MIGNON G. EBERHART LA SCARPINA DI VETRO (The Glass Slipper, 1938) Personaggi principali: BRULE HATTERICK chirurgo RUE HA...
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MIGNON G. EBERHART LA SCARPINA DI VETRO (The Glass Slipper, 1938) Personaggi principali: BRULE HATTERICK chirurgo RUE HATTERICK moglie di Brule MADGE figlia di Brule STEVEN HENDRIE cognato di Brule ALICIA PELHAM fidanzata di Steven ANDY CRITTENDEN aiuto di Hatterick GUY COLE avvocato JULIE GARDER ELIZABETH DONNEY infermiere GROSS maggiordomo RACHEL cameriera KENDAL autista Tenente ANGEL MILLER FUNK della polizia di Chicago 1 Fu Steven a parlare della "scarpina di vetro", e proprio la sera in cui ebbe inizio quell'orribile storia, la sera in cui Rue Hatterick avvertì il primo segno di disastro: la sera del diciotto novembre, quando la Flagstad interpretava Isotta, seguita, subito dopo, dal primo gran ballo della stagione. Una di quelle fredde e piovose serate di Chicago in cui le strade diventano così brillanti da riflettere la luce dei grattacieli. Rue si diede un'ultima occhiata allo specchio, poi andò alla finestra e scostò le pesanti tende di taffetà grigio che, come tutte le altre cose della casa, erano state scelte dalla prima signora Hatterick. Brule non era tornato per cena, e ancora non lo aveva sentito entrare: avrebbero finito col fare tardi! Guardò, o cercò di guardare, in strada, ma il vetro rifletté soltanto la sua immagine in uno scintillante abito blu punteggiato d'argento. Un'immagine offuscata dall'oscurità della notte e dalla pioggia, che a lei parve strana: non si riconobbe in quella donna carina, snella, con le spalle nude e
la testa bionda senza un capello fuori posto. Nel riflesso ondeggiante, la bocca era un po' troppo rossa, le sopracciglia scure un po' troppo pesanti e serie, e gli occhi blu genziana addirittura sfavillanti. Ripensò alle molte altre volte in cui, come in quel momento, si era vista riflessa nello scuro luccichio di una finestra: le passarono davanti agli occhi tutte le notti di ansia passate nel grande ospedale: si vide aprire o chiudere i battenti, soffermandosi un istante per appoggiare la guancia contro il vetro freddo per riposarsi un po', e vedersi, allora come in quel momento, diversa da com'era. A quel tempo i suoi capelli biondi non erano acconciati così artificiosamente: erano tirati all'indietro e raccolti a nodo sulla nuca sotto la cuffia inamidata; l'uniforme da infermiera era bianca, rigida, inappuntabile, molto severa, diametralmente opposta all'artificiosa bellezza dell'abito aderente che indossava ora. Allora aveva il viso acqua e sapone senza ombra di trucco, perché il direttore capo dell'ospedale, il vero imperatore di quel piccolo mondo terribilmente importante, il dottor Brule Hatterick, era contrario al trucco sul viso delle sue infermiere. Invece lo apprezzava sul volto della moglie, se fatto bene e con mano leggera. A lui non piaceva l'espressione seria e pensierosa che lei prendeva a volte così improvvisamente, quando gli occhi frangiati dalle ciglia scure diventavano intensamente blu e franchi, penetranti e molto seri. Sfortunatamente, troppe volte, in quel breve periodo di matrimonio, lei era stata come in quel momento: così seria, diceva Brule, come se stesse assistendolo (come aveva fatto molte volte) durante un'operazione particolarmente difficile. Era una cosa che a lui dava fastidio: lui la voleva gaia e sorridente e, anche se non l'aveva mai detto, un po' frivola. Una bambola, ecco; una bambola contenta delle belle cose che lui le dava al posto dell'amore. Forse perché così si sarebbe sentito la coscienza più tranquilla. Non che lei avesse diritto ad aspettarsi amore da parte sua: era stato tutto ben specificato, e quello non rientrava nel contratto. Nel contratto... sì, era stato molto difficile prendere il posto di un'altra donna, cercare di assolvere gli impegni che prima erano stati assolti dalla ben nota e socialmente influente signora Hatterick, Crystal Hatterick, il cui ritratto continuava a stare appeso al posto d'onore nella biblioteca di Brule. Rue lasciò ricadere le tende. Con la fronte contro il vetro freddo, accostata a quella donna estranea che vi vedeva riflessa, riuscì a intravedere i lampioni stradali e la sagoma della lunga e lussuosa berlina ferma davanti alla porta d'ingresso. La coupé di Brule, però, non si vedeva. Forse poteva essere arrivato mentre lei stava vestendosi.
Era nervosa. Ritornò alla toeletta, si passò una mano sui capelli pettinati in modo molto sofisticato, esitò un attimo a controllare che il vestito cadesse bene e che non vi fosse qualcosa fuori posto che gli occhi di Brule, che vedevano sempre tutto, potessero scorgere e disapprovare. Poi, con un gesto impulsivo che non aveva ancora imparato a controllare, afferrò i guanti e la borsetta ricamata, e si voltò per uscire dalla stanza. Quella grande stanza tappezzata di seta, era stata il capolavoro dell'arredatore assunto e "guidato" da Crystal Hatterick. A Crystal era molto piaciuto l'antico e sottile tappeto francese coi suoi fiori dai colori spenti, il divanetto in raso coi cuscini di pizzo, il minuscolo caminetto di marmo rosa col pendolo in bronzo e la specchiera dorata, il tavolino da toeletta arzigogolato con i grandi volant in "points d'esprit", le stampe francesi sulle pareti grigio pallido, il grande letto a baldacchino con le lenzuola in "crèpe de chine" tutte ricamate... Persino il bagno attiguo era tutta una sinfonia di rosa pallido, e i grandi armadi degli abiti erano tutti foderati di seta e molto profumati. La prima volta che era entrata in quella stanza, Rue aveva immediatamente odiato il persistente profumo di rosa che in essa stagnava; continuava a odiarlo e non era ancora riuscita a eliminarlo del tutto; stava incollato a quella stanza come il ricordo della presenza di Crystal. Davanti alla porta c'era un paravento francese, tutto amorini dorati e damine nello stile di Fragonard. Ripensò alla prima volta che era entrata in quella camera: si vide soffermarsi esitante sulla soglia, perché la persona che andava a vegliare non era una persona qualunque, era la grande signora Hatterick, e lei, Rue, era stata prescelta per quell'incarico proprio dal celebre dottor Brule Hatterick. Aveva provato un istante di panico davanti a quel paravento, ancora con la mantella azzurra da infermiera sulle spalle e la piccola valigetta di cuoio in mano. Come sarebbe stata la signora Hatterick? Sarebbe stata una paziente difficile? Lei sarebbe riuscita a soddisfare le esigenze del grande Hatterick? Aveva dovuto far ricorso a tutto il suo coraggio per passare oltre il paravento e avvicinarsi alla donna malata, pallida, tutt'altro che piacevole a vedersi, che l'aspettava nel grande letto soffice. Come infermiera aveva fatto fiasco, perché Crystal era morta; ma agli occhi di Brule aveva avuto successo, perché dieci mesi dopo lui le aveva chiesto di sposarlo. E l'aveva sposata e portata come padrona nella casa in cui era entrata come infermiera. Nella casa di Crystal. L'autunno non era stato molto difficile. Dopo essere stati in vacanza, lei
era riuscita ad adeguarsi alla routine di quella dimora, anche se non era ancora del tutto in grado di prendere le redini del personale assunto e addestrato da Crystal. Ma Steven l'aiutava con calma e con gentilezza. Il problema più grosso era Madge, ma quello era previsto. Era stato proprio per Madge, come le aveva detto Brule in quel colloquio estremamente franco, che lui desiderava sposare lei, Rue. Ma ora era arrivato l'inverno e stava per avere inizio la "Season", la stagione mondana, e Brule contava su di lei per condurre la stessa vita di prima, quella che Crystal aveva organizzato con grande tatto e "savoirfaire". Solo che Crystal... Crystal era nata in quella casa; erano stati il suo denaro e la sua posizione che avevano lanciato Brule tanto in alto. Aveva più anni di lui, conosceva tutti quelli che potevano aiutarlo a farsi strada, era socia dei circoli più influenti della città, conosceva da sempre vita e miracoli dell'ambiente bene di Chicago, sapeva chi contava e chi no. E non aveva commesso il minimo errore. Rue, invece, aveva tutto da imparare, e doveva imparare in fretta, sia perché lo richiedeva la posizione di Brule, sia perché Madge, che aveva quindici anni, avrebbe dovuto debuttare in società nel migliore dei modi. Ma in questo l'avrebbe aiutata Alicia. Alicia Pelham, che era stata la migliore amica di Crystal e che stava per sposare Steven. Probabilmente Brule era già arrivato e stava vestendosi in camera sua, in fondo al corridoio. Quella era una delle prime grandi serate della stagione, non avrebbe certamente voluto essere in ritardo! Avrebbe sicuramente fatto tutto il possibile per sostenere Rue nella sua prima apparizione in pubblico in veste di signora Hatterick... Sì, era decisamente nervosa. Ma solo le sue colleghe di ospedale se ne sarebbero accorte. Loro la conoscevano bene: il nervosismo le rendeva gli occhi più scintillanti, le faceva tenere la testa più eretta e i movimenti più controllati. Nel corridoio incontrò Steven, che si fermò a guardarla. «Vai all'Opera?» «Sì.» «E al ballo che segue?» «Sì.» Steven sorrise. Steven Hendrie, alto, bruno, con le tempie che cominciavano a tendere al grigio, era un tipo molto distinto vicino ai quaranta. Era anche illustre, perché era un compositore di fama malgrado la semiinvalidità che lo affliggeva da anni. Il suo grande pianoforte, uno splendi-
do Steinway patinato dal tempo, era in un angolo soleggiato del pianterreno sistemato a studio appositamente per lui; le continue e incessanti note chiare facevano talmente parte dell'ambiente, che si era quasi inconsci del suono. Steven, fratello (o fratellastro?) di Crystal e paziente di Brule, era un ospite fisso di casa Hatterick, e non si era ancora sposato anche se il suo fidanzamento con Alicia Pelham datava ormai da anni. Probabilmente a Crystal aveva fatto piacere averlo vicino, specie quando era diventato famoso... E, dopo, aveva continuato a vivere lì anche perché la casa era tanto sua che di Brule, dato che il testamento di Crystal l'aveva assegnata a tutti e due. Comunque lui pagava la sua parte di spese in modo da non dover dipendere dalla generosità del cognato. A Rue era simpatico perché era stato il suo primo amico. Non sapeva quanto lui conoscesse esattamente di quel suo strano contratto con Brule, ma riteneva che supponesse qualcosa essendo un individuo molto sensibile. E, specialmente in quegli ultimi tempi, l'aveva aiutata in mille piccoli modi. In effetti era Steven che le rendeva sopportabile la vita, ed era anche l'unico che sapesse sempre come prendere Madge. Rispose al sorriso dei suoi occhi bruni, sorridendo a sua volta. «Sei splendida. Schiapparelli?» «Sì. Il mio primo.» Rue chinò il volto a guardare il taglio perfetto dell'abito. Quasi di colpo, gli occhi di Steven da dolci divennero estremamente seri. Toccando la stoffa del vestito con delicatezza, disse a voce bassa: «Piccola Cenerentola... a volte mi chiedo se la scarpina di vetro non ti stringa troppo il piedino.» Cenerentola... Sì, il nome si adattava alle circostanze, per quanto riguardava il passato, perlomeno. Ma ora era la padrona di casa, e di tutto quanto di bello e di lussuoso c'era in essa. E sotto, nell'atrio, c'era una cameriera che l'aspettava per avvolgerle sulle spalle una giacca da sera di zibellino scuro incredibilmente soffice, e fuori c'era un'auto lunga e scintillante che attendeva col motore acceso e l'autista già al volante. Un anno fa, pensò con una punta di struggimento, si schiacciava tra la calca per conquistarsi un posto sulla metropolitana e afferrarsi a un corrimano, e doveva farsi largo a forza per passare nelle strade affollate... Provò una piccola stretta al cuore a quel pensiero, eppure avrebbe dovuto invece sentirsi felice: sposata al primario di un ospedale importante, era ora la giovane e bella signora Hatterick, piena di gioielli, di abiti creati da sarti
di grido, di belle pellicce, di tutto quello che una ragazza può desiderare. Steven continuava a fissarla senza ombra di sorriso, come se volesse realmente sapere qualcosa che Rue non sapeva dirgli. Come se aspettasse una risposta, ma la risposta era proprio quello che Rue non era in grado di dare. Evitò lo sguardo: «No, non stringe. Sai se Madge è disotto?» Era un chiaro rifiuto a rispondere. Lo sguardo di Steven si fece più grave. «Tu non lo ammetteresti mai» constatò con freddezza. «Sì, Madge è ancora disotto. Vuoi vederla?» «Pensavo di farle vedere il mio vestito. Chissà se Brule è arrivato.» «Non ancora.» L'uomo guardò l'ora. «Temo farete tardi. Sarà stato trattenuto da un paziente, ma non ti preoccupare del ritardo: darà modo a Brule di mostrarti a tutti in tutto il tuo splendore. Non c'è niente come l'entrare in un palco a metà dell'"ouverture" per avere su di sé gli sguardi e i binocoli di tutto il teatro. E devo ammettere che gli farai onore. È la tua prima apparizione in pubblico, vero?» «S... sì.» «Non preoccuparti. Sei bellissima. Oh, ecco Madge.» Madge stava salendo con lo sguardo abbassato, fingendo di non aver visto Rue e Steven sull'alto della scala. Era il ritratto vivente di Brule in versione femminile: flessuosa, ben fatta, le guance rosee, la mandibola larga e volitiva mascherata dalla rotondità del volto giovane. Aveva capelli folti e lunghi che le scendevano sulle spalle come una criniera scura, la bocca sempre un po' imbronciata, piccole mani un po' squadrate che davano, come tutto il resto, un'impressione di forza. Non disse nulla. Fu Steven a parlare, a fare da ponte fra le due, come aveva spesso fatto in quei due mesi: «Che ne dici, Madge: non è bella?» Madge fu costretta a fermarsi. Nel vestitino col collo di pizzo bianco sembrava una bambina timida, ma quando sollevò le folte e lunghe ciglia, lanciò a Rue un'occhiata tutt'altro che infantile: «È un abito bellissimo. L'ha scelto mio padre, vero?» «No, l'ho scelto io, ma spero gli piaccia.» «Dev'essere bello avere tanti soldi da spendere quando non se ne ha mai avuti.» «Madge!» la rimproverò Steven. «Non fare la bambina, e smettila di comportarti da sciocca!» Madge si voltò di scatto e salì al secondo piano senza una parola. «Mi spiace, Rue. Ha dei modi orribili e un carattere che è ancora peggio.
Assomiglia a Brule, ma è esattamente come Crystal.» «Zitto. Potrebbe sentirti... In fondo non posso biasimarla. Non deve essere facile accettare che il posto di tua madre venga occupato da un'altra. Lei adorava sua madre.» «Madge è troppo giovane e troppo egoista per amare qualcuno. Non farle caso, Rue. Cambierà.» Una porta si aprì e si chiuse pesantemente. Era la grande porta d'ingresso del pianterreno: «Dev'essere Brule» esclamò Rue. «Gli vado incontro. Buonanotte, Steven. Mi spiace che non venga anche tu.» «L'avrei voluto anch'io. Divertiti, cara. E non aver paura: andrà tutto bene.» Steven capiva sempre tutto. Capiva che era nervosa, che era spaventata da quanto l'attendeva: il sollevarsi degli sguardi e dei binocoli e gli immancabili bisbigli: guarda la nuova signora Hatterick, l'infermiera che lui ha sposato dopo la morte di Crystal. E senza nemmeno lasciar passare molto tempo. Dicono che fosse l'infermiera che la vegliava al momento della morte... Com'è giovane! È proprio vero che non si può mai dire... Mentre si domandava se almeno qualcuno si sarebbe dimostrato gentile, Steven le prese la mano e gliela sfiorò leggermente con le labbra, quasi per incoraggiarla. Rue gli sorrise piena di gratitudine e iniziò a scendere la grande scala elicoidale con l'orlo dell'abito che sfiorava i gradini. Sarebbe piaciuta a Brule? Ma non era Brule che l'aspettava in biblioteca. Era Andy Crittenden, il dottor Andy Crittenden. Rue si fermò sulla soglia. Aspettandosi di vedere Brule, era rimasta sconcertata nel vedere invece una persona alta e magra che riconobbe immediatamente dalle spalle e dai capelli biondi. L'uomo dava di schiena alla porta e stava versandosi un whisky, ma lei lo riconobbe immediatamente perché la sua figura le era familiare quanto quella di Brule. Era scattata in piedi centinaia di volte quando lui era entrato in una camera d'ospedale in tutta fretta, ma con l'aria tranquilla e un sorriso affascinante. Brule era profondamente apprezzato dalle infermiere, talvolta anche odiato e sempre temuto e obbedito all'istante, ma Andy era adorato: pendevano dalle sue labbra, cercavano scuse per poter andare a parlare con lui. Era giovane, sollevava le ciglia in modo buffo, dava ordini precisi e anche bruschi ma sempre senza boria. E con le donne aveva un fascino, un modo di fare, che andava dritto al cuore. Ma non a quello di Rue, che odiava gli uomini che si comportavano in quel modo con le donne, e che le altre infermiere, in
quel loro mondo di sole donne, adoravano. E odiava in particolare Andy Crittenden dopo aver fatto da infermiera a Crystal. Ma lui, a parte gli anni, era come un figlio per Brule, del quale divideva lo studio e del quale era stato prima il "protetto" e poi l'amico. Anche dopo la morte di Crystal e le cose che doveva aver pensato, Brule era rimasto il miglior amico di Andy. Gli mandava dei pazienti, gli permetteva di sostituirlo quando lui aveva casi più delicati su cui intervenire... se aveva un confidente, pensò Rue, quello non poteva che essere Andy. Brule era sensibile al suo fascino, esattamente quanto le sue pazienti, e a questo lei non poteva opporsi in nessun modo. Onestamente doveva ammettere che Andy era un bravo medico, tanto che avrebbe potuto benissimo fare la brillante carriera che aveva fatto, anche senza l'aiuto di Brule. Lei aveva lavorato tanto con l'uno che con l'altro, e gli faceva tanto di cappello per quanto riguardava la sua professionalità, ma per quanto riguardava l'amicizia aveva dovuto sforzarsi. L'aveva fatto unicamente per Brule. L'uomo bevve il bicchiere d'un fiato e se ne versò subito un altro, mentre Rue, ritta sulla porta, stava a guardarlo con occhi implacabili. Stai bevendo un po' troppo, pensò lei; un giovanotto come te non ha bisogno di due bicchieri così per sostenersi per... Per che cosa? Perché era venuto lì? Dov'era Brule? Andy avvertì la sua presenza e si voltò. Portava lo smoking con la cravatta bianca: le infermiere dell'ospedale sarebbero probabilmente svenute per l'emozione... Ma la bocca di Rue si irrigidì. «Oh, eccovi! Stavo aspettandovi!» esclamò lui. Lei entrò e gli si avvicinò. Strano come un bell'abito riesca a dare la padronanza e la capacità di essere cortesi anche quando non ci si sente di esserlo. «Aspettavate me?» Andy sembrò a disagio. «Certo. Brule non ha telefonato?» Quell'uomo era sempre al corrente degli affari di Brule, molto più della moglie. Mio Dio, possibile che si sentisse gelosa di Andy? No. No di certo. La sua avversione poggiava su ben altre ragioni... Lui notò l'esitazione e si affrettò ad aggiungere: «Immagino che non ne abbia avuto il tempo. Stava uscendo in gran fretta: ha detto di aver avuto una chiamata d'urgenza, ma che vi avrebbe telefonato. Che stasera non ce la faceva a portarvi fuori ma... ma ha mandato me al suo posto. Se la cosa non vi secca troppo, naturalmente.» «Volete dire che non viene?» Fu una vera delusione, perché sperava molto nell'appoggio e nella sicurezza che Brule le avrebbe dato.
«Avrebbe dovuto telefonarvi. Si tratta di una di quelle cose che... Ha detto che non poteva fare diversamente. Era veramente dispiaciuto. Vi... vi secca molto se vi accompagno io?» «Grazie, è molto gentile da parte vostra, ma credo che starò a casa. In realtà... in realtà non me la sentivo molto di andare fuori. Ci andavo solo perché Brule voleva che ci andassi.» Con sua stessa sorpresa e con un lieve senso di vergogna, ricorse a una vecchia scusa. «Ho avuto mal di testa tutto il giorno...» Andy la osservò lentamente: «Dall'aspetto direi che state benissimo» fece secco. «Non vi ho mai vista meglio. E non ho mai saputo che soffriste di mal di testa.» E prima ancora che lei potesse rendersi conto delle sue intenzioni, si avvicinò, le toccò una guancia col dorso della mano, e le tastò il polso. Mai mentire a un medico, pensò Rue sforzandosi di guardarlo senza arrossire. Rimasero a fissarsi per un attimo, senza parlare; poi Andy staccò le dita dal suo polso: «Voglio che usciate» disse bruscamente. «C'è una ragione speciale. Devo parlarvi.» 2 Poco dopo, all'interno della vettura che si muoveva silenziosa lungo il Michigan Boulevard, Rue si meravigliò di essersi lasciata convincere così in fretta. Lo aveva fatto per abitudine, perché per cinque anni aveva sempre obbedito agli ordini di Brule e di Andy, o perché in quel momento aveva dimenticato di essere la signora Hatterick, una donna invidiabile per sicurezza, lusso e posizione? Si aggiustò la leggera e calda giacca di zibellino sulle spalle e infilò i guanti. Nel tepore dell'abitacolo della grande auto pareva impossibile che fuori le strade fossero spazzate da un vento gelido. Sotto la luce dei proiettori, il palazzo Wringley si ergeva bianco come un fantasma; dalla parte opposta si vedeva l'ingresso illuminato a giorno del Tribune Square sotto file e file di uffici che squarciavano la notte buia con le loro finestre illuminate. Dal lago spirava un forte vento e intermittenti folate di neve si abbattevano sulle strade deserte. Il ponte era sollevato e furono costretti a fermarsi. Accanto a lei, Andy, con la sciarpa bianca che usciva dal mantello. Dal fiume, nascosto per l'oscurità, si sentì la sirena di una chiatta. Chissà cos'era che Andy voleva dirle... Era chiaro che non voleva farsi sentire dall'autista, perché non aveva ancora detto una sola parola. Sicuramente si trattava
di qualcosa che riguardava Brule: che volesse rimproverarla per una qualche inconscia mancanza nel suo nuovo ruolo? Si sentiva perseguitata dal profumo di Crystal anche in auto. Si mosse agitata e guardò fuori dal finestrino. Il profumo di rosa le ricordava sempre Crystal: era quasi come se la cosa fosse stata intenzionale da parte della prima signora Hatterick, Crystal Hatterick, l'alta e sofisticata donna biondo cenere di cui lei aveva preso il posto. Si domandò quante volte l'azzimato Andy Crittenden avesse scortato Crystal a una festa. Be', se aveva qualcosa da dirle, che glielo dicesse e la facesse finita. La chiatta, sempre invisibile, fece di nuovo sentire la sirena. Accanto a loro si erano fermate altre vetture; nell'aria fredda si sentiva l'odore della benzina e dell'antigelo. Nella semioscurità, Andy disse d'improvviso sottovoce: «Penso sia meglio farci vedere all'Opera almeno per il primo atto. Poi possiamo uscire e andare in qualche posto dove si possa parlare senza essere sentiti.» Rue ebbe un sobbalzo: «Ma Andy! Non vedo il perché. Se avete qualcosa da dirmi, ditemelo apertamente.» «Forse non mi avete capito... Il ponte si è riabbassato. Arriveremo in tempo.» Rue tentò una risatina che le riuscì piuttosto male. «Che cosa c'è che non va? Sembra vogliate sgridarmi. Ho forse trascurato Brule?» «No, non è questo. È solo che credo sia meglio vi facciate vedere a teatro, come se non fosse successo nulla.» «Come se...» si voltò agitata. «Ma cosa state dicendo? Cos'è successo? Brule...» «Oh, Brule sta benissimo. Non è successo nulla. Era solo un modo di dire. Non sottilizzate troppo su quel che dico.» L'incoerenza non era una delle peculiarità di Andy Crittenden; di norma era perspicace e deciso. Era anche ostinato, ostinato quanto Brule, ma non nella stessa spiacevole maniera. Perciò quel suo strano comportamento significava che, qualunque fosse la cosa che aveva da dirle, trovava difficile esternarla e avrebbe cercato un momento più opportuno. Bene: anche lei sapeva essere ostinata. E poi non poteva trattarsi di qualcosa di grave, al massimo poteva essere un messaggio da parte di Brule per... be', poteva essere per una qualsiasi cosa... Il ponte venne riabbassato e una fiumana di auto mosse lentamente in avanti mentre l'enorme barcone carico di merci si stagliava finalmente sot-
to le luci alla loro destra. Nella corrente del traffico sul Michigan Boulevard, con le sue vetrine tutte illuminate, incontrarono radi passanti, tutti che andavano di fretta, tutti piegati in avanti a proteggersi contro la spinta del vento. Andy continuava a rimanere in silenzio. Svoltarono in Randolph Street, e si trovarono in un mondo diverso, pieno di gente e di cinema. Lì c'era l'"Henrici", in un certo qual modo il vero cuore di Chicago, il punto dove si poteva cogliere il flusso e il polso della vita della grande città. I teatri erano sfavillanti di luci; le ragazze, nelle vaporose gonne lunghe, stavano entrando coi loro cavalieri al Sherman per proseguire poi per il College Inn. Kendal svoltò nuovamente, infilando la Wacker Drive. Lì le auto erano più numerose e continuarono ad aumentare, tanto che al Washington Boulevard dovettero incolonnarsi e procedere a passo d'uomo tutte in fila, tutte con il loro bravo "chauffeur" in uniforme, tutte con belle signore ingioiellate e impellicciate protette dal freddo, dai pericoli della strada, da ogni disagio. Anche lei, Cenerentola, era al sicuro, protetta da tutto. Era sposata al re del mondo: chi poteva essere più al sicuro di lei? Si rivide com'era un anno prima. Si vide percorrere in tutta fretta la Randolph Street, prendere il bus, scendere, salire su un altro con la valigetta di cuoio stretta sotto il braccio e la mantella da infermiera che, a suo modo di vedere, costituiva una specie di lasciapassare. Sempre così, ogni giorno, anche quello in cui era uscita dall'ospedale per andare a vegliare Crystal. Ora, invece, viaggiava comoda e tranquilla, calda, protetta e sicura, in un'auto tutta sua. Erano quasi arrivati. L'auto andò a fermarsi davanti all'ingresso della "Civic Opera", affollato di signore in abito da sera che, al fianco dei loro cavalieri, si affrettavano a passare in fretta sotto la pensilina per non farsi spettinare dal vento. La piazzetta davanti a quel teatro era sempre ventilata, sempre fredda; quella sera, poi, lo era in modo particolare. Un addetto alle auto si avvicinò e aprì lo sportello. Rue sentì una folata d'aria gelida sulle caviglie e sui leggeri sandali d'argento. Andy disse qualcosa a Kendal mentre un ragazzino che vendeva giornali, strillava a gran voce i titoli principali per farsi sentire al disopra del rumore prodotto dai motori e dagli ordini imperiosi lanciati dai poliziotti a cavallo. Andy ne comprò uno e lo sfogliò rapidamente nel freddo e nel vento della pensilina,
dando una rapida scorsa ai titoli. Poi lo lasciò cadere con un'aria strana, e accompagnò Rue nella calda e brillante confusione del "foyer". Conosceva anche il numero e l'ubicazione del palco che gli Hatterick dividevano da anni con altre due famiglie, e aiutò Rue ad accomodarsi. Quella sera gli altri non c'erano e la giovane donna si sentì quasi sollevata. Ebbe inizio l'"ouverture": brusio e mormorii cominciarono a spegnersi, anche se ogni persona che entrava attirava l'attenzione dell'imponente batteria di binocoli dell'intero teatro. A Chicago, malgrado le tante vicissitudini, l'opera Urica era sempre di moda. Sotto il grande proscenio ristrutturato da poco, le poltrone rifulgevano di colori e di gioielli; dietro e sopra, i palchi sembravano scatole per gioielli, rivestiti com'erano di velluto rosa pallido, lievemente offuscato dallo smog della grande città. E, proprio come le scatole dei gioielli, risplendevano per bellezza, colore, bagliore di pietre preziose. «Ci sono tutti» commentò Andy. «C'è anche Alicia...» Rue captò una nota di sorpresa nella sua voce. «Laggiù, con gli Streeter.» «La vedo. È bellissima.» Alicia Pelham era veramente splendida. Rue pensò che era la donna più bella che lei avesse mai visto, talmente bella che era persino difficile parlarle, perché si restava paralizzati dall'ammirazione. Alicia doveva essere vicina ai quaranta e certamente molto più bella di quand'era giovane, perché era una di quelle bellezze che si arricchiscono e rifulgono con la maturità. I capelli neri avevano spruzzi d'argento che lei ostentava orgogliosamente e che davano ancor più rilievo al viso piccolo, liscio, levigato, di bellezza classica; gli occhi, grigi e profondi, brillavano come gioielli: solo uno smeraldo avrebbe potuto competere con essi per splendore e durezza, con F unica differenza che lo smeraldo è verde. Era alta, con la pelle bianchissima e ciglia nerissime che accentuavano, senza mai sminuire, la lucentezza degli occhi; nel viso piccolo leggermente appuntito, le labbra (di un rosso acceso) si aprivano su denti incredibilmente bianchi e perfetti. Sorrideva di rado e appena-appena, ma aveva una conversazione estremamente brillante. Per anni era stata la più intima amica di Crystal; negli ultimi tempi si era trovata a corto di denaro, e l'amica le aveva passato una somma che copriva tutte le sue spese di mantenimento, così come niente fosse, e lèi, altrettanto tranquillamente, l'aveva accettata, come aveva poi accettato la generosa eredità che lei le aveva lasciato. Erano state compagne di scuola, ave-
vano debuttato in società insieme, e Alicia era stata la damigella d'onore alle nozze di Crystal, ma lei non si era mai sposata. E non perché le fossero mancate le occasioni, oh no! Alicia avrebbe potuto sposare tutti gli uomini che voleva, solo alzando una delle sue dita lunghe, bianche e affusolate. Viveva in un appartamento di sua proprietà ammobiliato in modo delizioso; aveva molti amici, frequentava il gran mondo, ed era molto difficile che il suo nome non comparisse sulle colonne dedicate alla vita mondana. Chissà come, riusciva sempre, senza nessuna apparente difficoltà, a vestirsi molto bene: Rue riteneva che i grandi sarti fossero talmente felici di godere del suo favore, da farle sconti favolosi. Aveva anche dei magnifici gioielli: di solito portava smeraldi, che dovevano costituire quanto era rimasto del consistente patrimonio dei Pelham dopo il dissesto finanziario subito. Alicia organizzava vendite di beneficenza, accoglieva ospiti illustri, dava cene perfette che andavano famose nel gruppo ristretto dei prescelti. Riusciva sempre ad avere i quadri dei pittori più celebri del momento, a farsi vedere al "Foreign Club" con gli scrittori più importanti di passaggio a Chicago, e alle sue piccole celebri cene dopo teatro, comparivano sempre le attrici più note, i cantanti più in auge, i commediografi più in vista. Intima di casa Hatterick, Alicia aveva finito col fidanzarsi con Steven Hendrie. Il fidanzamento durava ormai da due anni ma, secondo Rue, Alicia non era molto ansiosa di porre fine alla propria indipendenza, alla sua vita libera, ai viaggi oltremare che (sempre secondo Rue) i suoi amici si sentivano in dovere di offrirle, ai continui inviti che riceveva. Forse, dopo tutti quegli anni di libertà assoluta, Alicia era semplicemente (e comprensibilmente) riluttante a rinunciare ad un modo di vivere che le era congeniale. Di sicuro non c'erano contrasti tra lei e Steven, e Steven era un uomo che qualsiasi donna sarebbe stata orgogliosa di sposare... Rue sentì riscaldarsi il cuore al pensiero di quell'uomo così caro e gentile. Guardò Andy che continuava a fissare Alicia con sguardo corrucciato. D'improvviso capì che doveva essere preoccupato, e molto anche. Nell'oscurità dell'auto non se n'era accorta, ma ora, nel chiarore soffuso, vide la bocca tesa e la lieve ruga che gli solcava la fronte passando di netto fra le sopracciglia, tutte cose che, ai vecchi tempi dell'ospedale, significavano che aveva dei timori per quanto riguardava la vita di un paziente. Si sentì percorsa da un senso di freddo, di disagio. D'improvviso capì che le parole che le aveva detto in macchina non era-
no vuote o prive di significato, che c'era veramente qualcosa che lo turbava e di cui lui voleva parlare con lei. Aveva avuto torto a seccarsene... Tornando inconsapevolmente al passato, mormorò: «Dottor Crittenden.» Era da quando si era sposata che non lo aveva più chiamato così. L'uomo si girò immediatamente. «Andy» riprese lei, correggendosi. «Io... vedo che c'è qualcosa che non va. Qualcosa che non riesco a capire. Ditemelo, vi prego.» Il giovanotto esitò un attimo, si volse a guardare dietro le spalle, restando a osservare le tende rosa che ricoprivano la porta del palco. «Se volete... Non ci può sentire nessuno: tanto vale parlarne qui, se preferite. È successo qualcosa di molto grave... Non so proprio come cominciare... Ho cercato il modo per dirvelo, ma...» Furono sommersi da un'ondata di musica. Rue posò le mani sul parapetto del palco. «Si tratta di Crystal.» «Crystal?!» «Sì. Il fatto è che... Oh, buon Dio, Rue. Mi dispiace dovervelo dire, ma è necessario che lo sappiate. Stanno facendo delle indagini. Sono già venuti da me perché ero il medico curante.» «Continuo a non capirvi.» Era lei che parlava, eppure a Rue sembrò che fosse la voce di un'altra. Ma forse era solo perché era coperta dalla musica. «Più che naturale... Ecco... volevo dire, è venuta la polizia. Nel pomeriggio ho avuto la visita di alcuni poliziotti... Non gridate, ve ne scongiuro! E non svenitemi proprio qui! No, non avrei dovuto dirvelo qui. Ma il fatto è che non abbiamo molto tempo.» Rue si afferrò al parapetto del palco. Ma che cosa cercava di dirle, Andy? Lo sentì chiaro e tondo all'orecchio: «Dicono che Crystal è stata uccisa. E che... vedete, voi eravate la sua infermiera... e avete sposato Brule.» Anche se non se ne rese conto, fu una fortuna per Rue che le luci si abbassassero proprio in quel preciso momento. Capì piuttosto vagamente che Andy le aveva preso una mano, che le si era accostato, che cercava di dirle di più, di metterla in guardia. Che stava dicendo a bassa voce: «State attenta. Non parlate. Che sciocco sono stato! Non avrei dovuto parlarvene proprio qui. Rue... Rue...» «Ma io ero presente quand'è morta.» Le sembrò che le parole uscissero dal profondo di un'altissima caverna. «Sentite: la nostra comparsa l'abbiamo fatta. Ora è buio e nessuno può
notare la nostra assenza. Andiamocene. Venite.» L'aiutò ad alzarsi e la sospinse sul fondo del palco, proprio mentre sul palcoscenico si alzava il sipario e l'orchestra esplodeva in una miriade di suoni. Sì, in quel momento nessuno avrebbe fatto attenzione a loro, nessuno avrebbe notato la loro scomparsa. In un attimo furono fuori dal palco, diretti verso l'ascensore. Una delle maschere li guardò con curiosità, ma Andy si limitò a dire con voce tesa: «Non c'è un drugstore qui vicino?» Il ragazzo disse di sì e fece un cenno con la mano. Sotto le luci sfavillanti, Rue sentì il vento freddo che le faceva aderire l'abito al corpo e glielo avvolgeva alle caviglie. Che ventaccio freddo e tagliente! Le luci della pensilina sembravano ancora più splendenti con quel vento. Entrarono nel drugstore lucido e scintillante, ma ristagnante di un pesante odore di cucina. Dentro era caldo, troppo caldo. Tra il calore e la luce, Rue si sentì ancora più confusa. Senza sapere come, si trovò seduta davanti a un tavolino bianco, mentre un ragazzo veniva a prendere l'ordinazione. Andy, nel frattempo, doveva aver ordinato qualcosa, perché tutto d'un tratto si trovò davanti una tazza fumante. «È caffè» le disse premurosamente lui. «Forse avreste preferito un brandy, ma dovete ascoltarmi. Bevete.» La tazza le tremò nella mano, tanto che lasciò cadere qualche goccia. L'unica sua reazione fu: "adesso mi sono rovinata un guanto", seguita subito da un altro pensiero: "Andy ha bevuto troppo. Deve essergli capitato qualcosa di terribile. Non sa nemmeno quel che dice... Non può essere vero". Il caffè caldo quasi le bruciò la lingua. «Va meglio?» Il ragazzo era tornato dietro il banco e fischiettava una canzoncina allegra guardando, oltre la porta, la strada spazzata dal vento. «Non può sentirci» commentò Andy. «Ora dovete proprio stare ad ascoltarmi. Dovete fare come vi dico io.» «Quando?» mormorò lei con voce soffocata, senza riuscire ad aggiungere altro. «Volete dire quando l'ho saputo? Stasera, poco prima di chiudere lo studio. Sono venuti da me due investigatori.» Rue si inumidì le labbra. «Brule lo sa?»
Andy distolse lo sguardo da lei, e bevve lentamente qualcosa da un bicchiere. «Sì, lo sa. Lui... Lui non è potuto venire... Rue, ascoltatemi. Ho l'impressione che non vi rendiate conto di quanto può accadere. Io credo che... Mio Dio, non guardatemi così!» In una frazione di secondo, ebbe il presentimento di quanto l'altro stava per dire. «Voi...» «Credo abbiano ragione. Credo sia stata assassinata.» Andy doveva essere impazzito, pensò lei. Il medico di Crystal era stato lui. Era stato lui a firmare il certificato di morte... Una tazza, la sua, sbatté contro il tavolo. Lo sguardo di Andy corse subito al ragazzo al banco, che continuava a guardare in strada, e tornò al volto di Rue. E, del tutto inaspettatamente, la sua voce disse: «Voglio che veniate via con me. Via da Chicago. È la sola cosa da fare.» Andy si sporse in avanti sul tavolo, quasi sfiorando il cartoncino color arancio con la lista delle consumazioni, e disse in fretta: «Siete in pericolo, e molto più di quanto possiate immaginare. Dovete venire via con me.» «Con... voi...» Rue ebbe di nuovo l'impressione che la sua voce arrivasse da molto lontano, sentì Andy dire con tono quasi aspro: «Con me, adesso, subito. Perché io vi amo.» 3 Qualcuno, forse alla radio, cominciò a cantare una canzone con voce roca, e il ragazzo al banco cercò di star dietro al motivo continuando a fischiettare. Una canzone che Rue non avrebbe mai dimenticato. La sentì anche Andy, che sorrise senza allegria: «È vero, Rue. Non potete non credermi. Ma ora non c'è tempo per... parlare. Vogliamo andare?» «Ma...» Certo non poteva credere che lui l'amasse. Era una cosa inverosimile, assolutamente fantastica, come tutte le altre cose incredibili che aveva detto. Cose che si erano mescolate tutte assieme, creandole dentro una gran confusione. Andy si sporse di nuovo in avanti, parlando lentamente, staccando bene le parole, come per aiutarla a capirlo.. «Ascoltate, Rue. Lo so che è... che è un colpo per voi. Ma se mi ascoltate, finirete per credermi.» Spinse leggermente indietro la manica per guardare l'ora in un gesto abituale, ma l'orologio non c'era. Si ricordò di essere in smoking e allungò la mano a prendere dal taschino un orologio tondo sottilissimo. Sopra erano incise le
sue iniziali: era stato un regalo di Crystal e Rue se ne ricordava bene. Crystal gliel'aveva dato nella settimana precedente la sua morte, per il suo compleanno. Rue stessa gliel'aveva visto consegnare e aveva notato lo sguardo con cui la donna aveva accompagnato il dono. Nella stanza era presente anche Brule che aveva sorriso sotto i baffetti neri, ma a Rue era sembrato che i suoi occhi fossero invece estremamente seri. Andy rimise in tasca l'orologio. «Ho già pensato a tutto. Voi tornate a casa per prendere qualche vestito. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo: prenderemo il treno di mezzanotte e ci dirigeremo a nord, in Canada, magari.» No, non poteva restarsene lì tranquilla ad ascoltare un progetto così pazzesco e così fantastico. «Andy, non è possibile. Io non vengo con voi. Io non ho fatto nulla. Crystal non è stata uccisa: ero la sua infermiera e lo so.» «E io ero il suo medico.» «Ma non avete mai detto nulla. Non avete avvisato la polizia, non avete mai avuto nessun dubbio. Avete firmato il certificato di morte, e non siete nemmeno sembrato sorpreso che fosse morta. Voi... voi avete semplicemente accettato il fatto. Se sapevate che si trattava di un delitto...» «Ma allora non lo sapevo. Adesso, invece, sì.» «Come fate a esserne sicuro? Non potete. E se è veramente...» La gola le si chiuse. Andy era diventato terreo. «Non posso dirvelo, Rue. Per convincervi della mia sincerità non basta che vi dica che... che sono disposto a buttar via tutto quello che possiedo, la mia professione, tutte le mie amicizie? Pianterò tutto senza nessun rimpianto, pur di portarvi via.» «Non potete fare una cosa simile! E, inoltre, io non ho nessuna intenzione di partire con voi. Che diritto credete di avere di supporre che...» «Di supporre che vogliate venire via con me? Nessun diritto. Solo il fatto che vi amo, che voi mi crediate o no; e che voglio salvarvi. Solo questo.» «Ma io devo assolutamente sapere. Dovete dirmi tutto quello che sapete.» «Dovete avere fiducia in me, Rue. Non posso dirvi tutto. So troppo poco. Ma... Forse mi capirete meglio se comincio dal principio. Vedete, quando Crystal morì, morì dopo due settimane di discreto miglioramento. Questo lo sapete anche voi.»
«Infatti non immaginavo che potesse morire. Ma è morta in modo così naturale... Non c'erano sintomi di nessun genere... È forse... è forse stata avvelenata?» «Così dice la polizia.» «Volete dire che hanno trovato del veleno?» «No. Non possono fare a meno del consenso di Brule per procedere all'esumazione. E dovrà darglielo, altrimenti le cose si metteranno male per lui. Dopo tutto è stato lui a ereditare la maggior parte del patrimonio di Crystal... Sì, credo proprio che si sia trattato di veleno. Non c'erano sintomi. Ricordo benissimo la sera che mi chiamaste, dicendomi che era improvvisamente peggiorata. Non ci potevo credere. Arrivai che era appena morta. Voi diceste che era entrata in coma; lo diceste al telefono, lo ricordo benissimo, e io vi consigliai di chiamare subito Brule e di mandare al diavolo l'etica professionale che impedisce a un medico di curare i propri familiari. Non è forse così?» «Sì. Chiamai Brule, ma non potemmo fare nulla. Lei morì senza riprendere conoscenza. Erano circa le undici. Pensavo dormisse, finché non mi avvicinai per prenderle il polso e segnare la frequenza dei suoi battiti sulla cartella clinica. Quando voi arrivaste era appena spirata. Ma morì naturalmente… Non avrebbe potuto essere... essere stata assassinata.» L'ultima parola la pronunciò in un bisbiglio, come fosse una parola sconveniente. «Al momento ebbi la sensazione anch'io che fosse morta di morte naturale.» «Se ritenete che sia stata uccisa, allora dovete anche sapere chi è stato. Chi...» Fu ripresa da un'ondata di incredulità. «No, non è vero. Non può essere vero!» «Lo è, Rue.» Fu quasi un gemito. Andy si passò la mano sugli occhi poi, di scatto, raccolse i guanti sul tavolo, e disse in fretta, nervosamente, come se volesse tagliar corto e farla finita: «Ne sono più che sicuro. La polizia è arrivata mentre stavo chiudendo lo studio. La segretaria e l'infermiera se n'erano già andate e Brule era andato a vedere un paziente in ospedale. Sono venuti in due: un tizio piccolo, mingherlino, che si chiama Funk, e un altro di cui non ricordo il nome. Si capiva subito che erano dei poliziotti, ma non riuscivo a immaginare cosa volessero da me. Ad ogni modo hanno voluto parlare con me in privato, e si sono assicurati che Brule non ci fosse e non potesse sentirci. «Hanno detto una cosa... una cosa veramente pazzesca. Hanno detto di
aver ricevuto delle lettere nelle quali si sollecitava la polizia a indagare sulla morte di Crystal, sul modo in cui era avvenuta. Le lettere non me le hanno mostrate, ma gli ho creduto. Hanno detto che dovevano muoversi, anche perché avevano scritto persino al procuratore distrettuale. Nel guardare i registri avevano visto che il medico curante ero stato io, e che ero stato io a redigere il certificato di morte. Prima di venire a parlare con me, avevano già parlato con altri; si erano già informati di tutti i particolari della vita di Crystal e delle sue relazioni con il resto della famiglia. Sapevano già tutto. È solo questione di tempo, ma la cosa arriverà anche ai giornali. Immagino stiano già correndo delle voci: non possono certo andare in giro a interrogare la gente, anche se con molta cautela, senza che ne trapeli nulla. E nel momento stesso in cui qualcuno immagina il perché, lo saprà tutta la città. «Il loro punto di forza poggia sulla dichiarazione di una delle cameriere, che ha riferito che Crystal stava già molto meglio, e che erano rimasti tutti molti sorpresi nel sapere che era peggiorata e morta così all'improvviso. «Anch'io quella sera rimasi sorpreso, ma Brule no. Naturalmente io me la presi con me stesso. Non sapevo dove e come avessi commesso un errore, ma comunque mi rimproverai di non aver seguito quel caso nel modo giusto. Non solo era morta una mia paziente ma questa paziente era anche la moglie di Brule, a cui io dovevo tanto.» Rue pensò che, se era solo per quello, doveva tanto anche a Crystal. «Rimasi terribilmente sconvolto. Lo ricorderete di certo.» «Lo ricordo. Ricordo che ne parlaste con Brule e che lui cercò di tranquillizzarvi.» «Ecco, vedete? Disse che non c'era stato nulla di sbagliato, che era solo perché Crystal non aveva molta resistenza. Be', questo pomeriggio, quando sono venuti a interrogarmi, io... Ma adesso non c'è tempo per parlarne. Dobbiamo andare.» «Perché ritenete sia stata avvelenata?» «Perché tutto lo fa pensare. Veleno: perché solo questo spiega la sua morte. Non può essere stato altro.» «Allora, in quel momento, non eravate convinto delle asserzioni di Brule.» «No, non del tutto» ammise Andy. «Ma volevo esserlo. Comunque ormai era morta, e non sarebbe servito a nulla fare chiasso, chiedere un'autopsia, sollevare una marea di chiacchiere. Pensai di aver sbagliato, di aver sottovalutato qualcosa di importante, qualcosa di essenziale. Purtroppo ca-
pita anche troppo spesso che ci siano dei sintomi che traggono in inganno il medico, lo sapete anche voi.» Lo disse con uno sguardo quasi supplichevole. «Accusai me stesso di tutto quel che era successo. Mi dissi che mi ero lasciato fuorviare dalla diagnosi di Brule, quando invece avrei dovuto indagare di più e procedere di testa mia. Non fraintendetemi, non sto cercando di crearmi un alibi e non biasimo Brule. E Dio mi è testimone che non ho mai sospettato si trattasse di un delitto... Biasimo unicamente me stesso. Io mi sono sempre lasciato influenzare da Brule: lui ha fatto moltissimo per me, e io gli devo molto.» «E io sono sua moglie, perciò non posso andarmene via con voi. E... E anche se questo fosse vero, se Crystal fosse stata veramente assassinata, non potrei andarmene ugualmente. Non sono stata io a ucciderla.» «Sentite, Rue.» Andy era estremamente pallido e teso. «Voi siete la moglie di Brule e potete pensare che io manco di lealtà nei suoi confronti quando dico che vi amo e vi chiedo di partire con me. Ma ci sono cose più grandi dell'amicizia e della gratitudine... Ma non capite, Rue? Voi eravate sola con Crystal quando lei è entrata in coma. Allora diceste, come avete detto poco fa, che in quel momento avevate pensato si trattasse di un sonno naturale e che avevate scoperto che non lo era solo quando avevate cercato di prenderle il polso per segnare le pulsazioni sulla cartella clinica, alle dieci. Voi eravate sola con lei. Crystal stava bene, anzi stava meglio, quando l'avevo vista alle sei, e quando era uscita l'infermiera del turno di giorno. Brule disse di essere passato a vederla alle nove, e di aver saputo da voi che si era addormentata. Che lo avevate chiamato d'urgenza poco dopo le dieci e che lei era morta pochi minuti dopo. In tutto quel tempo che siete rimaste sole, Crystal avrebbe potuto bere qualsiasi cosa le aveste data: avrebbe pensato che si trattava di una medicina. E, inoltre, per la polizia un motivo c'è: il matrimonio con Brule.» «Io non le avevo dato niente di niente. Io...» «Lo so, Rue. Io vi credo, e vi crederei anche se vi avessi vista propinarle qualcosa sotto i miei occhi. Ma il fatto è che le cose stanno così.» «Devo andare a casa. Devo vedere Brule. Dov'è?» «Di preciso non lo so, ma penso farà tardi.» «Perché non è venuto a dirmelo lui?» «Perché... doveva sbrigare alcune cose.» «Quali?» «Non lo so. Da qualsiasi parte la si guardi, è una brutta situazione. Appena la polizia se n'è andata, ho avvisato Brule e gli ho riferito tutto. Data
la sua posizione e le sue conoscenze, può darsi che riesca ancora a fare qualcosa. Ma temo sia ormai troppo tardi. Neanche il procuratore generale potrebbe fermare la cosa adesso, senza un'esumazione; ma se con l'autopsia non salta fuori nulla, allora va tutto bene e siamo tutti salvi.» «Però voi temete che salti fuori qualcosa» e Rue si sentì di nuovo una voce strana, che non riconosceva come sua. «Sì, purtroppo. Mi credete adesso?» Andy affondò lo sguardo negli occhi della donna. Per un attimo fu come se il mondo intero fosse scomparso e non fossero rimasti che loro due, Andy Crittenden e Rue Hatterick. Come se al mondo non ci fosse null'altro di importante... tuttavia lei, Rue, continuava a sentire la musica allegra e il fischiettare del ragazzo. La porta si aprì lasciando entrare una ventata d'aria fredda; il ragazzo smise di fischiare e si rivolse all'avventore che si era fermato al banco, dopo aver dato ai due seduti al tavolino un'occhiata stranamente attenta, come se volesse imprimersi in mente ogni particolare. Certo, la tazza di caffè, la sciarpa di Andy, l'abito da sera di Rue dovevano sembrare alquanto fuori posto in un locale come quello... L'uomo, con aria innocente, distolse lo sguardo da loro per ordinare qualche cosa da bere, ma Andy disse immediatamente a voce bassa: «Andiamo. Ho detto a Kendal di venire a prenderci dopo una mezz'ora. Dovrebbe essere qui a minuti.» Tutto d'un tratto, a Rue sembrò che la musichetta e il calore fossero insopportabili. Spinse indietro la sedia rumorosamente e Andy balzò in piedi sollecito per aiutarla. Poi, mentre lui si fermava alla cassa per pagare il conto, lei, diretta alla porta, intravide la propria immagine riflessa nello specchio sopra il bancone: una donna snella in zibellino e abito da sera in laminato blu argento, una donna col viso pallido, bianco come un lenzuolo, grandi occhi scuri spaventati e una macchia rossa al posto della bocca; una donna con un guanto di capretto bianco macchiato di caffè. E l'uomo al banco si era realmente girato a guardarla con intenzione mentre passava, o se l'era solamente immaginato? Andy la seguì in fretta. I suoi passi risuonarono fermi e sicuri sul nudo pavimento. La musichetta continuava a imperversare: Andy aprì la porta e Rue si ritrovò di nuovo nella strada fredda e nella morsa del vento. «Era un investigatore, quello?» Il vento si portò via le parole, ma Andy le sentì ugualmente. «Perché dovrebbe essere un investigatore?» Ma la risposta fu troppo precipitosa, e lei capì che anche lui aveva avuto la stessa impressione.
Il vento le attorcigliò la gonna alle caviglie. Mentre si stringeva nella pelliccia, sentì Andy dire qualcosa che lei non comprese, ma con un tono di sorpresa che la stupì. «Che cosa?» «Niente. Mi era sembrato di aver visto Alicia Pelham che saliva in macchina.» Rue seguì la direzione del suo sguardo. A circa metà isolato, un'auto si era fermata proprio davanti all'ingresso del teatro: riuscì a captare l'immagine di una donna che sollevava leggermente la gonna lunga mentre l'addetto alle macchine richiudeva la porta. L'ombra delle colonne del portico nascondeva parte della scena, ma quando l'auto partì Rue non poté fare a meno di esclamare: «Ma è quella di Brule!» Andy non rispose. Lei aggiunse subito: «Sembrava proprio la sua, ma non può esserlo. Io vado a casa, Andy.» «Kendal dovrebbe essere già qui. Oh, eccolo.» Ma era più che naturale che lui sapesse riconoscere l'auto prima di lei... Si affrettarono a raggiungere l'ampio spazio davanti al teatro, e l'addetto alle macchine, riconoscendo Andy, disse subito: «L'auto Hatterick, signore? Arriverà immediatamente.» «Grazie.» Il ragazzo non lo aveva chiamato per nome, ma lo aveva associato alla vettura degli Hatterick. Rue domandò: «L'auto che è partita un momento fa, non era quella del dottor Hatterick?» Malgrado il cappotto pesante il ragazzo batteva i denti per il freddo. Guardò lei e il suo cavaliere e rispose educatamente: «Non lo so, signora.» La berlina intanto era andata a fermarsi silenziosamente accanto a loro. Andy diede la mancia al ragazzo e aprì la porta. Appena furono dentro, l'auto si rimise lentamente in moto. «Ma voi tremate!» Le si avvicinò e, inaspettatamente, la strinse tra le braccia. Serrò la guancia calda contro quella fredda di lei. «Oh, Rue! Ti amo!» E la baciò. La baciò a lungo, si ritrasse per guardarla negli occhi, e si chinò di nuovo per baciarla. Quando Brule la baciava, lo faceva sempre in modo molto formale, ed esclusivamente quando erano presenti altre persone e lui non poteva esimersi dal farlo. Ma era una specie di spazzolino che le sfiorava la guancia. Brule! Si mosse per sfuggire alla stretta di Andy, ma lui la trattenne. «Ora non m'importa più altro che te, Rue. Non pensare a Brule, pensa a te. Io
ti amo, tesoro, ti amo immensamente. Ti... ti sei sposata così all'improvviso... Non ne sapevo niente, l'ho saputo soltanto quando me l'hai detto, ma era ormai troppo tardi: era il giorno prima del matrimonio. Cosa potevo fare? Ma tu avresti dovuto saperlo che io ti amavo, Rue.» Lei rispose senza volerlo: «No, non lo sapevo.» «Torna indietro ai giorni in cui lavoravi in ospedale: non ricordi come ti cercavo con lo sguardo quando eri nel corridoio o seduta al tuo tavolo? Tra tutte quelle uniformi e quelle cuffie bianche, io riconoscevo sempre e subito la linea squadrata delle tue spalle, il nodo morbido dei tuoi capelli d'oro sotto la cuffietta inamidata. Cercavo sempre delle scuse per poter parlare con te; mi lamentavo di questo o di quello nella speranza che le altre infermiere se ne andassero e ci lasciassero soli... Io... Io non so da quando sono innamorato di te; l'ho capito soltanto poco prima della malattia di Crystal.» «Crystal...» Crystal, sempre Crystal; e quell'auto che lui conosceva così bene, e quel maledetto profumo di rosa che ancora vi ristagnava... Lui la lasciò andare lentamente, senza dire nulla. Passarono in una strada ben illuminata poi rientrarono in una zona d'ombra: «Crystal... Come posso fare per convincerti? C'è troppo poco tempo. Devi venire con me, Rue. Subito: non c'è altra via d'uscita.» Di colpo lei si sentì fredda, distaccata e padrona di sé. E anche spaventata, certo, e conscia della catastrofe ma anche della necessità di fronteggiarla. «Significherebbe scappar via. Lasciare Brule quando può aver bisogno di me.» «Brule! Ma non vuoi proprio capire che...» «Non possiamo andarcene, Andy. Non possiamo. Sarebbe una vera pazzia. Sarebbe come... come confessare apertamente di essere colpevoli.» Più tardi ricordò tutto di quei momenti anche se, allora, le parvero solo confusi, incoerenti, quasi impersonali. Si tuffarono in strade buie, svicolarono accanto a teatri illuminati, si arrestarono ai semafori, ma lei fu cosciente solo di una cosa: che doveva resistere ad Andy, doveva tornare a casa e aspettare Brule. Brule sapeva sempre trovare una via d'uscita; Brule era l'uomo più di buon senso che esistesse sulla faccia della terra, ma aveva anche una certa durezza con la quale avrebbe potuto stritolarli tutti e due. Inoltre Brule era suo marito. Andy, infine sconfitto, rimase in silenzio, imbronciato. Arrivarono a casa, ma la coupé di Brule non c'era. «Per l'ultima volta, Rue» insisté. «Credimi. Sto pensando solamente a te.»
«Nel modo sbagliato, Andy. Dobbiamo guardare le cose in faccia. E se è vero? Se è vero che è stata assassinata?» La vettura si era fermata. Kendal aprì lo sportello. «Per favore, Kendal, accompagnate a casa il dottor Crittenden.» Ma Andy era già sceso e stava sollevando la mano per aiutarla a scendere a sua volta; malgrado i guanti, lei sentì il calore e la forza delle sue mani e si accorse che lui la tratteneva un po' più del necessario. «Non disturbatevi, Kendal. Grazie, ma farò due passi a piedi.» Salì i pochi gradini con Rue e suonò il campanello. Lei decise di non invitarlo a entrare ad aspettare Brule se questi non era ancora rientrato. «Forse ho avuto torto. Forse la cosa migliore è quella di restare qui a fronteggiare i fatti. Lottare... Sembra quasi un melodramma... Pazzesco; ma non puoi sapere...» Si interruppe bruscamente. «D'accordo, Rue: come vuoi tu. Io me ne vado, ma ricorda quello che ti ho detto. Ricordati che ti amo, e che farò qualunque cosa per aiutarti. Te lo ricorderai?» La voce era grave, carica di presentimento per le cose orribili che avrebbe dovuto affrontare. Rue rabbrividì un po', e non per il freddo. «Me lo ricorderò.» La porta si aprì, lasciando uscire un cono di luce. Gross, l'austero ed efficientissimo maggiordomo di origine tedesca (scelto anche lui da Crystal, come tutto il resto del personale) comparve sulla soglia con un'espressione di penoso imbarazzo e di contrarietà. Non attese che Andy si congedasse. «Ci sono due persone che stanno aspettando, Madame. Hanno insistito per aspettare. Ho detto che la signora era andata all'Opera, ma...» Rue si sentì il cuore in gola. «Chi sono?» Era entrato anche Andy. Gross chiuse la porta. «Dicono che sono del comando di polizia, signora..» 4 «Che assurdità» lo interruppe Andy. «La signora Hatterick non può certo vederli stasera, Gross. Ditegli...» Dalla porta prospiciente l'atrio d'ingresso, comparve d'improvviso un uomo. Un uomo che in effetti era solo un simbolo, ma sempre un uomo. Un tipo comune, anonimo, ordinario, di media statura, corporatura normale, le guance rotonde sotto occhi molto freddi: un tipo uguale alla grande maggioranza di quelli che si potevano incontrare nel caos del mezzogiorno
nella zona del Loop, tra la Madison e la State Street. Si chiamava Oliver Miller e per Rue fu, e rimase sempre, esclusivamente un simbolo, un portavoce, il mezzo attraverso il quale si esprimeva un potere occulto, imponente e ostile. «Vi stavamo aspettando, signora Hatterick» disse l'uomo senza preamboli. «Mi chiamo Oliver Miller e sono della polizia. Volete essere così gentile da concedermi qualche minuto? Vengo a nome del procuratore distrettuale.» E presentò un foglietto che, a quanto pareva, aveva preferito non far vedere a Gross. Il quale Gross, ancora presente, mugugnò qualcosa ma rimase immobile. «Con quale autorità...» cominciò Andy. «Buona sera, dottor Crittenden. Con l'autorità del comando di polizia, come ben sapete. Si tratta solo di un breve colloquio. Se voi, signora Hatterick, desiderate che sia presente qualcuno, per me va benissimo.» Rue si rivolse al maggiordomo: «È tornato il dottor Hatterick?» «No, signora.» «Rue, non c'è bisogno che voi parliate con loro a quest'ora. Possiamo chiamare Guy...» Guy era Guy Cole, il vicino di casa degli Hatterick, uno dei migliori penalisti di Chicago. Rue sentì la gola irrigidirsi. «Si tratta solo di poche domande, signora Hatterick» intervenne Miller. «Non ci vorrà molto. Vi assicuro che faremo in fretta. Potete assistere anche voi, dottor Crittenden, se la signora Hatterick lo desidera. Non è importante.» Non importante! Per lei era importantissimo. Rue annuì ed entrò in salotto seguita da Miller e Andy. Là, ad aspettarla c'era un altro, Funk, come le disse Miller molto compitamente come se volesse fare delle presentazioni, un omino magro, sparuto, dall'aria timida; assomigliava molto a un coniglio e doveva avere una gran paura che il divano Luigi XIV, sul quale era seduto, potesse spaccarsi all'improvviso. A modo suo era anche lui comune e anonimo quanto Miller, e altrettanto poco minaccioso. Rue sedette cercando di apparire calma e padrona di sé; Andy, senza togliersi il cappotto, andò a prendere posto accanto a lei. «Non volete accomodarvi?» Miller obbedì, sedendosi in una fragile poltroncina del '700 francese che aveva tutta l'aria di volersi sfasciare sotto il peso dell'uomo. Funk preferì retrocedere e finire nell'ombra delle pesanti tende di seta grigia. Anche il salotto era rimasto come l'aveva voluto Crystal. Era stata lei a
sistemarlo così, con gli acquerelli e le poltroncine francesi, le specchiere dorate, i lampadari di cristallo. A Rue quella saletta non era mai piaciuta: le pareva troppo vistosa, troppo piena di cose troppo contrastanti... Il salotto di Crystal, le mani diafane di Crystal che toccavano e sceglievano quelle sete... e ora, in quello stesso salotto, due uomini che erano venuti a indagare sul suo assassinio, come si fosse trattato di una cosa qualunque. Assassinio. La parola l'afferrò nuovamente alla gola, le diede una stretta al cuore, la fece star male. «Cosa volete sapere da me?» «Immagino che il dottor Crittenden vi abbia già detto perché siamo qui» esordì Miller mentre Funk, il piccoletto, restava a guardare con gli occhi nervosi e spaventati sotto le spesse sopracciglia aggrottate. «Sì, le ho accennato qualcosa» fece Andy. «Le ho detto che avete ricevuto una serie di lettere anonime che vi chiedono di investigare sulla morte della prima signora Hatterick.» «Bene. Ora, signora Hatterick, volete essere così gentile da rispondere a qualche domanda? Voi siete la seconda moglie del dottor Hatterick, vero?» «Infatti.» «Vi siete sposata due mesi fa nella cappella della Terza Chiesa Presbiteriana...» «Esatto.» «Prima del matrimonio facevate l'infermiera?» «Sì.» Rue nominò anche l'ospedale: si tolse i guanti cercando di controllare il tremito. «E come tale vi occupaste della prima signora Hatterick nel periodo della sua infausta malattia.» «Esatto. Cioè: io facevo la notte. Di giorno c'era un'altra infermiera.» «Sì, la signorina Julie Garder. Le abbiamo già parlato.» Avevano già parlato con Julie... Chissà cos'avevano detto... Chissà cos'aveva detto Julie? Chissà cos'aveva pensato... «La signorina Garder dice di essere uscita alle sette, la sera del decesso della signora Hatterick. A quell'ora lei finiva il suo turno e subentrava il vostro.» «È vero.» «Dice che a quell'ora la signora Hatterick sembrava stare molto meglio; che da qualche giorno stava decisamente rimettendosi.» Quella non era una domanda. Rue non rispose. L'omino nell'ombra delle tende stava gingillandosi con una nappina do-
rata che pareva interessarlo e stupirlo moltissimo. Continuava a rigirarla con quelle sue mani piccole e non troppo pulite, molto simili ad artigli. «Ma alle undici di quella stessa sera, la signora Hatterick morì. È così, signora Hatterick?» Rue pensò che quel Miller doveva faticare parecchio a pronunciare tutti quei "signora Hatterick". Pareva quasi che per lui quel nome avesse un particolare significato, e forse lo aveva davvero. Ma lei non ebbe il coraggio di pensare al significato dato da Miller. Rispose: «È vero. Cadde in coma poco dopo che io avevo preso servizio. Solamente che, al momento, pensai si trattasse di un sonno naturale. Non me ne accorsi che verso le dieci, quando volli controllare le sue pulsazioni.» «Perché?» «Perché presi le pulsazioni? Le prendevo sempre ogni notte, a intervalli regolari, per segnarle sulla cartella clinica. Quando dormiva, lo facevo senza svegliarla.» «La cartella clinica... Dov'è?» Rifletté: «Non saprei. In ospedale, le archiviamo, ma nelle case private non so. Io, personalmente, non ho mai pensato di farne qualcosa. Comunque l'avrà presa qualcuno, immagino.» «Volete dire qualcuno della casa? Una cameriera, per esempio?» «Forse. O forse l'ha mio marito.» «Il medico curante eravate voi, dottor Crittenden: l'avete per caso voi?» «No, io non l'ho presa. L'ho sempre guardata ogni giorno, quando venivo a vedere... a vedere la mia paziente.» Funk lasciò perdere la nappa dorata. Miller continuò: «Bene, bene... A questo ci penseremo poi. Ora... e vedete di non fraintendermi, signora Hatterick, io non ho nessuna intenzione di abusare del mio potere, ma, per proteggere voi e anche per proteggere il dottor Hatterick, è nostro dovere provare che non c'è ombra di verità in quelle lettere. È nostro dovere provare che sono infondate e diffamatorie, e riteniamo che voi vorrete aiutarci.» «Certamente.» «Pensiamo, perciò, che farete tutto quanto è in vostro potere per aiutarci.» «Sicuro.» «Allora mi perdonerete se le mie domande sembreranno... sembreranno un po' troppo personali.» «Sarebbe a dire?»
«Non è il caso di agitarsi, signora Hatterick. Io voglio soltanto sapere se non vi abbia stupita il fatto che la prima signora Hatterick fosse morta così all'improvviso.» Andy rimase immobile come una statua. Rue si mise in guardia. «In realtà non me l'aspettavo, ma purtroppo talvolta accadono cose del tutto imprevedibili. Medico e infermiera possono fare del loro meglio per un paziente, ma questo può soccombere malgrado le loro cure.» «Vostro marito, il dottor Hatterick, si occupava lui stesso di sua moglie quando lei si ammalava?» «No. Un medico non cura i membri della propria famiglia.» «Ma presumo che il medico curante abbia la più completa fiducia del... diciamo, del medico esistente in famiglia. In altre parole, il dottor Crittenden ha mai consultato il dottor Hatterick riguardo la malattia della signora?» «Posso rispondere io stesso» lo interruppe Andy. «Sì, certo. Il dottor Hatterick conosceva e approvava sia la mia diagnosi, che la mia cura.» «Ha suggerito lui la diagnosi, o almeno qualcosa?» Andy sembrò esitare. «No. Il caso era mio.» «Capisco. Signora Hatterick, secondo voi, la prima signora Hatterick era in buoni rapporti con la sua famiglia? Era felice?» «A questo non so rispondere. Io ero la sua infermiera, non la sua confidente. Ma non ho mai avuto ragione di supporre che non fosse felice.» «Il vostro matrimonio con il marito della vostra paziente ha avuto luogo appena dieci mesi dopo la sua morte. Vi prego di non fraintendermi, ma dovete capire che, quando passa un periodo di tempo così breve fra il decesso della prima moglie di un uomo e un suo nuovo matrimonio, la gente è portata a farsi delle domande, a fare delle congetture.» «Esistevano d'elle ragioni, ma ve le dirà mio marito. C'è altro che volete sapere?» Rue si sentì improvvisamente furiosa. Furiosa e insieme spaventata. L'omino, Funk, che aveva scoperto una statuetta di bronzo su un tavolino, e continuava a toccarla, a esplorarla tutta con quei suoi artigli sporchi, mormorò: «La casa... La figlia...» «Già» convenne Miller. «Più che comprensibile.» «...Da quanto» finì l'altro ritirandosi dietro al tavolino, quasi per scomparire. «Da quanto conoscevate il dottor Hatterick?» «Ho lavorato per otto anni nell'ospedale in cui lavora lui. Avevo diciotto
anni quando... quando fui obbligata a trovarmi un lavoro per guadagnarmi da vivere.» «Otto anni. Allora lo conoscevate da otto anni.» «Esatto.» «Lo conoscevate bene, immagino.» «Adesso basta su questo argomento, Miller» intervenne Andy. «Avete una prova che la signora Hatterick, Crystal Hatterick, sia stata... assassinata?» «Noi abbiamo messo tutte le nostre carte in tavola, dottore. Sapete esattamente qual è la nostra posizione.» «La signora Hatterick ha risposto a tutte le vostre domande. Sarà a vostra disposizione, nel caso dobbiate fargliene altre.» «Smammare» mormorò la vocina di Fulk allontanandosi nel vestibolo. Ma Miller continuò imperturbabile: «D'accordo, dottore. Il cadavere verrà esumato appena ottenuto il consenso del dottor Hatterick. Poi procederemo all'autopsia. Ma se potessimo sapere che cosa cercare, faciliteremmo le cose per i ragazzi del laboratorio. Per caso voi sapete, signora Hatterick, se la prima signora Hatterick prendesse droghe medicinali? Sarebbe di grande aiuto sapere cosa scartare, quando si deve cercare andando per eliminazione.» «Prendeva le medicine prescritte, naturale. Ma niente altro.» «Medicine. Le avete dato la solita medicina la sera in cui morì?» «A questo non è obbligata a rispondere» intervenne in fretta Andy. «Questo non è compito vostro.» «Però sono sicuro che la signora risponderà.» La medicina... Sì, l'aveva presa. Rue ricordò distintamente il piccolo bicchiere già pronto, con la medicina già diluita nell'acqua. Julie l'aveva già preparata e lasciata sul tavolino accanto al paravento. E lei, Rue, gliel'aveva data alle otto. Crystal l'aveva presa e... Sotto i sandalini d'argento, il pavimento ondeggiò e sussultò; le luci tremolarono e si offuscarono; il mondo intero prese a roteare e finì col capovolgersi. Perché quelli avevano ragione: Crystal era veramente stata assassinata. Ed era stata lei, Rue, ad assassinarla. Non intenzionalmente, no di certo, ma in effetti era stata proprio lei a mandare a morte Crystal. Perché era stata lei a dare a Crystal quel bicchiere. Quel bicchiere con la medicina, già pronto sul tavolino. Crystal ne aveva ingoiato un sorso e si era lamentata del sapore. Aveva detto: «È amara. Andy deve avermi cam-
biato medicina oggi.» Poi l'aveva bevuta tutta, mentre lei le stava accanto alacre ed efficiente, nella sua bella uniforme bianca. Travisando inconsciamente i suoi ideali, la sua mano, che doveva conoscere solo pietà e comprensione, aveva invece dato a Crystal il veleno. Sentì la voce di Andy che, con tono aspro e con una nota che le parve di avvertimento, diceva: «Certo che le ha dato la medicina! L'avevo prescritta io: perché non avrebbe dovuto dargliela? Se non l'avesse fatto sarebbe venuta meno al suo dovere.» Mentre parlava, Andy doveva essere riuscito a spingere Miller verso l'atrio, perché sentì le voci allontanarsi. Lei rimase immobile; non si mosse neppure quando Miller tornò a salutarla e a ringraziarla, tenendo in mano il cappello. Non si mosse e non parlò, ma capì chiaramente quello che stava dicendole con lo sguardo: «Ci vedremo ancora, mia bella signora; ci rivedremo, sta' tranquilla. Così sei stata tu a darle la medicina, eh? Lei l'ha presa, è morta, e tu ti sei sposata suo marito.» Andy rientrò: «Se ne sono andati. Prima sei impallidita. Ti è venuto in mente qualcosa? Che cosa?» «La medicina. La medicina gliel'ho data io. Julie l'aveva preparata e lasciata in un bicchiere sul tavolino. Io l'ho preso e gliel'ho fatta bere. Ricordo perfettamente che l'ha assaggiata, mi ha guardata e mi ha detto che era amara. Poi ha riso ed ha esclamato: "Andy deve avermi cambiato medicina, oggi". E l'ha mandata giù, mentre io restavo a guardarla.» Fino a quel momento, fino al momento in cui le era tornato alla mente, e con così tanta chiarezza, quel ricordo preciso, tutta la storia le era parsa irreale, impossibile. Ogni parola che Andy le aveva detta, le era sembrata inventata, verosimile solo su un palcoscenico, su uno schermo, in un sogno fantastico, ma non nella realtà. La realtà erano invece il freddo del vento, l'aggrovigliarsi della gonna alle caviglie, il caldo del caffè che l'uomo l'aveva costretta a bere. Fino a quel momento le erano state chiare soltanto le cose materiali, non quelle di cui avevano parlato. Poi, tutto d'un tratto, mentre Miller la interrogava flemmatico e quel coniglio di Funk esaminava attentamente il tavolino in "bois-de-rose", la memoria le aveva messo davanti quella foto nitidissima. Vedeva il bicchiere nella mano di Crystal, il modo in cui la donna l'aveva guardata, il viso roseo, le labbra vermiglie, i capelli biondi ben pettinati. Aveva fatto una piccola smorfia mentre assaggiava il liquido, ma poi l'aveva buttato giù di colpo, perché era la medicina ordinata da Andy, perché non immaginava certo che contenesse del veleno.
Fino a quel ritorno di memoria, la cosa era stata del tutto irreale; Rue era rimasta scossa, spaventata, con dentro la sensazione dell'avvicinarsi di una grossa burrasca, ma non aveva avuto nessuna certezza, e perciò non aveva provato, fino ad allora, quel senso di terrore che sentiva ora. Ora, invece, lo sapeva, ne era convinta: Crystal era veramente stata assassinata. E Andy lo sapeva, l'aveva sempre saputo... In piedi accanto a lei, lui stava ora osservandola con il viso teso e mortalmente pallido, grave, quasi invecchiato: «Hai detto che l'aveva preparata Julie prima di uscire?» «Sì.» Si passò le dita fra i capelli. «Se era nella medicina, avrebbe potuto metterglielo chiunque. Chiunque fosse in casa... Ma è inutile fare domande, investigare, cercare di sviscerare la cosa ora. Il punto sta nel non ammettere nulla, non dire nulla e sperare che nell'autopsia non salti fuori nulla. Dopo un anno...» «Dopo un anno» fece lei lentamente «potrebbero ancora rintracciare il veleno, se fosse effettivamente stata avvelenata? So che se si trattasse di arsenico lo si rintraccerebbe, ma non può essere arsenico. Non c'era nessuno dei sintomi che gli sono propri.» «Be', si possono rintracciare tutti i veleni organici, o quasi tutti. Il coma e tutto il resto lasciano presupporre morfina, oppio, e forse luminal in grande quantità. Se dovessi pensare a un omicidio... Ma Brule...» Brule era con lei quando Crystal era morta. Era chino sul letto, con le dita esperte sul polso debole della moglie e, alla fine, le aveva sollevato le palpebre e scrutato gli occhi. Rue, inchiodata al ricordo di quella notte, cercò di rammentare tutti i particolari; anche Andy doveva star pensando alla stessa cosa, perché domandò: «Ricordi com'erano gli occhi? Aveva le pupille dilatate o ristrette? C'era qualcosa che...» Lei scosse la testa negativamente. «Non c'era nulla, Andy. Nulla che io ricordi. C'era Brule, e tu sai com'è. Nessuno osa fargli delle domande. È così forte, così sicuro di sé, così certo... Disse solo che era morta. Se non sbaglio, tu arrivasti proprio in quel momento. Ricordo che Brule mi mandò da Madge, che Madge ebbe una crisi isterica, che Steven e io cercammo di calmarla, e che Steven stava male quasi quanto Madge. Dopo, qualcuno mandò a chiamare l'impresa di pompe funebri... Credo sia stato Gross a telefonare. Non ricordo altro. Dove vai?» Andy stava abbottonandosi il cappotto. «Vado a cercare Brule. Se telefona qualcuno, o se viene qualcuno, non dire niente.»
Era uscito quando a lei venne in mente che allora lui sapeva dove si trovava Brule. La casa era immersa nel silenzio. Era la casa in cui Crystal era vissuta, si era sposata ed era morta. Nel salotto faceva freddo; le specchiere dorate sembravano terribilmente vuote, fredde, frivole, eppure di cose dovevano averne viste tante! Malgrado indossasse ancora la pelliccia, rabbrividì. Si alzò, attraversò lo stretto corridoio ed entrò in biblioteca. Lì c'era un piccolo camino di marmo nel quale c'era ancora un po' di fuoco. Si tolse la pelliccia, si inginocchiò, aggiunse legna e riattizzò il fuoco. Avrebbe aspettato che Brule rientrasse. Nella loro breve vita matrimoniale, lei non lo aveva mai aspettato. Istintivamente aveva capito che a lui non avrebbe fatto piacere, che lui non avrebbe voluto che lei assumesse delle arie di possesso nei suoi riguardi. Spinse accanto al fuoco una grossa poltrona di cuoio e vi si lasciò cadere, dopo essersi tolta i sandalini d'argento. Da una moderna cornice di legno al disopra del caminetto, Crystal la guardava enigmaticamente con un mezzo sorriso sulle sottili labbra rosse, e con quel suo sguardo sfuggente, freddo, penetrante, sfolgorante come le perle che portava al collo. Perle che ora appartenevano a Madge. Brule arrivò che era già l'una e mezzo. Fu il rumore della porta a svegliarla. Rue era tutta infreddolita e anche un po' impaurita dal silenzio che regnava nella casa. Si era accoccolata nella grande poltrona e si era tirata la pelliccia sulle spalle. Il fuoco si era spento e lei si era assopita, senza realmente addormentarsi. Nel silenzio della notte si era domandata come fosse possibile dormire in quella casa dove il sonno di Crystal era diventato troppo profondo, senza nessuna possibilità di risveglio. La luce era rimasta accesa; Brule entrò mentre Rue si stiracchiava e cercava di smuovere i muscoli indolenziti. «Rue!» Lei capì subito che era in collera. Il volto, solitamente acceso, era invece pallido, e mostrava delle rughe che gli venivano solo quand'era molto affaticato. I vivi occhi neri sembravano lanciare sprazzi di luce, le sopracciglia erano aggrottate, e persino i baffetti sembravano sottolineare una smorfia di irritazione. Brule era costruito come un soldato; aveva una corporatura solida e muscolosa che denotava una certa cura e ottime condizioni fisiche. La guardò con aria interrogativa, esitò un attimo e si avvicinò al mobile bar. «Mi aspettavi?» domandò chinandosi a prendere dei bicchieri e una bottiglia di whisky.
A Rue la voce si fermò in gola. Di tutte le cose che in tutte quelle ore si era proposta di dirgli, le sembrò che nessuna avrebbe mai potuto trapassare la dura e spessa corazza che, da quando lei lo conosceva, rivestiva il grande e celebre Brule Hatterick. Non rispose. Lui le lanciò un'occhiataccia. «Ne vuoi anche tu?» e senza attendere la risposta, versò il liquido ambrato in due bicchieri. Lei si sentiva di ghiaccio. O forse erano le domande che voleva fare che le irrigidivano la lingua e le rendevano le mani così tremanti? Brule si voltò a porgerle il bicchiere. «Bevi. Vedo che sai già. Chi te l'ha detto? Andy? Be', tanto dovevi pure venire a saperlo. Io...» Si interruppe, sorseggiò un po' di whisky e continuò: «Ho firmato il consenso per l'esumazione della salma di Crystal. Presto sapremo la verità.» 5 Tutte le domande finirono col riassumersi in una sola. Rue posò il bicchiere sul tavolino che aveva accanto e si sporse in avanti; lui la guardò dritto negli occhi, ma lei non era mai stata capace di penetrare al di là di quel viso regolare sempre sotto controllo. Brule si avvicinò al fuoco, stagliandosi eretto contro il marmo del camino. Dall'alto, Crystal guardava in giù osservandoli tutti e due. «È vero?» domandò Rue. «È vero che è stata... assassinata?» Brule sapeva essere o brutalmente schietto o abilmente evasivo. «Cosa ti ha detto Andy?» «Allora non ti ha trovato! Quando è uscito ha detto che sarebbe venuto da te.» L'uomo fissò il bicchiere che aveva in mano, lo inclinò leggermente e disse: «Non vedo Andy dalle sei. Da quel che posso capire, deve averti detto le cose più salienti.» «Mi ha detto delle lettere. Della visita della polizia. A proposito, la polizia è venuta qui stasera.» «Stasera!» esclamò stupito. «Cosa volevano? Ti hanno interrogata? Cosa ti hanno chiesto?» Lei disse in fretta, parola per parola, tutto quello che ricordava. Quando arrivò alla medicina, esitò, ma Brule riuscì subito a farla continuare. «Gliel'hai detto che sei stata tu a darle l'ultima dose di medicina?» «È stato Andy. Ha detto che era più che naturale che gliel'avessi data. Era quanto aveva ordinato lui.»
«È vero?» «Sì.» «Lo ricordi bene?» «Sì. Me ne ricordo benissimo.» «Perché?» «Perché... Perché Crystal disse che era amara, ma poi la bevve ugualmente.» Si era ripromessa di fargli delle domande, e ne aveva ancora l'intenzione, ma invece era lui che interrogava. «L'hai detto alla polizia?» «No, non l'ho detto.» «Perché?» domandò di nuovo Brule osservandola. «Perché io... Brule, devi dirmelo: è stata davvero assassinata?» Per un attimo pensò che lui tentasse di nuovo di eludere la domanda, ma non fu così. Si voltò a posare il bicchiere sulla mensola del camino, poi tornò a guardarla in faccia. «Se proprio vuoi sapere la verità, devo confessarti che non lo so.» «Ma tu cosa pensi? Cosa dobbiamo fare? Cosa...» «Niente. Non possiamo fare assolutamente niente per ora.» «Vuoi dire che...» «Voglio dire esattamente quello che ho detto: non possiamo fare niente. Queste cose richiedono tempo. Forse non scopriranno nulla che... che dia credito ai loro sospetti. Dopo tutto il tempo trascorso, qualsiasi tipo di analisi diventa difficile. A meno che, naturalmente, non sappiano già che cosa cercare. In caso contrario non possono far altro che brancolare nel buio: i veleni mostrano la loro presenza solo dopo molte e svariate analisi. Perciò, a meno che i medici non sappiano già cosa cercare (e mi pare che per ora non lo sappiano), sarà difficile e forse anche impossibile trovare e provare la presenza di sostanze tossiche in quantità letale. L'unica cosa da fare, è tener duro, continuare a comportarci come sempre. Non dico di dimenticarcene, ma...» «Andy ritiene che sia stata assassinata.» La guardò con occhi vivi e nello stesso tempo enigmatici. «Sì, lo so.» «Lo credi anche tu?» «Non lo so, Rue, te l'ho già detto. Quando morì pensai a un suicidio, ma non vidi la ragione per esternare quella mia supposizione. Anche perché non avevo nessuna ragione valida per sostenerla. Eccettuato... Ma c'eri anche tu quand'è morta. Lo sai anche tu che fu una cosa del tutto inaspettata.»
«Ma chi potrebbe averla uccisa?» «Posso solo ripeterti che non lo so. A me sembra molto improbabile che sia stata uccisa. Non credo che la polizia possa trovare delle prove.» «Chi può avere scritto quelle lettere? Deve per forza essere qualcuno che sa qualcosa della sua morte, o sa la verità.» Brule sollevò le sopracciglia. «O qualcuno che vuole crearci dei fastidi. Non so chi abbia potuto scriverle, ma quando questo trambusto sarà finito, intendo scoprirlo.» Quando Brule aveva quella faccia, le infermiere dell'ospedale si facevano piccole-piccole. C'era solo qualcosa di freddo e di oscuro nel suo sguardo, e una specie di linea dura attorno alla mandibola, ma lei lo conosceva bene. «Eppure ci deve essere qualcosa da fare!» «Credimi, mia cara, non c'è proprio nulla. Andy ti ha accompagnata all'opera?» «Io... Io non sono riuscita a starci. Mi ha detto della cosa appena siamo entrati, e ce ne siamo andati quasi subito. C'era anche Alicia. È uscita anche lei poco prima che noi riprendessimo la macchina. Eravamo andati in un drugstore, e quando siamo usciti l'abbiamo vista allontanarsi.» «Davvero? Be', Rue, io vado a letto.» «Ma...» La sua sicurezza la sconcertò. Eppure lui aveva ragione: cosa potevano ancora fare quella notte? «Andy ha detto che avresti cercato di fare qualcosa, di rivolgerti a qualcuno.» «Farò il possibile. Domani viene Guy e decideremo il da farsi, nel caso ci fosse bisogno del suo intervento. Ma tu non ti preoccupare, Rue. Cercherò di ottenere che la polizia non venga a tormentarti troppo. Guy troverà il modo di proteggerti, ne sono certo. Dopo tutto non hanno prove di nessun genere e probabilmente non ne troveranno mai.» «Ma se è veramente stata assassinata...» «Allora?» «Allora non dovremmo fare qualcosa? Dirlo alla polizia...» «E perché?» «Perché... Perché è giusto. Perché...» «Crystal è morta. Madge è viva ed è giovane. E anche tu. Steven è delicato e tremendamente sensibile, e la sua musica non è cosa da poco. E Andy... Andy era il suo medico curante, ed è appena entrato in quella che promette di essere una brillante carriera: perché rovinare cinque vite? Tu
non sai cosa può essere l'inchiesta per un delitto... Ora va a dormire, bambina mia.» Le si avvicinò e, mettendole una mano sotto il mento, le sollevò il viso. La guardò sorridendo. «Quando avrai i miei anni, ragionerai anche tu diversamente. Quanti anni hai, Rue? Venticinque?» «Ventisei.» «Io ne ho quasi quaranta. Ho lavorato sodo tutta la vita e ho imparato a spese mie, a controllare le mie emozioni...» «Tu...» Rue si interruppe bruscamente, frenata da quel suo sguardo così dritto e penetrante. «Stavi per dire che io non ho mai emozioni, vero? Forse. A volte può essere vero. Vai a letto, ora. Qui fa freddo. Io mi bevo un altro scotch prima di salire.» Obbedì. Salì stancamente le scale della casa ormai completamente fredda ed entrò nella stanza che prima era stata di Crystal. Nel suo passato di infermiera, Rue aveva imparato a conoscere la notte. Sapeva come le ore passassero lentamente, e quanto struggimento le mettessero addosso quelle dell'alba. Era abituata al turno di notte ma, quando era infermiera, le sue notti erano sempre piene di compiti che richiedevano abilità ed esperienza e non, come adesso, di domande che la tormentavano, di pensieri orribili che l'ossessionavano. Andy le aveva detto che l'amava. Aveva insistito per farla fuggire con lui, l'aveva pregata di permettergli di salvarla. Evidentemente sapeva cose che Brule non aveva voluto rivelarle... Brule con tutta la sua forza, la sua intelligenza, il suo autocontrollo... Cosa sapeva Brule? Cosa pensava dietro a quella maschera che costituiva la sua faccia? E il giorno dopo ci fu l'episodio di Julie Garder. Rue scese quando Brule era già uscito e Madge era già andata a scuola. Sentì Steven al pianoforte. Evidentemente non sapeva nulla, altrimenti la sua musica non sarebbe stata così serena. Se Brule non gli aveva detto niente, doveva avere avuto una buona ragione per non farlo. Peccato, perché Rue avrebbe voluto parlarne con lui. Ma visto che non gliene aveva parlato Brule, se ne astenne. Prese i giornali dal tavolo nell'ingresso, e diede una rapida scorsa. Quando fu sicura che il nome di Hatterick non compariva in nessuna pagina, lei lesse con più calma. Quando la notizia fosse trapelata, ci sarebbero stati titoloni... un pensiero che la fece rabbrividire. Quando stava creando qualcosa, Steven pranzava nel suo studio; Madge
si fermava a scuola quel giorno, e Rue dovette mettersi a tavola tutta sola nella lunga e stretta sala da pranzo, sotto gli occhi di Gross che osservava impassibile la cameriera che la serviva. Si domandò cosa Gross pensasse, cosa sapesse in realtà, e come Brule fosse riuscito ad assicurarsi il suo silenzio. Perché, altrimenti, la casa sarebbe stata tutto un bisbigliare a proposito di quanto era accaduto. Nel pomeriggio il cielo si oscurò, e tutto d'un tratto si ebbe una delle classiche giornate nere di Chicago. È alquanto strano questo repentino spostamento delle correnti d'aria che raccolgono tutto lo smog e lo convogliano al disopra della città, coprendola completamente. Forse è in parte dovuto alla concentrazione della zona industriale in un solo settore, o forse è solo dovuto alla conformazione e all'enorme superficie del lago Michigan; comunque sia, è ormai una cosa talmente solita che gli abitanti di Chicago l'accettano senza più farci caso: accendono le luci e continuano a fare le loro cose come se le strade fossero illuminate dalla luce del giorno e non, invece, dai lampioni stradali. Talvolta questa coltre, questa specie di notte, si addensa solo nella zona del Loop, la zona degli affari; talvolta comprende una zona più vasta; talvolta lascia libero il Loop e si spinge invece a nord, a ovest o a sud sulla periferia esterna, dove sono costretti a tenere accesi i lampioni per ventiquattro ore intere (o magari per un'ora sola) prima che la cappa nera si dissipi improvvisamente e se ne vada, così com'è venuta. Quel giorno l'enorme nuvola nera stazionava sul Loop e le aree adiacenti, e perciò anche su casa Hatterick, ubicata tra il lago e il fiume, in quella che viene chiamata la zona-centro-nord. Era un posto di grandi alberghi e di moderni grattacieli, ma c'erano anche strade con case alte e strette, l'una attaccata all'altra, già vecchiotte ma troppo belle per essere demolite e sostituite da palazzi più moderni. La casa di Crystal Hatterick era una di queste ultime, con una bella facciata in arenaria, un portoncino di mogano e finestre con vetri da cattedrale. Il seminterrato conteneva ancora la cucina (malgrado la casa fosse già stata ristrutturata con idee moderne), la dispensa, il locale di lavanderia e stireria, e la caldaia per il riscaldamento. Un grosso saliscendi rumoroso portava i cibi in sala da pranzo al piano di sopra e nel lato opposto, con le finestre che davano su un piccolo giardino (in comune col loro vicino di casa, Guy Cole) con un po' d'erba e qualche cespuglio, circondato da un muretto di mattoni. E, al di là del muretto, i minuscoli giardini, i muri scuri, le finestre scintillanti delle case vicine.
Incluso il seminterrato, c'erano in tutto quattro piani. Le camere che davano sulle facciate interna ed esterna, erano naturalmente le più belle perché godevano della luce del sole; mentre tutte le altre, che si aprivano su un corridoio lungo e stretto che dava sulle scale, avevano bisogno della luce artificiale anche di giorno, in quanto non c'era quasi spazio fra i muri laterali, quasi a ridosso delle case adiacenti. La vista deprimente di quei muri così vicini era mascherata da pesanti tendaggi, che però toglievano quel po' di luce che sarebbe potuta filtrare. Lo studio di Steven era stato aggiunto in un secondo tempo, usufruendo di una parte del vestibolo e prolungandolo nel piccolo giardino. Ne era risultata una stanza lunga e stretta che prendeva luce da un grande bovindo, e alla quale si accedeva da una porta ad angolo retto con quella della sala da pranzo. Lì c'era il grande piano da concerto di Steven, il suo tavolo da lavoro, la sua radio, il giradischi, un armadio pieno di dischi e di spartiti. La casa, anche se un po' buia, era in buona posizione, ed era sempre stata tenuta molto bene fin dall'inizio. Aveva costituito uno degli interessi principali di Crystal: le tappezzerie, i quadri, i tappeti, i pezzi d'arte (tutti autentici e tutti scelti con molta cura) erano stati un fattore costante nella vita di Crystal. Ma Rue, specialmente quel giorno, quella casa l'odiava. E, più di tutto, odiava la sua camera da letto, l'ex camera di Crystal, dove infine si ritirò ad aspettare. Ad aspettare notizie sull'imminente catastrofe, ad aspettare che Andy le telefonasse, ad aspettare che Brule tornasse a casa, ad aspettare, senza saperlo, Julie Garder. Perché, a un certo momento del pomeriggio, Gross venne ad annunciarle la visita della signorina Garder. «Scendo subito.» Ma poi cambiò idea. Si sentiva solo il suono del pianoforte di Steven; la casa sembrava troppo vuota e troppo silenziosa; e anche troppo cupa in quella giornata così grigia. «No, fatela salire, per favore. E ordinate il tè. Ce lo porterete appena pronto.» Julie. Chissà come mai era venuta da lei... Ma era chiaro: erano state loro le infermiere di Crystal e fra tutte e due sarebbero riuscite a ricostruire almeno parte della verità. Rue si meravigliò di non avere pensato subito di rivolgersi a Julie. Se non fosse stata così stranamente paralizzata dalla paura, sarebbe potuta andare lei stessa dalla sua ex-collega, sarebbe potuta andare in ospedale a parlare con lei nell'intervallo di riposo... Sentì il morale rialzarsi. Non vedeva l'amica da quando si era sposata. Avevano frequentato in-
sieme la scuola per infermiere; Julie era una ragazza asciutta con grosse mani da lavoratrice, instancabile, dai riflessi un po' lenti, solitaria, sempre alle strette per mancanza di soldi, che superava sempre gli esami per il rotto della cuffia. Dopo avevano esercitato insieme, e insieme avevano fatto lunghe code per conquistarsi un posto in loggione o al cinema. Si erano passate l'un l'altra calze e camicette, avevano odiato di eguale intensità la capo infermiera e di eguale intensità avevano adorato il loro eroe, Brule Hatterick. La base per la loro amicizia, un'amicizia vera, autentica, erano state la costante vicinanza e le esperienze condivise. Un'amicizia che era durata fino al matrimonio di Rue, quando Julie si era messa in disparte, in silenzio, perché, anche se non l'aveva mai detto, disapprovava quel matrimonio. Ad ogni modo, ora Julie era venuta da lei. Rue andò a spostare una poltrona per avvicinarla di più al caminetto, si assicurò che ci fossero sigarette a portata di mano. «La signorina Garder» annunciò Gross. «Julie!» «Ciao, Rue.» Si strinsero la mano. Julie era come sempre, con qualche ruga di espressione un po' più profonda. Aveva un cappotto e cappello un po' consunti e un po' fuori moda, e gli occhi bruni, ma slavati, sembravano stanchi e arrossati. Guardò Rue, sbatté stranamente gli occhi, e ripeté: «Ciao Rue.» «Cos'hai Julie?» «Niente.» E andò a cercare un posto in cui sedersi. Si lasciò cadere quasi di schianto, annaspando con le mani alla ricerca dei braccioli. «Dammi il cappotto.» «Il cappotto... OK...» Guardò fissa Rue facendo un evidente sforzo per parlare. Rue voleva dire qualcosa, ma si frenò. Le andò vicino, le prese borsa e guanti che pareva stessero per scivolarle dalle mani. Julie sollevò faticosamente un braccio per spingere indietro il cappello, sempre continuando a fissare l'amica. «Ma Julie, tu hai bevuto!» Che strano: quella ragazza non aveva mai bevuto, era completamente astemia. «Solo un cocktail.» Le labbra sottili si aprirono in un sorriso che sembrò una smorfia: «Solo un piccolissimo cocktail rosa. C'era qualcosa che dovevo... Sono venuta apposta. Questo... lo sai.» Si voltò per fare un cenno
verso il letto. «Crystal Hatterick... assassinata. Io so... qualcosa di questo. E anche tu... lo sai. Sono venuta per dirtelo, ma adesso non te lo dico. Capisci Julie... no, capisci Rue? Non devi dire niente, neanche una parola. I ricordi il più delle volte sono sfasati... Ricordatelo Julie... voglio dire, Rue. Rue Hatterick moglie di Brule Hatterick. Crystal Hatterick uccisa... I ricordi possono ingannare... Ti ingannano... Io ero qui, proprio in questa stanza. Ricordo il paravento...» e Julie chiuse gli occhi lasciando cadere la testa in avanti. «Cosa vuoi dire Julie? Cos'è che so? Julie, svegliati! Dimmi tutto!» «Ho sonno. Ho cambiato idea... Non prestare fede ai ricordi...» «Julie!» Esitò un istante, poi attraversò decisa la stanza e suonò il campanello due volte per far portare subito il tè. Una bella tazza di tè caldo e forte era quello che ci voleva. Gross arrivò quasi immediatamente. Rue non voleva che l'uomo vedesse Julie in quello stato: prese lei stessa il vassoio dalle sue mani, e andò a posarlo sul tavolino davanti al caminetto. Julie non si svegliò; Rue tornò alla porta dietro al paravento per richiuderla, escludendo così anche la musica di Steven, un motivo che riconobbe immediatamente, una delle ultime sue composizioni, piena di violente dissonanze. Capì di essere molto agitata solo quando, tornata al tavolino, cercò di versare il tè nelle tazze, ma il tremore delle mani gliene fece rovesciare un po' fuori. Attese che si raffreddasse un po', lo mescolò, sempre osservando l'amica. Poi, con la tazza si avvicinò a Julie e le sollevò la testa. «Svegliati. Ascoltami Julie. Svegliati e bevi questo.» L'altra socchiuse gli occhi. «Ho già bevuto un cocktail» farfugliò con sforzo. «Non voglio altro.» «Bevilo» ordinò Rue, portandole la tazza alle labbra. La ragazza lo mandò giù senza neanche trasalire al calore; bevve come se non sapesse di stare bevendo. Ne bevve forse mezza tazza, prima di cominciare a tossire e di crollare pesantemente contro un lato della poltrona. Il cappello le volò via; i capelli schiacciati alla testa e non molto in ordine, le davano un'aria indifesa. Rue prese un cuscino e cercò di metterglielo sotto la nuca per farla stare un po' più comoda. Però c'era qualcosa che non andava, perché non riusciva a fare stare la testa sul cuscino. Non riusciva a tenere Julie eretta... Per abitudine, le dita corsero subito al polso.
Corsero lungo il polso ossuto e pallido a cercare febbrilmente, con terrore, un battito che non c'era. «Julie! Julie!» Non fu un vero grido, perché la paura gliel'aveva soffocato. Il corpo scialbo e minuscolo di Julie scivolò lentamente dalla poltrona, rimase un istante in una strana posizione inginocchiata, poi si ammucchiò sul tappeto. Rue voleva chinarsi, ma non riusciva. Non riusciva a chinarsi su quel tappeto per tastare ancora quel polso troppo calmo. No, non poteva. Ma lo fece. Chissà come i muscoli le obbedirono. Ma non c'erano più pulsazioni in quel polso magro; nessun battito di cuore sotto il golfino logoro. E nessun segno di vita, quando Rue costrinse le sue dita a fare quello che era stato loro insegnato, a sollevare le palpebre dell'amica. Da qualche parte ci fu un rumore, ma lei non lo sentì. Non capì che Alicia Pelham era entrata nella camera, finché non sentì la sua voce fredda dire: «Cosa succede? È una tua amica? Direi che ha bevuto troppo.» Rue sollevò lo sguardo. Alicia, in mantello nero e cappello di pelliccia, le guardava divertita. Si sentì dire: «È morta... Julie è morta.» Non le parve strano vedere Alicia nella sua stanza. In quel momento non le sarebbe sembrato strano nulla, tanto era stupita di quella morte improvvisa. Ripeté, quasi gridando: «Julie è morta! L'hanno uccisa! Cosa dobbiamo fare, Alicia?» Nel silenzio della casa, si sentiva solo, lontano, il suono del pianoforte di Steven che continuava a emettere note dissonanti, che continuava imperterrito senza interrompersi mai, come se non fosse successo nulla, come se Julie non fosse morta. Dovevano fare qualcosa. Chiamare un medico... Ma cosa poteva fare un medico? Julie era morta: Rue sapeva riconoscere la morte. Alicia, bellissima nel cappottino da pomeriggio nero con una sciarpina di zibellino che le usciva dalla scollatura, e il cappello (anch'esso di zibellino) elegantemente appoggiato sui capelli neri spruzzati d'argento, si chinò a guardare il corpicino afflosciato sul tappeto. Si tolse un guanto e sfiorò la guancia di Julie con le lunghe dita diafane illuminate da un enorme smeraldo. Le ritrasse di scatto, si alzò e fissò Rue inorridita. In quel momento non era più bella. Con il viso terreo e le labbra tirate, lanciò un grido puntando una mano verso il tappeto e il corpo che era sci-
volato su di esso: «È morta! L'infermiera è morta! E così, ci sei riuscita di nuovo!» 6 Non si poteva equivocare sul significato delle parole, che squarciarono come una pugnalata il velo di orrore e di smarrimento. Ma lei le ripeté: «Ci sei riuscita di nuovo. Esattamente come per Crystal. Con il veleno. Immagino ti abbia ricattata. Sapeva cos'era successo, è venuta da te... Dove vai?» Erano i piedi a spingerla verso la porta. Rue si sentiva come senza corpo, leggera; non si accorgeva di muoversi. «Fermati. Dove vai?» Alicia la seguì col piccolo viso proteso in avanti, gli occhi accesi e duri, quasi selvaggi. La sua accusa era stata terribile, ben lontana dai suoi modi sempre così civili e sofisticati. «Mando a chiamare la polizia.» Suonò il campanello. «La polizia! Vuoi dire che vuoi consegnarti tu stessa alla giustizia?» «Non sono stata io a uccidere Julie. Così come non sono stata io a uccidere Crystal.» Gli occhi di Alicia erano troppo sfavillanti: Rue ebbe l'impressione che avessero un lampo di trionfo e di certezza, come se l'occasione le avesse posto fra le mani bellissime un'arma molto potente. Continuando a fissarla, Alicia proseguì: «Tu eri presente quando Crystal è morta. Eri tu che ti occupavi di lei quando... quando sopravvenne la morte. E poi, poco dopo, hai sposato Brule.» «Se Brule fosse qui...» «Se Brule fosse qui mi sentirebbe anche lui.» «La signora ha chiamato?» Gross, sulla porta, aprì la bocca per aggiungere qualcosa, vide Julie e rimase impietrito. Alicia respirava in fretta, con le sottili labbra rosse un po' tirate sui denti perfetti; nel silenzio improvviso Rue si accorse che Gross aveva trattenuto il respiro, facendo poi uno sforzo per aspirare aria. Pallidissimo e incapace di reagire, aveva rivolto gli occhi pallidi ad Alicia per avere istruzioni: «Che cosa...» E Alicia, pronta: «La signorina è morta. È stata uccisa. Qui, in questa stanza.» Come doveva odiarla Alicia, pensò Rue. E come l'aveva ben nascosto per tutto quel tempo... Ma non era quello il momento per pensare a certe cose, non con Julie morta, lì sul tappeto. Ma anche se ci fossero state dieci
Alicie, lei era pur sempre la signora Hatterick, la padrona di casa. «Gross! Guardatemi.» «S... sì, signora.» Lo fece con riluttanza, lasciando capire che avrebbe preferito ricevere ordini da Alicia. Ma Rue continuò risoluta: «Chiamate il dottor Hatterick al telefono. A quest'ora dovrebbe essere in studio. Voglio parlargli.» Il maggiordomo abbassò gli occhi, e lei aggiunse dura: «Mi avete sentita, Gross?» «Sì. Sì signora.» Andò al telefono posato sul tavolino da notte. Nel silenzio della stanza, le due donne poterono addirittura sentire la voce della segretaria. «Non è in studio, signora» fece Gross posando il ricevitore e volgendo lo sguardo al misero corpo sul tappeto. «Non...» «Chiedete dove può essere.» «Ha detto di provare in ospedale.» In quel momento Rue si ricordò di Steven. «Bene, allora cercatelo là. Ma prima andate a chiamare il signor Steven.» «Sì, signora.» Posò il telefono con evidente sollievo e sparì. «Steven? Come mai non chiami più la polizia?» Rue non rispose. Tornò accanto a Julie. Non era possibile che fosse realmente morta... Si obbligò a chinarsi di nuovo sull'amica. Ma non c'era nulla che lei potesse fare... Sentì gli occhi accesi, stranamente trionfanti di Alicia, sulle sue spalle. Sì, doveva riprendere il proprio controllo, pensare chiaramente, non commettere errori. Se non riuscivano a rintracciare Brule, allora doveva agire lei, non Alicia o Steven. Era stato un errore il dire di voler chiamare la polizia; non c'era nessuna ragione... nessuna ragione valida per credere che Julie fosse stata assassinata. Prima dovevano far venire un medico: sarebbe spettato a lui dire perché era morta. E, se diceva che era stata uccisa, allora, ma solo allora, avrebbero dovuto chiamare la polizia. Julie... Rue tornò col pensiero agli anni in cui vivevano insieme. Julie non beveva mai, proprio mai. Perciò, inesperta com'era degli alcolici, avrebbe potuto essere avvelenata con facilità perché non sarebbe stata in grado di distinguere il sapore del veleno. Un forte ipnotico, per esempio, che non avrebbe causato nausea... «Credevo saresti corsa a chiamare la polizia» osservò Alicia appoggiata allo schienale di una poltrona. «Come mai non l'hai fatto?»
Di nuovo Rue si rifiutò di rispondere alla provocazione contenuta nella voce dell'altra donna. In quel momento non le importava nulla dei suoi sentimenti verso di lei. Dalla scala arrivò, agitatissimo, Steven Hendrie. «Gross mi ha detto...» Vide Julie e si interruppe, come aveva fatto il maggiordomo poco prima. «Buon Dio! È veramente morta? Cos'è successo?» «Dobbiamo far venire un medico. Se non si trova Brule, bisognerà chiamare un altro.» Alicia sorrise, un sorriso appena accennato. «Perché non Andy? Lui dirà tutto quello che tu vuoi che dica. L'ha già fatto un'altra volta, no?» Steven le lanciò uno sguardo turbato. Chino accanto a Rue, pallido, con gli occhi vivi e penetranti. «Sicuro. Se non riusciamo a trovare Brule possiamo chiamare Andy. Anche se... Gross...» Il maggiordomo era sulla porta. «Mi sono già preso la libertà di farlo, signore. Il dottor Hatterick non era in ospedale, ma gli ho lasciato un messaggio. Subito dopo ho telefonato al dottor Crittenden. Sarà qui a minuti. C'è... c'è altro?» «Aspettate» lo fermò Steven. «Rue, sei sicura che sia morta?» «Sì. Purtroppo non c'è più niente da fare.» «Com'è successo?» «Non lo so. Ha bevuto un po' di tè e... ed è morta.» «Il tè» ripeté Gross dalla soglia, con una voce strana. Alicia volse lo sguardo a lui, e poi di nuovo a Rue. «Meno male che ci sei tu, Steven. Guarda, guarda bene: c'è il vassoio del tè; c'è la tazza da cui quella poveretta ha bevuto... È ancora mezza piena. Guarda attentamente, per ricordare bene.» «Cosa vuoi dire, Alicia? Non vorrai insinuare che...» Gli occhi di Alicia sembrarono lanciare fiamme: «Hai forse dimenticato com'è morta Crystal?» Gross, impietrito sulla porta, emise un gorgoglio. «Alicia, non puoi andare in giro a dire cose simili. Crystal non è stata uccisa. Cosa vorresti dire?» «Possibile che tu non ci abbia mai pensato, Steven? Non ti sei mai domandato com'è che Crystal è morta? Se tu non l'hai fatto, l'ha fatto certamente la polizia. Ritengono che Crystal sia stata assassinata.» «Ma che dici! Tu sei impazzita! Nessuno può pensare che Crystal sia stata assassinata. Chi mai avrebbe potuto voler fare una cosa simile?» Ma Alicia continuò con voce chiara, ferma, sicura e anche trionfante.
Non si era neppure alterata nel parlare: era, come sempre, composta e graziosa, senza neanche un capello fuori posto, con le belle mani affusolate che poggiavano tranquille sulla grande borsa nera. «Prova a domandarti chi c'era con Crystal quando lei è morta. Chi avrebbe potuto somministrarle il veleno senza destare sospetti di sorta... in modo che morisse come quella poveretta... In coma, senza alcun sintomo di avvelenamento. Chi è che ci ha guadagnato dalla morte di Crystal? Chi... Buon Dio, Steven! Possibile che tu sia cieco quanto Brule?» «Vuoi dire che... Che è stata Rue?» Alicia sorrise con condiscendenza, come un'insegnante davanti a un allievo mentalmente ritardato. «Evidentemente l'infermiera, quella Julie Garder, deve essersi posta anche lei le stesse domande, e ha fatto la stessa fine che ha fatto Crystal.» Si sentì un movimento accanto alla porta. Gross, dimentico di tutte le norme che gli erano state inculcate, si lasciò cadere sbalordito sul bordo di una poltrona, come se gli fossero mancate le ginocchia. «Rue, hai sentito cos'ha detto Alicia? No, non può essere vero, ne sono sicuro.» Però gli occhi dolci e profondi di Steven la fissavano con aria interrogativa, e chiedevano, imploravano una parola che lo rassicurasse. «No, Steven, non è vero. Non so perché accusi proprio me.» Alicia afferrò al volo l'occasione e assunse un tono velatamente melanconico. «Io ero la migliore amica di Crystal. Sono fidanzata con te, Steven, e ti amo. Come posso starmene tranquilla nel vedere che ti lasci abbindolare da...» Si controllò, ma in modo da lasciar capire che faticava a controllarsi. Io non accuso nessuno. Steven si passò le dita nei capelli già scarmigliati. Invece della giacca portava un pullover marrone, aveva il colletto della camicia sbottonato e la cravatta allentata, e ai piedi aveva delle comode pantofole di lana. «Io non so proprio cosa fare.» Si voltò. «Gross!» Il maggiordomo balzò in piedi ma non riuscì a riprendere la compostezza solita. Sembrava vecchio e senza forze: «S... sì, signore.» «Siete stato voi a far entrare la signorina... la signorina Garder?» «No, signore. Se volete sapere se sono stato io a far entrare in casa la signorina, no. Non sono stato io.» «Ma siete stato voi ad annunciarla» intervenne Rue. «Siete stato voi a dirmi che la signorina Garder voleva vedermi.» «È quello che ha detto la signorina, signora. Ma era già in casa. Io... io spero di non aver commesso nessun errore. Spero che la polizia... Non a-
vevo intenzione di far male. Era una cosa strana, ma non ho ritenuto fosse così grave da doverla riferire alla signora.» «Cosa intendete dire?» domandò Steven. «Voglio dire, signore, che la signorina era già in casa. L'ho trovata seduta in salotto, al buio, quando sono entrato per accendere le luci. Sembrava... sembrava stesse aspettando. Disse che era venuta per vedere la signora Hatterick, e che avvertissi subito la signora. E così ho fatto.» Alicia ascoltò attenta, col bellissimo viso liscio come porcellana e altrettanto duro. «Ma allora chi l'ha fatta entrare? Qualcuno deve pur averle aperto la porta.» «Non lo so, signorina. Io... io sono rimasto molto sorpreso nel trovarmela davanti. Non ho fatto domande... Non potevo sapere... Se si tratta di delitto...» Julie, nella casa silenziosa, che aspettava nel buio del salotto... Rue ripensò al silenzio pesante di quel giorno, alla calma e alla quiete assoluta che erano regnati in casa. Non aveva percepito nessun rumore che denotasse l'arrivo di qualcuno. Non aveva sentito muoversi nessuno. Eppure, se Julie era in salotto... Che avesse bevuto il cocktail in salotto mentre l'aspettava? Ma in quel caso, avrebbe dovuto esserci qualcuno a darglielo. In casa c'erano solo lei e Steven... E Alicia, come aveva fatto Alicia a entrare? Quando era arrivata? Chi le aveva aperto? «Quand'è arrivata la signorina Alicia, Gross?» Il maggiordomo aprì la bocca per parlare, ma Alicia fu più svelta. «Che razza di domanda, Rue. Sono venuta a trovare Madge. Dopo tutto, questa è quasi come se fosse casa mia. Lo è da anni. Sono sempre andata e venuta come meglio mi pareva. Sono sempre stata un membro della famiglia, io.» Lasciando chiaramente capire che l'intrusa, l'estranea era lei, Rue, ma che ci sarebbe rimasta solo per poco. Poi, ancora più secca e fredda, concluse: «Comunque, questo non è né il momento né il posto per litigare con me.» Sembrò che Steven non avesse sentito le parole di Alicia. Continuava a fissare il corpicino sul tappeto. «Non possiamo adagiarla sul letto? O coprirla, almeno? Perché non andiamo in un'altra stanza? Se non possiamo fare nulla...» «Non possiamo spostarla. Se è stata uccisa...» «Vedi quant'è bene informata? Sta cercando di dirci che non possiamo toccare il cadavere finché non interviene la polizia! Oh Steven!» E Alicia corse a rifugiarsi nelle sue braccia, appoggiando il bellissimo viso a quello di lui, aggrappandosi con le mani alle sue braccia. «Steven, scusami: mi
rendo conto che non avrei dovuto lasciarmi travolgere dai sentimenti! Ma non ho potuto farne a meno: è talmente tanto tempo che rimugino questi sospetti, che mi ripeto che è impossibile! Me lo sono detto e ripetuto decine di volte, mi sono sforzata di essere gentile con Rue, ho cercato anche di aiutarla. Ho pensato che la mia amicizia per Brule e il mio amore per te fossero sufficienti a cancellare i miei dubbi, e che fosse mio dovere fare in modo che la vita per voi due scorresse nel modo più tranquillo possibile. Mi sono data da fare per creare amicizie per Rue, le ho dato una mano per quanto riguardava il personale, credimi. Ma adesso questo prova quanto tutto sia stato inutile. No, Steven, io non posso più starmene zitta. Come faccio a sapere se tu sei al sicuro? O Brule? O Madge? Voi siete la mia famiglia, le uniche persone al mondo che io amo. Possibile tu non capisca, Steven?» Com'è bella, pensò Rue sentendo una fitta al cuore. Come può, un uomo, resistere alla sua bellezza? Steven, pallido e perplesso, stava guardando l'ovale perfetto del viso di Alicia. Le prese una mano. «Lo so come ti senti, cara. Immagino sia naturale che tu provi un certo risentimento a vedere il posto di Crystal occupato da un'altra donna, ma non... non devi lasciare che i tuoi sentimenti ti...» Si interruppe di colpo. Sulla soglia erano comparsi Brule e Andy. Rue non sapeva da quanto fossero lì, ma ebbe l'impressione che avessero assistito a tutta quella scena madre di Alicia... O, se non l'avevano vista, avevano però sentito la sua voce dalle scale o dal corridoio. «Dov'è?» domandò Brule guardando al di là del cognato e di Alicia. Brule avrebbe saputo cosa fare, si rassicurò Rue. L'uomo non guardò nessuno; mosse subito verso Julie seguito da Andy. Nel silenzio assoluto, la sua voce suonò preoccupata e grave. «Niente da fare.» «Ho l'impressione che abbia bevuto» osservò Andy. «Anch'io. Direi che si tratta di un ipnotico potente. Guarda gli occhi.» «Ho visto.» Andy si alzò e cercò Rue con occhi pieni d'ansia. Anche Brule si alzò; guardò tutti quanti, gravemente, ma quando incontrò lo sguardo di Rue, non le rilanciò alcun messaggio particolare. Era cupo e preoccupato; si tolse il cappotto e lo lasciò cadere su una seggiola. «Gross!» «Sì, signore.» «Prendete un lenzuolo. Rue, dimmi esattamente cos'è successo.» «È morta esattamente com'è morta Crystal» interloquì Alicia.
«Alicia, per favore! Dimmi, Rue.» «È venuta a trovarmi. Mi ha detto di aver bevuto un cocktail e mi è sembrata addirittura ubriaca. Strano, perché Julie non ha mai bevuto. Ho ordinato il tè e gliel'ho dato. E mentre lo beveva è... è morta.» «Com'è morta?» Rue inghiottì a vuoto. Senza accorgersene portò le mani alla gola, premendo il corpo snello contro la poltrona che aveva davanti. «Ha perso conoscenza, come uno che ha bevuto troppo. Ha detto qualche parola...» Lo sguardo di Brule si fece acuto. «Oh, ha parlato?» «Solo qualche parola vaga e senza senso.» «Perché era venuta da te? La aspettavi?» «No, ma penso sia venuta per... per Crystal. Doveva sapere qualcosa di Crystal. Credo si sia allarmata per le indagini della polizia e...» Steven sollevò gli occhi. «La polizia? Ma allora Alicia aveva ragione...» «Oh, Steven, se solo tu avessi un po' più di fiducia in me! E tu, Brule, come puoi parlare con lei così tranquillamente? Come se tu credessi... Con quella ragazza morta esattamente com'è morta Crystal...» «Guarda che stai parlando di mia moglie.» Nel silenzio che seguì, Alicia tentò un risolino che, anche se debole, riuscì ugualmente e inequivocabilmente sprezzante: «Tua "moglie"!» Poi, mentre Brule si voltava verso il tavolino da notte, domandò: «Cosa farai ora?» «Chiamerò la polizia, naturale.» Sollevò il telefono e fece il numero, mentre gli altri restavano a sentire quanto diceva. Andy si spostò per far posto a Gross che, entrato in punta di piedi, andava a stendere con cautela un lenzuolo sul corpicino afflosciato davanti al caminetto. Dalla porta fecero capolino due cameriere con l'aria spaventata. Infine Brule diede l'indirizzo: «Ritengo si tratti di omicidio... Sì, d'accordo... Non toccheremo nulla.» Riattaccò. Subito fece un altro numero e chiamò Guy Cole. «Puoi venire subito? Sì, prima che arrivi la polizia... Sì, è per quanto ti ho accennato ma... ha avuto uno sviluppo imprevisto. L'infermiera di Crystal, l'infermiera di giorno, è stata uccisa. Qui, in casa...» Sentirono tutti l'esclamazione di Guy e il rumore del ricevitore abbassato precipitosamente. Brule posò il suo, continuando a fissarlo assorto. Nel viso impenetrabile, solo la mascella sembrava un po' più tirata e gli occhi un tantino più accesi. Rue pensò che doveva aver operato tutto il giorno, per-
ché aveva l'aria stanca ma soddisfatta, un qualcosa che si intravvedeva appena, ma abbastanza chiaro agli occhi suoi. Nel silenzio, pareva di dover avvertire il lavorio del suo cervello che considerava ogni cosa, predisponeva i vari passi da fare, cercava di prevedere gli sviluppi futuri... erano tutti in attesa. Andy si tolse il cappotto e lo posò su una poltrona; Steven continuò a guardare il cognato; Gross mosse verso la porta a testa bassa e grigio in volto; Alicia... Alicia sembrava un manichino con la faccia di alabastro e gioielli al posto degli occhi. «Scendete tutti in biblioteca. Tutti. Guy viene subito. Sarà presente quando la polizia vi interrogherà. Non vi permetterà di fare delle ammissioni pericolose ma, naturalmente, dovrete dire la verità. Dite esattamente cos'è accaduto, nient'altro. Non date informazioni non richieste. Attenetevi ai fatti, a quel che sapete realmente. Se Guy vi dice di non rispondere, non rispondete. Fate esattamente come vi dice lui.» «Cosa c'è di vero sul fatto che Crystal sia stata assassinata, Brule?» volle sapere Steven. «È vero che è in corso un'indagine?» «È vero. Ma non credo che la polizia abbia delle prove. Comunque non è su questo argomento che verrete interrogati.» S'interruppe per pensare a cos'altro suggerire ancora. «Già, forse c'è un collegamento fra le due cose. Ci siamo dentro tutti quanti, ora.» Commentò Andy lentamente. «Ma non capisco perché tu abbia detto alla polizia che si tratta di omicidio... parlo dell'infermiera: per me potrebbe anche trattarsi di suicidio o di un incidente. La ragazza probabilmente era già stata interrogata dalla polizia ed è venuta per parlare con Rue. Comunque sia andata, direi che l'indagine le ha fatto sorgere dei sospetti; può aver ricordato qualcosa che aveva intenzione di riferire a Rue e...» «Sì, è esattamente quello che voleva fare.» Lo sguardo di Brule la costrinse al silenzio. Non ne capì il significato, ma capì che doveva tacere. Brule espresse il proprio pensiero con frasi molto concise. «Se Julie sapeva realmente qualcosa, se Crystal è stata realmente uccisa e se l'assassino sapeva che Julie sospettava qualcosa, allora l'ha fermata prima che potesse rivelarlo. È ovvio, come dirà subito la polizia.» «Ma... Ma non è certo, Brule, e lo sai. Ammettendo che Crystal sia stata uccisa» dichiarò Andy turbato «ammettendo che la ragazza sapesse effettivamente qualcosa che potesse portare sulle tracce dell'assassino, ammettendo che volesse dire a Rue quello che sapeva, non sarebbe stato invece più logico che andasse a dirlo alla polizia?»
«Ho parlato di omicidio perché la polizia lo riterrà tale. Tanto vale chiamarlo con quel nome, visto che la polizia lo chiamerà così. Se viene provato che si tratta di un incidente o che è un suicidio, tanto meglio... Anche se Dio solo sa perché avrebbe dovuto venire proprio qui per uccidersi. .. Ad ogni modo lasciamo che sia la polizia a pensarci. Voi non state a cavillare sulle loro conclusioni: parlate subito di omicidio.» «Brule ha ragione» ammise Steven. «Da solo non ci sarei arrivato.» «Scusate, signore.» «Sì, Gross?» «È arrivato l'avvocato Cole.» Brule si alzò con l'elasticità di movimenti che gli era propria. «Scendete tutti. Io resto qui. Tu fermati, Rue. Vorrei parlarti.» Steven e Alicia uscirono insieme, tenendosi abbracciati. Rue si sentiva più tranquilla ora che in casa c'erano Brule e Andy. Forse perché Brule aveva preso lui in mano il controllo della situazione, o forse perché si era subito occupato di Julie, e se fosse stato possibile fare qualcosa, l'avrebbe fatto. «Rue, dimmi in fretta, ma con precisione, cos'è successo. Non tralasciare nessun particolare.» Fece una pausa e aggiunse quasi con dolcezza: «Non tremare così. Devi dirmi tutto, dall'A alla Zeta: a che ora è arrivata, dove si è seduta e, soprattutto, che cosa ti ha detto.» Diede un'occhiata alla porta. Erano già tutti usciti, ma lui abbassò ugualmente la voce, posò le mani sulle spalle della moglie e l'attirò più vicina in modo da poterla guardare dritto negli occhi. «Julie sapeva qualcosa sulla morte di Crystal? Perché vedi, se sapeva qualcosa e te l'ha detto, se adesso sei anche tu a conoscenza di qualcosa, allora corri anche tu il suo stesso pericolo.» Rue si sentì il cuore in gola. «Il... suo stesso... pericolo...» Lo sguardo di Brule si fece un po' meno duro. «Non aver paura. Tu sei mia moglie e io farò di tutto per proteggerti.» Rimasero per un attimo a fissarsi in silenzio, silenzio subito interrotto da un suono lancinante, ancora lontano, che però aumentava sempre di più, man mano che si avvicinava. Un suono bitonale che si faceva sempre più vicino e sempre più intenso e assordante. Era la volante della polizia che si precipitava su di loro come un enorme uccello rapace, urlando il suo trionfo nelle strade quasi buie. Brule rimase in ascolto, stringendo ancor più le mani sulle spalle di Rue. «Presto. Dimmi cosa ti ha detto Julie.»
7 Lei parlò in fretta, mentre l'urlo della sirena si avvicinava sempre più. Quasi ipnotizzata dallo sguardo penetrante di Brule, Rue riferì ogni piccolo particolare. Parlò dell'andatura incerta dell'amica; delle parole pronunciate in modo disordinato, come in preda all'alcol; di come avesse confuso i nomi chiamandola Julie; del suo insistente ripetere che non si doveva prestare fede alla memoria; di come avesse asserito di sapere qualcosa sulla morte di Crystal e di come avesse affermato che lo sapeva di certo anche lei, Rue. «Cos'è che sapeva?» «Non lo so. Non posso credere che... È stato tutto così improvviso. Io non so di che si tratti. Julie pensava che io lo sapessi, ma io non lo so. Non so nulla, assolutamente nulla.» Rue fu costretta ad alzare le voce nello sconcertante crescendo di rumori al piano di sotto; poi, di colpo, il silenzio più assoluto, un silenzio ancora più minaccioso del fischio della sirena. «Adesso devi andare giù. Ascoltami, e fai esattamente quello che ti dico. Non riferire alla polizia quanto ti ha detto Julie: equivarrebbe a metterti in pericolo con le tue stesse mani. Io ti parlo francamente perché è necessario che tu lo sappia. Ricordati che, quasi certamente, Julie è stata uccisa proprio perché stava per venire a parlare con te.» «Parli come se tu sapessi chi è l'assassino!» «Guarda che è come dico io. Cercheremo tutte le vie d'uscita possibili, ma può anche non essercene nessuna. Si tratta certamente di un delitto: temo non ci possa essere alcun dubbio.» Si staccò da lei, si avvicinò alla finestra, guardò giù nella crescente oscurità di quella giornata tetra e si rigirò in fretta. «Stanno arrivando. Ci sono tutti... Oh Dio! Ricordati di dire esattamente quel che ti ho detto: che Julie sembrava confusa e che ha detto solo parole senza senso. Batti su questo punto. Non so cos'altro dirti per essere più convincente. Mi hai capito?» «Sì. Non devo riferire nulla di quanto ha detto Julie. Devo dire che non conosco nulla che possa pensare all'omicidio per quanto riguarda Crystal.» «Esatto. Ascoltami, Rue...» Si sentirono dei passi sulle scale. Gente, voci, movimenti avevano invaso la casa quasi all'improvviso. Brule le prese una mano. «Rue, noi siamo sempre stati fianco a fianco nei momenti difficili, quando era in gioco una vita. Dobbiamo esserlo anche adesso.» «Sì, Brule.»
La guardò un secondo o due senza parlare, poi, di colpo, la strinse fra le braccia. Per un attimo lei sentì la pressione della sua spalla e il calore del viso premuto contro il suo. Un attimo, poi lui la lasciò andare. «Vai, Rue; scendi con gli atri. Segui le indicazioni di Guy e ricorda quanto ti ho detto. Io resto ad aspettare la polizia.» Quando lei uscì, i poliziotti erano già sulle scale. Si appiattì contro il muro, mentre Gross l'accompagnava nella stanza da letto, la "sua" stanza, la stanza che, prima, era stata quella di Crystal. Dove ora c'era Julie, con tutto quel profumo di rose che non se ne andava mai... Sentì la voce di Brule e voci sconosciute. C'erano poliziotti in borghese che continuavano a portare strane cassette e strani congegni su per le scale e, un po' ovunque, poliziotti che parevano enormi nelle loro uniformi invernali blu scure, piene di bottoni di metallo che scintillavano e riflettevano le luci. Quando la porta si richiuse dietro l'ultimo investigatore, Rue si affrettò nel corridoio e giù per le scale. I poliziotti fermi nell'atrio non le dissero nulla, si limitarono a guardarla con una certa attenzione, a seguirla con lo sguardo fino alla porta della biblioteca. Dentro c'erano tutti: Alicia, Steven, Andy e Guy Cole. C'era anche Madge, ancora col cappotto e il berretto, appena rientrata dalla scuola. Singhiozzava istericamente tra le braccia di Alicia mentre il volto di Crystal, staccato e distante, con quella sua strana bellezza fredda, li guardava tutti un po' beffardo dall'alto delle parete sopra il caminetto. Dieci minuti dopo entrarono due poliziotti, costringendo i presenti a parlare con più cautela, visto che ora c'erano orecchie ufficiali ad ascoltarli. Quando Rue entrò, Madge sollevò la testa; la guardò con occhi implacabili pieni di odio, e si asciugò le lacrime col dorso della mano, Alicia si era tolta il cappotto, e sedeva eretta e graziosa in una poltrona, con un bell'abito scuro e un filo di perle, perle vere, a girocollo. In quel momento aveva una strana affinità con la Crystal del dipinto, in quanto era, come sempre, il ritratto della vera signora. «Venite a sedervi, Rue» fece Andy andandole incontro. «Vado a prendervi qualcosa da bere. Guy sta dicendoci quel che dobbiamo fare.» L'inchiesta della polizia, cioè la parte iniziale dell'inchiesta, fu completamente diversa da quanto Rue avesse mai immaginato. Per prima cosa, non avrebbe mai pensato che vi partecipassero così tante persone. Inoltre aveva sempre creduto che le indagini concernenti un dato caso dipendessero da un solo funzionario di polizia a ciò preposto dalle autorità. Scoprì in-
vece che a dirigere e vagliare le indagini, ad assumersi la loro responsabilità, ce n'erano almeno una dozzina. Che ogni dipartimento di polizia contattava i sospetti singolarmente, che ogni aspetto dell'indagine veniva sviscerato da ognuno di essi, che non era possibile nessuna brillante azione individuale, che si trattava solo ed esclusivamente di un'azione di gruppo, dove ogni ufficio, ogni dipartimento, metteva insieme, come in un mosaico, tutte le informazioni ottenute. Scoprì che f uomo che, nella speranza di un colpo brillante e di un trionfo personale, avesse tenuto per sé quanto scoperto, sarebbe stato buttato fuori dalla polizia in quindici giorni. Che doveva essere tutto in comune, e che tutto doveva essere concertato: notizie, azioni, conclusioni, indagini e sforzi. Quella sera, tuttavia, gli investigatori, l'interrogatorio preliminare, le domande quasi casuali, furono, nell'insieme, solo come un'ondata arrivata di sorpresa, come se tutti loro stessero lottando per tenere la testa fuori da un maroso in un punto di grande risucchio. A Rue sembrava che il tempo non passasse mai. Le pareva che Brule e la polizia fossero sopra già da ore. Durante l'attesa, Andy e Guy Cole andarono a curiosare in corridoio. Poco dopo Andy chiuse le porte scorrevoli della biblioteca, perché stavano portando via il cadavere di Julie; ma il silenzio era tale che tutti sentirono i passi degli uomini che scendevano le scale. C'è una sola volta nella vita, in cui i passi delle persone risuonano a quel modo: Rue dovette soffocare l'impulso infantile di coprirsi le orecchie con le mani; Alicia rimase immobile come una fotomodella; Madge sollevò il viso e gettò a Rue una lunga occhiata che di amichevole non aveva assolutamente nulla. I primi fotoreporter dovettero arrivare pressappoco in quel momento, perché le fotografie pubblicate dai giornali il mattino dopo mostravano l'ambulanza della polizia e una specie di barella che veniva fatta scendere sui pochi gradini all'esterno della casa. Fu Guy ad andare a parlare con i giornalisti. «Ditegli che non sapete se si tratta di suicidio o... o altro» suggerì Andy. «Ditegli il meno possibile.» L'avvocato uscì guardandolo quasi con commiserazione. Al ritorno portò notizie: «Faranno l'autopsia subito, questa sera stessa. Nel frattempo procederanno con l'interrogatorio. Non possono ancora accusare nessuno di assassinio, ma lo faranno se verranno a sapere che si tratta di un omicidio. Perciò, quando vi interrogano, ricordatevi di tutto quello che vi ho detto.» Li aveva già messi in guardia; lo rifece, senza preoccuparsi della presen-
za dei poliziotti. «Esiste la possibilità che la ragazza abbia semplicemente ingerito una dose eccessiva di medicina: le infermiere hanno spesso l'abitudine di prendere medicine senza consultare un medico. Ma per quanto riguarda le voci sulla morte di Crystal, è meglio siate preparati. Restate sul sicuro. Qualsiasi ammissione da parte vostra, anche la più innocente, potrebbe portare in seguito, se si trovano prove, a qualcosa che finirebbe con... l'incriminarvi.» Li guardò tutti con quei suoi grandi occhi azzurri acquosi. Era una specie di pallone, piccolo, tondo, con una frangetta di capelli fini, quasi una peluria chiara, attorno alle guance rosee, grassocce e pacioccone. Aveva il viso di un neonato e un sorriso amico negli occhi chiari, ed era uno dei migliori penalisti dello Stato. Per quanto Rue ne sapeva, nella vita professionale Guy non aveva alcuna coscienza morale; il suo assistito vinceva sempre (o, almeno, tanto frequentemente da essere notato), sia che fosse innocente o colpevole; ma nella vita privata era un amico caro e leale. Così le aveva detto Brule, e sicuramente era così, perché Brule lo conosceva sin dai tempi della scuola e inoltre erano vicini di casa sin da quando Brule aveva sposato Crystal, cioè da circa sedici anni. Il suo modo di fare, il suo modo di vedere la realtà delle cose, fu di grande aiuto. Anche perché quelle, per Cole, erano cose che gli capitavano quasi tutti i giorni, e lui sapeva ormai seguire tutti i labirinti contorti degli incubi che esse comportavano per i suoi assistiti. «Io sarò con voi. Nel caso vi chiedano qualcosa che potrebbe danneggiarvi, e questo solo se viene provato che la ragazza è stata assassinata, io solleverò delle obiezioni. Non possono costringervi a rispondere. A meno che, naturalmente, abbiano prove sufficienti a giustificare un arresto. Nel qual caso possono portare l'arrestato in camera di sicurezza e... e trattenerlo per qualche giorno per l'interrogatorio.» I suoi occhi rimasero azzurri, umidi, spalancati e ingenui, ma la prospettiva aperta dalle sue parole fu oltremodo raggelante. Andy cominciò ad agitarsi senza posa, lanciò a Rue uno sguardo pieno d'ansia, e con una voce che non riusciva a mascherare l'apprensione domandò: «Ma voi... voi non pensate che lo faranno, vero? Così subito... Voglio dire, voi non ritenete che ci siano prove sufficienti a giustificare un arresto, vero?» Per arresto, si riferiva a quello di Rue, e lo capirono tutti. Guy si accese una sigaretta e rispose che non lo sapeva. «A meno che voi non diciate loro qualcosa che non avete detto a me. E questo ve lo sconsiglierei, Rue.» Era tipico di Guy parlare in quel modo noncurante e, contemporanea-
mente, diretto; cosa che chiarì ancora maggiormente a Rue la sua posizione, quella del sospettato numero uno. «Ma deve...» Andy diede un'occhiata inquieta al poliziotto all'interno della stanza. «Deve dire tutto, deve parlare anche del... tè?» «E perché no? Gross sa di aver portato il vassoio del tè, e la ragazza in cucina sa che è stato ordinato e sa di averlo preparato. Inoltre sulla tazza ci saranno delle impronte e non ci sarebbero spiegazioni per chiarire il perché esse siano di Rue e non della sua amica. Comunque, se nello stomaco della ragazza si rintraccia del veleno, ma si può provare che c'era già prima che lei entrasse qui, Rue sarà libera da ogni sospetto.» Madge, accoccolata ai piedi di Alicia, sollevò di nuovo gli occhi. Era pallida come cera... Purtroppo avrebbe sentito parlare della morte di Crystal: non sarebbe stato possibile tenerle nascosta l'indagine già iniziata il giorno prima; perciò Steven aveva dovuto parlargliene. Lo aveva fatto con molto tatto e brevemente, nei dieci minuti prima che i poliziotti entrassero nella biblioteca. E, a onor del vero, pensò Rue guardandola, aveva reagito abbastanza bene. Era diventata pallidissima, aveva smesso di singhiozzare e si era stretta ancor più ad Alicia. E, al disopra della testa della ragazzina, Alicia aveva gettato a Rue una breve occhiata piena di compiacimento, come se volesse dirle: "Vedi come Madge si rivolge a me e non a te, come considera me, e non te, quale vera sostituta di sua madre!". Sì, avrebbe dovuto scoprire perché Alicia la odiava tanto, e da quando. Ma non in quel momento. Anche perché in quello stesso momento entrò Brule col volto impassibile come una maschera. Disse che non c'erano novità, che la polizia voleva interrogare Rue, che l'aspettavano in sala da pranzo. «Con Guy» aggiunse. Guy balzò in piedi con quell'incredibile elasticità che hanno soltanto certi uomini grassi. Si alzò anche Andy, come se volesse accompagnare Rue; poi sembrò rendersi conto di non poterlo fare, ma rimase in piedi a guardarla mentre lei si avviava alla porta con un gran senso di stanchezza. Strano quanto quel piccolo sforzo muscolare richiedesse tanta forza di volontà... «Non aver paura» l'esortò Brule. Andy le diede un'occhiata di incoraggiamento; Alicia, come Madge, rimase a guardarla. Solo Steven rimase tristemente affondato nella poltrona con la testa tra le mani. «Forza Rue» fece Guy. «Non può andare male. Non hanno ancora avuto il tempo per ricevere il referto sull'autopsia.»
Nella sala da pranzo erano radunati otto o dieci uomini. La maggior parte stava parlando, uno stava compilando un modulo, un altro aveva in mano un blocco da stenografia. Non prestarono la minima attenzione all'ingresso di Rue, anche se la videro tutti. Lei e Guy rimasero in piedi ad aspettare che un tizio alto e magro con chiari occhi azzurri freddi come ghiaccio e il viso segnato da rughe molto profonde, il tenente Angel, finisse di parlare con un suo collega. Gli altri avevano tutti, più o meno, l'aspetto di quel Miller col quale aveva parlato la sera prima. Angel si rivolse direttamente a lei: «Allora, signora Hatterick. Sedete. Dov'è la deposizione, Murphy?» L'uomo col blocco da stenografo rigirò alcune pagine e cominciò a leggere in fretta con voce monotona mentre Rue lo ascoltava seduta al tavolo, un tavolo così lucido da riflettere le luci del lampadario che vi pendeva sopra, e, un po' meno nitidamente, i visi delle persone. Tutta quella luce le dava fastidio. Lei non usava mai quella fonte di luce, perché era troppo fredda e troppo cruda; preferiva accendere le "appliques" fissate alle pareti o il grande candelabro d'argento che stava sulla bella credenza antica antistante il tavolo. Guy, in una sedia accanto a lei, fece un cenno di saluto al tenente Angel chiamandolo per nome, guardò gli altri uomini e ne salutò due o tre che conosceva. Con un sussulto Rue si accorse che quel Murphy stava leggendo una deposizione rilasciata da Brule. L'ascoltò con molta attenzione. «"...in ospedale ho avuto un messaggio da parte di mia moglie; mi sono affrettato a correre a casa e sulla porta ho incontrato il dottor Crittenden, chiamato perché non mi avevano rintracciato. Ma la ragazza era ormai morta e non ci è stato possibile fare nulla per lei. Ho telefonato alla polizia perché era evidente che si trattava di morte violenta. Domanda: Sapevate che si trattava di omicidio? Risposta: ..."» «Leggi solo le risposte» lo interruppe il tenente. «Sì, signore. Risposta: Non lo sapevo. Mia moglie ha detto che la Garder è venuta da lei senza preavviso, che ha chiesto di lei ed è stata accompagnata in camera sua. Che è sembrata confusa quando è entrata, ed ha riferito di aver bevuto un cocktail. Mia moglie, pensando che la confusione fosse stata generata dal cocktail, ha ordinato del tè. Stava facendoglielo bere quando la ragazza ha perso i sensi ed è morta. Mi ha telefonato immediatamente...» «Basta così, Murphy. Confermate questa dichiarazione, signora Hatte-
rick?» «Sì.» Rue si sentì rispondere con una voce non sua, piccola e debole; no, non andava, doveva parlare con tono più sicuro, meno spaventato. «Da quel che ho capito, Julie Garder era una vostra amica.» «Abbiamo lavorato insieme come infermiere.» «Sì, lo so. Faceva il turno di giorno quand'è morta la prima signora Hatterick. E voi quello di notte.» Non era una domanda, ma Rue si sentì rispondere di sì. Guy continuava a guardare Murphy che scriveva, lo guardava con un'aria così distaccata e senza partecipazione diretta, che pareva fosse a teatro. Angel si protese in avanti, «Signora Hatterick, vostro marito dichiara, e voi lo confermate, che gli avete riferito che Julie Garder appariva confusa e che vi ha parlato di un cocktail. Vi ha detto altro?» Guy non batté ciglio; lei deglutì: «Era confusa, parlava in modo incoerente, sconnesso, senza senso.» «Di che cosa?» «Ha ripetuto parecchie volte il mio nome e il suo; ha mormorato qualcosa a proposito di un cocktail rosa e del fatto di essere venuta da me... Ma niente di chiaro, niente di sensato.» «L'avevate invitata voi a venire? A venire da voi oggi? Avevate appuntamento?» «No.» «Eravate in rapporti sufficientemente amichevoli perché lei potesse venire da voi senza invito?» «Certo.» «Veniva spesso?» «No.» «Come mai?» «Era molto occupata.» Sembrò che l'investigatore aspettasse che lei si spiegasse meglio, ma qualcosa nello sguardo di Guy le suggerì di non dire più di quanto strettamente necessario. «Allora voi e la signorina Garder eravate ancora in buoni rapporti.» «Certamente.» «Non vi viene in mente nient'altro di quanto ha detto?» «Vi ha detto tutto quello che sa» intervenne l'avvocato. «È stato un shock per la signora Hatterick. È già tanto se riesce a rispondere. Comunque, se scoprirete che la ragazza è stata assassinata, potrete interrogarla più a lungo dopo.»
Il tenente lo guardò e Guy ricambiò lo sguardo senza scomporsi. «D'accordo, signora Hatterick. Apprezzo la vostra disponibilità a cooperare. Ma ci sono ancora due o tre punti che vorrei chiarire ora. Qualsiasi cosa possa dimostrare l'autopsia, vorremmo sapere come è entrata in casa e quanto tempo vi è rimasta prima che vi venisse annunciata. Il vostro maggiordomo dice che non è stato lui a farla entrare. Che l'ha trovata che aspettava in salotto, dove, è evidente, era stata introdotta in precedenza. Chi è stato a farla entrare, e quando?» «Io non lo so. Non sapevo che fosse in casa. Non ho sentito nulla.» «L'avete incontrata all'ingresso?» «No.» «Sapevate che era in casa?» «No.» «Riflettete bene, signora Hatterick. Ha preso qualcosa mentre era in camera vostra... delle pillole, delle capsule, qualcosa?» «No. Ne sono sicurissima» affermò lei. Ma subito capì che Guy disapprovava. Infatti questi si mosse e disse: «È tutto, tenente? La signora vi ha detto tutto quello che sa. Naturalmente, se si prova che la ragazza è stata assassinata, la signora sarà a vostra disposizione per tutte le altre domande che vorrete farle.» Le rughe sul volto magro di Angel si fecero ancora più profonde. «Ancora una domanda, Cole.» Si appoggiò allo schienale della sedia, inchiodando i freddi occhi azzurri su quelli di Rue, mentre sulla stanza cadeva improvviso un silenzio profondo pieno di attenzione. Doveva trattarsi della domanda chiave, del punto cruciale dell'interrogatorio... Anche Guy condivise l'intuizione di Rue, perché si irrigidì attento. La domanda arrivò come un colpo di fucile. «Ditemi, signora Hatterick: cosa sapeva Julie Garder della morte della prima signora Hatterick?» Guy balzò in piedi, «A questo non è tenuta a rispondere, tenente. Non...» «Lasciate che sia la signora Hatterick a parlare, Cole. Allora, signora Hatterick?» «Risponderò io per lei: la ragazza non le ha detto nulla. Non le ha detto assolutamente nulla sulla morte di Crystal Hatterick.» «Confermate, signora Hatterick?» «Io...» Fu di nuovo Guy a prendere la parola. «Sentite, Angel, la risposta l'avete avuta. Ditegli, Rue, diteglielo voi che ho risposto nel modo esatto. Può an-
che essere messo a verbale.» «S... sì» balbettò lei confusa dalla richiesta dell'avvocato. Nell'atrio suonò il telefono. Angel, con gli occhi pieni di incredulità e un'altra domanda sulla punta della lingua, sì interruppe per ascoltare. Sentirono una voce parlare al telefono sistemato in una nicchia accanto alla porta della sala da pranzo. Era la voce di uno dei poliziotti. Ripeté "sì" e "no" due o tre volte, poi, dopo una breve pausa: "Non mi dire! D'accordo. Sì". Riapparve sulla soglia cercando gli occhi di Angel. «Era il medico. Dice che si tratta di veleno. Una quantità mortale di prodotti sintetici, non può ancora dire quali. Probabilmente dei derivati di un barbiturico. Non può dirlo con sicurezza perché deve ancora eseguire altre analisi. Comunque per lui si tratta di omicidio. Dice anche che c'è una cosa stranissima: le mani della ragazza sono diventate verdi. Di un bel verde brillante...» «Cary! Basta così! Bene, Cole, voi e la signora Hatterick potete andare. State comunque a disposizione per altre eventuali domande... Allora, Cary: le mani... Chiudi quella porta!» Mentre la porta veniva rinchiusa alle loro spalle, Rue guardò Guy meravigliata. «Cosa intendevano dire a proposito delle mani di Julie?» L'avvocato la guardò perplesso. «Non ne ho la più pallida idea.» Sentirono aprirsi la porta dello studio di Steven, e tutti e due si volsero a guardare. Sulla soglia, ben delineati contro la luce della stanza illuminata, si stagliarono le figure di Alicia e di Brule. Doveva essere stato Brule ad aprire la porta e a essersi fermato per aggiungere qualche altra parola. Evidentemente i due non avevano notato la loro presenza nell'atrio perché Alicia alzò improvvisamente la testa a guardare Brule, disse qualcosa sottovoce, e posò la guancia, con gesto affettuoso, sulla spalla dell'uomo. Un piccolo gesto, appena accennato, ma che aveva tutta l'aria di un gesto abituale. Guy si schiarì la gola. «Venite, Rue. Voglio sapere cosa pensa Brule delle mani verdi.» In biblioteca c'era Andy; Andy, che le aveva detto di amarla... Seguì Guy verso la biblioteca; la coppia ferma sulla soglia della sala da musica li vide e mosse verso di loro. 8 «Mani verdi? Ripeti! Hai detto proprio "mani verdi"?» esclamò Brule.
Guy si strinse nelle spalle. «È solo quello che ha riferito l'agente. Ma Angel lo ha fatto subito tacere, ci ha mandati fuori e ha fatto chiudere la porta in modo che non potessimo sentire nient'altro. Mani verdi.» «Impossibile. Quando ho guardato la ragazza non c'era niente.» Si rivolse ad Andy. «Tu hai notato qualcosa?» Andy scosse la testa: «No. Sembra una cosa inverosimile. Non credo che possa esistere un veleno con quell'effetto.» «Se un veleno avesse realmente effetto sul colore della pelle, l'effetto non si limiterebbe alle mani ma si estenderebbe a tutto il corpo, a tutto il sistema circolatorio. E non dopo la morte, ma prima. Ad ogni modo...» Brule fece qualche passo verso il camino, si fermò e si voltò. «Io sono più propenso a credere che si tratti di qualcosa fatto incidentalmente in laboratorio. Anche loro possono commettere degli errori. Certo, sembra veramente inverosimile. Ma ci sono sostanze chimiche...» Si interruppe senza terminare la frase. Come sempre, tutti accettarono il suo giudizio. Alicia si alzò e andò al telefono. «Quanto ci vorrà ancora?» domandò a Brule. «Avevo promesso ai Sidney...» «Meglio che tu telefoni e dica loro che non puoi. Sii cauta, mi raccomando.» «Santo cielo, Brule! Non hai certo bisogno di dirmi di stare attenta a quel che dico! Immagini forse che questo interrogatorio possa essere piacevole per me?» Alzò il ricevitore e compose un numero. Entrò una cameriera con un vassoio seguita da una ragazzina che ne portava un altro. Posarono su un tavolo il loro carico, caffè e panini, guardando tutti con occhi eccitati, gettando sguardi rapidi e curiosi su tutti i presenti. «Avete fatto bene» osservò Brule. «È inutile cercare di cenare con tutta la casa sottosopra. Ma qualcosa bisogna pur mangiare.» Versò il caffè nelle tazze, e Andy ne portò una a Rue. Alicia stava ancora parlando al telefono; Steven aveva rivolto delle domande a Brule e questi stava rispondendogli. A voce bassissima per non farsi sentire, Andy disse: «Devo vederti da sola.» E, mentre lei prendeva la tazza, le sfiorò la mano: «Ti amo, ricordalo.» Nessuno poteva averlo sentito. Ma dopo pochi secondi Rue sentì fisso su di sé lo sguardo ostile di Madge. Eppure non poteva avere sentito le parole di Andy... E, ammesso che le avesse sentite, che importanza aveva? Se tra lei e Brule non c'era amore, poteva almeno esserci dell'onestà. Però lo sguardo freddo degli occhi scuri di Madge la fece sentire a disagio.
Tutti sentirono le convincenti scuse di Alicia al telefono. Quando depose il ricevitore osservò, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Non mi crederà mai. Stavo benissimo quando sono uscita da casa sua oggi pomeriggio prima di venire qui, e Winifred Sidney lo sa.» La frase era stata detta con un po' troppa solerzia. Brule le diede una rapida occhiata; Andy domandò: «Siete venuta qui direttamente?» «Sono arrivata proprio al momento del fattaccio. Ero venuta per vedere Madge, ma lei non era ancora rientrata da scuola. Mi sono seduta ad aspettarla, quando d'improvviso ho sentito qualcosa, un grido. Naturalmente sono andata a vedere cos'era successo. La porta di Rue era aperta, e lei era china sull'infermiera. Sul momento ho pensato che la ragazza fosse solo svenuta.» Andy guardò Rue, e Rue posò la tazza. «Sì. Infatti credo di aver gridato. Alicia è entrata proprio mentre Julie stava morendo. Ma io non sapevo che Alicia fosse in casa.» L'altra continuò come se Rue non avesse detto nemmeno una parola: «Spero che questo interesse sui miei movimenti non significhi che si sospetti che io c'entri qualcosa con la morte di una ragazza che non avevo mai visto.» Steven sollevò lo sguardo. «Ma sì che l'avevi vista, Alicia, tantissime volte quando Crystal era malata.» Le ciglia di Alicia si abbassarono e si rialzarono in fretta. «Oh sì, forse l'ho vista, ma senza notarla. Ti assicuro che non avrei saputo riconoscerla. E ti assicuro anche che non sono stata io a mettere il veleno nel suo tè, se è a questo che volevi arrivare. Dammi del caffè, Brule.» «Non volevo assolutamente dire questo» si scusò Steven. «Non mi verrebbe mai in mente una cosa simile.» «Veleno sintetico» fece Brule pensando ad alta voce mentre versava il caffè ad Alicia. «Può voler dire un sacco di cose.» «Ma come possono provare che si tratta di omicidio?» La voce di Andy tradiva una certa speranza. «Non possono provarlo.» Ma Brule scosse la testa. «Con quelle lettere sulla morte di Crystal... e adesso questa, proprio nel momento in cui la polizia apre un'inchiesta...» «Tu, personalmente, propendi per la tesi dell'omicidio, a quanto pare.» «Io non so cosa pensare. Ma vorrei sapere chi è stato a scrivere quelle lettere alla polizia. Vorrei saperlo solo per domandargli perché l'ha fatto.» Lo disse senza astio, guardando il panino che aveva in mano. Quel tono tranquillo pareva fuori luogo, ma poi Rue capì il perché. Brule voleva dire
che, se nella stanza era presente la persona che aveva scritto quelle lettere, lui gli dava la possibilità di confessare, di dire perché aveva insistito tanto fino al punto di far smuovere la polizia. Subito dopo, capì le deduzioni logiche delle parole di Brule. La prima era che in quella stanza erano radunate tutte le persone intime degli Hatterick, e la seconda, la peggiore, era che, se Crystal era stata uccisa e Julie anche, allora l'assassino era qualcuno intimo della famiglia. Doveva per forza trattarsi di qualcuno molto intimo, perché le conoscenze casuali non vanno a somministrare del veleno in case che conoscono poco. Bisognava anche tenere conto della possibilità di farlo, e del motivo. Un delitto ha sempre radici in motivi molto personali e molto importanti. È l'ultima terribile risorsa di una circostanza estremamente critica. Ma chi, chi poteva aver avuto bisogno di liberarsi di Crystal? Chi aveva dovuto uccidere Julie prima che lei potesse dire la cosa che aveva affermato di conoscere? E che, secondo lei, anche Rue conosceva? Rue aveva continuato a frugare nella sua memoria, ma non era riuscita a trovare nulla che la mettesse su una pista buona. Nulla, assolutamente nulla. Si domandò come si potesse distinguere un assassino dalle persone innocenti. Stano che non ci fosse un segno, un marchio che indicasse la barriera che egli aveva valicato e che lo divideva da tutte le altre persone; una barriera che faceva di lui un paria, un reietto, un essere che aveva commesso un crimine imperdonabile, che era sprofondato in una corrente scura e misteriosa, e le cui mani sarebbero state macchiate per sempre. Per analogia, pensò alle mani di Julie provando un senso di malessere, di raccapriccio, addirittura di orrore. Orrore, ma, soprattutto, la sensazione che la cosa rivestisse un significato oscuro ma importante. Brule continuava a parlare, a parlare delle lettere: «...perché, chiunque sia stato a scriverle, deve avere qualche motivo per sospettare che Crystal sia stata uccisa. Perciò, se riusciamo a scoprire qual è questo motivo, potremo arrivare a risolvere tutto.» Non disse: "a scoprire chi ha ucciso Crystal", e a Rue l'omissione parve strana. Ma non si soffermò ad analizzarla perché un investigatore, uno col quale non aveva ancora parlato, apparve sulla porta e disse che erano pronti a raccogliere la deposizione collettiva di tutte le persone presenti nella casa. E che, una volta terminato, la signorina Pelham e il dottor Crittenden sarebbero potuti tornarsene a casa loro. Le deposizioni vennero raccolte immediatamente.
Rue ascoltò con una sorta di fatica emotiva. Ognuno parlò brevemente e non ci furono domande anche se ogni parola venne stenografata da un poliziotto comparso non appena Steven aveva cominciato a parlare. Steven disse di aver lavorato tutto il giorno nel suo studio; di non essere stato a conoscenza dell'arrivo di Julie Garder, di aver saputo della sua morte solo quando era stato informato da Gross. Che lui non sapeva niente di niente. Quando si era precipitato al piano di sopra, aveva trovato nella stanza la signora Hatterick e la signorina Pelham. Il cadavere era sul tappeto davanti al caminetto; su un tavolino c'era il vassoio del tè... Sì, si ricordava della morta, ma vagamente. No, non conosceva le ragioni del suo suicidio o dell'omicidio. La deposizione di Alicia fu ancora più breve. Era appena arrivata e stava aspettando il rientro di Madge dalla scuola quando aveva sentito il grido proveniente da sopra. Era corsa su e aveva trovato la signora Hatterick china sulla sua amica (Guy si schiarì la gola, lei gli lanciò un'occhiataccia ma si corresse subito): «su Julie Garder.» Non disse nulla che potesse gettare apertamente dei sospetti su Rue, ma fu una deposizione talmente laconica da poter essere ampliata in qualsiasi momento. Andy disse di essere corso subito, appena ricevuta la telefonata di Gross, ma la ragazza era già morta quando lui e il dottor Hatterick erano arrivati. Perciò il dottor Hatterick aveva chiamato la polizia. «Avete notato qualcosa di insolito sul suo corpo?» «No. Solo che quella morte improvvisa ci è parsa sospetta. Per quei che ne sapevamo noi, Julie Garder godeva di buona salute.» «La signorina Madge Hatterick?» Quasi fosse impaziente di essere chiamata, Madge rispose immediatamente: «Madge Hatterick sono io. E ho qualcosa da dire.» Si alzò in piedi per parlare con più autorità; il visino, con gli occhi scuri accesi e la mascella squadrata, sembrò tutto d'un tratto più maturo e deciso. Spinse indietro la massa di capelli e fissò dritto negli occhi l'investigatore, assumendo un'aria di donna adulta. Brule la guardò stupito. Si avvicinò e disse al poliziotto: «Mia figlia ha appena quindici anni. Non sa niente di tutto questo e vi sarei grato se... se poteste farle meno domande possibile. Non credo che la sua testimonianza possa avere qualche valore: è ancora una bambina.» «D'accordo, dottore. Ma ora lasciamo parlare la signorina. Sembra che abbia qualcosa da dire.» «Vi ripeto che è solo una bambina, che non sa niente di...» Guardò Guy
che si avvicinò. «Via, Madge» disse lui. «Non fare l'isterica,» «Dirò tutto quello che ho da dire. Non potete fermarmi. Posso essere giovane, ma gli occhi li ho, e in questa casa sono successe troppe cose. Cose che vanno dette.» Brule impallidì. Posò una mano sulla spalla della figlia e la strinse tanto che la ragazzina sussultò. Ciò nonostante lo fissò con sguardo di sfida. Non l'aveva forse detto lo stesso Steven? Era il ritratto vivente di Brule, ma dentro era esattamente come Crystal... «Tu sei innamorato di lei» disse a Brule con voce piena d'odio. «Sei innamorato di Rue e non puoi vedere quant'è perfida e crudele! Chi ha ucciso mia madre? Di' alla polizia chi è stato a uccidere mia madre! Diglielo!» «Madge!» «No, non sto zitta. Se non lo dici tu, glielo dico io chi era con mia madre quando lei è morta! Dico tutto quello che so...» Per la prima volta Guy ebbe un'espressione preoccupata. «Adesso basta, Madge. Tu non sai quello che dici. Sei una bambina sciocca. Guardami. Ti conosco da quando sei nata e sono il tuo padrino: sono mai stato ingiusto con te? Ti ho mai mentito? Rispondimi! No, guarda me, non Rue o l'investigatore. Guardami!» Spinse da parte Brule e mise una mano sotto il mento di Madge. Senza volerlo, gli occhi della ragazzina si trovarono a fissare quelli dell'avvocato. Guy sorrise. «Ascoltami. Ascoltami bene. Quando dici qualcosa devi essere sicura che sia vera, che sia qualcosa che puoi provare, nel caso tu dovessi poi farlo. Non puoi accusare qualcuno di qualcosa, solo perché quel qualcuno non ti piace. Tu...» «D'accordo, Cole, d'accordo. Ma io devo avere anche la sua deposizione. Allora, signorina Hatterick, continuate. Cosa sapete di quanto è successo oggi? Conoscevate la signorina Garder?» Madge esitò. Guy le prese una mano, e le passò un braccio attorno alle spalle con gesto affettuoso. Madge sembrò voler parlare, esitò ancora, e disse scontrosa: «Sì. Era l'infermiera di mia madre. Una delle infermiere. L'altra era Rue.» «A che ora siete rientrata a casa questo pomeriggio?» «Alle cinque e mezzo circa. Abbiamo fatto tardi perché c'è stata la prova della recita, oggi.» «C'era già la polizia quando siete rientrata?» «Sì.»
«Basta così, no?» intervenne Brule. «Voglio dire: è evidente che mia figlia non sa niente dell'accaduto. Inoltre non ha ancora l'età per... Non potete accettare...» Guy fu molto pronto: «Questo sì che è un comportamento da brava ragazzina. Ricorda: nient'altro che la verità.» Guardò il poliziotto. «Non avete ancora steso la mia deposizione. Io ero già qui quand'è arrivata la polizia. Mi aveva telefonato il dottor Hatterick. Sono entrato dalla porta sul giardino...» «La porta sul giardino?» «Sì, la porta dello studio di Steven che dà sul giardino. Il giardino in comune con le nostre case.» «Non era chiusa?» «No.» Il poliziotto guardò Brule. «Non la chiudete mai?» «Non lo so. È nello studio di mio cognato. Com'è di solito quella porta, Steven?» Abbattuto, tirato, coi capelli sempre più arruffati, Steven lo guardò stancamente e disse di non saperlo. «Di notte, di solito è chiusa a chiave, ma di giorno... Non lo so.» Il poliziotto sembrò rifletterci. «Dov'eravate voi, signor Hendrie, al momento della morte della ragazza?» «Nel mio studio, credo. Ci sono stato tutto il giorno. Ma da quella parte non è entrato nessuno, altrimenti me ne sarei accorto.» «Il signor Cole è entrato.» «Sì, ma dopo; quando ero già salito di sopra.» «Allora, secondo voi, mentre voi eravate sopra, qualcuno avrebbe potuto approfittarne per uscire?» «Be'... sì. Sì, è possibile.» «Ed è anche possibile che chiunque potesse entrare... Per il momento è tutto.» «Volete dire che ora possiamo tornarcene a casa?» fece Alicia. L'investigatore la guardò, abbracciando in un solo sguardo ogni particolare, dai capelli neri striati di grigio e ben pettinati, alle scarpette di camoscio nero; ma, cosa del tutto insolita, non sembrò particolarmente colpito. «Se volete andare, lasciate l'indirizzo e restate a disposizione per eventuali altre domande. Questo vale per tutti, e significa che dovete far sapere esattamente alla polizia dove vi trovate, e che non potete lasciare la città. È tutto.» E uscì in fretta seguito dallo stenografo.
Fu Steven a rompere il silenzio che accompagnò la loro uscita. «Questo significa che pensano si tratti veramente di un omicidio?» «Ne sono più che certi» rispose Guy con un sospiro, aggrottando le ciglia. «L'unica cosa buona è che non hanno proceduto ad arrestare nessuno... e questo ci dà il tempo per vedere il da farsi. Prima di attaccare una persona della posizione di Brule, vogliono essere ben sicuri del fatto loro. Fino ad ora sono stati molto discreti. Non vi hanno neppure tenuti separati durante le deposizioni, e non hanno fatto minacce a nessuno. L'unica stanza in cui hanno cercato a fondo è la vostra, Rue. A proposito, si sono praticamente portati via tutte le medicine dell'armadietto del bagno.» Non era molto simpatico pensare che il veleno erano andati a cercarlo proprio e solo nell'armadietto. Con la mente, rivide la piccola scorta di medicine contro il mal di testa e contro il raffreddore contenuta nello stipo in camera sua, niente che non potesse essere in qualsiasi armadietto dei medicinali, anzi, molto più piccolo come quantitativo. Però... Chissà dov'era finita la sua valigetta da infermiera con tutto il suo contenuto di disinfettanti e di sedativi. Cosa ne aveva fatto? Accidenti, proprio non lo ricordava! Guy sembrò allarmato dallo sguardo di Rue, perché le disse: «Ci vediamo domani mattina, e ne discuteremo insieme. Non preoccupatevi troppo» aggiunse con una bonarietà che suonò falsa alle orecchie della giovane donna «per esperienza, so che ci possono essere grandi mutamenti, anche quando tutto sembra già concluso. Immagino tu voglia che continui ad occuparmene io» fece, rivolto a Brule. «Ma certo.» «Ok, allora. Alicia...» Alicia si alzò e rimase in piedi con le mani sulle spalle di Madge. «Io vado a casa. Non possono impedirmelo.» «Per favore, Alicia, non andare, ti prego» l'implorò Madge. Rue sentì stringersi il cuore; sarebbe stata così felice se Madge si fosse rivolta a lei! Alicia sorrise alla bimba. «Non posso fermarmi, tesoro. Ma qui c'è tuo padre, c'è Steven. Non devi aver paura.» «Io non ho paura!» protestò Madge. «Ma voglio che tu resti qui con me. Ti prego! Puoi dormire in camera mia: io andrò a dormire sul divano dello spogliatoio. Papà, chiediglielo tu di restare con me!» Alicia guardò Brule e Brule guardò Alicia: Alicia distolse gli occhi quasi immediatamente, ma lo sguardo dell'uomo restò immobile e impenetrabile. «Se tu lo desideri tanto, Madge, sono sicuro che Alicia si fermerà.» «Visto che hai bisogno di me...» si arrese Alicia alzando leggermente le
spalle. Lo disse in modo da lasciar capire che lei era sempre disposta a fare un favore agli Hatterick, che era una vera amica, sempre presente soprattutto nel momento del bisogno. Le labbra di Brule si piegarono in uno strano sorriso; Madge disse in fretta: «Vieni con me. Ti mostro...» Nella piccola confusione creata dall'uscita di Madge e Alicia, da Brule e Guy che andavano in sala da pranzo, e da Steven che se n'era uscito anche lui senza far rumore, Andy riuscì a star solo con Rue. Era andato di sopra a riprendersi cappello e cappotto, e li posò su una sedia. «Sei sola, Rue? Finalmente! Temevo di non riuscire più a vederti da solo. Dimmi esattamente cos'è accaduto. Parla liberamente, tanto non ci sente nessuno. Brule e Guy stanno ancora parlando con la polizia. Cosa ti ha detto Julie? Com'è successo?» Rue lasciò andare la testa sullo schienale della poltrona e lo guardò. Le sembrava fossero passati anni dalla sera precedente, quando Andy l'aveva presa fra le braccia e le aveva detto di amarla, di amarla da molto tempo. Evidentemente stava pensando anche lui alla stessa cosa, perché affondò gli occhi nei suoi, le prese una mano con gesto infantile pieno d'ansia, e mormorò: «Povera cara. Tesoro mio, perché non hai voluto venire via con me, ieri sera? Ora saremmo lontano, e tutta questa orribile storia non potrebbe neppure sfiorarci. Lo pensavo che sarebbe stato brutto, ma non avrei mai pensato che lo fosse fino a tal punto. Rue...» «No, Andy. Mi sento così stanca.» «Capisco, cara.» Diede un'occhiata alla porta. «Dimmi in fretta: cos'è che sapeva. Julie?» «Non lo so, Andy. Quel poco che ha detto, l'ha detto in modo confuso, come se fosse ubriaca, lo, almeno, ho pensato che fosse ubriaca. Cercava di dirmi qualcosa, ma si interrompeva sempre ripetendo che non doveva dirlo, che non doveva prestare fede ai ricordi, che era qualcosa che sapevo anch'io. Ma io non so di cosa si tratti o, perlomeno, non riesco a ricordarlo. Un qualcosa che lei pensava che io sapessi, ma che io invece non so. Chi credi possa essere stato ad uccidere Crystal?» «Pensi che Julie lo sapesse?» «Io… io credo di sì» mormorò lei. «Non c'è altra ragione per spiegare la sua morte. Julie non era il tipo da suicidarsi. Era una ragazza con troppo buon senso.» Andy si prese uno sgabello, «Dimmi con precisione tutto quello che ti ha detto, parola per parola. Tutto.» Lei glielo disse, affranta, ma senza omettere nulla. Quando terminò di
parlare rimase colpita dal fatto che lui dicesse quasi esattamente le cose dette prima da Brule. «Per l'amor del cielo, Rue! Non riferire a nessuno quello che ti ha detto, Non l'hai già fatto, vero? Julie è stata assassinata, ormai è assodato. Ma se qualcuno avesse ragione di credere che tu sia a conoscenza di quanto sapeva lei...» «È quel che ha detto Brule. No. non l'ho detto alla polizia, Io...» «Brole!» Andy assunse uno sguardo molto strano. Dopo un attimo di riflessione, domandò: «Vuoi dire che l'hai detto a Brole?» «Sì, certo.» «È stato lui a domandartelo?» «Naturale, Cosa ci trovi di tanto strano?» Andy fissò il pavimento. «Niente. Solo... Solo, sta' attenta, Rue. Se Julie è stata uccisa perché non ti dicesse quello che sapeva... Oh, mio Dio, Rue!» Si girò in fretta e, impulsivamente, le prese le mani e se le mise attorno al viso continuando ad accarezzargliele. «Se almeno potessi starti vicino! Sempre, ogni momento... Tu... Tu devi essere protetta. Sei così... così dolce.» Le baciò le dita. Sentirono i passi di Brule. Andy le lasciò andare le mani ma rimase dov'era. Brule li guardò, una delle sue solite occhiate che non lasciavano trapelare nulla. «Il tuo taxi ti aspetta, Andy. Ci vediamo domani mattina.» «Benissimo.» Andy si alzò. «Buona notte, Rue. Buonanotte, Brule.» Quando fu uscito, Brule guardò Rue. «Sarà meglio che tu dorma nella stanza degli ospiti, stanotte, quella vicina al mio studio. Ho già detto a Gross di preparartela. Vai a letto, ora. Se vuoi un tranquillante...» Ricordando Julie, Rue ebbe un brivido. Brule continuò: «Sarà meglio che tu chiuda a chiave la tua porta, stanotte. Con una cosa come questa, non si sa mai come può andare a finire.» 9 Stranamente quella notte Rue ricordò tutto quello che Brule le aveva detto. Tutto, e con estrema chiarezza, come se lui stesse ripetendoglielo per meglio metterla in guardia. Solo che non aveva chiuso la porta, e non se ne ricordò che molto tardi, quando Brule venne chiamato per andare a vedere un malato. Fu lo squillo del telefono a svegliarla da quel sonno turbato e tormentato, che non era né un vero e proprio sonno e nemmeno vera coscienza, per-
ché continuava sempre a vedere le stesse cose. Ma il telefono la riportò alla realtà: attraverso la porta che divideva quella stanzetta dallo studio di Brule, sentì il marito rispondere a bassa voce. Nel silenzio della notte sentì anche, dopo un certo tempo (quello necessario perché si vestisse) il rumore della porta di Brule e, subito dopo, mormorii nell'atrio. Si mise seduta ad ascoltare: non sapeva se avessero lasciato dei poliziotti in casa, ma potevano averne lasciato uno di guardia per assicurarsi che nessuno di loro tentasse la fuga. Possibile? In ogni caso, dopo un altro po' sentì richiudersi la pesante porta d'ingresso, ma piano, come se avessero cercato di non far rumore. Non sentì invece, ma da quella stanza non sarebbe stato possibile, il rumore dell'auto. Dopo due mesi di matrimonio, sapeva bene cosa significava, a quell'ora di notte, lo squillare del telefono e il rumore del portoncino. Dopo l'uscita di Brule la casa sembrò ancora più silenziosa. Dormivano tutti o, se non dormivano, se ne stavano tutti come lei a guardare nel buio, a pensare, e a cercare di non farlo. Steven nella sua grande camera al primo piano; Madge nella sua... cioè Alicia nella stanza di Madge che dava sulla strada e Madge nel piccolo spogliatoio. Strano come il pensiero di Alicia sotto lo stesso tetto le desse tanto fastidio... Chiunque fosse, la persona con la quale Brule aveva parlato dabbasso doveva essere uscita con lui, perché non si era più sentito neppure il rumore di un passo. C'era come una sensazione di vuoto, di silenzio completo e profondo. Solo due mesi prima, in circostanze analoghe, lei si sarebbe trovata in ospedale intenta a sistemare i ferri in sala operatoria, in attesa di Brule. Ci sarebbe stata anche Julie, perché Julie era tornata in chirurgia dopo quell'unica esperienza come infermiera privata. Una esperienza che aveva fatto solo per l'insistenza di Brule. Nel buio della camera, cominciò di nuovo, come avrebbe poi fatto tantissime altre volte, a ripercorrere con la mente tutto il corso degli eventi, come lei li conosceva. Non c'era, come la polizia aveva lasciato chiaramente intendere, molto da sperare che la morte di Julie fosse dovuta a suicidio. Sì, si poteva forse seguire una linea alquanto capziosa, e cioè che Julie avesse involontariamente dato a Crystal il farmaco che l'aveva uccisa, e si fosse poi suicidata quando aveva visto che la polizia apriva un'inchiesta. Ma equivaleva a un voler forzare la mano. Rue era sicura che Julie non si era suicidata; c'era stata confusione, smarrimento, incertezza nei suoi tentativi di parlare, ma nessuna cognizione delle proprie condizioni. Inoltre
la conosceva bene: Julie avrebbe preferito affrontare tutte le conseguenze di un tragico errore piuttosto che affrontare un suicidio. E poi, se proprio avesse avuto quell'intenzione, non sarebbe andata in quella casa... Inoltre, conoscendo Julie e conoscendo la routine delle cure da prestare a Crystal, era del tutto impossibile commettere uno sbaglio che potesse provocare il decesso. Non c'erano farmaci pericolosi nella cura, e non c'erano neanche droghe che potessero incidentalmente essere scambiate con altre medicine. Se ci fosse stato uno scambio, tale scambio non poteva che essere internazionale. Pensò all'atteggiamento di Brule e di Guy; sì, forse avevano in mente una linea di difesa poggiata proprio su questa eventualità. Be', forse la cosa era solo nelle intenzioni di Guy; su quelle di Brule non si potevano mai fare delle ipotesi. Si chiese che ora fosse. Si voltò a guardare la sveglietta sul tavolino. Qualcuno, forse Rachel, le aveva portato nella camera degli ospiti tutte le cose di cui avrebbe avuto bisogno per la notte: pigiama e vestaglia, pantofole, dentifricio e spazzolino da denti, la borsa coi suoi oggetti da toeletta, le sigarette e la piccole sveglia da viaggio nel suo astuccio di coccodrillo che lei teneva sempre sul comodino. Era un orologino vecchio e malandato; non ricordava neppure più da quanto tempo lo usasse, quante ore il suo quadrante fosforescente avesse segnato per lei. Vide la debole luce che esso emetteva, ma era troppo lontano perché potesse leggere l'ora, ma dovevano essere quasi le tre, da quel che poté capire forzando lo sguardo. Continuò a guardarlo solo perché era l'unica cosa visibile nel buio che la circondava. Continuò a guardarlo e a pensare, constatando che i pensieri piano piano rallentavano. Chissà, forse il sonno stava finalmente avvicinandosi. Non ci fu nessun rumore, ma d'improvviso il quadrante luminoso sparì. Spalancò gli occhi: evidentemente, senza neppure accorgersene, si era addormentata e, naturalmente, aveva chiuso gli occhi. Ma ora gli occhi li aveva aperti e il punto luminoso continuava a non esserci! Rimase completamente immobile. Sembrò che persino il cuore si arrestasse in modo che lei potesse ascoltare meglio. Aveva l'impressione che ci fosse qualcuno, eppure lei era sola. Fu allora che le venne in mente di non aver chiuso a chiave la porta che dava nel corridoio. Brule le aveva raccomandato di farlo, ma lei se n'era completamente scordata. Ricordò anche le parole esatte. «Con una cosa come questa, non si sa mai come può andare a finire.»
In quello stesso istante il quadrante ridivenne visibile, come se qualcosa si fosse frapposto fra lei e la sveglia, e fosse stato tolto. Una mano, un oggetto, o forse anche una persona. Continuò a non sentire alcun rumore ma, tutto d'un tratto, sparì anche l'impressione della presenza estranea. Aspettò un po', poi si fece forza e cercò l'interruttore. La luce provò che la stanza era vuota. Era una cameretta piccola e col soffitto troppo alto per le sue dimensioni; dava l'impressione di una scatola rivestita di cinz verde mare, con pochi vecchi mobili di mogano: il letto e una piccola toeletta, due sedie e un tavolino appoggiati alla parete opposta, perché accanto al letto non c'era spazio. C'erano anche tre porte: una portava in un gabinetto con doccia, perché troppo piccolo per contenere un bagno; la seconda portava allo studio di Brule ed era quasi interamente ricoperta da una delicata stampa giapponese; la terza portava in corridoio. Un'occhiata bastò a convincerla: si alzò, andò a chiudere a chiave la porta del corridoio e spinse il pannello giapponese per provare la porta dello studio, ma quella era chiusa. La spiegazione era semplice: si era addormentata e aveva sognato. Ecco tutto. Spense la luce. Ma riuscì ad addormentarsi solo quando gli oggetti della stanza cominciarono a rivelare i loro contorni, quando sentì rientrare Brule. Ci fu di nuovo un bisbigliare di voci, come prima, ma questa volta fu più lungo, come se stessero discutendo di qualcosa. Poi, poco dopo, la porta di Brule si chiuse senza quasi far rumore. Fu al mattino, un mattino grigio e freddo, quando Rachel le portò il vassoio con la colazione, che la minaccia della notte venne alla luce. Rue guardava il vassoio senza nessun desiderio quando Rachel domandò: «Questo devo gettarlo?» Ferma accanto al tavolino, aveva sollevato un piccolo vassoio contenente un termos e un bicchiere, e guardava il bicchiere vuoto. «Che cosa?» «Questo. La polvere nel bicchiere. Immagino sia una medicina.» Il vassoio della colazione sobbalzò pericolosamente mentre Rue lo spostava di lato per saltare giù dal letto. «Fatemi vedere.» Lo prese fra le dita, cosa che non avrebbe dovuto fare, e guardò il sottile strato di polvere biancastra sul fondo del bicchiere. «Che cos'è... Che cos'è, signora? Mi sembrate... Sarà meglio che chiami
il dottore.» Rachel uscì di corsa. Rue era ancora lì in piedi col suo pigiama bianco e il giacchino di lana morbida, pallida come una bimba spaventata, quando Brule arrivò di corsa, in vestaglia, con la faccia ancora mezza ricoperta di schiuma da barba. Prese il bicchiere, lo osservò e disse alla cameriera: «Grazie. Potete andare.» Rachel uscì con riluttanza; Brule andò a chiudere la porta. «Buon Dio, Rue, cos'è questo?» «Non lo so. So solo che non riuscivo a vedere l'orologio.» A pezzi e bocconi, con frasi non molto coerenti, gli raccontò tutto. Quando finì, lui osservò: «Torna a letto, tremi tutta.» Posò il bicchiere, sollevò il vassoio della colazione in modo che lei potesse rimettersi a letto, e glielo posò in grembo; le aggiustò i cuscini, le mise un piumino sui piedi e poi tornò a osservare il bicchiere. «Che cos'è, Brule?» «Non lo so, ma se è quel che penso... Be', lo sapremo presto. Lo porto in un laboratorio che conosco e scopriremo cos'è con esattezza. Nel frattempo...» Corrugò la fronte. «Rue, sarà meglio che te lo dica.» Tornò indietro e si fermò in piedi accanto al letto. Faceva freddo in quella stanzetta; Brule si strinse nella vestaglia: aveva i capelli bagnati e arruffati, e il sapone che si stava asciugando sulla faccia. «Dirmi che cosa?» «Di questa notte. Per la prima volta in vita mia, ho avuto una falsa chiamata.» «Pensavo ti avessero chiamato dall'ospedale.» «No. La persona al telefono mi ha detto di aver paura a spostare l'infortunato; che era meglio se andavo io, e mi ha dato un indirizzo dalle parti di Cicero. La cosa non mi piaceva, ma certo non mi sono neppure sognato di pensare a un tranello. Non è successo niente, sta tranquilla, ma quando finalmente sono riuscito a trovare la via, ho continuato ad andare su e giù alla ricerca del numero che mi era stato dato.» Nel viso di Rue dovette riflettersi un'espressione allarmata, perché Brule si interruppe per rassicurarla: «Non ero solo. Avevo con me Kendal: non sono così pazzo da andare da solo, nel bel mezzo della notte, da un paziente mai visto e a un indirizzo sconosciuto! Inoltre ha ritenuto suo dovere venire anche il poliziotto che qualcuno ha avuto la bella idea, e Dio solo sa perché, di lasciare qui in casa. Così, tutti e tre, abbiamo continuato a cercare quel numero aiutandoci con la torcia elettrica e con molte imprecazioni.
Finalmente ci siamo imbattuti nel poliziotto di ronda della zona, il quale ci ha detto che quel numero non esisteva. La donna al telefono aveva parlato con accento straniero e non l'avevo capita molto bene. Forse era un uomo: parlava come se avesse qualcosa in bocca e una pinza da bucato sul naso. Aveva detto che l'infortunato aveva avuto un incidente stradale e che aveva una forte emorragia. Bene, non è mai troppo tardi per imparare.» «Brule!» Lo gridò in modo titubante e soffocato, un misto di sollievo e di paura. Lui sorrise e si chinò e darle una pacca affettuosa sulla mano abbandonata sul piumino di seta bianca. «Sta tranquilla, non mi capiterà più.» Si interruppe di botto, mentre un pensiero gli attraversava fulmineo il cervello. «Non ci avevo pensato. Lo hanno fatto per allontanarmi da casa. Per allontanare me e il poliziotto. È stato mentre io ero fuori che...» Rue era rimasta senza respiro. «Ma io non so assolutamente nulla dell'assassinio di Crystal. Julie non mi ha detto nulla. Non...» Brule si sedette sul bordo del letto. «Ascolta, Rue. Avrai certamente capito che, nelle intenzioni dell'assassino, tu non avresti mai dovuto parlare con Julie. Se Gross non fosse passato in salotto quand'è passato, Julie sarebbe morta senza neppure vederti. L'assassino deve aver vagliato attentamente il tempo... il tempo necessario perché il veleno facesse effetto. Il tempo per essere ben sicuro che Julie fosse lontana da lui quando il veleno l'avesse uccisa. Il tempo per impedirle di raggiungerti... Infatti non ci sarebbe riuscita se Gross non l'avesse trovata.» Fece una pausa. «Tu devi sapere qualcosa. Pensaci. Pensaci bene.» «Impossibile, Brule. Non c'è niente. Ti ho riferito tutto quello che Julie mi ha detto...» Cos'è che aveva detto Andy? Sul non dire a nessuno quello che Julie le aveva detto; qualcosa che l'aveva messa in guardia senza allarmarla troppo. Qualcosa che... Possibile che avesse voluto accennare a Brule? Che avesse voluto metterla in guardia contro suo marito perché lui era ancora troppo leale e troppo fedele per poter esprimere apertamente i suoi dubbi su Brule? In fondo, ripensandoci, Brule era in casa quando Crystal era morta. Aveva persino ammesso francamente (o aveva fatto in modo che sembrasse tale?) di avere avuto dei dubbi sui motivi addotti per la morte, e si era anche dato da fare con estrema calma e altrettanto estrema freddezza, per coprire ogni eventuale interrogativo sulla cosa. «Sembra incredibile che qualcuno abbia avuto il coraggio di fare una cosa simile» stava dicendo lui. «Non capisco come...» Ma non finì neppure
quella frase. Si alzò e disse: «Non parlarne con la polizia né con altri. Con nessuno. Almeno per ora. Magari non è niente. Il bicchiere lo prendo io. Non preoccuparti, cara. Però sarà meglio che per oggi tu stia in casa. Non voglio che tu corra dei rischi.» Uscì senza aggiungere altro. Una mezz'ora dopo bussò e fece capolino alla porta, dicendo che andava in ospedale. Poi aggiunse: «Non guardare i giornali. Raccontano un sacco di storie. Ho detto a Gross di gettarli via.» Tipico di Brule dirle di non leggere i giornali e, subito dopo, informarla che non aveva scelta in quanto erano già stati distrutti... Ma ne era rimasto uno nel vestibolo. Lo trovò quando scese e lo lesse tutto, lentamente, piena di paura. Era l'ultima edizione e riportava, nude e crude, le conclusioni cui era giunta la polizia. Julie Garder era stata assassinata: lo dicevano esplicitamente, nero su bianco. E il suo assassinio faceva seguito all'apertura di un'inchiesta sulla morte di Crystal Hatterick. Fra le righe di poteva anche scorgere una terza dichiarazione, e cioè che, secondo la polizia, le due donne erano state uccise dalla stessa persona e con lo stesso veleno e che, concentrando tutti i loro sforzi sull'omicidio di Julie Garder, avrebbero potuto risolvere anche il problema concernente la morte di Crystal Hatterick. Non davano alcuna specifica ragione per convalidare la loro teoria, ma non ne avevano bisogno. Era l'unica possibile, l'unica che tenesse. Il veleno veniva nominato in termini generici: la polizia non era particolarmente incline a fornire al pubblico il mezzo più efficiente per far fuori degli esseri umani. Il giornale riportava anche che l'inchiesta sarebbe cominciata il giorno dopo. L'inchiesta! Rue trattenne il respiro. Significava che sarebbe stata chiamata a testimoniare; significava, o poteva significare, qualunque cosa. Andy passò da lei verso mezzogiorno. Disse subito che aveva notizie, e chiuse la porta della biblioteca perché nessuno lo sentisse. Ma Steven si era rifugiato nel suo studio con Madge e Alicia, che Rue, quel mattino, non aveva ancor visto. Madge si era rifiutata di parlare con lei, impuntandosi come una bimba piccola ma con particolare ostinazione. Rue aveva cercato di parlarle, aveva cercato, vista l'evidente angoscia della ragazzina, di fare almeno un gesto di amicizia. Ma era stata respinta con quell'asprezza addirittura crudele che solo i bambini sanno dimostrare. Eppure Madge, nella sua asprezza, era stata patetica. Steven l'aveva capita. «Vieni nel mio studio, Madge. Parleremo un po'.»
«Vengo soltanto se siamo soli. Se con noi viene solo Alicia.» «Come vuoi.» «Vado a chiamarla. Era stanca e si è addormentata tardi.» Corse via mentre Steven guardava Rue con sguardo di scusa. Non doveva aver dormito molto bene neanche lui, perché aveva delle borse profonde sotto gli occhi, e nessuna voglia di mangiare. Poi era arrivato Andy. Andy che le parlò a lungo mentre Crystal li guardava da sopra il camino. Li guardava e li ascoltava fredda, con quel suo sorriso distaccato e gelido. «Hai letto i giornali?» «Sì.» «Hai letto il motivo che indicano a sostegno della morte di Julie? Che è per l'indagine aperta sulla morte di Crystal?» «Sì, Andy, sì. Ma...» «Ascolta, Rue. Questa mattina sono andato in ospedale. E sai chi ho visto, appena sceso di macchina? Un poliziotto. E dentro ce n'erano altri. Sono stati nel dormitorio delle infermiere, hanno frugato fra le cose di Julie, hanno prelevato lettere e documenti per esaminarli. Le infermiere mi hanno detto che non hanno fatto altro che interrogarle senza posa. Tra l'altro, la polizia è stata anche da me, stamattina, e ha parlato con la segretaria, l'infermiera, il ragazzo dell'ascensore e il portiere. È una trappola, Rue... È come se ci fossero centinaia di trappole ovunque. Ma la cosa più terribile è che finiranno con l'arrestare te.» «Andy...» «Lo faranno, non possono fare diversamente. È per questo che hanno interrogato le infermiere su di te. Hanno continuato a fare domande su te e su Brule; hanno voluto sapere da quanto vi conoscevate e se vi frequentavate prima della morte di Crystal; hanno fatto domande sul vostro matrimonio; hanno esaminato tutti i documenti che ti riguardano, dal giorno in cui sei entrata in ospedale, otto anni fa. Hanno indagato su tutto e hanno cercato di indurre le tue colleghe a dire cose che avrebbero potuto danneggiarti. E... Rue, Rue, amore mio, andiamocene, andiamo via prima che ti arrestino! È questione di ore, e io non posso sopportare l'idea di vederti...» Rue, in piedi davanti a lui, era disfatta dal quadro che Andy le aveva fatto. La prese fra le braccia e la supplicò: «Vieni via con me! Cos'altro può importare, se siamo insieme e liberi? Tu non ti rendi conto di come possa diventare tutto terribile per te. Pensa alle cose che dirà la gente, pensa ai giornali, alle accuse. Diranno... dicono già che è perché tu e Brule volevate
sposarvi che Crystal è stata uccisa.» «Andy! Ma tu lo sai che non è vero!» «Certo che lo so. L'ho sempre saputo.» Si passò una mano fra i capelli con un gesto da ragazzino, e, altrettanto da ragazzino fu il movimento impaziente col quale si staccò da lei per riavvicinarsi subito. Come tormentato da un conflitto interiore, esclamò: «Bisogna che ti dica tutta la verità, Rue. Bisogna che te lo dica per il tuo bene.» Gli tremò la bocca, come se odiasse quel che stava per dire: «Tanto una volta o l'altra saresti venuta a saperla. E io sono stato zitto anche troppo a lungo. Ora, al primo posto nel mio cuore ci sei tu, Rue, e devo parlare. Ieri sera, no, l'altra sera, quando sono venuto a prenderti per accompagnarti all'Opera, sono venuto perché mi ci ha mandato Brule.» «Lo so.» «Però non sai che lo faceva sempre anche con Crystal. Che mandava sempre me ad accompagnarla ai ricevimenti e a teatro.» Tutto d'un tratto, la stanza le sembrò insopportabilmente calda e terribilmente buia. Ma Andy continuò in modo quasi convulso: «Ricordi, mentre aspettavamo Kendal, quella vettura, quella coupé che assomigliava a quella di Brule? E quella donna...» «Quella donna...» «Ha mandato me con te, per essere libero di andare da lei. Esattamente come faceva quando Crystal era viva.» «Alicia...» mormorò Rue. «Alicia. È una cosa che dura ormai da anni.» 10 A Rue aveva sempre dato un po' fastidio quel ritratto di Crystal, ma mai, come in quegli attimi, si sentì sotto il mirino di quel suo sguardo, di quegli occhi enigmatici e perspicaci, e di quel mezzo sorriso sulle labbra sottili. Per un istante la biblioteca rimase nel silenzio più assoluto, ma carico di significati e di parole non dette. Dallo studio giungeva il suono argentino del piano di Steven che suonava per Alicia, mentre Madge se ne stava seduta ad ascoltare e a rimuginare il suo odio per la matrigna. La giornata grigia premeva contro le finestre come una nebbia; la lampada sulla grande scrivania di Brule spandeva la sua luce in basso lasciando nell'ombra gli angoli della grande stanza foderata di libri.
Sapeva che Andy aspettava che lei dicesse qualcosa. Si era allontanata da lui bruscamente e si era avvicinata alla scrivania sforzandosi di non guardare il ritratto di Crystal, di vincere il senso di disagio che esso le procurava. Riuscì infine a dire: «Non posso crederlo.» «Ma è vero.» «E Crystal...» «Rue, questa è la parte più brutta. Io avrei fatto qualsiasi cosa per Brule: lui ha fatto talmente tanto per me! Io non mi sono mai permesso di discutere con lui, mai, su nessun argomento. Le prime volte che mi mandò ad accompagnare Crystal in qualche posto in cui lei desiderava ardentemente andare, io presi la cosa alla leggera. Sembrava... Sembrava una cosa più che comprensibile. Brule è sempre tremendamente occupato. È un uomo eccezionale. È...» Esitò e disse in modo puerile: «Non è come gli altri. Io ho sempre fatto quello che lui mi diceva di fare; non mi sono neppure reso conto, o forse non volevo rendermi conto, della piega che andavano prendendo le cose e come stavano andando a finire. Non era bello verso Crystal, non era bello per nessuno.» «Steven... Alicia è fidanzata a Steven, e lui è molto innamorato di lei.» «Lo so. Vedi, Rue, lo so di aver sbagliato con Crystal, ma cosa potevo fare? Tutto è avvenuto gradatamente, senza che me ne accorgessi. Crystal era talmente più vecchia di me che non avrei mai immaginato che... accidenti, Rue, possibile che tu non capisca?» Rue capiva benissimo: una donna vanitosa e ormai sul viale del tramonto che si infatuava di un giovanotto intelligente e attraente; una donna che è la moglie dell'uomo che può, più di ogni altro, tenere in mano la carriera del giovanotto, e che, com'egli aveva francamente e spontaneamente ammesso, aveva fatto "tutto" per lui. «Sì. Credo proprio di capire. Però tu avresti dovuto avere più coraggio.» «Mio Dio, Rue, non credi che adesso non lo sappia anch'io? Non credi che abbia cercato ogni mezzo per... per sfuggire alla cosa, quando ho visto quello che Brule... quando ho visto dove mi ero lasciato trascinare? Io non ero innamorato di Crystal. Mi piaceva moltissimo, certo, e per un po' siamo stati ottimi amici, ma poi... Comunque è inutile parlare di questo, adesso. Io dovevo molto a Brule, ma dovevo molto anche a Crystal. Anche lei era stata sempre molto buona con me. Non potevo andare da Brule, e dirgli: "Sta a sentire, io non posso continuare a portare fuori tua moglie, come vuoi tu, perché penso che lei stia innamorandosi di me". No, non potevo.»
«Che cosa ti proponevi di fare, allora?» Andy sembrò stanco e pallido. «Non lo so. Continuavo a sperare che la cosa si risolvesse in un modo o nell'altro. Alicia si era fidanzata con Steven: pensavo che quando i due si fossero sposati, Brule sarebbe ritornato da Crystal e io sarei... sarei stato libero. Lo so che sembra pazzesco, ma pensa ai miei obblighi verso Brule.» «Da quanto tempo sono fidanzati Steven e Alicia? Circa due anni, no?» «Alicia continua a rimandare il matrimonio. Steven è realmente innamorato di lei. Lui adora la bellezza, e lei è veramente splendida.» Così bella, pensò Rue, che anche Brule se n'era innamorato. Che la cosa durava da anni... Evitò lo sguardo ansioso e turbato di Andy; prese un tagliacarte che stava sulla scrivania e lo rigirò fra le dita, cercando la forza per fare la domanda che le premeva. «Perché Brule non le ha chiesto di sposarla, dopo la morte di Crystal?» Nel silenzio quasi drammatico, la musica proveniente dallo studio di Steven sembrò più intensa. "Arabesque of Night", l'aveva intitolata, con una certa qual fantasia. Era lo stesso pezzo che suonava al momento della morte di Julie: Rue riconobbe le note basse, ritmiche, insistenti, quasi ipnotiche, messe in rilievo dalla distanza e dalle porte chiuse che attutivano le note alte. Andy doveva trovare difficile risponderle... Povero Andy. Era stata ingiusta con lui... E solo perché aveva visto quello strano sguardo negli occhi di Crystal quando lui entrava nella sua stanza. Infine lui si decise. «Rue, per risponderti dovrei farti male. Prima devo sapere una cosa: ami Brule, o si tratta solo di un'infatuazione per quello che è? Perché lo hai sposato? Lo so, ti ha dato denaro, posizione e sicurezza. So che la maggior parte delle donne farebbe carte false per ottenere tutto questo, e perché Brule è un bell'uomo e un grosso personaggio, ma tu... Non riesco a vederti nei panni di una che si sposa solo per queste ragioni. Eppure non posso credere che tu lo ami davvero.» Rue continuò a rigirare tra le mani il tagliacarte intagliato. Ancora una volta, la musica di Steven fu l'unico suono esistente nella grande sala, un suono sempre più ipnotico, che intorpidiva la mente e ogni capacità di ragionare, lasciando libera solo l'emozione. Perché aveva sposato Brule? Brule, che era invece innamorato di Alicia, e da anni? Eppure quella scoperta non fu esattamente uno shock. Cioè, fu uno shock, ma ne aveva già avuto le avvisaglie. Si ricordò della sera prima,
quando, con Guy, aveva visto Alicia sfiorare affettuosamente la guancia contro la spalla di Brule. L'espressione di Guy non era cambiata: aveva detto qualcosa per attirare la loro attenzione, ma non era sembrato sorpreso. Forse sapeva anche lui... Forse lo sapevano tutti... Tutti, eccetto lei e Steven. Povero Steven! Così assorbito dalla sua musica e dai suoi ideali di bellezza, non avrebbe mai potuto sospettare un'incrinatura nel comportamento della donna che amava. Chissà com'era esattamente quella relazione... Le parole di Andy erano state chiaramente scelte per recarle il meno dolore possibile, ma ora lei doveva dargli una risposta. Perché aveva sposato Brule? L'uomo le si avvicinò ma lei non osò guardarlo. «Non vuoi guardarmi, Rue? Non vuoi rispondermi? La sera che ti ho accompagnato all'Opera, ho pensato che anche tu mi amassi. Così come io amo te.» «No, Andy.» «Se è perché non vuoi sentire quello che ho da dire, OK. Non voglio tormentarti. Io... Io ti amo troppo. Ma se lo fai per lealtà verso Brule, allora stai facendo uno sbaglio.» «Non mi hai ancora detto perché ha sposato me e non Alicia.» Se almeno Steven avesse smesso di suonare! Sarebbe stato molto più facile parlare con chiarezza e con freddezza senza quella musica. «Neanche tu hai risposto. O sì?» «No, Andy. Io...» Si allontanò un po', fermandosi a un lato della scrivania. «Ma non capisci che "devo" sapere?» «Come vuoi, ma io t'ho avvisata. E se è solo per il tuo orgoglio...» «Qualunque cosa sia, devi dirmela.» «Ha sposato te perché aveva litigato con Alicia subito dopo la morte di Crystal. Ancora una volta, Rue: vuoi venire via con me, prima che sia troppo tardi? Mi addolora dirtelo, Rue, ma... ma ti accuseranno della morte di Crystal e di quella di Julie.» «Non sono stata io a ucciderle» dichiarò lei con voce stanca. Ora capiva perché Brule era andato da lei e le aveva chiesto di sposarlo. Però gliel'aveva detto francamente che si sarebbe trattato di un matrimonio di convenienza, che avrebbero soltanto dovuto farsi buona compagnia. Non le aveva detto di amarla o di pretendere che lei lo amasse. In fin dei conti era stato onesto, e se lei, in cuor suo, aveva sperato che lui avrebbe finito con l'amarla, era stata pazza. Ma, allora, lei non sapeva ancora che la sua rivale era Alicia, una donna dall'aspetto di una dea.
«Via, Rue! Dimentica Brule. Sono stato costretto a dirtelo. Te l'ho detto soltanto perché tu potessi sentirti moralmente libera, senza alcun obbligo. Ma dimenticalo. Dimentica Alicia. Pianta tutto e lascia che io ti porti lontano da qui prima che... prima che ti incastrino e io non possa più far niente per te.» Le ultime parole furono salutari per Rue, perché la strapparono a quella specie di allucinazione e la riportarono alla cruda realtà. «Non possono arrestarmi.» «Ma lo faranno. Lo so che non sei stata tu a uccidere Julie, ma, vedi, sei stata tu a darle il tè, qui, in casa tua. Se vieni via con me, avranno il tempo di scoprire il vero assassino. In questo momento sospettano solo di te.» Rue girò attorno alla scrivania e andò a sedersi dietro di essa. Portava un golfino giallo e una gonna blu, e appariva molto giovane e indifesa. Sotto la luce della lampada, i capelli erano lucidi e soffici, ma la notte insonne le aveva lasciato delle grandi occhiaie scure. «La sospettata numero uno» tentò di ridere Andy. «Tu!» «La sera in cui mi hai parlato di Crystal e delle lettere, tu mi hai detto che pensavi che la polizia avesse ragione, che Crystal fosse stata effettivamente assassinata. Perché lo pensavi?» «A causa di Alicia. Non c'è senso a continuare a tirarla per le lunghe senza arrivare al dunque. Prima ho cercato di dirti quello che sapevo senza farti troppo male, ma vedo che non ho fatto che peggiorarti le cose. Ecco, vedi... Alicia era qui il pomeriggio in cui è morta Crystal. Lei avrebbe avuto tutto da guadagnare con la sua scomparsa: Brule sarebbe stato libero di sposarla senza dover chiedere il divorzio e senza sollevare la minima chiacchiera. Per Alicia era il modo di uscirne più facile, anche se non è tipo da avere degli scrupoli quando desidera qualcosa.» «Ma non era Crystal che, in pratica, la manteneva?» «Sì, ma con l'approvazione di Brule. Forse, addirittura dietro suo suggerimento. Sicuramente si tratta di una situazione piuttosto strana, Brule e Alicia sono tutti e due attaccati alle convenzioni, anche se non vogliono mostrarlo; tutti e due odiano le cose comuni, ordinarie, o che possono comunque sollevare delle chiacchiere, ma si amano tutti e due pazzamente. È stato orribile, il fatto che Brule abbia sposato te solo per far rabbia ad Alicia. Non so quale sia il motivo per cui abbiano litigato; non so come e quando si siano riappacificati, ma so che quando l'hanno fatto era ormai troppo tardi, perché tu e Brule eravate già sposati. A dire il vero, penso che Brule abbia cercato di rompere definitivamente con lei, conosci il suo ca-
rattere quanto me, e sai come si infuria e reagisce quando qualcosa non gli va... Penso che quando si è reso conto di quel che aveva fatto, abbia cercato di staccarsi da Alicia, ma... Ma è una cosa più forte di lui.» «Non è di questo che voglio parlare in questo momento. Il fatto è che Alicia è troppo sofisticata, troppo civile, per pensare di attuare un omicidio.» «Che bambina sei! Alicia è una bella selvaggia viziata e raffinata. Quando è saltata fuori ieri?» «Nel momento in cui Julie moriva. È entrata in camera mia proprio in quel preciso momento.» «Come volevasi dimostrare. Tu sapevi che era in casa?» «No. Ha detto che era venuta a trovare Madge. L'hai sentita anche tu, no?» «C'è qualche ragione che impedisca di pensare che sia stata lei a fare bere quel cocktail a Julie? Potrebbe averla incontrata fuori e aver cercato di indurla a non parlare. Forse. .. Forse Julie non si è lasciata persuadere, e Alicia è nuovamente ricorsa al veleno. Ha attirato l'attenzione di Julie su qualcosa o qualcuno, e ha lasciato cadere una capsula di veleno nel suo cocktail.» «Smettila! Lo fai sentire come se fosse vero!» «Potrebbe esserlo. Forse non proprio come l'ho descritto io, ma pressappoco. Potrebbe benissimo essere stata Alicia. Perché no?» Andy si passò le dita fra i capelli e si rispose da solo: «Già, perché no? Perché non possiamo provarlo. Però potrebbe essere stata lei... come potrebbe essere stato un altro. È la prova che dobbiamo trovare per stornare i sospetti da te; solo che non so come fare a trovarla.» «Potrebbe essere stata Alicia a venire in camera mia stanotte» disse Rue soprappensiero. «Però non avrebbe potuto telefonare a Brule. Cioè, sì che avrebbe potuto! Ma...» «In camera tua!» Andy si chinò e la fissò negli occhi, appoggiando le mani sul piano della scrivania. «Cosa vuoi dire?» domandò con voce spaventata. «In realtà non sono sicura di niente.» E gli raccontò tutto. «È la prima volta che accade una cosa simile a Brule» commentò lui. «La prima volta che ha una chiamata a vuoto. È una delle cose contro cui i medici cercano sempre di stare in guardia. Brule sa già cos'era la polvere nel bicchiere?» «Non so. Non lo vedo da stamattina.»
«Questo significa che chi ha fatto un gesto simile, pensa che Julie ti abbia detto qualcosa prima di morire. Significa... Mio Dio, Rue! Significa che si tratta di qualcuno che può andare e venire come vuole in questa casa! Qualcuno che sa come fare a indurre Brule a uscire... Senti, è inutile che cerchiamo di evitare le cose spiacevoli: l'avrai già pensato anche tu, così come l'ho già pensato io, e come l'avranno pensato tutti gli altri, che le persone sospettabili sono maledettamente poche.» Si interruppe di scatto, con uno sguardo stranissimo. «Sei sicura che Brule sia effettivamente uscito?» E mentre lei lo fissava stralunata, mezza spaventata e mezza stupita, cercando di afferrare il senso di quell'ipotesi che si era librata quasi tangibilmente tra loro due, Andy disse lentamente: «A volte è così violento. Addirittura cattivo. Lo sai quanto me. Ma no, non sarebbe mai arrivato a tanto. Non con Crystal...» Rue avrebbe voluto ricordargli le cose che Brule aveva fatto; invece, disse con esitazione: «Ci sono altre persone in casa, o che avrebbero potuto entrare in casa, stanotte. Madge, Alicia, Steven, per esempio. O Guy Cole, che va e viene quando vuole, come ha sempre fatto. Io non so se le porte erano tutte chiuse a chiave...» Frugò nella mente alla ricerca di altri possibili sospetti, ma non ne trovò nessuno. «Tralascia Madge. È come Crystal ma ha la forza di suo padre, ed è dura quanto lui. È ancora quasi una bambina. Non capirebbe la gravità di un tale gesto.» «E poi non avrebbe certo avvelenato sua madre. E neanche Julie, perché non aveva alcun motivo per farlo. Ad ogni modo, atteniamoci ai fatti.» «D'accordo. Veniamo ai fatti. Chi è che ha un alibi per il momento in cui è stato somministrato il veleno a Julie? Come ha fatto Julie a entrare in casa? Quanto è rimasta prima che Gross la trovasse e l'accompagnasse da te? Chi può averla vista? Che cosa sapeva?» «Steven l'alibi ce l'ha» lo interruppe Rue. «L'ho sentito suonare il piano. So che è sempre stato nel suo studio.» «Vorrei parlare con Gross. Posso?» Gross venne immediatamente. «La signora ha chiamato?» E con occhi impassibili afferrò ogni particolare della scena, dei due che stavano confabulando segretamente e che si erano interrotti bruscamente quando lui aveva aperto la porta. «Gross, la signora Hatterick vorrebbe sapere alcune cose di ieri. Chiudete la porta, per favore.»
«Sì, signore.» Chiuse senza far rumore, e si avvicinò. Come sempre, appariva imperturbabile, coi pantaloni a righe sottili e sopra il panciotto, gli occhi privi di espressione che, malgrado l'indifferenza, vedevano e osservavano tutto. Il giorno prima era diventato terreo dalla paura, distrutto e quasi calmo e impassibile, correttamente freddo ma solerte. «Da quel che abbiamo capito, non siete stato voi ad aprire alla signorina Garder, ieri.» «Esatto, signore.» Andy si alzò, andò a prendersi una sigaretta da una scatola sulla scrivania e tornò a sedersi. D'improvviso la musica cessò. Nel silenzio che si era creato, Andy domandò: «L'avete detto alla polizia?» «Sì, signore. Me l'hanno chiesto. Io non so chi ha fatto entrare la signorina; le cameriere asseriscono di non essere state loro, e il cuoco aveva il suo pomeriggio di libertà.» «Come è entrata, allora?» «Non lo so, signore. La porta era chiusa, come sempre.» «Davvero? Ne siete sicuro?» «Be'...» lo sguardo del maggiordomo di fece titubante, guardò un po' in tutte le direzioni, poi tornò ad Andy. «Proprio sicuro, no, signore. Ma di solito è chiusa col chiavistello. C'è stata un po' di confusione dopo l'arrivo della polizia e tutto il resto... Non potrei giurare che fosse effettivamente chiusa a chiave. Ma, in ogni caso, la signorina Garder non sarebbe mai entrata senza suonare.» «È quel che penso anch'io. Anche se, confusa com'era, potrebbe averlo fatto senza pensarci. Potrebbe essersi aperta la porta da sola senza suonare, essere entrata, e essersi seduta nella prima poltrona che le è capitato di vedere. Secondo la signora Hatterick, la signorina Garder non sembrava del tutto cosciente di ciò che faceva. Immagino abbiate avuto anche voi la stessa impressione.» «Be', signore, visto che ne parlate voi, devo confessare che mi è sembrato...» tossicchiò dando una rapida occhiata in direzione di Rue «che fosse sotto l'influenza dell'alcol. Sono... sono stato obbligato a dirlo alla polizia.» «Avete fatto bene. Servirà a togliere i sospetti dalla signora Hatterick. Continuate ad attenervi a quanto avete detto.» Gross guardò Rue un po' sorpreso; era chiaro che non si era reso conto che, con quella sua affermazione, aveva indicato che Julie era stata avvelenata prima di incontrarsi con Rue. «Ricordatevelo, quando la polizia vi interrogherà di nuovo» soggiunse
Andy. «Non tentennate. La signorina Garder era già stata avvelenata prima di aver visto la signora Hatterick?» «Non saprei, signore.» «Ma certo che era già stata avvelenata. Non c'è dubbio. È entrata senza nemmeno pensare di suonare il campanello, solo con l'idea di vedere la signora. Da quanto sarà stata in salotto, quando l'avete vista?» «Non saprei dirlo.» «Ma da quanto pensate fosse lì? Voi siete il solo che l'ha vista in salotto, no?» «Be', di questo non posso essere sicuro, signore. Avrebbe potuto vederla chiunque. Non so da quanto tempo fosse entrata, e non...» Andy corrugò la fronte. «È questo che avete detto alla polizia?» «Ho detto tutto quello che mi è stato domandato, tutto quello che sapevo, signore. Hanno interrogato anche le cameriere; e molto a fondo, oserei dire.» «Sentite, Gross, se ci fosse stato qualcuno con la ragazza o se fosse stata la signora Hatterick a farla entrare, voi dovreste aver sentito parlare.» Gross sembrò confuso. «Non lo so. Volete dire...» «Voglio dire che se ci fossero state voci in salotto, voi le avreste sentite, immagino.» «Non so, signore. Nel pomeriggio di solito me ne sto nell'altro lato della casa; vado nella zona che dà sulla strada solo quando suonano.» «Ad ogni modo, quando avete trovato la signorina...» «Quando sono andato ad accendere le luci, signore; a tirare le tende e a posare sul tavolino il giornale della sera.» «Esatto: quando l'avete scoperta seduta in salotto, cosa vi ha detto?» «Soltanto che desiderava vedere la signora Hatterick. Mi sono addirittura spaventato quando l'ho trovata seduta, al buio, accanto alla tenda. Ieri il cielo è sempre stato grigio.» «C'erano bicchieri, tazze, qualcosa del genere?» «No, signore.» «Bene. Ora pensate bene prima di rispondere: quando avete fatto entrare la signorina Pelham...» Gross sembrò più impenetrabile che mai e pallido. «Io non ho aperto neppure alla signorina Pelham.» Andy balzò in piedi. «Come sarebbe a dire?» «Che la signorina Pelham ha la chiave. L'ha da quando si è ammalata la signora Hatterick, la defunta signora Hatterick. Gliel'aveva data lei, in mo-
do che la signorina potesse andare e venire quando voleva. Come sapete meglio di me, signore, erano molto amiche.» In biblioteca ripiombò il silenzio. Rue non poté fare a meno di guardare il ritratto di Crystal; le sembrò quasi che quegli occhi un po' altezzosi rispondessero al suo sguardo. «Allora» fece Andy dopo un po' «voi non sapete con esattezza a che ora è arrivata la signorina Pelham.» «No, signore.» «Bene.» Sembrò un tono di trionfo. «È tutto. Grazie, Gross. Ricordatevi di attenervi a quanto già detto, quando la polizia vi interrogherà. Ah, ancora una cosa. Vi ricordate della cartella clinica della signora Hatterick, quei fogli con le annotazioni delle infermiere, la signorina Garder e...» Gross annuì prima che Andy finisse. «Sì, signore; me ne ricordo benissimo. La cartella indicava i progressi della signora Hatterick... mostrava come la signora... la defunta signora Hatterick, stesse migliorando. La tenevano sul tavolino accanto alla porta, quello dove c'erano tutte le medicine.» «Esatto. Avete un'ottima memoria, Gross. Immagino l'abbiate tolta voi quella cartella, dopo la morte della signora. Dopo le pulizie della stanza.» «Veramente, non ricordo di averla più vista.» «Pensateci. Pensateci bene.» «Sì, signore. Io sono sicuro di non averla ritirata. Però potrebbe averlo fatto una delle cameriere.» «Capisco. Comunque non è importante. Vi ringrazio molto. Non c'è altro.» «Grazie a voi, signore.» E Gross aprì senza far rumore. Come la porta si chiuse alle sue spalle, Rue osservò: «La cartella clinica. Anche la polizia l'ha chiesta.» «È per questo che volevo sapere. Strano che sia scomparsa. Se l'aveva Julie...» «Impossibile. Non è più venuta dopo la morte di Crystal. Perché la vorresti?» «Perché so che la polizia la cerca, e avrei preferito vederla prima io.» «Forse l'hanno distrutta.» «Sì, forse sì. Ne parlerò con Brule. Forse è stato proprio lui...» Emise un suono stranissimo, quasi un gemito. «No, questo no! Non posso credere che sia stato lui! No, no, questo non l'avrebbe mai fatto. No, non può averlo fatto...» si avvicinò a Rue disperato «Rue, tesoro mio, non hai ancora vi-
sto e sentito abbastanza da convincerti da sola?» Nell'atrio era entrato qualcuno. Era Brule, perché sentirono il rumore dei suoi passi e la sua voce che parlava a Gross. Aprì la porta ed entrò. «Oh, salve, Andy. Mi fa piacere che tu sia qui. È capitato qualcosa di... piuttosto traumatizzante.» Attraversò la biblioteca con l'aria di padronanza che gli era abituale, prese una sigaretta dalla scatola sulla scrivania e si fermò per accenderla. La fiammella, perfettamente immobile tra le agili dita da chirurgo, si rifletté in una miriade di puntini luminosi nei brillanti occhi scuri. Come sempre accadeva, la sua presenza riempì la stanza. Rue guardò l'uomo che l'aveva sposata. L'uomo che l'aveva sposata perché aveva litigato con la donna che amava, la donna bellissima e sofisticata che amava da anni, da molto prima che lei oltrepassasse la soglia di quella casa, la sola casa che lei avesse mai avuto. "Casa mia?", rifletté con amara ironia, sentendo di odiare profondamente la rivale. Brule si lasciò cadere in una poltrona. «Non andartene. Andy. Ti avevo cercato in studio, e la segretaria mi ha detto che ti avrei trovato qui. Voglio che tu sappia cos'è accaduto. Abbiamo trovato delle sostanze in un bicchiere...» «Gliel'ho detto» mormorò Rue con voce soffocata. Lui le gettò un'occhiata che era insieme attenta e interrogativa, come se il tono della voce di Rue avesse lasciato trapelare qualcosa di quanto Andy aveva detto. «Bene. Allora sai tutto. Il fatto è che... che si tratta realmente di veleno. Ho fatto fare un'analisi chimica. È una sorprendente miscela di droghe ipnotiche, barbiturici e morfina. In dose sufficiente a uccidere un cavallo.» 11 «E senza nessun sintomo» mormorò Andy dopo un po'. «Nessunissimo sintomo. Uno muore e basta.» «Già. Com'è morta Crystal e com'è morta l'infermiera» confermò Brule freddamente. «Ormai è solo questione di tempo e la polizia isolerà e identificherà il veleno nel corpo di Crystal e di Julie Garder.» «Tempo...» Ripeté Andy. «Sì, è il tempo che ci occorre.» «Per che cosa? Non possiamo fare assolutamente niente.» «Potremmo. Possono metterci settimane per scoprire con esattezza per
che cosa è morta la ragazza. Spesso ci vogliono due o tre settimane, quando quelli del laboratorio non sanno cosa cercare. In questo caso, poi, tra sedativi e ipnotici innocui, ne hanno da cercare... Nel tempo che impiegheranno a scoprire il farmaco giusto, ne possono succedere di cose... Secondo me, è una fortuna per noi. Se si fosse trattato di arsenico, stricnina, o certi altri veleni, ci metterebbero pochissimo a rilevarli.» «Se si fosse trattato di arsenico, di stricnina, o di certi altri veleni, ci sarebbero stati dei sintomi. Per l'assassino, la bellezza di questo particolare composto sta nel fatto che una sua dose eccessiva porta a una profonda sonnolenza e a uno stato confusionale, che continuano a crescere fino a trasformarsi in coma e, poi, in morte. Già, l'ipnotico potrebbe controllare quasi istantaneamente P azione della morfina... Però potrebbero anche avere effetto simultaneamente. Per ritardarne l'azione, potrebbero anche essere stati inseriti in una capsula... Per Crystal, la cosa è andata esattamente come l'assassino voleva che andasse: è caduta in un sonno profondo ed è morta senza mostrare i segni tipici dell'avvelenamento da morfina, segni che ci avrebbero dato un punto di riferimento e ci avrebbero consentito di somministrarle l'antidoto adatto. Per l'infermiera, invece, è diverso. Da quanto mi hai detto tu, Rue, e da quanto ha riferito Gross, sembra che qualcosa non abbia funzionato. O la quantità non era sufficiente o la ragazza ha avuto una reazione diversa dal previsto. Infatti è stata ancora in grado di salire le scale, camminare e tentare di parlare, prima di morire. Sta tutto nel tempo: quando le è stato propinato il veleno? La morfina fa effetto subito, è questione di pochi minuti. L'altro è più lento... Quanto tempo sarà rimasta abbastanza cosciente da poter camminare e parlare? L'eventuale capsula potrebbe aver aggiunto un margine di sicurezza di una ventina di minuti, non di più. Comunque non c'è modo di scoprirlo finché non sappiano con precisione di che sostanza si tratta. E la quantità approssimativa di ogni farmaco. Tanto per Crystal che per Julie, è stata la dose eccessiva a provocare la morte; in dosi normali morfina e ipnotico sono farmaci realmente benefici. Ad ogni modo è la polizia che deve preoccuparsene. Io posso solo dirgli che genere di cose devono cercare.» «Vuoi dire... Vuoi dire che gli dirai dell'analisi chimica? E gli dirai cos'è successo ieri notte?» «Certo. Prima lo sanno e meglio è. Non volevo che se ne parlasse finché non sapevo di che cosa si trattava; ma adesso lo so.» Andy si schiarì la gola. «Non c'è voluto molto al tuo chimico per analizzare quella roba.»
«Gli ho suggerito io che cosa cercare.» «Tu... Tu lo sapevi?» Brule aggrottò la fronte. Le sopracciglia formarono un'unica linea scura che divideva nettamente il volto in due parti. «Perché era quello che pensavo potesse essere. Altre domande?» «N... no. Ma... Ma sei sicuro che sia bene dirlo alla polizia? Lo sai quanto me quante poche siano le persone che avrebbero potuto mettere quella roba nel bicchiere di Rue.» «Lo so. So anche che sono pochissime le persone che avrebbero potuto dare il veleno a Crystal. Moltissime, invece, avrebbero potuto avvelenare l'infermiera: ma chi? Chi aveva un motivo e la possibilità per farlo?» «Ma... Ma non mi hai detto che preferivi non fare chiasso sulla cosa?» intervenne Rue. «Tu mi hai detto che, al momento della morte di Crystal, avevi già pensato che non si trattasse di morte naturale, ma che avevi ritenuto più saggio accettarla come tale. Hai detto che era meglio pensare a Madge e a Steven e...» «E a me stesso e ad Andy. E a te. È vero, l'ho pensato. Ma le cose adesso sono cambiate.» «Adesso vuoi aiutare la polizia. È questo che vuoi dire?» domandò Andy. «Voglio dire che dobbiamo sapere la verità. Non possiamo continuare a evitarla.» «Però non vedo l'utilità di andare a raccontare alla polizia tutto quello che sai. A meno che tu non abbia un'idea di chi sia stato a uccidere.» «Io non lo so. So solo che... Senti, Andy, sai perché sono a casa a quest'ora? Cerca di immaginare. È perché non ho niente da fare. La mia agenda era completa oggi, ma il vecchio Gillette ha annullato l'operazione; tre pazienti hanno telefonato per dire che stavano meglio e che non sarebbero venuti a farsi visitare... Tutte le telefonate ricevute sono state per annullare gli appuntamenti. L'unica cosa che ho dovuto fare, è stato il consueto giro di controllo in ospedale. E finché questa dannata faccenda non sarà sistemata, scommetto che sarà sempre così. Va in studio a guardare la tua agenda degli appuntamenti, se non mi credi. Non possiamo evitarlo: ci siamo dentro fino al collo. Dobbiamo sviscerare la cosa e uscirne puliti, altrimenti... Tu sei un tipo ambizioso, Andy; a volte ho pensato che tu lo fossi addirittura troppo...» Brule fissò la sigaretta e aggiunse con una sfumatura di tristezza: «Ma io sono l'ultimo uomo al mondo che possa fare dei predicozzi a questo proposito. So solo che troppa ambizione distrugge la
vita. Ma questo non c'entra. Il fatto è che tu sei ambizioso e hai avuto un brillante inizio per quella che promette di essere una brillante carriera. Bene, in questo casino ci sei anche tu. Non puoi fare come vuoi. Se vogliamo salvare qualcosa del nostro lavoro, l'unica cosa che possiamo fare è cercare di uscire da quest'incubo dimostrando a tutti la nostra innocenza.» Andy lanciò un'occhiata a Rue. «Parole sante, e persino eroiche. Ma cosa significano con esattezza?» «Cosa significano?» Gli occhi di Brule sembrarono volerlo incenerire. «Significano esattamente quel che ho detto. Mettere le carte in tavola. Dare alla polizia ogni aiuto possibile.» «Capisco. Evidentemente hai intravvisto uno spiraglio per uscirne... A meno che tu non abbia scoperto chi è stato a uccidere e desideri che, chiunque esso sia, sia fatta giustizia. Oppure, che tu abbia scoperto chi è stato a uccidere, ma abbia anche il modo di salvarlo.» Il volto di Brule si fece duro, con un'espressione che Rue conosceva bene, che aveva già visto in certi momenti cruciali al tavolo operatorio: una maschera glaciale. Per un attimo Brule sogguardò Andy con occhi accesi, duri, inquisitivi. Nel corridoio passò qualcuno. Si sentirono voci, voci femminili, Madge e Alicia. Non ci si poteva sbagliare sui toni da contralto di Alicia. «Resta un'altra considerazione da fare, Andy. Anzi, ce ne sono due o tre. Una è l'atto contro la vita di Rue, che sta a dimostrare la sua innocenza, e pertanto io voglio che la polizia lo sappia. Ti assicuro che non so chi è stato a uccidere Crystal e Julie, ma se lo sapessi andrei a denunciarlo immediatamente. Comunque, qualunque siano le ragioni che tu mi attribuisci, questa è la via che seguiremo. Capito?» Fu come un colpo di frusta. «Sì.» «Bene. Guy verrà nel pomeriggio. Gli ho telefonato a proposito della polverina nel bicchiere, ed è d'accordo con me nel parlarne subito con la polizia. Da un breve colloquio che ho avuto con Angel questa mattina, ho capito che ritengono di averci trattato con troppi riguardi e di essere stati anche troppo indulgenti. Ci aspetteranno perciò momenti molto duri, ora che dichiareranno ufficialmente che si tratta di un omicidio... Ti fermi a pranzo con noi?» «No, grazie. Devo andare a vedere due ammalati...» Andy guardò Rue. «Brule può avere ragione; però secondo me è un errore parlare troppo. Tuttavia...»
Brule lo accompagnò alla porta. Quando tornò indietro, andò a fermarsi davanti al camino, proprio sotto il ritratto di Crystal. Continuava ad avere quell'espressione impenetrabile, quella specie di maschera, che Rue ben conosceva ma che le aveva sempre impedito di sapere cosa nascondesse. «Non è che Andy abbia molta considerazione etica nei miei riguardi. Il fatto più curioso e allarmante, è che Andy è esattamente come gli ho insegnato a essere, come l'ho modellato io. Solo che... che lui non ha una base solida, una vera forza su cui poggiarsi.» Rue pensò ad Alicia e Steven stretti fra l'egoismo di Brule e la vanità di Crystal. «È una forza che a volte potrebbe anche essere definita come inesorabilità.» «Inesorabilità?» ripeté lui, lanciandole di nuovo, come prima, un'occhiata rapida e inquisitiva. «Forse... La caratteristica prevalente in Andy è l'ambizione; questo è evidente. Sono stato proprio io a insegnargli che ci sono volte in cui lo spaccare un capello in due non fa bene a nessuno, e che ci sono volte in cui qualcuno può considerare come crudeltà un atto che è invece di misericordia. Come adesso.» Rue si arrovellò per capire il significato di quelle parole, confusa anche dalla durezza e dalla forza di penetrazione di quel suo sguardo. «Voglio dire» continuò lui freddamente «che può anche sembrare crudele aiutare deliberatamente la polizia a scoprire l'identità di chi ha ucciso Crystal e Julie; ma è crudele solo per noi, perché in cuor nostro sappiamo che significa dover lavare in pubblico i nostri panni sporchi, e che, alla fine, arriveremo inevitabilmente a una tragedia.» Per un istante la sua faccia perse durezza e sicurezza. Se Rue non l'avesse conosciuto così bene, avrebbe anche potuto pensare che fosse diventato quasi compassionevole, come se presentisse qualcosa e fosse profondamente perplesso. Non riuscì a capire a cosa fosse dovuto; capì solo che si trattava di una manifestazione emotiva. Fu come gettare una brevissima rapida occhiata nel profondo di un lago dalla superficie gelata. Brule finì la sigaretta e la schiacciò nel posacenere. «Non mi sembra una crudeltà il fermare ulteriori attentati alla tua vita... Andy ha fatto l'amore con te?» «Andy...» Rue si sentì il volto in fiamme. Ma come osava, come osava farle una simile domanda, quando lui si teneva addirittura in casa la sua bella? Nella "sua" casa, perché lei era pur sempre sua moglie. Brule sembrò divertito. «Forse non ho molti diritti per chiedertelo, considerando il nostro accordo. Ma se l'ha fatto... adesso dovete smettere.»
Si sentì invasa da una rabbia fredda. Cercò di parlare, di inveire, ma lui fu più veloce. «Non permetterglielo. Andy è bravissimo a fare l'amore, ma adesso dovete smettere. Non ho nessuna intenzione di spiegarti le ragioni, ma dovete smettere. È un ordine.» «Forse perché mi hai dato ordini per tanti anni? Perché...» «Il perché non ha importanza. Ma mettiti bene in testa quanto ti ho detto... Sì, Gross?» Il maggiordomo annunciò: «Il pranzo è servito, signora.» Come sempre, le circostanze finirono con l'essere favorevoli a Brule. Dopo quell'interruzione, lei non poteva più dire o fare nulla. Era obbligata a reprimere la sua furia, a controllarla, a trattenere le cose che voleva dire, ad accogliere l'annuncio del maggiordomo, andare in sala da pranzo, e fronteggiare Alicia con una gran rabbia e qualcosa molto simile all'odio. Rue non aveva mai odiato nessuno in vita sua, e non sapeva quanto si potesse soffrirne. Per un istante fu presa dal desiderio di ribellarsi: poteva tornarsene in camera adducendo una giustificazione qualsiasi, rifiutandosi di andare a tavola con gli altri, fra i quali uno poteva anche essere l'assassino. Con un'amabilità che la fece infuriare ancora di più, Brule domandò: «Sei pronta, cara? Se non te la senti di venire a tavola, può sostituirti Alicia.» «Grazie, ma sto benissimo.» E si affrettò nel corridoio. Stava già spiegando il tovagliolo quando si rese conto che, ancora una volta, l'aveva spuntata Brule, che c'era stato uno strano bagliore nel suo sguardo, come se avesse previsto la sua decisione. Fu il primo di molti pasti che consumarono tutti insieme nell'isolamento di quei giorni. Perché fu veramente un isolamento, e lo sentirono tutti. Fu come essere tagliati fuori dal resto del mondo, essere tenuti prigionieri da lacci invisibili ma estremamente forti. Gli altri continuavano a condurre la loro vita normale, ma loro no. Loro erano in una posizione che metteva in evidenza, come fanno sempre le tragedie o la sfortuna, la felicità dei tempi passati, la grande gioia delle cose e degli avvenimenti di tutti i giorni. Quel primo pasto insieme non fu propriamente piacevole: Alicia e Brule parlavano del più e del meno, ma Steven era silenzioso, mangiava distrattamente come se non sapesse neppure cosa stava facendo; e Madge era imbronciata, guardava Rue solo per abbassare immediatamente gli occhi quando si accorgeva che questa ricambiava il suo sguardo. Brule continuava a parlare dell'inchiesta della polizia (avrebbe avuto inizio il giorno do-
po), della linea di condotta che Guy avrebbe molto probabilmente consigliato di seguire. E Alicia continuava a parlare tranquillamente con Brule, con Madge e con Steven, ignorando apertamente Rue, con la fredda determinazione di chi sa come umiliare gli altri con le proprie qualità. Alicia non era mai considerata un'ospite, ma come una persona di famiglia, e Rue era sempre stata abilmente ma decisamente relegata nella posizione di ultima arrivata, di estranea. Finché, con l'aiuto di Madge, Alicia non era stata in grado (vedi il giorno prima) di far toccare con mano a Rue qual era realmente quella sua posizione. L'accusa lanciata il giorno prima da Alicia era unicamente servita a quello. Infatti davanti alla polizia non l'aveva ripetuta; Brule non aveva fatto commenti, Steven, perso nelle sue fantasticherie, sembrava averla dimenticata. Ma Rue no. Però fu obbligata ad accettare la presenza della rivale. Se almeno quella non fosse stata così bella e così sicura di sé, non avesse avuto quell'aria composta e calma, tipica della donna di mondo, piena di esperienza! Lei, Rue, non sapeva fingere come quell'altra: bastava che la guardassero, e capivano subito quali erano i suoi sentimenti! L'orgoglio fu un duro maestro, ma fu quello che quel giorno la obbligò al suo posto, con un equilibrio e una sicurezza che lei non avrebbe mai pensato di avere. Assolse i suoi doveri di padrona di casa, facendo cenni a Gross e alla cameriera, dando ordini a bassa voce, rispondendo a Brule. Fu un sollievo quando entrò Guy, pacioccone e tirato a lucido, come sempre. Forse troppo allegro, tanto da dare l'impressione di un'allegria fittizia, come se volesse mostrarsi ottimista ma, dentro di sé, fosse ben felice di essere solo ed esclusivamente un estraneo, uno spettatore e non un protagonista di quella loro storia. O almeno, così parve a Rue. Brule salutò il suo arrivo come una liberazione, come se, malgrado la sua resistenza e la sua vitalità, avesse anche lui bisogno del suo aiuto. «Grazie, ho già pranzato. Ma un caffè lo prendo volentieri.» Per il caffè andarono tutti in biblioteca. Dalla prima parola in poi, fu come essere a un consiglio di stato, solo che fu molto più breve. Durò un'ora, un'ora e qualcosa, e la parola d'ordine di Guy fu "SILENZIO". «Non dite niente che non dobbiate dire» ripeté, come aveva già fatto la sera prima. Guardò Madge, china sulla sua tazza, e con un'occhiata insolitamente fredda aggiunse: «E questo vale anche per te, signorinetta. Non dimenticarlo. Non ci devono più essere scatti isterici come quello di ieri sera.»
Rue lasciò finalmente che i suoi occhi si posassero su Alicia. Lei si sentiva pallida e con gli occhi pesti, l'altra invece non aveva una ruga, se non la si guardava troppo da vicino, e conosceva inoltre tutti i trucchi, tutti i giochi di luci e ombre, che potevano giovarle. Si era infatti scelta una poltrona discosta dalla lampada appoggiata sul tavolo ma proprio di fronte, in modo che la luce non creasse ombre sul suo viso e non mettesse in evidenza le piccole rughe. Portava un vestito di lana verde, verde palude, che metteva in risalto il suo colorito pallido, i capelli scuri striati d'argento, i bellissimi occhi scintillanti. Però la sera prima era vestita di nero: questo significava che aveva mandato qualcuno a prenderle degli abiti, che aveva intenzione di fermarsi, che Madge aveva insistito, e ottenuto, che lei restasse. «Mi avevi detto che volevi parlarci degli alibi» disse Brule. «Che, se avevamo un alibi, le cose si sarebbero semplificate.» «Certo, naturale» acconsentì Guy. «Penso l'abbiate tutti. Da quello che vi ho sentito dire ieri sera, non mi sembra vi sia difficile sostenere un alibi. Vediamo.» Li guardò tutti attentamente: Steven era il più vicino. Stava bevendo il suo caffè soprappensiero. Guy cominciò da lui. «Tu. Tu sei stato tutto il giorno nel tuo studio, mi pare.» Steven finì il caffè. «Sì. A lavorare.» «Al pianoforte, immagino.» «Quasi sempre. Al mattino ho trascritto una partitura.» Steven mostrava gli effetti della tensione nervosa. Aveva grosse borse scure sotto gli occhi, e le belle mani da musicista erano visibilmente malferme. Ma era un uomo che non stava mai realmente bene, non aveva mai l'aspetto di chi è in buona salute e ha i nervi d'acciaio che aveva Brule. Quel giorno, forse per un riguardo ad Alicia, aveva lasciato l'eterno pullover e si era presentato a tavola con una bella giacca da casa; era persino ben pettinato, cosa piuttosto insolita di giorno, e i profondi occhi scuri avevano, come sempre, la tendenza a posarsi su Alicia. «Nel pomeriggio, invece, hai sempre e solo suonato il piano?» «Credo di sì.» «Sì, l'ho sentito io» confermò Rue. «Stava suonando quando è venuta Julie. Anche quando Gross ha portato su il vassoio del tè, e quando è entrata Alicia. Era sempre lo stesso pezzo. Ne sono sicura.» «Magnifico» fece Guy. «Tu sei a posto. Un alibi perfetto. E voi, Alicia?» «Il mio lo conoscete. Ve l'ho già detto. Ero dai Sidney. Quando sono u-
scita, sono venuta direttamente qui. Possono confermarlo tanto la signora Sidney che la cameriera che mi ha accompagnata alla porta.» «Siete venuta dritta qui, senza fermarvi in nessun posto, in qualche negozio, per esempio?» Alicia sollevò le sopracciglia fino a formare due archi neri. «Ora che ci penso... Sono venuta per la Bank Street. Ricordo di aver guardato la vetrina di un fioraio... oh, sì: mi sono fermata in un negozietto quasi all'angolo di Shubert Street e ho ordinato dei fazzoletti. Cioè, volevo ordinarli, ma la commessa alla quale mi rivolgo di solito non c'era, perciò non l'ho fatto. Mi sembra anche di essermi fermata un momento in una libreria.» Guy sembrò preoccupato. «Vi ha visto qualcuno che conoscete?» «Non lo so. Ha importanza?» «Mia cara Alicia, fin qui non è un alibi.» «Non vedo perché debba esserlo. Dopo tutto non accusano me per la morte di quella ragazza.» «Al momento non accusano nessuno. E tu, Madge? Ah, sì, tu eri a scuola.» Rue si mosse come se volesse parlare. «Dite pure, Rue.» «Vorrei sapere come ha fatto Alicia a entrare in casa. Gross dice che non sapeva che ci fosse.» «Si direbbe che Rue si intrattenga volentieri col personale. Comunque, se qualcuno vuol sapere come ho fatto a entrare...» «Credo proprio che dovremo saperlo. La polizia lo vorrà di sicuro.» «E allora eccovi serviti.» Agitò la testa con aria sdegnosa. «Sono entrata senza farmi aprire semplicemente perché ho la chiave. Me l'aveva data Crystal tanto tempo fa. Una volta dentro, visto che Madge non c'era, mi sono seduta ad aspettarla, ma dopo due o tre minuti ho sentito il grido di Rue. Mentre aspettavo non ho visto nessuno. Penso che la polizia capirà il mio modo di agire, il mio andare e venire liberamente in questa casa. Non penso che possano ritenermi un'intrusa.» Guardò Brule, ma lui non aprì bocca. Guy si schiarì la gola. «Ma che dite mai! No di certo. Ora tocca a te, Brule. Qual è il tuo alibi?» Brule non rispose immediatamente. Rimase a fissare la cenere della sigaretta, poi, finalmente si decise. «Io non ho un alibi, Guy. Ero in macchina al momento del delitto. Ero diretto all'ospedale ma ho dovuto fermarmi lungo la strada. A causa della brutta giornata, il traffico era caotico, e al ponte si è formato un ingorgo tale di tram, camion e auto, che sono rimasto
fermo più di venti minuti. Quando ho visto che non riuscivo a passare, ho cercato un angolo dove lasciare la macchina e sono entrato in un bar a bere qualcosa. Non so come si chiami, ma immagino di saperlo ritrovare se è necessario.» «Temo proprio che sarà necessario. Sai com'è la polizia quando riesce ad appigliarsi a qualcosa.» E se non lo sapevano ancora, pensò Rue, l'avrebbero saputo presto. La polizia arrivò alle due in punto. Se la sera prima, quando non sapevano ancora se la ragazza era o no stata assassinata, erano stati di manica larga, ora non lo furono più. Sembrarono delle locuste fameliche: nessuna stanza, nessun cassetto, nessuno scaffale fu troppo insignificante per non essere esaminato accuratamente; nessuna persona fu al disopra dei sospetti; nessuna domanda fu troppo banale per essere evitata. Non solo, ma non accennarono minimamente ad andarsene. Erano lì ancora alle nove di sera, quando Rue ebbe un inaspettato colloquio con Alicia. Nel pomeriggio, ogni testimone era stato interrogato separatamente e a lungo. Rue stessa era appena uscita dalla sala da pranzo dopo due ore passate, come il giorno precedente, sotto la luce che le batteva sugli occhi e un fuoco costante di domande. Era stato presente anche Guy, che aveva continuato a infilarsi in bocca una sigaretta dopo l'altra senza mai accenderla, e che ogni tanto le aveva lanciato un'occhiata senza però mai riuscire ad arrestare quella marea di domande. Quando finalmente la lasciarono andare, addirittura sfinita, si ritrovò con le ginocchia che vacillavano, gli occhi stanchi e la testa che sembrava sul punto di scoppiare. Ma non l'avevano arrestata. Le avevano mostrato la tazza da tè con sopra le sue impronte digitali; le avevano domandato, e continuato a domandarle, cosa sapeva lei dei veleni, cosa sapeva Julie a proposito della morte di Crystal e perché era venuta da lei. Da quanto tempo conosceva Brule, perché si erano spostati a così breve distanza dalla morte di Crystal, e da quanto avessero progettato di sposarsi. Poi, ancora e ripetutamente, cosa le aveva detto Julie: aveva forse detto qualcosa sulla morte di Crystal che essi ancora non sapevano? Ma lei non aveva riferito quanto aveva saputo da Julie; non aveva raccontato "Mi ha detto che la morte di Crystal era dovuta a qualcosa che anch'io sapevo, ma che invece io non so". Se almeno l'avesse saputo e avesse potuto riferirlo! C'era anche quel Funk, quell'omino che era già stato a interrogarla quella
prima sera. Nascosto dietro le spalle dei suoi colleghi, esaminava i pezzi d'argento sulla credenza e sul tavolo. In particolare, sembrava preoccupato di una sola cosa, e cioè del colore verde di quelle che lui continuava a chiamare "le mani della defunta". Era uscito allo scoperto solo per fare delle domande. La defunta aveva i guanti? No? Aveva visto delle macchie, non necessariamente verdi, ma comunque colorate, sulle mani della defunta? No? La signora Hatterick sapeva cosa poteva aver prodotto quel verde sulle mani della defunta? Oh, è un vero peccato che la signora Hatterick non lo sapesse! In effetti la cosa era alquanto strana, e incuteva anche un tantino di paura. Non avevano interrogato nessuno così a lungo e così insistentemente. Eppure, durante tutto quel lungo ed estenuante interrogatorio, le avevano fatto solo due o tre domande sulla polverina trovata nel fondo del bicchiere. Brille, come anticipato, l'aveva riferito subito alla polizia, ma chissà?, forse lo ritenevano un espediente per suggerire la sua innocenza. Ma anche se era proprio così che la pensavano, lei continuava a essere libera. Incontrò Alicia davanti alla porta della stanza degli ospiti, attigua allo studio di Brule. Alicia era proprio davanti alla porta dello studio, con la mano ancora sulla maniglia come se stesse uscendone in quel preciso momento. Si fermò e guardò Rue. Sotto c'era la polizia, un movimento continuo, voci e rumori a non finire. Ma lì, nel corridoio, non c'era nessuno. Gli occhi di Alicia corsero rapidi a scrutare le scale e lo stretto corridoio, poi tornarono a posarsi su Rue. «Ti hanno arrestata?» «No.» Rue aprì la porta di quella che era al momento la sua camera. «Senti, perché non confessi e non la fai finita?» "Non posso parlare con lei", pensò Rue entrando in camera. Ma la mano di Alicia, incredibilmente forte, si chiuse sul suo polso. «Ah, rifiuti di rispondere! Fai come vuoi, ma stammi a sentire. Io sto qui perché è mio diritto restarci. È mio diritto perché Brule era me che voleva sposare, non te. Ha sposato te solo perché sapeva che Crystal era stata assassinata, e che, prima o poi, la verità sarebbe venuta a galla. Pensava che, sposando te, sarebbe riuscito ad allontanare ogni sospetto da me. Adesso» lasciò andare il polso di Rue e rimase a guardarla con uno sguardo di trionfo «adesso capisci qual è il tuo posto qui? Che protezione puoi aspettarti da Brule?» 12
La cosa più terribile fu che Rue sapeva che l'affermazione di Alicia poggiava su elementi reali. Coincideva perfettamente con quanto lei già sapeva e con quanto le aveva riferito Andy. Combaciava esattamente con quanto convenuto con Brule, con tutto quanto concerneva il loro contratto matrimoniale, e si incastrava perfettamente anche su quanto Brule aveva ammesso di supporre sulla morte di Crystal. «Perché avrebbero dovuto sospettarti, se tu fossi stata la moglie di Brule?» Alicia sbatté le palpebre, aprì la bocca, la chiuse, la riaprì. «Io non... Perché ci sarebbero state delle chiacchiere e...» «Vuoi dire che già allora sapevi che si trattava di un omicidio? Come facevi a saperlo?» Alicia si era ripresa. «E come non sospettarlo?» disse con fredda brutalità. «Lo capisci da sola, no, perché non puoi aspettarti nessuna protezione da parte di Brule.» «Comunque la moglie di Brule sono io.» Rue chiuse la porta. Aveva avuto l'ultima parola, e ne ricavò un pizzico di soddisfazione. Purtroppo quanto Alicia aveva detto era abbastanza verosimile: spiegava il modo di fare di Brule e motivava il suo matrimonio meglio di qualsiasi altra cosa. Andy si era sbagliato nel supporre che il matrimonio fosse stato una conseguenza di un litigio... Ma forse era quello che Alicia, o magari lo stesso Brule, aveva detto ad Andy. Perché, se tutti e due avevano sospettato che Crystal fosse stata uccisa ma avevano sperato che la cosa rimanesse segreta, e Brule si era persino risolto a sposare Rue per proteggere Alicia da eventuali sospetti nel malaugurato caso che la verità fosse venuta a galla, allora, dovendo dare una spiegazione ad Andy, gli avevano detto che c'era stato un litigio. Ma perché era necessario proteggere Alicia? E come facevano a essere sicuri che Crystal era stata uccisa? Dopo averci pensato su un bel po', andò al telefono. Non sapeva dove trovare Andy a quell'ora, ma provò in studio. La segreteria telefonica la informò che poteva trovarlo al "Town Club" e fornì il numero, ma il portiere del Club affermò di non vedere il dottor Crittenden dal mezzogiorno del giorno prima. Riagganciò senza lasciare il nome. Forse, in fondo, era stato un bene non avergli potuto parlare.
Quella sera chiuse a chiave la porta. Mentre stava per addormentarsi ripensò alla strana sensazione provata al telefono, un qualcosa di diverso nella qualità dell'ascolto... Poi, quasi di colpo, capì: il telefono era sotto controllo. Supponeva fosse una cosa normale in una situazione come quella, ma il pensiero di avere intorno la polizia le diede i brividi. Nella notte la casa rimase avvolta nel più completo silenzio, fatta eccezione per una pacata partita a poker nel salotto di Crystal, tutto sete e ori; una partita che veniva interrotta a intervalli regolari per silenziose ronde nella casa, con torce elettriche che penetravano il buio della dispensa, dello studio, delle scale. «Non mi piace quello studio» disse uno dei poliziotti ritornando nel salottino dopo il suo giro. «Sembra ci sia una tana sotto quell'enorme pianoforte.» «Vuoi dire che non ti piacciono i delitti... Dai, che tocca a te.» «Un morto ammazzato da un'arma non mi fa né caldo né freddo» si slacciò la pesante fondina con il revolver e la posò in terra «ma queste morti strane mi danno fastidio. Non si riesce mai a venirne a capo. Un assassino dilettante è una specie di pazzo. Non si sa mai cosa può saltargli in testa di fare.» «Forza, tocca a te.» Lentamente arrivò il mattino. E, col mattino, l'inchiesta. Fu però straordinariamente breve, con tutti i testimoni pallidi e a disagio sotto la luce fredda delle lampade, in quello stanzone anonimo, pieno di ristagnante odore di fumo e di detersivo per pavimenti. I testi vennero interrogati quasi tutti. Data la brevità, non fu così difficile come Rue aveva temuto. Fu, più che altro, il riassunto delle circostanze inerenti la morte di Julie. Quando fu il suo turno, Rue andò a sedere alla sedia dei testimoni di fronte alla giuria e al coroner, il magistrato inquirente, che aveva un gran raffreddore di testa e che la interrogò fra uno sternuto e l'altro. Degli altri testimoni, il più importante sembrò essere il tenente di polizia, che alla fine della deposizione lesse una lettera. «La morte della signorina Garder è avvenuta subito dopo che la polizia ha aperto un'indagine sulla morte di un'altra persona, morte avvenuta un anno fa.» «La morte di chi?» domandò l'inquirente, sapendo benissimo a chi si riferiva il tenente.
«La morte della signora Crystal Hatterick, la prima moglie del dottor Hatterick, che è presente in aula.» «Che cosa vi ha portati a questa indagine?» «Una serie di lettere dattiloscritte indirizzate alla polizia e al procuratore distrettuale.» «Le avete con voi?» «Sì.» «Volete per favore leggerne una e mostrarla alla giuria?» L'ufficiale di polizia spiegò un foglio di carta da lettere e cominciò a leggere ad alta voce mentre il magistrato si soffiava il naso. «Questa» disse «è stata indirizzata al capo della polizia. Dice quanto segue: "Con la presente desidero richiamare la vostra attenzione sulla morte, avvenuta un anno fa, della signora Crystal Hatterick; lo scrivente consiglia alla polizia di indagare sulle circostanze della sua morte".» Ripiegò la lettera, la passò a un cancelliere che, a sua volta, la passò a un giurato. Angel continuò: «Ci sono state molte altre lettere, alcune delle quali affermavano apertamente che la donna era stata assassinata. Quella che ho letto è solo una delle tante.» «Quante, in totale?» «Undici o dodici. Cioè, queste sono quelle di cui sappiamo noi, ma possono essercene altre di cui non siamo stati informati.» «Sapete chi le ha scritte?» «Fino a questo momento non siamo stati in grado di scoprire il mittente.» «E avete perciò aperto un'indagine di polizia sulle cause della morte della signora Hatterick?» «Sì.» «Con quali risultati?» «Dopo esserci procurati il permesso per l'esumazione del cadavere, è stata eseguita l'autopsia. Questa ha rivelato la presenza di sostanze tossiche in quantità mortale.» «La vostra conclusione è che si tratta di morte violenta?» «Sì. Certamente.» «Avete fatto eseguire l'autopsia anche al cadavere di Julie Garder?» «Sì.» «E i risultati?» «La presenza di farmaci tossici in quantità letale.»
«Il laboratorio ha già completato le ricerche?» «Non ancora. Sono in corso delle analisi sui campioni prelevati.» «Ma avete trovato, senza ombra di dubbio, che c'erano tracce di veleno in tutti e due i cadaveri?» «Sì.» «Grazie. Basta così.» La conclusione era scontata. Ci furono domande per dimostrare che la teoria del suicidio non reggeva; questo venne sbrigato in fretta dal magistrato inquirente, che fece notare come la morte della Garder fosse avvenuta subito dopo che la polizia aveva dato inizio alle sue indagini per la morte di Crystal. «Signora Hatterick, prima del matrimonio col dottor Hatterick, eravate una sua infermiera?» «Sì.» «Siete una delle due infermiere che hanno assistito la signora Hatterick nel corso della sua malattia?» «Sì.» «Eravate vicina a lei al momento del decesso?» «Sì.» «Avete notato qualcosa di insolito nella sua morte?» «No. Cioè, è stata inaspettata.» «Inaspettata? Spiegatevi meglio.» Rue si sentì addosso lo sguardo di Guy; disse che era stata inaspettata, in quanto avevano pensato che stesse migliorando. «Ma non ci furono sintomi che indicassero che non si trattava di morte naturale» concluse ferma. «Capisco. È possibile che la vostra collega, Julie Garder, che aveva anche lei assistito la signora Hatterick durante la malattia, sapesse qualcosa che potesse suggerire che si trattava di omicidio?» Rue esitò. «Volete ripetere, per favore?» L'inquirente starnutì e lanciò un'occhiataccia a Guy. «Formulerò la domanda in un altro modo: avete mai parlato con Julie Garder della morte della signora Hatterick?» «Penso... Penso di averne parlato in termini generici.» «Ricordate quel che vi siete dette?» «Non le parole esatte, ma ne avremo parlato di sicuro.» «Signora Hatterick, avete mai detto che si trattava di omicidio?» «No.»
«Avete mai detto alla signorina Garder che voi ritenevate si trattasse di omicidio?» «No.» «Perché è venuta da voi il giorno in cui è morta?» «Non lo so.» «L'aspettavate?» «No.» «Signora, Hatterick, pensateci bene: Juliet Garder vi ha detto che Crystal Hatterick era stata uccisa?» Rue era sotto giuramento, ma la domanda le permise una risposta sincera. «No.» Lo disse in modo chiaro e deciso, ma con un gran timore per la domanda che sarebbe seguita. Guy era paonazzo, ma non poteva intervenire. Un'inchiesta non è un processo. «Vi ha detto chi ha ucciso Crystal Hatterick?» «No.» «Da quanto sapete, non è possibile che Julie Garder avesse qualche prova importante sull'assassinio, se di assassinio si tratta, di Crystal Hatterick?» Guy si alzò e si rimise a sedere. «Non lo so.» Era comunque stato fatto il punto. Rue fu congedata. Il suo posto al banco dei testimoni fu preso da un'infermiera dell'ospedale, Elizabeth Donney che, nel passare, salutò Rue con un cenno del capo. Disse di aver visto Julie a pranzo il giorno in cui era poi deceduta; di averla vista di buon umore, senza nulla che lasciasse supporre che avesse intenzione di suicidarsi. «Avete parlato con lei durante il pranzo?» «Sì.» «Vi ha parlato delle indagini della polizia sulla morte della signora Hatterick?» «No.» «Sapete se aveva qualche ragione per ritenere che la signora Hatterick fosse stata uccisa?» «No» rispose l'infermiera dopo un istante di riflessione. L'inquirente corrugò la fronte. «Sembrava veramente di buon umore?» «Sì.»
«Proprio nulla che possa far pensare a un suicidio?» «No.» Fu congedata anche lei. Seguirono pochi altri testi: il poliziotto che era giunto per primo a casa Hatterick, un tizio del laboratorio, il medico legale e un barelliere, il quale giurò che il cadavere sul quale il medico legale aveva eseguito l'autopsia era quello di Julie Garder, e che era stato portato all'istituto di medicina legale direttamente da casa Hatterick, con l'ambulanza della polizia. Non era ancora mezzogiorno quando venne pronunciato il verdetto, col quale si affermava che Julie Garder era vittima di omicidio per mano di persona o persone sconosciute. Com'era naturale, nel verdetto non si parlò di Crystal Hatterick, perché di lei si sarebbe parlato in un'altra inchiesta. I primi giornali del pomeriggio riportarono la dichiarazione ufficiale: tutte e due le donne erano state assassinate. Ma ancora non ci fu alcun arresto. Guy ne parlò con tono noncurante: «Non vogliono procedere a un arresto finché non hanno in mano prove sicure. Non osano farlo, quando c'è di mezzo un personaggio così noto come Brule. Procederanno quando saranno veramente sicuri che la loro accusa di omicidio tiene, e che può resistere a ogni pressione che venga loro fatta dall'esterno.» Osservò Kendal che stava superando l'incrocio sulla State Street, e si chinò a prendere l'accendino incorporato nel cruscotto. Rue, sul sedile posteriore, stretta nella pelliccia per ripararsi dal freddo pungente, si domandò cosa stesse dicendo Alicia a Brule nella coupé che seguiva da vicino la macchina grande. Si domandò anche come avesse fatto a infilarsi nell'auto di Brule quando tutti loro, lei, Madge, Steven e Guy erano tutti nella grande Cadillac di Crystal col suo persistente profumo di rose, caldo e dolce malgrado le sigarette di Guy. L'avvocato, seduto accanto all'autista, continuava a emettere sbuffi di fumo guardando la strada, mentre Kendal correva lungo la Randolph, cercando un passaggio tra la folla caotica del mezzogiorno, per svoltare poi verso nord e infilare il Michigan Boulevard, il più bel viale del mondo. Era di nuovo grigio e freddo, una di quelle giornate crude e deprimenti proprie di fine novembre. Il lago, color piombo, in lontananza si confondeva con il grigiore del cielo. Superarono l'enorme torre della Crysler e un grandissimo cartellone pubblicitario tutto colorato; attraversarono il ponte sulla fredda acqua grigiastra che sciabordava contro i bordi delle chiatte e l'argine della strada; passarono oltre il Drake e furono sul Lake Shore
Drive che costeggiava il lago. L'acqua era piena di onde grandi e piccole, tutte spumose, tutte foriere di tempesta. «Il fatto è» continuò Guy «che vi hanno portati esattamente dove volevano. Adesso come adesso, potreste essere tutti sotto arresto. Tutti quanti, il personale di servizio incluso.» Madge si agitò. «Ho perso la recita della scuola. Ma tanto non ci tornerò mai più a quella scuola. Mai. Non potranno mai dimenticare...» Rue posò una mano su quelle della ragazzina, ma lei si ritrasse immediatamente. Quella sera, oltre alle colonne dedicate all'inchiesta, i giornali riportarono anche una strana dichiarazione. L'addetto al bar di un piccolo ristorante non molto lontano da casa Hatterick aveva affermato che il giorno della morte di Julie, una ragazza molto somigliante a quella della foto apparsa sui giornali, e proprio con cappotto e cappello marrone, era entrata da lui e aveva ordinato due cocktail. Se ne rammentava bene perché il primo l'aveva versato nel vaso con la palma accanto al tavolo, e il secondo, invece, l'aveva bevuto. Il racconto era finito alla polizia e ai giornali attraverso l'agitato aiutocameriere che aveva telefonato dicendo che il barista, vista la foto della Garder sul giornale, aveva immediatamente commentato la strana somiglianza. Ma, sotto le interrogazioni della polizia, il racconto del barista, invece di ampliarsi, si rimpicciolì. Lui non era sicuro che si trattasse veramente di quella ragazza; la zona ristorante era quasi al buio perché si trattava di una giornataccia, e, nel periodo fra pranzo e cena, di solito l'illuminazione non era tenuta accesa. Inoltre, quella ragazza era sola. Questo dichiarò e a questo si attenne, senza peraltro essere in grado di stabilire con esattezza se si trattava veramente di Julie Garder. Se l'uomo non fosse stato così incerto nelle sue affermazioni, si sarebbe aggiunto un punto in favore alla tesi del suicidio che Guy Cole aveva intenzione di presentare quando fossero dovuti andare davanti a un tribunale. Quella sera Rue chiese a Brule di mandare via Alicia. Non solo glielo chiese, ma glielo ingiunse, stupita lei stessa del proprio coraggio. Era appena entrata nella piccola stanza degli ospiti che Brule la chiamò nel suo studio, una stanza estremamente semplice, con grandi libri di medicina che incorniciavano un vecchio divano di cuoio e delle poltroncine
rivestite di cinz. Una stanza che Crystal e il suo arredatore non avevano toccato, nella quale c'era anche la vecchia scrivania di Brule, quella sulla quale aveva studiato e studiava, costellata di bruciature di sigarette. Guy era appena uscito dopo un lungo colloquio con lui a porte chiuse. Brule l'aggredì appena entrata: «Siedi. Spero tu non abbia dimenticato che ti ho pregata di non rivedere Andy.» Rue non l'aveva più incontrato da sola; l'aveva visto, solo brevemente, all'inchiesta del mattino. Ma, con la fronte corrugata, lui continuò: «Non che Andy non sia una persona per bene, ma in questo momento...» Rue si sentì invasa da un'irrefrenabile ondata di rabbia. «Non credi allora che in questo momento sarebbe meglio che tu mandassi via Alicia?» Lui rimase a fissarla immobile, senza muovere un muscolo. «Capisco. Chi te l'ha detto?» Lei non rispose alla domanda. «Devo dire che tu sei stato leale e molto chiaro per quanto riguardava il nostro matrimonio. Ma perché non me l'hai detto che mi sposavi solo a causa... a causa di Alicia?» Brule socchiuse gli occhi. «Immagino sia stata Alicia a dirtelo. Bene, se proprio vuoi sapere la verità, te la dico. Ti ho sposata a causa di Alicia.» 13 Era parecchio quello che lei voleva dire. Un vero flusso di rabbia, di accuse, sembrò uscire dal profondo del cuore per essere gridato con vera furia. Perché l'umiliazione fu talmente tagliente da provocarle un vero e proprio dolore fisico. Ma aveva anche imparato a controllarsi. Cosciente dello sguardo fermo e penetrante di Brule che riusciva sempre a percepire tutto, che era abituato a osservare anche gli attimi struggenti della vita nella lotta contro la morte, riuscì a dire lentamente: «Tu non hai mancato in nessun modo alle clausole stabilite quando mi hai proposto di sposarti. Ma ora che... che so la verità, non posso accettare di vivere sotto lo stesso tetto con Alicia. Se lei rimane, devo andarmene io.» «Dove?» La domanda la mise in difficoltà e la portò a considerare l'aspetto pratico della cosa. «Potrei tornare a lavorare. Come prima.» «No, se io rifiuto di riprenderti in ospedale.» «Non penso tu possa esser così meschino.» «In ogni caso, stai dimenticando la polizia e la nostra attuale situazione.
Non puoi andartene. Se tu lo facessi, solleveresti un sacco di pettegolezzi, commenti, supposizioni. E, con ogni probabilità, avresti due o tre poliziotti alle calcagna. Non credo che la cosa ti farebbe molto piacere.» «Comunque non sarà così per sempre.» «Dimmi, Rue: sei innamorata di Andy? È meglio che tu me lo dica.» Fece una pausa. «È il tuo amante? Te l'ho già domandato una volta... No» sollevò una mano per fermare le sue eventuali parole di difesa. «Lo so, che non ho il diritto di domandartelo, ma... sei sempre mia moglie.» Rue non riuscì che a bisbigliare: «Alicia...» «D'accordo, ti dirò la verità. Ti dirò quello che posso. Alicia deve rimanere per la sola ragione che è la fidanzata di Steven. Siamo costretti a rimanere amici con lei.» «Povero Steven. Lui è veramente innamorato.» «E con ciò? Tu pensi che io sia inumano, e forse è vero. Ma, anche se è così, mi aspetto di averti al mio fianco in questa emergenza.» «Cosa vorresti dire esattamente?» Negli occhi di Brule passò uno sguardo divertito. «Sei sempre stata così, Rue. Anche in ospedale. Ricordo che volevi sempre mettere i puntini sulle "i".» «Perché...» Rue si interruppe subito. «Stavi per dire che era perché ero io a esigerlo?» Gli calò un'ombra sul viso. «Di quante cose sono responsabile! Quante cose si fanno, che invece non si dovrebbero fare! Ad ogni buon conto, tornando al presente, fai esattamente come dico io. Tu resti qui, e resta anche Alicia. E per ora, non incontrarti con Andy. E lasciati guidare dai consigli di Guy.» Brule sapeva sempre come ottenere quel che voleva, pensò lei. Forse anche quell'ombra di malinconia e di ansietà che aveva dimostrato potevano essere intenzionali, per far risorgere in lei quel senso di attaccamento e di devozione che sapeva sempre far sorgere nelle sue infermiere. «Perché non vuoi che veda Andy?» Era una domanda che poteva permettersi, perché la ragione di quel divieto non era certo dovuta a gelosia. «Per i giornali. Per le chiacchiere che potrebbero sorgere...» «Ma la presenza di Alicia...» Cercò di controllarsi. Si protese in avanti congiungendo le mani. «Brule, perché hai pensato che Crystal fosse stata uccisa? Questo me lo devi dire. Perché hai ritenuto di dover sposare un'altra per proteggere Alicia nell'eventualità di un'inchiesta sulla morte di Crystal? Cos'è successo? Che parte ha avuto Alicia in tutto questo? Perché...»
«Un momento! Chi ti ha detto tutto questo?» Lei non rispose e lui continuò in fretta e quasi seccato: «Non che la cosa abbia molta importanza, ma sarà meglio ridimensionare i fatti. Io non sapevo assolutamente che Crystal fosse stata assassinata, ragione per cui non c'era proprio motivo che sposassi te solo per evitare che chiacchiere e sospetti si riversassero su Alicia. Che razza di assurdità.» «Però la sera in cui sono iniziate le indagini, tu sei andato immediatamente da lei. La sera in cui saremmo dovuti andare all'Opera, e tu hai mandato Andy al posto tuo.» Parlò con distacco, come se stesse soltanto esponendo dei fatti. Brule si alzò e cominciò ad andare avanti e indietro, finendo poi col fermarsi davanti a lei. «È vero. Quella sera sono andato da Alicia per parlarle della morte di Crystal. Ma cerca di capire bene una cosa: al momento della morte di Crystal, io avevo pensato che lei si fosse suicidata, o che avesse voluto simulare un suicidio, tentativo che si era invece tradotto in una tragica realtà. Ecco cos'avevo pensato al momento.» «Ma perché avrebbe...» «Perché... Perché Crystal voleva sempre, a tutti i costi, avere quello che desiderava. Non è simpatico dirlo, ma è la verità. Se si era messa in mente che, minacciando il suicidio, avrebbe potuto ottenere quello che voleva, non avrebbe esitato un solo istante. Crystal... Credimi, perché quel che dico è vero. Credimi e sii paziente con Madge, povera bambina... Comunque, questo è quel che ho pensato al momento delle sua morte, mentre Alicia continuava a ripetere che qualcuno l'aveva uccisa; cosa che a me sembrava del tutto impossibile. Ma quando la polizia ha cominciato le indagini e sono venuto a sapere di quelle lettere, mi sono precipitato da Alicia per farmi dire come mai lei avesse subito pensato a un delitto. Ma siccome andava anche lei a teatro, sono dovuto andare a prenderla là. Ti avevo mandato Andy perché pensavo saresti rimasta delusa di non andare all'Opera, ma io dovevo assolutamente parlare con Alicia e scoprire perché, quando Crystal era morta, lei aveva subito sospettato che si trattasse di un delitto.» «Te l'ha detto?» «No. Ha detto che era solo una sua supposizione, che non sapeva nulla. E che non sapeva nulla neanche delle lettere. Se almeno potessi scoprire chi è stato a scriverle! Deve trattarsi di qualcuno che ci è vicino, molto vicino, perché agli altri la cosa non può importare. Immagino di avere dei nemici, ma non riesco a pensare a nessuno capace di farmi una cosa simile... qualcuno che conosca così bene le circostanze. Ci sono solo Madge,
Steven, tu...» «Ma io...» «Lo so, questo fa più male a te che agli altri. So anche che non sei stata tu a scriverle. All'inizio ho pensato a Madge: non riesce a darsi pace del mio matrimonio e ha sempre cercato di renderti le cose più difficili... Non credere che non me ne sia accorto, perché l'ho visto benissimo; ma ho continuato a sperare che col tempo e con la pazienza, le cose avrebbero finito con lo smussarsi. Comunque, quando ho parlato con lei, ho capito che era completamente all'oscuro delle lettere. Steven? Non riesco a vedere Steven nei panni di uno che scrive lettere anonime. Inoltre mi è sembrato realmente stupito quando ha saputo dell'indagine della polizia. C'è anche Andy, ma la cosa può soltanto nuocergli. Era il medico curante, non andrebbe certo in cerca di guai, né per sé né per me. Andy mi è molto devoto. Lui sale o cade con me, e lo sa. Dipende ancora molto dall'appoggio che gli do io. Inoltre... Inoltre neanche lui si presterebbe a una cosa simile. Escludo Alicia, perché non vedo che motivo potrebbe avere. Ed escludo anche il personale. Perciò, fra tutte le persone che hanno avuto la possibilità di stare vicino a Crystal e di sapere qualcosa sulla sua morte, resta unicamente Guy...» «Guy?» Brule alzò le spalle. «Perché no? Guy è stato amico di Crystal tutta la vita. Anche amico mio, certo, ma ha vissuto porta-porta con Crystal sin da quando erano bambini. Ha amministrato le sostanze di Crystal, come aveva fatto suo padre per i genitori di lei. È un ottimo avvocato, ma è anche un uomo privo di scrupoli. È un buon amico, ma se avesse dovuto fare una scelta fra gli interessi miei e quelli di Crystal, avrebbe sicuramente preso le parti di Crystal. Però posso sbagliarmi... Anche perché non riesco a vedere Guy nei panni del vendicatore. Secondo me quelle lettere sono opera di un idealista; perciò, anche se i motivi potrebbero essere molti, quello di una vendetta per la morte di Crystal mi sembra il primo da eliminare. Non so proprio chi possa averlo fatto, se escludo qualche idea contorta e puerile di Madge. Chi può avere quel genere di... come chiamarlo?, idealismo, coscienza, volontà di provocare dei rischi, fors'anche per se stesso, solo per far venire a galla la verità?» «Steven, Oh no, Steven no, è impossibile! È troppo buono per...» «Steven è troppo mite, troppo dabbene... Steven è un gentiluomo. E poi odia troppo tutto quello che può o potrebbe interferire col suo lavoro. È il tipo classico dell'artista, disposto ad assoggettarsi a qualunque cosa, pur di
essere lasciato in pace finché non ha finito quello che sta creando.» Brule tornò alla poltrona accanto alla scrivania. «Però non è possibile che, per quanto grande, il desiderio di pace possa averlo addirittura indotto a... a un'azione violenta.» «Non...» «Voglio dire che mi pare assai improbabile che possa avere ucciso Crystal solo perché lei avesse in qualche modo minacciato la sua pace.» «Steven un omicida?! Impossibile!» «Dopo aver lavorato per otto anni nell'ospedale di una grande città, puoi ancora affermare sinceramente che sia impossibile? Io credo di no, ma...» Prese una sigaretta, l'accese lentamente, e guardò Rue attraverso il fumo. «Comunque, io non credo che sia stato Steven a ucciderla. Ho detto questo solo per spiegare perché ritengo che non sia stato lui. Ma nel mio elenco dei sospetti ho dovuto includere anche lui, come tutti gli altri. C'è però un'altra persona che avrebbe potuto scrivere quelle lettere: Julie Garder.» «Julie?» No, non era possibile. «E perché?» «Non lo so. Ma poteva sapere qualcosa sulla morte di Crystal. Dopo tutti quegli anni passati in chirurgia, la conoscevo bene. Era addirittura troppo coscienziosa. E moriva dalla voglia di vivere con una certa sicurezza. Sì, voglio dire, eventi che un'altra persona avrebbe preso con calma, a lei, nella sua solitudine, potevano sembrare enormi, insormontabili. Il fatto di essere in possesso di qualche elemento indicante un delitto, e il fatto che sia venuta qui lo comproverebbe, potrebbe averle creato una crescente perplessità, una crescente preoccupazione. Potrebbe averci pensato e ripensato per mesi, e poi avere scritto quelle lettere per mettersi la coscienza in pace. Probabilmente non voleva accusare nessuno apertamente, anche perché doveva pensare al proprio futuro e...» fece un tentativo di sorriso «e, in pratica, il suo futuro dipendeva proprio da me. Sì, io credo sia stata lei a scrivere quelle lettere. Credo fosse realmente in possesso di qualche elemento ben preciso e sia venuta qui, appena la polizia aveva iniziato le indagini, proprio per parlare con te di questi elementi. E sono convinto che li hai anche tu, anche se non ti viene in mente niente.» «Non c'è niente che...» «Eppure qualcosa deve esserci. Pensaci. Pensaci bene.» «Ma se non ho fatto altro!» «Deve trattarsi di un particolare di poco rilievo, un qualcosa di così naturale, così inserito nella routine delle cose, che non ha rivestito nessuno speciale significato per te. Voglio dire che, qualunque cosa sia, deve essere
qualcosa che nella tua mente non ha avuto alcun significato strano. O almeno, niente di strano finché la notizia dell'omicidio non ha... acceso una luce sull'importanza di quella piccola cosa.» «Il fatto è che non c'è niente, assolutamente niente.» Brule continuava a fissarla, come per estorcerle una risposta. Ma lei si era già posta quella domanda centinaia di volte, senza riuscire a trovare nulla. «Ti servirebbe a ricordare, se riuscissimo a ritrovare la cartella clinica?» «Non lo so. Forse. Dov'è la cartella?» «Non ne ho idea. Spero non l'abbiano buttata via. Gross non ne sa niente, gliel'ho chiesto. Io non l'ho presa. Madge sembra non sappia neppure cos'è; ho domandato a Steven, ma lui ha risposto: "Cartella? Che cartella?". So che le medicine di Crystal sono state buttate via perché una delle cameriere, Rachel mi pare, mi aveva chiesto cosa farne e io avevo detto di buttarle.» «Se pensavi al suicidio...» fece Rue dopo un attimo di silenzio. «Ma Crystal non avrebbe mai versato il veleno nella medicina: lo avrebbe preso da solo, in modo che si sapesse subito.» «Secondo te, chi avrebbe potuto mettere il veleno nel bicchiere in camera mia?» «Vuoi dire chi avrebbe potuto farlo materialmente? Tutti quelli che erano in casa, naturalmente; tutti quelli in grado di mettere le mani su quella roba. Cosa, questa, che limita il numero dei sospetti: Madge, Alicia, Steven e io, anche se io, in effetti, non ero in casa in quel momento. C'è un'altra cosa che mi convince sempre più che tu debba sapere qualcosa d'importante, anche se non te ne rendi conto: è il fatto che questo attentato alla tua vita, non è stato un attentato vero e proprio. Voglio dire, non è stato fatto col proposito di ucciderti.» «Vuoi dire che è stata una... una minaccia?» «Esattamente. Vedo che l'avevi già pensato anche tu. Infatti, anche se avessi versato l'acqua nel bicchiere, tu, dopo la prima sorsata, ti saresti accorta che il sapore era diverso. Non ne avresti mai bevuta abbastanza per morirne.» «Non è precisamente piacevole, pensandoci» commentò lei a bassa voce. «Devi limitarti a pensare che si è trattato solo di una minaccia.» «Ma chi...» «Non lo so. Credo che Madge non sappia dove trovare le sostanze rinvenute nel tuo bicchiere. Alicia non lo so, ma direi che non poteva averle
con sé, anche perché non aveva ancora avuto la possibilità di mandare a prendere le sue cose. Steven... be', Steven, quelle sostanze le ha praticamente tutte.» «Steven!» «Soffre di nevrite da anni. Ogni volta che ha un attacco si spaventa a morte per le sue mani. L'unica cosa che posso fargli, è imbottirlo di sedativi.» «Ma allora Steven ha il veleno trovato...» Le mancò la voce. Brule annuì. «Esatto. Ha i veleni trovati nel cadavere di Crystal e di Julie. Nessuno di quei farmaci è pericoloso; lo diventa solo quando è in dose eccessiva. Come ben sai, anch'io li ho a portata di mano, e così pure Andy, e tu stessa.» Lei si protese in avanti con ansia. «Brule, c'è una cosa che mi preoccupa. Temo che la polizia l'abbia trovata. Eppure se l'avessero trovata, mi avrebbero già arrestata. Io...» «Arrestata!» Si alzò in fretta e le andò vicino. «Ma cosa stai dicendo?!» «Avevo parecchie medicine in una valigetta... cose che mi erano rimaste di quando lavoravo. Un'infermiera finisce sempre con l'avere un mucchio di medicinali.» «Dov'è la valigetta?» «Non lo so. L'avevo portata qui in un baule, con le altre mie cose, credo. Forse è in camera mia: non so in quale altro posto potrebbe essere. Forse sarà in uno degli armadi dello spogliatoio: Rachel dovrebbe ricordarsene: è stata lei ad aiutarmi a disfare i bagagli; ma ho preferito non chiederglielo. Ora la polizia ha sigillato la stanza: devo chiedere il permesso anche per entrare a prendere un vestito, e c'è sempre un poliziotto che sorveglia: come posso fare per cercarla?» «Cosa conteneva?» «Con esattezza non lo ricordo. Un po' di tutto, credo.» «Ah, le infermiere! Santo cielo, Rue! Perché te le sei tenute? Tu non ne hai bisogno: sei sana come un pesce.» «Non le tenevo per me. Lo sai com'è quando vai ad assistere qualcuno a domicilio, quando il medico ordina qualcosa che si dovrebbe dare immediatamente senza indugio...» «Lo so, lo so. Lo fanno tutte; la questione è una sola: c'era della morfina fra i tuoi medicinali?» «Certo. Non so quanta, perché non ho mai avuto bisogno di usarla. Molta no, ma...»
«Ma abbastanza da...» L'espressione del viso di Brule la spaventò. Lui se ne accorse e aggiunse in fretta: «Be', quando riapriranno la stanza, andremo a vedere. Comunque, se la polizia l'avesse trovata, ti avrebbero arrestata immediatamente. Il che vuol dire che non l'hanno trovata. E se l'ha scoperta qualcun altro, lo sapremo.» D'improvviso le posò una mano sotto il mento, sollevandole il viso in modo da guardarla dritto negli occhi. «Lo so che pretendo molto nel chiederti di chiudere un occhio e di darmi fiducia, ma ti prego: vuoi avere fede in me e fare le cose che ti chiedo di fare?» E su quella mano che le serrava dolcemente il mento, lei, tutto d'un tratto, provò l'acuto e inspiegabile desiderio di abbassare il viso, fino a posarvi sopra le labbra. Fu un atto talmente impulsivo e talmente sorprendente, che ne rimase addirittura scossa. Avere fiducia in me, aveva detto Brule. Fare quello che lui le chiedeva di fare... Ma questo significava anche accettare la presenza di Alicia e tutto ciò che quella presenza implicava. 14 L'orgoglio è un lusso che si paga caro. Lei tolse il viso dalla curva carezzevole della mano, si alzò in piedi e si avviò alla porta. «Non posso fare diversamente» disse con fermezza ma senza molta naturalezza. Quella notte fu ossessionata da tutte le cose che Brule le aveva detto. Però non aveva parlato di due cose, e neanche i giornali, nei loro lunghi resoconti, ne avevano mai fatto cenno: una era la faccenda della telefonata che aveva fatto uscire di casa lui e il poliziotto la sera dopo la morte di Julie, la falsa chiamata. Chissà chi era stato a farla e perché... Brule non ne aveva più parlato, ma la polizia doveva esserne al corrente, visto che con lui era andato anche un poliziotto. Tra l'altro questo serviva anche da alibi a Brule per l'ora in cui l'intruso era andato a versare il veleno nel suo bicchiere. L'altra riguardava la questione delle macchie sulle mani di Julie. Brule ne aveva parlato una volta sola, brevemente, e poi non vi aveva più accennato; la polizia, dal canto suo, sembrava aver preferito tenere nascosto quel particolare (e chissà quanti altri, per quanto ne sapeva lei!) ai giornali. Infatti non c'era mai niente a questo proposito negli articoli che leggeva ogni giorno. E dire che dovevano essere cose che avrebbero avuto addirittura l'onore di grossi titoli!
Chissà da cos'erano provocate quelle macchie. Forse una tintura, un cambiamento di temperatura, o il veleno che le era stato propinato? Nei suoi otto anni di esperienza in ospedale, Rue non si era mai imbattuta in un farmaco, o un composto di farmaci, che provocassero un effetto così strano e così sinistro. Eppure Brule non ne aveva più parlato. A meno che... a meno che non lo considerasse talmente importante da non volerne parlare. Se fosse stata Alicia a entrare di soppiatto in camera sua per metterle la polverina nel bicchiere, allora non poteva essere stata lei a fare la telefonata per allontanare Brule da casa, perché Alicia "era" in casa. Un momento, forse avrebbe potuto. In cucina c'era un telefono; un'altra linea, che serviva per le ordinazioni e per il personale. Per un po' Rue si gingillò con quel pensiero, ma poi lo scartò: per Alicia l'andare in cucina, scendere le scale, percorrere i lunghi corridoi e fare la telefonata senza farsi vedere e sentire dal poliziotto di guardia sarebbe stato molto più complicato che l'entrare semplicemente a depositare i farmaci letali nel bicchiere. Ricordò anche, e cercò di non ripensarci, a quanto Alicia le aveva detto riguardo al matrimonio, e che Brule, invece, non aveva neppure accennato. Il mattino dopo iniziò un'altra giornata triste e imbronciata, con tutte le luci accese, Madge immusonita, Alicia che si era fermata a far colazione in camera, Steven che parlava poco e aveva l'aria stanca, e Brule che era uscito prestissimo. Al solito, la polizia era arrivata molto presto. Si erano ormai tutti abituati alla presenza degli agenti, e persino a quei loro interminabili interrogatori che, almeno fino a quel momento, non erano approdati a nulla di nuovo. E, finalmente, venne aperta la porta della sua camera da letto. Rue, appena ne ebbe il permesso, corse su. Si fermò sulla soglia pensando a Crystal e a Julie, col profumo di rose che persisteva malgrado l'odore stagnante di tabacco lasciato dai poliziotti che avevano perquisito la stanza. La camera era un po' in disordine e, chissà perché, le sembrò che i colori pastello fossero anche un po' sbiaditi; che, malgrado il lusso, ci fosse un certo squallore. Andò nello spogliatoio tutto rivestito di armadi, e cominciò subito a guardarsi intorno. Stava frugando in un armadio quando Rachel, tutta ordinata nel grembiule del mattino, comparve sulla porta chiedendo se poteva essere di aiuto. Rue, in piedi su uno sgabello per poter guardare su un ripiano alto, scese
sospirando. «Sto cercando una valigetta di cuoio marrone. Pensavo fosse qui. L'avete mai vista?» Rachel ricordava vagamente. «Una valigetta piccola. Sì, la ricordo. L'ho tirata fuori io quando ho disfatto i bauli della signora. Mi pareva di averla messa in un cassetto... Dentro c'erano dei flaconi di medicinali e delle cose che sembravano strumenti da medico.» «C'era anche dell'altro che non troviamo più. Ma forse vi hanno già interrogata al riguardo.» Il volto di Rachel, largo e scuro, si irrigidì. «Che cosa, signora?» Rue si buttò: «Quando la signora Hatterick... sì, cioè...» «La prima signora Hatterick.» «Esatto. Durante la malattia della signora Hatterick, tenevamo quella che noi chiamiamo "cartella clinica", dei fogli, dei moduli, sui quali si scrive il decorso della malattia, la temperatura del paziente, le medicine somministrate e...» «Sì, signora.» «Ve ne ricordate?» «Sì, signora. Erano sul tavolino accanto alla porta.» «Esatto, Rachel. Dopo la morte della prima signora Hatterick, quando la stanza è stata ripulita, che fine hanno fatto quei fogli?» Il viso di Rachel divenne ancora più rigido. «Non lo so, signora.» Era stata troppo pronta. «Siete già stata interrogata in proposito?» fece Rue, osservandola attentamente. «Sì, signora. Dalla polizia, dal dottor Hatterick e anche dal dottor Crittenden. Ma io non so nulla della cartella clinica.» «Però siete stata voi a ripulire la stanza, mi pare.» «Sì, signora; ma di quelle carte non so proprio niente.» Sta mentendo, pensò Rue: «Nessuno potrebbe biasimarvi se le aveste messe da qualche parte e le aveste poi dimenticate. E anche se ne sapeste qualcosa ma non aveste voluto parlarne con la polizia per paura di essere coinvolta in questa orribile storia. No, non vi si potrebbe proprio muovere nessun rimprovero: potete perciò parlare con tutta tranquillità.» La leggerissima esitazione, quella rapida e scaltra riflessione sulle parole appena pronunciate e la scelta immediata, convinsero Rue che Rachel sapeva qualcosa. Anche perché mentre diceva: «Non ne so niente, signora... Posso pulire la camera, ora, e prepararla?» la ragazza aveva allontanato lo sguardo dal suo per tornare poi a guardarla con fermezza.
Quella stessa mattina Rue decise di andare in ospedale e ordinò la macchina senza dire nulla a nessuno. Nell'atrio, mentre stava uscendo, disse a Gross: «Sarò a casa dopo mezzogiorno. Non verrò per pranzo.» «Sì, signora. Se la polizia chiede di voi, gli dico...» Sempre quella polizia attorno! «Sì, certo.» Kendal l'aspettava con la vettura accanto al marciapiede; appena mise in moto, una vetturetta parcheggiata poco lontano si immise sulla strada e li seguì con molta discrezione. Le ampie spalle di Kendal formavano una specie di barriera davanti alla giovane donna; le strade erano fredde, il cielo grigio e pesante. Dal lago spirava un vento freddo. Rue aprì il giornale preso poco prima dal tavolo del vestibolo, e cominciò a scorrerlo. Prima i titoli, naturalmente. Poi il completo resoconto dell'inchiesta: lunghe colonne piene di ripetizioni. Trovò anche la sua deposizione riguardante la morte di Julie e, per la prima volta, conobbe quella di Gross, di Andy e delle domestiche. Niente di importante: Gross e le cameriere avevano seguito la solita routine giornaliera; Andy... Andy era stato tutta la mattina in studio e aveva fatto un salto in ospedale a vedere un paziente che stava male; aveva pranzato in un piccolo ristorante sul Michigan Boulevard, era andato a fare tre visite a domicilio, era stato in ospedale fino alle quattro e mezzo, ed era appena rientrato in studio quando aveva ricevuto la telefonata di Gross. Era arrivato a casa Hatterick nello stesso momento del dottor Hatterick ed erano entrati insieme. Non aveva notato nulla di insolito sul corpo della donna, l'unica allusione indiretta alle mani di Julie. Seguiva la deposizione rilasciata sulla malattia di Crystal, in pratica la replica di quella rilasciata a Miller e a quella specie di coniglietto di Funk quella prima sera. La sera in cui erano andati all'Opera insieme. La sera in cui lui aveva detto di amarla, di averla sempre amata. "Quando eri in ospedale, io ti cercavo sempre" aveva detto. "Tra tutte le cuffie e le uniformi bianche, io riconoscevo immediatamente la linea delle tue spalle, il nodo morbido dei tuoi capelli d'oro sotto la cuffietta inamidata." Era come se lui glielo ripetesse parola per parola... Aveva detto anche altro, ma quel che importava era che Andy era giovane e l'amava, e lei aveva bisogno, un bisogno disperato di un rifugio e di un po' di sicurezza. Pensò a lui per tutto il tragitto, nel Loop affollato, quasi brutale per quella sua vistosa allusione al potere; lungo le stradine strette, sconosciute, anonime: Andy era leale, Andy l'amava. Con lui non avrebbe più provato
quell'angoscia che l'attanagliava; con lui non ci sarebbe stata più nessuna Alicia. Quando giunsero davanti all'ospedale, questo le parve enorme. Si stagliava contro il cielo grigio severo e gigantesco, tutto punteggiato di luci. Il chiarore bluastro alle finestre del quarto piano le disse che quel mattino stavano operando. Automaticamente si domandò chi fosse a compiere l'intervento. Non aveva parlato con nessuno della sua decisione di andare in ospedale. Era una risoluzione presa durante la notte, quando aveva riflettuto che il segreto della morte di Julie doveva essere racchiuso in quello che lei aveva fatto nel suo ultimo giorno di vita. Ripensò alla strana storia del barista: strana solo perché aveva detto che Julie era sola... Comunque, ora avrebbe visto le ragazze, le sue ex colleghe, che conoscevano bene lei e Julie, e che, riservate com'erano (e per abitudine, e per la loro professione), non erano certo disposte a parlare molto con la polizia, anche nel caso avessero saputo qualcosa. Quella sua visita all'ospedale era, in un certo senso, stata suggerita da Elizabeth Donney, dal modo in cui aveva risposto alle domande del magistrato, dal cenno amichevole che le aveva rivolto. Quando entrò in ospedale, trovò molte cose cambiate. Tanto per cominciare, il portiere non si ricordava di lei; la ragazza dietro alla scrivania era nuova; l'odore di etere e di antisettico le diede fastidio, e dire che una volta le piaceva addirittura! Così come una volta le piacevano quell'andirivieni attivo, l'importanza delle cose da fare, i lunghi corridoi, le luci, il fluttuare delle uniformi bianche delle infermiere... Riuscì infine a entrare nel padiglione riservato alle infermiere, ma Elizabeth Donney era in servizio e non riuscì ad avvicinarla. Trovò invece tre ragazze che si erano diplomate con lei e Julie: felici di vederla, si dimostrarono più che disposte a parlare. Con la loro accoglienza cordiale dimostrarono a Rue che la consideravano sempre una di loro, che il suo matrimonio con il loro capo supremo non aveva innalzato alcuna barriera fra di loro, che il loro rispetto e il loro affetto non erano e non sarebbero svaniti. Parlarono di Julie in modo pacato, per non dimostrare l'orrore che provavano per la sua fine. Purtroppo non sapevano nulla: Julie, un vero pozzo di segretezza, non aveva nemmeno accennato alle indagini della polizia; non aveva detto a nessuno della sua intenzione di andare da Rue o perché. Quando uscì, si soffermò a guardare dalla porta socchiusa la stanza in cui aveva vissuto, coi suoi due lettini bianchi, la piccola toeletta scrupolo-
samente divisa a metà, la piccola filza di calze lavate stese ad asciugare sopra il radiatore del termosifone. Tutte cose che le erano familiari, ma che, stranamente, non le fecero provare la minima nostalgia. No, quella non era più la sua casa. Mentre usciva, incontrò Andy. Lui si fermò di colpo. «Rue! Come mai qui? C'è anche Brule?» E, quando lei disse di no, insisté per portarla a colazione: «Stavo tornando in studio. Ti ha portata Kendal? Lascialo libero. Ti riaccompagno a casa io, dopo. Devo parlarti.» Finì con l'accettare. La vettura di Andy era nella zona parcheggio riservata ai medici. Mentre andavano a prenderla, lei guardò i muri di mattoni dell'ospedale come si fosse trattato di un essere vivente. Quanti anni aveva passato nel loro interno! Andy la fece sedere accanto a sé. Impugnò il volante e le sorrise. «Sapessi quante volte ho desiderato averti qui, tutta avvolta nella tua pelliccia, col cappellino un po' di lato in modo da poter vedere i tuoi bellissimi capelli e i tuoi magnifici occhi! Chissà quanti ti hanno detto che hai degli occhi splendenti come stelle! Solo che sono azzurri.» «Non me l'ha mai detto nessuno. Sei un adulatore.» Però la cosa le fece molto piacere. Solo che... Diede un'occhiata al profilo di Andy intento a immettersi nel traffico, un profilo bello, regolare, un po' infantile. Strano, però, come le piacesse di più quando era lontano... Chissà se l'auto della polizia li seguiva... Preferì non voltarsi. Pranzarono al Blackstone, nella vecchia e calda sala da pranzo che guardava sul lago grigio, sotto un cielo altrettanto grigio, e il flusso di traffico incessante sotto le ampie finestre. Sui tavoli, fiori e "abatjour" rossi. Andy, pieno di premure, ordinò con molta attenzione: doveva essere tutto perfetto, come spiegò al cameriere. Un desiderio di perfezione che era un esplicito complimento nei riguardi di Rue. In un angolo, su una pedana, il complesso del Blackstone, archi e pianoforte, suonava in sordina. Andy spinse di lato piatti e posate, si protese sul tavolo e sorrise. «Bello, vero? Quando potremo starcene finalmente soli? Tesoro, io sono... Io ho fame di te!» Rue lo guardò un po' sgomenta. Gli era immensamente grata, ma non era abituata a frasi così sdolcinate e decadenti. «Cannibale! Spero ti basti quanto hai ordinato!»
Lui sembrò risentito ma cercò di non dimostrarlo. Intanto arrivò il melone, ben freddo, esattamente come l'aveva ordinato. Era un mondo sicuro, confortevole. Ovunque chiacchiere a bassa voce, signore in pelliccia con tanto di gioielli, fiori, il palpitare del traffico al di là dei vetri e, soprattutto, la musica del piano e dei violini che sembrava armonizzare il tutto. Per loro fortuna non videro nessuno che conoscessero e che potesse ricordare loro le brutte cose che in quel momento Rue cercava istintivamente di dimenticare. Andy l'aiutò moltissimo: parlò di tutto un po', flirtò, scherzò, come se fra loro non ci fossero ostacoli, come se non avessero preoccupazioni e avessero davanti tutta la vita. Con nulla di tragico da dimenticare. O da affrontare. Infine arrivò il caffè, e le cose di cui dovevano parlare non poterono più essere lasciate in disparte. «Ho parlato con Brule questa mattina: ti hanno trovato la valigetta?» Non ci fu bisogno di spiegare quale. Lei scosse la testa: «L'ho cercata tutta la mattina con Rachel. Le ho anche chiesto della cartella clinica: dice di non saperne niente, ma sono convinta che sa dov'è.» Si soffermarono a parlare della cartella, dell'inchiesta e della visita fatta da Rue alle sue ex-colleghe. «Alicia è ancora in casa?» Lei fissò la tazza del caffè. «Sì.» «Oh, Rue! Ma quanto ancora...» «Lascia stare, Andy. Non parliamo di questo.» «Ma io devo! È una cosa ingiusta! Brule non si è neanche offerto di... spiegare? Di lasciarla? Di...» Brule. Brule le aveva chiesto di non vedere Andy per un po'. Ma quel pranzo era una cosa di così poca importanza, e lei aveva così tanto bisogno dell'appoggio, della sicurezza che Andy le dava! Era solamente di quello che aveva bisogno? Oppure, nel profondo del cuore, era già quasi arrivata a una decisione? Era forse arrivata a essere come il fuoco nel camino, pronto a farsi accendere dalla fiamma? Mmm, c'era qualcosa che non andava in quella similitudine: era il fuoco o era la fiamma? Rue aveva una mano abbandonata sul tavolo; Andy si guardò in giro, e posò la propria su quella di lei. Poi si protese in avanti con qualcosa di pressante negli occhi azzurri. Stava per dirle qualcosa, ma lei non seppe
mai che cosa, perché, d'improvviso, un uomo si fermò al loro tavolo dicendo: «Salve a tutti.» Era Brule. Parlando con disinvoltura e con molta scioltezza, ma con gli occhi accesi e il viso freddo, domandò: «Posso sedermi con voi?» 15 Andy lasciò precipitosamente la mano di Rue e balzò in piedi, ma Brule aveva già avuto tutto il tempo per vedere la scena. Un cameriere, prontamente accorso, portò un'altra sedia e un attimo dopo i due uomini si ritrovarono seduti e Brule ebbe fra le mani un "menu". Rue pensò che quel cartoncino era una cosa meravigliosa, l'aiuto più valido per darsi un contegno. Brule fece la sua ordinazione in fretta. «Sei stato in ospedale?» domandò ad Andy. «Sì, è lì che ho incontrato Rue. Hai operato, stamattina? Non ti ho visto.» «No. Sono stato in studio. Sono passato qui davanti per caso e mi sono fermato per pranzare. Poi vi ho visti.» La cosa, a Rue, parve improbabile. Però Brule non poteva sapere dove lei e Andy erano andati, perché, prima di incontrarsi, neanche loro sapevano che avrebbero pranzato insieme o dove. Come aveva fatto a saperlo? Ma Andy sembrò credergli. «Quella Simms, quella donna che viene dal sud, ce la farà. Sono molto contento: ho seguito i tuoi consigli alla lettera e lei è sensibilmente migliorata.» Rue li ascoltò pigramente parlare di quel caso e di altri, dei furti avvenuti nel guardaroba del loro club, delle notizie politiche del mattino; con un sussulto ricordò la macchina della polizia che l'aveva seguita fino all'ospedale: prima se n'era completamente scordata. Chissà se aveva anche seguito la vettura di Andy fino al Blackstone? In quel caso, Brule poteva aver riconosciuto l'auto o il poliziotto al volante... Però la cosa non la convinceva: Brule era il tipo di persona difficile da far quadrare con le coincidenze. Comunque, dopo il suo arrivo, tutto cambiò. La musica, i fiori, le luci, il chiacchierio dei commensali persero tutto il loro potere di inculcarle allegria, e divennero solo dei punti di sostegno per un palcoscenico. Con l'arrivo di Brule, era svanita ogni illusione di evasione. Proprio in quel momento l'orchestra iniziò a suonare una canzone molto
struggente, aumentando il senso di falsità di quell'ora o poco più che aveva trascorso con Andy. Con Brule si ritrovava, in modo intangibile, tutte le cose a cui non poteva sfuggire, che non poteva evitare in nessun modo, ma nelle quali si trovava praticamente immersa. Come sempre, Brule fu velocissimo; mangiò spedito e con buon appetito e, alla fine, ordinò un cognac. «Rue la porto a casa io» disse tranquillo. «Devo andarci anch'io.» Uscirono tutti e tre insieme passando accanto a tavoli dove tutti, riconoscendo il grande Hatterick, si fecero improvvisamente silenziosi. Passarono davanti al cerimonioso ma compassato capocameriere che li salutò con un "Buongiorno dottor Hatterick", e scesero l'ampio scalone. Nell'atrio pieno di palme Andy disse che doveva tornare in studio e lanciò a Rue una lunga occhiata per farle capire tutto quello che non aveva potuto dirle. Ma l'allegria, la serenità del loro pranzo, sembrava ormai debole e falsa. La coupé di Brule era a pochi passi. Anche il portiere salutò con un premuroso "Grazie dottor Hatterick. Buongiorno", ma li guardò con aria interrogativa. Il tragitto lungo il Michigan Boulevard fu fatto in silenzio. Brule non disse neppure "Ti avevo detto di non vedere Andy": non disse assolutamente nulla. Gross aprì la porta e prese cappotto e cappello di Brule. Dallo studio di Steven arrivava della musica. «Come vorrei che non continuasse a suonare questo pezzo!» si lasciò scappare Rue. «Questo? E perché?» «È quello che suonava quando è morta Julie.» Sentì un'ondata di avversione per quel brano, per "Arabesque", come lo aveva intitolato Steven. «C'è di nuovo la polizia, signore» informò Gross. «Vogliono vedere la signora.» Un attimo di silenzio, poi: «Per qualcosa in particolare?» «Non lo so, signore. C'è quel Piccolino, quel Funk.» «Capisco.» Si rivolse a Rue: «Vengo con te.» «In biblioteca, signore. Sono arrivati all'ora di pranzo.» Ma i due, Funk e Miller, volevano parlare con Rue da soli. Miller lo disse molto educatamente, perché era sempre untuosamente educato, ma Brule dovette andarsene; Rue si accomodò in una poltrona chiedendosi se si sarebbe mai abituata a quelle frequenti, imprevedibili tirate di domande, e cercando, al solito, di mantenersi calma, di non dimostrare paura e, soprat-
tutto, come Guy aveva sempre ripetuto, di pensare due volte prima di rispondere. La parte più difficile di quei colloqui stava nel modo imprevedibile col quale gli investigatori inframmezzavano domande ormai note con domande nuove e inaspettate. Quel giorno si trattava delle chiavi. In tutta la lunga e noiosa interrogazione, Rue riuscì solo a capire che dovevano aver rintracciato il fabbro che aveva fatto la chiave per Alicia, dietro ordine di Crystal. Conoscevano la data e sapevano anche che era stata consegnata ad Alicia lo stesso giorno in cui era stata recapitata. Solo che il fabbro aveva fatto due chiavi: Rue sapeva qualcosa dell'altra? No, Rue non sapeva nulla. «Potrebbe saperlo Gross, forse.» Dall'ombra di una tenda balzò fuori il piccolo Funk, con la sua aria sporca e spaventata, e disse che no, Gross non lo sapeva. «Ogni membro della famiglia ne ha una, a eccezione della signorina Madge. Anche Gross ne ha una, e assicura che non ce ne sono altre.» «Forse qualcuno ne aveva persa una, e la chiave fatta fare è servita a sostituirla» azzardò Rue pensando però che, come pista, se pista la si poteva considerare, era alquanto labile. E, dai loro visi, sembrò che i due fossero pienamente d'accordo col suo pensiero non espresso. «Forse. Ma, secondo Gross, in questa casa nessuno ha mai perso una chiave.» «Può essere servita per... Io non so per che cosa, ma una chiave in più...» «Può darsi, ma le cameriere e la cuoca insistono nell'affermare che a loro una chiave non è mai stata consegnata, che è sempre Gross che apre o chiude. Gross pensava poteste averla voi, signora Hatterick. O, almeno, che ne sapeste qualcosa.» «Be', mi dispiace, ma non ne so proprio nulla. Io...» Rue frugò nella grande borsa a busta piatta e ne estrasse una chiave già piuttosto usata. «Ho solo questa.» La lasciarono andare dopo poche altre domande sull'ora e il modo in cui era comparsa Julie. Di Crystal, quella volta non ne parlarono. Nel suo studio, Steven suonava il piano davanti ad Alicia e a Madge. Alicia, in un abito verde e con la luce della fiamma del camino che le gettava riflessi dorati sul viso, era più bella che mai, un vero quadro. Madge, accoccolata nella rientranza del bovindo accanto al pianoforte, aveva il mento appoggiato alle mani e guardava fuori il cielo molto scuro, con il
golfino rosso vivo che creava un forte contrasto con il marrone delle tende aperte per lasciar entrare la poca luce del giorno. Rue rimase sulla soglia: non c'era posto per lei là dentro. Salì di sopra, e dimenticando che era stata riaperta la sua camera, l'ex camera di Crystal, tornò nella piccola camera degli ospiti attigua allo studio di Brule. Entrò. Chiuse la porta col pensiero alla polizia, a Miller, a quel piccoletto di Funk con quella sua aria di paura e quelle mani ad artiglio. Si domandò se avrebbero finalmente tolto l'uomo di guardia, in verità una persona tanto discreta da essere divenuto, in quei giorni, parte integrante del mobilio. Una mole spessa e scura che si muoveva silenziosamente nei corridoi, che andava a sedersi a prendere il caffè nella dispensa e, ogni tanto, usciva sulla porta per andare a confabulare misteriosamente con un suo collega all'esterno, per rientrare altrettanto misteriosamente dalla porta del giardino. Avrebbe dovuto costituire un elemento di sicurezza, ma a lei dava invece un po' di timore. Quei continui interrogatori, poi, la spaventavano sempre. Si tolse pelliccia e cappello, e sedette pensando al colloquio appena terminato, quando, d'un tratto, le sembrò di sentire qualcuno, una donna, che piangeva nello studio di Brule. Dopo, quando cercò di ricordare se avesse sentito qualcosa nell'entrare o nel togliersi la pelliccia, non riuscì a farsi venire in mente nulla. Eppure, dalla porta chiusa, qualcosa doveva pure essere trapelato! La donna continuava a singhiozzare pateticamente, mentre Brule continuava a ripetere: «Datemela! Siete una sciocca. Portatemela immediatamente e finitela di frignare!» «Non posso! Ho paura! In un omicidio...» «Che razza di stupida!» Brule era furioso, veramente fuori di sé. L'aveva sentito così una sola volta, quando un assistente aveva dimenticato una sonda in un paziente e questo, un ragazzino di quindici anni, era morto soffocato prima che potessero intervenire e fare qualcosa. La voce furente le aveva fatto tornare alla mente la scena terribile; ma quando Brule riparlò, il tono era cambiato, quasi blando. «Su, non fate così. Da brava, andate a prenderla. Fate come vi ho detto; vedrete che non vi succederà nulla, assolutamente nulla...» Dopo un momento la porta si aprì e si richiuse, e nello studio regnò il silenzio. Chiunque fosse la persona che aveva parlato, doveva essersene andata. Chi poteva essere? Una delle ca-
meriere? La cuoca? Alicia e Madge no, perché erano nello studio di Steven. Ma forse era Rachel... Sì, ripensandoci, la voce della donna che piangeva doveva proprio essere la sua. E Brule doveva essere uscito con lei. Invece no. Perché nello studio squillò il telefono e Brule rispose: «Sì, grazie Gross, ho già preso la comunicazione... Sì, sono il dottor Hatterick... bene, vengo immediatamente. Fate venire subito un donatore... Opererò immediatamente: fate preparare la sala operatoria. Chiedete l'autorizzazione alla famiglia. Sarò lì fra quindici minuti: state pronti a operare fra venti.» Si sentì il clic del telefono che veniva riposto sulla forcella, seguito quasi subito dallo sbattere della porta. Lei corse fuori mentre Brule stava già per scendere le scale. «Brule...» Si girò a guardarla. «Una chiamata d'urgenza. Ti farò sapere...» E corse giù. Lo sentì parlare nel vestibolo. «Datemi il cappotto, presto. È fuori la mia macchina? No, guido io. Farò prima.» E uscì. Rue avrebbe desiderato andare con lui, vivere con lui quelle ore drammatiche sotto le grandi lampade bianco-azzurre, nel calore, nel silenzio e nell'ansia della sala operatoria. E invece... E invece rientrò nella camera degli ospiti, e quando si accorse dell'assenza delle sue cose, ricordò che erano state riportate in camera sua. Perciò si prese la pelliccia e tornò nella camera tutta sete e pizzi, con la sua specchiera dorata e il grande letto a baldacchino. La camera dove era morta Julie. Si sedette nella stanza ripulita a fondo, con lunghe rose fresche in un vaso di cristallo sul tavolino, e rivisse la scena. Quella e quell'altra che era seguita, con Steven che si precipitava dentro pieno di spavento e, subito dopo, Brule e Andy, con Brule che si chinava immediatamente su quel povero corpo e Andy che si toglieva il cappotto, lo posava su una poltroncina e si chinava anche lui su Julie. Rachel bussò alla porta. Rue fu sicura che la donna che aveva pianto nello studio di Brule era lei, perché aveva gli occhi rossi e gonfi, e domandò, con tono sommesso, se era vero, come le aveva detto Gross, che il dottor Hatterick era uscito. «Sì, Rachel. C'è stata una chiamata d'urgenza dall'ospedale. Che cosa c'è?» Ma Rachel non volle dirglielo. Guardò Rue con occhi spaventati e chiese
quando sarebbe rientrato il dottore. «Non lo so. C'è qualcosa che non va? Che cosa... Che cosa nascondete sotto il grembiule?» «Niente, signora. Niente.» «Insomma, qualcosa c'è. Che cosa?» «Proprio niente, signora. Davvero.» «Fatemi vedere le mani, Rachel.» Ma il piccolo grembiule di organza bianca nascondeva soltanto mani vuote. Mani strette a pugno. Rue rimase a fissarle e la ragazza le aprì sollevando i palmi. «Ecco. Guardate!» Guardò. E quel che vide le fece compiere un balzo indietro. Ma si riprese e tornò a guardare più da vicino. No, non si era sbagliata: sui palmi c'erano macchie e strisce verdi. Rue riprese fiato: «Dove... Come...» «Non lo so! Non lo so! Mi sono lavata e rilavata, e non se ne vanno! Ma io non so niente di lei...» gridò tendendo le mani macchiate verso il tappeto, come se Julie fosse ancora lì. Guardò di nuovo Rue, emise un singhiozzo soffocato e corse via nascondendo le mani sotto il minuscolo riquadro di organza. Più tardi qualcuno bussò timidamente alla sua porta. Era Steven. «Tutta sola? Posso entrare? Stiamo uscendo per fare un giro in macchina: non vorresti venire anche tu?» La guardò con dolcezza, comprendendo all'istante che c'era qualche cosa che non andava. Le andò vicino e le sorrise. «Povera piccola Rue. La scarpina di vetro non è come ti aspettavi.» La scarpina di vetro. Ricordò quando l'aveva nominata per la prima volta, e si rivide nell'abito azzurro e argento di Schiapparelli, scendere le scale per andare incontro non a Brule, come aveva creduto, ma ad Andy. «Povera piccola Rue presa in mezzo a loro» continuò lui con tristezza. «Io lo so...» Aveva proprio detto "Io lo so"! Quando lei lo guardò negli occhi tristi e scuri, capì che era vero: Steven sapeva la verità! «Vuoi dire che... che sai tutto? Che sai... Ma è impossibile!» «Lo so. So tutto di Alicia e Brule. Lo so da tanto tempo.» Calò un gran silenzio nella camera impregnata di profumo di rose. Rue guardò il viso magro e sensibile dell'uomo che le stava di fronte. «Ma tu... Tu continui ad amarla.» Annuì. «Sì, continuo ad amarla. Credo di averla sempre amata, e non posso farne a meno. È veramente amore con l'A maiuscola, cara Rue. Im-
magino resti sempre una speranza in fondo al cuore, una specie di piccola, debole luce in fondo a un sentiero.» «Steven...» «Non essere triste per me. Anche se sogno, ho i piedi ben piantati per terra. Dammi retta, tu sei giovane, io no. Lascia che ti dica una cosa: c'è sempre un momento in cui ti sembra di non farcela più. Anch'io ho avuto i miei momenti di ribellione, di conflitto interiore, addirittura di odio; momenti nient'affatto piacevoli. Ma è inutile: devo accettare le cose come sono. Lo capisci?» «S...sì.» «No, tu non puoi capire.» La guardò a lungo, poi, inaspettatamente, si chinò a baciarla leggermente sulle labbra. «Che cara bambina sei, Rue.» Si girò bruscamente e si avviò alla porta. Poi si fermò. «Sei sicura di non volere venire?» Non andò. Li sentì uscire. La voce di gola, la bella voce di Alicia nell'atrio, diceva: «Ci fermiamo da Field...» e Steven che mormorava qualcosa in risposta, Steven che sapeva di Alicia e di Brule, che aveva sempre saputo tutto. Andy telefonò che gli altri erano appena usciti. Gross le passò la comunicazione in camera. Ma Andy non disse molto. Anche quando lei gli parlò di Rachel e delle strane macchie verdi che aveva sulle mani, lui si limitò a dire: «Come...» «Non lo sa.» Le faceva piacere sentire la voce di Andy, anche se all'altro capo del filo, anche se, ma non ne era del tutto sicura, la polizia poteva sentire ogni parola che si scambiavano. «Non preoccuparti» disse infine. «Lascia che ci pensi la polizia. Avevo telefonato solo per sapere se c'era qualcosa di nuovo.» «No. Solo quello... E la polizia che mi aspettava, quando sono rientrata. Volevano sapere delle chiavi.» «Le chiavi? Che chiavi?» «Sembra sia stata fatta fare una chiave che non riescono a rintracciare. Forse sarà stata perduta. Non è importante.» Ma avrebbe voluto dire: «Sono sola. Ti prego, vieni da me. Mi sento così sola in questa grande casa così vuota e silenziosa!» Ma non lo fece. Andy disse ancora qualcosa, poi riagganciò. Dopo, la casa le sembrò ancora più vuota. Rue pensò di interrogare di nuovo Rachel e suonò il campanello, ma invece della ragazza si presentò Gross che, alle sue domande, spiegò che
quello era il pomeriggio libero della cameriera. Il pomeriggio passò con una lentezza esasperante. Gross sparì in qualche angolo tranquillo del seminterrato per il suo sacro riposo pomeridiano, da dove solo il campanello della porta o quello del telefono sarebbero riusciti a smuoverlo. Brule non tornava, e Rue si chiese come procedesse l'operazione. Non riusciva a stare ferma a leggere o a scrivere. Continuava a pensare a Steven e a Madge e, pur non volendolo, ad Alicia. No, la filosofia di Steven era tutta sbagliata! Lei non avrebbe mai potuto accettarla. A un certo punto l'inquietudine, quei continui pensieri, il buio incombente, la costrinsero ad alzarsi. C'era qualcosa di opprimente nel silenzio e nell'oscurità della casa; qualcosa che le ricordava troppo i fatti recenti avvenuti in quell'odiosa camera dal profumo di rose, come se i fantasmi delle due morte vagassero nell'aria; Crystal per guardarla con quel suo sorriso enigmatico e ironico, e Julie per guardarla con aria indifesa, intrappolata in una tragedia a cui era del tutto estranea. Scese. Gross non aveva ancora acceso le luci. Il pianterreno era tutto avvolto nel buio; si fermò alla porta della biblioteca cercando l'interruttore. L'unica luce visibile era quella che si intravedeva filtrare dal disotto della porta dello studio di Steven. Una sottile lamina di luce che scomparve silenziosamente, mentre lei stava guardandola. Come se qualcuno l'avesse spenta. Strano, perché lì non c'era nessuno. La casa era tutta nel silenzio più assoluto. Rue andò in fondo al corridoio e aprì la porta dello studio. Per prima cosa si accorse che qualcuno aveva già tirato le tende, perché era tanto scuro da poter nettamente intravedere il tenue chiarore della brace che stava spegnendosi in fondo al camino. C'era un tale silenzio che riusciva persino a sentire i battiti del suo cuore... Eppure qualcuno doveva esserci! Lei aveva visto chiaramente spegnersi la luce! Cercò l'interruttore e lo premette. Il salone si illuminò tutto, mettendo in risalto il grande piano a coda nell'angolo e le pesanti tende tirate sulla finestra a bovindo. C'era anche qualcuno. Qualcuno in una strana posa sul panchetto davanti al piano. Senza accorgersene si mosse, perché d'improvviso si trovò a fissare la strana cosa sullo sgabello del pianoforte, una cosa quasi irriconoscibile,
che però era Rachel, la cameriera. Il cuore prese a batterle tanto freneticamente da impedirle di udire rumori sommessi. Vide però ondeggiare un foglio, e lo guardò scivolare lentamente dal leggio, sfiorare la tastiera, fluttuare lentamente sul corpo afflosciato, per finire poi sul pavimento, ai suoi piedi. Era un foglio di musica con i pentagrammi stampati riempiti di note fatte a matita. E con, al centro, una striscia rossa. Rue rimase a fissarlo stupidamente, chiedendosi come avesse fatto quel foglio a cadere a quel modo. 16 Doveva aver visto molto più di quanto le era sembrato, perché quando arrivò la polizia, fu in grado di riferire molti particolari e con una certa precisione. Ricordò che Rachel aveva indosso il cappotto e che questo era tutto mal messo sul panchetto imbottito tanto che lei, all'inizio, aveva solo visto il dietro del paltò con un lungo taglio longitudinale dal quale partiva una macchia umida. Non aveva nemmeno la crestina che portava in casa; aveva invece delle scarpe scollate a tacco alto, una delle quali le dondolava dall'alluce. Invece non aveva visto né un coltello né una pistola, né alcun'altra arma. In quel momento, però, riuscì solo a pensare, e con una lentezza da incubo, che Rachel era morta. Che era stata assassinata. E che in casa non c'era nessuno... Eppure lei aveva visto spegnersi la luce! Non era stata lei a spegnerla, perciò doveva forzatamente essere stato un altro, qualcuno che... E, in quel momento, si rese conto che solo una corrente d'aria poteva aver fatto muovere e cadere dal leggio il foglio di carta da musica. Ragione per cui doveva esserci una porta o una finestra aperta, e questo voleva dire che... Era paralizzata dalla paura, ma capì che doveva muoversi, e lo fece. Forse andò addirittura alla porta che conduceva nel giardinetto, ma non ne fu mai sicura. L'unica cosa che riuscì poi a rammentare, fu di aver premuto talmente il dito sul pulsante del campanello della biblioteca, da farsi quasi male. E poi di aver visto Gross nella dispensa. Doveva perciò essere passata attraverso la sala da pranzo, ma questo non riuscì mai a ricordarlo. Evidentemente era stato Gross a ricordare che fuori doveva esserci un poliziotto, perché, nel suo ricordo confuso, lei finì nel vedersi schiacciata contro la credenza, con la voce del maggiordomo insolitamente alta e acu-
ta, che chiamava qualcuno in strada. Subito dopo la porta era stata sbattuta con violenza mentre dei passi rimbombavano nel corridoio. E fu il diluvio. Fu la ripetizione delle scene seguite alla morte di Julie, ma fu molto peggio. Una cosa che le rimase poi sempre impressa nella mente, fu il ritorno di Brule. Brule rientrò poco prima che arrivasse la squadra omicidi, poco dopo che i primi poliziotti arrivati sul posto avevano iniziato le loro frenetiche telefonate al comando. Come entrò, gli agenti gli andarono incontro, e appena sentita l'orribile notizia, gridò: «Dov'è mia moglie?» Nessuno lo sapeva. Poi lei lo chiamò disperata, e lui corse immediatamente. Si trovarono di fronte sulla porta della sala da pranzo. «Rue! Dicono che sei stata tu a trovarla!» «È vero. Oh, Brule...» «Chi è stato?» «Non lo so. In casa non c'era nessuno. Ma qualcuno ha spento la luce all'improvviso...» Era tutta un brivido. Lui la prese tra le braccia e la tenne stretta. «Sei sicura di star bene? Devo andare di là.» «Non lasciarmi, ti prego.» Brule aveva ancora addosso il cappotto, ma si era tolto cappello e guanti e, con una mano, aveva afferrato quella che Rue gli aveva posato sulla spalla, tenendogliela stretta. E su quella mano forte, attorno all'unghia squadrata del dito medio, c'era una sottile linea rossa. Una linea che non poteva essere altro che di sangue secco, impossibile sbagliarsi. Trattenne il respiro impaurita senza riuscire a distogliere gli occhi dal dito. Brule seguì la direzione del suo sguardo, le lasciò andare la mano e si guardò il dito. «Si è rotto il guanto mentre operavo» disse in fretta. «Non ho fatto in tempo a lavarmi bene, dopo. L'operazione era andata per le lunghe e non vedevo l'ora di tornare a casa.» Per quanto riguardava lui, la cosa finiva lì. «Tu stai qui. Io vado a dare un'occhiata.» Raggiunse gli agenti raccolti nello studio di Steven, e subito dopo ebbero inizio le ricerche in tutta la casa. Sì, era esattamente lo stesso tipo di diluvio che si era già abbattuto su di loro sommergendo tutta la casa, subito dopo la morte di Julie. Solo che questa volta non c'erano dubbi: questa volta si trattava di omicidio, senza
bisogno di arrovellarsi troppo il cervello. Questa volta non si poteva più dubitare delle morti precedenti: questa volta l'assassino aveva messo in evidenza tutta la sua ferocia e la sua disperata mancanza di coraggio. Quando era morta Julie, il dubbio che non si trattasse di omicidio e il prestigio del nome di Hatterick, avevano fatto sì che la polizia usasse quello che i giornali avevano poi definito "guanto di velluto". Ma ora non più. I testimoni vennero separati immediatamente e interrogati da soli, in modo che non potessero accordarsi sulle deposizioni da rilasciare. Rue venne interrogata dal tenente Angel in persona, ma anche da Miller, da Funk e da molti altri che ormai conosceva di vista. Come sempre, le loro domande finirono con l'essere l'una la ripetizione dell'altra, e sempre più incalzanti. Gradatamente, fra le tante, due o tre cominciarono a prevalere e si fecero sempre più importanti. «Eravate sola in casa?» «Sì, se si eccettua Gross e...» «Sì, lo sappiamo. Siete sicura di aver visto spegnere la luce nello studio?» «Sì. Sicurissima.» «E siete sicura che dentro non ci fosse proprio nessuno?» «Soltanto Rachel. Ma sono convinta che qualcuno ha aperto una porta o una finestra, altrimenti non si spiega come quel foglio abbia potuto cadere giù dal leggio.» «Per far cadere quel foglio doveva esserci una corrente d'aria abbastanza forte: come fate a non sapere se la finestra o la porta, erano aperte o chiuse?» «Perché le tende erano tirate.» «E vi aspettate che vi crediamo, quando affermate che l'assassino se n'è andato senza che voi lo sentiste o lo vedeste?» «Non mi aspetto niente. Dico solo quello che ho visto.» Ogni tanto cambiavano domanda: Quando aveva visto Rachel? Esattamente, cos'è che le aveva detto la ragazza a proposito delle strisce verdi sulle mani? Quanto era rimasta sola in casa?... Ma poi, piano piano, qualcuno tornava a domandare: «Avete affermato di aver visto luce nello studio...» Rue chiese di vedere Guy Cole, ma non fu accontentata. Dopo aver perlustrato tutta la casa e dopo ore di interrogatori, la polizia rilasciò una dichiarazione ufficiosa. Rachel era stata pugnalata, ma con tale perizia che, se non era morta all'istante, era morta quasi immediatamente.
Guanti e borsetta erano nella sua stanza, su al quarto piano, buttati sul letto come se lei avesse avuto una gran fretta. La ragazza doveva essere uscita, era il suo giorno di libertà e, una volta rientrata, doveva essere andata direttamente in camera sua e, dopo aver posato cappotto e borsetta, doveva essere immediatamente scesa in biblioteca. E poiché in biblioteca non aveva niente da fare e, inoltre, non si era ancora messa il grembiule da lavoro, doveva esserci andata perché c'era qualcuno che l'aspettava. E le mani con quelle orribili, stranissime macchie verdi? Rue disse quel poco che sapeva. Ne era al corrente anche il resto del personale, e ne erano tutti terrorizzati. Ma Rachel stessa non sapeva, o aveva affermato di non sapere, come o dove si fosse macchiata a quel modo. «L'avevo avvisata» fece Gross con voce tremula e gli occhi spenti. «Gliel'avevo detto che era un segno...» «Cosa può essere andata a prendere in camera sua? Lo sapete?» Gross credeva di saperlo «La cartella clinica. Dev'essere andata a prendere la cartella clinica. Ho sempre pensato che fosse stata proprio lei a portare via la cartella clinica della prima signora Hatterick.» Probabilmente fu dopo la deposizione di Gross che interrogarono di nuovo Rue. In quel momento lei si trovava in camera sua. L'avevano accompagnata là con una agente che si era seduto su una sedia davanti alla porta e che, a un certo punto, aveva tirato fuori dalla tasca un sacchetto di carta e aveva cominciato a mangiare noccioline. Ogni volta che qualcuno entrava a interrogare Rue, lui riponeva il suo sacchetto, ascoltava attentamente e, quando se ne andavano, sospirava e ritirava fuori le sue noccioline. Rue, raggomitolata sul divanetto, si domandò cosa stesse succedendo nel resto della casa. Steven, Alicia e Madge erano già tornati da un bel po'. Una volta che qualcuno aveva aperto la porta, aveva sentito la voce di Andy che domandava: «Perché non posso vederla?» «Ordini.» «D'accordo. Ma l'avvocato?» La porta si era richiusa su quelle parole. Comunque l'avvocato lei non l'aveva visto. Per quanto concerneva la cartella clinica fu solo in grado di dire che, quando aveva domandato a Rachel se ne sapeva qualcosa e lei le aveva risposto di no, aveva avuto l'impressione che mentisse. «Ma perché avrebbe dovuto portarla via?» «Non lo so.»
«Gross dice che nel pomeriggio piangeva. Perché?» «Non lo so.» D'improvviso rammentò la conversazione nello studio di Brule, con la ragazza, era sicura che si trattava di Rachel, che singhiozzava, e Brule fuori di sé dalla rabbia ma che riusciva a controllarsi per dirle in tono persuasivo: «Portatemela. Andate a prenderla e portatemela subito.» Ma che cosa? La cartella clinica, forse? Ma allora Brule sapeva. Ripensò a Brule, addirittura infuriato, che cercava, cosa insolita in lui, di nascondere la sua ira... Brule, che era stato fuori tutto il pomeriggio ed era tornato proprio appena scoperto il delitto...e con del sangue attorno a un'unghia. Anche se si era rotto un guanto durante l'operazione, era molto improbabile che un uomo attento e scrupoloso come lui fosse uscito dalla sala operatoria senza sfregarsi e spazzolarsi accuratamente le mani... Però, se aveva avuto realmente fretta, se l'operazione era stata imprevedibilmente lunga, come lui aveva affermato... «Allora, non sapete perché piangesse?» «No.» Dopo tutto, quella scenata tra Brule e Rachel non costituiva una prova: perché dirlo alla polizia? Ma quando restò sola continuò a pensarci. Restò sola per modo di dire, perché con lei rimase sempre il poliziotto seduto accanto alla porta. Quell'uomo non le rivolse mai la parola; sembrava che non la vedesse nemmeno. Parlò solo una volta, quando lei si alzò per andare ad aprire la finestra. Se lo trovò immediatamente al fianco. «Meglio non cercare di muoversi, sorella. Tornate al vostro posto e statevene tranquilla.» «Volevo soltanto...» Ma l'uomo scosse la testa troncando ogni spiegazione. Era un ordine. Rue tornò a sedersi sul divano. All'una, o poco dopo, la porta di casa si aprì, l'uomo di guardia si alzò, andò ad aprire, uscì, si chiuse la porta alle spalle e non si fece più vedere. Prima Rue attese che rientrasse, poi, con molta cautela andò alla porta, e dopo essere rimasta per un attimo in ascolto, l'aprì. Nessuno. L'aprì un po' di più, e dall'ombra delle scale fece capolino un poliziotto in uniforme. Lei richiuse in fretta. Era stanca, sfinita; si stese sul letto senza spogliarsi, coprendosi con un piumone. Sotto, nella strada, c'erano ancora le vetture della polizia e i giornalisti, e ogni volta che la porta di casa si apriva o si chiudeva, c'era
immancabilmente una scarica di flash dei fotoreporter che finiva col raggiungere anche la sua finestra. Poi arrivò Brule. Bussò, parlò con qualcuno in corridoio, ed entrò. Rue si tirò su contro il cuscino, e lui andò a sedersi accanto sulla sponda del letto. Aveva il volto grigio di stanchezza; lei si guardò nello specchio che aveva di fronte: un visino pallido, capelli lucidi spettinati, e un piumone di seta verde appoggiato su un abito elegante con collo e polsi di pizzo. «Rue, bambina mia...» Con una mano Brule cercò di allontanarle i capelli che le ricadevano sulla fronte. «Io... Credi, non avevo nessuna intenzione di cacciarti in una cosa come questa. Se avessi saputo... Ma come potevo saperlo?» «Cosa fanno? Cos'hanno fatto? Hanno arrestato qualcuno?» No, non avevano arrestato nessuno. Brule le spiegò la situazione. «C'è un cordone di poliziotti tutt'attorno alla casa. Hanno fatto delle ricerche minuziose, ma finora non sono riusciti a trovare un coltello o uno strumento con tracce di sangue. Ci sono i coltelli di cucina, c'è un tagliacarte in biblioteca, un tagliacarte molto affilato e molto lungo, ma al momento non sono sicuri di niente. Ma cercheranno di procedere presto a un arresto.» «Chi?» Brule allontanò lo sguardo e disse di non saperlo. «Si baseranno sugli alibi.» «Io... Io ero sola.» «Non sei la sola a non avere un alibi» si affrettò a dire lui. «Io, per esempio, stavo tornando a casa. Potrei essere stato io. La porta dello studio di Steven, quella che dà sul giardino, era aperta, e il cancelletto dell'entrata di servizio pure. Quello è sempre aperto. Chiunque potrebbe fuggire passando da quella parte.» «Ma Steven, Alicia e Madge...» «Non erano insieme. Alicia e Madge sono entrate da Field per fare acquisti. Steven per un po' le ha aspettate in macchina, poi è sceso e ha detto a Kendal che andava in un drugstore vicino. Si è riunito agli altri un'ora dopo, a una delle uscite di Field sulla Randolph Street, ma, come ha detto agli altri, prima era andato ad aspettare alla porta sbagliata. Infatti Kendal doveva andare a prendere Madge e Alicia all'uscita sulla Rondolph Street angolo Wabash, mentre Steven le aveva aspettate sempre sulla Randolph, ma sull'angolo con State Street. Comunque Kendal ha fatto il giro dell'isolato due o tre volte, ma sembra che Steven non l'abbia mai visto. Inoltre,
una volta dentro a quel grande magazzino, Alicia e Madge si sono separate: Alicia è salita al settimo piano per provarsi un abito, e Madge si è fermata al quinto per cercare delle scarpette da ballo. «Come vedi, ognuno avrebbe avuto tutto il tempo per prendere un tassì e tornare a casa. E Guy... Guy afferma di essere rimasto in casa tutto il giorno a leggere delle pratiche. Solo, dice. E lui è uno che entra ed esce da questa casa come vuole. E Andy...» «Andy?» «Certo, anche Andy. Dice di essere sempre rimasto in studio, ma la segretaria aveva mal di testa e lui l'ha lasciata andare a casa. Però, quando io gli ho telefonato, era effettivamente in studio. Ma la polizia ha convocato anche lui. Ormai è chiaro quali sono le persone sospettate. Non perdono tempo nel gettare le loro reti.» «E nessun arresto» mormorò Rue lentamente fissando Brule. Ma anche se lui sapeva, o temeva, qualcosa, non glielo disse. Aggiunse invece, quasi con leggerezza: «Perciò, come vedi, tutto dipende dagli alibi. E poiché sono quasi sicuri che la persona che ha ucciso Rachel è la stessa che ha ucciso Julie, e per lo stesso motivo, molto probabilmente, e cioè perché sapeva qualcosa della morte di Crystal, allora devono prendere in considerazione anche gli alibi presentati per la morte di Julie. E Steven, almeno per quanto riguarda Julie, ha un alibi di ferro. Quello che gli hai fornito tu.» Rue ripensò a quelle parole il mattino dopo, quando un investigatore andò a parlarle della strana cosa che avevano ritrovato. Ma in quel momento, terribilmente scossa, lei si strinse a Brule. «Ho paura! Ho tanta paura di questa casa. Ho paura di ogni ombra e di ogni rumore. Ho paura quando sento aprire una porta: mi sento morire quando la porta comincia ad aprirsi ma io non posso ancora vedere se è un poliziotto, qualcuno che conosco o...» Brule la tenne stretta, con la guancia premuta alla sua spalla. «Qualcuno che conosci...» ripete con uno strano tono di voce. «È proprio questa la cosa più diabolica.» Poi le parlò della cartella clinica. «La cartella di Crystal l'aveva Rachel. Me l'ha detto oggi. Ma non l'aveva presa intenzionalmente. Quando ha ripulito la camera dopo la morte di Crystal, si è portata via delle riviste e, per puro caso, insieme a quelle ha preso anche la cartella clinica. Quando se n'è accorta, ha pensato, così mi ha detto, di buttarla se nessuno la chiedeva; ma poi se n'è dimenticata. Se n'è ricordata solo quando la polizia ha cominciato a fare domande. Non sapeva più cosa fare: aveva paura tanto a
distruggerla che a tenerla. Soprattutto aveva paura di confessare che lei sapeva dov'era. Infine si è risolta ed è venuta a dirmelo. Io, prima, ho fatto una bella sfuriata; lei era terrorizzata, anche perché aveva quelle maledette macchie verdi sulle mani. Poi l'ho convinta, e dopo un bel pianto, lei è andata a prenderla. Ma proprio in quel momento io sono stato chiamato d'urgenza in ospedale. E adesso la cartella è sparita. Io con la polizia non ne ho parlato, tanto ormai il fatto che l'avesse lei non ha più nessuna importanza, e io, invece, ho bisogno di essere libero di muovermi per un giorno o due.» Rue si sentì irrigidire tra le sue braccia, ma non fece domande. Non disse neppure che lo sapeva anche lei della cartella, e che nemmeno lei aveva detto nulla. Brule si alzò. «Adesso dormi. Domani è un altro giorno.» E il giorno dopo la polizia scoprì la cosa che distrusse l'alibi di Steven. Fu il tenente Angel stesso a portarla a Rue. Lei era già alzata e vestita e stava facendo colazione. Gross, che gliel'aveva servita, sembrava improvvisamente invecchiato; aveva persino lasciato cadere qualche goccia di caffè: era la prima volta, in vent'anni di servizio! «Ci sono ancora i poliziotti in casa, signora» aveva mormorato nell'uscire. «Mi sento male solo al pensarci.» Angel, il tenente Angel, entrò subito dopo. Nascosto in giardino avevano trovato un disco rotto, e avevano rimesso insieme i pezzi perché Rue potesse leggere il titolo impresso in oro sul dischetto rosso del centro: "Arabesque at Night" suonato dall'autore, Steven Hendrie. «Secondo la vostra testimonianza, il giorno in cui è morta Julie Garder Hendrie stava suonando il piano nel suo studio. È vero?» «Sì.» «Conoscete il nome del brano che suonava?» Le parole le morirono in gola; accennò con la testa ai frammenti del disco mormorando: «Sì.» «Siete sicura che stesse suonando il piano? Non poteva essere invece un giradischi? Sapreste distinguere a questa distanza?» «Non so...» «Si tratta di un disco grande: potrebbe essere stato fuori dallo studio per un bel po' di tempo, e voi avreste continuato a sentire l'Arabesque o come si chiama. Esatto?» «S... sì. Solo che...» Solo che non poteva essere stato Steven. No, Steven no. «Questo disco è stato rotto e nascosto di proposito. Possono esserci solo
due scopi: uno è il voler nascondere a tutti i costi l'esistenza di tale disco; e c'è solo una ragione per volerlo tenere nascosto alla polizia.» La guardò con quei suoi occhi azzurro ghiaccio e aggiunse: «Se non avessimo trovato questo disco rotto, vi avremmo arrestata questa mattina stessa.» 17 Rue rimase come inebetita. Era da tanto che aspettava trovassero una prova, ma, ora che l'avevano, le pareva del tutto irreale. «Cosa dice Steven?» domandò. Angel rispose subito e anche, sembrò, sinceramente: «Dice che il disco era rotto da parecchio. Che se n'è ricordato solo quando quel brano musicale è diventato il suo alibi. Ha pensato che, se l'avessimo trovato, noi avremmo immediatamente ritenuto che lo aveva rotto di proposito e, invece di provare che il pezzo da voi sentito era veramente suonato dallo stesso Hendrie, quel disco avrebbe sollevato dei dubbi. In altre parole, se gliel'avessimo trovato, avremmo potuto pensare che lo aveva rotto apposta. Perciò l'ha preso e l'ha nascosto in giardino. Ha confessato spontaneamente» aggiunse con sguardo assorto. «Sembrava sincero. Eppure... Supponiamo che il disco non fosse rotto, supponiamo... Ecco: non ci avete detto che quel pomeriggio Hendrie ha continuato a suonare quel pezzo?» «Non ricordo. Mi hanno interrogato talmente in tanti a questo proposito! Ad ogni modo, ripensandoci, sì, l'ha suonato molto a lungo. Ma non è una cosa insolita: è uno dei suoi pezzi favoriti.» «Ho controllato il suo giradischi: è uno di quelli sui quali si possono suonare parecchi dischi, o continuare a suonarne uno solo quasi all'infinito, senza mai dover intervenire. Si può andare avanti delle ore con uno stesso disco... in questo caso avrebbe avuto tutto il tempo di uscire, incontrarsi con Julie Garder, indurla a bere qualcosa con dentro il veleno, e ritornare indietro senza che nessuno se ne accorgesse.» «Però non capisco perché Steven avrebbe dovuto uccidere Julie.» Il tenente rispose in modo indiretto: «È fidanzato con la signorina Pelham. C'è anche un'altra cosa, signora Hatterick. Il barista che ha affermato che Julie Garder è entrata nel suo locale per un drink...» «Sì?» «È stato arrestato. Abbiamo scoperto che è ricercato per furto. È per questo che è stato sempre così evasivo: non voleva attirare la nostra attenzione. È stata solo quella sua occasionale osservazione fatta al suo aiuto-
cameriere che ci ha portati a interrogarlo. Lui non si sarebbe mai fatto vivo, questo è sicuro. E non è certo il tipo disposto ad aiutarci. Finora non è riuscito a ricordare chi è entrato nel ristorante con la ragazza, ma credo che non gli ci vorrà più molto. Abbiamo trovato il modo per... ravvivargli la memoria.» «Ha sempre detto che era sola.» «E, secondo voi, se fosse stata sola, avrebbe ordinato un cocktail per gettarlo nel vaso che aveva vicino? No, secondo noi era con qualcuno che insisteva perché bevesse qualcosa, e alla fine lei ha acconsentito, tanto per essere gentile. L'avete detto voi stessa, e lo hanno confermato tutte le sue colleghe che Julie non beveva mai. Così, quando ne ha avuta l'opportunità, l'ha versato nella terra del vaso che aveva più a portata di mano. Il secondo cocktail, invece, l'ha bevuto; forse il suo compagno è andato lui stesso a prenderglielo al bar, e nel tragitto tra il bar e il tavolo, ha trovato il modo di aggiungergli il veleno. Abbiamo accertato che non ci sono camerieri per servire ai tavoli a quell'ora. Si tratta di un locale molto piccolo. «Finora il barista non ha ammesso nulla, ma riteniamo di essere sulla buona strada. Comunque l'uomo potrebbe anche essere stato Steven Hendrie. Quel ristorante è esattamente a due minuti da qui in taxi, e voi non avreste potuto notare un intervallo di tempo così breve fra una suonata e l'altra. «Poi ci sono le lettere. Chiunque le abbia scritte, sapeva qualcosa. Abbiamo chiesto a tutti, abbiamo fatto tutte le indagini possibili, anche qui, siamo sulla strada buona: secondo Funk stiamo avvicinandoci alla verità. Io però desidero farvi capire quanto quelle lettere siano importanti. Se siete innocente...» e rimase un attimo a fissarla in silenzio «se siete innocente, non posso che insistere il più possibile sull'importanza che potrebbe avere per voi il ritrovare il loro autore. Mi seguite?» «Io non so chi le abbia scritte. Purtroppo non ne so assolutamente niente» disse lei scoraggiata. Il tenente l'osservò acutamente, poi andò alla porta dicendo a qualcuno che stava fuori: «Dì a Funk di venire qui.» E quando il piccolo Funk scivolò nella camera con quella sua aria di omiciattolo spaurito e non troppo pulito, il tenente ordinò: «Mostrale la cartella clinica.» «La cartella clinica!» «Solo un foglio. L'abbiamo trovato tutto spiegazzato nel cesto della carta straccia, come se Rachel l'avesse gettato via. Chissà poi perché... O, forse,
ne ha riconosciuto l'importanza e ha cercato, in questo modo, di salvarlo. Oppure l'ha gettato via solo perché era tutto spiegazzato... È una cosa che non sapremo mai.» «Potete prenderlo in mano, signora Hatterick» l'invitò Funk. «Le impronte le hanno già rilevate.» Rue prese il foglio, una delle pagine della cartella clinica, con poche annotazioni nella scrittura piccola e tonda di Julie. Doveva essere l'ultima, perché portava la data del 9 settembre, quella del giorno della morte di Crystal. «Lo riconoscete?» Domandò Angel. Lei annuì. «Leggetelo con attenzione.» Ma lei stava già leggendo, cercando con ansia qualcosa che facesse luce. Leggeva, osservata da Angel e da Funk che, dopo quel breve intervento di primo piano, si era nascosto dietro le spalle del tenente, da dove poteva spiare ogni espressione della giovane donna. Ma il foglio non conteneva nulla di importante. Tutto regolare, niente di insolito. Pasti come sempre, due visite di Andy debitamente annotate, una alle undici del mattino e l'altra alle sei di sera, temperatura leggermente al disotto della norma, polso regolare, nessun ordine speciale. Forse l'anomalia stava proprio in quello. «Trovato qualcosa, signora Hatterick?» «N... no. C'è solo un'omissione. Quando prese la medicina la signora Hatterick la trovò amara. Ricordo che disse, e so di avervelo già riferito, che Andy, il dottor Crittenden, le aveva cambiato medicina quel giorno. O forse disse "che doveva avergliela cambiata", ma solo a causa del sapore, senza saperlo con precisione. Sì... certamente, perché se le fosse stata prescritta un'altra medicina Julie lo avrebbe annotato. Julie era un'infermiera molto scrupolosa: non avrebbe mai tralasciato di segnalare un cambiamento nella cura. E qui non vedo segnalata alcuna variazione.» Angel rimase un attimo a riflettere. «C'è altro?» Rue capì che era deluso, ma lo era anche lei. Quei pochi fogli erano sembrati così importanti per la risoluzione del dramma! Lei aveva riposto in loro tutte le sue speranze! E invece non contenevano nulla di importante. «Dove sono gli altri fogli?» domandò. La faccia lunga di Angel sembrò diventare ancora più lunga. «Chi ha ucciso la ragazza li avrà ormai distrutti. Avete idea del perché Rachel abbia gettato via quel foglio?»
No, Rue non ne aveva nessuna, ma suggerì: «Potrebbe averlo buttato solo perché era troppo spiegazzato, troppo malconcio.» Ma ad Angel non bastò. Ricominciò tutto da capo: «Ieri sera... Avete affermato di aver visto una luce nello studio di Hendrie...» Continuò così fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio, senza nessuna spiegazione, sembrò che la vigilanza si fosse allentata. Rue si avventurò fuori dalla sua camera senza che nessuno la fermasse. Nel corridoio incontrò Madge, una Madge pallida, spaventata ma non più imbronciata, che si fermò incerta. «Rue...» «Sì, Madge?» «Rue...» Esitò nuovamente. Rue ebbe l'impressione che la ragazzina volesse chiederle aiuto, ma in quello stesso istante giunse una voce dalla biblioteca, a cui rispose la voce di Alicia. Madge scosse la testa e proseguì. Rue la seguì per due o tre passi. «Madge, posso fare qualcosa per te?» L'altra si rigirò; Rue ebbe di nuovo l'impressione di uno sguardo implorante, ma subito gli occhi ritornarono decisi e duri. «No, grazie.» Restò a guadarla con una certa perplessità. Avrebbe giurato che Madge voleva trovare un approccio per fare pace, eppure nell'istante stesso in cui lei aveva risposto, era tornata di ghiaccio. O forse... o forse era stato il sentire la voce di Alicia che l'aveva indotta a fare marcia indietro? Entrò in biblioteca. Con Alicia c'era Guy, che, come le spiegò, stava appunto andandosene. Aveva fretta; si limitò a dare qualche vaga istruzione, evitando gli sguardi diretti. Era evidente che trovava che approfittavano un po' troppo delle sue prerogative di avvocato difensore. «Rachel assassinata» disse con tono addolorato. «Buon Dio, a chi toccherà ancora? Be', adesso devo proprio scappare.» Appena fu uscito, Alicia andò alla porta, l'aprì, lanciò un'occhiata nel corridoio, richiuse. Poi si voltò con aria decisa verso Rue, guardandola dritto negli occhi con quel suo sguardo duro e freddo. «Sono contenta che tu sia scesa. Voglio parlarti. Penso sia venuto il momento che chiariamo bene le cose tu e io.» Non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere. Avanzò verso di lei, e le si fermò così vicina che Rue sentì il suo profumo di gardenia e poté addirittura notare il pulsare della sua gola morbida e bianca, appena appena segnata da impercettibili rughette. «Voglio che tu ti renda conto che, comunque vada a finire questa storia incresciosa, Brule ama me e io amo lui, e non sarai certamente tu quella
che potrà intromettersi fra di noi. Riesci a capirlo?» Rue continuò a guardare con distaccato interesse il pulsare di quella gola. Come tradiva i reali sentimenti di Alicia quella sua voce così fredda e così controllata! «E Steven?» domandò per pura curiosità. Alicia sbatté le lunghe ciglia. «Steven? Steven non ha nessuna importanza. È servito solo come pretesto; è stato solo un... paraocchi, se preferisci chiamarlo così, perché Crystal non immaginasse la verità. Per me era facile farlo innamorare, e l'ho fatto. Te lo dico solo perché tu capisca quanto Brule è importante per me. E voglio che tu capisca anche quanto io sia in egual modo importante per lui. Il fatto è che tu sei innamorata e stai cercando di ingannare te stessa. Tu non vuoi riconoscere la verità.» Fece una pausa. Gli occhi duri e scintillanti mostrarono una profonda preoccupazione, ma subito aggiunse con aria di estrema franchezza, tradita soltanto dalle troppo frequenti pulsazioni della gola: «So benissimo che è inutile che ti dica che, se te ne parlo, è solo perché, malgrado tutto, ti sono amica. Non mi crederesti mai.» «Infatti.» «Comunque... Ma, Rue, possibile che tu non lo veda da sola che Brule ama me e non te? Che non ti ha mai amata? Che è inutile che tu cerchi di tenertelo solo perché ti ha sposata? Se è per questo, se n'è pentito immediatamente. Chiediglielo, se non mi credi. Chiedigli di dirti la verità, chiediglielo. Io... io sono in grado di provarti quanto mi ama.» «Cosa vorresti che facessi?» Le mani di Alicia ebbero un moto di impazienza. «Perché, cosa faresti tu se fossi al mio posto? Io voglio essere sicura che, quando questa storia sarà finita, tu lascerai Brule. Che consentirai al divorzio o lo chiederai tu stessa, se preferisci. Anzi, sarebbe anche meglio. Le cose sarebbero più facili, se fossi tu a chiedere il divorzio.» «Perché mi dici tutto questo? Proprio ora, con le cose che stanno come stanno?» Alicia esitò. Si voltò di scatto, andò alla porta rimanendo in ascolto, e tornò da Rue dicendole, come se si trattasse di una cosa già programmata, ma anche con una strana ansia: «Perché c'è qualcosa che so e che, se ne venisse a conoscenza la polizia, provocherebbe il tuo arresto immediato. Io, però, potrei impedire che lo scoprano.» «Che cosa?» «Se tu...»
«Se io venissi a patti con te? Se prometto di divorziare da Brule? Mio Dio, come sei puerile Alicia!» «Puerile!» Alicia spalancò gli occhi come un gatto. «Dimmi invece un'altra cosa. Perché hai subito immaginato che Crystal fosse stata deliberatamente assassinata?» Alicia respirò in modo più affannoso; la gola bianca palpitò più celermente; la voce non fu che un bisbiglio: «Perché è stato Brule. L'ha fatto per me, l'ho sempre saputo. Capisci ora?» Tutto d'un tratto la scena smise di essere teatrale e di cattivo gusto e si tramutò in incubo. Rue cercò disperatamente di non guardare il viso della sua rivale, con quegli occhi smaglianti e quelle labbra morbide e rosse. Tentò di scrollare le spalle e attraversare la stanza. Si disse che non si trattava di una cosa reale, che era soltanto un "happening", una di quelle rappresentazioni del teatro d'avanguardia. Cose come quelle accadevano solo nei libri di cattiva letteratura... Ricordò la striscia rossa sul foglio di carta da musica... Normalmente neanche quelle cose accadono, eppure erano accadute; le aveva viste lei, con i suoi occhi. Con voce ferma e tesa affermò: «Non vorrai che ti creda. Brule...» «E chi, secondo te, poteva avere una migliore opportunità? Chi, meglio di Brule, poteva sapere come fare, o farlo meglio? Ecco la vera ragione per cui non ci siamo sposati. Lui me l'ha chiesto, ma io... Se proprio vuoi sapere la verità, ho avuto paura. Paura che, una volta o l'altra, la verità potesse venire a galla e io potessi rimanere intrappolata.» In cuor suo, Rue fu costretta a crederle. Perché se Alicia avesse saputo o anche solo sospettato che Brule aveva ucciso Crystal, avrebbe avuto realmente paura. E non per lui, e nemmeno per l'atto in se stesso, ma per sé, per quello che avrebbe potuto capitare a lei. Alicia amava solo se stessa e, come tutta la gente di quel genere, viveva in un mondo tutto suo, un mondo circoscritto, dove tutto era in funzione del suo prezioso io. Le sofferenze e le tragedie degli altri non la riguardavano e non la toccavano; ma il delitto, se e quando fosse stato scoperto, avrebbe finito con l'infiltrarsi tra le fasce del suo egocentrismo, disturbandone tutto l'equilibrio. «Allora?» Alicia, impaziente, era sempre stranamente miope quando si trattava di capire la reazione del suo prossimo. «Cos'è che dici di sapere che potrebbe provocare il mio arresto?» «La prova. La prova conclusiva, inoppugnabile. Non c'è bisogno che sia io a rivelarla. È che...» sbatté gli occhi «che la troveranno. Ma io posso
impedire che la trovino. Posso impedirlo se tu... se tu prometti di fare quello che ti ho chiesto.» Nel silenzio pesante che seguì, con Crystal che la guardava dall'alto del quadro con quel suo sorriso enigmatico e ironico, Rue fece un profondo respiro. «Non ti prometto nulla. Tu sei semplicemente pazza a suggerire un patto del genere, Alicia!» Ma come Alicia accettò la sua risposta, voltandosi e uscendo immediatamente dalla biblioteca, Rue si domandò se non era stata invece pazza lei a rifiutare. Cercò di scrollarsi dalla mente l'espressione degli occhi di Alicia, quando se n'era andata, ma non ci riuscì. Cercò anche di convincersi che quanto aveva detto su Brule e su Steven non era vero. Aveva detto: «Brule ama me.» E anche: «È stato Brule a uccidere Crystal.» Ma solo qualche giorno prima aveva accusato lei, Rue, di quell'omicidio: lo aveva forse fatto per proteggere Brule, e con Brule, proteggere se stessa? Il fatto era che Brule avrebbe realmente potuto uccidere Crystal... Tornò in camera sua. E lì, il ricordo delle parole di Alicia fu ancora più forte e angoscioso, perché fu lì che trovò la cosa, accuratamente e diabolicamente nascosta. Fu proprio quella a terrorizzarla, a cambiare quella che voleva ancora considerare una fantasticheria, in una fredda e orribile realtà. La cosa era un bisturi, un bisturi da chirurgo e affilatissimo, senza alcuna impronta digitale, ben avvolto in un foulard suo, di seta rossa e bianca, nascosto sotto i cuscini del piccolo divano in camera da letto. Dopo la morte di Rachel quella stanza non era ancora stata perquisita, ma se l'avessero fatto, avrebbero trovato quell'arma al primo colpo. Lei, Rue, l'aveva trovata per puro caso. Dopo aver parlato con Alicia ed essere tornata al piano di sopra, si era seduta soprappensiero, e aveva trovato quell'orribile cosa passando casualmente una mano sotto un cuscino. Quando vide di che cosa si trattava, si sentì invadere dall'orrore, e la cattiveria di quell'azione la scosse come non avrebbe mai immaginato. D'altronde Alicia gliel'aveva preannunciato: «La prova conclusiva» aveva detto... Proprio allora arrivò Andy. Chiese di vederla a questa volta gli fu concesso. Rue infilò una giacca di camoscio dalle tasche profonde e vi nascose dentro il bisturi, poi andò da Andy che l'aspettava nel piccolo studio di Brule.
Anche lui chiuse la porta prima di parlare; senza preamboli domandò subito: «Hai visto il foglio della cartella clinica, quello del giorno della morte di Crystal?» «Sì.» Appariva nervoso, pallidissimo, teso, con gli occhi accesi e continuava a lanciare occhiate verso la porta. Non chiese cosa avesse rilevato in quel foglio; disse invece: «Rue, non sei più al sicuro in questa casa. Non puoi più stare qui. Io non voglio che tu resti ancora.» «Non posso andarmene, lo sai.» «Sì, che puoi. Ci penserò io. Stammi a sentire, c'è una donna, una cara vecchia signora, una mia paziente, che mi è molto affezionata. Ti porterò da lei. Lei ti terrà in casa sua e si occuperà di te. Da lei sarai al sicuro... Farò in modo che tu possa uscire senza che nessuno lo sappia, senza che la polizia se ne accorga, altrimenti ti fermerebbe... anzi, ci fermerebbe. Ma una volta al sicuro, potremo telefonare e dire dove sei. Potranno anche mandare qualcuno a sorvegliare la casa se lo ritengono necessario, ma là starai certamente meglio. Qui...» la voce si ruppe un po' «qui non sei al sicuro. Ma non lo capisci?» Capirlo? Rue lo capiva anche troppo bene! Lui interpretò il suo silenzio come un assenso. «Allora verrai?» Rue chiuse gli occhi. Il bisturi nella tasca pesava in modo indicibile. «Dimmi come e quando.» 18 Andy lo sapeva esattamente. «È semplicissimo» disse. «Se funziona» mormorò Rue dopo aver sentito. «Funzionerà, sta' tranquilla. Ora ti ripeto tutto...» «Se pensano che cerco di fuggire» lo interruppe lei, ma come parlando di altri «mi arrestano. Voglio dire: sembrerà che io sia colpevole.» «Nient'affatto. Anche se ti fermano, non starai certo peggio di adesso. Comunque non scopriranno nulla finché non sarai al sicuro e non sarai tu stessa a telefonarglielo. Non possono accusarti di essere fuggita se gli dici esattamente dove sei e quali sono le ragioni che ti hanno indotto ad andartene. Non puoi essere costretta a rimanere in questa casa!» E dire che Andy non conosceva ancora la ragione più importante! Rue si infilò la mano in tasca, mentre lui la osservava con ansia, sempre teso, però, ad afferrare lo smorzato mormorio delle voci provenienti dalla
sala da pranzo. «Guarda.» E gli mostrò il bisturi. «Rue! Ma come...» Lei gli spiegò in poche parole. «Questo risolve tutto. Adesso devi veramente andartene. Che diabolica quella donna!» «Alicia?» «Ti odia. Ma non avrei mai creduto che potesse arrivare a tanto. Dammi il bisturi: lo butterò via io. Adesso vado a telefonare alla signora Brown. Non prenderti niente: la valigia attirerebbe l'attenzione della polizia. Meglio evitarlo. Ti farai mandare tutto quello che ti occorre quando sarai al sicuro in casa della Brown.» Le prese le mani e gliele tenne strette. «Non deludermi. Io ti amo, Rue. Non posso lasciarti qui ancora un'altra notte.» Ma dopo che Andy fu uscito, i suoi piani non le parvero più così facili come lui glieli aveva prospettati. Eppure il fuggire da quella casa era, al momento, l'unica cosa sensata da fare. Era diventato troppo pericoloso rimanere lì dove poteva trovare delle trappole. Trappole come quel bisturi. E se invece fosse andata a parlarne con quelli della polizia? Il fatto era che avrebbero fatto esattamente quello che avevano fatto per la polverina trovata nel bicchiere. Vale a dire, almeno per quanto le era stato dato di vedere, assolutamente niente. Guardò il foulard che aveva ancora in mano. Era stata una vera astuzia da parte di Alicia lo scegliere quel fazzoletto da collo che lei aveva usato parecchio, tanto da poter essere identificato con grande facilità. E quel bisturi... il bisturi che poteva benissimo essere l'arma che aveva posto fine alla vita di Rachel e chiuso per sempre le sue labbra, in modo che non potessero più rivelare chi era che l'aveva aspettata in biblioteca, chi era che l'aveva mandata a prendere la cartella clinica e che, dopo avere spinto l'arma nelle sue carni, si era preso la cartella, senza sapere che mancava il foglio più importante, e se n'era andato tanto in silenzio che la sua presenza era stata tradita soltanto dalla corrente d'aria. Sì, quel bisturi poteva essere veramente l'arma del delitto, affilato e sottile com'era... Comunque, arma del delitto o no, avrebbe dovuto consegnarlo alla polizia, anche se Alicia era andata a pescarlo chissà dove e solo per uno scopo ben preciso. Ma lei non aveva avuto il coraggio di farlo. E ora non era più nelle sue mani. L'enorme cattiveria di Alicia continuava a raggelarla, ma il rifugio offer-
to da Andy l'avrebbe tenuta lontana da ulteriori minacce. Si avviò versò le scale, fermandosi irresoluta a dare un'occhiata alla grande sala con tutti i suoi libri, il camino acceso, le poltrone comode e profonde; un'occhiata che equivaleva a un addio. E pensare che avrebbe potuto essere felice là dentro! Quanto non lo sapeva, non aveva mai osato figurarselo, malgrado la sua immaginazione fin troppo pronta. L'istinto le diceva che non sarebbe mai tornata in quella casa, in quella sala. Una volta lasciata, sarebbe stato per sempre. Alicia aveva vinto. Anche se, a pensarci bene, non c'era mai stata nessuna contesa: Alicia restava semplicemente nel posto che aveva sempre occupato. Non c'era nessun bisogno di vedere Brule prima di andarsene. Meglio non rivederlo. Guardò l'ora: le quattro. Stava già facendo buio, e sembrava dovesse cominciare a piovere come il cielo minacciava fin dal mattino. Con un'occhiata nel piccolo giardino dove fra poco avrebbe dovuto avventurarsi, Rue pensò che non c'era nulla di così deprimente, così desolante, quanto la pioggia di novembre, sotto quella cappa grigia di smog. No, non avrebbe rivisto Brule. Anche perché sarebbe stata costretta a fingere, ma lui le avrebbe letto negli occhi il suo proposito... Ancora un quarto d'ora e avrebbe iniziato la breve sequela di cose suggerite da Andy. Stava cominciando a piovigginare. Meglio, avrebbe favorito quel piano di fuga straordinariamente semplice. D'altra parte, se fosse stato più complicato, lei non avrebbe mai accettato. Scostò la tenda con una mano e appoggiò il viso contro il vetro della finestra per guardare il rettangolo scuro e bagnato del giardino che finiva contro il muricciolo. Da lì poteva anche vedere, ma a malapena, la porta della piccola serra costruita come prolungamento della casa di Guy Cole, che si apriva sul piccolo giardino in comune. Si domandò quando e in quali circostanze avrebbe rivisto Brule; comunque fosse, non l'avrebbe più rivisto come moglie. Si mise a pensare ad Alicia in modo spassionato. Il fatto che lei avesse accettato per vero il racconto di Alicia, non aveva nulla a che vedere con l'onestà, o la mancanza di onestà, di quella donna. Alicia non avrebbe mai avuto scrupoli a mentire, se la cosa poteva servire ai suoi scopi, e Rue lo sapeva benissimo. No, era stata la verità a convincerla; la verità che le era
apparsa chiara e netta, ben visibile come la cima di un monte solitario. Una verità che non poteva evitare. Però, se Brule avesse fatto un piccolo gesto d'amore, la verità di Alicia non avrebbe avuto importanza per lei. Sarebbe bastata una parola, anche solo uno sguardo, e la verità di Alicia avrebbe perso tutta la sua forza e si sarebbe spuntata. Ma Brule non lo aveva fatto. E allora perché aspettare?, si domandò lei. Era inutile continuare a indugiare, sperando, aspettando di vederlo ancora, quando sapeva che era meglio evitarlo. Sospirando si voltò e andò alla porta. Proprio in quel momento si aprì anche la porta della sala da pranzo lasciando uscire rumori di passi e voci, e, con essi, il tenente Angel, quello sgorbio di Funk e altri due agenti. Come la vide, Brule le andò vicino. «Vogliono parlare di nuovo con te.» Qualcosa di intangibile, ma anche evidente nel loro atteggiamento, nel modo diretto di fare le domande e, forse, nel viso attento di Brule, suggerivano che doveva esserci qualcosa di nuovo. E infatti c'era. Angel e uno dei due poliziotti e, timidamente, anche Funk che faceva ogni tanto capolino da dietro le spalle del tenente, cominciarono dapprima col domandarle di nuovo delle lettere. Ne sapeva niente lei? «Ve l'ho già detto che non lo so. E talmente tante volte che...» «Eppure, signora Hatterick, secondo la data del timbro postale, quelle lettere sono state scritte tutte dopo il vostro matrimonio. Tutte. Nessuna prima. Questo non vi suggerisce nulla o nessuno?» Le suggeriva Alicia. Ma Alicia avrebbe avuto paura a scrivere le lettere e a rischiare di attirare l'attenzione della polizia su di sé, sulla donna amata da Brule, una donna che, anche se lei se n'era dimenticata, era uno degli eredi di Crystal. Perciò non poteva essere stata lei. «No.» Angel le rivolse un'occhiata desolata e si schiarì la gola: «Non c'è nessuno che avrebbe potuto scriverle per gelosia?» «Gelosia?» ripeté lei sempre pensando ad Alicia. «Sì, gelosia. A causa del vostro matrimonio.» «Magari uno spasimante deluso» suggerì Funk uscendo dall'ombra. «Oh, no. Nessuno.» Brule fece per parlare, ma Angel proseguì in fretta come se volesse impedirgli di dire a Rue quello che voleva. «Vedete, chiunque sia stato a
scrivere quelle lettere, o almeno, chiunque abbia scritto sette di quelle lettere, ha libero accesso al "Town Club". Vostro marito è socio di quel circolo. E anche il dottor Crittenden.» «Ma...» Questa volta Brule non fu interrotto. «Ecco come stanno le cose, Rue. Le lettere sono state tutte scritte a macchina e la polizia ha cercato la macchina sulla quale erano state battute. Immagino che la cosa abbia richiesto un bel po' di tempo e di perseveranza, perché hanno preso campioni persino dalle macchine da scrivere della scuola di Madge. Comunque...» «... e per nostra grande fortuna» aggiunse Funk. «... il signor Funk è stato mandato al "Town Club" per svolgere indagini inerenti un altro caso.» «Per indagare sui furti avvenuti nel guardaroba» precisò l'omino. «E mentre era là ha scoperto che io e Andy eravamo soci di quel club e ha preso campioni di scrittura dalle macchine da scrivere esistenti in una delle salette. E una corrispondeva perfettamente a quella usata per quelle lettere.» «Esattamente» confermò Funk con una nota di soddisfazione. «Sfortunatamente, però, questo limita il campo. Voglio dire, i soci del club vanno raramente nella sala di scrittura; le signore, poi, non ci vanno mai. E io... non posso certo essere stato io a scriverle.» «Non abbiamo mai detto una cosa simile, dottor Hatterick» protestò Angel. «E non potrebbe neppure averle scritte Andy, esattamente per le stesse mie ragioni. Noi due avremmo avuto da perdere più degli altri... o quanto gli altri.» «Tutto questo vi suggerisce qualcosa, signora Hatterick?» No, non le suggeriva nulla. Venti minuti dopo, con la pioggia che batteva furiosa contro i vetri, il cielo grigio che continuava a oscurarsi e il pensiero di Andy che forse stava già aspettandola, finirono finalmente d'interrogarla. Brule accompagnò i poliziotti alla porta. «Finalmente se ne sono andati» disse rientrando in biblioteca. «Ho visto andare via anche Angel.» Lei non parlò, anche se avrebbe avuto tante cose da dire. Quel colloquio con la polizia le aveva fatto perdere del tempo prezioso: per il piano fatto da Andy, era importante che lei uscisse di casa quando non era ancora completamente buio. Inoltre, una volta faccia a faccia con Brule, Rue si rese conto che, in
fondo, non c'era più nulla da dire. Qualsiasi cosa lei avesse detto, sarebbe suonata come un rimprovero, sarebbe sembrata un avanzare delle pretese che lei non aveva alcun diritto di fare. Non poteva neppure dirgli che stava per andarsene. «Che c'è?» domandò Brule. «Vedo che sei preoccupata.» Rue cincischiò con la sciarpa bianca e rossa che aveva in mano. «Al solito, anche questa è una mezza affermazione, vero?» Nello stesso istante si sentì sbattere la porta dello studio di Steven, e lo stesso Steven si precipitò in biblioteca tutto spettinato e agitato. «Meno male che vi ho trovati!» guardò su e giù per il corridoio, poi si chiuse in fretta la porta alle spalle. «Io... Io sono nei guai. Io... io non so perché o... ma non so cosa fare.» «Cos'hai, Steven? Si direbbe che non stai bene. Che...» «Infatti non sto bene.» Steven si lasciò cadere in una poltrona, nascose il viso tra le mani ed emise un gemito. Un istante di profondo silenzio; poi Brule spense la sigaretta, si avvicinò in fretta al cognato e, con estrema delicatezza, come sempre, quando si trattava di Steven, gli posò una mano su una spalla. «È per la polizia?» «È per le lettere.» Dischiuse le mani sollevando lo sguardo. «Sono stato io a scriverle.» «Steven!» Rue era rimasta senza respiro. Per una frazione di secondo Brule rimase immobile senza dire nulla. Steven si mise a piangere. «Credo l'abbiano scoperto. Ne ho scritta qualcuna al "Town Club" mentre ti aspettavo per andare a pranzo. Ho usato la macchina da scrivere del tuo club, Brule. Cosa devo fare, adesso?» Brule sospirò, ma continuò a tenere la mano sulla spalla di Steven. «Perché le hai scritte?» «Io... Io avevo perso la testa. Non so perché l'ho fatto. Se avessi saputo... Se avessi avuto il buon senso di capire quale sarebbe stato il risultato... Ma invece no: sapevo solo che dovevo conoscere la verità.» Altro momento di silenzio, con Brule che guardava Steven e Steven che guardava Brule. «Vuoi dire... la verità su Alicia?» Steven annuì. «L'avevo pensato che potevi essere stato tu. Bene, adesso la sai la verità?» Steven cercò di parlare con più calma. «Vedi, adesso lo so di aver fatto un male irreparabile a te e a Rue, ma allora, quando le ho scritte, io... Sarà
meglio che vi dica tutto.» «Credo di capire.» «Ma è meglio che lo dica. Rue... Rue deve sapere.» Si volse a lei con uno sguardo eccitato e, insieme, implorante. «Vedi, Rue... dopo la morte di Crystal... Sì, è stato solo dopo la sua morte che io ho cominciato a domandarmi se Alicia mi amava realmente, se non ero stato per lei solo una specie di burattino. Era diventata così diversa da quando non c'era più Crystal... A poco a poco ho capito che era innamorata di Brule, che forse ne era sempre stata innamorata, e tante piccole cose che prima non avevo notato, hanno cominciato ad assumere un... un certo colore, un certo significato. Un giorno, poi, l'ho sentita parlare con Brule. Diceva...» Steven si interruppe, poi proseguì più spedito e più esplicito: «Diceva che Crystal era stata assassinata e che lei non voleva sposarlo perché temeva che, prima o poi, quel delitto sarebbe stato scoperto. Che aveva paura di quello che avrebbe potuto succederle... Io non ho voluto sentire altro; ne avevo sentito più che abbastanza. Ma la cosa mi ha aperto gli occhi. E, anche se non è stato lo shock che avrebbe potuto essere, pure è stato un colpo tremendo. Ma non sono stato capace di fare niente, o, forse, ho avuto paura di fare qualcosa. Però ho cominciato a pensarci, a rimuginarci sopra, a chiedermi come trovare una via di uscita. «Brule aveva sposato te, Rue, e sembrava che Alicia volesse continuare esattamente come prima. Continuava a rimandare il matrimonio, continuava a tenermi...» Si scrollò di dosso la mano di Brule, si alzò e si mise a camminare avanti e indietro in preda all'agitazione, fermandosi ogni tanto a guardare con ansia Rue e Brule, come se dovesse convincerli di qualcosa. Rue era preoccupata del passare del tempo, ma voleva, doveva, sentire tutto quello che Steven aveva da dire. Voleva e doveva sapere cos'avrebbe detto Brule dopo. «È stata una cosa terribile» continuò Steven. «Ecco, se Alicia avesse detto che voleva troncare il fidanzamento, se avesse detto che non aveva più intenzione di sposarmi, io... io avrei capito, avrei accettato. Lo so cosa state pensando tutti e due: vi state chiedendo perché non ho avuto una chiara spiegazione con lei, perché non le ho detto che sapevo tutto, perché... Lo so, tu, Brule, lo avresti fatto, ma io non ci sono riuscito.» Si fermò guardandoli con occhi disperati, con l'ansia evidente di essere creduto. «Io l'amo. È proprio questo il mio guaio: che l'amo.» «Avevi una prova certa che Crystal fosse stata uccisa?» domandò Brule
con tono tranquillo. «Buon Dio, no!» «E allora perché...» «Perché ho scritto quelle lettere alla polizia? Per mettere a posto le cose, per chiarire tutto. Per...» agitò le mani in aria «per mettere tutto allo scoperto, per vedere come stavano realmente le cose.» «Se quella era la tua intenzione, ci sei riuscito in pieno» fece Brule secco. Steven si limitò a guardarlo con sguardo assente ed esitante. Brule cercò di essere meno duro. «Vuoi dire che ritenevi fosse il mezzo più adatto per...» indeciso a sua volta, ripeté le parole di Steven «per chiarire le cose?» Si interruppe come a fargli capire l'assurdità della sua azione. «Sì! Sì! Quando l'ho fatto mi è sembrato il modo più pratico che potessi trovare per giungere alla verità.» Era veramente troppo. «Pratico! Buon Dio, Steven!» «Oh, adesso lo vedo che non lo era! Voglio dire che quando ho scritto le lettere non mi sono reso conto di quanto poteva succedere. Pensavo che la polizia avrebbe fatto qualche indagine e avrebbe scosso un po' le cose. Non potevo continuare in quelle condizioni, e...» s'interruppe di nuovo, si fermò, si passò la mano sui capelli e aggiunse con voce tragica: «Non pensavo che sarebbe stato così.» «Di questo ne sono sicuro» asserì Brule. «Comunque, ormai è fatta. Cerca di non pensarci più.» «Non pensarci più?» «Sì. Lascia che sia la polizia a preoccuparsene. È compito loro, no?» «Brule, sembra che tu non abbia capito. Io sono un assassino.» «Tu...» Brule si precipitò su Steven e lo afferrò per un braccio. «Cosa intendi dire? Non vorrai dire che...» «Voglio dire che sono stato io a causare due omicidi. Due! Se non avessi scritto quelle lettere» ragionò con la semplicità di un bambino «non ci sarebbe mai stato nessun delitto. Perciò adesso vado alla polizia a raccontare tutto. A dire tutta la verità.» «Anche su Alicia?» Steven esitò. Fissò il cognato con occhi turbati. «Alicia... Ma è la verità, Brule. Alicia e tu...» Ci fu un altro momento di profondo silenzio. Poi Brule disse con voce sorda: «Oh, sì, la verità. D'accordo. La verità su Alicia e su me.»
19 La verità. Ma la verità lei la conosceva già; non aveva bisogno di conferma. Inoltre Andy doveva già stare aspettando: doveva andarsene, lasciare quella casa per sempre prima che fosse veramente buio. Sì, prima che fosse troppo buio, altrimenti il piano progettato non avrebbe avuto alcuna probabilità di successo. Steven, intanto, si era mosso. Era andato più vicino a Brule e gli aveva messo una mano, lui, ora, sulla spalla. Era l'ultima cosa che Rue si sarebbe aspettata, eppure era proprio uno degli atti caratteristici di Steven. Per lui quello era evidentemente un gesto di conforto. Infatti disse: «Brule, io ti capisco, credi. Non ti preoccupare. Va tutto bene, ora. Ho superato il peggio, la gelosia e tutto il resto. Adesso è chiaro. Io... io ho imparato che bisogna saper accettare le cose, che bisogna anche sapere perdere. In... in tutti questi mesi in cui non sapevo... Be', adesso capisco anche quello. Tu sei sempre stato molto buono con me: tu sei forte e io sono un debole... Tu hai sempre capito tutto: come avresti potuto venire da me a dirmi la verità quando sapevi quanto io l'amavo?» «Io salgo» lo interruppe Rue bruscamente. Ma Brule ingiunse subito: «Aspetta. Voglio che tu senta...» «Io ho già sentito abbastanza.» Già sulla porta guardò verso lo studio di Steven: non c'era nessuno. Ma Brule l'afferrò per il polso con rabbia e la fece rientrare. «Tu ascolterai. Me lo devi. Volevi la verità e ora l'avrai!» Lei si svincolò. «La verità l'ho già avuta tutta» disse guardandolo quasi con sfida. Brule appariva impassibile, ma aveva gli occhi lucidi di collera. «Me ne vado» soggiunse, trattenendosi a stento dall'aggiungere "dalla tua casa e non ci tornerò mai più. Così ti renderò anche le cose più facili: potrai ottenere quel divorzio a cui aspiri e sposare la tua preziosa Alicia." Non lo disse. Guardò Steven: la luce gli cadeva direttamente sul viso magro e disfatto, mettendo in evidenza la bocca sensibile, la fronte alta, quel suo sguardo che pareva voler mettere a nudo la sua anima e dimostrava tutta la sua debolezza. La forza di Steven stava solo ed esclusivamente nella musica; la vita, con tutti i suoi problemi e le sue emozioni, erano al di fuori della sua portata. O forse sembrava così, ma era solo perché lui li considerava cose ac-
cessorie, e tutte subordinate alla sua musica? «Rue, potrai mai perdonarmi?» disse lui inaspettatamente. «Quando ho scritto quelle lettere, ho creduto fosse la sola via possibile. Io non sapevo a che cosa ti avrei fatto andare incontro... Non sapevo cosa facevo.» Lo disse con semplicità, e probabilmente era sincero. In quel momento non sapeva cosa avrebbe provocato, quale orribile serie di eventi avrebbe scatenato. Era stato come il sasso staccato dal terreno dalle mani innocenti di un bambino che può dar luogo a una grossa frana... ma è perché quel terreno è fragile, cedevole, sfaldato, che la frana può accumularsi e abbattersi nella piana sottostante. Gli tese una mano. Fu un gesto di addio, anche se Steven non lo sapeva. «Lo so, Steven.» Era già sulle scale, quando lui riuscì a risponderle: «Lo so, Rue.» Povero Steven... A Brule però non voleva pensare. Non ora. Ora aveva altre cose da fare. Nel corridoio del piano di sopra non c'era nessuno. Mentre si infilava un cappotto di tweed scuro, si ripeté che aveva fatto bene a prendere quella decisione, che era l'unica strada sensata che le si prospettasse. Mise un berretto marrone e, sopra il tutto, una mantella impermeabile di un bel verde squillante con un grande cappuccio. Si ricordò anche di prendere delle monete per la metropolitana, e se le mise in tasca. Ora era pronta: cappello, cappotto, mantella con cappuccio, il borsellino e gli spiccioli per la metropolitana... ah, sì, e i guanti. Ora doveva sbrigarsi: le finestre della sua camera erano ormai due lunghi rettangoli grigio scuro, e il buio era sempre maggiore. Non si fermò per uno sguardo di addio, ma le sembrò che la stanza la guardasse, la stanza con il letto a baldacchino e il grande paravento dorato, la stanza dov'era morta Crystal, dov'era morta Julie, dove il profumo di rose continuava a essere tanto dolce e persistente da essere nauseante. Con quella stanza lei aveva finito per sempre. Sul tavolino ai piedi della scala, era stata appoggiata la posta appena arrivata. Lo sguardo di Rue fu attratto dal suo nome su una busta bianca. La prese senza nemmeno guardarla e la cacciò in tasca. Fino a quel momento era stato tutto facile: nessuno che l'avesse guardata, nessuno che l'avesse fermata. Forse ce l'avrebbe fatta. Non poteva sapere della conversazione che aveva luogo proprio in quel momento alla sede del comando di polizia, davanti a un tavolo sul quale erano appoggiati una pila di rapporti e una piccola valigetta marrone.
«Credo che dovremo procedere all'arresto. È probabile sia stata lei a mettere il veleno nella medicina, e anche a propinarlo poi alla Garder con il tè. In questa borsa c'erano farmaci sufficienti a...» «Su questo non l'avete mai interrogata, eppure è nelle vostre mani sin dal...» «Sin dal momento in cui tu l'hai trovata in quel credenzino, lo so. Il fatto è che non c'era nessun bisogno che la interrogassi: sapevo benissimo che era sua. Ora mi sembra che abbiamo tutti gli elementi per procedere all'arresto. Credo che l'accusa regga: quando vedrà la borsa e saprà che abbiamo verificato tutto il contenuto, crollerà. Confesserà tutto.» Silenzio generale. Poi: «Potreste aver ragione, tenente. Ma io mi sentirei meglio se il barista si decidesse a parlare.» «Lo faremo parlare.» Nuovo silenzio. Poi la voce di Angel, acuta per l'impazienza: «Insomma, cosa c'è? Non sei ancora soddisfatto, Funk?» «No, non lo sono.» «Sei ancora del parere che la valigetta da infermiera con il suo contenuto di arnesi e di farmaci, possa indicare che quella donna è innocente?» «Be', tenente, io continuo a essere convinto che, se avesse preso il veleno da questa valigetta, se ne sarebbe disfatta al più presto. O, almeno, si sarebbe disfatta dei farmaci che ci sono dentro. Sono convinto che avrebbe cercato di eliminare una prova così evidente... Guardate, tenente...» Le dita ad artiglio si infilarono nella grossa borsa, frugarono all'interno e tirarono fuori dei flaconcini a caso, tutti con la loro brava etichetta e tutti contrassegnati con una "R". Di nuovo silenzio. Poi, una voce alla porta: «Funk, ti vogliono al "Town Club". È ancora per quel furto al guardaroba...» Ma forse, in quel momento, Rue era già fuori, dopo aver superato il corridoio, essere passata davanti alla porta chiusa della biblioteca, attraversato lo studio di Steven ed essere uscita dalla porta sul giardino. Sentì il viso sferzato dall'aria fredda e dalla pioggia. La cappa verde vivo era come una bandiera: un poliziotto in uniforme con la mantella impermeabile, fermo al cancello di servizio, si voltò a guardarla. Rue, col cuore in gola, gli si avvicinò. «Posso camminare un po' qui fuori?» «Ma certo, signora Hatterick» rispose l'altro guardandola impassibile. Ora c'era la parte più difficile. O funziona, o va tutto a monte, si disse lei. Ora doveva iniziare la commedia suggerita da Andy. Camminò su e giù lungo il minuscolo giardino; al secondo giro si portò
un po' più vicino alla siepe che divideva la loro parte di terreno da quella di Guy. Esitò un attimo, oltrepassò il varco, continuò a camminare verso la serra di Guy, una piccola stanza tutta in vetro che costituiva il prolungamento della sala da pranzo. Di proposito esitò anche davanti a quella porta, come se fosse indecisa, e qui la cosa era un po' pericolosa, perché lasciava al poliziotto il tempo e l'opportunità di fermarla. Incredibilmente, le cose andarono esattamente come Andy aveva previsto. Sembrò che il poliziotto pensasse unicamente che lei avesse avuto una mezza intenzione di entrare, non era poi tanto strano che lei volesse andare a parlare col suo avvocato, che si fosse fermata per ripensarci, e si fosse poi decisa. La porta non era chiusa a chiave. Rue entrò, si richiuse la porta alle spalle e, nel farlo, sbirciò il poliziotto che non si era mosso ma era rimasto a guardarla. Si tolse in fretta là cappa verde e la nascose sotto una panca. All'interno della serra l'aria era calda e umida, con odore di terra bagnata e profumo di fresie. Ora doveva spicciarsi. Doveva muoversi alla svelta, perché il poliziotto non era più al suo posto. Forse l'aveva seguita... No, stava entrando in casa Hatterick. Era forse per mandarle dietro un suo collega? Per chiedere rinforzi? Comunque non aveva importanza: lei sapeva cosa fare. Conosceva bene l'ubicazione generale della casa di Guy Cole. Se qualcuno le avesse domandato... Ma nessuno domandò niente. Dentro c'era soltanto un domestico e un cuoco, e Guy non era ancora rientrato. E poiché anche la porta della sala da pranzo non era chiusa, da quel punto in poi la cosa fu ridicolmente facile. Attraversò la sala da pranzo, il vestibolo e la porta di ingresso, si trovò fuori. E lì non c'erano poliziotti. Non solo, ma l'angolo della casa la riparava anche da eventuali agenti di guardia davanti all'ingresso di casa sua o a quello di servizio. Si infilò nella folla dei pedoni, senza la vivace mantellina verde che la polizia si sarebbe affrettata a cercare. Fermò il primo taxi di passaggio, e salì. E ora via alla metropolitana per Evanston. Disse all'autista di portarla alla stazione più vicina. Dopo, quando ripensò a quella corsa, ricordò sempre lo sfrecciare frenetico della vettura fra altre auto, camion e bus altrettanto scriteriati, e un'enorme massa di gente che rientrava dal lavoro. Non seppe mai a quale stazione la lasciò il taxi. Scese in un angolo illu-
minato pieno di gente che s'infilava in una scala, e fece esattamente come le aveva detto Andy: pagò il taxi, s'infiltrò fra quella gente, e divenne una di loro, una di quelle persone anonime e pallide sotto la luce al neon, grigiastre come i giornali che tenevano sotto il braccio. Si fece anche lei strada a forza di gomiti per poter salire sul primo treno che si era fermato sferragliando, pieno di luci e di rumore, con la scritta "Evanston e North Shore". Presto sarebbe stata con Andy. Al sicuro. Stava ancora piovendo quando scese alla fermata di Anchor Street nella zona periferica della città e pioveva ancora più forte quando, uscita dalla stazione, si trovò davanti, come Andy le aveva detto, a un piccolo drugstore dall'aria squallida. Entrò, sedette a un tavolo, ordinò una cioccolata calda. Il piano bianco del tavolo le fece tornare alla mente il tavolo di quell'altra sera, di quell'altro drugstore, dove si era fermata con Andy uscendo dall'Opera. Quando sarebbe arrivato? Il tempo passava. Sentì degli strilloni che vendevano il giornale davanti alla stazione della metropolitana, e sentì gridare anche il suo nome, ma Rue si rifiutò di andarne a comprare uno e leggerlo. Il tempo continuava a passare, ma a lei non venne mai in mente la lettera che si era messa in tasca. Andy arrivò che erano quasi le otto. Arrivò di corsa, col colletto rialzato che gli nascondeva la faccia. Accennò appena a una parola di saluto, la tirò via da quel locale brutto ma ben illuminato e la portò nella strada buia dove aveva posteggiato l'auto. Era una vettura che Rue non aveva mai visto ma non era certo nuova, tutt'altro: era vecchia e malconcia, e persino sotto quella luce fioca aveva l'aria di non poter reggere che per due o tre chilometri. A pensarci bene, pareva uscita dal magazzino di un demolitore. Andy aprì uno sportello. «Sali.» Mentre saliva si ricordò di una cosa che non c'entrava per niente: si domandò cosa ne avesse fatto Andy del bisturi che lei gli aveva consegnato. Era una cosa priva di importanza, e cercò di non pensarci più. Andy andò a sedere al volante. 20 Davanti a loro, la strada si snodava vuota e scura come un lungo tunnel
delimitato dalle colonne della sopraelevata e punteggiato a intervalli regolari dai lampioni stradali resi quasi indistinti dalla pioggia. Dove c'erano le lampade, la struttura d'acciaio della metropolitana creava disegni regolari di luci e ombre che rammentavano, a Rue, Steven e il suo "Arabesque at Night". E, chissà perché, fu portata a chiedersi quando l'avrebbe rivisto... se l'avesse rivisto. Non aveva idea di dove si trovava. Sembrava che i lati del tunnel, al di là del graticcio dei pilastri, fossero composti esclusivamente da magazzini e depositi. Svoltarono in una via, poi in un'altra. Rue perse ogni senso di orientamento. Ora non aveva più nessun riferimento, neppure l'intelaiatura della sopraelevata. Andy, inarcato in avanti per cercare di vedere attraverso la pioggia furiosa la strada viscida e male illuminata, continuava a rimanere in silenzio. Rue riusciva a vedergli solo il profilo pallido e teso. Tutto era filato Uscio come lui aveva previsto. Nessuno sapeva che lei se n'era andata, ma anche se Y avevano scoperto e avevano ritrovato l'impermeabile verde, lei era fuggita. Ora non potevano più rintracciarla. Avrebbe comunque telefonato appena fosse stata al sicuro. Al sicuro? Ma con Andy lo era già. «È molto lontano?» domandò al disopra delle vibrazioni del motore. «Hhmm?» Andy uscì dalle sue astrazioni con un sobbalzo. «Vuoi dire se siamo ancora lontano dalla signora Black? No, non molto. Facciamo il giro all'esterno e rientriamo sulla Dempster Road. È la strada più sicura.» La guardò, le sorrise brevemente come per rassicurarla, e tornò a scrutare la strada con molta attenzione. Non molto lontano... Rue emise un lungo sospiro, un sospiro di sollievo ma anche di stanchezza. Stava fuggendo da casa Hatterick e dalle minacce che essa rappresentava. La parte più difficile era ormai superata. Affondò il mento nel collo del cappotto e frugò nelle tasche alla ricerca delle sigarette. Le trovò, ma non trovò i fiammiferi. Li chiese ad Andy, che le passò una di quelle bustine che danno gratuitamente certi locali pubblici per farsi réclame; Rue si accese la sigaretta e restituì i fiammiferi: un gesto logico e naturale, ma che costituì invece l'ultimo piccolissimo anello di una catena. Nessuno dei due parlò. La pioggia rendeva sempre più difficile la visibilità; Andy, dopo diversi infruttuosi tentativi per far funzionare più in fretta il tergicristalli, lasciò perdere e si piegò ancor più sul volante. Ora stavano
uscendo dalla cintura della città; Rue non riusciva a vedere case ma solo, ogni tanto, delle lucette tremolanti nel buio sferzato dalla pioggia. Dovevano però essere su una delle superstrade della parte nordoccidentale, perché ogni tanto si intravvedeva qualche stazione di servizio e dei chioschi. Dopo un bel po', Rue domandò: «Hai detto "signora Black"? Credevo si chiamasse "Brown"...» «Come? Oh, sì, volevo dire la signora Brown... Buon Dio, non si vede niente!» Davanti a un crocevia esitò, guardò la lunga linea nera e bagnata che intersecava la loro strada e portava chissà dove, decise di lasciar perdere, e proseguì dritto. Erano, a quanto pareva, in aperta campagna, e Andy sembrava piuttosto incerto. «Dove siamo?» «Esattamente non lo so. Cioè, dovremmo essere vicini a Norton Grove. Dovremmo incrociare la superstrada per Milwaukee.» Sapeva, e molto vagamente, che quella strada si snodava a nord-ovest della città, al di là della zona suburbana settentrionale, ma era un'area molto vasta, semi-deserta, con terreni bassi e fangosi e grandi spazi aperti, attraversati da autostrade, superstrade e tangenziali che si intersecavano in continuazione. C'erano sì dei motel e delle stazioni di servizio, e anche, qua e là, dei sobborghi, ma per Rue era solo un territorio desolato e sconosciuto e, quella sera, anche un po' pauroso con tutto quel buio e con Andy che continuava a non dire una parola. Superarono una stazione di servizio con le pompe della benzina illuminate, ma buia all'interno. E, a poco meno di un chilometro da quel distributore, l'auto cominciò a tossicchiare, avanzò a scatti, sembrò compiere uno sforzo, e si fermò. Andy tirò lo starter, riprovò a metterla in moto, imprecò e disse incredulo: «Si direbbe che siamo senza benzina... Impossibile. Avevo appena fatto il pieno... Ci deve essere una perdita.» Scese, andò ad alzare il cofano, controllò il serbatoio del carburante, e tornò da Rue. Rimase a guardarla pallidissimo alla luce fioca accesa nell'interno della vettura. «Siamo rimasti senza benzina» ripeté continuando a fissarla. «Abbiamo superato una stazione di servizio poco fa. Sembrava chiusa, ma forse...» «È vero. Forse riuscirò a sfondare la porta.» Continuò a fissarla in quel
modo strano. «Sì, certo. Devo trovare la benzina. Devo assolutamente trovarla.» Continuava a piovere e da parecchio non incrociavano altre macchine. Rue si strinse nel cappotto. «Vengo anch'io con te.» A questo Andy si scosse: no, non gliel'avrebbe assolutamente permesso. Si sarebbe bagnata tutta! «Non mi ci vorrà molto» l'assicurò. La guardò ancora fissamente, poi richiuse la porta e sparì nell'oscurità sotto il rumore della pioggia scrosciante. Rue si appoggiò contro il vetro. A parte il rumore della pioggia, non si sentiva altro; il posto era tremendamente solitario e triste, non si distinguevano luci neanche in lontananza. Si sistemò meglio. Immaginava ci sarebbero voluti almeno venti minuti perché Andy tornasse alla stazione di servizio, svegliasse qualcuno o, come aveva detto lui, riuscisse a sfondare la porta, prelevare la benzina e tornare alla vettura. Se non arrivavano altre auto, non c'era nulla che potesse darle noia. Chissà perché, allora, continuava a provare quello strano senso di disagio... Cercò un'altra sigaretta, ma, come prima, non aveva fiammiferi. Mentre si frugava in tasca, passò le dita sulla busta. Visto che non poteva neppure fumare, tanto valeva che la leggesse, se non altro per passare il tempo. L'aprì e cominciò a leggerla alla fioca luce che pioveva dal tetto della vettura. La lesse e capì a cos'era dovuto il senso di paura che continuava ad aleggiarle intorno. Era di Elizabeth Donney, e ne racchiudeva un'altra. Tutte e due erano molto brevi. Lesse prima quella di Elizabeth. Cara Rue, le ragazze mi hanno detto che sei stata qui e hai domandato se Julie avesse una relazione. Penso di sì perché ho trovato questo biglietto nascosto in un suo libro. Penso sia del suo innamorato, e che lei si sia incontrata con lui il pomeriggio del giorno in cui è morta. Non so chi sia, non è firmato e non riconosco la scrittura, ma lo mando a te, e non alla polizia, perché, se non è importante, preferirei non si sapesse in giro. Non mi farebbe piacere che i giornali si mettessero a parlare della vita privata di Julie. Ha avuto così poco, povera ragazza!
Se hai bisogno di me, telefonami. Elizabeth Spiegò il foglio accluso. La pioggia che tamburellava continua sul tetto, dava l'impressione di passi sul bagnato. Il foglio, visibilmente scritto con la mano sinistra, iniziava con "Tesoro mio". Tesoro mio, non mancare, ti prego, all'appuntamento al ristorante di Rush Street, oggi alle 4. Ti ho mai detto da quanto ti amo? Di quante volte, in ospedale, ho cercato di restare solo con te? Di come io ti riconosca sempre, immediatamente, fra tutte le altre infermiere; come io sappia subito individuare la linea delle tue spalle, e il morbido nodo dei tuoi capelli neri, sotto la cuffietta inamidata? Non mancare: ti aspetto. Non era firmato, ma non ce n'era bisogno. Non la rilesse, ma anche di questo non c'era bisogno... "il morbido nodo di capelli neri sotto la cuffietta inamidata"... L'altra volta si era trattato di "capelli d'oro", i suoi. Si sentì distrutta. Le parve di essere, d'improvviso, staccata dal proprio corpo, e capì di essere in pericolo. Fu il primo chiaro pensiero che ebbe dopo la lettura di quella lettera. E fu subito seguito da un altro, un altro che forse aveva già avvertito da tempo e che aveva sviluppato in lei quell'angoscioso senso di paura. Andy non aveva voluto che Julie parlasse con lei perché, insieme, avrebbero potuto scoprire qualcosa. Infatti la medicina, quella medicina che lei aveva dato a Crystal, non era stata preparata da lei e neppure da Julie, perché altrimenti Julie l'avrebbe segnato sulla cartella clinica. Invece sul foglio non era segnato nulla. Julie non l'aveva preparata e lei nemmeno, ma la medicina alle 7 era là pronta che aspettava, e Andy era andato a visitare Crystal alle 6. Poteva aver mandato Julie fuori dalla camera con una scusa. C'erano decine di modi per avvicinarsi al tavolo dei medicinali. E il momento più propizio era proprio quando Julie finiva il suo turno per lasciare il posto a
Rue, la quale avrebbe pensato che fosse stata Julie a lasciare la medicina già pronta. Non proseguì il ragionamento, perché ogni suo pensiero, ogni sensazione fu sommersa da un impellente e cieco istinto: quello di fuggire. Quasi senza accorgersene, si trovò fuori dell'auto, nel buio, con la pioggia che continuava a battere violenta contro il tetto della macchina con un rumore di passi. Riusciva a vedere ben poco. Sulla strada, lontano, si riflettevano delle luci, quelle della stazione di servizio che, attraverso la cortina di pioggia, creavano una specie di alone attorno ai distributori. E in un punto imprecisato, tra lei e i distributori, doveva trovarsi Andy. Doveva cercare Brule, doveva trovarlo! Nella stazione di servizio un telefono c'era di sicuro! Andy aveva detto: "Sveglierò qualcuno o sfonderò la porta". Se dentro c'era qualcuno, lei sarebbe stata salva. Ma come poteva attraversare quella zona buia e pericolosa senza imbattersi in Andy? Doveva stare molto attenta, ascoltare ogni rumore, tenere gli occhi bene aperti e, sapendo che lui doveva forzatamente ritornare per la medesima via, allontanarsi dalla strada asfaltata appena l'avesse visto. L'avrebbe visto per forza, contro la luce del distributore alle spalle! Doveva cercare rifugio oltre la banchina stradale. Doveva solo cercare una siepe, un muretto, un qualcosa dietro al quale nascondersi, in modo da non creare ombre rivelatrici. Non poteva certo fermarsi per fare un piano, ma il subcosciente la consigliò: cerca un telefono, parla con Brule, prova alla stazione di servizio, nasconditi quando senti un passo o vedi un'ombra che si muove controluce. Doveva essersene andata quasi immediatamente, perché si ritrovò sotto la pioggia battente, bagnata fino alle ossa, col rumore dei passi addirittura cancellato dal rumore dell'acqua che cadeva a rovesci. E se Andy non era andato a cercare benzina? Quel pensiero la fece arrestare di colpo, col cuore in gola. Ma, quasi a risponderle, all'improvviso si illuminarono due rettangoli, quelli delle finestre della stazione di servizio. Evidentemente era riuscito a svegliare il gerente o, comunque, a entrare per avere la chiave della pompa. Si mise a correre, perché più strada riusciva a percorrere prima che Andy si rimettesse in marcia per tornare all'auto con la benzina, più lei sarebbe stata in vantaggio in quella corsa contro il tempo.
Cos'avrebbe fatto Andy nello scoprire che lei se n'era andata? Quasi di sicuro, per prima cosa avrebbe rimesso in moto quel rottame di macchina, poi, probabilmente l'avrebbe chiamata; quindi l'avrebbe cercata. Subito sarebbe stato incerto e perplesso, ma poi, una volta arrivato alla conclusione che lei era fuggita, avrebbe capito che lei sapeva la verità. E subito avrebbe pensato al telefono. L'unico telefono accessibile: quello della stazione di servizio. Nel buio sotto la pioggia, con l'asfalto viscido e il respiro che diventava sempre più affannoso e quasi le mancava, Rue continuava ad avvicinarsi alla zona illuminata. Mentre i distributori si delineavano rossi e scintillanti, si accorse che i rettangoli delle finestre erano scomparsi. Ma quando? Forse solo in quel momento, perché un attimo prima c'erano ancora. Però quello significava che Andy doveva essere sulla via del ritorno. Lasciò la strada incespicando nel buio, rischiando quasi di cadere in un fosso. Si fermò ad ascoltare, e fece bene, perché l'uomo stava arrivando. Sentì i suoi passi: veniva con un'andatura irregolare, prima camminando in fretta con passi precipitosi che via-via deceleravano fin quasi a fermarsi, per riprendere poi ad accelerare. Chissà cosa aveva in mente. Nulla, forse. Quella strana indecisione, quel suo silenzio assorto, quell'angosciosa ricerca di strade, stavano, molto probabilmente, a indicare la sua mancanza di decisioni. Mancanza di decisione solo per quanto riguardava il modo di farla stare zitta per sempre, perché fin dell'inizio si era reso conto che la sua esistenza costituiva una minaccia perenne per lui. "Vieni via con me", aveva detto la sera in cui era cominciata quell'orribile storia, ma quel "vieni via con me" aveva significato "così posso tenerti d'occhio, posso evitare che la polizia ti interroghi, posso far sì che tu non parli con Julie, che tu non ricordi ciò che non devi ricordare." Scuro com'era, per un attimo ebbe la paurosa certezza di essere vista, di andare a sbattergli contro, di essere lei stessa a guidarlo con la forza del pensiero. Non fu così. Un po' correndo, un po' rallentando, Andy continuò la sua strada, mentre lei pensava di non farcela più, di non resistere oltre, di non poter più sopportare quel silenzio. Ebbe paura di non riuscire più a frenarsi e di mettersi a gridare; poi si accorse che il rumore dei passi si era allontanato e si confondeva sempre più col rumore della pioggia. Sgusciò fuori dal fosso e ritornò sull'asfalto, ma ancora con la paura di
essersi ingannata, e che non fosse stato Andy l'uomo intravisto prima. Ma era lui, perché quando fu vicina, vide che la zona illuminata della stazione di servizio era deserta. Voltandosi riuscì a intravvedere una macchia un po' più scura con due lucette rosse: i fanalini posteriori dell'auto sgangherata. Di quell'auto che sembrava uscita dal deposito di un demolitore. Doveva attraversare la zona illuminata nel minor tempo possibile. Lo fece scattando come un animale braccato in cerca di un nascondiglio. La porta della piccola costruzione bianca era solo accostata. Chiaro che Andy aveva forzato la serratura, perché da un gancio pendeva un catenaccio. Chiaro, anche, che dentro non c'era nessuno. Ma il telefono... il telefono, ci sarebbe stato? Non osò accendere la luce, come aveva fatto Andy; ma dal poco chiarore che entrava dalla finestrella, vide la cassa, e vicino a essa, il telefono. L'afferrò con le mani così gelide e agitate, da non riuscire neppure a fare il numero. Si sforzò di tenere le dita ferme e di vedere i numeri sul quadrante. Finalmente riuscì a comporre il numero di casa e, dopo un tempo che le sembrò lunghissimo, sentì una voce. Quella di Brule. «Brule...» Non si accorse di stare singhiozzando. «Rue! Rue! Mio Dio, Rue! Dove sei?» «Vieni a prendermi! Vieni, fai presto. È Andy. Vieni...» «Rue, dove sei? Cosa vuoi dire? Ti abbiamo cercata...» «Ascolta.» Doveva fare in modo che lui capisse. «Ascolta, Brule, è stato Andy a uccidere Julie. E anche a uccidere Crystal. In questo momento è fuori, sulla strada, e sta cercandomi. Ti telefono da una stazione di servizio... Brule, fai presto! Vieni a prendermi!» «Ma dove sei, Rue? Rispondi. Dimmi esattamente... Devi dirmelo: chiedilo al benzinaio.» «Non c'è nessuno. Il distributore è chiuso.» «Chiuso! Rue, devo sapere dove sei.» «A nord-ovest di Chicago, vicino a Norton Grove, credo. Non so che strada sia. So che non ci sono più case intorno...» Non riusciva a parlare in modo chiaro e coerente; singhiozzava e non riusciva a fermarsi. «È lì vicino?» «No, adesso no. È sull'auto. Un'auto vecchia, un rottame.» «Quant'è lontano?»
«Quasi un chilometro.» Qualcuno parlò con Brule e Brule rispose; lei sentì le voci ma non capì cosa dicessero. Poi Brule disse in fretta: «Dammi il numero del telefono, presto.» Non riusciva a leggere il numero sulla placchetta, e non poteva certo accendere la luce. Accidenti al momento in cui aveva reso ad Andy la bustina dei fiammiferi! «Non ci riesco... Al buio non lo vedo.» Scoppiò in pianto. «Smettila, Rue! Non fare l'isterica. Io vengo subito, ma tu devi darmi il numero.» «Non posso. Non lo vedo e non posso accendere la luce, altrimenti mi scopre subito.» «Ce la fai a nasconderti? Pensi sappia dove ti trovi?» «Sì...» Si rimise a singhiozzare, ma cercò subito di calmarsi, di parlare lentamente e in modo chiaro: «Cercherò di nascondermi. È buio. Ti prego, Brule, vieni subito!» Ci fu un altro colloquio concitato dall'altra parte del filo, poi Brule disse in fretta: «Quando lasci il telefono, non riagganciarlo. Lascia pendere il ricevitore, così riusciamo a localizzarlo. Mi hai capito?» «Sì.» «Sta venendo?» «Non ancora.» «Allora dimmi in fretta: il pomeriggio in cui è morta Julie, cosa ne ha fatto Andy del cappotto quando è entrato in camera? Voglio dire: lo aveva con sé?» «Sì.» In un lampo, nel buio della piccola stazione di servizio con il suo odore di olio e di benzina, e con il tambureggiare della pioggia sul tetto basso, rivide tutta la scena. «Era su una poltrona. Lo aveva posato su una poltrona.» «Avevate ragione; è proprio quella roba del furto nel guardaroba.» La frase era del tutto incomprensibile, ma era quella che Brule stava dicendo non a lei, ma a qualcuno che gli stava accanto. Poi tornò a lei. «Nasconditi. Stai lontana da lui e tienti nascosta. Abbiamo le prove. Ora anche il barista si deciderà a parlare. Andrà tutto bene, se riesci a star nascosta finché arrivo.» Andy stava arrivando. Lei non poteva guardare nella strada e non poteva nemmeno sentirlo,
perché il rumore violento della pioggia attutiva ogni suono. Ma lei ne fu sicura. «È una delle superstrade a ovest» gridò disperata. «Attraversa quella per Milwaukee, ma io sono prima dell'incrocio. Brule...» Il rumore della pioggia sul tetto si fece più ritmico e divenne più forte. Era il battito del motore della vecchia auto. La luce dei fari rimbalzò sul muro che nascondeva Rue, la cercò attraverso la finestrella, mentre la vettura faceva una mezza curva e andava a fermarsi davanti alla porta aperta. 21 Dopo, non fu mai in grado di ricordare i primi momenti che seguirono: né come lasciò il telefono, né le mosse fatte. Ricordò solo che, trovata la porticina sul retro, si era rovinata le dita per aprire un chiavistello e si era ritrovata di nuovo sotto la pioggia nella più nera oscurità. Per un istante questo le diede un senso di sicurezza. Ma solo per un istante, perché non c'era un posto in cui nascondersi, nessun riparo al di fuori del buio, buio che poteva essere trafitto dai fari della vettura. Corse senza sapere dove andare; si fermò per riprendere fiato, cercando di fare in fretta un piano, di pensare a una soluzione. Ma non ci riuscì. Intorno non c'erano altri fabbricati, nemmeno una staccionata. Riprese a correre sotto la pioggia cercando istintivamente di mettere la maggior distanza possibile fra sé e le luci dell'auto. Poi trovò il cespuglio. Un cespuglio pieno di spine, che intravide solo perché era ancora più nero del buio che l'avvolgeva e perché un ramo si era impigliato al cappotto. Da un punto imprecisato Andy continuava a chiamarla: «Rue... Rue...» Ma la pioggia portava via la voce, non lasciava capire da dove proveniva, se era vicina o lontana. Rue si rannicchiò, quasi appiattendosi, contro il piccolo rovo, rimproverandosi di essere rimasta troppo vicina ai distributori. La pioggia torrenziale attutiva il rumore dei passi, ma la voce si faceva sempre più vicina, tanto che ora Rue percepì addirittura uno strano tono accorato: «Rue, non avere paura... Dove sei, Rue?... Vieni fuori, non voglio farti del male...» Era tanto vicina, che lei non osava più muoversi, neanche per andare alla ricerca di un nascondiglio più sicuro. Tra pioggia e oscurità, il tempo passava, ma a lei sembrava si fosse fer-
mato. Sentì uno strano rumore, ma era quello del suo cuore che batteva all'impazzata. A un certo punto pensò che Andy si fosse allontanato e stava per distendere i muscoli irrigiditi, quando lo risentì. E anche piuttosto vicino. «Rue, dove sei andata? Non voglio farti male. Non avere paura...» Era un mormorio strano, non del tutto comprensibile, e anche monotono. A un tratto cessò, e lei capì che l'uomo stava cercando una nuova tattica, buttandosi una volta in una direzione e una volta in un'altra. «Lo so che sei qui. Non hai avuto il tempo materiale per allontanarti. Devi essere qui attorno... Avresti paura a inoltrarti nei campi al buio... Eccoti!» Il grido fu quasi di trionfo. L'aveva vista, aveva scorto la macchia più nera del buio... Invece no, anche se le passò talmente vicino che quasi la sfiorò. Andy prese a esplorare molto più in là dei distributori, passando davanti al misero rovo un centinaio di volte. Rue constatò che era proprio la sua dimensione ridotta a non attirare l'attenzione dell'uomo... A meno che non andasse proprio a finirci sopra. D'improvviso si domandò se avesse o no lasciato staccato il telefono perché potessero rintracciare il numero, e fu presa dall'angoscia, perché non riusciva assolutamente a ricordarlo. Poi, d'un tratto, si rese conto che da un po' non sentiva più Andy: se n'era andato o era un trucco? Attese rattrappita, cercando di continuare a respirare piano-piano e di restare immobile. E fece bene, perché la voce disse sonora, malgrado la pioggia: «Questa volta ti ho presa!» E di nuovo rise con quella specie di sogghigno, ma si spostò di lato, allontanandosi. In un certo qual senso era perciò quasi preparata quando lui gridò forte: «D'accordo, hai vinto tu. Me ne vado. Mi senti? Puoi venire fuori: io me ne vado.» Per un istante fu sul punto di credergli, specie quando la macchina si mise in moto e si allontanò lentamente sulla superstrada; ma l'istinto le disse di non muoversi. Rimase rannicchiata dov'era, intirizzita, ma in grado di respirare più profondamente. L'auto, a un certo punto, sterzò bruscamente, fece un'inversione a U con la luce dei fari che scorreva su tutta la zona piatta e deserta, frugando nel buio alla ricerca di una figura in movimento. Quelle due spade luminose passarono anche sul rovo, tanto che Rue riuscì a vederne l'ombra e, un po' più scura e netta, anche la propria, e persino l'erba a pochi centimetri dal volto. Le sembrò addirittura che si soffermassero più che altrove, tanto da farle temere di essere stata scoperta. Invece ripresero la loro corsa.
Andy tornò indietro molto lentamente, si fermò e scese. Lei sentì sbattere la porta, poi, per un po', nulla. Poco dopo un rumore di passi che si avvicinavano e la voce di Andy che diceva fra sé: «È solo un rovo... Troppo piccolo... Rue, dove sei? Io devo trovarti! Io non voglio, non l'ho mai voluto, nemmeno con Crystal, ma sono stato costretto. Non sono stato io a volerlo, è stata Crystal... Insisteva, insisteva! Non c'era altro modo per liberarmi di lei! La cosa avrebbe... Rue... Rue!» Andò a sbattere contro il cespuglio impigliandosi. Andy si chinò imprecando, cercò di staccare la stoffa dal rovo, e sfiorò con la mano il viso di Rue. Lei urlò. Urlò contro la pioggia e contro il buio. Un buio che divenne nero come l'inchiostro, un torrente d'inchiostro che la sommerse e nella quale si perse insieme a tutto il suo terrore. Poi in tutto quel nero penetrarono rumori, luci, voci, passi veloci, rombi di motori, motori di auto, molti, con fari grossi e potenti, che si affollarono nella piccola area nuda illuminandola tutta e creando un gran fermento. C'era qualcuno che la sosteneva, ma non era certamente Andy. «Rue? Come ti senti, Rue? Ti ha fatto male?» Non poteva essere Brule, eppure era proprio lui... Ma lei, dov'era stata lei? Come poteva esserci tutto quel trambusto, se lei, prima, non aveva sentito nulla? «Devo essere svenuta... Mi ha scovata. È qui.» Era convinta di parlare chiaramente, ma Brule non la sentì, perché la teneva stretta, col viso contro il suo. Disse solo, e sembrò un gemito: «Mio Dio!» Le luci la confusero; tutt'attorno c'erano uomini che gridavano, che si muovevano a gruppi. Brule la tastò tutta velocemente continuando a farle domande per sapere se non si era fatta male... Lei cercò di rispondere, ma era ancora estremamente confusa quando lui la portò alla macchina, la fece salire, andò a sedersi accanto e gridò a qualcuno fuori: «Porto a casa mia moglie. Ci troverete là.» Non la lasciò parlare. Non le lasciò dire una parola per tutto il tragitto veloce sotto la pioggia sferzante nel buio della campagna e, finalmente, nelle strade illuminate della città. La porta di casa era spalancata. Anche lì c'erano luci, gente, confusione; ma solo per un momento. Perché si ritrovò subito nella piccola camera degli ospiti, dove c'era una cameriera, e Madge... e Brule che dava rapidi ordini.
Qualcuno, forse Madge (ma possibile che ci fossero dei segni di lacrime sulle sue guance paffute?) l'aiutò a svestirsi e a infilare una calda vestaglia di lana. Brule stesso portò una bacinella bianca, e qualcuno vi versò dentro dell'acqua calda, mentre lui svitava il coperchio di un vasetto di vetro con la scritta "Senape" sull'etichetta. «Immergi i piedi» ordinò lui chinandosi a togliere le pantofole. «Oohhh!» «Lo so che è calda, ma devi resistere.» «Brule, io devo sapere tutto...» «Tieni dentro i piedi.» Chino com'era, sollevò la testa. «Ne hai tutti i diritti. È stato Andy... stai ferma. Ora ti dico tutto.» Provò l'acqua con una mano e le immerse i piedi più a fondo. «In realtà, è tutto molto semplice. Però la cosa è venuta alla luce solo questa sera, dopo che tu te n'eri... dopo che tu eri uscita. La verità usa vie veramente strane per convincere gli uomini, per farci capire che non è possibile distruggerla. Questa volta si è servita della malachite.» «Mal...» «Sì, è stata la malachite, e il fatto che Funk abbia lasciato le indagini qui per occuparsi dei furti avvenuti nel guardaroba del "Town Club".» «Che cos'è la malachite? Brule, quest'acqua scotta!» «No, non scotta. Stai ferma. La malachite è una specie di tintura secca, una polvere; l'avevano sparsa su tutte le cose esistenti nel guardaroba del mio club perché c'era stata tutta una serie di piccoli furti e speravano di poter smascherare il ladro senza dover ricorrere alla polizia. Pensavano si trattasse di qualcuno del personale, un cameriere e un fattorino... Ad ogni modo quella polvere è finita anche sul cappotto di Andy, che proprio quel giorno doveva aver dato un appuntamento a Julie...» «Sì, c'è la lettera. Chissà cosa ne ho fatto...» Ci ripensò. «L'avevo prima...» «Guarda nel cappotto, Madge» disse Brule. E Madge cercò nelle tasche del cappotto e ne tirò fuori un pezzo di carta appallottolato, fradicio d'acqua. «È questa?» Lo era. Brule la lesse. «È stato Andy a scriverla?» «Sì.» Brule non le domandò come potesse esserne sicura. Continuò: «Quando si sono incontrati, Julie deve aver toccato il cappotto, deve avergli posato le mani sul braccio.»
«Malachite...» «Ah, sì. È una polvere che aderisce alle mani, e quando queste sudano o vengono lavate, si trasforma in tintura e diventa verde. È un vecchio stratagemma, ormai superato da metodi più moderni, ma, per fortuna, ricordato ancora dal vecchio portiere del "Town Club". Non è stato troppo efficace, come ha dovuto convenire, perché l'aveva distribuito con tanta larghezza che, invece di trovare subito il ladro, si è trovato sommerso dalle proteste dei soci. Di parecchi, perlomeno, che avevano pranzato al club il giorno in cui lui aveva innescato la sua piccola trappola, e si erano poi ritrovati con delle strane strisce verdi sulle mani. A cinque o sei di essi venne detta la verità, e fra quei cinque o sei c'era anche Andy, che aveva evitato l'incidente per puro caso, perché si era messo i guanti prima ancora di mettersi il cappotto. Dopo l'esito sfortunato, il portiere ha lasciato perdere la sua malachite, ma non avremmo mai saputo nulla se al club non si fossero infine decisi a rivolgersi alla polizia. Fra l'altro, nessuno dei soci si fece mai vivo con la polizia, perché il particolare delle macchie non era stato riferito ai giornali. «Comunque il portiere ricordava benissimo che Andy aveva pranzato là il giorno della morte di Julie, mentre Andy aveva detto alla polizia di aver pranzato in un piccolo ristorante sul Michigan Boulevard. Hanno perso un sacco di tempo per controllare quella storia, ma, quando l'hanno scoperta, quella bugia si è rivelata molto importante: infatti Andy aveva saputo della malachite usata al club e anche delle macchie sulle mani di Julie, e sapeva perciò del pericolo che correva. «Quando Rachel ha ripulito e rimesso a posto la camera dopo il delitto, nello scuotere i cuscini della poltrona sulla quale Andy aveva posato il cappotto, si è ritrovata anche lei con le mani macchiate. «Noi pensiamo che Julie sapesse qualcosa, sapesse come Andy aveva dato il veleno a Crystal...» «Io lo so» lo interruppe lei a bassa voce. E raccontò tutto, mentre Brule rimaneva ad ascoltarla senza fare domande. «Immaginavo si trattasse di qualcosa del genere. Qualcosa che sarebbe stato addirittura ovvio quando tu e Julie aveste messo insieme i vostri ricordi. La faccenda della medicina era così semplice che Andy non poteva permettere che voi due vi vedeste e parlaste di quanto era accaduto quella sere, di come e quando quella medicina era stata preparata. Povera Julie, dilaniata tra il sospetto e il fascino di Andy!»
Fece una pausa. «Il fascino di Andy» ripeté. «Troppo fascino, troppa ambizione del tipo sbagliato, e troppo poco coraggio...» Immerse una mano nell'acqua e si voltò verso Madge. «Dammi altra acqua calda.» Poi riprese: «È una pista diretta quella che collega Andy, Julie e la casa. La chiave supplementare, quella che non si riusciva a trovare, l'aveva lui... Chissà, forse gliel'aveva data Crystal... Ha fatto entrare Julie senza avvisare nessuno, immaginando, molto probabilmente, che sarebbe morta prima che qualcuno potesse vederla, o prima che lei potesse vedere te. Forse lei ha insistito per venire da te, e lui l'ha portata direttamente qui dal ristorante pensando che tanto non poteva più correre pericoli. Se Gross fosse arrivato dieci, o anche solo cinque minuti dopo, Julie non sarebbe più riuscita a vederti. Però non ha potuto far altro che ripeterti le parole che le aveva detto Andy. Era già troppo stordita, ormai.» Bussarono alla porta. Madge andò ad aprire: era Guy Cole. «Il barista lo ha identificato. Gli avevano promesso di lasciarlo libero se diceva la verità, e lui ha affermato di essere sicuro che l'uomo con Julie era Andy. Come state, Rue? Vorrei scambiare due parole con voi...» «Più tardi» tagliò corto Brule. «Chiudi la porta, Madge.» «Aspetta un momento: non ho finito. In tasca aveva una bustina di fiammiferi, una di quelle che quel ristorante dà in omaggio per farsi pubblicità, e Andy, prima, aveva detto di non averlo nemmeno mai visto quel locale.., Ecco come stanno le cose. Rue, voi...» «Ho detto "dopo"» ripeté Brule. «Adesso fuori!» «D'accordo, d'accordo. Ma dopo tutto...» Madge chiuse la porta. Lo sguardo di Rue fu attratto dal tavolino sul quale, tempo prima, era stato posato il vassoio col termos e il bicchiere. «Ma il veleno nel bicchiere, qui in casa... Come avrebbe potuto...» «Lascia che sia la polizia a preoccuparsene, se vuole» fece Brule aggiungendo altra acqua calda nella bacinella. «Secondo me era spaventato. Questa storia è composta di una lunga serie di vigliaccherie. Andy è sempre stato un vile... Ma in casa poteva entrare perché aveva la chiave. Doveva però togliere di mezzo la polizia... e forse avrà pensato che, se allontanava anche me, sarebbe andato più sul sicuro. Per questo mi ha fatto quella telefonata, quella chiamata a vuoto. Perlomeno, questo è quello che abbiamo immaginato noi, ma credo sia andata proprio così. Dammi dell'altra senape, Madge.»
Rue si guardò i piedi arrossati dal calore e tentò di toglierli dall'acqua, ma il tentativo fallì immediatamente. «Non è possibile che sia entrato in casa solo per minacciarmi. Che mi abbia messo il veleno nel bicchiere unicamente per mettermi in guardia.» «Però non è impossibile, visto che l'ha fatto. Forse voleva fare altro, ma non ne ha avuto il coraggio.» Rue ripensò ad alcuni dei momenti da incubo appena passati, a quello strano sguardo di Andy, pieno di ansia e di indecisione. «Credi che avesse realmente intenzione di...» bisbigliò. «No. Certo che no. Andy... Andy non sapeva cosa stava facendo. Dimentica. Dimentica tutto.» «Ma perché ha ucciso Crystal?» Si arrestò subito, ricordando che era presente Madge. Anche Brule guardò Madge, e la ragazzina si avvicinò a Rue. «Rue, sono stata io... Sono stata io ad avvolgere quel bisturi nel tuo foulard e a nasconderlo in camera tua. Alicia lo aveva trovato tra gli strumenti di papà... È stata un'azione abominevole. Io... Io non ho scusanti. Non potrai mai perdonarmi, lo so. Sono stata una pazza!» «Madge ha fatto quanto le era stato detto di fare» intervenne Brule. «Anche se questo non giustifica la sua azione.» Gli occhi scuri di Madge cercarono quelli di Rue con quell'aria implorante che hanno solo i bambini. «Potrai mai perdonarmi? Io non mi ero resa conto di...» Nel calore e nella sicurezza della stanza, Rue avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Tese una mano a Madge che continuava a ripetere: «Non mi ero resa conto... Ero spaventata e... e Alicia...» Con gli occhi fissi su Rue, Brule esclamò: «Adesso vai a letto, Madge. Io non credo che Rue sia inesorabile.» E mentre la figlia scuoteva i capelli neri e usciva, aggiunse lentamente: «Sarai inesorabile, Rue?» Nella piccola stanza calda, continuavano ancora ad aleggiare molte cose rimaste in sospeso. Brule si decise. «Voglio che tu sappia tutto, Rue. Vedi, io ho sempre saputo che Andy aveva un motivo per volersi liberare di Crystal. Ecco cos'è stato: che ha dovuto liberarsi di lei. Crystal... Crystal ha sempre adorato essere al centro dell'attenzione; nel caso di Andy, quando mi sono accorto che la cosa era diventata così seria, era ormai troppo tardi. Credo che anche lui abbia la sua parte di colpa. Prima è stato lusingato, addirittura compiaciuto; si è spaventato solo quando si è accorto della forza di ferro
che Crystal aveva quando voleva qualcosa, quando si è reso conto della sua enorme, addirittura feroce forza di volontà. Anch'io ho la mia brava parte di colpa; perché ho sempre lasciato che le cose andassero come andavano anche quando ho visto la piega che stavano prendendo. Pensavo che prima o poi lei avrebbe troncato, come aveva già fatto in passato con... con altri. Non so cosa possano averti detto Andy o Alicia, ma l'unica mia grande colpa sta nel non essere intervenuto in tempo, nell'avere lasciato arrivare le cose al punto in cui sono arrivate. Vale a dire al punto in cui Crystal aveva deciso di divorziare da me per sposare Andy. Ma lui sapendo che la sua carriera dipendeva da me, sapendo da che parte era imburrata la sua fetta di pane, era egualmente deciso a impedirglielo. Vedi, Crystal aveva speso la maggior parte del suo capitale, ragione per cui Andy non avrebbe, per così dire, potuto camminare sul velluto. Crystal aveva attinto alle proprie sostanze a piene mani: continuava a dare soldi ad Alicia, a dare soldi ad Andy...» «Ad Andy?!» «Oh, sì. Crystal aveva il complesso dell'imperatrice per quanto riguardava il denaro. Qualche volta ho addirittura fatto fatica per riuscire a pagare certi suoi conti... Ma questo le dava un diritto extra su Andy: era un altro debito di gratitudine che lui le doveva. Ma, a parte questa casa e il legato lasciato ad Alicia, non rimaneva molto altro; per testamento lasciava a me tutto quanto aveva e, anni fa, quand'è stato redatto, rappresentava una cifra considerevole; quando è morta la cosa era ben diversa. In breve, se Andy avesse acconsentito che lei divorziasse da me, si sarebbe trovato sposato con una donna che non amava, una donna con vent'anni più di lui, una donna con gusti assai costosi e pochi soldi, e con una carriera rovinata. In realtà non so come mi sarei comportato con lui; forse avrei continuato a tenerlo in studio con me. Ero così stufo di... di tutto, che non m'importava più nulla di quel che accadeva. Ma lui non lo sapeva. Credo che, quando Crystal si è ammalata, abbia pensato che la morte gli avrebbe semplificato le cose. Ma lei non moriva mai e perciò...» «Ma Alicia...» mormorò Rue senza sapere come continuare. «Alicia... Io non potevo difendermi davanti a Steven, e tu non volevi sentire cos'avevo da dire. Non potevo rubare a Steven le sue ultime illusioni su Alicia. Non potevo dirgli...» fece una pausa. «Dirgli che cosa?» Brule, chino ai suoi piedi, le prese una mano, guardandola fissa negli occhi con lo stesso sguardo implorante che aveva avuto prima Madge. «Ti
prego, cerca di capirmi. Alicia... Alicia era qui, era sempre qui quando io ero solo; sempre divertente, sempre simpatica, una cara amica. Gradualmente, non so nemmeno come, ho finito con l'accettare quel che lei mi offriva. Non l'amavo, e credo che neanche lei mi amasse, a parte il fatto che Alicia è una di quelle donne che amano soltanto se stesse. Siamo stati insieme parecchio, e quando Crystal ha cominciato a insospettirsi e a fare domande, Alicia ha preso al laccio Steven con la stessa facilità con la quale avrebbe messo il laccio a un cane fiducioso.» Alicia non voleva perdere l'amicizia generosa di Crystal, e questo servì a mantenergliela. Non che Crystal volesse avermi per sé, no; ma era una donna vanitosa e più vecchia di me, e non voleva che le fossi portato via da una donna più giovane. Ma col fidanzamento di Steven e Alicia, fu tutto a posto. Non so dirti come mi sono sentito per tutto quel periodo; più che altro mi sentivo stanco e intrappolato in una trappola che mi ero costruito con le mie stesse mani. Ad ogni modo Alicia cercava sempre di rafforzare quel legame strano e indefinibile che esisteva fra noi, tanto che, alla morte di Crystal, mi sentii in dovere di chiederle di sposarmi, anche se non l'amavo. La cosa avrebbe fatto piacere a Madge, ma Alicia rifiutò. Credo sospettasse che fossi stato io a uccidere Crystal e... e per amor suo. E io credetti che..." Chinò la testa e l'abbandonò tra le mani di Rue. «Dopo... È di questo che ti devo chiedere perdono. Vedi, io pensavo che se avessi sposato un'altra, avrei posto fine a quel complicato rapporto con Alicia. Devi credermi, non è mai stato quello che si potrebbe veramente definire una relazione; è stata una cosa completamente senza coinvolgimenti affettivi, senza amore da parte mia.» «E Steven?» bisbigliò Rue. Brule rigirò il volto nelle sue mani. «Steven... Non potevo andare da lui e dirgli: "Senti, devi rompere il fidanzamento con Alicia perché... perché lei viene a letto con me". E, a dire il vero, non me ne importava molto. Non m'importava molto di niente. Ero stanco di lavorare come un cane da anni e non provare che stanchezza, delusioni, vergogna, e non godere niente di quanto mi ero guadagnato. Tutti quegli anni di duro lavoro, solo per arrivare e un punto morto. Non avevo niente che valesse, solo Madge. E lei, allora, era così attaccata a sua madre. Ero stato troppo ambizioso. Io...» si interruppe. Poi, semplicemente, girò la testa sulle mani di Rue, e gliele baciò. «Io voglio te, Rue.» E lei sentì le lacrime scenderle sulle guance. Brule alzò lo sguardo, fissandola dritta negli occhi con sguardo incerto.
Rue non lo aveva mai visto incerto! Poi lui si accorse delle lacrime. Le toccò le guance con le dita, si alzò, la prese fra le braccia e la baciò sulla bocca. «Ti amo, Rue.» Il cuore di Rue, impazzito, si ripeteva "io ti ho sempre amato. Ti amo da sempre, da sempre!", ma lei non pronunciò una parola. Cercò invece di spostare i piedi, ma lui se ne accorse, si chinò, prese fra le mani le caviglie snelle e le risospinse dentro l'acqua calda. Poi si alzò e andò a suonare per Gross, e ordinargli un mucchio di cose. Quando arrivarono, mescolò misteriosamente acqua calda e qualcosa che profumava di limone in un bicchiere alto. «Bevilo.» Lei obbedì. Obbedì perché era tra le sua braccia; perché era lui a sostenerle il bicchiere; perché continuava a guardarla come non l'aveva mai guardata. Nel calore della stanza fu colta del sonno. Brule continuò a tenerla stretta. «Faremo un bel viaggio. Sei mai stata in Europa, Rue? Andremo in Francia, ci fermeremo in una spiaggia piena di sole, in riva a un mare incredibilmente azzurro. E quando saremo stufi, ce ne andremo in un altro posto, e poi in un altro e...» «E poi a casa.» «E poi a casa. Compreremo una casa in campagna vicino a un fiume. Una casa in mezzo ai fiori, una casa dove entri sempre il sole; una casa solo per noi.» Una casa solo per noi: cinque parole che andarono a imprimersi nella sua mente e nel suo cuore, e che la seguirono anche nei sogni. FINE