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sanchez - La schiava di Granada.txt Agustín Sánchez Vidal. LA SCHIAVA DI GRANADA. «Un'eroina insolita e affascinante: né bianca né nera né libera né schiava, né uomo né donna.» El Mando. Romanzo. TRADUZIONE DI PATRIZIA SPINATO E GIORGIA DI TOLLE. editrice Nord s.u.r.l. Titolo originale Esclava de nadie. ISBN 978-88-429-1872-1. Visita www.InfiniteStorie.it il grande portale del romanzo. In copertina: foto © Mohamad Hani / Trevillion Images Grafica: Rumore Bianco. © Agustín Sánchez Vidal, 2010. © 2011 Casa Editrice Nord s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol. ***** LA SCHIAVA DI GRANADA. Per quanto possa sembrare incredibile, quella di Elen@ de Céspedes è una storia vera. Quanto segue ne è la ricostruzione romanzata, basata sugli atti del processo conservati presso l'Archivio Historico Nacional e su altri documenti dell'epoca. ***** PROLOGO. L'ACCUSATA. «E' arrivata la guardia con l'accusata, e questo è l'incartamento. Se ha il vostro benestare, vi prego di firmare qui.» Lope de Mendoza prese il documento dalle mani del segretario e si mise gli occhiali da lettura. Toledo, addì, giovedì 16 luglio 1587. Questa mattina, la guardia Juan Ruiz Davila ha qui condotto la prigioniera Elena de Céspedes, alias Eleno de Céspedes, originaria della città di Alhama. Perquisita sotto giuramento, le si sono trovati addosso otto maravedé, un ditale e un rosario. Vestiva abiti maschili, greguescos * di panno verde, giubba di tela bucata, calze di lana grigia, calzari tagliati, cappa scura di tessuto misto con passamani, camicia e cappello di taffettà, nero. * Ampi calzoni al ginocchio usati nel XV e XVI secolo. (N.d.T.) E' stata affidata a Gaspar de Soria, direttore di queste carceri. Il suddetto Juan Ruiz Dévila ha depositato ventun reales del reo, dichiarando di averne spesi nove durante il tragitto. E a me, Lope de Mendoza, è stato affidato il suo incartamento, così com'è stato istruito dal tribunale di Ocaña. Appose la propria sigla. Rimasto solo, Lope de Mendoza riportò l'attenzione su quello spesso fascicolo, rimanendo sconcertato dall'intestazione: Elen@ de Céspedes. Ebbene? Elena o Eleno? si chiese. Aveva già visto quel segno, la @, il simbolo della Pagina 1
sanchez - La schiava di Granada.txt chiocciola. I bottegai lo usavano per i pesi e le misure. E anche i medici lo adoperavano nelle prescrizioni, per indicare che un preparato doveva contenere due ingredienti in parti uguali, «metà e metà». Ma che cosa può significare, per un essere umano? Aprì il fascio di fogli e lesse l'epigrafe della prima pagina: Elena de Céspedes, alias Eleno. Cerusico. ermafrodita? In quel momento sentì un gran vociare al piano di sotto, nel patio. Lasciò gli occhiali sulla scrivania e si affacciò alla finestra. L'imputata non tardò ad arrivare. Da lassù, non riusciva a vederla in volto. Come affermava il documento che aveva appena firmato, era vestita da uomo. Mendoza si chiese se lo fosse davvero, o se invece appartenesse al sesso opposto o se, essendo ermafrodita, fosse entrambe le cose. Era troppo alta e robusta per essere una donna, ma di media corporatura per essere un uomo. La testa china, i capelli neri e corti, con un po' di frangia. Quando Céspedes alzò il viso, Lope de Mendoza ne distinse l'incarnato scuro, color cotognata. Non era bella, ma aveva i lineamenti delicati. E aveva in se una dignità piuttosto rara tra le persone che oltrepassavano quella porta, solitamente sconvolte dalla paura. L'accusata uscì dal patio, diretta al carcere, e sparì. Prima di chiudere la finestra, Mendoza si accorse che la pianta sul davanzale si stava seccando, quindi andò a cercare la brocca per innaffiarla. Ce n'era solo un altro esemplare in tutta la Spagna, nel giardino botanico realizzato ad Aranjuez per volontà di Filippo II. Era un regalo di un vecchio amico di Mendoza, il dottor Salinas, una delle tante meraviglie giunte dall'America, che gettavano nuova luce sui tempi in cui gli era toccato vivere. Ma anche nuovi dubbi. Mentre la terra riarsa del vaso assorbiva l'acqua, lui si chiese se quel prigioniero non fosse un altro di quei cambiamenti ai quali avrebbe dovuto abituarsi. Le scoperte d'oltreoceano alteravano costantemente l'ordine in cui la Penisola si era pietrificata da tempo immemore. Quel mondo in espansione spingeva i più audaci a modificare le proprie origini, l'identità o il destino. Tornato alla scrivania, Mendoza si dedicò al fascicolo, sul quale si sarebbe dovuto pronunciare in fretta: il giorno successivo sarebbero cominciati gli interrogatori. Aveva soltanto una notte per farsi carico di quanto istruito dal giudice di Ocaña. Hanno perso già abbastanza tempo là. Qui a Toledo ci si aspetta che procediamo in ben altro modo. Cosa inevitabile, dato il complesso ingranaggio del tribunale che presiedeva. La sua giurisdizione comprendeva oltre mille paesi e due milioni di anime. Una nube di funzionari ne sfiniva le risorse, tra procuratori, difensori, cancellieri, dispensieri, guardie, barbieri, familiari e commissari distrettuali. «Grazie a Dio, abbiamo anche medici e chirurghi. Perché adesso ne avremo bisogno.» Altrimenti come avrebbe potuto affrontare quel caso che gli era piombato addosso come un macigno? In tutta la sua lunga vita, non gli era mai capitato un processo come quello. Gli studi di diritto lo avevano preparato a rivaleggiare in battaglie retoriche, a brandire argomentazioni, inanellare concetti... certo non a una cosa del genere. E nemmeno lo avevano addestrato a un simile frangente i cinque anni come assistente universitario. Quello era stato solo l'inevitabile prezzo da pagare per ottenere la protezione dei cattedratici e le loro lettere di raccomandazione. Che lo avevano aiutato a fare carriera, insieme con l'appoggio del potente casato dei Mendoza. Si portò una mano alle reni, cariche di sabbia più di un porto intasato dai detriti delle onde. La vecchiaia corrodeva le ossa stanche. Come affrontare quel processo, proprio ora Pagina 2
sanchez - La schiava di Granada.txt che stava per ritirarsi? Il caso aveva cominciato a destare scalpore. I superiori lo avrebbero tenuto d'occhio. E i nemici, oltre a quelli della sua famiglia, non si sarebbero lasciati sfuggire l'occasione di avventarsi su di lui, se qualcosa fosse andato storto. «Una bella trappola, per qualcuno che voleva solo ritirarsi in silenzio», disse tra i denti. Cominciò a leggere il sunto di quanto sancito e verificato dai colleghi del tribunale di Ocaña. Il nocciolo della questione era il sesso dell'accusata. Céspedes diceva di essere un uomo fatto e finito. Si vestiva come tale. Come tale esercitava da chirurgo. E come tale si era sposato, più o meno due anni prima, con una giovane di Ciempozuelos che aveva la metà dei suoi anni, Maria del Caño. Mentre lui era sulla quarantina e sembrava piuttosto esperto in fatto di alcove, lei dichiarava di essere arrivata vergine alle nozze. Dall'esame di alcune matrone risultava che non lo fosse più, e che il matrimonio fosse stato consumato. Mendoza era perplesso. «Com'e possibile, se Céspedes era stata data in moglie a quindici anni e aveva avuto un figlio dal marito? E' pur vero che ha militato nell'esercito per un po'...» Se le testimonianze lì riportate non mentivano, l'accusata era nata donna. E schiava. Dopo essere stata affrancata, si era sposata con un uomo. Era diventata madre e aveva abbandonato il figlio. Aveva cominciato a intrattenere relazioni con donne. Aveva quasi ucciso un ruffiano con una coltellata, e aveva prestato servizio nell'esercito durante una delle rivolte più cruente di cui si aveva memoria. Poi aveva tirato fuori il titolo di chirurgo, professione esclusivamente maschile: mai vi era stata donna che praticasse quell'arte. D'altro canto, prima di sposarsi con Maria del Caño, Céspedes si era dovuto sottoporre ad accertamenti di ogni genere, dai quali era stato riconosciuto come maschio. A esaminare le sue parti intime erano stati medici conosciuti, alcuni dei quali erano nientemeno che i medici di Corte del re. Non erano banali spaccaossa da paese. Come aveva potuto ingannarli? Che cos'era, dunque, Céspedes? Uomo o donna? Se fosse risultata donna, sposando una persona del suo stesso sesso avrebbe commesso delitto di sodomia, uno dei crimini più perseguiti e condannati, di quelli che mettevano in discussione non solo la legge degli uomini, ma il volere di Dio. Non per niente Sodoma e Gomorra erano state distrutte. Come se non bastasse, era accusata della forma più grave di quel peccato nefando, cioè con penetrazione. I baci o le carezze tra donne non erano considerati così gravi, poiché loro erano per natura più avvezze a certe effusioni. La cosa abominevole era che, avvalendosi di un membro posticcio, s'imitasse la penetrazione naturale del maschio con la femmina. Comportava la morte sul rogo. E se fosse ermafrodita...? Non mi risulta che nessuno abbia mai affrontato un caso del genere... Alcuni colpi alla porta lo distolsero da quei pensieri. Era il direttore del carcere, che si tolse il cappello in segno di rispetto. «Chiedo venia, signore, ma l'accusato ha chiesto della carta e il necessario per scrivere.» Mendoza sapeva bene che cosa significava. Dato che Céspedes ignorava chi lo avesse denunciato o avesse testimoniato contro di lui, poteva fare un elenco dei propri nemici. E, se tra quelli fosse figurato qualcuno dei suoi accusatori, le dichiarazioni di questi ultimi sarebbero state messe in dubbio e, di norma, respinte. Alcuni giudici negavano ai reclusi quella facoltà. O la posticipavano il più possibile. Ma a lui non sembrava giusto. E nemmeno intelligente. L'esperienza gli insegnava che quella lista poteva diventare un'arma a doppio taglio. Era la sintesi di una vita. Un modo Pagina 3
sanchez - La schiava di Granada.txt per tracciarne il contorno e farne un bilancio. Una grande opportunità per soppesare gli accusati. Forniva piste, strategie. Persino nuovi testimoni che forse i giudici avevano trascurato. «Portategli quanto chiede. E' un suo diritto», gli rispose. ***** PARTE PRIMA. FIGLIA, SPOSA E MADRE. «Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, che io non comprendo: il sentiero dell'aquila nell'aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell'uomo in una giovane.» Proverbi 30, 18-19. *** AY DE MI, ALHAMA! Céspedes si alzò dal giaciglio quando sentì la chiave girare nella toppa della sua cella. Entrò il direttore del carcere, che lasciò sul banco di pietra una tavoletta con sopra una risma di carta, il necessario per scrivere e una lampada ben rifornita d'olio. L'interruzione aveva distolto il reo dalle elucubrazioni sulla sua giovane sposa, Maria del Caño. Cercò di togliersela dalla testa. L'opportunità che gli veniva offerta era unica, e non aveva tempo da perdere. Non poteva fare passi falsi nello scrivere la lista dei suoi nemici. Avrebbe rischiato di danneggiare la moglie. Se lo avessero giudicato colpevole di sodomia e disprezzo del matrimonio, sarebbero finiti sul rogo tutti e due, arsi vivi dalle stesse fiamme. All'alba sarebbero cominciate le udienze davanti al tribunale di Toledo. E non poteva cadere in contraddizione con quanto riportato negli atti del processo di Ocaña, che il nuovo giudice avrebbe portato all'udienza insieme col fascicolo su di lui. Chi lo aveva denunciato? Impossibile saperlo. Doveva ripercorrere la propria vita, rivederne ogni piega, cercando di trovare l'angolo in cui si nascondeva quell'ombra che lo aveva accusato. Ma chi conosce tutti i propri nemici e le loro macchinazioni? Soprattutto con un passato come il suo. Quarantadue anni di viaggi, scontri e fughe. Ora si chiedeva che cosa lo avesse spinto in quella corsa folle, in quel continuo oscillare tra cuccagne e castelli. A propria difesa, poteva affermare di non averlo fatto per piacere personale, ma per la necessità di contrastare il triste destino cui era stato condannato dalla pelle scura e dalle umili origini. Anche se, a dire il vero, doveva riconoscere una buona dose d'orgoglio, di passioni smisurate che spesso lo avevano portato a rovinare la vita e l'onore delle persone che gli stavano intorno. Dopotutto quella cella non era tanto male. Ne aveva viste di ben più misere. Era decisamente peggio essere prigioniero della razza di schiavi cui apparteneva, della povertà o dei compiti che gli avevano imposto; ma più di ogni altra cosa, essere prigioniero nel proprio corpo. Prese la penna, lisciò il foglio sulla tavoletta e cercò di fare mente locale. Il buonsenso gli imponeva di non fare una lista troppo lunga: dieci o dodici persone al massimo. Oltre quel numero, sarebbe sembrato un tentativo alla cieca, privo di criterio e di credibilità. Pagina 4
sanchez - La schiava di Granada.txt Chi doveva includere e chi scartare? Dove si era fatto più nemici? Durante gli anni di schiavitù? Mentre esercitava come sarta? Quando militava come soldato? Tra le persone che aveva sfidato o accoltellato? Tra i chirurghi o i medici rivali? Qualcuna delle sue presunte amicizie? Le donne in un letto? Da dove cominciare quell'esame? Dal luogo in cui era nato, necessariamente. Ay de mi Alhama! * pensò mentre lo rievocava, come nel famoso romance. * «Povera la mia Alhama!» Il titolo del capitolo e un gioco di parole intraducibile che prende spunto da questo verso del romance. Infatti ¡Ay de mi, Alhama! significa: «Povero me, o Alhama!» (N.d.T.) perché quella era una cicatrice immensa, uno squarcio alla gola del regno di Granada. In quel luogo, il suo cammino aveva incrociato per la prima volta quello dei moriscos. All'epoca viveva fuori del paese, nella tenuta della ricca vedova doña Elena de Céspedes, con la quale il padrone, Benito de Medina, si era sposato in seconde nozze. Non era ancora stata battezzata. E non aveva nemmeno un nome. Era una mulatta di appena dieci anni, schiava come sua madre, la negra Francisca de Medina, che era addetta alle cucine. Ma è proprio quella l'età delle ferite in suppurazione, delle paure che bruciano e dei ricordi che fanno male. La sua vita avrebbe potuto essere molto diversa se, nell'agosto del 1555, non fosse successo quello che era successo. Quando, all'improvviso, l'infanzia era finita e lei era piombata nel mondo... Quel giorno avevano visite. Gente importante da Granada. L'arcivescovo, venuto a visitare le terme. La signora della tenuta, in onore dell'illustre ospite, chiese a Francisca di servire un sorbetto. E Francisca mandò lei, sua figlia, nell'antica dimora che i genitori di dona Elena possedevano all'interno delle mura di Alhama, dotata di un pozzo di neve. Le diede dei contenitori di sughero per mantenere il freddo, raccomandandosi di non attardarsi sulla via del ritorno. La piccola uscì dalla tenuta. Passò accanto a un prato rinsecchito dove i cavalieri, imponenti, facevano pratica con le lance contro i saracini, quei fantocci col turbante e le sembianze di mori. Accanto a un pioppeto, i principi incrociavano le spade con indosso pesanti calzari di piombo, per sentirsi leggeri quando fosse giunto il momento di combattere. Le cicale stordivano il mattino. Il sole opprimeva la terra riarsa, sfumando in un vapore azzurrato i monti che circondavano Alhama. La bambina costeggiò le acque impetuose del fiume, mentre superava la ruota del mulino gestito da Pedro Hernandez, quel bracciante scontroso da cui persino lei cercava di tenersi alla larga. A quanto le avevano detto, era suo padre, anche se l'uomo non aveva mai mostrato nessun segno di affetto per lei. Ai cristiani vecchi* non piaceva ammettere i propri sollazzi con una schiava nera che andavano a trovare la notte, di nascosto. * In Spagna si definivano «cristiani vecchi» gli uomini che non avevano ascendenze note da ebrei o musulmani. (N.d.T.) Quando Francisca la cacciava via dal letto, dalla stanza accanto, trattenendo le lacrime e la rabbia, lei li sentiva gridare e gemere. L'altro ricordo che aveva di lui non era meno crudele. Un Pagina 5
sanchez - La schiava di Granada.txt giorno, Hernandez si era accorto che le sue galline erano state decimate e non si era dato pace finchè non aveva trovato le tracce della volpe che le aveva uccise. Aveva preso a bastonate il cane che avrebbe dovuto impedirlo e aveva piazzato una tagliola dalle molle robuste, coi denti affilati. Quando l'aveva trovata chiusa, l'aveva mostrata alla bambina. Non c'era niente, dentro. Solo una zampa insanguinata. L'animale si era rosicchiato l'arto, lasciandolo nella trappola, per salvarsi la vita. In seguito l'uomo aveva scoperto che la volpe era gravida del suo cane. Quando aveva trovato i cuccioli meticci, li aveva infilati in un sacco con alcune pietre e li aveva buttati nel fiume. Da allora, la piccola lo rifuggiva, facendo il giro largo per non passare dalle sue terre. Come quella volta, che si era incamminata per un sentiero pieno di resti malandati di aratri e di altri arnesi per lavorare la terra, per poi affrontare l'aspro pendio in salita che portava alle torri e alle mura fortificate della città: aveva un che di avventato, un carattere di frontiera, luogo di passaggio tra Granada e Malaga. Un paesaggio sempre sulla difensiva, maledetto dalle guerre. La piccola camminò tra le case, incrostate di resti arabi a loro volta soffocati dall'impronta cristiana: nicchie di santi, croci, scudi araldici. I muri, imbiancati a calce, esplodevano di una luce accecante. Porte e finestre scricchiolavano per il legno secco. La bambina riprese fiato all'ombra dei pergolati accanto all'acquedotto, che attraversava la piazza principale. Quella dei Céspedes era un'antica casa all'interno delle mura del paese, ben diversa dalla periferia in cui si ammucchiavano i mori convertiti. Era alta tre piani e scendeva sottoterra di due, sfruttando il dislivello della strada. La bambina bussò al portone e aspettò. Le andò ad aprire uno dei servi, uno schiavo morisco che le voleva bene e che spesso le regalava dei dolci. L'uomo strizzò le palpebre per scrutare la piccola figura sotto l'architrave blasonato, e sorrise nel riconoscere la bambina. Una volta saputo il motivo per cui era stata mandata li, la guidò attraverso il patio, prese una lanterna e scesero fino alla seconda cantina. Chinandosi sotto le volte, raggiunsero uno dei grandi orci nei quali si conservava la neve. I Céspedes godevano del privilegio di poter estrarre la neve dai ghiacciai nella vicina Sierra Tejeda e immagazzinarla per l'estate. Non pagavano nemmeno il solito tributo per le tubazioni e altre spese municipali. L'unico obbligo era di destinare la neve solo al consumo personale, di non venderla per nessun motivo ai forestieri di Malaga o di VelezMalaga. Potevano permetterselo. Erano davvero ricchi. Lo schiavo riempì di neve i contenitori di sughero, annodò uno straccio intorno al coperchio e aiutò la bambina a risalire in strada. Stavano attraversando il secondo portone, quando udirono una gran confusione nella piazza e quelle urla: «I monfi, sono stati i monfi!» Era la prima volta in cui lei sentiva quella parola. In seguito avrebbe imparato fin troppo bene che i monfi erano i banditi moriscos dispersi sulle montagne. Il servo e la mulatta si avvicinarono al crocchio. In mezzo a loro c'erano alcuni uomini vestiti di verde e con l'elmo in testa: i caposquadra della Santa Hermandad che dava la caccia ai banditi. Portavano le balestre sulla schiena, in modo da avere le mani libere per scaricare dai muli grossi fagotti avvolti nelle coperte. Quando li posarono a terra e li aprirono, la folla fu percorsa da un brivido di orrore. La bambina si avvicinò, intrufolandosi tra le gambe dei curiosi, e riuscì a vedere qualcosa che non avrebbe più dimenticato: i corpi di tre cristiani, coi volti scarnificati, la schiena squarciata nel punto in cui gli avevano strappato Pagina 6
sanchez - La schiava di Granada.txt il cuore. «Erano in fondo a un burrone. Non li avremmo mai scoperti, se non fosse stato per gli uccelli che ci volavano sopra», assicurò uno dei cavalieri sovrastando il ronzio delle mosche sul sangue secco. Il podestà esaminò i cadaveri e riconobbe gli esattori delle tasse e gli scrivani che erano andati a riscuotere i tributi dai moriscos. «Qualcuno deve aver avvertito i monfi, che li hanno attaccati lungo la strada, portandogli via il denaro e la vita», sentenziò. «Gli esattori si sono fermati qui a dormire prima di partire per la sierra?» chiese il caposquadra. «Sì. Mi hanno chiesto alloggio. Chiunque avrebbe avuto tutto il tempo di avvisare i monfi.» A quelle parole seguì un tumulto di voci irrequiete che bramiva contro i moriscos di Alhama, accusandoli di aver informato i loro fratelli banditi. Il clamore divampò in tutta la piazza e lo schiavo dei Céspedes si rese conto del pericolo che correvano. Lui per le proprie origini more, la piccola perché lo sembrava, per via della pelle color cotognata. «Dobbiamo andarcene da qui», le sussurrò all'orecchio dopo averla raggiunta. Troppo tardi. Già lo segnavano a dito, accusandolo: «Vuole scappare!» Cominciarono a piovergli addosso i colpi. Il servo ebbe ancora le forze per dire alla bambina di fuggire verso il castello. Alhama era difesa da una fortezza sdentata, che si stagliava fiera sullo sfondo del tramonto. La si poteva raggiungere solo risalendo un sentiero ripidissimo. La piccola cercò di fuggire in quella direzione, ma i contenitori di sughero la rallentavano. E la strada era troppo in vista. Così la gente si lanciò al suo inseguimento, convinta che nascondesse qualcosa affidatole dal morisco. Conosceva quei luoghi, ci giocava spesso con altri bambini. Per cui, quando vide che la inseguivano, cercò la miniera, il nascondiglio in cui si era rifugiata in altre occasioni. Era in realtà un passaggio segreto scavato dai mori per rifornirsi di viveri durante gli assedi. Sboccava nelle cantine del castello, tramite una botola sul pavimento, e passava sotto il paese. Si sapeva che c'era, ma era bloccato dai detriti. Solo alcuni bambini conoscevano quell'entrata sotto le rovine, attraverso la quale riuscivano a infilare a malapena i loro corpi minuti. La piccola non era mai andata oltre l'ingresso. Adesso sentiva, vicinissime, le urla degli inseguitori, perciò si spinse sempre più avanti lungo la galleria, guidata da un filo quasi impercettibile di luce. Ormai doveva proseguire tentoni, strisciando sul terreno, tastando con la mano davanti a se. Fino a ritrovarsi al limite dell'abisso. A quel punto non osò muoversi. Tremava come una foglia. Quante ore passarono? Le sembrò un'attesa infinita. Poi sentì la voce di sua madre, lontanissima, che la chiamava disperata. Le rispose e tornò sui propri passi; a un certo punto sentì i colpi di piccone che allargavano l'entrata. Qualcuno entrò con una torcia e le andò incontro. Ma il peggio doveva ancora arrivare, una volta tornata alla tenuta. Avrebbe saputo le ragioni di quanto accadde solo in seguito. Vedendo che la bambina non tornava, sua madre aveva cominciato a preoccuparsi. Saputo delle rappresaglie contro i moriscos di quelle terre, Francisca si era rivolta al padrone, Benito de Medina, prostrandosi ai suoi piedi. Cosa che la signora, doña Elena de Céspedes, che era presente, non le avrebbe mai perdonato. Tutto, nel comportamento di quella schiava nera, traboccava di doppi sensi. Quel gesto equivaleva a rimarcare, davanti all'arcivescovo Pagina 7
sanchez - La schiava di Granada.txt di Granada, che lei, la piccola mulatta, non era figlia di Pedro Hernandez. perché , in tal caso, in un momento di disperazione, Francisca si sarebbe rivolta istintivamente a lui. Invece era andata a cercare il padrone. Questo equivaleva ad affermare che era Benito de Medina il vero padre della piccola, benché avesse rifilato a Hernandez quel dubbio onore, in cambio dell'usufrutto di uno dei suoi mulini. Un prezzo conveniente, se comparato con l'intera tenuta, portata in dote dalla moglie. Per questo, dopo che era stata salvata dalla miniera e aveva fatto ritorno alla casa colonica, aveva trovato quelle facce lunghe. dona Elena de Céspedes non aveva indugiato a mettere in atto la sua vendetta. La piccola mulatta cominciò a comprendere le implicazioni di quanto era successo quando Francisca, tornata nelle stanze della servitù, dove vivevano, l'abbracciò, sciogliendosi in lacrime. «Povera figlia mia!» Non dovette aspettare molto perché l'andassero a prendere, strappandola dalle braccia della madre per portarla nelle fucine. GAZUL «Tieni pulite quelle bruciature.» Con gli occhi velati di lacrime, la bambina guardò quell'uomo già avanti con gli anni, dalla pelle citrina. Magro. Morisco, a giudicare dall'accento. Schiavo come lei. «So bene di che cosa parlo», aggiunse lui, indicandosi il volto. Quando le lacrime si furono asciugate, la piccola osservò le cicatrici di quell'uomo. Sulla guancia destra si poteva ancora leggere la scritta sono di, che continuava sulla sinistra: A. DEZA. Le lettere, marchiate a fuoco, indicavano che apparteneva ad Ana de Deza, la figlia di primo letto di doña Elena de Céspedes. «Questa è la ricompensa per i miei servigi. E tu, che cos'hai combinato per farti marchiare?» «Niente...» gemette lei. Era così. Non aveva fatto niente. A parte obbedire alla madre e incappare in quel pasticcio nella piazza di Alhama. L'istinto materno di Francisca, insieme col rancore di doña Elena, aveva scatenato il resto. La signora aveva imposto al marito due condizioni per mantenere la comunione dei beni che i Céspedes avevano portato in dote. La prima, allontanare la bambina, esiliarla, mandandola a servizio da sua figlia Ana, che da poco era andata in sposa a Velez-Malaga. «Sarà uno dei tuoi doni di nozze», aveva stabilito. La seconda, marchiare a fuoco la mulatta. Ormai aveva dieci anni e nessuno avrebbe dovuto metterne in dubbio la condizione di schiava. Un colpo durissimo per Francisca: il padrone le aveva promesso che un giorno avrebbe affrancato la figlia, ma quei segni li avrebbe portati addosso per sempre. «Non sono molto profonde», disse il morisco, dopo aver passato le dita sulle cicatrici della bambina. Benito de Medina aveva cercato un fabbro esperto in quel genere di lavoro e scelto i ferri più sottili. Aveva anche evitato le scritte più lunghe, come sono di tizio. Una semplice S su una guancia, una I sull'altra, un tratto verticale sovrastato da una testa minuscola, che simboleggiava un chiodo. Lette tutt'e due insieme, formavano l'anagramma di «schiavo». * * In spagnolo «chiodo» si dice clavo e la lettera S si pronuncia «es». Perciò s + clavo diventa esclavo, cioè «schiavo». (N.d.T.) Adesso quell'uomo le stava applicando un unguento dal penetrante odore di ginepro. «Aiuterà le ferite a cicatrizzarsi. Quand'ero pastore, lo usavo per le capre. Non ti Pagina 8
sanchez - La schiava di Granada.txt offendere. Se ti puo consolare, conosco un morisco cui e stato marchiato sulla pelle il nome del suo paese d'origine, Torredonjimeno.» «Su tutta la faccia?» balbettò la bambina. «Così, se scappa, lo possono riportare alla tenuta.» Non appena ebbe finito di stendere l'impiastro, aggiunse: «I segni guariranno, come i miei. I primi me li hanno fatti quando avevo due anni meno di te e si sono rimarginati bene. Quelli che vedi adesso sono recenti. Ero scappato, così mi hanno preso e mi hanno marchiato di nuovo». poiché la bambina continuava a tenere gli occhi bassi, cercò di farle coraggio: «Dai, su, hai tutta la vita davanti...» «Una vita da schiava!» gemette lei. «Vale la pena viverla, anche così.» Quell'uomo si chiamava Gazul Belvis. E di lì a pochi mesi la piccola mulatta avrebbe avuto prova della sua tempra, quando alcuni amici moriscos andarono da lui, spaventati a morte. Condussero Gazul e la bambina in una casa dall'apparenza modesta, ma che si rivelò ben diversa una volta raggiunta l'ampia stanza in fondo. Lì c'era una famiglia numerosa, immersa in un silenzio inquietante. La penombra aumentava l'atmosfera cupa che si respirava nella stanza, illuminata appena da un braciere. Il turbamento della piccola aumentò, quando cominciarono a sentirsi alcuni lamenti soffocati. Dopo che gli occhi si furono abituati, si distinsero numerosi vasi pieni di acqua di zagara, lauro e rosmarino. Nel centro, un Corano in arabo, aperto accanto a un morto che ormai avrebbe puzzato, non fosse stato per i profumi e l'incenso. Era avvolto in un sudario di lino nuovo, bianco e raffinato. Le mani non erano disposte a croce, secondo l'uso cristiano. Il defunto era un morisco benestante. Come molti dei suoi, era stato costretto a battezzarsi. Ma, come tanti, manteneva nel cuore la fede degli avi, praticando in segreto le cerimonie islamiche. Ed era evidente che i parenti volessero seppellirlo secondo il rito musulmano. Avevano nascosto la morte al prete del paese ed era già pronta una sepoltura in terra non consacrata, bensì vergine, orientata verso la Mecca per riunire la famiglia e dirgli addio. La sfortuna aveva voluto che, il terzo giorno, alcuni cristiani vecchi si fossero insospettiti e avessero avvisato il parroco. Per cui erano corsi a chiamare Gazul. Solo lui poteva placare la burrasca che si avvicinava, dati i suoi buoni rapporti col prete. Stavano discutendo in un angolo, quando risuonarono alcuni colpi alla porta. Era il parroco. «Aprite! Maledetti moriscos! Portarli in chiesa è come chiuderli in galera, il sermone è una tortura, la confessione l'eculeo e la comunione la forca! Ma un morto non me lo avevano ancora tolto, nella mia parrocchia!» I colpi continuavano, sempre più forti, minacciando di scardinare la porta. finchè Gazul non convinse i padroni di casa ad aprire, prima che arrivasse altra gente e aumentasse il clamore. Il sacerdote entrò di slancio, insieme col sagrestano. E, nel vedere quella veglia secondo gli usi musulmani, proruppe in urla fortissime. S'impuntò a portare via il corpo e a dargli una sepoltura cristiana. I familiari del defunto implorarono di non farlo. Il prete e il sagrestano, rifiutandosi di cedere, si avvicinarono al cadavere. In quel momento, nella foga della discussione, cominciarono a piovere tanti di quei colpi che i due furono costretti a scappare. Fu allora che la gravità della situazione apparve chiara. «E adesso?» li rimproverò Gazul. Gli altri chinarono la testa. Se il prete avesse denunciato il Pagina 9
sanchez - La schiava di Granada.txt caso, sarebbe stata la fine. «Vediamo... Quanto potete offrire al parroco?» chiese ancora Gazul. I parenti si misero a discutere, fino a che il più anziano non tagliò corto, dichiarando, perentorio: «Tremila reales». «E' una bella somma. Vedrò quello che posso fare. Tu rimani qui», disse, rivolto alla bambina. Ci mise un po' a tornare. «Non vi denuncerà. Anzi, lascerà che seppelliate il morto con la cerimonia morisca che avete preparato», assicurò. La bambina rimase colpita nel vedere che alcuni, pieni di gratitudine, cercavano di baciargli le mani, benché lui si ritraesse. Anche se era uno schiavo, i suoi lo trattavano come una persona di alto rango. Così quella tragedia annunciata si risolse invece con un compromesso tra mori convertiti e cristiani vecchi. o questo vollero credere i più ottimisti. Ma la bambina si accorse che Gazul era preoccupato. Il perché lo avrebbe capito solo in seguito, quando, a causa del colore della pelle e delle sue origini, si sarebbe ritrovata nella stessa terra di nessuno dei moriscos. Allora avrebbe dovuto aprire gli occhi sulle dure condizioni in cui vivevano. Non erano mori, perché erano battezzati. Ma nemmeno i cristiani vecchi li consideravano loro pari, né li trattavano come tali. E quelli di Velez non tardarono a prendersi la rivincita, non appena cominciarono a girare voci sul rappezzo di quel funerale. E lo fecero con uno scherzo incredibilmente crudele. Una mattina, quando le prime moriscas del paese arrivarono in piazza, trovarono grosse bistecche di maiale legate ai cannelli della fontana. Ognuno dei cinque leoni di bronzo che l'adornavano sembrava addentare quella carne vietata ai maomettani. Chiunque fosse il responsabile, sapeva che cio non sarebbe stato un problema per i cristiani vecchi, ma per i moriscos rimasti fedeli all'islam sì. Questi ultimi consideravano infatti il maiale un animale impuro, in grado di contaminare qualunque cosa con cui entrasse in contatto. Per di più non bevevano vino, ma soltanto acqua. Chi si fosse rifiutato di toccare quella fonte, l'unica a disposizione, sarebbe stato marchiato come maomettano, mettendo pubblicamente in dubbio la sincerità del battesimo. Quando glielo andarono a dire, Gazul ne fu costernato. Rimase pensieroso per un bel pezzo, camminando avanti e indietro. Poi chiese al padrone il permesso di allontanarsi per qualche ora e di portare la bambina con se. Mentre uscivano dal paese, diretti ad alcune montagne poco distanti, le chiese: «Sei capace di mantenere un segreto?» «Certo! Per chi mi hai preso?» «Ho bisogno del tuo aiuto», le disse, mostrandole la zappa che si era portato dietro. Mai nessuno l'aveva fatta sentire così importante. «Sai fischiare?» le domandò Gazul una volta arrivati ai piedi di un monte. Lei si mise gli indici tra le labbra e fischiò con forza. «Sei una bambina molto sveglia. Mi arrampicherò su per quel sentiero. Tu tieni d'occhio la strada e, se arriva qualcuno, avvisami. Scenderò subito.» Più tardi, una volta tornati alla tenuta, Gazul annunciò con un sorriso malizioso: «Al tramonto andremo a vedere la fontana». E rifiutò di svelarle di più. «Aspetta. Abbi pazienza e lo vedrai coi tuoi occhi.» Quando, quella sera, arrivarono in piazza, il paese era in subbuglio. Parecchie donne agitavano le braccia, starnazzando come galline: dalla fontana non usciva più acqua. Gazul fece l'occhiolino alla piccola, per evitare che facesse domande. «Poi ti spiego», le promise all'orecchio. Di ritorno alla tenuta, le disse, cercando di non ridere: «Quella fontana ha dato problemi già mentre la costruivano. I costi Pagina 10
sanchez - La schiava di Granada.txt erano così elevati che si era pensato di fare un getto destinato al bestiame, con tanto di abbeveratoio, per sfruttarla meglio. Non appena l'hanno finita, tutto il paese è andato a vederla. E, come al solito, non riuscivano a mettersi d'accordo sull'altezza del cannello destinato agli animali. Alcuni dicevano che l'abbeveratoio era troppo basso, altri che era troppo alto. Il podestà ha deciso di chiudere la questione, provando a bere lui stesso. Dopo essersi dissetato, ha pronunciato il verdetto, che è stato: "Perbacco, se ci arrivo io, non c'è bestia che non possa fare altrettanto"». «E perché adesso si è prosciugata?» «Quand'ero capraio, portavo il gregge al pascolo tra quelle cime aride dove mi sono arrampicato oggi. Un giorno che stavo morendo di sete e avevo finito l'acqua, il mio cane è sparito, per tornare dopo un po' con le zampe bagnate. L'ho legato, e ho aspettato che gli venisse di nuovo sete. Quando ho visto che si agitava perché voleva bere, gli ho allungato la corda. E alla fine mi ha portato dentro una grotta, talmente nascosta che non l'avrei mai scoperta da solo.» «E' lì che sei salito, stamattina?» «Sì. Dentro ho trovato una fonte. E, dalla direzione in cui scorreva l'acqua, ho immaginato che fosse la stessa che alimenta la fontana. Ne ho avuto la prova oggi, quando l'ho fatta deviare verso il fondo della grotta e ho visto che i cannelli della piazza si erano asciugati. Adesso il problema è di tutti, non solo dei moriscos. Presto troveranno una soluzione, allora io toglierò lo sbarramento e l'acqua tornerà a sgorgare come prima.» Non fu una cosa da poco sostituire i cinque leoni di bronzo. Ci volle un gran lavoro, poiché erano incassati nel muro posteriore di un edificio imponente, e fu necessario staccare i conci. Cercarono di scaricare la spesa sui moriscos, ma Gazul dimostrò alle autorità che avevano già pagato i tributi per quella fontana. Ed era oltremodo evidente che non fossero loro i responsabili del prosciugamento che tanto li danneggiava. Era dunque compito del municipio ripararla coi contributi degli altri. Dei cristiani vecchi. «Adesso ci penseranno due volte prima di fare certi scherzi», concluse. Dal modo in cui Gazul affrontava le questioni legali, la piccola dedusse che non era la prima volta che faceva ricorso a simili arguzie. Alcuni dicevano che fosse diventato un esperto per via di tutte le cause che aveva seguito al tribunale di Granada, prima di finire a Velez. La piccola non riuscì a scoprire altro. Fece molte domande, ma nessuno sembrava sapere qualcosa di più sul conto del morisco. Si mormorava che avesse avuto una vita così difficile che altri, al posto suo, avrebbero perso ogni speranza. Gazul, invece, era un uomo deciso e allegro. La bambina comprese che sarebbe stato inutile cercare di scoprire segreti di cui lui non voleva metterla a parte; si limitava a sorriderle, con un'espressione che la invitava a lasciarlo in pace. Diceva di conoscere a malapena l'arabo e di essere analfabeta. Tuttavia, alcune volte in cui pensava che nessuno lo vedesse, lei lo sorprese a leggere e a scrivere tanto in quella lingua quanto in castigliano. In un'altra occasione, lo vide nascondere documenti e libri in arabo nei barili di pesce sotto sale che i mulattieri moriscos trasportavano dalla zona delle tonnare. La piccola si chiedeva chi fosse davvero quell'uomo. finchè, un bel giorno, lui sparì senza lasciare traccia. Un giorno tutt'altro che bello, in realtà, bensì una data infausta. Quando videro arrivare quella gente armata fino ai denti. Il padrone andò a riceverli all'ingresso della tenuta, e lì gli consegnarono una lettera. Quando l'ebbe letta, il suo viso s'incupì. Aveva ancora Pagina 11
sanchez - La schiava di Granada.txt quell'espressione grave, quando la bambina fu condotta al suo cospetto, e lui le disse: «Preparati. Devi andare con questi signori». *** LO SPECCHIO. Nessuno le spiegò niente, nemmeno i sei uomini armati di spade che erano arrivati alla tenuta. Neppure dove la stavano portando. Ma doveva esserci sotto qualcosa d'importante e delicato, visto che la stessa signora, Ana de Deza, si era unita a loro. «Dobbiamo partire. Sbrigati, che ci stanno aspettando», le aveva detto. Mentre si allontanavano, lei non potè fare a meno di pensare a Gazul. Che fine aveva fatto? Le sembrò di vederlo passare accanto alla montagna in cui si apriva la grotta della sorgente. Volle credere che fosse lui, la sagoma che le diceva addio di nascosto. Ma forse era solo la sua immaginazione. Percorse alcune leghe, lungo la strada per Granada. Quando si rese conto che sarebbero passati per Alhama, ebbe un tuffo al cuore. Giunti lì, si diressero alla casa colonica. Sua madre non riusciva a trattenere le lacrime, ritrovandosela davanti dopo quasi due anni. «Quanto sei cresciuta, figlia mia!» In quel momento, la ragazzina si accorse che piangevano tutti. «Che cosa succede?» chiese. «E' per dona Elena de Céspedes: è morta da poco.» Adesso le cose cambiavano. Quando la figliastra, Ana de Deza, ebbe lasciato la casa colonica per tornare a Velez, Benito de Medina mantenne la promessa che non aveva osato portare a compimento quando la moglie era ancora in vita: concedere la libertà alla piccola mulatta. Tuttavia, poiché temeva l'ira dei suoceri, mascherò la cosa come un omaggio alla moglie. E così battezzò la bambina con lo stesso nome di lei. Mandò a chiamare uno scrivano e, assoldati due testimoni, iniziò a dettare: «Io, Benito de Medina, abitante e nativo di Alhama de Granada, ho una schiava di dodici anni d'età, di pelle mulatta, color cotognata, finora senza nome di battesimo. Con la presente le concedo licenza e facoltà piena affinchè possa disporre della propria persona e dei propri beni come meglio riterrà opportuno, così come prendere i voti e fare testamento, come qualunque persona libera. Faccio questo in memoria della mia defunta moglie, in onore della quale detta schiava prenderà il suo nome, Elena de Céspedes. Ne danno fede la presenza del pubblico scrivano di questo luogo, e i testimoni che sottoscrivono». In quel modo le concessero la libertà e un nome, benché quest'ultimo fosse in prestito, eredità di una morta: la donna che, non contenta di averla messa in catene e di averla fatta marchiare a fuoco, sembrava ordinarle chi dovesse essere anche dall'oltretomba. Il battesimo si tenne nella chiesa principale. Benito de Medina, in veste di padrino, le fece un regalo: lo specchio da toletta appartenuto alla moglie. Quando la mulatta vi si specchiava, vedeva il proprio viso con la S su una guancia e la I sull'altra. In basso, sulla cornice vicino al manico, era inciso il nome dell'antica proprietaria, che adesso era anche il suo: Elena de Céspedes. Giurò a se stessa che un giorno quel nome e la sua vita le sarebbero appartenuti per intero. Intanto rimaneva accanto alla madre, nella casa colonica. Un giorno, mentre scavalcava un muretto, sentì qualcosa di umido e vischioso tra le gambe. Si alzò la gonna e si accorse che era sangue. Quando lo disse alla negra Francisca, questa le spiegò che cosa fosse quella schiavitù . Una delle tante imposte dalla sua condizione. «Ormai sei una donna», Pagina 12
sanchez - La schiava di Granada.txt concluse. Per la prima volta, Elena usò lo specchio per esaminare il proprio sesso. Aveva sempre voluto farlo. Era un mistero, reso ancora più profondo dal fatto che nessuno ne volesse parlare. Ciò che vedeva quando faceva il bagno coi ragazzini della sua età la turbava. Quella parte nascosta del suo corpo non assomigliava a quella degli altri bambini o delle altre bambine. Qualcuno l'aveva presa in giro. E ciò che vide riflesso nello specchio la mandò ancor più in confusione. Da quel momento, fece in modo che nessuno la vedesse più nuda. In seguito assistette, con timore e sospetto, alle sconcerie cui i maschi e le femmine della sua età si dedicavano di nascosto. Li sentì raccontare qualcosa, tra le risate, ma non volle mai seguire il loro esempio. Provava un rifiuto più forte di lei. Associava tutte quelle cose alle visite notturne che Pedro Hernandez faceva alla madre, quando Francisca la scacciava dalla camera per accoglierlo nel letto. Vedendo quell'orso che entrava dalla porta, Elena non riusciva a pensare ad altro che al sanguinoso tributo versato dalla volpe, che aveva lasciato la zampa nella tagliola. Solo molti anni dopo, nella penombra della sua cella, a Toledo, ripercorrendo quei ricordi, Céspedes si sarebbe chiesto quali ricerche avessero fatto ad Alhama. Forse qualcuno che lo conosceva, o un compagno di giochi d'infanzia, aveva testimoniato contro di lui. L'incerta natura di quello che aveva in mezzo alle gambe aveva inasprito il suo carattere scontroso e solitario. Soprattutto considerando i dubbi privilegi dell'essere donna. perché aveva una corporatura massiccia. Da bambina le si erano irrobustiti i fianchi e si azzardava a fare le stesse cose che facevano i maschi della sua età, se non più grandi. All'inizio non riusciva a capire perché , da quando le era venuto il ciclo, la madre si ostinasse a insegnarle le proprie ricette. Col tempo avrebbe compreso che era l'unica ricchezza che potesse offrirle: le sue rinomate empanadillas piccanti, il cuscus coi ceci, le pepitorias, stufati di gallina con salsa all'uovo, albóndigas al coriandolo e altri stufati alla morisca. Per non parlare dei sorbetti e dei dolci: frittelle semplici e al miele, banane fritte alla canapuccia e sesamo. Insistette anche perché imparasse a tessere e a cucire. Anche se in quel caso la negra Francisca dovette pagare qualcuno perché le insegnasse, visto che in quelle arti non era pratica quanto in cucina. Usò gran parte dei suoi risparmi, che le erano costati tanti anni di sacrifici e coi quali un giorno, forse, sognava di comprarsi la libertà. Comunque fosse, grazie a sua madre non avrebbe potuto avere maestro migliore: Castillo el Viejo, un morisco che godeva di grande considerazione. Quante volte, in futuro, gli sarebbe stata riconoscente per i suoi consigli nel maneggiare l'ago! E gli sarebbe stata ancor più grata per averle insegnato a leggere e scrivere, una volta che si fu reso conto di quanto fosse portata. Elena imparò quindi a dominare l'alfabeto, cosa di per se rara tra le donne, ed eccezionale tra quelle nate schiave. Senza quell'abilità, tutto quello che avrebbe fatto in seguito non sarebbe servito a niente. Nè le sue valorose imprese di guerra, nè la violenza cui avrebbe fatto ricorso, nè il duro lavoro con telai e aghi, nè le sue incessanti fughe. Niente l'avrebbe aiutata di più a superare il colore della propria pelle e l'oscuro destino in serbo per lei. La ragione delle ansie della madre si sarebbe rivelata dopo qualche tempo. Tre o quattro anni dopo aver ottenuto la libertà, dovette accettare le sue responsabilità. E capire che la necessità aveva spinto la negra Francisca a prendere una decisione che avrebbe condannato la figlia a una nuova schiavitù . *** Pagina 13
sanchez - La schiava di Granada.txt DI NUOVO SCHIAVA. Un giorno, mentre Elena stava lavorando in cucina, entrò mastro Castillo. La ragazza non si sorprese. Ogni tanto sua madre lo invitava a pranzo. Stavolta, però, non era solo. Lo accompagnava un ragazzo che non sembrava avere nemmeno vent'anni. Quella presenza inaspettata la turbò. Si sentiva a disagio. Le bruciavano ancora gli occhi: aveva appena finito di tagliare le cipolle che facevano da contorno all'agnello. Francisca era nella stanza accanto, stava passando nel forno gli alfajores all'anice. * * Gli alfajores sono dolci andalusi di origine araba fatti con pasta di mandorle, miele e noci. (N.d.T.) Quando Castillo el Viejo presentò il ragazzo come Cristóbal Lombardo, anche quest'ultimo sembrò in imbarazzo, timido e goffo. Pareva sentirsi fuori luogo anche lui. La guardava di nascosto coi suoi occhi glauchi, tra il verde e il grigio, tremando sotto i capelli rossicci, col volto pieno di lentiggini. La sua eloquenza non migliorò durante il pranzo: parlò a malapena. E lo fece solo per assecondare i complimenti del mastro tessitore alle pietanze, farfugliando elogi stentati ai quali la madre rispondeva dicendo che era tutto merito di Elena. Fu allora che lei capì la trappola. Quando gli uomini se ne furono andati, affrontò Francisca. «Non so cosa credi di fare, ma quel ragazzo non mi piace. Non sa mettere insieme due frasi, è tardo e mingherlino; non vale niente.» «Per quanto possa sembrarti spregevole, è un buon partito.» Da queste parole, e da quelle che le disse in seguito, Elena si rese conto della triste situazione in cui si trovava Francisca: il matrimonio di sua figlia, con chiunque fosse, le sembrava un avanzamento rispetto alla sua posizione di schiava. Il padrone non andava più a trovarla da un pezzo, e temeva che costringesse entrambe ad abbandonare la casa da un momento all'altro. Dove sarebbero andate, allora? Elena, dal canto suo, non era più una bambina. Nonostante quell'assedio, Elena si rifiutava di andare in sposa a un pretendente che aveva da offrire così poco. «Mamma, non ho nemmeno sedici anni.» «Alla tua età, molte sono già sposate e con figli. E chissà quando ti capiterà un'altra occasione.» Di certo non avrebbe trovato molti uomini liberi, bianchi e cristiani vecchi disposti a unire la propria sorte a quella di una mulatta come lei, senza ne dote ne ricchezze, nata schiava e col volto marchiato. Le discussioni con Francisca finivano sempre tra singhiozzi e rimproveri per il modo in cui la figlia la ripagava di tutti i sacrifici che aveva fatto per lei. La stessa scena, un giorno dopo l'altro. finchè Elena non capitolò, accettando di sposare Cristobal Lombardo. Ricordava ancora con orrore la prima notte di nozze. Quella violenza che si sarebbe ripetuta per settimane. Solo col tempo, una volta smorzati il dolore e le umiliazioni, arrivò a nutrire una curiosità morbosa per quello strano membro che il marito aveva tra le gambe. benché in quel momento non ci fosse cosa che odiasse di più al mondo, il modo in cui all'improvviso cambiava forma e dimensioni la intrigava. Così come l'affascinavano gli sforzi dell'uomo per riuscire a dominarlo. Un dominio sempre precario, date le sue singolari caratteristiche. Ne avrebbe avuto prova lei stessa anni dopo, quando avrebbe affrontato quella stessa sfida con altre donne, nel ruolo del maschio. Le settimane d'inferno successive alle Pagina 14
sanchez - La schiava di Granada.txt nozze sarebbero state allora l'unica cosa cui potersi aggrappare, la sola esperienza su cui fare affidamento per imparare come comportarsi a letto. Per quanto lo detestasse, non avrebbe avuto altro esempio. A quelle notti senza fine si aggiungevano le continue fatiche in casa. Lavare i vestiti e il suo misero corredo, preparare il pranzo che il marito si portava in cantiere. Era infatti un muratore, poco più di un semplice manovale a giornata o un apprendista. Presto Elena capì che i suoi compagni non nutrivano nessun rispetto per lui. Aveva visto al lavoro gli alarifes, i muratori mori, sapeva con quanta accuratezza facevano emergere dal mattone tutte le sue sfumature, e suo marito era a malapena capace di tirar su un muro dritto. Ma non aveva mai detto niente. Fino a quel giorno. Aveva impiegato ore a preparargli il pranzo, con quei quattro soldi che lui non si beveva alla taverna. Di solito, quando gli tendeva il cestino di vimini verso l'impalcatura, lui cercava di compensare la poca considerazione che gli riservavano i compagni di lavoro maltrattando lei. Si lamentava di quello che gli portava, maledicendosi per aver sposato una ex schiava che sembrava una mora. Stanca di subire in silenzio, Elena meditava di tentare un'altra strada, lontana dalle lunghe ore passate ad aspettare che lui facesse ritorno, mezzo ubriaco, per riprendere i suoi goffi abusi. Francisca, la sua spalla su cui piangere, le consigliava di resistere. E, quando lui aveva smesso di portare soldi a casa, perché se li beveva o li perdeva al gioco, la madre era arrivata a fare una cosa che mai avrebbe osato prima: rubacchiare cibo dalla casa colonica per darlo alla figlia. Una sera, allarmata dal ritardo del marito, Elena era andata a cercarlo alla taverna. Lui non c'era, ma al suo posto aveva trovato sguardi condiscendenti, parole ambigue dei ruffiani che si offrivano di prendere il suo posto. E tutti i doppi sensi sul fatto che una mulatta col viso marchiato si trovasse lì a quell'ora. Lui non aveva fatto ritorno a casa, quella notte. E non lo trovò nemmeno il giorno dopo, al lavoro, quando andò a portargli il pranzo. «Meglio così. Quello beveva, più che lavorare», le disse il capomastro. Non riuscì a reggere gli sguardi beffardi degli altri muratori, né le battute volgari mentre si allontanava. Non si era mai vergognata tanto. Quando passò accanto alla gola del fiume, buttò la cesta nel burrone. Suo marito non avrebbe mai fatto ritorno. Erano stati insieme appena tre mesi. Ma le aveva lasciato un ricordo, prima di abbandonarla. Un altro marchio a fuoco che le avrebbe avvelenato la vita. *** IL MEMBRO. Non ci mise molto a capire di essere incinta. Lo disse alla madre, pur sapendo quale sarebbe stata la sua reazione. Cercò quindi di tranquillizzarla. «Non sentirti in colpa per avermi obbligato a sposarmi. Non voglio diventare un peso per te. Ho cercato lavoro, Gaspar de Belmar ha accettato di prendermi a servizio.» «Quello che gestisce la manifattura per la lavorazione del tabacco?» «E' da poco rimasto vedovo, e ha bisogno di qualcuno che si occupi della casa mentre lui è in bottega.» Scorse di nuovo negli occhi di sua madre quella scintilla d'inquietudine per quello che avrebbero dovuto affrontare. E volle fermare sul nascere le parole che già indovinava: «Non sopporterò un'altra volta il peso di un uomo sopra di me. Non sarò la schiava di nessuno». Pagina 15
sanchez - La schiava di Granada.txt Elena notava i mutamenti in atto nel proprio corpo. Il ventre che cambiava forma, la debolezza alle gambe, il torpore che l'assaliva mentre si occupava di quella casa che non era la sua. In bilico tra la tenerezza e il terrore, cominciò a percepire i movimenti di quella nuova vita in arrivo. La madre andava a trovarla sempre più spesso, ed Elena provava per lei una mescolanza confusa di sentimenti. Da una parte, un fondo di rancore per averla messa in quel guaio. Dall'altra, si sentiva legata a lei più di quanto non fosse mai stata, mentre ascoltava i suoi consigli e comprendeva che cosa aveva dovuto passare quand'era incinta di lei, una figlia che in un primo momento doveva essere stata qualcosa di estraneo, non voluto. Arrivò il giorno del parto e il travaglio fu così lungo da sembrare un castigo. Dovette ricorrere a tutte le proprie forze. «Spingi, che sta uscendo!» le diceva sua madre. Sentì la carne lacerarsi, nel punto da cui si diffondeva quel dolore straziante. E sentì, alla fine, il pianto del bambino, poco prima di perdere i sensi. Quando tornò in sé e glielo portarono, le sembrò che somigliasse al padre. Così decise di dargli lo stesso nome, Cristobal, per ricordare di chi fosse il seme. Poi ricadde in un torpore profondo, come quello di una febbre. Quando si svegliò, sentì la madre e la levatrice che bisbigliavano. Parlavano piano per non disturbarla, ma lei capì che qualcosa non andava. La donna non aprì bocca, ed Elena aspettò che se ne andasse per chiederlo a Francisca. Ma lei le diede risposte evasive. «Che cosa mi state nascondendo? Portami uno specchio», le ordinò. «Ma, figlia mia, dove lo trovo, uno specchio?» «Quello della signora che mi ha regalato il padrone. E' nel mio baule.» Poco dopo la madre tornò accanto a lei. «Non l'ho trovato.» Le stava mentendo, e lo sapeva. Non appena rimase sola, Elena scese dal letto e si trascinò fino al baule. Eccolo, lo specchio. Sporse il viso al di sopra del nome inciso sulla cornice ovale, elena de Céspedes. Seguì con l'indice le cicatrici della marchiatura, la S e la I che col tempo avevano assunto una sfumatura più chiara e apparivano grigie e spente. A parte quello, non notò niente di strano. Le venne un sospetto. Posizionò lo specchio in basso, davanti al proprio sesso. Era gonfio, tumefatto, irriconoscibile. Confuso come sempre. Ma c'era qualcosa di nuovo: quel pezzo di carne rosa. E questo, da dov'è uscito? si chiese. Sopra la fessura di donna spuntava un piccolo fusto, simile a un pollice, che per certi versi le ricordava un membro. Quando la madre e la levatrice tornarono nella stanza, Elena indicò il proprio inguine. «E questo che cos'è?» Francisca cercò di tranquillizzarla. «Non e niente, figlia mia. Con lo sforzo del parto si e rotta una membrana sopra il canale dell'urina.» «Vedrai che col tempo tornerà tutto a posto», aggiunse la levatrice. Ma non andò così. Dopo alcune settimane, si accorse che quella cosa s'irrigidiva quando lei era eccitata, s'inturgidiva e sporgeva. Poi, una volta passato il desiderio, si sgonfiava, tornando al suo posto, proprio come succedeva al marito quando la possedeva. Che cosa mi sta succedendo? si domandava ogni notte, prima di coricarsi, dopo aver posato lo specchio accanto al letto. Guardava il bambino, addormentato accanto a lei, piccolo, magro e rachitico e, sentendo i capezzoli irritati, Pagina 16
sanchez - La schiava di Granada.txt l'assaliva un pianto irrefrenabile. *** ORFANA. Non potè dedicare molto tempo agli abissi del sesso: aveva un figlio da crescere. Le lunghe notti in bianco, mentre lo teneva al seno o aspettava che si addormentasse. E poi ci fu la malattia della madre, che un giorno perse i sensi mentre l'aiutava a cambiare un pannolino. Non appena lo vennero a sapere alla casa colonica, obbligarono Francisca ad andarsene. Non solo per paura del contagio, ma anche perché ormai si erano accorti che rubava dalla dispensa per aiutare Elena. Il padrone, Benito de Medina, ebbe così il pretesto per liberarsi di lei. Non l'accettarono neppure all'ospedale. La portarono fuori, nel cotarro, l'infermeria in cui si accalcavano i poveri, cChe erano sempre più numerosi, a causa della carestìa che aggravava i loro mali. Quel posto era allo sfascio, ridotto in condizioni vergognose. Troppo caldo, un vero e proprio forno. Ed era talmente infestato dalle cimici che le pareti e il soffitto sembravano animati di vita propria, come una marea. L'unico modo per liberarsene sarebbe stato rifare i soffitti e intonacare i muri. Ma non c'erano né i soldi, né un altro posto dove accogliere i malati nel frattempo. «E poi, nel giro di poco si riempirebbe di nuovo di cimici», disse, stringendosi nelle spalle, il medico incaricato dal Consiglio di visitare quei disgraziati. Neppure gli altri malati volevano accanto una schiava nera ridotta in quello stato. Elena tentò di tutto, ma senza successo. All'infermeria non volevano tenerla, e lei non aveva il denaro necessario per convincerli a chiudere un occhio. Non l'accettò nemmeno il padrone di Elena, Gaspar de Belmar, e lei non osò insistere. Aveva paura che la cacciasse di casa, insieme col figlio. Sua madre non disse nulla. Non un solo rimprovero. Si limitò a spegnersi poco alla volta, mentre le membra si consumavano, gli occhi s'infossavano e il respiro si affievoliva. Sembrava che si fosse ripiegata dentro di se di fronte al rifiuto degli altri. Anche del suo? Elena avrebbe continuato a chiederselo per anni. Non se lo sarebbe mai perdonato. Non le permisero neppure di morire in pace. Elena non potè rimanerle accanto, poiché il figlio e il lavoro la obbligavano a tornare a casa ogni sera. La mattina dopo, quando andò a cercarla, trovò il giaciglio vuoto. «Ormai aveva perso lucidità, non si rendeva conto di niente», le dissero come unica spiegazione. Era stata buttata su un carro, avvolta in un lenzuolo liso e sporco, e la stavano portando via. Con gli occhi e la bocca ancora spalancati. Sopraffatta dalle lacrime, Elena cercò un sudario decente e un fazzoletto da avvolgerle intorno alla testa, per chiuderle la bocca. Rimaneva comunque il problema di dove portarla. Nemmeno questo sarebbe stato facile, perché Francisca non era battezzata. «Non possiamo seppellirla in terra consacrata», si oppose il prete che si occupava dei malati. Il padrone del carro sul quale stava il cadavere bestemmiava per l'impazienza, mentre Elena andava in cerca di un palmo di terra in cui darle una sepoltura dignitosa. Dopo la seconda visita alla taverna, l'uomo del carro la minacciò di buttare il corpo in mezzo al campo, e tacque solo perché la mulatta lo aveva incenerito con lo sguardo. Elena però sapeva di dover trovare una soluzione. E in fretta. Non poteva seppellirla in un posto qualunque, dove poteva essere divorata dai cani o da qualche altro animale selvatico. Pagina 17
sanchez - La schiava di Granada.txt Dopo averci riflettuto a lungo, decise di mettere da parte l'orgoglio e di recarsi nell'ultimo posto dove sarebbe voluta andare: l'antica casa colonica dalla quale le aveva cacciate Benito de Medina. Il padrone l'ascoltò senza degnarla di uno sguardo. Poi si limitò a fare un cenno al domestico che l'aveva accompagnata al suo cospetto. Era il suo modo per dare il benestare affinchè le concedessero un fazzoletto di terra in un punto appartato e discreto della tenuta, con un muro intorno che proteggesse la tomba. Alla fine aggiunse, rivolgendosi a Elena: «Passa da me dopo la sepoltura». Fu l'unica volta in cui rimase da sola col suo vero padre. Le domande premevano per uscirle dalle labbra, ma l'orgoglio ebbe la meglio. O forse la paura. E così rimase in silenzio. Nemmeno Benito de Medina disse granchè. Poche parole, mentre le consegnava i documenti relativi alla proprietà di Francisca. Quando Elena li lesse, si sentì straziare le viscere. Lì c'era tutta la vita della madre. E anche, per certi versi, l'origine della sua. Fu allora che cominciò a tramare la sua terribile decisione? Non sarebbe mai riuscita a trovare risposta a quella domanda, per quanto non smettesse mai di pensarci. Dai documenti non risultava di dove fosse originaria la madre, ne come fosse arrivata nel regno di Granada. Non riuscì a scoprire molto al riguardo. Qualche volta, quando le rondini facevano il nido sotto la gronda, l'aveva sentita sospirare che loro potevano attraversare liberamente lo stretto di Gibilterra. Un giorno qualcuno aveva distrutto i nidi, e lei se n'era addolorata. Le riteneva sacre. «Se l'Africa piange, la Spagna non ride», aveva detto. Le aveva anche sentito raccontare delle usanze dei mori ricchi, che regalavano fanciulli neri comprati come ricordo durante i pellegrinaggi alla Mecca o nei viaggi nelle terre dei berberi. Elena sapeva che i conquistatori cristiani avevano adottato quegli stessi costumi. Tutti ad Alhama avevano schiavi neri o moriscos, dal clero a funzionari pubblici, medici, segretari, scrivani e ufficiali giudiziari. Persino gli artigiani più facoltosi. Erano un simbolo di ricchezza. I documenti avuti da Benito de Medina erano di una precisione impietosa. Chi aveva venduto sua madre aveva preso nota di tutte le spese sostenute per quella giovane schiava nera: il costo per nutrirla, i mulattieri che l'avevano trasportata quand'era così debole che si era temuto per la sua vita, le guide che avevano dovuto assoldare nei percorsi più difficili, la guardia che vigilava i prigionieri al mercato di Granada, il banditore e lo scrivano... Quel traffico dava da vivere a molta gente. Nel caso di sua madre, i documenti della transazione specificavano che il primo padrone l'aveva comprata quando aveva tredici anni, al prezzo di sessanta arrobas * di vino bianco invecchiato, un panno catalano di Figueras, ventun ducati e un real. * Unità di misura equivalente a 11,505 chilogrammi. (N.d.T.) Il secondo, Benito de Medina, più prosaico, indicava di averla ottenuta barattandola con una mula di quattro anni, con tanto di sella e bardature. Così risultava dal documento di proprietà. Uno scambio decisamente adeguato, perché la vita della madre era stata proprio quella del mulo: mangiare per lavorare e lavorare per mangiare. Non si era mai allontanata dalla tenuta dei padroni. Indossava gli abiti smessi e consunti che le passava dona Elena de Céspedes. Oltre alla Pagina 18
sanchez - La schiava di Granada.txt cucina, si occupava della gestione quotidiana della casa: andare a prendere acqua e legna, attizzare il fuoco, lavare i pavimenti, far scintillare le pentole, spazzare, pulire le predelle, fare le camere, accendere le candele, portare l'immondizia al letamaio... In ogni suo ricordo, Francisca era affaccendata tra piatti, scodelle e mortai, pentole e paioli che bollivano sui fuochi. Sembrava che le guance e la pelle fossero diventate più scure per la fuliggine che saliva dal fuoco, crepitando verso il comignolo. Rare volte l'aveva vista su una sedia, ma quasi sempre china sui mobili, sul pavimento o sul fuoco, con le braccia impegnate a sollevare carichi, ad alzare anfore e paioli, a rimestare zuppe e semolini, o a scottare cacciagione... L'avrebbe sempre ricordata circondata dalla solitudine più terribile, rinchiusa in quella casa colonica e nella sua pelle nera. Rassegnata a essere schiava. A servire docile il padrone che l'aveva messa incinta. A sopportare Pedro Hernandez, che doveva passare per il padre di Elena. In poche parole, ad accontentare tutti. Quand'era lei a mettere il cibo nei piatti, nessuno rimaneva senza, ce n'era sempre per tutti. Teneva per se soltanto gli avanzi, e spesso nemmeno li toccava, da quanto era stanca. Aveva sopportato tutto ciò per mantenere lei. L'unica cosa bella che avesse avuto. Se aveva sopportato l'uomo che l'aveva violentata, quello cui era stata assegnata perché continuasse al suo posto, era stato per non far mancare protezione e sostentamento alla figlia. Certo, avrebbe potuto abortire. La maggior parte delle schiave lo faceva. E forse anche Francisca si era sbarazzata del bambino di Hernandez. perché aveva tenuto lei? Senza dubbio aveva preferito rimanere incinta del padrone, le conveniva di più. E forse perché Benito de Medina le aveva promesso di concedere la libertà al frutto della loro relazione, addirittura di riconoscerlo come proprio? Una promessa che non aveva osato mantenere dopo il matrimonio con la ricca vedova doña Elena de Céspedes. Quando ebbe finito di leggere quei documenti, nella sua testa già nasceva quella decisione atroce. LA DECISIONE Esitò molto prima di fare quel passo. Forse non lo avrebbe mai fatto, non fosse stata una questione di sopravvivenza. Nessuno ad Alhama ricordava una carestìa come quella. Gaspar de Belmar era partito per un lungo viaggio, aveva chiuso la casa e fatto a meno dei servigi di Elena. Lei aveva cercato di entrare nella lista ufficiale degli indigenti, cui si provvedeva mediante un fondo speciale di duecentocinquanta pani di frumento e crusca, che venivano divorati fino all'ultima briciola. Non ci era riuscita. Un giorno era in piazza a chiedere l'elemosina, insieme col figlio. Il piccolo Cristóbal piangeva per la fame, quand'era passata una donna che distribuiva il pane ai poveri. Aveva il viso deturpato dal vaiolo, ma il suo aspetto non aveva spaventato il piccolo, quando lei si era avvicinata. «è vostro?» si era interessata, mentre con lo sguardo chiedeva il permesso di prenderlo in braccio. Elena aveva assentito con tristezza, intuendo l'imbarazzo che la donna doveva provare per averle fatto quella domanda: il bambino era completamente bianco, senza nessuna traccia del suo colore mulatto, e la cosa saltava agli occhi. Quando lo aveva preso in braccio, la donna si era resa conto di quanto il piccolo fosse denutrito. E, parlando, le aveva confessato di essere sterile. «Mio marito e io avremmo tanto voluto un figlio. Non gli sarebbe mancato niente.» Aveva detto che erano panettieri, con un forno di loro proprietà a Siviglia. Ma lei era nata ad Alhama, e il consorte in un paese vicino. Erano lì in visita, stavano dando una mano Pagina 19
sanchez - La schiava di Granada.txt al forno dei genitori. Avevano continuato a chiacchierare, e alla fine era arrivata la proposta. Elena aveva scosso la testa: la disperazione le impediva di parlare. «Pensateci bene. Partiremo dopodomani», aveva detto la panettiera mentre si allontanava. Elena ci aveva rimuginato per tutta la notte. Con un bambino affamato tra le braccia, la situazione peggiorava a vista d'occhio. Non c'era niente da mangiare. I granai erano vuoti. E ormai avevano divorato da un pezzo tutti gli animali a portata di mano, inclusi topi e vermi. Scarseggiava persino l'erba dei pascoli. E, quando i poveri avevano finito quella e le radici trovate nei campi, alcuni avevano cominciato a mangiare la terra, disperati. Era uno spettacolo straziante vedere i bambini, povere creature, elemosinare per le strade e le piazze, per poi agonizzare e spegnersi in qualche angolo. Elena non voleva che suo figlio facesse quella fine. Fu allora che si decise a compiere quel passo. Se avesse aspettato ancora, non ne avrebbe più avuto la forza. Andò da mastro Castillo per dirgli addio, e lo trovò pelle e ossa, stremato. L'uomo la evitava da quando aveva fatto da intermediario per il matrimonio con Cristobal Lombardo: si sentiva in colpa, complice di quella follia. «Vedi bene in che stato sono, ridotto a uno scheletro dalla fame. Dove non arriva la cucina comincia la medicina, e se non c'è rimedio al male segue presto il funerale.» Sentito ciò che aveva in mente di fare, le chiese di aspettare un momento. «Se vai a Granada, ti do una cosa.» Tornò dopo un po' con una lettera, che sigillò col proprio anello, mentre le spiegava: «E' per mio nipote, Alonso del Castillo. Non hai che da fare il suo nome, è molto conosciuto in città». Il giorno successivo, Elena si alzò prima dell'alba. Non riuscì a evitare che il bambino si svegliasse mentre se lo assicurava alla schiena, incamminandosi verso la panetteria. Chiese della donna coi segni del vaiolo sul viso che lavorava lì. Quando la vide, Elena andò dritta al punto. «Non riesco a mantenere mio figlio. Sono pronta a tutto, piuttosto che vederlo morire di fame ad Alhama. E so che con voi non gli mancherà mai da mangiare.» «Vi ricordate le condizioni di cui abbiamo parlato?» le chiese la donna, pulendosi le mani sporche di farina. «M'impegno a non reclamarlo e a non vederlo mai piu.» Affidarle il bambino fu come tagliarsi un braccio o strapparsi il cuore. Non lo avrebbe mai superato. La panettiera le diede un fagottino con un po' di cibo e due pani appena sfornati. Poi le prese la mano e le consegnò una di quelle robuste sacche da viaggio chiamate «gatti», perché erano ricavate dalla pelle di quell'animale. « Accettate queste monete come viatico.» Allontanarsi da Alhama le costò uno sforzo indicibile. Il sole si stava ancora affacciando sulle mura, illuminando appena i viottoli. Un pugnale le straziava le viscere, si sentiva come Giuda. Si trascinò fino alla locanda del crocevia, in cerca di qualcuno diretto a Granada. Riuscì a mettersi d'accordo per dodici reales con un mulattiere morisco che trasportava giare d'olio. Sistemati il pagamento e le cavalcature, cominciarono la marcia verso la capitale del regno. Fu un viaggio duro. Da un lato per la scomoda sella dell'asino, il freddo alle gambe, il dolore all'inguine, le natiche ammaccate e i piedi gonfi a forza di stare sospesi, senza staffe sulle quali appoggiarli. Ma soprattutto per i pensieri cupi. Elena stava per compiere vent'anni. Non poteva fare ritorno ad Alhama: lì sarebbe stata per sempre la figlia di una schiava. Sapeva inoltre che il destino più comune per le schiave liberate e le madri sole era quello di vendere il proprio corpo. Ma lei era disposta a lottare con tutte le sue forze per Pagina 20
sanchez - La schiava di Granada.txt evitare quella vita. Aveva bisogno di cambiare aria, anche a costo di ritrovarsi nella solitudine più assoluta, proprio quando avrebbe avuto più bisogno di un conforto. *** GRANADA. Lope de Mendoza si sfilò i pesanti occhiali e li posò sul fascicolo dell'accusata. Si alzò dalla sedia e si mise a camminare su e giù per l'ufficio, riflettendo sul caso Céspedes. In primo luogo c'era la maternità, che sembrava fugare qualunque dubbio sul fatto che fosse di sesso femminile. Quantomeno a quell'epoca, quando aveva quindici o sedici anni. Ma dopo? Una madre avrebbe mai abbandonato il proprio figlio? Non sarebbe stata certo la prima, e nemmeno l'ultima. Soprattutto date le circostanze. O forse lo aveva fatto per poter cominciare una nuova vita senza intralci? Che piani covava dentro di se, quando aveva deciso di partire per Granada? Più di ogni altra cosa lo sorprendeva la presenza di Alonso del Castillo in quella storia. Mendoza lo conosceva, e lo stupiva non poco che la mulatta avesse avuto a che fare con un individuo tanto ombroso e impenetrabile. Per questo, inforcando di nuovo gli occhiali per riprendere la lettura, cominciò a porsi domande non molto diverse da quelle che, in quel preciso momento, si stava facendo l'accusata nella propria cella, mentre ricordava quell'incontro. Anche Céspedes aveva provato quell'inquietudine in presenza di don Alonso. Dal preciso istante in cui gli aveva porto il documento col sigillo dello zio, Castillo el Viejo. L'uomo le scrutava il volto, ed Elena sapeva che stava osservando i segni della marchiatura sulle guance. Poi lui aprì la lettera e cominciò a leggere. Allora fu Elena a guardarlo con attenzione. Don Alonso del Castillo doveva avere una quarantina d'anni, anche se ne dimostrava di piu. Le fatiche della vita sembravano essergli ricadute addosso prima del tempo, indurendo il viso ben rasato, in contrasto coi volti barbuti che affollavano la capitale dell'antico regno dei nasridi. Gli occhi neri e penetranti, le sopracciglia inarcate, le labbra tese e dritte ne accentuavano l'aria sospettosa. Non era solo diffidente, ma anche introverso, col carattere malinconico di chi si è lasciato alle spalle non poche rinunce. Sembrava che la lettera di mastro Castillo fosse scritta in arabo e raccontasse il passato della mulatta. Quando finì di leggere, don Alonso le fece alcune domande. Lei rispose come meglio potè, ma notò lo sconcerto del suo interlocutore alla fine dell'interrogatorio. Forse aveva immaginato che fosse morisca, a causa dei marchi e della raccomandazione del vecchio tessitore. Ora sembrava stupito dalla sua ignoranza della lingua e degli usi musulmani. In ogni modo, quello per lui era un dovere verso la famiglia, quindi l'aiutò senza riserve. Le offrì una sistemazione per quella prima sera, facendola dormire coi propri servi. Il giorno successivo l'accompagnò all'Albayzin, l'antico quartiere arabo di Granada. Elena sapeva che don Alonso era un medico, e ora si rendeva conto di quanto fosse diverso da quelli con cui era abituata a trattare ad Alhama, più simili a barbieri o a guaritori. Lui, invece, era un uomo dai modi raffinati, che aveva studiato e apparteneva all'alta società. Pareva che fosse molto conosciuto in città. Eppure, già allora Elena percepì un atteggiamento ambiguo nei saluti e negli sguardi, un miscuglio indistinguibile di rispetto, diffidenza e ripudio. Una presa di distanza unanime, sia da parte dei moriscos sia dei cristiani vecchi. Né gli uni né gli altri sembravano considerarlo uno di loro. Quando arrivarono nell'Alcaiceria, il labirintico quartiere Pagina 21
sanchez - La schiava di Granada.txt del mercato, tra i banchi di sete e di spezie, don Alonso le chiese di aspettarlo. Doveva occuparsi di una cosa. Dopo la guidò in una grande piazza, un quadrato perfetto. Su uno dei lati erano all'opera scrivani e artigiani che preparavano le pergamene. I venditori ambulanti erano ovunque, in mezzo ai banchi del pesce, della carne, delle verdure e degli agrumi di ogni genere. Elena rimase a bocca aperta. Non aveva mai visto niente di simile, soprattutto considerando la penuria che si era lasciata alle spalle. «Questa e plaza de Bibarrambla. Qui si tengono le corride e gli autodafe, dove finiscono al rogo gli eretici o i libri in arabo. E sempre qui si celebra la festa del Corpus Christi», le spiegò don Alonso. In quelle parole non c'era enfasi ne emozione. La voce scorreva impassibile, come se stesse facendo una diagnosi. Forse lui lo aveva fatto di proposito, per saggiare le sue reazioni. Elena si guardò bene dal fare commenti. Non sapeva nemmeno come comportarsi. La morte della madre e l'abbandono del figlio erano ancora una ferita aperta. Non poteva fare a meno di distogliere lo sguardo ogni volta che vedeva un bambino: la mente correva subito al suo, si chiedeva se se ne stavano prendendo cura oppure no; se gli avrebbero dato un'istruzione, se si sarebbe ricordato di lei da grande. Ma poi allontanava quei pensieri. Cercava di andare avanti. In un primo momento, il fatto di trovarsi in quei luoghi che così spesso aveva sentito nel romance sulla caduta di Alhama le fu di conforto. Fino ad allora, quei nomi erano stati semplici guizzi della memoria, giaculatorie con cui consolarsi. Adesso ci avrebbe vissuto. Mentre abbandonavano la piazza, passarono sotto un arco dai lati sporchi di sangue. Poiché si era fermata a guardare, don Alonso le disse: «E' l'arco delle Orecchie, perché ci inchiodano quelle dei ladri che il boia taglia il martedì, come d'abitudine». Salirono lungo calle de Zacatín, una via ampia e dritta, affollata di botteghe, diretti a plaza Nueva, sullo stesso pendio dell'Alhambra. Gli edifici che circondavano la piazza erano decisamente più cadenti rispetto a plaza de Bibarrambla, dominati dalla mole imponente della sede della Real Audiencia. «Qui è dove si tengono tutti i processi a sud del fiume Tajo», spiegò Alonso del Castillo. Granada si estendeva in parte sulle colline e in parte in pianura, ed era punteggiata di giardini. Quasi tutte le case di una certa grandezza ne avevano uno, con aranci, cipressi e viti rampicanti. Le terrazze rallegravano gli occhi con rose, garofani e cumini selvatici. L'aria profumava di zagara o gelsomino e le acque, piacevolmente fresche, scendevano dalla Sierra Nevada, che si stagliava contro il blu intenso del cielo, oltre la collina sulla quale sorgeva l'Alhambra. Elena notò inoltre che, benché non avessero le tasche gonfie di soldi, gli abitanti di Granada non erano nemmeno ridotti agli stenti. Anzi, sembrava che la maggior parte di loro se la passasse piuttosto bene, con una discreta quantità di reales e maravedí nella borsa. Schivando la folla che proveniva dalla puerta de Elvira, s'inoltrarono nei vicoli laterali, salendo verso San Miguel. Sui fianchi della collina si ammucchiavano le modeste case dei moriscos, oppressi come quelli di Alhama. A un certo punto, don Alonso le indicò una chiesa che spuntava dietro una curva, innalzandosi su quella confusione di umili tetti. «La parrocchia conta più di quattrocento famiglie. Oltre milletrecento persone in età di confessarsi e ricevere i sacramenti, dalle quali il beneficiato riceve il mensile. Lì c'è anche la Vergine dell'Aurora, che il Giovedì Santo viene portata in processione alla cattedrale, e conta Pagina 22
sanchez - La schiava di Granada.txt molti devoti.» Entrarono in cerca del prete, che don Alonso prese da parte per informarlo della situazione. Poi si accomiatò da Elena con una raccomandazione: «Non venite meno ai vostri dovèri e non vi mancherà di che vivere. Il beneficiato vi accoglierà come governante. Se vi serve qualcosa, sapete dove trovarmi». Col parroco andò tutto bene, in un primo momento. Con vitto e alloggio assicurati, Elena si augurava che tutto filasse liscio. Tuttavia si sarebbe accorta presto che non sarebbe stato così semplice. Un giorno il sacerdote notò quanto fosse brava a cucire e le propose di diventare calzettaia. Elena accettò, ingenuamente. L'uomo la portò in un laboratorio poco distante, che lui gestiva di nascosto. E, quando si accorse che lei sapeva anche leggere e scrivere, le affidò la gestione dei conti. Peccato che per quei compiti aggiuntivi e clandestini non pagasse niente di più del vitto e alloggio stabiliti. Col passare dei mesi, Elena scoprì che quell'uomo scaltro non si occupava solo della chiesa e della manifattura delle calze. Non c'era attività che non lo allettasse. Sapeva far di conto bene quanto leggeva latino, e gestiva traffici in tutta la parrocchia, oltre che in mezza città. Nei suoi incessanti andirivieni, faceva affari con qualunque cosa gli capitasse tra le mani. E se ne andava in giro impettito, con la pancia sempre piena. La mulatta, suo malgrado, stava diventando uno scomodo testimone. Ma sarebbe comunque rimasta dov'era, se non fosse stato per quello che accadde in seguito. Dopo qualche mese, la siccità che aveva ridotto Alhama alla fame arrivò anche lì. Una volta esaurite le altre cisterne, i parrocchiani misero gli occhi su quella della chiesa. Era uno di quei serbatoi pubblici che, in caso di necessità, venivano utilizzati da chi non aveva un proprio rifornimento. Una prestazione gratuita, sulla carta. In pratica, però, il beneficiato concedeva l'acqua a colpi di elemosine. Il problema, per Elena, era che toccava a lei riscuotere. «Scenderai nella cisterna ogni volta che arriverà qualcuno con l'anfora. Assicurati che paghi, e saprò ricompensarti.» E così, benché libera, era di nuovo in schiavitù: dalle pentole alle calze, dalle calze alle anfore. Col passare dei giorni, e con l'abbassarsi del livello dell'acqua, il nuovo compito diventò sempre più faticoso, oltre che rischioso, dato che Elena doveva scendere lungo una stretta scala di pietra. Se ne lamentò col prete, il quale promise che l'avrebbe fatta sistemare. Il giorno volgeva alla fine. Di solito andava a prendere l'acqua per la casa del parroco sul tardi, quando non si vedevano parrocchiane in giro. Evitava di aspettare troppo, ma quella sera si era presentata una comare in ritardo, con la quale aveva pure litigato, perché si era rifiutata di pagare. Elena non le aveva dato l'acqua, come le era stato ordinato, e la donna l'aveva minacciata di mandare il marito a tirarle il collo. Scese i gradini che portavano al pozzo quando ormai dai lucernari filtrava appena un filo di luce. E, man mano che il chiarore si affievoliva, quel luogo le riportava alla mente la miniera di Alhama, il giorno in cui i monfi avevano ucciso gli esattori delle imposte e lei era rimasta intrappolata nella galleria accanto al castello. Adesso, mentre riempiva l'anfora, Elena sentì un rumore di passi, in alto, che riecheggiarono tra gli archi di mattoni scrostati dal salnitro. Non erano passi leggeri, da donna, ma pesanti. Si armò di coraggio e alzò gli occhi; vide un'ombra che si allungava, minacciosa, nel controluce della lampada che aveva posato sul pavimento. Per un momento, Elena trattenne il fiato, schiacciata contro la parete, mentre i passi continuavano a scricchiolare sulle schegge d'intonaco. Pagina 23
sanchez - La schiava di Granada.txt Quando l'uomo si affàcciò al pozzo, la mulatta, in basso, non riuscì a vederlo inviso. Lui sì, però. La osservava, calcolando la profondità delle strette scale di pietra. «Sono Ibrahim», disse infine. Quando si mosse, la luce della lampada gli illuminò il volto. Elena temette che quell'individuo dall'aria truce fosse il marito della donna che l'aveva minacciata, venuto a farsi giustizia da sé. «Ibrahim, il fontaniere.» Questo non la tranquillizzò, poiché non sapeva che mestiere fosse. «Sono quello dei tubi dell'acqua», aggiunse lui, vedendo che Elena taceva, stringendosi nelle spalle. «Il beneficiato mi ha chiesto di fare un condotto, per non dover scendere così in basso a prendere l'acqua.» Afferrò la lampada e la tese verso di lei, illuminandole la risalita. «Siete spaventata, sembra che abbiate visto uno spirito. Dovrò tornare un altro giorno con più calma e con gli attrezzi. Quando hanno costruito la chiesa, sulla vecchia moschea che c'era qui, non hanno badato alle condutture. Si vede che i cristiani non sono tanto amici dei bagni o delle abluzioni», si lamentò, dopo essersi dato un'occhiata intorno. Una volta fuori, chiese a Elena: «Qualcosa non va?» «Sto bene.» «Non si direbbe.» «E' solo che una delle parrocchiane mi ha minacciato.» «Avrete dei guai, com'è successo a chi vi precedeva. Il prete vi fa fare anche la calzettaia?» Lei non rispose. «Capisco. Non voglio intromettermi, però conosco un araldo in calle de los Gomeres, e sua moglie sta cercando qualcuno che l'aiuti a cucire», continuò Ibrahim. «Vi ringrazio, ma sono qui perché qualcuno ci ha messo una buona parola, e devo prima parlarne con lui, per non offenderlo.» «Chi e stato a presentarvi al beneficiato?» «Don Alonso del Castillo.» Nel sentire quel nome, al fontaniere sfuggì una smorfia. «Se quel posto v'interessa, mi troverete in plaza de Bibarrambla, a mezzogiorno.» *** IBRAHIM. Sembrava che la presenza di Elena lo mettesse a disagio. Come se lo avesse sorpreso in un momento d'intimità. «Chi vi ha fatto entrare?» «La porta era aperta», rispose la mulatta. Don Alonso del Castillo scese con attenzione dalla scala a pioli appoggiata al muro del palazzo dell'Alhambra. Una volta a terra, cercò di recuperare la sua calma abituale. Mise da parte il quaderno sul quale stava copiando le iscrizioni in arabo. «Le comprendete?» domandò. Lei scosse la testa. «Però sapete leggere e scrivere. Vi ha insegnato mio zio, vero?» «Solo in castigliano?», chiese lei, e di nuovo notò quella scintilla di delusione negli occhi vigili del medico. Poi espose il problema che l'aveva portata da lui. «Un araldo in calle de los Gomeres?» chiese stupito don Alonso. «Chi vi ha offerto il lavoro?» «Il fontaniere che è venuto alla cisterna della parrocchia.» «Ibrahim?» «Proprio lui.» L'espressione di Alonso del Castillo era ancora più sconcertata, come se si stesse chiedendo se quella ragazza fosse o no morisca. Nel suo sguardo si affacciava lo stesso Pagina 24
sanchez - La schiava di Granada.txt sospetto che Elena aveva visto negli occhi di Ibrahim quando gli aveva parlato di don Alonso. Non c'era dubbio: quei due si conoscevano e non si piacevano. Mentre l'accompagnava verso l'uscita del palazzo, l'uomo osservò la sua reazione di fronte agli splendidi saloni dell'Alhambra. La meraviglia di Elena di fronte a quel mutevole caleidoscopio di stucchi era tale che non riusciva ad articolare parola. Alonso del Castillo si limitò a dirle: «Immagino che abbiate urgenza di cambiare lavoro e che, finchè non troverete di meglio, accetterete quello». Se ne lavava le mani in quel modo? Lì si salutarono. Lui tornò alle iscrizioni, mentre Elena girò intorno alle folte siepi di mirto per evitare i conigli che correvano nei giardini. Abbandonò a malincuore la calma di quel luogo, il rumore delle fontane e dei canali, l'edera rigogliosa, le scale con l'acqua che scorreva dentro i corrimano forati, rinfrescando l'ambiente. Passò davanti al palazzo di Carlo V, una delle imponenti costruzioni di pietra che, insieme con la cattedrale e la sede della Real Audiencia, relegavano in un angolo la Granada mora che cadeva a pezzi, ferita e massacrata dai secoli. Cercò Ibrahim in plaza de Bibarrambla, e lo trovò in compagnia di un altro morisco che vendeva mandorle, uva passa e lupini, un anziano affabile che allontanava le mosche sotto la luce dorata, servendo i bambini che si avvicinavano al banco con le monete sudate per l'impazienza. Il fontaniere si offrì di accompagnarla a casa dell'araldo Martinez. Mentre si avviavano verso la calle de los Gomeres, Elena gli chiese di Alonso del Castillo. «E' un uomo che ha ottime conoscenze. E' nato cristiano, da padre già battezzato, un nobile dei nasridi, quelli che, una generazione prima, avevano aiutato i re cattolici durante la conquista di Granada. Una delle famiglie passate dalla parte dei vincitori», commentò amareggiato. Riconobbe però che, nonostante tutto, non era uno di quei moriscos che si crogiolavano nel lusso. Don Alonso conduceva un'esistenza molto più misurata. Aveva studiato medicina nella neonata università. Ma, dal momento che padroneggiava l'arabo, faceva anche da interprete e da traduttore. «Il Consiglio e il Capitolo lo hanno incaricato di passare in castigliano le iscrizioni dell'Alhambra.» «Non sono mai state tradotte?» si stupì Elena. «Dicono che siano più o meno diecimila. Ci hanno gia provato al tempo dei re cattolici, e di nuovo otto anni fa, più o meno. Ma non doveva essere stata un granchè come traduzione. Speriamo che prendano per buona la sua...» «perché, non parla bene l'arabo?» «Al contrario, pochi lo conoscono quanto lui. Non e per quello, ma perché chi gli ha affidato quel compito non si fida dei moriscos. Dicono che hanno l'abitudine di sfumare tutto quello che potrebbe spingere i cristiani vecchi a distruggere quelle iscrizioni: i nomi di Allah, di Maometto o altri dogmi musulmani... Ma avete ragione, con don Alonso non ci saranno problemi. Traduce anche per l'Inquisizione e per la Real Audiencia.» Ibrahim non diceva niente in modo chiaro. Eppure, Elena capì che lui stava suggerendo che Alonso del Castillo cercasse la protezione dei potenti. I quali, a loro volta, avevano fatto di lui un esempio del riconoscimento sociale concesso ai moriscos ben istruiti e fedeli al cattolicesimo. In seguito, Elena avrebbe compreso pure che quello era un giudizio come minimo precipitoso. E, in effetti, qualunque valutazione sulla persona di don Alonso si rivelava tale. Arrivarono alla casa dell'araldo Martinez, dove Elena fu presentata alla giovane moglie, Brianda. Lavorando nel suo piccolo laboratorio, la mulatta cominciò a godere di maggiore libertà che col parroco di San Miguel. Non doveva occuparsi di nessuna cisterna e i lavori di Pagina 25
sanchez - La schiava di Granada.txt casa non le prendevano molto tempo. finchè non comparve quell'ufficiale giudiziario. Capitava lì quasi ogni settimana, e sempre quando il marito era assente. E bastava guardare Brianda per capire quale fosse il motivo. Era una bella donna, coi boccoli biondi, la carnagione bianchissima, gli occhi grandi e azzurri, dalle forme sode e abilissime nell'offrire piacere a chiunque, a cominciare dalla loro focosa proprietaria. Elena non tardò a intuire la tresca. L'ufficiale giudiziario lavorava presso la Real Audiencia ed era lui ad assegnare i bandi all'araldo. Sapeva quando il marito usciva con lo strumento e tutto l'armamentario, trasformato in san Giorgio pronto a uccidere il drago. Suonava la cornetta correndo da una piazza all'altra. E, mentre lui si guadagnava da vivere, l'altro si presentava a casa sua, portando in dono alla moglie un grappolo di jabí, un'uva dagli acini minuscoli e saporitissimi. Con quello e altri regali si dava da fare con la donna, rendendola felice come una pasqua. Elena reggeva il gioco. Grazie a ciò e al suo buon lavoro, godeva di una notevole indipendenza, come le aveva assicurato Ibrahim. Un giorno, mentre risaliva calle de Zacatín col fontaniere, la mulatta rimase a bocca aperta vedendo la persona che avanzava dal lato opposto della strada. Era una donna nera, talmente curata da non sembrare vera. Alta e affascinante. Non che la madre di Elena non lo fosse. La negra Francisca era sempre stata bella, ma il suo corpo era presto appassito sotto il peso del duro lavoro. E si era inaridito come i dirupi spogli di Alhama, scavati dai torrenti. Non si era neanche mai vestita così, con gli abiti lussuosi di quella donna. Ma non fu l'unica cosa che Elena avvertì quel giorno, nel vederla lungo calle de Zacatín. Sentì il sangue pulsare alle tempie, il battito che accelerava e un pizzicore tra le gambe. Dovette stringere le cosce per frenare quella strana eccitazione, quell'ardore che le risultava non poco piacevole. Sensazione che al momento imputò alle emozioni degli ultimi tempi. La stupì ancora di più che quella nera così curata e in ordine si portasse dietro due serve bianche, che la seguivano come due agnelli lattonzoli. Non aveva mai visto niente del genere. Il mondo a rovescio, pensò, talmente inebetita che il fontaniere dovette tirarla per un braccio perché non rimanesse lì impalata in mezzo alla strada. «Chi è?» gli chiese. «Catalina de Soto, l'ago più famoso di Spagna. Dicono che nessuno la superi nel punto reale quando rammenda, ne al punto piatto quando ricama.» La nera e la mulatta si guardarono, mentre la seconda iniziava a capire che il colore della pelle non era obbligatoriamente un ostacolo alla ricchezza. «Be', aspettate di vedere Juan Latino», aggiunse il fontaniere di fronte al suo stupore. «Chi è?» «Uno dei neri più potenti mai esistiti. E' cresciuto in casa della vedova del Gran capitano, e qualcuno crede che fosse il figlio avuto da quest'ultimo con una schiava di colore.» «Lo ha riconosciuto, anche se era illegittimo?» E, facendo quella domanda, Elena pensò inevitabilmente a come sarebbe stato tutto diverso se il padrone, Benito de Medina, avesse ammesso che lei era sua figlia. «Così pare, perché è stato liberato da piccolo. E' andato a scuola e, al termine degli studi, si è sposato con una donna bianca, ricca e bellissima, che era stata sua allieva. Hanno tre figli mulatti. Ora è cattedratico all'università, ha scritto diversi libri», rispose Ibrahim. Elena non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Ci sono altri neri come loro, a Granada?» Pagina 26
sanchez - La schiava di Granada.txt «Qualcuno. Il domenicano Cristobal de Meneses, che pochi superano in quanto a saggezza delle prediche. E il dottor Ortiz, avvocato della Real Audiencia di Granada, che vive insieme con la madre, una nera.» Lei ci rimuginò a lungo. E, dopo lunghe elucubrazioni sui «quattro prodìgi», si decise a fare un passo piuttosto rischioso per dare una svolta alla sua vita. Forse fu allora che iniziò la sua corsa disperata contro la morsa del destino. Cominciò a esercitare come sarta, mestiere più remunerativo della calzettaia. Era senza licenza, ma l'avevano forse il parroco di San Miguel o Brianda? E poi, dove non arrivavano l'esame e il benestare delle corporazioni, c'era la destrezza delle sue mani. Un giorno, in laboratorio, la moglie dell'araldo decise di provarsi il vestito che Elena aveva appena imbastito. Quando Brianda si spogliò, nel vederla così bianca e bella, la mulatta tornò a sentire, incontenibile, quel prurito tra le gambe, l'umida tensione all'inguine e il sangue che le martellava alle tempie. Forse fu allora che dovette ammettere di provare quell'emozione con le donne, anzichè con gli uomini, soprattutto con la sua padrona e compagna di lavoro, che aveva sentito gridare di piacere mentre fornicava tra le lenzuola con l'ufficiale giudiziario. Non avrebbe mai dovuto farlo. Ma lo fece. Non riuscì a trattenersi. Si avvicinò a Brianda e la baciò, accarezzandole il seno. L'altra rimase muta per la sorpresa, rossa in viso. Poi reagì e la allontanò, offesa, minacciando di denunciarla. Benché dubitasse delle sue parole, dopo aver sentito i suoi capezzoli che s'inturgidivano, dovette riconoscere che diceva sul serio. E che l'avrebbe buttata in strada in quello stesso momento, non fosse stato perché sapeva della sua storia con l'ufficiale giudiziario. Ma non fu l'unico errore di Elena. Ormai, trascinata dall'ambizione e dall'ansia di ricchezza, aveva cominciato ad accettare incarichi per conto proprio dai clienti di Brianda, che ben presto si erano accorti della sua maggiore abilità con l'ago. Non aveva ancora idea del ginepraio in cui si stava infilando, ma lo avrebbe scoperto presto. *** PROCESSI. Quella mattina, mentre l'araldo lucidava lo strumento ed Elena cuciva accanto a Brianda, si presentò Ibrahim. Il fontaniere fece un cenno alla mulatta, invitandola a sospendere il lavoro per parlargli in disparte. «Vieni con me, credo che potrebbe interessarti.» «Di che si tratta?» «Devo fare una cosa per la Real Audiencia. Un contadino morisco, denunciato dall'amministratore delle acque.» Elena tentennò. Il fontaniere si stava affezionando a lei e, suo malgrado, aveva già cominciato a darle del tu. Non voleva illuderlo. «Non capisco che cosa c'entro io in tutto questo.» «Lo vedrai. Il morisco è accusato di usare l'acqua di un canale d'irrigazione. Lui dice che ne ha diritto, appellandosi ad alcuni vecchi documenti in arabo. Hanno già chiesto ad Alonso del Castillo di fare da traduttore.» Ibrahim capì di aver suscitato l'interesse della mulatta, e continuò: «Mentre aspettavo in uno degli uffici dell'Audiencia ho visto il tuo nome su una lista. E volevo avvertirti». Elena trasalì. «Non ho avuto tempo di scoprire altro perché e arrivato Castillo. Non credo gli faccia piacere che io sia coinvolto nella sua stessa causa. Ma la cosa che mi ha stupito di più Pagina 27
sanchez - La schiava di Granada.txt è stato il suo comportamento quando gli ho detto che c'eri di mezzo anche tu. Non mi ha chiesto niente. E' davvero strano.» «Strano?» «Collabora spesso con l'Audiencia. Potrebbe aiutarti, informarsi sul perché il tuo nome è su quella lista. E potrebbe anche evitare che riducano in miseria quel contadino, che lui conosce, anzichè limitarsi al lavoro di traduttore. Senza il suo appoggio, non potrò fare molto. Lui è uno che conta, io no.» Nel frattempo si erano incamminati fuori città, verso la Vega, dove Ibrahim controllò la distribuzione delle acque oggetto della discordia. Dopo aver camminato per un bel po', abbandonarono la strada ed entrarono nei campi. Il fontaniere l'avvertì: «Cammina lungo gli argini dei canali, ma non toccare i solchi. C'è una sentenza che me lo proibisce. Quei campi erano della mia famiglia. Li abbiamo persi e, se ci mettessimo i piedi sopra, finirei nei guai». Ibrahim parlava di Granada e della sua rete di canali come altri avrebbero descritto il proprio sangue. E si lamentava del paradosso di poter camminare tra quei campi, ma di non potervi entrare. Gli era permesso di mettere piede solo lungo il territorio che gli competeva, ossia gli spartiacque dei canali, che appartenevano al municipio. Così si era abituato a un dominio mobile quanto le acque che alimentavano la città, sempre diverse, che a volte scorrevano alla luce del sole e altre sottoterra. Dominando su tutto, ma senza potersi fermare in nessun posto. Come i sentieri e le scorciatoie detti morunas, «dei mori», noti solo ai mulattieri che li percorrevano. Stavano arrivando al luogo della disputa, dove trovarono l'anziano morisco al lavoro. Quando li scorse, sollevò il viso abbronzato e salutò Ibrahim in arabo. Poiché Elena non li capiva, il fontaniere passò al castigliano. «Non vedo il vostro vicino, quello che vi ha denunciato.» L'uomo si lamentò in castigliano stentato: «Lui viene poco quaggiù. Quando io esce per campi, il sole è su mia faccia. E, quando torna, è su nuca. Non come quello e altri cristiani vecchi, che dice: 'no fretta, no fretta', fanno niente per tanti giorni e solo pochi li vedo lavorare». Parlava sorreggendo la zappa, circondato dagli ortaggi e dai frutteti che erano una vera gioia per gli occhi. Ibrahim lodò le ciliegie, le albicocche e le amarene. «Ah, povero me! A poco serve a me!» gli rispose il vecchio, afflitto. Aveva gli occhi lucidi per la rabbia e il senso d'impotenza e, mentre cercavano di consolarlo, aggiunse: «Non piange io il passato, da quello non c'è ritorno. Piange per quello che ha da venire. Sarà grande tristezza. Quelli sono ladri senza pietà. E noi moriscos finiremo come uva di vite rampicante: appena è matura che sciami grandi di api attaccano grappoli, bucano e succhiano sostanza, lascia solo buccia e acini vuoti». Ibrahim fece le sue verifiche lungo i canali e alla fine chiese alcuni dettagli al vecchio. «Ditemi, Belvis, non rendevano di più le terre accanto alle vostre, quand'erano ancora di mio padre e di Castillo el Viejo?» «Che domande! Un morisco vive con metà, persino terzo di un cristiano vecchio», rispose l'anziano con tristezza. «Mi sono sempre chiesto come sia possibile.» «Noi più pazienza tra seme e frutto. Cristiani vecchi no abituati lavorare così duro. Loro vanno piuttosto alla guerra e nelle Indie. Parte piuttosto che aspettare sul solco.» «E vero. Tra furfanti, nobili, soldati, chierici, vagabondi e mendicanti, c'è troppa gente in ozio. Sono gonfi come maiali. E noi intanto dobbiamo fare come le formiche, che in Pagina 28
sanchez - La schiava di Granada.txt agosto, con la canicola, corrono tra le aie per portarsi via il grano rimasto a terra.» Lo salutarono e ripresero il cammino per tornare in città. Lungo la strada, Elena gli chiese: «Quel Castillo el Viejo che avete nominato è quello che adesso vive ad Alhama?» «sì. Le terre erano sue e del fratello, il padre di don Alonso, che ormai è morto.» «Mi è sembrato di capire che quel contadino si chiami Belvis... a Velez-Malaga c'era uno schiavo con lo stesso cognome, Gazul Belvis.» «Conosci Gazul? E' suo figlio, oltre che un mio amico. perché non me lo hai detto prima?» chiese il fontaniere, stupito. Fu come una parola magica. Quando seppe che i Belvis erano una delle migliori famiglie dell'aristocrazia dei nasridi, che in quanto a rango non aveva nulla da invidiare a quella di Alonso del Castillo, la mulatta cominciò a capire molte cose. «Erano molto uniti, da piccoli», le assicurò Ibrahim. «E come mai uno e così in vista, mentre l'altro si e ridotto a fare il contadino e suo figlio è uno schiavo?» «Per la stessa ragione per la quale Castillo el Viejo è stato esiliato ad Alhama. Il vecchio che hai appena conosciuto si è rifiutato di collaborare coi cristiani. Lui e tutto il ramo della famiglia che lo ha appoggiato sono stati spogliati dei beni, e il primogenito è stato venduto come schiavo senza possibilità di riscatto. Il padre di don Alonso, invece, si e piegato al nuovo potere. E il figlio è medico e traduttore di fiducia dell'Audiencia, dell'Inquisizione, del Consiglio, del Capitolo e quant'altro.» Elena esitò prima di fargli quella domanda, ma alla fine si decise. «E voi?» «Ti riferisci alla mia famiglia? No, per me e diverso. I pochi campi che avevamo nella Vega ce li hanno presi i legulei della Real Audiencia. Erano ottime terre. E ci sarebbe andata anche peggio, se avessero potuto fare a meno di noi. Ma nessuno conosceva le condutture di questa città bene come mio padre. O come me adesso.» Senza Ibrahim, Elena non avrebbe mai scoperto i corsi d'acqua che attraversavano le viscere della città, ne le altre reti nascoste che collegavano Granada. Fu grazie al fontaniere che lei cominciò a capire cosa ci fosse sotto il trambusto di quella popolosa città. A cogliere i mezzi gesti, sottomessi alla maschera della sopravvivenza. Un'occhiata di rancore rivolta all'ostentazione dei cristiani conquistatori. Uno sguardo torvo di fronte alle prebende. Gli ambulanti che si allontanavano con disprezzo al passaggio di un nobile in portantina e delle sue guardie, o di una dama con tutto il seguito. Le porte e le imposte che si chiudevano all'arrivo delle truppe. «Quanti moriscos ci sono, qui?» s'interessò Elena. «Sono quasi la metà degli abitanti.» «Che non è certo la più ricca o la più contenta.» «Ovvio. Come fanno a essere felici, quando sono stati cacciati dal giardino creato dai loro avi?» Elena si chiese che cosa dovessero provare nel vedersi trattare come intrusi nel posto di cui erano stati artefici e, fino a poco prima, signori; nella città in cui i trionfi dei loro antenati erano evidenti ovunque. Ora, invece, in un paradosso stridente, si vedevano ridotti alla misera condizione di lavoranti a giornata o di umili artigiani, impagliatori, fabbricanti di mattoni di argilla e fango o muratori che faticavano tra gesso e calce. Per quelli sottomessi alla schiavitù era ancora più terribile. Durante il cammino ne avevano incrociato qualcuno che, come castigo, portava scarpe di ferro che ne impedivano la fuga, piagandone le carni. «Non li liberano mai?» domandò Elena al fontaniere. Pagina 29
sanchez - La schiava di Granada.txt «I padroni 'liberano' solo quelli che non servono più a niente.» Indicò un vecchio che chiedeva l'elemosina. «Lo vedi, quello? Il suo padrone, un mercante di vini, gli ha concesso la libertà. Ma lo ha fatto perché ormai è vecchio, guercio, distrutto dal lavoro al torchio e così malato che sputa sangue. Per cui non gli serve più a niente.» Continuarono per la loro strada. Erano vicini a plaza de Bibarrambla, quando videro una folla accompagnare una carrozza che stava entrando in piazza dall'arco delle Orecchie. Arrampicato su una scala a pioli, l'ufficiale giudiziario stava appendendo ai chiodi due mani che ancora grondavano sangue, mentre alcuni cani saltavano sempre più in alto, eccitati dai goccioloni che gli cadevano sul muso. Ibrahim si avvicinò a un amico, il vecchio che gestiva il banco delle chincaglierie, e gli chiese che cosa stesse succedendo. L'uomo gli rispose, cupo: «Oh, che cosa ci tocca vedere! Ti ricordi di Zaide?» «Quello che lavora col saponiere?» «Che lavorava. Il padrone lo insultava e lo picchiava continuamente. Stamattina non ha retto più e l'ha colpito col rastrello, così forte che l'ha ucciso.» «Ma cosa gli hanno fatto?» Elena indicò il carro su cui c'era quell'uomo, Zaide. Alcuni stracci insanguinato gli avvolgevano la parte terminale degli avambracci. «Gli hanno tagliato le mani e lo hanno portato in giro per Granada su quel carro, coi moncherini bendati.» «E al resto del corpo?» lei, alludendo a ciò che rimaneva di lui: una massa informe e insanguinata. «Gli hanno strappato la carne con le tenaglie e ne hanno buttato i pezzi ai cani. Poi gli hanno versato del grasso di maiale bollente sulle ferite, la peggiore delle infamie per un morisco. E adesso lo impiccano.» Gli avevano già messo la corda al collo, e lo stavano issando sul patibolo. Mentre l'uomo si contorceva nelle ultime convulsioni, facendo sprizzare il poco sangue che gli era rimasto, Elena credette di scorgere Alonso del Castillo tra la folla raccolta in piazza. Aveva un'espressione cupa, affranta, amareggiata. Gli si avvicinò, ma lui fece finta di non averla vista e si allontanò. Quando tornò a casa Martinez, Elena incappò nell'ufficiale giudiziario. Si stupì di trovarlo lì, visto che c'era anche l'araldo. La faccia di Brianda non lasciava presagire nulla di buono. «Stava aspettando te», le disse. Mentre si accostava a Elena, il funzionario le porse la citazione. «Dovreste presentarvi subito alle autorità.» L'UDIENZA Prima di entrare nella Real Audiencia, Ibrahim alzò lo sguardo verso la parte superiore della facciata e indicò l'allegorìa della Giustizia. «La gente dice che l'hanno messa lassù affinchè le persone comuni non la possano raggiungere. Infatti tutto ciò che fanno viene sempre giudicato male. Se parlano poco, sono considerate reticenti; se troppo, diffamatore. Se sono decise, pericolose; se rispettose, codarde. Se esigono giustizia, vengono ritenute crudeli; se sono misericordiose, troppo miti. E invece tutti tremano di fronte ai potenti, nessuno osa dire niente. Se sono scaltri, li reputano astuti e saggi; se scialacquatori, generosi; se avari, misurati e virtuosi; se mordaci, dei cortigiani di buonsenso.» Una volta entrati, chiese alla mulatta la citazione che le aveva dato l'ufficiale giudiziario. «Dammi. Fa' vedere dove devi presentarti... Qui ci sono sei sale, tra oidores e giudici penali. Come il gregge di Blas, una sola pecora e venti mastini a farle la guardia. Questi fiutano i soldi come le mosche il miele.» Poi Ibrahim si rivolse a una delle guardie, che indicò loro Pagina 30
sanchez - La schiava di Granada.txt da che parte andare. Mentre percorrevano i corridoi, il fontaniere riprese il discorso. «All'epoca dei Re cattolici e dell'imperatore Carlo, ci si batteva con le armi. Almeno potevi difenderti. Con questi, no. Quelli che si sono nascosti mentre ovunque schizzavano sangue e polvere da sparo adesso se ne arrivano con le loro leggi. E fanno più danni con le loro penne d'oca di un artigliere coi cannoni. Vogliono recuperare il tempo perduto arraffando il bottino che non hanno razziato in guerra. Quando il moro è morto, son bravi tutti a menar fendenti. Prima almeno rispettavano i nostri costumi. I moriscos ricoprivano un po' tutte le cariche. Se sei banditori diffondevano un editto in castigliano, altrettanti lo facevano in arabo. C'erano persino due boia diversi. E lo stesso avveniva per i funzionari dei canali, mori e cristiani erano alla pari. Senza quelle disposizioni, adesso non sarei un fontaniere...» «E come si e arrivati alla situazione di adesso?» chiese Elena. «Le cose sono cambiate man mano che si stabiliva il nuovo ordine cristiano. Hanno obbligato i mori a convertirsi, ci sono stati roghi immensi di libri e documenti in arabo. I titoli di proprietà redatti in quella lingua dai re della dinastia dei nasridi sono diventati sospetti. E quei legulei ne hanno approfittato per mettere le mani sui possedimenti dei mori.» Ibrahim si fermò all'improvviso e pprese Elena per un braccio. «Che cosa succede?» «Qui c'è sotto qualcosa di grosso. Quello è Ortega Velázquez.» Senza farsi notare, indicò un uomo che, uscito dalla stanza del presidente dell'Audiencia, stava abbandonando l'edificio. «Chi?» «Un uditore. L'artefice dell'ultima truffa che questi sputasentenze hanno ordito per rivedere i confini e i titoli di proprietà del regno di Granada. So fin troppo bene come funziona, perché e successo alla mia famiglia. Hanno dichiarato nulli i documenti relativi alle nostre terre e alle case. Ce le hanno tolte e le hanno messe in vendita a basso prezzo, per poterle comprare loro o i loro compari, che da ladri sono diventati cancellieri.» «Ma il re non vi difende?» «Gli hanno promesso di versare qualcosa come due milioni e mezzo di maravedí, per potersi tenere le case e le terre più belle della Vega. E, per non farli protestare, hanno diviso il bottino con chierici, conventi e funzionari del Sant'Uffizio. Ora tutti possiedono vigne, uliveti o mulini in posti dove nemmeno vivono. Per questo la sierra è infestata di banditi moriscos. Gente spogliata di tutto e disperata, che si è data alla macchia.» A Elena tornarono in mente i monfí che avevano attaccato gli esattori delle imposte di Alhama, e scosse la testa, costernata. «Capisco.» «E non è tutto. I cancellieri che non hanno condiviso il bottino dei giudici hanno fatto carte false per riprocessare alcuni moriscos che avevano ottenuto la grazia e, ormai sposati e in pace, tiravano avanti coi loro mestieri o col lavoro nei campi. Grazie alla loro avidità, sono in pochi a non ritrovarsi sotto processo.» Arrivarono quindi davanti a un funzionario, che informò Elena della denuncia sporta contro di lei dalle corporazioni. Il motivo? Esercitare da sarta senza aver dato l'esame. L'uomo li fece accomodare in una saletta, dove avrebbero dovuto aspettare finchè il presidente dell'Audiencia non avesse firmato la sentenza. «Si mette male», commentò il fontaniere. «Ne hanno appena nominato uno nuovo, Pedro de Deza, un chierico che arriva dal Consiglio dell'Inquisizione e che molti danno già come futuro cardinale. E' piuttosto intransigente coi Pagina 31
sanchez - La schiava di Granada.txt moriscos. Eccolo che arriva.» Le indicò Deza, che stava passando proprio davanti a loro, diretto in ufficio. «E guarda chi ha appena salutato.» «Ma è don Alonso del Castillo!» esclamò Elena, sorpresa. «Hai visto come corteggia il nuovo presidente? L'altro avrà alzato la berretta di due dita appena, mentre lui ha già spolverato il pavimento col cappello», le sussurrò, malizioso. Alla mulatta sembrò che don Alonso avesse visto tanto lei quanto Ibrahim, eppure fece finta di non conoscerli. Voltò loro le spalle e tirò dritto, mettendosi a parlare con un uomo anziano che si muoveva con difficoltà, al quale offrì il braccio. «Quel vecchio insieme con Castillo e un nobile morisco, Francisco Nunez Muley», le spiegò il fontaniere. «Fa da portavoce per i suoi. Qui c'è di sicuro sotto qualcosa. La tua causa capita in un brutto momento. Vieni, sediamoci su quella panca, è la più vicina all'ufficio. Magari riusciamo a sentire qualcosa.» «No, per carità! E se ci sorprendono?» «Diremo che ci hanno ordinato di aspettare lì. Tu sei stata citata, o no?» La porta della stanza era socchiusa e le voci all'interno si sentivano a malapena. Eppure sembrava che qualcuno si stesse rivolgendo con umiltà al presidente dell'Audiencia. «Quello che sta parlando e don Francisco Nunez Muley», la informò Ibrahim. Giungevano a sprazzi le parole misurate con le quali l'anziano nobiluomo cercava di convincere il presidente che i moriscos, benché parlassero o vestissero secondo le proprie consuetudini, erano vassalli fedeli e, dopo il battesimo, buoni cristiani. Dopo una pausa, sentirono Pedro de Deza replicare, alzando la voce grave e severa: «Le nuove disposizioni vi obbligano ad abbandonare la vostra lingua e il modo di vestire e a adottare quelli dei cristiani vecchi». «Signore, forse i tedeschi si vestono come i francesi, o gli inglesi come i greci o gli italiani? Persino tra i frati dei vari ordini ognuno e diverso, scalzi alcuni, altri no. E nemmeno i ragazzi portano gli stessi abiti dei vecchi. E, se ogni Paese, ogni professione e condizione civile, militare o religiosa ha il proprio abito, che male c'e se noi vestiamo alla morisca?» ribattè Francisco Numez Muley. «Molti credono che sottintenda una religione diversa.» «La legge e la fede non si portano nell'abito, ma nel cuore. Inoltre questo comporterebbe gravi perdite di denaro, che abbiamo investito in abiti. E la rovina dei sarti che si guadagnano da vivere cucendo i nostri vestiti caratteristici.» «Questo non dovrebbe essere un problema: potrebbero cominciare a farli secondo gli usi castigliani.» «Non hanno dato l'esame. Le corporazioni li denuncerebbero.» «Ho già concesso l'autorizzazione affinché possano farlo», rispose Deza, cercando di mettere fine a quella conversazione. Si sentì un rumore di sedie trascinate, seguito dalla voce di Alonso del Castillo: «Andiamo, don Francisco, il presidente è molto impegnato». Deza cercò di giustificare la durezza delle disposizioni. «Farò quanto è in mio potere perché i moriscos fedeli a Sua Maestà non siano infastiditi. Ma state pur certo che il decreto verrà applicato, come provvedimento santo e giusto, conforme alla volontà di Dio e di Sua Maestà.» «Ma, signore...» «E' inutile parlarne ancora», lo ammonì il presidente in tono brusco e risolutivo. «Sua Maestà mette la fede al di sopra di qualunque altra considerazione. Vuole che i suoi vassalli moriscos siano buoni cristiani. E che lo sembrino, Pagina 32
sanchez - La schiava di Granada.txt vestendo e parlando come tali.» E con quelle parole li congedò. Elena e Ibrahim osservarono Nunez Muley e Castillo che s'incamminavano verso l'uscita. E aspettarono di veder spuntare fuori della stanza di Pedro de Deza il funzionario che vi era entrato coi documenti in attesa della firma. «Mi ordinano d'interrompere qualunque attività di sarta», disse Elena non appena ebbe finito di leggere la sentenza. «C'era da aspettarselo. Adesso i cristiani vecchi devono fare spazio a tutti i moriscos che confezioneranno i loro stessi abiti. E buttano fuori quelli che, come te, non hanno fatto l'esame.» Mentre tornavano verso casa, Elena gli chiese: «perché don Alonso del Castillo ci ha evitato?» «Dimenticati di lui. Ti aiuterò io a trovare qualcosa per guadagnarti da vivere.» «Questo documento mi obbliga a trasferirmi da qualche altra parte.» Ibrahim cercò di convincerla, ma Elena non cedette. In cima ai suoi pensieri c'era la confusione riguardo al proprio sesso, e l'ultima cosa che voleva era un legame con un uomo, meno che mai con Ibrahim. Non voleva marcire nella sua stessa miseria, la stessa di Gazul o di suo padre, il vecchio contadino. Voleva allontanarsi da loro, che erano bloccati nei loro limiti, e puntare in alto, come Alonso del Castillo. Sentiva dentro di sè lo stesso fremito, la stessa ansia di ascesa sociale. E don Alonso, a propria volta, la evitava per le stesse ragioni che spingevano lei ad allontanarsi dal fontaniere. Inoltre era nella capitale del regno di Granada da abbastanza tempo perché le girassero in testa anche altri dubbi: da un lato c'erano gli schiavi, presi a bastonate come cani macilenti, maltrattati da tutti, con un tozzo di pane rosicchiato da portarsi alla bocca, quand'era tanto. Dall'altro, i neri e i moriscos che trionfavano, cercando la protezione dei cristiani vincitori. Quale esempio doveva seguire? Come poteva farsi strada qualcuno come lei, donna e per di più nata schiava? Nei giorni successivi, Ibrahim dovette intuire qualcosa di quei tormenti interiori. Elena era arrivata a chiedersi se tanti dei suoi problemi non fossero dovuti, tra le altre cose, al fatto che la vedevano un po' troppo col fontaniere, e magari malignavano su una loro relazione. Per questo non disse niente, né passò a salutarlo, quando se ne andò da Granada. Fece un lungo giro per evitarlo. L'addolorava dover trattare in quel modo una delle poche persone che si erano comportate bene con lei. Soprattutto se paragonato ad Alonso del Castillo. La sera precedente, infatti, aveva fatto un ultimo, inutile tentativo per congedarsi da lui. I servi non l'avevano nemmeno lasciata entrare. Il giorno in cui partì, Pedro de Deza aveva già fatto diffondere il provvedimento contro i moriscos, col quale si proibiva loro di mantenere i propri usi, lingua, abiti, abluzioni e feste. La disposizione fu proclamata con sfoggio di timpani, trombe e dulciane. Tra gli araldi, c'era anche l'uomo nella cui casa Elena era rimasta fino a poco prima, in calle de los Gomeres. La reazione dei moriscos agli annunci dei banditori fu indescrivibile. Amareggiati, erano certi che quella fosse la fine del regno di Granada. Lungo la strada, Elena potè constatare quanto fosse diffuso il malcontento nelle città e nei paesi, nelle case coloniche e nelle valli, sulle montagne e lungo la costa. Mentre si allontanava da Granada, ebbe il presentimento di un terribile cataclisma in arrivo. Ma nemmeno i suoi più cupi timori avrebbero potuto prevedere la portata della Pagina 33
sanchez - La schiava di Granada.txt catastrofe. ***** PARTE SECONDA. SULLA FRONTIERA. «Creò Dio Adam (cioè l'uomo) in sua forma; in forma di Dio creò esso, maschio e femmina. [...] Il primo uomo, e ogni altro uomo di quanti ne vedi, è fatto, come dice la Scrittura, a immagine e similitudine di Dio, maschio e femmina.» Leon Hebreo, Dialoghi d'amore. *** ZAHARA. Il sangue schizzava ovunque, tingendo ogni cosa di un rosso intenso. Le prede boccheggiavano, disperate, gli occhi dilatati, rotondi e fissi, offuscati dal terrore. Le urla degli uomini si mescolavano ai tonfi dei remi e dei colpi di coda sull'acqua agitata, che ribolliva di spuma. Gli strilli dei gabbiani, che volavano bramosi sotto il sole di giugno, si facevano sempre più forti mentre le reti venivano issate. E la luce che scintillava sulle squame si rifletteva sugli arpioni e sugli alighieri pronti ad affondare nella carne con schiocchi sordi. Elena de Céspedes era stordita da quello spettacolo violento. I tonni che già erano caduti in trappola venivano trascinati a riva, sulla spiaggia sorvegliata dalle due torri di guardia. Il capitano della tonnara dirigeva la cattura a cavallo, dal centro di quella rete tesa, simile a un'enorme U di canapa, aperta verso la costa. Dall'alto della sua cavalcatura, il capitano incitava gli uomini, che puntavano i piedi nella sabbia, sudando e sbuffando, affannati ai tiranti che gli segnavano il petto. Spinti contro la spiaggia, quei pesci enormi si dibattevano sempre più disperati. I ramponieri si avvicinavano schivando i colpi di coda, li infilzavano con gli uncini e li trascinavano sulla rena. lì, i pesci agonizzavano tra spasmi e lamenti che ricordavano vagamente il muggito dei tori, per finire sgozzati con un taglio preciso sotto le branchie. I più piccoli erano trasportati a spalle; altri erano talmente grandi che ci voleva un carretto per portarli fino al castello, dove si stava dirigendo Elena. Il palazzo, sperduto in quella spiaggia solitaria, era una visione davvero insolita. C'era chi si perdeva tra quelle stanze infinite, così grandi da contenere una trentina di barche da pesca; tra le ampie camere dal soffitto a volta dove si conservava il sale; tra le vasche per il macello e per la salatura; tra le stalle, i magazzini e i laboratori; tra le cucine e i refettori; tra gli uffici dell'amministrazione, i dormitori e i cortili immensi. La mulatta lavorava in uno di quei saloni, immerso in un'attività costante. I tonni venivano appesi a ganci robusti, per essere eviscerati e fatti a pezzi. Decine di donne erano impegnate a tagliare lunghi filetti di pesce che mettevano a essiccare al sole, per farne un saporito mosciame. Il resto veniva messo sotto sale dai bottai, pronto per essere trasportato. lì si confondevano gli accenti di gente venuta da tutta la Spagna per partecipare all'asta. E ogni giorno centinaia di monete passavano da una mano all'altra. La mulatta tornò nella penombra di una delle stanze che davano sul patio e riprese il lavoro che aveva abbandonato per assistere alla tonnara. Stava riparando una rete, quando vide passare davanti alla porta alcuni mulattieri moriscos che si preparavano a partire col loro carico. Uno di loro, in particolare, richiamò la sua attenzione. Pagina 34
sanchez - La schiava di Granada.txt Non poteva sbagliare: lo aveva visto confabulare con Gazul alcuni anni prima, a Velez-Malaga. Li aveva osservati mentre nascondevano dei libri nei barili della salatura, che in seguito lei aveva scoperto essere scritti in arabo. Di sicuro li avevano fatti arrivare dallo stretto, e i barili erano un ottimo nascondiglio per il trasporto. Adesso Elena si chiese se non si fosse trattato di un'organizzazione clandestina. Le dispiaceva non aver detto addio a Gazul, quand'era dovuta tornare ad Alhama. Si stava avvicinando ai mulattieri, per chiedere notizie di lui, quando sentì un grido alle spalle. Non appena si girò, vide una ragazza bellissima. E ricca, a giudicare dal vestito. Niente a che vedere con le poverette che riparavano le reti, meno ancora con la massa disastrata che riempiva quel posto. Che cosa ci faceva una persona così distinta in un luogo come quello? Poi capì cos'era successo, e il motivo delle sue urla: il vestito le si era impigliato a un gancio e si era strappato; inoltre la cucitura si era disfatta, scoprendo completamente una gamba ben tornita e una coscia di un bianco accecante, che spiccava ancora di più tra le donne scure di pelle che la circondavano. «Non posso uscire in cortile in questo stato!» si lamentava la giovane mentre si guardava intorno, in cerca d'aiuto. Si avvicinò una vecchia brutta come il demonio e con tanto trucco in faccia che difficilmente poteva essere lì per riparare le reti. Elena la conosceva di vista: era una delle sarte che mangiava in un gruppo a parte, con le lavandaie e le donne di malaffare. Era sempre in giro a metter becco, come una gallina che raspa tra i rifiuti dell'aia. Si diceva fosse la mezzana che lavava gli abiti delle prostitute arrivate con un ruffiano di Jerez de la Frontera. Queste, impegnate in altro genere di manutenzione, approfittavano dei due mesi della stagione del tonno per pescare tutto quello che potevano. La vecchia tirò fuori l'ago e si attaccò all'abito scucito, cercando di rimediare al danno perché la ragazza potesse uscire in cortile col minimo di decoro che richiedeva la sua posizione. Ma evidentemente non lo stava facendo bene, dato che lei l'aggredì. «Non vedi che stai rovinando la stoffa? E' un tessuto unico!» urlò, mentre le strappava la gonna dalle mani. Elena osò avvicinarsi e prese l'ago della vecchia. «Permettete, signora?» L'altra la squadrò dall'alto in basso. «E tu, chi saresti?» «Qualcuno che desidera servirvi.» «Non mi dire! Vediamo se ne sei all'altezza.» La ragazza tese la gamba verso di lei, come una sfida, invitandola a sistemare la gonna. Quando sfiorò quelle carni delicate, quella pelle calda e morbida, Elena sentì la stessa tensione nelle parti intime che aveva avvertito altre volte di fronte a donne particolarmente belle, come Brianda. Bastarono pochi punti a dimostrare l'abilità per cui la mulatta era spesso lodata. L'altra non disse niente e la lasciò continuare. Quando Elena ebbe finito, la ragazza fece sventolare la gonna e, visto che era ben chiusa, osservò con attenzione la cucitura. Poi uscì in cortile per controllare il rammendo in piena luce e, dopo un esame minuzioso, disse: «Sei proprio brava con l'ago, non si riesce nemmeno a distinguere la tua mano da quella del sarto. Quando ti ho visto con quella vecchia ho pensato che fossi una delle sgualdrine che girano qua intorno. Come ci sei finita, in questo posto?» «Sono nata ad Alhama, poi mi sono trasferita a Granada e da lì mi sono spostata sulla costa. Ero a Motril in cerca di un lavoro, quand'è arrivata questa brava gente. Erano partiti in nave da Alicante, con la canapa e lo sparto per riparare le reti. Avevano trovato il mare grosso, tanto che erano Pagina 35
sanchez - La schiava di Granada.txt rimasti incagliati e cercavano un posto in cui ripararsi finchè non fosse arrivata una nave da guerra sulla quale riprendere il viaggio: già una volta erano stati attaccati dai corsari barbareschi e avevano paura di essere catturati e di finire in catene ad Algeri e a Tetouan. Quando ho sentito che erano diretti a Zahara, per la pesca dei tonni, ho chiesto loro un passaggio.» «E si sono fidati?» chiese la giovane, mentre si passava la mano sul viso in un gesto che non poteva essere più esplicito. «Se vi riferite al colore della mia pelle e ai marchi, ho dato prova di chi sono, ho mostrato il documento che mi concedeva la libertà e mi sono offerta di pagare il viaggio. Quando hanno saputo che avevo fatto la tessitrice e la sarta, mi hanno proposto di unirmi a loro, dal momento che lavorano a cottimo e due mani in più sono sempre benaccette.» «Non mi sembra una sistemazione molto dignitosa, questa. Ci sono già oltre mille persone, una più 'raccomandabile' dell'altra. Dubito che in tutta la Spagna ci sia un posto che raduna più farabutti di questo. Dimmi la verità, tu perché sei venuta? Per il tonno o per vedere il duca?» «Sono qui per riparare le reti. Non ho grosse ambizioni.» «Direi proprio di no, considerando che, se incontri una donna da queste parti, o e) appena uscita di galera o dal postribolo.» «Sono una donna onesta», ribattè Elena, seria. «Non fare tanto l'orgogliosa. Basta ascoltarti per capire che sei molto più istruita di questa gente. Senti, qui sono solo una degli ospiti del giovane duca di Medina Sidonia, ma mio marito e io stiamo per tornare a casa, a SanlÚcar de Barrameda. Il lavoro non ti mancherebbe. La stagione si sta dimostrando persino migliore di quella dell'anno scorso, quando siamo arrivati quasi a centomila tonni, che hanno reso ottantamila ducati. Tutto questo porta una gran ricchezza, non qui, però, ma a SanlÚcar, dove vivono i duchi. E' lì che ci sono i soldi e guadagneresti molto di più.» «Signora, io ho preso un impegno con queste persone...» «Sistemerò tutto io. Parlerò con loro, capiranno.» «Ve ne sono grata, anche se non credo di fare al caso vostro.» «Dammi retta e non fare la schizzinosa. So benissimo come funziona il mercato degli abiti. Mio marito vende stoffe.» Vedendo che Elena tentennava aggiunse, perentoria: «Partiremo non appena i venti saranno favorevoli. Abbiamo già mandato un piccione viaggiatore a SanlÚcar per avvisare di preparare tutto. Dove stai?» Elena indicò una delle stanze che davano sul cortile. «Prendi le tue cose e presentati alla torre di Levante. Chiedi delle mie serve, stanno già preparando i bauli. Di' che vieni da parte mia, Ana de Albanchez. Tieni. E solo un anticipo», disse, mettendole in mano cinque reales. Elena si appoggiò allo stipite della porta, mentre guardava quella bellezza che si allontanava, suscitando sguardi ammirati al suo passaggio. Stava per tornare alle reti, quando si sentì tirare i capelli e una voce le gridò: «Dammi quei soldi, schifosa puttana! Sono miei, mi hai strappato l'ago dalle mani!» Era la vecchia sarta. Elena si girò e la scostò con una manata. «Se hai qualche lamentela, rivolgiti al giudice o a un funzionario.» La ruffiana s'infilò una mano in tasca e ne tirò fuori un paio di forbici. «Non ho bisogno di rivolgermi alla giustizia, so farmela da sola.» Elena la schivò e le buttò addosso una rete. La vecchia finì a terra, immobile. Le compagne della mulatta tirarono le cime e presero a trascinarla in giro facendosi beffe di quella presuntuosa: «Quanta mosciama, per così poco tonno!» Quando riuscì a liberarsi, la comare si allontanò Pagina 36
sanchez - La schiava di Granada.txt biascicando minacce. Elena la vide tornare tra le ragazze arrivate da Jerez, uno dei gruppi più sfrontati e attaccabrighe. Facevano capo a Heredia, un ruffiano che un tempo faceva l'impagliatore di sedie. Da lì era passato alle reti, e dalle reti alle prostitute. Aveva un pessimo carattere, pungente come un'ortica e aggressivo come un cane rabbioso. Bastava che un biscazziere alzasse la voce che lui lo prendeva di mira, e non minacciava mai a vuoto. Un tale che una sera si era rifiutato di pagare una delle sue pupille era morto accoltellato prima dell'alba. Elena lo aveva visto all'opera, durante una partita a carte. Heredia stava giocando con un pollo da spennare. All'inizio lo aveva blandito, lasciandogli vincere qualche mano, allettandolo con la prospettiva di un mucchio di denaro. Quando ormai Heredia mordeva il freno e si preparava a tirare le redini per recuperare i soldi, il pollo aveva cercato di lasciare il tavolo, dicendo che il prete si aspettava di vederlo a messa. Heredia aveva immaginato che volesse scappare con la vincita e, quando il sacerdote si era avvicinato per richiamarli all'ordine, aveva provato a scacciarlo a suon di bestemmie. Il religioso gli aveva ordinato di pentirsi, impugnando il crocifisso, e Heredia glielo aveva strappato di mano, per poi sbatterglielo in faccia con una forza tale da lasciargli l'INRI marchiato in faccia. A quel punto il pollo, rimasto senza santi cui votarsi, aveva sfoderato la spada, anche se si vedeva che tremava di paura. Il ruffiano aveva impugnato la propria e, prima che l'altro potesse rendersene conto, si era sentito un colpo fortissimo, seguito da uno schianto simile a quello di una zucca andata in pezzi. La mulatta aveva visto Heredia che ripuliva la spada dal sangue, e l'altro riverso sul tavolo, con la testa aperta a metà. Era successo tre giorni prima. E adesso il gruppo di donnacce al seguito del ruffiano si era raccolto intorno alla vecchia mezzana, che puntava il dito verso di lei tra insulti e minacce. *** SANLÚCAR. Elena s'innamorò di quel paesaggio nell'attimo stesso in cui la nave entrò nella baia. Rimase incantata da quella rugiada di luce che scintillava sulle acque torbide del Guadalquivir, che si tuffavano nell'oceano, e, più tardi, dal sole rosso che affondava maestoso nel mare. Quell'orizzonte, così limpido e pulito, le sembrò un presagio di prosperità. Si era decisa a intraprendere quel viaggio col pretesto delle nuove opportunità di lavoro, ma era Ana de Albanchez la calamita che l'attirava. La giovane non aveva esagerato quando le aveva parlato della ricchezza di SanlÚcar de Barrameda: nuove navi venivano varate senza sosta, come in passato era successo per la conquista delle Canarie, per i viaggi di Colombo o per quello di Magellano, che aveva circumnavigato la Terra. L'ansia di scoprire nuove terre, vento e promessa di libertà, rimaneva inalterata. La fortuna di quella zona era aumentata da quando i duchi di Medina Sidonia avevano trasferito lì la loro residenza nelle terre di Siviglia. E, benché il ducato non attraversasse il suo momento migliore, rimaneva uno dei casati più ricchi d'Europa e deteneva il monopolio delle tonnare. Il palazzo nel quale vivevano Ana de Albanchez e il marito, il mercante di stoffe Hernando de Toledo, non reggeva certo il confronto con quello dei duchi. Ciò nonostante, Elena rimase impressionata dall'edificio. Vide persino alcuni indios tra i servi, discendenti di quelli che Hernan Cortes aveva donato ai Medina Sidonia. Ana le trovò subito un ampio locale dove aprire il suo Pagina 37
sanchez - La schiava di Granada.txt laboratorio di sartoria, in una piazza situata in un'ottima posizione. Proprio come le aveva promesso, nessuno interferì con la sua attività, grazie alla quale si guadagnava ampiamente da vivere. Il primo vestito che Ana le aveva ordinato era stato un ottimo incentivo agli affari, vista la bellezza della giovane e il modo in cui lo sfoggiava, guastato solo in parte dalla sua eccessiva tendenza all'ostentazione. A quel primo abito ne seguì un altro, alcune settimane più tardi. E, proprio allora, al momento di prenderle le misure, Elena ebbe conferma della vera natura dei suoi sentimenti. Aveva già provato quella tensione alle tempie e all'inguine; in effetti non era mai cessata dal giorno in cui aveva partorito e il suo sesso aveva assunto quella forma così strana. Nei momenti più cupi, era persino arrivata a pensare che il dolore che sentiva in quel punto fosse il castigo per aver abbandonato il piccolo Cristóbal. Si era guardata spesso le parti intime con lo specchio ereditato da dona Elena de Céspedes, ma non aveva mai capito che cosa le stesse succedendo. Fino a quel giorno con Ana de Albanchez, quando dentro di lei infuriò il desiderio. Erano nella camera della giovane, che dava sul giardino e sul fiume. Al centro c'era un letto con un baldacchino damascato e una trapunta di velluto ricamata con filo d'oro, sulla quale erano stati posati tessuti di ogni genere, per la scelta del nuovo vestito: broccati, velluti ritorti, rasi, sete finissime... Ana cominciò a svestirsi per farsi prendere le misure, e lasciava cadere gli abiti su un baule rivestito di cordovano. Man mano che si spogliava, la sua pelle, così candida da lasciar intravedere il blu delle vene, veniva avvolta dalla luce che entrava dal giardino. Il seno pieno e sodo premeva sotto la stoffa sottile della sottoveste. Quando si girò verso la mulatta, sollevando le braccia, sul suo viso c'era una punta di malizia. Eccola: piccola, snella, flessuosa. Úna bellezza senza attenuanti, un corpo superbo e consapevole delle proprie qualità. Elena percepì il suo odore dolce, penetrante, leggermente salmastro. E lì, a un passo da lei, quelle labbra socchiuse, quella nuova sfida per la sua sensualità. Non riuscì a frenare l'impulso e la baciò senza dire una parola. Fu questione di un attimo, che divenne eterno quando si rese conto della gravità del suo gesto. In quel momento, come se un fulmine l'avesse attraversata dalla testa ai piedi, comprese ciò che provavano gli uomini prima di decidersi a fare quel passo, di partire all'assalto, quando rimanevano in sospeso, in attesa di una risposta. Prendere l'iniziativa temendo una reazione che poteva essere favorevole, oppure un rifiuto. Non era facile capire cosa provasse Ana, che tremava come una foglia. Ma anche Elena era scossa: le labbra fremevano per il calore di quel bacio; le mani e le ginocchia tremavano, ma non per la paura, quanto per la morsa del desiderio che la opprimeva. Ana si diresse in silenzio verso il baule sul quale aveva lasciato gli abiti, e iniziò a cercarli a tentoni per coprirsi. Con quel movimento, la sottoveste si tese ancora di più sui capezzoli turgidi. Prima che potesse gridare o uscire in cerca d'aiuto, Elena si affrettò a dirle: «Non è come pensate, posso avere rapporti come un uomo». Ana alzò la testa e la guardò incredula. «Che cosa stai dicendo?» «Il mio sesso non è come quello di una donna normale.» La giovane sgranò gli occhi grigi, simili a quelli di un Pagina 38
sanchez - La schiava di Granada.txt lupo. E in cui ora brillava la stessa smania di Elena. «Non ti credo.» La mulatta tentennò, ma capì subito che non poteva tornare indietro. Cominciò a svestirsi, sotto gli occhi attoniti dell'altra. Quando si fu spogliata, Ana fece una smorfia delusa: il sesso della mulatta sembrava normalissimo. Poi le indicò il letto. «Sdraiati.» Obbedì. Mentre Ana le apriva le gambe, Elena si aspettò di veder spuntare quel membro, simile a un pollice, che s'induriva quando l'assaliva il desiderio. Ma non andò così: era talmente ansiosa che quello stelo carnoso rimase nascosto nella tana. E, quando allungò una mano per toccarsi, cercando di farlo uscire, sentì un dolore fortissimo, come se lo trattenesse un frenulo. Ana era profondamente delusa. Elena stava per balbettare qualche scusa, quando sentì un fragore di zoccoli e il nitrito di un cavallo. «Mio marito! Vestiti, svelta!» le ordinò Ana. La voce del mercante di stoffe tuonava ormai sulle scale. Si stavano ancora rivestendo davanti al baule, quando lui entrò nella stanza e rimase a fissarle, sbalordito. «Che cosa succede qui?» «Stavamo provando delle stoffe per il mio nuovo vestito», si giustificò Ana. Elena chiese il permesso per ritirarsi. Fece ritorno al laboratorio, furiosa con se stessa. Era stata troppo impulsiva. Aveva rovinato tutto. *** LA CIRCONCISIONE. Mentre l'uomo affilava la lama, lei si chiese come sarebbe andata a finire. Era una parte sensibilissima, e temeva il dolore. Soprattutto per la posizione che aveva dovuto assumere, con le gambe aperte e il sesso davanti al naso di uno sconosciuto. E tutto per Ana. Fu di nuovo assalita dai dubbi su quanto stava per fare: aveva davvero senso? L'uomo le si avvicinò, provò il filo del bisturi e le chiese: «Siete pronta?» Elena annuì, e lui le mise in bocca un freno di legno. Quando sentì affondare la lama, la mulatta chiuse gli occhi e strinse i denti, augurandosi che finisse presto. Grosse lacrime le solcarono il viso mentre il metallo le incideva la carne. L'uomo cercò di calmarla. «Vi fa male? Portate pazienza. Non muovetevi e lasciatemi fare. Ho quasi finito.» La lama affilata aveva dato un altro colpo secco su una parte molto sensibile, al di sopra dell'uretra, e adesso stava affondando nella pelle, collegando gli altri due tagli. L'uomo tornò a parlarle con un tono pacato, cercando di rassicurarla: «So che cosa vuol dire, ma presto sentirete sollievo. Sto cercando di liberare il pezzo di carne che avete qui. E' un po' curvo: non puo uscire perché c'è una membrana che lo schiaccia ed è proprio quella che sto tagliando». Elena lo sentì operare e all'improvviso si accorse che qualcosa di simile al membro di un uomo usciva dalla membrana ormai lacerata, rimanendo finalmente dritto. Il circoncisore ne seguì il contorno col dito, con delicatezza, osservandolo per vedere se era stato liberato del tutto. Alla fine annunciò: «E' più lungo di un dito indice, però è debole alla base, e qui, in punta... Comunque, abbiamo finito». Elena si tolse di bocca il pezzo di legno e fece per alzarsi, ma lui la trattenne. «Aspettate. Vi applicherò un unguento che vi darà sollievo e favorirà la cicatrizzazione. Ve ne lascerò una noce, perché continuiate a metterlo.» Pagina 39
sanchez - La schiava di Granada.txt «Per quanto?» «Da cinque giorni a una settimana, a seconda del dolore e di come guarisce. Se dovesse ingrossarsi molto, fate dei suffumigi di ruta, aiuterà a sgonfiare. La ruta potete chiederla a qualunque speziale senza attirare l'attenzione o destare sospetti, è di uso molto comune.» «Ci metterò molto a guarire?» «Tra qualche settimana potrete goderne.» «Come fanno i maschi?» «Lo spero. Ma non sarò qui per vederlo, devo rimettermi in viaggio.» Era stata proprio Ana de Albanchez a suggerire, insieme con altre precauzioni, di rivolgersi a qualcuno che non vivesse a SanlÚcar. «Non devi andare da uno di qui, potrebbe raccontare in giro come sei fatta e, vedendoci insieme, la gente si metterebbe a spettegolare.» «E allora, che cosa devo fare?» «Aspetta un cerusico ambulante.» «Potrebbe volerci un sacco di tempo.» «La cosa migliore è chiedere ai moriscos quando passerà il loro circoncisore. Le famiglie che di nascosto seguono ancora le tradizioni musulmane si affidano a lui per le circoncisioni clandestine. Con la tua pelle scura e i segni che hai in faccia, si fideranno di te. Quanto a lui, accetterà di farlo, se ben pagato. E, visto il lavoro che fa, gli conviene tenere la bocca chiusa.» Come sapevano entrambe, alle moriscas in travaglio veniva imposta la presenza di una levatrice cristiana, per impedire che il piccolo, se maschio, venisse circonciso. E così loro facevano una seconda cerimonia di battesimo segreta, cosa imprescindibile se volevano mantenere la loro fede, é la dottrina maomettana poteva essere insegnata solo ai circoncisi. E proprio quella era la missione del circoncisore, che si spostava da un paese all'altro fingendosi un mercante di basti. Il piano sembrava buono, e così Elena si era sottoposta a quel doloroso intervento. Nel mese di convalescenza, la mulatta non smise di pensare ad Ana un solo istante, impaziente di rivederla. Quei giorni le parvero secoli. Il suo lato libero e indipendente si rifiutava di ammettere di averlo fatto a causa sua. Ma era stata soltanto Ana, insieme col desiderio che provava per lei, a spingerla ad andare sino in fondo, senza esitazioni. *** ANA DE ALBANCHEZ. Quella volta fu tutto diverso. Erano l'una più impaziente dell'altra. Non appena ebbe sprangato la porta della camera, Ana si lanciò su di lei, la spogliò accanto alla toletta di mogano e la spinse sul letto. Rimase meravigliata quando, toccandola, provocò l'erezione di quel membro liberato dal circoncisore. «Che cos'hai, qui? Ma è duro, come quello degli uomini!» Si scostò leggermente da Elena per poterlo guardare. «Se smetto si ripiega e torna a nascondersi. Ma non glielo permetterò.» Si sfilò la sottoveste e si mise sopra di lei, nuda. Quando il seno di Ana le premette sulla pelle, Elena percepì di nuovo quell'odore irresistibile, l'onda calda del suo corpo. «Hai un seno bellissimo», le disse, accarezzandolo. Ana si mise a ridere. «E il tuo?» «Non c'è paragone.» «Aspetta di vedere il resto, e più dolce di un fico maturo.» Iniziò a strofinarsi su di lei. Elena non riusciva a credere che quello che aveva in mezzo alle gambe, qualunque cosa fosse, rimanesse finalmente dritto. Nel dubbio, decise di scivolare in basso, tra le cosce di lei. Ana le divaricò ancora di più, per offrirle il sesso arrossato, turgido e umido di desiderio. Elena cominciò a Pagina 40
sanchez - La schiava di Granada.txt leccarlo, e nella sua memoria quel sapore sarebbe rimasto per sempre legato alla brezza di SanlÚcar, che odorava di alghe e di salsedine. Ana si muoveva con tale slancio che Elena dovette tenerle ferme le natiche per poter continuare. Ma ben presto non fu più necessario: lei l'afferrò per i capelli e, impaziente di arrivare al culmine, la tirò contro di se, togliendole quasi il respiro. «Ancora, ancora!» ansimava. Quando infine esplose, ricadde all'indietro, trascinando Elena sopra di se, tra gemiti e sussulti. Rimase a lungo abbracciata a lei, sfinita, nell'abbandono più totale. Quando si riprese, volle di nuovo giocare con Elena e ricominciò a toccare dolcemente il suo stelo di carne. «Vediamo un po' che c'è qui... Vergine Santa! E questo cos'è? E' rosso come un ferro rovente... Una volta impennato non demorde, s'infiamma come un diavolo, s'infuria... E non molla.» Ana s'infilò sotto di lei, muovendosi sinuosa come un serpente, e prese a mordicchiarla e a sussurrarle parole di una procacità mai sentita, con la voce ridotta a un sussurro roco. finchè non riuscì più a resistere. «Prendimi!» Elena si sentiva diversa, adesso: qualcosa di nuovo si era risvegliato quando Ana aveva stuzzicato quella parte inesplorata del suo corpo. Come una miccia che, una volta accesa, continuava a bruciare nel profondo di lei, all'infinito. Si muovevano all'unisono. Cominciarono piano, su e giù, cercando il giusto ritmo, sino a formare un unico essere. La mulatta sentì qualcosa alla base della spina dorsale, come un serpente che si sveglia da un lungo letargo, pronto per avvolgersi intorno ad Ana e fondersi con lei in quella danza. Quel fremito che scaturiva dal membro turgido continuava a salire, colmandole il petto, riempiendole le labbra a ogni ansimo, inarrestabile. Il sangue era ormai un cavallo al galoppo che le rimbombava nel cuore, nelle tempie e nelle orecchie. E intanto, dentro di lei, si scatenava un vortice di passione, un fuoco che avvampò nel profondo, sino a esplodere. Sembrava nascere da quella nuova parte di lei, uno spasmo che lasciava la carne riarsa e intorpidita, e che terminava nei gemiti di una resa senza fine. «Come stai?» chiese Elena, dopo un po'. «Come lo studentello che ha dormito sul duro contando le stelle» * rispose Ana ridendo. * Citazione dal Ritratto della Lozana andalusa, romanzo in forma di dialogo, pubblicato nel 1528, che racconta la vita degli ebrei spagnoli emigrati a Roma. (N.d.T.). Nei mesi successivi si rividero spesso, approfittando dei viaggi a Siviglia del marito di Ana, il quale non sospettava nulla, considerandole semplicemente due amiche molto in confidenza. Ana le insegnò un'infinità di cose, sul proprio corpo e sulle donne in genere, che Elena ignorava. Tra queste, alcune che non avrebbe nemmeno lontanamente immaginato. Per la prima volta, si sentiva appagata, sia nel ruolo dell'uomo sia in quello della donna. Non avrebbe mai dimenticato quelle sere di abbandono, quella stanza col profumo dell'acqua di toletta che avvolgeva entrambe. La bocca silenziosa, gli occhi che brillavano, i corpi immersi nella penombra delle tende. Avevano passato tanto di quel tempo a letto che ormai conoscevano a memoria le venature e i nodi del legno. Nella mente di Elena, la pelle di Ana si confondeva col sapore delle confetture, delle frittelle, delle cialde e del vino speziato servito nelle coppe d'argento, che lei le offriva dopo le fatiche dell'amore. In tutto quel tempo, il desiderio che provava per Ana non venne mai meno. Era così bella da non aver bisogno di Pagina 41
sanchez - La schiava di Granada.txt trucchi, usava soltanto sapone di sego, olio di mandorla o fette di cetriolo. E si sfregava i capelli con la crusca prima di spazzolarli, per renderli più luminosi. Un giorno, mentre Ana si depilava, Elena le chiese: «E quello che cos'è?» «Trementina, pece greca e cera vergine. L'unica cosa vergine che mi è rimasta», rispose ridendo, mentre si spalmava l'impiastro sulle gambe, civetta e impudente. Era talmente sfacciata da affacciarsi al balcone rivolto alla piazza vicina e, nascosta dietro la gelosia, non risparmiava commenti maligni. «Guarda quella, come sculetta», diceva di una donna che camminava schivando le arance schiacciate a terra, prese all'assalto dalle vespe. «Si vede lontano una lega che l'hanno già assaggiata, anche se la madre se ne va in giro a cercare di venderla come se fosse nuova. Come minimo le ha fatto mettere un paio di scarpe con cinque o sei dita di sughero sotto, per far sembrare più alto quel tappo.» A volte, quando Elena l'accompagnava a fare spese, vedeva che gli uomini si voltavano a guardare Ana. Qualche forestiero osava addirittura fare il galante. «Magari fossero così le pulci del mio materasso!» «E pure quelle che avete addosso, visto quanto spesso vi lavate!» rispondeva Ana senza pensarci due volte. Elena si chiedeva come riuscisse una donna del suo stampo a tollerare il marito che le era toccato in sorte, un omuncolo freddoloso col doppio dei suoi anni. Girava mezzo sepolto in abiti pesanti, in stoffe foderate di pelliccia di volpe o di altri animali, vagamente fuori luogo in un clima mite come quello di SanlÚcar. Ana ne parlava senza il minimo rispetto. Una volta intonò persino una filastrocca che diceva: Yo me casé con un viejo por comer algo caliente; la hornilla estaba apagada y yo convidando gente Quand'ebbe finito di ridere, aggiunse: «Ma non è così scemo; se entrasse adesso, non penserebbe certo che stiamo recitando il rosario. Va spesso a caccia col correggitore e passa il tempo tra levrieri e furetti. Cosa di cui gli sono grata. Se dovessi andare a letto con lui dovrei tirarglielo fuori con lo stuzzicadenti, come per mangiare le lumache». «E allora perché vi siete sposati?» si azzardò a chiedere Elena. «Bella domanda! "Come mai sei una puttana? Per il vino e per la grana." * * «Un vecchio ho sposato / per mangiare qualcosa di caldo; / il camino era spento / e gli ospiti stavano arrivando.» Canzone popolare spagnola. (N.d.T.). * Citazione dal Ritratto della Lozana andalusa. (N.d.T.). Mia madre non riusciva a mantenere tutti i suoi figli. Ognuno di un padre diverso, tra l'altro, anche se dava da mangiare a tutti, come ai polli in un cortile, senza che ci beccassimo l'un l'altro. Io però ero la sua preferita, ingozzata a pancetta fritta, e a ognuno dei suoi uomini giurava che era lui mio padre. A uno diceva che avevo i suoi occhi; all'altro la sua stessa bocca; a questo che avevo il suo naso e a quell'altro ancora il suo modo di soffiarmelo. Ero il suo asso nella manica, anche se è un miracolo che non mi abbia perso a carte, talmente era schiava del gioco.» «Ma che dici!» «Avresti dovuto conoscerla. Be'... basta guardare me, mi sono cresciute le tette prim'ancora dei denti. Erano appena spuntate che già tutti gli uomini della zona mi facevano la corte.» Non erano poche le cose che avevano in comune, ma altrettante le separavano. Elena impiegò non poco a Pagina 42
sanchez - La schiava di Granada.txt rendersene conto. Ciò che le costò di più fu riconoscere l'attaccamento di Ana al potere e ai soldi, come il piacere che provava nell'ostentarli. In un primo momento si disse che nessuna di quelle sue inclinazioni ne offuscava la disinvoltura, la naturalezza con cui accettava ogni cosa, come se fosse uno dei tanti doni che la natura - così generosa con lei - le aveva fatto. Ma in seguito dovette ammettere che Ana era una farfalla, sempre in cerca di un nuovo fiore, affamata di novità. Elena ci mise un po' a rendersi conto che forse il marito di Ana non era quel cornuto contento né il calabrache che sembrava, anche se la spada alla cintola era così bassa da scheggiare le pietre della strada con la punta. Giunse quindi alla conclusione che lui aveva il suo tornaconto a lasciarla fare, consapevole che i vestiti della moglie fossero tanto immacolati quanto erano sconce le sue abitudini. Lo intuì un giorno, mentre assisteva ai preparativi di un banchetto. Continuavano ad arrivare lattonzoli, capretti, tacchini e cosciotti cotti nel vino, pesce fresco e marinato, frutta, tartufi e asparagi, riempiendo dispense e cantine fino a scoppiare. «Che cosa succede?» chiese Elena. «Stiamo aspettando il correggitore della città. Mio marito è in partenza per un lungo viaggio nelle Fiandre e mi ha raccomandato a lui, che è un suo buon amico.» Elena comprese subito quanto fosse profonda quell'amicizia. Il correggitore sfoggiava abiti ricchissimi, con un cappello adornato da una penna d'airone. E, dalla frequenza con cui si premurava di cambiare la calzamaglia, oltre che dalle scarpe a punta e da altri accessori, la mulatta non impiegò molto a capire che si era affezionato ad Ana e che era pronto a conquistarla a qualunque costo. Ana era così bella da far impazzire mezzo paese, su questo non si discuteva. Ma, al di là delle galanterie di qualche forestiero, nessuno avrebbe osato fare il primo passo, accampare pretese o far la ronda sotto la sua finestra. E non tanto per il marito, quanto perché sapevano bene che sarebbe stato come intrufolarsi nella riserva di caccia del correggitore. Quando infine Elena se ne rese conto, le disse, amareggiata: «Ho l'impressione che ci siano troppi galli in questo pollaio». Benché a letto non mancasse di fantasia, Ana aveva i piedi ben piantati per terra, e la raggelò col suo commento: «Una nave è più sicura con due ancore che con una sola». Non appena il marito si mise in viaggio, il correggitore cominciò a ricoprire Ana di attenzioni. Non c'era settimana in cui non arrivasse una consegna alla sua porta. Un giorno potevano essere formaggi, empanadas di selvaggina o carne di cinghiale affumicata; un altro capponi, lingue di vacca e conigli farciti col lardo; oppure una scelta di conserve tra cui non mancavano le pere bergamotte di Aranjuez, i limoni di Murcia o gli orejones, le albicocche secche dell'Aragona; o ancora un unguento per il viso giunto da terre lontane, un anello o altri gioielli finissimi. E un giorno Elena ebbe la conferma che ormai era una cosa seria. In strada scoppiò un gran chiasso: stavano portando nel cortile una gabbia enorme, nella quale c'era un volatile dallo sguardo fisso e impertinente; Elena non ne aveva mai visto uno simile. Era uno struzzo, e tutta SanlÚcar sapeva che quegli animali venivano allevati unicamente nel palazzo di Medina Sidonia. In quel momento, la mulatta comprese che la tresca era ormai nota: un gesto tanto azzardato equivaleva alla firma del duca in calce a un'autorizzazione all'assalto. Complicità, silenzi e assensi erano così garantiti; qualunque ostacolo rimosso. Elena moriva di gelosia quando a casa di Ana arrivava il correggitore, mentre lei era impegnata a cucire. Stringeva Pagina 43
sanchez - La schiava di Granada.txt l'ago con forza, mentre dalla camera giungevano le grida di piacere della giovane, le stesse che lei ben conosceva, gli scricchiolii del letto e i tonfi del materasso. Il tempo passò veloce come un lampo, mettendo fine all'ipocrisia. Ana non riusciva più a tollerare gli sguardi accusatori della mulatta e il correggitore non ci mise molto a toglierla di mezzo. Così, quando ormai si credeva felice a SanlÚcar, senza grosse necessità da soddisfare, innamorata e con quattro soldi in tasca, Elena si ritrovò costretta ad affrontare ancora una volta l'angoscia di ricominciare da zero. Aveva cantato vittoria troppo presto, e quello non sarebbe stato che uno dei tanti frangenti nei quali un inizio glorioso si sarebbe trasformato in un disastro. Era di nuovo nella polvere. *** SIETECONOS. Non poté dire granché, quando andarono a prenderla nel laboratorio di sartoria. Non aveva le licenze necessarie per svolgere la professione. Gli ufficiali giudiziari le dissero che il correggitore l'aveva esiliata a Jerez de la Frontera. Non era troppo lontano, ma abbastanza da non disturbare la sua tresca con Ana de Albanchez. Elena ebbe a malapena il tempo di radunare le sue poche cose, prima di essere affidata a una cuadrilla della Santa Hermandad che era diretta proprio a Jerez. In tal modo, quella carogna si era assicurata che l'accompagnasse una dubbia reputazione fin dal suo arrivo. Il profilo di Jerez fu presto davanti ai loro occhi, con le torri e le muraglie che si stagliavano contro le colline gonfie di vigneti. Al suo ingresso nella nuova città che le era stata assegnata, anche lei avrebbe potuto dire, come nel romance di don Gaiferos, che, se il suo corpo veniva rinchiuso tra quelle mura, il cuore rimaneva schiavo a SanlÚcar. Non fu facile accettare l'idea che non avrebbe più rivisto Ana, nonostante il modo in cui si era comportata. Per lei la loro relazione doveva essere stata uno stravagante e fugace passatempo; per Elena, invece, quella ragazza era stata così importante da spingerla a confidare unicamente a lei il proprio segreto. Non si sarebbe mai più mostrata a nessuno così, senza inganni, come la natura l'aveva fatta. Con le altre donne avrebbe utilizzato di volta in volta trucchi e imbrogli, in base al ruolo che avesse interpretato - quello del maschio o della femmina - a seconda delle tormentate circostanze della vita. Quella ferita era così profonda da costringerla ad ammettere l'enorme potere del desiderio, che l'aveva spinta a cambiare, tirando fuori il meglio di lei. Ma anche i suoi effetti devastanti, che l'avevano portata a confondere i sogni con la realtà, rincorrendo una meta tanto volubile ed effimera. Sarebbe sprofondata nella disperazione, se le cose non fossero precipitate così in fretta da non lasciarle un attimo per poter rimuginare sulla delusione. Si sentiva fuori posto, corrosa da un dolore sordo che non l'abbandonava mai. Finì per circondarsi di dubbie compagnie, nell'ozio che si poteva permettere grazie al denaro onestamente guadagnato a SanlÚcar. Fu lì, in mezzo alla feccia di perdigiorno e furfanti che dentro di lei - che ormai si vedeva condannata ai margini della vita - si fece strada un'idea malsana: il sospetto che solo tra quei mascalzoni avrebbe potuto trovare il suo posto nel mondo. Ormai abbandonatasi al vizio del bere, Elena si ritrovava spesso in una taverna vicino al carcere, dove non mancavano ruffiani e prostitute. E proprio lì, un giorno, l'oste accolse una donna che era appena entrata dicendo: «Hai una faccia che fa paura». «Devo andare in prigione, è arrivato il momento.» Pagina 44
sanchez - La schiava di Granada.txt «Allora ci vuole un bel rosso.» «Vero. Ho bisogno di bere qualcosa.» La donna vide Elena, seduta a un tavolo lì accanto, sola come lei, e levò la brocca a mo' di brindisi. Rimasero in silenzio, indovinando l'una i pensieri e le miserie dell'altra, finchè dalla strada non giunsero gli schiamazzi di un branco di ragazze inviperite. La donna le si avvicinò e si sedette accanto a lei. « Attenta, con queste che arrivano. Lo fanno di mestiere.» «Tutte?» «Sono tutte puttane, dalla prima all'ultima. L'unica differenza è nel modo: alcune battono in strada; altre dalla finestra, chi da una gelosia e chi da una grata; possono battere da sole o in gruppo; essere puttane per fame o puttane famose; puttane cattive e cattive puttane; ma alla fine, sempre puttane sono, senza speranza.» Vedendo l'espressione della mulatta, si sentì in dovere di precisare: «E dai dodici ai quarant'anni è pure un bel mestiere, se il fisico regge... Te lo dico io, che mi chiamano la Zambrana, 'la Festaiola', e faccio lo stesso mestiere. Ho sentito che, in certi posti, come a Venezia, sono tenute così in considerazione che fanno il bagno nel latte d'asina e si strofinano con saliva di giumenta per avere una pelle morbidissima». «Non avete problemi col correggitore?» «Quello sa benissimo che questo mercato ne trascina tanti altri, e che grazie a noi si spende di più per mangiare e per bere. E anche noi lasciamo giù dei bei soldi tra stanze, vestiti e regali. Diamo lavoro a servi, cuochi, acconciatori, stallieri e osti.» Il gruppo infine entrò, facendo un gran chiasso. Presero posto in fondo al locale, poi chiesero vino, olive giganti e qualche antipasto per spezzare la fame. E intanto continuarono a discutere tra loro. La serietà delle loro convinzioni era una cosa da non credere. «Se proprio devi darti alla malavita, che almeno sia con onore! Non come quelli che si vantano di esser ladri perché hanno rubato un cipollotto all'ortolano o la trottola a un ragazzino», disse una di loro. «Da qualche parte bisogna pur cominciare. Chi ruba una camicia sta puntando al mantello, come minimo», le rispose una compagna. «Comunque, la Maddalena non era una di noi? Voglio dire, era una gran puttana pure lei, se non di piu. E forse il Signore non l'ha assolta?» osservò una terza, apparentemente più devota. Fu così, dalle chiacchiere di quegli ottimi partiti, che Elena sentì parlare di Sieteconos, «Settefiche». La donna al tavolo con lei le spiegò che era un noto ruffiano; al momento non era col gruppo, ma era atteso a breve per la vendemmia, insieme con le sue pupille. La mulatta si azzardò a chiedere la ragione di quel soprannome. «Be', per cosa credi che sia? E' il numero di sgualdrine che porta al pascolo: la Caspas, la Perdicion, la Fajarda, la Ceuta, la Caoba, la Entrecejos e la Canoniga.» * * Ossia «la Forfora, la Perdizione, il Pasticcio di carne, la Ceuta, il Mogano, il Cipiglio e la Canonica.» (N.d.T.) La Zambrana, vedendo la sorpresa di Elena a quell'ultimo nome, aggiunse: «La chiamano così perché un prete le ha messo su casa e la mantiene lontano dalla strada. Anche se rimane pur sempre una puttana, per quanto gliela rattoppino con le indulgenze. Sta di fatto che adesso a Sieteconos manca una protetta, e sta cercando qualcuno con cui coprire il fianco lasciato scoperto dalla Canoniga». «E tu?» «Io non aspiro a quel posto, ormai sono più spremuta di un limone. E poi ho già il mio ruffiano.» Aveva pronunciato Pagina 45
sanchez - La schiava di Granada.txt quelle ultime parole con una tristezza tale che quasi si era messa a piangere, dopodiché se ne andò, per non farsi vedere così addolorata. Così andò quel giorno. Dopo alcune settimane, Elena era di nuovo in quella taverna nei pressi del carcere, seduta al tavolo con la sua nuova amica, quando quest'ultima le disse: «Sta arrivando Sieteconos con la sua mezzana, stai pronta». «E perché?» «Non so quale dei due sia peggio. è più pericolosa una vecchia baldracca che un oste fresco del mestiere. Quella è più insopportabile di una mosca, che caga nero sul bianco e bianco sul nero. Un mistero che neanche i teologi riescono a spiegare.» Quando i due entrarono nella taverna, Elena vide che il ruffiano non era altri che Heredia e la mezzana la vecchia con la quale aveva litigato a Zahara e che aveva lasciato a terra, ingarbugliata in una rete da pesca. Non appena vide la mulatta, la vecchia si scagliò contro di lei. «Alla fine ti ho trovato! Adesso ti ammazzo!» Elena non ebbe grosse difficoltà a tenerla ferma, mentre l'altra la ricopriva d'insulti, facendo rivoltare nella tomba tutti i suoi avi. Chi davvero la preoccupava era il ruffiano: aveva visto quanto fosse bravo nel maneggiare la spada. Quando la mezzana puntò il dito contro di lei, spiegando al padrone chi fosse e quello che le aveva fatto a Zahara, lui la squadrò dall'alto in basso. Per qualche istante la soppesò con sguardo esperto. E' pericoloso. Elena notò lo stocco che portava alla cintola. L'uomo non accennò nemmeno a impugnare l'arma, ma lei sapeva bene che non ne aveva bisogno, visto quant'era bravo persino a mani nude. Elena cercò il pugnale che portava sotto la gonna. Non se ne separava mai. Con sua grande sorpresa, Sieteconos spinse via la ruffiana, ordinandole di smetterla di strillare. Poi puntò il dito verso la mulatta. «Non stavamo cercando un'altra ragazza?» Elena si sentì avvampare di collera. In momenti come quello, quand'era in preda all'ira, aveva paura di se stessa. Cercò di controllarsi. Era lì perché era stata messa al bando, e qualunque rissa sarebbe stata imputata a lei: il suo rivale l'avrebbe passata liscia. Per cui si morse la lingua e rimase zitta. Sieteconos, però, non era uno che accettasse il silenzio come risposta, e tornò alla carica. «Andrai d'accordo con le mie sei ragazze. Soprattutto con la Ceuta, che è morisca come te, ed è stata schiava.» Questa volta Elena sfilò il pugnale dalla fondina. Il ruffiano, che stava indicando i marchi sul suo viso, non se ne accorse e, vedendo che lei continuava a tacere, decise di provocarla apertamente. «Questo silenzio sembra quello dei bambini che se la sono fatta addosso: puzza di merda. Qui l'immondizia puo stare solo nei letamai, e gli schiavi non possono girare per strada dopo che è suonata la campana, devono tornare dal padrone.» Stavolta non riuscì a trattenersi. Col viso stravolto dalla rabbia e con gli occhi iniettati di sangue, gli rispose, a denti stretti: «Io non sono la schiava di nessuno». Sapeva benissimo che, a quel punto, doveva prendere l'iniziativa. Estrasse il pugnale e assestò al ruffiano un colpo così preciso che gli tagliò la faccia da una guancia all'altra, naso compreso. Quel gesto colse tutti di sorpresa. Il sangue usciva a fiotti dalla ferita, e la furia di Heredia era tale che Elena se la sarebbe vista brutta, se non fossero arrivate le guardie dal carcere lì accanto che, chiamate dalla Zambrana, l'arrestarono e la portarono via. Non la trattarono male, grazie al fatto che la donna e l'oste avevano testimoniato in suo favore, raccontando quanto era successo: Elena era stata ripetutamente provocata benché avesse cercato di evitare la rissa. Pagina 46
sanchez - La schiava di Granada.txt «Ma come ti è venuto in mente di accoltellare Heredia? Gli hanno dovuto dare diciassette punti. E meno male che sei qui, perché la fuori non saresti sopravvissuta nemmeno un'ora», la rimproverò la Zambrana. «E' stato lui a insultarmi in tutti i modi possibili.» «Lui direbbe invece che ti stava offrendo un lavoro e tu l'hai aggredito. Per di più, uno così non si aspetta certo che una donna lo affronti. Anzi, dovresti vedere come gli sono affezionate le sue donne, nonostante il modo in cui le tratta», obiettò la Zambrana in tono risentito, tra i singhiozzi, prima di andarsene. Elena non riuscì a capire perché l'amica stesse piangendo, finché, qualche giorno dopo, lei non tornò a trovarla, cupa e in gramaglie, come una sposa vestita a lutto. Portava con sé, perfettamente ripiegati, gli abiti per il suo uomo: camicia dal collo inamidato, giubba, corpetto di camoscio e calzoni di velluto azzurro coi risvolti argentati, reduci da chissà quali battaglie, visti i tagli di cui erano pieni. La Zambrana camminava stringendo un lembo della gonna, che le rallentava l'andatura, gridando: «Non provate a fermarmi! Dov'è il mio condannato?» Si riferiva al suo ruffiano, condannato alla forca, che in quel momento era col barbiere. Lui le rispose con altrettanto ardore. Quando il barbiere terminò di rasargli i capelli a zero, gli misero le insegne che indicavano la natura dei suoi delitti, prima di condurlo al patibolo. Ormai prossimo alla morte, l'uomo si rivolse alla sua protetta con una voce cupa e cavernosa. «Prenditene cura tu, leonessa mia, di questo corpo che ti ha sempre servito come meglio ha potuto. Quando mi faranno salire sull'asino che mi porterà al patibolo, io avrò le mani legate, per cui sistemami la camicia, se dovesse sgualcirsi. E, quando sarò la, ricordati di pulirmi la bava dalla faccia, se necessario, che non voglio sfigurare davanti a tutti. E voi, padre, al momento di darmi conforto, non siate prolisso. Un po' di Credo e finiamola in fretta. Non è questo il momento per le grandi dottrine e le messe non sono di grande aiuto ai condannati, nemmeno se le dice il papa.» Poi tornò a girarsi verso la sua donna, lisciandosi la barba e i baffi con un gesto degno del Cid Campeador. «Anima mia, accordati col boia affinché non mi tolga la camicia e non mi lasci nudo come un verme. Paga una di quelle donne che ripuliscono i patiboli, in modo che si sbrighi a lavarmi e io non mi ritrovi ridotto come tanti poveracci, con le brache sporche in mezzo alla piazza.» «Fino alla morte rimarrà lindo e immacolato il mio amore!» rispose lei, alzando la voce per farsi sentire da tutti. Dopodiché vennero a prendere il ruffiano. Un giorno, la Zambrana tornò in prigione. «Elena, ho saputo che stanno per rilasciarti, e sono venuta a dirti che Heredia ha giurato di ucciderti non appena metterai piede fuori di qui. Ne va della sua vita: come potranno obbedirgli le sue ragazze, se lui permette all'ultima arrivata di accoltellarlo?» «E il correggitore?» «Non alzerà un dito. Heredia gli procura le puttane gratis.» «Chiederò al direttore del carcere di liberarmi di notte, prima dell'alba.» «Non arriveresti lontano. Verranno a cercarti e, prima di rendertene conto, ti ritroverai a masticare fango in un fosso.» «Mi travestirò da uomo.» «E' proibito. Se ti scoprissero, ti rimetterebbero subito in galera. E non è così facile farsi passare per maschio. L'orcio conserva per un bel pezzo l'odore di quello che conteneva.» «Che importanza ha? Devo pensare a salvarmi la pelle.» «Come vuoi. Volevo solo avvisarti. Ma, se davvero hai deciso così, ti aiuterò, che di roba del mio uomo ne ho da Pagina 47
sanchez - La schiava di Granada.txt vendere, visto quanto era vanitoso. Almeno servirà a qualcosa.» La rilasciarono che ancora era buio. La Zambrana l'accompagnò a casa sua, dove le trovò una calzamaglia, una giubba e un cappello a tesa larga che l'avrebbe riparata dal sole e dalla pioggia, oltre a nasconderle il viso. L'aiutò anche a fasciarsi il seno con una benda, affinchè non si notasse sotto la camicia. Diede qualche taglio di forbice e qualche punto, le sfilò gli orecchini e mascherò i buchi con una cera color carne. Fu così che Elena abbandonò i panni femminili, per entrare in quelli di un maschio. «Come si deve fare per sembrare un uomo? Quando si sta con una donna, voglio dire», chiese Elena mentre la Zambrana le tagliava i capelli. «Ecco, noi donne vogliamo un unico uomo per ogni cosa, mentre gli uomini vogliono tutte le donne del mondo per una cosa sola. Saprai senz'altro qual è.» «E adesso che ne sarà di te qui a Jerez, senza nessuno che ti protegga?» «Qualcuno lo farà. Farò in modo di non finire con Heredia, e che Heredia non mi faccia fuori», le assicurò, con una nota triste nella voce. Elena si rese conto che alla Zambrana non rimanevano molti anni per dedicarsi a un mestiere come quello. E sarebbe davvero finita male, se Heredia avesse scoperto che l'aveva aiutata a fuggire. Si salutarono prima che spuntasse il giorno. «Ci rivedremo», azzardò Elena. «... disse un cieco a un altro, mentre ognuno s'incamminava per la propria strada.» «Tutta la vita è un camminare a tentoni. Non importa se hai i calzoni o la gonna.» Non appena si sentì al sicuro, Elena bruciò la lettera del suo padrone di Alhama che le concedeva la libertà, e che fino a quel momento era stata il suo salvacondotto. Mentre la guardava svanire tra le fiamme, si disse che stava fuggendo da un altro carcere, rappresentato dalla sua condizione di donna, e che in quel modo si stava concedendo una seconda libertà. D'ora in poi sarebbe stata un uomo, e avrebbe mantenuto solo un nome: Céspedes. *** Monfi. Non fu facile cominciare a muoversi come un uomo, con passi lunghi, falcate decise, energiche. o a correre senza tenere le gambe strette, come invece facevano le donne. E allora si rese conto di quante abitudini dipendessero dal sesso: il modo in cui faceva i bisogni o si vestiva, le reazioni di fronte a un evento, il fatto di dover mostrare o nascondere le proprie emozioni. Dovette imparare a soffocare la naturalezza con cui si sarebbe avvicinato alle donne, a dare strette di mano rapide e forti... Ogni gesto, ogni movimento adesso acquisiva un significato diverso. Si esercitava di nascosto, davanti allo specchio, che tuttavia era troppo piccolo per uno scopo tanto grande. Faceva una fatica immensa a imitare quelle espressioni dure, aspre, che cambiavano all'improvviso. Quella violenza nascosta nelle parole e nel modo in cui venivano espresse; i gesti, l'arroganza. Quello stare stravaccati su una sedia, che capiva solo adesso che indossava i calzoni, e non certo prima, come donna, quando d'istinto tendeva a tenere strette le gambe. Questo però non gli serviva a niente nel momento in cui arrivava in una nuova città. Qualunque errore gli faceva temere il peggio: incontrare qualcuno che lo riconoscesse per l'Elena che era stato, i cani che gli abbaiavano contro, fiutandone la paura. Si sentiva come il giorno in cui le erano Pagina 48
sanchez - La schiava di Granada.txt venute le mestruazioni: quand'era uscita in strada, sicura che tutti se ne sarebbero accorti. E adesso era la stessa cosa. All'inizio pensava che per una donna non doveva essere difficile costruirsi un'identità maschile, perché gli uomini erano più grezzi, tutti d'un pezzo. Pensava che sarebbe bastato diventare più duro, più forte, più ottuso. Ma dopo un po' dovette riconoscere di avere qualche perplessità. Ciò che stava scoprendo dapprima lo lasciò sorpreso, poi costernato e, infine, nel disorientamento più totale. Non era possibile mettere insieme un maschio senza quell'insicurezza che pulsava al di sotto della loro corazza. Quello che la corazza esterna bloccava dentro, schiacciandoli come le donne nei corsetti. Per non rischiare, Céspedes si abbassò l'età, in modo da farsi credere un ragazzino imberbe, e giustificare così la voce. Ancora preso da quelle angosce, arrivò infine ad Arcos de la Frontera, poco distante da Jerez. Non osando entrare in città, decise di cercare un impiego nei dintorni, dove c'erano meno possibilità di fare incontri rischiosi. Vide un contadino che sarchiava i campi e gli si avvicinò per chiedergli lavoro. L'altro gli propose di diventare un bracciante, e così Céspedes si fermò da lui, in cambio di vitto, alloggio e di una paga modesta. Il padrone non si rivelò duro, ma il lavoro sì. Si doveva alzare all'alba, e fino al tramonto era un continuo spingere e trottare dietro la coppia di buoi, con le mani ridotte a un ammasso di carne viva, che presto si riempirono di calli. E tutto per pochi spiccioli. Il padrone, infatti, era di quelli che avevano la bocca di miele e le mani di fiele, che prima garantivano franchezza e generosità, con una lunga arringa di promesse, e poi concedevano con avarizia. E le sue offerte sembravano quelle di un genovese, come quelli che, quando entri in casa loro, ti dicono: «Vostra grazia avrà di sicuro mangiato, immagino che non vogliate nulla». E il posto non era nemmeno sicuro. Ancora una volta la sua strada incrociò quella dei banditi moriscos, quei maledetti monfi. Quando li aveva sentiti nominare, ad Alhama, non sapeva quasi cosa fossero, e ormai erano ovunque. E ogni volta erano più veloci e meglio armati. Avevano cominciato a percorrere quelle terre innalzando le loro bandiere, uccidendo e derubando i cristiani. Riuscire a inseguirli era un'impresa, visto quant'erano agili a cavallo: da piccoli, li toglievano dalla culla per metterli direttamente in sella alle cavalcature in carne e ossa, senza passare da quelle di legno. E così non c'era settimana in cui non si trovasse qualche vittima nei campi. Di fronte al clamore che si stava creando, il presidente dell'Audiencia, Pedro de Deza, ordinò che le cuadrillas dell'Hermandad e le milizie sorvegliassero le strade con maggiore impegno. In quelle zone c'erano stati diversi assalti da parte dei briganti, e il padrone di Céspedes era ossessionato da qualunque morisco passasse da quelle parti, temendo che si trattasse di un complice che li informava su chi attaccare. Diffidava in particolare di mulattieri e carrettieri, i quali, per il loro mestiere, godevano di una grande libertà di movimento ed erano sempre ben informati. Il terrore di lui era alimentato da quello della moglie, cui le comari delle altre case coloniche raccontavano dei bambini cristiani che venivano rapiti per essere portati in segreto in Africa, e lì allevati come musulmani. Un giorno si ritrovarono a passare da quelle parti alcuni apicoltori moriscos, che commerciavano cera e miele: stavano spostando i loro favi, poiché, dopo che le api avevano succhiato il nettare da tutti i rosmarini e dalle piante che avevano intorno, dovevano portarle in una zona non ancora battuta. Il padrone era in un altro campo e Céspedes stava arando Pagina 49
sanchez - La schiava di Granada.txt da solo. I moriscos gli chiesero indicazioni su come raggiungere una valle e, vedendo la pelle scura e i marchi sulla faccia, lo presero per uno di loro. Gli chiesero il permesso di bere l'acqua del pozzo e lui glielo concesse, come si usava tra gente civile e ospitale. Quelli si fermarono a riposare e gli offrirono in cambio qualcosa da mangiare, all'ombra di una quercia. Mentre chiacchieravano, come succede in quelle occasioni, i nuovi arrivati si lamentarono delle nuove leggi contro i moriscos. A causa di quell'oppressione, molti, che fino a poco tempo prima erano vissuti in pace, coltivando i campi, si erano dati alla macchia sui monti, diventando monfi. Non era la prima volta che Céspedes sentiva un simile discorso, ma non disse niente, per prudenza, sospettando che volessero tastare il terreno. Dato che taceva, gli altri pensarono che fosse d'accordo e continuarono a parlare, criticando i provvedimenti stabiliti dalla Real Audiencia di Granada: il divieto di utilizzare la lingua e gli abiti arabi e l'imposizione alle donne di girare col viso scoperto. Oltre alla proibizione di organizzare banchetti o balli in occasione delle loro feste, matrimoni o altre celebrazioni. Nel frattempo, il padrone si era avvicinato senza che loro se ne accorgessero e vide Céspedes che parlava con quegli sconosciuti. Quando se ne furono andati gli si avvicinò e lo rimproverò per aver dato loro tutta quella confidenza. Alzarono entrambi la voce, volarono parole grosse e decisero di rompere il loro accordo. Céspedes se ne andò, lasciandosi alle spalle quel tipo meschino e, non molto tempo dopo, incontrò un uomo che sorvegliava un gregge. Aveva un'aria da contadino, indossava un saio lungo e grezzo, senza calzamaglia, e ai piedi portava sandali di cuoio. Disse di chiamarsi Francisco Lopez. «Ho bisogno di un ragazzo che segua le capre mentre io mi occupo dei maiali. Con me starai bene, se non ti lamenti, che l'agnello mansueto succhia il latte da sua madre e da quella degli altri.» All'inizio lo accompagnò, perché si abituasse a una delle greggi, e Céspedes capì subito che quello non era un uomo di cui potersi fidare. Venne a sapere che lo chiamavano Batahola, «Baraonda», perché strillava sempre. E in effetti non stava mai zitto, bastonandolo a suon d'insulti con quella voce sguaiata, gonfiandogli la testa di proverbi e detti che lui trovava divertentissimi, diversamente da chi lo ascoltava, visto il poco sale che quello sciocco aveva in zucca. Era sporco, pieno di pidocchi, così grassi e lucidi che avrebbe potuto salarli e venderli, aperti in due, come faceva coi suoi lattonzoli. Ciò nonostante, forse Céspedes avrebbe resistito un po' di più con lui, se nel giro di due settimane le cose non si fossero complicate. Com'era quasi inevitabile, quando ormai portava le greggi da solo, correndo dietro alle capre su e giù per i monti, rincontrò quegli apicoltori moriscos, che stavano di nuovo spostando i favi. Batahola, che - come Céspedes avrebbe saputo in seguito - era stato messo in guardia dal contadino per il quale aveva lavorato prima, lo venne a sapere e si agitò moltissimo, convinto che Céspedes fosse in combutta con quella gente e, come il vicino, immaginò che quei forestieri stessero indagando tra la gente col pretesto di spostare i favi, prendendo nota di quali fossero le strade migliori, preparando la ribellione ormai imminente. Fu così che, mentre Céspedes era nella sua capanna, ignaro di tutto, gli piombò addosso una cuadrilla della Santa Hermandad. Lo portarono via in catene, accusandolo di essere un monfi, vedetta e spia dei suoi compari, i briganti nascosti sui monti vicini. Pagina 50
sanchez - La schiava di Granada.txt *** ARCOS. Il secondo carcere in cui fu rinchiuso, quello di Arcos de la Frontera, gli risultò meno terribile di quello di Jerez, quasi accogliente, qualità dovuta in buona parte al disinteresse del direttore, ma anche allo scarso zelo del cappellano, più attento alla sua principale fonte di guadagni, la chiesa di Santa Maria, della quale era parroco. Ragion per cui non poche necessità materiali e spirituali erano a carico di un tal Carrefio, un prigioniero che tutti chiamavano «il Sagrestano». A quello scopo, il Sagrestano aveva eretto un piccolo altare, sormontato dall'immagine della Vergine, sul quale c'erano due candelabri di terracotta e candele di ottima cera, perché quelle di sego non voleva nemmeno vederle. All'inizio Céspedes pensava che lo facesse non tanto per devozione, quanto per le elemosine, di cui passava qualche moneta al parroco per tenerlo buono, ma quello si difendeva, giustificandosi coi parrocchiani in catene dicendo: «Voi conoscete Dio a modo vostro.» Un giorno arrivò un gruppo di missionari che si spostava da un carcere all'altro e che concludeva sempre le prediche con una confessione generale. Il Sacrestano cercò di evitarla, come faceva sempre, ma uno di quei sacerdoti navigati s'incaponì, lamentandosi col direttore del carcere del cattivo esempio che dava. Carrefio fu quindi costretto ad acconsentire a denti stretti. «Sono tanti anni che non mi confesso, ormai nemmeno mi ricordo come si fa. Di frati che mi tormentavano ce n'è stata un'invasione, ma io niente, un luterano fatto e finito.» «Permettetemi di aiutarvi», si offrì il coraggioso sacerdote. E così il Sacrestano s'inginocchiò per la pubblica confessione. «Dovete sapere che, in passato, ero un militare, un capitano. Ma poi mi hanno degradato per aver ucciso qualcuno.» «Come?» chiese il sacerdote, sorpreso. «Mah, niente di che. Durante un'imboscata di poco conto, io e pochi altri ne abbiamo fatti fuori otto», rispose l'altro, stringendosi nelle spalle. Il missionario lo interruppe, scandalizzato: «Gesù! E sono morti tutti?» E lì ebbe fine il sacramento. perché il penitente si alzò, profondamente offeso, combattendo contro la voglia di tirare una sberla al confessore. «Ho appena cominciato con le cose più piccole, e già vi spaventate? Sappiate che ci sono state sortite con più di cinquanta morti, non per niente avevo iniziato la confessione con una che ne aveva appena otto. E un pretino come voi, appena uscito da Castilleja de la Cuesta, non è adatto a confessare un uomo col mio fegato, che ha girato mezzo mondo.» Il missionario se ne andò, pieno di vergogna, tra le risate di tutti gli altri. Ormai Céspedes aveva percorso abbastanza strada da saper valutare le persone che incontrava sul proprio cammino. Cercò quindi di diventare amico di Carrefio, poiché un'idea aveva iniziato a farsi strada nella sua mente. «E vero che siete stato capitano?» «Come tutto quello che avete sentito.» «E che cosa ci fa, qui, un uomo del vostro stampo?» «E' una storia troppo lunga.» Qualcosa riuscì a scoprire, quel giorno. Poco alla volta, venne fuori che la devozione di quell'uomo non era affatto fasulla, ma era frutto di un voto per espiare gli innumerevoli delitti commessi. Qualcun altro, forse, le avrebbe considerate imprese valorose, ma avevano portato quell'uomo allo Pagina 51
sanchez - La schiava di Granada.txt smarrimento più assoluto. Céspedes lo intuì il giorno in cui Carrefio, che si stava confidando sottovoce, concluse, con un sospiro: «Vi auguro di non dover mai scoprire quanto l'esercito possa devastare l'animo umano». Questo, tuttavia, non lo rendeva di certo una persona più affidabile, poiché rimaneva un mascalzone matricolato. Céspedes avrebbe impiegato un altro po' per comprendere le sue considerazioni sulla guerra. Per la precisione, non avrebbe capito finchè lui stesso non si fosse trovato ad affrontare la tragedia della Galera. Decise che in seguito gli avrebbe domandato altro sulla vita militare, che quell'uomo sembrava conoscere bene. Non ne ebbe modo, però, perché quella settimana, inaspettatamente, il direttore del carcere andò da lui. «Céspedes, avete visite.» La notizia lo lasciò sbalordito: non riusciva a immaginare chi potesse essere. Entrò un uomo piuttosto avanti con gli anni, vestito con abiti di buona fattura, quasi nuovi. Il nuovo arrivato guardò il prigioniero, mentre il direttore illuminava il viso di Céspedes con una lampada a olio. «Conoscete quest'uomo?» chiese. «Sì, ma in realtà e una donna.» «Come dite?» «Si chiama Elena de Céspedes ed e nata ad Alhama, proprio come me.» In quel momento Céspedes si rese conto che si trattava di Gaspar de Belmar, l'amministratore della manifattura per la lavorazione del tabacco presso il quale era stato a servizio. «Ne siete sicuro?» domandò ancora il direttore. «Così sicuro che voglio parlare immediatamente col correggitore.» Poi, rivolgendosi a Elena, aggiunse: «Non ti preoccupare, ti tirerò fuori di qui». Mantenne la parola. La prima cosa che Céspedes gli chiese fu come avesse saputo che era rinchiuso in quel carcere. «Mi ero fermato alla locanda che c'è in piazza e, mentre mangiavo col correggitore, è arrivato lì anche il direttore del carcere e si è seduto con noi. Ci siamo messi a parlare e, quando ha saputo che sono di Alhama, mi ha detto che tra i suoi prigionieri c'era un ragazzo di quello stesso paese. Gli ho chiesto come si chiamasse, e mi ha risposto: "Céspedes". Allora ho domandato di poterlo vedere, e ti ho trovato.» Quindi gli spiegò quali fossero le condizioni per riavere la libertà. «Dovrai vestire come una donna. E, per sciogliere qualunque dubbio sul fatto che tu sia monfi, morisca o musulmana, rimarrai a servizio dal parroco, nella parrocchia di Santa Maria. Ho garantito per te, lodando il tuo operato mentre stavi in casa mia.» Fu così che si ritrovò ancora una volta serva. Non solo del prete, ma anche della sorella zitella che si occupava di lui. La donna non accettò volentieri la presenza della mulatta, all'inizio: la prese come un'invasione nel suo territorio. Era piuttosto in carne, e soffriva di vampate, grande cuoca, capace di preparare conserve che - a detta del fratello prete - non avevano eguali in tutta la zona. Aveva abitudini spartane, tanto che la sua camera sembrava quasi una cella, o uno dei quadri fiamminghi appesi in chiesa: ordinata, austera, pulita come uno specchio. Il letto era stretto; la finestra spoglia, rallegrata dalla fiammata rossa di un geranio. Dopo un po' di tempo, Elenascoprì che, nello scomparto segreto di uno stipo, nascondeva un anello che doveva essere stato di fidanzamento. Insieme con quello, c'erano un madrigale e la lettera d'addio di qualcuno pronto a salpare per le Indie, che le aveva spezzato il cuore. E lei era rimasta arenata lì, alla mercè dei pettegolezzi, marchiata per sempre da quel vecchio amore. Indossava camicie severe, chiuse fino al collo, di cui rimboccava le maniche per lavorare in cucina, dove si affannava tra formaggi, cetrioli sott'aceto e marinate. Pagina 52
sanchez - La schiava di Granada.txt Tutta la vita di quella donna si riduceva a un continuo andirivieni fin dalle prime luci dell'alba, per preparare la chiesa. Non permise mai a Elena di sollevarla da quel compito ingrato. Era un obbligo che imponeva a se stessa, di modo che, quando arrivavano le prime bigotte, dopo aver scansato il mendicante appostato sulle scale del portico, trovassero tutto immacolato. Anche se questo significava che, per allora, lei doveva aver già pulito il pavimento di pietra, sbattuto i tappeti, lisciato le tovaglie dell'altare, pulito i ceri, lucidato i candelabri e cambiato i fiori nei vasi. Oltre a questo, si occupava della casa parrocchiale. Nel bel mezzo della notte, se sentiva un rumore qualsiasi, si alzava, col camicione addosso e, mentre il fratello russava della grossa, lei, bianca come un fantasma, rimaneva di guardia, con una candela in mano. Fu così che Elena la trovò una notte, in piedi sulle scale. Poiché quella poveretta si era spaventata, lei la prese per un braccio, cercando di calmarla. «State tremando...» Quando la strinse a sè, in bilico tra lo stupore e il sollievo, Elena percepì la voluttà nascosta in quelle carni che profumavano di cotognata e di pane appena sfornato. E che adesso palpitavano di un ardore inestinguibile, l'ardore delle notti agitate che mettono in fuga il sonno, soffiando su braci da tempo dimenticate. Ciò che successe dopo non può essere raccontato, poiché avrebbe fatto arrossire la stessa Ana de Albanchez, così poco incline all'imbarazzo. In seguito, Céspedes lo avrebbe interpretato come l'ultimo colpo di coda del suo tormentato soggiorno in quelle terre. Terre nelle quali, non a caso, i toponimi portavano il marchio del confine: Jerez de la Frontera, Arcos de la Frontera e tanti altri paesi, così chiamati perché da lì era passata la linea che divideva le terre dei mori da quelle dei cristiani. Adesso, a quanto sembrava, era Elena a dover mutare il proprio genere a seconda del lato del confine dal quale si trovava: qui in abiti da donna, là da uomo, più in là di nuovo in sottane, a seconda di cosa decideva il destino. *** LE DUE SORELLE. Il parroco aveva un'altra sorella che, essendo sposata, non viveva con lui. Presto venne anche lei a chiedere la sua parte. Ormai Elena cominciava a capire i dubbi privilegi dati dal poter osservare quello strano gioco dall'ambigua terra di nessuno che la proteggeva, o nella quale si dibatteva, o nella quale veniva posta dagli altri. Da quell'insolita vedetta, dovette sviluppare un istinto sottile per comprendere il desiderio altrui. Soprattutto per quanto riguardava le donne, per natura più volubili, solite a capricci e turbamenti, ad ardori così arbitrari che in un soloistante potevano passare dalla freddezza agli eccessi più sfrenati. A un certo punto credeva di aver imparato a riconoscere quelle donne persino in mezzo alla folla, dal modo in cui si muovevano o la guardavano, dai gesti o dall'ancheggiare dei loro corpi sinuosi. E, poiché aveva anche il loro sesso, Elena riusciva a cogliere ogni minimo dettaglio. Non avrebbe mai saputo con certezza se tutte quelle donne, così controllate in pubblico, fossero davvero attratte da lei. Forse la loro vita monotona subiva il fascino del rischio. Avevano senza dubbio sentito che per un certo periodo aveva indossato abiti maschili. E quell'ambiguità le affascinava, come succede con alcuni uomini che di nascosto si vestono da donna. Il frutto proibito. Presto Elena aveva intuito, dal modo in cui la guardavano, che conoscevano il suo passato. E, forse, avevano pure sentito qualche voce sul fatto che avesse entrambi i sessi. Le loro occhiate, pungenti come frecce, lasciavano Pagina 53
sanchez - La schiava di Granada.txt trasparire una curiosità così malsana e morbosa che lei si sentiva nuda mentre camminava per strada. più di una osò avvicinarsi, e a volte Elena non sapeva se cercassero l'uomo o la donna che intuivano in lei. La prima a fare quel passo, oltre che la più audace, fu proprio la sorella sposata del parroco. L'altra doveva averle detto qualcosa, e aveva deciso di provare anche lei. Una sera che era venuta in visita, quando tutti se ne furono andati, l'assediò in camera sua. Si gettò su di lei, eccitata, con le guance in fiamme e il respiro spezzato. Le sollevò la gonna e cominciò a toccarla. Prima che Elena avesse il tempo di reagire, la spinse sul letto. Dalla furia e dalla decisione con cui la spogliava, dal modo in cui l'accarezzò e dai giochi intraprendenti in cui si produsse, era impossibile dire chi tra lei e la sorella nubile avesse maggiore necessità di simili sfoghi. Quegli episodi, tuttavia, non rimasero confinati alle due sorelle, poiché molte altre donne del paese, di questa o quella classe sociale, giovani o no, e persino alcune tra le bigotte più devote cominciarono a braccarla quando la incontravano in posti appartati. La sua presenza era sufficiente a eccitare l'intrepida popolazione femminile dei dintorni, come se non avessero mai goduto prima di quei piaceri. O come se gli uomini preferissero dedicarsi ad altri interessi, trascurandole. Ma, a forza di andare con l'una e con l'altra, tutte quelle donne che facevano la fila per frugarle in mezzo alle gambe cominciarono a stancarla. Non avrebbe mai capito se la cosa fosse arrivata alle orecchie del parroco, o se fosse stata lei a stufarsi di fargli da serva, ma cominciarono a discutere violentemente per ogni sciocchezza. Un giorno, Elena era nel patio, impegnata a tagliare la legna con un'ascia, quando le cadde lo sguardo sulla conocchia, dove si metteva al lavoro quando aveva un po' di tempo libero, per tenersi in esercizio e non perdere la destrezza che aveva acquisito ad Alhama, sotto la guida di mastro Castillo. In quel momento, però, senza sapere bene perché , fu presa da un odio e da una violenza irrefrenabili per quello strumento, e vi calò l'ascia, facendolo a pezzi, che poi buttò nel fuoco. Dopo ripensò con amarezza a quanto era successo. Quando il suo padrone di Alhama, Gaspar de Belmar, l'aveva riconosciuta, l'aveva ricondotta brutalmente alla sua condizione di donna e di serva. Quello scivolone nella scala sociale cancellava tutta la strada che aveva percorso con tanta fatica. Era riuscita a superare la schiavitù, poi la servitù presso un padrone, il matrimonio, la maternità, il lavoro di tessitrice e calzettaia. Fino a diventare una sarta indipendente. E adesso, con un colpo di mano, l'avevano rimessa a servizio, per di più da un prete che doveva tenerla d'occhio. Cosa che ribadiva sia il suo stato di donna sia quello di serva, oltre alla sua appartenenza alla fede cristiana, e che l'allontanava dai sospetti di connivenza coi moriscos, obbligandola a onorare i suoi doveri con Santa Madre Chiesa. Ma le elucubrazioni che la corrodevano non finivano lì. Al fallimento si aggiungeva un nuovo pericolo. Venne infatti a sapere che Carrefio, il prigioniero soprannominato il Sacrestano, sarebbe stato trasferito al carcere di Jerez in seguito alle rimostranze del missionario. Elena capì che, attraverso quell'uomo, Heredia avrebbe potuto rintracciarla, ora che vestiva di nuovo gli abiti femminili. Sapendo il suo nome e il posto in cui viveva, e visto quanto si parlava di lei in tutta la zona, il ruffiano prima o poi sarebbe andato a cercarla. Non aveva nessuna intenzione di rimanere ad aspettare la resa dei conti, la vendetta per la coltellata e i diciassette Pagina 54
sanchez - La schiava di Granada.txt punti con cui aveva decorato la faccia di Sieteconos. Ora sapeva che non bastava vestirsi da uomo: nel migliore dei casi l'avrebbero comunque presa per un morisco. Doveva andare ancora più lontano e risolvere quella storia una volta per tutte. Ma come? Riuscì a scorgere una via d'uscita solo quando, dalla piazza, le arrivò lo strepito dei tamburi. Se è quello che penso, potrebbe essere proprio questa la risposta, si disse. ***** PARTE TERZA. LA PROVA DEL SANGUE. «I nostri avi contemplarono, molti anni fa questo stesso cielo d'inverno, alto e triste, e vi lessero uno strano segno di protezione e di riposo. Il più vecchio viandante lo additò con il lungo bastone d'autorità, mostrandolo agli altri; poi indicò quei campi e disse: "Certo qui riposeremo di tutta l'ampiezza dei sentieri della Golah. Certamente qui mi seppellirete". E furono seppelliti uno a uno, a Sepharad, tutti quelli che erano arrivati con lui e i loro figli e nipoti, fino a noi. Sappiamo bene che molti siamo ancora dispersi nel vento e nella peregrinazione della Golah. Ma ora non vogliamo più piangere il tempio né soffrire d'infinito rimpianto della nostra città. Perciò quando qualcuno ogni tanto s'avvicina e con viso severo ci chiede: "Perché restate qui in questo paese aspro e secco, pieno di sangue"? Non è certo questa la terra migliore che troverete attraverso l'ampio tempio di prova della Golah', noi, con un lieve sorriso che ci riporta vicino il ricordo dei padri e degli avi, soltanto diciamo: "Nel sogno, sì".» Salvador Espriu, Pelle di toro. * * Dove il poeta scrive Sepharad il lettore potrà leggere altri «sogni» di Spagna: Al Andalus, Toledo, Illuminismo, Repubblica... (N.d.A.). *** JUAN TIZON. Nel buio della sua cella, Céspedes non riusciva a prendere sonno, ripensando alle conseguenze di quella decisione. Ricordare tutte le difficoltà, le fatiche, i pericoli, la desolazione incontrati nelle città. Dissidi, guerre, distruzioni, stermini, popoli assediati e ridotti alla fame, paesi distrutti dalla spada e dalla polvere da sparo, casati estinti con una pugnalata alla gola. La guerra che avanzava come un'onda di devastazione, che si diffondeva come la peste, mietendo vittime e riducendo i campi a lande incolte. L'eterna e maledetta Pagina 55
sanchez - La schiava di Granada.txt guerra. Quanti nemici poteva essersi fatto in quei frangenti? Come indovinare i pensieri di quanti aveva conosciuto in quei tre anni, prima di finire alla Galera? E come rievocare quel posto senza richiamare alla memoria Juan Tizon? Non poteva prendersela con lui, anche se era stato il primo anello di quella tragica catena. Niente di tutto ciò sarebbe accaduto, infatti, se quell'uomo non fosse arrivato ad Arcos de la Frontera, entrando nella piazza sventolando la bandiera, accompagnato dal rullo dei tamburi. Era stato in quel momento che l'idea aveva preso forma. I reclutatori si fermarono in paese e chiesero al parroco il permesso di servirsi del porticato della chiesa di Santa Maria. Elena capì immediatamente che non avrebbe avuto un'altra opportunità come quella. Tizon si presentò come l'alfiere incaricato del reclutamento, agli ordini del capitano don Luis Ponce de Leon. Raccoglieva soldati pronti a combattere sotto le insegne del duca di Arcos, per mettere insieme una compagnia da trascinare in guerra. Quel paese faceva capo al suo distretto, quindi esibì la licenza reale per arruolare nuove reclute. Era un uomo ben piazzato, dalla corporatura robusta, col petto e le spalle ampi e le braccia muscolose. Un vero e proprio gigante, insomma, anche se la statura veniva penalizzata dal modo di camminare, un po' storto. Colpivano i suoi occhi, l'uno nero e penetrante come un grano di pepe; l'altro, guasto, di un colore indefinito. Il cranio calvo era bruciato dal sole e dalle intemperie di mezza Europa. Quando si fu raccolta una discreta folla, Tizon salì su un tavolo e chiese un rullo di tamburi per richiamare al silenzio. «Come ben saprete, alla fine di dicembre, i moriscos si sono ribellati. è stato necessario rispondere con la forza, per scacciarli una volta per tutte da questo regno, dove per secoli hanno tramato nell'ombra contro di noi.» Parlava in modo chiaro, con un tono deciso, non privo di retorica, per essere un uomo d'arme. Fece una pausa, soppesando l'effetto delle sue parole. Vedendo le espressioni di approvazione dell'uditorio, proseguì: «Non sarà facile. I nemici conoscono queste terre, i sentieri e le scorciatoie praticate solo dai loro mulattieri. E sanno come costruire le armi da fuoco: schioppi, marchingegni e mulini per la polvere da sparo». Tra gli astanti si levarono alcune grida, che l'alfiere non zittì. Anzi, lasciò che si sfogassero, prima di chiedere silenzio. «Quei miserabili sono in combutta coi briganti delle montagne e coi pirati turchi e barbareschi che infestano le nostre coste. Se ai moriscos del regno di Granada si unissero quelli di Aragona e Valenza, potrebbero arrivare a cinquantamila archibugieri. E il quadro è persino più grave, se a loro aggiungiamo gli altri nemici, come i luterani e altri eretici.» «Dove si sta combattendo, adesso?» chiese qualcuno. «Gli scontri più sanguinosi saranno sulle Alpujarras. E un territorio aspro, pieno di rupi e valli profonde, perfetto per trappole e imboscate. Ed è popolato da gente temeraria che nemmeno i re mori erano riusciti ad assoggettare. Si fanno beffe della nostra religione, dicendo che adoriamo due bastoni in croce o un'ostia di farina. Hanno saccheggiato interi villaggi, bruciato le chiese, fatto a pezzi le immagini sacre, distrutto gli altari e oltraggiato i sacerdoti. Li hanno fatti girare nudi per le strade, poi li hanno torturati a morte o bruciati vivi. Ad alcuni hanno strappato gli occhi e li hanno portati in giro con un campanaccio al collo, mentre i ragazzini moriscos ai quali avevano insegnato la fede in Cristo li prendevano a bastonate.» Un ruggito di collera si diffuse tra i presenti. L'alfiere dovette fare un cenno al tamburino, ordinandogli di far risuonare la sua grancassa, per chiedere silenzio. «Non crediate di essere al sicuro, qui, perché i il loro scopo è riconquistare l'intero regno. Alcuni moriscos sono andati Pagina 56
sanchez - La schiava di Granada.txt ad Algeri per chiedere aiuto al califfo, il quale ha concesso la grazia a tutti i fuorilegge che vogliano venire a combattere in Spagna. E così sono arrivati in Andalusìa ladri e assassini della peggior risma, che razziano le nostre fattorie e stuprano le nostre donne. Vi chiederete come sia possibile che facciano i loro comodi indisturbati...» Aspettò che la domanda facesse presa prima di rispondere: «Non abbiamo abbastanza soldati. Al punto che, in alcune zone, le donne non hanno esitato a rimboccarsi le maniche per preparare le pallottole, procurarsi la polvere da sparo e curare i feriti. Hanno persino avuto il coraggio di prendere il posto degli uomini caduti sotto i colpi del nemico, accorrendo a difendere le mura. E, armate di balestre, lance e schioppi, hanno combattuto come i più valorosi degli uomini». Elena de Céspedes aveva seguito tutto il discorso, in particolare quelle ultime parole. «Quali sono le condizioni del reclutamento?» chiese un uomo accanto a lei. «Le stesse in uso presso le giunte: ognuno provvederà a se stesso finchè dureranno le provviste contenute nella sua sacca», rispose Tizon. «E quanto sarebbe?» «Una settimana, più o meno.» «E dopo?» «Passata una settimana, i soldati saranno interamente a carico del proprio paese per tre mesi. I sei mesi successivi verranno divisi tra i municipi e la Real Hacienda.» Anticipando le domande che intuiva, aggiunse: «Senza contare il bottino che ciascuno di voi otterrà, nel rispetto delle leggi di guerra: 'più sono i mori, maggiori i tesori'». Cominciarono a sollevarsi le mani dei volontari. Tizon scese dal tavolo, ordinò allo scrivano di pulirlo ed entrambi vi si sedettero, preparandosi ad arruolare le reclute. Céspedes notò che l'alfiere sceglieva gli uomini in buona salute dai venti ai quarant'anni. Dalle domande che rivolgeva loro, dedusse che preferiva chi non aveva famiglia, per non lasciare mogli e figli senza mezzi di sostentamento. Céspedes capì ben presto che Tizon doveva essere un uomo valoroso, tutto d'un pezzo. Le sue truppe lo tenevano in grandissima considerazione, ammirando il fatto che lui non indossasse mai un mantello, né in estate né in inverno. Incuteva un certo timore quando ti guardava dall'alto in basso, con la barba ispida e dritta, il petto ampio come un baule, capace di lanciare grida che facevano rizzare i capelli alle nuove reclute. E pure per quell'occhio coperto da un velo di polvere da sparo, che, quando s'infuriava, diventava di zolfo, dandogli un aspetto demoniaco. Oltre a ciò, maneggiava la spada con la stessa audacia con cui affrontava la vita. benché d'indole serena, poteva diventare scontroso e brusco, quando non riusciva a frenare la collera. Anche se, passata la burrasca, era mortificato per i suoi modi offensivi e chiedeva persino scusa per quelle intemperanze. Da questo e da altri estremi, Elena comprese che Tizon non suscitava solo il timore nei propri uomini, ma anche un profondo affetto. Scoprì che si era temprato negli eserciti delle Fiandre e d'Italia, terre delle quali conservava un ricordo dolceamaro. «Non hanno una grande stima di noi. D'altronde, tutti coloro che pretendono di essere i padroni del mondo sono disprezzati dal mondo intero. Ci sono città che, per vantarsi di essere pulitissime, assicurano di non avere né mosche né pidocchi, né tantomeno spagnoli.» Se era rimasto nella milizia si doveva al fatto che, alla morte dei genitori, i fratelli non erano stati molto generosi con lui al momento di dividere l'eredità. E, benché a volte rimpiangesse di non aver avuto una vita più tranquilla, finiva per riconoscere: «Comunque sia, finché ogni primavera continueranno a fiorire i campi e le donne, ogni estate si Pagina 57
sanchez - La schiava di Granada.txt raccoglierà il grano, ogni autunno si pigerà l'uva nelle cantine e io avrò un bel paio di stivali per continuare sulla mia strada, non credo che vorrò cambiare vita». Condivise con lei quelle riflessioni non appena tra loro ci fu un minimo di confidenza. Cosa che avvenne presto. Elena, infatti, si era accorta subito che Tizon aveva i piedi molto delicati. Non sopportava calzature che non fossero aperte, con la punta larga e il collo alto, del cordovano più fine o di pelle di daino delle Fiandre. E così, quando ancora era nel porticato della chiesa di Santa Maria, le aveva chiesto il favore di preparargli un catino pieno d'acqua. Lei si era guadagnata la simpatia dell'alfiere portandogliela calda, cosa ancor più gradita data la stagione fredda e il fatto che all'uomo facessero male i geloni. Elena aveva dato sollievo al suo dolore aggiungendovi un decotto di verbasco bollito col miele, un rimedio imparato, come molte altre cose, dai moriscos. Tizon era venuto a sapere che, per quel gesto, era stata rimproverata da quel taccagno del parroco, restio a sprecare legna per scaldare uno sconosciuto, e lo aveva apprezzato ancora di più . Grazie alla confidenza nata tra loro, Elena scoprì che il capitano don Luis Ponce de Leon sarebbe giunto ad Arcos col denaro necessario a pagare le reclute, mentre l'alfiere lo avrebbe preceduto nel vicino paese di Villamartiin, dove pensava di arruolare gli uomini che mancavano a formare la compagnia. «Così guadagneremo tempo. Non conviene che questo reclutamento duri più di tre settimane. Diventeremmo un peso per i paesi che devono dare alloggio ai soldati.» Elena non aveva bisogno di sapere altro per concretizzare il suo piano. Così, quando Tizon prese commiato, ringraziandola per le sue premure e chiedendole se potesse fare qualcosa per lei, rispose: «Ho un fratello che è andato sulle montagne a far legna e tornerà domani. Ha sempre sognato di entrare nell'esercito. Potrebbe unirsi ai vostri uomini a Villamartin?» «Se ha i requisiti necessari, consideratela cosa fatta. Ditegli di presentarsi entro tre giorni.» «Che cosa deve portare?» «Gli abiti devono essere pesanti: stivali o scarpe robuste, calze grosse, calzoni spessi, due camicie che tengano caldo, una mantella e un cappello di feltro a tesa larga, che ripari dal sole o dalla pioggia. E gli abiti devono essere comodi, per non ostacolare i movimenti. Ma che non abbiano ornamenti ne pellicce, che favoriscono le pulci e altri piccoli parassiti.» Non appena fece ritorno a casa, Elena si mise immediatamente all'opera. Si armò di forbici, ago e filo. Prese una basquina * di panno spesso e ne ricavò due paia di calzoni. * Gonna nera usata dalle donne per le cerimonie solenni. (N.d.T.). Il giorno successivo, trasformò una sottogonna in biancheria e ghette. Fece la stessa cosa coi tessuti che ritenne adeguati, finchè, giunta la sera, non fu vestita da uomo. Prese lo specchio e si tagliò i capelli, dopodiché andò a dormire. Si svegliò ancora prima del canto del gallo. Andò in cucina, dove prese una mezza pagnotta, un cosciotto di montone avanzato e una borraccia piena di un ottimo vinello, che giaceva in un angolo ignorato da tutti e che sarebbe stato di grande conforto nelle difficoltà che stava per affrontare. Riaccostò le porte senza fare il minimo rumore. Sull'ultima lasciò lo scapolare con cui il prete l'aveva obbligata a mortificarsi. Uscì, inizialmente incerta su quale fosse la strada migliore. Il paese era ancora immerso nel buio e il silenzio era spezzato solo dai latrati di un cane, che aveva fiutato Pagina 58
sanchez - La schiava di Granada.txt la sua presenza. Si allontanò dall'abitato e raggiunse un bosco di castagni, dove attese l'alba. Ansiosa di allontanarsi, cominciò a macinare leghe lasciandosi alle spalle un paese dopo l'altro, arrivando infine a Villamartin. *** ARRUOLAMENTO. Trovò i confini piantonati, i sentieri sorvegliati. Individuò la compagnia dell'alfiere Tizon in un castello in un'ottima posizione, ma in pessime condizioni. Mentre si avvicinava, valutò le difficoltà che avrebbe incontrato. Non aveva altra scelta: doveva arruolarsi in un posto dove non avrebbero potuto riconoscerla, facendosi passare per il suo fantomatico fratello. Nessuno sarebbe stato in grado di smentirlo, nemmeno gli abitanti di Arcos che avrebbe potuto incontrare, dal momento che non conoscevano il suo passato né la sua famiglia. E continuava a pensare che la scelta di Tizon di concludere il reclutamento proprio a Villamartin non fosse stata casuale, ma studiata apposta per riuscire ad arruolare pure chi non osava farsi avanti sotto gli occhi dei propri compaesani. L'alfiere era indaffaratissimo. Céspedes preferì non interromperlo e si mise in coda con gli altri. Era in ansia per il proprio aspetto: senza il minimo accenno di barba, sembrava un ragazzino di neanche diciott'anni. Poteva essere un problema. In un primo momento, Tizon aveva cercato di mantenere i limiti d'età tra i venti e i quaranta. Tuttavia, man mano che la fila si esauriva, insieme col tempo di cui disponeva, stava allargando il ventaglio dai diciotto ai quarantacinque. L'alfiere non nascose il disappunto di fronte a molti dei candidati. Ma poi, soprattutto a causa della fretta, finì per accontentarsi di non infestare troppo la compagnia di ruffiani e imbroglioni. Quando arrivò il suo turno, vedendo la sorpresa dipinta sul volto di Tizon, Céspedes lo anticipò: «Sono il fratello di Elena, credo che ad Arcos vi abbia parlato di me». «Scrivete "Céspedes"», ordinò l'alfiere all'uomo che stendeva la lista degli arruolati. «Originario di...?» «Alhama de Granada.» Tizon dettò quindi la sua descrizione: «Capelli neri, corporatura media, pelle scura, color cotognata, bocca e naso grandi. Imberbe. L'orecchio sinistro ha una fessura sul lobo. Presenta un segno sul mento, sotto il labbro. E ha due cicatrici sulle guance: sulla destra una simile a una S, sulla sinistra una linea retta...» «Fermatevi un momento», gridò una voce. Céspedes alzò la testa per scoprire da chi provenisse quell'ordine. Le pareva un volto noto, ma non riusciva a ricordare chi fosse né dove l'avesse già visto. Piuttosto in là con gli anni, l'uomo sfoggiava un caschetto che, se non fosse stato tinto, sarebbe stato grigio e che gli conferiva un aspetto nobile, leonino, tuttavia smentito dagli altri tratti del viso. Sembrava che fosse appena arrivato, poiché era ancora blindato nella sua possente armatura, più corazzato di un orologio. «Che succede, signore?» «Lo state arruolando?» chiese l'altro, indicando Céspedes. «Lo stavo per fare.» Squadrando il candidato dall'alto in basso, l'uomo gli domandò: «Quanti anni avete?» «Venti.» «Io non ve ne do nemmeno diciotto.» E, rivolgendosi a Tizon, aggiunse: «E' troppo giovane». L'alfiere sembrava davvero in imbarazzo per essere stato ripreso davanti a tutta quella gente. Pagina 59
sanchez - La schiava di Granada.txt Céspedes però non riusciva a capire se quell'uomo avesse una qualche autorità su Tizón. «Signore, sto seguendo le istruzioni di don Luis Ponce de León», obiettò l'alfiere, cercando di soffocare il disappunto. «Siamo in ritardo con l'arruolamento e non abbiamo abbastanza uomini. La fila che vedete qui è l'unica che ci rimane prima di partire per unirci all'esercito del viceré di Granada, il marchese de Mondejar.» «So benissimo chi e il viceré e quali siano il suo titolo e l'esercito al suo comando», lo interruppe l'uomo, in tono adirato. «Avete forse l'ardire di contraddirmi?» La collera dell'alfiere era ormai evidente. Tuttavia la disciplina ebbe la meglio, e lui si limitò a replicare: «No, signore, non ne avevo affatto l'intenzione. Vorrei solo lasciare in sospeso l'arruolamento di questo giovane finchè don Luis Ponce non ci avrà raggiunto, e nel frattempo proseguirei col reclutamento». L'uomo acconsentì a denti stretti e l'alfiere fece cenno a Céspedes di allontanarsi dalla fila e di andare ad aspettare in fondo all'antica piazza d'armi. Dopo un bel po', Tizon lo raggiunse, portandogli qualcosa da mangiare. «Tieni, il tuo primo rancio da recluta.» «Sono stato arruolato?» L'alfiere si sedette accanto a lui. «Sì. Don Luis Ponce de Leon ha messo le cose a posto. E ha comunque dovuto appellarsi all'autorità del duca di Arcos, perché quel ficcanaso non calpestasse la mia.» «Chi è quell'uomo?» «Si chiama Ortega Velazquez. In condizioni normali, sarebbe alla Real Audiencia di Granada ma, trovandoci in guerra, lo hanno nominato uditore militare.» A quelle parole, a Céspedes tornarono in mente le circostanze in cui lo aveva visto: alla sede dell'Audiencia, con Ibrahim. Ortega Velazquez era con Alonso del Castillo e il fontaniere lo aveva riconosciuto come uno dei giudici che avevano spogliato la sua famiglia delle terre. «Dovrai rimanere accanto a me e non fare errori. Quell'uomo non perderà occasione di tornare alla carica, se mai dovesse arrivargli qualche lamentela su di te. Anche se è un esperto di guerra quanto io lo sono nel ferrare zanzare. Hai visto che armatura aveva addosso? Di grande effetto, sicuramente, ma serve solo a sudare quando fa caldo e a battere i denti quando fa freddo. Quel che ci vuole è un'ottima pelle di bufalo, come quella che ho io...» «Vi sono davvero grato.» «Io non c'entro. E' stato Luis Ponce de Leon a dirgli di lasciarci svolgere il nostro lavoro e di non fare il pignolo sull'età. Altrimenti non potremo metterci in marcia dopodomani.» E, con la sincerità che attribuiva all'essere nato a Valladolid, aggiunse: «Quell'Ortega Velazquez ha le sue ragioni, comunque. Riguardo alla truppa, voglio dire. Credi che io sia contento? Purtroppo bisogna arrangiarsi con quel che si ha. I soldati abbondano solo quando non servono. Grazie a Dio don Luis è riuscito a procurarsi i fondi necessari per aumentare il salario. Se paghiamo un real al giorno, non c'è speranza di reclutare nessuno, visto che se ne guadagnano cinque con la mietitura. Bisogna aspettare che finisca la stagione del raccolto per trovare uomini disponibili. E non possiamo arruolarne pochi, perché ci saranno diserzioni e malattie, oltre a quelli che se ne andranno quando si renderanno conto di quanto sia dura la vita del soldato. Tu e le altre reclute vi dovrete abituare a camminare carichi sotto il sole e sotto la pioggia, a mangiare quando si può. E a dormire con un occhio solo per settimane intere, senza potersi cambiare i vestiti, durante un assedio o nelle trincee». Ingoiò un paio di bocconi del suo rancio, e ricordò con malinconia i tempi in cui combatteva nelle Fiandre e in Italia, con meno artiglieria e gente molto più coraggiosa. «Ogni Pagina 60
sanchez - La schiava di Granada.txt giorno c'erano uno scontro e una prodezza. Non come adesso, che tutto l'eroismo se ne va nello scavar fossi, nel rimanere invischiati nel fango e nell'aspettare la paga o un passaggio di grado verso un destino migliore.» «Spero di non deludervi.» «Lo dici per l'età? I soldati migliori vanno dai diciotto ai vent'anni, perché dopo non sono più tanto docili. Spesso li arruolano anche a sedici. Io cerco di metterli insieme con quelli più esperti, perché fino a venticinque anni sono troppo temerari e indisciplinati. è meglio che abbiano accanto dei veterani che insegnino loro a gestire il proprio coraggio. Anche se, a quelli che vedi qui, non so se ci sarà bisogno di mettere un freno. Non hanno l'aria di volersi immolare in battaglia.» «perché mi dite questo?» «Sono anni che recluto gente. Queste milizie cittàdine non hanno niente a che vedere con gli ottimi veterani che combattono al di là delle nostre frontiere, rispettati e temuti in tutta Europa.» In quel momento si sentì rullare il tamburo, e l'alfiere si alzò. «Forza, ragazzo. Stanno per leggere il regolamento.» Radunata la compagnia, vennero letti gli articoli del codice militare e le pene previste per le infrazioni. Il punto fondamentale era obbedire agli ordini senza discutere e rimanere nella compagnia finchè non fossero stati congedati. Norme che, al pari di altre, dovevano essere osservate, pena la morte. Terminata la lettura, le reclute giurarono alzando la mano destra. Dopodiché fu consegnata la paga del primo mese, con l'avvertenza che il capitano aveva la facoltà di dedurne una parte per gli alimenti, gli abiti o altre necessità del caso. Fu così che Céspedes si ritrovò armato di picca, spada, scudo, elmo e corazza, chiedendosi per quanto tempo avrebbe retto quella vita che, se già per gli altri era dura, nel suo caso aveva il peso ulteriore di dover nascondere il proprio sesso. Non poteva rischiare che qualcuno lo vedesse, nell'espletare normalmente le sue necessità corporali. Avrebbe avuto abbastanza forza per impugnare le armi? E la crudeltà necessaria? Che cosa sarebbe successo se fosse stato ferito e avessero dovuto spogliarlo per prestargli le prime cure? Ortega aveva spie ovunque che potevano buttarlo fuori in qualsiasi momento. *** SCARAMUCCE. Come il resto delle reclute, avrebbe dovuto imparare il mestiere strada facendo, poiché dovevano dirigersi subito a sud di Granada, per unirsi al viceré e dare inizio alla campagna delle Alpujarras. Il capitano della compagnia, don Luis Ponce de Leon, li precedette con alcuni uomini lungo le scorciatoie, mentre il grosso delle truppe rimase al comando dell'alfiere Tizon, con tutte le salmerie. Le prime difficoltà si presentarono con l'alloggio per la notte. Quando scese la sera si diressero al paese più vicino, dove i moriscos li stavano aspettando. Gli erano andati incontro per chiedere di non stabilirsi nelle loro case. Temevano per l'onore delle loro mogli e figlie, e per i disordini che ne sarebbero seguiti. In compenso, offrirono loro da mangiare e il necessario per accamparsi nei prati. «Sarei felice di accettare, ma si gela, il livello dei fiumi si è alzato, siamo a corto di provviste, proseguiamo a fatica e siamo in difficoltà. I miei uomini risentirebbero di una notte trascorsa all'addiaccio», gli rispose Tizon. «Vi chiediamo almeno di fermarvi nelle case disabitate che si trovano all'uscita del paese», ribatté allora il morisco. L'alfiere acconsentì, suo malgrado. Era uno dei paesi Pagina 61
sanchez - La schiava di Granada.txt pacificati, era meglio che le truppe non fossero accusate di abusi nelle terre che avrebbero attraversato. Céspedes capitò nel primo turno di guardia. Dato che era il più giovane, Tizon voleva temprarlo un po' prima che si trovassero in frangenti ben più pericolosi. «Stai allerta, ragazzo, i nemici non possono essere lontani. Ora che è notte, passeranno dai segnali di fumo ai falò accesi sui merli e sulle torri di guardia», gli disse. Durante la veglia, Céspedes si sentì confortato dalla presenza di tutti quei fuochi, che tuttavia lo dissuasero dal fare i propri bisogni, poiché temeva di essere visto dal sergente al comando della guardia. Dovette aspettare di rimanere solo, per poter urinare al riparo di alcuni lentischi, e rischiò di essere scoperto lontano dal posto di guardia. Decise allora di preparare una specie di cannello con un corno di capra. Una volta sistemato sul suo sesso confuso, e nascosto col dorso della mano, gli avrebbe permesso di farla in piedi quando c'era qualcuno intorno. Nel giro di due ore si scatenò un temporale, con un vento così forte e una pioggia così inclemente che spense tutti i fuochi. Passarono la notte al buio, dormendo pochissimo, correndo a sistemare le tende che crollavano, nonostante le picche e i pesi con cui erano state fissate. Il mattino successivo, l'accampamento pareva reduce da una disfatta. Di fronte a quello spettacolo, l'alfiere capì che non potevano continuare in quel modo. Il proposito di non contrariare i moriscos che li avevano accolti pacificamente era stato lodevole, ma decise che da quel momento le sue truppe avrebbero alloggiato nelle case abitate, dove i soldati sarebbero stati trattati con le dovute attenzioni, per non rischiare che disertassero. Da vecchia volpe qual era, Tizon intuiva le vere ragioni di quell'accoglienza poco generosa: lo avevano fatto sicuramente a causa dei mori ribelli che vivevano li intorno, per paura di una loro rappresaglia nel caso in cui avessero collaborato coi cristiani. Ne dedusse che i nemici li stavano aspettando. Perciò non fu sorpreso quando li avvistò in cima a una collina, pronti a tendere un'imboscata. Avrebbero tentato un attacco mordi e fuggi, sperando di farsi inseguire. «Rimanete in posizione, non rompete le righe! Vogliono trascinarci in una trappola!» gridava Tizon ai suoi uomini. Proseguirono in formazione compatta, finchè non giunsero nei pressi di una gola che dovevano attraversare per forza. Erano già nel punto più profondo quando, all'improvviso, scese su di loro una nebbia fitta. Era così impenetrabile che i moriscos sarebbero riusciti a piombargli addosso senza che nemmeno se ne accorgessero. Chiunque altro, in una situazione analoga, avrebbe perso la calma. Ma non Tizon, che ordinò alla compagnia di serrare ancora di più le file, formando un plotone impenetrabile, protetto ai fianchi dai lancieri. Fu allora che l'alfiere notò le difficoltà di Céspedes nel maneggiare la pesantissima picca. Giunsero così a un villaggio abbandonato, dove decisero di accamparsi per la notte, data la presenza di una torre, che avrebbe offerto loro un riparo senza bisogno di organizzare chissà quale difesa. Era uno dei frangenti che Céspedes temeva: lì non aveva possibilità di fare i bisogni in un posto appartato, e così fu costretto ad allontanarsi con un pretesto. Si stava sgravando in un luogo poco distante, coi calzoni calati, quando sentì scricchiolare dei rami. Si pulì alla bell'e meglio e si tirò su le brache in fretta e furia. Mise mano alla spada e rimase in allerta. Dal rumore, pensò che molto probabilmente era un animale. Ma poteva anche essere un avamposto nemico, che si muoveva con cautela. Pagina 62
sanchez - La schiava di Granada.txt Poi Céspedes riuscì a scorgere la sagoma scura di un uomo corpulento. Sollevò la spada. «Chi va là?» «Sono io, Juan Tizon.» In un primo momento, Céspedes ne fu sollevato, ma si rimise subito in guardia mentre si domandava, preoccupato, che cosa potesse volere da lui in un posto così buio e appartato. «Dobbiamo parlare», gli disse l'alfiere. Tornarono verso l'accampamento. Nonostante il freddo, Céspedes stava sudando per la paura. Quando giunsero in vista della guardia, dove potevano sentirsi sicuri, Tizon si fermò sulla riva di un torrente e affrontò il ragazzo, inchiodandolo con quell'occhio color dello zolfo, segnato dalla polvere da sparo, che tanto metteva in agitazione Céspedes. «Ragazzo, ho paura di essermi sbagliato, con te.» «A che cosa vi riferite?» domandò lui, con voce tremante. «Ho notato le tue difficoltà con la picca. E hai visto quanto quelle armi siano importanti per il nostro esercito. Dal modo in cui le usi dipende la tua vita e quella dei tuoi compagni. Che ti succede?» «Niente, signore. Immagino che mi manchi la mano.» Tizon rimase a guardarlo per un po', aspettando che dicesse qualcos'altro. Ma, poiché Céspedes taceva, continuò: «Spero che sia così, per il tuo bene e per il mio. Mi dispiacerebbe se Velazquez l'avesse vinta, dimostrando di aver avuto ragione a opporsi al tuo arruolamento. Comunque sia, non appena ci troveremo in un posto più spazioso, ti metterò alla prova». Vedendo l'espressione terrorizzata del ragazzo, aggiunse: «Non davanti a tutti. Sarà una cosa tra te e me». E così Céspedes passò un'altra notte insonne, tormentato dall'ansia. Era appena spuntato il giorno, quando si sentì il rullo di tamburo della chiamata alle armi. «Ci sono moriscos ovunque!» Erano circondati. Tizon passò in rassegna le truppe, soffermandosi sulle reclute. Sapeva bene quale fosse il loro stato d'animo di fronte alla prima, vera battaglia. Poi si avvicinò a Céspedes e gli offrì una manciata di ceci tostati. «Prendi, ragazzo. Io li tengo sempre in tasca e li mastico prima dello scontro. Calmano l'ansia.» Gli si accostò all'orecchio, in modo che sentisse soltanto lui, e aggiunse: «E, se ti battono i denti dalla paura, lo nascondono». Dopo di che scoppiò in una gran risata, strizzandogli l'occhio rovinato dalla polvere da sparo. «Non ti preoccupare, succede a tutti. E chi dice il contrario o è uno sbruffone, o sta mentendo.» I musulmani attaccarono. Tizon vide che un drappello nemico, guidato dal capitano, stava entrando da uno degli accessi alla torre, rischiando di spezzare le loro difese. Si alzò di scatto, gridando: «Santiago!» * e respinse l'assalto armato solo di spada. Ma capì che, rimanendo nella torre, rischiavano di morire bruciati vivi, o di qualche altro stratagemma nemico. * Grido di guerra che si riferisce a Santiago Matamoros, «san Giacomo l'ammazzamori», cioè san Giacomo il Maggiore che, secondo la tradizione medievale, avrebbe aiutato l'esercito spagnolo contro i mori durante la Reconquista. (N.d.T.) Ordinò quindi di abbattere con picconi e zappe la parete che dava sui campi, per aggirare i nemici, cogliendoli di sorpresa. Allora Tizón si accorse che, sebbene fossero molti, i mori erano armati quasi esclusivamente di fionde e corte lance. All'inizio resistettero con coraggio ma, quando gli archibugieri cominciarono a sparare e si videro attaccati alle spalle, i nemici persero il loro ardimento, convinti che Pagina 63
sanchez - La schiava di Granada.txt cespugli, alberi e rocce fossero improvvisamente diventati cristiani. Presi dal panico, furono messi in rotta e ripiegarono fino a un torrente vorticoso, pieno di massi. Guadagnarono la riva opposta e si arrampicarono sulla cresta di un monte. Quaranta soldati cristiani fra i più esperti e veloci li raggiunsero e offrirono un triste spettacolo di morte. Tizon stava percorrendo il campo di battaglia insieme con Céspedes, quando si avvicinò un sergente per fare rapporto. «E i nostri uomini?» chiese l'alfiere. «Abbiamo tre morti e una dozzina di feriti. Ma quello che più mi preoccupa sono le reclute che per la paura si sono nascoste tra le salmerie, mentre gli altri combattevano.» «Portateli qui.» «Non è meglio punirli davanti alla truppa al completo?» chiese il sergente. «Fate come vi dico. E tu, ragazzo, rimani qui», disse, rivolto a Céspedes. Una volta che si furono radunati quelli che avevano evitato lo scontro, Tizon chiese a ognuno di pronunciare il proprio nome, cosa che i rei fecero con voce tremante, temendo il castigo in arrivo. A quel punto l'alfiere disse: «Non mi stupisce che vi siate fatti spaventare dalle urla e dagli schiamazzi di quei mori. Ma voi aspirate a diventare soldati. E la punizione che voglio imporvi per la negligenza che avete dimostrato è quella di raccogliere tutti questi cadaveri, farne un mucchio e bruciarli, in modo che vi passi la paura». Quindi puntò il dito contro Céspedes. «Faranno capo a te.» Poi lo prese in disparte e aggiunse: «Quando avrai finito, vieni sulla riva del torrente, dove abbiamo parlato l'altra notte. E non dimenticare la picca». Quando Céspedes raggiunse l'alfiere, lo trovò intento a pescare. Vedendo che lo guardava stupito, Tizon gli disse: «Mi porto sempre le mie lenze. Oggi mangeremo trote». E gli indicò tre splendidi pesci che si dibattevano tra le felci. Mentre metteva a posto le attrezzature da pesca, Tizon insistè sull'importanza di dominare la picca. Poi prese la sua e gli mostrò come tenerla affinchè risultasse più maneggevole, come puntarla a terra col piede per affrontare gli assalti e qualunque accorgimento riteneva necessario. Gli chiese di ripetere quei movimenti per un bel pezzo, finchè non si rese conto di quanto il ragazzo fosse stanco. «Per oggi basta così, andiamo a mangiare. Ricordati di ripetere spesso questi esercizi, per irrobustire le braccia. Ti metterò alla prova tra due giorni. Spero che, la prossima volta che l'impugnerai, sia come un'estensione del tuo stesso corpo. E, quando avremo finito con la picca, continueremo con la spada, che mi sembri maneggiare meglio.» Nel periodo che seguì, Tizon divenne quel padre che Céspedes non aveva mai avuto e che aveva sempre invidiato agli altri bambini. Li aveva osservati spesso mentre insegnavano a camminare ai loro figli: lasciavano andare la loro manina, fingendo di allontanarsi, invece rimanevano dietro di loro, per impedire che cadessero. Quello scontro era servito di lezione ai moriscos. A volte, durante il giorno, i soldati vedevano i loro segnali di fumo, o i fuochi nella notte, accesi sulle vedette per segnalare il loro arrivo. Ma non ci furono altri attacchi. Arrivarono così all'accampamento del marchese de Mondejar, generale di un esercito che contava oltre duemila fanti e quattrocento cavalieri. Era gente ben armata, splendida nelle sue armature, con la spada alla cintola e daga e archibugio agganciati alla sella. Il sollievo che Céspedes provò nel vedersi in mezzo a tutta quella gente svanì del tutto quando riconobbe la persona accanto al viceré e ai capitani dell'esercito. Pagina 64
sanchez - La schiava di Granada.txt *** VECCHIE CONOSCENZE. «Non ci conosciamo?» «Non credo, signore.» «Come vi chiamate?» «Céspedes.» «Ho conosciuto una Elena de Céspedes, a Granada.» «Sarà stata mia sorella.» «Le assomigliate molto. Mi chiamo Alonso del Castillo e mio zio aveva insegnato a tessere a Elena, ad Alhama. Dov'è finita? Se n'è andata senza dirmi niente.» Stava per ribattere che era stato lui a rifiutarsi di vederla, quando lo aveva cercato per chiedergli aiuto, ma riuscì a frenarsi in tempo. «Quando mi sono arruolato, era ad Arcos de la Frontera.» Castillo si allontanò, lasciando Céspedes a rodersi dall'ansia per quello che l'altro poteva pensare e per il rischio che informasse qualcuno di averlo visto lì. Si augurò di non incontrare anche l'ultore Ortega Velazquez, perché sapeva che i due erano conoscenti, se non amici. Se avessero condiviso le informazioni che avevano su di lui, la cosa poteva finire davvero male. La sua preoccupazione aumentò quando, dopo che si fu sistemato nell'accampamento, Tizon lo andò a cercare. «Vieni a mangiare con noi», lo invitò indicando la tenda in cui stava entrando Alonso del Castillo insieme con un uomo che doveva avere più o meno la stessa età. Notando la sua esitazione, l'alfiere aggiunse: «Mi pare che tu abbia appena parlato con don Alonso, che conosce tua sorella. E vorrei presentarti il suo attendente, Luis Marmol Carvajal. E a capo dell'intendenza di questo esercito. Voglio che tu ti metta a sua disposizione per un incarico che ci hanno affidato e che deve rimanere tra persone di fiducia». Durante il pasto, Céspedes notò l'autorevolezza con cui si esprimeva Castillo. Conosceva di prima mano le notizie più segrete, poiché doveva tradurre in castigliano le lettere e i documenti intercettati ai moriscos. L'intendente Luis Marmol si occupava invece delle questioni più immediate o concrete. E fu proprio a lui che Tizon si rivolse quando ebbero finito di mangiare. «Pensate che i nemici siano preparati?» «Prima di dare inizio alla rivolta, hanno perlustrato queste montagne, cercando le scorciatoie più brevi, i luoghi migliori per le imboscate e le grotte nelle quali nascondere le provviste.» «E noi? Che ci dite del nostro esercito?» «Vi assicuro che i rifornimenti sono stati ben programmati. Abbiamo diviso le terre della Vega in sette circondari, a ciascuno dei quali compete un giorno della settimana, nel quale ognuno deve fornire diecimila pani di due libbre. E gia con questo non si patirà la fame. In più ho preso accordi con un centinaio di fornitori affinchè non manchino maiale, formaggio, pesce, vino, legumi e altre vettovaglie. Quanto alla polvere da sparo, verrà portata dall'arsenale e dalla Real Fabrica di Malaga.» «E allora, qual è il problema?» Luis Marmol ritenne che fosse giunto il momento di andare al punto. «Questo esercito è molto difficile da spostare. Bisogna lasciare al centro i tre squadroni di fanteria, affiancati su ogni lato dalla cavalleria e da uno schieramento di archibugieri, e procedere così lungo la valle, su per le colline e le zone più impervie. Senza contare le squadre di esploratori, nelle quali ci dovranno essere alcuni zappatori che liberino dagli ostacoli le strade sulle quali dovranno passare i carri con le vettovaglie.» «Ci vorranno un bel po' di giorni per entrare nelle Pagina 65
sanchez - La schiava di Granada.txt Alpujarras», concesse Tizon. «Per questo è fondamentale che ci precediate al ponte di Tablate, come vi ho già spiegato, per non rischiare che i moriscos lo prendano o lo facciano crollare. è un passaggio obbligato per raggiungere le montagne che si trovano nel territorio di Granada, quelle che si estendono da levante a ponente, tra la città e il mare. E' come se i monti fossero un castello e quel ponte il fossato. Se cade nelle mani del nemico, il nostro esercito dovrà fare un giro lunghissimo, attraversando zone pericolose, che ne ritarderanno l'arrivo. I mori otterrebbero un vantaggio che non ci sarebbe più possibile riconquistare.» «E questo lo sa anche il nemico», aggiunse Castillo. «Dai messaggi che abbiamo intercettato, sappiamo che lo difenderanno a qualunque costo. Sarà una battaglia decisiva per entrambi. Una nostra sconfitta infonderebbe fiducia al nemico, incoraggiandolo a proseguire la ribellione.» «Su che equipaggiamento potremo contare?» chiese l'alfiere. «Perdonatemi se vi rispondo con una domanda, ma quanti uomini intendete portare?» ribatté Carvajal. «Meno di mezza compagnia. Un centinaio tra i più esperti, e alcuni di quelli nuovi che hanno dimostrato di essere più adatti al combattimento.» «Sarebbero pronti a partire adesso?» «Non si sono ancora accampati. Sarà meno faticoso farli muovere ora.» «In tal caso, vi consiglierei di portarvi provviste per quattro giorni. Di meno sarebbe un azzardo; di più, un peso. Vi farò avere cibo leggero che non abbia bisogno di essere cotto: tonno essiccato, formaggio, uva passa, fichi o noci.» «Bene. Che cosa stiamo aspettando, allora? Mentre vado a scegliere gli uomini, il ragazzo vi aiuterà coi viveri», disse Tizon. E Céspedes obbedì, aiutato da alcune reclute. E, quando andò a dire all'alfiere che le sacche per il viaggio erano pronte, ebbe una grossa sorpresa. «Benissimo, ragazzo. Non metterti nei guai, mentre sarò via.» «Che cosa dite? Io vengo con voi.» «No. Stammi bene a sentire: questa è una missione pericolosa, e tu non te la cavi molto bene con le armi. Ho visto che sei migliorato con la picca, ma non basta. E devi ancora imparare a usare la spada.» «Ma io sono cresciuto su queste montagne!» «Sei troppo giovane e inesperto.» Quella notte, mentre si rigirava nella sacca, Céspedes continuava a rimuginare sullo strano comportamento che Tizon aveva con lui. Si chiese se Alonso del Castillo gli avesse raccontato qualcosa. Non riusciva a capire se l'atteggiamento dell'alfiere fosse cambiato all'improvviso o se invece la sua decisione fosse stata dettata dai dubbi che ancora provava per averlo reclutato. Ma, se voleva diventare un vero soldato, Céspedes doveva dimostrare di essere un uomo come tutti gli altri. *** TABLATE. Juan Tizon non potè nascondere il disappunto nel vedere Céspedes che aspettava in mezzo all'equipaggiamento. Il mattino era freddo, gonfio di nebbia. E, mentre la truppa si caricava le sacche in spalla, l'alfiere lo ammonì, severo, al limite di uno dei suoi temibili accessi di collera: «Tu rimani qui». Ma Céspedes non lo fece. Non appena l'ufficiale si mise in testa alla colonna, cominciò a seguirli, infilandosi in coda al plotone, con in spalla la sacca che aveva preparato per sé. Pagina 66
sanchez - La schiava di Granada.txt Quando l'alfiere si rese conto che si era unito a loro, avevano già percorso molte leghe. Ebbe una reazione così violenta che quasi lo scagliò giù da un burrone. Lo salvò un sergente, che lo afferrò per un pelo e gli indicò a gesti di levarsi dalla vista di Tizon finchè non gli fosse passata. Cadeva un leggero nevischio, che rendeva ancor più difficile la discesa lungo un pendio ripidissimo. In quel punto, il cammino si stringeva, per sboccare nella gola oscura attraversata dal solitario ponte di Tablate, una gola così profonda da incutere timore, in fondo alla quale scorreva un torrente ripido e impetuoso. Dovettero procedere per un bel pezzo lungo quel sentiero impervio, prima di scorgere i moriscos. Una squadra armata di picconi si stava accanendo sulla struttura in pietra del ponte e il picchetto non esitò a dare l'allarme non appena vide arrivare i cristiani. I soldati di Tizon erano scoperti, su un sentiero nel quale passavano a fatica l'uno dietro l'altro. Era impossibile tornare indietro e, quanto ad avanzare, non sarebbe stato facile: la struttura del ponte era già malridotta e non aveva i parapetti. Era in situazioni come quella che si vedeva la differenza tra un ufficiale vigliacco o qualcuno come Juan Tizón. I moriscos infatti erano convinti che i nemici non avrebbero osato attraversare il ponte. Invece, stupito almeno quanto il resto della truppa, Céspedes vide che l'alfiere caricava di polvere da sparo uno schioppo leggero. Con quello nella mano destra e una spada nella sinistra, scese fino al ponte e cominciò a percorrerlo, rimanendo completamente allo scoperto. Due soldati temerari gli andarono dietro: uno di loro fu raggiunto da un colpo di archibugio e non riuscì nemmeno ad arrivare al ponte. L'altro ce la fece, ma fu talmente sfortunato che, per schivare il dardo di una balestra, perse l'equilibrio e, dopo qualche giravolta nel vuoto, si sfracellò sulle pareti del precipizio. Tizon si ritrovò quindi, ancora una volta, solo. E forse fu grazie all'esperienza, forse alla sua buona sorte o forse al fatto che i nemici erano stati distratti dai due soldati, ma riuscì ad arrivare dalla parte opposta. Tuttavia, quando ormai aveva raggiunto il lato della montagna controllato dai moriscos, cadde in avanti: gli avevano lanciato addosso una scarica di fionde e una pietra lo aveva colpito, lasciandogli una grossa ammaccatura sull'elmo. Uno dei nemici indicò il suo corpo steso a terra, preparandosi a finirlo. Nelle file cristiane, uno dei sergenti cominciò ad abbaiare ordini agli archibugieri, cercando di coprire l'alfiere, ma, vedendo che stava per essere ucciso, Céspedes accorse in sua difesa, in un gesto disperato. Approfittando di una pausa nelle salve del fuoco nemico, si caricò sulle spalle uno scudo leggero e, dopo aver impugnato la bandiera nella sinistra e la spada nella destra, cominciò ad attraversare il ponte senza la minima esitazione. Il burrone era così profondo che, guardando in basso, gli venivano le vertigini. Con uno sforzo indicibile, ed esponendosi a un rischio enorme, raggiunse il lato nemico, così in fretta che i nemici non riuscirono a colpirlo. Quando si avvicinò all'alfiere, il morisco era ormai su di lui. E lo avrebbe ucciso, se a Céspedes non fosse caduto lo sguardo sullo schioppo leggero di Tizon, già carico e pronto a sparare. Lo raccolse e aspettò che il nemico si avvicinasse. Quando lo ebbe a tiro, sparò, abbattendolo al primo colpo. Prima che i moriscos avessero modo di reagire, Céspedes riuscì a trascinare l'alfiere dietro una roccia, dove entrambi rimasero al riparo. I cristiani cominciarono a esultare, lodando l'audacia di quella recluta. Cinque di loro attraversarono il ponte e si misero al riparo, non lontano da Céspedes e dall'alfiere. Pagina 67
sanchez - La schiava di Granada.txt Poi si unì un'altra dozzina. E dopo il grosso dell'avamposto. Diedero così inizio a un'aspra battaglia tra gli archibugieri. Il fumo degli spari era così fitto che riuscivano a malapena a vedere il nemico. Le perdite da entrambe le parti furono numerose anche se, a onor del vero, le armi dei moriscos erano di gran lunga inferiori a quelle dei cristiani. Erano comunque abilissimi con le fionde: i lanci schioccavano come colpi di frusta e le pietre arrivavano a una velocità tale che una di esse perforò lo scudo di Céspedes, lasciandovi un buco grosso quanto un pugno. L'alfiere intanto aveva recuperato la lucidità necessaria per riprendere il comando della truppa. Capì che i moriscos non avrebbero vinto la battaglia, trincerati là dove stavano: se volevano difendere il passo, sarebbero stati obbligati a uscire allo scoperto e a misurarsi con loro. E intanto pioveva una pioggia fitta di pietre, giavellotti e proiettili. Numerosi furono i colpi sparati dagli archibugi, le coltellate e i colpi di lancia, ma lo scontro rimase a lungo alla pari. finchè, poco alla volta, i cristiani non cominciarono ad avere la meglio, anche grazie ai rinforzi che nel frattempo erano arrivati. Tra tutti quei colpi, a un certo punto, Céspedes sentì un dolore alla gamba, che subito iniziò a sanguinare. Quando abbassò lo sguardo, vide che lo aveva colpito la freccia di una balestra. Cercò di strapparsela, ma Tizon lo fermò, dopo aver controllato la ferita. «Non lo fare, ragazzo. A volte queste frecce vengono trattate con l'aconito, l'erba strozzalupi. Se si mescola al sangue e arriva al cuore, non ci sono cure. Bisogna fermarlo prima che si diffonda. Levati i calzoni e lascia fare a me.» Céspedes non sapeva se fosse peggio la battaglia intorno a loro, il veleno o il rischio che Tizon vedesse il suo sesso. Riuscì a stento a coprirsi con una mano prima che Tizon gli legasse stretta la gamba per impedire al veleno di diffondersi. Quindi gli succhiò la ferita per estrarlo, una pratica cui pochi si azzardavano, poiché sarebbe bastato un minuscolo taglio nella bocca per far penetrare il veleno nel corpo. Poi, non avendo del succo di cotogna, il miglior antidoto, gli applicò un impiastro di ginestra, che aveva un effetto simile. I cristiani intanto stavano respingendo il nemico, costringendolo ad arretrare. Ottenuto il controllo del ponte, gli ingegneri si misero a ripararlo, per consentire il passaggio all'esercito del marchese de Mondejar, i cui avamposti si erano accampati poco lontano, pronti a difendere il passaggio. Quando Céspedes si svegliò, il mattino seguente, vide Tizon accanto a se. E, non appena il medico ebbe confermato che era fuori pericolo, l'alfiere gli disse: «Li vedi questi resti di polvere da sparo che ho sull'occhio destro? Non mi permettono di prendere bene la mira, per questo ho evitato di usare l'archibugio. Ma a volte mi porto dietro uno schioppo che ho preso a un turco, in Italia. E' degno di un re. Tira colpi di un'oncia e un quarto, è precisissimo, eppure estremamente leggero, per quello che riesce a fare. Lo avrai visto tu stesso quando mi hai salvato la vita. E' tuo, adesso». Mentre Céspedes recuperava le forze, Tizon gli insegnò a sparare e a gestire il contraccolpo, a caricarlo in fretta, schiacciando la polvere con la bacchetta. Poi gli consegnò la sua bandoliera, dalla quale pendevano i «dodici apostoli», la dozzina di cartucce con la giusta quantità di polvere per uno sparo. Infine la sacca con le micce, l'acciarino per dare fuoco, il piombo e lo stampo per fare i proiettili del calibro adatto alla canna. «Hai il polso fermo, ragazzo, sei deciso e hai una mira precisa come pochi. Credo che tu abbia trovato l'arma che fa per te.» E, con quel riconoscimento, Céspedes seppe di essersi Pagina 68
sanchez - La schiava di Granada.txt guadagnato il rispetto dei compagni che prima diffidavano di lui. *** PACE IN GUERRA. La conquista delle Alpujarras e la sconfitta dei ribelli sembravano ormai a portata di mano. Il viceré Mondejar, partito da Granada, divideva il comando col marchese de los Velez, che si era unito alla compagnia a Murcia. Tra i due generali, però, non correva buon sangue e ben presto la loro ostilità era diventata di dominio pubblico. Invece di fare onore al ruolo che ricoprivano distinguendosi per coraggio, saggezza e sangue freddo, quei due si accapigliavano per gli ambiti di competenza e i privilegi gerarchici, arrivando spesso alle offese personali. Così, se da un lato si rimediava a un oltraggio, dall'altro ne arrivavano di nuovi. Era come una miccia accesa da due lati, impossibile da spegnere. Intanto la compagnia di Ponce de Leon, nella quale militava Céspedes, si addentrò in quelle terre brulle, accampandosi dove poteva. Un giorno si fermarono accanto a un torrente dalle acque limpide, in attesa di ricevere le vettovaglie, che cominciavano a scarseggiare. Tizon propose quindi al ragazzo di accompagnarlo a pescare in una zona sicura a monte del corso d'acqua. Camminavano tra i pioppi e gli olmi che la primavera aveva coperto di gemme, quando sentirono il nitrito di un cavallo che proveniva da un prato lì vicino. Non appena si girarono, videro uno stallone di ottima razza passare loro accanto. Cercarono allora il cavaliere e lo scorsero sotto un castagno così grande che sarebbe bastato a dare riparo a mezza compagnia. L'uomo era immerso in una tale pace che poteva essere facilmente scambiato per una statua o un corpo lasciato a seccare contro il tronco. Non si mosse neppure quando una gazza, spaventata dalla loro presenza, volò via gracchiando proprio sopra di lui. Quando si avvicinarono, Céspedes e Tizon rimasero colpiti dai tratti di quel viso, insoliti per un cristiano: la pelle scura, dai toni ramati; le labbra carnose; il naso dritto e importante. Poteva avere una trentina d'anni. E ancora non si era mosso. Si avvicinarono piano, in perfetto silenzio. A un certo punto, Tizon cominciò a preparare lo schioppo, cercando di non far rumore. «Non credevo che ci fossero moriscos, da queste parti. Men che meno con uno stallone del genere. L'avrà sicuramente rubato a uno dei nostri», sussurrò. Céspedes si accorse che l'uomo era assorto nella lettura, per questo era rimasto immobile. E si chiese quale libro potesse essere, per fargli dimenticare completamente i rischi che correva. Continuò anche a chiedersi, a disagio, dove avesse già visto gente dai tratti simili, con la pelle scura benché non fosse morisca. Trovò la risposta nei ricordi di SanlÚcar de Barrameda, della casa di Ana de Albanchez e del palazzo dei duchi di Medina Sidonia, dove aveva visto alcuni indios portati dall'America. «Abbassate quello schioppo, non è un nostro nemico», disse allora all'alfiere. «Che cos'è, allora?» «Venite, lo chiederemo a lui.» L'uomo non s'accorse della loro presenza finchè non gli furono accanto. A quel punto interruppe la lettura. «Sono il capitano Garcilaso de la Vega», si presentò in perfetto castigliano. Quando sentì il nome di quell'illustre casato, Tizon lo fissò. Stava persino per intimargli che non era il momento di Pagina 69
sanchez - La schiava di Granada.txt scherzare, quando l'uomo, sicuramente abituato a una reazione del genere, se non peggiore, aggiunse: «Mio padre era il correggitore del Perù e mia madre una principessa inca». «Dovete ringraziare questo ragazzo, Céspedes, perché vi avevo preso per un morisco e stavo per spararvi», si scusò Tizon. «In Perù non avrei mai corso un rischio del genere: ci distinguono benissimo.» «Ci sono moriscos in America? Ma a loro non è proibito andarci?» «Molti infrangono la legge e partono lo stesso, in cerca di libertà o di fortuna. E il segno della loro presenza è tale che a Lima si parla di portici, stucchi, piatti, danze, abiti e altre cose tipiche di quella gente.» «E come mai siete finito quaggiù?» insistè Tizon, ancora sospettoso. «E' una storia lunga.» «Vi ascoltiamo.» Garcilaso non sembrò gradire la lieve pressione avvertita nell'invito dell'alfiere. E l'avrebbe sicuramente ignorato, non fosse stato per la cortesia e il genuino interesse che gli sembrava di cogliere in Céspedes. Così raccontò di essere nato a Cuzco, l'antica capitale dell'impero inca, dove suo padre era correggitore. Dopo la sua morte, a causa delle umiliazioni che la madre era costretta a subire, aveva deciso di venire in Spagna. Lo aveva fatto per riscattare i possedimenti materni e i compensi dovuti al padre per i servigi prestati alla Corona. Ma non aveva ottenuto nulla e così si era dovuto arruolare nell'esercito, combattendo prima in Navarra e poi in Italia, dove aveva ottenuto il grado di capitano. «E ancora non sono state soddisfatte le vostre richieste?» «Per quanto riguarda il riconoscimento dei servigi prestati da mio padre, posso solo dirvi che gli spagnoli sono svelti e valorosi in battaglia, ma negligenti a mettere nero su bianco le loro imprese. Quanto ai beni di mia madre, dal momento che gli inca non conoscevano la scrittura, non sono mai stati registrati. Per questo mi sto dedicando alle lettere e imbratto pagine intere con le cronache dei re che hanno governato il Perù prima che i conquistadores strappassero loro le terre.» A Tizon non piacquero quelle parole. Cadde un silenzio imbarazzante. «Il vostro Paese è davvero ricco come si sente raccontare?» chiese dopo un po' l'alfiere. «Una volta, quand'ero piccolo, a Cuzco, ho sentito mio padre parlare con un veterano spagnolo che aveva partecipato alla conquista del Perù e che era ancora impressionato: lui e i suoi compagni venivano da villaggi fatti di adobe e non avrebbero mai immaginato che, girato l'angolo, si sarebbero trovati davanti quei muri costruiti alla perfezione, alcuni persino ricoperti di lamina d'oro. Era davvero un altro mondo.» Indicò il libro che stava leggendo. «Anche se, in verità, proprio come si dice qui, benché si parli di Vecchio e di Nuovo Mondo, in realtà sono uno solo. Ed è la stessa cosa per quelli che ci vivono.» «Che cos'è, quel libro in cui siete tanto assorto?» gli chiese Céspedes. «Sono i Dialoghi d'amore, scritti in lingua toscana. Prima o poi spero di avere il tempo e la forza per tradurli nella nostra.» «In lingua toscana? Non vi e idioma più dolce per conquistare una donna. Chi e l'autore?» domandò Tizon. «Leon Hebreo.» «Un giudeo, dunque.» «Sì. Suo padre era intendente dell'esercito castigliano durante la guerra di Granada. Cosa che si è rivelata del tutto ininfluente nel 1492, quando sono stati espulsi. Alla fine si sono fermati in Italia, dove Leon ha scritto questo libro.» Pagina 70
sanchez - La schiava di Granada.txt «Hanno avuto ciò che si meritavano. Bisognerebbe fare altrettanto con questi maledetti moriscos.» Di nuovo cadde quel silenzio imbarazzato poiché, anche se era d'indole riservata, il capitano Garcilaso aveva lasciato intendere di essere di tutt'altro parere. Tizon raccolse le proprie lenze e si accomiatò. «Noi andiamo a pescare. Che Dio sia con voi.» Céspedes sarebbe rimasto molto più volentieri col meticcio, ma non voleva offendere il suo superiore e mentore. Per cui lo seguì, e ripresero il cammino a monte del fiume. Dopo un paio di giorni, arrivarono i rifornimenti, con l'ordine di portare una parte delle provviste fuori della valle. Lungo il tragitto, si unì a loro la pattuglia cui era a capo Garcilaso, e così Céspedes ebbe modo di conoscere meglio il capitano, anche perché Tizon era impegnato in altri incarichi. I due si sentirono subito legati da un'insolita affinità. Céspedes aveva intuito che la ferita di Garcilaso era ancora aperta e i suoi sospetti vennero confermati quando seppe quali fossero state le condizioni imposte a suo padre per ottenere l'incarico di correggitore di Cuzco: aveva dovuto dare l'esempio e rispettare le direttive imposte dalla Corona, abbandonando la principessa inca con la quale viveva e sposando una spagnola che trattava sua madre come una serva, benché appartenesse alla casa reale inca. Quell'offesa aveva avuto un peso notevole nella decisione di Garcilaso di andare in Spagna. Tuttavia nella Penisola le cose non gli erano andate meglio: a causa del suo sangue misto, i parenti del padre non volevano avere niente a che fare con lui. E così si era dovuto guadagnarla da vivere allevando cavalli, finché non si era arruolato nell'esercito. Mentre parlava, Garcilaso capì che quei sentimenti non erano estranei a Céspedes. «E di voi che mi dite?» gli chiese infine. Il mulatto ripagò la fiducia che l'altro gli aveva dimostrato raccontandogli in breve chi fosse. Le loro vite avevano molte cose in comune. Quando giunse il momento di separarsi, Céspedes volle soddisfare la propria curiosità e percioi gli chiese: «Quel libro che state leggendo, i Dialoghi d'amore... avete detto che si sostiene che non vi sia un Vecchio o un Nuovo Mondo, ma uno solo, e che è la stessa cosa per chi ci vive». «E' proprio così. Guardate me, che non appartengo né all'uno né all'altro, ma sto a cavallo di entrambi. O voi, che nel sangue e nella pelle unite due continenti, l'Africa e l'Europa. Ebbene, in quel libro vengono difese le creature ibride o i meticci. E' quella la direzione nella quale va il mondo. Sono una dimostrazione dell'amore o dell'affinità che lo muove.» «Ma troppo spesso siamo frutto della guerra e della violenza. Com'è successo a mia madre e alla vostra.» «Una cosa non esclude l'altra.» «Non capisco.» Garcilaso allora aprì il libro a una delle pagine che aveva contrassegnato e tradusse un brano che si dilungava sull'amore, quella forza dalla quale tutto nasceva, che associava gli opposti, tenendo in vita l'universo. L'amore degli uomini non era che una manifestazione particolare di quell'impeto, e l'innamorato si riconosceva da sintomi più che evidenti: «Il vero amore [...] fa l'uomo alieno da se medesimo e proprio de la persona amata; il fa inimico di piacere e di compagnia, amico di solitudine, malinconioso, pieno di passioni, circondato di pene, tormentato da l'afflizione, martorizzato dal desiderio, nutrito di speranza, stimulato da disperazione, ansiato da pensamenti, angosciato da crudeltà, afflitto da supposizioni saettato da gelosia, tribulato senza requie, fadigato senza riposo, sempre accompagnato da dolori, pieno di sospiri; respetti e dispetti mai gli mancano».* Céspedes fu commosso da quelle parole, che avrebbe compreso appieno solo dopo aver conosciuto la sua futura moglie, Maria del Caño. Vedendo la sua reazione, l'inca si dispose a leggergli Pagina 71
sanchez - La schiava di Granada.txt un'altra pagina, nella quale si difendeva la copula e la natura ibrida. Gli narrò così la storia dell'ermafrodita, l'essere umano originario, che riuniva il sesso maschile e quello femminile. L'androgino si sentiva talmente completo che aveva osato dimenticarsi degli dèi. Per questo, Giove lo aveva colpito con un fulmine, dividendolo in uomo e donna, che da allora continuano a cercare senza tregua l'altra metà. «"Creò Dio Adam (cioè l'uomò in sua forma; in forma di Dio creo esso, maschio e femmina". [...] * Il primo uomo, e ogni altro uomo di quanti ne vedi, è fatto, come dice la Scrittura, a immagine e similitudine di Dio, maschio e femmina.» * Leon Hebreo, Dialoghi d'amore. (N.d.T.) Era la prima volta che Céspedes sentiva quei termini, «ermafrodita» e «androgino», che si sarebbero rivelati decisivi nella sua vita. In seguito si sarebbe ricordato di quel momento, mentre ascoltava quell'uomo, nato dall'unione di due semi tanto distanti quanto la stirpe castigliana dei Garcilaso e una principessa del Perù. Fu l'ultimo, eccezionale momento di pace di quella guerra. La calma prima della tempesta che si avvicinava. Céspedes non avrebbe più avuto tempo da dedicare alle speculazioni, e men che meno al sesso. I rischi che correva per nascondersi ai compagni d'arme lo allontanavano da qualunque possibilità di godere dei propri attributi, rinuncia alla quale contribuirono i tanti stupri ai quali dovette assistere. Non cedette nemmeno alla tentazione di alcune moriscas ridotte alla fame, che gli offrivano il proprio corpo in cambio di un po' di cibo. All'epoca aveva ancora l'umanità necessaria per dividere il pane senza ricevere qualcosa in cambio. Gli rimaneva il sollievo che si concedeva, da solo, in qualche angolo appartato, quando l'ardore aveva la meglio su di lui, in sfoghi che gli procuravano più disperazione che piacere. *** A FERRO E FUOCO. Nel giro di qualche mese la ribellione si estese ovunque e in molti furono costretti ad assistere agli abusi perpetrati dalle avide milizie del Consiglio, gente poco portata a maneggiare le armi, che si dedicava più volentieri al saccheggio che a combattere e, una volta ottenuto il bottino, disertava, tornando ai propri luoghi d'origine. A nulla valevano gli sforzi del marchese de Mondejar per fermarli: si recava nei villaggi dei moriscos, dove prometteva rispetto in cambio della loro lealtà, ma poco dopo arrivavano le orde. Per questo molti mori convertiti si davano alla macchia, per salvarsi la vita e difendere le loro famiglie. E così, grazie a quegli infami che soffiavano sul fuoco anzichè spegnerlo, una misera guerriglia si era trasformata in una guerra colossale. La linea del fronte si fece più incerta. La guerra non era più combattuta solo dalle compagnie regolari come quella di Tizon, ma ormai c'erano anche numerose truppe più instabili, che si scioglievano e ricomponevano strada facendo, a seconda degli avvenimenti. Céspedes si rese conto di quanto fosse grave la situazione quando ricevettero l'ordine di unirsi a una di quelle milizie cittàdine formate da uomini che svolgevano i mestieri più disparati, e che per l'occasione si erano improvvisati soldati. In principio erano stati affidati a un tenente, a un sergente e ad alcuni caporali, che avevano il compito di addestrarli e di tenerli a freno. In seguito il loro ufficiale in comando era morto, per questo Tizon aveva accolto quegli uomini nella sua compagnia e si era messo immediatamente in cammino verso un villaggio di moriscos pacificati, per garantirsi la loro fedeltà. L'alfiere aveva ordine di non mettere a rischio la vita di Pagina 72
sanchez - La schiava di Granada.txt quegli uomini. Sotto il peso di una simile responsabilità, si dovette comportare in modo diverso rispetto a come avrebbe fatto coi suoi soldati, per poter condurre quella gente che non conosceva, meno esperta e abituata ad altre consuetudini. In particolare a quelle del loro sergente, un certo Buitrago. I due gruppi ebbero a malapena il tempo di conoscersi, poiché giunsero presto in vista del villaggio che dovevano controllare. Erano stati avvisati di non fidarsi degli abitanti: si sospettava che, tra i moriscos leali, si nascondessero pure alcuni ribelli. Secondo il sergente Buitrago, avrebbero dovuto seguire la linea dura, ma Tizon era di diverso avviso: sapeva bene a quali conseguenze nefaste portasse la violenza ingiustificata. Quindi, dato che non si fidava di quelle nuove milizie, decise che sarebbero stati i suoi veterani ad accerchiare il paese, come precauzione, prima di perquisire le case. Il podestà però non apprezzò affatto quella premura. Andò loro incontro, mostrando la salvaguardia firmata dal marchese de Mondejar. «In questo paese siamo rimasti al servizio di Dio e di Sua Maestà. Nessuno ha torto un capello ai cristiani che vivevano tra noi e non abbiamo permesso che si toccasse la chiesa.» Di fronte a quei contadini macilenti, massacrati dal lavoro e dai saccheggi di entrambe le parti in guerra, Tizon ebbe la delicatezza di scendere da cavallo. «Se vi sentivate minacciati, perché non vi siete rivolti prima a noi?» «perché abbiamo paura dei monfi. Chiediamo la vostra protezione adesso, per non subire altri abusi.» «Nessuno farà niente del genere.» «Signore, col dovuto rispetto, siamo appena stati derubati da alcuni soldati cristiani di passaggio.» Il sergente Buitrago, che era rimasto a sbuffare dietro l'alfiere, non riuscì a trattenersi. «Attento a quello che dite, questa è un'accusa gravissima.» «Da parte nostra non ci sarà nessuna violenza, se non ce ne darete motivo», disse Tizon, cercando di buttare acqua sul fuoco. «Ma dobbiamo perquisire le case, per verificare che nessuno stia nascondendo dei monfi.» «Badate, signore, che molti saccheggi sono iniziati proprio in questo stesso modo.» «Come osate?» ruggì Buitrago. Tizon riuscì ancora una volta a frenarlo. «Basta, adesso. Andate a ispezionare le case coi vostri uomini.» Temendo un'intemperanza del sergente, ordinò poi a Céspedes di accompagnarlo insieme con altri archibugieri di fiducia. «Ragazzo, non dimenticare che sarete agli ordini di Buitrago.» Al seguito della pattuglia, Céspedes vide così che i timori degli abitanti erano più che fondati. Non appena mettevano piede nelle case, infatti, quelle milizie cittàdine cercavano qualunque cosa di valore potessero portare via. Cominciò a calare la sera e gli animi a infiammarsi. I paesani si mordevano la lingua, indignati per le rapine che li privavano di quel poco che era stato lasciato da chi era passato prima. Anche Céspedes si era imposto di tacere. Ma a un certo punto non riuscì a sopportare oltre e, ormai al limitare del villaggio, impedì agli altri di fare razzie in una casa che era già stata spogliata di tutto. Insistette tanto che alla fine gli uomini di Buitrago si allontanarono. Sfortuna volle che proprio lì si fossero nascoste alcune spie moriscas, che fuggirono lungo una rete di gallerie sotterranee. Quando li videro correre sulle colline, era ormai troppo tardi. Non appena lo venne a sapere, il sergente Buitrago esplose, e sarebbe finita male se non fosse intervenuto Tizon. Tuttavia l'alfiere non poteva continuare a coprire Céspedes. Per colpa sua, adesso erano in pericolo: quei moriscos Pagina 73
sanchez - La schiava di Granada.txt avrebbero avvisato gli altri, su questo Buitrago aveva ragione. A quel punto fu impossibile frenare i suoi uomini, e accadde il peggio. Era ormai notte quando uno dei soldati più avidi decise di aggiungere al proprio bottino una morisca bellissima, che cercava di respingerlo mentre lui la strattonava per un braccio. All'improvviso, la ragazza che l'accompagnava reagì: era evidentemente il suo promesso, che si era travestito da donna. Impugnò la daga che portava nascosta tra le vesti e si lanciò addosso al soldato con tanta furia che l'altro finì a terra, gravemente ferito. I cristiani insorsero, gridando che non solo i moriscos nascondevano spie nelle loro case, ma che ce n'erano persino tra le donne. Fu allora che ebbe inizio il massacro. La truppa si lanciò all'assalto, senza nessun rispetto per l'età o la condizione di chi si trovava davanti. In pochissimo tempo ne uccisero più di cento, e Tizon non potè fare niente per impedirlo. Qualche giorno dopo giunse l'ordine di spostarsi in un'altra valle, lasciando lì gli archibugieri, tra i quali c'era anche Céspedes: un capitano diretto in paese li avrebbe integrati alle proprie truppe. L'alfiere se ne andò dopo un tiepido saluto, amareggiato per non aver saputo far rispettare la sua autorità. E a Céspedes rimase il rimorso per la fuga delle spie. Ma ormai il danno era fatto: quegli uomini avevano dato l'allarme ai loro fratelli di fede e, non appena si erano organizzati, avevano dato inizio alle rappresaglie. Nessuna di esse, però, avrebbe superato quella subita dal villaggio cristiano in cui si era fermato Céspedes. In paese c'erano due posti in cui trovare rifugio: una torre, nella quale si era radunata la maggior parte degli abitanti, e la chiesa principale, un edificio imponente che fungeva da fortino, nel quale si erano trincerati il parroco e pochi altri, armati di archibugi e balestre. I monfi nascosti sulle montagne cercarono di prendere la fortezza, assaltandola con le scale. Quando i loro tentativi si rivelarono inutili, decisero di scavare una galleria a partire dalle case vicine, fino ad arrivare ai piedi della torre. Una volta lì, fecero una grande catasta di legna secca, che impregnarono di olio prima di appiccarvi il fuoco. Quando gli uomini asserragliati all'interno della torre si accorsero del fumo e delle fiamme, cominciarono a gettarsi di sotto. Alcuni si ritrovarono con le gambe rotte, altri, che avevano battuto la testa, rimasero uccisi sul colpo o persero i sensi, e in quel caso ci pensavano i nemici a finirli. Gli altri si arresero, per non morire bruciati li dentro. I cristiani vennero fatti uscire e condotti al punto in cui sarebbero stati uccisi. Spogliarono il podestà e il suo segretario, lasciandoli nudi come vermi, strapparono loro la barba e gli ruppero i denti a forza di pugni. Con un paio di tenaglie incandescenti, gli strapparono i capezzoli e i muscoli delle braccia, che sfrigolarono come strutto in padella. Quando i due malcapitati si raccomandarono a Cristo o alla Vergine, quei miscredenti squartarono loro la schiena per strappargli il cuore. Di fronte a tutti gli altri abitanti, il morisco che comandava i monfí addentò quello del podestà, che ancora grondava sangue, e lo mangiò. Solo la chiesa resisteva ancora. I cristiani erano saliti sulla torre campanaria, da dove, riparati dietro un muro di materassi, si preparavano a sparare agli aggressori. I monfí però scoprirono una porta murata alla base della torre. La abbatterono e fecero irruzione in sagrestìa armati di picconi, mentre altri s'introdussero in chiesa e cominciarono a distruggere gli oggetti sacri. Sopraffatti dall'ira, fecero a pezzi le croci e le pale d'altare, demolirono la fonte battesimale, gettarono a terra gli oli sacri e presero a pallettoni il sacrario. In segno di spregio per la fede cristiana, portarono via le casule, i camici liturgici e gli altri paramenti, per farne calzoni. Pagina 74
sanchez - La schiava di Granada.txt Uno dei luogotenenti moriscos raggiunse i cristiani che si erano nascosti nella torre campanaria. Sputò in faccia al parroco e al sagrestano e poi li passò ai suoi uomini. «Vi consegno questo cane bastardo del parroco perché, dall'alto dell'altare, vi costringeva a digiunare fino a mezzogiorno, mentre lui si mangiava la sua ostia di pane e si ubriacava col vino. E anche il sagrestano, che prendeva nota delle volte in cui non andavate a messa la domenica.» Quindi spogliarono il sacerdote e lo misero di fianco all'altare, sulla sedia dalla quale soleva tenere i suoi sermoni. Il monfí che aveva guidato la rappresaglia si fece avanti, sfoderò la daga e gli tagliò il volto, dalla fronte al mento. «Questo è per il segno...» cominciò a dire; poi fece un altro squarcio orizzontale, da una guancia all'altra, e concluse: «... della croce». E continuò, coprendolo di croci su tutto il corpo, con una crudeltà indicibile. Poi lo consegnò a due boia che, armati di coltello, gli fecero a pezzi le articolazioni, l'una dopo l'altra, a partire dalle dita dei piedi e delle mani. Il prete tentò d'invocare Gesù, e gli tagliarono la lingua. Prima che morisse, lo squartarono e gettarono le sue viscere in pasto ai cani. A quanto si venne a sapere in seguito, non si trattò di un caso isolato, poiché fatti analoghi si ripeterono numerosi, causando una profonda indignazione tra le truppe cristiane. I soldati si sollevarono, chiedendo a gran voce di sferrare ai moriscos un attacco dal quale non potessero mai più riprendersi. Si scelse a tale proposito il loro baluardo, la ridotta della Galera, ritenuta inespugnabile. Stanco delle lotte intestine che dividevano i suoi eserciti, il re, Filippo II, ne aveva affidato il comando al fratellastro, don Giovanni d'Austria, il quale decise d'impiegare in quell'impresa le nuove risorse giunte dall'Italia. Le voci dell'imminente attacco si diffusero in tutto il regno di Granada. Le città mandarono nuove truppe, a piedi e a cavallo, e si radunarono più di centoventi vessilli, coi rispettivi capitani in testa. La Galera doveva essere sconfitta. A prescindere dal costo in vite umane, dell'uno o dell'altro bando. Se fosse stata presa, le ambizioni dei ribelli sarebbero state stroncate, dando ai cristiani un vantaggio definitivo in una guerra che stava diventando interminabile. *** LA GALERA. Ancora adesso, nella penombra della cella, Céspedes rabbrividiva a quei ricordi. Com'era potuto accadere? Che cosa gli era successo, lì? Non a caso si diceva che, quando un uomo mite ed equilibrato perdeva ogni inibizione, la sua furia diventava indomabile. Soffriva ancora nel rivedersi in quel frangente. Quel paese lo aveva sconvolto dal primo istante in cui l'aveva scorto, arroccato lassù come una nave su un mare di roccia, la prua a tramontana e la poppa a mezzogiorno. Fortificato da un gran numero di torri, tra i picchi che punteggiavano la zona più impervia della sierra, si stagliava contro un cielo invernale, scuro come una lastra d'ardesia. Forse perché La Galera gli aveva riportato alla memoria Alhama, arroccata sul doloroso squarcio dei suoi ricordi. Mentre montavano, nel campo, l'inquietudine era palpabile ovunque. L'aria sembrava rarefatta, carica di diffidenza. Di sguardi torvi tra i cigolii delle macchine da guerra, tra i colpi delle picche messe in resta, delle armi che sbattevano l'una sull'altra. La causa, ancora una volta, era l'estrema eterogeneità delle truppe lì radunate, in procinto di combattere contro i ribelli. Quelle del marchese de los Veílez assediavano il nemico da tempo, senza risultato. E il nobiluomo non aveva gradito che il fratellastro del re fosse andato a rilevarlo, al punto che si preparava ad andarsene, sostenendo di Pagina 75
sanchez - La schiava di Granada.txt non avere più l'età per comandare un esercito. Edificata con lastre di granito, la ridotta della Galera non era considerata inespugnabile senza motivo. Lassù, cento moriscos valevano quanto mille soldati in basso, completamente allo scoperto nel letto di quei canali in secca. Inoltre il nemico aveva scorte di cibo per diversi mesi, e nelle cantine del fortino c'era un pozzo alimentato da una fonte impossibile da deviare. Conoscendo la situazione, don Giovanni d'Austria aveva chiesto al suo tutore, don Luis de Requesens, di portargli dall'Italia gli espertissimi tercios, * insieme con la sua migliore artiglieria. * Battaglione di fanteria dell'esercito spagnolo formato da circa tremila uomini tra picchieri e moschettieri. Era composto da soldati di professione, disciplinati e molto combattivi, che seminavano il terrore tra i nemici. (N.d.T.). Il marchese de los Velez aveva già attaccato la ridotta con alcune bombarde, ma don Giovanni le riteneva mezzi antiquati, oltre che insufficienti, e poco efficaci contro il granito, essendo caricate a pietra. Non si trovò d'accordo nemmeno con le postazioni, che giudicò troppo lontane. Ordinò di esplorare minuziosamente la zona, per installare i cannoni nei punti dove avrebbero arrecato più danno al nemico: non a valle, quanto piuttosto a monte, perciò fece trasportare i pezzi d'artiglieria a forza di braccia. Una volta montati i cilindri sulle basi dei cannoni, venne distribuita la polvere da sparo. E cominciarono a sparare. Non diedero tregua ai moriscos per giorni interi. Nel forte cominciarono ad aprirsi alcune brecce, finchè i cristiani non ritennero che fosse arrivato il momento di cessare il fuoco e di provare a entrare. Nelle settimane successive si susseguirono numerosi e arditi tentativi di assalto, nessuno però migliorò la posizione dei cristiani. Si optò quindi per un attacco massiccio e ben pianificato. Venne armata una squadra di archibugieri, tra quelli chiamati «straccioni» o «scuri», ammirati più per il coraggio che per i vestiti che indossavano. Le loro uniche insegne erano le armi e la polvere da sparo. Conoscendo la sua buona mira, proposero a Céspedes di unirsi a loro. Riunitisi in una sorta di consiglio, cominciarono a discutere su chi potesse prendere il comando del gruppo. «Da come la vedo io, ci vuole un veterano, un ufficiale temerario, di grande esperienza...» disse uno di loro. Rifletté in silenzio su chi possedesse tutte quelle qualità, finché non aggiunse: «Qualcuno come l'alfiere Juan Tizon». «Tizon è qui?» chiese Céspedes, sorpreso. «E' appena arrivato.» I soldati decisero di andarlo a chiamare, e lui si presentò volentieri. Non disse nulla quando vide Céspedes, ma si guardarono a lungo. L'alfiere accettò il comando della squadra e li avvisò di farsi trovare pronti il mattino successivo. Nel frattempo lui avrebbe studiato il punto migliore per sferrare l'attacco. Quella sera, mentre Céspedes era con alcuni compagni d'arme, Tizon andò a cercarlo e lo prese in disparte. Dato che non si vedevano da mesi, Céspedes temeva che tra loro vi fosse ormai un muro impenetrabile. L'ufficiale sembrava esitare. Non riusciva a trovare le parole. Infine si limitò a dire: «Quando alzerò la bandiera per segnalare il posto e il momento dell'attacco, avrò bisogno che qualcuno mi copra le spalle. Ti andrebbe di farlo?» Céspedes assentì, commosso. Stava per aggiungere Pagina 76
sanchez - La schiava di Granada.txt qualcosa, ma l'alfiere prese commiato con un breve: «A domani, allora». Giunto il momento dell'assalto, s'infilarono in una trincea imbottita di sparto e di sacchi di lana, che faceva loro da scudo. Da lì arrivarono ai piedi della montagna, al riparo dagli spari nemici. Tizon ordinò loro di uscire dalla fossa. Cominciarono a risalire lungo i canali di scolmatura di una gola. «Salite lentamente! Dovete risparmiare le forze, non potete arrivare in cima senza nemmeno il fiato per combattere», li ammoniva l'alfiere, vedendo la loro fretta. Di tanto in tanto li obbligava a fermarsi a riposare, e si guardava attorno cercando il cammino più riparato. Quando arrivarono a metà strada, l'alfiere si fermò a esaminare il terreno. «Non mi piace, qui c'è qualcosa che non va», confessò a Céspedes, che gli stava accanto per coprirlo. «Che cosa succede?» «La montagna è stata bruciata. Se andiamo avanti, rimarremo esposti.» In quel momento si sentì un fragore assordante che proveniva dall'alto. Un frastuono che non riuscivano a identificare. «Ai lati! Buttatevi ai lati!» gridò Tizon, quindi afferrò Céspedes e lo trascinò al riparo di una roccia enorme. Da lì videro cosa accadde ad alcuni soldati che stavano cercando di unirsi a loro: vennero travolti da una sorta di valanga, che scendeva a valle lasciando dietro di se una scia di urla disperate. Ci misero un po' a capire di cosa si trattava: i mori avevano collegato con una trave alcune ruote di mulino, e lungo la discesa quei marchingegni avevano acquistato una furia tale da trascinare con se una decina di uomini. «Ora capisco perché hanno bruciato il monte, eliminando qualunque appiglio o riparo. Devo dire ai nostri di tornare indietro!» Tizon uscì allo scoperto e sventolò la sua bandiera per avvisare gli uomini che si accingevano a risalire lungo quel pendio spoglio, esponendosi però al fuoco nemico. Céspedes avrebbe dovuto accorgersi del morisco che puntava l'archibugio contro l'alfiere. Troppo tardi lo vide prendere la mira e l'ufficiale cadere sulla roccia. Fece per uscire allo scoperto, ma lo fermò il fragore di tre di quei marchingegni che già scendevano a valle, devastando tutto. Dovette assistere impotente alla cattura di Tizon. Un gruppo di nemici lo portò via, all'interno della ridotta. A Céspedes non rimase che tornare a valle con gli altri uomini scampati all'attacco. Quando, una volta al campo, raccontarono quanto era accaduto, fu grande il dolore per la morte di quegli ottimi soldati. Céspedes era affranto: aveva perso Tizon, cui avrebbe dovuto coprire le spalle. Era tormentato dal rimorso. Per giorni continuò a guardare i merli della torre, dove i moriscos appendevano la testa dei cristiani caduti nelle loro mani. Si faceva prestare il cannocchiale da uno dei capitani e controllava, l'uno dopo l'altro, i trofei di quella macabra parata che si seccava al sole, tra il volteggiare dei corvi. Nutriva ancora qualche speranza, dal momento che lassù non lo aveva visto. «Non farti illusioni, ragazzo. Sarebbe un bene per lui, se la sua testa fosse là. Almeno avrebbe smesso di soffrire», gli disse il capitano, quando Céspedes gli restituì il cannocchiale. «Che cosa intendete, signore?» «Lo sai benissimo, anche se ti rifiuti di accettarlo. Trattandosi di un ufficiale, cercheranno di estorcergli qualche informazione. E puoi immaginare che cosa voglia dire.» *** Pagina 77
sanchez - La schiava di Granada.txt LA GALLERIA. Quell'episodio, insieme con altri simili, fece comprendere a don Giovanni d'Austria la forza della resistenza nemica. Una volta seppelliti i morti e recuperati i feriti, mandò a chiamare i membri del consiglio. «La ferita di oggi ci ha mostrato quale sia la cura necessaria. Io distruggerò La Galera, la brucerò e la ricoprirò di sale. E verranno passati a fil di lama, senza scampo, tutti coloro che si trovano al suo interno, giovani e vecchi, per vendicare il sangue versato. E' arrivato il momento di far saltare le gallerie. Che si mettano all'opera quelli del genio, e non si fermino finchè non avranno finito.» Era stato deciso di costruire due gallerie, una sul lato sinistro e l'altra sul destro, in modo che i detriti provocati dall'esplosione formassero una rampa che potesse essere usata dalla truppa per raggiungere la ridotta. Gli zappatori trovarono un filone di arenaria meno dura del resto della roccia, lungo il quale sarebbe stato più facile farsi strada, e decisero di partire da lì per la prima galleria. Poco distante ne individuarono un altro, che avrebbero seguito per scavare la seconda. Si formarono quindi due squadre che si misero al lavoro immediatamente. I moriscos decisero di non fermarli: erano sicuri che la polvere da sparo non sarebbe riuscita a far saltare una montagna così immensa: avrebbero dovuto scavare un tunnel profondissimo, per avere qualche possibilità. Dopo diversi giorni di lavoro nel cuore della montagna, gli uomini impegnati nello scavo ritennero che ormai potevano preparare il fornello, la cavità dove veniva piazzata la polvere da sparo. Portarono quarantacinque barili e aggiunsero qualche sacco pieno di grano e sale, per dare maggiore forza all'esplosione. Quand'ebbero preparato le micce, ricoprirono di terra l'apertura, in modo che lo scoppio fosse ancora più violento. Giovanni d'Austria diede ordine che venisse preparata una cena sostanziosa e che i soldati andassero a dormire presto: l'assalto sarebbe cominciato all'alba. Alle sei, alle prime luci del giorno, fece scendere la fanteria nelle trincee, mentre la cavalleria circondava la roccaforte, in caso i nemici avessero cercato di scappare. A quel punto, Giovanni d'Austria ordinò l'attacco, con l'artiglieria al completo. Quattro cannoni si accanirono sul lato sud, altri quattro puntarono sulle case esposte a ponente, mentre due colpivano le difese più basse e una decina si concentrava sul castello e sulla torre, dove i nemici avevano appeso le teste dei cristiani. Quella di Tizon non vi aveva mai trovato posto. Tormentato per le sorti dell'alfiere, Céspedes aspettava con ansia il momento dell'assalto. Dopo un'ora di supplizio, l'artiglieria cessò il fuoco: era il momento di far saltare le gallerie. Gli uomini erano in attesa accanto alle micce. Sull'accampamento dei cristiani scese un silenzio assoluto. Si era discusso molto su come agire. Alcuni sostenevano fosse meglio far saltare le due cariche separatamente. Altri dicevano invece di farle esplodere insieme, per evitare che lo scoppio della prima danneggiasse la bocca della seconda. E così era stato deciso. Diedero fuoco a entrambe. Le fiamme avanzarono, facendo sudare il catrame delle micce, che sfrigolavano e si contorcevano come serpi. L'attesa si trasformò in delusione quando, dopo parecchio tempo, ancora non si era sentita l'esplosione. Tra i soldati cominciò a farsi largo lo sconforto. Poi, all'improvviso, dalle profondità della terra risuonò un fragore assordante. La cima della montagna prese a tremare con violenza e saltarono in aria massi e intere abitazioni, con uno strepito tale da far pensare che le due gallerie Pagina 78
sanchez - La schiava di Granada.txt fossero esplose contemporaneamente. Man mano che il fumo si diradava, i soldati videro gli enormi danni arrecati alla fortezza e, nel momento in cui finalmente crollò una parte dell'odiata muraglia nemica, tra i cristiani si levarono urla altissime. Dall'alto delle rovine, alcuni moriscos si affacciarono, per valutare la gravità della situazione. Quando ormai si pensava che fosse tutto finito, esplose anche la seconda galleria, con un boato così terrificante che spaventò pure i cristiani. La collina tremò come un cane che si scrolla l'acqua di dosso. Seguì un rumore sordo, cupo, simile a quello di un terremoto, e sembrò che tutta la montagna stesse per esplodere. Questa volta gli assediati non osarono muoversi, temendo che ci fossero altre cariche sul punto di esplodere. Nemmeno le sentinelle mantennero la posizione, tanti erano i detriti che piovevano loro addosso. Quando la polvere e il fumo diminuirono, i cristiani scorsero, oltre agli ulteriori danni alla fortezza, i crolli nella parete stessa della montagna: si era formata una scarpata sulla quale il loro numeroso esercito poteva comodamente avanzare. Gli ufficiali dovettero trattenere l'impeto della truppa finchè i ricognitori non ebbero individuato i punti migliori per sferrare l'attacco. Solo allora fecero partire una scarica di fuoco d'artiglieria, il segnale concordato da don Giovanni d'Austria per avvisare i capitani di attaccare immediatamente, senza dare tempo al nemico di riprendersi. Céspedes era in prima linea, ben provvisto di munizioni per lo schioppo. Si lanciò all'attacco non appena gli alfieri indicarono gli obiettivi con le bandiere spiegate. Quand'ebbe oltrepassato le mura, rimase impressionato dalla scena che si ritrovò di fronte: alcuni moriscos vagavano disorientati, ricoperti di polvere, portando sulle spalle tutto il peso della casa che gli era crollata addosso; altri, feriti, arrancavano lasciandosi dietro una scia di sangue. Altri ancora, però, cominciavano a reagire, e correvano a chiudere le brecce con materassi, massi, travi e quant'altro gli capitava davanti. Céspedes comprese che lì i pericoli erano ancora molti: le strade erano infatti piene di barricate e di trappole, dove si poteva rischiare facilmente la morte. I cristiani andavano all'assalto fieri e decisi, lanciandosi in un'aspra battaglia di schioppi e picche, poi sostituiti dalle spade e infine dal combattimento corpo a corpo. Il tumulto e le urla continuavano ad aumentare, insieme col fragore degli archibugi, col clangore delle armi, coi lamenti e le grida di dolore. Il fumo degli spari, unito alla polvere, formava un muro pressoché impenetrabile, tanto che, accecati dal sole che cominciava ad alzarsi nel cielo, i soldati stentavano a distinguere il volto di chi avevano accanto. Céspedes tentava di orientarsi in quel parapiglia. L'aria era lacerata dalle lance, dalle spade e dalle frecce che sibilavano ovunque, tempestata dai proiettili che piovevano da ogni direzione. Lui procedeva a fatica tra i muri pericolanti, tra cenere e scintille, cercando di non inciampare nei cadaveri semisepolti nella terra che, bagnata di sangue, si era trasformata in un fango rossastro. Cercava d'indovinare dove potesse essere Tizon. Non sarebbe stato facile trovarlo: doveva introdursi in quel labirinto, affrontando la fiera difesa dei monfi. Dall'alto pioveva di tutto: vedendosi ormai condannati, gli assediati avevano deciso di vendere cara la pelle e afferravano pietre, vasi, mobili o grosse travi per lanciarli addosso ai cristiani. Céspedes riuscì comunque a sentire l'ordine di don Giovanni d'Austria: «Distruggete le case, buttate giù i muri, fate crollare le torri e i bastioni! Che il loro sangue inondi il suolo e la terra ne sia impregnata. Non risparmiate nessuno, senza distinzioni per il sesso o per l'età. Che la morte arrivi Pagina 79
sanchez - La schiava di Granada.txt ovunque. Questo è il giorno in cui non rimarrà un solo morisco vivo». Quelle parole risuonavano ancora dietro di lui quando, ormai disperato, Céspedes decise di tentare la sorte dove i soldati non erano ancora arrivati, in un edificio adiacente alla fortezza dal quale, come comprese, avrebbe potuto accedere alle carceri. Nelle canaline di scolo scorreva il sangue dei ribelli massacrati. I resti del tetto erano crollati a terra, in fiamme. Quando Céspedes riuscì ad aprirsi un varco, si trovò davanti una scena che l'avrebbe perseguitato per il resto della vita. Il corpo martoriato di Juan Tizon, legato al cavalletto, mostrava i segni di una tortura interminabile. Gli avevano strappato le unghie, sia quelle delle mani sia quelle dei piedi. E i peli della barba, a uno a uno. Il corpo era pieno di ustioni. Gli avevano mozzato il naso e poi glielo avevano inchiodato sulla fronte. Da ciò che spuntava dalle labbra, Céspedes capì che gli avevano strappato gli occhi e glieli avevano infilati in bocca, se così si poteva ancora chiamare quella massa informe di carne carbonizzata. Dovevano avergli fatto ingoiare un pugno di polvere da sparo prima di dargli fuoco, bruciandolo così anche dall'interno. Quello che accadde dopo sarebbe rimasto per sempre unito alle brume dei peggiori incubi di Céspedes. Era in ginocchio accanto ai resti di Tizon. Le lacrime, incandescenti e amare, gli bagnavano il volto, mentre lui si rimproverava di non aver saputo evitare all'alfiere una fine così terribile. E fu allora che lo sentì. Non riusciva a identificare quel suono. All'inizio pensò che fossero i suoi singhiozzi. O forse era la sua immaginazione, il frutto delle sue paure più profonde. Dei suoi ricordi, poiché c'era qualcosa in quel posto che evocava quanto gli era successo ad Alhama, nella vecchia miniera. Poi capì che lì c'era la sorgente che riforniva La Galera. Allora si alzò, impugno la spada e, asciugandosi le lacrime, prese una fiaccola e l'accese con una delle travi in fiamme cadute dal tetto. Mentre scendeva le scale che portavano alle cantine, quel suono cessò. Ora si sentiva solo un silenzio inquietante, spezzato dal gorgoglio dell'acqua che indicava la vicinanza della sorgente. Quando scese l'ultimo gradino, Céspedes lo sentì di nuovo. E lo riconobbe chiaramente come il pianto di un bambino. Avanzò lungo una galleria, bruciando le ragnatele che si ritiravano con un crepitio bluastro. Man mano che proseguiva, qualcosa si spezzò dentro di lui. Fu come se si fosse riaperta una vecchia ferita, e lui fosse stato trascinato indietro nel tempo, al giorno in cui sua madre era andata a salvarla, quella piccola mulatta che ancora non portava il nome di Elena. Con quei pensieri in testa, Céspedes faceva fatica a capire dove andare, ma il pianto del bambino lo condusse fino a una stanza rotonda dal soffitto a volta, al centro della quale si trovava il pozzo. Ebbe un sussulto quando vide chi c'era. Una famiglia di moriscos che, stretti gli uni agli altri, pregavano per avere salva la vita. Tranne la moglie, che era in piedi e guardava all'interno del pozzo. Quando scorse Céspedes, si allontanò e fece per tornare accanto agli altri, un uomo e due ragazzi, che a giudicare dall'aspetto dovevano essere il boia e i suoi figli. Con le mani ancora sporche del sangue di Tizon, Céspedes impazzì di rabbia, e con una furia diabolica cominciò a menare fendenti, travolgendo i tre maschi che gli si avvicinavano. Quelli riuscirono a malapena a reagire di fronte a quell'uragano di distruzione, e caddero l'uno dopo l'altro. Si stava lanciando contro la madre, quando udì, più forte, il pianto del bambino, benché non riuscisse a capire da dove provenisse. E a quel punto sentì esplodere dentro di se una miriade di emozioni opposte, poiché, chissà come, quel Pagina 80
sanchez - La schiava di Granada.txt pianto si era unito alle sue stesse lacrime nella miniera di Alhama. E ai singhiozzi di Cristobal. Non era preparato a una cosa del genere. Era arrivato al limite. Si bloccò col braccio alzato, la spada in pugno. Gli era impossibile ignorare il pianto del bambino e staccare gli occhi da quelli della madre. Capì che la donna lo aveva nascosto lì per salvarlo dalle fiamme che avrebbero appiccato al castello. Quel pozzo sarebbe stato un secondo grembo per il piccolo. Lo commosse il fatto che, in mezzo a tutto quell'odio, al sangue, alla distruzione e alle fiamme che la circondavano, quella donna avesse trovato una fede nella vita sufficiente a mettere in salvo il figlio. Céspedes si girò, tornò sui propri passi, risalì le scale e uscì dalla fortezza. La luce rossastra di un sole esausto sommergeva le rovine di quella che era stata La Galera. Le strade erano talmente piene di cadaveri che si riusciva a malapena a camminare. Lui avanzava tra quei corpi, chiedendosi se appartenesse ancora al mondo dei vivi. *** esilio. Da allora non fu più lo stesso. Non riusciva a combattere come prima, e i suoi problemi aumentarono. Le voci sulla sua scarsa virilità si fecero più insistenti e dovette lottare duramente con se stesso per non disertare, un affanno nel quale riversava tante energie quante in battaglia. Quel tracollo coincise con la fine della campagna militare, quando giunse l'ordine di rendere la vita impossibile ai moriscos, che vennero perseguitati in tutto il regno. A nord e a sud delle Alpujarras, i soldati percorrevano le terre dando fuoco ai raccolti. Ormai il numero dei ribelli era scarso ed erano ridotti in estrema miseria. Solo i più ostinati continuavano a lottare, fuggendo da una grotta all'altra, dove si fermavano qualche ora, la notte, senza osare aspettare l'arrivo dell'alba. finchè nessun monte o crepaccio fu più sicuro per loro. Don Giovanni d'Austria emise un bando, promettendo l'indulto per tutti i maschi dai quindici ai cinquant'anni che si fossero arresi portando con se uno schioppo o una balestra con tanto di munizioni o frecce, assicurando che non sarebbero stati imprigionati. Quanti avessero rifiutato quel gesto di clemenza sarebbero stati giustiziati senza pietà. La sorte dei moriscos catturati, uomini, donne e bambini, fu motivo di contrasto. Alcuni volevano ridurli in schiavitù; altri si opponevano, poiché si trattava in gran parte di cristiani battezzati. Il re tentennava, e convocò un consiglio. I teologi si piegarono con una flessibilità ammirevole alla volontà reale e giunsero alla conclusione che, se avevano osannato Maometto, erano maomettani, quindi potevano essere fatti schiavi. Anche se questo non si poteva applicare ai minori di dieci anni, che dovevano essere affidati alle famiglie cristiane per essere ricondotti alla vera fede. Quei provvedimenti si rovesciarono sull'animo affranto di Céspedes come sale su una ferita. Sapeva bene cosa sarebbe successo. Vide marchiare a fuoco bambini minori di dieci anni, che sarebbero stati venduti come schiavi. Molti di loro non appartenevano nemmeno a famiglie di moriscos ribelli, ma a quelle che erano rimaste in pace o che addirittura avevano rischiato la vita per salvare molti cristiani. Ma il peggio per Céspedes doveva ancora arrivare: la squadra di archibugieri alla quale apparteneva venne destinata a Granada, per dare manforte alla cacciata dei moriscos. Stentò a riconoscere molti dei luoghi in cui era stato cinque anni prima: la guerra aveva lasciato il suo marchio di morte ovunque. Arrivò in plaza de Bibarrambla, dove Pagina 81
sanchez - La schiava di Granada.txt trovò Ibrahim, il fontaniere. Quando lo vide rimase sconvolto: appariva invecchiato, smunto, quasi un'altra persona. Céspedes pensò che probabilmente valeva lo stesso per lui: era così diverso che l'altro non lo riconobbe nemmeno. Comprese presto però che Ibrahim non era più in sé e solo a sprazzi ritrovava un frammento di lucidità. Non fu facile vincere la diffidenza del fontaniere per la sua uniforme da soldato. Solo quando gli ebbe offerto qualcosa da mangiare e si fu guadagnato un minimo di fiducia, l'altro gli spiegò che non lo avrebbero deportato, data l'importanza cruciale del suo incarico. Céspedes conosceva bene quelle disposizioni. Alcune nobildonne che contavano sulle giuste conoscenze avevano cercato di tenersi accanto i loro sarti moriscos appellandosi a quella delibera. Ma in seguito si erano dovute arrendere. Ciò nonostante, tra i paradossi di quella follia venne dato il permesso di restare a un morisco che era stato beccaio e al quale, per l'abilità dimostrata come tagliagole, venne offerto il posto di boia, mestiere che di li a poco sarebbe stato estremamente richiesto. Altri uomini liberi, nel tentativo disperato di non farsi espellere, si offrivano come schiavi ai cristiani, perché, in quel caso, sarebbero stati di proprietà dei cattolici, e quindi esclusi dall'esodo forzato. Seduto accanto al fontaniere, Céspedes vide passare cittadini che erano sempre stati dei signor nessuno, e che adesso erano seguiti da diversi schiavi. In uno dei suoi rari momenti di lucidità, Ibrahim gli spiegò che, solo nella città di Granada, erano stati venduti oltre diecimila moriscos. E, con tutta quell'offerta di carne umana, i prezzi erano crollati. «Se prima uno schiavo valeva sui cento ducati, adesso supera a malapena i quaranta. Li comprano tutti, osti, mulattieri, contadini...» Passò per caso un uomo grassoccio che a Céspedes sembrava di conoscere. «Guardate quello, un carbonaio da quattro soldi, addirittura con due schiave», gli disse il fontaniere. Ibrahim si lamentava del fatto che molti moriscos fossero stati venduti ai loro concittàdini. E adesso dovevano percorrere al loro servizio le strade in cui prima si muovevano come uomini liberi, abbassando gli occhi per non morire di vergogna mentre passavano davanti alla casa dove avevano vissuto loro e i loro antenati. «Avevo un amico, a Velez Milaga, si chiamava Gazul Belvis. Era l'unico morisco che non fosse stato espulso, perché non poteva muoversi a causa dell'età e degli acciacchi», continuò a raccontare Ibrahim. «Gazul! Che ne è stato di lui?» «E' stato lapidato dai ragazzini.» Lo aveva detto senza particolare emozione, con quell'ottusità in cui di tanto in tanto rimaneva impantanato. La notizia però commosse profondamente Céspedes, che, dalle parole sconnesse e dai lamenti incoerenti di Ibrahim, intuì che Gazul doveva aver avuto qualche legame coi ribelli. Non riuscì tuttavia a scoprire quale fosse stato il ruolo di Alonso del Castillo, che il fontaniere nominò più volte. Céspedes aspettò, paziente, che l'altro ritrovasse la lucidità, per chiedergli: «Che cosa pensate di fare?» «Aspettare la morte. Non ho figli né una famiglia alla quale tramandare quello che so. E non credo proprio che uno solo di quei cristiani che adesso se ne vanno in giro tutti boriosi abbia voglia d'imparare un mestiere che ti obbliga a rimanere in allerta tutte le ore del giorno per tutti i giorni dell'anno. Che ti obbliga a sopportare offese di ogni genere. Che non rende molto, non dà soddisfazioni e meno ancora rispetto.» «Quindi, quando voi ve ne andrete, vi porterete nella tomba i segreti dell'acqua, delle sorgenti, delle tubature e dei registri.» Pagina 82
sanchez - La schiava di Granada.txt «Questa terra secca diventerà ancora più arida.» Céspedes si domandò che uso avrebbe fatto dei soldi che gli lasciò in mano mentre si accomiatava. Ma era giunta l'ora di andarsene. Camminò per quelle strade dove prima abbondavano turbanti e tuniche e le vide piene di cristiani con le loro calzamaglie. Granada ne era invasa. Oltre che di schiavi. Le piazze più frequentate erano ormai divenute dei veri e propri mercati, gestiti dalle milizie reali. Ovunque si vedevano squadre di soldati appena giunte dalle Alpujarras con la loro mercanzia umana, il bottino di guerra che cercavano di vendere il prima possibile, senza nemmeno preoccuparsi che avesse un aspetto presentabile. E così si vedevano decine e decine di prigionieri moriscos vestiti di stracci e sfiniti. C'era chi aveva i denti rotti, chi camminava storto a causa di un'ernia, ma i soldati avevano fretta di disfarsene per guadagnarsi il pasto e il letto. Poco lontano dal palco sul quale venivano messi all'asta quegli sfortunati, i loro aguzzini facevano i conti seduti a un tavolo. Céspedes prese posto accanto al tenente di una compagnia che possedeva un gruppo di schiavi. Trasformatosi in tesoriere, sventolava i fogli sui quali aveva annotato le spese per il mantenimento della merce. «Abbiamo dovuto affrontare un viaggio di due giorni e mezzo per portarli a Granada, e gli abbiamo dovuto dare da mangiare. Abbiamo dovuto pagare i mulattieri che hanno chiesto dieci reales per trasportare i più deboli. E una guardia, e sono quattro reales al giorno. L'affitto giornaliero di questo tavolo e della panca per gli schiavi è di mezzo real. E abbiamo dovuto anche pagare il banditore, che ha il monopolio della vendita, e quello scrivano che vedete, che redige i documenti di proprietà degli schiavi. A questo bisogna aggiungere le offerte alla Vergine, Nostra Signora della Vittoria. Tolti questi costi, la cifra viene così suddivisa: il governatore della città si prende sedici parti; il capitano della compagnia otto; a me, che sono il tenente, ne vanno due, ma, poiché svolgo anche il compito di tesoriere, diventano quattro. E ai soldati semplici una.» Céspedes fu costretto ad allontanarsi per non esplodere di rabbia. Da un lato per l'abisso che separava un ufficiale come quello dall'alfiere Tizon, ucciso in un modo così infame alla Galera, dall'altro perché quella lista gli aveva ricordato i documenti di sua madre che Benito de Medina gli aveva consegnato ad Alhama. Su quel pezzo di carta, l'intera vita di uno schiavo - che Céspedes conosceva fin troppo bene - appariva ridotta a numeri e contabilità. E quello era niente, in confronto a quanto lo aspettava durante la deportazione dei moriscos, poiché avrebbe fatto parte della scorta armata incaricata di condurli in esilio. Quando infine arrivò l'ordine di Sua Maestà, don Giovanni d'Austria ordinò di allertare i soldati presenti in città e nella Vega. Una volta presidiate tutte le porte e le strade, venne emesso il bando in cui si annunciava che tutti quelli destinati a essere deportati avrebbero dovuto radunarsi nelle rispettive parrocchie. Da lì sarebbero stati condotti all'Hospital Real. A Céspedes si stringeva il cuore davanti a quello spettacolo, a quella marea di persone di ogni età sopraffatte dal terrore. La testa china, le mani intrecciate e il volto bagnato di lacrime, ignare del destino che le attendeva. Alcune moriscas, immaginando che li avrebbero uccisi, gridavano e si strappavano i capelli. «Poveri sventurati, che vi portano al macello come bestie! Se solo poteste morire nella casa in cui siete nati!» Permisero alle donne di rimanere un giorno di più sotto il loro tetto, perché potessero vendere le proprie cose e procurarsi un po' di cibo per il duro viaggio che le aspettava. Sbrigate quelle incombenze, i deportati si misero in marcia, legati in gruppi di millecinquecento, ognuno dei quali Pagina 83
sanchez - La schiava di Granada.txt scortato da cinquecento soldati, venti ufficiali a cavallo e un sovrintendente. E, mentre si allontanavano, piangevano, vinti dalla disperazione per essere stati costretti ad abbandonare le case, le ville e i giardini in cui avevano vissuto per generazioni. Si faceva strada in loro il ricordo dei mori che un tempo giravano orgogliosi coi loro borzacchini argentati, abiti in broccato e velluto foderati di taffettà, pugnali dorati, decorazioni in seta, collane, catene d'oro e bracciali. E adesso era rimasto solo il rimpianto. Alcuni portavano canestri, ceste con pentole, padelle, mestoli, pignatte di terracotta, lampade a olio e orci. Altri panieri pieni degli umili utensili con cui speravano di guadagnarsi da vivere in esilio, ovunque fosse, sempre che ci arrivassero vivi. Poiché? a nessuno venivano risparmiati abusi, percosse e insulti. Céspedes si sentiva straziare l'anima nel vedere quella moltitudine di donne e bambini, di poveri e affamati, cui era impossibile provvedere in modo adeguato, dato il gran numero. Marciavano straziati dal dolore, coperti di polvere, trascinandosi sulle spalle i più piccoli e i malati. Una morisca a turno prendeva in braccio i tre figli, stremati dalla fatica; altri avevano issato su una sedia un vecchio dalle carni esili quanto le sue speranze; i più fortunati montavano cavalcature cariche di sporte, bisacce, cesti, teli, tovaglie, pezze di lino... La maggior parte tuttavia marciava a piedi, patendo innumerevoli difficoltà, dispiaceri e fatiche, con pochi stracci addosso e i piedi coperti persino peggio, con ciabatte di sparto o col primo straccio che avevano avuto a portata di mano. Si affannavano a portarsi dietro tutto quello che potevano, chiuso nei fagotti o nelle bisacce. Dovevano pagare persino l'acqua. Uno spettacolo che muoveva a compassione i soldati più sensibili. Uno di loro, vedendoli in quelle condizioni sventurate, disse a Céspedes: «Certo che, se hanno commesso dei peccati, li stanno pagando davvero cari». Non appena si furono allontanati da Granada, persero qualunque comodità: niente più case in cui alloggiare, letti, camini accesi. Dovevano accamparsi all'aperto. Molti persero la vita lungo la strada. Chi di stenti, chi di dolore e chi di fame. Altri ancora in catene, per mano di quelle stesse persone che avrebbero dovuto scortarli, e che invece li avevano derubati e venduti come schiavi. Le epidemie fecero strage tra i deportati, acuendo l'ostilità con cui venivano accolti nei paesi che attraversavano. Ne morì più di un terzo, e chi giunse alla fine del viaggio era ridotto in uno stato miserevole. Si diceva che, nel fare rapporto al re, don Giovanni d'Austria non avesse concluso nei termini solitamente usati da un soldato orgoglioso di una vittoria gloriosa, ma usando invece queste amare parole: «Ma alla fine, signore, è stato fatto». Finirono così la sollevazione e la guerra. Quelle montagne rimasero disseminate di un numero infinito di cadaveri insepolti, e i teschi degli uomini si sgretolarono accanto alle carcasse dei cavalli, ai resti delle armi e dei finimenti. La terra era annientata, le mura squassate dalle brecce, i campanili rasi al suolo, i campi infestati da ortiche e gramigne, i mulini distrutti, così come i frantoi, i forni, i canali d'irrigazione e le dighe. Frutteti, ulivi, vigneti e alberi di fichi erano stati falciati dal diboscamento e ci sarebbero voluti anni per riaverli. Céspedes cercò di ottenere la sua lettera di congedo: sarebbe stato il suo salvacondotto futuro come cristiano e come maschio. Era il motivo per cui aveva lottato, ucciso e affrontato mille pericoli. Era stata quella, in ultima istanza, la ragione per cui si era arruolato. Così si diresse all'Audiencia. Più di una volta arrivò di fronte all'imponente edificio Pagina 84
sanchez - La schiava di Granada.txt che sorgeva in plaza Nueva. E, puntualmente, quel cupo profilo e i tristi ricordi che evocava in lui gli impedirono di proseguire. Non riusciva a individuare con chiarezza le ragioni di quell'esitazione, benché intuisse che in parte fosse dovuta al fatto che lì si legittimava tutto ciò che stava succedendo. Non solo venivano espulsi i moriscos che si erano ribellati, ma anche quelli che erano rimasti fedeli. Céspedes capiva quindi quanto sarebbe stato difficile trovare giustizia all'interno del nuovo ordine, nel quale i nobili e i soldati di un tempo erano stati rimpiazzati da quella cricca di legulei e imbrattacarte. Uomini cupi, tristi, che stavano mettendo le mani su tutti gli ingranaggi del potere. Oltre che sui beni degli esiliati, che intanto si trascinavano attraverso lande spietate. Finché, un giorno, non trovò il coraggio di entrare. Stava aspettando il proprio turno, coi documenti stretti in mano, quando arrivarono due uomini che, visto l'ufficio in cui entrarono, dovevano essere quelli che si sarebbero occupati del suo caso. Ne riconobbe subito uno: era l'uditore militare Ortega Velizquez, che a Villamartin si era scontrato con l'alfiere Tizon per impedire che lo arruolassero. Se doveva essere lui a occuparsi della sua pratica, la cosa non sarebbe finita bene. Céspedes avrebbe sicuramente avuto altre occasioni per presentare la richiesta, accompagnata dalle credenziali firmate dal capitano della compagnia. E così decise di andarsene. L'aria della capitale di quell'antico regno gli era diventata irrespirabile, avvelenata da preghiere e campane, da sogni infranti e dall' odio. Mentre raccoglieva le sue cose, preparandosi a lasciare Granada, si guardò allo specchio. Riusciva a stento a riconoscere il proprio volto, devastato dagli orrori della guerra. Le intemperie, la dura vita militare e l'esperienza delle Alpujarras lo avevano cambiato per sempre. I tratti del viso, sul quale ormai erano quasi scomparse le cicatrici della marchiatura, si erano fatti più duri. E pure il cuore. Quello che scorgeva nei suoi occhi era uno sguardo gelido, una fredda determinazione. Costretto a vivere tra i lupi, aveva imparato a mordere. E una belva avida di sangue gli affondava le zanne nelle viscere. ***** PARTE QUARTA. RINASCITA. «Se, come ad Adamo, mi venisse concesso di dare un nome alle cose da me scoperte, dovrei chiamarlo la meraviglia o la dolcezza di Venere, dove risiede il piacere delle donne... Oh, mia America, mia nuova terra ritrovata!» L'anatomista Matteo Realdo Colombo, rivendicazione della scoperta della clitoride, nella sua De re anatomica, Venezia, 1559, libro XI, capitolo XVI. «Ebbe la fortuna di vivere quando il Rinascimento bruciò e dissolse all'antica luce della Grecia tante caliginose nebbie medievali, luce che raggiunse altresì, per un felice ed eccezionale momento, anche la Spagna; un momento, per nostra sfortuna, fugace come un lampo. Presto, a causa della paura e del temperamento tipico di questa terra, la Spagna sarebbe ricaduta un'altra volta nel passato medievale, da dove non sarebbe mai riemersa.» Luis Cernuda, «Helena», Ocnos. Pagina 85
sanchez - La schiava di Granada.txt *** MADRID. Laggiù, in fondo alla spianata, si ergeva il sonnolento profilo dell'Alcázar. Céspedes non aveva mai visto nulla di così imponente dopo la Real Audiencia di Granada. I deliri verticali di torri e capitelli davano ancor più evidenza alla sùa mole gigantesca, risultato di ùna crescita a ondate, che ora contava più o meno quattrocento stanze, necessarie a soddisfare le richieste del re. Ma era tùtta Madrid, non solo Filippo II, a fare di quel palazzo il cardine della propria vita. La capitale brùlicava nei suoi cortili, dove ùna turba di adulatori, mendicanti e trafficoni giungeva quotidianamente a caccia di favori e pettegolezzi, diffusi ogni sera dalla nuvola di funzionari che si allontanava da quegli uffici. Céspedes dovette sgomitare tra la confusione della piazza, dove gli altri postulanti aspettavano il proprio turno, prima di arrivare alla porta. Un capannello di greci discuteva a gran voce nella propria lingua, sicùri che nessùno li capisse, in attesa dell'avvocato cui avevano affidato le pratiche. Dietro di loro, uno schiavo di colore sorvegliava i loro cavalli, con gli occhi fissi sui dadi che altri servitori stavano lanciando su un mantello steso a terra. Céspedes scansò i mendicanti che imploravano un'improbabile elemosina da un conciliabolo di chierici. Passò accanto a un gruppo di musici itineranti che stavano accordando gli strumenti, in attesa di esibirsi non appena i funamboli italiani avessero terminato le loro acrobazie. La confusione diminuì quando lui entrò nel patio della Regina, che attraversò dirigendosi verso quello delle Covachùelas. Un cane rincorse abbaiando le tortore che si erano arrischiate a posarsi a terra, facendole volare via. Il porticato era affollato di scrivanie, dove si sveltivano i passaggi di quel complicato ingranaggio di scartoffie e pratiche. Superato il posto di guardia, Céspedes salì le scale, diretto alla seconda anticamera. La stanza ronzava come un nido di vespe, e il brusio si diffondeva anche nella torre del Despacho Universal, dove i segretari di Sua Maestà si affannavano tra montagne d'incartamenti giunti da ogni angolo del pianeta. Una lunga coda bloccava l'accesso alla sala dei bolli reali, in attesa dell'avallo ufficiale. Céspedes era a disagio, ma poi scorse un volto familiare. All'inizio dubitò che fosse lui, tanto appariva invecchiato, ma, quando si avvicinò, non ebbe più dubbi: era proprio Alonso del Castillo. Quando si sentì toccare una spalla, il medico si girò, alzando un fascicolo che aveva in mano, in un gesto istintivo di difesa. «Sono Céspedes, il fratello di Elena», lo rassicurò. «Ci siamo conosciuti durante la guerra, al campo di Padul. Ero al tavolo con voi, l'alfiere Juan Tizon e l'intendente Luis Mirmol Carvajal.» Sul volto perfettamente sbarbato dell'uomo, segnato da rughe profonde, si disegnò una smorfia di sorpresa. «Dove siete stato in tutto questo tempo, e perché siete qui?» All'inizio non riuscì a rispondere. Impossibile riassumere in poche parole quei cinque anni. Si portava ancora addosso, pesanti come macigni, gli strascichi di quella carneficina. Aveva cercato di lasciarsi tutto alle spalle e di guadagnarsi da vivere grazie al suo vecchio mestiere di sarto. Era stato in cinque o sei posti, correndo da una parte all'altra dell'Andalusia, cambiando alloggio più spesso di quanto non avrebbe voluto, per non lasciare tracce. finchè non si era reso conto che li, nella sua terra natale, non avrebbe ottenuto nulla, poiché, se non era un rivale a denunciarlo, s'imbatteva in un podestà propenso agli abusi. Pagina 86
sanchez - La schiava di Granada.txt E il peso di quel vagabondare senza sosta cominciava ad avere la meglio su di lui. L'accodarsi alle carovane dei mulattieri. Il cibo condiviso intorno al fuoco. I giacigli malconci delle locande. Le notti passate sulla paglia delle fattorie, in mezzo a sconosciuti che si spiavano l'un l'altro, con la paura di ritrovarsi sgozzati se avessero osato chiudere gli occhi. E infine Madrid, quella città che cresceva senza sosta da quando la Corte aveva stabilito lì la propria sede. Patria comune, gremita di gente, dove si cercava di lasciarsi alle spalle il passato, con la voglia di cominciare una nuova vita, reinventandosi ogni giorno. E con quello stesso spirito era arrivato anche lui, stremato dai brividi di una febbre mal curata. Ma era meglio risparmiare quei dettagli a don Alonso, sempre così occupato. Per cui gli espose in breve le difficoltà e le fatiche che il destino gli aveva messo davanti. «E quindi sono venuto qui, sperando di ottenere qualche riconoscimento e per farmi attestare il servizio prestato nella milizia. E voi?» Castillo gli mostrò il fascicolo che aveva in mano, scuotendo la testa, scettico. «Non sono ancora riuscito a farmi pagare per questo, se vi può consolare. Sono le lettere e i documenti che ho tradotto durante la guerra.» Céspedes si disse che poteva aspettarsi ben poco, da semplice ex soldato qual era, se addirittura un interprete del re doveva affrontare quella trafila per ricordare i servigi prestati alla Corona. «Sono piuttosto sospettosi, al riguardo. Sulla faccenda dei moriscos e su tutto quello che ha a che fare con loro, voglio dire», aggiunse Castillo. Céspedes assentì. Li vedeva ovunque, i moriscos, con la faccia sempre scura e lo sguardo sfuggente. Ma nei loro occhi brillava una scintilla di gratitudine, se ottenevano aiuto o una mano si tendeva verso di loro. «Mi trovo spesso a dover tradurre i documenti in arabo che vengono intercettati», continuò l'altro, più loquace del solito. «E trovo di tutto. Molti parlano dei tesori che hanno nascosto prima dell'esilio, per non rischiare di essere derubati lungo la strada.» «Ci sono davvero?» Don Alonso si strinse nelle spalle. «La questione non è se io ci credo o no, ma le voci che corrono di bocca in bocca. Dicono che ci sono grotte sotterranee che percorrono tùtta la Spagna. Ricorderete che cosa è stato trovato nelle Alpùjarras.» Céspedes aveva visto le grotte stipate di armi, di viveri, di sete, di perle di fiùme o di altre ricchezze; o caverne rivestite di sùghero, per poterci vivere a lùngo. E gallerie che partivano dalle pareti di un pozzo in ùn cortile e che, passando sotto i paesi, portavano fino a quei rifugi. «In ogni caso, è per questo che la diffidenza verso i moriscos è aùmentata. Venite spesso, qui all'Alcazar?» domandò don Alonso. «Sono mesi che aspetto di ricevere udienza.» «Quanti anni avete, adesso?» «Sto per compierne trentadùe.» «Non sprecate la vostra vita facendo anticamera in questo posto.» poiché Céspedes non sembrava aver capito, il traduttore fece una cosa davvero insolita per lui, sempre così distaccato. Lo prese per un braccio e lo trasse in disparte, dove nessuno potesse sentirli. «Dubito che degneranno di attenzione le vostre richieste. Ed è rischioso insistere...» «A che cosa vi riferite?» Prima di continùare, Castillo gli fece segno di abbassare la voce: non doveva manifestare così apertamente le sue emozioni. «Mentre frugavo tra gli archivi per mettere ordine tra questi incartamenti sulla guerra, ho avuto accesso ad alcuni rapporti su di voi. C'è qualcùno che vi ha in odio e segue i vostri passi. Stanno spuntando ovunque imbrattacarte che riempiono fogli come i ragni tessono le loro tele. Pagina 87
sanchez - La schiava di Granada.txt è difficile far aprire un fascicolo, ma è molto più) difficile richiuderlo. Se cominciate a scavare, non avete idea del vespaio che potreste sollevare. So di gente che, dopo anni di tranquillità, si era rifatta una vita, ma ha perso tutto a causa di una pratica che richiedeva un'indagine sul proprio passato.» Céspedes lo fissò, cercando di dominare l'istinto di tartassarlo di domande. Don Alonso non era mai stato così loquace. Né così diretto. Forse perché , per riùscire a mantenere la sua posizione, aveva passato tutta la vita a camminare sul filo del rasoio. Che cosa stava cercando di dirgli, in realtà? Credeva davvero che fosse il fratello di Elena, o non se l'era mai bevuta? E, se le cose stavano così, perché non glielo aveva detto apertamente? Castillo forse non voleva essere coinvolto dalle sue ambizioni, doveva già badare alle proprie. Céspedes stava cercando il modo per affrontare quei gravi argomenti senza offenderlo, quando l'interprete lo anticipò: «Vi ho già detto anche troppo. E non è questa la sede adatta per simili conversazioni». In quell'istante, Castillo venne convocato nell'ùfficio del segretario di Sua Maestà, e Céspedes si rese conto che non avrebbe avuto altre occasioni per scoprire chi poteva comprometterlo testimoniando contro di lui. Radunò tutto il proprio coraggio e gli chiese: «Quella relazione contro di me risale addirittura ai tempi di Granada? Ditemelo, per l'amor di Dio». «Vi dico soltanto che è meglio non svegliare il can che dorme. Men che meno se è ùn cane rabbioso.» Non aggiùnse altro. Stavano chiamando per la seconda volta il suo nome. Céspedes alzò la voce: «Don Alonso, quando posso rivedervi?» Il cenno della testa e lo sguardo del tradùttore mandarono un messaggio inequivocabile: un loro nùovo incontro non sarebbe stato né prudente né gradito. Doveva andarsene immediatamente dal palazzo, e non rivangare un passato che avrebbe potuto rivoltarsi contro di lui. *** RISSA. Più che un laboratorio di sartoria, sembrava un deposito di stracci. Le cose avrebbero anche potuto funzionare, se avesse avuto i soldi per affittare un posto decente, ma Céspedes non li aveva. Nella capitale era tutto troppo caro. Lavorava e dormiva nella bottega, dove c'era a malapena spazio per muoversi. E alla solitudine si sommava l'insonnia prolungata, un'infinità di notti dormite a metà. Era come se, quando scendeva la sera, il mondo si richiudesse su di lui, che si ritrovava braccato dalle angosce e assalito dai ricordi. La guerra era ormai finita da molti anni, ma sembrava che lui ne avesse intrapresa un'altra, fatta di elucubrazioni e d'inquietudini. Si sentiva privo ormai di speranza, alla deriva, costretto a navigare tra burrasche e tormente. La più banale zuffa tra i gatti del vicolo gli toglieva il sonno e, nel cuore della notte, lo travolgeva un drappello di ricordi spettrali. E, dal momento che non riusciva a chiudere occhio, tornava con la mente ancora più indietro, alla sua infanzia ad Alhama. Non c'era niente da fare. Prima o poi lo assalivano le immagini della madre e della sua morte indegna, del muratore che le avevano dato come marito, del figlio che aveva abbandonato. Cercando di fuggire da quei ricordi, rievocava le radiose memorie di SanlÚcar, le ore passate accanto alla splendida Ana de Albanchez. E a volte riusciva ad addormentarsi, stremato, quando ormai la luce filtrava dalle imposte. Ma anche quei ricordi sanguinavano. L'avvertimento di Alonso del Castillo lo aveva messo Pagina 88
sanchez - La schiava di Granada.txt inizialmente in uno stato di allerta che in seguito si era diluito nella lotta per la sopravvivenza, un giorno dopo l'altro. Poi, però, accadde qualcosa che lo mise di nuovo in guardia. Si trovava in una locanda affollata di gente che raccoglieva le forze prima di scendere in riva al Manzanares, dove si teneva la festa di San Giovanni. Faceva caldo, lì dentro, il vino e le chiacchiere abbondavano. Chiese di mangiare qualcosa, e l'oste lo avvertì: «Vostra grazia dovrà aspettare, non c'è nemmeno un posto libero». Poco distante c'era un uomo mingherlino, con pochi capelli e la barba bianca, seduto a un tavolo nell'angolo più buio. La bassa statura, unita al profilo affilato e fragile, e le spalle curve lo facevano sembrare un uccellino. Becchettava dal piatto come avrebbe potuto fare un passero. «Sedete pure, qui c'è spazio in abbondanza per tutti e due», gli offrì, quando ebbe sentito la rispostaccia dell'oste. E accompagnò le parole ai fatti, spostando la sacca di lana che c'era sul tavolo. Poco dopo entrò un tizio seguito da una donnetta agitata e attaccabrighe. Céspedes li notò subito perché lei stava urlando, poi la sua attenzione si spostò sull'uomo, alto e robusto, sul cui volto c'era qualcosa di strano che non riusciva a identificare. Passando, i due davano spintoni a destra e a manca e, quando arrivarono accanto al tavolo di Céspedes, andarono a sbattere contro la sacca dell'uomo, che cadde a terra, svelando il proprio contenuto: un libro piuttosto grande. Il proprietario si lanciò su di esso, cercando di salvarlo. Dallo zelo con cui si era mosso, sembrava che per lui fosse molto importante. L'ultimo arrivato, tuttavia, fu più veloce. Raccolse il volume, che si era aperto, e mostrò la pagina alla donna. «Che vergogna!» esclamò lei. «Nemmeno quelli del mio padrone sono così indecenti!» rincarò il tizio. «Restituitemelo, per favore», implorò il proprietario, spaventato. «Io vi ho già visto.» «Non credo.» «E se lo portassi alle autorità, che cosa succederebbe?» ribatté l'altro, senza lasciare il libro. «Ve ne prego...» insisté il primo. Il tizio non gli badò nemmeno. Anzi, continuava a sfogliare le pagine e le mostrava alla donna, che appariva sempre più indignata. Quel volume doveva essere davvero importante per il proprietario, poiché, nonostante fosse basso e fragile, si lanciò contro l'altro per cercare di recuperarlo, con una forza tale che alla fine ci riuscì, ma senza volerlo colpì l'uomo in faccia. E allora successe l'inimmaginabile: il naso del rivale volò via. All'inizio Céspedes non capiva cosa stesse succedendo, nemmeno quando la donna gridò, vedendo il suo compagno con un buco in mezzo alla faccia. Sembrava un teschio, come se da quel foro si potesse scorgere il suo scheletro. Lui comprese allora che a quell'uomo era stato tagliato il naso durante un duello o una pubblica condanna e quindi lo aveva sostituito con uno posticcio, fatto con tale maestria che quasi sembrava vero. In preda alla furia, l'uomo si lanciò contro il proprietario del libro e lo schiacciò contro il muro, come un mucchio di frattaglie. Céspedes non potè trattenersi oltre. Forse fu un colpo di coda del periodo passato in guerra. S'intromise. Avrebbe dovuto ricordarsi delle nefaste conseguenze delle altre risse in cui era stato coinvolto: dopo l'ammonimento di Alonso del Castillo, era l'imprudenza più grave che potesse commettere. Eppure disse: «Prendetevela con me, se pensate Pagina 89
sanchez - La schiava di Granada.txt di riuscirci». L'uomo senza naso si voltò verso di lui. «E tu, che cosa saresti? Hanno ben ragione a dire che qui girano cani di tutte le razze.» Ma non gli bastava offenderlo con le parole: aveva sfoderato la daga e gliela stava puntando alla gola. La gente seduta ai tavoli lì intorno si allontanò. Céspedes si rese conto di essere disarmato, mentre la lama del suo avversario aveva un filo perfetto. L'uomo menò un fendente, che il mulatto riuscì a schivare. Non poteva rischiare molti altri assalti. Girò intorno al tavolo per evitare il secondo colpo e, come aveva previsto, quel bestione lo seguì, sicuro della propria superiorità. Si studiavano l'un l'altro, accesi di collera. In quel duello non c'erano regole. Céspedes aspettò che l'altro fosse abbastanza vicino e, quando arrivò il terzo fendente, non si limitò a schivarlo: spinse col piede uno degli sgabelli, colpendo gli stinchi dell'avversario, che vacillò e mollò la daga. Céspedes s'impadronì dell'arma, pensando che l'altro si sarebbe dato per vinto. Un errore tattico che gli sarebbe stato fatale. L'altro reagì, sferrandogli un calcio all'inguine, così forte che lo fece finire a terra. Ma lui non lasciò andare la daga e, vincendo il dolore atroce che lo attanagliava, si rialzò con un salto e puntò l'arma contro quello spaccone, costringendolo ad arretrare fino alla porta, insieme con la donna che lo accompagnava. Quando tutto fu tornato tranquillo, il proprietario del libro gli si avvicinò per ringraziarlo. «Perdete sangue dall'inguine. Seguitemi nel magazzino e lasciate che vi dia un'occhiata.» «Non qui, per l'amor di Dio», lo pregò Céspedes. «Calmatevi, sono un cerusico.» Ma lui temeva che, dovendosi svestire, l'altro avrebbe notato il suo sesso. «Morirete dissanguato, devo tamponare quella ferita», insisté il cerusico. «Portatemi in qualche altro posto. Quel tizio potrebbe tornare con altra gente, o con un'arma migliore.» «Abito qui vicino. Mi farò aiutare a portarvi da me. Non dovete camminare.» L'oste chiese a uno dei suoi figli di accompagnarlo nel cortile sul retro, dove lo fecero stendere su un carretto. Mentre i suoi due buoni samaritani trottavano lungo le strade, Céspedes perse i sensi, spegnendosi come una lampada ormai priva di olio. *** LEON. Quando tornò in se, si trovava in una stanza. Accanto a lui c'era l'uomo incontrato alla locanda. Guardandolo così da vicino, la bassa statura passava in secondo piano, ed era il viso ad attirare l'attenzione: gli occhi penetranti, appannati dall'età; il naso aquilino, un po' storto; le labbra sottili, dal taglio deciso; uno sguardo attento, che brillava ancora di curiosità. «Come state? Vi fa male?» gli chiese. Con le mani ossute e corrose dagli acidi, indicava la benda insanguinata che copriva l'inguine di Céspedes.. Il calcio gli aveva riaperto la vecchia ferita mal cicatrizzata. «Come ve la siete fatta?» Non ottenendo risposta, ritentò. «Sembra una ferita di guerra. Causata da una freccia, direi, di quelle con cui i moriscos caricano le balestre.» Céspedes rimase perplesso: come faceva a saperlo? Era proprio il segno della freccia che l'aveva colpito alla coscia, al ponte di Tablate. Cosa poteva aver pensato, quell'uomo? Aveva sicuramente notato il colore della sua pelle e i marchi sul viso. Se lo aveva scambiato per un moro convertito, come poteva giudicare il fatto che avesse partecipato a una Pagina 90
sanchez - La schiava di Granada.txt guerra contro i suoi stessi fratelli di fede? E, cosa ancor più importante: aveva visto il suo sesso? Conosceva il suo segreto? Rimase a fissare il cerusico, cercando d'indovinarne i pensieri, ma il suo volto rimaneva impassibile. E alla fine gli fu grato del fatto che rispettasse il suo silenzio. «Dove vivete?» chiese infine l'uomo. Céspedes rispose con un gesto sfuggente, come a dire che non aveva una casa. Cosa piuttosto vicina alla realtà, poiché non aveva nessuna intenzione di tornare al laboratorio, né a fare il sarto. «Dovreste rimanere qui finché non vi sarete ristabilito», propose il cerusico. Inizialmente Céspedes accolse l'invito con diffidenza, ma non era una cattiva idea, tutto sommato. Alonso del Castillo lo aveva avvisato che lo stavano tenendo d'occhio. Dopo lo scontro alla locanda, era meglio abbandonare il mestiere di sarto, che negli ultimi tempi non faceva che dargli problemi. Se qualcuno lo stava cercando, avrebbe seguito quelle tracce, con tutto il loro rosario di rogne con la giustizia. Ci rifletté ancora. E fu di nuovo preso dall'inquietudine. Che cosa voleva quell'uomo, in realtà? Chi era davvero? perché s'interessava tanto a lui? Forse perché aveva davvero visto il suo sesso? Venne a sapere che si faceva chiamare Leon. Non avrebbe mai scoperto se era il suo nome vero o no, e nei mesi a venire arrivò persino a dubitare che fosse davvero un cerusico: anche se esercitava come se lo fosse e conosceva benissimo l'anatomia umana, Leon non era granchè abile con le mani. Si muovevano lente, impacciate, e sembravano risvegliarsi da quel letargo solo quando disegnavano. Dai commenti che faceva, Céspedes dedusse che fosse appassionato di pittura italiana. Quando faceva scivolare la matita sul foglio, il cerusico sembrava ringiovanire. Svaniva l'aria affaticata che gli davano quel suo camminare trascinando i piedi, la schiena curva, il respiro affannato che diventava un sibilo lieve quando saliva le scale. Ben presto Céspedes si rese conto che vivere accanto a quell'uomo aveva un effetto benefico su di lui. Avere qualcuno accanto lo distraeva dalle amarezze che gli corrodevano l'animo. E, insieme con un vino speziato che l'altro gli aveva prescritto per alleviare il dolore, lo aiutava a conciliare il sonno. Non appena le sue condizioni cominciarono a migliorare, Céspedes cercò di ripagare l'ospitalità ricevuta occupandosi della casa. Il cerusico accettò, a condizione che non toccasse il suo studio, col pretesto di non voler rinunciare a quel disordine che gli era così familiare. Tuttavia Céspedes capì che in realtà Leon voleva difendere a tutti i costi il suo spazio. Aveva un baule chiuso con un grosso lucchetto e una piccola arca da viaggio, rinforzata da robuste placche di metallo agli angoli, dove infilava libri e fogli, per tenerli al sicuro. Céspedes cercò di darsi da fare anche in cucina. Un giorno decise di preparare un pasto modesto, maiale con le rape. Mise sul fuoco una pentola di terracotta, nella quale fece scottare la carne. Aveva già pulito le rape e le aveva tagliate a dadini, per poi farle saltare. Le stava mescolando, condite con un pizzico di pepe e cumino, quando entrò il cerusico. Céspedes pensò che avrebbe mangiato degusto, ma l'uomo si rifiutò persino di assaggiarne un boccone. Lui ne rimase deluso, chiedendosi se fosse colpa del maiale o della rapa. O se invece quel piatto fosse proibito dal suo credo. Sta di fatto che Leon mangiò solo due fette di pane col miele. Qualche giorno dopo, il cerusico portò a casa un'oca, avuta in pagamento per i propri servigi. Dando fondo ai soldi che gli rimanevano, il mulatto decise di farla ripiena, provando una delle migliori ricette imparate dalla madre, Pagina 91
sanchez - La schiava di Granada.txt dedicandoci l'intera giornata. Le tolse il fegato, lo salò e lo mise a macerare con vino e miele. Poi vi sminuzzò una cipolla, una mela e alcune ciliegie essiccate, facendo saltare il tutto in una padella in cui aveva fatto sciogliere dello strutto. Aggiunse alcune mandorle pestate, mollica di pane ammollata nel latte, uova sbattute, cannella, zucchero e un bicchiere di acquavite. Mescolò bene e con quel ripieno farcì l'oca, che fece cuocere lentamente per tre ore. Quando la tolse dal forno, il profumo era tale che avrebbe resuscitato un morto. Tuttavia, sentiti gli ingredienti del ripieno, Leon si rifiutò di mangiarla. Di fronte all'espressione affranta di Céspedes, cercò di fargli capire che non era come sembrava. «Apprezzo molto quello che fate, e la colpa è mia, non del vostro modo di cucinare.» Non gli piaceva, disse, nutrirsi dell'agonia di altre creature. Preferiva alimenti come i frutti, che nella loro freschezza sembravano conservare il palpito della linfa degli alberi, la forza dei minerali, il sole di cui si nutrivano. Si accontentava di un po' di ciliegie, amarene, prugne, albicocche o di mezza libbra di fichi, quand'era stagione. E in inverno di uva passa, noci, castagne col miele e una fetta di formaggio. Per non offenderlo, aggiunse, come se volesse compensare quello che poteva passare per disprezzo: «Credo che stiate insistendo nell'attività sbagliata. Ho notato l'abilità che avete nel cucire: potreste aiutarmi nel mio lavoro». «Ma io... non ho fatto gli studi necessari», farfugliò Céspedes. «Siete portato, ed è molto più importante. Avete solo bisogno di fare pratica. Vi farò diventare un ottimo cerusico.» Cominciò a portarlo all'Hospital de Corte, anche se solo per assisterlo, per il momento. Insieme con lui, Céspedes apprese quanto fosse importante l'igiene, il badare che gli inservienti pulissero con l'acqua il pavimento dei dormitori comuni, sfregando con l'aceto i punti che dovevano essere disinfettati, e raccogliessero le lenzuola sporche nei grossi cesti di vimini, che facevano bollire in calderoni di acqua e soda caustica. Ma soprattutto prese dimestichezza con gli strumenti chirurgici: cauteri, bisturi, siringhe di rame, pinze, spatole, unguenti, acidi per le piaghe, polveri per asciugare e cicatrizzare le ferite, stecche per le ossa rotte; familiarizzò inoltre col modo in cui lavare, suturare e bendare le ferite. Non trascurò nessuna delle arti della chirurgia: amputare le carni, incidere ascessi in suppurazione, ricucire i tagli. Cauterizzare per evitare infezioni. Eliminare il superfluo, carnicole o grumi di sangue, e i corpi estranei, come calcoli o altri oggetti maligni. E imparò nel contempo l'anatomia, a distinguere le ossa e le articolazioni. A riconoscere muscoli, legamenti, nervi, membrane, cartilagini, vene e arterie. Dopo pochi mesi accanto a Leon, Céspedes aveva appreso tanto che sembrava non avesse fatto altro per tutta la vita. Maneggiava la lancetta e applicava le sanguisughe con una tale abilità che raramente mancava la vena. finchè, un giorno, Leon decise che era giunto il momento di portarlo di fronte al prefetto dell'ospedale, perché gli fosse assegnata una paga e una razione di cibo in qualità di suo assistente. E ora, ripercorrendo quei ricordi nella sua cella di Toledo, il reo si domandò che ruolo avesse avuto il cerusico in quanto era avvenuto in seguito. Durante i tre anni in cui erano vissuti insieme, Céspedes era arrivato a condividere con Leon i suoi più oscuri segreti. Ma forse anche lui conosceva quelli del cerusico. Non perché glieli avesse svelati, ma perché trapelavano inevitabilmente durante l'esercizio della sua professione. Erano così affiorate tracce del suo passato, di quando ancora si fidava della gente. Per alcuni versi quell'uomo gli ricordava don Alonso del Castillo. Si domandava se fosse dovuto Pagina 92
sanchez - La schiava di Granada.txt all'indole malinconica di entrambi, così poco inclini alle confidenze. Ma Leon conduceva una vita persino più austera, estranea a qualunque obbligo o convenzione sociale. I suoi unici contatti con l'esterno erano quello con l'ospedale e con una lavandaia che aveva conosciuto lì, la vedova Isabel Ortiz. Una donna ancora di bell'aspetto, che di tanto in tanto gli rendeva la biancheria pulita, portandosi via quella sporca. benché vivesse sotto il suo stesso tetto, Céspedes non sapeva quasi nulla delle origini del cerusico, ne del suo credo o dei suoi affetti. Tra i misteri che lo avvolgevano, c'era anche l'abitudine di prendere la borsa e di uscire in strada alle ore più impensate. Non avrebbe mai saputo dove si recasse in quelle occasioni, o che cosa andasse a fare, non fosse stato per ciò che era accaduto una notte. *** PRIMI SEGRETI. Quella cupa notte d'inverno, poco prima dell'alba, Céspedes sentì dei colpi alla porta e si alzò per andare ad aprire, preoccupato. Aveva appena imboccato il corridoio, quando vide qualcuno che usciva dalla stanza di Leon. Dapprima lo scambiò per il cerusico, ma era troppo alto per essere lui. Céspedes non riusciva a vedere bene, in quella poca luce. Non avrebbe nemmeno saputo dire se era un uomo o una donna, perché scappò via come una furia da una finestra sul retro. Continuavano a bussare. Quando Céspedes aprì, cercando di riparare dal vento la fiamma della candela, si trovò davanti un uomo così in preda all'angoscia che a stento riusciva ad articolare il nome del cerusico. Leon si era ormai avvicinato, e fece cenno all'uomo di entrare. Quello però scosse la testa. «E' per mia suocera... Non c'è tempo, signore... Venite subito, vi prego.» «Lasciate che mi metta qualcosa addosso e prenda le mie cose. E insisto, entrate, intanto. Potrebbero vederci.» Poi chiese a Céspedes di seguirlo in camera sua. «Dovete accompagnarmi, ho bisogno di voi. Ma giuratemi che manterrete il segreto su quanto vedrete o sentirete stanotte.» «Ve lo giuro.» «Sbrighiamoci.» Giunsero a una casa dall'aria umile. Una volta entrati, trovarono una donna che giaceva su un pagliericcio, lanciando di tanto in tanto un lamento soffocato. Una giovane pallida, dagli zigomi sporgenti e gli occhi infossati, cercava di calmarla, stringendo al petto il figlio appena nato. «Che cosa e successo a vostra madre?» chiese il cerusico. «Qualche giorno fa ho partorito», spiegò la ragazza tra i singhiozzi. «Il bambino stava bene, ma mia madre si è accorta che io perdevo troppo sangue e non riusciva a fermarlo. Così si e messa a gridare chiedendo aiuto. Sono arrivate le vicine, ma nessuna ha trovato un rimedio. In preda alla disperazione, lei si è messa a pregare... E' stata la nostra rovina.» «perché?» «Era una preghiera che le aveva insegnato mia nonna, ed è venuto fuori che era ebraica. Non appena il sangue si è fermato, le vicine hanno denunciato mia madre all'Inquisizione. L'hanno arrestata, e potete vedere da voi come l'hanno ridotta.» Quando la visitò, il cerusico si accorse subito che le avevano slogato le articolazioni. «Voi avete il braccio destro e il fianco atrofizzati. Come hanno potuto farvi questo?» chiese alla donna. «Gli ho fatto vedere che ero storpia, ma loro hanno mandato a chiamare un medico. Da come si comportava, Pagina 93
sanchez - La schiava di Granada.txt sembrava uno importante. Dopo che mi ha visitato, gli hanno chiesto se dal lato sinistro ero sana, e lui ha detto di sì. Così hanno deciso di torturarmi da quella parte.» «Che aspetto aveva quel medico?» s'interessò Leon. All'inizio la donna gli fece una vaga descrizione, tuttavia, dopo averle fatto qualche domanda, il cerusico sembrò capire di chi stesse parlando. Rimase pensieroso per un po', mentre continuava a visitare la donna. «Di che cosa vi hanno accusato?» «Di osservare la fede dei miei antenati, per aver recitato quella preghiera. Sapevano che la mia era una famiglia di ebrei convertiti.» «Continuate.» Lentamente, con grande dignità, gli raccontò di come l'avessero portata nella stanza delle torture, dove l'avevano minacciata affinchè denunciasse chi, come lei, praticava la religione di Mosè. L'inquisitore aveva ordinato alla donna di confessare, altrimenti avrebbe mandato a chiamare il boia. «Ho già detto tutto nella mia dichiarazione. Non so altro», aveva risposto lei. Quindi era arrivato il boia, e di nuovo l'avevano avvertita: «Che l'accusata confessi la verità, o verrà denudata». «Tutto quello che ho detto è vero.» Avevano cominciato a toglierle i vestiti, e lei aveva cercato di opporsi, buttandosi a terra e urlando che avrebbe preferito morire, piuttosto. Dopo averla spogliata e messa sul cavalletto, l'inquisitore aveva insistito: «Confessate, o verrete legata». «Non so altro!» Il boia aveva quindi cominciato a torturarla dal braccio sinistro, visto che il destro era atrofizzato. «Povera me! Sono solo una paralitica!» «Dite la verità, ed eviterete questa sofferenza.» «Fermatevi, perdio! Fermatevi! Un giorno, mentre passeggiavo con un uomo che conosco, e che abita in calle de Alcala, lui mi ha proposto di prendere parte a una cerimonia tra ebrei, ma non mi ha fatto nomi.» «Confessate il resto», le avevano ordinato mentre riprendevano a torturarla. «Aspettate! Per l'amor di Dio! Non mi ricordo! Vi prego, mi state uccidendo!» Lei aveva fatto i nomi di alcuni osservanti della legge di Mosè, che sapeva essere già noti agli inquisitori. E quelli erano tornati alla carica. «Continuate, oppure ordineremo al boia di ricominciare.» «Il venerdì abbiamo cenato a casa di questa persona che dicevo, ma non so se poi, il sabato, hanno digiunato, come previsto dalla loro legge. Ho visto altra gente con lui, ma non so quali di loro osservassero la sua stessa fede... Ahi! Ah! Abbiate pietà, non lo so, davvero!» E avevano continuato a girare la ruota, finché non le si era slogata l'articolazione. «Sto morendo, signori. Se manca qualcosa, ditemi cosa volete sentire e questa povera paralitica vi accontenterà. Leggetemi le accuse, le confermerò tutte e ammetterò di essere in combutta con tutta Madrid.» Le avevano detto i nomi dei suoi ipotetici complici, e lei li aveva ratificati. Quando aveva finito, gli inquisitori avevano guardato l'orologio a cipolla e avevano deciso che per il momento era abbastanza, visto che ormai era ora di pranzo. La donna tacque. Dopo aver ascoltato il racconto, Leon cercò di alleviare le sue sofferenze, ma ormai la vedeva era condannata a letto. E la tortura più grave era stata inferta al suo spirito, poiché l'avevano fatta diventare una traditrice della sua stessa gente. Forse era per quello che ormai vivere o morire le era indifferente, tanto da rompere il Pagina 94
sanchez - La schiava di Granada.txt giuramento di segretezza imposto dall'Inquisizione a tutti i rei. Durante la strada verso casa, il cerusico rimase in silenzio. Céspedes non lo aveva mai visto così sconvolto. Anche se non parlava, si mordeva le labbra dalla rabbia. Sembrava che quanto era successo gli avesse smosso dentro emozioni dolorosissime, come se avessero torturato lui. Céspedes aveva scoperto subito quanto fosse difficile strappare a Leon un'opinione in materia di religione o su argomenti che toccassero quel tema, anche solo lontanamente. E ora non poteva fare a meno di chiedersi se il cerusico non si fosse pentito di averlo portato con se. Era stato costretto dalle circostanze, su questo non c'erano dubbi. Forse aveva bisogno di un testimone, ma in che modo era legato a quella gente? Che rapporti aveva con una famiglia di ebrei convertiti che sembrava osservare ancora, in segreto, la sua antica fede? E chi era il medico di cui aveva parlato la donna? Quello che aveva dato il nullaosta affinchè potessero torturarla? A giudicare dalla sua reazione e dalle domande che aveva fatto, sembrava che Leon lo conoscesse. Immaginò che adesso il cerusico fosse in difficoltà, come se fosse stato costretto a firmare una specie di patto segreto. Un accordo che forse non era molto chiaro, e che nessuno dei due contraenti voleva rendere esplicito, ma lasciare avvolto in congetture confuse. Leòn non poteva non essersi accorto di come l'animo di Céspedes fosse rimasto devastato dalla guerra contro i moriscos, un conflitto che il tempo non riusciva ad allontanare. Il mulatto si chiedeva se, per sanare il proprio spirito, non dovesse purificarlo, curando quei corpi che prima, nelle vesti di soldato, aveva avuto il compito di aggredire e distruggere. Un cammino d'espiazione, finchè non avesse ritrovato quelle tracce di umanità ormai quasi estinte, perdute in tutto quel sangue. Un po' come se, mentre guardava guarire quella ferita di guerra che si era riaperta, fosse costretto a cauterizzare e cicatrizzare il male che gli aveva avvelenato l'anima. *** IL DOTTOR DÌAZ. Una mattina, mentre camminavano verso l'ospedale, Leon si fermò all'improvviso, scorgendo un uomo che usciva da una casa. A giudicare dai guanti di castorino e dalla giubba di stoffa argentata coi bottoni dorati, doveva essere una persona d'alto rango. Senza dire una parola, il cerusico afferrò l'apprendista per un braccio e lo tirò indietro. All'inizio Céspedes rimase sorpreso per quella reazione e capì solo quando, da lontano, vide uscire dalla casa anche il tizio senza naso col quale aveva avuto la lite nella locanda. Quando quei due si furono allontanati, cercò di strappare una spiegazione al cerusico, ma lui evitò l'argomento. Solo a fine giornata, ormai a casa, durante la loro cena frugale, Leon gli disse che doveva informarlo di una cosa, per la sua stessa incolumità. «Immagino che vi stiate interrogando sull'uomo senza naso. Ebbene, non mi sono fermato per lui, ma per quello che era uscito con lui.» «Quello con quegli abiti raffinati?» «Il dottor Francisco Diaz. Un medico rinomato, che ha in cura Sua Maestà in persona. Suppongo che il tizio senza naso sia un suo servo.» «Non lo avevate mai visto, prima di quella volta alla locanda? Da quello che vi ha detto, mi sembrava che vi avesse riconosciuto.» «Ora che mi ci fate pensare, forse ci eravamo incrociati una volta in una libreria, dov'era andato a portare il Compendio di chirurgia che il suo padrone aveva appena pubblicato. Aveva provato a vendermelo, notando che cercavo Pagina 95
sanchez - La schiava di Granada.txt quel genere di trattati, ma l'avevo ignorato.» «Allora conoscete quel Francisco Diaz.» «Lo conoscono tutti», rispose Leon, sfuggendo la vera domanda. «Ed e lui che era stato chiamato dall'Inquisizione per visitare la donna dalla quale siamo andati qualche giorno fa, non è così?» tornò alla carica Céspedes. Il cerusico assentì, sorpreso dalla sua sagacia. «Se pensate di continuare a esercitare questa professione, dovete imparare a evitare i giudizi affrettati. Qualunque medico chiamato dall'Inquisizione sarebbe stato obbligato a certificare che l'accusata era storpia solo da una parte. In caso contrario, avrebbe potuto rischiare di essere smentito da un collega.» Céspedes si chiese se Leon non stesse parlando per esperienza personale. E se quella non fosse una delle ragioni per cui evitava di esercitare come medico, limitandosi a fare il cerusico. Anche se poteva trovarsi di fronte a situazioni analoghe, in un caso come nell'altro. «Quanto alla domanda di prima, sì, conoscevo già Francisco Diaz.» Leon si lasciò sfuggire una smorfia amareggiata, a conferma del fatto che si trattava di un ricordo penoso. A poco a poco, col suo ritmo lento, raccontò a Céspedes di aver conosciuto Diaz mentre studiava medicina a Valenza, la sua città natale. «Ma questo è accaduto molto tempo fa. Lui era venuto da Alcala per specializzarsi con Pedro Jimeno e Luis Collado, due discepoli di Vesalio, la principale autorità in materia di medicina. Dunque, a Valenza era stata fondata la prima cattedra di anatomia in Spagna. Un corso estremamente serio: durava sei mesi e bisognava fare ventisei dissezioni nell'ospedale della città. Otto studenti erano incaricati di preparare i cadaveri. Io ero uno di loro, finchè non è arrivato Diaz.» Il cerusico non avrebbe mai spiegato chiaramente che cosa fosse successo, e Céspedes non riusciva a farsene un'idea. Per sua fortuna, non conosceva gli intrighi accademici né le insidie del mondo universitario. Ma ne poté dedurre che quella storia si era conclusa con l'abbandono degli studi da parte di Leon, che aveva lasciato il suo incarico in città per andarsene il più lontano possibile. Il cerusico non volle continuare. «è stata una giornata pesante. Inoltre è sempre meglio tacere, quando non si è nella posizione di dire tutta la verità e di affrontarne le conseguenze. Le circostanze possono obbligare al silenzio, ma mai alla menzogna. Alcuni sostengono che, se ami la verità, non puoi anteporle la compassione, nemmeno nei rapporti coi malati. Ma io non sono così coraggioso.» Quella sera non aggiunse altro, ma Céspedes notò un cambiamento in lui, dopo l'incontro col vecchio compagno di studi. Si disse che forse era dovuto ai propri progressi nell'apprendistato: all'ospedale ormai il cerusico gli delegava ogni giorno nuovi compiti. E lo portava con sé durante le visite private. Qualunque fosse il motivo, un giorno gli disse: «Il tempo non è eterno, ne abbiamo una quantità limitata». Sembrava che Leon volesse recuperare quello che aveva perso. O che intuisse le aspirazioni del suo apprendista: Céspedes aveva infatti deciso di abbandonare per sempre il mestiere di sarto per dedicarsi ai malati. Una passione che gli aveva trasmesso il cerusico, con l'attenzione che riservava ai pazienti. Preferì non interrogarsi su quanto Leon sapesse del suo sesso. Né se approvava o condannava la sua ansia di ascesa sociale. Comunque stessero le cose, una sera il cerusico lo invitò a proseguire la conversazione nello studio. Céspedes capì che gli stava aprendo le porte non solo del suo sancta sanctorum, ma anche dei segreti della sua professione. Un momento che lui sognava - e temeva - da tempo. Definire «studio» quella stanza era di certo eccessivo. Era così vuota che sembrava piuttosto la cella di un Pagina 96
sanchez - La schiava di Granada.txt certosino. Solo che non c'era nessun crocifisso alla parete, né altre immagini sacre. Ma, se il cerusico evitava di affrontare l'argomento religione, non era certo perché fosse privo di vita interiore: le ragioni dovevano essere altre. Forse era perché per un medico era superflua qualunque altra fede oltre a quella negli esseri umani. Una pittura italiana su cuoio marocchino, di ottima fattura, era l'unica immagine che adornava le pareti. «Rappresenta Sisifo, mentre trasporta un enorme masso sulla cima di un monte», gli spiegò Leon, quando si accorse che Céspedes la guardava. «Quando arriva, però, il masso rotola di nuovo al punto di partenza. E continuerà così, per l'eternità.» «perché?» «E' un castigo per non essersi piegato al volere degli dèi, al compito che gli avevano riservato.» Céspedes non riuscì a cogliere il senso profondo di quella storia. Non ancora. E nemmeno quello delle altre che il cerusico gli raccontò. Eppure, dopo quella prima serata, si ritrovò ad aspettare con ansia le successive. Quando scendeva la sera, preparava il braciere per scaldare le fredde notti d'inverno, impaziente d'imparare. E quando Leon si mostrava stanco e allungava le mani artritiche verso quelle poche braci, Céspedes raccoglieva con la paletta le ultime ceneri per prolungare le sue lezioni. Non avrebbe mai scordato quella casa, dove non si lesinavano candele per amore della conoscenza. Il lento affaticarsi su libri e pagine, con la penna o la matita sempre a portata di mano, perché a Leon piaceva disegnare mentre parlava, rievocando per lui gli spiriti più inquieti e curiosi, gli interrogativi più frequenti e profondi. Un modo di affrontare i problemi che da allora avrebbe cominciato a fondersi con le esperienze personali di Céspedes, cambiando completamente la sua vita. C'era qualcosa di magico in quei momenti, quando Leon apriva la sua arca del tesoro, piena di volumi fitti di note. Il porto in cui confluivano le gravose rotte di tutta la sua vita. Uno dei suoi preferiti era la Naturalis Historia di Plinio, per il suo modo di esaminare le cose dalla radice fino all'ultima foglia. Céspedes cominciava appena ad ampliare i propri orizzonti, quando si rese conto che il cerusico mirava più lontano: stava cercando d'insegnargli a distinguere cosa era contro natura e cosa non lo era. Solo più tardi si rese conto di un altro dettaglio: quello era il secondo libro nel quale leggeva qualcosa sugli ermafroditi e sull'estrema ambivalenza degli organi sessuali, dopo il testo di Leon Hebreo dell'inca Garcilaso. Non si sorprese invece che si soffermassero sui testi di medicina, che ancora sembravano impregnati dell'aceto usato per disinfettare i tavoli di dissezione. Leon insisté in modo particolare sulle ferite di guerra, col pretesto di quella di Céspedes. E citò un medico francese molto noto già allora, Ambroise Pare. Céspedes imparò così che un chirurgo affonda una lama nella carne per uno scopo opposto a quello del soldato, per curare e non per uccidere. E riuscì a comprendere meglio la doppia vita di Leon: da un lato, l'attività ufficiale presso l'Hospital de Corte, dov'era un semplice cerusico obbligato a visitare un'infinità di malati. Dall'altro, nella clandestinità, la cura dei pazienti propria di un medico esperto. Céspedes non riusciva a capire il perché si sobbarcasse anche quell'incarico, ma non avrebbe mai osato manifestare le sue riserve; aveva troppa paura che Leon lo allontanasse, perdendo così l'accesso alle sue straordinarie conoscenze. Tutto aveva un prezzo. Céspedes sapeva che l'altro lo stava mettendo alla prova, ed entrambi erano consapevoli dei rischi che correvano. Mentre lo ascoltava, si domandava per quale ragione Pagina 97
sanchez - La schiava di Granada.txt Leon si dedicasse, ufficialmente, a impegni tanto modesti, visti il suo sapere, la perspicacia e le capacità. Conosceva gli organi uno per uno, e il suo sguardo sul corpo umano era così allenato che riusciva a leggervi le sfumature più nascoste, come un libro aperto. perché allora lavorava all'Hospital de Corte, con strumenti e rimedi che a malapena gli permettevano di distinguersi da un barbiere o da un cavadenti? Come poteva, un uomo del suo talento, ridursi con un catino e una lama per salassi, con le mani piene di bende purulente? Solo durante le intempestive visite private ai diseredati che chiedevano il suo aiuto, Leon svelava la profondità del suo sapere. E Céspedes s'interrogava su cosa fosse accaduto a Valenza, col dottor Diaz. Solo in seguito sarebbe riuscito a scoprire qualche altro frammento della vita del cerusico, dopo molti mesi e pagine di quei libri che recavano colophon di stamperie straniere, annotazioni ai margini, fogli sciolti, ricordi lontani. *** LA FABBRICA DEL CORPO. Non sarebbe stato facile scoprire cosa fosse successo a Leon dopo che aveva lasciato Valenza. E in effetti Céspedes non sarebbe mai venuto a capo dell'intera storia. Sarebbe riuscito a ricomporne alcuni frammenti solo grazie al volume che il cerusico portava nella sacca di lana quando lo aveva conosciuto, alla locanda. Lo stupiva il fatto che un uomo d'indole così tranquilla avesse mostrato un attaccamento così feroce per quell'opera, e che l'uomo senza naso e la donna che lo accompagnava si fossero sdegnati a quel modo nello sfogliarne le pagine. Leon manteneva la segretezza più assoluta riguardo a quel testo. Perciò, quando un giorno lo tolse dall'arca e lo mise sul tavolo, Céspedes capì che stava per dirgli qualcosa di davvero importante. «In alcune occasioni mi avete fatto delle domande su questo volume, e sulle ragioni per cui l'ho in così grande stima. Dunque, l'ho trovato in Italia», disse, posandovi sopra una mano con un gesto che ricordava quello di un giuramento. Forse quello d'Ippocrate, o quelli che si fanno sulle Sacre Scritture. Quasi una carezza. L'aspetto esterno dell'opera non colpiva granché. La rilegatura era vecchia e consunta, e solo sfogliandolo Céspedes si rese conto dell'eccezionalità del trattato. Grazie a quel testo, gli sarebbe stato rivelato un nuovo universo. Leon si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Il suo sguardo offuscato si schiarì al calore dei ricordi che tornavano in soffici ondate, cullati dal sole dell'Italia, che ancora illuminava la sua memoria e gli riportava i brandelli dei suoi anni da studente, dolci di giovinezza e di novità nascoste dietro ogni angolo. Quella confusione di feste e compagni di studi, balli e serenate. Quelle scritte sui muri, che rispondevano a tono a quelle degli avversari. Gli applausi durante le votazioni, dando battaglia ai gruppi di studenti rivali. Quando il corpo era agile, l'ingegno brillante e tutto era un rincorrere l'amore, un affrettarsi a impegnare Aristotele, Galeno e altri mattoni per potersi pagare da bere. «Questo, come vedete, è un trattato di anatomia. L'autore, Andrea Vesalio, era un medico militare, e fino a qualche anno fa risiedeva qui, alla corte di Madrid, come medico personale di Sua Maestà. Avevo saputo di lui tramite i miei maestri di Valenza, Pedro Jimeno e Luis Collado, che erano stati suoi studenti all'università di Padova.» S'intitolava De humani corporis fabrica. Le superbe incisioni rivelavano in ogni dettaglio l'edificio del corpo umano, quell'universo nascosto sotto la pelle. L'impalcatura di ossa, che col passare degli anni e dei secoli rimaneva l'unica testimonianza del suo antico proprietario. I muscoli e i Pagina 98
sanchez - La schiava di Granada.txt legamenti, l'arduo intreccio di vene, arterie e nervi. E poi gli organi del ventre, il petto e la testa, che dirigeva e dava impulso a quel formidabile insieme. Céspedes rimase a bocca aperta per lo stupore davanti a quelle illustrazioni, esattamente com'era successo, a suo tempo, a Leòn. «Queste tavole hanno un valore inestimabile», spiegò il cerusico. «Permettono di sapere dove incidere, e quello che si troverà. Questa è la summa del lavoro di anni interi, di dissezioni su un numero infinito di corpi.» «E i disegni sono davvero belli.» «Considerano l'uomo la misura di tutte le cose. Tutto il resto viene adattato di conseguenza, come gli edifici e le colline che appaiono sullo sfondo: sono quelli che circondano Padova.» Come gli stava spiegando Leon, quel testo era un atlante di anatomia, una mappa del corpo inteso come un microcosmo, un piccolo universo collegato al pianeta grazie ai frutti della terra o alle acque che, passando attraverso gli organi che fungevano da forno, mantice, canali e meccanismo di pompaggio, si trasformavano in fluidi che nutrivano il corpo e lo facevano crescere, per poi fare ritorno alle proprie origini. «Lo stesso anno in cui è stata pubblicata la prima edizione di questo libro, è apparso quello di Copernico sulle rivoluzioni delle sfere celesti. Ci eravamo appena ripresi dalla scoperta dell'America, quando abbiamo dovuto riconsiderare la nostra posizione all'interno del cosmo.» Il cammino lungo quelle pagine guidò Céspedes in un'avventura incomparabile. Lì c'era un universo intero a portata di mano, un mondo di cui non si era mai accorto perché se lo portava addosso fin dalla nascita: il suo stesso corpo. E per esplorarlo non erano necessari lunghi viaggi, né altri mezzi se non quelli di un cuore puro, di una mente curiosa e della ricerca della verità. «Chi l'avrebbe detto che avrei fatto tante rinunce per un libro, con tutti quelli che avevo impegnato prima! Mi è costato moltissimo riuscire ad averlo. Lunghe attese e sacrifici. Ed è diventato ancora più prezioso con l'aggiunta delle mie note e dei disegni», continuò Leon con lo sguardo fisso su un punto lontano, come se fosse rivolto ai propri ricordi, segnati per sempre da quel momento emblematico. Negli anni successivi, Leon aveva acquisito abilità e astuzie, ma non aveva più provato l'entusiasmo dei primi tempi. Come dimenticare il teatro anatomico dell'università di Padova? Nessun altro luogo al mondo reggeva il confronto. Al centro, il cadavere per la dissezione. Il medico con gli avambracci coperti dai manicotti, impegnato con scalpelli, ganci, pinze, sega e dissettori. Intorno, gli scanni disposti ad anelli concentrici, come le orbite dei pianeti suggerite da Copernico. Una scenografia che trasformava il teatro in un tempio consacrato al corpo. Lì, in quel viaggio sotto la pelle, l'esperienza aveva la meglio sull'autorità delle fonti e sulle lezioni rigurgitate ex cathedra. I posti erano così richiesti che dovevano essere assegnati da un funzionario, che supervisionava l'osservazione delle parti dissezionate. Dopo essere stati estratti, gli organi venivano infatti portati lungo le gradinate dagli assistenti, affinché i presenti li potessero esaminare. Qui un rene, là un fegato, dall'altra parte un cuore, mentre gli studenti infilavano il naso in un sacchetto di erbe profumate per mitigare l'odore. «Per essere ammesso avevo fatto valere le mie esperienze precedenti nella preparazione dei cadaveri per la dissezione. Il problema era riuscire a trovare i corpi, che scarseggiavano. Era un compito molto rischioso: impiccagioni, riesumazioni nei cimiteri, camere mortuarie degli ospedali... meglio non fare domande a chi ce li forniva.» Il volto di Pagina 99
sanchez - La schiava di Granada.txt Leon s'incupì nel tornare con la mente a quel losco traffico. «Era una sfida pericolosa. Una vecchia bolla papale aveva proibito le autopsie, ma questo non aveva impedito quel macabro commercio, aveva solo aumentato il guadagno di chi ne viveva, col pretesto dei maggiori rischi. Le sparizioni di cadaveri venivano subito imputate alla brama degli anatomisti. Una rete clandestina si estendeva in tutta la città e i dintorni, alla ricerca di una salma pronta per essere dissezionata. Si corrompevano boia, becchini e mendicanti per riuscire a mettere le mani sui corpi. Per migliorarne l'aspetto, li si truccava applicando vermiglione sulle guance, smalto sulle unghie, o la trementina sugli occhi, perché tornassero a brillare. E, se le condizioni erano pessime, si vendevano i capelli ai parrucchieri e i denti agli orafi. Era un'industria davvero prospera. finché le cose non hanno cominciato ad andare storte...» Leon non disse granché su ciò che era accaduto in seguito, ma quanto bastava perché Céspedes traesse le sue conclusioni. Un certo Guido, il ragazzo che procurava i cadaveri, doveva aver avuto una parte più o meno consistente in quella faccenda. Nonostante tutti gli anni trascorsi da allora, la scintilla che brillava negli occhi del cerusico mentre parlava di lui era più eloquente delle sue parole. Dalle quali Guido appariva come un giovane sfacciato e allegro, cresciuto per strada e per questo esperto dei suoi pericoli. «Fiera temibile, quella dei vent'anni. Una belva troppo selvaggia per riuscire a domarne gli istinti, ancora confusi a quell'età. E tuttavia tenaci, data la naturale impazienza e la scarsa disciplina.» Raccontò quindi che Guido si era fatto sempre più temerario, influenzato dai compagni spregiudicati coi quali andava in cerca di corpi. Gente pericolosa, che non si faceva scrupoli al momento di mettere le mani su un morto. E, se non ce n'erano, ci pensavano loro. «Un giorno, Guido è venuto da me e mi ha chiesto di prestargli il mio più caro tesoro: questa copia del Vesalio che avevo comprato a prezzo di tanti sacrifici. Poco dopo, in città si è scatenato il pandemonio: era stata profanata la tomba di una donna morta da poco. Per camuffare la cosa, avevano infilato della stoppa al posto degli organi trafugati. Ma il furto era stato scoperto comunque e il vedovo, uno degli uomini più potenti in città, ha giurato di trovare i responsabili e d'infliggere loro un castigo esemplare.» Quando Guido lo aveva invitato a pranzo, per ringraziarlo di avergli prestato il Vesalio. Leon aveva capito tutto. Aveva visto che l'altro aveva molti più soldi del solito: aveva deciso di fare affari con gli anatomisti procurandosi gli organi più difficili e cari. «La famiglia della donna ha interrogato quella gente senza scrupoli per la quale lavorava Guido. Quelli hanno capito subito che aria tirava e si sono affrettati a chiarire che non era stata opera loro, perché avrebbe significato la fine della loro attività. E hanno deciso di dare una bella lezione al responsabile.» Leon fece una pausa. Era difficile dover rievocare un momento così doloroso. «Pochi giorni dopo, Guido non si è presentato all'ora stabilita per consegnarmi il cadavere che mi aveva promesso. Ne avevamo bisogno per una lezione che si sarebbe tenuta di lì a poco. Ormai avevo perso le speranze, quando sono arrivati i suoi committenti, portando un grosso fagotto. L'ho aperto e sotto il lenzuolo c'era il corpo di Guido, col petto e la schiena scorticati. Quando sono andato a casa sua, ho visto che il letto era inzuppato di sangue, e così ho capito che glielo avevano fatto mentre era ancora vivo.» Era stato un colpo terribile per lui. Si era ripromesso di andarsene non appena si fosse presentata l'occasione di poter essere riammesso all'università di Valenza. Prima però voleva recuperare il suo Vesalio, che qualcuno aveva preso dalla stanza di Guido. In quelle pagine c'erano gli appunti che riassumevano tutto il suo sapere. «Dopo un bel po' di Pagina 100
sanchez - La schiava di Granada.txt tempo passato a girare per librerie, ho deciso di tornare in quella più grande e più frequentata. Quando sono entrato, un gruppo di studenti raccolti intorno a un leggìo si è fatto da parte per farmi passare, mormorando. Sono rimasto colpito dal loro comportamento, così mi sono avvicinato e ho visto un Vesalio. Quando l'ho aperto, ho avuto la certezza che era il mio, anche se avevano cambiato la rilegatura. Ho pensato che lo avessero fatto per venderlo a un prezzo più alto, ma, quando ho chiesto di poterlo comprare, dopo averne rivendicato inutilmente la proprietà, quelli si sono rifiutati. Qualcuno aveva pagato una grossa somma affinchè il libro restasse lì in esposizione, mettendo in giro la voce che si trattasse di un volume speciale. Sembrava che lo sapessero tutti, tranne me.» Leon si faceva sempre più curvo man mano che il racconto proseguiva, e a un certo punto sembrò che gli mancassero le forze per continuare, tanto terribili erano quei ricordi. «Forse un giorno troverò il coraggio per raccontarvi il resto. Posso solo dirvi che l'Italia non mi dava ormai nessuna gioia. Non ero più affascinato dalle sue strade spaziose, con quelle lastre di pietra così piatte, grandi e dritte, dalle case imponenti, con tutte quelle finestre, quelle città in fiore, che traboccavano di luce e di vita. Volevo tornare in Spagna. Avevo sentito che don Luis de Requesens stava armando una flotta di ventiquattro galere che voleva riempire di soldati per accorrere in soccorso di don Giovanni d'Austria, impegnato nella guerra contro i moriscos delle Alpujarras. Così mi sono imbarcato a Genova, come cerusico. Ma, una notte, prima di lasciare Padova, sono entrato di nascosto in quella libreria e ho rubato il Vesalio. Per questo è il ricordo più importante che ho.» Céspedes rimase in silenzio, indovinando il resto. Immaginava che cos'avesse significato per il cerusico partecipare alla guerra contro i moriscos. Ricordava bene la campagna dei tercios giunti dall'Italia, la temibile efficienza di quei veterani durante l'assedio della Galera. Erano stati loro a partecipare ai combattimenti più sanguinosi, riportando migliaia di morti. Non aveva bisogno che Leon gli raccontasse cos'avesse dovuto affrontare nelle Alpujarras: lo sapeva fin troppo bene. Ma che aveva fatto il cerusico, al termine della guerra? Lo avrebbe scoperto solo in seguito, e a quel punto molte cose gli sarebbero state più chiare. Cominciò a capire il giorno in cui si presentò alla porta il parente di uno di quei malati che Leon seguiva a titolo privato. Il cerusico prese gli strumenti e gli chiese di accompagnarlo. In quell'occasione, Céspedes ebbe l'impressione che non volesse solo il suo aiuto pratico, ma che avesse capito ciò che poteva significare per lui l'esercizio della medicina: la sua rinascita come soldato che aveva combattuto contro i moriscos, quella stessa guerra che ora li aveva resi complici e alleati. *** L'AVVELENATO. S'incamminarono verso i sobborghi della città, calpestando la neve sporca di fango, sotto il cielo intirizzito e grigio. Arrivarono a una delle casas de milicia, umili dimore costruite dopo che la Corte si era trasferita a Madrid. Bastava guardarla per capire che era stata progettata da speculatori senza scrupoli, approfittando della grande domanda di alloggi dovuta all'esorbitante espansione della città. Era volutamente piccola, modesta, per sfuggire alla Carga de aposento, cioè all'obbligo imposto ai cittàdini di Madrid di dare alloggio ai funzionari del re. Quando l'uomo che aveva condotto lì Leon e Céspedes bussò alla porta, li accolse una donna che giunse le mani in una supplica silenziosa. Il cerusico cercò di Pagina 101
sanchez - La schiava di Granada.txt tranquillizzarla e lei li guidò verso un locale che difficilmente avrebbe potuto definirsi una camera da letto. Non appena scostarono la tenda, furono raggiunti da un fetore acido. Su una branda accostata al muro giaceva un uomo dall'aspetto emaciato, che era scosso da un tremore incontrollabile. Leon prese uno sgabello e si sedette accanto a lui per sentirgli il polso. Céspedes gli prese una mano e vide che il palmo era spellato e pure la bocca era coperta di piaghe. «Riesce a mangiare?» chiese il cerusico alla donna. «No, non mangia quasi niente, da quando si e sentito male. Per questo è così debole.» L'uomo riconobbe Leon. All'inizio, quello che disse mentre lo visitavano sembrava frutto del delirio, ma poi Céspedes comprese che il malato aveva condiviso col cerusico esperienze private che ora, all'improvviso, riportava alla luce con una confidenza imbarazzante, come quelle balie che, confuse dall'età, mettono a disagio i padroni ormai cresciuti ricordando i momenti più intimi dell'infanzia, con tanto di pannolini e vasi da notte. Leon chiese a Céspedes di tener fermo il malato, ancora scosso dai tremori, mentre lui gli faceva bere alcuni cucchiai di sciroppo. Dopo un po', l'uomo sembrò calmarsi e si addormentò. Prima di andarsene, il cerusico parlò con la donna, lasciandole il flacone del medicinale, schermendosi quando lei cercò di baciargli le mani. Tornarono a casa. La neve si era trasformata in un acquazzone che gli sferzava il volto, mentre le scarpe s'inzuppavano di fango. L'animo del cerusico non sembrava meno burrascoso, quando Céspedes gli chiese: «Di checosa soffre quell'uomo?» «Avvelenamento da mercurio, per questo trema.» «E le piaghe?» «Colpa del fumo dei forni.» Vedendo che Céspedes non capiva, aggiunse: «Ha passato molti anni nelle miniere di mercurio di Almadeen». «Come ha fatto a ridursi così?» «Lavori forzati. La Corona ha dato le miniere in concessione ai Fugger, quei banchieri tedeschi coi quali è indebitata fino al collo. E loro hanno chiesto una squadra di condannati alla galera per i lavori più duri. Li trattano come schiavi, li portano lì in catene dal carcere di Toledo. Tra loro ci sono molti moriscos, come quello che abbiamo visitato poco fa.» Céspedes esitò, ma a quel punto non aveva senso nascondere quello che il malato aveva svelato apertamente. «Quell'uomo vi conosceva. Siete stato anche voi ad Almadeen, è così?» riuscì infine a chiedere. «Lavoravo all'infermeria. Pensavo che così avrei potuto rendermi utile.» «Una convalescenza dopo la guerra delle Alpujarras?» «Qualcosa del genere. Ma mi sbagliavo. E' stato persino peggio.» «Li trattano così male?» «L'infermeria potrebbe offrire di meglio, ma è passabile. Quando uno dei forzati crolla, il medico o il chirurgo lo visita e gli prepara predella, materasso, coperta, lenzuolo e cuscino. I condannati hanno sempre i ceppi alle caviglie, persino quando dormono, e, per garantire la massima sicurezza, sono legati a una lunga catena. Quell'uomo ha sopportato cose indicibili, anche se lavorava alle pozze.» «Alle pozze?» «Si dice così per quelli incaricati di dragare le miniere nei punti più profondi, dove finisce tutto quello che cola dalle gallerie superiori. è un lavoro durissimo. I turni vanno avanti giorno e notte, non si fermano nemmeno durante le feste. Un addetto alle pozze può lavorare anche dodici, diciotto ore al giorno.» Pagina 102
sanchez - La schiava di Granada.txt «Non è possibile resistere a una cosa del genere.» «E infatti non resistono, come avete visto. Oltre al fatto che non sempre i condannati ricevono cibo, vestiti e medicine come stabilito dal contratto.» «Ma è una concessione reale, ci dovranno pur essere degli ispettori di Sua Maestà che vanno a controllare.» «Per esserci, ci sono. Ma ci pensa l'amministratore dei Fugger a mettergli i bastoni fra le ruote. Molti dei registri, documenti e carte sui forzati che arrivano, partono o muoiono sono scritti in tedesco.» «E non si può fare denuncia?» «Io ci ho provato, ma inutilmente. Gli impiegati dei Fugger mi hanno smentito, dichiarando il contrario. Loro, i capi dei forni di mercurio, il responsabile dei prigionieri, il barbiere e il medico. L'unico ad aver testimoniato a mio favore è stato l'uomo che avete appena visto. E ovviamente l'ha pagata cara.» Céspedes aspettò che Leon si calmasse e riprendesse il racconto. «Lo hanno spostato ai forni, dove si separano le ceneri e si trasportano le vasche di mercurio. Un lavoro così terribile che i forzati sono legati a dei pali, per evitare che scappino. Lì dentro fa così caldo che la suola delle scarpe si scioglie a contatto col pavimento. Le orecchie si arricciano e le mani si ustionano. La pelle rimane attaccata ai pentoloni, e loro vengono praticamente scuoiati e bruciati vivi. Come se non bastasse, i vapori sono così velenosi che gli uomini si ammalano gravemente, arrivando alla follia. Pochi riescono a non perdere il senno. Li portano in infermeria solo quando non c'è più niente da fare e lì muoiono tra conati fortissimi, con la schiuma alla bocca, come se avessero preso la rabbia, e tremano al punto che bisogna legare loro i piedi, le mani e la testa. Talmente confusi che non li confessano nemmeno.» Il cerusico s'interruppe, commosso dai ricordi. «Sono riuscito a farlo uscire di lì quando ormai non c'era modo di curarlo, perché potesse almeno tornare dalla sua famiglia. Quanto al resto, non c'è stato niente da fare. I Fugger sono troppo potenti perché qualcuno si metta a indagare. Io sono stato smentito da medici prestigiosi. E indovinate un po' chi faceva parte della commissione che ha insabbiato tutta la storia?» «Il dottor Francisco Diaz?» «In persona. Capite adesso perchè lo evito?» *** COLOPHON. Una domenica mattina, mentre Leon passeggiava col suo assistente in calle de Alcala, qualcuno lo chiamò da una carrozza. Quando i cavalli si fermarono, dal finestrino si sporse un uomo ben vestito. Céspedes si allontanò di qualche passo, per non essere indiscreto, ma anche da lontano gli fu evidente la deferenza con cui quel tale trattava il cerusico, benché questi fosse a piedi e con indosso abiti modesti. Non poté nemmeno ignorare il disagio di Leon, dato che in un primo momento si rifiutò di salire in carrozza, nonostante le insistenze dell'altro. Poi però acconsentì, e vi rimase a lungo. Céspedes non poteva vederli, nascosti com'erano dalla tenda. Quando scese, Leon aveva un'espressione insolitamente cupa. Non appena la carrozza ripartì, il cerusico si rese conto che l'apprendista si aspettava una spiegazione. «Era il dottor Francisco Diaz. E' noto per essere il maggior esperto in materia di apparato genitale. Se mai doveste avere qualche problema in proposito, è a lui che vi dovete rivolgere». Quelle parole lo lasciarono di stucco, e si chiese se il Pagina 103
sanchez - La schiava di Granada.txt cerusico si fosse riferito ai pazienti o a lui. Quella stessa sera, Leon gli propose di riprendere la loro vecchia abitudine di riunirsi nello studio, abbandonata negli ultimi mesi alla luce dei progressi dimostrati da Céspedes nella pratica della professione. E così, dopo cena, il cerusico gli annunciò, con espressione grave: «Avrei preferito affrontare questo argomento con più calma. Aspettavo che si presentasse l'occasione più adatta ma, dopo la conversazione col dottor Diaz, dubito che avremo altri momenti di tranquillità. Devo mettermi in viaggio e dobbiamo parlare di alcune questioni che abbiamo trascurato. A dire il vero, sono cose che si lasciano sempre da parte, dal momento che il tema è piuttosto delicato». Céspedes lo fissava, curioso. Che cos'era successo durante l'incontro con Diaz? E a quali questioni si riferiva? Cominciò a capire quando il cerusico aggiunse: «Gli anatomisti non sempre prestano la dovuta attenzione agli organi genitali, in particolare a quelli femminili. E tuttavia, come si può ignorarli? Al loro interno si forma una nuova vita a partire da una piccola quantità di sperma. Ciò che succede in quella parte del corpo della donna è una sfida e un enigma. Siete al corrente del dibattito esistente sul tema?» Notando la perplessità sul volto di Céspedes, continuò: «Be', non lo avrei saputo nemmeno io, se a Padova non fossi stato allievo di Matteo Realdo Colombo. E' stato il successore alla cattedra di Vesalio. Ha pubblicato un'opera a Venezia, nel 1559, De re anatomica, con un frontespizio che, a quanto si dice, è stato disegnato dal Veronese in persona. Non era una cosa insolita: i libri di anatomia cominciavano a dare qualche profitto e venivano collezionati da gente facoltosa. Colombo voleva competere con le incisioni del Vesalio, che erano opera di un discepolo del Tiziano. Altri lavoravano con illustratori del laboratorio del Tintoretto. Anche le dissezioni meglio riuscite, infatti, risultavano inutili se non c'era chi le documentava, prima coi disegni e poi con le incisioni, affidate alla recente invenzione, e ora mestiere, della stampa. Padova non sarebbe stata la stessa se non si fosse trovata sotto il dominio di Venezia, cosa che le dava accesso all'incomparabile congregazione di artisti di quella città. La concorrenza era agguerrita e la clientela esigentissima. Per questa ragione, Matteo Colombo aveva pensato addirittura a Michelangelo Buonarroti, di cui era amico e medico, per le illustrazioni del proprio libro. Dal momento che io avevo una bella mano per disegnare, mi ha chiesto di fare i bozzetti mentre lui eseguiva le dissezioni. poiché lo scopo era quello di colmare le lacune del Vesalio, li facevo sui margini della mia copia. E questo la rende ancora più preziosa, tralasciando altri dettagli che vi risparmio». Aprì il libro e gli mostrò le immagini che aveva aggiunto. Solo allora Céspedes comprese perché la donna che accompagnava l'uomo senza naso si fosse indignata così tanto. Lì era raffigurato l'organo genitale femminile nei minimi dettagli, e chi ignorasse lo scopo di quei disegni li avrebbe fraintesi: era infatti risaputo che molti usavano immagini simili per istigare la propria lussuria. Ciò che Céspedes vide in quelle pagine gli fece desiderare quel libro con tutta l'anima. Oltre alle lezioni del Vesalio, conteneva quelle del suo discepolo, Matteo Realdo Colombo, riguardo all'organo sessuale femminile. Aveva bisogno di quel libro per capire meglio il proprio caso e dissipare la confusione che ancora provava sulla propria natura. «Vi sto mostrando tutto questo perché possiate valutare quanto afferma Matteo Realdo Colombo. Dice di aver scoperto la parte più segreta del sesso delle donne, quella che procura il piacere e le spinge a darsi a un uomo, e che per questo si sente come un altro Colombo. E scrive, riferendosi a quell'organo: Oh, mia America, mia nuova terra Pagina 104
sanchez - La schiava di Granada.txt ritrovata!» aggiunse Leon. «Come puo vantarsi di una cosa del genere, quando ogni donna ce l'ha e dovrebbe conoscerlo meglio di lui?» «I suoi detrattori sostengono sia cosa nota da secoli, e che gli antichi chiamavano 'clitoride'. Comunque è altrettanto noto che qualcuno fosse arrivato in America prima di Cristoforo Colombo. Matteo Colombo reclama la scoperta di quella parte del corpo perché è stato il primo ad averla analizzata, lasciando puntuali note sulle sue dissezioni. Prima di lui, si considerava una protezione della vulva. Non era quasi menzionata nei libri, neanche fosse un segreto di Stato. Si temeva che, rendendo noto il modo per stimolare quell'organo, il pudore femminile sarebbe stato sopraffatto, dando briglia sciolta alla lussuria. In effetti basta accarezzarlo con un dito, con un movimento continuo e delicato, perché si bagni, diventando turgido.» «Allora è come il membro maschile...» «E' simile: quando si eccita si arrossa, si solleva e s'ingrossa. E poi si riabbassa, dopo aver provocato il piacere più intenso.» «Ma non è un membro virile.» «Dal mio punto di vista, no, dal momento che all'interno non ha condotti per la fuoriuscita dello sperma.» «E' strano che si sappia così poco di una cosa tanto importante.» «Non è così evidente. Di solito ha le dimensioni di un pisello, anche se ce ne sono di più grandi. Quando riposa rimane molle, come una cresta di gallo o la caruncola del tacchino. Ma, quando si eccita, si mostra in tutte le sue dimensioni, come il dito di un bambino, al punto di far dubitare della femminilità delle donne che ce l'hanno così grande. Potrebbero usarlo proprio come fanno gli uomini. C'è chi è stata condannata a morte per aver sedotto un'altra donna.» Quelle ultime parole misero Céspedes sul chi vive. Era forse un avvertimento? Tutto dipendeva dal fatto che conoscesse o no il suo segreto, e quale fosse la sua opinione in proposito. Pensava che Leòn non avesse altro da aggiungere, visto che era in silenzio da un po', ma la vera sfida doveva ancora arrivare. «Siamo chirurghi. E un medico francese, grande autorità in materia e tuttora in vita, Ambroise Pare, riferendosi alla nuova chirurgia anatomica come oggi deve e può essere applicata, assicura che questa disciplina ha cinque funzioni: eliminare il superfluo, ripristinare ciò che è stato spostato, separare ciò che è stato unito, riunire quanto è stato diviso e porre rimedio ai difetti della Natura.» Céspedes sussultò per l'enfasi che il maestro aveva messo in quelle ultime parole. «Probabilmente starete pensando che si tratta solo di buoni propositi, ma privi di utilità pratica. Rammentate quello che abbiamo letto nella Naturalis Historia di Plinio riguardo all'ermafroditismo?» «Sì, me lo ricordo.» «Be', Plinio non è l'unico a parlare delle persone che dispongono di entrambi gli organi sessuali. Gli ermafroditi esistono, alcuni hanno l'organo femminile perfetto e quello maschile imperfetto, o viceversa. Altri li hanno entrambi imperfetti, con una specie di escrescenza carnosa al di sopra dell'uretra che a volte è piccola e fragile, a volte invece si presenta forte e robusta.» A quelle parole, Céspedes sussultò nuovamente: stava forse cercando di scoprire se era il suo caso? Notando l'interesse col quale l'altro lo ascoltava, il cerusico proseguì: «Vi domanderete come la chirurgia debba trattare quei casi di escrescenza carnosa che alcuni ermafroditi presentano al di sopra del loro organo femminile. Ebbene, quand'è debole e piccola, può essere facilmente rimossa con un'incisione, cauterizzando poi la ferita. Oppure Pagina 105
sanchez - La schiava di Granada.txt legandola con un cordoncino sottile, rivestito di cera, che dev'essere stretto progressivamente, finchè la carne non si stacca. Diversa è la questione se l'escrescenza si presenta dura e forte, tanto da sembrare un membro maschile, e ha un'erezione che permette di avere rapporti con una donna. In questo caso non dev'essere toccata dal bisturi, né in altro modo, poiché si tratta di un ibrido creato dalla Natura, che non si può correggere facilmente». Céspedes rimase profondamente turbato. Allora il suo era un caso conosciuto. Per lo meno da qualcuno. E Leon parlava per sentito dire o per esperienza? Il cerusico però non aggiunse altro. Céspedes comprese che il suo apprendistato era giunto al termine: era arrivato il momento di cominciare a volare con le sue ali. Di certo il maestro non lo avrebbe mai sottoposto a un'operazione; Leòn non avrebbe nemmeno permesso che una cosa del genere accadesse sotto il suo tetto. Dopo l'incontro col dottor Diaz, forse preferiva non correre altri rischi. Dovevano proseguire ognuno per la propria strada. Sembrava che cercassero entrambi di procrastinare il termine di quella giornata umida e malinconica, che già sapeva di autunno e di foglie morte, mentre il profilo blu delle montagne si stagliava contro la debole luce del sole al tramonto. Céspedes capiva perfettamente il comportamento di Leon. Dopotutto lo aveva obbligato a pensare al corpo come alla più alta istanza di emancipazione personale, libero persino dalle costrizioni imposte dalla società. perché, quando qualcuno era in difficoltà, ferito o in punto di morte, non trovava conforto nella comunità, nel casato di appartenenza o negli antenati, ma soltanto in quella solitudine indispensabile per accedere al proprio giudizio e all'indipendenza dello spirito. benché provasse un profondo dispiacere all'idea di essere abbandonato dal suo maestro, di dover contare di nuovo solo sulle proprie forze, perso in un mondo più grande, Céspedes si sentiva pronto a raggiungere una nuova libertà. Quando si alzò, la mattina dopo, vide che il cerusico se n'era andato. Gli aveva lasciato una lettera con le ultime istruzioni relative ai suoi obblighi presso l'Hospital de Corte. Gli chiedeva di mettersi a disposizione di un medico di fiducia, affinchè i suoi assistiti non rimanessero abbandonati a se stessi finchè non avessero trovato a chi affidarli. Non erano i pazienti più piacevoli di cui occuparsi, ma rimanevano in vita solo grazie al suo impegno. Per questo raccomandava a Céspedes di prendersene cura come aveva fatto in quei due lunghi anni in cui avevano lavorato insieme. A tale scopo gli lasciava la casa, libera da debiti, coi documenti che ne attestavano la proprietà, senza servitù cui dovesse far fronte. Inoltre gli suggeriva, quando a sua volta se ne fosse andato, di venderla a un miglior prezzo, dal momento che il valore delle case di quel quartiere era aumentato, grazie ad alcuni edifici di prestigio costruiti nel frattempo. Coi soldi ricavati avrebbe così potuto avviare un'altra attività o, magari, cominciare una nuova vita. Quando salì nello studio, Céspedes vide che il baule, in effetti, non c'era più. Leon però aveva lasciato il marocchino con la rappresentazione del mito di Sisifo. Céspedes si lasciò sfuggire un sospiro nel ricordare le serate passate in quella stanza, profondamente dispiaciuto di essere costretto a rinunciare a quel pozzo di scienza, meritevole di avergli fatto cambiare vita, vocazione e mestiere. Ma, più di tutto, rimpiangeva il fatto di non poter più studiare le illustrazioni del Vesalio. Poi aprì l'arca, e trovò la sacca di lana. Non riuscì a frenare l'emozione mentre ne toglieva il De humani corporis fabrica. In quel momento seppe con assoluta certezza che non avrebbe mai più rivisto Leon. Pagina 106
sanchez - La schiava di Granada.txt Si sedette al tavolo e rimase a lungo a sfogliare quel volume. Era la prima volta in cui poteva farlo da solo, per tutto il tempo che voleva. Sapeva che in alcune di quelle pagine, negli spazi vuoti lasciati dalle immagini e dal testo, c'erano i disegni del suo maestro. Ora si accorse che molti di quelli del libro sembravano rifarsi a uno stesso modello, un corpo giovane e proporzionato, studiato con un'attenzione ossessiva. Si trattava senza dubbio di Guido, il ragazzo di Padova che procurava i cadaveri per le dissezioni. Non fu meno colpito dal colophon del volume. Nell'ultima pagina, copiato a mano dallo stesso cerusico, c'era un testo che, secondo quanto riportato, era stato tradotto dal Discorso sulla dignità dell'uomo, di Giovanni Pico della Mirandola, nel quale apparivano le parole del Creatore mentre si rivolgeva al primo essere umano, invitandolo a fare uso del suo bene più prezioso: la libertà di scegliersi il proprio destino. Quel brano scosse Céspedes nel profondo dell'animo. Ignorava se Leon lo avesse riportato sul volume prima di conoscere lui, o se glielo aveva lasciato come una sorta di mandato. Volle credere alla seconda ipotesi. E comprese che in quelle parole si riassumevano la vita e la professione di Leon. Oltre alla sua fede. Erano la sua professione di fede nell'uomo. Dopo averci riflettuto a lungo, consapevole di avere tra le mani un vero tesoro, decise che quel libro aveva bisogno di una nuova rilegatura. Esitò un istante prima di entrare nella bottega, immergendosi nella luce dorata in cui si stagliava il torchio della stampa. Sembrava che in quella stanza il tempo si fosse fermato su quella carta giallastra, sull'odore di pelle conciata e della colla rimasta sulle spatole. Si avvicinò al banco del rilegatore, dove il garzone era al telaio, impegnato a cucire le risme col filo grosso. Il ragazzo gli fece cenno di aspettare, per non far raffreddare le matrici con cui segnava i dorsi di alcuni libri, allineati come bestiame pronto per essere marchiato. Non appena ebbe terminato, mise da parte i suoi strumenti. «In cosa posso servirvi?» «Vorrei cambiare la rilegatura a questo libro.» L'altro lo esaminò con attenzione, spuntando le pagine strappate e valutando i difetti. «Che pelle volevate?» «La stessa che ha adesso.» «Sarà difficile. è pelle umana.» «Che cosa? Pensavo fosse camoscio.» «No. So quel che dico, non è il primo che vedo.» Céspedes cominciava a capire. Tese la mano e riprese il volume. «Vorrei pensarci ancora un po'.» Mentre tornava a casa, cercò di colmare le lacune della storia che gli aveva raccontato Leon. Quel libro era stato rilegato con la pelle di Guido. Per questo i suoi nemici lo avevano scuoiato, lasciando poi il Vesalio esposto nella libreria frequentata dagli studenti di medicina. Era un chiaro ammonimento per gli altri furfanti, allo stesso modo dei condannati messi alla gogna. E allora comprese davvero la sfida che il cerusico gli aveva lanciato, con le parole lasciate per lui in fondo al libro. *** LA VEDOVA. All'ospedale, il medico al quale Leon lo aveva affidato lo accolse a braccia aperte: sapeva che Céspedes era stato istruito dal migliore dei maestri e aveva già avuto modo di apprezzare le sue capacità. Per rispetto a Leon, Céspedes rimase nella propria stanza anzichè trasferirsi in quella del cerusico, anche se era sicuro che non sarebbe mai tornato. Una sera, mentre si stava preparando la cena, bussarono Pagina 107
sanchez - La schiava di Granada.txt alla porta. Era Isabel Ortiz, la vedova che lavorava come lavandaia all'ospedale e che di tanto in tanto si occupava della biancheria del cerusico. Céspedes si era completamente dimenticato di lei: di solito trattava con Leon e lui non le aveva mai prestato troppa attenzione. Ora, però, ebbe modo di osservarla meglio: era un po' più giovane di lui, doveva avere una trentina d'anni, anche se ne dimostrava meno, forse per il carattere vivace, il viso acqua e sapone, gli occhi limpidi. E un corpo dalle forme ancora armoniose e sode. La informò che Leon era in viaggio. In un primo momento pensò di licenziarla, ma poi cedette: era una gran lavoratrice, come tutte le donne delle montagne, di cui si diceva che si portavano la conocchia ovunque e che filavano anche mentre aravano la terra. Le disse quindi che, se per lei andava bene, poteva continuare a venire secondo gli accordi presi con Leon. Isabel accettò anche se, onesta com'era, si offrì di compensare con le pulizie di casa il minor lavoro che derivava dalla partenza del cerusico, in modo da mantenere la stessa paga di prima, di cui aveva un gran bisogno. Céspedes era d'accordo: il lavoro in ospedale, aumentato molto da quando doveva seguire anche i compiti prima affidati a Leon, assorbiva tutto il suo tempo e le sue forze. Isabel sarebbe così venuta una volta alla settimana per pulire le stanze. Cominciò così a passare più tempo con lei, e venne a sapere che il suo defunto marito, tale Cimbreño, era stato un fabbro. Aveva avuto due figli da lui, che ora confezionavano giubbe. Ma Isabel non voleva farsi mantenere da loro, né avere problemi il giorno in cui si fossero sposati. A poco a poco, Céspedes capì quanto lei fosse coraggiosa. Non doveva essere stato facile, per una ragazza di umili origini come lei, abbandonare la sicurezza del suo piccolo villaggio e trasferirsi nella capitale. Sposatasi giovanissima, era presto rimasta vedova ed era stata costretta a fare enormi sacrifici per mantenere i figli. E adesso che loro erano grandi si ritrovava sola, benché ancora piacente. Dai suoi racconti, Céspedes scoprì come sarebbe potuta essere la sua vita ad Alhama, se il muratore col quale l'avevano sposata non fosse stato un buono a nulla. Ciò che ammirava di più di Isabel era che, nonostante le difficoltà che aveva dovuto affrontare, aveva un carattere allegro ed era sempre di buonumore. Non c'era pellegrinaggio cui non accorresse, ne pratica religiosa cui non prendesse parte. Abitava nella parrocchia di San Francisco, dove andava a messa, a fare la comunione e a confessarsi. E, se qualche volta mancava, non lasciava che quel peccato le marcisse nel cuore sfociando in uno di quei bellicosi sfoggi di virtù che Céspedes aveva visto nelle sorelle del prete di Arcos. Lei non era così. Nelle sue frequenti visite al confessionale, si liberava di quello che avrebbe continuato a tormentare le altre donne. Non appena il parroco l'aveva assolta, tornava a canticchiare per casa come un cardellino, anzichè affliggere chi aveva accanto. Ed era sicuramente meglio che si confidasse con una singola persona, come il parroco, anzichè col nugolo di donne che spazzava la strada a colpi di pettegolezzi. benché fosse molto devota, quando scendeva le scale si raccoglieva la gonna, mostrando un paio di gambe ben tornite. Non metteva in mostra il proprio corpo, ma non era nemmeno difficile intuire che fosse una donna passionale. Le sue generose scollature mostravano i seni che saltellavano allegri mentre lei sfaccendava senza mai fermarsi. Ben presto Céspedes si abituò alla sua presenza, all'arrabattarsi delle sue mani attente che, poco alla volta, con piccoli dettagli, sembravano ridare vita a quella tana sconquassata. Pagina 108
sanchez - La schiava di Granada.txt Sapendo che le piacevano, Céspedes cominciò a portarle di tanto in tanto un dolce o un mandorlato. Come quella sera, in cui tornò a casa stanco dopo una giornata di lavoro. Isabel era ancora lì. Lo vide arrivare intirizzito per il freddo. La notte si annunciava gelida, così lei attizzò il fuoco e mise a scaldare dell'acqua, che poi versò in un catino. S'inginocchiò davanti a lui, gli sfilò i calzari e cominciò a lavargli i piedi con una spugna. Dallo sgabello su cui era seduto, Céspedes vedeva i seni che si agitavano, tondi e sodi, lucidi per il vapore che saliva dal catino. Quand'ebbe finito, la vedova prese un panno per asciugargli i piedi. E, d'un tratto, senza dire una parola, gli mise una mano sull'inguine e cominciò a toccarlo con foga. Céspedes fu colto di sorpresa, e forse si spaventò. Non era pronto. Nascosto dai vestiti, il suo corpo aveva continuato a cambiare, fino a fargli dubitare del modo in cui il suo sesso avrebbe risposto. Doveva prendere delle precauzioni, prepararsi adeguatamente a quella nuova sfida. Voleva che la relazione con quella donna fosse diversa dagli squallidi rapporti che aveva avuto negli ultimi tempi. Ma, quando lui le scostò la mano, la vedova, sopraffatta dalla vergogna, uscì di corsa sbattendo la porta. Céspedes temette che si fosse offesa e che non si sarebbe più fatta vedere. Invece tornò dopo qualche giorno con la biancheria pulita. Nessuno dei due disse nulla, come se non fosse successo niente. Lui le ordinò solo di non mettere le lenzuola pulite nella sua stanza, ma in quella dove dormiva Leon. Quando salì col mattone caldo, avvolto negli stracci, da infilare sotto le lenzuola, la trovò ancora lì. Céspedes spostò la lampada e strinse la vedova tra le braccia. Lei non si oppose. E, proprio come aveva sperato, fu tutto diverso dalle altre volte. Anche se era pronto ad avere un rapporto come maschio, nascondendo l'altro sesso, ora non aveva davanti una donna inesperta, ma una vedova con diversi anni di matrimonio alle spalle. Quando la svestì e le palpò i seni, ebbe conferma che il suo corpo maturo non aveva nulla da invidiare a quello delle ragazze più giovani. Il respiro di Isabel si era fatto più veloce. Mentre la spingeva sul letto e scendeva fino al suo ventre, lei non smise di gemere e, quando arrivò al sesso, lo trovò già umido. Isabel aprì le gambe per farsi toccare. Céspedes l'accarezzò con delicatezza, separando quelle labbra carnose e rosate, fino ad arrivare a quel bottone, minuscolo come un pisello. Isabel s'irrigidì, e lo fece anche l'organo, che s'ingrossò, si gonfiò e s'indurì, diventando rosso, turgido e infiammato. Céspedes continuò a toccarlo mentre saliva su di lei, che gemeva con più foga, spalancava le gambe e muoveva i fianchi, assecondando il ritmo delle sue dita. Bruciava di passione, il cuore pareva impazzito e il respiro era spezzato. Le sfuggivano gemiti sempre più intensi, mentre la lingua le scorreva sulle labbra senza un attimo di tregua. Isabel, che fino a quel momento si era accarezzata i seni, turgidi e duri, spostò le mani sui fianchi di Céspedes, piantandogli le unghie nella carne come artigli, e gli urlò di entrare dentro di lei. Senza dargli un attimo di tregua, la donna sollevò le gambe, posandogliele sulle spalle, perché potesse penetrarla più facilmente. Era arrivato il momento della verità. Mentre entrava in lei, Céspedes vide, con sollievo, che Isabel non sembrava notare differenze rispetto al suo defunto marito. Ben presto esplose in gemiti, muovendosi con una foga incontrollata, per poi crollare, esausta. Sarebbe accaduto molte altre volte in futuro, quasi sempre con soddisfazione di entrambi, ma quella fu l'unica occasione in cui Isabel si fermò a dormire lì, in quel letto. Pagina 109
sanchez - La schiava di Granada.txt Dopo un po', la vedova cominciò a fare allusioni al matrimonio, prospettiva alla quale Céspedes non era così contrario, e non aveva dubbi sul fatto che lei lo avrebbe trattato come un re. Ma non si sentiva pronto a quel ruolo, a vivere sotto lo stesso tetto con una donna. Prima o poi, Isabel avrebbe scoperto la verità sul suo sesso. Avere un rapporto, al quale lui poteva prepararsi, non era lo stesso che dormire insieme tutte le sere, nello stesso letto. Un matrimonio comportava, oltretutto, qualcosa di estremamente rischioso: le pubblicazioni, un rimestare di carte. E lui non aveva affatto dimenticato l'avvertimento che gli aveva rivolto in proposito Alonso del Castillo. Adesso, nella sua cella toledana, Céspedes s'interrogava sul ruolo giocato da Isabel Ortiz nel processo contro di lui. Era stata lei a denunciarlo? Non aveva preso molto bene le scuse che lui aveva addotto per rimandare le nozze, e se n'era andata sbattendo la porta. Non era riuscita a comprendere sino in fondo quella scintilla di ambizione che aveva visto brillare negli occhi di lui. Ma ne aveva capito perfettamente le conseguenze. Isabel doveva aver intuito che Céspedes aveva grandi progetti. E doveva aver maledetto il giorno in cui, prima della rottura, lo aveva raccomandato come cerusico a una sua conoscente. perché poco dopo erano andati a cercarlo, per offrirgli un incarico lontano da Madrid, sulle montagne. Per Céspedes era stato molto difficile decidersi a vendere la casa e a devolvere il ricavato al fondo per i malati indigenti che Leon aveva istituito presso l'ospedale. Il giorno seguente si era messo in viaggio di prima mattina, all'alba, mentre i contadini entravano in città per vendere gli ortaggi. Stava ritrovando il piacere del viaggio, della vita vagabonda da cui era fuggito, quando la sentiva pesargli addosso come una lapide. Stava ritrovando l'immensità degli orizzonti, lontano dai vicoli stretti e tortuosi e dalla prigionia dei muri. Si sentiva sempre meglio, man mano che la brezza mattutina gli rinfrescava l'animo e il sole si levava al di sopra dei prati, brillando sulle gocce di rugiada ai lati della strada, dissolvendo la foschia. Il senso di libertà. *** Eleno. Né la Real Audiencia di Granada né l'Alcaizar di Madrid potevano competere con una simile mole. La grandiosa maestosità del monastero dell'Escorial era sconcertante. Era stata completata solo la parte sud, con la sua immensa facciata e le torri imponenti. Il lato opposto, quello che fiancheggiava il viale ancora in costruzione, era a buon punto, e i lavori procedevano a spron battuto. Il centro della costruzione era sovrastato da un groviglio d'impalcature, torni e carrucole, e circondato da una folla di muratori che si affannava sui ponteggi. Un picchetto di alabardieri bloccava la strada. Céspedes mostrò alla guardia la lettera in cui si reclamavano i suoi servigi, e l'uomo ordinò a uno dei soldati di scortarlo all'ospedale. Era uno spazio ampio, luminoso e ben ventilato, dove trovava posto una cinquantina di letti. Céspedes chiese di Vicente Obregon, e gli venne indicata la scala che portava al piano superiore, dove alloggiavano i malati di riguardo. La persona di cui si sarebbe dovuto occupare era uno dei più importanti mastri scalpellini del monastero. Accanto a lui c'era la moglie, Ines Vazquez, alla quale la vedova Ortiz aveva fatto il suo nome. La donna lo aveva visto curare un suo parente durante una visita all'Hospital de Corte e, colpita dalla sua abilità, aveva insistito affinchè lui si recasse all'Escorial: le condizioni del marito peggioravano e lei Pagina 110
sanchez - La schiava di Granada.txt credeva che non fosse curato a dovere. Già allora lo aveva avvisato del fatto che Vicente Obregon si rifiutava di accettare la gravità della sua malattia e di sospendere il lavoro, per non rischiare di perdere il posto: non poteva permetterselo, era coperto di debiti. Per anni non aveva potuto curarsi come avrebbe dovuto. Lui continuava a rimandare, dicendo che era obbligato ad andare alle fiere, a conoscere tutte le offerte di lavoro, partecipare alle subaste, concorrere con gli altri mastri scalpellini, valutare i costi, organizzare le squadre e, cosa ancora più difficile, tenerle insieme durante i lunghi inverni nei quali il gelo obbligava a sospendere i lavori. Bisognava avere polso per farsi rispettare da uomini rudi come quelli. E si finiva col rovinarsi la salute. Céspedes ne sapeva qualcosa. intuì che non sarebbe stato un malato facile. Quando lo visitò, vide che gli avevano fatto dei salassi, incidendo la vena tibiale sul piede sinistro. Era una pratica che lui non condivideva. «Con tutti i medici che ho visto qui, questa è l'unica cosache sono riusciti a farvi?» chiese. «Loro dicono che non riescono a seguire tutti...» borbottò Obregon. «C'è troppa gente, ormai lavorano qui più di tremila uomini», s'intromise la moglie. «E' per via della basilica. Sono a metà dell'opera, ed è il momento più delicato, devono fare la cupola», aggiunse il mastro scalpellino. «Ma, per quanto siano in difficoltà, i cerusici a contratto fisso dovrebbero poter contare sugli aiutanti...» osservò Céspedes. «Ed è così», ammise la donna. «Nel capitolato d'appalto si dice che i maestri chirurghi devono avere due aiutanti e un apprendista. Ma ne hanno dovuti chiamare altri dai paesi vicini per dar loro manforte.» Quando terminò la visita, la donna lo accompagnò fuori e gli disse, abbassando la voce: «Non potevo parlarvene davanti a lui. Vi ho chiesto di venire perché tempo fa mio marito ha avuto una brutta lite con uno dei costruttori, Pedro de Tolosa, ed e arrivato alle mani con uno dei suoi nipoti. E' stato un incidente talmente grave che hanno interrotto i lavori. E i rancori tra scalpellini sono una cosa seria. Per questo ho preferito che venisse qualcuno da fuori. Vorrei che vi fermaste finché non avrete trovato una cura.» Vedendo l'espressione perplessa di Céspedes, aggiunse: «Vi abbiamo trovato un alloggio». «Va bene. Allora rimarrò.» Quel posto gli piaceva, l'aria e l'acqua erano buone. E, una volta terminati i lavori, sarebbe stato tranquillo. Ma un giorno Céspedes si sentì chiamare da una voce che gli suonava familiare. Quando si girò, si trovò davanti Alonso del Castillo. «Che cosa ci fate qui?» gli domandò il morisco. «Sto curando Vicente Obregon, il mastro scalpellino.» «Curando?» «Sono cerusico.» Don Alonso non riuscì a nascondere la sorpresa, e Céspedes si ritenne in dovere di raccontargli in che modo lo fosse diventato. Concluse chiedendogli: «E voi? Continuate a fare l'interprete?» «Sono traduttore dall'arabo di re Filippo, e suo segretario per le questioni relative all'Africa. Oltre a questo, tempo fa Sua Maestà mi ha incaricato d'inventariare i manoscritti arabi della biblioteca di questo monastero. Da allora viaggio per tutta l'Andalusia in cerca di nuovi volumi per arricchire la collezione.» Chiunque altro avrebbe pronunciato quelle parole con presunzione, o se non altro con un più che legittimo orgoglio. Don Alonso, invece, le aveva dette senza il minimo Pagina 111
sanchez - La schiava di Granada.txt accenno di vanità, e a Céspedes non era sfuggita l'amarezza del suo sguardo. Si convinse definitivamente che quell'uomo fosse gravato da un peso ben più grande di lui, dalla sofferenza di un intero popolo. Alla cacciata dei moriscos si doveva ora aggiungere la distruzione della loro cultura, delle conquiste di otto secoli che sarebbero presto finite nei canali di scolo. Forse Castillo stava cercando di salvare dal naufragio tutto quello che poteva, grazie a ciò che, fino ad allora, aveva considerato ambizione personale. Era sempre allerta, attento a non sollevare sospetti che avrebbero potuto alienargli il favore del re. «In ogni modo, ho terminato l'inventario già da un bel pezzo. A dire il vero, sono qui in veste di medico. All'infermeria sono in difficoltà», confessò don Alonso. Poi fece una pausa e, guardandolo dritto negli occhi, gli chiese: «Céspedes, avete il titolo di cerusico?» «Non ho dato l'esame. perché me lo chiedete?» «perché qui c'è molto lavoro per chi sa curare la gente. E sareste più al sicuro che a Madrid.» «Credete ancora che qualcuno mi stia tenendo d'occhio per farmi del male?» «Non posso dirvi di piu, i documenti che ho per le mani sono coperti dal segreto. Ma tra queste colline passerete più inosservato. Soprattutto se non vi fermate a lungo in uno stesso posto.» Benché ora don Alonso sembrasse più umano, meno irraggiungibile, il suo comportamento, sempre insolito, era difficile da interpretare. Sicuramente sapeva qualcosa, ma Céspedes non riusciva a capire di cosa si trattasse. Comunque stessero le cose, decise di dargli retta. Durante alcuni brevi viaggi, vide che don Alonso aveva ragione: erano zone in cui un cerusico poteva guadagnare parecchio. Quando, dopo qualche tempo, Obregon morì, Céspedes cominciò a esercitare come cerusico in alcuni villaggi sulla sierra. Continuò così per due anni, finché uno dei suoi rivali non lo denunciò perché praticava senza essere in possesso dei titoli necessari. E allora lo fece. Decise d'ignorare i consigli di Alonso del Castillo e di fare quel passo: tornare nella capitale e sostenere l'esame per l'esercizio della chirurgia. Sapeva bene che in quel modo rischiava di sollevare un vespaio. Oltre al fatto di dover adottare anche un nome di battesimo oltre al cognome usato sino a quel momento. Si disse che, arrivati a una certa età, era opportuno cambiare abitudini, se non si voleva rischiare d'invecchiare prima del tempo. Avrebbe usato il nome di Eleno, mantenendo Céspedes come cognome. Era il punto di arrivo di un lungo cammino. E la prima volta in cui sceglieva come chiamarsi. Non significava solo sostituire una lettera, ma disporre di un documento ufficiale che certificasse che era un uomo. Finora aveva portato il nome di una donna morta, un'identità prigioniera, di seconda mano, avuta dalla padrona di sua madre. Da chi le aveva marchiato il volto, sperando di segnarla a vita. Scegliendo il nome di Eleno avrebbe ottenuto una seconda liberazione, che sperava fosse definitiva. Avrebbe osato tanto, senza gli insegnamenti del cerusico? Leon lo aveva iniziato a un mestiere da uomini, il più indipendente che si riuscisse a immaginare. E gli aveva trasmesso una conoscenza totale del corpo, del suo corpo. Un corpo sul quale, adesso, avrebbe potuto rispondere e, se necessario, intervenire. Si faceva tutte queste domande mentre si avvicinava allo specchio, come qualcuno che si affacciasse all'apertura di un pozzo. Sul suo viso si erano accumulati i vari segni lasciati dal tempo, la successione di tutte le persone che era stato, il lungo avvicendamento di maschere nelle quali aveva cercato casa. E, mentre raschiava il nome sulla cornice, Pagina 112
sanchez - La schiava di Granada.txt per trasformare la A finale di Elena in una O, si rese conto che gli occhi erano l'unico tratto del volto che non faticasse a riconoscere. Occhi che adesso gli apparivano intrappolati, paralizzati dal terrore. Quell'esame gli faceva paura. Grazie agli insegnamenti di Leon, non era un banale guaritore ignorante, uno di quei venditori ambulanti che a malapena sapevano leggere. Non aveva nulla a che vedere con l'onnipresente turba di barbieri, salassatori, cavadenti, curatori di ernie, algebristi o indovini. Sapeva bene, però, che il Protomedicato di Castiglia, presso cui si doveva presentare, proibiva espressamente alle donne di esercitare quell'attività, anche ai livelli più bassi. Non c'erano casi né precedenti cui si sarebbe potuto appellare, se avessero scoperto che aveva gli organi genitali femminili. Il castigo sarebbe stato esemplare. Quell'esame comportava un rischio altissimo, e si domandò se le sue ambizioni non fossero eccessive, portandolo a mettere a repentaglio tutto ciò che aveva costruito con così tanta fatica. Stava forse facendo la stessa cosa del cane della favola? Secondo la storia, l'animale stava attraversando un ruscello con un pezzo di carne tra i denti quando, a metà percorso, ne aveva visto un altro nell'acqua, e aveva spalancato le fauci per prenderlo. Mentre il boccone gli cadeva tra i flutti ed era trascinato via dalla corrente, il cane aveva compreso, troppo tardi, che aveva cercato d'impadronirsi del riflesso di quello che si era appena lasciato sfuggire. ***** PARTE QUINTA. MARÍA. «Ormai sulla vetta dei miei affanni, quando dovevo ricevere il premio essendo da essi liberato, mi ritrovai come Sisifo a spingere quel masso.» Mateo Alemin, Guzman de Alfarache, Parte seconda, Libro III, capitolo IV. * «Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza. Se si crede ad Omero, Sisifo era il più saggio e il più prudente dei mortali. [...] Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita gli hanno procurato l'indicibile supplizio. [...] Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. [...] Fa del destino una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini. [...] Se vi è un destino personale, non vi è fato superiore. [...] Egli sa di essere il padrone dei propri giorni. [...] Egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.» Albert Camus, Il mito di Sisifo * TRA PINTO E VALDEMORO. Lope de Mendoza interruppe la lettura del fascicolo Céspedes per esaminare la copia dell'esame per diventare chirurgo. Conosceva diversi uomini che praticavano quella professione, ma nessuna donna, che lo facesse o no entro i confini della legge. Men che meno con un titolo ufficiale. Era una cosa che andava ben oltre la forza bruta di un soldato, era un impegno che richiedeva una grande abilità. Un Pagina 113
sanchez - La schiava di Granada.txt mestiere nel quale la concorrenza era agguerrita, e dove si tenevano gli occhi aperti per individuare eventuali intrusi. Céspedes non doveva essersela cavata male, visto che aveva esercitato per diverso tempo. A giudicare dagli incartamenti, dopo aver superato l'esame aveva vissuto per un lungo periodo a Cuenca, quindi alcuni anni a La Guarda, un paesino della Mancha; un posto noioso e con scarse prospettive, che non rispondeva alle sue aspirazioni. E dove doveva essere stato coinvolto in qualche lite. I fatti successivi inducevano a credere che lì, come nella vicina Yepes, fosse stata messa in dubbio la sua virilità, e che Céspedes avesse approfittato del passaggio di una colonna dell'esercito per arruolarsi, occupandosi dei feriti. Era così arrivato a Valdemoro, dove si era fermato più o meno due anni. Risiedendo in quel paese, a metà strada tra Pinto e Ciempozuelos, poteva infatti occuparsi degli abitanti di tutti e tre i municipi. Dai documenti sembrava che, dopo un lungo peregrinare per cancellare le proprie tracce, Céspedes stesse cercando di ristabilirsi a Madrid. Ma lo faceva mantenendo le distanze, fermandosi nei dintorni, sulla strada che univa la capitale ad Aranjuez, Ocaña e Yepes. A differenza di La Guarda, quelli erano paesi vivacissimi, dove fervevano i traffici dei mulattieri diretti a Corte. Per quella ragione, Mendoza era stupito che qualcuno tanto prudente avesse deciso di sposarsi. Che cosa l'aveva spinto a un passo tanto avventato? Un matrimonio era una cosa ben diversa dalle relazioni sporadiche avute sino ad allora nella sua vita nomade. Significava affrontare un vincolo intimo e continuo, che l'avrebbe obbligato a vivere nella stessa casa con una donna, a passare le notti accanto alla moglie, adempiendo ai propri doveri di maschio. E a rovistare tra un mucchio di carte. Céspedes arrivò a Ciempozuelos a tarda sera, stanco e con la febbre alta. La tormenta di neve lo aveva bloccato per ore su una mula scontrosa, che era diventata ancor più irrequieta quando aveva iniziato a fiutare i lupi in agguato. Dopo ore passate sotto quella burrasca opprimente, che sfilacciava il cielo senza pietà, lui si sentiva ormai prossimo alla morte. Trovò a malapena le forze per bussare ad alcune porte in cerca di alloggio. Alla fine fu accolto nella casa di un contadino, Francisco del Càio. Rimase colpito da Maria, sua figlia, nell'attimo stesso in cui lei gli aprì e, vedendolo così zuppo, lo invitò a entrare. Fu lei che gli rimase accanto durante i suoi ripetuti accessi di febbre. Si sentì talmente cullato da quelle semplici attenzioni che provò il desiderio di sistemarsi. Di avere anche lui una casa, dove poter riposare accanto a un fuoco conosciuto anzichè girovagare da una parte all'altra come un bandito. Iniziava ormai a essere stanco di quella vita che gli sembrava ogni giorno più inutile. Aveva da poco compiuto quarant'anni e si sentiva braccato dal tempo, che scivolava via fugace, come sabbia tra le dita. In quell'infinita baraonda, cominciavano a confondersi le distanze e le strade imboccate. I giorni scorrevano veloci, le settimane volavano e gli anni si accumulavano. Il viso di un mercante si confondeva con quello di un altro visto due paesi o cinque anni prima. La zuffa tra comari che lo aveva costretto a fuggire da La Guarda l'aveva già vista a Cuenca. L'esecuzione cui aveva assistito in quell'ultima città gliene ricordava altre che lo avevano colpito profondamente. A che pro continuare in quel modo? Tutti quei volti divenivano sempre più irreali, confusi, sbiaditi nella memoria, confluendo in un unico corteo funebre. L'uno attaccato all'altro, in una sequenza compatta. Eleno voleva porre fine allo sfinimento di spostarsi da un paese all'altro, da una locanda all'altra. Di affrontare il pericolo dei tratti di strada vessati dagli acquazzoni e dal vento, coi sentieri coperti di pozze, i torrenti in piena e i ponti pericolanti. Voleva Pagina 114
sanchez - La schiava di Granada.txt spezzare quel cerchio, svegliarsi in un posto familiare, salutare la gente senza dover dare spiegazioni sul perché si trovasse lì. Mangiare il pane cotto nel proprio forno, e non quello del mercato, crudo e amaro. Sapere in anticipo a chi avrebbe prestato le proprie cure o comprare qualcosa senza dover spiare dietro l'angolo, nel timore di chi poteva incontrare. Ciempozuelos, col suo migliaio di abitanti, era il posto che faceva per lui. E soprattutto, lì aveva conosciuto Maria. La prima volta in cui l'aveva vista si era sentito come una pentola bollente, dalla quale l'acqua trabocca e spegne le fiamme. Tutte le sue ansie erano svanite, si era sentito finalmente in pace. Aveva sentito dire che l'amore è come il tesoro del pirata, che solca i mari a caccia di prede per un anno intero e poi, in un solo giorno, mette le mani su un'immensa fortuna. All'inizio gli sembrava che Maria fosse frutto delle allucinazioni causate dalla febbre. Come il sogno in cui si era trovato accanto sua madre. Francisca gli era apparsa avviluppata nel sudario, la testa avvolta dal fazzoletto con cui l'aveva legata, affinchè non le si aprisse la bocca. Nel sogno arrivava ai piedi del letto, si scioglieva lentamente il panno e glielo porgeva. Poi si allontanava camminando all'indietro, senza smettere di guardarlo, e svaniva oltre la porta. Céspedes si era sentito cullare da un caldo senso di benessere, e il giorno dopo la febbre era calata. Accanto a lui c'era Maria, che gli cambiava l'impacco sulla fronte. La ragazza aveva portato una tazza di brodo fumante, con cui l'aveva imboccato, un cucchiaio dopo l'altro, soffiandoci sopra per raffreddarlo. Una mattina, pochi giorni dopo, la sentì soffocare un grido: aveva creduto che fosse morto. Più tardi la udì che sgridava la sorella più piccola, perché gli aveva portato del latte cattivo, di una capra vecchia e rinsecchita, che ormai rifiutava di accoppiarsi e che presto avrebbero dovuto sopprimere. Céspedes fece per alzarsi dal letto, e sorprese Maria mentre si legava i capelli con un nastro bianco, con gesti delicati che la rendevano ancora più bella, mettendo in risalto il collo sottile e gli orecchini di vetro. All'inizio si fece degli scrupoli a causa della differenza d'età: Maria aveva la metà dei suoi anni, ma non sembrava che per lei fosse un problema. Il carattere vivace e privo di malizia di Maria finì per conquistarlo. Oltre ai suoi capelli color miele, al viso luminoso, alle ciglia lunghe, agli occhi grandi, chiari, così splendenti che sembravano far brillare tutto ciò su cui si posavano. Era davvero stupenda, snella, con la vita stretta, le spalle dritte, i seni appuntiti che premevano sotto la veste quando si chinava su di lui per rimboccargli le lenzuola. Eleno s'innamorò della grazia con cui gli portava il vassoio. Di quel lieve ancheggiare, di quelle pantofole che si metteva per non far rumore. E capì che quei sentimenti arrivavano nel momento perfetto. Prima non avrebbe saputo che cosa farsene. Tutti gli anni che credeva di aver sprecato, le difficoltà improvvise, le fughe precipitose, la solitudine infinita, il vortice di posti e di gente acquisivano finalmente un senso, poiché lo avevano condotto lì. Tutti i cambiamenti repentini e di cui non aveva mai compreso il senso lo avevano preparato a quell'incontro. Al disagio relativo alla propria sessualità si aggiungeva adesso il suo innato pudore riguardo ai sentimenti. Come doveva esprimerli? Aveva sentito romance, visto commedie, letto versi... Ma gli servivano parole più semplici. Fu Ines, la sorella minore di Maria, alla quale era molto legata, a venirgli in aiuto. In principio aveva manifestato la gelosia tipica di chi si trovava a dover dividere le attenzioni di una persona amata con uno sconosciuto, ma col tempo era diventata il Pagina 115
sanchez - La schiava di Granada.txt suo migliore alleato. Non aveva ancora compiuto tredici anni, ed era estremamente curiosa. In seguito Céspedes avrebbe scoperto che Ines aveva già cominciato a interrogare la sorella più grande su quanto succedeva tra uomini e donne nell'intimità, domande alle quali Maria non poteva rispondere, non essendo mai stata con nessuno. A differenza di altre ragazze del paese, molto più estroverse, Maria era molto riservata. Aiutava i genitori come poteva, occupandosi delle camere che affittavano ai forestieri. Era stato loro ospite anche il parroco, durante i lavori di ristrutturazione della casa parrocchiale e, colpito dall'intelligenza della ragazza, le aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto. Una mattina, i genitori andarono nei campi con la sorella più piccola, lasciando soli Eleno e Maria. Lei inciampò nella porta, e lui la sorresse. I loro volti si ritrovarono vicinissimi, tanto che Eleno riusciva a sentire il profumo dei suoi capelli e il calore del respiro. Era così turbato che continuava a stringerle la mano, finchè lei non disse: «Potete continuare a spremerla, ma non ne uscirà niente». Lui scoppiò a ridere per quella battuta spontanea che non arrivava a sfiorare la sfacciataggine. Ma non le lasciò la mano. E il desiderio, così a lungo soffocato, infine li vinse. Erano abbracciati accanto al letto, quando entrò la piccola Ines, che era tornata all'improvviso, e dovettero convincerla a mantenere il segreto. Fu lei ad accompagnarli durante le loro prime passeggiate, quando Eleno si fu ripreso, e la primavera si annunciava ormai con prepotenza. Come il giorno in cui si fermarono in un fienile accanto all'aia. Maria chiese a Ines di tenere d'occhio la strada, nel caso arrivasse qualcuno, ed entrò con Eleno in una costruzione in adobe, spinta da una foga che la ragazzina non poteva capire. Sentì la sorella che gridava e, vedendo un contadino che si avvicinava a dorso di mulo, temette che la sentisse e la sorprendesse insieme con Eleno. Prese allora un flauto che aveva intagliato da una canna con le sue mani e si mise a suonare, finchè non perse di vista l'uomo. Quando Maria uscì dal pagliaio, la sorella la trapassò con lo sguardo e, non appena furono sole, le chiese che cosa fosse successo mentre era con lui: «Ti ha fatto male? Urlavi come se ti stesse ammazzando». «Sei troppo piccola per capire.» benché la ragazzina mantenesse il segreto, la madre non ci mise molto a intuire cosa bolliva in pentola. Si accorse degli sguardi tra l'ospite e la figlia più grande. Conosceva bene Maria, e notò i suoi rossori, il modo in cui smetteva di parlare all'improvviso, col cuore appeso a un filo; s'intimidiva e sembrava che le mancasse l'aria ogni volta che Eleno entrava nella stanza. E si scioglieva in sospiri d'amore. Così decise di tenerli d'occhio e riuscì a sorprenderli abbracciati, senza che loro se ne accorgessero. Lo disse al marito, il quale chiamò Eleno e gli chiese di andarsene da quella casa dov'era stato accolto con generosità, un gesto che lui aveva ripagato abusando della loro fiducia. Quando lo venne a sapere, Maria si piazzò davanti ai genitori e annunciò: «Io me ne vado con lui». Questi rimasero di stucco. «è forse successo l'irreparabile?» le chiesero. «Si è preso la mia innocenza.» «Santo cielo! Com'è potuto accadere?» gemette la madre. «Col mio pieno consenso. E, a dire la verità, con non poco piacere.» «Taci, svergognata!» Il padre era furioso, ma Eleno disarmò entrambi, dimostrandosi pronto ad affrontare le sue responsabilità. Chiese loro la mano di Maria. Pagina 116
sanchez - La schiava di Granada.txt Francisco del Caño e Juana de Gasco si scambiarono uno sguardo. L'uomo si arrotolò tre o quattro volte i baffi, serissimo. Poi guardò ancora una volta la moglie, con la coda dell'occhio, e infine rispose: «A Dio piacendo, così si farà. Ma dopo aver sbrigato tutte le pratiche necessarie, non una di meno. Non perché non ci fidiamo di voi, ma perché vogliamo il meglio per nostra figlia». Eleno assentì. C'erano troppi matrimoni clandestini e troppi casi di bigamia. Le precauzioni non erano mai troppe. Sapeva però che cosa significava: andare a Madrid, smuovere un mucchio di carte, redigere certificati per ottenere la licenza presso il vicariato. E diffondere le pubblicazioni, invitando a farsi avanti chiunque avesse qualcosa da obiettare. *** PUBBLICAZIONI. Era stata un'imprudenza rifiutare l'offerta di quel maneggione. Céspedes conosceva bene quelle sanguisughe, che si attaccavano ai forestieri dispersi negli interminabili labirinti della burocrazia di Corte. Sapevano muoversi meglio di chiunque altro nella fitta rete della corruzione, ungendo ufficiali giudiziari, procuratori, cancellieri, sagrestani e imbrattacarte di ogni sorta. Quello che si era offerto di sveltire le sue pratiche gli aveva assicurato che nessuno si avventurava oltre quella soglia senza il suo aiuto, ragione per cui aveva preso malissimo il rifiuto di Eleno di pagare il relativo pedaggio. Doveva essere stata quella la causa del primo problema, durante il colloquio con Juan Bautista Neroni, vicario dell'arcivescovado di Toledo. Questi lo accolse squadrandolo al di sopra degli occhiali. Non lo invitò nemmeno a sedersi e, alzando lo sguardo dalla sua richiesta, gli chiese: «Di dove siete?» «Di Velez-Malaga.» Come già in altre occasioni, quando aveva dovuto rispondere a quella domanda, aveva preferito non dire di essere nato ad Alhama: potevano scoprire che era stato iscritto come femmina sui registri battesimali del paese. Neroni riprese a leggere. Quand'ebbe finito, si tolse gli occhiali, li mise da parte e lo guardò dritto in faccia. «Vedo che non avete nemmeno un'ombra di barba. Siete forse un castrato?» Quella domanda a bruciapelo avrebbe disarmato chiunque. Ma Eleno era abituato a quel genere di provocazioni e rispose, senza batter ciglio: «Ho combattuto nella guerra contro i moriscos, come vostra grazia potrà verificare. Potete farmi esaminare». «Lo farò, non dubitate.» Lo portarono in una casa poco distante e gli dissero di aspettare lì. Entrarono tre uomini. Quello che sembrava il più importante reggeva una candela accesa, e fu lui a ordinargli di spogliarsi. Eleno si abbassò i calzoni. Gli altri gli si avvicinarono e gli esaminarono il sesso. Per non sbagliare, lo toccarono, poi si guardarono e assentirono. «Giratevi», gli chiese quello con la candela. Céspedes rifiutò, senza scomporsi. «Col vicario si era parlato di dimostrare che non sono un evirato. Le signorie vostre sono in grado di sostenerlo sotto giuramento?» I tre si guardarono ancora l'un l'altro e annuirono. «Bene, in tal caso, non perdiamo altro tempo. Torniamo al vicariato e vediamo di chiudere questa faccenda, devo fare ritorno a Ciempozuelos», incalzò, mentre si rivestiva. Si presentò coi testimoni da Juan Bautista Neroni, e i tre dichiararono quanto avevano visto. Pagina 117
sanchez - La schiava di Granada.txt «Ecco la vostra licenza. Dovreste consegnarla al parroco che celebrerà il matrimonio», gli disse il vicario. Durante il viaggio di ritorno, Eleno non stava nella pelle dalla gioia. Aveva superato con successo la prima prova. Adesso doveva solo sperare che non saltassero fuori problemi quando avessero esposto le pubblicazioni. Non sottovalutava affatto la portata di quel provvedimento. In altri casi era una mera formalità, ma non nel suo: se qualcuno lo stava cercando, lo avrebbe trovato. Dopo una settimana, il parroco di Ciempozuelos lo mandò a chiamare e, non appena entrò in sagrestia, gli annunciò: «Sono state sollevate obiezioni». «Da parte di chi?» L'altro scartabellò tra i documenti e gli disse: «Tale Isabel Ortiz, residente a Madrid, della parrocchia di San Francisco. La conoscete?» «sì. Che cosa sostiene?» «Dice di aver ricevuto da voi una promessa di matrimonio.» Céspedes rimase talmente esterrefatto che riuscì a malapena a ribattere: «Ma se non vedo quella donna da anni!» La dichiarazione della vedova, in effetti, gli avrebbe evitato problemi con quelli che mettevano in dubbio la sua virilità, tuttavia doveva capire in che modo poteva ostacolare il matrimonio con Maria. «E che cosa posso fare? Come ci si comporta, in questi casi?» «Il mio consiglio e di parlare con la persona che si e opposta, in modo che ritiri le accuse. Vi accompagnerò io, se vi serve un mediatore e un testimone, anche se la cosa andrà poi ratificata in presenza del vicario Neroni.» «Ve ne sono grato.» Céspedes sapeva quanto il parroco fosse affezionato alla famiglia del Caño, e in particolare a Maria, che considerava la sua pupilla, per la gentilezza con cui era stato trattato durante il soggiorno in casa sua. Aveva sempre incoraggiato la ragazza a seguire le proprie inclinazioni e ad ampliare quel servizio di foresteria che i genitori offrivano quando capitava. Vedeva in lei le capacità di un'abile locandiera, attività preferibile al duro lavoro nei campi. Tuttavia Céspedes non era sicuro che l'affetto del sacerdote per la sua futura moglie fosse esteso anche a lui. Di sicuro il parroco avrebbe preferito per lei un matrimonio meno problematico. E così lui decise di giocare d'anticipo, informando la sua promessa sposa delle obiezioni sollevate dalla vedova Ortiz. Maria lo ascoltò, con gli occhioni spalancati. «Ed e così?» gli chiese infine. «Se c'è stata una promessa di matrimonio, vuoi dire?» «Sì. Il resto preferisco non saperlo.» «Assolutamente no. Te lo giuro.» «Va bene, ti credo. Fa' in modo che se ne renda conto anche lei. Per una donna dev'essere dura accettare una delusione del genere.» L'incontro con Isabel Ortiz sarebbe stato molto più difficile, senza il parroco di Ciempozuelos e quello della parrocchia madrilena di San Francisco, dal quale la vedova si confessava. L'autorità dei due sacerdoti permise ai due vecchi amanti di sedersi a uno stesso tavolo senza litigare. E, mentre i due uomini di Chiesa parlavano con Isabel, tra gli sguardi che le lanciava di sottecchi, Eleno si chiese che ricordo conservasse lei di quelle notti, quando sembrava che la loro passione non conoscesse limiti. Impossibile dire che cosa avesse pesato di più nella decisione della vedova di ritirare le obiezioni, se la sua devozione in materia di fede o quella - non meno sincera - che dimostrava tra le lenzuola. In ogni caso Isabel aveva accettato di accompagnarli dal vicario e di ritirare le accuse, nella più assoluta modestia e sincerità. Eleno lasciò una sostanziosa elemosina al prete di San Pagina 118
sanchez - La schiava di Granada.txt Francisco. Mentre tornava a Ciempozuelos insieme col suo parroco, comprese che, da quel momento in poi, qualunque ostacolo si fosse presentato sarebbe stato molto più difficile da superare. All'inizio il fatto di aver combattuto nella guerra delle Alpujarras e il titolo di cerusico avevano giovato a suo favore, ora però i suoi movimenti sarebbero stati osservati con diffidenza. All'improvviso, i suoi buoni propositi di agire con la più assoluta cautela erano naufragati. Ma doveva almeno evitare quello cui tanto spesso era andato incontro: ritrovarsi ancora una volta sotto esame, sulla bocca di tutti. E ciò poteva implicare la necessità di allontanarsi da Ciempozuelos e rimettersi in viaggio. Poi accadde la cosa peggiore che potesse immaginare. Ricevette un altro avviso da parte del parroco e, quando andò in chiesa, gli bastò guardarlo in faccia per rendersi conto della gravità del problema che si era presentato. «L'accusa è grave, gravissima», cominciò il parroco. «Di che si tratta?» «Stavolta non e una donna che adduce una precedente promessa di matrimonio. A quelle ci siamo abituati.» «Ditemi cosa c'è, non e il caso di girarci intorno.» «D'accordo, e perdonatemi se sarò così diretto. Vi si accusa di ermafroditismo, di essere sia maschio sia femmina.» «E chi ha detto una cosa del genere?» Il sacerdote non rispose. «Una denuncia anonima?» Il silenzio del prete gli fece temere il peggio: non poté evitare di ripensare agli avvertimenti di Alonso del Castillo. Poteva essere stata la sanguisuga di cui aveva rifiutato l'aiuto per le pratiche. O un cerusico rivale della sierra o di qualche villaggio dov'era stato denunciato per aver esercitato senza aver sostenuto l'esame. Impossibile saperlo. Le parole del parroco lo riscossero dalle sue elucubrazioni e suonarono come una sentenza: «Comprenderete che, a questo punto, non posso mandare avanti la cosa. Farò riavere le vostre carte al vicario Neroni». «Dovrò tornare a Madrid?» «Sì. Mi dispiace davvero, credetemi, ma non posso fare altrimenti.» Lui assentì, a capo chino.Uscì dalla chiesa, pensando che il peggio doveva ancora arrivare: dirlo a Maria. Non si sarebbe mai aspettato una simile forza d'animo da parte della sua futura sposa. Maria accolse lanotizia con un misto d'incredulità, rabbia e impotenza. «Che cosa c'è di vero, in quest'accusa?» chiese. «Tu mi hai visto: che cosa ne dici?» «Non ero mai stata con un uomo, prima di te, ma ti considero tale. E sono pronta a testimoniare, se ce ne sarà bisogno.» «La tua parola non verrà presa in considerazione. Ci vorrà una perizia. E devo dirlo ai tuoi.» «Lascia che li prepari. Non gli ho detto niente su quella vedova che si era opposta dopo le pubblicazioni, ma questa è una cosa ben diversa. Non reggerebbero il colpo, così all'improvviso.» «E tua sorella?» «Lei ti adora. M'inventerò qualcosa. Cosa pensi di fare, adesso?» «Devo partire.» «Per quanto tempo starai via?» «Due o tre mesi.» «Non passerai il Natale con noi?» «Non posso.» L'idea che cominciava a frullargli in testa era un tentativo disperato. Ma c'era forse altro modo di uscire indenne da quel guaio? Era già un miracolo che Maria gli fosse rimasta Pagina 119
sanchez - La schiava di Granada.txt accanto, affrontando tutti coloro che dubitavano della sua virilità, tra cui il parroco, che era il suo padrino. E molto probabilmente anche i suoi genitori. Doveva ripagare la sua fermezza offrendole tutto quello che aveva, per quanto terribile si sarebbe rivelata quella prova. *** LA ZAMPA DELLA VOLPE. Eleno continuava a chiedersi se, alla sua età, non fosse inevitabile un pensiero così cupo... come poteva esprimerlo? Il sospetto che il sesso fosse una trappola. Qualcosa che la Natura aveva tramato a beneficio di se stessa e della specie, alle spalle dei singoli individui, senza il minimo riguardo per il loro bene o la loro felicità. Per questa ragione li metteva in conflitto facendone alcuni maschi e altri femmine, e tramite quella sembianza di riconciliazione rappresentata dalla copula li intrappolava per tutta la vita. Ripensò al suo padre fantoccio ad Alhama, il contadino scorbutico che rispondeva al nome di Pedro Hernandez. Al suo tentativo di catturare la volpe che gli decimava il pollaio. L'animale si era staccato a morsi la zampa imprigionata nella tagliola, pur di -ottenere la libertà. Forse era quello l'unico modo di sfuggire alla trappola che gli stavano tendendo. Aspettò innanzitutto di avere le mestruazioni, perché non interferissero coi suoi piani. Poi si mise in viaggio verso sud. Aranjuez non lo convinceva, soggetta com'era alla Corte. E scartò anche Ocanna, troppo popolosa per i suoi scopi. Preferì proseguire fino a Yepes. Conosceva quella città dai tempi in cui stava a La Guarda, perché vi aveva esercitato. Era più adatta, e disponeva di una locanda sufficientemente pulita, quella di Manrique, dove lo trattavano bene e non s'immischiavano nei suoi affari. Si accertò di avere a disposizione acqua, fuoco e una stanza con due letti, che pagò per intero, in modo da non doverla dividere. S'informò su quali fossero i medici del posto, sul podestà e sui giudici. Dettagli importantissimi per quello che aveva intenzione di fare. Poi, una volta sistemato in camera, chiese il necessario per scrivere. Impiegò metà pomeriggio a redigere quel documento. Non era abituato. Dovette sudare ogni parola, ritornando più volte sulle stesse righe. Quando fu soddisfatto, lo ricopiò in bella, mettendolo in un posto sicuro. Non era ancora giunto il momento di farne uso. Il giorno successivo evitò di bere acqua fin dal mattino e si assicurò di avere un braciere a portata di mano. Sprangò la porta e si dedicò ai preparativi. Fece con calma, come in un rituale, consapevole che, quando fosse arrivato il momento, qualunque errore poteva costargli caro. Si spogliò dalla vita in su e si massaggiò a lungo i seni con l'impiastro che lo aiutava a renderli piatti e asciutti. Poi li fasciò stretti con una benda e s'infilò la camicia. Mise accanto a se un secchio, una grossa brocca d'acqua e panni puliti. E un barattolo pieno di strutto. Non era preoccupato per il dolore, poteva sopportarlo. Quello che più temeva era perdere troppo sangue, e di conseguenza i sensi. Aprì l'astuccio da chirurgo e dispose gli strumenti sul tavolo, mettendo da parte il bisturi e il flacone dell'alcol. Infilò il cauterio d'oro tra i carboni del braciere. Prese il filo di seta e lo fece passare nell'ago. Aprì il Vesalio e cercò le pagine su cui Leon aveva lasciato i suoi disegni minuziosi e dettagliati. Li conosceva a memoria, ma li voleva avere sott'occhio in caso d'imprevisti, per essere sicuro di riuscire a localizzare i nervi e le vene. Prima di cominciare rilesse, per farsi coraggio, il colophon di quel volume così importante per lui, le parole che Pagina 120
sanchez - La schiava di Granada.txt Leon aveva tradotto dal Discorso sulla dignità, dell'uomo di Pico della Mirandola. Quelle con cui il Creatore si rivolgeva all'uomo invitandolo a fare uso della sua libertà, completando la propria forma, come un abile pittore o scultore. Non avrebbe mai immaginato che quell'invito a scolpire se stesso avrebbe avuto per lui un senso letterale. Poi tirò fuori lo specchio e se lo posizionò tra le gambe. E' ora, si disse, stringendo i denti. Non gli sarebbero bastati il coraggio e il sangue freddo: gli serviva tutta la sua abilità di chirurgo. Si preparò a chiudersi la vagina. Fece uno sforzo indicibile per non gridare quando l'ago perforò la carne. E fu lo stesso per il secondo punto. Dopo il terzo, fu meno difficile. Alla fine tamponò la sutura con l'alcol. Gli sembrava di avere il fuoco tra le gambe, ma non poteva fermarsi, sarebbe stato peggio. Prese il bisturi, avvicinò il secchio e tagliò quanto rimaneva delle labbra vaginali. Erano talmente irritate che il dolore fu meno intenso di quanto aveva immaginato. La cosa peggiore era che continuava a perdere sangue. Tese una mano verso i panni, li inzuppò nell'acqua e pulì le ferite. Avrebbe voluto riposarsi un momento, per recuperare le forze, prima di continuare. Ma non aveva tempo. Tolse dal braciere il cauterio incandescente e se lo applicò con la guida dello specchio. Ogni volta che lo premeva sulle carni il dolore era insopportabile. Ma non bastava cauterizzarsi le ferite: doveva avere il coraggio di modellare le cicatrici. Il cauterio si stava raffreddando, così lo infilò di nuovo nel braciere e aspettò, mentre il tanfo delle carni bruciate gli feriva le narici. Quando prese di nuovo lo strumento, aveva già studiato allo specchio i punti in cui applicarlo, in modo da ottenere delle escrescenze carnose al di sopra del foro dell'uretra. Eseguì l'operazione con gesti precisi. Aveva terminato, finalmente. Prese fiato, asciugandosi la fronte dal sudore che gli colava negli occhi. Poi applicò lo strutto sulle ferite. Il suo sesso era ridotto a una piaga. A quel punto si lasciò cadere sul letto, stremato. I giorni che seguirono furono un inferno. Si controllava l'inguine, temendo il peggio: i segni di un'infezione. Sapeva che non poteva evitarla del tutto, anzi sperava che si presentasse, entro certi limiti, affinché le escrescenze carnose si gonfiassero come aveva previsto. Tutto questo però aumentava il suo calvario, e i rischi che correva. Soprattutto quando doveva urinare. Per alcune settimane si fece lavande a base di alcol e si applicò impiastri di fiori di melograno selvatico, suffumigi e altri rimedi della tradizione morisca. Cominciava a notare segni di miglioramento. Adesso la sua natura femminile era quasi del tutto chiusa, e avrebbe potuto facilmente essere dissimulata. A quel punto si sentiva di nuovo in forze per uscire in strada e tornare a esercitare. Due mesi dopo l'intervento, prese il documento che aveva preparato. Lo rilesse e, trovandolo adeguato, decise di presentarlo al notaio. Esaminata la richiesta, il funzionario gli disse, sorpreso: «Non risultano precedenti in archivio di quanto chiedete». «Ma voi siete qui per attestare quanto vi viene richiesto, se si tratta di cosa legittima. Come in questo caso.» Grattandosi la barba, il notaio fu costretto ad ammettere: «In effetti mi sembra che la vostra sia una richiesta legittima. Vedo che alloggiate alla locanda di Manrique. Sarete visitato prima della fine dell'anno». Il giorno fissato per l'esame, Eleno prese lo specchio e studiò con attenzione le cicatrici. Qualunque cerusico sarebbe stato orgoglioso del risultato. Poi indossò i suoi vestiti Pagina 121
sanchez - La schiava di Granada.txt migliori e aspettò che lo andassero a chiamare. Quando scese, trovò ad attenderlo il podestà, il segretario e il cancelliere, che discutevano coi due medici. Accanto a loro, riconobbe altri abitanti della città. Otto persone in tutto. Quando lo videro scendere le scale, lo fissarono con curiosità, interrompendo i loro discorsi. Il locandiere fece entrare i testimoni in una stanza molto luminosa. L'esame si protrasse a lungo, e venne svolto con scrupolo da parte di ognuna delle persone presenti. Alla fine gli dissero di aspettare fuori: presto lo avrebbero chiamato per comunicargli la loro decisione. Quando lo convocarono, il notaio procedette a leggere il documento che aveva da poco redatto: «Nel municipio di Yepes, addì, 30 dicembre 1585, in presenza del signor Juan Alvarez, podestà, è stata presentata la seguente richiesta: «"Illustrissimo, Eleno de Céspedes, cerusico ospite di questa città, così sostiene: Alcune persone di questa città mi hanno ingiuriato e offeso, dicendo che sono donna anziché uomo, e che ho sia il sesso dell'uomo sia della donna, cosa da cui deriva un grosso danno ai miei affari. Per questo intendo chiedere giustizia contro le dette persone che mi hanno infamato, affinché siano condannate con pene conformi ai delitti di cui si sono macchiate. Supplico quindi la vostra signoria di disporre affinchè i medici di questa città sottopongano a esame la mia persona, insieme con altri testimoni di provata serietà. E che gli uni e gli altri dichiarino ciò che vedranno, affinchè sia messo per iscritto e reso pubblico, oltre che redatto in una copia a mio beneficio, perché io possa disporne come riterrò opportuno"». Il notaio alzò lo sguardo dal foglio, in modo che Eleno potesse confermare i termini della denuncia. Le maldicenze cui accennava in quel documento non erano che un pretesto per quello che davvero serviva ai suoi scopi: una certificazione del suo sesso maschile. Assentì, dunque. Avuto il suo consenso, il notaio riprese a leggere: «A fronte di ciò, il signor podestà ha ordinato che i medici di questa città, il dottor Francisco Martínez e il titolato Juan de las Casas, lo visitassero ed esprimessero il loro parere in merito, insieme con altri testimoni. La visita si è tenuta di giorno, nella locanda in cui era alloggiato, dove è stato esaminato e toccato da davanti. Benché presentasse un'infiammazione, nessuno dei medici è riuscito a infilarci un dito. Quando i medici gli hanno chiesto che cosa fosse, ha risposto che era il segno lasciato dalle emorroidi che gli avevano dovuto cauterizzare. Di più non è stato possibile stabilire, poiché, pur spingendo, le dita non entravano, né si vedevano altri orifizi. Ragion per cui, non potendo notare altra natura se non quella di maschio, tutte le suddette persone, tanto i medici quanto gli altri, hanno attestato che si tratta di un uomo». Con quel documento in mano, Eleno si diresse a Toledo, dove, diversamente da Madrid, i suoi trascorsi non erano noti. Impiegò giorni interi cercando di convincere l'ostinatissimo sacerdote a rilasciargli la licenza di matrimonio. Ma era come parlare a un muro: veniva rinviato ogni volta al vicario Neroni. Spese una somma notevole cercando un avvocato che lo rappresentasse e dei testimoni che garantissero per lui. Fu tutto inutile. Le sue richieste caddero nel vuoto e, scoraggiato, decise di fare ritorno a Ciempozuelos. Maria del Caño gli andò incontro e lo abbracciò, senza nascondere la preoccupazione. «Tu non stai bene.» «Non è ancora finita. Domani devo partire per Madrid.» Le mostrò il certificato e lei corse a farlo vedere ai suoi, per quello che valeva: non sapevano leggere. E ormai non erano più in grado di capire: la madre, già di salute cagionevole, aveva addirittura avuto un peggioramento. Il giorno seguente, quando Céspedes si ripresentò al Pagina 122
sanchez - La schiava di Granada.txt cospetto del vicario Neroni, comprese immediatamente, dall'asprezza con cui questi lo accolse, che era al corrente dei suoi tentativi di evitare quell'incontro. Guardò con sdegno il documento che gli era stato rilasciato a Yepes. «Questo vicariato ha i suoi esperti. Darò ordine che siate esaminato da due medici di Corte.» Eleno non conosceva il primo dei due dottori designati, Antonio Mantilla, ma impallidì quando lesse il nome del secondo: Francisco Diaz. Si ricordò di quanto Leon gli aveva detto su di lui: E' noto per essere il maggior esperto in materia di apparato genitale. Se mai doveste avere qualche problema in proposito, è a lui che vi dovete rivolgere. Sembrava che Neroni pensasse la stessa cosa. Che cosa devo fare? E' troppo rischioso tentare la sorte, si disse. Non era meglio tirarsi indietro? Non era forse un segno che le cose stavano irrimediabilmente precipitando? *** UN NUOVO ESAME. Quella locanda a Madrid gli costò cara, ma aveva bisogno di una stanza decorosa in cui ricevere i medici che dovevano visitarlo. Ignorava se sarebbero arrivati insieme o no e, nel secondo caso, chi si sarebbe presentato per primo. I dolori all'inguine erano strazianti. In previsione dell'esame, aveva ripetuto il doloroso trattamento fatto a Yepes, applicando rimedi persino più drastici per cauterizzare ciò che restava dei suoi genitali femminili. Si sarebbe giocato tutto in quella sola mano. Non sarebbe stata una visita ordinaria: i medici arrivavano prevenuti. Si richiedeva loro di certificare se aveva o no due organi genitali, o se era evirato. Lo avrebbero tastato ovunque. Dalla finestra che dava su calle de Toledo, vide arrivare un uomo, che non era accompagnato da nessun giudice o notaio. Doveva essere il dottor Mantilla. Quando lo chiamarono, Eleno scese a riceverlo e lo condusse in camera. La luce era sufficiente, ma il medico accese comunque una candela, che resse in una mano mentre lo esaminava con l'altra. Rimase a lungo a osservarlo, poi si alzò, spense il lume e gli disse: «Potete rivestirvi». Eleno lo interrogò con gli occhi, tuttavia Mantilla distolse lo sguardo. «Non posso dire nulla finchè non avrò informato il vicario Neroni. Mi dovete otto reales. è la tariffa fissata per questi casi.» Il giorno successivo, Eleno si presentò al vicariato, dove il notaio gli lesse il rapporto rilasciato dal medico: «Nella città di Madrid, addì 8 febbraio 1586, il dottor don Antonio Mantilla, residente in questa Corte, si è presentato al cospetto dell'illustrissimo signor Juan Bautista Neroni, vicario generale di detta città. Interrogato su Eleno de Céspedes, ha dichiarato di aver esaminato le sue pudenda e il membro, ben formato e perfetto, con tutti e due i testicoli. Per il resto, ha visto solo una piccola verruca accanto all'ano, che il tale Eleno sostiene essergli rimasta in seguito a un'emorroide. L'ha comunque toccata e non ha notato nessun orifizio. Questa è la verità che dichiara sotto giuramento e che sottoscrive di fronte a me, Francisco de Gamez Ayala, notaio». Terminata la lettura, lo avvisò: «Tra non molto verrà a visitarvi il dottor Diaz. Quando avrà consegnato il proprio responso, il vicario renderà nota la propria decisione». Non appena sentì che la seconda visita era imminente, procedette a ripetere i trattamenti per nascondere i suoi organi femminili, ma temeva che non sarebbero serviti a nulla con un personaggio come il dottor Diaz. Pagina 123
sanchez - La schiava di Granada.txt Le sue inquietudini raddoppiarono quando lo vide apparire, seguito dal servo senza naso. Quando uno dei ragazzi della pensione salì ad avvisarlo che chiedevano di lui, gli diede tre reales. «Due sono per te. Il terzo è per offrire qualcosa al servo, in modo che rimanga di sotto. Assicurati che il medico salga da solo.» Si augurò con tutta l'anima che il ragazzo ci riuscisse. Bussarono alla porta e, quando andò ad aprire, Eleno si trovò davanti il dottor Diaz. Non sembrò riconoscerlo né associarlo a Leon. Non appena si fu spogliato del mantello ed ebbe aperto la valigetta, Céspedes capì che quella visita non sarebbe stata semplice come le precedenti. Specialmente quando lo vide impugnare quello strumento: era un catetere, un oggetto che veniva impiegato nel trattare le escrescenze carnose delle vie urinarie e per dilatare i restringimenti dell'uretra. Quando Eleno si fu abbassato i calzoni, il dottore procedette al minuzioso esame dei suoi organi genitali. Arrivò al punto più delicato, ossia a quanto rimaneva del suo sesso femminile, che palpò. «Che cos'è questa parte rugosa e dura che avete qui, vicino all'ano?» «La cicatrice di un'emorroide, è rimasta così quando l'hanno cauterizzata.» Per quanto provasse, il medico non riuscì a infilarci le dita. E nemmeno il catetere. «Mi state facendo male», gli disse Eleno. «Va bene, potete rivestirvi. Verrete informato del mio rapporto dal vicariato.» Quando venne convocato, Eleno non nutriva grandi speranze. Il notaio lo invitò a sedersi e procedette alla lettura: «Il dottor Francisco Diaz, medico e chirurgo di Sua Maestà, dichiara sotto giuramento che l'organo genitale di Eleno de Céspedes è di dimensioni sufficienti e ben formato, coi testicoli uguali a quelli di ogni uomo. E che, nella parte inferiore, vicino all'ano, ha una zona rugosa, che a suo avviso non ha somiglianza né traccia che possa far presumere trattarsi di un sesso femminile. Questa è la verità che dichiara sotto giuramento e che sottoscrive di fronte a me, Francisco de Gamez Ayala, notaio». Eleno tirò un sospiro di sollievo. Adesso mancava solo il nullaosta del vicario. Quelle relazioni mediche non erano vincolanti, ma sperava che Neroni tenesse conto del fatto che in luoghi, tempi e circostanze differenti, era stato visitato da ben diciassette persone, di cui quattro medici. E che tutte, senza eccezione, lo avevano accreditato come maschio. Quando lo chiamarono, dopo più di un'ora di anticamera, il vicario ordinò al notaio di leggergli la relazione, affinchè potesse apporre il proprio benestare: «Viste le precedenti relazioni, dichiaro il sopra citato Eleno de Céspedes libero dal difetto di cui è stato accusato, di disporre degli organi genitali dell'uomo e della donna. Ordino dunque che gli sia data licenza affinché il parroco del municipio di Ciempozuelos lo unisca in facie ecclesiae con Maria del Caño, in accordo con quanto decretato dal regolamento sinodale. E firmo davanti ai testimoni Juan Gutierrez Zaldivar e Francisco de Gamez Ayala, entrambi notai. Di quanto detto si rilascia copia per gli interessati.» Eleno era raggiante. La battaglia per ottenere l'autorizzazione al matrimonio era stata lunga, ma ora aveva una nuova vita davanti a sé, da dividere con la donna che amava. *** MATRIMONIO E VELAZIONE. Non potevano aspettare. Né tentare la sorte. Tutti quei mesi a cercare di ottenere la licenza di matrimonio li avevano resi Pagina 124
sanchez - La schiava di Granada.txt impazienti. Non solo per evitare ulteriori ostacoli, ma anche per mettere a tacere le obiezioni del parroco di Ciempozuelos. E dei genitori di Maria. Volevano celebrare il matrimonio prima possibile. Stavano concordando col parroco la prima data disponibile, quando lui li avvertì: «E' Mercoledì delle Ceneri». «E non va bene?» «Per il matrimonio va bene qualunque giorno, ma non per la velazione in facie ecclesiae, che di solito si tiene subito dopo e nello stesso luogo in cui si sono celebrate le nozze, nella parrocchia della sposa.» «Ma quello che conta è il matrimonio, non è così?» «Senza la velazione, la sposa non puo essere affidata al marito e i coniugi non possono andare a vivere insieme.» «E perché è proibita dal Mercoledì delle Ceneri?» «Per evitare i festeggiamenti che accompagnano le nozze nel periodo di raccoglimento e astinenza della Quaresima. Lo sposalizio può avvenire in forma privata, la velazione no. Per quella ci vogliono padrini, testimoni e una cerimonia pubblica. Sono la parte solenne della liturgia.» «Ma si tratterebbe solo di un giorno dopo il termine.» «Il Concilio di Trento ha dettato delle regole molto precise per quanto riguarda i sacramenti. Non si può celebrare una velazione dal martedì che precede le Ceneri fino alla domenica della Resurrezione compresa. La multa è severa: duemila maravedí.» Celebrarono quindi il matrimonio il Mercoledì delle Ceneri, ma dovettero posticipare la velazione di addirittura sei settimane. Per non sprecare altro tempo, rinunciarono ai documenti relativi alla dote e ad altre prove di solvenza economica. Il parroco rimase colpito da una simile dimostrazione di fiducia reciproca da parte dei contraenti, dato che nessuno avrebbe scommesso un real per quel matrimonio e, benché andasse contro i suoi principi, decise comunque di procedere con le pratiche, visto che conosceva così bene la sposa. Eleno non avrebbe mai ammirato tanto la sua futura moglie come in quel periodo difficile, quand'erano in balia dei pettegolezzi che, in un paese così piccolo, erano diventati insopportabili. Eppure lei non aveva esitato a rimanergli accanto. Persino di fronte al parere contrario dei genitori. Céspedes capiva l'imbarazzo dei suoi futuri suoceri. E comprendeva la loro paura. Sapeva che lo stimavano, eppure tutto ciò era superiore alle loro forze e la codardia tipica della gente di umili origini li costringeva a tirarsi indietro: si sentivano troppo vecchi per affrontare quel frangente, così lontano dal loro modo di vivere. La madre, già malata, non si sarebbe mai ripresa. In mezzo a quel trambusto, la presenza di Inesilla, la sorella di Maria, era di grande conforto. Il giorno della cerimonia, Ines andò a bussare alla porta di Céspedes, che si stava vestendo. «Sbrigati, Maria è già pronta.» Ed entrò, senza aspettare la sua risposta. Lui riuscì a malapena ad abbottonarsi la camicia e a infilarsi i calzoni. Voltandosi, lei gli chiese: «Ti posso fare una domanda, Eleno?» Lui assentì, preparandosi al peggio: la curiosità di una ragazzina. «perché dicono che sei sia uomo sia donna?» Sconcertato, provò a rispondere con un'altra domanda: «Tua sorella non te lo ha detto?» «Dice che sei un maschio, e che fai il tuo dovere come tale.» «E tu non le credi?» «Non e questo, e solo che lei ultimamente si comporta in modo strano. Non dice niente, ma io la conosco e so quello che prova.» Pagina 125
sanchez - La schiava di Granada.txt Céspedes aspettava che se ne andasse per finire di vestirsi, ma la ragazzina non si muoveva. «Che c'è?» «Mi porterete con voi?» «Anche tu vuoi andartene da Ciempozuelos, vero? Ma le terre dei tuoi genitori sono qui. Devi occuparti di tua madre. Verrai a trovarci non appena lei starà meglio e noi ci saremo sistemati nella nuova casa.» «Me lo prometti?» «Te lo prometto.» Ma ancora non se ne andava. Stava nascondendo qualcosa dietro la schiena, che alla fine gli porse. «Tieni, è il mio regalo», disse. E uscì di corsa. Era una piccola scatola dipinta. Quando l'aprì, trovò il flauto che la ragazzina aveva fatto con le sue mani. Il suo tesoro più prezioso. Eleno le fu immensamente grato per quella dimostrazione di affetto, soprattutto in quel momento in cui sembrava che tutti fossero contro di loro. La cerimonia di matrimonio risultò impacciata, quasi clandestina. Il parroco di Ciempozuelos non mostrò il benché minimo entusiasmo. Preferirono quindi celebrare la velazione a Yepes, dove pensavano di andare a vivere. A Céspedes sembrava un posto più ospitale: alcune settimane prima, non meno di dieci persone avevano testimoniato favorevolmente sulla sua virilità. Il commiato dalla famiglia fu un momento molto triste. Tutti erano in lacrime, e la madre aveva approfittato del passaggio in paese di un fabbro venditore di pentolame per far decorare un secchio ornamentale, che poi regalò agli sposi. Oltre a due sedie, un materasso e un corredo completo di tovaglie e lenzuola. Ma a commuoverli davvero fu il dono della culla nella quale aveva svezzato le sue figlie. «Che non lo sappia tuo padre», aveva detto a Maria mentre gliela consegnava. Tuttavia la piccola Ines, che li seguì per un bel tratto saltellando dietro il carromatto sul quale trasportavano le loro cose, confessò: «Lo sa anche papà della culla, l'ho visto mentre la sistemava in cortile». «Su, torna a casa», le ordinò Maria. Poi, mentre la sagoma della sorella che li salutava con la mano diventava sempre più piccola, disse a suo marito: «Vedi? Mio padre spera che gli diamo degli eredi». Quando si furono sistemati a Yepes, attesero con ansia la fine della Quaresima per celebrare la velazione, ricevere la benedizione nuziale e poter andare a vivere insieme nella casa che avevano affittato da uno dei pazienti di Eleno. E finalmente arrivò il giorno della cerimonia, che si svolse in un clima ben diverso da quello dello sposalizio. Dopo la firma sul registro, invitarono il prete, il sagrestano e i testimoni al pranzo che avevano organizzato nella locanda di Manrique, dov'erano alloggiati in quel momento. Fu un giorno splendido. Non avrebbero potuto cominciare meglio la loro nuova vita. E quando, quella notte, inaugurarono la loro camera da letto, Maria ed Eleno si sentirono ripagati di tutte le difficoltà. Nei mesi successivi si procurarono i mobili che mancavano: una mensola per le stoviglie e persino un barilotto di aceto, che Céspedes aveva avuto da un cliente in cambio dei suoi servigi e che pensava di usare come madre, riempiendolo un poco alla volta. Avevano messo insieme gli scarsi beni che ognuno dei due possedeva, le loro ricchezze e i ricordi più cari. Ma il vero gioiello della casa era la biblioteca. Erano pochi i chirurghi a disporre di un tesoro simile. Ai volumi acquistati a Madrid si erano aggiunti quelli avuti da un collega di Yepes che si era ritirato, lasciando il posto a Eleno. E il pezzo forte della collezione era il Vesalio di León. Era stato grazie al suo esempio che Eleno aveva deciso di approfondire le Pagina 126
sanchez - La schiava di Granada.txt proprie conoscenze. Non voleva limitarsi a vegetare come un banale barbiere o un salassatore. Quando, nelle sere d'estate, lui e la moglie uscivano a prendere il fresco, facevano programmi per il futuro. Si sedevano sotto le stelle, cullati dal mormorio delle foglie dei pioppi e dal canto dei grilli. E muovevano i primi passi nella loro vita insieme, tra i ricordi e le speranze. Céspedes riusciva a stento a credere alla fortuna di aver trovato, alla sua età, una donna con le qualità di Maria. «Com'è possibile che non ti abbiano mai chiesto in moglie?» le chiese una volta. Lei sorrise, appoggiandogli la testa su una spalla. « Qualcuno lo ha fatto.» «Qualcuno del paese, o di passaggio da casa vostra?» «Degli uni e degli altri. Uno di loro non dispiaceva a papà e nemmeno al parroco. Ma tu sei diverso.» «perché?» «Per tutto quanto. Sai come trattare una donna, come non ho mai visto fare da nessun altro. E credo che lo notino anche i tuoi pazienti. Non appena ti ho visto, ho capito che non avrei mai trovato un altro come te.» Non faceva mai parola dei pettegolezzi che accusavano Eleno di avere entrambi gli organi genitali. Tuttavia, quando, a letto, cercava di accarezzarlo, lui le scostava la mano. «Volevo solo fare quello che fanno le altre coi loro mariti, a quanto ho sentito», si giustificava lei. «Non sono cose adatte a una donna onesta», si schermiva Eleno. finchè, una notte, credendo che lui stesse dormendo, Maria non potè resistere e lo toccò. E, benché non riuscisse a vedere nulla, dato che lui indossava la camicia, sentì un rigonfiamento. Ma non le bastò, e continuò a chiedergli che glielo facesse vedere. Un giorno, Eleno si stava vestendo, seduto sul letto, mentre Maria era poco distante. Lui si sollevò la camicia invitandola a guardare, poi la riabbassò. Lei gli chiese di poterlo osservare più da vicino, ma lui non glielo permise. Passava il tempo e la loro felicità era offuscata da una sola ombra: la culla avuta in regalo dai suoceri era ancora vuota. Céspedes aveva sorpreso Maria mentre la spolverava, accarezzando il legno nel quale era stata svezzata. Un giorno, lui aveva appena finito di bardare la mula per recarsi nel paese vicino, quando lei lo chiamò per la colazione. Mentre mangiavano, gli annunciò: «Credo di essere incinta». Céspedes quasi si strozzò per la sorpresa. «Sei sicura?» Lei assentì, decisa. «Ho più di tre settimane di ritardo.» Lui si alzò per abbracciarla, e Maria si accorse che tremava come una foglia. Pensò che fosse dovuto all'emozione di avere un figlio, ma in realtà era commosso dall'amore e dalla speranza della moglie. Prima di montare in groppa alla mula, Céspedes andò nella stanza in cui aveva nascosto la camicia macchiata di sangue e la infilò in borsa. Non poteva certo dire a Maria che le mestruazioni erano venute a lui. Pensava di lavarla al primo torrente che avesse incontrato lungo la strada, in modo da non insospettirla. Quello di Maria era stato un falso allarme, ovviamente: le tornò presto il ciclo, e lei riprese a sperare di fare uso di quella culla. Durante la permanenza a Yepes, Eleno ebbe modo di apprezzare l'impegno della sua sposa per tenere a distanza vicine e pettegole. Non avrebbe mai dovuto sopportare il peso di una moglie frivola, di quelle ostinate come un'infiltrazione, che ottengono quello che vogliono bucando addirittura il granito. Non era una di quelle donne che passavano la giornata alla finestra, andando a caccia di pettegolezzi o cercando infiorettature tra i merciai ambulanti. E Pagina 127
sanchez - La schiava di Granada.txt nemmeno si atteggiava a sposina capricciosa, di quelle che alla prima difficoltà intonano una litania di lamenti che sarebbe bastata per tutte le funzioni della Settimana Santa. Sembrava che tutto andasse bene. Finché, un giorno, allontanandosi da uno dei paesi vicini, Eleno non sentì che cercavano un cerusico per un posto vacante a Ocaña. Dovevano trovare un sostituto entro Natale. E ora, nella sua cella buia, Céspedes si chiese per quale ragione si fosse fermato ad ascoltare quel bando. Se non lo avesse fatto, forse sarebbe stato ancora a Yepes, felicemente sposato con Maria. *** LA DENUNCIA. Lope de Mendoza interruppe la lettura del fascicolo, perplesso. L'identità del denunciante lo lasciava davvero sconcertato: era Ortega Velazquez, l'uditore che aveva incrociato la strada di Céspedes durante la guerra contro i moriscos. Sembrava che quell'incontro gli fosse rimasto piantato nel fianco come una spina, e, tornato all'Audiencia di Granada, non doveva aver avuto grosse difficoltà ad accedere agli atti giudiziari relativi alle scaramucce in cui il reo era stato coinvolto in mezza Andalusia, quando aveva ripreso l'attività di sarto. La documentazione non lasciava adito a dubbi: Ortega Velazquez lo aveva denunciato quando stava per andarsene da Ocaña, dopo avervi esercitato come giudice. Poco prima di partire, aveva inoltrato un'ultima istanza al governatore, relativa a Céspedes. Diceva di averlo conosciuto durante la guerra delle Alpujarra e di aver scoperto dopo un po' che alcuni lo ritenevano una donna e altri un ermafrodita. Mendoza era diventato il cardine del cieco ingranaggio che si era messo in funzione grazie a tutti quei meccanismi. Se Eleno si fosse presentato al suo nuovo incarico solo un giorno più tardi, o forse anche solo poche ore dopo, il giudice uscente non l'avrebbe mai incontrato. Pure quel rancore, immutato dopo tutti quegli anni, non finiva di sorprendere Mendoza. Anche se, con tutto quello che veniva discusso nel suo tribunale, sapeva fin troppo bene quanto lunga potesse dimostrarsi la memoria umana. Eppure Ortega Velazquez doveva essere stato solo l'ultimo anello di una lunga catena di ostilità. L'uditore infatti non avrebbe mai trovato materiale per la denuncia, se non gli fossero arrivate quelle voci malevole sul sesso del nuovo cerusico. E, in ultima istanza, c'era di mezzo anche una simmetria crudele. Infatti, senza la prospettiva di un impiego migliore, Céspedes non si sarebbe mosso da Yepes, dove sarebbe vissuto in pace con Maria del Caño. La coincidenza drammatica era che sia loro sia Ortega Velazquez avessero deciso di trasferirsi a Ocaña, l'anticamera della capitale, la scelta più ovvia se si voleva rimanere vicino a Madrid. Non li avevano lasciati vivere in pace nemmeno un anno. Avevano incarcerato Céspedes il 4 giugno 1587. Quel giorno, il governatore della provincia di Castiglia responsabile del distretto di Ocaña, Martin Jufre de Loaysa, lo aveva fatto arrestare con l'accusa di essere una donna vestita da uomo e di aver contratto matrimonio con Maria del Caño pur essendo stata sposata, come Elena, con un uomo. Quando vide che Ortega Velazquez e Jufre de Loaysa si erano mossi nella stessa direzione, Mendoza cominciò a sentire puzza di bruciato. Non credeva in tutte quelle coincidenze. Conosceva il governatore fin troppo bene e intuì quello che era successo: un cerusico ambulante navigato come Céspedes doveva risultare un ostacolo per i suoi maneggi. Nel contempo, Mendoza comprese che la principale Pagina 128
sanchez - La schiava di Granada.txt preoccupazione di Eleno doveva essere stata quella di tenere la moglie lontana dai guai. Si chiese se, nei mesi trascorsi dalla denuncia all'arresto, una persona sveglia come lui non avesse sospettato quanto stava per piombargli addosso, dal momento che Maria non lo aveva seguito a Ocaña. Dopo che lui era partito da Yepes, infatti, Maria era tornata a Ciempozuelos, dai suoi genitori. Maria del Caño era rimasta sorpresa quando il marito era tornato solo pochi giorni dopo aver ottenuto quel nuovo incarico come cerusico. Soprattutto perché Eleno le aveva annunciato che dovevano parlare di una cosa seria. «Non puoi venire con me a Ocaña. Devi andartene da Yepes e tornare dai tuoi a Ciempozuelos», le disse. Poi, vedendo l'angoscia negli occhi della moglie, aggiunse: «Adesso non posso spiegarti niente, nemmeno coinvolgerti o farti rilasciare una falsa testimonianza, ma ti giuro che ti racconterò tutto quando arriverà il momento. Adesso ascoltami bene, è molto importante». «Che cosa devo dire ai miei? Questa cosa li ucciderà.» «Di' che abbiamo litigato, che hai minacciato di andartene, e io non ti ho fermato. E che tu lo hai fatto per occuparti di tua madre.» Maria gli gettò le braccia al collo, piangendo. «Dio mio! perché proprio adesso, che le cose andavano così bene?» Gli si spezzava il cuore nel guardarla andare via. Dopo tutte quelle fatiche e difficoltà, mentre ormai lui era sulla vetta, la legge gli cadeva addosso come un macigno. Doveva di nuovo ripartire da zero. Si sentiva come Sisifo col suo masso, in quell'immagine ereditata da León. Anche lui aveva risalito la montagna per poi, una volta in cima, vedersi scagliare nel vuoto, trascinato di nuovo al punto di partenza. Senza fine, come un castigo, per aver nutrito ambizioni e sogni che non gli erano stati concessi. Il tempo remava contro di lui. Fu allora che decise di andare da Maria de Luna, una guaritrice morisca che la gente diceva fosse una strega. La donna aveva trovato rifugio in una colombaia abbandonata, bruciacchiata dal fuoco e annerita dalla fuliggine. Lo ricevette con diffidenza, alla luce rossastra e mutevole delle fiamme che lambivano una pentola di terracotta che borbottava su un treppiede. Era ridotta pelle e ossa, le guance incavate, le labbra secche ed esangui, il naso adunco, i capelli arruffati. Quando lo riconobbe, la sua espressione si addolcì. Non era la prima volta che Céspedes andava da lei. Com'era successo col circoncisore di SanlÚcar, la morisca lo considerava tacitamente uno del suo popolo, per il colore della pelle e i marchi sul viso. «Che cosa vuoi da me, adesso?» «Ne abbiamo già parlato, mi sembra. Credo sia arrivato il momento di chiudere la ferita che ho tra le gambe. Si e riaperta.» Céspedes aveva taciuto alla donna la vera natura di quell'orifizio, dicendo che si trattava di una piaga. Non era sicuro che gli avesse creduto, ma sapeva di poter contare sul suo silenzio. «Bisognerebbe darle qualche punto e metterci della polvere cicatrizzante.» Céspedes assentì, cominciando a spogliarsi. Maria de Luna accese una lampada e gli chiese aiuto per infilare l'ago. «La mia vista non e più quella di un tempo, ma il polso è ancora fermo.» Céspedes ne ebbe prova durante quel delicato intervento. Due ore dopo, la morisca esaminò la sutura e sembrò soddisfatta. «Qualcos'altro?» gli chiese. Céspedes le spiegò la seconda ragione per cui era andato da lei. Lei parve d'accordo e, guardandolo con tristezza, gli disse, con un'amarezza infinita: «Immagino che quando l'avrò fatto dovrò sparire, vero?» Pagina 129
sanchez - La schiava di Granada.txt «Almeno non sarai in pericolo.» «Non lo saresti nemmeno tu, se mi costringessero a parlare. Ma non preoccuparti, non appena l'avrò fatto, me ne andrò.» «Questo è per il viaggio», le disse lui, mentre le porgeva un borsello gonfio. Lei lo prese e, dopo aver contato le monete, gli assicurò: «Sarà pronto in tre giorni». Poi lo congedò con una traccia fugace di gratitudine negli occhi sofferenti, annebbiati dal fumo. Sapevano entrambi che non le rimaneva molto tempo da vivere. E che sarebbero stati anni di fughe e di paura. Poi ci fu l'arresto. E la visita di Maria, che il padre aveva voluto accompagnare in quella malaugurata circostanza. Quando Céspedes chiese al suocero notizie sulla malattia della moglie, l'uomo si rabbuiò. «E' costretta a letto. Ma almeno così non deve subire i pettegolezzi.» Non appena rimasero soli, Eleno si sedette accanto a Maria. «Ascoltami bene, perché tutto quello che ti dirò dev'essere fatto nel modo più preciso possibile, e tu non dovrai mai contraddire la mia versione dei fatti. Ne va della nostra vita.» Lei annuì, soffocando la disperazione. «Innanzitutto devi cercare Gonzalo Perosila. Sai chi è?» «Il procuratore.» «Proprio lui. Digli di andare a Madrid e di chiedere al vicario Neroni una copia delle relazioni in cui si attesta che sono un maschio.» «Quelle che mi hai fatto vedere prima di consegnarle al parroco?» «Esatto.» «E' un modo per guadagnare tempo?» «Potrebbe essere molto di più. Come dicevo, non dobbiamo contraddirci. Quindi, se ti fanno domande sulla nostra intimità, devi assicurare che non abbiamo rapporti da prima di Natale, quando ho cominciato a lavorare come cerusico a Ocaña. Diremo che non potevamo, perché mi erano venute delle piaghe sui genitali. D'accordo?» «Ma perché?» «E' meglio che tu non sappia altro. Basta che confermi questo: non abbiamo avuto rapporti sessuali da prima di Natale, per quelle piaghe che mi erano venute.» «E se mi chiedono altri dettagli?» «Di' che hai capito cos'avevo quando ti sono venute delle pustole, come delle piccole vesciche che bruciavano. Di' che mi hai chiesto del sego di capretto da passarci sopra, immaginando che te le avessi attaccate. E che io mi applicavo un panno inzuppato di vino.» Quando stava per andarsene, Maria strinse la mano del marito e, pesando le parole, gli chiese: «Eleno, quelle accuse di non essere un maschio... sono false, vero? Tu hai il membro di un uomo». Lui cercò di sostenere il suo sguardo, ma non ci riuscì e, abbassando gli occhi, bisbigliò: «Ho paura di no». «Che cosa?» «Non ce l'ho più. Le piaghe lo hanno atrofizzato.» Chiunque altro sarebbe crollato di fronte a una notizia del genere, ma non Maria. «Ah... Adesso capisco quello che mi hai detto, e perché hai voluto che ci separassimo.» «L'ho fatto per il tuo bene, perché non ti accusassero di essere mia complice.» Mentre se ne andava, lei non riuscì a trattenere le lacrime. Céspedes l'abbracciò. «Fidati, so quello che faccio.» Durante la visita successiva, Maria gli raccontò di come era riuscita a sopportare quella prova così difficile: l'asta pubblica dei loro beni per poter affrontare le spese del processo. Si era tenuta in uno splendido giorno d'inizio estate, approfittando della gente arrivata per la feria. Avevano ascoltato entrambi, benché lontani l'uno dall'altra, la voce Pagina 130
sanchez - La schiava di Granada.txt del banditore che gli straziava l'anima. Lei dalla locanda in cui alloggiava quando andava a trovarlo a Ocaña, dal momento che le avevano proibito di usare la casa di Céspedes, dove avevano trasferito le loro cose; lui, dalla sua cella nel carcere della città. Man mano che il rosario dei loro beni veniva sgranato, era stato come se fosse andata in pezzi la loro vita insieme, i progetti in cui avevano riposto tante speranze. Li stavano privando di tutto ciò che avevano, di tutta la loro vita, lasciandoli in rovina. Ognuno degli oggetti declamati dall'ufficiale giudiziario rappresentava un ricordo e una difficoltà. Il portacandele d'argilla sul tavolo della cucina, accanto alle forbici per liberare lo stoppino dalla cera. L'asse per mondare il riso. La scatola dipinta e il flauto di canna che Céspedes aveva avuto in regalo dalla sua giovane cognata. Alcuni asciugamani e strofinacci, mai usati. Due tovaglie da tre varas. * * Unità di misura usata in alcune zone della Spagna che oscillava tra i 768 e i 912 millimetri. (N.d.T.) Un'immagine della Vergine su legno, cui tanto Maria quanto Inees erano estremamente devote, perché era a lei che si rivolgevano quando ancora dividevano la camera, confidandole le proprie pene di ragazzine. Il letto di legno e corda, col pagliericcio di sparto, il materasso di stoppa, la coperta bianca, il copriletto rosso e le lenzuola a righe. E inoltre tutti i suoi vestiti: camicioni da notte e camicie, una giubba di taffettà, un paio di calzamaglie bianche, un altro paio colorate, un cestino da cucito col puntaspilli in velluto rosso, un gomitolo di lana con una calza spessa che Maria stava sferruzzando per Eleno, il quale spesso si lamentava di patire il freddo quando viaggiava in groppa alla sua mula per andare a visitare i pazienti fuori città. Particolarmente dolorosa era stata la vendita della culla avuta in regalo dai suoceri, e della bella immagine di Sisifo su cuoio marocchino, che ora sembrava ridere delle sue disgrazie. Lo specchio era stato rotto mentre facevano l'inventario, ed era stato scartato. Ma la cosa più difficile era stata la biblioteca. Céspedes era pure venuto a sapere che i giudici avevano requisito il Vesalio, forse per utilizzarlo come prova. Per Maria era stato un duro colpo dover restare a guardare mentre degli estranei frugavano tra le sue cose, o ascoltare le contrattazioni gestite dai banditori. Una sofferenza che si era ripetuta, anche se un poco attenuata, la settimana successiva, quando, durante un giorno feriale, erano stati messi all'asta i beni rimasti invenduti. Allora aveva assistito allo scatenarsi di una vera zuffa tra quella gente meschina, che aveva aspettato la seconda vendita, nella quale i prezzi venivano sempre abbassati. Quando andò a trovare Eleno in prigione gli fece il resoconto: il ricavato per il mantenimento del prigioniero era di quarantacinque reales. «Come vedi, il nostro matrimonio non vale granchè!», gli disse. Lui cercò di consolarla, ma riuscì soltanto a mormorare: «Ma almeno adesso abbiamo quanto ci serve per salvarlo. Domani inizia il processo». *** IL PROCESSO. Era ormai giorno inoltrato quando andarono a prendere Céspedes nella sua cella, per portarlo alla sala delle udienze del carcere di Ocaña, presieduta dal governatore Martin Jufre de Loaysa, il quale non aveva rinunciato a evidenziare il proprio rango, presentandosi con l'abito e le insegne dell'Ordine di Santiago. Pagina 131
sanchez - La schiava di Granada.txt L'ufficiale giudiziario lesse la requisitoria nella quale si esponeva il motivo per cui il reo era stato tratto in arresto. «Dite il vostro nome, il mestiere e il luogo di nascita», gli ordinò il governatore. «Eleno de Céspedes, cerusico?nato ad Alhama de Granada.» «Eleno o Elena?» «Eleno, come ho detto» «Qual'è, dunque, il vostro sesso?» «Sono maschio.» «E perché vi accusano del contrario?» «perché fin dalla nascita non si capiva quale fosse il mio sesso; avevo solo un'apertura dalla quale urinavo.» «Quali abiti indossavate da bambino?» «Fino ai dodici anni, mia madre mi ha vestito con una tunica a mezza gamba.» «Ma i vostri genitori, i parenti e i vicini come vi consideravano: un maschio o una femmina?» «Un maschio.» «E in seguito?» «Quando avevo diciott'anni e vivevo a SanlÚcar de Barrameda, mi è uscita una membrana, un pezzo di carne che fino ad allora era rimasto attaccato alle mie parti intime. Un cerusico mi ha operato, liberando così un membro maschile del tutto formato. E ho potuto avere un rapporto sessuale con una donna.» «Quante volte vi siete sposato?» «Una, con Maria del Caño.» «Non avete forse contratto matrimonio nella città di Jaeén, come donna?» «Non sono mai stato in quella città in vita mia.» «Non risponde dunque a verità che, dopo la morte di vostro marito, originario di quella città, vi siete definitivamente spogliata degli abiti femminili, cominciando a vestirvi da uomo?» «Assolutamente no.» Jufre de Loaysa fu costretto a fermarsi: l'enfasi con cui aveva pronunciato le ultime parole gli aveva fatto cadere i denti posticci. Concesse una tregua al reo, mentre si copriva la bocca con la sinistra, e con la destra sistemava la dentiera. Céspedes dedusse che il governatore doveva disporre di più informazioni di quante non immaginasse. Senza dubbio era riuscito a scavare in un passato piuttosto lontano, prima di promuovere la causa. E, benché le informazioni ottenute non fossero precise quanto avrebbero voluto, Eleno doveva stare attento: potevano tendergli trappole difficili da evitare. Dopo essersi sistemato la dentiera, il governatore si mise a consultare gli incartamenti per procedere con una nuova linea d'attacco. Ma non mollò la presa. «In quei primi anni, come venivate chiamato di solito, Eleno oppure Elena?» «Eleno.» «Dovrete riconoscere che e un nome piuttosto insolito.» «Mi hanno sempre chiamato così, come appare in molti documenti.» «Avete dichiarato che, prima dell'intervento, avevate un'apertura dalla quale urinavate. E che, dopo essere stato operato, vi è rimasto un membro maschile. Da dove urinate, adesso? Dal membro o da quell'apertura precedente?» «Dal membro. Non mi è rimasta nessuna apertura.» Sul volto del governatore si disegnò una smorfia di disappunto. benché fosse avvezzo a simili interrogatori, era in difficoltà!. Non essendo riuscito a mettere a segno neanche un colpo, cambiò nuovamente strategia, senza però abbandonare la questione del sesso, a suo avviso il modo migliore per mettere Céspedes con le spalle al muro. «Non corrisponde forse al vero che il dichiarante presenta dei segni sulle orecchie, nel punto in cui in genere le donne s'infilano gli orecchini?» Pagina 132
sanchez - La schiava di Granada.txt «E' vero, ma non per gli orecchini: mi hanno perforato e bruciato i lobi per prevenire le ricadute di una malattia degli occhi di cui avevo sofferto.» Il governatore stava per insistere sull'argomento, quando qualcuno accennò a entrare. Lui alzò lo sguardo e vide un ufficiale giudiziario che sventolava alcuni fogli. Con un gesto energico, Jufre de Loaysa gli fece cenno di avvicinarsi al banco. L'uomo si richiuse la porta alle spalle e attraversò la sala per consegnargli i documenti. Il governatore li scorse in fretta e, man mano che leggeva, il suo volto si fece rosso di rabbia. Quand'ebbe finito, zittì il brusio in sala e annunciò, con una voce che tratteneva a stento la collera: «La sessione è sospesa». Lope de Mendoza aveva davanti a sé i documenti ricevuti dal governatore: erano i rapporti presentati da Gonzalo Perosila, il quale, su richiesta di Maria del Caño, si era procurato una copia dei referti medici rilasciati a Yepes e a Madrid all'attenzione del vicario Neroni, nei quali una dozzina di testimoni accreditava Céspedes come maschio. Mendoza immaginava come doveva essersi sentito Jufre de Loaysa. Lo conosceva bene: avevano avuto diversi incontri poco piacevoli. Prepotente e borioso, doveva aver sottovalutato le capacità di Céspedes, che riteneva una femminuccia travestita da cerusico, ed era senz'altro convinto di avere le prove sufficienti, tutte raccolte in Andalusia da Ortega Velazquez. E invece il governatore non aveva avuto altra scelta che sospendere il processo per studiare quei documenti ufficiali che non poteva ignorare. Mendoza li scorse in fretta, fino ad arrivare alla parte che gli interessava, quella in cui i medici Antonio Mantilla e Francisco Diaz, entrambi residenti a Madrid, certificavano Céspedes come maschio. Altrettanto facevano i dottori di Yepes, Francisco Martinez e Juan de las Casas. Gli incartamenti successivi permettevano di seguire la strategia decisa da Jufre de Loaysa durante il contrattacco. Per non incappare in altre sorprese, il governatore aveva deciso di chiedere all'amministrazione di Ciempozuelos tutti i procedimenti penali aperti a nome di Céspedes, come si deduceva dall'ordine verbalizzato da uno dei giudici che lo affiancavano in tribunale. Aveva inoltre citato a testimoniare Maria del Cano, che si sarebbe dovuta presentare in aula entro il termine massimo di nove giorni. Era chiaro che voleva usarla per far pressione su Céspedes, con l'implicita minaccia di fare di lei un'imputata non appena le avesse carpito le prove sufficienti. LA TESTIMONE «Siete sposata con Eleno de Céspedes?» chiese il governatore, dando inizio all'interrogatorio. «Sì.» «Da quanto?» «più o meno quindici mesi.» «Eravate ancora vergine?» «Sì.» A «Quando vi siete sposati, come potevate essere così sicura che fosse un uomo?» «perché ho avuto un rapporto con lui prima del matrimonio, e lui si e preso la mia verginità.» «E in seguito, si è sempre comportato come un uomo?» «Sempre.» «Non siete rimasta incinta?» «Ho creduto di esserlo qualche mese fa, quando ho avuto un ritardo di tre settimane. Poi però mi è arrivato il ciclo, e ho capito che non era così.» «Avete mai sospettato che Eleno de Céspedes fosse una Pagina 133
sanchez - La schiava di Granada.txt donna?» «Il membro che gli ho visto è quello di un uomo, ben formato, e non ho mai notato nulla di strano nei suoi genitali, né un sesso femminile.» «Avete sentito dire dal detto Eleno de Céspedes, o da qualcun altro, che sia o fosse stato donna, o ritenuto tale, e che si fosse addirittura sposato con un uomo nella città di Jaéén?» «Non ho mai sentito dire niente del genere, né da Eleno né da nessun altro.» «Per quale motivo negli ultimi tempi non vivevate con vostro marito?» «Avevamo litigato. Gli ho detto che me ne sarei tornata dai miei, e lui mi ha risposto di andarmene prima possibile.» Il giudice fece un cenno per indicare che l'interrogatorio era finito. Era sorpreso dalla compostezza di quella giovane, inusuale per la sua età e la sua condizione. Per di più , non aveva contraddetto nulla di quanto appariva nei documenti di cui disponeva. Né di quanto affermato da suo marito. Era una bella gatta da pelare. Per il momento, prima che la teste tornasse a sedersi accanto al padre, che l'aspettava in ansia, si limitò a dire: «Si avvisa la teste che è obbligata a rimanere in questa città». «Posso andare a trovare mio marito?» chiese lei. Il governatore assentì, facendo segno al direttore del carcere di accompagnarla. A quel punto, Jufre de Loaysa decise di tentare l'attacco su un nuovo fronte, dando inizio alle pratiche per far visitare Céspedes da esperti di sua scelta, così da contraddire le relazioni presentate al vicario Neroni, ora parte degli atti processuali. Si rivolse quindi al segretario. «Ordino che i signori Gutierrez e Villalta, medici, e il dottor Vazquez, tutti residenti nella città di Ocaña, sottopongano a esame Eleno de Céspedes, riunendosi a questo scopo domani alle sette.» Quando la moglie e il suocero entrarono in cella, lo trovarono visibilmente peggiorato. L'uomo gli diede i dolci che la moglie aveva preparato per lui, oltre a un regalo da parte di Ines, che non era potuta venire perché si stava prendendo cura della madre, la cui salute era ogni giorno più precaria. Quando Maria ed Eleno rimasero soli, lei capì che Eleno non si era perso d'animo. E aveva le idee perfettamente chiare. Non appena lei gli ebbe riferito com'era andato l'interrogatorio, le disse: «Ascoltami, Maria, tempo fa mi hanno avvisato che c'era qualcuno che mi seguiva. Credo ci sia lui dietro tutto questo. Questa persona deve avere raccolto tutti i procedimenti a mio carico in Andalusia e negli altri posti in cui sono stato. Mi sembra di cominciare a capire il suo modo di agire, quindi dobbiamo anticiparlo. Visto le domande che hanno posto a tutti e due, credo vogliano dimostrare che io non avevo il membro al momento del nostro matrimonio. Il loro principale ostacolo sono le relazioni dei medici, ma cercheranno d'invalidarle. Devo chiederti una cosa. è pericoloso, pensaci bene, perché adesso sei qui solo come testimone, non ti hanno ancora accusato. Sei disposta a correre questo rischio?» «Ne dubiti?» «Riflettici. Non ci sarà modo di tornare indietro.» «Sbrigati a dirmi cosa devo fare, prima che mi facciano uscire.» «Devi andare da una guaritrice morisca, Maria de Luna. Vive qui a Ocaña, in una colombaia abbandonata appena fuori città, sulla strada per Toledo. Fatti dare ciò che le ho chiesto e portamelo qui in carcere, incartalo come se fosse qualcosa da mangiare. Così non avrai problemi col posto di guardia del carcere.» «Di che si tratta?» Pagina 134
sanchez - La schiava di Granada.txt «Carne mummificata. Lei lo sa gia. Non darle soldi, l'ho già pagata.» «Che cos'hai in mente?» «Lascia fare a me. Ancora una cosa: devi domandare asilo alla chiesa parrocchiale, almeno finchè la giustizia continuerà a mettere il naso dappertutto.» «Devi dirmi cos'hai in mente, devo essere preparata.» «Sbagli. Meno sai, meno corri il rischio di diventare mia complice.» Quando arrivò alla colombaia cadente, Maria de Luna l'accolse con ostilità. «perché sei qui? Vuoi farti ricucire la verginità? E vorrai pure che ti prepari tutto quanto con una spugna imbevuta di sangue di piccione, per fare la tua figura la prima notte di nozze.» «No, non è questo...» La guaritrice non l'ascoltava nemmeno, proseguendo la sua litania scontrosa: «Come ce l'hai? Lunga o corta? Larga o stretta? perché se e lunga e stretta sarà più facile. Lì, su quell'asse, ci sono delle vesciche e dei fili di seta incerati, per avere un'idea delle dimensioni.» «Non sono qui per questo. Sono la moglie di Eleno de Cèspedes.» La donna mutò completamente atteggiamento. «Ho capito. Aspetta un momento.» Prese il lume e scomparì dietro una tenda. Quando tornò, le porse un involto compatto, avvolto in un telo. «Immagino che tuo marito lo volesse così.» La guardò con tristezza. «E credo pure che sia arrivato il momento di sparire. Sbaglio?» Maria non rispose. Fece per darle alcune monete, ma l'altra rifiutò . «Il tuo uomo mi ha già pagato.» Maria del Caño fece ritorno alla locanda. Mise quella carne mummificata accanto al cibo e la portò a Eleno. Tornò da suo padre e lo salutò, dopo averlo convinto a tornare a Ciempozuelos. A quel punto si diresse verso la chiesa di San Juan Bautista e chiese asilo al parroco. *** GRIDA NELLA NOTTE. Accadde di notte, durante il primo turno di guardia. Sul carcere di Ocaña stava scendendo il silenzio e i prigionieri cominciavano ad addormentarsi, quando risuonarono delle grida strazianti: «Aiuto! Chiamate il confessore! Sto morendo!» Il direttore del carcere arrivò immediatamente, ancora in camicia da notte. La guardia in cui s'imbatté lo accompagnò alla cella dalla quale provenivano quelle urla. Era quella di Céspedes. «Sto morendo!» si lamentava. «Che cosa succede?» «Il ventre... Chiamate il confessore!» «Andate a chiamare padre Rojas», ordinò il direttore alla guardia. Poi si accorse che il prigioniero aveva i calzoni macchiati di sangue. «Dio santissimo, che macello!» «E' polvere d'arsenico, brucia!» gli spiegò Céspedes con un gemito. Il direttore sapeva che si trattava di una sostanza estremamente corrosiva. Il suo sguardo terrorizzato spinse Céspedes a spiegare la ragione di una simile cura: «La metto sulle piaghe che mi stanno atrofizzando i genitali». Uno dei prigionieri entrò nella sua cella. «Dovreste ungervi il membro con lo strutto, è la cosa migliore.» «Non ho più nessun membro da ungere: si e incancrenito e si e staccato, o forse se lo e preso il diavolo», ribatté Céspedes, soffocando una smorfia di dolore. «Non nominate il diavolo», lo ammonì il cappellano, arrivato in quel momento. «A voi serve un medico, più che un prete.» «E' inutile, padre. Sono un cerusico, so bene che cosa mi Pagina 135
sanchez - La schiava di Granada.txt sta succedendo.» Il direttore ordinò di portare unguenti, acqua e bende per medicare la ferita. Intanto sulla porta si era raccolto un crocchio di prigionieri. Alcuni davano consigli, altri osservavano con diffidenza. «Che cos'avete da guardare?» li apostrofò Céspedes, mentre si medicava. «Lo so, siete venuti qui per soddisfare la vostra curiosità perversa. Pensate che io sia mezzo uomo e mezzo donna, se non qualcosa di peggio. Ma presto si saprà la verità, grazie alla visita che mi faranno domani.» «Per poco che ne sia rimasto, vedranno che avete il sesso di un maschio», cercò di consolarlo uno dei presenti. Céspedes reagì con una violenza insolita per lui, sempre così controllato. «Non avete capito? Come ve lo devo spiegare? A forza di rimanere rinchiuso qui, senza le cure di cui avrei bisogno, mi si sono staccati i genitali, il membro e i testicoli. Si sono staccati completamente, per queste piaghe purulente che ho addosso.» «Ma la base sarà pur rimasta.» «Non è rimasta una base né un segno qualunque. E, se non ci credete, domandate a Pedro Abad.» Il direttore si rivolse alla guardia. «Andate a chiamarlo.» Pedro Abad era il più giovane dei detenuti. Aveva poco più di vent'anni. Quando lo interrogarono, ammise: «Céspedes mi ha detto che non si sentiva bene. Mi ha chiesto di andare in cortile e di cercare dietro la porta, sulla sinistra, dove avrei trovato dei panni insanguinati, mi ha chiesto di portarglieli. Così ho fatto: ho frugato con un bastone, ho trovato un fagotto e gliel'ho lasciato accanto al pagliericcio». «E' quello?» Il direttore tese la mano verso l'involto e lo aprì, trovando un ammasso di carne. «Ve l'ho detto che mi si erano staccati i genitali!» insisté Céspedes. «Va bene, vediamo di finirla. Il prigioniero si sente meglio?» «Rimarrò a vegliarlo per il resto della notte», si offrì padre Rojas. Se ne andarono tutti. Il prete rimase nella cappella accanto alla cella, e nel carcere tornò la calma. Il mattino successivo, si presentò una commissione formata da tre eruditi: il dottor Gutieerrez, il dottor Villalta e il cerusico di Ocaña, il dottor Vazquez. Erano lì per visitare Céspedes, per ordine del magistrato. L'uno dopo l'altro, esaminarono i suoi genitali. Non dissero nulla, tuttavia, dalle occhiate che si scambiarono, Eleno comprese che avrebbero fornito a Jufre de Loaysa gli argomenti legali di cui aveva bisogno. Quando lesse le relazioni dei due medici e del cerusico, Lope de Mendoza capì che gli avvenimenti erano precipitati in modo irrevocabile. In seguito alla visita, i tre erano giunti alle medesime conclusioni. Il dottor Gutierrez assicurava: «Non mostra segni di un membro maschile, ne traccia di averlo avuto, ma solo un sesso femminile. E mostra di essere donna anche nelle forme del corpo». Il dottor Villalta era più prolisso: «Non è davvero un uomo, ne mai lo e stato, donna, come s'inferisce dall'esame della sua natura, simile e propria a quella di una donna, nei fianchi come nel petto, come in altri tratti del volto e della voce». E il cerusico, Vazquez, confermava il parere dei colleghi: «Eleno de Céspedes non ha, né mai ha avuto traccia di un membro maschile, ma solo natura di donna, come appare chiaro dalle forme del corpo, dal petto, dal viso e dalla voce». La cosa più grave era che quelle parole non si riferivano alle condizioni dell'accusato al momento dell'esame, ma Pagina 136
sanchez - La schiava di Granada.txt smentivano qualunque possibilità che avesse avuto un sesso diverso in passato. Gli negavano in toto il beneficio del dubbio rispetto a uno stato precedente di presunto uomo o ermafrodita. Probabilmente era ciò che Jufre de Loaysa aveva raccomandato di scrivere. Dai documenti che seguivano, Mendoza dedusse che il governatore non doveva aver aspettato nemmeno mezza giornata. Non appena quelle testimonianze erano state accluse agli atti processuali, aveva ordinato di far arrestare Maria del Caño, esigendo che si presentasse in tribunale per l'udienza del pomeriggio. Seguiva un rapporto degli ufficiali giudiziari che si erano presentati alla locanda dove si sarebbe dovuta trovare la moglie di Céspedes. Ma se n'erano andati a mani vuote: lei non c'era, ed erano venuti a sapere che aveva chiesto asilo presso la chiesa di San Juan. Il governatore non solo non aveva desistito, ma aveva ordinato al giudice Felipe de Miranda di andare lui stesso ad arrestarla, ignorando il diritto di asilo e scatenando la furiosa reazione del parroco, Francisco de Ayllon. Lope de Mendoza non poté trattenere un sorriso, nel leggere quel nome: lo conosceva bene. Aveva proprio lì il fascicolo su di lui, sul quale si era dovuto pronunciare due anni prima. Era un uomo dal fisico e dai modi asciutti, modesto nella corporatura e negli abiti. Non c'era nulla d'imponente nel suo aspetto. Non brillava per l'oratoria, né il suo pubblico impazziva per la sua eloquenza, eppure era una vera forza della natura. Grinta allo stato puro. Riflessivo e tenace, non si arrendeva mai. Chissà se Jufre de Loaysa aveva capito le ragioni per cui quel prete apparentemente insignificante fosse finito nella sua giurisdizione. Era stato esiliato a Ocaña per non essersi morso la lingua, dicendo quello che pensava degli abusi cui aveva assistito. Grazie alla relazione positiva scritta da Mendoza, le cose non gli erano andate tanto male. Molti altri avrebbero sognato un esilio come il suo. Lope de Mendoza era rimasto incuriosito fin dall'inizio dal motto di Ayllon, le parole di san Paolo ai galati, che brandiva in propria difesa: «Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità?» E aggiungeva che Cristo era stato messo in croce per non aver taciuto il vero, e a Giovanni Battista, santo protettore della parrocchia di Ocaña di cui si era ritrovato alla guida, era stata tagliata la testa. E proprio in qualità di parroco di quella congregazione si ergeva a difesa del diritto di asilo. Mendoza sapeva che il comportamento di Ayllon in quella circostanza aveva radici antiche. Risaliva ai tempi in cui lavorava nel carcere di Siviglia, coi galeotti del porto e gli altri delinquenti di quella Babilonia e piaga di Spagna. Era cappellano dei condannati a morte e in più di un'occasione aveva salvato alcuni rei, a suo avviso più innocenti degli avidi ufficiali giudiziari e dei giudici che li avevano condannati. Un atteggiamento che non era piaciuto ai superiori del sacerdote. Poco amico di fronzoli e orpelli, Ayllon non si era mai lasciato impressionare dalla retorica dei tribunali. Nel suo interminabile pellegrinaggio tra processi e ruberie, aveva infatti finito per imparare a memoria leggi e cavilli di ogni genere. Grandissimo osservatore, quel prete aveva una capacità inusuale di giudicare la gente e rappresentava un avversario temibile. Jufre de Loaysa aveva fatto un errore madornale a violare il diritto di asilo nella sua parrocchia, ordinando di arrestare Maria del Caño. *** CONOSCIUTA DA UN UOMO. Il governatore chiese di portare la detenuta in aula e, dopo Pagina 137
sanchez - La schiava di Granada.txt che lei ebbe giurato, cominciò l'interrogatorio. Aveva fretta di concludere quella che riteneva una beffa alla sua autorità e alla sua pazienza. Non appena Maria del Caño arrivò in carcere, la fece esaminare da tre matrone per avere prova che non fosse vergine. Quando lei rientrò nella sala delle udienze, Jufre de Loaysa non esitò ad andare dritto al punto. «L'accusata è sposata con Elena de Céspedes?» «Sì, ed Eleno è stato il mio unico uomo.» Quella risposta andava ben oltre quanto chiesto, e contraddiceva il nome che lui aveva usato, con intenzione, riferendosi al reo. L'ammonì, quindi, con aria severa: «Siete invitata a dire la verità, affinché sia fatta giustizia. Altrimenti verrete torturata, in tutti i modi consentiti dalla legge». Maria non poteva fingere d'ignorare le voci secondo cui Céspedes era una donna. Erano sulla bocca di tutti, al punto che il vicario Neroni aveva richiesto un esame medico. Lei stessa aveva domandato all'avvocato Perosila di procurarsi copia di quelle relazioni. Così aggiunse: «Qualche volta ho cercato di toccargli le parti intime, ma lui non me lo ha mai permesso». «E allora come può esserci stata copula e unione carnale?» «Alcune volte, lui si metteva sopra di me. Altre di fianco, nel letto.» «Dunque dovete aver visto il suo sesso.» «Anche se lo metteva dentro di me, con rispetto parlando, io non gliel'ho mai visto, ma sentivo che era qualcosa di duro e liscio.» «Com'è possibile che, nei quindici mesi in cui avete vissuto e dormito come marito e moglie, l'accusata non sia riuscita a vedere quale fosse il sesso di chi diceva di essere il suo sposo? Forse Elena de Céspedes aveva il periodo mestruale?» «Mio marito si nascondeva sempre. Alcune volte ho visto che aveva la camicia da notte sporca di sangue e gli ho chiesto che cosa gli fosse successo, ma mi diceva che era un'emorroide.» «Da quando l'accusata non ha più avuto rapporti con Elena de Céspedes?» «Dal Natale scorso.» «E, quando Elena voleva avere un rapporto sessuale con l'accusata, fingendosi maschio, si metteva qualcosa sui genitali in modo da farsi credere tale?» «Qualche volta, prima di giacere con me, mi toccava, poi toglieva la mano per entrare dentro di me. Ma, se io cercavo di fare lo stesso, non me lo permetteva.» «Vi siete mai accorta che Elena de Céspedes avesse avuto malattie ai genitali, e che si sia curata?» «L'ultima volta che ha giaciuto con me mi ha detto che stava male.» «perché l'accusata ha lasciato la locanda, quando le era stato chiesto di non allontanarsene?» Per qualche istante, Maria del Caño esitò. Aveva visto in aula il prete della parrocchia di San Juan, Francisco de Ayllon, che seguiva il processo senza perdersi una parola. Sapeva che si era opposto quando l'avevano portata via a forza dalla chiesa, ma ignorava cos'avrebbe dichiarato, se fosse stato chiamato a deporre. E così si limitò a rispondere: «Mi sono rifugiata nella chiesa di San Juan su consiglio di mio marito». «perché, se non avevate commesso nessun delitto?» «perché mi aveva avvisato che lo avrebbero visitato alcuni medici, e che non avrebbero visto il sesso di un uomo, ma di una donna. Mi ha detto che le sue parti maschili si erano atrofizzate ed erano cadute.» Dal suo posto tra il pubblico, Francisco de Ayllon osservò la reazione di Jufre de Loaysa. Il fatto che Maria del Caño Pagina 138
sanchez - La schiava di Granada.txt ammettesse i fatti, senza cadere in contraddizione con altre dichiarazioni, le dava una grande credibilità. Vide il governatore bisbigliare qualcosa al suo braccio destro, Felipe de Miranda. Rimasero a discutere per un po', confusi su come venire a capo di una questione così delicata. Alla fine, il governatore ordinò all'ufficiale giudiziario: «Riportate in cella l'accusata, e siano condotte a testimoniare Isabel Martinez, Maria Gomez e Ana de Perea». Le tre donne, di un'età che andava dai trenta ai quarant'anni, fecero il loro ingresso in aula. Dichiararono di essere levatrici e il governatore ordinò loro di recarsi nella cella di Elena de Céspedes, per sottoporla a esame. Quando, dopo un po', tornarono in aula, Jufre de Loaysa chiese loro: «Dicano le testimoni, sotto il giuramento prestato, se Elena de Céspedes è stata o no conosciuta da un uomo». Si fece avanti la prima, la più matura, che parlò a nome di tutte: «Io, Isabel Martínez, ho esaminato l'accusata insieme con Ana de Perea e María Gómez, levatrici come me. Abbiamo toccato le sue parti intime con una candela di sego, che le abbiamo infilato nella natura femminile. è entrata a fatica, e di poco, perché non ha mai conosciuto un uomo. Quanto al seno, ce l'ha grande, in armonia col suo corpo, con capezzoli da donna, anche se sembrano rovinati». Nel banco dal quale seguiva il processo, Francisco de Ayllon notò che, non appena le levatrici furono uscite dalla sala, il governatore e il giudice Felipe de Miranda ripresero a confabulare. Senza dubbio si erano aspettati dichiarazioni più compromettenti, come quelle dei medici. Quelle tre donne, però, non erano state influenzate da Loaysa come quegli eruditi e avevano potuto esaminare l'accusata con più libertà, lasciandoli sconcertati: come potevano dubitare che Elena fosse stata conosciuta da un uomo, se era stata sposata? Quel caso stava assumendo contorni inquietanti. Ma il governatore non sembrava disposto a farsi passare per ignorante. Ritrovando il consueto tono autorevole, si rivolse al direttore del carcere. «Che Elena de Céspedes sia trasferita dalla sezione maschile a quella femminile. Rinchiudetela e portatemi le chiavi. Quanto a sua moglie, Maria del Caño, portatela in un'altra cella e chiudete a chiave anche lei, in modo che non parli con nessuno.» Francisco de Ayllon capì cosa stava cercando di fare Loaysa: mettendo sotto accusa Maria del Caño, l'allontanava sia da Céspedes sia da qualunque altro testimone. Quell'isolamento non faceva presagire nulla di buono. Soprattutto dopo la minaccia del governatore: volevano strappare loro una confessione sotto tortura. Se tutt'e due erano donne, avevano contratto matrimonio e lo avevano consumato, era un evidente delitto di sodomia. E, non appena lo avessero confessato o fosse stato provato, sarebbero state entrambe condannate al rogo. *** LA BRECCIA. Il governatore fece cenno a Felipe de Miranda, che si alzò, si recò in carcere e tornò con l'ufficiale giudiziario che scortava Céspedes. Jufre de Loaysa si rivolse al segretario. «L'accusata è la stessa persona che e stata menzionata come Eleno. Da questo momento verrà chiamata col suo vero nome di donna.» Poi fece di nuovo prestare giuramento a Céspedes, domandando quali fossero le sue origini, il mestiere e l'età, come se fosse un'altra persona. Il parroco della chiesa di San Juan Bautista, Francisco de Ayllon, notò che il cerusico non batteva ciglio. E, in tono di sfida, rispose: «Mi chiamo Eleno de Céspedes, nato ad Alhama de Granada». Pagina 139
sanchez - La schiava di Granada.txt «Essendo l'accusata una donna, che cosa l'ha spinta a indossare abiti maschili e a farsi passare per uomo?» domandò il governatore. «Il fatto di avere gli attributi di un uomo.» «Che attributi sarebbero?» «Membro e testicoli, anche se poi li ho persi per una malattia.» «Quando sarebbe successo?» «più o meno sei mesi fa. Un giorno, mentre andavo ad Aranjuez, mi sono ferito ai genitali e mi si e aperta una piaga. Essendo rinchiuso in questo carcere, non mi sono potuto curare, e li ho persi.» «Come può essere, se non ne è rimasto nessun segno?» «Si sono staccati per la cancrena, che non lascia segni.» «Non risponde invece a verità che l'accusata e una donna, come hanno dichiarato i medici e le levatrici di questa città?» «Non possedevo quella che chiamano 'natura femminile' finchè non ho perso quella maschile.» «E' vero che, circa quindici mesi fa, l'accusata ha ingannato Maria del Caño, figlia di Francisco del Caño, residente a Ciempozuelos, e, facendo credere, sia a lei sia ai suoi genitori, di essere un uomo, ha contratto matrimonio con quest'ultima, senza nessun timor di Dio e in disprezzo del santo sacramento del matrimonio e dell'ordine naturale delle cose?» «E' vero che mi sono sposato con Maria del Caño, ma come uomo. Per cui non c'è stato nessun inganno.» Francisco de Ayllon comprese che il governatore stava cercando di attaccare su un nuovo fronte, quello del disprezzo di un sacramento, accusa non meno pericolosa di quella di sodomia. Ma forse non aveva soppesato tutte le implicazioni di un simile passo. «E' vero che, perseverando in quel crimine, ha avuto rapporti carnali con la citata Maria del Caño, e che l'ha conosciuta fingendo di avere il sesso di un uomo, con un membro posticcio e artificiale?» Un attacco frontale dalla portata notevole, come Ayllon non mancò di osservare. I baci e le carezze tra donne non erano giudicati altrettanto duramente, ma con la penetrazione cambiava tutto, perché a quel punto entrava in gioco il delitto di sodomia. Céspedes lo sapeva? «Non c'è stato niente del genere. Ero un uomo, e ho conosciuto mia moglie come tale», rispose il reo. Una risposta impeccabile. Jufre de Loaysa non l'avrebbe avuta vinta tanto facilmente. Eppure stava tornando alla carica: «Quand'è stata l'ultima volta che l'accusata ha giaciuto con Maria del Caño, prima di accorgersi della malattia ai genitali?» Il governatore gli aveva posto quella domanda guardando gli incartamenti sui quali doveva esserci la dichiarazione della moglie. Quando se ne rese conto, Céspedes sembrò esitare. Poi, incalzato dal governatore, sussurrò: «Non mi ricordo». Ayllon capì subito quale fosse il problema: l'impossibilità dei coniugi di comunicare cominciava a dare i suoi risultati. Il cerusico aveva ripiegato su un prudente: «non mi ricordo», per non rischiare di contraddire le parole della moglie. Rimase ammirato da quel gesto d'amore: preferiva non contraddire la sua donna pur di non metterla in pericolo, anche a costo d'incrinare la propria attendibilità; doveva certamente immaginare che nessuno avrebbe creduto al fatto che non ricordasse un particolare così importante. Forse fu proprio perché aveva notato quell'incrinatura nella sua linea di difesa che il governatore insisté. «Di che materiale era fatto il membro con cui l'accusata conosceva Maria del Caño e le faceva credere che fosse il suo sesso maschile?» Pagina 140
sanchez - La schiava di Granada.txt «Di quello che Dio mi aveva dato.» «La citata Maria del Caño era al corrente che l'accusata era donna, e ciò nonostante giaceva lussuriosamente con lei, rendendosi complice e partecipe del suo delitto?» «No, mi ha sempre ritenuto un uomo.» «E al momento, l'accusata è forse un uomo?» «Lo sono, anche se non come prima, perché , dopo la malattia di cui ho già detto, ho perso il membro e al suo posto ho una fessura.» Francisco de Ayllon si accorse della crescente irritazione del governatore, che si vedeva respingere ogni assalto. Forse fu per questo che decise di alzare il tiro, imputandogli un delitto ancor più grave. «Con quali altre persone l'accusata si è macchiata del delitto di sodomia, fingendosi uomo?» Céspedes accusò il colpo, sussultando: che cosa sapeva il governatore dei suoi trascorsi? Poi sembrò recuperare il controllo. «Ogni volta che ho avuto un rapporto carnale con una donna, l'ho fatto come l'uomo che ero, e mai contro natura.» «Riferisca l'accusata i nomi di quelle donne e il loro domicilio attuale.» Tra il pubblico si diffusero i mormorii: adesso sì che lo avevano messo in difficoltà. Céspedes però rispose con la solita fermezza: «Non so dove si trovino adesso, perché sono state molte, e in posti diversi». Ayllon osservò Loaysa che cercava di zittire il pubblico. Dal suo tono di voce, era evidente che quel confronto stava assumendo i toni di una sfida, più che di un processo. Ormai era un duello tra lui e l'accusato, che stava mettendo in ridicolo la sua autorità di governatore e di cavaliere dell'Ordine di Santiago. Non poteva permettersi di fallire contro una donna, per di più mulatta e nata schiava. Quelle considerazioni lo spingevano a raddoppiare i suoi sforzi, moltiplicando le domande. «è vero che, per adempiere ai suoi doveri con Maria del Caño e con la sua famiglia, l'accusata è ricorsa a stratagemmi per farsi passare per uomo? E non è altrettanto vero che ha ingannato i medici di Madrid, facendo presentare un altro al suo posto, in modo che dichiarassero che era un uomo?» Quello sfoggio di artiglieria dimostrava il suo disorientamento di fronte al fatto che Céspedes finora se la fosse sempre cavata. Era chiaro che il governatore cominciava a colpire alla cieca e che la coerenza della difesa dell'accusato cominciava a dare dei risultati. Tutti si erano ormai resi conto dell'intelligenza del cerusico. E se stava dicendo il vero? Se davvero era un ermafrodita, con entrambi i sessi, benché a volte prevalesse l'uno e a volte l'altro? Solo che ora aveva perso quello maschile, facendolo apparire come una donna. Quello, in fondo, era ciò che aveva sempre sostenuto e che continuava ad affermare: «Io non ho ingannato nessuno. Avendo i genitali di un uomo, sono stato visto e creduto come tale». «E allora perché l'accusata ha fatto chiamare la moglie, Maria del Caño, dicendole di chiedere asilo nella chiesa di San Juan?» «Non sono stato io a mandarla a chiamare: lei è venuta a farmi visita come altre volte. Se ne stava andando, quando mi ha detto che sarebbe andata a pregare nella chiesa di San Juan, per raccomandarsi alla Nostra Signora della Consolazione, come si usa in questi casi.» Ayllon poteva testimoniare che era vero: la devozione di quella giovane gli sembrava sincera, autentica quanto l'amore che provava per il marito. Vide che il governatore aveva chiesto al segretario altri incartamenti relativi al processo e li stava esaminando, per poi commentare con una smorfia: «E allora com'è possibile che la suddetta Maria del Caño abbia dichiarato che l'accusata le avesse raccomandato di Pagina 141
sanchez - La schiava di Granada.txt rimanere nella chiesa di San Juan, perché non aveva più il sesso di un uomo, staccatosi dopo essere stato consumato dalla cancrena?» Il parroco ricordava che era ciò che la donna aveva dichiarato. E adesso era Céspedes a essere disorientato: quell'errore di Maria poteva costargli caro, ma non aveva altra scelta che farvi fronte. Così rimase in silenzio, per proteggerla. Il governatore abbozzò un sorriso malevolo, pensando di aver colpito nel segno. «Questo inventario corrisponde all'elenco dei beni dell'accusata?» Gli tese un foglio, e aggiunse: «L'accusata si prenda il tempo necessario per riflettere». Céspedes non impiegò molto. «Così sembra», rispose. «Anche questi? Una scodella con trementina e bianco d'uovo, una pentola piena di confettura di fichi, sangue di drago, orpimento e rubino d'arsenico, polveri di litargirio, galvario, due radici di acistolo, mirabolano, polveri di rovo e cassia e una piccola spatola.» «sì, anche quelli», riconobbe Céspedes, senza capire dove l'altro volesse andare a parare. Il governatore si voltò verso il segretario per chiedergli un documento. E, con una scintilla di trionfo negli occhi, continuò: «E' stato chiesto al farmacista di questa città, Francisco Manuel de Mora, d'indicare a cosa servissero quei rimedi. E questa è la sua risposta: "La scodella e la pentola servono per far maturare gli ascessi. Il sangue di drago per cicatrizzare. L'orpimento e il rubino d'arsenico sono un veleno per le carni piagate. Le polveri di litargirio servono a farle seccare. Il galvario si usa per i dolori all'utero. Le radici di acistolo per cicatrizzare le piaghe. Il mirabolano si utilizza in molti preparati, e le polveri di rovo e cassia per gli umori"». Il parroco di San Juan si sporse in avanti, per osservare la reazione di Céspedes: che cosa poteva rispondere, a una cosa del genere? Gli avevano praticamente sbattuto in faccia che tutta la storia della cancrena ai genitali non era altro che il risultato di un intruglio da lui stesso preparato. «Ma... quelli sono gli strumenti con cui lavora un cerusico», si difese. «Non a quanto ci risulta. Anzi, riteniamo che li abbiate usati per montare quella messinscena.» «E le testimonianze dei medici?» «Dovete averli ingannati, oppure li avete corrotti. Per toglierci qualunque dubbio, ordiniamo che venga immediatamente condotto al cospetto di questo tribunale il dottor Antonio Mantilla, dal momento che, esercitando nel vicino paese di Villarrubia, ricade nel territorio di nostra competenza. E, poiché così e necessario a che giustizia sia fatta, affido il bastone del comando all'ufficiale giudiziario, concedendogli il potere di arrestarlo.» Aveva pronunciato quelle parole come se ne andasse del proprio onore. Quando le sentì, Francisco de Ayllon si rese conto di ciò che implicavano: nel momento in cui uno solo dei medici che avevano accreditato Céspedes come maschio avesse ritrattato, anche gli altri avrebbero ritirato le loro dichiarazioni. A giudicare dall'ordine del governatore, la sfortuna aveva voluto che il dottor Mantilla, che aveva visitato Céspedes a Madrid insieme con Francisco Diaz, si fosse trasferito a Villarrubia, che era sotto la giurisdizione di Ocaña. Ciò lo poneva alla mercé del governatore, che adesso cercava di fargli lo sgambetto. Una volta che questi avesse ritrattato la testimonianza, Loaysa avrebbe puntato a Diaz, una preda ben più difficile, poiché non esercitava nella sua giurisdizione ed era il medico personale del re. Mentre Céspedes veniva riportato in cella, Ayllon dovette riconoscere che gli assalti di Loaysa avevano finalmente aperto una breccia nella difesa di Céspedes. Pagina 142
sanchez - La schiava di Granada.txt *** il dilemma. Erano ormai passate tre settimane dall'inizio del processo, quando il presidente del tribunale ordinò al segretario di leggere le citazioni. Com'era da immaginare, il dottor Francisco Diaz non si era presentato a testimoniare. Si diede quindi ordine di presentare denuncia presso il Consiglio dei medici di Madrid. Ma c'era ancora l'altro testimone. «Che si presenti al cospetto del tribunale Antonio Mantilla, medico e cittàdino di Villarrubia», ordinò Loaysa. Poi, quando Mantilla ebbe giurato secondo la forma prevista dalla legge, gli domandò: «Avete conosciuto una donna, finora chiamata Eleno de Céspedes, che cerca di farsi passare per uomo? Se sì, dica dove e quando». «Conosco Eleno de Céspedes da più di un anno. L'ho visto per la prima volta a Madrid, dove esercitavo in quel periodo.» Il governatore si rivolse al segretario. «Leggete la dichiarazione rilasciata dal testimone al vicario di Madrid, Juan Bautista Neroni, &al notaio Francisco de Gamez Ayala, l'8 febbraio 1586.» Questi obbedì e, quando la lettura fu terminata, il governatore ordinò al medico di avvicinarsi al segretario. « Riconoscete questa firma come vostra?» «Sì. Sia chiaro che l'esame è stato fatto su richiesta di Eleno de Céspedes.» «Quanto vi ha pagato per i vostri servigi?» «Otto reales.» «Era presente qualche altro testimone o il notaio che ha firmato la dichiarazione?» «C'ero solo io.» «Avete appena riconosciuto nell'accusata la stessa persona che avete esaminato a Madrid. E avete sottoposto le sue parti intime a un nuovo esame, nel cortile di questo carcere. E' così?» «Sì, è così.» «Potete quindi confermare la testimonianza rilasciata allora?» «Si tratta della stessa persona, anche se al momento ha un sesso femminile.» «Quindi la ritenete una donna?» «La giudico tale.» «Ma allora com'è possibile che a suo tempo abbiate dichiarato che era un uomo?» La sala fremeva nell'attesa: le domande del governatore stavano suggerendo che Mantilla si fosse fatto pagare per certificare Céspedes come maschio. Corruzione allo stato puro, considerando che otto reales erano una cifra davvero eccessiva. Messo così alle strette, il medico si vedeva costretto a riconoscere di aver dato una valutazione superficiale. Abbassò la testa. «Non riesco a capirne la causa, e credo si tratti di un inganno diabolico. Quella Elena dev'essere una strega.» Seduto tra il pubblico, il parroco Francisco de Ayllon aveva colto perfettamente la gravità di un'accusa del genere. Antonio Mantilla aveva ceduto alle pressioni e, nella sua precaria situazione, Céspedes si trovava a dover gestire un attacco su un nuovo fronte: quello della stregoneria. Il governatore chiese silenzio: non aveva ancora finito. Prima di lasciar andare il testimone, brandì un foglio. «Diego Mudarra, cittàdino di Villarrubia, si e presentato al mio cospetto, offrendosi di dare alloggio al dottor Mantilla, impegnandosi a riportarlo nel presente carcere di Ocaña quando gli sarà richiesto dal podestà o da qualunque altro giudice competente. Voi però dovrete farvi carico delle relative Pagina 143
sanchez - La schiava di Granada.txt spese. Come garanzia, pagherete quattromila maravedí al tesoro reale.» La manovra di Jufre de Loaysa non poteva essere più chiara: si era accordato col dottor Mantilla di risparmiargli l'accusa di spergiuro, a patto che uno dei cittàdini gli facesse da garante. In quel modo il medico era libero di tornare a Villarrubia e di continuare a esercitare. In cambio permetteva di mettere Céspedes con le spalle al muro. E adesso, che cosa sarebbe successo? Mentre il reo veniva portato in tribunale, il parroco di San Juan continuava a riesaminare quella storia. Presumibilmente, il resto del processo si sarebbe concentrato sul negare che l'accusata avesse mai avuto il sesso di un uomo. Il fatto che avesse quello femminile non era in discussione, il dubbio era dato dalla possibilità che in passato fosse stato ermafrodita. In caso contrario, significava che c'era stato un matrimonio tra due donne. E come minimo ciò implicava il peccato di sodomia e di disprezzo di un sacramento. Ma Céspedes come poteva dimostrare di essere stato ermafrodita e di aver avuto un membro maschile? Dopo aver ricordato all'accusata che era ancora sotto giuramento, il governatore domandò: «Sostenete di aver perso il membro maschile e i testicoli in seguito a una cancrena ai genitali. Quando e dove è accaduto, e quali sono i medici che vi hanno curato?» «Circa sei mesi fa, a Villarrubia. Ero appena tornato da Yepes. Mi sono curato da solo.» «Quanto è durata quella malattia, e che cos'è successo?» «Diversi mesi, e si è aggravata nelle ultime due settimane, corrodendo a poco a poco i miei attributi maschili.» «perché non lo avete detto fin dal principio, e avete invece affermato di possederli?» «perché li avevo ancora, anche se terribilmente compromessi. Ma non avevo perso la speranza di poter guarire.» «perché non lo avete mai detto a vostra moglie?» «Rimando a quanto ho affermato nella mia prima dichiarazione.» Ayllon ricordò che quella era stata l'unica incrinatura nella sua linea di difesa: Céspedes non aveva voluto contraddire María del Caño riguardo alla data in cui avevano smesso di avere rapporti sessuali, per non comprometterla. E ora, dopo la deposizione del dottor Mantilla, quella breccia si allargava. Il governatore cambiò ancora una volta strategia. «Che cosa sono quei segni che l'accusata ha sulle guance? Non sono forse i marchi di una schiava?» Nella sala scese un silenzio assoluto. Céspedes ci mise un po' a rispondere: «Sono le cicatrici del carbonchio che ho avuto da piccolo». Fece una pausa, approfittando del silenzio che ancora regnava lì dentro, e aggiunse, con voce forte e decisa: «Non sono mai stato schiavo di nessuno». Ayllon faticò non poco a capire l'obiettivo di quelle domande, che a prima vista non sembravano avere niente a che fare con le precedenti: cercavano di rafforzare l'accusa di stregoneria espressa da Mantilla, dipingendo Céspedes come una schiava morisca, per completare il quadro del patto col diavolo. L'accusata, però, aveva capito le sue intenzioni. In quel momento il segretario passò un foglio al governatore. Jufre de Loaysa si rivolse a Céspedes. «Tra i detenuti corre voce che, la sera prima di essere sottoposta a un esame da parte di alcuni medici e matrone, l'accusata si è messa del rubino d'arsenico sulle parti intime, per poter affermare che la cancrena si era mangiata il suo membro maschile. Per stabilire la verità, si è deciso di ascoltare alcune testimonianze.» Il prete capì che stava per arrivare il colpo di grazia. Jufre Pagina 144
sanchez - La schiava di Granada.txt de Loaysa non avrebbe preparato quell'interrogatorio senza avere la certezza che quei testimoni avrebbero smentito Céspedes. E lo avrebbero fatto di sicuro: alcuni erano guardie carcerarie alle sue dipendenze, altri prigionieri che, in definitiva, dipendevano anch'essi dalla sua benevolenza. Il primo fu il direttore del carcere. «Elena de Céspedes era in perfetta salute. Eppure, la sera prima dell'esame dei medici, ha preso a urlare che stava morendo, che il ventre le andava a fuoco.» Altri tre carcerati confermarono quei fatti. Quando fu il turno di Pedro Abad, e gli venne chiesto dei resti dei genitali che Céspedes gli aveva chiesto di cercare in mezzo ad alcuni panni, dichiarò: «Sono andato in cortile e ho trovato un fagotto, ma non c'era nessun pezzo di carne dentro». «Si faccia entrare l'accusata, per il confronto.» Mentre Céspedes contraddiceva, l'una dopo l'altra, ognuna delle loro testimonianze, Francisco de Ayllon comprese che, stavolta, era tutto perduto. E, quando vide che il reo si avvicinava al banco per parlare col giudice, capì che cosa stava succedendo. Ne ebbe conferma quando Jufre de Loaysa si rivolse al segretario, senza riuscire a soffocare la propria soddisfazione. «Leggete l'istanza affinchè l'accusa, se d'accordo, possa firmarla.» Il segretario obbedì. Quando Céspedes l'ebbe tra le mani, dovette succedere qualcosa, perché si avvicinò di nuovo a Loaysa e i due cominciarono a discutere. Il governatore si rivolse al segretario e, con gesti pieni di stizza, gli indicò alcuni dettagli. L'altro riprese la penna e aggiunse qualcosa in alcuni punti del documento, biascicando quelle che avevano tutta l'aria di essere bestemmie. Poi la rilesse: «Io, Eleno de Céspedes, detenuto in questo carcere di Ocaña, dichiaro di essere in stato di estrema povertà, e che per la mia difesa ho necessità di un avvocato. Per questo motivo, imploro la vostra signoria di procurarmene uno, affinché mi assista. Così chiedo e sottoscrivo». Mentre si allontanava dal banco, insieme col pubblico che usciva dalla sala delle udienze, Francisco de Ayllon era sempre più meravigliato del sangue freddo di Céspedes, il quale, prima di firmare, aveva fatto cambiare il nome di Elena, che gli volevano assegnare, con quello di Eleno, mantenendo così il sesso e le argomentazioni che sosteneva. Il governatore era così convinto di averlo ormai in pugno che aveva acconsentito a cedere su quel dettaglio, che sicuramente gli sembrava una banale stravaganza, al pari di tutto il caso. Ormai diretto alla casa parrocchiale, Francisco de Ayllon non poteva che ammirare la tempra di quell'uomo, donna o ermafrodita che fosse. Jufre de Loaysa aveva davvero capito quali erano le ragioni per cui Céspedes aveva ceduto? Ne dubitava. Il governatore era troppo impegnato a raggiungere il suo obiettivo - e a tenere a posto la dentiera - per badare a quelle sottigliezze. L'accusato si era sempre attenuto alla stessa regola: non contraddire la moglie. Era consapevole che, se avesse difeso a oltranza se stesso, avrebbe incolpato Maria e sarebbero finiti entrambi sul rogo. Per questo stava facendo di tutto per lasciarla fuori, affinchè nessuno mettesse in dubbio la ferma convinzione della ragazza di aver sposato un uomo. Céspedes si era lasciato distruggere per evitare alla moglie di finire sotto tortura, come avevano minacciato. Se fossero arrivati a quel punto, infatti, difficilmente Maria se la sarebbe cavata. Francisco de Ayllon si domandò che cosa potesse fare lui, a quel punto. Pagina 145
sanchez - La schiava di Granada.txt Jufre de Loaysa avrebbe sicuramente continuato a calpestare i diritti altrui, come aveva fatto con quello di asilo nella sua parrocchia. In quel frangente, aveva pronunciato un sermone contro il governatore e il suo giudice, minacciandoli di scomunica. I documenti che aveva mandato a Toledo dovevano essere arrivati a destinazione. La Chiesa non gradiva che qualcuno calpestasse i suoi privilegi, e li difendeva con le unghie e coi denti, quand'erano in pericolo. Era arrivato il momento di denunciare nuovamente quell'abuso con nuove argomentazioni. Quando girò la chiave nella serratura, aveva già deciso. Salì le scale e raggiunse il suo studio. Prese un plico di fogli che conservava nella scrivania e lo lisciò con un'agata levigatissima, uno dei suoi pochi lussi, regalo di sua madre in occasione della sua nomina a curato. Tagliò il plico, prese la penna d'oca e iniziò a scrivere. Le parole scivolavano sulla carta con facilità, nella sua grafia precisa. Sapeva bene quale fosse la portata di un simile passo. Un passo che avrebbe portato a risultati imprevedibili quanto pericolosi. Era irreversibile, irrevocabile. Non si poteva tornare indietro né esercitare nessuna forma d'influenza sulla strada che avrebbe seguito. Non avrebbe potuto ritirare la sua richiesta, né concedere il perdono, mitigare la sentenza, scegliere i testimoni, ritardare o sveltire il procedimento. Solo Dio poteva stabilire che cosa sarebbe successo da quel punto in poi. Quando ebbe finito, aspettò che l'inchiostro si asciugasse e pulì la penna. Piegò il foglio, avvicinò la candela per far sciogliere la ceralacca e lo sigillò. Quando spense il lume, mentre il fumo saliva, bluastro, dallo stoppino, nella penombra della sera che s'insinuava tra i vetri piombati del suo studio, sorrise, grattandosi il mento. Adesso doveva solo aspettare. *** Dalla padella alla brace. Il calore era soffocante: la sala delle udienze del tribunale di Ocaña era piena fino a scoppiare. «Non so come facciamo a starci tutti», disse un forestiero a Francisco de Ayllon. «E' solo curiosità morbosa. Non succede tutti i giorni che qualcuno sia accusato di avere due sessi», gli rispose il parroco. «Ci deve essere qualcosa sotto. Non sono riuscito a parlare col governatore, ma mi ha detto di aspettare, perché sarebbe stato un giorno cruciale per il processo. Ho provato a insistere, lui però mi ha liquidato dicendo che era tardi e doveva entrare in aula.» «Ma non gli avete detto chi siete?» «Certo! Ho anche cercato di fargli avere gli incartamenti, ma mi ha detto di dare tutto al segretario. E così ho fatto.» «Deve aver pensato che siete qui per la denuncia che ho presentato contro la violazione del diritto di asilo.» «Immagino di sì. Quel giudice, Felipe de Miranda, ha fatto le veci del governatore per un paio di settimane, il tempo necessario per mettere a tacere le vostre minacce di scomunica.» «A questo punto, non ci rimane che vedere cosa succederà. Eccoli che arrivano. Si sono fatti aspettare parecchio.» Era solo un'impressione del parroco, o il governatore li stava guardando con insistenza? Sino a quel momento lo aveva evitato, di sicuro perché offeso dalla sua denuncia, e aspettava solo che qualcuno da Toledo lo rimettesse al proprio posto. E forse adesso lo preoccupava il fatto che Ayllon fosse in compagnia di quel forestiero che lo aveva avvicinato e che, guarda caso, veniva proprio dalla sede dell'arcivescovado. Pagina 146
sanchez - La schiava di Granada.txt Dopo aver chiesto silenzio, Loaysa diede inizio alla sessione. Il parroco si stupì nel vedere che, insieme con Céspedes, stavano portando in aula anche Maria del Caño. Ma non era affatto un errore, come si capì quando Jufre de Loaysa cedette la parola all'avvocato che presentava l'accusa: «In qualità di procuratore, sporgo querela contro Elena de Céspedes, originaria di Alhama, e contro Maria del Caño, cittàdina di Ciempozuelos...» Ayllon osservò Céspedes e per la prima volta lo vide davvero abbattuto. Tutti i suoi sforzi per tener fuori la moglie erano stati inutili. «... e sostengo che le colpevoli prima citate, dimostrando di non avere nessun timore di Dio e con sprezzo della reale giustizia, si sono sposate e hanno partecipato alla velazione in facie ecclesiae», continuò il procuratore. «E questo benché la suddetta Elena de Céspedes sia una donna, che da anni si veste da uomo ed esercita come cerusico. Per fingersi maschio, ha utilizzato stregonerie e sortilegi, ingannando persino i medici che l'hanno visitata a Madrid. E si e sposata con la citata Maria del Caño, facendosi beffe del santissimo sacramento del matrimonio...» Francisco de Ayllon capì che il governatore lo aveva osservato mentre bisbigliava col forestiero. Quelle due accuse, stregoneria e disprezzo dei sacramenti, erano più che sufficienti per indire un processo. E spiegavano la presenza in sala dell'uomo che aveva accanto. «... inoltre si sono macchiate del delitto nefando di sodomia, perché la citata Elena de Céspedes ha penetrato la moglie con uno strumento duro e liscio. Tutto ciò con la complicità della nominata Maria del Caño, la quale era consapevole che l'accusata fosse una donna e che, come ogni donna, aveva il ciclo. Perciò io accuso Elena de Céspedes e Maria del Caño di aver commesso gravissimi e atroci delitti. Chiedo quindi che vengano dichiarate entrambe colpevoli. E chiedo che siano condannate alle più gravi pene previste dalla legge, che saranno applicate alle loro persone e ai loro beni, perché siano da esempio. Giuro di chiedere ciò unicamente perché giustizia sia fatta.» Il governatore stava per prendere la parola, quando il segretario gli si avvicinò porgendogli un fascicolo. «E' quello che gli ho consegnato poco fa», mormorò il forestiero al parroco. Il governatore lo prese e, dopo avergli dato un'occhiata, sbiancò in volto. «Deve aver visto il sigillo dell'Inquisizione di Toledo», disse l'uomo. «Sì, di solito reagiscono così...» confermò Ayllon con un mezzo sorriso. Loaysa continuò a leggere, sempre più sconvolto, tanto che la dentiera rischiò di cadergli dalla bocca. «Guardate che faccia», commentò Ayllon. «Voi che cosa fareste, se vi togliessero dalle mani un caso che avete appena finito d'istruire, giocandovi il tutto per tutto per ottenere una condanna?» L'uomo era una guardia del Sant'Uffizio, e sapeva bene che cosa diceva quel documento. Lo sapeva anche Francisco de Ayllon: aveva scritto lui stesso agli inquisitori di Toledo invitandoli a evocare quella causa, dal momento che rientrava nelle loro competenze. Al Sant'Uffizio è giunta notizia che Martin Jufre de Loaysa, governatore della provincia di Castilla a Ocaña, tiene prigioniero tale Eleno de Céspedes, il quale viene accusato di aver sposato Maria del Caño, cittàdina di Ciempozuelos, benché sia una donna che risponde al nome di Elena de Céspedes. Il governatore della città lo ha fatto incarcerare. Nella dichiarazione rilasciata, Céspedes ha affermato di essere un uomo, presentando certificato di nozze e di velazione, celebrata Pagina 147
sanchez - La schiava di Granada.txt quest'ultima a Yepes, insieme con otto o dieci testimoni, che lo consideravano un maschio. Da parte sua, Maria del Caño ha dichiarato che Céspedes era suo marito, che l'aveva conosciuta carnalmente e che lei aveva persino avuto il sospetto di aspettare un figlio da lui. Il governatore ha quindi chiesto a due medici, a un cerusico e a tre levatrici di esaminare Céspedes, e tutti l'hanno dichiarata donna. Ma, quando ai testimoni presentati da Eleno è stato chiesto di confermare le loro precedenti dichiarazioni, questi hanno ritrattato, sostenendo di essere stati ingannati da un'opera diabolica e che Eleno è di fatto una donna. Trattandosi di fatti così straordinari, è stato ritenuto opportuno informare il tribunale del Sant'Uffizio. E si ritiene che il processo sia di competenza dell'Inquisizione, poiché esiste il sospetto che sussista il reato di disprezzo del matrimonio. Per tutto quanto detto, noi, i signori inquisitori don Lope e don Rodrigo de Mendoza, ordiniamo al governatore Martin Jufre de Loaysa che, non appena riceva la presente, consegni alla guardia del Sant'Uffizio il suddetto Eleno de Céspedes, affinché lo porti con sé al nostro cospetto. E che nel frattempo si astenga dal procedere con questa causa, ma che rimetta a noi il processo fin qui istruito e tuttora in corso contro di lei. Non appena riceva copia del presente ordine, consegni l'originale degli atti al commissario del Sant'Uffizio della vostra città affinché ce li faccia riavere, chiusi e sigillati, certificati da un notaio, in cui appaia il numero dei fogli di cui sono composti. ***** PARTE SESTA. IL CORPO DEL REATO. «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché [...] tutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell'uomo. *** processi penali. L'inquisitore Lope de Mendoza terminò il fascicolo su Céspedes che la guardia del Sant'Uffizio gli aveva portato da Ocaña. Non aveva bisogno di leggere l'ultimo documento, perché lo aveva redatto lui stesso. Noi, in tutta la Repubblica Cristiana contro l'eretica pravità inquisitori generali della Santa Sede Apostolica specialmente deputati, ordiniamo a voi, Juan Ruiz Daévila, guardia di questa Inquisizione, di recarvi nella città di Ocaña e di prendere in consegna Eleno de Céspedes, ovunque si trovi, incluso in chiesa o in altro luogo sacro. E ordiniamo che lo portiate nelle carceri di questa Inquisizione e che lo affidiate al direttore Gaspar de Soria, in presenza di uno dei segretari. E che facciate portare un giaciglio sul quale far dormire il suddetto e venti ducati per il vitto. Vi diamo il potere necessario a che ciò sia fatto. Legò i nastri del fascicolo, che ripose sulla scrivania, Pagina 148
sanchez - La schiava di Granada.txt insieme con gli occhiali. Aveva ancora qualche ora per dormire. O almeno per provare a farlo, prima che il processo avesse inizio. perché era così preoccupato? Non gli mancavano certo gli strumenti legali. Raramente un inquisitore ne era privo. Al contrario, aveva a disposizione innumerevoli armi forgiate allo scopo. La sua giurisdizione era quasi universale. Lo provava il fatto che aveva facoltà d'indagare su qualsiasi persona, qualunque fosse il suo rango, il privilegio o la carica. Non importava se fosse uomo o donna, vivo o morto, assente o presente. Persino l'arcivescovo di Toledo Bartolomè de Carranza, confessore di Sua Maestà, che aveva rappresentato il regno al Concilio di Trento, con grande stupore dell'intera Castiglia, era dovuto soccombere al braccio onnipotente del Sant'Uffizio, senza che nessuno, nemmeno il papa, osasse fiatare. La preoccupazione di Mendoza derivava dal fatto che non aveva mai dovuto affrontare un caso come quello. E non ne aveva affrontati pochi. A quel punto, dopo un processo difficile quanto quello di Ocaña, qualunque accusato nei panni di Céspedes sarebbe crollato da un pezzo. Adesso aveva una seconda opportunità per dimostrare la sua tempra. L'isolamento, insieme col segreto processuale, il senso di minaccia costante e l'angoscia della tortura facevano miracoli, se si trattava di piegare gli animi più tenaci. Mendoza conosceva bene il tarlo che giorno dopo giorno corrodeva i rei, nell'anima e nel corpo. Lui osservava quel processo da vicino, calcolando il momento in cui intervenire, mettendoli alle strette o mostrandosi magnanimo, finchè quelli non cadevano ai piedi del giudice, implorando il perdono. Certo, questo succedeva in passato. Adesso era un fiorire di novità ovunque, dai pianeti alla navigazione sui mari. E, in quel caso, alle esplorazioni dell'anatomia umana. Quale continente, macchinario, occasione o meta poteva essere paragonato alla straordinaria macchina del corpo umano? Per questa ragione aveva chiesto che gli mandassero la copia del Vesalio di proprietà del reo. Attraverso quel libro sperava di carpire i segreti di Céspedes. Un tribunale del Sant'Uffizio non poteva comportarsi come il governatore Jufre de Loaysa. Doveva attenersi a una procedura molto più rigida. Non sarebbero contate solo le sue opinioni, ma anche quelle degli altri inquisitori, in particolare quelle di Rodrigo de Mendoza, suo lontano parente, che spesso seguiva i processi con lui. Senza dimenticare il parere di medici, teologi e altre autorità. Dopo aver letto il fascicolo, Lope de Mendoza non era meno confuso di prima riguardo alla questione principale: il sesso di quel, o di quella, Elen@ de Céspedes. Una cosa, però, era chiara: doveva portare a termine quel processo senza lasciare questioni in sospeso, ripartendo da zero, accantonando quello che il tribunale civile di Ocaña sembrava aver stabilito. Non fu sorpreso del fatto che il reo avesse restituito il necessario per scrivere rinunciando a presentare il resoconto dei propri nemici o la lista dei presunti accusatori. Non poteva indovinare chi lo avesse denunciato. Le persone implicate in modo diretto o indiretto nel procedimento penale contro di lui erano quasi duecento. Come poteva contare tutte quelle che erano sfilate lungo il corso della sua vita tormentata? *** precedenti. Fin dalla mattina del 17 luglio 1587, l'inquisitore Lope de Mendoza volle mettere bene in chiaro una cosa: anche se il reo era arrivato in abiti maschili, lui l'avrebbe trattato come una donna. Quello, infatti, era l'unico sesso che gli si Pagina 149
sanchez - La schiava di Granada.txt poteva attribuire con certezza. Il resto doveva essere provato. «Sia condotta in aula l'accusata», ordinò al direttore del carcere. Quando Céspedes fu davanti al giudice, il segretario lesse la formula del giuramento prevista dalla legge. E lui promise di dire la verità, in quella come nelle successive udienze, fino al termine del processo. Oltre all'impegno di mantenere il segreto su quanto fosse accaduto in aula. «Dite il vostro nome», ordinò Mendoza. «Eleno de Céspedes.» «Eleno?» L'inquisitore corrugò la fronte. Poi, rivolgendosi al segretario, aggiunse: «Scrivete "Elena"». Quindi riprese l'interrogatorio. «Di dove siete?» «Della città di Alhama.» «Dite la vostra età.» «Quarantuno o quarantadue anni.» «Dite il cognome, il nome e il luogo di origine di vostro padre.» «Pedro Hernandez, abitante di Alhama, contadino e mugnaio.» «E' vivo?» «Credo di sì.» « Madre?» «Francisca de Medina, schiava di Benito de Medina, di pelle nera e ormai defunta.» «Nonni?» «Non ho conosciuto i nonni paterni ne quelli materni, e non so nemmeno come si chiamassero.» «Zii o fratelli di vostro padre?» «Non ne aveva, che io sappia.» «Zii o fratelli di vostra madre?» «Non ne ho mai conosciuti.» «L'accusata e sposata o nubile?» «Quando avevo quindici anni, i miei genitori mi hanno fatto sposare Cristóbal Lombardo, un muratore originario di Jaen.» «Dove si e tenuto il matrimonio?» «Le nozze e la velazione sono state celebrate ad Alhama, dove abbiamo vissuto come marito e moglie per circa tre mesi.» «Avete avuto figli?» «Uno, di nome Cristóbal, come il padre.» «E' vivo?» «L'ho affidato a una coppia che lo ha portato a Siviglia, dove avevano un forno.» «L'accusata ha avuto altri figli?» «No.» «Che fine ha fatto suo marito?» «Ho saputo da una lettera che era morto nell'ospedale di Baza.» «Al momento l'accusata e vedova o sposata?» «Più o meno quindici mesi fa, mi sono sposato per la seconda volta con Maria del Caño, figlia di Francisco del Caño, residente a Ciempozuelos.» «Dove si sono tenute le nozze?» «Ci ha sposato il parroco di Ciempozuelos e la cerimonia della velazione e stata officiata dal viceparroco di Yepes.» «L'accusata si reca a messa la domenica e le feste comandate, si confessa e fa la comunione quando richiesto da Santa Madre Chiesa?» «Sì.» «Quando si e confessata l'ultima volta?» «L'ultima Quaresima.» «Da chi?» «Alonso Gomez, viceparroco di Villarrubia de Ocaña.» «Fatevi il segno della croce e recitate il Padrenostro, l'Avemaria, il Credo e il Salve Regina.» Pagina 150
sanchez - La schiava di Granada.txt Céspedes obbedì. «Si prenda atto che l'accusata lo ha fatto esprimendosi in perfetto castigliano, senza nessun errore o esitazione. Sapete leggere e scrivere?» «Sì.» «Avete frequentato qualche scuola?» «No, ma possiedo alcuni trattati di chirurgia e di medicina in castigliano e in latino.» benché il segretario stesse trascrivendo puntualmente le domande e le risposte, Lope de Mendoza prendeva appunti per conto suo, in modo da poter avere sempre sott'occhio gli eventuali punti deboli delle dichiarazioni dell'accusata. Si avvicinava il momento in cui ai rei veniva data la possibilità di esporre il proprio caso, fondamentale per capire chi si aveva davanti. L'inquisitore si era ripromesso di non interrompere l'esposizione di Céspedes, di non contraddirla o porre domande che non fossero imprescindibili per chiarire qualche punto oscuro. E così disse: «L'accusata proceda e spieghi in che modo ha potuto sposarsi due volte, l'una come donna e l'altra come uomo». In quel momento, il segretario gli rivolse un cenno, chiedendogli una pausa. Sapendo che il resoconto sarebbe stato lungo, fece chiamare l'inserviente perché riempisse il calamaio d'inchiostro, rifilasse le penne d'oca e portasse altri fogli. Quand'ebbe finito, fecero cenno a Céspedes di cominciare. «Come ho già detto, quando avevo quindici anni, mi hanno fatto sposare con Cristobal Lombardo. Non andavamo d'accordo e lui mi ha abbandonato, lasciandomi sola e incinta. Quando mia madre è morta, ho affidato mio figlio a una coppia e mi sono trasferito a Granada, dove sono rimasto più o meno un anno. Da lì sono passato a SanlÚcar de Barrameda, poi a Jerez de la Frontera, dove ho avuto una lite con un ruffiano di nome Heredia. Mi hanno messo in carcere perché lo avevo accoltellato. Quando sono uscito di prigione, per paura delle sue minacce, mi sono vestito con abiti maschili. E così mi sono trasferito ad Arcos, dove ho trovato lavoro come bracciante.» «E l'accusata quale nome usava?» «Solo il mio cognome, Céspedes, senza il nome di battesimo.» «Continuate.» «Lì non sono rimasto per più di un mese, poi me ne sono andato e ho lavorato come pastore finchè non mi hanno incarcerato, accusandomi di essere un monfi. Quando hanno saputo che ero una donna, mi hanno rilasciato, a condizione di rimanere a servizio presso Juan Nunez, il parroco di Santa Maria. Sono rimasto sei o sette mesi a casa sua, dopodiché me ne sono andato. Era il periodo dell'insurrezione dei moriscos di Granada, e così ho deciso di arruolarmi.» «Allora siete tornata a vestirvi da uomo?» «Sì, e ho ricominciato a usare solo il mio cognome, Céspedes. Sono rimasto nell'esercito per tre anni, quasi tutti nella compagnia del duca di Arcos e del capitano Ponce de Leon. Alla fine della guerra, sono andato a Marchena, dove sono rimasto poco più di due anni, esercitando la professione di sarto. Da lì sono andato in altri paesi dell'Andalusia, poi mi sono trasferito a Osuna e da lì a Madrid.» «Quanto tempo fa, più o meno?» «Sarò arrivato nella capitale circa dodici anni fa.» «Anche lì facevate il sarto?» «Sì, finchè non ho fatto amicizia con un cerusico di Valenza che mi ha ospitato a casa sua, e ha cominciato a insegnarmi il mestiere. Ho imparato così bene che dopo poco tempo ero in grado di occuparmi dei malati come lui.» «E quindi avete cambiato mestiere?» «Sì. Visto che fare il cerusico era più redditizio, ho abbandonato completamente l'attività di sarto e sono rimasto Pagina 151
sanchez - La schiava di Granada.txt poco meno di tre anni all'Hospital de la Corte, dove ho fatto pratica. Dopo sono stato chiamato all'Escorial, e lì ho esercitato per più di due anni, finchè non mi hanno accusato di non aver mai sostenuto l'esame. E così sono andato a Madrid e ho ottenuto due qualifiche, una per fare salassi e somministrare purghe, una per la chirurgia. Poi mi sono trasferito a Cuenca, dove ho esercitato per nove mesi. Da lì mi sono spostato a La Guarda, dove pensavo di rimanere due o tre anni, invece me ne sono andato poco dopo con una compagnia di soldati di passaggio, occupandomi dei feriti. Con loro sono arrivato a Pinto, e da lì mi sono spostato a Valdemoro, dove sono rimasto due anni, occupandomi di tanto in tanto anche dei malati di Ciempozuelos. Un giorno mi sono sentito male e sono stato ospitato da Francisco del Caño, che adesso è mio suocero. Lui e la sua famiglia si sono presi cura di me con tanta generosità che ho finito per affezionarmi alla loro figlia, Maria del Caño, che ricambiava il mio affetto. L'ho chiesta in moglie ai genitori, e loro hanno detto che, se era volere di Dio, la cosa si sarebbe fatta. E così ci siamo sposati.» Lope de Mendoza si rese conto che si era fatto tardi: era un buon momento per chiudere l'udienza del mattino. Oltre al fatto che aveva bisogno di digerire quel lungo resoconto. Si dispose quindi a togliere la seduta: «L'accusata sia riportata in cella, dove dovrà riflettere se confessare i delitti che le vengono imputati». *** UOMO O DONNA? Durante il secondo interrogatorio, Lope de Mendoza aveva deciso di andare dritto al punto che lo ossessionava: stabilire quale fosse il sesso del reo. Così, non appena entrato in aula, ordinò: «L'accusata continui, a partire dal fidanzamento e dal matrimonio con Maria del Caño, entrando nel merito delle accuse che le vengono rivolte». Céspedes raccontò delle obiezioni sollevate dalla vedova Ortiz in occasione delle pubblicazioni. E i problemi sorti col vicariato di Madrid che lo avevano portato a Yepes, dov'era stato riconosciuto come uomo da otto abitanti del posto e da due medici. «Nei due mesi e mezzo in cui sono rimasto alloggiato in una locanda del paese, mi facevo lavande con vino, alcol e altri rimedi e suffumigi, cercando di far chiudere il mio sesso femminile. Quella fessura si era raggrinzita a tal punto che non sono riusciti a infilarci niente. Con in mano i documenti che mi dichiaravano maschio, sono tornato a Madrid e li ho presentati al vicario. Lope de Mendoza si era abbassato gli occhiali per controllare i documenti del tribunale civile di Ocaña. Vide così che il resoconto che l'accusata stava facendo ora era molto più preciso e coerente. Per il momento, sembrava che non volesse affatto negare di aver avuto un sesso femminile, come risultava invece evidente dal processo precedente. Anzi, insisteva a dire che, oltre alla natura femminile, aveva avuto anche il membro maschile. Ossia era, o era stata, ermafrodita, e che al momento delle nozze prevaleva la sua natura maschile. Per questa ragione aveva cercato di chiudere il sesso femminile. Sposandosi con Maria del Caño non era quindi incorsa nel peccato di sodomia. «Il vicario ha considerato validi quei certificati?» chiese l'inquisitore. «Ha chiesto a propria volta un esame, e a questo scopo ha nominato due medici della capitale, Antonio Mantilla e Francisco Diaz. Dal momento che costoro mi hanno certificato come maschio, mi è stata concessa la licenza. Così mia moglie e io abbiamo vissuto a Yepes, finché, a Natale, non mi sono trasferito a Ocaña, dove avevano bisogno di un chirurgo. Lì sono stato denunciato e arrestato per ordine del Pagina 152
sanchez - La schiava di Granada.txt governatore.» Mendoza ripensò a quella strana coincidenza, sulla quale si era già soffermato a riflettere: che cosa ci faceva Ortega Velazquez a Ocaña? Le motivazioni di Céspedes erano chiare: migliorare la propria posizione. Ma il vecchio uditore? perché un giudice che esercitava a Granada si era ritrovato in quella città? Era forse complice di Jufre de Loaysa, un uomo che non muoveva un dito se non ne otteneva un vantaggio? Qual era l'accordo? Volevano forse riprendere le razzie ai danni dei moriscos, come avevano già fatto nel Sud? Se i due tramavano qualcosa del genere, Céspedes doveva essere una presenza estremamente scomoda. Oltre al fatto che Ortega ce l'aveva a morte con lui dal giorno in cui si erano conosciuti, all'inizio della guerra delle Alpujarras. In ogni caso, anche se era quella la vera ragione del precedente procedimento civile, adesso Mendoza doveva concentrarsi su quanto costituiva il nucleo del suo processo: il sesso del reo. Così chiese: «Com'è possibile che, essendo una donna, l'accusata abbia fatto credere a diversi medici e ad altri testimoni di essere un uomo?» Céspedes pareva esitare, e l'inquisitore decise di aggiungere: «Voglio dire, non può essere stato così facile ingannarli, per quanto possa aver camuffato il proprio sesso femminile, portandolo a chiudersi e a raggrinzirsi con le lavande e i suffumigi che sembra aver fatto». «Perché in effetti sono e sono stato ermafrodita, con due sessi diversi. Quando ho partorito, si è rotta una membrana che avevo al di sopra dell'uretra e ne è uscito un pezzo di carne grande quanto un mezzo pollice, che per forma sembrava il membro di un uomo.» Vedendo che il giudice era perplesso, precisò: «Lo dico perché, quando mi sentivo eccitato, s'inturgidiva; quando invece non lo ero, si rimpiccioliva e si ritirava». «E avete potuto godere come un uomo?» «Sì. La prima volta è successo quand'ero a SanlÚcar de Barrameda.» Raccontò quindi la sua relazione con Ana de Albanchez ma, arrivato ai dettagli più imbarazzanti, si fermò, per pudore. «S'invita l'accusata a proseguire nella descrizione: si tratta di dettagli fondamentali per il caso in discussione», lo spronò Lope de Mendoza. «All'inizio mi faceva male, così ho deciso di andare da un cerusico, che ha inciso la membrana che faceva da frenulo, e ne è uscito un membro maschile di queste dimensioni», disse, sollevando il dito indice per dare un'idea della misura. Il segretario si consultò con Lope de Mendoza sul modo in cui doveva verbalizzare quel dettaglio. L'inquisitore si chinò verso di lui, dicendogli di tracciare sul foglio una linea lunga quanto quella mostrata da Céspedes, quindi si raddrizzò e chiese al reo: «E il membro era sano e ben formato?» «All'inizio era un po' curvo, come un arco. Ma, quando il cerusico ha tagliato il frenulo, si è raddrizzato, anche se è rimasto un po' debole alla base.» «L'accusata ha avuto relazioni sessuali con altre donne, avvalendosi dei suoi attributi maschili?» «Con molte donne.» «Per esempio?» domandò Mendoza. «In particolare con una delle sorelle del parroco di Arcos, dov'ero a servizio. Si chiamava Francisca Nunez.» Vedendo che i membri del tribunale si aspettavano di sentire di più , aggiunse: «E ho avuto una relazione anche con l'altra sorella, Catalina Nunez, che era sposata». «Continuate, continuate...» «E con molte altre nei posti in cui sono stato. Se le nominassi tutte non arriveremmo più alla fine.» I membri del tribunale si guardarono tra loro, Pagina 153
sanchez - La schiava di Granada.txt meravigliati. Mendoza si sentì in dovere di chiedere: «Erano vergini o avevano già conosciuto un uomo?» «C'è stato di tutto. Nella capitale ho avuto come amante Isabel Ortiz, che era vedova. E, benché sia stato con lei come uomo, lei non ha mai saputo che avessi anche il sesso di una donna.» «E Maria del Caño?» «Non lo ha mai saputo nemmeno mia moglie.» «Com'è possibile, tra due persone sposate che dormono nello stesso letto?» «In effetti lei ha cercato più volte di toccarmi le parti intime, ma non gliel'ho mai permesso.» «Quando l'accusata era una donna e portava il nome di Elena de Céspedes, ha avuto relazioni con qualche uomo?» «Non ho mai giaciuto con nessuno al di fuori di mio marito, Cristóbal Lombardo.» «perché, dopo essere stata sposata con un maschio e aver partorito, si è sposata con una donna? Forse l'accusata considera lecita una simile unione?» «Quando mi sono ritrovato con un membro maschile, ho desiderato sposarmi per non vivere più nel peccato e per giacere solo con mia moglie, anziché con tante donne. Il motivo e questo; non per malizia, ma allo scopo di mettermi al servizio di Dio.» «E ha continuato ad avere il ciclo mestruale?» «già da ragazza era scarso, e mi veniva solo una volta ogni tanto. E' rimasto irregolare anche in seguito.» «E adesso?» «Ce l'ho ancora, come tutte le donne, essendolo anch'io.» «E il membro virile?» Céspedes batté le palpebre, come se non avesse capito la domanda. L'inquisitore insisté, imbarazzato: «Chiedo all'accusata se le serviva a qualcos'altro, a parte il diletto con le donne cui accennava». «Per urinare, come a tutti gli altri uomini, perché era proprio dove c'è l'uretra.» A quel punto l'inquisitore sembrò perplesso. Si voltò verso la persona che seguiva il processo con lui e gli chiese qualcosa all'orecchio. Quindi si schiarì la voce e, rivolto a Céspedes, domandò: «Al momento l'accusata possiede il membro maschile e anche il sesso femminile?» «Al momento non ho che il sesso femminile, perché ho perso definitivamente il membro maschile mentre ero in carcere a Ocaña. Prima di Natale ho avuto un'emorragia sia dalla mia natura femminile sia dal retto. Poi ho avuto un mal di reni terribile e, alla fine, avendo dovuto cavalcare, si sono aggravate le piaghe che avevo alla base del membro. Si sono aperte delle lacerazioni, dalle quali ho perso sangue per diversi giorni. Il membro si è rammollito, diventando simile a una spugna, e poco alla volta l'ho dovuto tagliare, finchè non si è staccato del tutto mentre ero in carcere.» «Sono rimasti segni o cicatrici?» «Sì.» «E che cos'è successo ai testicoli?» Céspedes unì pollice e indice di ogni mano a formare un cerchio, e disse: «Li avevo grandi così. La prima a cadere vittima della cancrena è stata la parte spugnosa, quella legata al vaso detto "epididimo", chiusa nello scroto». L'inquisitore fece un cenno al reo, affinchè evitasse quel gergo da iniziati. Céspedes dovette indovinare la sua confusione e si scusò: «Se ci fosse un medico qui, capirebbe». Mendoza si agitò sulla sedia, irritato e in imbarazzo: stava praticamente dando loro degli ignoranti! Ce l'avrai eccome, il tuo medico. Anzi, ne avrai addirittura tre, pensò. Ma non disse nulla. Preferì ignorare quelle ultime parole. Pagina 154
sanchez - La schiava di Granada.txt «Maria del Caño ha scoperto il sesso femminile dell'accusata, dopo le nozze?» «No. Prima che ci sposassimo l'avevo sedotta in un pagliaio prendendole la verginità, poi l'ho posseduta come uomo molte altre volte, e non poteva sospettare che avessi anche il sesso di una donna.» «Quando l'accusata possedeva sua moglie o altre donne, c'era polluzione?» «Sì. E in abbondanza.» «Per quanto tempo ha avuto rapporti carnali con Maria del Caño?» «Ho smesso di giacere con lei prima di Natale.» «E lei non se n'è stupita?» «Ho trovato delle scuse finchè non siamo entrati in Quaresima, quando le ho detto che avremmo evitato i piaceri carnali come ulteriore penitenza.» «E passata la Quaresima?» «Avevo già forti dolori, e ho cominciato ad amputarmi il membro, come ho detto prima.» L'inquisitore fece un respiro profondo. Per quanto insistesse sui punti più deboli, Céspedes rimaneva fermo sulle proprie argomentazioni, senza mai contraddirsi. Non aveva mai assistito a una difesa altrettanto solida, ed era sorpreso dalla proprietà con cui il reo dominava la terminologia giuridica, probabilmente a causa del processo già subito a Ocaña. Aveva davanti una vecchia volpe, che imparava con una velocità impressionante e che, al momento della verità, poteva rifugiarsi in un terreno esclusivamente suo: il proprio corpo. Inoltre poteva trincerarsi dietro le conoscenze che gli offriva il suo stesso mestiere, quando doveva riferirsi a una questione spinosa ed enigmatica qual era la natura ermafrodita. Era stata una lunga giornata. Dopo un cenno d'assenso dell'inquisitore che seguiva il processo con lui, Mendoza si passò la mano sulla fronte e disse: «Per oggi la seduta è tolta. Il segretario legga all'accusata quanto ha finora dichiarato, ne dia quest'ultima conferma e apponga la propria firma, se comprende e concorda col modo in cui le sue parole sono state verbalizzate. Dopodiché sia riportata in carcere». Quando Mendoza e l'altro inquisitore rimasero soli, quest'ultimo gli chiese: «Ditemi, don Lope, che cosa pensate di fare, a parte ammonirla e obbligarla a firmare le sue dichiarazioni? Bisognerà iniziare ad attaccarla su qualche altro fronte, se non vogliamo andare avanti all'infinito. E badate, questa storia è già sulla bocca di tutti, e tutti gli occhi sono puntati su di voi». «Credo che sia arrivato il momento di tentare con l'anello debole.» *** l'anello debole. «Che l'imputata giuri di dire la verità, in questa udienza come in tutte quelle che seguiranno, e di mantenere il segreto su quanto accadrà in aula.» «Lo giuro.» «Dichiarate le vostre generalità.» «Mi chiamo Maria del Caño, residente a Ciempozuelos. Ho venticinque anni.» «Chi sono i vostri genitori?» «Sono figlia di Francisco del Caño, contadino di Ciempozuelos, e di sua moglie, Juana de Gasco.» «Qual è il vostro stato civile?» «Sono sposata col cerusico Eleno de Céspedes.» A quel punto, Lope de Mendoza decise di domandarle a bruciapelo: «E' vero che il suddetto Eleno de Céspedes ha due sessi? O ne ha uno solo? E, in tal caso, quale?» «Io ho sempre creduto che mio marito fosse un uomo, Pagina 155
sanchez - La schiava di Granada.txt dato che non ho mai visto il suo organo femminile.» Gli inquisitori si scambiarono uno sguardo stupito: l'anello debole mostrava una forza pari a quella dello stesso Céspedes. «Che la testimone si spieghi meglio», chiese Mendoza. «Ciò che posso dirvi è che prima di sposarmi non avevo mai avuto rapporti. Però avevo sentito le altre donne che giacevano coi loro mariti. E volevo farlo anch'io.» L'inquisitore si accorse che Maria era arrossita: sicuramente si vergognava per quella scintilla di desiderio che le brillava negli occhi. «Proseguite», le ordinò, con un cenno che esprimeva tutto il suo disprezzo per simili ostentazioni di falso pudore. «Ho cercato più volte di toccare le parti intime di mio marito, per capire come fossero fatte. Ho anche provato a chiedergli di mostrarmele. Però lui non mi ha mai permesso di sfiorarle nemmeno con un dito, sostenendo che tale comportamento non si addiceva a una donna onesta. E così non l'ho mai fatto, tranne una sera, di nascosto. Credevo che lui stesse dormendo, così gli ho posato una mano sulla camicia da notte e ho sentito una specie di rigonfiamento, ma non ne ho distinto la forma.» «Lo avete mai toccato senza la veste, per capire se le sue parti intime fossero di carne o di qualche altro materiale?» «No, mai.» «E non avete mai visto il membro di Eleno de Céspedes?» «Dal momento che io gli avevo chiesto molte volte di mostrarmelo, una volta l'ha fatto, mentre si vestiva, seduto sul bordo del letto.» «E dov'eravate voi in quel momento? Che cosa avete visto?» chiese l'inquisitore. Stava perdendo la pazienza. «Stavo per uscire dalla stanza, dunque ero un po' lontana. Lui ha sollevato la camicia e mi ha mostrato il membro. Poi si è subito rivestito e, quando ho cercato di avvicinarmi, non mi ha più permesso di guardare.» «In seguito non vi ha più mostrato le sue parti intime?» «No, mai.» «Eleno de Céspedes vi ha preso la verginità?» «Sì, prima del matrimonio. E non ho mai avuto rapporti con nessun altro. Ma io ho sempre creduto che mio marito fosse un uomo. Non ho mai pensato che mi stesse ingannando.» «Avete mai creduto di essere incinta?» «Una volta, perché il ciclo era in ritardo. Ma poi mi e venuto.» L'inquisitore aveva sotto gli occhi le dichiarazioni che Maria del Caño aveva reso al tribunale di Ocaña: coincidevano punto per punto con quanto aveva appena confessato. Si tolse gli occhiali. «E il suddetto Eleno de Céspedes? E' mai successo che si sentisse male, che gli venisse il ciclo o che sanguinasse dalle parti intime?» «Mi è capitato alcune volte di trovare la sua camicia da notte sporca di sangue. Quando gli chiedevo che cosa fosse successo, lui rispondeva che si trattava di un'emorroide che sanguinava quando cavalcava.» «Quand'è stata l'ultima volta in cui avete avuto rapporti con Eleno de Céspedes?» «Prima di Natale. Comunque credo che stesse già male, perché si è comportato in modo strano. E poi non abbiamo più avuto rapporti.» L'inquisitore chiese al segretario gli atti dell'ultimo interrogatorio di Céspedes, si rimise gli occhiali e verificò che le dichiarazioni dei coniugi coincidessero. Di certo si erano messi d'accordo. Però la donna non aveva le stesse conoscenze mediche del marito, e magari poteva tradirsi descrivendo i sintomi o le cure che lui si somministrava. «Come avete fatto ad accorgervi che Eleno de Céspedes era Pagina 156
sanchez - La schiava di Granada.txt malato? L'avete visto mentre si medicava? E di che malattia soffriva?» «Ho capito che stava male quando mi ha chiesto del sego di capretto per ungersi le parti intime.» «Lo avete mai visto mentre si lavava o si spalmava unguenti?» «No, anche se, poco prima che venisse arrestato, mi chiedeva spesso un panno inzuppato di vino. Io obbedivo, senza domandargli a che cosa gli servisse.» Allo sguardo indagatore di Lope de Mendoza non sfuggì il modo in cui la testimone si teneva sulla difensiva. Decise quindi di continuare su quella strada, dandole una svolta inaspettata. «Finora avete descritto i rapporti che avete avuto con Eleno de Céspedes dopo il matrimonio. Quando la vedova Ortiz si è opposta alle vostre nozze, come avete reagito alla notizia che il vostro fidanzato aveva avuto una relazione con un'altra donna? Eravate gelosa?» Esattamente come previsto, la sicurezza della giovane vacillò. Poi però lei si accorse della trappola: l'inquisitore doveva averla presa per un'ingenua, se pensava che bastasse insinuare che le ex amanti di Céspedes avessero testimoniato contro di lui. Maria non ci cascò e decise di fidarsi del marito. «Lui stesso mi aveva confessato di aver avuto relazioni con altre donne, ma non so altro.» Lope de Mendoza dovette ricredersi: di certo non si trovava di fronte a una povera contadina ignorante, disposta a tutto pur di trovare un giovane che la sposasse. Avrebbe dovuto immaginarlo, vista la tenacia con cui si ostinava a difendere il marito. Ma non si sarebbe mai aspettato una simile dignità. Per la prima volta, si trovò a pensare che quei due si amassero davvero, che provassero davvero un sentimento che andava ben oltre gli interessi che li univano o i doveri imposti dal vincolo matrimoniale. Tuttavia, prima di darsi per vinto, decise d'insistere un'ultima volta, per sincerarsi che la testimone avesse la possibilità di confessare. «Quando vi siete sposata con Eleno de Céspedes, sapevate che era una donna?» «Ho sempre creduto che mio marito fosse un uomo, come mi era stato confermato dal vicario in persona quando gli ha concesso la licenza di matrimonio, e ho convissuto con lui convinta di ciò.» Una risposta davvero furba: se persino il vicario aveva certificato il sesso di Céspedes dopo un accurato esame da parte di chirurghi di fama come Francisco Diaz, come poteva pensarla diversamente una povera fanciulla di Ciempozuelos? Era venuto il momento di metterla alle strette, facendo leva sui suoi obblighi matrimoniali. «Com'è possibile che la testimone abbia vissuto con Eleno de Céspedes per tanti mesi senza mai accorgersi che non era un uomo? E soprattutto considerando il fatto che al reo non cresce la barba, che ha i buchi alle orecchie e che ha il ciclo.» Fece una pausa, per dare maggior effetto al colpo che si preparava a infliggere. «E, dal momento che la testimone afferma di aver avuto rapporti col marito prima delle nozze, si deve supporre che si sia sposata col suddetto Eleno de Céspedes pur sapendo che era una donna.» Alzò la voce per procedere all'ingiunzione formale. «Per questa ragione, le si ordina di confessare, per la misericordia di Dio e della Santissima Romana Chiesa, perché possa liberarsi la coscienza e appellarsi alla clemenza di questa corte.» Detto ciò, attese in silenzio la risposta della giovane. Maria però non sembrava affatto intimorita. «Che Dio mi fulmini se non dico la verità, perché ho sempre creduto che mio marito fosse un uomo. Se anche fosse davvero una donna, io sono innocente. Non lo sapevo quando mi sono sposata, come non ne era a conoscenza il vicario che ci ha concesso la licenza. Perciò non ho mai immaginato di peccare stando con lui. E non è colpa mia se dopo il matrimonio Pagina 157
sanchez - La schiava di Granada.txt mio marito non mi ha mai permesso di vedere ne di toccare le sue parti intime. E non ho mai avuto modo di accorgermi che avesse tutti e due i sessi, come invece sostengono certe malelingue. Né ho mai avuto occasione di accertarmi che il suo membro fosse fatto di carne e sangue, dato che l'unica volta che l'ho visto è stato da lontano. Giuro che è la verità.» Si stava facendo tardi, quindi Mendoza si rivolse al segretario. «Che si legga alla testimone quanto ha finora dichiarato, ne dia quest'ultima conferma e apponga la propria firma, se comprende e concorda col modo in cui le sue parole sono state verbalizzate. E che possa meditare sulla sua confessione, per la salvezza della sua anima, nel carcere in cui ordino che sia condotta.» *** IL VIL DENARO. Otto giorni dopo, per verificare la versione della moglie, Céspedes fu di nuovo chiamato a deporre. Dato che era stato tenuto in isolamento, non aveva idea di quali nuove informazioni disponessero gli inquisitori e la cosa lo rendeva estremamente nervoso. Era il momento adatto per cercare di aprire una breccia nella sua difesa. Quel giorno, l'inquisitore si era fatto affiancare da Rodrigo de Mendoza, non solo perché era uno dei membri più illustri della famiglia - col prestigio che ne derivava anche a lui grazie al grado di parentela - e la sua semplice presenza conferiva maggiore solennità al processo, ma anche perché Lope sentiva di aver bisogno di un consiglio. Rodrigo de Mendoza aveva molta più esperienza di lui. già canonico della cattedrale di Toledo, aveva ricevuto l'incarico di vicario della primaziale in assenza dell'arcivescovo Carranza, sotto accusa parte dell'Inquisizione. Il Sant'Uffizio non aveva segreti per lui e né comprendeva alla perfezione quei meccanismi e quelle pressioni politiche che a Lope invece sfuggivano. Prima di tornare a Toledo, Rodrigo de Mendoza era addirittura riuscito a riunire il tribunale del Sant'Uffizio di Barcellona e quello di Saragozza nell'Inquisición del Mar. La singolarità del caso aveva stuzzicato la curiosità del canonico, che si era lasciato convincere ad assistere a quella seduta. Lope aveva bisogno di qualcuno che valutasse la vicenda con occhi nuovi, che riuscisse a cogliere quei dettagli che a lui potevano sfuggire per indulgenza, per pregiudizio o perché ormai ne sapeva troppo. Non appena entrato in aula, Céspedes rimase profondamente sconvolto nel vedere Rodrigo de Mendoza. Ciò nonostante, quando riprese l'interrogatorio, l'inquisitore non riuscì a farlo cadere in contraddizione con quanto dichiarato in precedenza. Lope pronunciò quindi un'accusa formale e ordinò al direttore del carcere di riportare in cella il reo. Rimasero in aula solo i due inquisitori e il segretario, cui chiesero se fosse rimasta qualche questione in sospeso, nella speranza che ci fosse materiale per un nuovo interrogatorio. Lo scrivano consultò le carte e li aggiornò in merito ai progressi fatti nel verificare i documenti relativi al matrimonio di Céspedes con Maria del Caño: «Due settimane fa, al commissario del Sant'Uffizio di Yepes è stato affidato il compito d'interrogare il parroco, i padrini e i testimoni delle nozze, e di recuperare una copia dei registri parrocchiali della chiesa». Procedette quindi alla lettura delle testimonianze. «Ci sono la ratifica e la copia dell'annotazione delle nozze presente nel registro parrocchiale della chiesa?» chiese infine Rodrigo. «Sì, insieme con una trascrizione fedele della pagina, che è la dodicesima del suddetto registro.» «C'è anche il documento del parroco di Ciempozuelos Pagina 158
sanchez - La schiava di Granada.txt con le promesse matrimoniali?» «Sì.» «Dunque non mi sembra che ci siano state irregolarità nella celebrazione di queste nozze. Tutto è stato fatto a norma di legge», concluse il canonico. «Il problema è un altro», ribatté Lope. «E' da due settimane che siamo a un punto morto; non facciamo progressi e stiamo ormai prosciugando i fondi stanziati.» Il segretario chiese il permesso d'intervenire. «Proprio di questo volevo parlarvi. Come ricorderete, il verbale redatto dal tesoriere suggerisce di vendere i beni dell'accusata per pagare le spese del suo mantenimento.» «Sì, ricordo di aver scritto qualcosa a questo proposito al commissario del Sant'Uffizio di Yepes», disse Lope. «Esatto. Ho qui una copia di quella lettera, che ordina di spedirvi quanto prima la somma di cento reales.» «Dunque?» «Ci sono stati dei problemi col depositario dei beni, che è un sacerdote del luogo. Quando il commissario e il podestà sono andati a confiscare i beni rimasti dopo l'asta pubblica tenuta a Ocaña, il parroco si e rifiutato di consegnarli finchè non avessero pagato la persona che aveva messo a disposizione i locali per custodirli, coloro che li avevano trasportati, chi ne aveva fatto l'inventario e infine l'ufficiale che li aveva pubblicati. Come se non bastasse, il curato ha anche reagito molto male alle proteste.» «Già inizia la rapina. In che senso il curato "ha reagito male"?» «Ha scomunicato il podestà, che infatti supplica questo tribunale di annullare la sentenza, dal momento che ha agito in vostro nome e seguendo i vostri ordini. Posso dunque adoperarmi affinchè venga revocata la scomunica?» «Procedete il prima possibile, signor segretario. Tornando a noi, come si e conclusa la questione col parroco?» domandò Rodrigo, senza nascondere l'impazienza. «Ci si è accordati in modo che, una volta ricevuti i cento reales, il resto dei beni sia preso in custodia da un familiare del Sant'Uffizio.» Il segretario fece per passare le carte al canonico, ma questi fece un cenno di diniego: gli credeva sulla parola. «Abbiamo già ricevuto il denaro?» «Sì, signore. Il mittente ha richiesto una ricevuta, che ho gia provveduto a far preparare. Mancano solo le vostre firme.» Siglarono entrambi i Mendoza, dopodiché, non essendoci più questioni in sospeso, congedarono il segretario. Lope allora propose a Rodrigo di seguirlo nella stanza accanto, dove li attendeva un buon pasto, che speravano li avrebbe aiutati a schiarirsi le idee mentre ripercorrevano le stranezze del caso. Quando arrivarono al dolce, Lope aveva già esposto i suoi numerosi dubbi e stava cercando di tirare le fila del discorso, ansioso di conoscere l'impressione che Rodrigo si era fatto del reo. «L'accusata ha sempre sostenuto di essere ermafrodita. Non si è mai contraddetta in proposito. E ha sottolineato più volte che il suo essere uomo o donna dipendeva da quale dei due sessi prevalesse in quel determinato momento. Quando ha partorito, le è come scesa una sorta di escrescenza che, una volta operata da un chirurgo di SanlÚcar, è diventata un vero e proprio organo maschile. Dopodiché ha avuto il suo primo rapporto con una donna, Ana de Albanchez.» «E questa donna era a conoscenza della doppia natura dell'amante?» chiese Rodrigo. «Il reo assicura di sì. Ha detto anzi che lei è l'unica ad avergli visto entrambi i sessi.» «E lei lo ha confermato?» «Non siamo riusciti a trovarla.» Pagina 159
sanchez - La schiava di Granada.txt «Pensate che l'accusata contasse sul fatto che non l'avreste mai rintracciata?» «Certamente. è molto furba.» «E cosa dicono i medici consultori del Sant'Uffizio? Può essere plausibile l'ipotesi di ermafroditismo?» «Dicono che è molto raro, ma possibile. E che il caso del reo concorda con le poche testimonianze di cui disponiamo. Il problema è che Céspedes conosce l'anatomia alla perfezione, quindi potrebbe descrivere il fenomeno nei minimi dettagli, anche se fosse una messinscena. E, a quanto si dice, è un chirurgo eccezionale.» «Il tribunale di Ocaña non ha già dimostrato la sua colpevolezza?» «Non possiamo affidarci a quella sentenza, dal momento che abbiamo evocato la causa in modo che rientrasse nella nostra giurisdizione. Dobbiamo raccogliere nuove prove e, se necessario, richiamare a deporre i testimoni.» «Credo che si debba andare dritti al nocciolo della questione, e cioè ai medici di Madrid e di Yepes che hanno certificato il sesso di Céspedes, perché e da lì che e derivata la licenza di matrimonio. Dobbiamo attaccare il problema alla radice», affermò Rodrigo. «Ho cercato più volte di stabilire quale sia il suo vero sesso...» «Basterebbe dimostrare che l'accusata non ha mai avuto un membro, interrogando i medici che l'hanno certificata come maschio. Se li accusate di corruzione e di complicità, non oseranno confermare la precedente deposizione, né vorranno affrontare un processo da parte del Sant'Uffizio. E Céspedes cadrà con loro.» «Però è solo un espediente, non ci permette di andare a fondo alla questione», protestò Lope. «Credetemi, è proprio questo il punto. Se accettaste l'ipotesi dell'ermafroditismo, e con essa la possibilità che una persona possa avere due sessi, ben presto vi ritrovereste in un labirinto. Chi sa la verità? Bisogna sbarazzarsi del caso, per il vostro bene e per il bene di questo tribunale. Dovete liberarvene il prima possibile.» «Ne fate una questione di soldi?» «Non solo. Questo processo ha già richiamato fin troppa attenzione per una persona che, come voi, desidera ritirarsi a vita privata. E' inutile farsi illusioni; non riusciremo a venire a capo della vicenda usando i soliti mezzi dell'Inquisizione, quando il segreto ci permette di fare di testa nostra. Questa storia è sulla bocca di tutti.» «Non certo per colpa nostra, ma del tribunale di Ocaña», si giustificò Lope. «Lo so, ma il risultato non cambia. Limitiamoci dunque a prendere atto delle conseguenze. Da quando gli avete tolto il caso, il governatore Jufre de Loaysa nutre un forte risentimento nei vostri confronti e non esiterà ad attaccarvi al primo passo falso. Datemi retta, questa Elena o Eleno de Céspedes non è una persona comune, basta ascoltare le sue risposte per rendersene conto. Dovete riuscire a piegare la sua volontà. Torturatela, tendetele una trappola, mettete sotto torchio la moglie... dovete farla fuori.» «Credo di sapere come.» *** L'ACCUSA. Di solito Lope dava ascolto ai consigli di Rodrigo de Mendoza, che sapeva essere dettati dall'affetto che l'uomo provava per lui. Inoltre sarebbe stato scortese non prendere in considerazione la sua opinione dopo averlo distolto dai suoi numerosi impegni per chiedergli un consulto. Tuttavia, più ci pensava, più Lope trovava inaccettabile l'aver evocato il caso al tribunale di Ocaña per finire col farsi governare Pagina 160
sanchez - La schiava di Granada.txt dalla stessa fretta. Decise quindi di agire secondo coscienza e di procedere un passo alla volta. Forse si stava giocando la carriera, ma preferiva correre quel rischio piuttosto che condurre quell'ultimo caso in modo indegno. Un inquisitore non smette mai di fare domande. Non solo agli altri, ma anche a se stesso, si diceva. Prima di tutto doveva convocare il chirurgo e i medici consultori del Sant'Uffizio. Era una mossa obbligata, per quanto avrebbe preferito non farlo. Da loro non si faceva nemmeno curare i calcoli renali, preferendo di gran lunga il suo amico, il dottor Salinas. Lo turbava l'idea di affidare la sua salute a quelle stesse persone che lo assistevano in tribunale; non riusciva a non pensare che di solito li consultava in merito alle condizioni fisiche degli accusati, per stabilire se potevano sopportare altre torture. Chissà se era anche per quel motivo che Lope aveva chiesto di essere affiancato da un altro inquisitore, benché questi fosse anziano e duro d'orecchio. Comunque, non appena il collega si sedette, Lope iniziò a parlare lentamente e con voce stentorea, in modo tale che anche lui potesse sentirlo: «Che si presentino al nostro cospetto il dottor De la Fuente, il dottor Villalobos e il chirurgo Juan Gomez». Dopo che i tre ebbero prestato giuramento, l'inquisitore ordinò loro di esaminare le parti intime dell'accusata nel cortile del carcere. Poi si girò verso lo scrivano e gli fece cenno di andare con loro, come testimone. Li aveva fatti allontanare per evitare una situazione che avrebbe potuto offendere il senso del pudore del collega, tuttavia questi disse: «Se lo avete fatto per me, vi ringrazio molto, tuttavia potevate risparmiarvelo: non solo ci sento poco, ma ci vedo anche così male che, da questa distanza, non distinguerei nemmeno la proboscide di un elefante». «Non l'ho fatto per voi, credetemi, ma perché fosse esaminata alla luce naturale», rispose Lope. «Intendo prendere tutte le precauzioni necessarie affinché questo caso sia basato su testimoni affidabili.» Quando i medici tornarono in sala, Lope domandò quale fosse il loro responso. Si avvicinò il dottor Villalobos, il quale, essendo il più anziano, faceva da portavoce. «Dopo aver esaminato la suddetta Elena de Céspedes, possiamo affermare che è una donna e che non riporta segni che indichino di essere stata ermafrodita. Inoltre niente ci fa pensare che possa aver avuto i testicoli o il membro.» «S'intende dunque che, se la suddetta Elena de Céspedes ha avuto rapporti con altre donne, deve averlo fatto con un...» Lope cercò il modo più adatto per indicare quei membri posticci che - stando a quanto aveva appreso da processi precedenti contro alcune lesbiche di Toledo venivano usati in quei casi. Si trattava di oggetti foderati in pelle di pecora conciata, morbida ed estremamente elastica, la stessa che veniva adoperata per guanti e mantici. «Sì, deve aver usato un fallo posticcio», confermò il medico. Dopo aver concluso l'udienza preliminare, Lope rimase a lungo nel suo ufficio a rivedere le carte. Voleva fare ordine nelle deposizioni prima dell'arrivo del procuratore fiscale. In quella fase, quando si dovevano raccogliere tutti i pareri riguardo a un caso, era normale che la testimonianza dei medici fosse così sfavorevole all'accusato, poiché in tal modo si controbilanciavano le dichiarazioni d'innocenza e si facilitava il compito dell'inquisitore, accelerando la conclusione del processo. Dopotutto era il loro lavoro. Ora, per concludere, l'inquisitore doveva stendere un rapporto, argomentandolo giuridicamente. Dopodiché si prendeva del tempo per studiare i fatti e presentare le accuse, che avrebbero dato inizio al dibattimento con l'avvocato Pagina 161
sanchez - La schiava di Granada.txt difensore. Infine si arrivava al giudizio, che di solito era ciò che più interessava a Mendoza: agire dopo aver valutato con attenzione le testimonianze e le ragioni di entrambe le parti in causa. Ma non gli era mai capitato di trovarsi di fronte a un caso così strano e imprevedibile. Se i medici che l'avevano certificato come maschio avessero confermato la precedente testimonianza, forse Céspedes avrebbe avuto una possibilità. Se invece si fossero ricreduti, attenendosi a quanto dichiarato dai consultori del Sant'Uffizio, era perduto. L'uso di un fallo posticcio erail reato più grave che si potesse commettere in una relazione intima tra donne, perché implicava la penetrazione. E la legge era molto chiara in merito: la pena era il rogo. Una volta sistemate le carte, sarebbe intervenuto il procuratore fiscale, l'avvocato Pedro de Sotocameño. Mendoza lo conosceva bene, era una vecchia volpe che lavorava per il Sant'Uffizio da oltre trent'anni. Era un giurista molto preparato, con la grande capacità di sapersi trarre d'impaccio da ogni situazione. Le sue argomentazioni, scritte in una prosa impeccabile, erano praticamente inattaccabili. L'accusata non poteva fare altro che sperare di essere affidata a un difensore all'altezza di un tale compito. L'inquisitore ordinò di far entrare l'avvocato, che, dopo aver chiesto la parola, iniziò a leggere l'atto d'accusa: «Io, Pedro de Sotocameño, procuratore fiscale del Sant'Uffizio, in questo e in ogni altro miglior modo e forma che di ragione posso e devo, accuso Elena de Céspedes, nota anche come Eleno de Céspedes, di essere sospetta d'eresia e di apostasia della nostra santa fede cattolica e della legge evangelica; di spergiuro; di disprezzo dei sacramenti, in particolare di quello del matrimonio; in quanto, tramite bugie e raggiri, inganni e mistificazioni, ha commesso i seguenti reati: «Nel corso della sua vita ha indossato alternativamente abiti maschili e femminili, in differenti occasioni, luoghi e situazioni. «Istigata dal demonio, senza avere la certezza che suo marito fosse morto, si è finta uomo e ha sposato una fanciulla. Inoltre si è procurata delle false prove per farsi certificare come maschio. E' da presumersi che a tal fine lei abbia corrotto i medici, i chirurghi e le donne che hanno testimoniato in suo favore. «Con le sue menzogne, ha voluto lasciare intendere che fosse ermafrodita e che col suo membro avesse conosciuto molte donne, finché non si era decisa a sposarne una. «Negando e occultando la verità, si e macchiata di spergiuro davanti a giudici e tribunali. Oltre a quanto sopra affermato, (è da presumere che abbia commesso ulteriori reati gravi, come è solito per le persone che tacciono o mentono con malizia, affinchè questo tribunale non ne venisse a conoscenza. «Per tutto ciò che ha commesso, chiedo che venga condannata alle pene più severe stabilite da questo tribunale per reati simili. Chiedo inoltre, nel caso in cui si ritenesse necessario, che venga sottoposta alla tortura. Giuro davanti a Dio che le mie accuse non sono frutto di malizia, ma vengono mosse col solo scopo di fare giustizia». Mendoza aveva letto la paura negli occhi di Céspedes quando aveva sentito il procuratore fiscale chiedere la tortura. Senza dubbio doveva essergli capitato di prestare soccorso a qualcuno rimasto offeso o invalido dopo essere passato per l'eculeo. Céspedes negò di essere un eretico, sostenendo di essere cristiano e battezzato. Ammise alcuni dei fatti descritti dal fiscale, ma non di aver corrotto i medici per potersi sposare con Maria del Caño. «Nego tutto ciò che non e compreso nelle mie precedenti deposizioni. è vero che mi sono sposato, ma non in disprezzo del matrimonio. E' vero che ho avuto rapporti sessuali con molte donne, ma perché in me Pagina 162
sanchez - La schiava di Granada.txt albergavano due nature. Non ho mai mentito, né ho mai volontariamente nascosto testimoni o reati da me commessi.» Mendoza ordinò quindi al segretario di consegnare una copia dell'atto a Céspedes, affinchè potesse rispondere alle accuse. A tale scopo dispose che gli venisse assegnato un avvocato del Sant'Uffizio. Dopo che la guardia gli ebbe fatto segno, l'inquisitore chiamò in aula Gomez de Velasco. Céspedes si girò verso la porta per vedere a quale difensore fosse stato affidato il suo destino. Entrò un uomo di altezza media e molto elegante, che quasi contrastava con quella squallida aula di tribunale. Una volta che gli furono letti i capi d'accusa e le risposte del reo, Gomez de Velasco chiese il permesso di conferire in privato con Céspedes. Dopodiché si rivolse all'inquisitore con la formula di rito. «La difesa consiglia all'accusata di confessare tutta la verità, perché possa liberarsi la coscienza e appellarsi alla clemenza di questa corte. E' ciò che più le conviene per la salvezza della sua anima e per il migliore svolgimento di questo processo.» «Ho già detto tutta la verità, e non ho nulla da aggiungere», ribatté Céspedes. Il procuratore fiscale rispose consegnando un plico con l'elenco dei testimoni che intendeva interrogare. Mendoza lo prese. «Accettiamo queste prove, salvo iure impedimentum et non admitiendorum * conformemente alle regole del Sant'Uffizio.» * Formula di rito che stava a indicare che non sarebbero state prese in considerazione prove che non fossero strettamente collegate al caso. (N.d.T.) E, dopo aver pronunciato la formula: «Sia fatta giustizia», sciolse la seduta. Nella solitudine della sua cella, Céspedes non riusciva a dormire. Continuava a pensare alla richiesta del procuratore fiscale, al fatto che avrebbero potuto torturarlo finchè non avesse confessato tutti i peccati di cui era accusato. Non era mai stato così spaventato; aveva paura dei passi che risuonavano nei corridoi, dei cardini che cigolavano quando qualcuno apriva una porta. Era abituato ad avere a che fare col dolore: quale chirurgo non lo era? Faceva parte del lavoro. Però una cosa era ferire per curare e ben altra era il danno calcolato e programmato per distruggere il corpo. Sarebbe stato capace di sopportarlo? O sarebbe finito con l'accusare qualche innocente, come facevano in tanti dopo che gli erano state dislocate le ossa e spezzato lo spirito? *** LE PROVE. I testimoni chiamati a deporre dal procuratore fiscale non fecero che confermare quanto già affermato durante gli interrogatori precedenti. L'ultimo fu il dottor Antonio Mantilla. Era stato lasciato apposta alla fine perché aveva sostenuto due versioni contraddittorie. Infatti, quando aveva esaminato Céspedes a Madrid, su richiesta del vicario Neroni, lo aveva certificato come maschio, per poi dire il contrario davanti al tribunale di Ocaña. Chiunque avrebbe tratto le medesime conclusioni: la prima volta aveva agito per avidità; la seconda per paura. Per tale ragione, Mendoza aveva ordinato che Mantilla esaminasse di nuovo il reo alla presenza dei medici consultori del Sant'Uffizio. «Che cosa mi potete dire dell'accusata?» chiese quindi l'inquisitore. «Che è una donna come tutte le altre. Non ci sono segni che indichino che possa essere stata maschio o ermafrodita», rispose Mantilla. Pagina 163
sanchez - La schiava di Granada.txt «E perché allora in precedenza avete affermato che Eleno de Céspedes aveva un membro ben fatto e con tanto di testicoli?» Il medico vacillò e prese a tremare. Dopo qualche momento, balbettò: «Non so cosa rispondere... non puo che essere stata un'illusione del demonio... ho toccato con mano il membro del reo... Ora mi rendo conto che era opera del demonio, perché non vedo altre ragioni per cui mi sarei potuto sbagliare tanto». Era un'accusa molto grave e apriva la strada a un terreno ampiamente battuto dal Sant'Uffizio: la stregoneria e il patto col diavolo. In circostanze normali, dato il gran numero di testimoni interrogati quel giorno, l'udienza sarebbe stata sospesa. Mendoza però non lo fece; congedò invece il medico e chiese al segretario di leggere all'accusata le dichiarazioni dei testimoni, dopo aver nascosto nomi, cognomi e altre informazioni, secondo le regole di segretezza del Sant'Uffizio. Il peggio arrivò quando il segretario lesse le dichiarazioni delle donne, dei medici e dei chirurghi che lo avevano esaminato a Yepes: tutti adesso consideravano Céspedes una femmina. «Che cos'ha da dire l'accusata a sua discolpa?» domandò infine Mendoza. «Che la loro autorità non è superiore alla mia, dato che io sono esperto di anatomia almeno quanto loro.» «E il chirurgo e i medici consultori del Sant'Uffizio? Loro assicurano che voi stiate mentendo e che abbiate avuto rapporti sessuali con altre donne servendovi di un membro posticcio.» Céspedes non si lasciò intimidire. «Loro non sanno di che cosa parlano.» Quando, due giorni dopo, si riprese l'udienza, Lope de Mendoza cedette la parola all'avvocato dell'accusata. Gomez de Velasco iniziò quindi a leggere la difesa che aveva preparato: «Io, Eleno de Céspedes, non ho mai detto ne fatto nulla che andasse contro la nostra santa fede cattolica; non mi sono sposato in disprezzo del sacramento del matrimonio, ma per vivere secondo i dettami di Nostro Signore e per realizzarmi come uomo. E ho ricevuto la licenza dal vicario di Madrid, dopo essere stato esaminato da medici e altri esperti. Il motivo per cui ora non possiedo più il membro è da attribuirsi a una cancrena. Per questo e per le altre prove a mia discolpa che sono state consegnate a questo tribunale, chiedo e supplico di essere assolto e rilasciato. E, nel caso in cui ciò non sia possibile, mi appello alla misericordia di questo tribunale, che sia clemente nello stabilire la mia pena. Inoltre presento una lista di persone che testimonieranno in mio favore». Lope de Mendoza vide che nell'elenco c'erano anche Maria del Caño e la vedova Ortiz. Avrebbero confermato la versione di Céspedes? Entrambe avevano avuto una lunga relazione con lui e, a differenza del dottor Mantilla, non si erano mai contraddette, il che conferiva maggior valore alle loro dichiarazioni. Maria del Caño era sua moglie, aveva tutto l'interesse a difenderlo, anche se, in molti casi, i testimoni preferivano ritrattare finchè erano in tempo. Nei suoi lunghi anni di servizio, Lope aveva visto di tutto e sapeva che non erano rari coniugi, padri o figli che rinnegavano i propri cari pur di non offrire le membra al carcere, all'eculeo o al rogo. Molto più incerta era la posizione di Isabel Ortiz, la serpe che aveva accusato Céspedes di averla chiesta in moglie. Era una mossa molto astuta presentarla ora come testimone. Infatti, se avesse dichiarato che Ceispedes era un uomo, la sua parola avrebbe avuto sicuramente maggior valore di cv quella di Maria. Pagina 164
sanchez - La schiava di Granada.txt Per questo Mendoza era molto curioso di conoscere le risposte delle due donne. Il segretario cominciò leggendo la testimonianza di Maria del Caño: «Quando le e stato chiesto di descrivere la sua relazione con l'accusata, ha risposto di non sapere chi sia Elena de Céspedes, ma di conoscere Eleno de Céspedes, suo marito». E brava la mogliettina. Questo sì che è un buon inizio, pensò l'inquisitore. «Alla domanda di descrivere il membro di Elena de Céspedes, ha poi risposto chiedendo che le venisse mostrata la deposizione che aveva reso di fronte a questo tribunale. Le e stata quindi letta la testimonianza da lei resa la mattina del 22 luglio di quest'anno davanti a Lope de Mendoza. La testimone l'ha confermata senza modificare nei aggiungere nulla e ha sottoscritto l'atto davanti ai miei occhi.» L'inquisitore rimase colpito dall'ingegno della donna, che aveva tenuto conto della precedente testimonianza, dell'importanza di non cadere in contraddizione e del suo diritto che le venissero letti gli atti del processo. «Vediamo ora cosa dice Isabel Ortiz.» Il segretario continuò a leggere: «A seguito della convocazione, si e presentata al cospetto del commissario del Sant'Uffizio della città di Madrid la vedova Isabel Ortiz, moglie del fu Francisco Cimbreno, fabbro, che vive nella parrocchia di San Francisco. Dice di avere quarant'anni. Ha dichiarato di conoscere il chirurgo Eleno de Céspedes, avendo prestato servizio in casa sua. E, per quanto ne sappia e abbia potuto constatare, il suddetto e un uomo, con un membro potente e perfettamente in grado di avere rapporti con una donna». Sarà pur stata una serpe, ma gli stava salvando la pelle. E continuava a chiamarlo Eleno, non Elena. Che carattere, pensò Mendoza. «Alla domanda se il membro del reo fosse vero o posticcio, ha risposto che le sembrava identico a quello del marito. Dopodiché ha giurato di mantenere il segreto, ma non ha firmato, perché non sa scrivere.» In tal modo confermava punto per punto la versione di Céspedes. chissà, forse le vedove erano più riconoscenti e disinteressate delle altre donne. L'inquisitore guardò il segretario e vide che gli restavano ancora molte testimonianze da leggere. Si rassegnò ad ascoltarlo. Si trattava di sette dichiarazioni rese a Yepes di fronte al commissario del Sant'Uffizio. Tutte confermavano che Céspedes era un maschio, con un membro di grandezza normale, se non maggiore di quella degli altri uomini. In una, particolarmente generosa, si leggeva persino: «Se anche gliene tagliassimo metà col coltello, gliene resterebbe abbastanza». Anche se due testimonianze di Yepes restavano ancora in sospeso, quelle sette erano davvero provvidenziali per il reo. Proprio nel momento in cui sembrava che i consultori del Sant'Uffizio, insieme con Mantilla e il fiscale Sotocameño, lo avessero messo con le spalle al muro, ecco che Céspedes trovava il modo di ribaltare la situazione. Dopotutto le testimonianze dei medici che ora gli attribuivano solo il sesso femminile si riferivano all'attuale condizione del reo, non a quella di quando si era sposato con Maria del Caño. E alcuni di loro, come Mantilla, si contraddicevano, avendolo precedentemente certificato come maschio. Mendoza non aveva mai incontrato nessuno capace di agire con pari abilità, coraggio e astuzia. O forse era la forza della ragione. Iniziava a pensare che Céspedes stesse dicendo la verità. *** contrattacco. Pagina 165
sanchez - La schiava di Granada.txt Non appena arrivarono le ultime due testimonianze, l'inquisitore si accorse subito di quanto fossero importanti, motivo per cui chiese di nuovo a Rodrigo de Mendoza di affiancarlo durante l'udienza. Questi accettò, sperando in tal modo di riuscire a concludere il processo una volta per tutte. La prima dichiarazione portava solo la firma di Juan de las Casas, unico medico del luogo, dal momento che l'altro testimone chiamato dalla difesa, il dottor Francisco Martinez, era appena morto. Juan de Las Casas dichiarava che il membro e i testicoli del reo erano come quelli di chiunque altro. Non aveva notato nessuna traccia di un organo femminile, anche se «c'era una piccola fessura. Non sono riuscito a capire di cosa si trattasse, perciò avevo chiesto di poter tornare a esaminarla meglio, ma non sono mai stato richiamato». Era una fessura che il fiscale Sotocameño non si sarebbe lasciato sfuggire e che, alla luce dell'ultima testimonianza, si sarebbe ben presto trasformata in una voragine impossibile da ignorare. La seconda dichiarazione era di un abitante di Yepes che sosteneva di aver visto il membro e i testicoli di Céspedes. Fin lì, niente di nuovo. Tuttavia, interrogato riguardo al sesso femminile dell'accusato, l'uomo aveva risposto: «Una volta ho sentito dire a una serva di Villaseca, che aveva lavorato alle dipendenze di Céspedes, che il padrone non le lasciava lavare le camicie perché erano sporche di sangue. Inoltre dovete sapere che a Ocaña c'era una guaritrice morisca che si faceva chiamare la Luna. Alcuni pensavano che fosse stata lei a trasformare Céspedes in un uomo, dal momento che aveva fama di essere una strega. Ed Eleno era suo amico, al punto che i due si vedevano spesso, sia di giorno sia di notte. Inoltre, non molto tempo fa, la Luna è fuggita in fretta e furia». Si apriva così un nuovo abisso di sospetti, che riguardavano in particolare i rapporti tra Céspedes e i moriscos, da sempre poco chiari. Un vero pozzo senza fondo. Quella testimonianza era così grave che da sola sarebbe stata sufficiente per trascinare qualcuno in tribunale. Dopo che il segretario ebbe terminato di leggere le dichiarazioni, Lope de Mendoza chiese spiegazioni al reo riguardo alla «fessura», ma Céspedes si rimise alle precedenti testimonianze. Riguardo a Maria de Luna, invece, disse: «E' vero, mentre cercavo di ottenere la certificazione come maschio, le ho chiesto aiuto, ma per suturare una ferita che avevo nelle parti intime, non per nascondere la mia natura. Lei mi ha consigliato di dare qualche punto e di spargervi sopra della polvere cicatrizzante». Una risposta davvero astuta: se fosse stata interrogata, Maria de Luna non sarebbe stata costretta a smentirlo. Dopotutto le aveva chiesto aiuto non per chiudersi il sesso, ma per curare una piaga. Céspedes aveva previsto anche quell'eventualità. L'inquisitore si aspettava che l'accusata continuasse ma, quando vide che restava in silenzio, la incalzò: «E' tutto?» «Non ho altro da aggiungere.» «Che sia dunque riportata in cella.» Non appena i due inquisitori rimasero soli, Lope si rivolse a Rodrigo. «Che cosa ne pensate?» «C'è un'accusa fondata di stregoneria, in cui è persino coinvolta una morisca. Dovete passare l'incarico al procuratore fiscale, pregandolo ufficiosamente di concludere il prima possibile. Il che, con simili armi, non sarà certo difficile.» «Sotocameño si sarà già mosso di sua iniziativa.» In effetti non tardò ad arrivare uno scritto in cui il fiscale ordinava al commissario del Sant'Uffizio di Yepes di consegnare al medico del luogo, Juan de las Casas, un mandato di comparizione, cui obbedire entro tre giorni, pena la scomunica e una multa di diecimila maravedí. Pagina 166
sanchez - La schiava di Granada.txt La stessa ingiunzione fu consegnata anche a Francisco Diaz, l'unico medico che avesse certificato Céspedes come maschio e che ancora non avesse ritrattato, dato che la posizione che ricopriva a Corte gli aveva evitato di comparire di fronte al tribunale civile di Ocaña. E' un contrattacco in piena regola. Questa volta non credo che Céspedes se la caverà facilmente, pensò Mendoza. Una volta in aula, Juan de las Casas confermò la sua precedente dichiarazione, ma la cosa non stupì l'inquisitore. Chi lo incuriosiva di più era Francisco Diaz. Non avrebbe osato rifiutare un mandato di comparizione del Sant'Uffizio e la sua testimonianza non sarebbe stata certo quella di un semplice dottore di paese, rivale di Céspedes. Sarebbe invece stata decisiva per il processo, dato che Diaz era un medico di chiara fama, il più grande esperto dell'apparato genitale. Mendoza l'osservò mentre entrava in aula: era sulla cinquantina, ben vestito e con la barba curatissima. Dopo avergli fatto dichiarare le sue generalità e prestare giuramento, l'inquisitore gli chiese: «Avete mai esaminato una donna che vestiva abiti maschili e si faceva chiamare Eleno de Céspedes?» «Su ordine del vicario di Madrid, Juan Bautista Neroni, ho esaminato un chirurgo che si faceva chiamare così, per determinare se fosse un uomo a tutti gli effetti», rispose Diaz. «E cosa avete visto?» «Un membro ben formato e di notevoli dimensioni.» «Avete trovato traccia di un organo femminile?» «Ho notato un segno sotto i testicoli, ma non mi e sembrato affatto un organo femminile.» «Qual è stata la vostra parcella per tale servigio?» «La solita che applico in questi casi, quattro o cinque reales.» Benché portasse il dovuto rispetto, rispondeva con l'aria di sdegno di chi sa di essere intoccabile. Per avere la meglio sul suo atteggiamento, all'inquisitore restava una sola cosa da fare. «Che il dottor Francisco Diaz esamini l'accusata insieme col dottor Juan de las Casas e alla presenza del segretario di questo tribunale, dei dottori De la Fuente e Villalobos e del chirurgo Gomez, consultori di questo Sant'Uffizio.» Detto ciò, uscì dalla stanza insieme con Rodrigo de Mendoza. I medici obbedirono, dopodiché ordinarono al reo di rivestirsi e di lasciare la sala, mentre il segretario faceva rientrare gli inquisitori. «Questa Elena de Céspedes è la stessa persona che avete esaminato a Madrid, la stessa che aveva "un membro ben formato e di notevoli dimensioni"?» domandò Lope. Juan de las Casas confermò. Diaz tentennò, poi assentì. «E ora considerate Elena de Céspedes maschio o femmina?» Entrambi i medici dichiararono che l'accusata era una donna. «Ci sono segni che possano indicare che sia stata uomo o ermafrodita? Qualche cicatrice che possa testimoniare il fatto che avesse il membro?» Entrambi negarono. «Com'è possibile, dunque, che abbiate certificato Eleno de Céspedes come maschio?» «L'unica spiegazione possibile è che siamo stati vittima di un'illusione del demonio o di qualche altro incantesimo capace d'ingannare la vista e il tatto», replicò Diaz. «Ammettete dunque di essere stati ingannati dal demonio o da un artificio di Elena de Céspedes? E che la verità è che l'accusata è sempre stata una donna?» I medici assentirono. «Deve aver fatto ricorso a un incantesimo che ha nascosto la sua natura di donna, Pagina 167
sanchez - La schiava di Granada.txt materializzando al suo posto un membro con tanto di testicoli», rispose Diaz. «L'ho certificata come maschio in buona fede.» «Che si legga ai testimoni quanto hanno finora dichiarato, ne diano questi ultimi conferma e appongano la propria firma, se comprendono e concordano col modo in cui le loro parole sono state verbalizzate», ordinò Lope. Poi, quando i medici stavano per lasciare la sala, aggiunse: «Elena de Céspedes vi ha citati come testimoni della difesa e presumo che pure il procuratore fiscale Sotocameño abbia intenzione di chiamarvi a deporre, quindi vi avverto che non potrete lasciare Toledo finchè non vi verrà esplicitamente concesso da questo tribunale». Rimasto solo, Lope de Mendoza rifletté sulla piega che aveva preso la vicenda. Quello era un duro colpo per Céspedes, dato che non restava più un solo medico disposto a certificarlo come maschio. Come se ciò non bastasse, si era aggiunto il sospetto che avesse avuto a che fare con guaritrici e streghe, aprendo la strada a un'accusa che, per quanto fosse sempre pericolosa, lo era ancora di più quando veniva lanciata davanti a un tribunale dell'Inquisizione. Un fiscale in gamba come Sotocameño non si sarebbe fatto scappare l'occasione di presentare un'istanza formale. E aveva a disposizione quasi tre settimane per costruire una solida accusa. *** PRIMA DELLA SENTENZA. «Il procuratore fiscale ha raccolto le accuse per Elena de Céspedes?» «Sì.» «E le dichiarazioni dei testimoni?» chiese Mendoza al segretario. «Pronte e in ordine.» «In tal caso, che si faccia entrare l'accusata.» Dopodiché l'inquisitore si rivolse a Céspedes. «Il fiscale di questo Sant'Uffizio sta per presentare le accuse. Sarebbe meglio se confessaste ora tutta la verità.» «Non ho nient'altro da aggiungere.» Lope de Mendoza fece dunque cenno all'avvocato che iniziasse a leggere. Sotocameño, dopo aver riassunto quanto dichiarato nelle precedenti udienze, concluse: «Io, avvocato Sotocameño, procuratore fiscale del Sant'Uffizio, oltre a quanto già affermato fino a oggi, accuso Elena de Céspedes di aver fatto un patto tacito o esplicito col diavolo, poiché, pur essendo donna, con l'aiuto del demonio ha dimostrato di essere un uomo e ha quindi preso moglie, in disprezzo del matrimonio. Per tale ragione chiedo che venga punita come merita. Chiedo inoltre, nel caso in cui si ritenesse necessario, che venga sottoposta a tortura». Lope de Mendoza accettò le accuse. «Qualcosa da aggiungere?» chiese poi a Céspedes. «Non ho niente a che fare col diavolo - che Dio me ne scampi e liberi - e ho sempre vissuto da buon cristiano. E nego anche il resto.» «V'informo che l'avvocato che vi ha assistito finora, Gomez de Velasco, è dovuto partire. perché il processo possa proseguire, vi ho affidato a Tello Maldonado.» Quando questi entrò in aula, Céspedes lo guardò avvilito: in confronto al suo precedente difensore, aveva un aspetto decisamente trasandato. L'inquisitore, che conosceva Maldonado da molto tempo, sapeva che la sua apparenza sciatta derivava dal fatto di essere rimasto scapolo troppo a lungo. Inoltre, data l'età, non esercitava quasi più; il tribunale si serviva di lui solo quando c'era bisogno di sostituire Gomez de Velasco, sempre oberato di lavoro. Quest'ultimo, che si era trovato Pagina 168
sanchez - La schiava di Granada.txt costretto ad accettare la difesa di Céspedes, aveva preferito occuparsi d'altro, dal momento che ormai la considerava una causa persa. Senza dubbio la sua defezione aveva fatto perdere ogni speranza al reo. Lope si rivolse quindi a Tello Maldonado. «Giurate di assistere l'accusata, di aiutarla ad agire secondo giustizia; di essere per lei un buon avvocato, e di mantenere il segreto su quanto verrà discusso in questa sede?» «Lo giuro.» «Che lo scrivàno legga gli atti dell'udienza preliminare e l'accusa del procuratore fiscale.» Dopodiché Lope si rivolse di nuovo a Maldonado. «Potete discutere in privato con l'accusata.» Per preparare la difesa, l'inquisitore concesse due settimane, periodo in cui Céspedes ebbe modo di apprezzare le doti del suo nuovo avvocato, il quale riuscì a presentare alla corte una dichiarazione che dimostrava punto per punto quanto aveva sostenuto fino allo sfinimento negli ultimi quattro mesi. «Io, Eleno de Céspedes, rispondo alle dichiarazioni dei testimoni e alle accuse del fiscale chiedendo una completa assoluzione, perché non mi sono mai finto uomo, né ho mai fatto un patto tacito o esplicito col diavolo. Al contrario sono sia maschio sia femmina, cioè ermafrodita. Per quanto ciò sia molto raro, è una condizione che non va contro natura, come affermato nel De divinatione di Cicerone, nella Naturalis historia di Plinio e nel De civitate dei di sant'Agostino. In questi testi infatti si legge che gli androgini appartengono all'ordine naturale delle cose e non sono dunque il frutto della stregoneria. «Dal momento che non ci sono prove che mi sia servito d'incantesimi, o che abbia fatto un patto tacito o esplicito col diavolo, tali accuse non sono dimostrabili. E, secondo la legge, in caso di dubbio non si deve presumere la colpevolezza, bensì l'innocenza dell'accusato. Nemmeno il fatto di essermi sposato con un uomo e poi con una donna costituisce una prova della mia colpa. Infatti quand'ero giovane prevaleva la mia natura femminile, mentre dopo il parto è prevalsa quella maschile. «Per tutte queste ragioni, chiedo e supplico di essere assolto da tutte le accuse che sono state mosse contro di me da parte del procuratore fiscale.» Lope de Mendoza aveva ascoltato attentamente le argomentazioni della difesa e le trovava ineccepibili. Non solo per quanto riguardava la forma, che si aspettava sarebbe stata perfetta, ma sospettava che Tello Maldonado avesse aiutato Céspedes anche a trovare le autorità da citare in difesa dell'ermafroditismo e a costruire la solida struttura del testo, che era riuscito a riassumere senza lacune un caso così complesso. Apprezzava inoltre il fatto che il reo fosse riuscito a mantenersi coerente per ben due processi. Si era difeso con le unghie e coi denti in una situazione che avrebbe indotto chiunque altro ad arrendersi. Lasciando da parte quei pensieri, l'inquisitore domandò a Céspedes se approvasse la dichiarazione appena letta dal suo avvocato. «L'accetto.» «Allora firmatela, così che possa essere aggiunta agli atti di questo processo e presentata al fiscale Sotocameño.» Quando terminò la seduta, era ormai chiaro che l'inquisitore fosse pronto per la sentenza. Nella solitudine della sua cella, Céspedes cercava di valutare la situazione. Dormire gli era impossibile, il rogo gli sembrava sempre più vicino. Conosceva il fetore della carne carbonizzata; rammentava ancora la terribile sensazione che lo aveva attanagliato quando aveva avvertito l'odore acre di qualche disgraziato arso vivo. Quanto più intenso sarebbe stato il proprio? Gli bastava il ricordo del puzzo Pagina 169
sanchez - La schiava di Granada.txt delle dolorosissime cauterizzazioni che si era fatto nelle parti intime. Ma quello non sarebbe stato niente in confronto all'orrore di vedere avanzare le fiamme, di sentirle lambire le gambe, di osservarle mentre annerivano la pelle, facendo crepitare le vene e le ossa fino a far saltar fuori il midollo; all'orrore di sentire, tra sofferenze atroci, la vita che a poco a poco abbandonava le articolazioni, i tendini e i nervi. A Ocaña aveva sentito dire che alle volte i condannati o i loro familiari si servivano di una guardia per corrompere il boia affinchè li strangolasse prima di accendere le fiamme, così almeno evitavano il supplizio del rogo. Céspedes aveva persino iniziato a pensare alla persona cui chiederlo. Forse l'aiutante del direttore del carcere. Sua moglie, che era incaricata di prendersi cura di Céspedes e di lavargli i vestiti, gli aveva detto che avevano cinque o sei figli: non avrebbero rifiutato una buona offerta. Il problema era che il boia non sempre aveva il tempo o l'occasione di portare a termine l'incarico, e allora nessuno poteva più aiutare quei disgraziati. Li si sentiva gridare tra le fiamme per più di mezz'ora. Non era un metodo sicuro. Pensò quindi a qualcosa di più rapido, ma cosa? Il veleno, che sarebbe stata la soluzione migliore, era impossibile da trovare in carcere. Quanto a usare un lenzuolo per impiccarsi, dubitava che avrebbe avuto successo e, una volta che le guardie lo avessero scoperto, non avrebbe avuto una seconda occasione per riprovarci. Forse la cosa migliore era procurarsi un oggetto affilato per recidere una grossa arteria, come quella femorale. Ricordava quanto sangue aveva perso quand'era stato ferito alla coscia al ponte di Tablate. Aveva ancora la cicatrice, la stessa che si era riaperta durante la rissa con l'uomo senza naso. *** SALINAS. Alla fine della messa, Lope de Mendoza fu il primo a uscire dalla cattedrale. Era una domenica mattina soleggiata; benché fosse novembre, non faceva affatto freddo e il dottor Salinas ne aveva approfittato per invitare l'inquisitore a pranzo nel suo cigarral, la dimora signorile dalla cui terrazza si godeva di una splendida vista sulla città. Poteva permetterselo: i suoi pazienti erano gli uomini più ricchi e potenti di Toledo. Il medico, che si era attardato a salutare un commerciante e la moglie, si diresse verso Mendoza, il quale, vedendolo avanzare con passo leggero e sicuro di se, pensò che l'età non gli faceva un baffo. Sa come prendersi cura di sé, il briccone. L'inquisitore ammirava l'eleganza con cui Salinas sfoggiava la cappa e il berretto italiano, così come ne invidiava l'ingegno e la disinvoltura. Era un uomo di mondo, discreto, abituato a viaggiare; un perfetto cortigiano. Sapeva di poter contare su di lui per un consiglio sincero e non edulcorato dal falso rispetto per il suo incarico d'inquisitore. Si parlavano senza peli sulla lingua, grazie alla confidenza che avevano raggiunto in molti anni di sincera amicizia. «Dal tempo che ci avete messo ad andarvene, sembra quasi che abbiate officiato voi la messa», lo accolse Mendoza. «Non sono mica un eremita come qualcuno, ho anch'io i miei parrocchiani.» «Vorrete dire 'parrocchiane'», ribatté Lope, ben consapevole della fama di seduttore di cui godeva il medico. «Come si vede che siete nato per scavare nelle coscienze. Venite, il mio servo Garces ci aspetta coi cavalli sul retro della cattedrale.» Il servitore li aiutò a montare in sella e li seguì a breve distanza, su una mula. «Sperò, Salinas, di non essere trattato alla stregua dei musicisti, che li si fa arrivare a cavallo e li si congeda a piedi», disse Mendoza mentre si dirigevano verso il ponte sul Pagina 170
sanchez - La schiava di Granada.txt fiume Tajo. «Non temete, Garces vi accompagnerà al ritorno per riportare a casa il cavallo. Ma ora basta lagnarvi e ditemi piuttosto come state.» «Se vi riferite ai miei calcoli, ne ho talmente tanti che potrei costruire un'altra Toledo.» «Avete preso la medicina che vi ho prescritto? Dovrebbe darvi sollievo.» «Mi darebbe più sollievo liberarmi delle preoccupazioni, smettere finalmente di lavorare.» «Ne riparleremo quando vi sarete ritirato. Non vi ci vedo a trascinare le vostre stanche membra in uno di quei posti in cui vanno i canonici a far riposare le ossa; né a rinunciare al potere e all'autorità.» «Non siamo più temuti come un tempo.» «Ah, no? Prendete Garces. Suo fratello si occupa delle mie vigne. Poco tempo fa ha ricevuto un messaggio da un vostro collega che desiderava incontrarlo. Tremava così tanto che alla fine si è ammalato. L'inquisitore ha dovuto chiarire che desiderava solo comprare alcune delle sue pere, che gli erano state tanto raccomandate da un vicino. Sapete allora cos'ha fatto il fratello di Garces? Ha sradicato il pero e l'ha messo su un carro, dicendo che non voleva più avere nessun motivo di essere contattato dal Sant'Uffizio.» Mendoza rise di gusto. «Non credo che la gente mi tema. Non più di quanto temano voi. Sono solo i pregiudizi degli eretici.» «Di tanto in tanto mi capita di curare qualcuno che è passato per le mani del Sant'Uffizio. Direi che non si tratta solo del pregiudizio degli eretici.» «Meglio che lasciamo perdere, Salinas. Avete comprato qualcosa di nuovo?» chiese Mendoza non appena entrarono nel cigarral. Si riferiva alla collezione di quadri e incisioni. Non era molto estesa, ma i pezzi erano davvero notevoli, di grande gusto. Il medico indicò una piccola incisione. «E' di Durer.» «Che animale e questo, così stravagante?» «Una bestia africana. I più fantasiosi sostengono che sia un unicorno, ma sembra che sia più appropriato chiamarlo "rinoceronte".» «Non si finisce mai d'imparare, con tutte queste nuove scoperte. E' più simile a un'esposizione di corazze e armature che a una creatura di Dio. Di solito Lui è più misericordioso.» D'un tratto apparve Petra, la serva, per annunciare che il pranzo era servito. I due uomini si sedettero a tavola. «Che cos'è?» chiese Mendoza prima di portarsi il cucchiaio alla bocca. «Una minestra 'moderna'.» «E farà bene a un vecchio bacucco come me?» «Provare per credere. Gli ingredienti non potrebbero essere più tradizionali: spinaci, bietole e borragine. Ma, dato che le verdure di per se sono insipide, le si fa bollire nel brodo di carne. Poi si aggiunge del latte di capra, zenzero e pepe a piacere.» «E' molto saporita.» «E quando mai avete mangiato male in questa casa? Coraggio, ditemi cosa vi affligge.» Mendoza esitò un attimo, poi si decise. «Ha a che fare col sesso.» «Volete parlarmi di sesso? Era ora.» «Aspettate prima di ricominciare con le vostre ciance, e versatemi un bicchiere di vino, che ne ho proprio bisogno.» Mendoza iniziò quindi a raccontare i punti più oscuri del processo di cui si stava occupando, stando ben attento a non far nomi e a omettere quei dettagli che avrebbero potuto violare il segreto inquisitoriale. «Andiamo, don Lope, voi mi state parlando di quel tale, Pagina 171
sanchez - La schiava di Granada.txt Céspedes», lo interruppe il medico. «Come avete fatto a indovinare?» «Perdio, tutti conoscono la sua storia per via del processo di Ocaña: è già difficile mantenere un segreto, figuriamoci tra medici. Alcuni miei colleghi sono stati chiamati a testimoniare.» «D'accordo. Ciò che mi preoccupa è che domani dovrò riunire i dodici membri della consulta de fe * per emettere la sentenza. * Organo formato dagli inquisitori, un rappresentante dell'arcivescovo e dai «consultori», esperti di teologia e diritto canonico, il cui compito era stabilire il verdetto, che doveva essere unanime. (N.d.T.) E, dopo tutti questi mesi di prove e controprove, sono più confuso che mai.» «Chi sono gli altri membri della consulta?» «Mah, i soliti...» «... i soliti vecchi, testoni e coriacei. E sempre pronti a lamentarsi delle novità e dei cambiamenti «Credo che insisteranno per il rogo, vista la notorietà del caso.» «Sapete quali sono le vostre responsabilità. Siete il cane da guardia della fede, dovete fare in modo che noi non ci smarriamo.» «Non prendetevi gioco di me, Salinas. Se non raggiungeremo un accordo, dovremorimetterci al Consiglio dell'Inquisizione Generale e Suprema.» «C'è chi si sfregherebbe le mani al solo pensiero.» «Lo so. Quando la discussione si arenerà, molti dei miei colleghi vorranno scrollarsi di dosso il morto.» «Ed è quello che voi invece volete evitare.» «Potete scommetterci: perderei il controllo di questo processo.» «A Ocaña lo avrebbero già condannato da tempo.» «Non voglio commettere lo stesso errore. Devo andare sino in fondo, ascoltare tutte le argomentazioni.» In quel momento entrò Petra e chiese il permesso di ritirare le scodelle della minestra e di portare in tavola la carne. Quando lo vide, a Mendoza brillarono gli occhi. «Cappone armado! Quanto mi piace!» Sapeva quanto fosse laboriosa quella ricetta, che prevedeva prima di avvolgere il cappone con fette di pancetta e lasciarlo cuocere a fuoco lento, poi, a metà cottura, lo si doveva togliere dal fornello, levare la pancetta e versare sulla carne dei tuorli d'uovo battuti con zucchero, prezzemolo, mandorle e pinoli. Infine lo si riavvolgeva nella pancetta e si completava la cottura. Salinas si alzò e tagliò il cappone con destrezza, separando le ali dall'articolazione e incidendo i fianchi in modo da non rovinare le cosce. «Come si vede che siete un esperto di anatomia», commentò Mendoza. Poi rimasero in silenzio a gustare la carne. Salinas riempì di nuovo il bicchiere all'ospite. Non ci voleva molto per capire cosa preoccupasse tanto Lope e i suoi colleghi: la questione sessuale. E, dato che l'inquisitore non si decideva a parlare, cercò di andargli incontro, concentrandosi sul punto più compromettente. «Come hanno fatto così tanti medici a certificarlo reo come maschio? E pensare che tra loro c'è pure Francisco Diaz.» «Poi però ha ritrattato, come tutti gli altri», precisò Mendoza. «Niente è meglio di un medico per dare incertezze.» «Non ricomincia-ate, Salinas. E una cosa molto seria.» «Che altro poteva fare il povero Diaz? Rischiava solo di essere accusato di corruzione.» «Badate bene però che gli unici che non si sono mai Pagina 172
sanchez - La schiava di Granada.txt contraddetti sono stati proprio Céspedes e la moglie.» «Ma la testimonianza della moglie non è affidabile.» «Certo, perché oltretutto era vergine. Ciò non toglie però che sia stata molto coraggiosa. Sospetto che lei creda davvero che Céspedes sia un uomo, altrimenti sarebbe stata la prima a sentirsi tradita e l'avrebbe abbandonato di certo, evitando così di essere accusata di complicità.» «C'è anche un'altra donna che non ha ritrattato, vero?» «Vedo che sapete proprio tutto. Sì, e per di più e vedova. Avrebbe dovuto essere ostile al reo, visto che si è opposta alle nozze sostenendo che Céspedes era già fidanzato con lei. E tuttavia ha testimoniato in suo favore, ha addirittura affermato che lui la penetrava esattamente come faceva il marito.» «Ah, così è di questo che si occupano i signori inquisitori durante gli interrogatori? Di certo non vi annoiate. Qual è, dunque, l'accusa principale?» «A mio parere, il matrimonio tra due donne.» «Il che ci conduce al nefando crimine di sodomia.» «Se fossimo in Aragona. In Castiglia l'Inquisizione non si occupa di questo delitto, che rimane di competenza della giustizia ordinaria. A Ocaña sì che avrebbero potuto metterla al rogo con simili accuse. Noi no. Dobbiamo giudicarla per i delitti che ci competono, come il disprezzo di un sacramento. Inoltre l'accusata continua a sostenere di aver avuto un membro. è mai possibile?» «Poteva avere ciò che noi medici chiamiamo nymphe o pudendum, che ad alcune donne compare durante il parto, come una sorta di pene.» «E' quello che hanno detto gli altri dottori. Inoltre hanno aggiunto che il racconto dell'accusata è plausibile, anche se non sembra essere il suo caso. Credono infatti che, durante i rapporti, si sia servita di un membro posticcio.» «Quindi, se ho ben capito, torniamo alla questione iniziale. Tutto dipende dalla possibilità che questa persona possa essere stata in alcuni momenti donna e in altri uomo - cioè ermafrodita o androgino - e che la vostra giurisprudenza ammetta questa eventualità.» «Le autorità che l'accusata ha citato in sua difesa le danno ragione. Tra questi c'è anche Plinio, il quale afferma che la Natura, coi suoi capricci, può produrre tutto l'immaginabile. E mette in relazione simili alterazioni dell'organismo col caldo africano.» «E questo cosa c'entra con l'accusata?» «Sua madre era africana. Perciò ho bisogno che mi diciate se esistono o no gli ermafroditi. Non a livello giuridico, che è tutta un'altra faccenda, ma dal punto di vista medico, considerando le nostre attuali cognizioni di anatomia.» «Vostro malgrado, don Lope, esistono.» «Suppongo che vi rendiate conto di cosa significhi.» «Una grande sfida. Gli ermafroditi ci obbligano a mettere in dubbio la differenza tra i sessi.» «E da lì la famiglia e l'intero ordine sociale, che e ciò che mi compete», aggiunse Mendoza. «Vedo che avete intuito dove sto andando a parare. E' la società che ci impone di essere o maschi o femmine. Non la Natura, che è più liberale e generosa di noi.» «Il sesso è un mistero.» «Un abisso insondabile. Vi siete mai soffermato a osservare una gatta in calore? Se non c'è un gatto maschio nei paraggi, si struscia contro il padrone di casa, anche se si tratta di un uomo. Il sesso supera le barriere tra specie. Tale è il suo potere.» In quel momento arrivò Petra col dolce, deliziose mele cotogne cotte con vino e spezie. «Sono un po' amare. Mi sa che hanno preso troppo il sapore dei chiodi di garofano e della noce moscata», commentò Salinas dopo averne assaggiata una. «Se Pagina 173
sanchez - La schiava di Granada.txt aggiungessimo una spolverata di zucchero e un pochino di cannella?» «Perfetto.» Il medico suonò una campanella per richiamare la serva. «Petra, portaci zucchero e cannella, per favore. Ah, e anche la bottiglia di acquavite che ho messo in fresco.» La ragazza tornò pochi minuti dopo con quanto le era stato richiesto. «E' delle vostre viti?» domandò Mendoza annusando il liquore. «Direttamente dalla mia distilleria», confermò Salinas. «Questa sì che vi aiuterà a sciogliere i calcoli e a schiarirvi le idee.» «Mi farebbe davvero bene.» «Concordo. Usciamo nella terrazza rivolta a sud.» Una volta seduti al sole, si riposarono un po', ammirando la città adagiata sull'orizzonte come una lucertola sulla sua calda roccia. Mendoza si sentiva bene lì, abbandonato alla leggera euforia indotta dall'alcol, dall'amicizia e dal libero scambio d'idee che si affollavano le une sulle altre senza preoccuparsi della forma. Dopo un po', Salinas ruppe il silenzio. «Ora tocca a voi, signor inquisitore. Che cosa ne dite dal punto di vista del diritto canonico? Le vostre eccellenze prevedono l'ermafroditismo, incluso l'aspetto del matrimonio?» «Sì.» «Permettete loro di sposarsi? Che liberali!» «Se un ermafrodita desidera sposarsi, deve sottoporsi a un esame volto a determinare quale sia il sesso prevalente e convolare a nozze con una persona del sesso opposto. Inoltre deve fare rinuncia formale dell'uso dell'altro sesso, altrimenti incorrerebbe nel delitto di sodomia.» «Ci sono dei precedenti?» «Antonio de Torquemada, nel suo Giardino di fiori curiosi, quando descrive i fenomeni naturali, cita anche due casi di ermafroditismo, uno discusso a Siviglia e l'altro a Burgos.» «E come sono finiti?» «Quello di Siviglia è stato assolto, quello di Burgos condannato al rogo.» «Ecco ciò che si definisce un criterio oggettivo. Come mai tanta differenza?» «perché, come vi ho già detto, l'ermafrodita è tenuto a scegliere il sesso prevalente e attenersi a esso, senza mai fare uso dell'altro. Il caso di Siviglia era di questo tipo. L'ermafrodita di Burgos, invece, dopo aver scelto di essere donna, continuava a usare il membro in segreto.» «A me sembra che il caso Céspedes sia molto diverso», sostenne Salinas. «perché non si tratta solo di sesso. Credo che la sua sia prima di tutto una storia d'amore.» «Che cosa volete dire?» «Che una persona col passato di Céspedes, che ha vissuto tutto quello che ha vissuto lui, non rischierebbe tutto né per convenienza, né per denaro, né per migliorare la propria posizione sociale. Solo per amore.» «Come fate a esserne tanto sicuro?» «Céspedes avrebbe potuto scrollarsi di dosso tutte le accuse già a Ocaña, ma non l'ha fatto per proteggere la moglie.» Mendoza rimase perplesso, con gli occhi un poco lucidi per l'alcol. Salinas diede un'occhiata alla bottiglia e si accertò che contenesse ancora dell'acquavite. Poi riempì il bicchiere all'ospite. «Ma cosa parlo d'amore, con un misantropo come voi.» L'inquisitore sospirò. «Non tutti saltiàmo da un letto all'altro come qualcuno. Ho giudicato molti casi nella mia vita e mi sono sempre vantato di saper riconoscere un uomo onesto. Céspedes è riuscito a passare per maschio in situazioni compromettenti come un campo di battaglia, il talamo Pagina 174
sanchez - La schiava di Granada.txt di una donna sposata e quello di una vedova... per non parlare del suo mestiere di chirurgo, dove ha bagnato il naso anche ai più esperti.» «Be', se si comporta da uomo, chi potrà mai affermare che non lo sia? Questo non è solo un caso relativo all'ermafroditismo, ma ci spinge a chiederci fino a che punto possiamo disporre del corpo che ci è stato concesso, fino a che punto siamo padroni del nostro destino.» «E dove vanno a finire il lignaggio, l'onore e la purezza del sangue?» «Non è più come un tempo, quando la testa era rivolta solo all'indietro: oggi si guarda avanti.» «Certo, gran belle parole. Non mi sarei aspettato di meno dal dottor Salinas. Però è a me che è capitata questa gatta da pelare. Capite ora perché sono così confuso?» «La vita è breve, l'arte vasta, l'occasione istantanea, l'esperimento malcerto, il giudizio difficile.» «L'aforisma migliore d'Ippocrate.» «Dunque, temo che alla fine tutto sia nelle mani della consulta.» «Sì. Non sarà per niente facile emettere una sentenza ben argomentata giuridicamente. Non possiamo fare la figura degli ignoranti.» «E nemmeno farvi fregare da una mulatta, ex schiava, forse morisca e Dio solo sa cos'altro. Sarebbe davvero il colmo. Soprattutto dopo due processi e tutto questo profluvio di carta.» «benché un dottoruncolo impertinente lo metta in dubbio, noi siamo l'Inquisizione di Toledo, non un branco di zotici. Affidare il caso al Consiglio dell'Inquisizione Generale e Suprema vorrebbe dire riconoscere la nostra incompetenza.» *** IL VERDETTO. «Il documento che ha in mano l'inquisitore non arriva alla dozzina di pagine», sussurrò il difensore all'accusata poco prima che le venisse letta la sentenza. «E' tanto o poco?» «Molto poco.» «Ed è un bene o un male?» «Dipende. Può essere un segnale positivo come molto negativo. Pregate che nel preambolo che riassume il caso non compaiano parole come "sodomia", "stregoneria" o "eresia", altrimenti è molto probabile che non usciate viva di qui.» Il segretario si alzò. «Nell'udienza pomeridiana di questa Santa Inquisizione, addì, 19 novembre 1587, noi, gli inquisitori don Rodrigo de Mendoza e don Lope de Mendoza, il titolato Andrés Hernandez, vicario generale di questo arcivescovado; il titolato Pardo, podestà di Toledo, il titolato Bautista Velàzquez, il titolato Serrano; i canonici don Pedro de Carvajal, Navarro, Caldera e Juan de Obregon, del Consiglio dell'illustrissimo arcivescovo; fra Pedro de Bilbao, capo del convento della Santissima Trinità di Toledo; fra Juan de Ovando, dell'ordine di san Francesco, in tutta la Repubblica Cristiana contro l'eretica pravità inquisitori generali della Santa Sede Apostolica, ci siamo riuniti in questa consulta de fe per esaminare le accuse mosse dal titolato Sotocameño, procuratore fiscale di questo Sant'Uffizio, a Elena de Céspedes, nata nella città di Alhama, che svolge il mestiere di chirurgo, la quale, essendo stata imprigionata nel carcere di Ocaña per diversi delitti, dal momento che alcuni di essi erano di competenza del Sant'Uffizio, è stata convocata davanti a questo tribunale...» Céspedes ascoltò per l'ennesima volta il breve resoconto della sua vita, così come lui stesso aveva cercato di Pagina 175
sanchez - La schiava di Granada.txt riassumerla. In quel momento avvertì la medesima vertigine che immaginava provassero le persone sospese sul bordo dell'abisso, pronte a essere accolte tra le braccia della morte. E tutta la sua esistenza gli passò davanti agli occhi, come in un retablo o una processione di ombre. Rivide l'infanzia vissuta come schiava ad Alhama, l'ingiusta marchiatura delle guance cui era stata sottoposta, il matrimonio col muratore, il figlio che aveva abbandonato, la morte di sua madre, la marcia verso Granada e l'apprendistato come sarta... Poi quella sfilata di fantasmi prese ad accelerare: don Alonso del Castillo, il fontaniere Ibrahim, lo splendido corpo della meravigliosa Ana de Albanchez, che continuava a brillare di luce propria nonostante tutto, perché tale è il potere del desiderio, che illumina una vita intera col calore della passione; il ruffiano Heredia, che l'aveva costretta a vestirsi da uomo... E poi l'orrore della guerra delle Alpujarras, il cammino fino a Madrid, l'incontro provvidenziale col chirurgo León, la prova del fuoco del suo nuovo sesso con la vedova Isabel Ortiz. Fino al momento in cui Maria del Caño non era entrata nella sua vita, cambiandola per sempre. Dov'era Maria? Ricominciò ad ascoltare la lettura della sentenza quando sentì pronunciare il suo nome. «... ha preso in sposa Maria del Caño di fronte alla Santissima Romana Chiesa, per mano del sacerdote di Ciempozuelos, senza che la fanciulla sapesse che si stava unendo in matrimonio con un'altra donna.» Céspedes si tranquillizzò nel veder cadere tutte le accuse mosse contro la moglie. Seguirono le testimonianze dei medici e la dichiarazione finale del fiscale, che gli fece temere il peggio, dato che vi compariva anche l'accusa di aver fatto un patto col diavolo. Dopodiché iniziò la sentenza propriamente detta. Céspedes trattenne il respiro. «Dopo aver udito le testimonianze e consultato uomini di lettere e di morale integerrima, Christi nomine invocato, contro la suddetta Elena de Céspedes, abbiamo stabilito quanto segue: «Se avessimo dovuto o voluto seguire la legge alla lettera, l'avremmo punita severamente. Ma le ragioni dell'accusata ci hanno spinto verso una sentenza più misericordiosa. «perché a lei serva di lezione - e sia d'esempio agli altri affinché non commettano simili truffe o inganni ordiniamo che, come punizione per i suoi crimini: «Faccia autodafè come penitente, con coroza e insegne che mostrino la sua colpa, nel luogo scelto per la pubblica lettura di questa sentenza di abiura de levi. «Il giorno seguente le siano date cento frustate nella pubblica piazza di questa città e altre cento nel paese di Ciempozuelos, dove dovrà essere riletta questa sentenza nella chiesa parrocchiale, durante una domenica o un dì di festa. «Che sia reclusa per dieci anni nell'ospedale che le verrà indicato, perché presti servizio non retribuito presso l'infermeria. «Che l'accusata compia quanto le e stato ordinato o sia punita severamente. E così diciamo, pronunziamo, sentenziamo, dichiariamo e ordiniamo in questo e in ogni altro miglior modo e forma che di ragione possiamo e dobbiamo». Dopodiché il difensore accompagnò Céspedes all'uscita. «Avete avuto fortuna. L'abiura de levi e la formula per i reati minori, la pena più lieve imposta dall'Inquisizione. E anche cento frustate non sono poi tante.» «Però dovrò prestare servizio per dieci anni in un ospedale.» «E' la solita pena imposta alle donne colpevoli di disprezzo del matrimonio. Ringraziate il cielo che non vi hanno trattato come un uomo, perché altrimenti le galere non ve le avrebbe tolte nessuno, e sopravvivere alla condanna del Pagina 176
sanchez - La schiava di Granada.txt remo è quasi impossibile. Ringraziate pure che, in un caso tanto estremo come il vostro, vi abbiano concesso il beneficio del dubbio per quanto riguarda l'ermafroditismo.» *** AUTODAFE'. Passarono un anno e un mese prima dell'esecuzione della sentenza. Un lungo anno di carcere in cui Céspedes ebbe modo di meditare in solitudine sui cocci di un'intera vita andata in frantumi, sulla distruzione di ciò per cui aveva lottato con tanto coraggio. Si vedeva così tornare alla schiavitù della condizione femminile. E, quel che era peggio, sarebbe stato umiliato e frustato anche a Ciempozuelos, l'unico luogo in cui aveva conosciuto un po' di felicità. Nei momenti più bui era anche arrivato a pensare che sarebbe stato meglio morire. Se non era andato sino in fondo nel proposito di togliersi la vita era stato solo per Maria, che non'àveva mai perso la speranza: se si fosse suicidato, sarebbe stato come abbandonarla al suo destino. Nel frattempo, l'inquisitore Lope de Mendoza aspettava la celebrazione dell'autodafé per eseguire la sentenza. Sapeva bene quanto fossero complicati e costosi simili riti solenni. Ciò che aveva attirato maggiormente l'attenzione dell'inquisitore in quei giorni era stato un evento accaduto a Granada, che aveva fatto molto scalpore. Nel demolire la torre Turpiana, l'antico minareto della moschea principale, era stata scoperta una cassa di piombo. Dentro vi avevano trovato alcune reliquie e una piccola pergamena scritta in arabo, che conteneva una profezia di san Giovanni sulla fine del mondo. Se Lope de Mendoza era venuto a conoscenza dell'accaduto, lo doveva al fatto che la traduzione era stata affidata ad Alonso del Castillo. Era troppo tardi per fare supposizioni sul ruolo giocato dall'interprete nella vita di Céspedes, però l'inquisitore non poteva fare a meno di dubitare di lui, a causa delle sue origini moresche. Qualcuno pensava di aver riconosciuto la sua mano dietro tutta quella vicenda. Si bisbigliava persino che i documenti trovati nella cassa non fossero affatto antichi, ma che lui li avesse falsificati, in una sorta di tentativo disperato per riavvicinare l'islam e la religione cristiana. C'era addirittura chi si chiedeva se quel desiderio di riconciliazione non fosse stato lo scopo che aveva dettato fin dall'inizio le macchinazioni di Castillo e la sua corsa al potere. Ma Lope non aveva avuto molto tempo per le speculazioni. Più si avvicinava il giorno dell'autodafé, più il carcere dell'Inquisizione si riempiva di prigionieri. Avevano persino dovuto chiedere aiuto agli altri distretti per riuscire a emettere abbastanza condanne, in modo da organizzare un evento che fosse degno della presenza di Sua Maestà. I lavori per l'allestimento del palco per la cerimonia erano iniziati già un mese e mezzo prima di Natale. Da plaza de Zocodover, dove si sarebbe tenuto l'autodafé, proveniva un martellìo continuo, mentre le autorità municipali, episcopali e inquisitoriali annunciavano l'evento per le vie della città. La sentenza era attesa per l'indomani, domenica, e tutta la città si preparava a una notte di veglia. Sarebbe stata una giornata interminabile. All'una iniziò lo stillicidio agonizzante delle campane, lento e solenne, che chiamava i fedeli alla messa per i colpevoli. Alle quattro, prelevarono Céspedes dalla sua cella per riunirlo al resto dei condannati, ai quali, tra grida e continue proteste, fu fatto indossare il sanbenito. Poi li fecero mettere in fila. Un'ora prima dell'alba, li portarono ad assistere alla messa domenicale; dopodiché iniziò la processione, condotta dai soldados de la zarza, il corpo speciale dell'Inquisizione. Seguivano il crocifisso parrocchiale e i penitenti, a due a Pagina 177
sanchez - La schiava di Granada.txt due. Agli angoli delle strade, i battitori ricordavano che chiunque avesse assistito alla cerimonia avrebbe guadagnato quaranta giorni d'indulgenza, e che in quell'occasione era vietato portare armi e andare a cavallo. Poi sfilavano i condannati al rogo, con lo scapolare pieno di fiamme e demoni. più indietro, Céspedes avanzava insieme coi condannati alle pene minori, infastidito dalla coroza, l'alto cappello conico che era stato costretto a portare; indossava una tunica corta dello stesso giallo dello scapolare, con una candela accesa e altri segni che indicavano i suoi delitti. Uno squadrone di lancieri li seguiva a breve distanza. Dietro si accalcava un gruppo di cantori e musicanti, seguiti dai familiari del Sant'Uffizio, con indosso i loro vestiti migliori, che portavano le insegne. Lope de Mendoza era tra gli inquisitori, che chiudevano la processione. A metà strada, due soldati fecero cenno a Céspedes di fermarsi. C'era talmente tanta gente lì ammassata che si riusciva a stento a procedere. All'improvviso risuonò sul selciato lo scalpiccìo dei cavalli della guardia reale, che si aprivano un varco tra la folla. Erano seguiti dai tamburini e dai pifferi che annunciavano il Consiglio di Castiglia. E tra loro c'era il re, attorniato da nobili, dame e cortigiani, dall'arcivescovo e da altri dignitari. Il sovrano salutò i sudditi che gli si accalcavano intorno togliendosi il cappello. Poi il corteo proseguì la sua lenta e faticosa sfilata. Arrivarono all'immenso palco e i nobili presero posto; chi si era potuto permettere un sedile si accomodò sulle tribune, mentre gli altri dovettero accontentarsi di restare in piedi. Cominciò l'autodafé. Per prima cosa ci fu il sermone, di pigra e prevedibile eloquenza, di cui si occupò un pallone gonfiato sul quale circolava ogni genere di pettegolezzo. Un altro ambizioso arrampicatore sociale. Poi il giuramento solenne di fedeltà al Sant'Uffizio, cui tutti i presenti risposero con un roboante: «Amen». Quando arrivò il turno di Céspedes, lui quasi non se ne rese conto. Le guardie lo sollevarono per aria e lo depositarono di fronte al pulpito. Era vestito da uomo. Un relatore procedette alla lettura della sentenza. A quel punto, Céspedes tornò in sé; osservò quella moltitudine accalcata, compatta, entusiasta, pronta ad assecondare qualsiasi gesto che testimoniasse la sua devozione. Percepiva la curiosità! morbosa che aveva provocato il suo caso: dietro gli alabardieri di guardia al palco reale, il sovrano discuteva animatamente con l'arcivescovo, mentre veniva servito loro un rinfresco. Dopodiché il reo dovette fare abiura de levi di fronte al governatore di Toledo e al vicedecano, che fungevano da testimoni insieme coi rispettivi consiglieri e canonici. E lì, davanti a tutti, una guardia gli fece indossare abiti femminili, tra gli schiamazzi della folla che celebrava la fine di quel caso che aveva fatto tanto scalpore. Lope de Mendoza non approvava quella pagliacciata, ma aveva dovuto cedere alle obiezioni di chi mormorava che la sentenza fosse stata troppo leggera. Doveva ammettere che Elena stava affrontando tutto ciò con grande coraggio, anche se gli sembrò d'intravedere un'espressione di sollievo quando le guardie la presero di nuovo per le braccia e l'allontanarono dal palco, per poi rinchiuderla in una piccola gabbia, dove sarebbe stata esposta sino alla fine della cerimonia. Solo allora l'inquisitore si rammentò che zocodover in arabo significava «mercato di bestiame». Poi Elena fu ricondotta in abiti femminili al carcere del Sant'Uffizio. Il giorno seguente, lunedì, maestro Marcos, il boia, la condusse per le strade di Toledo dandole le cento frustate previste dalla sentenza. L'aveva messa in groppa a un asino pomellato, a petto nudo eccezion fatta per lo scapolare, Pagina 178
sanchez - La schiava di Granada.txt dove era segnato il suo delitto, ed esposta al pubblico ludibrio, che non mancava mai in questi casi. Poco dopo, Lope de Mendoza ordinò a uno dei suoi uomini di condurre Elena de Céspedes a Ciempozuelos, perché scontasse la pena anche lì. Elena portò le insegne anche durante il viaggio, che coincise col giorno di Natale. Non mancarono gli insulti lungo il cammino. Una volta a Ciempozuelos, il caso volle che la sentenza fosse eseguita mercoledì 28 dicembre, il giorno dei Santi Innocenti. Maria del Caño e la sua famiglia si erano barricati in casa. Ines non smetteva di piangere. Era il culmine dei maltrattamenti subiti dai compaesani che, quando non li insultavano apertamente, giravano la faccia dall'altra parte per evitare di salutarli. Com'era d'abitudine, era stato organizzato un autillo, un piccolo autodafé. La gente era arrivata persino dai paesi vicini, per la notorietà del caso o perché avevano conosciuto Céspedes quando ancora esercitava come cerusico. Elena sarebbe stata umiliata negli stessi luoghi in cui un tempo aveva goduto di grande rispetto. Non doveva restare memoria del suo buon nome. Nessun ricordo di pace o di felicità. Sarebbe stato tutto spazzato via. Per questo tutti si sorpresero - e si scandalizzarono quando Maria del Caño trovò il coraggio di assistere all'umiliazione pubblica della persona che lei continuava a considerare suo marito, mentre Céspedes riceveva cento frustate in groppa a una mula nera, con tanto di scapolare, insegne e coroza. Il boia, maestro Francisco, nel frattempo leggeva il proclama: «Questa è la giustizia che il Sant'Uffizio dell'Inquisizione di Toledo ordina sia imposta a questa donna, perché, essendo già sposata, ha ingannato una giovane e l'ha presa in moglie. Come pena per i suoi delitti è stata condannata alle frustate e a dieci anni di reclusione in un ospedale, dove dovrà prestare servizio come infermiera. "Chi la fa, la paga"». Maria riuscì a sopportare quello spettacolo solo per il forte desiderio di rivedere il marito, dato che non sapeva quando avrebbe avuto un'altra occasione. Rimase lì, immobile, abbracciata alla sorellina, in quella via di dolore. Quando Céspedes alzò la testa per guardarla, la moglie gli fece il cenno che avevano concordato: lo avrebbe aspettato, qualunque cosa fosse successa. Dopodiché, Elena fu riportata a Toledo. All'inizio dell'anno fu trasferita all'Hospital del Rey, vicino a plaza Mayor. Era un ospedale modesto, di poco conto, che accoglieva sia malati sia viandanti in difficoltà, sia anziani sia invalidi, malati incurabili, feriti e poveri in generale. Sarebbe rimasta lì per dieci anni. Una volta uscita di lì, gli anni migliori della vita sarebbero stati dietro le spalle. E lo stesso sarebbe accaduto a Maria del Caño, le cui illusioni sarebbero state presto spazzate via. ***** EPILOGO. Era passato solo un mese dal giorno in cui Elena de Céspedes era stata rinchiusa in ospedale, quando Lope de Mendoza ricevette una visita del dottor Salinas. «Che cosa succede?» domandò l'inquisitore notando l'agitazione dell'amico. «Venite con me.» «Di che si tratta?» «Non mi credereste. Dovete vederlo coi vostri occhi.» S'incamminarono per le viuzze di Toledo finchè non arrivarono nei pressi della cattedrale, dove Lope iniziò a notare un insolito affollamento. «Che succede?» Pagina 179
sanchez - La schiava di Granada.txt ancora. «Aspettate e vedrete.» Man mano che si avvicinavano a plaza Mayor, la gente non faceva che aumentare. L'inquisitore attribuì la causa di quel tumulto al fatto che fosse un giorno festivo, che aveva richiamato in città anche gli abitanti dei villaggi vicini. Una volta arrivati davanti all'Hospital del Rey, la calca si fece impenetrabile, al punto che dovettero farsi largo a spintoni. «Insomma, Salinas, che cos'è tutto questo trambusto?» «Ve lo spiegherà il direttore», rispose il medico. Non appena entrarono nel suo ufficio, il direttore dell'ospedale andò loro incontro con aria disperata. «è per Elena de Céspedes», spiegò all'inquisitore. «Come?» «La confusione è iniziata quando quella donna è stata condotta qui. So che avete ordinato che scontasse la pena in questa struttura perché volevate esserci d'aiuto, tuttavia, dal momento in cui lei ha messo piede qui dentro, è andato tutto a gambe all'aria. I pazienti vogliono essere visitati solo da lei.» «Tutta questa gente è venuta per Elena?» «Sì.» «Non è possibile!» «Infatti. Per questo vorrei chiedervi di portarla via, di modo che questo ospedale possa tornare a operare in tutta tranquillità.» Mendoza promise di pensarci su. «Credete davvero che tutte queste persone siano qui per farsi visitare? Oppure sono venute per soddisfare la loro curiosità morbosa?» domandò a Salinas sulla via del ritorno. «Dicono che conosca molto bene la professione.» «Ma è una donna, una donna che svolge il mestiere di chirurgo!» «Sì, una donna che, se non fosse stato per un cavillo legale, nessuno avrebbe riconosciuto come tale. Almeno non dal modo in cui opera. E questa ne è la conferma.» «Forse abbiamo anche noi una parte di colpa, per averle dato così tanta notorietà.» «E per aver commesso un altro piccolo errore di valutazione: le avete lasciato esercitare la sua professione. I medici dell'ospedale non devono essere molto contenti di vedere che i pazienti preferiscono Elena a loro.» «Che cosa possiamo fare?» «Non lasciatela in centro. Trasferitela all'Hospital de San Lazaro. E' fuori delle mura, sulla strada per Madrid... non credo che ci andrà molta gente.» Era una buona idea. San Lazaro era specializzato in malattie infettive, come la tigna, la scabbia o la lebbra. La sua rendita era così modesta che i pazienti in condizioni migliori venivano mandati a fare l'elemosina in strada, anche se erano obbligati a sbattere delle tavolette di legno a mo' di nacchere, per segnalare la loro presenza e prevenire il contagio. Si sbagliavano entrambi. Un paio di settimane dopo, si ripresentò la stessa situazione. Una volta scoperto dov'era stata trasferita Elena, la gente aveva smesso di andare all'Hospital del Rey per accorrere in massa a quello di San Lazaro. Con l'aggravante che in questo caso si trattava di un ospedale per le malattie infettive. A quel punto intervennero sia le autorità civili sia quelle ecclesiastiche. Non solo l'esecuzione della sentenza non faceva che causare problemi, ma la sua funzione esemplare gli si era ritorta contro: Elena de Céspedes non era stata ricoperta d'infamia, ma era all'apice del suo prestigio, quasi in odore di santità. Non avrebbe mai osato sperare di avere così tanti clienti. Non aveva nemmeno più bisogno di andarli a cercare a dorso di mulo per boschi e paesini, le Pagina 180
sanchez - La schiava di Granada.txt bastava aspettare che giungessero a Toledo da ogni angolo di Spagna. «Lope, questa situazione sta screditando tutti, Inquisizione e ospedali inclusi!» esclamò Rodrigo de Mendoza. «E, come se non bastasse, si tratta di una donna! Dovete trovare un rimedio il prima possibile.» «Però la sentenza le impone di prestare servizio in un ospedale.» «Trovatene uno abbastanza lontano da Toledo.» «Stavo pensando a Puente del Arzobispo.» «Molto bene. Andremo a parlare col canonico della cattedrale che si occupa di quell'ospedale e gli esporremo il caso.» Il religioso li accolse con deferenza e, da ciò che emerse da quell'incontro, Lope pensò di aver trovato il luogo adatto. «Quanti abitanti ha Puente del Arzobispo?» aveva domandato l'inquisitore. «Circa duemila. La popolazione è aumentata da quando abbiamo costruito il ponte.» Vedendo l'espressione sorpresa sul volto di Lope, il canonico aveva spiegato: «è un'opera imponente, con due torri di tutto rispetto, che vengono usate per vigilare il passo e riscuotere il pedaggio». «Amministrate voi l'ospedale?» «Ci occupiamo dei finanziamenti. Come il ponte, anche questo edificio è stato costruito due secoli fa da don Pedro Tenorio, che all'epoca era l'arcivescovo di Toledo. è di proprietà del Capitolo; noi riscuotiamo i pedaggi e devolviamo parte del ricavato all'ospedale, che si occupa principalmente dei pellegrini di ritorno dal monastero reale di Santa Maria de Guadalupe.» «Cioè disponete di ampi mezzi.» «Il ponte ci garantisce entrate considerevoli. Per il solo passaggio di bestiame è previsto un pedaggio di quattromila maravedí a testa. L'ospedale è bello e ben costruito, con un patio per gli uomini e uno per le donne. Può contare su un fondo di quasi duemila ducati, più alcuni pascoli di cui riceve l'affitto - oltre a decime e a regalìe - e alcuni terreni, edificabili e non, che superano le ventimila are. L'ala riservata all'orfanotrofio riceve non poche elemosine. L'ospedale è pulito e spazioso, e ci lavora un ottimo gruppo di medici e chirurghi; abbiamo inoltre una farmacia e un cimitero.» «Potremmo sistemare Elena de Céspedes nell'infermeria femminile?» «Direi proprio di sì.» L'inquisitore mandò quindi a chiamare il segretario e gli dettò il provvedimento.«Toledo, addì, 27 marzo 1589, l'inquisitore Lope de Mendoza, che in quest'occasione officia da solo, essendosi però consultato in precedenza con don Rodrigo de Mendoza, suo collega, dichiara che la presenza di Elena de Céspedes nella città di Toledo continua a costituire un problema, poiché, essendosi sparsa la voce che la suddetta svolge con grande abilità la professione di chirurgo ed è in grado di curare molte malattie, la gente accorre in massa e non permette che la donna trascorra serenamente i suoi anni di reclusione. Ordino quindi che Elena de Céspedes sconti il resto della pena nell'ospedale di Puente del Arzobispo. Pertanto incarico Lucas del Barco, familiare di questo Sant'Uffizio, di consegnarla al direttore del suddetto ospedale.» La mattina seguente, il 28 marzo, Lope de Mendoza si affacciò alla finestra del suo ufficio, nella sede dell'Inquisizione, per ammirare il risveglio primaverile di quella pianta che Salinas gli aveva portato dall'America. Sentendo che qualcuno aveva aperto la porta, guardò al piano di sotto e vide Lucas del Barco scortare una donna che si stringeva al petto un fagottino di stracci. Non gli ci volle molto per riconoscere Elena de Céspedes, Pagina 181
sanchez - La schiava di Granada.txt che era stata condotta lì il giorno prima per facilitarne il trasferimento. La osservò allontanarsi lungo la strada. Che cosa ci porteranno questi tempi moderni? si domandò mentre puliva la pianta. Era una bella giornata di sole, le rondini volavano nell'aria tiepida e ovunque si vedevano i segni della primavera incipiente. Nelle campagne spuntavano i primi boccioli, indicando il ritorno alla vita. Elena era stata condannata a prestare servizio per dieci anni, ma simili condanne di solito si riducevano della metà. Magari anche a meno, vista l'eccezionalità del caso, che qualcuno si sarebbe presto preso la briga di raccontare a quelle anime caritatevoli di Puente del Arzobispo, a cominciare da Lucas del Barco, che aveva un talento naturale per far circolare le notizie. In ogni caso il direttore dell'ospedale prima o poi avrebbe esaminato il fascicolo di Elena. E, non appena si fosse sparsa la voce, la gente sarebbe accorsa anche lì, e l'ospedale non avrebbe prolungato la sua permanenza più dello stretto necessario. Se la sarebbe scrollata di dosso alla prima occasione. Una persona che aveva dimostrato le capacità di sopravvivenza di Céspedes sarebbe comunque caduta in piedi. Lope de Mendoza si diresse alla biblioteca e prese in mano il Vesalio. La conclusione del volume lo sconvolgeva sempre. Lo stralcio del Discorso sulla dignità dell'uomo di Giovanni Pico della Mirandola in cui si riportava ciò che Dio aveva detto ad Adamo, invitandolo a fare uso del dono più prezioso: la libertà di determinare da sé la propria natura, il proprio destino. Cos'era tutto il resto, a confronto di una simile sfida? *** INDICE. Prologo. parte prima Figlia, sposa e madre. parte seconda Sulla frontiera. parte terza La prova del sangue. parte quarta Rinascita. parte quinta Maria. parte sesta Il corpo del reato. Epilogo.
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