JOHN PASSARELLA LA PIOGGIA DI WITHER (Wither's Rain, 2003) Prefazione La donna nera Ciò che non si conosce, inquieta. Ci...
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JOHN PASSARELLA LA PIOGGIA DI WITHER (Wither's Rain, 2003) Prefazione La donna nera Ciò che non si conosce, inquieta. Ciò che non si può conoscere, terrorizza. E al contempo attrae. Verità trite ma incontestabili. Tra le creature del popolo della notte, materia d'incubo, genìa inquieta dall'anima nera come la pece, ve n'è molta parte che s'offre al vorace appassionato d'orrore con la consolazione (tenue ma concreta) di un'iconografia stabile, levigata nel tempo e ormai per lo più salda. Se il vampiro è stato ormai infinite volte uomo e donna, selvaggio e civile, esteta e distruttore, declinato in molteplici versioni pop almeno quanti furono i suoi abiti romantici, tuttavia non ha mai perso i lunghi canini aguzzi, la sete di sangue, la pelle pallida e sottile. Frequenti i mantelli, i lunghi capelli corvini, le labbra carminio. Diviene pipistrello, a volte lupo. Ama le belle donne. Ancor più semplici sono i licantropi, stabilmente legati ai cicli lunari, ennesima espressione letteraria della dualità dell'anima di ciascun uomo. Condannato da secoli di religione a vertice della creazione, e tuttavia innegabilmente animale, l'uomo davvero si trasforma, schiavo della propria chimica corporea, drogato di testosterone e adrenalina. Incatenato a bisogni primari sotto l'abito cortese della civilizzazione. Licantropo senza via d'uscita. E poi il mostro di Frankenstein, figlio della hubris che porta lo scienziato a guardare Dio negli occhi. Una montagna di carne morta, spinta alla luce e destinata alla caduta. Rigide movenze in un corpo monumentale e decadente, una mappa di cicatrici sulla pelle, fronte ampia e squadrata, mani grandi. E, nell'immaginario collettivo, lunghe braccia tese a guidare una testa vuota di pensiero. Vampiri, uomini lupo, rozze creature (ri)portate in vita: spaventano d'un terrore che conosciamo. Noi appassionati siamo loro affezionati anche per questo: sono temuti, sì, ma anche amati e irrinunciabili come i compagni perduti dei giochi d'infanzia. Consueti e comodi come vecchie pantofole, danno l'impressione di poter essere tenuti sotto controllo. Ma per chi ha davvero voglia di lasciarsi raggelare il sangue, c'è una sfida da accettare. Ed è la sfida delle streghe.
La strega è come l'uomo nero: un'incarnazione del terrore che nessuno può descrivere. La strega abita le filastrocche troppo spaventose per essere recitate. Vive nelle leggende di paesi sperduti tra le montagne. Sconvolge i sogni dei bambini, impareggiabile strumento di paura e controllo per genitori crudeli: «Se non stai buono arriva la strega e ti porta via...». Soprattutto la strega non ha volto. Non è certo un caso che alcuni dei film di genere più inquietanti degli ultimi anni ruotino attorno a malefiche megere dai magici poteri che non palesano mai la loro presenza. Si pensi a The Blair Witch Project, supremo esempio della forza di suggestione che il personaggio reca con sé: non solo è un film che sostiene una suspense soffocante senza mai mostrare nulla, ma costituisce uno dei rarissimi casi storici di fiction che per lungo tempo è stata creduta un documento autentico. Ma si pensi anche a Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir (a sua volta ispirato a una storia vera), in cui tre allieve di un collegio spariscono insieme alla loro istitutrice durante una gita ai piedi di un massiccio roccioso. O persino al recente Hotel di Jessica Hausner, dove un'impiegata assunta in un albergo di montagna apprende a proprie spese le conseguenze della maledizione della strega di paese, imprigionata in forma di marionetta in una teca di vetro. Insomma, quando si parla di streghe, al cinema, in letteratura o nelle leggende di paese, si parla di persone che scompaiono senza lasciare traccia, si parla di creature senza forma. In questo contesto, e nel magro corrispettivo letterario in cui si specchia (quasi che gli autori stessi avessero timore della materia), si possono collocare le ragioni dell'enorme successo riscosso dalla trilogia di Passarella in tutto il mondo, una saga che con La Pioggia di Wither approda al secondo segmento. Passarella, lo scoprirete, ha una scrittura fluida e regolare, ma contaminata da mille riferimenti che spaziano dal cinema al fumetto e alla cultura classica. È impossibile, ad esempio, non riconoscere nelle oscure creature notturne e alate del primo romanzo della saga, Whiter, l'ispirazione alle virgiliane Arpie. Creature mitologiche che Passarella inquadra però nel contesto pop per eccellenza (specie nel panorama della fiction americana): quello dei college universitari. Ma non mancano nelle sue pagine nemmeno i tradizionali licantropi, o gli zombie, in grado di reggersi in piedi pur riempiti di piombo o con la faccia spappolata, o ancora le stolide e violente gang di quartiere di kinghiana memoria, per arrivare persino, su tutt'altro versante, a echi degli intramontabili Peanuts, quando, nel libro che avete
tra le mani, Kayla apostrofa ripetutamente l'amica Wendy con un nostalgico: «Ehi capo...». Contaminazione dunque, riferimenti "alti" e riferimenti popolari, secondo un'operazione di "rimasticamento" della moderna cultura di massa, multistratificata fino al caos, che conduce a esiti che richiamano alla memoria il cinema di Tarantino o le divertite riflessioni sui meccanismi del genere Scream di Wes Craven. E tanto più, quanto più i toni da favola gotica (seppur annegata nel sangue) del primo romanzo, si mutano nella Pioggia di Wither in un tessuto narrativo clamorosamente ammiccante al pulp, con parentesi di sfacciato erotismo e sparatorie feroci tra uomini e "mostri" che ricordano da vicino la mattanza goliardica e demente, in definitiva cult, di Dal Tramonto all'Alba. Il che ci porta a una facile disamina dell'evoluzione dello stile di Passarella: La Pioggia di Wither è un romanzo adulto, da ogni punto di vista. In primo luogo perché non accetta compromessi rassicuranti nella descrizione di quel Male Assoluto che è incarnato dal sangue di Wither: la ferocia della creatura lascia dietro di sé solo orrore e terra bruciata, e a farne le spese sono uomini, donne e bambini. In secondo luogo perché di quel male accentua la descrizione del potere di fascinazione: la sua incarnazione non è più una rozza e mastodontica creatura partorita dall'Inferno, ma una diciassettenne dai capelli rossi e dal corpo statuario che usa l'altrui desiderio a volte come un cappio, a volte come uno strumento di controllo. Ogni cosa è resa esplicita, nulla è accomodato: una versione cinematografica fedele non potrebbe che essere vietata ai minori. In terzo e ultimo luogo, La Pioggia di Wither è un romanzo adulto nello stile: la prosa fluida e generosa di Wither (che di Passarella, vale la pena ricordarlo, era stato il clamoroso esordio, subito insignito del Premio Bram Stoker) si è asciugata ed è divenuta più tagliente, e se quel primo romanzo era un libro "da comodino", una splendida lettura da spezzare e riprendere in mano sera dopo sera, La Pioggia di Wither costituisce un romanzo horror di impressionante geometria narrativa, una vera e propria droga che dà immediata dipendenza, costringendo il lettore appassionato a un consumo compulsivo e senza soluzione di continuità. È facile quindi scommettere che questo volume non durerà a lungo al lettore, spingendolo a un'attesa fremente della terza parte della saga, Wither's Legacy (prossimamente edita ancora da Gargoyle). C'è infine un ultimo aspetto della saga di Passarella che mi sembra vada
messo in evidenza: si tratta di uno dei rari e sempre graditi casi di fiction in cui sia l'Eroe che la sua Nemesi sono femmine. E non mi sembra sia cosa da poco. Quel processo di emancipazione che ha intriso di sé la storia sociale dei Paesi industrializzati negli ultimi cinquant'anni, sta percorrendo un sentiero parallelo, seppur assai più impervio, anche nell'immaginario collettivo legato ai generi cine-letterari tradizionalmente appannaggio di figure maschili, ipertrofiche nel fisico e nell'ardimento: ovvero horror, action e fantascienza. E se quest'ultima ci ha regalato, almeno su pellicola, uno dei più mirabili scontri a fuoco senza ausilio di testosterone, ovvero il titanico confronto tra il tenente Ripley e la Regina Madre in Aliens - Scontro Finale, mentre è stato il regno dell'action a ospitare le gesta della ineguagliabile Beatrix Kiddo (in Kill Bill, e rieccoci con Tarantino), è vero anche che il territorio fantasy maggiormente aperto alle imprese del gentil sesso si è dimostrato, negli ultimi dieci anni, proprio quello rosso sangue dell'orrore. Restando solo al grande schermo, la lista è lunghissima: dalla Franka Potente di Creep, alla Kate Hudson di The Skeleton Key, dalla rude e sensuale Milla Jovovich di Resident Evil, fino ai clamorosi esempi della gelida Lady Vendetta di Park Chan-Wook o delle impavide speleologhe di The Descent. E potremmo aggiungere alla lista la Charlize Theron di Aeon Flux (di nuovo sul versante sci-fi) o la Keira Knightley dell'imminente Domino (tornando all'action). Tuttavia, anche se le eroine non sono mancate, molto più rare sono state le Avversarie in gonnella, e alla ricerca di malefiche presenze femminili degne dell'immaginario collettivo la memoria inceppa, rotolando istintivamente fino alla regina di Biancaneve. E qui la saga di Wither si inserisce con mirabile puntualità, presentandoci una delle più orride, feroci e spietate nemiche dell'umanità che siano mai comparse su carta o pellicola (e anche su quest'ultima Wither probabilmente farà la sua apparizione, visto che i diritti del libro sono già stati opzionati dalla Columbia Pictures): lo spirito di una strega le cui radici affondano nella notte dei tempi, la cui anima si è tramandata per infiniti popoli e culture, attraverso i secoli, per tramite del sangue. Dunque, voraci lettori, fate attenzione. Perché quando l'orrore è femmina è molto più potente: è una madre folle che sussurra nel buio, una vecchia storpia e malvagia nascosta nello scantinato, un'amante perversa affamata delle vostre carni. È la donna nera. Se avete il coraggio fatevi avanti: Wither vi sta aspettando.
GIORGIO VIARO* * Giornalista e saggista. Dedicato a Emma Faith Passarella che è giunta nella nostra vita proprio quando avevamo bisogno di lei Ringraziamenti I miei ringraziamenti vanno a Joe Gangemi, per avermi convinto che la storia di Wendy non era finita; alla Garden State Horror Writers, per avermi sorpreso con un insolito cameratismo; ai generosi dipendenti della Lehigh Press, che hanno tenuto presente un loro ex-collega nei loro pensieri e nelle loro preghiere; a Gordon Kato, per il suo immancabile sostegno e i suoi saggi consigli; a Mitchell Ivers, il mio revisore, per aver creduto in questo libro; a Danielle Naibert, per avermi dato la prospettiva wicca; a Gail Hochman, per avermi invece dato la prospettiva editoriale; a Yvonne Navarro, Dough Clegg e Jeff Mariotte, per avermi dato la prospettiva dal punto di vista dell'autore; a Jeff Richards, per le ricerche sul web; a Dan Keohane, per i contatti nel Massachusetts; a Greg Schauer, per aver preso il treno; e infine ad Andrea, per il suo amore e i suoi incoraggiamenti. Uno speciale ringraziamento ai dottori Anthony Avellino, Ana Janss, Donna Stephenson, Ken Cohen e Ben Carson, per aver dato speranza alla mia famiglia nei suoi giorni più oscuri. Vidi pallidi re, ed anco prenci, pallidi guerrieri, tinti tutti del pallore della morte; Gridavano: «La Bella Dama senza Misericordia ti tiene in suo potere». JOHN KEATS E quale rozza bestia, giunta infine la sua ora, striscia verso Bethlehem per vedere la luce? WILLIAM BUTLER YEATS Perché colui che vive più di una vita più di una volta deve morire.
OSCAR WILDE PROLOGO Windale, Massachusetts 31 ottobre 1999 Il sangue, nero come petrolio grezzo, scorre con una vita e una volontà proprie, cercando un percorso attraverso le macerie dell'edificio crollato, non ancora prigioniero della forza di gravità e tuttavia aiutato da essa nel superare di tanto in tanto una roccia quando non si presentano altre vie di sfogo. Pur essendo un'entità incompleta, quel sangue ha comunque una consapevolezza di sé e un istinto che lo pungola, lo induce a cercare il calore della carne umana; assenti dalla sua consapevolezza sono invece i ricordi di ciò che è stato e perfino di come sia stato ridotto a quella fragile corsa alla sopravvivenza, su detriti e vetro, terra ed erbacce. Il sangue scorre con la coesione del mercurio e quasi senza rendersene conto cerca al tatto qualsiasi cosa possa indicare una presenza umana nella direzione in cui sta andando, perché senza un caldo ospite umano vivente la sua temperatura sta cominciando a calare, la sua consapevolezza antica di millenni sta svanendo e scivolando nell'oblio... «Fermati, sto per vomitare», disse Angelina Thorne, da dentro il fagotto di coperte in cui era avvolta sul sedile a fianco del conducente a bordo del pick-up azzurro Ford F-150, e la sua voce suonò debole e tremante. «Certo, Gina», assentì Brett Marlin, e fece accostare il furgone al lato di Main Street, oltrepassando una stazione di servizio parzialmente demolita e un cassonetto dei rifiuti stracarico che si trovava al limitare del parcheggio prima di fermare il furgone. Quando abbandonò la presa sul volante, le sue mani si misero a tremare. Sospirando, si protese per aprire la portiera dal suo lato, ma Gina lo afferrò per un braccio. «Cosa c'è?», le chiese. Alla luce del cruscotto il volto di Gina Thorne appariva pervaso da un candore spettrale, perché la sua carnagione, abitualmente chiara, era stata resa ancora più pallida dagli eventi della serata. Cerchi scuri le segnavano gli occhi azzurri tendenti al grigio, e i lunghi capelli di un biondo rossiccio erano arruffati e sudati. «Era già morta, vero? Prima che tu la mettessi nel...». Brett annuì soltanto, incapace di pronunciare ad alta voce quella menzo-
gna. «Era così piccola...». «Troppo piccola», dichiarò Brett, annuendo ancora. «Non sarebbe comunque importato se...». Lasciò che il resto della frase rimanesse sospeso fra loro, inespresso. Parte della menzogna costituiva un carico che avrebbe dovuto portare da solo, ma in qualche modo era convinto che lei sapesse tutto. «È stato per il meglio, vero?», insistette Gina, scrutandolo in volto. «Per il meglio», ribadì lui, con un filo di voce. «Perché abbiamo soltanto diciassette anni, e l'anno prossimo andremo insieme al Danfield. Abbiamo tutta la vita davanti a noi», disse Gina, poi si premette una mano sulla bocca. Di nuovo Brett si protese per aprire la propria portiera, ma Gina scosse il capo e lo trattenne sul suo sedile mentre spalancava con una spinta la portiera dal suo lato. Lasciando cadere le coperte, si diresse barcollando verso il bordo della strada, dove questa intersecava il pendio erboso che saliva fino agli stabilimenti tessili di Windale da lungo tempo abbandonati. Dal momento che Gina voleva restare sola, perfino dopo ciò che avevano passato insieme meno di un'ora prima, e dato che non se la sentiva di rimanere a tu per tu con i suoi cupi pensieri, Brett accese la radio del furgone e premette il pulsante di selezione del canale parecchie volte alla ricerca di qualche canzone rumorosa, finendo per sincronizzarsi sulla stazione locale dei notiziari. «...una tempesta di grandine con chicchi grossi come palle da golf, che ha mandato a monte la sessantacinquesima parata annuale del Re del Ghiaccio, è terminata nello stesso modo misterioso in cui era iniziata. L'insolita tempesta si è concentrata prevalentemente sul centro di Windale e sul percorso della parata, e ha provocato parecchi feriti gravi fra i ventimila spettatori. Molte aree limitrofe sono state a loro volta investite dalla tempesta, che ha scatenato parecchi incendi, danneggiato auto e finestre. Bisognerà attendere domani per avere una stima dei danni riportati dalle proprietà, anche se il sindaco Dell'Olio, rimasto lui stesso ferito a causa della grandinata, prevede che l'ammontare totale dei danni sarà di varie centinaia di migliaia di dollari. Inoltre, un incendio che non è da collegare alla grandinata è scoppiato nel Centro di Salute Neonatale dell'Ospedale Generale di Windale...». «Gesù!», sussultò Brett, e allungò di scatto la mano a spegnere la radio prima di poter sentire altro. Avendo preso una camera all'Harrison Motor
Lodge, lui e Gina si erano trovati il più lontano possibile dal centro di Windale; anche da lì avevano sentito le sirene, ma per loro era stato abbastanza facile supporre che la folla radunata per assistere alla parata del Re del Ghiaccio fosse sfuggita a ogni controllo, e quando Brett aveva saldato il conto del motel, l'impiegato stempiato era rimasto intento a sonnecchiare davanti a un televisore in bianco e nero sintonizzato su un canale che trasmetteva ricette di cucina, con l'audio abbassato. Brett si sedette più eretto sul sedile in modo da poter vedere Gina che stava vomitando, carponi sull'erba. Si erano chiesti se qualcuno si sarebbe accorto del fatto che non erano andati ad assistere alla parata, anche se sapevano che nessuno fra i loro amici e perfino fra i loro familiari si era mai accorto di nulla, dato che Gina era stata molto abile a nascondere il proprio stato. Adesso, in mezzo alla devastazione scoppiata quella notte, la loro assenza non sarebbe mai stata registrata. Ormai i conati erano a vuoto, e tuttavia il suo corpo era ancora scosso da spasmi incontrollabili. Si sentiva dolorante e stanca, voleva soltanto andare a casa e dormire per una settimana, dormire e dimenticare... dimenticare tutto, ma prima doveva riuscire a superare il paio d'ore successivo. Solo quando i conati si furono calmati si rese conto che stava piangendo, lacrime silenziose che lavavano via quello che restava del trucco e cadevano senza rumore sull'erba sotto di lei. Devo controllarmi, disse a se stessa. Non posso permettere che Brett mi veda in questo stato. Abbiamo deciso tutto insieme e abbiamo agito insieme. Non posso venirgli meno e andare in pezzi proprio adesso. Gina si alzò in piedi con le gambe che le tremavano e frugò nella tasca dei jeans alla ricerca di un fazzolettino umidificato, che usò per ripulirsi prima gli occhi e poi la bocca. Il sapore di bile le bruciava ancora in gola e desiderava disperatamente un gin e menta, o magari un bicchierino di vodka, o addirittura tutti e due. Stava per tornare al pick-up quando si bloccò nel sentire il suono di un pianto flebile. Spalancata la portiera del furgone, guardò verso Brett, che aveva i capelli biondi tutti arruffati per averci passato in mezzo le mani troppe volte; il volto dalla mascella quadrata aveva un'espressione tesa, gli occhi castani erano pieni di preoccupazione. «Hai sentito?», chiese Gina. «Cosa?». «Un pianto... Mi è parso di sentir piangere un neonato. Riesco ancora a sentirlo...».
«Gina, aspetta...!». Lei volse le spalle al furgone e, mentre già Brett apriva la portiera dal suo lato, si diresse verso il suono, verso il cassonetto posizionato al limitare del parcheggio della vecchia stazione di servizio. Da quando aveva perso la sua principale fonte di introiti, nella fattispecie il traffico quotidiano delle persone che lavoravano allo stabilimento, la stazione di servizio aveva chiuso bottega, ma adesso pareva che finalmente qualcuno si fosse deciso ad acquistare quella proprietà e la stesse ripulendo per avviare una nuova attività. Lo sguardo di Gina venne attratto lungo il crinale della collina, verso la fabbrica abbandonata, dove le parve di vedere un filo di fumo levarsi a spirale nel cielo notturno. Impossibile, pensò, lo stabilimento è chiuso da anni. La sua attenzione tornò quindi a concentrarsi su quel pianto flebile e sottile, un suono tanto sommesso da sfiorare in maniera tormentosa la sua sfera cosciente, quasi un ricordo e tuttavia non proprio una speranza. Dopotutto, per quanto detestasse ammetterlo a se stessa, se si fosse ritrovata in quella situazione, avrebbe rifatto la stessa scelta. «Gina, fermati!», chiamò Brett. «È soltanto la tua immaginazione». «Sono certa di aver sentito qualcosa», borbottò lei, continuando ad avanzare con passo lento e silenzioso, quasi furtivo, e sbirciò oltre il bordo del cassonetto, trovandosi a contemplare un mucchio di detriti di materiali edili: assi spaccate, chiodi arrugginiti, blocchi di assicelle ammuffite, strisce di metallo irregolari... Era impossibile che là dentro ci fosse qualcosa di vivo. Ciononostante, si protese in avanti afferrandosi al bordo del cassonetto e sentendo il gelo del metallo ferirle i palmi delle mani. Sopraffatta da una strana sensazione, come se tutto il suo calore corporeo stesse defluendo nel metallo, rabbrividì con violenza. «Gina!». Qualcosa di freddo e viscido le rivestì le dita, coprendole la mano in un istante. Sorpresa, si ritrasse dal cassonetto, constatando che adesso aveva la mano nera come se l'avesse immersa in una ciotola piena d'inchiostro e dolorante a causa di un formicolio pungente. Incapace di resistere a quel semplice impulso, se l'accostò al naso annusando a fondo: gli occhi le bruciarono e il naso prese a gocciolarle come per un'emorragia improvvisa, ma quando tornò a guardarsi la mano scoprì che lo strano liquido stava fluendo verso l'alto, protendendosi come un'ameba fino a schizzarle sulle labbra e a colarle nel naso e nella bocca. «Gina, che succede?».
Gina avrebbe voluto urlare, ma non poté farlo, perché era paralizzata dalla paura e da qualcos'altro, qualcosa che somigliava a uno stato di estasi indotto da qualche droga. Tremante, mentre un'ondata dopo l'altra di quella sostanza nera le invadeva il naso e la bocca, gli occhi e le orecchie, sentì le ginocchia che le cedevano e gemette. Poi qualcuno le tolse il terreno da sotto i piedi... Accadde in un istante. Brett richiuse con violenza la portiera e seguì Gina verso il cassonetto, riluttante a credere alla realtà della sua allucinazione. Se davvero stava sentendo il pianto di un neonato, quel suono esisteva soltanto nella sua mente. Per quanto avesse agito con rapidità, però, era ancora a qualche metro da lei quando la vide ritrarre di scatto la mano dal cassonetto e non riuscì a raggiungerla prima che lei si portasse al naso la mano rivestita di una sostanza nera. Nel vederla gemere e tremare, Brett scattò in avanti appena in tempo per sorreggerla quando le gambe le cedettero, poi dovette riportarla in braccio fino al furgone per la seconda volta nell'arco di quella notte, come aveva fatto per portarla via dalla stanza del motel. Anni di sollevamento pesi gli avevano però permesso di sviluppare una muscolatura adeguata a trasportarla senza fatica. Adagiandola sul sedile, inclinò ulteriormente lo schienale e le avvolse le coperte intorno al corpo, poi le esaminò rapidamente la mano sinistra, constatando che appariva pallida, ma che a parte questo non aveva niente di anomalo. Quello strato di sostanza nera che gli era parso di vedere doveva essere stato un'illusione ottica creata dal gioco di luci e ombre. Mentre la portava a casa continuò a guardarla con preoccupazione, desiderando che si svegliasse. Finalmente lei batté le palpebre e gli rivolse un sorriso sognante, lo stesso sorriso assonnato e appagato che di solito le affiorava sul volto dopo che avevano fatto all'amore. Era passato molto tempo dall'ultima volta che Brett aveva visto quel sorriso. «Cos'è successo?», chiese Gina. «Hai avuto un collasso, là vicino al cassonetto», spiegò Brett, «e ho pensato che ti fossi tagliata, o qualcosa del genere. Forse però è stata solo la stanchezza», concluse con una scrollata di spalle. «Già, sarà stato sicuramente così», convenne Gina. «Adesso come ti senti?». Lei gli prese la mano destra, che era posata sulla leva del cambio, e la strinse con forza. «Meglio», rispose, mentre il suo sorriso assumeva una sfumatura quasi da rapace. «Molto meglio, Brett. Tu non hai idea...».
Perplesso, Brett sostenne il suo sguardo il più a lungo possibile, prima di essere costretto a riportare la propria attenzione sulla strada. «Bene», commentò infine, pensando che forse si sarebbero potuti lasciare quella notte alle spalle, come se niente di quanto era accaduto si fosse mai verificato. «Stiamo ripartendo da zero», sussurrò Gina. «Un inizio del tutto nuovo, solo che questa volta non rifaremo gli stessi errori». Dall'orlo del baratro stesso dell'oblio, la consapevolezza torna ad affiorare e si espande a precipizio, mentre il sangue nero scorre nelle vene e nelle arterie dell'ospite umano, diffondendosi fino ai confini del suo nuovo corpo, apprendendone dall'interno tutti i segreti e tuttavia avviando già il lento processo di corruzione... Passa del tempo, e i cambiamenti cominciano a dare al sangue nero una motivazione, la consapevolezza ritrova un ricordo perduto, un singolo pensiero, un'identità sotto la quale aveva conosciuto se stesso per trecento anni... E quel nome è Wither... Diario di Wendy Ward 6 novembre 1999 Luna: calante, ultimo quarto, giorno 27 Non so se posso continuare ancora a farlo. Prima, essere una strega wicca significava per me qualcosa di pacifico e sereno, mentre adesso non riesco a superare la paura. Non ho il coraggio di tornare nel bosco per timore delle conseguenze, e non si può essere una vera strega wicca se si teme la foresta. Fino a quando non avrò superato questa paura, che senso ha continuare? Sono passati sei giorni da quando ho... da quando Wither è morta, e mi sento di nuovo normale. Ecco, diciamo che almeno mi sento normale dal punto di vista fisico, perché non sono ancora del tutto convinta della mia sanità mentale, anche se la maggior parte della gente di questa città sarebbe pronta a sostenere che l'ho persa già da anni. La piccola strega, così mi chiamano, o anche in altri modi. Mi vengono ancora i brividi se penso a come mi si è insinuata nella mente, vagliando i miei pensieri e i miei ricordi nel tentativo di sostituirsi a me. Ho ancora degli incubi, ma almeno adesso si tratta di incubi normali, non di quei sogni lucidi a occhi aperti relativi al periodo coloniale di Windale, quando stavo rivivendo l'effettivo passato della vita di Wither. Quei
sogni erano parte del collegamento che Wither aveva stabilito con me... E adesso quella strega è definitivamente scomparsa. Dicono che il tempo guarisce tutte le ferite, quindi sto aspettando di vedere che strada imboccherò adesso. Oggi ho visto di nuovo Alex in ospedale. Ha un'aria così impotente, con tutte e due le gambe e il braccio sinistro ingessati, impotente ma adorabile. Il dottore ci ha detto di aver inserito una mezza dozzina di chiodi di metallo nelle gambe di Alex, e lui ha scherzato sul fatto che adesso non potrà più passare sotto il metal detector di un aeroporto senza causare un allarme generale. Sono felice che non abbia perso il senso dell'umorismo. So che non mi incolpa di niente, ma sono io che non posso fare a meno di biasimare me stessa: Wither lo ha ferito, ha cercato di ucciderlo, solo perché eravamo intimi. Anche dopo che gli avranno tolto il gesso, Alex avrà davanti a sé faticosi mesi di riabilitazione. Karen - o forse dovrei dire la professoressa Glazer? - ha finalmente portato a casa la piccola Hannah. È una cosina deliziosa, e ho promesso alla professoressa Glazer che sarò disponibile come baby-sitter. Se non altro Hannah non ricorderà niente di tutto questo e avrà la possibilità di crescere in maniera normale. Quella di Abby è una storia del tutto diversa. Prima di questi avvenimenti, non ha esattamente avuto quella che si dice un'infanzia modello, ed è abbastanza grande da ricordare come suo padre l'ha trattata e cosa gli è successo, abbastanza grande da rammentare quel mostro, Sarah Hutchins. Sono preoccupata per Abby, e spero che lo sceriffo e la sua famiglia riescano a offrirle il nucleo familiare di cui ha bisogno. Diario di Wendy Ward 21 dicembre 1999 Luna: crescente, secondo quarto, quasi piena, giorno 21 Yule Stanotte ci ho provato, ci ho provato davvero. No, non nel bosco, ho tentato un rito al chiuso. Certo, potrei attribuire la colpa dell'essere rimasta in casa per il rito al fatto che, grazie a Wither, adesso la Gremlin è un blocco devastato di ferraglia distorta. Papà avrebbe avuto un attacco alle coronarie se gli avessi chiesto di prendere la sua Beamer, ma forse avrei potuto ottenere in prestito la macchina di mamma. Non lo so, non l'ho neppure chiesto. Non sono pronta a tornare nel bosco. Non ancora.
Non c'è niente che non vada in un innocuo rito al chiuso (soprattutto quando fuori si gela!). Ho atteso che tutti si fossero addormentati, mi sono fatta un bagno purificante nonostante l'ora tarda, ho preparato lo spazio per il rito e tracciato il cerchio vicino alla mia finestra, in modo da poter vedere il cielo notturno; ho perfino allestito un piccolo altare, con un ramoscello di pino e uno di ginepro. Ho sgombrato la mente, ho trovato il mio centro interiore e mi sono sentita in pace, poi ho invocato gli elementi e ho meditato per un po'. Volevo eseguire un incantesimo di risanamento per accelerare la guarigione di Alex, che soffre ancora molto, ma mi sono accorta che stavo temporeggiando, che avevo paura di effettuare qualsiasi magia, e questo ha rovinato tutto. Ho ringraziato gli elementi e infranto il cerchio. Prima credevo in me stessa, credevo che la magia funzionasse, a volte appena un poco, altre volte in maniera evidente. Questo finché non è arrivata Wither, fino alla notte in cui ha piovuto, in cui ho creduto di essere stata io a far piovere. Credevo di essere riuscita ad attingere a qualcosa di speciale, a un potenziale stupefacente fino a quel momento nascosto, ma quella era la pioggia di Wither, adesso lo so. Fin dall'inizio ha giocato con me, assecondandomi, divertita dai miei piccoli, inutili giochi, mentre era lei a controllare tutto questo potere oscuro. Si può perdere qualcosa, se non lo si è mai posseduto veramente? Diario di Wendy Ward 2 febbraio 2000 Luna: calante, ultimo quarto, giorno 27 Imbolc Siamo troppo vicini alla luna nuova per pensare di tentare qualsiasi rito magico. È un'altra scusa per non eseguire un rito? Forse. Al tramonto ho acceso tutte le luci della casa per celebrare Imbolc, poi mi sono assopita prima di spegnerle e la cosa non è piaciuta molto a papà. Ha detto che tutto il campus poteva vedere la residenza del preside che spiccava sulla collina, illuminata come un UFO di Spielberg (sì, ha detto proprio così, un UFO di Spielberg) in procinto di ricongiungersi alla nave madre. A proposito dell'essermi assopita, adesso i miei incubi non sono più così frequenti, ma quando si presentano sono davvero terribili! Nell'ultimo Wither era un gigante e io ero legata da testa a piedi su un piatto da portata. Lei stava tagliando fette della mia carne e se le gettava nelle fauci spa-
lancate. Mi sono svegliata urlando e non sono più riuscita a dormire per il resto della notte. Non c'è da meravigliarsi se poi mi assopisco alle ore più assurde! Ultimamente Alex riesce a camminare con l'aiuto di un bastone, cosa che lo imbarazza anche se cerca di scherzarci sopra. Si stanca facilmente e alla fine della giornata ha le gambe esauste e il braccio sinistro rigido e dolorante. Zoppicherà per sempre, ma il bastone è solo una cosa temporanea. Naturalmente non potrà più correre, ma è fin troppo impegnato già solo per cercare di mettersi al passo con i corsi. La professoressa Glazer mi ha detto che la crescita di Hannah è fuori scala. La bambina è ancora più alta rispetto alla media di quanto lo era alla nascita, ma a parte questo sembra essere una neonata perfettamente sana. Art è sempre molto vicino alla madre e alla bambina e cerca di aiutarle come può. Credo che si sia presa una cotta per la mia professoressa di letteratura comparata. Ah, mamma e papà mi hanno comprato metà di una macchina (sì, è successo prima dell'incidente delle luci di casa), e io ho acconsentito a rifondere a rate l'altra metà e a pagare l'assicurazione. Credo si fossero stufati di vedermi girare per casa con il muso lungo. Non ho mai parlato loro della mia battaglia contro Wither, perché non pensavo che mi avrebbero creduto, il che non sarebbe sorprendente, considerato che io stessa faccio fatica a crederci pur essendo stata presente! E poi, se pure mi credessero, non mi vorrebbero più perdere di vista. D'altro canto ho dovuto fornire una spiegazione per la totale distruzione della Gremlin. Quindi, considerato che quella macchina era famosa per imballare il motore e bloccarsi nei momenti meno opportuni, ho detto che questo era successo mentre stavo facendo una svolta, che avevo perso il controllo del volante e che l'auto era rotolata giù per la collina, affermando che per fortuna Frankie e io ce l'eravamo cavata solo con qualche taglio e un po' di lividi. Da amica fedele quale è, Frankie mi ha retto il gioco, quindi mamma ha insistito perché la mia prossima macchina fosse più pratica e affidabile, e ha deciso che sarebbe stata una Civic. Io invece ho deciso quale sarebbe stato il colore... nero, naturalmente. È una quattro porte automatica del 1993 che ha fatto appena 150.000 chilometri, e pare che non si sia mai imballata neppure una volta. Ho quasi voglia di ridurre l'ammasso di rifiuti all'interno a un minimo di sei lattine di soda vuote. Nonostante la prevista affidabilità della macchina, papà mi ha comunque fatto due regali che ha riposto nello scomparto portaoggetti dell'auto: un cellulare, da usare «solo per le emer-
genze» e una carta di appartenenza all'Automobile Club. Dal momento che ha la trazione anteriore, la Civic dovrebbe reggere la sfida presentata da queste strade del New England intasate dalla neve. Certo, non è una quattro per quattro, ma quei mostri trangugiano litri di combustibile fossile e non sono per niente rispettosi verso la Madre Terra. Diario di Wendy Ward 21 marzo 2000 Luna: crescente, secondo quarto, giorno 16 Ostara, Equinozio di Primavera La primavera è nell'aria! Oggi ho percorso Gable Road con la Civic per due volte prima di trovare il coraggio di fermarmi e di raggiungere la mia radura personale. È la prima volta che ci torno dal giorno in cui ho incluso Alex nei miei riti, dai guai con Wither. Pensando che avrei potuto cedere alla paura se ci fossi andata di notte, ho deciso di farlo di giorno e, che ci si voglia credere o meno, ho provato un senso di pace, di effettiva appartenenza a quel luogo, che mi ha sorpresa. Wither è scomparsa, sono libera dalla sua influenza e adesso ho bisogno soltanto di togliermela anche dalla mente. Ho raccolto alcuni fiori selvatici che crescevano in quella zona e li ho portati nella mia camera. Il semestre primaverile si sta avviando alla conclusione con alcune buone notizie e con altre meno buone. La buona notizia è che Alex potrebbe tornare da Minneapolis per la sessione estiva - evviva! - per recuperare il tempo perduto a causa della riabilitazione (d'accordo, ammetto che questa parte non è tanto piacevole). Ha dovuto ridurre il carico di classi del suo corso, rinunciando a quelle che gli avevano causato maggiori difficoltà per evitare di perdere l'anno. Spero che riesca a recuperare il terreno perduto durante l'estate, in modo da potersi rimettere in carreggiata per il secondo anno. La notizia cattiva è che la professoressa Glazer ha accettato un'offerta di lavoro ricevuta da Stanford (ecco, è una brutta notizia per me, perché sentirò la sua mancanza). Finirà questo semestre, poi si trasferirà in California. Inoltre pare che avessi ragione riguardo al signor Leeson! Art partirà con loro. Ah, c'è una grossa sorpresa. Quando sono passata a casa della professoressa Glazer per salutarla, ho visto Hannah tirarsi su e camminare intorno al perimetro della stanza, passando da un mobile all'altro per sorreggersi. Intanto ciangottava come fanno i bambini piccoli, anche se mi è parso di
cogliere un «mamma» in mezzo al resto. Mentre stavo giocando a far rotolare verso di lei una palla (baba, che poi lei mi rimandava, mi ha chiamata «zia Wendy». D'accordo, se proprio si vuole sottilizzare, suonava più come «ah-weh», ma Hannah non ha ancora cinque mesi! È decisamente molto precoce! Credo proprio che quello zuccherino mi mancherà moltissimo. Diario di Wendy Ward 30 aprile 2000 Luna: calante, ultimo quarto, giorno 26 Beltane D'accordo, quindi forse domani, il primo di maggio, è davvero Beltane. Il 30 aprile è la data antica, e quest'anno cade di domenica, quindi torna ancora più comoda. E chi può dire che a volte io non possa essere all'antica? Sono occupata, anzi occupatissima, con l'avvicinarsi della settimana degli esami e la scadenza per presentare le relazioni di fine semestre. Sono tutti in preda al panico e i gruppi di studio sembrano soltanto intensificare questo stato d'animo. Oggi sono tornata nella mia radura per un rito di meditazione, indossando la mia solita vestaglia e una ghirlanda di fiori, nella speranza di trovare un po' di tranquillità in mezzo al caos che mi circonda. È stata un'ora piacevole, ma temo sia solo l'occhio al centro del ciclone. La professoressa Glazer ha venduto casa e Art ha già ricevuto un'offerta per la sua. Come me, è abituato a vivere in una città universitaria e sta facendo molta fatica a separarsi dalla sua abitazione. L'ho sentito parlare di volersi limitare a chiuderla, e ad assumere magari un custode che se ne occupi, ma credo che avranno bisogno del denaro della vendita per comprare una nuova casa in California. La professoressa Glazer non ha ottenuto un gran margine di guadagno dalla sua vendita (margine di guadagno! Accidenti, comincio a parlare come uno di quei testi di finanza che studia Alex!). Adesso lei e Hannah si sono trasferite da Art e partiranno per la fine di maggio. Alissa mi ha detto che vuole trascorrere l'estate in Europa, ma che lo farà soltanto se acconsento a gestire il Crystal Path durante la sua assenza. Se non altro, ha abbastanza fiducia in me da non temere che le rovini del tutto gli affari! Alex ha promesso che mi aiuterà a tenere in ordine il reparto dei libri quando tornerà per la sessione estiva, quindi la cosa non mi spaventa più quanto credevo. L'aspetto positivo è che in questo modo sarò in grado
di pagare la mia metà della Civic, e magari di risparmiare abbastanza da potermi permettere di affittare un appartamento per il prossimo anno accademico (Frankie mi ha fatto capire che sarebbe disposta a pagare metà dell'affitto, se le riuscisse di trovare un lavoro decente in laboratorio). Vado d'accordo con mamma e papà, però sarebbe piacevole poter vivere senza la costante supervisione dei genitori. Il primo agosto (fra appena tre mesi!) avrò diciannove anni, ma a volte credo che, quando mi guardano, mamma e papà vedano ancora una ragazzina con le treccine e le ginocchia coperte di cerotti. Se solo sapessero le cose che ho visto! PARTE PRIMA Rinascita Capitolo 1 Windale, Massachusetts 17 maggio 2000 «Sei certo di volerlo fare?», chiese Wendy Ward ad Alex, sistemando la Civic nera in uno degli spazi a spina di pesce le cui sbiadite strisce bianche segnavano l'asfalto consunto del parcheggio antistante il Marshall Field. Alex Dunkirk era vestito con una camicia hawaiana in cui il colore predominante era il verde e con un paio di jeans stinti, e teneva fra le gambe il bastone di metallo dalla testa di drago. Facendolo ruotare sotto il palmo della sinistra, sfoggiò un sorriso che gli accese una luce divertita negli occhi nocciola, mentre abbassava appena i Ray-Ban Wayfarer per scoccarle un'occhiata da sopra la montatura. «Si deve risalire a cavallo, giusto?», ribatté. «Verissimo, quando si cade da cavallo», replicò Wendy, «ma non sono del tutto certa che valga anche quando è il cavallo a caderti addosso». Quel giorno Wendy indossava un'ampia blusa argento, jeans neri e scarpe da ginnastica argento punteggiate di verde neon. Per un attimo lo scrutò in volto, notando la linea sottile delle cicatrici che gli segnavano la fronte. Sapeva che cicatrici più grosse erano sul braccio sinistro e su entrambe le gambe, motivo per cui sosteneva, scherzando, di aver ricevuto il Premio Speciale Frankenstein per i Mostri, ma che la commissione che assegnava i premi non aveva voluto elargirgli anche i due bulloni per il collo. Negli ultimi tempi stava smettendo gradatamente
di prendere gli antidolorifici, ma gli rimaneva sempre almeno un dolore sordo alle gambe e al braccio, soprattutto prima che piovesse e, anche se fare un po' di sollevamento di pesi leggeri lo stava aiutando ad aumentare la resistenza, si stancava ancora con facilità. A volte appariva molto forte, mentre in altre occasioni sembrava terribilmente fragile, ma questa era una cosa che lei non gli avrebbe mai detto. «Se vuoi raggiungere la professoressa Glazer all'aeroporto...». «D'accordo, d'accordo, basta con gli indugi», si arrese Wendy. Alex si rimise a posto i Ray-Ban sul naso e scesero tutti e due dalla macchina, avviandosi fianco a fianco su per la collinetta erbosa che portava al Marshall Field. Per tutta la salita,con il volto contratto in una smorfia, Alex si servì del bastone più come strumento di trazione che di supporto ma, una volta che cominciarono ad attraversare le quattro piste parallele, se lo appoggiò sulla spalla. Lo aveva ordinato in un negozio di Cambridge ed era molto più di un semplice bastone: infatti, se premeva un pulsante rientrato posto su un lato, la testa di drago dell'impugnatura scattava verso l'alto, diventando l'impugnatura di una lama lunga quarantacinque centimetri che scivolava fuori dal suo fodero cilindrico. «Dal momento che la fuga non è più un'opzione possibile», aveva detto a Wendy, la prima volta che le aveva mostrato il bastone animato, «mi sono preparato a combattere». Arrestandosi Alex indugiò a contemplare la spianata di terreno spoglio che si stendeva lungo tutto un lato del campo. «Quindi non ci sono davvero più», commentò. «Hanno demolito le tribune e portato via i pezzi meno di due settimane dopo che sei stato attaccato da Wither», annuì Wendy. «A cosa stai pensando?», chiese poi, notando che lo sguardo di Alex era perso in lontananza. «Quelle tribune mi hanno salvato la vita». «Per poco non ti hanno ammazzato crollandoti addosso!». «Per poco», precisò Alex. «Se però non fossi rimasto bloccato là sotto, lei mi avrebbe finito». Con un brivido Wendy gli passò un braccio intorno alla vita e scivolò nel suo abbraccio. «Non ci voglio pensare», mormorò. «Tu lo fai?», domandò Alex. «Cosa?». «Pensare a lei, a Wither».
«Ho trascorso la maggior parte degli ultimi sei mesi e mezzo a cercare di dimenticarmi di lei», sospirò Wendy. «Questo risponde alla tua domanda?». «Suppongo di sì», ridacchiò lui percorrendo con un ultimo sguardo il campo di atletica abbandonato. «Credevo che mi avrebbe fatto paura, ma mi sento bene». «Mmh, direi che ti senti più che bene, signor Dunkirk», ribatté Wendy, premendosi contro di lui. «Attenta, signorina Ward», ammonì Alex, deponendole un rapido bacio sulle labbra. «Qualcuno ci potrebbe vedere». «Che guardino», replicò Wendy, prendendogli la testa fra le mani per baciarlo come si deve. «Per quanto la tua proposta possa suonare interessante, Lady Godiva, questo è probabilmente l'ultimo posto che sceglierei per mettere alla prova la flessibilità dei miei arti rappezzati». Accigliandosi, Wendy lo lasciò andare e indietreggiò di un passo. «Un'obiezione valida. Il fattore "depressione" qui è troppo elevato, e poi dobbiamo sempre andare all'aeroporto». L'altoparlante del Logan International Airport stava annunciando che i passeggeri del Volo 313 per il San Francisco International dovevano avviarsi all'imbarco, e ancora non si vedeva traccia di Wendy. Mentre Karen si guardava attentamente intorno nella speranza di avvistare la sua studentessa preferita, Art Leeson si passò sulle spalle le cinghie di due pesanti sacche da viaggio e raccolse con la mano sinistra la piccola borsa di Hannah, usando la mano libera per assestarsi gli occhiali sul naso. «Sei pronta?», chiese, guardandola con aria delusa perché sapeva quanto Karen ci tenesse a rivedere ancora una volta Wendy. Dal canto suo, Karen aveva il sospetto che lo stesso Art avesse sperato in un'ultima occasione per salutare quella giovane donna che tanta parte aveva avuto nel porre fine al loro incubo di Halloween. «Suppongo di sì», annuì Karen, raccogliendo il seggiolino da viaggio della bambina. Era difficile credere fino a che punto la loro vita fosse cambiata negli ultimi sette mesi. Paul era morto, ucciso da una delle streghe di Windale, vecchie di trecento anni o, per meglio dire, da una di quelle creature demoniache alte tre metri che erano state viste come streghe dai loro vicini di
casa del diciassettesimo secolo perché a quel tempo avevano ancora avuto una forma umana. Accomunati dal dolore condiviso per la perdita di Paul, Karen e il fratello di quest'ultimo, Art, avevano cominciato a passare sempre più tempo insieme, sviluppando un'amicizia che si era poi evoluta in qualcosa di più intimo. Karen non era ancora certa di essere pronta per il matrimonio, ma sapeva che Art amava lei e Hannah; d'altro canto, pur provando un enorme affetto per Art, emotivamente era ancora troppo scossa a causa di quello che era successo a Windale e di ciò che stava continuando ad accadere ad Hannah, per essere in grado di far chiarezza nella propria mente. Adesso si augurava che quel cambiamento di residenza l'aiutasse a mettere a fuoco le proprie emozioni, perché Art meritava questo e altro. Di nuovo lanciò un'occhiata all'atrio affollato alla ricerca di Wendy, poi sospirò. Hannah, che indossava un abitino bianco a balze con calze bianche e scarpette di cuoio nero, prese a camminare lungo una fila di sedie di plastica, toccandole una a una con un dito e contando a bassa voce: «Uno, due, tre, quattro...». A guardarla camminare con tanta sicurezza, impegnata a imparare a contare, si sarebbe detto che la bambina aveva almeno tre anni, ma Karen sapeva bene che Hannah Nicole Glazer aveva meno di sette mesi. A parte quel suo sviluppo così accelerato, i dottori non riuscivano a trovare in lei niente che non andasse e avevano dichiarato che la bambina era perfettamente sana, ma Karen stava scoprendo a sue spese che esisteva una differenza enorme fra il concetto di "sano" e quello di "normale". A volte si svegliava nel cuore della notte, madida di sudore freddo, pensando ad Hannah e chiedendosi se la drammatica lotta con l'antica strega Rebecca Cole si fosse veramente conclusa. Si erano davvero liberati di lei, oppure Hannah portava dentro di sé una sinistra eredità che un giorno avrebbe distrutto le loro vite? Accorgendosi che sua madre la stava osservando, Hannah alzò lo sguardo con un sorriso. «Andiamo su-su, mamma?». «Sì, Hannah», rispose Karen. «Adesso saliremo sull'aeroplano». «In alto nel cielo?». «Molto in alto, Hannah», sorrise Karen. «Ia Wenny viene», disse Hannah, e la sua non era una domanda. «Zia Wendy non è riuscita ad arrivare in tempo, tesoro».
Hannah però scosse il capo con aria di sfida. «Ia Wenny viene!», ribadì, poi indicò alle spalle di Karen e strillò: «Guarda, mamma». Karen si voltò e per un momento vide soltanto la folla di sconosciuti frettolosi. Di colpo una donna dai capelli ramati, vestita in nero e argento e intenta ad agitare freneticamente le braccia, saettò nello spazio fra una coppia asiatica e un carrello dei bagagli. Se solo avessi in Wendy tutta la fiducia che ha Hannah, pensò Karen sorridendo. Wendy aveva il fiato un po' corto, sia per la corsa attraverso l'aeroporto affollato, sia per il timore di essere arrivata troppo tardi per rivedere la professoressa Glazer, Hannah e Art, e tirò un respiro di sollievo quando vide che si stavano ancora preparando all'imbarco. Chiacchierando fra loro in toni sommessi, gli altri passeggeri si stavano già dirigendo alla rampa d'imbarco. Anche se, pensò fra sé Wendy, per essere più esatti la dovrebbero chiamare galleria invece che rampa. «Salve, Wendy», salutò Karen. «Ci stiamo imbarcando». Fermandosi, Wendy la strinse in un forte abbraccio. «Lo so», rispose. «Mi dispiace per il ritardo, ma c'era un traffico spaventoso, e poi abbiamo dovuto parcheggiare in un punto imprecisato di Rhode Island». «Dov'è Alex?», chiese Karen con un sorriso quando Wendy la lasciò andare. «Sta arrivando», spiegò Wendy. «Mi ha detto di correre avanti per non rischiare di mancare d'incontrarvi». Accoccolandosi, spalancò le braccia ad Hannah, che le corse incontro e le si gettò al collo. «Sentirò la tua mancanza, tesorino». «Ia Wenny viene in alto nel cielo?». «Zia Wendy deve restare qui per un po' di tempo, Hannah, quindi voglio che tu ti prenda cura di tua madre, d'accordo?». «Aito mamma», annuì la bambina, con aria seria. «Vedo ancora ia Wenny». Wendy si sentì serrare la gola e lottò per ricacciare indietro le lacrime. «Ci rivedremo, Hannah. Ti voglio bene, tesoro!», esclamò, sollevando la bambina e porgendola alla madre, mentre aggiungeva: «È una bambina meravigliosa, professoressa Glazer».
«Lo so». «Le auguro ogni fortuna a Stanford, ma di certo al Danfield sentiremo la sua mancanza», continuò. L'altoparlante annunciò l'ultima chiamata per il Volo 313. «Karen», sollecitò Art; tutti gli altri passeggeri si erano già imbarcati. «Grazie, Wendy. Goditi una bella estate ma non trascurare gli studi quando arriverà il semestre autunnale. Niente scuse riguardo a una crisi del secondo anno. Inoltre, noi tutti abbiamo bisogno di lasciarci il passato alle spalle e di andare avanti a vivere la nostra vita». «Un giorno per volta». Karen abbassò lo sguardo su Hannah, che stava giocando con il colletto di pizzo della camicetta di sua madre come se stesse cercando di capire come era fatto, e annuì; quando tornò ad alzare lo sguardo, i suoi occhi erano velati di lacrime. «Prenditi cura di Alex», raccomandò. «Non dimentichi di mandarmi il suo indirizzo e-mail», replicò Wendy annuendo. Affiancandosi a Karen, Art porse a Wendy la mano libera. Afferrandola, lei lo trasse verso di sé abbracciandolo. «Addio, Art. È stato un piacere conoscerti». «Certamente, a parte tutta quella faccenda delle mostruose streghe malvagie». «Già, quella è una cosa di cui avrei potuto fare a meno», convenne Wendy. «Hai con te una signora davvero speciale». «Due signore davvero speciali», la corresse Art, lanciando un'occhiata a Karen e ad Hannah, poi tornò a girarsi verso Wendy, le allontanò dal volto una ciocca di capelli ramati e aggiunse: «Ti stai facendo crescere i capelli?». «Volevo provare a cambiare un poco», ammise Wendy, scrollando le spalle con aria imbarazzata. «Almeno finché non diventeranno una seccatura». «Ti stanno bene». «Sembra di sentire mia madre!», rise Wendy. «Ehi, adesso è meglio che vi muoviate. Quei biglietti non sono rimborsabili». Mentre i tre si avviavano lungo la rampa d'imbarco, in direzione del Boeing 757, Hannah guardò verso Wendy da sopra la spalla della madre, e quando Wendy agitò la mano in un cenno di saluto, rispose aprendo e chiudendo la manina in un lento ciao-ciao.
«Vedo ancora ia Wenny», disse. Dopo che furono scomparsi a bordo e che l'aereo si fu allontanato dalla rampa d'imbarco per dirigersi verso la pista di decollo, Wendy sedette su una delle sedie di plastica che al momento erano tutte vuote, piantò i gomiti sulle ginocchia e abbandonò il volto contro i palmi delle mani. Quando la raggiunse, Alex vide che stava piangendo in silenzio e le posò con gentilezza una mano sulla spalla. «Questa è la goccia che fa traboccare il vaso», dichiarò. «Intendo comprare uno di quegli scooter portatili». «Ti romperai le gambe... di nuovo», rise Wendy, poi si alzò in piedi e scivolò nel suo abbraccio, annidando la testa nell'incavo sotto il mento di Alex, mentre aggiungeva: «Se ne stanno andando tutti». «Non tutti», la corresse Alex, «e non per sempre. Frankie sarà di ritorno per il semestre autunnale, e io tornerò ancora prima». «Promesso?». «Sul mio onore di scout». «Eri un boy scout?», chiese Wendy, alzando lo sguardo verso di lui. «Ecco, se proprio vogliamo andare per il sottile...». Wendy gli assestò un pugno sulla spalla, quella destra. Una volta, un paio di mesi prima, le era capitato di colpirlo per scherzo alla spalla sinistra e lo aveva visto farsi cinereo in volto, arrivando quasi a svenire per il dolore. «Puoi aspettarmi qui?», chiese. «Non vado da nessuna parte». Camminando controcorrente rispetto al traffico pedonale dell'aeroporto, Wendy raggiunse la toilette più vicina, che al momento era vuota. Per uno strano effetto dell'acustica del locale, tutti i suoni provenienti dall'aeroporto affollato risultavano soffocati, mentre il sussurro delle sue scarpe e il rumore del suo respiro erano stranamente amplificati, come pure il costante gocciolio di un rubinetto all'estremità opposta di una lunga fila di lavandini. Le fredde luci fluorescenti sembravano privare la lunga stanza di ogni traccia di colore. Esaminandosi la faccia nello specchio, vide che aveva gli occhi gonfi e rossi per il pianto e che i capelli erano arruffati per via della corsa lungo l'atrio dell'aeroporto, ma che, a parte questo, il suo aspetto era in ordine; dato che non usava mai il mascara, per fortuna aveva evitato che le lacrime trasformassero la sua faccia in quella di un clown. Era preoccupata per la professoressa Glazer e per Hannah, perché, anche se non avevano mai effettivamente discusso della crescita fisica e mentale
così accelerata della bambina, le circostanze che ne avevano accompagnato la nascita erano un ricordo che gravava pesantemente sulla mente di entrambe. Wendy era abbastanza convinta che la professoressa Glazer avesse accettato quella cattedra in California, più che altro per mettere una buona distanza fra se stessa e ciò che era successo a Windale la notte di Halloween, come se spostarsi di qualche migliaio di chilometri potesse essere sufficiente a riportare alla normalità la sua vita e quella di Hannah. Wendy aveva già la sensazione di aver perso un pezzo di sé e sapeva che, fra i tre, Hannah era quella di cui avrebbe più sentito la mancanza; aveva una sorta di legame con quella bambina, per quanto poteva benissimo trattarsi di una sorta di precoce istinto materno. Meglio che eviti di condividere questa riflessione con Alex, se non voglio terrorizzarlo a morte, pensò, ridacchiando, poi si ingiunse di non essere stupida. Riempiendosi di acqua fredda le mani unite a coppa, si chinò e si sciacquò la faccia; quando si risollevò e guardò nello specchio, vide riflessa accanto alla propria l'immagine di una vecchia con i capelli grigi sciolti sulle spalle, vestita con una lunga vestaglia bianca e sandali. Quella vista le strappò un sussulto. «Non è finita», affermò la vecchia, con voce fragile e sottile. Wendy si girò di scatto per fronteggiarla, ma accanto a lei non c'era nessuno: la toilette era ancora deserta. Afferrandosi al bordo del lavandino per sorreggersi, si costrinse a fare parecchi respiri profondi, e si disse che doveva aver immaginato la vecchia. Ma era così reale, pensò poi, e si diresse verso la fila di cabine della toilette, spalancandone la porta in rapida successione, una dopo l'altra, solo per constatare che erano tutte vuote, come del resto aveva saputo che sarebbero state. Poi sentì avvicinarsi delle voci: due donne, forse madre e figlia, stavano chiacchierando dei pregi dei Grand Teton, contrapposti allo Yellowstone National Park, mentre si dirigevano verso la toilette per controllare lo stato della pettinatura e del trucco. Le due diedero un'occhiata fugace a Wendy e la donna più anziana le sorrise di sfuggita per un attimo prima di riprendere la conversazione. Wendy si forzò a ricambiare il sorriso, poi si affrettò a uscire dalla toilette. «Sembra che tu abbia visto un fantasma», fu il primo commento di Alex. «Questa è una possibilità». «Che è successo?».
Wendy si limitò a scuotere il capo. «Hai voglia di guidare la Civic fino a casa? Credo di aver bisogno di fare un sonnellino». «Un tragitto di mezz'ora non è un problema», rispose Alex, battendosi un colpetto sulla gamba con il bastone. «Sei certa di fidarti a farmi guidare la tua macchina nuova?». «Più di quanto mi fidi a guidarla io stessa, in questo momento». «Ma stai bene?». «Presto starò bene», garantì Wendy. «Devo solo ripassare l'ultima lezione della professoressa Glazer e lasciarmi il passato alle spalle». Gina Thorne uscì dalla doccia avvolta in un asciugamano e passò una spazzola fra i lunghi capelli di un biondo rossiccio per districarli. Il bagno era intriso di vapore e lo specchio era una chiazza offuscata che rivelava a stento un'immagine spettrale del suo volto. Sparsa per terra c'era una mezza dozzina di flaconi di bagnoschiuma e shampoo vuoti, la cui mescolanza di profumi emanava ora dalla sua pelle nuda. Percorse il corridoio fino alla camera da letto, lasciando con i piedi nudi una serie di impronte umide nella spessa moquette bianca; dopo aver chiuso la porta, premette il pulsante del telecomando per accendere il televisore da diciannove pollici su un party sulla spiaggia organizzato da MTV, tolse l'audio e si girò verso lo stereo, scorrendo lungo le stazioni fino a trovarne una che stava trasmettendo un brano rap metallico, eseguito da una band il cui cantante aveva probabilmente potenziato la propria voce inghiottendo un sorso di sturalavandini. Quel suono era una violenza aurale, se non proprio melodica, e Gina alzò il volume fino a sentire il pavimento riverberare per l'eco dei bassi. In un angolo c'era un cestino dei rifiuti che straripava della sua intera collezione di Beanie Babies, ciascuno sventrato con un tagliacarte, con i pezzetti di imbottitura di spugna sparsi sul tappeto azzurro chiaro come grossi confetti. Quelle creature imbottite erano peggio che disgustose e non riusciva a capire come avesse mai potuto tollerarle, o come avesse mai potuto accumulare una così patetica e sdolcinata collezione di cd; un'altra cosa che le aveva dato un'enorme soddisfazione era stato fare letteralmente a pezzi il poster di Thomas Kinkade che aveva dominato sopra il suo letto. Dopo essersi asciugata gettò l'asciugamano per terra ed esaminò il proprio corpo nello specchio a grandezza naturale. C'erano voluti parecchi mesi, ma finalmente aveva perso tutto il peso accumulato nel corso della
sua gravidanza segreta, oltre ad altri cinque chili. Anche se non era mai stata tanto snella quanto adesso, tutte le sue curve erano adeguatamente pronunciate. Girandosi di profilo, esaminò allo specchio la linea elegante dei glutei e si appoggiò una mano allargata sullo stomaco perfettamente piatto prima di far scivolare le dita a racchiudere la curva generosa dei seni sodi. Era come se stesse vedendo il proprio corpo per la prima volta, con gli occhi di una sconosciuta. Infilato un reggiseno nero, ne agganciò il fermaglio e indossò un paio di slip neri. Lasciandosi cadere sul letto sfatto, accese una sigaretta e cominciò a passarsi sulle unghie uno smalto rosso ciliegia. Con la coda dell'occhio, vide la porta della camera che si apriva: fermo sulla porta, la mano stretta intorno alla maniglia e lo sguardo fisso su di lei, c'era il suo fratellastro, Todd. «Che hai da guardare, piccolo pervertito?». «Niente d'interessante, perdente», ribatté il ragazzo, deglutendo a fatica. «Papà dice di abbassare quella musica, che gli sta facendo venire il mal di testa, e mamma avverte che la cena è quasi pronta». Alzandosi, Gina si diresse allo stereo, consapevole che Todd stava continuando a fissarle il reggiseno e le mutandine. «La prossima volta, bussa», ingiunse in tono minaccioso dopo aver abbassato il volume. «Ho bussato, strega», ribatté il ragazzo. «Non è colpa mia se non hai sentito!». «La prossima volta bussa più forte, se non vuoi che ti tagli quel tuo pisellino mentre stai dormendo». «Lo dico alla mamma». «Avanti, diglielo, rospo1». Sbattuta la porta alle spalle del fratellastro, Gina imprecò a mezza voce, tornò ad alzare il volume quasi quanto prima e indossò una maglietta senza maniche di seta con una stampa maculata, abbinandola a una gonna di cuoio nero che le arrivava a mezza coscia, e infilandosi infine un paio di scarpe nere con i tacchi a spillo. Inevitabilmente sua madre bussò poco dopo alla porta e la aprì senza aspettare che lei la invitasse a entrare. La prima cosa che fece fu spegnere lo stereo. «Hai spaventato tuo fratello», accusò. «Fratellastro», la corresse Gina, «e se lo è meritato. Quel piccolo pervertito mi stava fissando mentre ero in reggiseno e mutandine».
A trentanove anni, Caitlin Thorne-Gallo era una bellezza dai capelli corvini che nel corso del suo matrimonio con il defunto Alden Thorne aveva notevolmente migliorato il proprio aspetto già avvenente con una nutrita serie di correzioni estetiche. Circa cinque anni prima Alden Thorne, fondatore e presidente della Thorne Biotech, aveva notato Caitlin Hayes, recentemente divorziata, nel dipartimento di marketing della propria azienda. Dopo una relazione vorticosa durata tre mesi e malgrado una differenza di età di trentanove anni, Alden e Caitlin si erano sposati. Per Caitlin si era trattato di un matrimonio breve ma molto proficuo, e del resto Gina dubitava che lei avesse mai amato quel vecchio idiota. Quando era morto di un attacco di cuore, due anni prima, Alden Thorne aveva lasciato tutte le sue considerevoli proprietà e la maggioranza delle azioni della Thorne Biotech alla sua giovane vedova. Anche se Caitlin aveva atteso oltre un anno prima di sposare Dominick Gallo, il manager regionale del dipartimento fiscale della Thorne Biotech, Gina aveva sentito circolare voci sgradevoli secondo le quali i due avrebbero avuto una storia clandestina, già quando Alden era ancora vivo. Se quelle storie erano vere, Caitlin era riuscita a nascondere la tresca perfino alla propria figlia, e comunque Gina era dell'idea che Gallo stesse semplicemente facendo a spese di Caitlin lo stesso giochetto che lei aveva fatto con Thorne. Karma, legge del contrappasso e tutto il resto. Ad Angelina, la dolce figlia adottiva sedicenne, Alden Thorne aveva lasciato soltanto un fondo vincolato che sarebbe rimasto intoccabile finché lei non avesse compiuto venticinque anni, e Caitlin non perdeva mai l'opportunità di tenere in riga la figlia minacciando alla minima provocazione di toglierle ogni supporto economico. Questo significava che Gina avrebbe dovuto sopportare la fastidiosa ingerenza materna per altri sette anni, prima di poter godere di una qualsiasi forma di libertà economica. «Adesso siamo una famiglia», affermò Caitlin, un concetto che aveva continuato a ribadire dal giorno in cui si era risposata quasi un anno prima, e che Gina era francamente nauseata di sentir esporre. «Dobbiamo andare d'accordo fra noi, far funzionare le cose. Ci vuoi almeno provare?». «Come vuoi». «Avevi intenzione di uscire, stasera?». «Brett mi porta fuori». «Pensavo che avresti cenato con noi». «Credo di essermi dimenticata di avvertirti», rispose Gina. La sola idea di mangiare con il suo più recente nucleo familiare era tale da darle la nau-
sea. «Abbiamo prenotato alla Roy's Steakhouse». «Non è il genere di posto in cui mi aspetterei di trovare una vegetariana». «Ci ho rinunciato, mamma. Noi siamo in cima alla catena alimentare, quindi perché fingere che non sia così?», ribatté Gina, poi rabbrividì al ricordo, che era quasi una sensazione, di aver addentato una bistecca al sangue, avvertendo il liquido caldo che le colava lungo il mento. O almeno pensava che si fosse trattato di una bistecca, e che quello fosse un suo ricordo. Da quella notte all'Harrison Motor Lodge, la sua memoria era alquanto confusa. Caitlin diede un'occhiata alla sigaretta che si stava consumando nel portacenere posato per terra, e si concesse un sospiro indignato. «Sai che non permetto che si fumi in casa». «È la tensione», rispose Gina. Aveva cominciato a fumare un paio di mesi prima, e le sigarette parevano non bastarle mai; in effetti, erano parecchie le cose di cui non ne aveva mai abbastanza oltre alle sigarette, incluse le bevande alcoliche. «Gli esami si avvicinano. Del resto l'anno prossimo mi trasferirò in un dormitorio al Danfield, e tu non ti dovrai più preoccupare che io possa rovinare la tua piccola vita perfetta». «Non era questo che intendevo», obiettò sua madre con un altro sospiro. «Ascolta, Gina, credo che sarebbe una buona idea se andassi a parlare con padre Murray. Ultimamente non sei più tu». Per un istante lasciò vagare lo sguardo per la stanza, cercando di catalogare in silenzio tutte le stranezze che vi stava vedendo, prima di finire per arrendersi. «Fumi, rientri tardi, prendi voti scadenti, lasci la tua stanza in condizioni pietose», elencò. Sua madre, quell'ipocrita, aveva una cameriera, Sylvia, che veniva cinque giorni la settimana, ma che aveva il divieto di pulire la stanza di Gina o di Todd, cosa che si supponeva avrebbe dovuto inculcare loro un po' di senso della responsabilità. Nel frattempo Caitlin non era mai costretta a sollevare un solo dito. «Per non parlare del comportamento scortese che hai adottato di recente», continuò Caitlin. «Dimmi, quando è stata l'ultima volta che sei venuta con noi in chiesa?». «Sono stata impegnata», si schermì Gina. L'anno scorso, pensò intanto. «Hai sempre qualche scusa pronta», l'accusò sua madre. «Finché vivrai in questa casa, però, obbedirai alle nostre regole. Se ti aspetti che io paghi la retta della tua iscrizione a Danfield, in cambio io esigo che tu tratti con il dovuto rispetto il tuo fratellastro, il tuo patrigno e me. Inoltre, non mori-
resti di certo se dimostrassi un po' di gratitudine». Dal momento che sua madre era più che benestante, Gina non poteva sperare in nessun sussidio, cosa che la costringeva a giocare secondo le regole che le venivano imposte. «Io sono grata, mamma». «Allora dimostralo. Va' a parlare con padre Murray». Gina annuì. Giusto il tempo necessario per mandarlo a farsi fottere, pensò. «Grazie, cara, lo apprezzo davvero», affermò sua madre, baciandola su una guancia. «Non fare troppo tardi. Sai che mi preoccupo». Gina si chiuse la porta alle spalle. «Devo andare via da qui», sussurrò abbandonando la testa contro il battente. Sedutasi davanti alla toilette, si mise sulle labbra piene un rossetto dello stesso tono di rosso dello smalto applicato sulle unghie, poi tornò a guardare il volto allo specchio con quella strana espressione di analisi distaccata, gli occhi di un azzurro tanto chiaro da sembrare trasparente che la squadravano dall'immagine riflessa. Sollevata una mano tremante, la premette contro il vetro, poi sentì l'ira divamparle dentro come una scintilla improvvisa e lo specchio le s'infranse sotto il palmo. Ritratta in fretta la mano, fissò con meraviglia l'ampio disegno frastagliato a forma di stella che ora frammentava il suo riflesso: aveva applicato al vetro soltanto una pressione minima, e tuttavia era scoppiato. Doveva essere difettoso, pensò. Stava finendo di asciugarsi i capelli quando Dominick, il suo patrigno, l'avvertì dal basso dell'arrivo di Brett. Afferrata una pochette, Gina scese in fretta le scale, impaziente di uscire da quella casa, di trovarsi sotto il cielo del crepuscolo, libera da critiche, costrizioni e falsi vincoli familiari. Dominick l'attendeva ai piedi dei gradini, quasi si fosse messo lì di guardia. Anche se si era tolta la giacca, indossava ancora la camicia bianca, la cravatta scarlatta stretta da un perfetto nodo alla Windsor, bretelle grigio antrace e pantaloni dello stesso colore su pantofole nere adorne di nappe. Trentaseienne, Dominick Gallo era di tre anni più giovane della madre di Gina; alto poco meno di un metro e ottanta, con capelli castani ondulati e baffi ben curati, badava a mantenersi ragionevolmente in forma giocando regolarmente a golf e a tennis e, se non fosse stato per il naso troppo lungo e per l'espressione costantemente compiaciuta che indossava come un cappotto di sartoria, Gina avrebbe anche potuto considerarlo at-
traente. In ogni caso, era un moralista rompiballe che con ogni probabilità nascondeva dietro quell'atteggiamento un complesso d'inferiorità o uno scarso contenuto nel cavallo dei pantaloni. Quando Caitlin aveva acconsentito ad assumere il suo cognome, Dom Gallo aveva gonfiato il petto per l'orgoglio, anche se avrebbe senza dubbio fatto volentieri a meno di vederlo preceduto dal cognome di Thorne, a cui era unito da un trattino. Essere considerato da tutti il giocattolo della vedova del capo deve essere una splendida terapia per la propria autostima, si disse Gina. Dominick si soffermò a squadrarla da testa a piedi con quel suo sorrisetto paternalistico, quasi dovesse superare una sua ispezione prima di ottenere il permesso di uscire, o forse soltanto perché voleva guardarsela ben bene. «Domani c'è scuola», disse. «Devo supporre che tu abbia finito i compiti?». «Sono a posto fino a venerdì». «Mi fa piacere sentirlo. Rincasa per le dieci e mezza», continuò lui, poi le afferrò il braccio nudo, stringendo leggermente, e aggiunse: «Gina, non fare niente che possa mettere in imbarazzo me o tua madre». «Non lo farei mai, Dom», rispose lei con un sorriso cordiale, liberando il braccio. «Signorina, ultimamente non posso dire di aver apprezzato il tuo atteggiamento». E chi ha chiesto il tuo parere? pensò Gina oltrepassandolo prima che potesse allungare di nuovo la mano, e si morse la lingua nell'imboccare la porta perché sapeva che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe servita soltanto a scatenare un litigio, con il risultato che sarebbe stata rimandata in camera sua o avrebbe rischiato di vedersi negare la retta per il college. Andare al Danfield era meno importante solo del riuscire ad andarsene da quella casa. Brett era appoggiato a uno dei pali della veranda e si girò quando sentì aprirsi il battente di destra della porta doppia. Se Gina si era fatta più viva e vibrante nei mesi trascorsi da quella notte all'Harrison Motor Lodge, Brett appariva invece smagrito e smunto. «Sei splendida», sorrise. «Lo so», rispose lei. «Battiamocela da qui». Sul pick-up, lui fece per baciarla, ma Gina girò di lato la bocca, offrendogli invece la guancia. «Il momento di pasticciare il rossetto verrà più tardi», affermò. «Sono
affamata». Brett avviò il motore e imboccò Main Street senza dire una parola. «Cosa c'è?», chiese infine Gina, con un sospiro. «Niente». «Smettila di rimuginare, e parla». «È solo che sei così... così diversa, adesso. Voglio dire, la cosa mi fa piacere, sono contento che ti sia lasciata tutto alle spalle». Gina sapeva bene cosa fosse quel tutto. «Devi smetterla di pensarci, Brett, o fra noi non funzionerà. Non ho intenzione di crogiolarmi con te nella depressione per il resto della mia vita». «Lo so, e hai ragione», ammise lui. «È solo che parlarne mi aiuta, e tu sei la sola con cui ne possa parlare». «Sono stufa marcia di parlarne», dichiarò Gina, esasperata. «Abbiamo davanti a noi un futuro luminoso, ma solo se la smetterai di guardarti alle spalle. Stanotte fa' il bravo ragazzo», continuò, chiudendo la mano intorno al cavallo dei suoi Dockers e stringendo un poco, «e avrai una piccola sorpresa». «Cosa... Credevo che non avremmo...». «Ho cambiato idea riguardo a un sacco di cose», affermò Gina con un sorriso in tralice. «Fra l'altro, ho deciso di vivere alla giornata», proseguì, accentuando la stretta, poi lanciò un'occhiata in direzione di Main Street, vide una fila di fast-food ed esclamò: «Accosta!». «Cosa c'è che non va?», chiese Brett, addossando il furgone al marciapiede. Gina si massaggiò le tempie, cercando di attenuare la fitta di dolore che le aveva attanagliato la testa un attimo prima. C'era qualcosa in quei ristoranti che le creava una tensione incredibile. Di nuovo, guardò le insegne di plastica e le luci intense: McDonald, Burger King, Wendy... Scuotendo il capo si allontanò poi dalla faccia i lunghi capelli. «Non lo so», ammise. «Qualcosa... Adesso non riesco più a ricordare». «Lasciamoci il passato alle spalle e andiamo avanti a vivere le nostre vite». Le parole di commiato di Karen erano diventate per Wendy una sorta di sfida. Per pura coincidenza, o forse per volere del fato, quella notte c'era la luna piena e di recente Wendy aveva praticamente abbandonato ogni sorta di rituale, smettendo di annotare le proprie osservazioni sul diario in occa-
sione degli Esbat. Dopo aver lasciato Alex al dormitorio in modo che potesse finire di fare i bagagli per il volo del giorno successivo, era passata da casa per un bagno purificatore fra petali di fiori di lavanda, poi aveva imboccato Gable Road con la Civic e aveva parcheggiato sul ciglio della strada, lasciando una maglietta bianca che pendeva dal finestrino del lato guidatore per far credere che si trattasse di un guasto meccanico, prima di imboccare il sentiero tracciato dalla selvaggina che portava alla sua radura. Era decisa a concludere tutto prima che facesse buio, come modo per riprendere possesso del suo luogo magico, di tornare per eseguire i suoi riti all'aperto. Servendosi di un bastone di frassino, di alcuni rametti di betulla e di flessibili rametti di salice che aveva acquistato al Crystal Path, aveva costruito una piccola scopa da strega e se ne servì per spazzare in modo simbolico la radura a titolo di purificazione, cosa che le sembrava ancora più importante alla luce del fatto che era rimasta assente per così tanto tempo. Usando come al solito piolo e imbuto, tracciò una sottile linea di farina per formare il cerchio prima di srotolare la stuoia per la meditazione. Dal momento che aveva intenzione di eseguire un rito abbreviato e che voleva mantenere il coraggio per tutta la sua esecuzione, aveva scelto di non spogliarsi in occasione di questo particolare Esbat, anche se si era tolta calze e scarpe. Rese omaggio ai quattro elementi, cominciando con l'aria a est e proseguendo, in senso orario, con il fuoco a sud, l'acqua a ovest e la terra a nord e, mentre procedeva, andò acquisendo una crescente sicurezza in se stessa e nell'efficacia del suo rito. Aveva preso con sé soltanto pochi ingredienti, appena quanto serviva per creare un sacchetto del risanamento per Alex, qualcosa che lui potesse portare con sé nel corso di quell'estate a Minneapolis. Per prima cosa, era necessario consacrare il prezzemolo e la salvia che aveva acquistato al Crystal Path, quindi offrì i semi e le foglie a ciascuno dei quattro elementi prima di servirsi del coltello cerimoniale dall'impugnatura bianca per ridurre le foglie in piccoli pezzi. Se avesse avuto intenzione di preparare un infuso con acqua di sorgente, avrebbe ridotto foglie e semi in polvere con pestello e mortaio; invece infilò i pezzetti in un sacchettino di lino bianco, insieme a un lucido quarzo rosa che aveva lavato in un ruscello. Legato il sacchettino con un pezzo di nastro azzurro, in quanto l'azzurro era un colore risanante, l'offrì verso nord, e al tempo stesso visualizzò Alex che camminava su un prato senza l'impaccio del bastone, senza
disagi e senza neppure zoppicare, trattenendo quell'immagine nella mente finché parve essere più un ricordo che un desiderio. «Madre Terra, infondi su questo sacchetto la benedizione della salute e il potere del risanamento», recitò, e anche se era forse soltanto frutto della sua immaginazione all'interno dei confini di ciò che stava visualizzando, avvertì un caldo formicolio nelle dita e lungo il braccio. Completato il rito magico, adesso doveva riassorbire le energie che aveva liberato da dentro di sé, quindi spezzò un dolcetto allo zenzero, ne sparse metà sul terreno come offerta, seguita da qualche goccia di latte, poi mangiò l'altra metà del biscotto e bevve il resto del latte. Infine ringraziò gli elementi per aver atteso al rito e infranse il cerchio. Il crepuscolo era già passato, le ombre si andavano facendo più lunghe e scure, ma lei si sentiva rinvigorita e al sicuro in quel suo posto speciale. Finalmente, la contaminazione di Wither era svanita, e lei si sentiva di nuovo integra. «Voglio della cioccolata», gridò Gina a Brett che stava facendo benzina, e scese dal furgone dirigendosi verso il minimarket della stazione di servizio. Entrando, lanciò un'occhiata al ragazzino dall'aria annoiata che stava dietro la cassa: le pareva di averlo già visto nei corridoi del liceo Harrison, ma non ricordava come si chiamava. Imboccata la corsia dei dolci, scelse una barretta di Hersley, cioccolato puro, senza noci, nocciole, wafer, uva passa o riso soffiato. Strappato l'involucro, staccò il pezzo fino all'altezza della «S» e se lo mise in bocca con un lieve gemito di soddisfazione. Finita quella barretta, ne mangiò una seconda, poi ne prese una terza da portarsi dietro. Quando ebbe terminato si diresse verso la cassa ancheggiando in maniera accentuata, dato che adesso la piena attenzione del commesso era concentrata su di lei, e si chiese se il ragazzo, che indossava una camicia di poliestere sporca di grasso con il nome «Kenny» ricamato sul taschino, l'avrebbe accusata di furto. Posata la barretta sullo stretto bancone, prese a frugare nella pochette alla ricerca del denaro per pagare e trovò soltanto una banconota da un dollaro tutta stropicciata. Non può bastare, pensò, poi ebbe un'idea bizzarra. «Puoi cambiarmi un centone, Kenny?», chiese, in quello che poteva essere descritto soltanto come un tono imbronciato, fissando il commesso negli occhi castani. Deglutendo a fatica, lui le tolse di mano la banconota, ma solo dopo che lei ebbe posato la mano libera sulla sua, stringendola leggermente: fra loro
passò un'ondata di calore, e Kenny parve leggermente confuso. «Non dovremmo accettare banconote superiori a cinquanta dollari», balbettò, abbassando lo sguardo sul biglietto da un dollaro. «Ma per me farai un'eccezione, vero, Kenny?». «Certo», annuì lui. «Nessun problema». Aperto il registratore di cassa, sollevò il vassoio interno e insinuò il biglietto da un dollaro sotto di esso, insieme agli assegni e alle banconote di grosso taglio; l'indomani, il suo capo si sarebbe chiesto perché diavolo lui avesse nascosto là sotto un biglietto da un dollaro, e perché nella cassa mancassero dei soldi. Kenny contò poi cinque banconote da venti, e quando gliele porse, Gina gli prese di nuovo la mano fra le proprie, ringraziandolo. «Oh, hai dimenticato di farmi pagare la cioccolata!», esclamò. «Quella la offro io, signorina», sorrise lui con una scrollata di spalle. «Sei davvero molto dolce, Kenny». Mentre si dirigeva verso il furgone, Gina ebbe la certezza che Kenny stesse contemplando il suo posteriore, ma era una cosa da niente a fronte di un guadagno di novantanove dollari. Le ragazze dovrebbero avere un po' di contante da spendere. «Meglio spicciarci», avvertì Brett, salendo sul furgone e guardando l'orologio. «Non voglio perdere la prenotazione, e voglio essere certo che ci rimanga tempo per... ecco, per altre cose», continuò ammirando la linea delle gambe slanciate di lei. «Non ti preoccupare, Brett, più tardi avremo tempo a sufficienza per soddisfare i nostri appetiti, ma prima di cena dobbiamo fermarci ancora da un'altra parte». «Dove?». «Alla Chiesa del Sacro Redentore», rispose Gina, con un bagliore maligno nello sguardo. «Ho promesso a mia madre che sarei andata a parlare con padre Murray». Galvanizzata da un rinnovato senso di pace interiore, Wendy diresse la Civic verso il parcheggio quasi vuoto alle spalle della Schongauer Hall. Reggendo per le cinghie un piccolo zaino, salì in fretta i gradini della scala stranamente silenziosa, fino al secondo piano. Il corridoio era deserto e il suono di un brano jazz strumentale giungeva da una stanza in fondo al dormitorio. Gli esami volgevano al termine, e quasi tutti avevano lasciato il campus per la pausa estiva. Sulla lavagnetta cancellabile appesa accanto alla stanza che Alex occupava spiccava una scritta a lettere cubitali: SONO
A PRENDERE LA PIZZA, ENTRA PURE! Il compagno di stanza di Alex, Jesse Osborne, era partito a sua volta a bordo di una decrepita station wagon per tornare a casa a Buffalo, New York, lasciandosi alle spalle la sua chiave della stanza, che Alex aveva prestato a Wendy proprio in previsione di una situazione del genere. Una volta entrata, accese la luce. La camera era piccola, spartana e con ciascun lato che era quasi l'immagine speculare dell'altro, con un lettino e una scrivania addossati alla parete più lunga; sotto ogni letto c'erano quattro cassetti che fungevano da comò personale. Gli scaffali per i libri e le scrivanie erano quasi del tutto vuoti, a parte qualche giornale del college sparso qua e là; soffermandosi a esaminarne un paio, Wendy vide che erano aperti alla pagina sportiva e notò alcune fotografie di gare di corsa e di incontri di lotta, cosa che le fece ricordare che Jesse aveva fatto parte della squadra di lotta libera. In fondo alla stanza c'era una finestra a sedile che si affacciava sul cortile (se non altro, Alex non aveva una stanza che dava sul parcheggio) e accanto alla panca sottostante la finestra c'era un armadio in comune; dall'altro lato c'era invece la porta del bagno, che conteneva un piccolo lavandino, il water e la cabina della doccia. Un bagno privato era un lusso, in quanto la maggior parte dei dormitori aveva bagni e docce in comune. Alex aveva già messo via tutte le sue cose in due valige di stoffa e in una sacca di tela Old Navy, allineate sul sedile imbottito della panca, lasciando fuori soltanto un kit da toeletta e un ricambio di vestiario. Sulla scrivania aveva già disposto piatti, bicchieri e tovaglioli di carta, insieme a una singola rosa rossa in uno stretto vaso di vetro. Quel tocco di romanticismo in mezzo a tanta praticità la fece sorridere. Forse Alex si era ricordato di quando gli aveva detto che le rose venivano usate nelle magie d'amore, o forse era semplicemente una rosa, ma in ogni caso apprezzava quel pensiero. Sedutasi sul letto, aprì lo zaino che conteneva due dozzine di candele bianche, una scatoletta di fiammiferi di legno, il sacchetto del risanamento, la sua vestaglia di lino e una bottiglia di vino bianco che aveva prelevato dall'armadietto dei liquori dei suoi genitori. Voleva che tutto fosse pronto per quando lui sarebbe tornato. Le ci vollero meno di cinque minuti a disporre le candele sulle scrivanie, sugli scaffali per i libri e sul davanzale, pregando fra sé mentre le accendeva che la loro fiammella non attivasse il sistema antincendio. Versato il vino in due bicchieri di plastica, indossò la vestaglia, nascondendo i vestiti normali nello zaino, poi mise via il resto
dei fiammiferi e gettò una piccola scatola sul kit da toeletta di Alex. Infine, spense la fredda luce fluorescente, facendo sprofondare la piccola stanza in una calda penombra ambrata in cui le fu facile immaginare di fluttuare nel cielo notturno, ogni fiammella di candela una stella lontana. Era nel bagno, intenta a pettinarsi i capelli con le dita, quando sentì la chiave di Alex girare nella serratura. Almeno non è un completo disastro, rifletté, giudicando la propria capigliatura ribelle. «Pizza gigante con doppio formaggio... Wendy? Sei qui?». «Uomo della pizza», rispose Wendy, uscendo dal bagno. «Credevo che non saresti mai arrivato». Alex posò il cartone della pizza su un angolo libero di una scrivania e si soffermò a esaminare l'assortimento di candele. «Ho la sensazione di essere finito nel bel mezzo di uno dei tuoi riti», commentò. «Non nel mezzo», ribatté Wendy. «All'inizio. Si tratta del tradizionale rito del sentirò-la-tua-mancanza-quindi-spicciati-a-tornare». «Non mi è familiare», sorrise Alex. «Temo che mi dovrai guidare passo per passo nella sua esecuzione». Wendy avanzò a piedi nudi verso di lui e gli si fermò abbastanza vicina da poterne avvertire il respiro sul proprio volto. «Oh, l'esecuzione della maggior parte del rito ti dovrebbe venire naturale. Prima, però, riceverai un regalo». «Un regalo? Adoro i regali connessi ai riti... O almeno credo». Lei gli prese le mani, posizionandole sulle estremità della cintura di stoffa della sua vestaglia. «Scartalo e lo scoprirai», replicò. Alex tirò leggermente e il fiocco della cintura si sciolse, poi lei gli guidò le mani verso il colletto della vestaglia e lo aiutò ad aprirla finché le scivolò dalle spalle, cadendo sul pavimento. Adesso era completamente nuda, immersa nella luce dorata di due dozzine di candele. «Prendi il tuo kit da toeletta e raggiungimi sotto le coperte», gli disse, dandogli un rapido bacio su una guancia. «Vuoi che mi rada adesso?». «No, sciocco!», esclamò lei, assestandogli una pacca scherzosa sul posteriore. «Vuoi che rada te?», insistette Alex, con un bagliore negli occhi che non era dovuto soltanto alla luce delle candele.
Wendy si soffermò a riflettere per un momento. «Chiedimelo un'altra volta», rispose quindi prima di infilarsi nel suo letto. «Ora spicciati a venire qui sotto con me». «Un pacco da dodici?», commentò Alex, facendo schioccare la lingua con aria sorpresa nell'avvicinarsi al kit da toeletta. «Mi piace l'eterna lotta verso la perfezione», lo rimbeccò Wendy. Alex tornò indietro con la scatola, ma mentre già si sfilava la camicia dalla testa ebbe un momento di esitazione. «Non abbiamo... Voglio dire, non sono certo di essere pronto per...». «Alex, sono passati quasi sette mesi», ribatté Wendy. «Sono pronta a collaudare il funzionamento di quei tuoi arti rappezzati». «Prometti di essere delicata?», ridacchiò Alex. «Se insisti», assentì lei, aiutandolo a slacciare i jeans. «Sai che la pizza finirà per raffreddarsi», obiettò ancora Alex. «Potremmo farlo dopo». «Lo faremo», promise Wendy con una luce più intensa nello sguardo. Era avida di sentire il suo sapore, di avvertire la sua vicinanza, il suo calore. La prima e unica occasione di intimità che avevano avuto era stata appena poche ore prima che lui venisse attaccato al Marshall Field: quella notte per poco non lo aveva perso per sempre, e non poteva tollerare l'idea che lui andasse tanto lontano, che non si sarebbero più rivisti per mesi, senza essere stata con lui ancora una volta. Nonostante il bisogno urgente che provava di unirsi a lui, fu costretta a imporsi un ritmo lento e cauto, tenendo d'occhio il suo volto per individuare le prime tracce di eventuale sofferenza mentre gli rotolava sopra, o lui si muoveva sotto di lei. Constatò ben presto che la posizione migliore era con Alex sdraiato sulla schiena e lei a cavalcioni sui suoi fianchi, in modo da reggere sulle ginocchia la maggior parte del proprio peso. Lo aiutò a infilare il preservativo, poi lo guidò dentro di sé. Nel trovare un ritmo lento ma deciso, si chinò a sfiorargli il petto con i capelli, tempestandogli la gola di baci roventi mentre lui faceva scorrere le mani lungo i fianchi, fino a racchiuderle i seni. Più tardi, mentre se ne stava sdraiata accanto a lui, Wendy scrutò a lungo il suo volto alla luce delle candele, memorizzandone i lineamenti e seguendo con l'indice la linea della cicatrice che gli correva sopra la palpebra destra. «Ah, dimenticavo, ho un altro regalo», disse infine. «Forse prima dovremmo mangiare una fetta di pizza», obiettò Alex. Protendendosi fuori dal letto, Wendy allungò la mano verso la sua ve-
staglia, abbandonata per terra, e la tirò verso di sé per la cintura. «Ehi, rimanda queste cose a più tardi!», esclamò quando Alex le assestò una sculacciata scherzosa sul posteriore nudo, poi si raggomitolò fra le sue braccia e gli porse il sacchetto, aggiungendo: «Qualcosa che ti faccia ricordare di me». «Credo che tu me lo abbia già dato». «Sei dolce», replicò lei, baciandolo su una guancia, «ma questo farà migliorare la tua salute, arti rappezzati e tutto il resto». Nel prendere il sacchettino, Alex notò l'ampio sorriso che aleggiava sul volto di lei. «Stanotte sei stata nei boschi, vero?», chiese, inarcando un sopracciglio. «Ho eseguito un piccolo rito», confessò Wendy. «Un solo incantesimo, una magia di risanamento. Quello è una specie di talismano della salute, quindi tienilo vicino, in tasca durante il giorno e sotto il cuscino la notte». «Credevo che non te la sentissi di tornare nei boschi». «Infatti», replicò Wendy, «ma è tempo di dimenticare il passato». «E di andare avanti a vivere la nostra vita», concluse Alex. «Proprio così», annuì Wendy, con un sorriso appagato, appoggiando la guancia contro il suo petto nudo. «Stanotte mi sono resa conto che finalmente mi sento di nuovo in pace. Finalmente mi sento al sicuro». Per Abby MacNeil, di nove anni, i mostri erano sempre stati reali, e a volte essi erano perfino umani, anche se non sempre. Quasi sette mesi prima uno di quei mostri non del tutto umani aveva ucciso suo padre, che era stato lui stesso una creatura che continuava a sopravvivere in alcuni dei suoi occasionali incubi, pur non essendo presente nella sua mente quando era sveglia. Rammentava il suo nome, Randy, ma il volto si andava facendo indistinto, era un ricordo perduto. Randy non l'aveva mai amata come un padre avrebbe dovuto amare e proteggere la propria figlia, non era mai stato gentile con lei, e quando gli capitava di aver bevuto troppo, l'aveva toccata in un modo che l'aveva portata a odiare lui e se stessa in pari misura. Il padre era stato una seccatura nella sua vita, ma era stato tutta la famiglia che riusciva a rammentare, e adesso quello che più desiderava era dimenticare che fosse mai esistito. Art Leeson e lo sceriffo Nottingham l'avevano salvata dall'altro mostro, quello antico e oscuro chiamato Sarah, che sapeva volare e puzzava come il peggiore mucchio di rifiuti che si riuscisse a immaginare. Lo sceriffo, che le aveva chiesto di chiamarlo signor Nottingham, e la sua famiglia l'a-
vevano accolta a vivere con loro, ma anche se aveva imparato a sentirsi a suo agio nella loro casa, si considerava ancora un'estranea, una visitatrice la cui permanenza si stava protraendo troppo a lungo. Tutti e sei vivevano in una casa in legno a un solo piano con tre camere da letto. Abby aveva un letto tutto per sé, ma divideva la stanza con Erica, di sette anni, che insisteva nel considerarla la propria sorella maggiore. Max, di cinque anni, e Benjamin, di quattro, avevano dei letti a castello nella stanza più piccola. Naturalmente, lo sceriffo e sua moglie Christina avevano la camera più grande, con un bagno tutto per loro; poi c'era Rowdy, il grosso labrador color cioccolata dei Nottingham, che per lo più pareva preferire passare la notte nella camera dei maschietti. Lo sceriffo aveva costruito un'aggiunta alle spalle del garage a due posti, e usava quella stanza come ufficio; dietro la casa c'era poi una grande terrazza ottagonale, che aveva la forma di un cartello di stop, e al di là di essa si allargava un ampio giardino non recintato che finiva a ridosso di una scura linea di alberi. La foresta, che appariva oscura e incantata sotto la luce della luna piena, sembrava chiamare a sé Abby esattamene come aveva fatto in passato, quando si stendeva alle spalle della sua casa. Là, aveva trovato le lapidi delle tre streghe di Windale, le streghe che erano poi diventate quei mostri tutt'altro che umani. Appoggiata alla ringhiera della terrazza, Abby spinse lo sguardo oltre il giardino, verso la più profonda oscurità che regnava fra gli alberi. Ricordava di aver sognato la foresta, e di correre con lunghi passi veloci in mezzo alle possenti colonne costituite dai tronchi degli alberi. Quando la signora Nottingham chiese chi volesse un pezzo di torta al cioccolato, Abby attese che Erica, Max e Ben corressero dentro, strillando: «Io, io!». «Io sono sazia», gridò loro dietro. Quanto a Rowdy, era corso dentro con gli altri, senza dubbio prevedendo di ricevere qualche altro avanzo. «Se cambi idea, Abby, fammelo sapere», rispose la signora Nottingham. «Presto sarà ora di fare il bagno». Abby stava già attraversando il giardino, affascinata dal profumo degli alberi e del ricco terriccio che le si stendeva davanti; non appena scavalcò un groviglio di piante del sottobosco, oltrepassando la linea degli alberi, l'oscurità parve aprirsi davanti a lei, rivelando infide radici esposte e delineando rami particolarmente bassi che avrebbero potuto graffiarle la faccia o entrarle negli occhi. A mano a mano che la vista si abituava all'oscurità, anche l'udito si fece più acuto, intercettando il verso lontano di un gufo e il
più vicino frusciare prodotto da un procione. L'aria vibrava del ronzare degli insetti, era intrisa della ricca fragranza della terra umida e delle foglie novelle. Ben presto sentì il lieve gorgogliare di un ruscelletto e si lasciò guidare da quel suono pacifico, superando la distanza che la separava da quella fonte di acqua fresca. Mentre si avvicinava al ruscello, la luna piena prese a far capolino sempre più di frequente fra l'intreccio di rami, dal che capì che la foresta si stava finalmente diradando. Entro pochi minuti sbucò infatti dagli alberi e si ritrovò sola sulla riva erbosa del tortuoso corso d'acqua. Si stava sedendo sull'erba quando sentì un brivido scorrerle per tutto il corpo. Meno di sette mesi prima, e prima anche che quel mostro non del tutto umano la rapisse dalla cappella dell'ospedale, Abby aveva avuto uno spaventoso incidente automobilistico insieme ad Art ed era rimasta paralizzata, incapace di muovere le braccia e le gambe. A quel tempo, a giudicare dalla loro espressione, i dottori avevano dato l'impressione di ritenere che lei non avrebbe camminato mai più; tendendo l'orecchio aveva colto conversazioni a bassa voce in cui essi avevano parlato di cancro o di qualche altra brutta malattia, strane escrescenze che le avevano coperto le ossa, un fenomeno che non avevano mai visto prima. I dottori non sapevano spiegare cosa fosse successo alle sue ossa, o perché fossero completamente guarite poco tempo dopo. Secondo alcune infermiere lei era un miracolo della medicina, o quantomeno un fatto inspiegabile, e forse era per questo che continuava a sentirsi un'estranea. Aveva sperimentato qualcosa che non era mai capitato a nessun'altra bambina. Abby ebbe un altro tremito, accompagnato da un profondo indolenzimento delle ossa. Uno dei suoi incubi era quello di svegliarsi e di scoprire che non era guarita, che era ancora bloccata su un letto di ospedale, prigioniera impotente della propria paralisi. Se i mostri degli incubi sono reali, forse quella che credo essere la vita reale è soltanto un sogno, pensò. Forse, adesso sto sognando. Poi urlò. Sotto la luce della luna i suoi occhi emanavano un riflesso giallo. La mano destra le bruciava al punto da darle l'impressione che stesse andando a fuoco. Afferrandola con la sinistra, se la sollevò davanti agli occhi, e vide che sotto la pelle le ossa si stavano muovendo e contraendo, le dita si stavano facendo corte e tozze, mentre i fini peli biondi sui suoi avambracci si stavano moltiplicando, facendosi più grezzi e trasformandosi
in una coltre di pelo bianco, appena più chiaro dei suoi capelli. Poi il dolore devastante delle ossa che si muovevano si estese anche all'altra mano, alle gambe, ai fianchi e perfino alla mascella. Urlò ancora, ma questa volta il suono che le uscì dalla bocca somigliò più a un ululato disperato, perché adesso conosceva la spaventosa verità. Abby MacNeil era diventata lei stessa un mostro. Gina Thorne entrò nella Chiesa del Sacro Redentore passando dalla porta posteriore, imboccò il corridoio che si diramava dalla stanza per le prove del coro e raggiunse l'ufficio di padre Murray che, se ben ricordava, al mercoledì rimaneva in ufficio fino alle otto. Nel percorrere il corridoio badò a non fare troppo rumore con i tacchetti a spillo, perché era meglio non rovinare l'effetto sorpresa. La porta di vetro smerigliato era socchiusa di qualche centimetro, nascondendo in buona parte la visuale dell'interno dell'ufficio: tutto quello che riusciva a vedere era una libreria di mogano. Invece di bussare afferrò la maniglia e spalancò la porta, e subito padre Murray chiuse il cassetto della scrivania, lasciando quasi cadere la sigaretta che teneva nell'altra mano; dopotutto era stato là seduto da solo alla fioca luce della lampada dal vetro verde e ora non si aspettava di certo di veder arrivare qualcuno. «Mi dispiace, signorina, ma mi ha colto di sorpresa», balbettò. I capelli, più grigi che neri, non erano stati lavati da giorni, il volto pallido era solcato da rughe sottili e il naso marcato era segnato da una rete di sottili capillari rossi; inoltre, aveva bisogno di radersi. «In cosa posso esserle utile?». «Mi hanno detto che lei voleva vedermi, padre, e così eccomi qui», replicò Gina, allargando le braccia. «Mi dispiace, ma non rammento il suo nome». «Gina, Angelina Thorne». «Santo cielo, quanto è cambiata!», esclamò padre Murray. «Può farmi accendere?», chiese Gina. Tirata fuori una sigaretta Kool dalla pochette, se la mise fra le labbra e si allungò sulla scrivania, quanto bastava per elargire al religioso un'ampia visuale della sua scollatura e per permettergli di avvertire il profumo di almeno tre dei gel doccia da lei utilizzati. Aperto il primo cassetto della scrivania, padre Murray tirò fuori uno zippo, permettendo così a Gina di intravedere le altre cose nascoste nel tiretto. Con mano tremante, le accese la sigaretta, poi le indicò una sedia di legno dall'aria scomoda.
«Per favore, si sieda», disse. Gina si lasciò cadere sulla sedia, dura e scomoda quanto un banco di una chiesa, e accavallò le gambe in modo che la gonna di cuoio salisse ancora più in alto, esponendo una porzione ancora più generosa delle sue cosce nude dalla carne chiara. Padre Murray distolse lo sguardo e si diede un contegno fingendo di assestare i mucchi di documenti, cartelle e registri che aveva sulla scrivania. Gina intanto trasse una profonda boccata ed esalò il fumo in direzione del cartello appeso al muro, su cui spiccava la scritta VIETATO FUMARE. Nel seguire il suo sguardo, il religioso si schiarì la gola con imbarazzo. «Ah, quello. Ecco, adesso siamo fuori orario d'ufficio, non c'è nessuno che si possa lamentare». «Una fortuna per noi». «Infatti», annuì lui. «Ora, se ben ricordo, sua madre è preoccupata per il comportamento da lei tenuto da parecchi mesi a questa parte». «Le passerà». «Credo sia suo desiderio che sia lei a "farsela passare", per usare la sua espressione, signorina Thorne. Mi dice che non è più venuta in chiesa dall'inizio dell'anno, che è scortese, irriguardosa, rimane fuori fino a tardi e sta permettendo che il suo profitto scolastico ne soffra». «I miei voti saranno eccellenti», dichiarò Gina. «Ho stipulato particolari... accordi con alcuni dei miei insegnanti, che sono più che lieti di darmi i voti che merito». «Comunque sia, ci tengo a farle presente che per gli adolescenti non è una cosa insolita attraversare un periodo di ribellione. Tuttavia, non credo che lei voglia portare avanti un comportamento che potrebbe compromettere il suo futuro, senza contare che dovrebbe tenere presente la posizione di spicco che sua madre occupa in seno alla nostra comunità». E per mia madre le apparenze sono tutto, pensò Gina con astio. «Non si preoccupi, padre, non credo che si dimenticherà di mettere qualcosa nel suo cestino delle offerte». «L'insolenza è una caratteristica sgradevole, Gina». «Non è a causa della mia insolenza se le sue mani stanno tremando, padre», ribatté Gina. «Non si preoccupi della mia presenza, prenda pure quella fiaschetta che ha nel cassetto e finisca ciò che io ho così insolentemente interrotto». «Siamo qui per discutere del suo comportamento», sottolineò padre
Murray, cominciando ad arrossarsi in volto per l'indignazione. Gina gli soffiò in faccia una nuvoletta di fumo. «Attento, la pressione alta è un assassino silenzioso», avvertì. «Signorina!». «Ascoltami, vecchio», ingiunse Gina. «Non ho il tempo di restare qui seduta a farmi fare la predica da un ipocrita. Dal momento che stiamo discutendo di vizi, quanti vizi hai tu, padre? Fumare, bere, forse anche insidiare i chierichetti?». «Signorina Thorne!». «No, immagino di no», continuò Gina. «Ho visto il modo in cui hai fatto finta di non aver guardato le mie gambe». «Questa conversazione è conclusa!». «Benissimo, allora lascia che ti aiuti a uscirne, padre, perché so che sei ansioso di riprendere a studiare la Bibbia». Gina si protese in avanti, la fronte aggrottata per la concentrazione, e l'ira che provava le fu d'aiuto. Quella scintilla di rabbia la riscaldò, le arroventò tutto il corpo e generò in lei una tensione crescente, un bisogno di violenza. Con soddisfazione, vide il cassetto della scrivania che si apriva, come tirato da una mano invisibile. Padre Murray sussultò, poi sussultò di nuovo quando la fiaschetta d'argento emerse dall'interno del cassetto e prese a fluttuare a mezz'aria, davanti alla sua faccia. Spingendola di lato con la mano, come se fosse stata una vespa, lui si alzò di scatto dalla sedia, proprio mentre il tappo già parzialmente svitato cadeva a terra nel momento in cui la fiasca andava a sbattere contro il tampone della carta assorbente posato sulla scrivania. Il contenitore di metallo si rovesciò e sparse intorno una pozza di whisky. «Roba forte, padre», commentò Gina annusando in maniera esagerata. «Hai la mia approvazione». Padre Murray era livido in volto, la pelle pallida ora chiazzata di rosso, e Gina ebbe quasi l'impressione di poter sentire il cuore che gli martellava nel petto, spingendo il sangue a una velocità precipitosa nelle arterie intasate, battendo troppo in fretta e affaticandosi in maniera eccessiva, tanto che il prete già faticava a respirare. Con la forza di un altro pensiero, spronata dalla propria ira, Gina gli pungolò il cuore, costringendolo a battere sempre più in fretta. Padre Murray sussultò ancora, ma questa volta si serrò il petto con la mano libera, mentre il sangue prendeva a scorrergli dalla narice destra, colandogli sulle labbra e chiazzandogli il mento ispido di barba. Tremando
tornò ad accasciarsi sulla sedia e la sigaretta gli cadde sul piano della scrivania, dove cominciò a bruciacchiare il legno scuro. «Tu... tu sei malvagia!». «Suvvia, padre», ribatté Gina. «Non è politicamente corretto dire una cosa del genere. Ricordi, io sono un'adolescente ribelle e incompresa». Il prete non replicò perché la voce gli venne meno, seguita un istante più tardi dal suo cuore, e poi crollò in avanti, finendo con la faccia in mezzo alla pozza di whisky. Protendendosi in avanti con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, Gina spostò lo sguardo sulla propria sigaretta accesa. «Queste sono cose veramente pericolose per la tua salute», commentò, poi contrasse le labbra e soffiò il whisky verso la sigaretta del prete, che continuava a consumarsi là dove era caduta, vicino al bordo della scrivania: quando la prima goccia entrò in contatto con la sigaretta, si levò una fiamma azzurra che si estese in un istante all'intera polla di liquore. La faccia di padre Murray si trovava esattamente nel centro di quella pozza, e quasi subito il suo colletto clericale prese a bruciare, il suo volto ad annerirsi. L'odore della carne umana che bruciava era interessante, ma non abbastanza da indurla a correre il rischio di rovinarsi la gonna di cuoio qualora l'antiquato sistema antincendio dell'ufficio si fosse deciso a entrare in azione, quindi Gina trasse ancora una boccata dalla sigaretta, scosse il capo e lasciò il prete in fiamme nel suo ufficio. Percorso il corridoio che aggirava l'area dell'altare, entrò nella chiesa dalla porta adiacente alla balaustra che circondava l'altare stesso. Accanto ai banchi, a file alterne, c'erano finestre ad arco acuto di vetro colorato alte quattro metri e mezzo, che raffiguravano le stazioni della Via Crucis e altre immagini bibliche. Con ogni probabilità la metà di quelle finestre era stata donata da Alden Thorne, e il vecchio a lei non aveva dato niente! Attraversata la navata, Gina percorse metà della lunghezza della chiesa prima di girarsi a fronteggiare il crocefisso, un Gesù di gesso di tre metri con tanto di corona di spine, illuminato dall'alto come da una luce celeste. Non era più venuta in quel posto da mesi e adesso sapeva che non ci sarebbe entrata mai più. Mentre stava ferma lì, la rabbia, l'ira e l'odio ribollirono dentro di lei e l'energia prodotta da tanta furia ebbe bisogno di una via di sfogo. I banchi della chiesa presero a vibrare come per staccarsi dai bulloni che li fissavano al pavimento, ma questo non era ancora abbastanza e le statue di gesso di svariati santi, raffigurati nei diversi stadi del loro martirio, barcollarono sui piedistalli e si rovesciarono in avanti, andando in pezzi. Però
ancora non era abbastanza. Gina serrò i pugni lungo i fianchi fino a far crocchiare le ossa e a ferirsi il palmo con le unghie al punto da far scorrere il sangue, serrò i denti fino ad avere la mascella che le doleva e i tendini del collo che pulsavano. Infine gettò indietro il capo e sollevò le braccia all'altezza delle spalle, le dita insanguinate protese in avanti, lanciando un urlo selvaggio e lamentoso degno di una banshee. Con un fragore tanto violento da lacerare i timpani, le finestre di vetro colorato esplosero tutte contemporaneamente, scagliandosi in fuori dal telaio ad arco in migliaia di pezzi acuminati, frammenti di mitraglia multicolore che portavano messaggi di salvezza e di redenzione troppo piccoli per essere compresi. Nello stesso momento, le luci di emergenza e tutte le candele votive elettriche andarono in corto, immergendo la chiesa in un'insolita oscurità. Quelle lunghe ombre furono però di conforto per Angelina Thorne. Per lei e per l'oscura entità che le stava sbocciando dentro, portando con sé il ricordo sempre più nitido di un'antica malvagità. Note 1. Gioco di parole intraducibile in italiano fra il nome del bambino, Todd, e il termine inglese toad, che significa appunto 'rospo' [ndt]. Capitolo 2 Windale, Massachusetts 21 maggio 2000 Nel lasciare il complesso di edifici del consiglio cittadino per andare a trovare Abby all'ospedale, lo sceriffo Bill Nottingham accostò la Jetta bianca al lato della strada e mise il motore in folle per osservare gli operai che camminavano lungo il tetto del Museo delle Streghe. Pur essendo passati parecchi mesi l'opera di ricostruzione era ancora a metà dopo l'incendio che aveva sventrato l'edificio l'anno precedente, ma il sindaco era deciso ad averlo di nuovo completo e funzionante entro la fine dell'estate, con abbondante anticipo rispetto all'intensa stagione turistica autunnale. Entro pochi mesi sarebbe tornato a essere più che nuovo, e l'incendio e la tragedia di Halloween sarebbero divenuti irrilevanti, o forse sarebbero stati del tutto dimenticati.
È un vero peccato che non si possano ricostruire nello stesso modo anche le persone, pensò lo sceriffo. Per quanto si fosse sforzato, non era riuscito a lasciarsi alle spalle i ricordi. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora vedere Abby legata in quella stalla, come il pasto di un ragno imprigionato nella tela, preda di una strega che in realtà non era affatto una strega, bensì una sorta di creatura demoniaca antica di trecento anni. Art Leeson aveva distrutto quel mostro anche con un po' di aiuto da parte sua, se proprio voleva attribuirsi una piccola parte di merito; ma che prezzo rimaneva ancora da pagare in seguito a quella notte? Attualmente pareva infatti che la guarigione miracolosa di Abby fosse stata soltanto temporanea. Lo sceriffo si inserì nuovamente nel traffico e raggiunse l'Ospedale Generale di Windale; dopo aver lasciato la Jetta nel parcheggio per i visitatori, passò dal negozio di articoli da regalo per acquistare un piccolo mazzo di fiori confezionato assieme a un cucciolo di orso polare che teneva il vaso di plastica stretto fra le quattro zampe. Anche se era previsto che Christina riportasse Abby a casa quello stesso giorno, i dottori non erano ancora riusciti a capire cos'avesse la bambina che non andava. Dopo alcuni esami del sangue, una serie di radiografie e una tac, il dottor Khayatian aveva dichiarato che Abby MacNeil era una bambina di nove anni in perfetta salute, però il dottore non era stato presente quella notte di luna piena, non aveva sentito Abby urlare. Lo sceriffo l'aveva trovata svenuta sull'erba vicino a un ruscello, fradicia di sudore e con i vestiti strappati all'altezza dei gomiti e delle ginocchia, come se fosse stata attaccata da qualche animale selvatico. A parte qualche piccolo livido, però, la sua pelle era risultata intatta e lei non aveva riportato nessun grave danno evidente; nonostante questo, era rimasta in stato d'incoscienza per quasi tre giorni, una cosa a cui i dottori non sapevano dare alcuna spiegazione salvo parlare di esaurimento e disidratazione. Prima di svoltare nel corridoio che portava alla stanza di Abby, lo sceriffo si fermò a salutare le tre infermiere che si trovavano dietro il banco della postazione centrale; una di esse, Jill Schuller, si era diplomata al liceo Harrison lo stesso anno dello sceriffo e di Art Leeson. «Buon giorno, Bill», lo salutò. «Come sta?». «Per lo più è tranquilla», rispose Jill. «Continua a guardare fuori dalla finestra». «Cosa mi dici di quando dorme?». «Ha chiesto di nuovo di quella ragazza, chiamandola per nome», replicò
Jill, annuendo. Art aveva spiegato allo sceriffo chi fosse Wendy Ward e quale ruolo avesse avuto negli eventi di Halloween, e allo sceriffo era capitato di vedere la ragazza andare a trovare Karen Glazer, una delle professoresse del college; peraltro non riteneva che Abby avesse avuto molti contatti con Wendy, sempre che l'avesse mai incontrata, quindi perché continuava a chiamarla nel sonno? Sebbene il dottor Khayatian non avesse idea di quale fosse la natura del problema di Abby, lo sceriffo nutriva il cupo quanto radicato sospetto che riguardasse in qualche modo gli eventi dell'ultima festa di Halloween; d'altro canto, nonostante le voci assurde secondo cui Wendy avrebbe trafficato in pratiche occulte, non riteneva che la ragazza potesse avere intenti malevoli, e sperava invece che lei potesse essere in qualche misura d'aiuto nel fare chiarezza su questo nuovo mistero relativo ad Abby. Dopo aver battuto un colpetto sulla porta, lo sceriffo si tolse quello che Abby chiamava il suo cappello da Smokey the Bear1 ed entrò nella stanza della bambina, che era distesa sul letto, con la testa girata in modo da dargli le spalle. Finché era rimasta in stato d'incoscienza, le avevano applicato una flebo per mantenerla idratata, ma adesso aveva sul comodino una caraffa d'acqua e una bottiglietta di succo di frutta, per cui pareva che avesse ripreso ad assumere liquidi per via orale. Per un momento lo sceriffo pensò che stesse dormendo, ma quando aggirò i piedi del letto vide che stava guardando fuori dalla finestra, in direzione di una fila di alberi al di là del parcheggio ovest dell'ospedale. «Ehi, signorina, guarda cosa ti ho portato», le disse. Dopo un lungo momento Abby distolse lo sguardo dalla finestra e guardò i fiori e l'orsetto polare, elargendogli un piccolo sorriso. «Oggi potrai portarlo a casa con te», aggiunse lo sceriffo, e questo parve infine destare la sua attenzione molto più dell'orsetto di peluche, tanto che Abby si sollevò a sedere mentre lui continuava: «Fra poco la signora Nottingham verrà qui con Erica per portarti a casa». «E Max e Ben?». «Questo pomeriggio rimarranno con la signora Schaeffer», spiegò lo sceriffo; Mindy Schaeffer era la moglie del suo vice, Jeff. «Giocheranno a Crash», sorrise Abby. «Gli piacerà un sacco». Bill ridacchiò. Ogni volta che andavano a trovare gli Schaeffer, inevitabilmente i due bambini potevano essere trovati davanti alla PlayStation di Jeff, completamente incantati nel giocare a Crash Bandicoot. Posati i fiori
sul tavolo, Bill sedette sul bordo del letto e indugiò a studiare la bambina. «Sei pronta a tornare a casa, signorinella?», le chiese, spingendole indietro dalla fronte i capelli chiarissimi. «Certo che sì». «Hai idea di cosa ti sia successo là fuori? Nel bosco?». «Non lo so», replicò Abby, scrollando le spalle. «Sono andata a fare una passeggiata...». «Non avevi paura là fuori, da sola, al buio?». «All'inizio non era troppo buio», spiegò la bambina, «e poi non sono più una bimba piccola». «No, non lo sei», convenne lo sceriffo. «E mi piacciono i boschi». «Ma possono essere pericolosi, signorinella», obiettò Bill, e quando lei rimase in silenzio continuò: «Ricordi cos'è successo vicino all'acqua? Perché hai...», esitò, perché era stato sul punto di dire «urlato», ma gli pareva un termine in qualche modo troppo forte, e concluse: «Perché hai gridato?». Abby scosse il capo e lui ebbe la netta sensazione, lo si sarebbe potuto definire «istinto da sbirro», che stesse nascondendo qualcosa. «Non me lo ricordo», ribadì. «Hai visto qualcun altro là fuori?», insistette lo sceriffo, e il pensiero che qualcuno potesse aver cercato di farle del male gli fece tremare le mani, perché quella bambina aveva già patito più di quanto avrebbe mai dovuto fare qualsiasi ragazzina della sua età. «Forse è per questo che hai urlato?». Di nuovo Abby scosse il capo. «Ero sola», disse. «Ero tranquilla, finché... Non ricordo». «Capisco», si arrese lo sceriffo, spingendole di nuovo indietro i capelli, poi alzò lo sguardo quando qualcuno bussò alla porta. «Salve, sceriffo», salutò Wendy Ward, che aveva in mano un palloncino pieno di elio a forma di Tigro. La ragazza indossava un pullover verde smeraldo e una gonna nera a portafoglio, con calzini bianchi lunghi fino alla caviglia e scarpe da ginnastica nere; lo sceriffo la ricordava vestita di nero e di grigio e con i capelli più corti. «Spero che Tigro ti piaccia, Abby», continuò. «Winnie Pooh era finito». «Tigro va benissimo», garantì Abby sorridendo. Dopo aver valutato con attenzione la reazione che sia Abby sia Wendy avevano avuto ciascuna nel vedere l'altra, lo sceriffo si alzò: era impossibile dire se una delle due stesse nascondendo qualcosa.
«Grazie per essere venuta, Wendy», disse. «Ho pensato che ad Abby avrebbe potuto fare piacere vederti. Come ti ho accennato al telefono, è rimasta per parecchio tempo in stato d'incoscienza, e pare che nel sonno chieda di te». «Di me?». «Ecco, ha chiesto di una Wendy, e io ho supposto che si trattasse di te», spiegò lo sceriffo. «Non so perché lo abbia fatto», affermò Wendy avvicinandosi al letto con lo sguardo fisso sul volto di Abby, come se vi stesse cercando qualcosa; di qualsiasi cosa si trattasse, non parve però trovarla. «Abby? Stavi sognando di me?», chiese. «Ricordo di aver avuto paura», spiegò Abby mordendosi un labbro con aria concentrata. «Che cosa ti ha spaventata?», intervenne lo sceriffo. «Non per me», spiegò Abby. «Ero spaventata per Wendy». Wendy le prese una mano fra le sue, e Abby sussultò come se quel contatto l'avesse colta di sorpresa. «Perché eri spaventata per me?». «Perché lei ti stava cercando», spiegò Abby con una certa agitazione, rivivendo la paura provata in sogno. «Lei stava per farti del male, Wendy». «Chi?». «Quell'altra», disse Abby. «L'altra strega. Quella che si chiama Wither». Wendy parve rilassarsi leggermente. «È morta, Abby, e io l'ho vista morire. Non può più fare del male a me, a te o a chiunque altro». Sospirando, Abby si lasciò ricadere contro il cuscino e tornò a guardare fuori dalla finestra, in direzione degli alberi oltre il parcheggio ovest. «Lo so», disse, a voce quasi troppo bassa perché gli altri due riuscissero a sentirla. «Era solo un brutto sogno». «Ti posso parlare fuori?», chiese lo sceriffo, guardando verso Wendy; quando lei annuì, riportò lo sguardo su Abby e aggiunse: «Torno subito, signorinella». Abby non rispose, ma, mentre lui stava accompagnando Wendy verso la porta, disse: «Io ti devo aiutare, Wendy». Fermandosi, Wendy tornò verso il letto. «Perché, Abby? Perché mi devi aiutare?». La bambina la fissò con un'espressione solenne sul volto. «Perché se non ti aiuto, Wendy, tu morirai», rispose.
Fuori dalla stanza di Abby, Wendy si appoggiò contro la parete fredda e inclinò il capo all'indietro per fissare le piastrelle del soffitto e le file di luci fluorescenti, qualsiasi cosa che le permettesse di evitare lo sguardo penetrante dello sceriffo. Pensa che gli stia nascondendo qualche segreto, e a volte ho la sensazione di farlo davvero, solo che non so assolutamente di cosa si tratti. Sono segreti anche per me, rifletté con una risata amara. Intanto lo sceriffo Nottingham si rimise il cappello, e in qualche modo parve che con quel gesto intendesse assumere di nuovo la veste ufficiale di funzionario di polizia impegnato a interrogare un sospetto. «Qualcosa ti diverte?», chiese. «No», rispose Wendy. «Si tratta solo dell'ironia di tutta questa situazione. Ogni volta che mi dico che posso lasciarmi alle spalle quello che è successo, si verifica qualcosa che fa riaffiorare tutto quanto». Alex era partito solo da pochi giorni e già si sentiva più sola di quanto le fosse capitato da anni. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che fosse stato presente, che capisse tutto quello che era accaduto e, nonostante tutto ciò di cui lo sceriffo era stato testimone, non si sentiva a proprio agio a confidarsi con lui. «Che ne pensi?», chiese lo sceriffo, accennando con la testa in direzione della stanza di Abby. «Brutti sogni», rispose Wendy. «Incubi. Si deve trattare di incubi, perché ho visto Wither schiacciata sotto tonnellate di pietra. Abby è rimasta traumatizzata da tutto quello che le è successo», continuò, e lo sceriffo annuì, riconoscendo la validità di quell'osservazione. «Le ci vorrà del tempo per riprendersi, e non a lei soltanto». «Suppongo di sì», convenne lo sceriffo. «Però gli incubi non spiegano il fatto che l'abbia trovata là fuori nel bosco, fradicia di sudore, con i vestiti tutti stracciati, ma senza un graffio addosso, non spiegano perché abbia urlato tanto forte da permetterci di sentirla fin dalla casa, o perché dopo sia rimasta in stato d'incoscienza per quasi tre giorni. Giusto?». Wendy poté soltanto scuotere il capo. Gli incubi non potevano spiegare neppure la rapidità con cui Hannah stava crescendo e maturando, e neppure quella vecchia misteriosa che lei aveva visto nello specchio della toilette dell'aeroporto. Cosa le aveva detto? Non è finita. Quel ricordo le strappò un brivido, mentre spingeva lo sguardo oltre lo sceriffo, appuntandolo su un giornale piegato e posato su una delle sedie per i visitatori distribuite
lungo il corridoio. «Stai bene?», le chiese lo sceriffo. Wendy annuì, poi si avvicinò al giornale per guardare meglio quell'articolo del Windale Record che aveva attirato la sua attenzione: la tragica morte di padre Joseph Murray nel suo ufficio all'interno della Chiesa del Sacro Redentore. «Sa di questo?», chiese, dopo aver scorso rapidamente l'articolo. Lo sceriffo lanciò un'occhiata all'articolo e annuì. «È bruciato nel suo ufficio, ma il patologo legale ha determinato come causa della morte un attacco cardiaco. Pare che le sue arterie fossero davvero in brutte condizioni: senza un bypass quadruplo, ormai era solo questione di tempo». «Com'è bruciato?». «Ha versato del whisky sulla scrivania, mentre stava fumando», spiegò lo sceriffo. «Quando è collassato, il whisky ha preso fuoco, e gli ha conciato davvero male il corpo, per non parlare della scrivania, prima che il sistema antincendio estinguesse le fiamme». «Qui si dice che l'incendio è rimasto contenuto all'area dell'ufficio, giusto?», insistette Wendy alzando lo sguardo su di lui e, quando lo sceriffo annuì a indicare che quanto aveva letto era esatto, continuò: «Ma si dice anche che le finestre di vetro colorato sono state fatte esplodere e che le statue all'interno della chiesa sono state abbattute e distrutte». «Vandali», affermò lo sceriffo. «Si deve trattare di vandali». «Come per il campanile?». «Il campanile?». «Il campanile della chiesa», insistette Wendy, indicando l'accenno che si faceva alla cosa verso la fine dell'articolo. «Lo scorso settembre il campanile è stato distrutto, staccato di netto dal tetto. Qui si dice che padre Murray aveva sentito dei rumori provenire dal tetto e, che quando era corso fuori per indagare, il campanile era crollato schiantandosi sul prato». «Una sfilza di eventi sfortunati», commentò lo sceriffo. «A volte questi vandali adolescenti si fissano con qualcosa come un cane con un osso, e continuano a tornare». Dopo tutto ciò di cui era stata testimone, Wendy aveva forti dubbi che dei vandali adolescenti fossero stati responsabili della distruzione del campanile l'autunno precedente, e questo la indusse a porsi degli interrogativi sulla distruzione delle vetrate e delle statue risalente a parecchi giorni prima. Possibile che fosse solo una coincidenza? Oppure si trattava di qualco-
sa d'altro? D'altronde, indipendentemente da tutte le sue supposizioni, padre Murray era comunque morto per un attacco cardiaco, nulla di più sinistro del risultato finale di una cattiva alimentazione abbinata al vizio del fumo e a uno stile di vita sedentario, quindi non c'era motivo di saltare subito a conclusioni soprannaturali. Come aveva imparato durante il corso di filosofia del semestre primaverile, in base al rasoio di Occam di solito la soluzione più semplice era anche quella giusta. Allora perché continuo a sentirmi preoccupata? si chiese. Perché se non ti aiuto, Wendy, tu morirai. Wendy era sola su una barca a remi di alluminio, le mani posate immobili sui remi. L'acqua chiazzata di sole correva veloce tutt'intorno a lei, trascinando la barca grazie a una corrente costante. Pesci argentei saettavano sotto la superficie da entrambi i lati dell'imbarcazione, le rive lontane erano delineate da un verde muro di querce, noci, aceri e olmi; guardandosi alle spalle verso poppa, Wendy vide un muro di nebbia levarsi nel cielo limpido. Non era mai stata in quel posto prima di allora. Abbassando lo sguardo su se stessa, esaminò i propri vestiti: un top bianco di cotone senza maniche, calzoncini bianchi di cotone stropicciato e scarpe da tennis, anch'esse bianche. Un genere di vestiario che per lei era quantomeno atipico. «Sto sognando, vero?», domandò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Però adesso non era più sola. Di fronte a lei, in fondo alla barca, era seduta la vecchia che aveva visto all'aeroporto, tuttora abbigliata con l'ampia vestaglia di lino e i sandali; intorno al collo portava una collana di smeraldi e aveva all'anulare destro un anello con un'ametista. La vecchia inalò a fondo l'aria fresca, mentre la brezza leggera le agitava i capelli fra il bianco e il grigio. L'intensa luce del sole rivelava tutte le rughe e le linee sottili che le segnavano il volto, ma in qualche modo le ammorbidiva, facendola apparire più viva di quanto non fosse sembrata sotto le aspre luci fluorescenti dell'aeroporto. «Però è un sogno piacevole», le rispose. «Sì». «Per ora». «Che vuoi dire?», chiese Wendy guardandosi intorno con un certo nervosismo, anche se sapeva che stava sognando.
«Ascolta, Wendy», replicò la vecchia. «Che cosa senti?». «L'acqua che scorre intorno a noi e s'infrange contro la barca. La corrente», replicò lei. «E noi andiamo dove ci porta la corrente?». Wendy si guardò di nuovo alle spalle in direzione del muro di nebbia; la corrente si era fatta più veloce, e adesso poteva sentire in lontananza un rombo che si faceva sempre più intenso. «Una cascata?», chiese. La donna annuì con un gentile sorriso di approvazione e subito Wendy afferrò i remi, sollevando quello di sinistra e manovrando con quello di destra in modo da girare lentamente la barca fino a trovarsi rivolta verso valle e la cascata. Abbassati entrambi i remi nell'acqua, prese poi a remare con ampi colpi decisi e per qualche tempo riuscì ad avere la meglio sulla corrente, allontanando la barca da quello che temeva potesse essere un precipizio letale. Il sudore le imperlava la fronte e le scorreva in rivoli lungo la faccia, facendole bruciare gli occhi; ben presto il top di cotone ne fu inzuppato sulla schiena, fra i seni e sotto le braccia che cominciavano a tremare per la stanchezza. La vecchia si guardò alle spalle per controllare a quanta distanza fossero dalla cascata. «Ci stiamo avvicinando», osservò. «Puoi... Mi puoi aiutare?». «È per questo che sono venuta, Wendy», sorrise la vecchia. «Chi sei?». «Ti basti sapere che sono un'amica», sospirò la donna. «Dare spiegazioni sarebbe troppo difficile». «Provaci». «Faccio fatica a raggiungerti da tanto lontano», affermò la vecchia. «Farlo nei sogni è decisamente più facile. Sii certa che avremo tempo a sufficienza per tutto». Intanto la corrente si era fatta più insidiosa e la barca stava cominciando ad andare alla deriva verso babordo. Wendy lottò per cercare di mantenerne il controllo, ma le sue braccia si rifiutavano di collaborare e poté soltanto rimanere a guardare con sgomento mentre il suono roboante pareva avvilupparle entrambe. «Siamo a corto di tempo», ricordò alla vecchia. «Hai così tante cose da imparare», affermò lei. «Per ora ti basti sapere soltanto che, per quanto ti sforzi, non puoi modificare la corrente». L'acqua cominciò a formare delle rapide, facendo rollare e beccheggiare
la piccola imbarcazione e coprendole entrambe di spruzzi a ogni sobbalzo. «Questo cosa dovrebbe significare?», chiese Wendy, disperata. «In che modo mi aiuta?». «La strada che ti aspetta è pericolosa e, temo, inevitabile», ribatté la vecchia. «Devi essere preparata». «Come?». «Io ti guiderò», garantì la vecchia, «ma adesso sono stanca...». Con quelle parole svanì, lasciando Wendy sola sulla barca che ormai si era riempita d'acqua al punto da essere impossibile da manovrare. Tremante per il freddo, con le braccia plumbee e praticamente inutili, sentì il rombo divenire assordante, poi la barca s'impennò in avanti un'ultima volta, oltre il bordo della cascata e precipitò in verticale nel vuoto, scaraventandola verso il vorticante maelstrom che si allargava sotto di lei. Wendy cadde urlando... E sbatté la nuca contro la testata del letto. Si stava massaggiando la testa quando bussarono alla porta della sua stanza. «Wendy? Stai bene?», chiamò la voce di sua madre. «Entra», la invitò Wendy, tirandosi su a sedere; fradicia di sudore, gettò via le coperte per raffreddarsi un poco. Con indosso una lunga camicia da notte, Carol Ward sembrò quasi eterea nell'attraversare la stanza diretta verso il letto, per poi sedersi sul bordo. «Devo dedurre che hai avuto un incubo?», chiese. «Non ne sono sicura», rispose Wendy mentre si sforzava di ricordare i dettagli del sogno. «Ti sei svegliata urlando, quindi credo sia lecito supporre che tu abbia avuto un incubo». «Uno di quelli in cui sembra di cadere», spiegò Wendy. «Da un palazzo?». «Da una cascata». «Ecco, se non altro è stato spettacolare». «Mamma!». «Scusami, cara», replicò sua madre cercando di rassettarle i capelli arruffati. «Sono lieta che tu li stia facendo crescere. Li hai spazzolati prima di andare a letto?». «Ho solo lavato i denti», sorrise Wendy, consapevole che sua madre poteva diventare tirannica quando si trattava della cura dei capelli.
«Forse ti dovresti fare una permanente», opinò sua madre. «Se non altro richiede poca manutenzione». «Mai», dichiarò Wendy, poi inarcò le sopracciglia e chiese: «Stai cambiando argomento?». «Rispetto al tuo tuffo incontro alla morte?», Carol scrollò le spalle. «Non è quello che devono fare le madri?». «Credo sia stato un avvertimento», sospirò Wendy. «Di allacciare sempre la cintura di sicurezza?», domandò sua madre perplessa. «Qualcosa del genere», annuì Wendy. «Un'ammonizione a tenermi sempre pronta». «Ecco, se va bene per i boy scout, suppongo che possa andare bene anche per mia figlia». «Grazie, mamma», sorrise Wendy. Sua madre le diede un bacio sulla fronte. «Buona notte, Wendy», disse, prima di uscire e di richiudersi la porta alle spalle. Incapace di riprendere sonno, Wendy scese dal letto e si sedette sulla poltrona di vimini vicino alla finestra. Al posto della camicia da notte aveva indosso soltanto una maglietta grigia della Danfield University di taglia molto abbondante e, siccome il sudore che le si stava raffreddando addosso cominciava a darle i brividi, ripiegò le gambe sotto di sé e si strinse le braccia intorno al corpo per generare un po' di calore. Nel sogno la vecchia portava gioielli di ametista e di smeraldo, le pietre della magia onirica e della divinazione, del tutto appropriate se si considerava il suo messaggio e il modo in cui era stato consegnato. Con l'avvertimento ricevuto un paio di giorni prima da Abby che le echeggiava ancora nella mente, Wendy trovò molto difficile accantonare quel sogno come privo di significato, soprattutto dopo gli episodi di sogni a occhi aperti a cui era stata soggetta l'anno precedente. D'altro canto, è possibile che le parole di Abby mi abbiano preoccupata al punto da generare questo sogno, rifletté. Oh, sono troppo stanca per pensare in maniera coerente. Chiudendo gli occhi si sforzò di visualizzare il volto della vecchia e di cercare in esso qualcosa che potesse essere familiare. Magari si tratta di una lontana parente, si disse sbadigliando. Domattina chiederò alla mamma di tirare fuori i vecchi album di fotografie e cercherò una corrispondenza.
Sbadigliò ancora una volta, poi riuscì in qualche modo ad addormentarsi raggomitolata scomodamente sulla poltrona bianca di vimini, e questa volta dormì senza sogni. E senza avvertimenti. Windale, Massachusetts 1 giugno 2000 Gina aveva detto a Brett di parcheggiare il pick-up Ford F-150 lungo una delle vecchie strade sterrate di accesso alla fabbrica. Durante il giorno, quelle strade tortuose fornivano piste ideali per i ciclisti da cross, ma di notte erano solitamente deserte, un posto buono quanto un altro per ucciderlo, se si fosse arrivati a questo. Brett sapeva troppo, e lei doveva assicurarsi di poter fare affidamento sul fatto che mantenesse i suoi segreti. Aveva scelto con cura quella notte e quel luogo del tutto isolato, immerso nel buio assoluto della luna nuova e privo del beneficio di qualsiasi lampione. Quando Brett spense i fari l'oscurità si chiuse intorno a loro come un mantello, infranta solo dall'illuminazione della cabina di guida, che Brett aveva lasciato accesa nell'effettuare i necessari preparativi. Mentre srotolava una vecchia coperta sullo strato di compensato che copriva il fondo del furgone, Brett stava senza dubbio cercando di ricordare l'ultima volta che avevano trovato un posto isolato dove potersi chiudere insieme in uno spazioso sacco a pelo, cosa che risaliva a molti mesi prima, oltre due mesi prima della notte all'Harrison Lodge Motel. Era la metà di agosto dello scorso anno, pensò Gina facendo mente locale; era stata una notte umida l'ultima volta che avevano fatto sesso, e farlo sopra una coperta non aveva migliorato le cose. Da allora lei aveva tenuto Brett a distanza e, dopo la notte di Halloween, lui stesso era stato troppo sconvolto da quello che avevano fatto per tentare delle avance. In piedi accanto al furgone, Gina stava aspettando che lui finisse di armeggiare, tenendo in mano una bottiglia di acquavite alla pesca, una scelta che non aveva una particolare motivazione: era qualcosa di alcolico da bere, ed era anche dolce. Brett la issò sul retro del furgone, poi si sdraiò supino con un profondo sospiro e intrecciò le dita dietro la testa; Gina, che indossava una semplice camicetta color crema e una minigonna rossa pieghettata, gli si inginocchiò accanto e gli posò la mano libera su un fianco. «Hai intenzione di restartene semplicemente lì steso in quel modo?», chiese. «Cosa?».
«Vogliamo fare sesso, giusto?». Lui si sollevò a sedere, gli occhi sgranati. «Pensavo... Ecco, in realtà tu non ne hai più parlato dopo quello strano incidente in chiesa». Gina posò la bottiglia accanto a loro e gli premette le dita sulle labbra. «Cosa ti ho detto al riguardo?». «Non ne dobbiamo parlare», rispose Brett obbediente. «Non siamo mai stati là». «Bravo ragazzo», approvò Gina, poi gli si mise a cavalcioni e gli sbottonò la camicia di flanella mentre continuava: «Come hanno detto i giornali, padre Murray ha avuto un attacco di cuore, e non è un problema che ci riguardi. Eravamo nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed è inutile farci coinvolgere nell'accaduto. Hai ripreso a fare sollevamento pesi?», chiese quindi, facendo scorrere una mano sull'ampio petto muscoloso di lui, che annuì. «Eccellente. Devi rimanere in forma», approvò Gina. Nel caso che mi serva qualcuno dotato di muscoli, aggiunse fra sé. Assestato uno strattone alla fibbia della cintura di Brett, l'aprì e tirò giù la cerniera dei jeans. «Gina», disse Brett trattenendole la mano. «Ho dimenticato... Voglio dire, non credevo che avrei avuto bisogno di una protezione, dato che non abbiamo più...». «Non ti agitare, Romeo», ribatté lei. «Non rimarrò di nuovo incinta, mai più». Non avrebbe saputo spiegare come faceva a saperlo, ma poteva avvertire dentro di sé qualcosa di diverso. «Cosa? Adesso prendi la pillola?». «Una cosa del genere», fu la vaga risposta di Gina. Supponeva di essere riuscita a ottenere un certo controllo sul proprio corpo, ma riteneva che si trattasse di qualcosa di più: stava cambiando interiormente man mano che immagini e ricordi affioravano alla superficie della sua mente come vapore in una sorgente calda. Svitato il tappo della bottiglia, bevve un lungo sorso di quel liquore dolce. «Ne vuoi un po'?», chiese. Di nuovo Brett annuì, e lei gli inclinò la bottiglia sulle labbra, versandogli in gola un po' di liquore; lui deglutì parecchie volte, tossì e girò la testa di lato; ridendo Gina tornò a posare la bottiglia. «Non mi annegare fra le mani, Brett!», esclamò. «È tutto a posto», garantì lui scuotendo la testa e asciugandosi la bocca con il dorso della mano.
Afferrate le gambe dei jeans, Gina assestò uno strattone verso il basso, e lui l'aiutò sollevando i fianchi mentre tirava; quando i calzoni furono arrivati a metà coscia lei sedette pesantemente sul suo addome. «Così può bastare», disse e, mentre lui annuiva deglutendo a fatica, aggiunse: «Ora fammi un favore, Brett». «Qualsiasi cosa», rispose lui, con voce un po' affannosa. «Stringimi il culo». Le mani callose di lui scivolarono lungo la pelle liscia delle sue gambe, insinuandosi sotto la gonna pieghettata fino a racchiuderle i glutei. Gina non aveva indosso le mutandine. «Come vedi», disse bevendo un altro sorso di acquavite alla pesca, «sono venuta preparata. Cosa mi dici di te?». E infilò la mano nell'apertura delle mutande di lui, constatando che era in piena erezione. «Gina, sei... sei certa di quello che stiamo facendo, vero?». «Nel mio linguaggio corporeo c'è qualcosa che giustifichi la tua domanda?», ribatté Gina. Brett alzò lo sguardo su di lei, seduta a cavalcioni dei suoi fianchi, la minigonna sollevata fin quasi in vita e la bottiglia che le pendeva da una mano. «No... suppongo di no», ammise. «Lieta che la questione sia chiarita», ribatté lei, guidandolo dentro di sé. «Anch'io», rispose Brett in tono distratto mentre Gina prendeva a dondolarsi avanti e indietro su di lui in un ritmo sempre più accelerato; le sue mani le guidavano i fianchi, ma era lei a controllare il tempo mantenendolo a una velocità che lo lasciava quasi senza fiato. Intanto Gina trangugiò dell'altra acquavite. «Hai portato due bottiglie di questa roba, giusto?», chiese a Brett, constatando che quella che aveva in mano era ancora piena per un terzo. «Cosa? Ah, sì, ce n'è un'altra davanti, sotto il mio sedile. Perché?». «Il risparmio è il miglior guadagno», replicò Gina spostando la presa sulla bottiglia in modo da impugnarla per il collo, poi la fracassò contro il lato arrugginito del furgone. «Che diavolo...!». Adesso il collo della bottiglia terminava con un anello di schegge di vetro acuminate, da cui il liquore gocciolava sulla coperta. «Tu continui a voler parlare di quella notte, Brett, quindi parliamone», ribatté Gina premendogli contro la gola due punte particolarmente aguzze, con forza sufficiente a far rientrare la pelle senza affondare nella carne.
D'istinto le mani di lui si staccarono dai suoi fianchi per protendersi ad afferrarle le braccia. «Rimetti le mani dove posso sentirle, se non vuoi che ti squarci la gola!». Lentamente Brett riportò le mani sotto la gonna stringendole i glutei, e lei riprese il proprio movimento energico e ritmato, il volto un po' arrossato a mano a mano che la sua eccitazione aumentava in proporzione alla paura di lui. «Ho bisogno che mi ascolti. Mi stai ascoltando?», chiese. Brett annuì, ma si bloccò quando sentì il vetro rotto ferirgli la pelle. «Bene, perché ho bisogno di sapere di poter contare su di te, Brett». «Tu... puoi contare su di me, Gina», replicò lui con voce resa rauca dalla paura e dalla propria eccitazione. «Lo sai». «Questo è ciò che io ricordo di quella notte», affermò Gina premendosi con forza contro i fianchi di lui mentre un'ondata di piacere le si diffondeva nel corpo. La paura di Brett era più intossicante del liquore o del sesso. «Ho messo al mondo una bambina all'Harrison Motor Lodge. Tu l'hai portata via, probabilmente l'hai soffocata e hai abbandonato il corpo...». «Gina... Non è... quello che avevamo convenuto...». «...in un bidone di rifiuti. Io ero troppo sconvolta per dirlo a chiunque». «Gina!». «Oooh, mi piace quando ti dimeni in quel modo», esclamò lei con un sorriso lascivo. «Cerca però di non afflosciarti, Brett caro, io non sono ancora venuta, non del tutto». E per enfatizzare le proprie parole accentuò un poco la pressione del vetro rotto contro la gola di Brett, fino a quando un rivolo di sangue prese a colargli dietro l'orecchio e lui sussultò. Con una risatina sommessa immerse l'indice nel suo sangue e lo succhiò. «Buono. È salato». «Sei diversa», sussurrò lui in tono sconvolto. «In questo, Brett, hai dannatamente ragione», confermò Gina, protendendosi all'indietro fino a serrargli il membro con una mano con forza tale da strappargli una smorfia. «Sto assumendo il controllo della mia vita». «Cosa vuoi? Vuoi che confessi? Che mi addossi tutta la colpa?». «Nemmeno per sogno. Manterremo il nostro piccolo segreto, proprio come avevamo progettato di fare». «Cosa, allora?», insistette lui mostrandosi sollevato. «Giurami assoluta fedeltà, e avrai le tue ricompense», rispose lei prendendo ad accarezzargli con leggerezza il membro con la punta delle dita.
Brett ebbe un brivido di piacere e s'indurì maggiormente dentro di lei. «Tu... sei tutto per me», ansimò serrandole il sedere con mani ora sudate e tremanti, mentre lei accelerava il ritmo portando entrambi verso l'orgasmo. «Ormai ti amo da quasi due anni». «Lasciamo ai poeti i discorsi d'amore», ribatté Gina. «Non ho bisogno del tuo amore, ma della tua obbedienza». «Ottimo», acconsentì lui, forse un po' troppo prontamente. Gina gli afferrò i capelli con la mano sinistra e accentuò ancora un poco la pressione della bottiglia rotta, causandogli altre piccole ferite da cui colarono nuovi rivoletti di sangue. «Per favore... Ti prego, Gina, lo prometto!». Allentando un poco la pressione contro la sua gola, gli lasciò andare i capelli e riprese a muoversi con ritmo febbrile, lei stessa un po' a fiato corto. Per un momento, Brett aveva creduto che stesse per ucciderlo, e questo le aveva scatenato dentro un'ondata di piacere quasi intollerabile. Serrando le cosce contro i fianchi nudi di lui, gli gravò addosso con tutto il peso dell'orgasmo ormai prossimo. «Sappi questo, Brett. Se mai dovessi costituire per me un interrogativo, se mai dovessi dubitare della tua assoluta fedeltà, organizzerò un altro incidente», disse, poi gemette di piacere, avviluppandolo completamente dentro di sé. Nonostante la bottiglia rotta che gli premeva contro la gola, Brett inarcò violentemente i fianchi sotto di lei in reazione al proprio violento orgasmo. Ah, le meraviglie della gioventù, pensò Gina. Quando lui cominciò ad afflosciarsi dentro di lei, spostò la bottiglia rotta accanto alla sua testa e si chinò a lambire con la lingua le sottili linee di sangue che gli segnavano il collo come un gatto che leccasse del latte da un piattino. «Un incidente come quello che ha ucciso il povero padre Murray», gli sussurrò poi all'orecchio. Gettata via la bottiglia rotta si puntellò contro il petto di lui con entrambe le mani per potersi sollevare in modo da fissarlo intensamente negli occhi. Ripensando a Kenny e a come gli aveva fatto scambiare un biglietto da un dollaro per uno da cento, comprese di aver dimostrato la propria capacità di controllare le menti deboli, ma il caso di Brett era diverso. La sua mente non era necessariamente debole, era soltanto plasmabile, o almeno così si augurava, e perché potesse controllarlo era necessario che lui fosse disposto ad esserlo, almeno in parte. Il sesso era una chiave primaria per
accedere all'energia, al potere e, nelle giuste circostanze, al controllo. Adesso, gli occhi che stavano fissando i suoi esprimevano più eccitazione che timore. «È stato bello, vero?», gli chiese accarezzandogli il volto sudato. «E può solo diventare più bello, Brett. La notte è ancora giovane, e io voglio bere e scopare per ore. La cosa ti crea qualche problema?». «Per...», cominciò lui, poi deglutì per schiarirsi la gola e concluse: «Per nulla». Gina fu assalita dall'idea improvvisa che avrebbe potuto addestrarlo a diventare il suo guardiano, anche se non capiva cosa potesse significare quel termine, guardiano. «Prendi la bottiglia che hai sotto il sedile», ordinò scuotendo il capo per allontanare quel pensiero vagante, poi si protese ad accarezzarlo e, nel sentirlo sussultare per il primo accenno di una nuova erezione, aggiunse: «Dopo vedremo se con qualche bacio riuscirò a rimetterlo in buone condizioni». Note 1. Orsetto con cappello da ranger utilizzato in America per la campagna contro gli incendi boschivi [ndt]. Capitolo 3 Windale, Massachusetts 8 giugno 2000 «Ultima occasione», disse Alissa Raines facendo dondolare le chiavi sopra il palmo proteso di Wendy. «Sei certa di poter gestire la cosa?». «Credo di poter gestire il negozio, a patto che tu prometta di tornare prima del semestre autunnale», replicò Wendy. Alissa aveva un volto tranquillo incorniciato da lunghi capelli bianchi raccolti in una morbida coda di cavallo e rischiarato da scialbi occhi azzurri. Niente sembrava mai riuscire a turbarla, uno stato mentale che lei attribuiva alla meditazione quotidiana e allo yoga; di giorno indossava di solito sciarpe a colori vivaci e gonne a portafoglio, sopra una calzamaglia da esercizi e, dal momento che teneva perennemente una stuoia per la meditazione nel retro del negozio, non era costretta ad andare lontano per rag-
giungere un rinnovato stato di pace mentale. Di tanto in tanto tentava di reclutare Wendy fra le file degli yoghisti, ma ogni volta lei respingeva quegli attacchi promettendo che nel prossimo futuro avrebbe cominciato a seguire un regime tai chi. Dopo aver accantonato le esercitazioni alla cyclette, che era arrivata a considerare demoniache, Wendy aveva preso a fare jogging, e in genere riusciva a percorrere otto chilometri al giorno, quattro o cinque giorni alla settimana. Secondo Alissa lo jogging era un'attività troppo indisciplinata, ma Wendy preferiva un genere di esercizio aerobico di cui poteva controllare lo svolgimento. Sfoggiando appena un accenno di cipiglio sui lineamenti solitamente distesi, Alissa le lasciò cadere in mano le chiavi. «Ricorda che adesso il capo sei tu, quindi di' pure addio agli orari flessibili. Da questo momento i tuoi orari sono gli orari di negozio, quindi bada di non arrivare tardi o di non andare via troppo presto. Se necessario serviti di Kayla e di Tristan, ma ricorda che pur avendo orari flessibili lavorano part-time, quindi tienili al di sotto delle trenta ore alla settimana. In ogni caso cerca di non rimanere sola in negozio per periodi di tempo prolungati». «Sì, mamma Raines», la rimbeccò scherzosamente Wendy. «Che mi dici del mio progetto? Ho la tua benedizione?». Alissa si accigliò. Due volte in cinque minuti, pensò Wendy. Devo comunicarlo alla stampa. «Non lo so, Wendy. Un sito Internet per il Crystal Path?», replicò quindi scuotendo il capo. «Va contro le mie innate tendenze buddiste. Mi sembra sbagliato». «Non dimenticarti dei tecnopagani», le ricordò Wendy. «Inoltre là fuori più di una strega wicca ha conservato il suo Libro delle Ombre in forma digitale su un personal computer». «Tu lo hai fatto?». «Ecco, ancora no», ammise Wendy, «ma ci sto seriamente pensando». «D'accordo, faremo un tentativo», sospirò Alissa. «Splendido!». «Però voglio che ci lavori soltanto qui in negozio quando gli affari vanno a rilento. Sei giovane, quindi non farti ossessionare giorno e notte da questa cosa e goditi la vita, quando non sei al lavoro». Quale vita? Niente college, niente Alex e niente Frankie per i prossimi due mesi, rifletté Wendy. «Grazie», si limitò a rispondere. «Forse riuscirò a ricavare da questo progetto qualche credito di studio indipendente».
«Questo sarebbe bello», convenne Alissa. «Bene, adesso augurami buona fortuna per la traversata. Ho sempre desiderato fare un giro dell'Europa». «Vorrei poter venire con te», replicò Wendy sfoggiando un broncio esagerato. Alissa le prese il mento con una mano e lo scrollò gentilmente. «Purtroppo, quella tua macchina nuova ti ha lasciata senza un penny. Nonostante questo ti porterei comunque con me, ma in quel caso dovremmo chiudere il negozio». «Potrei appendere alla porta un cartello con su scritto FUORI A PESCARE, e fare la clandestina nascosta nel tuo bagaglio». «Non credi che i tuoi genitori sentirebbero la tua mancanza?». Wendy scrollò le spalle con aria da monella. «Non li vedo comunque quasi mai. Una riunione di college dopo l'altra, banchetti, cene, party in giardino, raccolte di fondi e non so che altro». Suo padre era il preside del college e uno degli obblighi che derivavano da quella carica era una serie interminabile di impegni mondani e di raccolta di fondi, due cose che spesso coincidevano. «Il calendario della loro vita sociale mi genera complessi d'inferiorità», concluse. «Povera cara», commentò Alissa battendole un colpetto su una guancia. «Magari sarà per l'anno prossimo». «Oooh, allora diventerà una tradizione annuale?». «Facciamo biennale, considerato quanto mi sta costando», precisò Alissa. «Adesso devo prelevare i bagagli e prendere un aereo». «Pretendo una cartolina da ogni città che visiterai, signora Raines». «Avrai le tue cartoline. Qualche domanda dell'ultimo minuto sulle procedure da seguire in negozio?». «Ho memorizzato tutto», garantì Wendy, poi aggiunse: «Da qualche parte, su un blocco per appunti. In ogni caso se si dovesse verificare un'emergenza ti chiamerò sul cellulare». «Non credo nei cellulari e nei cercapersone». «Esistono, Alissa, ho visto persone reali usarli proprio qui, in questa città». «Ah, ah, sei una ragazza divertente», commentò Alissa venendo avanti per abbracciarla. «Sentirò la tua mancanza, Gwendolyn Alice Ward. Non ti mettere nei guai». «Chi? Io?». Alissa fece un passo indietro per fissarla in volto.
«C'è qualcosa che non mi stai dicendo?», domandò. «Uno o due brutti sogni», ammise Wendy scrollando le spalle. «Niente a confronto degli incubi dell'anno scorso». E poi attualmente la situazione è troppo strana per provare a spiegarla, pensò mentre proseguiva: «Inoltre non voglio che ti preoccupi per me mentre ti dovresti divertire. Hai sognato questo viaggio per tutta la vita». «Infatti», sorrise Alissa. «Ah, quasi dimenticavo. Tu e Frankie state ancora pensando di affittare un appartamento per il semestre autunnale?». «Questa sarebbe l'idea, se riusciremo a farcela dal punto di vista finanziario», confermò Wendy. Uno dei vantaggi aggiuntivi che derivavano dall'essere la figlia del preside era che per lei i corsi a Danfield erano gratuiti, con l'esclusione però del costo di una stanza presso il dormitorio, in quanto la residenza del preside era considerata abbastanza spaziosa anche per la più vasta famiglia immaginabile. E il fatto che Wendy sentisse il bisogno di avere un posto tutto suo non era motivazione sufficiente per ottenere un lasciapassare gratuito. La metà delle volte non riesco a trovare neppure un parcheggio gratuito! pensò. «Invece di un appartamento, vi andrebbe di prendere in considerazione una villetta con due camere da letto?». «Diamine, certo!», esclamò Wendy. «Il padrone di casa sarebbe disposto ad accettare un contratto che preveda un affitto pari a quello di un appartamento?». «Lo accetterebbe in natura». «Ehi», sorrise Wendy, «io sono una ragazza all'antica! Di che sorta di pagamento in natura si tratta?». «Un po' di olio di gomito». «Questo sì che è da pervertito!». «Wendy, finirò per arrivare tardi all'aereo!», esclamò Alissa esasperata. «Scusami», annuì Wendy. «Vuota il sacco». Alissa le spiegò che uno dei suoi clienti semi-regolari, un termine che lei preferiva alla definizione di irregolari suggerita da Wendy, possedeva una villetta a circa tre chilometri dal campus di Danfield. Clayton Quinn. L'anziano ed eccentrico gentiluomo, che si era creato una certa fama scrivendo libri riguardanti episodi di regressione a vite precedenti, aveva commesso l'errore di dare il permesso di usare la villetta a un suo nipote che aveva frequentato Danfield parecchi anni prima. Il nipote aveva poi formato un gruppo rock chiamato Bloody Pus e così aveva finito per abbandonare il college per andare in tournée con il gruppo, esibendosi per lo
più in locali di quart'ordine senza mai trovare una casa discografica disposta ad anticipare i soldi per la registrazione di un pezzo. Purtroppo Brad Quinn, o Brad l'Impalatore, come si faceva chiamare sul palco, e i suoi compagni di gruppo avevano perfezionato l'arte raffinata di distruggere camere di hotel esercitandosi a spese della villetta. «Poveri noi», gemette Wendy. «Infatti», annuì Alissa. «Clayton viaggia di continuo per rintracciare soggetti da intervistare per i suoi libri, ma non gli dispiacerebbe incassare qualcosa come affitto della villetta. Nello stato in cui si trova, per lui è inutile». «Quindi cos'ha in mente?». «Lui pagherà i materiali, da un conto contenente una somma preventivamente stanziata, e tu effettuerai le riparazioni, rimetterai a posto la casa e pagherai le bollette; in cambio, la villetta sarà tua senza affitto per tre mesi». «E allo scadere dei tre mesi?». «Trecento al mese per tutto il semestre primaverile», rispose Alissa. «Dopo, se vorrai rimanere ci sarà un leggero aumento dell'affitto, probabilmente altri cento dollari, ma è comunque meno di quanto chiederebbe a chiunque altro». «Quindi verrei presa sotto l'ala a una cifra più bassa. Una sorta di affitto controllato». «In pratica sì, se sceglierai di rimanere». «Un canone a tetto fisso. Potrebbe essere una buona soluzione. Posso dare un'occhiata alla casa prima di decidere?». «L'idea è questa. Sotto il bancone c'è una busta con sopra nome, chiavi, istruzioni e tutto il resto. Con un po' di duro lavoro, potresti avere la casa a posto prima dell'inizio delle lezioni». Windale, Massachusetts 11 giugno 2000 È una vera area disastrata, pensò Gina. Vestita con un maglione azzurro polvere, pantaloni sfrangiati, calzettoni al ginocchio e stivali da trekking, si arrampicò sulle macerie oppressa da uno sgradevole presagio. Sorreggendosi a pezzi contorti di barre metalliche, si issò fino in cima al mucchio di cemento crollato che era stato l'estremità frontale della fabbrica tessile abbandonata. Le pareti laterali e
quella posteriore si ergevano ancora sopra il guscio vuoto della vecchia fabbrica, ma la sezione anteriore, che aveva incluso gli uffici amministrativi, era completamente crollata. Con le gambe che tremavano per qualcosa di diverso dalla stanchezza, Gina si mise a sedere su una fredda lastra di cemento e si strinse le braccia intorno alle ginocchia, cercando di capire quel miscuglio di paura, disperazione e rabbia che le vorticava dentro. L'unico ricordo che aveva di quel luogo risaliva a due anni prima, quando ci era venuta con un paio di altri studenti del secondo anno di liceo: si erano divisi alcune lattine di birra procurate di nascosto e avevano scagliato sassi contro un paio di finestre ancora integre per sottrarsi alla noia, niente che potesse giustificare le intense emozioni che adesso minacciavano di sopraffarla. Vestito con una camicia da rugby gialla e verde, jeans e Nike nere, Brett intanto stava scalando il mucchio di rocce con la grazia agile di un atleta nato, superando d'un balzo i crepacci fra i diversi pezzi di cemento crollati senza preoccuparsi di possibili danni e senza essere ostacolato da intense emozioni associate a quel luogo. In quel momento Gina lo odiò per la sua sicurezza. Quando la raggiunse le si accoccolò accanto e cercò di capire cosa stesse destando il suo interesse. «Qui non c'è granché», commentò infine. «Morte», rispose Gina incontrando il suo sguardo. «Qui c'è la morte». «La morte di chi?». «La mia», replicò lei distogliendo lo sguardo. «La tua? Gina, tu sei decisamente viva!». «Sai quella sensazione di cui parlano? Quando qualcuno cammina sulla tua tomba?», chiese Gina, e quando Brett annuì aggiunse: «È l'esatta sensazione che mi provoca questo posto». «Come una premonizione?», ridacchiò Brett, leggermente a disagio. «Allora forse dovremmo andarcene prima che questo cumulo di macerie finisca per crollare». «È troppo tardi», dichiarò Gina alzandosi in piedi. «Io sono già morta qui». Si avviò quindi per iniziare goffamente la discesa, ma poi continuò da sopra la spalla: «Adesso ho bisogno di scoprire com'è successo... E chi è stato a uccidermi». «Perché?», chiese Brett accelerando il passo per raggiungerla. In piedi sul pavimento della fabbrica, alla base del cumulo di macerie, Gina si volse a guardarlo.
«Perché vorrei ricambiare il favore», replicò con un tono tale da immobilizzarlo dove si trovava. «Questo posto è una discarica», affermò Larry Ward mentre Wendy gli mostrava l'interno della villetta, e quando lei lo fissò con aria accigliata si corresse, precisando: «Ecco, una discarica con qualche possibilità di recupero». «Cerca di immaginare come sarà dopo che l'avrò rimessa a posto», replicò Wendy. «Dopo che tu l'avrai rimessa a posto?». «Dopo che noi l'avremo rimessa a posto, pater», puntualizzò Wendy passandogli un braccio intorno alle spalle. «Immaginavo intendessi dire questo». A un solo piano, la villetta a pianta rettangolare dalla facciata di pietra bianca si trovava al 333 di Kettle Court, alla fine di una strada senza uscita nella zona residenziale di Windale, quasi alle porte del campus principale di Danfield. Una stradina curva attraversava l'ampio giardino anteriore, che sfoggiava un acero e un prato tagliato di recente; quella era però la sola forma di manutenzione che la villetta avesse visto da anni. La maggior parte delle finestre anteriori era stata mandata in frantumi e successivamente chiusa con assi inchiodate e dipinte di bianco, in modo che risultassero meno evidenti dalla strada. All'interno la moquette era macchiata in maniera tale e così tanto da far sì che Wendy non osasse neppure avanzare supposizioni sulla natura delle sostanze che l'avevano scolorita, chiazzata o impastata; in altri punti risultava invece strappata, forata o bruciacchiata. La cosa peggiore erano però le pareti, costellate da numerosi buchi creati da martelli, pugni, calci e altri strumenti di distruzione domestica non identificabili; nei tratti in cui erano intatte, apparivano coperte di graffiti dipinti con vernice a spruzzo che dimostravano la vasta conoscenza che l'artista aveva avuto in fatto di profanità, sia comuni sia esoteriche. Lattine di birra e di soda alternate a qualche occasionale bottiglia di vino o di whisky erano sparse un po' dappertutto. E con questo, addio effetto della prima impressione, pensò Wendy. Accompagnò il padre a visitare tutta la villetta e, mentre facevano il giro delle stanze, lui avanzò una serie di commenti sul genere di riparazioni necessarie e su quali materiali ci sarebbero voluti, prendendo annotazioni su un piccolo blocco per appunti con rilegatura a spirale, che poi riponeva nella tasca della camicia, e procedendo di tanto in tanto a delle misurazioni
con un metro tascabile. «Vernice in quantità massicce, smalto e lattice... Quanto ai colori, dovrai deciderli tu. Teli per raccogliere le gocce, rulli, pennelli, acqua ragia. Bisognerà rimuovere tutta quella moquette... Nuove finestre... Persiane...». Subito a sinistra della porta d'ingresso c'erano un armadio a muro e un ripostiglio, poi un corto corridoio portava alla lavanderia e a una camera da letto sulla sinistra, al bagno e all'altra camera da letto sulla destra. Entrambe le stanze erano dotate di armadi a muro spaziosi, mentre il bagno disponeva di una vasca antiquata, di quelle con i piedini di sostegno; come concessione alle comodità moderne c'erano peraltro un braccio doccia regolabile e la sbarra per la tenda paraspruzzi. Fra le due camere da letto Wendy preferiva quella sulla destra, perché si affacciava sul giardino posteriore, del tutto incolto; l'altra stanza aveva più o meno le stesse dimensioni, ma la sua finestra dava sul giardino anteriore. In entrambe le stanze le pareti avevano riportato danni minimi, anche se sarebbe stato necessario rimpiazzare la moquette. Le finestre erano però tutte rotte, mancanti o chiuse con assi. Quanto al bagno, aveva bisogno di essere intonacato di fresco e ripulito a fondo, ma a parte questo non richiedeva importanti opere di restauro. La cucina e la sala da pranzo erano in fondo alla villetta, sul retro, e davano sulla terrazza; era possibile che qualcuno degli elettrodomestici della cucina funzionasse ancora, cosa che avrebbero scoperto soltanto quando avessero attivato la luce e il gas. Il lato destro della sala da pranzo era separato da un muretto che era stato parzialmente distrutto da membri non identificati del gruppo Bloody Pus; il lato interno poteva fungere da tinello, mentre quello esterno, che si affacciava sui resti di un portico coperto, pareva essere stato un salottino privato. A parte gli elettrodomestici della cucina e una lavatrice con asciugatrice che si trovava nella lavanderia, ogni altro arredo era stato rimosso dalla villetta. Sempre che quelli del gruppo Bloody Pus abbiamo mai avuto dei mobili, quando vivevano qui, pensò Wendy. Lei e suo padre uscirono infine sulla terrazza di pietra che dominava la giungla in cui si era trasformato ciò che un tempo era stato un appartato cortile posteriore con giardino annesso. Anche là pareva che qualcuno avesse rovesciato alcuni bidoni delle immondizie pieni di lattine di alluminio, bottiglie e contenitori da fast-food; al di là del giardino si stendeva una fila di conifere da cui giungeva una fragrante miscela di profumi, un insieme di pino, abete ed eucalipto. Il primo pensiero di Wendy era stato
che, una volta rimessa in ordine quell'area posteriore, avrebbe potuto eseguire i suoi riti in giardino, lontano da occhi indiscreti, così non sarebbe più stato necessario andare fino a Gable Road e lasciare la macchina sul lato della strada fingendo che fosse in panne. «Allora, che ne pensi?», chiese girandosi verso suo padre. «È vicina al campus, e c'è una seconda stanza per Frankie, ma la cosa migliore è che l'affitto sarà decisamente basso, almeno per il primo anno». Larry si passò una mano sulla testa sempre più stempiata e sospirò. «Non voglio prenderti in giro, Wendy. Il lavoro da fare è molto, anche con il mio aiuto». «Lo so», ammise lei, «ma prova a guardare al di là delle riparazioni, visualizzala in ordine e graziosa». «Tua madre e io ti diamo tanto fastidio che tu debba andartene di casa?». Anche se suo padre aveva sorriso per togliere ogni durezza a quelle parole, Wendy si accorse che era un po' rattristato alla prospettiva che lei si trasferisse. Suppongo che il momento del nido vuoto arrivi molto più in fretta, quando si ha una sola figlia, rifletté. «Voi siete splendidi, e non ho di che lamentarmi», rispose. «Sai che voglio bene a tutti e due. Questa è soltanto... un'occasione per essere un po' indipendente senza correre troppi rischi. Un affitto di soli tre mesi, rinnovabile, con te e la mamma ad appena cinque minuti di strada nell'eventualità di un'emergenza, come per esempio nel giorno del bucato». Suo padre ridacchiò. «Non sarò così lontana», continuò Wendy abbracciandolo. «Sentitevi liberi di farmi visita quando volete. Anzi, i giorni in cui a pranzo vi dovesse avanzare qualcosa di gustoso sarebbero quelli ideali per passare a trovarmi». «D'accordo, Wendy», si arrese suo padre, «ma non pensare neppure a trasferirti qui finché le finestre non saranno state rimpiazzate, le serrature cambiate e non avrai installato catena e chiavistello alla porta d'ingresso». «Affare fatto». Windale, Massachusetts 12 giugno 2000 All'una e tre quarti di mattina, Brett accostò il furgone al marciapiede fuori dalla casa di Gina e mise in folle.
«Ti senti meglio?», chiese. «Molto meglio», replicò Gina. Abbandonandosi al suo bacio, gli stuzzicò per un momento il labbro inferiore fra le proprie labbra, poi lo morse con tanta forza da strappargli un grido; d'istinto Brett si portò una mano alla bocca e la ritrasse striata di sangue. «Non mi dire che un po' di dolore ti fa paura, Brett», sussurrò Gina, prendendogli la mano nella propria e lappando via il sangue dal palmo con una lunga leccata. «O un po' di sangue». Lui si passò la lingua sulla ferita e scosse il capo. «Suppongo di no». «Bravo ragazzo», approvò Gina passandogli la mano sulla patta dei jeans e stringendo con forza. «Va' a casa e riposati. Dopotutto, Brett, vogliamo entrambi che tu sia in grado di tenere il mio ritmo, giusto?». Brett annuì, passandosi ancora la lingua sulle labbra improvvisamente aride. «Qui siamo all'inizio di qualcosa», aggiunse Gina, poi scese dal lato passeggero del furgone e, guardando attraverso il finestrino, ribadì: «Qualcosa di grosso». «'Notte, Gina», replicò lui, e si allontanò. Dopo che i fanali posteriori del furgone furono scomparsi oltre l'angolo, Gina percorse con calma il vialetto, infilò la chiave nella serratura e aprì lentamente la porta principale; ormai tutti dovevano essere andati a dormire e non vedeva motivo di annunciare il fatto di essere rientrata così tardi. Stava sgusciando oltre le porte interne dell'atrio per passare nel salotto, quando un'ombra si sollevò da una sedia della sala da pranzo alla sua destra e le si avvicinò; dalle dimensioni Gina comprese di chi si trattava. «Salve, Dominick», disse con noncuranza al suo patrigno. «Non c'era proprio bisogno che restassi alzato ad aspettarmi». Lui era stato seduto al tavolo della sala da pranzo, con indosso un pigiama di flanella grigia e intento a sorseggiare scotch con ghiaccio. Se ha bevuto a un'ora così tarda, Dominick sta covando della rabbia repressa, rifletté Gina. Che avesse avuto una brutta giornata al lavoro e fosse ora intenzionato a sfogarsi a spese della figliastra? «Sei in ritardo», disse quasi senza muovere le labbra, segno che stava cercando di controllare la propria rabbia. «Ero preoccupato». «Sono commossa». Accigliandosi, Dominick le si fece più vicino, tanto da invadere il suo
spazio personale. «Tua madre e io ti avevamo chiesto di rientrare alle dieci e mezza e invece sono quasi le due di notte». «Ho perso la cognizione del tempo», ribatté Gina, scrollando le spalle. «Domani c'è scuola». «Oh, per favore», sospirò Gina, agitando una mano come per accantonare l'obiezione. «Gli insegnanti non si aspettano neppure che noi ci si faccia vedere, in questi ultimi tre giorni». Dominick le mise le mani sul spalle e la spinse contro l'angolo formato dalla parete che separava il salotto dalla sala da pranzo. «Noi invece ci aspettiamo che tu ci dia ascolto, signorina. Questa è casa nostra, con le nostre regole! Tu però stai tenendo un comportamento sfrenato: sei rientrata tardi... e hai bevuto». «Anche tu». La mano di lui si mosse di scatto, colpendola alla guancia. È solo un po' di dolore, niente che non si possa sopportare, pensò Gina, portandosi la mano alla guancia offesa e avvertendo il calore che ne emanava. «Sai, Dominick», affermò poi in tono provocatorio, «se proprio mi vuoi picchiare, ci sono molti posti migliori su cui farlo». I suoi occhi si sgranarono, dilatati e quasi selvaggi, e per un momento Gina credette di scorgervi dentro una scintilla di determinazione. Sfruttando quel momento, si appoggiò contro di lui fino a sentire la sua barba lunga contro la propria guancia arroventata. «Io non lo dirò alla mamma, se tu non lo farai», gli sussurrò all'orecchio. «Cosa...?», sussurrò lui quasi ammutolito dall'incredulità. Nello sgusciare via, Gina premette il bacino contro quello di lui appena il tempo necessario ad appurare che la sua incomprensione non era poi assoluta quanto avrebbe voluto farle credere. «Ti auguro sogni piacevoli, Dom», aggiunse lanciandogli un bacio. Poi gli volse le spalle e si avviò su per i gradini con deliberata lentezza, facendo oscillare le lunghe cosce fasciate dai pantaloni tagliati al ginocchio, in attesa di una protesta o di un invito provenienti dal basso. A metà altezza la scala si allargava in un pianerottolo e poi invertiva la propria direzione prima di continuare a salire; soffermandosi sul ballatoio, Gina guardò verso il basso ed ebbe la conferma che Dominick aveva seguito con lo sguardo la sua lenta ascesa. Il vecchio Dom è senza parole, si disse, proprio come lo voglio io.
Aveva bisogno di una doccia calda per lavare via i residui della giornata, polvere, sudore e altri fluidi corporei; per il solo gusto di tormentare il patrigno, lasciò aperta la porta del bagno mentre si lavava, poi si asciugò e percorse nuda il breve corridoio che portava alla sua stanza, riconoscendo con riluttanza la capacità di Dominick di resistere alla tentazione. Senza dubbio era convinto che lei stesse cercando di incastrarlo e, se voleva essere onesta, doveva riconoscere che era proprio così, solo che non aveva ancora escogitato come fare. Una volta in camera chiuse la porta, ma non a chiave, nell'eventualità che lui ripensasse alla sua offerta. Se avesse deciso di farle una visita a tarda notte - o forse era meglio dire di primo mattino - l'avrebbe trovata nuda fra le lenzuola di satin. Solo poche settimane prima aveva scoperto quanto fosse piacevole il contatto del satin con la sua pelle nuda; mentre se ne stava distesa in attesa del sonno o di qualcosa di più interessante, tornò con la mente alla fabbrica distrutta, al muro crollato e al mucchio di macerie che aveva destato nel suo animo non solo la sensazione di una morte inevitabile, ma anche un'ira ribollente, il desiderio di colpire qualcuno. Sentiva che l'entità presente dentro di lei, che incarnava la sicurezza di sé e l'ambizione che da poco aveva scoperto di possedere, voleva disperatamente ricordare, un desiderio che la stava spossando. Di lì a poco, scivolò in un sonno agitato, e sognò... Elizabeth Wither, una vedova che preferisce l'oscurità, è in piedi nel suo tinello, davanti al tavolo con le gambe a cancello, vestita con cuffietta, camicetta e gonna; di fronte a lei è seduto un uomo di mezz'età dal volto duro, che sta cercando di apparire a proprio agio sulla sedia di legno, fallendo miseramente nell'intento. Il pallido chiarore della luce lunare le rivela gli sbiaditi occhi grigi del visitatore, pieni in pari misura di paura e di rispetto, e lei nota con soddisfazione che spesso in sua presenza l'uomo si sente la gola arida. A brevi intervalli beve infatti piccoli sorsi di birra dal boccale di cuoio che gli ha messo davanti, quanto basta a umettarsi la gola, ma non tanto da ottundersi la mente. Mastro Ezekiel Stone non dovrà mai considerarsi un mio pari. Lui è soltanto uno strumento. Wither accantona l'acciarino contenuto nella scatola dell'esca, oggetto il cui uso è comunque per lo più una finta, e protende invece la destra verso la candela infilata nell'alto candelabro, sfregando contro il pollice l'unghia dell'indice e generando una scintilla che saetta verso lo stoppino. Ezekiel cerca di non apparire sorpreso, ma lei vede la sua gola contrarsi
per il nervosismo. Accosta alla candela un bastoncino di pino resinoso e, quando si accende, lo getta nel focolare, dove le fiamme attecchiscono subito respingendo le ombre. Sulla pietra antistante il focolare sono posate alcune bamboline, fatte di stracci rubati e imbottite con pelo di capra; alcune di esse sono anche trafitte da spilli. «Va meglio?», chiede dando le spalle alla luce. «Sì», annuisce lui, contorcendosi leggermente. «Un poco». Anche questa piccola magia del fuoco lo spaventa. Alla luce delle fiamme vede che l'uomo è vestito abbastanza semplicemente con un cappello da città, farsetto, calzoni di cuoio e quel mantello scuro che gli piace tanto; quando agisce per suo conto, bada bene a non attirare troppa attenzione su di sé. «Cosa mi hai portato?». «La tua carta, da quella fabbrica, Rittenhouse di Germantown». «Bene», approva Wither togliendogli il pacco di mano. La carta è un bene raro, ma lei ha i fondi per acquistare ciò che le serve. Quanto resterebbero sgomenti i suoi vicini se sapessero che la maggior parte di quella carta è destinata a finire nel fuoco! Soprattutto se dovessero scoprire che, prima di bruciarli, lei scrive degli incantesimi sui fogli. «Niente altro?», domanda. Lui si schiarisce la gola, a disagio. «Se ti riferisci a quell'altra... merce, dobbiamo ancora stabilire il prezzo». Lei si protende in avanti, le mani premute sul tavolo, gli occhi che ardono con un'intensità che lo fa tremare. «Vorresti tirare sul prezzo quando sai che verrai abbondantemente ricompensato per questo, più che per ogni altra cosa?», sibila. «Tu... li vuoi soltanto giovani, ed è un grosso rischio. Se venissi sorpreso con un bambino rapito...». «Se verrai preso sarai due volte dannato, Ezekiel, perché non ti permetterò di cavartela così facilmente». La sua mano si chiude sull'impugnatura di un coltello, che è apparso sul tavolo come dal nulla. Ezekiel potrebbe sospettare che lo abbia tenuto nascosto sotto i vestiti, ma quando si tratta di lei non può mai essere sicuro di nulla. Il manico di legno è tinto quasi di nero per via del sangue che lo ha più volte coperto; su ciascun lato è stato intagliato un serpente con la lingua biforcuta e i denti protesi. La lunga lama scintilla quando lei la muove sotto la luce del fuoco.
«C'è del potere nel prendere vite innocenti, nel divorare carne innocente. Windale è ancora troppo piccola perché cose del genere possano passare inosservate. Qui non godo dell'anonimato garantito dalle strade affollate di Londra». «Ho setacciato le più grandi città, come Salem Town e Boston. Non temere, troverò quello che ti serve. Ho solo pensato che volessi aspettare di aver formato il gruppo di tre, la congrega, prima di...». «Faresti bene a pensare di meno, Ezekiel. Puoi essere certo che il gruppo di tre si formerà. Ci sono delle opportunità proprio qui, donne che cadranno sotto il mio influsso una volta poste nelle... giuste circostanze, però ti dirò soltanto ciò che devi sapere, niente di più e niente di meno». Lascia il coltello sul tavolo, chiedendosi se lui tenterà di tagliarle la gola, avendone l'opportunità. D'altronde la paura e il rispetto sono tali da lasciare poco spazio a una simile eventualità. Un giorno la congrega dovrà scivolare in un lungo sonno, e lei avrà bisogno di un guardiano, adeguatamente addestrato e completamente sottomesso. Si allontana dal tavolo e si avvicina al focolare, inginocchiandosi con la schiena rivolta verso di lui. Se dovesse cercare di alzarsi dalla scomoda sedia di legno, Ezekiel farebbe un rumore infernale, l'ultimo che avrebbe mai occasione di produrre. Lui però rimane immobile, come lei sapeva che avrebbe fatto. Wither passa una mano sulla pietra del focolare, annullando l'illusione che sia troppo pesante per essere smossa perfino per lei, prima di sollevarla. La sacca che essa nasconde ha a sua volta un peso considerevole, il vero peso delle monete, non quello fasullo di un incantesimo. Trasportata la sacca fino al tavolo, la posa davanti a lui: alcuni uomini possono essere comprati con il potere, altri con piaceri assortiti, mentre altri ancora richiedono soltanto dell'oro. Ezekiel è un uomo semplice, per il quale le ricchezze sono pagamento sufficiente. «Qui c'è la metà del prezzo pattuito», gli dice, vedendo affiorare sul suo volto un ampio sorriso. «Portami quello che desidero, ma solo con la luna nuova e a notte fatta, e avrai l'altra metà». Raccogliendo il coltello, fa scorrere le dita lungo la sua lama lucida, affilata in modo soprannaturale, e aggiunge: «Non venire affatto, e io ti scoverò, anche se dovessi cercare riparo nei più profondi recessi dell'Inferno. Vieni a mani vuote, e troverò un altro modo per utilizzarti. Bada bene, Ezekiel, la tua carne non è ancora troppo dura per finire nella pentola dello stufato. Servimi bene, e sarai ricompensato. Vieni meno una volta, e desidererai trovarti nelle fiamme
dell'Inferno». Risuonò un lieve scricchiolio. Disturbata, Gina emerse fugacemente dal sogno e si girò supina, gettando in fuori una mano mentre mormorava un nome: «Wither...». Un momento più tardi, scivolò in un altro sogno, non molto diverso dal primo... Elizabeth Wither attraversa la cittadina con un passo tanto spedito e deciso da essere sconveniente, la gonna che le svolazza fino alle spalle. Davanti al municipio, un ubriacone è chiuso nella gogna, una U appesa al petto; lei lo riconosce, è mastro Osgood, il bottaio. Anche Osgood la vede passare. «So che cosa sei, vedova Wither!», gracchia. «Io ti vedo... ti vedo apparire di notte, volando, per tormentarmi». «Tu vedi soltanto quello che si può trovare in fondo a un boccale di birra», ribatte lei, incenerendolo con lo sguardo. «Possa tu marcire per questo». «Strega!», grida Osgood, mentre lei fa per voltargli le spalle. «È una strega, e mi ha maledetto!». Di nuovo Wither lo fissa con occhi roventi, ma questa volta contrae la faccia per lo sforzo, serra i pugni fino a quando le unghie le affondano dolorosamente nella carne. Di colpo mastro Osgood perde la voce, annaspando e soffocando nella gogna, poi un rivoletto di sangue gli cola da un occhio e lui si accascia sulla struttura di legno, cessando di essere una seccatura. «Ho sempre saputo che il bere e la lingua troppo lunga sarebbero stati la tua morte», sussurra Wither. Una rapida occhiata al circondario rivela che nessuno ha assistito al diverbio, alla sua perdita di controllo e all'esito letale che esso ha avuto. Rischiando di lasciarsi sfuggire l'opportunità di convertire Rebecca, ha agito troppo precipitosamente con Osgood. In quel preciso momento, se può fidarsi del cristallo per evocare immagini e delle sue stesse premonizioni, Rebecca sta per cadere preda di uno dei suoi attacchi proprio davanti al libidinoso magistrato Jonah Cooke. La lingua di mastro Osgood è stata messa a tacere per sempre, pensa nel lanciare un'ultima occhiata di commiato al corpo accasciato nella gogna. Gina si svegliò con il calore del sole che le sfiorava la pelle e, mentre i
sogni già si dissolvevano in mille frammenti, aspettò ad aprire gli occhi; dopotutto la sveglia non aveva ancora suonato, e lei lasciò che i suoi pensieri andassero alla deriva nei momenti di tranquillità che le rimanevano, cercando di ricomporre ricordi nascosti appena sotto la superficie del suo pensiero cosciente. Un rumore, uno scatto metallico che echeggiò nel silenzio, la disturbò. Immediatamente sul chi vive, aprì gli occhi e si tirò su a sedere, notando che le lenzuola di satin le si erano raccolte intorno alla vita, dove doveva averle spinte mentre dormiva, così come notò un'ombra che si allontanava rapida oltre la porta aperta. Quando era andata a dormire la porta era stata chiusa, ma non a chiave, perché si era aspettata... Balzata giù dal letto, s'infilò una vestaglia di seta che le arrivava a mezza coscia, se l'allacciò in vita e percorse in tutta fretta il corridoio fino alla stanza sul lato opposto rispetto al bagno: la camera di Todd. «Che diavolo stai combinando, brutto pervertito?», domandò, spalancando la porta con tanta violenza da farla sbattere contro lo stipite. Ancora in pigiama, Todd era seduto alla scrivania davanti al computer color mirtillo; la sua macchina fotografica digitale era anch'essa sulla scrivania, collegata al computer mediante un cavo; nel momento in cui la porta si era aperta con violenza, Todd aveva premuto una combinazione di tasti che aveva oscurato il monitor, ma non prima che Gina avesse il tempo di intravedere l'immagine illuminata dal sole di una donna a seno nudo che giaceva su lenzuola di satin azzurro, un braccio gettato sopra la testa. Doveva ammettere che in quella fotografia era venuta bene, anche se i capelli erano un disastro. «Che stai architettando, piccolo rospo ficcanaso?». «Niente», rispose Todd, il volto tinto di un pallore colpevole. «Stavo solo aggiornando la mia pagina web prima di andare a scuola». «Una foto di me nuda sulla tua pagina web?», esclamò Gina, afferrando la sedia e facendola ruotare per costringerlo a guardarla in faccia. «Perché tutti i tuoi amichetti pervertiti la possano guardare?». «Non è... Non eri tu». «Col cazzo che non lo ero!», ribatté lei, raccogliendo la macchina digitale. Il calore dell'ira le divampò dentro, il pugno le si serrò convulsamente, e il meccanismo interno della macchina andò in corto, emettendo spruzzi di scintille; gettandola da un lato, Gina posò la mano sopra il monitor coloro mirtillo.
«L'ho vista, Todd. I miei capelli erano un completo disastro. Decisamente, non è un'immagine che vada bene per la fascia di maggior visione, non trovi?». «Cosa...?». «Esattamente», disse Gina, permettendo all'ondata di rabbia di fluire in lei e di erompere ancora una volta. Dopo un prolungato sfrigolio, il computer scoppiettò, emettendo getti di scintille, e sottili volute di fumo uscirono dalle ventole. «Questo ti dovrebbe tenere lontano dai guai», commentò Gina, rimuovendo la mano e rivelando sul palmo una chiazza di plastica fusa color mirtillo. Mentre stava uscendo dalla sua camera, Todd infine ritrovò la voce. «Cagna maledetta!», urlò. «Muori stecchito», ribatté Gina senza voltarsi, poi ridacchiò, chiedendosi se le sue parole avrebbero potuto effettivamente avere più effetto di quello di una vuota minaccia. La presenza piena di sicurezza che aveva dentro affiorò prontamente, pungolandola a provarci, desiderando che lei usasse la sua volontà per togliere la vita a Todd, proprio come aveva fatto fermare il cuore di padre Murray. Per quanto la tentazione fosse enorme, Gina represse quell'impulso e tornò nella propria camera, cominciando a vestirsi per andare a scuola; fuori Todd stava già urlando per chiamare suo padre e Caitlin, sostenendo che Gina gli aveva rotto il computer. Aveva appena finito di abbottonare il maglione di cachemire rosa, quando sua madre bussò alla porta. «Dobbiamo parlare», disse. Gina si spazzolò i capelli, poi girò la testa di qua e di là per controllare che il trucco fosse a posto. «Del rospo?». «Gina!», sospirò Caitlin. «Ti andrebbe di dirmi cosa è successo?». «Non particolarmente, mamma». «Todd dice che gli hai rotto il computer. Sostiene che ci hai versato sopra dell'acqua o qualcosa del genere, e lo hai mandato in corto». «Non sono obbligata a difendermi». «Non sono d'accordo, Gina», ribatté Caitlin afferrandola per un braccio. «Mi rifiuto di tollerare quest'aperta mancanza di rispetto per tutti i membri di questa famiglia, e il tuo noncurante disprezzo per le proprietà altrui». Gina lottò per trattenere l'improvviso, viscerale desiderio di cavare gli
occhi a sua madre. Tremando, si sforzò di controllare l'ira che ribolliva appena sotto la superficie. «Perché mai avrei dovuto rompergli il computer?». «Sono qui proprio per scoprirlo», ribatté sua madre lasciandole andare il braccio. «Ottimo. Quando era così impegnato ad accusarmi, il rospo ha per caso menzionato il fatto di essere entrato di soppiatto nella mia camera con la sua macchina digitale mentre stavo dormendo? E di avermi fotografata nuda per poi mettere le foto sul suo sito Internet?». «No», replicò Caitlin. «Hai qualche prova?». Certo, le avevo prima di friggergli il computer, pensò Gina. «Solo la mia parola, ma immagino che per te non valga niente». «Ecco, la tua credibilità sta seguendo una spirale discendente», ribatté Caitlin, poi alzò le mani in un gesto di resa e continuò: «Benissimo, allora siete consegnati entrambi. Dopo la scuola, resterai qui con noi. Una grande famiglia felice». «Oh, per favore», gemette Gina scuotendo la testa. «Gina, hai proprio bisogno che ti si ricordi chi comanda qui. Questo, naturalmente, se ti importa ancora del tuo futuro». Reprimendo una sfuriata, Gina serrò la mascella fino a quando la nuova ondata di rabbia non fu passata. «D'accordo», sospirò infine. «Bene», annuì Caitlin. «Forse stasera potremo tirare fuori qualche gioco da tavolo, sentirci uniti come una famiglia». Sorridendo, si voltò per andarsene, ma poi si soffermò per un momento e si girò a guardare verso Gina, domandando: «A che ora sei rientrata, ieri sera? Io mi sono addormentata presto». Quindi Dom non ti ha detto niente, rifletté Gina. Suppongo si voglia tenere aperte tutte le possibilità. «Forse poco dopo mezzanotte», rispose. «Troppo tardi, quando il giorno dopo c'è scuola, e tu lo sai», obiettò Caitlin. «Ti restano solo pochi giorni, Gina. Per favore, cerca di uscirne con una votazione alta». «Va bene». «E comincia a pensare a come guadagnare un po' di denaro», aggiunse Caitlin. «Cosa?». «Per comprare un computer nuovo a tuo fratello. Non intendo fartela
passare liscia, Gina. Devi imparare ad assumerti le responsabilità delle tue azioni». Grazie a un supremo sforzo di volontà, Gina si costrinse a rimanere in silenzio. Caitlin annuì ancora, poi lasciò la stanza e si richiuse la porta alle spalle. Notando che un lieve tremito le scuoteva le mani, Gina serrò i pugni fino a far sbiancare le nocche e se li premette contro le tempie. «Forse dovrei semplicemente ammazzarli tutti», sussurrò fissando la sconosciuta riflessa nello specchio. Immaginare una morte orribile e diversa per ciascun membro della sua famiglia l'aiutò a tollerare la lunga, noiosa giornata scolastica. Diario di Wendy Ward 12 giugno 2002 Luna: crescente, primo quarto, giorno 10 Certo, mi aspetta un sacco di lavoro, ma sono eccitata all'idea di rimettere a posto la villetta. Ho già ripulito tutti i rifiuti che il gruppo dei Bloody Pus aveva lasciato sparsi per casa (dov'è una buona tuta contro i rischi biologici, quando ne hai bisogno?). Papà e io siamo andati a Boston, in uno di quei grandi magazzini di articoli per il fai da te, e abbiamo comprato numerose latte di pittura, rulli e pennelli, e anche diversi pannelli di cartongesso (probabilmente ce ne serviranno degli altri). Dopo che ho promesso di farle il pieno, mamma ci ha prestato il suo Pathfinder per il trasporto dei materiali. Prima di partire ho chiamato Bobby McGowan, un fattorino che come secondo lavoro taglia l'erba nei giardini, e l'ho assunto per ripulire il giardino posteriore, togliere le erbacce e tagliare il prato. Mamma mi ha dato anche il numero di un installatore di moquette con cui ha avuto a che fare nel corso della sua attività immobiliare, ma papà mi ha suggerito di aspettare di aver finito di pitturare le pareti prima di sostituire la moquette. È una cosa sensata, ma la vecchia moquette è così schifosa che mi fa venire il vomito! Il denaro che il signor Quinn ha depositato sul conto serve solo per i materiali, e mi è stato detto di conservare tutti gli scontrini; d'altro canto, come parte dei tre mesi di affitto gratuito, spetta a me pagare la mano d'opera, quindi ho intenzione di fare da sola tutto quello che mi sarà possibile. Papà ha detto che mi aiuterà a installare il cartongesso, e penso di potermi occupare di pitturare la casa da sola nel mio tempo libero, il che significa prevalentemente la sera e nei fine settimana, dato che dovrò gestire il Crys-
tal Path per tutta l'estate. Al verde e stanca. Che bel modo di passare le vacanze estive! Quella sera Gina rimase nella sua stanza il più a lungo possibile. Dopo la scuola, Brett l'aveva accompagnata a casa. Dal momento che non l'avrebbe più visto per tutta la notte, gli aveva promesso una sveltina sul tavolo di cucina, ma al loro arrivo avevano sfortunatamente trovato Sylvia impegnata a pulire la casa, e Gina aveva avuto forti dubbi che quella donna dal carattere duro, con la sua severa crocchia di capelli arancione e quell'aria accigliata da bigotta, avrebbe approvato quell'uso insolito degli arredi della cucina o avrebbe acconsentito a partecipare al divertimento. Di conseguenza aveva congedato l'avvilito Brett e aveva aspettato che Sylvia finisse il suo lavoro prima di contrabbandare nella propria stanza una bottiglia di rum Bacardi. Se sua madre era decisa a tenerla in casa, lei era altrettanto decisa a rimanere in camera e a scendere soltanto quando avesse avuto bisogno di un'altra Coca-Cola ghiacciata da mescolare al Bacardi. Al diavolo l'unione familiare, pensò. Stava effettuando il terzo viaggio in cucina quando sua madre la chiamò dal salotto. «Che c'è, mamma?», sospirò Gina. «Vieni qui, Gina. Adesso». Stroma, pensò, ma si avviò a malincuore verso il salotto con la lattina di Coca ancora chiusa in mano. Dal momento che per quella notte era agli arresti domiciliari, si era già cambiata, indossando un pigiama di satin azzurro polvere formato da un top senza maniche con scollatura a V e calzoncini corti; sotto non indossava niente, quindi ritenne che sarebbe riuscita ad abbagliare Dom senza dover neppure faticare troppo. I tre erano seduti intorno a un tavolino, intenti a giocare a Scarabeo; a giudicare dalle numerose tessere quadrate di legno sparse sulla scacchiera, era evidente che avessero quasi finito. «Che c'è?». «È meglio che cominci a cercarti un lavoro estivo per comprarmi un computer nuovo», sogghignò Todd. Gina lo trapassò con un'occhiata rovente e immaginò di scagliare la lattina di Coca contro quella faccia foruncolosa con tanta forza da rompergli il naso, e magari anche qualche dente, un'immagine che le fece affiorare sulle labbra un crudele sorriso. Todd distolse lo sguardo per un momento.
«Ora basta, Todd», intervenne intanto suo padre. «Ti ho già detto che Gina svuoterà il conto su cui ci sono i suoi risparmi per comprarti un computer nuovo; poi dovrà trovare un lavoro per rimettere i soldi sul conto». Caitlin stava sorridendo, nel tentativo di dare una facciata di armonia a quel disastro che lei definiva una famiglia. «Gina, ti è sempre piaciuto giocare a Scarabeo. Perché non fai la prossima partita con noi?». «Vuoi che posi per il tuo piccolo dipinto alla Norman Rockwell?», ribatté Gina, con aperto disprezzo. Nel fissare le file di tessere che s'incrociavano sulla scacchiera, rimase colpita dalla propria improvvisa incapacità di dare un senso alle parole da esse formate, come se stesse soffrendo di afasia; al tempo stesso fu assalita anche da un impulso violento quanto irresistibile e mosse un passo in avanti, infilando le dita sotto la scacchiera per poi ribaltarla giù dal tavolino, sparpagliando le tessere davanti al camino. «Preferirei andare all'Inferno!», esclamò. In una frazione di secondo scattarono tutti in piedi urlandole contro, ma Gina escluse le loro voci dalla propria sfera cosciente, riducendole a un suono neutro di sottofondo o, per meglio dire, le loro proteste persero ogni vigore alla luce di un'improvvisa rivelazione. Come in trance si diresse verso il camino, dove dozzine di tessere di legno erano sparse sulla lastra di ardesia antistante il focolare: tranne sei, tutte le altre erano cadute con la scritta rivolta verso il basso, mostrando soltanto la faccia posteriore bianca. Le altre sei erano disposte invece in una linea irregolare, una lieve curva sinusoide, ed erano allineate secondo un ordine incredibilmente strano: se lette da sinistra a destra, formavano una parola che destava in lei degli echi, facendo riaffiorare il ricordo di sogni recenti, oscuri, che fino a pochi momenti prima aveva praticamente dimenticato. «Wither», sussurrò. Poi si rese conto che Caitlin le si stava parando davanti. «...hai qualcosa che non va, Gina?», stava domandando in tono imperioso. «Non lo so», sussurrò lei, scuotendo il capo. Ed era vero. «Raccogli queste tessere e vattene in camera tua». Inginocchiandosi, Gina allargò le mani tremanti sulle tessere, scoprendo che ciascuna di esse era fredda come il ghiaccio e pareva risucchiarle il calore dalle dita fino a lasciarle le mani intorpidite mentre le ammucchiava le une sulle altre.
Sotto lo sguardo di Caitlin, ferma lì accanto con i pugni piantati sui fianchi, Gina raccolse nelle mani chiuse a coppa quante più tessere poteva e le trasportò dall'altra parte della stanza; trattenendo il respiro, le lasciò cadere sul tavolo e di nuovo la maggior parte di esse atterrò rovesciata, tranne le nove che componevano un'altra parola. «SVEGLIATI», sillabò in silenzio, consapevole di essere la sola che avesse colto quei messaggi destinati a lei soltanto. Una terza manciata di tessere gettate sul tavolo produsse soltanto un'accozzaglia di lettere priva di senso. «Adesso chiedi scusa a tutti», ingiunse Caitlin annuendo. Per un momento Gina lasciò scorrere lo sguardo su ciascuno di loro; sua madre appariva infuriata, mentre Dominick era un modello di autocontrollo, perché si sforzava sempre di apparire moderato quando era in presenza di Caitlin; quanto a Todd, la mano che aveva sollevato a coprirsi la faccia riusciva a nascondere solo in parte il suo sogghigno soddisfatto. «Mamma, Dominick, Todd... voglio dirvi soltanto», cominciò Gina con voce bassa e controllata, lo sguardo fisso su sua madre. «Andate a farvi fottere». Caitlin la schiaffeggiò in pieno volto. Gina assaporò il dolore bruciante e l'ondata di calore che le salì al volto, allo stesso modo in cui aveva percepito l'ira vibrante di sua madre, il tremito delle sue labbra. Sta perdendo il controllo, pensò, e fu assalita dall'impulso di sputarle in faccia per farle perdere gli ultimi freni inibitori. Un'altra volta, decise poi. «Posso andare, adesso?», domandò. «Sparisci!», sbraitò Caitlin, e l'afferrò per i capelli per trascinarla fuori dal salotto. Serrandole il mignolo, Gina lo trasse all'indietro fino a strapparle un grido di dolore, poi le assestò uno spintone e la madre incespicò, rischiando di cadere, gli occhi dilatati. «Resta qui», intervenne Dominick rivolto a Caitlin. «Ci penso io». Presa Gina per un braccio, la trascinò fuori dal salotto. Lei lo seguì incespicando fino all'ingresso, ma non appena arrivarono alle scale si accasciò di colpo, crollando in ginocchio e costringendo Dominick a prenderla fra le braccia per trasportarla su per le scale, un ingombrante fagotto che si contorceva in modo da premere il proprio corpo contro quello di lui. Gina sentiva la pelle che le bruciava, come se avesse avuto al febbre, e quanto più lei si accaldava tanto più Dominick sembrava raffreddarsi, al punto da
indurla a immaginare che gli stesse rubando calore. Aperta con un calcio la porta della sua stanza, Dominick cercò di spingerla dentro, ma Gina aveva previsto quella mossa e si aggrappò al suo braccio. Barcollando all'indietro, lo trascinò con sé e, dimostrando una forza che sorprese lei stessa, lo trasse sopra di sé sul letto di ottone. Affondandogli entrambe le mani fra i capelli, sulla nuca, lo costrinse ad abbassare la faccia verso di lei e gli premette le labbra contro le proprie, sfregando al tempo stesso il proprio bacino contro l'evidente erezione di lui. «Sai che lo vuoi!», sussurrò con voce roca, una sfida o forse un invito, lei stessa non ne era del tutto certa. Mentre Dominick cercava di ritrarsi, gli morse a sangue un labbro e lui si sollevò di scatto con uno strillo di dolore. «Sei malata», affermò con il respiro affannoso. «Cosa te lo fa pensare, Dominick?». «Hai bisogno di uno psichiatra». «Attualmente, Dom, non è di questo che ho bisogno», ribatté Gina, ed era vero. Spinta da qualcosa di più del desiderio di provocarlo, insinuò una mano nella scollatura a V del pigiama, chiudendola intorno a un seno e passandosi il pollice sul capezzolo eretto ed eccitato. Voleva provare dolore e infliggerne. Forse era questo che voleva dire quel messaggio, rifletté. Svegliati. Il volto di Dominick esprimeva un tormentato insieme di emozioni, fra cui prevalevano ira, desiderio e paura; se avesse dovuto dare un giudizio, Gina avrebbe detto che al momento la paura era lo stato d'animo che predominava in lui. Indietreggiando, si allontanò dal letto, poi si arrestò appena fuori dalla porta. «Tieni giù le mani da tua madre!», ingiunse. «E cosa mi dici di te, Dom?», ribatté Gina. «Le devo tenere giù anche da te?». Lui chiuse la porta con violenza, sbattendola, e si avviò a precipizio giù per la scala. Gina cominciò a ridere. Dapprima si trattò di una risatina divertita, poi divenne un suono più forte e profondo, pervaso di potere. Pur essendo chiusa nella sua stanza, mai come ora aveva sentito di avere il controllo dell'ambiente che la circondava. Ucciderli adesso sarebbe un tale spreco, pensò. Il risparmio è il miglior guadagno.
L'immagine delle tessere di legno sparse davanti al camino le affiorò nella mente, sostituita poi da quella del focolare che aveva visto in sogno e delle bambole di stracci imbottite di pelo di capra. Mentre i suoi familiari parlavano di lei al piano di sotto, conversazioni di cui a tratti qualche parola saliva fino a lei come un palloncino pieno di elio, parole che includevano «consultazione medica, psicologo, trattamento con farmaci», lei sgusciò nella camera di ciascuno, frugando nei rispettivi cesti della biancheria sporca e scegliendo per ognuno un singolo capo di vestiario, qualcosa che era stato indossato, ma di cui non si sarebbe riscontrata la mancanza; fatto questo, prelevò i capelli rimasti nei diversi pettini e spazzole, poi tornò nella sua stanza, chiuse a chiave la porta e tirò fuori dal primo cassetto del comò il kit da cucito da viaggio, completo di forbici in miniatura. Seduta sul letto, ridusse la stoffa a strisce piatte, poi si servì delle forbici per ritagliare forme adeguate al rito di vincolo per i membri della sua famiglia. «Svegliati», sussurrò, lasciando che l'antica voce che le echeggiava nella mente le guidasse le dita. Windale, Massachusetts 16 giugno 2000 Stesa sul letto con indosso la camicia da notte di flanella, Abby posò sul comodino l'edizione tascabile di Zanna Bianca di Jack London e si sfregò gli occhi stanchi. Dall'altra parte della stanza Erica stava dormendo sotto i poster di Franklin e di Little Bear, raggomitolata in mezzo a un assortimento di peluche. Tutta la casa era tranquilla, tutti stavano dormendo tranne Abby che si era voltata e rigirata fin quasi a mezzanotte, quando aveva infine smesso di lottare contro la propria irrequietezza e aveva acceso la lampada da notte, prendendo il libro. Dopo meno di una decina di pagine della storia del cane per metà lupo, si era però stancata anche di leggere: qualcosa la stava disturbando, qualcosa che non sapeva identificare, una sorta di nervosismo che le contraeva lo stomaco, unita a un prurito sotto la pelle. Si stiracchiò fino a quando le ossa le scricchiolarono un poco strappandole un piccolo gemito, e di colpo dentro di lei parve insorgere un'energia che la incitava ad alzarsi dal letto, spinta dal bisogno di correre più in fretta che poteva. Attraversata la stanza, si accostò alla finestra e cercò con lo sguardo la luna piena; mentre protendeva il collo per poter vedere
meglio all'esterno, sentì le braccia che cominciavano a tremare e a sussultare. Sta succedendo di nuovo, pensò con spavento abbassando lo sguardo su di esse, e io non posso fermarlo. Il cuore prese a martellarle nel petto e un senso di intenso calore le salì al volto. Poi il tremito le si estese alle gambe insieme agli spasmi muscolari, al di sotto dei quali le ossa avevano già cominciato a spostarsi e a ridisporsi; le ginocchia le pulsarono per il dolore, le dita si ripiegarono in avanti e i pollici si ritrassero fino a scomparire. Adesso il suo respiro si era trasformato nell'ansito costante di un animale, e lei gemette ancora quando il cranio parve appiattirsi e il naso si estese in avanti, scurendosi. Cosa mi sta succedendo? E perché sta succedendo proprio a me? Fatelo smettere, per favore fatelo smettere! Abby rabbrividì quando il pelo bianco prese a rivestirle prima le braccia, poi la schiena e le cosce; di momento in momento le riusciva più difficile mantenere una posizione eretta, e questo più di ogni altra cosa destò in lei il bisogno disperato di fuggire, di allontanarsi dai confini limitati della piccola camera da letto. Dopo aver armeggiato per un po' con la serratura, riuscì a sollevare la finestra quanto bastava a sgusciare dall'altra parte e a lasciarsi cadere sull'erba, all'esterno. Già non era più in grado di rimanere eretta e prese invece a muoversi qua e là a quattro zampe, gemendo mentre la schiena le si incurvava verso l'esterno. Adesso il vestiario le era d'impiccio perché la faceva inciampare, ma lei girò il collo possente e strappò via la stoffa con lunghi denti aguzzi. Dall'interno della casa giunse l'abbaiare di Rowdy. Abby cercò di ingiungergli di stare zitto prima che finisse per svegliare qualcuno, ma quell'ordine le uscì dalle labbra come un sordo ringhio, e quando cercò di parlare emise invece una serie di latrati senza senso. I suoi occhi si erano adattati a vedere al buio, e nell'abbassare lo sguardo scorse due zampe bianche dove ci sarebbero dovute essere le sue mani; inoltre, adesso camminare a quattro zampe non era più difficile quanto sarebbe dovuto essere. Attraversato il cortile, si portò sul retro della casa con movimenti fluidi e aggraziati, la luce della luna piena che proiettava sull'erba la sua ombra: l'ombra di un cane... No, non di un cane, di un lupo. Era diventata un lupo. Sognando di essere un lupo, Abby spiccò la corsa verso i boschi sul retro della casa. Anche nel sogno, però, sentì l'abbaiare del cane e le grida degli umani.
Con poche, lunghe falcate, si lasciò alle spalle quei suoni e, nel cogliere l'elusivo odore di un procione, si lanciò in caccia. Più tardi il lupo sbucò dalla foresta e andò a placare la propria sete lappando l'acqua fresca del ruscello. Gettando indietro la testa, levò il proprio ululato verso la pallida faccia grigia della luna, ricordando in modo vago un sogno sconcertante in cui il lupo era stato una bambina. Una bambina di cui aveva dimenticato il nome. Windale, Massachusetts 21 giugno 2000 Solstizio d'estate Nel retro del Crystal Path, Wendy era seduta al computer. Quel pomeriggio gli affari stavano andando a rilento dopo una mattinata piuttosto piena, quindi Kayla si stava occupando della cassa mentre lei cercava di fare qualche progresso nella creazione del sito web per il negozio di articoli new age. Stava creando la struttura di base della pagina, e doveva ancora affrontare l'atteso - o per meglio dire temuto - momento in cui avrebbe dovuto creare il database dei prodotti e collegarlo al sistema di ordinazione, una fase che era lontana qualche settimana. Rimanda il panico a un altro giorno, si disse, e rilesse invece per la seconda volta l'e-mail ricevuta quella mattina dalla professoressa Glazer. A: Wendy Ward INVIATA: Mar 20-06-2000 10:48 pm OGGETTO: Trasloco Salve Wendy, poche righe per dirti che ci siamo infine sistemati tutti e tre, più o meno; gli scatoloni che abbiamo deciso di non disfare sono nascosti in soffitta. Attendo con impazienza l'inizio del semestre autunnale; anche Art ha chiesto un posto all'università, quindi stiamo tenendo le dita incrociate. Volevo inoltre farti sapere che Hannah sta bene e ti saluta (come pure Art). Chiede sempre di te. Qui l'abbiamo portata da alcuni specialisti, giusto per collezionare il sedicesimo e il diciassettesimo parere medico. Per qualche tempo ho creduto che potesse soffrire di progeria, quella malattia in-
fantile che provoca un invecchiamento prematuro, ma i dottori mi hanno assicurato che ciò che causa la sua diversità, di qualsiasi cosa si tratti, non ha niente a che vedere con quella malattia degenerativa. Sono tutti molto cortesi, ma è evidente che non ci capiscono niente e, per quanto offrano rassicurazioni, non mi sono di nessun aiuto. Devo ammettere che Hannah sembra perfettamente sana, solo molto precoce dal punto di vista fisico e mentale. Probabilmente mangia e dorme molto più di qualsiasi bambino della sua età che sia nella media, ma è perfino difficile determinare quale sia la sua età effettiva. Tutti tendono a dirti che i figli crescono troppo in fretta... Se solo sapessero! A causa delle circostanze che hanno accompagnato la sua nascita non posso fare a meno di preoccuparmi per Hannah, per il suo futuro, e vorrei proprio capire cosa significhi tutto questo. Art mi è stato di immenso aiuto. Cerchiamo di vivere alla giornata, nella speranza che la mia adorata bambina rimanga il più normale possibile. Mi auguro che tu stia bene, Wendy. Abbi cura di te La tua vecchia prof. Karen Wendy sospirò. Riteneva che la professoressa Glazer si confidasse con lei perché pensava che in qualche modo potesse trovare il modo di curare Hannah... di curarla o di dimostrare che non le sarebbe successo niente di male. Dal canto suo Wendy si augurava che alla bambina non capitasse nulla di grave, ma la sua crescita abnorme era il risultato di una manipolazione fetale da parte della strega Rebecca Cole, che aveva usato magie oscure per portare a termine la gravidanza di Karen in tempo per Halloween. Hannah aveva sperimentato una crescita accelerata all'interno del grembo materno, crescita che si stava protraendo ancora a quasi otto mesi di distanza dalla nascita. Dal momento che Rebecca aveva progettato di usare Hannah come suo nuovo ospite umano, era possibile che avesse voluto far proseguire la crescita accelerata abbastanza a lungo da fornirle un corpo umano maturo molto in anticipo sui tempi naturali, e si poteva quindi sperare che la maturazione di Hannah fosse soltanto un perdurante effetto collaterale di
quell'incantesimo. Dato che Rebecca era morta, forse quella crescita accelerata sarebbe presto cessata, e questo era tutto ciò che Wendy poteva augurarsi, per il bene di Hannah e di sua madre. Quanto ai danni emotivi che una crescita così rapida poteva provocare ad Hannah, a quello era meglio non pensare. Dal negozio giunse il tintinnio della porta che si apriva. Wendy si concesse il tempo necessario a scrivere una rapida risposta, dicendo alla professoressa Glazer che ricordava tutti loro nelle sue preghiere serali e che era certa che Hannah sarebbe cresciuta bene. Per quanto offrano rassicurazioni, non mi sono di nessun aiuto, pensò, sospirando per la propria impotenza, ma premette lo stesso il pulsante di invia. Mentre Wendy avanzava lungo il corridoio centrale del negozio, Kayla, che non si era ancora imbattuta in una forma di body piercing che non avesse sperimentato almeno una volta, intercettò inavvertitamente il suo sguardo e levò gli occhi al cielo. Wendy notò poi la cliente, un'attraente adolescente dai capelli di un biondo rossiccio, ferma nella sezione del negozio dedicata alle rune, dove erano esposti libri che insegnavano a usarle per trarne predizioni, insieme a kit che includevano le rune stesse, alcune effettivamente in pietra, altre in legno e altre ancora in semplice plastica. «Che succede?», sussurrò Wendy, fermandosi accanto a Kayla. «Le ho chiesto se potevo esserle utile», rispose Kayla, scandendo molto per compensare un piercing alla lingua. «Mi ha guardata come se fossi stata qualcosa che si era dovuta grattare via da sotto la scarpa e ha risposto: "Ne dubito. Se ne vada". Queste sono le sue esatte parole, nel caso avessi dei dubbi al riguardo». Kayla Zanella aveva una massa di ispidi capelli neri rasati sulle tempie; il suo abbigliamento preferito consisteva in maglietta di taglia ridotta o top di pelle abbinati a jeans stropicciati. Le orecchie sfoggiavano tali quantità di metallo da sembrare cibernetiche, mentre delle barrette d'argento le trapassavano l'esterno di entrambe le sopracciglia e dei cerchietti, sempre d'argento, le adornavano la narice destra, il centro del labbro inferiore e l'ombelico. Kayla aveva detto a Wendy di aver comprato cinque di quei cerchietti, e pur sapendo che se ne sarebbe pentita, Wendy le aveva chiesto dove fossero dislocati gli altri due. «Uno è sul capezzolo sinistro», aveva risposto Kayla, «e l'altro è... in basso». Quel giorno anche Tristan era stato in negozio con loro, intento a sor-
seggiare nel retro un po' del caffè extraforte di Kayla, e in quel preciso momento si era fatto andare il caffè di traverso, spruzzandolo sulla rivista di recensioni di concerti che stava leggendo. Come uno squalo che avesse fiutato del sangue nell'acqua, Kayla aveva intuito di avere la splendida opportunità di metterlo ancor più in imbarazzo, o forse aveva soltanto voluto flirtare con lui, Wendy non era mai riuscita a stabilirlo. In ogni caso, Kayla aveva sollevato di scatto il top di pelle per mostrare i seni nudi. «Che ne pensi, Tristan?», aveva chiesto. «Dovrei farmi un piercing anche all'altro capezzolo?». Tristan aveva sgranato gli occhi per un momento, poi il suo volto, abitualmente pallido, si era tinto di un violento rossore. «Sono certo che questa possa essere classificata come una molestia sessuale», aveva ribattuto, distogliendo lo sguardo. «No, Tristan», aveva precisato Kayla, riassestandosi il top. «Questo era un allettamento sessuale. Si sarebbe trattato di molestia se ti avessi chiesto di mostrarmi il tuo giocattolo». Quando il volto di Tristan aveva assunto una tonalità di rosso ancora più cupa, Kayla era scoppiata a ridere e aveva battuto le mani, ritenendo completata la propria missione; il giorno dopo, apparentemente reduce da una moralistica ricerca in Internet, Tristan l'aveva informata che una donna che si faceva il piercing ai capezzoli distruggeva ogni possibilità di allattare al seno. «Me ne preoccuperò quando metteranno al bando il Similac», aveva però ribattuto Kayla. Wendy lanciò un'occhiata alla giovane donna intenta a leggere le spiegazioni sul retro di un kit di rune e, per quanto la cliente paresse non badare assolutamente a loro, continuò a tenere bassa la voce. «Non l'ho mai vista prima», sussurrò, «ma ha qualcosa di familiare». «Vai all'Harrison, ultimo anno», rispose Kayla, «Si chiama Angelina Thorpe... No, Thorne, ma tutti la chiamano Gina». Doveva essere al secondo anno quando io stavo per diplomarmi, pensò Wendy. Probabilmente è per questo che mi sembra di conoscerla. Incuriosita si diresse verso la giovane donna, ma quando era ancora a un paio di metri da lei Gina lasciò cadere la scatola delle rune e si girò di scatto con gli occhi sgranati, come se si aspettasse un attacco. «Mi dispiace», si scusò Wendy, sollevando le mani. «Non volevo spaventarla». Gina, che indossava un maglione bianco aderente e una corta gonna ros-
sa a portafoglio, la fissò per un momento, poi si accoccolò senza distogliere lo sguardo da lei e cercò a tentoni la scatola. «Chi sei?», chiese. «Sono Wendy Ward, la direttrice», si presentò Wendy. Era stata sua intenzione porgere la mano alla giovane donna, ma un impulso improvviso la indusse invece a intrecciare strettamente le mani: per qualche motivo, l'idea di toccare Gina le dava un senso di malessere fisico. «Posso aiutarti a cercare qualcosa?», chiese. «No», rispose Gina, rimettendo la scatola al suo posto, sullo scaffale, poi squadrò Wendy con occhi attenti e fissi, come se stesse cercando di memorizzare ogni suo lineamento, e aggiunse: «Non mi aspettavo di trovarti... No, voglio dire che mi aspettano altrove». Poi prese a indietreggiare, come se si fosse sentita troppo vulnerabile a offrire la schiena a Wendy; i suoi pugni rimasero serrati finché raggiunse la porta e sgusciò fuori dal negozio fra un tintinnare di campanelli. «Che diavolo le ha preso?», domandò Kayla, affiancando Wendy. «Sembrava sorpresa, o spaventata», rispose Wendy, «anche se non poteva certo rubare nulla da quella confezione». «Una stronza davvero strana», commentò Kayla. «Non è un commento molto illuminato, Kayla», sorrise Wendy. «Quella tizia mi mette i brividi». «Sì, anche a me». Un momento più tardi, Tristan entrò nel Crystal Path guardandosi indietro da sopra una spalla. «Non troppo malmessa, per essere un pipistrello uscito dall'Inferno», osservò. «La bionda rossiccia?», chiese Wendy. Tristan annuì. Alto e pallido di carnagione, con un fisico tanto snello da apparire quasi fragile, Tristan Rogers aveva i capelli biondo cenere e lunghe dita affusolate; il suo vestiario era sempre nelle tonalità del grigio, cosa che pareva privarlo del poco colore che aveva. «Cosa l'ha spaventata?», domandò. «È stata terrorizzata dalla nostra direttrice, qui presente», spiegò Kayla, «ma ritengo che sia un sentimento reciproco». Wendy rabbrividì. Se non avesse mai più rivisto Gina Thorne, sarebbe stata una wicca contenta. «Ragazzi, vi dispiace badare alla baracca mentre io...», cominciò. «Mentre fai quel tuo rito di mezz'estate?», chiese Kayla.
«Che piacere c'è a eseguire un rito di mezz'estate dopo che ha fatto buio?», ribatté Wendy, annuendo. «E poi, in questo momento sento proprio il bisogno di una buona purificazione». Con il cuore che le martellava nel petto, Gina Thorne percorse a precipizio Theurgy Avenue fino a quando il tacco a spillo di una delle scarpe di vernice non s'impigliò in un tratto ineguale del marciapiede, facendole prendere una storta alla caviglia. Imprecando, si appoggiò a un muro di mattoni e si massaggiò il piede. Dentro il Crystal Path era stata sopraffatta dalla paura e dall'odio, e alla fine la paura, associata al fatto di non sapere cosa la stesse generando, aveva avuto la meglio. Finché non avesse compreso la causa delle violente sensazioni che ancora la stavano pervadendo, doveva mantenere una buona distanza fra se stessa e quella Wendy. È pericolosa, avvertì la voce dentro di lei. È stata lei. La voce le fece però anche una promessa: deve morire. «Devo ucciderla», sussurrò Gina, annuendo fra sé. Anche se Wendy non viveva ancora nella villetta, il cortile posteriore era di nuovo in ordine. Bobby McGowan lo aveva ripulito, rimuovendo tutti i rifiuti prima di tagliare l'erba e di estirpare le erbacce, poi Wendy aveva eseguito una pulizia rituale con la sua scopa da strega per annullare tutti i residui psichici risalenti ai tempi dei Bloody Pus; tutto questo significava che adesso si sentiva a proprio agio nell'eseguire là il suo rito di mezz'estate. Dopo aver fatto a casa un bagno purificante con i petali di lavanda per prepararsi, si recò in macchina alla villetta. Dal momento che la farina non funzionava bene per tracciare un cerchio magico sull'erba, ricorse a un cordoncino color porpora per formare la circonferenza del cerchio. Indossando una veste bianca con strisce rosse, arancioni e gialle, sedette a gambe incrociate sulla stuoia per la meditazione al centro del cerchio, e si concesse qualche istante per sgombrare la mente da ogni distrazione. Quando si sentì calma e concentrata, si liberò della veste per essere nuda nell'entrare in comunione con la natura. All'interno del cerchio posizionò a est un bastoncino d'incenso al sandalo nel suo antico incensiere, a rappresentare l'aria; a sud mise un piccolo braciere pieno di legna minuta, a simboleggiare il fuoco; a ovest, una coppa piena di vino rosso, simbolo dell'acqua, infine a nord una ciotola di riso cotto, raffigurante la terra. Invocò quindi ciascuno degli elementi, a cominciare dall'aria, a est, e procedendo in senso orario verso nord, fino a
tornare a est per chiudere il cerchio. A ciascun punto cardinale evocò nella mente la natura dell'elemento a cui si stava rivolgendo, entrando in comunione con ciascuno di essi e domandandone la partecipazione al rito. Nel giorno del solstizio d'estate il sole si trovava nel punto di massima potenza ed elargiva il giorno più lungo dell'anno, era dunque un tempo di purificazione e di rinnovamento delle energie, oltre che un potente sabba per ogni sorta di magia. Wendy aveva in mente due incantesimi, uno di risanamento per aiutare il corpo di Alex a riprendersi dalle numerose lesioni subite, e l'altro di protezione, per Hannah. Da un punto di vista puramente tecnico lei era sana e non necessitava di un risanamento specifico, ma la contaminazione di Rebecca Cole gravava ancora su di lei e avrebbe forse potuto rovinarle la vita. Nel corso dell'esecuzione dell'incantesimo di protezione, mentre stringeva nella destra, la mano proiettiva, un liscio turchese e stava rivolta a nord con gli occhi chiusi, fu assalita da un'ondata di vertigine. Aprendo gli occhi vide la vecchia dai capelli bianchi, vestita con una lunga veste candida, in piedi davanti a lei all'interno del cerchio, inconsistente e trasparente come uno spettro. Nel vederla Wendy non provò però alcuna paura perché, fin da quando aveva fatto il sogno in cui era su quella barca, si era convinta che la donna fosse intenzionata ad aiutarla, non a farle del male. «Chi sei?», chiese. «In pratica, sono un'insegnante», fu la risposta, «ma puoi pensare a me come alla Vecchia». Quello della Vecchia era il terzo aspetto della Dea, dopo la Fanciulla e la Madre, aspetti simboleggiati dalle tre fasi della luna: crescente, piena e calante. «Sto sognando di nuovo?», volle sapere Wendy. «No, ma il tuo rito ha posto la tua mente in uno stato ricettivo», spiegò la Vecchia, poi scosse il capo mostrando una strana tristezza, e aggiunse: «Hai così tanto da imparare, e tuttavia il tempo a nostra disposizione è sempre più breve». «Perché?». «Il male si è ridestato, Wendy», spiegò la donna, «e porta con sé il potere della corruzione, la forza del caos. E il caos è un predatore che saccheggia il nostro mondo naturale basato sull'ordine. Devi essere forte. Devi essere coraggiosa». Poi la Vecchia s'inginocchiò, o almeno sembrò inginocchiarsi, sull'erba davanti a Wendy a meno di un braccio di distanza da lei, le mani posate
sulle cosce, e Wendy poté avvertire il calore che emanava dalla sua forma spettrale. «Perché io?», domandò. «Il male sa chi sei», replicò la donna. «Ritengo sappia perfino che cosa sei». «E cosa sono, esattamente?». «Sei il suo nemico naturale», rispose la donna, e accennò un sorriso gentile, come per uno scherzo che lei sola poteva capire. «La sua avversaria. Prima ha cercato di corromperti, cosa che avrebbe costituito l'ironia estrema, ma ha fallito nel tentativo, e adesso cerca vendetta». «Vendetta? Mi pare che non lasci presagire niente di buono per me». «Da quando non è riuscito a corromperti, la paura ha avuto il sopravvento», annuì la Vecchia. «Il male ti deve uccidere». «Ha paura di me? Perché?». «Come esso si è destato, così farai anche tu». «Come? Come faccio a svegliarmi?». «Ho bisogno del tuo permesso per poter parlare direttamente alla tua mente». «Ce l'hai, se mi aiuterà a capire», replicò Wendy. La Vecchia annuì ancora e si protese verso di lei, prendendole il volto fra le mani incorporee, un contatto lieve come una piuma che le strappò un brivido. «Ascolta», sussurrò poi la Vecchia, chinandosi in avanti per appoggiare la fronte contro quella di Wendy. La testa immateriale della donna continuò però il movimento anche dopo essere entrata in contatto con quella della ragazza, attraversandole la pelle e le ossa e penetrandole nel cranio, fino a quando le due teste furono del tutto sovrapposte, poi una voce ruggente esplose nella mente di Wendy, una folle accozzaglia assordante di pensieri rapidissimi che minacciarono di farla impazzire. «WENDY-TU-WENDY-DEVI-WENDY-ASCOLTARMIWENDY!!!». Anche se quel suono le giungeva da dentro la testa, Wendy si premette le mani sulle orecchie, ma quell'ondata di pensieri indistinti e rapidissimi continuò ad assalirla. Urlò, in preda a convulsioni violente in tutto il corpo, poi crollò sulla stuoia per la meditazione dove i suoi arti continuarono a dibattersi mentre gli occhi erano persi in lontananza, lo sguardo vacuo. Non si accorse
dell'erba che le premeva contro la guancia, di come le sue unghie stavano affondando nel terriccio, e neppure vide l'immagine spettrale della Vecchia contorcersi e dissolversi nell'aria estiva. Quando i tremiti si placarono gli occhi le si rovesciarono all'indietro nelle orbite fino a mostrare solo il bianco; dopo un po' le palpebre si abbassarono, e una fresca oscurità la trascinò nel vuoto profondo dell'oblio più assoluto. PARTE SECONDA L'avversaria Capitolo 4 Windale, Massachusetts 15 luglio 2000 Abby MacNeil, di nove anni, giaceva nel suo letto a casa dei Nottingham, con le coperte tirate su fino al mento. Aveva la febbre, quindi un minuto si sentiva bollente e sudata e quello dopo era squassata da brividi di freddo. Mentre fissava i poster appesi dall'altra parte della stanza sopra il letto di Erica, si chiese cosa avrebbero pensato la tartaruga Franklin e Little Bear di una bambina le cui ossa cambiavano forma a piacimento. Ecco, per meglio dire lo facevano a loro piacimento, dato che Abby sentiva di aver ben poco controllo su quanto o come si verificava il cambiamento, il che era quello che la spaventava veramente. A volte pensava di essersi immaginata entrambi gli episodi, l'ultimo risalente a quattro settimane prima, quando aveva spaventato tutti gli abitanti della casa incluso Rowdy, il labrador color cioccolata dei Nottingham. Abby era rimasta dispersa per tutta la notte, e al mattino la signora Nottingham l'aveva trovata che dormiva per terra, raggomitolata nel cavo delle radici di un acero, praticamente nuda. Della sua camicia da notte rosa non rimanevano che pochi brandelli lacerati, le braccia e le gambe erano segnate da graffi sottili e recavano parecchi lividi, ma a parte questo non c'erano lesioni gravi. La cosa non aveva trattenuto i Nottingham dal portarla dai dottori, all'ospedale, per farle fare altri esami. L'avevano punta con gli aghi per prenderle il sangue, le avevano fatto fare pipì in una tazza e l'avevano perfino fatta sdraiare su un tavolo che scorreva dentro un tunnel luminoso per farle una tac, esame che avrebbe permesso ai dottori di vedere dentro il
suo corpo. Fin dall'anno precedente, quando tutti i medici si erano persuasi che lei sarebbe morta, Abby aveva preso a odiare gli ospedali e desiderava soltanto che la lasciassero in pace. Dopo tutti i test i dottori si erano mostrati ancora perplessi, poi la signora Nottingham le aveva detto che gli esami avevano dato risultati normali e che sembrava essere perfettamente sana, ma i Nottingham continuavano a preoccuparsi per lei. Alla fine Abby si era incontrata con una dottoressa che non usava aghi o grosse macchine strane per fare esami; si limitava a parlare, e aveva chiesto ad Abby perché aveva lasciato la casa, dov'era andata per tutta la notte e che cosa le era successo mentre era sola nel bosco. Abby non aveva potuto rispondere a nessuna di quelle domande perché non sapeva cosa dire. Il suo unico segreto erano le ossa, quelle ossa che cambiavano, e aveva troppa paura di parlarne con chiunque. Temeva che, se lo avesse raccontato alla dottoressa, lei avrebbe detto ai Nottingham che non era una bambina normale, che Abby MacNeil era una sorta di scherzo della natura. E allora avrebbero potuto mandarla via, in un orfanotrofio o anche peggio, magari l'avrebbero data a un luna-park itinerante dove sarebbe stata incatenata nella tenda assieme ad altri scherzi della natura, e bambini e bambine avrebbero comprato il biglietto per vedere i fenomeni da baraccone e le avrebbero fatto le boccacce; le pareva di vedere ragazzi cattivi che infilavano bastoni nella gabbia per pungolarla, oppure le avrebbero scagliato contro dei sassi, o le avrebbero sputato addosso, tanto a nessuno importava dei sentimenti dei mostri. Adesso i Nottingham erano la sola famiglia che aveva, e temeva che l'avrebbero mandata via se avessero scoperto che era diversa. Doveva riuscire a inserirsi. D'un tratto Abby si accorse che si stava grattando due delle dita centrali della mano destra, e la sollevò per esaminarla alla luce della lampada da notte. Quelle erano state le due dita che erano cambiate per prime l'anno precedente, dopo che aveva fatto quel sogno riguardo alla strega chiamata Sarah Hutchins; adesso sembravano normali, però prudevano. Abby ricordava come tutto era cominciato l'anno prima: le dita si erano fatte più lunghe, con le unghie dure, poi lei aveva attaccato Art Leeson all'interno della macchina. Una bambina normale avrebbe aggredito qualcuno che stava cercando di aiutarla? La macchina era andata a sbattere e Abby era rimasta paralizzata per qualche tempo, poi il resto delle sue ossa era cambiato e i dottori avevano sospettato che si trattasse di un qualche tipo di tumore osseo. Nessuno però
aveva mai intuito la verità, e cioè che la strega Sarah era responsabile dell'accaduto. Lei aveva insegnato ad Abby come muovere di nuovo le braccia, come riprendere a camminare, poi l'aveva rapita dall'ospedale. «Adesso Sarah è morta», sussurrò in tono affermativo, «e io sono di nuovo normale». Le due dita centrali della destra sussultarono e la pelle tremò, rivestendosi di pelo bianco. Con uno strillo di terrore Abby si coprì la mano con la sinistra e le strinse entrambe contro il petto. L'indomani ci sarebbe stata la luna piena, e le sue ossa non erano più cambiate dall'ultimo plenilunio. Dopo tutti quegli esami e il tempo che era passato, era quasi riuscita a convincersi che si era trattato soltanto di un brutto sogno. Le ossa non cambiano forma, pensò, e le bambine normali non si trasformano in lupi. La porta si spalancò ed Erica entrò di corsa nella stanza con Rowdy, una massa marrone di energia allo stato puro, che la seguiva a grandi balzi. «Ciao, Abby», salutò Erica, sedendosi sul bordo del letto con la sua bambola Suzy Superstar stretta al petto. «Non stavi dormendo, vero?». «No», rispose Abby. «Stai ancora male?». «Ho solo freddo, tutto qui». «Vuoi giocare con Suzy?», propose Erica porgendole la bambola. «Parla e canta». «Adesso no». «Come vuoi». Rowdy saltò sui piedi del letto, si acquattò sulla pancia e cominciò a strisciare progressivamente in avanti perché, anche se sapeva che non sarebbe dovuto salire sui letti, era sempre pronto a cogliere l'occasione propizia. Mandando in avanscoperta il naso freddo e il muso umido, il cane insinuò la testa sotto il braccio di Abby per sollecitare una semplice grattatina dietro gli orecchi, operazione che terminava sempre con una vigorosa grattata sulla pancia. Senza riflettere, Abby allungò verso di lui la mano destra, poi la ritrasse di scatto per controllare le dita; constatando che erano di nuovo normali, lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto e accarezzò il cane sulla testa. «La mamma mi ha detto di chiederti se vuoi qualcosa», affermò Erica. «Magari ancora un po' di ginger ale», rispose Abby guardando verso il bicchiere vuoto posato sul comodino. «D'accordo». Erica afferrò il bicchiere.
La mano di Abby ebbe una convulsione e lei sentì le ossa che si spostavano sotto la pelle, avvertì quel senso di pelle d'oca che si verificava quando le spuntava il vello bianco. Rizzando il pelo, Rowdy emise un basso ringhio profondo e si ritrasse, mentre Abby tirava indietro la mano, nascondendola di nuovo sotto la sinistra. «Smettila, Rowdy!», ordinò Erica. «Non vedi che è Abby?». Il cane balzò giù dal letto e prese a correre in cerchio con aria frustrata, uggiolando la propria contrarietà. «Ma guarda! Il nostro cane è un gattino spaventato», commentò Erica. «Ti porto la soda, Abby», continuò, infilando la bambola sotto un braccio per liberare una mano con cui afferrò Rowdy per il collare. «Vieni, stupido cane. Ringhiare a una bambina piccola. Che roba!». Abby quasi sorrise nel sentire Erica, che aveva un paio d'anni meno di lei, etichettarla come bambina piccola. Poi il sorriso svanì e, nel sollevare la mano sotto la luce, Abby vide che le dita si stavano ritraendo nel palmo e che la mano era diventata una... una zampa. Aggrottando la fronte per la concentrazione, cercò di imporre con la volontà alle dita di tornare ad allungarsi, di riprendere la forma normale. Il freddo le abbandonò il corpo, scacciato da ondate di calore che le salirono al volto, e lei cominciò a sudare, serrando i denti mentre stendeva le dita, allungandole progressivamente fino a far crocchiare le nocche per lo sforzo. Con una serie di piccoli cambiamenti molto dolorosi le dita di mezzo parvero dilatarsi in lunghezza, i segmenti di ossa sotto la pelle e le nocche tornarono ad assumere l'aspetto normale e nello stesso tempo i piccoli ciuffi di pelo bianco si diradarono e si ritrassero, lasciando alla fine solo la peluria bionda propria della sua pelle umana. Una volta che la mano fu tornata alla normalità, Abby emise un lungo respiro e lasciò ricadere il braccio sulle coltri. Tremante per lo sfinimento, scivolò nel sonno prima che Erica tornasse con la bevanda. Mentre Kayla Zanella inseriva un cd di Enya nel lettore sotto il bancone e regolava il volume degli altoparlanti del negozio, Wendy afferrò un taglierino e aprì l'imballaggio contenente tre termometri galileiani, lunghi tubi di vetro multicolore pieni di liquido e contenenti galleggianti di vetro multicolore a loro volta pieni di liquido, che salivano o scendevano all'interno del tubo a seconda della temperatura ambientale. In fondo a ciascun galleggiante era appesa una targhetta di piombo placcata in oro su cui era stampata la temperatura corrispondente. Quei termometri funzionavano
sulla base del principio che la temperatura influenza la densità dei liquidi: alcuni di essi salivano mentre altri si depositavano sul fondo del tubo, e la temperatura approssimativa era quella segnata sulla targhetta del più basso fra i galleggianti che si erano sollevati. Dal momento che misuravano la temperatura soltanto fra i sessantacinque e gli ottantacinque gradi Fahrenheit, quei termometri servivano fondamentalmente per gli interni e riuscivano a essere eleganti e moderni, pur ricordando tempi in cui la vita era più semplice. Wendy li espose sul bancone, distanziati l'uno dall'altro e con il più alto nel mezzo. Il secondo pacco conteneva braccialetti di perline magiche; dopo averli infilati sull'espositore di velluto nero, Wendy si soffermò a leggere le targhette e scosse la testa con una risata. «Che c'è, capo?». «Le stesse persone che tremano al solo sentir menzionare la parola magia non ci pensano un secondo a indossare un bracciale di turchesi per avere buona salute o uno di giada gialla che porti loro fortuna», rispose Wendy, esibendo un paio di quei bracciali sul palmo della mano. Kayla congiunse le mani come in preghiera e chinò leggermente il capo. «Cicala, cicala», replicò, «tu non comprendi l'unico potere più grande della magia». «La fede?», sorrise Wendy, stando al gioco. «L'amore?». «Il marketing», ribatté Kayla, scuotendo il capo. «Ah, sì», annuì Wendy. «Riproporre l'eredità wicca in confezione speciale per il nuovo millennio». «Proprio così», convenne Kayla. «Entra nel nostro spogliatoio, e prova il tuo nuovo, lucente cinismo per sfoggiarlo nel ventunesimo secolo». «Wendy». «Che c'è?», chiese Wendy. «Ho detto, entra...». «No, mi è parso che qualcuno mi chiamasse per nome». «Non ho sentito niente», affermò Kayla, guardandosi intorno nel negozio vuoto. «Probabilmente, è stata soltanto la mia immaginazione», replicò Wendy, poi fece per allontanare una ciocca degli ispidi capelli neri di Kayla da un orecchio ed esclamò: «Ehi! Indossi orecchini a clip celtici!». «Colpevole», ammise Kayla. «Delle clip? Questo non è forse una sorta di sacrilegio per un'accolita della Chiesa del Divino Piercing?». «Al massimo è una piccola trasgressione», sorrise Kayla.
«Wendy!». Questa volta il richiamo giunse più forte. «Eccolo di nuovo. Qualcuno mi sta chiamando», disse Wendy, poi fu assalita da un pensiero che la turbò. «Quella Thorne si è più fatta viva? Gina Thorne?». «Io non l'ho vista, e Tristan non mi ha detto niente», rispose Kayla. «Wendy!». «Sei certa di non aver sentito?», insistette Wendy. «Qui ci siamo solo tu, io ed Enya, baby», ribadì Kayla, scuotendo il capo. «Abbassa la musica», ordinò Wendy, dirigendosi verso il retro del negozio. «Devo venire...», cominciò Kayla, riducendo il volume a un sussurro eterico. «No. Resta lì». «Sei tu il capo», si arrese Kayla scrollando le spalle. La porta del retro era aperta, ma Wendy non riusciva a ricordare se l'avesse chiusa quando si era concessa una pausa dal progetto del sito Internet. Ultimamente era stata piuttosto distratta, fin da quando il suo rito di mezz'estate si era concluso in un disastro. I suoi ricordi del rito erano un insieme confuso e composto da quella donna spettrale che si faceva chiamare la Vecchia, da mille voci che le urlavano contemporaneamente nella testa e da un dolore che pareva spaccarle la mente. Il qualche modo, quella donna le aveva fatto del male, causandole una breve ma acutissima sofferenza, e lei era svenuta nel cortile posteriore. Se non fosse stato per la pioggia gentile che aveva preso a cadere sul suo corpo nudo, non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta svenuta. Abbastanza a lungo perché un vicino o Bobby McGowan la trovassero stesa sull'erba, nuda? Aveva evitato una situazione imbarazzante su cui era meglio non soffermarsi a riflettere. Dopo di allora la Vecchia non era più riapparsa, cosa per cui Wendy si riteneva fortunata dato che, dopo la sua comparsa nel corso del rituale, aveva vissuto per qualche tempo nella paura, sussultando a ogni ombra e a ogni suono, e le ci erano volute quasi due settimane per tornare a sentirsi quasi se stessa. Nel corso dell'ultimo mese aveva ritrovato la propria pace mentale, perché la ristrutturazione della villetta l'aveva impegnata al punto da darle ben poco tempo per preoccuparsi della Vecchia o di Gina Thorne; per chissà quali motivi anche loro l'avevano lasciata in pace, e preferiva che le cose andassero avanti così, con un ritmo di vita frenetico ma norma-
le. E adesso stava cominciando a sentire delle voci. Non è mai un buon segno, ammise fra sé. Chiusa la mano intorno alla maniglia, spalancò di colpo il battente e per un momento rimase a fissare la stanza buia, fino ad avere la certezza che le ombre più cupe e massicce fossero soltanto scatole e cartoni di merci ammucchiati; il computer proiettava una luce pallida al centro della stanza e sul tratto di pavimento bianco dove Alissa era solita stendere la stuoia per gli esercizi yoga. Wendy accese l'interruttore della luce e una lieve brezza sparpagliò i fogli sulla scrivania del computer; per un momento pensò che l'aria fresca provenisse dai condotti della ventilazione, ma poi si rese conto di non sentire la vibrazione del compressore del condizionatore. C'era soltanto silenzio. Accanto all'interruttore, appeso a un gancio, c'era uno specchio ovale dalla cornice dorata che Alissa usava sempre per controllare i capelli e il trucco prima di passare nella parte anteriore del negozio; quando Wendy si girò a guardare nello specchio, il volto che vide riflesso non fu però il suo, ma quello della Vecchia. «Wendy!». Con un urlo improvviso Wendy sferrò un colpo con la mano in cui impugnava ancora il taglierino con la lama ancora esposta. La violenza dell'impatto spezzò la lama sottile e crepò lo specchio. «Vattene!», stridette Wendy mentre il taglierino le scivolava dalle dita prive di forze, poi si asciugò le lacrime che le riempivano gli occhi prima che potessero colarle sulle guance. «Lasciami in pace», sussurrò. «Lasciami in pace, dannazione a te!». Quando risollevò lo sguardo, il riflesso distorto che vide nello specchio crepato era quello del suo volto. Con le gambe che le tremavano, si lasciò cadere sulla sedia antistante il computer e si appoggiò in avanti, gli avambracci puntellati sulle cosce, traendo lunghi respiri per calmarsi. «Di' una parola, capo, e mi lancerò sulle barricate». Alzando lo sguardo Wendy vide Kayla ferma sulla porta del retro, con una mazza da baseball in alluminio appoggiata su una spalla e intenta a scrutare con attenzione la stanza. «No, sto bene». «Ho sentito qualcosa che si rompeva». «Lo specchio», spiegò Wendy indicandolo. «Qualcosa mi ha spaventata». «Un ragno?», chiese Kayla rabbrividendo. «Di quelli con lunghe zampe
pelose?». «Peggio», rispose Wendy. «Lo hai ucciso?», volle sapere Kayla facendo scorrere lo sguardo avanti e indietro sul pavimento. «No», replicò Wendy, «ma forse ci penserà due volte prima di tornare». «Lo spero», commentò Kayla. «Non mi va di pensare che ti sia procurata sette anni di sfortuna per niente». Vestita con un maglione rosso all'uncinetto e jeans tagliati al ginocchio, Gina sedeva a gambe incrociate sul letto, intenta a guardare dentro una scatola da scarpe che teneva in grembo. Conteneva tre bamboline di stracci che aveva cucito lei stessa con pezzi di stoffa indossati da sua madre, da Dominick e da Todd; nel corso dell'ultimo mese aveva sottratto altri capelli dalle spazzole e dai pettini e li aveva utilizzati per imbottire le bambole, insieme a ritagli di tessuto provenienti dal loro vestiario per dare più volume. Le bambole erano prive di lineamenti, dotate di una forma umana ridotta all'essenziale, ed erano tenute insieme da cuciture molto rozze; ciascuna aveva un nastro nero legato intorno alla testa come una minuscola benda, pur essendo tutte quante prive anche di una semplice parvenza di occhi. La benda aveva valore simbolico, era uno strumento di focalizzazione, e Gina ne aveva già visto i risultati, davvero incoraggianti. Nella scatola c'era anche una sacca di similpelle contenente un kit di tessere da Scarabeo, che però non avevano più dato risultati dopo quelli iniziali. Per qualche tempo Gina aveva preso in considerazione l'eventualità di comprare un vero kit di rune, cosa che aveva provocato la sua visita al Crystal Path e l'incontro con quella Wendy che l'aveva tanto turbata; poi però aveva deciso di lasciar perdere quei simboli ambigui e sconcertanti a favore di un messaggio scritto in puro e semplice inglese, ma finora il nuovo kit di tessere da Scarabeo aveva prodotto soltanto combinazioni senza senso. Sentendo l'F-150 di Brett che si fermava davanti alla casa, Gina spinse la scatola sotto il letto e lasciò la propria camera per scendere in silenzio nell'ingresso a piedi nudi, prendendosi un momento per dare un'occhiata in camera di Todd. «Ehi, rospetto, ti piace il computer nuovo?», chiese. «È uno sballo, Gina», rispose Todd che sedeva alla scrivania con le spalle rivolte verso di lei. «Dovresti provarlo». «Lo lascio volentieri a te, rospetto», ridacchiò Gina. «Divertiti!».
Quella era una cosa che non mancava mai di metterla di buon umore, guardarlo mentre se ne stava seduto davanti al computer rotto, fissando lo schermo scuro con le mani che sfrecciavano sulla tastiera o muovevano il mouse sul tappetino, come se all'interno di quel grosso pezzo di ferraglia stesse davvero succedendo qualcosa. Però Todd era felice, tutti vedevano quello che lei voleva che vedessero, e questo evitava che Dominick e Caitlin le rovinassero la vita. Sì, indubbiamente ci sono dei risultati, pensò fra sé, voltandosi per andarsene. «Più tardi verrà Gary», disse Todd. «Non vedo l'ora di mostrargli quanto è veloce questo computer». «Gary?». «Gary Gatti», spiegò il ragazzo. «Il mio compagno di scuola. Verrà più tardi con il suo skateboard. Gli verrà un colpo, quando lo vedrà», concluse, scoccando da sopra la spalla un sorriso foruncoloso in direzione di Gina. Oh, Todd, non sai che alcune cose devono restare in famiglia? pensò Gina. Gli estranei non capirebbero. Sentendo suonare il campanello, scosse il capo e corse giù per le scale per aprire la porta. «È per me!», gridò, prima che sua madre o Dominick facessero capolino nell'atrio, poi spalancò la porta, afferrò Brett per la fibbia della cintura e lo trascinò dentro. «Cosa ti ha trattenuto?», chiese. «Mi dispiace», rispose Brett, «ho dovuto fare il pieno». «Chi... chi è?», chiese Dominick in tono esitante. Gina si girò verso di lui con un bagliore d'ira negli occhi. «È Brett. Ora vattene, Dominick». Fermo in piedi dal lato opposto dell'ingresso, Dominick appariva pallido in volto, la mascella segnata da chiazze irregolari di barba lunga e gli occhi cerchiati di nero, come se non stesse dormendo abbastanza. Gina sapeva però che il sonno non sarebbe bastato da solo a rimediare al suo stato, perché lei stava attingendo alla sua energia vitale. «Ok, ok», annuì Dominick, dando l'impressione che perfino quel semplice movimento gli costasse uno sforzo eccessivo. «Mi dispiace di aver disturbato, Gina. Ero solo curioso». «Come il gatto, Dom», ribatté Gina. «Spero che a te vada meglio». «Fate quello che volete, ragazzi», borbottò Dominick, e si ritrasse dall'ingresso con lo sguardo basso. «Come se avessi bisogno del suo permesso», commentò Gina, scuotendo
il capo, poi chiuse la porta e accompagnò Brett di sopra. Nel corridoio lui allungò il collo per dare un'occhiata in camera di Todd e scosse la testa con aria sconcertata. «Come riesci a farlo?», domandò. «Lui vede ciò che voglio io», spiegò Gina, e aggiunse a voce più bassa: «Lo fanno tutti. In questo modo la vita qui in casa risulta molto più semplice». Brett annuì e la seguì nella sua stanza lanciando solo un'altra occhiata da sopra la spalla in direzione di Todd. Dopo che Gina ebbe chiuso la porta, Brett si avvicinò allo stereo e sfiorò con la mano i diversi comandi senza però apportare modifiche; dandole le spalle, si schiarì la gola. «Cosa mi dici di me?», chiese. «Stai controllando anche quello che vedo io?». «Guardami, Brett», rispose lei, con voce seducente, e Brett si girò. Gina era in piedi davanti a lui, nuda, il maglione e i pantaloni abbandonati a terra in un mucchio informe. «Hai qualche problema con quello che stai vedendo?», chiese, allargando le braccia. «Nessuno», garantì lui, deglutendo a fatica. «Bene», approvò Gina sedendosi sul letto e battendo un colpetto sul materasso, accanto a sé. «Adesso vieni qui ed esci da quei jeans. Il piacere prima degli affari». «Affari?». «È tempo di cominciare a elaborare dei piani». Wendy indossava un reggiseno sportivo nero, un'informe maglietta grigia del Danfield College con le maniche tagliate, calzoncini corti verde giada e scarpe da corsa nere. Dopo la sconvolgente visione che le era apparsa nello specchio del retro del Crystal Path aveva una quantità di energia nervosa da bruciare. Subito dopo aver chiuso il negozio era andata a casa e si era messa la tenuta da jogging: avrebbe finito la sua corsa molto prima del crepuscolo, poi si sarebbe fatta una rapida doccia seguita da una cena leggera. Si sentiva sempre su di giri alla fine di una corsa, almeno dopo aver smaltito lo sfinimento iniziale; aveva letto da qualche parte che un po' di esercizio fisico mantiene accelerata per ore la velocità di metabolizzazione del corpo, cosa che migliora la digestione e il consumo delle calorie. Dopo un'intensa esercitazione aerobica Wendy si sentiva sempre più lucida, più focalizzata, contrariamente a quanto le accadeva con il solle-
vamento pesi, che la lasciava invece dolorante e debole per interi giorni. Una settimana prima aveva fatto alcuni giri con la Civic e si era servita del contachilometri per tracciare parecchi percorsi da quattro chilometri che partissero dalla villetta, perché avere più di un tracciato fra cui scegliere serviva ad alleviare la monotonia dello jogging. Dopo una serie di esercizi di stretching, Wendy percorse camminando i primi quattrocento metri, poi accelerò progressivamente il passo fino a procedere a lunghe falcate, quasi di corsa anche se non di volata. Quando avesse raggiunto il semaforo all'incrocio fra Mage Avenue e Ash Street, con la Spellcaster Video Rental all'angolo più vicino e il Mike's Sandwich Shop a quello opposto, avrebbe battuto un colpetto sul palo di metallo del semaforo per buon augurio e sarebbe tornata indietro, percorrendo gli ultimi quattrocento metri a passo spedito ma non di corsa, come raffreddamento. In quel modo sarebbe arrivata alla villetta quasi barcollando, poi si sarebbe tolta la tenuta da jogging e sarebbe entrata nella doccia: cinque minuti più tardi si sarebbe ritrovata pulita, con la mente limpida e rinfrancata. Non esisteva tonico migliore. Questa volta, però, la voce continuò a insinuarsi nella sua sfera cosciente, chiamandola ripetutamente per nome. «Wendy... Wendy... Wendy!». Sembrava quasi che stesse aspettando una risposta. Stringendo i denti Wendy si premette le mani sulle orecchie, cosa che le rese più difficile correre, ma non riuscì neppure a bloccare la voce: la Vecchia le stava parlando nella mente, non all'orecchio. Si tratta di questo oppure sto dando i numeri, pensò Wendy. «Wendy!». «Lasciami in pace!», si trovò a urlare con estremo sgomento, scorgendo troppo tardi parecchi ragazzini che erano usciti dallo Spellcaster Video Rentals in tempo per assistere al suo sfogo bizzarro. Un pallido ragazzino lentigginoso dai capelli rossi, che stringeva fra le braccia non meno di quattro dvd presi in affitto, le diede un'occhiataccia. «Di che malattia soffri?», le chiese. «Mi sto specializzando in recitazione teatrale», spiegò Wendy con un cenno cordiale della mano. «Stavo... Uh, stavo solo ripassando le battute». Oh, cielo! pensò nell'aggirare il semaforo senza ricordarsi di battere un colpetto sul palo. Per fortuna la sua andatura spedita le permise di mettere una notevole distanza fra lei e i ragazzini, ma non prima di averne sentito un altro commentare: «Matta come un cavallo». Cercando di dimenticare l'incidente, Wendy accelerò il passo, correndo a
tal punto che il respiro le si fece affannoso. Però non poteva distanziare la propria mente. «Wendy!». «Vattene!», sibilò quasi sottovoce. «Per favore, perdonami», insistette la voce. «Cosa?», esclamò Wendy rallentando il passo. «Il mio errore ti ha fatto del male. Mi dispiace». La voce, o meglio il pensiero che le echeggiava nella testa, aveva un tono contrito. «Senti», rispose Wendy riprendendo a correre, «adesso non ti posso parlare. La gente mi sta fissando». Era vero. Una vecchietta che stava portando a spasso uno schnauzer continuava a lanciarle occhiate in tralice, dando l'impressione di desiderare di conoscere a memoria il numero di telefono del manicomio più vicino. Forse sta cercando di ricordare se si è messa lo spray al pepe nella borsa prima di portare fuori Fido per i bisognini serali, si disse Wendy. La voce nella sua testa ridacchiò. «Hai sentito?», sussurrò Wendy. «Non è necessario che parli», spiegò la voce. «Posso sentire i tuoi pensieri, se sono direzionati». «Come...», cominciò Wendy, poi s'interruppe e rivolse mentalmente la domanda alla voce. Come la telepatia? «Sì». Mi puoi leggere nella mente? pensò Wendy allarmata. Non sono certa che la cosa mi piaccia, soprattutto perché io non posso leggere nella tua. «Posso sentire, o per meglio dire percepire, i tuoi pensieri direzionati», spiegò la voce. «I tuoi pensieri generali sono per me come scariche di energia statica, un rumore confuso, un caos di parole e di immagini». Adesso sembri il professor Lordi, pensò Wendy aggiungendo una risatina mentale. «Stai migliorando nel comunicare in questo modo». Quando diventerò abbastanza brava da poter leggere i tuoi pensieri? «Questo è un problema, perché io non esisto nel modo in cui esisti tu». Allora sei un parto della mia immaginazione? si chiese mentalmente Wendy, e ad alta voce aggiunse: «Sto diventando pazza». Poi si fermò a un incrocio, correndo sul posto per mantenere alti i battiti del cuore mentre aspettava che un furgone Dodge azzurro svoltasse nella strada laterale.
«Io esisto al di fuori della tua immaginazione, Wendy, te lo assicuro, però i miei pensieri derivano da uno stato di consapevolezza alterato». Peyote? Lsd? Di che si tratta esattamente? «Non c'entrano allucinogeni, fumo o specchi. Limitati a confidare nel fatto che ho trovato il modo di contattarti. Questa è la cosa importante». Hai detto di aver commesso un errore quando mi hai fatto del male, il giorno di Mezz'estate, pensò Wendy. Che genere di errore? Le rimaneva da percorrere meno di un chilometro e mezzo prima di svoltare nella sua strada, momento in cui avrebbe cominciato a camminare per raffreddarsi. La voce rimase in silenzio mentre lei oltrepassava un isolato e poi un altro ancora grazie all'andatura spedita. Sei sempre qui? chiese. «Sì. Stavo solo decidendo quale fosse il modo migliore per spiegarti cosa è successo durante il tuo rito». Ci fu un'altra pausa, poi: «Avevo sperato di poter risparmiare tempo trasmettendoti tutte le informazioni in una volta». Come? «Con quella che sono giunta a definire come una sovrapposizione di informazioni. Quasi creando i ricordi relativi nella tua mente». Sembra alquanto bizzarro. «È un talento acquisito, tanto per inviare quanto per ricevere informazioni, ed è stato questo il mio errore: ho dimenticato che la tua mente non era preparata a ricevere nozioni in quel modo». E così hai attivato il mio riflesso mentale di rigetto. Nella mente di Wendy echeggiò una risatina. «Fondamentalmente è così. A volte questo mio stato di consapevolezza alterata contiene dimenticanze o lacune, e questa è stata una lacuna pericolosa. Il mio tentativo di sovrapposizione ha attivato nella tua mente l'equivalente di un corto circuito mentale». Luci spente, Wendy. «Sì. Il mio tentativo di usare una scorciatoia mi si è ritorto contro, e ho dovuto dare alla tua mente il tempo di riprendersi». È per questo che ultimamente non ti ho più vista né sentita? «Esattamente. Se avessi tentato di contattarti troppo presto, il corto circuito sarebbe stato attivato semplicemente dalla mia presenza, e tu saresti potuta cadere in stato di shock, o anche peggio». Peggio? Vuoi dire che potevo morire? «Saresti potuta finire in coma».
E sei tornata lo stesso? esclamò Wendy, sentendo l'ira affiorare dentro di sé. Sapendo che avresti potuto farmi finire in coma? «Mi dispiace, Wendy. Devi capire quanto tutto questo sia importante. Ero già pronta a rientrare in contatto con te una settimana fa, ma ho atteso ancora, giusto per sicurezza. Se avessi prolungato ulteriormente l'attesa, se avessi rimandato il tuo addestramento, non solo avrei messo in pericolo la tua vita, ma avrei aperto la porta alla rinascita di un'entità malvagia». Wendy arrivò appena in tempo alla svolta nella strada di casa: le gambe le si erano fatte pesanti e intorpidite, e lei si avviò camminando lungo il bordo asfaltato, le mani sui fianchi e lo sguardo perso in lontananza. «Wendy?». Ti sto ascoltando. Sapevo che alla fine saremmo tornate a parlare di questo. «È necessario». Perché io sono l'avversaria? «Brava, te ne ricordi. Temevo che la sovrapposizione potesse aver cancellato qualcuno dei tuoi ricordi». Ricordo la maggior parte del rito, fino a quando ti sei protesa verso di me, poi c'è stata un'esplosione di dolore, e da quel momento tutto è offuscato. «È stato quando ho iniziato la sovrapposizione. Allora, vogliamo riprendere da quel punto?». Quanto ci vorrà perché io impari a fare quella cosa, la sovrapposizione? «Una persona nella media impiegherebbe anni per imparare a ricevere una sovrapposizione. A te forse basterebbero dei mesi». Già, perché sono speciale, commentò Wendy, tentando di sogghignare mentalmente. «Lo sei, che tu ci creda o meno. Tuttavia non possiamo concederci il lusso di sprecare il tempo che dovrei impiegare per addestrarti a ricevere, quindi dovremo procedere all'antica, in maniera lineare, una parola per volta». La mia solita sfortuna, pensò Wendy. Telepatia correttiva. «Hai già fatto grandi progressi». Davvero? «Sì. Eccelli già nell'inviare». Nell'inviare in modo lineare, vuoi dire.
«Noi tutti dobbiamo andare carponi, prima di poter camminare». D'accordo, allora mettiamoci al lavoro. Dov'è il sillabario? Come cominciano le mie lezioni lineari? «Cominciano da te, Wendy. Tu sei la sua avversaria, e lei è la tua. E lei sta diventando sempre più potente ogni giorno che passa». Mentre io rimango debole e insignificante, ribatté Wendy con sarcasmo. «Sei impotente e impreparata», precisò la Vecchia, «ma non ti considerare mai insignificante». Aspetta un momento, pensò Wendy. Hai detto «lei», non «lui», quindi la mia avversaria, questa entità malvagia rinata è una lei, giusto? «Sì». Smettila di tergiversare mentalmente. Stai parlando di Wither, vero? «Sì. È lei l'antica entità malvagia». Ma io l'ho distrutta! protestò Wendy, respingendo l'idea. «Tu l'hai sconfitta nella sua forma più antica e bestiale, ma non sei riuscita a distruggerla». Wendy smise di camminare e scosse il capo, come se la Vecchia avesse potuto vedere quel gesto. Non puoi sapere, tu non eri là! insistette. Ho schiacciato quella cosa sotto parecchie tonnellate di roccia. «Il fuoco è il solo modo sicuro per distruggerla». Wendy si fermò accanto a una RAV4 rossa e abbandonò la testa sul petto, sentendo quasi la voglia di mettersi a piangere. L'abbiamo bruciata, ribatté. Frankie e io abbiamo preso la benzina dal serbatoio della Gremlin e l'abbiamo versata sulle rovine. L'abbiamo vista bruciare. «Avete visto bruciare i suoi resti, posso percepirlo». Ci puoi scommettere che lo abbiamo fatto. «Il vostro fuoco deve essere arrivato in ritardo, e la sua essenza è sfuggita». L'essenza? Di cosa diavolo stai parlando? «Del sangue. Il suo sangue è la sua essenza, porta dentro di sé la sua corruzione». Il suo sangue ha infettato qualcuno? chiese Wendy, riprendendo a camminare. «Sì... potresti considerarla... un'infezione del sangue. Però corruzione... è un termine più adeguato. Quando sarà... completa, l'ospite umano... scomparirà e rimarrà... soltanto Wither».
Ti sto perdendo! Cosa succede? Non solo le parole giungevano più distanziate, ma il loro tono si stava progressivamente abbassando, fino a ridursi a un sussurro mentale. «Mi sto stancando. Mantenere... stato di consapevolezza... prosciuga. Dopo... riposo... continueremo. Wendy?... non va?... sento sorpresa...». È in anticipo di due giorni! rispose Wendy, che aveva preso ad accelerare il passo, giusto per accertarsi di non avere un'allucinazione. «Chi...?». No, è tutto a posto, va' a riposare, garantì Wendy, poi sussurrò: «È Alex. È tornato». Wendy riprese a correre, accelerando il passo nell'avvicinarsi alla villetta. Alex era seduto sul gradino più basso del portico, con il bastone in grembo e una grossa valigia e una sacca blu navy posate dietro di lui contro il muro. Quando la vide si alzò in piedi con un sorriso e mosse qualche passo sul prato per venirle incontro; forse fu soltanto l'effetto della sua speranzosa immaginazione, ma Wendy ebbe l'impressione che adesso il suo zoppicare fosse meno evidente, mentre si lanciava fra le sue braccia cingendogli il collo e disseminandogli le guance di baci frenetici. Lasciato andare il bastone, Alex la prese per la vita e tentò, sconsideratamente viste le sue condizioni di salute, di farla ruotare nell'aria, ma riuscì a compiere solo un quarto di giro prima che le gambe gli cedessero. Con una risata di rassegnazione si abbandonò allora alla forza di gravità e cadde all'indietro, trascinando Wendy a terra, su di sé. «Sei uno spettacolo che rallegra la vista», dichiarò Wendy sollevandosi sulle braccia. «E che fa sudare gli arti, a quanto pare», commentò Alex notando le chiazze umide che lei era riuscita a trasferire sui suoi abiti, spiegazzati dal viaggio in aereo. «Fa sudare gli arti», convenne Wendy, sfregando il volto sudato contro quello di lui. «E anche le guance. E il naso», continuò pungolandolo con il suo. «E le labbra», aggiunse, baciandolo e assaporando il gusto salato presente sulla bocca di entrambi. Prima che il bacio progredisse oltre il livello due del contatore della passione, si staccò da lui e chiese: «Quello che sento tra noi due è il tuo bastone, oppure sei semplicemente felice di vedermi?». «Il mio bastone è rimasto laggiù», ammise Alex. «Come sospettavo», replicò Wendy. «La tua libidine è un caso disperato».
«Mi dichiaro colpevole». «Non vorrei che fosse altrimenti», confessò Wendy baciandolo su una guancia, poi si alzò in piedi e gli porse la mano. «Evitiamo di scandalizzare i vicini», suggerì; annuendo, Alex accettò la sua mano e le permise di aiutarlo a rialzarsi a sua volta. «Dunque, signor Dunkirk», continuò Wendy, «a meno che io non sia stata vittima di una grave crisi di perdita della cognizione del tempo, tu sei in anticipo di un paio di giorni». «Sono in anticipo di un paio di giorni», confermò Alex affiancandosi a Wendy, mentre lei cercava le chiavi di casa nei calzoncini e apriva la porta. «Allora ti hanno finalmente buttato fuori a calci da Minneapolis?», gli chiese, scoccandogli un'occhiata scherzosa. «Mi hanno rilasciato per buona condotta». «Oh, allora non puoi più fare nulla di sconveniente?», protestò lei fingendo d'imbronciarsi. «Scoprirai che sono recidivo per natura, signorina Ward», ribatté lui, assestandole una pacca sul posteriore. «Ci contavo», replicò Wendy strizzandogli l'occhio. «Da' un'occhiata in giro, mentre faccio una rapida doccia». «Sai», disse Alex fermandosi, «anch'io avrei bisogno di una doccia, soprattutto dopo il nostro breve ma sudato interludio sul prato». «E stavi pensando...?». «Al risparmio dell'acqua». Wendy si portò alle labbra la punta dell'indice e lo fissò con la sua aria più maliziosa. «Si dia inizio ai comportamenti sconvenienti», dichiarò. Nel sentire l'inconfondibile rumore delle ruote di uno skateboard sull'asfalto, Gina imprecò e si liberò dal groviglio di lenzuola avvolto intorno al corpo nudo, scendendo dal letto con passo incespicante. «Cosa c'è che non va?», chiese Brett, tirandosi su a sedere e pettinandosi i capelli con le mani. «Gary», rispose Gina mentre s'infilava i pantaloni e il maglione rosso. «Ecco cosa c'è che non va». «Gary?». «Todd vuole mostrargli il suo computer nuovo». «Quel pezzo di ferraglia che se ne sta a fissare tutto il giorno?». «Adesso capisci la natura del problema».
«Che intendi fare?». «Aspetta un momento», ribatté Gina. Aperta la porta della propria camera, si avviò lungo il corridoio e bussò alla porta di Todd. «Ehi, rospetto, il tuo amico è qui. Va' fuori a giocare con lo skateboard». «Ma gli voglio mostrare...». «No, quello può aspettare». «Ma...». «Ho detto che può aspettare. Adesso fa' il bravo ragazzo». Un momento più tardi Gina tornò nella propria camera e richiuse la porta, poi si avvicinò alla finestra e aprì le imposte. Vestito con una maglietta dei Metallica, calzoncini verdi sformati e scarpe da tennis, Gary Gatti non si era ancora avvicinato alla casa e stava invece cercando di far saltare lo skateboard dal marciapiede alla propria mano, impresa che gli riuscì soltanto dopo tre tentativi falliti. Preceduto da un frettoloso rumore di passi e dallo sbattere di una porta, Todd apparve di sotto con lo skateboard malconcio infilato sotto il braccio. Come al solito aveva lasciato sul marciapiede il suo attrezzo per acrobazie fatto di compensato. Di per sé quell'aggeggio non era troppo pericoloso, soprattutto quando Todd ricordava di indossare le protezioni per le ginocchia e per i gomiti. Brett aveva parcheggiato il suo F-150 azzurro proprio lì davanti. Gina si lanciò un'occhiata alle spalle, sentendo avvicinarsi Brett, che indossava soltanto le mutande nere e sfoggiava un morso insanguinato sulla spalla sinistra. La ricetta di Gina per fare sesso alla grande prevedeva infatti un pizzico di paura e qualche briciola di dolore; come risultato, il morso sulla spalla di Brett era profondo abbastanza da poterne ricavare un'impronta dentale completa. L'attività di sollevamento pesi da lui svolta aveva fatto di Brett la materia prima ideale; adesso il contatto intimo che aveva con lui le permetteva di incanalare nel suo corpo energie oscure senza che se ne rendesse conto, scolpendo ulteriormente il suo corpo, ingrandendo bicipiti e avambracci e dandogli un torace possente al di sopra di addominali duri come macigni, delle cosce ben definite e dei polpacci sodi. A parte i talenti che stava ancora sviluppando, infatti, lui era il suo strumento primario, quindi Gina lo stava modellando e affinando per farne un'arma letale; se da un lato si crogiolava nell'usarlo nel ruolo di amante instancabile, infatti, molto più importante sarebbe stato in futuro il suo compito di guardiano. Il rumore degli skateboard sul compensato e sull'asfalto la strappò alle
sue riflessioni e la indusse a riportare l'attenzione sui due tredicenni che stavano tentando di eseguire diverse acrobazie sulla tavola di compensato appoggiata al marciapiede. «Ma guardalo», commentò Gina, scuotendo il capo. «Crede di essere Tony Hawk». «La vita reale imita i videogame», replicò Brett cingendole la vita con le braccia muscolose e sfiorandole il collo con le labbra. Gina notò intanto un lungo camion che stava sopraggiungendo rumorosamente lungo la strada, la scritta Yankee Silver Springs Bottled Water dipinta in lettere blu su sfondo bianco; a intervalli di pochi giorni l'autista di quel camion faceva il giro del loro quartiere, Eden's Crossing, depositando bocce d'acqua da venti litri e ritirando quelle vuote a ciascuna delle fermate previste dal suo itinerario, e i vicini si lamentavano spesso della velocità eccessiva da lui tenuta, tanto da aver richiesto che le autorità municipali installassero dei dossi artificiali lungo le strade più trafficate della loro area suburbana. «Renditi utile e prendi quella scatola che c'è sotto il mio letto», ordinò. Brett tirò fuori la scatola e inarcò un sopracciglio nel vedere le bambole di stracci, il sacchetto e il laccio. «Questo fa parte dei tuoi piani?», chiese. Gina annuì, lo sguardo fisso sul camion che si stava avvicinando per cercare di valutare la distanza a cui si trovava dai due ragazzi sullo skateboard, che il conducente non avrebbe potuto vedere perché il furgone di Brett gli copriva la visuale. «Cos'hai in mente?», domandò ancora Brett mentre Gina prelevava dalla scatola la bambola di Todd e un pezzo di filo nero lungo circa venticinque centimetri. «Ho deciso che la mia famiglia è troppo grande e va dimezzata». Il rumore del camion divenne più forte perché il conducente non aveva fermate in quell'isolato e stava prendendo velocità; intanto i due ragazzi erano intenti alle loro piccole acrobazie, consapevoli solo in modo vago del veicolo che si avvicinava, rassicurati com'erano dalla falsa convinzione di vivere in un universo ordinato e di esseri immortali. Gina avvolse il filo intorno alle gambe della bambola raffigurante Todd e attese che questi risalisse con lo skateboard l'asse di compensato. Arrivato in cima all'arco da esso formato, il ragazzo afferrò con entrambe le mani la parte anteriore ricurva dello skateboard e fece ruotare i piedi per ridiscendere girato nella direzione opposta, dando le spalle al camion. Nel momento in cui atterrò di nuovo, Gina serrò di colpo il cappio di filo ed
entrambe le gambe della bambola collassarono, mentre lei avvertiva un'ondata di calore lungo l'interno delle braccia, una manifestazione del suo potere, in reazione alla quale il fine reticolato di vene azzurre che spiccava sotto la pelle pallida prese a pulsare e si fece scuro come inchiostro. Giù in strada Todd perse il poco equilibrio che gli rimaneva: mentre lo skateboard iniziava la discesa, il baricentro del ragazzo si spostò troppo in avanti e lui scese barcollando dallo skateboard, muovendo qualche altro passo incerto verso il centro della strada. «Attento!», urlò Gary. Proprio in quel momento il camion oltrepassò il furgone parcheggiato e andò a sbattere in pieno contro Todd. Gina aveva sperato che il fratellastro finisse sotto le ruote -dopotutto, tanta acqua doveva pesare parecchio, abbastanza da ridurre un marmocchio tredicenne in poltiglia - ma Todd venne invece scagliato lontano dall'impatto e roteò in aria prima di atterrare con violenza sull'asfalto. Il camion si fermò con uno stridore di freni, la portiera si spalancò e il conducente balzò a terra correndo ad accoccolarsi vicino alla forma immobile; pallidissimo, si guardò alle spalle e urlò a Gary di chiamare il 911. «È... è morto?», chiese Brett, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, lontano da Gina. «Possiamo solo sperarlo», ribatté lei, intenta a esaminarsi le braccia dove le vene nere si stavano già contraendo mentre il loro colore sbiadiva fino a tornare azzurro. «È tempo che tu sparisca, Brett. Qui fra poco si scatenerà certamente il caos, con l'ambulanza, i paramedici e forse perfino la polizia con un'infinità di domande». «Ma verranno a sapere che ero qui». «Non ti preoccupare per i miei familiari, offuscherò io la loro memoria», garantì Gina. «E poi tu non sei stato coinvolto, e se anche il conducente del camion dovesse ricordare il tuo pick-up parcheggiato lungo il marciapiede, che importanza potrebbe avere?». «Come riesci a fare queste cose?». «È un dono, Brett», sorrise Gina. «Mi è stato dato questo potere, e continua a crescere dentro di me tanto che sarebbe un... un crimine non usarlo. Non sei d'accordo?». «Immagino di sì», rispose Brett mentre si metteva i jeans e infilava le braccia nelle maniche della camicia. Nel vestirsi si girò un paio di volte a guardarla con timore, e il sorriso di Gina si accentuò: la paura era soltanto un altro modo per mantenere il controllo su di lui. Riposta sotto il letto la
scatola da scarpe, assestò le lenzuola e la coperta. «Se mai dovessero chiederci qualcosa», disse, «stavamo ascoltando della musica quando abbiamo sentito lo stridere dei freni e qualcuno che gridava». «D'accordo», annuì Brett e accennò ad avanzare, forse per accomiatarsi con un bacio, ma parve ripensarci e si limitò a un secco cenno del capo, aggiungendo: «Ti chiamerò più tardi, per sapere...». «Non ti preoccupare», lo interruppe Gina. «Quando avrò bisogno di te lo saprai». Poi lo seguì nel corridoio, ma si fermò in attesa in cima alle scale ascoltando le grida frenetiche che giungevano dal basso e aspettando di sentire la porta che si chiudeva alle spalle di Brett quando lui sarebbe sgusciato fuori. «Cos'è tutto questo chiasso?», chiese allora. Sua madre salì un tratto di scala fermandosi sul pianerottolo intermedio, dove i gradini cambiavano direzione. Il suo volto appariva pallido e sconvolto e lei sembrava essere invecchiata di dieci anni nell'arco dell'ultimo mese. Ecco, in un certo senso è così, pensò Gina. Tutta la mia energia extra deve pur venire da qualche parte. «Mio Dio, Gina!», esclamò Caitlin. «Todd è stato investito da un camion!». «Oh, no», mormorò Gina premendosi una mano sulla bocca, timorosa di poter sorridere e rovinare tutto. «È grave?». «Gli avevo detto di non giocare in strada», borbottò Caitlin, girandosi per ridiscendere. «Quello stupido skateboard!». «È morto?», insistette Gina, con un filo di voce. Per favore, speriamo di sì, aggiunse fra sé. Caitlin però scosse il capo e scese di corsa i gradini diretta alla porta principale. Gina la seguì più lentamente e rimase in attesa sulla veranda, appoggiata a uno dei pali di sostegno e guardando il conducente del camion, Caitlin, Dominick e Gary accalcarsi intorno alla forma immobile stesa in mezzo alla strada. Intanto si sfregò con le dita l'interno delle braccia, avvertendo i residui di calore lasciati dal potere che era divampato dentro di lei. Stava diventando sempre più forte, ma quel potere non era la sola cosa che avesse dentro, c'era anche un entità semi-cosciente, un altro io che esisteva sotto la sua pelle, un essere che prometteva di dividere tutto con lei, e
la sola linea d'azione sensata che potesse seguire era quella di assecondarlo perché, pur avendo bisogno del suo corpo per sopravvivere, quest'altro io era più potente e dominante di qualsiasi cosa avesse mai immaginato. A volte nelle primissime ore del mattino, quando si svegliava di colpo da sogni spaventosi, Gina comprendeva di non avere scelta, di essere rimasta senza alternative nel momento in cui l'entità chiamata Wither l'aveva invasa. A parte questo, gli unici momenti di vera autorealizzazione si verificavano soltanto dopo che l'altra aveva consumato il proprio potere, quando le sue difese crollavano per un momento e Gina poteva vedere oltre il loro velo. Quegli istanti erano però quantomeno fugaci, e alla luce del mattino diventavano inconsistenti quanto un sogno dimenticato. Poi sentì il suono delle sirene che si avvicinavano, e quella distrazione fu sufficiente. Quel frammento di introspezione sfuggì alla sua presa, trascinato nell'oscurità di un mare di pensieri sconnessi. Adesso tutto ciò che provava era delusione per il fatto che Todd era probabilmente sopravvissuto all'impatto. Con un sospiro si avviò attraverso il prato per raggiungere gli altri. Dopotutto, ricordò a se stessa, bisogna salvare le apparenze. Mentre si allontanava dalla casa dei Gallo a bordo del pick-up, Brett dovette serrare il volante con entrambe le mani per far sì che smettessero di tremare. Gina continuava a sorprenderlo - e a spaventarlo - con quelle sue nuove, strane capacità e con il modo prevalentemente sociopatico in cui le utilizzava. Un esempio eccellente era la tragica scena dell'incidente che si stava lasciando alle spalle. Se n'era andato perché Gina glielo aveva ordinato, tutto qui. Ogni volta che cercava di ricordare con esattezza quando aveva perso il controllo della sua vita, la memoria si faceva indistinta e gli veniva meno, e quello di libero arbitrio era un concetto che per lui stava gradualmente perdendo significato. Tuttavia lo shock di vedere il camion che andava a sbattere addosso a Todd l'aveva scosso dal suo autocompiacimento, e per qualche istante una voce pervasa di terrore e di panico era sorta dal profondo del suo animo, gridando abbastanza forte da attirare la sua attenzione. «Scappa!», aveva detto soltanto. «Vattene via da qui!». Fuggire non è un'alternativa valida, pensò, mentre già la voce si allontanava, facendosi più fioca. La sola cosa che gli importava era soddisfare Gina, obbedire a ogni suo capriccio. Certo, il sesso che facevano insieme era uno sballo, il meglio
che avesse sperimentato, anche se un po' più violento di quanto lo fosse stato un anno prima, ma c'era qualche altra cosa che gli imponeva di rimanere con lei, di essere sempre a sua disposizione, qualcosa che gli pareva quasi di capire, ma mai a fondo. «Una falena attirata dalla fiamma», ammonì la voce che si andava dissolvendo. Le mani di Brett si fecero più salde sul volante quando si rese conto che quella era la voce dell'egoismo, che non si era neppure soffermata a considerare le esigenze di Gina. Non avrebbe mai potuto abbandonarla. Lei era così viva! E poi aveva bisogno di lui, quindi doveva restarle accanto. L'affascinante Gina... Capitolo 5 Diario di Wendy Ward 16 luglio 2000 Luna: piena, giorno 14 Sto scrivendo queste righe nelle primissime ore di domenica mattina nella mia nuova casa. È strano pensare a questa villetta come a casa mia, anche se solo per uno o due semestri, ma questo è ciò che è: ci ho investito abbastanza tempo, fatica e denaro da avere il diritto di chiamarla così. All'inizio di questa settimana ho finito di dipingere le pareti, giusto in tempo per lasciare il campo all'installatore di moquette che mamma mi ha raccomandato; lui ha finito due giorni fa l'ultima stanza, da muro a muro, e l'effetto è splendido. Verde foresta per le aree comuni, marrone chiaro per quella che sarà la camera di Frankie (sì, ho avuto la sua approvazione telefonica per il colore) e bianco per la mia camera da letto, cosa che spero non si riveli un grosso errore. Ho dipinto tutte le altre pareti di azzurro polvere. Probabilmente ho esagerato con i temi del cielo e della terra, ma sono una strega wicca, quindi condannatemi pure per questo, se volete. In ogni caso la spesa più ingente che ho dovuto sostenere di tasca mia è stata quella per la moquette; certo, il Fondo Clayton Quinn per il Rinnovamento della Casa ha pagato i materiali, ma io ho dovuto pagare la mano d'opera. Papà e io abbiamo effettuato da soli il resto dei lavori, e lui ha accettato gli abbracci come valuta corrente. Per quei lavori veramente faticosi si merita proprio un abbraccio fortissimo.
Alex sta ancora dormendo. Sì, gli ho chiesto di dormire qui. Dal momento che non può ritirare le chiavi della sua stanza del dormitorio fino a domani, aveva intenzione di pernottare all'Harrison Motor Lodge ma, dopo aver passato tanto tempo senza vederlo, non me la sono sentita di lasciarlo andare. Questa è soltanto la mia seconda notte nella villetta, quindi spero che papà non mi faccia visita di primo mattino; certo, adesso sono una ragazza cresciuta, ma credo che i genitori vedano sempre i figli come dei bambini, indipendentemente da quanto siano grandi. Perché sono sveglia? Ho la sensazione che lei mi abbia chiamata mentre dormivo... La Vecchia, intendo. Adesso però è tutto così silenzioso che fatico a mettere a fuoco la sensazione che ho avuto al risveglio: un momento stavo dormendo profondamente, e quello successivo mi sono ritrovata perfettamente sveglia e lucida. Forse lei è ancora debole dopo la nostra ultima conversazione, o forse io sono troppo distratta per riuscire a sentirla, per cui farei meglio a mettere da parte il diario e ad ascoltare... «Wendy...». Questa volta il richiamo giunse molto fievole. Stai attenta a non spaventarmi? Oppure stai chiamando da lontano? Dopo aver dato un'ultima occhiata ad Alex, che stava dormendo accanto a lei, Wendy si passò le dita fra i capelli arruffati, badando a muoversi abbastanza piano da non disturbarlo, poi posò il diario sul comodino e uscì dalla stanza a piedi nudi, godendo del contatto della spessa moquette di pile contro la sua pelle. Riluttante ad avventurarsi nel corridoio nel buio più totale, non spense la lampada sul comodino e lasciò spalancata la porta della camera da letto. Con indosso il pigiama giallo decorato da una stampa di rose e bordato di pizzo, oltrepassò l'altra camera da letto con passo cauto, i sensi tesi nell'ascolto, poi superò la cucina ed entrò nel salotto. Il sopra del pigiama era senza maniche, con la scollatura alla contadina chiusa da lacci e bottoni lungo tutto il davanti; grazie ad Alex, adesso i lacci erano sciolti e i bottoni dentro le asole erano ben pochi, quindi la lieve brezza che d'un tratto aleggiò per la stanza fu sufficiente a farle rizzare i peli sulla pelle esposta, inducendola a incrociare le braccia e a sfregarsele per scaldarle. «Sei qui?», sussurrò, poi ripeté la domanda sotto forma di pensiero. Ci sei? Nel punto in cui aveva vorticato il refolo, vide una caligine che si andava formando nell'aria, aleggiando come fumo in un bar affollato, poi il fu-
mo cominciò a modellarsi fino a creare l'immagine spettrale della Vecchia. «Sono tornata». È molto presto. «Non sei sola». Non sei mia madre, ribatté Wendy, sentendo un velo di rossore che le saliva alle guance. «No, non lo sono, ma pensavo fosse meglio rimandare la nostra conversazione a quando avremmo avuto un po' di privacy». Scusami. Sono un po' sulla difensiva. «Non sono qui per giudicarti, Wendy, ma solo per aiutarti». «Ok», sospirò Wendy, ad alta voce. «Tutto questo è un po' troppo bizzarro. Mi sembra strano parlarti con il pensiero quando mi sei davanti, o almeno lo è la tua immagine. Ti dispiace se parlo normalmente? Terrò bassa la voce, lo prometto». «Per me va benissimo». «Inoltre, dal momento che il solo mobilio di cui dispongo qui è un tavolino in sala da pranzo, ti secca se assumo la posizione del loto?». «Lo farò anch'io», rispose la Vecchia. Un momento più tardi Wendy sedette a gambe incrociate sul pavimento e la Vecchia assunse la stessa posizione davanti a lei, in modo che continuassero a guardarsi in faccia. «Così va meglio?», chiese la Vecchia. «Molto meglio», garantì Wendy, posando le mani sulle ginocchia. «Immagino sia ora di cominciare le lezioni», continuò, mentre la Vecchia annuiva. «Per amore di discussione, partirò dal presupposto che quanto mi hai detto sia vero e che Wither non sia rimasta schiacciata sotto le macerie della fabbrica tessile». «È rimasta schiacciata», precisò la vecchia. «È stata sconfitta, ma non distrutta». «Quindi si tratta di vendetta? Io l'ho sconfitta e adesso lei vuole la rivincita? Com'è che dicono nei film holliwoodiani? Questa volta è una faccenda personale?». «Questo è uno dei motivi per cui ti vuole distruggere, ma non è l'unico», replicò la Vecchia. «Spiegamelo passo per passo», replicò Wendy, con un profondo sospiro. «L'anno scorso Wither si è risvegliata dal suo letargo durato un secolo». «È un argomento che abbiamo sviscerato l'ultima volta», affermò
Wendy. «Art ha notato il ripetersi delle ondate di distruzione che si abbattevano su Windale a intervalli di cento anni: nel 1699, l'anno in cui le streghe di Windale sono state impiccate e credute morte, poi nel 1799, 1899 e 1999». Anche se aveva migliaia di anni, quella creatura, o demone, o chissà che altro, conosciuta come «Wither» aveva trascorso gli ultimi trecento anni nel corpo di Elizabeth Wither, trasformandolo fino a fargli assumere proporzioni mostruose nel corso dei periodi di ibernazione lunghi cento anni. Ogni secolo Wither e le due donne puritane da lei corrotte, la sua congrega, si svegliavano, seminavano distruzione nella cittadina e si rendevano responsabili dell'improvviso aumento del tasso locale di mortalità. Queste loro scorrerie secolari erano diventate famose come la Maledizione, con la M maiuscola, e le supposizioni sulle cause di tale Maledizione avevano coperto tutta la gamma delle possibilità, dalle infestazioni paranormali a improponibili studi scientifici sulla presunta contaminazione dell'acqua cittadina. Quelli che credevano che le streghe di Windale fossero state accusate ingiustamente avevano avanzato la teoria che il loro spirito animato da vendetta tornasse ogni cento anni, in occasione dell'anniversario della loro ingiusta impiccagione, per punire la città, una teoria che Wendy sospettava fosse nata come storiella raccontata intorno ai fuochi da campeggio, e che fosse stata poi prontamente abbracciata dalla camera di commercio cittadina come mezzo per incrementare il turismo. Pur avendo generato una campagna turistica senza dubbio macabra ma potenzialmente di successo sul piano economico, e sebbene attribuisse giustamente le centenarie ondate di distruzione alle tre streghe che si ritenevano morte da lungo tempo, la teoria degli «spiriti animati da vendetta» complicava inutilmente le motivazioni delle tre creature, che potevano essere ridotte semplicemente a questo: dopo cento anni di letargo le streghe di Windale si svegliavano con una voglia incredibile di distruzione e un enorme appetito di carne umana. «Subito dopo che Wither si è destata dal suo letargo, anche tu ti sei svegliata». «Come sarebbe a dire?». «Ho già accennato in precedenza al fatto che Wither ha cercato di corromperti. Tu sei stata la sua scelta primaria. Ti sei mai chiesta perché abbia selezionato proprio te per avere un nuovo corpo?». «Perché sono stata abbastanza stupida da starmene seduta di notte completamente nuda in una radura nel bosco, giocando alla magia bianca», re-
plicò Wendy con una scrollata di spalle. «Considerato il potere della sua magia, probabilmente deve aver visto il mio piccolo, innocuo rito come un vero e proprio insulto, e mi ha fatto vedere cosa fosse davvero la magia». «Non hai mai pensato che forse sei stata tu a farlo vedere a lei?». «A farle vedere cosa? Bruciavo incenso, scrivevo e recitavo incantesimi. La mia magia non verrebbe accettata neppure come trucchetto da salotto». «Hai fatto piovere, Wendy. Hai trovato il tuo centro interiore, hai visualizzato ciò che doveva succedere, ed è successo. Già allora avevi del potere». Wendy scosse il capo, sorpresa dall'ondata di emozioni che la stava assalendo, dolore e rifiuto ancora collegati a quella notte, alla pioggia magica e al rapimento e assassinio di Jack Carter. Tuttora si biasimava per moltissime cose, che esulavano tutte dal suo controllo. «No, ti sbagli, questo è quello che lei voleva che io pensassi. È stato un trucco, un suo giochetto. Si stava divertendo alle mie spalle, ma adesso so la verità, la conosco da parecchio tempo: è stata opera sua, è stata lei a farlo accadere, io non ho avuto alcun merito. Quella è stata la pioggia di Wither». «Ti sbagli». «Non sono stata io!», insistette Wendy, asciugandosi le lacrime che le stavano colando lungo le guance. «Non sono...». «Sei stata tu, Wendy. Il potere si è destato dentro di te». «No!», esclamò ancora Wendy, poi giunse la dolorosa ammissione. Io non ho nessun potere! «Come puoi startene seduta lì a guardare la mia immagine astrale, a parlare telepaticamente con me e ancora ribadire che non hai nessun potere?». «Forse soffro di allucinazioni», ribatté Wendy. «Come faccio a sapere che tutto questo sta succedendo davvero?». La Vecchia rimase in silenzio per un momento. «Su una cosa hai ragione», affermò poi. «Lei ti ha ingannata». «Cosa?». «Ti ha indotta a credere di essere priva di poteri». «Io sono priva di poteri», replicò Wendy, reprimendo un singhiozzo. «Alla fabbrica sono stata solo fortunata». «Spesso la fortuna è il risultato della preparazione e del saper sfruttare le opportunità. Alla fabbrica non sei stata soltanto fortunata, Wendy, sei stata piena di risorse».
«Che importanza ha? La prossima volta potrei non avere tante... opportunità». «La preparazione comporta addestramento», dichiarò la Vecchia. «Per cominciare il tuo addestramento devi credere in te stessa, nel potere che risiede dentro di te. Esso fluisce dalla visualizzazione, proprio come hai visualizzato la pioggia, in quella notte d'autunno. La tua pioggia, Wendy, non quella di Wither. Quella non è mai stata la pioggia di Wither». Wendy si morse il labbro inferiore, che stava tremando. Per così tanto tempo aveva negato il proprio ruolo negli eventi di quella notte, timorosa del senso di colpa, pur essendosi addossata ogni responsabilità. «Senza questa convinzione, senza fede, non sei in grado di visualizzare, e il potere giace latente dentro di te». «Cosa devo fare?». «Credere in te stessa». «È così semplice, vero?», commentò Wendy con una risatina asciutta. «Così semplice... e così difficile». «Prima hai detto che io sono la sua avversaria naturale». «E lo sei», annuì la Vecchia. «Il potere intrinseco alla tua natura è ciò che l'ha attirata verso di te». «Anche ammettendo che creda di avere questo potere, e non sono sicura di farlo, ancora non capisco perché sono stata scelta. Perché proprio io, fra i miliardi di persone che ci sono là fuori?». «Perché non tu?», sorrise la Vecchia. «Questa non è una risposta abbastanza esauriente». Mentre la Vecchia rifletteva su cosa replicare, Wendy si rese conto che gli uccelli avevano cominciato a cantare e che il nuovo sole stava sorgendo, con la luce dell'alba che andava dissolvendo l'oscurità intorno a loro. Contemporaneamente la Vecchia parve a sua volta rendersi conto di qualcosa. «Sei stata scelta come sua avversaria, o questo è semplicemente ciò che sei? Forse, il solo motivo consiste nel fatto che hai dentro di te la capacità di sconfiggerla. Dopotutto non lo hai già fatto una volta?». «L'ho sconfitta, ma non distrutta», le ricordò Wendy, ripetendole le sue stesse parole. «Lo ammetto», convenne la Vecchia. «La verità è che non so perché tu sia la prescelta, so soltanto che lo sei. Prima però che le nostre lezioni possano iniziare davvero, devi imparare a credere in te stessa». «Io voglio farlo».
«Questo è il primo passo». «Ho bisogno di credere in me stessa», continuò Wendy, sentendo che quell'affermazione racchiudeva una verità più profonda. «Mi stavo chiedendo una cosa», osservò la Vecchia, con un sorriso enigmatico. «Hai chiesto ad Alex come va la sua salute?». «Cosa?». «Prima hai affermato di ricordare il tuo rito del solstizio d'estate, fino a quando io ho tentato la sovrapposizione mentale», affermò la Vecchia e, quando Wendy annuì, domandò: «Allora ricordi quali incantesimi hai eseguito?». «Erano due», disse Wendy. «Uno a protezione di Hannah, e l'altro... per la salute di Alex!». La Vecchia annuì sorridendo. «Vuoi... vuoi dire che ha funzionato? Ha funzionato davvero?». «Fidati dei tuoi occhi», replicò la Vecchia, mentre la sua voce si faceva più fievole nella mente di Wendy. «Forse, dovresti chiedergli... come va la sua zoppia». Il sole del mattino si riversò nella stanza e l'immagine spettrale della Vecchia prese infine a dissiparsi. «Lascia che il seme della fiducia... ricominci a crescere dentro di te, Wendy». Nell'ora che precedeva l'alba, la temperatura di Abby MacNeil cominciò a salire e quando passò i cento gradi Fahrenheit il sudore le imperlò la fronte e le inzuppò i capelli, mentre lei prendeva ad agitarsi e a rigirarsi nel sonno, spingendo via le coperte dal corpo che si contorceva nella camicia da notte ormai fradicia. Nel sonno le sfuggì un lieve gemito, un suono però troppo sommesso perché potesse svegliare Erica che stava dormendo ad appena un paio di metri di distanza; le orecchie di Rowdy, il labrador retriever dei Nottingham che dormiva ai piedi del letto di Erica, ebbero un paio di fremiti, ma poi tornarono immobili. Il braccio destro di Abby si contorse nell'alveolo, modificandosi all'altezza del gomito e del polso, e le dita si ritrassero nel palmo fino a formare una zampa. Contemporaneamente il pelo bianco si diffuse rapido sulla spalla, espandendosi sull'avambraccio e sulla mano. Mentre anche la gamba destra si contorceva, con il ginocchio che si spostava in avanti, Abby si svegliò sussultando e per un istante fu troppo sconvolta per chiedere aiuto, rimanendo a fissare il proprio corpo mentre il braccio sinistro iniziava la stessa trasformazione già subita dal destro. Un velo di sudore le ricoprì il volto quando si concentrò per cercare di fermare il procedimento, ma esso
si era già spinto troppo oltre, e adesso era molto più facile lasciare semplicemente che il cambiamento proseguisse: il suo corpo voleva cambiare, lo desiderava spasmodicamente. In un improvviso lampo d'ispirazione Abby ricordò poi come una volta, al centro commerciale, avesse cercato di correre su per la scala mobile della discesa. Aveva corso più in fretta che poteva e aveva fatto dei progressi, ma lo sforzo l'aveva sfinita, e la minima esitazione prima di arrivare in cima era stata sufficiente a farle perdere il terreno che aveva guadagnato. Questo le aveva ricordato un'altra occasione in cui era andata in campeggio con i Nottingham, e il signor Nottingham aveva raccomandato a tutti i bambini, qualora fossero caduti nel fiume, di nuotare assecondando la corrente e di cercare di dirigersi verso la sponda e la salvezza. «Nuotare controcorrente servirebbe soltanto a sfinirvi», aveva ammonito, e Abby sapeva che esaurire le forze in acque profonde poteva significare l'annegamento. Così tentò un nuovo approccio e nuotò assecondando la corrente del cambiamento, concentrandosi per accelerarlo, incrementando con la propria volontà la diffusione del pelo sulla pelle umida, incitando la gamba sinistra a contorcersi e piegarsi fino a diventare la potente zampa posteriore di un lupo. Arrendersi era come correre giù per una collina, facile e rinvigorente come permettere alla natura di fare il suo corso, cosa che la riempì di meraviglia, mentre il suo corpo si tramutava da bambina in lupa. Poi la spina dorsale le s'incurvò all'esterno sopra il bacino lasciandola senza fiato, ma invece di provare dolore lei sperimentò soltanto un senso di eccitazione, come alla prima discesa delle montagne russe. Dall'altra parte della stanza Rowdy si agitò nel sonno, sbuffando e scalciando con le zampe posteriori, e Abby si chiese se stesse sognando di dare la caccia ai conigli. Forse sta sognando d'inseguire me! si disse, e quel pensiero la calmò, le diede il coraggio di portare a termine l'esperimento per vedere se poteva ripercorrere la trasformazione a ritroso. Se adesso fosse diventata Abby il lupo, avrebbe forse potuto biasimare Rowdy nel caso in cui l'avesse attaccata? E avrebbe mai potuto perdonare se stessa, se avesse fatto del male a Rowdy per autodifesa? Il mese precedente, quando si era tramutata completamente in lupo per la prima volta, aveva perso coscienza della propria identità, di tutto ciò che faceva di lei Abby. Quelle ore erano per lei un vuoto assoluto, uno spaventoso buco nella memoria, come se Abby MacNeil avesse di colpo cessato di esistere. Mentre giaceva distesa su un fianco, solo la testa rimase del tut-
to umana, e questo permise alla sua mente umana di mantenere il controllo; questa volta, prima che il cambiamento potesse estendersi al collo, alla faccia e alla testa, prima che finisse per smarrirsi del tutto nella trasformazione, Abby tentò di trasformarsi di nuovo in una bambina di nove anni. Il giorno precedente aveva respinto la mutazione dalle dita, aveva usato la propria volontà per costringerle a tornare a una dimensione umana, e quello sforzo, per quanto coronato da successo, l'aveva sfinita. Era stato come correre su per la scala mobile della discesa, e tentare una cosa del genere quando la trasformazione era già tanto avviata sarebbe stato inutile. Invece accelerò il cambiamento per tornare a essere una bambina, come se stesse di nuovo correndo giù per una collina arrendendosi alla forza di gravità, sfrecciando verso il basso a lunghe falcate. Con sua sorpresa le ossa cominciarono a distorcersi per tornare alla configurazione umana, e lei provò lo stesso senso di esaltazione di prima, tanto intenso da toglierle il fiato. A causa della sua natura alterata, a causa dell'antica strega che aveva manomesso il suo corpo, Abby non era né un lupo né una bambina, la sua natura consisteva nell'essere entrambi e nessuno dei due, una via di mezzo, qualcosa di decisamente anormale. Affrontando quella sua nuova natura modificata invece di combatterla, però, lei aveva acquistato almeno un minimo di controllo sul proprio corpo. Entro un paio di minuti la sua forma tornò a essere quella di una bambina. Raggomitolata su un fianco, rabbrividendo a causa del sudore che le evaporava dal corpo, Abby si esplorò il volto liscio e privo di pelo con tremanti dita umane, e soltanto quando le dita si spostarono lungo le guance incontrando le strisce umide lasciate da lacrime recenti, si rese conto che stava piangendo. Sono uno scherzo della natura, pensò sconsolata. Sarò sempre un fenomeno da baraccone. Le sfuggì un singhiozzo del tutto umano, e quel suono svegliò Rowdy che saltò giù dal letto di Erica per salire sul suo. Il naso freddo e il muso umido del cane le spinsero di lato le mani, poi la sua lingua ruvida le leccò le lacrime. Abby singhiozzò ancora, ma questa volta le sfuggì anche una risata accompagnata da un ampio sorriso, e passò le braccia intorno al grosso cane stringendolo forte a sé. «Bravo cane», gli sussurrò contro il pelo. Dall'altra parte della stanza, Erica si sollevò a sedere e si sfregò gli occhi assonnati. «Che c'è?», borbottò con voce impastata, unendo le parole. «Che è suc-
cesso? Rowdy ti sta di nuovo dando fastidio, Abby?». Con un braccio intorno alla spalla del cane, Abby sorrise e scosse il capo. «Per niente», rispose. Wendy e Alex erano seduti uno di fronte all'altra al tavolino, intenti a mangiare cereali in un paio di ciotole di ceramica blu decorate con margherite dipinte a mano che Wendy aveva comprato a una locale fiera dell'artigianato quella primavera, dopo che lei e Frankie avevano deciso di affittare un alloggio insieme per il semestre autunnale. Alex aveva mescolato ai suoi fiocchi di cereali alcune fettine di banana, mentre Wendy si era limitata ad aggiungere del latte scremato; in mezzo a loro c'era un piatto su cui erano ammucchiati muffin alla crusca e un altro pieno di pezzi di melone e cantalupo fresco. Wendy indossava ancora il pigiama con il motivo di rose, anche se aveva minacciato di coprirlo con la vestaglia di flanella se Alex avesse fatto qualche altra battutaccia riguardo allo splendido panorama di meloni offerto dalla scollatura alla contadina del pigiama stesso. Alex si era infilato i pantaloni del pigiama a strisce blu e bianche, soprattutto perché si vergognava delle profonde cicatrici che gli segnavano le gambe. A Wendy era bastato sentire il suo commento noncurante riguardo al fatto che quelle cicatrici erano troppo spaventose per essere viste alla luce del giorno per capire la verità, e cioè che lui le considerava una deturpazione da tenere nascosta. Un altro ingrediente da aggiungere al mio minestrone di sensi di colpa, pensò. «Cammini molto meglio», osservò poi sorseggiando un po' di succo d'arancia. Lui annuì e mangiò una cucchiaiata di cereali e banana. Wendy notò con un sorriso che Alex stava cercando di mangiare una fetta di banana con ogni cucchiaiata di cereali, almeno finché la banana non fosse finita. «Significa che stai continuando con la riabilitazione?», continuò Wendy, con fare indifferente, e intanto trafisse un pezzo di cantalupo e se lo cacciò in bocca. «Ogni giorno», confermò Alex, «e forza e flessibilità migliorano a poco a poco, però... mi è successa una cosa stranissima. Un giorno mi sono svegliato e stavo meglio, in maniera davvero notevole. Non so perché, forse la guarigione si verifica con miglioramenti netti e intervallati». «Davvero? Un giorno memorabile», commentò Wendy assaggiando una
fetta di melone. «Lo è stato davvero», annuì Alex. «Era il giorno prima del compleanno di mia sorella e avevo chiesto a mia madre di comprarle un regalo per mio conto, ma poi mi sono sentito così bene che ho deciso di poter camminare per fare un po' di shopping». «E il compleanno di Suzanne è il...». «Il ventitré giugno», disse Alex. Wendy si lasciò sfuggire di mano la forchetta e camuffò la cosa prendendo il tovagliolo per pulirsi la bocca. «Quindi il giorno del tuo miracolo è stato il ventidue», ragionò. «Era un giovedì», annuì Alex. Il giorno dopo il mio rito del solstizio, rifletté Wendy. Il giorno dopo che ho eseguito l'incantesimo della salute. La voce della Vecchia tornò a echeggiarle nella mente: «Lascia che il seme della fiducia ricominci a crescere dentro di te, Wendy». D'un tratto si sentì troppo nervosa per finire la colazione. Rovesciati i cereali rimasti nel lavandino, aprì l'acqua calda e cominciò a lavare la ciotola. Possibile che sia vero? si chiese. Io eseguo un incantesimo e il giorno successivo Alex si sveglia registrando un notevole miglioramento. Ho davvero quel potere, dentro di me? La magia wicca era stata parte di tutta la sua vita, qualcosa che praticava senza esigere prove della sua efficacia. Soltanto dopo che Wither per poco non le aveva distrutto la vita, lei aveva cominciato a nutrire dubbi e a mettere in discussione la fede che aveva abbracciato. A volte era più semplice limitarsi ad attribuire a Wither, alla sua influenza e interferenza, ogni evento insolito che si era verificato, perché se avesse dovuto credere di avere dentro di sé quel potere, avrebbe dovuto credere anche alle responsabilità che si accompagnavano a esso, e questo quasi la terrorizzava, in quanto voleva dire che la Vecchia aveva ragione, e che lei era la naturale avversaria di Wither. «Lascia che ti aiuti», disse Alex avvicinandosi a lei con la propria ciotola vuota impilata sui due piatti. «È tutto a posto, posso smaltire da sola questa poca roba». «A proposito», commentò Alex accennando con la testa in direzione di uno spazio vuoto sotto il piano della cucina. «Sembra che qui ci dovrebbe essere una lavastoviglie». «C'era», rispose Wendy, «finché non ci ho trovato dentro una testa di
maiale che stava marcendo». «Una testa di maiale? Una vera testa di maiale?». «Avanzo di qualche festa dei Bloody Pus», spiegò Wendy, «o forse di qualche rito satanico, se si occupavano di cose del genere». «Tu lo pensi?». «No», rispose Wendy, «o almeno spero di no. Non appena ho visto - e annusato - quella cosa orribile, ho richiuso lo sportello e ho pregato mio padre di trascinare fuori la lavastoviglie. Lui mi ha fatto notare che probabilmente funzionava ancora, ma io ho ribattuto che non lo avrebbe fatto sotto questo tetto e che preferivo comprarne una nuova, cosa che farò. Ho aperto quella lavastoviglie solo per un istante», continuò rabbrividendo, «ma ci è voluto molto tempo perché il fetore se ne andasse via». «Ci scommetto». Wendy lasciò funzionare il tritarifiuti per qualche secondo, poi sistemò i piatti sullo scolapiatti. «Per fortuna lo sportello era sigillato e a tenuta stagna, quindi non si sono sviluppate larve. Soltanto putrescenza, in quantità incredibile». «Bene, adesso è passata», la consolò Alex, «e questo posto profuma di nuovo». «Una piccola pulizia magica con la mia scopa da strega», sorrise Wendy. «Davvero?». «E qualche litro di Lysol». «Tutto è lecito in amore e nella guerra chimica». «A volte ci vuole l'artiglieria pesante», replicò Wendy, «comunque sono riuscita a finire il lavoro senza affittare una tuta contro i rischi ambientali, e adesso mi manca soltanto l'arredamento», concluse, guardandosi intorno. «Una volta in città ho visto un negozio di mobili di seconda mano», suggerì Alex, «anche se direi che ce la siamo cavata egregiamente con il tavolino e un letto a una piazza». «Ah, questo mi ricorda una cosa», commentò Wendy prendendo una matita e un blocco per appunti dal piano di cucina, e mentre scriveva aggiunse: «Comprare futon per Alex». Alex la circondò con le braccia e le tolse di mano la matita. «No, no, non mi dispiace dividere il letto», protestò sfiorandole la gola con le labbra e baciandola dietro l'orecchio. Wendy rabbrividì, poi scoppiò a ridere lottando per recuperare il controllo della matita. «Ci scommetto che non ti dispiace», ribatté, ridendo e contorcendosi per
liberarsi dalle sue braccia. «La condivisione è una di quelle lezioni importanti che si apprendono fin dall'asilo». «Però non credo che all'asilo si riferissero alla condivisione del letto o della doccia», ridacchiò Wendy liberandosi infine dalla sua stretta, poi spiccò la corsa lungo il corridoio, sbottonando il sopra del pigiama e soffermandosi per saltellare fuori dai calzoncini, e s'infilò nuda nel bagno dopo aver gettato entrambi gli indumenti oltre la porta. «Ecco», ribatté Alex seguendola, «bisogna imparare a estrapolare da quelle prime lezioni relative a crackers e pastelli, per poi applicarle più avanti nella vita». «Quanto sei bravo ad applicare gel doccia agli estratti di papaia e all'aloe vera?», domandò Wendy, facendo capolino da dietro la porta del bagno «Sono sempre stato veloce a imparare». Quando arrivò all'Ospedale Generale di Windale, lo sceriffo Nottingham trovò la figlia della famiglia Gallo, Gina Thorne, subito fuori dalla camera del fratellastro, seduta su una panca imbottita coperta di vinile di un orribile colore arancione. La ragazza, che aveva gli occhi chiusi e la testa appoggiata all'indietro contro il muro per riposarsi, emise un lungo sospiro. Quella mattina indossava un maglione d'angora senza maniche color turchese con una minigonna di denim bianca chiusa lungo il fianco da bottoncini d'argento; i piedi erano nudi nei sandali dello stesso colore del maglione. Lo sceriffo si fermò davanti a lei tenendo fra le mani il suo cappello da Smokey the Bear e si schiarì la gola. «Salve, signorina Thorne», salutò. «Sono lo sceriffo Nottingham. Come sta suo fratello?». Lo sceriffo si era fermato alla postazione delle infermiere il tempo necessario ad apprendere che le condizioni del ragazzo erano critiche ma stabili. Todd aveva numerose fratture, contusioni, una commozione cerebrale, un'emorragia interna e un polmone collassato. L'elenco dei danni era lungo e spaventoso, tanto da rendere stupefacente che il ragazzo non fosse morto sul colpo e che, anzi, avesse buone probabilità di riuscire a sopravvivere. Lo sceriffo non era sulla scena quando i paramedici avevano caricato Todd Gallo sull'ambulanza, ma aveva sentito la chiamata sulle frequenze radio della polizia e aveva interrogato il conducente del furgone della Yankee Silver Springs. Anche se il ragazzo stava giocando in strada, infatti, i
commenti dei vicini avevano lasciato intuire che il conducente aveva la reputazione di guidare a velocità troppo elevata attraverso quell'area residenziale. Todd Gallo si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma il conducente era tutt'altro che privo di colpe e avrebbe probabilmente dovuto sostenere delle accuse. Gina Thorne sollevò la testa dal muro e lo fissò per un lungo momento con occhi stanchi prima di rispondere. «Questa è una piccola città», disse. «So chi è lei». «Lo immaginavo», replicò lo sceriffo. «Come sta suo fratello?». «Fratellastro», lo corresse Gina quasi automaticamente. «È rimasto per tutta la notte fra la vita e la morte». «Ma adesso sta meglio?». «I dottori non ci danno nessuna garanzia, ma non sembrano più tanto agitati». «Mi fa piacere sentirlo». «Immagino di sì, se si fida dei dottori», commentò Gina. «I suoi genitori sono nella stanza, con il ragazzo?». «Lo hanno vegliato tutta la notte», annuì Gina. Un giovanotto dalle spalle larghe, che aveva più o meno la stessa età della ragazza e con l'andatura e il fisico di un sollevatore di pesi, si avvicinò con uno zaino nero appeso a una spalla e lo sceriffo impiegò un momento a rendersi conto che si trattava di Brett Marlin, perché il ragazzo sembrava essere invecchiato e indurito nel corso degli ultimi mesi. Senza dubbio i due stavano uscendo insieme. Brett si sedette accanto a Gina posando lo zaino sulla panca in mezzo a loro e, dopo aver rivolto allo sceriffo uno sguardo distratto, concentrò tutta la sua attenzione su Gina. «Sono venuto non appena ho potuto», disse. Lei gli batté un colpetto sulla mano e guardò verso lo sceriffo con aria significativa. «Forse è il caso che entri a dare un'occhiata prima di proseguire con i miei giri», disse questi. «Grazie, sceriffo», replicò la ragazza con un ampio sorriso che però parve non estendersi anche al suo sguardo. Non appena si avvicinò alla porta, lo sceriffo sentì i due ragazzi che cominciavano a parlare fra loro sottovoce, ma suppose che quanto stavano dicendo non fossero affari suoi. A Todd Gallo era stata assegnata una camera a due letti, ma quello di
fronte al suo era attualmente vuoto. Caitlin Gallo si era addormentata vicino alla finestra con il collo piegato con un'angolazione scomoda, mentre Dominick Gallo aveva accostato una sedia al letto del ragazzo e teneva la mano su quella di Todd. Il figlio era privo di sensi o addormentato, con faccia e testa completamente fasciate da bende bianche; il braccio destro e la gamba erano ingessati, mentre dal fianco sinistro gli pendevano i tubi della flebo e delle trasfusioni. Una sola occhiata al volto scavato di Dominick Gallo convinse lo sceriffo che sarebbe stato opportuno tornare in un altro momento. «Ripasserò più tardi», sussurrò. Dominick rispose con uno stanco cenno del capo accompagnato da un lento battere delle palpebre. Quando uscì dalla stanza, lo sceriffo vide che la giovane coppia aveva lasciato la panca arancione. Probabilmente sono andati a prendere un caffè, pensò, soprattutto se la ragazza è rimasta in piedi per tutta la notte. Mentre riattraversava il reparto pediatrico avvistò il dottor Keya Khayatian che arrivava dalla direzione opposta. «Dottore, può scusarmi un momento?», chiamò. «Sceriffo?», rispose il medico fermandosi. «Mi chiedevo se può dedicarmi un attimo del suo tempo». «È un turno tranquillo», affermò il dottore con un sorriso disinvolto, poi diede un'occhiata all'orologio e aggiunse: «Forse gliene posso dedicare anche due». Si sedettero ai lati opposti di un tavolino della caffetteria; il dottor Khayatian bevve un sorso del suo caffè, nero e con tre zollette di zucchero, e si accigliò. «Questo posto ha bisogno di un buon barista», commentò, e lo sceriffo riuscì a sfoggiare un debole sorriso anche se i suoi pensieri erano altrove. «Cos'è che la preoccupa, sceriffo?». «Lo scorso anno, lei ha curato Abby MacNeil». «Uno strano caso, e una guarigione completa», replicò il dottore. «Lo è stata?», domandò lo sceriffo. «Completa, intendo». «Nella misura in cui io o la scienza medica siamo in grado di determinarlo, Abby è assolutamente sana». «È mai stato certo, e intendo dire del tutto certo, di cosa abbia causato la sua malattia?». «Cosa vuole dire?», ribatté il dottore, con fare leggermente guardingo. I
medici di Abby non avevano mai saputo nulla del suo collegamento con le streghe di Windale. Del resto, come avrebbe potuto un razionale uomo di scienza e di medicina curare una malattia causata dalla magia nera, da un essere che era pura malvagità? Non aveva senso anche solo tentare di inserire quella voce nell'equazione, almeno non con il dottore. Forse, con un teologo... «Ha detto lei stesso che si è trattato di un caso strano...». «Inizialmente, è arrivata da noi paralizzata dal collo in giù a causa di un terribile incidente automobilistico, poi ha subito una crescita ossea incontrollata, una cosa di cui non avevo mai visto l'uguale. Infine è guarita del tutto, praticamente nell'arco di una notte. Sono certo che esiste una spiegazione scientifica per tutto questo, ma ancora non l'abbiamo trovata. Come ho detto, il suo è un caso davvero strano». «C'è stata qualche diagnosi che avete escluso, magari ritenendola troppo inverosimile?». «Detesto fare ipotesi, ma per qualche tempo abbiamo pensato che potesse soffrire di Fop». «Suppongo non abbia nulla a che vedere con la Fratellanza dell'ordine di polizia», sorrise lo sceriffo. «Fibrodisplasia ossificante progressiva», spiegò il dottore. «Una malattia genetica estremamente rara che colpisce nell'infanzia, trasformando in osso il tessuto connettivo morbido. Qualsiasi lesione, perfino chirurgica, genera un gonfiore che attiva una rapida crescita ossea anomala. Le articolazioni si possono bloccare nell'arco di una notte e non muoversi più. Come suggerisce il nome, è una malattia progressiva». «Sembra orribile». «Lo è», annuì Khayatian, «e per adesso non esiste alcuna cura. Fortunatamente per lei, Abby non ne soffre». «Ne è certo?». «Di questo sono sicuro», annuì nuovamente il medico. «Mentre Abby era qui, ho convocato degli specialisti, molti specialisti, e la Fop è stata definitivamente esclusa. So che è preoccupato perché Abby va in giro di notte. Ha passato molti momenti difficili per una bambina della sua età, un vero inferno per chiunque, a qualsiasi età». «Crede che sia un problema psicologico?». «Dal punto di vista medico Abby ha superato tutti i miei esami nel modo migliore. Vorrei che ci fosse qualcosa che io potessi fare, ma non c'è nessuna malattia che io possa curare», replicò il dottore, alzandosi. «Adesso
devo proprio riprendere i miei giri». «Grazie, dottor Khayatian», disse lo sceriffo, alzandosi a sua volta per stringere la mano al dottore. «Grazie per avermi dedicato un po' del suo tempo». Dopo che Kahyatian se ne fu andato, lo sceriffo abbassò lo sguardo sul tavolo, dove il suo caffè era ancora intatto. Nel guardarsi intorno passando in rassegna i pochi pazienti e familiari sparsi per la caffetteria, non vide traccia di Brett Marlin o di Gina Thorne, e non se la sentì di biasimarli. Anche lui odiava gli ospedali. Gina era seduta con lo zaino in grembo accanto a Brett sul suo pick-up Ford F-150. I due erano sgusciati fuori dall'ospedale non appena lo sceriffo era entrato nella stanza di Todd, perché Gina non voleva assolutamente che vedesse il contenuto dello zaino o facesse domande al riguardo, e adesso Brett stava fissando l'entrata principale dell'ospedale, quasi si aspettasse di essere inseguito. «Preoccupato per via dello sceriffo?». «Devo ammettere che mi ha spaventato», confessò Brett. «Quando l'ho visto fermo in piedi davanti a te, ho pensato che, chissà come, sapesse qualcosa». «Non ha il minimo indizio», dichiarò Gina, «e poi non ha motivo di sospettare che ci sia sotto qualcosa di più di un adolescente incauto e di un conducente spericolato». «Sì, hai ragione». «Non riesco a credere di essere rimasta seduta tutta la notte ad aspettare che quel piccolo rospo rendesse l'anima. All'inizio ho sperimentato un delizioso senso di anticipazione, ma dopo parecchie ore la cosa è semplicemente diventata stancante, e dopo qualche altra ora è diventata fastidiosa come un prurito dove non riesci a grattarti». Gina scosse il capo; adesso che l'attesa era finita, poteva anche riderne. «Volevo gridare: "Deciditi a morire, ammorbante piccolo figlio di puttana!"». «È stato allora che mi hai chiamato». «Ti avevo detto che, quando avessi avuto bisogno di te, lo avresti saputo». Brett scosse il capo, un po' meravigliato per come era stato convocato. «Non è stato come sentire una voce nella testa... Ho solo avuto la sensazione che tu avessi bisogno di me. Inoltre sapevo che eri all'ospedale, ma del resto suppongo che questo fosse ovvio, considerata la gravità dell'inci-
dente». Non è così ovvio, pensò Gina. Brett era stato attratto verso il luogo dove lei si trovava, proprio come sapeva che sarebbe successo; questo le stava provocando un senso di eccitazione, parte del quale derivava dall'altra che viveva dentro di lei, che stava percependo la crescita del suo potere. Pur non essendo in grado di dire come faceva a saperlo, Gina avvertiva la soddisfazione dell'altra per la sua forza nascente, così come l'altra sapeva che nella sua forma attuale stava diventando più potente di quanto lo fosse stata l'ultima volta che aveva avuto un aspetto umano. Qualcosa che aveva a che fare con il metodo disperato con cui l'altra era rinata dentro di lei aveva modificato l'oscura alchimia della sua creazione e, se da un lato i suoi ricordi rimanevano a brandelli, dall'altro il flusso di potere non pareva esserne limitato. Insieme Gina e la presenza dentro di lei dovevano dominare quel potere nel modo più vantaggioso, e il tempo di essere caute sarebbe presto finito. «Hai toccato qualcosa?», chiese, abbassando lo sguardo sullo zaino, e Brett scosse il capo; lui le apparteneva, quindi avrebbe saputo se stava mentendo, anche al di là di un semplice gesto di diniego. «Bene», commentò aprendo lo scomparto principale dello zaino e tirando fuori la scatola da scarpe che aveva chiesto a Brett di recuperare da sotto il suo letto mentre lei era bloccata in ospedale. Per mantenere al suo posto il coperchio e il contenuto, aveva circondato la scatola con uno spesso elastico; adesso lo rimosse e guardò all'interno. Quando aveva creato le bambole di pezza, aveva deciso di evitare possibili confusioni scrivendo una lettera su ciascuna con qualche goccia del suo sangue: T, D e C, ma anche senza la T non avrebbe avuto difficoltà a individuare la piccola effigie di Todd perché aveva ancora le gambe avvolte nel filo nero. Prelevata la bambola dalla scatola, guardò verso Brett. «Hai portato il fazzoletto?». «Ne ho preso uno dal cassetto della biancheria di mio padre», annuì Brett, infilando la mano nella tasca posteriore dei pantaloni. «Taglialo in quattro parti e dammene una». Brett estrasse il suo coltellino svizzero rosso da un'altra tasca e si affrettò a tagliare in quattro parti il fazzoletto spiegazzato, porgendone una a Gina. «A che serve?». «A finire quello che il camion ha cominciato». Gina drappeggiò il pezzo di fazzoletto sulla testa bendata della bambola in modo da formare una specie di rozzo cappuccio, poi districò il filo av-
volto intorno alle gambe e lo passò parecchie volte intorno alla base della testa. «Zitto, ora», ingiunse mentre cominciava ad alimentare la propria ira e l'odio che nutriva nei confronti di quel fratellastro lamentoso, impiccione e bugiardo. Le braccia presero a bruciarle e lei seppe senza bisogno di controllare che le vene stavano pulsando sotto la pelle pallida. A mano a mano che cominciava ad ardere per i fuochi dell'ira, sentì Brett rabbrividire accanto a lei e vide il suo alito trasformarsi in una gelida nuvola di condensa all'interno del furgone: il suo corpo stava sottraendo calore dall'aria e dal corpo di lui per alimentare il proprio potere. «Adesso!», sussurrò quando avvertì che era arrivato il momento giusto, e serrò strettamente il filo intorno alla base del panno bianco, formando un semplice nodo con dita agili quanto le zampe di un ragno. «Addio, Todd», disse con un sorriso malevolo prima di gettare la bambola nella scatola di scarpe. Rimesso a posto il coperchio, lo fermò di nuovo con l'elastico e tornò a riporre il tutto nello zaino. «Questo è tutto?», chiese Brett soffiandosi sulle mani per scaldarle. «Vedremo», replicò Gina, senza la minima traccia d'incertezza nella voce. Il suo tono fece rabbrividire nuovamente Brett, e lei comprese che questa volta non era a causa del freddo. Se però Brett poteva solo immaginare cosa stava accadendo al quarto piano dell'Ospedale Generale di Windale, una serie di immagini stroboscopiche si succedettero nella mente di Gina a mano a mano che gli eventi si verificavano. Todd aveva smesso di respirare nel momento in cui lei aveva legato il nodo intorno alla testa della bambola di pezza: entro cinque minuti o poco più, avrebbe riportato danni permanenti al cervello, e poco dopo avrebbe cessato di esistere. Tutti quegli orgogliosi dottori e le loro infermiere specializzate non sarebbero mai più riusciti a rimettere insieme quel piccolo rospo. Il piccoletto ha ricevuto la sua spintarella, pensò, ridacchiando per quella battuta del tutto personale. «Dobbiamo tornare dentro?». «Sono stanca di fingere», replicò Gina, scuotendo il capo e massaggiandosi l'interno delle braccia; a mano a mano che le vene gonfie iniziavano a contrarsi, le immagini sbiadirono progressivamente fino a svanire. Infine lei accennò in direzione dell'uscita del parcheggio per i visitatori. «Sono
affamata», disse. «Andiamo a fare colazione». Diario di Wendy Ward 16 luglio 2000 Luna: piena, giorno 14 (continuazione) È sera tardi, e il rumore che si sente non è tutto musica, bensì il canale sportivo di ESPN (con tante scuse a Paul Simon). Grazie a un po' di assistenza da parte dei due uomini della mia vita, papà e Alex, adesso mi sento un po' più collegata con il mondo esterno, anche se non sempre questo è un bene. Questa "continuazione" delle annotazioni nel diario inaugura il mio tuffo nella tecnologia, almeno per quanto concerne le mie pratiche di magia wicca. Ho deciso che dovevo "aprire la via", se volevo riuscire a convincere Alissa che il Crystal Path può davvero apparire su Internet, quindi sto scrivendo queste annotazioni sul mio computer portatile, sopra il tavolino della mia nuova casa, che continua a essere l'unico tavolo disponibile (non è necessario possedere poteri psichici per sapere che nel mio futuro c'è un negozio di mobili usati!). Mi sono perfino collegata a Internet mediante una derivazione applicata alla presa telefonica della cucina con l'aiuto di un cavo telefonico da sei metri; un'altra derivazione è nella presa della camera da letto, anche se si tratta della stessa linea telefonica. Ho portato qui anche la mia stampante laser, sistemata su un piccolo sostegno dotato di piedini che servono a ben poco, considerato lo spessore della nuova moquette. Dal momento che il mio diario serve soltanto a registrare pensieri, sentimenti e progressi personali nel campo della magia wicca, mi è parso il candidato naturale per varare la trasposizione in digitale. Può darsi che io incontri maggiori difficoltà a convertire il mio Libro delle Ombre, dato che contiene una quantità di diagrammi, ma sono pronta a scommettere che là fuori c'è un software che può rendere possibile la cosa. In seguito a un attacco di carità, i miei genitori mi hanno dato il loro vecchio televisore da diciannove pollici; naturalmente hanno dissertato a lungo sul fatto che avevano già deciso di sostituirlo con uno di quei moderni modelli digitali wide-screen e che detestavano l'idea di buttare il vecchio apparecchio. Grazie a quella che potrebbe essere considerata una certa presunzione, se non preveggenza, io avevo fatto installare il cavo per l'antenna molto tempo prima di aver formulato qualsiasi preciso progetto riguardo al procurarmi un televisore per la villetta, anche se sapevo che
prima o poi ne avrei preso uno, anche solo per guardare qualche video. Inutile dire, anzi scrivere, che Alex è stato entusiasta quando ha collegato il cavo coassiale e ha scoperto ESPN, cosa che mi ha dato un po' di tempo per lavorare al computer senza interruzioni, non solo per la stesura del diario, ma anche per lo sviluppo del sito del Crystal Path. È vero che Alissa mi ha detto di non lavorarci durante le mie ore libere, ma ho pensato che fosse saggio avere un back-up di tutto sul mio portatile. Non ho più "visto" né "sentito" la Vecchia da questa mattina, ma del resto ho trascorso con Alex la maggior parte della giornata, e forse la mia mente non era abbastanza ricettiva. Tuttavia mi sento incoraggiata dall'improbabile coincidenza del miglioramento subito dalle condizioni di Alex il giorno successivo al mio rito del solstizio d'estate. Forse la mia fede in me stessa e nella mia magia wicca non era poi malriposta e fuori dalla mia portata quanto credevo che fosse. In qualche modo sento che è giusto crederlo, anche se non so spiegare il perché. Ho ricevuto da Karen un'e-mail in cui lei scrive: «Sarebbe facile essere orgogliosa di una bambina dotata come Hannah, se il suo rapido sviluppo fosse limitato alla sua intelligenza precoce. Quello che mi spaventa davvero è che a otto mesi sia più sviluppata di una bambina di due anni. Il mio unico conforto deriva dal fatto che, a parte il suo sviluppo accelerato, lei è una bambina affettuosa e apparentemente del tutto normale. Ha fatto tutte le vaccinazioni, anche se è impossibile sapere se stiamo tenendo gli intervalli di tempo giusti! Inoltre non è mai stata male un solo giorno della sua vita, cosa di cui sono molto grata. Lo scorso ottobre è stato un incubo per tutti noi, Wendy, e posso solo sperare che gli effetti residui di quella notte svaniscano e che si torni tutti a essere sani e integri». Non ho il cuore di dirle che l'incubo potrebbe non essere finito, almeno non per tutti noi. Laggiù sulla costa occidentale Art e Hannah dovrebbero essere al sicuro da qualsiasi cosa sembri prossimo a scatenarsi di nuovo a Windale, e questa è una consolazione non da poco. Era stata una lunga giornata. Con la cravatta allentata, la camicia sbottonata e i piedi scalzi appoggiati sul tavolino, lo sceriffo Bill Nottingham sedeva sul divano a scacchi blu in salotto, intento a fissare con stanca incredulità lo schermo piatto del televisore da trentadue pollici senza sapere con esattezza perché avesse difficoltà a credere al notiziario delle undici, considerato che si era trovato all'ospedale quando il giovane Todd Gallo era morto.
Christina entrò in salotto e gli porse una bottiglia di Coors Lite, la birra annacquata che aveva cominciato a fargli bere da quando il dottor Jenkins gli aveva detto che i suoi valori si erano leggermente alzati rispetto all'ultimo check-up. Sto invecchiando, pensò, e il metabolismo non è più quello di un tempo. Christina si sistemò sul divano accanto a lui, ma non prima di avergli spinto con gentilezza i piedi giù dal tavolino perché sosteneva che quella era una cattiva abitudine, un comportamento da montanaro del sud, anche se nessuno dei due era mai stato più a sud di Washington D.C. Bill non discuteva mai con lei al riguardo, ma correva comunque il rischio di concedersi quel comportamento un po' zotico quando era stanco o solo; adesso che i bambini stavano dormendo, aveva la casa tutta per sé nella misura massima in cui questo gli era possibile, ed era talmente stanco che gli doleva tutto il corpo. Aveva il telecomando posato sul bracciolo del divano e, quando il notiziario tornò a passare la linea alla giornalista bionda in piedi accanto all'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale per una ripresa dal vivo, premette due volte il pulsante del volume. «...un incidente quasi letale, il ragazzo tredicenne versava in condizioni critiche ma stabili quando all'improvviso ha smesso misteriosamente di respirare. Sarà eseguita un'autopsia, ma fino ad allora la famiglia di Todd Gallo ha soltanto domande senza risposta. Qui è Michelle Lundquist, che vi parla in diretta per WTKN, News Nine». Con un sospiro Bill Nottingham spense la televisione. «Strano», commentò Christina appoggiandoglisi contro il fianco e premendo il proprio corpo contro quello di lui. «Suppongo che quando arriva il tuo momento non ci sia niente da fare». Lui posò la bottiglia e non riuscì a soffocare uno sbadiglio nel circondare la moglie con le braccia per stringerla a sé. Un'altra morte inspiegata a Windale, pensò. Finirà mai? «Però è triste», continuò a bassa voce Christina contro il suo petto. «Un ragazzo di quell'età avrebbe dovuto avere tutta una vita davanti a sé». Con le palpebre pesanti, lui assentì con un verso inarticolato. «Dev'essere difficile per quella povera famiglia». «Immagino di sì», convenne lui, e si chiese quanto quella ragazza, Gina Thorne, fosse stata affezionata al fratellastro. Sarebbe quasi una benedizione se non fossero stati molto legati uno all'altra, fu il suo ultimo pensiero prima di scivolare nel sonno.
Windale, Massachusetts 17 luglio 2000 Abby attese che in casa tutti stessero dormendo. Molto tempo dopo che Max e Ben si furono quietati e che Erica si fu addormentata, continuò ad aspettare che cessassero i rumori prodotti dallo sceriffo e dalla signora Nottingham. Anche dopo che la televisione venne spenta, seguì un intervallo di tempo interminabile prima che li sentisse andare in camera; Abby chiuse gli occhi quando la signora Nottingham fece capolino per dare un'occhiata a lei e a Erica, e per fortuna Rowdy approfittò di quell'interruzione per saltare giù dal letto di Erica e allontanarsi nel corridoio, senza dubbio alla ricerca di un angolo caldo ai piedi del letto di Max o di Ben. Mezzanotte era trascorsa da un pezzo quando infine Abby ritenne di potersi alzare dal letto senza rischi e, dopo essersi tolta la camicia da notte e la biancheria, indossò una vestaglia sottile che le arrivava alle caviglie. Dal momento che la notte era calda e c'erano poche probabilità che piovesse, la finestra della camera da letto era già aperta, quindi ad Abby bastò fare pressione con le dita sul blocco della zanzariera per sollevarla quanto bastava a sgusciare fuori e lasciarsi cadere sull'erba del cortile. Stava per dare inizio al suo secondo, grande esperimento, e non voleva mandarlo a monte rovinando un altro pigiama perché, se avesse avuto successo, i Nottingham non avrebbero mai saputo che era uscita durante la notte. Rassicurata dalla capacità dimostrata il giorno prima di trasformarsi quasi completamente in lupo per poi tornare alla sua forma naturale, si accoccolò sull'erba e incitò le propria ossa a cambiare. Con il peso argenteo della luna piena che gravava su di lei, trascorsero solo pochi attimi prima che sentisse lo scheletro che cominciava a torcersi e a piegarsi, ad allungarsi in alcuni punti e ad accorciarsi in altri. Non appena le dita si ritrassero e le mani divennero zampe, sfilò di scatto le braccia dalle maniche della vestaglia. Con l'indumento che la copriva come un sudario, cadde su un fianco, quasi raggomitolata in posizione fetale, sentendo l'erba fresca contro la pelle nuda almeno finché essa rimase tale. Con uno spasmo e un tremito il pelo le si diffuse su tutto il corpo, e questa volta lei lasciò che la trasformazione le si estendesse anche alla faccia. La testa si fece più stretta, gli occhi si spostarono all'indietro e il naso si estese fino a diventare un muso, i denti si allungarono e si fecero acuminati. In meno di due minuti si contorse fino a sbucare da sotto la vestaglia e si avviò attraverso il cortile in
direzione dagli alberi trasformata in un lupo bianco. Il lupo si fermò e girò la testa a guardare in direzione della casa a un piano e del mucchietto di stoffa rosa sparso sotto la finestra aperta. In qualche modo sapeva di dover tornare in quel posto prima della fine della notte, anche se ne ignorava il motivo. E con lo stesso senso di consapevolezza non accompagnato però da una totale comprensione, adesso il lupo sapeva di avere un nome... E che il nome era Abby. Capitolo 6 Windale, Massachusetts 17 luglio 2000 Nel sogno Wendy stava correndo attraverso una foresta, sfrecciando fra i rami più bassi dei pini e degli abeti con una determinazione pervasa da un senso di anticipazione, dall'eccitazione della caccia. Appena più avanti una piccola forma coperta di pelo marrone fuggiva saltellando, ma c'erano delle voci che la chiamavano, distrazioni insistenti che esigevano la sua attenzione, quindi si inerpicò verso l'alto e si allontanò dal cacciatore nel bosco, intravedendo in modo fugace sotto di sé una massa di pelo bianco e provando la sensazione di essere stata ospite nel sogno di qualcun altro. Fiocchi di nubi che scorrevano nel cielo notturno le saettarono intorno finché non scivolò di nuovo in una oscurità più profonda... E si ritrovò sveglia all'alba, riposata e lucida come se in qualche modo avesse condensato dieci ore di sonno nelle cinque trascorse da quando aveva messo via il computer ed era andata a letto. Riluttante a sprecare quel raro senso di vigore mattutino, decise di affrontare subito la solita corsa di otto chilometri, quindi si affrettò a passarsi la spazzola fra i capelli ramati per districare lo spaventoso ammasso notturno di nodi e grovigli, poi s'infilò una camicia senza maniche e i calzoncini da corsa; per evitare che Alex si svegliasse e temesse che gli alieni l'avessero rapita per effettuare una serie di macabri esperimenti su una cavia umana, gli lasciò un breve messaggio sul tavolino prima di sgusciare fuori senza far rumore. La corsa si svolse tranquillamente, ma servì a ricordarle il sogno che aveva fatto appena prima di svegliarsi e la fugace immagine di un lupo bianco. Invece che lungo sentieri boschivi stava correndo su strade suburbane, e per un breve momento la vista di pedoni in giro di primo mattino con il giornale ripiegato sotto il braccio e dei pendolari che sorseggiavano
un caffè in attesa che il semaforo diventasse verde le parve aliena, come se quel posto non le appartenesse, così lontano dal ricco aroma dei pini e del muschio. Un'ora più tardi aveva già fatto la doccia e aveva indossato una casacca verde giada (in quanto il verde era il colore che aveva scelto di recente per variare il proprio guardaroba prevalentemente nero), calzoncini neri di denim e scarpe da corsa. Alex stava ancora dormendo quando lei percepì in casa la presenza della Vecchia, prima che la sua voce la chiamasse; dopo aver steso la stuoia per la meditazione nel giardino posteriore, rimase in attesa che l'immagine prendesse forma vicino a lei. «Mi stavi aspettando?». Ho avuto la sensazione che stessi arrivando», sorrise Wendy. «Bene», approvò la Vecchia, fluttuando in avanti per sedersi di fronte a lei, a non più di un metro di distanza. «Anch'io ho una sensazione, e cioè che hai ripreso a credere in te stessa». «Diciamo che ho ritrovato la fede, se non la sicurezza», annuì Wendy. «Ancora non so cosa ti aspetti che faccia». «Solo ciò che devi». «La cosa mi fa un po' paura». «Ed è giusto che te ne faccia, Wendy», affermò la Vecchia. «Hai molto da imparare, e finalmente sei pronta». «Allora cominciamo», ribatté Wendy, mostrando più sicurezza di quanta ne provasse. «Da dove si parte?». «Dal potere protettivo del cerchio magico». «So già come tracciare un cerchio. Sto sbagliando qualcosa?». «No, ma ti autolimiti pensandolo solo come un cerchio». «Non dovrei?». «No. Mentre il cerchio esiste in due dimensioni, tu esisti in tre, anzi quattro, se si considera anche il tempo. Dal momento che la magia è alimentata dalla potenza della tua visualizzazione, non devi visualizzare la tua barriera protettiva come un cerchio, bensì come una sfera che ti racchiude da tutti i lati». «Immagino abbia senso», annuì Wendy. «Non ci avevo mai pensato da questo punto di vista. Mi limitavo a tirare fuori farina, imbuto e laccio e a tracciare un cerchio sul terreno». «Non esiste protezione inerente agli strumenti utilizzati, Wendy. Tuttavia affidamento a essi e l'immagine che crei con il loro ausilio ti limitano, in quanto impongono confini bidimensionali alla tua visualizzazione».
«Il che è un modo gentile per dire che sto sbagliando tutto». «Forse ciò che fai è incompleto, ma non sbagliato». «Quindi devo immaginare una sfera, non un cerchio...». «Sì. Una sfera di energia protettiva che crei una cupola sopra e sotto di te, passando attraverso il terreno». «Come se fossi intrappolata in una bolla di sapone?». «Racchiusa e protetta, non intrappolata», precisò la Vecchia. «Sei tu a creare e ad annullare la sfera, e ne mantieni costantemente il controllo». «Altra domanda», disse Wendy. «Come faccio a tracciare questa sfera che mi circondi completamente servendomi della farina e del mio vecchio, fidato imbuto? Anche con un cerchio fatto di spago, non vedo come...». «Continui a porti dei limiti», sorrise la Vecchia, «a pensare in termini di rappresentazioni bidimensionali, di cerchi e non di sfere». «Sono confusa, su questo non ci sono dubbi», ammise Wendy, ricambiando il sorriso. «Ti andrebbe di illuminarmi?». «Paragonata a ciò che un giorno diventerai, adesso sei solo una semplice apprendista nel campo della magia wicca». «Aspetta un momento. Come fai a sapere che cosa sarò in futuro?». «Lo so perché l'ho visto», spiegò la Vecchia, e dopo un momento di riflessione aggiunse: «Mi hai insegnato tutto, in modo che potessi insegnarlo a te». «Ehi!», esclamò Wendy, battendosi una manata sulla testa. «Quella che mi ha appena arruffato i capelli era forse una definizione Zen?». «Se una sfera è un cerchio esteso in tre dimensioni, cos'è una sfera estesa a quattro dimensioni?». «Quattro dimensioni? Vuoi dire una sfera che si estenda attraverso il tempo?», chiese Wendy, e quando la Vecchia annuì continuò: «Nel semestre autunnale dello scorso anno ho seguito un corso di astronomia, ma non abbiamo mai approfondito la parte teorica. Stai parlando di un buco nero?». «Non ne ho idea», replicò la Vecchia, con un asciutto sorriso, scrollando le spalle. «Allora cosa...?». «Forse si tratta soltanto di una visualizzazione avanzata», spiegò la Vecchia. «Quale che possa esserne il motivo, la mia visualizzazione dello scorrere del tempo non è limitata a una progressione lineare, in avanti». «Stai dicendo che la mia è invece limitata perché penso che domani seguirà a oggi come oggi segue ieri?».
«Questo non è un limite soltanto tuo, Wendy», ridacchiò la Vecchia. «In realtà, io sono la sola a possedere questa... capacità». «Puoi viaggiare indietro nel tempo?», chiese Wendy con una sfumatura di stupore reverenziale. «Quale che sia il modo in cui appaio qui, non è una manifestazione fisica», disse la Vecchia. «Sono un'immagine mentale, una proiezione di me stessa. Forse sono soltanto qualcosa che ho creato nella tua immaginazione». «Ma per me sei reale». «Sì, Wendy, sono reale. Se esisto soltanto nella tua mente, questo dipende dal fatto che è il solo modo che ho per esistere qui». «Ma come?». «Guardo nei portali; se preferisci, definiscili finestre che si affacciano sul passato, anche se è possibile che non sia questa la verità. Forse vedo soltanto ricordi molto vividi, che non appartengono a me». «Ma questo vorrebbe dire che puoi esistere nel presente perché... perché esisti adesso», rifletté Wendy, con aria accigliata. «Comincia a farmi male la testa». «Penso, dunque esisto», affermò la Vecchia, con aria riflessiva. «Un giorno, forse, tu mi spiegherai tutto questo, in modo che io possa a mia volta essere qui adesso per spiegarlo a te». «Ci lavorerò sopra», disse Wendy massaggiandosi la fronte. «Indipendentemente dal metodo, non ti posso spiegare la tecnica, e neppure insegnartela. Per fortuna la visualizzazione avanzata del tempo è un talento che non hai bisogno di acquisire per sconfiggere la tua avversaria». «Però sembra che mi potrebbe tornare utile». «Ha la sua utilità, ma anche molti limiti». «Allora, dove eravamo rimasti? Ah, sì, a come disegnare una sfera con la farina». «Cominciamo con una domanda. Quale credi che sia il tuo limite più grande nella pratica della magia wicca?». «Se dovessi tirare a indovinare», rispose Wendy, con un sorriso asciutto, «punterei tutte le mie chip sull'ignoranza». «In certa misura si tratta di ignoranza», ammise la Vecchia, «ma ancora più limitante è il tuo bisogno di anteporre il rito alla visualizzazione». «Non ho bisogno di eseguire i miei riti?». «Come strumento di focalizzazione mentale e precursore e ausilio per la
visualizzazione, il rito va benissimo, perché questo è il suo scopo. Quando però comincia a limitare la visualizzazione, il rito deve essere accantonato». «E da dove dovrei cominciare, senza i miei riti?». «I riti sono un inizio», spiegò la Vecchia. «Sono parte del tuo apprendistato, ma aggrapparsi a riti fissi significa restare aggrappati al cerchio, mentre ciò di cui hai più bisogno è una sfera. Rifletti su questo: nei tuoi riti, riconosci e accogli ciascuno degli elementi, ma fra tutti e quattro, aria, fuoco, acqua e terra, soltanto la terra può essere considerata fissa». «Ma non hai risposto alla mia domanda. Se credo in me stessa, se credo che la mia magia è reale, allora devo credere anche che il rito mi permetta di evocare la magia». «È in questo che limiti te stessa. La tua avversaria non è vincolata dai riti», ribatté la Vecchia. «Sta imparando la magia nera e si sta esercitando a utilizzarla in questo stesso momento, senza i vincoli di un rito formale. Se continui a limitarti, le concedi un vantaggio... e la possibilità di vincere». «Ma lei è una... un'agente del caos, e forse è per questo che non ha bisogno di riti. Un rito richiede ordine». «L'ordine racchiuso nel rito è soltanto un aiuto alla concentrazione per visualizzare, per porre la tua mente in uno stato ricettivo». «Allora come posso fare qualcosa, qualsiasi cosa, senza un rito?». «Ricordando che il rito è soltanto un aiuto, e non la visualizzazione stessa. Riconoscendo che attingi da te stessa, dovunque ti trovi, l'energia necessaria per la magia, e che la puoi attingere ogni volta che ne hai bisogno». «Non sono i riti che in qualche modo... ecco, che in qualche modo attivano la pompa che fornisce la magia?». «Sì, ma quello è soltanto uno dei modi per attingere alle energie che ti circondano. Wendy, non dimenticare che tu sei speciale. In mancanza di una definizione migliore, diciamo che sei una cosa sola con la natura: gli elementi accorrono prontamente in tuo aiuto». «Dal momento che sono così speciale, questo significa che posso usufruire di una scorciatoia di qualche tipo? Una parola d'ordine, una frase in codice o un anello di decodifica segreto?». «Adesso stai scherzando, ma questo non si allontana di molto dalla tua tecnica iniziale di utilizzo avanzato della magia». «La mia tecnica iniziale? Ti riferisci a quell'incomprensibile enigma per
cui "avrei insegnato a te perché tu potessi poi insegnare a me"?». «Sai cos'è la suggestione postipnotica?», chiese la Vecchia. «Certo», confermò Wendy. «È come quando un ipnotizzatore ipnotizza qualcuno e gli dice di starnazzare come un'anatra ogni volta che qualcuno dice la parola Pittsburgh». «Esattamente», confermò la Vecchia. «Ciò di cui hai bisogno è un aiuto nella visualizzazione, qualcosa che prenda il posto del rito formale. Invece che a una suggestione postipnotica, consideralo una focalizzazione che precede la visualizzazione, qualcosa che diriga la tua mente e ti permetta di attingere all'energia magica e di utilizzarla». «Uno strumento di focalizzazione? Posso avere un esempio?». «Per esempio», rise la Vecchia, «nei tuoi riti tu usi abitualmente un quarzo rosa per gli incantesimi di risanamento». Wendy annuì, e lei continuò: «Porta con te un quarzo rosa quando ritieni che ti possa capitare di dover usare l'energia magica per risanare. Dal momento che sei consapevole delle proprietà risananti del quarzo rosa e che lo hai già usato nei tuoi riti, fanne... una sorta di scorciatoia». «Fin qui è tutto chiaro, ma come...». «Questo ci riporta alla tua precedente domanda». «Come tracciare una sfera?». «Attirando l'energia dentro di te e poi modellandola, plasmandola secondo le tue necessità. Il simbolismo è importante per la visualizzazione: per creare la sfera, protendi e apri la mano ricettiva per attirare l'energia nel tuo corpo». «Dal momento che sono destrorsa, la mano ricettiva è la sinistra», rifletté Wendy, e la Vecchia annuì. «Una volta avvertita l'energia dentro di te, estendi la mano proiettiva per usarla e modellare la sfera». «Tenendo l'athame nella mano proiettiva?». Nella magia wicca, l'athame era il coltello rituale a doppia lama con il manico nero che serviva a dirigere il flusso del potere, mentre il bolline dal manico bianco era un falcetto utilizzato per tagliare erbe, frutti e altre cose. «Si, se ti aiuta a focalizzare l'energia». «E come inserisco nel tutto il quarzo rosa?». «Stringilo nella mano ricettiva mentre attingi l'energia, poi protendi la mano proiettiva per scatenare il potere risanante». «In teoria sembra abbastanza semplice», rifletté Wendy. L'immagine della Vecchia cominciò a farsi indistinta lungo i contorni.
«Devi renderti conto di due cose», affermò, nel dissolversi. «Innanzitutto, questa scorciatoia funziona soltanto nella misura in cui sei capace di concentrarti e di visualizzare. In secondo luogo, gli strumenti di focalizzazione sono, come lo erano i riti, soltanto un aiuto alla visualizzazione e non dei sostituti, o dei prerequisiti». «Ho un sacco di cose su cui riflettere». «Riflettere su queste tecniche non è abbastanza. Devi cominciare... a esercitarti». «Da dove devo cominciare?», chiese Wendy, consapevole che anche la voce mentale della Vecchia si stava facendo evanescente. «Dalla sfera», rispose senza esitazione la Vecchia. «Se... non puoi proteggerti, niente altro ha importanza». «Un'affermazione che non fa presagire nulla di buono». «Allora non abbiamo... sprecato il nostro tempo», annuì la Vecchia. «Adesso però sono stanca e poi, se non mi sbaglio, il tuo giovane amico si è svegliato». La sua immagine venne afferrata dalla brezza del mattino e si dissipò davanti agli occhi di Wendy; erano trascorsi appena un paio di attimi da quando era rimasta di nuovo sola in giardino, quando sentì qualcuno battere con leggerezza sulla porta di vetro della veranda. Guardandosi alle spalle, vide Alex fermo lì a piedi scalzi e con indosso i pantaloni del pigiama, i capelli più arruffati dal sonno di quanto i suoi lo fossero stati due ore prima; con una mano sollevò il bastone in cui era nascosta la lama, mentre con quella libera indicò prima se stesso e poi il giardino, inarcando le sopracciglia con aria interrogativa. Wendy rispose con un cenno che lo invitava a raggiungerla fuori. «Ti sei alzata presto», commentò lui. «Ho già fatto i miei otto chilometri di corsa». «Ho notato il biglietto, ma poi ti ho vista seduta qui fuori». «Scusami. Volevo appallottolarlo e buttarlo al mio rientro, ma me ne sono dimenticata». «Cosa stai facendo qui fuori? Sei in comunione spirituale con Madre Natura?». «In comunione, sì, e forse sto anche meditando un poco e modificando qualche paradigma». «Una mattinata impegnata». «Ti andrebbe di darmi una mano a fare qualcosa?», chiese Wendy, assalita da un'idea improvvisa.
«Se si tratta di un'altra sessione di magia tantrica del sesso, sono l'uomo che fa per te», sorrise Alex. «Non sei così fortunato, cowboy». Ridotta quasi alla disperazione, Wendy aveva chiesto l'aiuto di Alex nel corso della sua battaglia contro Wither per eseguire con lui un rito tantrico di magia sessuale, una cosa che non aveva mai tentato prima e che non aveva più provato a ripetere. Quella notte lei e Alex avevano fatto l'amore per la prima volta, ma la nottata si era conclusa con l'aggressione di Wither, che aveva attaccato e quasi ucciso Alex per aver osato interferire nei suoi piani volti a rubare la vita di Wendy e invadere il suo corpo. Probabilmente Wendy avrebbe dovuto essere lieta che Alex vedesse gli aspetti positivi di quella notte fatale, ma era invece tormentata da un residuo senso di colpa per averlo esposto al pericolo. «Allora di cosa si tratta?». «Fa' la doccia, vestiti e poi torna qui. Sarà una sorpresa». «Oh, bene», commentò lui. «Adoro le sorprese». Poi girò sui tacchi ed eseguì qualche comico saltello con l'ausilio del bastone, in un'imitazione approssimativa di Charlie Chaplin. Wendy scoppiò a ridere e non poté evitare di sentirsi un po' rincuorata nel vederlo camminare senza la smorfia di dolore che aveva esibito di continuo un paio di mesi prima. Pochi minuti prima dell'alba Abby uscì barcollando dagli alberi e avanzò nel cortile posteriore dei Nottingham sulle sue gambe umane, deboli ed esitanti a così poco tempo dalla trasformazione da lupo in bambina, come se avesse dovuto imparare di nuovo a coordinare i movimenti su due sole gambe. Sentendosi piccola e vulnerabile senza lo strato di pelo bianco che coprisse il suo corpo nudo, la bambina si affrettò ad attraversare il cortile e cadde carponi sull'erba prima di riuscire a raggiungere il mucchietto di stoffa rosa sotto la finestra della stanza che divideva con Erica. Abby s'infilò la vestaglia, grata del calore che essa elargiva, poi si arrampicò attraverso la finestra e sgusciò sotto la zanzariera aperta lasciandosi scivolare fino al pavimento. A parte un duro e sgraziato atterraggio sul posteriore, il suo rientro fu abbastanza silenzioso da evitare di svegliare Erica. Timorosa che Rowdy o la signora Nottingham potessero aprire la porta della stanza per dare un'occhiata a lei e a Erica, Abby s'infilò le mutandine e la camicia da notte e si rimise a letto. Soltanto allora esalò il respiro a lungo trattenuto e si concesse di rabbrividire per una sensazione incontenibile di eccitazio-
ne. Ce l'ho fatta! pensò. Mi sono trasformata in lupo e sono tornata normale. Non ho perso la mia identità, come mi era successo prima! Il cambiamento le appariva meno spaventoso adesso che sapeva di poterlo in certa misura controllare. Il suo errore era stato quello di contrastarlo, perché ora faceva parte di lei, e combatterlo significava combattere contro la propria natura. Permettendo alla trasformazione di fluire nel suo corpo, aveva conservato una certa misura di controllo e parte dei ricordi, il ricordo di essere un lupo, di andare a caccia. Sulla scia di quel pensiero si sfregò una guancia e, quando ritrasse le dita, se le ritrovò sporche di sangue. Sorpresa balzò giù dal letto e corse in bagno, accendendo la luce soltanto dopo essersi chiusa la porta alle spalle in modo da non svegliare nessuno degli occupanti della casa. I capelli biondo cenere erano tutti arruffati, ma non più di quanto lo sarebbero stati dopo una normale notte di sonno, cosa che però notò appena concentrandosi invece sulla chiazza di sangue che le sporcava la guancia destra e il mento. E non c'era soltanto sangue, ma anche qualche pezzo di pelliccia marrone. Nella mente le affiorò vivida l'immagine di una forma marrone che correva a grandi salti... Un coniglio? si chiese. Ho dato la caccia a un coniglio e l'ho mangiato. Crudo! «Oh, è così disgustoso», sussurrò. Aperto il rubinetto, regolò la temperatura dell'acqua fino a renderla quasi troppo calda, poi si cosparse la faccia di sapone liquido. Timorosa che il sangue e il pelo potessero macchiare uno degli asciugamani della signora Nottingham, si sfregò la guancia e il mento con le unghie e dopo un paio di minuti si sciacquò, ripetendo tutto il procedimento fino ad essere certa di non avere sulla faccia altri resti di coniglio. Qualche secondo più tardi procedette anche a sciacquare il lavandino, in modo da cancellare ogni traccia di sangue. Stava per lasciare il bagno quando fu assalita da un altro pensiero ancora più disgustoso: se il lupo che era in lei aveva mangiato un coniglio crudo, allora la sua bocca... Rabbrividendo, tornò di corsa al lavandino e spalancò la bocca, ritraendo le labbra per mettere a nudo i denti: una sola occhiata fu sufficiente a farle venire la nausea. Chiazze di sangue, frammenti di pelliccia... Lottando contro l'impulso di vomitare nel lavandino, aprì la bottiglia di plastica azzurra del Listerine e cominciò a fare i gargarismi, riempiendosi più volte la bocca e sciacquandola fino a quando la sensazione formicolan-
te generata dal collutorio quasi le intorpidì la lingua e le gengive. Però ancora non aveva finito. Mentre svitava il tappo del dentifricio Aquafresh a tripla protezione, si chiese se ne vendevano uno a protezione quadrupla: rinfresca l'alito, sbianca i denti, combatte la carie e rimuove frammenti coriacei di interiora di coniglio. Dopo aver sputato tutta quella porcheria nel lavandino si lavò i denti altre tre volte, pensando che era ora di procurarsi uno spazzolino nuovo, poi si sciacquò di nuovo la bocca con il Listerine. «Disgustoso, disgustoso, disgustoso», borbottò mentre ripercorreva di soppiatto il corridoio fino alla sua camera per rimettersi a letto. Dall'altra parte della stanza Erica mormorò nel sonno qualcosa d'incomprensibile e si girò sul fianco, gettando per terra la sua bambola Suzy Superstar con un tonfo sonoro. «È ora dello spettacolo!», esclamò la bambola, con una voce stridula e spettrale. Abby si tirò le coltri fino al mento e cercò di non pensare più a conigli dalla coda morbida. D'altro canto, se voleva abbracciare quell'altro aspetto della sua natura, come poteva ignorarne i bisogni, che erano validi quanto i suoi? Ok, ok, ma non sono obbligata a pensarci di continuo, si disse. Poi sbadigliò, spalancando la bocca al punto da farsi scricchiolare la mascella. Anche se le sembrava di aver dormito per tutta la notte, in realtà aveva vegliato sotto una forma diversa, quindi non ci fu da meravigliarsi se lo sfinimento la travolse quando finalmente la luce del giorno cominciava a schiarire il cielo notturno. Mentre si addormentava cercò di ricordare altre immagini della notte, del tempo trascorso sotto forma di lupo e, a parte il fugace momento dell'eccitazione della caccia, accompagnata dalla sensazione degli aghi di pino schiacciati sotto i piedi - le sue zampe! - si ricordò di un'altra persona. No, non si trattava di una persona, ma di una presenza, qualcuno che le fluttuava accanto o che forse era addirittura dentro di lei, non qualcuno di cui avesse paura, ma una presenza gradita, in cui riponeva fiducia. Mentre cercava di darle un nome fu distratta da un altro sbadiglio e pochi istanti più tardi scivolò nel sonno popolato dai sogni propri di tutte le bambine. Seduta sulla stuoia da meditazione Wendy alzò lo sguardo quando Alex spinse di lato la porta scorrevole del patio. Dopo la doccia, aveva indossato
una maglia color banana a tre bottoni con lo stemma del Danfield College ricamato in blu navy sul petto, a sinistra. Mentre Wendy aveva deciso di aggiungere un po' di colore al suo guardaroba prevalentemente nero, Alex aveva scelto di accantonare saltuariamente le camicie hawaiane connesse alla sua teoria del «dominio-della-mente-sul-freddo», o forse le calde temperature di metà luglio lo avevano portato a dimenticarsi dei rigori dell'inverno del New England. A parte il maglione, si era infilato anche un paio di jeans che avevano visto giorni migliori e candide scarpe da corsa con strisce blu. Alcuni mesi prima, in un coraggioso quanto inutile tentativo di scherzare e di guardare l'aspetto positivo delle gravi lesioni riportate, Alex aveva detto che adesso avrebbe impiegato molto, molto più tempo a consumare un paio di scarpe da corsa. «Sei pronta?», chiese, poi notò il coltello dal manico nero che Wendy stringeva nella destra, e aggiunse: «Aspetta un momento, forse mi sono dimenticato di accennare al fatto che ho una fobia che riguarda i rituali in cui è previsto l'uso di una daga». «Allora sei fortunato», sorrise lei. «Da un punto di vista tecnico, questo non è un rito, e poi questa non è la daga che uso per tagliare». «Ok. Adesso sono preoccupato dall'idea che qui intorno, da qualche parte, tu abbia effettivamente una daga che taglia». «Certo che ce l'ho», confermò Wendy in tono scherzosamente provocatorio. «Ogni strega wicca non ne ha forse una?». «Non lo so», rispose lui. «Quello che intendo è che non lo voglio sapere». «Smettila di fare il fifone, Dunkirk», disse Wendy sorridendo ancora con aria scherzosa. «Non la uso per tagliare la gente. Ecco», aggiunse dopo una pausa, «a meno che non mi irriti davvero. Sto scherzando, Alex!», si affrettò poi a esclamare notando la sua espressione sorpresa. «Ora portami un po' di farina». «Non hai bisogno di minacciarmi con una daga per avere dei fiori1», affermò Alex, strizzandole l'occhio. «Aspetta dieci minuti e tornerò con un bel bouquet di fiori estivi». «Non fiori, farina. Ce n'è un barattolo sul piano di cucina». «Vuoi fare le frittelle di fuori in giardino?». «Solo farina, non pietanze per la prima colazione». «Dannazione, adesso mi è venuta voglia di frittelle», protestò lui. «Portami la farina, e ti spiegherò come arrivare da Denny's per comprarle».
«Ok, ok, arriva il barattolo di farina». Un momento più tardi, Alex fu di nuovo sulla porta, con il barattolo in equilibrio sulla mano libera. «E adesso che faccio?». «Prendine un pizzico con le dita e scagliamelo contro». «Fantastico! È così che le streghe creano la polvere fatata?». «Le fate creano la polvere fatata», precisò Wendy. «Le streghe usano bacchette magiche per trasformare giovanotti irritanti in rospi puzzolenti e pieni di verruche». «Stai scherzando, vero? Succede solo nelle fiabe». «Sì, sto scherzando. Adesso spicciati a darmi quel pizzico», ribatté Wendy, allungando la mano sinistra, poi lo vide aprire la bocca per ribattere ancora e continuò: «Scusami, è stata una battuta imperdonabile. Prometto che più tardi ti permetterò di pizzicarmi, ma adesso usa la farina». «Devo solo... lanciarla?». «Come se fosse polvere fatata», annuì Wendy senza riuscire a trattenere un sorriso. «Fingi di essere una fatina, se la cosa ti è d'aiuto». «Non vedo come potrebbe esserlo», replicò Alex accigliandosi, poi appoggiò il bastone allo stipite della porta per poter aprire il barattolo e prese un po' di farina fra pollice, indice e medio. «Eccola che arriva. Chiudi gli occhi». «Spero che non sarà necessario», affermò Wendy traendo un calmo respiro misurato. «Tira!». Alex scagliò la farina verso di lei, creando una piccola nuvola di polvere che scese lenta verso la sua testa, senza però toccarla: i piccoli granuli parvero incontrare una barriera invisibile che la circondava, e molti rimasero semplicemente sospesi a mezz'aria mentre la maggior parte scivolò sull'erba descrivendo un arco perfetto intorno alla stuoia da meditazione. «Di nuovo», ordinò Wendy, in tono eccitato. «Di più, questa volta». Per quanto confuso da quel che aveva appena visto, Alex obbedì e raccolse una manciata di farina, lanciandola verso di lei e guardando a bocca aperta quella nuvola più consistente cadere verso il basso per poi scivolare lungo i lati curvi di una barriera invisibile. Seguì un'altra manciata, e alla fine la farina che cadeva cominciò a tracciare un disegno intorno a Wendy. «Sembra una specie di cerchio», mormorò Alex. «Non è un cerchio, è una sfera», precisò Wendy raggiante. «È praticamente invisibile. È di plastica? O di vetro?». «Nessuna delle due cose», rispose Wendy. «Facciamo un altro tentativo. Riempi d'acqua una brocca».
Alex tornò qualche istante più tardi reggendo una brocca di acciaio inossidabile, talmente piena d'acqua che si riversò in parte oltre il bordo, schizzandogli le scarpe. «Sei certa di quello che fai?». «Devo credere in me stessa», affermò Wendy annuendo. «E poi è soltanto acqua». «Acqua fredda». «Meglio che acqua bollente», ribatté Wendy, «anche se probabilmente poi dovremo provare anche con quella». «Dici sul serio?». «Sì, ma per adesso limitati a buttarmi addosso quell'acqua fredda». Alex afferrò la brocca con tutte e due le mani, una sotto il fondo e l'altra sul manico, e le scagliò contro l'acqua, aspettandosi indubbiamente di inzupparla. Invece, si ritrovò a scuotere il capo in silenzio, sconcertato nel vedere l'acqua che ricadeva tutt'intorno a Wendy senza che una sola goccia le toccasse i capelli, la pelle o i vestiti. Per qualche istante fugace la luce del sole che si rifletteva sull'acqua rivelò la forma perfetta della sfera, che Wendy calcolò avere circa un paio di metri di diametro. Era un po' più piccola dei cerchi che era solita tracciare per i riti, ma in qualche modo quelle le erano parse le dimensioni giuste nel corso della visualizzazione: dal momento che solo metà della sfera era al di sopra del terreno, renderla più piccola non le avrebbe protetto la testa e, quando aveva tentato di espanderla al di là dei due metri, aveva avuto la strana sensazione che l'energia da cui era formata la barriera protettiva stesse perdendo coesione. Quelli erano confini al cui riguardo avrebbe dovuto fare qualche domanda alla Vecchia, ma per adesso si limitò a guardare verso l'alto sopra la sua testa, dove solo poche gocce d'acqua scintillavano sospese a mezz'aria sotto il sole. «È incredibile», sussurrò Alex esprimendo ad alta voce i propri pensieri. All'apparenza inconsapevole di quanto stava facendo, si mise a sedere sulla soglia della veranda posandosi fra i piedi la brocca d'acciaio. «Che cos'è?». «Magia», dichiarò Wendy con una nota di trionfo nella voce. «Incredibile», ripeté Alex. «Magia? Non riesco a credere che funzioni davvero». «Se non ci credi, non funziona». «Sei tu l'esperta». «In realtà, probabilmente sono ancora soltanto un'apprendista, ma sto
imparando in fretta», replicò lei. «Adesso sono pronta per quel pizzicotto». «Cosa?», esclamò Alex leggermente sconcertato. «Un pizzicotto. Sai, quella dolorosa piccola stretta fra pollice e indice che viene somministrata di solito alla parte carnosa del posteriore di una donna come rozza quanto diffusa espressione di lascivia maschile». «Ah, il classico pizzicotto», commentò Alex alzandosi in piedi. «Come ho potuto dimenticarlo?». «Non ne ho idea. Credevo che il sesso fosse la sola cosa a cui voi maschi siete capaci di pensare». «A volte riusciamo a infilarci in testa anche altri pensieri», ribatté Alex, massaggiandosi il mento con aria pensosa. «Sesso... sport... sesso... cibo... sesso. Sì, direi che c'è tutto». «Hai detto sesso tre volte». «Non era questo che intendevi?», sorrise lui. «Uh-uh», annuì Wendy. «Ora vieni qui». Alex avanzò di un passo e Wendy abbassò lo sguardo sull'erba. Con il passo successivo lui avrebbe attraversato l'arco di farina che l'acqua aveva quasi cancellato; anche senza quell'aiuto visivo, lei poteva ancora percepire la sfera che la circondava sotto la forma di una calda presenza formicolante che le faceva sollevare i peli lungo le braccia e sulla nuca, come una scarica di energia statica. Quando mosse un altro passo verso di lei, Alex parve andare a sbattere contro un muro invisibile e barcollò all'indietro, cadendo sul posteriore con le mani protese all'indietro per puntellarsi. «Che diavolo...». «È la sfera», spiegò Wendy, sentendosi leggermente in colpa per non averlo avvisato. Quel senso di colpa era però sovrastato da un più intenso senso di trionfo. Mi posso proteggere, pensò. Posso farlo davvero. In qualche modo aveva già saputo che era possibile, aveva dovuto saperlo per poterci credere, perché la sua fede creasse la realtà. «La sfera mi ha protetta». «Giuro che non ti avrei pizzicata così forte», scherzò Alex senza risentimento, continuando a scuotere il capo con aria stupefatta. Wendy protese la mano ricettiva con il palmo verso l'alto e visualizzò l'energia protettiva della sfera che rifluiva nel suo corpo attraverso quella mano. Per un momento tremò a causa dell'ondata di potere che si riversava sopra e dentro di lei, i peli le si rizzarono sulla pelle esposta delle braccia e delle gambe, e un senso di calore le arrossò le guance mentre perfino il
cuoio capelluto le formicolava. Dopo alcuni istanti percepì che la sfera era svanita, ma lo avrebbe saputo anche senza quella consapevolezza interiore, semplicemente per via del fatto che le gocce d'acqua e i grani di farina ancora sospesi nell'aria stavano improvvisamente cadendo sulla stuoia per la meditazione e sull'erba tutt'intorno a lei. Ricolma di un gioioso senso di successo oltre che dell'energia magica che aveva assorbito, Wendy si alzò di scatto dalla stuoia e si lanciò addosso ad Alex, a cui non rimase altra scelta che quella di afferrarla fra le braccia, cosa che fece precipitare entrambi all'indietro sull'erba umida. «È stato eccitante», dichiarò Wendy, il naso a pochi centimetri da quello di lui. «Non lo pensi anche tu?». «Direi di sì», annuì Alex. «Sono eccitata», continuò Wendy elargendogli un rapido bacio. «Me lo hai detto». «Voglio dire che sono davvero eccitata», precisò lei inarcando un sopracciglio con aria significativa. «Ah, mi avevi promesso quel pizzicotto», annuì Alex, facendo scorrere le mani sulla stoffa nera dei calzoncini per serrarle i glutei. «Lascia perdere il pizzicotto, ho un'idea migliore», disse lei. «Davvero?», ribatté Alex stando al gioco. «E quale potrà mai essere?». Chinandosi in avanti, Wendy gli sussurrò qualcosa all'orecchio, poi scoppiò a ridere quando lui arrossì. «Allora?», chiese. «Non ci sono dubbi», confermò Alex. «È decisamente un'idea migliore». Gina si stava incaricando della scelta degli alcolici mentre Brett provvedeva a trasportarli nel cestino di plastica. Fino a quel momento lei aveva selezionato una costosa bottiglia di vino rosso, una di scotch con dodici anni di invecchiamento, una bottiglia di rum Bacardi e una di acquavite alla pesca. I due continuarono a camminare avanti e indietro lungo le corsie del negozio di liquori mentre Gina cercava della vodka e del gin da aggiungere alla sua assortita collezione. Ben presto il piccolo cestino fu talmente pieno che Brett dovette abbassare i manici e sostenerne il peso da sotto. «Sei certa di aver bisogno di tutto questo?», chiese. «È il mio compleanno», ribatté Gina. «Non che la cosa abbia importanza per mia madre o per Dominick. Loro riescono a parlare soltanto del funerale del rospo, che si terrà giovedì, non del fatto che oggi compio diciotto
anni». «L'età legale per bere alcolici è ventun'anni», le ricordò Brett. «Non è un problema», garantì Gina. «Credi che stiano preparando una festa a sorpresa?». «Io non ci conterei troppo». «Neppure io», annuì Gina. «È per questo che ho deciso di occuparmene di persona. Ti va lo champagne? Aspetta un momento, non vedo nessuna bottiglia di Dom Perignon». «Probabilmente lo tengono dietro il bancone». «Un'idea sensata», approvò lei. «Sono pronta, andiamo a pagare», aggiunse, poi si soffermò e chiese: «Credi che mi dovrei vestire così per il funerale del marmocchio? Sempre che decida di andarci, naturalmente». Quel giorno indossava un corto abito nero di maglia abbottonato lungo tutto il davanti, tranne che per i quattro bottoni superiori, e scarpe nere a tacco alto allacciate alla caviglia; quando spalancava le braccia, come in quel momento, appariva evidente che sotto il vestito non portasse reggiseno, nero o di altro colore. «Uh... ecco, magari mettendo le calze nere?», suggerì Brett. «Detesto i collant», ribatté Gina che era a gambe nude, «però forse potrei usare le autoreggenti o un reggicalze». «Sta a te deciderlo». «Hai ragione. Forse eviterò del tutto quella noiosa cerimonia». Brett posò il cestino sul bancone, accanto alla cassa, e parecchie bottiglie tintinnarono le une contro le altre richiamando l'attenzione del cassiere, che era intento a seguire una partita dei Red Sox su un televisore da tredici pollici. L'uomo era vicino alla sessantina, grigio e stempiato, con sopracciglia cespugliose e folti baffi più sale che pepe; gli occhi erano di un azzurro scialbo, con il bianco venato di rosso, il naso grosso e butterato. Un sigaro umido e spento gli sporgeva dalla bocca e serviva da punto esclamativo per l'espressione perennemente accigliata che aveva incisa sul volto. Osservando le sovrapposte generazioni di chiazze gialle sulla camicia verde a maniche corte che l'uomo aveva indosso, Gina suppose che fosse l'unica in suo possesso; non che i calzoni marrone di poliestere fossero in condizioni migliori, con la stoffa lucida come plastica sul sedere e tanto logora all'altezza delle ginocchia da essere trasparente come carta cerata. «Posso aiutarla?», chiese, dopo aver dato una lunga occhiata all'audace scollatura di Gina. «Ha del Dom Perignon?», chiese Gina con voce mielata.
L'uomo infilò una mano sotto il bancone e le mise davanti una bottiglia. «Costa centodue dollari», disse. «L'aggiunga a quest'altra roba», replicò Gina spingendo verso di lui il cesto con le bottiglie. L'uomo fece rotolare abilmente il sigaro umido verso l'altro angolo della bocca, con la stessa destrezza con cui un prestigiatore da strada rigira una moneta da un quarto di dollaro sulle nocche; qualche frammento di carta marrone gli rimase incollata alle labbra rosse e sottili. «Devo vedere un documento d'identità, signorina». «Non c'è problema», replicò Gina. «Oggi è il mio compleanno». «Buon compleanno a lei», disse il cassiere. «Devo comunque vedere un documento d'identità». Gina frugò nella borsetta e tirò fuori un calendarietto plastificato della Windale Savings and Loan, che aveva ricevuto per posta insieme all'invito ad aprire un conto; l'anno 2000 era stampato in rosso sul davanti, il 2001 in blu sul retro. Nel porgere la carta plastificata con la sinistra, Gina fissò l'uomo negli occhi e tenne la destra dietro la schiena, serrata a pugno fino a far sbiancare le nocche, sentendo le vene nere che cominciavano a gonfiarsi all'interno del braccio. «Visto? Oggi compio ventun'anni. C'è scritto proprio qui». L'uomo inclinò il sigaro verso l'altro, come una sorta di saluto, e annuì. «Infatti». «Può mettermi questa roba in un sacchetto doppio?», chiese Gina. «Non vorrei rompere qualcosa». «Certamente», assentì il cassiere seguendo le sue istruzioni e, quando ebbe finito, spinse verso di lei il sacchetto marrone. «Ho la sensazione di dimenticare qualcosa», disse, lo sguardo un po' vacuo. «Il mio resto», disse Gina. «Le ho dato una banconota da trecento dollari, il regalo che ho avuto per il compleanno». «Ah, già, si deve trattare di questo», annuì l'uomo grattandosi la testa dall'incipiente calvizie, poi aprì il registro di cassa e contò il resto dei trecento dollari che lei non gli aveva mai dato. Quando lasciarono il negozio l'uomo era già tornato sul suo sgabello a seguire i Red Sox, che stavano perdendo; mentre camminavano lungo il marciapiede chiazzato di sole di Theurgy Avenue, Brett si girò verso Gina. «È stato stupefacente, come quando Obi-Wan Kenobi usa la Forza in Guerre Stellari», disse. «È solo illusione», spiegò Gina. «Ha visto quello che volevo vedesse e
ricorda ciò che io voglio che ricordi, anche se dura soltanto per il tempo strettamente necessario. In seguito, tutta la faccenda gli sembrerà... confusa. Ricorderà di aver controllato la mia carta d'identità, ma non sarà in grado di descriverla, così come rammenterà di aver ricevuto da me una banconota da trecento dollari, ma non dove l'ha messa». «Puoi farlo con chiunque? Ingannare in quel modo, intendo». «Di solito posso percepire quando qualcuno è ricettivo verso le mie... suggestioni. I migliori soggetti sono le menti che si distraggono facilmente, mentre quanti hanno una forte volontà sono dotati di una certa resistenza naturale. Sento però che il mio potere cresce di giorno in giorno, e credo di poter controllare quasi chiunque se riesco a mettere le mani sul materiale per costruire un'effigie personale, come ho fatto con i membri della mia famiglia». «Come sai queste cose?», chiese ancora Brett. «Ti basta incanalare le conoscenze di quella strega di Windale, Elizabeth Wither?». Gina aveva spiegato a Brett che stava incanalando lo spirito di Wither, ma non gli aveva detto che l'antica strega viveva sotto la sua pelle e dentro la sua mente, come un'entità distinta. «I suoi ricordi mi affiorano nella mente», disse, abbassando la voce nell'eventualità che qualcuno li stesse ascoltando. «Quando è morta in maniera così violenta, i suoi ricordi si sono infranti come vetro, o forse l'analogia più esatta sarebbe che si sono confusi come i pezzi di un puzzle buttato per aria. A mano a mano che quei pezzi si combinano e acquistano un senso, formando immagini parziali, riesco a usarne le conoscenze per accedere alle sue capacità. Attingere a così tanto potere è eccitante, ma è anche frustrante». «Perché?». «Mancano così tanti pezzi, alcuni perduti o semplicemente nascosti ai miei... ai nostri occhi, e questo limita il mio sviluppo. Nonostante tutto quello che sono capace di fare, devo comunque stare attenta a non espormi, e il vero problema è che non so quali siano i miei punti vulnerabili». «Come un drago che sia inconsapevole del fatto che le scaglie del suo ventre sono più morbide?». «Esattamente», annuì Gina. «Prendi quella Wendy Ward, per esempio», continuò indicando con la mano. «Lavora lungo questa strada, in quel negozio. L'ho incontrata una volta... e mi ha spaventata. Mi ha già uccisa... Ha ucciso Wither... una volta, appena lo scorso anno». «Ma Wither è morta trecento anni fa», obiettò Brett, fermandosi accanto
al furgone parcheggiato vicino al marciapiede. «Sei uno sciocco a credere ai libri di storia», ribatté Gina guardandolo fisso. «Wither non è morta, è passata attraverso lunghi periodi di letargo insieme alla sua congrega, mentre tutte e tre crescevano e diventavano più potenti, evolvendosi e risvegliandosi ogni cent'anni in una gloriosa rinascita per seminare la devastazione in questa merdosa piccola città. L'ultima volta, però, è andata diversamente... I membri della congrega avevano bisogno di nuovi corpi per avviare un nuovo ciclo vitale...». Gina s'interruppe, consapevole di essersi avvicinata alla verità più di quanto le orecchie di Brett potessero sentire. «E tuttavia, in qualche modo, una ragazza di diciotto anni, una semplice strega wicca, è riuscita a distruggerla». Gina scosse il capo nel salire sul sedile del passeggero; Brett nel frattempo si girò dal suo sedile per posare dietro di loro il sacchetto con i liquori. «Questa volta sarà diverso», aggiunse Gina. «Cosa intendi fare?». «Ucciderla, è ovvio, ma prima devo capire in che modo ha sconfitto Wither, perché non posso ripetere gli stessi errori, ed è in questo che ho bisogno del tuo aiuto». Brett accese il motore ma lo lasciò in folle, attivando il condizionamento d'aria per rinfrescare la cabina di guida. «Il mio aiuto? Che posso fare?». «Tienila d'occhio, scopri la sua routine quotidiana, dove vive, che posti frequenta, chi sono i suoi amici». «Nient'altro?». «Ho bisogno di metterla alla prova, per scoprire quali siano le sue capacità prima di attaccarla direttamente». «Vuoi che le dia una lezione?», ridacchiò Brett. Gina scosse il capo. «Preferirei usare qualcuno più sacrificabile per un incarico del genere. Mi servono dei soldati, gente dall'etica discutibile e dalla mente che si distragga facilmente». «Conosco alcuni tizi che hanno lavorato nell'impresa edile di mio zio», suggerì Brett, che attualmente lavorava per suo zio in quell'impresa venti o trenta ore la settimana, di meno durante il periodo scolastico. «Quanti sono?». «Tre tizi che vanno in giro sempre insieme. Hanno smesso di frequentare l'Harrison lo scorso anno, bulli che hanno più muscoli che scrupoli, se
devo credere a tutte le storie che raccontano. Arrivavano al lavoro sempre in ritardo o ubriachi, quindi mio zio li ha licenziati, ma ho ancora il loro numero di telefono». «Bene. Portali da me. Prometti loro del denaro, un lavoro facile». «Dovrebbe bastare. E dopo?». «Al resto penserò io», ribatté Gina. «Devo anche cominciare a pensare alla mia campagna di reclutamento». «Che vuoi dire?». «Devo creare la mia congrega di tre elementi. Con una congrega si ha più potere, il tutto è più grande della somma delle parti. È un altro pezzo del puzzle». «Come si fa a reclutare membri per una congrega? Si pubblica un annuncio nelle offerte di lavoro?». «Qui a Windale ho già percepito la presenza di qualcuno che possiede una... una mente fragile, che posso modellare fino a renderla ricettiva, guidandola lungo la strada giusta. Poi mi basterà trovarne un'altra, e Wither guiderà per mio tramite questa nuova congrega». «Però prima ci dobbiamo liberare di questa Wendy Ward?». «Ho atteso a lungo la mia vendetta», annuì Gina. «Non appena avrò scoperto i suoi punti di forza e le sue debolezze, saprò come distruggerla, ma prima voglio che soffra». Mentre aspettava che la zuppa di pollo e riso si raffreddasse, Wendy sedette al grande tavolo di quercia della cucina, nella residenza del preside del college, e sfogliò il mucchietto della posta, per lo più pubblicitaria, che sua madre le aveva messo da parte insieme a un piatto di Saltines. Se avesse voluto farsi inviare la posta al suo nuovo indirizzo della villetta, Wendy sarebbe potuta andare all'ufficio postale e compilare l'apposito modulo, ma aveva scoperto di non avere nessuna fretta di tranciare tutti i legami con il numero 100 di College Way, la casa dei suoi genitori, e non solo per via della sua spaziosità. Passare a prendere la posta le dava un pretesto per far loro visita a intervalli regolari e, in qualità di figlia unica, riteneva che fosse un dovere ritardare il più possibile nei genitori l'insorgere della sindrome del nido vuoto. Il mucchio della posta era composto prevalentemente da cataloghi, sia di vestiario sia connessi al new age, di inviti ad associarsi a svariati club librari, musicali o di dvd, oltre a qualche conto da pagare e a una spiegazzata cartolina di Alissa che mostrava un gondoliere di Venezia. Alissa scri-
veva che si stava divertendo moltissimo, prometteva di inviare presto altre cartoline e si augurava che Wendy non stesse lavorando troppo duramente. Seduta di fronte alla figlia, al tavolo abbastanza grande da accogliere dieci commensali e due composizioni di fiori, Carol Ward assaggiò con esitazione la zuppa. «Di Alissa?», chiese. Quel giorno, indossava la giacca dorata con bordure blu royal che usava all'agenzia immobiliare, abbinata a una camicetta bianca e a una gonna dello stesso blu royal dei bordi della giacca. Dal momento che quel giorno Alex cominciava le lezioni della sessione estiva, Wendy e sua madre avevano convenuto di incontrarsi per pranzare insieme. Annuendo Wendy le porse la cartolina. «Dopo un paio di settimane in Italia partirà per la Grecia. Credo che da Atene tornerà poi a casa», disse. «Sono invidiosa», affermò Carol Ward. «Sono già io la presidentessa di quel club», replicò Wendy. «Magari, la prossima estate tu, papà e io potremmo attraversare l'Atlantico. È passato molto tempo da quando ci siamo concessi l'ultima Grande Vacanza di Famiglia». «Sarebbe bello, ma ricorda che tuo padre odia volare, soprattutto sull'oceano». «Allora ne faremo una vacanza per sole donne, un viaggio madre e figlia», ribatté Wendy. «Che papà stia pure a casa per andare a caccia o a pesca, o passare in rassegna tutti i canali tivù con il telecomando». «Sembra un bel piano», rise Carol Ward. In cima al mucchio della posta c'era una lettera dall'aria ufficiale con il sigillo del Danfield College impresso sull'angolo superiore sinistro, e lei accennò verso di essa con la testa, osservando: «Sembra importante». Wendy si accostò la busta chiusa alla fronte, come se stesse cercando di indovinarne il contenuto tramite poteri paranormali. «Il mio programma per il semestre autunnale», predisse infine, aprendo la busta per esaminare la lettera, poi aggiunse: «Sono davvero brava». «Recatevi da Madame Wendy e lei vi predirà il futuro», commentò sua madre, in tono volutamente sommesso. «Speriamo che il mio futuro non comprenda un tendone da circo», sorrise Wendy. «Allora, che corsi hai?». «Non ci sono sorprese», replicò Wendy, poi lesse ad alta voce l'elenco
dei corsi: «Zoologia, calcolo, chimica organica con l'annesso laboratorio. E poi la lingua che ho scelto, l'italiano». «Italiano?». «Alex e io volevamo seguire insieme almeno un corso. Io propendevo per il latino, lui per il giapponese, così alla fine abbiamo optato per un compromesso». «Bene, senza dubbio sembra un insieme di classi interessanti», commentò Carol Ward senza sbilanciarsi. «Appare demoralizzante», ribatté Wendy accigliandosi, «tanto che sto cominciando a ripensare alla scelta della laurea in scienze ambientali. Voglio dire, zoologia va benissimo, ma calcolo e chimica organica?». Rabbrividì nel rileggere l'elenco, poi esclamò: «Oh... aspetta! È anche peggio di quanto credessi. Ho Lutz per chimica. Dicono che abbia più di novant'anni e che si addormenti durante le lezioni! Prevedo già una noia immensa». «Sono certa che eccellerai, come sempre», la consolò sua madre battendole un colpetto sulla mano. «Adesso vedi di finire la zuppa prima che si raffreddi». «Certo», borbottò Wendy, e ne assaggiò una cucchiaiata. Era buona, anche se non era fatta in casa. Oh, bene, del resto oggigiorno nessuno ha più tempo libero, pensò. «Vorrei soltanto poter ripiegare su biologia, e che mi dici di botanica? O di geologia?». «Da' tempo al tempo, mia cara. Danfield vuole solo fare di te una laureata ben rifinita». «Rifinita? Ma a me piacciono le mie asperità, mamma». «Sono certa che ne avrai ancora qualcuna, quando ti lasceranno di nuovo allo stato brado». «Grr», ringhiò Wendy, sollevando una mano come se fosse stata un artiglio. Sua madre si accigliò di fronte a quel comportamento poco signorile, sorseggiò il proprio tè ghiacciato e cambiò argomento. «Come sta Alex?». Wendy sbriciolò nel brodo qualche cracker, cominciando poi a raccoglierne con il cucchiaio i pezzi ammollati. «Molto meglio. Zoppica ancora un poco ma non soffre più molto e non si stanca tanto facilmente». «Voi due andate... andate ancora d'accordo?». Questo dovrebbe essere un cauto approccio? si chiese Wendy.
«Non sono ancora riuscita a farlo scappare spaventato», rispose, «il che significa che sto sbagliando qualcosa». «Cerca solo di stare attenta». «Ultimissime notizie, mamma», sospirò Wendy. «Adesso sono cresciuta». «Questo mi ricorda che il primo di agosto arriverà prima che tu te ne accorga. C'è qualcosa di speciale che io e tuo padre possiamo regalarti per il tuo diciannovesimo compleanno?». «Un buono acquisto per un negozio di mobili usati». «La tua villetta è ancora un po' spartana?». «Casa de Wendy2, dove ogni stanza ha l'eco». «Sembra un posto triste e solitario». «Un poco, ma Alex passa a trovarmi», replicò Wendy, il che tecnicamente era esatto; a questo punto, non aveva senso menzionare il fatto che lui si fermava anche a dormire, «e Frankie verrà a stare con me all'inizio del semestre autunnale». «Perché non dare una piccola festa, nel frattempo? Ravviverebbe la casa. Potresti unire una festa di compleanno all'inaugurazione della casa». «Non ci sarà molta gente con cui fare una festa, prima che inizino le lezioni», ribatté Wendy, accigliandosi. «Una volta che saranno iniziate, non avrai più molto tempo per dare feste». «Sì, mamma. Lavorerò sodo ventiquattr'ore su ventiquattro». «Non era questo che intendevo», ribatté sua madre. «Sei pur sempre la figlia del preside, anche se non vivi più in questa casa, e non vorrei che ti facessi la reputazione di una che dà feste sfrenate». «Vuoi dire che non vorresti che papà si facesse la reputazione di avere una figlia che dà feste sfrenate». «Pura semantica, cara», affermò Carol mentre andava a mettere il piatto vuoto nel lavandino; presa anche la pentola vuota posata sui fornelli, la sciacquò e la ripose nella lavastoviglie insieme al piatto. «Hai finito la zuppa? Devo schizzare via». Wendy si premette una mano sulla bocca per non spruzzare sul tavolo l'ultima cucchiaiata di zuppa. «Mamma, nessuno dice "schizzare via"». «È un termine assolutamente lecito», replicò sua madre deponendole un bacio sulla testa. «Ora pensa alla festa. Se vuoi, ti aiuterò io a pianificare e preparare ogni cosa. Sentiti libera di lasciare qui i cataloghi che non ti do-
vessero interessare». «Potrei lasciare anche qualche conto», sorrise Wendy. «Non sfidare troppo la fortuna, cara». Gina chiuse la porta della sua camera e si sedette per terra a gambe incrociate con il sacchetto contenente le tessere dello Scarabeo. Dopo essere andata con Brett nel negozio di liquori, le era venuta un'idea sul modo giusto per usare le tessere. Forse quei quadratini erano in grado di attingere al subconscio di Wither, raggiungendo aree della sua memoria che erano nascoste o ostruite, e se era così valeva la pena di fare qualche esperimento. Da quella notte in cui aveva scaraventato il tabellone con le tessere dall'altra parte del salotto ed esse avevano composto il nome Wither, non era più riuscita a ottenere altri messaggi. Dopo aver preso in considerazione l'idea di comprare un kit di rune al Crystal Path, aveva invece acquistato una copia tutta sua del gioco per avere in camera un kit di tessere personale, ma quelle nuove tessere si erano dimostrate un fallimento, inducendola addirittura a pensare che forse le originali possedessero qualche qualità speciale. Dopo però che un tentativo effettuato a tarda notte con le tessere del gioco originale non aveva dato alcun risultato, aveva rinunciato alla speranza di ricevere ulteriori messaggi dall'oltretomba, dovunque esso si trovasse, mediante quello strumento. La sua nuova idea era che le tessere, quelle vecchie come quelle nuove, erano strumenti validi, ma che era lei a non capire il modo giusto per attivarle. In passato era stata l'ira a destare i poteri di Wither, e l'ira era stata l'ingrediente mancante nei suoi esperimenti successivi. Doveva sentir fluire il sangue nero nelle vene per poter attingere all'energia magica, ai poteri di Wither. Racchiuse i quadratini nelle mani chiuse a coppa e cercò quindi quell'ira, lasciandosi pervadere dal bisogno di vendetta, dal bisogno di sangue e, in reazione a quelle emozioni, il suo sangue si fece nero nelle vene delle braccia, le tessere divennero frammenti di ghiaccio fra i suoi palmi. Questa volta funzionerà, capì. Cominciamo con qualcosa di semplice, giusto per avviare la comunicazione. «Cosa devo fare riguardo a Wendy Ward?», sussurrò a denti stretti, e lanciò le tessere. Formarono un mucchio circolare, cadendo per la maggior parte rivolte a faccia in giù, con un centro vuoto in cui ce n'erano otto girate verso l'alto. UCCIDILA.
«Ok», sorrise Gina. «Ora so che i nostri programmi coincidono». Raccolte di nuovo le tessere, alimentò la propria ira e pose la domanda successiva. «Come ti ha sconfitta?», chiese, e ottenne un altro cerchio con cinque tessere al centro. CIECA. Gina si soffermò a considerare quella risposta. In qualche modo Wendy era riuscita ad accecare Wither, ma questo non spiegava come l'avesse uccisa. Per la terza volta raccolse le tessere. «In che modo l'essere accecata ti ha distrutta?». Quattordici tessere atterrarono girate verso l'alto dentro il rozzo cerchio. CROLLOFABBRICA. «Il crollo», sussurrò fra sé Gina. «L'ha schiacciata nella vecchia fabbrica». La percezione che lei aveva di Wither nella sua più recente incarnazione era quella di una creatura enorme e implacabile, qualcosa che non era facile fermare. Wendy aveva prima accecato Wither, poi era riuscita in qualche modo ad attirarla con l'inganno nella fabbrica abbandonata, schiacciandola sotto tonnellate di roccia. Questo spiegava le sensazioni di rabbia e di terrore che Gina aveva provato quando aveva visitato la vecchia fabbrica con Brett: a quel tempo non aveva capito, ma adesso tutto aveva senso. Intanto stava cominciando a stancarsi a causa dell'intensa concentrazione necessaria a mantenere lo stato mentale adatto a usare le tessere. Già la testa le pulsava e aveva delle chiazze bianche che le danzavano davanti agli occhi, come le immagini impresse sulla retina da centinaia di lampade di flash. Ancora una domanda, pensò, ma basta con il passato. Vediamo se le tessere conoscono il futuro. «Parlami di quella che ho percepito, e che intendo cercare per unirla alla mia congrega», disse dopo aver raccolto le tessere. Poi le lanciò, e otto di esse caddero rivolte in alto in una linea imprecisa. BOSCHALL. «Boschall? È il suo cognome?», si domandò Gina, e accennò a raccogliere le tessere per ottenere una chiarificazione, ma una fitta di dolore intensa le trapassò il cranio come un chiodo. «Basta!», sussurrò. «Per ora basta così». Esausta, spinse sotto il letto le tessere e la sacca vuota, poi si alzò in pie-
di, mosse un passo incerto e barcollò per via di un'ondata di vertigini, aggrappandosi alla testata di ottone per sorreggersi. Con il mento premuto contro il petto, attese che la crisi passasse. Un istante dopo, il sangue prese a sgorgarle dal naso. Note 1. Gioco di parole intraducibile sulla quasi perfetta assonanza che c'è in inglese fra flour ('farina') e flowers ('fiori') [ndt]. 2. In spagnolo nel testo originale [ndt]. Capitolo 7 Alex si accorse di lei soltanto dopo che il professor Cermignano ebbe concluso la lezione di marketing della sessione estiva. La distanza fra il Kalpeski Business Center e il suo dormitorio nella Schongauer Hall era più o meno uguale a quella fra qualsiasi altri due punti del campus, quindi si era mosso con parecchio anticipo per avere tutto il tempo di arrivare fin lì con l'ausilio del bastone. Di conseguenza era giunto in anticipo e aveva occupato un posto in seconda fila, mentre lei doveva essere arrivata appena pochi momenti prima dell'inizio della lezione ed essersi seduta nella fila di fondo, rimanendo in silenzio per tutto il tempo, probabilmente perché cercava di non attirare l'attenzione su di sé. Mentre raccoglieva il testo di introduzione al marketing, il blocco per appunti rilegato a spirale e il bastone, Alex la intravide con la coda dell'occhio: una ragazza snella con lunghi capelli neri e lisci. Quasi certamente è lei, pensò, ma risalì i gradini verso le porte posteriori dell'aula per darle un'occhiata più da vicino. Una volta nel corridoio guardò a destra e a sinistra, giusto in tempo per vederla oltrepassare l'uscita posteriore, e la seguì attraverso il Parris Beach, il prato centrale con il suo piccolo laghetto, guadagnando terreno nonostante l'andatura rigida. A causa del caldo lei era vestita con un top bianco di cotone senza maniche, calzoncini corti di jeans e scarpe da tennis bianche a strisce rosa, senza calzini. «Jen?», provò a chiamare Alex, e quando non ottenne reazione insistette: «Jensen Hoyt?». Lei si fermò e si girò a guardarlo, i libri stretti fra le braccia incrociate e premuti contro il petto. Per un momento parve perplessa, poi la sua espressione mostrò che lo aveva riconosciuto.
«Sei Alex, giusto? Sei nella mia classe di marketing?». «Infatti», confermò Alex coprendo il resto della distanza che li separava. «Lo scorso autunno avevamo la professoressa Glazer per letteratura comparata, e di solito sedevo accanto a Wendy Ward e a Frankie Lenard». «Mi ricordo», annuì Jen. «Suppongo che tutti e due abbiamo un bel po' di lavoro davanti per rimetterci al passo», commentò Alex, accennando in direzione del Kalpeski. «Sì, lo scorso anno è stato semplicemente pazzesco», replicò Jen, poi distolse bruscamente lo sguardo, come se provasse imbarazzo per quello che aveva detto. Si era trovata alla vecchia fabbrica quando quella mostruosità volante nota come Wither aveva prelevato Jack Carter da sopra il ponte coperto, e per qualche tempo nessuno aveva creduto alla sua storia, cosa che le aveva fatto passare un periodo molto brutto, inducendola probabilmente a dubitare della sua stessa sanità mentale. Jen aveva perso gran parte delle lezioni del semestre primaverile, e correva voce che a casa si fosse sottoposta a qualche tipo di terapia psichiatrica. Quando Wendy aveva visitato la camera che lei occupava al dormitorio per cercare di scoprire che aspetto avesse avuto la creatura mostruosa, era rimasta turbata dal trovare non uno, ma centinaia di disegni raffiguranti la creatura incollati ovunque con il nastro adesivo, segno dell'insorgere di un'evidente ossessione. «Tu... hai avuto quello strano incidente sotto le gradinate del Marshall Field, giusto?», chiese. Più che altro si è trattato di un attacco da parte di uno scherzo della natura, pensò Alex, ma poiché aveva notato l'espressione tormentata dello sguardo di Jen, ritenne che forse non era pronta a essere indotta a ricordare gli orrori che molti di loro avevano dovuto affrontare l'inverno precedente. «Infatti. Mai mettersi a giocare sotto gradinate pericolanti». «Suppongo che non tutte le lezioni provengano dai libri di testo», convenne Jen scoppiando in una risata che aveva però una venatura isterica. «No». «Io ho dovuto prendermi un periodo di riposo», continuò Jen evitando il suo sguardo. Probabilmente, si disse Alex, si starà chiedendo cosa posso aver sentito al riguardo, e si preoccupa che possa ritenerla una pazza. «Non ero vicina a Jack, ma trovarmi proprio là quando lui... Sai, quando è caduto dal ponte, credo che mi abbia scioccata». Alex annuì, augurandosi di apparire abbastanza comprensivo. «Avrebbe scioccato chiunque», replicò
«Già», commentò Jen, annuendo a sua volta con aria rassicurata, poi chiese: «Allora stai recuperando più di una classe?». «Due. Marketing e computer e fogli di calcolo, ma quella non dovrebbe essere troppo difficile. E tu?». «Due anch'io. L'altra è calcolo elementare, con Snorefest». Alex reagì con un inarticolato verso di solidarietà. «Ora stai andando lì?», domandò. «No, ho un po' di tempo libero prima di quella lezione e sto tornando al dormitorio per cambiare i libri», rispose Jen. «Anch'io. Voglio dire che anch'io ho del tempo libero prima di fogli di calcolo, e che sono diretto da quella parte. Ti va se ti accompagno?». «Certo, a patto che prometti di non spingermi nel laghetto». «Con queste gambe malandate? Probabilmente ci cadrei dentro insieme a te». Jen rise ancora, questa volta senza cenni d'isterismo. Impegnato a chiacchierare, Alex quasi si dimenticò della rigidità delle proprie gambe. Ben presto oltrepassarono il Locke Science Center, attraversarono College Avenue e si diressero verso quella che era nota come la Dorm Row, la strada dei dormitori. Quello di Jen si trovava prima dello Schongauer, quindi Alex si fermò per salutarla e attese che la porta si fosse richiusa alle spalle di lei prima di riprendere il cammino. In quel momento un bagliore metallico attirò la sua attenzione e lo indusse a guardarsi indietro, ma poi scrollò le spalle quando si rese conto che si era trattato soltanto del riflesso della luce del sole sulle lettere di metallo della piastra montata sul davanti dell'edificio e recante il suo nome. Soltanto i genitori, le matricole e i visitatori avevano bisogno di quella targa per sapere che il dormitorio si chiamava Bosch Hall. Diario di Wendy Ward 19 luglio 2000 Luna: calante, terzo quarto, giorno 17 Lunedì Alex si è ufficialmente installato nella sua stanza del dormitorio e ha subito iniziato le due classi della sessione estiva: ciascuna di esse deve coprire il materiale di un intero semestre di lavoro in meno di sei settimane, quindi il ritmo di studio è frenetico. Mi ha sorpresa apprendere che Jen Hoyt frequenta la sua classe di marketing. Se da un lato mi ha fatto piacere sapere che sembra stare meglio, adesso che sono passati nove mesi
da quando ha assistito all'aggressione contro Jack da parte di Wither, d'altro canto temo che possa essere giunta a negare la realtà di tutto ciò che ha realmente visto quella notte. Del resto, cosa posso saperne io? Non ho certo una laurea in psichiatria, e sono l'ultima a biasimarla se non vuole discutere i dettagli dell'accaduto con qualcuno che non capirebbe o che la prenderebbe semplicemente per pazza. Ora che Alex è impegnato al campus, ho più tempo per lavorare alla magia senza rituale, nella fattispecie alla generazione di sfere di protezione. Mi ci sono voluti venti minuti per costruire la mia prima sfera riuscita (dovrei forse dire erigere, o evocare? Ok, usiamo evocare, dato che ha un adeguato sapore magico e paranormale). Per quanto soddisfatta che avessi avuto successo così presto, la Vecchia continua a insistere sul fatto che devo ridurre il tempo di evocazione. Anche se ho materializzato queste sfere senza invocare formalmente gli elementi o usare i materiali richiesti da un rito, lei sostiene che il mio problema consiste nel continuare a fare affidamento sulla meditazione per ottenere risultati. La mia sfera più recente ha richiesto meno di dieci minuti per essere evocata, meno della metà del tempo impiegato per la prima. «Non sei ancora abbastanza rapida», ha dichiarato la Vecchia. Frustrata, le ho chiesto quando sarei stata abbastanza rapida, quando ci avessi messo cinque minuti? O due? «Quando impiegherai lo stesso tempo che ti ci vuole per fare un cenno con la mano», ha risposto lei, scuotendo il capo, e quando le ho chiesto com'era possibile una cosa del genere, ha replicato: «Si basa tutto sulla focalizzazione. Focalizzazione e visualizzazione». Per lei è facile dirlo, è una proiezione astrale dotata di telepatia e di precognizione, e al suo confronto io sono una strega wicca di campagna. Fondamentalmente, il mio problema è che ho ancora la mente di un'apprendista, il che significa una mente indisciplinata. No, non sono stupida e neppure ignorante, almeno non del tutto, è solo che il mio approccio alla magia deve subire una nuova alterazione di paradigma. Come? Ecco la risposta della Vecchia: quanto più la mia capacità di visualizzazione diventerà potente e immediata, tanto meno avrò bisogno di fare affidamento sulla meditazione per arrivare alla focalizzazione. Perché non lo scrivete dentro un biscottino della fortuna? Vogliamo passare al problema successivo? Secondo la Vecchia, le dimensioni - intendo quelle della mia sfera protettiva - non hanno effettiva importanza, e ha giudicato che il diametro di due metri sia adeguato. Ade-
guato? Io sono alta 1,74 a piedi scalzi, quindi penso di risultare coperta dalla sfera anche avendo sette centimetri di tacco. Lei dice che è appena adeguata, ma a cosa corrisponde adeguata? Tradotto in voti sarebbe una C? Questo mi secca, perché ho sempre avuto almeno la media della B, ma lei insiste che migliorare la rapidità è più importante che ottenere un diametro più esteso. «La sfera più grande del mondo è inutile, se ci vogliono dieci minuti per evocarla», dice. Accidenti! Comunque il mio nuovo mantra deve essere: pensiero tramite visualizzazione. Per quanto riguarda casa, mamma sta andando avanti a testa bassa con i piani per la mia festa di compleanno-con-inaugurazione, ma, dal momento che il numero degli studenti presenti al college è alquanto ridotto nel corso dell'estate, la lista degli invitati promette di essere piuttosto corta; d'altro canto la sola persona del Danfield di cui sentirò davvero la mancanza è Frankie, ma potremo avere una nostra festa d'inaugurazione della casa quando lei tornerà per il semestre autunnale. Naturalmente Alissa sarà ancora in Italia per il primo d'agosto, giorno del mio compleanno, data che per caso coincide con Lughnasadh, la celebrazione del primo raccolto. Windale, Massachusetts 20 luglio 2000 Uno stretto viottolo d'asfalto si addentrava con un percorso tortuoso nella distesa del vasto Cimitero Harrison, passando intorno alle sezioni principali per offrire un accesso ragionevolmente comodo alla maggior parte delle tombe di famiglia; il viottolo mancava di spazio sui bordi ed era largo appena quanto bastava a far passare una sola macchina alla volta, quindi l'erba su entrambi i lati veniva abbondantemente danneggiata, soprattutto nei giorni di pioggia, e giovedì 19 luglio aveva scaricato pioggia per tutta la mattina, con le nubi temporalesche che scurivano il cielo e il rombo del tuono che echeggiava frequente e minaccioso, come l'avvicinarsi di un conflitto. Il lato destro della Jetta dello sceriffo Nottingham era già sprofondato nel fango di almeno cinque centimetri dalla parte dello stretto viottolo d'asfalto; dal momento che aveva intenzione di andarsene prima che la cerimonia funebre si fosse conclusa, lo sceriffo aveva parcheggiato davanti alla lunga fila di macchine che componeva il corteo funebre per il giovane Todd Gallo.
Sperando di non creare disturbo, lo sceriffo stava osservando da lontano quel momento così privato, rimanendo ai piedi della lieve collinetta e a più di cinquanta metri dal raggruppamento di ombrelli neri che erano sbocciati come funghi non appena i convenuti erano scesi dalle rispettive macchine. Avvolto nel poncho impermeabile, se ne stava appoggiato al cofano della macchina da pattuglia, con il cappello da Smokey the Bear inclinato in avanti per evitare che la pioggia gli entrasse negli occhi, ma anche così si stava inzuppando da testa a piedi. L'autopsia di Todd Gallo non aveva trovato elementi che facessero pensare a un omicidio, ma del resto quella non era stata una sorpresa. Anche se era sopravvissuto all'impatto iniziale, Todd era ancora in condizioni critiche quando aveva smesso di respirare, e la responsabilità dell'accaduto non era di nessun agente chimico o fisico. «Ci sono ancora troppe cose che non comprendiamo della mente umana», aveva detto allo sceriffo il patologo legale. «E così questa è la conclusione», mormorò fra sé Nottingham. Amici e familiari si erano radunati per dare l'estremo saluto a un ragazzo che non avrebbe mai visto il suo quattordicesimo compleanno; la voce del prete fermo vicino alla bara era soffocata dall'avvicinarsi della tempesta, ma anche se avesse sentito le sue parole, lo sceriffo dubitava che avrebbero potuto dare un qualche significato a quella tragedia priva di senso. Osservando i numerosi presenti, notò poi l'assenza di Gina, la sorellastra di Todd, e pensò che forse erano stati davvero affezionati uno all'altra, dopotutto. Bambini e adolescenti credono di essere indistruttibili, pensò, e questo genere di eventi li colpisce un po' troppo da vicino. Probabilmente, la ragazza era troppo sconvolta per dare l'ultimo saluto al fratello in pubblico. Nubi scure si addensarono rotolanti nel cielo, seguite dal bagliore di un fulmine e dal sonoro crepitio del tuono. Una tempesta estiva, si disse lo sceriffo. Questa pioggia costante sta per diventare un diluvio. Sollevandosi dal cofano della macchina da pattuglia, entrò nell'abitacolo, attivò i tergicristalli alla massima velocità e se ne andò senza che nessuno gli badasse. Ferma accanto alla finestra della sua stanza, Gina stava guardando le nuvole che si andavano addensando, soddisfatta del risultato ottenuto e riluttante a lasciare che Brett guastasse il suo ottimo umore. Le previsioni del tempo, che avevano unanimemente previsto temporali serali, non pote-
vano aver preso in considerazione l'influenza soprannaturale da lei esercitata; quando già la tempesta si stava avvicinando, Gina aveva scoperto - o per meglio dire, Wither aveva riscoperto - la capacità di insinuarsi nella violenza di quel caos naturale e di attizzarla, accelerarla e intensificarla. Il minimo che poteva fare, infatti, era predisporre l'atmosfera appropriata per il funerale del caro, piccolo rospo. Con un sospiro esasperato, riportò infine la propria attenzione sul suo risentito guardiano in fase di addestramento. Brett era furente. «Questo non faceva parte del nostro piano!», ringhiò. «Il nostro piano?», ripeté Gina, avvertendo a sua volta l'insorgere di una vampata d'ira, poi sorrise e bevve un sorso dalla bottiglia verde di gin Tanqueray d'importazione che teneva in mano. «Il nostro piano!», rise. «Davvero divertente». «Hai detto che li avresti pagati», sussurrò in tono intenso Brett, scoccando una rapida occhiata in tralice ai tre giovani in attesa fuori dalla camera di Gina. «Hai detto che avresti offerto loro del denaro». «La promessa del denaro è servita a portarli qui», replicò Gina, che ora stava sussurrando a sua volta, «ma il denaro non crea un vincolo abbastanza forte. Ho bisogno di strumenti, non di mercenari, e per questo li devo iniziare con il sangue». «Ci deve essere un altro modo...». «Mi dispiace, Brett, ma questo è il solo modo che ho appreso dal puzzle», ribatté Gina bevendo un altro sorso di gin. «Se preferisci non guardare, vattene fuori». «Benissimo», disse Brett girando sui tacchi con i pugni serrati, e oltrepassò con uno spintone i tre tizi accalcati appena oltre la soglia. Adesso che Brett se n'era andato, Gina poteva concentrarsi sul compito che l'attendeva. In un certo senso le obiezioni di lui le avevano fatto piacere perché, ignorando i suoi desideri, gli stava ricordando che il suo posto era quello di un servitore, non di un compagno. «Entrate», invitò posando la bottiglia sul cassettone, «e chiudete la porta». Mentre avanzavano nella stanza oltrepassando il cassettone con le tre candele nere accese che lei aveva preparato prima del loro arrivo, Gina studiò il linguaggio corporeo di ciascuno dei tre. Il più alto, Keith Hoagland, era il capo del gruppo. Dotato di un torace ampio, braccia muscolose e mani grosse, aveva corti capelli biondi, occhi castani e un naso che
dava l'impressione di essere stato rotto più di una volta; sicuro di sé, si guardò intorno nella stanza con palese curiosità, anche se non avrebbe trovato molto con cui soddisfarla, dato che da tempo lei aveva rimosso tutto dalle pareti e buttato o gettato nell'armadio ogni oggetto personale, perché preferiva che niente le ricordasse com'era stata la sua vita prima che Wither entrasse a farne parte. Nulla di quanto era successo prima della notte di Halloween del 1999 sembrava più avere importanza. Hoagland era seguito da Val Misero, più basso di Gina di qualche centimetro e dotato di un fisico asciutto, i capelli neri raccolti in una stretta coda di cavallo e una Marlboro spenta che gli pendeva dalle labbra ampie e sottili. Per ultimo veniva Cecil Kerr: testa rasata, ampi cerchi d'argento che gli pendevano da ciascun orecchio, pizzetto tinto di bianco. Massiccio di fisico, indossava una maglietta nera traforata da sollevatore di pesi e aveva tatuate su un braccio spire di serpente che si estendevano sulle spalle e lungo l'altro braccio; o si trattava di due serpenti intrecciati, oppure di un solo serpente con due teste, dato che un paio di occhi rossi e di zanne protese decorava il dorso di ciascuna mano. Tutti e tre indossavano jeans, anche se quelli di Kerr erano neri; Hoagland e Misero sfoggiavano stivaletti dalla punta d'acciaio mentre Kerr usava stivali neri di tipo militare, quelli che si allacciano fino al ginocchio. «Il bel ragazzo ha qualche problema?», sogghignò Hoagland, accennando con un dito verso la porta chiusa. «Non vi preoccupate di lui», ribatté Gina. «Hai detto di avere per noi un lavoro che richiede i nostri particolari talenti», osservò Kerr. «Ha promesso denaro facile», aggiunse Misero. «Questa è una di quelle situazioni in cui ci sono notizie buone e notizie cattive», replicò Gina, con un sorriso seducente. «Qual è la cattiva notizia? Ho mentito riguardo al denaro». «Che cazzo stai dicendo?», ringhiò Misero, avanzando come se avesse avuto l'intenzione di sferrarle un manrovescio. «Datti una calmata, Val», intervenne Hoagland, prendendolo per un braccio per trattenerlo dove si trovava, poi tornò a rivolgersi a Gina. «Se non c'è denaro per noi, quali sono le buone notizie?», chiese. Gina allungò una mano dietro la schiena per tirare giù la cerniera del vestito rosso estivo. «Che potete avere me», rispose, incurvando in avanti le spalle in modo che il vestito le scivolasse intorno alle caviglie; anche quel giorno non in-
dossava biancheria intima, una cosa che faceva risparmiare tempo. «Che io sia... dannato», sussurrò Kerr in tono di apprezzamento. Misero fece scorrere lo sguardo da Hoagland a Kerr, ma non lo distolse per molto da Gina, che era ferma a due metri da lui, completamente nuda. «Non capisco», disse. «Probabilmente no, visto il tuo QI da cervello di merda», ribatté Hoagland, scoccando a Gina un avido sorriso ferino. «Che vuoi dire?», insistette Misero. «È il tuo giorno fortunato, testa di cazzo», affermò Kerr assestandogli uno spintone. «Allora, chi è il primo?», chiese Hoagland a Gina, sforzandosi di apparire indifferente, come se una cosa del genere gli capitasse ogni sabato notte... o ogni giovedì pomeriggio, visto e considerato che era giovedì. «Non ho tutto questo tempo, ragazzi», rispose Gina, il che era fondamentalmente vero. Era riuscita a evitare il funerale sostenendo di avere un'influenza intestinale, ma sua madre, il suo patrigno e i loro ospiti sarebbero stati presto di ritorno per far fuori il cibo che Caitlin aveva predisposto sul tavolo della cucina con l'aiuto di Sylvia, la domestica. Facendosi avanti, Gina slacciò la cintura dei pantaloni di Hoagland. «Consideratemi una stazione di servizio completa», aggiunse. Aveva bisogno di vincolarli tutti e tre a servirla, e il modo più veloce per farlo, il solo metodo affidabile che lei conoscesse, era quello di iniziarli con il sangue mentre facevano sesso. Hoagland fu più che lieto di lasciare che lei lo trascinasse nel centro della stanza, camminando a fatica a causa dei pantaloni intorno alle caviglie. «Sdraiati», gli ordinò. Nell'istante in cui Hoagland depositò il culo nudo sul tappetino, i suoi amici parvero riscuotersi da una sorta di trance e cominciarono a slacciarsi freneticamente gli stivali, ma Gina prestò loro ben poca attenzione, almeno per il momento. Abbassando lo sguardo sotto la cintola di Hoagland, si sentì gratificata nel constatare di avere la sua più completa attenzione. Ergendosi su di lui, una gamba su ciascun lato dei suoi fianchi, serrò i pugni fino ad affondare le unghie nei palmi, finché sentì lungo le braccia il pulsare delle vene nere. È ora di cominciare, pensò, inginocchiandosi a cavalcioni della vita di lui per poi abbassarsi, protendendo una mano alle proprie spalle per guidarlo dentro di sé. «Oh, questo sì che è bello», gemette lui posandole le mani rozze sulle
cosce. A Gina peraltro non poteva importare di meno cosa lui ne pensasse della situazione, perché il suo piacere era secondario rispetto allo scopo che si era prefissa. Alzando lo sguardo sugli altri due, constatò che erano del tutto nudi tranne per i calzini, cosa che avrebbe offerto un quadro decisamente ridicolo se non fosse stato per il fatto che entrambi si accarezzavano il membro, in piena erezione. «Allora?», disse loro. «Muovetevi!», esclamò, battendosi sul gluteo destro una manata abbastanza forte da lasciare un'impronta arrossata. «Kerr, vieni qui dietro». «E io che faccio?», chiese Misero. «Tu vieni qui davanti, e ti darò un lungo bacio profondo». Mentre Kerr e Misero si mettevano in posizione, Gina si chinò in avanti e fece scivolare le mani sopra la maglietta di Hoagland; quando le unghie arrivarono all'altezza del petto di lui, gliele affondò nella pelle e artigliò verso il basso, aprendogli la carne. «Merda!», sussultò Hoagland sollevandosi, ma Gina lo spinse per le spalle con tanta forza da fargli sbattere la testa contro il pavimento. «Sta' zitto», ingiunse. «Sii un uomo». Hoagland parve un po' stordito, incapace di distogliere lo sguardo da quello di lei, e Gina si chiese cosa ci stesse vedendo, forse qualche nuovo potere di coercizione. La cosa però non aveva importanza perché adesso era stato iniziato con il sangue durante l'atto sessuale ed era suo, per tutto il tempo che le fosse servito e per qualsiasi scopo avesse voluto. Infatti Hoagland annuì senza protestare ulteriormente. Kerr e Misero avevano praticamente ignorato il grido di dolore dell'amico e non parvero notare neppure il sangue che gli stava macchiando la maglietta grigia: entrambi avevano occhi - e altre cose - soltanto per lei. Gina ebbe soltanto un momento di preavviso quando Kerr le calò una mano carnosa sulla spalla e le si accostò. Forse aveva intuito che le piaceva il sesso rude, o forse quello era il suo stile, in ogni caso Gina sussultò a sua volta quando lui le penetrò profondamente l'ano, con forza. Sfruttando il momento, si protese verso la mano serrata sulla sua spalla e la lacerò con le unghie, tracciando nella carne quattro linee quasi parallele. Come marchio era sufficiente e, a giudicare da come Kerr stava continuando a grugnire, c'era da dubitare che si fosse accorto delle ferite. Due sistemati, pensò. Uno ancora da servire... o da far venire. Serrata la mano destra intorno al membro di Misero, se lo accostò mag-
giormente alla bocca. Lui rimase fermo con le mani affondate nei suoi capelli biondo rossicci, la testa gettata all'indietro e lo sguardo rivolto verso l'alto mentre gemeva, la sigaretta spenta che gli pendeva da un angolo della bocca. Giusto per aggiungere un minimo di diversità alla procedura, Gina si servì dei denti per versare il suo sangue. Brett Marlin attese fuori dalla camera di Gina per meno di un minuto, prima che il bisogno di mettere una certa distanza fra se stesso e i gemiti che ne giungevano diventasse intollerabile, spingendolo a passare nello spogliatoio posto fra la camera di Gina e quella dei suoi genitori. Le pareti non erano però abbastanza spesse, quindi si chiuse nel bagno fra la camera di Gina e quella di Todd, ma anche lì continuò a sentirli; perfino nella stanza degli ospiti in fondo al corridoio gli parve di sentirli grugnire e imprecare. Anche se sul terzo piano c'erano ancora un ripostiglio e una camera degli ospiti inutilizzata, Brett decise di aver bisogno di un po' di aria fresca perché, se non fosse uscito da quella casa entro un paio di minuti, avrebbe finito per vomitare sulla bella moquette azzurra. Scese a precipizio le scale e, nel raggiungere il pianerottolo intermedio, sbatté contro il muro con tanta forza da sganciare un quadro dal suo chiodo. Attraversato a passo di carica il salotto, superò di furia l'atrio e corse lungo il marciapiede in direzione del suo furgone prima di fermarsi bruscamente e tornare indietro sulla veranda. Dentro la sua mente, in quell'angolo dove lei lo chiamava, sapeva che Gina voleva che rimanesse, che non gli aveva ancora dato il permesso di andarsene, e questo non gli lasciò altra scelta se non quella di restare lì e di subire l'indegnità di attendere che lei finisse di scopare tre perfetti sconosciuti. Verso sud nubi nere rotolavano nel cielo stendendo sulla città un cupo sudario, accompagnate dal rombo distante del tuono. La tempesta che si andava avvicinando si intonava al suo umore orrendo. Fermo sulla veranda, Brett prese a sbattere la testa contro uno dei pali di sostegno con l'assoluta precisione di un metronomo, ripetendo la stessa domanda ogni volta che colpiva il legno. «Perché?». La domanda era però inutile, in quanto non riusciva a capire Gina più di quanto potesse disobbedirle; perfino quella minima forma di insubordinazione era sufficiente a farlo stare male. Una cortina di pioggia avanzò rapida lungo la strada, diffondendosi sul prato e martellando nei canali di scolo, poi un vento sferzante gliela spinse
contro le gambe, infradiciandogli i jeans, e acqua sporca prese a sgorgare dalle bocche dei canali di scolo. «Vadano tutti a farsi fottere!», esclamò Brett, dando infine ascolto alla voce interiore. Lasciato il relativo riparo offerto dalla veranda, si avviò a grandi passi sotto gli scrosci di pioggia, deciso ad allontanarsi dalla casa dei Gallo e da Gina. Mentre muoveva il terzo, lungo passo sul marciapiede di cemento, avvertì un dolore improvviso all'addome, e due passi barcollanti più tardi si ritrovò a vomitare. Ancora un passo, e le gambe presero a tremargli per un devastante senso di debolezza, tanto che crollò in ginocchio e si chinò in avanti, puntellando le mani sul cemento umido mentre continuava a vomitare; ormai si trattava di conati a vuoto, e il sapore aspro della bile gli bruciò in gola. Nel corso degli anni, aveva provato più di una droga, senza però mai diventarne dipendente, e adesso non faticò a immaginare che sensazione dovesse dare la sindrome da astinenza. La stessa della disobbedienza. Girandosi, lanciò un'occhiata in direzione della casa dei Gallo, che quasi brillava stagliandosi nitida sullo sfondo delle nubi temporalesche, e solo il pensiero di tornare indietro fu sufficiente a placare la nausea che lo attanagliava. Il suo sguardo tornò poi a rivolgersi verso la strada e il furgone parcheggiato accanto al marciapiede, ma qualcosa dentro di lui, qualcosa di diverso dalla voce interiore ora muta, lo avvertì che sarebbe morto prima di poter entrare nella cabina di guida e allontanarsi da lì. Sapendo di non avere più possibilità di scelta, tornò sulla veranda e a quella droga che si chiamava Gina. Dopo quella che gli parve un'eternità, sentì giungere dall'interno della casa un rumore di passi veloci. Hanno finito, pensò immediatamente, e sulla scia del senso di sollievo che lo pervase si accorse infine di avere la fronte madida di sudore freddo e i muscoli contratti lungo il collo, le spalle e le braccia. Keith Hoagland oltrepassò per primo la porta, e Brett vide che Gina aveva effettivamente versato il suo sangue, che adesso gli chiazzava la maglietta grigia dal petto fin quasi all'addome; nel vederlo, Hoagland si fermò e gli batté una pacca sulla spalla. «Lei è uno zuccherino, amico», disse. Brett serrò la mascella. Misero seguiva dappresso Hoagland, ma non appariva altrettanto giubilante, si teneva una mano premuta sull'inguine e sussultava di dolore a ogni passo.
«Quella pazza puttana me l'ha morso!», si lamentò. Vorrei che te lo avesse staccato, testa di cazzo, pensò Brett. Kerr uscì per ultimo, intento a massaggiarsi la sinistra con la destra e, nel lanciare un'occhiata a Brett, sollevò i pollici nella sua direzione. «Ehi, Marlin, grazie per averla condivisa con noi!». Brett mosse un passo in avanti con i pugni serrati, pronto a fracassare il naso a Kerr e magari anche a fargli saltare via qualche dente ma, non appena formulò quel pensiero, la presenza di Gina si fece pressante nella sua mente, ingiungendogli di desistere, e lui si fermò di scatto tremando per l'ira repressa. I tre si avviarono in fretta lungo il marciapiede, la testa china per difendersi dalla pioggia battente; solo Kerr si guardò alle spalle, forse percependo una minaccia, poi scosse il capo. Mentre si allontanavano insieme, Misero guardò a sua volta in direzione di Brett, poi si rivolse ai suoi due compari, a voce abbastanza alta da essere certo che Brett lo sentisse. «Che fottuto idiota», commentò. Hoagland e Kerr scoppiarono a ridere. In quel momento, Brett avrebbe potuto ucciderli tutti e tre senza il minimo rammarico, se non fosse stato per la presenza di Gina nella sua mente, che lo teneva a freno. In preda a una furia silenziosa Brett guardò i tre salire sulla vecchia Camaro bianca di Hoagland, la cui carrozzeria era un mosaico di adesivi e ruggine. Poi Hoagland immise la macchina in carreggiata con una manovra fulminea che mancò di un millimetro il paraurti posteriore dell'F-150 di Brett, mentre in alto scoppiava un lampo, accompagnato da un lungo rombo di tuono. Con un'amara imprecazione, Brett sferrò con tutte le sue forze un pugno, calando le nocche contro il palo di legno più vicino: l'impatto spezzò il palo a metà, ma gli fratturò anche la mano. Un brandello di pelle si staccò dalle nocche, esponendo il sottostante bagliore bianco delle ossa rotte e il colore scarlatto del sangue fresco, e per un momento Brett fissò la ferita con un distacco quasi clinico, consapevole solo di un vago dolore. Poi provò lo strano impulso di strappare via la pelle che pendeva, di affondare le dita nella carne viva della sua stessa mano. Gina però lo stava chiamando. Prevedendo l'arrivo degli ospiti invitati al funerale, Gina si era infilata un corto vestito nero dopo aver riposto quello rosso nell'armadio. Quella sera ci sarebbero stati in casa molti sconosciuti, e non era prudente mo-
strarsi giubilante per la permanente uscita di scena di Todd; se avesse indossato il vestito rosso, sarebbe stato come sfoggiare anche un cappellino da party e una trombetta. Aveva appena spento le tre candele nere quando Brett entrò nella stanza, stringendosi al petto la mano fratturata. Un lampo crepitò come lo schioccare di una frusta, seguito da un rimbombo di tuono che fece tremare la casa. Dal rumore, sembra che abbia abbattuto un albero, pensò Gina, peraltro più divertita dalla tempesta che aleggiava sul volto di Brett. «Adesso ti senti meglio?», gli chiese in tono sarcastico. «Si sono divertiti a sfottermi». «Lascia che credano di avere ancora il controllo della loro vita», replicò Gina. Tu nutri ancora qualche illusione in merito, Brett? aggiunse fra sé. «Smettila di tenere il broncio. È fatta, e adesso sono miei». «Basterà questa volta soltanto?». «Una volta è stata più che sufficiente», garantì Gina. Non che io stia facendo promesse, pensò. La varietà aggiunge sapore, anche se erano tre sempliciotti. «Ora dammi quella mano. Come puoi servirmi da guardiano e da comandante dei miei soldati se sei storpio?». Brett protese la mano, e lei la prese fra le proprie in modo tutt'altro che gentile, rigirandola di qua e di là per esaminare la pelle lacerata e sanguinante, le ossa fratturate. «Fa molto male?», chiese. «Meno di quanto dovrebbe». «È opera mia», spiegò Gina con un sorriso asciutto. «Adesso sei più resistente, anche se questo non significa che sei indistruttibile, però non posso averti gemente e impotente a causa di qualche osso rotto. Quello che sto per fare ti causerà dolore», continuò guardandolo negli occhi. «Preparati». «Non c'è problema». Non ha idea di cosa lo aspetta, pensò Gina con un sogghigno. Bene, allora questa sarà un'altra lezione. Tenendo fra le proprie la mano fratturata di lui, strinse con forza le dita intorno alla carne viva fino a quando sentì il calore che le saliva lungo le braccia. Brett sussultò per il dolore, poi serrò i denti deciso a non gridare, e tuttavia la sua sofferenza era appena incominciata. Gina si concentrò sulle ossa rotte, le vene schiacciate, i capillari lacerati. Doveva rimetterli a posto, riportare l'ordine nella mano danneggiata, il che contrastava con le sue tendenze distruttive; nonostante questo cominciò a effettuare le riparazioni, costringendo le ossa a unirsi, saldandole e spingendo, tirando e rappezzando i vasi sanguigni in uno strano balletto di
distruzione e di riparazione, mentre il calore le si diffondeva lungo le spalle risalendole verso il collo. «Fa così... così freddo», gemette Brett, che stava tremando e battendo i denti. «Resta con me, Brett», sibilò Gina che cominciava a sua volta ad avvertire la fatica: il suo potere stava risucchiando tutto il calore da Brett, per alimentarla. «Il tuo collo», sussultò Brett, dilatando gli occhi. «È nero...». Gina spinse lo sguardo oltre le sue spalle e s'intravide nello specchio del cassettone: le vene nere si erano estese, non erano più limitate alle braccia, e adesso creavano una pulsante ramificazione su per la gola, strisciando lungo la mascella come edera nera che le stesse crescendo sotto la pelle. Il calore le bruciava gli occhi. Le ossa di Brett scricchiolarono e crepitarono quando le costrinse a tornare al loro posto, e lui infine lanciò un grido crollando in ginocchio. Gina assecondò il suo movimento e si abbassò a sua volta, decisa a finire quanto stava facendo prima di annullare il calore del suo potere. Con mani tremanti si concentrò sulle ultime, piccole riparazioni, poi lo lasciò andare e si accasciò di traverso sul letto, sfinita e ansante. Brett stava tremando, bluastro per il freddo. Dopo un momento, si fissò la mano risanata e provò a girarla di qua e di là, flettendo le dita e chiudendole a pugno. Anche se il dorso e le nocche erano una mappa di cicatrici bianche che s'intersecavano, la mano pareva funzionante e libera dal dolore, il che era ciò che contava. Poi Gina sentì al di sopra dell'insistente martellare della pioggia un rumore di portiere che sbattevano. «Gli ospiti sono arrivati», disse. Windale, Massachusetts 28 luglio 2000 Abby MacNeil ed Erica Nottingham erano parcheggiate sul divano del salotto e stavano ridendo nel guardare CatDog, lo strano cartone di Nickelodeon. CatDog era esattamente ciò che lasciava supporre il nome, per metà gatto e per metà cane, due metà anteriori senza parti posteriori... Abby immaginava che questo volesse dire che non c'erano contese riguardo al preferire una lettiera o un idrante. Com'era logico aspettarsi, Cat e Dog avevano due personalità opposte, ma erano costretti a rimanere insieme ed erano diventati ottimi amici. Combattuta fra il proprio lato umano e
quello di lupo, Abby provava una nuova, improvvisa comprensione per la situazione in cui CatDog si trovava, e per lei era fonte di nuova speranza vedere che i due opposti potevano andare d'accordo. Annoiati dai cartoni, Max e Ben erano corsi fuori, nel cortile posteriore e, grazie alla finestra aperta, Abby li poteva sentire mentre facevano chiasso con Rowdy, probabilmente giocando al riporto con l'instancabile labrador. In cucina la signora Nottingham era impegnata a preparare la cena. Dopo la merenda a base di burro di arachidi e marmellata, era stato loro permesso di mangiare anche un sacchetto di ciambelline salate, ma Abby stava cominciando lo stesso ad avere di nuovo fame e prese a rosicchiarsi le unghie mentre guardava i due spettacoli successivi sul canale Nickelodeon, in attesa che lo sceriffo Nottingham tornasse a casa. Quando sentì la porta che si apriva, saltò giù dal divano e gli corse incontro per salutarlo. «Com'è andata la giornata?», gli chiese. «Oh, come al solito», rispose lo sceriffo appendendo la giacca all'attaccapanni a muro dell'atrio. «Quel furfante di Robin Hood mi è sfuggito di nuovo». Abby scoppiò a ridere in risposta a quel loro scherzo abituale: avvistamenti degli Allegri Compagni, Lady Marian che si lasciava intravedere, Little John che evadeva di prigione. Poi lo sceriffo le lasciò cadere sui capelli biondi il suo cappello, la cui tesa le scivolò fino al naso, e Abby se la spinse indietro sulla testa, in modo da poterlo guardare in faccia mentre gli chiedeva il favore di cui aveva bisogno. «Tutto a posto, Abby?». «Sì. Ecco... quasi tutto». «Quasi tutto?», ripeté lo sceriffo inginocchiandosi accanto a lei in modo da poterla guardare negli occhi. «Ti senti bene, Piccola Signora?». Ogni volta che la chiamava così, Abby aveva l'impressione di trovarsi dentro un vecchio film di cowboy, soprattutto per via del fatto che lui aveva addosso la stella da sceriffo, la pistola e tutto il resto. «Mi sento vispa e arzilla, Marshall Bill», rispose, accennando un saluto militare. «Allora cosa c'è?». «Qualche volta, potresti portarmi di nuovo da Wendy?». «Non vedo perché no». «Bene», annuì Abby.
«C'è qualcosa di cui vorresti parlare con me?». Abby ci pensò su per un momento appena, poi scosse il capo. «È una cosa personale», rispose. «Personale». «Roba da ragazze», precisò Abby, sapendo che ai ragazzi non interessavano mai le cose da ragazze, anche se erano troppo grandi per poter essere ancora dei ragazzi. «D'accordo, allora», annuì lo sceriffo con aria seria. «Vedrò quello che posso fare». «Andiamoci presto, però», insistette Abby mordendosi il labbro inferiore. «Deve essere presto». «Allora vuoi che la chiamiamo? Sono certo di poter trovare il suo numero di telefono...». «No», si affrettò a interromperlo Abby serrando le mani. «Non al telefono. Devo vederla di persona». Attraversata a grandi passi la cucina, lo sceriffo si fermò alle spalle della moglie Christina che era davanti alla credenza, e la baciò su una guancia. «Cosa stai preparando?». «Hot dog per Max e lasagne per gli altri», rispose lei. Max insisteva di essere allergico alla salsa di pomodoro, e appena ne sentiva il sapore si stringeva la gola fingendo di soffocare. Quando poi Erica gli ricordava che nella pizza che lui adorava c'era la salsa di pomodoro, Max spiegava che il formaggio nascondeva al suo corpo la presenza del pomodoro e che quindi non correva rischi a mangiare la pizza, anche se rifiutava spaghetti con il ragù, la zuppa di pomodoro o, in questo caso, le lasagne. Lo sceriffo pensava che era forse sbagliato assecondarlo, ma del resto i bambini passavano attraverso così tante fasi di accettazione e rifiuto di determinati cibi che entro un anno la cosa non avrebbe più avuto importanza. Dopotutto, adora i broccoli, si disse, quindi perché non concedergli un po' d'indulgenza? «Hai parlato molto con Abby, oggi?». «Il solito», rispose Christina, voltando le spalle alla credenza e porgendogli i piatti da mettere in tavola. «Del resto sei tu il suo confidente. Perché?». «Vuole vedere di nuovo Wendy», spiegò lo sceriffo, disponendo i piatti sul tavolo di quercia.
«Questa sì che è una coincidenza», commentò Christina cominciando a passargli i bicchieri. «Oggi abbiamo ricevuto da Wendy un invito a una festa di compleanno e inaugurazione della casa per il primo di agosto». «So che alcune persone danno un nome alla loro casa», sorrise lo sceriffo. «Mi stai dicendo che adesso si organizzano anche feste di compleanno per la casa?». «Sono due feste in una», spiegò Christina girando intorno al tavolo per disporre tovaglioli e posate accanto a ogni piatto. «A quanto pare, Wendy ha lasciato la residenza del preside per trasferirsi in una villetta vicino al campus, e il primo di agosto compie diciannove anni». «Diciannove? Quelli erano giorni! Ti svegli ogni mattina sentendoti invincibile, senza dolori di sorta. Sai, nei bei tempi andati potevo sgusciare in silenzio alle spalle dei cattivi e metterli sotto tiro, ed ero famoso per il mio approccio furtivo. Adesso sono famoso per lo scricchiolare, scoppiettare e crepitare delle mie ginocchia». «Mi stai dicendo che non sei sempre stato un'intera batteria di strumenti a percussione racchiusa in un uomo?», sorrise Christina cingendogli la vita con le braccia. Lui scosse il capo e le spinse indietro i capelli biondi. «Ero un giovane agile e sciolto». «Sei ancora giovane, William Nottingham, e ci sono mattine in cui sei notevolmente agile e sciolto». Lui le baciò il collo facendole scivolare le mani lungo la schiena, sempre più in basso. «È la parte migliore del risveglio», disse. «Ci sono in giro i bambini», gli ricordò lei ridacchiando. «Tieni le mani nelle zone non vietate ai minori. Ora, riguardo a questa festa...». «Sì?», mormorò lui baciandola dietro l'orecchio. «Lascia perdere. Le dirò che ci andremo». Windale, Massachusetts 31 luglio 2000 Dopo una mattinata impegnata, la situazione al Crystal Path si era calmata abbastanza da permettere a Wendy di passare nel retro per apportare gli ultimi ritocchi alla progettazione del sito Internet del negozio. Tutte le pagine erano al loro posto, e per una volta era riuscita a completare i test del database senza che sullo schermo apparisse una cascata di messaggi di
errore. Adesso doveva soltanto registrare a nome del negozio un account su un server protetto, poi avrebbero potuto cominciare a ricevere tramite il web ordini pagabili con carta di credito. Questo dovrebbe impressionare favorevolmente Alissa, pensò, ma poi sospirò per il pensiero successivo. Probabilmente, però, ne sarà anche depressa. Ha detestato dover passare al registratore di cassa elettronico, e la prima volta che ha usato la penna per il codice a barre la cosa l'ha fatta rabbrividire. «Oh, bene, vorrà dire che mi occuperò io di questo aspetto delle vendite tramite e-mail; tutto il resto si riduce all'imballaggio e alla spedizione», si disse. Dopo aver salvato il proprio lavoro, controllò la posta elettronica. C'era un breve messaggio in cui Alex affermava di essere annoiato a morte dalla lettura dei libri di testo e di essere impaziente di vederla quella sera. Archiviati i messaggi della mailing list new age senza aprirli, lesse poi rapidamente un messaggio in cui Karen le riferiva un aneddoto relativo ad Hannah. Karen scriveva: ...ho creduto mi stesse dicendo di avere un'amica in Italia. Strano, lo so, ma certo non la più strana fra tutte le cose che le escono di bocca. Tutto quello a cui sono riuscita a pensare è stato che mi stesse parlando del viaggio della padrona del tuo negozio e di come ora lei fosse in Italia. In ogni caso, le ho chiesto chi fosse quest'amica, la sua pal in Roma1, ma lei continuava a scuotere la testa e a ripetere: «Hannah ha una pal in Roma». Forse si è trattato dell'enfasi che lei metteva nel pronunciare quel nome, ma di colpo ho capito cosa intendesse dire: non «Hannah ha una pal in Roma», bensì «Hannah è un pal-in-drome». Un palindromo! Come madam, una parola uguale se letta in un senso o nell'altro. Ha solo nove mesi, e già sa che cos'è un palindromo. Art dice che continua ad aspettarsi che lei lo sfidi a una partita a scacchi. Tutto questo è pazzesco, Wendy, ma a volte ho bisogno di riderci su. A proposito, so che è un po' presto, ma buon compleanno! Qualcuno bussò, e nell'alzare la testa dallo schermo, Wendy vide Kayla fare capolino nel retro. «Che c'è?».
«Tristan è appena arrivato», disse Kayla. «Sentiti libera di andare quando vuoi a comprare le provviste per la festa. «Ah, già. Grazie, me ne ero quasi dimenticata». Wendy salvò il lavoro, chiuse la casella e-mail e afferrò la borsetta posata accanto alla scrivania. Dopo che Wendy fu uscita dal negozio, Kayla aprì uno scatolone pieno di mazzi di tarocchi e li porse a Tristan, che stava costruendo un'elaborata piramide di tarocchi all'interno dell'espositore sottostante il registratore di cassa. Guardandolo, Kayla pensò che l'intera piramide sarebbe crollata alla vendita del primo mazzo, come il castello di carte a cui somigliava. Questo però sarebbe successo soltanto se fosse stata lei a effettuare la vendita. Con le sue lunghe dita da ragno Tristan non aveva neppure bisogno delle pinzette per giocare al gioco da tavolo dell'Allegro Chirurgo, e Wendy sembrava essere fortunata per natura. No, sarebbe stata Kayla dai Dieci Pollici a creare il disastro e a dover rimettere in ordine. Assalita da un gelo improvviso, anche se il condizionatore da era della rivoluzione industriale non si era ancora attivato, Kayla si sentì indotta ad alzare lo sguardo: un'ombra attirò la sua attenzione verso l'area centrale del negozio... e verso la giovane donna ferma davanti alle file di sfere di cristallo. «Gesù», sussurrò, d'un tratto spaventata. «Che c'è?», chiese Tristan, quasi rischiando di distruggere il suo elaborato castello di tarocchi. «Quando Wendy se n'è andata il negozio era vuoto, giusto?». «Certo, a parte noi». «Dopo di allora, hai sentito suonare il campanello della porta?», insistette Kayla, e quando Tristan scosse il capo inarcando le sopracciglia bionde come due punti interrogativi, accennò in direzione della donna, chiedendo: «Allora lei come diavolo è entrata?». «Chi?», domandò Tristan, sollevandosi dalla sua posizione accoccolata dietro l'espositore. «Gina Thorne, ecco chi», rispose Kayla con un altro cenno del capo. Note 1. Pal in inglese colloquiale significa 'amico'. È stato lasciato così per giustificare l'equivoco con il termine palindromo, pressoché identico in italiano e in inglese (palindrome): la frase Hannah has a pal in Rome ('Han-
nah ha un'amica a Roma') può essere letta anche come Hannah is a palindrome ('Hannah è un palindromo') [ndt]. Capitolo 8 «Forse le dovrei chiedere cosa vuole», si offrì Tristan. «Perché tu?», replicò Kayla scoccando un'occhiata nervosa alla schiena di Gina Thorne. Vestita con un top di pelle bianca e calzoncini jeans, la ragazza bionda stava facendo scorrere le unghie smaltate su ciascuna sfera di cristallo, quasi stesse cercando delle imperfezioni, e tuttavia Kayla ebbe la strana impressione che fosse consapevole di essere osservata da loro e che li stesse ignorando di proposito, almeno per ora. «Perché ti spaventa», ribatté Tristan con un sorriso asciutto. «Non mi spaventa», protestò Kayla, che sfortunatamente era davvero spaventata nonostante ciò che affermava, poi assestò una spinta a Tristan e sussurrò: «Accomodati, allora. Scopri cosa vuole quella cagna». «Con piacere», assentì Tristan con una strizzata d'occhio, godendo nel vederla tanto turbata, perché di solito era lui a contorcersi sotto le frecciate, i doppi sensi e le sconvolgenti confessioni di Kayla. Accigliandosi, Kayla finse di esaminare qualcosa che si trovava sul bancone, anche se in realtà tutta la sua attenzione era concentrata su Tristan e Gina. «Posso aiutarla a trovare qualcosa?», chiese Tristan. «Ne dubito», ribatté Gina con un sorriso sarcastico. Ancora disposto a lasciarsi insultare, Tristan allargò le mani in un gesto di resa. «Allora vuole che risponda a qualche domanda?», insistette. Gina lo squadrò da testa a piedi, dai capelli di un biondo chiarissimo alla camicia di flanella grigia, ai pantaloni anch'essi grigi e ai mocassini neri, e dalla sua espressione risultò evidente che non aveva trovato nulla d'interessante nel corso di quei cinque secondi di valutazione. «Mi annoi, Tristan», disse, poi alzò la voce quanto bastava per avere la certezza di essere sentita e aggiunse: «Mandami la lesbica, Kayla». Kayla serrò i pugni al punto da farseli dolere. Quella puttana mi ha definita una lesbica! pensò. «Riferirò alla... uh, a Kayla, che lei ha bisogno di assistenza», annuì Tristan, manifestando abbastanza cautela da battere in ritirata.
«La signorina preferisce parlare con l'assistente della direttrice», disse in tono normale a Kayla nel passarle accanto, poi sussurrò: «Spaventa anche me». Non appena Kayla si fu allontanata con passo deciso dal registratore di cassa, Tristan si acquattò dietro l'espositore, dando l'impressione di essere occupato. Anche se la sua iniziale apprensione era stata dissipata da un'improvvisa ondata di rabbia, Kayla cercò di assumere la sua migliore espressione da «il-cliente-ha-sempre-ragione», ma ancor prima di aprire bocca si rese conto che appariva fasulla. «Oggi è interessata all'acquisto di una sfera di cristallo?», domandò. «Forse», rispose Gina. «Queste sono più costose di altre che ho visto in giro». «Molto probabilmente quelle sono di vetro piombato, non di vero cristallo». «E queste lo sono?», insistette Gina. «Sono vere?». Kayla annuì, indulgendo nell'immagine mentale di se stessa che sfasciava la sfera di cristallo più grande sulla testa di Gina, una fantasticheria che fece apparire il suo sorriso quasi naturale. Wendy sarebbe orgogliosa di me, pensò. «Sì, lo sono», replicò. «Gliene incarto una?». «Non abbia troppa fretta». «Si prenda tutto il tempo che vuole», annuì Kayla, e accennò ad allontanarsi. Una mano scolpita nel ghiaccio l'afferrò per un braccio; rabbrividendo, Kayla si girò a guardare verso Gina. «Che c'è?», chiese con voce debole. «Se queste sono vere, dovrei riuscire a vedere il mio futuro guardandoci dentro, giusto?». Kayla annuì, deglutì a fatica e si costrinse a rispondere. «Ci sono persone che ci credono». «E potrei vedere anche il suo futuro?». «Io... non lo so. Forse». «Sperimentiamo questa teoria». Usando la mano libera, quella che non stava stringendo il braccio di Kayla, Gina si protese verso la sfera di cristallo più vicina, che misurava quasi dodici centimetri di diametro ed era appoggiata su tre draghi di peltro accoccolati, e ne accarezzò la superficie con il palmo descrivendo un lieve arco da sinistra a destra. Stupefatta Kayla vide che l'interno della sfera co-
minciava a scurirsi, come se dentro vi stessero vorticando minuscole nubi temporalesche, poi da quell'oscurità emerse un'immagine, un volto di donna - quello della stessa Kayla - e nelle opache profondità del cristallo quel volto prese a urlare in silenzio. «Niente», commentò Gina lasciandole andare il braccio e fingendo di non notare che lei era indietreggiata di un passo, barcollando. Adesso la sfera era di nuovo limpida e rifletteva solo le luci sovrastanti. Kayla stava tremando, e Gina la fissò con una risatina scuotendo brevemente il capo. «Suppongo che soltanto gli idioti credano a quelle sciocchezze», commentò e, mentre Kayla annuiva, aggiunse: «Ma tu non sei un'idiota, vero?». Kayla scosse il capo, ancora incapace di proferire parola. Non c'era niente che desiderasse più del sottrarsi alla vista di quella donna, ma si sentiva le gambe troppo deboli per andare da qualsiasi parte, dotate a stento della forza necessaria per continuare a sostenere il suo peso, tanto che era solo la mera forza di volontà a permetterle di continuare a restare in piedi. «Cosa mi dici del tuo capo?», comandò Gina come assalita da un'idea improvvisa. «Cosa... cosa c'entra lei?». «Wendy Ward», insistette Gina. «È il tuo capo, vero?». «Sì, è la direttrice». «Ed è una credente? Un'idiota?». «È una credente», ribatté Kayla, consapevole di essere sulla difensiva, «ma non è un'idiota». «L'hai vista praticare la magia?». «Le sue sono pratiche private». «Molto comodo», sogghignò Gina, poi avanzò di un passo e Kayla dovette lottare contro l'impulso di indietreggiare. Dimentica l'orgoglio e scappa, disse a se stessa. Vattene subito da qui! Invece, si sentì inchiodata dove si trovava. Come un daino abbagliato dalla luce, pensò. Splendido. «E che mi dici di te, Kayla? Tu ci credi?». «Io... ho una mente aperta». «Bene», annuì Gina. «Ne sono lieta. Il tuo collega mi annoia, ma tu... sono lieta che tu abbia una mente aperta a nuove... nuove esperienze». Nel parlare, protese la mano verso la faccia di Kayla sfiorando con un'unghia smaltata di rosso la barretta di acciaio inossidabile che le attraversava l'an-
golo esterno del sopracciglio destro. «Ti piace il dolore, Kayla. La trovo una caratteristica attraente in una persona». «Non mi piace il dolore». «Davvero?», ribatté Gina, con un sorriso asciutto. «Non permetto al dolore... alla paura di provare dolore... di controllarmi». «Questa è solo una parte», affermò Gina scuotendo il capo. «Un'altra parte di te ama il dolore». «È una menzogna!». «Davvero?», ripeté Gina. «Hai un atteggiamento di sfida che mi potrà servire». «Di che stai parlando?». «Lascia perdere», rispose Gina con una luce maligna negli occhi chiari. «Non ti vorrei rovinare la sorpresa». Con quelle parole girò sui tacchi e si avviò alla porta. Kayla rimase ferma dove si trovava, seguendola con lo sguardo mentre un'ondata di repulsione le scorreva lungo la schiena, poi si strinse le braccia intorno al corpo lottando contro il ricordo del senso di gelo derivante dalle dita ghiacciate che le avevano serrato il braccio, e infine si abbandonò al semplice sollievo per il fatto che Gina Thorne aveva lasciato il negozio. Questa volta il suo passaggio venne accompagnato dal tintinnare del campanello. Tristan si affrettò a raggiungere Kayla mentre lei si avvicinava alle file di scaffali di sfere di cristallo e allungava la mano verso quella che aveva mostrato la sua faccia urlante; le dita presero a tremarle, ma si costrinse a toccare la superficie limpida: nel momento in cui la sfiorò, sentì un crepitio soffocato e una serie di crepe si allargarono dal centro della sfera, come un complicato intreccio di vene lattee. «Accidenti...», commentò Tristan. «Che è successo?». «Lei ha... Hai visto...?». «Cosa?». «Ero lì dentro», spiegò Kayla. «C'era la mia faccia, e stavo urlando». «Hai decisamente ammesso che lei ti fa paura. Forse lo hai solo immaginato». «Ho immaginato anche quello che è appena successo?». «Deve essere stata qualche imperfezione interna a causarlo». «Continua a ripetertelo, Tristan», ribatté Kayla. «Si chiama negare la realtà».
Trasportando una grossa borsa della spesa piena di provviste per la festa, Wendy si arrestò a un affollato incrocio di Theurgy Avenue, aspettando che il semaforo diventasse verde. Aveva percorso tutti gli ottocento metri che la separavano dal negozio prima di rendersi conto di aver dimenticato la lista della spesa al Crystal Path. Soffocando l'impulso illogico di tornare indietro a prenderla, aveva deciso di effettuare gli acquisti basandosi sulla memoria, e adesso era tormentata da un senso di disagio che la induceva a chiedersi se non avesse dimenticato qualcosa. Pensieri che però non durarono a lungo. Mentre era ferma accanto al semaforo fra l'intersecarsi di pedoni frettolosi e lo sfrecciare delle macchine, ebbe d'un tratto la sensazione sconcertante che qualcuno la stesse osservando, un atavico rizzarsi dei capelli sulla nuca ma, anche se guardò a sinistra, a destra e alle proprie spalle, non le parve che qualcuno le stesse prestando particolare attenzione. Poi un taxi frenò proprio davanti a lei, fermandosi bruscamente per far salire un cliente, e questo la indusse a riportare lo sguardo davanti a sé, verso il lato opposto dell'incrocio, e la prima cosa che notò furono i capelli di un biondo rossiccio agitati dalla calda brezza di luglio. Il respiro le si bloccò in gola. Gina Thorne... ferma dall'altro lato di Theurgy Avenue e intenta a fissarla. Per un lungo, ipnotico momento, separate dal fiume di traffico in movimento, si guardarono a vicenda, con un senso di riconoscimento reciproco che non fu accompagnato dal minimo gesto. Poi Gina strizzò l'occhio infrangendo l'incantesimo, e un astuto sorriso le incurvò le labbra prima che volgesse le spalle all'incrocio e a Wendy e si allontanasse. Mentre il taxi si rimetteva in moto, Wendy cedette all'impulso improvviso di seguire Gina. Con lo sguardo fisso sulla schiena sempre più lontana della giovane donna, scese dal marciapiede nonostante il semaforo rosso. Il suono stentoreo del clacson di una macchina le strappò un sussulto e la indusse a indietreggiare goffamente di un paio di passi fino a tornare sul marciapiede, proprio mentre uno sporco furgoncino a noleggio giallo attraversava a tutta velocità l'incrocio, occludendole per un momento la visuale. Un secondo più tardi il furgoncino non c'era più... e neanche Gina! Verde! Wendy attraversò a precipizio la strada guardando a destra e a sinistra lungo il marciapiede: Gina stava camminando in mezzo al resto dei pedoni, e un momento dopo era svanita. Prima ero distratta, pensò scuo-
tendo il capo. Possibile che l'abbia solo immaginata? Quella pareva essere l'unica spiegazione plausibile, ma il suo intuito la pensava diversamente. Sta succedendo di nuovo, comprese. E in qualche modo Gina è coinvolta. Windale, Massachusetts 1 agosto 2000 Wendy percorse due volte Eden's Crossing con la macchina, rallentando a passo d'uomo nel passare davanti alla casa di Gina Thorne. Il nome dipinto sulla cassetta della posta che si trovava sul marciapiede era Gallo, ma Wendy sapeva che si trattava del cognome che la madre di Gina aveva assunto da sposata, e che quella era la casa giusta. Si trattava di un'ampia abitazione di lusso, una delle molte sparse lungo la strada tortuosa di quel quartiere esclusivo, e adesso che l'aveva trovata non avrebbe saputo dire cosa si fosse aspettata. Magari degli avvoltoi che volano in cerchio sopra il tetto, pensò, con una sfumatura di umorismo macabro. Stava tornando dal supermercato dopo aver acquistato patatine, salatini e soda per la festa quando era stata sopraffatta dall'improvviso bisogno di localizzare Gina, frutto di un senso di disagio che era andato crescendo dentro di lei da quando aveva saputo della visita che Gina aveva fatto al Crystal Path il pomeriggio precedente. Quella visita aveva sconvolto Kayla e Tristan quanto bastava per indurla a preoccuparsi, anche senza l'aggiunta della misteriosa scomparsa di Gina lungo Theurgy Avenue. Nel fissare quella casa dall'aspetto così normale, Wendy non ne sentì emanare nessuna minaccia. Lei non è qui, comprese, con un profondo sollievo subito seguito da un senso di colpa. Avrebbe dovuto fare qualcosa, ma non sapeva con certezza neppure cosa poteva fare e, mentre tornava alla villetta, fu costretta a chiedersi quale fosse la portata della minaccia costituita da Gina. Se davvero Gina si è alleata con Wither, rifletté, posso solo sperare che non abbia idea di quanto sia attualmente limitato il mio potere magico. Ho bisogno di più tempo per prepararmi, per addestrarmi perché, quando infine Wither mi verrà a cercare, non avrò una seconda possibilità. Non posso permettermi di fallire, non posso... «Conosceva il mio nome e quello di Tristan», disse Kayla a Wendy, poi
bevve un sorso della sua Pepsi One. «Come poteva conoscerli?». Anche se erano in cucina, la villetta era abbastanza piccola da far sì che la musica proveniente dal cd di Alex coprisse le loro voci, garantendo che la conversazione rimanesse privata; nessun altro dei partecipanti alla festa le avrebbe sentite, a meno di arrivare a un braccio di distanza da loro. Wendy si accigliò e riempì un cestino di vimini da un sacchetto di salatini da mezzo chilo per darsi il tempo di riflettere. «Il fatto che sapesse i vostri nomi non è stato la parte più strana della sua visita», osservò poi. «Non portiamo addosso targhette d'identificazione». «No, ma potrebbe averci sentiti parlare fra noi», obiettò Wendy. «Cosa mi dici invece di tutta quella faccenda con la sfera di cristallo?». «Forse ho solo immaginato di vedere me stessa», replicò Kayla scrollando le spalle, poi prese un salatino dal cestino pieno fino all'orlo e lo spezzò con un morso. «Non è sembrato che lo vedesse anche lei». «Adesso parli come Tristan», l'accusò Wendy, riempiendo anche il cestino dei Tostitos. Era certa che in quel confronto fosse stata utilizzata la magia, che Gina avesse usato i propri poteri contro Kayla e Tristan. Durante quel primo incontro con Gina, aveva avvertito in lei qualcosa... qualcosa di strano, e forse di pericoloso. «Credo che sia stata lei a distruggere quella sfera». «Wendy, lei non era neppure nel negozio, quando è successo», protestò Kayla. «Sono stata io a toccarla... Non che per questo tu me la debba detrarre dalla paga o cose del genere». «Ok, seguendo il consiglio di Tristan continueremo a definirlo un difetto di fabbricazione», annuì Wendy. «Tuttavia...». Perché Gina era venuta una seconda volta nel negozio, appena pochi istanti dopo che lei se n'era andata? Evidentemente non voleva confrontarsi con lei, ed era più probabile che si fosse appostata fuori dal Crystal Path aspettando di vederla andare via. «Cosa pensi che abbia scoperto?», domandò. «Che vuoi dire?». La madre di Wendy scese in picchiata su di loro come un gabbiano affamato e prelevò il cestino di Tostitos dal piano di cucina. «Tuo padre li sta aspettando», disse, «e vuole sapere se hai altra salsa». «Ne rimane un vasetto», replicò Wendy. «Papà sta mangiando soltanto questo?». «Tortilla chips e salsa», confermò sua madre accigliandosi. «E manda
giù il tutto con della birra». «Forse dovremmo iniziarlo al vassoio di carotine e cetrioli in salsa di verdure», suggerì Wendy. «Cosa? E rovinargli tutto il divertimento?», rise sua madre. «Wendy, ricorda che questa è la tua festa. Socializza, socializza, socializza». «Sì, mamma», assentì Wendy alzando gli occhi al cielo, e si accorse che Kayla si stava servendo di un salatino per nascondere un sorriso. Dopo che Carol Ward si fu allontanata con il cestino di nachos, commentò: «Desidera terribilmente vedermi come una debuttante». «Madri», annuì Kayla con aria comprensiva. «E poi qui conosco già tutti», aggiunse Wendy. Un'anima caritatevole avrebbe potuto usare il termine "intima" per descrivere quella festa. A parte i suoi genitori, Alex, Tristan, Kayla, lo sceriffo, sua moglie e Abby, erano presenti solo poche facce relativamente nuove, una delle quali appartenente a Jensen Hoyt, le altre ad alcuni studenti dei corsi estivi seguiti da Alex. I gruppetti di conversazione si erano sviluppati lungo linee generazionali, anche se Jen aveva la tendenza a tenersi lontana da tutti e riusciva allo stesso tempo ad apparire sperduta e a disagio. La radio era stata sintonizzata su ESPN, ma il volume era stato abbassato completamente, e questo dava l'impressione che gli eventi sportivi avessero come colonna sonora la musica proveniente dal cd di Alex. Abby sedeva per terra con la schiena addossata alla parete, l'attenzione concentrata su un Game Boy verde che stringeva fra le mani; di tanto in tanto sollevava lo sguardo e lo lasciava scorrere tutt'intorno, tornando a immergersi nel gioco solo dopo aver localizzato Wendy. Al suo arrivo, lo sceriffo aveva accennato al fatto che Abby aveva specificatamente chiesto di vederla di persona, e adesso Wendy fu assalita da un pensiero improvviso. Mi vuole parlare in privato. «Che intendevi dire?», domandò Kayla. «Cosa?». «Mi hai chiesto cosa pensavo che Gina avesse scoperto durante la sua piccola visita». «Ah, già, Gina. Mi sono solo chiesta perché si fosse presa la briga di venire, dato che sapeva che io non c'ero». «Non penserai che volesse davvero comprare una sfera di cristallo, vero?». «Certo che no». «Ha ignorato Tristan», continuò Kayla, «e ha chiesto esplicitamente di
me». «E cosa voleva sapere?». «A parte se mi piaceva o meno il dolore, vuoi dire?», ribatté Kayla, e quando Wendy annuì, continuò: «Solo quello che ti ho già detto. Ha chiesto se eri una vera credente». Interrompendosi, si accigliò, gesto che fece inclinare una verso l'altra le barrette d'acciaio che le attraversavano le sopracciglia; ogni volta che era intenta a riflettere, Kayla aveva l'abitudine di sbattere contro i denti la barretta che aveva sulla lingua, e adesso Wendy sentì quel particolare ticchettio. «No, non è del tutto esatto», riprese infine. «Voleva sapere se ti avevo mai vista praticare la magia». «Che le hai risposto?». «Cosa potevo risponderle? Che fai le tue cose in privato». «Giusto», approvò Wendy. D'un tratto ricordò l'inspiegabile repulsione che aveva provato in presenza di quella ragazza e la paura - o forse il disgusto - che Gina aveva manifestato nei suoi confronti, uscendo in tutta fretta dal negozio. Possibile che mi temesse, che avesse paura di quello che potevo farle? si chiese, e sentì un brivido correrle lungo le ossa. E se si trattasse di lei? Se fosse la reincarnazione di Wither? Ma... se lo è, e se mi teme, allora non deve essere in grado di ricordare tutto quello che è successo la notte di Halloween, come per poco non mi abbia uccisa, cosa che sarebbe riuscita a fare se non l'avessi ingannata, facendole crollare sulla testa quella vecchia fabbrica. Da allora, non sono cambiata al punto da poter costituire per lei una minaccia molto maggiore, giusto?... No, però è lei quella che è cambiata, non è più un animale brutale, spinto dall'ira e dalla fame, animato da un potere immenso. È spaventata, o sta complottando qualcosa, ed è possibile che stia per agire contro di me. Se questo è vero, l'interrogativo importante non è cosa posso fare contro di lei, ma cosa lei può fare contro di me. Se davvero Gina era Wither in un nuovo corpo, Wendy era certa che Kayla fosse stata testimone di una piccola dimostrazione dei poteri della nuova Wither: entrare nel negozio senza far suonare il campanello, creare l'immagine nella sfera di cristallo e causarne la distruzione pochi minuti più tardi. Kayla aveva menzionato perfino la stretta gelida delle sue dita e il fatto di essersi sentita come ipnotizzata da quella ragazza; e qualche minuto dopo Wendy aveva visto Gina scomparire nel bel mezzo di Theurgy Avenue. E se quella ragazza ospitava un'antica entità malvagia nella propria mente e nel proprio corpo...
Un lieve tocco sul braccio la indusse ad abbassare lo sguardo, scoprendo che Abby la stava fissando con quei suoi grandi occhi azzurri. «Ehi, Abby, hai bisogno di qualcosa?». Abby lanciò una rapida occhiata in direzione di Kayla prima di riportare lo sguardo su Wendy. «Potresti mostrarmi la tua stanza?», chiese. «La mia stanza», ripeté Wendy, intercettando lo sguardo di Kayla e inarcando un sopracciglio nell'equivalente di una scrollata di spalle. «Certamente, Abby». Da quel bravo soldato che era, Alex aveva rinunciato a reclamare una delle poche sedie pieghevoli disponibili e si era seduto per terra con il bastone bilanciato sulle ginocchia, avviando con due dei suoi compagni di corso un'animata discussione riguardo alle prestazioni dei Red Sox; quando Wendy gli passò accanto, le strizzò l'occhio e sillabò in silenzio le parole buon compleanno per quella che era forse la centesima volta. Grazie, rispose Wendy nello stesso modo prima di guidare la bionda Abby lungo il corridoio e fino alla sua camera da letto. Abby aveva deciso di non poter aspettare oltre che le si offrisse l'occasione di trovare Wendy da sola. Dopotutto quella era la sua festa, quindi era improbabile che se ne andasse per conto suo... a meno che non fosse lei a chiederglielo, cosa che aveva fatto. «Tipica camera da letto da ragazza», stava dicendo Wendy. «Ecco, tranne per l'incenso, il pentacolo e il calendario delle streghe, immagino». Conoscendola, Abby sapeva che Wendy avrebbe capito che quello che voleva non era quella breve descrizione. «Abby, cosa volevi chiedermi?», domandò infatti. «Niente», mormorò Abby in tono distratto mentre girava per la stanza. «Allora volevi dirmi qualcosa?», insistette Wendy. Lo sguardo di Abby stava passando velocemente da un oggetto all'altro... Il candelabro di vetro smerigliato sul comodino, la radiosveglia Sony nera, la lucida cassapanca di cedro ai piedi del letto... Ma lei stava assimilando quella camera da letto ispirata all'ambiente boschivo a un livello diverso da quello visivo. Poiché sapeva che sarebbe stato importante, stava creando un ricordo preciso di quell'ambiente. Infine tornò vicino a Wendy con la sensazione che un assortimento di farfalle si fosse messo a danzarle freneticamente nello stomaco. Quello che stava per fare poteva essere pericoloso, sempre che fosse riuscita nel suo
intento. Vedendola sollevarsi in punta di piedi, Wendy si chinò premurosamente per portarsi al suo stesso livello e, quando lei le cinse il collo con le braccia, fraintese il suo gesto, come aveva previsto che avrebbe fatto, e la abbracciò a sua volta, stringendola a sé. Abby ne approfittò per affondare il volto nei suoi capelli ramati, strofinandosi contro il suo collo... E cominciò a trasformarsi. Non si sentiva del tutto pronta a rivelare a Wendy cosa era diventata o a operare la trasformazione davanti a lei, soprattutto non mentre in fondo al corridoio era in corso una festa, ma quella poteva essere la sua unica occasione, quindi doveva correre il rischio di operare una metamorfosi parziale, in modo che il suo altro io potesse memorizzare l'odore di Wendy. Nei frammenti che ricordava del suo sogno, Wendy era fuori di notte, in grave pericolo, e soltanto lei nella sua forma di lupo poteva salvarla ma, per raggiungere Wendy in tempo, il lupo doveva poterla rintracciare tramite il suo odore. Se il lupo non avesse avuto quella guida, Wendy sarebbe morta. Abby lasciò affiorare appena il suo altro io, e subito sentì la pelle e le ossa della faccia che si allungavano a formare un muso coperto di pelliccia. Sapeva di avere a disposizione solo pochi istanti prima che Wendy si accorgesse che c'era qualcosa che non andava, quindi ispirò profondamente, riempiendosi i polmoni del suo odore: sotto il bouquet fiorito dello shampoo, del gel doccia e del deodorante, c'era il suo odore primitivo, quel sentore umano che la distingueva da tutti gli altri e la rendeva unica. Nel suo stato leggermente alterato, servendosi del muso da lupo, Abby memorizzò quell'odore in una frazione di secondo, molto prima di sentire le braccia di Wendy che s'irrigidivano e lei che l'allontanava da sé con fare allarmato. Invece di respingere il lupo, Abby rifluì nella propria forma umana, sentendo la pelle che si ritraeva sulle ossa che si accorciavano; quando infine Wendy si ritrasse abbastanza da poterla guardare negli occhi, aveva di nuovo un aspetto del tutto umano. «Cosa è successo?», chiese Wendy, sgranando gli occhi. Abby si limitò a guardarla, perché ancora non si fidava di parlare. «Te ne sei accorta? È appena successo qualcosa. Mi è parso...». Wendy scosse il capo, perplessa. «L'aria sembrava carica di elettricità... o di magia». «Io non ho notato niente», si affrettò a replicare Abby. Wendy continuò a scrutarla in viso, fissandola con uno sguardo pene-
trante che la mise a disagio, però Abby sapeva che ogni traccia del lupo era svanita, era certa di avere di nuovo un aspetto del tutto umano. «Ti guardo e penso agli alberi, alla foresta», mormorò Wendy. «È perché sono sempre in giro per i boschi», suggerì Abby, costringendosi a sfoggiare un accenno di sorriso. «Abby, sai cosa ti sta succedendo?», chiese Wendy. «C'è qualcosa che non mi stai dicendo?». Abby deglutì a fatica, agitandosi sotto il peso delle mani di Wendy sulle sue spalle. Sapeva di doverle dire qualcosa. «Mi sento... diversa da tutti gli altri», ammise. No, era troppo vicino alla verità! «A volte dimentico com'era sentirsi normale». «Anch'io, Abby», replicò Wendy con un sospiro rassegnato. «Mi dispiace», disse Abby, e fra sé aggiunse: Mi dispiace averti spaventata, ma è il solo modo, almeno per ora. «Non è colpa tua», replicò Wendy, guardandosi intorno come se si aspettasse di trovare un intruso nascosto nella stanza. «Aspetta un momento. Tu mi volevi dire qualcosa. Di che si tratta?». «Devi avere fiducia in te stessa», affermò Abby tormentandosi con i denti il labbro inferiore. «Che vuoi dire?». Come faccio a spiegarti qualcosa che non capisco neppure io? È una cosa che sa il lupo. «Solo di essere prudente, Wendy. Ok?». «Io sono sempre prudente, Abby», replicò Wendy, tornando a fissarla negli occhi. «Allora sii ancora più prudente», insistette Abby. «Sta arrivando qualcosa di cattivo». «Lo senti anche tu, eh?», domandò Wendy accigliandosi. «È come un prurito sotto la pelle», annuì Abby. Forse mi arriva fino alle ossa, pensò. Alle mie ossa che si trasformano. «Siamo proprio una bella coppia, vero?», commentò Wendy. «Un paio di gatti con la coda lunga in una stanza piena di sedie a dondolo». Abby annuì ancora, perché quell'immagine descriveva con esattezza il suo senso di disagio. «Possiamo salvarci a vicenda», dichiarò. «Come?». «Non lo so con certezza...», rispose la bambina, scrollando le spalle. «So solo che se non ci salviamo a vicenda, moriremo».
«Hai accennato a qualcosa del genere quando eri all'ospedale. Te ne ricordi?», osservò Wendy, e quando Abby assentì, insistette: «Non c'è qualche altra cosa che mi puoi dire? Per aiutarmi? Per aiutare tutte e due?». Non ancora, pensò Abby. È troppo presto. Questo è tutto ciò che so. «Mi dispiace», disse soltanto. «Ma c'è un pericolo? Che ci sta arrivando addosso?». «Arriverà presto», ribadì Abby. Val Misero sedeva solo sul logoro divano lacerato dai gatti, nell'oscurità della cantinetta arredata dei suoi genitori. Un vecchio apparecchio televisivo trasmetteva un ennesimo party sulla spiaggia organizzato da MTV e proiettava luci spettrali sul suo volto, sulla pelle nuda del petto e delle braccia; fra il divano e le scale si allargava la polla d'ombra oblunga del tavolo da biliardo, il cui feltro aveva visto giorni migliori, mentre lungo la parete di fondo erano allineati un vecchio flipper, un tavolo da hockey con una gamba danneggiata e una macchina da karaoke rotta, tutta ferraglia che avrebbe dovuto essere buttata da tempo, scarti che non erano ancora stati eliminati. Non avendo a disposizione una mazza, Val represse l'impulso di ridurre tutti quei rottami in piccoli pezzi di plastica e di metallo, e invece fece scattare di nuovo la rotellina di accensione dell'accendino che teneva in mano, per quella che era forse la ventesima volta, tanto che il cappuccio di metallo e l'involucro di plastica gli si erano scaldati in mano mentre cercava di farsi coraggio. La fiamma che tremolava sotto il lieve assalto del suo respiro costante era una lunga lingua arancione che pareva assaporare l'aria, piena di aspettativa... Sollevato l'avambraccio sinistro, lo posizionò sopra la fiamma, a qualche centimetro di distanza, e annuì quando il calore gli si diffuse sulla carne. Un calore che presto divenne disagio. Non basta, gli sussurrò nella mente una voce di donna. In risposta, lui abbassò maggiormente il braccio verso la fiamma, avvicinandolo quanto bastava perché gli sfiorasse la pelle, arrossandola in un momento. Serrando i denti, contrasse il pugno fino a farsi sbiancare le nocche e a generare con le unghie una serie di mezzelune sanguinanti lungo il palmo, però non si ritrasse. Non basta. Adesso il braccio era nella fiamma, e la pelle cominciò a sfrigolare e a scurirsi.
Ansimando Val represse l'impulso di ritrarsi e quello sempre più impellente di mettersi a vomitare. La puzza della carne bruciata gli pervase le narici, filamenti di fumo nero si levarono intorno al suo braccio tremante mentre l'agonia gli divampava nel cranio, un'incandescente nova di dolore che infranse ogni pensiero coerente. Non basta. La pelle carbonizzata si spaccò, il grasso sfrigolò e gocce di sangue caldo cominciarono a chiazzargli i pantaloni. Il sudore gli colò lungo il volto, grondandogli sul petto, poi le ginocchia presero a sobbalzare su e giù in una piccola giga quando il suo corpo fu assalito da una convulsione. Gli occhi gli si rovesciarono all'indietro nelle orbite mostrando soltanto il bianco ma, anche se stava scivolando verso uno stato di shock e la perdita di conoscenza, lui ancora rifiutò di ritrarsi. Basta così... Val lasciò cadere l'accendino sul pavimento, e la sua famelica fiamma arancione si spense prima di colpire il tappeto. Con il respiro affannoso sondò la pelle carbonizzata con il pollice e l'indice della mano destra, insinuandoli entrambi nelle crepe annerite che gli si erano aperte nella carne, toccando il muscolo rovinato e arrivando più in profondità, fino a incontrare con le unghie l'osso ancora caldo. Sussultò... Poi un lento sorriso gli si allargò sul volto. Non importa, pensò. Il dolore, il danno, nulla di tutto questo ha importanza. Sono temprato nel fuoco, baby, ho dimostrato cosa valgo. Fottuta miseria, l'ho dimostrato e adesso sono pronto. Oh, sì, sono pronto. Per festeggiare il primo raccolto, Lughnasadh, che coincideva con il suo compleanno, Wendy aveva sistemato al centro del tavolinetto una ciotola in cui aveva disposto alcune spighe di grano, una pagnotta fatta in casa e una quantità di mele e arance. Adesso, mentre lei sedeva di fronte a Jensen Hoyt, le mele erano finite e così pure le arance, tranne una; a giudicare dal buco che un pollice aveva lasciato su un lato della pagnotta, qualcuno aveva dubitato della sua autenticità ma, anche se il volto pallido di Jen incorniciato dai dritti capelli neri appariva particolarmente triste mentre lei fissava la fetta di torta che Carol Ward le aveva messo davanti, Wendy dubitò che fosse lei la colpevole. Deve essere stato uno degli amici di Alex, decise infine, o forse Alex
stesso. Wendy era peraltro più preoccupata per il nervosismo di Jen, testimoniato dall'irrequietezza delle sue mani. Un momento teneva i palmi premuti contro il bordo del tavolo e quello successivo prendeva a tamburellare con le dita sulla superficie imbottita, cosa che continuava a fare per un po' prima di accorgersi di quello sfogo di energia nervosa; a quel punto intrecciava di scatto le dita e passavano un paio di minuti prima che l'intero ciclo ricominciasse daccapo, il tutto senza neanche assaggiare la torta. Forse sto esagerando, pensò Wendy. Può darsi che sia semplicemente combattuta fra la dieta e la tentazione, in una specie di tiro alla fune. «Sai, la torta è stata fatta in base alle mie richieste», disse. «Cosa?». «Glassa di cioccolato su una torta alla vaniglia», spiegò Wendy. «L'opposto di quello che si fa di solito». «Ah». Wendy non si sentiva propriamente obbligata ad accertarsi che tutti si stessero divertendo alla sua festa di compleanno con inaugurazione della casa ma, dopo la sua conversazione con Abby, aveva bisogno di qualcosa di... di normale che le distogliesse la mente dalla strana sensazione che Abby fosse in qualche modo cambiata, dall'impressione che la bambina stesse emettendo un sordo ringhio e anche dalla fugace eco visiva di un bagliore giallo che aveva scorto nei suoi occhi. Si fidava di Abby, ma sapeva anche che nella sua stanza era successo qualcosa d'inspiegabile, e non sapeva esattamente come interpretare la cosa. Al confronto, socializzare con i suoi ospiti le appariva una cosa facile. «Sai qual è il problema?», chiese a Jen. «No», rispose lei spingendosi i capelli dietro l'orecchio destro, un altro gesto nervoso che dava alla sua mano irrequieta qualcosa da fare, anche se solo per un momento. «Questa festa manca di... di massa critica». «Massa critica?». «Già. C'è bisogno di un certo numero di persone perché una riunione diventi una vera festa, e a noi ne manca almeno una mezza dozzina». Jen abbozzò un accenno di sorriso. Se non altro era un miglioramento. «Lo credi davvero?», replicò. «Oh, assolutamente», dichiarò Wendy. «Più persone corrispondono a più conversazioni, ogni conversazione sale di tono perché chi parla possa sentire la propria voce sopra le altre, e questo a sua volta costringe ad alza-
re la musica...». «Il che costringe tutti a parlare ancora più forte», annuì Jen. «Esatto, un ciclo di rumorosità», annuì Wendy. «Noi non riusciamo ad andare al di là di questo stadio di conversazione tranquilla». «Non potremmo alzare la musica? Costringerebbe la gente a parlare a voce più alta». «No», rispose Wendy scuotendo il capo. «Devono essere le persone a cominciare ad alzare i decibel, altrimenti la cosa sembra forzata». «Forse hai ragione». «La sola alternativa», affermò Wendy con una scrollata di spalle, «è aggiungere alcol al punch. Credi che Danfield sia pronto ad avviare un corso di Teoria del Party?». «Forse non per questo semestre autunnale», rise Jen. Mentre lei tornava a intrecciare le dita, Wendy si allungò al di là del suo cesto di Lughnasadh e posò una mano sulle sue, rimanendo sorpresa quando Jen si ritrasse con un sussulto. «Jen? Stai bene?», le chiese. Contemporaneamente si grattò il palmo al riparo del tavolo, resistendo all'impulso di balzare in piedi e andare a lavarsi con sapone e acqua bollente. La mano di Jen era risultata fredda e umida al tocco, ma niente di più, quindi suppose che ciò che provava continuasse a essere una reazione alle strane emanazioni che aveva avvertito quando era sola con Abby. «Sto b... bene», sospirò Jen distogliendo lo sguardo. «Perché me lo chiedi?». «È solo che dopo i fatti dello scorso anno...», cominciò Wendy. «L'assassinio di Jack, nessuno che credeva alla tua storia...». Scosse il capo, poi continuò: «È stupefacente che qualcuno sia riuscito a superare una cosa del genere». «Senti, Wendy, io voglio soltanto provare a sopravvivere, sai?», replicò Jen, abbandonando le mani in grembo. «Certo», annuì Wendy. «Certo, posso capirlo. Solo... se mai sentissi la voglia di parlarne con qualcuno che è disposto ad ascoltarti, che ti capisce...». «Andrò a parlare con il mio terapista», ribatté Jen con un sorriso asciutto. «Giusto, con il terapista», convenne Wendy, e intanto pensò: Mi sta bene, per essermi comportata come una laureata in psichiatria. «È a questo che servono».
Jen si premette le dita contro le tempie con una lieve smorfia. «Wendy, ti ringrazio per avermi invitata alla tua festa, apprezzo molto il tuo gesto, ma è solo che... ecco, è tutto il giorno che ho questa spaventosa emicrania e, se davvero vuoi aiutarmi, trovami un passaggio per tornare al dormitorio». «Non è un problema», assentì Wendy. «Un'altra delle mie teorie relative alle feste asserisce che si vanno esaurendo dopo il taglio della torta, e dopo l'apertura delle offerte cerimoniali, naturalmente». Aveva ricevuto un paio di orecchini d'argento da cui pendeva il simbolo della dea, la luna nelle sue tre fasi, crescente-piena-calante, da parte di Tristan e Kayla, un maglione nero da parte dei Nottingham, un buono regalo per acquisti al negozio di mobili di seconda mano da sua madre e suo padre, e un pendente d'oro a forma di cuore da Alex. Il boccale da birra in peltro con lo stemma ufficiale del Danfield College era stato un dono collettivo dei compagni di classe di Alex e aveva prodotto un paio di occhiate di disapprovazione da parte dei suoi genitori. Quanto a Jen, il suo era stato un regalo davvero strano: un orologio a parete con i numeri neri completamente mescolati. Nel complesso, quanto a regali, Wendy se l'era cavata meglio della sua nuova abitazione. In quel momento Alex passò accanto al tavolino, l'andatura zoppicante che quasi non si notava mentre lui teneva in equilibrio tre lattine di soda, un cestino di patatine e il bastone che gli pendeva dalla piega del gomito. Allungando una mano Wendy lo bloccò agganciando con l'indice uno dei passanti della cintura. «Cosa c'è, ragazza che compie gli anni?», chiese lui. «Scusami, volevo dire signora che compie gli anni». «Eccellente salvataggio in corner», commentò Wendy. «Potresti farmi un favore?». «Dimmi di cosa si tratta e sarà fatto, milady». «Jen deve tornare a casa. Ti va di prendere a prestito la mia macchina e di accompagnarla fino al suo dormitorio?». «Vuoi dirmi cosa hai desiderato mentre spegnevi le candele?». «Il mio desiderio segreto? Mai!». «Ci stavo solo provando», si schermì Alex, poi guardò verso Jen e aggiunse: «Dammi un secondo per liberarmi le mani e possiamo andare». «Grazie», disse Wendy mandandogli un bacio. Nel tempo che Alex impiegò per percorrere con la Civic di Wendy metà
della distanza che lo separava dalla Bosch Hall, la persistente pioggerella si trasformò in un acquazzone, con un susseguirsi di fulmini lontani che retroilluminavano le masse di nuvole in movimento, e Alex modificò la regolazione dei tergicristalli da intermittente a costante. Il precedente concerto a base di thrump... stridio, thrump... stridio venne sostituito da un ritmo più costante, una sorta di thrump-wush, thrump-wush. Fino a quel momento né lui né Jen avevano detto una sola parola e il rumore della gomma che strisciava contro il parabrezza era il solo suono all'interno della monovolume. Resistendo all'impulso di accendere la radio, Alex infine si schiarì la gola. «I metereologi della televisione hanno sbagliato di nuovo», commentò. «Immagini satellitari, barometri, palloni segnatempo, radar doppler...». Scosse il capo e continuò: «Sarebbe ora che ammettessero di non avere idea di cosa succederà». Jen gli lanciò un'occhiata distratta dal sedile del passeggero della Civic di Wendy. «Potrei prendere a prestito i tuoi appunti delle lezioni di Cermignano?», chiese. Ok, non è interessata all'umorismo sul clima, pensò Alex. «Ti riferisci a ieri, vero?», replicò. «Mi era parso che non ci fossi». «Ho avuto problemi di stomaco», annuì Jen. «Senti, non te lo chiederei, ma era la preparazione all'esame...». «No, non ci sono problemi». «Domattina li copierò immediatamente e te li riporterò subito». «Mi fido di te», disse Alex. «Tra l'altro il mio dormitorio non è lontano dalla Bosch. Non ci sono problemi». «Grazie». Jen rimase in silenzio per il resto del tragitto, ma quando Alex parcheggiò la macchina e allungò un braccio dietro il sedile del guidatore per prendere l'ombrello di Wendy, bianco con sagome nere di gatti, domandò: «Posso venire su per andare in bagno?». «Penso di sì», rispose Alex, «se non ti secca bagnarti un poco». «Ho sopportato di peggio». Insieme, attraversarono di corsa il parcheggio quasi vuoto mantenendo l'andatura di Alex a causa della sua rigidità di gambe, con Jen raggomitolata su se stessa per sfruttare il più possibile la protezione dell'ombrello, la pochette stretta lungo il fianco. Quando infine riuscirono a entrare e im-
boccarono le scale, stavano ridendo tutti e due per quanto erano fradici. «La parte peggiore di tutto questo è che io prendo appunti in maniera orribile», ammise Alex. Jen gli scoccò un'occhiataccia bonaria e gli pungolò le costole. Aperta la porta della sua stanza, Alex le indicò il bagno e, dopo che Jen si fu chiusa la porta alle spalle, prelevò il raccoglitore a tre anelli dallo scaffale sopra la piccola scrivania, aprendolo alla targhetta che indicava gli appunti di marketing. Sfogliandoli fino ad arrivare alle pagine più recenti, aprì gli anelli e prelevò sette pagine di appunti che aveva preso il giorno precedente. La porta del bagno si aprì e Jen venne fuori con i capelli diritti ancora bagnati ma abbastanza pettinati, la mano serrata intorno alla pochette che le pendeva dalla spalla. «Hai trovato gli appunti?», chiese. «Eccoli qui», rispose Alex porgendole i fogli sciolti. «Spero che tu riesca a leggere le mie zampe di gallina». «Me la caverò». «Li infilerò in una cartella, sperando che rimangano asciutti». «Metti dentro anche me e sarà tutto sistemato». «Queste sono le occasioni che ti fanno desiderare di aver acquistato il poncho da pioggia tascabile del Danfield», sorrise Alex. Wither siede al tavolo con le gambe a cancello, nel tinello illuminato da tre candele nere che formano le punte di un triangolo sul tavolo stesso; nel suo centro è posata una sfera per le divinazioni sul suo piedistallo di cristallo, e Wither è intenta a fissare le sue opache profondità. Con indosso solo la sottoveste, Rebecca Cole intreccia una danza vivace intorno al tavolo, i capelli scoperti e sciolti. Rebecca appare raggiante alla luce delle candele... ed è avviata da tempo verso la pazzia. Le sue braccia si sollevano e si abbassano con mosse aggraziate, come se stesse lanciando in aria delle colombe dalla punta delle dita; tuttavia è stata proprio quella vena di follia che ha aperto la sua mente a Wither, che l'ha fatta diventare una delle tre. «Cosa vedi, cara Elizabeth?». «Problemi». «Perché temi questi problemi?», chiede Rebecca con una sicurezza che Wither non condivide. «Grazie a Sarah, adesso abbiamo la forza della congrega. Non lo hai detto proprio tu?».
«È ancora troppo presto perché noi si sia protette dalla stoltezza altrui», replica Wither, poi assesta la sfera per le divinazioni, e le sue profondità si riempiono di ombre veloci, di correnti e mulinelli che per lei sono una seconda lingua e che le fanno intravedere delle possibilità. La sfera offre soltanto verità parziali o mezze verità, senza mai rivelare proprio tutto, in quanto nulla può essere conosciuto in maniera assoluta e totale prima che giunga il suo momento. Guardare il futuro significa modificarlo per sua stessa natura, perché la consapevolezza è una cosa vivente. Tuttavia lei deve attingere dalla sfera ciò che viene rivelato, o pagare forse un prezzo terribile. Adesso che non c'era Alex a rallentarla, Jen scese d'un balzo dalla Civic, riparandosi la testa con la cartella, e spiccò la corsa con la grazia di una gazzella attraversando il prato diretta alla Bosch Hall; Alex attese che oltrepassasse la porta prima di allontanarsi. A volte vedeva Jen come una costosa bambola di porcellana rovinata da sottili crepe, distante e solitaria come lo era stata alla festa di Wendy, mentre in altri momenti sembrava quasi essersi lasciata alle spalle la tragedia dell'assassinio di Jack Carter. Del resto, era possibile che a volte un processo di guarigione funzionasse in quel modo, senza rimedi immediati o comunque rapidi, semplicemente affrontando un giorno per volta. Jen armeggiò per trovare la chiave della sua camera ma, quando la infilò nella toppa, il battente si aprì verso l'interno con un frusciare di cardini. Con un sussulto sorpreso Jen si bloccò sulla soglia, fra la luce del corridoio e l'assoluta oscurità che avviluppava la piccola stanza del dormitorio. La luce di fuori non sembra penetrare per niente nella stanza, pensò. Chiudersi a chiave la porta alle spalle era diventato per lei un problema di ossessione compulsiva tanto che, pur avendo la certezza di averlo fatto, era capace di tornare indietro a controllare tre o quattro volte per esserne assolutamente sicura, finendo poi per arrivare tardi a lezione. Inoltre, a causa del terrore che le incuteva tornare a casa e trovarla buia, aveva preso l'abitudine di lasciare una luce accesa, anche se sapeva che sarebbe rientrata prima di notte. Allora perché la porta è aperta e la stanza completamente buia? si chiese. Dall'interno giunse un sussurro canzonatorio. «Ti sei divertita alla festa?».
«Sei... sei tu?», chiese Jen, con voce timida. «Certo che sono io», sussurrò la voce. «Entra, chiudi la porta e dimmi che cosa hai fatto». Jen si fece avanti e, appena chiuse la porta, quell'oscurità assoluta parve attenuarsi. Prima di avanzare maggiormente nella camera, cercò a tentoni l'interruttore e accese la luce: per un momento questa l'abbagliò, quasi accecandola, ma non al punto da impedirle di vedere la donna dai capelli biondo rossicci seduta sul letto, con un sorriso da gatto che aveva appena mangiato il canarino. Sparse sul copriletto c'erano almeno due dozzine dei disegni che Jen aveva fatto mesi prima, quando ancora non si era sottoposta a interminabili ore di terapia, immagini che ritraevano tutte un singolo volto sogghignante e degno di un gargoyle. Due dozzine di disegni identici, fra le centinaia che lei aveva abbozzato. Jen aveva detto al suo terapista di averli buttati tutti, ma naturalmente era stata una bugia, perché a quel punto sapeva ormai quali bugie il terapista voleva sentire da lei. Dopo quella rivelazione la sua terapia era proceduta molto più rapidamente. Gina era seduta con la schiena appoggiata alla semplice testata del letto, i gomiti puntellati dietro di sé, le gambe stese e incrociate alle caviglie; scelti parecchi fogli, li allargò a ventaglio come se fossero state carte da gioco di grandezza abnorme. «Questa fottuta bestiaccia ha un aspetto orribile», ridacchiò, lanciando i disegni verso il cestino delle cartacce. «Apparivo davvero così... repellente?». Jen annuì con aria sottomessa. «Al confronto le macchie epatiche e le vene varicose sembrano fossette e voglie. Del resto... suppongo che quando si hanno trecento anni e si è alti tre metri, non si dia molta importanza a qualche area di pelle ruvida». Jen si spostò di lato e sedette su una sedia pieghevole. A volte Gina cominciava a parlare con aria gioviale prima di scatenare un'ira spaventosa, e quella serata non era andata precisamente secondo i loro piani. Wendy l'aveva turbata. «Non fare l'estranea», disse Gina, battendo un colpetto sul letto, accanto a sé. «Mettiti vicino a me». Con un lieve cenno di assenso Jen si accostò al letto e sedette al suo fianco; immediatamente Gina le passò un braccio intorno alle spalle. «Amica, sei tutta bagnata», osservò. Jen guardò verso l'alta finestra e il tratto di vetro striato di pioggia la-
sciato esposto dalle tende beige. «Sta piovendo», rispose. «Ma no!», commentò Gina. «Devo ammettere che in questo campo sto migliorando di giorno in giorno». «Tu?». «Perché no? Mi stavo annoiando. Eri tu quella che si stava divertendo alla serata organizzata dalla signorina Ward», ribatté Gina, poi batté un colpetto sul ginocchio di Jen e chiese. «Allora, com'è andata?». «Io ero... Non ho potuto... Voglio dire, ho cominciato a sentirmi male fisicamente», balbettò Jen. «Come una sorta di reazione allergica». «Wendy e io abbiamo quell'effetto l'una sull'altra», affermò Gina. «Spero che la cosa non sia stata tanto evidente da far sì che lei la notasse». «Allora è stato per questo che non...». «Stai cercando di dirmi che non hai nessun ricordino di Wendy per me?». «Il suo no», ammise Jen. «Però ho quello di lui». «Lui? Vuoi dire il suo giocattolo? Si chiama Alex, vero?». Jen annuì e aprì la pochette. «Mi ha riportata a casa dalla festa, e gli ho chiesto di usare il suo bagno», spiegò. «Ooh, brava. La cosa mi piace sempre di più. Che cosa hai preso?». «Nulla di cui possa scoprire la mancanza», rispose Jen. «Questi dal bidone dei panni sporchi», continuò, mostrando un paio di calzini bianchi macchiati di grasso, «e questi dalla sua spazzola», concluse, esibendo una bustina piena di capelli castani. «Perfetto. Con questa roba posso lavorarmelo», approvò Gina, poi le diede un'occhiata preoccupata e domandò: «Sei certa che non sospetti nulla?». Jen si forzò a esibire un sorriso pieno di sicurezza, ma le parve che quell'espressione le calzasse male sul volto, come una carta da parati non incollata nel modo giusto. «Ne sono certa», dichiarò. «Eccellente». «Allora... non sei infuriata con me?». «No, no Jen, non sono affatto arrabbiata», garantì Gina. «A dire il vero, mi aspettavo qualcosa di Wendy, ma non sono certa che quel trucchetto funzionerebbe, su di lei. Inoltre, a questo punto, tentare e fallire avrebbe potuto essere pericoloso. Non l'ho ancora messa veramente alla prova, an-
che se ho un'idea al riguardo», continuò, contraendo le labbra in un'espressione pensosa. «No, per adesso probabilmente è meglio così. Quando verrà il momento, voglio che sia completamente accerchiata e vulnerabile...». «Quale momento?». «Quello di ucciderla, naturalmente», spiegò Gina, sfoggiando un sorriso ampio e disinvolto sulla bocca generosa. «E... adesso che facciamo?». «Mi sento in vena di festeggiare», disse Gina. «Contino a fare certi sogni strani...». Nel parlare sollevò un braccio, e Jen vide che le sue vene, che sarebbero dovute apparire azzurre sulla pelle chiara, risultavano invece molto più scure; Gina intanto si esaminò la lunga unghia dell'indice come se fosse stata uno strumento chirurgico, poi scoccò a Jen un sorriso malizioso. «Hai voglia di fare un esperimento?», chiese. «Mmh... Cos'hai in mente?». «Oh, solo un piccolo legame di sangue», rispose Gina, e si aprì una vena. Capitolo 9 Windale, Massachusetts 3 agosto 2000 Seduta nella posizione del loto, con un cristallo di quarzo che le penetrava nel palmo ormai sudato, Wendy aprì gli occhi e guardò l'immagine opaca della Vecchia, in piedi davanti a lei. «Fatto!», annunciò. «Va meglio», commentò la Vecchia con un tono che in realtà significava non va ancora abbastanza bene. «Quanto ci ho messo?», sospirò Wendy. «Un minuto e quindici secondi». «Nuovo record personale», sottolineò Wendy. «Sì». «Di almeno trenta secondi». «Trentadue». «Dimensioni?». Anche se era invisibile, Wendy poteva avvertire la sfera che la circondava quasi fosse luminescente, ma appena al di fuori dello spettro visibile;
dal modo in cui la Vecchia girò lo sguardo da sinistra a destra e poi dall'alto al basso, suppose che sul piano astrale da cui lei veniva, quale che fosse, le sfere magiche erano visibili. «Il diametro è di due metri e ventotto centimetri». «È un miglioramento di dieci centimetri! Devi ammettere che il mio tempo di evocazione del cerchio... Pardon, della sfera, e le sue dimensioni sono notevolmente migliorati da quando ho cominciato a usare il quarzo». «Il cristallo di quarzo ti aiuta a focalizzarti sul tuo compito», affermò la Vecchia. «È stato questo a darti l'idea del braccialetto di perle». «Braccialetto? Perle magiche?». «Hai portato un'innovazione al modo di utilizzo delle pietre magiche, mescolandone più di una dozzina su un unico bracciale. Molti punti di focalizzazione per svariati incantesimi su un singolo gioiello». «È stata una buona idea», approvò Wendy. «Ecco, voglio dire che sarà una buona idea». «Questo è niente se confrontato ad alcune innovazioni apportate alla sfera protettiva». «Sai», commentò Wendy, «è davvero strano quando parli del futuro come di qualcosa che è già successo». «Per me è già successo», dichiarò la Vecchia, «ma non c'è nessuna garanzia che lo stesso futuro si verifichi anche per te». «E tutta questa logica temporale è ancora più strana», continuò Wendy, «facciamo una pausa con le sfere e proviamo qualche altra cosa», suggerì poi, promettendo a se stessa che l'indomani stesso avrebbe cominciato a consacrare le pietre per quel bracciale multiuso. «Dissolvi la sfera, prendi un'agata geode e seguimi nella tua stanza». «Cos'ha di così dannatamente affascinante la mia stanza negli ultimi tempi?», borbottò Wendy. Esalando un brusco respiro, procedette quindi a dissolvere la sfera, assorbendone le energie nel proprio corpo tramite l'athame dall'impugnatura nera; ultimato quel compito, vagliò le pietre che aveva posato sul piano di cucina e selezionò la grezza agata geode. La vecchia aveva già percorso fluttuando tutto il breve corridoio fino alla sua stanza, e quando si avvicinò alla soglia, Wendy la intravide per un istante prima che il battente le venisse chiuso in faccia con un secco scatto della serratura. «D'accordo, cosa significa questo atteggiamento da poltergeist?», chiese attraverso la porta chiusa, poi abbassò lo sguardo sulla pietra che aveva in mano e si rispose da sola, aggiungendo: «Qualcosa di psichico».
«Qualcosa di semplice», precisò la Vecchia, attraverso il battente. «Apri la porta». «Questa porta non richiede una chiave», obiettò Wendy. «È una di quelle serrature con il pulsante da premere». «Semplice, come ho detto». «Dove sono una clip o una forcina per i capelli, quando ne hai bisogno?», borbottò Wendy. La Vecchia la sentì nonostante il tono basso. «Niente clip. Usa la mente». «La mente? Parli di telecinesi?». «È uno dei modi per definirla». «Questo significa che ho un futuro nel campo dell'effrazione?», sospirò Wendy prima di concentrarsi sul compito che le era stato assegnato. Dopo circa dieci secondi, si rese conto di non sapere da che parte cominciare. «Qualche indicazione?», chiese attraverso la porta, anche se era evidente che la Vecchia le leggeva nella mente. «Questa è soltanto una rozza prova di volontà». «Rozza, eh?». «Ci sono due modi fisici per aprire la serratura», spiegò la Vecchia. «Elencali». «Infilare una clip nel foro fa scattare il meccanismo della serratura, e poi... Ecco, basta girare la maniglia dall'altro lato della porta». «Esatto. Ora devi solo focalizzare la tua volontà su uno di questi due metodi. Usa l'agata geode come mezzo di focalizzazione, se proprio devi. Ricorda, Wendy, puoi farcela, te l'ho visto fare dozzine di volte». «Sì, certo, Ragazza del Futuro», ribatté Wendy. Devo focalizzare la mia volontà, giusto? pensò. Bene, fra i due metodi, quello di girare la maniglia sembrerebbe richiedere più forza - torsione? anche se non sono certa che questo abbia importanza per la mia volontà. E questa, ha forse gli stessi limiti della mia forza fisica? Oppure con la mente sposso spostare più di quanto sia in grado di fare con i muscoli? Suppongo siano domande da rimandare a un altro momento. Ora torniamo al compito che devo svolgere. Il modo più rapido e facile per aprire la porta dovrebbe essere quello di far scattare il suo piccolo meccanismo interno. Stringendo l'agata geode in una mano e il cristallo di quarzo nell'altra, Wendy si accoccolò davanti alla porta chiusa e guardò fisso dentro il foro della serratura. Trascorsero così due minuti, durante i quali il solo risultato
fu che le cosce presero a tremarle, il sudore le velò la fronte e la testa cominciò a dolerle per un'emicrania incipiente. «Visualizza», sussurrò la vecchia nella sua mente. Per mettersi più comoda Wendy s'inginocchiò davanti alla porta, il posteriore appoggiato sui talloni, le mani chiuse adagiate sulle cosce. Inspirando profondamente, cominciò a respirare in modo lento e regolare per allentare la tensione che le si stava formando dietro la fronte. Devo visualizzare, si disse chiudendo gli occhi. Vedere con la mente... Agire con la mente. Attese, immaginando di raccogliere l'energia e di modellarla in una minuscola sfera di volontà - di potere - fino a quando parve pulsarle nel petto. Poi visualizzò l'atto di comprimere quella sfera pulsante, allungandola fino a ottenere una coerente e scintillante scheggia di energia. Esalando bruscamente il fiato, visualizzò infine la scheggia che volava fuori dal suo corpo, un'esplosione di energia dorata diretta con estrema precisione verso il minuscolo punto di oscurità che vedeva con l'occhio della mente. CLICK! Nel suo stato di focalizzazione, quel suono rimbombò come un'esplosione. Spalancando gli occhi di scatto, Wendy si protese verso la maniglia, lasciando al tempo stesso cadere l'agata geode, e con una torsione spalancò il battente. D'altra parte la Vecchia stava sorridendo. Wendy si alzò in piedi, sentendosi profondamente rinvigorita da qualcosa che riteneva avrebbe invece dovuto prosciugare le sue energie fino all'ultima goccia. «È stato incredibile!», mormorò con una nota di meraviglia reverenziale nella voce. «Aspetta di vedere quando scaglierai la tua prima scarica letale». «Scarica letale?». «Formare una chiave mentale è però la vera sfida», spiegò la Vecchia annuendo, «con tutti quei piccoli solchi e quelle sporgenze». «Ti credo sulla parola», dichiarò Wendy lasciandosi cadere sul letto sfatto. «Adesso che si fa?», sospirò poi. «Riproviamo con questo esercizio», disse la Vecchia. «Questa volta, però, cerca di aprire la serratura in meno di dieci minuti». «Ci... ci ho messo dieci minuti?». «Undici minuti e quaranta secondi. Però è un buon inizio!».
A piedi nudi, Gina era in piedi davanti allo specchio del comò, vestita con un abito a sottoveste rosso con le spalline sottili, le dita allargate ai lati della gola nell'atto di spingere indietro i capelli. In realtà non stava più guardando la propria immagine riflessa, ma stava ascoltando il martellare di passi rapidi che risalivano la scala. Quello era il primo giovedì del mese, il che significava che sua madre era alla riunione del consiglio di amministrazione, anche se Caitlin aveva quasi rinunciato ad andarci, anzi ci avrebbe rinunciato se non fosse stato per una lieve spinta mentale da parte di sua figlia. Come se avessi bisogno di vederla girare per casa con aria depressa, aveva pensato Gina, e quella riunione programmata su base regolare aveva fatto germogliare in lei un'idea. Adesso era sola in casa con il suo patrigno, Dom, che attualmente sembrava essere fuori di testa per il dolore. Le cose si potrebbero fare interessanti, si disse. Dalla camera di Todd - meglio: dal tempio in memoria di Todd, congelato nel tempo - sentì giungere uno schianto violento: se avesse dovuto tirare a indovinare, avrebbe detto che quello era il suono del monitor del computer guasto di Todd che aveva imboccato la via più rapida verso il pavimento. Un momento più tardi la porta della sua camera si spalancò con violenza, rivelando un Dominick Gallo dall'aria sconvolta. «Sei tu la responsabile», disse con voce aspra, quasi gracchiante. «Lo hai ucciso tu!». «Ti sei dimenticato di bussare, Dom?». «Non so come... ma tu hai ucciso mio figlio!». «Un grosso camion ha ucciso tuo figlio, Dom», ribatté Gina riportando la propria attenzione sullo specchio. «Un camion, e la sua stessa goffaggine». Dom le fu addosso in un istante, serrando il pugno intorno a una manciata dei suoi capelli e tirandole indietro la testa. Il dolore fu così improvviso e intenso che delle chiazze bianche danzanti si materializzarono lungo la periferia del suo campo visivo mentre lei barcollava all'indietro, una mano contro quella di lui per evitare che le strappasse il cuoio capelluto. L'ira gli vorticava intorno in un'aura di un biancore incandescente. «Lo hai ucciso tu, cagna! Proprio come ci hai ingannati inducendoci a credere che avessi rimpiazzato il suo computer guasto!». «Stai... stai delirando, Dominick!», annaspò Gina. «Hai bevuto!».
Lui le sferrò un manrovescio talmente forte che le ginocchia le si piegarono, poi la spinse lontano da sé, verso il letto, e un attimo dopo abbandonò la presa sui capelli. Sbilanciata, Gina incespicò e cadde all'indietro. Con i pugni serrati lungo i fianchi, Dominick abbassò lo sguardo su di lei, l'ira che gli ribolliva sotto la pelle facendogli vibrare i tendini del collo e contrarre i muscoli della mascella. Percependo quanto fosse passeggero il suo stato d'animo, Gina rimase assolutamente immobile, la schiena contro il lato del letto e le gambe ripiegate davanti a sé, poi diresse lo sguardo verso il cassettone che si trovava alle spalle di Dominick, appuntandolo sul primo cassetto stracolmo, da cui parecchie paia di calze di nylon pendevano come ghirlande. «Dom, non farlo...», sussurrò poi, tornando a fissare il patrigno negli occhi. Lui si guardò alle spalle, vide ciò che lei aveva già visto e l'idea gli affiorò nella mente, proprio come Gina aveva immaginato che sarebbe successo. Liberato con uno strattone il groviglio di calze di nylon, Dominick procedette ad annodarle intorno a un polso l'estremità di una calza. «Fermati!», gridò Gina guardando verso la testata di ottone del letto e anticipando la sua azione successiva. «Non sai quello che stai facendo!». «Oh, sì che lo so», ribatté lui con voce aspra, passando l'altra estremità della calza intorno a una delle barre d'ottone del letto, dal lato dei piedi, e tirando a tal punto da trarle dolorosamente all'indietro il braccio e da sollevarle il posteriore da terra. «Per la prima volta vedo tutto con chiarezza, e so esattamente cosa devo fare...», continuò, afferrandola intorno alla vita e girandola di peso in modo che gli desse le spalle. Una calza nera le avvolse il polso sinistro in un movimento frenetico, e un momento più tardi il braccio venne legato a una sbarra più lontana della testata. Adesso Gina era quasi piegata su se stessa sopra il lato del letto, e cominciava ad avere un'idea precisa di cosa Dom intendesse fare sulla spinta dell'ira. «Dom... fermati! Non farlo», gridò guardando indietro da sopra la spalla. «Non di nuovo... Per favore, non di nuovo!». Dubitò che lui avesse sentito le sue proteste, perché ormai era al di là di ogni capacità di ascoltare, al di là di ogni raziocinio. Fin troppo presto, Gina sentì le sue mani sulle cosce, che le spingevano il vestito sopra i fianchi in modo da permettergli di violentarla da dietro. Sotto il vestito lei indossava un paio di mutandine bianche di cotone e questo più di ogni altra cosa parve indurlo ad arenarsi. Bloccandosi, Dom la fissò come se non riuscisse
a ricordare dove si trovava o cosa stesse facendo. «Dom?». La sola risposta fu un respirare affannoso. «Che stai facendo...?». Lui si stava spingendo lontano da lei, lontano dal letto, e stava indietreggiando attraverso la camera; nel guardarsi indietro da sopra la spalla, Gina notò l'espressione sperduta dei suoi occhi, poi lui scosse il capo e fuggì dalla stanza. «Merda», imprecò Gina, con un profondo sospiro. Dopo un momento guardò verso sinistra, in direzione della fessura di due centimetri fra i battenti del suo armadio e della luce rossa che ammiccava in mezzo a essi, all'altezza degli occhi. «Lo spettacolo è finito, tigre», disse. «Smettila di cazzeggiare in quell'armadio». Le porte a soffietto stridettero lungo il binario di metallo e si aprirono creando una serie di pieghe a fisarmonica, e Brett venne fuori reggendo bilanciata sulla spalla una videocamera il cui occhio rosso aveva smesso di ammiccare. Ruotando i polsi, Gina afferrò con le mani il nylon teso, poi le bastò un semplice pensiero per far divampare l'ira dentro di sé: il nylon bruciò sfrigolando, e si lacerò a metà quando lei assestò uno strattone. «Credi che quello che abbiamo registrato sia abbastanza?», domandò Brett, e nel notare il suo sguardo sconvolto Gina comprese che si augurava che non dovessero ripetere quell'esibizione. «È un buon inizio, non credi?», replicò con un sorriso canzonatorio. Avvicinandosi alla specchiera, spense la singola candela nera accesa sul cassettone e raccolse la bambola di stoffa di Dom, a cui aveva tolto la benda meno di un'ora prima, un tempo sufficiente perché lui si riscuotesse dall'annebbiamento mentale e cominciasse a mettere in discussione le illusioni quotidiane che lei aveva drappeggiato sulla sua vita. «Temo però di aver esagerato con le mutandine bianche di cotone. Ho cercato di recitare la parte dell'innocente per il nostro piccolo film, e invece il risultato è stato che quelle mutande sono state per Dom come una doccia fredda. Di conseguenza, è probabile che non abbiamo abbastanza materiale perché io me lo possa rigirare su un mignolo. Il semplice, vecchio ricatto sarebbe stato molto più perverso e divertente del continuare a giocare con le illusioni, ma...». «Adesso che si fa?». Gina raccolse il pezzetto di nastro nero e tornò ad annodarlo intorno alla
testa della bambola di Dom. «Accantoniamo l'idea di divertirci a spese di Dom. Dal momento che la necessità è la madre dell'inventiva, ritengo sia meglio limitarci a rimuoverlo dall'equazione familiare. È una cosa che richiederà un po' di pulizie domestiche, in senso figurato... e letterale». «Vuoi che gli spinga la testa attraverso un muro di mattoni?», propose Brett, annuendo lentamente come se stesse assaporando quell'immagine mentale. «Oppure... ho un vecchio piede di porco arrugginito... glielo potrei infilare su per il culo». «Questa è la voce della gelosia, Brett», osservò Gina. «Lascia perdere. A parte il fatto che non ho nessun desiderio di ripulire disastri del genere, non mi serviresti a niente se finissi a marcire in prigione!». «Allora cosa facciamo?». «Lasceremo che sia lo stesso Dom a fare il pasticcio», replicò Gina palleggiandosi la bambolina da una mano all'altra mentre il suo sguardo si faceva remoto, focalizzandosi su qualcosa al di fuori della sua camera. «Attualmente è sconvolto, non riesce a credere a quello che ha fatto ed è preoccupato per la reazione di Caitlin. Inoltre ha ancora voglia di farmi molto male, ed è sconvolto per il Rospetto. Oh, sì, attualmente Dom è un grosso groviglio di emozioni contrastanti, anzi direi che è sull'orlo del suicidio», continuò, stringendo fra pollice e indice la testa piatta della bambola. Tutto quello di cui ha bisogno è una piccola spinta. Ooops... gliel'ho appena data». «Dov'è?», chiese Brett, fissandola in volto come se stesse tentando di scorgere quello che lei vedeva. «Nella camera da letto padronale. Cammina avanti e indietro... Adesso sta cercando qualcosa nel comodino, un revolver... Ooh, bravo, Dom! Non m'intendo molto di pistole, ma quella sembra abbastanza grossa da portare a termine il lavoro. Però cerchiamo di non avere troppa fretta. Bravo, così, carta e penna, immortaliamo questo momento per i posteri. Mmh, cosa dobbiamo dire, Dom? Che ne pensi di qualcosa come: "Todd se n'è andato, la vita ha perso significato. Non posso andare avanti, non voglio più vivere". Oh, Dom, so che è un cliché trito e ritrito, ma l'ispirazione è sempre in ribasso, prima che la materia grigia schizzi contro il muro. Ora aggiungiamo qualcosa riguardo alla povera, piccola Gina. "Provo un'insana attrazione per la mia figliastra, temo di poter abusare ancora di lei e mi sento responsabile per i suoi sbalzi d'umore", eccetera, eccetera, blah, blah. "Per favore, perdonami, carissima Caitlin". Adesso basta, Dom, mi stai davvero
facendo venire voglia di vomitare. Riassumi e concludi». «Fantastico, si è messo la canna in bocca! Difficile sbagliare mira, in quel modo. Oh, aspetta... Ha dimenticato di caricare la pistola. Che razza di dilettante!! Ok, ok, le pallottole sono nell'armadio, sul ripiano... In fondo. Trovate! E... le ha rovesciate! È un fottuto imbranato! Ascolta un suggerimento, Dom: te ne serve soltanto una per ridurre la materia grigia in purè. Ottimo, ignorami, carica tutto il dannato tamburo. Adesso è tornato ai piedi del letto e si sta sedendo, si è messo la canna in bocca, premuta contro i denti superiori. Dovremo dire addio a quel copriletto», sospirò Gina. «Avanti, Dom, i ripensamenti sono per i perdenti. È vero, tu sei un perdente, ma questa è la tua occasione di andartene alla grande. Smettila! Smetti di piangere, Dom, non è molto virile, sai?». Un altro sospiro. «Suppongo che tu abbia bisogno di un po' più di aiuto, dopotutto. Non ti preoccupare, farlo è un piacere...». Gina schiacciò la bambola di pezza fra le mani, mentre gli occhi le si rivoltavano all'indietro nelle orbite mostrando il bianco, poi cominciò a tremare e la rete di vene nere prese a pulsarle lungo le braccia, strisciandole su per il collo. «Tutto quello che dobbiamo fare è... preeemeeere...». BOOOM! Anche se avrebbe dovuto aspettarsi lo sparo, Brett sussultò per via dell'improvviso rumore esplosivo; un momento più tardi si sentì un tonfo soffocato. «Lo ha fatto davvero?», sussurrò Brett. «Certo che lo ha fatto», annuì Gina, poi si batté una mano sulla sommità della testa e aggiunse: «Si è aperto un lucernario nel cranio, proprio qui». «Adesso che facciamo?». «Ecco, anche se mi piacerebbe abusare del suo cadavere...», cominciò Gina. «Suppongo si debba chiamare il 911. Hai parcheggiato il furgone a parecchi isolati di distanza, come ti avevo detto di fare, giusto?», chiese quindi, e quando Brett annuì continuò: «Bene. Per ora lascia perdere la registrazione. Esci dal retro e sparisci. Inutile complicare lo scenario per le nostre forze dell'ordine locali». «E se s'insospettissero per il fatto che Dom si è ucciso a distanza così ravvicinata dalla morte di Todd?». Pervasa dal senso di trionfo lasciato dall'insorgere della marea di sangue nero, da un'intossicante sicurezza di sé, Gina fu percorsa da un brivido di piacere.
«A questo punto, quasi non m'importa più...». Jen Hoyt si stava agitando fra le lenzuola fradice di sudore, gli arti che si dibattevano contro la stoffa come se fosse stata un insetto impigliato in una ragnatela. Immersa nel sonno indotto dalla febbre, portò istintivamente la mano sinistra all'avambraccio destro e si grattò la ferita infiammata che andava dal polso al gomito; una stretta crosta nera stava cominciando a formarsi su quell'incisione irregolare. BOOOM! Jen si sedette di scatto sul letto e scagliò di lato le coltri, il corpo nudo coperto da un velo di sudore. Il cuore le martellava nel petto, aveva la bocca arida e sentiva ancora nella mente l'eco di quello sparo, che dubitava essere stato parte dei suoi sogni. Nel corso della ultime due notti, da quando aveva stretto il legame di sangue con Gina Thorne, che a volte parlava di se stessa usando il nome Wither, Jen aveva avuto la febbre, più di 38, aveva avuto costante bisogno di dormire e non aveva sognato altro a parte il rito di sangue. Scesa dal letto, spense la lampada da scrivania da quaranta watt e si diresse a piedi nudi verso la finestra, sbirciando attraverso la fessura fra le tende e aspettandosi quasi di vedere il lampeggiare delle luci rosse, di sentire le sirene della polizia. Presto però cominciò a rendersi conto che lo sparo era giunto fino a lei tramite un senso diverso dall'udito, un dono del suo nuovo sangue, un prodotto del suo legame con Gina. Un telegramma mentale, pensò ridacchiando fra sé nel buio. Una e-mail telepatica... O dovrei definirla una tmail? Il fatto di trovare così divertente l'idea dello sparo e il metodo con cui esso le era stato trasmesso le fece capire che era una cosa positiva, che rientrava nei piani di Gina; poi il suo sguardo si posò sul telefono, e avvertì l'impulso subito stroncato di chiamare Gina, una sorta di vibrazione negativa, quasi un comando sussurrato che le ingiungeva di lasciar perdere, per il momento. Gina stessa l'avrebbe contattata quando le avesse fatto comodo. Senza neppure pensare di poter disobbedire alla sua padrona, Jen tornò a fissare le luci della strada, cercando di ricordare quanto si fosse sentita terrorizzata la prima volta che aveva trovato Gina Thorne ad attenderla nella sua stanza al dormitorio. La vista di una giovane donna attraente in età da college seduta ai piedi del suo letto non avrebbe dovuto essere sufficiente a farle tremare le ginocchia per la paura, ma in qualche modo lei aveva capi-
to già allora... per via di qualcosa in quegli occhi, che la fissavano come se l'avessero già vista in passato. «Non mi sono dimenticata di te, Jensen Hoyt», aveva detto Gina. «Di cosa stai parlando... Chi sei?», aveva balbettato Jen. «Mi pare di ricordare che uscivamo con lo stesso tipo», aveva risposto Gina. «Ecco, a dire il vero, tu ci uscivi. Io l'ho mangiato. A quell'epoca però ero molto più grande», aveva continuato, scrollando le spalle, «con un appetito enorme». Jen aveva fissato con crescente orrore quella donna sorridente. «Mi sorprende che tu non mi abbia riconosciuta, considerati tutti quei ritratti ben poco lusinghieri che hai disegnato. Certo, allora avevo tutta la mia pelle scura e dura come il cuoio, e potevo volare... Un trucchetto che non sono ancora riuscita a eseguire di nuovo, ma dammi tempo e vedrai». Una spaventosa certezza aveva cominciato a impossessarsi di Jen, prosciugando ogni atomo di forza dai suoi muscoli, e nella mente le era affiorata un'immagine del mostro che lei aveva avuto difficoltà a riconciliare con quella della donna che aveva davanti. L'anno precedente si era trovata là, impotente e terrorizzata, quando il mostro aveva prelevato Jack Carter da sopra il ponte coperto vicino alla fabbrica tessile abbandonata. Mesi di terapia erano evaporati, lasciando campo libero al senso di sventura incombente che aveva pervaso da allora ogni suo momento di veglia e di sonno. Il mostro non si era dimenticato di lei, e adesso era tornato... in una forma attraente e seducente, ma non per questo meno malvagio di quanto fosse stato prima. Questa volta, però, il mostro aveva nutrito la sua vittima... In piedi, nuda vicino alla finestra, Jen rabbrividì al ricordo del loro primo incontro, del sangue di Gina nella sua bocca che le scorreva lungo la gola scatenandole nel corpo tremiti sensuali. Quella prima volta, Gina si era tagliata il dito indice dalla punta al palmo e aveva detto - ordinato - a Jen di succhiare il sangue nero che scorreva abbondante e le vorticava intorno all'unghia come animato di vita propria. Diciannovenne, Jen aveva avuto modo di fare qualche piccolo esperimento con sostanze legali e illegali: vino, cocktail alla vodka, birra e un po' di erba in parecchie occasioni, ma nulla di tutto questo aveva retto il paragone con l'eccitazione derivante dal sangue di Gina. Era stato meglio di qualsiasi esperienza sessuale che lei avesse avuto o potesse immaginare di avere, perché era stata una cosa incredibilmente spontanea e completamente travolgente, come annegare nel piacere.
Sopraffatta da quell'ondata così improvvisa e potente, Jen aveva compreso di essere perduta, e infatti la sua volontà aveva ceduto immediatamente. Se però il suo desiderio di resistere si era dissolto, lo stesso era successo alla sua paura nei confronti di quello che un tempo aveva creduto essere un mostro. Nei loro primi due incontri Jen aveva consumato un po' del sangue di Gina, mentre la terza volta che si erano viste era stata diversa e significativa sotto un altro aspetto. La notte della festa di Wendy, Gina aveva tagliato il braccio di entrambe con un'unghia affilata come un rasoio, e aveva premuto la carne di Jen contro la propria, sangue rosso e nero. Quella notte Gina aveva promesso che Jen non sarebbe mai più stata la stessa ragazzina spaventata, e i segni esteriori di quel cambiamento non avevano tardato a manifestarsi: il bisogno di lunghe ore di sonno, quasi si fosse drogata, la febbre costante, sogni al tempo stesso tormentati e deliziosi, e il desiderio di carne poco cotta che grondasse sangue. Poteva soltanto immaginare i gloriosi cambiamenti che si stavano verificando sotto la superficie. Nell'arrendersi a Gina Thorne, alla creatura che si faceva chiamare Wither, Jensen Hoyt aveva finalmente trovato la pace. Gina aveva già ripetuto due volte la sua storia allo sceriffo Nottingham quando infine mamma Caitlin era tornata a casa a precipizio dal suo consiglio di amministrazione. Inizialmente Gina era stata incerta su quale ruolo recitare, se presentarsi come la piangente testimone di un orribile suicidio in famiglia o come la cupa vittima di violenze, ancora sotto stato di shock per i recenti abusi e le loro impreviste conseguenze. Alla fine aveva scelto di mostrarsi cupa perché le riusciva meglio dell'apparire addolorata, senza contare che Caitlin stava già piangendo a sufficienza per tutte e due. Gina era seduta al tavolo di cucina accanto a sua madre e di fronte allo sceriffo, un braccio passato intorno alle tremanti spalle di Caitlin in una manifestazione di sostegno filiale; con quello che passava per lo sguardo vacuo di una persona in stato di shock, stava fissando la composizione di fiori estivi al centro del tavolo, lo stesso mazzo che aveva fatto avvizzire con un tocco parassitico della mano mentre aspettava l'arrivo di quei dannati paramedici. Risucchiare la vita da quei fiori freschi le aveva dato un divertente momento di euforia. Imparo ogni giorno qualcosa di nuovo, pensò, lottando per reprimere un sorriso del tutto inappropriato. Caitlin stessa ha l'aria un po' avvizzita, constatò poi fra sé. Pallida, sconvolta, sfatta, tutte definizioni calzanti... E
non dipende solo dal fatto che negli ultimi nove mesi ho continuato a prosciugare un po' delle sue riserve di forza vitale. Oggi è un gran brutto giorno nella vita della signora Caitlin Thorne-Gallo: ha appreso che suo marito si è ucciso e contemporaneamente ha scoperto che il suddetto marito abusava della sua primogenita. Se non altro, la finzione dell'abuso può servire ad attenuare il suo dolore. «È ovvio che la morte di Todd lo aveva depresso», disse Caitlin allo sceriffo, asciugandosi con la nocca dell'indice le lacrime che continuavano a colare. «Lo eravamo tutti. È stato un incidente orribile. Solo che non immaginavo...». «Che lui stesse abusando di Gina», concluse per lei lo sceriffo, stringendo fra le mani la tazza di caffè che lei aveva insistito per preparargli. Caitlin scosse il capo. «Gina era sempre così rabbiosa, ultimamente, ma ho pensato... sa com'è... che fosse una ribellione adolescenziale. Non avrei mai immaginato che Dom potesse...». Lo sceriffo rivolse a Gina la domanda successiva. «Da quanto tempo durava la cosa?», chiese. «Dalla fine dello scorso anno», rispose lei in tono cupo. «Quanto spesso?». «Solo un paio di volte... volevo... volevo fare finta che non fosse successo», replicò Gina, e per sottolineare la tragica inutilità di quella linea d'azione sollevò la mano libera a toccarsi la guancia gonfia, sfiorando i lividi rossastri che erano un gentile omaggio del notevole manrovescio di Dom. Per sfruttare l'ulteriore credibilità che quella lesione dava alla sua storia, aveva pensato che fosse meglio non risanarla prematuramente, così come non aveva tentato di cancellare le abrasioni che aveva intorno ai polsi, ustioni da attrito causate dal nylon di cui Dom si era servito per legarla al letto. «Non avrei mai pensato che si sarebbe...». Interrompendosi, scosse il capo e concluse: «Suppongo che alla fine sia stato sopraffatto dal senso di colpa». Caitlin la fissò con occhi lacrimosi e preoccupati, afferrandole la mano e stringendola fra le proprie. «Perché non me lo hai detto?», chiese. «Lui sosteneva che sarebbe stata la mia parola contro la sua, che nessuno mi avrebbe creduto. Ha detto che avrebbe rigirato ogni cosa in modo da far apparire che era stata colpa mia, che io lo avevo sedotto per cercare di rovinare il vostro matrimonio, così tu mi avresti dato della puttana e mi avre-
sti disconosciuta, buttandomi in strada». Lo sceriffo si schiarì la gola. «Gina», disse, «vorrei portarti all'ospedale». «Perché?», chiesero all'unisono Gina e sua madre. «Solo per qualche esame», spiegò lo sceriffo, facendo scorrere lo sguardo dall'una all'altra. «Per farti visi...». L'espressione di shock che si dipinse sul volto di Gina fu sincera, perché non aveva nessun desiderio di essere sondata e analizzata da un qualche medico: per fortuna, Caitlin notò la sua espressione e, pur fraintendendone la causa, fu pronta a venire in suo soccorso. «No», disse. «Lo proibisco». «Perché? Voglio solo chiarire...». «A che scopo, sceriffo?», chiese Caitlin con una nota più dura nella voce. Gina fu grata di constatare che in sua madre rimaneva un po' di coraggio, anche se questo non sarebbe mai stato sufficiente a salvarla da lei. «Dom è morto. Qualsiasi cosa lui... abbia fatto a Gina, adesso è finita. La sola che può essere danneggiata dal portare alla luce tutto questo è Gina stessa, e Dio sa se ha già patito abbastanza». Interrompendosi, trasse un profondo respiro, poi proseguì: «Dom si è ucciso in preda al dolore per la perdita di suo figlio, questo è tutto ciò che basterà far sapere agli altri. Lasciamo che le cose rimangano così, sceriffo... per il bene di tutti noi». Lo sceriffo abbassò lo sguardo sulla tazza di caffè ormai tiepido che Gina non gli aveva visto neppure assaggiare. Lentamente fece ruotare in cerchio la tazza una, due volte, poi alzò lo sguardo su di loro fermandolo su Gina. «Per te va bene così, Gina? Preferisci dimenticare tutto?». Gina annuì. Sì, dannazione! pensò. «Ecco, c'è il problema del messaggio lasciato prima del suicidio», continuò lo sceriffo. «Lo brucerò». «Così facendo distruggerebbe delle prove, signora Thorne». «Allora mi arresti». «Non lo faccia», si arrese lo sceriffo. «Prometto che la cosa rimarrà privata». «Grazie, sceriffo». Lo sceriffo si alzò in piedi, prese il cappello che aveva posato sulla sedia accanto alla sua e si diresse verso la porta. Caitlin lo accompagnò, seguita da Gina. «Qui abbiamo finito... Al piano di sopra, intendo», disse lo scerif-
fo. «Se vuole, posso mandare qualcuno a occuparsi di... della pulizia». «Ho chi mi può aiutare». Immagino quanto sarà contenta Sylvia di fare questo lavoretto, pensò Gina. «C'è qualcuno che può tenervi compagnia?». «Non si preoccupi, sceriffo», replicò Caitlin. «Ce la caveremo benissimo». Arrivato alla porta, lo sceriffo si fermò e si girò verso di loro. «Dovrebbe prendere in considerazione l'idea della terapia», suggerì. «Per Gina, intendo: qui è lei la vittima. Mantenere la cosa privata è un conto, ma fingere che non sia mai successo niente non le sarebbe di nessun aiuto. Si fidi di me». «Me ne occuperò io, sceriffo, adesso Gina è in buone mani», garantì Caitlin passando le braccia intorno alla vita di Gina e stringendola a sé, poi scosse il capo ed emise un altro profondo sospiro. Aggiungendo: «Adesso possiamo cominciare a guarire. Questo... incubo si è finalmente concluso». Dipende da qual è la tua definizione di incubo, pensò Gina. Diario di Wendy Ward 5 agosto 2000 Luna: crescente, primo quarto, giorno 5 Sono diventata più brava ad aprire serrature, e adesso ci metto meno di un minuto. È un tempo ancora troppo lungo per gli standard della Vecchia, ma lei mi sta già facendo provare con i chiavistelli, alternando quelle esercitazioni all'evocazione della sfera, che è a sua volta migliorata. Ciò che mi ha maggiormente aiutata in questi ultimi due giorni è Alex, o meglio la sua assenza, visto che è stato molto impegnato a studiare per l'esame di marketing di oggi. Per parecchi motivi non gli ho fatto parola del mio sospetto che Gina Thorne sia la reincarnazione di Wither. Per prima cosa, il tempismo sarebbe stato sbagliato. Sta studiando come un matto per recuperare il terreno perduto durante il semestre primaverile, quando si stava riprendendo dalle ferite che Wither gli aveva inflitto. Emotivamente, fisicamente e psichicamente non ha ancora superato quel loro ultimo incontro, e di certo non è ancora pronto per far fronte a questa situazione. È mia la colpa dell'accaduto, perché gli ho messo io un bersaglio sulla schiena coinvolgendolo nei miei riti magici, e non intendo ripetere due volte lo stesso errore! Questa è
una cosa che devo sistemare da sola, e per lui è meglio rimanere al college, dove le sue uniche preoccupazioni sono l'esame successivo e mantenere la media attuale... Se gliene avessi parlato, lui si sarebbe preoccupato per me o avrebbe cercato di aiutarmi, e non gli permetterò di lasciarsi coinvolgere di nuovo. L'ultima cosa di cui ha bisogno è che i miei problemi gli rovinino ancora la vita. In ogni caso ho approfittato di questo tempo da sola per lavorare a mia volta come una matta. Niente tivù o musica per questa ragazza. La Vecchia è diventata la mia allenatrice personale sotto molti aspetti, oltre a quello magico. Insiste perché faccia esercizio, dorma e mangi in maniera regolare per mantenere la mente riposata e focalizzata. Quando non presidio... no, gestisco... il bancone della cassa, al lavoro, o quando non sono impegnata ad apportare gli ultimi tocchi al sito Internet del Crystal Path, mi esercito a usare la magia, interrompendo soltanto per fare jogging, dormire e mandar giù qualche pasto occasionale, e non mi posso lamentare dei risultati. È meglio usare il termine progressi, dato che la parola risultati, come afferma la Vecchia, indica delle mete raggiunte, mentre io ho ancora molta strada da percorrere. Se volete il mio parere, la Vecchia è una vera guastafeste. Ah, adesso ho un arcobaleno sul polso... Ecco, quantomeno si tratta di un arcobaleno di perle di pietra levigata (la Vecchia sostiene che sono meglio delle perle magiche, quindi questo cosa ne fa, delle superperle?). Senza dubbio, i colori sono più numerosi e disparati di quelli del buon vecchio Roy G. Biv1, ma si tratta comunque di un accessorio variopinto, e la cosa migliore è che non attira troppa attenzione indesiderata. Il più recente trucchetto che la Vecchia mi sta facendo eseguire consiste nel creare una fiamma sul palmo della mano attingendo calore dall'ambiente circostante, ma finora non ho avuto successo. Non è tanto l'attingere calore a spaventarmi, quanto il tenere la fiamma sul palmo. Una fiamma ha bisogno di combustibile, giusto? E io non sono granché impaziente di arrostirmi una mano. La Vecchia insiste sul fatto che una fiamma paranormale operi in maniera diversa, sostiene che al riguardo ho soltanto un blocco mentale, mentre io d'altro canto ribadisco che si tratta dell'intervento del mio istinto di sopravvivenza. Indovinate chi ha ragione? Sì, certo, prendete le sue parti! Come se m'importasse. Oops, si sta facendo tardi. Se mi sbrigo, ho ancora tempo per una corsa e una rapida doccia prima che arrivi Alex. Andiamo a vedere uno dei film all'ultimo spettacolo, al multiplex di Peabody. Lui propende per un nuovo
thriller soprannaturale, mentre io penso a una commedia romantica. Indovinate chi vincerà? Perdonatemi, ma avrei proprio bisogno di un sabato sera tranquillo, rilassante. Era un'afosa notte di agosto e Wendy si era vestita in modo leggero, con una morbida canotta grigia sbracciata sopra un reggiseno nero da jogging, calzoncini grigi con strisce bianche parallele lungo i fianchi e calzini bianchi che spuntavano appena dalle scarpe da corsa. Anche così si ritrovò abbondantemente sudata prima di essere arrivata a metà degli esercizi di riscaldamento, perché quello era il genere di notte che sembrava privarti dell'ossigeno, in cui il minimo sforzo mandava in crisi i polmoni e il respiro più profondo sembrava un debole e inutile tentativo di inspirare un po' d'aria. La strada è praticamente deserta: stanotte, per chiunque, il migliore amico è il condizionatore d'aria, pensò Wendy nel cominciare il suo percorso di otto chilometri. Oh, sì, noi patiti di jogging adoriamo maltrattarci. Lui la stava osservando. Fermo dall'altra parte della strada accanto al cartello della fermata dell'autobus, con un giornale ripiegato sotto il braccio dolorante per nascondere il coltello da caccia, la guardò correre, osservò le cosce snelle che scattavano sotto i larghi calzoncini a strisce. Quella vista lo indusse a pensare di infilare le mani sotto quei calzoncini per vedere cosa lei indossava sotto, sempre che indossasse qualcosa. Assolutamente da verificare, pensò. Vorrai un pezzo di me, baby. Sono temprato nel fuoco, una notte con me e dimenticherai completamente quello zoppo con cui stai uscendo. Devi solo essere paziente, dolcezza... Ti intercetterò sulla via del ritorno. Ormai la stava tenendo d'occhio da giorni. La recente ondata di calore aveva modificato leggermente la sua routine, inducendola a trascorrere più tempo in casa e a spostare la corsa quotidiana alla sera, appena dopo il tramonto, quando nel cielo c'era ancora la luce porpora del crepuscolo. Quando la corsa la portò fuori dal suo campo visivo, lui prese a vagare con la mente, ma immediatamente, come succedeva ogni volta che si distraeva, l'ustione non ancora guarita che aveva al braccio gli causò una nuova ondata di dolore che lo aiutò a focalizzarsi sulla sua missione, ricordandogli quale fosse il suo scopo. Smise di pensare a quanto aveva caldo con indosso la giacca di cuoio nero, anche se sotto indossava soltanto una
maglietta, smise di imprecare mentalmente contro i jeans sporchi che gli irritavano l'interno delle cosce. Devo rimanere concentrato, si disse. Tutto quello che doveva fare era aspettare che lei tornasse indietro. Sarebbe stata prossima alla fine della corsa, con il cuore che martellava e i polmoni affaticati, e quelle lunghe gambe ben fatte avrebbero tremato per la stanchezza. Allora sarà il momento di sbatterti un poco, baby, pensò. Oh, sì. Non avrebbe fallito. Wendy aveva l'impressione che le gambe fossero diventate due rigidi blocchi di legno. La sua corsa di otto chilometri si era fatta insostenibile dopo appena cinquanta metri, e la situazione era andata peggiorando: aveva avvertito carenza di ossigeno per tutto il percorso e non aveva registrato quel rinnovarsi di energie che di solito si verificava verso la fine. All'intersezione fra Mage e Ash, dove lo Spellcaster Video Rentals e il Mike's Sandwich Shop sorgevano uno di fronte all'altro, non si era neppure presa la briga di toccare il palo del semaforo per buon augurio. Inutile calcolare i tempi di questa corsa, si era detta. Rimandiamo i nuovi record a un altro giorno. Adesso tutto quello che voleva era ultimare la corsa e mettersi sotto una doccia fresca che la rilassasse e la rinvigorisse. Per questo motivo fu poco attenta, la sua sfera di attenzione ridotta a uno stretto tunnel focalizzato dritto davanti a lei, mentre posava un piede davanti all'altro quasi in stato di trance, in precario equilibrio fra il disagio e la determinazione. Non ce esaltazione nella corsa, stanotte, si disse. Solo sofferenza senza guadagno. Lasciamo perdere il guadagno, limitiamoci alla sofferenza, sofferenza, sofferenza... L'aria le esplose dai polmoni quando qualcuno le sbatté addosso da dietro, spingendola lontano dalla strada e dalla sicurezza offerta dai lampioni. Avvolta in una stretta energica, costretta a lottare per respirare con le braccia bloccate contro i fianchi, Wendy venne spinta a forza nell'oscurità oltre il parcheggio posteriore di una lavanderia a secco chiusa. Una rapida occhiata le rivelò una malconcia strada d'asfalto a una sola corsia che correva dietro la fila di piccoli negozi e, più oltre, una cupa fila di alberi che separava il distretto commerciale dal più vicino quartiere residenziale. Nella mente le affiorò la fugace immagine di una fossa poco profonda in quel boschetto anemico, e quell'idea costituì un incentivo più che sufficiente a generare una fulminea ondata di adrenalina che le permise di liberarsi dalla
stretta dell'assalitore, almeno quanto bastava per sferrargli un debole calcio in uno stinco. L'uomo cercò di afferrarla per i capelli, e Wendy evitò la sua mano ritraendosi bruscamente, ma poi il piede sinistro le scivolò in una buca piena di detriti, intrappolandola e facendola crollare goffamente al suolo sbattendo dolorosamente le mani contro l'asfalto nel tentativo di frenare la caduta. Una mano forte le si chiuse intorno ai capelli e la tirò indietro. Usando la sua testa come perno, l'uomo la fece ruotare su se stessa e la gettò al suolo, mandandola a sbattere con la nuca contro l'asfalto con forza tale da stordirla. Prima che riuscisse a schiarirsi la mente, l'uomo era già a cavalcioni su di lei, all'altezza della vita, e le stava puntando davanti alla faccia uno scintillante coltello da caccia. Soltanto allora riuscì a vederlo bene, constatando che era più basso di lei, ma snello e muscoloso, con i capelli neri e unti raccolti in una coda di cavallo, il naso storto e le labbra sottili curvate in un sogghigno che gli deformava il volto pallido. Qualcosa in lui le parve vagamente familiare, come se le fosse già capitato di vederlo più di una volta in mezzo ad altra gente. Wendy aprì la bocca, e subito la punta del coltello le premette sotto il mento. «Urla e ti apro la gola da un orecchio all'altro». Wendy scosse il capo, promettendo in silenzio che non avrebbe urlato... Almeno finché non avesse più avuto niente da perdere. «Pensi di essere davvero in gamba, non è così?», disse l'uomo con la voce affannata per lo sforzo della lotta. «Ma non sei niente», continuò agitandole il coltello davanti alla faccia. «Sei meno che niente, sgorbio». Wendy respirò a fondo, fin troppo consapevole del tremito che le scuoteva gli arti. Debole e quasi troppo spaventata per riuscire a pensare, cercò disperatamente un vantaggio, uno qualsiasi; se pensava che lei potesse identificarlo, molto probabilmente quell'uomo l'avrebbe uccisa. Ok, questa non è una carta da giocare, pensò. Allora cosa... La magia! Ma come? Se evoco una sfera protettiva ci verremo a trovare entrambi al suo interno. Dannazione, che altro so fare? Forzare una serratura... Come no, magari ha bisogno di una socia per commettere qualche crimine. Devo... Devo guadagnare tempo! «Io... non ho soldi con me». «Non voglio i tuoi soldi, puttana», ribatté l'uomo, con un altro sogghigno. «Forse però hai qualche altra cosa per me», aggiunse facendo scivolare la parte non affilata della lama lungo il centro del suo petto ansante.
«Per favore... non...», sussurrò Wendy. Pensa, dannazione! ingiunse a se stessa. «Taci!», ingiunse l'uomo sollevando un pugno. «Non sei tu quella che mi dà ordini». «Cosa... Perché stai facendo questo?». «Perché no?», replicò lui scrollando le spalle, poi scoppiò a ridere per la propria battuta. «Dovevo cercare di ucciderti, ma adesso questa non sembra più una cosa particolarmente difficile, quindi tanto vale che prima provi la merce». «Lasciami andare, e hai la mia parola che per me tutto questo non sarà mai successo», promise Wendy, sperando che l'uomo avesse dei ripensamenti. «Oh, invece succederà, stanne certa», ribatté lui. «Proprio come piace a me». Protendendosi all'indietro, fece scorrere la punta del coltello lungo le sue cosce nude. «Ti piace sfoggiare queste gambe, vero?», commentò, poi la lama tornò a brillare davanti a Wendy un momento prima che lui la insinuasse sotto il top, tagliandolo nel mezzo fino a rivelare il reggiseno nero da jogging. «Forse non ti dispiacerà sfoggiare qualcosa di più per me, prima che abbiamo finito». «No...», sussurrò Wendy, vergognandosi di quanto la sua voce suonasse flebile e impotente. Cercò di convincersi che tutto sarebbe stato diverso se lui non le avesse puntato contro un coltello, che gliele avrebbe suonate di santa ragione e gli avrebbe strappato gli occhi; contemporaneamente, si sentì arrivare a un livello di disperazione tale da farle pensare che quella potesse essere la sola linea d'azione che le rimaneva da seguire. L'uomo premette la lama di piatto contro il suo stomaco nudo, la insinuò sotto il reggiseno e la girò con il filo verso l'alto, tranciando la stoffa e denudandole i seni. «Belle tette», commentò, ridacchiando. «Magari ne taglierò una e la porterò a casa come ricordo». Wendy sentì le lacrime bruciarle negli occhi. Non aveva più speranze... non aveva più niente da perdere. Forse mi ucciderà, ma prima gli caverò quei fottuti occhi, si disse. No... Non glieli caverò, glieli brucerò! Il mio blocco mentale... Non ho più niente da perdere. E protese in fuori il palmo aperto, un gesto che agli occhi dell'uomo dovette apparire innocuo. Quella era una notte torrida e afosa, nell'aria c'era una quantità di calore a cui attingere, da attirare a sé, alimentandolo nella
mano fino a sentire la fiamma che prendeva forma sulla carne... Con una stupefacente dimostrazione di abilità sotto pressione, concentrò le proprie energie magiche e generò una lingua di fiamma tremolante sul proprio palmo in meno di cinque secondi. Per quanto potesse apparirle miracolosa, quell'impresa le sembrò comunque inutile: che danni poteva sperare di infliggere con quel fuoco così minuscolo, non più grande o intenso della fiamma di una candela? Potrei dar fuoco ai suoi vestiti... Qualcosa di bianco saettò sopra la sua testa e aggredì il suo assalitore con un ringhio sordo, piombandogli addosso con forza sufficiente a gettarlo lontano da lei. La fiamma si spense e Wendy si trasse indietro con i gomiti, il sedere e i talloni, fissando il grosso cane bianco che aveva le fauci serrate intorno alla mano in cui l'uomo stringeva il coltello. Non è un cane, capì subito dopo, mentre si alzava in piedi, con il top grigio e il reggiseno nero che pendevano laceri intorno al torace nudo. È un lupo! Un lupo bianco. Deve essere uscito dagli alberi. I lupi sono selvaggi, ed è stata solo fortuna che abbia attaccato lui e non me. È meglio che me la batta, prima che si rivolti anche contro di me. Descrivendo un ampio giro intorno ai due, Wendy cominciò ad allontanarsi dal lupo e dal suo assalitore, procedendo con passo zoppicante a causa della caviglia che le doleva, ma quasi subito un pensiero improvviso la indusse a fermarsi. Ho sognato di correre con un lupo bianco, si disse. E se questa non fosse soltanto semplice fortuna? Si guardò alle spalle, in direzione dei due che stavano ancora lottando, girando in cerchio. Con il pelo ritto, il lupo continuava a ringhiare, scattando in avanti per cercare di serrare le fauci intorno alle braccia e alle gambe dell'uomo, ma aspettando in realtà la prima occasione per saltargli alla gola; dal canto suo, l'aggressore di Wendy brandiva il coltello davanti al muso del lupo e gli scalciava contro delle pietre senza smettere di imprecare. Ogni volta che il lupo balzava in avanti scorgendo un'apertura, l'uomo ne intercettava le fauci spalancate con il braccio protetto dalla giacca di pelle e cercava di trafiggergli il fianco con il lungo coltello da caccia. Fino a quel momento, il lupo era stato abbastanza veloce da evitare il coltello, ma al tempo stesso non era riuscito ad arrivare alla gola dell'avversario. Pensa solo ad allontanarti, ammonì una voce razionale nella mente di Wendy. Chiama la polizia, e lascia che siano loro a occuparsene. Di nuo-
vo, si volse per allontanarsi, ma aveva appena preso la decisione di fuggire che sentì l'uomo emettere un grugnito e il lupo lanciare un acuto guaito di dolore. Un'occhiata alle spalle le rivelò che l'uomo stava fuggendo lungo la strada secondaria con passo zoppicante, il lupo che lo inseguiva spietatamente, ma che nel correre favoriva la zampa anteriore sinistra. I due aggirarono un altro edificio, distante quasi un isolato, e scomparvero dal suo campo visivo. Un attimo dopo Wendy udì un selvaggio urlo umano, seguito da un altro guaito e dal tormentato uggiolare del lupo. Poi scese il silenzio. Immaginando che il lupo fosse morto al suo posto, Wendy cominciò a correre verso casa con lunghe falcate veloci, gemendo lei stessa ogni volta che il piede sinistro colpiva la pavimentazione e scatenava onde d'urto lungo la caviglia infiammata. Il lupo l'aveva salvata, ma l'uomo sarebbe potuto tornare per cercare di finire quello che aveva cominciato. L'immagine del suo volto sogghignante le apparve di nuovo nella mente, ma questa volta ricordò dove lo aveva visto: l'ultima volta doveva risalire a quasi due anni prima, in quanto la sua faccia era associata a corridoi affollati, alla caffetteria rumorosa, all'auditorium pieno di studenti... L'uomo aveva frequentato il liceo Harrison. Forse non era stato un vandalo o un disturbatore, ma senza dubbio aveva fatto parte di quelli che lei aveva classificato come lavativi. Mizelli, forse...? pensò, cercando di ricordarne il nome; in ogni caso era certa che avrebbe potuto identificarlo in mezzo a centinaia di foto segnaletiche, sempre che fosse sopravvissuta a quella notte. Seduta sul letto con indosso soltanto un reggiseno di seta rossa e calzoncini di jeans, Gina si stava dondolando avanti e indietro, la punta delle dita premuta contro le tempie mentre si concentrava sull'attacco da parte di Val Misero contro la Piccola Miss Wicca. La mente del suo soldato, controllato tramite sangue e sesso, era semplice ma indisciplinata e, a causa delle piccole manipolazioni sperimentali a cui lei lo aveva sottoposto, Misero era anche un po' psicotico; la sua mente danneggiata lo rendeva lo strumento perfetto per mettere alla prova la magia difensiva di Wendy, ma quel pasticcio mentale era difficile da controllare e ancor più difficile da incanalare, per cui Gina stava ricevendo soltanto fugaci, irritanti immagini della lotta. «Avanti, Val», sussurrò in tono aspro. «Voglio vedere quali assi magici ha nella manica. Coraggio, ragazza, mostrami qualcosa. Non cazzeggiare, Val, devi limitarti a ucciderla. Mi senti? Uccidila. Avanti, miserabile pezzo
di merda! Puoi violentare il suo cadavere dopo averle tagliato quella dannata gola! Il tempo stringe, imbecille. Fallo!». Finora Wendy sembrava impotente a difendersi da Misero, ma lui si stava divertendo troppo per portare a termine il lavoro. Stava fissando le sue tette, la stava provocando... D'un tratto Gina s'immobilizzò completamente. «Cazzo... Quello era un fuoco? Ma guarda un po'! Quella cagna ha appena evocato una fiamma, allora non è proprio una ciarlatana...». Un'indistinta chiazza bianca riempì il campo visivo di Misero e la mente di Gina. L'istante dopo si ritrovò a fissare insieme all'uomo il caliginoso cielo notturno mentre un cane ringhiante - no, non un cane, un fottuto lupo! - cercava di squarciargli la gola. Un rumore la disturbò, ma decise di ignorarlo. «Cosa cazzo... Può evocare animali selvaggi? Val, inutile figlio di puttana! Avresti dovuto uccidere quella stronza quando ne avevi la possibilità!». Gina serrò i denti, poi gridò: «Razza di idiota bastardo! Ti sventrerò con il tuo stesso fottuto coltello!». Se il lupo non provvede prima a farlo per me, pensò. Poi si ricordò di quel rumore... Qualcuno che aveva bussato... E alzò lo sguardo con sgomento, chiedendosi chi... «Sylvia?». La robusta governante cinquantenne, con i capelli tinti di un assurdo color ruggine raccolti in una crocchia severa, era ferma sulla soglia e la stava fissando, a bocca aperta per lo shock. Con irritazione di Gina, quella vecchia donna sola si era praticamente trasferita a vivere con loro dopo il suicidio di Dom, prendendosi cura della signora Caitlin, preparando i pasti, facendo il bucato, svolgendo commissioni e occupandosi di organizzare il funerale, cosa che la stava senza dubbio avviando a guadagnarsi un cospicuo emolumento. «È tutto a posto, Sylvia», sorrise Gina scendendo dal letto con un salto. «Chiedo scusa», disse Sylvia indietreggiando e scuotendo il capo con aria sospettosa e spaventata, «mi dispiace molto. È solo... Ecco, la signora Caitlin si chiedeva se si sarebbe unita a noi per il tè, ma le dirò... Le dirò che è occupata, signorina Gina». «Sylvia, c'è una spiegazione perfettamente valida», affermò Gina, seguendo la donna nel corridoio. «Mi stavo esercitando... Stavo ripassando la parte che ho in una commedia». «È estate, signorina Gina», obiettò l'altra guardandola con diffidenza.
«Non c'è scuola». «Cosa? Non hai mai sentito parlare della società teatrale?». «E come si chiama questa... questa sporca commedia in cui s'impreca così tanto?». «Oh, non lo so, Sylvia», replicò Gina, scrollando le spalle. «È... è teatro sperimentale, il titolo provvisorio è La Vendetta di Wither». Merda, si sta facendo il segno della croce, pensò intanto. Probabilmente crede che io sia posseduta, il che non è poi molto lontano dalla realtà di fatto. Magnifico, sospirò poi fra sé, mentre Sylvia si precipitava giù per le scale, adesso mi tocca uccidere la governante. Ferma in cima alle scale, Gina lanciò un richiamo mentale e intanto ascoltò il chiasso che si stava scatenando di sotto, Sylvia che urlava nel rivolgersi a Caitlin. «Non posso più lavorare in questa casa», stava gridando. Caitlin continuò a chiederle cose ci fosse che non andava, finché Sylvia stridette alcune assurdità riguardo a una ragazza indemoniata e agli esorcismi, prelevò la giacca dall'attaccapanni dell'ingresso e si diresse verso la porta principale. Brett non si era trovato molto lontano e Gina raggiunse il pianerottolo proprio nel momento in cui Sylvia apriva la porta trovandosi davanti Brett, fermo sulla soglia con un freddo sorriso sul volto e il vecchio piede di porco arrugginito stretto in entrambe le mani. Brett avanzò nell'atrio, costringendo la terrorizzata governante a indietreggiare quanto bastava a permettergli di chiudere il battente. «Ciao, Sylvia», disse in tono cordiale, poi con mossa fulminea calò la sbarra d'acciaio di traverso sul flaccido collo della donna, infrangendole la colonna vertebrale. Sylvia si accasciò sul pavimento, probabilmente già morta prima che i suoi rotoli di grasso smettessero di sussultare, e Brett le premette sulla clavicola il tacco dello stivale da lavoro, tirando per liberare la sbarra. Finalmente un bell'omicidio silenzioso, pensò Gina compiaciuta. Poi Caitlin urlò. Lungo tutto il tragitto verso casa, Wendy continuò a chiedersi se era il caso di fermarsi a bussare alla porta di uno dei suoi vicini, uno qualsiasi, ma tre fattori la indussero a rimandare quella decisione fino a quando la cosa non ebbe più importanza. Avendo scaldato la caviglia dolorante fino a eliminarne la rigidità, aveva potuto accelerare la propria andatura a un passo spedito anche se doloroso, e durante il tragitto non aveva visto traccia
d'inseguimento, né da parte del lupo né da parte dell'aggressore munito di coltello. Infine, il pensiero mortificante che uno dei suoi vicini potesse vederla praticamente a seno nudo la convinse ogni volta a proseguire appena di un altro poco, fino a quando avvistò la villetta in fondo alla strada senza uscita, e questo pose fine al problema, generando in lei l'intenso, irresistibile desiderio di trovarsi a casa, al riparo e al sicuro in un ambiente familiare. Avvertendo un movimento nell'oscurità vicino alla porta anteriore, s'immobilizzò poi a metà di un passo. «Chi è?», chiese, e per un momento pensò che potesse trattarsi di Alex, che lui avesse deciso di farle uno scherzo e di cercare di spaventarla in quella che era la notte peggiore della sua vita per una cosa del genere. La figura però era troppo piccola, raggomitolata su se stessa, gemente e... nuda. Wendy si avvicinò di un altro passo, addentrandosi nell'ombra e attendendo che la vista le si abituasse all'oscurità più fitta: si trattava di una bambina bionda. «Abby...?». La bambina balzò verso di lei, circondandola con le braccia, il corpo scosso da singhiozzi. «Wendy... sono così contenta... ho fatto in tempo». «Mio Dio, stai sanguinando!». La bocca, il collo e il braccio sinistro di Abby erano sporchi di sangue, e altro sangue fresco le sgorgava dal fianco sinistro lungo la gamba. «Ti porto dentro e chiamo l'ambulanza». Dovendo reggere tutto il peso della bambina, Wendy armeggiò un momento con le chiavi prima di riuscire a far scattare il chiavistello e ad aprire la porta. L'ho aperta comunque più in fretta di come avrei fatto con la magia, rifletté, con dolorosa autoironia. Aiutò Abby ad arrivare in cucina e la sistemò su una delle sedie pieghevoli, accertandosi che fosse seduta bene prima di percorrere in fretta il corridoio fino all'armadio della biancheria, per prendere una coperta. Quando tornò in cucina, vide che la bambina stava tremando, probabilmente perché stava entrando in stato di shock, e che una chiazza di sangue si andava allargando sulle piastrelle del pavimento, sotto la sedia. Mentre le stava passando la coperta intorno alle spalle, Abby fu assalita da uno svenimento; afferrandola sotto le ascelle, Wendy l'adagiò delicatamente sul pavimento e l'avvolse nella coperta per tenerla calda. La bambi-
na mosse le labbra ceree, cercando di parlare, e questo costrinse Wendy a chinarsi per poterla sentire. «...ferma l'emorragia... il mio fianco...», fu tutto quello che Abby riuscì a dire, prima d'irrigidirsi con un doloroso sussulto. Devo chiamare il 911, pensò Wendy, e accennò ad alzarsi. La mano destra di Abby la trattenne per il polso. «...non c'è tempo... fermala tu... per me». «Cosa?». «Possiamo salvarci... a vicenda...». Sta delirando, si disse Wendy, alzandosi. Avrei già dovuto afferrare quel dannato telefono. «Ha ragione lei, Wendy». La voce che le echeggiò improvvisa nella mente le strappò un violento sussulto, il secondo nell'arco di quella notte. La Vecchia era in piedi dietro di lei. «Di cosa stai parlando? Ha bisogno di assistenza medica». «Sì, ma i paramedici non arriveranno in tempo. Devi salvarla tu». «Non so cosa... Come posso aiutarla?». «La perla di quarzo rosa sul tuo nuovo bracciale!», disse la Vecchia. «Serve a focalizzare l'energia risanante». «Ma come?», chiese Wendy, prossima a cedere al panico, cosa che non sarebbe servita a nessuna di loro. «Dimmi come!». «Prima ferma l'emorragia». Annuendo, Wendy trasse un profondo respiro per calmarsi, poi si tolse il bracciale, afferrò il quarzo rosa fra pollice e indice, e infine tirò indietro la coperta intrisa di sangue che nascondeva il fianco ferito di Abby, sussultando nel vedere il fiotto costante di liquido carminio che usciva pulsando dal corpo pallido della bambina. Imprecando contro se stessa per non aver mai seguito un corso di pronto soccorso, Wendy promise a se stessa di rimediare a quella svista il più presto possibile. Tutto quello che riusciva a ricordare era che bisognava comprimere una ferita, in modo da rallentare l'emorragia e dare al corpo il tempo e l'opportunità di far coagulare il sangue. In qualche modo, comprese che nella situazione attuale quella tecnica non sarebbe bastata: la Vecchia era convinta che la magia risanante avrebbe salvato Abby, e la sua era una convinzione che nasceva da una prospettiva del tempo del tutto diversa. Doveva fidarsi di lei. Premette la mano destra, quella proiettiva, contro la ferita resa calda e viscida dal sangue fresco, e si servì della mano ricettiva per rigirare fra le
dita il quarzo rosa, attingendo all'energia che le sarebbe servita per risanare la bambina. Immaginò quell'energia, grezza e informe, ma infinitamente malleabile, la vide scorrere dentro di sé, caricandola come una batteria: attraverso il suo potere di focalizzazione unito alla specificità della sua visualizzazione, poteva adesso incanalare quell'energia grezza in qualsiasi cosa di cui avesse avuto bisogno. E quello di cui ora aveva bisogno era guarire Abby. Chiudendo gli occhi, cominciò a oscillare seguendo i ritmi del sistema circolatorio sempre più debole della bambina, il suo battito che andava rallentando, fino a sintonizzarsi con il suo corpo mentre esso tentava invano di risanarsi da solo: la sua luce vitale si andava affievolendo di secondo in secondo nel corso di quella battaglia persa in partenza. Le nozioni necessarie al risanamento erano però presenti in Abby, radicate nelle molecole del suo corpo, ciò che le mancava erano il tempo e le forze. Wendy non poteva alterare la marcia implacabile del tempo, ma poteva fornire alla bambina le energie di cui aveva bisogno. «Wendy, sta morendo! Devi fare in fretta!». Wendy visualizzò se stessa nell'atto di assorbire nel proprio corpo, tramite la mano ricettiva, vasti flussi di energia, lasciò che questa si andasse accumulando dentro di lei fino a creare una sfera pulsante di potere dorato che attendeva solo di essere modellata e liberata, trattenendola dentro di sé il più a lungo possibile, fino a immaginare che la pelle dovesse brillarle per lo sforzo di contenerla. I peli le si rizzarono sulle braccia e sulle gambe, ma lei attese ancora, focalizzandosi sulla mano proiettiva premuta contro il corpo di Abby, in modo da dirigere quell'energia risanante lungo il proprio braccio per poi liberarla in un'ondata vibrante... Riversandola nella ferita di Abby e usando come conduttore il suo stesso sangue. Abby trasse un violento respiro e inarcò la schiena fino a sollevarla dal pavimento, le braccia e le gambe rigide e tremanti per quel vasto afflusso di energia. Poi il suo corpo parve avvampare di luce dorata. Mentre la guardava affascinata, Wendy si accorse che la vista le si andava offuscando, a cominciare dalla periferia del campo visivo, ora grigia e indistinta, e subito dopo la stanza sembrò inclinarsi con un'angolazione assurda... Appena prima che intorno a lei tutto si facesse nero. Il cervello di Caitlin Thorne era danneggiato in maniera irreparabile. Gina fu costretta ad accettare quella realtà di fatto. Sebbene quell'idea le fosse a tratti parsa incestuosa, e forse soltanto per-
ché la sua perversità l'affascinava, Gina aveva preso in considerazione la possibilità di indurre sua madre a entrare a far parte della sua congrega, ma adesso questo era semplicemente impossibile, perché una notevole porzione del cervello di Caitlin possedeva adesso la stessa capacità cognitiva della pasta di pane. Allora torniamo al Piano B, pensò. Brett e Gina erano responsabili in pari misura per quel pasticcio. Quando Caitlin si era precipitata verso il telefono, Brett aveva calato il piede di porco come una mazza da baseball, colpendola sulla nuca prima che Gina potesse ordinargli di fermarsi o trattenerlo fisicamente. A questo punto è ormai acqua passata, si disse Gina. Il suo potere era stato sufficiente a chiudere la ferita e a riportare in vita Caitlin, ma niente di più, perché esso era intrinsecamente distruttivo e il genere di rozzo risanamento che aveva eseguito sulla mano fratturata di Brett non era abbastanza affinato da rimettere in sesto un cervello danneggiato. Se non altro, in questo modo lo zombie Caitlin non ci causerà molti problemi, rifletté. Pare che non riesca a smettere di sbavare, ma il lato positivo è che sta zitta e obbedisce a comandi semplici. «Caitlin, mi stai distraendo», disse poi. «Aspettami in cucina». Senza neppure un cenno di assenso, sua madre si girò e si avviò a passo lento lungo il corridoio, svoltando in cucina dopo aver sbattuto contro l'arcata. Gina scosse il capo con aria disgustata. «Adesso che si fa?», chiese Brett, che aveva ancora in mano la sbarra insanguinata. «Ho perso il contatto con Misero». «Lo ha ucciso?». «Niente del genere», spiegò Gina. «Può darsi che quell'idiota sia morto, ma la responsabile non è lei», aggiunse con un sospiro. Un lupo, fra tutte le cose assurde... «Se non si fosse fermato a mescolare il suo piacere con i miei affari, quella cagna impicciona adesso sarebbe morta, e io passerei a cose più grandi e importanti. Avrei dovuto castrarlo quando ne ho avuto l'occasione. Comunque... il suo piccolo incontro di lotta libera se non altro ha dimostrato una cosa, e cioè che ho sopravvalutato quella piccola wicca perbenista fin dall'inizio. Può darsi che abbia del potenziale, ma la sua magia è troppo grezza e debole per avere qualche importanza». «Adesso la ucciderai?». «Lei ha quasi ucciso me, una volta», affermò Gina, «quindi non ti preoccupare, porrò presto fine al fastidio che costituisce per me. Adesso che so
quanto è effettivamente impotente, però, voglio gustare ancora una volta il dolce sapore della vendetta. Prima di uccidere quella piccola cagna, la farò soffrire!». Note 1. Acronimo costituito dalle iniziali in inglese dei colori dell'arcobaleno: Red, Orange, Yellow, Green, Blue, Indigo, Violet [ndt]. PARTE TERZA La congrega Capitolo 10 Windale, Massachusetts 5 agosto 2000 Il terreno si era sgretolato sotto di lei e stava precipitando in un'oscurità infinita, cadendo per un tempo interminabile, finché... «Wendy... Wendy, svegliati», chiamò una voce maschile. Sentendosi debole come un gattino, Wendy aprì gli occhi e cercò di riscuotersi dal suo stato letargico, riuscendo soltanto a farsi pulsare le tempie. Le pareva che le avessero schiacciato la testa in una morsa. Dove sono? pensò, cercando di sollevarsi a sedere. Nella villetta... Sul pavimento del salotto. Una coperta pulita le scivolò di dosso quando cercò di sollevarsi, e una lieve corrente d'aria le ricordò che sotto di essa la canotta e il reggiseno erano stati tagliati e lasciavano vedere tutto. Con un'abile mossa, afferrò la coperta e se la tirò fino alla gola, poi cercò di parlare. «Cosa è suc...?», cominciò, ma subito prese a tossire, sentendosi la bocca arida come se fosse stata piena di cotone. Lo sceriffo Nottingham era inginocchiato alla sua sinistra, Abby era alla sua destra, avvolta ora in un vecchio telo da spiaggia, appena qualche piccola macchia di sangue sulle guance rosee e pulite. Per quanto tempo sono rimasta svenuta? si chiese Wendy mentre lo sceriffo le porgeva un bicchiere d'acqua. Annuendo in segno di gratitudine, ne trangugiò la metà prima di fermarsi per respirare. «Abby, stai bene?», chiese.
Abby sorrise e annuì energicamente. Ce l'ho fatta, pensò Wendy, l'ho risanata. Sia ringraziato Dio... e anche la Dea. L'ho risanata! «Dopo che avrai finito l'acqua, una lattina di zuppa di pollo con i tagliolini si sta scaldando sul fuoco». «Zuppa?». Lo sceriffo diede una rapida occhiata ad Abby e annuì. «Abby dice che hai bisogno della zuppa», rispose. Anche Wendy guardò verso la bambina. «Ne ho bisogno?», chiese, e quando Abby annuì di nuovo sfoggiando un sorriso con aria misteriosa, comprese. Ha parlato con la Vecchia! «Abby mi ha detto anche che le hai salvato la vita», aggiunse lo sceriffo lanciando una rapida occhiata alla pozza di sangue che si andava coagulando sul pavimento della cucina. Negarlo era inutile, ma dato che non sapeva esattamente come fare a spiegare l'accaduto, Wendy si limitò ad annuire. «Dopo la zuppa», affermò lo sceriffo accigliandosi, «mi aspetto che voi tutte e due - mi diciate con esattezza cosa diavolo sta succedendo». Vorrei saperlo, pensò Wendy. «D'accordo», rispose. «Prima però ho bisogno di una doccia». «Non puoi aspettare?», ribatté lo sceriffo. «Devo giustificare un cadavere che ho là fuori, il corpo di un uomo con la gola squarciata, e secondo Abby siete coinvolte entrambe nell'accaduto». «Io... Allora è morto...». «La testa è quasi staccata di netto», disse lo sceriffo. «Per il mio modo di vedere, questo indica senza dubbio che è morto». «Lui... mi ha aggredita...», stava per violentarmi..., «e mi avrebbe uccisa se il... se il lupo bianco non avesse...». Interrompendosi, Wendy lanciò un'occhiata ad Abby, ai suoi fini capelli quasi bianchi... Abby aveva riportato quelle che sembravano essere ferite da taglio, al fianco e al braccio sinistri... E il lupo aveva zoppicato con la zampa anteriore sinistra quando aveva inseguito l'aggressore. Alla festa, quando mi ha abbracciata, mi è parso di sentirla ringhiare... rammentò Wendy, e mentre la sua mente cercava di portare a compimento quell'incredibile balzo intuitivo, inarcò le sopracciglia in un'espressione interrogativa rivolta alla bambina, che però scosse il capo appena quanto bastava per indurla a tacere senza attirare l'attenzione dello sceriffo sul suo gesto silenzioso.
«Dieci minuti, sceriffo», disse Wendy. «Mi dia dieci minuti per rinfrescarmi, poi le spiegherò... tutto quello che mi sarà possibile». Lo sceriffo guardò la coperta che lei si stava stringendo contro il petto e si schiarì la gola. «Wendy, se lui... se Misero ti ha aggredita, sulla tua persona potrebbero esserci prove...», cominciò. «Terra, sceriffo», lo interruppe bruscamente Wendy. «Un po' di terra è la sola prova presente sulla mia persona, a parte qualche graffio, alcuni lividi e la tenuta da jogging tagliata e, se ne vuole i resti, potrà tenerseli dopo che mi sarò cambiata. Quindi, per rispondere alla sua domanda, no, non mi ha violentata». Lo sceriffo sostenne il suo sguardo per un lungo momento. «Benissimo», annuì poi. «Fa' pure la doccia, ma dopo voglio delle risposte». «Mi sembra giusto», convenne Wendy alzandosi lentamente in piedi. Le gambe le tremavano, e quasi si aspettò che la stanza riprendesse a vorticare quando si avviò a piccoli passi lungo il corridoio, diretta verso il bagno. «Ti ho portato i vestiti di ricambio», sentì dire allo sceriffo, rivolto ad Abby. «Sono in quella borsa di tela vicino alla porta. Perché non ti vesti, mentre Wendy si lava?». Si era aspettata che la caviglia sinistra risultasse rigida e dolorante, ma scoprì che era invece flessibile e priva di dolore, così come erano risanati anche i palmi delle mani, che si era escoriata contro la superficie della strada, quando era caduta. Mentre chiudeva la porta del bagno si tastò la nuca, là dove aveva sbattuto contro l'asfalto, cercando il bernoccolo e l'area dolorante che avrebbero dovuto esserci... ma che non c'erano. Accasciandosi contro il battente, chiuse gli occhi ed emise un lungo sospiro. «Io ho risanato Abby... ma chi ha risanato me?», si chiese. «L'energia risanante che è fluita attraverso te per riversarsi in Abby era così tanta che lungo il percorso ha guarito anche le tue lesioni». Wendy riaprì gli occhi: la Vecchia era in piedi nella vasca da bagno, o per meglio dire ci stava fluttuando dentro. «Non mi aspettavo davvero una risposta», disse Wendy, «però grazie. Sono contenta che tu sia tornata. Ora forse mi potrai spiegare perché sono svenuta». «Quando hai incanalato l'energia in Abby, ne hai riversata dentro di lei più di quanta fosse strettamente necessaria». «Ho svuotato dentro di lei parte della mia... energia personale?».
«Non tanta da causarti danni permanenti...». Wendy arrotolò la coperta e la gettò per terra accanto al lavandino, poi si liberò dei resti laceri del top e del reggiseno, lasciandoli cadere sul coperchio chiuso del water. «Solo quanto bastava per farmi svenire?», chiese. La Vecchia annuì. «Ricorda di mangiare la zuppa, e potrebbe essere anche opportuno bere un integratore di sali, se ne hai in casa». Wendy scalciò per liberarsi delle scarpe da corsa, poi si tolse i calzini. «Ah, la zuppa», replicò, procedendo a sfilarsi anche i calzoncini da jogging e le mutandine, gettandoli verso il cesto della biancheria sporca. «Usiamo questo tempo in maniera produttiva e facciamo una veloce analisi della situazione», continuò, poi segnalò alla Vecchia di uscire dalla vasca e aggiunse: «Cambia di posto con me». La vecchia uscì dalla vasca fluttuando in diagonale, con la parte inferiore delle gambe che attraversava la porcellana. Wendy intanto aprì il rubinetto e regolò l'acqua in modo che fosse quasi bollente prima di entrare a sua volta nella vasca e di tirare la tenda. «Riesci a parlare con Abby?», chiese, mentre s'insaponava i capelli. «Se tu sei presente». «Aggiornami», disse Wendy, sfregandosi la faccia con il sapone liquido e una spugna da bagno. «Cosa è successo dopo che sono svenuta?». «Le ferite di Abby erano guarite e lei ha cercato di svegliarti. Temevo che avrei potuto... spaventarla rivelando la mia presenza, ma Abby si è comportata quasi come se si aspettasse che io la contattassi. Le ho detto di chiedere aiuto, e lei ha chiamato il padre adottivo, lo sceriffo». A quanto pareva, Abby aveva impartito allo sceriffo Nottingham istruzioni molto precise, dicendogli che lei e Wendy avevano bisogno di aiuto a casa di Wendy, di portarle un cambio di vestiario e che c'era un uomo morto sulla strada a circa cinquecento metri dalla villetta, un uomo che aveva cercato di ucciderle entrambe. «Questo non è esatto», obiettò Wendy sciacquando via l'accumulo di schiuma. «Quel delinquente, Misero, ha cercato di uccidere me, e il lupo... il lupo mi ha salvata...». Wendy lasciò a metà la frase e batté le palpebre per liberare gli occhi dall'acqua che le scorreva sulla faccia. «Abby e il lupo sono la stessa cosa?». «Sì. Credo che siano la stessa... entità». «Quindi Abby è una specie di lupo mannaro? Ma, un momento... Per poco non è morta a causa di quelle ferite da coltello. Credevo che ci voles-
sero pallottole d'argento per uccidere un lupo mannaro». «Che ti posso dire? Tutta la sua struttura scheletrica è stata alterata da una delle streghe di Windale, e in qualche modo quell'esperienza le ha dato la capacità di cambiare forma e di diventare un lupo ma, per quanto ne sappiamo, non è stata morsa da un vero lupo mannaro». «Oh», mormorò Wendy, che non era certa di capire la distinzione. «Quindi lei diventa semplicemente un normale lupo, senza poteri o immunità particolari?». E stanotte non c'è neppure la luna piena, pensò. Tuttavia... se qualcosa cammina come una papera e starnazza come una papera... Chiusa l'acqua, sfilò un asciugamano pulito dalla rastrelliera e cominciò ad asciugarsi. «Tu vieni dal futuro e non sapevi di questo? Non sapevi di Abby?», chiese. «Vengo da un futuro... e sospettavo qualcosa del genere... ma non ho più visto Abby MacNeil da molti, molti anni. Evidentemente, questa capacità di cambiare forma è una cosa che desiderava mantenere segreta». «Se tu non lo sapevi, e io invece lo so, allora tu non puoi essere me», osservò Wendy uscendo dalla vasca. Dopo essersi avvolto l'asciugamano intorno al corpo fermandone l'estremità sotto il braccio sinistro per evitare che si sciogliesse, si passò la spazzola fra i capelli. «In un angolo della mente avevo l'idea che in qualche modo tu potessi essere una versione futura di me stessa», spiegò scrollando le spalle. «Il solo colore degli occhi avrebbe dovuto bastare a convincerti che non è così», sorrise la vecchia. «I tuoi sono verdi, i miei azzurri». «Suppongo di sì... Però era una teoria sensata. Prendi la scorciatoia e raggiungimi in camera da letto», disse Wendy indicando la parete. Con pochi rapidi passi superò la distanza che la separava dalla sua camera, sentendosi però ancora le gambe deboli e tremanti. Sgusciando dentro, si chiuse la porta alle spalle, ignorando il desiderio di sedersi e di riposare, e in quel momento la Vecchia emerse dalla parete, fluttuandole davanti. Prelevati gli indumenti puliti dall'armadio, Wendy gettò il tutto sul letto da sopra la spalla: reggiseno e mutandine grigi, felpa di flanella verde bosco con scollo a V, jeans neri e calzini grigi puliti. «Dimenticavo di dirtelo. Quando Misero mi ha aggredita, ho superato il mio blocco mentale», affermò. «Ho evocato una fiamma, addirittura senza focalizzazione». «Adesso lo so», replicò la Vecchia con tono triste. «Certi ricordi del
passato... Gli eventi mi appaiono chiari soltanto dopo che si sono verificati nella tua dimensione temporale. Sapevo che evocare il fuoco era importante, ma non ero in grado di ricordare perché, e neppure quando lo sarebbe stato». «Ecco, quella piccola fiamma poteva essere definita solo un trucchetto da salotto», confessò con amarezza Wendy. «A che serve tutto questo? La tua precognizione, tutto il mio addestramento magico? È bastato un pazzo armato di coltello e niente ha più avuto importanza, perché non c'era niente che potessi fare per impedirgli di uccidermi...». D'un tratto si rese conto che il suo corpo stava tremando, e si premette la mano sulla bocca per reprimere un singhiozzo. «Se davvero niente di tutto questo avesse importanza, Wendy, adesso tu e Abby sareste morte». «Lei lo sapeva», affermò Wendy ricordando la premonizione di Abby. «Sapeva che lui mi avrebbe aggredita». «Siamo state modificate dagli eventi passati, Wendy, anche se forse tu sei quella che è mutata meno di tutti. Tu hai sempre avuto questo destino». E magari è arrivato il momento che la smetta di commiserarmi, pensò Wendy, vestendosi a tempo di record. «Quale che ne sia il motivo, pare che certi eventi siano semplicemente destinati a verificarsi... Il che mi ricorda che stanotte io e Alex avevamo un appuntamento. Per quanto tempo sono rimasta svenuta?». «Quasi un'ora». «Ormai avrebbe dovuto già essere qui», osservò Wendy accigliandosi, poi prese il telefono che era accanto al letto e chiamò il dormitorio, riagganciando dopo una decina di squilli a vuoto. «È uscito», disse. «Probabilmente è in ritardo». Con un sospiro si pettinò i capelli umidi con le dita e lanciò un'ultima occhiata alla Vecchia prima di abbandonare l'intimità della sua stanza. Ci sono così tante domande senza risposta, rifletté. E io ho promesso allo sceriffo Nottingham delle risposte. Alex aveva appena finito di radersi e si stava passando il dopobarba sulle guance quando suonò il telefono. Deve essere Wendy, pensò. Si starà chiedendo perché sono in ritardo. Come faccio a spiegare alla mia giovane, nubile principessa wicca che ero così incredibilmente eccitato all'idea del nostro grande appuntamento del sabato sera che mi sono addormentato appena poche ore prima di prepa-
rarmi? Potrei dirle che ho passato tutta la notte a studiare sodo per l'esame di marketing e che avevo un grosso arretrato di sonno. Oh, sì, capirà, non ci sono problemi. Afferrato il bastone con l'impugnatura a forma di testa di drago che era appoggiato al lavandino, si affrettò verso il telefono e sollevò la cornetta al terzo squillo, decidendo che la linea d'azione migliore era esordire con le scuse. «Ciao, Wendy! Senti, mi dispiace davvero per...». Ogni traccia di animazione gli scomparve dal volto, lo sguardo si fece leggermente sfocato e la mascella gli si accasciò un poco. «Sì, so chi parla», disse con voce atona, poi ascoltò per un momento e aggiunse: «Sì, capisco perfettamente...». Lasciata cadere la cornetta sulla forcella, si diresse alla scrivania e scribacchiò un messaggio su un foglio che fissò con del nastro adesivo sul monitor del computer. Prendendo con sé soltanto il bastone, lasciò quindi la stanza senza spegnere la luce e si chiuse la porta alle spalle senza prendersi la briga di girare la chiave nella serratura. Mentre si avviava lungo il corridoio, sentì il telefono che suonava ancora, ma non prese neppure in considerazione l'eventualità di tornare indietro per rispondere. Dopo dieci squilli il suono cessò, ma Alex era già uscito nella notte. «Wendy, voglio credere a quello che mi stai dicendo», affermò lo sceriffo, «ma la tua storia è piena di buchi. Sei uscita a fare jogging, quel furfante di Misero ti ha presa alle spalle, ti ha aggredita e ti avrebbe uccisa se questo misterioso lupo bianco non avesse deciso di squarciargli la gola. Questo è tutto?». Wendy annuì, scoccando ad Abby un'occhiata furtiva. «Ha detto lei stesso che la sua gola era stata squarciata da un animale», ribatté, mentre finiva l'ultima cucchiaiata di zuppa e spingeva di lato il piatto. Doveva ammettere che si sentiva meglio, adesso che aveva mangiato qualcosa di caldo, ma era ancora incerta sulle gambe quanto un cerbiatto appena nato. Non stava male... Era solo debole e prosciugata. «Sì, l'ipotesi preliminare del coroner è che si sia trattato di un grosso cane, o anche di un lupo». «Allora perché non mi crede?». «Oh, a questo ci credo, ma che mi dici del resto? In che modo, esattamente, hai salvato la vita ad Abby?». «Ho arrestato la sua emorragia», spiegò Wendy, indicando il sangue co-
agulato sul pavimento della cucina, coperto ora da alcuni vecchi asciugamani. «Era rimasta gravemente ferita», aggiunse, poi sospirò. Ha ragione lui: ci sono troppi buchi. «Forse non te ne sei accorta, ma Abby non ha un solo graffio in tutto il corpo. Quanto poi a come sia finita a chilometri di distanza da casa, ritrovandosi nuda sulla porta di casa tua, quella è tutta un'altra questione». Wendy si rese allora conto che avrebbe dovuto dirgli la verità, ma fino a che punto? «Lei era ferita», ribadì, «finché non l'ho guarita... con la magia». «Con la magia?». «Sceriffo, lo scorso anno c'era anche lei, ha visto quei mostri e quello che potevano fare, di cosa erano capaci». Lo sceriffo Nottingham si sfregò il volto con le mani, e quando riprese a parlare lo fece con voce più sommessa e stanca. «Avevo fatto un dannato sforzo per dimenticare quella notte», disse. «Crede che non lo abbia fatto anch'io?». «Vuoi dirmi almeno in che modo Abby è coinvolta in tutto questo? Per l'amor di Dio, ha soltanto nove anni!». «Dovrebbe essere Abby a dirglielo». «No!», esclamò la bambina sgranando gli occhi. «Abby, lui ha diritto di conoscere la verità». «Non posso... Non voglio!», gemette Abby, scuotendo energicamente il capo. «Non farmelo fare... Per favore, non farmelo fare», continuò, con il viso rigato di lacrime. «Lui mi odierà, lo so, mi odieranno tutti». Allarmato, lo sceriffo la guardò e le strinse le mani nelle proprie. «Abby, non ti odierò, di qualsiasi cosa si tratti», promise. «Lo farai, so che lo farai. Dici di no, ma non puoi capire, nessuno potrebbe...». «Abby, non è colpa tua», intervenne Wendy. «La responsabile è Sarah Hutchins, non tu, che hai sfruttato la situazione come meglio potevi. Ascolta, Abby, stanotte mi hai salvato la vita. Hai idea di quanto ti sono grata?». «Sarah Hutchins», ripeté lo sceriffo guardando verso Wendy. «Le ossa di Abby... Ha a che fare con le sue ossa, vero?». «Cambiano», sussurrò Abby con voce appena udibile, a testa bassa e con il mento premuto contro il petto. «Le mie ossa cambiano». «Che cosa stai dicendo?», le chiese lo sceriffo. «Non posso impedirlo... Posso soltanto lasciare che accada, è il solo
modo in cui lo posso controllare». «Tu la capisci?», chiese lo sceriffo guardando verso Wendy. Fu però Abby a rispondere, ammettendo infine la verità. «Il lupo ero io», spiegò. «Voglio dire, alcune volte il lupo mi sostituisce, altre volte sono io a sostituire lui». «A causa del modo in cui Sarah Hutchins ha alterato le sue ossa, lo scorso anno, Abby è diventata una mutante», aggiunse Wendy. «È vero», confermò Abby fissando lo sceriffo con occhi arrossati dal pianto ma pieni di sfida, aspettando che osasse darle della bugiarda... o che si trattenesse dal distogliere lo sguardo per il disgusto. «È stato per questo che ti ho chiesto di portarmi da Wendy per la sua festa, in modo da poter... perché il lupo potesse memorizzare il suo odore, in modo da riuscire poi a rintracciarla e a salvarle la vita». «Come facevi a saperlo?», chiese Wendy. «Era solo una sensazione», spiegò Abby scrollando le spalle. «Il lupo ha istinti - è questa la parola giusta? - istinti diversi perfino da quelli degli altri lupi. Per via di quello che sono diventata, il lupo sapeva che la responsabile di tutto questo era lei». «Lei chi?», domandò lo sceriffo. «Chi è responsabile?». «La creatura malvagia». Il tono di Abby, come se stesse enunciando un dato di fatto, raggelò Wendy fin nel profondo delle ossa. «Si riferisce a Wither», spiegò allo sceriffo, stringendosi le braccia intorno al corpo. «Wither è morta, Wendy», dichiarò lo sceriffo. «Indipendentemente da che razza di mostro fosse, tu l'hai uccisa». «Era quello che credevo», ammise Wendy, «ma in qualche modo è sopravvissuta, o per meglio dire è sopravvissuto il suo sangue, e questo è stato sufficiente. Tuttavia, questo ancora non spiega perché Misero mi abbia aggredita». A meno che lei non si sia servita di lui come di uno strumento, ma perché? Si sforzò di ricordare le parole di Misero. «Pensi di essere davvero in gamba, non è così? Ma non sei niente, sei meno di niente, sgorbio». «Lui ha detto qualcosa che in quel momento mi è suonato strano», affermò, rivolta agli altri. «Ha detto: "Non sei tu quella che mi dà ordini". Non: "Non darmi ordini", né: "Non sei nella condizione di darmi ordini".
Ha detto specificatamente: "Non sei tu quella che mi dà ordini"». «Il che significa che qualcun altro gli stava dando degli ordini», annuì lo sceriffo, giungendo all'ovvia conclusione. «L'ordine di ucciderti, ma perché? Per vendetta?». «Qualcosa di più di questo». «Ti stava mettendo alla prova», annuì Abby. «Per vedere quanto sei potente». «Sarebbe logico pensare che lo ricordi», obiettò Wendy, ma poi rammentò un'idea avuta in precedenza, un frammento di intuizione magica, e aggiunse: «Invece non lo ricorda. Si tratta di questo... Sa che per poco non l'ho uccisa, ma non sa come, e ha continuato a girarmi intorno come uno squalo, con cautela, aspettando di vedere se ero in qualche modo pericolosa prima di venire avanti per uccidere. Se quello che è successo stanotte era il suo modo di mettermi alla prova», concluse traendo un profondo respiro, «ho fallito alla grande». «Se lei pensa che tu sia impotente, cosa può impedirle di...», iniziò lo sceriffo. «Si è aperta la stagione di caccia alle wicca», annuì Wendy, cupa. «O almeno a questa wicca». «La miglior difesa è una valida offesa, quindi ritengo che dobbiamo contrattaccare... Sempre che si riesca a trovarla. Adesso che quel vecchio granaio è bruciato, dove si può nascondere un mostro dalla pelle di cuoio alto tre metri?». «Il suo sangue nero ha corrotto un essere umano», spiegò Wendy scuotendo il capo, «e adesso Wither ha forma umana. È tornata al primo stadio del suo ciclo di crescita di tre secoli». «È umana? Questo è un bene... Per noi, intendo. Giusto?». «Non necessariamente», replicò Wendy. «Ho la sgradevole sensazione che nel diventare sempre più mostruose, sempre più imponenti dal punto di vista fisico, le streghe perdano gran parte delle loro capacità magiche per semplice atrofizzazione. Quelle tre sono sopravvissute mediante la sola forza bruta, la capacità di volare era la loro ultima forma di magia attiva, e anch'essa serviva soltanto ad aumentarne la pericolosità fisica». «Il che significa che una strega di dimensioni umane forse ha a sua disposizione trucchi più numerosi e pericolosi di una strega enorme e mostruosa». «In pratica è così». «Non è che per caso sai chi sia quest'umano, vero?».
«In effetti lo so...». Qualcuno bussò alla porta. Concentrato com'era su ogni singola parola di Wendy, lo sceriffo sussultò a causa dell'improvviso bussare, cosa che lo fece sentire assai poco professionale, come un bambino spaventato da storie di spettri raccontate intorno al fuoco di un campeggio, però gli parve di riuscire a nascondere bene la propria reazione. «Probabilmente è Alex», osservò Wendy. «Anche così, forse è meglio che vada ad aprire io», replicò lo sceriffo, alzandosi dalla sedia e abbassando la mano sulla .357 Magnum che portava al fianco. «Se non ti dispiace», aggiunse. «Per nulla», garantì Wendy con una scrollata di spalle. «Basta che non spari al mio ragazzo». Alla porta c'era però Jeff Schaeffer, il vicesceriffo più anziano di grado, e non Alex Dunkirk. Troppo cortese per autoinvitarsi a entrare, Schaeffer si fermò sulla soglia, e lo sceriffo si guardò bene dall'invitarlo a entrare a partecipare al bizzarro party di rivelazioni paranormali in corso all'interno. «Cosa c'è, Jeff?», chiese. «Volevo solo dirle che sulla scena del crimine abbiamo finito», spiegò Schaeffer, poi accennò verso la cucina e aggiunse: «Loro sono testimoni?». «Una specie», rispose lo sceriffo guardando a sua volta in quella direzione con aria accigliata. «Anche Abby?». «È quello che sto cercando di appurare». «Sceriffo, vuole che chiami l'accalappiacani?». «Ci penserò io», si affrettò a replicare Nottingham, dato che a quanto pareva l'animale che dovevano cercare di accalappiare era Abby. «Hank si è già presentato a rapporto?», domandò poi e, quando Jeff annuì, concluse: «Bene, Jeff, allora perché per stasera non te ne vai a casa? I rapporti possono aspettare domattina». Jeff lo ringraziò con un sorriso e se ne andò. Richiusa la porta, lo sceriffo tornò in cucina cercando di mettere insieme i pezzi di tutto quello che aveva sentito: per un uomo razionale, in quella storia non c'era niente che avesse senso, ma quell'uomo razionale non si era trovato a guardare negli occhi demoniaci una creatura alta tre metri che poteva volare e banchettava con la carne umana. In qualità di sceriffo di Windale, dimora ancestrale
delle streghe di Windale, Bill Nottingham era obbligato a credere a parecchie cose sulla fiducia, tuttavia... sedutosi al tavolino, prese la mano sinistra di Abby nella propria. «Abby, questo... questa trasformazione ti ha fatto del male in qualche modo?», chiese. «Non da quando ho smesso di rifiutarla». «Potresti...?». «Mostrartela?». «Non è che non ti creda», aggiunse lo sceriffo, dando però l'impressione di pensare che lei stesse raccontando qualche grossa fandonia. «È solo che... certe volte...». «Una dimostrazione vale una deposizione scritta?», domandò Wendy con un sorriso asciutto. «Certe volte la mente umana rifiuta di... di adeguarsi a un'idea», replicò lui, scuotendo il capo senza sapere bene cosa avesse inteso dire. «Vederlo mi sarebbe davvero d'aiuto». «Prometti che non mi odierai?». «Certamente», garantì lui inducendola ad appoggiargli la testa contro il petto. «Ti voglio bene, Abby, come a una figlia. Adesso tu sei mia figlia». Ritraendosi, la bambina abbassò lo sguardo sulla mano che lui le stava ancora stringendo. «Non mi toccare», disse. «Abby...». «Voglio dire, non mi toccare mentre mi trasformo», spiegò Abby imbarazzata. «Credo che potrebbe essere sgradevole». Annuendo lo sceriffo la lasciò andare. Adesso la bambina si stava fissando la mano, quindi lui seguì la direzione del suo sguardo e, nel vedere che Wendy si protendeva a sua volta in avanti, si rese conto che anche lei non aveva ancora mai assistito alla trasformazione di Abby, cosa che peraltro non le impediva di crederle. Un punto a suo favore. Riportando la propria attenzione sulla mano sinistra di Abby, lo sceriffo credette per un momento che gli occhi gli stessero lacrimando e che questo gli alterasse la vista, perché il polso e il dorso della mano gli apparivano ora indistinti. Dapprima il dorso si assottigliò, poi le dita si accorciarono facendosi tozze, e la fine peluria che le copriva il braccio s'infoltì, diffondendosi sulla pelle in uno strato di pelo bianco che si estese a rivestire la... la zampa, perché adesso quella che c'era all'estremità del braccio non era più una mano, ma una zampa.
«Gesù», sussurrò lo sceriffo. Con un grido di mortificazione Abby ritrasse di scatto la mano... la zampa... e la nascose sotto il tavolo mentre gli occhi le si colmavano di lacrime. «Pensi che io sia un mostro!», esclamò. «Io... no, Abby, è solo che... Ecco, è una cosa davvero... notevole», replicò Nottingham, con il cuore che gli martellava nel petto e la bocca d'un tratto arida. Devo rassicurarla, pensò. Dio, chissà che espressione devo avere sulla faccia! Probabilmente lei pensa che io la veda come un mostro. Senza riflettere, allungò la mano sotto il tavolo e afferrò la zampa prima che Abby potesse ritrarla; lei però si stava già trasformando di nuovo, con le dita che si allungavano e il palmo che si riformava. «Incredibile», sussurrò Wendy dal suo lato del tavolo, un'espressione di pura meraviglia dipinta sul volto. «Abby, è davvero fantastico!». Abby sorrise, dimenticando per un momento che lo sceriffo aveva tenuto in mano la sua zampa quando era tornata un arto umano. «Le prime volte mi sono spaventata», ammise. «Ci scommetto», annuì Wendy. «Questo avrebbe spaventato chiunque». «Adesso però mi sembra soltanto di... di essere libera». Grazie, Wendy, pensò lo sceriffo, grazie per essere il genere di persona che riesce immediatamente a vedere qualcosa di bello nell'afflizione di Abby. Forse il mio problema è proprio che faccio fatica a vedere una cosa del genere come un dono... «D'accordo», disse quindi, traendo un profondo respiro. «Dunque è impossibile confutare che Abby sia stata... sia il lupo bianco che ti ha salvata, Wendy, ma il suo io alternativo, il lupo, ha ucciso un uomo». «Per autodifesa», precisò Wendy. «Misero stava cercando di uccidere me, e anche lei». Lo sceriffo scosse il capo. «Guardatevi», obiettò. «Lavate di fresco, con le guance rosee, sembrate la pubblicità di una clinica della salute. Come faremo a convincere chiunque che avete dovuto lottare per salvarvi la vita...». D'un tratto la voce gli venne meno, soffocata da un grosso nodo che gli contrasse la gola, e lui si protese oltre il tavolo per stringere Abby in un abbraccio, con la massima forza che poteva esercitare senza romperle le costole. «Cosa... cosa ho fatto?», ridacchiò la bambina, sorpresa. «Mio Dio», sussurrò lui fissandola con le lacrime agli occhi. «È che ero
così concentrato a cercare di capire qualcosa di questa storia incredibile, che me ne sono reso conto solo ora... Se tu eri il lupo, allora tutto quel sangue sul pavimento... Quel bastardo ti ha ferita! E saresti morta, se non fosse stato per Wendy!». Passando un braccio intorno alle spalle di Wendy la trasse nell'abbraccio e appoggiò il mento sulla sua testa, continuando: «Grazie per quello che hai fatto, comunque tu lo abbia fatto... Ecco, sai cosa intendo». Wendy gli batté un colpetto sulla schiena prima di sgusciare fuori dall'abbraccio. «Ho scoperto che io e Abby siamo una squadra», replicò. «Aspetta un momento», osservò lo sceriffo, appoggiandosi di nuovo allo schienale della sedia, «non mi hai ancora detto chi credi che sia Wither». «L'entità che tre secoli fa ha corrotto il corpo di Elizabeth Wither risiede ora, secondo me, nel corpo di Gina Thorne». «Gina Thorne?», ripeté lo sceriffo, pensando a quell'adolescente dai capelli biondo rossicci e faticando a conciliare quell'immagine con il mostro che aveva visto nella stalla di Matthias, la notte di Halloween. Da un punto di vista tecnico, anche quella spaventosa creatura era stata un tempo una donna umana, Sarah Hutchins, e tuttavia... «Gina Thorne è una ragazza di diciassette, al massimo diciotto anni», obiettò. «Abby aveva solo otto anni quando Sarah l'ha scelta», gli ricordò Wendy, «e Hannah non era ancora neppure nata. Pare che il solo requisito necessario per ospitare un demone-strega sia di possedere due cromosomi x». «Ooh, merda!», sbottò lo sceriffo in tono aspro. «Scusa il mio linguaggio, Abby». «Che le prende?», chiese Wendy. «Cosa c'è?». «Alcuni giorni fa il patrigno di Gina Thorne, Dominick Gallo, si è ucciso», spiegò lo sceriffo, riesaminando mentalmente quel caso di suicidio aperto e subito archiviato. «E il mese scorso Todd Gallo, il fratellastro di Gina, è stato investito e ucciso da un camion davanti alla casa dei Gallo». «Gina è stata sospettata nell'uno o nell'altro caso?», domandò Wendy, cinerea in volto. Lo sceriffo scosse il capo. «No», rispose. «Come potevamo sospettare di lei? Era in casa quando Todd è stato investito. Quanto a Dominick Gallo, era depresso e c'erano le prove che lui... Ecco, ha lasciato un messaggio e la scrittura corrispondeva alla sua. Sulla pistola c'erano soltanto le sue impronte e aveva sulle mani
residui di polvere da sparo. Non ci sono dubbi sul fatto che si sia sparato». «La colpevole è lei, lo so», dichiarò Wendy scrollando la testa. «Come fai a esserne certa?». «Ci sono troppe coincidenze», spiegò Wendy con voce tremante. «Quei due dovevano aver scoperto cosa lei sia, o forse le erano diventati d'intralcio. È tutta colpa mia». «Cosa sarebbe colpa tua? Wendy, tu non hai fatto niente». «Proprio così!», urlò Wendy perdendo il controllo. «Non ho fatto niente». «Allora perché ti colpevolizzi...». «Perché ormai sospettavo da tempo che Gina Thorne fosse Wither, e non ho...». Interrompendosi, Wendy si asciugò una lacrima con il dorso della mano. «Non capisce? Mi sono comportata come se questo fosse stato un duello fra noi due, in una sorta di vuoto magico, ma se avessi fatto qualcosa, qualsiasi cosa, forse Todd e Dominick Gallo sarebbero ancora vivi». «Più probabilmente saresti morta anche tu con loro», affermò lo sceriffo posandole una mano sulla spalla. Wendy lo fissò e si morse un labbro come se stesse trattenendo un singhiozzo, poi scosse ancora il capo, ma con meno vigore di prima. Forse sta ricordando quanto si sia trovata indifesa, quanto sia stata inefficace la sua magia contro Val Misero, un semplice mortale, pensò lo sceriffo. «Avrei dovuto fare qualcosa...», ripeté Wendy. «La vera domanda è cosa dobbiamo fare adesso». «Distruggerla?», suggerì Abby. Lo sceriffo alzò le mani con il palmo in fuori, in un gesto che invitava ad andarci piano. «Ci arriveremo, ma prima ci serve un piano d'azione», disse. «Se ha ucciso Todd e il suo patrigno - e io sono certa che sia stata lei sta coprendo bene le proprie tracce», osservò Wendy, riportando sotto controllo le proprie emozioni. «Problema numero uno: se è umana, se anche solo appare umana, la legge è dalla sua parte, perché non c'è un solo brandello di prova a suo carico per uno di questi crimini, neppure per l'aggressione di Misero nei tuoi confronti, Wendy. Le due cose non si possono collegare dal punto di vista legale e, essendo morto, lui non può testimoniare contro Gina. Abby ha avuto soltanto la sensazione che Gina... Wither... stesse orchestrando l'aggressione, e di certo non possiamo chiedere ad Abby di trasformarsi in lupo sul banco dei testimoni, ammesso che questo potesse aiutarci a provare
qualcosa». «Allora dobbiamo prima costringerla a scoprirsi e poi distruggerla», disse Wendy. «Non c'è un solo dannato modo in cui possa convincere un giudice a emettere un mandato di perquisizione, neppure se pensassi di poter trovare qualche prova, cosa di cui non sono certo. Però posso sorvegliare la casa, e magari indurre sua madre a invitarmi a entrare». «No», intervenne Abby afferrandolo per un braccio. «Tu non la puoi fermare». «Non ti preoccupare per me, Abby, so badare a me stesso». «Non ci conti troppo, quando si tratta di Gina», ammonì Wendy. Lo sceriffo la guardò. «Per favore, adesso non mi venire a dire che è immune alle pallottole». «L'ho schiacciata sotto tonnellate di roccia e ho incendiato il cadavere, e tutto quello che ho ottenuto è stato di irritarla profondamente», affermò Wendy, scuotendo il capo con una smorfia. «Probabilmente le pallottole potrebbero rallentarla, sempre che riesca a centrarla, ma il fuoco è il solo modo sicuro per distruggerla. Il mio errore è stato quello di tardare troppo ad accenderlo, permettendo al suo sangue di sfuggire dal cadavere intrappolato. «Ho afferrato il punto», annuì cupo lo sceriffo. «Hai idea di quanto la sua magia possa essere potente?». «So solo che è molto più potente della mia», rispose Wendy. «Tutto quello che sappiamo per certo è che ti darà la caccia», rifletté lo sceriffo. «Se questi fossero tempi molto meno complicati, potrei cavarmela piantandole una pallottola fra gli occhi e cremando il cadavere ma, se lo facessi adesso, mi aspetterebbe una vita intera chiuso a Gander Hill senza speranza di libertà sulla parola. Quindi, signore, ecco il nostro piano». Il piano dello sceriffo fa schifo, pensò Wendy mentre parcheggiava la Civic dietro Schongauer Hall. Fa decisamente schifo. Prima di abbandonare la protezione dell'interno della macchina, cercò nella borsetta le chiavi di riserva che Alex le aveva dato, faticando a trovarle perché erano fermate da un semplice, grosso anello, mentre un portachiavi colorato e morbido sarebbe saltato subito all'occhio. Con le chiavi in mano scese infine dalla Civic e chiuse la portiera, poi si guardò rapidamente intorno nel parcheggio deserto e raggiunse in tutta fretta l'entrata del dormitorio.
Mentre saliva le scale cominciò a parlare fra sé. «Lo sceriffo si aspetta che me ne resti seduta in casa finché non riuscirà ad accusare Gina di qualcosa. Quello che intende effettivamente è che cercherà una scusa legale per farla fuori, probabilmente davanti a una quantità di testimoni imparziali che possano dichiarare che lui ha agito per legittima difesa. E nel frattempo io resterò a casa a fare da bersaglio». Dieci minuti dopo che lo sceriffo se n'era andato per riportare Abby a casa, Wendy aveva deciso di uscire a sua volta, specificatamente per andare alla Schongauer Hall e scoprire cosa era successo ad Alex, che continuava a non rispondere al telefono. Oh, certo, lo sceriffo ha promesso che i suoi vice pattuglieranno regolarmente la mia strada, come se una cosa del genere potesse servire contro Gina... Wither... o quello che diavolo è. Stava per bussare alla porta di Alex quando si arrestò con le nocche sollevate accanto alla lavagnetta cancellabile. Forse sta dormendo, o si sente male, pensò, e come compromesso bussò piano. «Alex?», chiamò. «Alex, ci sei? Non ti pare che forse hai dimenticato qualcosa?». Nella fattispecie me, aggiunse fra sé. Con chi sono infuriata, in realtà? Con lo sceriffo... o con Alex? Doveva ammettere di essere d'accordo con lo sceriffo su un punto, e cioè la necessità di tenere Abby al sicuro. Se da un lato le aveva senza dubbio salvato la vita, dall'altro la bambina per poco non era morta per aiutarla perché, pur essendo molto più forte della forma umana, la sua forma di lupo non offriva nessuna speciale protezione contro la magia o i coltelli. Sì, lo sceriffo ha ragione riguardo ad Abby. Non ha senso sfidare la sorte una seconda volta, rifletté mentre decideva di aspettare ancora qualche istante prima di commettere una violazione di domicilio. Tecnicamente, la si poteva definire violazione di domicilio se si disponeva della chiave? Oppure era solo una violazione della privacy, cosa che non sembrava altrettanto grave? «Il tempo è scaduto, amico», disse rivolta alla porta, e inserì la chiave nella serratura. Non incontrando resistenza, girò d'impulso la maniglia e la porta si aprì: Alex non si era solo dimenticato di chiudere a chiave la porta, ma aveva anche lasciato la luce accesa. Ho una brutta sensazione, pensò Wendy avanzando lentamente nella piccola stanza. Sbirciò nel bagno, giusto per accertarsi che fosse vuoto, poi si girò... e notò il biglietto fissato con il nastro adesivo sul monitor del
computer. Prima ancora di staccarlo dallo schermo spento, constatò che si trattava senza dubbio della calligrafia di Alex, poi si accigliò nel leggere il messaggio, e la sua espressione si andò incupendo sempre di più mentre lo rileggeva per la seconda volta. Wendy, per favore, perdonami... ho dimenticato che avevamo in programma di andare a Cambridge con Jen e gli altri del gruppo di studio... un festeggiamento post-esame per scaricare la tensione. È una cosa alla «uno per tutti, tutti per uno», e non mi posso esimere. Ho telefonato 2 volte, nessuna risposta. Non ti preoccupare. Ti chiamerò io quando tornerò a casa barcollante. TVB... ALEX «Mi stai prendendo in giro», commentò Wendy ad alta voce, irritata. Alex aveva chiamato mentre lei era fuori a fare jogging? Mentre veniva aggredita? Questa volta non ci saranno scuse, mazzi di fiori o scatole di cioccolatini che ti possano aiutare, ragazzo! pensò. Non riusciva a credere che lui se ne fosse andato così, senza preavviso, per andare a festeggiare con Jen e con i suoi amici. Jen, eh? Chissà cosa ce sotto? Che razza di idiota che sono... Accidenti, gli ho chiesto di riportarla al suo dormitorio. Magari lei ci ha provato... Interrompendo quelle riflessioni, scosse il capo con uno stanco sospiro. Adesso non posso rimuginare su questo, devo focalizzarmi perché ho cose più importanti di cui preoccuparmi... Mi occuperò di lui più tardi, disse a se stessa. Forse è meglio così, è meglio che lui sia fuori città, al sicuro. Dopotutto Wither aveva già quasi ucciso Alex una volta per causa sua, e quello che valeva per Abby valeva anche per lui: meglio non tentare la sorte due volte. Appallottolato il messaggio, lo gettò nel cestino della carta straccia. Tuttavia... «Ti credevo diverso, Alex», disse, mentre usciva dalla stanza e chiudeva a chiave la porta. Durante il viaggio di ritorno alla villetta fu tormentata dalla strana sensazione che le stesse sfuggendo un particolare importante: sapeva che era qualcosa che la Vecchia aveva detto di recente, ma non aveva idea di cosa fosse.
Capitolo 11 Menlo Park, California 6 agosto 2000 «C'è qualcosa che non va, Hannah?», chiese Karen Glazer alla figlia di nove mesi, che aveva però l'aspetto e il comportamento di una bambina di tre anni. Di questo passo, il mese prossimo sarà pronta per l'asilo, pensò, anche se dubito seriamente che mi permetteranno di iscriverla all'asilo, a dieci mesi di età. Probabilmente le dovremo trovare delle maestre private. Quella mattina Hannah aveva deciso di lasciar perdere il latte e stava mangiando i Cheerios asciutti, prelevandoli dalla ciotola con il suo cucchiaio a forma di Nala, la coraggiosa, giovane leonessa del Re Leone, e masticandoli rumorosamente mentre Karen correggeva gli elaborati di metà trimestre della sessione estiva relativi alla letteratura del fantastico. Dal momento che non nuotano nel latte, i Cheerios non si ammolleranno tutti, aveva ragionato Hannah, e quella mattina aveva chiesto di bere il latte da un bicchiere. Per sciacquarsi la gola, aveva pensato Karen con un sorriso. Attualmente Hannah era alla terza ciotola di Cheerios, che aveva fatto seguito alle uova strapazzate, a due fette di pane bianco tostato e imburrato e a una banana; del resto, il suo corpo si era sviluppato così in fretta fin dalla nascita che il metabolismo era costretto di continuo a mettersi al passo con i balzi di crescita. Quando sentì Hannah sospendere il suo costante sgranocchiare, Karen sollevò lo sguardo dai compiti e dal toast con uova strapazzate, che aveva mangiato solo per metà, anche se doveva ammettere di essere alla seconda tazza di caffè. È così facile servirsi, quando la caffettiera piena è proprio lì a portata di mano, si disse. Tenendo il bicchiere con entrambe le mani, Hannah stava finendo il latte fino all'ultima goccia, ravvivandosi i baffi bianchi che già aveva intorno alla bocca. «Adesso devo andare, mamma», affermò, posando il bicchiere vuoto sulla tovaglietta. Come parte del suo nuovo regime per «quarantenni in forma», Art era
già uscito per la sua energica camminata del mattino in giro per il campus, lasciando sole le «due signore di casa» almeno fino a quando non fosse arrivata la baby-sitter, cosa che avrebbe lasciato Karen libera di andare a fare la spesa. Portare con sé Hannah in drogheria era fuori discussione, perché la vista di tutto quel cibo in un posto solo pareva inviare al suo metabolismo vertiginoso un messaggio del tipo «mangia a piacimento», e la bambina finiva per riempire il carrello di Oreos, crostatine e girelle alla frutta con una velocità superiore a quella con cui lei si sforzava di rimettere il tutto sugli scaffali. Di conseguenza Karen evitava di dire ad Hannah quando andava dal droghiere, perché la bambina si metteva a piangere e pretendeva di andarci anche lei; invece, Karen usava l'eufemismo «devo fare delle commissioni», chiedendosi per quanto tempo ancora quel fuorviante giro di parole avrebbe continuato a funzionare. «La signorina Kim ti porterà da qualche parte mentre io faccio le mie commissioni, tesoro», disse Karen allungando la mano verso il tovagliolo della bambina per pulirle la bocca; Hannah però fu più svelta di lei. La piccola scosse il capo. In quel momento suonò il campanello. «Deve essere lei», disse Karen lasciando cadere il tovagliolo sulla sedia per andare ad aprire la porta. «Non ti preoccupare, mamma», le gridò Hannah. «Prenderò dei vestiti e della biancheria di ricambio». «Resta dove sei, signorina», ingiunse Karen, accigliandosi, mentre si dirigeva alla porta. Allevare quella bambina dallo sviluppo accelerato era stata un'esperienza scandita da non pochi momenti strani, non ultimo il fatto che Hannah si era abituata da sola a usare il vasetto prima ancora di arrivare ai sette mesi di età. Tutto il denaro che Art e Karen avevano risparmiato in pannolini, però, era stato più che assorbito dalle grandi quantità di cibo che Hannah consumava e dalla necessità di rinnovarle gli abiti dopo appena due o tre lavaggi, perché troppo piccoli. Adesso porta la terza e la quarta, pensò Karen, mentre nella norma non dovrebbe neppure saper camminare. Kim Laird, una studentessa universitaria di Stanford che si stava laureando in sviluppo infantile, era una rossa naturale dalla pelle chiara e dall'ampio sorriso spontaneo. Una volta superato l'iniziale timore che Kim potesse trattare Hannah come una sorta di cavia da laboratorio, Karen era stata lieta di assumerla come baby-sitter part-time, e il fatto che Kim e
Hannah apprezzassero la reciproca compagnia l'aveva molto aiutata ad alleviare il proprio senso di colpa materno dovuto al fatto che lasciava sola sua figlia cinque giorni alla settimana per insegnare, perfino durante l'estate. Lei e Art avrebbero potuto usare quel denaro aggiuntivo per portarsi avanti nei pagamenti del mutuo, che garantiva ad Hannah una casa confortevole, ma a volte - troppo spesso - quella facile razionalizzazione veniva messa a nudo e rivelata inadeguata dalla sua coscienza esigente. «Come sta oggi la piccola principessa?», chiese Kim, che sfoggiava un berretto nero appollaiato di traverso sui capelli rossi lunghi fino alle spalle. «Questa mattina voi due avete intenzione di fare un viaggio a Parigi?», replicò Karen. Kim studiava il francese come disciplina complementare e di solito, quando portava quel berretto, lei e Hannah recitavano la parte di personaggi inseriti in un ambiente francese, un ristorante o un museo parigino, ridendo di continuo. Kim aveva inoltre riferito a Karen che ormai Hannah parlava il francese quasi bene quanto l'inglese. «Viaggio? Ah, il berretto! No, non abbiamo in programma niente. Perché?». «Hannah ha appena parlato di fare un viaggio...», cominciò Karen accigliandosi di nuovo. Un'espressione che si accentuò quando scoprì che la cucina era vuota. Hannah era nella sua stanza, con tutti i cassetti aperti, ed era impegnata ad ammucchiare vestiti al centro della stanza sopra il suo zainetto di Winnie the Pooh. Calcolando che quegli indumenti erano molti di più di quelli che sarebbero mai potuti entrare nei ristretti confini dello zainetto da bambina, Karen s'inginocchiò accanto ad Hannah quando lei cominciò a comprimere il proprio vestiario nella pancia di vinile di Pooh. Nel guardare i capelli nerissimi di sua figlia, Karen non poté trattenersi dal pensare quanto fosse rivelatrice la sottile ciocca grigia che spiccava in mezzo a essi; Hannah era nata con quella ciocca grigia e, mentre in un primo momento aveva creduto che sarebbe scomparsa con il tempo, adesso Karen la vedeva come un sintomo, si sperava benigno, del rapido sviluppo della bambina. Accarezzando la testa della figlia, lasciò che i capelli grigi le scorressero fra le dita. «Hannah?», chiamò. «Quanto sono lontani gli aeroplani, mamma?». Karen scoccò a Kim un'occhiata interrogativa, ma la studentessa, appoggiata allo stipite della porta, si limitò a scrollare le spalle e a inarcare un sopracciglio.
Quindi questo non fa parte dei loro giochi di fantasia, pensò Karen, riportando la propria attenzione sulla bambina. «Devi proprio prendere un aeroplano, tesoro?», domandò. «Non essere sciocca, mamma», ribatté Hannah, con un sorriso indulgente, come se ritenesse che sua madre dovesse dimostrare più buonsenso. «Windale è troppo lontana per poterci andare a piedi!». «Win... Windale?», mormorò Karen con il respiro che le si bloccava in gola. «Sì», confermò Hannah, rinunciando a qualcuno dei suoi abiti preferiti per poter chiudere la cerniera dello zainetto. «Dobbiamo aiutarla». Karen l'afferrò per le spalle, costringendola a concentrarsi su di lei e non sulle dimensioni dello zaino. «Hannah? Cosa c'è che non va? Ti manca Wendy?». «Sempre, mamma». «Potremo andare a trovarla durante le vacanze di Natale», promise Karen, pur non essendo certa che sarebbe stato possibile. «Ti piacerebbe?». «Sì, mamma». «Allora è tutto risolto? Rimarrai qui a giocare con la signorina Kim?». «No, mamma», replicò Hannah scuotendo il capo. «Devo partire, prima che sia troppo tardi. Se verrai con me non ti sentirai sola, mamma», continuò prendendo la mano della madre con espressione tanto seria da apparire sconcertante su un visino così giovane. «Così va bene?». «Non capisco, Hannah», insistette Karen sorridendo suo malgrado. «Perché è così importante partire?». «Sono le cose cattive, mamma. Le cose cattive stanno tornando». «Ha avuto degli incubi?», chiese Kim. No, ma ne ho io. Va bene lo stesso? pensò Karen scuotendo il capo. «Lasciami chiamare Wendy, d'accordo, Hannah?», disse. «Per vedere se è tutto ok». Effettuò subito la telefonata, soltanto per scoprire che decisamente non era tutto ok. Al telefono Wendy parve stanca e tesa, ma soprattutto spaventata. Quando Karen accennò al fatto che lei e Hannah sarebbero potute tornare nell'est, Wendy per poco non cedette al panico e continuò a insistere perché rimanessero sulla costa occidentale, il più possibile lontano da Windale ma, di fronte a una richiesta di maggiori dettagli, rispose in maniera evasiva dicendo a Karen di non preoccuparsi di niente, garantendo di potersi occupare lei di tutto lì a Windale, e ribadendo che Karen e Hannah sarebbero state più al sicuro dal lato opposto della nazione.
Karen riagganciò la cornetta con mano tremante. Hannah sa, fu il solo pensiero che riuscì a formulare mentre percorreva in fretta il corridoio, di ritorno dalla sua stanza. Hannah sa che c'è qualcosa che non va. «Ecco la tua mamma, principessa», annunciò Kim in tono rassicurante quando Karen tornò. «Stavo giusto dicendo ad Hannah che è tutto a posto. Non è così, signora Glazer?». «No», ammise Karen, inginocchiandosi per finire di chiudere lo zainetto di Hannah. «Non lo è». «Cosa?», esclamò Kim, sgranando gli occhi. «Kim, fammi un favore», disse Karen. «Mentre preparo una ventiquattrore per me, telefona all'aeroporto e prenota due biglietti per il Logan International, poi chiamami un taxi, o una navetta o un qualsiasi mezzo di trasporto per l'aeroporto». «State partendo? Così su due piedi? Che ha detto Wendy?». «Che per nessun motivo io e Hannah dovevamo tornare a Windale», replicò Karen. Ignorando l'espressione perplessa di Kim, procedette poi a impartire altre rapide istruzioni: «Lascia un messaggio presso l'ufficio del preside, avvertendo che ho avuto un'emergenza di famiglia e che devo annullare le lezioni di lunedì. Non ti preoccupare di Art, lo chiamerò io dal taxi o dall'aeroporto e gli spiegherò che siamo dovute partire». Presa per mano Hannah, che aveva lo zainetto in spalla, si avviò lungo il corridoio, con Kim che le seguiva con aria sconcertata. «Certo... ma se Wendy ha detto... Quello che intendo è perché...», balbettò la ragazza. «Hannah è coinvolta in questa situazione», spiegò Karen. Hannah entrò di corsa nella stanza e saltò sul letto, facendo dondolare i piedi con un ritmo alternato, probabilmente felice che dopotutto sua madre non sarebbe rimasta sola. «Hannah era coinvolta ancora prima di nascere», sussurrò Karen a Kim. «Ho cercato di portarla lontano, di fuggire da tutto questo, ma...», scosse il capo asciugandosi le lacrime che le erano salite agli occhi. «Non posso fuggire da Hannah, da quello che è. È mia figlia, ed è una cosa che si porta dentro». Kim incrociò le braccia sul petto, un linguaggio corporeo abbastanza esplicito da far capire a Karen che non era per niente convinta dal suo ragionamento. «E questo significa che dovete tornare a Win...», cominciò. «Dobbiamo farlo perché Hannah sa di questa... situazione», replicò Ka-
ren traendo un profondo respiro tremante. «Non ho idea dei perché... ma tu hai visto qualcosa di quello che abbiamo passato. Credo significhi che lei deve essere presente perché tutto questo finisca, perché lei possa condurre una vita normale. Pensavo che fosse finita, ho pregato che lo fosse, ma mi sbagliavo, Tutto quello che è successo ci ha condotte a questo momento». «E se si sbagliasse? Se la stesse mettendo in pericolo?». «Allora che Dio mi perdoni». Windale, Massachusetts Wendy trascorse la maggior parte della notte alternativamente a preoccuparsi per lo strano comportamento di Alex e a chiedersi quando e come Gina avrebbe colpito ancora, quindi non ci fu da stupirsi se dormì ben poco. Perfino l'idea di un bagno rilassante con i petali di lavanda mancò della consueta attrattiva: oziare nella vasca da bagno l'avrebbe fatta sentire troppo vulnerabile, e la sua ansia avrebbe annullato l'effetto tranquillizzante del bagno caldo. Ogni volta che riusciva ad assopirsi, veniva svegliata da qualche strano rumore ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a individuarne la provenienza, e parecchie volte attraversò la stanza vuota di fronte alla sua - quella di Frankie - per scrutare la strada deserta attraverso le tende. Una volta, intravide la macchina bianca e nera della polizia che pattugliava procedendo lentamente con i fari che fendevano l'oscurità, il vicesceriffo Hank Rossi seduto dietro il volante con l'aria di chi si sente sicuro nel proprio ambiente. Questo dimostra soltanto quanto possano essere errate le apparenze, pensò, tentando di soffocare un altro sbadiglio. Di primo mattino telefonò a casa dello sceriffo Nottingham, e lui le confermò che Abby era al sicuro nel suo letto; anche lui aveva trascorso una notte insonne per vegliare su di lei e accertarsi che non se ne andasse in giro. Wendy trascurò di riferire allo sceriffo la visita fatta al dormitorio di Alex, ma lo informò che prima di mezzogiorno sarebbe andata a lavorare. «Sono più al sicuro in un negozio affollato oppure a casa... completamente sola?», sottolineò con logica inoppugnabile, stroncando le sue immediate proteste. Inoltre sarebbe impazzita se fosse rimasta chiusa nella villetta per tutto il giorno, limitandosi ad aspettare il prossimo attacco. Wendy fece una rapida doccia, concludendola con una scarica di acqua fredda per schiarirsi la mente. Dal momento che le previsioni del tempo avevano parlato di una giornata calda e umida, indossò un top senza mani-
che verde limone dall'audace scollatura a V e, dato che quel top era più aderente di quanto permettesse di solito la sua personale modestia, compensò l'effetto con un paio dei suoi jeans più larghi. Karen la chiamò proprio quando stava per uscire, riferendole che Hannah stava insistendo perché lei e Karen tornassero a Windale. L'ultima cosa che Wendy voleva era che Hannah si esponesse al pericolo, lì a Windale, e preferiva che rimanesse invece in California, a un intero continente di distanza dalla malvagità di Gina. Si augurava di essere riuscita a spaventare Karen quanto bastava a indurla a far rimanere lei e Hannah al sicuro laggiù a Menlo Park. Essendo arrivata in negozio con mezz'ora di anticipo, decise di saltare il consueto tè del mattino e preparò invece il caffè ricorrendo a uno dei trucchi che Kayla usava per tenersi sveglia, una dose doppia di caffè in un solo filtro. Il sapore risultò simile a quello dell'acido per le batterie, ma finché avesse continuato a sorseggiare quella roba dubitava che avrebbe corso il pericolo di assopirsi. «Wennndyyyy». Il richiamo che echeggiò alle sue spalle suonò fievole e spettrale, o almeno Wendy immaginò che la voce di un fantasma potesse avere un tono del genere. Sorpresa, si girò così di scatto da rovesciarsi il caffè bollente su una mano e, mentre imprecava contro la propria goffaggine, si chiese se per caso Kayla potesse aver mescolato qualche sostanza stupefacente legalizzata al caffè macinato contenuto nella lattina. Si trattò però soltanto di un pensiero transitorio, perché quella era la voce della Vecchia, la cui immagine stava tremolando ora davanti a lei, evanescente quanto un'apparizione. «Ah, sei tu», commentò, costringendo il proprio cuore martellante a calmarsi fino a tornare a un numero di battiti che avesse meno di tre zeri. «Non hai un bell'aspetto». «Sto esercitando pressione contro... persistenza temporale... grande resistenza». La vecchia scosse il capo con aria frustrata. «Non sarò... di aiutare... non posso comunicare». «Persistenza temporale? Me ne hai già parlato. È la tendenza della linea temporale a mantenere una particolare direzione». La vecchia allargò le braccia fuligginose, e l'arto di sinistra svanì per un breve momento. «Si avvicinano eventi fondamentali... se cambia... corso... nostre linee temporali... non coincidono».
Wendy si sforzò di afferrare il senso del messaggio prima che quella trasmissione paranormale cessasse del tutto. «Sta per succedere qualcosa di grosso?», chiese, e la Vecchia annuì. «E la tua capacità di influenzare l'esito degli eventi è indebolita da questa... forza? La persistenza temporale?». Ottenne un altro assenso. «La persistenza vuole che le cose rimangano come dovrebbero essere ma, se io provengo da un tempo in cui ho trionfato su Gina Thorne, o Wither, chiunque sia, questo non significa che tutto si dovrebbe risolvere per il meglio?». La Vecchia scosse il capo, con aria troppo solenne per i gusti di Wendy. «...mio tempo, gli eventi si sono verificati come... avrei sperato. Questo... punto di svolta... ti spinge... linea temporale diversa». Questa faccenda della linea temporale mi fa decisamente dolere la testa, pensò Wendy. Sapeva però che per lei era importante capire cosa stava succedendo. «Stai dicendo che la tua linea temporale potrebbe non essere la stessa in cui mi trovo io? Dal momento che occupi questo tuo punto di osservazione privilegiato sul futuro, è evidente che sei sopravvissuta a questi eventi. Tuttavia, anche se per ora mi sto dirigendo lungo lo stesso... binario temporale, potrei venire deviata su uno diverso, come succede a un treno che viene spostato di binario quando arriva a uno scambio». «Essenzialmente sì», annuì la Vecchia. Un lato della sua testa si dissolse come un anello di fumo, ma dopo un momento lei parve rimaterializzarlo con la sola forza della volontà. «Dovremmo incontrarci... ma Wither e adesso... ma Thorne corrompono la natura... possono... potere... alterare le linee temporali... eliminando la mia...». Di nuovo Wendy cercò di riempire i vuoti presenti in quel discorso. «È possibile che loro... che lei ti stia impedendo di raggiungermi per aumentare le sue probabilità di vincere questa battaglia?», chiese, e la Vecchia annuì. «Può davvero farlo?». «È una possibilità... neppur consciamente, forse», rispose la Vecchia. «Guardati... suoi poteri... troppo in fretta... perdita di controllo, come una diga che esp... incredibilmente distruttiva». Wendy si sentì tremare le ginocchia: mentre i poteri di Gina Thorne erano tali da rischiare di sfuggire al controllo in maniera esplosiva, lei riusciva a stento a forzare una serratura da quattro soldi... «D'accordo, quali sono le buone notizie? Ce ne devono essere. Prima quelle cattive, poi quelle buone». La Vecchia scosse il capo, e questa volta cominciò a dissiparsi definiti-
vamente. «...se ti lascio... sola...». «Tutto qui? È questo il messaggio? Lei è stracarica di energia e io sono sola?». «Io... proverò, forse l'ho già fa... vicino a te... congrega». «Aspetta! Non te ne andare! Non capisco! Se vieni dal futuro, come puoi essere vicina a me? E cosa c'entra la congrega? Gina ne ha già creata una nuova? Lo chiedo perché fino a un momento fa credevo che in nessun modo questa dannata situazione potesse peggiorare ulteriormente. Però era troppo tardi per avere altre risposte: il corpo già evanescente della Vecchia si era mutato in sottili filamenti di vapore e, nello smarrire la poca, fragile consistenza che ancora possedeva sul piano astrale, lei perse anche la capacità di parlare. Wendy ebbe solo pochi momenti per riflettere sulle implicazioni dell'avvertimento della Vecchia prima che Kayla e Tristan arrivassero al lavoro, lei vestita con una canotta bianca con un'immagine di Betty Boop fatta di lustrini, lui tutto in grigio. Fuori dalla portata di udito di occasionali clienti, Wendy cercò di metterli al corrente il più in fretta possibile, perché voleva che si tenessero entrambi lontani dalla linea di tiro magica nel caso che Gina fosse venuta in negozio. «So che sono troppe cose da assimilare tutte in una volta», disse, «e non posso biasimarvi se pensate che sia completamente impazzita, però vi prego di assecondarmi per quanto riguarda Gina Thorne. Potete credermi se vi dico che è pericolosa: tenetevi alla larga da lei». Le braccia strette intorno al busto in un gesto inconscio, Kayla scoccò un'occhiata a Tristan. «Non ti preoccupare», rispose. «Quella tizia fa venire i brividi a entrambi». «Se dovesse farsi vedere qui, non le rivolgete la parola a meno che non lo faccia lei per prima, e non la contrariate. Se dovesse chiedere dove mi trovo, diteglielo, e non appena se ne va chiamate il 911, e subito dopo chiamate anche questo numero», aggiunse, porgendo loro un biglietto da visita. «È il numero di casa dello sceriffo». «Vuoi che le diciamo dove ti può trovare?», chiese Kayla. «Tranquillamente?». «Solo se dovesse chiederlo», rispose Wendy, costringendosi a sorridere. «Perché non mentire?», suggerì Tristan. «Potremmo rispondere che non lo sappiamo». «Lei potrebbe essere in grado di capire che state mentendo e si potrebbe
infuriare. E io non voglio che succeda con voi». Kayla stava continuando ad aggrottare la fronte con tanta frequenza da far fare una lunga esercitazione aerobica alle barrette nelle sopracciglia. «Tu cosa farai?», chiese. Wendy era tormentata da una vocetta interiore. La tua magia non è abbastanza sviluppata per sconfiggerla, continuava a ripetere, e non hai il tempo di perfezionarla. Nel corso della notte Wendy si era allenata a intervalli a eseguire i suoi esercizi di addestramento, ma era stata troppo stanca e nervosa per riuscire a focalizzare. «Penserò a qualcosa», rispose, cercando di apparire più sicura di quanto non fosse in realtà. «Ti rendi conto che sei in un grosso mare di merda, vero?», sospirò Kayla, scuotendo il capo. «Oh, sì». Un'ora più tardi, nell'emergere dal retro, Kayla trovò Wendy accanto al registratore di cassa, intenta a fissare un biglietto di plastica laminata mentre armeggiava con il telefono. «Ce lo hai tenuto nascosto», commentò Kayla, accennando verso il retro. «Cosa?», domandò Wendy, distratta. «Non ci hai detto che adesso siamo in diretta», rispose Kayla. «Sai, l'incarnazione del Crystal Path su Internet». «Oops, è attiva da un paio di giorni, ma mi sono dimenticata di controllare», replicò Wendy. «Qualcosa non funziona?». «No, ma hanno già fatto un paio di dozzine di ordini on line», sorrise Kayla. «Suppongo sia troppo presto per ricevere lamentele via e-mail per la lentezza del servizio». «Potresti...». «Sì, sì, ci penserò io prima che il nostro reparto on line finisca nella toilette virtuale. Cos'è quello strano bigliettino?». «Una cosa che ho tirato fuori da un boccale da birra in peltro», spiegò Wendy. «Quel regalo degli amici di Alex, ricordi?». «Ah, sì, quelli che sono andati a Cambridge con lui», disse Kayla. «Intendi fare loro il malocchio?». «Anche se sapessi fare cose del genere, tutti quei ragazzi sarebbero al sicuro da me. Ho appena contattato l'ultimo: sono ancora tutti a Windale e nessuno di loro ha idea di cosa Alex abbia voluto parlare nel suo biglietto».
«Cosa mi dici della puttanella... Volevo dire di Jen?». «Non risponde, e nessuno l'ha più vista da ieri». «Oh, Wendy, in questo momento i miei pensieri non sono molto positivi», gemette Kayla, con espressione addolorata. «Lo stesso vale per me». Dal momento che mancava ancora un'ora alla chiusura, fra tutti e tre finirono di evadere gli ordini su Internet, compresi alcuni affluiti nel frattempo. La giornata era stata piuttosto lenta nel mondo reale, ma il mondo elettronico li aiutò a passare il tempo; anche se non ci furono nuovi sviluppi, Wendy continuò a sentirsi in ansia perché non riusciva a liberarsi dall'impressione che quella fosse la calma prima della tempesta, una tempesta che si stava formando nelle più immonde viscere dell'Inferno. Lo sceriffo aveva parcheggiato la Jetta bianca a mezzo isolato di distanza dalla casa dei Gallo e sedeva in auto, intento ad ascoltare la radio sulle frequenze della polizia mentre sorvegliava il davanti della casa. Quel giorno il solo problema era stato un tamponamento fra tre macchine all'incrocio fra la Main ed Enchantment, e Jeff gli aveva garantito che si era trattato soltanto di qualche parafango ammaccato, senza danni fisici evidenti. La città era quasi troppo quieta... e questo lo preoccupava. Se da un lato si considerava fortunato ad essere uscito dalla battaglia nella vecchia stalla di Matthias Stone riportando soltanto una frattura composta, dall'altro avrebbe fatto volentieri a meno del sordo dolore al femore che preannunciava ogni temporale. Intento com'era a osservare la casa dei Gallo, trascorse mezzo minuto prima che si accorgesse che si stava massaggiando la coscia con il palmo della mano sinistra. Il disagio fisico, l'impazienza o forse la semplice consapevolezza che non poteva rimanere inosservato dentro una macchina bianca che aveva il profilo di una strega a cavalcioni di una scopa stampato in nero sulle portiere, lo indussero infine a scendere dall'auto e a dirigersi verso l'abitazione dei Gallo. Nel ricordare l'aspetto terrificante della strega-mostro, Sarah Hutchins, si sentì d'un tratto nudo senza il fucile a canna mozza; il Remington sarebbe stato per lui un ulteriore conforto, soprattutto perché quella mattina aveva sostituito la carica a pallettoni con proiettili corazzati. Il problema, pensò, è che è difficile non dare nell'occhio se si circola con un fucile a canna mozza sotto il braccio. Per ora avrebbe dovuto fare affidamento sulla sua vecchia .357 Magnum. Situata vicino all'ingresso di Eden's Crossing, che era definito come una
«comunità di case residenziali», l'abitazione dei Gallo era a tre piani, in stile gotico vittoriano, con una veranda e un garage a due posti annesso sulla destra. Probabilmente sul depliant di vendita dovevano averla pubblicizzata come una casa «dotata all'interno di tutte le comodità moderne pur conservando il fascino esteriore del Vecchio Continente». La villetta pareva silenziosa, con le imposte accostate per tenere a bada il caldo sole di agosto, ma in essa c'era qualcosa che pareva quasi vibrare sotto la superficie e che gli fece rizzare i capelli sulla nuca. È soltanto la mia immaginazione, si disse. Anche se Gina Thorne è in qualche modo la reincarnazione di Wither, la strega di Windale ha impiegato trecento anni per diventare un mostro volante alto tre metri, mentre Gina Thorne ha al massimo diciotto anni ed è alta... diciamo un metro e settanta, e peserà forse una cinquantina di chili quando è bagnata fradicia. Dopo che ebbe bussato alla porta principale, trascorse quasi un intero minuto prima che il battente si aprisse di una fessura e Gina Thorne in persona facesse capolino all'esterno, il volto contratto in un'espressione irritata. «Sì, sceriffo?». «Salve, signorina Thorne. Posso entrare?». «Perché?». «Vorrei parlare con sua madre. Non ci metterò molto». «Lei non desidera ricevere visite. Adesso, se non le dispiace...». «Posso chiederle il perché?». «Emicrania, se proprio lo vuole sapere», spiegò Gina, alzando gli occhi al cielo, poi si guardò alle spalle come se stesse impartendo o ricevendo istruzioni silenziose, prima di riportare l'attenzione sullo sceriffo. «Il funerale di Dom si terrà domani e mia madre è in uno stato davvero disastroso», continuò scuotendo il capo con aria rassegnata. «Senta, se vuole posso riferirle un suo messaggio. Può bastare?». «Preferirei parlarle di persona. Riguarda la morte del suo patrigno». «Il suicidio di Dom? Di che si tratta?». Ci siamo, ci vuole faccia tosta, pensò lo sceriffo. «Signorina Thorne, se proprio è necessario, sono disposto a richiedere un mandato di perquisizione. Tuttavia, in considerazione delle recenti tragedie subite dalla sua famiglia, ho pensato di ricorrere a un approccio... più civile». Nel parlare, spinse indietro il cappello di qualche centimetro, sperando che il suo atteggiamento noncurante desse l'impressione che lui aveva la garanzia assoluta di poter ottenere un mandato, cosa che in realtà sa-
rebbe stata quasi impossibile, e che il risultato ultimo non sarebbe stato piacevole per la famiglia Gallo. «Posso essere cortese o sgradevole signorina Thorne, a lei la scelta. Naturalmente, se davvero è preoccupata per sua madre...». «Se per lei è tanto importante, sceriffo, si accomodi pure», ribatté Gina con un tono che mostrava sicurezza di sé più che irritazione. Mentre spalancava la porta, lo sceriffo vide che indossava un abito a sottoveste nero e che era a piedi nudi, con le unghie dipinte di un rosso ciliegia. In lei non c'era nulla di inumano... eppure qualcosa gli trasmetteva un senso di disagio e, per quanto stesse contrastando quell'impulso, desiderava disperatamente aprire il risvolto della fondina e posare la mano sull'impugnatura della .357 Magnum; nell'entrare in casa, mascherò quel gesto dettato dal nervosismo con uno di cortesia, togliendosi il cappello. Nonostante il caldo e l'umidità estivi, non appena entrò si sentì investire da una corrente di aria gelida. Sembra di entrare in una cella frigorifera, pensò. «Lasci che lo prenda io», sceriffo, si offrì Gina, protendendosi verso il cappello che lui teneva nella sinistra; il palmo della ragazza gli sfiorò le dita e indugiò su di esse, innaturalmente caldo e sudato se si considerava che la temperatura della casa pareva essere inferiore di almeno quaranta gradi Fahrenheit a quella di un corpo umano. «C... certo», balbettò. Anche se nell'atrio c'era un attaccapanni, Gina tenne in mano il cappello, facendo scorrere l'indice lungo l'interno della tesa mentre avanzava nel salotto e si fermava ad attenderlo su un tappetino che lo sceriffo non ricordava di aver visto l'ultima volta che era stato lì. «Mia madre è in cucina», sorrise Gina, quando si accorse che lui la stava fissando. «Parlare le causa dolore, quindi tenga bassa la voce», aggiunse, accennando verso la cucina. «Dopo di lei». L'ultima cosa che lo sceriffo desiderava era darle le spalle, ma era riuscito a entrare in casa con un bluff e adesso doveva mantenere quella facciata di spavalderia. Se non altro, non doveva preoccuparsi che lei potesse avere un'arma nascosta addosso. Quel vestito le nasconde a stento il corpo, pensò. Distogliendo infine l'attenzione da Gina, notò che tutte le superfici della casa parevano inumidite da uno strato di condensa... le pareti, le finiture in legno, la ringhiera della scala... e provò la strana convinzione che qualsiasi cosa avesse toccato sarebbe risultata spugnosa, come ai primi stadi di un decadimento liquido o della putrefazione; perfino il flusso di aria fredda
portava con sé un odore pungente di fermentazione causandogli un lieve senso di nausea, come per l'insorgere del mal di mare. Nel lanciarsi un'occhiata alle spalle con un cenno cortese, non poté poi fare a meno di constatare che la ragazza non indossava il reggiseno sotto quell'abito inconsistente, e una strana vocina gli echeggiò nella mente, avanzando una supposizione lasciva. Non porta neppure le mutandine. Quel pensiero così improvviso ed estraneo alla sua natura lo indusse a incespicare leggermente in preda alla confusione, come se un vecchio sporcaccione fosse sopraggiunto alle sue spalle e gli avesse sussurrato quelle parole all'orecchio. Sorridendo a Gina, cercò di scrollarsi di dosso il senso d'imbarazzo. Non mi credi? Fai scorrere la mano lungo la sua coscia, e vedrai se ho ragione. Non ti preoccupare, non le dispiacerà affatto. Non a lei. Questa volta lo sceriffo si fermò di colpo e si girò per guardare verso Gina. «Ha sentito qualcosa?», chiese, guardando verso il salotto. «Forse c'è la televisione accesa, o magari la radio». «Qui non si accende niente senza che io lo sappia, sceriffo», ribatté Gina, soppesandolo con lo sguardo. «Quello che voglio dire, è che il rumore infastidisce mia madre. Ultimamente, non riesce a tenere niente nello stomaco». Vomita? Potrebbe essere la spiegazione di quest'odore sgradevole. Gina gli passò davanti, sfiorandolo con un fianco nel precederlo attraverso l'arcata di accesso alla cucina, e quel contatto gli diede una vera e propria scossa, come un'ondata di energia statica che gli scorresse sotto la pelle strappandogli un brivido. Poteva avvertire il calore che emanava dal corpo di lei anche attraverso i vestiti di entrambi, eppure sarebbe stato pronto a giurare sul banco dei testimoni che l'aria era così gelida da permettergli di vedere il respiro che gli si condensava davanti alla faccia. «Cosa sta aspettando, sceriffo?», chiese Gina, girandosi a guardarlo con le mani sui fianchi, la testa inclinata da un lato. «Mia madre è proprio qui, seduta al tavolo di cucina. Venga a vedere». Riposa qui sulla mia tela, disse il ragno alla mosca stanca. Da dove si trovava, lo sceriffo poteva scorgere soltanto Gina e l'angolo del lungo tavolo di cucina. Altri due passi e sarebbe stato in grado di vedere l'intera stanza, compreso chiunque altro poteva trovarsi all'interno ad attenderlo. Ancora una volta pensò al Remington che era rimasto nella Jetta,
caricato con sette pallottole corazzate. Con un lieve cenno di assenso, mosse gli ultimi passi che lo separavano dalla cucina, e non si preoccupò di nascondere il movimento con cui la sua mano si abbassò verso il fianco, aprendo la fondina. Il ragazzo non poteva avere più di dodici anni, e non era certo il tipico cliente del Crystal Path. Forse crede che sia un negozio di fumetti, pensò Wendy, ma quando lo vide puntare dritto verso la cassa cambiò idea. No, ha bisogno di usare il bagno. «C'è una Wendy Ward qui?», chiese il ragazzo. Wendy era stata sul punto di dirgli che all'angolo dell'isolato successivo c'era una stazione di servizio dotata di bagno, e reagì quindi a scoppio ritardato alle sue parole. «Cosa?». «Cerco Wendy Ward», ripeté il ragazzo, mostrando quello che sembrava un biglietto di auguri, con il nome di Wendy scritto in stampatello sulla busta bianca. «Lei mi ha detto di dare questo a Wendy Ward. Sono nel posto giusto?». Mentre Wendy aggirava il bancone, il ragazzo colpì una delle grandi mani per la chiromanzia montate su molle e fissate al piano del banco mediante ventose. La mano prese a oscillare avanti e indietro come uno di quei pagliacci gonfiabili che, se colpiti, tornano a inclinarsi in avanti, pronti a incassare ancora. «Chi te lo ha detto?», gli chiese Wendy. «Non so il suo nome», affermò il ragazzo scrollando le spalle. «E tu come ti chiami?», volle sapere Wendy mentre prendeva la busta. «Nick. Nick Shankin». Wendy aprì la busta con un senso di angoscia che le contraeva la bocca dello stomaco. Non si trattava di un biglietto di auguri, bensì di un invito a una festa d'inaugurazione di una casa, con fuochi d'artificio, che si sarebbe tenuta il 6 agosto alle 5 del pomeriggio. Le parole fuochi d'artificio erano state sottolineate con un pennarello rosso indelebile. Nell'aprire il biglietto, Wendy era certa che l'indirizzo sarebbe risultato quello della sua villetta in affitto su Kettle Court, quindi rimase sorpresa di trovarne uno diverso e sperimentò un disorientante momento di confusione, riconoscendo l'indirizzo senza però riuscire a mettere a fuoco... 100 COLLEGE WAY, DANFIELD, MASSACHUSETTS
Un attimo dopo sussultò e si portò di scatto una mano alla bocca, premendola contro le labbra tremanti mentre prendeva a scuotere il capo. «Oh, no! No, no...». Kayla e Tristan si trovavano nel retro, intenti a riordinare gli scaffali, a passare la scopa elettrica sul tappeto e a fare altri lavoretti che servivano a riempire una giornata morta, ma dovettero intuire che c'era qualcosa che non andava perché sbucarono in tutta fretta nel negozio pochi attimi dopo che Wendy aveva aperto l'invito. Tristan guardò a destra e a sinistra, quasi si aspettasse di trovare Gina nascosta dietro l'espositore delle riviste o di vederla saltare fuori da uno dei cesti di candele come un pupazzo a molla; Kayla invece concentrò la propria attenzione sul ragazzo, ritenendolo la fonte dell'angoscia di Wendy. «Chi è questo marmocchio?», chiese. «Ehi, non uccidete il messaggero», esclamò Nick. Senza una parola, Wendy ficcò l'invito fra le mani di Kayla e afferrò il ragazzo per le spalle. «Chi te lo ha dato?», domandò. «Ti ho già detto che non so il suo nome». «Wendy, ma questo è...», esclamò Kayla, che aveva letto l'invito. «Sì, lo è», la interruppe Wendy, poi tornò a rivolgersi al ragazzo. «Descrivila». «Alta, magra, capelli lisci scuri», rispose il ragazzo, scrollando le spalle. «Credo sia una studentessa del college». «Non sembra la descrizione di Gina», osservò Kayla. «Non è Gina, ma so chi è», replicò Wendy, che stava ricordando le parole della Vecchia: Noi tutte siamo state cambiate dagli eventi passati, Wendy, tu meno di tutte... Infine tornò a fissare il ragazzo. «È là fuori? Quanto tempo fa ti ha dato questo?». «Due minuti fa», rispose Nick, scrollando le spalle e, quando Wendy corse alla porta, le gridò dietro: «Se n'è andata. È saltata su un grosso pickup azzurro». Wendy corse ugualmente fuori nel calore di agosto e si portò nel centro di Theurgy Avenue per avere una visuale migliore. Parecchi automobilisti suonarono il clacson per segnalarle in maniera inequivocabile di togliersi dalla strada, ma lei li ignorò e mosse un passo in avanti, poi uno indietro, allungando il collo per cercare di scorgere Jen o il pick-up azzurro. Due minuti... se n'erano andati da tempo. Scuotendo il capo, si picchiò il pugno
su una coscia in un gesto di frustrazione e riattraversò di corsa Theurgy Avenue, rientrando in negozio. Le sopracciglia inarcate di Kayla espressero una domanda esplicita, a cui Wendy rispose scuotendo il capo. «Puoi farmi un favore? Sostituiscimi qui. Devo scappare». «Va'», la incitò Kayla. «Non ti preoccupare per il negozio». «Chiama il 911», disse Wendy, mentre recuperava l'invito che Kayla aveva in mano e si precipitava verso il retro del negozio e l'ingresso dei dipendenti, «e chiama anche i vigili del fuoco, e lo sceriffo. Digli di raggiungermi alla residenza del preside». «Certo, ma... chi era quella lei?», le gridò dietro Kayla. «Chi ha lasciato il biglietto?». «Jen Hoyt». «Jen?», ripeté Kayla, accigliandosi. «La puttanella?», domandò Tristan, grattandosi i capelli biondi con aria perplessa. «Ehi!», strillò il ragazzino rivolto a Wendy. «E la mancia?». «Eccola», intervenne Kayla assestandogli una spinta verso la porta, «e un suggerimento: non accettare denaro dagli sconosciuti. Ora vattene di qui, prima che chiami tua madre. Un momento», esclamò poi, rivolta ora a Wendy. «Se si trattava di Jen, dov'è Alex?». Wendy però non seppe cosa rispondere. Attraversato di corsa il retro, oltrepassò l'uscita dei dipendenti, avviò la Civic e uscì in retromarcia dal parcheggio, sfrecciando oltre la fila di cassonetti e immettendosi in strada senza frenare, cosa che le fece mancare di stretta misura una collisione con un'arrugginita Camaro bianca che stava entrando nel parcheggio. Mentre guidava prese a frugare nel vano portaoggetti, sparpagliando alcune cartine, un pacchetto di fazzolettini e un manometro per pneumatici prima di trovare il cellulare che suo padre le aveva regalato. Pochi momenti dopo che lo aveva attivato, però, il display a cristalli liquidi si spense: la batteria era scarica. Imprecando, Wendy scagliò il telefono sul sedile del passeggero e riprese a frugare nel vano portaoggetti, tirando fuori questa volta l'adattatore per l'accendino. Dopo qualche intricata manovra delle dita, riuscì a estrarre l'accendino, a inserire l'adattatore e a collegare lo spinotto con la base del telefono, il tutto cercando di rimanere dentro le linee tratteggiate della corsia di Theurgy Avenue. Essendo stata abbastanza lungimirante da inserire nella memoria il numero di casa dei suoi genitori, attivò la chiamata rapida, ma un crepitare e
scoppiettare di energia statica soffocò i tenui squilli che giungevano dall'altro capo della linea. Sembrava quasi che stesse chiamando l'altra estremità del mondo. «Avanti! Rispondete, rispondete, rispondete...». Una massa di nubi tempestose si stava accumulando nel cielo coperto e lampi intermittenti illuminavano dall'interno quella minacciosa massa scura; stava guidando dritta verso la bufera. Alex aveva solo un vaghissimo ricordo di essersi recato a piedi alla Bosch Hall la notte precedente e di essere salito sul retro di un furgone, ma non aveva la minima idea di come fosse finito legato e imbavagliato sul pavimento di una cantina. No, questo non era del tutto vero, perché era rotolato da solo sul pavimento dopo essersi svegliato su un vecchio divano a scacchi blu e bianchi. Chi lo aveva legato, chiunque fosse, era un esperto: tratti di corda per stendere il bucato erano annodati intorno alle caviglie e, a giudicare da quello che poteva avvertire al tatto, dietro le spalle e anche intorno ai polsi; la bocca era tappata da un pezzo di stoffa tenuto al suo posto da abbondanti strisce di nastro adesivo. Uno dei motivi per cui si era gettato per terra era stato quello di recuperare il bastone, che era stato lasciato cadere o buttato vicino a una vecchia pedana; l'altro motivo era stato il bisogno di allontanarsi il più possibile dal cadavere in fase di mutazione abbandonato sulla sedia adiacente il divano. Il cadavere era stato un tempo una donna robusta dai capelli fra il rosso e l'arancione, vestita con un abito nero da domestica completo di pratiche scarpe bianche dalla suola di gomma. Alex si sarebbe aspettato che dopo un certo tempo un cadavere marcisse, si decomponesse, cominciasse a puzzare, mentre questo stava mutando, e pareva essersi riversato fuori dalla costrizione dei vestiti, trasformandosi in qualche altra... cosa che sembrava una sostanza gommosa coperta da chiazze di liquido vischioso, simile a muco. Quella nuova sostanza generata dalla carne del cadavere si stendeva in tutte le direzioni, protendendo sottili filamenti che s'inerpicavano ovunque come viticci di carne. Uno di essi aveva raggiunto il tavolinetto che separava la sedia dal divano, un altro stava risalendo lo schienale del divano stesso e un terzo si era fuso con i pannelli di rivestimento del muro, mentre un quarto era drappeggiato intorno alle tubature dell'acqua incassate nel soffitto, e altri ancora strisciavano lungo il pavimento. La testa del cadavere, coperta da chiazze di muffa verde, era collassata su se stessa, con gli occhi avvizziti e ineguali che guardavano verso Alex fissi e vacui.
Ma la cosa peggiore era che la mutazione di quella carne vagante aveva esposto gli organi interni, che pulsavano e oscillavano nel cominciare a dissolversi e a fluire in tutte le direzioni. Alex era convinto che se fosse rimasto sul divano appena qualche altro minuto, il suo stesso corpo sarebbe stato intrappolato e usato come fertilizzante umano per quei rampicanti di carne in continua espansione. Mantenendo la massima distanza possibile dal corpo, avanzò strisciando sul tappeto e rotolò su se stesso per poter afferrare l'impugnatura del bastone. Dovendosi servire soltanto del tatto, impiegò qualche secondo a trovare il pulsante incassato, ma non appena lo ebbe individuato, l'impugnatura a forma di testa di drago scattò verso l'alto, permettendogli di estrarre la lama da cinquanta centimetri dal fodero di acciaio. Rigirando la lama fra le mani, cominciò a tagliare la corda che gli legava i polsi, anche se sarebbe stato meglio disporre di una lama seghettata, perché la corta spada era stata progettata più per trafiggere che per tagliare, cosa che rallentava i suoi progressi in maniera spaventosa. Mentre lavorava, registrò alle proprie spalle un gocciolio sommesso e intermittente e temette che la carne vagante del cadavere in fase di mutazione lo avesse raggiunto; quando piegò il collo all'indietro per individuare la fonte del rumore, constatò invece che si trattava di un altro tipo di problema: il legno di una delle travi di rivestimento del soffitto si stava sciogliendo. In un primo tempo suppose che si trattasse di una perdita d'acqua proveniente dal piano di sopra che filtrava attraverso il legno, ma il tappeto rivelava che non era così: non era infatti chiazzato dall'acqua ma da una melassa marrone, una sostanza che aveva la consistenza della pece bollente. Per qualche tempo concentrò lo sguardo sulla trave, fino a determinare che questa stava perdendo sostanza, deformandosi: il punto in cui gocciolava si stava abbassando, trasformandosi sotto i suoi occhi in una stalattite di legno. Non per la prima volta, Alex si chiese se lo avessero drogato. Seduto al volante della Jetta, lo sceriffo stava cercando di ricordare cosa avesse visto nella casa dei Gallo. Pareva che la sua curiosità fosse stata soddisfatta - se non altro, aveva avuto la sensazione che poteva andarsene tranquillamente - ma non riusciva a rammentare i dettagli che lo avevano portato a quella conclusione. Ricordava di aver mosso gli ultimi passi per entrare nella cucina, aspettandosi un'imboscata di qualche tipo e tenendosi pronto a impugnare all'istante la .357 Magnum, ma che poi si era rilassa-
to... Gina era in piedi accanto a sua madre che, vestita a sua volta di nero, sedeva al tavolo con la testa fra le mani, un cappello nero a tesa larga che le lasciava il viso in ombra. Anche così, la donna appariva pallida e malaticcia, abbattuta ma viva. Indubbiamente non poteva non compatirla. Aveva perso un figlio e il marito, poi la memoria del marito era stata infangata dalla scoperta che aveva abusato di sua figlia. D'un tratto lo sceriffo non era più riuscito a ricordare cosa lo avesse spinto a disturbare quella donna tanto angosciata, né perché avesse pensato che le accuse di abuso mosse da Gina potessero essere false. «Signora Gallo?». Caitlin Gallo aveva annuito, abbozzando appena un gesto della mano nella sua direzione. Quel poco che riusciva a scorgere del suo volto in quella luce tenue mostrava la pelle pallida e tesa al punto da rivelare le ossa sottostanti, gli occhi infossati e spenti, una sgradevole aura di mortalità. Ha già sofferto abbastanza, si era detto lo sceriffo. Troppo. Dovrei andarmene... «C'è qualcosa che posso fare?», aveva chiesto. Lei aveva scosso il capo in un gesto debole, appena accennato. «Per favore, se ne vada», aveva sussurrato con voce spenta. E lui se n'era andato. Così, semplicemente. Come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Si fissò le mani, posate sul lati del volante nella corretta posizione di guida... Solo che la macchina era ancora parcheggiata e lui non avrebbe saputo dire da quanto tempo era lì seduto, non ricordava neppure di aver lasciato la casa. Però vi era entrato, quella era una parte che non si era immaginato, perché Gina Thorne aveva ancora il suo cappello. Lei... mi ha toccato, pensò, grattandosi il dorso della mano destra, dove la pelle era irritata. Una cosa era certa, la sua gamba dolorante non si era sbagliata. Adesso il cielo coperto appariva molto più cupo di quanto lo fosse stato quando era entrato nella casa dei Gallo: stava arrivando una tempesta e, a giudicare dall'ampio fronte di nubi nere che si muovevano nel cielo, non sarebbe stata una cosa piacevole. Quelle dannate previsioni del tempo non ci azzeccano mai una volta! si disse. «...eriffo, mi riceve?», stridette la radio della polizia. Lo sceriffo si sfregò gli occhi, massaggiandosi la faccia per liberarsi da
uno strano torpore. Da quanto tempo lo stavano chiamando? Da un minuto... o anche da più a lungo? Non avrebbe saputo dirlo. Riscuotendosi da quello stato letargico, prese il microfono. «Sono Nottingham», disse. A quanto pareva, Wendy Ward aveva infine fatto la chiamata che per tutto il giorno lui si era aspettato di ricevere, o per meglio dire l'aveva fatta uno dei suoi amici per lei, dicendo che c'era un'emergenza alla residenza del preside del college e che lui avrebbe dovuto raggiungere là Wendy immediatamente. Lo sceriffo avviò il motore e allontanò la Jetta dal marciapiede. Un giornale stava volando lungo la strada rotolando su se stesso, ed era inseguito da una lattina di soda vuota e da un sacchetto di patatine; gli alberi si piegavano sotto le folate di vento, perdendo i rami più deboli, e più avanti un cancello che non era stato chiuso stava cominciando a sbattere come un inusitato strumento a percussione in mezzo agli ululati del vento. Kayla aveva appena finito di fare l'ultima telefonata di emergenza quando sentì tintinnare il campanello della porta, e il cuore le mancò un battito perché per uno spaventoso attimo ebbe la certezza di trovare Gina Thorne ferma dentro il negozio. Vide invece due ragazzini che davano l'idea di essere un paio di soggetti allontanati dal liceo Harrison e che esulavano decisamente dal genere di clientela proprio del Crystal Path. Il ragazzo alto che era entrato per primo era muscoloso, con corti capelli biondi e il naso storto; indossava una maglietta bianca con un simbolo rosso di pericolo biologico sul davanti, jeans consunti sulle ginocchia e stivali da lavoro marroni alquanto malandati. Il suo amico aveva la testa rasata, un pizzetto bianco, orecchini a cerchio d'argento; indossava una maglietta nera senza maniche che mostrava le spire di serpenti tatuate lungo entrambe le braccia, con una testa dagli occhi carmini e dalle zanne protese disegnata sul dorso di ciascuna mano; i pantaloni verdi erano di quelli con una moltitudine di tasche, ed erano infilati dentro stivali militari neri allacciati fino alle ginocchia. Kayla stava per dire loro che la carrozzeria era a due isolati di distanza, quando vide che Tristan stava già aggirando il bancone per invitarli a uscire. Avevano infatti deciso di lasciar perdere l'orario regolare e di chiudere il negozio con qualche minuto di anticipo per poi darsi da fare a trovare un modo per aiutare Wendy. «Spiacente, ragazzi», disse. «Stiamo chiudendo». «Allora lasciate che vi aiuti», ribatté Testa Rasata, e si voltò verso la
porta girando il cartellino con la scritta aperto/chiuso in modo che la parola chiuso fosse rivolta all'esterno. «Così va meglio». «Se sapete già cosa volete, posso aiutarvi a trovarlo», propose Tristan, fermandosi davanti a loro e cercando di essere cortese; la sua voce però suonò tesa. «Altrimenti, mi dispiace, ma non avete il tempo di curiosare in giro. È in corso una sorta di emergenza». Naso Rotto lo afferrò per la camicia grigia, appallottolandone una manciata di stoffa nel pugno. «Togliti di mezzo, finocchio», disse, e gli assestò una spinta tanto violenta che Tristan inciampò urtando un elaborato espositore di candele e candelabri. Mentre cercava di rialzarsi in piedi, Naso Rotto lo aggirò e si diresse verso il registratore di cassa. Kayla afferrò il telefono, e stava per chiamare il 911 per la seconda volta in dieci minuti, quando vide Testa Rasata passare un braccio muscoloso e tatuato intorno al collo di Tristan, puntandogli un coltello da caccia contro le costole. «Premi un solo tasto e gli strappo il fottuto cuore», minacciò. Carol Ward posò il telefono sulla forcella. «Morto», disse a suo marito Larry, che era intento a sbucciare patate sul tavolo di cucina. Era stato lui a suggerire di invitare Wendy a cena, dato che era domenica e avrebbe quindi chiuso prima il negozio. «Suppongo che stasera ceneremo da soli». «Un vero peccato», commentò lui. Carol conosceva bene quella sensazione. Era la sensazione da nido vuoto, solo su scala molto più larga. Costata cinquecentocinquantamila dollari, una spesa approvata all'unanimità dal consiglio di amministrazione, la residenza del preside aveva otto camere da letto e sei bagni, e adesso erano soltanto in due a vivere in tutto quello spazio vuoto. Naturalmente serviva ancora per gli intrattenimenti mondani ma, per quanto riguardava la vita quotidiana, Carol Ward aveva l'impressione di vivere in una vasta caverna echeggiante. Come poteva una sola figlia riempire tanto spazio, in questa casa... e nel mio cuore? pensò. Per un istante, poi, biasimò se stessa. Se non fossi stata sempre così pronta a criticare... Cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasta con noi per sempre? Sto solo faticando ad affrontare il semplice dato di fatto che la mia bambina è ormai cresciuta. Il bagliore di un lampo illuminò la cucina, seguito quasi immediatamente da un rombo di tuono che fece tremare i vetri. In alto le luci si spensero
per un momento prima di tornare a ravvivarsi. «Splendido», commentò Larry Ward scuotendo il capo. «Prima il telefono, adesso la corrente elettrica». «Mi chiedo se Wendy ci abbia lasciato qualche candela», replicò Carol. «Potremmo cenare a lume di candela». Con le mani in tasca, Larry si avvicinò alla finestra e rimase a guardare il cielo illividito, turbolento. «Guarda là, Carol, oggi non era neppure previsto che piovesse, e guarda che razza di giornata orribile ...». Fermandosi accanto al marito, Carol gli posò la testa sulla spalla, cingendogli la vita con le braccia; in lontananza sentì l'urlo lamentoso di alcune sirene che si avvicinavano e, mentre Larry le passava un braccio intorno alle spalle, uno strano senso di premonizione le strappò un brivido. «Che c'è?», chiese lui. «Adesso è là fuori da sola», disse Carol. «Spero stia bene». «Wendy se la caverà benone», dichiarò con sicurezza Larry Ward. «Abbiamo allevato una figlia in gamba». Sì, lo abbiamo fatto, pensò Carol, ma io mi preoccuperò sempre per lei. «'Fanculo!», urlò Wendy per la terza volta, scagliando il cellulare sul sedile del passeggero. Aveva chiamato almeno una mezza dozzina di volte, ma a casa non rispondeva nessuno. Forse sono fuori, pensò con un momentaneo senso di sollievo. Ma allora perché non scatta la segreteria telefonica? Parecchi minuti più tardi imboccò College Avenue a una velocità di molto superiore al limite delle aree residenziali, e riuscì infine a vedere la casa bianca sulla collina, sul lato destro della strada. Il cielo era porpora e nero, con una rabbiosa massa di nuvole temporalesche che ribollivano e si ammassavano come un esercito invasore, e grosse gocce di pioggia stavano già martellando contro il parabrezza. In casa le luci erano accese e non si vedeva traccia di esplosioni o incendi. A parte la violenta tempesta che stava per scatenarsi sul campus, tutto sembrava normale. Nel percorrere College Way avvistò la macchina dello sceriffo e, più indietro, l'autopompa dei vigili del fuoco, con le luci rosse che lampeggiavano sullo sfondo del cielo buio, la sirena che gemeva. Grazie a Dio, non siamo arrivati troppo tardi, sospirò Wendy. Il fulmine cadde proprio in quell'istante.
Capitolo 12 «Mettilo giù, puttana», ingiunse Naso Rotto strappandole di mano il ricevitore e afferrando la base del telefono; assestato uno strattone tanto violento da staccare il cavo dalla presa a muro, gettò l'apparecchio dall'altra parte del negozio, centrando il più alto degli scaffali di sfere di cristallo. Come una fila di pezzi del domino, le sfere cominciarono a cadere urtandosi una dopo l'altra in una reazione a catena, per poi rimbalzare e infrangersi sopra il pavimento con una serie di tonfi e schianti soffocati. Kayla sollevò le mani, palmo infuori. «Sentite, ragazzi», disse cercando di stare calma, perché un suo cedimento nervoso avrebbe potuto scatenare una loro reazione violenta. «È stata una giornata scarsa e in cassa non c'è molto, ma siete liberi di servirvi. Noi non vi intralceremo». «Grazie per l'offerta», rispose Naso Rotto, «ma non siamo qui per rapinare questo buco, vero, Cecil?». Cecil? pensò Kayla, mordendosi un labbro. Mi stanno prendendo in giro. «No», annuì Cecil. «Allora cosa... Perché siete qui...?». Naso Rotto scosse il capo e scoppiò a ridere. «Non ci crederai, ma siamo qui per offrirti un lavoro». «Uh, no, grazie. Questo che ho mi va benissimo». «No, no. Vedi, qui non c'è futuro», dichiarò Naso Rotto. «Giusto, Cecil?». «Giusto», convenne Cecil, e affondò il coltello nell'addome di Tristan, appena sotto le costole. Tristan sussultò, dilatando gli occhi in maniera innaturale, poi Cecil estrasse il coltello e spinse il corpo contro l'espositore delle riviste, che si coprirono di sangue mentre Tristan scivolava a terra trascinandosi addosso metà del contenuto dell'espositore. «Decisamente, qui non c'è futuro», commentò ancora Cecil. Kayla infilò la mano sotto il bancone per prendere la mazza di alluminio con l'intenzione di colpire alto, senza preavviso, dritto al centro della testa di Naso Rotto. Riuscì a iniziare il colpo, ma la mazza si arrestò a mezz'aria, trattenuta dal palmo di Naso Rotto senza che lei gli avesse neppure visto muovere il braccio.
Questa è una fottuta assurdità! pensò, mentre lui gliela strappava di mano. «Ottimo», disse Naso Rotto lanciando la mazza a Cecil, che l'afferrò a mezz'aria con una sola mano. «Ho sentito dire che un paio di vandali hanno devastato questo posto. Giusto, Cecil?». Cecil cominciò a darsi da fare con la mazza, e i suoi primi bersagli furono gli alti termometri galileiani disposti sul bancone. Un solo colpo a metà altezza infranse gli eleganti oggetti di vetro, schizzando liquido, frammenti di vetro e pezzi di targhette indicanti la temperatura in tutta la metà anteriore del negozio. Kayla ebbe un solo istante di preavviso e riuscì a stento a girarsi di spalle prima di essere tempestata da una pioggia di vetro e di liquido. Dopo quell'esordio Cecil fracassò cestini di erbe e candele, fece a pezzi i libri e scagliò le sculture di cristallo contro la parete, rovesciando tutti gli espositori che incontrò sulla sua strada: sotto lo sguardo inorridito e impotente di Kayla, l'intero inventario del Crystal Path venne danneggiato o distrutto. Gli espositori della vetrina impedivano quasi completamente di vedere all'interno del negozio, e le altre botteghe adiacenti che componevano il piccolo centro commerciale alla domenica chiudevano alle tre, sempre che aprissero, quindi non c'era speranza che qualcuno sentisse il fracasso prodotto da quella devastazione e venisse in suo aiuto. Naso Rotto le rimase vicino, ma continuò ad annuire per indicare la propria approvazione all'operato di Cecil, il volto atteggiato a un sorriso compiaciuto a cui si alternava a tratti una risata divertita. Quando poi Cecil decise di urinare su un mucchio di libri sventrati, Naso Rotto lo applaudì calorosamente. Kayla intanto afferrò di nascosto un taglierino e si spostò rispetto alla cassa, in modo da uscire dal campo visivo di Naso Rotto mentre lui era distratto, per tentare la fuga alla prima opportunità. Non appena ritenne di essersi allontanata abbastanza, scattò verso la porta. Cecil lanciò un urlo e Naso Rotto si scagliò al suo inseguimento, gli stivali che martellavano veloci sul pavimento alle sue spalle. Kayla afferrò la maniglia di metallo, e stava già per spingere il battente quando una mano le afferrò gli ispidi capelli neri e le tirò la testa all'indietro con violenza. Una serie di chiazze bianche prese a danzarle davanti agli occhi mentre veniva trascinata e fatta rimbalzare contro l'espositore delle riviste per poi andare a sbattere contro il muro dopo aver incespicato nel corpo di Tristan. Nel cadere, fece scivolare fuori la lama affilata del taglierino e vibrò un fendente contro la faccia di Naso Rotto, se non altro per impedirgli di strapparle i capelli alle radici.
«Cazzo! Il mio orecchio!», urlò lui, assestandole un calcio nella schiena; Kayla barcollò e cadde, facendosi sfuggire di mano il taglierino. «Comincio ad avere la sensazione che non voglia il lavoro», gridò Naso Rotto a Cecil, che aveva tirato su la cerniera dei pantaloni e stava avanzando verso la parte anteriore del negozio con un'espressione d'ira sul volto. Kayla scattò troppo tardi verso il taglierino mentre Cecil lo spingeva lontano con un calcio, lungo il pavimento; a quel punto, tre metri o tre chilometri non facevano molta differenza. Nel rialzarsi in piedi in tutta fretta, notò che adesso Naso Rotto avrebbe potuto essere chiamato più semplicemente Mezz'Orecchio, perché gli aveva staccato di netto la parte superiore dell'orecchio destro, che adesso era incollata al pavimento come una gomma da masticare umida; peraltro la ferita non stava sanguinando quasi per niente, e non pareva causare il minimo disagio a Naso Rotto. «Prendetevi il vostro lavoro e ficcatevelo dove dico io», disse Kayla. Oooh, sono davvero brava, si rimproverò poi, mi mancava solo di farli infuriare ancora di più. Devo proprio adorare essere maltrattata. Merda, forse in qualche modo malsano, il dolore mi piace davvero. «Suppongo che questa puttana piena di piercing non abbia capito che se non accetta il lavoro, allora è soltanto... carne», osservò Cecil, e con quell'ultima parola le sferrò un pugno nello stomaco, facendola ripiegare su se stessa e vomitare, una lunga linea di saliva che le pendeva dalla bocca. «Vuoi essere solo carne, puttana?». Incapace per il momento di proferire una sola parola, Kayla scosse energicamente il capo. «Bene», approvò Naso Rotto. «Questo significa che verrai con noi». «Pe... perché state facendo questo?», gracchiò Kayla. «Perché lo ha detto Gina», rispose Cecil. Oh, cazzo, doveva trattarsi di lei, pensò Kayla avvilita. Troppo debole per lottare, venne trascinata fuori dalla porta posteriore e gettata nel bagagliaio sporco di grasso di un'arrugginita Camaro bianca. «Adesso sì che viaggi con stile, puttana», sentì dire a Cecil dopo che ebbe richiuso il cofano, intrappolandola nell'oscurità più assoluta. Le spalle e le mani di Alex cedettero ai crampi più di una volta mentre lui tentava di tagliare la corda per il bucato che gli legava i polsi. Quando sentì uno scricchiolare di passi lungo la scala, ebbe a stento il tempo di spingere la spada e il fodero sotto la pedana, ma non quello di contorcersi fino a tornare sul vecchio divano; invece, si sollevò a sedere, con la schie-
na appoggiata al davanti della pedana. Lei aggirò la curva della scala centrale, vestita con una blusa di seta rossa e una gonna di lino bianco; le labbra, dipinte dello stesso rosso della blusa, sembravano una ferita aperta nel volto sottile e pallido, incorniciato dalla massa di capelli neri. In una mano stringeva un coltello seghettato, proprio il genere di coltello di cui Alex avrebbe avuto bisogno per tagliare rapidamente la corda che gli stringeva i polsi e le caviglie. Accoccolandosi accanto a lui posò per terra il coltello, poi rimosse il nastro adesivo che gli chiudeva la bocca. «Così va meglio», disse. «Jen, cosa sta succedendo? Fammi uscire di qui!». Lei si mostrò quasi incredula. «Vuoi che ti aiuti?», chiese, e quando lui annuì confuso, aggiunse: «È una cosa stupida, dato che sono stata io a farti finire qui». «Cosa stai dicendo?». «Immagino che non ricordi molto, vero? È una sorta di effetto collaterale del fatto che noi abbiamo assunto il controllo della tua mente», spiegò Jen sedendosi per terra, le braccia intorno alle ginocchia. «Forse dovresti essere tu a dirmi perché sei finito quaggiù. Avevo detto a Brett e a Keith di scaricarti sul divano». «Non potevo restare vicino a quella... quella cosa», disse Alex, accennando con la testa ai rampicanti di carne che si diramavano dal cadavere sulla sedia. «Ah, Sylvia», commentò Jen lanciando un'occhiata alle proprie spalle. «È un po' rovinata, vero? Del resto non sarebbe carne molto buona, neppure se fosse ancora calda. Vedi, Gina ha tutte queste nuove... capacità, ma non sa bene come controllarle, perché non è come se avesse un manuale con le istruzioni per l'uso, e i ricordi di Wither sono tutti in pezzi e frammenti, come se fossero passati attraverso una macchina tritadocumenti. Così, Gina fa degli esperimenti, sai, procede per tentativi per vedere cosa funziona, cosa è valido... e cosa ha un buon sapore». Mentre parlava, raccolse il coltello e se ne premette la punta contro un dito. «Wither? Cos'ha a che fare questo con Wither?». «Tutto», rise Jen. «Wither è morta», dichiarò Alex. «Wendy l'ha uccisa». «No, no, no, Alex», ribatté Jen battendosi sul naso la punta del coltello. «Wendy è stata fortunata, e ha vinto una battaglia, ma sarà Wither a vince-
re la guerra. Accidenti, davvero allitterarivo1, non trovi», ridacchiò. «Pare che Wendy abbia trascurato di dirti che Wither è tornata e che ha un corpo nuovo di zecca». «Il tuo?». Scoppiando a ridere, Jen gli pungolò il petto con il coltello. «No, Alex. Adesso Wither è dentro Gina Thorne, e noi siamo a casa di Gina, in cantina. Lei ti ha specificatamente invitato alla festa, e dovresti sentirtene onorato. Io mi sono sentita onorata quando mi ha invitata a fare parte della sua congrega. Ecco», precisò, sollevando il mento con aria leggermente accigliata, «a dire il vero non ho avuto scelta, ma è stato per il meglio, non credi? Adesso sono molto più felice. Più felice... e più affamata», aggiunse, insinuando la lama del coltello fra i due bottoni superiori della camicia hawaiana di Alex. Tirando la lama verso il basso, staccò i bottoni dalla camicia in modo da esporre il suo petto, e prese a descrivere dei cerchi sulla pelle con la lama, premendo quasi abbastanza forte da far uscire il sangue. «Vedi, sogno continuamente sangue... e carne fresca», disse. «Cos'è questa... questa festa? Perché Gina mi vuole qui?». «La festa è per Wendy, ma in realtà è per festeggiare l'uscita allo scoperto di Gina. Diciamo che Wither è veramente infuriata con Wendy per aver tentato di ucciderla, lo scorso anno. Puoi biasimarla? Così, prima tormenterà Wendy torturando e uccidendo tutti quelli che le sono cari e poi, quando Wendy sarà davvero disperata... Ecco, sai come si dice, ripagare i debiti è sempre sgradevole». Jen ha perso il senno, pensò Alex. Da quanto tempo è impazzita, senza che io me ne accorgessi? Questa deve essere tutta una sorta di fantasticheria distorta... Ma allora come si spiegano il cadavere che sta mutando e il legno che si scioglie? E se davvero Wither è tornata, e Wendy lo sapeva, perché non me lo ha detto, perché non mi ha avvertito? «Dov'è Wendy, adesso?». «Oh, probabilmente si starà precipitando a salvare i suoi genitori», rispose Jen, agitando il coltello con aria indifferente, «ma saranno diventati due frittelle prima che lei possa alzare un dito. Sai, Gina può evocare le tempeste, e si sta esercitando a farlo già da un po'». «No, non lo sapevo...». «Mi ha lasciata sola a sorvegliarti», continuò Jen mettendosi in bocca la punta del coltello. Alex fu assalito dall'idea assurda di scattare verso di lei e darle una testa-
ta, riuscendo magari a piantarle il coltello in gola, ma non riuscì a tollerare quell'immagine macabra. E poi, anche se ce l'avesse fatta a proiettarsi in avanti con le caviglie legate e le mani bloccate dietro la schiena, probabilmente sarebbe caduto a faccia avanti. «Lei vuole che tu sia qui, alla fine», disse Jen, «in modo che Wendy ti veda morire. Sai», continuò agitando di nuovo la punta del coltello verso il suo petto, «potrei affettarti con questo... e vedere tutta quella fumante carne rossa». I suoi occhi assunsero un'espressione vitrea. «Ma non lo farai, giusto?», ragionò Alex, che non poteva indietreggiare ulteriormente. «Gina... Wither... s'infurierebbe moltissimo, non credi? Le rovineresti la sorpresa». «Gina mi potrebbe perdonare... se le dicessi quanto mi ha resa affamata, riempiendomi la testa con tutti quei sogni». D'un tratto Jen scosse il capo. «No, non ti taglierò con questo», decise, gettando il coltello dietro di sé, «perché ho qualcosa che è molto meglio, qualcosa di personale». Allungando la mano, si portò le unghie davanti alla faccia come per esaminare una manicure appena fatta, poi agitò le dita. «Ho queste», disse, protendendosi verso di lui e premendo un'unghia contro il suo petto nudo. «Tagliano così facilmente». Per dare una dimostrazione, gli passò le unghie lungo il petto, lacerandogli la carne. Alex sussultò per l'improvviso dolore bruciante mentre il sangue cominciava a scorrere dalle quattro ferite parallele. «È perché adesso sono diversa, lei mi ha cambiata. Meraviglioso, vero?». Alex vide la punta della sua lingua sporgere fra le labbra, poi lei premette le dita sul suo petto, immergendole nel sangue prima di mettersele in bocca per succhiarle. «È così cremoso...», commentò sospirando di piacere. «Ti potrei mangiare». «Ricorda che Gina s'infurierà...», disse Alex. Jen levò gli occhi al cielo con aria spazientita. «Oh, rilassati», ribatté. «Qualche morso non ti ucciderà». Meglio non sperimentare questa teoria. «E poi, perché credi che ti abbia tolto il bavaglio?». Alex si limitò a scuotere il capo per non darle strane idee, ma risultò che lei ne aveva già di sue, fin troppo spiacevoli. «L'ho tolto per poterti sentire urlare, sciocco», dichiarò Jen. «Quella è
metà del divertimento». Poi mise a nudo i denti e avvicinò la bocca al suo petto. Molto più tardi, Wendy avrebbe ammesso a se stessa che probabilmente a ucciderli era stato quel primo fulmine che aveva devastato le finestre della cucina con un'esplosione di vetro e un assordante rombo di tuono, e il suo solo conforto sarebbe stato che la fine doveva essere giunta in fretta, che non avevano sofferto a causa del calore incandescente o del soffocamento prodotto dal fumo. A giudicare dalla posizione dei resti carbonizzati, si erano trovati vicini, alla fine, davanti alla finestra, e a volte le sarebbe piaciuto immaginare che si fossero tenuti per mano, affezionati come due neo-sposi. Però tutte queste riflessioni sarebbero sopraggiunte solo in seguito... Quando la forma affilata della saetta si abbatté sul lato della residenza del preside, Wendy urlò e perse il controllo della macchina, uscendo di carreggiata e andando a sbattere contro la recinzione di ferro battuto che circondava l'ampio prato. All'ultimo momento trovò con il piede il pedale del freno e lo premette con tutte le sue forze, poi venne scaraventata in avanti dall'impatto violento e trascinata indietro dalla cintura di sicurezza, mentre l'airbag si attivava e la sua massa bianca le si dilatava davanti alla faccia, cancellando tutto. Stordita, uscì barcollando dalla macchina e mosse qualche passo incerto sotto la pioggia, provando in modo distaccato un senso di sorpresa nel constatare che non aveva distrutto completamente la parte anteriore della Civic. La cancellata di ferro battuto non se l'era cavata altrettanto bene, e adesso un'intera sezione era inclinata con una pendenza di quarantacinque gradi. Invece di seguire la recinzione fino al cancello, Wendy si arrampicò sulla sezione inclinata e, pur scivolando sulle sbarre bagnate, riuscì a lasciarsi cadere sul prato ben curato. Lungo il perimetro del prato c'era un cerchio approssimativo di sanguinelle e di aceri, mentre più vicino alla grande casa bianca c'erano piccole macchie di pini e di abeti di diverse dimensioni, ciascuna a contrassegnare un angolo, e le diverse macchie di sempreverdi erano collegate fra loro da una linea punteggiata di cespugli di rododendri posti a intervalli regolari. A parte quelle piante, non c'erano altre ostruzioni del campo visivo: per fornire spazio in abbondanza per grandi feste all'aperto e per l'erezione occasionale di tende e padiglioni a protezione contro il maltempo, la fertile distesa di prato non era stata ulteriormente piantumata, e perfino il nutrito
schieramento di bocchette per innaffiare si ritraeva nel terreno quando non veniva utilizzato. Wendy spiccò la corsa attraverso il prato, lo sguardo fisso sui filamenti di fumo nero che si levavano dalla parte posteriore della casa sulla collina. Erano da poco passate le cinque del pomeriggio, e tuttavia il cielo appariva buio come se fosse stata mezzanotte. Poi una carica di elettricità presente nell'aria le fece rizzare i peli sulle braccia e i capelli sulla nuca, e quello fu il solo avvertimento che ricevette... Era appena a metà del vasto prato quando venne scagliata a terra, gli occhi abbagliati dall'immagine incandescente di un fulmine caduto spaventosamente vicino. Con l'assordante boato del tuono che ancora le echeggiava nelle orecchie, fissò i resti carbonizzati della massiccia porta principale, i cui battenti pendevano dai cardini rovinati. Si rialzò in piedi proprio nel momento in cui un terzo fulmine colpiva una finestra del secondo piano, facendola barcollare mentre si riparava gli occhi, troppo in ritardo perché potesse servirle a qualcosa; il sovrapporsi dei residui d'immagine luminosa le appannò la vista, e intanto le fiamme cominciarono a levarsi dalla finestra del secondo piano, per nulla ostacolate dalla pioggia battente. Le luci rosse continuavano a passare a intermittenza sul prato, ma adesso le sue orecchie assordate non riuscivano più a sentire le sirene. Di nuovo una saetta si abbatté sulla casa staccando grossi pezzi di pietra da una parete, poi un'altra spaccò a metà uno degli abeti d'angolo, mentre Wendy riprendeva ad avanzare barcollando, le lacrime che le solcavano il volto perse nella pioggia torrenziale che la stava infradiciando fino alle ossa. Era ormai vicina alla carbonizzata porta principale quando una mano l'afferrò da dietro, trattenendola per un braccio. Wendy si girò di scatto, aspettandosi di dover combattere, ma si trovò davanti soltanto lo sceriffo Nottingham che stava scuotendo la testa. «Non puoi entrare là dentro!», esclamò. «È troppo pericoloso». «Devo farlo», ribatté lei, sottraendosi alla sua stretta con una torsione. «I miei genitori...». «Wendy, no!», le gridò dietro lo sceriffo. Nell'avvicinarsi alla soglia, Wendy evocò una sfera protettiva senza neppure toccare la perla di quarzo del braccialetto, vagamente consapevole che lo sceriffo era appena rimbalzato contro quella superficie invisibile, finendo seduto per terra; in quello stesso istante, un ennesimo fulmine trapassò il tetto della casa, facendo tremare il suolo con il ripercuotersi della sua esplosione.
Wendy passò fra i battenti distrutti, ma la sua sfera risultò molto più larga dell'apertura, e lei rimase sorpresa nel vedere entrambi i battenti che venivano spinti a forza di lato e strappati via, come da gigantesche mani invisibili. L'impatto del primo fulmine aveva interrotto la corrente elettrica, ma l'interno era immerso nel tremolante chiarore ambrato degli incendi che stavano scoppiando un po' dappertutto. Detriti in fiamme crollarono dal soffitto infrangendosi contro il pavimento, mentre braci incandescenti piroettavano verso il basso in una traiettoria inclinata, incendiando la carta da parati, le pannellature, i tappeti, qualsiasi cosa potesse bruciare; all'interno della sua bolla protettiva Wendy era però riparata dal calore e dall'accumularsi del fumo. L'intuito, o forse la semplice supposizione deduttiva che i suoi genitori fossero stati intenti a preparare la cena, la guidò verso la cucina. Altri fulmini scossero intanto la casa infrangendo le finestre, e con l'afflusso di aria fresca le fiamme si fecero più alte e ruggenti e il processo di distruzione si accelerò. In fretta Wendy oltrepassò la scala a ferro di cavallo che si stava sgretolando e raggiunse la cucina, che si affacciava sul prato posteriore e che risultò quasi completamente devastata dall'attacco congiunto dei fulmini, del fuoco e del fumo. Le pareti erano in fiamme e il soffitto cominciava a crollare in blocchi incandescenti; nugoli di scintille provenivano dagli elettrodomestici fracassati, e il lungo tavolo di quercia era spaccato nel mezzo. I suoi genitori erano entrambi per terra, carbonizzati al punto da essere irriconoscibili, anche se la sua mente rifiutò di assimilare i dettagli di quella macabra scena, registrò soltanto il fatto che le teste erano inclinate una verso l'altra. Urlando attraversò a precipizio la cucina per raggiungerli, con la sfera che rotolava insieme a lei e scagliava lontano ogni ostacolo. Inginocchiandosi accanto ai resti fumanti, isolata dal calore, dal fumo e perfino da quello che doveva essere un intollerabile odore di carne umana arrostita, Wendy prese a singhiozzare in maniera incontrollabile. Tutta la magia risanante del mondo non sarebbe stata di nessun aiuto. I suoi genitori erano stati distrutti. Cancellati dall'esistenza. Al di sopra dei propri singhiozzi sentì poi il rumore insistente del clacson di un'auto e si alzò in piedi, quasi senza accorgersi di una trave infranta che precipitò dal soffitto e scivolò lungo l'arco della sfera protettiva, mentre guardava fuori dal vasto buco irregolare che c'era adesso al posto della finestra.
In piedi sul tetto di un furgone azzurro fermo all'estremità opposta del prato, intenta ad agitare le braccia sopra la testa, c'era Gina Thorne. Non appena si accorse di aver attirato l'attenzione di Wendy, protese entrambe le braccia col dito medio sollevato; con un grido di gioia si lasciò quindi scivolare lungo il cofano, saltò a terra e salì accanto al conducente del furgone. Wendy si aspettò quasi che questi lanciasse il furgone contro il lato della casa, nella speranza di intrappolarla nelle rovine in fiamme; invece descrisse un ampio cerchio, scavando dei solchi nel prato fangoso. «Questo è solo l'inizio!», gridò Gina sporgendosi dal finestrino, poi il conducente premette sull'acceleratore, sollevando alti spruzzi di fango e d'erba in direzione della casa prima di acquisire abbastanza trazione da tornare sobbalzando sul vialetto asfaltato e oltrepassare il cancello posteriore. Tornando verso i corpi anneriti e devastati dei suoi genitori, Wendy s'inginocchiò nuovamente. «Mamma, papà, vi voglio bene, ve ne vorrò sempre», sussurrò, con la gola contratta. «E lei pagherà per questo». Quasi a incitarla ad andare incontro al nuovo atto di vendetta di Wither, numerosi lampi si abbatterono sulla casa in rapida successione. Quel bombardamento costante, unito alla devastazione delle fiamme, contribuì a privare la casa della poca integrità strutturale che ancora le rimaneva. I muri cominciarono a crollarle intorno mentre si allontanava a grandi passi fra le macerie fumanti; pochi secondi dopo che fu passata sotto di esso, il ferro di cavallo inclinato del doppio scalone prese a stridere e a gemere sotto quello che era diventato un peso intollerabile, e infine si staccò precipitando tutt'intorno a lei, fra le avide fiamme che si levavano ruggenti e sempre più alte, in un'anteprima del suo personale inferno interiore. Una volta fuori, Wendy vide i pompieri che, pur indossando spesse giacche ed essendo muniti di mascherine a ossigeno, esitavano comunque ad avvicinarsi alla casa devastata dai fulmini, e non se la sentì di biasimarli per il loro timore: nulla poteva averli preparati a una cosa del genere. Imperturbato, o forse troppo cocciuto per lasciarsi spaventare da quei fulmini innaturali, lo sceriffo la stava aspettando in mezzo al prato. Wendy si limitò a scuotere il capo, ma le sue lacrime e la sua espressione gli dissero tutto ciò che aveva bisogno di sapere, e lui venne avanti per abbracciarla proprio mentre Wendy riassorbiva dentro di sé l'energia della sfera, dandosi quasi abbastanza forza da poter restare in piedi da sola. «Non avevo idea che lei potesse...», mormorò lo sceriffo. «Voglio dire, la tempesta di grandine dello scorso anno era incontrollata, mentre questi
fulmini erano... mirati». «A quanto pare, si possono insegnare nuovi trucchi a una vecchia cagna», ribatté Wendy, mentre l'ira che era in lei prendeva il sopravvento sul dolore e sulla disperazione. «Mi sta punendo. Era sul retro ad aspettarmi, in piedi su un furgone, in modo da potersi godere lo spettacolo». Lo sceriffo s'irrigidì e si ritrasse, abbassando la mano sulla fondina. «È ancora là dietro?», chiese. «Se n'è andata», rispose Wendy, «ma ha detto che questo era solo l'inizio. È ora di farle visita a casa», aggiunse fissando lo sceriffo negli occhi. «No, Wendy», disse Nottingham, posandole le mani sulle spalle. «Ne hai già passate anche troppe, lascia che sia io a occuparmi di questo. È il mio lavoro, e avrei già dovuto risolvere il problema quando ne ho avuto l'occasione». Mi hai tolto le parole di bocca, sceriffo, pensò Wendy, mentre lui attraversava il prato in direzione del cancello, al di là del quale la Jetta era parcheggiata di traverso, alla meglio. Finalmente il grosso delle nuvole cominciò ad allontanarsi, portando con sé le raffiche di fulmini, e perfino la pioggia divenne meno violenta. In massa i pompieri presero ad avanzare sul prato, srotolando dietro di loro i tubi degli estintori. Wendy lanciò un'ultima occhiata alla residenza che aveva considerato la propria casa fino a poche settimane prima. Tutti i sempreverdi erano stati spezzati o abbattuti, la superficie esterna della casa era bruciata fino a tingersi di un nero uniforme e c'erano lingue di fiamma che uscivano da ogni finestra. I pompieri avrebbero potuto anche spegnere l'incendio, ma la battaglia era perduta e non ci sarebbe stato più niente da salvare. Un giorno, il consiglio d'amministrazione avrebbe forse votato per la ricostruzione della casa, ma Wendy aveva la sensazione che lei non sarebbe stata lì a vederlo accadere. La macchina dello sceriffo si allontanò a tutta velocità, la luce intermittente collegata al cruscotto che lampeggiava rossa e azzurra, la sirena che gemeva a intermittenza, mentre le luci dei fanali posteriori scomparivano in lontananza. Wendy si avviò invece attraverso il prato, in direzione del tratto di recinzione inclinato, e a mano a mano che si avvicinava alla macchina accelerava il passo, pregando che la Civic funzionasse ancora. Il paraurti sinistro si era accartocciato, ma non al punto da impedire il movimento dello pneumatico, e il radiatore perdeva un po' di liquido; il motore però si accese senza problemi e le permise di fare retromarcia, le
mani serrate intorno al volante per placarne il tremito, e di allontanarsi dalla recinzione abbattuta. Questo è solo l'inizio! Ha Alex. Lui è il prossimo, capì d'un tratto. Svoltando in College Avenue, premette a tavoletta l'acceleratore. Anche se animato da buone intenzioni, lo sceriffo non poteva tenere testa a Gina Thorne, forse era troppo tardi perché chiunque potesse fermare la reincarnazione di Wither, e se era così, Wendy poteva biasimare soltanto se stessa. Rifiutava però di permettere che chiunque altro potesse morire per causa sua, quella era la sua battaglia. E per Wither, quella dannata cagna, quella sarebbe stata una battaglia maledettamente difficile da vincere. Ad Alex venne risparmiato il tormento di avere la carne lacerata dai denti di Jen. Proprio nel momento in cui il suo alito caldo gli sfiorava le ferite brucianti che aveva sul petto, infatti, lei venne interrotta dal rumore di una porta che sbatteva al piano di sopra. «Oops», commentò, con un sorriso asciutto, «a quanto pare i ragazzi sono tornati, e per poco non mi hanno sorpresa con la mano nel vaso dei biscotti». Due uomini giovani e muscolosi, uno con un tatuaggio di spire di serpente sulle spalle e sulle braccia e l'altro privo di mezzo orecchio, spinsero una donna giù per le scale; con la gola contratta da un nodo di tensione, Alex pensò in un primo momento che avessero rapito Wendy, ma poi vide che la prigioniera che tenevano in mezzo a loro era Kayla Zanella. Perché lei è qui? si chiese, e subito dopo si rispose da solo: Perché è un'amica di Wendy, ecco il perché. Il top bianco di Kayla con l'immagine di Betty Boop era sporco di sangue e uno strappo sul ginocchio sinistro dei jeans neri mostrava un taglio sulla rotula, ma a parte questo sembrava illesa. «Ah, Keith e Cecil stanno dando spettacolo», sussurrò Jen ad Alex con fare da cospiratrice, poi fece schioccare la lingua e aggiunse: «Sai, a loro piace far del male alle ragazze. Pensa... Povera Wendy». «Taci, cagna schifosa!», esplose Alex, cedendo all'ira. Jen gli sferrò un manrovescio talmente forte da spingergli indietro la testa e da spaccargli un labbro. Gina Thorne l'ha cambiata anche sotto altri punti di vista, pensò Alex, con un senso di sconforto. Jen intanto si alzò in piedi, dimentica del coltello seghettato che aveva scartato a favore delle proprie unghie affilate come rasoi, e si avvicinò a Keith e a Cecil con le
mani sui fianchi. «È questa qui, allora?», chiese. «Tu devi essere Jen», disse Kayla. «Mi sorprende che Wendy non ti abbia ancora sfondato il culo a calci». «Non essere ostile, cara», rise Jen. «Sei appena stata reclutata dalla concorrenza». «Di cosa stai parlando?». «Oh, lo scoprirai», ridacchiò Jen. «Non avverti l'elettricità che c'è nell'aria?». Kayla spostò lo sguardo su Alex. «Tu stai bene?», gli chiese. «Tutto considerato sì...», annuì lui, passandosi la lingua sul labbro spaccato, poi sillabò in silenzio il nome di Wendy con aria interrogativa. Con una lieve scrollata di spalle e un impercettibile scuotere del capo, Kayla gli fece capire che non sapeva cosa rispondergli. «Che ne facciamo di questa qui, Keith?», chiese Cecil, con lo sguardo fisso sul davanti della maglietta di Kayla. «Smettila di pensare a quello che c'è nei suoi pantaloni, idiota», ingiunse Keith, assestandogli un brusco spintone. «Presto lei si verrà a trovare più in alto di te nella catena alimentare». «Allora andiamo in bianco?». «Non te l'ho appena detto?», ribatté Keith, prendendo un rotolo di nastro adesivo grigio appeso a un chiodo. «Avanti, impacchettiamola per bene, poi aspetteremo Gina di sopra». Per quanto cercasse di lottare, Kayla non poté tenere testa ai due teppisti, che le legarono i polsi avvolgendoci intorno circa due metri di nastro adesivo; dopo che ebbero fatto lo stesso con le caviglie, Keith la prese per i piedi e Cecil l'afferrò sotto le braccia, approfittandone per palparla abbondantemente, e fra tutti e due la scaricarono sul divano. Keith rivolse poi un ammonimento a lei e ad Alex, avvertendoli che se uno di loro avesse emesso il minimo suono prima del ritorno di Gina, Cecil sarebbe stato lieto di privarli della lingua. «Scommetto che la lingua è saporita», fu il commento di commiato di Jen. «Deve esserlo». Non appena Jen, Keith e Cecil se ne furono andati, Kayla si spostò in modo da allontanarsi il più possibile dal cadavere. «Hai qualche idea?», chiese. «C'è un coltello per terra, vicino al divano», annuì Alex. «Eccellente», approvò Kayla, e si gettò sul pavimento.
A bordo del volo United 612 In avvicinamento al Logan International Airport Boston Hannah aveva insistito per avere il posto accanto al finestrino e, mentre il Boeing 757 si avvicinava al Logan International, la bambina premette il viso contro il vetro, alternativamente appannandolo con il proprio respiro e pulendolo con il bordo della mano. «Guarda, mamma», disse indicando. Karen sedeva fra sua figlia e un anziano uomo d'affari asiatico che aveva continuato a dormire con le mani congiunte in grembo nonostante la violenta turbolenza; dal momento che si trovavano più avanti di due file rispetto all'ala di sinistra, Karen non aveva difficoltà a vedere la massa di nubi nere che spiccava come un livido scuro nel cielo ferito a nord di Boston e, poiché ricordava ancora la strana grandinata che si era scatenata ad Halloween, aveva la sgradevole sensazione che quella tempesta si trovasse proprio sopra Windale. «Siamo arrivate... troppo tardi?», sussurrò, mentre una piccola parte di lei desiderava che fosse così, che in qualche modo a sua figlia venisse risparmiato quell'incubo. «Non lo so», rispose Hannah, con voce esitante e quasi troppo bassa perché Karen la udisse. Windale, Massachusetts Per poco non ce la fecero, ma questa fu una magra consolazione. Kayla aveva appena tagliato la corda che tratteneva i polsi di Alex quando una serie di passi echeggiò lungo la scala. «Merda!», sussurrò Kayla. «Adesso che si fa?». «Presto... liberami le caviglie». «Non ce n'è il te...», cominciò Kayla, scuotendo il capo. «Fallo!». Kayla si spostò verso i suoi piedi e infilò la lama seghettata sotto la corda che gli bloccava le caviglie, mentre lui metteva le mani dietro la schiena, come se fossero state ancora legate. Quattro persone entrarono nella cantina. La prima era una bionda rossiccia che indossava un vestito a sottoveste nero, seguita da un tizio dai capelli biondi che aveva l'aria di passare lunghe ore a fare sollevamento pesi, al-
la retroguardia c'erano Jen e Cecil, mentre non c'era traccia dell'altro tizio, Keith. Gina stava parlando, e la sua attenzione era concentrata su Jen. «Avresti dovuto vedere la sua espressione quando ha trovato i loro cadaveri carbonizzati in cucina! Impagabile!». Jen batté le mani per l'entusiasmo, ma il suo sorriso si dissolse quando vide il coltello che Kayla aveva in mano. Più rapidamente di quanto Alex avrebbe creduto possibile, scattò in avanti e glielo strappò. «Qualcuno è stato cattivo», disse, poi si rivolse a Gina e chiese: «Posso tagliarle la lingua? Per favore!». «Cerchiamo di non essere precipitosi», replicò Gina. «La ragazza ha coraggio. È una dote che mi piace, ma non è tutto. Signor Kerr, vuole fare gli onori di casa?», continuò girandosi verso Cecil. «Se non mi sbaglio, la nostra piccola wicca arriverà fra non molto, e prima dobbiamo completare un'iniziazione». Cecil venne avanti e afferrò Kayla per le spalle, approfittandone per palparle ancora il seno. «Un ultimo assaggio per amore dei vecchi tempi», sogghignò. «Spero che non me ne vorrai, dopo che lei ti avrà cambiata». «Lei non lo farà, ma io sì», disse Alex. Nel parlare, tirò fuori da dietro la schiena la lama del bastone animato e l'affondò nell'orecchio di Cecil, trapassandogli quel poco cervello che aveva. Con la mascella collassata e gli occhi che sporgevano nella testa rasata, Cecil si accasciò da un lato sul tappeto con un'ultima convulsione. Kayla si ritrasse dal cadavere urlando. L'errore di Alex era stato l'impazienza. La sua intenzione era stata quella di aspettare di avere l'occasione di abbattere Gina, il capo di quell'assurdo gruppo di dementi, quella che voleva uccidere Wendy, ma aveva deciso diversamente nel momento in cui aveva creduto che stessero per torturare Kayla, disposto a tutto per guadagnare un po' di tempo, e adesso si ritrovava con le caviglie ancora legate e la sola arma di cui disponeva fuori dalla sua portata. «Brett!», gridò Gina. Il sollevatore di pesi scattò in avanti e Alex fece un coraggioso tentativo di lanciarsi verso l'impugnatura dello stocco, senza neppure riuscire ad avvicinarvisi: il momento prima era proteso verso il manico a forma di drago, e quello successivo si ritrovò sbattuto contro la parete; mentre giaceva là stordito, uno stivale lo raggiunse in pieno ventre e lui si raggomitolò in posizione fetale in preda a conati di vomito.
«Basta così!», ordinò Gina. «Voglio che viva... almeno abbastanza a lungo da permettere alla piccola Wendy Wicca di vederlo morire. Ora portatemi la ragazza». Impotente, Alex vide Brett sollevare Kayla da terra e cingerla da dietro con le braccia in modo da immobilizzarla mentre la posizionava davanti a Gina. «Rilassati», suggerì Gina alla ragazza che si stava contorcendo nella stretta di Brett. «Questa è una cosa per cui vale la pena di morire». «Morire e rinascere», annuì con fervore Jen. «Per diventare una di noi». «Per questa mano, preferirei passare». «Vedete?», commentò Gina rivolta agli altri. «Ha fegato. Purtroppo, Kayla, non hai possibilità di scelta». Usando l'unghia dell'indice sinistro, si incise la punta di quattro dita della mano destra e offrì a Kayla il grondante sangue nero: «Ingoialo», disse. Kayla serrò i denti. Alex vide i muscoli delle braccia e delle spalle di Brett contarsi per lo sforzo, poi gli parve di sentire il crepitio di una delle costole di Kayla che si rompeva per la pressione. Kayla sussultò di dolore... e Gina le ficcò in bocca le dita sanguinanti. Staccagliele a morsi, pensò Alex. Poi accadde la cosa più spaventosa di tutte. Nell'osservare la scena dal pavimento della cantina, Alex sentì Kayla gemere di piacere, poi vide che Brett la lasciava andare e indietreggiava; sollevando le mani legate, Kayla afferrò il polso di Gina e si tenne in bocca le sue dita, aggrappandosi disperatamente ad esse e alla sensazione che stava sperimentando. Le ginocchia le cedettero e Gina l'assecondò inginocchiandosi a terra a sua volta, in modo che Kayla potesse continuare a bere a suo piacimento. «Ma che brava ragazza», tubò. «O forse dovrei dire cattiva, una ragazza molto cattiva». «L'attende tutto un nuovo mondo di diaboliche delizie», cantilenò Jen, agitando il coltello seghettato come se fosse stata la bacchetta di un direttore d'orchestra. «Un momento!», esclamò Gina, guardando verso di lei. «Riesci ad avvertirli?». Jen guardò verso il soffitto, lo sguardo d'un tratto sfocato, poi annuì. «Estranei. Tutti intrusi indesiderati! Non erano stati invitati!». «Occupati di loro», ordinò Gina. «Fornisci un diversivo che permetta a
Keith di mettersi in posizione, mentre io e Brett provvediamo agli ultimi preparativi». Quando le sfilò le dita di bocca, Kayla si accasciò, troppo debole perfino per reggersi sulle ginocchia, e rotolò supina sul pavimento rimanendo a fissare il soffitto con espressione estasiata. Alex chiuse gli occhi e pregò perché quello si rivelasse solo un grosso incubo. Affiancato dai suoi vice, Jeff Schaeffer e Hank Rossi, lo sceriffo avanzò verso la casa dei Gallo sotto la pioggia battente. Quando avevano avvistato il pick-up azzurro Ford F-150, i tre avevano parcheggiato le auto più indietro lungo l'isolato e indossato giubbotti antiproiettili e poncho impermeabili; tutti e tre erano armati di fucile Remington a canna mozza, caricato per esplicito ordine dello sceriffo con pallottole corazzate, in modo da garantire la massima penetrazione. Al diavolo il non dare nell'occhio, pensò Nottingham. Nel vedere parecchie persone del vicinato che facevano capolino all'esterno, fece loro segno di tacere e di rientrare, per la loro stessa sicurezza. Era sua intenzione sfondare la porta con un calcio, e al diavolo il mandato di perquisizione. Wendy aveva visto Gina Thorne dietro la residenza del preside del college, intenta a godere della distruzione seminata, e questa era la sola conferma di cui lui aveva bisogno. Non gli importava il fatto che in un tribunale non avrebbe mai potuto provare che la signorina Thorne aveva distrutto una casa e ucciso due persone scagliando fulmini, come Zeus dall'alto della sua montagna. Era stato testimone di quella devastazione, sapeva che era tutto vero, e adesso la sua sola consolazione derivava dalla consapevolezza che lei non avrebbe certo distrutto la propria casa con i fulmini... O almeno, sperava che non lo facesse. In seguito, quando ripensò a quei primi minuti, lo sceriffo si addossò ogni responsabilità per non aver perquisito il fondo del furgone prima di avvicinarsi alla porta d'ingresso: quando la portiera di sinistra si aprì, proprio mentre stavano per fare irruzione nella casa, furono infatti colti tutti e tre alla sprovvista. «Non sparate», ordinò d'istinto lo sceriffo, ma solo perché la donna apparsa sulla soglia non era Gina Thorne. Quella che avevano di fronte era invece la ragazza che era stata presente anche alla festa di Wendy, la stessa che aveva assistito al rapimento di Jack Carter da sopra il ponte coperto, Jen Hoyt, la prima persona che aveva visto la strega mostruosa, Wither, ed era sopravvissuta per raccontarlo. «Per favore, signorina Hoyt, venga fuo-
ri». «Ma certo», assentì Jen avanzando sul pianerottolo. «Cos'è tutta questa confusione?». «Questioni di polizia», replicò lo sceriffo. «Si faccia da parte». «Oh! No, no, non potete entrare», spiegò Jen con un sorriso indulgente. «Vedete, stiamo eseguendo questa iniziazione, ed è proprio una cosa che non può essere interrotta». Il suo sguardo si appuntò su Hank Rossi, e lei indicò qualcosa, aggiungendo: «Hai una cosa proprio lì, sotto il mento». «Qui?», chiese Hank, allontanando la sinistra dal calcio del fucile per toccarsi la gola coperta da un'ombra di barba scura. «L'hai mancato», ribatté Jen protendendo l'indice e passandolo da sinistra a destra sotto il mento di Hank. «No!», urlò lo sceriffo, ma era ormai troppo tardi. Il vice emise un suono gorgogliante, serrandosi la gola mentre il poncho giallo si tingeva di carminio, poi crollò in ginocchio. «Oops», commentò Jen. «Credo che fosse un'arteria». Poi tutto divenne un accavallarsi indistinto di immagini stroboscopiche, un pezzo di filmato in cui un fotogramma su tre era stato rimosso, dove ogni azione era un passo fatale in una marcia inesorabile verso il disastro. Jen strappò il fucile dalla destra di Hank e lo lanciò in aria. Perché...? pensò lo sceriffo, voltandosi a mezzo mentre puntava la propria arma contro la ragazza e urlava a Jeff di tenersi indietro. Una sagoma alta risalì il marciapiede con una velocità inumana e afferrò a mezz'aria il fucile di Hank, levandolo in alto e calandone il calcio sulla faccia stupita di Jeff... Jeff cominciò ad accasciarsi... E lo sceriffo sparò la prima pallottola corazzata. BLAM! Metà della faccia di Jen Hoyt venne strappata via, esponendo l'osso sottostante. Mentre Jen urlava, lo sceriffo spostò la canna per prendere di mira l'aggressore di Jeff - che riconobbe come Keith Hoagland, un cattivo soggetto del liceo Harrison, proprietario di una Camaro bianca, colpevole di guida spericolata, vandalismo, ubriachezza minorile - subito prima che il calcio del fucile sottratto ad Hank lo raggiungesse di striscio, lacerandogli la guancia e spappolandogli l'orecchio sinistro. Piegato a terra un ginocchio, lo sceriffo sparò un altro colpo che raggiunse Hoagland al ventre, a distanza ravvicinata. Avrebbe dovuto essere
una ferita mortale, ma Hoagland continuò ad avanzare con un sorriso, nonostante il sangue che gli colava dalla bocca: gettato via il fucile di Hank, afferrò lo sceriffo e lo trasse verso di sé. Lieto di assecondare le tendenze masochiste del giovane teppista, lo sceriffo prese a scaricargli in corpo una pallottola dopo l'altra. BLAM! BLAM! BLAM! BLAM! BLAM! Adesso che i sette colpi erano tutti consumati, il Remington non era più altro che un costoso randello. Il petto di Hoagland era una lucida, sanguinosa massa di costole spappolate, ma ancora lui non accennava a crollare. Invece, strappò il fucile dalle mani prive di forza dello sceriffo e lo rigirò, preparandosi a usarlo per sfondargli la faccia. Nottingham estrasse allora la fidata .357 Magnum e ne premette la canna contro la gola di Hoagland. «Ehi, anche tu hai qualcosa sotto il mento», disse, e fece fuoco disintegrandogli la parte posteriore del cranio. «Oops, credo fosse il tuo cervello». Hoagland rimase immobile per un momento, la testa spinta all'indietro, gli occhi che sporgevano dalle orbite per l'improvvisa ondata di pressione all'interno del cranio, poi si accasciò in ginocchio prima di rovesciarsi su un fianco con un tonfo umido, il fucile scarico che gli scivolava dalle mani prive di vita. Il momento di trionfo dello sceriffo fu però di breve durata. Il problema era che, pur senza metà della faccia, con un occhio disintegrato e troppa parte del teschio esposta e sogghignante, Jen Hoyt era ancora viva. E infuriata. Molto infuriata. Senza esitare, lo sceriffo aprì il fuoco contro di lei con il revolver, fracassandole la clavicola con la seconda pallottola e devastandole il resto della faccia con la terza. Spostò poi la mira in alto, per centrare la testa, ma il quarto proiettile mancò il bersaglio e, prima che lui potesse sparare ancora, la mano di lei gli calò sul polso, fratturando l'osso e facendo sfuggire la pistola dalle dita intorpidite. Con un grugnito di dolore lo sceriffo barcollò all'indietro e cadde a sedere; prontamente lei lo afferrò per il piede destro e lo trasse verso di sé con brutale facilità, mentre lui si trovava a fissare, affascinato e sgomento al tempo stesso, la stupefacente trasformazione che era in atto sul volto devastato di lei. Una lucida pellicola di sangue nero stava filtrando dalla carne lacerata e sanguinante per ricoprire l'osso infranto e messo a nudo, riparandone le lesioni proprio sotto i suoi occhi con il ritmo lento e affascinante di una fotografia al rallentatore. Quella sua inumana capacità di risanamento, più di qualsiasi altra cosa, gli dimostrò l'assoluta futilità di quella battaglia.
Sono sconfitto, pensò. La mia squadra perfetta di tutori dell'ordine non è neppure riuscita a varcare la porta principale. La... la creatura che era stata Jensen Hoyt sollevò intanto la mano libera e protese un lungo dito, senza dubbio con l'intento di aprirgli la gola come aveva fatto con Hank Rossi. Pur consapevole che non sarebbe servito a nulla, lo sceriffo trasse indietro la gamba sinistra, e si stava preparando a calare il tacco dello stivale contro quella faccia rappezzata quando vide una bianca sagoma a quattro zampe saettare oltre il furgone Ford e attraversare il giardino anteriore della casa con lunghi passi aggraziati. Nel momento in cui Jen protese l'indice destro per squarciargli la gola, il lupo bianco spiccò il balzo e le serrò il polso fra le fauci possenti. Con un urlo di frustrazione, Jen barcollò all'indietro con il lupo che le penzolava dal braccio. Dietro di loro, Jeff Schaeffer rotolò su se stesso con un gemito, il sangue che gli colava lungo un lato della faccia e gli impastava l'occhio sinistro, impedendogli di aprirlo. Socchiudendo l'altro occhio per mettere a fuoco la scena che aveva davanti, Schaeffer annaspò per estrarre la pistola dalla fondina e prese di mira la testa di Jen con mano tremante. «Non il lupo!», urlò lo sceriffo. Jeff parve avere difficoltà a capire il suo ordine, e sembrò sul punto di premere comunque il grilletto. In quell'istante, Jen colpì il fianco del lupo con gli artigli della mano sinistra e la bestia uggiolò, abbandonando la presa e cadendo al suolo in un mucchio contorto prima di rigirarsi e allontanarsi con un balzo. Jeff premette il grilletto, ma mancò il bersaglio. Jen si girò di scatto e avanzò verso di lui, mentre Jeff le scaricava una pallottola dopo l'altra in pieno petto. Scagliandosi in avanti lo sceriffo la raggiunse dietro le ginocchia, facendola cadere, e sfruttò il tempo che lei impiegò a sollevarsi sulle mani e sulle ginocchia per raccogliere da terra la propria pistola con la sinistra, premerle la canna contro la base del cranio e sparare uno dopo l'altro gli ultimi proiettili che gli rimanevano. Incredibilmente Jen si rialzò in piedi barcollando e si diresse lentamente verso la porta della casa dei Gallo. Prima di scomparire nell'oscurità dell'interno, si girò verso di lui, la testa che pendeva in avanti con un'angolazione impossibile, e lo fissò con un solo occhio che ardeva di odio e d'ira. La cosa peggiore per Nottingham fu la consapevolezza che probabilmente lei avrebbe potuto riparare anche danni di quella portata, se avesse avuto un paio d'ore di tempo.
E questo mentre la mia squadra ha bisogno di essere trasportata in volo fino al più vicino ospedale. Hank Rossi era morto, Jeff era svenuto dopo aver vuotato la pistola, e avrebbe avuto bisogno di parecchie operazioni di chirurgia ricostruttiva. Quanto allo sceriffo, aveva un polso fratturato e a ogni battito del cuore le ondate di dolore minacciavano di farlo svenire, per non parlare della distinta e indipendente tortura causata dalla caviglia destra, grondante di sangue laddove le unghie di Jen, affilate come rasoi, gli erano penetrate nella carne, fino all'osso. Quel piede non era di grado di reggere minimamente il suo peso. E poi c'era Abby... Mio Dio...Abby! Guardandosi intorno, lo sceriffo individuò la forma pallida della bambina che giaceva sul prato con il respiro affannoso, la pioggia battente che lavava via di continuo il sangue che le sgorgava incessante dal fianco. Adesso era di nuovo in forma umana, e appariva così impotente, con la vita che colava via dal suo fragile corpo nudo. Impossibilitato a camminare a causa della caviglia sanguinante e non potendo neppure utilizzare il polso destro, lo sceriffo si gettò a terra e si trascinò in avanti aggrappandosi all'erba con la mano sana e scalciando con il piede sinistro. Con una contorsione, si tolse il poncho e lo gettò addosso a Abby, poi si raggomitolò su di lei nella speranza che il proprio calore le impedisse di entrare in stato di shock. Lui stesso stava però cominciando a tremare, e il mondo pareva indietreggiare tutt'intorno, uscendo dalla sua immediata sfera di consapevolezza... Almeno finché una mano energica non lo afferrò per una spalla. Accoccolandosi accanto allo sceriffo, Wendy lo prese per una spalla e lo fece rotolare via da Abby. «Lasci che l'aiuti», disse. Annuendo, lui indietreggiò quanto bastava per permetterle di avvicinarsi alla bambina tremante. Afferrato il quarzo rosa con la sinistra, Wendy insinuò la destra sotto il poncho e premette il palmo contro le ferite sanguinanti. L'ultima volta aveva riversato in Abby troppa energia, prosciugando così se stessa, mentre ora ne liberò appena quanta bastava a riparare i danni interni e a chiudere le ferite; l'alone dorato risultò meno intenso, appena visibile intorno alla pelle della bambina, come un'aura sottile. Abby si sentirà ancora debole, pensò. Forse abbastanza da rimanere lontana dai guai per il resto della notte. «E... io?», chiese lo sceriffo con una smorfia di dolore.
«Non ancora», replicò Wendy accennando alla casa dei Gallo. «Se la guarisco adesso, lei andrà là dentro e finirà ucciso. Gina e io dobbiamo risolvere questa faccenda da sole, prima che chiunque ci vada di mezzo». «Il dolore», annaspò lo sceriffo stringendole il braccio. «Per favore...». Annuendo Wendy gli si accoccolò accanto e gli posò il palmo destro sulla faccia e sull'orecchio. La luce dorata cominciò a pervaderlo, ma poi lo sceriffo scorse sul volto di lei qualcosa che lo allarmò e lo indusse ad allontanarle la mano. «Perché?», chiese Wendy con voce un po' affannata. «Sei impallidita». «Questo ha un suo prezzo», ammise Wendy. «Allora smetti. Dovrai essere forte, quando l'affronterai», disse Nottingham e, mentre Wendy annuiva, continuò: «Sono stato un idiota, non ho voluto ammettere che questa era una cosa che non potevo gestire da solo, anche dopo averti vista uscire senza neppure un graffio da una casa in fiamme che stava crollando». Scosse il capo, quasi quell'immagine mentale lo sconcertasse ancora. «Adesso però lo so... quale che ne sia il motivo, tutto questo dipende solo da te, Wendy. Va' là dentro!». «E lei? Abby? Il suo vice?». «Mi hai liberato quasi del tutto dal dolore. La caviglia va meglio, credo di poter camminare, o almeno di potermi muovere abbastanza da portarli lontano dalla casa. Il resto può aspettare». «Allora lo faccia», replicò Wendy, alzandosi in piedi e fissando la casa, rischiarata da una spettrale luce verde che filtrava dalle finestre del secondo e terzo piano. «Perché questa casa crollerà, in un modo o nell'altro». Note 1. L'allitterativo si riferisce all'inglese Wither will win the war, che in italiano è «sarà Wither a vincere la guerra» [ndt]. Capitolo 13 Windale, Massachusetts 6 agosto 2000 Alex si aspettava di veder arrivare Wendy da un momento all'altro, soprattutto perché sapeva che Gina la stava attendendo. Ma con le caviglie
ancora legate, le mani bloccate di nuovo dietro la schiena con il nastro adesivo e altro scotch incollato sulla bocca, lui non era certo nella posizione di poterla aiutare. Dopo averlo legato, Brett aveva lasciato la cantina portando con sé il suo bastone animato e il coltello di Jen. Impacchettato come un salame e senza armi di sorta a disposizione, si lamentò fra sé, poi rabbrividì nel ricordare il perfido sogghigno che Brett aveva rivolto al cadavere di Cecil quando si era chinato ad afferrare l'impugnatura a forma di testa di drago dello stocco e ne aveva estratto la lama dal cervello dell'uomo tatuato. Le sue parole di commiato, pronunciate mentre ripuliva la spada sulla camicia del morto, avevano espresso una crudele soddisfazione. «Ehi, Kerr, grazie per volerla condividere». Kayla stava mormorando qualcosa e si stava addirittura contorcendo un poco sul pavimento, come se fosse stata nel pieno di un sogno erotico, e nel guardarla Alex avvertì la sgomentante sensazione che il sangue nero di Gina non l'avesse soltanto drogata ma la stesse trasformando, in quel preciso momento, in un membro della squadra avversaria. Non c'è che dire, rifletté, andiamo proprio di bene in meglio. Mentre passava in rassegna le alternative sempre più scarse a sua disposizione, riuscì a rimettersi a sedere con la schiena addossata al muro della cantina. Senza il pezzo di stoffa infilato in bocca, poteva almeno muovere la mascella da un lato all'altro e spingere con la lingua per allentare il nastro adesivo che la imbavagliava, cosa che gli avrebbe permesso, se non altro, di gridare un avvertimento a Wendy. Poi il suo sguardo si posò sul serpente tatuato sulla mano di Cecil più vicina a lui, sugli spaventosi occhi rossi e le zanne snudate che grondavano veleno. Cecil! pensò assalito da un'ispirazione improvvisa, e cominciò a strisciare sul tappeto per avvicinarsi al morto. Brett si era accertato di portare via il coltello e lo stocco, ma aveva trascurato di perquisire il corpo per vedere se aveva addosso delle armi, e adesso lui era pronto a scommettere i voti di un semestre sul fatto che tutti i Cecil del mondo, con i loro tatuaggi di serpenti, non escono mai di casa disarmati. Contorcendosi riuscì a girarsi e allungò le mani dietro di sé per tastare le innumerevoli tasche dei pantaloni di Cecil. In meno di un minuto trovò quello che stava cercando, tirò per aprire la tasca fermata con il velcro e ne prelevò un lungo coltello da caccia affilato su entrambi i lati della lama, uno dei quali era in parte seghettato. Rigirato il coltello fra le mani, si mise all'opera per tagliare lo spesso
strato di nastro adesivo che gli bloccava i polsi. «Che stai facendo?». Immobilizzandosi Alex si guardò alle spalle e, nel vedere che Kayla si era sollevata carponi e lo stava fissando, un rivoletto di sangue nero che le colava lungo il mento, sentì la bocca seccarglisi d'un tratto. Kayla intanto scosse il capo, lottando contro lo stato letargico indotto dal sangue. «Cosa è successo...?». Con un colpo di lingua, Alex staccò il nastro adesivo da un lato della bocca. «Non... non lo ricordi?». «Lei... mi ha ficcato le dita in bocca, giusto?», chiese Kayla, e quando Alex annuì continuò: «Sangue... sangue nero. Cosa diavolo era?». «Comincio a pensare che sia qualcosa che proviene davvero dall'Inferno», replicò Alex. «Chiamalo droga, veleno, virus... è solo qualcosa che ti porterà a unirti al suo club esclusivo di streghe psicotiche». «È stato... è stato incredibile», affermò Kayla, gli occhi che le si facevano quasi vitrei al ricordo di quella sensazione così piacevole. Alex si limitò a schiarirsi la gola e attese in silenzio. «Troppo incredibile perché possa farmi bene, giusto?», continuò lei, e Alex scosse il capo, avvertendo da parte di Kayla la crescente paura di perdere la propria identità e di scivolare nel male. «Alex, cosa posso fare?», chiese infine. «Non lo so, Kayla, forse esiste un... un antidoto». «'Fanculo l'antidoto!», ringhiò Kayla. «Io devo espellere subito questa merda dal mio organismo!». Poi sollevò le mani ancora legate con il nastro adesivo, e si ficcò le dita in gola per indursi a vomitare, ma il conato così ottenuto produsse soltanto un po' di saliva. Di nuovo si cacciò le dita in gola più e più volte, finché il sangue nero non le fiottò fuori dalla bocca riversandosi sul tappeto; ansimando, con gli arti che le tremavano per lo sfinimento o forse per l'astinenza, si ritrasse da quello scuro ammasso ribollente. «Ti senti meglio?». Pallidissima, Kayla scosse il capo continuando a fissare il tappeto sporco. «So che ti sembrerà disgustoso, ma provo l'impulso irrefrenabile... di mettermi a leccarlo». «Evita di pensarci», suggerì Alex. «Vieni qui e liberami». Wendy si fermò sulla soglia della casa dei Gallo e, nel provare ad abbassare la maniglia, scoprì che era chiusa a chiave. Preferendo entrare di sop-
piatto, afferrò l'agata geode inserita nel braccialetto che aveva al polso e si concentrò per far scattare il chiavistello con la mente. Ignorando la pioggia che le scrosciava sulla faccia, escluse dalla propria sfera cosciente il sordo brontolare del tuono e si concentrò esclusivamente sulla serratura. «Wendy!», chiamò la voce della Vecchia. Sorridendo, Wendy si volse a guardare verso la sua immagine astrale, molto più nitida dell'ultima volta che l'aveva vista. «Sei tornata», disse. «Mi sono avvicinata maggiormente a te», replicò la Vecchia, guardando verso il cielo burrascoso. «Ho usato la prossimità per vincere la resistenza». «Il che significa che tua madre ha deciso di ignorare il mio avvertimento», commentò Wendy. «Allora lo sai». «Hai sfidato il normale scorrere del tempo fin da quando sei nata, Hannah, solo che non mi ero mai resa conto della portata effettiva del fenomeno. "Hannah" è un palindromo: letto avanti o indietro, è sempre uguale». «Noi tutte siamo state cambiate, Wendy», disse la Vecchia, ribadendo una sua precedente affermazione. «Abby, io stessa... e non in modi che avremmo scelto. Però cerchiamo di utilizzare questi cambiamenti nel modo migliore». «Perché non hai potuto avvertirmi?», domandò Wendy con la gola contratta dall'emozione. «Riguardo ai miei genitori, intendo». «Per la persistenza temporale, il mio ricordo di questi eventi è sempre stato... quantomeno caliginoso. Io esisto qui e adesso soltanto a causa dell'Hannah del tuo tempo. Lei vede all'indietro attraverso una... una piega temporale, usando i miei occhi nella mia forma, ma la mente che ti fornisce informazioni è la sua e non la mia, non direttamente. E la tua Hannah possiede conoscenze incomplete». «E la divinazione lascia molto a desiderare», aggiunse Wendy. «Ho capito, ma direi di rimandare a più tardi le spiegazioni relative allo scenario della piega temporale. Hai qualche idea riguardo a cosa mi troverò di fronte?», chiese quindi, accennando alla porta chiusa. «Gina Thorne, la creatura distruttiva che conoscevi come Wither, ha la capacità di distorcere la natura, di piegarla alla propria volontà e di violarla come più le aggrada. Una volta che avrai attraversato quella soglia, non ti fidare di quello che sai essere vero o fisicamente possibile, perché sarà lei a dettare le regole».
«Quanto è potente, adesso?». «È imprevedibile, in ogni senso di questo termine. Mediante la possessione del corpo di Gina Thorne tramite il suo sangue, Wither è rinata in un modo unico». L'anno precedente Wendy era stata la vittima prescelta da Wither, ma la strega tramutata in mostro aveva fallito nel tentativo di effettuare uno scambio di menti, ponendo la propria antica nel corpo di Wendy per dare inizio a un nuovo ciclo vitale di trecento anni, e relegando quella di Wendy nel proprio vecchio involucro morente. «E anche se la mente e i ricordi di Wither sono stati danneggiati dal tuo tentativo di distruggerla, è possibile che lei non sia più limitata al suo ciclo vitale di trecento anni», continuò la vecchia. «Questo significa che potrebbe non aver bisogno di evolversi per trecento anni per tornare a essere una mega strega mostruosa?». «Significa solo... che devi aspettarti cose imprevedibili». «Splendido», commentò Wendy, poi tornò a concentrare la propria attenzione sulla serratura escludendo ogni altra distrazione, e impose al chiavistello di spostarsi. CLICK! «Ce l'ho fatta», disse. Per quanto si sforzasse, però, la raffinata procedura di creazione di una chiave mentale continuò a sfuggire al suo controllo. Forse, se avesse avuto in mano una copia della chiave reale per poterla duplicare con la mente... ma del resto, in quel caso, le sarebbe bastato infilare la chiave vera nella serratura. «Oh, bene», si arrese, «lasciamo perdere le manovre furtive». Ritraendosi dalla soglia, raccolse uno dei fucili a canna mozza abbandonati sull'erba, prese la mira e staccò di netto un grosso pezzo dello stipite, poi aprì il battente spingendolo con il calcio del fucile e avanzò nell'atrio, scrutando l'oscurità che regnava più oltre nel salotto. La casa era pervasa da un gelo innaturale che le fece venire la pelle d'oca, pulsanti luci verdi lampeggiavano lungo la scala distorta e le pareti parevano deformate, incurvate verso l'esterno e viscide di fanghiglia. Mentre avanzava nel salotto, con il suo stesso respiro che la precedeva sotto forma di piccole nuvole di vapore, il suo sguardo si spostò verso lo strano bagliore verde. Dalla sua sinistra, una figura scheletrica vestita di nero emerse barcollando dall'oscurità brandendo un coltello da cucina. «Lascia in pace mia figlia!», stridette la donna. Wendy le bloccò il polso con il calcio del fucile, la spinse indietro di un passo e le calò sulla faccia il calcio dell'arma: la testa della donna si sfondò con un suono nauseante, come se fosse stata fatta di cartapesta, e subito
dopo tutto il suo corpo parve accartocciarsi su se stesso, un mucchietto di pelle secca, tessuti essiccati e fragili ossa. «Wendy, la sfera protettiva», le rammentò la Vecchia, fluttuandole alle spalle come una scia spettrale. «Giusto», mormorò Wendy. Nel passare accanto alla scala guardò verso l'alto, e vide che i gradini salivano a spirale e sembravano arrivare molto più su di quanto fosse compatibile con le dimensioni esterne della casa. Non ti fidare di quello che sai essere vero, ricordò. Un buon consiglio. Le pareti le pulsavano intorno come se fossero state vive, rese lucide da un fluido bianco e vischioso che scorreva in pari misura verso l'alto e verso il basso; in alcuni punti i pannelli di legno si stavano fondendo e colavano lungo il pavimento, formando polle di legno liquido, e l'intera casa era pervasa da un odore nauseante, un misto di frutta troppo matura e di carne putrescente. Mentre oltrepassava un ripostiglio, il pomolo della maniglia si allungò protendendosi verso di lei; evitata la sua punta acuminata con un piccolo spostamento laterale, Wendy svoltò l'angolo più vicino e avanzò attraverso il tinello, dove alcune finestre stavano gorgogliando come la superficie di una sorgente calda. Seduto nell'angolo più lontano del salotto, come una bambola rotta, c'era il corpo senza vita di Jensen Hoyt. Non proprio senza vita, osservò Wendy, notando come il lucido sangue nero vorticasse frenetico intorno alla faccia e alla testa devastate della ragazza, impegnato in una corsa febbrile per ricostruire muscoli e tessuti; nel frattempo il corpo era scivolato in una sorta di coma ricostruttivo, ma Wendy sperava di riuscire a distruggere quel posto molto prima che quella bestia addormentata avesse la possibilità di svegliarsi. Come prendere due uccelli velenosi con un solo fuoco purificante, si disse. Nel dare un'occhiata in cucina, notò i fornelli a gas, e questo le diede un'idea. Un modo vale l'altro, pensò: in una casa intrisa di miasmi maleodoranti, dubitava che un ulteriore odore sgradevole avrebbe attirato un'attenzione indesiderata. Mentre armeggiava con le manopole dei fornelli, sentì alle proprie spalle il cauto rumore di passi di qualcuno che stava salendo dalla cantina; valutando dal suono che doveva trattarsi di più di una persona, evocò la sfera e lanciò poi un'occhiata alla Vecchia, che annuì in segno di approvazione prima di svanire nell'etere. Tre secondi netti, e senza focalizzazione, pensò soddisfatta. Accoccolandosi per nascondersi alla vista, tenne lo sguardo
fisso sulla porta della cantina, consapevole del sibilo prodotto dalla fuoriuscita del gas. Il battente si aprì e Wendy si alzò in piedi con un sospiro di sollievo nel vedere Alex apparire sulla soglia con aria un po' malconcia e insanguinata ma in condizioni accettabili, vista la situazione. Alle sue spalle, c'era un'altra figura... Kayla! «Wendy!», esclamò Alex sorpreso, poi si affrettò ad abbassare la voce continuando: «Devi andare via di qui. Gina ti vuole uccidere!». «È un sentimento reciproco», ribatté Wendy. «Kayla, come...?». «Gli sgherri di Gina hanno devastato il negozio e hanno...». Kayla s'interruppe, deglutendo per allentare il nodo che le serrava la gola. «Wendy, hanno ucciso Tristan! Poi hanno rapito me. Quella pazza mi ha fatto bere il suo sangue, per costringermi a entrare nella sua congrega», continuò scuotendo il capo con rabbia. «Io però l'ho vomitato tutto, o almeno spero che fosse tutto». «Ho bisogno che ve ne andiate di qui entrambi», disse Wendy. «Nell'uscire, chiudete la porta dell'atrio e riparatevi dietro qualcosa di grosso, perché questa casa sta per esplodere. Intendo uccidere Wither... questa volta con il fuoco». Alex lanciò un'occhiata ai fornelli e capì cosa lei avesse in mente. «Wendy, no! Rimarrai uccisa anche tu. Non intendo lasciarti qui. Troveremo un altro modo». «Alex, ricordi la sfera?». Lui stava per protestare ancora, ma poi si trattenne e annuì. «Rendila grande abbastanza per tutti e due», disse invece. «Non posso ancora farlo», replicò Wendy. La verità era che adesso forse ci sarebbe riuscita, ma non poteva dirglielo. Le dimensioni non avrebbero avuto importanza, perché tre secondi erano ancora un tempo troppo elevato; d'altro canto il solo modo in cui avrebbe potuto indurre Alex a lasciarla sola in quella casa era fargli credere che sarebbe stata al sicuro. «Porta via Kayla da qui e aspettami fuori». «Ho una brutta sensazione riguardo a questa faccenda», affermò Alex, «ma ho visto cosa sai fare». Poi venne avanti, e Wendy riassorbì dentro di sé la sfera per abbandonarsi al suo abbraccio. «Non basta», disse lui mentre la stringeva con forza. «Cosa?». «Se vuoi far saltare tutta questa casa, ti serve più gas, molto di più». «Accetto suggerimenti», replicò Wendy guardando verso i quattro for-
nelli, spenti e aperti al massimo. «Ho visto una cassetta per gli attrezzi sotto la scala della cantina. Se Kayla mi aiuterà ad allontanare la cucina dalla parete, potrò arrivare ai tubi e staccarla dalla linea principale di alimentazione del gas. In questo modo la casa si riempirà di gas molto più in fretta che con quei fornelli». «Fallo», annuì Wendy, «poi andate via di qui entrambi». «La tua sfera è abbastanza resistente, vero?». «Non ti preoccupare per me, so quello che faccio», garantì Wendy. Alex le si avvicinò e la scrutò in volto con un'intensità snervante. Ti auguro una vita serena, Alex, pensò Wendy, costringendosi a sfoggiare un sorriso coraggioso. «Ci vediamo presto», disse quindi. Alex annuì, poi scese di nuovo in cantina per prendere la cassetta degli attrezzi. Subito Kayla strinse a sé Wendy in un abbraccio. «Intendi accendere questo fuoco d'artificio con la tua fiammella magica?», le sussurrò all'orecchio. «Esatto», annuì Wendy, continuando a sorridere con sicurezza. «Per accendere il gas dovrai dissipare la sfera». «Vuoi che questa cagna sopravviva?», sussurrò di rimando Wendy e, quando vide Kayla mordersi un labbro, seppe di aver avuto la risposta che le serviva. «Tienilo al sicuro, Kayla», le sussurrò in tono intenso prima di lasciarla andare, «altrimenti tornerò a perseguitarti!». «In bocca al lupo, Wendy», annuì Kayla, indietreggiando e asciugandosi una lacrima. La luce le mostrò la strada. Tornata ai piedi della scala a spirale, Wendy guardò in alto verso il pulsante bagliore verde, e intanto la proiezione astrale della Vecchia tornò ad apparire accanto a lei. «Lei è lassù, vero?», chiese Wendy. «Cercherà di prenderti in contropiede», annuì la Vecchia. Wendy cominciò a salire, e sentì i gradini che cedevano sotto il suo peso, non come se faticassero a reggerlo, ma piuttosto come se oscillassero. Continuò la salita arrivando sempre più in alto, e ben presto la ringhiera cessò di avere il corrimano, conservando soltanto i paletti dalla punta acuminata simili a un'interminabile processione di serpenti di legno. Questo le rese fin troppo facile immaginare di rimanere impalata qualora fosse cadu-
ta dalla scala; turbata da quella sgradevole visione, si tenne addossata alla parete nel continuare l'ascesa, ma ben presto anche la protezione offerta dal muro svanì, perché esso prese a sgretolarsi sotto la minima pressione, facendosi fragile come carta di riso. La prima volta che la parete s'infranse in quel modo, Wendy rimase così sorpresa che perse la presa sul fucile a canna mozza e rimase a guardare impotente mentre l'arma precipitava nelle oscure profondità sottostanti. E ancora la scala a spirale continuava a salire immersa nella pulsante luce verde, priva di qualsiasi sostegno a parte la distorsione della forza di gravità operata da Wither. Devo già essere salita di almeno trenta metri, pensò. Poi le venne in mente un'altra possibilità, e cioè che non tutti i cambiamenti avvenuti all'interno della casa fossero reali. Forse Wither si stava servendo di un'illusione per intimorirla, per radicarle nel cuore un terrore gelido. Quell'infinita scala a spirale priva di sostegni aveva tutte le caratteristiche di un elaborato palcoscenico, una facciata magica che facesse da sfondo alla recita della vendetta di Wither, ma Wendy non osò fidarsi dei propri sensi, almeno fino a quando non fosse stata in grado di distinguere fra la realtà e la distorta immaginazione di Wither. In alto la scala svaniva, persa nella famelica luce verde ma, per quanto lei continuasse l'ascesa, c'era sempre una nuova svolta ad attenderla. Poi sentì un ruggito giungere dall'alto insieme a un rumore di passi pesanti che si avvicinavano in fretta lungo la scala, facendo tremare tutta quella struttura allucinante. Senza una ringhiera o un muro a cui sorreggersi, Wendy si accoccolò carponi. «Cos'è?», chiese. «Brett Marlin», rispose la Vecchia. «L'uomo che lei sta addestrando perché diventi il suo guardiano». Senza il fucile, Wendy non aveva a disposizione armi di sorta, né convenzionali né magiche, a parte la sua piccola fiamma... ed era decisa a non scatenare la letale esplosione finché non avesse avuto Gina davanti a sé, perché non avrebbe avuto senso sacrificare la propria vita se ci fosse poi stata anche una minima probabilità che Gina si potesse salvare. «Hai detto che ho inventato... che inventerò... alcuni modi creativi per utilizzare le sfere protettive», disse. «Ti andrebbe di farmi un esempio?». Sopra di lei, Brett Marlin aggirò una curva della scala a spirale ed entrò nel suo campo visivo, scendendo i gradini a due a due e brandendo quello che sembrava il bastone animato che Alex si era fatto fare su ordinazione. «Altre forme!», rispose d'impulso la Vecchia, colta alla sprovvista.
Wendy ebbe solo un paio di istanti per assimilare quell'informazione, ma mentre osservava i tremiti violenti che Brett stava causando nella scala priva di supporti, fu assalita da un'idea improvvisa; poi Brett levò in alto lo stocco sopra la testa, brandendolo a due mani mentre percorreva a passo di carica gli ultimi metri che li separavano. Wendy aveva già evocato la sfera, ma una collisione con Brett avrebbe potuto scagliarla giù dalla scala, e non sapeva se sarebbe sopravvissuta alla lunga caduta. Invece di aspettare di scoprirlo, sondò la forma della sfera che l'avviluppava e ne spinse una porzione in avanti come una sorta di tentacolo di forza mentale, perforando il legno distorto della scala proprio davanti a sé. L'impeto di Brett lo portò dritto verso quel buco improvviso. All'ultimo momento cercò di superarlo d'un balzo, ma l'impostazione del passo era sbagliata: lasciando andare l'arma, agitò le mani, troppo tardi per impedirsi di precipitare attraverso il buco nell'oscurità sottostante, urlando di rabbia per tutta la durata della lunga caduta. Salendo di corsa la scala, Wendy spiccò il salto per superare il foro, ma colpì con il piede destro un punto in cui il legno era indebolito e sentì il gradino danneggiato che cominciava a cedere. Immediatamente si gettò in avanti, spostando il più possibile il proprio baricentro in modo da non seguire Brett nel suo volo incontro alla morte. La scala descrisse altre due curve, poi Wendy trovò Gina Thorne ad attenderla: a piedi nudi e con indosso l'abito nero a sottoveste, Gina si librava nell'aria in aperta violazione della forza di gravità, i capelli rossicci che fluivano intorno alla testa come un alone. «Non ti fidare di quello che sai essere vero... Adesso è lei a dettare le regole». Un fitto reticolato di vene nere pulsava sotto la pelle di Gina, diramandosi lungo le braccia e le gambe, su per il petto, la gola e la fronte fino a svanire fra i capelli. «Sì, ho finalmente imparato a volare», commentò. «La cosa ti colpisce?». «Mi disgusta». «Sei coraggiosa, devo ammetterlo», disse Gina, «ma alla fine il solo coraggio non basta, e tu non sei abbastanza in gamba. Ho visto quello che sai fare e mi dispiace dirti che non mi spaventa affatto. Non mi fai più paura, Wendy Ward, neppure un poco». «Allora perché prenderti tutto questo disturbo?», chiese Wendy, chiamando a raccolta il coraggio necessario per accendere la sua piccola fiamma e scatenare la spaventosa esplosione. Come potere magico non era granché, era poco più della fiammella di uno Zippo, ma sarebbe bastato a
bruciare quella cagna. «Prima dovevo scoprire quanto eri effettivamente potente», spiegò Gina, allargando le braccia e ruotando lentamente su se stessa al centro della scala a spirale che aveva creato e che pareva supportare con la propria forza gravitazionale distorta. «È risultato che non hai molto potere. Ho riso di gusto della tua insignificante fiammella e sono passata alla seconda fase, farti soffrire per i crimini commessi in passato contro di me. Per questo ho arrostito i tuoi genitori, corrotto i tuoi amici e scuoierò il tuo amichetto, il tutto sotto il tuo sguardo disperato e impotente. Davvero patetico». «Stai correndo un po' troppo, Gina. Kayla e Alex sono fuggiti». Gina piegò il capo da un lato, poi annuì lentamente. «Per ora», ammise, «ma quanto possono arrivare lontano? Morirai sapendo che li torturerò quando tu non ci sarai più». Una cagna davvero presuntuosa e sicura di sé, pensò Wendy, poi ebbe un'idea. Forse è una cosa che posso usare contro di lei. «Non sono preoccupata, Gina, perché sono pronta a scommettere che non sei così potente. O dovrei fingere di credere che sei davvero Wither?». «IO SONO WITHER!». «Urlare così non è una grande dimostrazione», insistette Wendy, «Wither era dotata di vero potere, mentre tu hai soltanto organizzato un originale spettacolo di luci. Probabilmente tutto questo è solo un'illusione, un trucchetto per ingannare gli ignoranti, ma io non intendo cascarci». «ILLUSIONE?», ruggì Gina. «Te la mostrerò io l'illusione!». I paletti acuminati della ringhiera si staccarono dai loro ancoraggi e saettarono in aria, diretti tutti contro la testa o il busto di Wendy, giungendo da ogni parte con la velocità di una quadrella di balestra. Tutti colpirono il bersaglio e rimbalzarono contro la barriera invisibile della sfera; quando infine tutti i paletti infranti furono precipitati nelle oscure profondità sottostanti, Wendy si ritrovò con gli arti che tremavano per lo sforzo. «AH!», gridò Gina. «La magia difensiva ha i suoi limiti. Ti sfinirò, e quando sarai debole come un gattino ti schiaccerò». All'interno della sua sfera, isolata dal crescente volume di gas naturale che saturava l'aria, Wendy sollevò la mano ed evocò la sua minuscola fiamma, comportandosi come se avesse sperato di poterla usare per causare seri danni all'avversaria. Naturalmente era una cosa ridicola, ma Gina aveva un ego enorme e una mentalità esibizionistica. E lei poteva soltanto sperare di non aver sopravvalutato le capacità di quella strega demoniaca. Come si era aspettata, Gina rise della sua misera fiammella.
«Sto tremando davvero, piccola wicca!», esclamò. «Che farai adesso, infilerai un fiammifero nella scarpa e lo accenderai?». «Ridi quanto vuoi, strega fasulla», ribatté Wendy con studiata noncuranza. «Resta il fatto che non ti vedo evocare nessun fuoco». «Vuoi un fuoco?», chiese Gina, tendendo verso di lei entrambe le braccia, le dita allungate. «Ti farò assaporare l'Inferno». «Speravo che lo facessi», sussurrò Wendy un istante prima dell'esplosione, poi ebbe a stento il tempo di chiudere gli occhi per proteggerli da uno scoppio di luce accecante. Il rombo dell'esplosione venne soffocato dalla sfera protettiva, ma l'onda d'urto la fece rotolare su se stessa insieme alla sfera, in un torrente di macerie che prendevano fuoco. In mezzo alla ruggente follia dell'esplosione, Wendy ebbe l'impressione di sentire Gina... Wither... gemere di protesta nel venire distrutta dalle fiamme, maledicendola con il suo ultimo respiro agonizzante, imprimendo sulla sua anima un marchio di fuoco che le avrebbe portato morte e distruzione per il resto della vita. Molto più tardi riprese conoscenza sul prato di un giardino dalla parte opposta della strada rispetto alla casa dei Gallo. La Vecchia le spiegò che non aveva riportato danni a causa dell'esplosione, ma che aveva risentito del consumo di energie necessario a mantenere in essere la protezione della sfera in mezzo a quell'inferno. Alzatasi in piedi, Wendy attraversò la strada con passo incerto, decisa a vedere meglio le rovine fumanti che contrassegnavano la tomba definitiva di Wither. Il fuoco è il solo modo sicuro per distruggere la sua malvagità... Questa volta, capì, era veramente finita. EPILOGO Diario di Wendy Ward 21 settembre 2000 Luna: calante, ultimo quarto, giorno 22 Mabon A volte sogno di essere protetta - e intrappolata - all'interno della sfera, che vortica incontrollata fino ad atterrare lontano da tutti coloro che conosco e che amo. Ciò che mi protegge concorre a isolarmi. Anche le mie giornate sono così. Sono passate sei settimane da quando Gina Thorne, recentemente cono-
sciuta come Wither, è morta nell'esplosione della casa dei Gallo, e io mi sento ancora distaccata da tutti, sperduta nella mia città natale. Frankie adora la villetta, ma ai miei occhi essa ha perso il suo fascino: la mia vera casa è stata distrutta, insieme ai miei genitori. Naturalmente tutti si mostrano comprensivi, e si parla addirittura di ribattezzare la Danfield Library in onore di mio padre, facendola diventare la Lawrence A. Ward Memorial Library; inoltre mi è stata promessa una borsa di studio che copre l'intero corso di laurea al Danfield, sempre che scelga di rimanere. Alissa è tornata in anticipo dalla sua vacanza europea, rientrando poco dopo la telefonata con cui l'ho informata della distruzione del negozio. Mi ha garantito che la sua assicurazione coprirà tutti i danni, ma non posso fare a meno di avere la sensazione di esserle venuta meno. Il semestre autunnale del Danfield è iniziato da tempo, e per tutti gli altri la vita continua con lo stesso vecchio ritmo di sempre, ma le cose non saranno mai più le stesse per me. Quando mi sono resa conto che non assimilavo nessuna delle lezioni e che le pagine del mio blocco per appunti rimanevano stranamente vuote, ho smesso di frequentare i corsi. Alex mi è sempre stato vicino, mi ha accompagnata al funerale, quando abbiamo sepolto mio padre e mia madre in due tombe adiacenti, e in seguito è venuto anche al funerale di Tristan, ha trascorso con me lunghe serate cercando di intrattenermi e di tenermi lontana dall'abisso di dolore e di senso di colpa... e tuttavia ho la sensazione che non mi abbia mai perdonata del tutto per non averlo informato del ritorno di Wither. Le mie intenzioni erano buone, anche se ingenue. All'inizio volevo tenerlo fuori dalla portata di Wither: sapevo che lei mi sarebbe venuta a cercare, ma ho pensato stupidamente di poter proteggere quanti mi erano più cari lasciandoli all'oscuro di tutto. In qualche modo ho pensato di potermi addossare da sola tutta la responsabilità e tutto il pericolo, e per questo ho pagato un prezzo terribile. La vita continua, almeno per gli altri. Dopo l'annientamento di Gina, ho passato parecchi giorni con Karen e con Hannah. Stranamente Hannah non può incontrare la Vecchia: a quanto pare, l'evocazione del suo corpo astrale del futuro è una cosa che lei fa a livello subconscio. Le intuizioni derivanti da quell'esperienza la mantengono informata, ma in un modo ancora più indiretto di quello con cui la vecchia comunica con me. L'esperienza astrale è per lo più un mistero per Hannah, come lo è il nostro futuro. Karen e Hannah sono tornate da Art a Menlo Park dopo i funerali; nonostante le speranze di Karen, Hannah continua a crescere a un ritmo accelerato, e all'età di undici mesi sta seguendo privatamente i corsi di seconda elemen-
tare. I limiti della magia sono una cosa tutta particolare. Per quanto debole potessi essere dopo l'esplosione, sono riuscita a risanare tutti quelli che ne avevano bisogno, incluso lo sceriffo. Lui ha mantenuto il segreto di Abby, come ho fatto anch'io, ma i suoi occhi hanno un'espressione tormentata, come se stentasse a credere che l'incubo sia davvero finito, e non posso dire di biasimarlo. Pare che il risanamento magico serva a ben poco, quando si tratta di ferite emotive. Con il consenso dello sceriffo, se non la sua benedizione, Abby continua a fare delle occasionali corse notturne nella sua forma alternativa, quella del lupo. Nel bene o nel male, il lupo è parte di ciò che lei è... e in quella forma ha salvato la vita a entrambi. Nel corso di un recente pic nic organizzato dai Nottingham, a cui ho partecipato come ospite più o meno d'onore, quando siamo rimaste sole ho chiesto ad Abby se aveva mai provato a trasformarsi in qualche altro animale. Lei ha risposto di no, ma i suoi occhi hanno assunto un'espressione meditabonda, e più tardi l'ho sorpresa a fissare un punto in alto al di sopra dei pini, dove un'aquila descriveva pigri cerchi nel cielo. Kayla ha cominciato a fare quelli che ha definito sogni oscuri, incubi partecipativi, e in genere nei giorni successivi a questi sogni le è successo di avere qualche linea di febbre. Il 30 di agosto, in contemporanea con la prima luna nuova dopo la distruzione di Gina, Kayla si è svegliata urlando nel cuore della notte, certa di avere le mani coperte di sangue. Dietro suggerimento della Vecchia, il giorno successivo ho tentato di risanarla, sempre che questo sia il termine più esatto. L'aura dorata l'ha avviluppata senza che riuscissi a individuare in lei danni di sorta, ma qualche momento più tardi si è precipitata in bagno e l'ho sentita vomitare a lungo, in modo violento. Kayla afferma che da allora i sogni sono cessati, e io le credo. Purtroppo i miei incubi continuano, sogni tormentati in cui mi trovo su quella scala a spirale degna di Dalí, in cui rivivo l'esplosione e la successiva onda d'urto, sento la voce tormentata di Gina, in quegli ultimi, infernali momenti della sua vita, che mi scaglia contro in punto di morte la maledizione di Wither. L'aspetto più spaventoso di quegli incubi è che sembrano più parti di ricordi dimenticati che fantasiosi costrutti del mio subconscio. In passato ho già fatto sogni lucidi, a occhi aperti, e sono effettivamente convinta che la sua oscura maledizione stia solo attendendo che io la scopra, annidata in qualche angolo profondo della mia mente. Wither può anche essere morta e sepolta, ma io temerò per sempre la sua malvagità...
Diario di Wendy Ward 1 novembre 2000 Luna: crescente, primo quarto, giorno 4 La sera di Haloween del 2000 è passata. Fino a stamattina, non mi ero resa conto di aver trattenuto una sorta di respiro psichico per tutto questo tempo. Ho guardato la tivù, rosicchiandomi le unghie, mentre Frankie si è accertata che avessimo un'abbondante scorta di dolciumi per le tradizionali visite del «dolcetto o scherzetto». Non sono riuscita a dormire fino all'alba, ma quando finalmente è giunto, il sonno è stato meravigliosamente privo di sogni. Posso respirare... Windale, Massachusetts 22 dicembre 2000 Appoggiata al cancello di ferro battuto del numero 100 di College Way, le mani affondate nelle tasche della giacca, Wendy era intenta a osservare gli operai che manovravano le betoniere e versavano il cemento per le fondamenta della nuova casa del preside del college. Da un'altezza di otto chilometri devono sembrare una colonia di formiche impegnata a ricostruire un formicaio danneggiato dal passo noncurante di un umano, pensò. Pare non avere mai importanza se il passo sia stato distratto o diretto con malizia, le formiche ricostruiscono sempre. Secondo il giornale del college, la costruzione della nuova abitazione sarebbe stata completata entro il maggio successivo, ma per allora Wendy sperava di essersene già andata da tempo. Mentre cominciava a cadere un po' di neve, Wendy volse le spalle agli operai e attraversò College Avenue, lasciandosi affascinare dalla semplice meraviglia di quei pigri fiocchi di neve che scendevano lenti nell'aria. Con indosso una giacca di pelle che s'intonava ai suoi occhiali da sole Ray-Ban, Alex le si affiancò senza l'ausilio di un bastone. Se non altro, i suoi poteri di risanamento erano riusciti a ottenere almeno quello; dentro di sé Wendy sospettava che il suo tocco risanante avesse curato anche la fotofobia di Alex, dovuta a una vecchia ferita riportata giocando a hockey, e che lui continuasse a portare gli occhiali da sole per abitudine o come affettazione acquisita.
Tendendogli la mano, Wendy avvertì un brivido familiare quando lui la strinse nella propria. «Corre voce che tu ti sia ritirata», disse Alex. «Sarebbe più esatto dire che sono stata bocciata», lo corresse Wendy. «Ho sentito dire che queste cose succedono, quando si smette di frequentare le lezioni e non ci si presenta a quei fastidiosi esami». «Pigliati un semestre di pausa», suggerì Alex. «Dannazione, concediti un anno intero. Nessuno ti biasimerebbe». Wendy smise di camminare, si girò per essergli di fronte e gli abbassò gli occhiali da sole lungo il naso in modo da poterlo guardare negli occhi. Un flusso continuo di studenti continuava a scorrere intorno a loro senza arrestarsi, nonostante le occhiate incuriosite lanciate nella loro direzione. «E cosa mi dici di te?», chiese Wendy. «Tu mi biasimi?». «Certo che no, quel tempo ti darebbe...». «Non era questo che intendevo», lo interruppe Wendy. «Sto parlando di Gina Thorne, di tutta la faccenda di Wither». Alex sospirò e distolse lo sguardo per un momento, prima di rispondere. «Mi chiedi se penso che hai sbagliato? Sì! Avresti dovuto dirmi tutto. Vuoi sapere se ritengo che le tue intenzioni fossero cattive? No». «Ma la strada per l'Inferno è lastricata di buone intenzioni?». «Di intenzioni non accompagnate da azioni appropriate, forse, ma le tue azioni sono state comprensibili, perfino onorevoli. Vorrei soltanto... Vorrei che me lo avessi detto, ecco tutto». «Non stavo cercando di fare la martire, puoi credermi», affermò Wendy. «All'inizio non riuscivo a crederci neppure io, e in seguito mi sono sentita responsabile, come se in qualche modo fossi la sola a dover portare quel fardello». Alex si diresse verso una panchina di pietra posta davanti agli edifici amministrativi e si sedette, le mani congiunte abbandonate fra le ginocchia. Andando a raggiungerlo, Wendy gli assestò un colpo scherzoso con il fianco nel sedergli accanto. «Ho finito i bagagli, e sono pronto per la pausa invernale», sorrise Alex, girandosi a guardarla. «Bene», annuì Wendy. «Salutami tutti, a casa». «Mia madre vuole sapere se ti piacerebbe trascorrere il Natale con noi». «È davvero gentile». «Ma non verrai?». «Credo che rimarrò qui intorno ancora per un po'», rispose Wendy. «Ka-
ren, Art e Hannah verranno a trovarmi durante le vacanze». Alex si schiarì la gola. «Che intenzioni hai, allora?», chiese, guardando dritto davanti a sé. «Dove andrai? Cosa farai?». Wendy aveva scoperto che i suoi genitori avevano fatto una serie di saggi investimenti nel corso degli anni e che, pur avendo destinato un lascito ragguardevole al college, avevano lasciato tutto il resto dei loro averi a lei, la loro unica figlia. Si trattava di più denaro di quanto gliene servisse realmente, e per il momento non sapeva neppure cosa farne, preferiva mettere una certa distanza fra se stessa e quella tragedia prima di fare donazioni o prendere decisioni finanziarie a lungo termine. Senza dubbio aveva intenzione di aiutare la famiglia di Tristan, ma a parte questo... Alex la stava fissando con gli occhiali da sole in mano, in attesa di una risposta. «Credo che viaggerò per un po', imbarcandomi magari al tempo stesso in un viaggio alla scoperta di me stessa». La Vecchia aveva sollevato il velo che celava la sua magia, permettendole di intravedere il vasto potenziale che l'attendeva, ma aveva ancora molto da imparare. «Qualsiasi cosa decida di fare, non ti preoccupare per me», aggiunse, baciandolo su una guancia. «Va bene se ogni tanto sento la tua mancanza?», ribatté Alex, inarcando un sopracciglio. Wendy reagì con un sorriso tirato e lo baciò ancora, questa volta sulla bocca, socchiudendo leggermente le labbra. «Non quanto io sentirò la tua», rispose. «Di più», sussurrò lui, di rimando. Wendy gli afferrò la mano e lo tirò su a forza dalla panchina, poi infilò il braccio sotto quello di lui appoggiandogli la testa sulla spalla, e insieme tornarono a unirsi al flusso dei passanti. «Ci rivedremo ancora, Alex Dunkirk», gli disse. «Questa è una promessa». E qualsiasi cosa il futuro possa avere in serbo, mi troverà preparata, promise a se stessa. FINE