ma Leon stava già venendo verso di me, confuso ma non scocciato, con la ragazza che lo seguiva di pochi passi. Sentivo una morsa al petto, il cuore era ridotto alle dimensioni di una noce. Tentai un sorriso, che sembrava una maschera. «Ciao, Leon», dissi. «Salve, Mrs Mitchell. Stavo solo passando di qui.» Immaginate, se vi riesce, quel terribile pomeriggio. Volevo tornare a casa, ma Leon non lo permise; invece sopportai due ore di pura infelicità nel prato sul retro, a bere limonata che mi inacidiva lo stomaco, mentre la madre di Leon mi faceva domande sulla mia famiglia e Mr Tynan continuava a darmi pacche sulle spalle e speculava sulla quantità di birbonate che io e Leon combinavamo a scuola. Fu una tortura. Mi faceva male la testa, avevo lo stomaco chiuso; per tutto il tempo dovetti sorridere ed essere cortese e rispondere a domande, mentre Leon e la ragazza - non c'era dubbio che lei fosse la sua ragazza se ne stavano sdraiati e sussurravano fra loro all'ombra, la mano bruna di Leon appoggiata quasi casualmente su quella fulva di Francesca, gli occhi grigi pieni d'estate e di lei. Non so cosa dissi in risposta alle domande. Ricordo la madre di Leon gentile in modo speciale, tormentoso: si diede da fare per mostrarsi accogliente; mi chiese dei miei hobby, dei miei pensieri. Risposi quasi a caso,
con l'istinto animalesco di nascondermi, e devo aver passato l'esame minuzioso, anche se Charlotte mi osservava in un silenzio che avrei giudicato sospetto se la mia mente non fosse stata totalmente assorta dalla mia sofferenza. Alla fine Mrs Mitchell si accorse di qualcosa, perché mi guardò da vicino e notò il mio pallore. «Mal di testa», dissi, cercando di sorridere, mentre dietro di lei Leon giocava con una lunga ciocca dei capelli color miele di Francesca. «Mi viene ogni tanto», improvvisai in preda alla disperazione. «Meglio che vada a casa e mi sdrai per un po'.» La madre di Leon era riluttante a farmi andare. Propose che mi stendessi nella stanza di Leon, si offrì di andare a prendere un'aspirina, mi ricoprì di tante gentilezze da ridurmi quasi in lacrime. A quel punto deve aver visto qualcosa nella mia faccia, perché sorrise e mi diede un colpetto affettuoso sulla spalla. «Va bene, allora, Julian caro», disse. «Vai a casa e mettiti giù. Tutto sommato credo sia la cosa migliore.» «Grazie, Mrs Mitchell.» Annuii riconoscente, mi sentivo male sul serio. «Mi sono divertito molto. Davvero.» Leon fece un cenno con la mano e Mrs Mitchell insistette nel darmi una grossa fetta collosa di dolce da portare a casa, avvolta in un tovagliolo di carta. Mentre ritornavo lungo il viale, sentii la sua voce bassa che giungeva da dietro la casa. «Che tipino divertente, Leon. Così educato e riservato. È un tuo caro amico?» 5. St Oswald's Grammar School for Boys martedì, 5 ottobre Il referto ufficiale dell'ospedale è stato di shock anafilattico, forse colposo, provocato da indigestione di noccioline o cibi contaminati da noccioline. Naturalmente c'è stato un chiasso terribile. È stata una disgrazia, ha detto Mrs Anderton-Pullitt a Pat Bishop, che si trovava lì: si supponeva che la scuola fosse un ambiente sicuro per suo figlio. Perché non c'era alcuna sorveglianza al momento del collasso? Come mai il maestro non si era accorto che il povero James era privo di sensi? Pat si è occupato della madre angosciata come meglio poteva. In questo genere di situazione si trova nel suo elemento: sa come disinnescare la tensione, è una buona spalla su cui piangere, trasmette un'aria di autorevolez-
za convincente. Ha promesso che sull'incidente si sarebbe indagato in modo approfondito, ma ha assicurato Mrs Anderton-Pullitt che Mr Straitley è un insegnante dei più coscienziosi e che ogni sforzo era stato compiuto per garantire la sicurezza del figlio. A quel punto, l'interessato se ne stava seduto a letto, a leggere Aeronautica pratica e sembrava piuttosto soddisfatto. Nello stesso momento, Mr Anderton-Pullitt, amministratore della scuola ed ex giocatore di cricket della nazionale inglese, stava facendo pesare la propria autorità sull'amministrazione dell'ospedale per far analizzare i resti dei sandwich del figlio alla ricerca di residui di noci. Se ne avessero riportato anche solo una traccia, ha detto, un certo fabbricante di alimenti naturali sarebbe stato citato in giudizio fino all'ultimo penny in suo possesso, per non dire di una certa catena di rivenditori. Ma poi le analisi non sono state effettuate, perché prima che potessero iniziare, la nocciolina era stata ritrovata quasi intatta in fondo alla lattina di Fanta di James. All'inizio gli Anderton-Pullitt si sono mostrati sconcertati. Com'era possibile che una nocciolina fosse arrivata nella bevanda del figlio? La prima reazione è stata quella di contattare (e denunciare) i fabbricanti, ma presto si è dimostrato che qualsiasi negligenza da parte loro era, nella migliore delle ipotesi, indimostrabile. La lattina era già stata aperta, e avrebbe potuto caderci dentro qualsiasi cosa. Caduta o messa. Era inevitabile: se la bevanda di James era stata adulterata, allora il colpevole doveva essere qualcuno nella classe. Ancor peggio, il colpevole doveva sapere che il suo gesto poteva avere conseguenze pericolose, se non fatali. Gli Anderton-Pullitt hanno sollevato la questione direttamente col Rettore, scavalcando perfino Bishop per la rabbia e l'indignazione, e hanno annunciato l'intenzione, se lui non si fosse occupato della cosa, di rivolgersi alla polizia. Avrei dovuto essere lì. Imperdonabile, che non ci fossi; e tuttavia, quando mi sono svegliato la mattina dopo la breve reclusione in ospedale, mi sentivo così esausto, così miserabilmente vecchio, che ho telefonato a Strange per dirgli che non sarei andato. «Be', non mi aspettavo che lo facesse», ha risposto Strange, con tono sorpreso. «Pensavo che l'avrebbero trattenuta in ospedale almeno per il fine settimana.» Il tono ammodo, ufficiale, non riusciva a nascondere l'autentico disappunto perché ciò non era accaduto. «Posso farla sostituire per le prossime due settimane, non si preoccupi.»
«Non sarà necessario. Ritornerò lunedì.» Ma ora di lunedì la notizia si è diffusa: c'era stata un'inchiesta sulla mia classe; erano stati interrogati testimoni; gli armadietti ispezionati; erano state fatte delle telefonate. Era stato consultato il dott. Devine, in qualità di responsabile di Salute e sicurezza, e lui, Bishop, Strange, il Rettore e il dott. Pooley, presidente del Consiglio d'amministrazione, avevano passato molto tempo nell'ufficio del Rettore con gli Anderton-Pullitt. Risultato: sono ritornato lunedì e ho trovato la classe in trambusto. L'incidente con Knight aveva perfino eclissato il recente, del tutto sgradito, pezzo sull'«Examiner», con la sinistra implicazione di un informatore segreto all'interno della scuola. I risultati dell'inchiesta del Rettore erano irrefutabili: il giorno dell'incidente, Knight aveva comprato un pacchetto di noccioline dallo spaccio della scuola e le aveva portate nell'aula per il pranzo. Sulle prime l'ha negato, ma molti testimoni se ne ricordavano, compreso un insegnante. Alla fine Knight ha confessato: sì, aveva comprato le noccioline, ma ha negato di aver messo qualcosa nella bevanda di chicchessia. E poi, ha detto con le lacrime agli occhi, Anderton-Pullitt gli era simpatico, non gli avrebbe mai fatto del male. Dal giorno della sospensione di Knight era stato redatto un verbale, con l'elenco dei testimoni del litigio fra lui e Jackson. Di certo, AndertonPullitt era fra questi. Un movente era ormai chiaramente provato. Be', in tribunale non avrebbe retto. Ma una scuola non è un tribunale; ha le sue regole e i suoi metodi per applicarle; ha un proprio sistema, le proprie difese. Come la Chiesa, come l'Esercito, vigila su sé stessa. E quando sono tornato, Knight era stato giudicato, ritenuto colpevole e sospeso fino a dopo metà trimestre. Il mio problema è che non credevo l'avesse fatto davvero. «Non che Knight non sia capace di qualcosa del genere», ho detto a Dianne Dare nella Sala professori quel giorno, all'ora di pranzo. «È un piccolo tanghero subdolo, e molto più propenso a causare danni di nascosto che a comportarsi male in pubblico, ma...» ho sospirato. «La cosa non mi piace. Non mi piace lui... ma non posso credere che sia stato tanto stupido.» «Mai sottovalutare la stupidità», ha osservato Pearman, che si trovava nei pressi. «No, ma questo è dolo», ha detto Dianne. «Se il ragazzo sapeva cosa stava facendo...» «Se sapeva cosa stava facendo», ha interrotto Light dalla sua postazione
sotto l'orologio, «allora dovrebbe essere sbattuto in galera, accidenti. Oggi si legge di questi ragazzi, stupri, aggressioni, omicidi, dio sa cosa, e non si possono nemmeno mettere dentro perché quei maledetti teneroni dei progressisti non lo permettono.» «Ai miei tempi», ha detto McDonaugh cupamente, «avevamo la verga.» «E che cazzo», ha proseguito Light. «Reintroduciamo la coscrizione. Insegniamogli un po' di disciplina.» Santi numi, ho pensato, che fesso. Ha sproloquiato in questo stile vigoroso, senza cervello, ancora per qualche minuto, attirando uno sguardo sensuale da parte di Isabelle Tapi, che stava guardando dall'angolo dello yogurt. Anche il giovane Keane, che era rimasto ad ascoltare, ha rivolto un rapido gesto appena oltre la visuale dell'insegnante di educazione fisica, storcendo la faccia attenta e intelligente in un'esatta parodia dell'espressione di Light. Ho finto di non accorgermene, e ho nascosto un sorriso dietro la mano. «Facile parlare di disciplina», è intervenuto Roach da dietro il «Mirror», «ma che sanzioni abbiamo? Fai qualcosa di male e ti prendi una detenzione. Fai qualcosa di peggio, vieni sospeso, che è il contrario. Che senso ha?» «Nessuno», ha risposto Light. «Ma dovevamo dimostrare che avremmo fatto qualcosa. Che sia stato Knight o no...» «E se non è stato lui?» ha domandato Roach. McDonaugh con un gesto ha scacciato l'idea. «Non importa. Ciò che conta è l'ordine. Chiunque sia il rompiscatole, si può essere certi che ci penserà due volte prima di uscire di nuovo dai ranghi, se sa che nel momento stesso in cui lo fa, si prende la verga.» Light ha annuito. Keane si è esibito in un'altra smorfia. Dianne ha alzato le spalle e Pearman ha fatto un sorriso di vaga e ironica superiorità. «È stato Knight», ha detto Roach con enfasi.«È proprio il genere di sciocchezza che commetterebbe lui.» «Ma ancora non mi piace. Sembra che ci sia qualcosa di sbagliato.» I ragazzi erano insolitamente reticenti. In circostanze normali, un incidente di questo tipo dovrebbe portare una pausa gradita nella routine: piccoli scandali e contrattempi minori; segreti e lotte: le faccende clandestine dell'adolescenza. Ma questa volta, così sembrava, era diverso. Era stata superata una linea e anche quei ragazzi che non avevano mai avuto una buona parola per Anderton-Pullitt consideravano l'accaduto con disagio e lo
criticavano. «Voglio dire che non c'è tutto con la testa, vero signore?» ha detto Jackson. «Sa, non un mongolo o una cosa così, ma non si può dire che sia completamente normale.» «Si riprenderà, signore?» ha domandato Tayler, che a sua volta soffre di allergie. «Sì, per fortuna.» Al momento il ragazzo rimaneva a casa, ma si era capito benissimo che si era ripreso. «Ma avrebbe potuto essere fatale.» C'è stata una pausa imbarazzata mentre i ragazzi si guardavano l'un l'altro. Sino a ora, pochi di loro hanno incontrato la morte a parte cane, gatto, nonno: il pensiero che uno di loro avrebbe potuto davvero morire, lì davanti ai compagni, in classe, all'improvviso metteva molta paura. «Dev'essere stato un incidente», ha detto alla fine Tayler. «Lo penso anch'io.» Ho sperato che fosse vero. «Il dott. Devine dice che possiamo avere una terapia, se ne abbiamo bisogno», ha detto McNair. «Le serve?» «Così saltiamo la lezione, signore?» L'ho guardato e l'ho visto sorridere. «Dovete passare sul mio cadavere.» Nel corso della giornata la sensazione di irrequietezza si è intensificata. Allen-Jones era iperattivo, Sutcliff depresso, Jackson polemico, Pink ansioso. Anch'io ero nervoso per il vento; e il vento, come ogni insegnante di scuola sa, rende le classi indisciplinate e gli alunni eccitabili. Sbattevano porte, sbatacchiavano finestre: era arrivato ottobre con una folata, e all'improvviso era autunno. Mi piace l'autunno. Il suo dramma; il leone dorato che ruggisce attraverso la porta sul retro dell'anno, scuotendo la sua criniera di foglie. Un periodo pericoloso, di rabbie violente e calma ingannevole; di fuochi d'artificio in tasca e castagne d'India in pugno. È la stagione in cui mi sento più vicino al ragazzo che ero, e allo stesso tempo vicinissimo alla morte. È St Oswald al massimo della bellezza: oro tra i tigli, la torre che ulula come una gola. Ma quest'anno c'è di più. Novantanove trimestri; trentatré autunni: metà della mia vita. Quest'anno quei trimestri sembrano pesanti in un modo che non avrei mai sospettato e mi chiedo se, in fondo, il giovane Bevans non abbia ragione. La pensione non deve essere per forza una condanna a morte. Un altro trimestre e avrò segnato la mia Centuria: ritirarsi con un titolo
simile non può arrecare vergogna. E poi le cose stanno cambiando, come dovrebbero. Solo io sono troppo vecchio per cambiare. Sulla via di casa, lunedì notte, ho guardato nella portineria. Il sostituto di Fallow non è ancora stato trovato e, nel frattempo, Jimmy Watt si fa carico di tutte le mansioni del Portiere che gli riescono. Una di queste è rispondere al telefono, ma non ha bei modi e tende a riagganciare per errore quando trasferisce le chiamate. Per cui, durante l'intera giornata, le chiamate sono andate perse e la frustrazione è aumentata. È stata colpa dell'economo: Jimmy fa quello che gli si dice, ma non ha idea del lavoro autonomo. Può cambiare una valvola o sostituire una serratura, può raccogliere le foglie morte, può perfino salire su un palo del telegrafo per recuperare un paio di scarpe, legate insieme per le stringhe e lanciate sui cavi da un bullo della scuola. Light lo chiama Jimmy Quaranta Watt, e deride la sua faccia di luna e il suo modo lento di parlare. Certo, Light era a sua volta un bullo qualche anno fa: lo si vede ancora nel volto rosso e aggressivo, nella camminata stranamente cauta, steroidi o emorroidi, non sono certo quale dei due. In ogni caso, Jimmy non avrebbe mai dovuto diventare responsabile della portineria, e il dott. Tidy lo sapeva; è stato solo più facile (e più economico, va da sé) usare lui come ripiego fino a un nuovo incarico. E poi Fallow stava con la scuola da oltre quindici anni, e non si può buttar fuori di casa qualcuno nel giro di una notte, per qualsiasi ragione. Mi sono ritrovato a pensarci mentre superavo la portineria: non che Fallow mi piacesse in modo particolare, ma era stato parte della scuola, una parte piccola ma necessaria, e si sentiva la sua mancanza. Mentre passavo, nella portineria ho visto una donna. Non ho mai fatto domande sulla sua presenza, pensando che fosse una segretaria selezionata tramite l'agenzia della scuola per rispondere alle telefonate e sostituire Jimmy quando lui svolgeva un altro dei suoi compiti. Una donna ingrigita con un completo, più anziana delle solite segretarie temporanee dell'agenzia, la cui faccia aveva un che di familiare. Avrei dovuto chiedere chi era. Il dott. Devine parla sempre di intrusi, di sparatorie nelle scuole americane e di come sarebbe facile per un pazzo entrare negli edifici e fare il diavolo a quattro; Devine è fatto così. È l'uomo della Salute e sicurezza, in fondo, e deve giustificare il suo stipendio. Ma ero di premura, e non ho parlato alla donna ingrigita. È stato solo quando ho visto il suo nome sotto l'articolo e la sua foto nell'«Examiner» che l'ho riconosciuta; e a quel punto era ormai troppo tardi. L'informatore misterioso aveva colpito di nuovo, e questa volta il bersaglio ero io.
6. lunedì, 11 ottobre Bene, come si può immaginare, Mrs Knight non ha accolto volentieri la sospensione del suo unico figlio. Avete presente il tipo: vestita in modo costoso, arrogante, lievemente nevrotica e afflitta da quella curiosa cecità che solo le madri dei maschi adolescenti sembrano possedere. Ha marciato su St Oswald la mattina dopo la decisione del Rettore, chiedendo di vederlo. Ma lui era fuori, naturalmente; è stata invece convocata una riunione d'emergenza, compresi Bishop (nervoso e indisposto), il dott. Devine (Salute e sicurezza) e, in assenza di Roy Straitley, io. Mrs Knight in Chanel aveva un'aria assassina. Nell'ufficio di Bishop, seduta molto eretta su una sedia dura, fissava noi tre con occhi come zirconi. «Mrs Knight», ha iniziato Devine. «Il ragazzo avrebbe potuto morire.» Mrs Knight non era colpita. «Posso capire la sua preoccupazione», ha detto. «Dato che sembra non esserci stata alcuna sorveglianza al momento dell'incidente. Per quanto riguarda la questione del coinvolgimento di mio figlio...» Bishop l'ha interrotta. «Be', non è esattamente così», ha cominciato. «Diversi membri dello corpo insegnante sono stati presenti in periodi diversi durante tutto l'intervallo, anche se...» «E qualcuno ha visto mio figlio mettere una nocciolina nella bevanda dell'altro ragazzo?» «Mrs Knight, non è...» «Allora? L'hanno visto?» Bishop appariva a disagio. In fondo era stato deciso dal Rettore di sospendere Knight, e avevo la sensazione che Pat avrebbe potuto trattare la questione in modo diverso. «Le prove indicano che sia stato lui, Mrs Knight. Non dico l'abbia fatto con cattive intenzioni...» Secca: «Mio figlio non dice bugie». «Tutti i ragazzi dicono bugie.» Questo era Devine. Più che vero, come si è dimostrato in seguito, ma di certo non calcolato per placare Mrs Knight. Lei ha puntato lo sguardo su di lui. «Davvero?» ha detto. «In quel caso, forse potreste rivedere il resoconto di Anderton-Pullitt sulla presunta lotta tra Jackson e mio figlio.» Devine è stato colto alla sprovvista. «Mrs Knight, davvero non vedo che importanza...»
«Lei no? Io sì.» Si è rivolta a Bishop. «Quella che vedo è una campagna di vittimizzazione concertata contro mio figlio. È risaputo che Mr Straitley ha i suoi preferiti... I suoi Stanlio e Ollio, mi pare che li chiami, ma non immaginavo che lei prendesse le sue parti in questo. Mio figlio è stato maltrattato, accusato, umiliato e adesso sospeso da scuola, qualcosa che finirà sul suo curriculum e forse condizionerà perfino le sue prospettive universitarie, senza nemmeno avere l'opportunità di discolparsi. E sa perché, Mr Bishop? Ha un'idea del perché?» Bishop era completamente perso davanti a quest'attacco. Il suo fascino, genuino com'è, rappresenta la sua sola arma, e Mrs Knight era protetta da una corazza. Il sorriso che aveva ammansito mio padre non è riuscito a sciogliere il ghiaccio; in realtà sembrava farla infuriare ancora di più. «Vuole che glielo dica io?» ha proseguito lei. «Mio figlio è stato accusato di furto, di aggressione e adesso, da quanto capisco, di tentato omicidio.» A questo punto Bishop ha provato a interrompere, ma lei non ha tenuto conto della sua protesta. «E lei sa perché è stato scelto proprio lui? L'ha chiesto a Mr Straitley? L'ha chiesto agli altri ragazzi?» Ha fatto una pausa a effetto, e come ha incontrato il mio sguardo le ho fatto un cenno di incoraggiamento e lei ha dato fiato alle trombe, come suo figlio nella classe di Straitley: «Perché è ebreo! Mio figlio è vittima di discriminazioni! Su questo voglio un'inchiesta», con uno sguardo truce a Bishop, «e se non la ottengo, allora potete aspettarvi una lettera dal mio avvocato.» È calato un silenzio fragoroso. Poi Mrs Knight è uscita maestosa in una mitragliata di tacchi, il dott. Devine è parso scosso, Pat Bishop si è seduto con la mano sugli occhi e io ho potuto abbandonarmi al più piccolo dei sorrisi. Naturalmente, era inteso che la questione non sarebbe stata discussa al di fuori della riunione. Devine l'aveva detto chiaro fin dall'inizio, e io, con la serietà e il rispetto necessari avevo annuito. Prima di tutto non avrei dovuto trovarmi lì, ha detto Devine; mi era stato chiesto di partecipare solo in qualità di testimone, data l'assenza dell'insegnante di classe dei ragazzi. Non che qualcuno si rammaricasse per Straitley: sia Bishop sia Devine erano irremovibili a proposito del vecchio che, simpatico com'era, avrebbe solo peggiorato una brutta situazione. «Ovviamente non c'è nulla di vero», ha detto Bishop, riprendendosi davanti a una tazza di tè. «Non c'è mai stato alcun problema di antisemitismo a St Oswald. Mai.»
Devine pareva meno convinto. «Sono affezionato a Roy Straitley come a tutti gli altri, ma è innegabile che a volte si comporti in modo strambo. Solo perché è stato qui più a lungo, tende a pensare di dirigere il posto.» «Di certo non intende offendere nessuno», ho detto io. «È un lavoro stressante per un uomo della sua età e chiunque di noi può commettere un errore di valutazione, di tanto in tanto.» Bishop mi ha guardato. «Cosa intende? Ha sentito qualcosa?» «No, signore.» «Davvero?» Questo era Devine, che per poco non è caduto dalla sedia nella sua brama di fare. «Assolutamente sì, signore. Intendevo solo...» ho esitato. «Cosa? Fuori la verità!» «Di certo non è nulla, signore. Per avere la sua età, penso che sia notevolmente pronto. Solo che di recente ho notato...» E con aria ritrosa e modesta ho accennato al registro mancante, alle email trascurate, al ridicolo trambusto che aveva fatto a proposito della perdita della vecchia penna verde, per non parlare di quei pochi, vitali istanti, senza registro, quando non si era accorto del ragazzo che esalava l'ultimo respiro sul pavimento dell'aula. Negare enfaticamente è di gran lunga la tattica migliore quando si cerca di incriminare un nemico. E così mi è riuscito nel contempo di comunicare il massimo rispetto e la mia ammirazione per Roy Straitley e insinuare il resto con fare innocente. In questo modo ho potuto dimostrarmi un membro leale, anche se un po' ingenuo, della scuola, e assicurarmi che il dubbio si introducesse come una scheggia nelle menti di Bishop e Devine, preparandoli per il prossimo titolo che, come è poi accaduto, sarebbe apparso nell'«Examiner» la settimana stessa. LA NOCCIOLINA AVVELENATA DEL PROFESSORE Colin Knight è un giovane studioso che ha trovato sempre più difficile affrontare le pressioni sociali e accademiche di St Oswald. «Il bullismo è diffuso», ha dichiarato all'«Examiner», «ma la maggior parte di noi non osa parlarne. Alcuni ragazzi possono fare quello che vogliono a St Oswald, perché certi insegnanti stanno dalla loro parte e chiunque avanzi una protesta è destinato a finire nei pasticci.» Di sicuro Colin Knight non ha l'aria di chi provoca pasticci. Eppure, se dobbiamo credere alle proteste rivolte contro di lui durante questo trime-
stre dal suo insegnante di classe (Roy Straitley, 65 anni), nel giro di tre settimane, è stato ritenuto colpevole di numerosi episodi di furto, menzogna e bullismo, culminati nella sospensione dalla scuola insieme alla bizzarra accusa di aggressione quando un compagno (James Anderton-Pullitt, 13 anni) si è soffocato con una nocciolina. Abbiamo parlato a John Fallow, licenziato da St Oswald due settimane fa dopo quindici anni di leale servizio. «Sono contento di vedere il giovane Knight difendersi», ha dichiarato Fallow all'«Examiner». «Ma gli Anderton-Pullitt sono amministratori della scuola, e i Knight solo una famiglia qualunque.» Pat Bishop (54 anni), Preside e portavoce di St Oswald, ci ha detto: «Questo è un fatto di disciplina interna su cui si indagherà in modo approfondito prima di prendere qualsiasi altra decisione». Nel frattempo, Colin Knight continuerà la propria istruzione dalla sua camera, perdendo così il diritto di partecipare alle lezioni per le quali la famiglia paga 7000 sterline l'anno. E anche se per l'alunno medio di St Oswald questo non conta molto, per gente qualunque come i Knight, non sono certo noccioline. Provo un certo orgoglio per questo piccolo pezzo: un miscuglio di fatti, congetture e meschino senso dell'umorismo, che dovrebbe far soffrire come si deve il cuore arrogante di St Oswald. L'unico rimpianto è non averlo potuto firmare col mio nome, nemmeno con quello falso, anche se la Talpa ha dato un contributo fondamentale alla sua struttura. Ho usato invece come copertura una giornalista, e le ho mandato per email la mia copia come avevo già fatto prima, aggiungendo un paio di dettagli per facilitare la sua inchiesta. Il pezzo è stato pubblicato, con a fianco una fotografia del giovane Knight - impeccabile e perfetto con la divisa della scuola - e una foto di classe sgranata del 1997, che mostra uno Straitley a macchie, l'aria ambigua, circondato da ragazzi. Va da sé che qualsiasi critica a St Oswald è un balsamo per l'«Examiner». Nell'arco del fine settimana erano state riprese due volte dalla stampa nazionale: prima come una breve di colore a pagina dieci di «News of the World» e poi come parte di un editoriale più meditativo sul «Guardian», intitolato Giustizia sommaria nelle scuole private. Un buon lavoro, nel complesso. Avevo fatto in modo che ogni accenno all'antisemitismo per il momento venisse tenuto nascosto e ho lavorato sul mio toccante ritratto della famiglia Knight: gente onesta ma povera. È que-
sto che i lettori vogliono davvero - una storia di gente come loro (credono), che lesina e risparmia per mandare i figli nella miglior scuola possibile anche se mi piacerebbe vedere davvero qualcuno di loro che si spara sette bigliettoni da mille per le rette, per amor di dio, quando il governo passa gratuitamente l'istruzione. Anche mio padre leggeva «News of the World», ed era pieno degli stessi tediosi luoghi comuni, del genere La scuola è il vostro miglior investimento e L'istruzione è per la vita. Ma la cosa finiva lì, o almeno così mi pareva, e ammesso che lui cogliesse l'ironia delle proprie parole, non lo diede mai a vedere. 7. St Oswald's Grammar School for Boys mercoledì, 13 ottobre Knight è tornato lunedì mattina, sfoggiando l'espressione coraggiosa del martire, di vittima di una violenza, e un sorrisino affettato. Gli altri ragazzi l'hanno trattato con cautela, ma non sono stati scortesi: in effetti ho notato come Brasenose, che di solito lo evita, abbia fatto di tutto per essere amichevole, sedendosi di fianco a lui nell'ora di pranzo e offrendogli perfino metà della sua tavoletta di cioccolato. Era come se Brasenose, la vittima perpetua, avesse individuato un potenziale difensore nell'appena vendicato Knight, e facesse uno sforzo per coltivarne l'amicizia. Anche Anderton-Pullitt è tornato, mostrando di non aver sofferto affatto per la sua esperienza quasi mortale, e con un nuovo libro sugli aerei della prima guerra mondiale con cui ammorbarci. Quanto a me, sono stato peggio. L'ho detto a Dianne Dare quando lei ha messo in dubbio la saggezza del mio rapido ritorno al lavoro e, in seguito, a Pat Bishop che mi accusava di avere l'aria stanca. Devo dire che è lui a non avere un aspetto buono al momento. Prima il caso Fallow, poi la scena con Anderton-Pullitt e infine la vicenda con Knight... Avevo sentito da Marlene che Pat ha dormito in ufficio diverse notti, e ora vedevo che aveva la faccia più rossa del solito e gli occhi iniettati di sangue. Dal modo in cui mi ha avvicinato, ho intuito che il Nuovo Rettore l'aveva mandato per tastare il terreno, e vedevo che Bishop non ne era contento, ma, in quanto Preside, deve obbedire al Rettore, indipendentemente dai suoi sentimenti sulla questione. «Hai l'aria esausta, Roy. Sei sicuro che dovresti trovarti qui?»
«Non ho nulla che una buona infermiera rigorosa non possa curare.» Non ha sorriso. «Dopo quanto è successo, pensavo che ti prendessi almeno una settimana o due.» Capivo dove si andava a parare. «Non è successo niente», ho detto per tagliar corto. «Questo non è vero. Hai avuto un attacco...» «Nervi. Nulla di più.» Ha sospirato. «Roy, sii ragionevole...» «Non farmi la paternale, Pat. Non sono uno dei tuoi ragazzi.» «Non essere così», ha detto Pat. «Abbiamo solo pensato...» «Tu, il Rettore e Strange...» «Abbiamo solo pensato che un periodo di riposo ti farebbe bene.» L'ho guardato, ma lui non voleva incontrare del tutto il mio sguardo. «Riposo?» ho chiesto. Stavo cominciando a scocciarmi.«Sì, capisco che potrebbe fare molto comodo se mi prendessi qualche settimana. Per dare tempo alle cose di aggiustarsi? Per darvi l'opportunità di lisciare qualche piuma arruffata? Forse spianare la strada a uno dei nuovi progetti di Mr Strange?» Avevo ragione, cosa che lo faceva arrabbiare. Non ha detto niente, anche se ho visto che avrebbe voluto, e la sua faccia, già arrossata, si è colorita di una tonalità più scura. «Stai rallentando, Roy», ha detto. «Ammettilo, ti dimentichi le cose. E non sei più giovane come prima.» «Chi lo è?» Ha aggrottato le ciglia. «S'è parlato di farti sospendere.» «Veramente?» Questo sarà stato Strange, o forse Devine, con l'occhio sull'aula 59 e gli ultimi avamposti del mio piccolo impero. «Sono sicuro che gli hai detto cosa succederebbe se ci provassero. Sospensione, senza un ammonimento formale?» Non sono un sindacalista, ma Acerbo sì, e così pure il Rettore. «Colui che vive secondo le regole muore secondo le regole. E loro lo sanno.» Una volta di più Pat non ha incrociato il mio sguardo. «Speravo di non dovertelo dire», mi ha detto. «Ma non mi hai lasciato scelta.» «Dirmi cosa?» ho chiesto conoscendo la risposta. «È stata stesa la bozza di un ammonimento.» «Una bozza? E da chi?» Come se non lo sapessi. Strange, naturalmente: l'uomo che aveva già svalutato il mio dipartimento, ridimensionato il mio orario e che ora sperava di mettermi a riposo mentre i Doppiopetto e i Barba conquistavano il mondo.
Bishop ha tirato un sospiro. «Ascolta, Roy, non sei il solo ad avere problemi.» «Non ne dubito», ho detto. «Alcuni di noi, però...» Alcuni di noi, però, sono pagati più di altri per occuparsene. È vero, tuttavia, che pensiamo di rado alla vita privata dei nostri colleghi. Figli, amanti, case. I ragazzi sono sempre stupefatti di vederci in un contesto al di fuori di St Oswald, a comprare provviste in un supermercato, dal barbiere, in un pub. Stupefatti, e un po' contenti, come quando si individua una persona famosa in strada. «L'ho vista in città, sabato, signore!» Come se ci immaginassero appesi dietro le porte delle nostre classi, uguali alle toghe dismesse, tra il venerdì sera e il lunedì mattina. A dire il vero, io stesso sono in qualche modo colpevole di questo. Ma a vedere Bishop oggi - intendo dire, vederlo davvero, la mole da rugbista trasformata in grasso malgrado tutte le corse quotidiane, e la faccia tirata, la faccia di un uomo che non ha mai capito davvero com'è stato facile che il tempo fuggisse - ho provato un moto inaspettato di simpatia. «Ascolta, Pat. Io so che tu sei...» Ma Bishop si era già girato per andarsene come un sacco di patate lungo il corridoio superiore, le mani in tasca, le ampie spalle leggermente chinate. Era una posa che gli avevo visto adottare molte volte quando la squadra di rugby della scuola perdeva contro St Henry, ma conoscevo Bishop troppo bene per credere che il dolore implicito nella sua postura fosse solo un'affettazione. No, era arrabbiato. Con sé stesso, forse - è un brav'uomo, anche se è l'uomo del Rettore - ma soprattutto, per la mia mancanza di collaborazione, di spirito della scuola e di comprensione per la sua difficile posizione. Oh, provavo compassione per lui, ma non si fa il Preside in un posto come St Oswald senza imbattersi di tanto in tanto in un problema. Lui sa che il Rettore sarebbe fin troppo felice di far di me un capro espiatorio; in fondo davanti a me non ho una gran carriera, in più costo caro e sono vicino alla pensione. Il mio sostituto giungerebbe come un sollievo: un tipo giovane, un Doppiopetto aziendale, preparato in informatica, veterano di molti corsi, ottimizzato per rapide promozioni. Il mio piccolo malessere deve avergli dato speranza, Finalmente una scusa per liberarsi del vecchio Straitley. Un pensionamento dignitoso per ragioni di salute; una targa d'argento; una busta sigillata; un discorso lusinghiero rivolto alla Sala professori. Quanto alla vicenda con Knight e al resto, bene! Che cosa di più facile
che addossare la colpa, senza tanto strepito, a un precedente collega? Prima che arrivaste voi: uno della vecchia scuola, sapete, un'ottima persona, ma dalle abitudini tutte sue, non un giocatore di squadra. Non uno di noi. Be', si è sbagliato, Rettore. Non ho intenzione di andare gentilmente in pensione. E quanto al suo ammonimento scritto, pone ubi sol non lucet. Segnerò la mia Centuria, o morirò nel tentativo. Un punto per l'Albo d'onore. Ero ancora in uno stato d'animo marziale quando questa sera sono rientrato a casa, e il dito invisibile era tornato, spingendo adagio ma in modo persistente sullo sterno. Ho preso due pillole prescritte da Bevans, e le ho buttate giù con un piccolo sherry medicinale prima di correggere i compiti di quinta. Quando ho finito era ormai buio. Mi sono alzato per tirare le tende, quando un movimento in giardino ha catturato il mio sguardo. Mi sono sporto verso la finestra. Il mio è un giardino lungo e stretto, un apparente ritorno ai tempi delle coltivazioni a terrazze, con una siepe su un lato, un muro sull'altro e in mezzo una varietà di cespugli e verdure che crescono più o meno a caso. Sul lato più distante un grosso e vecchio ippocastano sovrasta Dog Lane, separata dal giardino sul retro da uno steccato. Sotto l'albero c'è una macchia di erba muscosa su cui mi piace sedere d'estate (o mi piaceva, prima che il processo di rialzarsi in piedi diventasse così scomodo) e una piccola rimessa decrepita nella quale tengo un po' di cose. In realtà non sono mai stato derubato. Immagino di non possedere nulla che valga la pena rubare, a meno che non si contino i libri, che in generale sono ritenuti privi di valore dalla classe criminale. Ma Dog Lane ha una pessima fama: c'è un pub all'angolo, che produce rumore; un negozio di fish and chips in fondo, che produce spazzatura, e, ovviamente, la scuola di Sunnybank Park, che produce ogni cosa a cui possiate pensare, compresi rumore, spazzatura e, due volte al giorno, un fuggifuggi davanti a casa mia che eclisserebbe anche il più insubordinato degli Ossie. In generale tendo a essere tollerante verso questa cosa. Chiudo perfino un occhio quando un raro intruso scavalca la staccionata durante la stagione delle castagne d'India e ogni ragazzino gioca ai conkers, legando una castagna a uno spago per colpire il conker dell'avversario e spezzarlo. Un ippocastano in ottobre appartiene a tutti, Sunnybanker compresi. Ma adesso si trattava di tutt'altra cosa. Per cominciare, la scuola era finita da un pezzo. Era buio e faceva abbastanza freddo, e c'era un che di sgra-
devolmente furtivo nel movimento che avevo adocchiato. Schiacciando la faccia contro la finestra, ho visto tre o quattro forme in fondo al giardino, non grandi abbastanza da essere completamente adulte. Ragazzi, dunque: ora potevo sentirne le voci, in modo molto flebile, attraverso il vetro. La cosa mi ha sorpreso. Di solito i cacciatori di castagne sono rapidi e non invasivi, la maggior parte della gente della via conosce la mia professione e la rispetta; e i Sunnybanker a cui ho parlato delle loro abitudini di imbrattare sono stati recidivi di rado, se non mai. Ho picchiato forte sul vetro. Adesso si mettono a correre, ho pensato: ma invece le figure sono rimaste ferme e pochi secondi dopo ho sentito schernire in modo inequivocabile da sotto l'ippocastano. «Adesso basta.» In quattro passi ero alla porta. «Ehi!» ho urlato con la mia miglior voce autoritaria. «Che diavolo pensate di fare, ragazzi!» Altre risate dal fondo del giardino. Due si sono messi a correre, credo, ho visto la loro corta sagoma, incisa nel neon, mentre scavalcavano lo steccato. Gli altri due sono rimasti, sicuri nel buio e rassicurati dalla lunghezza del sentierino. Ho detto «Cosa state facendo?» Era la prima volta in tanti anni che un bambino, perfino un Sunnybanker, osava sfidarmi. Ho sentito un'impennata di adrenalina e il dito invisibile mi ha stuzzicato di nuovo. «Vieni qui subito!» «O se no cosa?» La voce era insolente e giovane. «Pensi di potermi prendere, ciccione bastardo?» «Col cazzo che ce la fa, è troppo vecchio!» La rabbia mi ha dato velocità: mi sono lanciato lungo il sentiero come un bufalo, ma era buio, il terreno scivoloso. Il piede nella pantofola con la suola di pelle ha scartato di lato, facendomi perdere l'equilibrio. Non sono caduto, ma per poco. Ho sentito uno strappo al ginocchio. E quando ho guardato di nuovo, i due ragazzi rimasti stavano arrampicandosi sullo steccato, in un frullio di riso, come brutti uccelli che si levano in volo. 8. St Oswald's Grammar School for Boys giovedì, 14 ottobre È stato un piccolo incidente. Una seccatura minore, ecco tutto. Non ci
sono stati danni. Eppure... Un tempo avrei preso quei ragazzi, a qualunque costo, e li avrei trascinati per le orecchie. Ma non adesso. I Sunnybanker conoscono i loro diritti. Ma anche così, era passato del tempo da quando la mia autorità non veniva sfidata in maniera tanto deliberata. I ragazzi annusano la debolezza. Tutti loro. Ed era stato un errore correre a quel modo, nel buio, in particolare dopo quanto mi aveva detto Bevans. Era un gesto precipitoso, senza dignità. Un errore da tirocinante. Avrei dovuto sgattaiolare fuori in Dog Lane e prenderli mentre scavalcavano lo steccato. Erano ragazzi di tredici o quattordici anni a giudicare dalle voci. Da quando Roy Straitley permette a un ragazzino di sfidarlo? Ci ho rimuginato sopra più a lungo di quanto l'episodio meritasse. Forse è per questo che ho dormito così male, forse lo sherry, o forse ero ancora agitato per la conversazione con Bishop. In ogni caso mi sono svegliato non riposato; mi sono lavato, vestito, mi sono fatto un toast e ho bevuto una tazza di tè mentre aspettavo il postino. Infatti, alle sette e mezza, la cassetta delle lettere ha sbatacchiato, e infatti, c'era il foglio dattiloscritto della carta da lettere di St Oswald, firmato E. Gray, Rettore, Dottore in Lettere (con Lode), e dott. B.D. Pooley, presidente del Consiglio d'amministrazione, copia della quale (diceva) sarebbe stata acclusa al mio fascicolo personale per un periodo di 12 (dodici) mesi, dopodiché sarebbe stata revocata, a condizione che nessun altro reclamo (o reclami) fosse(ro) presentato(i) a discrezione del consiglio, bla bla bla... In una giornata qualsiasi, la cosa non mi avrebbe preoccupato. La stanchezza, però, mi rendeva vulnerabile, ed è stato senza entusiasmo e con il ginocchio ancora dolorante per la disavventura della sera precedente, che mi sono avviato a piedi verso St Oswald. Senza del tutto sapere perché, ho fatto una breve deviazione verso Dog Lane, forse per controllare tracce degli intrusi della notte. È stato allora che l'ho vista. Difficile mancarla: una svastica, tracciata sul lato dello steccato con un pennarello rosso, e sotto la parola «Hitler» in caratteri roboanti. Era recente, quindi: quasi certamente opera dei Sunnybanker della sera prima, se davvero di Sunnybanker si trattava. Ma non avevo dimenticato la caricatura attaccata alla bacheca della classe: la mia caricatura come un piccolo e grasso nazista col tocco, e la convinzione di allora che Knight fosse dietro alla cosa. Possibile che Knight avesse scoperto dove abito? Non sarebbe stato difficile: il mio indirizzo è nella guida della scuola, e decine di ragazzi devono avermi visto tornare a casa. Tuttavia non riuscivo a credere che Knight,
Knight, figuriamoci, avrebbe osato fare una cosa come questa. L'insegnamento è una partita di inganni, certo; ma ci vuole un giocatore migliore di Knight per darmi scacco. No, doveva trattarsi di una coincidenza, ho pensato: qualche imbrattatore di Sunnybank Park che gironzolando fra casa e il fish and chips aveva visto il mio bello steccato intonso e ne ha odiato la superficie senza macchia. Durante il fine settimana lo sabbierò e lo ridipingerò con una nuova vernice. Ne aveva bisogno comunque e, come ogni insegnante sa, un graffito tira l'altro. Ma non potevo fare a meno di avere la sensazione, mentre mi incamminavo verso St Oswald, che tutta la sgradevolezza delle ultime settimane - il Fallowgate, la campagna dell'«Examiner», l'intrusione della notte scorsa, la ridicola nocciolina di Anderton-Pullitt, perfino la letterina compassata del Rettore della mattina - erano, oscuramente, irrazionalmente, deliberatamente, connesse. Le scuole, come le navi, sono piene di superstizioni, e St Oswald più che mai. I fantasmi, forse: o i riti e le tradizioni che continuano a far cigolare le vecchie ruote. Ma questo trimestre non ci ha dato altro che sfortuna sin dal principio. C'è un uccello del malaugurio a bordo. Se solo sapessi chi è. Quando sono entrato nella Sala professori, stamattina, l'ho trovata tranquilla in modo sospetto. La voce del mio ammonimento deve essere circolata, perché le conversazioni si sono zittite ogni volta che mettevo piede in una stanza, e negli occhi di Acerbo c'era un bagliore che non prometteva nulla di buono. Le Nazioni mi hanno evitato; Grachvogel aveva un'aria furtiva; Scoones era distante più che mai; e perfino Pearman sembrava del tutto diverso dal suo solito umore allegro. Kitty appariva particolarmente preoccupata - ha risposto appena al mio saluto quando sono entrato, e la cosa mi ha piuttosto infastidito; Kitty e io siamo sempre stati amici, e ho sperato che non fosse accaduto niente che potesse cambiare la situazione. Non lo pensavo, in fondo i piccoli scompigli dell'ultima settimana non hanno toccato lei, ma c'era di sicuro qualcosa nella sua faccia, quando ha sollevato lo sguardo e mi ha visto. Mi sono seduto accanto a lei col mio tè (la tazza scomparsa del Giubileo è stata sostituita con una qualunque, marrone, portata da casa), ma pareva totalmente assorbita dalla sua pila di libri e non ha quasi proferito parola. Il pranzo è stata una roba triste di verdure, grazie al vendicativo Bevans, seguita da un tè senza zucchero. Mi sono portato la tazza nell'aula 59, an-
che se la maggior parte dei ragazzi era fuori, tranne Anderton-Pullitt, assorto con l'aria beata nel suo libro di aeronautica, e Waters, Pink e Lemon che, tranquilli, giocavano a carte in un angolo. Stavo correggendo da circa dieci minuti, quando alzando gli occhi ho visto il Coniglio Meek in piedi di fianco alla cattedra con un foglietto rosa in mano e un misto di odio e deferenza sul barbuto volto pallido. «Questa mattina ho ricevuto questo foglio, signore», ha detto porgendo il pezzo di carta. Non mi ha mai perdonato per essere intervenuto nella sua lezione, o per il fatto di aver assistito alla sua umiliazione davanti ai ragazzi. Per cui mi si rivolge con un signore, come un alunno, e il tono è piatto e incolore, come quello di Knight. «Che cos'è?» «Modulo di valutazione, signore.» «Oddio. Me ne ero dimenticato.» La valutazione del corpo insegnante spetta a noi, naturale: non voglia il cielo che ci dimentichiamo di compilare tutti i moduli necessari prima dell'ispezione ufficiale di dicembre. Ho immaginato che sarebbe toccato anche a me: il Nuovo Rettore è sempre stato un grande fan della valutazione interna, introdotta da Bob Strange, che vuole più formazione mediante il servizio lavorativo, corsi annuali di management e stipendi legati al rendimento. Io non vedo a che cosa serva, in fondo i tuoi risultati corrispondono a quelli dei ragazzi a cui insegni, ma questo tiene Bob lontano dalle classi, il che è essenziale. Il principio generale della valutazione è semplice: cigni membro di grado inferiore del personale docente viene osservato e valutato individualmente in classe da un insegnante anziano: ogni Coordinatore di sezione da un Coordinatore dell'anno; ogni Coordinatore dell'anno dal Preside o dal vice, cioè Pat Bishop o Bob Strange. Il Preside e il Vicepreside sono valutati dallo stesso Rettore (anche se, nel caso di Strange, mi chiedo perché prendersi il disturbo, visto che trascorre pochissimo tempo in aula). Il Rettore, essendo un geografo, praticamente non insegna affatto, ma passa gran parte del tempo nei corsi, a tenere conferenze ai laureati che seguono quelli di specializzazione nell'insegnamento, sulla sensibilità razziale o sulla sensibilizzazione antidroga. «Dice che lei osserverà la mia lezione questo pomeriggio», ha detto Meek. Non sembrava troppo contento della cosa. «Informatica di terza.» «Grazie, Mr Meek.» Mi sono domandato quale burlone avesse deciso di affidarmi informatica. Come se non lo sapessi. E proprio con Meek. Oh bene, ho pensato. Addio alla mia ora libera.
Ci sono giorni, nella carriera di insegnante, in cui tutto va storto. Giorni in cui l'unica cosa sensata da fare è andare a casa e tornare a letto. Oggi era uno di quelli: una parata assurda di contrattempi e seccature, di cartacce e libri persi e baruffe minori, di adempienze amministrative sgradite, di mansioni extra e di commenti biechi nei corridoi. Un bisticcio con Eric Scoones su una qualche scorrettezza di Sutcliff; il mio registro (ancora scomparso, che provoca qualche problema con Marlene); vento (mai gradito); una perdita nei bagni dei ragazzi e conseguente allagamento di parte del corridoio di mezzo; Knight (indicibilmente soddisfatto); il dott. Devine (altrettanto); una quantità di noiosi cambi di aula dovuti alla perdita e comunicati via mail (santi numi!) a ogni stazione di lavoro del corpo insegnante, con il risultato che sono arrivato in ritardo alla mia ora di supplenza mattutina - inglese, per Roach assente. Ci sono molti vantaggi nell'essere un insegnante anziano. Uno è che avendo la reputazione di saper imporre la disciplina è necessario imporla di rado. La voce si diffonde - Non far casino con Straitley - e ne deriva una vita tranquilla per tutti. Oggi era diverso. Ah, succede ogni tanto; e se fosse successo in un'altra giornata, non avrei reagito come ho fatto. Ma era un gruppo numeroso, una terza inferiore: trentacinque ragazzi e fra loro non un solo latinista. Mi conoscevano soltanto di fama e immagino che il recente articolo sulla stampa locale non avesse aiutato granché. Ero in ritardo di dieci minuti, e la classe era già rumorosa. Nessun compito era stato assegnato, e quando sono entrato, immaginando che i ragazzi si alzassero in silenzio, loro hanno dato solo un'occhiata nella mia direzione e hanno continuato a fare precisamente quello che facevano prima. Partite a carte, chiacchiere, una discussione turbolenta sul fondo con sedie rovesciate e un poderoso puzzo di gomma da masticare nell'aria. La cosa non avrebbe dovuto farmi arrabbiare. Un bravo insegnante sa che c'è rabbia falsa e rabbia vera: quella falsa è lecita, parte dell'arsenale di finzioni del bravo insegnante, ma quella vera va tenuta nascosta, affinché i ragazzi, maestri del tranello, non capiscano di aver segnato un punto. Ma ero stanco. La giornata era iniziata male. I ragazzi non mi conoscevano ed ero ancora adirato per l'incidente della sera prima. Quelle giovani voci rumorose - «Col cazzo che ce la fa, è troppo vecchio!» - mi erano parse troppo familiari, troppo plausibili per accantonarle facilmente. Ho pensato di aver sentito la frase - «Gradisce una nocciolina, signore?» - in mez-
zo a uno scoppio di riso cattivo. E così sono cascato, come un novizio, come un tirocinante, nel trucco più vecchio del mondo. Ho perso la pazienza. «Signori, silenzio.» Di solito funziona. Questa volta no: vedevo un gruppo di ragazzi in fondo che rideva in modo sfacciato della vecchia toga che avevo dimenticato di togliere dopo il turno all'intervallo di metà mattina. «Gradisce una nocciolina, signore?» ho sentito (o pensato di sentire) e mi è parso che, se mai, il volume aumentasse. «Ho detto "Silenzio!"» ho ruggito, un suono impressionante in circostanze normali, ma avevo dimenticato Bevans e il consiglio di prendermela con calma, e il dito invisibile mi ha pungolato lo sterno a metà ruggito. I ragazzi in fondo hanno riso sotto i baffi, e in modo irrazionale mi sono chiesto se uno di loro fosse stato là, la sera prima - «Pensi di potermi prendere, ciccione bastardo?» Be', in una situazione del genere è inevitabile che ci siano delle vittime. In questo caso otto detenzioni all'ora di pranzo, il che era forse un tantino eccessivo, ma la disciplina di un insegnante è affar suo, e non c'era ragione perché Strange intervenisse. Tuttavia l'ha fatto: passando davanti all'aula nel momento sbagliato, ha sentito la mia voce e ha guardato attraverso il vetro nel preciso istante in cui io facevo girare uno dei ragazzi che ridacchiavano tenendolo per la manica del blazer. «Mr Straitley!» Naturalmente oggigiorno, nessuno tocca uno scolaro. È calato il silenzio: la manica del ragazzo era strappata all'ascella. «L'ha visto, signore. Mi ha colpito.» Sapevano che non era così. Anche Strange lo sapeva, sebbene la sua faccia fosse impassibile. Il dito invisibile ha dato un'altra spinta. Il ragazzo, Pooley, si chiamava, ha sollevato il blazer strappato perché fosse esaminato. «Era nuovissimo!» Non lo era, chiunque poteva vederlo. Il tessuto era lucido per il tempo, la stessa manica un po' corta. Blazer dell'anno scorso, che andava sostituito. Ma mi ero spinto troppo in là, adesso me ne accorgevo. «Forse può raccontare tutto a Mr Strange», ho suggerito, voltandomi di nuovo verso la classe ormai silenziosa. Il Vicepreside mi ha rivolto un'occhiata da rettile. «Ah, e quando ha finito con Mr Pooley, per favore lo rimandi indietro», ho detto. «Devo organizzare la sua detenzione.» A quel punto a Strange non restava che andarsene, portando Pooley con sé. Immagino non gli piacesse essere congedato da un collega, ma allora
non avrebbe dovuto intervenire, giusto? Eppure avevo la sensazione che non avrebbe lasciato perdere. Era un'occasione troppo buona, e poi mi è venuto in mente (anche se un po' in ritardo), che il giovane Pooley era il figlio maggiore del dott. B.D. Pooley, presidente del Consiglio d'amministrazione, il cui nome avevo incontrato più che di recente, in un formale ammonimento scritto. Be', dopo ero così seccato, che sono andato nell'aula sbagliata per la valutazione di Meek, e sono arrivato a lezione iniziata da venti minuti. Tutti si sono girati per guardarmi, tranne Meek, la pallida faccia rigida di disapprovazione. Mi sono seduto in fondo; qualcuno mi aveva preparato una sedia, con sopra il modulo rosa della valutazione. Ho esaminato il foglio. Era il solito schema a caselle da sbarrare: programmazione, esposizione, stimolo, entusiasmo, controllo della classe. Punteggio da uno a cinque, più uno spazio per commenti, come il questionario di un albergo. Mi sono domandato che genere di opinione avrei dovuto avere; ciononostante, la classe era tranquilla, eccetto un paio di brontoloni in fondo; la voce di Meek era stridula e penetrante, gli schermi del computer facevano il loro dovere, creando i modelli da emicrania che a quanto pareva costituivano l'oggetto dell'esercizio. Nel complesso, piuttosto soddisfacente, ho immaginato; ho sorriso in modo incoraggiante allo sventurato Meek; me ne sono andato presto nella speranza di una tazza di tè prima dell'ora successiva, e ho infilato il foglietto rosa nella casella del Vicepreside. Nel farlo, mi sono accorto di qualcosa sul pavimento davanti ai miei piedi. Era un piccolo taccuino, tascabile, rilegato in rosso. Aprendolo per un istante, ho visto che era riempito a metà da una grafia lunga e sottile; sul risguardo ho letto il nome: C. KEANE. Ah, Keane. Mi sono guardato in giro nella Sala professori, ma il nuovo insegnante di inglese non c'era. Così mi sono messo il taccuino in tasca, intendendo renderlo a Keane più tardi. Uno sbaglio, o così si è rivelato. Ma sapete cosa si dice di chi origlia alle porte. Ogni insegnante ne ha uno. Appunti sui ragazzi, appunti su ruoli e turni, appunti su rancori grandi e piccoli. Si può dedurre quasi altrettanto di un collega dal suo taccuino che dalla sua tazza - quello di Grachvogel, ordinato e contrassegnato da colori diversi è un appello all'ordine, quello di Kitty un pratico diario, quello di Devine un impressionante tomo nero con poco
dentro. Scoones usa lo stesso libro contabile verde dal 1961; le Nazioni hanno delle agende di associazioni benefiche; Pearman una pila di fogli assortiti, post-it e buste usate. E adesso, avendolo aperto, non ho saputo resistere a un'occhiata al taccuino del giovane Keane; e quando mi sono reso conto che non avrei dovuto leggerlo, mi ero bevuto tutta la storia. Certo, sapevo che il tipo era uno scrittore. E ne ha l'aria: il lieve compiacimento dell'osservatore casuale, contento di godersi il panorama perché sa che non si tratterrà a lungo. Quello che non avevo capito era quanto avesse già visto: i bisticci, le rivalità, i piccoli segreti della dinamica della Sala professori. Ce n'erano pagine intere, scritte fitte in una grafia così piccola da risultare scarsamente leggibile: studi dei personaggi, disegnini, osservazioni orecchiate, pettegolezzi, storia, notizie. Ho scorso le pagine, sforzando gli occhi per decifrare lo scritto minuscolo. Era menzionato il Fallowgate, e anche le noccioline e i preferiti. C'era un po' della storia scolastica: ho visto i nomi di Snyde, Pinchbeck e Mitchell insieme a un ritaglio di giornale piegato su quella vecchia storia triste. Accanto al ritaglio, un frammento fotocopiato da una vecchia fotografia ufficiale di St Oswald, uno scatto della Giornata di gare sportive di un'altra scuola - ragazzi e ragazze seduti a gambe incrociate sull'erba - e un brutto ritratto di John Snyde, con l'aria criminale, come la maggior parte degli uomini sulla prima pagina dei giornali. Parecchie altre pagine, ho visto, erano dedicate a fumetti, perlopiù caricature. Qui c'era il Rettore, rigido e glaciale, il Don Chisciotte di SanchoBishop. C'era Bob Strange, un ibrido mezzo umano collegato al suo computer. Il mio Anderton-Pullitt era presente con occhiali e casco da aviatore; la cotta da scolaro di Knight per una nuova insegnante era illustrata senza pietà; Miss Dare ritratta come una professoressa occhialuta, saccente, con Scoones nella parte del suo rottweiler ringhioso. Ero compreso anch'io, gobbo e con la veste nera, che mi dondolavo dalla torre campanaria con Kitty, un'Esmeralda rotondetta, sotto il braccio. Questo mi ha fatto sorridere: ma provavo anche disagio. Immagino di aver sempre avuto un debole per Kitty Teague. Tutto corretto, certo, però non mi ero mai reso conto che fosse così evidente. Mi sono anche chiesto se Kitty l'avesse notato. Accidenti a quell'uomo!, ho pensato fra me. Non avevo saputo fin dall'inizio che era un supponente? Eppure mi era simpatico. E lo era ancora, a dire il vero.
R. Straitley: latino. Veterano devoto di St Oswald. Sessantenne, fumatore, sovrappeso, si taglia i capelli da sé. Porta tutti i giorni la stessa giacca di tweed marrone con le toppe al gomito (be' questa è una bugia, sapientone: indosso un abito blu nei Giorni di fine anno e ai funerali); gli hobby comprendono esasperare la direzione e flirtare con l'insegnante di francese. I ragazzi lo considerano con un affetto sorprendente (ti stai dimenticando di Colin Knight) la palla al piede di Strange. Innocuo. Bene, questo mi piace. Innocuo, affé! Tuttavia, avrei potuto essere peggio: alla voce di Penny Nation ho letto: buona Samaritana velenosa, e a quella di Isabelle Tapi, Zoccola francese. Non si può negare che il tipo si sappia esprimere. Avrei continuato a leggere, ma in quel momento è suonata la campana per l'appello, e ho messo il taccuino nel cassetto della cattedra, con un po' di riluttanza, sperando di finirlo con comodo. Non è stato possibile. Ritornando alla cattedra alla fine di scuola, ho trovato il cassetto vuoto e il taccuino svanito: in quel momento ho immaginato che Keane, il quale, come Dianne, di tanto in tanto condivide la mia aula, l'avesse ritrovato e se lo fosse ripreso. Non gliel'ho mai chiesto, per ovvie ragioni: ed è stato solo più tardi, quando gli scandali hanno cominciato a scoppiare uno dopo l'altro che ho pensato di collegare il piccolo taccuino rosso e l'onnipresente Talpa, che conosceva la scuola così bene e sembrava avere tante intuizioni sulle nostre innocue abitudini. 9. venerdì, 15 ottobre Un'altra settimana vittoriosa, direi. Anche per la scoperta di quel taccuino dal contenuto incriminante. Credo che Straitley sia riuscito a leggerlo in parte, anche se probabilmente non tutto. La grafia è troppo sottile per i suoi vecchi occhi e poi, se ne avesse tratto qualche sospetto, l'avrei notato nei suoi modi prima di adesso. Comunque, sarebbe stato poco saggio tenere il taccuino. Lo so: e ho bruciato il particolare incriminante, non senza una stretta al cuore, prima che potesse cadere sotto un'indagine ostile. Può darsi che debba ritornare su questo problema, ma non oggi. Oggi ho altre cose a cui badare. La metà trimestre di ottobre già incombe e intendo aver molto da fare (non sto parlando solo di quaderni da correggere). No, la settimana prossima sarò a scuola quasi ogni giorno. L'ho già pattuito con Pat Bishop, che
a sua volta trova difficile stare lontano, e con Mr Beard, il Direttore d'informatica, con il quale ho un accordo ufficioso. Tutto perfettamente innocente: in fondo il mio interesse per la tecnologia non è nulla di nuovo, e so per esperienza che mi nascondo al meglio quando sono allo scoperto. Bishop approva, certo; non sa granché di computer, ma mi sorveglia nel suo modo da zio, saltando fuori dal suo ufficio per vedere se mi serve aiuto. Non sono particolarmente brillante. Un paio di passi falsi hanno dimostrato che mi applico, anche se non sono molto abile, il che consente a Bishop di sentirsi superiore e intanto di offrirmi un'ulteriore copertura, nel caso mi servisse. Ma ne dubito: se più avanti ci saranno domande sulla mia presenza, so di poter contare su Pat per dire che non avevo alcuna competenza nel settore. Ogni membro del corpo insegnante di St Oswald ha un indirizzo e-mail. Questo è composto dalle prime due o tre iniziali del suo nome, seguite dall'indirizzo web della scuola. In teoria, ogni componente del personale docente dovrebbe controllare le mail due volte al giorno, in caso di un messaggio urgente da parte di Bob Strange, ma in pratica alcuni non lo fanno mai. Fra questi Roy Straitley e Eric Scoones; molti usano il sistema, ma non hanno personalizzato le caselle di posta e hanno tenuto la password predefinita («password») per accedere alla loro posta. Anche quelli, come Bishop, che si ritengono più informatizzati, sono abbastanza prevedibili: lo stesso Bishop usa il nome del suo campione sportivo preferito e perfino Strange, che dovrebbe saperla lunga, ha una serie di codici facili da indovinare (il nome da ragazza della moglie, la sua data di nascita e così via). Non che abbia mai dovuto indovinare più di tanto. Fallow, che usava le strutture informatiche ogni sera, teneva una lista di codici in un taccuino nella portineria, insieme con una scatola di dischetti (materiale scaricato da internet) che nessuno si era dato la pena di indagare. Ricostruendo i suoi passi (con un diverso nome utente), ho potuto lasciare una traccia piuttosto convincente. Ancora meglio: prima ho disattivato il sistema di protezione sulla rete dei computer della scuola per qualche minuto, poi ho spedito un allegato accuratamente preparato a
[email protected], da uno dei miei indirizzi hotmail, così ho introdotto un semplice virus creato per rimanere latente nel sistema prima di risvegliarsi in modo sensazionale un paio di settimane più tardi. Non il genere più eccitante di lavoro preparatorio, lo so. Comunque mi
ha fatto divertire. Questa sera ho pensato di potermi concedere un piccolo festeggiamento: una serata libera, un drink al Thirsty Scholar. Ma si è rivelato un errore: non avevo realizzato quanti dei miei colleghi - e allievi frequentano il locale. Ero solo a metà del primo bicchiere quando ne ho visto un gruppetto - ho riconosciuto Jeff Light, Gerry Grachvogel e Robbie Roach, il geografo dai capelli lunghi, con una coppia di diciassettediciottenni che potevano essere studenti di sesta di St Oswald. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi, non è un segreto che a Roach piace stare coi ragazzi. E anche a Light. Grachvogel, invece, aveva l'aria leggermente furtiva, ma in fondo l'ha sempre, e lui perlomeno ha il buon senso di sapere (per dirla con Straitley) che non si ricava nulla di buono dal diventare troppo amici degli studenti. Avevo la tentazione di fermarmi. Non c'erano motivi per stare sulle mie, ma il pensiero di fare amicizia con loro, di darsi alla pazza gioia, come avrebbe detto l'orrendo Light, e di farsi un paio di bicchieri, era decisamente spiacevole. Per fortuna, ero vicino alla porta e ho potuto uscire in fretta, senza farmi vedere. Ho riconosciuto la macchina di Light, una Probe nera, nel vialetto accanto al pub, e ho accarezzato l'idea di scassare un finestrino; ma nella via potevano esserci delle telecamere di sicurezza, ho pensato, e non aveva senso rischiare di smascherarmi per uno stupido capriccio. Invece ho fatto a piedi tutto il lungo percorso verso casa: la notte era dolce e poi fra me e me avevo preso l'impegno di dare un'altra occhiata allo steccato di Roy Straitley. Aveva già tolto il graffito. Non c'era da sorprendersi: anche se non poteva vederlo da casa, la sua semplice presenza doveva averlo seccato, proprio come lo seccava che quei ragazzi potessero tornare. Forse organizzerò la cosa, solo per vedere che faccia fa, ma non stasera. Stasera mi merito qualcosa di meglio. E così eccomi di nuovo a casa, nella mia stanza drappeggiata di chintz, ad aprire la seconda bottiglia di champagne (ne ho una cassa da sei, e intendo vederle tutte vuote prima di Natale), ho smaltito un po' di corrispondenza indispensabile, poi eccomi di nuovo giù e quindi fuori, al telefono pubblico, per una rapida telefonata alla polizia locale, per riferire di una Probe nera (targa LIT 3) che circolava in modo bizzarro nelle vicinanze del Thirsty Scholar. È il genere di comportamento che la mia terapista oggigiorno tende a scoraggiare. Mi lascio andare in modo troppo impulsivo, dice lei, troppo moralista. Non considero sempre i sentimenti degli altri quanto dovrei. Ma
io non correvo rischi: non ho dato il mio nome e, in ogni caso, sapete quanto lui lo meritasse. Come Mr Bray, Light è uno sbruffone, un bulletto, un trasgressore nato, un uomo convinto che un paio di birre nello stomaco lo facciano guidare meglio. Prevedibile. Sono tutti così prevedibili. Questa è la loro debolezza. Gli Oswaldiani. Light, naturalmente, è uno sciocco compiaciuto di sé; ma anche Straitley, che non lo è, condivide la medesima sciocca soddisfazione. Chi oserebbe attaccarmi? Attaccare St Oswald? Bene, signori. Io. SCACCO 1. L'estate del disastro di mio padre fu la più calda che la storia ricordi. Sulle prime la cosa lo rallegrò, come se fosse un ritorno alle leggendarie estati della sua infanzia, durante le quali, se dovevo credergli, aveva trascorso le giornate più felici della sua vita. Poi, con il sole che continuava inesorabile e l'erba dei prati di St Oswald che virava dal giallo al marrone, lui si inacidì e cominciò ad angustiarsi. I prati erano responsabilità sua, naturalmente; e curarli era uno dei suoi compiti. Sistemò degli impianti per innaffiare l'erba, ma non bastavano, perché l'area da coprire era troppo grande, e fu costretto a limitare le sue attenzioni al solo campo di cricket, mentre gli altri prati si inaridivano sotto l'occhio nudo e rovente del sole. Ma quella era soltanto una delle preoccupazioni di mio padre. L'artista dei graffiti aveva colpito di nuovo, questa volta in technicolor: un murale, di tre metri quadri buoni, su un fianco del padiglione degli sport. Mio padre passò due giorni a sfregarlo, poi un'altra settimana a ridipingere il padiglione, e giurò che la prossima volta avrebbe dato al piccolo bastardo la batosta della sua vita. Eppure il colpevole gli sfuggiva ancora: altre due volte la pittura a spruzzo apparve a St Oswald, variopinta e un po' rozza, artistica a suo modo; in entrambi i casi raffigurava caricature di insegnanti. Mio padre cominciò a vigilare la scuola di notte, sdraiato in attesa dietro al padiglione con una confezione da dodici di birra, ma ancora non c'era traccia del gruppo colpevole, anche se rimase un mistero per John Snyde come i ragazzi riuscissero a evitare la detenzione. Poi ci furono i topi. Ogni grande edificio ha degli animali nocivi, St O-
swald più degli altri, ma dalla fine del trimestre estivo, i topi avevano infestato i corridoi in quantità insolite. Anch'io li vidi ogni tanto, soprattutto dalle parti della torre campanaria, e sapevo che la loro riproduzione andava frenata spargendo del veleno, e che si dovevano rimuovere i topi morti prima del nuovo trimestre e prima che i genitori se ne lamentassero. La cosa esasperò mio padre. Era convinto che i ragazzi avessero lasciato del cibo negli armadietti; accusava la disattenzione di chi puliva la scuola, passava giornate ad aprire e controllare ogni armadietto con rabbia crescente, ma senza successo. Quindi fu la volta dei cani. La calura li tormentava come accadeva con mio padre, rendendoli letargici durante il giorno e aggressivi la notte. Di sera i loro proprietari, che di solito non li avevano portati fuori durante la giornata opprimente, li lasciavano liberi nell'area abbandonata dietro a St Oswald, e lì correvano in branco, abbaiando e strappando l'erba. Non avevano rispetto per i confini: malgrado i tentativi di mio padre di tenerli fuori, loro si infilavano nei campi da gioco attraverso la recinzione e cacavano sul campo del cricket appena annaffiato. Sembravano scegliere per istinto il punto che avrebbe infastidito di più mio padre; e al mattino lui doveva trascinarsi per i campi con la paletta per gli escrementi, imprecando furiosamente e dando sorsate a una lattina di birra sgassata. Data la mia infatuazione per Leon, mi ci volle un po' per capire - e ancor di più perché me ne importasse - il fatto che John Snyde stava uscendo di senno. Non avevo mai avuto rapporti molto affettuosi con mio padre, né l'avevo mai trovato facile da decifrare. Ora la sua faccia era perennemente impietrita, l'espressione più frequente quella di una rabbia confusa. Forse, un tempo, mi aspettavo di più. Ma questo era l'uomo che aveva pensato di risolvere i miei problemi sociali con le lezioni di karate. Davanti a questa situazione ben più delicata, che cosa potevo sperare da lui adesso? Papà, mi piace un ragazzo che si chiama Leon. No. Tuttavia, ci provai. Un tempo era stato giovane, mi dicevo. Era stato innamorato, aveva provato desiderio, qualsiasi cosa. Gli portavo la birra, gli preparavo il tè, sedevo per ore davanti alla TV con i suoi programmi preferiti (Supercar) nella speranza di qualcosa di diverso dal vuoto. Ma John Snyde stava andando a picco in fretta. La depressione lo avvolgeva come una trapunta impazzita; gli occhi non riflettevano nulla se non i colori dello schermo. Come tutti gli altri, mi vedeva appena: a casa, a St Oswald, ero ormai l'Uomo Invisibile.
Poi, a due settimane dall'inizio di quella calda vacanza estiva, una doppia catastrofe ci colpì. La prima fu per colpa mia: aprendo una finestra sul tetto della scuola, feci scattare l'allarme antifurto, che suonò. Mio padre reagì con insospettata rapidità, e ci mancò poco che mi cogliesse sul fatto. Infatti, stavo per rimettere a posto i passe-partout a casa, quando giunse mio padre, e mi vide con le chiavi in mano. Cercai di cavarmela con una bugia. Avevo sentito l'allarme, dissi; e notando che lui aveva dimenticato le chiavi, volevo andare a portargliele. Lui non mi credette. Quel giorno era nervoso, e aveva già sospettato che le chiavi fossero scomparse. Non avevo dubbi di trovarmi in un guaio, adesso. Non c'era modo di uscire da casa se non passando oltre mio padre, e dall'espressione che aveva, sapevo di non avere possibilità. Non era la prima volta che mi picchiava, certo. John Snyde era il campione della sventola, un colpo che andava a segno forse tre volte su dieci e dava l'impressione di essere colpiti con un pezzo di legno pietrificato. Di solito scansavo, e mi rivedeva soltanto quando era ormai sobrio, o si era dimenticato il motivo per cui l'avevo fatto arrabbiare. Questa volta fu diverso. Prima di tutto, era sobrio. Secondo, avevo commesso l'offesa imperdonabile, un oltraggio contro St Oswald, una sfida palese al Portiere capo. Per un momento lo lessi nei suoi occhi, nella rabbia trattenuta: la sua frustrazione erano i cani, i graffiti, le chiazze pelate sul prato; erano i ragazzetti che lo additavano e gli affibbiavano soprannomi, il ragazzino dalla faccia da scimmia; era il tacito disprezzo della gente come l'economo e il Nuovo Rettore. Non so quante volte mi colpì, ma so che alla fine avevo il naso sanguinante, la faccia ammaccata, me ne stavo in un angolo con le braccia sopra la testa e lui era in piedi sopra di me con un'espressione sbalordita sulla grossa faccia, le mani tese come un assassino da palcoscenico. «Mio dio. Oddio. Oddio.» Stava parlando fra sé, ma il naso rotto mi dava troppo da pensare per occuparmi di lui. Alla fine, però, osai abbassare le braccia. Mi faceva male lo stomaco, e mi sembrava di voler vomitare, ma riuscii a tenere a bada la sensazione. Mio padre si era spostato ed era seduto a tavola, la testa fra le mani. «Oddio. Mi spiace. Mi spiace», ripeteva, anche se non potevo dire se le parole fossero rivolte a me o all'onnipotente. Non mi guardò mentre, lentamente, mi rimettevo in piedi. Invece parlò con la faccia fra le mani, e sebbene mi tenessi a distanza, sapendo quanto potesse essere mutevole, per-
cepii che dentro di lui qualcosa si fosse rotto. «Mi spiace», disse, ora scosso dai singhiozzi. «Non posso sopportarlo, pulcino. Proprio non posso, cazzo, mandarla giù.» E con questo finalmente lo sferrò, l'ultimo colpo, il più micidiale di quel pomeriggio orribile. Nell'ascoltarlo, prima con stupore, poi con orrore crescente, mi resi conto che dopo tutto avrei vomitato, e mi precipitai fuori alla luce del sole, dove St Oswald marciava interminabile lungo l'orizzonte azzurro, il sole mi trapanava la fronte, l'erba bruciata aveva lo stesso odore di Cinnabar e gli stupidi uccelli cantavano di continuo, cantavano e non la smettevano di cantare. 2. Immagino che avrei dovuto indovinare. Si trattava di mia madre. Tre mesi prima aveva cominciato a scrivergli di nuovo, all'inizio in termini vaghi, poi sempre più in dettaglio. Mio padre non mi aveva detto delle sue lettere ma, riandando al passato, il loro arrivo doveva coincidere più o meno con il mio primo incontro con Leon e l'inizio del declino di mio padre. «Non volevo dirtelo, pulcino. Non volevo pensarci. Credevo che se non ci avessi fatto caso, sarebbe passato. Ci avrebbe lasciati in pace.» «Dirmi cosa.» «Mi spiace.» «Dirmi cosa?» Allora me lo disse, sempre singhiozzando, mentre mi ripulivo la bocca e ascoltavo gli uccelli idioti. Per tre mesi aveva cercato di nascondermelo; in un sol colpo capii le sue rabbie, la ripresa delle bevute. La cupezza, i cambiamenti d'umore irrazionali, omicidi. Mi raccontò tutto: sempre tenendo la testa fra le mani come se potesse spalancarsi per lo sforzo, e io ascoltavo con orrore crescente mentre lui procedeva esitante nel suo racconto. La vita, sembrava, era stata più gentile con Sharon Snyde di quanto fosse stata con il resto della famiglia. Si era sposata giovane, mettendomi alla luce soltanto poche settimane prima del suo diciassettesimo compleanno, e ne aveva venticinque quando ci lasciò per sempre. Come mio padre, mia madre amava i luoghi comuni, e capii che c'era stata una grande quantità di tormentoso blablà pseudopsicologico nelle sue lettere; a quanto pareva, «aveva avuto bisogno di scoprire chi era», concedeva che ci fossero stati «errori da parte di entrambi», che «dal punto di vista emotivo si era ritrovata in una posizione difficile» e accampava una serie di scuse simili per il
suo abbandono. Ma era cambiata, disse: finalmente era cresciuta. Ci faceva apparire come un giocattolo di cui con gli anni si era liberata, un triciclo, forse, un tempo amato, ma ora ridicolo. Mi chiesi se si mettesse ancora il Cinnabar, o se fosse cresciuta troppo anche per quello. In ogni caso si era risposata, uno studente straniero che aveva incontrato in un bar di Londra, e si era trasferita a Parigi per stare con lui. Xavier era un uomo meraviglioso e ci sarebbe piaciuto. In effetti avrebbe voluto che lo incontrassimo: era un insegnante di inglese in un liceo di Marne-laVallée, era appassionato di sport, adorava i bambini. Questo la portava al punto successivo: anche se lei e Xavier avevano provato e riprovato, non erano riusciti ad avere un figlio. E anche se Sharon non aveva trovato il coraggio di scrivermi direttamente, non aveva mai dimenticato il suo cucciolo, il suo tesoro, e non era passato giorno senza che pensasse a me. Alla fine Xavier si era convinto. Nell'appartamento c'era spazio anche per tre: ero intelligente e avrei imparato la lingua senza difficoltà: e, questa era la cosa migliore, avrei avuto di nuovo una famiglia, una famiglia che si sarebbe occupata di me, e denaro per compensarmi di tutto quello che gli anni mi avevano negato. Ero in preda allo sgomento. Erano passati quattro anni: in quel lasso di tempo, il desiderio disperato che un tempo provavo nei confronti di mia madre si era spostato verso l'indifferenza e oltre. Il pensiero di vederla di nuovo, la riconciliazione che in apparenza sognava, mi riempivano di un imbarazzo triste e umiliante. Ora riuscivo a vederla da una prospettiva mutata: Sharon Snyde, che si dava un tono ordinario da signora sofisticata, che mi offriva una vita nuova, scadente, bell'e pronta in cambio dei miei anni di sofferenza. L'unico problema è che non la volevo più. «Sì, che la vuoi, pulcino», disse mio padre. La sua violenza aveva ceduto il passo a un'autocommiserazione sdolcinata che mi offendeva quasi allo stesso modo. Non mi feci ingannare. Era il sentimentalismo banale dell'hooligan con «mamma» e «papà» tatuati sui pugni sanguinanti, l'indignazione del delinquente alla notizia di un molestatore di bambini al telegiornale, le lacrime di un tiranno per un cane investito da un'automobile. «Ah, pulcino, ti importa eccome. È un'occasione, vedi, un'altra occasione. Io? Io me la riprenderei domani, se potessi. La riprenderei oggi.» «Be', io no», dissi. «Sono felice qui.» «Già! Felice. Quando potresti avere tutto quello...»
«Quello cosa?» «Parigi, e così via. Soldi. Una vita.» «Io una vita ce l'ho già», replicai. «Soldi.» «Può tenersi i suoi soldi. Ne abbiamo abbastanza.» «Certo. Va bene.» «Dico davvero, papà. Non lasciarla vincere. Voglio restare qui. Non puoi farmi...» «Ho detto "Va bene".» «Promesso?» «Sì.» «Davvero?» «Sì.» Ma notai che sfuggiva il mio sguardo e quella sera quando portai fuori la spazzatura, trovai il bidone della cucina pieno di gratta e vinci - ce n'erano venti, forse più: Lotto, Striker e Chi vince piglia tutto! - che risplendevano come decorazioni di Natale tra foglie di tè e lattine vuote. 3. Il problema Sharon Snyde fu il culmine di tutti i colpi portati in dono da quell'estate. Dalle lettere, che mio padre mi aveva tenuto nascoste ma che ormai leggevo con orrore, i suoi piani risultavano molto avanzati. In linea di massima Xavier aveva accettato un'adozione; Sharon aveva fatto qualche ricerca nelle scuole; era stata perfino in contatto con i servizi sociali, i quali avevano trasmesso informazioni tali - circa la mia frequenza a scuola, al progresso accademico e all'atteggiamento verso la vita in generale da rafforzare la sua posizione contro mio padre. Non che ne avesse bisogno: alla fine, dopo anni di lotta, John Snyde si era arreso. Si lavava poco, usciva di rado se non per il negozio di fish and chips o il takeaway cinese, spendeva la maggior parte del nostro denaro in gratta e vinci o alcol, e durante le settimane successive divenne sempre più introverso. In qualsiasi altro momento avrei apprezzato la libertà che la sua depressione mi dava. All'improvviso potevo far tardi quanto mi pareva. E nessuno mi chiedeva dove avessi passato la serata. Potevo andare al cinema, al pub. Potevo prendere le mie chiavi (finalmente, dopo quell'ultimo episodio disastroso, avevo un duplicato del mazzo) e vagavo per St Oswald ogni
volta che volevo. Senza il mio amico, la maggior parte dei soliti passatempi avevano perso d'interesse, e li abbandonai rapidamente per dedicarmi al ritrovo abituale (se si poteva chiamarlo così) con Leon e Francesca. A ogni coppia di amanti serve una spalla. Qualcuno che faccia la guardia; un terzo di comodo, uno chaperon occasionale. Era una cosa che mi nauseava, ma indispensabile; ma curavo il mio cuore infranto con la consapevolezza che, per una volta, seppure per un tempo brevissimo, Leon aveva bisogno di me. Avevamo una capanna (un «circolo», la chiamava Leon) nel bosco dietro i campi da gioco di St Oswald. L'avevamo costruita lontano dal sentiero, sui resti del covo abbandonato da tempo di qualcun altro, ed era un bel posticino, ben mimetizzato, con muri fatti con mezzi tronchi e un tetto di fitti rami di pino. Era lì che andavamo, io a fare la guardia, a fumare e a cercare di non ascoltare i rumori che venivano dalla piccola capanna dietro di me. A casa, Leon si manteneva tranquillo. Ogni mattino li chiamavo dalla mia bici, Mrs Mitchell ci preparava un picnic e noi ce ne andavamo per i boschi. Sembrava una cosa abbastanza innocente - era la mia presenza a renderla tale e nessuno immaginava quelle ore languide sotto il baldacchino di foglie, le risate soffocate dall'interno della capanna, le sbirciate dalle fessure, sulla schiena nuda color del grano e sulle natiche dolcemente screziate in penombra. Quelle erano le buone giornate; nei giorni cattivi. Leon e Francesca se la svignavano semplicemente, nei boschi, ridendo e lasciandomi lì a sentirmi imbecille e inutile mentre correvano. Non eravamo mai un terzetto. C'era Leon-e-Francesca, un ibrido esotico, soggetto a sbalzi d'umore violenti, a un entusiasmo intenso, a crudeltà stupefacenti; e poi c'ero io, la spalla muta, adorante, affidabile in eterno. Francesca non era mai del tutto felice in mia presenza. Era più grande di me, aveva forse quindici anni. Non vergine, da quanto capii - ecco che cosa ti fa la scuola cattolica - ed era già infatuata di Leon. Lui ci giocava: parlava in tono gentile, la faceva ridere. Era tutta una posa: lei non sapeva niente di lui. Non l'aveva mai visto gettare le scarpe da ginnastica di Peggy Johnsen oltre i fili del telegrafo, o rubare dischi dal negozio in città, o scagliare bombe all'inchiostro al di là del campo giochi addosso alla camicia pulita di un Sunnybanker. Ma lui riusciva a raccontarle cose che non aveva mai raccontato a me: parlava di musica e di Nietzsche e della sua passione per l'astronomia, mentre io camminavo invisibile dietro di loro col cesto
del picnic, odiandoli entrambi ma incapace di andarmene. Be', naturalmente odiavo lei. Non c'era giustificazione. Era abbastanza educata con me, la vera cattiveria veniva sempre dallo stesso Leon. Ma odiavo i loro sussurri, le risate complici che mi escludevano e li avvolgevano di intimità. Poi c'era quel toccarsi. Si toccavano sempre. Non erano solo baci, non era fare l'amore, ma un migliaio di piccoli tocchi: una mano sulla spalla, un ginocchio sfiorato contro l'altro ginocchio, i capelli di lei sulla guancia di lui come se la seta sfiorasse il velcro. E io li potevo sentire, li sentivo tutti: come elettricità nell'aria, che mi procuravano fitte, mi eccitavano, mi rendevano incandescente. Era un piacere peggiore di qualsiasi tortura. Dopo aver retto il moccolo a Leon e Francesca per una settimana, ero al punto da poter urlare di noia, eppure allo stesso tempo il cuore mi batteva a un ritmo disperato. Temevo le nostre uscite, ma la notte non dormivo e ripassavo ogni piccolo dettaglio con una cura angosciante. Era come una malattia. Fumavo più di quanto volessi; mi rosicchiavo le unghie fino a farle sanguinare. Smisi di mangiare, sulla faccia mi venne un brutto sfogo, e a ogni passo mi sembrava di camminare sul vetro. Il peggio era che Leon sapeva. Non poteva non essersene accorto; si baloccava con me con la stessa crudeltà incurante di un gatto maschio che esibisce il topo. Guarda! Guarda cos'ho! Guardami! «Allora, che ne pensi?» Un breve istante fuori dalla portata d'udito, Francesca, dietro di noi che raccoglieva fiori o faceva pipì, non ricordo quale delle due cose. «Di che?» «Frankie, scimunito. Che ne pensi?» Era solo l'inizio, e io ero ancora in preda allo stupore per quanto accadeva. Arrossii. «È carina.» «Carina.» Leon sorrise. «Già.» «Te la faresti, vero? Te la faresti, se solo ce ne fosse la possibilità?» Gli occhi erano luccicanti di astio. Scossi la testa. «Non so», dissi senza incontrare il suo sguardo. «Non so? Chi sei Pinchbeck, un frocio o che cosa?» «Fottiti Leon.» Il rossore si fece più intenso. Guardai altrove. Leon mi guardava, sempre sorridendo. «Ma dai. Ti ho visto. Ti ho visto
guardare mentre eravamo nel circolo. Non le parli mai. Non dici mai una parola. Ma guardi, vero? Guardi e impari, giusto?» Pensava che io la volessi, mi resi conto con un colpo: pensava che la volessi per me. Per poco non risi. Era così sbagliato, sbagliato in modo cosmico, esilarante. «Senti, è ok», dissi. «Solo che... non è il mio tipo, ecco tutto.» «Il tuo tipo?» Ma ora il tono tagliente era scomparso dalla sua voce. La sua risata era contagiosa. Gridò: «Ehi, Frankie! Pinchbeck dice che non sei il suo tipo!» poi si girò verso di me e mi toccò la faccia, in modo quasi intimo, con la punta delle dita. «Tempo cinque anni, amico», disse con sincerità beffarda. «Se a quel punto non ci sono state, vieni da me.» E poi se n'era andato, di corsa attraverso il bosco con i capelli che gli svolazzavano dietro e l'erba che gli frustava le caviglie nude. Non per sfuggire a me, non questa volta; ma a correre solo per la pura esuberanza di essere vivo, arrapatissimo, di avere quattordici anni. A me appariva quasi incorporeo, disintegrato dalle luci e ombre del baldacchino di foglie, un ragazzo d'aria e sole, un ragazzo immortale, bello. Non potevo stargli dietro; seguii a distanza, Francesca che protestava e Leon davanti a correre, a gridare e correre con grandi balzi impossibili nella foschia bianca di cicuta verso il buio. Ricordo quel momento in modo nitido. Un frammento di gioia purissima, il frammento di un sogno, indenne dalla logica o dai fatti. In quel momento riuscii a credere che saremmo vissuti per sempre. Nulla aveva importanza: non mia madre, non mio padre, nemmeno Francesca. Avevo colto qualcosa, lì nei boschi, e anche se non avrei mai potuto sperare di essere all'altezza, sapevo che quella cosa sarebbe rimasta con me per il resto della mia vita. «Ti amo, Leon», mormorai mentre arrancavo attraverso le erbacce. E, per il momento, era più che abbastanza. 4. Non c'era speranza, lo sapevo. Leon non mi avrebbe mai guardato come io facevo con lui, o provato nulla per me se non un affabile disprezzo. Eppure a modo mio ero felice con le briciole del suo affetto: una pacca sul braccio, un sorriso, qualche parola - «Sei simpatico, Pinchbeck» - bastavano per sollevarmi, a volte per ore. Non ero Francesca, ma presto, lo sapevo, Francesca sarebbe tornata alla sua scuola-convento, e io... io...
Be' questa era la grande domanda, no? Nelle due settimane che seguirono la rivelazione di mio padre, Sharon Snyde aveva telefonato una sera sì e una no. Non avevo voluto parlarle, chiudendomi a chiave in camera mia. Anche le sue lettere rimanevano senza risposta, così come i regali. Ma il mondo degli adulti non può essere escluso per sempre. Per quanto alzassi il volume della radio, per quante ore trascorressi fuori di casa, non era possibile sfuggire alle macchinazioni di Sharon. Mio padre, che forse avrebbe potuto salvarmi, era ormai una forza esaurita che beveva birre e vangava pizze davanti alla televisione, mentre le sue mansioni venivano trascurate e il mio tempo, il mio preziosissimo tempo, scadeva. Caro Cucciolotto, Ti sono piaciuti i vestiti che ti ho mandato? Non ero sicura quale taglia dovessi comprare, ma tuo padre dice che non sei molto grande per la tua età. Spero di aver indovinato. Voglio così tanto che le cose siano perfette quando ci incontriamo di nuovo. Non riesco a credere che compirai tredici anni. Non manca molto, vero tesoro? Il tuo biglietto aereo dovrebbe arrivare nei prossimi giorni. Non vedi l'ora della tua visita tanto quanto me? Xavier è molto felice di incontrarti finalmente, anche se è un pochino nervoso. Immagino che abbia paura di essere tagliato fuori, mentre noi recuperiamo gli ultimi cinque anni! La tua amorosa mamma, Sharon Era impossibile. Ci credeva, vedete: credeva davvero che nulla fosse cambiato, che potesse riprendere la nostra vita lì dove l'aveva lasciata; che io potessi essere il suo Cucciolo, il suo tesoro, un bambolotto da mettere in ghingheri. E ancora peggio, mio padre ci credeva. Lo voleva, lo incoraggiava in un modo perverso, come se lasciandomi andare fosse in grado di modificare la propria rotta, come zavorra lanciata da una nave che affonda. «Provaci.» Adesso conciliante, come un genitore indulgente con un bambino capriccioso. Non aveva alzato la voce dal giorno in cui mi aveva colpito. «Provaci, pulcino. Potresti perfino divertirti.» «Io non vado. Non la vedrò.» «Te lo dico, io. Parigi ti piacerà.» «No.» «Ti ci abituerai.»
«Col cazzo. E in ogni caso è soltanto una visita. Io non andrò a vivere lì o una roba così.» Silenzio. «Ho detto "È soltanto una visita".» Silenzio. «Papà?» Ah, cercai di incoraggiarlo. Ma qualcosa dentro di lui si era rotto. Aggressività e violenza avevano ceduto il passo all'indifferenza. Aumentò ancora di peso, non faceva attenzione con le chiavi, i prati si fecero scabri per l'incuria, il campo del cricket, privato della dose quotidiana di irrigazione, divenne marrone e spoglio. La sua letargia, il suo fallimento, sembravano studiati per eliminare la gioia di rimanere in Inghilterra rispetto alla nuova vita che Sharon e Xavier avevano pianificato per me con tanta cura. E così provavo un sentimento lacerante, tra la lealtà nei confronti di Leon e il bisogno crescente di sostituire mio padre. Presi a innaffiare il campo del cricket di sera, provai perfino a tosare i prati. Ma la Macchina infernale aveva le sue idee, e mi riuscì solo di scalpare l'erba, il che rese le cose ancora peggiori, mentre il campo, malgrado i miei sforzi, si rifiutava di germogliare. Inevitabile che prima o poi qualcuno se ne accorgesse. Una domenica tornai a casa dai boschi e trovai Pat Bishop nel nostro salottino, seduto scomodamente su una delle seggiole buone, e mio padre di fronte, sul sofà. Riuscivo quasi a sentire l'elettricità nell'aria. Si girò appena entrai: stavo per scusarmi e andarmene subito, ma lo sguardo sulla faccia di Bishop mi gelò. Vi lessi colpa, e pietà, e rabbia, ma soprattutto vidi un profondo sollievo. Era lo sguardo di un uomo desideroso di cogliere qualsiasi diversivo pur di allontanare una scenata sgradevole, e quando mi salutò, sebbene il sorriso fosse ampio e le guance rosa come al solito, non mi feci ingannare neanche per un istante. Mi domandai chi avesse presentato il reclamo. Un vicino, un passante, un insegnante. Un genitore, forse, che voleva spendere bene il suo denaro. Di certo c'era una quantità di cose di cui lamentarsi. La scuola stessa aveva sempre attirato l'attenzione. Dev'essere irreprensibile in ogni momento. Anche i suoi dipendenti devono essere irreprensibili: c'è già abbastanza rancore tra St Oswald e il resto della città per alimentare le voci. Un Portiere lo sa: è per questo che St Oswald ha i portieri. Mi girai verso mio padre. Lui non mi guardava, ma teneva gli occhi su Bishop, che era già a metà strada verso la porta. «Non è stata colpa mia»,
disse. «Io... noi, abbiamo passato un momento un po' difficile, io e il pulcino. Glielo dica, signore. La ascolteranno.» Il sorriso di Bishop, ora privo di umorismo, era immenso. «Non so John. Per lei questo è l'ammonimento finale. Dopo quell'altra faccenda, colpire un ragazzo, John...» Mio padre provò ad alzarsi. Ci volle uno sforzo; vidi la sua faccia, infiacchita dall'angoscia, e sentii un crampo allo stomaco per la vergogna. «Per favore, signore...» Anche Bishop lo notò. La sua mole riempiva la soglia. Per un secondo i suoi occhi si posarono su di me e vi lessi pietà, ma non un barlume di riconoscimento, anche se doveva avermi visto a St Oswald più di una decina di volte. Questo, in qualche modo, il suo non essere in grado di vedere, erano peggio di tutto il resto. Volevo farmi sentire, dire: «Signore, non mi riconosce? Sono io, Pinchbeck. Una volta mi ha dato due punti della Casa, ricorda, e mi ha detto di presentarmi alla squadra di corsa campestre!» Ma era impossibile. L'avevo ingannato troppo bene. Li avevo pensati così superiori, i professori di St Oswald, ma ecco qui Bishop, con l'aria imbarazzata, proprio come era parso Mr Bray il giorno in cui l'avevo demolito. Che aiuto poteva darci? Eravamo soli, e solo io lo sapevo. «Tenga duro, John. Farò quel che posso.» «Grazie, signore.» Ora stava tremando. «Lei è un amico.» Bishop posò la grossa mano sulla spalla di mio padre. Era buono, la voce calda e cordiale, e stava ancora sorridendo. «Su con la vita! Ce la può fare. Con un po' di fortuna potrà sistemare tutto per settembre, e nessuno deve sapere nulla. Ma niente più fesserie, eh? E, John...», con una pacca amichevole sul braccio di mio padre, come se stesse accarezzando un labrador sovrappeso, «niente alcol, vero? Un'altra mazzata e nemmeno io sarò in grado di aiutarla.» In un certo senso Bishop mantenne la parola. Il reclamo venne lasciato cadere, o per lo meno accantonato momentaneamente. Bishop faceva un salto ogni paio di giorni per chiedergli come stava, e per reazione mio padre sembrò riprendersi un po'. Cosa più importante, l'economo aveva assunto una specie di tuttofare; un caso sociale di nome Jimmy Watt, che avrebbe dovuto rilevare alcuni dei compiti più tediosi del Portiere, lasciando John Snyde a far fronte al lavoro vero. Era la nostra ultima speranza. Senza il lavoro di Portiere, sapevo che non aveva possibilità contro Sharon e Xavier. Ma doveva aver voglia di tener-
mi, pensai; e, a questo proposito, io sarei stato come mi voleva lui. E così, a mia volta, lavorai su mio padre. Guardavo il calcio alla televisione; mangiavo fish and chips dal giornale; gettavo via i libri; mi offrivo per qualsiasi lavoro domestico. Sulle prime mi guardò con sospetto, poi con sconcerto, e alla fine con un'approvazione ingrugnita. Il fatalismo che l'aveva afflitto quando aveva saputo della situazione di mia madre sembrò erodersi un poco; parlava con amaro sarcasmo del suo stile di vita parigino, del marito, un ragazzo ricco da college, della sua convinzione di poter rientrare nella nostra vita come le pareva. Tutto questo mi rinfrancò e gli instillai l'idea di sventare i suoi piani: di mostrarle chi era il capo, di fingersi d'accordo con le sue patetiche ambizioni solo per frustrarla con un colpo da maestro finale, decisivo. Si adattava alla sua indole, gli dava un senso: si era sempre trovato meglio in compagnia dei maschi, provava una sfiducia acida nelle macchinazioni delle donne. «Tutte uguali», mi disse una volta, dimenticando chi fossi mentre si lanciava in una delle sue frequenti tirate. «Le cagne. Tutte sorrisi un minuto e il minuto dopo prendono il coltello da cucina per pugnalarti alle spalle. E se la cavano pure, c'è nei giornali ogni giorno. Voglio dire, che ci puoi fare? Un uomo grande e grosso, povera piccola, voglio dire è logico che lui deve averle fatto qualcosa, giusto? Violenza coniugale o di qualunque cazzata si tratti, e quando ne senti parlare di nuovo, eccola lì, in tribunale, a battere le ciglia, a prendersi l'affidamento dei ragazzini e i soldi e dio sa che altro...» «Il mio affidamento no», dissi. «Ah, su», tentò John Snyde. «Non dirai sul serio. Parigi, una buona scuola, una nuova vita...» «Te l'ho detto. Voglio restare qui.» «Ma perché?» Mi fissò confuso, come un cane a cui si nega una passeggiata. «Potresti avere tutto quello che vuoi. Vestiti, dischi...» Scossi la testa. «Non li voglio», dissi. «Non può tornarsene indietro così dopo cinque maledetti anni e cercare di comprarmi col denaro di quel francese.» Ora mi stava osservando, una ruga tra gli occhi azzurri. «Voglio dire, tu sei stato lì tutto il tempo», dissi. «A vegliare su di me. A fare del tuo meglio.» Allora annuì, un piccolo movimento, e sapevo che stava facendo attenzione. «Siamo stati bene, no papà? E per cosa abbiamo bisogno di loro?» Ci fu silenzio. Sapevo che le mie parole avevano toccato una corda. «Sì,
pulcino, è stato così», disse. Non so se fosse un'affermazione o una domanda. «Ci arrangeremo», dissi. «Come sempre. Colpire per primi e colpire in fretta. Non mollare mai, eh papà? Non permetterai più che i bastardi ti tormentino?» Un'altra pausa, abbastanza lunga per lasciar decantare. Poi rise, una risata sorprendente, solare, giovane, che mi colse di sorpresa. «Va bene, pulcino», rispose. «Faremo un tentativo.» E così, speranzosi, cominciammo agosto. Il mio compleanno sarebbe stato dopo tre settimane, il trimestre sarebbe iniziato dopo quattro. Il tempo sufficiente perché mio padre riportasse i terreni alla perfezione originaria, per completare il lavoro di manutenzione, per sistemare le trappole per topi e ridipingere il padiglione di educazione fisica entro settembre. Il mio ottimismo ritornò. C'era una giustificazione: mio padre non aveva dimenticato la nostra conversazione in soggiorno, e questa volta sembrava davvero che facesse uno sforzo. Mi dava speranza e mi faceva provare un po' di vergogna per come l'avevo trattato in passato. Avevo avuto i miei problemi con John Snyde, pensai: ma almeno lui era onesto; e aveva fatto del suo meglio. Non mi aveva abbandonato cercando poi di corrompermi perché ritornassi dalla sua parte. Alla luce delle azioni di mia madre, perfino le partite di calcio e le lezioni di karate ora mi apparivano meno ridicole; assomigliavano, se mai, a profferte goffe, ma sincere, di amicizia. E così lo aiutai come meglio potevo: pulivo la casa, gli lavavo i vestiti, lo obbligai perfino a radersi. Ero obbediente, avevo gesti quasi affettuosi. Avevo bisogno che tenesse questo lavoro: era la mia unica arma contro Sharon, il mio biglietto per St Oswald, e per Leon. Leon. Strano, non è vero, come un'ossessione nasca da un'altra? Sulle prime era St Oswald, la sfida, la gioia del sotterfugio, il bisogno di appartenenza, di essere qualcosa di meglio, di non avere come genitori John e Sharon Snyde. Ora era soltanto Leon: stare con Leon, conoscerlo, possederlo in modi che non potevo ancora capire. Non c'era una sola ragione per la mia scelta. Sì, lui era attraente. Era stato anche gentile, nel suo modo incurante; mi aveva incluso nella suo ambiente; mi aveva dato i mezzi per vendicarmi di Bray, il mio aguzzino. E io avevo provato la solitudine, la vulnerabilità, la disperazione, la debolezza. Ma sapevo che non era niente di tutto questo. Dal primo momento in cui
lo vidi, nel corridoio di mezzo con i capelli sugli occhi e l'estremità della cravatta tagliata che spuntava come una lingua impudente, già lo sapevo. Un filtro si era alzato dal mondo. Il tempo si era separato tra il prima-diLeon e il dopo-Leon; e adesso nulla sarebbe mai più stato uguale. La maggior parte degli adulti, per qualche motivo, ritiene che le sensazioni degli adolescenti contino poco, e che quelle passioni brucianti di rabbia e odio, di imbarazzo e di orrore, di amore abietto, senza speranza, siano qualcosa da cui ci si libera crescendo, un fatto ormonale, un'esercitazione per la Cosa Vera. Questa non lo era. A tredici anni, tutto conta: ci sono lame affilate ovunque, e sono taglienti. Alcune droghe possono ricreare quell'intensità di sensazioni, ma l'età adulta smussa le spigolosità, affievolisce i colori e contamina ogni cosa con la ragione e la razionalità, oppure con la paura. Di queste cose, a tredici anni, non sapevo che farmene. Sapevo ciò che volevo, e per ciò ero disponibile, con la determinazione dell'adolescenza, a combattere fino alla morte. Non ci sarebbe stata Parigi. Qualunque cosa comportasse, non avrei lasciato quel posto. 5. St Oswald's Grammar School for Boys lunedì, 25 ottobre Nel complesso un inizio infelice del nuovo trimestre. Ottobre si è fatto minaccioso, strappando le foglie dagli alberi dorati e annaffiando la corte di castagne d'India. Il tempo ventoso eccita i ragazzi: vento e pioggia significano ragazzi agitati in classe durante l'intervallo; e dopo quanto è successo l'ultima volta, non oso lasciarli senza sorveglianza neanche per un momento. Niente intervallo per Straitley, quindi; nemmeno una tazza di tè; e l'umore che ne è derivato era pessimo al punto da farmi scattare con ciascuno, compresi i miei Stanlio e Ollio, che di solito mi fanno ridere anche nei momenti peggiori. Di conseguenza i ragazzi hanno tenuto la testa bassa, malgrado il tempo ventoso. Ho messo in detenzione un paio di allievi di quarta per non aver consegnato il compito, ma a parte questo non ho dovuto alzare la voce quasi mai. Forse percepivano qualcosa - magari un soffio di ozono nell'aria prima dell'attacco - che li ha messi in guardia. Non era questo il momento per una dimostrazione di buonumore. La Sala professori, così sento dire, è stata teatro di una serie di piccole schermaglie acide. Alcune sgradevolezze a proposito delle valutazioni, un
guasto ai computer nell'ufficio, una discussione fra Pearman e Scoones sul nuovo programma di francese. Prima della metà trimestre Roach ha perso la carta di credito, e ora rimprovera Jimmy di non aver chiuso a chiave la porta della Stanza del silenzio dopo la fine della scuola; il dott. Ordine ha decretato che, a partire da questo trimestre, il tè e il caffè (sin qui forniti gratis) devono essere pagati la bellezza di 3,75 sterline alla settimana; e il dott. Devine, in qualità di rappresentante della Salute e sicurezza, ha richiesto ufficialmente un rivelatore antifumo per il corridoio di mezzo (nella speranza di cacciarmi dalla mia tana di fumatore nella vecchia Sala di lettura). Sul fronte positivo, non c'è stato un ritorno da parte di Strange a proposito di Pooley e del blazer strappato. Devo dire che la cosa mi sorprende un po': mi sarei immaginato che un secondo ammonimento sarebbe arrivato nella mia piccionaia, e posso soltanto supporre che Bob si sia dimenticato dell'incidente o l'abbia liquidato come una sciocchezza da fine trimestre, deciso a non insistere oltre. E poi ci sono altre cose più importanti da risolvere. L'aggressivo Light ha perso la patente, o così mi dice Kitty, in seguito a un incidente, qualcosa dei genere, in città. C'è dell'altro in questa vicenda, ma il mio soggiorno obbligato nella torre campanaria mi ha escluso dal circuito principale dei pettegolezzi della Sala professori per la maggior parte della giornata, e quindi ho dovuto affidarmi ai ragazzi per avere informazioni. Al solito, tuttavia, chi sparge le notizie si è dato da fare. Una voce ha dichiarato che Light è stato arrestato in seguito a una soffiata ricevuta dalla polizia. Un'altra ha riferito che Light ha superato dieci volte il limite legale; un'altra ancora che è stato fermato mentre era in macchina con dei ragazzi di St Oswald e che uno di questi era al volante. Devo dire che, al principio, nulla di tutto questo mi ha molto inquietato. Di tanto in tanto ci si imbatte in un insegnante come Light: un buffone arrogante che è riuscito a raggirare il sistema e intraprende la professione immaginandosi un lavoro facile con lunghe vacanze. Di regola non durano molto. Se i ragazzi non li stroncano, di solito lo fa qualcos'altro, e la vita continua senza tanti intoppi. Ma con il trascorrere della giornata, ho cominciato a rendermi conto che c'era in atto qualcosa di più delle infrazioni alla guida di Light. La classe di Gerry Grachvogel di fianco alla mia era più rumorosa che mai; durante la mia ora libera ho messo dentro la testa e ho visto la maggior parte della 3S, compresi Knight, Jackson, Anderton-Pullitt e i soliti sospetti, che all'appa-
renza chiacchieravano fra loro, mentre Grachvogel era seduto a guardare fuori dalla finestra con un'espressione tanto infelice e preoccupata da frenare l'impulso originario di intromettermi, e così sono tornato nella mia aula senza una parola. Quando sono rientrato, Chris Keane mi stava aspettando. «Per caso non ho lasciato qui un quaderno prima della metà trimestre?» ha chiesto mentre entravo. «Un quaderno piccolo, rosso. Ci tengo tutte le mie idee.» Per una volta ho pensato che apparisse meno calmo: rammentando alcuni dei suoi commenti più sovversivi, ho pensato di capire il perché. «Ho trovato un taccuino nella Sala professori prima della metà trimestre», gli ho detto. «Pensavo che l'avrebbe reclamato.» Keane ha scosso la testa. Mi chiedevo se dovessi dirgli che avevo dato un'occhiata, poi, vedendo la sua espressione furtiva, ho deciso di no. «Programmi delle lezioni?» ho chiesto con fare innocente. «Non proprio», ha risposto Keane. «Chieda a Miss Dare. Lei condivide la mia aula. Forse l'ha visto e l'ha messo via.» Mi è parso che Keane fosse un po' preoccupato. Vorrei vedere, conoscendo il contenuto incriminante di quel quadernetto. Tuttavia, si è mostrato piuttosto tranquillo al proposito e ha detto solo: «Nessun problema. Sono sicuro che prima o poi salterà fuori.» A pensarci, nelle ultime settimane le cose hanno avuto la tendenza a scomparire. Le penne, per esempio, il quaderno di Keane, la carta di credito di Roach; un portafoglio, potrei capire, ma davvero non riuscivo a immaginare chi potrebbe rubare una vecchia tazza di St Oswald, per non parlare del mio registro di classe, che non è ancora riemerso, a meno che non sia solo per darmi fastidio, nel qual caso l'effetto è più che riuscito. Mi sono chiesto quali altri piccoli oggetti insignificanti fossero scomparsi nei giorni recenti, e se le sparizioni fossero in qualche modo collegate fra loro. L'ho detto a Keane. «Be', è una scuola», ha risposto. «A scuola le cose svaniscono.» Forse, ho pensato: ma non a St Oswald. Ho visto il sorriso ironico di Keane mentre lasciava l'aula, quasi avessi parlato a voce alta. Alla fine della scuola sono tornato nell'aula di Grachvogel, sperando di scoprire cosa gli passasse per la testa. Gerry è un tipo come si deve, a modo suo, non un talento in classe, ma un vero accademico con un autentico
entusiasmo per la sua materia, e mi mette di malumore vederlo così giù di corda. Però, quando ho messo dentro la testa alle quattro, lui non c'era. Anche questo era insolito: Gerry tende a trattenersi fino a tardi, a pasticciare con i computer o a preparare i suoi interminabili sussidi visivi, ed era di certo la prima volta in cui l'avessi visto lasciare aperta la porta dell'aula. Qualcuno dei miei ragazzi era ancora al banco, a copiare degli appunti dalla lavagna. Non sono stato sorpreso di vedere Anderton-Pullitt, che è un gran lavoratore, e Knight, che non ha sollevato la testa con fare studioso, ma con il mezzo sorriso compiaciuto sul volto a indicare che si era accorto della mia presenza. «Salve, Knight», ho esordito. «Mr Grachvogel ha detto se sarebbe tornato?» «No, signore.» La voce era incolore. «Penso che se ne sia andato», ha aggiunto Anderton-Pullitt. «Capisco. Bene, mettete via le vostre cose, ragazzi, il più in fretta possibile. Non voglio che nessuno di voi perda l'autobus.» «Io non prendo l'autobus, signore». Era di nuovo Knight. «Mi viene a prendere mia madre. Troppi pervertiti in circolazione, di questi tempi.» Ora cerco di essere giusto. Davvero. Me ne faccio un punto d'orgoglio, in realtà: la mia equanimità, il mio buonsenso nel giudicare. Posso essere duro, ma sono sempre giusto; non faccio mai una minaccia a cui poi non tengo fede, o una promessa che non intendo mantenere. I ragazzi lo sanno, e la maggior parte rispetta questo modo di fare: sapete come stanno le cose, col vecchio Gobbo, lui non permette ai sentimenti di interferire col lavoro. Lo spero, almeno: con l'avanzare degli anni sto diventando sempre più sentimentale, ma non penso che questo abbia mai intralciato il mio dovere. Tuttavia, nella carriera di qualsiasi insegnante ci sono momenti in cui l'obiettività viene meno. Nel guardare Knight, con la testa ancora abbassata ma gli occhi che saettavano nervosi avanti e indietro, mi sono ricordato ancora una volta di quello sbaglio. Non mi fido di Knight: la verità è che in lui c'è qualcosa che ho sempre detestato. So che non dovrei, ma anche gli insegnanti sono esseri umani. Abbiamo le nostre preferenze. Certo che è così: dobbiamo evitare soltanto l'ingiustizia. E io ci provo: ma sono consapevole che, di tutto il mio piccolo gruppo, Knight è lo spostato, il Giuda, l'uccello del malaugurio, quello che inevitabilmente esagera, confonde l'umorismo con l'insolenza, la malizia col livore. Un tipino risentito, viziato, pallido, che accusa chiunque tranne sé stesso. Malgrado ciò, lo tratto
esattamente come gli altri: nei suoi confronti tendo perfino all'indulgenza, perché conosco la mia debolezza. Ma oggi c'era un che nei suoi modi che mi metteva a disagio. Come se sapesse qualcosa, un segreto malefico che lo rallegrava e lo faceva star male allo stesso tempo. Di certo ha l'aspetto malato, malgrado tutta la sufficienza; c'è una nuova eruzione di acne sui tratti pallidi, un luccichio untuoso sui lisci capelli castani. Testosterone, con ogni probabilità. Comunque non posso fare a meno di pensare che il ragazzo sappia qualcosa. Per avere l'informazione (qualunque fosse) da Sutcliff o Allen-Jones, non avrei avuto che da chiedere. Ma con Knight... «È successo qualcosa nella classe di Mr Grachvogel, oggi?» «Signore?» La faccia di Knight era un vuoto prudente. «Ho sentito gridare», ho detto. «Non me, signore», ha risposto Knight. «No, certo che no.» Era inutile. Knight non l'avrebbe mai raccontato. Con un'alzata di spalle ho lasciato la torre campanaria, diretto all'ufficio di lingue e alla prima riunione del dipartimento della nuova metà trimestre. Grachvogel sarebbe stato lì: forse avrei potuto parlargli prima che se ne andasse. Knight, mi sono detto, poteva aspettare. Almeno fino a domani. All'incontro non c'era traccia di Gerry. C'erano tutti gli altri, cosa per cui mi sono convinto definitivamente che il mio collega si fosse ammalato. Gerry non manca mai a una riunione: gli piace la formazione con la prestazione di servizi, canta in modo energico durante le assemblee, è sempre preparato. Oggi non c'era, e quando ho accennato alla sua assenza con il dott. Devine, la risposta è stata tanto gelida da farmi desiderare di non averlo fatto. Ancora suscettibile per il vecchio ufficio, suppongo; tuttavia, nei suoi modi c'era qualcosa di più della consueta disapprovazione; e durante la riunione me ne sono stato buono buono, ripassando le cose che forse avevo fatto senza volerlo per provocare il vecchio idiota. Non potete saperlo, ma in realtà mi piace abbastanza, doppiopetto e tutto quanto: è una delle poche costanti in un mondo che cambia e ce ne sono già troppo poche in circolazione. Così l'incontro si è trascinato stancamente, con Pearman e Scoones che litigavano sui meriti di diverse commissioni d'esame, il dott. Devine glaciale e compunto, Kitty insolitamente spenta, Isabelle che si limava le unghie, Geoff e Penny Nation sull'attenti come Bibì e Bibò, e Dianne Dare
che osservava tutto come se le riunioni di dipartimento fossero lo spettacolo più affascinante del mondo. Era buio quando la riunione è finita, e la scuola era deserta. Anche la gente delle pulizie se ne era andata. Rimaneva soltanto Jimmy, che spingeva la lucidatrice con gesti lenti e coscienziosi sopra il parquet del corridoio inferiore. «'notte, capo», mi ha detto mentre passavo. «E anche per oggi è fatta, no?» «Ha un bel da fare», ho detto. Dalla sospensione di Fallow, Jimmy ha svolto tutti i compiti del Portiere, ed è stato un incarico molto pesante. «Quando comincia il tipo nuovo?» «Due settimane», ha risposto Jimmy, con un sorriso grande come la sua faccia di luna. «Si chiama Shuttleworth. Tiene per l'Everton. Però credo che andremo d'accordo.» Ho sorriso. «Ma non lo voleva lei il lavoro?» «Noo, capo.» Jimmy ha scosso la testa. «Troppo casino.» Quando ho raggiunto il parcheggio della scuola, pioveva forte. La macchina delle Nazioni stava già allontanandosi dal posto assegnato. Eric non possiede un'auto, ha la vista troppo debole, e poi abita praticamente accanto alla scuola. Pearman e Kitty erano ancora in ufficio, a guardare delle carte - da quando la moglie è malata, Pearman dipende sempre di più da Kitty. Isabelle Tapi si stava rifacendo il trucco - dio sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto - ed ero sicuro di non potermi aspettare un passaggio dal dott. Devine. «Miss Dare, mi chiedo se...» «Certo. Salti su.» L'ho ringraziata e mi sono sistemato nel sedile di fianco al posto di guida della piccola Corsa. Ho notato che una macchina, come una cattedra, spesso riflette la mente del proprietario. Quella di Pearman è straordinariamente disordinata. Le Nazioni hanno un adesivo che dice: NON SEGUIRMI, SEGUI GESÙ. La macchina di Isabelle ha un giocattolo da cruscotto con un Care Bear, un orsetto del cuore. Per contrasto, l'automobile di Dianne è ordinata, pulita, funzionale. Non si vedono né giocattoli da coccole né slogan divertenti. Questo mi piace: è segno di una mente ordinata. Se io avessi una macchina, con ogni probabilità assomiglierebbe all'aula 59: tutta pannelli di quercia e clorofiti polverosi. L'ho detto a Miss Dare e lei ha riso. «Non ci avevo pensato», ha risposto, svoltando sulla strada principale. «Come i proprietari dei cani e i loro
animali.» «O gli insegnanti e le loro tazze da caffè.» «Davvero?» A quanto pare Miss Dare non se ne è mai accorta. Lei usa una tazza della scuola (non ornata, bianca, con un bordino blu), di quelle fornite dalla cucina. Sembra notevolmente immune da capricciosità per essere una donna tanto giovane (devo ammetterlo, la mia base per un confronto non è vasta); ma questo, penso, è parte del suo fascino. Mi è venuto in mente che potesse andare d'accordo col giovane Keane, il quale a sua volta è molto calmo per essere una matricola, ma quando le ho chiesto come se la passava con gli altri nuovi insegnanti, si è limitata a scrollare le spalle. «Troppo occupata?» ho azzardato. «Non è il mio tipo. Guida in stato di ubriachezza con dei ragazzi in macchina. Che sciocco.» Be', per questo amen: di sicuro quell'idiota di Light ha macchiato la propria reputazione con le sue ridicole pagliacciate in città. Easy è solo un altro Doppiopetto usa e getta; Meek è dimissioni in attesa. «E di Keane che dice?» «Non gli ho veramente parlato.» «Dovrebbe. Ragazzo del posto. Ho la sensazione che potrebbe essere il suo tipo.» Ve l'ho detto che stavo diventando sentimentale. Ci sono poco portato, in fondo, ma c'è qualcosa in Miss Dare che chissà perché fa emergere il mio lato romantico. Un autentico apprendista Cerbero (anche se con un aspetto migliore della maggior parte dei Cerberi che ho visto), non mi riesce difficile immaginarla fra trenta o quarant'anni, somigliante a un'attrice come Margaret Rutherford, anche se più magra, ma con la stessa vena comica. Sapete, è fin troppo facile lasciarsi coinvolgere: a St Oswald si applicano leggi diverse da quelle del mondo esterno. Una di queste è il tempo: qui passa più in fretta che in qualsiasi altro posto. Prendete me: vicino alla Centuria, eppure quando mi guardo nello specchio vedo lo stesso ragazzo che sono sempre stato, ora con i capelli grigi e troppe borse sotto gli occhi e l'inequivocabile aria dissoluta del vecchio buffone della classe. Ho provato, senza riuscirci, a comunicare parte di tutto questo a Dianne Dare, ma ci stavamo avvicinando a casa mia. La pioggia era cessata; le ho chiesto di lasciarmi in fondo a Dog Lane e le ho spiegato che volevo con-
trollare lo steccato, assicurarmi che l'incidente del graffito non si fosse ripetuto. «Vengo con lei», ha detto accostando al marciapiede. «Non ce n'è bisogno», ho replicato, ma lei ha insistito, e mi sono reso conto che lei era preoccupata per me, un pensiero che fa riflettere, ma gentile. E forse aveva ragione: perché non appena siamo entrati nella via lo abbiamo visto - certo, era troppo grosso per mancarlo - non un semplice graffito, ma un ritratto murale in vernice a spruzzo multicolore che mi raffigurava, più grande del naturale, con i baffi e munito di svastica. Per mezzo minuto l'abbiamo fissato. La vernice sembrava appena asciugata. Poi la rabbia si è impossessata di me: quella sorta di rabbia così trascendente da impedire di parlare e che ho provato forse tre o quattro volte in tutta la mia carriera. L'ho sfogata in modo conciso, dimenticando le raffinatezze della lingua latina per il puro anglosassone. Perché conoscevo il colpevole; questa volta lo conoscevo senza ombra di dubbio. A prescindere dal piccolo oggetto sottile che avevo notato per terra nello spicchio d'ombra alla base dello steccato, ho riconosciuto lo stile. Era identico al fumetto che avevo tolto dalla bacheca della 3S: il fumetto che sospettavo fosse di Colin Knight. «Knight?» ha fatto eco Miss Dare. «Ma è un tale timidino.» Timido o no, lo sapevo. E poi, il ragazzo ha un motivo di rancore; mi odia, e il sostegno di sua madre, del Rettore, dei giornali e di dio sa quale altro scontento gli ha dato un coraggio scaltro. Ho raccolto l'oggetto sottile alla base dello steccato. Il dito invisibile mi ha colpito di nuovo; sentivo il sangue pulsare, e la rabbia, come una droga letale, sgorgava a fiotti, stingendo il mondo del suo colore. «Mr Straitley?» Ora Dianne sembrava allarmata. «Sta bene?» «Perfettamente.» Mi ero ripreso: tremavo ancora, ma ero sano di mente, e il selvaggio in me era sotto controllo. «Guardi questo.» «È una penna, signore», ha detto Dianne. «Non è solo una penna.» Lo sapevo bene: l'ho cercata a lungo, prima che venisse ritrovata nel nascondiglio segreto della portineria. La penna per il bar mitzvah di Colin Knight, che mi venga un accidenti; costo superiore alle 500 sterline, secondo sua madre, e opportunamente impreziosita dalle iniziali. CNK, tanto per essere sicuri.
6. martedì, 26 ottobre Bel tocco. Quella penna. Una Mont Blanc, sapete: una di quelle più economiche, ma anche così, di certo non alla mia portata. Anche se non lo direste, guardandomi adesso: il lucido da poliestere è andato, sostituito da quella patina levigata, sofisticata che è impenetrabile: una delle molte cose che ho preso da Leon, insieme a Nietzsche e al penchant per la vodka lemon. Quanto a Leon, gli piacevano i miei murales: lui non era un artista e lo sorprendeva che fossi capace di creare ritratti così accurati. Naturalmente avevo avuto maggiori opportunità di studiare i maestri: avevo taccuini pieni di schizzi, e per di più, potevo falsificare qualsiasi firma Leon mi desse, e questo significava che godevamo entrambi dell'impunità derivata da una serie di giustificazioni e permessi per uscire da scuola. Mi fa piacere vedere che il talento non mi ha tradito. Durante l'ora libera del pomeriggio me la sono filata da scuola - non è rischioso quanto sembra: quasi nessuno passa per Dog Lane tranne i Sunnybanker - per ritornare entro l'ottava ora. È andato come un sogno: nessuno ha visto nulla tranne quel semideficiente di Jimmy, che stava aggiustando i cancelli della scuola e che mi ha fatto il suo sorriso idiota mentre passavo in macchina. Allora ho pensato che avrei forse dovuto fare qualcosa a proposito di Jimmy. Non che avrebbe potuto riconoscermi, o qualcosa del genere, ma le cose in sospeso rimangono in sospeso, e da troppo tempo questa non era sistemata. E poi mi offende. Fallow era grasso e pigro, ma Jimmy con la bocca umida e il sorriso servile, è in qualche modo peggio. Mi domando come sia sopravvissuto tanto a lungo; mi domando come St Oswald, con il suo orgoglio e la sua reputazione, possa tollerarlo. Un caso di assistenza sociale, ricordo: poco costoso, come una lampadina da quaranta watt. L'espressione è usa e getta. All'ora di colazione ho compiuto tre piccoli furti poco appariscenti: un tubo di olio per le valvole dal trombone di un allievo (uno di quelli di Straitley, un ragazzo giapponese di nome Niu), un cacciavite dalla rimessa di Jimmy e, naturalmente, la famosa penna di Colin Knight. Nessuno ha visto, e nessuno ha visto cosa ho fatto con questi tre oggetti quando è venuta l'ora. Il tempo - il tempo - è il fattore cruciale. Sapevo che Straitley e gli altri
linguisti sarebbero stati alla riunione ieri sera (tranne Grachvogel, che aveva una delle sue emicranie in seguito a quello sgradevole e breve colloquio con il Rettore). Alla fine, tutti sarebbero tornati a casa; tutti tranne Pat Bishop, il quale, di solito si può esserne certi, si trattiene a scuola fino alle otto o alle nove. In ogni caso non sarebbe stato un problema: il suo ufficio è nel corridoio inferiore, due rampe di scale più sotto, troppo lontano dal Dipartimento di lingue perché sentisse qualcosa. Per un momento ero di nuovo nel negozio di dolciumi, con l'imbarazzo della scelta. Certo, Jimmy era il mio bersaglio principale, ma se questa cosa avesse funzionato, avrei probabilmente avuto in premio un membro qualsiasi del Dipartimento di lingue. La domanda era: chi? Di sicuro non Straitley, non ancora. Ho i miei piani per Straitley e stanno maturando bene. Scoones? Devine? Teague? Dal punto di vista geografico, doveva essere qualcuno con la classe nella torre campanaria; qualcuno di solitario, con cui non si poteva sbagliare; ma più di ogni cosa, qualcuno di vulnerabile, una gazzella zoppicante che era rimasta indietro; qualcuno privo di difesa, una donna, forse, la cui sventura avrebbe provocato un vero scandalo. Ci poteva essere un'unica scelta. Isabelle Tapi, con i tacchi alti e i golfini attillati; Isabelle che si prende sempre un congedo per TPM, la tensione premestruale, ed è uscita praticamente con ogni componente maschile del corpo insegnante sotto i cinquanta (tranne Gerry Grachvogel, che ha altri gusti). La sua aula è nella torre campanaria, proprio sopra quella di Straitley. È un piccolo locale dalla forma bizzarra, eccentrica: caldo in estate, freddo in inverno, con finestre su quattro lati e dodici gradini stretti in pietra che portano su nella stanza. Non molto pratico, ai tempi di mio padre era un magazzino, e c'è a malapena lo spazio per far sedere una classe intera. Lì, dal cellulare, non ricevi il segnale che può salvarti la vita; Jimmy lo odia, quelli delle pulizie lo evitano - è quasi impossibile portare un aspirapolvere su per quei piccoli gradini - e la maggior parte degli insegnanti - a meno che a loro volta non abbiano fatto lezione nella torre campanaria - non si accorge quasi che esista. Per il mio scopo, quindi, era ideale. Ho aspettato fino alla fine della scuola. Sapevo che Isabelle non sarebbe andata alla riunione del dipartimento prima di un caffè (e una chiacchiera con lo schifoso Light); il che mi dava cinque o dieci minuti. Abbastanza. Prima di tutto, ho fatto un salto nell'aula, che era vuota. Quindi, seden-
domi sui gradini con gli occhi all'altezza della maniglia della porta, ho estratto il cacciavite. È un meccanismo molto semplice, basato su un solo perno quadrato che collega la maniglia allo scatto. Nulla poteva essere più facile. Ma se togli il perno, per quanto si tiri e si spinga la maniglia, la porta rimane chiusa. Ho svitato rapidamente la maniglia, ho socchiuso la porta e tolto il perno. Poi, tenendo il piede a cuneo nel vano della porta per impedire che si chiudesse, ho risistemato le viti e la maniglia come prima. Ecco. Dall'esterno la porta si sarebbe aperta in modo perfettamente normale. Una volta dentro, però... Certo, non si può mai essere davvero sicuri. Isabelle avrebbe anche potuto non ritornare nella propria aula. Gli addetti alle pulizie avrebbero potuto essere atipicamente scrupolosi; Jimmy poteva decidere di dare un'occhiata. Ma non credevo che sarebbe andata così: mi piace pensare di conoscere St Oswald meglio di chiunque, e ho avuto tutto il tempo per abituarmi alle sue piccole routine. Eppure, non sapere è metà del divertimento, no? e se non funzionava, ho concluso fra me e me, avrei potuto sempre cominciare di nuovo il mattino dopo. 7. St Oswald's Grammar School for Boys mercoledì, 27 ottobre La notte scorsa ho dormito male. Il vento, forse, o il ricordo del perfido comportamento di Knight, oppure l'improvviso fuoco d'artiglieria della pioggia caduta dopo mezzanotte, o magari i sogni, più vividi e inquietanti di quanto lo siano stati per anni. Avevo bevuto un paio di bicchieri di Bordeaux prima di andare a letto, certo - non credo che Bevans sarebbe stato d'accordo, e nemmeno con il pasticcio di carne in scatola che li ha accompagnati - e mi sono svegliato alle tre e mezza con una sete furiosa, la testa dolente e il vago presentimento che il peggio dovesse ancora arrivare. Mi sono avviato presto a scuola, per snebbiare la mente e darmi il tempo di elaborare una strategia per affrontare il ragazzo Knight. Stava ancora diluviando, e quando ho raggiunto il cancello principale di St Oswald, il cappotto e il cappello erano pesanti di pioggia. Erano le sette e quarantacinque, e c'erano soltanto alcune automobili nel parcheggio del personale: quella del Rettore, quella di Pat Bishop e la pic-
cola Mazda azzurro-cielo di Isabelle Tapi. Stavo riflettendo su questo (di rado Isabelle arriva prima delle otto e trenta, più spesso verso le nove), quando ho sentito il rumore di un'auto avvicinarsi bruscamente dietro di me. Mi sono voltato e ho visto la vecchia Volvo sporca di Pearman sterzare nel parcheggio semideserto, lasciandosi dietro una striscia tremolante di gomma bruciata sull'asfalto bagnato. Kitty Teague era seduta di fianco all'autista. Mentre si avvicinavano - Kitty protetta da un giornale ripiegato, Pearman che camminava in fretta - avevano entrambi l'aria tesa. Mi è venuto in mente che si potesse trattare di cattive notizie sulla moglie di Pearman, Sally. L'avevo vista soltanto una volta dopo la cura, ma aveva un aspetto rinsecchito e giallastro sotto il grande sorriso coraggioso, e avevo sospettato che i capelli castani fossero una parrucca. Ma quando Pearman ha fatto il suo ingresso con Kitty alle calcagna, ho capito che si trattava di peggio. La faccia di lui era smarrita. Non mi ha ricambiato il saluto: mi ha appena notato mentre spingeva la porta. Dietro di lui, Kitty ha attirato la mia attenzione ed è subito scoppiata in lacrime; la cosa mi ha colto di sorpresa, e quando mi sono ripreso abbastanza per poterle chiedere cosa stava succedendo, Pearman era svanito lungo il corridoio di mezzo, non lasciando altro che una scia di impronte bagnate sul pavimento lustro. «Per amor del cielo, cos'è che non va?» ho chiesto. Si è coperta la faccia con le mani. «Si tratta di Sally», ha risposto. «Qualcuno le ha mandato una lettera. È arrivata stamattina. L'ha aperta durante la colazione.» «Lettera?» Sally e Kitty sono sempre state vicine, lo sapevo, ma questo dolore appariva ingiustificato. «Che lettera?» Per un momento non è parsa in grado di rispondere. Poi mi ha guardato attraverso le rovine del trucco e a bassa voce ha detto. «Una lettera anonima. Su Chris e me.» «Davvero?» Mi ci è voluto un po' per capire cosa stava dicendo. Kitty e Pearman? Pearman e Miss Teague? Sto veramente diventando vecchio, ho pensato: non lo avevo mai sospettato. Sapevo che erano amici, che Kitty era stata un sostegno, spesso oltre il senso del dovere. Ma ora veniva fuori tutto, anche se cercavo di impedirlo in ogni modo: come l'avevano tenuto nascosto a Sally, che era malata, come aveva sperato di sposarsi, un giorno, e adesso... adesso... Ho portato Kitty nella Sala professori, preparato il tè, aspettato con quello in mano per dieci minuti davanti alla porta della toilette femminile. Fi-
nalmente Kitty è uscita, con gli occhi rosati da coniglietto sotto un nuovo strato di cipria beige, ha visto il tè ed è scoppiata di nuovo in lacrime. Non l'avrei pensato di Kitty Teague. È stata a St Oswald per otto anni e non l'ho mai vista in uno stato simile. Le ho offerto il mio fazzoletto e le ho porto il tè, sentendomi impacciato e augurandomi (in modo piuttosto colpevole) che qualcun altro più qualificato, Miss Dare per esempio, prendesse il mio posto. «Stai bene?» (La mossa goffa del maschio benintenzionato.) Kitty ha scosso la testa. Certo che no: questo lo sapevo, ma la Giacca di Tweed non è nota per il suo savoir faire con il sesso opposto, e poi dovevo pur dire qualcosa. «Vuoi che vada a chiamare qualcuno?» Immagino che stessi pensando a Pearman; in quanto Direttore di dipartimento, ho pensato, l'intera vicenda era una sua responsabilità. Oppure Bishop: è lui che di norma si occupa delle crisi emotive degli insegnanti. Oppure Marlene, sì! Un'improvvisa ondata di sollievo e affetto nel ricordarmi della segretaria, così efficiente il giorno del mio collasso, così disponibile con i ragazzi. Brava Marlene, che aveva sopportato il divorzio e il lutto senza arrendersi, lei avrebbe saputo cosa fare; e anche se non lo sapeva, almeno conosceva il codice, senza il quale nessun maschio può sperare di comunicare con una donna in lacrime. Stava uscendo dall'ufficio di Bishop quando sono arrivato alla sua scrivania. Immagino che la reputi al mio servizio, come fanno gli altri insegnanti. «Marlene. Mi chiedo se...» ho cominciato. Mi ha guardato fingendosi severa. «Mr Straitley.» Mi chiama sempre «Mr Straitley», anche se da anni è solo Marlene per tutto il corpo insegnante. «Immagino che non abbia ancora trovato il registro.» «Purtroppo no.» «Hmm. Lo immaginavo. E allora cosa c'è adesso?» Le ho spiegato di Kitty, senza entrare troppo nei dettagli. Marlene si è mostrata preoccupata. «Le disgrazie non vengono mai sole», ha detto stancamente. «A volte mi chiedo perché agitarsi per questo posto, sa. Con Pat che si ammazza di lavoro, tutti sui carboni ardenti per l'ispezione scolastica, e ora...» Per un momento è parsa così angosciata che mi sono sentito in colpa per averglielo chiesto. «No, va bene», ha detto Marlene, vedendo la mia espressione. «Lasci fare a me. Credo che il suo dipartimento abbia già il suo da fare
così com'è.» Su questo aveva ragione. Il dipartimento era ridotto a me, Miss Dare e la Lega delle Nazioni per la maggior parte della giornata. Il dott. Devine era esentato dall'orario di lezione per ragioni amministrative; Grachvogel era via (di nuovo) e durante la mia ora libera stamattina ho preso la classe di primo anno di francese di Tapi e quella di terza di Pearman, oltre a una valutazione di routine di una delle matricole, questa volta l'irreprensibile Easy. Knight era assente, e così non ho potuto sfidarlo a proposito del graffito sul mio steccato, o sulla penna che avevo trovato. Invece ho scritto un resoconto completo dell'incidente e ne ho consegnato una copia a Pat Bishop e una seconda a Mr Beard, che oltre a essere Direttore di informatica, è anche, si dà il caso, coordinatore della terza. Posso aspettare; adesso ho prove dell'attività di Knight, e non vedo l'ora di occuparmi di lui con comodo. Un piacere differito, per così dire. All'intervallo ho effettuato il turno nei corridoi al posto di Pearman, e dopo pranzo ho sorvegliato il suo gruppo, quello di Tapi, quello di Grachvogel e il mio nell'Aula Magna, mentre fuori la pioggia cadeva incessante e, nel corridoio, una fiumana costante di gente faceva la fila per entrare o uscire dall'ufficio del Rettore durante tutto il pomeriggio. Poi, cinque minuti prima della fine della scuola, Marlene mi ha consegnato una convocazione da parte di Pat. L'ho trovato nel suo ufficio, insieme a Pearman, con l'aria stressata. Miss Dare era seduta accanto alla scrivania: mi ha rivolto uno sguardo solidale quando sono entrato e ho capito che ci sarebbero stati problemi. «Immagino che sia a proposito del ragazzo Knight!» In effetti ero stato sorpreso di non vederlo aspettare fuori dall'ufficio di Pat; forse Pat gli aveva già parlato, ho pensato; anche se, a rigore, nessun ragazzo avrebbe dovuto essere interrogato prima che avessi avuto l'opportunità di parlare al Preside. Per un secondo la faccia di Pat è rimasta inespressiva. Poi ha scosso la testa. «Oh no. Di quello può occuparsi Tony Beard. È Coordinatore dell'anno, no? No, è a proposito di un incidente accaduto ieri sera. Dopo la riunione.» Pat si guardava le mani, un tipico segnale che comunicava il suo essere in difficoltà. Le unghie, ho visto, erano molto conciate: mangiate fino alle cuticole. «Quale incidente?» ho chiesto. Per un momento non ha incrociato il mio sguardo. «La riunione è finita
appena dopo le sei», ha detto. «Esatto», ho risposto. «Miss Dare mi ha dato un passaggio a casa.» «Lo so», ha detto Pat. «Se ne sono andati tutti più o meno alla stessa ora, tranne Miss Teague e Mr Pearman, che si sono trattenuti per circa venti minuti.» Ho alzato le spalle. Mi chiedevo dove volesse arrivare, e perché fosse così formale. Ho guardato Pearman, ma nella sua espressione non c'era nulla che potesse illuminarmi. «Miss Dare dice che avete visto Jimmy Watt nel corridoio inferiore mentre stavate uscendo», ha detto Pat. «Lucidava il pavimento in attesa di chiudere.» «Esatto», ho detto. «Perché? Cos'è successo?» Questo poteva spiegare i modi di Pat, ho pensato. Jimmy, come Fallow, era una delle nomine volute da Pat, che all'epoca aveva dovuto subire un certo numero di critiche. Però Jimmy aveva sempre svolto un lavoro discreto. Non una grande mente, certo; ma era leale, e questo è ciò che davvero conta a St Oswald. «Jimmy Watt è stato licenziato, in seguito all'incidente di ieri sera.» Non potevo crederci. «Quale incidente?» Miss Dare mi ha guardato. «A quanto pare non ha controllato tutte le classi prima di chiudere. Isabelle è rimasta chiusa dentro, non si sa come, è stata presa dal panico, è scivolata giù dalle scale e si è rotta la caviglia. Non è uscita fino alle sei di stamattina.» «Sta bene?» «Quando mai sta bene?» Ho dovuto ridere. Era una tipica battuta da St Oswald, e l'espressione luttuosa del Preside la rendeva ancora più ridicola. «Oh, ridete pure,», ha detto Pat con voce dura, «ma c'è stata una protesta ufficiale che ha coinvolto "salute e sicurezza".» Il che significava Devine. «A quanto pare qualcuno ha cosparso qualcosa sui gradini, olio, dice lei.» «Ah.» Non così divertente, allora. «Di sicuro puoi scambiare una parola con lei, no?» «Credimi, l'ho fatto.» Pat ha sospirato. «Miss Tapi sembra convinta che fosse qualcosa di più che un semplice errore da parte di Jimmy. Pensa che si sia trattato di un danno premeditato. E, dammi retta, conosce i suoi diritti.» Certo che li conosceva. I tipi come lei sono così. Il dott. Devine era il suo rappresentante sindacale: ho immaginato che l'avesse già istruita con
precisione sul genere di indennizzo che avrebbe potuto ottenere. Ci sarebbe stata una richiesta di danni per infortunio, una richiesta di invalidità (di sicuro non si poteva pretendere che lei andasse a lavorare con una caviglia rotta), oltre alle richieste per negligenza e per il danno psicologico. E chi più ne ha più ne metta, lei avrebbe chiesto i danni: trauma, mal di schiena, stanchezza cronica, qualsiasi cosa. Avrei dovuto sostituirla per i prossimi dodici mesi. Quanto alla pubblicità, da questo episodio l'«Examiner» avrebbe tratto grandi profitti. Scordatevi di Knight. Tapi, con le sue gambe lunghe e l'espressione coraggiosa da martire, era di un'altra categoria. «Come se non avessimo abbastanza da fare, proprio alla vigilia di un'ispezione», ha detto amaramente Pat. «Dimmi, Roy, ci sono in pentola altri piccoli scandali di cui dovrei essere a conoscenza?» 8. venerdì, 29 ottobre Caro vecchio Bishop. Buffo che lo abbia domandato. In verità, sono al corrente di almeno due piccoli scandali: uno che ha già iniziato a irrompere con la lenta ineluttabilità di un'onda di maremoto e il secondo che si profila assai interessante. La letteratura, ho notato, è piena di ciance consolatorie a proposito di chi muore. La loro pazienza, la loro comprensione. Al contrario l'esperienza mi dice che i moribondi possono essere malevoli e implacabili come coloro che così malvolentieri si lasciano dietro. Sally Pearman è una di questi. In base a quell'unica lettera (uno dei miei risultati migliori, devo dire) ha messo in moto tutti i consueti provvedimenti: serrature cambiate, convocazione dell'avvocato, figli dalla nonna, vestiti del consorte sparpagliati sul prato. Pearman, com'è ovvio, è incapace di mentire. Quasi come se volesse farsi scoprire. Quell'aria di tormento e sollievo. Molto cattolica. Ma lo consola. Kitty Teague è un caso diverso. Ora non c'è nessuno che la consoli. Pearman, mezzo distrutto dalla sua masochistica colpa, le parla appena, non incontra mai il suo sguardo. Di nascosto, la ritiene responsabile, in fondo è una donna; e mentre Sally, addolcita dal rimorso, comincia a far marcia indietro in un velo di nostalgia, Kitty sa che non sarà mai in grado di competere. Oggi non è venuta a scuola. Stress, a quanto sembra. Pearman ha tenuto
le sue lezioni, ma ha l'aria distratta, e senza l'aiuto di Kitty, è terribilmente disorganizzato. Di conseguenza commette molti errori, si dimentica di presentarsi alla valutazione di Easy, si scorda di un turno dell'ora di pranzo, trascorre l'intero intervallo a cercare una pila di carte di letteratura di sesta che ha lasciato chissà dove (in realtà si trovano nell'armadietto di Kitty nella Stanza del silenzio; lo so perché ce le ho messe io). Non fraintendetemi. Non ho nulla di particolare contro di lui. Ma devo procedere. Ed è più efficace lavorare per dipartimenti, a settori, se volete, piuttosto che disperdere i miei sforzi per tutta la scuola. Quanto agli altri progetti... L'avventura di Tapi non è comparsa sui giornali di oggi. Buon segno: significa che l'«Examiner» la tiene in serbo per il fine settimana, ma il tam-tam mi dice che è molto in pena, accusa la scuola in generale delle sue traversie (e Pat Bishop in particolare: sembra che non si sia dimostrato sufficientemente comprensivo nel momento cruciale) e si aspetta un totale sostegno da parte del sindacato e un risarcimento generoso, dentro o fuori dal tribunale. Grachvogel era di nuovo via. Sento dire che il poverino è incline alle emicranie, ma credo che la sua assenza sia piuttosto dovuta alle telefonate inquietanti che ha ricevuto. Dalla serata con Light e i ragazzi in avanti, ha sfoggiato un aspetto assai poco pimpante. Certo, questa è l'era della parità non può esserci discriminazione di razza, religione o genere (ah!) - tuttavia lui sa che essere un omosessuale in una scuola maschile significa essere davvero vulnerabile, e si chiede come possa essersi tradito, e con chi. In circostanze normali avrebbe potuto avvicinare Pearman in cerca d'aiuto, ma Pearman ha problemi di suo, e il dott. Devine, che tecnicamente è il suo capo e Direttore del dipartimento, non capirebbe mai. In realtà è colpa sua. Avrebbe dovuto avere il buon senso di non andarsene in giro con Jeff Light. Che cosa aveva in testa? Light corre meno pericoli. Trasuda testosterone. Tapi l'ha percepito: anche se mi chiedo che cosa dirà quando l'intera storia alla fine si diffonderà. Sin qui, Light si è dimostrato di grande sostegno alla situazione di Tapi; militante accanito del sindacato, gode di ogni situazione che comporti una sfida al sistema. Bene. Ma chissà, magari anche questa avrà l'effetto contrario. Con un aiutino, certo. E Jimmy Watt? Jimmy se n'è andato per sempre, per essere sostituito dal fresco equipaggio di un'impresa delle pulizie cittadino. A nessuno importa davvero di questo tranne all'economo (le imprese sono più care, fanno scioperi bianchi e conoscono i loro diritti) e forse Bishop, che ha un debole per i casi disperati (mio padre, per esempio) e avrebbe voluto offrire a
Jimmy una seconda occasione. Non così il Rettore, il quale ha fato sloggiare il semideficiente con sbalorditiva (e non proprio legale) velocità (cosa che dovrebbe suggerire un pezzo interessante alla Talpa, quando Tapi finirà in nulla), ed è rimasto segregato in ufficio per la maggior parte degli ultimi due giorni, comunicando solo attraverso l'interfono e Bob Strange, unico degli alti vertici a mostrarsi del tutto indifferente a questi piccoli incomodi. Quanto a Roy Straitley, non pensiate che l'abbia dimenticato. Lui, più di ogni altro, non è mai lontano dai miei pensieri. Ma i suoi doveri extra lo tengono occupato, ed è quello che mi serve mentre entro nella fase successiva del mio piano di demolizione. Lui sta cuocendo come si deve, però: mi è capitato di trovarmi nell'Ala di informatica dopo pranzo quando ho sentito la sua voce in corridoio, e così ho potuto origliare un'interessante conversazione tra Straitley e Beard riguardo (1) Colin Knight e (2) Adrian Meek, il nuovo insegnante di informatica. «Ma non gli ho scritto un rapporto pessimo», protestava Straitley. «Sono rimasto durante tutta la lezione, ho riempito il modulo e me ne sono fatto un'idea equilibrata. Ecco quanto.» «Scarso controllo della classe», ha detto Beard, leggendo dal modulo di valutazione. «Scarso controllo della lezione. Mancanza di attrattiva personale? Che genere di giudizio equilibrato è questo?» C'è stata una pausa mentre Straitley guardava il modulo. «Non l'ho scritto io», ha detto infine. «Be' di certo sembra la sua scrittura.» C'è stata un'altra pausa, più lunga. Ho contemplato la possibilità di uscire dall'aula dei computer, in modo da poter vedere l'espressione di Straitley, ma ho deciso di no. Non volevo attirare troppa attenzione su di me, specialmente non in quella che presto sarebbe diventata la scena di un crimine. «Non l'ho scritto io, questo», ha ripetuto Straitley. «Bene, allora chi l'ha scritto?» «Non lo so, un burlone.» «Roy...» Adesso Beard stava cominciando a inquietarsi. Ho sentito quel tono in passato, il tono un po' nervoso e un po' conciliante di chi ha a che fare con un pazzo pericoloso. «Senta, Roy: critica giusta e tutto quanto. So che il giovane Meek non è il più brillante che ci sia capitato...» «No», ha detto Straitley. «Non lo è. Ma non gli ho scritto una porcheria. Non può presentare quella valutazione se non l'ho scritta io.»
«Certo che no, Roy, ma...» «Ma cosa?» Adesso la voce di Straitley era alterata. Non gli è mai piaciuto avere a che fare con i Doppiopetto, e capivo che l'intera questione lo infastidiva. «Be', è sicuro di non essersi semplicemente... dimenticato di quello che ha scritto?» «Che cosa intende con "dimenticato"?» Ha fatto una pausa. «Vediamo, intendo che forse andava di fretta, o...» Dietro la mano, ho riso in silenzio. Beard non è il primo del corpo insegnante ad aver sostenuto che Roy Straitley sta rallentando, per usare una frase di Bishop. Ho insinuato quel seme in un paio di menti e si sono già verificati esempi sufficienti di comportamento irrazionale, smemoratezza cronica e piccoli oggetti andati smarriti per rendere plausibile l'idea. Straitley, va da sé, non ha mai dato peso alla cosa, neanche per un istante. «Mr Beard, anche se mi sto avvicinando alla Centuria, sono ancora lontano dalla senescenza. E ora se possiamo passare a una questione di qualche importanza» - fra me e me è sorto spontaneo l'interrogativo di che cosa avrebbe detto Meek quando gli avessi raccontato che Straitley riteneva la sua valutazione una questione di nessuna importanza - «forse ha trovato tempo nella sua agenda molto piena per leggere il mio rapporto su Colin Knight.» Dalla mia postazione, ho sorriso. «Ah, Knight», ha mormorato flebile Beard. Ah, Knight. Come ho detto, riesco a identificarmi in un ragazzo come Knight. In realtà non ero affatto come lui - ero infinitamente più forte, avevo più cattiveria e sapevo arrangiarmi meglio - ma con più denaro e genitori migliori avremmo potuto risultare identici. In Knight c'è una profonda vena di risentimento di cui posso servirmi; e la sua tetraggine significa che è improbabile che si confidi con chiunque altro finché il punto di non ritorno non sia stato superato. Se i desideri fossero cavalli, come si diceva da bambini, allora il vecchio Straitley sarebbe stato trascinato a morte anni fa. Sta di fatto che ho istruito Knight (su principi decisamente extracurricolari) e in questo, se non altro, si è dimostrato un allievo sveglio. Non ci è voluto molto. All'inizio nulla che fosse riconducibile a me; una parola qui, una spintarella là. «Immagina che sia io il tuo insegnante di classe», gli ho detto, mentre mi seguiva come un cagnolino quando ero di turno da qualche parte. «Se hai un problema e non ti senti di parlarne a Bi-
shop, vieni da me.» E Knight ha fatto così. Nel giro di tre settimane mi ha messo a parte delle sue patetiche lamentele, delle sue rimostranze meschine. Non è simpatico a nessuno; i professori lo prendono di mira; i compagni gli danno dello «schifoso» e del «perdente». È sempre cupo, tranne quando si rallegra per la sventura di un altro scolaro. In effetti è stato d'aiuto nel diffondere un certo numero di piccole voci per mio conto, comprese quelle sul povero Grachvogel, le cui assenze sono state notate e discusse in modo infervorato. Quando ritornerà, se ritornerà, è probabile che trovi i dettagli della sua vita privata, con tutti gli abbellimenti che i ragazzi avranno aggiunto, decorati sulle cattedre e i muri dei bagni di tutta la scuola. Ma per la maggior parte del tempo a Knight piace lamentarsi. Gli fornisco un orecchio comprensivo; e anche se a questo punto capisco perfettamente perché Straitley odi il marmocchio, devo dire che provo un grande piacere per i progressi del mio alunno. Nella scaltrezza, nell'astiosità, in quell'autentica malignità che tiene nascosta, Knight ha un dono di natura. Peccato che se ne debba andare, davvero: ma come avrebbe detto il mio vecchio babbo, non si può fare una frittata senza rompere almeno un uovo. 9. St Oswald's Grammar School for Boys venerdì, 29 ottobre Asino di un Beard. Eterno imbecille. Chi ha pensato che potesse essere un Coordinatore dell'anno decente? Ha cominciato dicendo in pratica che sono senile a proposito di quell'assurdo modulo di valutazione di Meek, quindi ha avuto la temerarietà di mettere in dubbio il mio giudizio su Colin Knight. Voleva altre prove, figuriamoci. Voleva sapere se avevo parlato al ragazzo. Parlato? Certo che gli avevo parlato, e se c'è qualcuno che mente, allora si chiama... Lo si vede dagli occhi, sapete: dal modo in cui corrono ripetutamente verso l'angolo sinistro dell'immagine, come se lì ci fosse qualcosa, carta igienica sulla mia scarpa, forse, o una pozzanghera da evitare. È nell'aria mansueta, nelle reazioni esagerate, nella successione di «Onestamente, signore», «Giuro, signore», e dietro a tutto questo, l'aria compiaciuta, piena di consapevolezza. Certo, sapevo che la storia sarebbe finita quando avessi mostrato la penna. L'ho lasciato parlare; giurare, giurare sulla tomba di sua madre; poi,
eccola lì, la penna di Knight con sopra le iniziali di Knight, scoperta sulla scena del crimine. Lui è restato a bocca aperta. Ha fatto la faccia lunga. Ci trovavamo soli nella torre campanaria. Era l'ora di pranzo di una giornata fredda, soleggiata; i ragazzi erano in cortile a rincorrere l'autunno. Sentivo le loro grida distanti, come gabbiani nel vento. Anche Knight le sentiva, e si è girato un po' verso la finestra, smanioso. «Allora?» Ho cercato di non mostrarmi troppo soddisfatto. In fondo era soltanto un ragazzo. «È la sua penna, Knight, non è così?» Silenzio. Knight se ne stava con le mani in tasca, a raggrinzirsi davanti ai miei occhi. Sapeva che era una cosa seria, un motivo di espulsione. Lo vedevo dalla sua faccia: il neo sul curriculum, la delusione della madre, la rabbia del padre, i progetti che andavano in fumo. «Non è così, Knight?» Ha annuito, in silenzio. L'ho spedito dal Coordinatore dell'anno, ma non è mai arrivato laggiù. Brasenose l'ha visto alla fermata dell'autobus più tardi, quel pomeriggio, ma non ha pensato a nulla. Un appuntamento dal dentista, forse, o una rapida gita fuori ordinanza al negozio di dischi o al bar. Nessun altro ricorda di averlo visto: un ragazzo dai capelli lisci con l'uniforme di St Oswald, che portava uno zaino di nylon nero e aveva l'aria di uno con tutti i problemi del mondo sulle spalle. «Oh sì che gli ho parlato, eccome. Non ha detto granché. Non dopo che ho tirato fuori la penna.» Beard pareva turbato. «Capisco. E che cosa ha detto esattamente al ragazzo?» «Gli ho fatto capire la scorrettezza del suo comportamento.» «Non era presente nessuno?» Ne avevo abbastanza. Certo che non c'era nessuno: chi altro poteva essere presente, all'ora di pranzo di un giorno ventoso con mille ragazzi che giocavano fuori? «Che sta succedendo, Beard?» ho domandato. «I genitori si sono lamentati? Si tratta di questo? Sto di nuovo vittimizzando il ragazzo? O è che sanno benissimo di avere un figlio bugiardo ed è solo a causa di St Oswald che non l'ho denunciato alla polizia?» Beard ha fatto un respiro profondo. «Penso che dovremmo discuterne altrove», ha detto a disagio (erano le otto di mattina, e ci trovavamo nel corridoio inferiore, per il momento quasi deserto). «Avrei voluto che Pat Bishop fosse qui, ma non è nel suo ufficio e non riesco a raggiungerlo al telefono. Povero me...» - tirandosi i baffi radi - «...credo davvero che ogni ul-
teriore discussione al proposito debba aspettare finché le autorità competenti...» Stavo per dare una risposta pungente a proposito dei coordinatori e le autorità competenti quando è entrato Meek. Mi ha lanciato un'occhiata velenosa, poi si è rivolto a Beard. «Problemi nei laboratori», ha detto con la sua voce incolore. «Penso che dovrebbe dare un'occhiata.» Beard è parso apertamente sollevato. I problemi dei computer erano il suo campo. Nessun contatto umano spiacevole, nessuna contraddizione, nessuna bugia, niente se non macchine da programmare e decodificare. Sapevo che questa settimana c'erano stati incessanti problemi ai computer, un virus, così mi dicono, col risultato che, con mio piacere, le e-mail erano state sospese e informatica relegata in biblioteca per parecchi giorni. «Mi scusi, Mr Straitley...» Di nuovo quell'aria, l'aria di un condannato a cui, all'ultimo minuto, è finalmente giunta la sospensione della sentenza. «Il dovere mi chiama.» Ho trovato la nota (scritta a mano) di Bishop nella mia casella alla fine del pranzo. Non prima, temo, anche se Marlene mi dice di averla consegnata all'appello. Ma la mattina era stata piena di grane: Grachvogel assente, Kitty depressa, Pearman che fingeva non ci fosse nulla di storto, ma con l'aspetto sciupato e pallido e ombre profonde sotto gli occhi. Ho sentito da Marlene (che sa sempre tutto) che ieri notte ha dormito a scuola; a quanto pare non torna a casa da martedì, quando la lettera anonima ha svelato la sua infedeltà di lungo corso. Kitty accusa sé stessa, dice Marlene: pensa di aver abbandonato Pearman, si chiede se è stato per colpa sua che l'informatore misterioso ha scoperto la verità. Pearman nega, ma rimane distante. È proprio da uomo, dice Marlene: troppo preso dai suoi problemi per accorgersi che la povera Kitty è completamente sconvolta. Bado bene a non fare commenti al riguardo. Non parteggio per nessuno. Spero solo che in seguito a questo Pearman e Kitty saranno in grado di lavorare ancora insieme. Odierei perderli, soprattutto quest'anno, quando già tante altre cose sono andate male. C'è una piccola consolazione, però. Eric Scoones è un pilastro di forza sorprendente in un mondo che di colpo si è fatto debole. Difficile nei tempi migliori, dà il meglio di sé nei peggiori, assumendosi i compiti di Pearman senza lamentarsi (e provando un certo gusto). Sì che gli sarebbe piaciuto essere Direttore di dipartimento. Avrebbe anche potuto farlo bene: pur non possedendo il fascino di Pearman, è meticoloso in tutte le questioni ammi-
nistrative. Ma con l'età si è inacidito, ed è solo in questi momenti di crisi che vedo il vero Eric Scoones, il giovane che conoscevo trent'anni fa: l'uomo coscienzioso, energico, la mente della classe, l'organizzatore instancabile, il giovane di belle speranze. St Oswald ha un suo modo di divorare queste cose. L'energia, l'ambizione, i sogni. È quanto stavo pensando seduto nella Sala professori cinque minuti prima della fine del pranzo, con una vecchia tazza marrone in una mano e un biscotto stantio nell'altra (fondo della Sala professori: penso che in qualche modo dovrei spendere meglio il mio denaro). A quell'ora è sempre affollata, come un terminal ferroviario che vomita passeggeri verso un'infinità di destinazioni. I soliti sospetti nei loro vari posti a sedere: Roach, Light (stranamente pacato) e Easy, tutti e tre a prendersi i loro cinque minuti extra con il «Daily Mirror» prima dell'inizio della scuola pomeridiana. Monument addormentato, Penny Nation con Kitty nell'angolo delle ragazze, Miss Dare che leggeva un libro, il giovane Keane, che faceva un salto per una pausa veloce dopo il turno di pranzo. «Ah, signore», ha detto vedendomi. «Mr Bishop la stava cercando. Penso che le abbia mandato un messaggio.» Un messaggio? Probabilmente un'e-mail. Quell'uomo non imparerà mai. Ho trovato Bishop nel suo ufficio che strizzava gli occhi davanti al computer con indosso gli occhiali per guardare da vicino. Li ha tolti subito (è attento al proprio aspetto, e quegli occhiali di cristallo sembrano più adatti a un accademico anziano che a un ex giocatore di rugby). «Te la sei presa comoda, eh?» «Mi spiace», ho detto in tono gentile. «Devo aver mancato il tuo messaggio.» «Balle», ha detto Bishop. «Non ti ricordi mai di controllare la tua posta elettronica. Sono stufo, Straitley, stufo di doverti chiamare nel mio ufficio come uno della quinta inferiore che non consegna mai il programma d'esame.» Sono stato costretto a sorridere. Lui mi piace, sapete. Non è un Doppiopetto, anche se ci prova, santi numi, e c'è una specie di onestà quando si arrabbia, che non trovereste mai in qualcuno come il Rettore. «Vere dicis?» ho chiesto con educazione. «Tanto per cominciare, lascia perdere quella roba», ha detto Bishop. «Siamo nella merda vera, ed è colpa tua.» L'ho guardato. Non stava scherzando. «Qual è il problema? Un'altra la-
mentela?» Suppongo che pensassi al blazer di Pooley, ma di sicuro Bob Strange doveva aver preteso di occuparsene di persona. «Peggio», ha risposto Pat. «Si tratta di Colin Knight. Ha tagliato la corda.» «Cosa?» Pat mi ha guardato con occhio torvo. «Ieri, dopo il piccolo alterco con te all'ora di pranzo. Ha preso la sua sacca, se ne è andato e da allora nessuno, intendo dire nessuno, né i suoi genitori, né una sola anima viva, sembra averlo più visto.» BISHOP, L'ALFIERE 1. domenica, 31 ottobre Vigilia di Halloween. Mi è sempre piaciuta. Questa notte in particolare, più della Notte del Falò e dei suoi festeggiamenti pacchiani (in ogni modo, ho sempre ritenuto di cattivo gusto che i bambini festeggino la morte orribile di un uomo colpevole unicamente di avere delle idee più grandi di lui, o giù di lì). È vero: ho sempre avuto un debole per Guy Fawkes. Forse perché mi ritrovo più o meno nella stessa situazione: cospiro in solitudine e ho soltanto il cervello per difendermi contro il mio mostruoso avversario. Ma Fawkes venne tradito. Io non ho alleati, nessuno con cui discutere i miei progetti esplosivi, e se qualcuno mi tradirà, sarà la mia incuria o la mia stupidità, non quella di un altro. Questa consapevolezza mi rallegra, dato che il mio lavoro è solitario e spesso desidererei poter condividere il trionfo, le preoccupazioni della mia rivolta quotidiana. Questa settimana segna la fine di una nuova fase della mia campagna. Il ruolo di picador è finito: è ora che entri in scena il matador. Ho cominciato con Knight. Un peccato, in un certo senso: questo trimestre mi ha aiutato molto e, logicamente, non ho nulla di personale contro di lui, ma doveva andarsene prima o poi, e sapeva troppo (ne fosse cosciente o meno) per continuare. Mi immaginavo una crisi, va da sé. Come a tutti gli artisti, mi piace provocare, e la reazione di Straitley al piccolo esempio di espressione della mia personalità sopra il suo steccato ha oltrepassato le aspettative. Sapevo
anche che avrebbe trovato la penna, e che avrebbe fatto due più due. Come ho detto, sono così prevedibili, questi insegnanti di St Oswald. Premi il bottone, schiacci l'interruttore e li vedi partire. Knight era pronto, Straitley innestato. In cambio di qualche pacchetto di sigarette i Sunnybanker avevano ricevuto le istruzioni per alimentare la paranoia di un vecchio; avevo fatto lo stesso con Colin Knight. Tutto era a posto, entrambi i protagonisti schierati per la battaglia, rimaneva solo la resa dei conti finale. Certo sapevo che sarebbe venuto da me. Immagina che sia io l'insegnante di classe, avevo detto, e lui l'ha fatto: giovedì dopo pranzo, era corso diritto da me in lacrime, povero ragazzo, e mi aveva raccontato tutto. «Ora calmati, Colin», avevo detto, dirigendolo verso un ufficio poco usato accanto al corridoio di mezzo. «Di che cosa ti ha accusato esattamente Mr Straitley?» Me lo ha raccontato, con una gran quantità di moccio e autocommiserazione. «Capisco.» Il mio cuore ha accelerato. Era cominciato. E non c'era modo di fermarlo. La prima mossa era andata bene: l'unica cosa che dovevo fare adesso era guardare St Oswald sgretolarsi, pezzo dopo pezzo. «Cosa faccio?» Adesso era quasi isterico, la faccia tirata come una prugna secca. «Lo dirà alla mia mamma, chiamerà la polizia, potrei anche essere espulso...» Ah, l'espulsione. Il massimo disonore. Nella gerarchia delle conseguenze terribili, ha la precedenza persino sui parenti e sulla polizia. «Non sarai espulso», gli ho detto con fermezza. «Lei non lo sa!» «Colin. Guardami.» Una pausa, Knight che scuoteva la testa istericamente. «Guardami.» Ha guardato, ancora tremante, e un po' alla volta il principio di attacco isterico ha cominciato a placarsi. «Ascoltami, Colin», ho detto. Frasi brevi, occhi negli occhi e un'aria convincente. Gli insegnanti usano questo metodo; lo stesso fanno i dottori, i preti e altri illusionisti. «Ascoltami con attenzione. Non verrai espulso. Fai come ti dico, vieni con me e andrà tutto bene.» Mi aspettava, come da istruzioni, alla fermata dell'autobus vicino al parcheggio dei docenti. Erano le quattro meno dieci e stava già diventando
buio. Avevo lasciato la mia classe (per una volta) con dieci minuti d'anticipo, e la strada era deserta. Ho aspettato con la macchina sul lato opposto alla fermata. Knight è entrato, la faccia pallida di terrore e speranza. «Va tutto bene, Colin», gli ho detto con gentilezza. «Ti porto a casa.» Non l'avevo pianificato a quel modo. Davvero. Chiamatela avventatezza, se vi va, ma quel pomeriggio, allontanandomi da St Oswald in una strada che era già velata di sottile pioggia d'ottobre, non avevo ancora deciso esattamente cosa fare di Colin Knight. A livello personale, amo il perfezionismo, si capisce. Mi piace controllare tutto. A volte però, è meglio affidarsi al puro istinto: me l'ha insegnato Leon, sapete, e devo ammettere che alcune delle mosse migliori che io abbia mai fatto sono state quelle non pianificate: gli improvvisi colpi di genio. Così è stato con Colin Knight: un'ispirazione inattesa mentre stavo per oltrepassare il parco comunale. Ve l'ho detto: ho un debole per Halloween. Durante l'infanzia la preferivo di gran lunga ai festeggiamenti ordinari della Notte del Falò, di cui ho sempre vagamente diffidato, con il mercificio di zucchero filato, l'allegria da troll davanti al grosso barbecue. Ma più di ogni altra cosa ho sempre diffidato del Falò municipale nel parco, che consentiva al pubblico di adunarsi en masse davanti a un incendio di proporzioni allarmanti e a un mediocre spettacolo di fuochi d'artificio. Spesso c'è un luna park, con «zingari» cinici attenti alla grande occasione; un banchetto di hot dog, un baraccone «Misura la tua forza (Sempre si vince!)», una pedana di tiro con orsetti divorati dalle tarme appesi per il collo come trofei, un venditore di mele candite (la mela molliccia e marrone sotto la copertura di caramello rosso vivo) e una quantità di borseggiatori che si fanno largo nel loro modo subdolo attraverso la folla festiva. Ho sempre detestato questa esibizione gratuita. Il rumore, il sudore, la calca, il calore e il senso di violenza pronta a scoppiare mi hanno sempre suscitato repulsione. Che ci crediate o no, disprezzo la violenza. La sua ineleganza, più di qualsiasi altra cosa, credo. La sua crassa stupidità, la sua ottusità. Mio padre amava il Falò municipale per le stesse ragioni per cui io lo detestavo; e non era mai felice come in queste occasioni, una bottiglia di birra in mano, la faccia porpora per il fuoco, in testa un paio di antenne da alieno che si dimenavano (o forse erano corna da diavolo), il collo allungato per guardare i fuochi d'artificio mentre scoppiavano brapp-brapp-
brapp nel cielo fumoso. Ma è stato grazie a questo ricordo che ho avuto l'idea: un'idea così soavemente elegante da farmi sorridere. Leon sarebbe stato fiero di me, lo sapevo: i miei problemi di deposito e smaltimento risolti in un colpo solo. Ho messo la freccia verso il parco. I grandi cancelli erano aperti - in effetti è il solo periodo dell'anno in cui l'accesso è consentito ai veicoli - e ho guidato adagio verso il viale principale. «Che ci facciamo qui?» ha chiesto Knight, dimenticando la sua ansia. Stava mangiando una tavoletta di cioccolato dello spaccio e giocava a un computer game sul cellulare ultimo modello. Un auricolare gli penzolava da un orecchio. «Devo lasciare giù una cosa», ho risposto. «Qualcosa da bruciare.» Questo è, per quanto mi sia dato di vedere, l'unico vantaggio del Falò municipale. Fornisce a chiunque lo voglia l'occasione per liberarsi di qualsiasi rifiuto indesiderato. Legno, bancali, riviste e cartone sono sempre apprezzati, ma ogni combustibile è più che ben accetto. Pneumatici, vecchi divani, materassi, pile di giornali, hanno tutti il loro posto e i cittadini sono incoraggiati a portare quello che possono. Certo, ormai il falò era allestito: in modo scientifico, e con cura. Una piramide di oltre dieci metri, meravigliosa nella sua costruzione: strato dopo strato di mobili, giocattoli, carta, vestiti, sacchi di rifiuti, casse da imballaggio e, per rispetto a secoli di tradizione, fantocci. Decine di fantocci: alcuni con cartelli intorno al collo, altri rudimentali, altri ancora con l'aria lugubremente umana, in piedi, seduti o sdraiati in varie posizioni sulla pira spenta. L'area era stata cintata a una distanza di circa quindici metri dalla struttura: una volta accesa, il calore sarebbe stato così intenso che avvicinarsi oltre avrebbe voluto dire rischiare l'incinerazione. «Impressionante, non è vero?» ho detto parcheggiando il più vicino possibile alla zona isolata. Una quantità di cassonetti contenenti cianfrusaglie assortite bloccavano l'accesso, ma ho calcolato che era abbastanza vicina. «Eccome», ha detto Knight. «Che cos'ha portato?» «Vedrai», ho risposto, uscendo dalla macchina. «Però, Colin, credo che dovrai aiutarmi. È un po' ingombrante, mi serve una mano.» Knight è sceso, senza darsi la pena di togliersi l'auricolare. Per un secondo ho pensato che avrebbe cominciato a lamentarsi, ma poi mi ha seguito, osservando senza curiosità la pira spenta mentre aprivo il baule.
«Bel telefono», ho detto aprendo il baule. «Sì», ha fatto Knight. «Mi piace un bel falò. E a te?» «Sì.» «Spero che non si metta a piovere. Non c'è nulla di peggio di un falò che stenta ad accendersi. Anche se devono usare qualcosa, benzina, credo, per farlo partire. Sembra sempre che prenda fuoco così in fretta...» Mentre parlavo tenevo il corpo tra Knight e la macchina. Immagino che non avrei dovuto preoccuparmi. Non era particolarmente intelligente. A pensarci, era probabile che stessi facendo un favore al pool genico. «Su, Colin.» Knight ha fatto un passo avanti. «Bravo ragazzo.» Una mano sulle reni, una spinta leggera. Per un istante ho pensato al baraccone «Misura la tua forza (Sempre si vince!)» delle fiere della mia infanzia; ho immaginato di sollevare in alto la mazza, sentendo l'odore di pop corn e fumo, di hot dog caldi e di cipolle fritte, di vedere mio padre ridere con le sue ridicole antenne da alieno, e Leon con una Camel infilata tra le dita macchiate d'inchiostro, con un sorriso di incoraggiamento... Poi ho chiuso il baule spingendolo verso il basso con tutta la forza che avevo. E ho sentito quello scricchiolio indescrivibile, ma pur sempre familiare in modo rassicurante, che mi diceva che avevo vinto. Ancora una volta. 2. C'era parecchio sangue. Me lo aspettavo, e avevo preso delle precauzioni, ma anche così è possibile che debba mandare il completo in tintoria. Non pensiate che mi sia piaciuto: in realtà trovo repellente ogni forma di violenza, e avrei di gran lunga preferito che Knight morisse per una caduta, o che soffocasse per una nocciolina, qualsiasi cosa tranne questa soluzione caotica e primitiva. Eppure, non si può negare che sia stata una soluzione, e anche di quelle buone. Una volta che Knight si era dichiarato, non si poteva più lasciarlo vivo, e poi, ho bisogno di lui per la fase successiva. Un'esca, se volete. Ho preso il suo telefonino per qualche istante, pulendolo sull'erba umida.
Dopodiché l'ho spento e l'ho messo in tasca. Poi ho coperto la faccia di Knight con un sacco di plastica nero (ne tengo sempre qualcuno in macchina, non si sa mai), e l'ho sistemato con un elastico. Ho fatto lo stesso con le sue mani. L'ho seduto su una sedia rotta vicino alla base della pira, e l'ho ancorato con un fascio di riviste legate da una corda. Quando ho finito, sembrava uno degli altri fantocci in attesa sul falò spento, anche se forse meno realistico di alcuni. Un signore anziano che portava a passeggio il cane si è avvicinato mentre ero all'opera. Mi ha fatto un cenno di saluto, il cane ha abbaiato, e sono passati oltre. Nessuno dei due ha notato il sangue sull'erba, e quanto al corpo, ho scoperto che, purché non ci si comporti da assassino, nessuno penserà che lo sei, qualsiasi prova esista. Se un giorno decidessi di dedicarmi al furto (e chissà mai che non lo faccia: mi piace pensare di avere più di una corda al mio arco), indosserò una maschera e una maglia a righe e porterò una borsa con la scritta MALLOPPO. Se qualcuno mi vedrà, crederà semplicemente che mi stia recando a una festa in maschera, e non penserà nulla. Ma in genere la gente è molto disattenta, specialmente alle cose che le succedono sotto il naso. Quel fine settimana ho festeggiato col fuoco. In fondo è una tradizione. Mi è parso che la portineria bruciasse piuttosto bene, considerando il vecchio problema dell'umidità. Il mio solo rimpianto era che il nuovo Portiere, Shuttleworth, mi sembra si chiami così, non aveva ancora traslocato. Però, con la casa vuota e Jimmy sospeso, non avrei potuto scegliere un momento più adatto. C'è un controllo video a St Oswald, anche se la maggior parte è concentrata al cancello anteriore e all'ingresso monumentale. E potevo correre il rischio che la portineria fosse sorvegliata. Ma ho messo comunque un cappuccio, abbastanza ampio per mascherarmi. Qualsiasi telecamera avrebbe solo mostrato una figura incappucciata che portava due latte senza etichetta e una cartella della scuola su una spalla mentre correva lungo un lato della recinzione esterna in direzione della portineria. Entrare è stato semplice. Meno semplice affrontare i ricordi che sembravano stillare dai muri: l'odore di mio padre, quell'acredine, l'odore fantasma di Cinnabar. La maggior parte dei mobili apparteneva a St Oswald. Si trovavano ancora lì: la credenza, l'orologio, il pesante tavolo da pranzo e le sedie che non adoperavamo mai. Un rettangolo pallido sulla carta da parati dove mio padre aveva appeso un quadro (una stampa sdolcinata di una
bambina con un cucciolo) mi ha fatto male al cuore. Non me lo aspettavo. D'un tratto, in modo assurdo, mi è venuta in mente la casa di Roy Straitley, con le file di fotografie della scuola, i ragazzi sorridenti con le uniformi sbiadite, le facce fisse, trepidanti, di quei giovani vivaci che erano morti. Era terribile. Peggio ancora, era banale. Avevo immaginato di fare con comodo, di schizzare benzina sui vecchi tappeti, sui vecchi mobili, con andatura allegra. Invece ho fatto quel che andava fatto con premura furtiva e poi via di corsa, sentendomi un essere spregevole, una spia, per la prima volta da quel giorno a St Oswald, quando scorsi il bell'edificio con le finestre che scintillavano al sole, e l'avevo voluto per me. Era una cosa che Leon non aveva mai capito. Lui non aveva mai visto davvero St Oswald: la sua grazia, la sua storia, la sua arrogante rettitudine. Per lui era soltanto una scuola, banchi su cui si poteva incidere, muri da imbrattare, professori da prendere in giro e sfidare. Tutto sbagliato, Leon. Tutto infantilmente, fatalmente sbagliato. Così ho dato fuoco alla portineria: e invece dell'euforia che avevo pregustato, ho sentito solo un rimorso strisciante, la più inutile delle emozioni, mentre le fiamme danzavano e ruggivano gioiose. Prima dell'arrivo della polizia, avevo fatto a tempo a riprendermi. Dopo aver cambiato la grande felpa con qualcosa di più adatto, ho detto quello che volevano sentirsi dire, (un giovanotto incappucciato che fuggiva) fermandomi il meno possibile, il tempo necessario perché trovassero le latte e la cartella abbandonata. A quel punto erano arrivate anche le autopompe, e le ho lasciate al loro dovere. Non che ci fosse molto da fare, ormai. Una marachella da studenti, dirà l'«Examiner»: una trovata da Halloween sfociata in crimine doloso. Lo champagne aveva un gusto un po' scialbo: ma l'ho bevuto comunque, mentre facevo un paio di telefonate di routine con il cellulare di Knight e ascoltavo i rumori dei fuochi d'artificio e le voci dei giovani gozzovigliatori, streghe, demoni malefici e vampiri, che correvano lungo i viali. Se mi siedo nella posizione giusta, dalla mia finestra riesco a vedere Dog Lane. Mi chiedo se stasera Straitley sia seduto alla sua finestra, le luci abbassate, le tende tirate. Si attende guai, questo è sicuro. Da parte di Knight, o di qualcun altro, Sunnybanker o spirito ombroso. Straitley crede agli spettri - ci mancherebbe altro - e stasera gli spettri sono fuori in forze, come ricordi liberati per assillare i vivi. Lasciamoli fare. I morti non hanno molto con cui divertirsi. Ho fatto la
mia parte: ho messo il mio piccolo bastone fra le vecchie ruote della scuola. Chiamatelo sacrificio, se vi pare. Un tributo di sangue. Se questo non li appagherà, nulla potrà farlo. 3. St Oswald's Grammar School for Boys lunedì, 1 novembre Che caos. Un caos tremendo. Ho visto il fuoco ieri notte, certo; ma ho pensato che fosse il falò annuale di Guy Fawkes, con qualche giorno d'anticipo e un po' lontano dal suo solito posto. Poi ho sentito le autopompe, e all'improvviso dovevo essere lì. Era così simile a quell'altra volta, vedete: mi è tornato in mente il suono delle sirene nel buio, Pat Bishop come un folle regista di cinema con i suoi dannati megafoni... C'era un freddo gelido mentre uscivo. Ero contento del cappotto e della sciarpa a scacchi - regalo di un qualche ragazzo, ai tempi in cui gli scolari facevano ancora cose del genere - avvolta per bene intorno al collo. L'aria sapeva di buono, di fumo, nebbia e polvere da sparo, e anche se era tardi, una banda di «dolcetto o scherzetto», si stava precipitando per la via con una sporta di dolci. Uno di loro, un fantasmino, nel passare ha lasciato cadere un involucro, credo fosse la carta di uno Snickers, e automaticamente mi sono fermato per raccoglierlo. «Ehi, tu!» ho detto con la mia voce da torre campanaria. Il fantasmino, un ragazzino di nove o dieci anni, si è fermato di colpo. «Hai fatto cadere qualcosa», ho detto, porgendogli l'involucro. «Tu cosa?» Il fantasma mi ha guardato come fossi pazzo. «Hai fatto cadere qualcosa», ho replicato paziente. «C'è una pattumiera, lì», puntando verso un bidone ad appena una decina di metri. «Adesso ci vai e lo butti dentro.» «Tu cosa?» Alle sue spalle si sentiva ghignare. Qualcuno ha ridacchiato sotto una maschera di plastica da pochi soldi. Sunnybanker, ho pensato con un sospiro, o futuri giovani teppisti da Abbey Road. Chi altro avrebbe lasciato i propri figli di otto-nove anni girovagare per le strade alle undici e mezza di sera, senza un adulto all'orizzonte? «Nel bidone, per favore», ho detto di nuovo. «Sono sicuro che siete stati educati a fare di meglio che non a sparpagliare cartacce.» Ho sorriso; per un momento, una mezza dozzina di faccini hanno guardato con stupore verso la mia. C'erano un lupo, tre fantasmi coperti da lenzuoli, un vampiro
sporco con il naso gocciolante, e una persona irriconoscibile che avrebbe potuto essere un demone malefico, un gremlin o una creatura senza nome di un film americano vietato ai minori Il fantasmino ha guardato prima me, poi l'involucro. «Ben fatto», ho iniziato a dire, mentre lui si spostava verso il bidone. Al che si è girato e mi ha sorriso, mostrando denti scoloriti come quelli di un fumatore incallito. «Vaffanculo», ha detto, ed è fuggito per la via, lasciando cadere l'involucro. Gli altri si sono messi a correre nella direzione opposta, spargendo carte durante la fuga, e ho udito voci di scherno e insulti mentre scappavano nella foschia gelata. Non avrebbe dovuto infastidirmi. Come insegnante, ne vedo di ogni genere, perfino a St Oswald che, tutto sommato, è un ambiente privilegiato. Quei Sunnybanker appartengono a una razza diversa: i quartieri popolari sono pieni di alcolismo, abuso di droghe, povertà, violenza. Il linguaggio sboccato e le cartacce sono facili quanto un ciao e un arrivederci. Non c'è cattiveria in questo, no davvero. Eppure mi ha dato fastidio, forse di più di quanto dovesse. Quella sera avevo già dato tre ciotole di dolcetti, e tra questi parecchie barrette di Snickers. Ho raccolto l'involucro e l'ho gettato nel bidone, sentendomi inaspettatamente depresso. Sto diventando vecchio, ecco tutto. Le mie aspettative dalla gioventù (e dall'umanità in genere, credo) sono abbastanza sorpassate. Sebbene lo sospettassi - e in cuor mio, forse, lo sapessi - che il fuoco quella sera avesse qualcosa a che vedere con St Oswald, non me lo aspettavo: l'assurdo ottimismo che è sempre stata la parte migliore e peggiore del mio carattere, mi proibisce di guardare le cose con occhio lugubre. Ecco perché una parte di me era genuinamente sorpresa quando sono arrivato a scuola, ho visto i pompieri e ho capito che la portineria era stata bruciata. Poteva andare peggio. La biblioteca, per esempio. Una volta, prima della mia epoca, nel 1845, c'è stato un incendio che ha bruciato più di mille libri, alcuni molto rari. Una candela dimenticata, forse, lasciata inaccudita: non c'è nulla negli archivi della scuola a indicare che si sia trattato di un gesto doloso. Questo invece sì. Il rapporto del comandante dei vigili del fuoco dice che è stata usata della benzina; un testimone riferisce di un ragazzo incappucciato che scappava. La prova più schiacciante: la cartella di Knight, abbandonata sul posto, un po' carbonizzata ma ancora perfettamente riconoscibile, i libri all'interno etichettati per bene, con il nome e la classe. Bishop si è precipitato all'istante, certo. Si dava da fare in modo così e-
nergico con i pompieri che per un momento ho pensato fosse uno di loro. Poi è venuto da me apparendomi in mezzo al fumo, gli occhi rossi, i capelli ritti, paonazzo quasi fino all'apoplessia per la tensione e la foga. «Nessuno dentro», ha detto ansimando, e ora vedevo che sotto un braccio portava un orologio da muro, mentre correva come un pilone di rugby che sta per andare in meta. «Pensato di salvare qualche cosa.» Poi se n'era andato di nuovo, la mole patetica contro le fiamme. L'ho chiamato, ma la voce si perdeva: qualche momento dopo l'ho intravisto mentre cercava di trascinare un cassettone di quercia attraverso la porta in fiamme. Come ho detto, che caos. Stamattina, la zona è stata cintata, le macerie ancora d'un rosso intenso e fumanti, così che ora l'intera scuola odora di falò. In classe non si parla d'altro: il rapporto sulla scomparsa di Knight e adesso questo sono sufficienti per alimentare voci di un'inventiva talmente selvaggia che il Rettore ha dovuto convocare una riunione d'emergenza del corpo insegnante per discutere le nostre opzioni. La smentita è sempre stato il suo metodo. Guardate la vicenda con John Snyde. Anche il Fallowgate è stato violentemente confutato: ora il Rettore intende negare il Knightsbridge (come l'ha soprannominato Allen-Jones), soprattutto perché l'«Examiner» ha posto le domande più impertinenti nella speranza di svelare un nuovo scandalo. Certo domani si saprà ovunque. Come sempre un allievo parlerà. Scompare uno studente. Segue un atto di vendetta contro la scuola, forse provocato, chi lo sa?, da bullismo o vittimizzazione. Non è stata lasciata alcuna lettera. Il ragazzo è scappato. Dove? Perché? Ho immaginato, l'abbiamo fatto tutti, che Knight fosse la ragione per cui la polizia si trovava lì stamattina. Sono arrivati alle otto e mezza. Cinque agenti, tre in abiti civili: una donna, quattro uomini. Il nostro poliziotto di quartiere (il sergente Ellis, un veterano, abile nelle pubbliche relazioni e nei faccia a faccia virili) non era con loro, e avrei dovuto sospettare qualcosa subito, anche se in effetti ero fin troppo preoccupato per badarci più di tanto. Lo erano tutti. E per buone ragioni: metà del dipartimento assente, i computer fuori uso con un germe mortale, i ragazzi contagiati dalla sommossa e dalle speculazioni, gli insegnanti nervosi e incapaci di concentrarsi. Non avevo visto Bishop sin dalla sera prima: Marlene mi ha detto che l'hanno curato per aver inalato fumo, ma si era rifiutato di rimanere in o-
spedale e ha trascorso il resto della notte a scuola, esaminando i danni e riferendone alla polizia. Va da sé, anche se in modo non ufficiale, che tutti (perlomeno negli ambienti della direzione) mi ritengano colpevole. Me lo ha riferito Marlene, avendo visto la bozza di una lettera dettata da Bob Strange alla sua segretaria e adesso in attesa di essere approvata da Bishop. Non ho avuto l'occasione di leggerla, ma posso indovinarne stile e contenuto. Bob Strange è uno specialista nel colpo di grazia senza spargimento di sangue, dopo una dozzina di lettere simili nel corso della carriera. Alla luce di eventi recenti... spiacevole ma inevitabile... ora non può essere trascurata... un anno sabbatico che sarà a stipendio intero finché non... Ci saranno accenni al mio comportamento eccentrico, alla mia crescente smemoratezza e al curioso incidente di Anderton-Pullitt, per non parlare della pasticciata valutazione di Meek, del blazer di Pooley e di una quantità di infrazioni minori, immancabili nella carriera di qualsiasi insegnante, tutte annotate, numerate e archiviate da Strange per un possibile uso in circostanze come questa. Poi ci sarà la munificenza, il riconoscimento forzato di trentatré anni di leale servizio... la rassicurazione a denti stretti del rispetto personale. Ma il sottotesto è sempre lo stesso: Sei diventato motivo di imbarazzo. In breve, Strange stava preparando la ciotola di cicuta. Ah, non posso dire che fossi del tutto sorpreso. Ma nel corso di tutti questi anni ho dato tanto a St Oswald, da immaginare, credo, che la cosa mi rendesse una sorta di eccezione. Non è così: il meccanismo che governa St Oswald è privo di cuore e implacabile quanto i computer di Strange. Non si tratta di cattiveria, è una semplice equazione. Sono vecchio, costoso, inefficiente, una rotella consumata da un congegno datato che in ogni caso non serve più. E se ci sarà uno scandalo, chi meglio di me per portarne la colpa? Strange sa che non farò storie. È indecoroso, tanto per cominciare; e poi, non vorrei portare altro scompiglio a St Oswald. Una liquidazione generosa oltre alla mia pensione, un discorso con belle parole di Pat Bishop nella Sala professori; un accenno alla mia cattiva salute e alle nuove opportunità offerte dall'imminente pensionamento; la ciotola di cicuta astutamente nascosta dietro gli allori e gli apparati. Che vada all'inferno. Potrei quasi credere che abbia programmato tutto questo dall'inizio. L'invasione del mio ufficio, la mia eliminazione dal prospetto, la sua interferenza. Si è tenuto stretto la lettera sino a ora perché Bishop non era disponibile. Aveva bisogno di Bishop dalla sua. E l'avrebbe
anche avuto, mi sono detto: mi piace Pat, ma non mi faccio illusioni sulla sua lealtà. St Oswald viene prima di tutto. E il Rettore? Sapevo che sarebbe stato più che felice di presentare il caso agli amministratori. Il dott. Pooley avrebbe potuto fare di tutto. E a chi, ho pensato, sarebbe importato davvero? E che ne sarebbe stato della mia Centuria? Dalla posizione in cui mi trovavo, pareva distante un secolo. All'ora di pranzo ho ricevuto un memo dal dott. Devine, per una volta scritto a mano (ho immaginato che i computer fossero di nuovo fuori uso) e consegnato da un ragazzo della sua quinta. R.S. Presentarsi in ufficio immediatamente. M.R.D. Mi sono domandato se c'entrasse anche lui. Con lui non me ne sarei rimasto con le mani in mano. Così l'ho fatto aspettare: ho corretto un paio di quaderni, scambiato facezie con i ragazzi, bevuto il tè. Dieci minuti dopo, Devine è entrato come un derviscio e, nel vedere la sua espressione, ho congedato i ragazzi con un cenno della mano e gli ho dedicato tutta la mia attenzione. Ora voi potreste avere l'impressione che io abbia una qualche sorta di faida in atto col vecchio Acerbo. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero: in realtà, il più delle volte, mi diverto ai nostri battibecchi, anche se non sempre la vediamo allo stesso modo in tema di linea di condotta, uniforme, Salute e sicurezza, pulizia e comportamento. Tuttavia so quando porre un limite, e ogni pensiero di tormentare il vecchio idiota è svanita non appena ho visto la sua faccia. Devine sembrava malato. Non semplicemente pallido, la sua condizione normale, ma giallo, macilento, vecchio. La cravatta di sbieco; i capelli, di solito perfetti, in disordine come se lo avesse investito una folata di vento. Perfino il passo, di solito veloce e automatico, si era trasformato in un'andatura zoppicante; è entrato barcollando come un giocattolo meccanico e si è seduto pesantemente sul banco più vicino. «Cos'è capitato?» Adesso nella mia voce non c'era traccia di sfottimento. Qualcuno era morto: questo è stato il mio primo pensiero. Sua moglie, un ragazzo, un collega amico. Solo una terribile catastrofe poteva aver colpito il dott. Devine in questo modo. Era un segno della sua angoscia che non mi rimproverasse per aver
mancato di rispondere alle sue convocazioni. È rimasto a sedere sul banco per qualche minuto, l'esile busto chinato verso le ginocchia sporgenti. Ho tirato fuori una Gauloise, l'ho accesa e gliel'ho passata. Devine non cede al fumo da anni, ma l'ha presa senza una parola. Ho atteso. Non vado noto per il mio savoir faire, ma so come trattare i ragazzi agitati, e questo è proprio ciò che mi sembrava Devine in quel momento, un ragazzo coi capelli grigi, molto turbato, la faccia devastata dall'ansia, le ginocchia raccolte contro il petto in un disperato gesto protettivo. «La polizia.» Sembrava un rantolo. «Che cos'ha fatto?» «Hanno arrestato Pat Bishop.» Mi ci è voluto un po' di tempo per sapere tutta la storia. Tanto per cominciare, Devine non la sapeva. Qualcosa a che fare con i computer, pensava, anche se i dettagli erano poco chiari. Era stato fatto il nome di Knight, i ragazzi delle classi di Bishop venivano interrogati, anche se nessuno sembrava sapere quale fosse esattamente l'accusa a carico di Bishop. Potevo capire, però, perché Devine fosse in preda al panico. Ce l'ha sempre messa tutta per ingraziarsi la direzione, ed è naturale che sia terrorizzato all'idea di essere implicato in questo nuovo e imprecisato scandalo. A quanto pare, i poliziotti hanno interrogato Acerbo a lungo; si sono mostrati interessati al fatto che Pat avesse ospitato Mr e Mrs Acerbo in diverse occasioni, e ora stavano per perquisire l'ufficio alla ricerca di nuove prove. «Prove!» ha protestato rauco Devine, spegnendo la Gauloise. «Che cosa credono di trovare? Se solo sapessi...» Mezz'ora più tardi, due dei poliziotti se ne sono andati, portandosi via il computer di Bishop. Quando Marlene ha chiesto perché, non è stata data alcuna risposta. I tre poliziotti rimasti si sono trattenuti per compiere ulteriori indagini, soprattutto nell'Ala di informatica, che ora è stata chiusa ai membri della scuola. Uno dei poliziotti (la donna) è venuta nella mia aula durante l'ottava ora e mi ha chiesto quando avessi usato la mia stazione di lavoro per l'ultima volta. L'ho informata seccamente di non aver mai usato i computer, non nutrendo alcun interesse per i giochini elettronici, e se ne è andata, come un ispettore scolastico che sta per stilare un rapporto ostile. Dopodiché la classe è diventata assolutamente incontrollabile, così abbiamo giocato all'impiccato in latino per gli ultimi dieci minuti, mentre la mia mente correva e il dito invisibile (mai troppo distante) mi tamburella-
va sullo sterno con un'insistenza crescente. Alla fine della lezione sono andato in cerca di Mr Beard, ma l'ho trovato evasivo, parlava di virus nella rete di computer della scuola, di stazioni di lavoro, di protezioni con la password e di materiale scaricato da internet, tutti argomenti che per me hanno lo stesso scarso fascino delle opere di Tacito per Mr Beard. Ne consegue che della vicenda ne so quanto ne sapevo a pranzo, e sono stato costretto a lasciare la scuola (dopo aver atteso per più di un'ora, senza successo, che Bob Strange emergesse dal suo ufficio), sentendomi frustrato e orribilmente preoccupato. Non è finita, di qualunque cosa si tratti. Sarà anche novembre, ma ho la sensazione che le idi di marzo siano appena cominciate. 4. martedì, 2 novembre Il mio allievo è finito di nuovo sui giornali. Quelli nazionali, stavolta, e me ne deriva un certo orgoglio (naturalmente la Talpa ha qualcosina a che vedere con tutto ciò, ma presto o tardi ci sarebbe arrivato comunque). Il «Daily Mail» accusa i genitori, il «Guardian» lo reputa una vittima e il «Telegraph» contiene un editoriale sul vandalismo e su come andrebbe fronteggiato. Tutto molto gratificante: in più la madre di Knight ha lanciato un lacrimevole appello TV a Colin in cui gli dice che non è affatto nei pasticci e lo implora di tornare a casa. Bishop è stato sospeso, in attesa di ulteriori indagini. Non c'è da stupirsi: quello che hanno trovato nel suo computer deve sicuramente aver dato una mano. Anche Gerry Grachvogel, a questo punto, sarà stato arrestato, e altri lo seguiranno presto. La notizia ha colpito la scuola come una bomba, la stessa bomba a orologeria, guarda caso, che ho piazzato durante la metà trimestre. Un virus per immobilizzare le difese del sistema. Una serie di link internet accuratamente collocati. Un log di e-mail mandate a e dall'indirizzo personale di Knight a un indirizzo hotmail accessibile dalla scuola. Una selezione di immagini, soprattutto pose, ma con alcuni interessanti spezzoni filmati ripresi dalla webcam, inviati a vari indirizzi dei docenti scaricati in cartelle protette da password. Certo, nulla di tutto questo sarebbe venuto alla luce se la polizia non avesse indagato nella corrispondenza elettronica di Colin Knight. Ma, in
questi tempi di chat-room e di predatori virtuali, conviene controllare tutto. Knight corrispondeva al profilo della vittima, un ragazzo solitario, impopolare a scuola. Sapevo che prima o poi ci sarebbero arrivati. Guarda caso, è successo presto. Mr Beard ha contribuito, entrando nel sistema in seguito al disastro, dopodiché si è trattato solo di seguire il filo. Il resto è semplice. È una lezione che la tribù di St Oswald deve ancora imparare; una lezione che io ho imparato più di dieci anni fa. Sono così compiaciute, queste persone, così arroganti e ingenue. Devono capire quello che io ho capito davanti al grande cartello DIVIETO D'ACCESSO: che le regole e le leggi di tutto il mondo sono governate dallo stesso precario tessuto di inganno e compiacimento; che ogni regola può essere infranta; che la violazione di una proprietà privata, come ogni crimine, resta impunita se nessuno la vede. È una lezione importante nell'istruzione di qualsiasi bambino, e, come diceva sempre mio padre, la tua istruzione è la cosa più importante che ci sia. Ma perché? vi sento domandare. A volte anch'io me lo chiedo. Perché lo faccio? Perché quest'accanimento, dopo tutti questi anni? Pura vendetta? Mi piacerebbe che fosse così semplice. Ma voi e io sappiamo che è una cosa più profonda. La vendetta, lo ammetto, è una parte. Per Julian Pinchbeck, forse, per la creatura lagnosa, subdola che ero, sempre a nascondermi e col disperato desiderio di essere qualcun altro. E per quanto riguarda me? Oggigiorno sto bene con la persona che sono. Faccio parte dei cittadini seri. Ho un lavoro, per il quale ho dato prova di avere un talento inaspettato. Potrò ancora essere l'Uomo Invisibile per quanto riguarda St Oswald, ma ho raffinato il mio ruolo ben oltre ciò che farebbe un mero impostore. Per la prima volta mi chiedo se potrei restare più a lungo. Di sicuro è una tentazione. Ho già avuto un inizio promettente; e nelle epoche di rivoluzione, si ottiene rapidamente la promozione al grado di ufficiale superiore. Potrei essere uno di quegli ufficiali. Potrei avere tutto, tutto quello che St Oswald ha da offrire: onori e gloria. Dovrei accettarli? Me lo domando. Pinchbeck avrebbe colto al volo l'occasione. Certo, Pinchbeck era contento, se non felice, di passare inosservato. Ma io non sono lui. Che cosa voglio, allora? Cos'è che ho sempre voluto? Se si trattasse soltanto di una questione di vendetta, allora avrei potuto semplicemente appiccare il fuoco all'edificio principale, non alla portineri-
a, e lasciare che l'intero nido di vespe andasse in fiamme. Avrei potuto mettere dell'arsenico nel tè degli insegnanti o cocaina nella Fanta. Ma non sarebbe stato divertente, vero? Chiunque può fare quelle cose. Ma nessuno può fare quello che ho fatto io: nessuno ha mai fatto quello che sto facendo. Una cosa manca ancora dalla scena della vittoria. La mia faccia. Il volto dell'artista nella folla di comparse. E con il passare del tempo, quell'assenza è sempre più evidente. Riguardo. Implica rispetto e ammirazione. In francese si dice regard, e significa semplicemente «sguardo». Questo, che mi si veda, è tutto ciò che ho sempre voluto: essere più che un'occhiata di sfuggita, il dodicesimo uomo in questa partita di gentlemen and players, fra gentiluomini dilettanti e giocatori professionisti. Perfino un Uomo Invisibile può proiettare un'ombra; ma la mia ombra, diventata più lunga nel corso degli anni, si è persa tra i corridoi bui di St Oswald. Niente di più. È già iniziato. È già stato ricordato il nome di Snyde. Anche quello di Pinchbeck. E prima che finisca, mentre St Oswald precipita verso il suo inevitabile fato, vi prometto: mi vedrete. Fino ad allora, mi basta fare la parte dell'insegnante. Ma non ci sono esami da passare nella mia materia. L'unica prova è la sopravvivenza. In questo ho una certa esperienza, dopotutto Sunnybank deve avermi pure insegnato qualcosa, ma mi piace che il resto provenga da un talento naturale. Se avessi frequentato St Oswald, quest'abilità sarebbe stata mondata, per essere sostituita dal latino, da Shakespeare e da tutte le tranquillizzanti sicurezze di quel mondo privilegiato. Perché più di ogni cosa, St Oswald insegna la conformità, lo spirito di squadra, le regole del gioco. Un gioco in cui Pat Bishop eccelle; ragione per cui è ancor più appropriato che sia lui la prima vera vittima. Come ho già detto, il modo per abbattere St Oswald è un colpo al cuore, non alla testa. E Bishop è il cuore della scuola: in buona fede, onesto, rispettato e amato dai ragazzi e dagli insegnati. Un amico per chi si trova nei pasticci; un braccio forte per chi è debole; una coscienza, un allenatore, un'ispirazione. Un uomo che sta bene in compagnia maschile, uno sportivo, un gentleman, che non delega mai ma lavora instancabilmente e con gioia per il bene di St Oswald. Non si è mai sposato, come potrebbe? Allo stesso modo di Straitley, la sua devozione nei confronti della scuola preclude una normale vita familiare. Le persone meschine possono sospettare che abbia preferenze diverse. In particolare nel clima attuale, dove il solo desiderio di lavorare con i bambini è considerato una legittima causa di so-
spetto. Ma Bishop? Bishop? Nessuno ci crede: eppure la stanza dei professori è già curiosamente divisa. Alcuni esprimono una vivace indignazione contro l'impensabile accusa (Straitley tra questi). Altri (Bob Strange, le Nazioni, Jeff Light, Paddy McDonaugh) conversano a voce bassa. Frammenti di luoghi comuni orecchiati e congetture: i soliti «Non c'è fumo senza arrosto», «Sempre pensato che fosse troppo bello per essere vero», «Un po' troppo amichevole con i ragazzi, sai cosa intendo», aleggiavano come segnali di fumo. È sorprendente, una volta che la paura o il tornaconto personale hanno raschiato la patina del cameratismo, la facilità con cui i propri amici possano trasformarsi. Dovrei saperlo, e a questo punto deve aver cominciato a chiarirsi anche a lui. Ci sono tre fasi di reazione a un'accusa del genere. Prima, negare. Seconda, rabbia. Terza, capitolazione. Mio padre, inutile dirlo, ha recitato la parte del colpevole fin dall'inizio. Balbettante, arrabbiato, confuso. Pat Bishop deve aver offerto uno spettacolo migliore. Il Preside di St Oswald non è tipo da lasciarsi intimidire facilmente. Ma le prove erano lì, innegabili. Registrazioni di chat tenute fuori orario dalla sua postazione protetta a St Oswald. Un messaggio inviato dal telefono di Knight a Bishop la sera dell'incendio. Fotografie archiviate nella memoria del suo computer. Molte fotografie, tutte di ragazzi: alcune mostrano pratiche che Pat, nella sua innocenza, non ha mai nemmeno sentito nominare. Certo che ha negato. Prima con una sorta di cupo divertimento. Poi con indignazione, scandalo, rabbia; e alla fine con una confusione lacrimosa che ha contribuito alla condanna più di ogni altro ritrovamento. Avevano perquisito casa sua. Parecchie fotografie erano state sequestrate. Foto scolastiche, squadre di rugby, i ragazzi di Bishop che attraverso gli anni sorridono dai muri, tutti inconsapevoli che un giorno sarebbero stati usati come prova. Poi gli album. A decine, pieni di ragazzi, di gite scolastiche, partite in trasferta, ultimi giorni del trimestre, ragazzi che sguazzano in un torrente del Galles, ragazzi a torso nudo in una giornata al mare, in fila, slanciati, i capelli spettinati, giovani facce che sorridono all'obbiettivo. Così tanti ragazzi, hanno detto. Non era un po'... insolito? Ha protestato, sicuro. Era un insegnante: tutti gli insegnanti conservano cose simili. Questo avrebbe potuto dirglielo anche Straitley: come anno dopo anno nessuno viene dimenticato, come certe facce resistono. Tanti
ragazzi che passano come le stagioni. Era naturale provare nostalgia: e ancor più naturale, in mancanza di una famiglia, maturare affetto per i ragazzi a cui si è insegnato, affetto e... Che genere di affetto? Qui stava il marcio. Lo percepivano, malgrado le sue proteste, lo circondavano come iene. Lui ha negato in preda al disgusto. Ma loro erano gentili; hanno parlato di stress, di esaurimento, gli hanno offerto aiuto. Il suo computer era stato protetto da una password. Certo, qualcuno avrebbe potuto venire a conoscenza di quella password. Qualcuno avrebbe potuto usare il computer. Qualcuno avrebbe potuto perfino inserire le fotografie. Ma la carta di credito usata per pagarle era la sua. La banca l'ha confermato; e Bishop si è trovato in difficoltà nello spiegare come la sua carta di credito avrebbe potuto essere usata per scaricare centinaia di fotografie sull'hard disk del PC del suo ufficio. «Ci permetta di darle una mano, Mr Bishop.» Conosco il tipo. E ora hanno scoperto il suo tallone d'Achille: non la lascivia come avevano sospettato, ma qualcosa di infinitamente più pericoloso, il desiderio di approvazione. La sua fatale brama di piacere. «Ci dica dei ragazzi, Pat.» La maggior parte della gente, sulle prime, non la nota. Notano la stazza, la forza, la devozione gigantesca. Sotto questa scorza è una creatura commovente, ansiosa, insicura, che compie infiniti giri di corsa nell'eterno sforzo di fare progressi. Ma St Oswald è un maestro esigente e ha la memoria lunga. Nulla viene dimenticato, nulla accantonato. Anche in una carriera come quella di Bishop ci sono state mancanze, errori di giudizio. Lui lo sa, come me: ma i ragazzi sono la sua sicurezza. Le loro facce allegre gli ricordano che ha avuto successo. La loro giovinezza lo stimola... Risa sboccate dalle fasce laterali. No, non era questo ciò che intendeva. Allora cosa intendeva esattamente? Adesso lo incalzavano, come cani intorno a un orso. Come i ragazzini attorno a mio padre, e lui che bestemmiava e imprecava, il grosso deretano da orso che sporgeva dal sedile della Macchina Infernale mentre loro strillavano e ballavano. «Ci dica dei ragazzi, Pat.» «Ci dica di Knight.» «Che idiota», ha detto oggi Roach nella Sala professori. «Voglio dire, si può essere così stupidi da usare il proprio nome e la propria carta di credi-
to?» Anche se non lo sa, lo stesso Roach corre il pericolo di essere scoperto nel giro di poco. Già parecchi fili conducono a lui, e la sua intimità con Jeff Light e Gerry Grachvogel è risaputa. Povero Gerry, così sento dire, è già indagato, sebbene la sua natura apprensiva lo renda un testimone meno affidabile. Sulla sua stazione di lavoro è già stato trovato materiale pornografico scaricato da internet e pagato con la sua carta di credito. «Ho sempre saputo che era un tipo strano», ha detto Light. «Troppo amichevole con i ragazzi, capito cosa intendo?» Roach ha annuito. «Il che serve solo a dimostrare», ha detto, «che di questi tempi non ci si può fidare di nessuno.» Com'era vero. Ho seguito la conversazione a distanza, con un certo senso di ironico divertimento. I gentiluomini di St Oswald sono persone che si fidano: chiavi nelle tasche delle giacche gettate sulle sedie; portafogli nelle cattedre, uffici aperti. Il furto del numero di una carta di credito è lavoro di un istante, non richiede alcuna abilità; e di solito la carta può essere rimessa a posto prima che il proprietario ne sospetti la scomparsa. La carta di Roach era l'unica che non avevo fatto in tempo a restituire ne aveva denunciato la perdita poco dopo il furto - ma Bishop, Light e Grachvogel non hanno una scusante del genere. Il mio solo rimpianto è non aver preso Roy Straitley - sarebbe stato elegante mandarli all'inferno tutti in una volta - ma la vecchia volpe astuta non ha nemmeno una carta di credito e poi nessuno lo crederebbe abbastanza informatizzato da saper accendere un PC. Tuttavia, questo può cambiare. Abbiamo appena cominciato, lui e io, e ho programmato questa partita tanto a lungo che in verità non voglio finisca troppo presto. Già è sull'orlo del licenziamento: rimane solo in assenza del Preside e perché la disperata mancanza di insegnanti nel suo dipartimento lo rende anche, finché dura questo momento di crisi, indispensabile. Venerdì è il suo compleanno. Giorno del Falò. Immagino che lo tema: gli anziani lo fanno spesso. Dovrei inviargli un regalo: qualcosa di carino che lo distragga dalle sgradevolezze della settimana. Finora non mi è venuta alcuna idea; ma del resto, di recente ho avuto troppa carne al fuoco. Datemi tempo. 5. Da allora non mi sono mai piaciuti i compleanni. Giocattoli, torta, cap-
pellini di carta e amici per il tè: per anni ho desiderato queste cose senza ottenerle, come desideravo St Oswald e la sua invidiabile patina di ricchezza e rispettabilità. Per il suo compleanno Leon andava al ristorante, dove aveva il permesso di bere vino e doveva indossare la cravatta. Prima dei tredici anni non avevo mai messo piede in un ristorante. Spreco di soldi, brontolava John Snyde. Perfino quando c'era ancora mia madre i miei compleanni erano stati occasioni frettolose, dolci comprati e candele che avevamo riposto con cura in una vecchia scatola di latta (con lo zucchero a velo dell'anno prima ancora appiccicato ai mozziconi color pastello) per la volta successiva. I miei regali arrivavano in sacchetti di Woolworth, ancora con le etichette; a volte cantavamo Tanti auguri a te, con l'imbarazzo poco espansivo della classe operaia. Quando lei se ne è andata, ovvio, sono cessati. Se si ricordava, mio padre mi dava del denaro per il compleanno, dicendomi di cuccare qualcosa che volevo davvero, ma non ricevevo amici né biglietti, e non avevo feste. Una volta Pepsi fece uno sforzo: pizza con sopra le candeline del compleanno e una torta di cioccolato che era afflosciata da un lato. Cercai di mostrarmi riconoscente, ma sapevo che mi avevano imbrogliato: in un certo senso il tentativo dell'ingenua Pepsi era perfino peggio del nulla. Quando non c'era nulla, potevo almeno dimenticare quale giorno fosse. Ma quell'anno era diverso. Quell'agosto, lo ricordo ancora con la chiarezza sovrannaturale di certi sogni: caldo e dolce e odoroso di pepe, di polvere da sparo, di resina ed erba. Un momento estatico, terribile, illuminato: mancavano due settimane al mio tredicesimo compleanno, e papà stava programmando una sorpresa. Non l'aveva detto con queste parole precise, però lo intuivo. Era eccitato, nervoso, reticente. Passava da momenti di estrema irritazione per qualsiasi cosa facessi ad attacchi lacrimosi di nostalgia, in cui mi diceva che stavo crescendo; mi offriva lattine di birra; sperava che un giorno, andando via di casa, non avrei dimenticato il mio povero vecchio papà, che per me aveva fatto del suo meglio. La cosa più sorprendente è che stava spendendo del denaro. John Snyde, che in passato era sempre stato tanto tirchio da riciclare le cicche delle sigarette fumate, avvolgendo il tabacco recuperato in sottili rotolini che chiamava «omaggi», aveva finalmente scoperto la gioia della terapia offerta dalla vendita al dettaglio. Un nuovo abito, per i colloqui, disse. Una catena d'oro con un medaglione. Una cassa intera di Stella Artois - questo da un uomo che sosteneva di disprezzare le birre straniere - e sei bottiglie di
whisky di malto, conservate nella rimessa sul retro della portineria, sotto un vecchio copriletto di ciniglia. E poi gratta e vinci, a decine, un nuovo divano, vestiti per me (stavo crescendo), biancheria, magliette, dischi, scarpe. E poi ci furono le telefonate. Tardi, di notte, quando lui pensava che fossi ormai a letto, lo sentivo parlare a voce bassa per un tempo che ogni volta pareva di ore. Per un po' pensai che chiamasse una linea erotica, oppure che cercasse di rimettersi con Pepsi: nel suo modo di sussurrare c'era la stessa aria furtiva. Una volta, dal pianerottolo, colsi solo qualche parola, ma parole che si agitarono in fondo alla mia mente. «Quanto, allora?» Pausa. Va bene. «È la cosa migliore. Il pulcino ha bisogno di una madre.» Una madre? Fin lì mia madre aveva scritto ogni giorno. Cinque anni senza una parola, e ora non c'era modo di fermarla: eravamo inondati da cartoline, lettere, pacchi. La maggior parte rimaneva sotto il mio letto, chiusa. Il biglietto aereo per Parigi, prenotato per settembre, restava sigillato nella sua busta, e pensavo che forse mio padre avesse infine deciso di non volere più nulla da Sharon Snyde: nulla che potesse ricordarmi la vita prima di St Oswald. Poi, di colpo, le lettere cessarono. Accadde così, all'improvviso, e avrei dovuto preoccuparmi di più: era come se lei pianificasse qualcosa, qualcosa che intendeva tenermi nascosto. Ma i giorni passavano e non succedeva nulla. Cessarono anche le telefonate, o forse mio padre faceva più attenzione. In ogni caso non udii nient'altro, e i pensieri ritornarono, come l'ago di una bussola, verso il mio nord. Leon, Leon, Leon: non era mai lontano dai miei pensieri. La partenza di Francesca lo aveva lasciato distante e introverso. Cercai ogni espediente per distrarlo, ma sembrava che non lo interessasse più nulla: sdegnava i nostri soliti giochi, zigzagava di continuo fra un'allegria maniacale e una cupezza poco collaborativa; e, peggio, ora sembrava prendersela per la mia intrusione nei suoi momenti solitari, chiedendomi con sarcasmo se avessi degli altri amici e prendendomi costantemente in giro perché ero più giovane e avevo meno esperienza di lui. Se solo l'avesse saputo: in questo ero anni luce avanti. In fondo avevo sconfitto Mr Bray; e presto avrei spinto più in là la mia conquista. Ma con Leon avevo sempre provato imbarazzo, mi sentivo giovane, con quella dolorosa voglia di piacergli. Lui lo percepiva, e ora lo rendeva crudele. Ave-
va l'età in cui ogni cosa sembra drastica, nuova o scontata, in cui gli adulti sono incommensurabilmente stupidi, quando la regola dell'io viene prima di tutte le altre, e un cocktail letale di ormoni amplifica ogni emozione fino a un'intensità da incubo. Ma peggio di tutto, era innamorato. Era innamorato, in quel modo terribile, infelice che ti fa mangiare le unghie, di Francesca Tynan, che era ritornata a scuola nel Cheshire, e con la quale parlava di nascosto al telefono quasi ogni giorno, accumulando enormi bollette che sarebbero state scoperte, troppo tardi, alla fine del trimestre. «Non è paragonabile a nulla», disse, e non per la prima volta. Era nella fase maniacale: presto sarebbe scivolato nel sarcasmo e nel disprezzo dichiarato. «Si può parlarne, come fanno loro, ma non sai com'è. Io, io l'ho fatto. L'ho fatto veramente. La cosa più simile che tu potresti mai fare, è maneggiare dietro gli armadietti con i tuoi amici delle elementari.» Feci una smorfia, non dando peso, fingendo che fosse uno scherzo. Ma non lo era. In queste occasioni c'era in Leon qualcosa di vizioso, di quasi ferale: i capelli gli cascavano sugli occhi, la faccia era pallida, dal suo corpo proveniva un odore acido e intorno alla bocca aveva una nuova esplosione di brufoli. «Scommetto che ti piacerebbe, finocchio che sei. Frocetto, scommetto che ti piacerebbe, non è vero, eh?» Mi guardò, e nei suoi occhi grigi vidi un'intelligenza letale. "Frocetto", ripeté, con un risolino cattivo, e poi il vento cambiò e venne fuori il sole e fu di nuovo Leon, che parlava di un concerto a cui aveva in mente di andare, dei capelli di Francesca e di come catturavano la luce, di un disco che aveva comprato, delle gambe di Francesca e di quanto fossero lunghe, del nuovo film di James Bond. Per un po' riuscii quasi a credere che avesse davvero scherzato: poi mi ricordai l'intelligenza glaciale negli occhi e mi chiesi a disagio come avessi potuto tradirmi. Avrei dovuto porre fine alla cosa su due piedi. Sapevo che non sarebbe migliorata. Ma ero inerme, irrazionale, avevo il cuore straziato. Qualcosa dentro di me credeva ancora di poterlo cambiare, che tutto potesse essere come prima. Dovevo crederlo: era l'unico briciolo di speranza nel mio altrimenti tetro orizzonte. E poi, lui aveva bisogno di me. Non avrebbe rivisto Francesca almeno fino a Natale. Questo mi dava quasi cinque mesi. Cinque mesi per curarlo dalla sua ossessione, per liberarci dal veleno che aveva infettato la nostra bella amicizia. Oh, dovetti assecondare i suoi capricci. Più di quanto gli facesse bene,
immagino. Tuttavia non c'è niente di così maligno come un amante, a meno di non contare i malati terminali, con i quali condivide molte caratteristiche sgradevoli. Entrambi sono egoisti, chiusi, impiccioni, instabili, riservano tutta la loro dolcezza all'innamorato (o a sé stessi) e si ribellano contro gli amici come cani rabbiosi. Così era Leon, eppure a me piaceva più che mai, ora che finalmente condivideva la mia sofferenza. C'è una soddisfazione perversa nel tormentare una crosta. Gli innamorati lo fanno sempre, cercando le più intense fonti di dolore, abbandonandosi, sacrificandosi di continuo per l'oggetto amato con una stupidità ostinata che i poeti hanno spesso scambiato per altruismo. Per Leon, era il parlare di Francesca. Per me, ascoltare lui. Dopo un po' divenne insopportabile; l'amore, come il cancro, tende a dominare la vita di chi soffre così interamente da far perdere la capacità di condurre una conversazione su un qualsiasi altro argomento (così noioso da intorpidire chi ascolta), e con disperazione crescente mi ritrovai a cercare alternative per vincere il tedio dell'ossessione di Leon. «Ti sfido.» Eccomi, fuori dal negozio di dischi. «Su, ti sfido. Se hai ancora le palle.» Mi guardò, sorpreso, poi guardò oltre, in direzione del negozio. Qualcosa gli attraversò la faccia, un'ombra, forse, o il ricordo di una gioia passata. Quindi sorrise, e subito mi parve di cogliere negli occhi grigi un debole riflesso del vecchio Leon, quello spensierato e senza un amore. «Stai parlando a me?» E così giocammo, l'unico gioco che questo nuovo Leon accettasse ancora. E con il gioco cominciò la cura: sgradevole, perfino brutale, forse, ma necessaria, proprio come l'aggressiva chemioterapia viene usata per attaccare i tumori. E c'era una quantità di aggressività in entrambi: era semplicemente questione di farla emergere anziché reprimerla. Cominciammo con i furti. Piccole cose, all'inizio: dischi, libri, vestiti che depositavamo nel nostro nascondiglio nei boschi dietro St Oswald. La cura prese una via più dura. Coprimmo muri di graffiti e distruggemmo pensiline alle fermate degli autobus. Lanciammo sassi ai gatti che passavano, abbattemmo lapidi nel vecchio cimitero, urlammo oscenità a persone anziane che portavano a spasso il cane se sconfinavano nel nostro dominio. Durante quelle due settimane io oscillavo tra pura infelicità e gioia traboccante; eravamo di nuovo insieme, Butch e Sundance, e per qualche minuto Francesca veniva dimenticata: il brivido di lei eclissato da una furia più violen-
ta, più pericolosa. Ma non durava. La cura era buona per i sintomi, non per la causa, e con mia delusione scoprii che il paziente aveva bisogno di dosi sempre maggiori di eccitazione per avere una qualche reazione. Sempre più spesso toccò a me pensare a nuove cose da fare, e dovetti lottare per immaginare exploit più oltraggiosi da compiere insieme. «Negozio di dischi?» «Nah.» «Cimitero?» «Banale.» «Palco della banda?» «Già fatto.» Era vero: la sera prima, avevamo fatto irruzione nel parco comunale e avevamo sfasciato ogni sedile sul palco della banda della città, compresa la bassa ringhiera che lo circondava. Non avevo provato alcun piacere, ricordando che ci andavo tanto tempo prima con mia madre: gli odori estivi di erba tagliata, hot dog e zucchero filato, il suono della banda dei minatori. Mi ricordai Sharon Snyde seduta su quelle sedie di plastica, a fumare una sigaretta, mentre io marciavo avanti e indietro facendo pompom-pom su un tamburo invisibile, e per un momento provai un terribile senso di smarrimento. Ecco com'ero a sei anni; ecco com'ero quando avevo ancora una madre che odorava di sigarette e Cinnabar, e non c'era niente di più coraggioso e splendido che un palco della banda, d'estate, e solo la gente cattiva sfasciava le cose. «Che succede, Pinchbeck?» Era già tardi: alla luce della luna la faccia di Leon era furba, scura e sagace. «Sei già stufo?» Era così. Ne avevo più che abbastanza. Ma non potevo dirlo a Leon: in fondo era la mia cura. «Su», mi pungolò. «Fa schifo, la banda. Pensa che le facciamo un favore.» Feci come mi disse e la mia reazione fu immediata. Leon mi aveva ordinato di demolire il palco della banda; lo ricambiai sfidandolo a legare lattine ai tubi di scappamento delle macchine posteggiate fuori dalla stazione di polizia. La posta saliva: i nostri attentati divennero sempre più complicati, perfino surreali (una fila di piccioni morti legati all'inferriata del parco pubblico, una serie di murales variopinti su un fianco della chiesa metodista); deturpammo muri, rompemmo finestre e spaventammo bambini da un capo all'altro della città. Rimaneva solo un posto. «St Oswald.»
«Neanche per sogno.» Fin lì avevamo evitato i terreni della scuola, tranne un modesto esempio della mia creatività sui muri del padiglione degli sport. Mancavano pochi giorni al mio tredicesimo compleanno, e con quello si avvicinava la misteriosa sorpresa che attendevo da tempo. Mio padre manteneva la calma, ma io capivo che si stava sforzando. Era sobrio: aveva cominciato a fare esercizi, la casa era perfetta, e la sua faccia ostentava un sorriso duro, asciutto che non rifletteva nulla di quanto accadeva dentro di lui. Sembrava Clint Eastwood nello Straniero senza nome; un Clint grasso, in realtà, ma con la stessa aria concentrata, gli occhi a fessura su un ipotetico confronto apocalittico. Io approvavo, perché si mostrava determinato, e non volevo che, per colpa di un'impresa idiota, andasse tutto all'aria proprio adesso. «Dai, Pinchbeck. Fac ut vivas. Lasciati vivere.» «A che pro?» Non volevo sembrare troppo recalcitrante: Leon avrebbe pensato che avessi paura di accettare la sfida. «Abbiamo fatto St Oswald un milione di volte.» «Non questo.» Gli occhi erano scintillanti. «Ti sfido, ti sfido ad arrampicarti in cima al tetto della cappella.» Poi mi sorrise e a quel punto vidi l'uomo che avrebbe potuto essere, il fascino sovversivo, l'umorismo esuberante. Mi colpì come un pugno, il mio amore per lui: l'unica emozione pura di tutta la mia complicata, bacata adolescenza. In quel preciso momento mi venne in mente che se mi avesse chiesto di saltare dal tetto della cappella, probabilmente avrei risposto di sì. «Il tetto?» Annuì. Stavo per mettermi a ridere. «Va bene, lo farò», dissi. «Ti riporterò indietro un souvenir.» «Non ce n'è bisogno. Me lo prenderò io. Cosa?» vedendo la mia sorpresa, «Credi che ti lascerei andare lassù da solo?» 6. St Oswald's Grammar School for Boys mercoledì, 3 novembre Cinque giorni e ancora non una parola di Knight. E neppure da Bishop, anche se l'ho visto da Tesco l'altro giorno, con l'aria intontita davanti a un carrello strapieno di cibo per gatti (non credo nemmeno che abbia un gatto). Gli ho parlato, ma lui non ha risposto. Sembrava sotto l'effetto di qual-
che farmaco pesante, e devo ammettere che non ho avuto il coraggio di proseguire la conversazione. Tuttavia, so che Marlene chiama ogni giorno per assicurarsi che stia bene: quella donna ha un cuore, a differenza di quanto si possa dire del Rettore, il quale ha proibito a ogni membro della scuola di comunicare con Bishop finché la questione non è chiarita. La polizia è stata di nuovo qui tutto il giorno, erano in tre a passare in rassegna il personale, i ragazzi, le segretarie e così via, con l'efficienza meccanica degli ispettori scolastici. È stato istituito un telefono amico, perché i ragazzi confermino in maniera anonima ciò che è già stato provato. Hanno chiamato in molti, la maggior parte per ribadire che non era possibile, Bishop non poteva aver fatto qualcosa di male. Altri sono stati interrogati durante e fuori l'orario scolastico. È dunque impossibile fare lezione. La mia classe non vuole parlare d'altro, ma come mi è stato detto abbastanza chiaramente, discutere della vicenda potrebbe nuocere al caso di Pat, per cui devo insistere affinché non lo faccia. Parecchi allievi sono profondamente sconvolti: ho trovato Brasenose che piangeva nei bagni del corridoio di mezzo durante la quarta ora di latino, e perfino Allen-Jones e McNair, sui quali di solito si può fare affidamento per cogliere il ridicolo più o meno ovunque, erano disattenti e apatici. E lo è tutta la classe, persino Anderton-Pullitt sembra più strano del solito, e si è messo a camminare con una nuova andatura stravagante da zoppo che va ad aggiungersi alle sue altre bizzarrie. La voce più recente del tam-tam è che Gerry Grachvogel sia stato interrogato e che potrebbe essere incriminato. Corrono anche altre voci, più gravi, e così, secondo i pettegolezzi, ogni membro assente del personale docente è divenuto un sospetto. È stato citato il nome di Devine, e lui è assente oggi, anche se la cosa in sé non dovrebbe significare nulla. È ridicolo; ma era sull'«Examiner» di ieri mattina che citava «fonti interne alla scuola» (ragazzi, quasi sicuramente) e insinuava che una banda di pedofili attiva da tempo e di importanza senza precedenti fosse stata scoperta entro le «porte sante» [sic] dell'Amato Sito. Come ho detto, è ridicolo. Insegno a St Oswald da trentatré anni, e so di che cosa sto parlando. Un fatto del genere, qui, non sarebbe mai potuto accadere: non perché pensiamo di essere meglio di qualsiasi altro posto (checché ne dica l'«Examiner»), ma soltanto perché in un luogo come St Oswald, nessun segreto si custodisce a lungo. Bob Strange avrebbe forse
potuto tradirlo: abbarbicato al suo ufficio a elaborare orari, o i Doppiopetto, che non vedono mai nulla a meno che non arrivi come allegato di un'email. Ma io? E i ragazzi? mai e poi mai. Oh, ho avuto la mia dose di colleghi scorretti. Ci fu il dott. Jehu (laureato a Oxford), che in seguito si rivelò un semplice Mr Jehu, dall'università di Durham, il quale aveva anche una certa reputazione, a quanto pareva. Questo succedeva anni fa, prima che cose simili facessero notizia, e lui se ne andò in silenzio e senza uno scandalo, come avviene per la maggior parte di loro, senza fare alcun danno. O Mr Tythe-Weaver, l'insegnante di arte che introdusse le sedute di posa dal vero au naturel. O Mr Groper, che maturò quella sfortunata fissazione per uno studente di inglese di quarant'anni più giovane. O anche il nostro Grachvogel, che tutti i ragazzi sanno essere omosessuale, e innocuo, ma che teme terribilmente per il proprio lavoro, se gli amministratori dovessero scoprirlo. Un po' tardi, per questo, suppongo: ma non è un pervertito, come suggerisce il corvo dell'«Examiner». Light sarà pure un imbecille maleducato, ma non penso che sia più pervertito di quanto lo sia Grachvogel. Devine? Non fatemi ridere. E quanto a Bishop, bene. Conosco Bishop. Cosa più importante, lo conoscono i ragazzi: loro lo amano, e credetemi, se ci fosse stato un qualsiasi accenno di comportamento sconveniente da parte sua, sarebbero stati i primi a fiutarlo. I ragazzi hanno un istinto per fatti del genere e, in una scuola come St Oswald, le voci si diffondono a una velocità epidemica. Dovete capire una cosa: ho insegnato accanto a Pat Bishop per trentatré anni, e se in queste accuse ci fosse stato un briciolo di verità, l'avrei saputo. I ragazzi me lo avrebbero detto. All'interno della Sala professori, però, la spaccatura prosegue. Molti colleghi non vogliono parlare affatto della questione, per timore di essere coinvolti nello scandalo. Alcuni (anche se non molti) disprezzano apertamente le accuse. Altri colgono l'opportunità per spargere sommesse maldicenze travestite da giudizio. Penny Nation è fra questi. Ricordo la sua descrizione nel taccuino di Keane - una buona Samaritana velenosa - e mi chiedo come ho fatto a lavorarle accanto per tanti anni senza accorgermi della sua assoluta cattiveria. «Un Preside dovrebbe essere come il primo ministro», stava dicendo oggi nella Sala professori, durante l'ora di pranzo. «Felicemente sposato, come Geoff e me», sorriso veloce al suo CAPITAINE, abbigliato in un completo gessato blu che si abbinava perfettamente al completo gonna e maglione di Penny. Nel risvolto della giacca aveva un pesciolino d'argento.
«In quel modo, non c'è una possibile causa di sospetto, no?» Penny ha continuato. «In ogni caso, se devi lavorare con i bambini», pronuncia la parola con una voce fuoricampo sciropposa, da Walt Disney, come se il solo pensiero dei bambini le facesse venir voglia di sciogliersi, «allora è necessario averne uno tutto tuo, no?» Ancora quel sorriso. Mi chiedo se vede suo marito al posto di Pat in un futuro non troppo lontano. Lui è abbastanza ambizioso, questo è certo: un devoto frequentatore della chiesa, un uomo tutto famiglia, un gentleman player, un veterano di molti corsi. Non è il solo a farsi delle idee. Anche Scoones si è accanito, con una certa sorpresa da parte mia, dato che ho sempre ritenuto Eric un tipo equanime malgrado il risentimento per la mancata promozione. Sembra che mi sia sbagliato: ad ascoltare le chiacchiere nella Sala professori questo pomeriggio, sono stato scioccato nel sentirlo schierarsi con le Nazioni contro Hillary Monument - il quale è sempre stato pro Pat e che, essendo alla fine della carriera, non ha nulla da perdere nel mantenere la propria posizione. «Dieci a uno che scopriremo che si tratta di un errore spaventoso», stava dicendo Monument. «Questi computer. Chi si fida di loro? Si rompono sempre. E quel... come lo chiamate? Spam. Ecco. Dieci a uno che il vecchio Pat si è preso qualche spam nel suo computer e non sapeva cosa fosse. Quanto a Grachvogel, non è nemmeno stato arrestato. Interrogato, ecco tutto. Per dare una mano alla polizia con l'inchiesta.» Eric ha emesso un grugnito per liquidare la cosa. «Vedrai», ha detto (lui che non usa mai i computer, non più di quanto li usi io) «Il problema è che ti fidi troppo. È quello che dicono tutti, non è vero, quando un tizio sale su un ponte dell'autostrada e spara a dieci persone, uccidendole. Sempre la solita solfa: "E dire che era così simpatico", non è vero? O un caposcout che ha sbavato sui ragazzini per anni "Ooh, e i bambini lo adoravano, sai, non l'hanno sospettato neanche per un minuto". Questo è il problema. Non ci pensa mai nessuno. A nessuno viene in mente che potrebbe succedere dietro casa propria. Oh, lui si comporta in modo leale, però questo è tipico, no? Ma che sappiamo veramente di lui? E se è per questo, che ne sappiamo di qualsiasi nostro collega?» Un'osservazione che mi ha turbato, e che da allora continua a turbarmi. Eric ha litigato con Pat per anni, ma ho sempre pensato, come per i miei battibecchi con il dott. Devine, che non ci fosse nulla di personale. È acrimonioso, certo. Un bravo insegnante, anche se un tantino all'antica, e avrebbe potuto essere un buon Coordinatore dell'anno, se avesse fatto qual-
che sforzo presso la direzione. Ma nel profondo sono sempre stato convinto che fosse sincero. Se avessi immaginato uno dei miei colleghi pugnalare alle spalle il povero Bishop, di sicuro non sarebbe stato Eric. Ora non ne sono più così certo: nella Sala professori aveva un'aria che mi diceva più di quanto avrei voluto sapere su Eric Scoones in tutta la mia vita. È sempre stato pettegolo, vero; ma mi ci sono voluti tutti questi anni per vedere la Schadenfreude gongolante negli occhi del mio vecchio amico. Mi dispiace. Ma aveva ragione. Che cosa sappiamo veramente dei nostri colleghi? Trentatré anni, e cosa sappiamo? Per me, la rivelazione spiacevole non è stata affatto su Pat, ma quella sugli altri. Scoones. Le Nazioni. Roach, terrorizzato che l'amicizia con Light e Grachvogel possa pregiudicare il suo caso con la polizia. Beard, che considera l'intera faccenda come un affronto personale al Dipartimento di informatica. Meek, il quale non fa altro che ripetere quello che gli dice Beard. Easy, al seguito della maggioranza. McDonaugh, il quale, all'intervallo, ha annunciato che soltanto un pervertito avrebbe potuto assegnare all'omosessuale Grachvogel un posto di insegnante. La cosa peggiore è che nessuno adesso osa pronunciarsi contro di loro: perfino Kitty, che si è sempre mostrata amichevole con Gerry Grachvogel e ha invitato Bishop a cena parecchie volte, a pranzo non ha detto nulla, ma si è limitata a guardare nella tazza di caffè con lieve ripugnanza, senza incrociare il mio sguardo. È stato un momento di cui avrei fatto a meno. Forse avete notato che sono piuttosto affezionato a Kitty Teague. Eppure mi sento sollevato nel vedere che in qualche caso, almeno, la sanità mentale regna ancora. Chris Keane e Dianne Dare sono fra i pochissimi a non essere contagiati. Si trovavano vicino alla finestra quando sono andato a prendere il tè, ancora infuriato contro i colleghi che avevano condannato Bishop così sommariamente, senza processo. «Penso che tutti abbiano il diritto di farsi ascoltare con imparzialità», mi ha detto Keane, dopo aver sentito per un po' le mie opinioni. «Non conosco bene Mr Bishop, ma devo dire che non mi dà certo l'impressione di essere quel tipo di persona.» «Sono d'accordo», è intervenuta Miss Dare. «E poi, i ragazzi sembrano sinceramente affezionati a lui.» «Lo sono», ho detto a voce alta, con uno sguardo di sfida alla maggioranza virtuosa. «Questo è un errore.» «Oppure una trappola», ha aggiunto Keane pensieroso.
«Una trappola?» «Perché no?» Ha alzato le spalle. «Qualcuno con un rancore. Un membro del personale scontento. Un ex alunno. Chiunque. L'unica cosa di cui avresti bisogno è accesso alla scuola, più un buon livello di conoscenze informatiche...» Computer. Sapevo che saremmo stati meglio senza. Ma le parole di Keane hanno toccato un nervo scoperto... In effetti, mi sono chiesto perché mai non ci avessi pensato da solo. Nulla danneggia più crudelmente una scuola di uno scandalo sessuale. Non era successo qualcosa di simile una volta a Sunnybank Park? Non l'avevo visto anch'io, ai tempi del Vecchio Rettore? Certo, i gusti di Shakeshafte, il dott. Bastone, non tendevano ai ragazzi, ma alle segretarie e alle insegnanti più giovani. È raro che queste vicende vadano oltre le chiacchiere: si risolvono fra adulti, e di solito non superano i cancelli. Ma adesso è diverso. I giornali hanno dichiarato aperta la stagione della caccia alla professione di insegnante. Le storie dei pedofili dominano la stampa popolare. Preside, caposcout, poliziotto, prete. Tutte prede consentite. «È possibile.» Questo era Meek, che aveva seguito la nostra conversazione. Non mi immaginavo che esprimesse un'opinione: fin qui aveva fatto poco tranne annuire in maniera energica ogni volta che Beard apriva bocca. «Suppongo che ci sia un sacco di gente risentita nei confronti di St Oswald», ha proseguito Meek con la sua vocina. «Fallow, per esempio. O Knight.» «Knight?» C'è stato silenzio. Sull'onda dello scandalo maggiore mi ero quasi dimenticato del mio giovane fuggitivo. «Knight non potrebbe essere responsabile di nulla di questo.» «Perché no?» ha detto Keane. «Corrisponde al tipo.» Oh sì. Corrispondeva eccome. Ho visto l'espressione di Eric Scoones rabbuiarsi: stava ascoltando e mi sono accorto dagli sguardi incuranti dei miei colleghi che anche loro stavano seguendo lo scambio. «E anche le password dei docenti non sono difficili da ottenere», ha aggiunto Meek. «Intendo dire: chiunque abbia accesso al pannello di controllo...» «Ma è ridicolo», ha replicato Mr Beard. «Quelle password sono assolutamente segrete.» «La sua è "Amanda"», ha detto Keane sorridendo. «Il nome di sua figlia. Quella di Mr Bishop è "Go-Johnny-Go" - non ci vuole una grande imma-
ginazione per un appassionato di rugby come lui. Quella di Gerry è probabilmente qualcosa da X-Files. "Mulder", forse, oppure "Scully"...» Miss Dare ha riso. «Dimmi», è intervenuta, «fai la spia di mestiere o è soltanto un hobby?» «Io faccio attenzione», ha risposto Keane. Ma Scoones non era ancora convinto. «Nessuno dei nostri ragazzi oserebbe», ha detto. «Soprattutto non quella mezza cartuccia.» «Perché no?» ha chiesto Keane. «Perché non lo farebbe proprio», ha risposto Scoones con disprezzo. «Ci vogliono le palle per mandare all'aria St Oswald.» «Oppure cervello», ha detto Keane. «Cosa? Mi sta dicendo davvero che non è mai accaduto prima?» 7. giovedì, 4 novembre Che seccatura. Proprio mentre stavo per occuparmi anche di Bishop. Per sentirmi meglio ho fatto un salto all'internet café in città, collegandomi all'indirizzo hot-mail di Knight (di sicuro la polizia a questo punto lo sta monitorando) e ho spedito qualche e-mail simpaticamente offensiva a membri selezionati del corpo insegnante di St Oswald. Il che mi è servito per sfogare parte della scocciatura; e, ci conto, servirà a mantenere la speranza che Knight sia ancora vivo. Dopo aver fatto rientro nel mio appartamento, ho inviato per e-mail un nuovo pezzo della Talpa all'«Examiner». Ho mandato un sms al cellulare di Devine da quello di Knight, dopodiché ho telefonato a Bishop, assumendo un'inflessione e camuffando la voce. A quel punto mi sentivo molto meglio - è buffo come sbrigare questioni tediose possa mettere di buon umore - e dopo aver ansimato un po' all'inizio, ho consegnato il mio messaggio avvelenato. Mi è parso che la sua voce fosse più velata del solito, come sotto l'effetto di farmaci. Certo, ormai era quasi mezzanotte, e forse dormiva. Quanto a me non ho bisogno di molto sonno, di solito tre o quattro ore sono più che sufficienti, e sogno di rado. Mi sorprendo sempre per il modo in cui altre persone crollano se non hanno dormito otto o dieci ore, e la maggior parte di loro sembra trascorrere metà della notte a sognare: sogni inutili, confusi che dopo vogliono sempre raccontare agli altri. Ho intuito che Bishop fosse un grande dormiglione, un sognatore colorito, un analizzatore freudiano.
Però non stanotte. Stanotte ho pensato che avesse altre cose per la testa. Ho telefonato di nuovo un'ora più tardi. Questa volta la voce di Bishop era spessa come quella di mio padre dopo una notte a far baldoria. «Che cosa vuole?» Il suo ruggito da toro, distorto dalla linea. «Sa che cosa vogliamo.» Quel plurale. Sempre d'aiuto quando si semina la paranoia. «Vogliamo giustizia. Vogliamo che tu sia sistemato, sporco pervertito.» A questo punto avrebbe dovuto riattaccare. Ma Bishop non è mai stato un pensatore veloce. Invece ha dato in escandescenze, arrabbiato; ha cercato di discutere. «Telefonate anonime? Non riesce a fare di meglio? Lasci che le dica qualcosa...» «No, Bishop. Lascia che siamo noi a dirtelo.» La mia voce telefonica è fievole, sottile, fende l'elettricità. «Sappiamo che cosa hai fatto. Sappiamo dove abiti. Ti prenderemo. È solo questione di tempo.» Clic. Nulla di complicato, vedete. Ma ha già funzionato a meraviglia con Grachvogel, che ora tiene sempre il telefono staccato. Questa notte, in effetti, ho fatto una visitina al posto dove vive, solo per assicurarmi. A un certo punto ho quasi avuto la certezza che ci fosse qualcuno che sbirciava attraverso le tende del salotto, ma avevo i guanti e il cappuccio, e sapevo che non avrebbe mai osato uscire di casa. Dopo, per la terza volta, ho telefonato a Bishop. «Ci stiamo avvicinando», ho annunciato con la voce sottile. «Chi è lei?» adesso allarmato, con una nuova nota stridula nel tono. «Che cosa vuole, per amor del cielo?» Clic. Poi a casa, e a letto, per le quattro ore successive. Questa volta ho sognato. 8. «Che succede, Pinchbeck?» Ventitré d'agosto: vigilia del mio tredicesimo compleanno. Eravamo di fronte alla saracinesca della scuola, un abbellimento pretenzioso del diciannovesimo secolo, che segna l'ingresso alla biblioteca e alla cappella. Era uno dei miei posti preferiti, uscito direttamente da un romanzo di Walter Scott, con lo stemma rosso e oro sopra il motto (un'aggiunta abbastanza recente, ma per i genitori che pagano le rette, un paio di parole in latino
valgono di più di qualsiasi discorso). Audere, agere, auferre. Leon mi sorrise, i capelli che gli penzolavano scomposti sugli occhi. «Ammettilo, Frocetto», disse in tono canzonatorio. «Sembra molto più alto da quaggiù, non è vero?» Scrollai le spalle. Per il momento il suo modo di prendermi in giro era abbastanza innocuo, ma potevo leggere i segnali. Se io cedevo, se mostravo anche il minimo fastidio per l'uso di quello stupido soprannome, lui avrebbe colpito con tutta la forza del suo sarcasmo e del suo disprezzo. «È molto in alto», ho risposto noncurante. «Ma ci sono già stato. È facile quando sai come.» «Davvero?» Vedevo che non mi credeva. «Allora fammi vedere.» Non volevo. I passe-partout di mio padre erano un segreto che non avevo voluto rivelare a nessuno, nemmeno (e forse soprattutto) a Leon. Però sentivo le chiavi, in fondo alla tasca dei jeans, che mi sfidavano a rivelarlo, a condividerlo, a superare quell'ultima linea proibita. Leon mi stava osservando come un gatto domestico incerto se giocare con il topo o mostrare il proprio coraggio. Ebbi l'improvviso, insopportabile ricordo di lui in giardino con Francesca, una mano posata con noncuranza su quella di lei, la pelle bronzea-verde nell'ombra marezzata. Non c'era da stupirsi che la amasse. Come potevo competere? Lei aveva condiviso qualcosa con lui, un segreto, un potere che non avrei nemmeno sperato di replicare. O forse sì, adesso. «Wow.» Gli occhi di Leon si spalancarono quando vide le chiavi. «Dove le hai beccate, quelle?» «Pizzicate», risposi. «Dalla scrivania di John Trippone, alla fine del trimestre.» Non riuscii a trattenere un sorriso vedendo la faccia del mio amico. «Le ho fatte copiare in quel posto delle chiavi durante l'ora di pranzo, poi le ho rimesse proprio dove le avevo trovate.» Questo era quasi tutto vero: l'avevo fatto esattamente dopo quell'ultimo disastro, mentre mio padre era steso, avvilito e ubriaco fradicio, in camera sua. «Certo che un bastardo lento non si fa mai beccare.» Ora Leon mi stava guardando con una nuova luce negli occhi. Era di ammirazione, ma la cosa mi metteva anche un pochino a disagio. «Bene, bene», disse infine. «E io che pensavo che tu fossi solo un altro stronzetto della media inferiore senza idee e senza coglioni. E non l'hai mai raccontato a nessuno?» Scossi la testa.
«Bene, bravo», disse piano Leon, e poco alla volta la sua faccia si illuminò con il più tenero, il più accattivante dei sorrisi. «Allora sarà il nostro segreto.» C'è qualcosa di fondamentalmente magico nello spartire i segreti. Lo sentii allora, nel mostrare a Leon il mio impero, malgrado la fitta di rimpianto che lo accompagnava. Gli anditi e le nicchie, i tetti nascosti e i sotterranei segreti di St Oswald non erano più miei. Ora appartenevano anche a Leon. Uscimmo da una finestra del corridoio superiore. Avevo già disattivato l'allarme nella nostra parte della scuola prima di chiudere bene la porta dietro di noi. Era tardi: almeno le undici, e le ronde di mio padre erano già finite da un pezzo. Nessuno sarebbe venuto a quest'ora. Nessuno avrebbe sospettato la nostra presenza. La finestra si affacciava sul tetto della biblioteca. Mi arrampicai con la facilità dell'abitudine; sorridendo, Leon mi seguì. Qui c'era una lieve pendenza di lastre di pietra, spesse, muschiose, che scendevano verso una grondaia profonda, ricoperta di piombo. Tutt'intorno a questa grondaia correva un passaggio, disegnato in modo tale che un Portiere potesse seguirlo con una scopa, togliere le foglie intasate e i detriti, anche se la paura del vuoto di mio padre garantiva che non ci aveva mai provato. Da quanto potevo vedere non aveva mai nemmeno controllato la piombatura, per cui le grondaie erano piene di fango e rottami. Guardai in su. La luna era quasi piena, magica contro un cielo violamarrone. Di tanto in tanto veniva macchiato da nuvolette, ma era ancora abbastanza luminoso per far risaltare ogni camino, ogni grondaia e tegola di inchiostro indaco. Dietro di me, sentii Leon fare un lungo respiro titubante. «Wow!» Guardai in basso: molto al di sotto di me riuscivo a vedere la portineria, tutta illuminata come una lanterna di Natale. Mio padre sarebbe stato lì, a guardare la TV, o magari a fare flessioni davanti allo specchio. Sembrava non gli importasse che stessi fuori fino a tardi la sera; era da mesi che non mi domandava dove avessi passato la serata e con chi. «Wow», ripeté Leon. Sorrisi, provando un orgoglio assoluto, come se avessi costruito il tutto da me. Afferrai una fune che avevo sistemato legandola alcuni mesi prima, e mi sollevai fin sul colmo. I camini torreggiavano come fossero dei re, le pesanti corone nere contro il cielo. Sopra i camini, le stelle.
«Su!» Camminai con passo traballante, le braccia aperte, avvolgendo la notte. Per un momento ebbi la sensazione di poter uscire nell'aria luccicante e volare. «Dai, su!» Leon mi seguì piano. La luce della luna ci rendeva uguali a fantasmi. La sua faccia era pallida e vacua, il volto stupito di un bambino. «Wow.» «E non è tutto.» Forte dal successo, lo condussi sul passaggio, un ampio sentiero inchiostrato dalle ombre. Gli tenevo la mano: non si oppose ma mi seguì, docile, un braccio teso su quello spazio da funambolo. Per due volte lo misi in guardia: una pietra sconnessa qui, una scala rotta là. «Ma da quanto tempo vieni in questo posto?» «Un po'.» «Gesù.» «Ti piace?» «O sì.» Dopo mezz'ora di salita fatta arrampicandoci e a carponi, ci fermammo a riposare sull'ampio parapetto piatto sopra il tetto della cappella. Le pesanti tegole di pietra trattenevano il calore del giorno, ed erano ancora tiepide. Ci sdraiammo sul parapetto, i doccioni ai nostri piedi. Leon fece spuntare un pacchetto di sigarette e ne dividemmo una, e intanto osservavamo la città distesa come una coperta di luci. «È stupefacente. Non riesco a crederci che tu non l'abbia mai detto.» «Te l'ho detto adesso, no?» «Hmm.» Stava disteso accanto a me, le mani sotto la testa. Un gomito toccava il mio: sentivo la sua pressione come un punto di calore. «Immagina fare del sesso quassù», disse. «Ci potresti stare tutta la notte, volendo, e nessuno lo verrebbe mai a sapere.» Pensai che il suo tono fosse di lieve rimprovero, immaginando notti con la bella Francesca all'ombra dei re dei tetti. «Credo.» Non volevo pensare a questo, a loro. La consapevolezza passò silenziosa fra noi come un treno espresso. La sua vicinanza era insopportabile: pizzicava come un'orticaria. Sentivo l'odore del suo sudore e della sigaretta, e quello un po' oleoso, muschiato dei capelli troppo lunghi. Stava fissando il cielo, gli occhi traboccanti di stelle.
Furtivamente tesi la mano: sentii la sua spalla in cinque punti di calore sui polpastrelli. Leon non reagì. Lentamente aprii la mano: la mano oltrepassò la sua manica, il braccio, il petto. Non stavo pensando: la mano sembrava separata dal corpo. «Ti manca? Francesca, voglio dire.» La voce mi tremava, e terminai la frase con un acuto involontario. Leon sorrise. Lui stesso aveva cambiato voce qualche mese prima, e gli piaceva stuzzicarmi sulla mia immaturità. «Uffa, Pinchbeck. Sei proprio un bambino.» «Stavo solo domandando.» «Un bambinetto.» «Taci, Leon.» «Pensavi che fosse roba seria? Luce della luna, idiozie, amore e romanticume? Gesù, Pinchbeck, come puoi essere così banale?» «Taci, Leon.» Mi bruciava la faccia: pensai a luce stellare, inverno, ghiaccio. Lui rise. «Scusa se ti disilludo, Frocetto.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire amore, dio santo. Lei è stata solo una scopata.» Questo mi colpì. «Non è vero.» Pensai a Francesca: ai suoi capelli lunghi, al corpo languido. Pensai a Leon e a tutto quello che avevo sacrificato per lui, per romanticismo, per l'angoscia e l'euforia di dividere la sua passione. «Sai che non è vero. E non chiamarmi Frocetto.» «Se no cosa?» Ora si sedette, gli occhi che brillavano. «Dai, Leon. Non fare lo scemo.» «Credevi che fosse la prima, vero?» Sorrise. «Ah, Pinchbeck. Cresci. Cominci a sembrare proprio come lei, sai. Voglio dire, guardati, te la prendi tanto per questa cosa, cercando di curarmi per il mio cuore spezzato, come se mi importasse molto di una ragazza...» «Ma tu hai detto...» «Ti stavo sfottendo, idiota. Non l'avevi capito?» Scossi la testa, l'aria assente. Leon mi diede un colpo al braccio, non senza affetto. «Frocetto, sei così romantico. E lei era abbastanza dolce, anche se era solo una ragazza. Ma non è stata la prima. Nemmeno la migliore che abbia avuto, per essere onesto. E di sicuro - di sicuro - non l'ultima.» «Non ti credo», dissi. «No? Ascoltami, ragazzo.» Ridendo, ora pieno di energia, i capelli sottili
sulle braccia schiarite e scurite d'argento dalla luce della luna. «Ti ho mai raccontato perché mi hanno sbattuto fuori dalla scuola dov'ero prima?» «No. Perché?» «Mi sono scopato un insegnante, Frocetto. Mr Weeks, applicazioni tecniche. A scuola, fuori orario. Un casino senza fine...» «No!» Adesso cominciai a ridere con lui per pura strafottenza. «Diceva che mi amava. Stupido sodomita. Mi scriveva lettere.» «No.» Occhi spalancati. «No!» «Nessuno ha dato la colpa a me. Corruzione, hanno detto. Ragazzo suscettibile, pervertito pericoloso. Identità non svelata per proteggere l'innocente. Al tempo è finito su tutti i giornali.» «Wow.» Nella mia mente non c'erano dubbi che dicesse la verità. Questo spiegava molte cose: la sua indifferenza, la sua precocità sessuale, la sua audacia. Dio, l'audacia. «Cosa è successo?» Leon alzò le spalle. «Pactum factum. Lo stronzo finì dentro. Sette anni. In realtà mi è dispiaciuto un po' per lui.» Sorrise indulgente. «Era un tipo discreto, Mr Weeks. Mi portava nei club e tutto quanto. Però brutto. Un panzone grasso. E vecchio, voglio dire, trent'anni...» «Dio, Leon!» «Sì, molto. Ma sai, non è che devi guardare. E lui mi ha dato della roba: soldi, CD, questo orologio che costa qualcosa come cinquecento sterline...» «No!» «In ogni modo mia madre si incazzò. Io ho dovuto fare una terapia e tutto quanto. Avrebbe potuto lasciarmi il segno, dice la mamma. Avrei potuto non riprendermi più.» «E come...» La testa mi girava per la notte e le sue rivelazioni. Inghiottii, la gola secca. «Come...» «Com'era?» Si girò verso di me, sorridendo, e mi attirò verso di lui. «Vuoi dire che vuoi sapere com'era?» Il tempo di colpo vacillò. Entusiasta com'ero delle storie di avventura, ne avevo lette molte sul fermarsi del tempo, come «per un istante il tempo si fermò mentre i cannibali avanzavano verso i ragazzi indifesi.» In questo caso, però, lo sentii distintamente vacillare, come un treno merci che si allontana in tutta fretta da una stazione. Una volta di più fui incoerente: le mani che si lanciavano e svolazzavano di qua e di là come uccelli, la bocca di Leon sulla mia, le sue mani sulle mie, intente e piacevoli sui miei vesti-
ti. Stava ancora ridendo: un ragazzo di luce e buio, un fantasma; e sotto di me sentivo il suo calore ruvido sulle tegole, la piacevole frizione della pelle contro il tessuto. Mi sentii vicino all'oblio, in preda all'eccitazione e al terrore, in preda all'orrore e delirante per una gioia irrazionale. Il mio senso del pericolo era evaporato: non ero nient'altro che pelle, ogni centimetro un milione di punti di sensazione impotente. Pensieri disordinati mi volteggiavano nella mente come lucciole. Non l'aveva mai amata. L'amore era banale. Non avrebbe mai potuto importargli tanto di una ragazza. Oh, Leon. Leon. Lui si levò la camicia, lottò con la mia cerniera; io continuavo a piangere e ridere e lui parlava e rideva: parole che udivo appena sopra il battito sismico del cuore. Poi cessò. Proprio così. Fermo immagine su di noi, nudi, mezzi nudi: io nella colonna d'ombra che correva accanto all'alto fumaiolo; lui alla luce della luna, una statua di ghiaccio. Yin e yang la mia faccia illuminata, la sua che si rabbuiava per la sorpresa, lo shock, la rabbia. «Leon...» «Gesù.» «Leon, mi spiace, avrei dovuto...» «Gesù!» Lui fece un balzo indietro, le mani tese in avanti, adesso, come se volesse allontanarmi. «Gesù, Pinchbeck...» Tempo. Il tempo vacillò. La sua faccia, segnata dall'odio e dal disgusto Le mani che mi respingevano verso l'oscurità. Dentro di me le parole combattevano come girini in un vaso troppo piccolo. Non uscì nulla. Persi l'equilibrio e caddi all'indietro contro il fumaiolo, senza parlare, senza piangere, senza nemmeno rabbia. Quella venne dopo. «Che schifo!» La voce di Leon esitante, incredula. «Tu... ma cosa ti viene in mente! Che bestia perversa sei?» Il disprezzo, l'odio in quella voce mi dissero tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Io lanciai un gemito ad alta voce: un lungo gemito disperato di amarezza e perdita, e poi mi misi a correre, le scarpe da ginnastica veloci e silenziose sulle tegole muschiose, sopra il parapetto e lungo il passaggio. Leon mi venne dietro, bestemmiando, pieno di rabbia. Ma non conosce-
va i tetti. Lo udii inseguirmi, molto più indietro, incespicare, muoversi rumorosamente senza fare attenzione sulle mattonelle. Le tegole precipitavano dietro di lui, esplodendo come mortai nella corte sottostante. Attraversando dal lato della cappella lui scivolò e cadde; un camino interruppe la caduta: l'impatto parve vibrare attraverso ogni grondaia, ogni mattone e conduttura. Afferrai un albero di sambuco, rami affusolati che sporgevano da un grata di scolo da tempo bloccata, e mi spinsi ancor più su. Dietro a me, Leon salì sempre a tentoni, borbottando oscenità. Corsi per istinto: non sarebbe servito cercare di ragionare con lui adesso. La rabbia di mio padre era proprio uguale; e nella mia mente avevo di nuovo nove anni, e schivavo l'arco mortale del suo pugno. Più tardi, forse, avrei potuto spiegare a Leon. Più tardi quando avesse avuto tempo di pensare. Per il momento, l'unica cosa era fuggire. Non sprecai tempo cercando di ritornare alla finestra della biblioteca. La torre campanaria era più vicina, con i suoi balconcini mezzi marci per i licheni e lo sterco di piccione. La torre campanaria era un altro vezzo di St Oswald: una struttura piccola, simile a una scatola, che, per quanto ne sapessi, non aveva mai ospitato una campana. Lungo un fianco una grondaia pendente portava a un troppopieno che riversava acqua piovana in un pozzo profondo tra gli edifici, pozzo che tanfava di piccioni. Sull'altro fianco la discesa era a picco: un piccolo parapetto era tutto ciò che mi separava dalla corte nord, a circa sessanta metri più sotto. Mi sporsi con cautela. Sapevo dai miei viaggi attraverso i tetti che l'aula di Straitley era proprio sotto di me, e che la finestra che affacciava sul suo balcone sgretolato non chiudeva bene. Camminai in bilico sul passaggio, cercando di calcolare la distanza dal punto in cui mi trovavo, poi feci un balzo leggero sul parapetto, quindi giù nel riparo del balconcino. La finestra, come avevo sperato, si aprì con facilità. Arrampicandomi ci passai attraverso, incurante del fermo rotto che mi scavava la schiena, e immediatamente l'allarme antifurto si mise a suonare, un sibilo alto, insopportabile che mi assordò e disorientò. In preda al panico, riuscii, contorcendomi, a rifare la strada che avevo percorso. Nella corte là sotto, le luci di sicurezza scattarono, e mi accucciai per sfuggire all'illuminazione violenta, bestemmiando impotente. Tutto andava male. Avevo disattivato l'allarme nell'ala della biblioteca, ma nel panico e nella confusione avevo dimenticato che l'allarme nella torre campanaria era ancora collegato; e ora la sirena stava urlando, urlando
come l'uccello d'oro nel Giardino incantato, non c'era modo che mio padre non se ne accorgesse e Leon era intrappolato... Mi issai sul balcone e saltai sul passaggio dall'altra parte, e saltando guardai in basso la corte illuminata. Due figure erano in piedi laggiù, a guardare in alto, le loro ombre gigantesche disposte a ventaglio come una mano di carte. Io mi defilai al riparo della torre campanaria, strisciai in avanti fino al bordo del tetto e diedi un'altra occhiata in basso. Pat Bishop mi stava osservando dal cortile, con mio padre al fianco. 9. «Là. Lassù.» Voci radiofoniche da una grande distanza. Avevo fatto un passo indietro, certo, ma Bishop aveva visto il movimento, la grossa testa rotonda contro il cielo luminoso. «Ragazzi sul tetto.» Ragazzi. Certo, aveva pensato a quello. «Quanti?» Questo era Bishop: allora più giovane, teso e in forma, solo un po' rosso in faccia. «Non so, signore. Direi almeno due.» Una volta di più osai gettare un'occhiata in basso. Mio padre stava ancora osservando, la faccia bianca voltata all'insù e cieca. Bishop si stava già muovendo in fretta. Era pesante, tutto muscoli. Mio padre lo seguiva a passo più lento, la grossa ombra raddoppiata e ingigantita dalle luci. Non mi diedi la pena di guardarlo oltre. Sapevo dove stavano dirigendosi. Mio padre aveva spento l'allarme antifurto. Il megafono era un'idea di Bishop: lo usava durante le Giornate di gare sportive e le esercitazioni antincendio, e rendeva la sua voce estremamente nasale e penetrante. «Ragazzi!» cominciò. «Fermi dove siete! Non cercate di scendere! I soccorsi stanno arrivando!» È così che Bishop parlava durante una crisi: come il personaggio di un film d'azione americano. Capivo che in quel ruolo si divertiva, il Preside fresco di nomina: uomo d'azione, mediatore, consigliere del mondo. In quindici anni non è quasi cambiato. Quel tipo particolare di arroganza, quella di chi si sente nel giusto, cambia di rado. Già allora pensava di sistemare le cose con un megafono e poche, semplici, parole. Era l'una e mezza: la luna era calata; il cielo, mai del tutto scuro in quella parte dell'anno, aveva preso la luminescenza di una trasparente purezza. Sopra di me, da qualche parte sul tetto della cappella, Leon aspettava: tranquillo, sicuro, teneva botta. Qualcuno aveva chiamato i vigili del fuo-
co: da lontano sentivo le sirene delle autopompe che avanzavano verso di noi precedute dai lampeggianti. Presto saremmo stati invasi. «Indicate la vostra posizione!» Di nuovo Bishop, che maneggiava il megafono con uno sventolio. «Ripeto, indicate la vostra posizione!» Ancora nulla da Leon. Mi domandai se fosse riuscito a trovare da solo la finestra della biblioteca; se fosse intrappolato o se stesse correndo silenzioso lungo i corridoi, cercando una via d'uscita. Da qualche parte sopra di me una tegola sbatacchiò. Poi ci fu un rumore di qualcosa che sdrucciolava - le sue scarpe da ginnastica contro la grondaia di piombo. E ora potevo vederlo anch'io - la testa appena sopra il parapetto della cappella. Mentre guardavo lui cominciò a muoversi - così adagio da risultare quasi impercettibile - sullo stretto passaggio che portava verso la torre campanaria. Una cosa sensata, pensai. Doveva sapere che l'opzione della finestra della biblioteca era ormai impossibile: quel tetto basso, pendente, correva accanto all'edificio della cappella, e se ci avesse provato sarebbe sbucato in piena luce. La torre campanaria era più alta, ma più sicura; lassù avrebbe potuto nascondersi. Io però, ero sul lato opposto: se lo avessi raggiunto dal punto in cui mi trovavo, da giù mi avrebbero visto subito. Decisi di fare il giro, di prendere la via più lunga attraverso il tetto della specola e di raggiungerlo nell'oscurità, dove ci saremmo nascosti. «Ragazzi! Ascoltate!» Era la voce di Bishop, amplificata a un punto tale che mi coprii le orecchie con le mani. «Non siete nei guai!» Mi girai per nascondere un sorriso nervoso: era così convincente che quasi convinceva sé stesso. «Restate solo fermi dove siete! Ripeto! Fermi dove siete!» Leon, naturalmente, non si lasciò ingannare. Il sistema, lo sapevamo, era fondato su queste insulsaggini. «Non siete nei guai!» Immaginai il sorriso di Leon a quella bugia perenne, e provai un improvviso dolore al cuore per non essere lì con lui a condividere il suo divertimento. Sarebbe stato così bello, pensai: Butch e Sundance imprigionati sul tetto; due ribelli che sfidavano le forze congiunte di St Oswald e della legge. Ma adesso... Allora mi venne in mente di avere più di una ragione per non desiderare che Leon venisse preso. La mia stessa posizione era tutt'altro che sicura: una parola, una sola traccia e la mia copertura era giocata per sempre. Impossibile aggirare l'ostacolo; dopodiché Pinchbeck avrebbe dovuto scomparire. Certo poteva, abbastanza facilmente. Solo Leon aveva sentore che fosse qualcosa di più di un fantasma, un falso, una cosa fatta di
stracci e imbottitura. All'epoca, però, avevo pochi timori per quanto riguardava me. Conoscevo il tetto meglio di chiunque altro, e finché non mi facevo vedere, potevo ancora sfuggire alla scoperta. Ma se Leon avesse parlato a mio padre, se tutti e due avessero collegato... Non era l'impostura che avrebbe provocato lo sdegno. Era la sfida. A St Oswald, al sistema, a tutto. Ora lo vedevo bene: l'inchiesta, i giornali della sera, il trafiletto sulla stampa nazionale. Avrei sopportato il castigo - avevo tredici anni, per amor del cielo, che cosa potevano farmi? - ma era il ridicolo quello che temevo. Il ridicolo e il disprezzo, e la consapevolezza che, malgrado tutto, St Oswald aveva vinto. Riuscivo appena a vedere mio padre, le spalle curve, che guardava in su verso il tetto. Percepivo il suo sgomento: non soltanto per l'attacco contro St Oswald, ma per il compito che ora lo attendeva. John Snyde non è mai stato veloce: ma era minuzioso, a modo suo, e nella sua mente non c'erano dubbi al proposito di ciò che avrebbe dovuto fare. «Dovrò inseguirli.» La voce, debole ma chiaramente udibile, mi raggiunse dalla corte più sotto. «Che cos'è quello?» Bishop, nell'ansia di fare la parte dell'uomo d'azione, aveva trascurato completamente la soluzione più semplice. I pompieri non erano ancora arrivati; la polizia, sempre sovraccarica di lavoro, non aveva nemmeno dato un'occhiata. «Dovrò andare lassù. È compito mio.» La voce era più forte, un Portiere di St Oswald deve essere forte. Me ne ricordavo dalle paternali di Bishop: Contiamo su di lei, John. St Oswald conta su di lei perché faccia il suo dovere. A colpo d'occhio, Bishop misurava la distanza. Vedevo che la calcolava, lo vedevo osservare le posizioni. Ragazzi sul tetto, uomo a terra, Portiere capo in mezzo. Avrebbe voluto salire lui stesso, certo che sì, ma se lasciava il suo posto, chi avrebbe brandito il megafono? Chi avrebbe trattato con la squadra d'emergenza? Chi avrebbe tenuto la situazione sotto controllo? «Non li spaventi. Non si avvicini troppo. Faccia attenzione, va bene? Tenga sotto tiro la scala antincendio. Salga sul tetto. Li porterò a terra.» Portare a terra. Ecco un'altra delle frasi di Bishop, con il tono dell'uomo d'azione. Lui, che non avrebbe desiderato niente di meglio che arrampicarsi sul tetto della cappella - se possibile riscendendo a corda doppia con un ragazzo privo di coscienza fra le braccia - non aveva alcuna idea dello sforzo sorprendente che ci volle a mio padre per acconsentire.
In realtà non avevo mai usato la scala antincendio. Preferivo i miei percorsi meno convenzionali: la finestra della biblioteca, la torre campanaria, il lucernario nello studio d'arte con la vetrata sul davanti, che sbucava su un sottile travetto di metallo che correva dalla palazzina delle belle arti fino alla specola. John Snyde non ne sapeva nulla, e anche se lo avesse saputo non li avrebbe usati. Pur avendo una statura modesta per la mia età, ero già troppo pesante per stare in equilibrio sul vetro, o afferrare l'edera per raggiungere il più stretto dei cornicioni. Sapevo che in tutti i suoi anni come Portiere di St Oswald, non si era mai avventurato neanche fino alla scala antincendio nel corridoio di mezzo, per non parlare del precario insieme di grondaie o superfici lastricate più oltre. Avrei scommesso che non lo avrebbe fatto adesso; o che se l'avesse fatto non sarebbe andato lontano. Guardai sulla distesa di tetti in direzione del corridoio di mezzo. Eccola, la scala antincendio, uno scheletro di dinosauro appeso sopra il baratro. Era in cattive condizioni, bolle di ruggine che scoppiavano attraverso la vernice spessa, ma sembrava abbastanza forte da sopportare il peso di un uomo. Avrebbe osato? mi domandai. E se sì, io cosa avrei fatto? Contemplai l'idea di arrampicarmi di nuovo verso la finestra della biblioteca, ma era troppo rischioso, troppo visibile da terra. Mi servii invece di un altro percorso, pencolando sul lungo travetto tra due grandi lucernari delle aule d'arte prima di arrampicarmi su per il tetto della specola e attraverso il fosso di scolo principale per tornare verso la cappella. Conoscevo almeno una dozzina di vie di fuga, avevo le mie chiavi, e conoscevo ogni armadio, ogni passaggio e scala di servizio. Leon e io: non ci avrebbero mai presi. Ma non riuscivo a trattenere l'eccitazione: mi sembrava quasi di vedere la nostra amicizia rinnovata, lo stupido litigio dimenticato di fronte a quest'avventura più grande... Ormai la scala antincendio era a distanza di sicurezza: eppure, per un minuto o due, sapevo che dalla corte mi avrebbero visto in pieno. Ma non correvo un grande rischio. Con la sagoma stagliata contro il cielo senza luna, c'erano scarse possibilità che qualcuno dal cortile più sotto mi riconoscesse. Quindi fuggii, le scarpe da ginnastica che facevano presa sulla pendenza muschiosa. Sotto di me, sentivo Bishop con il megafono, «Fermo dove sei! I soccorsi stanno arrivando!» ma sapevo che non mi aveva visto. Raggiunsi la colonna vertebrale del dinosauro, il dorso che dominava l'edificio
principale, e mi fermai a cavalcioni. Non c'era traccia di Leon. Immaginai che si stesse nascondendo sul lato più lontano della torre campanaria, dove c'era maggiore riparo, e dove, tenendo bassa la testa, non sarebbe stato visibile. In fretta, a quattro zampe, mi avventurai lungo la spina dorsale. Mentre passavo all'ombra della torre campanaria, mi guardai indietro, ma non c'era traccia di mio padre, né sulla scala antincendio, né sul passaggio. E non c'era traccia di Leon. Raggiunsi la torre campanaria, saltai il vuoto ormai familiare tra questa e il tetto della cappella, quindi dalla rassicurante bandiera d'ombra osservai il mio impero dei tetti. Osai chiamare a voce bassa. «Leon!» Nessuna risposta. La mia pallida voce si perdeva nella notte brumosa. «Leon!» Poi lo vidi, appiattito contro il parapetto cinque metri davanti a me, la testa allungata come un doccione verso la scena sottostante. «Leon!» Mi aveva sentito, lo sapevo, ma non si mosse. Cominciai ad arrampicarmi verso di lui, senza alzarmi in piedi. Poteva ancora funzionare: potevo mostrargli la finestra, condurlo verso un nascondiglio e poi portarlo fuori, non visto e insospettato, quando la via fosse stata libera. Avrei voluto dirglielo, ma mi chiedevo se avrebbe ascoltato. Avanzai ancora un po', sotto, lo sbadiglio assordante del megafono. Poi, luci improvvise straziarono il tetto di rosso e blu: per un secondo vidi l'ombra di Leon proiettarsi sul tetto, poi era di nuovo giù piatto, a bestemmiare. L'autopompa era arrivata. «Leon.» Ancora nulla. Leon sembrava cementato al parapetto. La voce del megafono era una confusione gigantesca di vocali che rotolavano verso di noi come massi. «Voi lassù! Non muovetevi! Fermi dove siete!» Sporsi la testa oltre il parapetto, visibile, lo sapevo, solo come un aggetto scuro tra tantissimi altri. Dal mio nido d'aquila vedevo la forma tozza di Pat Bishop, il lungo bagliore al neon dell'autopompa, le figure somiglianti a farfalle scure degli uomini che la circondavano. La faccia di Leon era priva di espressione, un fungo nell'oscurità. «Tu, piccola merda.» «Coraggio, amico», dissi, «c'è ancora tempo.» «Tempo per cosa? Una scopata veloce?»
«Leon, per favore. Non è come pensi.» «Ah no?» Cominciò a ridere. «Per favore, Leon. So un modo per uscire. Ma dobbiamo spicciarci. Mio padre sta arrivando...» Un lungo silenzio di tomba. Sotto, le voci, tutte confuse come il fumo di un falò. E sopra adesso, la torre campanaria con il balcone che ci sovrastava. Di fronte, il vano che separava la torre dal tetto della cappella: una cavità puzzolente, a forma di sifone, ricoperta di grondaie e nidi di piccione, che scendeva fino alla stretta gola tra gli edifici. «Tuo padre?» fece eco Leon. A quel punto un rumore dal tetto dietro di noi. Mi voltai e vidi un uomo sul passaggio, che ci bloccava la via di fuga. Dieci metri di tetto ci separavano; e sebbene il passaggio fosse ampio, l'uomo oscillava e barcollava come se fosse su una fune, i pugni serrati, la faccia rigida per la concentrazione mentre avanzava passo a passo per intercettarci. «State lì», disse. «Sto venendo a prendervi.» Era John Snyde. Non poteva vedere le nostre facce. Eravamo entrambi in ombra. Due fantasmi sul tetto, avremmo potuto farcela, lo sapevo. Il pozzo che separava la cappella dalla torre campanaria era profondo, ma la sua gola stretta, un metro e mezzo nel punto più largo. Avevo già fatto quel salto più volte di quante potessi ricordare, e anche al buio sapevo che il rischio era minimo. Mio padre non avrebbe mai osato. Avremmo potuto inerpicarci su per lo spiovente del tetto, procedere tenendoci in equilibrio sul cornicione della torre campanaria e saltare sul balcone, come avevo fatto prima. Da lì, conoscevo cento posti in cui nasconderci. Non pensai oltre. Nella mia mente eravamo ancora una volta Butch e Sundance, fermo immagine su quel momento, eroi per sempre. L'unica cosa da fare era saltare. Mi piace credere di aver esitato. Che le mie azioni fossero in qualche modo determinate dai pensieri, e non dal cieco istinto di un animale in fuga. Ma tutto quanto seguì esiste in una sorta di vuoto assoluto. Forse quello fu proprio il momento in cui cessai di sognare, forse in quell'istante feci tutti i sogni di cui probabilmente avevo bisogno, un addio ai sogni per il resto della vita. All'epoca però, parve come un risveglio. Risvegliarsi completamente,
dopo anni di sogni. I pensieri attraversavano la mente come meteoriti contro un cielo estivo. Leon, che rideva, la bocca sui miei capelli. Leon e io, a cavalcioni sul tosaerba. Leon e Francesca, che lui non aveva mai amato. St Oswald, e al poco, pochissimo che mi era mancato per vincere la partita. Il tempo si fermò. Ero in bilico nello spazio come una croce di stelle. Da una parte, Leon. Dall'altra, mio padre. Come ho detto, mi piace pensare di aver esitato. Poi guardai Leon. Leon ricambiò lo sguardo. Saltammo. REGINA 1. St Oswald's Grammar School for Boys Ricorda, ricorda il cinque novembre Polvere da sparo, tradimento e congiura. Eccola infine, in tutta la sua gloria fatale. L'anarchia è discesa su St Oswald, come un flagello: ragazzi assenti, lezioni interrotte, diversi miei colleghi estromessi da scuola. Devine è stato sospeso in attesa di ulteriori indagini (e ciò significa che sono di nuovo nel mio vecchio ufficio, anche se di rado una vittoria mi ha dato minor gioia), e così Grachvogel, e Light. Altri ancora vengono interrogati, compreso Robbie Roach, che sta facendo i nomi di colleghi a destra e a manca nella speranza di allontanare i sospetti. Bob Strange ha chiarito che la mia presenza è unicamente dovuta a un provvedimento di emergenza. Secondo Allen-Jones, la cui madre fa parte del consiglio di amministrazione, il mio futuro è stato discusso a lungo nell'ultima riunione del consiglio e il dott. Pooley, il cui figlio ho «assalito», avrebbe chiesto la mia sospensione immediata. Alla luce dei fatti recenti (la maggior parte dei quali avvenuti in assenza di Bishop), non c'era nessun altro a parlare in mia difesa, e così Bob ha insinuato che soltanto le circostanze eccezionali hanno rinviato questo corso degli eventi perfetta-
mente legittimo. Ho fatto giurare ad Allen-Jones di mantenere il segreto a proposito della questione, certo, il che significa che a questo punto lo saprà tutta la media superiore. E pensare che solo poche settimane fa eravamo preoccupati per un'ispezione scolastica. Ora siamo una scuola in crisi. La polizia è ancora qui, e non dà segni di volersene andare. Insegniamo nell'isolamento. Nessuno risponde ai telefoni. I cestini dei rifiuti rimangono pieni, i pavimenti non spazzati. Shuttleworth, il nuovo Portiere, non ha intenzione di lavorare a meno che la scuola gli trovi un alloggio alternativo. Bishop, che avrebbe dovuto occuparsi della faccenda, non è più nella posizione di farlo. Quanto ai ragazzi, anche loro hanno il sentore di un collasso imminente. Sutcliff si è presentato all'appello con un mucchio di petardi, provocando il caos che si può immaginare. Nel mondo di fuori, non c'è grande fiducia nella nostra capacità di sopravvivere a questa crisi. Una scuola si misura sempre in base all'ultima serie di risultati, e a meno che non si riesca a rimontare questo trimestre disastroso, ho poche speranze per i diplomi di quest'anno. Il mio gruppo di quinta di latino probabilmente ce la farà, dato che ha finito il programma l'anno scorso. Ma i Tedeschi hanno sofferto in modo terribile durante il trimestre, e i Francesi, che ora sono a corto di due insegnati - Tapi, che si rifiuta di tornare finché il suo caso non è stato risolto, e Pearman, ancora assente per un congedo concesso per gravi motivi di salute - hanno scarsa possibilità di recuperare il terreno perduto. Altri dipartimenti hanno problemi simili: in alcune materie interi moduli di programma d'esame non sono stati consegnati, e non c'è nessuno che se ne faccia carico. Il Rettore trascorre la maggior parte del tempo chiuso nel suo ufficio. Bob Strange ha assunto i compiti di Bishop, ma con successo limitato. Per fortuna Marlene è ancora qui, a dirigere le cose. Ora ha l'aria meno elegante, più manageriale, i capelli tirati indietro dalla faccia angolare in un pratico chignon. In questo periodo non ha tempo per spettegolare: trascorre quasi tutto il giorno a rispondere alle lamentele dei genitori e alle domande della stampa, che esige di sapere a che punto sono le indagini. Marlene, come sempre, se la cava bene. Certo, è più resistente degli altri. Non molla mai. Quando suo figlio è morto, suscitando una frattura con la sua famiglia che non si è mai rimarginata, le abbiamo dato un lavoro e una vocazione e, da allora, lei ha offerto a St Oswald tutta la sua fedeltà. Parte di questo è stata opera di Bishop. Il che spiega la devozione di
Marlene nei suoi confronti e il fatto che lei abbia scelto di lavorare proprio qui. Non deve essere stato facile. Ma non lo dà mai a vedere. In quindici anni, non è stata assente neanche un giorno. Per Pat. Per Pat, che l'ha rimessa in sesto. Ora lui è in ospedale, mi dice: ieri notte ha avuto un attacco, con ogni probabilità dovuto allo stress. È riuscito a guidare fino al pronto soccorso, poi si è accasciato nella sala d'attesa e da lì è stato trasferito per dei controlli nel reparto di cardiologia. «Ma è in buone mani. L'avesse visto la notte scorsa...» Marlene ha fatto una pausa, guardando severa in secondo piano, e, con una certa preoccupazione, mi sono reso conto che stava per scoppiare in lacrime. «Avrei dovuto rimanere», ha detto. «Ma non me lo ha permesso.» «Sì. Hmm.» Mi sono voltato, imbarazzato. Certo, da anni è quasi un segreto di pulcinella che Pat ha più di una relazione professionale con la sua segretaria. Alla maggior parte di noi non importava affatto. Marlene, però, ha sempre mantenuto la facciata, forse perché è tuttora convinta che uno scandalo danneggerebbe Pat. Ma il fatto che avesse alluso alla vicenda proprio adesso, dimostrava - seppure indirettamente - che le cose sono andate ben oltre. In una scuola come St Oswald nulla è insignificante; e ho provato un improvviso sobbalzo di pena per noi della vecchia guardia, saldi al proprio posto mentre il futuro marcia inesorabile contro di noi. «Se Pat se ne va, non rimarrò», ha detto infine, girando e rigirando l'anello di smeraldo intorno al medio. «Andrò a lavorare nello studio di un avvocato o qualcosa del genere. Se no, me ne andrò in pensione; e in ogni caso l'anno prossimo avrò sessant'anni...» Anche questa era una novità. Marlene ha quarantun anni da che mi ricordo. «Anch'io ho preso in considerazione l'opzione del pensionamento», ho detto. «Entro la fine dell'anno, avrò segnato la Centuria, cioè, a meno che il vecchio Strange ottenga ciò che vuole...» «Cosa? Quasimodo che se ne va dalla torre campanaria?» «Mah, non so, mi è venuto in mente.» Nelle ultime settimane, in effetti, ha fatto più che venirmi in mente. «È il mio compleanno, oggi», le ho detto. «Riesce a crederci? Sessantacinque anni.» Lei ha sorriso, con un po' di tristezza. Cara Marlene. «Dove sono finiti quei compleanni?» Con Pat via, Bob Strange ha diretto l'assemblea della media di stamattina. Non mi sembrava una buona idea: ma con tanta parte della direzione
assente o indisponibile, Bob ha deciso di assumersi il compito di riportare la nostra nave in acque più tranquille. Uno sbaglio, ho pensato al momento. Eppure, non c'è modo di discutere con certa gente. Sappiamo tutti che non è colpa di Strange se Pat è stato sospeso. Nessuno lo accusa di questo; ma ai ragazzi non piace la disinvoltura con cui è si è infilato al posto di Bishop. L'ufficio di Bishop, sempre aperto a chiunque avesse bisogno di lui, ora è chiuso. È stato installato un cicalino come quello sulla porta di Devine. Detenzioni e altri castighi vengono somministrati con freddezza ed efficienza da questo centro amministrativo, ma l'umanità e il calore che rendevano Pat Bishop così accettabile sono palesemente carenti in Strange. I ragazzi lo avvertono e ne risentono, e trovano modi sempre più ingegnosi per smascherare i suoi punti deboli in pubblico. Diversamente da Pat, il nostro Bob non è un uomo d'azione. Lo ha dimostrato una manciata di petardi lanciata sotto il palco della Aula Magna durante l'assemblea, con il risultato che la media ha trascorso metà mattina seduta in silenzio nell'Aula Magna mentre Bob aspettava che qualcuno confessasse. Con Pat Bishop, il colpevole avrebbe ammesso nel giro di cinque minuti ma, d'altronde, la maggior parte dei ragazzi desidera compiacerlo. Bob Strange, con i modi freddi e le tattiche da nazista da fumetto, è un bersaglio facile. «Signore? Quando ritorna Mr Bishop?» «Ho detto "In silenzio", Sutcliff, altrimenti se ne va ad aspettare fuori dall'ufficio del Rettore.» «Perché, signore? Lui lo sa?» Bob Strange, che non insegna in una media da più di un decennio, non ha idea di come cavarsela con un attacco così frontale. Non si rende conto che i suoi modi bruschi tradiscono insicurezza; che urlare serve solo a peggiorare le cose. Sarà anche un ottimo amministratore, ma nel campo della cura pastorale è indecente. «Sutcliff, è in detenzione.» «Sì, signore.» Io avrei diffidato del sorriso di Sutcliff; ma Strange non lo conosceva, e così ha continuato a scavarsi la fossa. «E ciò che più conta», ha detto, «se il ragazzo che ha lanciato quei petardi non si alza in piedi immediatamente, tutta la media sarà in detenzione per un mese.» Un mese? Era una minaccia impossibile. Come un miraggio, è discesa sull'Aula Magna, e un mormorio basso, lento si è propagato attraverso tutta
la media. «Conterò fino a dieci», ha annunciato Strange. «Uno. Due.» Un altro mormorio mentre Strange dimostrava il suo talento matematico. Sutcliff e Allen-Jones si sono guardati. «Tre. Quattro.» I ragazzi si sono alzati. Un momento di silenzio. Tutta la mia classe li ha seguiti. Per un secondo, Strange ha strabuzzato gli occhi. Era magnifico. L'intera 3S sull'attenti in una piccola falange serrata: Sutcliff, Tayler, Allen-Jones, Adamczyck, McNair, Brasenose, Pink, Jackson, Almond, Niu, AndertonPullitt. Tutti i miei ragazzi (tranne Knight, naturalmente). Poi la 3M (la classe di Monument) ha fatto lo stesso. Altri trenta ragazzi che si alzavano in piedi all'unisono, come soldati, guardando diritti in avanti senza una parola. Poi si è alzata la 3P (la classe di Pearman). Poi la 3KT (Teague). Alla fine, la 3R (Roach). Ora ogni ragazzo della media era in piedi. Non è stata pronunciata una parola. Nessuno si è mosso. Tutti gli occhi erano puntati addosso all'omino sulla pedana. Per un istante è rimasto immobile. Quindi si è girato e se ne è andato senza proferire verbo. Dopo questo episodio non aveva senso insegnare alcunché. I ragazzi avevano bisogno di parlare, così li ho lasciati fare, uscendo di tanto in tanto dall'aula per calmare la classe di Grachvogel lì accanto, dove una supplente di nome Mrs Cant stava passando un momento difficile per il mantenimento dell'ordine. Naturalmente, Bishop dominava la conversazione. Qui l'opinione non era divisa in due, nessun dubbio sull'innocenza di Pat. Tutti concordavano che l'accusa fosse assurda; che non sarebbe andata oltre il magistrato, che era stato tutto un terribile sbaglio. La cosa mi ha rallegrato: mi sono augurato che alcuni dei miei colleghi fossero altrettanto certi di questi ragazzi. Durante l'ora di pranzo me ne sono stato nella mia aula con un sandwich e un po' di compiti da correggere, evitando l'affollata Sala professori e i consueti agi del tè e del «Times». È un fatto che questa settimana tutti i giornali sono stati zeppi dello scandalo di St Oswald, e chiunque entri dai cancelli principali deve ora passare attraverso un fuoco di fila di stampa e fotografi.
La maggior parte di noi non si è abbassata a rilasciare commenti, anche se credo che Eric Scoones possa aver parlato con il «Mirror» mercoledì. Certo, il breve pezzo del giornale aveva un quid di Scoones, con il ritratto di una direzione negligente e le accuse velate di nepotismo fra i gradi più alti. Tuttavia, trovo impossibile credere che il mio vecchio amico possa essere l'iperbolica Talpa, la cui mescolanza di commedia, pettegolezzo e calunnia ha incantato i lettori dell'«Examiner» nelle ultime settimane. Eppure le sue parole mi hanno dato un preciso senso di déja vu: come se il loro autore fosse qualcuno di cui conoscevo lo stile, qualcuno di cui capivo - e condividevo - la vena comica sovversiva. Una volta di più, i miei pensieri sono tornati al giovane Keane. Un osservatore acuto, in ogni caso; e, credo, uno scrittore con un certo talento. Poteva essere lui, la Talpa? Mi sarebbe dispiaciuto. Accidenti, quell'uomo mi era simpatico; e ho pensato che le sue osservazioni nella Sala professori l'altro giorno mostravano sia intelligenza sia coraggio. No, non Keane, mi sono detto. Ma se non Keane, allora chi? Era un pensiero che mi ha tormentato per l'intero pomeriggio. Ho fatto lezione maluccio, ho perso la pazienza con un gruppo di allievi di quarta incapace di concentrarsi; ho dato detenzione a uno studente di sesta il cui unico crimine, ho dovuto ammettere più tardi fra me, era stato quello di segnalare un errore nel mio uso del congiuntivo nella traduzione in prosa. All'ottava ora avevo preso una decisione. Gliel'avrei chiesto direttamente, in modo aperto e onesto. Mi piace pensare di essere un buon giudice delle persone: se la Talpa era lui, di sicuro l'avrei saputo. Quando l'ho trovato, però, era nella Sala professori che chiacchierava con Miss Dare. Lei ha sorriso mentre entravo, e Keane ha fatto un ghigno. «Ho sentito dire che è il suo compleanno, Mr Straitley», ha detto lui. «Le abbiamo preso un dolce.» Era un pasticcino al cioccolato su un piattino, entrambi saccheggiati dalla mensa della scuola. Qualcuno gli aveva messo sopra una candela gialla e un allegro fronzolo d'argento intorno al bordo. Un post-it attaccato al piattino recava la scritta «Buon compleanno, Mr Straitley - 65 volte auguri!» Allora ho capito che la Talpa doveva aspettare. Miss Dare ha acceso la candela. I pochi membri della Sala professori che ancora indugiavano a quest'ora, Monument, McDonaugh e un paio di matricole, hanno battuto le mani. Era un metro della mia distrazione che sia quasi scoppiato in lacrime.
«Cribbio», ho brontolato. «Volevo che passasse sotto silenzio.» «E perché mai?» ha detto Miss Dare. «Ascolti, stasera Chris e io usciamo a bere qualcosa. Le piacerebbe venire? Andiamo a vedere il falò nel parco, a mangiare mele candite, ad accendere fuochi d'artificio...» Ha riso, e per lì per lì ho pensato a quanto fosse davvero carina, con i capelli neri e la faccia rosa da bambolina. Nonostante i miei precedenti sospetti riguardo alla Talpa, che al momento mi parevano del tutto fuori discussione, ero contento che lei e Keane andassero d'accordo. Conosco fin troppo bene l'influsso di St Oswald; di come pensi che ci sia tutto il tempo per incontrare una ragazza, sposarsi, avere dei bambini, forse, se lei li desidera; e poi all'improvviso scopri che tutto questo ti è passato oltre, non di un anno ma di un decennio o due, e ti rendi conto di non essere più un Giovane Killer ma una Giacca di Tweed, irrevocabilmente coniugata a St Oswald, la vecchia corazzata polverosa che in qualche modo ha inghiottito il tuo cuore. «Grazie per la proposta», ho detto. «Ma penso che resterò a casa.» «Allora esprima un desiderio», ha ribattuto Miss Dare accendendo la candela. «Questo posso farlo», ho risposto. 2. Caro vecchio Straitley. Nelle ultime settimane l'ho quasi amato, con il suo inguaribile ottimismo e i suoi modi idioti. Buffo, quanto quell'ottimismo possa essere contagioso: la sensazione che il passato si possa dimenticare (come l'ha dimenticato Bishop); che l'amarezza possa essere accantonata, e che il dovere (nei confronti della scuola, ovvio) possa essere una forza che motiva al pari (per esempio) dell'amore, dell'odio, della vendetta. Questa sera, dopo la scuola, ho spedito le mie ultime e-mail. Roach a Grachvogel, che li incriminava entrambi. Bishop a Devine, in tono di panico crescente. Knight a tutti, minaccioso, lacrimoso. E infine il coup de grace: al cellulare di Bishop e al suo PC (sicuramente a questo punto la polizia terrà sotto controllo anche quello); un ultimo, piagnucoloso, implorante messaggio di testo da parte di Colin Knight, inviato dal suo cellulare, che a tempo debito dovrebbe confermare il peggio. Nel complesso, un lavoro ben fatto, senza necessità di ulteriori interventi da parte mia. Cinque membri del corpo insegnante distrutti con una mossa elegante. Bishop, si sa, potrebbe crollare da un momento all'altro. Un colpo, forse; o un forte attacco di cuore, causato dallo stress e dalla certezza
che, qualunque sia il risultato dell'indagine della polizia, la sua era a St Oswald è finita. La domanda è: ho fatto abbastanza? Il fango ti rimane appiccicato addosso, dicono; e a maggior ragione in questa professione. In un certo senso, la polizia è superflua. Il minimo accenno a un comportamento sessuale scorretto è sufficiente per affondare una carriera. Il resto lo posso lasciare con fiducia a un pubblico che si nutre di sospetti, di invidia e dell'«Examiner». Ho già messo in movimento la palla: non mi sorprenderei affatto se qualcun altro la cogliesse al balzo nelle settimane a venire. I Sunnybanker, forse, la gente intrepida delle case di Abbey Road. Ci saranno incendi, magari attacchi, contro colleghi solitari; voci che si infiammano fino alla vergognosa certezza nei pub e club del centro città. Il bello è che da un certo punto non devo più agire direttamente. Una spintarella, e il domino comincia a crollare da solo. Rimarrò, certo, fin quando potrò. Metà del divertimento è stare qui a vedere mentre accade, anche se sono all'erta per ogni evenienza. Il danno a questo punto deve essere irreversibile. Un intero dipartimento in rovina, molti altri membri del personale coinvolti, un Preside con un marchio irreparabile. Allievi che se ne vanno, dodici questa settimana, un gocciolio che presto si trasformerà in piena. L'insegnamento trascurato, le condizioni di salute e sicurezza compromesse, oltre a un'ispezione imminente che non potrà far altro che chiudere la scuola. Gli amministratori, sento dire, hanno tenuto riunioni d'emergenza ogni sera durante l'ultima settimana. Il Rettore, certo non un mediatore, teme per il suo posto di lavoro; il dott. Ordine è preoccupato dal potenziale impatto sulle finanze della scuola, e Bob Strange riesce di nascosto a volgere tutto quello che dice il Rettore a proprio vantaggio, pur mantenendo un'apparenza di totale lealtà e correttezza. Sin qui (eccetto un paio di faux pas disciplinari), è riuscito a sobbarcarsi il lavoro di Bishop in modo abbastanza preciso. Può darsi che ne consegua una carica di direttore. Perché no? È intelligente (almeno quanto basta, per non apparire troppo intelligente al cospetto degli amministratori); competente, disinvolto nel parlare e mite al punto giusto per superare i severi test sulla personalità richiesti al personale docente di St Oswald. Nel complesso, un simpatico lavoretto di ingegneria antisociale. Me lo dico da me (perché nessun altro può farlo), ma davvero non posso che provare soddisfazione per come funzionano le cose. Resta ancora in sospeso una piccola faccenda, e intendo occuparmene stasera al Falò municipale.
Poi potrò permettermi di festeggiare, e io farò: c'è una bottiglia di champagne con sopra il nome di Straitley, e voglio aprirla stasera. Per il momento, non ho nulla da fare. Questa è la parte peggiore di una campagna del genere: i lunghi momenti d'attesa, carichi di tensione. Il falò comincia alle sette e mezza; entro le otto la pira sarà un fuoco di segnalazione: nel parco ci saranno migliaia di persone, musica che rimbomba dagli altoparlanti, urla dal parco divertimenti, e alle otto e mezza cominceranno i fuochi d'artificio, tutto fumo e stelle cadenti. Il luogo adatto per un delitto tranquillo, non credete? Il buio, la folla, la confusione. È così facile applicare in questo posto la legge di Poe - quella per cui l'oggetto nascosto in piena luce è quello che rimane invisibile più a lungo -, e poi basta andarsene via, lasciando che il corpo venga scoperto da una povera creatura sconcertata, oppure che sia io a scoprirlo con un grido di allarme, confidando sull'inevitabile folla che mi protegge. Un altro delitto me lo devo. Forse due. Conservo ancora le fotografie di Leon, un ritaglio ricavato dall'«Examiner», ora ingiallito come una foglia e macchiato dal tempo. Una foto scolastica, scattata quell'estate, la qualità è modesta, ingrandita per la prima pagina in una confusione granulosa di fitti puntini. Ma è sempre la sua faccia, il sorriso sghembo, i capelli troppo lunghi, e la cravatta tagliata. Il titolo affianca la foto: SCOLARO PRECIPITA E MUORE INTERROGATO IL PORTIERE Be', almeno, questa è la storia ufficiale. Siamo saltati, lui è caduto. Mentre con i piedi toccavo l'altro lato del camino l'ho sentito andare, un fievole rumore di tegole rotte e uno stridore di suole di gomma. Mi ci volle un po' per capire. Il piede era scivolato, forse l'esitazione di un istante, forse un grido dal basso aveva rovinato il suo salto. Guardai, e vidi che invece di atterrare in squadra accanto a me, Leon aveva colpito con il ginocchio lo spigolo del fosso di scolo; era scivolato lungo il fumaiolo viscido e, dopo essere rimbalzato ora si ritrovava intrappolato all'imbocco del baratro, aggrappato al bordo della grondaia con i polpastrelli, un acrobata con un piede teso che toccava il lato opposto del camino, l'altro che penzolava inerte nel vuoto. «Leon!»
Mi lanciai di sotto, ma non riuscii a raggiungerlo: ero dalla parte sbagliata del camino. Non osai saltare all'indietro per timore di spostare una tegola. Sapevo quanto fosse fragile la grondaia, quanto usurati e dentellati i suoi bordi. «Tieni duro!» gridai, e Leon sollevò lo sguardo verso di me, la faccia sconcertata per il terrore. «Resta lì, figliolo. Vengo a prenderti.» Alzai la testa. John Snyde era in piedi sul parapetto ad appena dieci metri. La sua faccia era di pietra; gli occhi dei buchi; l'intero corpo tremava. Ora avanzava adagio con movimenti a molla; emanava paura da ogni poro, un tanfo. Ma si stava muovendo. Centimetro dopo centimetro si fece più vicino, gli occhi serrati, quasi chiusi per il timor panico, e presto mi avrebbe visto, e volevo scappare, dovevo scappare, ma Leon era ancora laggiù, Leon era ancora intrappolato... Sotto di me sentivo un suono basso crepitante. Era la grondaia che cedeva: un pezzo si staccò e cadde nello spazio tra gli edifici. Ci fu un cigolio di gomma mentre la scarpa da ginnastica di Leon scivolava ancora di qualche centimetro giù per il muro sdrucciolevole. A mano a mano che mio padre si avvicinava, cominciai a indietreggiare sempre più all'ombra della torre campanaria. Le luci stroboscopiche dalle autopompe più sotto lampeggiarono, presto sul tetto ci sarebbe stata gente dappertutto. «Tieni duro, Leon», sussurrai. Poi, d'improvviso, sulla nuca, ebbi la netta sensazione di qualcuno che mi osservava. Girai la testa e vidi... Roy Straitley con la vecchia giacca di tweed, che stava alla finestra a meno di quattro metri sopra di me. La faccia dipinta di colori sgargianti per le luci, gli occhi sbigottiti, la bocca piegata all'ingiù in una maschera tragicomica. «Pinchbeck?» disse. E in quel secondo da sotto di noi provenne un rumore, il rumore cupo di una ruota dentata che si inceppa, di una moneta gigantesca incastrata nel tubo di un'aspirapolvere... Poi crac. Silenzio. La grondaia aveva ceduto. 3.
Allora mi misi a correre, con il suono della caduta di Leon alle calcagna come un cane nero. Qui la mia conoscenza del tetto diede prova di sé: avanzai a falcate, a mo' di scimmia, lungo il mio circuito sui tetti, balzai come un gatto dal parapetto sulla scala antincendio, da lì riguadagnai il corridoio di mezzo attraverso la porta antincendio spalancata, e poi fui di nuovo all'aperto. A quel punto correvo per istinto: tutto era sospeso, tranne il bisogno di sopravvivere. Fuori, le luci di emergenza mandavano ancora mistici lampi rossi e blu dalle autopompe parcheggiate nel cortile della cappella. Nessuno mi aveva visto abbandonare l'edificio. Ero in salvo. Tutt'attorno a me, pompieri e polizia facevano cordone intorno alla zona contro il gruppetto di guardoni che si era raccolto sul viale. Ero al sicuro, mi dissi. Nessuno mi aveva visto. Tranne, Straitley, certo. Ora cautamente, mi diressi alla portineria, evitando l'autopompa parcheggiata con il banco di luci rossoblu e l'ambulanza speranzosa che si faceva largo su per il lungo viale a sirene spiegate. Mi guidava l'istinto. Mi diressi a casa. Al sicuro. Lì, sotto il letto, con una coperta addosso, come avevo sempre fatto il sabato sera, la porta chiusa a chiave, pollice in bocca, ad aspettare che mio padre tornasse. Sotto il letto sarebbe stato buio, sarebbe stato sicuro. La portineria era spalancata. Una luce proveniva dalla finestra della cucina; le tende del soggiorno erano aperte, ma la luce proveniva anche da lì; e c'erano delle figure in piedi in controluce. Mr Bishop con il megafono. Due poliziotti si trovavano accanto alla loro auto che bloccava il viale. Adesso vedevo anche qualcun altro, una donna con un cappotto dal collo di pelliccia, una donna il cui viso nella luce, per un brevissimo istante, mi parve familiare... La donna si voltò del tutto verso di me, e la sua bocca si spalancò in un grande «Oh!» al rossetto. «Oh tesoro! Oh amore!» La donna, che correva verso di me su tacchi da gattina. Bishop, che si voltava, megafono in mano, mentre un grido si sollevava dai pompieri sul lato più lontano dell'edificio. «Mr Bishop, signore! Da questa parte!» La donna, capelli svolazzanti, occhi umidi, braccia aperte come una porta a battenti per accogliermi. La sensazione di rimpicciolirmi, un solletico di pelliccia sulla mia bocca, e all'improvviso ci furono le lacrime, lacrime
che traboccavano mentre tutto ritornava come un'onda di ricordi e dolore. Leon, Straitley, mio padre... tutto dimenticato; tutto ormai lontano, alle spalle mentre lei mi accoglieva in casa, verso la salvezza. «Non doveva essere così, amore mio.» Le tremava la voce. «Doveva essere una sorpresa.» In quel secondo capii tutto. Il biglietto aereo mai aperto. Le conversazioni sussurrate al telefono. Quanto? Pausa. È la cosa migliore. Quanto per cosa? Perché lui rinunciasse al suo diritto? E quanti gratta e vinci, quante confezioni da sei di birra e pizze takeaway gli avevano promesso prima che lui concedesse quello che volevano? Ricominciai a piangere, questa volta di rabbia per il loro tradimento congiunto. Mia madre mi abbracciava in un profumo costoso e poco familiare. «Oh, tesoro, Cos'è successo?» «Oh, mamma», singhiozzai, sprofondando la faccia nel cappotto di pelliccia, sentendo la sua bocca sui capelli, sentendo il fumo di sigaretta e il profumo secco muschiato mentre dentro qualcosa di piccolo e subdolo faceva scivolare la mano sul mio cuore e lo stringeva. 4. Malgrado l'ostinazione di Mrs Mitchell sul fatto che Leon non sarebbe mai salito da solo sul tetto, il miglior amico di suo figlio, il ragazzo che lei chiamava Julian Pinchbeck, non fu trovato. Si cercò negli archivi della scuola, vennero fatte indagini porta a porta, ma inutilmente. Perfino questo sforzo non sarebbe mai stato intrapreso, se Mr Straitley non avesse insistito dicendo di aver visto Pinchbeck sul tetto della cappella, anche se, purtroppo, il ragazzo era scappato via. La polizia fu molto comprensiva, dopo tutto la donna era sconvolta, ma di nascosto deve aver creduto che la povera Mrs Mitchell fosse un pochino svitata, nel parlare continuamente di ragazzi inesistenti e nel rifiutarsi di accettare la morte del figlio come un tragico incidente. La cosa sarebbe potuta cambiare se lei mi avesse rivisto, ma non mi vide. Tre settimane dopo andai a vivere con mia madre e Xavier nella loro casa di Parigi, dove avrei trascorso i sette anni successivi. A quel punto, però, la mia trasformazione era ben avviata. Il brutto anatroccolo aveva cominciato a trasformarsi, e con l'aiuto di mia madre accadde in fretta. Non opposi resistenza. Con Leon morto, Pinchbeck non
poteva sperare di sopravvivere. Mi disfai rapidamente dei vestiti di St Oswald e mi affidai a mia madre perché facesse il resto. Una seconda opportunità, l'aveva chiamata lei: e ora aprii i biglietti, le lettere, i pacchi che aspettavano nei loro graziosi involti sotto al letto, e adoperai tutto quanto vi trovai dentro. Non vidi mai più mio padre: l'indagine sulla sua condotta fu soltanto una formalità, ma si comportava in modo strano, e questo suscitò i sospetti della polizia. Non c'era una causa reale per sospettare una scorrettezza. Ma si dimostrò aggressivo durante gli interrogatori, un test con l'etilometro rivelò che aveva bevuto molto, e il suo racconto di quella notte fu vago e poco convincente, come se non ricordasse bene ciò che era accaduto. Roy Straitley, che confermava la sua presenza sulla scena della tragedia, aveva riferito di averlo sentito urlare, «Vengo a prenderti» a uno dei ragazzi. In seguito la polizia diede grande importanza alla cosa, e anche se Straitley sostenne sempre che John Snyde stava correndo per andare in aiuto del ragazzo caduto, dovette ammettere che al momento dell'incidente il Portiere gli dava le spalle, e che quindi non avrebbe potuto dire con sicurezza se l'uomo stesse cercando di soccorrerlo o meno. Dopotutto, disse la polizia, la fedina di Snyde non era affatto immacolata. Solo in quell'estate aveva ricevuto una reprimenda ufficiale per aver aggredito un alunno negli stabili di St Oswald, e il suo comportamento maleducato e il carattere violento erano ben noti dalle parti della scuola. Il dott. Tidy lo confermò, e Jimmy aggiunse qualche abbellimento di suo. Pat Bishop, che avrebbe potuto dare una mano, si mostrò stranamente riluttante a parlare in favore di mio padre. Questo fu dovuto in parte al Nuovo Rettore, il quale aveva messo in chiaro che il principale dovere di Pat era nei confronti di St Oswald e che prima si fosse risolto il fiasco Snyde, prima avrebbero superato l'intera faccenda. E poi, Bishop stava cominciando a sentirsi a disagio. La vicenda minacciava sia la sua nuova nomina sia la sua crescente amicizia con Marlene Mitchell. In fondo era stato lui ad aiutare John Snyde. In qualità di Preside l'aveva incoraggiato, aveva creduto in lui, lo aveva difeso, pur sapendo che John aveva un passato di violenze contro mia madre, contro di me e, almeno in un'occasione documentata, contro uno scolaro di St Oswald, la qual cosa rendeva ancor più plausibile che Snyde, pungolato fino al limite della sopportazione, avesse perso la testa e avesse dato la caccia a Leon Mitchell lungo i tetti fino a farlo morire. Non emerse alcuna prova reale a sostegno di quest'affermazione. Di si-
curo non da Roy Straitley, che si rifiutò. E poi, Snyde non soffriva forse di vertigini? Ma i giornali se ne impossessarono. Ci furono lettere anonime, telefonate, la consueta indignazione pubblica che si accumula intorno a ogni caso del genere. Non che sia stato un caso. John Snyde non venne mai accusato formalmente. Tuttavia si impiccò, in una stanza di un bed and breakfast in città, tre giorni prima che ci trasferissimo a Parigi. Già allora sapevo chi era responsabile. Non Bishop, anche se in parte era da biasimare. Non Straitley, non i giornali, e nemmeno il Rettore. Fu St Oswald a uccidere mio padre, come è certo che fu St Oswald a uccidere Leon. St Oswald, con la sua burocrazia, il suo orgoglio, la sua cecità, la sua arroganza. Li uccise e li smaltì senza pensarci, come una balena che succhia il plancton. Quindici anni dopo, nessuno si ricorda di loro. Sono solamente nomi sulla lista delle «Crisi cui St Oswald è sopravvissuta». Ma non questa volta. Questa volta la pagherà per tutte. 5. venerdì, 5 novembre 18.30 Dopo la scuola, sono passato dall'ospedale con dei fiori e un libro per Pat Bishop. Non che lui legga molto, anche se forse sarebbe meglio; e poi, come gli ho detto, dovrebbe prendersela con calma. Non lo stava facendo, è ovvio. Quando sono arrivato, l'ho trovato impegnato in una violenta discussione con la stessa infermiera dai capelli rosa che si era occupata del mio problema non tanto tempo prima. «Cristo, non un altro!» ha esclamato vedendomi. «Ditemi, l'intero corpo insegnante di St Oswald è strambo come voi due, oppure sono stata solo fortunata?» «Le dico che sto bene.» Non ne aveva l'aria. Aveva un colorito bluastro, e sembrava più piccolo, come se tutto quel correre avesse avuto un qualche effetto su di lui. Gli occhi sono cascati sui fiori che tenevo in mano. «Per amor del cielo, non sono ancora morto.» «Dalli a Marlene», ho suggerito. «Credo le farebbe bene tirarsi su.» «Potresti aver ragione.» Mi ha sorriso, e io, per un momento, ho scorto di nuovo il vecchio Bishop. «Portala a casa, lo farai Roy? Non vuole andarsene ed è esausta. Pensa che mi succederà qualcosa se si fa una bella notte di sonno.» Marlene, ho scoperto, era andata alla caffetteria dell'ospedale a prendere
una tazza di tè. E lì ho fatto una bella chiacchierata con lei, avendo estorto a Bishop la promessa che non avrebbe cercato di andarsene durante la mia assenza. Sembrava sorpresa di vedermi. Teneva in mano un fazzoletto spiegazzato, e la faccia, insolitamente priva di trucco, era rosa e chiazzata. «Mr Straitley! Non mi aspettavo...» «Marlene Mitchell», ho detto in modo intransigente. «Dopo quindici anni, penso sia giunto il momento che incominci a chiamarmi Roy.» Davanti a tazze in polistirolo di un tè che sapeva particolarmente di pesce, abbiamo parlato. È buffo come i colleghi, i quasi-amici che popolano le nostre vite in modo più intimo dei nostri parenti stretti, rimangano così nascosti a noi nei tratti essenziali. Quando pensiamo a loro, non li vediamo come persone con una famiglia e una vita privata, ma come ci appaiono ogni giorno: vestiti per andare al lavoro, seriosi (o no), efficienti (o no), tutti satelliti della stessa luna ingombrante. Un collega in jeans ha l'aria stranamente sbagliata; un collega in lacrime è quasi indecente. Quegli sguardi privati su qualcosa al di fuori di St Oswald, sembrano irreali, come sogni. La realtà è la pietra, la tradizione, la stabilità di St Oswald. I professori vanno e vengono. A volte muoiono. A volte anche i ragazzi muoiono; ma St Oswald resiste, e invecchiando, in questo ho trovato sempre maggiore consolazione. Marlene, avverto, è diversa. Forse perché è una donna: queste cose non hanno lo stesso significato per le donne, ho notato. Forse perché vede quello che St Oswald ha fatto a Pat. O forse a causa del figlio, che ancora mi perseguita. «Non dovresti essere qui», ha detto asciugandosi gli occhi. «Il Rettore ha detto a tutti...» «Al diavolo il Rettore. Siamo al di fuori dell'orario di lavoro, e posso fare quello che mi piace», le ho risposto usando per la prima volta in vita mia lo stesso tono di Robbie Roach. L'ha fatta ridere, però, ed era ciò che volevo. «Così va meglio», ho detto, ispezionando i fondi della mia bevanda ormai fredda. «Dimmi, Marlene, perché il tè dell'ospedale deve sempre sapere di pesce?» Ha sorriso. Sembra più giovane quando sorride - o forse era la mancanza di trucco - più giovane e non così wagneriana. «Gentile da parte tua essere venuto, Roy. Non l'ha fatto nessun altro, sai: né il Rettore, né Bob Strange.
Non uno dei suoi amici. Oh, è tutto molto riguardoso. Tutto molto St Oswald. Sono sicura che il senato è stato altrettanto riguardoso con Cesare quando gli hanno porto la cicuta.» Penso che intendesse Socrate, ma ho lasciato correre. «Sopravviverà», ho mentito. «Pat è tosto, e lo sanno tutti che quelle accuse sono ridicole. Vedrai, entro la fine dell'anno gli amministratori lo imploreranno di ritornare.» «Lo spero.» Ha bevuto un sorso del tè freddo. «Non permetterò che lo seppelliscano, come hanno seppellito Leon.» Era la prima volta in quindici anni che menzionava suo figlio in mia presenza. Un'altra barriera crollata: eppure me lo aspettavo; nelle ultime settimane ho avuto in mente quella vicenda più del solito e suppongo che fosse lo stesso per lei. Ci sono dei paralleli, certo: ospedali, uno scandalo, un ragazzo scomparso. Suo figlio non fu ucciso sul colpo dalla caduta, anche se non riprese mai conoscenza. Ci fu invece la lunga attesa al capezzale, il tormento prolungato della speranza, la processione dei fiduciosi e degli amici, ragazzi, famiglia, ragazza, insegnanti, prete, fino all'inevitabile conclusione. Non trovammo mai quel secondo ragazzo, e l'insistenza di Marlene che dovesse aver visto qualcosa fu sempre considerata il tentativo disperato di una madre isterica di dare un senso alla tragedia. Solo Bishop cercò di essere d'aiuto: controllando gli archivi della scuola e vagliando fotografie finché qualcuno (forse il Rettore) rilevò che la sua ostinazione nell'ingarbugliare la questione avrebbe quasi certamente danneggiato St Oswald. Non che abbia avuto importanza, alla fine, certo: ma Pat non fu mai soddisfatto del risultato. «Pinchbeck. Questo era il suo nome.» Come se avessi potuto dimenticare un nome falso - più falso di così. Ma con i nomi sono bravo, e mi ero ricordato il suo da quel giorno in corridoio, quando l'avevo trovato che si aggirava furtivo vicino al mio ufficio con una scusa improbabile. Anche Leon era lì in quel momento, ho pensato. E il ragazzo aveva detto che il suo nome era Pinchbeck. «Sì, Julian Pinchbeck.» Ha sorriso, non in modo ameno. «Nessun altro ha creduto a lui. Eccetto Pat. E te, certo, quando l'hai visto lì...» Mi sono chiesto se l'avevo visto davvero. Non dimentico mai un ragazzo, sapete: non mi è mai capitato in trentatré anni. Tutte quelle facce giovani, congelate nel tempo; tutti ragazzi convinti che il tempo farà eccezione soltanto per loro, che soltanto loro avranno sempre quattordici anni...
«L'ho visto», le ho detto. «O almeno, ho pensato di averlo visto.» Fumo e specchi, un ragazzo fantasma che si dissolse come le brume della notte quando venne il mattino. «Ero così sicuro...» «Lo eravamo tutti», disse Marlene. «Ma non c'era alcun Pinchbeck in nessuno dei registri della scuola o negli archivi delle foto, e nemmeno nella lista dei candidati. In ogni modo, a quel punto, era tutto finito. Nessuno se ne interessava. Mio figlio era morto. C'era una scuola da mandare avanti.» «Mi dispiace», ho detto. «Non è stata colpa tua. E poi...» si è alzata con una sveltezza improvvisa, da pura segretaria della scuola. «Dispiacersi non riporterà indietro Leon, no? Ora è Pat ad aver bisogno del mio aiuto.» «È un uomo fortunato», ho detto, e lo intendevo veramente. «Pensi che avrebbe obiezioni se ti invitassi fuori? Solo per bere qualcosa, naturale... ma è il mio compleanno, e hai l'aria di aver bisogno di qualcosa di un po' più sostanzioso del tè.» Mi piace pensare di non aver perso il tocco. Ci siamo accordati per un'ora, non di più, e abbiamo lasciato Pat con le istruzioni di starsene sdraiato a leggere il suo libro. Abbiamo camminato per il chilometro o giù di lì fino a casa mia; era ormai buio, e la notte aveva già odore di polvere da sparo. Qualche fuoco d'artificio anticipato esplodeva sopra le case di Abbey Road, l'aria era brumosa e sorprendentemente mite. A casa c'erano pan di zenzero e vin brulé; ho acceso il fuoco nel salottino e ho tirato fuori le due tazze non scompagnate. Era caldo e confortevole, alla luce del fuoco le vecchie poltrone sembravano meno trasandate del solito, e il tappeto meno sfilacciato; e intorno a noi, su ogni parete, i miei ragazzi perduti guardavano con l'ottimismo sorridente di chi sarà giovane per sempre. «Così tanti ragazzi», ha mormorato Marlene. «La mia galleria di fantasmi», ho detto, poi, vedendo la sua faccia: «Mi spiace, Marlene. Una frase importuna.» «Non preoccuparti», ha risposto sorridendo. «Non sono sensibile come una volta. Ecco perché ho accettato questo lavoro, sai. Certo, a quei tempi pensavo che ci fosse una cospirazione per nascondere la verità, e che un giorno l'avrei visto davvero, a camminare lungo un corridoio con la sacca da ginnastica, con gli occhialini che gli scivolavano dal naso... Ma non è successo. L'ho lasciato andare. E se Mr Keane non ne avesse parlato di nuovo, dopo tutti questi anni...»
«Mr Keane?» ho chiesto. «Oh sì. Ne abbiamo discusso. È molto interessato alla storia della scuola, sai. Penso che abbia in mente di scrivere un libro.» Ho annuito. «Sapevo che se ne stava interessando. Aveva appunti, fotografie...» «Intendi questa?» Marlene ha estratto una piccola foto dal portafogli, chiaramente ritagliata da una fotografia della scuola. L'ho riconosciuta subito: nel taccuino di Keane era una riproduzione mediocre, appena visibile, su cui lui aveva segnato un circoletto intorno a una faccia con la matita rossa. Ma questa volta anch'io ho riconosciuto il ragazzo: quella piccola faccia pallida, occhialuta da gufo, da orsetto lavatore, il berretto della scuola calato sulla lunga frangia. «È Pinchbeck?» Lei ha annuito. «Non è il ritratto migliore, ma lo riconoscerei ovunque. E poi, ho riguardato quella foto migliaia di volte, abbinando i nomi alle facce. Tutti sono elencati Tutti tranne lui. Chiunque fosse, Roy, non era uno dei nostri. Ma era lì. Perché?» Una volta di più, quella sensazione di déja vu, la sensazione di qualcosa che, non del tutto facilmente, si sistemava nella casella giusta. Ma era una sensazione debole. E c'era un non so che nella piccola faccia immatura che mi turbava. Qualcosa di familiare. «Perché all'epoca non hai mostrato la foto alla polizia?» ho domandato. «Era troppo tardi.» Marlene ha scrollato le spalle. «John Snyde era morto.» «Ma il ragazzo era un testimone.» «Roy, avevo un lavoro. C'era Pat a cui pensare. Era finita.» Finita? Forse lo era. Ma una parte di quell'affare sciagurato aveva sempre dato la sensazione di essere irrisolta. Non so da dove fosse venuta la connessione, perché fosse ritornata in mente dopo così tanti anni, ma ora era lì, e non mi dava pace. «Pinchbeck.» Il dizionario dà questo significato «(di gioielleria): vistosa, pacchiana, contraffatta. Un falso.» «E se non è un nome inventato questo...» Lei ha annuito di nuovo. «Lo so. Mi fa ancora un effetto strano, pensarlo con l'uniforme di St Oswald, a camminare per i corridoi con gli altri ragazzi, a parlare con loro, perfino a farsi fotografare con loro, per amor del cielo. Non posso credere che nessuno se ne sia accorto...»
Io sì. In fondo, perché avrebbero dovuto? Un migliaio di ragazzi, tutti in uniforme: chi avrebbe sospettato che fosse un intruso? E poi era ridicolo. Perché un ragazzo avrebbe dovuto tentare un'impostura simile? «La sfida», ho detto. «Solo per il brivido di farlo. Per vedere se si poteva fare.» Certo, oggi avrebbe quindici anni di più. Ventotto o giù di lì. Sarebbe cresciuto, certo. Ora sarebbe alto, ben messo. Forse porterebbe le lenti a contatto. Era possibile, no? Era davvero possibile? Ho scosso la testa impotente. Fino a quel momento non mi ero reso conto di quanta speranza avevo riposto su Knight, e solo Knight, come responsabile del guaio recente che ci ha afflitti. Knight era il colpevole, il mittente delle e-mail, il navigatore cattivo (se la parola è questa) delle porcherie via internet. Knight aveva accusato Bishop e gli altri; Knight aveva dato fuoco alla portineria; mi ero anche mezzo convinto che Knight fosse dietro agli articoli firmati Talpa. Ora vedevo i pericolosi inganni per ciò che erano. Questi crimini contro St Oswald si spingevano ben oltre la semplice monelleria. Nessun ragazzo avrebbe potuto commetterli. Questa persona interna alla scuola, chiunque fosse, era pronta a condurre il gioco fino all'estremo. Ho pensato a Grachvogel, che nasconde la propria omosessualità. Ho pensato a Tapi, chiusa nella torre campanaria. A Jimmy (come Snyde), che è stato accusato. A Fallow, il cui segreto è stato smascherato. A Pearman e Kitty, idem. A Knight, Anderton-Pullitt, ai graffiti, alla portineria, ai furti, alla penna Mont Blanc, agli atti di dissesto circoscritti e al gran finale dei fuochi d'artificio - Bishop, Devine, Light, Grachvogel e Roach - sparati uno dopo l'altro come razzi nel cielo fiammeggiante. E una volta di più ho pensato a Chris Keane, con la faccia intelligente e la frangia scura; e a Julian Pinchbeck, il ragazzo pallido che a dodici o tredici anni aveva già osato un'impostura così sfacciata che per quindici anni nessuno l'aveva creduta possibile. Keane poteva essere Pinchbeck? Keane, per tutti gli dèi? Era un sorprendente salto logico o un'intuizione; eppure, capivo come poteva averlo fatto. St Oswald ha una politica alquanto stravagante sulle domande di lavoro, basata sulle impressioni personali piuttosto che su referenze documentate. Era per l'appunto concepibile che qualcuno, qualcuno d'intelligente, fosse in grado di introdursi di nascosto nella rete di con-
trolli che esiste per filtrare gli indesiderabili (nel settore privato, ovvio, i controlli della polizia non sono richiesti). E poi, il semplice pensiero di una simile impostura per noi è incomprensibile. Siamo come le guardie di un avamposto non ostile, con uniformi da opera buffa e modi stupidi di camminare, che cadono a dozzine sotto l'inaspettato fuoco dei cecchini. Non ci siamo mai attesi un attacco. Questo era il nostro sbaglio. E adesso qualcuno ci stava levando di mezzo come mosche. «Keane?» ha chiesto Marlene, proprio come avrei fatto io se le nostre posizioni fossero state invertite. «Quel giovane simpatico?» In poche parole, l'ho aggiornata sul giovane simpatico. Il taccuino. Le password dei computer. E, in ogni momento, la sottile aria di scherno, di arroganza, come se l'insegnamento fosse soltanto un gioco divertente. «Ma che dici di Knight?» ha chiesto Marlene. Ci avevo pensato. Il caso contro Bishop era costruito su Knight: i messaggi dal telefono di Knight al suo; mantenere l'illusione che Knight fosse scappato, forse per paura di ulteriori maltrattamenti... Ma se Knight non era il colpevole, allora dov'era? Ho riflettuto. Senza le chiamate dal telefono di Knight, senza l'incidente alla portineria e i messaggi dal suo indirizzo e-mail, che cosa avremmo presunto e temuto? «Io penso che Knight sia morto», le ho detto accigliato. «È l'unica conclusione che abbia un senso.» «Ma perché uccidere Knight?» «Per alzare la posta», ho risposto adagio. «Per assicurarsi che Pat e gli altri fossero implicati seriamente.» Marlene mi ha fissato, pallida come un cencio «Non Keane», ha detto. «Sembra così adorabile. Ti ha addirittura preso un dolce...» Numi! Il dolce. Fino a quel momento me ne ero completamente dimenticato. Così come avevo dimenticato l'invito di Dianne a vedere i fuochi d'artificio, a bere, a festeggiare... Qualcosa aveva messo in guardia Keane contro di lei? Lei aveva letto il suo taccuino? Si era lasciata sfuggire qualcosa? Ho pensato ai suoi occhi, scintillanti di divertimento nella vivida faccia giovane. Ho pensato a lei che diceva, con quella voce ironica: «Dimmi, fai la spia di mestiere o è soltanto un hobby?» Mi sono alzato troppo in fretta, e ho sentito il dito invisibile premere sul
petto, in modo insistente, come per avvisarmi di rimettermi a sedere. L'ho ignorato. «Marlene», ho detto. «Dobbiamo andare. Veloci. Al parco.» «Perché lì?» ha domandato. «Perché è lì che si trova», ho risposto, afferrando il cappotto e gettandolo sulle spalle. «Ed è con Dianne Dare.» 6. venerdì, 5 novembre 19.30 Ho un appuntamento galante. Eccitante, no? Il primo da anni, in realtà, malgrado le ambiziose speranze di mia madre e l'ottimismo della mia analista. Non ho mai provato un grande interesse per il sesso opposto. Perfino adesso, quando ci penso, la prima cosa che mi viene in mente è Leon che grida: «Che schifo! Che bestia perversa!» e il rumore che fece quando cadde dal camino. Naturalmente questo a loro non lo dico. Li diverto invece con racconti su mio padre, delle sberle che mi dava e della sua crudeltà. Soddisfa la mia analista, e ora quasi ci credo anch'io e dimentico Leon mentre saltava dal canale di scolo, la faccia immortalata nel consolatorio seppia del passato remoto. Non è stata colpa tua. Quante volte durante i giorni che seguirono ho sentito quelle parole? Avevo freddo dentro, le notti erano rigide, tormentate per il dolore e la paura che mi scoprissero. Credo che per un po' di tempo io abbia davvero perso la testa; e mi lanciai nella mia trasformazione con uno zelo disperato, lavorando in modo costante (con l'aiuto di mia madre) per sradicare ogni traccia del Pinchbeck che fu. Certo, adesso tutto questo è finito. La colpa, come dice la mia analista, è la risposta naturale della vera vittima. Ho lavorato sodo per sradicare quella colpa, e penso che fin qui me la sono cavata piuttosto bene. La terapia sta funzionando. Naturalmente non ho in mente di raccontarle l'esatta natura di questa mia terapia; ma penso che sarà d'accordo con me: il mio complesso di colpa è quasi del tutto curato. Ancora un lavoro da fare, dunque, prima della catarsi finale. Ancora un'occhiata allo specchio prima del mio appuntamento al falò. Bell'aspetto, Snyde. Bell'aspetto. 7.
venerdì, 5 novembre 19.30 Di solito ci vogliono quindici minuti per andare a piedi da casa mia fino al parco comunale. Ne abbiamo impiegati cinque, il dito invisibile che mi incitava. Era scesa la foschia, una corona spessa avvolgeva la luna, e i fuochi di artificio che di tanto in tanto scoppiettavano sopra di noi illuminavano il cielo come fulmini. «Che ore sono?» «Le sette e mezza. Accenderanno il falò da un momento all'altro.» Mi sono affrettato, rasentando un gruppo di bambini piccoli che trascinavano un fantoccio su un carrello. «Una sterlina per il fantoccio, messere?» Ai miei tempi, erano spiccioli. Ci siamo affrettati, Marlene e io, in mezzo a una notte densa di fumo e striata di faville. Una notte magica, luccicante come quelle della mia infanzia e profumata dal crepuscolo delle foglie d'autunno. «Non sono sicura che dovremmo farlo.» Questa era Marlene, giudiziosa come sempre. «Non dovrebbe essere la polizia a occuparsi di questo genere di cose?» «Pensi che ci darebbero retta?» «Forse no. Però penso che...» «Ascolta, Marlene. Voglio solo vederlo. Parlargli. Se ho ragione, e Pinchbeck è Keane...» «Non riesco a crederci.» «Ma se è così, allora Miss Dare potrebbe essere in pericolo.» «Se è così, vecchio allocco, allora tu potresti essere in pericolo.» «Ah.» In effetti non mi era passato per la mente. «Ci sarà la polizia al cancello», ha detto lei ragionevole. «Scambierò due paroline con chiunque sia al comando mentre tu vedi se riesci a trovare Dianne.» Ha sorriso. «E se ti sbagli, cosa di cui sono sicura, possiamo festeggiare la Notte del Falò insieme. Va bene?» Abbiamo accelerato il passo. Abbiamo visto il bagliore dalla strada poco prima di raggiungere i cancelli del parco. Una folla si era già radunata laggiù; addetti piazzati a ogni ingresso per distribuire biglietti, e oltre i cancelli c'era altra gente, migliaia di persone, una massa ispida di teste e facce.
Dietro, il falò era già acceso; presto ci sarebbe stata una torre di fiamma che svettava nel cielo. Un fantoccio, appollaiato su una poltrona rovinata a metà della pila, sembrava dominare la scena come il dio del caos. «Qui non li troverai mai», ha detto Marlene vedendo la folla. «È troppo buio, e guarda tutta questa gente...» Verissimo, al falò di questa sera c'era perfino più gente di quanta avessi immaginato. Famiglie, soprattutto: uomini che portavano bambini sulle spalle, adolescenti in maschera, ragazzotti con antenne da alieno, che sventolavano bacchette di neon e mangiavano zucchero filato. Dietro al falò c'era il luna park, con i baracconi dei giochi: 3 palle 20 penny, Tiro a segno, Pesca la papera, la Torre della paura, giostre e la Ruota della morte. «Li troverò», ho detto. «Tu fai solo la tua parte.» Sul lato opposto della spianata, quasi invisibile nella foschia incombente, lo spettacolo di fuochi d'artificio stava per cominciare. Un cordone di bambini circondava la zona; sotto i piedi, l'erba era solcata di fango. Tutt'intorno a me, un cocktail di rumore di folla, diversi generi di musica dal parco divertimenti e, alle nostre spalle, il pandemonio rosso del fuoco mentre le fiamme saettavano e i bancali accatastati esplodevano per il calore, uno alla volta. E adesso era cominciato. C'è stato un improvviso suono disseminato di applausi seguito da un «Whoooo!» da parte della folla mentre una doppia manciata di razzi fioriva e scoppiava, illuminando la bruma con un'improvvisa vampata lampeggiante di rosso e blu. Sono andato avanti, scrutando le facce ora illuminate da colori al neon; i piedi avanzavano a fatica nel fango, avevo la gola riarsa dalla polvere da sparo e dall'attesa. Era surreale: il cielo era in fiamme, le facce alla luce del fuoco sembravano demoni del Rinascimento che si agitavano brandendo forconi. Keane si trovava fra loro, da qualche parte. Ma anche quella certezza aveva cominciato a svanire, rimpiazzata da un'insicurezza sconosciuta. Ho pensato a me che inseguivo i Sunnybanker, le vecchie gambe che cedevano mentre i ragazzi scappavano sbeffeggianti oltre lo steccato. Ho pensato a Pooley e ai suoi amici, e al collasso che avevo avuto nel corridoio inferiore, fuori dall'ufficio del Rettore. Ho pensato a Pat Bishop che diceva «stai rallentando», e al giovane Bevans, non più così giovane, immagino, e alla lieve ma costante pressione interna del dito invisibile. «A sessantacinque anni», mi sono detto, «per quanto ancora posso pensare di reggere questa finzione?» La mia Centuria non mi era mai parsa più lontana, e più in là non vedevo nulla se non il buio.
Dieci minuti, e ho capito che era senza speranza. Cercare di trovare chiunque in questo caos era come cercare di svuotare una vasca da bagno con un cucchiaio. Con la coda dell'occhio riuscivo a vedere appena Marlene, a circa un centinaio di metri, che parlava con fervore a un giovane poliziotto dall'aspetto turbato. Il Falò municipale è una brutta notte per la polizia locale. Risse, incidenti e furti sono comuni; al riparo dell'oscurità e della folla dei giorni di festa quasi tutto è possibile. Ciononostante, sembrava che Marlene stesse facendo del suo meglio. Mentre guardavo, il giovane poliziotto ha parlato nel suo walkie talkie; poi una parte di folla si è inserita fra i due, nascondendoli entrambi alla vista. A questo punto cominciavo a sentirmi piuttosto strano. Il fuoco, forse, oppure l'effetto ritardato del vin brulé. In ogni caso ero contento di allontanarmi dal calore per un po'. Vicino agli alberi faceva più fresco e buio, c'era meno rumore, e il dito invisibile sembrava propenso a spostarsi, lasciandomi un po' senza fiato, ma per il resto stavo bene. La foschia era scesa ancora più in basso, resa stranamente luminosa dai fuochi d'artificio, come l'interno di una lanterna cinese. Attraverso di essa, ora quasi ogni uomo giovane pareva Keane. In ogni occasione, tuttavia, si rivelava essere qualcun altro, con la faccia sveglia e una frangia scura, che mi lanciava occhiate strane prima di ritornare dalla moglie (ragazza, bambino). Eppure ero sicuro che si trovasse lì. L'istinto, forse, di chi ha trascorso gli ultimi trentatré anni a controllare le porte in cerca di bombe di farina e i piani dei banchi a caccia di graffiti. Era qui da qualche parte. Lo sentivo. In capo a trenta minuti, i fuochi d'artificio erano quasi terminati. Come sempre avevano tenuto i migliori fino all'ultimo, un mazzo di razzi e fontane e girandole che dalla nebbia fittissima creavano una notte stellata. È discesa una tenda di luce brillante che per un attimo mi ha quasi accecato, costringendomi a farmi largo a tentoni attraverso la massa di gente. La gamba destra mi faceva male e c'era un pizzicore che correva verso il basso, lungo tutto il lato destro, come se qualcosa avesse cominciato a disfarsi, rilasciando a poco a poco l'imbottitura. Come la cucitura di un vecchio orsacchiotto. All'improvviso, in quella luce apocalittica, ho scorto Miss Dare: se ne stava sola, un po' discosta dalla folla. Sulle prime ho pensato di essermi sbagliato, ma poi si è voltata, la faccia mezza nascosta da un berretto ros-
so, ancora illuminata da sfumature abbaglianti di blu e verde. Per un momento la sua immagine ha suscitato dentro di me qualche ricordo potente, la sensazione pressante di un pericolo terribile, e ho cominciato a correrle incontro, i piedi che scivolavano nel fango saponoso. «Miss Dare! Dov'è Keane?» Indossava un grazioso cappotto rosso che si abbinava al berretto, i capelli neri raccolti con cura dietro le orecchie. Mentre la raggiungevo, ansante, ha sorriso con aria interrogativa. «Keane?» ha chiesto. «È dovuto andare via.» 8. venerdì, 5 novembre 20.30 Devo ammettere che ero abbastanza sconcertato. Ero così sicuro di trovare Keane con lei, che l'ho fissata stupidamente senza una parola, osservando le ombre colorate guizzare sulla sua pallida faccia e ascoltando il battito gigantesco del mio vecchio cuore nell'oscurità. «Qualcosa che non va?» «No», ho risposto. «Solo un vecchio sciocco che gioca al detective, ecco tutto.» Lei ha sorriso. Sopra e intorno a me, gli ultimi razzi hanno sfolgorato di nuovo. Verde foresta pluviale, questa volta; un colore piacevole che rendeva marziani i volti girati a guardare. L'azzurro, invece, lo trovavo irritante, come la luce di un'ambulanza, e il rosso... Una volta di più, qualcosa che non era proprio un ricordo, è tornato parzialmente alla superficie e poi si è rituffato. Qualcosa a proposito di quelle luci, i colori, il modo in cui risplendevano sulla faccia di qualcuno... «Mr Straitley», ha detto lei gentile. «Non ha l'aria di star bene.» A dire il vero mi ero sentito meglio, ma erano il fumo e il calore del fuoco. Ma la cosa più importante per me era la giovane donna che mi stava accanto, una giovane donna che, secondo il mio istinto, poteva ancora essere in pericolo. «Ascolti, Dianne», ho detto prendendole il braccio. «Penso che c'è una cosa che dovrebbe sapere.» E così ho cominciato. Prima con il taccuino, poi con la Talpa, con Pinchbeck, con le morti di Leon Mitchell e John Snyde. Era tutto frammenta-
rio se veniva esaminato pezzo per pezzo; ma più ci pensavo e ne parlavo, più riuscivo a veder emergere un quadro. Mi aveva raccontato lui stesso di essere stato un ragazzo di Sunnybank. Immaginate cosa deve aver voluto dire per qualcuno come Keane. Un tipo intelligente, un lettore, un ribelle. Gli insegnanti lo avrebbero trovato antipatico quasi quanto gli scolari. Ora riuscivo a vederlo, un ragazzo cupo, solitario, che odiava la sua scuola, odiava i suoi coetanei, viveva nel modo della fantasia. Forse era cominciato come un grido d'aiuto. Oppure uno scherzo, o un gesto di rivolta contro la scuola privata e ciò che rappresentava. Doveva essere stato facile, una volta trovato il coraggio di compiere il primo passo. Finché avesse indossato l'uniforme, sarebbe stato trattato come uno qualsiasi dei nostri ragazzi. Ho immaginato il brivido di camminare senza essere visto per i vecchi corridoi solenni, di guardare nelle aule, di mescolarsi agli altri ragazzi. Un brivido solitario ma potente, che presto si era trasformato in qualcosa di più oscuro, simile a un'ossessione. Dianne mi ascoltava in silenzio mentre io spiegavo la mia storia. Era tutta una supposizione; ma dava la sensazione di essere vera, e a mano a mano che continuavo, ho cominciato a vedere il ragazzo Keane con l'occhio della mente; a provare parte di quanto aveva provato lui e a capire l'orrore di ciò che era diventato. Mi sono domandato se Leon Mitchell avesse saputo la verità. Di certo, Marlene era stata completamente ingannata da Julian Pinchbeck, come invero era accaduto a me. Un osso duro, Pinchbeck, soprattutto per essere un ragazzo tanto giovane. Anche sul tetto aveva mantenuto il sangue freddo, scappando come un gatto prima che io potessi intercettarlo, svanendo fra le ombre, permettendo perfino che John Snyde fosse accusato piuttosto che ammettere il proprio coinvolgimento. «Forse stavano giocando in modo sfrenato. Sa come sono fatti i ragazzi. Un gioco sciocco, sfuggito di mano. Leon cadde. Pinchbeck fuggì. Lasciò che la colpa fosse addossata al Portiere, e ha vissuto con la sua colpa per quindici anni.» Immaginate che cosa possa significare per un bambino. Ho considerato Keane e ho cercato di vedere la rabbia dietro la facciata. Non mi riusciva. C'era forse un po' di irriverenza, un pizzico dell'atteggiamento tipico del Nuovo venuto, un accenno di derisione nel modo in cui parlava. Ma cattiveria, cattiveria vera? Era difficile crederlo. E però, se non era Keane, chi
poteva essere? «Ha giocato con noi», ho detto a Miss Dare. «Questo è il suo stile. Il suo umorismo. È lo stesso gioco elementare di prima, penso, ma questa volta andrà fino in fondo. Non gli basta più nascondersi nell'ombra, vuole colpire St Oswald dove fa davvero male.» «Ma perché?» ha domandato lei. Ho sospirato, sentendomi d'un tratto molto stanco. «Mi era simpatico», ho detto a sproposito. «Mi è ancora simpatico.» C'è stato un lungo silenzio. «Ha chiamato la polizia?» Ho annuito. «L'ha fatto Marlene.» «Allora lo troveranno», ha detto. «Non si preoccupi, Mr Straitley. Forse alla fine riusciremo a bere qualcosa insieme per il compleanno.» 9. Inutile dire che il mio compleanno fu una cosa triste. Capii, però, che era una fase necessaria, e stringendo i denti mi decisi ad aprire i regali, ancora in attesa sotto il letto negli involucri sfarzosi. C'erano anche delle lettere, tutte le lettere che in precedenza avevo sdegnato, e ora dedicai a ogni parola la mia attenzione ossessiva, perlustrando tra le quantità di sciocchezze alla ricerca dei pochi brani preziosi che avrebbero completato la mia metamorfosi. Caro Cucciolo, mi auguro che tu abbia ricevuto i vestiti. Spero che ti vadano tutti bene! Sembra che qui a Parigi i bambini crescano molto più in fretta, e voglio che tu abbia un bell'aspetto per la tua visita. A questo punto sarai grande anche tu, immagino. Non riesco a crederci che fra poco avrò trent'anni. Il dottore dice che non posso avere altri bambini. Sia lodato il cielo che ho ancora te, amore mio. È come se Dio mi avesse dato una seconda occasione. I pacchetti contenevano più vestiti di quanti ne avessi mai posseduti in tutta la vita. Completini di Printemps o delle Galeries Lafayette, golfini in colori confetto, due cappotti (uno rosso per l'inverno e uno verde per la primavera) e una quantità di magliette e short. La polizia era stata molto gentile con me. Vorrei ben dire: avevo avuto
uno shock terribile. Mi mandarono una poliziotta carina per farmi alcune domande, e io risposi a queste con una franchezza consona e una lacrima di circostanza. Mi venne detto più volte che avevo avuto molto coraggio. Mia madre era fiera di me, la poliziotta carina era fiera di me, presto sarebbe finita e l'unica cosa che dovevo fare era dire la verità e non aver paura di nulla. Buffo, non è vero, com'è facile credere al peggio. La mia storia fu semplice (ho scoperto che le bugie funzionano meglio quanto più sono ovvie), e la signora della polizia la ascoltò con attenzione, senza interrompere e senza mostrare incredulità. Ufficialmente, la scuola lo dichiarò un tragico incidente. La morte di mio padre chiuse la vicenda in modo piuttosto conveniente, e gli valse perfino un po' di simpatia postuma da parte della stampa locale. Il suicidio fu imputato all'eccessivo rimorso in seguito alla morte di un giovane trasgressore durante la sua sorveglianza, e gli altri dettagli, compresa la presenza di un ragazzo misterioso, vennero rapidamente accantonati. A Mrs Mitchell, che avrebbe potuto costituire un problema, venne dato un ragguardevole risarcimento e un nuovo lavoro come segretaria di Bishop; erano diventati molto amici nelle settimane successive alla morte di Leon. Lo stesso Bishop, promosso di recente, fu avvisato dal Rettore che ogni ulteriore indagine sullo sfortunato incidente sarebbe stata nociva per la reputazione di St Oswald e segno di manchevolezza nei suoi doveri di Preside. Il che lasciava Straitley. Non tanto diverso allora da oggi; un uomo coi capelli grigi anzitempo, che si dilettava in assurdità, assai più magro di adesso ma già sgraziato, una palla al piede, con la sua toga polverosa e le ciabatte di pelle. Leon non lo rispettò mai tanto quanto me: lo vedeva come un innocuo buffone, abbastanza simpatico, a suo modo intelligente, ma in fondo non una minaccia. Tuttavia, fu Straitley quello che si avvicinò di più a scoprire la verità, e fu solo la sua arroganza, l'arroganza di St Oswald, a renderlo cieco rispetto a ciò che era palese. Immagino che dovrei essere riconoscente. Ma un talento come il mio implora di essere riconosciuto, e di tutti gli insulti gratuiti che St Oswald mi ha scagliato addosso nel corso degli anni, penso che siano i suoi quelli che ricordo in modo più vivido. La sua aria sorpresa, e sì, la condiscendenza, quando mi guardò, mi congedò per la seconda volta. Certo, non pensavo in modo lucido. La colpa, la confusione, la paura mi accecavano ancora, e dovevo imparare una delle verità più sconvolgenti e
uno dei segreti meglio custoditi della vita: che il rimorso sbiadisce, come qualsiasi altra cosa. Forse volevo che quel giorno mi prendessero, avere la prova che l'Ordine regnava ancora, conservare intatto nel cuore il mito di St Oswald; e più di tutto, dopo cinque anni nell'ombra, venire finalmente alla ribalta. E Straitley? Nella mia lunga partita contro St Oswald, è sempre stato Straitley, e non il Rettore, a recitare il ruolo del re. Un pezzo lento, il re, ma un nemico potente. E comunque, un pedone ben piazzato lo può rovesciare. Non che lo desiderassi, no. Per quanto assurdo fosse, io non desideravo la sua distruzione, ma il suo rispetto, la sua approvazione. Avevo recitato troppo a lungo la parte dell'Uomo Invisibile, il fantasma nella macchina scricchiolante di St Oswald. Ora, finalmente, volevo che lui mi guardasse, che mi vedesse, e che concedesse, se non proprio una vittoria, magari una patta. Ero in cucina quando lui alla fine passò da casa. Era il mio compleanno, appena prima di cena, e avevo trascorso metà della giornata a fare shopping con mia madre, e l'altra metà a discutere del mio futuro e a fare programmi. Un colpo alla porta; indovinai chi era. Lo conoscevo così bene, vedete, seppure a distanza, e avevo immaginato la sua visita. Sapevo che lui, proprio lui, non avrebbe mai optato per la soluzione facile rispetto a quella giusta. Severo, ma giusto, era Roy Straitley, con una propensione naturale a credere il meglio di chiunque. La reputazione di John lo lasciava indifferente, come le velate minacce del Nuovo Rettore e le speculazioni sull'«Examiner» di quel giorno. Perfino il possibile danno a St Oswald diventava secondario. Straitley era il docente di classe di Leon e per lui i suoi ragazzi contavano più di ogni altra cosa. Sulle prime mia madre non voleva lasciarlo entrare. Era venuto già due volte, mi disse, una quando ero a letto e un'altra quando mi stavo cambiando vestiti, scartando l'armamentario di Pinchbeck a favore di uno dei completini di Parigi che lei mi aveva inviato nei suoi innumerevoli pacchetti premurosi. «Mrs Snyde, se lei mi facesse entrare per un momento...» La voce di mia madre, con le vocali di recente arrotondate, ancora estranea dietro la porta della cucina. «Le ho detto, Mr Straitley, che abbiamo avuto ventiquattr'ore difficili, e davvero penso che non...» Perfino allora ebbi la sensazione che fosse a disagio con le donne. Sbir-
ciando nella fessura della porta della cucina lo vidi, incorniciato dalla notte, la testa chinata, le mani che scavavano a fondo nelle tasche della vecchia giacca di tweed. Di fronte a lui, mia madre: tesa per lo scontro, tutta perle di Parigi e twin set pastello. Lo disturbava, quel temperamento femminile. Sarebbe stato più contento di parlare a mio padre, diritti al punto, in monosillabi. «Be', forse potrei scambiare due parole con...» Controllai il mio riflesso nel bollitore. Con la guida di mia madre, avevo un bell'aspetto. Capelli in ordine e freschi di parrucchiere, la faccia pulita, risplendente in uno di questi nuovi completini. Avevo tolto gli occhiali. Sapevo che avrei superato l'esame, e poi volevo vederlo, vederlo e magari che mi vedesse. «Mr Straitley, mi creda, non c'è nulla che possiamo...» Aprii la porta della cucina con una spinta. Lui sollevò rapidamente lo sguardo. Per la prima volta il mio vero io incrociò il suo sguardo. Mia madre mi stava accanto, pronta ad afferrarmi per portarmi via al primo segnale di bisogno. Roy Straitley fece un passo verso di me; colsi l'odore confortante di gesso e di Gauloise e un vago odore di palline di naftalina. Mi chiesi che cosa avrebbe detto se l'avessi salutato in latino; la tentazione era troppo forte per resisterle, ma poi mi ricordai che stavo recitando una parte. Mi avrebbe riconosciuto in questo nuovo ruolo? Per un secondo pensai di sì. I suoi occhi erano penetranti. Grigioazzurri e leggermente iniettati di sangue, si restrinsero un po' quando incontrarono i miei. Tesi la mano, strinsi fra le mie dita fresche le grosse dita di Straitley. Pensai a tutte le volte che l'avevo guardato nella torre campanaria, a tutte le cose che senza volerlo mi aveva insegnato. Adesso mi avrebbe visto? Sarebbe andata così? Vidi i suoi occhi scattare su di me, studiare la faccia pulita, il golf pastello, i calzini alle caviglie e le scarpe lustre. Non esattamente ciò che si era aspettato, dunque; dovetti fare uno sforzo per nascondere un sorriso. Mia madre se ne accorse, e sorrise a sua volta, fiera dei risultati ottenuti. Ci mancava altro, la trasformazione era tutta opera sua. «Buona sera», disse. «Non intendo disturbare. Sono Mr Straitley. Il docente di classe di Leon Mitchell.» «Piacere di conoscerla, signore», risposi. «Julia Snyde.» 10.
Mi venne da ridere. Era tanto che non pensavo più a me come Julia, invece che Snyde e basta, e poi Julia non mi era mai piaciuta, come non era mai piaciuta a mio padre. Essere costretta a pensare a lei, essere lei, adesso mi sembrava strano, sconcertante. Pensai di essermi liberata di Julia, così come mi ero liberata di Sharon. Eppure mia madre aveva reinventato sé stessa. Perché non avrei potuto farlo anch'io? Straitley, naturalmente, non se ne accorse. Per lui le donne rimangono una razza a parte, da ammirare (o forse temere) a distanza di sicurezza. I suoi modi sono diversi quando parla ai ragazzi: con Julia l'atteggiamento spigliato si irrigidì un poco, trasformandolo in una parodia guardinga dell'uomo affabile che era. «Sia chiaro, non voglio turbarti», disse. Annuii. «Ma conosci un ragazzo che si chiama Julian Pinchbeck?» Devo ammettere che il mio sollievo fu guastato da una certa delusione. In qualche modo, da Straitley mi ero aspettata di più, di più da St Oswald. In fondo, gli avevo già praticamente regalato la verità. E ancora non l'aveva vista. Nella sua arroganza, la particolare arroganza maschile che sta alla base delle fondamenta di St Oswald, non era riuscito a vedere ciò gli stava sotto il naso. Julian Pinchbeck. Julia Snyde. «Pinchbeck?» domandai. «Credo di no, signore.» «Dovrebbe avere la tua età, all'incirca. Capelli scuri, magro. Porta degli occhiali con la montatura di metallo. Forse è un allievo di Sunnybank Park. Magari l'hai visto dalle parti di St Oswald.» Scossi la testa. «Mi spiace, signore.» «Lo sai perché te lo sto chiedendo, vero Julia?» «Sì signore. Lei pensa che fosse lì ieri sera.» «Era lì», sbottò Straitley. Si schiarì la voce e disse, in tono più morbido: «Pensavo che forse l'avessi visto anche tu.» «No, signore.» Scossi ancora una volta la testa. Era troppo divertente, pensai fra me e me; eppure mi chiedevo come non mi avesse vista. Perché ero una ragazza, forse? Una puttanella, una faccia incazzatissima, una buona a nulla, una prolet? Era così impossibile pensare una cosa del genere di Julia Snyde? «Sicura?» Mi guardò con durezza. «Perché quel ragazzo è un testimone. Lui era lì. Ha visto quello che è successo.»
Guardai in basso la punta lucida delle mie scarpe. Allora ebbi voglia di raccontargli tutto, solo per vederlo rimanere a bocca aperta. Ma raccontare voleva dire fargli sapere anche di Leon; ed era impossibile. A quello avevo già sacrificato troppo. E per questo ero pronta ad abbassare la cresta. Quindi sollevai lo sguardo verso di lui, lasciando che gli occhi mi si riempissero di lacrime. Non fu difficile: pensai a Leon, a mio padre, a me stessa, e le lacrime vennero da sole. «Mi dispiace», dissi. «Non l'ho visto.» E adesso il vecchio Straitley appariva a disagio, sbuffava e ansimava, cercava di trarsi d'impaccio proprio come quando Kitty Teague aveva avuto la sua piccola crisi nella Sala professori. «Su adesso.» Tirò fuori un grande fazzoletto leggermente sporco. Mia madre lo guardò con aria di sfida. «Spero che sia felice», disse, cingendomi le spalle con un braccio possessivo. «Dopo tutto quello che ha passato; povera bambina...» «Mrs Snyde, io non...» «Penso che dovrebbe andar via.» «Julia, per favore, se sai qualcosa...» «Mr Straitley», disse. «Vorrei che se ne andasse.» E così fece, riluttante, impigliato tra furia e disagio, scuse da una parte, sospetti dall'altra. Perché sospettava, lo vedevo nei suoi occhi. Non era neanche lontanamente vicino alla verità, certo, ma gli anni di insegnamento gli avevano sviluppato una sorta di chiaroveggenza in fatto di allievi, una specie di radar che in qualche modo io dovevo aver innescato. Si voltò per andarsene, le mani in tasca. «Julian Pinchbeck. Sei sicura di non averlo mai sentito nominare?» Annuii, muta, ridendo fra me e me. Lasciò cadere le spalle. Poi, mentre mia madre apriva la porta perché uscisse, si voltò bruscamente e incontrò il mio sguardo per quella che sarebbe stata l'ultima volta in quindici anni. «Non volevo importunarti», disse. «Siamo tutti preoccupati per tuo padre. Ma ero l'insegnante di classe di Leon. Sono responsabile nei confronti dei miei ragazzi...» Annuii di nuovo. «Vale, magister.» Non fu più di un sussurro, ma lui sentì, ne sono sicura. «Cosa?» «Buonanotte, signore.» 11.
Ci trasferimmo a Parigi. Una nuova vita, aveva detto mia madre; un nuovo inizio per la ragazzina. Ma non fu facile. Parigi non mi piaceva. Mi mancavano la mia casa e i boschi e l'odore confortante dell'erba tagliata che si rovesciava per i campi. Mia madre deplorava i miei modi da maschiaccio, dei quali, figurarsi, accusava mio padre. Lui non aveva mai voluto una bambina, diceva lei, deplorando i miei capelli corti, il petto magro, le ginocchia coperte di croste. Per colpa di John, diceva, assomigliavo più a un ragazzetto sporco che alla figlia graziosa della sua immaginazione. Ma questo sarebbe cambiato, disse. Mi serviva solo il tempo di sbocciare. Dio lo sa, ci provai. Ci furono infinite spedizioni di acquisti, prove di vestiti, appuntamenti dall'estetista. Qualsiasi ragazza sognerebbe che ci si prenda cura di lei: essere Gigi, essere Eliza Doolittle, trasformarsi dal brutto anatroccolo nel cigno elegante. In ogni caso era il sogno di mia madre. E ora lo stava realizzando, ed emetteva gridolini di gioia per la sua bambola vivente. Oggi, va da sé, restano poche tracce dell'operato di mia madre. Il mio stile è più sofisticato e di sicuro meno vistoso. Parlo bene il francese, dopo quattro anni a Parigi, e anche se non sono all'altezza, in base ai criteri di mia madre, mi piace pensare di aver acquisito un certo stile. Ho anche un abnorme senso dell'autostima, o così dice la mia analista, che talvolta tende al patologico. Può darsi, ma in mancanza dei genitori, un bambino da chi può ottenere approvazione? Quando ebbi quattordici anni, mia madre si rese conto che non sarei mai diventata una bellezza. Non ero il tipo. Un style très anglais, come sottolineava immancabilmente l'estetista (stronza!). Le gonnelline e i twin set, così carini sulle ragazze francesi, mi rendevano semplicemente ridicola, e presto li abbandonai per la sicurezza dei jeans, delle felpe e delle scarpe da ginnastica della mia precedente giovinezza. Rifiutavo il trucco e mi tagliavo i capelli corti. Non sembravo più un ragazzino, ma era ormai chiaro che non sarei mai stata neanche Audrey Hepburn. Mia madre non fu delusa come avrebbe potuto essere. Pur con tutte le sue aspettative, non avevamo legato. Avevamo poco in comune e capivo che si era stancata di provarci. E ancor più importante, lei e Xavier erano riusciti nella cosa che sin lì era parsa impossibile, un bebé miracoloso, nato l'agosto dell'anno seguente. Bene, questo fu decisivo. Nel giro di una notte diventai di imbarazzo. Il
bebé miracoloso, che venne chiamata Adeline, mi aveva sostanzialmente esclusa, e né mia madre né Xavier (che aveva poche opinioni di suo) sembravano interessati a un'adolescente stramba. Una volta di più, a dispetto di tutto, ero invisibile. Oh, non posso dire che mi importasse. Non di quello, in ogni modo. Non avevo nulla contro Adeline, che a me non sembrava niente di più che un mucchietto strillante di plastilina rosa. Quello per cui provavo rancore era la promessa, la promessa di una cosa che era stata proposta e poi subito scippata. Il fatto che non l'avessi voluta era irrilevante. L'ingratitudine di mia madre lo era. In fondo, per lei avevo fatto dei sacrifici. Per lei avevo lasciato St Oswald. Ora più che mai, St Oswald mi invitava come un eden perduto. Mi dimenticai di quanto l'avessi odiata, di come per anni le avessi fatto la guerra; di come avesse inghiottito il mio amico, mio padre e la mia infanzia in un sol boccone. Ci pensavo sempre, e mi sembrava allora che solamente a St Oswald mi fossi sentita veramente viva. Lì avevo sognato, lì avevo provato gioia, odio, desiderio. Lì ero stata un eroe, un ribelle. Ora ero soltanto un'altra adolescente astiosa, con un patrigno e una madre che mentiva sulla sua età. Ora lo sapevo, era una dipendenza e St Oswald era la mia droga. Ne avevo un disperato bisogno notte e giorno, trovando dei poveri sostituti dove potevo. Mi venivano a noia in fretta: il mio lycée era un posto squallido, e il più intrepido dei suoi ribelli si dilettava solo nella più adolescenziale delle trasgressioni: un po' di sesso, un po' di assenze ingiustificate e una quantità di droghe poco interessanti. Anni prima Leon e io avevamo percorso insieme territori ben più eccitanti. Volevo di più, volevo il caos, volevo tutto. Ero inconsapevole all'epoca del fatto che il mio comportamento aveva già cominciato ad attirare l'attenzione. Ero giovane, arrabbiata, intossicata. Potreste dire che St Oswald mi abbia rovinata: ero come uno studente universitario che venga rispedito all'asilo per un anno, e rompe i giocattoli e rovescia i tavoli. Mi compiacevo di avere una cattiva influenza. Saltavo la scuola, prendevo in giro gli insegnanti, bevevo, fumavo, facevo sesso veloce (e per me privo di gioia) con i ragazzi di una scuola rivale. La resa dei conti giunse nel modo più penosamente normale. Mia madre e Xavier, che ritenevo troppo concentrati sulla bambina miracolo per occuparsi delle persone comuni, mi avevano osservata più da vicino di quanto pensassi. Una perlustrazione della mia camera aveva fornito la scusa che stavano cercando: cinque grammi di erba, una confezione di preservativi e
quattro pasticche di ecstasy in un cartoccio. Era roba da bambini, ecco tutto. Qualsiasi genitore normale se ne sarebbe completamente dimenticato, ma Sharon borbottò qualcosa a proposito della mia storia precedente, mi tolse da scuola e, umiliazione finale, mi fissò un appuntamento con uno psicologo infantile che, promise lei, mi avrebbe messo a posto in fretta. Non penso di essere una persona permalosa di natura. Ogni volta che ho usato parole grosse, è sempre stato in seguito a una provocazione quasi insopportabile. Ma questo era di più di quanto chiunque avrebbe potuto tollerare. Non sprecai tempo a proclamare la mia innocenza. Invece, e con sorpresa da parte di mia madre, cooperai come meglio potevo. La psicologa infantile, il cui nome era Martine e che portava orecchini pendenti con dei gattini d'argento, dichiarò che stavo facendo degli ottimi progressi, e io la imbeccai ogni giorno finché non divenne malleabile. Dite quello che volete sulla mia istruzione anticonvenzionale, ma ho una cultura generale abbastanza vasta. Potete pensare a St Oswald, o a Leon, o ai film che ho sempre guardato: in ogni caso sapevo il necessario sui casi mentali per ingannare una psicologa infantile amante dei gatti. Quasi mi dispiacque la facilità del compito e mi ritrovai a desiderare che mi avessero imposto una sfida più difficile. Psicologi. Sono tutti uguali. Parlagli di qualsiasi cosa ti pare, alla fine si riduce sempre al sesso. Dopo un'impressionante spettacolo di ritrosia e una serie di sogni rigorosamente freudiani, confessai: avevo fatto sesso con mio padre. Non John, dissi, ma il mio nuovo padre, il che andava benissimo, o così diceva lui, anche se io avevo avuto dei ripensamenti. Non fraintendetemi. Non avevo nulla contro Xavier. Era mia madre ad avermi tradito, mia madre che volevo ferire. Ma Xavier era uno strumento così adatto, e poi, lo feci apparire un fatto quasi del tutto consensuale, così lui se la sarebbe cavata con una sentenza più lieve, magari la pena sarebbe stata perfino sospesa. Funzionò come si deve. Troppo, forse; a quel punto avevo lavorato sulla mia solita montatura e incorporato una quantità di orpelli alla formula di base. Altri sogni - non sogno, come ho detto, ma ho un'immaginazione molto fervida - una varietà di pose, l'abitudine di mutilarmi presa da una delle ragazze più sensibili nella mia classe. La visita medica fornì la prova. Xavier venne puntualmente cacciato, alimenti generosi furono promessi alla divorzianda e io (in parte grazie alla mia esibizione brillante) fui spedita in un istituto per i successivi tre anni
dalla mia amorevole madre e dalla sua Martine munita di gattini, nessuna delle quali poteva convincersi che non fossi più un pericolo per me stessa. Sapete, a volte capita che un lavoro venga fatto troppo bene. SCACCO MATTO 1. venerdì, 5 novembre Notte del Falò, ore 21 «Bene allora», ha detto, «immagino sia tutto.» I fuochi d'artificio erano finiti e la folla aveva cominciato a disperdersi, muovendosi lentamente verso le uscite. L'area isolata era quasi vuota; restava solo l'odore della polvere da sparo. «Forse dovremmo cercare Marlene. Non mi piace pensare che stia aspettando da sola.» Caro vecchio Straitley. Sempre così signore. E anche così vicino; di certo si era avvicinato di più alla verità che non mia madre o la mia analista, o uno qualsiasi dei professionisti che avevano cercato di capire la mia mente di adolescente. Non abbastanza vicino - non ancora - ma quasi c'era: mancava poco alla nostra partita finale, e al pensiero il mio cuore si è messo a battere un po' più in fretta. Tanto tempo fa l'avevo affrontato da pedone e avevo perso. Ora, finalmente, lo sfidavo da Regina. Mi sono girata verso di lui e ho detto: «Vale, magister». «Cos'ha detto?» Si era girata per andare; al bagliore delle braci sembrava veramente giovane sotto il berretto rosso, gli occhi punteggiati dalla luce danzante del fuoco. «Mi ha sentita», ha detto. «Mi ha sentita, allora, vero signore?» Allora? Il dito invisibile mi ha pungolato delicatamente, in modo quasi simpatico. Ho sentito il bisogno impellente di sedermi ma ho resistito. «Col tempo lo ricorderà», ha detto Miss Dare, sorridendo. «Dopotutto, lei è quello che non si scorda mai di una faccia.» L'ho osservato mentre si sforzava di decifrare. La foschia si era ispessita, ora era difficile vedere oltre gli alberi più vicini. Alle nostre spalle, il falò non era nulla se non braci; a meno che non fosse venuto a piovere, avrebbe continuato a covare sotto la cenere per due o tre giorni. Straitley ha aggrottato le ciglia, brunito come un totem rugoso nella luce flebile. È trascorso un minuto. Due minuti. Ho cominciato a sentirmi preoccupata. Era troppo
vecchio? Si era dimenticato? E cos'avrei fatto se lui mi avesse abbandonato adesso? Alla fine ha parlato. «È... Julie, vero?» Abbastanza vicino, vecchio. Ho osato respirare. «Julia, signore. Julia Snyde.» Julia Snyde. Tanto tempo da quando avevo sentito quel nome. Tanto tempo perfino da quando avevo pensato a lei. Ed eccola di nuovo, identica a Dianne Dare, che mi guardava con affetto, e un tocco di umorismo, negli intelligenti occhi castani. «Ha cambiato nome?» ho chiesto infine. Ha sorriso. «Date le circostanze, sì.» Questo potevo capirlo. Era andata in Francia. «Parigi, vero? Immagino che il suo francese l'abbia imparato lì.» «Ero un'allieva portata.» Ora mi ricordavo di quel giorno nella portineria. I capelli scuri, tagliati più corti, l'abbigliamento curato, da ragazzina, la gonna a pieghe e il golf pastello. Il modo in cui mi aveva sorriso, timidamente, allora, ma con la consapevolezza negli occhi. Di come fossi stato sicuro che sapesse qualcosa... Adesso l'ho guardata nella luce sovrannaturale e mi sono chiesto come avessi potuto non accorgermi di lei, mi sono chiesto cosa ci facesse qui adesso, e di come si fosse trasformata da figlia del Portiere nella giovane donna sicura di sé che era oggi. Ma più di ogni altra cosa mi sono chiesto di quanto avesse saputo e perché me lo aveva tenuto nascosto, ora e tutti quegli anni fa. «Lei conosceva Pinchbeck, non è vero?» ho detto. In silenzio ha annuito. «Ma allora... che ne è di Keane?» Ha sorriso. «Come ho detto, è dovuto andare via.» Bene, se lo merita, il piccolo spione. Lui e i suoi taccuini. La prima occhiata avrebbe dovuto mettermi sull'avviso: quelle righe, quei disegni, quelle piccole osservazioni bislacche sulla natura e la storia di St Oswald. Mi ricordo di essermi chiesta se non fosse meglio occuparsi subito di lui; ma all'epoca avevo tante cose a cui pensare, e poi non c'era molto, a parte la fotografia, per incriminarmi.
Ci si immagina che un Autore in erba sia troppo impegnato con la sua Musa per trastullarsi con una storia così vetusta. Ma lui lo aveva fatto, e in più aveva passato un po' di tempo a Sunnybank Park, anche se era tre o quattro anni davanti a me, e non avrebbe collegato immediatamente le cose. Io stessa non l'avevo fatto per un po', sapete; ma a un certo punto, devo aver riconosciuto la sua faccia. Lo avevo conosciuto prima di frequentare Sunnybank; e allora mi sono ricordata di aver visto una banda di ragazzi che lo mettevano spalle al muro dopo la scuola; mi sono ricordata dei suoi vestiti ordinati, cosa sospetta per un Sunnybanker, e più di tutto i libri dalla biblioteca che lo identificavano come bersaglio. Avevo capito subito che avrei potuto essere io. Mi aveva insegnato una lezione, osservare quel ragazzo. Diventa invisibile, mi ero intimata. Non apparire troppo brava. Non portare libri. E nel dubbio, dattela a gambe più in fretta che puoi. Keane non era scappato. Questo era sempre stato il suo problema. In un certo senso mi dispiace. Ciononostante, dopo il taccuino, sapevo che non potevo lasciarlo vivo. Aveva già trovato la fotografia di St Oswald; aveva parlato a Marlene, e più di ogni altra cosa c'era quella fotografia, scattata durante dio sa quale Giornata di gare sportive a Sunnybank, con IO scritto dietro (le Braghe di tuono per fortuna non si vedevano). Una volta che avesse capito il collegamento (e prima o poi l'avrebbe fatto), si sarebbe trattato semplicemente di controllare l'archivio fotografico di Sunnybank finché non avesse trovato quello che stava cercando. Avevo comprato il coltello alcuni mesi prima, 24,99 sterline in un negozio di forniture militari, e devo dire che era uno di quelli buoni; affilato, sottile, a doppio taglio e letale. Molto simile a me, in realtà. Un peccato doverlo abbandonare, davvero - lo avevo destinato a Straitley - ma recuperarlo sarebbe stata una brutta faccenda e poi non volevo girovagare per il parco pubblico con l'arma di un delitto in tasca. E non c'era nemmeno il rischio di trovare impronte sul coltello. Indossavo dei guanti. L'avevo seguito nella zona cintata, proprio quando stavano iniziando i fuochi d'artificio. Qui c'erano degli alberi, e al loro riparo le ombre erano doppiamente scure. C'era gente tutt'attorno, certo; ma la maggior parte guardava il cielo, e nella luce falsa di tutti quei razzi, nessuno ha visto il breve dramma che si svolgeva in fretta sotto gli alberi. Ci vuole una dose sorprendente di abilità per colpire qualcuno fra le costole. Sono i muscoli intercostali la parte più dura: si contraggono, sapete,
così anche se per accidente non colpite una costa, dovete trapassare uno strato di muscoli tesi prima di provocare un vero danno. Mirare al cuore è altrettanto rischioso: è lo sterno, vedete, a mettersi di mezzo. Il metodo ideale è attraverso il midollo spinale, tra la terza e la quarta vertebra, ma ditemi voi come potevo individuare il punto, al buio, e con lui quasi del tutto nascosto da un parka grande e grosso proveniente da uno spaccio dell'esercito? Avrei potuto tagliargli la gola, sicuro, ma quelli di noi che ci hanno provato davvero, invece che limitarsi a guardare i film, vi diranno che non è facile come sembra. Ho optato per un colpo dal diaframma verso l'alto, proprio sotto l'osso del desiderio. L'ho piantato lì sotto gli alberi, dove chiunque l'avesse visto avrebbe pensato che fosse ubriaco, e l'ho lasciato tutto solo. Non sono un'insegnante di biologia, così posso soltanto indovinare la causa tecnica della morte - perdita di sangue o un collasso polmonare - ma lui è rimasto molto sorpreso della cosa, ve lo assicuro. «L'ha ucciso?» «Sì, signore. Nulla di personale.» Mi è venuto in mente che forse ero veramente malato, che tutto questo fosse una sorta di allucinazione che diceva di più sul mio inconscio di quanto volessi sapere. Di certo mi ero sentito meglio. Una fitta improvvisa ha scavato dolorosamente nella mia ascella sinistra. Il dito invisibile era diventato una mano intera: una pressione decisa, costante contro lo sterno che mi faceva annaspare. «Mr Straitley?» C'era preoccupazione nella voce di Miss Dare. «Solo una fitta», ho detto, e mi sono seduto di botto. Il terreno fangoso, pur se soffice, sembrava sorprendentemente freddo; un freddo che pulsava attraverso l'erba come il battito di un cuore morente. «L'ha ucciso!» ho ripetuto. «Era una questione rimasta in sospeso, signore. Le ho già detto che doveva andarsene.» «E Knight?» C'è stata una pausa. «Anche Knight», ha risposto Miss Dare. Per un momento, un momento orribile, sono rimasto senza fiato. Il ragazzo non mi era simpatico, ma era uno dei miei, e a dispetto di tutto credo di aver sperato che... «Mr Straitley, per favore. Non adesso. Si alzi, su...» Ha messo una spalla sotto il mio braccio, era più forte di quanto sembrasse, e mi ha sorretto.
«Knight è morto?» ho chiesto intontito. «Non si preoccupi, signore. È stato veloce.» Ha appoggiato un'anca contro le mie coste, quasi issandomi in piedi. «Ma avevo bisogno di una vittima, e nemmeno di un solo corpo. Avevo bisogno di una storia. Uno studente che viene ucciso finisce fra le notizie di prima pagina, in una giornata fiacca, ma un ragazzo che scompare, continua a rendere. Ricerche, speculazioni, appelli lacrimosi dalla madre sconvolta, interviste con gli amici; poi, quando la speranza diminuisce, il dragaggio degli stagni e bacini idrici della regione, la scoperta di un indumento e l'inevitabile esame del DNA dei pedofili noti nella zona. Lei sa come funziona, signore. Loro sanno, però non lo sanno. E finché non lo non hanno accertato...» Il crampo al fianco è tornato di nuovo, e mi è sfuggito un rantolo soffocato. Miss Dare si è interrotta subito. «Mi dispiace, signore», ha detto con voce più gentile. «Nulla di ciò è importante, adesso. Knight può aspettare. Non è in grado di andarsene da qualche parte, no? Faccia così: respiri adagio. Continui a camminare. E per amore del cielo, mi guardi. Non abbiamo molto tempo.» Così ho respirato, e ho guardato; ho continuato a camminare, e piano piano abbiamo zoppicato, con me appeso come una pietra al collo di Miss Dare, verso il riparo degli alberi. 2. venerdì, 5 novembre 21.30 Sotto gli alberi c'era una panchina. L'abbiamo raggiunta insieme barcollando sull'erba fangosa, e sono crollato sul sedile con uno scossone che ha fatto vibrare il mio vecchio cuore come una molla rotta. Miss Dare stava cercando di dirmi non so che cosa. Ho provato a spiegarle che avevo in mente altro. Oh, succede a tutti noi, alla fine lo so; ma mi ero immaginato qualcosa di più di questa follia in un campo infangato. Ma Keane era morto, Knight era morto, Miss Dare era qualcun altro e ora non potevo più fingere con me stesso che la sofferenza che divampava e mi artigliava al fianco fosse una fitta. La vecchiaia è così priva di dignità, ho pensato. Non fanno per noi le glorie del Senato, ma un'uscita frettolosa nel retro di un'ambulanza, o, peggio, un declino decrepito. Eppure la combattevo ancora. Potevo sentire il cuore sforzarsi per continuare a muoversi, per mantenere il vecchio corpo in funzione ancora per un po', soltanto un
po', e fra me ho pensato: siamo pronti? Ma quando mai siamo pronti? E quando mai crediamo davvero? «Per favore, Mr Straitley. Ho bisogno di concentrarmi.» Concentrarmi, affé! «Succede che al momento sono molto preoccupato», ho detto. «Il piccolo problema della mia dipartita imminente. Forse più tardi...» Ma ora il ricordo è ritornato, chiaro, quasi vicino al punto di poterlo toccare. Una faccia, per metà azzurra, per metà rossa, che si voltava verso di me, una giovane faccia che era pura angoscia ma dura, determinata, una faccia intravista una volta, quindici anni fa... «Shh», ha detto Miss Dare. «Riesce a vedermi, adesso?» E allora, d'un tratto, l'ho vista. Un momento raro di chiarezza vertiginosa. Tessere del domino che procedono furiose verso il centro mistico. Immagini in bianco e nero che all'improvviso prendono forma; la silhouette di un vaso che si trasforma in una coppia di amanti, una faccia familiare che si disintegra e diventa una cosa del tutto diversa. Ho guardato, e in quel momento ho visto Pinchbeck: la sua faccia voltata all'insù, gli occhiali illuminati a lampi dalle luci d'emergenza. E allo stesso tempo vedevo Julia Snyde con la bella frangia nera; e gli occhi grigi di Miss Dare sotto il berretto da scolaro, i bagliori dei fuochi d'artificio che le illuminavano il volto e così, di colpo, ho saputo. Mi vede, adesso? Sì, la vedo. Ho colto l'attimo. È rimasto a bocca aperta, il volto stremato: era come guardare un rapido decadimento attraverso un'immagine al rallentatore. All'improvviso è parso molto più vecchio dei suoi sessantacinque anni; in effetti, in quel momento, sembrava in tutto e per tutto il Centurione. Catarsi. È quello di cui continua a parlare la mia analista; ma fino a quel momento non avevo mai provato niente del genere. Quell'aria sul volto di Straitley. La comprensione, l'orrore, e dietro a tutto questo, forse, la pietà. «Julian Pinchbeck. Julia Snyde.» Allora ho sorriso, sentendo gli anni scivolarmi via come un peso morto. «Ce l'aveva proprio sotto il naso, signore», ho detto. «E per tutto quel tempo lei non ha mai visto. E mai nemmeno intuito.» Ha fatto un sospiro. Ora sembrava sempre più malato, la faccia coperta di sudore. Il respiro rumoroso e agitato. Ho sperato che non stesse per mo-
rire. Avevo aspettato troppo a lungo questo momento. Oh, alla fine avrebbe dovuto andarsene, questo è pacifico - con o senza il mio coltello assassino sapevo che l'avrei finito senza tante difficoltà - ma prima di questo, volevo che capisse. Che vedesse e sapesse senza alcun dubbio. «Capisco», ha detto. (Sapevo che non era così). «È stata una vicenda terribile.» (Questo sì). «Ma perché prendersela con St Oswald? Perché accusare Pat Bishop, o Grachvogel, Keane, Light...» «Knight è stato un'esca», ho risposto. «Triste, ma necessario. E quanto agli altri, non mi faccia ridere. Bishop! Quell'ipocrita. Che fugge spaventato al primo cenno di scandalo. Grachvogel? Prima o poi sarebbe successo, anche senza il mio zampino. Light? Starete meglio senza di lui. E quanto a Devine, stavo praticamente facendole un favore. Più interessante è il modo in cui la storia si ripete. Guardi come il Rettore ha mollato Bishop quando ha pensato che questo scandalo potesse danneggiare la scuola. Ora lui sa come si è sentito mio padre. Non importava se fosse colpevole o meno. Non importava neppure che fosse morto un allievo. Ciò che contava di più, ciò che ancor oggi conta di più, era proteggere la scuola. I ragazzi vanno e vengono. I portieri vanno e vengono. Ma dio non voglia che accada qualcosa di infamante per St Oswald. Fingi che non sia successo, mettilo a tacere, fallo scomparire. Questo è il motto della scuola. Non è così?» Ho fatto un respiro profondo. «Non adesso, però. Adesso, almeno ho richiamato la sua attenzione.» Ha emesso un suono stridulo che poteva essere una risata. «Forse», ha detto. «Ma non bastava spedire una cartolina?» Caro vecchio Straitley. Sempre burlone «Gli era simpatico, signore. Gli è sempre stato simpatico.» «A chi? A suo padre?» «No, signore. A Leon.» C'è stato un lungo silenzio, cupo. Sentivo il suo cuore andare su e giù. La folla dei giorni di festa si era dispersa da tempo, e restavano soltanto poche figure sparpagliate, stagliate contro il fuoco lontano, e nel luna park pressoché deserto. Eravamo soli, non potevamo essere più soli di così, e tutt'intorno a noi sentivo il rumore degli alberi senza foglie, lo scricchiolio lento, friabile dei rami, l'improvvisa baruffa di un piccolo animale, ratto o topo che fosse, tra le foglie cadute. Il silenzio è durato tanto a lungo da farmi pensare che il vecchio si fosse addormentato, o che fosse scivolato in silenzio in un posto lontano nel quale non avrei potuto seguirlo. Poi ha fatto un sospiro, e ha allungato la
mano verso di me nel buio. Contro il mio palmo, le sue dita erano fredde. «Leon Mitchell», ha detto lentamente. «Dunque è questo la causa di tutto?» 3. Notte del Falò 21.30 Leon Mitchell. Ma certo. Sin dall'inizio avrei dovuto sapere che in fondo a tutto questo c'era Leon Mitchell. Se c'era un ragazzo che incarnava il provocatore, era lui. Di tutti i miei fantasmi, lui è l'unico che non ha mai riposato in pace. E di tutti i miei ragazzi è quello che mi ossessiona di più. Una volta ne ho parlato con Pat Bishop, cercando di capire esattamente quello che era successo e se avrei potuto fare qualcosa di più. Pat mi ha assicurato che no, non avrei potuto fare nulla. Allora mi trovavo al mio balcone. I ragazzi erano sotto di me, sul tetto della cappella. Il Portiere era già sul posto. Tranne volare giù, come Superman, cosa avrei potuto fare per evitare la tragedia? Accadde così in fretta. Non era possibile impedirla. Ma il senno di poi è uno strumento ingannevole, che trasforma gli angeli in demoni, le tigri in clown. Nel corso degli anni le certezze del passato si sciolgono come neve al sole; nessun ricordo è al sicuro. Sarei stato in grado di fermarlo? Non immaginate quante volte mi sia posto questa domanda. Nelle ore piccole tutto è possibile, gli avvenimenti si svolgono con la lucidità di un sogno mentre il ragazzo continua a cadere - quattordici anni e questa volta ero lì - lì al mio balcone, come una Giulietta sovrappeso. E in quelle ore piccole, riuscivo a vedere Leon Mitchell fin troppo chiaramente, aggrappato alla ruggine, le unghie rotte conficcate nella pietra marcescente, gli occhi pieni di terrore. «Pinchbeck.» La mia voce lo fa trasalire. Una voce autoritaria, che proviene inaspettata dalla notte. Guarda verso l'alto in modo istintivo, la presa cede. Forse grida, comincia a protendersi verso l'alto, il tacco che si affila contro un punto d'appoggio già mezzo arrugginito. E poi comincia, sulle prime così lento eppure così veloce, veloce in modo impossibile e ci sono secondi, interi secondi perché lui pensi a quella gola, quello spazio strettissimo, alla terribile oscurità. La colpa, come una valanga, che guadagnava velocità. Il ricordo, istantanee contro uno schermo scuro.
Tessere di domino in fila, e la convinzione crescente che forse ero stato io, che se non avessi urlato proprio in quel preciso momento, allora forse, forse... Ho sollevato lo sguardo verso Miss Dare e ho visto che mi osservava. «Mi dica», ho chiesto. «Mi dica soltanto: a chi dà la colpa?» Dianne Dare non ha risposto nulla. «Me lo dica.» La non-fitta mi artigliava veemente il fianco; ma dopo tutti questi anni, il bisogno di sapere era molto più doloroso. La guardai, così calma e serena, il viso nella foschia quello di una Madonna rinascimentale. «Lei era lì», ho detto con uno sforzo. «Sono io la ragione per cui Leon è caduto?» Oh, com'è intelligente, ho pensato. La mia analista potrebbe imparare qualcosa da lui. Rintuzzare quel sentimento, sperando, forse, di guadagnare ancora un po' di tempo... «Per favore», ha detto. «Ho bisogno di saperlo.» «Perché?» ho chiesto. «Era uno dei miei ragazzi.» Così semplice, così devastante. Uno dei miei ragazzi. All'improvviso ho desiderato che non fosse mai venuto, o di essere riuscita sbarazzarmi di lui, come mi ero sbarazzata di Keane, facilmente, senza batticuore. Ah, era messo male, ma adesso ero io quella che lottava per respirare, io a sentire la valanga pronta a travolgermi. Volevo ridere, i miei occhi non avevano più lacrime. Dopo tutti questi anni, possibile che Roy Straitley desse la colpa a sé stesso? Era sublime. Era terribile. «E ora mi dirà che per lei era come un figlio.» Il tremore nella voce mascherava il tono di scherno. In effetti ero scossa. «I miei ragazzi perduti», ha detto, ignorando la battuta sarcastica. «Trentatré anni e ancora mi ricordo ognuno di loro. Le fotografie sul muro del salotto. I nomi nei miei registri. Hewitt, '72. Constable, '86. Jamestone, Deakin, Stanley, Poulson... Knight...» Una pausa. «E Mitchell, certo. Come ho fatto a dimenticarmi di lui? Quello stronzetto.» Ogni tanto succede, sapete. Non possono esserti tutti simpatici, anche se cerchi di fare del tuo meglio per trattarli allo stesso modo. Ma a volte c'è un ragazzo, come Mitchell, come Knight, che, per quanto ci provi, non ti piacerà mai. Espulso dall'ultima scuola per aver sedotto un insegnante, tremendamen-
te viziato dai genitori, un bugiardo, uno sfruttatore, un manipolatore degli altri. Ah, era intelligente, certo... a volte anche affascinante. Ma sapevo com'era fatto e l'ho raccontato a lei. Veleno fino al midollo. «Si sbaglia, signore», ha replicato. «Leon era mio amico. Il migliore che abbia mai avuto. Gli importava di me, mi amava, e se lei non fosse stato lì, se in quel momento lei non avesse urlato a squarciagola...» E adesso, per la prima volta, da quando la conoscevo, aveva la voce spezzata, una voce stridula e incontrollata. Solo allora mi è venuto in mente che aveva progettato di uccidermi: assurdo, davvero, dato che di certo lo sapevo sin dal momento della sua confessione. Ho immaginato di dover provare paura, ma nonostante questo, nonostante il dolore al fianco, l'unica cosa che provavo era un senso di irritazione travolgente nei confronti di quella donna, come se uno studente dotato avesse fatto un errore di grammatica elementare. «Cresca», le ho detto. «A Leon non importava di nessuno tranne sé stesso. Gli piaceva sfruttare le persone. E faceva così: le aizzava una contro l'altra, caricandole come giocattoli. Non mi sorprenderebbe affatto se fosse stata sua l'idea di salire sul tetto, solo per vedere cosa sarebbe successo.» Ha fatto un respiro acuto come il sibilo di un gatto, e ho capito che avevo esagerato. Poi si è messa a ridere, riprendendo il controllo come se non l'avesse mai perso. «Lei stesso è piuttosto machiavellico, signore.» L'ho preso per un complimento, e gliel'ho detto. «Lo è, signore. Io la rispetto da sempre. Perfino adesso la ritengo un avversario più che un nemico.» «Attenta, Miss Dare, se no mi monto la testa.» Ha riso di nuovo, in tono compassato. «Fino da allora», ha detto, gli occhi che brillavano, «volevo che lei mi vedesse. Volevo che sapesse...» Mi ha raccontato di come avesse origliato le mie lezioni, esaminato i miei archivi, costruito il suo magazzino con i semi scartati dal generoso raccolto di St Oswald. Per un po' mi sono lasciato andare alla deriva - il dolore al fianco che adesso diminuiva - mentre lei raccontava di quei giorni a marinare la scuola, dei libri presi in prestito, delle uniformi rubate, delle regole infrante. Come i topi, aveva fatto la sua tana nella torre campanaria e in cima al tetto, raccogliendo sapere, nutrendosi quando poteva. Aveva avuto fame di sapere, era vorace. E, del tutto ignaro, io ero stato il suo magister, scelto dal momento in cui le parlai per la prima volta, quel giorno nel corridoio di mezzo, e ora scelto di nuovo per incolparmi della morte dell'amico, del suicidio del padre e dei tanti fallimenti nella sua vita.
Succede, a volte. È successo alla maggior parte dei miei colleghi, prima o poi. È la conseguenza inevitabile dell'essere un insegnante di scuola, dell'essere responsabile di adolescenti suscettibili. Certo, alle donne che fanno parte del corpo insegnante succede quotidianamente, a noi, grazie a dio, solo ogni tanto. Ma i ragazzi sono ragazzi; e a volte capita che si fissino su un insegnante (maschio o femmina), capita addirittura che lo chiamino amore. È accaduto a me, a Kitty, anche al vecchio Acerbo, che passò sei mesi cercando di scrollarsi di dosso le attenzioni di un giovane studente che si chiamava Michael Smalls, il quale trovava ogni scusa per cercarlo e monopolizzare il suo tempo e poi (quando l'insensibile eroe non si dimostrò all'altezza delle sue aspettative impossibili) di denigrarlo in qualsiasi occasione presso Mr e Mrs Smalls; alla fine gli Smalls tolsero il figlio da St Oswald (dopo una serie di risultati disastrosi agli esami) a favore di una scuola alternativa dove il ragazzo si sistemò e prontamente si innamorò della giovane insegnante di spagnolo. Adesso, così pareva, ero nella stessa barca. Non pretendo di essere Freud o qualcuno, ma era chiaro perfino a me che questa giovane donna sfortunata mi aveva scelto più o meno allo stesso modo in cui il giovane Smalls aveva scelto Acerbo, investendo nelle mie qualità - e ora, responsabilità che erano assai sproporzionate rispetto al mio ruolo effettivo. Peggio, aveva fatto lo stesso con Leon Mitchell, il quale, essendo morto, aveva raggiunto una condizione e un alone di leggenda a cui nessuna persona vivente, per quanto santa, poteva aspirare. Tra me e lui non c'era confronto. Dopotutto, che vittoria può esserci in una battaglia con i morti? Eppure l'irritazione restava. Era lo spreco, vedete, che mi agitava: quel maledetto spreco. Miss Dare era giovane, brillante, dotata. Avrebbe dovuto avere davanti a sé una vita promettente. Invece aveva scelto di incatenarsi come un vecchio Centurione al relitto di St Oswald, alla polena dorata di Leon Mitchell, figuriamoci, un ragazzo notevole solo per la fondamentale mediocrità, e lo stupido sperpero della sua giovane vita. Ho provato a dirglielo, ma lei non stava ascoltando. «Sarebbe diventato qualcuno», ha detto con voce ostinata. «Leon era speciale. Diverso. Intelligente. Era uno spirito libero. Non seguiva le regole normali. La gente si sarebbe ricordata di lui.» «Ricordata di lui? Forse sì. Di sicuro io non ho mai conosciuto nessuno che abbia lasciato dietro di sé così tante vittime. Povera Marlene. Lei conosceva la verità, ma Leon era suo figlio e lo amava, qualunque cosa facesse. E quell'insegnante nella sua vecchia scuola. Insegnante di applica-
zioni tecniche, un uomo sposato, uno sciocco. Leon lo distrusse, lo sa? Egoisticamente, per un capriccio, quando fu stufo delle sue attenzioni. È che dire della moglie di quell'uomo? Era un'insegnante anche lei, e in questa professione la cosa ti rende colpevole per associazione. Due carriere andate a monte. Un uomo in prigione. Un matrimonio rovinato. E la ragazza, come si chiamava? Non doveva avere più di quattordici anni. Tutti quanti vittime dei giochetti di Leon Mitchell. E adesso io, Bishop, Grachvogel, Devine... e lei, Miss Dare. Che cosa le fa pensare di essere diversa?» Mi sono fermato per respirare, e c'è stato silenzio. Un silenzio così assoluto, di fatto, che mi sono chiesto se fosse andata via. Poi ha parlato con una vocina glaciale. «Quale ragazza?» 4. Notte del Falò 21.45 L'aveva vista in ospedale, dove io non avevo osato andare. Oh, avrei voluto: ma la madre di Leon era sempre al suo capezzale e il rischio era inaccettabile. Ma Francesca era venuta, e così i Tynan, e Bishop. E, inutile dirlo, Straitley. Se la ricordava bene. In fondo, chi non lo avrebbe fatto? Quindici anni e bella in quel modo che gli uomini anziani trovano così inspiegabilmente straziante. L'aveva notata, primo per i capelli e per come ricadevano sul viso in un manto di seta cruda. Sconcertata, forse, ma non poco eccitata per il dramma, la tragedia della vita reale di cui lei era protagonista. Aveva scelto il nero, come per un funerale, ma soprattutto perché le donava, perché, in fondo, Leon non sarebbe morto davvero. Aveva quattordici anni, per amor di dio. A quattordici anni la morte è qualcosa che succede solo alla TV. Straitley non aveva parlato alla ragazza. Era andato invece nella caffetteria dell'ospedale per portare una tazza di tè a Marlene, mentre aspettava che i visitatori di Leon se ne andassero. Aveva visto Francesca quando usciva, ancora affascinato, forse, da quei capelli che si muovevano come un animale sulla parte bassa della schiena, e gli era venuto in mente che la rotondità del suo stomaco appariva più pronunciata della solita rotondità adolescenziale; in effetti, con quelle lunghe gambe sottili e le spalle strette, quel peso intorno all'addome la faceva sembrare più che...
Ho respirato a fondo, usando il metodo che mi ha insegnato l'analista. Inspira per cinque tempi, espira per dieci. L'odore di fumo e vegetazione umida era molto forte; nella bruma, il mio fiato formava pennacchi simili al fuoco di un drago. Stava mentendo, certo. Leon me lo avrebbe detto. L'ho detto ad alta voce. Il vecchio sulla panchina era muto, non negava nulla. «È una bugia, vecchio.» Il bambino oggi avrebbe quattordici anni, grande come Leon quando è morto. Maschio o femmina? Maschio, certo. Dell'età di Leon, con gli occhi grigi di Leon e la pelle screziata di Francesca. Non era reale, mi sono detta, eppure l'immagine si rifiutava di abbandonarmi. Quel ragazzo, quel ragazzo immaginario, con un qualcosa di Leon negli zigomi, un qualcosa di Francesca nel labbro superiore pieno... Mi sono chiesta, Leon lo sapeva? Possibile che non lo sapesse? Be', e se l'avesse saputo? Di Francesca non gli importava. Era soltanto una ragazza, mi aveva detto così. Solo un'altra scopata, non la prima, non la migliore. E tuttavia mi aveva tenuto nascosto questo segreto, a Pinchbeck, il suo migliore amico. Perché? Per la vergogna? Paura? Pensavo che Leon fosse superiore a queste cose. Leon, lo spirito libero. Eppure... «Dica che è una bugia e la lascerò vivere.» Non una parola da Straitley; solo il suono simile a quello di un vecchio cane che si gira nel sonno. Maledetto, ho pensato. La nostra partita era praticamente finita, ed ecco che lui stava cercando di introdurre un elemento di dubbio. Mi scocciava, come se la mia vicenda con St Oswald non fosse soltanto una questione di pura vendetta per la mia vita spezzata, ma una vicenda ben più sporca, meno nobile. «Dico davvero», ho detto. «La nostra partita finisce qui.» Il dolore al petto ora si era placato, sostituito da un freddo profondo che mi illanguidiva. Nel buio sopra di me sentivo il respiro veloce di Miss Dare. Mi sono domandato se avesse in mente di uccidermi adesso, o se avrebbe lasciato che la natura seguisse il suo corso. In effetti ho scoperto che non mi interessava molto. Tuttavia, mi sono chiesto flebilmente perché le importasse. Il mio giudizio su Leon non sembrava averla frenata più di tanto; ma la mia descrizione della ragazza incinta l'aveva fermata di colpo. Era chiaro, ho pensato, che Miss Dare non l'aveva saputo. Ho riflettuto su cosa questo avrebbe po-
tuto significare per me. «È una bugia», ha ripetuto. Il freddo umorismo della voce era scomparso. Ora ogni parola crepitava di elettricità letale. «Leon me lo avrebbe detto.» Ho scosso la testa. «No, non lo avrebbe fatto. Era spaventato. Terrorizzato che la cosa pregiudicasse le sue prospettive universitarie. Sulle prime negò tutto, ma alla fine sua madre gli tirò fuori la verità. Quanto a me, non avevo mai visto la ragazza. Mai sentito dell'altra famiglia. Ma ero l'insegnante di classe di Leon. Dovevo saperlo. Certo, sia lui sia la ragazza erano minorenni. Però i Mitchell e i Tynan erano sempre stati amici e con il sostegno dei genitori e della chiesa, immagino che avrebbero potuto cavarsela.» «Questo se lo sta inventando.» La voce era recisa. «A Leon non sarebbe importato nulla di tutto questo. Avrebbe detto che era banale.» «Sì, gli piaceva quella parola, vero?» ho detto. «Piccolo tanghero pretenzioso. Gli piaceva pensare che le regole normali non si applicassero a lui. Sì, era banale, e sì, lo spaventava. In fondo aveva solo quattordici anni.» C'è stato un silenzio. Sopra di me, Miss Dare era come un monolite. Poi, finalmente, ha parlato. «Maschio o femmina?» Dunque mi credeva. Ho fatto un lungo respiro, e la mano che mi spingeva sul cuore è parsa arretrare, solo un po'. «Non lo so. Ho perso i contatti.» Be', certo che sì, è stato così per tutti. «Si parlò di adozione all'epoca, ma Marlene non me lo ha mai detto e io non ho mai chiesto. E lei, proprio lei, dovrebbe capire perché.» Un altro silenzio, forse più lungo del precedente. Poi, piano e disperatamente, lei ha cominciato a ridere. Potevo capire il motivo. Era tragico. Era ridicolo. «Ci vuole coraggio, a volte, per affrontare la verità. Vedere i nostri eroi, e i nostri cattivi, per quel che sono davvero. Vedere noi stessi come ci vedono gli altri. Mi chiedo, Miss Dare, in tutto quel tempo in cui dice di essere stata invisibile, si è mai vista davvero?» «Che cosa intende?» «Lei sa cosa voglio dire.» Voleva la verità. E adesso gliela offrivo, ancora chiedendomi per quale scopo ostinato mi sottoponessi a tutto questo, e per chi. Per Marlene? Per Bishop? Per Knight? O semplicemente per Roy Straitley, Dottore in Lette-
re, che una volta aveva insegnato a un ragazzo di nome Leon Mitchell senza maggiore o minore favoritismo e pregiudizio rispetto a qualsiasi altro dei miei ragazzi. O così speravo ardentemente, perfino con il peso del senno di poi e quella piccola, persistente paura: forse una parte di me aveva saputo che il ragazzo poteva cadere; lo sapeva sì, ma aveva scomposto quella certezza in un'equazione oscura, il tentativo di rallentare l'altro ragazzo, il ragazzo che lo spingeva. «È così, vero?» le ho detto piano. «Questa è la verità. Lo ha spinto lei, poi ci ha ripensato e ha cercato di aiutarlo. Ma io ero lì, e lei è dovuta scappare...» Perché questo è quello che pensavo di aver visto, mentre sbirciavo con fare miope dal mio nido d'aquila nella torre campanaria. Due ragazzi, uno girato verso di me, l'altro che mi dava le spalle, e tra di noi la figura del Portiere, la sua ombra tremolante che si muoveva a scatti sui tetti. Lui aveva gridato, e i ragazzi erano scappati: quello che mi dava le spalle tuffandosi davanti all'altro, così da fermarsi quasi di fronte a me, nell'ombra della torre campanaria. L'altro era Leon. Lo riconobbi all'istante, una breve occhiata di sfuggita alla faccia nelle luci violente prima che raggiungesse il suo amico sul limite del fosso di scolo. Avrebbe dovuto essere un salto facile. Pochi metri, e avrebbero raggiunto il parapetto, con la possibilità di una corsa senza ostacoli proprio sul tetto principale della scuola. Un salto facile per i ragazzi, ma, dall'avanzare pesante di John Snyde, vedevo che il Portiere avrebbe avuto serie difficoltà a seguirli laggiù. Potevo, dovevo, gridare allora: ma avevo bisogno di sapere chi fosse l'altro ragazzo. Sapevo già che non era uno dei miei, e perfino al buio ero sicuro che l'avrei riconosciuto. Si tenevano in equilibrio insieme sul bordo del baratro: un lungo dito di luce dalla corte illuminava i capelli di Leon di scarlatto e blu. L'altro ragazzo era ancora in ombra, una mano tesa come per nascondere la faccia al Portiere che si stava avvicinando. Sembrava che fra i due fosse in corso una discussione a bassa voce, ma comunque violenta. Durò dieci secondi, forse meno. Non riuscivo a sentire cosa si dicevano, anche se colsi le parole «salta» e «Portiere» e un accenno di riso stridulo, sgradevole. Adesso ero arrabbiato, arrabbiato come lo sono stato per gli intrusi nel mio giardino, i vandali del mio steccato. Non era tanto la trasgressione in sé, o il fatto che fossi stato chiamato lì nel cuore della notte (in realtà ero venuto di mia iniziativa, avendo sentito il trambusto). No, la mia
rabbia era ben più profonda di così. I ragazzi si comportano male, è un fatto della vita. In trentatré anni ho avuto dimostrazioni più che sufficienti. Ma questo era uno dei miei ragazzi. E mi sentivo come immagino si sia sentito Mr Meek, quel giorno nella torre campanaria. Non l'avrei dato a vedere, certo, essere un insegnante è prima di tutto nascondere l'ira quando è autentica, e fingerla quando non lo è, tuttavia mi avrebbe fatto bene guardare l'espressione sulle facce di quei due ragazzi mentre gridavo i loro nomi dal buio. Ma per farlo, avevo bisogno dei due nomi. Conoscevo già Leon, naturale. Sapevo che il mattino dopo avrebbe identificato il suo amico. Ma al mattino mancavano ancora ore; soltanto allora sarebbe parso chiaro ai ragazzi, così come lo era a me, che mi era impossibile fermarli. Potevo immaginare la loro risposta al mio grido arrabbiato, la risata, gli sberleffi mentre loro schizzavano via. In seguito, gliela avrei fatta pagare, certo. Ma la leggenda sarebbe durata: e la scuola avrebbe ricordato non la loro corvé di spazzini di quattro settimane, o la sospensione di cinque giorni, ma il fatto che un ragazzo aveva sfidato il vecchio Gobbo sul suo terreno e, anche se solo per poche ore, l'aveva fatta franca. E così aspettai, stringendo gli occhi per decifrare i tratti del secondo ragazzo. Per un momento li intravidi quando lui arretrò di un passo per fare il balzo; uno squarcio fulmineo di luce rossoblu mi mostrò una giovane faccia distorta da un'emozione violenta, la bocca tirata, i denti scoperti, gli occhi come fessure. La smorfia lo rendeva irriconoscibile; eppure lo conoscevo, ne ero sicuro. Un ragazzo di St Oswald. E ora fece il balzo di slancio. Il Portiere si stava avvicinando, la schiena massiccia che in parte eclissava il mio campo visivo dove il tetto si inclinava verso il fosso di scolo, e poi nell'improvvisa macchia confusa di movimento e nell'esposizione di luci sono certo di aver visto la mano di Pinchbeck entrare in contatto con la spalla di Leon, solo per un secondo, prima che si lanciassero insieme nel buio. Be', naturalmente non andò proprio così. O almeno, non dalla posizione in cui mi trovavo allora, ma ci è arrivato abbastanza vicino. Sì, vecchio, io ho spinto Leon, e quando ha urlato il mio nome ero sicura che mi avesse visto farlo. Forse volevo perfino che qualcuno vedesse, che qualcuno finalmente notasse la mia presenza. Ma ero confusa, inorridita dal mio gesto, rapita dalla mia audacia, incandescente di colpa, rabbia, terrore e amore. Avrei dato qualunque cosa perché fosse successo come ho raccontato: Butch e Sun-
dance sul tetto della cappella, l'ultima sfida, l'ultima occhiata di complicità tra amici mentre facevamo il nostro coraggioso balzo verso la libertà. Ma non andò così. Non andò affatto così. «Tuo papà?» chiese Leon. «Salta!» dissi. «Su, amico, salta!» Leon mi stava fissando, la faccia striata di blu autopompa. «Ah, ecco. Tuo papà è il Portiere.» «Sbrigati», sibilai. «Non c'è tempo.» Ma alla fine Leon aveva visto la verità; lo sguardo che tanto odiavo era riapparso sul suo volto, con una smorfia di gioia crudele. «Vale quasi la pena di farsi beccare per questo», sussurrò, «solo per vedere che faccia fanno...» «Smettila, Leon.» «O allora cosa, Frocetto?» Cominciò a ridere. «Che cosa farai, eh?» In bocca avevo un gusto orribile, un sapore di metallo acido, e mi resi conto di essermi morsicata la lingua. Il sangue mi correva sul mento come una bava. «Per favore, Leon...» Ma Leon stava ancora ridendo in quel modo ansimante, affettato; e per un istante terribile, vidi attraverso i suoi occhi: vidi la grassa Peggy Johnsen, e Jeffrey Stuarts e Harold Mann e Lucy Robbins e tutti i mostri e i perdenti della classe di Mr Bray, e i Sunnybanker senza un futuro oltre il quartiere di Abbey Road, e le facce incazzatissime, le puttanelle, i buoni a nulla, i prolet, e peggio di tutti, vidi me stessa, chiaramente, e per la prima volta. Fu allora che lo spinsi. Non ricordo questa parte in modo altrettanto chiaro. A volte mi dico che fu un incidente. A volte quasi ci credo. Forse mi immaginavo che saltasse, l'Uomo Ragno lo fa da una distanza del doppio; l'avevo fatto io stessa abbastanza per essere assolutamente sicura che non sarebbe caduto. Ma Leon cadde. La mia mano sulla sua spalla. Quel rumore. Dio. Quel rumore. 5. Notte del Falò 21.55
Così, infine, l'avete sentita tutta. Mi spiace che sia successo qui, e così in fretta. Stavo davvero attendendo con ansia il Natale a St Oswald, per non parlare dell'ispezione, certo. Ma la nostra partita è fatta. Il re è solo. Tutti gli altri pezzi hanno lasciato la scacchiera e possiamo fronteggiarci onestamente, per la prima e ultima volta. Credo che le fossi simpatica. Penso che mi rispettasse. Adesso mi conosce. Questo è tutto ciò che volevo davvero da lei, vecchio. Rispetto. Riguardo. Regard. Quella curiosa visibilità che è il diritto di nascita automatico di coloro che vivono dall'altro lato della linea. «Signore? Signore?» Ha aperto gli occhi. Bene. Temevo di averlo perso. Avrebbe potuto essere più umano finirlo, ma ho scoperto che non riuscivo a farlo. Mi aveva vista. Conosceva la verità. E se lo avessi ucciso adesso, non sarebbe parsa una vittoria. Una patta, quindi, magister. A questo mi posso adattare. E poi, c'era un'ultima cosa che mi inquietava: una domanda rimasta senza risposta prima di poter dichiarare chiusa la partita. Mi è venuto in mente allora che forse non mi sarebbe piaciuta la risposta. Tuttavia, avevo bisogno di sapere. «Mi dica, signore. Se mi ha visto spingere Leon, perché all'epoca non l'ha detto? Perché proteggermi quando sapeva quello che avevo fatto?» Sapevo, certo, cosa volevo sentirmi dire. E in silenzio, adesso lo guardavo in faccia, accovacciandomi accanto a lui per cogliere anche il bisbiglio più esile. «Mi parli, signore. Perché non lo fece?» Per un po' c'è stato silenzio, tranne per il respiro che gli fischiava lento e leggero in gola. Mi sono chiesta se avessi rimandato troppo la cosa, se avesse deciso di spirare solo per dispetto. Poi ha parlato, e la sua voce era debole, ma ho sentito bene. E ha risposto: «St Oswald.» Lei aveva detto niente bugie. Bene, le ho dato la verità. O almeno, tutta quella che ho potuto, anche se dopo non sono più stato sicuro di quanto abbia detto a voce alta. È per questo che ho mantenuto il segreto per tutti questi anni, che non ho mai raccontato alla polizia quello che avevo visto sul tetto; per questo avevo lasciato che la vicenda morisse con John Snyde. Dovete capire: la morte di Leon all'interno della scuola fu abbastanza terribile. La morte del Por-
tiere peggiorò le cose. Ma coinvolgere un bambino, accusare un bambino, avrebbe catapultato la dolorosa vicenda in territorio da tabloid per sempre. St Oswald non se lo meritava. I miei colleghi, i miei ragazzi: per loro il danno sarebbe stato incalcolabile. E poi, di che cosa, precisamente, ero stato testimone? Una faccia, intravista per una frazione di secondo nella luce ingannevole. Una mano sulla spalla di Leon. La figura di un Portiere che bloccava la scena. Non era sufficiente. E così ho lasciato la questione in sospeso. Non era neanche troppo disonesto, mi dicevo, dopotutto mi fidavo appena della testimonianza che avevo reso allora. Ma adesso qui c'era finalmente la verità, che ritornava come un autotreno a travolgere me, i miei amici, tutto ciò che avevo sperato di proteggere, sotto le sue ruote giganti. «St Oswald.» La voce era riflessiva, a malapena udibile da una distanza cavernosa. Ho annuito, contento che avesse capito. In fondo, come poteva non farlo? Conosceva St Oswald bene quanto me; conosceva i suoi modi e i segreti oscuri, le sue comodità e le sue piccole vanità. È difficile spiegare un posto come St Oswald. Come l'insegnamento, o sei fatto per quel lavoro, oppure no. Una volta coinvolti, troppi non riescono ad andarsene, almeno fino al giorno in cui il vecchio posto decide di farli fuori (con o senza un piccolo onorario prelevato dai fondi del Comitato Sala professori). Sono stato a St Oswald così tanti anni, che per me non esiste nient'altro: non ho amici fuori dalla Sala professori, nessuna speranza a parte i miei ragazzi, nessuna vita oltre... «St Oswald», ha ripetuto. «Certo. È buffo, signore. Pensavo che potesse averlo fatto per me.» «Per lei?» ho chiesto. «Perché?» Qualcosa è schizzato sulla mia mano; una gocciolina da uno degli alberi vicini, o qualcosa d'altro, non ne ero sicuro. A un tratto ho provato un moto di pietà, di sicuro inappropriato, ma l'ho sentito comunque. Aveva pensato davvero che io avessi taciuto tutti questi anni per amore di un'impensabile relazione fra di noi? Questo avrebbe spiegato una quantità di cose: il suo continuo cercarmi, il suo bisogno divorante di approvazione, i modi sempre più barocchi per catturare la mia attenzione. Oh, era un mostro, ma in quel momento ho provato compassione, e ho allungato la mia vecchia mano goffa verso la sua nell'oscurità. L'ha presa. «Maledetta St Oswald. Maledetto vampiro.»
Sapevo cosa voleva dire. Puoi dare, e dare, e dare, ma St Oswald è sempre affamata, divora tutto, amore, vita, lealtà senza mai saziare il suo inesauribile appetito. «Come può sopportarlo, signore? Che cosa si aspetta lei?» Buon punto, Miss Dare. Il fatto è che non ho scelta: sono come una madre uccello alle prese con un pulcino implume di proporzioni mostruose e avidità insaziabile. «La verità è che molti di noi, la vecchia guardia, almeno, mentirebbe e addirittura morirebbe per St Oswald se il dovere lo richiedesse.» Non ho aggiunto che mi sentivo come se in effetti potessi morire lì su due piedi, ma soltanto perché avevo la bocca asciutta. Mi ha rivolto un risolino inatteso. «Ah, vecchia primadonna. Sa, sono quasi propensa a farle esaudire il suo desiderio, lasciarla morire per la cara St Oswald, e vedere quanta gratitudine le spetta.» «Nessuna gratitudine», ho detto, «ma i benefici fiscali sono enormi.» Era una battuta stupida per essere le mie ultime parole, ma in quelle circostanze era il meglio che potessi fare. «Non sia stupido, signore. Non morirà.» «Ho compiuto sessantacinque anni, e posso fare come mi pare.» «Cosa? E non arrivare alla Centuria?» «È il gioco», ho citato male da una qualche fonte. «Non lui che la gioca.» «Questo dipende da che parte sta.» Ho riso. Era una ragazza intelligente, ho pensato, ma sfido chiunque a trovare una donna che capisca davvero il cricket. «Adesso ho bisogno di dormire», le ho detto assonnato. «Gambe in spalle e ritorniamo agli spogliatoi. Scis quid dicant...» «Non ancora, signore. Non può dormire adesso...» «Mi guardi», ho detto, e ho chiuso gli occhi. C'è stato un lungo silenzio. Poi ho udito la sua voce, che ora si allontanava come i suoi passi mentre scendeva il freddo. «Buon compleanno, magister.» Quelle ultime parole sono risuonate molto lontane, conclusive nel buio. L'Ultimo Velo, mi sono detto tetramente, e in qualsiasi punto, adesso, potevo aspettarmi di vedere il Tunnel di Luce di cui parla sempre Penny Nation, con le sue ragazze pon pon celestiali che mi incitavano. Per essere onesto mi è sempre parso piuttosto orribile, ma adesso ho pensato di vedere davvero la luce, un bagliore verdastro molto soprannaturale, e sentire le voci degli amici morti che mormoravano il mio nome.
«Mr Straitley?» Buffo, ho pensato: mi immaginavo che gli esseri celestiali fossero assai meno formali nel loro modo di parlare. Ma adesso lo sentivo chiaramente e nella luce verde vedevo che Miss Dare se ne era andata, e la cosa che avevo scambiato per un ramo caduto nell'oscurità era in realtà una figura infagottata, che giaceva a terra a meno di tre metri. «Mr Straitley», ha sussurrato di nuovo, con voce rugginosa, e altrettanto umana, della mia. Ora vedevo una mano tesa, uno spicchio di faccia dietro il cappuccio impellicciato di un parka, poi la piccola luce verdastra che alla fine ho riconosciuto come il display di un telefono cellulare, che gli illuminava il volto. Ed era un volto familiare: l'espressione affaticata ma calma, mentre il fagotto cominciava, con pazienza, reggendo il telefono con quello che sembrava uno sforzo straziante, a trascinarsi verso di me. «Keane?» ho domandato. 6. Parigi, 5° arrondissement venerdì, 12 novembre Ho chiamato l'ambulanza. Ce n'è sempre una vicina al parco la Notte del Falò, in caso di incidenti, risse e infortuni vari, e l'unica cosa che ho dovuto fare è stato telefonare (usando per l'ultima volta il cellulare di Knight), riferire che un uomo anziano aveva avuto un collasso, lasciando delle istruzioni che fossero allo stesso tempo abbastanza precise perché lo trovassero e abbastanza vaghe per darmi l'opportunità di fuggire con comodo. Non ci è voluto molto. Nel corso degli anni sono diventata quasi un'esperta nelle fughe rapide. Sono arrivata a casa per le dieci; alle dieci e quindici avevo fatto le valigie ed ero pronta. Ho lasciato l'auto a nolo (chiavi inserite) nel quartiere di Abbey Road; alle dieci e mezza ero pressoché certa che sarebbe stata rubata e incendiata. Avevo già cancellato i documenti dal computer e tolto il disco rigido, e ora mi sono liberata di quanto restava lungo i binari sulla strada per la stazione. A quel punto avevo solo da trasportare una piccola valigia con i vestiti di Miss Dare: li ho lasciati in un contenitore per una raccolta destinata a un'associazione benefica che li avrebbe fatti lavare in tintoria e inviati nel terzo mondo. Alla fine ho scaricato i pochi documenti ancora riconducibili alla mia vecchia identità in un cassonetto e mi sono regalata una notte in un motel a buon
mercato e il biglietto del treno di sola andata per casa. Devo dire che Parigi mi è mancata. Quindici anni fa, non lo avrei mai creduto possibile, ma ora mi piace molto. Sono libera da mia madre (una storia così triste, due persone morte bruciate nell'incendio di un appartamento) e di conseguenza sono la sola beneficiaria di una gradevole piccola eredità. Ho cambiato nome così come mia madre aveva fatto col suo, e negli ultimi due anni ho insegnato inglese in un lycée di periferia, dal quale ho preso di recente un breve periodo sabbatico per completare la ricerca che mi porterà, mi assicurano, a una rapida promozione. Lo spero; in effetti sono venuta a sapere di un piccolo scandalo che sta per esplodere (circa il problema col gioco d'azzardo del mio immediato superiore) liberando un posto vacante che mi si addice. Non è St Oswald, certo, ma andrà bene. Per adesso, almeno. Quanto a Straitley, spero che sopravviverà. Nessun altro insegnante si è conquistato il mio rispetto, di certo non quelli di Sunnybank Park, o dello squallido lycée parigino che lo ha seguito. Nessun altro, insegnante, genitore, analista, mi ha mai insegnato nulla che valesse la pena sapere. Forse è per questo che lo lascio vivere. O forse è stato per provare a me stessa che ho finalmente superato il mio vecchio magister, anche se in questo caso la sua sopravvivenza implica delle responsabilità a doppio taglio, e cosa la sua testimonianza significherà per St Oswald è difficile dirlo. Di sicuro, se desidera salvare i colleghi dallo scandalo attuale, non vedo altra alternativa che evocare lo spettro del caso Snyde. Ci saranno cose spiacevoli. Verrà fatto il mio nome. Su quel fronte, però, ho scarse preoccupazioni; le mie tracce sono ben nascoste, e diversamente da St Oswald, riemergerò ancora una volta senza essere vista e senza danni. Ma la scuola in passato ha già superato degli scandali; e sebbene sia probabile che questo nuovo la esponga al pubblico nel modo più sgradevole, immagino che possa resistere. In un certo senso, in maniera perversa, spero che sia così. Dopo tutto, una considerevole parte di me vi appartiene. Adesso, seduta al mio caffè preferito (no, non vi dirò dove si trova), con davanti la mia demitasse e i croissant sul piano in vinile del tavolo e il vento di novembre che geme lungo l'ampio boulevard, potrei quasi sentirmi in vacanza. Nell'aria c'è la stessa sensazione di promessa, di programmi da fare. Dovrei divertirmi. Ancora due mesi di sabbatico, un altro progettino eccitante da iniziare, e cosa migliore e più strana, sono libera. Però mi sono trascinata dietro questa vendetta così a lungo, che quasi me
ne manca il peso: la certezza di aver qualcosa da inseguire. Il mio slancio sembra esaurito. È una sensazione curiosa, e rovina il momento. Per la prima volta da tanti anni, mi ritrovo a pensare a Leon. So che può apparire strano - non è stato con me tutto questo tempo? - ma intendo dire il Leon vero, non la figura creata dal tempo e dalla distanza. Oggi avrebbe quasi trent'anni. Lo ricordo dire: «Trent'anni, che vecchio. Per amor del cielo, uccidimi prima che ci arrivi». In passato non riuscivo a farlo, ma adesso riesco a vedere Leon a trent'anni, Leon sposato, che mette su pancia, Leon con un lavoro, Leon con un bambino. E ora, alla fin fine, posso vedere come appare ordinario, eclissato dal tempo, ridotto a una serie di vecchi scatti, i colori sbiaditi, immagini ormai comiche di mode superate da tempo - «Mio dio, si mettevano questa roba?» - e d'un tratto e in maniera ridicola comincio a piangere. Non per il Leon della mia immaginazione, ma per me stessa, per il piccolo Frocetto che ero, ormai ventottenne e diretta a briglia sciolta e per sempre verso chi sa quale nuova oscurità. Posso sopportarlo? mi chiedo. E smetterò mai? «Hé, la Reinette. Ça va pas?» Questo è André Joubert, il proprietario del caffè, un uomo sui sessanta, magro come un giunco e scuro. Mi conosce, o pensa di conoscermi, e c'è preoccupazione nella sua faccia angolosa mentre vede la mia espressione. Faccio un gesto che dice sciò, «Tout va bien», poi lascio un paio di monete sul tavolo ed esco sul boulevard, dove le mie lacrime asciugheranno nel vento sabbioso. Forse ne farò cenno alla mia analista nel nostro prossimo appuntamento. Può darsi però che io salti del tutto l'appuntamento. L'analista si chiama Zara, e porta grossi maglioni e l'Air du Temps. Non conosce nulla di me se non le mie finzioni, e mi dà tinture omeopatiche di seppia e iodio per calmare i nervi. Ha moltissima simpatia per la mia infanzia tribolata e per le tragedie che mi hanno privata, prima di mio padre, poi di mia madre, del patrigno e della sorellina in età così giovane. Prova preoccupazione per la mia timidezza, la mia puerilità, e per il fatto che non abbia mai avuto intimità con un uomo. Dà la colpa a mio padre, che le ho rappresentato con le sembianze di Roy Straitley, e mi esorta a cercare chiusura, catarsi, autodeterminazione. Mi viene in mente che forse l'ho fatto. Dall'altra parte del boulevard, Parigi spogliata dal vento è luminosa, i suoi contorni nitidi. Questo mi rende inquieta, mi fa venire voglia di vedere precisamente dove soffia quel vento e sono incuriosita dal colore della luce appena sopra l'orizzonte lontano.
Il mio lycée suburbano sembra banale al confronto di St Oswald. Il mio progettino è stato fatto prima e la prospettiva di sistemarmi, di accettare la promozione, di inserirmi in quella nicchia, tutto sommato ora sembra troppo facile. Dopo St Oswald voglio di più. Voglio ancora osare, ingegnarmi, conquistare; ora perfino Parigi sembra troppo piccola per contenere la mia ambizione. E allora dove? L'America? Sarebbe bello, quella terra di reinvenzione, dove il solo fatto di essere inglese conferisce il grado automatico di gentleman. Un paese di valori bianchi e neri, l'America; di interessanti contraddizioni. Penso che potrebbero esserci delle gratifiche considerevoli per un'attrice di talento come me. Sì, l'America potrebbe divertirmi. O l'Italia, dove ogni cattedrale mi ricorda St Oswald e la luce è dorata sulla polvere e lo squallore di quelle favolose città antiche. Oppure il Portogallo, o la Spagna, o ancora più lontano, l'India o il Giappone, finché un giorno mi ritrovo di fronte ai cancelli principali di St Oswald, come il serpente con la coda in bocca, la cui ambizione strisciante avvolge la terra intera. Ora che ci penso, mi sembra inevitabile. Non quest'anno, forse nemmeno questo decennio, ma un giorno mi ritroverò lì, a guardare i campi di cricket e quelli di rugby e le corti, gli archi e i camini e le saracinesche della St Oswald's Grammar School for Boys. Lo trovo un pensiero tutto sommato consolatorio, come l'immagine di una candela su un davanzale che brucia solo per me, come se il trascorrere del tempo, che è stato sempre presente nei miei pensieri in questi ultimi anni, fosse soltanto il passare delle nuvole lungo quei tetti dorati. Nessuno mi conoscerà. Anni di cambiamenti mi hanno dato un manto protettivo. Solo una persona mi riconoscerebbe, e ho in programma di aspettare finché Roy Straitley sia in pensione da un pezzo prima di mostrare di nuovo la mia faccia, una qualsiasi delle mie facce, dalle parti di St Oswald. Un peccato, in un certo senso. Una partita finale avrebbe potuto divertirmi. Eppure, quando tornerò a St Oswald, farò in modo di cercare il suo nome sull'Albo d'onore tra quelli dei vecchi Centurioni. Ho la netta sensazione che ci sarà. 3. 14 novembre Penso che sia domenica, ma non ne sono proprio sicuro. L'infermiera dai capelli rosa è di nuovo qui, a riordinare il reparto, e, mi sembra di ricordare
che anche Marlene sia qui, seduta in silenzio a leggere sulla sedia accanto al letto. Ma oggi è davvero il primo giorno in cui il tempo ha seguito il suo corso naturale e le maree dell'incoscienza, che hanno governato i miei giorni e le mie notti nelle ultime due settimane, abbiano cominciato a ritirarsi. Miss Dare, pare, è svanita senza lasciar traccia. Il suo appartamento è stato svuotato; la sua automobile incendiata; la sua ultima busta paga resta intatta. Marlene, che si divide tra il reparto e l'ufficio della scuola, mi racconta che i certificati e le lettere mostrati all'epoca della sua domanda si sono rivelati falsi, e che la «vera» Dianne Dare, alla quale il diploma di laurea in lingue è stato conferito cinque anni fa, ha lavorato per un piccolo editore a Londra negli ultimi tre anni, e non ha mai sentito nominare St Oswald. Naturalmente, la sua descrizione è stata fatta circolare. Ma l'aspetto si può cambiare, e si possono falsificare nuove identità, per cui la mia ipotesi è che Miss Dare, o Miss Snyde, se questo è ancora il suo nome, ci sfuggirà per molto tempo ancora. Temo che su questo argomento non sono stato in grado di aiutare la polizia quanto avrebbe voluto. So soltanto che lei ha chiamato l'ambulanza e i medici a bordo hanno somministrato a tambur battente la cura che mi ha salvato la vita. Il giorno dopo, una giovane donna che si è proclamata mia figlia, ha consegnato al reparto un pacchetto regalo; all'interno vi hanno trovato un vecchio orologio da tasca d'argento, con delle belle incisioni. Nessuno sembra ricordarsi la faccia della giovane donna, anche se è vero che non ho una figlia, o nessuna parente che corrisponda alla descrizione. In ogni caso, la donna non è più ritornata, e l'orologio non è altro che un orologio comune, piuttosto vecchio e un po' annerito; ma segna benissimo l'ora malgrado l'età e ha un quadrante che, se non precisamente bello, è di certo pieno di carattere. E non è l'unico regalo che io abbia ricevuto questa settimana. Non ho mai visto così tanti fiori: potreste pensare che sono già cadavere. In realtà mi sono stati dati con affetto. C'è un cactus spinoso dai miei Stanlio e Ollio con l'impudente messaggio: «Pensando a lei». Una violetta africana da Kitty Teague; un crisantemo giallo da Pearman; una balsamina da Jimmy; un bouquet misto dalla Sala professori; un Ploemonium coeruleum dalle bigotte Nazioni, un clorofito da Monument, (forse per rimpiazzare quelli che Devine ha rimosso dall'ufficio degli studi classici) e dallo stesso Devine una grande pianta di ricino che sta accanto al mio letto con una sorta di
disapprovazione lucente, come se si chiedesse perché non sono ancora morto. Ci sono andato vicino, così mi dicono. Quanto a Keane, la sua operazione è durata parecchie ore e ha richiesto oltre due litri di sangue. L'altro giorno è venuto a trovarmi, e anche se la sua infermiera ha insistito perché rimanesse sulla sedia a rotelle, aveva un bellissimo aspetto per qualcuno che ha ingannato la morte. Ha tenuto un quadernetto del periodo in ospedale, con schizzi delle infermiere e piccole osservazioni caustiche sulla vita in corsia. Può darsi che lì dentro un giorno ci sia un libro, dice. Bene, sono contento che almeno non abbia soffocato la sua creatività; gli ho detto però che da un insegnante diventato scribacchino non viene mai fuori nulla di buono e che se vuole una carriera decente dovrebbe attenersi alla cosa per cui è veramente portato. Pat Bishop ha lasciato il reparto di cardiologia. L'infermiera dai capelli rosa (il cui nome è Rosie) dichiara di essere cordialmente sollevata. «Tre Ossie nello stesso momento? Mi verranno i capelli grigi», si lamenta, anche se mi sono accorto che i suoi modi nei miei confronti si sono notevolmente ammorbiditi (un effetto collaterale, suppongo, del fascino di Pat) e adesso trascorre più tempo con me che con tutti gli altri pazienti. Alla luce della nuova prova, le accuse contro Pat sono cadute, anche se è ancora sottoposto all'ordine di sospensione firmato dal Nuovo Rettore. Gli altri colleghi hanno avuto una sorte migliore: nessuno di loro è stato accusato in modo ufficiale, e così possono benissimo ritornare regolarmente. Jimmy deve essere riassunto, formalmente finché la scuola non ha trovato un sostituto, ma sospetto che continuerà a essere un'istituzione stabile. Lo stesso Jimmy crede di dover ringraziare me per questa seconda opportunità, anche se gli ho detto più volte che io non c'entro nulla. Poche parole con il dott. Tidy, ecco tutto; per il resto, c'è solo da dare la colpa all'imminente ispezione scolastica, e al fatto che senza il nostro semideficiente e capace tuttofare, una grande quantità dei piccoli, ma necessari, ingranaggi di St Oswald da tempo si sarebbero grippati definitivamente. Quanto agli altri miei colleghi, sento dire che Isabelle se ne è andata per sempre. Anche Light se ne è andato (per cominciare un corso di economia aziendale, avendo trovato l'insegnamento troppo impegnativo, o così pare). Pearman è tornato, con la segreta delusione di Eric Scoones, che in assenza di Pearman si è visto dirigere il dipartimento, Kitty Teague ha fatto domanda per un lavoro di Coordinatore dell'anno a St Henry, e sono sicuro che lo otterrà. Andando oltre, Bob Strange sta dirigendo le cose su una ba-
se semipermanente, anche se il passaparola mi dice che ha dovuto sopportare una significativa quantità di indisciplina da parte dei ragazzi, e ci sono voci di un pacchetto di licenziamento (una somma generosa) raccolto per assicurarsi che Pat resti fuori. Marlene pensa che Pat dovrebbe combattere, il sindacato di sicuro sosterrebbe il suo caso, ma lo scandalo è scandalo, a prescindere dal suo esito, e ci saranno sempre delle persone che esprimono i soliti cliché. Povero Pat. Penso che potrebbe ancora ottenere un posto di direttore da qualche parte o, meglio ancora, un posto di capo commissione d'esame, ma il suo cuore appartiene a St Oswald, e il suo cuore è stato spezzato. Non dalle indagini della polizia, che in fondo stava solo facendo il suo lavoro, ma da mille ferite: le chiamate senza risposta, gli imbarazzati incontri fortuiti, gli amici subito pronti a cambiar partito quando hanno visto che aria tirava. «Potrei ritornare», mi ha detto, mentre si preparava ad andarsene. «Ma non sarebbe lo stesso.» So cosa intende dire. Il cerchio magico, una volta spezzato, non può più essere restaurato del tutto. «E poi», ha continuato, «non farei una cosa del genere a St Oswald.» «Non vedo perché», ha detto Marlene, che stava aspettando. «In fondo dov'era St Oswald quando eri tu ad avere bisogno?» Pat ha solo scrollato le spalle. Non c'è modo di spiegarlo, non a una donna, nemmeno a una donna eccezionale come Marlene. Spero che si prenda cura di Pat, ho pensato; spero che capisca come certe cose non si comprendono del tutto. Knight? A oggi Colin Knight non è ricomparso, ormai presumono tutti che sia morto, tranne i genitori. Mr Knight medita di fare causa alla scuola e si è già lanciato in una serie di energiche campagne, ben pubblicizzate, con l'appello per far passare la «Legge Colin», compreso il test obbligatorio del DNA, una valutazione psicologica e stringenti controlli della polizia su chiunque abbia in mente di lavorare con i bambini; per assicurare, dice, che qualsiasi cosa sia accaduta al suo ragazzo non possa più ripetersi. Mrs Knight ha perso peso e guadagnato gioielli; le fotografie sul giornale e i quotidiani bollettini TV mostrano una donna fragile, laccata, con il collo e le mani che sembrano a malapena in grado di sostenere le tante catene, gli anelli e i braccialetti che pendono da lei come fronzoli di Natale. Quanto a me, penso che il corpo di suo figlio non verrà ritrovato. Stagni e bacini idrici non hanno fruttato alcuna traccia, gli appelli al pubblico hanno sortito una gran quantità di risposte dalle buone intenzioni, molte segnalazioni ot-
timistiche, tanta buona volontà, ma nessun risultato. «C'è ancora speranza», dice Mrs Knight al telegiornale, ma la ragione per cui la televisione si occupa ancora della storia non è il ragazzo (che tutti hanno cancellato) ma l'avvincente spettacolo di Mrs Knight, impettita in Chanel e corazzata di diamanti, ancora aggrappata all'illusione, che a poco a poco si irrigidisce e muore. Meglio del Grande fratello. Non mi è mai piaciuta, neanche ai vecchi tempi, e non ho motivo perché mi piaccia adesso, però la compatisco. Marlene si sosteneva con il lavoro, insieme all'affetto per Pat; cosa più importante, Marlene aveva una figlia, Charlotte, non un sostituto di Leon, ma pur sempre una figlia, una speranza, una promessa. Mrs Knight non ha nulla, nulla se non un ricordo che con il passare dei giorni diventa sempre meno attendibile. A furia di raccontarla, la storia di Colin Knight è cresciuta. Come tutte le vittime del genere è diventato, in retrospettiva, un ragazzo popolare, amato dagli insegnanti, rimpianto dagli amici. Un ottimo studente che avrebbe potuto andare lontano. La foto sul giornale lo mostra a una festa di compleanno, a undici o dodici anni, che sorride pimpante (non penso di aver mai visto Knight sorridere), i capelli lavati, gli occhi luminosi, la pelle non ancora rovinata. Lo riconosco a stento, eppure la realtà del ragazzo non conta più: questo è il Colin Knight che ricorderemo, la tragica immagine di bambino perduto. Mi chiedo che cosa pensi di tutto questo Marlene. In fondo anche lei ha perso un figlio. Gliel'ho chiesto oggi en passant, mentre Pat raccoglieva le sue cose (piante, libri, biglietti, uno sbarramento di palloncini «Guarisci»). E le ho rivolto anche un'altra domanda, una domanda rimasta in sospeso così a lungo da aver bisogno di un altro omicidio per darle voce. «Marlene», ho detto. «Cosa è successo al bambino?» Era in piedi accanto al letto e portava gli occhiali da lettura per scrutinare l'etichetta di una palma in vaso. Intendevo il bambino di Leon, certo, di Leon e Francesca, e deve averlo capito, perché di colpo il suo viso è diventato immobile, assumendo una vigile mancanza di espressione che per un attimo mi ha ricordato Mrs Knight. «Questa pianta è molto secca», ha detto. «Ha bisogno di essere innaffiata. Lo sa dio, Roy, non riuscirai mai a occuparti di tutte.» L'ho guardata. «Marlene.» In fin dei conti sarebbe stato suo nipote. Il figlio di Leon, il germoglio promettente, la prova vivente che lui era vissuto, che la vita continua, che tornerà la primavera, tutti luoghi comuni, lo so, ma così sono le piccole ruote su cui girano le ruote più grandi, e dove saremmo senza?
«Marlene», ho ripetuto. I suoi occhi si sono spostati su Bishop, che stava parlando con Rosie un po' più lontano. Poi, lentamente, ha annuito. «Volevo prenderlo io», ha detto alla fine. «Era il figlio di Leon e certo che lo volevo. Ma ero divorziata, troppo vecchia per adottare, con una figlia che aveva bisogno di me e un lavoro che richiedeva tempo. Nonna o no, non me lo avrebbero mai lasciato prendere. E sapevo che se l'avessi visto, anche una volta sola, non sarei mai stata capace di lasciarlo andare.» Avevano proposto il bambino per un'adozione. Marlene non cercò mai di scoprire dove fosse finito. Avrebbe potuto essere ovunque. Nessun nome, nessun indirizzo viene scambiato in questi casi. Potrebbe essere chiunque. Avremmo anche potuto vederlo senza saperlo, a un incontro di cricket fra le scuole, su un treno, o soltanto passando per strada. Potrebbe essere morto, succede, sapete, oppure avrebbe potuto essere proprio qui, proprio adesso, un ragazzo quattordicenne tra mille altri, una faccia giovane, vagamente familiare, una cascata di capelli, uno sguardo... «Non deve essere stato facile.» «Me la sono cavata», ha detto. «E adesso?» Una pausa. Pat era pronto per andarsene. Si è avvicinato al mio letto, insolito coi jeans e la T-shirt (gli insegnanti di St Oswald indossano un vestito) e ha sorriso. «Ce la caveremo», ha detto Marlene e ha preso la mano di Pat. Era la prima volta che la vedevo farlo; e in quel momento ho capito che a St Oswald non avrei più rivisto nessuno dei due. «Buona fortuna», ho detto, intendendo dire «Addio». Per un momento sono rimasti ai piedi del letto, mano nella mano, a guardare in giù verso di me. «Abbi cura di te, vecchio», ha detto Pat. «Ciao. Dio, non riesco quasi a vederti, dietro a tutti questi maledetti fiori.» 5. lunedì, 6 dicembre A quanto pare non mi vogliono. O così mi ha detto Bob Strange quando, stamattina, mi sono presentato al lavoro. «Per amor del cielo, Roy. Non ucciderà i ragazzi se salteranno qualche lezione di latino!» Be', forse no: ma capita che mi interessino i risultati dei miei ragazzi, capita che mi interessi il futuro degli studi classici nella scuola e poi mi
sento molto meglio. Oh, il dottore dice quello che di solito dicono i dottori; ma ricordo Bevans quando era solo un bambinetto rotondo nella mia classe di latino, con l'abitudine di togliersi in continuazione una scarpa durante le lezioni e non mi sogno nemmeno di permettergli di darmi ordini. Ho scoperto che hanno messo Meek come responsabile della mia classe. Lo sentivo dal rumore che filtrava attraverso il pavimento della Sala del silenzio; un accumulo di rumori stranamente nostalgico, tra cui si riconoscevano subito l'acuto persistente di Anderton-Pullitt e il rombo risonante di Brasenose. C'erano anche risate che scendevano dalla tromba delle scale, e avrebbe potuto essere un momento qualunque, un tempo indefinito, con il suono dei ragazzi che ridevano e Meek che protestava e l'odore di gesso e toast bruciati che proveniva dal corridoio di mezzo, e il dong lontano di campane e porte e passi, e quel particolare suono scivoloso, scorrevole di cartelle trascinate lungo il corridoio lustro, e i tacchi delle mie colleghe che ticchete tacchete compivano il loro percorso verso qualche ufficio, qualche riunione, e l'aria polverosa e dorata della torre campanaria che risplendeva fitta di pulviscolo. Ho fatto un profondo respiro. Ahhh. Sembra che sia stato via per anni, eppure già sento gli eventi delle ultime settimane che si allontanano, come il sogno accaduto a qualcun altro, tanto, tanto tempo fa. Qui a St Oswald ci sono ancora battaglie da combattere, lezioni da fare, ragazzi da istruire sulle sottigliezze di Orazio e i pericoli dell'ablativo assoluto. Una fatica di Sisifo: ma una fatica che intendo continuare finché mi reggo in piedi. Tazza di tè in mano, copia del «Times» (aperta alla pagina del cruciverba) infilata bene sotto il braccio, la toga che sbatte impolverata sul pavimento lucidato, mi avvio risoluto verso la torre campanaria. «Ah. Straitley.» Sarà Devine. Non è possibile sbagliarsi su quella voce asciutta, di riprovazione, o il fatto che non mi chiama mai col nome di battesimo. Eccolo lì, in piedi vicino alle scale: abito grigio, toga stirata e cravatta di seta azzurra. Inamidato non descrive minimamente la rigidezza, la faccia legnosa come quella di un tabaccaio indiano nel sole mattutino. Certo, dopo l'affare Dare, è in debito con me, e questo, credo, peggiora le cose. Dietro di lui due uomini, vestiti e calzati per funzioni amministrative, se ne stavano come sentinelle. Certo. Gli ispettori. Mi ero dimenticato, in tut-
ta l'eccitazione, che erano attesi per oggi, pur avendo notato un insolito livello di contegno e decoro fra i ragazzi che arrivavano, e tre posti riservati ai disabili nel posteggio dei visitatori che, sono sicuro, la sera prima non c'erano. «Ah. L'inquisizione.» Ho abbozzato un vago saluto. Il vecchio Acerbo mi ha lanciato una delle sue occhiate. «Questo è Mr Bramley», ha detto con un gesto deferente verso uno dei visitatori, «e questo è il suo collega, Mr Flawn. Seguiranno le sue lezioni stamattina.» «Capisco», ho detto. Figurarsi se Devine non organizza questo il primo giorno in cui sono tornato. Tuttavia, un uomo che si abbassa alla manovra di Salute e sicurezza non si fermerà davanti a nulla e poi, sono stato a St Oswald troppo a lungo per farmi intimidire da una coppia di Doppiopetto. Ho rivolto il mio sorriso più caloroso e ho risposto subito. «Bene, mi sto proprio avviando all'ufficio degli studi classici», ho detto. «È così importante avere uno spazio per sé, non credete? Oh, non fate caso a lui», ho detto agli ispettori mentre Devine si lanciava nel corridoio di mezzo come una gazzella a molla. «Si agita facilmente.» Cinque minuti dopo abbiamo raggiunto l'ufficio. Un posticino gradevole, devo dire; mi è sempre piaciuto e adesso che il gruppo di Devine l'ha fatto ridipingere, sembra ancora più accogliente. Le mie piante di clorofito sono tornate dall'armadio qualsiasi in cui Devine le aveva relegate, e i miei libri erano sistemati in modo simpatico su una serie di scaffali dietro alla mia scrivania. Meglio di tutto, il cartello stampato con scritto «Ufficio di Tedesco» era stato sostituito da una bella targhetta che diceva semplicemente «Studi Classici». Be', sapete, in certi giorni si vince, in altri si perde. Ed è stato con una sensazione di vittoria che questa mattina ho fatto vela fino all'aula 59, facendo rimanere a bocca aperta Meek e precipitare un silenzio improvviso sulla torre campanaria. È durato pochi secondi, poi un rumore ha cominciato a sollevarsi dalle assi del pavimento, un suono crescente come quello di un razzo che sta per decollare; e poi erano in piedi, tutti quanti, ad applaudire, ad acclamare e a gridare e a ridere. Pink e Niu, Allen-Jones e McNair, Sutcliff e Brasenose, e Jackson e Anderton-Pullitt e Adamczyck e Tayler e Sykes. Tutti i miei ragazzi, be' non proprio tutti, e mentre se ne stavano lì in piedi, a ridere, applaudire e gridare il mio nome, ho visto anche Meek alzarsi in piedi, la faccia barbuta che si illuminava di un sorriso sincero.
«È Quasi!» «È vivo!» «È ritornato, signore!» «Significa che anche per questo trimestre non avremo un insegnante come si deve?» Ho guardato il mio orologio da tasca. L'ho chiuso di scatto. Sul coperchio, il motto della scuola: Audere, agere, auferre. Osare, agire, conquistare. Non ho modo di sapere con sicurezza se è stata Miss Dare a mandarmelo, ma sono certo di sì. Mi chiedo dove sia, chi sia adesso. In ogni caso, qualcosa mi dice che forse non abbiamo sentito parlare di lei per l'ultima volta. Il pensiero non mi turba come avrebbe fatto un tempo. Abbiamo avuto delle sfide in passato, e le abbiamo superate. Guerre, morti, scandali. I ragazzi e gli insegnanti vanno e vengono, ma St Oswald resisterà per sempre. La nostra piccola fetta di eternità. È per questo che l'ha fatto? Posso quasi credere di sì. Ha ritagliato un posto per sé nel cuore di St Oswald; in tre mesi è diventata una leggenda. E adesso cosa? Tornerà all'invisibilità, una vita qualunque, un lavoro semplice, forse perfino una famiglia? È questo ciò che fanno i mostri quando gli eroi diventano vecchi? Per un momento ho lasciato che il rumore aumentasse. Il fracasso era tremendo, come se non trenta, ma trecento ragazzi si stessero scatenando nella piccola aula. La torre campanaria ha vacillato; Meek sembrava preoccupato; perfino i piccioni sul balcone sono volati via in un frullio di piume. È stato un momento che rimarrà con me a lungo. La luce solare dell'inverno entrava obliqua dalle finestre; le sedie rovesciate, i banchi graffiati, le borse dei libri disseminate sulle assi sbiadite del pavimento; l'odore di gesso e polvere, di legno e cuoio, di uomini e topi. E i ragazzi, certo. Ragazzi dai capelli cascanti, gli occhi stralunati e sorridenti, le fronti lucide che scintillavano al sole, i saltatori esuberanti, i reprobi dalle dita macchiate d'inchiostro, i battitori di piedi e i lanciatori di berretto e i ridanciani ruggenti con la camicia di fuori e le calze sovversive. Ci sono volte in cui un sussurro percussivo funziona. Talvolta, però, nelle rare occasioni in cui un ordine va dato davvero, si può ricorrere a un urlo.
Ho aperto la bocca e non è venuto fuori nulla. Nulla. Non una parola. Fuori nel corridoio è suonata la campana della lezione, un ronzio lontano che ho intuito più che udito sotto il ruggito della classe. Per un momento sono stato sicuro che questa fosse la fine; che avessi perso il tocco oltre alla voce; che i ragazzi invece di scattare sull'attenti al suono della campana si sarebbero semplicemente alzati per scappare in un fuggi fuggi generale, lasciandomi come il povero Meek, a protestare debole nella loro scia anarchica. Per un momento ci ho quasi creduto mentre me ne stavo sulla porta con la tazza di caffè in mano e i ragazzi come pupazzi a molla che saltavano di gioia. Poi ho fatto due passi sul mio cassero, ho posato entrambe le mani sul piano della scrivania e ho provato i miei polmoni. «Gentlemen. Silenzio!» Proprio come pensavo. Efficace come sempre. RINGRAZIAMENTI Una volta di più ho un profondo debito di gratitudine verso le molte persone, agenti, editor, correttori di bozze, esperti di marketing, compositori, venditori e rappresentanti, che hanno tanto lavorato per portare questo libro sugli scaffali. Un posto speciale nell'Albo d'onore va al capitano di hockey Serafina Clarke; menzioni d'onore vanno tributate anche al capitano di netball Brie Burkeman, a Jennifer Luithlen per gli incontri in trasferta, a Francesca Liversidge per il contributo editoriale alla Rivista della Scuola e a Louise Page per la promozione della scuola nel mondo esterno. I punti della Casa sono conferiti alla segretaria della scuola Anne Reeve e al Direttore di informatica Mark Richards. La medaglia per l'arte va ancora una volta a Stuart Haygarth; il premio di francese (benché in un anno deludente) a Patrick Janson-Smith. Il distintivo dei prefetti viene assegnato a Kevin e Anouchka Harris, e il «premio speciale della giuria per la miglior bambolina in rafia» è assegnato (per il terzo anno consecutivo) a Christopher Fowler. E da ultimo, un grazie sincero e affettuoso ai miei Stanlio e Ollio (avevo detto che sareste andati lontano), alla mia 3H di un tempo, ai membri del Royal Roleplay Club e ai colleghi della Leeds Grammar School, troppo numerosi per nominarli tutti. E a chi di voi temesse di potersi ritrovare nel-
le pagine di questo libro: vi assicuro, non ci siete. FINE