TIM GRIGGS LA NOTTE DELLA CASA BRUCIATA (The End Of Winter, 2004) 1 Fu la notte in cui mio padre ci salutò per l'ultima ...
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TIM GRIGGS LA NOTTE DELLA CASA BRUCIATA (The End Of Winter, 2004) 1 Fu la notte in cui mio padre ci salutò per l'ultima volta. Il ricordo è ancora nitido. Davanti a me, sul tavolo di formica della cucina, erano sparpagliati libri e quaderni. Loro tre erano tornati da un paio d'ore dal ristorante e se ne stavano in salotto a ridere come matti. Nel frastuono assordante della musica dovevano gridare per capirsi. Detestavo quella squallida casa in affitto. Detestavo i miei libri di scuola, con le illustrazioni di adolescenti che facevano sport e flirtavano con un sorriso idiota stampato in faccia. Modelli di una spensieratezza che in quel momento non mi apparteneva. Non avevo voglia di sorridere. Fra dieci ore mio padre sarebbe partito per l'Africa. Sarebbe rimasto lontano da casa per mesi, in qualche luogo sperduto, dove gli uomini andavano a caccia con le lance e il sole dardeggiava sulla terra riarsa. Mio padre sarebbe partito e non mi avrebbe portato con sé. Avevo tredici anni e la netta sensazione che non avrei mai più sorriso. La musica tacque e Anthony si alzò. La sua figura di pinguino grassoccio mi oscurò la visuale del salotto, che potevo scorgere attraverso la porta socchiusa. Nonostante avesse da poco superato i quarant'anni, si vestiva all'antica, e quella sera indossava un gessato sgualcito, con un fazzoletto da taschino. Alzò il bicchiere. «A Duncan.» Parlava a voce alta, come accadeva ogni volta che beveva qualche brandy di troppo. «A Duncan» ripeté Anthony sbattendo gli occhi come un gufo. Chiusi il mio libro con un colpo secco sperando di catturare la loro attenzione e che il rumore disturbasse la loro insulsa festicciola. Mia madre mi guardò da sotto il braccio di Anthony. C'era qualcosa di ostile nei suoi occhi. Anche lei tra qualche ora sarebbe rimasta sola, senza mio padre, e non era certo disposta a regalare a me il poco tempo che le restava. Rivolse altrove lo sguardo. Ci fu un altro brindisi e nuove risate, poi improvvisamente la festa si concluse.
Un attimo dopo tutti entrarono rumorosamente in cucina, parlando in modo concitato, con i volti arrossati per l'alcol. Gli occhi di Anthony brillavano dietro le lenti, ma non cercavano lo sguardo degli altri. Si infilò goffamente il cappotto. Sapevo che, nonostante l'apparente euforia, anche lui era turbato da quella partenza. Mi capitava di pensare che Anthony fosse ridicolo, ma dovevo ammettere che faceva del suo meglio per essermi amico quando mio padre era lontano, e in quel momento mi sentii solidale con lui. «Penseremo noi a loro, non è vero, vecchio mio?» Anthony mi toccò la spalla, impacciato: era scapolo e non aveva nessuna dimestichezza con i bambini. «Penseremo noi a tua madre e ai piccoli, mentre l'intrepido viaggiatore è lontano, vero?» Non risposi. Ero sul punto di piangere. Sapevo che Anthony se ne era accorto. «Azione, ragazzo mio» tuonò, forse per distrarre l'attenzione degli altri da me. «Ecco con che cosa dobbiamo tenerci occupati. Con un'azione ardita!» Anthony lo ripeteva spesso, ma in realtà la sua idea di azione ardita contemplava una serata all'opera o tutt'al più una spedizione al mercato dell'antiquariato. E sinceramente, nessuna delle due cose mi attirava. In realtà, se ne stava lì, imbambolato, con l'aria di uno del tutto incapace di qualunque azione ardita. Un secondo dopo mia madre lo baciò sulla guancia, gli allacciò il cappotto con un gesto affettuoso, e lo accompagnò verso la porta, ricordandogli che il taxi lo stava aspettando. Dalla porta entrò una folata di aria gelida. Si udirono i passi frettolosi di Anthony sul vialetto e il rumore di una macchina che partiva. Mia madre chiuse fuori il vento della notte invernale. Notai che il suo sorriso si era spento. Non mi guardava, come se non esistessi. Fissava mio padre che se ne stava appoggiato alla parete di fronte, fumando un sigaro ed esaminando pensieroso le nocche della mano destra. Era giunto il momento che mia madre più temeva, il momento accompagnato dalla consapevolezza che presto lui se ne sarebbe andato ancora una volta. «Comincia a salire, Pat» disse senza guardarla. «Ti raggiungo tra un minuto.» Uscendo dalla cucina gli passò accanto. Non disse nulla, ma mentre attraversava il soggiorno vidi che si irrigidiva. Il ritmo dei suoi passi sulle scale tradiva la sua impazienza.
Mio padre mi guardò attraverso una nube di fumo. Era magro e ancora abbronzato dall'ultimo viaggio. Con il sigaro tra le labbra, per un attimo mi sembrò un fuorilegge di un film western. Mi guardò di sbieco. Conoscevo il significato di quello sguardo: siamo tra uomini ora, i piagnistei lasciamoli alle femminucce. Era una tattica che già conoscevo e che odiavo profondamente, così come odiavo la sua disinvolta sicurezza, e persino la sua bellezza. Tutti dicevano che gli somigliavo, ma in quel momento speravo con tutto il cuore che non fosse vero. Non volevo niente di suo. Sapevo che la sua voglia di andarsene era più forte del mio desiderio che restasse, e quella era la cosa che odiavo più di tutte. Guardò il sigaro che teneva in mano. «Non so perché li fumo. Sono pessimi» disse. «È tutta colpa di quel dannatissimo Anthony Gilchrist.» Si guardò attorno alla ricerca di un posacenere e non trovandone in cucina, tornò in salotto. Quando ricomparve, con una smorfia di disgusto sulle labbra, il sigaro non c'era più. Prese una sedia e si sedette di fronte a me. «Avanti, non fare quella faccia. Cerca di capire. È il mio lavoro.» «Potresti trovarne un altro» dissi con un nodo in gola. «Sono un ingegnere progettista, Mike» disse con aria stanca. «Devo andare dove ci sono progetti. Questo non significa che mi faccia piacere lasciarvi. Lo sai, vero?» «A Deb e a Paul non importa niente se te ne vai. Sono ancora piccoli. Dopo due giorni dimenticano.» Il suono delle mie parole mi sembrò lontano, insolito, come se qualcun altro si fosse impossessato della mia voce. «E la mamma viene a trovarti ogni volta che sei via.» «Non è un viaggio di piacere, Mike. Non è una vacanza. Ti annoieresti.» Allungò il braccio, prese uno dei miei libri e lo sfogliò come se non avesse mai visto un vocabolario in vita sua. «Presto riprenderai ad andare a scuola. Allora vedrai che tutto si aggiusterà.» Lo guardai stupito, ma non dissi niente. Non ne valeva la pena. La distanza tra noi era incolmabile. Pensai al mio collegio nei Midlands battuti dal vento e mi immaginai per contrasto il mondo in cui lui si muoveva: sabbia rovente, jeep, foreste smeraldine e fiumi color caffè. Come avrei potuto non preferire la sua vita alla mia? «Ti hanno mai parlato di Ulisse, Mike?» mi chiese a un tratto, allontanando il dizionario. «Il libro o il personaggio greco?» Mi lanciò un'occhiata sarcastica. «Il greco.»
«E allora?» «Dopo la guerra di Troia passò molto tempo in mare prima di fare ritorno a Itaca. Diciannove anni. Ma alla fine, ritornò da sua moglie e dai suoi figli. Quando si sentì pronto. Quando gli dèi decisero che per lui era giunto il momento di fare ritorno alla sua isola.» Rimasi in silenzio, con il fiato sospeso. «Itaca è un luogo reale» disse. «È un'isola greca. Nel mare Ionio. Ho sempre pensato che il viaggio a Itaca fosse un'esperienza speciale.» Sorrise. «Forse dovremmo andarci insieme prima o poi. Intendo dire, tutti noi.» «Quando?» chiesi subito. Dal piano di sopra giunse un rumore confuso. Forse il tonfo di un soprammobile che cadeva. Lo udimmo entrambi. Era un segnale, come quando avevo chiuso il libro, sbattendo rumorosamente le pagine. Mio padre e io alzammo gli occhi al soffitto, quindi ci guardammo. In quel momento mi fu chiaro che non saremmo mai andati a Itaca insieme. Né altrove. Mi afferrò il polso. «Adesso sei tu l'uomo di casa, Mike.» Di nuovo il tono fasullo e odioso che aveva ogni volta che cominciava un discorso da uomo a uomo. «Ho bisogno che tu ti prenda cura della casa e di noi tutti. Finché torno. Solo qualche mese. Poi vedremo.» Sentivo la rabbia che cresceva. Ma mio padre non si accorse di nulla. Mi lasciò il polso, si alzò e mi sorrise come se avesse trovato una soluzione a tutto. Poi lentamente attraversò il salotto e io sentii i gradini della scala di legno cigolare sotto il suo peso. Quando i rumori di sopra cessarono mi alzai e silenziosamente entrai in salotto. Sul tavolo c'erano un paio di bottiglie vuote e nei bicchieri rimasti sui braccioli delle poltrone stagnava un fondo di vino rosso. La stanza era satura dell'odore acre del sigaro. Sul pavimento di fronte al camino l'atlante era aperto alla pagina dell'Africa. Spensi il camino e lo stereo, raccolsi i bicchieri e li portai in cucina posandoli sul ripiano del lavello, infine spensi le luci. Per molto tempo rimasi ad ascoltare il rumore metallico del camino che si raffreddava e le raffiche di vento che colpivano la finestra della cucina. Aprii la porta sul retro e mi immersi nell'oscurità gelida. Una notte da lupi, una notte da briganti, con gli alberi che si agitavano minacciosi e la pioggia ghiacciata che sferzava contro le case ben riscaldate dei sobborghi. Tremavo, ma mi sentivo libero. Ero uno spirito libero nella notte e nella tempesta, ne facevo parte, forse ne ero il cuore. Sentivo
nascere in me la ribellione. Prendermi cura di loro? Che se la cavassero da soli. Girai la chiave nella serratura e con una corsa cieca mi precipitai giù per la strada nera e deserta. 2 C'era una strana quiete, una quiete irreale: nessuna voce, nessun rumore di pale che scavano, nessun frastuono di bulldozer e di benne. Su entrambi i lati della strada il terremoto aveva ridotto gli edifici in cumuli di detriti. Nell'aria era sospeso un pulviscolo giallo che sapeva di cemento e di putrefazione. Ce ne stavamo in gruppo vicino alla jeep, guardandoci attorno con aria smarrita. La mia schiena era madida di sudore per la calura che cominciava a salire. Stella si mosse dietro di me facendo scricchiolare il ghiaietto, un piccolo segnale per ricordarmi la sua presenza. Una rassicurazione e un gesto di impazienza allo stesso tempo. Mi portai una mano sugli occhi per farmi ombra, ignorandola. Giù a valle, sulla strada dissestata proveniente da Caracas, il camion che portava Patrick e Julio con le attrezzature era ancora fermo in mezzo ai campi di canna da zucchero. Anche dal punto in cui mi trovavo scorgevo le loro sagome che come formiche si davano da fare attorno al veicolo in panne. Patrick, l'esperto di logistica, era un uomo coscienzioso che non tollerava imprevisti. Tutto doveva funzionare: veicoli, sistemi e uomini. Certamente il guasto al camion l'aveva gettato nella frustrazione più completa. Me lo immaginavo inveire, tirando calci agli pneumatici. «È questo il posto?» chiesi all'autista. Borbottò tra sé qualcosa in spagnolo, mentre andava alla ricerca della cartina. Il fruscio della carta che veniva spiegata riempì il silenzio dell'attesa. Sapevo che era il posto giusto, ma volevo prendere tempo per pensare. Non mi andava l'idea di rimanere bloccato in mezzo a quella desolazione per colpa di un guasto meccanico. Non mi piaceva sentire gli occhi di Stella puntati alla schiena. Non mi piaceva la prospettiva di ciò che loro avrebbero potuto chiederci, di ciò che noi non saremmo stati in grado di fare. Sentii uno scalpiccio di stivali e vidi un maggiore dell'esercito venezuelano che veniva verso di noi a grandi passi, passando dietro la montagna di macerie. Sembrava sbucato dal nulla. Era un uomo alto e robusto. Mentre si avvi-
cinava notai che i suoi occhi erano stanchi e spenti. Il viso, i capelli e gli abiti erano completamente ricoperti di polvere. Sulla bocca portava un foulard color cachi e al fianco una pistola nella fondina, come i banditi nei fumetti. Mi mossi per andargli incontro, ma all'ultimo momento qualcuno che era fuori dalla mia visuale gridò, un cane cominciò a mugolare e il maggiore alzò la mano come un poliziotto in servizio. Mi fermai. Il cane invisibile si mise ad abbaiare, questa volta con maggior insistenza. Il maggiore abbassò il foulard e senza distogliere lo sguardo dal mio distintivo gridò alle sue spalle: «Que pasa?». Arrivò la risposta, confusa ma esultante, e si sentirono altre voci, voci frenetiche, anche se non capivo quello che dicevano. Il maggiore, intanto, continuava a tenere gli occhi fissi su di me. «Sono Michael Severin» dissi, toccando il distintivo di Medici Senza Frontiere che portavo sul camice. «Credo che ci aspettassero.» Lo sguardo del maggiore cambiò direzione e si puntò su Stella. Il mormorio alle sue spalle non si era interrotto. «Siete venuti ad aiutarci?» chiese. Aveva l'aria incredula, quasi divertita: un uomo e una donna di fronte a un terremoto. «Ci sono altri due,» dissi rendendomi conto di come la precisazione risultasse ancora più assurda «ma il camion si è bloccato giù nella valle.» Alzò il mento in segno di assenso. Non mostrò alcun interesse per le nostre difficoltà. Dovevano significare ben poco di fronte a quello che aveva visto negli ultimi due giorni. Il suo nome - P. Rivera - era inciso a lettere bianche sul cartellino di plastica nero fissato sopra il taschino della camicia. Guardò una seconda volta il mio distintivo. «Siete francesi?» chiese in tono sofferente, come se questo dettaglio aggiungesse un elemento di follia in un mondo già sufficientemente folle. «Ci inviano dei medici dalla Francia?» «Siamo una squadra inglese. Dobbiamo fare qualcosa?» «Forse sì.» Il maggiore si allontanò di un passo, poi si girò di scatto, come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa. «Devo... vorrei ringraziarvi. Per essere venuti.» Con mio grande imbarazzo si immobilizzò per almeno quindici secondi in un rigido saluto militare. Alle mie spalle sentii Stella muoversi. Stavo per fare una battuta, ma quando alzai lo sguardo vidi che gli occhi del maggiore Rivera erano pieni di lacrime.
Dall'apertura strisciò fuori per primo il cane, uno spaniel marrone e bianco, che agitava felice la coda. Dopo lo spaniel emerse un caporale dell'esercito che fu trascinato fuori dai suoi compagni. Sputava terriccio. Qualcuno gli diede una borraccia e lui bevve, si raschiò la gola, sputò di nuovo, parlando velocemente in spagnolo e gesticolando. «Dice che sotto la chiesa c'è un tunnel» mi spiegò l'interprete. «Non è molto lungo. Ha lasciato un nastro adesivo. Il cane ha trovato un uomo...» Si interruppe per ascoltare il racconto concitato del caporale. «Ritiene che sia solo. Un vecchio, dice.» «Morto?» «No, no. Parla. O prega. Intrappolato. Forse è padre Rafael. Il soldato dice che non si è potuto avvicinare. Il tunnel è pericoloso. È allagato. Dice che ha sentito le pietre muoversi.» L'interprete mi fissò con occhi privi di espressione. «Penso che avesse paura di andare avanti, il soldato.» «Digli che è stato un eroe.» L'interprete ubbidì, ma il caporale si limitò a chinare il capo e a inginocchiarsi per fare i complimenti al cane. Sapeva di non essere un eroe e io mi sentii un idiota per il commento fuori luogo. Attraversai il piccolo cerchio di soldati e abitanti del villaggio, e mi accovacciai vicino all'apertura. Il sole era alto e i muri diroccati ne riflettevano la luce accecante. Il tunnel era nero come la pece e dall'imboccatura usciva un soffio d'aria polverosa. Poco distante giungeva il rumore di scavatrici che si mettevano in moto cigolando e in lontananza il ronzio appena percettibile di un elicottero. Ma non mi sfuggiva il fatto che gli uomini e le donne attorno a me non parlavano. Sentii dei passi dietro di me e la mano di Stella si posò sulla mia spalla. «Forse possono raggiungerlo dall'alto.» Il suo accento scozzese giunse alle mie orecchie preciso, freddo, distaccato. «Davvero?» Mi alzai e scrollai la polvere dalle mani. «Questo non tocca a noi, lo sai. Te lo dico fuori dai denti, Michael. Sono contraria. La nostra squadra deve limitarsi a valutare la situazione. Dovremmo almeno aspettare l'arrivo del camion. Aspettare gli altri.» Ma dal suo tono capii che aveva già preso una decisione. Nel tunnel faceva un caldo soffocante e l'odore era così forte che dovetti fermarmi alcuni secondi per non vomitare. Davanti a me l'oscurità era fitta, quasi palpabile. La pila gettò un fascio di luce bianca che trapassò quella cortina nera, illuminando antiche travi, mattoni spezzati e cumuli di lastre
di cemento rovesciate. L'adesivo messo dal caporale correva lungo il bordo inferiore di una porzione di pavimento sprofondato in quella che doveva essere stata la cripta. La volta in mattoni aveva protetto dalle macerie uno dei lati, mentre un'accozzaglia di travi in legno e in cemento formavano una sorta di rudimentale soffitto. Avanzavo a carponi. Se tenevo la testa abbassata, tra me e il soffitto c'era uno spazio di qualche centimetro. Ripetevo a me stesso che dopo tutto non era così terribile, ma ogni volta le parole suonavano sempre meno convincenti. Sentivo Stella che strisciava dietro di me. Ansimavo. Mi fermai e costrinsi il corpo al silenzio. Voltandomi feci segno a Stella di restare immobile. Volevo verificare se c'erano altri suoni lì sotto. Solo un breve rumore metallico prodotto dallo spostamento di una fibbia della mia imbracatura. Uno sciacquio vicino. Con un gesto meccanico strinsi il talismano che portavo appeso a una catenina. Nel corso degli anni l'usura aveva smussato gli spigoli della vecchia chiave Yale. La strofinai, convinto che quel gesto mi avrebbe disteso i nervi. Poi ci fu un rumore nuovo, una nota alta, melodiosa, ripetuta più volte, come il richiamo di un uccello. Mi ci volle un attimo per riconoscere in quel suono una voce umana. Avanzai. L'adesivo del caporale era finito. Il tunnel si stringeva tanto che dovetti lavorare di spalle per proseguire. A causa dei miei movimenti le macerie franarono, con un rumore che nell'oscurità densa mi sembrò spaventoso. Avevo il naso e gli occhi pieni di polvere. Mi sentivo soffocare. Quando finalmente riuscii a vederci qualcosa, spire di polvere si avvolgevano attorno al fascio luminoso della torcia. Feci ruotare la luce. Sulla mia destra, a circa un metro, c'era un sarcofago di pietra scoperchiato e spaccato a metà. Il suo occupante raggrinzito mi rivolgeva un muto e macabro sorriso mostrando i denti. Mi fermai e quasi mi mancò il respiro. Stella mi chiamò: «Michael?». Mi raggiunse e quando vide la tomba aperta trattenne il fiato, proprio come avevo fatto io un attimo prima. «Questo ha perso un sacco di sangue» disse. Di nuovo la voce attraversò l'oscurità; un filo sottile, ma gioioso, forse un salmo, forse un inno di lode. «Lo sento. Canta» dissi.
«Ci mancava solo questo. Venire fin qui per disseppellire Pavarotti.» «Se è Pavarotti, lo riporti indietro tu.» Mi toccò il braccio. «Michael, non è che stiamo esagerando?» «Tu che ne pensi?» «Perché rispondi sempre con un'altra domanda?» «Che cosa te lo fa pensare?» «Lasciamo perdere, Michael.» «Sento che canta» dissi ancora, come se fosse una risposta sufficiente. Questa volta Stella non rispose. «Rimani qui e stai attaccata alla corda. Ti chiamo, quando ho bisogno di aiuto.» Il tunnel cambiò direzione e scese di un paio di metri, poi si aprì improvvisamente in una vasta aula. Mi resi conto di essere immerso nell'acqua per quasi mezzo metro - un'acqua sorprendentemente gelida - e che l'aria era fetida. «Padre Rafael? Mi sente?» Una pausa. «Lei è inglese?» La voce dell'uomo era chiara e inaspettatamente vicina. «Sì, inglese. Sono un medico.» «Allora,» con mio grande stupore la voce cominciò a ridere, con un suono aspro, sibilante «benvenuto nel mio paese.» Ora lo vedevo, un movimento sullo sfondo di un muro ridotto in macerie, giù vicino alla superficie dell'acqua nera: il profilo della sua spalla, del braccio, della testa e poi il bianco degli occhi e dei denti. «Si muova con prudenza» disse l'uomo. «C'è un pozzo.» Avanzai con circospezione, finché sentii sotto i piedi il terreno solido. Feci un altro passo e poi un altro ancora. Questa volta la mia gamba sparì nelle tenebre fino alla coscia. Cercai con il piede l'imboccatura del pozzo e procedetti avanzando molto lentamente, trascinandomi dietro lo zaino. Raggiunsi l'uomo e mi accovacciai davanti a lui. «Padre Rafael?» Alla luce della torcia vidi che il prete era molto anziano. Il suo viso rugoso era nero di terra, gli occhi incredibilmente grandi e luminosi. Mi chiesi se non stesse delirando. Tutte e due le mani erano libere, intatte, senza un segno, o un graffio. Il busto non era intrappolato nelle macerie, ma non riuscivo a scorgere altro. «Riesce a muoversi, Padre? Sente le gambe?» «Mi faccia vedere la sua faccia» disse il prete. La richiesta mi sorprese e vedendo che non rispondevo subito, il vecchio allungò le mani nell'oscuri-
tà e quando trovò il mio braccio lo afferrò con forza. «Mi piacerebbe vedere il volto di un altro uomo» disse. Mi sedetti e diressi il fascio di luce della torcia sul mio viso. Padre Rafael mi studiò. Infine con grande calma disse: «Giovanotto, lei sa cosa significa avere paura». Non dissi niente. «Anch'io ho conosciuto la paura in questi tre giorni» disse padre Rafael. «Ma ora non più.» «Non c'è niente di cui avere paura ora, padre» cercai a tentoni il mio marsupio e feci scorrere la cerniera. «Ora possiamo aiutarla, possiamo tirarla fuori di qui.» «Il tempo dei sogni è passato» disse padre Rafael. «L'acqua si sta alzando. Tra un'ora, forse meno, per me sarà tutto finito.» «Possiamo tirarla fuori da qui» ripetei. «Giovanotto, la chiesa è caduta sulle mie gambe. E neppure lei, con tutta la buona volontà, può spostare la Santa Madre Chiesa in un'ora.» Padre Rafael emise ancora una volta il sibilo della sua risata. «La chiesa è una roccia, no? E ora so quanto pesa.» Stella avanzava verso di me sguazzando nell'acqua bassa. Mi sentii sollevato quando vidi la sua sagoma scura e la luce del suo casco. «Attenta al pozzo» le dissi. «Controlla i suoi parametri vitali. Intanto io voglio vedere che cosa gli è caduto addosso.» Come se noi non esistessimo, il vecchio riprese a cantare salmi in latino. Qualcosa di gioioso e di antico. Feci scorrere la mano lungo il suo corpo, dal fianco fin giù, lungo la gamba destra. Ma la maggior parte dell'arto era sotto il livello dell'acqua. Proprio sopra il ginocchio sentii il gonfiore di una probabile frattura, anche se lui non emise alcun lamento quando gliela toccai. Feci scorrere le mani lungo la gamba sinistra. Era piegata all'indietro, in una torsione innaturale e dove avrebbe dovuto esserci il ginocchio le mie dita incontrarono carne viva e un osso appuntito. Il vecchio smise di cantare, ma anche stavolta dalla sua bocca non uscì un lamento. Strisciai dietro il suo corpo e da quella posizione potei vedere alla luce della torcia una grande lastra che gli schiacciava le gambe. La carne lacerata era gonfia e nerastra. «Polso 130, debole» Stella ripose lo stetoscopio nel suo zaino e cercando di mantenere una voce neutra aggiunse: «Pressione ottanta su zero. È piuttosto disidratato». Dopo un attimo riprese: «Forse possiamo usare le pompe. Tenere il livello dell'acqua basso finché arriva Patrick con il camion».
«Non c'è tempo.» Mi guardai attorno nell'oscurità gocciolante. Poteva essere la mia immaginazione, ma mi sembrava che l'acqua si fosse alzata. «Dobbiamo amputargli le gambe per tirarlo fuori di qui.» Stella non disse nulla, ma sapevo perfettamente che non era d'accordo. «Anche se con qualche difficoltà posso raggiungere il punto del crollo e con un briciolo di fortuna possiamo operare con il midazolam e il fentanyl in vena. Vai a prendere la roba dalla jeep. Io sto qui con lui.» Dopo un attimo di esitazione si voltò e si mosse lungo il tunnel. Mi chiedevo come il prete avesse potuto sopravvivere per tre giorni in quelle tenebre, in quello stato. Feci un lungo respiro e cercai di riprendermi. «Devo spiegarle che cosa cercheremo di fare, padre. Sarò sincero con lei, non ci rimangono molte scelte.» La mano ossuta mi cercò ancora nell'oscurità. «Perché è venuto qui, giovanotto?» «È il mio lavoro.» «Salvarmi?» insistette il padre. «È questa la ragione per cui lei è venuto qui? Ma lei mi ha già salvato: da una morte solitaria, dal non vedere più il volto di un uomo buono. Non è per questo che lei è venuto. Non solo per questo.» La forza delle sue parole mi costrinse a guardarlo negli occhi. Ebbi l'impressione che quell'uomo mi conoscesse da tempo, che sapesse scrutare i miei pensieri, il mio passato. Avvertii un brivido, freddo come l'acqua nella quale eravamo immersi. «C'è una possibilità» dissi, cercando di mantenere la voce ferma. «Ma dovrò...» «Non può salvarci tutti, giovanotto» disse padre Rafael. «Tutti i sofferenti, gli ammalati e gli intrappolati. Tutte le vittime.» «Ma io devo cercare di farlo» sussurrai. «Non capisce? Devo almeno provarci.» Il vecchio sorrise e la sua presa sul mio braccio divenne una morsa. «Mio giovane amico, siamo in trappola tutti e due.» Sentii Stella alle mie spalle che si faceva strada nell'acqua e la sua voce riecheggiare nel tunnel, tesa dalla paura. «Michael, hai sentito?» Non sentivo niente, oltre il pulsare del mio sangue. Era successo qualcosa? Un brontolio sotterraneo appena percepito? Non era difficile avere simili fantasie laggiù, con quel vecchio spiritello che mi guardava malizioso. Sentii qualcosa che si muoveva sopra di me. Alzai gli occhi. La lastra sopra la mia testa stava lentamente slittando, mi spostai appena in tempo.
Frammenti di cemento si staccarono dalla sua superficie e finirono con un breve sibilo in acqua, sfiorandomi «Vieni qui» le gridai. Mi raggiunse da dietro, ansimando. Spezzai la fiala del fentanyl. Riempii la siringa, fissandola in controluce. «Questo le farà passare il dolore, padre.» Mi rivolsi a Stella. «Mettiti dietro di lui e lega il laccio alla gamba.» Stella si portò accanto al prete e con la torcia illuminò le tenebre. «Cristo santo, Michael. È sott'acqua. Non è possibile.» «Fai quello che ti ho detto.» Mi afferrò per le spalle e mi tirò con forza contro di sé sussurrando: «Ascolta. Ci farai crepare tutti. Infilagli l'ago e andiamocene da qui. È il massimo che puoi fare per lui». «Ha ragione» disse il prete. «Lei sa...» Lanciai sguardi furibondi al prete e a Stella. Poi accadde una seconda volta e questa volta non ci furono dubbi. La terra sussultò. L'acqua attorno alle mie gambe si increspò in anelli argentei. «Michael.» La voce di Stella era di un'ottava più alta. «Adesso andate. Svelti.» Il prete lasciò la presa sul mio braccio e mi spinse con forza, tanto che indietreggiai di un passo incespicando e persi la torcia, che cadde con un tonfo nell'acqua scendendo a spirale come un pesce giù nel pozzo. Ci fu un gigantesco schianto e qualcosa di pesante mi colpì il braccio facendomi cadere la siringa. Stella gridava e mi trascinava, tirando la corda con tale violenza che mi trovai lontano dal pozzo senza rendermene conto. Agitavo convulsamente le braccia nel buio. Poi vidi la luce del suo casco e la sentii gridare e singhiozzare, mentre mi trascinava finché riuscii a rimettermi in piedi. Procedemmo a fatica lungo il tunnel invaso dalla polvere, con la morte che ci spiava a ogni passo. Alle nostre spalle l'aula crollava. Alcuni militari mi versarono sulla testa l'acqua delle loro borracce. Dopo quel buio il sole era accecante. Vomitavo come un vulcano per liberare i polmoni dalla polvere. Gli uomini si davano da fare intorno a me. Mi tastavano dappertutto per verificare che fossi integro. Ero ricoperto di graffi e ammaccature, il battito cardiaco correva a velocità pazzesca, ma la luce e l'aria mi riempirono di una gioia quasi perversa. «Sto bene» dissi facendo cenno agli uomini di allontanarsi. «Un minuto, per favore.» Si scambiarono sguardi interrogativi, ma si spostarono. Una nuvoletta di polvere era sospesa sopra l'entrata del tunnel, una macchia sul-
l'azzurro intenso del cielo. "La pietra tombale di padre Rafael," pensai "una nuvola di polvere alla deriva nell'aria assolata." Era più di quanto la maggior parte di quella gente avrebbe mai avuto. Dietro di me Stella era seduta sul fianco della montagnola di macerie, con il viso nascosto tra le mani. Il suo atteggiamento non invitava a consolarla. Dopo un momento si alzò e si allontanò barcollando, senza rivolgermi uno sguardo. 3 Appoggiato alla ringhiera del balcone bevevo birra San Miguel direttamente dalla bottiglia. Eravamo alloggiati in una vecchia caserma militare, una trentina di chilometri fuori Caracas. Il balcone si affacciava su una piccola piazza d'armi in terra battuta e su un insieme disordinato di edifici di servizio. Giù all'interno del recinto erano parcheggiate tre jeep, e le sentinelle con i fucili automatici gironzolavano intorno al cancello d'ingresso. Era quasi buio e le luci palpitanti della città si accendevano oltre la recinzione. Vedevo i fari di atterraggio degli aerei che scendevano all'aeroporto internazionale e le luci di altri velivoli nel cielo color cobalto. Avrebbero portato altri viveri, altre tende, altre attrezzature, altre squadre di soccorritori e di medici. Forse tra non molto la situazione sarebbe migliorata. Forse tra non molto i soccorsi sarebbero stati sufficienti. Forse tra non molto non ci sarebbero più stati altri padri Rafael. Sentii la porta aprirsi dietro di me. Mi arrivò il rumore di stoviglie e il mormorio delle persone che mangiavano nella mensa al pianterreno, ma io non avevo voglia di scendere. Stella venne sul balcone e appoggiò le mani sulla ringhiera, lontano da me. Anche lei aveva in mano una bottiglia di San Miguel. Non mi guardava. «Niente fame, eh?» dissi. Non rispose. «Neanch'io» aggiunsi. Nel cortile arrivò una jeep con il cambio della guardia e i soldati dei due turni rimasero a fumare, tra risate e chiacchiere, con i loro fucili a tracolla. Non sembravano aver fretta di andarsene. Nel buio vedevo muoversi le braci rosse delle sigarette. Forse fu quell'immagine che fece venire a Stella voglia di fumare. Si voltò appoggiando la schiena alla ringhiera, estrasse un pacchetto di sigarette dal taschino della camicetta, ne accese una e con aria soddisfatta espirò il fumo verso il cielo. Senza guardarmi mi tese il
pacchetto. «No, grazie.» «Hai paura che il fumo ti faccia male?» «Che cosa avrei dovuto fare, Stella? Lo sentivo cantare.» Si voltò verso di me avvicinando il suo viso al mio. «Sai qual è il tuo problema, Michael?» Il suo accento scozzese si era fatto più marcato. «Non capisci mai quando ti devi fermare.» «Mi spiace. Avrei dovuto mandarti indietro.» «Mandare me indietro?» urlò. «Avresti dovuto mandare te stesso indietro, razza di stupido. Ecco che cosa avresti dovuto fare.» «Pensavo che avremmo potuto essere d'aiuto, tutto qua.» «Michael, il nostro compito è valutare la situazione, non fare gli speleologi alla ricerca di preti che cantano salmi. Ti è chiaro questo? In nome di Dio, non avremmo neppure dovuto essere qui. Noi dovremmo gestire un tranquillo programma di chirurgia a Caracas.» «Non sono stato io a organizzare il terremoto, Stella. Ci siamo ritrovati qui e abbiamo fatto quello che potevamo. Ecco tutto.» Lanciò nel vuoto la sigaretta fumata a metà. «Me ne vado, Michael. Per quanto mi riguarda finisce qui. È la mia ultima missione.» «Stai scherzando.» «No, parlo sul serio. Torno a casa domani, proprio come previsto dal programma.» «Pensavo che saresti rimasta» dissi con prudenza. «Pensavo che tutti e due saremmo rimasti. A lavorare con la nostra squadra ancora per qualche tempo.» «Vado a casa e ci rimango.» E dopo un attimo aggiunse: «Sposo Gordon». «Gordon! Lui lo sa?» «Farà quello che gli dico» disse con durezza. «Sposo Gordon, e voglio quattro o cinque pargoli grassottelli. E poi voglio avere un sacco di piante. E un pappagallino, anche.» «Entrerai nella storia della ginecologia.» «Molto divertente!» disse, guardando con occhi torvi nella notte. Cercai di ricordare l'immagine di Gordon: rispettabile, vestito di scuro, occhialuto. Gordon si occupava di statistica in un istituto di previdenza. Quelli dell'equipe di traumatologia che erano rimasti all'ospedale St Ruth lo conoscevano e non lo vedevano di buon occhio. Per un istante mi scorsero davanti le immagini dei luoghi dove avevo vi-
sto Stella lavorare, in patria e all'estero. La rivedevo mentre legata a un corda si calava dalla parete di una roccia per raggiungere un pullman che era uscito di strada, la rivedevo mentre guadava nell'acqua fino al petto in territori alluvionati. Insieme, in Bosnia avevamo eseguito un intervento chirurgico in una cantina, con un bossolo di razzo che sbucava dal soffitto. «Morirai di noia, Stella.» «Ti assicuro che dopo quello che ho visto oggi la noia non mi fa paura.» Bevve un sorso di birra, poi si voltò verso di me. «Anche tu dovresti pensarci.» «Io non voglio sposare Gordon.» «Hai quasi quarant'anni. Hai una bella moglie con la quale non passi molto tempo.» «Cate capisce.» Mi precipitai a precisare. Il motivo non mi era chiaro, ma ogni volta che Stella nominava Caitlin provavo una forte irritazione. «Michael, hai abbastanza da fare a Londra nel tuo ruolo di erede ufficiale del professor Curtiz. Perché non lasci che siano i giovani a giocare agli eroi? Concediti una tregua. Concedi a tutti noi una tregua.» «Noto che questa sera sei in vena di filosofare.» «Sarà per il fatto che per poco non rimango spiaccicata sotto cinque tonnellate di macerie» disse. Dopo di che aggiunse, in tono meno aggressivo: «Sai una cosa, Michael? Anche se ci riproverai mille volte, non riuscirai mai a tirarli fuori. Forse dovresti accettare questo fatto». Non risposi. «Voglio ubriacarmi un po'. Mi accompagni?» chiese. «No, vacci tu.» Esitò, come se avesse qualcos'altro da aggiungere, poi si chinò, mi diede un rapido bacio sulla guancia e se ne andò. Guardai la porta oscillare alle sue spalle. Le avevo raccontato la storia mentre eravamo in un campo di profughi curdi in Turchia. Le avevo detto come, all'età di tredici anni, non fossi stato abbastanza forte per sottrarmi alla presa ferrea di Anthony, mentre alla luce dei fari gli idranti lanciavano getti d'acqua, le pompe ruggivano, le sirene ululavano, i vicini inorriditi si assembravano nella strada gridando disperatamente. Non le avevo raccontato tutto. Non le avevo parlato della forza con cui Anthony mi tratteneva, facendomi male, né delle sue lacrime. Prima di allora, non avevo mai visto piangere un adulto. Non le aveva detto delle figure alla finestra della stanza da letto dei miei genitori, due alte e due piccole, che si tenevano per mano, nere sullo sfon-
do delle fiamme che divampavano. Nessuno le aveva viste, vicine come per una foto di famiglia nella quale io non avrei mai più avuto posto. Nessuno le aveva viste, perché in quel momento non potevano essere alla finestra. Erano già morti. Ma questo non significa niente, perché io li vidi. E li vedevo ancora. Giù nel cortile una delle jeep accese il motore e quattro guardie vi saltarono dentro. Ci fu un coro di saluti, di battute, di risate. La jeep uscì dal portale e sparì nella notte torrida. Bevvi un sorso di birra, ma era calda. Mi resi conto che dovevo essere rimasto in piedi sul balcone almeno un'ora da quando Stella se ne era andata. Qualche minuto dopo lasciai il balcone e scesi alla mensa. Era tardi e la grande sala spoglia era quasi vuota. A un tavolo d'angolo una mezza dozzina di operatori della Croce Rossa tedesca giocavano a carte bevendo birra e fumando. Un paio di donne del posto facevano le pulizie. Una radio blaterava in spagnolo e un ventilatore a soffitto ruotava pigramente le pale spandendo attorno il fumo delle sigarette. Fui felice di non vedere traccia di Patrick e di Julio. Non avevo voglia di chiacchierare. Alcune donne stavano ancora lavorando in cucina. Andai allo sportello, presi un caffè e rifiutai il panino che mi veniva offerto. Il caffè era molto forte e sapevo che mi avrebbe tenuto sveglio. In ogni caso, quella notte non sarei riuscito a dormire. Sentivo della musica provenire dall'altra parte del cortile e vedevo le luci del bar filtrare attraverso le persiane chiuse. Mi chiedevo che ora fosse in Inghilterra e se Caitlin fosse a casa. La immaginavo muoversi, canticchiando sottovoce, nelle stanze luminose e ordinate della nostra casa di Notting Hill, occupata nelle faccende domestiche. O forse era su, nell'attico - la sua voliera come la chiamava lei - ad ascoltare musica; oppure era fuori a fare compere. Chiusi gli occhi e vidi i tendoni a strisce lungo Notting Hill Gate. La vidi camminare in quello scenario; alta, snella, bionda, con i capelli lucidi appena tagliati, il lungo manico della borsa sulla spalla, gli occhiali da sole alzati sulla fronte. La immaginavo con in mano un mazzo di fiori avvolti in un foglio di giornale, la immaginavo ridere con i negozianti che la conoscevano: Stavros il barista, Julian il fioraio, Ivan che vendeva libri usati. Tutti la adoravano. Tutti volevano prendersi cura di Caitlin. Mi sentii invadere da una tale ondata di tenerezza che per un attimo mi fece male. Gli operatori della Croce Rossa tedesca erano sempre più allegri. Tutti
quanti avevano una stazza rispettabile e riempivano l'ambiente con la loro allegria, eccessiva, sguaiata. A un certo punto uno di loro esclamò in un inglese da caricatura: «This is Venezuela. You are welcome to it!». E tutti scoppiarono a ridere picchiando i pugni sul tavolo. Forse imitavano il saluto ampolloso di qualche funzionario. Ma il tono da opera buffa mi riportò all'istante il sapore di polvere e di putrefazione sospeso nell'aria soffocante, e rividi gli occhi del vecchio prete. Una frazione di secondo e Stella e io saremmo stati ancora laggiù, sotto le stesse macerie che erano diventate la tomba di padre Rafael. Dopo tutto, un bicchiere mi avrebbe fatto bene. Mi alzai, misi la tazza sul banco e uscii dalla mensa. Percorsi il lungo corridoio che conduceva alla porta e attraversai il cortile. Fuori dal bar ebbi un momento di esitazione. Il locale era affollato di personale ausiliario, medici e infermieri provenienti da una mezza dozzina di paesi. Qualcuno aveva trovato una chitarra e cercava di mettere insieme le note di un flamenco, mentre un coro di gente lo accompagnava, pestando i pugni sul tavolo e brindando con le bottiglie alzate. Stella, ridendo e urlando uscì dal locale con una bottiglia di birra in una mano e una sigaretta nell'altra. Mi vide. «Salve, dottor Michael. Mi chiedevo dove ti fossi cacciato.» Barcollava e una ciocca di capelli rossi le si era incollata alla fronte. Mi guardò con curiosità, inarcando le sopracciglia. Non le era sfuggito il fatto che ero angosciato. Cercò di ricomporsi. Con un cenno del capo indicai il bar. «Una bella festa.» «Stanno semplicemente scaricando la tensione.» «Giusto.» «Entra se vuoi vedere un anestesista olandese nudo che canta la Carmen.» «Allettante, ma...» «Dovresti vedere dove ha messo la rosa.» «Non c'è bisogno. Vado a letto.» Stella non si mosse. Appoggiò la birra sul davanzale di una finestra e buttò via la sigaretta. Le tolsi la ciocca di capelli dalla fronte e le appoggiai le mani sulle spalle. Le diedi un bacio fugace sulla guancia, la spostai di lato e me ne andai. Non ero ancora arrivato alla fine del corridoio che già mi chiamava, come del resto ero sicuro che avrebbe fatto. «Michael?»
Mi raggiunse, mi gettò le braccia al collo e mi baciò con violenza. Sapeva di fumo. Mi scostai e cercai di sciogliermi dal suo abbraccio. «Stella, io...» «So già tutto, Michael, perciò risparmia il fiato.» «Tutto cosa?» «Tutte le tue cazzate sulla fiducia e la fedeltà.» Allungai le braccia per tenerla a distanza. «Sai che cosa ti dico, infermiera Cowan? Se fai la brava ragazza ti metto a letto, ti rimbocco le coperte e ti racconto una storia. Nient'altro. Va bene?» Sorrise con l'aria di chi la sa lunga e si lasciò andare contro di me. Le misi un braccio attorno alle spalle. Sentivo il calore del suo corpo attraverso la stoffa della camicetta. Ci incamminammo goffamente lungo il corridoio. Stella mi fece scivolare un braccio attorno alla vita e mi tenne stretto contro di sé. La sua stanza si trovava sul retro dell'edificio e guardava la strada. La misi a sedere sul letto e andai a chiudere le persiane. L'aria si era rinfrescata. Sentivo odore di benzina, di fiori notturni e di polvere. Dalla taverna lungo la strada arrivava una musica lontana. Ogni tanto una jeep o un camion dell'esercito passavano rombando. Stella si spogliò, senza badare a me. L'ultima volta che l'avevo vista spogliarsi era stato in Turchia, nove anni prima, proprio la notte in cui le avevo parlato dell'incendio e ricordavo con estrema chiarezza il suo corpo forte e atletico, il modo disinvolto con il quale si muoveva quando era nuda. Mi fece sorridere la noncuranza con cui gettò gli abiti in un angolo: l'ordine non era il suo forte. Non potei fare a meno di pensare che era l'opposto di Caitlin. Caitlin si muoveva con la grazia misteriosa di una lince. Stella invece era un vulcano. Aveva trovato un paio di bicchieri e da una bottiglia versò un liquido giallognolo. Era sufficientemente sobria. Alzò i bicchieri per osservare in controluce che il livello fosse uguale in entrambi. Le strisce di luce che penetravano dalle persiane si disegnavano sulla sua schiena e sulle sue natiche. Era bello osservarla. Sentii crescere dentro di me un senso di familiarità e di benessere, mentre il vuoto che sentivo nello stomaco andava dissolvendosi. Ricordavo ogni dettaglio di quando ero andato a letto con Stella: il suo odore, il sapore della sua pelle. Mi sentii invadere da una sorta di nostalgia. Mi si avvicinò tendendomi il bicchiere.
Lo annusai. «Che roba è?» «La tequila si deve bere in posti come questo, no? Se la comperi a casa è come piscio, sul posto invece è fantastica.» Si diresse verso il letto, gettò il lenzuolo da un lato e si distese, poi posò il bicchiere sul comodino e si stirò. Si dondolò sul materasso facendo cigolare le molle. Si mise a sedere con le mani dietro la testa e mi fece cenno col capo si avvicinarmi. In piedi nel mezzo della stanza ero ancora interamente vestito. «Quale sarebbe la tua idea?» chiese. Mi avvicinai e mi sedetti sulla sponda del letto. La coprii con il lenzuolo. «Su, Stella. Bevi la tua buona tequila tiepida e lasciamoci reciprocamente in pace.» Vide che facevo sul serio e allontanò di scatto lo sguardo. «Oggi per poco non crepavamo. Volevo semplicemente festeggiare il fatto di essere vivi, tutto qui.» «Mi spiace.» Per qualche secondo non disse niente, poi espirò con forza. «Sei sempre così maledettamente serio, Michael. Fai il disinvolto, ma sotto sotto sei un maledetto puritano. Questo non ti procura molti amici.» Dovette leggermi in faccia la sorpresa, perché allungò una mano e me la posò sul braccio. «Non volevo dire esattamente quello che ho detto. Ma tu non abbandoni neppure per un attimo questa tua forsennata ricerca. Non permetti mai che la gente ti stia vicino. Voglio dire vicino sul serio.» «Mi ritengo abbastanza fortunato per quello che ho.» Mi guardò dritto negli occhi. «Michael, se sei così fortunato, che ci fai qui? Nella mia stanza? Nel cuore della notte? In questo maledetto Venezuela?» Mi alzai in piedi e lei subito cambiò registro. «Va bene, forse sei venuto qui per il clima. Del resto i disastri più interessanti si verificano sempre ai tropici. A Londra è inverno dodici mesi all'anno.» Inverno. Fui come abbagliato dalla visione nitidissima di Londra battuta da ondate di pioggia sottile e gelida, con i marciapiedi chiazzati di foglie nere e il ghiaccio che scricchiola sotto i piedi. Che cosa ci facevo qui? Forse c'era del vero in quello che aveva detto Stella. Forse mi sentivo attratto dalla violenza del sole e dal sapore della calura. Attratto da un mondo dove c'erano solo colori primari e dove le scelte erano drastiche. Aveva ragione. A Londra era inverno dodici mesi all'anno. Stella si mise a sedere sul letto e alzò il bicchiere. «Brindiamo a questo, almeno. Alla fine dell'inverno.»
Alzai il mio bicchiere e lo feci tintinnare contro il suo. Era calato il silenzio. Non sentivo più alcun suono provenire dalla taverna e dall'esterno arrivava soltanto il ronzio degli insetti. Il suono del silenzio tropicale. Avrei voluto dire qualcos'altro, qualche cosa sulla gratitudine e sull'affetto, ma improvvisamente mi sentii invadere da un desiderio così intenso che per un attimo non fui in grado di dire o di pensare a niente. Mi chinai nel buio e la baciai, così, all'improvviso. Subito mi gettò le braccia al collo e mi strinse. Sentii il tonfo del bicchiere che cadeva rotolando sul pavimento. Stella mi baciava con avidità e io sentivo il sapore di tequila, di sale e di limone. Sentivo i suoi mormoni pressanti, il suo respiro affannoso, le mani che slacciavano la fibbia della mia cintura. Mi tirai indietro. Misi una mano sulla sua e la tenni ferma. Scostò il suo viso dal mio. Sentivo i suoi seni alzarsi e abbassarsi contro di me. «Allora?» chiese. E poi con amara insistenza: «Allora, Michael?». Mi alzai goffamente. Guardando altrove mi infilai la camicia nei pantaloni. «Pensi che sia un errore, vero Michael?» disse in tono brusco «ti do ragione, anch'io lo penso.» La guardai negli occhi. «Lo sai, Stella, che non dovrei essere qui.» Afferrò il lenzuolo e si coprì. «In tal caso, forse faresti meglio a toglierti di torno e decidere dov'è il posto giusto per te.» «Forse sarebbe meglio.» Mi avviai alla porta e la aprii. Uscii nel corridoio e mi voltai. Stella era seduta sul letto, ancora col lenzuolo addosso, e mi guardava come una furia. Ma mentre stavo per richiudere la porta vidi la rabbia svanire dai suoi occhi. Alzò il mento e lasciò cadere il lenzuolo, scoprendo i seni. A pianterreno Patrick aveva trasformato una cella che si affacciava sul cortile in una stanza per le telecomunicazioni. Nel piccolo spazio ingombro di attrezzature erano state ammassate tre scrivanie con un computer. Non usavo mai il telefono satellitare per chiamate personali, quindi Patrick si stupì di vedermi comparire. Cercò di mascherare l'imbarazzo sedendosi a una delle scrivanie, dopo aver scavalcato fasci di cavi. Verificò che ci fosse la linea, poi mi passò il telefono. Sentii il segnale di libero.
«La comunicazione dovrebbe essere diretta» disse. «Bene.» «Ma se fossi in te non sprecherei tempo a parlare del più e del meno. Ci dovrebbero essere solo un paio di minuti prima che perdiamo il satellite.» Sentii chiudere la porta e capii che Patrick era uscito. Digitai il numero. Rispose quasi subito. «Cate?» E prima che lei avesse il tempo di parlare e io di cambiare parere, mi precipitai a dire: «Avevi ragione tu. Avevi ragione su tutto». In un primo momento sentii solo il sibilo delle scariche statiche. «Michael» la sua voce proveniva dall'altra parte del mondo. «Michael. Non è possibile che sia tu. Non adesso.» «Non è successo niente, Cate. Volevo solo dirti che ho ripensato a tutto.» «Non è successo niente» ripeté con la stessa voce spettrale, come se non credesse alle proprie orecchie. «Ti spiegherò tutto quando torno. Non ne ho mai parlato a nessuno veramente a fondo. Anche su questo avevi ragione. Forse dopo possiamo trovare un modo per ricominciare ad andare avanti. Incominciare a ritrovare noi stessi.» «Michael» disse con voce quasi impercettibile. «Vorrei tanto che tu mi ritrovassi.» L'intensità della sua voce mi lasciò senza fiato. «Cate?» Mi chiesi se per caso non fosse un po' ubriaca. Mi sembrava di vederla sola e infelice con una bottiglia di vino e mi sentii in colpa. O forse a Londra era notte fonda e l'avevo svegliata. «Ho sbagliato orario? È molto tardi?» «Sì, è molto tardi, Michael» disse. «È molto, molto tardi.» Il collegamento si fece più difficile e in mezzo alle scariche elettromagnetiche sentivo l'ansimare del suo respiro. Ripetei a lungo il suo nome, ma non riuscivo più a farmi sentire. Tuttavia il suo respiro riusciva ancora ad arrivare sino a me, come il ritmo del mare. Inesplicabilmente, ascoltando quel respiro, sentii qualcosa di freddo alla bocca dello stomaco. Un attimo dopo la linea era caduta. 4 La mattina del giorno successivo Stella partì. Avevamo evitato di incon-
trarci fino a quel momento, ma dalla finestra dell'ufficio che avevo occupato la vidi caricare i bagagli su un taxi bianco sgangherato, parcheggiato in cortile. Non c'era nessun altro a salutarla. A Stella non piacevano le smancerie e forse per questo aveva scelto di andarsene alla chetichella, quando tutti erano indaffarati o impegnati altrove. Mi chiesi se dovessi far finta di niente, ma alla fine scesi in cortile. In un primo momento non mi vide. China sui bagagli parlava all'autista. «Stella?» Si raddrizzò sorpresa. «Sono venuto ad augurarti buon viaggio.» «Ah!» «Allora buon viaggio.» Spostai il peso da un piede all'altro. «Fai bene a tornare a casa, Stella. Voglio dire, hai preso la decisione giusta.» Strinse le labbra. «Anche tu faresti bene a tornare, Michael.» «Senti,» dissi «ho riflettuto su diverse cose. Avrei dovuto parlartene chiaramente.» Mi guardò con durezza, poi si chinò nuovamente sul bagaglio, dandosi da fare con una cinghia che era già tirata al massimo. Muovevo irrequieto i piedi nella polvere. Stella si raddrizzò lentamente. «Va bene,» disse «non abbiamo gli stessi tempi.» «È che non volevo...» Ero alla ricerca delle parole giuste. «Non volevo che nella nostra amicizia si intromettesse dell'altro.» «Bene,» disse «non si è intromesso granché negli ultimi nove anni, o giù di lì. Anche se a volte mi chiedo perché.» Aprì la portiera del taxi e gettò la borsa sul sedile posteriore. Il motore si accese con il rumore di una mitragliatrice e il tubo di scappamento riempì il cortile di fumo puzzolente. Sapevo che Stella aveva altro da dirmi, ma quando le sue labbra si mossero il frastuono del motore non mi permise di sentire. Rinunciò a parlare, mi diede un rapido abbraccio e si lasciò cadere nel taxi, gridando qualcosa all'autista. Un secondo dopo non c'era più. Sentii la vettura che sobbalzava facendo strani rumori sul sentiero accidentato che portava alla strada principale. Rimasi altri due giorni. Forse avrei dovuto prendere lo stesso volo di Stella, ma non era ancora il momento. Non mi sembrava giusto partire prima che l'ospedale da campo fosse allestito al meglio, anche se questo non era esattamente compito mio. E volevo spiegare le sue mansioni al
nuovo responsabile della squadra; un giovane danese che sarebbe arrivato solo la sera successiva. Inoltre volevo impartire istruzioni precise a Patrick e a Juan. E poi c'erano altre mille cose che dovevo fare. Ero perfettamente consapevole che si trattava solo di pretesti. Tuttavia, prima di partire volevo far ordine non solo all'ospedale da campo, ma anche nei miei pensieri. Volevo che il passaggio di consegne avvenisse in modo ineccepibile. Volevo togliermi Stella dalla testa per qualche giorno prima di rivedere Caitlin. Forse più di ogni altra cosa volevo non riconoscere che qualcosa effettivamente non funzionava, qualcosa di profondo e non imputabile a un paio di bicchieri di vino e a un attacco di tristezza. Nel corso delle successive quarantotto ore cercai di chiamare Caitlin tre o quattro volte con il telefono satellitare. A casa non rispondeva, ma non c'era niente di strano in questo. Alla fine, con un certo sollievo non privo di sensi di colpa, rinunciai. Non volevo sentire di nuovo il tono grave che avevo avvertito nella sua voce l'ultima volta. Grazie a una raccomandazione riuscii a trovare un posto su un charter per la sera successiva. I sedili sui due lati della fusoliera erano occupati da paramedici e gente dei servizi di emergenza che giocavano a carte, leggevano o dormivano. Da qualche parte mi arrivavano i guaiti eccitati di un cane, forse un cane da salvataggio che apparteneva a una delle squadre di soccorso. I guaiti e l'interno buio dell'Ercules mi riportarono a padre Rafael. Scacciai il pensiero. Bagagli e attrezzature erano ammucchiati al centro della fusoliera. Attraverso il portellone di coda vedevo le luci dell'aeroporto e una nera frangia di palme lungo la recinzione. Poco dopo, il primo dei grossi motori si accese con qualche singulto e in un attimo un frastuono assordante riempì il velivolo. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi. Mi svegliai frastornato nel cuore della notte. Sentivo l'enorme aereo vibrare sotto di me con un fragoroso tremolio che sovrastava ogni altro rumore. Nell'oscurità scorgevo a malapena le forme degli altri passeggeri che dormivano rannicchiati sui loro sedili. Se fossero state accese le luci non avrei riconosciuto nessuno di loro. Tuttavia, mi sentii invadere da un profondo senso di fratellanza per quegli uomini e quelle donne. Mi chiedevo come fossero le famiglie cui facevano ritorno. Mi chiedevo quali ricordi li avessero sostenuti durante la loro lontananza. E cullato da quei pensieri mi riaddormentai. Una notte estiva di nove anni prima. La bella facciata georgiana di Mar-
row House, un padiglione sul prato, lanterne di carta sugli alberi, un grande giardino che scende al placido fiume Severn, nel tratto che attraversa il Gloucestershire. Il mormorio di una conversazione di voci ben educate. Appoggiato al tronco di un antico cedro sorseggiavo un aperitivo, mentre osservavo il mio amico Bruno che, come sempre, mi suscitava un misto di ammirazione e di divertimento. Bruno, che non sapeva che cosa fosse la vergogna, era salito sul palco e si era impossessato del microfono. Ora stava cantando una canzone alla Randy Newman, con sorprendente bravura. «Me ne ha parlato Campbell» mi aveva gridato Bruno sulla M4 per farsi sentire al di sopra del frastuono della sua decrepita Austin Healey. «Penso che in realtà non sia stato invitato nemmeno lui. La festa di compleanno di qualche ricca stronza. Kate, no, Caitlin qualcosa. Sai, uno di quegli stupidi cognomi che piacciono tanto a questo tipo di gente. Il paparino si occupa di cemento. Un'occupazione degna di lui.» «Sarà di rigore l'abito nero. Ci butteranno fuori.» «Basta che tu dica che sei un amico di Caitlin.» «E tu cosa dirai?» «Che sono un amico tuo.» «That child done washed us away...» Bruno finì la sua esibizione con una nota singhiozzante e con un gesto della mano fermò la banda con perfetta sincronia. Ci fu un applauso entusiastico e richieste di bis. Il cantante del gruppo strinse la mano a Bruno con grande enfasi, come se la sua ammirazione fosse autentica. «In genere, in un'occasione come questa, mi verrebbe da fare qualche commento caustico,» la ragazza si era fermata accanto a me «del tipo: il tuo amico dovrebbe cercare di non perdere il suo posto di lavoro. Ma in effetti penso che se la sia cavata bene.» Era alta e bionda e mi resi subito conto che era fuori della mia portata. Mio padre diceva che doveva essere approvata una legge che tutelasse gli uomini dalla bellezza di certe donne. E Caitlin era una di quelle. «Bruno è fatto così» dissi. «Dagli cinque minuti e tornerà con un contratto firmato da una casa discografica e il programma per un tour in Scandinavia.» «È molto attraente» osservò con l'aria di chi se ne intende. La guardai, sorpreso dalla sua osservazione. Avevo l'impressione che avesse la voce impastata. Tornò a guardarmi, anzi a esaminarmi, in modo diretto. Le sue pupille erano dilatate. Forse si aspettava una risposta, ma non ebbi il tempo di aprire bocca, perché Bruno saltò giù dal palco e si di-
resse verso di noi passando in mezzo alla folla. «Ehi, ragazzo!» urlò a un barman che serviva a un tavolo. «Un bicchiere d'Alka Seltzer d'annata per i miei amici.» Il cameriere sorrise raggiante e versò tre bicchieri di champagne. Se io avessi gridato per chiedere dell'Alka Seltzer, il barman avrebbe chiamato la polizia. Bruno afferrò il vassoio al volo e ci portò i bicchieri scintillanti. Appoggiò il vassoio su di un ceppo, distribuì i bicchieri e alzò il suo nella direzione della ragazza. «Caitlin, dolcezza mia. Che festa meravigliosa! E tu sei radiosa, come sempre.» «Grazie, cortese signore» gli disse con un sorriso irresistibile. «Ma chi diavolo sei?» «Come? Michael non te l'ha detto?» Bruno sorseggiò il suo champagne guardandomi con aria di rimprovero. «Mio caro, ti saremmo grati se dedicassi parte del tuo prezioso tempo a imparare la buona educazione.» Bruno appoggiò il suo bicchiere sul vassoio e sparì prima che Caitlin avesse modo di rivolgergli altre domande. «Ho capito. Siete i due scrocconi che hanno parcheggiato quel vecchio rottame sul viale. Perde olio sulla ghiaia.» Assunse un'espressione di finto sdegno e scimmiottando un accento aristocratico disse: «Papà è furioso». Indicò con la testa il terrazzo dove un uomo alto, molto attraente, chiacchierava con i suoi ospiti. Doveva essere vicino ai settanta, ma il portamento eretto e i baffi curatissimi conferivano alla sua persona la durezza di un generale vittoriano. Anche a distanza era perfettamente chiaro che faceva ogni sforzo per non guardare nella nostra direzione. Mi staccai dall'albero e posai il bicchiere sul vassoio. «Sapevo che era una pessima idea.» «Anche tu hai detto al custode che eri un mio amico.» Nella sua voce c'era una vena d'allegria. «Cattivo, cattivo.» «E pensare che credevo di essere stato convincente.» «Farai bene a non cambiare mestiere.» Si divertiva nel vedermi a disagio. «Papà mi ha mandato a verificare se sei un tipo raccomandabile. Naturalmente sa benissimo che non lo sei.» «Questo significa che mi passerà per le armi, vero?» «Può darsi che io custodisca il tuo segreto.» Mi prese per il braccio. «Andiamo a fare una passeggiata.» «Una passeggiata?» «Hai presente? Un piede davanti all'altro. Molte volte di seguito.»
«Bene.» «In ogni caso, questa sera non andrai da nessuna parte» mi condusse nell'erba alta verso il sentiero che costeggiava il fiume, dove in mezzo agli alberi neri l'acqua mandava un luccichio d'argento. «Ho riempito il vostro serbatoio di champagne.» «Non avresti potuto sgonfiare le gomme come fanno tutti?» «È una questione di stile» disse scuotendo la testa. «O ce l'hai o non ce l'hai.» Il tappeto di foglie era morbido sotto i nostri piedi. Davanti a noi si stendeva una navata di tronchi neri. Man mano che ci allontanavamo i suoni della festa si facevano sempre più tenui. «Senti?» mi chiese fermandosi. «È un merlo. Mi piacciono i merli, e a te? Trovo che cantino in modo meraviglioso.» Ci fermammo nel tepore del crepuscolo ad ascoltare il canto del merlo. Dopo un momento riprendemmo a camminare in silenzio. «Ecco.» Caitlin mi afferrò per un braccio e mi condusse attraverso un boschetto di salici e di sambuco. Un vecchio pontile di legno si staccava dalla riva. Le assicelle mancanti dell'assito formavano strisce nere, opache sulla superficie luccicante. Tese la mano verso di me. «Vieni. Dovrebbe essere sicuro.» Ci fermammo all'estremità del pontile, oltre un canneto dove l'acqua profonda scivolava silenziosa. Ascoltare lo scorrere intimo e misterioso del fiume mi dava una sensazione di inquietudine e nello stesso tempo di eccitazione. A qualche metro di distanza si sentiva il borbottio della chiusa sulla quale aleggiavano fantasmi di vapore. «È tutto nostro, sai» disse con una punta di sarcasmo. «Per la precisione, è tutto di papà.» «Il pontile?» «Non il pontile, stupido.» Ridacchiò. Non mi aspettavo che fosse capace di ridacchiare. «Il fiume. Questo tratto, almeno.» «Come è possibile possedere un fiume? Sparisce in continuazione. Quale tratto è vostro? Quello di oggi o quello di ieri?» «Papà pensa che sia tutto suo. È ricco sfondato, sai. Sta per entrare alla Camera dei Lord.» «Allora tu diventerai Lady Caitlin? È così che funziona?» «Io non sono nessuno» disse. «Sono solo quella ricca stronza della figlia.» Mi schiarii la gola e osservai il fiume che svaniva. «Sono sicuro che nes-
suno si riferisce a te in quel modo.» «Lo dicono tutti e sai una cosa? Quando la gente parla di te in quel modo, finisci col comportarti di conseguenza. Finisci con l'essere circondata solo da nobili imbecilli con le loro Jaguar, i loro yacht e le loro ville a Davos, e prima che tu te ne renda conto, sei diventata una del jet set, non conosci nessun altro e non ne vieni più fuori.» Rimasi zitto, sorpreso dal suo cambiamento d'umore. «Dopo un po' si incomincia ad amare il rischio,» disse «solo per rendere sopportabile la situazione.» «Il rischio?» «Balordaggini. Troppo di tutto, troppo spesso, troppo in fretta. Rischi anche con la gente. Solo per vincere la noia.» Alzò gli occhi su di me. «Non hai la minima idea a cosa mi riferisco, vero?» Pensai ai rifugiati curdi di cui mi ero occupato solo il giorno prima. «Non sapevo che essere ricchi fosse così duro.» Ci fu un momento di silenzio, carico di tensione. Per un lungo istante mi fissò negli occhi, mi mise le braccia al collo, e mi baciò. Dopo di che, come se niente fosse, scivolò via e si lasciò cadere sulle assi nere del pontile, gettò indietro la testa e la luce del cielo si posò sul suo viso. «Venivo qui da ragazzina.» Si sdraiò sul pontile e spalancò le braccia sotto la luce delle stelle. «Naturalmente era una cosa proibita, ma a volte quando loro pensavano che fossi a letto, uscivo di nascosto e mi sdraiavo come adesso. Per ore. Guardavo il cielo. Pensavo che prima o poi sarei volata via, come una piuma.» Aprì gli occhi. «A te non capita mai di sentirti così, vero, Michael?» «Chi lo dice?» «Lo so. È soltanto che sei ancorato saldamente alla terra.» «Davvero?» «Non voglio dire che sia una brutta cosa. Ma tu credi in un universo ordinato. E pensi che sia compito tuo mantenerlo tale. Non voleresti mai via come una piuma.» Mi sedetti accanto a lei. Nessuno mi aveva mai ritratto in quel modo prima di allora e non ero sicuro che la descrizione fosse di mio gradimento. Impegno e senso del dovere. Quello che mi colpiva non era che Caitlin avesse dato una lettura sbagliata della mia personalità, ma che la sua lettura fosse troppo aderente al vero e che, in qualche modo, mi avesse messo a nudo. Avrei ricordato per sempre le sue parole. Sporsi una mano dal bordo del pontile e lasciai che il fiume freddo me la accarezzasse, finché il polso
divenne insensibile. «Ti dirò che cosa penso» dissi, sorpreso della mia stessa serietà. «Ritengo che al mondo ci siano solo gioia e dolore e che ciascuno di noi possa contribuire ad accrescere o l'una o l'altro. Tocca a noi decidere.» Il mormorio del fiume sembrava intensificarsi con il trascorrere del tempo. Un uccello notturno lanciò un grido. Mi resi conto che la baciavo, che lei sapeva di vino, che i suoi capelli erano freddi sul dorso della mano con cui le sostenevo il capo. «Bene, è il mio compleanno, no?» Appoggiò la testa sul legno del pontile, sorridendo alle stelle. «Quindi posso avere tutto ciò che desidero.» Non mi svegliai più fino all'alba, quando l'Ercules atterrò a Brize Norton. Avevo dormito in una posizione scomoda e ora sentivo le spalle e la schiena irrigidite, e la mente confusa dopo tutte le ore passate nel frastuono dell'aereo. Uscito dal terminal nella luce del mattino d'ottobre, mi sorpresi di provare un fremito d'eccitazione. Era l'inizio di un giorno nuovo, fresco e limpido. L'aria autunnale sapeva di fumo. Avrei fatto una sorpresa a Caitlin, che da me non si aspettava più gesti imprevedibili. Avrei fatto in modo che si ricredesse. Che si ricredesse su molte cose. Mi sentii pervadere da un'ondata di desiderio. Mi sentivo ottimista. Pensai "Tutto si aggiusterà". Prima non ne ero così sicuro, ma in quel momento, lì in piedi nell'aria cristallina del mattino, sapevo che tutto sarebbe andato per il verso giusto. La Croce Rossa aveva noleggiato un minibus per i suoi operatori che avevano viaggiato sul mio stesso aereo e chiesi loro un passaggio sino a Victoria Station. Ci vollero più di tre ore, la maggior parte delle quali passate nel traffico della periferia londinese. Pensai di chiamare Caitlin sul cellulare, ma dal momento che ero ormai tanto vicino, chiamare mi sembrava una debolezza. Volevo farle una sorpresa. Mi avvolsi nella giacca e cercai di dormire, ma mi resi conto di essere troppo nervoso. Quando scesi sul marciapiede della stazione dei pullman non mancava molto a mezzogiorno. La città era in fermento. Mi sentivo frastornato: gli autobus erano di un rosso violento e i parchi erano un caleidoscopio di fiori. Londra sembrava elettrizzata, come una grande turbina che produce energia e rumore. Raggiunsi a piedi la stazione della metropolitana e acquistai un biglietto per Notting Hill Gate. Venti minuti dopo mi trovavo davanti a casa. Vidi che il lucernario della voliera di Caitlin era aperto, il che significava che quasi certamente era in
casa. Attraversai la strada, salii i gradini e senza far rumore entrai. Chiusi la porta alle mie spalle. Dopo il frastuono della città la casa mi apparve fresca e tranquilla. Rimasi per qualche istante in corridoio, assaporando il familiare gioco di luci e ombre, gli accoglienti odori di erbe, caffè e fiori recisi. «Cate?» La mia voce riecheggiò nell'ingresso tirato a lucido. Non rispose. La casa era avvolta in un silenzio innaturale. Rimasi immobile forse per mezzo minuto, cercando di respingere l'idea che qualche cosa non andava. La casa sembrava all'erta, in tensione, come se fosse lei a osservare me e non viceversa. Feci qualche passo e il mio sguardo venne catturato da qualcosa che giaceva sul pavimento ai piedi della scala. Una manciata di petali rosa, schiacciati. Petali di geranio come quelli che crescevano nella botte accanto alla porta d'ingresso. Mi chinai e li raccolsi. Erano freddi, non ancora sbiaditi. «Cate?» Salii i primi tre gradini della scala. Il legno era sporco e macchiato. Dall'alto si diffondeva un suono appena percepibile. In un primo momento pensai che fosse il traffico della strada, ma poi capii che si trattava di musica a volume molto basso proveniente dall'attico. Se c'era musica Caitlin doveva essere in casa. Il cuore cominciò a battere freneticamente. Lasciai cadere la borsa e corsi su per le scale, fino alla camera da letto. Gettai senza volerlo un'occhiata nella stanza. Come sempre, era ordinata, luminosa, il letto rifatto con cura, i vestiti ripiegati su una sedia. Mi avvicinai alle scale che portavano alla voliera. «Cate?» C'erano vetri rotti, frammenti di ceramica, terriccio, scaglie di marmo e CD rilucenti di tutti i colori dell'arcobaleno. Il pavimento era appiccicoso. Rimasi in apnea, finché il dolore al petto mi costrinse a riprendere la respirazione. Nel mio cervello si accese un segnale d'allarme, che fece scattare le reazioni che avevo messo in atto mille volte con freddezza ed efficienza. Caitlin giaceva con le gambe distese in modo assurdo sulla rampa delle scale. Sembrava più piccola di come me la ricordavo. Il vestito spiegazzato lasciava scoperte le gambe nude e bianche che la facevano sembrare infantile e vulnerabile. La testa penzolava dall'ultimo gradino e il viso era rivolto al muro. Sotto il suo corpo si allargava una pozza scivolosa che aveva raggiunto le assi del parquet.
Mi inginocchiai accanto a lei e le toccai il collo, esitante, incredulo. Era ancora calda e il polso batteva, per quanto debolmente. Il tepore e il battito impercettibile riaccesero in me una assurda speranza. Nello stretto spazio delle scale non riuscivo ad avvicinarmi a lei come volevo, per cui spinsi da parte i cocci che ingombravano il pianerottolo e spostai Caitlin distendendola sul parquet, consapevole che non c'era tempo per nessun'altra scelta. Quando le sostenni la testa con la mano, sotto la nuca le mie dita incontrarono qualcosa di duro, simile a frammenti di porcellana. Mi sorpresi a parlarle con lo stesso tono che si usa con i bambini, a cantare una ninna nanna con una voce che proveniva da molto lontano, mentre le facevo la respirazione bocca a bocca: due respiri, quindici compressioni, due e quindici, due e quindici. I muscoli delle braccia mi bruciavano per lo sforzo, ma lei non respirava. Per altre due volte le cercai il battito del polso. La prima volta lo percepii chiaramente, ma la seconda non ne ero più così sicuro. Due e quindici. Ancora. Ancora. Ormai mi muovevo in modo maldestro. Il sudore mi scivolava lungo le guance e gocciolava su di lei, ma lei non respirava. Il telefono più vicino era nella camera da letto, a non più di tre metri, ma non osavo lasciarla sola per il tempo necessario a chiedere aiuto. Due e quindici. Ancora. Non sentivo più il polso, ma io non mi fermai. C'era sempre la possibilità che a un tratto riprendesse a respirare. O che arrivasse qualcuno e che io potessi chiedere aiuto. In realtà, sapevo che non avrebbe più ripreso a respirare e che nessuno sarebbe arrivato, ma dovevo credere in questa possibilità a ogni costo. Niente aveva importanza, se non continuare ad agire in un delirio estenuante che ormai non aveva più nulla a che fare con la speranza. Una parte della mia mente si rifiutava di accettare ciò che l'altra ormai sapeva benissimo. A un certo punto, non saprei dire quando, superai una sorta di confine. Sapevo che il tempo utile per riportarla in vita era passato. La tenevo tra le braccia, la cullavo e le accarezzavo la fronte sempre più fredda. Il suo corpo aveva assunto un rilassamento che riconobbi, un rilassamento totale che aveva fatto aderire la sua carne all'assito del pavimento e le aveva spianato le sottili rughe del viso e del collo. Era morta. Mi alzai. Dovevo essere rimasto in ginocchio molto tempo, perché i muscoli delle gambe cominciarono a farmi male. Mi tolsi la giacca, la piegai e gliela misi sotto la testa, anche se ormai non serviva. Mi allontanai di un
passo. Nei punti dove l'avevo tenuta stretta a me i miei vestiti erano bagnati e pesanti. La stoffa bagnata si era raffreddata. Ero vagamente cosciente e rispondendo a qualche lontano impulso della mia formazione professionale mi incamminai con molta calma verso il bagno, mi spogliai e infilai gli abiti insanguinati nel cesto della biancheria sporca. Poi mi lavai, andai in camera da letto, cercai degli abiti puliti e li indossai. Provai un profondo senso di smarrimento. In piedi nel mezzo della stanza mi guardai attorno e rimasi lì fermo, senza fare altro per un paio di minuti. Sulla parete c'era il ritratto virato seppia della nonna di Caitlin, che risaliva agli anni Venti, in cui Lavinia, sulla sua bicicletta, si sforzava di non ridere. L'unico occhio dell'orso Beamish fiammeggiava nella luce calante del sole ottobrino che filtrava dalle doppie finestre. Mi sedetti sul letto e soprapensiero gli accarezzai il naso. Beamish era l'orso di Caitlin da quando era bambina ed era diventato calvo a furia di carezze. Lo accarezzai ancora guardandomi attorno. Gli elementi della stanza sembravano i soliti, ma per qualche ragione non si armonizzavano. Avevo l'impressione di aver dimenticato di fare qualcosa, qualcosa di importante. Sentii in lontananza la sirena di una macchina della polizia. Mi alzai, attraversai la stanza e afferrai il ricevitore del telefono sul comodino a lato del letto. 5 Ci fu uno schianto in un angolo della stanza: qualcosa si era rotto cadendo. Il rumore improvviso mi fece sobbalzare. Per fare spazio a un fotografo, un poliziotto in uniforme aveva urtato un vaso di capelvenere che Caitlin teneva sul cassettone. Un grosso coccio dondolava sul pavimento con il ticchettio monotono di un metronomo. Per un attimo l'attività frenetica che si svolgeva nella stanza si interruppe. I presenti guardarono allarmati nella mia direzione. «Mi dispiace, signore» disse il poliziotto. Era molto giovane. «Mi dispiace» ripeté. E si mise in ginocchio per raccogliere terriccio e cocci. «Non si preoccupi» dissi. «Non importa.» Il cuore mi batteva forte. «Nessun problema, signore. Nessun problema.» Non mi guardava. Era a disagio. Continuava a raccogliere terriccio e radici spezzate facendone una montagnola, come farebbe un bambino con un castello di sabbia. Superato quel piccolo incidente, ciascuno ritornò alla propria attività. «Si sente bene, dottor Severin?»
L'ispettrice di polizia era una donna robusta di circa cinquant'anni. Indossava una giacca blu e portava un paio di occhiali da vista. Dietro le lenti spesse, i suoi piccoli occhi si muovevano incessantemente e nulla sfuggiva al suo esame. Di certo non le era passato inosservato il modo in cui ero sobbalzato quando era caduto il vaso. Sentivo ancora l'adrenalina scorrere nel sangue e il battito del cuore non si era ancora normalizzato. «Se lo desidera, possiamo fare un'interruzione.» «Non credo che questo mi renderebbe la cosa più facile.» «Come vuole.» Feci scorrere lo sguardo attorno alla stanza per evitare i suoi occhi penetranti. Osservavo tutte quelle persone, quegli estranei che si muovevano freneticamente per casa: il loro distacco professionale mi innervosiva. «Mi dispiace» dissi. «Non sono di nessun aiuto». «Non c'è assolutamente niente di cui lei debba scusarsi, dottor Severin. È una cosa terribile per tutti.» L'ispettrice aveva una voce bassa e rauca, in netto contrasto con il suo aspetto. Con la sua giacca blu mi ricordava il capo contabile di un'azienda rispettabile, una persona diligente e precisa. Allungò una mano verso la sua borsa color cuoio, ma la ritirò subito. Era chiaro che la mano si era mossa meccanicamente, forse alla ricerca delle sigarette, ma all'ultimo minuto aveva rinunciato. «Non ha senso che ti sottoponga a questo calvario» Stella sbottò all'improvviso, come se sino a quel momento si fosse imposta di tacere. Sedeva tutta curva sul divano di fronte a me, con le mani intrecciate in grembo. I suoi capelli rossi erano spettinati. Tremava, ma era evidente che ogni centimetro del suo corpo era teso in un'ansia spasmodica di protezione. Mi era difficile accettare la sua presenza. La polizia aveva insistito nel voler chiamare qualcuno che mi stesse vicino e io avevo fatto il suo nome. La mia percezione del tempo era così distorta da darmi l'impressione che fosse arrivata a una velocità assurda, e questo mi infastidiva. Quando vide che nessuno raccoglieva il suo suggerimento, si alzò, fece qualche passo e prese dalla borsa il pacchetto di sigarette. «Non si può fumare in questa stanza» le disse l'ispettrice senza guardarla. «Se resisto io, può benissimo resistere anche lei.» Stella rimise le sigarette nella borsa e tornò a sedersi in silenzio senza fare commenti. Con il passare delle ore prendevo coscienza del trambusto che regnava in casa mia. C'era un andirivieni di donne e di uomini in camici bianchi, il
fotografo si muoveva instancabile per la stanza e dalla finestra penetrava la luce blu della macchina della polizia parcheggiata sul marciapiede. Dalla porta d'ingresso aperta proveniva, insolitamente forte, il rombo del traffico del tardo pomeriggio. Sconosciuti salivano su per la scala a chiocciola che conduceva alla voliera di Caitlin e l'assito risuonava dei loro passi pesanti. Ogni passo mi coglieva di sorpresa. Non avevo mai sentito nessuno lassù, nemmeno Caitlin, che si muoveva silenziosa come un gatto. L'ispettrice mi osservava ancora attraverso i suoi occhialini rotondi. «Mi scusi, non ricordo il suo nome» dissi. «Emma Dickenson. Ispettrice di polizia Emma Dickenson. Potremmo chiamare un dottore, forse ne ha bisogno.» «Non voglio nessun dottore» dissi. «Passo la vita in mezzo ai dottori.» Un omone con le spalle larghe che indossava una vistosa giacca a quadri entrò nella stanza, chiudendo con uno scatto un quaderno di appunti. Nel vederlo il giovane poliziotto si fermò con aria colpevole, mentre portava fuori dalla cucina il vaso di capelvenere che aveva rotto. «L'hai rotto tu, Watts?» chiese l'omone. «Mi spiace, brigadiere.» «Sei un idiota. La scientifica sarà felice quando saprà che hai incasinato la scena del delitto. Adesso infila questa roba nei sacchetti e mettigli un'etichetta.» «Sì, brigadiere.» Il ragazzo schizzò via. Quando il grosso poliziotto vide me e la Dickenson seduti sul divano sotto la finestra, ci rivolse un cenno di saluto, quindi uscì dalla cucina. «Posso chiamarla semplicemente Michael?» mi chiese l'ispettrice all'improvviso. «Sono convinta che al giorno d'oggi la formalità sia passata di moda.» Feci un vago cenno di assenso. Si appoggiò allo schienale, senza levarmi gli occhi di dosso. «Bene, quando se la sente, Michael, dovremo stilare una deposizione ufficiale. Sarebbe più comodo alla stazione di polizia. Lei capisce che dobbiamo fare qualche esame medico per escludere le sue impronte digitali e il suo DNA. Ovviamente ne troveremo in tutta la casa. Faremo la stessa cosa con la signorina Cowan, i vicini di casa, la donna delle pulizie e con tutti quelli che sono stati in questa casa di recente. Probabilmente conosce la routine, dal momento che anche lei è medico.»
Fece scorrere lo sguardo intorno alla stanza e i suoi occhietti si fermarono sulle mie borse. Qualcuno le aveva spostate nella stanza principale dal fondo della scala dove le avevo gettate entrando. «È stato via, vero, Michael?» «In Venezuela. Nelle zone terremotate.» «È stato nelle zone terremotate?» «Stella e io. Lavoriamo per Medici Senza Frontiere.» «È il vostro lavoro abituale?» «Siamo volontari. Io lavoro nell'equipe di traumatologia del St Ruth Hospital in Euston Road. Quello è il mio vero lavoro.» Stella mi prese una mano. Forse si sentiva chiamata in causa perché avevo menzionato il suo nome. In realtà non avrei voluto che mi tenesse la mano, ma allo stesso tempo temevo che sottrarla alla sua stretta sarebbe stato un gesto villano. «Quanto tempo è stato all'estero?» mi chiese l'ispettrice Dickenson. «Tre settimane. Quasi quattro.» Il brigadiere dalle spalle larghe e la giacca sportiva si avvicinò con passi pesanti, dando istruzioni ad alta voce a qualcuno dietro le sue spalle. Quando si accorse di aver interrotto la nostra conversazione si fermò. «Spiacente, capo.» Emma Dickenson non sembrava contrariata. «Dig, il dottor Michael Severin.» L'uomo tese una mano larga e dura, e io la strinsi. Poteva essere sulla quarantina. Aveva folte sopracciglia segnate da cicatrici, sotto le quali erano infossati due occhi neanderthaliani. Mi chiesi quale nome si nascondesse sotto l'abbreviazione Dig. «Non starò a dirle quanto mi spiace, dottore» mi disse. «Nelle prossime settimane tutti le diranno quanto sono addolorati per la tragedia che le è capitata. Ma nessuno lo sa meglio di lei. È bene star zitti e portare avanti il nostro lavoro. Capire che cosa è successo. Se è possibile.» «Sì» mormorai. Trovavo la sua presenza fisica opprimente. Aggiunsi, senza sapere esattamente perché: «Grazie». «Michael, le presento Digby Barrett» disse l'ispettrice. «È il mio BI. Brigadiere Investigativo. Lavoriamo assieme.» Digby. Si chiamava davvero Digby? Che razza di nome! Provai l'impulso isterico di ridere. Non riuscivo a guardare i suoi occhi castani di gorilla, ma ebbi l'impressione che il BI Barrett avesse intuito il mio pensiero. «Ha figli, Michael?» chiese l'ispettrice.
«Figli?» La domanda mi riportò bruscamente alla realtà. «Immaginavo che non aveste figli. Vedendo la casa.» «Bella casa» commentò Barrett guardandosi attorno con ammirazione, poi si corresse: «Era una bella casa». Avvicinò una sedia e si sedette. «Dottore, lei conosce i suoi vicini?» «Non molto.» Facevo fatica a concentrarmi. «La casa sulla sinistra è disabitata. È in vendita da un mese o forse più.» «Nessuno risponde neppure nella casa a destra.» Barrett indicò la casa con il pollice. «Al lavoro, vero?» «Ci abita Henry. Henry Kendrick. È in pensione.» «In questo caso avrebbe potuto vedere qualcosa, se sta a casa durante la giornata.» «Certamente. Ma al momento è via.» «In vacanza?» «Ha un figlio in Nuova Zelanda e uno negli Stati Uniti. Va a trovarli ogni anno. Probabilmente tornerà a Londra tra qualche settimana.» Barrett emise una sorta di grugnito. «Che lavoro faceva sua moglie?» mi chiese l'ispettrice Dickenson. «Nessuno.» Mi spiacque immediatamente di averlo detto. Suonava ingiusto e infatti in un lampo avvertii la disapprovazione della donna colpirmi come una corrente fredda. Continuai: «Caitlin si occupava di...» Feci uno sforzo per ricordare, per essere preciso. «Era impegnata con diverse gallerie. Gallerie d'arte. Si interessava di arte. Passava molto tempo alla Tate, in particolare.» «Allora lavorava alla Tate Gallery?» Sembrava voler a tutti i costi assegnare a Caitlin un lavoro regolare, stipendiato. Forse questo aiutava l'ispettrice a visualizzarla, a inserirla in una categoria precisa. «Lavoro volontario.» Mi resi conto di non essere in grado di descrivere il lavoro che Caitlin svolgeva alla Tate. Non ricordavo che me ne avesse mai parlato dettagliatamente. Non ero neppure sicuro di averle mai chiesto in che cosa consistesse. «Collaborava alle visite guidate. Alle mostre. Cose di questo genere.» «Lavoro volontario» ripeté l'ispettrice Dickenson. «Quindi non aveva un vero e proprio lavoro.» «Non nel senso...» Lasciai la frase in sospeso, imbarazzato per la mia ignoranza. «No, no. Non aveva un lavoro vero e proprio.» L'ispettrice rimase in silenzio, forse per riflettere su quanto avevamo detto. Poi si alzò e disse: «Lasciamo perdere per il momento. Immagino
che lei abbia un posto dove stare questa notte, Michael». «Sì» disse Stella prontamente, e con calma aggiunse: «Naturalmente, ha un posto dove stare». Anche Barrett si alzò, seguito da Stella. Io rimasi seduto. «Che cosa è successo qui?» chiesi. L'efficienza di Emma Dickenson parve annebbiarsi e per un istante la sua immagine stanca sembrò quella di una donna di mezza età che non ne può più del suo lavoro. «È ancora troppo presto per dirlo» disse. «Sembrerebbe una rapina andata storta» intervenne Barrett, come per sollevarla dalla responsabilità di pronunciarsi. «Forse c'è di mezzo la droga.» Cercò di fare delle ipotesi. «Con ogni probabilità è stato semplicemente una sfortuna che la signora Severin fosse in casa in quel momento.» «Voglio chiudere questa faccenda» dissi. I due funzionari di polizia si guardarono perplessi. «Intendo dire, con la deposizione, il DNA e tutto il resto. Voglio collaborare. Voglio essere utile.» Emma Dickenson disse: «Se se la sente domani mattina può cominciare a deporre». Stella gettò la borsa sul sedile posteriore, aprì la portiera del passeggero e la tenne aperta per farmi entrare in macchina. Ma io indugiavo, guardando come ipnotizzato giù per la strada l'ingorgo provocato dalle macchine della polizia e il traffico impazzito che cercava di superare a fatica l'intasamento. Non mi piaceva l'idea di essere costretto a lasciare la mia casa in mano ad anonimi professionisti che si muovevano come orsi nella stanza di Caitlin, rompendo i vasi delle sue piante. Sentii un tremito nelle viscere. «Che c'è?» chiese Stella vedendomi esitare. «Ti ricordi quella caverna? Il prete? Il modo in cui la terra si è messa a tremare?» «Di che diavolo stai parlando?» chiese con insofferenza. Se ne stava lì, ansimando, con le chiavi in mano. Sapevo che stava per perdere le staffe. «Vuoi che guidi io?» «Tu? Sei matto? Sali in macchina!» Mi diede uno spintone così forte che inciampai nel marciapiede e per non cadere dovetti appoggiarmi al tettuccio della sua decrepita Golf rossa. «Sbrigati.» Mi sedetti e lei chiuse la portiera con un colpo secco. Passando davanti alla macchina strappò via dal parabrezza l'avviso giallo e nero della multa e lo buttò sul sedile poste-
riore. Si mise al volante. «Starai a casa mia finché non ci capiamo qualcosa. Almeno finché Anthony non ritorna.» Non avevo voglia di stare nell'appartamentino umido di Stella. Non avevo voglia di essere sballottato di qua e di là come un ammalato. «Stella...» «Una volta tanto, Michael, fa' quello che ti dico e non discutere.» Avviò il motore, si scostò dal marciapiede e invase per metà la corsia bloccando il traffico. Si fermò lì, con il piede sul freno e si girò verso di me. La macchina dietro di noi suonò il clacson. A questa fece eco un'altra, e poi un'altra ancora, ma Stella ignorò il putiferio che aveva scatenato e impassibile continuò a fissarmi dritto negli occhi. Non me la sentivo di ricambiare il suo sguardo. I clacson delle macchine che ci stavano dietro erano diventati un coro assordante, ma i suoi occhi rimanevano puntati su di me, come se dovesse rivelarmi qualcosa di tremendamente importante. Era pallidissima. Infine, tolse il piede dal freno e si immise nel traffico intenso. Guidava veloce e sicura. Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti. Mentre svoltavamo in Edgware Road il suo cellulare si mise a suonare. Stella lo sfilò dalla borsa, premette il pulsante e rispose senza interrompere il ritmo della guida. «Sì» disse. «Sì, certo. Bene, grazie a Dio. Per favore, il prima possibile, Gordon. No, non chiedermelo. Io stessa faccio fatica a non lasciarmi andare. Va bene. D'accordo.» Spense il telefono e lo gettò tra i piedi, sul fondo della macchina. «Gordon sta ancora cercando di mettersi in contatto con Anthony.» «Anthony è ad Amsterdam. Alla fiera dell'antiquariato. Ci va ogni anno.» «Non ha lasciato un recapito. Gordon sta chiamando tutti gli alberghi per cercare di rintracciarlo.» «Povero Anthony.» Guardai fuori dal finestrino, concentrandomi sul traffico della sera. Cercavo di immaginare la reazione di Anthony alla notizia di ciò che era accaduto a Caitlin. Sapevo che il metodico Gordon alla fine l'avrebbe scovato. Anthony adorava Caitlin. Appoggiai la testa al finestrino. Un'ora dopo ero seduto accanto alla porta scorrevole che dava sul cortile posteriore, nell'appartamento di Stella. Un seminterrato poco luminoso, non lontano da Queensway. Il cortiletto era incolto. Dal divano osservai il tramonto autunnale che sfumava al di là della vetrata. Un piccolo salice in
una tinozza lasciava ricadere i suoi rami come una fontana dorata nella luce morente. La stanza era tranquilla. Sulle pareti erano appesi poster di spettacoli teatrali, un arazzo messicano e contro i muri erano addossati alcuni sgabelli. La stanza aveva l'odore delle case disabitate. Quando era a Londra Stella passava la maggior parte del tempo nel grande appartamento di Gordon a Pimlico, ma anche quando stava a casa propria non sprecava tempo nelle faccende domestiche. Il piccolo appartamento era un disastro, nella camera da letto regnava un caos totale. Sentivo che Stella toglieva le lenzuola dal letto e spostava i mobili. Ritornò con passo deciso nella stanza dove mi trovavo. «Prendi queste.» Mi mise in mano le pillole e mi diede un bicchiere d'acqua. Ingoiai le pillole automaticamente, per farle piacere. Si allontanò di qualche passo per osservarmi. Era una donna forte, pensai con un distacco che mi sorprese, una giovane donna forte dai lineamenti decisi. Una donna che aveva visto molta sofferenza, molto dolore. Una donna che era sempre riuscita a tenere testa alle situazioni. Una donna che ora era sul punto di crollare. «Con queste pillole non si dovrebbe bere, ma al diavolo!» Era tesa come una corda di violino e le tremava la voce. Andò in cucina e tornò con due bicchieri di vino bianco. «È piscio, ma è tutto quello che ho in casa.» Presi il bicchiere e bevvi un sorso. Il vino era fresco e frizzante. In giardino un merlo incominciò a cantare. Mi sorpresi nello scoprire che potevo ancora notare queste cose. Caitlin non avrebbe più gustato il vino. Scacciai il pensiero prima che prendesse corpo. «Era Anthony» disse Stella posando il bicchiere. Guardai il suo viso tirato. Due cerchi scuri le segnavano gli occhi stanchi. «Come?» «Al telefono. Non hai sentito?» «No.» «È bloccato a Schiphol. Ha avuto dei problemi con il volo. Ha sentito il messaggio di Gordon sulla segreteria telefonica, ma non potrà essere qui prima di domani mattina.» «Non importa.» Bevvi un altro sorso di vino. Mi sentii sollevato. Non volevo vedere nessuno, neppure Anthony. «Appena ritorna vuole portarti a Barnes.» Il tono della sua voce tradiva un certo risentimento. «Ha detto che devi stare da lui.»
«Be', è comprensibile che desideri che io stia con lui, Stella». Stella si morse il labbro. Posò il bicchiere, si alzò, mi voltò le spalle e si coprì gli occhi con i pugni. «Mi spiace tanto. So che la cosa non può esserti di aiuto.» Fece due profondi respiri poi tornò a guardarmi. «Dio, non sembro una che ha passato due anni al pronto soccorso. Le cose che ho visto. Le cose che abbiamo visto, tu e io. Ma non aiuta, vero?» «No, non aiuta affatto.» «Oh, Caitlin» esclamò con la voce spezzata. «Era così bella. Così bella.» Fuori il merlo gorgheggiava ancora. Caitlin non avrebbe più ascoltato il canto di un merlo. Né una ninna nanna di Brahms. Non avrebbe più visto un Degas, né una nuova alba. Non avrebbe più goduto del profumo del caffè e dei croissant. Stella si nascose il viso tra le mani e scoppiò in singhiozzi. Mi alzai e le passai un braccio attorno alle spalle. Caitlin non avrebbe più sentito il calore del mio abbraccio, pensai. Era all'obitorio su un freddo tavolo anatomico con il cranio fracassato e nessuno l'avrebbe più abbracciata. Né baciata, né accarezzata. Non avrebbe più coperto di carezze il pelo giallo e consunto dell'orso Beamish. «Avevo giurato di non piangere. Giurato.» Stella si appoggiò a me con le mani sugli occhi. La condussi nella stanza da letto, la feci sdraiare e la coprii con la trapunta. Sprofondò la testa nel cuscino, accecata dai singhiozzi. Mi sedetti sul letto accarezzandole una spalla, poi lasciai la camera senza far rumore, chiusi accuratamente la porta, ritornai nell'altra stanza e rimasi immobile al buio finché, dopo molto tempo sentii i singhiozzi diventare un respiro tranquillo e regolare. Fui preso alla sprovvista quando sentii le gambe cedere, piegarsi sotto di me, e prima di poter reagire mi ritrovai rannicchiato sul pavimento. Per fortuna non avevo rovesciato il tavolino con i bicchieri. Non volevo allarmare Stella, non volevo vederla arrivare di corsa in mio aiuto, e tanto meno volevo altre dimostrazioni della sua addolorata compassione. Allungai le braccia in avanti e vi posai sopra la testa. Fuori nell'ombra del giardino il merlo continuava a cantare. 6 Il piccolo appartamento seminterrato era invaso dalla luce e dai suoni del mattino: il tubare dei piccioni, le voci allegre di una radio provenienti dall'appartamento accanto, il ticchettio di tacchi sul pavimento del pian-
terreno. Durante la notte mi ero sdraiato sul sofà e mi ero avvolto in una coperta. Il mattino ripiegai la coperta e tentai di muovere il corpo con la stessa cautela con cui ci si muove dopo un incidente stradale o un'operazione chirurgica. La schiena e le spalle erano rigide e la pelle del viso era tesa come un tamburo. Mi faceva male la gola come quando ero bambino. Mi sdraiai lasciando che il calore del sole mi avvolgesse. Dopo qualche minuto mi alzai e feci la doccia nell'angusto bagno dell'appartamento. Quando uscii vidi Stella, in accappatoio e con i capelli raccolti, al lavoro in cucina. La macchina del caffè gorgogliava. «Dovrebbe essere esattamente il contrario.» Mise sul tavolo due tazze spaiate. «A perdere la testa avresti dovuto essere tu, non io.» Versò il caffè e mi osservò attraverso una nube di vapore. Aveva gli occhi gonfi e i capelli secchi, senza vita. «Devo essere uno spettacolo, vero?» Mi chinai e posai per un attimo la mano sulla sua. «Ti rimetterai in sesto presto, vedrai.» Entrò subito nel suo ruolo di infermiera. «C'è solo caffè. Non c'è una briciola di pane in casa.» «Non potrei mandar giù niente.» Indicò il telo di spugna in cui mi ero avvolto. «Più tardi vado a prenderti degli abiti puliti.» «Quel poliziotto, Barrett, è venuto mentre eri sotto la doccia. Ritorna alle nove per accompagnarti a fare la deposizione. Pensi di farcela?» «Sì.» «Vuoi che venga con te?» «Preferirei andare da solo, Stella» dissi con delicatezza. Si mise a fissare la sua tazza. Il brigadiere Barrett mi fece salire su una BMW verde parcheggiata in strada. Al volante sedeva un giovane detective di colore con un orecchino d'oro. «Agente investigativo Baz Ellis» disse Barrett, accennando al giovane, mentre mi apriva la portiera posteriore. Sedendomi incontrai nello specchietto retrovisore gli occhi di Ellis. «Mi spiace per quello che le è successo. Una cosa terribile.» Lo ringraziai con un cenno del capo. Barrett si sedette davanti con Ellis. La macchina si mosse. Barrett guardava davanti a sé senza parlare. Indos-
sava la stessa giacca del giorno prima e il suo viso pesante aveva un'aria pesta. Pensai che avesse passato gran parte della notte in piedi. Parcheggiammo dietro la stazione di polizia di Notting Hill. Barrett mi fece entrare da una porta secondaria. Le nostre scarpe sul cemento della scala producevano una sorta di fastidioso cigolio. All'ultimo piano, fui condotto in una stanza impregnata del familiare odore di farmaci. Barrett si scusò e mi lasciò solo. Ci volle un paio d'ore, forse di più. Un medico di origine asiatica raccolse prelievi della mia saliva con un tampone. Più tardi l'agente Ellis mi condusse per l'interrogatorio in una squallida stanza dove una donna bionda ticchettava su una tastiera quello che dicevo. Dopo aver rilasciato la mia dichiarazione mi presero le impronte digitali, scusandosi per la macchia d'inchiostro che era rimasta sui polpastrelli. In seguito avrei fatto fatica a ricordare la sequenza degli eventi. «L'hanno trattata bene, dottore?» Barrett mi prese per il gomito e mi condusse lungo il corridoio, fino agli ascensori. Gli risposi di sì. L'ascensore ci lasciò in un grande spazio delimitato da pannelli vetrati e intasato di scrivanie d'acciaio. Una mezza dozzina di impiegati lavorava davanti ai computer. Ogni superficie era ingombra di carte e di tazze. C'erano vignette e scritte incollate sui vetri. Una diceva: «Squadra narcotici: Per favore non calpestare l'Erba». Barrett notò che leggevo la scritta. «Pagliacci» borbottò. Entrammo in un ufficio che occupava un angolo dell'edificio, ben illuminato, con un'ampia vista su Hyde Park. Nella stanza non c'era nessuno. I vetri erano schizzati di pioggia. Mi sorprese che stesse diluviando. Nelle ultime ore mi sembrava di aver perso il contatto con il mondo esterno. C'era una grande scrivania di pino sepolta sotto una valanga di carte, cartellette, dischetti da computer. C'erano anche due posacenere stracolmi. La borsa color cuoio dell'ispettrice Dickenson era appoggiata su una montagna di fogli con accanto un accendino di plastica e due pacchetti di Marlboro. La finestra era leggermente socchiusa e l'aria era satura del profumo di un deodorante al pino che non riusciva a mascherare l'odore di tabacco. «Non sopporto le sigarette che fuma il capo» disse Barrett. «Io sto cercando di smettere. Le dirò la verità, mi ammazza entrare qui dentro. Si sieda, dottore.» Emma Dickenson entrò nella stanza con aria indaffarata. Si vedeva che aveva appena rifatto il trucco. Si era data il rossetto e attorno a lei aleggiava una scia di profumo spruzzato da poco. Indossava un abito di lana color
lavanda che sembrava troppo pesante per quell'ufficio. Al collo portava un doppio filo di perle. Era da tempo che non vedevo una donna con le perle. «Grazie mille per essere venuto.» Mi si avvicinò e io strinsi la mano che mi tendeva. Era morbida e calda. «Non le chiedo come sta, date le circostanze.» Mi ispezionò con interesse attraverso le lenti tonde. «Si sieda, Michael. Deve essere distrutto. Tutti quanti siamo distrutti.» Non sembrava affatto distrutta, mentre Barrett era davvero in uno stato pietoso. Mi fece sedere accanto alla finestra a un tavolo basso, su cui c'era un piatto di tramezzini. Si sedette di fronte a me e tolse la pellicola che avvolgeva il piatto. «Non so se se la sente di mangiare, Michael, ma per la cronaca è ora di pranzo. Dig? Puoi rimanere qualche minuto?» «Certo.» Barrett si mise accanto alla scrivania, all'estremità del mio campo visivo. «Non ha idea di chi sia stato, vero?» chiesi. L'ispettrice irrigidì le spalle. «È del tutto naturale desiderare risposte immediate, Michael. È la cosa più naturale del mondo, in una situazione come questa.» Stese un tovagliolino sulle ginocchia e vi appoggiò il tramezzino. Lo osservò incerta, come se le avessi guastato l'appetito. «Che cosa pensate che sia successo?» Con uno sforzo cercai di concentrarmi sul piatto. Sentivo che si scambiavano occhiate d'intesa al di sopra della mia testa. «Sapremo qualcosa di più quando riceveremo i risultati dell'autopsia» disse Barrett. «Un giorno o due.» «Apetterò.» Barrett tirò un profondo respiro. «Dottore, sembra che sia precipitata dalle scale in seguito a un colpo ricevuto in faccia. Una statua o un grosso vaso è precipitato insieme a lei. Può darsi che sia stato buttato giù intenzionalmente.» Si schiarì la voce. «Come può darsi che glielo abbiano scaraventato addosso.» «Era una statua» dissi. «Un busto. Di Wagner. Era uno scherzo. Lei odiava Wagner. Diceva che era uno schifoso razzista.» «Oh» disse Barrett. «Giusto.» Ci fu un silenzio imbarazzato. «Ascolti» disse. «So cosa vuole sentirsi dire. Ma prima dell'autopsia non è possibile stabilire con sicurezza se c'è stata violenza sessuale. Le posso solo dire che non sembrerebbe. Non aggiungerò altro. Okay?» Feci segno di sì con la testa.
«Ieri mi ha detto di non aver chiamato subito l'ambulanza» disse Emma Dickenson. «Non me la sentivo di lasciarla sola per andare al telefono. Non ce la faceva a respirare da sola. Ho detto tutto nella deposizione.» «Allora le faccio la domanda diretta: quanto tempo ha lasciato passare prima di chiamare la polizia? Intendo dire, dopo che lei ha trovato sua moglie» disse Barrett. «Quindici minuti? Venti? Ho l'impressione che sia trascorso molto più tempo, ma non lo credo possibile.» Li guardai, prima l'uno poi l'altra. «Sentite, mi sapete spiegare che razza di persona ha potuto fare una cosa simile? Mi sono sforzato di dare un senso a quanto è accaduto, ma i conti non tornano.» «Invece è possibile che i conti tornino, Michael» disse Emma Dickenson. «A volte non c'è alcuna spiegazione razionale per questo tipo di cose.» Cercai di riflettere sulle parole dell'ispettrice. Ma non le trovai di alcuna utilità. «È difficile trovare una chiave per spiegare queste azioni, dottore» disse Barrett. «Ma c'è una percentuale della popolazione che passa la vita ad aspettare l'occasione buona. Alcuni sono balordi, altri sono criminali incalliti, altri ancora sono semplicemente psicopatici. La mia ipotesi è quella di ieri: la sua Caitlin è stata molto, molto sfortunata. Ecco tutto.» Anche l'aggettivo "sfortunata" non lo trovai di alcuna utilità. Volevo una spiegazione con una causa e un effetto. Cercai di crearmi delle immagini mentali: un balordo impazzito, un freddo criminale che si era trovato a dover ricorrere alla violenza. Nessuna delle due ipotesi sembrava quadrare. Mi piegai verso la finestra aperta. L'aria umida sul viso mi diede una sensazione di freschezza. «Ma non possiamo scartare la possibilità,» disse Emma Dickenson con una certa delicatezza «che l'aggressore conoscesse lei, Michael.» Feci un balzo sulla sedia. «È possibile che sapesse che lei è medico,» proseguì «quindi ha pensato di poter trovare della droga in casa. Oppure conosceva Caitlin, o quanto meno l'ha riconosciuta. Forse aveva spiato la casa. In attesa che lei andasse via.» «Spiato la casa?» «C'è anche la possibilità che la signora Severin gli abbia aperto la porta,» disse Barrett «pensando a un fattorino, o qualcosa del genere.»
«Ma c'è stata effrazione» dissi. «C'erano vetri dappertutto.» «Nessuna porta d'ingresso è stata forzata» disse Barrett. «I vetri sono stati rotti dall'interno.» Cercai di riflettere sul senso di queste informazioni. Ma non riuscivo a concentrarmi. Emma Dickenson disse: «Michael, ieri lei mi ha detto che si assenta spesso, perché fa parte di Medici Senza Frontiere». Portò il suo tramezzino alla bocca e lo mordicchiò. Fui così sconcertato da questo cambio di registro che l'ispettrice mi guardò preoccupata: «Michael?». «Andavo con Medici Senza Frontiere forse una volta all'anno. Le ragioni delle mie assenze spesso erano altre; convegni, riunioni. Insomma, le solite cose.» «Per settimane di seguito.» «A volte sì.» «A Caitlin stavano bene tutte queste assenze? Sua moglie capiva?» «Dove vuole arrivare?» L'ispettrice si appoggiò allo schienale. «Voglio essere sincera con lei, Michael. Quando la mia metà arrivò a pensare che io fossi ossessionata dal mio lavoro, cercò di sviluppare - come dire? - dei propri interessi.» Incontrai il suo sguardo. «No.» «La prego, non si offenda.» «Non mi sento offeso. Eravamo molto vicini. Sa che cosa voglio dire? Che se c'erano delle difficoltà ne parlavamo sempre. Quel tipo di vicinanza.» Alzò le spalle, ostinata. «Siamo tutti esseri umani, non crede?» «Mi spiace. Non avevamo questo tipo di problema. È semplicemente assurdo.» Mentre parlavo mi osservava attentamente, ma dopo qualche minuto mi parve che avesse preso una decisione. Si rilassò. «Sì, molto probabilmente è assurdo.» Rimise sul tavolo il tovagliolo con il tramezzino lasciato a metà. «Michael, mi ascolti. Tutti dicono che eravate una coppia felice. Oh, non mi interessano gli screzi momentanei. Capitano a tutti. Tutti quelli che abbiamo sentito finora affermano che eravate fatti l'uno per l'altra. Ma lei si rende conto che è mio dovere aver chiara la situazione. Se viene fuori una qualche pista, anche la più vaga, prima la seguiamo meglio è.» Rimanemmo in silenzio per qualche attimo. «È rientrato prima del previsto, dottore?» chiese infine Barrett. Allungò un braccio passandomi davanti per afferrare un tramezzino, sparpagliando
pezzetti di lattuga sul tappeto. «La signora Severin non l'aspettava.» «Volevo farle una sorpresa.» «C'era una ragione speciale perché lei volesse farle una sorpresa?» «Avevo chiamato Caitlin per telefono due sere precedenti» dissi. «Dal Venezuela. Sembrava stressata, tutto qui. Inquieta. Non andrei oltre. Penso che non si aspettasse la mia telefonata. Non chiamo quasi mai.» «Ma lei era preoccupato per sua moglie? Preoccupato tanto da rientrare prima del previsto?» «Ero via da molto tempo» dissi. «Sentivo la mancanza di mia moglie. Così ho deciso di tornare. Tutto qui.» Fuori la pioggia non era ancora cessata. Mi resi conto di aver alzato la voce. «Stiamo cercando di ricostruire il quadro, Michael» disse Emma Dickenson. «Sì, capisco.» «E lei ha diritto di sentirsi come si sente. Arrabbiato, confuso. A volte penso che il mondo stia impazzendo. Anche noi siamo arrabbiati e confusi. Gli altri non lo credono. Ma si sbagliano.» «Deve capire il nostro problema, dottore.» La mano di Barrett mi passò davanti come la benna di una scavatrice e si chiuse su altri tre o quattro tramezzini. «Finora non abbiamo in mano niente. Niente effrazione. Sembra che da casa non sia stato portato via neppure uno spillo: soldi e gioielli sono rimasti nella camera da letto. Cellulare, televisore, apparecchiature elettroniche: tutto è stato lasciato dove si trovava. Gli unici indizi a nostra disposizione indicano che c'è stata una violenta colluttazione, ma nessuno ha notato o sentito niente di sospetto. I vicini, voglio dire. Nessun balordo che si è presentato alla polizia pronto a confessare. Nessuna notizia dai nostri informatori.» «Non so come aiutarvi» dissi. Scoprii di avere una fame da lupi, ma non volevo toccare i tramezzini. Mi sembrava indecente. Tuttavia non riuscivo a togliere gli occhi dal piatto. «Ha idea di dove stesse andando sua moglie, dottore?» chiese Barrett. «Come?» «C'era una valigia pronta nella sua stanza. Sembra che un'altra grossa borsa sia stata gettata dalle scale, forse per colpirla.» Lo guardai senza capire. «Non ha notato la roba sparsa sulle scale? Vestiti, libri, roba da bagno?»
«No, affatto.» Sembrava volessi difendermi, anche se non ne avevo alcuna intenzione. La cosa mi innervosì. «Una valigia?» «Probabilmente due. Cioè una valigia e una grande sacca.» «Immagino che stesse andando a passare il fine settimana da amici» suggerì Emma Dickenson. «O forse dalla famiglia.» «Dalla famiglia no» dissi. «Più probabile dagli amici.» «Perché esclude la famiglia?» chiese l'ispettrice. «Non andavamo d'accordo.» Mi corressi. «Mi spiace dirlo, ma ci detestavamo.» Fui folgorato da un pensiero. «Oddio, avrei dovuto chiamarli. Non mi è neanche passato per la mente.» «Ci abbiamo pensato noi» disse la Dickenson. «I suoi genitori sono in crociera, ma penso che a quest'ora abbiano ricevuto la notizia. Poveracci.» «La loro unica figlia» sussurrai. «Questo apre un nuovo scenario, non le pare?» disse. «Liti familiari, eccetera.» 7 Alcuni minuti dopo uscii dalla stazione di polizia e mi diressi verso il parcheggio sul retro. La pioggia era cessata, ma sull'asfalto rimanevano grandi pozze d'acqua. Scorsi Anthony quasi subito. Una figura funebre nel vestito nero stropicciato, che girovagava tra le file di macchine, fissandosi le scarpe lucide. In un primo momento non mi vide e io mi concessi un paio di minuti per osservarlo, in parte perché volevo lasciar sedimentare i pensieri, in parte perché un groviglio di associazioni mi riportarono alla mente un'altra occasione in cui Anthony era venuto a prendermi. Era il giorno dopo l'incendio. Una mattina molto rigida con il ghiaccio bianco come zucchero sulle ambulanze parcheggiate. Mi ricordavano le torte di nozze. Sotto le bende il freddo mi faceva male alle mani. Ed ecco l'imponente figura di Anthony che camminava nervosamente, con la sciarpa marrone svolazzante come un vessillo al vento. «Azione» mi disse «ecco che cosa serve. Azione ardita.» Aveva preso in consegna la mia borsa dall'infermiera, evitando di guardarmi le mani. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Finse che fosse a causa del vento, ma già allora non mi lasciavo facilmente ingannare. Non sapevo che cosa accadesse ai bambini senza famiglia. Forse Anthony mi avrebbe portato in un orfanotrofio, se esistevano ancora posti del genere. Mi immaginavo qualcosa di simile a un pensionato, popolato di e-
stranei che ubbidivano al regolamento. Non mi interessava com'era. Non mi interessava niente. Ma Anthony non mi portò in un orfanotrofio. Mi portò a un mercatino in una lunga strada affollata e circondata di bancarelle. I venditori parlavano ad alta voce e facevano un gran chiasso. Alcuni indossavano abiti strani. Ridevano molto e si scambiavano battute per me incomprensibili. Sui loro banchi la merce era esposta alla rinfusa, come in un bazar: statuine di porcellana, libri rilegati in pelle, fotografie incorniciate, gioielli elaborati, oggetti in vetro, vecchi aerei giocattolo di latta smaltata, vassoi di monete, medaglie militari, scatole di legno scuro intarsiate di avorio. Era uscito il sole e al di sopra dei tendoni delle bancarelle il cielo era di una trasparenza cristallina. In quel luogo l'atmosfera era surreale, magica. A ogni angolo qualcuno salutava Anthony. «È una prima edizione, signor Gilchrist. Proprio il suo genere.» «Mi arrivano dei Meissen la prossima settimana, signor Gilchrist. Ne metterò da parte un paio per lei.» «Niente che possa interessarla oggi, signor Gilchrist. La terrò informata.» Anthony annuiva con un vago sorriso, mentre avanzava lungo la strada, come un re che dispensa favori. Tuttavia, non si fermò a fare acquisti. Presto scoprii che eravamo in Portobello Road. Allora non sapevo che in seguito avrei visitato il mercato quasi ogni giorno con Anthony, e che sarei vissuto a non più di due chilometri di distanza. A quel tempo non avevo idea di come sarebbe stata la mia vita futura, ma sin dal primo momento rimasi affascinato dai colori, dalla vitalità e dai rumori di quel luogo. «Tu non sei in nessun modo responsabile, Michael» annunciò Anthony all'improvviso. Lo guardai smarrito, ma lui non smise di camminare e non ricambiò il mio sguardo. «Ho parlato con la polizia e con i pompieri» proseguì. «Forse è stato quel maledetto sigaro a provocare l'incendio.» Sembrava che Anthony tenesse d'occhio qualcosa in alto, al di sopra dei tetti, qualcosa che lo costringeva a non abbassare lo sguardo su di me. «Quindi, se dobbiamo parlare di responsabilità, allora è colpa mia, dal momento che quei sigari glieli ho regalati io. Oppure la colpa è sua per aver fumato il sigaro e non averlo spento con cura. In ogni caso ficcati bene in testa che tu non c'entri niente, in nessun modo.» Mi aveva appoggiato una mano sulla spalla, con un ge-
sto esitante e garbato. Mi era sembrato un contatto strano, ma non volevo sottrarmi. Sapevo che desiderava solo essere gentile, ma sapevo anche che non mi aveva mentito. «Meglio non pensarci più, vecchio mio» aveva aggiunto infine. A un certo punto ci eravamo fermati. Proprio davanti a noi c'era un tavolo grande su cui erano esposti meccanismi di ogni genere: orologi in bronzo dorato, orologi da caminetto e da tasca in meravigliose custodie, carillon, giocattoli con carica a molla. Contro il muro di mattoni, dietro la bancarella, erano allineati in una fila disordinata grandi orologi a pendolo, simili a sentinelle. La bancarella era tutto un ticchettare, un trillare, uno scattare di sonagli. Ogni tanto si aprivano delle porticine dalle quali sbucavano uccelli cinguettanti o soldati in divisa rossa che muovevano qualche passo impettiti, o ballerine che giravano su se stesse, per poi sparire. Un ometto piuttosto strambo, con l'orecchino e un cappello floscio mi lanciava occhiate dall'altra parte del tavolo. «Chi è questo ragazzino, signor Gilchrist?» Gli occhi curiosi dell'uomo avevano registrato le mie mani bendate e si erano subito rivolti altrove. «L'Apprendista Stregone?» «È Michael.» Anthony si muoveva a scatti nelle sue scarpe brillanti. Vedevo che era soddisfatto di incontrare l'ometto. «Michael, ti presento il signor Harry Judah. Harry è un uomo molto cattivo. Prezzi incresciosi. Meglio non aver niente a che fare con lui.» Harry Judah si tolse cerimoniosamente il cappello. «Fornitore di orologi a pendolo per la nobiltà, al vostro servizio.» Aveva capelli nerissimi e senza cappello sembrava molto giovane. «Sono onorato di fare la vostra conoscenza, signor Michael.» Non capivo che cosa volesse dire, ma non mi sfuggiva la sua cordialità beffarda. «Ha intenzione di vendere il ragazzino come spazzacamino, signor Gilchrist?» Harry si rimise in testa il cappello. «Se fossi in lei mi darei una mossa prima che diventi troppo grande o che tutta la città si converta al riscaldamento centrale.» «Michael verrà a stare da me» aveva soggiunto Anthony. Harry Judah non aveva fatto una piega. «Lei si prenderà cura del ragazzo?» «D'ora in avanti,» aveva detto Anthony «mi prenderò cura di tutto.» Anthony non mi aveva ancora visto, perciò attraversai il parcheggio del-
la stazione di polizia per andare da lui. Era così immerso nei suoi pensieri che solo quando fui a un passo da lui alzò il suo volto triste da bulldog. «Salve, Anthony» dissi. «Mio caro ragazzo. Vecchio mio.» Anthony non era vecchio, superava di poco la sessantina. Ma quel giorno sembrava decrepito e spento. Non l'avevo mai visto in quello stato. «Hai un'aria spaventosa, Anthony.» «Davvero? Io?» Anthony afferrò con uno scatto il fazzoletto di seta dal taschino, rosso a grandi pallini bianchi, e lo sventolò come per togliere le gocce di pioggia dal cappotto. Fissò il cielo per qualche istante, poi di colpo abbassò lo sguardo. Allungai la mano e gli strinsi il braccio. Per i nostri standard era un gesto di grande intimità. «Grazie per essere venuto subito, Anthony.» Fece un profondo respiro, guardando un punto indefinito oltre le mie spalle. «Be', era ovvio» disse. «Nel momento stesso in cui ho avuto la notizia. Ho chiamato Stella. È andata a prenderti un cambio di vestiti. Sono in macchina.» Infilò il fazzoletto nel taschino della giacca, dove ricadde come un grande fiore appassito. Rimanemmo come sospesi per qualche secondo. Nessuno di noi sapeva che altro dire. «Sì, bene, vieni» disse infine Anthony e si voltò per andare alla macchina. La nuova Volvo rossiccia coperta di gocce di pioggia era parcheggiata a pochi metri di distanza. Armeggiò a lungo con il portachiavi prima di aprire la portiera. Non riuscivo a staccare gli occhi dalla macchina. Anthony aveva una vecchia Rover bianca e quel veicolo lussuoso non c'entrava niente con lui. «Una mostruosità» brontolò Anthony. «Le chiamano auto di cortesia. La Dama Bianca è ricoverata per il suo check-up annuale. Una scocciatura tremenda.» Capivo che era imbarazzato e che si sentiva in colpa per non essere venuto con la vecchia, comoda Rover, in un giorno così funesto, per non avermi circondato di tutte quelle attenzioni che riteneva doverose. Era assurdo, ma tipico di Anthony. Non capivo come avrei potuto alleviare il suo disagio. Aprii la portiera della Volvo dal lato del passeggero, poi tutti e due ci guardammo al di sopra del tettuccio incerti sul da farsi. «Naturalmente devi venire da me» disse Anthony raddrizzando le spalle. «Mi occuperò io di tutto.» Salì sulla macchina splendente e richiuse la portiera.
La casa dove Anthony viveva da solo era un grande e triste edificio degli anni Venti, attorniato da un giardino incolto, disseminato di arbusti e di pioppi. Sulla facciata la vernice si staccava dalle pareti del portico e il vialetto d'accesso avrebbe avuto bisogno di essere ripavimentato. Sembrava che Anthony non facesse caso a tutto ciò. Da ragazzo, durante le vacanze estive, quell'aria di trascuratezza mi aveva dato da pensare. Senza quella nota decadente la casa sarebbe stata uno dei tanti edifici insignificanti dei sobborghi, non diversa dalle altre case della borghesia medio-alta che fiancheggiavano la strada, dietro le siepi di ligustro e i vialetti di ghiaia. In realtà né Anthony né la sua casa erano in carattere con il quartiere e, benché allora non ne capissi il significato, sapevo che questo fatto era importante. All'interno le stanze erano umide e ingombre di mobili scuri. Libri, quadri e sculture coprivano ogni parete e ogni scaffale. Anthony scovava i suoi tesori nei mercati e alle aste. Aveva un vero talento per riparare e restaurare congegni meccanici: otturatori di vecchie armi, giocattoli meccanici, carillon. Si sedeva al tavolo da lavoro, sotto la finestra della serra; il solo locale della casa bene illuminato dalla luce naturale. Il piano del tavolo era ingombro di minuscoli ingranaggi d'ottone, molle, rondelle e pietrine, pesi e quant'altro. Il risultato era che nella casa di Anthony c'erano orologi ovunque, compresi una grande pendola nell'atrio e un orologio in bronzo dorato sul camino della sala da pranzo. Tutti erano indietro di qualche minuto. Niente di tutto ciò aveva risvegliato il mio interesse di adolescente. Ma un giorno Anthony aveva portato a casa un paio di magnifiche pistole da duello firmate dai Wheelers di Londra, e mi aveva permesso di maneggiarle prima di richiuderle nella loro bella custodia di legno di rosa. Ricordavo ancora il freddo dell'acciaio e la morbida levigatura del calcio di rovere. Le pistole erano bilanciate in modo così perfetto che sembravano non aver peso. Quando avevo proposto ad Anthony di caricarle per esercitarci a sparare in giardino, lui mi aveva guardato senza espressione. Il fatto che non fosse rimasto favorevolmente colpito dalla mia idea mi aveva dato un senso di frustrazione. In ogni caso, ero impressionato dal solo fatto che Anthony possedesse quelle mitiche armi e soprattutto che le sue piccole dita grassocce avessero l'abilità di rimetterle in funzione. Dopo quell'episodio la mia idea nei suoi riguardi cambiò. Anthony e io portammo dentro i miei bagagli. Dopo una settimana di assenza la casa era fredda e triste. C'era odore di muffa e di cera vecchia. Lo
stesso odore di sempre. Benché nel corso degli anni fossi andato a trovare Anthony regolarmente, non avevo più soggiornato in quella casa da quando ero un adolescente. Portai la borsa di plastica con gli abiti nuovi che mi aveva procurato Stella nella camera da letto al piano superiore; la stessa che avevo occupato da ragazzino. Era una stanza stretta con il soffitto spiovente, più piccola di come me la ricordavo, ma per il resto era esattamente come l'avevo lasciata. In un angolo c'era la mia vecchia scrivania, così piccola che ora non potevo infilarci sotto le gambe. Sul piano c'era ancora il foro che avevo praticato per inserirvi, con grande orrore di Anthony, i cavi del mio primo primitivo computer. Non avrei saputo dire se era stato il massacro della scrivania o la presenza del computer a scandalizzare Anthony. Ai tempi non aveva neppure il televisore. E le cose non erano di certo cambiate. L'umidità della stanza mi solleticava il naso. Buttai in un angolo le borse e mi sdraiai sul mio vecchio letto a una piazza. Fuori la luce declinava. In quel letto avevo fatto molti sogni. Sogni di fuga e d'avventura. Le foglie del vecchio acero, i cui rami schermavano la finestra, incominciavano a cadere. Quando vivevo qui da ragazzo quelle pennellate di giallo significavano che l'estate era finita e che presto sarei tornato a scuola, lontano da Anthony, lontano da quella strana casa che sembrava un magazzino di mobili vecchi. Durante l'adolescenza le mie visite ad Anthony si erano fatte sempre più brevi e a ogni soggiorno cresceva l'ansia di andarmene al più presto, di ritornare al mondo reale, di prendere le distanze dalla lugubre tristezza di Anthony e dalle sue cravatte a farfalla. Nonostante tutto, ancora una volta mi ritrovavo in quel luogo fuori del tempo. Mi chiedevo quanto ci avrei impiegato per ritornare nel mondo reale. Quando tornai a prendere coscienza di quello che mi stava attorno, la stanza si era fatta gelida e le foglie fuori dalla finestra erano nere contro il cielo blu scuro della sera. Mi misi a sedere sul letto. In un angolo sentivo il gorgogliare del vecchio radiatore. Mi alzai, accesi la luce sul comodino e uscii sul pianerottolo. Dal pianterreno, una striscia di luce filtrava da sotto la porta dello studio di Anthony e sentivo il dolce canto di una voce femminile. Andai in bagno e feci la doccia. Tornai nella mia stanza e rovesciai il contenuto delle borse sul letto. Stella mi aveva comperato della biancheria nuova, un maglione e un paio di jeans. Mi infilai quegli abiti estranei, non esattamente della mia misura. Scesi le scale buie verso la striscia di luce proveniente dallo studio di Anthony.
Sedeva accanto al camino, in una delle poltrone rivestite di velluto. La stanza risuonava dello straziante lamento del soprano. Anthony, seduto sull'orlo della poltrona, fissava il suo bicchiere di brandy. Quando mi sentì entrare distolse rapidamente lo sguardo e si sforzò di sorridere. Sollevò il bicchiere nella mia direzione. «So dove trovarlo, Anthony.» Mi avvicinai al meraviglioso, per quanto antiquato, stereo Bang & Olufsen che troneggiava in un angolo coperto da un telo, come un altare, e abbassai il volume. La stanza era fredda e poco illuminata. Notai che Anthony aveva preparato il fuoco nel camino, ma non l'aveva acceso. Andai all'armadietto degli alcolici e mi versai uno scotch. «Le giornate si accorciano» disse Anthony indicando i riquadri blu della finestra. «Quando arriva ottobre già si sente l'odore dell'inverno. L'inizio dell'inverno.» Feci il giro della stanza, tirando le tende polverose. Accesi una lampada da tavolo in ottone e abbassai ancora il volume dello stereo. Quella era la stanza preferita di Anthony. Una tana ingombra di tavoli di mogano coperti di oggetti di ottone e di peltro, di librerie chiuse da ante a vetri e di collezioni di farfalle e scarabei. Odorava di vecchiume, di fumo di legna e di resina di pino. Notai che sul tavolino accanto alla poltrona Anthony aveva sistemato delle fotografie incorniciate. Non erano foto di Caitlin, come avevo temuto. Erano immagini di mio padre, che sorrideva in quel suo modo disincantato, appoggiato alla carrozzeria di una Land Rover, in qualche paese tropicale, con una capanna di rami di palma alle sue spalle. Fotografie di mia madre, snella e abbronzata, con una maglietta a righe, gli occhiali da sole sollevati sui capelli e un'aria ancora più giovane di come la ricordavo. Foto di Paul e Deborah, visi dolci e luminosi dai lineamenti ancora incerti. Mio fratello di appena sei anni e mia sorella che non aveva ancora compiuto i quattro. L'età che avrebbero conservato per sempre. E una mia fotografia che mi ritraeva mentre fissavo l'obiettivo, fiero della mia posizione di primogenito. Presi i fiammiferi e mi inginocchiai sul tappeto di fronte al camino per accendere il fuoco. «Sai, Michael,» disse «non sono mai stato bravo in niente. Oh, avevo le conoscenze giuste. Scuola privata. Cambridge. Eccetera. Ma ero sempre, come dire? uno di riserva. Anche in tribunale. Onesto. Volonteroso, un cavallo da tiro. Nessun... guizzo particolare, capisci?»
Con uno sforzo accesi il fiammifero. Lo avvicinai al giornale appallottolato nel camino e subito si alzarono fiamme dorate. Il fuoco scoppiettava e noi lo osservavamo incantati. «Tuo padre è stato per me un caro amico, Michael» disse. «Un amico straordinario. Non avevamo nulla in comune. Santo cielo, assolutamente nulla!» Il suo viso si illuminò. «Quando Duncan arrivò al Kings College non era un privilegiato come tutti noi, diplomati nelle scuole private più prestigiose. Tuttavia, grazie al suo carisma, fece amicizia con tutti. Non sapevamo con esattezza che cosa ci avesse colpito tanto in lui. Sai, sono convinto che tuo padre sarebbe stato un buon militare. Ci ho pensato spesso. Mi ricordava T.E. Lawrence. Luoghi selvaggi e remoti.» La luce del fuoco lambiva la foto di mio padre riportandone in vita i colori, il verde intenso delle palme e sullo sfondo un cielo terso, esotico. Mi colpì che quella foto fosse stata scattata poco prima della morte, quando mio padre aveva la mia età. Mio padre era ingegnere, ma Anthony aveva ragione, avrebbe potuto essere un militare. Lo si leggeva nel suo viso segnato dal sole, nel suo sorriso, nel modo risoluto di piegare la testa. Un uomo alto, capace, sicuro, dallo sguardo acuto, intelligente. Ogni suo atteggiamento esprimeva risolutezza. Mi era stato detto più volte che assomigliavo a lui, anche se non ho mai capito in cosa. Era lontano da casa così spesso che non l'avevo mai conosciuto veramente. «Ero molto legato a Duncan» continuò Anthony. «Avrei fatto qualunque cosa per lui. Qualunque cosa.» Anthony portò lo sguardo su di me. «E poi quello stupido incendio. Non nel Sarawak o in Congo o nei posti lontani che amava. Surbiton. Dio santo! Uno stupido incendio di una qualsiasi casa suburbana di Surbiton.» In tutti quegli anni non avevamo mai parlato dell'incendio in modo così esplicito. Era come se in quel momento stessi rivivendo tutta la scena. Sentii un improvviso desiderio di quei luoghi selvaggi, che così spesso avevo cercato e che mio padre aveva cercato prima di me. Quei luoghi difficili, riarsi dal sole, dove le scelte diventano inevitabilmente drastiche. «In un certo senso,» disse Anthony «Duncan mi ha offerto un'occasione unica di fare qualcosa di speciale, capisci? Prendermi cura di te. Naturalmente, non voglio attribuirmi tutto il merito. Solo un po'. Quanto basta per affermare che dopo tutto anch'io ho saputo fare qualcosa di buono.» Aspettai che continuasse, ma rimase in silenzio. Abbassai lo sguardo sul fuoco in modo che Anthony non vedesse i miei occhi. Era davvero paradossale. Quell'uomo, morbido come un pinguino, parlava sul serio. Io ero
quello cui era affidato il ruolo di uomo intrepido, volitivo, come mio padre. Io ero quello che soccorreva gli altri, abituato ad affrontare questioni di vita o di morte, capace di destreggiarmi in situazioni critiche. Ma in quella circostanza era Anthony, con il suo comportamento signorile e con il suo farfallino, a dimostrarsi tutto d'un pezzo. 8 Ero sdraiato sulle assi del pontile e stringevo Caitlin tra le braccia. La luna estiva pendeva sopra di noi come una lanterna impigliata tra i rami degli alberi. Sotto di me sentivo le acque cupe del Severn scorrere verso la chiusa. Come se provenissero da un altro mondo, i rumori del ricevimento risuonavano lontani nella notte. Qualcosa cadde nell'acqua con il tonfo di una pietra, forse un pesce alla ricerca di una preda. Lo immaginai dardeggiare nelle acque scure sotto di noi. Caitlin alzò una mano e fece scorrere la punta delle dita sul mio viso. La sua mano scivolò lungo la curva della mia gola. Sentivo il mio odore sulle sue dita. La mia camicia era slacciata e la sua mano incontrò la chiave, si fermò e la alzò osservandola al chiaro di luna. «Che cos'è?» «Mi serve per ricordare.» «Per ricordare cosa?» «Di tenere l'universo in ordine» dissi baciandole i capelli. «Uomo pesante» mi sussurrò all'orecchio prendendomi in giro. «Non sai che il mondo è nel caos?» Pensai ai campi di rifugiati. Tutta gente disperata, gente abbandonata. «No» dissi. «Il caos è dentro di noi.» Al di là del bosco sentivo Bruno che cantava ancora con la voce arrochita dall'alcol. «That child done washed us away» cantava. «That child done washed us away.» Quando riaprii gli occhi era giorno. «Ti ho svegliato?» Caitlin era piegata su di me con un sorriso appena accennato. L'acqua gorgogliava sotto il pontile. C'era odore di umidità e di fango. «Avevi un'aria così serena.» «Non mi hai svegliato.» Non so perché mentii su una cosa così insignificante.
«Ho cercato di resistere» disse ridendo. «È tutto molto romantico, ma io qui sto morendo di freddo.» «Mi spiace. A quanto pare sono capace di dormire dappertutto.» Fece una smorfia buffa. «Non me lo dire. Sarà frutto del tuo addestramento speciale.» «Giusto. Ho seguito un corso sugli effetti del jetlag e della sbronza da champagne.» «Era previsto anche il sesso con donne sconosciute, appese a una corda sopra una cascata?» Mi rivolse uno di quegli sguardi indecifrabili che avrei imparato a conoscere e che mi davano la sensazione che Caitlin fosse sempre un passo più avanti di me. La luce del primo mattino invadeva il cielo e modellava le curve del suo viso, trasformando magicamente la realtà che mi gravitava attorno. Avevo paura, come se tutto potesse svanire all'improvviso. Gli abiti che indossavamo erano spiegazzati. Una manica della mia giacca toccava l'acqua del fiume. Faceva molto freddo in quell'alba grigio tortora. Caitlin tremava. Mi misi a sedere e strizzai la manica della giacca. Muovendomi alcune monete che avevo in tasca erano cadute nel fiume, con un tonfo leggero. «Andiamo a cercare un caffè» disse alzandosi. La seguii lungo il sentiero che costeggiava il fiume. Si tolse le scarpe e nella foschia bianca che si alzava dall'acqua il suo abito chiaro volteggiava come uno spettro. Uscimmo dal bosco e ci ritrovammo sul prato dietro la casa. Il sole, ancora basso all'orizzonte, illuminava i prati facendo scintillare l'erba cosparsa di rugiada. Camminando dietro di lei, osservavo la sua schiena eretta e i suoi capelli lucenti. In quel momento Caitlin si voltò, come in risposta a un segnale, ridendo nella luce fredda del mattino, con le braccia spalancate. Mi tese una mano, mentre con l'altra dondolava le scarpe. Mi avvicinai, le presi la mano e rimasi immobile a guardarla. Il suo sorriso si spense. Rimase in silenzio a lungo, appoggiata dolcemente contro di me. Ci baciammo. Caitlin tenne gli occhi aperti. Quando ci staccammo, mi prese per un braccio e attraversammo il prato disseminato di resti della festa: tavoli e sedie di plastica, cassette di vino, vassoi, bicchieri.
Morrow House era immersa nel silenzio, una grande massa di pietra color ocra con maestose finestre georgiane e il portone fiancheggiato da pilastri. «Davvero abiti in questo posto?» Alzai gli occhi sulla svettante facciata del maniero con le foglie d'edera luccicanti nella pallida luce mattinale. Era certamente la casa privata più sontuosa che avessi mai visto. «È come il castello di una fiaba.» «Oh, sì,» disse «con tanto di orco.» La guardai meravigliato. In realtà non era una battuta. Molte macchine erano ancora parcheggiate lungo il viale, una Jaguar, due Porche e una Bentley Royal Silver. Accanto alla Bentley c'era quel rottame della Austin Healey di Bruno, il quale dormiva sdraiato sui sedili davanti, sorridendo beato, con una bottiglia di champagne tra le braccia e i piedi che sbucavano dal finestrino. Portava costosi stivali di camoscio e teneva le gambe elegantemente incrociate. Percorrendo il viale di ghiaia e passando accanto a una serra in ferro battuto, che correva lungo un lato della casa, Caitlin mi condusse verso un gruppo di piccole costruzioni disseminate tra gli alberi. Aprì la porta della prima che incontrammo: un lungo capanno di mattoni con finestre dagli infissi in legno e un tetto d'ardesia ricoperto di rampicanti. Mi abbassai per passare sotto il basso architrave della porta. A una estremità del capanno c'era un mucchio di materiale elettrico avvolto da ragnatele, maniglie di bachelite e quadranti d'orologio color avorio, con grandi numeri. «Un tempo era la casetta del generatore» disse, passandomi davanti. «Poi è diventato un... nascondiglio. A volte lo è ancora.» Colsi la sua esitazione e guardai con curiosità verso di lei. All'altra estremità del basso edificio si apriva uno spazio delle dimensioni di un grande soggiorno che era stato trasformato in una specie di studio. Sulle pareti erano inchiodate tavole di sughero sulle quali erano infissi con puntine da disegno vari schizzi. Sotto la finestra c'era una panca appoggiata su cavalletti, carica di fogli di carta, quaderni a spirale e contenitori colmi di matite e pennelli. Caitlin era in piedi accanto al cavalletto, al centro della stanza. Osservandola ebbi l'impressione che provasse un certo imbarazzo, di cui prima non mi ero accorto. «Caffè?» Parlava in fretta dirigendosi verso un piccolo lavello installato in un angolo del locale. Riempì la caffettiera. «Posso fare il caffè. Quello vero. Ho messo un fornello da campeggio.» Mi avvicinai al cavalletto su cui era fissato un acquarello con girasoli di
un blu squillante. Alla luce dei raggi obliqui l'acquarello catturò la mia attenzione come i vetri colorati di una cattedrale. «L'hai fatto tu?» «Non c'è latte. Però c'è lo zucchero, se riesci a staccarne dei pezzetti dal blocco.» Osservai i disegni e i dipinti appesi alle pareti: vecchie fattorie, fiori e alberi, un cimitero con croci e cippi, una mandria di mucche in un pascolo battuto dalla pioggia. «Sono meravigliosi.» Appoggiò con cura la caffettiera sul gas e rimase in piedi volgendomi le spalle. «Ti piacerebbe saperlo?» chiese. Mi ci volle un attimo per riprendermi: «Ho detto qualcosa che non va?». Si voltò di scatto e corse a buttarmi le braccia al collo. «Scusa, scusa, scusa.» «Non dovresti vergognartene. Sono bellissimi.» «Davvero?» Si staccò da me. «E che cosa sono al confronto di tutto quello che tu hai fatto negli ultimi due mesi?» La domanda mi lasciò senza fiato. «Non fare il modesto. Non ti sei abbronzato in un viaggio di piacere a Ibiza, o sbaglio?» «Ho lavorato in un campo profughi in Turchia.» «A fare che?» «Sono un medico. Lavoravo con la squadra di pronto intervento.» «E così eri là a salvare vite umane. Mentre io... che cosa facevo io? Ero ad Aspen a sciare con gli amici. Non ricordo neanche chi fossero. Siamo riusciti a passare un paio di settimane senza che nessuno pronunciasse una sola frase sensata. Oh, e poi sono dovuta andare a Parigi a un matrimonio e ci sono rimasta per dieci giorni, trascinandomi per qualche galleria e qualche concerto, quando non morivo dal mal di testa dopo una sbronza. Tra una cosa e l'altra tornavo qui a dipingere, in attesa di qualcuno come te che mi dicesse che ero quanto di meglio si è visto dopo Matisse.» «Caitlin, se non ti piace la tua vita, accidenti, cambiala.» «Così, su due piedi?» «Ci sono poche persone che hanno la libertà o il talento per poterlo fare. Tu li possiedi entrambi.» «Lo pensi davvero?» «Hu, hu.» Dietro di lei la macchinetta del caffè gorgogliava come se stesse per e-
splodere da un momento all'altro, mettendo fine alla nostra conversazione. «Bene» disse guardandomi con gli occhi socchiusi. «Non ci è voluto molto a fare la nostra prima litigata.» Versò due tazze di caffè e le portò verso il divano di vimini addossato alla parete. Le appoggiò su un vaso di coccio rovesciato, si sedette e mi fece segno di sedermi accanto a lei, quindi si stese su di me e mi baciò. «Quanti anni hai, Michael?» «Ventinove.» «I tuoi genitori ti hanno insegnato a essere autonomo?» Riflettei per un attimo sulla sua domanda. «Direi proprio di sì.» «I miei no.» «A me pare che tu faccia proprio quello che vuoi.» «Sì» disse. «Posso fare tutto quello che voglio. Solo che niente di quello che faccio ha la minima importanza.» «Chi lo dice?» «Detesta quello che faccio.» Indicò i disegni e i dipinti sparsi per la stanza. «Mio padre, voglio dire.» «Perché?» «Perché mi riesce bene. Perché la pittura rappresenta una via di fuga. Lontano da lui.» Vide la mia espressione e scoppiò a ridere. «Tu pensi che tutto questo non sia altro che pura nevrosi, vero?» «Non ho detto questo.» «Non è necessario che tu lo dica.» Prese la tazza del caffè e la tenne tra le mani. Nella stanza silenziosa si sentiva solo il fruscio del suo vestito. «Non pretendo che tu capisca. Tu sei uno che vede un problema e lo affronta. Sei fatto così. Ma io sono arrivata a ventiquattro anni senza saper fare niente che valga la pena.» «Chi ti dice che questo lavoro non vale niente?» «Sei un tesoro» disse. «Papà non si sognerebbe mai di chiamarlo lavoro.» «È così importante quello che lui pensa?» «Non è facile cambiare la propria natura, cambiare quello che ti hanno insegnato a essere. Neanche quando non ti piace.» Le sue parole mi avevano colpito e non sapevo che cosa rispondere. Presi la mia tazza. «Tu sai che cosa è la solitudine, vero, Michael? Lo vedo dai tuoi occhi.» «Sì.»
«La solitudine annienta la volontà. È una realtà che ho scoperto stando qui, in questa casupola. Senza gli altri non si ha alcun potere. E l'infanzia è in assoluto il periodo più solitario. Ecco perché non avrò mai figli.» Appoggiò la tazza del caffè e si rannicchiò contro di me. «Mai, mai, mai.» Sentivo il suo corpo contro il mio. Pensai ai bambini che avevo visto nelle ultime settimane. Probabilmente, molti di quelli che avevo cercato di curare erano già morti, di denutrizione o di malattia. Niente figli? A me andava benissimo. Era così tranquilla che pensai si fosse addormentata. «Non sono una persona facile» disse a un tratto. «E la mia vita è un casino. Pensi di essere in grado di salvare una ragazza come me?» «È il mio mestiere» dissi. «Lavoro in una squadra di salvataggio.» Si alzò con gesti eleganti e rimase in piedi nella luce cangiante. Portò le mani dietro la testa e lasciò che l'abito cadesse con un lieve fruscio sul pavimento, formando una scia sfavillante attorno ai suoi piedi. Con un passo si lasciò l'abito alle spalle, si chinò su di me, slacciò i bottoni della mia camicia e cominciò ad accarezzarmi il petto e il ventre, senza smettere di osservarmi con aria seria. Si sedette a cavalcioni sulle mie gambe e io le posai le mani sulla curva dei fianchi, la tirai verso di me e la baciai. «Salvami, allora» disse con la bocca che sfiorava il mio orecchio. «Salvami.» Mi svegliai con la testa appoggiata al bracciolo del divano. Sentii il rumore prima ancora di aprire gli occhi, lo stridere impercettibile della matita sulla carta ruvida. «Non muoverti» disse. Sedeva a pochi passi da me su una sedia dalla spalliera rigida, con la tavola da disegno appoggiata sulle ginocchia. Aveva la fronte corrucciata nello sforzo di concentrarsi. «Non osare muoverti». Aveva indosso la mia camicia, con le maniche arrotolate sino ai gomiti. Con rapidi sguardi i suoi occhi seguivano le linee del mio corpo e tornavano al foglio. Rimasi immobile, così immobile che quasi non sentivo il mio respiro. Una lama di luce attraversava tutto lo studio. Il sole era tiepido sulla mia pelle, incendiava i capelli di Caitlin e nei punti in cui colpiva la stoffa della camicia rimandava bagliori accecanti. Lavorava con una concentrazione puntigliosa, passando e ripassando la matita sulla carta. Di tanto in tanto socchiudeva gli occhi e guardava prima me poi il disegno, con la punta della lingua che le spuntava tra i denti. Mi dava una grande pace osservarla lavorare. Avevo la strana sensazione che
nessuno mi avesse realmente mai visto prima di allora. Non volevo che smettesse. «Ecco» disse infine. Studiò il suo lavoro con occhi critici e corresse un'ultima linea. La punta dell'indice e il polpastrello del pollice destro erano lucidi di grafite. Anche su uno zigomo aveva una piccola chiazza nera. «Ecco.» Girò la tavola in modo che potessi vedere il disegno. Mi misi seduto sul divano. «Cate, è incredibile.» Alzò le spalle, con un certo imbarazzo. «È semplicemente il modo con cui il tuo corpo riempie lo spazio. Il modo in cui io lo vedo.» Aprii la bocca senza riuscire a dire una parola. «Ehi!» esclamò ridendo. «Sei arrossito.» Ritrovai la voce. «Vorrei che il modello fosse veramente come questo disegno.» Piegò la testa di lato. «Conosci il detto, vero, Michael? Gli occhi degli altri sono degli specchi. È solo negli occhi degli altri che possiamo vedere noi stessi.» Mi alzai e chinandomi sopra il suo viso baciai la chiazza di grafite sullo zigomo. «Grazie» dissi. La porta si spalancò con uno schianto e sentii Caitlin trattenere il fiato. Istintivamente mi allontanai da lei. Sulla soglia c'era suo padre. Ebbi la visione indistinta di un vestito di tweed, camicia azzurra sulla pelle abbronzata, baffi grigio-ferro scolpiti con cura. Sbatté gli occhi per la sorpresa, ma in un attimo tornò perfettamente padrone di sé. «Bene, Catey» disse. «Non sapevo che stessi ancora intrattenendo ospiti.» I suoi occhi si spostarono su di me. Mi resi conto di essere ancora nudo. Afferrai i pantaloni che giacevano sul pavimento e mi coprii. Caitlin non disse niente. La sua reazione mi sconcertò. Mi sarei aspettato che si sentisse contrariata per il modo in cui si era presentato, invece sembrava vittima di qualche cosa di più profondo. Feci per parlare, ma in quel momento lui mi guardò e sorrise. Era un sorriso cordiale, pensai, ma mi paralizzò. Non potei fare a meno di notare ancora una volta che era veramente un bell'uomo. «Fuori di qui» mi disse senza abbandonare il suo sorriso. E rivolto a Caitlin: «Voglio parlarti a casa». Chiuse la porta e lo vidi attraversare il prato.
Quando mi voltai, Caitlin si era tolta la camicia, l'aveva gettata in un angolo e si stava infilando con rabbia il vestito. «Cate?» «Devo andare. Anche tu.» Armeggiò per un attimo con il bottone e l'asola del suo abito. «Bastardo» mormorò. «Bastardo.» Allontanai le sue mani e le allacciai il vestito. Le accarezzai i capelli tenendola stretta a me. «Immagino che sia un uomo all'antica» dissi. «Gli passerà.» Ma Caitlin si scostò e si diresse in fretta verso la porta. Si fermò sulla soglia come se stesse resistendo a un irrefrenabile impulso di seguire subito suo padre. Indugiò qualche attimo, poi ritornò nello studio, strappò un foglio dal suo album da disegno, scrisse un numero e me lo ficcò in mano. «Telefonami» disse. Mi diede un rapido bacio sulle labbra e fuggì via. Mi rivestii lentamente, determinato a prendere le cose con calma. Lasciai lo studio, feci il giro attorno alla casa per raggiungere il viale dove la vecchia Austin Healey era ancora parcheggiata. Bruno aveva l'aria vispa di sempre, come se si fosse appena vestito per andare a un cocktail party, invece di aver trascorso la notte sdraiato sui sedili anteriori di una macchina sportiva. «Mi chiedevo dove ti fossi cacciato» disse. «Non che fosse difficile indovinarlo. Zompa dentro.» Con un salto acrobatico si mise al volante. «La prossima volta magari mostrerai un po' più di entusiasmo quando il tuo vecchio amico Bruno ti procura un invito alla festa di gente dell'alta società.» Mi lanciò un sorriso radioso e tirò lo starter. «Questa baracca funziona a champagne?» dissi. «Solo se francese.» Girò la chiave e la macchina partì subito. Mi sedetti accanto a Bruno e percorremmo il lungo viale. Eravamo arrivati ai cancelli quando mi ricordai del disegno. Stavo per chiedere a Bruno di fermarsi per tornare a prenderlo, ma pensai che dopo tutto non era mio. Così lo lasciai dov'era. Fu una decisione di cui in seguito mi sarei amaramente pentito. 9 Trascorsero due o tre giorni, forse di più. Quasi non mi accorgevo del passare del tempo, né delle telefonate bisbigliate, né dei silenzi, né degli atti pieni di compassione che li riempivano. Mi sentivo come un paziente troppo ammalato per preoccuparsi di ciò che gli accadeva attorno, troppo
sedato dai tranquillanti per sentire il dolore, contento che fossero gli altri a pensare a tutto. Durante il tempo che passai da Anthony non ero cosciente dell'attenzione delle persone che mi volevano bene. Quasi ogni sera Stella irrompeva come un uragano, carica di provviste non necessarie e di consigli indesiderati. Una volta arrivò accompagnata da Gordon, con i suoi occhiali lampeggianti. Un uccellaccio nero che mi girava attorno infelice, incapace di trovare qualcosa da dire. Anthony stesso si muoveva silenziosamente, parlava con lentezza, nel tentativo paziente di creare piccoli spazi di ordine e di calma nel caos generale. Non ero toccato né dalla loro gentilezza né dalla loro sofferenza. Ma arrivò un mattino, freddo e terso, in cui questa superficie di indifferenza si spezzò. Ero sceso in giardino portando con me una tazza di caffè e mi ero seduto sul sedile in pietra accanto allo stagno. Era trascurato da anni e lo specchio d'acqua era quasi interamente soffocato da ninfee e da lenticchie d'acqua. Mi piaceva quell'intrico selvaggio, e quel sedile era sempre stato il posto che preferivo. Non feci attenzione quando sentii una macchina che si fermava davanti a casa. Stella si era presa un giorno libero per venire da Anthony. Era andata avanti e indietro tutta la mattina, impegnata, contrariamente alle sue abitudini, in faccende domestiche. Pensai che la macchina appena arrivata fosse la sua, perciò mi meravigliai quando vidi Anthony far passare sulla terrazza due funzionari di polizia. Emma Dickenson, seguita da Barrett, scese nel prato sul retro della casa dirigendosi verso di me attraverso l'erba alta. Mi alzai. «Stia comodo, Michael» disse l'ispettrice. «È bello qui fuori.» Nel suo sorriso c'era qualcosa che non capivo. Mi si strinse lo stomaco. «Che cosa è successo?» chiesi. «Spiacenti, ma non avevamo nessuna novità da darle nei giorni scorsi, dottore.» Barrett parlava con particolare cordialità. Mi porse la mano che fui costretto a stringere e aggiunse: «Sa com'è». «No. Com'è?» Ma in quel momento apparve Anthony con due sdraio pieghevoli da giardino e ci fu il piccolo trambusto per aprirle, spolverarle e sistemarle con un minimo di stabilità sul prato gibboso. Dickenson e Barrett si sedettero cercando una posizione comoda, mentre Anthony scivolò via in silenzio, deferente come un maggiordomo nella sua giacca scura. Non ne ero sicuro, ma mi sembrava che evitasse di guardarmi negli occhi.
«Che cosa è successo?» domandai con insistenza. Barrett alzò lo sguardo su di me. «I risultati dell'autopsia» disse. «Non è stata violentata, questo è sicuro, dottore. Nessuna violenza sessuale, per quanto è stato accertato.» Mi accasciai sul sedile di pietra, rovesciando la tazza di caffè. «Almeno di questo dobbiamo essere grati» disse Emma Dickenson con gentilezza. «Era chiaro sin dall'inizio, ma c'è voluto un paio di giorni per esserne completamente sicuri.» I miei pensieri erano volati via come uno stormo di uccelli spaventati e per qualche attimo non fui in grado di richiamarli indietro. L'ispettrice riprese: «Michael, c'è qualcosa che vorrei chiederle, anche se non sono sicura che questo sia il momento adatto per sollevare la questione». Sembrava imbarazzata. Con uno sforzo cercai di riprendermi. «Certo. Continui.» «Allora, mi permetta di farle una domanda così sgomberiamo il campo da ogni dubbio. Lei è stato portato a Victoria Station dall'autobus della Croce Rossa alle 11.28. L'autista ha chiamato alla base proprio mentre lei attraversava la strada per prendere la metropolitana. Quella chiamata è stata registrata.» «Va bene. Le undici e mezza può andare.» La donna aggrottò la fronte, come per risolvere mentalmente una difficile equazione matematica. «Sono passati settantotto minuti, Michael, fra il momento in cui lei è sceso dall'autobus a Victoria e il momento in cui ha chiamato la polizia per dire che aveva trovato Caitlin. Dunque lei ha preso la Victoria Line fino a Oxford Circus, dove poi ha preso la Central Line per Notting Hill Gate e da qui è andato a casa a piedi, quindi direi che lei è rimasto nella casa quaranta minuti prima di dare l'allarme.» «Tutto quel tempo? Non saprei.» Mi osservò, forse per valutare la mia reazione, ma non poteva avere dubbi che la mia sorpresa fosse autentica. Strinse le labbra. «Michael, ha un'idea di quello che ha fatto in quei quaranta minuti? Quaranta minuti sono molti.» «Ho cercato di riportarla in vita. L'ho già detto. Poi mi sono seduto sulle scale con lei.» «E poi?» Ripensai alla scena cercando di metterla a fuoco. «Quando mi resi conto che era andata, prima di chiamare la polizia io... mi sono aggirato per casa. Nella deposizione c'è tutto.»
«E tutto questo è durato quaranta minuti?» «Se lei dice che sono passati quaranta minuti...» «Lei ci ha detto quindici minuti, dottore» fece notare Barrett. «Quando gliel'ho chiesto sabato, lei ha calcolato un lasso di tempo di quindici minuti tra il momento del ritrovamento di sua moglie e la chiamata dell'ambulanza. Massimo venti. Un calcolo sbagliato, vero?» «Strano, non trova?» disse Emma Dickenson «intendo dire, le cose che si fanno quando siamo sotto shock. Perché poi c'è la faccenda dei vestiti. Il modo in cui lei si è cambiato gli abiti. Mettendo quelli sporchi in un sacchetto.» «Sì. È quello che ho fatto.» «Perché?» «Ho pensato che potessero essere utili alla polizia. Sbagliavo?» «No, non si sbagliava, Michael.» Sembrava stupita della scelta delle mie parole. «Tuttavia mi colpisce che lei, paralizzato dallo shock, potesse fare una cosa così razionale.» «In quel momento mi sembrava la cosa giusta. Non saprei come spiegarlo.» «Lei è chirurgo» suggerì Barrett. «Lei si lava dopo le operazioni, vero? Forse è stato un riflesso condizionato.» «Naturalmente, deve essere andata esattamente così» disse l'ispettrice. Barrett si appoggiò alla spalliera sollevando le gambe anteriori della sdraio. «È la sola spiegazione possibile.» Sembrava aver perso ogni interesse per la discussione. Intrecciò le mani dietro la nuca. «Non si preoccupi, dottore. Al posto suo io non mi preoccuperei.» Mi resi conto di provare un senso di sollievo per il fatto che quella faccenda degli orari fosse chiusa, ma subito mi arrabbiai con me stesso, proprio per aver provato quella sensazione. «Era incinta» disse Barrett con il viso rivolto al cielo bianco. Non dissi niente. E davanti al mio silenzio Barrett lasciò cadere sul prato le gambe della sdraio e si sporse verso di me per guardarmi dritto negli occhi. «Ha sentito che cosa ho detto, dottore?» Avevo la bocca secca. Quando finalmente riuscii a parlare le mie parole mi rimbombarono nella testa. «Non può essere» sussurrai. «Non può essere.» «Quattordici settimane» disse con un viso di pietra. «Forse meno.» «Perché non può essere, Michael? Perché è così impossibile?» chiese Emma Dickenson.
«Vuole che non sapessi una cosa simile?» «Oh, il bambino non era suo, dottore» disse Barrett con semplicità. «Sono stati fatti i test del DNA.» Lo guardai. «Niente segreti, lei ci ha detto» la voce di Barrett si era fatta dura. «Assurda, ha detto, l'idea di un altro uomo. Il suo era proprio un matrimonio esemplare. Ma non era un'avventura qualsiasi quella di cui stiamo parlando, dottore. Sua moglie portava nel ventre il figlio di un altro uomo. Da tre mesi. E lei mi viene a dire che non lo sapeva? Che non ha mai avuto neppure il minimo sospetto?» Mi sembrava che il giardino si fosse improvvisamente oscurato. Davanti ai miei occhi gli alberi e il prato malandato tremolavano. «Non c'è mai stato nessuno fra me e Cate.» «Sono cattolico» disse Barrett. «Già faccio fatica a ficcarmi nella zucca una madre vergine, figuriamoci due.» «Dig!» intervenne indignata Emma Dickenson. Barrett brontolò qualcosa, si alzò e andò a passeggiare tra i meli di Anthony. Lo vedevo come avvolto in una bruma. Si chinò e raccolse una mela caduta nell'erba alta, la ripulì dalle foglie morte lustrandola con la sua grossa mano, poi la lanciò in alto e la riprese al volo. «È una cosa che prima o poi dovrà accettare, Michael» disse l'ispettrice parlandomi senza mezzi termini. «Temo che non ci sia nessun dubbio.» Barrett aveva addentato la mela. Feci uno sforzo per distogliere gli occhi da lui. «Non so che cosa significhi questa storia» dissi. «Non ci capisco niente.» Mi guardò con estrema attenzione, come per decidere fino a che punto stessi dicendo la verità. Raccolse la borsa e si alzò infilandola sotto il braccio. «Anch'io non capisco, Michael. Ma dalla sua reazione devo dedurre che lei non sapesse niente della gravidanza di Caitlin. Che lei non sapesse niente di chi frequentava sua moglie. E che lei non sapesse niente dei suoi spostamenti. Giusto?» Mi sforzai di comprendere le cose che mi venivano dette. «È giusto, Michael?» insistette. «Perché è estremamente importante che se ha altre informazioni oltre a quelle che ci ha fornito finora, ce le comunichi subito. Lo capisce, vero?» «Sì» dissi. «Michael, voglio che lei mi chiami subito - dico subito - se le viene in mente qualche cosa. Qualsiasi cosa che lei possa aver... dimenticato.»
«Sì» dissi ancora. Desideravo con tutte le mie forze che se ne andasse. Ebbe un momento di esitazione, come se stesse per dire qualcos'altro, ma si voltò e attraversò il giardino con passo marziale. Barrett la osservò entrare in casa, senza smettere di addentare la mela, poi fece i pochi passi che lo separavano da me. Diede un ultimo morso ed esaminò il torsolo che teneva in mano. «Non c'è niente come una mela delizia» disse. «Mia zia Violet le coltivava nel suo giardino a Basildon. Mi riporta al passato.» Tirò il torsolo tra i cespugli, poi rimase a osservarmi con aria pensierosa, mentre si toglieva con l'unghia del mignolo un frammento di buccia che gli si era incastrato tra i denti. «Non creda che mi diverta, dottore» disse. Aveva parlato con una tale serietà che mi costrinse ad alzare lo sguardo. «No, penso di no.» «Lei non sarebbe il primo a essere ingannato dalla moglie. O a essere all'oscuro di tutto.» Fissò il pezzetto di buccia attaccato all'unghia. «Non voglio parlare di questo adesso.» «Non tocca a me dirlo, dottore, ma credo che non deve pensare male di quella poveretta di sua moglie. Non meritava quello che le è successo, qualunque cosa le abbia fatto.» «Non pensavo a quello che ha fatto a me.» «A ogni modo c'è una cosa che farebbe bene a ficcarsi in testa.» «Che cosa?» «Che le cose sono cambiate dall'ultima volta che ci siamo visti.» Alzò le dita tozze e incominciò a contare. «Allora lei era il marito infelice. Ora lei è il marito tradito. Due cose molto differenti. Allora la signora Severin era casta come la neve. Ora sappiamo che era un essere umano come tutti noi.» «Vale a dire?» «Vale a dire che, come le ho già fatto notare, le cose sono cambiate. Ecco tutto. Niente di più. Ma sarebbe veramente una buona idea, dottore, se lei facesse in modo che tutto quello che sa, lo volesse condividere con noi.» Dopo che Barrett se ne fu andato, rimasi sulla panchina di pietra vicino allo stagno a osservare l'acqua. Passò qualche minuto, poi Anthony uscì sulla terrazza. Passò lentamente attraverso il roseto che cresceva attorno al porticciolo fatiscente e con noncuranza abbassò un ramo su cui era fiorita l'ultima rosa tardiva e la annusò. Si diresse verso il frutteto avvicinandosi
al punto in cui ero seduto, toccò un vecchio tronco rugoso e aggrottò la fronte nel vedere la polvere verdastra che gli era rimasta sulla mano. A piccole tappe percorse la distanza che lo separava da me, fermandosi a guardare lo sbiadito cielo suburbano, o a strappare un'erbaccia. Qualche passo ancora poi mi si sedette accanto sul sedile di pietra. «Forse sarebbe stato meno crudele se questa verità fosse rimasta celata» disse Anthony. Fece una breve pausa, poi riprese: «Avrei dovuto immaginarlo». «Tu avresti dovuto immaginarlo?» Fissò l'acqua scura dello stagno. «Mi spiaceva tanto per lei, povera bambina. Così sola. Andavo a trovarla quando potevo, sai. Quando tu eri via. La portavo fuori a prendere un caffè, pranzavamo insieme. Cose così.» «So che ha sempre apprezzato le tue attenzioni.» «Ma non ho mai intuito niente, Michael. Per tanto tempo. Tutte quelle chiacchierate davanti a un caffè, in qualche piccolo ristorante. Conversazioni che ritenevo sincere, anzi intime. Mai avrei pensato che potesse tradire la tua fiducia.» «Per favore, non parlare di lei in questo modo.» «Come ha potuto fare una cosa del genere, Michael?» «Non lo so.» Guardai il cielo attraverso i rami spogli. Sapevo che Anthony giudicava quello che Caitlin aveva fatto un tradimento. Non sopportavo l'idea di leggere sul suo viso questa accusa. «Non posso restare qui, Anthony. Lo sai anche tu» dissi a un tratto. «Ma dove andrai?» «Vado a casa. Darò alla polizia qualche giorno per rimettere tutto a posto. Poi tornerò a casa.» «E poi?» Mi alzai. «Poi riprendo a lavorare.» Strinse le labbra. «Datti tempo, vecchio mio. Solo un po' di tempo.» «Ho bisogno di lavorare, Anthony.» «Azione, vero?» disse con voce mesta. «Azione ardita?» «Sì.» Accartocciò la lavanda e la lasciò cadere sulle pietre ai suoi piedi. Mi guardò timidamente e vidi che la sua determinazione era svanita. «Devi andare dove hai bisogno di andare, caro vecchio mio. E fare ciò che hai bisogno di fare.» Si alzò e posò una mano sulla mia spalla. «Non sono mai riuscito a trattenerti, Michael, nemmeno quando eri un ragazzino. Sono
certo che tu pensavi di essere un peso. Non sono mai riuscito a spiegarti bene che cosa significasse per me averti qui.» Fissai le pietre muschiose tra i miei piedi. Notai che l'erba alta gli aveva bagnato il risvolto dei pantaloni e non saprei dire perché questo particolare mi intenerì profondamente. 10 Salii i gradini ed entrai in casa dalla porta principale, grato di poter chiudere il mondo alle mie spalle. Mi ero chiesto come sarebbe stato trovarmi di nuovo lì. Ma non provai niente, se non sollievo e conforto nel vedermi attorno le cose che mi erano familiari. Sentii le prime gocce di pioggia picchiettare contro i vetri colorati dell'ingresso. Appesi la giacca vicino alla porta e mi avviai per il lungo corridoio. Mi fermai ai piedi della scala cercando di decifrare le ombre. Con ogni probabilità avevano riportato le cose di Caitlin nella voliera. Non me la sentivo di salire nell'attico, ma anche da lì vedevo che i gradini erano stati puliti accuratamente. Nella tromba delle scale aleggiava un leggero odore di candeggina e di disinfettante. Vagai per le stanze del pianterreno, in sala da pranzo e in cucina. Si vedeva che era passata Filomena, la domestica siciliana, certamente venuta su richiesta di Anthony. Filomena aveva lasciato tutto lindo e lustro: pavimenti immacolati, tulipani in un vaso, la cristalleria scintillante nella credenza. Presi il telefono dal tavolo d'angolo e chiamai il servizio di segreteria. Conteneva diversi messaggi dei miei colleghi dell'ospedale, sconvolti dalla notizia, un messaggio del professor Curtiz che mi diceva che potevo prendermi tutto il tempo che volevo, due chiamate di giornalisti, alcuni insistenti messaggi da parte di una organizzazione umanitaria e uno del vicario di Kensington, nella cui parrocchia Caitlin e io, a quanto sembrava, avevamo inconsapevolmente vissuto per quattro anni. Cancellai tutti i messaggi, riagganciai e sfilai la spina del telefono dalla parete. Fuori il giardino aveva un'aria triste e desolata. La pioggia cadeva insistente nel pomeriggio che si oscurava. Andai nel mio studio. La stanza era buia. Accesi la lampada da tavolo con il paralume verde. L'atmosfera era intima e accogliente. Aprii il cassetto della scrivania e tirai fuori la foto incorniciata di Caitlin. Fissai a lungo il suo bel viso alla luce della lampada. Mi sedetti sulla poltrona, continuando a guardare Caitlin che mi sorride-
va dalla foto, come da una piccola finestra illuminata. «Perché non me l'hai detto, Catey?» chiesi ad alta voce. «Di che cosa avevi paura?» «Ho paura di lui, se proprio lo vuoi sapere» disse Caitlin di scatto, rompendo il silenzio. La fissai con diffidenza. Non aveva detto una parola dal momento in cui eravamo usciti dalla M4, immettendoci nel labirinto di stradine di campagna del Gloucestershire, diretti a Morrow. Guardava fuori dal finestrino fissando i filari di alberi. «Paura di tuo padre?» chiesi infine. Quella sera Caitlin avrebbe sfruttato l'occasione di un cocktail party per presentarmi ufficialmente ai suoi genitori. Dopo la scena grottesca del precedente incontro con suo padre, mi aspettavo di provare un certo imbarazzo, ma in realtà mi resi conto che la cosa non mi preoccupava affatto. In fondo i suoi genitori potevano pensare quello che volevano. Tuttavia, Caitlin, man mano che passavano le ore, diventava sempre più tesa. «Forse non dovremmo andare» disse all'improvviso. «Potremmo telefonare e trovare un pretesto.» «Cate, è solo un cocktail party. Non può essere una cosa così spaventosa.» «Tu non hai idea.» Tornò a fissare muta gli alberi che scorrevano lungo il bordo della strada. Decisi di lasciar cadere l'argomento. In fondo la conoscevo appena. Nelle quattro settimane successive alla sua festa di compleanno ci eravamo visti una dozzina di volte. Un paio di fine settimana in alberghi di campagna, un terzo nella houseboat di un amico sul fiume Cam e infine avevamo passato qualche notte insieme nel mio appartamento di Dulwich. Non pensavo più ai nostri incontri come a episodi isolati. Le sue assenze cominciavano a pesarmi ed ero perfettamente consapevole che cosa questo significasse. Tuttavia, la conoscevo appena. «È un prepotente» disse. «Mio padre. Un filisteo prepotente.» La guardai sconcertato. Mi aveva parlato di sfuggita di suo padre. Pensavo che fosse senza dubbio un vecchio tiranno arrogante, ma era difficile prendere sul serio l'accusa di Caitlin. «Cate, non pensi che tuo padre sia semplicemente iperprotettivo nei tuoi confronti?» Incrociò le braccia continuando a fissare gli alberi scuri.
Edward Dacre mi aveva fatto una forte impressione. Era alto quasi quanto me, imponente, e si muoveva con elegante disinvoltura. «Chiedo scusa, Michael,» disse «di riceverla nella biblioteca, una cosa terribilmente antiquata, me ne rendo conto. Ma il resto della casa è in fermento per i preparativi del ricevimento.» La sua stretta era energica. Ricordavo molto chiaramente il nostro ultimo incontro, per cui mi sentii sollevato di fronte alla sua affabilità, più sollevato di quanto volessi ammettere a me stesso. Ma non sapevo quali sarebbero stati i suoi passi successivi, perciò non fiatai, lasciando che fosse lui a prendere l'iniziativa. Ma Edward Drace non mi rivolse neanche uno sguardo. «Caitlin mi ha detto che lei beve scotch. Ho del Glenlivet da qualche parte.» Partì per un'ispezione delle bottiglie dei liquori, finché trovò lo scotch che cercava. «Allungato? O lei è un purista? Ne ha l'aria.» Non sapevo come prendere quella osservazione. «Liscio va benissimo, grazie» dissi. Guardai Caitlin seduta sul bordo del divano, con le mani intrecciate in grembo e lo sguardo vuoto fisso davanti a sé. «Forse è il caso che ti cambi d'abito, Cate» le disse il padre, sempre armeggiando con lo scotch. La voce aveva assunto un'intonazione autoritaria, come se si rivolgesse a una bambina. Ero sulle spine. Cate si alzò. «Sì, va bene.» Attraversò la stanza. Sulla porta si voltò per lanciarmi un'occhiata che non seppi interpretare e uscì in silenzio. Mi rilassai. Mi guardavo attorno sorpreso e divertito allo stesso tempo. Quella stanza mi dava la sensazione di trovarmi sul set di un film storico. Gli scaffali di legno scuro ricoprivano interamente le pareti fino al soffitto ed erano carichi di volumi. In un angolo troneggiava una magnifica scrivania di mogano con il piano di pelle verde. Non c'era molta luce, ma sulla parete opposta si aprivano grandi finestre che davano su un prato disseminato di cespugli di lillà e di ortensie. Il sole basso della sera, insinuandosi tra gli alberi, illuminava il giardino. Il padre di Caitlin mi passò lo scotch indicandomi una poltrona. «Si sieda, prego.» Mi sedetti in una delle poltrone di pelle. Non sapevo come rivolgermi a lui. "Signor Dacre" mi sembrava troppo vittoriano, ma non sarei stato ca-
pace di chiamarlo per nome, così evitai di farlo. «È una casa incredibile.» «Sono d'accordo.» Rise amabilmente, come se non credesse alla sua stessa fortuna. «Devo dire che impressiona anche me.» «Suppongo che appartenga alla famiglia da generazioni.» «Oh no, siamo dei veri e propri parvenu. Mio padre ha fondato l'impresa di famiglia negli anni Trenta. Gli affari sono decollati e ha comperato questa proprietà. Io ho ereditato la casa e l'impresa quando ho lasciato l'esercito, una ventina d'anni fa. Ma dicono che ci vogliano tre generazioni per fare di un uomo un vero gentiluomo, a me ne manca ancora una.» Si sedette di fronte a me. Sul suo viso spiccavano due vivaci occhi azzurri e dei baffetti sale e pepe da attore degli anni Quaranta. Proseguì: «Quindi, secondo quella definizione, Caitlin sarà la prima della famiglia a far parte a tutti gli effetti della buona società». «Caitlin vi appartiene comunque» dissi con galanteria. «Davvero la pensa così?» Il suo tono ancora una volta mi sorprese, comunicandomi una strana inquietudine. «Naturalmente» dissi. «Lei la pensa diversamente?» «Dicono che i figli sono una benedizione, Michael. Ma non è sempre vero.» Appoggiò il bicchiere sul tavolo, si lisciò i baffi e stirò la bocca in un sorriso. In quel momento sentii che qualcosa era cambiato. «Chi è lei esattamente?» mi chiese inaspettatamente Edward Dacre. «Chi sono?» Quasi scoppiavo a ridere. Ero tentato di rispondere che ero un esemplare di Homo sapiens, maschio, di ventinove anni, alto un metro e ottantatré, di ottantatré chili di peso, che si accoppiava con sua figlia. Invece dissi: «Intende dire, qual è la mia professione?». «So che cosa fa, Michael» disse con il suo sorriso inossidabile. «Segue un qualche corso di medicina.» «Sono un medico» dissi risentito. «Un medico laureato. Mi sto specializzando in chirurgia.» «Esatto. Ma quello che voglio sapere è cosa lei è.» «Temo di non capire.» «No? Bene, lo dirò in altre parole. Qui si applicano le vecchie regole.» «Quali regole?» «Non ho cresciuto Caitlin per vederla buttarsi via con uno studente di medicina squattrinato.» Lo fissai ammutolito. «Non c'è niente di personale in tutto questo, Michael. So che lei lo capi-
sce. Mi rendo conto che ci sono persone che non sono nessuno e che a volte sanno farsi strada.» Di nuovo il sorriso elettrico. «Ma non è su queste che voglio puntare.» Versò un altro scotch per tutti e due. «Michael, devo proteggerla. È il compito dei padri. Caitlin è una giovane donna molto intelligente. Parla tre lingue. È colta. È bella. E naturalmente sa stare in società. Ma per me è stata una delusione per molti motivi. Ha tutti i numeri, ma non ne fa niente. Le manca quello che i miei colleghi americani chiamerebbero "la mossa vincente".» Finalmente ritrovai la voce. «Ha mai visto i suoi disegni?» Mi lanciò un'occhiata di commiserazione. «Michael, per favore!» «Ha un talento straordinario.» «C'è qualcosa di fragile in lei,» proseguì, come se io non avessi neppure parlato «qualcosa che c'era anche in sua madre, e che la rende preda di qualsiasi capriccio passeggero.» «Se tra questi capricci ci sono anch'io,» dissi posando con rabbia il bicchiere sul tavolo «sarà sua figlia a dirmelo.» «Michael, cerchi di capire. Io amo mia figlia.» «Anch'io.» Era la prima volta che esprimevo i miei sentimenti per Caitlin. Sentii qualcosa fremere dentro di me. «Ma non sono venuto qui a chiedere la sua mano, se è questo che lei si aspettava.» Mi trapassò con un'occhiata gelida, ridendo forte. «Quando parlavo di regole non mi riferivo alla tradizione, Michael, ma al potere.» Mi alzai. «Non desidero continuare con questo discorso.» «Lei è ancora molto giovane» disse come se non mi fossi mosso. «Perciò spero che impari che non può agire come le piace. Non quando la cosa riguarda me. Non quando riguarda la mia gente.» «La sua gente?» «Tutto ha un prezzo, Michael. Forse l'ha dimenticato, oppure si è fatto un'idea distorta del mondo, dopo aver giocato per tanto tempo al grande capo bianco in mezzo ai negri.» Quelle furono le ultime parole che ascoltai, uscii dallo studio e salii in camera da letto, schiumante di rabbia. Volevo andarmene, ma poi pensai a Caitlin: avevo paura di perderla. Aprii la finestra della camera da letto e guardai giù nell'oscurità del giardino e piano piano ritrovai la calma. Mi spostai dalla finestra e andai in bagno. Feci una doccia e quand'ebbi finito ero ritornato padrone di me stesso.
Non ero mai stato invitato in un posto come Morrow House. La sala da pranzo era immensa, con al centro una lunga tavola di teck e dipinti a olio anneriti dal fumo sulle pareti. Nel camino si sarebbe potuto arrostire un bue intero. Sulla chiave di volta era incisa la data 1799. Entrai discretamente, presi un bicchiere dal vassoio che mi porgeva un cameriere e finsi di esaminare uno dei quadri, cercando di passare inosservato. Il ricevimento era molto più sfarzoso di quanto mi fossi immaginato, con una quarantina di persone che girovagavano per l'immensa sala; spocchiosi uomini di mezza età e donne che ostentavano la loro eleganza. Istintivamente suscitarono in me antipatia, ma ero contento che ci fosse tanta gente, così era più facile sparire. Mi guardai attorno, ma Caitlin non c'era ancora. Quella sera vidi sua madre per la prima volta. Una donna di circa sessant'anni, elegante nel suo meraviglioso abito bordeaux. La osservai spostarsi con grazia da un gruppo all'altro di ospiti. Aveva lo stesso portamento della figlia e la stessa struttura sottile. Passava in mezzo alla folla con aristocratica cordialità. Era difficile immaginarla come la moglie oppressa dei racconti di Caitlin: a me sembrava una donna intelligente e volitiva, ma avevo imparato che in quella casa nulla andava giudicato secondo le apparenze. Inconsciamente mi mischiai alla folla per evitare di incontrarla. Trovai la strada bloccata da una donna alta con un abito di lino e le labbra dipinte di rosso. «Sono certa che l'indiano doveva essere un perfetto deficiente,» stava raccontando «corse fuori in strada per inseguire una capra. Te lo immagini? Nel mezzo di un rally internazionale! Il povero George - mio marito - non ha potuto in nessun modo frenare.» Cercai di intercettare il cameriere che passava con un vassoio di aperitivi. «Naturalmente è stato ucciso» disse. Mi fermai nell'atto di prendere un bicchiere. «Ucciso? Suo marito?» «No, no. Il tizio con la capra. George andava a novanta all'ora. È stato spaventoso. Altrimenti George si sarebbe piazzato bene.» Forse aveva notato la mia espressione, perché si allontanò con una smorfia di disgusto. Presi il mio bicchiere di vino e cercai di trovare un posticino discreto su un lato del grande camino, sperando di passare inosservato. «Lei ha ragione, Michael» senza che me ne accorgessi la madre di Caitlin mi si era avvicinata. «I pazzi hanno assunto la direzione del manicomio.»
Penso che avesse seguito lo scambio di battute. Il suo viso pallido era impassibile, come se il sorriso che aveva sulle labbra fosse dipinto, mentre rispondeva ai saluti degli ospiti con un cenno del capo. «Sono Margot Dacre, come avrà immaginato.» «Mi spiace che non siamo stati presentati come si deve, signora Dacre.» Le tesi la mano, ma lei la ignorò. Forse non era il modo corretto di scambiare i saluti con i membri della grande magione. O forse non la vide neppure. Aveva la compostezza di uno spadaccino e usava la sua prontezza come una spada tesa davanti a sé, ma non riuscì a ingannarmi del tutto. Vedevo in lei certi tratti di Caitlin; non tanto nella sua difesa agguerrita, quanto in ciò che difendeva: la sua vulnerabilità. «Mi sento un pesce fuor d'acqua.» «Sciocchezze. In poco tempo lei ha fatto molta strada. Mio marito la detesta già.» «Le ha detto la ragione?» «Oh, non ha bisogno di avere una ragione, Michael. Niente di personale. Lei è in buona compagnia. Edward detesta chiunque osi avvicinarsi a Caitlin.» Bevvi un sorso di vino. «Immagino.» «La verità è che a lui in genere non piace la gente. Punto e basta.» Posai il bicchiere sulla mensola del camino. «Devo dire che non me ne importa un bel niente di chi gli piace o non gli piace.» «Oh» esclamò con un sorriso compiaciuto. «Immagino che lei parli per rabbia.» Non mi ero reso conto di aver perso le staffe, sino a quel momento. «E se devo essere sincero, non me ne importa assolutamente niente di ciò che pensano i suoi ospiti.» «E naturalmente di quello che penso io.» Mi osservò al di sopra del suo bicchiere. Avevo l'impressione che mi studiasse, ma con distacco, come se fossi un esemplare raro. «Mi chiedo se lei sia veramente diverso dagli altri.» Stavo ancora pensando a come risponderle, quando Edward Dacre passò solennemente sotto l'arco che immetteva nella sala, qualche metro alle spalle della moglie. Si fermò, impettito, con le gambe leggermente divaricate e le mani dietro la schiena, per esaminare gli ospiti che affollavano il suo sontuoso salone. Nonostante il divorante risentimento che provavo nei suoi confronti, fui colpito dalla forza che emanava.
D'un tratto vidi Caitlin che si dava da fare attorno a lui, cercando di intercettare il suo sguardo. Aveva i capelli in disordine e indossava ancora i jeans e il maglione che aveva durante il viaggio. Dedussi subito che qualcosa non andava. «Devi averli nascosti da qualche parte» supplicava suo padre con la voce impaurita. «Per favore, dimmi dove li hai messi.» Edward Dacre alzò il mento con uno scatto, allontanandosi da lei. I suoi occhi duri scintillavano. «Non ti sei ancora cambiata, Caitlin?» chiese come se l'avesse notata solo allora. «Potresti almeno cercare di avere un aspetto presentabile.» Un paio degli ospiti più vicini se la svignarono discretamente, sentendo aria di burrasca, ma il brusio che riempiva la grande sala continuò indisturbato. La chiamai. Si voltò, bianca in volto, cercandomi in mezzo alla folla. «I miei disegni» disse desolata. «Li ha bruciati tutti. Tutti.» «Cosa?» «E perché no?» chiese suo padre, parlando al soffitto. A un tratto il frastuono del salone si era affievolito. «È chiaro che avevi altri progetti in mente. È chiaro che avevi deciso di non ritornare qui.» Margot Dacre era rimasta di fronte a me, mentre la scenetta si svolgeva alle sue spalle. Si irrigidì, perdendo la sua compostezza da spadaccino. «Ho cercato di fermarlo» disse. La voce si era trasformata in un soffio e gli occhi erano vuoti. Non avrei saputo dire se stesse parlando con me. «L'ho supplicato. Ma non è stato bene recentemente, capisce?» Prendendola per i gomiti la spostai su un lato, come se fosse un oggetto. Pareva che non avesse peso. Mi avvicinai a Caitlin, tenendo la testa china, perché non mi fidavo di me stesso. Non volevo incontrare gli occhi dardeggianti del padre. «Mi spiace, Cate» le dissi. «Ma adesso basta.» Mi guardò desolata, senza capire. Le passai davanti dirigendomi verso l'atrio dalle luci soffuse, salii le scale due gradini alla volta. Lasciai la porta della camera aperta alle mie spalle, buttai la borsa sul letto e misi dentro alla rinfusa i miei vestiti, il libro, le cose da bagno e chiusi la cerniera tirando con furia. Sentii i suoi passi sulle scale e sul pianerottolo. Quando mi voltai Caitlin, con il fiato corto, era sulla soglia, le mani appoggiate alla cornice, come per bloccare l'uscita. Aveva il viso pallido e i capelli biondi scarmigliati.
«Non puoi andartene.» «Davvero quel vecchio bastardo ha bruciato i tuoi bei disegni?» Il suo volto si contrasse. «Ha cominciato dal tuo ritratto. Poi tutto il resto. Libri, album di schizzi. Tutti. Tutto quanto ho disegnato da quando ero una bambina.» «Sai perché?» «Per punirmi, naturalmente. Per ferirmi.» «Non solo te. Per ferirci tutti e due. Un sistema che funziona, a quanto pare.» Tirai giù la borsa dal letto. «Ti prego, non andare.» «Vieni con me.» «Non posso.» «E io non posso stare qui a vedere quello che ti succede.» «Pensi che sia una cosa semplice?» disse venendo verso di me. La presi tra le braccia, la strinsi forte, poi la allontanai. «Ti prego, vieni via con me.» Ma lei non si mosse. Presi la borsa e scesi di corsa i gradini. In fondo mi fermai qualche attimo nella fresca oscurità della tromba delle scale. Aleggiava un profumo di giacinti e di cera d'api. Nel salone la festa si stava scaldando, gli uomini gironzolavano come una colonia di trichechi, le donne lanciavano gridolini di piacere nell'incontrare un'amica che non vedevano da un paio di giorni, i bicchieri tintinnavano. In fondo al corridoio raggiunsi la porta che dava sul retro, feci scorrere i due catenacci che la chiudevano e scivolai fuori nel buio della notte estiva popolata di falene. L'aria mi rinfrescò il viso. Avevo già raggiunto la macchina quando sentii i suoi passi affrettati che affondavano nella ghiaia. Si sedette in macchina accanto a me senza una parola. Feci retromarcia e percorsi a tutta velocità il lungo viale, temendo che cambiasse idea. «Puoi ricominciare, Cate» dissi. «Puoi disegnare cose nuove, un mondo interamente nuovo.» Guardava fuori dal finestrino, nell'oscurità della notte. «Non disegnerò più nulla. Mai più.» 11 Era bello indossare nuovamente giacca e cravatta. L'ultima volta che mi ero vestito in modo formale risaliva a prima del Venezuela. Mi piaceva
camminare per le strade malinconiche del mattino nell'ora di punta con la mia cartella a fianco, facendomi largo tra la folla sui gradini della metropolitana. Godevo del ritorno alla normalità. Percorsi il viale d'ingresso dell'ospedale passando davanti a un paio di paramedici in camice verde che fumavano appoggiati all'ambulanza parcheggiata, ed entrai nel pronto soccorso. Dopo tanti anni l'ospedale mi comunicava ancora un senso di eccitazione: le infermiere indaffarate, gli odori penetranti dei medicinali, il trambusto, il rumore di fondo delle corsie. Un'ambulanza aspettava di partire, un'altra si era appena fermata nel cortile, con le luci blu ancora lampeggianti sul tettuccio. Mi superò una barella che trasportava un ragazzo. Sulla coperta, tra i suoi piedi, c'era un casco da motociclista. Un gruppo di infermiere e di paramedici del reparto di traumatologia si davano da fare attorno a lui, lo chiamavano per nome: «Paul! Paul? Mi senti, Paul? Andrà tutto bene, Paul. Tranquillo, ora ti dò qualcosa che ti aiuterà, Paul». Riconobbi alcune delle infermiere e dei paramedici, ma erano troppo indaffarati per accorgersi della mia presenza. Vernon Choudhury - un assistente con cui a volte giocavo a volano - era vicino all'ambulanza e parlava a una donna che piangeva. Non mi vide passare. Simon Taldeitali, un tecnico che avevo conosciuto in radiologia, mi superò di corsa portando un diafanoscopio. Mi vide, ma era troppo esterrefatto per parlare. Quando gli passai davanti si fermò guardandomi a bocca aperta. Mentre spingevo le porte a vento delle scale lui era ancora nella stessa posa e così rimase finché un'infermiera non si scontrò con lui e gli disse in malo modo di togliersi di torno. L'espressione di Simon mi fece sorridere. Salii di corsa le scale e percorsi i lucidi corridoi che portavano al reparto di ortopedia, passando nell'edificio di epoca vittoriana con le pareti color crema e le porte di legno scuro. Negli uffici l'attività era frenetica. Trilli di telefoni e di cicalini, cassetti dei casellari che stridevano sulle guide metalliche. Sulle scrivanie gli schermi dei computer baluginavano di luci blu. Nei corridoi c'era odore di disinfettante. Nel mio ufficio mi tolsi il cappotto bagnato, lo appesi dietro la porta, mi sedetti alla scrivania e accesi il computer. Erano settimane che non mettevo piede in quella stanza. La scrivania era stata pulita e lucidata e il vassoio della corrispondenza era vuoto. Ma c'era dell'altro. Mi ci volle qualche minuto per capire, ma alla fine mi resi conto che mancavano le mie fotografie; le due di Caitlin che tenevo sulla scrivania e quella più grande che
ci ritraeva insieme che avevo appeso alla parete di destra. Non riuscivo a spiegarmi quella sparizione. Tirai il cassetto della scrivania, pensando che le fotografie potessero essere lì, ma era chiuso a chiave. Io non chiudevo mai a chiave i cassetti della scrivania. La porta si spalancò e apparve Meredith Wren. Era la mia grossa e nerboruta segretaria. In quel momento indossava un golf rosso e giallo e aveva un'aria bellicosa. Era evidente che non si aspettava di trovarmi in ufficio, ma esitò giusto il tempo necessario per riaprire con un calcio la porta che si stava richiudendo. «Avanti,» mi aggredì «che cosa ti aspetti che ti dica? Lo sai che con le tragedie mi sento spiazzata.» Lasciai la scrivania e abbracciai la sua mole calda e lanosa. Mi batté la sua grossa mano sulla schiena, con imbarazzo. «Bene» disse infine. «Bene, Michael.» Fece un passo indietro, si schiarì la gola rumorosamente, alzò gli occhi al soffitto, poi li diresse su di me. «E adesso dimmi che cosa pensi di fare qui.» «Meredith, io qui ci lavoro.» Tirai di nuovo il cassetto. «Hai idea di dove siano finite le mie fotografie?» Chiuse la porta dietro di sé. «Michael, guardami. Piantala di trafficare con questa maledetta scrivania e guardami.» Ubbidii. Quando Meredith dava un ordine non era facile ignorarlo. Per tutto il dipartimento era Meredith che ricopriva il ruolo di consigliere del personale, di supervisore dei giardinieri e di organizzatore delle feste di pensionamento. Era Meredith che sbraitava quando le pulizie non erano fatte come si deve, era Meredith che correva a disseppellire documenti nei labirinti del National Health Service dopo che intere squadre di scrupolosi ricercatori non erano riusciti a trovarli, era Meredith che dava da mangiare ai pesci dell'acquario nella mensa dei medici. In poche parole, Meridith dirigeva il dipartimento. «Che c'è?» chiesi. «Adesso devi ascoltarmi, Michael. Ti faccio una tazza di tè. Secondo me è la prima cosa da fare, no? Tu te ne stai seduto lì e la bevi.» «Non credo di averne il tempo, Meredith. C'è la riunione di traumatologia.» «Se io ti faccio il tè tu sei tenuto a berlo. Anzi lo beviamo tutti e due. Poi ti chiamo un taxi. E tu te ne torni a casa.» Scoppiai a ridere. «Grazie, ma non ho nessuna intenzione di tornare a casa.»
Meredith mi guardò con durezza, come se il mio tono l'avesse offesa, invece disse: «Tra un minuto torno con il tè. Non muoverti». E s'avviò con passo marziale giù per il corridoio. Com'era ovvio, non mi passava neanche per l'anticamera del cervello di aspettare Meredith, mentre stava per iniziare la riunione di traumatologia. Controllai l'orologio. Erano appena passate le otto, il che significava che la riunione probabilmente era già in corso. Uscii e chiusi la porta del mio ufficio. Evidentemente Ray Moore era stato il traumatologo di turno il giorno precedente, perché quando arrivai alla riunione era già davanti al diafanoscopio e stava staccando una serie di radiografie per sostituirle con una nuova serie. Era concentrato sul suo lavoro e scrutava le immagini attraverso le sue lenti spesse, ma allo stesso tempo non risparmiava i suoi commenti sarcastici. Tutte le quindici persone presenti avevano focalizzato l'attenzione su di lui, per cui nessuno si accorse di me quando entrai mettendomi in fondo alla stanza. Solo un assistente asiatico mi sorrise scostandosi per farmi posto. Ray, volgendo le spalle ai suoi ascoltatori, picchiettò con un dito la radiografia che stava nel mezzo dello schermo. «Questo è il secondo caso della giornata. Si tratta del giovane Jason Pratt. Nessun commento, prego. Ventidue anni. Ha trascorso la serata a bere birra. Poi, nel goffo tentativo di fare colpo su un'esponente del gentil sesso, con la sua vistosa Toyota verde limone, ha imboccato a tutta velocità e contromano Gower Street, dove ha ingaggiato una gara con un cassonetto della spazzatura, vincendo il secondo premio. Sono felice di poter dire che la passeggera è uscita indenne dall'incidente e contemporaneamente anche dalla vita di Jason Pratt.» Ci fu qualche commento divertito. Mi guardai attorno. Conoscevo tutti i presenti, alcuni molto bene. Era strano osservarli a loro insaputa. John Donohue e Fred Tanaka occupavano l'ufficio accanto al mio. Dee Orville del reparto di fisioterapia. Alcuni operatori tecnici ausiliari e qualche assistente, i cui nomi mi balzarono automaticamente alla mente: Don, Maggie, Patti, Jonathan. L'anestesista nigeriano, Sam Okigbo e in fondo vicino alla finestra la timida Carrie Iverson, la ferrista di sala operatoria. Due file davanti a me, la criniera rossa di Stella, china sul suo quaderno di appunti. Era così vicina che in un primo momento non l'avevo notata. «Il giovane Pratt,» continuò Ray con lugubre enfasi «ha dimostrato di essere capace di prestazioni insospettabili. Come vedete è riuscito a procu-
rarsi una frattura non esposta medio-diafisaria del femore destro.» Alzò lo sguardo sul proprio uditorio. Quando mi vide i suoi occhi si dilatarono dietro le lenti spesse. «Michael!» A quell'esclamazione seguì un istantaneo silenzio. Tutti quanti si voltarono verso di me, guardandomi come se fossi un alieno. «Buongiorno a tutti» dissi. Nessuno rispose al mio saluto. Nella stanza si alzò un mormorio allarmato. Si sentì il segnale intermittente di un cicalino cui nessuno rispose. «Michael, siamo tutti così tremendamente...» disse Ray Moore. Il cicalino riprese a squittire. «Perché nessuno risponde?» chiesi. Stella fu la prima a riprendersi. Scivolò tra due assistenti, mi prese per un braccio e mi fece fare dietro front. «Michael, fuori. Subito.» «Perché?» «Fuori.» Qualcuno aprì la porta e Stella mi spinse nel corridoio. «Stella, per favore, non incominciare con la litania del "cosa ci fai qui". Ho appena finito di vedermela con Meredith.» Spinse indietro i capelli. «Michael. Non ho tempo adesso di discutere di questa faccenda.» «Non dobbiamo discutere di niente.» «Lascia perdere. In questo momento tu non riesci a ragionare in modo lucido.» «Ho bisogno di lavorare, Stella. Sono un chirurgo e ho bisogno di lavorare. Tutti abbiamo bisogno di fare il nostro lavoro.» «Ritorna in te, Michael. Pensi che ti lasceranno avvicinare a una sala operatoria? Questa settimana? Sei in stato di shock.» «Perché non lasci a me decidere in che stato sono?» «Non credo che ne saresti in grado.» «Io, personalmente, non saprei farlo» disse il professor Curtiz. Né io né Stella l'avevamo sentito avvicinarsi, ma era accanto a me nel suo abito grigio chiaro, impeccabile, con un sorriso cordiale sulle labbra. Curtiz, il chirurgo più anziano e capo del reparto di ortopedia, era un ometto sulla sessantina, estremamente curato. Il suo viso, incorniciato da una bella chioma di capelli d'argento, esibiva per dodici mesi all'anno un'abbronzatura da sciatore. La porta della sala riunioni si aprì e apparve Ray Moore. Ci guardò a
turno senza alcuna voglia di fare dello spirito. Sentivo il brusio nella stanza alle sue spalle. Annaspò con le mani dietro la schiena alla ricerca della maniglia per tenere la porta chiusa. «Oddio, Michael. Volevo solo dire... cioè, noi tutti...» non riusciva a concludere la frase. Ci riprovò: «Non ci aspettavamo che tornassi così presto». Rivolse uno sguardo supplichevole a Curtiz, come per chiedere soccorso. «Michael, penso che dobbiamo fare quattro chiacchiere, non credi?» intervenne Curtiz e mi afferrò per un gomito. «Nel mio ufficio?» Mi condusse via, guidandomi su per il corridoio. Vidi il sollievo dipingersi sul volto di Ray Moore e un attimo dopo lo sentii rientrare nella sala riunioni. Dietro di me sentii la voce di Stella: «Stavo giusto accompagnando Michael a casa...». «Non credo che abbia bisogno di essere accompagnato a casa,» disse Curtiz voltandosi verso Stella «e credo che tu abbia da fare.» Stella aprì la bocca, ma non disse niente. Senza voltarsi Curtiz disse: «Non eri qui per fare un tè, Meredith, o mi sono sbagliato?». Non aspettò la risposta. Curtiz aveva un ufficio da patrizio, fresco, luminoso e con il soffitto molto alto. Profumava di fiori recisi e del suo discreto dopobarba. Sulle pareti c'erano stampe di quadri astratti, Chagall e Picasso. Le gigantesche finestre si innalzavano come colonne di luce. Accanto a un'enorme scrivania, c'era un fratino sul quale era posato un computer a schermo piatto. Curtiz mi indicò il divano tra due finestre e si sedette su una poltrona di fronte a me. Posò le sue belle mani sottili sulle ginocchia. «Nella mia lunga esperienza, Michael, ho imparato come rendere più accettabile un lutto improvviso, soprattutto in circostanze particolarmente tragiche. Sai che qui tutti ti sono vicini. Immagino che questo ti sia di aiuto.» «Non lo nego. Ma non è per questo che sono qui.» «No. Sei qui perché tu... hai bisogno di lavorare.» Mi guardò chinando la testa di lato. «Credo sia questa la frase che hai usato.» «Sì.» «Non basta» disse raddrizzando la testa. Pensai di non aver afferrato. «Scusi?» «La medicina non ha niente a che vedere con i tuoi bisogni, Michael.» La sua voce era perfettamente calma. Non commentai e lui mosse il mento
impercettibilmente da un lato. «Devo essere più esplicito? In questo momento dovrei essere in sala operatoria. E sarei al mio posto se Meredith non mi avesse chiamato.» Guardò il suo costoso orologio. Splendeva come un dollaro d'argento nuovo sullo sfondo scuro del suo polso. «In questo momento c'è una giovane donna giù in sala operatoria che sta aspettando, perché io ora sono qui con te. Mi sono spiegato?» «Non c'era bisogno di tutto questo» dissi con gli occhi bassi. «Io mi sento bene. Sto benissimo.» Vidi Curtiz stringere le labbra. «Non posso immaginare che cosa stai passando, Michael. Ma comunque ti senta, certo non ti senti bene. Non stai... benissimo.» Bussarono alla porta e Curtiz disse: «Avanti!». Meredith entrò ansimando e posò due tazze di tè color mogano sul tavolino tra me e Curtiz. Vedevo che la donna mi osservava, ma per evitare il suo sguardo guardai fuori dalla finestra. Qualche gabbiano si librava in alto nel cielo invernale simile a seta bagnata. «Non lasciate dentro il cucchiaino,» disse Meredith «potrebbe fondere.» Sembrava riluttante ad andarsene, forse non voleva lasciarmi solo. Curtiz le sorrise e aspettò che uscisse dallo studio. Quando non trovò nessun altro pretesto per indugiare, attraversò la stanza calpestando come un ippopotamo il tappeto antico azzurro e oro. «Voglio lavorare. Voglio rendermi utile.» «Tu vuoi anestetizzarti, Michael. Non posso darti torto, ma voglio impedirlo.» «Mi lasci...» «No.» Prese la sua tazza e bevve qualche sorso. Guardai la sua tazza in silenzio. «Vuoi il mio consiglio, Michael?» Posò il tè sul tavolino e si lisciò la giacca con un gesto elegante da gatto. «Stai lontano da qui. Intontisciti con tutte le pillole che Dio ha creato. Ti farò avere qualcosa. Dormi per una settimana. Due settimane. Non star solo, se non lo stretto necessario. Se vuoi faccio in modo che Stella Cowan abbia un permesso.» «Non è di questo che ho bisogno.» «Non costringermi a mandarti in congedo obbligatorio.» Chiusi gli occhi. «Lei deve darmi qualcosa in cui sperare.» Sentivo nella mia voce un tono supplichevole che mi infastidiva, ma che mi era impossibile evitare. Curtiz si alzò e venne a mettersi accanto a me. Per alcuni secondi mi
guardò in silenzio. Alla fine appoggiò la sua bella mano sulla mia spalla. «Michael, chiamami tra due settimane. Non ti faccio nessuna promessa, ma se ti senti sempre come adesso vedremo cosa si può fare.» «Per favore. Una settimana sola.» Sospirò. «Molto bene. Ora torna a casa. Torna a casa.» 12 Camminai per tutta la giornata. Finché fui di nuovo in grado di pensare con lucidità. Finché il risentimento e la rabbia si affievolirono. Attraversai il West End, poi dirigendomi verso est raggiunsi St Paul's, attraversai il Tamigi dalle grigie acque scintillanti, percorsi un grande anello sulla riva meridionale: London Bridge, Southwark, Elephant and Castle, Clapham e ritornai verso il fiume. Camminavo a caso, come un cieco, spintonando la gente. Per tutta la giornata sentii ruggire intorno a me l'immenso congegno della città, una fitta rete di strade scivolose, di semafori, di automobili, di persone, di abbaglianti luci gialle, come il circuito stampato di un immenso computer. La sua forza bruta soffocava l'energia oscura che portavo dentro di me, la soffocava in modo così totale che, quando notai che la giornata invernale stava per concludersi, mi calmai. Riattraversai il fiume a Waterloo e mi fermai fuori dalla stazione della metropolitana di Embankment. Provavo la strana sensazione di chi si è appena svegliato, e non avrei saputo dire come fossi arrivato sin lì. Le strade quasi buie stavano per essere invase dalla folla dell'ora di punta serale che si riversava nelle viscere della stazione della metropolitana. Mi lasciai trascinare dal flusso. Erano le sei quando rientrai. La casa era fredda e buia. Sul pavimento dell'ingresso c'era della posta. Cartoline, lettere, buste con l'indirizzo scritto a mano. Le misi su uno scaffale senza aprirle, su una pila di altra corrispondenza non letta, che aumentava di giorno in giorno. Prima o poi avrei dovuto affrontare anche questo. Ma non subito, non ora. Accesi le luci e alzai il riscaldamento. Andai di sopra, gettai in un angolo il vestito inzuppato di pioggia e mi cambiai. Quando scesi vidi che sul tavolo della sala da pranzo c'era un pacco. Un biglietto di Stella e qualcosa avvolto in un foglio d'alluminio, cibo, probabilmente. Non avevo il minimo interesse per il cibo. Aprii la busta da cui scivolò sul tavolo una confezione di pillole. Il biglietto diceva: «Chiamami. Fammi sapere se stai bene. Il Diazepam è un regalo del "Re d'Argento". Gli ho
promesso che te le avrei portate. Michael, fatti sentire». La chiamai. «Sto bene, Stella.» «Sono contenta.» Sentivo dalla voce che era sollevata. Fece una pausa. «Non penso che dovresti stare in quella casa.» «Sembra che tutti sappiano dove dovrei stare e che cosa dovrei fare.» Non disse niente. «Scusami.» «Mangia qualcosa, Michael. Mangia qualcosa, prendi un paio di Diazepam e cerca di dormire. Faccio un salto da te domani.» «Non è necessario.» «Non lo faccio per te» disse con durezza. Poi si ammorbidi. «Mangia qualcosa, Michael. Promettimelo.» «Va bene. Lo prometto.» La salutai e riappesi. Portai l'involucro di carta stagnola in cucina e senza aprirlo lo buttai nella spazzatura. Giocherellai per qualche minuto con la confezione di pillole, poi anche quelle fecero la stessa fine. Andai nello studio e mi versai una generosa dose di scotch. Faceva freddo e mi diedi da fare per accendere il fuoco nel camino. Misi un disco di Mozart e mentre le fiamme lambivano i mattoni della canna fumaria mi sedetti in una delle poltrone di pelle ai lati del camino e rimasi a osservare le lingue di fuoco e le ombre ingigantite che gettavano sulle pareti. Feci ruotare il bicchiere tra le mani, in attesa che il silenzio restituisse un po' di lucidità alla mia mente e che nel mio corpo ritornasse un briciolo d'energia. Mi ricordai della foto di Caitlin sulla scrivania. Alzai gli occhi e la vidi nel cerchio di luce dorata della lampada, che mi guardava dall'estremità della stanza. Non mi sembrava di aver fatto molta strada dalla sera precedente, quando mi ero seduto lì a osservarla. Alzai il bicchiere nella direzione della fotografia. Appoggiai la testa allo schienale della poltrona e chiusi gli occhi. Qualcuno picchiò due volte il grosso batacchio di ottone sulla porta d'ingresso. Ritornai al presente. Perlustrai lo studio facendo scorrere lo sguardo dal ritratto di Caitlin, alle finestre battute dalla pioggia, cercando di riprendermi. I colpi alla porta venivano da lontano, tanto inaspettati che per un momento fui certo di averli solo immaginati. Ma c'era qualcosa di assurdo: l'eco ancora rimbalzava per la casa. Altri due colpi secchi.
Mi alzai. Posai la foto di Caitlin a faccia in giù sulla scrivania. Attraversai la cucina e la sala da pranzo per raggiungere l'ingresso. Accesi la luce e aprii la porta di scatto. Una giovane donna, snella, bruna, era addossata allo stipite della porta. Indossava un impermeabile scuro zuppo di pioggia. Le ciocche dei lunghi capelli neri si erano incollate al viso. Cercava di nascondere il tremito che la scuoteva. Teneva il capo alto con aria di sfida, come se stesse preparandosi ad affrontarmi. «Lei è Michael Severin» dichiarò, come se io potessi negarlo. Aveva un forte accento del nord, forse dello Yorkshire. «Lei è il dottor Michael Severin.» La osservai con maggior attenzione. Era sorprendentemente bella, con il viso lungo e il naso dritto. «Devo parlarle, dottor Severin.» Il tono di voce era fermo, determinato. «È importante.» «Mi spiace. Non la conosco.» Mi guardò dritto negli occhi. «Dobbiamo parlare.» «Temo di non essere in grado di fare conversazione in questo momento.» Richiusi la porta, ma lei la bloccò con un piede continuando a fissarmi negli occhi. Non sapevo come affrontare la situazione e non avevo la più pallida idea di che cosa fare. Fuori era buio pesto e il vento gettava folate di pioggia contro la schiena della donna e nell'entrata. «Se non mi lascia entrare, dottore,» disse con voce tranquilla «si inzupperà come mi sono inzuppata io.» Quando vide che non mi muovevo aggiunse. «Tra poco le vomiterò sulla soglia.» Quasi senza rendermene conto retrocessi di un passo e la feci entrare. Quando mi voltai di nuovo la vidi di spalle, appoggiata alla ringhiera ai piedi della scala, che respirava a fatica. «Si sente male?» «Sono ore che cammino.» Sembrava innervosita dalla mia domanda o forse dalla propria debolezza. Camminare. Sentivo ancora sotto i piedi la durezza dell'asfalto, e le gocce di pioggia che battevano come aghi contro il mio viso. «Farebbe bene a mettersi seduta.» Mi avvicinai e standole alle spalle aggiunsi: «In quella stanza». La spostai dalla ringhiera e le sue ginocchia cedettero. La afferrai per la vita. Era leggera. Il capo le ricadde sulla mia spalla e sentii odore di piog-
gia nei suoi capelli e sulla sua pelle. Mi indispettiva averlo notato. Non avrei dovuto. La stesi sul pavimento ai piedi della scala e i suoi capelli neri si sparpagliarono sul parquet, come la chioma spessa di un'annegata sul ponte di una nave. La girai sul fianco sinistro e meccanicamente le controllai la respirazione e il polso. Il polso era leggermente accelerato. I suoi abiti erano fradici e al tatto il suo viso sembrava di marmo. Le liberai la fronte dai capelli. Sulla tempia destra aveva una piccola cicatrice a forma di stella e quando mi resi conto che la stavo toccando con la punta di un dito, ritrassi subito la mano. Era evidente che cosa avrei dovuto fare: avvolgerla in una coperta e chiamare un'ambulanza. Mi sembrava sconveniente rimanere a osservare quella sconosciuta che giaceva sul pavimento priva di sensi, ma qualcosa mi impedì di muovermi. Forse perché la gonna sollevata e le gambe piegate in un angolo innaturale la facevano sembrare vulnerabile, vulnerabile come il corpo di Caitlin. Non riuscivo a togliermi dalla testa che i suoi capelli profumavano di pioggia. Emise un piccolo suono gutturale e sbatté le palpebre. Quando riprese i sensi il suo sguardo si posò su di me. Deglutì e cercò di sollevarsi appoggiandosi a un gomito. «Non si muova» le ordinai. Mi ignorò e con uno sforzo si mise a sedere. Quando mi avvicinai per aiutarla, allontanò la mia mano. «Sto bene.» Era visibilmente in collera con se stessa. «Non ho mangiato, tutto qua.» Le controllai ancora le pulsazioni. Si erano stabilizzate. «Si sieda sul gradino, metta la testa tra le ginocchia e respiri profondamente per un paio di minuti.» Fece una smorfia. «Sì, dottore.» Dopo un attimo si sedette sul primo gradino della scala. Si sistemò con un gesto impaziente la gonna che si era alzata sino alle cosce, dicendo: «Si è lustrato la vista?». «Credo che il suo sarcasmo sia fuori luogo.» Scosse il capo e cambiò atteggiamento. «Non mi capita spesso una cosa del genere.» «Chi è?» Non era nelle mie intenzioni essere brusco, ma ero nervoso e non completamente padrone di me stesso. Alzò il viso e mi guardò. Stava riprendendo colore. Non avrei saputo darle un'età. Forse trent'anni, o forse meno. Ma c'era in lei una sorta di du-
rezza che le conferiva una certa gravità. «Mi chiamo Angie» disse. «Angie e poi?» «Angie Carrick.» Mi diede questa informazione con serietà, come per verificare se produceva in me una qualche reazione. «Ha qualcosa da dirmi?» Distolse lo sguardo. «Conoscevo Caitlin.» Rimasi senza fiato. «Era una sua amica? Non mi ricordo di lei, mi spiace.» «Quello che è capitato è una cosa orribile» disse, come se avesse ignorato il mio commento. «Dovevo venire. Dovevo venire a parlare con lei.» «Non vedo molta gente in questo periodo.» «Lo capisco.» Si alzò con precauzione appoggiandosi al muro con una mano. «Forse ho sbagliato. Ma dovevo venire in ogni caso». Raddrizzò la schiena. Stava visibilmente riacquistando le forze. Fece un profondo respiro. «Siamo tutti addolorati. Lo capisce? Tutti quelli che la conoscevano lo sono. Lei. Io. Tutti.» Mi parlava come se per me fosse ovvio che lei partecipasse al mio dolore. Ma per me non lo era. Anzi, la sola idea mi disturbava. «Lei è bagnata fradicia» dissi infine. «Sono venuta a piedi dalla stazione degli autobus. Victoria.» «Viene da fuori città?» «Dal nord» disse a voce bassa. «Forse l'ha già indovinato.» Era chiaro che non voleva dare ulteriori dettagli. Non ne capivo la ragione, ma non vedevo il senso di continuare quella conversazione. «C'è un bagno nel sottoscala» dissi, facendo cenno alla porta. «Ci sono asciugamani e tutto il resto. Non chiuda a chiave la porta.» «Non si aspetti un nuovo attacco isterico, dottore» disse, facendosi gioco della mia cautela. «In tal caso...» Mi guardò con curiosità. I suoi occhi erano molto scuri. La gente li definisce neri, neri come il carbone. Lei continuava a fissarmi. «Torno tra un minuto» disse, come se fosse lei a preoccuparsi per me e non viceversa. Quando sentii chiudere la porta del bagno raccolsi il cappotto bagnato e le scarpe e li portai nello studio. Forse fu la luce bassa della stanza a suggerirmi il pensiero che avrei potuto nascondermi, per riprendermi. Mi girava la testa. Sistemai le sue cose su una sedia, appoggiai le mani sulla scrivania, ai lati del ritratto di Caitlin che era rimasto a faccia in giù, e a-
spettai di ritrovare l'equilibrio. Non sapevo quanto tempo avrei impiegato. Cinque minuti, forse. Magari dieci. Sentivo la donna che si muoveva in bagno. Guardai la sedia su cui ero seduto poco prima. Sul tavolino c'era il mio bicchiere ancora pieno per tre quarti. Mentre lo prendevo in mano sentii lo sciacquone del water. La porta del bagno si aprì e un attimo dopo Angie era sulla soglia dello studio. Vidi che indossava solo un top nero di stoffa leggera e una gonna nera con ghirlande di fiori di ibisco rossi. Tremava e per riscaldarsi strofinava con un asciugamano le braccia nude. Si era tolta completamente il trucco e nel suo viso pulito gli occhi sembravano ancora più neri. Dopo un attimo andò a sedersi sulla mia poltrona, appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. «Dio, adesso sì che va meglio. Lei sa come ci si sente, quando la stanchezza diventa una malattia? Be', dovrebbe saperlo essendo medico.» Aprì gli occhi, scosse il capo. Sollevò la massa di capelli neri e li lasciò ricadere fra le dita. Alcune goccioline andarono a colpire la lampada. Con un sospiro indicò il bicchiere che tenevo in mano. «È scotch, vero?» chiese con la sua voce profonda. Le versai uno scotch. Portò il bicchiere alle labbra tenendolo con entrambe le mani e bevve qualche sorso con aria beata. «Ci voleva. Ci voleva davvero.» Posò il bicchiere sul tavolino e mi guardò. «Voglio ringraziarla per avermi permesso di entrare, dottor Severin» disse con una certa formalità. «Non sono sicura che trovandomi al suo posto avrei fatto altrettanto.» «Non mi ha lasciato molta scelta.» «C'è sempre una scelta,» disse e dopo un attimo aggiunse, come se cercasse di ricordare il mio nome «Michael.» Fece scorrere lo sguardo sulle pareti ricoperte di libri dello studio, poi attraverso la porta aperta, quindi nella sala da pranzo con i mobili in legno chiaro e le pareti blu. «È una bella casa, molto bella. Non sono mai entrata in una casa così.» Forse colse dell'incredulità nella mia espressione. «Pensa che stia scherzando?» «No, io...» «Perché non sto scherzando.» Scosse ancora i capelli. «E la musica è deliziosa.» «È Mozart.» Mi guardò in modo strano. «Musica così non si scrive più oggi. Come si chiama?»
«È il Concerto per Clarinetto.» «C'erano già i clarinetti allora? Non lo sapevo. Ma forse mi sto confondendo con il sassofono.» Non potevo credere che parlasse sul serio. Angie si alzò di scatto e si avvicinò alla parete coperta di fotografie e di diplomi incorniciati. Si fermò davanti a una foto che mi ritraeva con un team di Medici Senza Frontiere in un campo di prima accoglienza in Sierra Leone, circondato da una folla di rifugiati africani. Mi era sempre piaciuta quella fotografia che occupava il posto d'onore sulla parete. Eravamo tutti così entusiasti del nostro lavoro. La nostra piccola tenda era come una chiatta nel mare in burrasca, mentre gli africani che ci circondavano erano i sopravvissuti a un naufragio. «Questo è lei, vero?» disse indicando sul vetro della fotografia. «Il giornale diceva che lei faceva questo tipo di lavoro. Una volta credo di averla vista alla televisione. È possibile?» «Possibile.» «È un lavoro romantico, il suo.» «Romantico?» «Poter aiutare gli altri.» Mi guardò con franchezza. «Anche se immagino che alla fin fine il vostro lavoro non serva a granché, vero?» «No, non serve a granché.» Stava esaminando la foto da vicino. «Chi è questa donna? La rossa?» «Si chiama Stella Cowan. Lavoriamo spesso assieme. È un'infermiera.» Esitai perplesso. «Perché?» «Niente, non sono affari miei, comunque.» Si mise le mani sui fianchi e tornò a osservare la stanza. «Vivere qui. Ma come è potuto succedere in un posto come questo?» Pensai che stava esagerando e decisi che era giunto il momento di tagliare corto. «Come ha conosciuto Caitlin?» le chiesi. «Dove vi siete incontrate?» Non rispose subito. Prese il bicchiere, lo fece roteare tra le mani e fissò lo scotch. «Non la conoscevo bene. Qualche volta abbiamo lavorato insieme.» Non riuscivo a immaginarmi in quale contesto quella donna avesse potuto lavorare con Caitlin. Erano agli antipodi. «Alla Tate?» suggerii. «O in una delle altre gallerie?» «Cosa?» «Il posto dove ha incontrato Caitlin.» «Sì, alla galleria. Proprio così.»
«E viene spesso a Londra per lavoro?» La sua bocca era diventata una linea sottile. «Cos'è? Un interrogatorio di terzo grado?» Si allontanò da me e si avvicinò alla scrivania. Pensavo che fosse andata a posare il bicchiere o a prendere qualcosa dalla borsa, ma quando guardai vidi che stava osservando il ritratto di Caitlin. «Oh, è lei, vero?» «Per favore non tocchi quella fotografia.» Esaminò il volto di Caitlin alla luce della lampada. Mi avvicinai per strapparle la foto dalle mani, ma con mia grande sorpresa i suoi occhi erano pieni di lacrime. Mi fermai. «Oh,» disse come colpita da un'improvvisa fitta di dolore «era una donna così deliziosa. Così deliziosa.» «Per favore, mi dia la fotografia.» Ma lei mi ignorò e posò con attenzione il ritratto di Caitlin sulla scrivania. Sembrava che ci sorridesse dalla cornice. «Perché non mi dice esattamente il motivo della sua visita?» Sembrò riflettere. Poi disse: «No, non importa. Meglio che me ne vada». Infilò i piedi nudi nelle scarpe. «Non sarei dovuta venire.» Afferrò l'impermeabile bagnato e lo gettò su un braccio. «Dovevo vederla. Dovevo dirle quanto mi dispiace.» «Suppongo che questo non fosse il solo motivo.» «No. Volevo assicurarmi di una cosa.» «Di cosa?» «È una faccenda personale. Ora non ha più importanza.» «Non credo affatto che lei fosse un'amica di mia moglie.» «Lascia perdere, Michael» disse. «Ho fatto un errore. Dimentica che sono venuta.» La musica era finita e nella stanza era calato il silenzio. Si udiva solo il ticchettio della pioggia contro i vetri della finestra. Si allungò per posare il bicchiere sul tavolino. «Caitlin aveva un amante» dissi. Si bloccò con le dita ancora attorno al bicchiere. I capelli erano caduti in avanti e le nascondevano il viso. «Non sai niente di questa storia, vero, Angie?» «Non so niente. Non posso aiutarti.» Si preparò ad andarsene, ma io l'afferrai per le braccia, stringendo più forte di quanto avessi intenzione di fare. Si divincolò e io lasciai andare il braccio.
«La amavo. La amavo e ora è morta, Angie. Voglio sapere come è potuto accadere.» Mi guardò con gli occhi fiammeggianti, massaggiandosi il braccio dolorante. «Gli uomini sentono sempre il bisogno di inventarsi qualche cospirazione in grande stile» disse. «Per evitare di confrontarsi con i propri errori. Ma forse è più semplice di quanto credi.» «Non ti capisco.» «Forse eri troppo impegnato a inseguire i tuoi sogni, Michael. E non avevi tempo per i suoi.» Sentii un tic nel collo. «Che ne sai tu?» «So che vuoi dare la colpa a qualcun altro. Chiunque sia, va bene.» La vidi indietreggiare, barcollare, inciampare nella poltrona e cadere pesantemente sul pavimento. Mi meravigliai che si muovesse in modo così maldestro. Rimase seduta per un attimo, fissandomi con occhi increduli. Fu solo in quel momento che mi resi conto di averla colpita. Girò la testa di lato, si toccò il labbro che stava sanguinando con la mano e si guardò le dita. Si mise in piedi a fatica e si aggiustò la gonna. I suoi occhi non mi lasciavano un istante. Ero ammutolito. Non potevo credere di averla colpita: non potevo neanche credere di esserne capace. «Ecco,» disse «la bella casa e la musica deliziosa. Niente di quello che è accaduto ti ha cambiato, vero?» Feci un passo verso di lei. «Per favore, fammi...» Non la vidi muoversi, e prima che avessi il tempo di rendermene conto mi arrivò un pugno dritto su uno zigomo. La testa mi si spostò di lato per la violenza del colpo. Mi sfuggì un gemito e istintivamente portai la mano alla guancia. Angie era in piedi e mi guardava con gli occhi socchiusi, massaggiandosi la destra con la sinistra, tesa e ancora pronta a colpire come un gatto. Nonostante fossi il doppio di lei, non aveva alcuna paura, o forse non voleva darlo a vedere. Me ne stavo in piedi come un cretino a strofinarmi la guancia. «Non hai mai saputo che persona fosse. Non hai neanche mai cercato di scoprirlo» disse infine. Si diresse verso l'ingresso senza voltarsi. Sentii la porta che veniva chiusa senza sbattere e per qualche secondo udii i suoi passi allontanarsi sull'asfalto bagnato nella notte londinese. 13
Durante la notte nello studio era sceso il freddo. In un angolo lo stereo suonava sommessamente. La bottiglia di scotch sul tavolino era quasi vuota. Sentivo la bocca impastata e il sangue pulsare nelle tempie. Al di sopra dei tetti il cielo era pallido e dalla strada mi giungeva il rombo del traffico del primo mattino. Nel ricordare la sera precedente provai un moto di vergogna. Vedevo Angie Carrick seduta scomposta sul pavimento con la gonna a fiori di ibisco e i capelli scarmigliati, che si passava una mano sul labbro. Mi toccai la guancia. Avevo un livido lungo lo zigomo e l'occhio gonfio. All'estremità del mio campo visivo c'era una macchia nera. Mi chiedevo dove fosse in quel momento. Mi alzai e andai nella sala da pranzo. Presi la rubrica del telefono e la sfogliai. I nomi erano quasi tutti scritti con la calligrafia di Caitlin. Non trovai il nome di Angie Carrick, come del resto mi aspettavo. Rimasi a riflettere, battendo il quadernetto sul dorso della mano. Andai in cucina dove trovai un coltello a serramanico e, senza indugio, salii i gradini, attraversai il pianerottolo e corsi su per la scala a chiocciola, accendendo con un colpo secco tutte le luci che trovavo sulla mia strada. Per fortuna era stata fatta una pulizia radicale. La scala emanava un forte odore di disinfettante. Spalancai la porta e mi ritrovai nella voliera di Caitlin avvolta nella luce livida dell'alba. Respiravo a fatica. Mi sedetti sulla sua sedia accanto al tavolino e accesi la lampada della scrivania. Un vetro rotto era stato sostituito con un pezzo di cartone. Il pavimento era ingombro di libri e di cartellette in pile ordinate. Il computer e lo stereo erano accuratamente avvolti in plastica da imballaggio. La valigia che voleva portare con sé era stata legata con del nastro adesivo e messa accanto a tutto il resto. Questi oggetti e le scatole di cartone che contenevano le altre sue cose davano alla stanza un'aria di provvisorietà, come se lei avesse semplicemente deciso di cambiare casa, lasciando le cose in attesa del camion dei traslochi. Avevo temuto di riconoscere Caitlin nella disposizione degli oggetti sistemati sulle mensole, dei quadri sulle pareti. Invece avevo trovato un luogo svuotato, pieno di scatoloni e spoglio. Aprii il coltello e tagliai il nastro adesivo del primo scatolone. A mezzogiorno avevo aperto tutti gli scatoloni di Caitlin, avevo avviato il computer e controllato tutti i dischetti e tutti i file, avevo sfogliato tutti i libri e controllato tutte le carte. Dopo di che, scesi nella sala da pranzo e ti-
rai giù dagli scaffali tutti i libri e tutti i CD. Tolsi dall'armadietto sotto la finestra gli album di fotografie e passai ore a esaminare una foto dopo l'altra. Aprii i contenitori dei nostri documenti personali: polizze d'assicurazione, estratti conto bancari, lettere private. Esaminai ogni singolo foglio. Lavorai con lo scrupolo di un detective, e perso in questo compito mi dimenticai di me stesso. Alla fine del pomeriggio ero ormai convinto che non ci fosse niente da scoprire. Nulla era fuori posto. Nessun biglietto dimenticato sul fondo di un cassetto, nessun appunto criptico scribacchiato sulle agende, nessuna fotografia di uomini che non conoscessi. Spinsi su un lato del tavolo la pila dei contenitori che avevo esaminato e mi stirai guardandomi attorno. Alla luce fioca del tardo pomeriggio osservai il caos che avevo combinato. Tuttavia, sentivo soltanto un grande bisogno di capire, anche se ormai non avrei saputo dove cercare ancora. Non sapevo neppure più che cosa sperassi di trovare. Mi alzai e per qualche minuto rimasi alla finestra con le mani appoggiate sul davanzale. Ero a pezzi e non riuscivo a prendere nessuna decisione. Sentii cigolare la porta alle mie spalle e prima ancora di registrare il suono mi ero voltato con tale irruenza che con il braccio avevo urtato il telefono a muro facendolo finire sul pavimento. «Vedo che i tuoi riflessi funzionano» disse Stella. Rimasi immobile con il cuore che batteva all'impazzata. «Come sei entrata?» «Hai presente una cosa chiamata chiave? Ho bussato, ma temevo che stessi dormendo. Te l'avevo detto che avrei fatto un salto.» «Sì, me l'avevi detto.» Mi chinai per raccogliere il telefono e non senza difficoltà lo riagganciai al muro. Stella indicò con un cenno del capo il disordine che regnava nella stanza. «Stavi facendo ordine? Mi pare una buona idea.» Sospirò. «Bene, hai detto che avevi bisogno di essere occupato. Son cose che bisogna fare. Prima si fanno, meglio è, penso.» Sapevo che voleva dirmi qualcos'altro, ma tergiversava. «Hai un aspetto spaventoso, Michael.» «Immagino.» «Sento puzza di scotch sin da qui.» Non feci lo sforzo di risponderle. Vidi tre sacchetti del supermercato appoggiati alla parete. Nella confusione che regnava nella stanza, in un primo momento non li avevo neppure notati. «E questi cosa sono?»
«Si chiama cibo, Michael. Forse ne hai sentito parlare. È la roba che si usa per tenere il corpo attaccato all'anima.» Raccolse i sacchetti e li portò in cucina. «Immagino che tu abbia buttato nella spazzatura la cena di ieri sera» disse voltandosi verso di me. Dalla sua espressione capii che conosceva già la risposta. «Sì» dissi. «Scusa. Non ce l'ho fatta.» «Va bene.» La seguii in cucina. Buttò i sacchetti sul tavolo e aprì il frigorifero. Fece una faccia schifata sentendo l'odore che ne usciva. Incominciò a tirar fuori le cose andate a male e a buttarle nella spazzatura, dove, aggrottando la fronte, ripescò la confezione di tranquillanti che mi mostrò con sguardo accusatore. «Michael, se vuoi davvero tornare a lavorare dovresti fare quello che ti dice il Re d'Argento. Non credi?» «Oh, è la sola cosa che voglio, Stella.» «Vuole che ti tenga d'occhio. L'avrei fatto comunque.» Appoggiò le mani sui fianchi. «Vuole darti una possibilità, lo sai questo? Ma questa possibilità non ti sarà concessa se gli riferisco che te ne stai qui come un idiota a riempirti di whisky. E io glielo dirò, capisci? Avevo intenzione di non calcare la mano con te oggi. Me l'ero ripromesso. Ma...» Si interruppe e si avvicinò di un passo osservando il mio viso sotto la vivida luce della cucina. «Di', hai un occhio nero?» «Ho preso un colpo.» «Sì, so che cos'è un occhio nero, dottore.» Fece pressione sullo zigomo con la punta di un dito. Una fitta mi attraversò tutta la mascella. «Come è successo?» Esitai prima di rispondere, non sapevo se mentire, ma alla fine decisi di dire la verità. «È stata una donna che si chiama Angie Carrick. Hai mai sentito parlare di una certa Angie Carrick, Stella? Ha detto di essere un'amica di Caitlin.» «Non conosco gli amici di Caitlin. Quando ti ha fatto questo?» «Ieri sera.» «Michael, sei un vero impiastro. Perché te le ha suonate?» «Perché lo meritavo.» «Cioè?» Premette nuovamente sullo zigomo, più forte questa volta. «La vuoi smettere?» dissi mettendomi fuori della sua portata. «Se lo vuoi sapere, sono stato io il primo a menar le mani.» Provai un immenso sollievo nel confessare.
«Tu?» Sbarrò gli occhi. «Tu hai picchiato quella donna? Perché?» «Aveva fatto un commento idiota su me e Caitlin.» Dopo un attimo mi corressi: «In realtà, non era un commento idiota, ma superficiale». «La gente ne dice tante in momenti come questi» disse Stella, poi fece un passo indietro e incrociò le braccia. «Dove hai incontrato questa Brunilde?» «È comparsa qui ieri sera.» «L'hai invitata tu?» «Figurati! Non sapevo nemmeno che esistesse.» «È venuta qui, così?» Stella cominciava a calarsi nei miei panni e a sentirsi offesa per quell'intrusione. «Scommetto che l'hai accolta con piacere. Naturalmente.» «Mi sono comportato da perfetto stronzo in tutta questa vicenda.» Stella fece un verso come per liquidare la cosa una volta per tutte. «Be', in ogni caso ha avuto quello che si meritava. Ma che cosa ha usato per colpirti? Una sbarra di ferro?» Non risposi. «Ho portato del Chateau Saintsbury. Forse, se ce ne facciamo un bicchiere, farà bene a tutti e due.» Stella scovò il vino in uno dei sacchetti del supermercato e sturò la bottiglia. Versò due bicchieri e ci spostammo in sala da pranzo. Portando con sé il bicchiere Stella si sedette sulla poltrona sotto la finestra, si liberò delle scarpe con un calcio e tirò fuori dalla borsa le sigarette. «Sei qui da cinque minuti e già mi intossichi.» «Oh, non rompere, Michael.» Accese la sigaretta e senza alzarsi aprì un poco la finestra buttando fuori la cenere, poi la richiuse. Alzò il bicchiere e con gli occhi socchiusi fissò la luce attraverso il vino. Capivo che stava valutando lo stato in cui avevo lasciato la stanza e io stesso mi meravigliai di essere riuscito a fare un tale scempio. Espirò una nuvola di fumo e mi osservò attraverso la foschia bianca. «Quanto tempo ti ha dato il Re d'Argento?» «Devo presentarmi la settimana prossima.» «Una settimana?» Alzò perplessa le sopracciglia. «Voglio solo tornare a lavorare, Stella. Non è quello che consigliamo noi stessi agli altri? Di ritornare alla vita normale?» «Già! Quando la vita normale non implica maneggiare un bisturi.» «Sto bene. So di avere un aspetto spaventoso, ma sto bene. Mi rimetterò
in sesto. Davvero. La sola cosa che mi fa impazzire è sentirmi inutile.» «Qual è la tua idea, Michael?» mi chiese all'improvviso. «Vuoi salvare gli altri, perché non hai saputo salvare Catey? Vuoi far tornare i conti? Nessuno poteva salvare Catey. Era morta.» «Mi era sembrato di capire che non volevi calcare la mano, oggi.» «È quello che sto facendo. Vuoi che vada giù davvero pesante?» «No.» Nella stanza l'aria si era fatta soffocante o forse era il tono della conversazione che rendeva l'atmosfera opprimente. Spalancai la finestra. Il rumore del traffico entrò insieme a una folata di aria fredda. «Non riesco a capire come ho fatto a non accorgermene» dissi. «Del bambino?» «Del bambino. Del padre.» Mi voltai a guardarla. «Come è possibile che capiti una cosa simile?» Stella studiò la punta della sigaretta, senza darmi la risposta che mi aspettavo: «Dai, Michael. Qualcosa del genere deve esserti già capitata». «Di quale genere?» «Caitlin era una donna di una bellezza straordinaria. Pensi che gli altri uomini fossero tutti ciechi? Qualcuno deve pur averla notata.» Per nascondere il mio stupore mi alzai e versai dell'altro vino. Mentre riempivo il suo bicchiere, mi afferrò il polso con la mano libera. «Michael, sai che non parlerei mai per ferirti, tu questo lo sai. Le persone mandano dei segnali quando si sentono sole. Non possono farne a meno. Neppure Caitlin poteva farne a meno. Forse il suo segnale è stato raccolto dalla persona sbagliata. E forse, per un certo periodo, Caitlin ha salvato le apparenze. Capita.» «Pensi davvero che si sentisse così sola?» «La bella, casta Caitlin non diventava di ghiaccio quando tu eri lontano, lontano con me, la gran parte del tempo, a scorrazzare per il Terzo Mondo. Era un essere umano in carne e ossa come tutti noi, Michael.» Stella prese un'altra sigaretta, fece scattare più volte l'accendino, poi si rese conto che cercava di accendere la sigaretta dalla parte del filtro e la gettò con stizza nel camino. «Stiamo litigando?» «Penso semplicemente che ti farebbe bene se passassi un po' più tempo su questo pianeta, invece che su quello che ti sei creato con la fantasia.» Si alzò e mi si parò davanti. «Michael, capisci? Nessuno di noi conosce veramente gli altri.»
Fui toccato dalla sua sincerità. Mi alzai e l'abbracciai. «Sei una buona amica, Stella» dissi. «La migliore che abbia.» «Sì, lo so.» Non si lasciò andare. «Metà basterebbe.» Rimanemmo abbracciati per qualche attimo. «Forse è ora che torni a casa» dissi. «Forse sì.» Indietreggiò così all'improvviso che calpestò con un tacco il suo bicchiere mandandolo in frantumi. Non lo guardò neppure. Afferrò la borsa e a grandi passi raggiunse la porta d'ingresso in fondo al corridoio e l'aprì. La seguii. Per un secondo si fermò sulla soglia senza voltarsi. «Sai, Michael, siamo fatti della stessa pasta.» «Sì?» «Siamo bravissimi a guardare in faccia i problemi, purché siano molto lontani da casa.» «Mi sento già molto lontana da casa» disse Caitlin. «Spero che questo ti faccia piacere.» Si strinse contro di me. «Tu che ne pensi?» Dalla finestra della serra di Anthony osservavamo il giardino lasciato per tanto tempo incolto. La luce del sole al tramonto scendeva tra i pioppi e gettava lunghe ombre sui gruppi di ospiti che si erano raccolti nel prato. Una volta tanto, l'abituale sterpaglia era stata estirpata. Anthony aveva fatto tagliare l'erba in nostro onore. La sera di maggio profumava di malva e di ortiche recise. Intorno ai cespugli non potati c'erano ancora ciuffi d'erba alta e all'estremità del giardino prosperava l'impenetrabile giungla di rovi. C'erano trenta o quaranta persone, tutti amici miei e di Caitlin, giovani brillanti che si riunivano attorno ai tavoli con un bicchiere in mano. Sulla terrazza un quartetto d'archi faceva una pausa dopo aver suonato Haydn. Vedevo Bruno che chiacchierava con il primo violino. Ero sicuro che stava convincendolo a suonare qualcosa che lui potesse cantare. Non avevo mai visto tanta gente a casa di Anthony. Caitlin e io ci eravamo sposati quattro ore prima all'Ufficio di Stato Civile di West London. I genitori di Caitlin avevano boicottato l'evento e Anthony non voleva che il nostro matrimonio ne risentisse. «Ti vuole tanto bene, sai» disse Caitlin. «È ovvio che per lui rappresenti il figlio che non ha mai avuto. Ma forse c'è anche dell'altro.» Colsi una vena di malinconia nelle sue parole, che al momento non seppi identificare. Entrambi osservavamo Anthony che passava da un gruppo di ospiti all'altro, con una bottiglia in mano. Era raggiante, splendido nel
nuovo abito gessato, acquistato per l'occasione, con una rosa rossa all'occhiello e un fazzoletto di seta scarlatto nel taschino della giacca. Di tutta la compagnia era certamente il personaggio più formale, più anziano, ma anche, pensavo, il più felice. «Perché Anthony non si è mai sposato?» mi chiese Caitlin. «Non ci ho mai pensato.» «È un uomo incredibile. E da giovane doveva essere un bocconcino niente male.» «Anthony?» Ci voleva della fantasia per pensare ad Anthony in quei termini. «Be', forse non esattamente un bocconcino. Sai che cosa voglio dire: il bello degli anni Trenta, laureato a Oxford o a Cambridge. Eleganza disinvolta. Terribilmente colto, ma bisognoso di essere accudito.» «Per me è sempre stato Anthony e basta. Sempre presente. Non ho mai pensato a lui come a uno che ha una vita propria.» «Deve sentirsi così solo in questa casa immensa.» «Ha i suoi orologi, i suoi pezzi d'antiquariato e la sua musica. Il mondo gli scorre accanto. Lui sa che il mondo esiste, ma preferisce continuare a vivere in quello che si è creato su misura.» «Oh,» disse Caitlin con una risatina triste «quindi non come tutti noi.» Questa conversazione mi aveva lasciato una sorta di malessere. Osservai Anthony che si muoveva sul prato sotto di noi, e per un attimo lo vidi con gli occhi di Caitlin. Era il giorno del mio matrimonio, ma era anche il giorno più felice della vita di Anthony e tutta quella felicità era interamente per me, nel modo più disinteressato e altruistico possibile. «Vuol bene anche a te» dissi. «Certo» fece. «Non c'è dubbio.» Proprio in quel momento si avvicinò un'amica di Caitlin, ci fu uno scambio festoso di abbracci e di auguri e Caitlin fu trascinata via. Rimasi alla finestra a riflettere su ciò che aveva detto. Avevo pensato molto raramente al grande debito che avevo nei confronti di Anthony, e fino a quel giorno non avevo mai preso in considerazione il fatto che il suo sacrificio potesse andare ben oltre la pura generosità. Che potesse avere dei propri desideri cui aveva rinunciato per onorare l'impegno che si era preso con me. «Salve» disse Stella alle mie spalle. Mi abbracciò da dietro. «Spero che tu sia soddisfatto.» «Lo sono, Stella, lo sono veramente.»
«Devi essere soddisfatto. È una bambola.» Guardò la piccola folla che si muoveva sul prato. Caitlin intratteneva gli invitati, rideva con gli amici, raggiante, luminosa nel crepuscolo che avanzava. «No» disse Stella. «Bambola non è la definizione giusta. Penso che la tua Caitlin sia la creatura più bella su cui abbia mai posato gli occhi. La stronza.» «Non menare il can per l'aia, Stella. Sputa l'osso.» Mi depose un casto bacio sulla guancia. «Vi auguro ogni bene, Michael. A tutti e due.» «Grazie, Stella.» Rimanemmo alla finestra ancora qualche minuto. Sapevo che cosa pensava: che tutto nella vita è casuale, che lei e io eravamo diventati amici molto stretti. Si chiedeva che cosa sarebbe successo se io non avessi lasciato la Turchia proprio quel giorno, oppure se lei fosse tornata con me invece di rimanere altre ventiquattro ore. O se in quel breve lasso di tempo Bruno non mi avesse convinto a intrufolarmi senza invito alla festa di compleanno di una ricca ragazza del Gloucestershire. «Andiamo fuori» disse Stella. In giardino stava diventando buio, ma Caitlin mi vide subito, attraversò il prato e mi prese per un braccio. Stavano accendendo le torce disseminate tra gli alberi e prima che tutte fossero illuminate era calata la sera. Il cielo era invaso da nubi azzurre. Il quartetto aveva ripreso a suonare Haydn, ma la musica mi arrivava come da una grande distanza. Passai un braccio attorno alla vita di Caitlin e la baciai. D'un tratto la musica si spense e vidi Anthony salire sulla terrazza e fermarsi al centro. I musicisti gli fecero posto. Attorno a lui scese il silenzio. «In questo basso mondo ogni uomo ha un compito» esordì Anthony, con voce stranamente distante. «Un grande compito o un piccolo compito.» Sembrava rivolgersi a se stesso. «Conoscevo suo padre, il padre di Michael. Duncan Severin era un uomo con un grande compito. Ma non gli è stato concesso di portarlo a termine. E quando un uomo di prima classe viene colpito, allora un individuo di seconda classe deve farsi avanti e fare del proprio meglio per riempire il vuoto, capite? Azione. Ecco che cosa serve in quei casi. Azione ardita. E io ci ho provato. Ci ho provato.» Nessuno si mosse. Tutti trattenevano il respiro. Anthony con occhi da segugio scrutava il gruppo degli ospiti per cercarmi. «Se sono riuscito nel mio compito lo vedete voi stessi. Un giovane magnifico. Il ritratto di suo padre. Un giovane che si sta facendo strada nel mondo.» Il suo sguardo passava da me a Caitlin. La luce sfavillante delle torce
ondeggiava sul volto radioso di Anthony, colorandolo di rosso e di oro. «Ma un individuo non può attraversare la vita da solo. Neppure un uomo forte, un uomo con una missione. Conosco la solitudine troppo bene, tuttavia non ho mai pensato che avrei incontrato una persona degna - dovete perdonare un vecchio tutore sentimentale - una persona degna del figlio di Duncan. Eppure una tale persona è comparsa nella nostra vita. Sembra un miracolo, ma è così.» Con queste parole alzò il bicchiere alla luce della torcia. «Quindi il mio brindisi, amici miei, non è per Michael, che nella vita raccoglierà abbondante plauso. Ma per Caitlin, alla quale affido il compito che è stato mio. E la mia speranza. E il mio amore.» 14 «Bene, devo dire che hai un aspetto migliore della settimana scorsa.» Nel vedermi entrare il professor Curtiz si era alzato dalla sua enorme scrivania. Mi venne incontro e mi strinse la mano. «Come stai, Michael?» «Va bene. Sul serio, va molto meglio.» Mi guardò, sempre tenendomi la mano, con la testa d'argento china di lato. «Hai ragione» ammise. «Mi chiedevo come ne saresti uscito, ma vedo che stai bene.» Sorridendo mi lasciò libera la mano, ma nella sua espressione aleggiava ancora il dubbio. «Non si aspettava che sarei tornato, vero?» chiesi. «No. A essere sincero speravo che non tornassi. Non per il momento, almeno.» «Lei credeva che avrei avuto bisogno di altro tempo. In effetti ho pensato di prolungare il congedo, ma eccomi qui.» «È troppo presto. Troppo presto.» Sospirò. «In ogni caso non ti voglio in sala operatoria.» «È proprio lì, invece, che vorrei lavorare.» «Michael, tu sei convinto che il lavoro calmerà il tuo dolore. Ma andiamo per gradi, non credi?» «Ho sentito dire che John Donohue è ammalato questa settimana» insistetti. «Si è preso qualcosa in Nepal. Epatite, credo. Potrebbe non venire in ospedale per qualche tempo.» «Vedo che hai fatto i compiti a casa.» «E Bernie Driscoll tornerà a Dublino alla fine del mese. Qui sarete un
po' scoperti, non le pare?» Il professor Curtiz strinse le labbra. Sapevo che non tollerava di essere assediato in quel modo. E mentre pensavo che forse mi ero spinto troppo in là, un raggio di sole invernale gli attraversò il viso. La luce svanì quasi subito, ma in quell'attimo di impietoso bagliore vidi per la prima volta che il professor Curtiz dopo tutto non era un semidio, non era il Re d'Argento della mitologia ospedaliera, ma un uomo stanco e affaticato, sulle soglie della vecchiaia. Sentivo che di fronte al mio attacco la sua sicurezza vacillava. «Sono determinato a tornare a lavorare» dissi. «Assolutamente determinato.» «Lo so, Michael,» la sua voce era stanca «ma so anche che esiste una differenza tra determinazione e disperazione.» Poco convinto, si allontanò di un paio di passi e ritornò alla scrivania. «Va bene, Michael» disse infine. «Affare fatto...» Curtiz e io avremmo dovuto essere abituati al segnale acustico proveniente da traumatologia, ma nel momento in cui risuonò con improvvisa violenza nello studio, colse entrambi di sorpresa. In un lampo il professore si riprese e premette il pulsante del cicalino che teneva alla cintura. «Il team di traumatologia a Rianimazione Due e Tre immediatamente.» «Magnifico» disse Curtiz tra i denti. «Sai, Michael, sono ormai troppo vecchio e stanco.» Ma stava già uscendo dal suo ufficio. Lo seguii nell'anticamera. Senza fermarsi diede una serie di rapide istruzioni alla sua segretaria, poi si tolse la giacca e mi vide incerto sulla soglia della stanza. «Allora, Michael, sembra che il fato sia determinato a ostacolarmi.» Tolse i gemelli di platino dai polsini della camicia e li gettò alla segretaria che li afferrò al volo. Doveva essere abituata a quella operazione di destrezza. «Seguimi, dunque» mi disse infine. «Seguimi.» Percorremmo quasi di corsa il corridoio tirato a lucido. Passando davanti al mio ufficio vidi Meredith. Essere chiamato all'azione in quel modo mi dava un senso di trionfo. Le rivolsi un allegro saluto alzando entrambi i pollici. Con mia grande sorpresa Meredith non rispose e ci guardò passare accigliata. Quando arrivammo al pronto soccorso stavano già entrando i primi feriti. Un'ambulanza era ferma con il portellone posteriore a ridosso delle porte dell'accettazione, mentre un'altra scendeva la rampa con la sirena ancora spiegata. Sentivo altre sirene più lontane, meno assordanti, che si avvici-
navano da diverse direzioni. Curtiz e io ci dirigemmo a lunghi passi verso la sala Rianimazione Due. La sala era già piena di gente indaffarata: riconobbi un medico del pronto soccorso, Sam Okigbo l'anestesista, Vernon Choudhury l'assistente, Carrie Iverson l'infermiera addetta ai ferri. C'erano anche due infermiere che non conoscevo. L'adrenalina mi correva nel sangue. Sotto la luce violenta delle lampade la mia concentrazione cresceva. Era una bella sensazione. Osservare e ascoltare quell'attività frenetica, le voci, i movimenti esperti. Era una sensazione inebriante. Persino l'odore mi piaceva: freddo, volatile, inebriante. Curtiz prese i guanti dal distributore automatico appeso al muro e me ne lanciò un paio. Avevo già staccato dal rotolo un grembiule di plastica e l'avevo indossato. Feci scorrere le dita nei guanti di gomma aderenti. Anche questo mi inebriava. Vestito da sala operatoria mi sentivo salvo, pronto a tutto. Aprirono le tende ed entrò in sala una barella spinta da un gruppo di infermiere e di ausiliari in camice verde. Vidi la forma di un corpo femminile. Un viso bianco come il gesso sporco di terra e di fango. Una spalla perdeva sangue e sul pavimento sotto la barella cadevano gocce scure. Curtiz e io ci scostammo mentre con cautela trasferivano la donna sul tavolo operatorio, con l'asse rigida cui l'avevano legata. I paramedici la liberarono dalle cinghie. Sam Okigbo prese lo stetoscopio che portava appeso al collo. «Allora, cosa abbiamo qui?» chiese Curtiz. «Lesioni alla testa. Possibili lesioni al torace. Stato di profonda perdita di coscienza, 2 sulla Scala di Glasgow. Tracheotomia per l'intubazione sul luogo dell'incidente. Polso 120. Pressione sanguigna 80 su 40» rispose un paramedico. «Non male.» Curtiz stava per avvicinarsi quando ebbe un attimo di esitazione. «Vuoi occupartene tu, Michael?» Mi colse alla sprovvista e il battito cardiaco cominciò ad accelerare. «Solo se te la senti, naturalmente» aggiunse. «Sì» dissi precipitosamente. «Sì, me la sento.» «Splendido.» Mi passò davanti con indifferenza. «Rimango qui attorno. Giusto nel caso tu abbia bisogno di una mano.» «Grazie» dissi, mentre Curtiz già mi voltava le spalle. «Grazie.» Mi avvicinai al tavolo operatorio e il team si divise in due per lasciarmi
passare. Avevano già messo una flebo al braccio destro della donna e un'infermiera stava per fissarne una seconda al braccio sinistro. Sam Okigbo, chino sulla cassa toracica della donna, si alzò quando vide che mi avvicinavo. «Impossibile ventilare la parte destra della cassa toracica, Michael» mi disse. Si scostò dal tavolo in attesa di istruzioni, permettendomi così per la prima volta di vedere bene il volto della donna. Era giovane, forse da poco aveva passato la trentina. Il suo viso, per quanto potevo scorgere, era regolare e delicato. Pensai che doveva essere carina. Forse bella. Tra cinghie e bende si intravedevano i capelli. Capelli corti e biondi. Biondo cenere. «Michael» disse Sam. Mi abbassai. Mi sembrava importante osservarla con maggiore attenzione. In quel momento mi sembrava la cosa più importante al mondo. «Vuoi un drenaggio alla cassa toracica?» mi suggerì Sam. Non risposi. Mi resi conto che il mio silenzio aveva messo tutti a disagio. Allungai la mano e toccai i capelli della donna. Erano sporchi di sangue e di terra. Sentii che la stanza attorno a me si immobilizzava. Forse non passarono più di un paio di secondi, ma furono sufficienti. Sufficienti perché mi rendessi conto di quanto mi stava succedendo. Lasciai cadere la mano lungo il fianco. Mi allontanai di un passo dal tavolo. «Non posso» dissi. Un vortice di attività si mise in moto attorno a me, come un gorgo attorno a uno scoglio. Bisbigli, passi affrettati. Una delle infermiere mi mormorava qualcosa e mi accompagnava fuori, aiutandomi a togliere i guanti. Una volta uscito dalla sala operatoria il professor Curtiz apparve come per magia. «Non ti preoccupare, Michael.» La sua voce era infinitamente gentile. «Siamo coperti. Non è successo niente.» Mi diede qualche colpetto sul braccio e un attimo dopo era sparito. L'infermiera slacciò i legacci del mio camice. Qualcun altro trovò la mia giacca e mi aiutò a infilarla. Poi rimasi solo. Dietro le tende sentivo Curtiz che impartiva istruzioni con voce concita-
ta. Mi avviai all'uscita in mezzo a infermiere, piantane per flebo e barelle. Nessuno notò il mio passaggio, come fossi uno spettro. Sgusciai tra due ambulanze e mi ritrovai all'esterno, alla luce cruda del sole. Attraversai un misero tratto di prato dall'erba imbrattata di fango e mi lasciai cadere su una panchina. Sentii l'umidità del legno intriso di pioggia passare attraverso i calzoni. Rimasi a osservare le ambulanze che arrivavano e partivano. Dopo qualche minuto udii un doppio colpo di clacson. Notai che le ambulanze avevano smesso il loro frenetico andirivieni ed era tornata la calma. Ci fu un nuovo colpo di clacson. Proveniva dalla mia destra. Era Stella che abbassò il finestrino dalla parte del passeggero e allungandosi sul sedile gridò: «Ehi!, sali.» «Non adesso, Stella.» «Fai come ti dico, accidenti a te.» Parcheggiò sul marciapiede vicino a Gordon Square e lasciò in evidenza sul parabrezza il cartello con la scritta «Medico in visita domiciliare urgente». Il salone del pub era simile a un'immensa caverna che esibiva una grande quantità di ottone e di legno. Dalle pareti pendevano stampe di caccia e di pesca. Era troppo presto per le folle dell'intervallo di mezzogiorno, ma a una estremità del banco, in contenitori di acciaio, erano in mostra fagiolini verdi, salsicce rilucenti e altri piatti. L'odore di cipolle superava il puzzo di birra stantia che esalava dalla moquette. Il barman stava asciugando i bicchieri e sembrò stupito di vederci. Stella andò decisa al banco e ordinò due scotch doppi, senza chiedermi che cosa desiderassi. Tirò fuori da sotto il banco due sgabelli e si sedette. Fece scivolare uno scotch verso di me e mi guardò con aria interrogativa. «Lo riconosco. Sono stato un idiota.» «Sì, Michael. Un vero idiota.» Alzò il bicchiere. «Diciamogli addio,» girò la testa in direzione dell'ospedale «finché non ti rimetti in sesto.» Bevve. «Dovevo provarci» dissi, fissando il bicchiere. «Dovevo.» «Lo so. Ma non è stata una buona idea. E adesso basta.» Raddrizzò la schiena come se avesse il torcicollo. «Se ti fa sentire meglio, sappi che ho verificato che fine ha fatto la paziente.» «Davvero?» Per un attimo mi si fermò il cuore. «Sì. È in terapia intensiva, ma se la caverà. Il tuo intervento, sia per
quello che hai fatto sia per quello che non hai fatto, è stato del tutto innocuo e questo Curtiz lo sa. Tutti lo sanno.» «Se solo...» Mi fissai le mani. «Stella, se solo non avesse avuto i capelli biondi. Ce l'avrei fatta se...» «Michael.» Posò il bicchiere sul banco e mi afferrò i polsi, costringendomi a guardarla negli occhi. «Michael, non era bionda.» Sentivo la bocca secca. Cercai di deglutire. «Capisci, adesso?» Dopo un attimo mi lasciò i polsi e scivolò giù dallo sgabello, prese la carta di credito dalla borsa e la diede al barman, al quale chiese di apparecchiare un tavolo. Prese tutti e due i bicchieri e li portò a un tavolo vicino alla finestra. La seguii sedendomi ubbidientemente al posto che mi indicava. Andò al bar e tornò con due piatti fumanti, una bottiglia di vino cileno e due bicchieri. «Non voglio mangiare» dissi. «Tu devi mangiare, Michael. Coraggio!» Si sedette, svuotò il bicchiere di scotch e versò il vino. «Poi ci ubriachiamo un po'. Ho il pomeriggio libero.» Tolse le posate dal tovagliolo di carta che le avvolgeva e si buttò subito sul cibo. Trassi un profondo respiro e bevvi un sorso. «Adesso che c'è?» chiese con la bocca piena. «Stella, avrei dovuto ascoltarti. Ascoltare Curtiz. Avevate ragione.» «D'accordo. Ma?» «Ma non c'è bisogno che tu faccia tutto questo. Che mi tratti come un bambino. Mi sono comportato da imbecille e so che le tue intenzioni sono buone, ma non sono un invalido.» Si sporse sul tavolo e riempì i bicchieri un'altra volta. «Non farti illusioni, tesoro. Tutto questo non è solo in tuo onore.» La guardai stupito. «Che significa?» «Sono in partenza» disse. «Cosa?» «Ci sto pensando. Mi hanno offerto un nuovo lavoro.» «Ma tu sei la migliore infermiera di sala operatoria di tutto l'ospedale.» «Sì» disse. «E lavoro in sala operatoria da più tempo di te, dottore. Però, ti potrà sembrare strano, ho scoperto di non essere di proprietà del St Ruth, come spesso mi capita di sentirmi. Non faccio parte delle attrezzature ospedaliere.» «Di che si tratta?»
«Capo del programma di formazione infermieri.» Tagliò un pezzo di salsiccia, lo mise in bocca, lo masticò, lo ingoiò, lasciando che la pausa facesse il suo effetto. «Al Mater Misericordia. A Caracas. È in Venezuela, forse lo ricordi.» «Oh» esclamai. Adesso la cosa aveva un senso e acquistava concretezza, anche se mi sembrava irreale immaginare il St Ruth senza Stella, e di conseguenza la vita senza Stella. «Hanno apprezzato il mio lavoro con la missione di Medici Senza Frontiere» disse. «Il programma clinico.» «Sì» dissi. «Lo so.» «Adesso vogliono che lo diriga stabilmente. Be', per cominciare mi faranno un contratto per un anno. È una grossa occasione per me, Michael. Un posto di direttore. Naturalmente, anche lo stipendio cambierà.» «Hai già accettato?» «Non esattamente» disse con un tono che al momento mi sfuggì. «Ma... Gordon come ha preso la notizia?» Ricordavo la conversazione che avevamo avuto sul balcone nella ex caserma vicino a Caracas, un secolo prima. «I tuoi progetti di allora? I quindici bambini, il pappagallino e il pesce rosso?» «Il noiosissimo Gordon?» esclamò buttando le posate sul piatto. «Gordon, quello stronzo in mezze maniche, si è trovato un'altra. Ti pare possibile?» «No!» «Non mi spiacerebbe poi tanto se la tizia fosse una qualche insignificante donnetta dell'ufficio contabilità. Invece è una ballerina, accidenti a lei, e per giunta di nightclub. Ventitré anni e bella da svenire, a quanto pare. Ci crederesti?» «Una ballerina? Gordon?» «Quando mai quello stronzo di Gordon ha messo piede in un nightclub? Mai che abbia portato me in un nightclub. Mai che abbia portato me a ballare.» Scossi il capo come per scacciare quelle immagini. «Stella, tu vali dieci Gordon. Ho sempre pensato che fosse una pizza insopportabile.» «Anch'io. Quello che mi manda in bestia è che non era una pizza e io non lo sapevo.» Adesso la voce le tremava. Era sul punto di piangere, così le presi una mano. Lei mi fece le boccacce e forse per distrarsi tornò ad addentare le sue salsicce, evitando di incrociare il mio sguardo. La osservai e per un attimo provai a mangiare anch'io. Per diversi minuti
restammo in silenzio. Il vino cominciava ad andarmi alla testa e il bar si stava riempiendo. La gente chiacchierava, rideva. Il fumo ondeggiava nella luce pallida. Entrarono uomini in giacca e cravatta degli uffici vicini, un gruppo di ragazze schiamazzanti festeggiava un compleanno, un lettore dell'università si pavoneggiava con il suo gruppo di studenti. Mi sembrava sconveniente trovarmi in un pub brillo a metà giornata, ma mi faceva piacere che attorno a noi ci fosse tanta attività. Stella finì di mangiare, spinse il piatto su un lato del tavolo e versò un altro bicchiere per tutti e due. Guardandomi dritto negli occhi disse: «Tu qui stai male. Non si tratta solo del lavoro. Non la smetterai di mettere a soqquadro la casa, come hai fatto l'altro giorno. Continuerai a frugare nelle sue cose per verificare se c'è qualcosa fuori posto, anche un granello di polvere. Forse la polizia si farà viva con altre sorprese. Forse compariranno altre donne sconosciute che sanno più di quanto dovrebbero, altre Angie, o comunque si chiamasse. Altra gente che ti farà del male». «Hai finito o c'è dell'altro?» «Finché rimani qui non riuscirai ad andare avanti, Michael. Non ce la farai a lasciarti il passato alle spalle. Lo so.» Una cameriera venne per portar via i piatti e noi rimanemmo in silenzio, mentre la ragazza si dava da fare attorno a noi. Quando se ne andò Stella incrociò le mani sul tavolo. «Michael, vieni con me. In Venezuela.» Avevo portato il bicchiere alle labbra. Senza bere lo posai molto lentamente sul tavolo. «Non è il caso di avere quell'aria sorpresa.» «Non sono sorpreso.» Sapevamo entrambi che mentivo. In realtà lo ero, perché avevo intuito che poteva esserci una speranza, la speranza di una via d'uscita, e sapevo anche che Stella aveva avuto la mia stessa sensazione. «Non è poi un'idea tanto pazzesca» disse, parlando con cautela. «Forse tutte e due abbiamo bisogno di andarcene.» «Non ho detto niente. Non ho detto che è un'idea pazzesca.» «Ovviamente, nessun vincolo». Si piegò leggermente in avanti. «Non ti starò addosso. Non si tratta di quello. Sai che non è di quello che sto parlando. Ma starai lontano da qui. Lo sai che tutti ti vogliono bene al Mater Misericordia. Juan, Alfredo, Pilar Ganzales e gli altri del team. Mi chiedono sempre di te.» «E che cosa ci andrei a fare io in Venezuela, Stella? Me lo spieghi?»
«Che importanza ha? Pensavo che potresti - come dire? - prendere tempo, stare a vedere come gira. Mi hanno offerto un bungalow. Una di quelle grandi case con piscina. Puoi prendertela con calma per tutto il tempo necessario. Imparare lo spagnolo. Sai che il paese è bellissimo. Ti compri un fuoristrada e vai a farti dei giri nella giungla. Te la prendi con comodo. Ti riprendi.» «Stella, ascolta...» «Poi quando te la sentirai, non so, tra qualche mese, potrai ricominciare a lavorare. Solo se te la senti. Al Mater darebbero qualunque cosa per averti nel team. Lo sai bene. E Curtiz non si opporrebbe. Capirebbe. Ti lascerebbe partire.» «Dopo quello che è successo oggi,» dissi «probabilmente mi scorterebbe fino all'aeroporto.» Volevo sviare Stella e prendermi qualche attimo per riflettere. «Quando?» «Pensavo... dopo il funerale.» «Il funerale...» Non avevo mai pensato al funerale. Non avevo voluto pensarci. Le cose mi cadevano addosso troppo in fretta, senza darmi il tempo di elaborarle. Stella lo capì e fece subito marcia indietro. «Forse è prematuro.» «Sì.» «Ma d'altro canto,» riprese «non ci sarebbe alcun motivo di restare qui dopo il funerale, non credi? Non avresti altro da fare qui. Solo che non abbiamo molto tempo per dare una risposta.» «Non starmi con il fiato sul collo.» «Che cavolo, hai bisogno che qualcuno ti dia una mossa.» Riapparve la cameriera. «Desiderate altro?» Stella, senza distogliere lo sguardo da me, chiese: «Avete del vino venezuelano?». «Venezuelano?» esclamò la ragazza con aria sconcertata. «Non credo. Non ne ho mai sentito parlare.» Stella afferrò la bottiglia vuota e gliela mostrò. «Vede questa bottiglia? Dove dice "Prodotto in Cile"? Bene, ce ne porti un'altra, cancelli "Cile" e scriva "Venezuela". Capito?» «Come vuole.» La ragazza guardò perplessa la bottiglia, poi corse via. «Potremmo farlo, no, Michael? Davvero.» Stella allungò le mani sul tavolo e le posò sulle mie. «E poi mi faresti un grosso favore. Sai che non avrei mai il coraggio di partire da sola.»
«Lascia che ci rifletta.» Stella afferrò l'accendino, lo fece scattare, accese la sigaretta ed espirò il fumo verso il soffitto. «Secondo me,» disse «la cosa di cui non hai proprio bisogno è di riflettere.» Dal bar la cameriera ci gridò: «Come si scrive Venezuela? Come Venere?». «Sì» le dissi. «Proprio così.» 15 Il giorno del funerale di Caitlin un sole accecante splendeva alto nel cielo terso. Uno scherzo del destino, sconvolgente, beffardo, del tutto fuori luogo. Stella e Anthony avrebbero voluto che andassi con loro, ma io preferivo starmene da solo all'interno del guscio chiuso della mia macchina. Percorsi la campagna del Gloucestershire attraverso boschi spogli e campi arati, illuminati dal sole freddo dell'inverno. Un viaggio di poco più di due ore. Dall'angolo del viale che conduceva alla chiesa di Morrow vidi un lato dell'edificio e la gente che si accalcava nel parcheggio. Dal finestrino aperto mi arrivavano le loro voci. Parcheggiai e feci quattro passi nel bosco. I tronchi degli alberi erano coperti di muschio e il terreno disseminato di foglie morte era morbido sotto i miei piedi. La poca luce e l'odore di umidità che emanava dal suolo mi davano una sensazione di benessere. Quando si spense il rumore delle voci e delle portiere che si chiudevano ritornai sul viale, avviandomi verso la chiesa. Due limousine nere delle pompe funebri scintillavano al sole e la Jaguar grigio argento dei Dacre aveva le portiere aperte. Un autista in uniforme fumava una sigaretta appoggiato al cofano. Scorgendomi si raddrizzò e fece il gesto di nascondere la sigaretta dietro la schiena. Fra una dozzina di altri veicoli riconobbi la Mercedes del professor Curtiz. Non avevo pensato che sarebbe venuto al funerale. Mi chiesi se ci fossero altre persone dell'ospedale. Era stato Anthony a occuparsi di tutto e non gli avevo neppure chiesto chi avesse invitato. Avvicinandomi al portone della chiesa sentii l'ansimare dell'organo. Ero contento di sentire quel suono. Significava che c'era stata l'omelia, e che io ero riuscito a scamparla. Non volevo ascoltare il vicario, mentre diceva che tutti noi dovevamo essere grati che Caitlin fosse passata a miglior vita. La chiesa era un grande edificio in mattoni degli inizi dell'Ottocento, costruito per gli operai della fabbrica tessile locale, e nel suo spazioso interno
la cinquantina di persone presenti sembrava perdersi. Quando entrai silenziosamente in chiesa molte teste si voltarono. Non guardai nessuno in particolare, ma non potei fare a meno di notare, proprio in prima fila, la capigliatura rossa di Stella, le spalle tonde di Anthony e la schiena dritta di Margot Dacre. La bara, appoggiata su cavalletti, era di fronte all'altare, carica di fiori, cosparsa di chiazze di luce variopinta che cadeva dalle vetrate colorate. Mentre risalivo la navata l'organo tacque, i presenti si alzarono e i becchini in abiti neri incominciarono a rimuovere dal feretro la montagnola di fiori. Ero abbagliato dai fiori: gialli, scarlatti e viola. La brillantezza dei colori mi feriva gli occhi. Sentivo i miei passi risuonare sulle lastre di pietra del pavimento. Vidi i becchini osservarmi e dai banchi sentii alzarsi un sospiro collettivo. Il vicario, un uomo roseo e calvo, mosse un passo verso di me e guardò incerto qualcuno alle mie spalle che dovette fargli segno di non parlarmi. Forse era Anthony. Nel frattempo avevo salito i gradini che portavano al catafalco e scostato gli ultimi fiori, posando le mani sul legno lucido della bara. Era fredda. Rimasi immobile, immerso nella luce e nel profumo inebriante. Un'ape ronzava tra i petali con il rombo di un bombardiere nel silenzio della chiesa. Udii dei passi che si avvicinavano. Staccai le mani dal feretro e feci un passo indietro. Le mie palme avevano lasciato impronte perfette sulla superficie brillante. «Vieni, vecchio mio» disse Anthony dolcemente. Osservai le impronte delle mie mani svanire lentamente dalla superficie della bara lucente. Quando non vidi più alcuna traccia passai accanto ad Anthony e percorrendo la navata uscii nella luce fredda. Rimasi accanto ad Anthony finché i becchini portarono fuori il feretro e lo caricarono sul retro della limousine. Guardai l'orologio. Mancava un'ora alla cremazione. La gente, vestita di scuro, usciva dalla chiesa, un'espressione lugubre sui volti. Distolsi lo sguardo. Lungo il muro della chiesa le querce e i faggi sembravano tanti scheletri contro il cielo. Morbidi cumuli di nubi cominciavano ad addensarsi al di sopra del profilo delle Cotswold. Una gazza saltellava in mezzo alle tombe, impaziente che ce ne andassimo. Anch'io ero impaziente. Di fianco alla chiesa c'era una panca nascosta da un vecchio tasso. Mi chinai per passare sotto i rami e mi sedetti. Riuscii ad appartarmi, mentre a pochi metri la piccola folla sostava sul prato. Dal mio nascondiglio li os-
servavo come attraverso l'apertura di una tenda. Riconobbi solo poche persone. Una compagna di scuola di Caitlin, l'anziana cuoca di casa Dacre, e un uomo distinto che poteva essere il medico di famiglia. C'erano anche due giovanotti che avevano l'aria da poliziotti. Un po' in disparte scorsi Digby Barrett, che avvolto nel lungo cappotto nero, sembrava lui stesso un impiegato delle pompe funebri. L'autista dei Dacre spinse sulla ghiaia una sedia a rotelle vuota e aiutò Edward Dacre a sedersi. Il vecchio si sistemò sulla sedia e si guardò attorno con aria aggressiva, come se si preparasse a sfidare chiunque prendesse atto della sua fragilità. E c'era Anthony, più che mai simile a un boxer dall'aria triste, che si muoveva tra la gente, scambiando condoglianze, offrendo conforto, parlando con dolcezza a Margot Dacre e chinandosi sulla sedia per mormorare qualche parola gentile al vecchio. Faceva tutto ciò che avrei dovuto fare io. Così abbandonai il mio nascondiglio ombroso e lasciai che le cose andassero per il loro verso, lasciai che tutti si raccogliessero attorno a me per sussurrare parole di conforto e stringermi la mano. Mentre la chiesa si svuotava, la calca attorno a me si faceva più consistente. Patrick di Medici Senza Frontiere, serio e abbronzato dopo la sua recente missione. Il professor Curtiz con la sua testa d'argento china e rilucente nel sole pallido. Meredith con il naso e gli occhi arrossati dal pianto. Alcuni colleghi, Sam Okigbo che sembrava un pilastro di ebano nel suo abito nero, Carne Iverson con l'aria desolata e Ray Moore con il viso di chi non avrebbe mai più fatto una battuta in vita sua. Ma la maggior parte delle persone presenti erano conoscenti di Caitlin. Le avevo incontrate in varie occasioni, ma non sapevo quasi nulla della loro vita e ignoravo in che rapporto fossero con mia moglie. La loro disponibilità e il loro bisogno di rassicurazione mi offrivano un pretesto per concentrarmi su qualcosa. Un paio di vecchie signore mi salutò piangendo. Il professor Curtiz si era ovviamente preparato un piccolo discorso, ma una volta incontrato il mio sguardo mi strinse la mano senza riuscire ad aprire bocca. Tutti ci tenevano a sentirsi dire che ero contento di vederli e che apprezzavo la loro offerta di condividere il mio dolore. Naturalmente erano solo formalità, ma fui contento di dover recitare questa parte e la recitai al meglio, passando dall'uno all'altro, stringendo mani, baciando guance e distribuendo ringraziamenti sussurrati. A un tratto mi si parò davanti una donna di bassa statura, dai modi bru-
schi. «Al Centro siamo tutti sconvolti. Personale e studenti. Ci tenevo che lo sapesse» disse. «Grazie.» Le sorrisi. Volevo salutare altre persone, ma lei non si mosse. La guardai più attentamente, tuttavia ero sicuro di non conoscerla. «So che a lei non faceva piacere che venisse, ma Caitlin ha lavorato molto bene al Centro. Veramente molto, molto bene.» «Al Centro» le feci eco. Non avevo la più pallida idea di che cosa stesse parlando. La donna si rese conto del mio stupore e disse: «Sono Julie Clarke del Centro di York Road». Parlava con grande decisione, come se io fingessi di non capire le sue parole. Ero sicuro che Caitlin non mi avesse mai accennato a nessuna Julie Clarke né ad alcun Centro, ma il tono di quella donna era perentorio, così mi limitai ad assentire stupidamente sperando che se ne andasse. Ma non si mosse. Trasse un lungo, esasperato sospiro. «Bene, non ha importanza. Noi le volevamo bene, Michael. Volevo dirle solo questo. Desidero che lei non lo dimentichi.» Si allontanò con passo deciso e la osservai mentre si faceva largo tra la folla. Fui rapidamente circondato da altra gente addolorata e lacrimosa e non ebbi più tempo di pensare a quell'incontro. Vicino al cancello trovai Anthony che stava passando del denaro all'addetto delle pompe funebri. Non sapevo se fosse ancora in uso dare la mancia ai becchini, ma, come tutto ciò che faceva Anthony, anche quello era un gesto decoroso e discreto. Notai che l'uomo si comportava esattamente come se il piccolo rituale si svolgesse cinquant'anni prima; con la sinistra infilò il denaro nella tasca dei pantaloni, mentre con la destra si toglieva il cappello. Era così che la gente rispondeva ad Anthony. In sua presenza era impossibile comportarsi sgarbatamente. Gli andai vicino. «Vorrei ringraziarti di tutto, Anthony.» «In momenti come questi è bene avere qualcosa da fare. In realtà è un privilegio essere utili. Rendersi utili agli altri è la chiave, sai. Vivere minuto per minuto.» Socchiuse gli occhi e guardò in alto, come se vedesse qualcos'altro oltre le nubi d'argento che correvano nel cielo. «Stella mi ha detto del Venezuela. Ci vai?» «Sì. Penso di sì.» «Ritengo che sia la scelta migliore che tu possa fare, ragazzo mio. Natu-
ralmente mi mancherai moltissimo.» Mi guardò con aria malinconica. «Un uomo ha bisogno di qualcosa che lo mantenga in vita. Lo so.» «Azione ardita» dissi. «Ecco che cosa ci vuole, vecchio mio. Ecco che cosa ci vuole.» Lo osservai mentre si allontanava lentamente tra le tombe. Le due limousine mi superarono, portandosi via Caitlin. Con la loro partenza si liberò uno spazio fra me e la Jaguar dei Dacre e improvvisamente mi ritrovai di fronte la madre di Caitlin, a una distanza di una decina di metri. Margot Dacre era accanto alla sedia a rotelle del marito, ferma davanti alla portiera posteriore aperta. Benché stesse guardando nella mia direzione non diede segno di avermi visto. Spostarono la sedia a rotelle e il giovane autista si portò sull'altro lato per aiutare Edward Dacre a sistemarsi sul sedile posteriore. Non volevo avvicinarmi a loro, ma mi sembrava assurdo non fare nessun gesto di partecipazione. Feci un passo avanti. «Margot?» Si allontanò senza una parola e passò davanti alla macchina dirigendosi verso il portone della chiesa. Entrò nell'ingresso buio. L'autista, ancora chino sulla sedia a rotelle, la guardò sorpreso, non sapendo che cosa fare. Lo aiutai a sollevare Edward Dacre in macchina. Il vecchio non disse niente mentre lo spostavamo. I suoi occhi erano vuoti. Il suo lungo corpo emaciato era leggero come una foglia secca. Mi chinai su di lui per allacciare la cintura di sicurezza, evitando il suo sguardo vuoto. Edward Dacre emanava un odore dolciastro, un odore di deperimento senile. Richiusi la portiera e mi avviai verso la chiesa. Vicino all'altare, nel punto in cui era stato eretto il catafalco, un uomo anziano stava spazzando le foglie e i petali dei fiori nella luce variopinta che filtrava dalle vetrate. Quel vuoto luminoso ondeggiava davanti ai miei occhi e le particelle di pulviscolo sospese nell'aria brillavano come lucciole. L'organista azionava i pedali dello strumento, e le note risuonavano nella navata. Margot Dacre era seduta a metà della fila di panche e mi volgeva le spalle. La sua figura nera mi ricordava quella di un uccello silenzioso e guardingo. L'organista rideva scambiando battute con qualcuno che non vedevo. Quando si accorse della nostra presenza smise di suonare e si affrettò a uscire. L'inserviente sgusciò silenzioso dentro la sacrestia. Quando sentì i miei passi Margot si alzò e mi si parò dinnanzi. Alzò il velo e vidi che il suo viso si era indurito. Intrecciò davanti a sé le mani guantate in un gesto curiosamente infantile e attese che io mi avvicinassi. «Margot, che cosa posso dire? Sono troppo addolorato.»
«Sì.» La sua voce risuonò limpida. «Sì. Me lo immagino.» Il suo tono mi raggelò e mi bloccai con le braccia aperte, in un abbraccio mancato. «So che cosa vuoi, Michael» disse. «Tu vuoi che io ti dica che non devi fartene una colpa. Tu vuoi la mia assoluzione. Ma quella soddisfazione non te la darò.» Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. Mi appoggiai allo schienale di un banco. Mi sentivo mancare. I suoi occhi luminosi mi studiavano vigili, spietati. Riapparve l'inserviente che riprese a lavorare attorno all'altare, fischiettando sotto voce. Forse era curioso o forse aveva intuito una tensione e di proposito cercava di ricordarci che ci trovavamo nella casa di Dio. L'uomo teneva la testa china. Sapevo che non voleva incontrare i miei occhi. Non potevo dargli torto. Non riuscivo a controllare i muscoli della bocca. «Margot, voglio che tu sappia che avrei fatto qualunque cosa per evitare che una cosa simile accadesse.» «Davvero?» disse inarcando le sopracciglia. «In questo caso mi chiedo perché tu non l'abbia fatto.» Si incamminò lungo la navata, seguita dal ticchettio dei suoi tacchi sulle lastre di pietra. Quando raggiunse l'ultimo banco si fermò. «Noi non verremo alla cremazione, Michael» disse senza voltarsi. «Noi abbiamo già dato il nostro addio. Tutti noi, penso.» Spinse il pesante portone della chiesa e lo tenne aperto per un attimo, poi uscì lasciando che si richiudesse alle sue spalle, con il rumore di una cannonata. Attraverso i vetri romboidali delle finestre vidi un volo d'uccelli alzarsi dagli alberi spogli verso le nubi che avevano oscurato il cielo terso. Rimasi dentro la chiesa per molto tempo, ascoltando gli scambi di saluti che mi arrivavano attutiti dall'esterno, passi sulla ghiaia, sbattere di portiere. Una dopo l'altra tutte le macchine partirono. Sentii che si muovevano silenziosamente lungo il viale, in fondo al quale svoltavano e con sollievo si affrettavano a ritornare nel mondo dei vivi. Trascorsi così una decina di minuti. Fuori tutto tornò tranquillo, ma non mi stupii quando sentii la porta aprirsi alle mie spalle. «Michael?» Anthony, immerso nell'ombra dell'ingresso, sembrava incerto, imbarazzato dell'intrusione. Mi alzai e mi avvicinai a lui in modo che mi potesse vedere chiaramente, ma mi fermai a metà della navata. «Non è necessario che mi aspetti, Anthony. Sto bene.»
«Non ho potuto evitare di vedere Margot Dacre uscire dalla chiesa. Mi chiedevo se per caso ci fosse stato tra di voi qualche... sgradevole scambio di opinione.» «Non c'è problema.» Non fece neppure finta di credermi. «Non devi essere troppo duro con lei. Dubito che si renda conto di ciò che dice.» «Anthony, mi piacerebbe stare solo per un po'.» «Naturalmente, naturalmente.» Abbassò uno sguardo infelice sulle scarpe lucide. Per due o tre volte incrociò le braccia sul petto come se non sapesse che cosa fare delle proprie mani. «Non prendertela, Michael.» Fu inghiottito dall'oscurità dell'ingresso. Lo sentii camminare sulla ghiaia, accendere il motore della vecchia Rover e allontanarsi lentamente. Attesi finché non ci fu più nessun rumore, poi uscii dalla chiesa, immergendomi nell'aria limpida del pomeriggio. Il vento stormiva tra gli alberi, piegando l'erba sul terreno con raffiche improvvise. Il crematorio era un edificio nuovo di mattoni rossi circondato da giardini ben curati. La disposizione degli alberi nei prati era così regolare che sembrava ideata per il modellino di una ferrovia. La procedura della cremazione mi causava la medesima sensazione di artificiosità. La stanza era praticamente vuota. Gli altoparlanti diffondevano musica barocca. Sedetti nella terza fila con la testa appoggiata al legno chiaro del banco che avevo davanti. Sentii aprirsi le tende con un fruscio, e il ronzare di meccanismi invisibili. Non riuscivo a convincermi che tutto ciò accadesse a Caitlin. Tenni la testa china e non guardai. Quando l'operazione fu conclusa uscii e svoltai l'angolo dell'edificio. Avevano ammucchiato i fiori di Caitlin su un'altura verde. Benché il luogo fosse riparato, il vento faceva fremere i petali che si erano sparpagliati tutt'attorno come coriandoli. La mia attenzione fu attirata da un mazzolino di fiori di campo. Erano stati scelti con cura, direi con amore. Presi il biglietto scritto a mano e lo lessi. Diceva: «Da Julie e da tutto il gruppo di York Road: Catey, non ti dimenticheremo mai. Mai». Avevo quasi dimenticato quell'incontro, ma subito ripensai alla donna tarchiata con i capelli neri che avevo incontrato davanti alla chiesa. In quel biglietto da scolaretta c'era qualcosa che, almeno nel mio ricordo, non si accordava con quella donna dai modi bruschi e impazienti. La cosa mi incuriosiva. Nonostante non la conoscessi, Julie Clarke mi aveva incolpato di qualcosa, proprio come
Margot Dacre. Cercai di ricordare che cosa mi avesse detto. Pensavo che potesse essere importante, ma nella mia mente c'era un groviglio inestricabile. «La gente la stimava, la sua signora» disse Digby Barrett alle mie spalle. «È bello sapere che la gente la stimava. È già qualcosa.» Infilai in tasca il biglietto di Julie Clarke e mi voltai verso Barrett. Era a qualche passo dal mucchio di fiori e nella luce invernale la sua mole sembrava ancora più massiccia, con gli abiti neri che gli svolazzavano attorno. Fece una pausa per lasciarmi parlare, ma io non avrei saputo che cosa dire. Dopo un attimo riprese: «Se vuole me ne vado». «Anch'io stavo per andarmene.» «Bene.» Abbottonò il cappotto svolazzante e aggiunse: «Le andrebbe un bicchiere, dottore? C'è un pub giù in paese. Pensavo che un goccio non guasta.» «Volevo tornare subito a Londra.» «Un bicchiere non le farà male e io non lo dirò a nessuno.» Stavo per rifiutare una seconda volta, ma lui insistette: «C'è qualcosa che voglio farle vedere». «Del tipo?» Scosse il capo. «Niente di speciale. Possiamo lasciar perdere. Probabilmente lei non se la sente proprio in questo momento.» A quel punto cedetti, come lui certamente si aspettava. «Va bene» dissi rassegnato. «Andiamo e vediamo di che si tratta, qualunque cosa sia.» «Ci vediamo al Nag's Head.» Era uno di quei locali signorili dal soffitto basso con travi a vista, che nel sud dell'Inghilterra passano per pub di campagna. Le pareti erano ricoperte di rami e di selle di cavallo con finlture in ottone e cinghie di cuoio. C'era un enorme camino con finti ceppi. La macchina per il caffè espresso era installata dietro il bar e su una lavagna era scritto a gesso un menu da gourmet. La stanza era affollata di ricchi pensionati che costituiscono la nuova aristocrazia campagnola e di giovani professionisti rampanti di Gloucester o di Cheltenham, desiderosi di far colpo sui clienti o sulle amiche, offrendo una colazione in campagna. Mi chinai sotto il basso architrave per entrare nel locale dove Barrett era già seduto a un tavolo accanto alla finestra. Appena mi vide scattò in piedi e si precipitò verso di me.
«Cosa posso ordinare per lei, dottore?» «Mezzo bicchiere di qualcosa. Qualsiasi cosa.» «Arrivo.» Mentre si faceva largo tra la folla per raggiungere il bar, andai a sedermi al suo tavolo, la cui superficie era quasi interamente occupata da una cartella di pelle nera con robuste serrature metalliche e una tracolla. Accanto c'era una semplice scatola di legno, probabilmente di mogano, che poteva essere un pezzo d'antiquariato. Non avevo mai visto né la cartella né la scatola. Mentre le scostavo per liberare un po' di posto vidi Barrett al bar che si era voltato per osservarmi. Mi sorrise e alzò i bicchieri come per dirmi che stava arrivando, ma io sapevo che stava studiando i miei movimenti. In un attimo raggiunse il tavolo portando una birra grande per sé e una media per me. Posò il bicchiere davanti a me, spostò la cartella per terra e la appoggiò contro una gamba del tavolo dalla mia parte. Lasciò la scatola sul tavolo. «Ho pensato che a questo punto tanto valeva che le restituissi questa roba.» Alzò il bicchiere di birra verso di me. «Salute.» Non toccai il mio bicchiere. «Quale roba?» «La scatola e la cartella, dottore.» Con la scarpa toccò la cartella. «I disegni di sua moglie. Sono belli, vero? Proprio una tragedia. Un vero talento.» «Se si tratta di uno scherzo,» dissi «non sono proprio in vena.» Barrett posò il suo bicchiere sul tavolo con cura. «Mi vuole far credere di non riconoscere questi oggetti? Li guardi bene.» «Non sono di Caitlin, se è questo che vuole sentirsi dire.» «Ma, erano nella sua stanza. In mezzo a tutte le sue cose.» «Non sono di Caitlin.» Prese la scatola di mogano con le sue mani tozze, fece scorrere indietro il coperchio e mi mostrò il contenuto: matite, bastoncini di grafite, un temperino e gomma pane annerita dall'uso. «Non mi dice niente.» «Apra la cartella.» Spostò la scatola e i bicchieri di lato e sollevò la cartella sul tavolo. Mi sforzavo di non guardare quella pelle nera. Improvvisamente sentii la bocca secca. «Non c'è bisogno di aprirla.» «Su, coraggio. Non c'è dentro niente di così spaventoso. Non voglio scocciarla per una cosa così da poco.» Sapevo che non mi avrebbe permesso di svignarmela. Feci scattare le
chiusure e aprii la cartella in pelle. Vidi subito che i disegni erano bellissimi. Molti erano solo schizzi, alcuni a matita, altri a penna, parecchi fogli contenevano due o tre disegni: un piccione che si lisciava le penne, un tronco d'albero, un vecchio che avanza curvo sotto la pioggia. Molti erano studi di edifici, alcuni sorprendentemente dettagliati e precisi, altri prendevano forma da poche linee fluide, come se fossero stati schizzati su un autobus in corsa. Alcuni rappresentavano scene di vita londinese. Riconoscevo alcuni edifici caratteristici: la cattedrale di St Paul, l'Albert Hall, Hampton Court. Ma ce n'erano molti altri, una confusione di immagini, che non mi diceva niente. «Non mi ha mai detto che sua moglie era un'artista.» «Non era un'artista» dissi sfogliando le pagine pesanti. «Da anni non disegnava niente.» «Lei vuol dire che non era un'artista di professione?» insistette Barrett, «Che per lei disegnare era una specie di hobby? Era questo che intende dire, dottore?» Edifici che non conoscevo affatto, alcuni che avevano qualcosa di familiare, poi un ramo fiorito, un uccello su una staccionata. Li fissavo senza vederli veramente. C'era stato un amante di cui non sapevo niente. Un bambino di cui non sapevo niente. Un fascio di disegni di cui non sapevo niente non avrebbe dovuto significare granché. Eppure non era così. «È sicuro che li abbia disegnati sua moglie, vero dottore?» Barrett insisteva. «Gli ultimi sono datati e firmati.» «Sì. Li ha disegnati lei.» Chiusi di proposito la cartella e lo fissai. «Non ho mai visto nessuno di questi disegni, prima d'ora. Per quanto ne sapevo non aveva più disegnato da quando ci siamo sposati. Anzi, da prima ancora. A me sarebbe piaciuto che riprendesse, ma lei non voleva.» «Qualcosa l'ha indotta a ricominciare.» «Sì» dissi. «A quanto sembra.» Barrett strinse le labbra. «Va bene. Ecco cosa voglio da lei, dottore. Voglio che prenda la cartella e che dia un bella occhiata a tutti quei disegni. E dopo averli guardati ben bene mi farà sapere se le è venuto in mente qualcosa». «Non sapevo neppure che esistessero. Che cosa potrei dirle?» «Se c'è qualcosa di strano nelle date, se c'è qualche posto che le dice qualcosa. Ci sono alcuni disegni di quella specie di reggia dei suoi genitori, di St Paul, della Torre e cose del genere. Non è di quelli che parlavo. Allora, li guarderà?»
Appoggiai la mano sulle pelle fredda della cartella. «Bene» disse Barrett con discrezione, come se gli avessi risposto. Si alzò e abbottonò il cappotto con grande lentezza. «Mi sembra di capire, dottore, che ci sono molte cose di cui lei non sapeva granché, non le pare?» Lo guardai con durezza. Mi salutò con un cenno del mento, attraversò il locale e sparì. 16 Parecchi disegni ritraevano Morrow House, come aveva detto Barrett. E qualche altro edificio: un mulino in rovina, una fila di case a schiera, un collegio universitario nel quale mi sembrò di riconoscere il Magdalen di Oxford. Ma c'era una dozzina di disegni del tutto diversi. Un semplice edificio di mattoni, una casa contadina, vista da molti punti di osservazione. Un tratto di bosco: aveva colto il baluginare della luce attraverso le foglie, un sentiero che saliva ripido in mezzo alle felci, un ruscello con un guado di pietre. Il paesaggio era grazioso, ma la casa non era certo pittoresca, con il suo aspetto malandato. Il gabinetto esterno aveva la porta sgangherata e dal tetto basso mancava qualche beola. Accanto alla porta c'era una botte piena d'acqua. Sotto la finestra della facciata era stato abbandonato un pezzo arrugginito di una macchina agricola, forse un erpice, mezzo sommerso dai rovi. Con ogni probabilità era il disegno di una casa contadina che esisteva realmente. Una casa modesta, anzi misera. Tuttavia una casa che Caitlin conosceva intimamente, una casa che amava. Chiusi la cartella con cura. Feci scorrere il pollice sul bordo ruvido dei fogli di carta da disegno, incantato dal fruscio che producevano. Ce n'erano più di un centinaio. Quante ore di concentrazione avevano richiesto tutti quei disegni? Quante ore di immersione in un mondo di cui non conoscevo nulla, un mondo in cui io non figuravo? Feci scorrere il coperchio della scatola di mogano. Profumava di matite appena temperate. Quell'odore mi riportò ai tempi delle elementari. Dentro c'erano le sue matite, matite consumate, con la vernice sporca di grafite. Ne presi una con delicatezza. Pensai che dovesse conservare l'odore di Caitlin, che una cosa tanto familiare dovesse contenere un messaggio per me.
Ma non ricordavo neppure come teneva la matita tra le dita, quale espressione aveva il suo viso quando si concentrava, come posava l'album sulle ginocchia. Era probabile che Caitlin avesse avuto un suo modo particolare di compiere quei piccoli gesti. Ma io l'avevo vista disegnare una volta sola, molto tempo prima. Il fatto che non potessi neppure immaginarla mentre lavorava aprì un vuoto dentro di me. Appoggiai i gomiti sul tavolo e nascosi il volto tra le mani. L'inaugurazione di una mostra alla Tate un paio d'anni prima. Eravamo in pieno inverno. Caitlin aveva collaborato alla realizzazione della mostra e io ero in ritardo. Con il team di traumatologia avevo lavorato tutto il pomeriggio su una ragazza svedese di diciassette anni che era stata investita da un autobus sullo Strand. All'inizio dell'intervento avevamo qualche speranza di salvarla, ma alla fine non potemmo far altro che guardarla andarsene. Eravamo sconvolti davanti a quella giovane vita che svaniva. Non riuscivo a togliermela dalla testa mentre correvo sotto la pioggia per Gower Street, cercando di prendere un autobus. Quando arrivai alla galleria avevo freddo ed ero bagnato fradicio, stanco e pronto ad attaccar briga. La sala era affollata di donne eleganti ed emaciate, e di uomini di mezza età, che indossavano costose giacche sopra T-shirt nere. Le cameriere, abbigliate come governanti vittoriane, offrivano su vassoi bicchieri di vino e tartine molto decorative. Molti dei presenti erano già su di giri. Presi un bicchiere e bevvi avidamente. Attirai gli sguardi di un paio di persone, probabilmente perché si vedeva lontano un miglio che ero di pessimo umore. Non vedevo Cate, e piuttosto di dover fare conversazione con quelle persone che godevano immeritatamente di ottima salute, mi feci largo per raggiungere la parete con le opere in mostra. Erano desolanti disegni a carboncino, scene di strada in una baraccopoli con figure allungate, contorte, disperate. Una madre con il suo bambino, un cane scheletrico che rosicchiava qualcosa in un rigagnolo. «Salve, straniero.» Caitlin si alzò sulla punta dei piedi per darmi un bacio. «Sono in ritardo, mi dispiace.» Mi osservò registrando il mio tono sgarbato. «Una brutta giornata?» «Scusami ancora.» Non riuscii a impedirmi di guardare l'orologio. Caitlin fermò una cameriera, prese un bicchiere di vino dal vassoio e me lo passò. Mi strinse il braccio. «So che detesti queste cose. Tra qualche
minuto ce ne andiamo.» «Non è vero che le detesto, Cate.» «Come vuoi.» Dopo un attimo disse: «Allora, che cosa pensi delle opere?». «Cate, perché hai smesso di disegnare?» «Va bene, Michael, ce ne andiamo subito.» La sua risposta mi lasciò interdetto. «Cate, non è il caso che andiamo via.» «Sì, invece.» Mi prese dalle mani il bicchiere, lo posò su un tavolino e mi pilotò verso l'uscita. Ebbe un rapido scambio di parole con un collega e ritirò dal guardaroba il suo cappotto. Un attimo dopo eravamo sui gradini, sopra il Victoria Embankment, nel freddo della sera invernale. «Cate, possiamo tornare. Avanti, torniamo.» Ma invece di rispondermi Caitlin mi condusse giù per i gradini, attraversammo la strada e rimanemmo appoggiati al parapetto a osservare l'acqua nera del fiume che scorreva. A un tratto si volse verso di me. «Michael, se pensi che il lavoro che faccio sia privo di significato, se pensi che sia banale, me lo devi dire.» «Non capisco perché non disegni tu, invece di esporre i lavori degli altri. Hai talento, Cate.» «Forse il mondo ha bisogno di medici, di scienziati e di insegnanti,» disse con inattesa amarezza «non di un altro artista mediocre.» Non sapevo che cosa rispondere. «Vivo questa vita per te, Michael. Per noi, in realtà. Ma soprattutto per te. Vivo così, perché deve esserci un equilibrio. A quanto pare riesco a rendermi utile solo per le piccole cose. Ma non posso fare neppure questo se tu pensi che il mio lavoro sia senza valore. Se non lo apprezzi.» La abbracciai e la tenni stretta a me, disperato. Rimanemmo sotto la pioggia, sul marciapiede catramoso, con il vento che spazzava il fiume, Il padrone si schiarì la gola. «Vuole altro, signore?» Era un uomo cordiale con un grosso stomaco da bevitore di birra che gli tendeva il maglione di shetland. Aveva in mano un vassoio carico di bicchieri sporchi. Mi resi conto che il pub si era svuotato, il distributore di birra era stato coperto con strofinacci da cucina e una ragazza stava pulendo i tavoli. L'uomo disse: «Di solito chiudiamo alle tre». «Ho perso la nozione del tempo.» «Non c'è nessun problema, signore» disse infilando le dita nel mio bicchiere, pieno a metà di birra tiepida, quello che mi aveva offerto Barrett.
Fece un cenno alla cartella, aperta sul tavolo davanti a me. «Bei disegni, signore, se posso esprimere un parere.» Si allontanò di qualche passo, aprì la porta e la tenne aperta finché uscii. «Spero ci onori presto di una sua visita, signore» disse quando già ero in strada, e subito chiuse a chiave il locale. Meno di mezz'ora dopo attraversavo i cancelli di ferro di casa Dacre. Risalii lentamente il lungo viale di cedri e cipressi. Gli alberi sullo sfondo del cielo di novembre erano figure nere che gettavano lunghi fasci di ombre tremolanti. Dietro una curva del viale mi apparve la grande casa di pietra ocra con la sua maestosa facciata e la serra dalla struttura in ferro che correva lungo uno dei lati. La vista di Morrow House mi faceva ancora una certa impressione, ma non mi sembrava più grandiosa come la sera in cui l'avevo vista per la prima volta. Passai oltre la Jaguar grigio argento dei Dacre e parcheggiai esattamente nel punto in cui Bruno e io avevamo lasciato la Austin dieci anni prima. Trassi un lungo respiro, misi la cartella sotto il braccio e scesi dalla macchina. Edward Dacre era seminascosto dalle colonne dell'ingresso principale e mi ci volle qualche attimo per scorgerlo, seduto sulla sua sedia a rotelle, negli ultimi lucori del sole autunnale. Non mi ero mai riconciliato con lui, ma mi faceva tristezza vedere come si fosse ridotto un uomo tanto orgoglioso. Non c'era traccia di Margot. Pensai di andare a cercarla, ma all'ultimo momento me ne mancò il coraggio. Appoggiai la cartella a una delle sedie. «Salve, Edward» dissi. Gli occhi ingialliti di Edward Dacre si volsero verso di me, senza dar segno di riconoscermi. Ero perplesso. Sulla ghiaia accanto alla sedia a rotelle c'era una seconda sedia su cui era stato posato un giornale ripiegato, assieme a un paio di cesoie. «Posso sedermi?» Non ci fu risposta. Spostai le cesoie e il giornale e mi sedetti sulla sedia vuota. Edward aveva una coperta sopra le ginocchia e un libro sotto le mani intrecciate, anche se sembrava che ormai non fosse più in grado di leggere. Forse Margot gli lasciava il libro per una questione di forma. Una folata di vento staccò dal faggio alcune foglie e sollevò la coperta del vecchio. La rimisi a posto rimboccandola con cura. Non mi sembrava il caso di continuare a tenergli rancore. La luce si era
spenta nei suoi occhi. Speravo che non si fosse reso conto di ciò che era accaduto a Caitlin. Cercai di immaginarlo da giovane, sessanta anni prima, forse di più; un giovane bello, forte, splendido nella sua uniforme, che sbarcava su qualche spiaggia straniera con un enorme revolver alla cintura. Doveva essere stato duro per lui adattarsi allo scialbo grigiore dell'Inghilterra degli anni Cinquanta e Sessanta. Sentii la porta della serra aprirsi alle mie spalle. Mi alzai. «Oh, Michael» disse Margot Dacre con un sorriso glaciale. «Che bella visita.» Indossava una tuta sportiva marrone e guanti da giardinaggio. Non l'avevo mai vista in quella tenuta. Era come se avesse eliminato con meticolosa puntigliosità ogni traccia del funerale che aveva seguito solo poche ore prima. Sembrava più giovane dei suoi settant'anni e più vivace del solito. Portava tra le braccia un grande vaso di terracotta pieno di terriccio scuro. Mi osservò tenendo le sopracciglia inarcate, aspettando che fossi io a parlare per primo. Accennai al vaso. «Vuoi che ti aiuti?» «No.» Non si mosse. «Non ti aspettavamo. Avresti dovuto telefonare.» «Se avessi telefonato avresti trovato delle scuse.» «Infatti.» «Margot, dovevo vederti.» «Davvero, Michael? In realtà non credo che abbiamo più granché da dirci.» Alzai la cartella di pelle nera sulla sedia, la aprii a caso e aspettai con ansia che mi dicesse qualcosa. Posò il vaso sulla ghiaia, si stropicciò le mani e diede un'occhiata. Il suo viso era privo di espressione. «Come dovrei reagire?» «Una mezza dozzina di disegni rappresentano questa casa. Alcuni portano la data degli ultimi mesi.» «Infatti veniva qui. Non vedo perché dovrebbe sorprenderti, Michael. Eravamo i suoi genitori.» «Margot, perché avrebbe dovuto venire qui senza dirmelo? Non sapevo neanche che avesse ripreso a disegnare.» «Non ero la custode di mia figlia,» disse «purtroppo, visto quello che le è accaduto.» «Sto solo cercando di capire, Margot. Tutto qui. Non ho intenzione di incolpare nessuno.»
Alzò gli occhi al cielo. L'ombra di una nube oscurò la facciata della casa, poi scivolò via attraverso il prato. Margot sembrava riflettere. «Se vuoi renderti utile, Michael,» disse infine «puoi portare dentro Edward.» Non mi aspettavo che mi chiedesse una cosa simile, ma feci come mi aveva ordinato. Misi la tracolla della cartella sulla spalla e spinsi la sedia a rotelle su per la rampa, poi fin dentro casa. L'interno mi apparve molto buio. Margot mi fece strada attraverso il grande ingresso; un lungo corridoio con pannelli di legno che profumava di fiori secchi. Aprì una porta alla mia sinistra e io spinsi la sedia in una bella stanza che si affacciava sul prato nel retro della casa, cosparso di cespugli di rododendro e lillà. Si sentiva un vago odore di vernice e di stucco. La stanza mi era familiare, ma ora era luminosa e allegra, così diversa da come la ricordavo che per un attimo non la riconobbi. «Era la libreria» disse Margot vedendo che mi guardavo attorno. «Buia come una cripta con file e file di volumi rilegati in pelle. Edward passava molto tempo in questa stanza.» Mi tornò alla mente la scena di dieci anni prima: Caitlin seduta sul divano con le mani intrecciate in grembo ed Edward Dacre che cercava il Glenlivet. Margot afferrò le manopole della sedia e spinse il marito in un punto da dove poteva vedere il prato con i suoi occhi spenti. Mise il freno alla sedia e si chinò per aggiustare la coperta del vecchio. «Quando tirammo via gli scaffali scoprii che tutti i libri erano una farsa» proseguì. «Annate di giornali legali. Alcuni risalivano agli anni Trenta. Non erano neanche in inglese. Credo fossero in svedese.» Si alzò e abbassò gli occhi su suo marito. «Non so che cosa Edward facesse tutte quelle ore in questa stanza al buio, di certo non leggeva.» Il tono confidenziale mi aveva messo in allarme, ma lo preferivo all'ostilità dichiarata. Sentivo che si preparava a dirmi qualcos'altro. Fuori la luce del giorno si stava spegnendo e il vento colorava l'erba d'argento. Alcune gocce di pioggia colpirono la finestra. Edward Dacre fissava il vetro. Margot sintonizzò la radio su un programma di musica leggera. Non avevo mai sentito musica in quella casa. Sistemò sul tavolino a portata di mano un campanello, una brocca d'acqua e un vaso di peonie. «Devi ammettere che questo è un grande miglioramento» disse. «Naturalmente l'arredamento è stato in gran parte pensato da Caitlin. Ha progettato l'intera stanza.»
Non riuscivo a capacitarmi. «Con che frequenza veniva qui, Margot?» Non rispose. Appoggiò per un attimo la mano sulla spalla del marito, poi mi condusse nuovamente nell'atrio mal illuminato. Vedevo che gli occhi del vecchio ci seguivano. Margot con passo deciso entrò nel grande salone e accese tutte le luci. Nulla era cambiato in quel locale: il soffitto alto invaso dall'oscurità, l'immenso camino, le finestre che davano sul giardino. Margot si portò a un capo del lungo tavolo, incrociò le braccia, e rimase a osservarmi mentre mi guardavo attorno. «Proprio così, Michael. Continuiamo a vivere in questa piazza d'armi. Siamo dei veri esperti in fatto di solitudine.» Fece una pausa. «Soprattutto grazie a te.» «È questo che volevi dirmi?» «Tu l'hai tenuta lontana da noi.» Stava impalata nella sua tuta marrone come un soldatino di piombo, con il mento rivolto verso l'alto. «Anno dopo anno, hai fatto di tutto perché non tornasse da noi. Con che frequenza la vedevamo? Due volte all'anno? Persino a Natale le impedivi di venire. Grazie a te non avremo neppure dei ricordi.» «Ormai queste recriminazioni non servono a nessuno.» «Tu le hai promesso la libertà, ma la tenevi legata come faceva suo padre. Non le permettevi neppure di venire a trovarmi.» «Margot, io non ho fatto niente per tenere Caitlin lontana da questa casa.» Lottavo per tenere la voce sotto controllo. «Detestava questo posto con tutte le sue forze, detestava questo vuoto, le discussioni, il modo in cui suo padre la trattava, il modo in cui trattava te, il modo in cui tu hai lasciato che tutto questo accadesse.» «Dimmi esattamente perché sei venuto qui oggi pomeriggio, Michael?» «Non sei la sola a soffrire, Margot.» «Pensi che la tua indignazione ti giustifichi, vero?» Tolsi la cartella dalla spalla e la lasciai cadere con fragore sul tavolo. «Il termine "indignazione" non descrive il mio stato d'animo, Margot. Sono ben oltre l'indignazione.» Nell'improvviso silenzio le mie urla riecheggiarono fra le travi del soffitto. Trattenni il fiato mentre l'eco si spegneva, spaventato da quello che avrei potuto dire. «Ti piacerebbe vedere la sua stanza?» chiese Margot quasi con dolcezza. «La sua stanza?» «La stanza di quando era bambina.» Il suo viso era disteso, ma c'era un'intensità nel suo modo di parlare che
mi metteva a disagio. Mi chiesi se gli avvenimenti delle ultime due settimane non l'avessero fatta uscire di senno. Senza darmi il tempo di rispondere girò attorno al tavolo e mi prese per mano. Era la prima volta che Margot faceva un gesto del genere e io ero troppo stupito per opporre resistenza. «Vieni, Michael. Voglio farti vedere una cosa.» Mi guidò verso le scale sul retro della casa. Uscimmo in un ampio corridoio con il pavimento di legno, con le finestre distribuite su un lato e semplici porte laccate sull'altro. Aprì la prima di queste porte e si fece da parte per farmi entrare. «Ecco» disse. Si fermò sulla soglia, rendendosi conto improvvisamente che vedere la stanza di Caitlin il giorno del suo funerale era l'ultimo dei miei desideri. «Oh, non tirarti indietro, ora che sei arrivato sin qui.» Mi prese per il braccio e mi spinse avanti. Era una stanza piuttosto piccola, semplice e luminosa, con un camino di ghisa e il soffitto spiovente. Un vecchio letto singolo, accuratamente rifatto. Un cesto di vimini carico di peluche. Sulla mensola del camino una coppa vinta a una gara di nuoto. «Si vede il fiume dalla finestra. Adorava guardare il fiume» disse Margot. Sì. Lo sapevo. Caitlin me l'aveva detto. Mi sembrava di vederla, una bambina bionda con grandi occhi, seduta sul letto che di notte fissa per ore l'acqua del fiume illuminato dalla luna, persa nella grande casa, come una principessa in una torre. Mi avvicinai alla finestra e mi bloccai. Sul davanzale c'erano tre fotografie e sul muro era appeso un calendario con gruppi di giorni cerchiati con un pennarello colorato. Provavo un disagio che non riuscivo a focalizzare, qualcosa di strano, giù nelle viscere. Era una sensazione chiaramente fisica, come un nervo che salta. Presi una delle foto incorniciate. Era un'istantanea che mi avevano scattato durante una recente missione in Bosnia. Portavo gli occhiali da sole e ridevo sporgendomi dalla cabina di un camion, mentre salutavo con la mano l'obiettivo. Anche le altre due erano fotografie mie, scattate nell'ultimo anno. Il calendario sul muro era dell'anno in corso. I blocchi di giorni segnati corrispondevano ai miei soggiorni all'estero. La data del mio ritorno dal viaggio in Venezuela era stata cancellata con una croce e segnata con un punto interrogativo. Il tremore che sentivo nella pancia si fece più intenso.
«Ogni volta,» disse Margot «ogni volta che sei andato via negli ultimi due anni lei veniva qui per una notte o due. A volte si fermava più a lungo. E io la sentivo, sai. La sentivo singhiozzare. La moglie che capiva.» Fissai sbalordito la foto che avevo in mano. «Non mi ha mai detto niente di tutto questo.» «Certo che no, Michael. Era suo dovere non dirtelo.» Rimisi la foto sul davanzale. Fuori sulle colline boscose si addensavano cortine di nubi grigio scuro alla sommità e dorate alla base, dove il sole del tramonto le illuminava. «Di che cosa sarei responsabile, Margot?» «Di schiacciarci» disse. «Di soffocarci.» «Schiacciare voi?» «Me e Caitlin. Ci togliete la vita. Uomini come te ed Edward. Ci soffocate con la vostra assidua protezione. Partite per le vostre crociate e ci lasciate a casa come delle castellane. A pagare i servi. A mantenere acceso il focolare.» «Non era affatto così tra me e Caitlin.» «È sempre così. Con Edward era l'Italia, la Corea e la Malesia. Con te era la Turchia, l'Africa, il Sud America, quei posti dimenticati da Dio dove ti piace giocare al salvatore.» Distolse gli occhi da me e fissò il paesaggio oltre la finestra argentata. «Sai, Michael, quando ero una ragazza avrei desiderato insegnare.» La guardai stupefatto. «Storia e inglese. Sì, proprio così. Mi ero diplomata. Avevo la mia scuola. Una piccola scuola in un paese chiamato Brightwell, nel Kent. Sarebbe stata la mia grande avventura. Nessuna donna della mia famiglia aveva mai lavorato fuori casa. Io non ero mai stata in nessun luogo da sola. Per quanto ne sapevo, Brightwell avrebbe potuto essere vicino a Singapore. Avevo già acquistato il biglietto del treno. Devo averlo ancora da qualche parte.» La sua voce si indurì. «Poi ho conosciuto Edward. Naturalmente non ne voleva neppure sentir parlare. E io non ho saputo tenergli testa. Era molto più anziano di me e aveva una conoscenza del mondo molto più vasta della mia. Ma non è stata questa la ragione della mia rinuncia. La ragione era che io lo amavo, ecco perché non avrei mai potuto vincere. Non avrei neppure potuto combattere la mia battaglia, perché lo amavo. Proprio come Caitlin non ha saputo combattere te.» «Ma io non l'ho mai ostacolata. Non ho mai interferito in nessun suo progetto.»
«Come sei stupido» disse con irritazione. «Tutti uguali, tutti con il paraocchi. In nessun progetto? Il suo progetto era vivere con te, ecco qual era il suo progetto.» Toccò il copriletto, forse inconsciamente, accarezzando la superficie morbida con il palmo della mano. «Vivere.» «Margot, io avrei fatto qualsiasi cosa per lei. Assolutamente qualsiasi cosa.» «Certo» disse guardandomi negli occhi. «Tranne aver bisogno di lei.» Riposi la fotografia sul davanzale. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal mio volto. In ogni foto ridevo. In ogni singola foto ero completamente, disgustosamente felice. «Sai, ti amava più della luna e delle stelle» disse con grande calma. «Non dimenticarlo mai, Michael, altrimenti tutto è stato inutile.» La sentii allontanarsi lungo il corridoio e scendere le scale. Sapevo che non voleva che la seguissi. Quando tornò il silenzio vagai per la stanza, toccando gli oggetti, prendendoli in mano. Forse, pensavo, il mio tocco l'avrebbe evocata. Mi immaginavo di vederla affiorare dall'ombra dello specchio, pallida, che allungava verso di me una mano con le dita esili. Speravo che mi apparisse. Mi sedetti sul letto di quand'era bambina e chiusi gli occhi. Sotto il mio peso le molle cigolarono. Spensi la luce e lasciai la stanza chiudendomi la porta alle spalle senza far rumore. Percorsi il corridoio sino alle scale e scesi nella sala da pranzo. Sul tavolo c'erano dei gerani scarlatti accanto a un vaso di cristallo molato, come se Margot fosse stata chiamata altrove prima di aver finito di sistemare i fiori. Nella stanza aleggiava l'odore amaro degli steli recisi. La cartella giaceva sul tavolo esattamente dove l'avevo lasciata. La presi, gettai la cinghia sulla spalla e uscii dalla porta posteriore nell'aria che imbruniva. Sarebbe stata una notte di bufera. Il vento già faceva gemere gli alberi. Mi fermai sull'angolo della casa e mi voltai a guardare la terrazza. Il prato bagnato era illuminato dalla luce gialla che usciva dalle finestre della sala che Caitlin aveva ristrutturato durante una di quelle visite di cui io non sapevo niente. Suo padre era seduto in quella stanza e forse stava cercando di rimettere insieme i frammenti sparsi della sua memoria, scompigliati da un vento ben più potente di quello che mi soffiava contro in quel momento. Mi sentii trafiggere da un sentimento di solidarietà per quel vecchio che lottava per dare senso a un mondo che gli si sgretolava davanti agli occhi. Mentre mi avviavo verso la macchina, vidi un'altra luce in mezzo agli alberi, davanti a me. Avrei voluto continuare per la mia strada, ma intuivo
che quello era un segnale e dopo un attimo di esitazione mi inoltrai tra i cespugli in direzione della luce. La porta non era chiusa. La spalancai con la punta di un dito ed entrai. Il locale era come l'avevo visto l'ultima volta, la sola volta in realtà che vi avevo messo piede. Il cavalletto di Caitlin nel mezzo, e poi i disegni e gli acquarelli fissati alle pareti con le puntine. C'era un'atmosfera intima e protetta nella luce dorata della stanza, con i rami degli alberi che spazzavano il tetto e la pioggia che batteva sui vetri delle finestre. «Caitlin non ha mai portato nessun altro qui» disse Margot. Era seduta su uno sgabello accanto alla panca, sotto la finestra. Mi sembrava più piccola e più vecchia di come mi era apparsa nella casa e parlava con voce più bassa. «Non ha mai portato qui nessuno e non mi ha mai parlato di nessuno. Non voglio che tu abbia dei dubbi in proposito.» «Grazie.» Mi muovevo nella stanza nello stesso modo in cui mi ero mosso la prima volta che vi ero entrato, esaminando i disegni e i dipinti, stupito e incantato esattamente come allora, per la loro forza e la loro energia. «Sono tutti lavori nuovi» disse Margot. «Edward effettivamente bruciò tutto quel giorno.» «Quando ha ripreso a disegnare, Margot?» «Ha cominciato dopo il secondo colpo apoplettico di Edward. Quasi due anni fa.» «L'hai detto alla polizia?» «Non credo che possa servire alla polizia, Michael. Permettimi di tenere qualcosa per me stessa.» Sospirò guardandosi attorno nel piccolo studio. «Non so che cosa l'abbia indotta a riprendere. Non volevo farle domande per non allontanarla un'altra volta. Immagino che Edward non fosse più in grado di impedirglielo. E forse lei desiderava una qualche forma di riconciliazione. Era molto buona con lui quando stava qui.» «Perché non me l'ha detto?» «C'erano moltissime cose che Caitlin non diceva a nessuno di noi. Non mi ha detto del nipotino. Del nostro nipotino che ora è fumo, e cenere e aria. Proprio come lei.» L'immagine mi turbò e forse Margot se ne accorse perché aggiunse: «Non voglio essere crudele, Michael. Ma in questa storia non ci sei solo tu». Feci scorrere lo sguardo ancora una volta sui disegni: un vecchio chino sulla sua birra al tavolo di un pub, anatre in uno stagno, un boschetto di abeti. «Hai idea di come sia potuto succedere? Di come tutto ciò sia co-
minciato?» «Ho avuto Caitlin quando non ero più giovane, sai.» Mi chiesi se avesse sentito la mia domanda. Proseguì: «Sono stata io a volere un figlio. Per essere sincera non so neppure se Edward lo desiderasse. Aveva già passato i quarant'anni. Non gli ho permesso di scegliere. Immagino che non sia stato giusto, ma io volevo disperatamente qualcosa di mio. Qualcosa di importante, qualcuno che avesse bisogno di me». Poi guardandomi negli occhi chiese: «Pensi che sia stata egoista?». Non riuscivo a sostenere il suo sguardo, perciò volsi il capo altrove. Se non avessi fatto quel gesto mi sarebbe del tutto sfuggito il disegno appeso al muro accanto alla porta. Mi avvicinai e lo scrutai da vicino, solo perché era diverso da tutti gli altri. Sembrava un disegno tracciato da un bambino con una matita blu. Una casa con al pianoterra due finestre più o meno quadrate, divise in riquadri. Dal comignolo storto usciva una spirale di fumo. Alberi stecchiti con fogliame a ciuffi lanosi. Qualcosa, forse una macchina con ruote e punte metalliche, davanti alla facciata. Una casa contadina. La stessa del disegno di Caitlin, ma in una versione infantile, attraente nella sua rozza energia. Lo strappai dal muro. Il disegno era stato scarabocchiato su un foglio A4 di carta per fotocopie. Lo voltai. Scritte a matita, in uno stampatello da prima elementare, c'erano queste parole: «Conosco il sapore della tua assenza ed è amaro». Sembrava una citazione copiata a fatica e in modo erroneo da un libro. E sotto, quella che sembrava una strana firma con le lettere goffamente unite le une alle altre: B. Carrick. Posai il disegno sulla panca di fronte a Margot e lo spianai con la mano. «L'ha appeso sul muro molto tempo fa» disse. «Suppongo che sia una sorta di regalo. Doveva avere un significato speciale per lei.» «Non sai di chi sia?» «Sembra il tipo di disegno che un bambino dona all'insegnante. Non credi?» Voltai il foglio e indicai la firma. «E chi è B. Carrick?» le domandai con tono involontariamente scortese. «Non lo so. Perché dovrei?» «E Angie Carrick?» Sentivo che tremavo. «Hai mai sentito quel nome?» «Michael, se lo sapessi te lo direi.» Piegai il foglio e lo infilai nella tasca della giacca. Le mie dita incontrarono un pezzetto di carta. Mi allontanai da Margot e tirai fuori il foglietto.
Era il messaggio fissato al mazzolino di fiori di Julie Clarke. Julie Clarke del Centro di York Road. Aveva parlato di studenti. Personale e studenti. Rimasi accanto alla finestra a osservare la pioggia che cadeva sui lauri. «Che cosa hai intenzione di fare?» chiese Margot. «Della tua vita?» «Ho l'opportunità di andare all'estero. Insieme a un'amica. Un'amica molto cara.» «Dove?» «In un altro buco abbandonato da Dio, dove posso recitare la parte del salvatore.» Fui sorpreso dall'amarezza della mia voce. «Probabilmente è saggio da parte tua» disse con calma. «Ora non c'è più nulla che tu passa fare per Caitlin.» Mi guardai attorno. Lo studio era immerso nella sua luce morbida, mentre fuori la pioggia scrosciava attraverso il fogliame e batteva sul tetto. Toccai il disegno ripiegato che tenevo in tasca. «Caitlin voleva che io la trovassi» dissi. «Una volta me l'ha detto.» Margot si alzò rimanendo accanto a me, con lo sguardo fisso sul sottobosco impenetrabile. «Bene, Michael,» disse «se la troverai mi dirai dov'è.» 17 Il mattino successivo portò una delle tante giornate londinesi tristi, piovose, indaffarate. Perfettamente in sintonia con il mio malumore. Chiamai l'Ufficio Informazioni Elenco Abbonati. Provai varie combinazioni che comprendessero le parole York, Road e Centro Comunitario, finché mi venne l'idea di provare con il nome di Julie Clarke e in meno di mezz'ora riuscii a trovare il Centro, la cui direttrice si chiamava appunto Julie Clarke. L'indirizzo del Centro di York Road non mi diceva niente. Era a Streatham, un quartiere di Londra che mi era completamente sconosciuto. Non sapevo che cosa avesse potuto legare Caitlin a quel luogo. Mi feci un caffè e mi sedetti al tavolo con la guida stradale di Londra. Fuori il vento di novembre si abbatteva violento sui cespugli sparsi per il giardino sul retro della casa. Quando fui pronto, misi il disegno ripiegato nella tasca della giacca e mi diressi verso la macchina. Mi ci volle più di un'ora per dirigermi all'altro capo della città, nel traffico caotico della mattina. Ma non ebbi alcuna difficoltà a trovare il Centro; un edificio basso a forma di "L", in mattoni color vinaccia non lontano da Streatham Street, in un labirinto di squallide strade non ancora trasformato
in quartiere residenziale. Era situato dietro un muro di cemento che qualcuno, facendo retromarcia, aveva in parte demolito. Le finestre erano schermate da sbarre e i muri esterni erano coperti di graffiti. Aveva l'aspetto di un vecchio e tetro edificio pubblico dell'Europa dell'Est. Parcheggiai e attraversai la strada tra gli spruzzi delle automobili. Spinsi le doppie porte ed entrai nell'atrio. Le pareti erano ricoperte da una serie di tabelloni sui quali spiccava una miriade di volantini colorati e annunci che offrivano lezioni di lingue, assistenza legale, stanze in affitto, lezioni di yoga, riabilitazione per tossicodipendenti. All'interno c'era un'atmosfera allegra e vitale. Da una stanza sulla mia destra provenivano i suoni di una lezione di ginnastica. L'insegnante dava i comandi ad alta voce. La voce aveva qualcosa di familiare. Sentivo una leggera vibrazione nel pavimento e nell'atrio arrivava un vago odore di sudore e di asciugamani usati. Sulla mia sinistra una serie di doppie porte si apriva su una mensa. Entrai. Era un grande spazio aperto arredato con tavoli di laminato plastico e illuminato da lucernari incrostati di sudiciume. Sentivo odore di caffè appena fatto e di pollo allo zenzero. Il televisore a parete, montato in un angolo, trasmetteva una partita di calcio. Dietro il banco una donna delle Indie Occidentali preparava dei piatti facendo un gran chiasso e canticchiando sottovoce. Davanti a lei c'era un tagliere con un mucchietto di erbe aromatiche. «Vuoi qualcosa, tesoro? Non siamo ancora aperti, però.» «Julie. Cerco Julie Clarke.» «Julie sta facendo lezione adesso. Senti?» Girò la testa verso la stanza dove si teneva la lezione di ginnastica, poi mi squadrò dall'alto in basso. «Ma tu non hai l'aria da atleta, tesoro.» Ridacchiò facendo tremare la pancia. «Una nottataccia, gioia?» Non mi ero rasato e mi rendevo conto che dovevo avere l'aria devastata. «Aspetto.» «Aspetta. Arriva tra non più di dieci minuti. Brenda ti fa un caffè quando ha finito.» Mi resi conto che stava parlando di se stessa. «Grazie. Non c'è bisogno.» Ma dopo che mi fui seduto a uno dei tavoli, Brenda mi portò un caffè. Sollevò goffamente il piano mobile del bar e mi mise una tazza davanti, senza smettere di parlare. Sentii un irresistibile bisogno di chiederle di Caitlin. Forse Caitlin si era appoggiata a quel banco, aveva scherzato con quella donna generosa, aveva bevuto il suo caffè e aveva mangiato il suo pollo allo zenzero. Qui, in un'altra vita. Per un attimo provai una sensazio-
ne quasi insopportabile di rigetto. «Stai bene, tesoro?» Ma prima che potesse darmi ulteriori dimostrazioni della sua gentilezza le porte si spalancarono e in un attimo la stanza fu invasa da donne di mezza età che ridevano, ansimando nelle loro tute da ginnastica variopinte. Chiacchieravano spingendosi a vicenda per raggiungere il banco. Brenda ritornò al suo posto abbassando lo sportello mobile, come fosse un ponte levatoio. Intravidi Julie Clarke in calzoni corti e maglietta blu. A un cenno di Brenda le due donne guardarono nella mia direzione, Brenda preoccupata, Julie allibita. Julie si fece largo tra la folla per raggiungere il mio tavolo. «Michael, lei è l'ultima persona al mondo che mi sarei aspettata di vedere qui, oggi.» E, cambiando tono: «Anzi, in qualunque momento». «Ci credo.» Rimase in piedi a fissarmi, turbata. La sua maglietta aveva aloni scuri di sudore attorno al collo e sotto le ascelle. Sentivo il calore che sprigionava dal suo corpo tozzo. Si asciugò il sudore con un asciugamano che portava sulle spalle. «Ha l'aria disfatta» disse. «Si sente bene?» «Ho bisogno di chiederle qualcosa.» Riprese un'aria professionale gettando un'occhiata all'orologio. «Faccio una rapida doccia e ritorno da lei in un attimo.» «Preferirei parlarle subito, Julie.» Era palesemente contrariata dalla mia richiesta, ma non sapeva come rifiutarla. Fece schioccare la lingua. «Va bene. Venga.» Si mosse tra la folla e io la seguii nell'atrio, quindi in una stanza di fronte alla palestra. Era un piccolo ufficio malandato con una scrivania di metallo solcata da righe, incastrata tra due schedari verdi. Il piano era ordinarissimo. C'era il modellino in ottone di una Bugatti e una foto sfocata di una donna con i capelli castani e gli occhi da cerbiatta. Sul muro c'era una scritta che diceva: «Sarete frustati finché non diverrete moralmente degni». Julie si sedette dietro la scrivania, strofinandosi i capelli dritti con l'asciugamano. Mi fece segno di sedere sull'altra sedia disponibile. «Siamo sconvolti da quanto è successo a Caitlin» annunciò. «Tutti. Forse ieri ho parlato a sproposito, ma volevo che lei sapesse come stavano le cose. Non riesco neppure a immaginare come lei si senta.» «Grazie di essere venuta. Al funerale. Mi ha fatto piacere.» «Davvero?» disse con diffidenza. «Senza neppure sapere chi fossi?»
Trassi un profondo respiro. «Sto cercando di capire come sia potuta succedere una cosa simile. Ecco perché ho bisogno di sapere che cosa faceva Caitlin in questo posto.» Smise di strofinarsi i capelli. «A quanto pare lei non se ne è mai interessato prima d'ora.» «Me ne interesso ora.» «A che scopo?» «Non lo so, spero che possa giovarmi in qualche modo.» Julie esplose come se io avessi tirato il grilletto. «Tu speri che possa giovarti.» Sbatté con forza l'asciugamano sul piano della scrivania. «Forse se avessi dimostrato un qualche interesse per quello che facciamo qui, per quello che Caitlin faceva o cercava di fare, forse allora avresti capito che era una persona molto speciale, senza dover rovistare nella sua vita adesso. Adesso che è troppo tardi.» Si riprese respirando a fatica, sconvolta per ciò che aveva detto. Ricominciò a sfregarsi furiosamente i capelli con l'asciugamano. «Non voglio renderti la vita ancora più difficile, Michael. Ma venire qui, oggi! Ha lavorato qui per due anni. In due anni non sei mai venuto una sola volta. Mai.» «Non sapevo che lavorasse qui.» «Non lo sapevi? Avresti dovuto saperlo.» Scossi la testa. «Non ho mai saputo dell'esistenza di questo posto né di te sino a ieri.» Rimase in silenzio per qualche minuto. «Veniva qui a insegnare. Ha incominciato con un paio di lezioni di alfabetizzazione alla settimana, soprattutto per immigrati.» «Insegnava inglese?» «Alfabetizzazione» la mia ignoranza la irritava. «Leggere e scrivere, capisci? Per tutti, ma soprattutto per immigrati. All'inizio non era molto brava. A dire il vero non è mai stata molto brava in questo. Non credo che in vita sua avesse mai incontrato qualcuno che non sapesse leggere e scrivere, prima di venire qui. Ma aveva un tale desiderio di aiutare gli altri che diventava... contagioso. La sua presenza ci ha influenzato tutti. Andavamo a visitare ospizi, ospedali, prigioni.» «Faceva questo?» «Sì, Michael. Non che fosse molto brava, professionalmente parlando. Prendeva tutto troppo a cuore. E non ha mai smesso di misurarsi', ma1.» Julie si passò una mano tra i capelli. «C'è gente qui che pensa che fosse una santa. Non penserebbero mai una cosa simile di me, qualsiasi cosa
faccia. Ma in Caitlin c'era qualcosa di speciale. E lo vuoi sapere, Michael?» Alzò in modo provocatorio il viso squadrato verse di me, come per dimostrare che era pronta a riconoscere i propri errori. «Non pensavo che avrebbe resistito a lungo. La moglie del chirurgo, tutta abiti firmati e buone intenzioni. Ma avresti dovuto vederla.» «Avrei davvero voluto vederla» mormorai. «Non pensavo che ce ne saremmo mai fatti una ragione quando lasciò il Centro.» Il suo tono di voce era di nuovo calmo. La rabbia era svanita, anche se non ne compresi il motivo. «Ha smesso di venire?» «Ebbene, sì.» Mi guardò incerta. «Quando ha smesso di venire?» «Non lo so, Michael. Sei, otto mesi fa. Forse prima. Veniva ancora qualche volta a dare una mano. Ma diceva che aveva troppo da fare a casa.» Esitò, in dubbio se aggiungere altro. «Ci aveva detto che tu non volevi che venisse qui.» Estrassi dalla tasca il disegno e lo dispiegai sulla scrivania davanti a lei. «Ti dice qualcosa questo?» Vidi le linee della sua mascella irrigidirsi. Guardò il disegno di traverso. «No, che cos'è?» Girai il foglio, ma tenni una mano sulla firma. «E questo che cosa ti dice?» Aggrottò la fronte. «Che cosa dovrebbe dirmi?» «Ho trovato questo disegno tra le cose di Caitlin. È possibile che sia stato fatto da uno dei suoi studenti?» Alzò le sopracciglia intuendo lo scopo delle mie domande. Aprì la bocca per rispondermi, ma prima che potesse parlare scoprii la firma. «Oh!» esclamò. «Chi è B. Carrick» chiesi. Prese il disegno e lo rivolse alla luce. «Chi è B. Carrick, Julie?» chiesi di nuovo. «E chi è Angie Carrick.» «Non so niente di questa Angie Carrick, ma lui lo ricordo molto bene. Bernie, si chiamava? No, no. Barney. Insisteva che lo chiamassimo Barney. Un anno e mezzo fa, più o meno. Un ragazzo del nord. Era un marcantonio, se ti piacciono quei tipi lì. Voglio dire, gli uomini belli» «Frequenta ancora il Centro questo Barney Carrick?» «Oh, no. È venuto qui solo per un paio di settimane. Penso che abbia trovato lavoro all'estero o qualcosa del genere.» Mi restituì il disegno.
«Senti, Michael. Gli studenti danno sempre delle cose agli insegnanti. Regalini. Ricordi. Alcuni di loro sono come ragazzini, orgogliosi di quello che hanno imparato.» «Caitlin non ha conservato nient'altro di questo posto. Nessun regalo, nessun ricordo.» «Non significa niente. Questo tizio come è venuto se ne è andato. Fanno così. Qui la gente va e viene in continuazione. L'ho notato soltanto perché le ragazze dell'ufficio gli facevano gli occhi dolci.» Si alzò, tirò fuori un cassetto dello schedario e incominciò a passare le schede. «Ecco.» Estrasse un cartoncino giallo e lo posò sulla scrivania. C'era la lista dei nomi di una classe stampata al computer. «Bernard John Carrick. Aprile dell'anno scorso. Si è iscritto al corso di Catey, ma, come vedo qui, ha frequentato solo due lezioni. Dopo di che non si è più fatto vedere.» «Hai un indirizzo?» «Dovremmo averlo, per la tassa d'iscrizione.» Segnò con un dito una riga del registro. «Non che da un tipo così ci ricavassimo granché» borbottò Voltò il foglio verso di me in modo che potessi leggere l'indirizzo scribacchiato in maio modo, continuando a picchiettarvi con il dito. Diceva. Indiab Mutiny, Mason Park. Bradford. «Forse è il nome di un ristorante dove era stato» spiegò Julie. «Ad alcuni di questi ragazzi piace la clandestinità. Per non pagare le tasse, per evitare la polizia o altro. Scrivono la prima cosa che gli passa per la testa.» Uscii dal Centro e attraversai la strada per raggiungere la macchina. Stesi il disegno sul sedile del passeggero accanto a me. La pioggia tamburellava sulla carrozzeria della Audi. Dal cellulare chiamai l'Ufficio Abbonati e chiesi il numero del ristorante Indian Mutiny di Bradford e senza grandi problemi trovai anche il nome della via. Chiamai il numero. Rispose un uomo con un accento alla Peter Sellers. «Vorrei parlare con un certo signor Carrick.» «Lei lavora.» «Lei?» «Angela. Oggi lavora. Venire verso le quattro.» L'uomo fece una pausa. «Chi, per favore?» «Richiamo più tardi.» Tolsi la comunicazione mentre stava ancora parlando. Rimasi seduto per qualche tempo con le mani in fiamme sul volante freddo, fissando il parabrezza che sembrava ondeggiare sotto la pioggia, finché un colpo secco sul vetro del finestrino a pochi centimetri dal mio
orecchio mi fece sobbalzare. Mi balenò davanti agli occhi l'uniforme nera e gialla, lucida di pioggia, degli addetti al parcheggio e vidi un viso femminile dall'espressione corrucciata sotto un cappuccio sgocciolante. Alzai un dito per dirle che me ne stavo andando e accesi il motore. 18 Uscii dallo svincolo dell'autostrada e percorsi la squallida area industriale a sud di Bradford. Mi persi immediatamente nel dedalo degli impianti in gran parte caduti in disuso. Le strade lastricate con blocchi di cemento erano fiancheggiate da bassi edifici malandati chiusi da cancelli scorrevoli. Si vedevano furgoni parcheggiati su spiazzi deserti, un deposito di autobus dietro una recinzione di catene e qua e là ciminiere di mattoni che sembravano appartenere a un'altra era. Faceva freddo nel tardo pomeriggio invernale e sull'alta brughiera a oriente aleggiava una foschia biancastra. In lontananza le colline sembravano fondali di un teatro. Ma giù nella pianura l'aria puzzava di diesel e di spazzatura bagnata. Sbucai in una strada diritta che correva lungo la linea ferroviaria, al di là di infiniti binari morti su cui erano abbandonati vagoni coperti di graffiti. Svoltai a destra, allontanandomi dalla ferrovia, passai sotto un viadotto ed entrai nel comprensorio di Mason Park. Le case a schiera in mattoni rossi risalivano all'epoca vittoriana. Case strette con minuscoli giardini davanti alla facciata, invasi dal ligustro e dall'erba alta. In strada erano parcheggiate macchine decrepite e contro la staccionata dei giardini c'erano mucchi di rifiuti domestici. Un gruppo di ragazzini tirava calci a un pallone nel mezzo della strada. Mentre passavo davanti a loro sentii il pallone colpire con un tonfo sordo la carrozzeria della Audi e quando guardai nello specchietto retrovisore i ragazzi mi osservavano con i loro piccoli visi induriti e carichi di malizia. La via si immetteva ad angolo retto in una strada più ampia. Un cartello stradale indicava che quella era Mason Park Road. Non avevo idea di dove andare, ma sembrava una strada importante, e io svoltai a destra. Avevo pensato che una volta dentro il comprensorio non sarebbe stato difficile trovare il ristorante Indian Mutiny, ma in realtà non sapevo che cosa cercare. C'era un pub sulla sinistra e qualche metro più in là una piccola folla era adunata sul marciapiede. Udii rumore di vetri infranti e due uomini incominciarono a menar le mani, indietreggiando nella strada. Fui costretto a fermarmi per non investirli.
Mentre i due uomini se le davano di santa ragione apparve in fondo alla strada una macchina della polizia che giungeva dalla direzione opposta alla mia. Scesero quattro poliziotti e la folla si ritirò verso il pub lanciando grida di scherno. La polizia non li inseguì, ma un poliziotto notò la Audi e si diresse verso di me. Abbassai il finestrino. Era un uomo di mezza età, ben piantato, che portava una mantella impermeabile a strisce fosforescenti. Si fermò, indietreggiò di qualche passo e prese a osservarmi. «È sicuro di trovarsi nel posto giusto, signore?» chiese accentuando la parola "signore" in modo caustico. «Cerco un ristorante. L'Indian Mutiny.» «Be', in questo caso si trova nel posto giusto.» Appoggiò le mani sul bordo del finestrino e si chinò. «È il locale di Hukum, il Mutiny. La prima a destra e poi cento metri più in là.» «Grazie.» Feci per chiudere il finestrino, ma lui non spostava le mani. Guardava il rivestimento interno di pelle della Audi con evidente disprezzo. O forse il suo sguardo sprezzante era diretto a me. «Se fossi in lei,» disse «stasera lascerei perdere la cena pachistana.» «Perché mai?» «Segua il mio consiglio, porti la sua bella macchina lustra lontano da qui, chiaro?» Chinò la testa di lato come per dire che non aveva altro da aggiungere e se ne andò. Il ristorante si trovava in mezzo a una fila di miseri negozi che si affacciavano su un ampio marciapiede. All'esterno, davanti al locale, un enorme pachistano in abiti tradizionali e sandali di plastica apriva i lucchetti delle saracinesche metalliche che proteggevano le vetrine, facendole scorrere verso l'alto. Fermai la macchina e scesi. L'uomo si voltò a guardare me e la macchina, con la stessa espressione che aveva avuto il poliziotto qualche minuto prima. Era un gigante, con una lucida barba nero-bluastra. Mentre mi avvicinavo per parlargli, l'uomo, come se non si fosse accorto della mia presenza, riprese il suo lavoro, lasciandomi sul marciapiede come un perfetto idiota. «Sì? Cosa è?» Il secondo uomo era più anziano e più piccolo, una figura impiegatizia con una giacca frusta. Aveva un viso tondo e portava occhiali dalla montatura di corno. Ritto sulla soglia del ristorante si asciugava le mani in uno strofinaccio da cucina. Mi parve di riconoscere la voce che avevo sentito al telefono. «Lei è il proprietario?»
«Giusto. Hukum, sì.» «Cerco Angie Carrick.» La sua espressione rimase immutata, ma vidi i suoi occhi scorrere su di me dalla testa ai piedi. Notai che il grosso uomo barbuto non si era mosso e scuoteva una delle saracinesche fingendo che si fosse inceppata. «E tu sei chi, per favore?» chiese Hukum. «Un amico.» Mi guardò incredulo e gettò lo strofinaccio all'interno del locale. Senza pensarci aggiunsi: «È venuta a cercarmi a Londra». L'uomo barbuto finì di trafficare con le saracinesche e a passi felpati venne a piantarsi come un albero al mio fianco. Hukum ebbe con lui un breve scambio di parole in urdu, come un padrone che manda nella cuccia un cane sospettoso. Il gigante rientrò nel ristorante. Notai che quando camminava non faceva rumore. «Angela è come una figlia per me.» Hukum mi fissava attraverso i suoi occhiali dalla montatura di corno. Era ovvio che non gli piacevo. «Sono venuto da lontano per parlarle. Può dirle che sono qui?» «È andata al canale di Wharf Street,» disse dopo un attimo di silenzio «a cercare il vecchio. Suo zio, il signor Stanley.» «Come ci si arriva?» «Non è bene andare là. L'ho messa in guardia molte volte. Ma è ostinata.» «Ci credo.» «Ci sono sempre casini qui. Bande e pestaggi e ladri.» «Vado a prenderla. Mi dica dov'è il canale.» Hukum non si fidava di me. Forse avevo messo troppo in mostra la mia ansia di trovare Angie. Ma si stava facendo buio e lui era preoccupato per la ragazza. Alla fine vinse il timore che le succedesse qualcosa. Mi diede delle rapide indicazioni. «Torno subito.» «Se non torni,» mi disse «chiamo la polizia.» Per raggiungere il canale dovetti attraversare tutta l'area di Mason Park. Nelle strade semideserte si respirava un'atmosfera di sospetto. In strada alcuni lampioni si accesero e fu come se improvvisamente fosse calata la sera, una tetra sera invernale. Svoltai in Wharf Street. Case di mattoni che si affacciavano direttamente sulla strada digradavano lungo un ripido pendio verso il canale. Metà delle case aveva le finestre chiuse da assi e nell'altra metà i vetri verso strada e-
rano in frantumi. Non avrei saputo dire se fossero abitate. In fondo la strada era bloccata da una barriera di ferro ondulato, coperta di oscenità tracciate con lo spray. Alcune delle lastre metalliche erano state appiattite e attraverso le fessure vedevo lo scintillio dell'acqua e il muraglione di mattoni di una fabbrica sull'altra riva. Angie era sul bordo del canale e mi volgeva le spalle, con una mano si riparava gli occhi, guardando alternativamente a destra e poi a sinistra. Indossava un paio di jeans e una giacca di pelle. I capelli le cadevano sulle spalle e sembrava più giovane di come la ricordavo. Percepivo dalla posizione del suo corpo che era tesa. Non sentì la macchina finché non parcheggiai in fondo alla strada. Scesi sbattendo la portiera alle mie spalle e feci scattare le serrature con il comando a distanza. Appena mi vide si irrigidì e incrociò le braccia sul petto. Passai attraverso un pertugio tra i pannelli di ferro ondulato e la raggiunsi sull'alzaia invasa dalla vegetazione. Un vento gelido si insinuò giù per il canale, increspando la superficie dell'acqua e scompigliandole i capelli. «Non dovevi venire» disse. «Volevo scusarmi.» La sua bocca si piegò in un'espressione dura. «E poi?» «E poi dobbiamo parlare, Angie. Lo sai.» «Come hai fatto a scovarmi?» «Questo non è importante adesso. Invece è importante che parliamo.» «Non posso. Lasciami in pace.» Mi avvicinai. «Angie, chi è Barney Carrick?» Fece uno sforzo per cercare di nascondere la sorpresa. Il vento le soffiò una ciocca di capelli sulle labbra e lei la scostò con la mano. «Dimmelo tu» disse. Chiuse la cerniera della giacca e mi voltò le spalle. La afferrai per un braccio. «Chi è, Angie? Dimmi almeno questo.» Scosse il capo e fece qualche passo lungo l'alzaia. «Conosco il sapore della tua assenza,» le gridai senza più seguirla «ed è amaro.» Si fermò e si girò lentamente verso di me. «Che cos'è?» chiesi avvicinandomi. «Una sua frase? Una di quelle frasi carine che si scambiano gli innamorati?» «Vattene, Michael.» Estrassi il disegno dalla tasca e lo tenni all'altezza dei suoi occhi. La sua
bocca si aprì impercettibilmente. «Perché ha dato questo disegno a Caitlin?» Rimase in silenzio per qualche attimo, con gli occhi che si spostavano rapidamente tra me e il disegno. «Angie, tu non hai nessuna colpa per ciò che è accaduto. Ho solo bisogno di sapere. Chi è Barney Carrick? Tuo marito? Il tuo ex marito?» «È mio fratello» disse piano. «Barney Carrick è mio fratello.» «E questo?» Alzai nuovamente il disegno. «Che cosa significa?» «Lo sai che cosa significa» disse. «Va bene.» Ripiegai il foglio e lo infilai nella tasca interna della giacca. «Va bene.» Improvvisamente ritrovò tutta la sua energia. «Non serve a niente, Michael. Non posso aiutarti. Devi andartene.» «Ti aspetti che torni a casa come se niente fosse?» «È la cosa migliore che puoi fare.» «No, non posso lasciar perdere, Angie. E tu lo sai.» Si morse le labbra incerta. Improvvisamente allungò un braccio in direzione dell'alzaia. «Mio zio Stanley è laggiù» disse, come se l'assenza dello zio fosse da imputare a me. «Andiamo a cercarlo. Poi parliamo.» «No, Michael» disse. «Non capisci? Io non ho niente a che fare con te.» «Se non mi aiuti vado dalla polizia a spiattellare quello che so.» «Va', allora. Fa' quello che devi fare, ma lasciami in pace.» Si voltò e corse lungo la riva del canale. Sapevo che sentiva i miei passi che la seguivano, ma tenne la testa china senza mai guardarsi indietro. L'alzaia passava sul retro di minuscoli giardini intasati di mattoni e di ortiche. Una chiatta giaceva semi affondata nel canale, con la carcassa arrugginita sprofondata nel fango. Il vento freddo mi gettò in viso qualche goccia di pioggia. Negli ultimi barlumi di luce il canale si era fatto biancastro, riflettendo il cielo lattiginoso. A un tratto, un ponte bloccò la vista dell'alzaia. Seguii Angie sotto il ponte e quando emersi dall'altra parte scorsi il vecchio. Era seduto su un mucchio di traversine ferroviarie vicino al bordo dell'acqua e succhiava la pipa. Indossava un vecchio cappotto marrone e un basco unto. Era alto e segaligno, con i baffi bianchi macchiati di nicotina. Notai che non portava le calze. «Vecchio mascalzone» lo apostrofò mentre si avvicinava. «Mi hai fatto spaventare.» «Davvero, bambina?» disse spalancando gli occhi azzurri.
Gli si sedette accanto, lo prese sottobraccio e si strinse a lui disperata, nascondendo il viso nel cappotto del vecchio, come se potesse cancellare la mia esistenza solo rifiutandosi di guardarmi. Indietreggiai imbarazzato. «Prima o poi ti perderai, diavolo d'un vecchio che non sei altro.» Stanley sbatté le palpebre e tornò a fissare al di là del canale lo scenario desolante delle officine abbandonate. «Sono settant'anni che vengo qui, bambina. Ormai dovrei conoscere la strada.» Alzò lo sguardo oltre la massa nera dei capelli della ragazza e mi ispezionò, mentre me ne stavo immobile sotto la pioggia. Ebbi l'impressione che nulla sfuggisse al suo sguardo azzurro. Batté la pipa contro la traversina su cui era seduto, poi puntò il cannello verso di me, come se fossi un cavallo al mercato. «Chi è questo signore? Un tuo amico?» «Non sono venuto a creare problemi» dissi, rendendomi subito conto del tono eccessivo della mia frase. «Oh, davvero?» Tornò a ispezionarmi con rinnovato interesse. «Allora perché sei venuto? Per fare un giro turistico?» «Sono venuto per riportarla a casa in macchina» dissi. Mi parve una risposta azzeccata. «Vieni dal Grande Fumo?» chiese. «Da Londra. Sì.» «Ma è magnifico. Sei venuto da così lontano solo per dare un passaggio a un povero vecchio e sfiatato come me?» «Avevo anche altri motivi.» «Immagino.» Sentivo che non mi toglieva gli occhi di dosso. Angie si alzò. «Dobbiamo tornare adesso, zio Stanley.» Si strinse il bavero della giacca attorno al collo. La pioggia cadeva fitta, in folate portate dal vento e i suoi capelli neri scintillavano di goccioline. Non mi guardava. «Non ti scioglierai» le disse lo zio Stanley. «A meno che tu sia costruita interamente di sale, come la moglie di Lot.» Lo zio Stanley, pensai, non era un uomo cui si potesse mettere fretta. Indicò il canale. «Le rane» annunciò. «Vengo qui soprattutto per le rane.» Seguii la linea del suo braccio teso. La pioggia batteva sull'acqua scura come peltro. Dalla superficie spuntavano le ruote di un carrello di un supermercato in cui si erano arenati oggetti vari: pezzi di polistirolo, bottiglie di plastica, lattine di birra e contenitori di cibo. «Le fabbriche vanno e vengono» diceva. «Officine meccaniche, laminatoi, altiforni. Ma le rane? Le
rane tornano anno dopo anno, come se niente fosse. Questo canale fu costruito nel 1798. In questo canale ci sono rane che devono avere più di duecento anni. Una belle età per una rana.» Guardò la pipa, come se fosse sorpreso di trovarsela in mano e la mise in tasca. «Ma forse mi sono di nuovo confuso.» Angie lo prese per un braccio. «Su, zio Stanley. Andiamo a casa adesso. Non dovremmo essere in giro a quest'ora. È pericoloso quaggiù.» Lo aiutò ad alzarsi e tornammo da dove eravamo venuti, adeguandoci al passo strascicato del vecchio. Dopo una decina di metri lo zio Stanley si fermò e si voltò a guardare l'acqua stagnante e gli edifici fatiscenti dove doveva aver lavorato per almeno mezzo secolo. «In Perù fanno le cose molto meglio» disse scuotendo il capo. «In Perù?» Angie sembrava nervosa, ma gli diede corda. «Come fanno le cose in Perù, zio Stanley?» «Non lo so, bambina. Ma scommetto che le cose in Perù vanno meglio che qui.» Lasciai che proseguissero sull'alzaia che diventava sempre più buia, rimanendo qualche passo indietro. Passammo attraverso il pertugio tra le lastre di ferro ondulato e arrivammo sulla strada. Giunti alla macchina aprii la portiera posteriore e mi parai davanti a loro. Angie mi si avvicinò. «Perché non mi vuoi ascoltare, Michael?» disse in un sibilo. «Noi non ti vogliamo qui. Non vogliamo nessun aiuto da te.» «Tu puoi andare a piedi, se vuoi, bambina» disse lo zio Stanley e prima che lei potesse fermarlo era scivolato sul sedile posteriore. «Piscia giù mica male adesso.» Lo aiutai ad allacciarsi la cintura di sicurezza. Angie mi osservava mentre sistemavo lo zio. Quando mi misi al volante lei si era già seduta davanti, rannicchiata contro la portiera e con il viso verso il finestrino. Inserii la marcia. «Bella macchina» commentò lo zio Stanley interrompendo il silenzio teso. Lo sentivo saltellare sull'imbottitura. «Una Super Snipe, vero?» «Una cosa?» Guardai il vecchio nello specchietto. Accarezzava la pelle. Sembrava che si divertisse. «Una Super Snipe. Monty aveva una Super Snipe a Tobruk». «Zio Stanley, per favore, adesso non cominciare» disse Angie con durezza. «Magnifico treno di ruote, la Super Snipe» disse lo zio Stenley con aria riflessiva.
«Non è una Super Snipe» dissi. «Quella di Monty era tutta mimetizzata» proseguì lo zio Stanley, dopo un attimo. «La sua Super Snipe, voglio dire. Stava proprio bene mimetizzata.» «Non è una Super Snipe» dissi alzando la voce. «No?» Ancora una volta incontrai nello specchietto il suo sguardo innocente. «No, è una Audi.» «Oh!» Lo zio Stanley si guardò attorno con rinnovato interesse. «Roba americana, allora.» Fermai la macchina davanti all'ingresso del ristorante. Le vetrine erano illuminate e il locale si stava riempiendo. Angi scese senza dire una parola, aprì la portiera posteriore, aiutò il vecchio a scendere, lo prese per un braccio e lo spinse dentro. Sulla soglia si voltò. «Non seguirmi, Michael. Ti avverto. Altrimenti sono guai.» Non aspettò che le rispondessi ed entrò decisa nel ristorante. Pilotando lo zio Stanley tra i tavoli lo spinse lungo un corridoio accanto al bar e sparirono dietro una porta che sembrava condurre nelle cucine. La seguii dentro il locale. La stanza era lunga e male illuminata, sapeva di cipolle e spezie piccanti. Il posto non era certo dei migliori, ma la musica di un sitar e le lampade a parete che diffondevano una luce soffusa facevano apparire la sala intima e accogliente. Il ristorante era già mezzo pieno e l'atmosfera rumorosa di conversazioni in urdu, in gujurati e in inglese. All'altro capo della stanza Hukum, in un vestito nero lucido, serviva a un tavolo prendendo i piatti da un carretto carico all'inverosimile di piccoli vassoi metallici. Mi tenne d'occhio dal momento in cui misi piede all'interno del locale. Sul suo viso leggevo la stessa sfiducia di prima. Attraversai velocemente la sala nella medesima direzione di Angie, ma con la coda dell'occhio vidi Hukum fare un gesto, forse un segnale, e un giovane cameriere asiatico mi bloccò la strada. «Non vuole parlare con te, amico.» Aveva un forte accento dello Yorkshire, la testa rasata e un sorriso sfottente. «Se fossi in te me ne andrei mentre sono ancora tutto intero.» Feci un altro passo e lui mi piantò una mano sul petto. Era molto più basso di me, ma era ben piantato. Sentivo la sua aggressività attraverso il palmo della mano, come fosse elettricità. Gridai al di sopra della sua testa. «Angie!» Sulla stanza cadde immediatamente il silenzio. «Angie, devi parlare con me! Lo sai che devi parlare con me.»
«A nessuno piace raccogliere i propri cocci, amico,» disse il cameriere, dandomi una spinta «perciò stiamo calmi e rimaniamo amici, d'accordo?» Mi buttai contro di lui facendolo incespicare in un tavolo. Si sentì un tintinnare di posate, un bicchiere andò in frantumi, una donna lanciò un grido. Percepivo dietro di me un trambusto confuso. Gridai ancora: «Angie!». Ero ormai vicino alla porta dietro la quale la ragazza era sparita. Attraverso una sorta di oblò a vetri vedevo una cucina avvolta nel vapore, dove uomini in grembiule bianco e cappello da cuoco guardavano preoccupati nella mia direzione. Recuperato l'equilibrio, il cameriere mi afferrò per un braccio. Gli diedi un altro spintone. Nella sala qualcuno gridava. Mi sentii afferrare per la giacca da dietro. Allungai il braccio verso la porta, ma prima che la toccassi si spalancò sbattendo contro il muro e l'enorme uomo barbuto uscì dalla cucina, mi afferrò per una spalla, mi fece fare dietro front e mi spinse con violenza facendomi volare attraverso tutto il ristorante. Planai su un tavolo libero cadendo sulle ginocchia in mezzo alle sedie, tra un tintinnio di porcellana fracassata e schegge di legno. Sentivo Hukum che mi gridava a squarciagola in urdù di uscire dal locale, o forse diceva ai suoi di non esagerare. Prima che riuscissi a rimettermi in piedi mi sentii sollevare da terra come un sacco e volare fuori dalla porta aperta. Caddi con tale violenza contro la fiancata della Audi che mi mancò il fiato. Scivolai sul marciapiede bagnato e mi rannicchiai per un attimo boccheggiando come un pesce. Il gigante era in piedi sulla soglia, con le braccia conserte e il volto impassibile. Dalle vetrine del ristorante una folla mi osservava incuriosita. Mi misi a sedere appoggiandomi alla macchina. Il giovane cameriere passò sotto il braccio del gigante e si fermò davanti a me. Prima che raccogliessi le forze per muovermi mi assestò un calcio nelle costole. «Ti avevo avvisato, amico. Ma tu non hai voluto ascoltare.» Mi sferrò un altro calcio, facendomi rotolare su un fianco e mandandomi lungo disteso sulle pietre fredde del marciapiede. Ci fu uno scalpiccio. Sentii la voce furiosa di Hukum che urlava contro il cameriere. Nella pausa che seguì qualcosa si sciolse dentro di me e con difficoltà ripresi a respirare. Le proteste del cameriere provocarono una nuova ondata di collera in Hukum. In un attimo scoppiò tra i due un litigio furibondo; Hukum fuori di sé dalla rabbia, il cameriere minaccioso e risentito.
Mi sentivo lontano, in un altro mondo. Da dove mi trovavo vedevo i loro piedi, gli stivali con la suola spessa del cameriere, le scarpe nere stringate e usurate di Hukum, e sulla soglia i sandali di plastica azzurra del gigante barbuto, dentro i quali c'erano enormi piedi dalle unghie spesse. I sandali erano cosparsi di lustrini e a me sembravano davvero belli. Sul gradino della soglia apparvero un paio di scarpe da ginnastica che scesero rapide nella strada ponendo fine al litigio. Si fermarono accanto a me. «Sei completamente pazzo?» chiese Angie. «Che diavolo credi di fare?» «Questo tizio è venuto a dar problemi» disse Hukum. «Questo è certo.» «E allora avete pensato di rifilargli un bel pestone.» «Mi spiace che abbiamo usato la mano pesante,» ammise Hukum regalmente «ma non penso che questo attaccabrighe abbia riportato ferite gravi.» «Dentro, tutti quanti!» ordinò Angie. «Angela, ti raccomando di non...» disse Hukum. «Entrate, ho detto.» E visto che esitavano, aggiunse in tono più conciliante: «Non penso che sia più tanto pericoloso, non vi pare?». «In ogni caso,» rispose Hukum «Iqbal il Grosso rimane qui.» Hukum e il giovane cameriere rientrarono nel ristorante, riprendendo a litigare violentemente. Mi misi a sedere contro la macchina, riuscendo finalmente a respirare in modo quasi normale. Iqbal il Grosso stava sulla soglia, con lo sguardo perso nel vuoto, simile alla statua di cartapesta dell'indiano che un tempo stava fuori dalle tabaccherie americane. «Ti avevo avvisato di lasciarmi in pace, Michael.» Angie si accovacciò davanti a me. «Stai bene?» Non riuscii a rispondere subito. Mi sentivo come un bambino umiliato. «Hai bisogno di un medico?» Con uno sforzo ritrovai la voce. «Io sono un medico, maledizione! Quello di cui ho bisogno è parlare con te.» Scosse il capo. «Non ti dai mai per vinto?» «E tu?» Cercai di mettermi dritto appoggiandomi al fianco della macchina. Mi faceva male una costola, ma mi resi conto che il danno non era grave come mi aspettavo. Angie mi aiutò a rimettermi in piedi. «Non possiamo parlare qui» disse. «Dove allora?» «Sei in grado di guidare?» «Naturalmente.» Cercai di ricompormi. Raggiunsi il posto di guida. «Sa-
li» le dissi e mi sedetti al volante. Angie scivolò sul sedile accanto e io avviai il motore. «Dove andiamo?» chiesi. «A casa mia. A Leeds. È un posto tranquillo.» Allacciò la cintura di sicurezza. «Arriva all'angolo, poi gira a destra.» I gesti familiari della guida mi calmarono e seguendo le sue indicazioni uscii da Mason Park, raggiunsi la strada principale ed entrai nell'autostrada illuminata come una pista d'aeroporto. I cartelli verdi e bianchi indicavano che la distanza da Leeds era di dodici chilometri. «Come hai fatto a trovarmi?» chiese Angie. «Tuo fratello ha lasciato questo indirizzo al Centro Comunitario.» «Stupido bastardo.» Voltò il viso verso il finestrino, fissando la notte. «Venivamo da Hukum, quando eravamo bambini. Barney si divertiva a raccontare che abitavamo da lui.» Sollevò il bracciolo, fece scorrere i CD allineati nello spazio sottostante, ne scelse uno e me lo mostrò. «È bello?» Diedi un'occhiata. «È Vivaldi.» «So leggere» disse. «È bello?» «Certo.» Inserì il CD nel lettore e si appoggiò allo schienale con gli occhi chiusi, mentre la musica si diffondeva nell'abitacolo. Guardai verso di lei. Le luci dell'autostrada sottolineavano i tratti decisi del suo viso. Guidai in silenzio. La guardai di nuovo e questa volta i suoi occhi erano aperti. «A sinistra e poi sotto il viadotto» disse. «Segui le indicazioni verso la città, poi ti dico dove andare.» Mi guidò sulla tangenziale di Leeds, che lasciammo a un rondò per immetterci nel labirinto delle strade di periferia. Infine ci fermammo in una strada ripida di Kirkstall, fiancheggiata da begli edifici a molti piani. I palazzi conservavano l'aspetto freddo della recente ristrutturazione. Lasciammo la macchina e salimmo una rampa di gradini di pietra. Al nostro passaggio si accese una lampada automatica che trasformò i rami dei cespugli in artigli neri. La seguii su per quattro rampe di scale ricoperte di moquette. Angie aprì la porta e si fece da parte per farmi entrare in una grande stanza. L'appartamento, ricavato da un sottotetto, era arioso e gradevole, con grandi finestre sul fondo che si affacciavano su un parco. In lontananza si vedevano le luci della città, tremolanti nell'aria fredda. Mi guardai attorno. L'appartamento era nuovo, pulito e appena imbiancato. Era arredato con semplici mobili scandinavi, di quelli che puoi montare da solo. Una scrivania con un computer e con una lampada orientabile
bianca, era sistemata sotto un lucernario. Sul piano si trovavano dei CD della Open University e su uno scaffale, al di sopra della scrivania, erano allineati libri di esercizi. Una libreria correva lungo tutta una parete della stanza e sul pavimento erano impilati altri libri. C'era un piccolo stereo in un mobile di legno chiaro e quattro altoparlanti erano stati montati in alto, negli angoli della stanza. Sotto una lampada a stelo in acciaio c'era un'unica poltrona accanto alla quale erano impilati fogli e documenti sottolineati con evidenziatori colorati, schedari con ritagli di giornale, lettere su carta intestata. «Non ricevo visite» disse con noncuranza. Sul pavimento vicino alla poltrona c'era una relazione voluminosa. Con la punta del piede cercai di smuovere i fogli mentre lei si toglieva la giacca volgendomi le spalle. Non riuscivo a leggere il titolo in copertina senza chinarmi o senza sollevare il plico da terra, ma non volevo sembrare curioso. Tuttavia lo ero. Forse sentì il fruscio della carta. «Mi occupo di edilizia abitativa» disse. «Non si direbbe visto il buco in cui vivo. Ma, come si dice, i figli del ciabattino vanno scalzi, eh?» Mi prese per i polsi ed esaminò le mie mani. Non pensavo che si sarebbe accorta che erano escoriate. «Iqbal il Grosso è protettivo nei miei confronti. Non pensavo che si sarebbe scaldato tanto.» «Non ha importanza.» «Il bagno è laggiù. Va' a lavarti le mani, intanto io trovo qualcosa per medicarle.» Obbedii. Davanti al piccolo lavandino lavai via la terra dalle mani. Poco dopo Angie mi raggiunse in bagno e con aria professionale mi prese una mano dopo l'altra, le asciugò e vi cosparse della pomata cicatrizzante. La sua testa china sfiorava il mio viso. «È meglio non bendarle» disse. «Sì. Lo so.» Alzò il viso. «Bene, lo puoi fare da solo, dottore, se preferisci.» Ma lo disse senza rancore e io fui contento che riprendesse a medicarmi. Alla fine si raddrizzò, gettando indietro i capelli. «Grazie.» Pensavo che a quel punto avrebbe lasciato il bagno, invece trattenne le mie mani tra le sue, come se il contatto le desse il coraggio di dire quello che pensava. Ma l'attimo passò. «Faccio un caffè» disse, uscendo dal bagno. La seguii nel soggiorno. Sentii che in cucina metteva l'acqua nella mac-
china del caffè. Distrattamente guardai i titoli dei libri sullo scaffale. Ponderosi volumi di sociologia, ruolo dei sessi, globalizzazione. Ma anche Martin Amis, Vikram Seth, Sebastian Faulks. Passai a esaminare i CD allineati su tre file. Non mi ero mai interessato di musica leggera e non conoscevo neppure di nome molti dei musicisti dei CD di Angie, ma notai che aveva riservato un angolo alla musica classica. Contai tre Vivaldi e quattro Mozart, compreso il Concerto per clarinetto. Sorrisi involontariamente. «Edilizia abitativa? Sei un agente immobiliare o qualcosa del genere?» «Proprio no.» Versò il caffè voltandomi le spalle. «Lavoro per l'Ente per lo Sviluppo di Leeds. O meglio, consegno loro le mie relazioni.» «Relazioni su cosa?» «Lavoro al Progetto di Riqualificazione di Mason Park. Dovremmo trasformare l'intero comprensorio. È un'area dove la polizia non osa mettere il naso e se non sei un residente per entrare è bene che ti procuri il visto. Perciò non dovremmo impiegarci più di un secolo per fare in modo che l'area sia di nuovo abitabile. Sai all'Ente come chiamano Mason Park? La Tazza del Cesso. Ecco una bella sfida per te.» «E tu lavori nel team?» «Lo dirigo. Sono il leader.» «Oh.» La guardai sorpreso e vidi che era contenta del mio stupore. «Non è esattamente come lavorare per Microsoft, Michael. Però è più di quanto ti aspettassi da una puttanella di provincia, linguacciuta e senza tette, vero?» Non dissi niente. Mi indicò la poltrona e appoggiò il caffè sul tavolino. Mi sedetti. Mi lanciò un'occhiata amara indicando con il pollice, attraverso la finestra, la direzione del quartiere fatiscente da cui eravamo venuti. «Siamo cresciuti a Mason Park, io e Barney. Ma anche se è lui quello che è partito, sono io a essermene veramente andata. Più o meno.» Presi la mia tazza di caffè. Era dipinta a mano con fiori dai colori vivaci. Anche questo mi sorprese. Caffè in una bella tazza. I suoni e gli odori della vita domestica. La stanza luminosa e vissuta. Anche Angie Carrick non era la persona che mi sarei aspettato. Posò la tazza sulla cornice piastrellata del camino, si inginocchiò e mentre accendeva il camino a gas tenne i lunghi capelli lontano dal viso. Il fuoco si accese con un piccolo plop e un lato del suo viso si illuminò di una luce color magenta. Teneva la tazza tra le mani e mi guardava.
«Smettiamola di fingere.» Prese un sorso di caffè alzando le sopracciglia e osservandomi sopra l'orlo della tazza. «Tocca a te parlare» disse. «Erano amanti, vero? Caitlin e tuo fratello.» «Sì» disse. «Immagino che questo ti faccia male. Mi spiace.» Cercai di mantenere la voce calma. «Sai che devo dirlo alla polizia.» «Michael, fare sesso con la moglie di un altro non è ancora un reato.» «Ma l'assassinio sì.» «È questa la convinzione che ti sei fatto?» disse scuotendo il capo. «Non prendiamoci in giro, Angie.» «Solo perché le ha dato quel disegnino con la piccola citazione sul retro?» «Non solo per quello.» «Che altro?» «Tu che ti presenti a casa mia con un sacco di domande e quella storia idiota sull'amicizia tra te e Cate.» «Non avrei voluto mentire. Odio mentire.» Esitò. «Senti, Michael, non riesco neppure a immaginare quanto tu debba sentirti ferito e quanta rabbia tu debba provare. Ma neppure i poliziotti di Londra sbattono la gente in carcere per assassinio con una prova del genere.» «Vorranno sapere dov'è. Anch'io lo voglio sapere.» «E che cosa faresti se lo trovassi questa sera? Lo faresti arrestare? Non te lo consiglio.» Posò le mani in grembo. «In ogni caso, la verità è che io non so dove si trovi Barney ora.» «È sparito? Quando?» «Non ho detto questo. Ho detto che non so dove si trova e non è una novità. Lavora molto all'estero.» Vide che ero perplesso. «È una specie di soldato. Un soldato di fortuna, come gli piace definirsi.» «Vuoi dire un mercenario?» «Lui non usa quella parola.» «Lo credo bene.» «Tu pensi che sia un ritardato analfabeta vero?» disse infiammandosi. «Ma Barney non è niente di tutto questo. È un soldato decorato al valore. È stato nei parà per sei anni, in Kosovo e in Afghanistan, e in altri posti di cui non conoscevo neppure l'esistenza.» «Angie, sarebbe meglio per tutti se fossi tu stessa a portare il disegno alla polizia. Dire quello che sai. Tuo fratello è nei guai...»
«Se lo è, non aspettarti che sia io a ficcarcelo ancora di più.» «Allora dovrò farlo io.» «Su, fallo,» disse in tono duro, perdendo la pazienza, «se sei così maledettamente sicuro che le cose stanno in questo modo. Ma sappi - e ti dò questa informazione gratis - che ci vorrà ben altro che un pugno di poliziotti per trovare Barney. È un professionista. C'è una sola persona che può arrivare a lui e quella sono io. Ma solo se lui me lo permette.» «Angie, se non è colpevole, perché dovrebbe nascondersi?» «Perché la gente come te la pensa come te,» disse «e alla gente come lui non rimane altra scelta.» Mi alzai, ma lei non si mosse. Rimase davanti al fuoco, guardandomi con odio. Era immersa nell'ombra, come la figura di un dipinto a olio, la linea del viso disegnata dalla luce rossa del fuoco. «Cate era incinta» le dissi. Rimase a bocca aperta, ma si ricompose subito. «La amavo. Ho bisogno di sapere. Ho bisogno di capire.» «Non sapevo del bambino» sussurrò appena. «Ma anche lui la amava, Michael. La amava veramente. Non era come pensi tu.» «Come fai a sapere com'era?» «Perché conosco Barney. Nessuno lo conosce come me. Nessuno al mondo.» Si alzò e rimase di fronte a me. «Non possiedo le risposte che vuoi, Michael. Ma so per certo che lui non le avrebbe mai fatto del male, devi credermi.» Capiva che non le credevo. Volevo andarmene. Avrei potuto lasciarla lì in mezzo alla stanza, ma non riuscivo a decidermi. Cogliendo la mia esitazione Angie disse: «Aspetta». Attraversò la stanza e aprì la porta della camera da letto. Tornò pochi istanti dopo con una fotografia incorniciata e me la mise tra le mani. «È lui. È Barney. Risale a molto tempo fa, ma è Barney.» La fotografia mostrava un giovane di diciannove o vent'anni, con i capelli scuri, un viso aperto, sorridente. Forse aveva intuito l'effetto che mi avrebbe prodotto la foto, perché prima ancora che formulassi il pensiero, mi era passato per la testa l'idea che quel giovane mi sarebbe piaciuto. Aveva l'aria di un uomo capace, intelligente, spiritoso. E mi venne un altro pensiero che Angie non avrebbe mai potuto indovinare. Indossava calzoni e camicia di jeans ed era appoggiato alla portiera di un fuoristrada, con un edificio esotico sullo sfondo, forse una moschea. Ombre scure, dai profili netti si disegnavano sulla polvere ai suoi piedi. La fotografia assomigliava straordinariamente a quella di mio padre che Anthony teneva sul tavolino
del soggiorno: il viso segnato dal sole, la posa disinvolta, l'atteggiamento compiaciuto. Per un attimo quella somiglianza mi portò lontano. Il volto della fotografia non avrebbe dovuto essere così affascinante, sorridente, aperto. Proprio come quella stanza non avrebbe dovuto essere così luminosa e vissuta. La foto non avrebbe dovuto assomigliare alla foto di mio padre. Mentre la rigiravo tra le mani mi accorsi che nel retro della cornice erano infilate altre fotografie. Le restituii il ritratto e mentre Angie si voltava per osservarlo feci scivolare nella tasca della giacca le copie della foto. «È un uomo buono» disse. «Barney non è un santo, ma è un uomo buono.» «Le cose capitano, Angie» dissi infine. «Ne ho conosciuti alcuni. Gente del tutto normale, gente per bene. Poi qualcosa si spezza.» «Non è il caso di Barney.» «Qualcosa scatta dentro. Non saprei che cosa. Non sono uno psichiatra. Lascio che sia la polizia a venirne a capo. Tutti e due dovremmo affidarci alla polizia.» Mi avviai verso la porta. «L'hai già condannato» mi disse seguendomi. «Non lo conosci. Non sai niente di lui. Ma hanno fatto irruzione nel castello e hanno ucciso la bella principessa e ora qualcuno deve pagare.» Mi voltai di scatto. «Non è così che stanno le cose.» «Oh, sì. Qualche povero cristo deve essere incolpato. E visto che deve essere così, non è importante su chi ricadrà la scelta. Non è vero?» Non riuscivo a togliermi dalla testa il viso di suo fratello, sorridente, fiducioso, temerario. Pensai: "Nessuna meraviglia che lo ami, ama il colore e la vitalità della sua vita, la sua bellezza, la sua ottimistica spensieratezza. Nessuna meraviglia che lei lo ami tanto". Incontrai i suoi occhi. Erano limpidi e scuri. Era tesa e pronta a scattare come una pantera. Aprii la porta e uscii sul ballatoio. Quando mi voltai per chiudere la porta la vidi sulla soglia con il viso teso e gli occhi splendenti. Mi spiaceva per lei. Forse lei lesse il rammarico nel mio volto, perché raddrizzò le spalle e mi guardò con durezza. «Le damigelle infelici ti commuovono, vero, Michael?» disse. «Fanculo e va' a cercarle da un'altra parte.» 19
Lasciata la casa di Angie, seguii le indicazioni stradali per ritornare sull'autostrada. Le costole mi facevano male e sarebbe stato prudente passare la notte in un hotel, ma mi sentivo frastornato. Così decisi di ritornare a Londra sotto una pioggia implacabile. Parcheggiai la macchina in garage ed entrai in casa. Accesi tutte le luci del pianoterra. Trovai nel frigorifero i resti del cibo che mi aveva portato Stella - prosciutto, formaggio e un panino ormai raffermo - e mangiai in piedi, davanti alla finestra della cucina. Si stava alzando il vento, un vento feroce che gettava contro la finestra un nevischio duro come ghiaia. Ritornai al frigorifero per prendere la bottiglia di vino che aveva lasciato Stella e me ne versai un bicchiere. Lo portai in sala da pranzo, mi sedetti al tavolo e sfilai le fotografie dalla tasca. C'era un gran silenzio in casa e l'infuriare del vento all'esterno ne accentuava l'intensità. La luce che cadeva direttamente sul tavolo accendeva i colori delle foto. Ce n'erano sette; sei di uomini in uniforme e una del tutto diversa, un'istantanea dozzinale che riprendeva Angie e Barney Carrick, forse durante una vacanza. La misi da parte. Con ogni probabilità le altre sei erano state scattate in due diversi paesi, oppure in due diverse stagioni dell'anno. Quattro foto riprendevano soldati che indossavano giacche a vento mimetiche sullo sfondo di una foresta. I fucili imbracciati, stavano davanti a un camion dell'esercito parcheggiato in una radura fangosa in mezzo a pini e fattorie. Le altre due foto erano state riprese in una pianura bruciata dal sole, sotto un cielo incredibilmente azzurro. Gli uomini gettavano ombre color indaco sul terreno pietroso. Le loro divise mimetiche avevano il colore della sabbia e sullo sfondo si stagliava il profilo di un carro armato. Era facile individuare Barney Carrick in tutte e sei le foto. I capelli scuri, il sorriso smagliante sul viso abbronzato, il fucile abbandonato tra le braccia. Era magro e atletico. Aveva un viso forte, un viso all'antica e con quell'uniforme mi ricordava le fotografie dei soldati della Prima Guerra Mondiale. Gli altri soldati erano in posa, facevano smorfie o fingevano di ignorare il fotografo. Ma Barney Carrick in tutte le istantanee guardava dritto nell'obbiettivo, bello e strafottente come sua sorella. Guardai e riguardai le stampe facendole scorrere una dopo l'altra tra le dita. Mi disturbava il pensiero di Angie ferma sulla porta, con le spalle erette e lo sguardo di sfida. Era un'immagine che mi ossessionava. Mi dispiaceva averle sottratto le foto, ma non potevo negare che mi dava una certa soddisfazione averle lì davanti. Stesi di nuovo le foto sul tavolo, spostandole di tanto in tanto come se
fossero carte di un solitario. Barney Carrick mi sorrideva da quel luogo selvaggio e vitale, dovunque fosse. La luce violenta del sole si rifletteva sui suoi denti e sul calcio del suo fucile. Rimasi molto tempo a fissare il gioco delle luci e dei colori. Infine tolsi di tasca il portafoglio e cercai la foto di Caitlin che portavo sempre con me e la misi accanto a quelle di Carrick. La pioggia sferzava i vetri della finestra. Ero quasi accecato dagli spruzzi che mi colpivano il viso. La bufera era assordante. Tenevo la macchina fotografica con una sola mano, perché l'altra era impegnata a manovrare il timone della barca di Ben Friedman. Facevo fatica a scattare le foto perché sentivo il timone sfuggire alla mia presa, perché in realtà mi servivano tutte e due le mani per controllarlo. Era pieno pomeriggio, ma la luce era già tanto fioca che il flash partiva automaticamente quando premevo l'otturatore. Il lampo inatteso faceva scintillare la spuma delle onde e le gocce di pioggia che scivolavano sulla mantella di Caitlin. Pensavo che in quel momento fosse una perdita di tempo scattare una fotografia e forse proprio per questo ottenni un'immagine tanto bella. I suoi capelli biondi fluttuavano in tutte le direzioni e lei rideva, rideva forte, come una bambina. Si reggeva con le mani allo straglio di trinchetto, a braccia aperte, come crocefissa, ondeggiando con il movimento della barca. Dietro di lei vedevo la prua che batteva sulle creste delle onde grigie, mentre l'orizzonte si inclinava e sprofondava sparendo alla vista dietro ogni nuova montagna d'acqua. «È solo incredibile?» mi gridò. Eravamo a un paio di metri di distanza ma il vento trascinava via le sue parole. «O è pazzescamente incredibile?» «Faresti meglio a scendere da lì, Cate!» Ma lei gettò la testa all'indietro e lasciò che l'acqua di mare le inondasse il viso, senza smettere di ridere. Si stava divertendo come una bambina. Io non avevo voglia di ridere. Avevo freddo, ero fradicio e anche preoccupato. Non conoscevo bene Ben Friedman - un collega cardiologo -, ma mi aveva invitato tante volte ad andare in barca a vela che sarebbe stato villano da parte mia rifiutare ancora. In quel momento pensavo che sarebbe stato meglio se avessimo accettato l'invito in estate. Era ottobre, faceva freddo, tirava vento e Ben si era rivelato un fanatico della peggior specie. Non aveva grande esperienza di vela e la sua barca era piccola e male attrezzata. Al largo, il mare era molto agitato e la pioggia scrosciava così fitta che ben presto la terra sparì completamente alla nostra vista.
Quella sera a cena allo yacht club Ben Friedman era abbacchiato, si sentiva colpevole di averci trascinato in mare con il maltempo. Dal canto mio, ero di pessimo umore. Avevo ancora negli occhi l'immagine della barchetta in mezzo al mare livido e minaccioso, e sentivo ancora il tossicchiare del motore sopra gli ululati della tempesta, mentre finalmente arrancavamo verso il pontile. Caitlin invece non era arrabbiata con Ben, ma con me. «Santo cielo, Michael!» sbottò. «Per favore, non fare il vecchio brontolone! Erano anni che non mi divertivo tanto.» «Benissimo» dissi. «Non abbiamo corso nessun pericolo» disse Caitlin agitando il bicchiere. «Insomma, nessun pericolo serio. Quanto basta per rendere la cosa interessante. Pensi che non sia mai stata in barca prima d'ora?» «Mai su una barca così piccola.» «Sono tutte piccole in confronto al profondo mare azzurro» disse scherzosamente. «Persino il Titanic.» Bevve. Non potei fare a meno di constatare che era raggiante, che beveva più del solito e che aveva un tono di voce stridulo. «Lasciati andare, Michael. A volte la vita deve essere rischiosa.» Si chinò sul tavolo e mi guardò in un modo che non seppi decifrare. «La tua lo è.» Dopo la mezzanotte tornammo al pub. Nel bar c'era una folla chiassosa di nottambuli, ma noi raggiungemmo la nostra stanza attraverso il saloon, che era deserto e buio, con le saracinesche del bar abbassate e le sedie ammucchiate sui tavoli. Era una vecchia stazione di posta con corridoi stretti e angoli strani. Non riuscii a trovare l'interruttore della luce e dovetti farmi strada a tentoni lungo le pareti, fino alla porta che si apriva sulla tromba delle scale, passando accanto al biliardo. «È come intrufolarsi nel dormitorio dopo che sono state spente le luci» sussurrò Caitlin. «Uno sente che sta facendo qualcosa di illecito.» Ridacchiò e mi venne vicino nell'oscurità. Aveva il fiato corto e l'alito che sapeva di vino. Sentivo che era eccitata. Mi ci volle qualche secondo per individuare la porta al buio. Finalmente la trovai e la tenni aperta per lasciar passare Caitlin, ma lei si aggrappò a me improvvisamente baciandomi con una tale violenza che i nostri denti si scontrarono. La trascinai quasi di peso nella stanza. Ebbi giusto il tempo di chiudere con un calcio la porta prima che ci buttassimo nel grande letto con le lenzuola umide di salsedine. Caitlin mi tirò dentro di sé, spingendo il ventre
contro il mio. Infilò le mani nei miei capelli e le sue lunghe gambe si intrecciarono sui miei glutei. Il suo corpo ebbe un sussulto e si avvinghiò al mio. Fummo proiettati fuori dal mondo, tenendoci aggrappati l'un l'altro mentre precipitavamo in un'altra dimensione. All'esterno l'insegna del pub gemeva nel vento e la pioggia schiaffeggiava le finestre. Sentivo muggire il mare, la risacca che trascinava i ciottoli e il tintinnio degli stragli d'acciaio giù alla marina. «Pensavo che avremmo fatto l'amore sul tavolo da biliardo.» «Puoi starne sicuro,» disse «se non ti fossi sbrigato a salire.» Sentii dal suono della sua voce che sorrideva, ma nello stesso tempo mi resi conto che non stava scherzando. Ero intimorito dall'intensità del suo desiderio. Strofinò il viso contro il mio collo. «Tu sei tutto d'un pezzo, tesoro» disse, ridendo piano. «Mi piaci così come sei. Ma sei veramente tutto d'un pezzo.» «Possiamo fare l'amore su un biliardo ogni volta che ne hai voglia» dissi risentito. «Sì, certo.» Mi baciò. «Dimmi, Michael. Non senti mai il bisogno di fare qualcosa di veramente pericoloso? Qualcosa che ti spaventi a morte?» Mi voltai per guardarla. «Sono appena rientrato dal casino della Somalia. Per questa settimana mi basta.» «Oh, so che sei il grande eroe che non si tira mai indietro» mi toccò il viso con l'indice. «Tutti lo sanno. Ma tu lo fai proprio perché non ti fa paura.» «Cate, io vivo sempre nel terrore. Sono un codardo professionista. Un sincero vigliacco. Credimi.» «Oh, potrei farti una lista di cose che ti fanno molta più paura della Somalia.» «Provaci.» «Vediamo. Imparare a ballare la salsa?» «Ah.» «Fare il discorso inaugurale alla scuola superiore di quartiere.» «Be', giochi sporco.» «O mettermi incinta.» Per un attimo vidi la stanza ondeggiare. «Sei incinta?» «No.» «Sì, hai ragione, Cate. L'idea di un bambino mi terrorizza.» Mi misi a sedere tenendo il suo capo nell'incavo del braccio. «La nostra piccola av-
ventura in alto mare ti ha scombussolata, vero?» «Penso di sì.» Nell'oscurità sentivo che la sua voce si era fatta sottile. Fuori le raffiche di vento facevano correre giù per la strada una lattina di birra. «Ci pensi molto?» «Non molto. Solo che a volte l'idea mi coglie di sorpresa. Soprattutto quando sei via. In realtà spaventa un po' anche me.» Presi a cullarla tra le braccia, con la mente in un vortice di pensieri. «So quello che provi, Michael» disse. «E so anche quali erano i patti. Non voglio fingere di non ricordare.» «Ma?» «Ma penso che nella nostra vita dovremmo trovare lo spazio per parlarne. Potremmo andare da qualche parte. Solo per una settimana. In Francia, in Italia forse. Sono anni che non facciamo un viaggio insieme.» «La settimana prossima compirai trent'anni» dissi, rivolto più a me stesso che a lei. «Ah! Questo spiega tutto, vero? Il mio orologio biologico.» Divenne improvvisamente pungente. «Torna comodo. Non è il caso di argomentare con una manciata di ormoni isterici.» «Non volevo dire questo.» «Avresti dovuto fare il ginecologo, Michael. Hai un talento naturale.» Nel buio provavo un senso di profonda insicurezza e cercavo disperatamente qualcosa di buono da dire. Ma, prima che riuscissi a parlare, Caitlin si chinò su di me e sollevò la chiave di bronzo che portavo al collo. «Mi dirai mai che cosa significa veramente questa chiave?» Nella sua voce l'ostilità si era dissolta all'improvviso. Accarezzò la chiave. Colsi nell'oscurità il brillio del metallo levigato, ma anche quello dei suoi occhi. «È il mio talismano» dissi. «Sai già tutto. Mi porta fortuna.» «Buona fortuna?» «Finora.» A tratti un filo di luce faceva splendere i suoi capelli biondi nella stanza ombrosa. Allungai una mano per accarezzarli. Adoravo sentire il calore della sua nuca tonda nel palmo della mia mano. Si inarcò come un gatto. «Non ne sono così sicura» disse. «Non sono sicura che abbia portato fortuna a te. O a noi.» Smisi di accarezzarle i capelli. Temevo che dicesse qualcos'altro. Avevo la sensazione che stesse per infrangere qualche tabù, che fosse sul punto di pronunciare la pericolosa formula di un incantesimo e le parole potessero
evocare la catastrofe. Non conoscevo l'origine di quel timore. O forse la conoscevo, ma non volevo che venisse espresso a parole, non volevo neppure permettere che il ricordo prendesse corpo nella mia mente. «Parlami, Michael» disse con dolcezza. «Di che cosa?» La mia voce era rauca. Tirò leggermente la chiave. «Parlami, Michael.» «La storia la conosci. Ci fu un incendio. Io non tornai a casa in tempo. Morirono tutti. Questa è la chiave della casa. Serve a ricordare. Tutto qui.» «Non arrabbiarti, Michael. Voglio soltanto che mi parli.» «Ma non so che cosa vuoi che ti dica.» «Voglio sapere che cosa ti ferisce.» «Perché?» «Così posso aiutarti a non soffrire.» «Non soffro, Cate. Non più.» «Pensi che io e te abbiamo stretto un'alleanza, vero, Michael?» «È una cosa sbagliata?» «Noi siamo insieme» disse. «Siamo insieme da sei anni. Siamo sposati. Siamo ciascuno la metà dell'altro. Giusto?» «Naturalmente.» «Non due unità distinte, separate.» Feci scorrere un dito lungo la sua schiena liscia. «Ciò non significa che non possiamo tenere alcune cose per noi. Le cose cattive.» «Le cose cattive sono proprio quelle che non dovremmo tenere segrete.» «Non possiamo cambiare discorso?» Mi resi conto che respiravo a fatica. Mi chiedevo se anche lei se ne fosse accorta. Naturalmente se ne era accorta. «Michael, non sono una bambina.» Si alzò appoggiandosi ai gomiti. «E la nostra unione non è una specie di trattato territoriale che abbiamo sottoscritto. Non possiamo porre dei confini, dei limiti.» «È successo tanto tempo fa, Cate. È passato.» «Passato? È il tuo motore. Giorno dopo giorno. Non so come, ma è ciò che ti muove. Il che significa che muove anche me. Noi. E tu dici che è passato? Dici che non sono affari miei?» Sentii i suoi capelli freddi che mi sfioravano il petto. «A che cosa serve parlarne?» «Perché penso che le due cose siano legate.» «Quali due cose?» «Questa» disse alzando nuovamente la chiave. Poi mi prese una mano e
la posò sul suo ventre. «E questo.» «Ma come?» Avevo la bocca secca. «Come è possibile?» «Penso che se sapessimo guardare in faccia una sola di queste paure, tutte le altre non ci sembrerebbero più tanto spaventose.» Sentii una goccia di sudore che mi colava giù per il collo e che dovette scivolare sul suo braccio. Forse ebbe pietà di me, perché sospirò posando il capo sul mio petto. «Michael, noi ci amiamo. E questo significa che non voglio che ci prendiamo in giro, pensando che la vita sia immutabile. Sicura. Sotto controllo. Perché non è così.» Capii che aveva concluso. Provai un immenso sollievo e a poco a poco mi sentii invadere da una profonda calma. Era ridicolo che fosse lei a dirmi quelle cose. Dopo tutto ero io che conoscevo anche troppo bene la precarietà della vita, la casualità del male. Ma, benché sentissi ancora le sue parole risuonare dentro di me, la mia parte razionale già si era messa in moto per convincermi che si trattava di un codice che Caitlin usava solo per dirmi che ero stato via molto tempo e che, una volta tornato, ero stato disattento e irrequieto. Era tutto fin troppo vero. Ma a questo potevo porre rimedio più facilmente. Sì, preferivo credere che le cose stessero così. Con il dorso della mano le accarezzai l'interno di una coscia. Mentre le mie dita scorrevano sulla sua pelle Caitlin emise un grido, una supplica, o forse una protesta. Era come se in quel momento non volesse che la toccassi, come se capisse che stava per svanire un'opportunità irripetibile. Ma poi sentii i suoi nervi fremere sotto la pelle. Trasse un breve respiro rauco e abbandonò il capo sul cuscino. Capii che ormai s'era chiusa in se stessa. Fuori l'insegna della taverna si lamentava nel vento della notte e gli stragli tintinnavano sull'acqua nera. Mi stirai sulla sedia facendo scricchiolare le vertebre. Le fotografie giacevano sulla superficie scura del tavolo. Catey rideva guardandomi dal passato con il viso gioioso bagnato di spruzzi scintillanti e dietro di lei l'orizzonte ondulato e inclinato su un lato. Quella sera non avevo capito niente, naturalmente. Non recitava la parte della coraggiosa. Lei era coraggiosa. Faceva l'amore in modo appassionato perché lei era appassionata. Io potevo goderne, ma la sua passionalità prescindeva da me. Tutto a un tratto mi sentii stanco da morire. Rimisi la foto di Caitlin nel portafoglio e le altre in una busta. Fu a quel punto che notai la foto che avevo messo da parte. Me ne ero quasi dimenticato. La rigirai sotto la luce.
Vidi che i bordi della stampa erano sciupati e mi resi conto che non era, come avevo ritenuto in un primo momento, una copia della foto di Barney, ma un'immagine che Angie custodiva con amore, come io custodivo quella di Caitlin. La osservai da vicino. Angie doveva avere non più di vent'anni nella foto, e suo fratello un paio meno di lei. Sedevano sulla panchina di un parco, tenendosi stretti. Lui era in uniforme e aveva un atteggiamento rigido e impacciato, come se non fosse ancora abituato a indossarla. Non capivo quella sua goffaggine, ma poi notai che Angie rideva, forse prendendosi gioco di lui. Si assomigliavano molto: fieri, orgogliosi, giovani, sprizzanti vita. Ma c'era qualcosa di più di una semplice somiglianza. Erano solidali, uniti. Quella foto mi turbava. Percepivo nel viso di Carrick una vulnerabilità che non volevo riconoscere. Non volevo pensare che Caitlin l'avesse avvertita. Non volevo ammettere la complessità del loro rapporto. E il viso di Angie nella foto mi disorientava ancora di più. E dal momento che capivo il motivo della mia agitazione mi arrabbiai con lei. Misi la foto a faccia in giù e la infilai nella busta. Ma il meschino espediente di nascondere il suo viso mi rese furioso con me stesso più di quanto non lo fossi con lei. 20 La mattina successiva chiamai Barrett. «Ripeta tutto,» disse «lentamente.» Ripetei parola per parola, mentre lui prendeva appunti. «Ci sono anche delle foto» dissi. «Vedo che non è stato con le mani in mano» commentò con voce piatta. «È meglio se viene qua. Mi dia un paio d'ore e vediamo che cosa riesco a scoprire nel frattempo.» Emma Dickenson rigirò la busta tra le mani, poi la scosse per far uscire le foto che dispiegò a ventaglio sulla superficie disordinata della scrivania. Il suo silenzio mi metteva a disagio. Si tolse gli occhiali, chiuse gli occhi strofinandoli con le dita e li riaprì. Le linee del suo viso flaccido erano tirate. Non mi invitò a sedere. Sentivo che nell'ufficio l'atmosfera era tesa, ma non capivo perché. Mi sarei aspettato più entusiasmo da parte loro. L'ispettrice fece passare le foto ancora per qualche istante. Sulla scrivania accanto alle stampe c'era l'ingenuo disegno a matita di Carrick. Batté sul foglio con l'indice.
«Lei dice che l'ha fatto il ragazzo?» La domanda era rivolta a me, ma teneva gli occhi bassi. «È firmato.» Fece una smorfia. «Riconosce il luogo del disegno? Ammesso che sia un luogo reale.» «È reale. Io non lo conosco, ma c'è una mezza dozzina di schizzi di questo posto tra i disegni di Caitlin.» «Secondo lei che cosa significa?» «Direi che è un luogo dove sono stati insieme. Un posto speciale, per loro.» Fece una smorfia che esprimeva incredulità. Ero sconcertato. «Non piace neanche a me giocare agli indovinelli» dissi. Guardavo prima l'una e poi l'altro, come se fossi un giocattolo meccanico inceppato. «C'è qualche problema?» Non rispose alla mia domanda e a sua volta mi chiese: «Allora, secondo il suo illuminato parere, è questo l'uomo che dobbiamo cercare?». «È abbastanza ovvio, non crede?» «Perché?» «Ma santiddio, perché erano amanti. Perché Caitlin era incinta del suo bambino.» «Per sua informazione, dottore,» intervenne Barrett, parlando alle mie spalle «questo non lo sappiamo ancora. Che il bambino fosse suo.» Mi voltai verso di lui di scatto. «Con quanti uomini crede che andasse a letto Caitlin? Mi dica.» «E anche se lui fosse il padre,» proseguì Barrett imperturbabile «questo non farebbe necessariamente di lui l'assassino. Non crede?» Lo guardai esterrefatto. «Sta scherzando?» «In un certo senso dobbiamo farlo» disse con disinvoltura. «Del resto saltare alle conclusioni non è certo un modo per essere seri.» «Mi dica che cosa credeva di fare,» mi chiese improvvisamente Emma Dickenson facendomi sobbalzare «raccogliendo informazioni per conto proprio senza avvertirci? Il giustiziere della notte?» «Volevo delle risposte.» «E lei ritiene che sia suo compito trovarle?» «Tra non molto tempo parto» dissi. Feci uno sforzo per arginare la mia rabbia, ma sentivo che stavo perdendo la mia battaglia. «Vado all'estero. Probabilmente per sempre. Sarebbe qualcosa - non molto, ma pur sempre
qualcosa - se potessi portare con me una vaga idea del perché una cosa così orribile sia potuta accadere.» «Forse la sorprenderà, Michael,» disse alzando il tono della voce per coprire la mia «ma non programmiamo il nostro lavoro investigativo in modo da non interferire con i suoi movimenti professionali. Forse non le è ancora chiaro che è stata aperta un'inchiesta per omicidio.» «Pensa che possa essermene dimenticato?» «Probabilmente si è dimenticato che facciamo parte dello stesso team.» Si tolse nuovamente gli occhiali e li gettò sulle fotografie. Non l'avevo mai vista arrabbiata. «Le ho offerto ogni possibilità di parlarmi, Michael, di questo e di altro. E, invece di rivolgersi a me, lei preferisce fare l'eroe. Fare la sua inchiesta personale. Affronta questa donna, che potrebbe essere una testimone. Rischia la sua incolumità fisica.» Indicò le mie mani escoriate. «Non mi piace quando la gente fa di testa propria. Gli investigatori freelance sono solo una grossa scocciatura. Non sanno quello che fanno. Intorbidano le acque. Non raccolgono mai uno straccio di prova e impediscono a noi di raccoglierne.» «Questo è l'uomo» dissi tirando un pugno sulle foto. «Io lo so. Lo sapete anche voi. E stiamo qui a discutere di una questione di competenze?» Il suo tono mi aveva mandato in bestia, sentivo la situazione profondamente ingiusta e nello stesso tempo mi faceva infuriare la consapevolezza che l'ispettrice aveva ragione. «Forse dovremmo darci una calmata tutti quanti» disse Barrett. «Che ne dite?» Mi allontanai dalla scrivania. Emma Dickenson mi fissava con il viso in fiamme. Si sedette e la sua espressione cambiò. Ora aveva l'aria imbarazzata. Avevo il sospetto che non le capitasse spesso di perdere le staffe e la cosa non doveva piacerle. «Sono andato dalla polizia e dai Servizi Sociali di West Yorks. Che ne dite se vi riferisco le informazioni che ho raccolto su quel tizio?» disse Barrett. «Va bene» Emma Dickenson si mise a spostare alcune carte in modo da non doverci guardare in faccia. «Sì, Dig. Buona idea.» «Forse ho esagerato» dissi. «Bene.» Frugò in mezzo alle sue carte. «Allora passiamo oltre.» Capii dal suo tono che, per quanto contro voglia, aveva dichiarato una tregua. Barrett si sedette a un capo della scrivania e si infilò un paio d'occhiali dalla montatura pesante.
«Bernard John Carrick» lesse. «Ossia Barney Carrick, come sembra si faccia comunemente chiamare.» Era strano sentir ripetere quel nome da una voce neutra e piatta. Detto così sembrava un nome del tutto innocente, il tipo di nome che si legge sulla fiancata del furgone di un'impresa edile. «Nato a Bradford, da padre sconosciuto. Sua madre era una tossicomane e una prostituta. È morta sei mesi fa all'età di quarantaquattro anni. L'unico familiare vivente di cui si sa è la sorella, Angela Grace, di ventotto anni. Lavora per il comune di Bradford o per qualche altro ente pubblico.» «L'Ente per lo Sviluppo di Leeds» dissi. «Dirige un gruppo di ricerca.» Barrett verificò i suoi appunti. «Esatto.» Alzò le sopracciglia e voltò pagina. «Bene, parleremo di lei tra non molto. È la sua sorellastra per essere precisi. Avevano la stessa madre, ma padri diversi. Barney Carrick ha ventisei anni, tra parentesi.» Ventisei anni. Non so perché non avevo mai fatto il calcolo preciso e ora che conoscevo la sua età anagrafica, Carrick mi appariva incredibilmente giovane. Aveva sei anni meno di Caitlin. «È stato sei anni nei parà,» continuò Barrett «perciò l'esercito avrà il suo profilo psicologico, eccetera. Ho già parlato con un certo colonnello. Sembra che il nostro ragazzo si facesse notare. Ha il grado di sergente. Ha perso i gradi dopo aver partecipato a un'aggressione, ma gli sono stati restituiti. Suppongo che ai parà piacciono i tipi tosti. Pare si sia cacciato in un guaio serio in Afghanistan. In un'azione finita male ha ucciso una donna e due bambini, e dopo l'incidente l'hanno messo alla porta. Più o meno.» Barrett si alzò gli occhiali sulla fronte. «Ha un appartamento a Londra, a Brixton, da quattro o cinque anni. Paga il mutuo regolarmente. Negli ultimi due anni, dopo il suo congedo, opera da lì come consulente per la sicurezza. In altre parole, come guardaspalle. Il telefono suona a vuoto e nel suo appartamento non c'è nessuno. I vicini dicono che è normale.» Sfogliò le pagine. «Ha una vera passione per le moto. Lunghi soggiorni all'estero.» Pensai al giovane impacciato della fotografia di Angie e al soldato snello e indurito delle immagini successive. Padre sconosciuto. Madre prostituta e drogata, morta a quarantaquattro anni. Quando lavoravo al pronto soccorso li chiamavamo rifiuti, disperati, quelli come la madre di Barney Carrick e di Angie Carrick. Li chiamavamo rifiuti quando arrivavano per la decima, la ventesima volta in un mese, catatonici o deliranti, finché alla fine, inevitabilmente e con nostro grande sollievo, arrivavano morti. «Non c'è una sua scheda qui,» disse Barrett «ma i ragazzi di York sanno
molte cose sul suo conto. Ha avuto problemi da quando aveva undici anni. Soprattutto per questioni di droghe leggere e di ordine pubblico, ma a quindici anni ci è mancato poco che uccidesse un tizio in un pub di Liverpool. Una brutta storia. Gli ha spaccato il cranio con uno sgabello del bar. Sembra che ci siano voluti quattro buttafuori per toglierglielo dalle mani. Avrebbe dovuto andare in riformatorio per un paio d'anni. Ma alla fine non so perché, ma non ci è andato. Non c'è altro finché non è entrato nell'esercito.» Barrett chiuse la cartelletta, si tolse gli occhiali e li pose sulla copertina. «Questo è grosso modo quello che si aspettava, dottore?» «Non so che cosa mi aspettassi» dissi. Barrett piegò gli occhiali e li mise nella giacca. «Tutto questo, naturalmente, non dimostra niente. Ma dobbiamo ammettere che non è una bella presentazione per il nostro signor Carrick. Già, proprio per niente.» Barrett mi accompagnò all'ascensore. Emma Dickenson rimase sulla porta del suo ufficio mentre ci allontanavamo. Sembrava ancora turbata per come erano andate le cose tra di noi. Quando fummo abbastanza lontani perché non ci potesse sentire, Barrett mormorò: «La smetta di fare coglionate, dottore. Glielo consiglio». Avevo l'impressione che in un certo senso quell'incontro l'avesse divertito. Poi aggiunse: «Non cerchi di strafare, eh?». Rimanemmo per qualche attimo senza parlare. Poi Barrett mi chiese: «Di nuovo all'estero? Dove questa volta?». «Ancora in Venezuela.» «Torna a salvare il mondo?» «Qualcosa del genere.» «In compagnia?» Si corresse: «Da solo?». «No. Hanno offerto a Stella Cowan...» «Bene, bene» disse in fretta, come se non volesse ficcare il naso in questioni delicate. Svoltammo un angolo e Barrett si fermò davanti a una porta e posò la mano sulla maniglia. «Questo è l'ufficio che si occupa dell'inchiesta. Vuol dare un'occhiata?» Non aspettò la mia risposta e spalancò la porta. La stanza non era molto più grande di una sala da pranzo, intasata di scrivanie d'acciaio ingombre di computer, telefoni, fax. Il pavimento era disseminato di grovigli di cavi. C'era puzza di fumo stantio e sulle scrivanie portacenere stracolmi si contendevano lo spazio con tazze da caffè vuote e contenitori di takeaway. C'erano solo tre persone che lavoravano nell'ufficio; due uomini in abiti
civili che parlavano al telefono e un agente donna in uniforme in piedi davanti a uno schedario. Tutti e tre mi guardarono incuriositi. La donna fece un cenno di saluto, poi si rese conto della mia identità e guardò allarmata Barrett. «Ci sono altri galoppini che lavorano qui dentro, ma al momento sono tutti fuori» disse Barrett. «Siamo in quindici a tempo pieno su questo caso. E poi ci sono i magistrati, quelli che si occupano delle intercettazioni telefoniche, quelli che ascoltano i vicini, e poi tutti gli altri.» Si fermò accanto a un grande pannello bianco che copriva quasi tutta una parete, zeppo di nomi e di codici scarabocchiati con pennarelli colorati. Barrett batté le nocche sul pannello. «Brigadiere» lo chiamò l'agente con voce preoccupata. Barrett la ignorò. «Ecco, guardi» batté nuovamente sul pannello. «Questi sono i nomi degli agenti investigativi.» Sembrava contento di fornirmi tutte quelle spiegazioni. «E questi scarabocchi sotto i nomi sono i codici del computer per ogni indizio che stanno seguendo. Ce ne sono dozzine, vede? Abbiamo sguinzagliato gente dappertutto. Chiacchiere con i vicini, domande a questo e a quello. Oggi, con il nuovo materiale che ci ha portato lei, se ne aggiungeranno altri ancora. E ne verremo a capo, dottore. Si fidi.» «Brigadiere?» lo chiamò di nuovo la donna con voce preoccupata. Mi resi conto solo allora che sulla parete, accanto al pannello bianco, era stata fissata in modo disordinato una serie di fotografie. Erano fotografie di Caitlin. Caitlin come l'avevano lasciata i medici, distesa in mezzo al sangue e ai cocci, con gli abiti strappati e scomposti. Caitlin livida su un tavolo anatomico. Caitlin viva che rideva alla macchina fotografica. «Non si monti la testa, dottore,» mi disse Barrett mentre fissavo con occhi increduli le fotografie «lei ha avuto un colpo di fortuna. Ma il lavoro serio lo si fa qui, lo fanno questi poveri diavoli legati alla catena di montaggio.» Mi accompagnò in corridoio. Ero stordito. «Farò una chiacchieratina con la sua amica Angie Carrick» mi disse Barrett come se nulla fosse accaduto. «Intanto cerchiamo di indagare sulla vita di quel poco di buono del suo fratellino. Quando so qualcosa faccio un salto da lei e glielo riferisco. Tra qualche giorno.» Mi girai per andarmene, ma Barrett mi toccò il braccio. «Giusto perché non creda che qui passiamo tutto il santo giorno a grattarci i coglioni, dottore. Okay?»
Tornai a casa sotto un cielo grigio ardesia. Il pomeriggio volgeva ormai al termine. Misi la catena alla porta e andai in sala da pranzo. Dalla finestra vedevo che il giardino era in uno stato pietoso. Un tappeto di foglie morte appiattiva l'erba. Il vento aveva staccato dal muro la rosa rampicante a sinistra della porta d'entrata, gettandola a terra come un groviglio di filo spinato. Quando Caitlin era viva non mi ero mai occupato del giardino, ma ora non potevo impedirmi di constatare che aveva un aspetto veramente trascurato. Non sapevo niente di giardinaggio, tuttavia mentalmente promisi a Caitlin che presto me ne sarei occupato. La sua cartella giaceva sul tavolo dove l'avevo lasciata dopo il funerale, nera e pesante come un'antica bibbia di famiglia. La portai nello studio, ne estrassi un fascio di disegni e li appoggiai sugli scaffali, in modo che potessi vederli. Mi sedetti all'altro capo della stanza e li osservai uno dopo l'altro. Erano disegni impressionanti, ancora più belli visti a una certa distanza. Immagini di una casa di mattoni, appollaiata su una piega del terreno, con un erpice arrugginito abbandonato davanti alla facciata, una finestra rotta e un tetto cui mancavano delle tegole. Era un luogo incantato dove si viveva una vita magica, intensa. Da cui io ero completamente escluso. Caitlin si fermò con un salto, gettò lo zaino sull'erba, si sedette sul muretto e mi fece la linguaccia come una bambina dispettosa. «Possiamo sempre salire sul furgone con i bagagli e farla finita» suggerii. «Piantarla con questa idiozia podistica.» Gettai il mio zaino accanto al suo e mi sedetti accanto a lei sulla pietra calda. «Se vuoi puoi stabilire tu il percorso» disse. «Io sono in vacanza.» Facevamo questo gioco, consapevoli che solo in parte era uno scherzo. Io facevo la guida, stabilendo rotta e tempi. Era compito mio scegliere una meta e prevedere quando l'avremmo raggiunta. Durante il percorso Caitlin faceva piccole deviazioni per vedere le fattorie, dava l'erba a un asino in un campo, o semplicemente seguiva un sentiero che per qualche ragione la incuriosiva. Io cercavo di convincerla che come previsto bisognava completare la marcia in giornata. Lei fermava un trattore e si faceva dare un passaggio. A Caitlin in realtà non spiaceva avere qualcuno che le facesse da guida, così come a me non spiaceva fare una deviazione, e quella piccola messinscena possedeva un'autenticità che la rendeva deliziosa. Ci eravamo messi in marcia dopo colazione e il sentiero ci aveva portato
per una decina di chilometri sulle colline pietrose dell'Umbria, attraverso vigneti e campi di grano. Il sole alto di mezzogiorno era caldo e rifugiarsi all'ombra era delizioso. Piegai la testa all'indietro e stirai i muscoli delle spalle. Da qualche parte mi arrivava un rumore d'acqua. Mi girai e vidi che in fondo al declivio alle nostre spalle un ruscello correva verso un ponte in pietra che si trovava a una cinquantina di metri più a valle. Oltre il ponte la strada, come un nastro sabbioso, risaliva la vallata fra due file di cipressi. Tra gli alberi si intravedevano bassi tetti di tegole e l'aria azzurra ci portava il lontano abbaiare di un cane. Fra noi e il ponte, sulla riva del torrente, vedevamo le rovine di un vecchio mulino. Macine di pietra erano sparpagliate nei punti dove l'acqua era più bassa. Caitlin bevve l'acqua direttamente dalla sua bottiglia, che agitò nella mia direzione per offrirmela. Al mio rifiuto la infilò nella cintura. Si alzò, si stiracchiò e saltando oltre il muretto si incamminò giù per il pendio, sull'erba morbida disseminata di fiori, trascinando lo zaino per le cinghie. Quando la raggiunsi sulla riva del torrente la trovai appoggiata al tronco di un salice piangente, i cui rami scendevano fino a toccare l'acqua. Sentivo il mormorio della corrente. Un calabrone rosso e giallo ronzava sul bordo sabbioso del torrente. Si posò, bevve e poi, preso da un nuovo obiettivo, schizzò via sull'acqua. Caitlin e io fummo catturati dal suo volo. Lei si sedette su un masso e si tolse gli scarponcini. «Potremmo comprare un posto come quello» disse indicando l'ammasso di rovine sull'altra riva del ruscello. «Davvero?» Mi tolsi anch'io gli scarponi. La tentazione di immergere i piedi nell'acqua limpida era irresistibile. «E che cosa ne faremmo?» «Ci vivremmo, Michael» disse sottolineando il verbo. «Potremmo viverci. Insieme.» «Uh, uh.» Si tolse le calze e il marsupio, e li posò su un sasso. «È solo un'idea.» Si sfilò la camicia, i jeans e gli slip. Gettò tutto sull'erba, poi indietreggiò nell'acqua bassa, spostando con cautela un piede dopo l'altro, come in un elegante balletto acquatico. Mi sorrise e allargò le braccia, consapevole della propria bellezza; i capelli lucenti, i muscoli e i seni tesi nell'acqua gelida. Alzò il viso verso il sole, rise ad alta voce, continuando la sua danza a ritroso. Mi spogliai anch'io e la seguii. Quando raggiunsi il centro del ruscello, Caitlin aveva trovato la pozza profonda davanti al muro del mulino e si era immersa. L'acqua era ghiacciata e risalì all'istante, senza fiato, in un esplosione di schizzi. Mi tuffai
sott'acqua. Per un attimo non riuscii a pensare a nulla, come se l'acqua freddissima avesse congelato ogni sensazione, tranne un ronzio nelle orecchie e la percezione di forme verdastre racchiuse in bolle d'argento. Riemersi scuotendo violentemente la testa. A un paio di metri da me Caitlin era seduta in pochi centimetri d'acqua su una delle macine e si abbracciava le ginocchia piegate. I suoi capezzoli erano rigidi per il freddo. Arrotolava una ciocca di capelli bagnati attorno a un dito e mi guardava come una sirena tentatrice guarda un marinaio. In due bracciate la raggiunsi e rimanendo nell'acqua profonda, mi appoggiai con i gomiti sulla sua pietra. Sentivo la corrente che trascinava il mio corpo. «Ci sono persone che vivono in posti come questo» disse con una gravità che prima non c'era nella sua voce. E capii immediatamente che non stava più parlando solo di fattorie in Umbria. «Anche gente del tutto comune trova bello vivere in posti come questo.» «Davvero, Cate? Come fanno?» «Hanno scelto una vita semplice. Una vita che non ha obiettivi troppo ambiziosi. Potremmo provarci anche noi.» Mi sentivo depresso. Sapevo che avevamo fatto quel viaggio proprio per discutere di questo argomento, ma non volevo affrontarlo ora. Non volevo litigare in un posto così bello e mi sentivo vittima di un'imboscata. Tuttavia, sapevo che il mio risentimento era solo un pretesto. Allungò una mano e mi accarezzò i capelli. «Hai idea di quanto mi senta smarrita, Michael? Mi sento come se avessi smarrito il sentiero nel mezzo della foresta e ora non riuscissi più a trovare la strada per tornare. Sento anche che solo tu sei in grado di trovarmi. Ma tu non mi cerchi.» «Risolveremo questo problema, Cate. Non devi preoccuparti.» «Non sono preoccupata» disse. «Ho paura. Ho paura di una vita fatta di grandi spazi vuoti. Senza una struttura, senza un progetto. Anche tu hai paura, Michael, ma non lo vuoi ammettere.» «E di che cosa avrei paura?» «Hai paura di fermarti.» Continuava ad accarezzarmi i capelli. «Paura di non farcela, paura che gli altri si accorgano che anche tu sei un essere umano. Paura di non saper cambiare le cose.» «Non è poco.» «Ma non è tutto. C'è dell'altro. Forse sono quei poveri bambini che incontri, i bambini ammalati, i bambini che muoiono di fame. Ma penso che ci sia dell'altro ancora.»
Le cinsi la vita con le mani e la guardai negli occhi: «Ma che cosa è cambiato, Cate? Pensavo che tu e io avessimo trovato un equilibrio». «Non so spiegartelo, amore mio. Ma ora ho le idee più chiare di prima. Non ti so dire altro. Un posto tranquillo da qualche parte, uno spazio per noi nella nostra vita, un po' di pace.» Sorrise. «Tornare all'inizio.» «L'inizio?» «È un'espressione di mia madre. Per lei doveva avere un significato particolare. Io vorrei soltanto che dedicassimo del tempo a imparare a conoscerci. Pensi che l'abbiamo mai fatto?» «E un bambino» dissi all'improvviso. «Un bambino.» Si chinò in avanti e mi avvolse nelle sue braccia tirandomi verso di sé, contro i suoi seni freddi. «Pensavo,» disse «che avremmo ripetuto errori altrui. Pensavo di non voler essere responsabile dell'infanzia di un bambino. Ma poi ho capito che è vero esattamente il contrario. Che tocca a noi spezzare il cerchio, non solo per un bambino, ma per noi stessi.» «Mi devi dar tempo per abituarmi, Cate. Tutto qui.» «No» disse tristemente. «Non è tutto qui.» Prese in mano la chiave e la sollevò per mostrarmela, come in un atto d'accusa. La lasciò ricadere sul mio petto e scivolò nell'acqua come una foca, senza uno spruzzo. Mi allacciò le braccia attorno al collo. «Un'avventura, Michael. La nostra avventura. Naturalmente si tratta di una strada mai percorsa prima. Questo è il punto. Andare insieme in qualche posto sconosciuto. Ci aspetta un nuovo cammino.» «Ma in questo modo io non posso lavorare» dissi. «Ho bisogno di organizzarmi.» «Potremmo aspettare il giorno in cui ritieni di aver fatto quanto era in tuo potere fare,» disse «ma non penso che quel giorno arriverà mai.» Si coprì il viso con le mani. «Michael, io non voglio che tu smetta di fare il tuo lavoro. Voglio che tu smetta di esserne schiavo. Che tutti e due smettiamo di essere schiavi del tuo lavoro.» «Dammi tempo. Ho bisogno di altro tempo.» Si scostò da me, appoggiando le mani sulla pietra piatta. I suoi occhi si dilatarono. «Non respingermi, Michael» disse. «Per favore, non respingermi, ora.» Sentimmo il suono di un clacson sul ponte. Stava arrivando un trattore con il rimorchio pieno di contadini che agitavano le braccia e lanciavano grida entusiastiche. Caitlin mi fece una boccaccia, poi rispose al saluto sorridendo agli uomini che tornarono a rinnovare con fischi e grida la loro
ammirazione. Nonostante i suoi sorrisi e la luce splendida del sole vidi che i suoi occhi erano colmi di tristezza. 21 Faticai per due o tre ore a rivoltare terra, tagliare rami morti e fissare al muro la rosa rampicante. Non c'era molto che potessi fare per il giardino in quella stagione. Per tre giorni avevo aspettato che smettesse di piovere, ma il cielo non prometteva niente di buono e probabilmente la pioggia sarebbe tornata a cadere prima che io finissi il lavoro. Non che me ne importasse molto. Del resto non sapevo niente di giardinaggio. Sapevo soltanto che faceva freddo e che le foglie morte erano ricoperte da una patina di ghiaccio. Sapevo soltanto che mi faceva bene lavorare, riportare un po' di ordine nel piccolo giardino inselvatichito, respirare all'aria aperta. Persi completamente la nozione del tempo. Era il primo lavoro fisico che facevo dopo settimane di inattività e a un tratto mi resi conto di avere fame. Cercai di ricordare se nel frigorifero ci fosse qualche rimasuglio dei rifornimenti che mi aveva portato Stella. Come se quel pensiero l'avesse evocata, vidi arrivare la sua macchina, che con uno stridio di freni si fermò sull'acciottolato. Alla vista della Volkswagen mi sentii invadere da un inatteso moto d'affetto per Stella, con quel suo vecchio macinino, con i suoi inauditi parcheggi e la sua fedeltà senza complicazioni. Aprì il cancello. Portava un impermeabile sopra l'uniforme verde e bianca. Quando mi vide si fermò. Forse dalla mia espressione capì che non aspettavo visite. «Non sono un emissario dell'Inquisizione spagnola» disse ridendo. «Hai portato qualcosa da mangiare?» dissi. «È la sola cosa che sai fare bene.» Andammo al caffè italiano dietro la stazione di Notting Hill Gate. Era affollato e rumoroso nella pausa di mezzogiorno e odorava di caffè e di aglio. Era un locale sopravvissuto alla trasformazione del quartiere in area residenziale di lusso, con tovaglie a quadretti bianchi e rossi e le pareti decorate con reti da pesca in cui erano impigliate aragoste di plastica. Avevo una fame da lupi. Ordinammo subito bianchetti per Stella e pasta per me. «Niente alcol oggi» disse. «Sono di servizio alle tre. È una visita volante.» «Davvero?»
«Volevo solo mostrarti questa. È arrivata oggi.» Estrasse dalla borsa una grande busta marrone e me la passò. La busta era indirizzata a Stella ed era affrancata con un francobollo vistoso. La aprii. La fotografia mostrava un gruppo di uomini e di donne sorridenti, seduti al tavolo di un ristorante, al sole. Ne riconobbi molti: appartenevano all'equipe chirurgica dell'ospedale Mater Misericordia. Sul retro qualcuno con una calligrafia stravagante aveva scritto: «Michael, desideriamo tutti ardentemente che tu venga; abbiamo bisogno di te!», seguiva una dozzina di firme. Scarabocchi, facce sorridenti, baci, brevi messaggi in spagnolo. La rigirai più volte tra le mani. «É brava gente» dissi. Ero commosso. «Sono fantastici.» «È arrivato il momento di pensare seriamente alle date» disse Stella. «Non voglio scocciarti, ma devo decidere.» «Sarebbe meraviglioso, vero?» «Sarà meraviglioso.» «Sì. Sì, ne sono certo.» «Bene» disse. «Bene.» «Che cosa hai fatto alle mani?» «Questo?» dissi guardando con indifferenza i palmi graffiati. «Non è niente. Sono caduto sulla ghiaia.» «Sei caduto?» «Per strada. Sono inciampato.» Mi sentii arrossire. «Capita.» «Eri sbronzo?» «Stella, un piccolo incidente. Non metterla giù dura per l'amor del cielo.» «Ehi, sta' calmo, bello mio.» Mi sentii un cretino. «Mi spiace. Ci sono in ballo delle cose. Non ho ancora avuto modo di pensare alle date.» «Quali cose?» «Materiale che la polizia sta esaminando.» Sapevo che avrebbe desiderato fare domande, ma non ne aveva il coraggio. Inarcò le sopracciglia. «Sappi che prima o poi dovrò dare una risposta, Michael. Non possono aspettare in eterno.» «Marzo» dissi, senza sapere perché. «Marzo? Ma mancano tre mesi.» «Be', diciamo l'inizio di marzo. Qualche settimana. Stella, non so. Devo solo aspettare che la polizia finisca le indagini.» Si appoggiò allo schienale della sedia senza togliermi gli occhi di dosso.
«Michael, l'idea del Venezuela avrebbe dovuto renderti la vita più facile, non più difficile.» «Sì, Stella. Un'occasione. Per me è importante. Devo solo far quadrare alcune cose. Non dipende interamente da me, dipende da come si muove la polizia.» «Va bene» disse pensierosa. «Marzo, dunque.» Finita la colazione la accompagnai alla macchina, la salutai con un bacio e dopo che se ne fu andata entrai in casa dalla porta sul retro. Non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine dei visi sorridenti di quei medici venezuelani. Risalendo il vialetto guardai nuovamente la fotografia. Non mi accorsi della presenza di Barrett, finché salendo i gradini mi scontrai con lui. «Salve, dottore» disse. «Stavo quasi rinunciando a vederla oggi.» Lo guardai con aria stupita con le chiavi che mi ciondolavano in mano. «Avete trovato Carrick?» «Facciamo due chiacchiere, le spiace?» «Pensavo che l'avreste trovato.» Sapevo che era una speranza irragionevole, ma mi colpì quanto fossi deluso. «Troppo presto, dottore» disse Barrett senza scomporsi. Accennò con il capo alle chiavi che tenevo in mano. «Dentro stiamo più comodi.» Aprii la porta e lo feci passare davanti a me. Attraversò le stanze guardandosi attorno come un turista, quasi fosse la prima volta che vedeva la casa. Misi la fotografia sullo scaffale e sintonizzai la radio su una stazione di musica classica. «Vuole un caffè?» «Se lo prende anche lei, dottore.» «L'ho appena preso, ma un altro non guasta. Temo di essere un caffeinomane. Però devo farglielo nero. Ho dimenticato di comperare il latte.» «Nero va benissimo.» «Si sieda.» Gli indicai una sedia in sala da pranzo e andai in cucina. «Grazie.» Barrett indossava un lungo cappotto nero. Lo tolse e lo gettò sulla spalliera della sedia, poi si sedette a un capo del tavolo da dove poteva vedermi mentre lavoravo in cucina. Non parlava. Avevo l'impressione che si stesse prendendo gioco di me, che sapesse molto bene dove voleva andare a parare. O forse aspettava solo che mi sedessi, in modo da poter parlare senza essere obbligato ad alzare la voce. Versai l'acqua nella macchinetta e riempii di caffè il sacchetto
del filtro. Scoprii che mi tremavano leggermente le mani e aspettai che il tremore sparisse. Trovare Barrett sulla porta di casa mi aveva scosso più di quanto mi aspettassi. Negli ultimi giorni ero riuscito a non pensare troppo a questo incontro, dimenticando quanto desiderassi avere notizie, quanto desiderassi una soluzione. L'incontro con Stella aveva reso questa necessità ancora più urgente. Avevo acceso la radio, perché sapevo che altrimenti il silenzio tra di noi sarebbe risultato ancora più insostenibile. Misi le tazze su un vassoio e lo portai sul tavolo della sala da pranzo, attento a non far tintinnare la porcellana. «Prima di dimenticarmi, ecco le sue fotografie» disse lasciando cadere la busta sul tavolo. «Tratteniamo per qualche tempo il disegno, ma se vuole gliene invio una copia.» «Va bene. Quando crede.» «Una cosa ancora: vorremmo fare una ricostruzione. Capisce? Girare un piccolo film. Proiettarlo durante una di quelle trasmissioni che si occupano di persone scomparse o di casi irrisolti.» «Che cosa ci sarebbe da ricostruire? Nessuno ha visto niente.» «Abbiamo trovato delle ricevute di acquisti fatti dalla signora Severin con la carta di credito in un centro commerciale proprio quella mattina. Il capo ritiene che possa valere la pena ricostruire il suo ritorno a casa. Forse qualcuno l'ha vista rientrare in casa. Se siamo fortunati magari qualcuno ha notato quel tizio sulla porta.» «Si riferisce a Carrick?» «Presumibilmente.» «Quando volete girare questo film?» «Venerdì. Dovremo chiudere metà della strada, ma è bene fare questo genere di cose lo stesso giorno in cui è stato commesso l'assassinio. La gente segue una routine. Viene in città ogni settimana nello stesso giorno, cose di questo genere.» «Capisco.» «Lei non dovrà affatto figurare, dottore. Lei dovrà solo osservare. Dire se facciamo qualcosa di sbagliato I vestiti di sua moglie. La sua andatura. I suoi gesti Questo tipo di cose. D'accordo?» Scrollai le spalle. «Se pensate che possa servire.» «Personalmente non farei tanto affidamento su que sta ricostruzione. Ma vale la pena provare.» Seguì un lungo silenzio. «Non avete idea di dove sia, vero?» chiesi.
«Carrick? Scommetto che è all'estero. Ha parecchi contatti e l'esperienza non gli manca.» Non dissi niente. «Ma prima o poi si farà vivo, dottore. Non importa dove si trova al momento, ma alla fine si farà vivo. Succede sempre così. Attirano l'attenzione di qualcuno, oppure vogliono vedere la vecchia madre per l'ultima volta, oppure vengono presi dalla nostalgia per un piatto di fish and chips o un boccale di birra IPA. Cose stupide. Qualsiasi sia il rapporto di Carrick con questa vicenda, prima o poi si farà vivo e a quel punto lo sapremo con certezza.» Barrett lasciò cadere molte zollette di zucchero nel suo caffè e lo rimestò facendo rumore con il cucchiaino. «E nel frattempo abbiamo avuto il piacere di fare una bella chiacchierata con la piccola Angie.» «Davvero?» «Un vero schianto, tra parentesi. Lei non ce l'aveva detto.» Presi in mano la mia tazza. «È andato a Bradford?» «Ci ha risparmiato il viaggio» disse Barrett. «È a Londra.» «Cosa?» Non riuscii a mascherare lo stupore. «È venuta assieme a quello sbiellato di suo zio. Si è sistemata nell'appartamento di suo fratello, a Brixton.» «Può fare una cosa simile?» Alzò le spalle. «Lui ha pagato il mutuo. E lei ha la chiave.» «Ma che ci fa qui?» «Vuole stare vicino al teatro delle indagini. Dice. La verità è che vuol essere presente il giorno in cui pizzichiamo il fratellino.» «Vorrei avere il suo indirizzo» dissi dopo un attimo. Mi guardò incuriosito. «Voglio restituirle le fotografie. Le ho sottratte la sera che sono stato a casa sua. La cosa mi mette a disagio.» Barrett alzò nuovamente le spalle. «Nessun segreto.» Scrisse l'indirizzo sul retro di un suo biglietto da visita e lo fece scivolare sul tavolo, verso di me. «In ogni caso, scommetto che ora preferirebbe non essere mai venuta a Londra. Le abbiamo dato una bella ripassata, devo ammetterlo. Parlando metaforicamente, naturalmente. L'abbiamo torchiata per quattro o cinque ore. Nel cuore della notte. La solita routine. Le abbiamo fatto venire uno strizzone.» «Capisco.» «È tosta la nostra Angie. Devo riconoscerlo. Non ha fiatato.» Berrett ridacchiò.
«Forse perché non sa niente.» «Oh, certamente» ridacchiò di nuovo. Mi dava una strana sensazione sentirlo parlare di Angie in quel modo. Mi vedevo Barrett che la sottoponeva a un terzo grado in qualche stanza buia, sogghignando come un gorilla in un film di serie B e mi sentivo in colpa per averla trascinata in quella storia. Sentivo un gran bisogno di difenderla. «Non ha la minima responsabilità per ciò che è accaduto» dissi. Barrett rise. «Non l'ha lasciata indifferente, vero dottore?» «Scusi?» «La piccola Angie. Molto coraggiosa. Bella. Non è che magari c'è del tenero?» «Ma che cazzo dice?» sbottai, riacquistando subito il controllo. Sentivo un assurdo bisogno di scusarmi per il mio linguaggio. «Era solo un'idea» disse Barrett innocentemente. «Sa, Angie ha detto qualcosa di simile parlando di lei, dottore. Ha detto che era una vera crudeltà che la gente innocente debba soffrire.» «Bene» dissi. «Capisco.» Lasciai cadere una zolletta di zucchero nel mio caffè, rendendomi conto che l'avevo già fatto, forse più di una volta. «E, dottore,» disse Barrett «è lui il padre del bambino. Carrick. È una notizia ufficiale. Il reparto medico dell'esercito ha conservato dei campioni di sangue. Il DNA è lo stesso. Dà da pensare, no? Una donna come lei. Un poco di buono come lui.» Mi osservò. «Si sente bene?» «Ho bisogno di aria.» Mi alzai e uscii dalla porta posteriore. L'aria era gelida e umida. Mi faceva piacere. Sentii Barrett che mi seguiva. Si fermò accanto alla porta appoggiando per terra la sua cartella. Si era messo il cappotto sulle spalle e ora si dondolava sulla punta dei piedi, ispezionando con lo sguardo il giardino che, nella luce opaca del pomeriggio invernale, aveva un'aria desolante. Notai che Barrett aveva portato con sé il caffè. Non sembrava avere fretta di andarsene. «Le piace il giardinaggio, dottore?» «Avevo voglia di fare un lavoro manuale.» Non volevo parlare di giardinaggio. Non volevo parlare di niente. «Oh, a me piace molto.» Indicò il roseto che avevo risistemato contro il muro. «Ci vorrebbe dello stallatico per la rosa. Non troppo però, altrimenti brucia le radici. Mi procuro il mio dalla Divisione a cavallo. Fa piacere sapere che servono a qualcosa, eh? Vedo se riesco a procurarne un sacchetto per lei.»
Sentivo un forte bisogno di restare da solo. «Sa, questa è davvero una vecchia storia, dottore.» «Scusi, non capisco.» «Be', non mi fraintenda. Non ho nessuna simpatia per un tipaccio come Carrick. Ma sembra che abbia avuto un'infanzia proprio brutta.» «Non la seguo.» Alzò le spalle. «Mi ha colpito la coincidenza che anche lei ha avuto un'infanzia difficile. Non mi guardi con quell'aria allibita. Ho solo dato un'occhiata agli archivi.» «Perché l'ha fatto?» «Curiosità. Non le è andata male, dottore, vero? Dopo una simile partenza.» «Ho avuto fortuna.» «No» disse. «Deve riconoscersi una parte di merito. Lei era intelligente, determinato, intraprendente.» Toccò la cartella con la punta della scarpa. «Non come questo disgraziato. Non come Carrick.» Prese un sorso di caffè e avvolse le dita attorno alla tazza bollente. «Ha fatto una bella pulizia in giardino» disse compiaciuto, accennando al mucchio di foglie fradice e al terreno smosso. Alzò lo sguardo al cielo coperto. «Meno male che ha quasi finito. Penso che stia per piovere sul suo capolavoro.» «Se ha altro da dirmi, brigadiere, è meglio che lo faccia subito.» Barrett posò la tazza sul davanzale esterno della cucina e si appoggiò al muro incrociando le braccia. Nell'aria gelida osservavo il suo respiro trasformarsi in nuvolette di vapore. «Sì, ne sono convinto.» Non comprendevo che cosa volesse dire. «Non è difficile da capire» proseguì Barrett. «Lei torna a casa inaspettatamente. Trova la sua signora che ha fatto le valigie e le fa spifferare cosa ha combinato mentre lei era a salvare il mondo. Volano parole grosse. La situazione le sfugge di mano. Per la prima volta in vita sua ha un attacco di rabbia. Ecco, una cosa del genere.» Provai un senso di claustrofobia. «Oh, tutti siamo capaci di violenza, anche lei, dottore» disse con semplicità. «So che a questo proposito anche Angie Carrick sarebbe d'accordo.» Sorrise vedendo la mia espressione. «L'ha colpita, vero?» «Glielo ha detto lei?» «Angie le ha dato un ceffone solo perché è stato lei a colpirla per primo. È così che è andata, vero?»
«Proprio per niente.» Mi sentivo male. «Diciamo che è un'ipotesi per il momento, eh?» Guardò ancora il cielo freddo. «Ma vorrei mettere una cosa in chiaro, da subito.» «Quale cosa?» «Ci sono cose che non riesco a far quadrare nella mia testa da quando è saltato fuori questo Barney Carrick. Per il capo è tutto chiaro. Lei fa il birichino e ci tiene all'oscuro delle sue ricerche, ma a parte quello, Carrick è il sospettato numero uno. Chiaro come il sole. Un giorno, il tipo si presenterà alla polizia e ci dirà quanto è felice che tutto sia finito. E io?» Ridacchiò. «Io penso che tutto è cambiato da quando è saltato fuori questo Carrick. Penso che le carte sono state mescolate e nessuno sa esattamente come torneranno al loro posto.» «Che cosa significa?» «Oh, ammetto che Carrick è un gran bastardo» disse Barrett. «Ne sarebbe più che capace. Ma non ci sono indizi che abbia messo piede in questa casa quel giorno, né mai. Niente DNA. Niente impronte. Niente testimoni.» «Il che non dimostra che lui non sia stato qui.» «Però non dimostra nemmeno il contrario, deve ammetterlo. Non c'è stata alcuna effrazione. E poi, se la sua signora aveva fatto le valigie per fuggire con lui, perché avrebbe dovuto ucciderla? Ma lei invece, lei qui c'è stato e noi lo sappiamo. Lei e i suoi famosi quaranta minuti.» Allargò le braccia. «Vede che i conti tornano?» «Non ci credo.» «Oh, invece farebbe meglio a crederci. Perché poi c'è tutta la questione di lei e della signorina Cowan. Ovviamente lei ci va a letto con la signorina.» «Non è vero. Non è assolutamente vero. Sono anni che io e Stella siamo solo amici. La nostra storia risale a prima del mio matrimonio.» «Oh! Non è forse vero che lei sta progettando di andare a vivere con lei all'estero? L'ha detto lei stesso.» E indicò l'interno della casa. «E vedo che tutti i suoi amici stranieri già le scrivono, in qualche modo organizzano la sua nuova vita.» «Questa è una storia del tutto diversa.» «Davvero? E mentre lei era in Sud America con la signorina Cowan, quest'ultima volta, non avete avuto un ritorno di fiamma? Luna tropicale, chitarre, lunghe notti solitarie? Un'atmosfera così può tentare anche un santo.»
«No. Non è come lei crede.» «Bene, dottore, forse è sincero. Personalmente, che lei vada o non vada a letto con Stella Cowan non mi interessa. Però se uno chiedesse ai membri del suo gruppo venezuelano come stavano le cose tra voi due, cosa che io ho fatto, arriverebbe alla stessa ignobile conclusione. E questo non le gioverebbe.» «Non avrei mai fatto del male a Caitlin. Anche se avessi saputo tutto - di Carrick e del bambino - non le avrei mai fatto del male. Anche se tutto ciò che lei dice di me fosse vero, non le avrei mai fatto del male.» Mi osservò per qualche secondo con aria pensierosa. «Noi non siamo molto intelligenti» disse. «Se lo fossimo non faremmo i poliziotti. Faremmo i chirurghi come lei. Perciò il nostro lavoro è veramente banale. Mettiamo assieme un pezzetto alla volta. Se si va avanti così per il tempo necessario ne viene fuori un'immagine coerente. E le posso assicurare che non c'è niente di personale in tutto questo.» Cominciò a piovere. Barrett si infilò il cappotto con uno scrollone di spalle e lo abbottonò. «Probabilmente lei non ha niente di cui preoccuparsi, dottore. Sinora si tratta soltanto di riflessioni personali. Nel frattempo diamo la caccia a Carrick su tutti i fronti. Forse lo troveranno presto e forse il quadro potrà cambiare completamente. In quel caso mi presenterò con il capo cosparso di cenere.» Fece una pausa. «Ma c'è stato un qualche incidente. Sì. Ne sono convinto.» Si incamminò lungo il sentiero verso il cancello. Con la mano sul chiavistello si voltò verso di me e disse: «Perché non ci pensa? E non parta con la signorina Cowan senza avvertirci, capito, dottore?». Alzò la mano per salutare e uscì. Sentii i suoi passi pesanti che si allontanavano sull'acciottolato. Quando il rumore dei suoi passi si spense tornai in casa. Stavo male. Andai in bagno cercando di combattere la nausea che mi attanagliava lo stomaco, mentre osservavo nello specchio il mio riflesso spettrale. Sudavo. Mi lavai il viso e il contatto con l'acqua fredda mi fece recuperare un po' di calma. Ritornai in sala da pranzo. La casa mi sembrava buia e opprimente, popolata soltanto di altri angosciosi interrogativi. Mi sentivo con le spalle al muro. Non avevo bisogno di guardare ancora le fotografie. Vedevo il volto di Carrick con assoluta chiarezza, come se fosse seduto di fronte a me. C'è da pensare, aveva detto Barrett. Un poco di buono come lui. Una donna come lei.
Infilai la busta in tasca. Non mi sentivo abbastanza calmo per mettermi alla guida, ma in ogni caso presi le chiavi della macchina. 22 Mi ci volle meno di mezz'ora per trovare la via. Correva parallela a Brixton High Street, non lontano dalla ferrovia. Parcheggiai in una strada laterale e feci quattro passi nella sera invernale per snebbiarmi la mente. Avevo sperato invano di trovare un po' di pace. Nel quartiere c'era un mercato serale e la strada era intasata di bancarelle e di ombrelli. La folla gridava e rideva, e ovunque si sentiva l'odore di fritto dei wok installati all'aperto. Una steel band diffondeva la sua musica assordante per tutta la strada. Il palazzo si trovava nel bel mezzo del chiasso e degli odori del mercato. Al pianoterra c'era un grande emporio di prodotti asiatici, con una bottiglieria su un lato e una sala corse sull'altro. I tre negozi erano chiusi. Attraverso le tende verdi del negozio asiatico intravedevo sacchi di riso, di miglio e scatole di spezie. Su un lato dell'edificio c'era un passaggio stretto che portava a un piccolo spiazzo sul retro che fungeva da parcheggio. Scorsi una Fiat Bravo con un adesivo dello Yorkshire Dales National Park sul lunotto posteriore. Accanto all'uscita di sicurezza, chiusa con una porta di ferro, si apriva una seconda porta in truciolato. Non c'era nessuno. Spinsi la porta che non era chiusa a chiave e mi ritrovai ai piedi di una scala buia, dove aleggiava profumo di coriandolo e di noce di cocco. Salii lentamente i gradini. L'appartamento era al primo piano. Bussai alla porta. Per alcuni attimi non ci fu risposta. Stavo per bussare una seconda volta quando sentii una successione di passi rapidi e il rumore di una catena che veniva sganciata, poi la porta si spalancò. Per qualche secondo sul viso di Angie apparve lo sconcerto e mi immaginai che aspettasse qualcun altro. Indossava una camicia di jeans e un paio di calzoni kaki. «Hai avuto un bel fegato,» disse «a venire qui.» «Angie, posso entrare?» «No, smamma.» Stava per sbattermi la porta in faccia, come avevo cercato di fare con lei la prima volta che la vidi sulla soglia di casa mia, ma appoggiai una mano allo stipite e con l'altra le mostrai la busta. «Sono venuto a restituirti queste.» Ebbe un attimo di esitazione. «Che cosa sono?»
«Sono delle foto che ti ho preso.» «Che mi hai rubato.» «Sì. Hai ragione. E ora te le restituisco. Ci tenevo a farlo di persona. È stata un'idea stupida.» Guardò prima me, poi la busta. «Dimmi perché sei venuto.» «Una volta mi hai detto che tutti e due soffriamo per quello che è successo. Ho ripensato alle tue parole.» Tolsi la mano dallo stipite dandole la possibilità di chiudermi la porta in faccia. Rimase ferma a fissarmi, poi mi strappò di mano la busta e si fece da parte. Entrai nel piccolo appartamento: una stanza con un tavolo, un cucinino, un bagno e due camere da letto. Sembrava che non fosse stato imbiancato dagli anni Sessanta. Una grande finestra guardava sul parcheggio nel retro dell'edificio. Poco più in là, all'altezza del primo piano, passava il viadotto della ferrovia. Nell'aria sentivo l'odore del tabacco dello zio Stanley e di un deodorante al pino. «Hai uno speciale talento per rintracciarmi» disse. «Chi ti ha detto dove trovarmi? Il buon brigadiere Barrett?» «Mi hanno detto che questo era l'appartamento di tuo fratello.» «Giusto. E allora?» «Che ci fai qui tu, Angie? A Londra? Ti metterai nei guai.» Appoggiò le mani suoi fianchi. «Ti interessa?» «E hai portato qui anche lo zio Stanley?» «Non voleva rimanere da solo.» «Dov'è?» chiesi. Mi ero aspettato di trovare il vecchio nell'appartamento e la sua assenza mi colpì, anche se non avrei saputo spiegare perché. «È giù al mercato. O forse al pub. Quando hai bussato pensavo che fosse lui.» Chiuse la porta alle mie spalle e gettò la busta sul tavolo senza aprirla. «Hai un'aria diversa» disse. «Ho avuto una visita della polizia oggi.» «Avrebbe dovuto renderti felice.» «No, invece.» «No, neppure io sono felice di essere stata prelevata nel cuore della notte. Grazie a quello che tu gli hai spifferato.» «Non volevo affatto coinvolgerti, Angie. Ma lo sapevi che sarei andato alla polizia.» «Sai che cosa mi hanno fatto?» La sua voce si alzò di tono. «Mi hanno tenuto in quella maledetta stanza per ore e ore, di notte, interrogandomi come se fossi una delinquente. Non mi hanno neppure permesso di andare
al bagno. Le stesse stupide domande, ripetute all'infinito. E quella bestia di Barrett che se ne stava lì a sbavarmi addosso.» «Se sai qualcosa devi dirlo» dissi. «Collabora. Fai ciò che ti chiedono.» «Perché dovrei?» «Perché questa vicenda va ben oltre il tuo distorto senso di lealtà nei confronti di tuo fratello. Perché altrimenti ti faranno del male.» «Non sai niente, Michael, e capisci ancora meno.» «Conosco la sua storia.» «Oh, sì. Il brigadiere Barrett ha raccolto tutti i fatti che riguardano Barney, vero? Ha pestato un pover'uomo in un pub quando aveva quindici anni. La strage degli innocenti a Kabul. Conosco a memoria tutta la mitologia.» «Stai dicendo che non è vero?» «I fatti potrebbero essere questi. Ma potrebbero essere interpretati in altro modo.» «Che significa?» «Che le cose non stanno come pensi. Che Barney aveva le sue buone ragioni. In tutti questi episodi aveva le sue buone ragioni.» «Che ragioni aveva di ammazzare di botte Caitlin?» «Perché non mi ascolti? Ti ho già detto che non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.» «Se continui a ripeterlo, forse alla fine si trasformerà in verità.» «Cerca di capire, Michael. Barney è stato il solo uomo che mi abbia voluto bene. Se non fosse stato per lui, sarei finita come mia madre: fottuta a quattordici anni. E voglio dire fottuta in tutti i sensi.» Parlava sempre più forte e nei suoi occhi c'era una luce selvaggia. «Non puoi giudicarci. Non puoi neppure immaginare che cosa sia stata la nostra vita.» «Metà della gente ha avuto un'infanzia schifosa, Angie. Pensi che la vostra infanzia giustifichi quello che è successo?» «Faresti di tutto per incolpare Barney, vero?» Mi si avvicinò facendo oscillare la chioma scura. «Pensi che sia lui il colpevole perché se la portava a letto? È di questo che si tratta?» «Continua Angie. Perché non vai fino in fondo e dici che l'ho uccisa io? Non saresti la prima.» «E allora?» gridò. «L'hai uccisa tu?» L'afferrai con violenza per le spalle, costringendola a tacere. La forza della mia stretta le fece fare una smorfia, ma non mollai. «Mi sono seduto sulle scale con lei.» Il suono della mia voce mi sembrava lon-
tano. Guardai fuori dalla finestra rigata di pioggia. «Ho fatto tutto ciò che dovevo fare. Il suo cuore batteva ancora. Lo sentivo a tratti. Alla fine non ho potuto far altro che aspettare che si fermasse. Sono rimasto seduto ad aspettare. Ci è voluto molto tempo.» «Toglimi le mani di dosso!» Sgusciò via come un animale selvatico preso in trappola. «Non voleva molto» dissi. «Una vita con uno scopo. Essere qualcosa di più della bella addormentata. Non chiedeva molto. Eppure è stata costretta a cercare altrove ciò che desiderava.» Mi parve che le luci colorate dell'esterno oscillassero, uscendo veloci dalla mia visuale. «Voleva un bambino» dissi. «E alla fine anche per quello ha dovuto rivolgersi altrove.» Guardai Angie negli occhi. Non volevo minacciarla, ma nella mia mente vedevo Caitlin sulle scale, con le gambe nude stranamente contorte. Non so che cosa Angie leggesse nel mio sguardo, ma qualcosa la terrorizzò, perché improvvisamente si mise a gridare e a percuotermi. L'afferrai per i polsi, ma lei cercò di divincolarsi soffiando come un gatto, con gli occhi sbarrati e inferociti. «Angie, basta.» La presi tra le braccia, cercando di tenerla ferma contro di me. «Angie!» «Così siamo pari, vero?» disse gettandomi in faccia il suo disprezzo. «Barney ha scopato lei e tu scopi me!» Lasciai ricadere le braccia e feci un passo indietro. Per un attimo vidi la stanza ondeggiare. Angie ansimava. La rabbia stava sbollendo. Sembrava addolorata. «Michael...» La porta si aprì. «Oh! Scusatemi tutti quanti» disse lo zio Stanley. Portava tra le braccia uno scatolone pieno di lattine, pacchetti e verdure fresche. Nell'aria si diffuse odore di pollo arrosto. Il vecchio ci guardava attraverso un ciuffo di foglie di asparago, come un animale diffidente. Angie si voltò gettando indietro i capelli, si sistemò la camicia e cercò di controllare il respiro. Ritrovai la voce prima di lei. «C'è stato un problema» dissi rivolgendomi al vecchio. «Ah, sì?» «Un piccolo problema. Ma adesso è risolto.» «Di algebra?» Lo zio Stanley mi rivolse un'occhiata gelida. «Non ricordo che l'algebra facesse così rumore. Me ne torno fuori, prima che passiate
ai logaritmi.» Guardò Angie con occhi intensi per verificare come stessero effettivamente le cose. «Tutto a posto» disse lei sfoderando un tono convinto. Gli si avvicinò per prendere lo scatolone. «Dallo a me e chiudi la porta prima che moriamo tutti di freddo.» «È meglio che me ne vada» dissi. «Non sarei dovuto venire.» «Non andare.» Angie parlava volgendomi le spalle. Mettendo lo scatolone sul tavolo aggiunse: «Non avrei dovuto dire una parola di quello che ho detto. Non una parola». «Non è colpa tua.» «Ci starei male se te ne andassi adesso.» «In ogni caso è meglio che me ne vada.» Gli occhi dello zio Stanley passavano dall'uno all'altra, come quelli di un arbitro di Wimbledon. «Decidi tu» disse Angie, sempre volgendomi la schiena. «Ce n'è abbastanza per tre.» «Bene, deciditi,» disse lo zio Stanley «altrimenti qui nessuno mangia.» Mi sedetti a tavola. Angie, imbarazzata, vuotò lo scatolone. Chiese allo zio Stanley: «Hai comperato del vino, vecchio fannullone? Non possiamo bere la tua schifosa birra scura». «Vino?» Il vecchio alzò le sopracciglia. Batté la pipa sul palmo calloso, con il rumore di una piccola esplosione. Ripeté l'operazione, aggrottando la fronte, deluso davanti al risultato e soffiando sonoramente dentro il fornello. «Mi vorrai scusare, ma non immaginavo che avremmo avuto un ospite per cena. Non ho comperato neanche il foie gras.» «Vado io a prendere il vino» disse Angie. Stavo per alzarmi io, ma con la mano mi fece segno di non muovermi. «Ho bisogno di aria fresca. Davvero.» Si infilò la giacca di pelle nera e senza guardarmi uscì dall'appartamento, lasciando me e lo zio Stanley seduti al tavolo, uno di fronte all'altro. Ero contento di starmene finalmente seduto tranquillo. Il vecchio accese la pipa e per un paio di minuti sembrò felice di tirare lunghe boccate. Ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano lui socchiudeva gli occhi, ma rimaneva in silenzio. Un treno passò sferragliando sul viadotto accanto allo stabile, diretto a Victoria o a Waterloo, in direzione dei quartieri meridionali. Al suo pas-
saggio le stoviglie in cucina tintinnarono. Entrambi restammo a guardare le carrozze con i finestrini illuminati. Era strano vedere tutte quelle facce anonime, così vicine, che osservavano quel preciso istante della nostra vita. «Vedono tutto quello che accade qui dentro» osservò lo zio Stanley. «Così hanno qualcosa da fare, poveri diavoli.» Sorrise e salutò con la mano i pendolari che affollavano il treno. Incredibilmente un paio di loro risposero al saluto. «E dopo tutto, una finestra è fatta apposta perché ci si guardi dentro e fuori. Altrimenti ci sarebbe un muro.» Incrociò le lunghe mani sul tavolo. Sul piano erano disposti tutti gli oggetti del suo cerimoniale: la borsa del tabacco, una scatola gialla e verde di Swan Vesta, qualche scovolino, la pipa di radica posata su un portacenere zeppo di fiammiferi consumati. Mi guardava con i suoi sereni occhi azzurri. Sulla stanza scese una grande calma che a poco a poco invase anche me. «Deve essere duro per lei vivere in questo posto» dissi. «Prendo le cose come vengono.» Si guardò attorno. «Peggio di Tobruk nel quarantadue, te l'assicuro.» Prese la pipa e la esaminò. «E che altro volevi dirmi, giovane dottor Seven?» «Che lei non merita tutto questo» dissi e senza riflettere aggiunsi: «Né lei, né Angie». «Neanche tu, dottor Seven. Ma quello che capita nella vita non ha un cavolo a che vedere con il merito.» Accese la pipa. Cercavo i suoi occhi, ma erano nascosti dal fumo. Mi alzai e andai alla finestra. Le luci si stavano accendendo su tutta l'immensa area del sud di Londra. Sentivo la steel band giù al mercato e l'avvicinarsi del rombo di un altro treno. Aspettai che le carrozze illuminate di giallo mi passassero davanti sferragliando. Quando guardai lo zio Stanley era tutto intento a salutare i pendolari. Il fumo della pipa che si avvolgeva in spire attorno al suo viso lo faceva assomigliare al mago di una fiaba. «Zio Stanley,» dissi infine «mi parli di Barney Carrick.» «Ah» disse. Premette il tabacco nel fornello e tirò a lungo, finché fu di nuovo avvolto nel fumo. «Il nostro Barney non era un bravo ragazzo.» Vedendo la mia espressione si tolse la pipa di bocca, infilò di nuovo nel fornello il pollice nero di cenere e sfregò un altro fiammifero. «Non ti aspettavi che ti dicessi una cosa simile, eh?» «No.» «Pensavi che ti avrei parlato di come si sia preso cura della sorella. Di come nessuno l'abbia capito. Di come non gli sia mai capitata una buona
occasione.» «Più o meno.» «Bene. Anche quello è tutto vero.» «Speravo in una risposta chiara e semplice.» «Alla tua età ancora non sai che non esiste una risposta chiara e semplice?» Posò la pipa e intrecciò le lunghe dita. Sembrava scrutare nel passato e gli ci volle qualche minuto per recuperare le immagini che vi scorgeva. «Ma ti posso dire questo, dottor Seven. La vita non è un foglio bianco. Neppure all'inizio.» «Non capisco.» «Tutti pensiamo che la vita sia un foglio di carta bianco. Immacolato. E siamo convinti che quello che scriviamo su quel foglio bianco dipenda da noi, solo da noi. Che sia colpa nostra se lo scritto è brutto e meschino, o merito nostro se è bello e piacevole. Merito o demerito nostro, a seconda dei casi.» Lo ascoltavo in silenzio. C'era qualcosa di magnetico nella sua voce. Il suono delle sue parole riempiva di calma quella misera stanza. Non volevo spezzare l'incantesimo. «Ma non è affatto così» proseguì. «Invece, quel bel foglio pulito è già tutto scarabocchiato prima che noi vi scriviamo sopra la nostra storia. A volte vi sono scritte cose belle, a volte brutte. Sul foglio di Barney erano scritte cose brutte. E anche su quello di Angela. E per quanto tu sia diventato un ragazzo importante, dottor Seven, scommetterei che anche sul tuo c'erano scritte cose brutte. Mi sbaglio?» «No» dissi. «Non si sbaglia.» Alzò le sopracciglia bianche e sospirò. «Ma forse non può essere una scusa. Barney non ha fatto delle cose belle. Ha aggredito un uomo. Naturalmente la nostra Angie pensa che da allora Barney abbia imparato la lezione. La nostra Angie pensa che sia cambiato.» «E lei, zio Stanley, pensa che sia cambiato?» «No, ragazzo» disse. «Io penso che nessuno cambi. Penso semplicemente che scopriamo altre cose sulle persone.» Sentii girare la chiave nella serratura e la porta si aprì. Angie entrò portando due sacchetti di plastica con delle bottiglie. Per mezz'ora sedemmo al tavolo mangiando in silenzio pollo e insalata e bevendo vino a buon mercato da boccali spaiati. A ogni treno che passava rombando lo zio Stanley alzava il bicchiere e faceva boccacce ai viaggiatori.
Dalla strada arrivava il suono della musica caraibica. Quando finimmo di cenare, lo zio Stanley si alzò senza dire una parola e trascinando i piedi andò verso una delle camere da letto, si chiuse la porta alle spalle e per quella sera sparì. «Stai bene?» mi chiese Angie. «Sì, sto bene.» «Mi spiace. Non ho ancora imparato a tener la bocca chiusa.» «Non ti preoccupare.» «Michael, devi cercare di capire perché a volte mi comporto in quel modo. Ci tengo che tu capisca.» La lasciai continuare. «A diciotto anni mia madre doveva mantenere me, Barney e la propria tossicodipendenza. Non poteva sbarazzarsi di nessuno dei tre. Avveniva tutto nella stessa stanza, i buchi, il sesso e i pestaggi. Eravamo come ostaggi, Barney e io. A volte mi sembra che niente sia cambiato.» Buttò indietro la testa. «Non puoi immaginare la nostra vita, Michael. La mamma stesa sul pavimento per ore e ore, completamente fatta. Io e Barney giù da Hukum a rovistare nelle pattumiere come una coppia di cuccioli affamati.» Non dissi niente. Ascoltavo. «È stato Barney a tenermi fuori da quel mondo. Io lavoravo e andavo alla scuola serale. Non so come, ero brava a scuola. Sono riuscita a entrare all'Università di Leeds. Quella è stata la mia salvezza. Ma è stato Barney a renderla possibile.» «E lui?» «Mentre io tenevo la testa china sui libri, Barney non faceva altro che mettersi nei guai. Alla fine, per tirarsene fuori è venuto a sud ed è entrato nell'esercito. Parlo di otto anni fa. Ha comperato subito questo appartamento. Venivo qui a trovarlo ogni tanto. Per me quelle visite erano una grande avventura.» Feci scorrere gli occhi sulla stanza spoglia. «Oh, lo so» disse interpretando il mio sguardo. «Ora non è granché. Quando lo zio Stanley e io siamo arrivati qui non c'era un quadro sul muro. Niente stereo, nessun soprammobile. Ma anni fa l'appartamento era pieno di cose che Barney portava dall'estero. Pieno di vita.» «Che cosa è successo?» «È successo l'Afghanistan. Non conosco i dettagli della vicenda.» «Non gli hai chiesto niente?» «Non lo vedo da due anni.»
Mi ci volle un attimo per registrare le sue parole. «Non lo vedi da due anni?» «Gli ho parlato una sola volta. Telefonavo. Lasciavo messaggi. Ma lui non rispondeva. Anche per questo sono venuta qui. Per riempire una lacuna.» «Cosa intendi fare?» «Aveva un commilitone. Chris Walker. Barney mi ha mandato fotografie dei posti dove sono stati assieme. Bosnia, Kuwait e altri ancora. È in Medio Oriente che ha trovato quel verso "Conosco il sapore della tua assenza". Me lo faceva scrivere da Chris sulle cartoline. Lui non sapeva scrivere, non bene, comunque. Ma dopo l'Afghanistan più niente. Mi dicevo che Barney aveva fatto bene ad andare per la propria strada. Forse aveva incontrato una brava ragazza. Ma la verità è che si vergognava.» Fece un lungo sospiro. «In ogni modo, mi ha chiamato il giorno del funerale della mamma, sei mesi fa. Non so da chi l'abbia saputo.» Raddrizzò le spalle. «E in quell'occasione che mi ha parlato di Caitlin.» «Che cosa ha detto di lei?» «Che era una donna deliziosa. Che era sposata.» Allungò le mani sul tavolo e le posò sulle mie. «Che era una persona speciale e che faceva sentire speciale anche lui.» «Capisco.» «So che era sincero, Michael. Sapevo che era venuto per parlarmi di lei. Poi, quando ho letto sui giornali dell'accaduto, pensavo che mi avrebbe contattato, ma non lo ha fatto e io non sapevo dove rintracciarlo. È questa la ragione che mi ha spinta a venire da te quella notte. Speravo che tu sapessi qualcosa.» «Angie, non lo vedi da due anni. Non puoi sapere quali cambiamenti sono avvenuti in lui.» «Ma so che cosa non farebbe mai. Barney non era un depravato e non si sarebbe messo con Caitlin se lei non l'avesse voluto. E lui non l'ha ammazzata per poi nascondersi. È una cosa che non farebbe mai.» «Qualcuno l'ha fatto.» «Sì. Un bastardo. Un drogato. Un maniaco. Ma non Barney.» «Non puoi esserne così sicura. Nessuno potrebbe esserne così sicuro.» «Tu non capisci. Non sto vagliando delle possibilità. Semplicemente glielo devo. Non voglio credere che abbia compiuto un atto simile.» «Credere non può essere semplicemente un atto di volontà, Angie.» «Davvero? Figurati che ho sempre pensato che la fede fosse proprio un
atto di volontà.» La sua convinzione era inattaccabile. C'era qualcosa di puro nella sua ostinazione, qualcosa di religioso. Rimanemmo entrambi in silenzio per qualche minuto. Le sue mani erano ancora posate sulle mie. Parve rendersene conto nel momento in cui io stesso lo notai. Lasciò le mie mani, si appoggiò allo schienale della sedia e scuotendo il capo respinse dal viso i lunghi capelli. Al passaggio di un treno guardò fuori dalla finestra. Osservava le luci al neon delle insegne commerciali, i lampioni stradali con le lampade azzurre, i rettangoli gialli delle mille finestre delle mille case, dove decine di migliaia di persone vivevano le loro storie. In mezzo a loro suo fratello aveva vissuto, e forse viveva ancora, una vita di cui nessuno di noi sapeva niente. «Lo capisci, Michael, che devo star qui per lui?» Trangugiai il vino che era rimasto nel fondo del bicchiere. «Devo andare.» Non disse niente. Mi alzai, mi infilai la giacca e mi diressi verso la porta. «Grazie, Angie.» «Di che cosa?» «Non so. Per tutto quello che mi hai detto.» «Michael?» «Sì?» «So che è dura per te. Ma quello che è successo tra loro, non fa di noi delle persone malvagie. Non basta che lui sia mio fratello e che lei fosse tua moglie.» Sedeva davanti alla finestra con i lunghi capelli scuri illuminati dalle luci della città. Sul suo viso leggevo la paura, la sfida e la speranza. La salutai accennando un sorriso e uscii richiudendomi la porta alle spalle. 23 Vidi Meredith Wren avanzare baldanzosa, con l'impermeabile di plastica che le svolazzava attorno. Teneva stretta al petto una cartella di pelle, gonfia e con le cinghie slacciate. La osservai dalla vetrina del caffè dove le avevo dato appuntamento. Non la vedevo dal giorno del funerale, ma non c'era più alcun segno della Meredith trasandata e lacrimosa di quel giorno. Ne fui contento. Mi dava gioia vederla traboccante di energia come sempre, mentre come un bo-
lide attraversava le strisce pedonali. Spalancò la porta mandandola a sbattere contro il muro e si diresse decisa verso di me. Mi alzai per abbracciarla. Sembrava più grossa del solito: le mie braccia riuscivano a stento a contenerla tutta. «Grazie di essere venuta, Meredith. Siedi, ti offro un caffè.» «Tè!» gridò al cameriere italiano che si stava avvicinando al nostro tavolo. «Un tè proletario con due zollette di zucchero.» Il cameriere, sbigottito, fece un inchino e fuggì. Meredith gettò la cartella sul tavolo. Togliendosi l'impermeabile di plastica, mise in mostra un abito di lana con un incredibile combinazione di colori, poi si sedette ansimando e aprì la cartella. Ne uscì una cascata di monete, dischetti di computer e tavolette di cioccolata che finirono sul pavimento. Annaspò sotto il tavolo per recuperare le sue cose e riapparve, rossa in viso. «Dunque» disse. «La posta.» Mi consegnò, lasciandoli cadere sul tavolo, due pacchetti di lettere tenuti insieme da elastici. «Ho già eliminato le cose da cestinare. Ovviamente, non leggere adesso. Un po'di burocrazia. Firma qui.» Spinse un blocco di moduli sul tavolo facendomi scivolare in grembo le lettere. «Che cos'è questa roba?» «Congedo per malattia. Spese. Assicurazione.» Fece un gesto d'impazienza con la mano. «Fa' come ti dico e firma.» Firmai. C'erano un sacco di moduli e Meredith aveva evidenziato con adesivi gialli i punti dove dovevo firmare. Ci vollero un paio di minuti per firmarli tutti. Arrivò il suo tè insieme a un altro caffè per me. Le restituii i moduli. «Sei stata molto gentile a portarmi tutte queste carte, Meredith» dissi. «Non me la sento di rimettere piede in ospedale per il momento.» «In ogni caso le cose vanno meglio in tua assenza.» «Il St Ruth andrebbe in malora se non ci fossi tu a metterci in riga tutti quanti.» «Lo puoi ben dire» dichiarò senza ombra di ironia. Infilò il blocco nella borsa. «Per dovere di cronaca, Michael, tutti chiedono di te. Sono tutti preoccupati per te.» «Rassicura tutti che sto bene.» «Davvero?» «Tu che ne pensi?»
«Penso d'averti fatto una domanda idiota. Perciò starò zitta. Ma prima di stare zitta voglio dirti che è proprio il caso che tu prenda quell'aereo per il Venezuela.» «Vedo che la notizia è arrivata alla velocità della luce.» «Michael,» disse spazientita «stai parlando con Meredith Wren. Piantala di dire stronzate e prendi il largo. Questo è il mio consiglio. Datti da fare per qualcosa che ne valga la pena.» «Il lavoro è stato offerto a Stella. Io vado, diciamo, come se fossi in congedo indefinito.» Fece una smorfia. «Sì, giusto.» Frugò ancora nella borsa e tirò fuori una cartelletta che sbatté sul tavolo. Per rendere più teatrale quanto stava per dire, finse di ignorare la cartelletta, sorseggiando rumorosamente il suo tè. «Posso indovinare che cos'è?» chiesi. «Non dovrei passarti questo tipo di documenti» disse. «A meno che, naturalmente, quest'uomo non sia un tuo paziente.» «Se è necessario lo dico.» Non riuscivo a togliere gli occhi dalla cartelletta. «Dillo, allora» Meredith era una fanatica della burocrazia. «Bernard John Carrick è un mio paziente, signora Wren» dichiarai ubbidientemente. «E desidero accedere al suo fascicolo personale, perché ritengo che le informazioni in esso contenute siano utili al suo trattamento. Va bene così?» «Abbastanza.» Spinse la tazza di lato e prese in mano la cartelletta. «Chi è?» «Uno che si trova nei guai» dissi dopo un attimo. «Non mi sembra una buona notizia.» Non risposi. «In ogni caso,» si affrettò ad aggiungere «ci è voluto un bel po' di lavoro, ti assicuro. Ci credi se ti dico che i Servizi Sociali non hanno ancora informatizzato il loro archivio? Hanno dovuto mandarmi i documenti per fax. Per fax! Ho dovuto dannarmi per trovarne uno.» Aprì la cartelletta, «Dunque. L'assistente sociale che c'era allora, adesso è in pensione, ma io l'ho rintracciata. Vive ad Arbroath. Sai, il posto da dove vengono le aringhe affumicate? O sono i merluzzi che vengono da là? Comunque, abbiamo fatto una bella chiacchierata. Si chiama Joy Parkes. Una donna simpatica. Alleva bassotti tedeschi.» Sedevo immobile, sforzandomi di restare calmo. Sarebbe stato un grosso
errore mettere fretta a Meredith. «Se vuoi puoi leggere tu stesso» disse facendo scivolare la cartelletta verso di me. «Puoi tenere tutto. Sono fotocopie.» «Grazie, Meredith. Perché non mi racconti le chicche?» «C'è un sacco di roba qui dentro» disse alzando la cartelletta. «Ci sono documenti che risalgono alla sua prima infanzia. Da dove vuoi che cominci?» «Voglio sapere della faccenda di Liverpool. La rissa nel pub.» «Speravo che mi chiedessi proprio di quell'episodio. L'ho letto un paio di volte. È un racconto interessante.» Appoggiò i gomiti sul tavolo intrecciando le dita. Aveva mani da lavandaia; grosse e rosse. «Il tuo amico Carrick ha aggredito un uomo che si chiamava Dermot O'Neale in un pub, un marinaio disoccupato, e ci è mancato poco che non lo spedisse al creatore. Lesioni gravi al cervello, la perdita di un occhio. Una brutta faccenda. A quel tempo il giovane Carrick aveva solo quindici anni e avrebbe dovuto essere messo in riformatorio, forse in uno degli istituti di massima sicurezza. Ma la mia nuova amica Joy Parks dice che c'erano delle attenuanti, ed è per questo che non fu rinchiuso.» «Non costringermi a giocare agli indovinelli, Meredith.» «La madre di Carrick faceva la vita. O'Neale era un suo cliente. Tempo addietro, quando il signor B.J. Carrick era un bambino di undici anni, O'Neale, dopo aver picchiato sua madre, essendo il gentiluomo che era, pensò che per quello che aveva pagato gli spettasse anche la figlia. Ho dimenticato di dirti della figlia, una ragazza di tredici anni o giù di lì, di nome...» «Angie» dissi. Sentivo un vuoto allo stomaco. «Angela, infatti. Dunque, il giovane Carrick cercò di proteggere la sorella» Meredith inarcò le sopracciglia, immaginandosi la scena. «Un bel coraggio, dobbiamo ammetterlo. Ma naturalmente quel porco di O'Neale massacrò di botte il ragazzino. Quattro costole rotte, un polmone perforato, commozione cerebrale...» Fece scorrere qualche pagina per controllare i dati. «Ho il rapporto della polizia da qualche parte.» «Allora che cosa è successo?» «O'Neale ne è uscito indenne. L'hanno beccato, ma non c'erano testimoni. Ma il giovane Carrick era determinato ad aspettare l'occasione buona. Infatti, aspettò quattro anni. Rintracciò quel disgraziato di O'Neale a Liverpool. Lo trovò in un pub e gli rese pan per focaccia.» Meredith si strofinò le mani soddisfatta. «Gli assistenti sociali fecero di tutto perché i magistrati conoscessero la storia per intero. Ecco perché il signor Carrick non
venne messo in riformatorio per l'aggressione. Fu invece impiegato nei servizi comunitari.» «Una storia impressionante» dissi. «Già. Si vedono le cose da un punto di vista ben diverso, conoscendo tutta la sceneggiatura, non credi?» Chiuse la cartelletta e mi guardò con il viso raggiante. Era contenta di se stessa. Vedendo la mia espressione delusa il suo viso a poco a poco si rabbuiò. «È evidente che non è quello che volevi sentirti dire.» Seduto alla scrivania del mio studio, in un'ora avevo letto quasi tutti i documenti raccolti nella cartelletta. Mancava poco all'una, quando sentii due colpi alla porta d'ingresso. Immagino che ci siano molti modi per bussare a una porta, ma forse lei ne aveva uno speciale, forse le circostanze della sua visita erano così impresse nella mia mente che non potevo sbagliarmi. Non so perché, capii subito che il visitatore era Angie. Appoggiai la cartelletta sul tavolo e andai alla porta. «Salve, Michael.» Angie era sulla soglia e la sua carnagione chiara riluceva nella luce invernale. «Penserai che sono pazza» disse. «Entra.» Indossava un elegante cappotto nero di lana sopra un top color arancio bruciato. Era nervosa. In sala da pranzo si fermò di fronte a me e disse: «È strano trovarmi di nuovo qui. È possibile che sia successo soltanto qualche settimana fa?». «Anni luce.» «Ho trovato Chris Walker» disse tenendo le mani intrecciate davanti a sé. «Il compagno d'armi di Barney.» «Ah.» «L'ho chiamato. Non è più nell'esercito. Ha una falegnameria. Voglio andare da lui. Mercoledì prossimo. A Kilburn. Non so dov'è il posto. Dice che non sa niente di niente. Ma voglio parlargli lo stesso.» «Pensavi che la cosa mi incuriosisse?» «Non è così?» Appoggiò la punta delle dita sul tavolo e così facendo sfiorò la cartelletta verde. Anche da dove mi trovavo il nome di suo fratello era leggibile sulla copertina. «Che cos'è?» chiese e prese la cartelletta. Sfogliò alcune pagine, poi la richiuse e la ripose sul tavolo. I suoi occhi avevano una strana luce. «Non volevo saltare alle conclusioni, Angie.» Ma lei continuò per molto tempo a guardarmi pensierosa.
«Non si usa più offrire da bere a una ragazza?» disse infine. Il vecchio pub non serviva pasti a mezzogiorno, perciò al bar non c'era quasi nessuno. Avevo proposto ad Angie di andare in un elegante caffè francese di Church Street, ma lei aveva insistito che voleva andare in un pub. Forse immaginava che sarebbe stato più tranquillo. Le portai un bicchiere di bianco secco. Si era seduta a un tavolo vicino alla vetrina chiusa da un vetro smerigliato, si era tolta il cappotto nero e il suo top arancio splendeva come una fiamma alla luce delicata che entrava dalla strada. «Non mi hai parlato di questo O'Neale» dissi. «Di come sono andate veramente le cose.» «No. Ma a quanto pare l'hai scoperto.» «Perché non mi hai risparmiato la fatica?» «Avresti pensato che volessi giustificarlo.» Fece una pausa. «E poi, non mi piace parlarne.» «Capisco.» I suoi occhi si fecero duri. «Ho sentito le costole di Barney che si spezzavano. Non potevo essergli di aiuto. È stato durante quel litigio che mi sono procurata questo.» Tirò indietro i capelli e toccò la cicatrice a forma di stella che aveva sulla tempia. La cicatrice che avevo notato durante il nostro primo incontro. «Riesci a immaginarti come possa essere frustrante e doloroso non poter aiutare chi ami?» «Sì, lo immagino benissimo.» Alzò il viso su di me. «Veramente?» «Sì» dissi. «Ne ho una certa esperienza.» Prima che continuasse, dissi: «Angie, ho letto il caso di tuo fratello. Ora capisco molte più cose sul suo conto. Ma alla fine la sostanza non cambia molto, non trovi?» «Non aveva nessuna ragione al mondo di fare del male a Caitlin. L'amava. Te lo ripeto.» «Ma la storia di O'Neale non è un episodio isolato, Angie. Tuo fratello è stato espulso dai parà. Che cosa si deve fare per essere buttati fuori dai parà?» «Io non lo so. Ma neanche tu lo sai. Forse Chris Walker lo sa.» Bevve un sorso del suo vino. «Michael, non voglio litigare con te oggi. Non ne ho voglia. Cambiamo discorso. Voltiamo pagina.» Fece una pausa. «Perché sorridi?» «Pensavo allo zio Stanley e alle sue pagine bianche.» Mi immaginavo il
vecchio avvolto nel fumo della sua pipa in quell'appartamento triste, che salutava i pendolari sul treno. Angie divenne seria e imitando l'accento del vecchio disse: «Nessuno ha una pagina completamente bianca, bambina mia. Neanche all'inizio». «Penso che abbia ragione.» «Oh, lo zio Stanley ha sempre ragione» rise. «Non è veramente mio zio, sai. È stato buono con noi quando eravamo piccoli. Una volta ci ha trovato, Barney e me, giù al canale. Allora sul canale c'erano delle barche. Barney ne stava rubando una per andare lontano.» «Dove?» «Aveva preparato un piano preciso. Superare la chiusa sgattaiolando in mezzo alle chiatte del canale, scendere lungo il fiume Aire fino al mare. E poi? Non lo so. Africa o Australia, forse. Allora aveva appena otto anni. Andare in Africa a remi non è un problema quando si hanno otto anni. Lo zio Stanley ci riportò a casa, ma appena varcò la soglia e vide quel posto si pentì di averlo fatto. Forse avrebbe preferito che Barney mi portasse in Africa a remi. Così, dopo quel giorno venne spesso a prenderci per portarci a fare passeggiate sulla brughiera. Come per farci assaporare la libertà che non avevamo.» Erano passati più di vent'anni e già allora lo zio Stanley doveva essere anziano, vicino alla pensione. Un uomo che dopo la guerra aveva cominciato a lavorare in fabbrica, un uomo che apparteneva a un'altra epoca. Mi chiedevo che cosa avesse fatto del sordido appartamento popolare dei Carrick, degli aghi e dei fazzolettini di carta sporchi, della giovane donna con le braccia e le caviglie coperte di lividi, dei suoi bambini inselvatichiti. «Sono contento che qualcuno si sia preso cura di te» dissi. «Non sono mai stato sulla brughiera. Dicono che sia bellissima.» «La prima volta che sono stata lassù mi sembrava di essere nel paese delle fate. Come in una fiaba. Non avevo mai visto un posto simile. Nessuno mi sgridava. Nessuno mi picchiava. Nessuno urlava. Solo la luce, l'aria pulita e l'odore che ha la terra dopo la pioggia. Hai mai sentito il canto di un'allodola, Michael?» «Penso di sì, ma non ricordo esattamente.» «Io invece lo ricordo molto bene. Lanciano dei trilli nell'aria. Cantano in volo. Sul serio. È stato lo zio Stanley a dirmi che erano allodole, altrimenti non l'avrei mai saputo. Per me tutti gli uccelli che non erano passeri erano piccioni. Pensavo che lo zio Stanley fosse una specie di mago. Conosceva
il nome di tutti gli uccelli della brughiera e raccontava storie incredibili. Una volta mi ha mostrato un nido. Dentro c'erano delle uova piccole piccole, perfette. Volevo portarle a casa, ma lui non me lo ha permesso.» «Veniva con voi?» Mi feci forza per pronunciare il nome. «Barney?» «Nella brughiera? Forse, una o due volte.» «E lui che cosa pensava di quel posto?» «Barney? Era un ragazzo» disse con una breve risata. «Vedeva un uccello e voleva sparargli.» Mi guardò. «Che cos'hai?» «Niente. Mi è tornata in mente una cosa.» Vedevo la scatola di mogano con le rifiniture in ottone, la fodera di velluto rosso in cui erano riposte le due pistole da duello di noce e di acciaio con la targa d'ottone "Wheelers di Londra, armi di qualità". E di nuovo prese forma nella mia mente l'immagine da fumetto dei corvi che esplodevano in un vortice di piume nere e del doloroso stupore di Anthony, che a me sembrava comico. «A volte sogno ancora la brughiera» disse. «Naturalmente ci vado di tanto in tanto. Carico lo zio Stanley in macchina e lo porto lassù. Ma non riesco mai a trovare quel posto preciso, sai? Il posto magico dove andavo da bambina. Michael, anche tu hai un posto segreto?» «Itaca» dissi senza pensarci. «È in Grecia, vero?» «No, è in un altro mondo. È il posto dove mio padre aveva promesso di portarmi. Ma è morto prima di poter mantenere la sua promessa.» Forse avevo parlato con un'enfasi particolare, perché Angie mi guardò piegando il capo di lato, come in attesa di una spiegazione. «Ci fu un incendio. Quando ero bambino. Morirono tutti. I miei genitori, mio fratello e mia sorella.» La sua bocca prese una piega dolorosa. «È passato tanto tempo.» «Sai che cosa ti dico? Forse dovresti andarci comunque.» «A Itaca?» Risi. «Non so se sia possibile tornare a Itaca.» «Se non ci sei mai stato, non si può certo parlare di ritorno. Ti pare?» La guardai. Seduta nella luce opalescente sembrava emanare un bagliore ambrato. «Vorrei venire con te a parlare con quel Walker.» Spinse il bicchiere di lato e appoggiò la borsa sul tavolo. «Va bene.» «Ma non prometto niente» le dissi. «Qualsiasi cosa dica.» «Neanch'io ti prometto niente, Michael.» Si alzò e si gettò il cappotto
sulle spalle. «Ma se vuoi ci provo.» «Vengo a prenderti mercoledì. A che ora?» «Non ho bisogno che tu mi faccia da autista. Verrò io da te alle dieci.» Si sporse sul tavolo e mi strinse una mano. «Grazie per il vino.» 24 Uscito dal pub, non avevo voglia di tornare subito alla solitudine della mia casa. Feci una passeggiata fino ai giardini di Kensington e vagabondai per circa un'ora lungo i sentieri grigi. Le ombre delle nubi inseguivano le foglie morte che ricoprivano l'erba e i gabbiani risalivano le correnti d'aria al di sopra del Serpentine. Quando scese il freddo e si fece buio lasciai il parco, con la mente ancora abitata da immagini di spazi invasi dalla luce. Vagai fino ad arrivare a Vauxhall Bridge. Appoggiato alla ringhiera guardavo l'acqua scorrere, osservavo chiatte e battelli risalire la corrente, gli edifici illuminati sull'altra riva. Non molto lontano vedevo il parapetto dove Caitlin e io ci eravamo fermati, uscendo dalla Tate Gallery, quella sera di pioggia. Ricordavo che Caitlin mi guardava nel vento gelido, alzando verso di me il suo viso di marmo. Anche ora il vento era gelido. I rami degli allori lungo la riva si stagliavano nel cielo plumbeo come crepe nel ghiaccio. Solo dopo molto tempo mi decisi a rientrare a casa. Arrivai verso le quattro. Non so perché, ma mi sentivo completamente svuotato. Misi la catenella alla porta e salii in camera da letto. Appoggiai l'orso Beamish su una sedia, evitando d'incontrare il bagliore del suo unico occhio, e misi il cuscino di Caitlin sul pavimento in modo da non vedere né l'uno né l'altro. Aprii la finestra per far entrare l'aria invernale e mi stesi sul letto ipnotizzato dalle nubi grigie che solcavano il cielo. Avevo freddo. Di tanto in tanto ero sfiorato dal profumo di Caitlin, fresco e leggermente amaro. Dalla parete l'immagine di Lady Lavinia mi fissava da un altro secolo. A cavallo della sua bicicletta, sembrava timorosa che il velocipede la potesse portar via da un momento all'altro. I contorni della stanza mi apparivano sfocati. Stanchezza e silenzio. Lady Lavinia assomigliava a Caitlin in modo sorprendente, pensai con la mente che mi si annebbiava. Proprio come Cate: elegante, appassionata, misteriosa. Il trillo del telefono sul comodino mi svegliò come una secchiata d'acqua fredda. Lo cercai a tentoni, maledicendolo. Infine, afferrai la cornetta e farfugliai: «Cate?».
«Michael?» La voce era così simile a quella di Caitlin che rabbrividii. «Sono Margot.» Mi misi seduto e mi strofinai il viso con furia. Nella stanza faceva freddo ed era buio pesto. Trovai l'interruttore e accesi la luce. Rimasi accecato. Per un attimo non avrei saputo dire se fosse giorno o notte. Tenendo gli occhi socchiusi per proteggermi dall'intensità della luce guardai la sveglia. Erano le sette di sera. «Edward è stato male.» «Mi dispiace, Margot.» Immaginavo il corpo emaciato del vecchio e mi sorprese di scoprire che mi dispiaceva veramente. «Pensavo che tu lo dovessi sapere. Non so perché.» «Mi fa piacere che tu abbia pensato a me. Che cosa è successo?» «Ha avuto un nuovo attacco. Non credo che se ne sia reso conto, il che è una benedizione. Non credo che d'ora in poi si renderà più conto di niente. Forse non ne avrà per molto.» Per un attimo non dissi nulla. Margot fraintese il mio silenzio e quando riprese a parlare la sua voce era tesa. «Naturalmente non mi aspetto che tu sia sconvolto dal dolore.» «Non è quello.» Mi alzai dal letto. «Dov'è? Dove l'hanno portato.» «Ieri sera l'hanno trasferito in un reparto speciale del Guy's Hospital.» «È a Londra adesso?» «Sì, anch'io. Ho preso una stanza in uno spaventoso parallelepipedo di marmo e di vetro vicino al London Bridge.» Fece una pausa. «Michael. Odio chiedere. Ma se tu mi potessi dedicare qualche minuto... Sono all'ospedale ora, ma potrei incontrarti all'hotel. Edward non se ne accorgerà neppure se lo lascio per qualche ora.» Non mi aveva mai chiesto niente. «Rimani lì. Vengo all'ospedale.» Margot si alzò nel vedermi entrare. Indossava un abito di seta grigia. Era una donna ancora straordinariamente elegante. Erano passati tanti anni da quando per la prima volta mi aveva colpito per il suo stile. Il portamento e quel vestito mi ricordavano Caitlin in modo doloroso. «Grazie di essere venuto, Michael.» Strinsi la mano sottile che mi tendeva. «In realtà non volevo lasciarlo. Non così presto.» Edward Dacre sembrava fragile come cristallo. Gli sentii il polso. Era incredibilmente forte. Ero pronto a scommettere che non si sarebbe rassegnato ad andarsene senza lottare, anche se questa volta avrebbe perso.
«Quando è successo?» «Ieri. Non sono riuscita a svegliarlo per il pranzo. Normalmente fa un sonnellino nella libreria...» Si fermò, come se non volesse infastidirmi con i dettagli della quotidianità, spaventata dall'intimità che il racconto avrebbe comportato. Si sedette su una sedia dall'altra parte del letto e anch'io mi sedetti, così che ci trovammo l'uno di fronte all'altra con in mezzo la sagoma immobile del vecchio, come a una veglia funebre. Nell'atmosfera serale la stanza era molto tranquilla. «Morirà, lo so» disse Margot. «Naturalmente per giustificare le loro rette spaventose si dimostrano ottimisti. Ma io so che questa volta non ce la farà.» Non cercai di negarlo. «È strano,» parlava con grande controllo «ma quando l'ho visto abbandonato sulla sedia e ho capito che era la fine, ho anche capito che dovevo chiamarti.» «Margot, se c'è qualcosa che posso fare...» «Non ti chiedo di fare niente, Michael» mi interruppe con la sua solita mordacità. «Non ti ho fatto venire qui per chiederti aiuto. Forse è esattamente il contrario.» «Cioè?» «Voglio che tu abbia un'immagine giusta. Più giusta, almeno, di Edward.» Dopo un attimo continuò: «Tutti e due sappiamo che sapeva essere un gran bastardo, e spesso lo era. Ma io l'ho amato. Comunque siano andate le cose in seguito, all'inizio l'ho amato. Non starò certo a negarlo, viste le condizioni in cui si trova». Non parlai. «Non è sempre stato come tu l'hai visto, Michael. Quando l'ho incontrato, Edward era un uomo stupendo. Oggi non si parla più di donne che perdono la testa per un uomo. Ma lui faceva perdere la testa alle donne. Io sono stata l'artefice entusiasta del mio destino e quando mi sono resa conto che quel destino non mi piaceva più, non ho fatto abbastanza per cambiarlo. Non posso non assumermi la mia parte di responsabilità.» «Non doveva essere facile, Margot» dissi con circospezione. Sospettavo che mi avesse convocato per uno scopo preciso e mi metteva a disagio non indovinare quale fosse. «Sai, una volta l'ho lasciato» disse rispondendo al mio pensiero. «Non aver quell'aria stupefatta. Oh, non sono stata via per molto tempo. Un paio
di settimane in tutto.» «Quando è successo, Margot?» «Quando ero incinta di Caitlin. Volevo che tu lo sapessi.» «Capisco.» «Sono ossessionata dal bambino» mi disse serenamente. «Quella vita dentro di lei, che se ne è andata. Il pensiero che sia vissuto dentro di lei per qualche attimo, anche dopo che lei era morta. Così vicino alla luce, ma senza poterla vedere.» Non dissi niente. «Ma io non sono Caitlin,» continuò riprendendosi, «e lei non era me. Non si devono fare troppi paralleli. Nel mio caso, dopo tutto, il bambino che portavo in grembo era di mio marito. Non pretendo di sapere perché Caitlin abbia fatto quello che ha fatto. A me è andata così: sentivo un bisogno irrefrenabile di lasciare tutto alle spalle, di fuggire in un luogo che fosse solo mio. Di tornare all'inizio. La scuola di Brightwell era il mio inizio. L'inizio che non avevo perseguito. Così andai a Brightwell.» «Il tuo posto di insegnante?» «Dovevo essere pazza. Avevo più di trent'anni quando rimasi incinta di Caitlin e quel posto mi era stato offerto molti anni prima... quando avevo diciotto anni. Quando sono arrivata a Brightwell ho scoperto che la scuola era chiusa da anni. Finii in un bed & breakfast. Temo che non sia stato un episodio molto edificante. Edward non ci impiegò molto a trovarmi. E io provai un gran sollievo.» Allungò la mano e la posò sul lenzuolo che copriva il braccio ossuto del marito. «Ti sembrerà strano, ma Edward fu molto comprensivo.» Per un momento mi fu difficile immaginarmi un Edward Dacre comprensivo con la moglie. «Almeno una volta hai preso il volo» dissi. «Almeno ci hai provato. Non è questa la cosa importante?» Sospirò. «Mi rendi tutto difficile.» «Io?» «La cosa importante, Michael,» mi spiegò pazientemente «non è che io sbattessi per un attimo le mie patetiche ali. La cosa importante è che, nonostante i suoi difetti, l'essermene andata non aveva niente a che fare con Edward. Non era colpa sua. La responsabilità era mia. È questo che volevo dirti.» Scostò il lenzuolo e prese la mano immobile del marito tra le sue e l'accostò alla guancia, guardandomi con occhi di sfida.
Quando lasciai Londra il mattino seguente, era una giornata freddissima con il cielo quasi bianco. C'era un immenso ingorgo sulla M20, ma verso le undici ero vicino a Sevenoaks. Viaggiare per le stradine del Kent, fiancheggiate da siepi di biancospino mi dava l'illusione di avere un obiettivo preciso, e l'odore della terra bagnata era gradevole. Per un attimo ebbi la sensazione di essere sulla pista giusta. Mi fermai in un posteggio di fronte al parco del villaggio. Brightwell aveva una bella chiesa normanna in pietra grigia che faceva pensare che probabilmente un tempo il villaggio aveva una comunità molto più numerosa e ricca. Ora era uno dei tanti paesini, comuni ma piacevoli, dove ci si aspetta di trovare un'attiva Associazione dei Conservatori, una casa per anziani e una manciata di vecchi cottage con il tetto di paglia restaurati come casa di campagna da gente della City. Nel parco c'era una targa commemorativa, alcune panchine sotto un castagno spoglio e pochi alberelli appena piantati avvolti in una protezione di rete metallica. Su un lato dello spazio verde correva una fila di cottage in mattoni rossi con un ufficio postale, un negozio e un pub. Al di là vedevo un essiccatoio per il luppolo con i muri coperti da impalcature vuote. Non c'era in giro nessuno. Sull'altro lato della strada, al termine di un viale di ghiaia, si alzava una grande casa georgiana. Incominciò a piovere, grosse gocce che battevano sonore contro il tettuccio e il parabrezza della Audi. Rimasi seduto ad ascoltare il rumore sordo del tergicristallo. Per la decima volta presi l'atlante stradale che avevo lasciato sul sedile accanto a me. Brightwell era segnato con un puntino giallo su una strada di campagna. La carta non gli dava alcuna importanza, almeno non maggiore di quella attribuita a qualche migliaio di altri villaggi. Seduto in macchina, sentivo che la mia speranza andava scemando. Ritornare all'inizio. Tutte e due avevano usato la stessa frase, madre e figlia. Avevo interpretato come un segnale quella coincidenza, ma ora non riuscivo a capacitarmi di come avessi potuto farmi trascinare da un simile impulso. In quel mattino freddo e grigio, in quell'insignificante villaggio, mi imbarazzava il pensiero che avessi percorso un centinaio di chilometri sull'onda di una suggestione. Ne ero spaventato. Feci marcia indietro per girare la macchina, deciso a tornare a casa. «Ehi! Attento!» fece una voce maschile. Frenai bruscamente. Adesso lo vedevo nello specchietto retrovisore, in bicicletta, con una giacca a vento a strisce fosforescenti che, non so come, non avevo notato. Abbassai il finestrino. Era un uomo sui quarant'anni con il viso abbronzato e molte rughe
d'espressione. «Dovrebbe stare attento.» L'accento era australiano. «Questa è una bicicletta delle Poste Reali. Avrebbe potuto causare seri danni al suo veicolo.» «Mi spiace. È colpa mia.» «Lo so bene» convenne allegramente. Fece un cenno all'atlante sulle mie ginocchia. «Si è perso?» «Diciamo di sì.» «Wow!» esclamò, poi alzò una mano aprendo e chiudendo le dita per simulare una luce lampeggiante. «Attenzione, doppio senso.» Non potei fare a meno di ridere. Il postino incrociò le braccia sul manubrio con un'aria molto rilassata e continuò a guardarmi sotto la pioggia. «Allora, amico, che cosa cerca?» «Sono venuto a cercare una casa.» «Spero che lei abbia soldi a palate. Da queste parti i ricconi non si contano.» «No, speravo di trovare questa casa.» Gli mostrai il disegno di Caitlin. «Questa specifica casa.» La osservò e scosse la testa. «Conosco quasi tutte le case qui attorno, ma questa non mi dice niente. Però non sono del tutto attendibile. In fondo vivo qui da poco più di dodici anni. Il talebano nostrano considera residente a pieno titolo solo chi vive qui da almeno venticinque anni. Dovrebbe provare con il parroco. Conosce tutti. È il suo mestiere.» «No, grazie. La mia è un'idea stupida.» Mi ignorò. «Dietro la canonica c'è un parcheggio. Non ha più di tre posti, ma è la gioia e l'orgoglio del comune. Parcheggi lì la sua macchina. Lonsdale, è il parroco. Il reverendo Derek Lonsdale. Tipo giovane. Sembra un pilota di caccia. So che è in casa, perché gli ho appena consegnato la posta.» Diede una pacca sul tettuccio della macchina. «Buona fortuna.» Lo guardai allontanarsi nel grigiore del mattino invernale. Non avevo voglia di parlare con il parroco. Non avevo voglia di portare avanti quella ricerca assurda. Ma, dopo la conversazione con il postino, non me la sentivo di tornare indietro. Nel pub le luci erano accese. Pensai che forse servivano del caffè, così feci il giro del parco, trovai il parcheggio, scesi dalla macchina e infilai le monete nella macchinetta. Mentre infilavo il biglietto sul cruscotto, vidi un uomo molto alto dietro il cancello del giardino della canonica. «Mi cercava per caso?» chiese. «Sono il parroco. Solo che stavo giusto per uscire.»
Se non mi avesse rivolto la parola, l'avrei salutato con un cenno del capo e me ne sarei andato. Invece alzai la busta di plastica trasparente con il disegno di Caitlin. «Sono venuto per cercare una casa.» «Questo mi fa piacere» disse. «In genere la gente passa attraverso gli agenti immobiliari.» I nostri sguardi si incrociarono. «Ma adesso non mi è più chiaro che cosa stessi cercando.» «L'importante è esserne consapevole» sorrise. Il postino aveva ragione: sembrava veramente un pilota di caccia. Aveva un'aria disinvolta, capelli lunghi e portava una giacca a vento da sci bianca, alla moda. Teneva un ombrello con la pubblicità della Cinzano appoggiato a una spalla. «Entri un attimo.» Indicò la busta di plastica. «Mi faccia vedere le foto.» Non c'era modo di rifiutare. Lo seguii lungo un sentiero che attraversava il giardino del cottage. Entrammo in una serra sul retro della canonica. C'era un'atmosfera di gradevole trascuratezza, odorosa di terriccio, con panchine ad assicelle. Da un vetro rotto del tetto la pioggia cadeva dentro un secchio con un gocciolio cadenzato. «Mi chiamo Derek, in ogni caso.» «Michael.» «Si sieda, Michael.» Mi indicò uno sgabello di legno vicino alla panchina. «Temo di non poterle offrire niente. Come le dicevo stavo per uscire. Un funerale, purtroppo.» Non aveva l'aria di un parroco che stesse per officiare un funerale. Avrebbe potuto essere un professionista, pronto per una partita di golf. «Temo di farle perdere tempo» dissi. «Ah, si?» Senza chiedermelo mi prese la busta, si pulì le mani e con cautela estrasse il disegno di Caitlin. Lo alzò verso la luce e lo osservò socchiudendo gli occhi. «Non ho mai visto questa casa, Michael. Di questo sono sicuro. Per quanto ricordo, almeno. Dovrebbe trovarsi a Brightwell?» «Pensavo di sì. Mi ero convinto che si trovasse qui.» «Anche se si trovasse qui non è detto che io l'abbia vista. Come si fa a essere sicuri? Ovviamente, ci sono migliaia di cottage come questo in giro per la campagna. Vecchie case contadine e così via. Oltre a questo disegno, non ha altri elementi per identificarla?» «Ho sentito dire che c'era una scuola.» «Oh, sì, una volta c'era una scuola qui al villaggio. L'edificio esiste ancora, nella via dietro il pub. Ora ospita una sala da tè. Mi meraviglia molto
che continuino a chiamarla la Vecchia Scuola. Ma non assomiglia affatto a questa casa. Mi spiace doverla deludere.» «Non importa.» Ripresi il disegno. Mi osservò per un attimo. «Il disegno comunque è molto bello.» «Mia moglie.» «Capisco.» Fece un profondo respiro. «Probabilmente non le servirà a niente, Michael.» «Scusi, ma che cosa non mi servirà?» «Tornare indietro. Di solito non serve.» Non dissi niente. «Non sta più con lei, vero?» La sua voce era calma e priva di sentimentalismi. Volevo dirgli che la sua supposizione era sbagliata, volevo scappare, ma mi risultò difficile mentirgli. «È morta. È ovvio, non le pare?» «Abbastanza. Mi perdoni, ma fa parte del mestiere individuare i sintomi. Diventa un'abitudine.» Fece una pausa. «Se crede, si ritenga libero di andare.» Quando vide che non mi muovevo, prese nuovamente il disegno. «È cresciuta in questo villaggio?» «In un certo senso credo di sì, credo.» «E ora lei vorrebbe sapere dove tutto è cominciato. Pensa che se rivive tutta la storia magari ne esce un quadro diverso da quello che pensava, e magari con un lieto fine, questa volta.» «Ho rinunciato al lieto fine.» «E che cosa spera, allora?» «Vorrei sapere chi era. Ho scoperto che non lo so. Non è incredibile?» «Per niente. È buffo, Michael, ma io mi ritrovo sempre a parlare di gente che non ho mai conosciuto, gente di cui non so niente. Tra qualche minuto lo dovrò fare nuovamente.» «Non deve essere facile.» «Può essere interessante» convenne. «Ma prima mi piace parlare con calma con qualche persona che conosceva il defunto. Possono essere conoscenze casuali e possono essere persone che avevano un grande coinvolgimento emotivo con il morto. Tutti mi rivelano qualcosa. Come il tale avesse un meraviglioso senso dell'umorismo, come il talaltro fosse generoso, o bevesse un po' troppo, o amasse il suo giardino, eccetera. Ma quello che mi colpisce più profondamente è che ciascuna di quelle persone conosceva il defunto in modo diverso. Mi sorprende sempre quanto le loro sto-
rie sembrino non riferirsi alla stessa persona.» «Sì. Anch'io ritenevo di conoscere la storia vera.» «Certo che la conosceva, Michael. Personalmente penso che la storia vera sia quella in cui uno crede.» Si alzò prima che avessi il tempo di assimilare le sue parole, così mi alzai anch'io. «Mi spiace, ma devo andare» disse. «Devo essere puntuale ai funerali. C'è da chiedersi perché, tutto sommato. Non si dà il caso che scappino. Se vuol rimanere, lo può fare tranquillamente. Ma so che non si fermerà.» «No, infatti. Grazie.» Lo precedetti nel giardino macerato dalla pioggia. Un gruppo di corvi si dondolava sui rami nudi del frassino accanto alla chiesa, gracchiando come chiodi arrugginiti. Lonsdale chiuse la porta a chiave e ritornammo attraverso il sentiero del giardino. Aveva smesso di piovere. «Chissà perché,» disse quando arrivammo al cancello «non ci si rende conto di ciò che si ha fino al momento in cui lo si perde. Non pretendo d'aver detto qualcosa di originale. Ma purtroppo è così.» Mi tese la mano e io la strinsi. «Le auguro buona fortuna nella sua ricerca, Michael. Ma veda di non perdere se stesso.» Si allontanò attraverso le tombe del camposanto, tenendo sulla spalla il suo allegro ombrello, arrotolato come una gigantesca caramella. Mi diressi alla sala da tè che un tempo aveva nutrito i sogni di Margot. Era un piccolo edificio costruito con l'arenaria del Weald e, come aveva detto il parroco, non aveva nulla che assomigliasse al cottage di Caitlin. Sopra la porta d'ingresso era incisa la data 1857 e nel muro esterno era inserita una cassetta delle lettere con le iniziali della regina Vittoria, ancora visibili sotto molteplici strati di vernice rossa. La donna che gestiva il locale mi fece gentilmente da guida. Indossava una cuffietta di pizzo e un grembiule a scacchi. Suo marito era un dirigente della Shell, mi disse, e lei gestiva la sala da tè per hobby. La sua MGF gialla era parcheggiata nel cortile pavimentato a ciottoli. Mi mostrò la sola aula di cui si componeva la scuola, dove Margot avrebbe voluto insegnare. Era arredata con tavoli rotondi coperti da tovaglie di chintz. Per molto tempo sul retro della scuola erano stati accatastati i vecchi banchi, mi disse. Ma erano terribilmente malconci, così erano stati bruciati. 25
Attraverso il vetro della porta d'ingresso vedevo l'ombra scura di Angie. La sorpresi aprendo la porta prima che lei bussasse. «Non ti fai aspettare» disse. «Hai dormito sullo zerbino?» «Sapevo che saresti stata puntuale, tutto qui.» «Prevedibile, eh?» Manteneva un tono distaccato, ma nessuno di noi due poteva ingannare l'altro. Quella consapevolezza creava tra noi un certa tensione. Si era raccolta i capelli in modo severo, professionale, e con la sua giacca di pelle nera mi ricordava il poliziotto newyorkese di uno spettacolo televisivo. Era un mattino gelido e il freddo faceva risplendere la sua carnagione. La Fiat Bravo era parcheggiata a lato della strada. Salimmo in macchina e lei mi passò l'atlante stradale di Londra. L'indirizzo di Chris Walker era fissato con una graffetta alla copertina. Ci infilammo nel flusso del traffico diretti verso il centro, poi ci dirigemmo a nord, prendendo Edgware Road. Il laboratorio di Chris Walker si trovava in un'area industriale alle spalle di Kilburn, a circa mezz'ora di macchina. Come prima cosa vidi il suo furgone, un recente modello LDV bianco, con la scritta "Carpenteria Christopher Walker", dipinta in sobrie lettere maiuscole su una fiancata. Era parcheggiato all'esterno di un garage con la saracinesca abbassata. Su un lato c'era un'officina di riparazione di pneumatici e sull'altro un colorificio. Angie fermò la macchina accanto al furgone. Dall'officina proveniva musica rock trasmessa da una radio a tutto volume. Angie picchiò sulla saracinesca usando il lucchetto come batacchio. «Chris?» Picchiò nuovamente. «Chris Walker?» La saracinesca si alzò con grande fracasso. «La piccola Angie» disse Walker, in piedi in mezzo al laboratorio, con in mano il telecomando per azionare la saracinesca. Era un uomo ben piantato, di altezza media, con i capelli chiari. Indossava un maglione militare color kaki con le maniche arrotolate. Una matita da carpentiere era infilata nella spallina. Gli avambracci nudi erano muscolosi e coperti di tatuaggi. Esaminò Angie con aria compiaciuta. «Accidenti! Com'è che sei venuta fin qua?» «Salve, Chris.» Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia. «È parecchio che non ti vedo.» «Ne è passata di acqua sotto i ponti.» Mi guardò. «E tu chi sei?» «È Michael» disse Angie. «Un amico.» «E che cosa vuole Michael da Chris Walker?» Teneva gli occhi fissi su di me.
«Tutti e due vogliamo avere notizie di Barney. Nient'altro.» «Sei un poliziotto?» mi chiese. «O dell'esercito?» «Io? Ti pare che ne abbia l'aspetto?» «Direi di sì.» Il frastuono proveniente dall'officina accanto si fece più intenso. «Che rumore d'inferno» Walker finalmente mi tolse gli occhi di dosso. «Appena ho aperto il laboratorio, ogni volta che partivano con il loro fracasso mi nascondevo terrorizzato sotto il tavolo.» Premette il telecomando e la saracinesca scese con un guaito. Il laboratorio tornò tranquillo. Nel mezzo del locale c'era un banco con una morsa e degli attrezzi, circondato da mobili ancora in lavorazione: sedie, tavolini e un cassettone. In un angolo c'era un fornello per riscaldare l'olio, il cui odore si mischiava a quello delle vernici e del legname. «Non ho molto da dirti, Angie» disse Walker. «Non sento Barney da più di tre anni.» «Qualunque notizia ci può servire, Chris.» «Che tipo di notizia?» Prima che Angie potesse rispondere Walker continuò: «Ti spiace se lavoro? Penso meglio quando lavoro». Passò dietro il banco, strinse la gamba di una sedia nella morsa e cominciò a sabbiarla. Angie gli fece pressione: «La polizia lo cerca. Te l'ho detto.» «Già.» Con cura, quasi con amore, passò le sue grosse mani sul legno. «Non so dove si trova. E la polizia non lo troverà se lui non vuole essere trovato.» «Adesso questo non ha importanza, Chris» disse Angie. «Voglio solo che tu mi dica - ci dica - che tipo di uomo era Barney. Che cosa ne è stato di lui. Non lo vedo da anni. Eri il suo miglior amico.» Continuò la sabbiatura. «Barney? Non ho mai incontrato nessuno come lui. Ma è successo qualcosa. Non tra lui e me. Qualcosa è successo a lui mentre eravamo nei parà, qualcosa che l'ha cambiato. Ho cercato di rimanere in contatto con lui dopo il congedo, ma non mi ha mai risposto. Scrivere non era il suo forte.» Fece scorrere il pollice sulla superficie liscia del legno. «Però quello non gli ha impedito di diventare sergente per ben due volte. Nessuno si è mai sognato di dare il grado di sergente a me. Neppure una volta.» «C'entra quella vicenda in Afghanistan, vero?» domandai. Mi guardò di nuovo, con attenzione, con una luce diversa sul viso. «So chi sei» disse. «Sei il marito.» «Esatto.»
Assunse un'aria pensosa. «Non è tanto che sono sposato, ma non riesco neanche a immaginare una cosa simile.» Angie gli andò vicino. «Chris, voglio che Michael sappia che persona era Barney veramente. E poi capirà.» «È per questo che sei venuta?» Walker si strofinò la mascella e tornò alla sabbiatrice, che riempì il laboratorio di un sibilo assordante, facendo salire verso la lampada una nube di polvere. Dopo un attimo si fermò ancora. «Ero nella pattuglia di soccorso» disse senza alzare lo sguardo. «Arrivai al posto di blocco un paio di minuti dopo, così non ho visto che cosa era successo. Era una cittadina nelle vicinanze di Kabul, sulla strada principale. Saranno state le due di notte. Guardi la TV? Parlano dei combattimenti come se fossero organizzati, con tanto di regole e un nemico preciso. Ma non è così. Bande di quei criminali fatti di oppio e armati fino ai denti vagano per il paese come banditi, come mute di cani impazziti. Fuori da ogni controllo. Alcuni avevano anche i carri armati. Maledetti carri armati! Una tribù combatte l'altra e quando ne hanno abbastanza si combattono tra di loro all'interno della stessa tribù. E, giusto per avere un diversivo, ogni tanto combattevano anche contro di noi.» Appoggiò al banco la sabbiatrice. «Angie, Barney ha sparato quaranta proiettili su quella macchina. Vorrei poterti dire che non l'ha fatto, ma invece l'ha fatto. Una giovane donna e due bambini. La madre gridava ancora quando io sono arrivato, ma le sue grida non sono andate avanti per molto. La mascella inferiore era staccata, povera disgraziata.» Guardai Angie. Era aggrappata al banco come per sorreggersi. «Deve pur esserci stata una ragione» dissi. «Oh, certamente. Un paio di quei pazzi furiosi aveva sequestrato la macchina della donna. Arrivano al posto di blocco sparando all'impazzata. Uno dei nostri ragazzi vuol fare l'eroe e contro ogni regola si porta in mezzo alla strada e risponde al fuoco. Poi l'arma si inceppa e lui rimane là, in piedi come un coglione. Barney è il sottufficiale in carica. Vede quel ragazzo piazzato lì a far da bersaglio. E l'arma di Barney non si inceppa. Ecco che cosa è successo. È stato un attimo.» «Ma lui non poteva sapere della donna e dei bambini» disse Angie. «Ovvio che non lo sapeva. Nessuno lo sapeva fino a che non li abbiamo tirati fuori dalla macchina. L'unica consolazione è che ha beccato anche i due stronzi che avevano sequestrato la macchina. Uno morto, l'altro ferito. Almeno così Barney aveva una giustificazione. Altrimenti rischiava d'essere accusato di omicidio.»
«Quindi tutta la vicenda è stata un errore, un orribile incidente» commentò Angie. «Non sono ammessi incidenti nei parà, tesoro.» Walker tolse la gamba della sedia dalla morsa e soffiò via la segatura dalla superficie. Accarezzò il legno poi lo osservò scrupolosamente alla ricerca di imperfezioni. Dalle sue grosse mani era uscito un pezzo di straordinaria grazia. «Questo non è stato il primo incidente in cui è stato coinvolto» dissi. «No.» Fece scorrere la punta dell'indice sul legno levigato. «C'è stata un'aggressione. Quando ha perso i gradi.» «È successo in Bosnia.» Walker posò con delicatezza la gamba della sedia sul banco. «Ha spaccato la faccia a un caporale. Quel tizio, dopo essere stato con una puttana, l'aveva malmenata. Era una cosa che non tollerava. Non so perché, non gliel'ho mai chiesto, ma Barney in un certo senso era all'antica in fatto di donne.» «Che cosa è successo dopo l'incidente di Kabul?» chiese Angie. «Non è più stato lo stesso» disse Walker. «Chi avrebbe potuto esserlo? Non ne parlava mai. Non si è neppure difeso quando ci fu l'inchiesta. Ha lasciato che tutto gli passasse sopra. Penso che dentro di lui si fosse rotto qualcosa. Non molto tempo dopo, ha fatto le valigie e se ne è andato, tranquillo come un agnellino. Come ti ho già detto, non l'ho più sentito da allora. Del resto io stesso non sono rimasto ancora a lungo nei parà.» «Allora Barney non è stato ufficialmente espulso» dissi. «Avrebbe dovuto firmare per altri tre anni, ma non l'ha fatto. Immagino che le autorità abbiano tirato un sospiro di sollievo. Non penso che gli andasse a genio l'aria che aveva assunto Barney dopo la sparatoria. Peccato!» «Che cosa vuoi dire?» «Tutti i ragazzi consideravano Barney un modello. Aveva carisma. Si vedeva. Ero nei parà da due anni quando è entrato Barney. Appena l'ho visto ho capito subito che aveva qualcosa di speciale» Walker si rivolse a me con un cenno del capo. «Sai di che cosa parlo, no? Hai detto che non sei un militare, ma questo lo puoi capire.» «Sì.» Vidi l'immagine di Carrick nelle fotografie e mi ricordai subito della mia prima reazione: mi piaceva, era un tipo che avrei voluto avere nella mia squadra. «Sì, capisco perfettamente.» Walker appoggiò il suo pezzo sul banco e venne a mettersi di fronte a me. «Angie vuole che ti dica che Barney non avrebbe mai fatto niente di ma-
le alla tua signora. Potrei giurarci. Non conoscevo lei e non sapevo che rapporto avesse Barney con lei. La gente in condizioni estreme arriva a compiere qualsiasi orrore. Ma sono sicuro, dopo aver visto cos'era diventato Barney a Kabul, che è più probabile che nevichi in agosto.» Angie fermò la macchina dietro casa e spense il motore, ma capivo che non aveva voglia di andarsene. «Un bicchiere?» «Non voglio bere. Ma entro cinque minuti.» Entrammo in casa dalla porta sul retro. Mentre controllavo i messaggi sulla segreteria, Angie entrò nello studio. La sorpresi con le mani sul davanzale che contemplava il giardino spoglio. Piovigginava di nuovo. «Odio questa stagione» disse. «È così triste.» «Pensavo fossi contenta.» «Contenta?» Si voltò di scatto. «Hai ottenuto quello che volevi. Chris Walker ha detto le cose che ti aspettavi.» «Non gli ho dato l'imbeccata.» «Non l'ho mai pensato.» Cambiò improvvisamente tono. «Non penseranno sul serio che sei stato tu?» disse cogliendomi di sorpresa. «Barrett definisce questa ipotesi una cosa del tutto personale. Immagino stia sparando nel mucchio.» «Bastardo.» Si allontanò dalla finestra e si mise a girare per la stanza. Percepivo in Angie un nucleo di energia imprigionata. Mi era impossibile distogliere gli occhi da lei. Si fermò accanto alla scrivania, su cui avevo lasciato i disegni di Caitlin. Mi guardò prima di toglierli dalla busta di plastica e di sparpagliarli sul piano. «Sono bellissimi. Sono ancora più belli di come li ricordavo. Doveva avere un grande talento.» «Come? Li hai già visti?» «La polizia mi ha mostrato alcune fotocopie. Volevano sapere se conoscevo questa casa.» «Naturalmente, quella casa non l'hai mai vista.» «Oh, no.» Sfiorò i disegni con la punta delle dita, facendo scivolare i pesanti fogli sul piano della scrivania. Mi avvicinai a lei e accesi la lampada da tavolo. Fu come se la luce infondesse nuova vita alle immagini.
Angie ne osservava una in particolare. La porta d'ingresso era spalancata, come se Caitlin, dall'esterno della casa, avesse schizzato i particolari di una stanza che vedeva attraverso la porta aperta. Una stanza semplice con il pavimento di assi, una stuoia, il disegno appena tratteggiato della carta da parati sulle pareti. Una libreria, un paio di sedie, una porta che conduceva a una stanza da letto, a una cucina? Un'altra stanza in cui era vissuta e che io non avevo mai visto. Sapevo che gli oggetti che vedevo attraverso la porta aperta erano cose reali, cose che Caitlin aveva toccato, maneggiato. Mobili, dipinti, libri. E in qualche altra stanza, presumibilmente, dovevano esserci piatti e bicchieri e posate. Un bollitore, una teiera e forse un paio di tazze con i fumetti di Larsen che le piacevano tanto. Una trapunta, dei cuscini, un letto. «Era la loro casa» dissi. «Di Caitlin e di tuo fratello. Di Caitlin e di Barney.» Era la prima volta che pronunciavo ad alta voce i loro nomi, insieme. «Sì. Me ne rendo conto.» «Una loro casa. Un'altra casa. Come se avesse vissuto in un altro mondo, in un altrove... un altrove che aveva preferito al mondo che avevamo costruito assieme.» «Le persone fanno le loro scelte» disse Angie con grande calma. «A volte non si rendono conto del male che causano.» Angie spostò il disegno e sotto apparve la carta stradale sulla quale avevo evidenziato con il pennarello rosso il villaggio di Brightwell. Mi mostrò la carta come fosse il reperto di un caso giudiziario e alzò le sopracciglia. «Sono stato a caccia di spettri.» «Ne hai trovati?» «No. Immagino che si facciano vedere solo quando lo decidono loro.» Chiuse gli occhi per un attimo e sospirò. «Dio mio, come siamo simili!» «Credo di sì.» Mi stava davanti, immobile. Intuivo l'energia che la muoveva. A un tratto fui pervaso dalla medesima energia, la sentii pulsare dentro di me, alla bocca dello stomaco. «Merito una punizione?» «Una punizione?» «Per tutto il male che ti hanno fatto? Il male che mio fratello ti ha fatto?» «Angie, cosa dici?» «Bene» disse. «In questo caso...» Mi mise le braccia attorno al collo e io la strinsi a me. Ebbi una sensazione di sollievo, inattesa quanto benefica.
«Così va meglio» mormorò, sfiorandomi l'orecchio con la bocca. «Oh, così va molto meglio.» Mi accarezzò la nuca, dondolandosi avanti e indietro. Respiravo il calore della sua pelle e dei suoi capelli. Il suo corpo era sottile e teso tra le mie braccia. Sentivo il battito del mio cuore accelerare. Feci scivolare una mano sotto la massa dei suoi capelli e lei tirò indietro il capo. Mi sorrise toccandomi una guancia, poi si staccò da me lasciando le mani sulle mie spalle. «So che non sei pronto, Michael» disse. Lo scatto della serratura nella porta sul retro risuonò come un colpo di fucile, facendoci sussultare. Angie lasciò cadere le braccia dalle mie spalle. Un calcio spalancò la porta e Stella, tirando moccoli, entrò indietreggiando faticosamente sotto il peso di una mezza dozzina di sacchetti della spesa. Da uno spuntava un iris color porpora che ondeggiava sopra la sua spalla. Stella appoggiò i pesi sul pavimento e ci vide attraverso la porta aperta dello studio. «Oh» esclamò. «Pensavo...» La sua voce si spense. Guardò Angie. «Non pensavo che fossi in casa, Michael. Volevo farti una sorpresa.» «È stata una vera sorpresa, Stella.» Angie disse precipitosamente. «Stavo andando via.» Uscì dalla stanza e passando accanto a Stella le indirizzò un sorriso di circostanza. «Scusate se scappo.» Scavalcò i sacchetti della spesa e sparì dalla porta sul retro. Mi ci volle qualche attimo per riprendermi. «Ehi, aspetta» gridai. Ma Angie non si fermò. La seguii in giardino e la raggiunsi mentre stava sollevando il chiavistello del cancello. Mi guardò dritto negli occhi. «Va bene, Michael. Capisco.» «Angie...» «Ascolta» disse parlando a voce molto bassa. «Forse mi sono comportata in modo precipitoso. Ma non mi è mai piaciuto recitare. Pane al pane e vino al vino, così dice lo zio Stanley. Ma ne ho la nausea, capisci?» «Di che cosa, Angie?» «Se faccio un passo avanti, tu fai un passo indietro. Se tu affondi, io nuoto e viceversa. Non dovrebbe essere così.» Avevo appoggiato la mano sul cancello e lei per un attimo la sfiorò con le dita. «Non ti preoccupare, Michael. Lasciamo che le cose vadano per il loro verso per qualche tempo. Non ti chiamerò, né farò altre scemenze di questo genere.»
Uscì dal cancello e lo richiuse alle sue spalle. Io rimasi ad ascoltare il ronzio della sua piccola Fiat prima di rientrare in casa. «Allora?» chiese Stella guardandomi con aria arcigna. «Allora cosa?» «Allora, chi è la preraffaellita con il portamento romantico e l'accento del nord? Perché non ci hai presentate?» Mentre parlava si rese conto di chi fosse. «Oh, Michael. Non dirmi che quella donna è chi penso io.» «Va bene. Non te lo dico.» Mi diedi da fare raccogliendo l'iris che era caduto spandendo terriccio sul pavimento. Ero confuso, imbarazzato e furioso con me stesso. «Michael, dimmi che non è vero. Non è possibile. Non con Angie Carrick.» «Stella,» tagliai corto «lascia perdere. Dopo tutto sono solo affari miei.» «Non dirmi che non sono anche affari miei!» La sua aggressività mi sorprese. «Siamo amici, vero? E nel caso te ne fossi dimenticato, siamo amici che tra qualche settimana partiranno insieme per un lungo soggiorno all'estero. Tra pochissime settimane. Ecco perché sono anche affari miei.» «Se lo dici tu, Stella.» Raccolsi da terra i sacchetti e li posai sul tavolo. «Michael, sbaglierò, ma ho l'impressione che qui ci sia in ballo un programma del tutto diverso.» «Ascolta,» dissi aggredendola a mia volta «in questo momento sto occupandomi solo del mio programma, chiaro? Non ho spazio per il programma di nessun altro. Né il suo, né il tuo, né quello di nessun altro.» «Vuoi che torni in un altro momento?» Mi diedi una calmata. «Mi spiace, Stella. Ma non devi farti carico di me. Tutto qui.» «Invece io mi faccio carico di te» disse sedendosi a tavola e accendendosi una sigaretta. Forse era una piccola sfida, e mi stava provocando perché la rimproverassi, ma non me la sentii. Si rilassò. «Non fai niente per facilitare le cose a noi, Michael.» «A noi?» «Ai tuoi amici veri. A me e ad Anthony.» «Anthony!» mormorai. «Avrei dovuto chiamarlo.» «Infatti. Ti vuole molto bene. Dovresti chiamarlo più spesso.» Fissò la punta della sigaretta. «Non avrei mai pensato di avere qualcosa in comune con il vecchio trombone, ma adesso so esattamente come si sente.» «Cioè?» «È preoccupato da morire, ma non sa se deve telefonare, venirti a trova-
re o se le sue attenzioni sono per te una fastidiosa interferenza.» «È così che ti senti anche tu?» «A volte. Come tre minuti fa.» «Lo chiamerò» le promisi. «Hai ragione. Dovremmo stare tutti uniti, come abbiamo sempre fatto.» «Ne sarebbe felice. Va' da lui e lascia che ti cucini uno dei suoi pranzi pantagruelici. Fai in modo che si senta utile.» «Va bene» annuii. «Michael, penso che gli farebbe piacere se tutto tornasse come prima.» Speravo che cambiasse argomento. Mi vergognavo di me stesso, ma in quel momento mi affaticava il solo pensiero dei pranzi di Anthony e del suo assillante interessamento. Sapevo che Stella voleva essere utile, ma anche quello mi infastidiva. Non avevo alcuna intenzione di fingere che il mondo non fosse cambiato. Non capivo che cosa desiderassi veramente, se non che mi lasciassero tutti in pace. «Questo venerdì non ci sono» disse. «Ma possiamo andarci dopo.» «La polizia vuole filmare una ricostruzione. Non posso assentarmi.» «Sabato, allora» insistette. «Il mercato di Portobello Road è di sabato, vero? Potremmo andare tutti insieme al mercato. Mi fa schiattare dalla noia, ma Anthony lo adora.» «D'accordo, Stella, d'accordo.» «Benissimo» disse tutta allegra e saltò in piedi. «Sabato. Lascia fare a me.» Sistemò gli acquisti che aveva fatto e mise il vaso con l'iris su un piatto. «E poi,» disse quasi incidentalmente «dobbiamo parlare tutti quanti del Venezuela, non credi? Del futuro. Gli mancherai tanto.» 26 Un agente in uniforme portò dei cappuccini dal caffè Stavros e ne diede uno a me e uno a Emma Dickenson. Riconobbi nell'agente il ragazzo che aveva rotto il vaso di Caitlin durante il primo sopralluogo della polizia. Erano passate ormai molte settimane. Ricordando quanto ci fosse rimasto male, gli rivolsi un sorriso incoraggiante. Lo ricambiò e fuggì a gambe levate. Intuivo che non c'era niente che il ragazzo potesse dimenticare di quel giorno, il giorno della morte di Caitlin. Mi chiedevo se ciò valesse anche per le centinaia di persone che erano passate davanti alla nostra casa quella mattina, senza che avessero motivo di sospettare alcunché e senza
notare nulla di strano. Mi sembrava che la situazione stesse diventando sempre più stravagante. La polizia aveva bloccato la strada e dietro le transenne si era formata una piccola folla, a pochi passi da dove sedevo con l'ispettrice Dickenson. Il minibus della troupe cinematografica, dietro il quale erano ferme tre o quattro macchine della polizia, era stato parcheggiato sul marciapiede. Io ero seduto su una sedia da regista. Operai in giacca a vento erano intenti a installare un tratto di binario lungo il marciapiede e a montare la cinepresa su un carrello. C'erano la giraffa del rumorista, una piccola batteria di lampade e un groviglio di cavi che attraversava la strada. «Servirà veramente a qualcosa?» chiesi. «Non ha idea di ciò che la gente riesce a ricordare quando si deve concentrare su uno specifico evento.» Emma Dickenson soffiò sul suo cappuccio e incrociò pudicamente le gambe sotto la modesta gonna di lana. Faceva del suo meglio per apparire fiduciosa. «Ricordano particolari che al momento non avevano ritenuto importanti. È necessario dar loro la sensazione che hanno il diritto di farsi avanti, che non faranno la figura dei fessi.» Non ne ero convinto e tutta la faccenda mi stava innervosendo. Tremavo. Faceva molto freddo e nell'aria volteggiavano minuti fiocchi di neve. Avrei voluto che quella farsa finisse al più presto, per rifugiarmi in casa e chiudere fuori il resto del mondo. Il regista, con la barba di qualche giorno e indosso una giacca di montone, gridava dall'altro lato della strada. «Silenzio, per favore!» Batté le mani per richiamare l'attenzione. «Proviamo tutta la scena una volta, gente. Ma per favore cercate di renderla vera, okay?» «Stanno girando un film?» chiese una donna anziana che si trovava al di là della transenna alle mie spalle. Il giovane agente le fece segno di abbassare la voce. «Allora, che film è?» insistette la donna. «Chi è l'attrice?» «Silenzio, per favore!» sbraitò il regista. «E che diamine,» borbotto la donna «era solo una domanda!» Avevano incominciato a riprendere la scena. L'attrice, sul marciapiede di fronte, si avvicinava alla casa. Non avevo mai visto la strada deserta e i suoi passi risuonavano nel silenzio innaturale. Mi ritrovai a porre la stessa domanda della donna: chi era l'attrice? Una ragazza qualunque, mandata da un'agenzia, forse una ragazza che aveva sempre desiderato recitare Shakespeare e che invece aveva fatto la sua prima apparizione indossando
una parrucca bionda per interpretare la parte di una donna morta. Anche lei non avrebbe mai dimenticato. Emma Dickenson si chinò verso di me, sussurrando: «Michael, se c'è qualcosa nella ricostruzione che non va è molto importante che ce lo dica, in modo che possiamo porvi rimedio. I dettagli più insignificanti potrebbero essere di fondamentale importanza». Guardai l'attrice affascinato. La ragazza indossava la giacca cinese nera con il drago rosso e il foulard rosso che erano stati di Caitlin. Aveva i capelli corti come Caitlin, la stessa altezza e la stessa corporatura. Aveva persino lo stesso passo felpato di Caitlin. Salì disinvolta i gradini che portavano all'ingresso e aprì la borsa alla ricerca delle chiavi. Cercai di concentrarmi. C'era qualcosa in tutto questo che non andava? La domanda era assurda. Un'estranea indossava gli abiti di Caitlin, miniava i gesti che Caitlin aveva compiuto per entrare in casa. Come era possibile che questa pantomima potesse sembrare verosimile? Ora la ragazza aveva le chiavi in mano e ne stava infilando una nella serratura. Riuscivo a malapena a controllarmi. Avrei voluto saltare su e chiederle che cosa credeva di fare entrando in casa mia, recitando la parte di mia moglie. «Benissimo, magnifico» gridò il regista, e la scena si concluse. «Tra un paio di minuti la giriamo sul serio.» La ragazza si girò, scese i gradini sorridendo e riprese la sua posizione di partenza dietro il minibus. La troupe tornò a lavorare attorno al carrello della cinepresa. Un uomo posizionò uno schermo riflettente e un altro srotolò l'ennesimo cavo elettrico dall'ennesima bobina. I fari si accesero e nel mattino buio la strada divenne un palcoscenico immerso in una luce ambrata. Un tecnico provò il livello del sonoro. Qualcuno fece una battuta e ci furono delle risate. «La bionda è un personaggio di Neighbours?» chiese la donna di prima, all'agente dietro di noi. «Perché non le chiede di farmi un autografo?» «Non posso, signora.» «Per favore, non usi quel tono con me» ribatté. «In fondo non è mica un vero agente. Sta solo girando un filmetto.» Mi muovevo nervoso sulla sedia. «Forse nessuno ha visto niente» dissi. «Michael, cerchi di rilassarsi» disse Emma Dickenson, toccandomi un braccio. «Si tratta di un venerdì mattina, in una strada trafficata di Londra.
Qualcuno ha visto. Un taxista, il conducente di autobus, un postino o un ragazzino sullo skateboard. Qualcuno deve averla vista entrare. E se qualcuno ha visto entrare lei, molto probabilmente ha visto anche lui. Questo è il punto.» Intravidi Barrett sull'altro lato della strada, che scrutava tra le macchine e il minibus, gettando occhiate circospette a destra e a sinistra. Lo seguii con lo sguardo. Si muoveva con metodo, osservando le finestre dei piani alti delle case lungo la strada. «Digby Barrett è un bravo funzionario» disse Emma Dickenson con cautela, benché nessuno di noi l'avesse nominato. «Ma ha il gusto del macabro. Non mi preoccuperei di lui più di tanto.» «Non mi preoccupo affatto» mi precipitai a dire. Tuttavia mi resi subito conto che lei aveva capito. Stavo diventando preda di un timore irrazionale. Tra i due o tre milioni di persone che avrebbero guardato il videoclip alla televisione nei giorni successivi, certamente ci sarebbe stato chi aveva notato Caitlin entrare in casa, chi forse aveva notato me, ma era anche possibile che nessuno avesse visto Carrick. Un frammento di passato visto al microscopio non li avrebbe aiutati a trovarlo. In qualche modo era riuscito a sgusciare inosservato, come una forza malefica, come un gas letale. «Fermi!» gridò il regista. «Silenzio, per favore.» Nella strada si fece silenzio. «Azione!» Lo spettro di Caitlin percorse la strada, allegra, spensierata, con la borsa che le batteva contro il fianco. Mise una mano sull'inferriata e un piede sul primo gradino. «Michael! Michael Severin!» Le grida venivano da dietro la piccola folla radunata alle mie spalle. «Fatemi passare! Fatemi passare!» Per un attimo non riuscii a localizzare la voce. Emma Dickenson e io ci voltammo a guardare. Spintoni, proteste, voci concitate. La donna anziana disse ancora: «È solo uno stupido film». Sentendo il vociare, l'attrice si fermò guardandosi attorno. Il regista esclamò con voce esausta: «Ma per l'amor del cielo!». Poi ad alta voce ordinò: «Stop!». Dietro di noi un ometto protestava con il giovane agente, cercando di insinuarsi tra la folla come un terrier. «Abito qui. Avete sentito? Abito qui e devo parlare con il dottor Severin, subito.» «Henry.» Mi avvicinai alla transenna. «Henry, sono Michael. Sono qui.»
Henry Kendrick indossava il blazer blu con i bottoni dell'Aeronautica e portava la cravatta leggermente di sghimbescio sulla camicia a quadri. Sembrava la caricatura dell'indignazione e dell'angoscia. «Michael! Dimmi che non è vero quello che dicono. Della bella Caitlin.» «Da quanto sei tornato?» «Sono appena sceso dal taxi. In questo preciso momento. Ho lasciato le valigie sul marciapiede» disse guardandosi angosciato alle spalle. «Dimmi che non è vero, Michael. Dimmelo.» Sembrava completamente distrutto. Non sapevo come rispondergli. Conoscevo Henry solo superficialmente ed ero stupefatto dalla sua reazione. «Vorrei poterti dire che non è vero.» Si guardò attorno costernato. «Ma quando? Quando è accaduto?» «Mentre eri via, Henry.» «Ma quando?» Era come impazzito. «Quando è successo esattamente?» «È successo mentre eri in viaggio, Henry. Non avresti potuto aiutarla in nessun modo.» «No, no, no» mi fissava, nel suo sguardo l'orrore. «Tu non capisci. Ho una sensazione spaventosa. Una sensazione spaventosa.» Cercò di controllarsi. «Dimmi solo che non era il quindici. Non il quindici di ottobre. Non quel giorno.» Per un attimo non riuscii a parlare. L'ispettrice si alzò di scatto: «È meglio che entriamo in casa». In cucina versai un brandy per Henry e glielo portai. Era seduto vicino alla finestra, pallido e con il respiro corto. Allentò la cravatta. «Perdonatemi. Uno non si aspetta una cosa del genere nella casa accanto.» Prese il bicchiere e bevve un sorso di brandy. Ne aveva bisogno. «Una cosa spaventosa. Spaventosa.» L'alcol l'aiutò a riprendersi. Henry era un uomo vicino ai settant'anni, curato, con i capelli biondicci. Si scosse convulsamente, un gesto che lo fece assomigliare ancora di più a un terrier. «Lei deve essere molto preciso riguardo alle date» disse Emma Dickenson, costringendolo a concentrarsi. «Molto preciso.» «Era sicuramente il quindici» disse. «Sicuramente. Non potrei dimenticarlo.» Mi sedetti. Cercai di non tare ipotesi su ciò che avrebbe detto, di cancel-
lare ogni aspettativa. A me il brandy non piace, ma in quel momento mi pentii di non essermene versato un bicchiere. «C'era stato un problema con i voli» Henry faceva un grande sforzo per parlare con calma. «Avevo prenotato un volo da Auckland a Boston con scalo in Sud America, ma quei disgraziati delle linee aree neozelandesi mi dirottano su Londra con una sosta di ventiquattro ore. Mi avevano prenotato una stanza all'Hilton di Heathrow, ma io pensai che tanto valeva che dormissi nel mio letto. Così sono tornato a casa a dormire. La notte del quattordici. Ecco perché la mattina seguente ero qui.» «Ed è stato allora che hai visto Catey» dissi. «Esatto, Michael.» Henry abbassò lo sguardo con aria colpevole. Era come se il fatto di averla vista lo rendesse in qualche modo responsabile. «Sì, l'ho vista rientrare a casa.» «Ci può descrivere come era vestita?» chiese Emma Dickenson. «I miei occhi funzionano benissimo» disse Henry, improvvisamente eccitato. «Occhi da vedetta. Occhi da falco pellegrino. E vi assicuro che non era vestita come quella ragazza là fuori. Non portava la giacca e il foulard, tanto per cominciare. Oh, no. Ascoltatemi bene...» «Ne è sicuro?» lo interruppe l'ispettrice. «Perché nelle fotografie della polizia Caitlin portava giacca e foulard.» «Non so cosa dire» disse Henry con fermezza. «Faceva piuttosto caldo quel giorno. Forse li aveva messi in uno dei sacchetti. Erano sacchetti di Marks & Spencers, tra l'altro, non di Selfridge's come quelli che porta la ragazza là fuori. Mi pare che siate completamente fuori strada...» «Ed è sicuro dell'orario?» insistette Emma Dickenson. «Ci pensi bene. È molto importante.» «Non è necessario che ci pensi, cara signora. Ero in piedi da un paio d'ore. Mi stavo preparando per ritornare all'aeroporto quando ho visto la povera Caitlin tornare con i suoi acquisti. L'ho vista dalla finestra. Erano le 11.08.» «Perché saremmo fuori strada, Henry?» gli chiesi. «È sul ragazzo che dovreste interrogarvi,» disse Henry «sicuro come l'oro! Il tizio che è venuto subito dopo che Caitlin è rincasata. Alto. Capelli neri. Vestito da motociclista.» Nel giro di un'ora erano andati via tutti. Henry uscì con i poliziotti per andare a rendere una deposizione formale. La troupe cinematografica raccolse l'attrezzatura e la piccola folla si disperse. La strada tornò a essere
una qualsiasi strada di Londra in un mattino grigio d'inverno. Rientrai in casa e chiusi la porta. Ero irrequieto e non trovavo pace. La mia mente era occupata dalla storia di Henry. Continuavo a immaginarmi la figura scura sulla soglia di casa, il viso di Caitlin quando gli apriva la porta. Non rimasi in casa più di qualche minuto. Infatti, uscii dalla porta posteriore, andai a prendere la Audi in garage e partii. Piovigginava. Il mercato di Brixton stava smobilitando. Sotto il cielo cupo del pomeriggio invernale il frastuono delle strutture metalliche delle bancarelle che venivano smontate era assordante, e si mischiava alle grida dei pochi venditori rimasti che offrivano CD, valigie a buon mercato, stampe male incorniciate. La strada era invasa da furgoni che caricavano rastrelliere di abiti, cassette di frutta e di libri. Percorsi una stradina che immetteva nella strada parallela a Brixton Road. Passai davanti all'emporio indiano. Era aperto e affollato. Per un attimo l'odore delle spezie e la folla indaffarata conferirono alla strada squallida un'atmosfera esotica. Nella sala corse, gli uomini appoggiati ai banchi fissavano con ansia i monitor, come fedeli davanti ai vetri colorati di una cattedrale. Il pavimento era disseminato di foglietti stampati che testimoniavano il ripetuto rifiuto della dea bendata che avrebbe dovuto concedere loro la grazia. Il vocio ininterrotto dell'annunciatore delle corse mi seguì oltre il parcheggio, sin dentro la tromba delle scale. Angie aprì la porta. Non ricordavo di aver bussato. Forse non avevo bussato affatto. Indossava un maglione con un disegno a zig-zag colorati. Aveva raccolto i capelli in una coda e quella pettinatura la faceva sembrare più giovane. Ma i suoi occhi non erano giovani: erano gravi e non mostravano alcuna sorpresa. «L'hanno trovato?» «No, Angie. Non ancora.» «Allora che c'è?» «C'è un testimone.» Sbatté le palpebre. «Deve esserci stato un errore.» «Non c'è nessun errore. Un vicino ha visto Barney sulla soglia di casa.» Si morsicò il labbro, smarrita. «Posso entrare?»
Si fece da parte e io entrai. Lo zio Stanley era seduto al tavolo, avvolto in una foschia azzurra. Leggeva il giornale. «Oh, dev'essere il dottor Seven» disse. «C'è del tè nella teiera.» «Non rimango.» Il vecchio alzò le sopracciglia e tornò al suo giornale. «Uomini di poca fede» disse, rivolgendosi a se stesso. «Non m'importa quello che dici,» annunciò Angie «ci deve essere stato uno scambio di persona.» Chiuse la porta e mi raggiunse subito nella stanza. «Errori di questo genere capitano in continuazione.» «Il mio vicino si chiama Henry Kendrick. Era nella RAF. Ha gli occhi di un falco. Dalla sua finestra si vede la soglia della porta d'ingresso principale. Meno di una dozzina di metri.» «Non era Barney.» «Henry l'ha descritto, Angie.» «Come l'ha descritto?» «Alto, capelli scuri, bello, tra i venti e trent'anni, vestito da motociclista.» «Più di un milione di persone corrisponde a questa descrizione.» «E poi Henry l'ha identificato nella foto.» Angie era in piedi di fronte a me, il viso teso. Vedevo il suo sforzo disperato di elaborare quell'informazione. «Bene,» disse lo zio Stanley dal fondo della stanza «sono certo che voi giovani avete molte cose da dirvi.» E raccolse i suoi attrezzi da fumo. «Quando?» chiese Angie. «Quando credono di averlo visto davanti alla casa.» «Caitlin è rientrata poco dopo le undici. Tuo fratello si è presentato immediatamente dopo. Otto minuti più tardi è stato visto uscire di corsa. Sembrava preoccupato, dice Henry. Agitato. Gli orari corrispondono, Angie.» «Otto minuti?» mi fece eco cercando di fare del sarcasmo. «Non sette minuti e quarantadue secondi e mezzo? Dico, non potrebbe essere più preciso?» «Henry è così. Quando sta alla finestra guarda la strada come un agente dell'FBI, con il binocolo e il cronometro. È fissato con la gente che parcheggia dove non ne ha diritto. Non ha nient'altro da fare.» Lo zio Stanley si trascinò alla finestra: «Che intenzioni ha questo tempo?» disse guardando il cielo livido. «Sono settimane che il tempo è uno schifo.» Si infilò il lungo cappotto marrone.
«Ammettiamo pure che fosse lui» disse Angie, squadrandomi con atto di sfida. «Erano amanti, no? Lui è andato a trovarla. La cosa può non piacerti, ma non è illegale.» «Esco» annunciò con signorilità lo zio Stanley. «Starò fuori un bel po'.» Nessuno di noi lo guardò. La porta si aprì e si richiuse dietro di lui. Sentii il vecchio che scendeva le scale, poi a poco a poco nel piccolo appartamento non arrivò più alcun rumore. Per la prima volta Angie non riusciva a sostenere il mio sguardo. Aveva un'aria sperduta, come un animale braccato, che non sa più dove nascondersi. «Mi spiace, Angie. Davvero.» «Ti spiace?» disse con amarezza. «Almeno così non punteranno più il dito contro di te. Dovresti esserne contento.» «Non c'è niente in tutta questa vicenda che possa farmi contento. È come dici tu. Quando tu fai un passo avanti, io ne faccio uno indietro e viceversa. Non dovremmo farlo. Nessuno dei due lo desidera.» Gli ultimi residui della sua aggressività si sciolsero. Si strofinò la fronte con una mano. Fece un profondo sospiro. «Cristo santo, Michael. È un tale casino.» «Puoi dirlo.» «Perché mai tocca sempre a noi due risolvere i problemi? Ci deve pur essere un sistema, non credi?» «Non c'è alcun sistema.» La sua bocca si piegò in una smorfia. Andò alla finestra e rimase a fissare l'infinita distesa di edifici in mattoni e cemento della città. «Dio, che posto desolato è questo!» Mi avvicinai e le posai le mani sulle spalle. Rimase immobile. Chiuse gli occhi e avvicinò la sua guancia morbida alla mia mano. Sentivo il calore delle sue spalle sotto il maglione. Si girò verso di me e mi guardò con franchezza. «Non ce la faccio più» disse. Mi abbracciò e mi strinse forte, abbandonandosi completamente contro di me, tanto che per poco il suo peso non mi fece perdere l'equilibrio. Improvvisamente mi sembrò molto piccola, avvinghiata a me con i capelli scuri sul mio petto. Le accarezzai i capelli. La baciai. Il suo corpo aderiva al mio. Sentivo il suo odore. Si piegò indietro appoggiandosi alle mie braccia e portò una mano sulla mia guancia. Sostenne il mio sguardo senza abbassare gli occhi. Poi si scostò da me e tenendomi per mano mi condus-
se in silenzio nella camera da letto, chiudendo la porta alle spalle. Si sedette sul bordo del letto, i suoi occhi nei miei. Si sfilò il grosso maglione. Dal cielo entrava una luce opalescente e una striscia luminosa si disegnò sul suo corpo, illuminandolo. Aveva un tatuaggio, un grazioso rametto di foglie di vite che saliva dalla vita lungo la schiena. Mi sedetti sul letto accanto a lei e raccolsi i piccoli seni nelle mie mani. Lei si abbandonò. Mi svegliai a sera inoltrata. Sentivo che anche lei era sveglia, dal ritmo del suo respiro. Nella stanza era buio, ma non avevamo tirato le tende e il lucore della città riempiva il cielo riflettendosi sulle nubi. Dalle scale venivano i rumori della vita serale del palazzo: la porta di un appartamento al piano superiore che veniva chiusa con un tonfo, giovani che chiacchieravano animatamente mentre scendevano in strada per andare al cinema o al pub. Era strano svegliarsi a quell'ora, mentre gli altri si apprestavano a uscire per iniziare la serata. Mi sentivo svuotato, con i muscoli leggermente indolenziti. Mi chiedevo per quanto tempo ancora avremmo potuto rimanere in quella camera silenziosa. A lungo, speravo. Avrei preferito che non fosse sveglia. Avrei preferito che nessuno dei due parlasse. Non desideravo pensare al domani. «Che cosa hai trovato quando sei andato in quel villaggio?» mi chiese con dolcezza. «Il posto segnato sulla carta?» «Niente. Frammenti del passato di un'altra persona.» «Volevi trovare il cottage. Il loro cottage.» «Sì.» «Perché?» «Pensavo che mi avrebbe aiutato a capire. Che mi avrebbe aiutato a trovare Caitlin.» Sospirò. «Che hai?» «Michael, quel cottage era la loro casa. L'hai detto tu stesso. Appartiene a un altro tempo, come Barney e Caitlin.» Mi attirò a sé. «Lui l'amava. Vorrei che tu cominciassi a capirlo, ad accettarlo. L'amava sul serio.» Non dissi niente. «In alcuni momenti mi ricordi lui, sai?» la sua voce risuonava nel silenzio. Ripensai alle fotografie di Barney Carrick, al modo in cui avevo sentito
il suo spirito indomito irradiare da quelle immagini e all'inattesa simpatia che avevo provato per lui, prima di cancellarla dentro di me. Pensai a come quelle foto mi avessero ricordato mio padre. Mi chiedevo che cosa avesse provato Caitlin quando guardava quel ragazzo. «Un po' gli assomigli» disse. «Forse per certi aspetti è come te. Forse l'amava nello stesso modo in cui l'amavi tu.» Mi sedetti sul bordo del letto. La pioggia cadeva forte adesso e sentivo gli infissi scricchiolare per la violenza del vento. «Quella Stella» disse all'improvviso. «La rossa.» «Che cosa vuoi sapere?» «È la tua amante?» «No.» «Quando eri all'estero siete stati a letto insieme?» «No». Il mio cuore prese a battere forte. «È importante?» «C'è stato qualcuno dopo Caitlin?» insistette. «No. Nessuno.» «Ma anche così pensi di averla trascurata, vero, Michael?» Si mise a sedere sul letto dietro di me e appoggiò la mano aperta sulla mia schiena nuda. «Pensi di averla lasciata sola. Che è tutta colpa tua. Non è così?» «Me l'hai detto tu una volta.» «Adesso le cose sono più chiare.» «Ne sei convinta, Angie?» «Sono convinta di questo. Qualunque errore tu abbia fatto, è stata Caitlin a tradire la tua fiducia, e non viceversa. Forse dovresti rifletterci una volta o l'altra, Michael. Per far tornare i conti.» Mi si accostò, abbracciandomi. Sentivo i suoi seni contro le mie spalle. «Non la puoi più aiutare, Michael. Non puoi rimediare al passato. Ammesso che ci sia qualcosa da rimediare.» Mi alzai di scatto, allontanandomi da lei. Andai alla finestra e appoggiai la fronte contro il vetro freddo. «Non sono stato in grado di aiutarla,» dissi «quando l'ho trovata quel giorno.» «Non era più possibile aiutarla.» «Sono in una squadra di soccorso, Angie. È il mio mestiere, e se non sono in grado di svolgerlo, tanto vale che lasci perdere. L'ho chiamata dal Venezuela. Volevo che ricominciassimo da capo. Era quello che voleva anche lei. Ma ormai era troppo tardi.» «Non dimenticare che Caitlin non te l'aveva detto.»
«Detto cosa?» «Che era incinta di tre mesi di un altro uomo. Non è un bel modo per ricominciare.» «Come poteva dirmelo?» «Perché no? Non è la prima donna che si trova in una situazione del genere. Se te l'avesse detto, almeno avreste potuto discuterne. Ma questa possibilità non l'ha mai concessa né a te né a se stessa.» Scivolò giù dal letto e mi venne vicino, ma senza toccarmi. «Michael, forse come marito hai sbagliato. Come molti mariti, del resto. Ma non è una colpa per cui è prevista l'impiccagione. Non è tua la colpa di quello che è successo a Caitlin.» «Se le cose erano arrivate a quel punto, io avrei dovuto accorgermene.» «Nessuno pretende che tu sappia leggere nel pensiero. E neanche resuscitare i morti.» «Per favore, Angie!» «Michael, se vuoi fustigarti, non posso impedirtelo.» «Non capisci.» «Davvero?» Allungò la mano e sollevò la chiave di bronzo. «E questa? È per ricordarti di altre persone che non sei stato in grado di salvare?» La lasciò cadere sul mio petto. «Michael, arriva un momento nella vita in cui dobbiamo trovare la forza di salvare noi stessi.» La fissai, colmo di risentimento per ciò che aveva capito e per ciò che non era riuscita a capire. Ma forse, se ci fosse stato concesso un po' più di tempo, avremmo potuto spiegarci anche allora. Avremmo trovato il modo per fare un passo avanti. Ma in quel momento sentimmo aprirsi il chiavistello della porta d'ingresso e a quel suono profano l'atmosfera magica rimase per un attimo sospesa, poi si dileguò come fumo, lasciandoci abbagliati come sotto un riflettore. Due persone in una piccola, squallida camera da letto che si chiedono come vi sono capitate e che cosa hanno fatto. Entrambi sentimmo il vecchio che chiudeva la porta con cautela, strisciava al buio attraverso la sala da pranzo e infine entrava nella sua stanza da letto. Quando si sedette sul materasso le molle cigolarono. Ce la metteva tutta per non fare rumore, ma respirava a fatica dopo aver salito le scale e dall'altra parte della parete di cartongesso lo sentivamo ansimare. Guardai Angie e lessi sul suo viso le mie stesse preoccupazioni. Era come se questo banale episodio e l'imbarazzo che ne era seguito prefigurassero gli sviluppi futuri, i grovigli emotivi, le lealtà violate, gli infiniti compromessi.
«Non poteva star fuori tutta la notte,» sussurrò come per scusarsi «quel povero vecchio.» «Certo che no.» Raccolsi i miei abiti, non sapendo che altro fare. «Certo che non poteva star fuori.» Angie si allontanò. Prese il lenzuolo e se lo avvolse attorno al corpo nudo. «Mi spiace, Michael. È stato un errore.» «Angie...» Scosse il capo con forza, per farmi tacere. Quando fu certa che non avrei continuato disse: «Ti auguro buona fortuna, Michael. Auguro a tutti e due buona fortuna. Ora devi andare». Mi vestii rapidamente al buio e mi avviai verso la porta senza guardarla, senza dire una parola. Stavo ancora infilandomi la giacca quando uscii nella notte gelida. Tornai a casa passando dal West End, felice di trovarmi nelle strade intasate di traffico del venerdì sera, in mezzo alle luci e alla musica assordante che usciva dai pub e dai caffè. I marciapiedi erano affollati di gente allegra. La vita caotica della città mi distrasse dal vuoto mortale che sentivo dentro. Il traffico rallentava la mia marcia e io desideravo far tardi. Pensai di non tornare a casa. Non volevo ritrovarmi solo con le cose di Caitlin, nella casa di Caitlin. Non quella sera. Per un attimo pensai di fuggire, di lasciarmi alle spalle il reticolato scintillante delle strade e guidare per tutta la notte verso qualche posto tranquillo, dove nessuno mi conosceva. Avrei potuto farlo, ma la mia parte razionale mi diceva che in quel momento non esisteva un luogo, per quanto lontano, dove mi sarei sentito in pace. Erano passate le dieci quando rientrai. I miei abbaglianti illuminarono una macchina parcheggiata in fondo alla strada: una BMW verde scuro. Barrett era appoggiato al cofano della macchina, con un piede sul paraurti; si lustrava una scarpa nera con uno strofinaccio giallo. Quando mi vide si raddrizzò, esalando uno sbuffo di vapore nella notte fredda. Scesi dalla macchina, feci scattare le serrature e mi fermai davanti a lui, in attesa. Indossava una vistosa giacca sportiva. «Salve, dottore!» esclamò con un largo sorriso. «Io e Baz abbiamo bussato alla porta principale. Visto che lei non c'era, abbiamo deciso di aspettare qui fuori qualche minuto, giusto per vedere se compariva.» Ellis sporse la testa dal finestrino del posto di guida e in segno di saluto sollevò un dito dal volante. L'orecchino d'oro brillava alla luce del lampione.
«Che cosa volete?» chiesi. «Oh, sono contento che sia arrivato, dottore» continuò Barrett tutto allegro, come se io non avessi neppure parlato. «Baz? Esci da lì, poltrone, e dammi una mano a sollevare questo.» Non avevo voglia di parlare con Barrett. Non sopportavo l'idea di un altro dei suoi dolorosi interrogatori, ma ero completamente senza energia e non avevo la forza di oppormi alla sua determinazione. Ellis aprì il portabagagli dall'interno della macchina, poi, chiaramente contro voglia, scese e si mise accanto a Barrett. «Prendi l'altro capo» Barrett stava estraendo dal bagagliaio un sacco della spazzatura rigonfio, sollevandolo da un parte. Ellis afferrò con cautela l'altra estremità. «Se per favore ci apre il cancello sul retro, dottore.» Rassegnato, feci come mi aveva ordinato. I due uomini alzarono il sacco e lo deposero sul sentiero di mattoni bagnato di pioggia. Ellis fece un passo indietro battendosi i calzoni e pulendosi le mani. «Accidenti, brigadiere» disse con aria disgustata. «Come faccio a togliermi di dosso questo puzzo?» «Merda di cavallo di prima qualità. Dono della Polizia Metropolitana» disse Barrett con orgoglio, ignorandolo completamente. «Come può immaginare, dottore, il luogo di provenienza di questo sacco ne fornisce altra in quantità.» Guardai il sacco ammutolito. «Non c'è di che, dottore» disse in risposta al mio silenzio. «Se ne sparge qualche palata ai piedi delle rose, non troppa, badi, come le ho già detto, il prossimo giugno saranno belle come quelle della Mostra di floricoltura di Chelsea. Lo stallatico non delude mai.» Ellis faceva schioccare la lingua e saltava prima su una gamba poi sull'altra per esaminare le suole delle scarpe. Infine sempre saltellando raggiunse la macchina, sbatté la portiera e accese la radio. Barrett lasciò passare qualche attimo. «Non ho voglia di parlare in questo momento» dissi. «Lo capisco, dottore. Ma non sono venuto per parlare. Non sono neppure venuto per consegnarle lo stallatico, se devo dire la verità.» «Dunque?» «Sono venuto a chiederle scusa.» Allargò le braccia umilmente. «Avevo torto. Torto marcio. Ma lei capisce che a volte dobbiamo lavorare di fantasia. Niente di personale.» Il suo atteggiamento mi spiazzò. Non avrei saputo dire se pensava sul
serio ciò che diceva, ma in quel momento la cosa non aveva importanza. Mi sentivo sollevato, e allo stesso tempo volevo che se ne andasse. Cercai una risposta che potesse indurlo a lasciarmi in pace. «Immagino che facesse parte del suo lavoro.» «Sì,» convenne «è così.» Batté le mani per pulirle. «Comunque è passato. Il signor Kendrick ha permesso di sistemare Carrick nel posto giusto al momento giusto. L'unica cosa che il vecchio Henry non ha prodotto è un video del nostro ragazzo al momento in cui lascia la casa.» «Henry è molto orgoglioso del suo spirito di osservazione. Era nella RAF. Forse glielo ha detto.» «Non più di quaranta volte. Però è grazie a lui che sappiamo quello che è accaduto. Naturalmente, è ancora un quadro indiziario, ma bisogna ammettere che è abbastanza convincente.» Barrett spinse con la punta del piede il sacco di letame, si arrotolò i pantaloni e si sistemò sui talloni. Prese tra l'indice e il pollice un pizzico di terriccio e lo sbriciolò. Mi sorrise. Sembrava soddisfatto di sé. «Perché è venuto qui in realtà?» «Chi va con lo zoppo, dottore, impara a zoppicare.» «Cosa?» «Lei si vede con la piccola Angie. Anzi non vi vedete soltanto.» Allungai il braccio e spalancai il cancello. «Grazie per la merda.» Si alzò in piedi. Non considerò il cancello aperto e si avvicinò. Il sorriso era svanito dalle sue labbra. «Sua moglie è stata assassinata. E lei se la fa con la sorella del sospettato numero uno. Le sembra una mossa astuta?» Non avrei voluto ammetterlo, ma la sua presenza fisica mi intimidiva. Se ne rese conto e si rilassò. Ottenuto il suo scopo fece un passo indietro. «Lei non conosce quella gente come la conosco io, dottore. Angie e quel poco di buono di suo fratello. Non sono come lei e come me. Sono animali che si muovono in branchi, come i lupi. Si danno man forte nella buona e nella cattiva sorte.» «È venuto per dirmi questo?» «Tutto il resto per loro non conta. Il bene e il male. I diritti degli altri. E la legge? La ignorano. Mi creda, quella piccola volpe farà di tutto per aiutare suo fratello. Di tutto.» «La sorvegliate» dissi, rendendomi conto improvvisamente di come stavano le cose. Mi immaginavo un uomo con l'impermeabile, che dall'altro lato della strada osservava la finestra della sua camera da letto, la finestra rigata di pioggia contro la quale mi ero appoggiato. Evidentemente mi a-
vevano visto alla finestra. A quel punto ci potevano essere delle mie foto in qualche archivio. Barrett mi lesse il disgusto sul viso. «Stia con i piedi per terra. Sono un funzionario di polizia.» «Allora secondo lei è colpevole solo perché lo è suo fratello?» Stavo alzando la voce, ma non potevo trattenermi. «Ahi, ahi» scoppiò a ridere Barrett. «Vedo che l'ha già lavorata per bene.» Non dava segno di volersene andare. Si pulì le mani dal terriccio, guardandomi pensoso. Mi resi conto che l'assenza della Dickenson mi metteva a disagio, il che era strano, dal momento che anche la sua presenza mi aveva sempre messo a disagio. Tuttavia, solo con Barrett, mi sentii ancora una volta vittima di un sopruso e mi innervosiva sapere che ero del tutto impreparato ad affrontarlo. «Su questo lei si sbaglia» gli dissi senza convinzione. «Davvero?» Il suo tono incredulo mi ferì, ma allo stesso tempo mi vergognai di essere stato così disponibile a rinnegare Angie. Cercai di darmi un contegno. «No» dissi. «Naturalmente lei non si sbaglia. Ma è una storia finita. È stato un errore, ma appartiene al passato.» Mi studiò cercando di capire sino a che punto potesse credermi. «Bene, dottore, sono felice di sentirglielo dire. E se fossi in lei mi atterrei a questa decisione.» Annuì ripetutamente, poi si diresse verso il cancello. «Perché, come lei sa, la mela marcia fa marcire le altre» disse voltandosi a guardarmi. «Informazione gratuita.» 27 Avvolto nell'oscurità aspettai che la macchina si allontanasse, poi rientrai nella casa deserta. Non ne avevo alcuna voglia. La casa non era più accogliente. Mi sembrava che il peso delle stanze vuote mi schiacciasse. Non volevo vedere gli spazi familiari dove Caitlin e io avevamo vissuto momenti felici. Non volevo immaginarmi Carrick nella mia casa, ora che la sua presenza, dopo la testimonianza di Henry, era diventata reale. Allo stesso tempo, sentivo la vergogna della mia infedeltà e l'umiliazione di essere stato smascherato. Come un automa andai in cucina senza accendere la luce, mi riempii un bicchiere e lo portai di sopra.
Feci una lunga doccia e tornai in camera da letto avvolto nell'accappatoio. Mi convinsi di stare meglio dopo la doccia. Ma fu la sensazione di un attimo. Mi guardai attorno. Beamish sul letto, la fotografia di nonna Lavinia sulla parete, gli abiti di Caitlin nell'armadio. Non riuscivo a capire che cosa fosse cambiato, ma mi rendevo conto che quegli oggetti familiari mi apparivano diversi. Era come se ogni cosa nella stanza si fosse allontanata da me di un passo e si fosse immersa in un'altra dimensione. Il primo millimetro di sprofondamento nel passato. Mi sedetti sul letto. Non volevo ammettere a me stesso che quelle cose si erano allontanate da me; Beamish, Lady Lavinia e persino Caitlin. Sentivo le loro voci svanire, cariche di tristezza e di biasimo. Fissai il pavimento per un istante, poi chiusi gli occhi e chiesi perdono a Caitlin, cercando di rievocare la sua immagine. Ma nessuno sforzo riusciva a riportare alla mia mente i tratti del suo volto. Riaprii gli occhi preso dal panico. Il cuscino di Caitlin era ancora sul pavimento, sbucava da sotto il letto dove l'avevo spinto nella speranza di evitare i ricordi troppo dolorosi. Ora volevo rimpossessarmi dei miei ricordi. Li volevo disperatamente. Afferrai il cuscino, lo sistemai al suo posto sul letto e vi affondai il viso, respirando profondamente, annusando le ultime tracce del suo profumo. Ma il suo viso rifiutava di presentarsi. Era crudele, proprio adesso che avevo così bisogno di lei. Infilai le braccia sotto il cuscino e lo strinsi, per cercare dentro di me immagini e suoni del mio passato. Era quasi l'alba quando mi svegliai. Avevo freddo, raggomitolato sopra le coperte. Mi alzai irrigidito e andai ad aprire la finestra. L'aria investì il mio corpo nudo come acqua ghiacciata. Era sabato, ma aldilà della cortina di case sulla strada principale già si vedevano le luci del traffico del primo mattino. Faceva un freddo polare e il mio respiro si condensava subito in vapore. I marciapiedi erano coperti da un velo di ghiaccio scintillante. Mi vestii e scesi al pianterreno. Mentre entravo in cucina squillò il telefono. Non saprei dire perché, ma il suo suono stridulo nel grigiore dell'alba non mi fece sussultare, né mi spaventò come accadeva ormai da settimane. «Hai dormito?» chiese Angie. «Credo di sì.» «Bene, è una buona cosa.» Il suono della sua voce era teso, doloroso. «Io no. Oh, Dio. Non mi ero resa conto che fosse così presto.»
«Non importa.» Fece una pausa. «Michael, pensavo che... pensavo che potremmo consolarci reciprocamente. Per qualche tempo.» «Ci siamo già consolati.» «Non volevo peggiorare le cose.» Guardavo il giardino, triste nella luce fredda dell'alba, e mi parve di rivedere Digby Barrett che indugiava vicino al cancello, guardandomi col suo sorriso beffardo. «Non c'è spazio per te e per me in questa storia, Angie. Per un attimo ce lo siamo dimenticati.» «Mi spiace» disse. «Mi spiace molto.» «A me no» dissi. Non aspettai la sua risposta. Le sue parole non avevano più importanza per me. Riagganciai con calma il ricevitore. Uscii. Non volevo rischiare di essere in casa nel caso richiamasse, anche se pensavo che non lo avrebbe fatto. Così passeggiai per un paio d'ore per le strade del West End, evitando le vie di grande traffico e osservando il risveglio della città. Si accendevano le luci negli appartamenti e nelle case e ogni tanto ero investito dal profumo di caffè e di brioche. Mi fermai a un furgone che vendeva hotdog, bevvi un tè molto forte e mangiai un panino al prosciutto. Erano anni che non mangiavo un panino al prosciutto. Il cibo, il tè e l'energia del nuovo giorno che iniziava mi ridiedero forza. Tornai a casa poco dopo le nove. Le stanze erano inondate da una luce fredda. Un pallido sole attraversava le finestre della sala da pranzo. Mi sdraiai sul divano sotto la finestra e mi lasciai andare a osservare la strada, chiedendomi quello che realmente era accaduto quel giorno, in quella casa. Se fossi tornato pochi minuti prima forse l'avrei visto con i miei occhi, ma quei pochi minuti di ritardo significavano oscurità e confusione. Cercai di figurarmi la scena. Caitlin era in cima alle scale che portavano alla voliera, con le valigie pronte ai suoi piedi. Forse piangeva, forse gridava. Carrick, alto e tenebroso nel suo abbigliamento da motociclista, stava qualche gradino sotto di lei, protestava o semplicemente la supplicava di star calma. Mi chiedevo che cosa avesse innescato il litigio. Forse l'accordo era che Barney non dovesse presentarsi a casa, ma lui non poteva credere alla propria fortuna, non poteva credere di aver vinto, che lei mi stesse veramente
lasciando per lui. Era stata la sfiducia in se stesso che aveva scatenato la violenza, mentre tutti e due erano tesi all'inverosimile? Forse in lui era scattato qualcosa. Sono cose che capitano. Lei era caduta inciampando nelle valigie, e d'istinto si era afferrata a quel ridicolo busto che le era caduto addosso. Lui aveva cercato di sostenerla? O forse nel panico non aveva reagito con prontezza? Poteva essere andata così. Barrett mi aveva detto che a suo avviso si era trattato di un incidente. Anche a me l'idea dell'incidente sembrava plausibile. Mi alzai e mi stiracchiai. Ma forse, dopo tutto, il punto non era sapere che cosa fosse accaduto tra di loro, perché ciò che mi sembrava inaccettabile, me ne resi conto solo allora, era che di tutta la nostra vita in comune lei volesse portar via solo una manciata di vestiti, qualche paio di scarpe e le sue cose da toeletta; solo ciò che poteva essere ficcato in una sacca e in una valigia da quattro soldi. La Golf di Stella si fermò con un sobbalzo davanti alla finestra e i miei pensieri si dispersero. Mi alzai e andai ad aprire la porta. La osservai parcheggiare nel solito modo approssimativo. Scese e chiuse la macchina che invadeva parte della carreggiata. In un primo momento non mi vide. Sotto il cappotto indossava una giacca elegante, troppo formale per una visita volante. La presenza della giacca elegante risvegliò nella mia mente un ricordo confuso. «Salve, Stella» dissi con cautela. «Michael.» Si fermò sconcertata sul primo gradino. «Allora, come va?» «Non male, Stella.» Mi guardò con occhio critico. «Devo dire che non stai per niente male.» «Mi fa piacere vederti» dissi. La sua bocca prese una piega dura. Mise le mani sui fianchi. «Michael, disgraziato, ti sei dimenticato, vero?» «Dimenticato?» «Anthony? Il mercato? Il pranzo a casa sua?» «Santo cielo! Mi dispiace.» Mi venne incontro su per i gradini con fare minaccioso. «Spero che tu non abbia fatto altri programmi. Perché hai esattamente cinque minuti per prepararti.» Quando arrivammo al mercato erano le dieci passate. Era la prima domenica di dicembre e in Portobello Road si respirava già un'atmosfera na-
talizia. L'ininterrotta fila di bancarelle cariche di vetri, porcellane, abiti, soprammobili e paccottiglia, attirava una folla di compratori alla ricerca dell'affare. Anthony ci aspettava in un caffè di Bayswater Road. «Michael. Sono così felice che tu sia venuto, vecchio mio.» Si alzò e mi afferrò la mano. «Salve, Anthony.» Mi meravigliai del piacere che provai nel rivedere il suo viso lugubre e la sua figura sussiegosa da pinguino con le scarpe marroni lustre. Un fazzoletto di seta giallo a pois neri, uguale alla cravatta a farfalla, spuntava spumeggiante dal taschino della giacca di tweed con toppe di pelle ai gomiti, una piccola concessione informale da fine settimana. Notai che c'era qualcosa di immutabile in Anthony, qualcosa che per me era sempre stato molto importante, ma che adesso era diventato essenziale. E quel qualcosa era la sua costante presenza nella mia vita, la sua totale disponibilità a sostenermi, a combattere le mie battaglie. Per un attimo fui tentato di buttargli le braccia al collo, ma mi trattenni, sapendo che una simile esibizione di sentimenti l'avrebbe imbarazzato terribilmente. Forse indovinò i miei pensieri, perché improvvisamente esclamò: «Azione! Un giorno come questo richiede un'azione ardita». Si impegnò nella ricerca del cappotto e dei guanti. «Pronti?» disse. «Via!» Girovagammo per un'ora in Portobello Road. Come sempre a ogni bancarella c'era chi salutava Anthony; i venditori, i cacciatori di rarità, gente che nel corso degli anni lo aveva conosciuto ai mercati dell'antiquariato e alle aste. «È peltro, signor Gilchrist. Non se ne vede molto in giro, eh?» «Ci vediamo a Bignor Manor lunedì prossimo, signor Gilchrist? Ho saputo che arrivano delle belle porcellane.» «Copia firmata, signor Gilchrist. Assolutamente autentica.» Anthony si fermava, prendeva in mano un oggetto, un libro o una miniatura, scambiava qualche parola con il venditore e poi rimetteva il pezzo al suo posto. Era un rituale che si ripeteva sempre uguale. Tutti sapevano che non acquistava direttamente dalle bancarelle. Vedevo che Stella si annoiava a morte. Forse era ancora arrabbiata con me, ma la cosa non mi preoccupava. Mi sentivo distante, con la testa leggera. Mi godevo il senso di familiarità che il mercato mi comunicava e il calore della gioia di Anthony. Un paio d'ore al mercato e poi uno dei leggendari pranzi invernali di Anthony. Era il massimo che potevo dare.
«Salve, signor Gilchrist!» gridò Harry Judah. Si faceva largo tra la folla mezzo nascosto dietro uno scatolone pieno di tintinnanti meccanismi di orologi. «Non mi aspettavo una sua visita oggi.» Fui sorpreso nel vedere un'ombra cupa passare sul viso di Anthony. La sua contrarietà era così palese che mi misi in allarme e il mio buon umore evaporò all'istante. «Ma c'è anche il signor Michael» continuò Harry, senza rendersi conto di nulla. «È molto tempo che non si fa vedere al mercato.» «Salve, Harry» dissi. «Sono contento di vederti.» Harry posò per terra il suo scatolone e mi strinse la mano con un gran sorriso. Aveva passato i cinquant'anni e aveva l'aria di uno gnomo incartapecorito. Lo osservai mentre mi stringeva la mano, ma dalla sua espressione non avrei saputo dire se sapesse di Caitlin. Non sembrava. Harry si rivolse ad Anthony. «Non si è fatto molto vedere alla fiera di Amsterdam, signor Gilchrist.» Nei suoi occhi c'era uno strano brillio. Le sue parole contenevano un'allusione che non coglievo, però capivo che non si rendeva conto che non era il momento di scherzare. «Ha ricevuto un'offerta migliore, vero?» «Ma sì che ci siamo visti» disse Anthony ostinatamente. «Almeno una dozzina di volte. Non dire scemenze.» «L'ho cercata più di una volta, signor Gilchrist» insistette Harry e mi fece l'occhiolino con aria sorniona, soddisfatto della presa in giro. «Penso che lei abbia trovato qualche bel pezzo da un'altra parte, ecco che cosa penso.» «Pensa quello che vuoi, accidenti a te!» gli rispose Anthony, con una violenza che prese Harry in contropiede, poi aggiunse in tono quasi imbarazzato: «Perbacco, ci saranno state più di mille persone». «Ha ragione, signor Gilchrist» disse Harry alzando il mento. «Mi sono sbagliato.» Raccolse da terra lo scatolone e da dietro mi fece una boccaccia, una smorfia da clown che voleva far ridere, ma che invece tradiva un'offesa. «Ci vediamo, signor Gilchrist.» Fece un cenno a Stella. «Signora.» E si allontanò con la sua scatola tintinnante. «Che cos'era tutta quella storia?» «Odioso omuncolo» borbottò Anthony. «E pensa di essere divertente.» La sua ostilità mi infastidì. Dopo un attimo di difficoltà batté le mani guantate. «Lasciamo perdere!» disse. «Venite, venite.» Ma c'era qualcosa di fasullo nella sua allegria. Anthony si allontanò in fretta e noi lo seguimmo. Ma l'episodio conti-
nuava a turbarmi. Rimasi intenzionalmente indietro, continuando a rifletterci. Mentre attraversavamo la High Street, scorsi Harry Judah a qualche decina di metri da me, che caricava lo scatolone del suo tesoro su un furgone. «Ci vediamo alla macchina» dissi agli altri due. «Voglio comperare il giornale.» Sgusciai in mezzo alla folla. Quando lo raggiunsi, Harry aveva già caricato la sua merce e aveva chiuso le portiere del furgone. «Signor Michael, che piacevole sorpresa! Vederla due volte nella stessa mattina.» Sentivo dal tono della sua voce che era ancora a disagio. «Di che storia parlavate, tu e Anthony?» «Che cosa vuol dire?» «Non vi ho mai visto litigare, prima.» La mia franchezza lo spiazzò. «Oh, ho sbagliato a prenderlo in giro davanti a lei e alla signora.» Alzai le sopracciglia come per invitarlo a spiegarsi. «Non si preoccupi, signor Michael. Gli passerà. Alla vecchia checca. Tempo un mese.» «Scusa?» «La verità è che era in giro con una di quelle bellezze mozzafiato che si incontrano ad Amsterdam. Lo sappiamo tutti, naturalmente, ma tutti facciamo finta di non saperlo. Stupido, no? Al giorno d'oggi. Ma suppongo di aver infranto le regole, prendendolo in giro davanti a lei.» «Anthony? Parliamo di Anthony Gilchrist?» «Non si preoccupi, vedrà che faremo la pace. Vecchio imbecille.» Scosse la testa, stupito dall'assurdità dei comportamenti umani. Si voltò per andarsene. «Harry, aspetta. Stai dicendo che era in giro con qualche puttanella?» «No di certo, signor Michael» rise Harry. «Non con una ragazza.» Quando vide la mia faccia, si fermò e spinse indietro il cappello. «Immaginavo lo sapesse.» «No, Harry.» «Avanti!» «Non ne avevo la più pallida idea.» «Oddio!» Harry era terrorizzato per quella rivelazione. Prese a parlare in fretta, come per cancellare l'indiscrezione che si era lasciato sfuggire. «È l'uomo più dolce che esista, signor Michael, lei lo sa bene. Ma il signor Gilchrist ha i suoi piccoli diversivi, tutto qui. Raramente, solo quando è al-
l'estero. Quando non offende nessuno. Non c'è niente di male, vero, signor Michael?» «Non c'è niente di male, Harry. Solo che non lo sapevo.» Lo guardai sconcertato. «Penserai che sono un perfetto idiota.» «Neanche per sogno, signor Michael, neanche per sogno.» Compresi che pensava esattamente il contrario. «E, in ogni caso, che importanza ha? Solo, per favore, non dica che ho aperto la mia stramaledetta boccaccia, eh? Vorrei staccarmi la lingua con un morso.» «Non preoccuparti di questo, Harry. Non preoccuparti.» Mi allontanai lasciandolo accanto al suo vecchio furgone sgangherato, con le chiavi in mano e lo sguardo da cane bastonato. Tornai alla macchina facendo un lungo giro. Pensavo che la passeggiata mi avrebbe dato modo di metabolizzare quello che aveva appena scoperto, ma nonostante mi arrovellassi il cervello non riuscivo a farmene una ragione. Avevo sempre pensato ad Anthony come a uno scapolo vecchia maniera, eccentrico, solitario, ma in pace con se stesso. Non avevo mai preso in considerazione l'aspetto sessuale della sua vita. Trovavo grottesco pensare ad Anthony in una stanza d'albergo ad Amsterdam con un ragazzo raccolto per strada. Ma soprattutto mi dispiaceva per lui, che avesse dovuto tener nascosto per tutti quegli anni una parte così importante di se stesso. E mi sentivo un terribile egoista per non averlo capito molti, molti anni prima. «Ma per l'amor del cielo, Michael, ti vuoi dare una mossa?» urlò Stella dall'altro lato della strada. «Mi si stanno gelando le tette, qui in piedi, con questo freddo cane. E dov'è il giornale?» Quando arrivammo a casa di Anthony era primo pomeriggio. I raggi radenti di un sole senza calore entravano attraverso la finestra, dissipando l'oscurità dell'interno e creando fasci di luce in cui danzava il pulviscolo. Anthony prese i nostri cappotti, cercando di metterci a nostro agio. «Innanzi tutto,» annunciò alzando l'indice «la cucina richiede un'azione ardita, subito.» I suoi elettrodomestici - il tostapane, il bollitore e il frullatore - risalivano agli anni Cinquanta, oggetti cromati e smaltati con spigoli arrotondati come i paraurti di una Cadillac. Sapevo che erano di moda imitazioni di questi oggetti antiquati, ma Anthony possedeva gli originali, che aveva scovato nel corso degli anni sui mercati di modernariato o alle aste. La cucina già profumava di arrosto e di erbe aromatiche. Attraverso la porta fi-
nestra vedevo l'interno della serra. Anthony aveva liberato la stanza dagli orologi e dai carillon che stava restaurando per imbandire la tavola. Un lavoro che aveva richiesto ore. «Non ci stiamo tutti e tre qui» disse. «Michael, perché non accendi il camino nello studio? Tra un attimo ti raggiungo.» Guardai Stella che mi restituì uno sguardo afflitto. Sapevamo tutte e due che Anthony le avrebbe assegnato qualche compito domestico per il quale era del tutto inadatta. Mi avviai verso lo studio. Nel camino tutto era già pronto. Aggiunsi dei legnetti e avvicinai un fiammifero. I ceppi erano molto secchi e si accesero subito tra schiocchi e sibili, mandando su per la canna fumaria sciami di faville. Mi sedetti in una delle grandi poltrone di cuoio in attesa di Anthony, fissando il fuoco che mi scaldava il viso e le mani. Tutto era dolorosamente familiare. Eppure anche qui la prospettiva aveva subito uno scarto, proprio come era accaduto a casa. Anche qui qualcosa sembrava allontanarsi da me. La conversazione con Harry Judah dava alla stanza una nuova dimensione. Il fatto che non fossi a conoscenza del segreto di Anthony mi metteva in allarme. Mi chiedevo quali altri messaggi non avessi colto. Mi guardai attorno interrogando gli orologi antichi che segnavano l'ora in modo approssimativo e suonavano nei momenti più impensabili, le sciabole incrociate sopra il camino e il caimano impagliato sopra la mensola. Non c'era gusto o stile nella disposizione degli oggetti. Era una sorta di bottega delle curiosità, come se il contenuto della mente di Anthony si fosse magicamente materializzato, così che la stanza era invasa da cose di un'altra epoca, cose strane, curiose, che trasudavano continuità, uno sguardo ingenuo sul mondo e - sotto l'apparente disordine - valori solidi e immutabili. Fra questi valori c'era il dovere di tenere per sé le proprie debolezze, nonostante il dolore e la solitudine che una tale segretezza aveva comportato. «Bizet, che ne dici?» chiese Anthony entrando nella stanza tutto allegro. «Anthony...» «Oggi è una giornata da Bizet.» Si avvicinò al suo costoso stereo, tolse il panno che lo proteggeva, armeggiò con i tasti e dopo qualche attimo la stanza fu inondata da una musica appassionata e sensuale. Rimase a occhi chiusi accanto allo stereo, dirigendo mentalmente l'orchestra. Poi venne a sedersi di fronte a me dall'altro lato del camino. «Abbiamo giusto il tempo per un ricostituente prima di pranzo.»
Senza aspettare la mia risposta si alzò, aprì l'armadietto antico dove teneva i liquori. Si versò del brandy e per me dello scotch. Qualcosa mi diceva che nonostante l'apparente disinvoltura era nervoso. Mi chiedevo se il suo umore non fosse il riflesso della mia confusione. Mi chiedevo se avesse indovinato che ero tornato a parlare con Harry Judah. «Alla tua salute, vecchio mio» disse Anthony, ostentando sicurezza. Accostò il suo bicchiere al mio e bevve. Posò il brandy sul tavolino rotondo accanto alla sua poltrona. In quel momento mi sentivo pieno di affetto per lui, pieno di rimorso. Avrei voluto che sapesse che capivo, che non aveva più bisogno di nascondersi, che non aveva più bisogno di preoccuparsi della mia reazione o di quella degli altri. Pensavo che avrei potuto dirglielo, fargli il dono della mia comprensione per ricompensarlo in qualche modo di tutti i sacrifici che aveva fatto per me in quegli anni. Ma fu proprio nel momento in cui il bicchiere di Anthony toccò il mogano del tavolino che qualcosa si guastò. «Ora,» disse, sfregandosi le mani «ti ho preparato alcune cose di cui avrai bisogno.» «Bisogno? Per che cosa?» «Le ho messe da qualche parte...» Si alzò e si guardò attorno. Finalmente trovò uno scatolone vicino alla finestra e lo trascinò verso di me, lasciandolo sul pavimento tra le nostre due poltrone. Conteneva carte geografiche e libri, alcuni nuovi, altri chiaramente acquistati sulle bancarelle. In cima a tutto c'era un vecchio cappello coloniale. «Questo è un pezzo da museo!» disse Anthony ridendo e mettendosi in testa il cappello. Sembrava un generale vittoriano uscito da qualche opera buffa. «Non è splendido? Però non riesco a immaginarti in sala operatoria con questo.» «Anthony, non capisco di che cosa tu stia parlando.» Mi guardò con gli occhi sbarrati. «Mio caro ragazzo, parlo del Venezuela. Del tuo viaggio.» Visto che non rispondevo continuò a frugare tra i libri dello scatolone ai suoi piedi. «Guarda questo. Un Baedeker dell'America Latina del 1910. Penso che il paese sia cambiato molto da allora, ma almeno ti farà passare il tempo durante il volo. Gli altri libri forse potranno esserti più utili. È quanto di meglio sia riuscito a trovare.» «Anthony.» «Per quanto riguarda la casa,» continuò «ovviamente per te sarà una decisione difficile da prendere. Vuoi la mia opinione personale? Mettila in
vendita, vecchio mio. Questo è il mio consiglio. Mi rendo conto che per te sarà dura, ma se mi lasci una delega sarò io a occuparmi di tutto. Possiamo dar via le cose della povera Caitlin, possiamo darle a qualche istituto di beneficenza, forse, oppure possiamo metterle in un magazzino, finché te la sentirai di occupartene. Sappi che tutti faremo del nostro meglio per renderti la cosa il più semplice possibile.» «Non vado in Venezuela, Anthony.» Mi meravigliai di sentirmi pronunciare quella frase. Fino a quel momento non avevo preso alcuna decisione definitiva. Ma dopo aver detto quelle parole sentivo che il mondo intorno a me si era spostato, come un grande masso che scivola e trova una posizione più stabile. Anthony e io sedevamo in silenzio davanti al fuoco scoppiettante. «Sciocchezze.» «Mi spiace, Anthony, ma non sono pronto.» «Ma Stella? Il suo progetto? Il tuo progetto?» «Glielo dirò.» «Capisco» si schiarì la gola. «Capisco.» «Non avevo intenzione di tirare in ballo questo argomento adesso, Anthony.» «Uno deve andare avanti, Michael. In ogni caso.» Parlava con calma. «Altrimenti è come se gliela dessi vinta, capisci? Mi riferisco alle canaglie che ci hanno procurato tanto dolore. E per nessuna ragione al mondo devono vincere.» «Non sarà andando in Venezuela che otterrò una rivincita, se di rivincita si può parlare. Innanzitutto devo far ordine nella mia testa. Devo sistemare le cose qui a casa.» Mi fissò senza battere ciglio. «Sciocchezze» disse di nuovo, sempre con molta calma. «Sei un medico. Un medico a livello internazionale. Hai una missione nella vita. Non devi dimenticarlo mai.» «Anthony, capisco che mi vuoi aiutare. Ma non voglio che siano gli altri a prendere le decisioni al posto mio. Veramente non lo voglio. Mi spiace di averci messo tanto a capirlo.» «Questo ha a che fare con quella Carrick,» disse «vero?» «Non tocchiamo questo argomento, Anthony.» «Quasi non ci potevo credere quando Stella mi ha detto che frequentavi quella donna.» «Non sono affari di Stella.» «Non ci sono mai stati segreti tra di noi, Michael. Anche se naturalmente
capisco perché tu voglia tenere per te questa faccenda.» Il suo tono mi infastidiva, ma cercai di controllarmi. «Non è una questione di segretezza, Anthony. Si tratta della mia vita, non della vita di qualcun altro. E, in ogni caso, Angie Carrick non ha fatto niente di male. Sono stanco di doverlo ripetere a tutti.» «Niente di male?» Mi colpì la sgradevolezza del suo tono. «Hai dimenticato quello che suo fratello ha fatto a te? A tutti noi? E lei che lo difende! Mi fanno ribrezzo!» Si portò una mano alla bocca, fissandomi, impressionato dalle sue stesse parole. «Scusa, scusa.» La sua voce era soffocata dalla mano. Fece scivolare la mano dalla bocca. «È stato imperdonabile da parte mia» mormorò. «Imperdonabile.» Mi addolorava vedere come la tensione gli avesse deformato i tratti del viso. Mi addolorava dover constatare che la volgare barbarie di quanto era accaduto avesse colpito Anthony fino a quel punto, gettando nel caos più completo il suo mondo raffinato. Il mio non era mai stato un mondo raffinato. Almeno questa illusione mi era stata risparmiata. «Non è imperdonabile, Anthony. Ma sarò io a prendere le decisioni che riguardano questa scelta e tutte le altre. E non sono ancora pronto a partire. Ci sono troppi quesiti che attendono una risposta.» Anthony si alzò e fece qualche passo nervoso volgendomi le spalle. Tolse il fazzoletto dal taschino della giacca e se lo passò sul viso. «Michael, Michael. Forse mi sono lasciato prendere la mano. Forse ho valicato un limite non consentito.» Pensai che la sua furia si fosse esaurita, ma di scatto si voltò verso di me e l'espressione funerea del suo viso a poco a poco si indurì. «Ho l'impressione che tu non ti renda conto di quanto sia importante che porti avanti la tua missione nella vita. Quanto è successo al St Ruth è stato solo un increscioso incidente». «Anthony,» dissi in tono deciso «sarò io a decidere della mia vita. Possiamo cambiare discorso?» Mi fissò come se non credesse alle proprie orecchie. «Non è una questione di scelta. Tu hai ricevuto un dono da Dio. È tuo dovere usare quel dono. Pensi che tuo padre avrebbe esitato?» «Per favore, lascia perdere mio padre.» «Non avrebbe mai ignorato una simile chiamata, anche se fosse stato colpito da una tragedia.» La sua voce si alzò. «E sai benissimo che neppure tu puoi voltare le spalle alla tua missione. Dopo tutto quello che è stato fatto per te. I sacrifici che sono stati fatti per te. Non è neppure pensabile
che tu fugga dalla battaglia che ti aspetta.» Gridava. Me ne resi conto con un profondo senso di incredulità. Non ricordavo che avesse mai alzato la voce e sentirlo alzare la voce mi disorientava e mi addolorava. Mi alzai deciso a tenergli testa. «Anthony, non posso più vivere con questi divieti che mi circondano come campi minati. Devo risolvere alcune cose qui, tutto il resto per me non ha senso.» Allungai una mano per prendergli il braccio, ma lui si divincolò con violenza. «Non avrei mai creduto,» disse con voce atona «che sarebbe venuto il giorno in cui il figlio di Duncan avrebbe voltato le spalle alla grande sfida della sua vita.» Feci un passo indietro. Mi sentivo come se mi avesse schiaffeggiato. Per un attimo pensai che non avrei sopportato il suo disprezzo. Era la prima volta che mi insultava e il colpo che ricevetti, in quel preciso istante, ebbe l'effetto improvviso di dissipare la nebbia in cui era avvolta la mia mente, e di cui fino a quel momento non mi ero mai reso conto. Mi sentivo vacillare. Mi appoggiai alla mensola del camino. La fotografia era a pochi centimetri dal mio viso, la fotografia preferita di Anthony: mio padre, bello con il suo sorriso provocatorio, la sua camicia azzurra di jeans, appoggiato alla Land Rover che proiettava un'ombra scura sullo sfondo di un palmizio. Anthony osservò i miei occhi. «Michael» disse con un tono mesto, simile al richiamo di un uccello notturno. Alzai la fotografia e la tenni in modo che Anthony e mio padre apparissero fianco a fianco. Vidi il volto di Anthony, ferito e abbattuto, e allora compresi. «Eravate amanti. Vero?» Chiuse gli occhi. «Ah, Michael, Michael.» «Non hai bisogno di fingere, Anthony. Non più.» Barcollò e per un attimo pensai di doverlo sostenere, perché non cadesse. Ma prima che mi muovessi disse in un bisbiglio: «Si è tanto sforzato di fare la cosa giusta. Per Patricia, per te e per gli altri bambini. Tutti e due ci siamo sforzati con ogni mezzo. Questo lo devi capire». Rimisi la fotografia sul caminetto. Cercai qualcosa da dire che avesse un senso, ma la mia testa era vuota. Continuai a fissare la foto in silenzio. «Per favore risparmiami le banalità sui diritti delle minoranze» disse Anthony, riprendendo il suo aplomb. «So benissimo che l'amore non è un reato. Non me ne vergogno. Anzi, ne sono orgoglioso. Ma il tradimento...
quello sì è un reato.» «Il tradimento?» Non riuscivo a controllare la mia voce. «Quale tradimento?» «Duncan aveva una moglie e tre bei bambini. È stato infedele a tutti quanti. Noi siamo stati infedeli. Ma lui ha fatto ogni sforzo per resistere. E io ho fatto del mio meglio per aiutarlo. Ma il nostro rapporto finì per diventare un problema ingestibile per lui. Un problema che toccava la sua famiglia.» «Tutti quei viaggi!» Non sapevo se quelle parole le avessi solo pensate o se le avessi pronunciate ad alta voce. «Tutte quelle missioni all'estero.» «Lo chiamavo il cane infedele. Il cane che scappava. Ma era l'unica cosa che potesse fare, mi segui?» Anthony mi fissò con occhi supplichevoli. «Credeva che se avesse continuato a girare per il mondo, in qualche modo sarebbe riuscito a sfuggire alla rete, allo spaventoso groviglio in cui era impigliato. E in un certo senso ci è riuscito. A rimanere libero.» «E me l'hai tenuto nascosto per tutti questi anni?» «Michael, vecchio mio, che altro potevo fare per lui, se non tenerlo nascosto? Faceva parte della promessa che gli facevo ogni volta che partiva, che ti avrei protetto, da tutto.» Anthony mi sorrise, ma nei suoi occhi c'era una tristezza abissale. «L'ho amato tanto.» Mi passai le mani tra i capelli. Nella mia totale confusione qualcosa di nebuloso stava affiorando. Forse Anthony lo lesse nel mio sguardo perché subito aggiunse: «Non devi giudicarlo troppo severamente. Devi cercare di capire.» Dal modo in cui le pronunciava ebbi l'impressione che quelle frasi le avesse ripetute a se stesso migliaia di volte nel corso degli anni. Diecimila volte. Lo immaginavo solo nella sua triste camera da letto, ogni sera, per decine di anni, seduto davanti allo specchio che gli rimandava invariabilmente solo la sua immagine indistinta. «È costata molto,» dissi «questa sua libertà.» «C'è sempre un prezzo da pagare, Michael. Io ero felice di pagarlo.» «Non lo pagavate solo voi» dissi indicando la foto di mio padre. «Sai perché pensavo andasse via così spesso, Anthony? Perché anno dopo anno mi rinchiudesse in quell'orribile collegio che detestavo?» Fu come se tutte le forze lo avessero abbandonato, lasciandolo incapace di muoversi. «Michael, non puoi aver dubitato neppure per un secondo che tuo padre ti amasse. Sarebbe insopportabile. Dopo tutta quella sofferenza. Insopportabile.»
Sentii i passi rapidi di Stella in corridoio. Aprì la porta con tale slancio che la fece rimbalzare contro il muro. «Okay,» disse con le mani sui fianchi «ho finito sia sopra sia sotto.» Quando vide le nostre facce lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Cosa c'è?» chiese. Anthony in panciotto e farfallino giallo a pois mi guardava con gli occhi lucidi. Io non riuscivo a togliere gli occhi dal suo viso, anche se mi dilaniava vedere tanta angoscia. «Anthony, ne riparleremo con calma.» D'impulso posai una mano sulla manica della sua giacca di tweed e gli strinsi il braccio. Non disse niente. Uscii dalla stanza passando davanti a Stella, presi il cappotto dall'attaccapanni e uscii nell'aria gelida del pomeriggio. Svoltai a sinistra e percorsi il breve vialetto che immetteva nella strada grigia. Non sapevo dove andare, ma non me ne importava niente. Sentii la porta che si apriva alle mie spalle e Stella che gridava: «Michael?». La ignorai e continuai a camminare, giù per la collina, lontano dalla casa, lontano da tutti e due. Svoltai a caso e proseguii senza rallentare il passo. «Aspetta!» gridò Stella. Ma io non mi fermai. Dopo qualche attimo mi raggiunse correndo. Mentre camminava mi subissava di domande e cercava di infilarsi una manica del cappotto. «Michael, per l'amor di Dio, vai piano, per favore. Che cosa è successo?» Non rallentai, sperando che mi lasciasse in pace. Svoltai una seconda volta. «È tutta quella roba sul Venezuela? Michael, sai com'è fatto. Sta solo cercando di rendersi utile.» Mi voltai. «Non vengo in Venezuela, Stella. Mi dispiace. L'ho capito solo oggi.» La vidi sussultare. «Va bene» disse riprendendosi. «È troppo presto, lo capisco. Non avrei dovuto metterti fretta.» «Sì, è troppo presto. Ma non è solo quello.» Alla fine era riuscita a vincere la sua battaglia con il cappotto e se l'era infilato. «Lo sai benissimo che se tu non vieni, non ci vado nemmeno io.» «Mi spiace, Stella, ma di questo io non sono responsabile. Ho sbagliato a lasciare che le cose andassero tanto avanti. Se l'avessi capito prima te l'avrei detto. Io non sono responsabile delle tue decisioni, né tu delle mie.» Mi guardai attorno cercando di capire dove mi trovavo. Non conoscevo
quella strada, anche se era solo a qualche centinaio di metri dalla casa di Anthony. Un viale di periferia con case in finto stile Tudor e giardini ben curati. Sull'altro lato della strada c'era una bottiglieria e a pochi passi da noi una fermata d'autobus con una pensilina a vetri e un lampione con la lampada rotta. «Aspettami qui che vado a prendere la macchina» disse Stella. «Andiamo da qualche parte a parlare.» «Non voglio parlare. Parlare non serve.» «Vado comunque a prendere la macchina. Non possiamo star qui tutto il giorno.» Ma non si mosse. Forse aspettava che le dessi il permesso, ma io non dissi niente. Rimanemmo in silenzio, vicini, ma senza toccarci. Un autobus rosso a due piani si fermò a qualche metro dalla pensilina e una donna grassa cercò di scendere con una mezza dozzina di sacchetti della spesa e una carrozzina con due gemelli urlanti. L'autobus aspettò con il motore che ronzava, mentre la donna imprecava ansimando e i bambini gridavano. «Michael. Dimmi solo che intenzione hai nei nostri confronti.» Una delle ruote della carrozzina si era impigliata nella porta dell'autobus e la donna, rossa come un gambero, tirava per disincagliarla, mentre i passeggeri cercavano di salire e il guidatore urlava consigli. Passai davanti a Stella e afferrai il passeggino alzandolo di peso e deponendolo sul marciapiede, con i due gemelli che mi guardavano stralunati. «Non mi respingere così» supplicò Stella. Non ebbi il coraggio di guardarla. Salii sulla piattaforma dell'autobus. «Michael?» Le porte si richiusero con un tonfo e l'autobus partì. 28 Per una settimana e forse più il mondo attorno a me divenne stranamente silenzioso. Ne ero felice. Lasciavo che i giorni trascorressero informi. Mi muovevo silenziosamente per la casa e uscivo il meno possibile. Dormivo nelle ore più impensate. Ogni mattina raccoglievo dallo zerbino dell'ingresso la posta e, senza aprirla, la impilavo ordinatamente su uno scaffale della libreria. Leggevo molto, ascoltavo la radio e la mia testa era vuota. Dalla finestra della stanza da letto vedevo Henry Kendrick che veniva a bussare alla mia porta. Non avendo risposta faceva il giro della casa e bussava alla por-
ta sul retro. Non volevo parlare con Henry. Aspettavo che se ne andasse. Ripeté la stessa scena per tre giorni di seguito, ma alla fine desistette. Ignoravo il trillo del telefono. Dopo alcuni giorni lasciai un messaggio sulla segreteria in cui dicevo di essere partito e che sarei stato via per qualche tempo. In un certo senso era vero. Questo periodo nel limbo mi riportò la pace. Grazie a quella pace, a mano a mano che i giorni passavano, mi resi conto di sentire dentro di me una voce discreta. Forse mi parlava da tanto tempo, ma la mia vita era stata troppo piena di rumore perché la potessi ascoltare. La voce mi diceva, con dolce insistenza, che trascuravo qualcosa. Se volevo andare avanti, dovevo compiere un pellegrinaggio che ormai non potevo più rimandare. Percorsi per un'ora i sobborghi meridionali di Londra. Quando parcheggiai lungo il marciapiede ormai scendeva la sera. In tutti quegli anni non ero mai ritornato in quella parte della città e all'inizio ebbi qualche difficoltà a riconoscere il luogo. Quando trovai la strada, mi resi conto che era più stretta di come la ricordavo. Mi ci volle qualche minuto per identificare la casa. Scesi dalla macchina e rimasi a osservarla dal marciapiede di fronte. Da quando i miei genitori erano vissuti in quel quartiere il valore degli immobili era considerevolmente cresciuto. Le case erano state acquistate da giovani coppie di professionisti. Ma per me restava la solita strada squallida e priva di carattere, in un quartiere dormitorio formato da file di case anonime, costruite tra le due guerre. Infilai la mano dentro la giacca e toccai la chiave appesa al collo. Nella casa le luci erano accese. La figura di una giovane donna si stagliava nel riquadro giallo della finestra della cucina. In cucina erano state appese le decorazioni di Natale che scintillavano alla luce. La cucina non era più nello stesso posto: la nostra dava sul retro e aveva quella porta di vetro rigato con la serratura d'acciaio che ricordavo sin troppo bene. Mi chiedevo se la giovane donna sapesse che cosa era accaduto all'altra famiglia ventisei anni prima, una famiglia non molto diversa dalla sua. Ma dubitavo che la notizia della tragedia fosse giunta sino a lei. Era storia ormai. Acqua passata. Qualcosa che era successo a gente di cui non sapeva niente, in un'epoca lontana, prima che lei nascesse. Perché la mia tragedia avrebbe dovuto gettare un'ombra sulla sua vita? Ormai era buio pesto. Lungo la strada si erano accesi i lampioni. Di tan-
to in tanto una macchina passava lentamente alla ricerca di un posto dove parcheggiare, oppure si fermava sul vialetto di cemento davanti a una casa. La gente rientrava a piedi dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell'autobus; uomini e donne che si affrettavano a rincasare, ingobbiti nei loro cappotti per ripararsi dal vento gelido che sferzava la strada. Anche quella notte faceva un gran freddo, nonostante le fiamme che si alzavano dalla casa devastata dall'incendio. Molto più freddo di adesso. Nell'oscurità si scorgevano nuvolette di fumo uscire dalla bocca dei poliziotti. Anthony mi aveva tenuto accanto a sé, facendomi da scudo, proteggendomi. Ma naturalmente non era servito a niente. Niente poteva proteggermi. In fondo nessuno di noi poteva essere protetto. Non dopo che erano divampate le fiamme. Non era colpa di nessuno. Quando arrivai a casa cadeva una pioggerella sottile. Salii i gradini e cercai le chiavi. In quell'attimo di esitazione sentii la finestra di Henry che si apriva e capii che mi aspettava. «Ehi, Michael,» mi gridò «sei tu, vero?» In quel momento l'ultima cosa al mondo che desideravo era parlare con Henry. «Michael?» gridò ancora in tono lamentoso. «Sì, Henry» dissi esausto. «Sono io.» «Non voglio darti fastidio,» disse «ma veramente mi farebbe piacere scambiare due parole.» Non aveva mai avuto un atteggiamento così umile. «Vuoi che faccia un salto da te?» chiesi. «Un secondo. Corro ad aprirti.» Quando raggiunsi la sua porta, Henry già faceva scorrere il catenaccio e spalancava l'uscio. «Mi fa veramente piacere, Michael. Detesto ficcare il naso. So che devi essere stufo marcio della gente che cerca..., sai... che cerca di essere utile. Per favore, vai di sopra.» Feci come mi aveva detto ed Henry arrancò su per le scale dietro di me, come un cagnolino. «Una faccenda orribile. Un'atrocità senza nome. Ancora non ci posso credere.» Henry possedeva tutta la casa, ma viveva al primo piano. Era un appassionato di astronomia e passava le serate a scandagliare il cielo con il suo telescopio, dalla finestra sul retro. Sosteneva che da quella finestra godeva di una vista perfetta sul paradiso, ma la mia teoria era che da là godesse di una vista perfetta sui bagni del vicinato. A un isolato di distanza c'era un
pensionato di infermiere e penso che quella presenza giustificasse in gran parte la passione astronomica di Henry. Personalmente lo consideravo un passatempo innocuo per un uomo che viveva solo. Non mi sentivo più di giudicare con la stessa rigidità di una volta. La stanza era ordinata, triste, stracolma di oggetti e sulle pareti c'erano stampe di aerei militari in volo in cieli azzurrissimi. Riconobbi un bombardiere Canberra al posto d'onore sopra la mensola del camino e mi ricordai che era su quell'aereo che, come addetto all'avvistamento, Henry aveva vissuto i suoi anni nella RAF. «Un bicchiere?» chiese, e visto che esitavo aggiunse in tono afflitto: «Per favore, prendi un bicchiere». «Certo, Henry. Grazie.» «Di solito a quest'ora prendo un G&T, ma se vuoi ho...» «Un G&T va benissimo.» «Splendido. Splendido.» Si precipitò in cucina a piccoli passi. Feci il giro della stanza guardandomi attorno. Un brutto salotto rivestito di stoffa scozzese. Trofei d'argento sulla mensola del camino per gare di bigliardo e freccette. Sulle pareti fotografie incorniciate di Henry da giovane, appoggiato al muso di un aereo mimetizzato, o in piedi accanto ad altri piloti della RAF in uniforme azzurra. Mi avvicinai alla finestra e per un attimo rimasi accanto al telescopio. «So che la polizia ha tenuto molto conto della tua deposizione, Henry» gli gridai perché sentisse, cercando di dire qualcosa che lo mettesse a proprio agio. Dalla cucina mi rispose: «Mi fa piacere. Farei qualsiasi cosa per dare una mano a catturare e mettere in galera quel vigliacco bastardo. Cose di questo genere ti fanno rimpiangere che sia stata abolita la pena di morte». Ritornò con due boccali di cristallo grossi come vasi da fiori. In ciascuno navigava un mezzo limone. Me ne passò uno. Anche senza sollevarlo alle labbra sentivo l'odore forte del gin. «Pare che tu sia la sola persona del vicinato che tenga gli occhi aperti» dissi sapendo di fargli piacere. «I miei occhi funzionano ancora perfettamente... occhi da falco pellegrino, Michael, alla mia età. In realtà anche se fossi stato mezzo cieco non avrei potuto non vederlo. Il porco schifoso.» Tacque di colpo. «In realtà,» riprese «il punto è...» Storse la bocca di lato e guardò il soffitto.
«Henry,» dissi «perché non mi dici chiaramente che cosa c'è che non va?» «Vedi... la verità è che... Michael...» Si mise dritto come sull'attenti. «Non riesco a dormire. Continuo a pensare che non ho fatto abbastanza. Sento che ho deluso le aspettative. Totalmente.» Con mia grande sorpresa gli si riempirono gli occhi di lacrime. «Henry, tutti ci sentiamo così. Tutti ci sentiamo impotenti. Io più di chiunque altro. Ma che cosa potevi fare più di quello che hai già fatto?» «Ho visto quel bastardo entrare in casa. Ho sentito che litigavano. Qualcosa che si rompeva. I muri sono spessi, ma...» Mi guardò con occhi supplichevoli. «Michael, ho l'impressione di aver sentito tutto. L'ho detto nella mia deposizione, naturalmente, ma non riesco a cancellarlo dalla mente. Non mi perdonerò mai.» «Non hai niente da rimproverarti, Henry. Che cosa avresti potuto fare?» «Vorrei che tu sapessi, Michael, che avrei potuto almeno cacciar dentro la testa, verificare che lei stesse bene dopo tutto quel pandemonio. Ma, vedi, quando ho visto la tua macchina in strada ho pensato che tu fossi in casa. Non volevo intromettermi in un litigio tra moglie e marito. Questo ho pensato.» «Henry, che cosa dici? Hai visto la mia macchina?» Appoggiò il bicchiere, si inumidì le labbra nervosamente e riprese il suo gin. «Ora so che non poteva essere la tua macchina. E, naturalmente, tu non eri in casa, ma allora...» Non finì la frase e mi rivolse uno sguardo da cocker. «Cerca di guardare la cosa dal mio punto di vista» continuò alla ricerca disperata di una assoluzione. «Per prima cosa vedo Caitlin che ritorna a casa. Un paio di minuti dopo lei fa entrare quel giovane. Lui fa tutta una scena con i fiori che ha raccolto dalla botte accanto alla porta d'ingresso. Fa il gigione e recita la parte del Romeo. È ovvio che si conoscessero, per non dire altro. Non mi piaceva pensare che quello che vedevo si svolgesse alle tue spalle.» «La mia macchina è rimasta in garage per tutto il tempo che sono stato all'estero.» «Adesso lo so. Ma allora ho visto una lunga fila di macchine parcheggiate lungo la staccionata. E una di quelle macchine era rosso scuro proprio come la tua. Da qui vedevo solo il tettuccio per cui non potevo identificarla con sicurezza. Inoltre, era parcheggiata sul retro proprio davanti al tuo cancello, per cui ho immaginato che tu fossi in casa. E non ci ho più
pensato.» Mi guardò con aria disperata. «Doveva essere la macchina di uno di passaggio, Michael. Altrimenti avrei verificato. Sarei entrato. Pensavo che tu fossi in casa, così non ho fatto niente. Non me lo perdonerò mai.» Mi rattristava pensare che fosse così ossessionato da quell'idea. Ma vedere quel doloroso senso di impotenza nei suoi occhi mi insegnò qualcosa. Qualcosa sulla fragilità della nostra vita, sull'inutilità del chiedersi come le cose sarebbero potute andare. «Ascolta, Henry.» Misi il bicchiere sul tavolo e appoggiai le mani sulle sue spalle. Non l'avevo mai fatto e vidi che quell'atto di intimità lo sconcertava, tuttavia lo costrinsi a guardarmi. «Se tu avessi chiamato la polizia l'attimo stesso in cui Carrick entrò in casa, non sarebbero arrivati in tempo per salvare Caitlin. Io non ho potuto salvarla. Nessuno poteva salvarla. Ti senti responsabile della sua morte solo perché qualcuno ha parcheggiato una macchina rossa in strada? Ma questa è pazzia!» Rimase un attimo in silenzio stringendo le labbra. Poi disse: «Che il Signore ti benedica, Michael» e si diresse verso la finestra. Sapevo di avergli tolto un peso dal cuore e ne ero felice. Ma sapevo anche che dentro di me un fardello ben più pesante e ben più antico si era sensibilmente spostato. Non avrei saputo dire di che cosa si trattasse. Aspettai un momento, incerto se continuare a parlare, ma Henry era ancora alla finestra. Mi volgeva le spalle e teneva le mani intrecciate dietro la schiena, facendo roteare vorticosamente i pollici. Lasciai la stanza senza dire altro. Uscii dalla casa di Henry e rientrai attraverso il giardino posteriore. Per alcuni secondi restai in cucina al buio. Alla fine accesi la luce. Nel momento in cui toccavo l'interruttore squillò il telefono, facendomi sussultare. Senza riflettere afferrai il ricevitore prima di ascoltare i messaggi sulla segreteria. «Perché mi fai una cosa simile?» La voce era soffocata dalla rabbia e dal dolore. «Angie?» Quasi non la riconoscevo. «Che c'è? È successo qualcosa?» «Abbiamo fatto un patto, Michael. Di lasciarci reciprocamente in pace. Su questo eravamo d'accordo.» La sua voce mi spaventò. «Angie, non capisco.» Sentii che prendeva fiato. «Ascoltami Michael. Hai mandato ancora quella stronza di scozzese a spiarmi.»
«Stella? Stai parlando di Stella?» «Pensavi che non me ne sarei accorta? Che non avrei visto lei e quella carcassa di macchina con cui va in giro?» «Angie, questa è pura pazzia.» «Un catorcio rossiccio» mi disse lettere e numeri con aria di sfida. «È la sua targa, sì o no?» Era la targa di Stella. Non riuscivo più a parlare. «Tre volte nell'ultima settimana, Michael!» Ora gridava, come se avesse perso completamente il controllo di sé. «Che idea del cazzo sarebbe? Usi lei per mandarmi un segnale che non hai le palle di darmi personalmente?» Mi appoggiai al piano della cucina, fissando il buio. Rimasi in silenzio così a lungo che Angie disse: «Michael?». «Me ne occupo io» le dissi. E riagganciai. 29 Presi un taxi e mi feci lasciare in Queensway. Attraversai la piazza e mi fermai sul marciapiede davanti al seminterrato dell'appartamento di Stella. Appoggiai le mani alla ringhiera di ferro. Una parte di me desiderava che non fosse in casa, che potessi in qualche modo evitare il confronto, ma attraverso il vetro smerigliato della porta d'ingresso vidi che la luce era accesa e che l'ombra di Stella passava e ripassava dietro le tende tirate delle finestre. Aspettai ancora qualche minuto. L'appartamento era in affitto. Stella sosteneva che la sua vita era troppo nomade perché potesse mettere radici in un luogo. Sta di fatto che viveva in quella casa da anni, almeno da quando l'avevo conosciuta. Ero stato da lei un numero infinito di volte per cene, feste, per discutere dei nostri viaggi. Qui mi avevano portato il giorno in cui Caitlin era morta. Dall'esterno nulla era cambiato: i gradini macchiati che scendevano al piccolo andito con il bidone della spazzatura, l'infelice geranio sulla mensola fuori della porta d'entrata. Feci un profondo respiro e abbandonai il ferro gelido della ringhiera. Stella aprì la porta prima che bussassi. Doveva aver sentito i miei passi sui gradini. Indossava un allegro grembiule colorato con il disegno infantile di un mare azzurro e un sole sorridente. Ma Stella non sorrideva. Teneva la testa alta e le mani sui fianchi. Avevo il sospetto che mi aspet-
tasse. «Salve, Michael» disse. «Allora alla fine se n'è accorta, vero?» «Santo cielo, Stella. Che cosa stai combinando?» «Puoi risparmiarti il fiato. Se ti aspetti delle scuse, non le avrai». «Non pensavo affatto alle scuse. Ma non mi spiacerebbe se mi spiegassi che cosa stai combinando.» Scosse la testa e mi lasciò sulla soglia, incamminandosi lungo il corridoio. Chiusi la porta e la seguii, cercando di superare pile ondeggianti di riviste mediche, un vecchio computer e scatoloni di libri. In soggiorno c'erano un paio di grosse borse di tela, uno zaino e sei casse. Aveva tolto i poster dalle pareti dove al loro posto erano rimasti dei riquadri sbiaditi e tracce del nastro adesivo. Eravamo in cucina uno di fronte all'altra. «Dobbiamo parlare.» «Sì, è molto tempo che cerco di farti parlare.» «Stella, questo non è il modo di...» «Vuoi un tè?» disse all'improvviso, interrompendomi. Prima che rispondessi continuò: «Ho della pasta avanzata da ieri sera. A te non spiace se è un po' bruciacchiata, vero?». Non capivo dove volesse arrivare. «Stella, persino tu sei capace di non bruciare la pasta.» «Non è proprio bruciata. Solo croccante. Ho aggiunto dell'altra carne. Aspetto che prenda lo stesso colore.» Erano le battute che ci scambiavamo da sempre, eppure era come se ora le leggessimo da un copione a noi estraneo. «Mi vuoi dire che cosa sta succedendo?» «Tra un minuto. Prima beviamo qualcosa, per favore. Ne abbiamo bisogno.» Mi passò davanti e prese da una delle casse una bottiglia e due grossi bicchieri. Tolse l'imballaggio e li riempì passandomene uno. «Salute» disse accostando il suo boccale al mio con tale violenza che pensai andassero in frantumi. «Stella, ascolta...» «Sì» annunciò. «Sì, è vero, sono andata a Brixton un paio di volte per dare un'occhiata alla tua amichetta. È questo che vuoi sapere?» Bevve inarcando le sopracciglia. Ero seduto sul bracciolo del divano. «Ma perché, Stella?»
«Soprattutto per soddisfare una curiosità. Per vedere che cosa avesse quest'ultima che io non avevo.» «Ho fatto un errore. Tutti e due abbiamo sbagliato, sia lei sia io.» «Che cosa cambia? Lei ti fa un fischio e tu corri. Volevo capire perché.» Fissai l'interno del mio bicchiere. «Mi dispiace che tutto questo ti abbia ferita, Stella. Non era quello che volevo.» «Oh, non ti preoccupare, Michael. Capisco perché quella donna ti abbia attirato. Ha qualcosa, di sicuro. Non è esattamente come Caitlin, ma è evidente che ha un fascino che io non ho. Dopo tutto quello che abbiamo passato assieme, arrivo a scoprire che un'amicizia di anni e la condivisione di una vita in fondo non contano granché.» «Non dire così. Stella. È ingiusto.» «No? Dovresti cercare di metterti nei miei panni.» Il suo viso non tradiva alcuna emozione, ma avvertivo chiaramente il dolore che aveva provato nell'essere stata rifiutata. Posò il bicchiere su una cassa e riprese in tono aggressivo: «Volevo vederla con i miei occhi, Michael. Nient'altro. E ora so di che si tratta. In ogni caso tra qualche giorno non ti starò più tra i piedi. Non starò più tra i piedi di nessuno». Mi guardai attorno nella stanza ingombra di bagagli. «Alla fine ti sei decisa ad accettare il lavoro in Venezuela?» «Già.» «Quando parti?» «Dopodomani.» «Non perdi tempo.» «Non più» disse. Con in mano il bicchiere indicò il mucchio delle casse. «Ho dato le dimissioni dal St Ruth. Ho disdetto l'affitto dell'appartamento. Ho persino venduto la macchina.» Mi diede quest'ultima informazione con un tono battagliero. Sapeva che dopo una notizia del genere la sua decisione di partire non poteva più essere revocata. Aveva quel rottame di Golf da sempre. Non riuscivo a immaginarmi Stella senza quella macchina, né qualcun altro seduto al volante al posto suo. «Non c'era bisogno che tu dessi le dimissioni. Curtiz ti avrebbe tenuto il posto per un anno.» «Non tornerò.» Prese il bicchiere e lo alzò verso di me. «Salud, dineros. E chissà? Forse anche amor.» Mi alzai e feci il giro della stanza prendendo in mano gli oggetti e rimet-
tendoli al loro posto, evitando di incontrare gli occhi di Stella. «Una volta hai detto che noi due siamo fatti della stessa pasta.» «Davvero? Un'osservazione intelligente.» «Avevi ragione.» L'allarme antincendio si mise a ululare. Vidi spirali di fumo che uscivano dalla cucina e in un attimo sentii lo sfrigolio della padella che bruciava. «Dopo tutto non avevi un grande appetito, vero?» dissi. Si alzò e corse in cucina. Trovai l'allarme sopra la porta e lo spensi. Aprii la porta finestra del soggiorno e la finestra della stanza da letto per lasciar uscire il fumo, raccolsi i bicchieri e li portai in cucina. In un primo momento in mezzo al fumo denso la vedevo a malapena, ma la sentivo tossire, mentre lavorava attorno ai fornelli. Il soggiorno era ancora pieno di fumo, ma Stella aveva aperto la porta sul retro e aveva gettato le padelle nel bidone della spazzatura. Il fumo si dileguava rapidamente nel freddo della sera e ben presto l'aria tornò respirabile. Posai i bicchieri sul tavolo della cucina e li riempii. «Tanto meglio. Un paio di padelle in meno da imballare.» Aveva gli occhi lucidi, forse per il fumo. Li strizzò e li strofinò. Quando si riprese sollevò il bicchiere e bevve un sorso facendo una smorfia di apprezzamento. «Dopo tutto non è tanto male. E del resto il vecchio Macaulay ha sempre detto che nel whisky si dovrebbe sentire l'odore del fumo.» Presi una sedia e mi sedetti. Notai che sul tavolo c'era una busta marrone. Stella mi guardò con occhi seri. «Siamo ancora amici, Michael?» «Certo che siamo amici.» «Allora ti parlerò francamente. Perché credo che non avremo un'altra occasione.» Si sedette con aria pensierosa, prese a far rotolare il bicchiere tra le mani e fece scivolare la busta verso di me. «Che cos'è?» «Chiamalo un tentativo in extremis. Non è molto dignitoso, ma dovevo provare.» Strappai la busta e ne uscì un biglietto. «È un biglietto per Caracas» mi spiegò. «Non devi usarlo adesso. Verrai quando vuoi. Almeno ti permetterà di andartene da qui.» «Stella...» «Accettalo. Fallo per me.» Si piegò sul tavolo e fece scivolare il biglietto
nella tasca interna della mia giacca. «Michael, so che tu non ci credi. Ma le cose qui non ti andranno bene. Lo sento.» Parlava con una tale convinzione che ebbi un brivido. Allungò le braccia sul tavolo e mi afferrò le mani. Le sue dita calde stringevano con forza. «Non prenderti in giro, Michael» disse. «Non puoi cambiare le carte in tavola. La gente come noi non è fatta per la vita normale. Centrini sul tavolo e roba del genere. Caitlin è stata pazza a sposarti. Io non ho mai cercato di cambiarti. Gente come noi non può star ferma. Vediamo il mondo così com'è - un'assoluta follia - ma noi siamo destinati a cercare di sistemarlo, a dispetto di tutto. Siamo veramente fatti della stessa pasta.» «Per il momento ho altre cose da sistemare» dissi. «Avrei dovuto sistemarle molto tempo fa.» «Come trovare Caitlin?» Non dissi niente. «Michael, se non sei stato capace di trovarla quand'era viva, come pensi di poterlo fare ora?» Cercai di divincolarmi dalla sua stretta, ma lei mi trattenne. «Perché hai scelto Catey? Pensi che lei avesse più bisogno di te di quanto non ne avessi io? Be', forse su questo avevi ragione. Non mi è mai piaciuta molto, sai, con il suo accento aristocratico e i suoi modi affettati. Non ti nascondo che quando ho saputo che era morta per un attimo, un solo attimo, ne sono stata contenta.» «Per favore, Stella.» «Oh, non è facile ammettere una cosa simile. Ma è ingiusto che la debolezza eserciti un fascino così potente. Ritengo che dovrei essere ricompensata per la mia forza. Ma non lo sono. Le donne forti di solito vengono penalizzate.» Sembrava che mi stesse leggendo nell'anima. «Oppure sei solo tu, Michael a comportarti in questo modo? So che non puoi cambiare la tua natura. Ti è sempre piaciuto fare il salvatore. Perché sei forte o perché ti fa sentire forte?» «Amavo Caitlin. La amavo moltissimo. E la amo ancora.» «I rapporti non sono mai alla pari, lo capisco molto bene. Ma l'ago della bilancia non deve pendere da una sola parte.» «Hai ragione su un sacco di cose, Stella. Ma qui ti sbagli. Caitlin aveva molto da dare. Molto più di quanto io stesso mi rendessi conto.» «Oh, aveva certamente una cosa dalla sua. Aveva un estremo bisogno che tu corressi in suo soccorso. Io ne ho avuto bisogno una sola volta, quella notte in Venezuela. E tu che cosa hai fatto? Hai voltato il tuo caval-
lo nella direzione opposta e sei sparito in una nuvola di polvere.» Sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. «Dunque io non sono la principessa rinchiusa nel castello, Michael. Ma ti dirò una cosa: neppure Angie Carrick lo è. Neppure lei ha bisogno di essere salvata. Sei tu che hai bisogno di essere salvato da lei. Scusami se la cosa mi dà una certa soddisfazione.» Ritirai le mani. «Non dire più niente.» «Ti ha preso in giro. Lo sa benissimo dove si trova suo fratello. Chiunque non fosse vulnerabile e ingenuo come te lo avrebbe capito sin dall'inizio.» «Lasciami vivere, Stella» incominciavo ad averne abbastanza. «Che cosa pensi che stia facendo? Che cerchi di distrarmi mentre tiene nascosto Barney Carrick nell'armadio? Scendi con i piedi per terra.» «Lei sa dove si nasconde, Michael.» «Non dire stronzate, Stella. Non ha idea di dove sia, come non ce l'ho io.» «Forse all'inizio non lo sapeva, ma adesso certamente lo sa.» Improvvisamente mi ricordai della voce alterata di Angie quando aveva chiamato l'ultima volta. «Che cosa vuoi dire?» «Esce da sola, Michael. Non prende la macchina. Prende la metropolitana per Londra e rimane fuori sei o sette ore di seguito. Perché? Non porta mai il vecchio con sé. Non ritorna mai con la spesa, né con altri acquisti. La settimana scorsa per due volte non è tornata a dormire.» «Forse vede qualcuno.» Scosse il capo. «L'ho seguita.» «L'hai seguita?» «Già. Ho pensato che avrei potuto spingere la stronza sotto un treno e risparmiare a qualcuno un sacco di guai.» Il suo tono era così inespressivo che era difficile credere che non stesse scherzando. «Per favore, Michael, non fare quella faccia indignata!» disse con aria beffarda. «Se non sai badare a te stesso, deve pur pensarci qualcun altro. L'ho seguita per tutta Londra. Non è stato facile. Ha cambiato treno tre o quattro volte, ha preso degli autobus. Sentiamo perché, secondo te, una donna dovrebbe comportarsi in quel modo se non ha assolutamente niente da nascondere?» «E quale sarebbe la tua teoria?» «Pensava naturalmente di essere seguita dalla polizia. Ecco perché non
usava la macchina. Sa che hanno piazzato delle microspie.» «Non è che siamo diventati paranoici?» Stella non si diede la pena di rispondere. Aspettò. Sapeva che alla fine le avrei fatto delle domande. «Allora, dove è andata?» «London Bridge. Ha fatto un gran giro per arrivarci ed è lì che l'ho persa di vista. Sul sovrappasso, verso le piattaforme dei treni diretti a est.» «Questo non prova niente, Stella.» «Oh, hai perfettamente ragione. È un'imperdonabile calunnia. Povera, piccola Angie.» Incrociò le braccia e mi guardò con gli occhi sbarrati. Mi alzai. «Fai bene a partire, Stella.» Mi infilai il cappotto. «Mi dispiace che siamo arrivati a questo punto, ma tu fai bene a partire.» Sulla porta mi voltai a guardarla per l'ultima volta. Seduta da sola in cucina con il suo grembiule colorato. Sul tavolo davanti a lei la bottiglia e due bicchieri. Sollevò il viso verso di me su cui aleggiava lo spettro di un sorriso. «Medico,» disse «cura te stesso.» Erano quasi le undici di sera quando Angie ritornò. Dalla viuzza a fianco della sala corse la vidi arrivare precipitosamente. Mi sorpassò e attraversò il parcheggio sul retro dell'emporio asiatico. Mi staccai dal muro, bagnato e irrigidito dal freddo. Ero in piedi da troppo tempo e in un primo momento le gambe non si volevano muovere. La raggiunsi nella tromba delle scale. Stava cercando le chiavi. «Ciao, Angie.» Al suono della mia voce fece uno scarto, come un gatto, volgendo il viso verso di me con gli occhi che mi fulminavano. «È tanto che sei fuori» dissi. «Non sono affari tuoi.» La sua voce era rauca, estranea. «Lo dici tu.» Improvvisamente mi apparve vulnerabile, come mi era apparsa la prima volta che l'avevo vista. «Angie, entriamo.» «Vattene! Michael, per favore, non ripetiamo la stessa scena.» «Non si tratta più di me e di te, Angie.» «Di chi allora?» «Sai dov'è, vero?» «No.» Aveva il respiro corto. «Va' via, Michael, per favore.»
«Ci andrai di mezzo, Angie. Questa cosa ormai non si può più fermare. Se cerchi di intrometterti ne rimarrai schiacciata. E io non voglio che accada.» Chiuse gli occhi, con aria sfinita. «A che serve?» mormorò. «Pensi che io e te potremmo fare qualcosa di diverso, anche se lo volessimo?» Si mise ad armeggiare con le chiavi e quando tornò a parlare il suo viso pallido era immerso nell'ombra. «Adesso devi andare, Michael.» «Penso che ci possa essere stato un incidente.» Mi resi conto che stavo ripetendo le parole di Barrett. Il tintinnio delle chiavi cessò istantaneamente. «Voglio dire... è successo qualcosa che lui non ha saputo controllare. Che nessuno avrebbe potuto controllare. Qualcosa che aveva radici lontane. Potrei arrivare ad accettare, persino a capire, una spiegazione del genere.» Si voltò lentamente verso di me. «Barney non l'ha uccisa, Michael» disse. «Questa è l'unica cosa che devi capire.» Nella sua voce e nei suoi occhi c'era la sicurezza adamantina di sempre. Non avrei saputo come scalfirla. «Non mi interessa più che lo trovino. Ci sono giorni in cui spero che non lo trovino affatto, per evitare di ripercorrere tutta la vicenda una seconda volta, in qualche tetra aula di tribunale. So che una sua condanna non cambierà nulla. Ma devo sapere che cosa è successo in quella casa. E Barney è l'unica persona a saperlo.» Non parlava e sapevo che non avrebbe detto più niente. Aspettai qualche attimo, ma poi me ne andai. «Michael...» disse con voce spezzata. Mi voltai di scatto e lei mi fissava con le labbra socchiuse. Il suo viso era rigato di lacrime. Non aggiunse altro. Si ritrasse e scomparve nell'ombra. 30 Il giorno dopo, alle sette scesi nel mio studio. Misi la foto di Caitlin al suo posto, sotto la lampada della scrivania, in modo che il suo sorriso illuminasse la stanza. Mi sedetti e attesi l'alba invernale. Non avevo nessuna fretta. Non avevo dubbi che quel giorno avrebbe visto la fine della mia ricerca. Tuttavia, non avevo fretta. Qualche minuto prima delle otto feci la doccia, indossai jeans e maglione e feci colazione con molta calma.
Sembrava un mattino quasi normale, un mattino dei vecchi tempi, con la voce del giornale radio e il profumo di caffè che riempivano la stanza. Passata l'ora di punta, chiusi la casa, uscii dal garage con la Audi e attraversai la città in direzione est. Impiegai più di un'ora ad attraversare la periferia sudorientale, congestionata dal traffico. Ma una volta fuori città, viaggiavo a velocità sostenuta e regolare, mentre Londra sprofondava sempre più lontana alle mie spalle. Lasciai l'autostrada al raccordo con la A20. Dopo qualche minuto svoltai in una strada secondaria che portava a Sevenoaks attraverso una fertile pianura che ricordavo dal mio precedente viaggio, disseminata di fattorie, villaggi e di belle case di campagna dei ricchi londinesi. Guidare mi rilassava. Mi abbandonai sul sedile e lasciai che la mente ripercorresse le ultime ventiquattro ore. Avevo un'idea molto precisa di come Angie fosse apparsa a Stella: le doveva essere sembrata simile a un'eroina della Resistenza francese, mentre con la sua giacca di pelle attraversava veloce il sovrappasso verso London Bridge Est, attenta a che nessuno la seguisse. Da London Bridge Est partivano i treni diretti verso il Kent settentrionale. Non era stato difficile scoprirlo. Servivano non solo le regioni industriali lungo il Tamigi, ma anche le città e i villaggi della regione. La strada era fiancheggiata da macchie di querce e di betulle scheletriche, con i rami alti che si perdevano nella nebbia. I campi erano deserti, ma qua e là il terreno arato mostrava solchi punteggiati di bianco: erano i gabbiani dell'estuario, in perpetua ricerca di cibo. Il paesaggio doveva essere suggestivo in primavera e in estate. Un Kent campestre, sonnolento, da cartolina. Forse avevano lasciato Londra sulla motocicletta di Barney. Mi figuravo la grossa moto che correva per quelle strade di campagna in un giorno di primavera, con il tubo di scappamento che faceva ondeggiare i fiori del cerfoglio selvatico. Vedevo Caitlin piegarsi nelle curve, mentre si stringeva a lui. Mi chiedevo dove fossi quando quella sua avventura era iniziata, non solo in che paese lavorassi, ma in quale universo vivessi. Come mi era accaduto la prima volta, per poco non mi sfuggì il cartello stradale di Brightwell, sepolto nella siepe. Svoltai all'improvviso con i rami nudi del biancospino che sfregavano contro la carrozzeria della macchina. In un attimo arrivai al villaggio. Feci il giro del parco per raggiungere il posteggio a pagamento. Mentre ritiravo il biglietto guardai nel giardino della parrocchia e vidi la serra dove avevo chiacchierato con Derek
Lonsdale. Se avessi visto qualche segno di vita avrei bussato alla finestra, anche se non era Lonsdale la persona che cercavo. Ma la casa era deserta. Tornai nel villaggio attraversando il parco. Mi misi di vedetta su una panchina. La ghisa era così gelida che sentii il freddo passare attraverso gli abiti. Aspettai un'ora. Finalmente lo vidi sbucare da una stradina laterale, con la sua giacca a vento a strisce fosforescenti, sulla bicicletta del Servizio Postale Reale. Mi vide immediatamente, saltò giù dalla bicicletta nella piazzola dove l'avevo incontrato la prima volta e venne verso di me, spingendo la bicicletta a mano sul prato. La appoggiò contro un albero qualche metro più lontano. «Salve, Bob» dissi. «Si chiama Bob, vero, il postino australiano che sa tutto?» «Ho solo una buona memoria.» Si sedette accanto a me. Sorrise, frugò nella giacca a vento, dalla quale tirò fuori una scatoletta e un pacchetto di cartine con le quali cominciò ad arrotolarsi una sigaretta. L'accese, si appoggiò allo schienale della panchina ed espirò una nube di fumo denso verso il cielo. «Pensavo fosse il solito marito geloso» disse. «Ha ragione. Ero geloso.» «Ho avuto qualche problema con i mariti gelosi.» «Bob, lei li conosceva? Cate e Barney Carrick? Le dispiace per loro?» «Non li ho mai visti. Non credo che nel villaggio li abbiano mai visti. Non sapevo neppure i loro nomi.» Fece cadere la cenere dalla sigaretta. «Non volevo essere io a spifferare.» «Spifferare?» «Il vecchio cottage è stato affittato in gran segreto da una giovane coppia che nessuno vede mai. È ovvio che non vogliono pubblicità. Immagino che avranno le loro buone ragioni. Sono un romantico.» «Anch'io pensavo più o meno la stessa cosa.» «Perciò l'ho dirottata su Lonsdale. È un buon diavolo. Ma è nuovo del posto. In ogni caso pensavo che non conoscesse quel cottage.» Bob lasciò cadere il mozzicone della sigaretta nell'erba alta, dove per un attimo emise un filo di fumo prima di spegnersi. «Ma non è tutto.» «Sì?» Mi guardò dritto negli occhi. «Amico, c'era qualcosa in lei che non mi piaceva. Non sapevo che cosa avrebbe fatto se le avessi indicato la strada per il cottage.»
«Ho ancora la stessa aria?» Mi esaminò per un momento. «No» disse infine. Si alzò. «Forse mi sbaglio. Non si sa mai, eh?» Tirò su la cerniera lampo della giacca a vento e andò a prendere la bicicletta, poi ritornò fermandosi davanti a me. «La fattoria Brightwell Leas. Appena al di là dell'incrocio» disse. «Il cottage è di loro proprietà, circa un chilometro dentro il bosco. C'è un sentiero dietro la fattoria, ma non c'è strada.» Guardò verso il cielo per valutare la possibilità che ricominciasse a piovere. «Non voleva essere scoperta la sua signora, vero?» «Sì e no» dissi. Annuì pensosamente, poi alzò la mano in segno di saluto, saltò sulla bicicletta e attraversò il parco lasciando strisce scure sull'erba d'argento. Uscito dal parcheggio percorsi la strada tortuosa che portava fuori dal villaggio, passando davanti alla chiesa, fra siepi di biancospino e di rovi così alti che impedivano la vista della campagna circostante. Il cielo era di piombo e la terra sonnecchiava sotto il suo peso. Avevo l'impressione che la Audi fosse l'unico oggetto che si muovesse nel raggio di chilometri. L'ingresso alla fattoria era segnalato da un cartello posto sopra un palo che sbucava dalla siepe. Al di là del cancello, un sentiero attraversava il terreno a pascolo e conduceva verso un brutto bungalow moderno. La macchina sobbalzava sul sentiero disseminato di pozzanghere, schizzando in ogni direzione l'acqua fangosa. Mentre mi avvicinavo alla fattoria una donna con un foulard verde uscì da uno dei granai e si fermò a osservarmi. Con una mano teneva un secchio e con l'altra un forcone. Mentre mi avvicinavo appoggiò contro il muro il forcone e il secchio e si pulì le mani sfregandole una sull'altra. Un grande Labrador nero andò verso di lei saltellando nel fango del cortile. Quando si accorse di me rizzò le orecchie. Notai che sotto la crosta di fango gli stivali di gomma della donna avevano la stessa sfumatura di verde del foulard. Abbassai il vetro. Il cane con un salto appoggiò le zampe sul bordo del finestrino aperto, infangando la carrozzeria, felice di darmi il benvenuto. «James, per favore!» La donna fece scendere il cane dal finestrino e lui si sedette guardandomi in adorazione. «Molto maleducato, niente pedigree.» Mi scrutò con circospezione. «Cerca qualcosa?» «Come si arriva al cottage dietro la fattoria?» La mia domanda la colse alla sprovvista. «Intende la casa del vecchio fattore?»
«Come ci si arriva?» «Questa è una proprietà privata.» Si irrigidì. «Non è permesso entrare nel bosco.» Scesi dalla macchina. Il cane batteva il terreno con la coda. «Senta» protestò la donna. «Non può lasciare la macchina sul sentiero.» «Ho lasciato le chiavi nel cruscotto.» Mi avvicinai alla staccionata. Vedevo il sentiero fangoso che da dietro il granaio attraversava i prati sino al limitare del bosco. La donna mi seguì. «Scusi, ma lei chi è?» «Li ha visti?» le chiesi. «Chi?» Si fermò disorientata. «La coppia del cottage. Li ha mai visti?» «No, non li ho mai visti». Notai che i miei modi decisi l'avevano intimorita. «Non viviamo qui» continuò. «Adesso se non le spiace...» «È quello il sentiero che porta al cottage?» «Sì, ma...» «Grazie» dissi. Con un salto scavalcai lo steccato e mi incamminai sul terreno accidentato. Dopo qualche passo il Labrador mi raggiunse di corsa emettendo nubi di vapore. «James!» Sentii che la donna richiamava il cane con insistenza, visto che quello non le ubbidiva. «James!» Il sentiero attraversava un vecchio frutteto di meli e di susini, neri come inchiostro contro il cielo invernale. L'erba tra gli alberi era alta e fradicia di pioggia. Oltre il muro che chiudeva il frutteto il terreno scendeva scosceso, coperto di sambuco e di betulle. C'era un'atmosfera tetra nel bosco. Ogni tanto scivolavo sul sentiero viscido che scendeva lungo il ripido pendio della valletta. A mano a mano che mi inoltravo tra gli alberi sentivo che l'aria diventava immobile. C'era una quiete da cattedrale e io stesso mi muovevo senza far rumore, accogliendo l'invito al silenzio che veniva dai boschi. Dopo qualche minuto notai che il cane era tornato indietro e io ero rimasto solo. Il sentiero serpeggiava attraverso la boscaglia. Non riuscivo a vedere più di qualche metro davanti a me, ma sentivo il rumore di un torrente alla mia destra. Mi chiedevo se anche Caitlin avesse percorso quello stesso sentiero. Il sentiero era sbarrato da un tronco caduto, una colonna di legno marcescente ricoperto di funghi. Mi arrivava al petto e dovetti fermarmi. Il legno
era spugnoso al tatto. Da lì vedevo il pendio boscoso scendere a precipizio verso il fondovalle. E d'improvviso, come per incanto, ecco che apparve sull'altro lato del torrente, a un tiro di schioppo. Il cottage di mattoni cadente, semicoperto d'edera, la botte piena d'acqua accanto alla porta d'ingresso, una finestra con il vetro incrinato. Addossata a un fianco del cottage c'era una piccola costruzione con la porta sgangherata, e il tetto a una sola falda. Un vecchio erpice arrugginiva dimenticato tra le erbacce davanti alla facciata. Su entrambi i lati della casupola gli alberi protendevano i loro rami sopra il tetto. L'aria risuonava del fragore del torrente che scorreva tra i massi. Sentivo il gracchiare di una cornacchia appollaiata sui rami più alti. Aspettai qualche attimo cercando di concentrarmi, poi girai attorno al tronco, attraversai il torrente e scesi nella valle. La porta d'ingresso era socchiusa e appena la toccai si spalancò con un cigolio. L'architrave era basso e dovetti chinarmi per entrare. Ci si trovava direttamente in un locale quadrato, con il pavimento di assi nel mezzo del quale spiccava un tappeto azzurro e oro. Il vento aveva soffiato all'interno qualche foglia morta. La luce del bosco filtrava attraverso due finestre aperte nella parete di fondo, rendendo luminosi i colori del tappeto. Faceva freddo e l'aria mi pizzicava il naso, come se il locale fosse rimasto chiuso per qualche tempo. Riconobbi immediatamente la stretta grata di ferro, la finestra con il vetro incrinato, il disegno a fiori della carta da parati. Questi particolari mi erano diventati tanto familiari grazie ai disegni di Caitlin, che per un attimo mi fu impossibile credere che in qualche modo quella casa non appartenesse anche a me. La stanza era accogliente: un tavolo basso con una lampada, due sedie di vimini e una libreria leggermente storta che conteneva una ventina di libri. Antologie di poesia moderna, qualche libro d'arte e due cataloghi di mostre; una di Cézanne e una di Turner. Biografie, qualche libro di storia. I libri di Caitlin. Sulla mensola sotto la finestra uno stereo e dei CD. Mahler. Stravinskij. Bartók. Presi qualche CD e lo rigirai tra le mani. Caitlin aveva cercato di iniziarmi alla musica contemporanea, ma l'avevo trovata troppo difficile e non ero riuscito ad appassionarmi. E ora qui c'era la musica che lei amava, in un mondo che condivideva con un altro uomo. A lato del camino c'era un arco che conduceva in una piccola cucina. Una stufa a legna. Su uno scaffale contenitori di tè e caffè. Piatti puliti sullo scolapiatti. Un frigorifero piccolissimo sul quale sventolavano foglietti adesivi gialli. Toccai i foglietti. La scrittura di Caitlin. Piccole annotazioni
che non avrebbe più riletto. Ritornai nella stanza principale e andai verso la porta della stanza da letto, nell'angolo opposto rispetto alla cucina. Mi fermai sulla soglia appoggiandomi con una mano alla parete e guardai all'interno. La stanza aveva il tetto spiovente e una sola piccola finestra. Fuori sentivo stormire i rami degli alberi che battevano contro il vetro in un modo che mi ricordava l'infanzia, il gioco delle ombre sul muro, streghe e draghi, il calore e la sicurezza di un grande letto. Ed eccolo il grande letto, finalmente. Riempiva quasi tutto lo spazio della stanzetta, con un copriletto patchwork, come si usava un tempo, accuratamente piegato. Entrai nella stanza e sfiorai il letto con la punta delle dita. Il lenzuolo era freddo. Mi sedetti sul letto. Il cassetto del comodino era leggermente aperto. C'era un pettine di tartaruga di Caitlin con i suoi capelli impigliati tra i denti. Ogni singola cellula, dicono gli scienziati, contiene il codice di tutto l'essere umano. In un primo momento non vidi la cartella. Era addossata al letto, identica a quella che avevo lasciato a casa: nera con grossi fermagli d'acciaio. La sollevai, la appoggiai alla finestra e la aprii. Nel disegno Barney Carrick era steso sul letto, su quel letto, con le mani intrecciate dietro la testa scura. Dalla cornice guardava lei, e ora anche me. Si era appena svegliato. Era avvolto nel lenzuolo, le spalle nude, una gamba tesa, scoperta, vulnerabile. Caitlin aveva disegnato le linee del suo corpo con morbida nitidezza. Per ritrarlo si era seduta laggiù su quella sedia dalla spalliera rigida, in un silenzio interrotto solo dal frusciare della matita sulla carta ruvida e dal picchiettare dei rami contro il vetro. Avvolsi attorno al pettine i capelli d'oro di Caitlin. Mi sembrava di sentire il frusciare della matita. Mi sembrava di percepire nell'aria fredda un profumo, una fragranza pura, leggermente amara. La luce cadeva a chiazze sulla sedia, come in un'altra occasione, in un altro luogo segreto, molti anni prima, un altro luogo dove per un attimo si era sentita felice e sicura. E per un momento, mentre osservavo la sedia, fu come se Caitlin fosse lì per me, i capelli luminosi, con indosso la mia camicia stropicciata, troppo grande per lei. Aggrottava la fronte concentrata nel suo lavoro, il polpastrello del pollice lucido di ematite, la punta della lingua che spuntava rosea tra i denti. Come se tutti quegli anni non fossero trascorsi: Caitlin era qui, adesso e per sempre. Mi guardava dall'altro lato della stanza, dall'altro lato del tempo e mi sorrideva. Chiusi gli occhi. La porta d'ingresso scricchiolò. Riaprii gli occhi e aspettai, ma non udii alcun suono. Chiusi la cartella e
l'appoggiai per terra. Mi alzai dal letto, tenendo lo sguardo sul rettangolo della porta aperta. Vedevo un tratto della parete di fondo della stanza principale, un angolo della libreria e una delle sedie di vimini. Il mio udito e la mia vista divennero straordinariamente acuti. Nessun movimento. Nessuna ombra tremolante. Nessun suono oltre al mormorio del bosco. Mi feci forza e uscii dalla camera da letto. Ebbi il tempo di vedere che la porta d'ingresso era aperta, poi ci fu un indistinto agitarsi. Barcollai sotto il peso del cane nero che mi si era gettato tra le gambe e abbaiava contento d'avermi ritrovato. Mi chinai per accarezzarlo e gli parlai cercando di calmare lui, ma anche me stesso. Gli strofinai il petto e lui alzò la testa, visibilmente soddisfatto. Poi i suoi occhi castani si dilatarono e rizzò le orecchie. Mi resi conto che non guardava più me. «Ti consiglio,» disse Barney Carrick alle mie spalle «di non fare nessun gesto brusco.» Mi alzai lentamente, volgendogli la schiena. «Voltati.» Carrick si era fatto crescere la barba e sembrava più vecchio di come me l'ero immaginato. Era abbronzato, aveva piccole rughe agli angoli della bocca. I suoi occhi erano chiari, tanto chiari da essere inquietanti. Indossava una camicia scozzese e calzoni kaki. In testa portava un berretto di lana azzurra. Nella mano destra teneva una pistola con la canna abbassata. La presenza di un'arma in quella stanza mi sembrava assurda. Senza lasciarmi con lo sguardo entrò in casa lanciando una rapida occhiata fuori dalla porta. Fece schioccare le dita e il cane abbassò le orecchie e uscì subito trotterellando. Chiuse la porta con uno spintone e mise il chiavistello usando la sinistra e tornò a mettersi di fronte a me Era alto, imponente, ma si muoveva leggero e agile co me un leopardo. Gettò il berretto in un angolo, mettendo in mostra i capelli scuri, scostò i lembi della mia giacca e mi esaminò con i suoi occhi chiari. Il suo volto non tradiva alcuna emozione. Indietreggiò di un passo. «Hai paura, Michael?» «Sì, ho molta paura.» «Bene. E hai una buona ragione per avere paura. Venire qui. Proprio tu.» «Lo so.» «Qui non c'è niente per te.» Poi abbassando la voce aggiunse: «Questa era la nostra casa. Tu qui non c'entri». «Avevo bisogno di vederla.»
«E ora l'hai vista. Hai trovato quello che cercavi?» «Ho trovato ciò che avevo bisogno di trovare.» Carrick piegò la testa di lato. «Tu l'amavi» dissi. «E lei ti amava. Ecco perché dovevo venire. Per capirlo.» «Magnifico» disse. «Magnifico.» Vedevo che il muscolo della mascella si irrigidiva. «Ma non cambia le cose. Io sono responsabile. Proprio come lo sei tu.» «Dobbiamo voltar pagina, Barney. Per il bene di tutti.» «Già» mi rivolse un pallido sorriso. «Per il bene di tutti.» Posò la pistola sul tavolino. Si sedette su una delle sedie di vimini e incrociò le gambe. Mi fece un cenno e anch'io mi sedetti, sull'orlo dell'altra sedia. «Come hai fatto a trovare questo posto?» «Non me l'ha detto Angie, se è quello che pensavi.» «Oh, non ci pensavo affatto. La nostra Angie è sicura che io non possa fare del male.» Fece una pausa. «Invece sì.» «Barney, ciò che mi interessa è capire come sia potuta accadere una cosa simile. Dal momento che tutti e due l'amavamo.» Mi guardò con aria pensierosa. «Sai, Michael, ho sempre pensato come sarebbe stato incontrarti. Non sono mai stato il tipo geloso, ma mi svegliavo di notte, la guardavo e pensavo "Dio non voglia che apra gli occhi e si renda conto della scelta che ha fatto". Vivevo nel terrore che lei prima o poi se ne rendesse conto.» Tacqui. «Ma ora che ti ho incontrato,» continuò «provo un sentimento diverso. Non posso credere che tu sia stato così stupido. Che tu abbia potuto gettarla via come hai fatto.» Sedeva immobile. «Nessuna donna mi aveva mai guardato prima di lei. Guardato veramente. Ma Caitlin? Sembrava che ogni centimetro di me la interessasse. Si sedeva là e mi disegnava. Per ore e ore.» «Voleva rendere il modo in cui il tuo corpo riempie lo spazio.» Mi guardò sconcertato, come se avesse parlato uno spettro. «Sì, sì, è proprio quello che diceva.» «Non sono stato io a gettarla via, Barney.» «No? Tu sei il medico di successo. Che cosa pensi che sia accaduto?» Si piegò in avanti. «Fammi indovinare. Un momento di follia? Stress posttraumatico?»
«Se fosse andata così, avrebbe un senso.» «In fondo che cosa ti aspettavi da un soldato ignorante. Basta leggere la sua storia.» «Barney, io sto solo cercando di capire. Avete litigato. È stato a causa del bambino?» «Non sapevo del bambino.» La sua voce risuonò come una frustata. Il cuore mi si fermò per tre, quattro, cinque secondi. «A nessuno dei due ha detto del bambino.» Si rilassò. «Non ho ucciso Caitlin» disse molto lentamente. «Avrei dato la vita per lei. Non mi credi, vero, Michael? Qualunque cosa dica.» «Ho cercato di capire come sono andate le cose, Barney. L'ho trovata agonizzante. Pochi minuti prima ti hanno visto entrare nella casa. Cosa dovrei pensare?» Incrociò le braccia. «Abbiamo litigato. Questo è vero. Poi abbiamo sentito la tua macchina fermarsi davanti a casa.» «La mia macchina?» «Abbiamo sentito i tuoi passi sul sentiero dietro la casa.» Sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. «Lei ha cominciato a gridare. Mi diceva di andarmene. Allora mi sono precipitato fuori. Appena in tempo. Proprio nel momento in cui tu infilavi la chiave nella serratura della porta sul retro.» «Barney, quello che dici è assurdo.» «Davvero?» chiese con aria innocente. «Ma è andata proprio così. O mi stai dando del bugiardo?» «Non avevo la macchina. E non sono entrato dalla porta sul retro.» «Giusto, Michael» disse rivolgendomi un sorriso di commiserazione. «Giusto. L'hanno scritto tutti i giornali. Sei entrato dalla porta principale, sei salito al primo piano e l'hai trovata stesa sui gradini. Hai cercato di salvarla.» «È tutto vero. Ho fatto tutto quello che potevo.» «Oh, ti credo, Michael. È per questo che sei ancora vivo.» Carrick appoggiò le mani aperte sulle cosce. «Ma per un certo tempo non ho creduto affatto a quella versione. Per un certo tempo pensavo di te esattamente quello che ora tu pensi di me. Pensavo che ci fosse un'unica risposta. Dopo tutto, quando ho lasciato la casa Caitlin era viva. Pochi miniti dopo tu arrivi e... Che cosa dovrei pensare?» Aprii le labbra per respingere la sua ricostruzione. Ma in quel momento mi resi conto che le sue conclusioni erano sensate quanto le mie.
«Non preoccuparti, Michael. La nostra Angie dice che tu non faresti mai una cosa simile. La nostra Angie dice che anche se fossi stato tu a ucciderla, non saresti fuggito. Se lo dice lei, le credo. Fa parte del mio patto con Angie.» Sorrise. «Forse ti ha detto la stessa cosa di me, più di una volta. Solo che tu non le hai creduto.» «Aspetta.» Mi inumidii le labbra. Mi era difficile concentrarmi sulla nuova configurazione che si era creata. «Hai detto che è arrivata una macchina?» «Esatto, Michael.» Fuori il cane abbaiò una volta, poi una seconda con maggior insistenza. Mi guardai attorno e quando riportai lo sguardo su Carrick, lui si era alzato e aveva infilato la pistola nella cintura. «Oh, che bastardo!» disse. Ripetei: «Aspetta». Ma lui si allontanò, fermandosi vicino alla porta della cucina. Ora il cane ringhiava furiosamente. Lo sentivo correre avanti e indietro. Poi ci fu un latrato selvaggio e scoppiò il pandemonio: ordini urlati da un megafono, scalpiccio di passi, voci rabbiose. Carrick per un attimo incontrò i miei occhi e io cercai di gridare al di sopra dell'immane frastuono che non ne sapevo niente. Forse mi sentì, forse no. Qualcosa andò in pezzi nella cucina. Lui si voltò di scatto verso il rumore. Sentii sfondare la porta d'ingresso e due uomini con le armi puntate entrarono urlando nella stanza. Uno dei due mi colpì con violenza a una tempia. Persi l'equilibrio e caddi sulle ginocchia. Prima che potessi rialzarmi ci fu un'esplosione assordante. Il corpo di Carrick ebbe una contorsione e si abbatté rovinosamente contro la libreria facendo franare le mensole con lo stereo, i CD, i libri. Sulla parete schizzò una sventagliata di sangue alta due metri. La stanza era piena di uomini armati con giubbotti antiproiettile blu. Probabilmente non erano più di cinque o sei, ma i loro corpi massicci riempivano lo spazio e le loro urla mi frastornavano. Sentivo odore di adrenalina, cordite e sudore. Mi alzai in piedi e qualcuno mi ributtò a terra. La cosa mi fece infuriare e mi rialzai immediatamente. Un uomo mi urlò: «Polizia armata!». E poi ancora: «Polizia armata! Rimanete dove siete!». E mi afferrò per un braccio non appena mi rimisi in piedi. Era giovane, ansimava e aveva gli occhi sbarrati. Mi liberai dalla sua stretta e passai attraverso il muro di schiene blu. Il poliziotto, non sapendo che altro fare continuò a sbraitare: «Polizia armata! Rimanete dove siete!».
Carrick era supino, immobile. Una fontana di sangue zampillava dall'inguine e ricadeva su di lui, sui libri sparpagliati attorno e sui mobili fracassati. I suoi occhi erano spalancati. Mi inginocchiai accanto a lui. Il suo berretto di lana era ancora nell'angolo dove lui l'aveva gettato, lo afferrai, lo ficcai nel buco della pallottola e lo spinsi dentro con forza. Per un attimo sentii l'arteria pulsare e contorcersi sotto le mie mani come un piccolo idrante. Intorno a me c'era un gran frastuono. Cercai di isolarmi. Strinsi le dita ancora più forte sull'arteria. «È la femorale, vero?» chiese Carrick. Come se mi chiedesse l'ora. Spostai le mani per avere una presa più sicura. «Sono spacciato» disse senza tradire nessuna emozione. Lo guardai negli occhi. Non avevo intenzione di mentirgli. «Forse» dissi. «È molto probabile.» Il frastuono era cessato. Sentivo gli uomini che perlustravano le altre stanze. Vetri rotti, porte sbattute, qualche urlo. Con passo pesante un uomo si avvicinò a me, accucciandosi alla mia destra. Sapevo che era Barrett. «Mi avete pedinato» dissi. «Mi spiace di aver interferito con la sua agenda privata» disse. Barrett squadrò Carrick dall'alto in basso come se fosse un animale strano, una tigre abbattuta durante un safari. Sorrideva compiaciuto. «Chiami un elicottero, immediatamente.» «Non mi sembra il caso, con tutti questi alberi.» La lana del berretto era intrisa di sangue. «Ascolti. Se mollo tra un paio di minuti sarà morto. Deve chiamare aiuto e subito.» «Un paio di minuti?» ripeté Barrett con aria meditabonda. «Così poco?» Mi appoggiò la sua grossa mano sulla spalla e portò la bocca così vicina al mio orecchio che sentii l'odore del suo alito. «Mi dica, dottore. Quanto amava sua moglie?» «Chiami l'ambulanza» gli risposi. Si alzò. Prese un fazzoletto e asciugò il sangue che gli era schizzato sul cappotto, poi si allontanò velocemente. «C'è stato un tempo in cui metà di quegli stronzi di talebani volevano farmi la pelle» disse Carrick con voce trasognata. «E ora mi fa la festa un poliziotto che non ha mai sparato neanche a un coniglio.» «La situazione mi sembra già abbastanza tesa, senza dover ascoltare le tue memorie.» Lo osservai. Era pallido e sudava. Speravo che l'arteria non si rompesse
completamente. Perché in quel caso nulla avrebbe potuto salvarlo. Mi scervellai pensando a che cosa avrei potuto utilizzare come pinza. I muscoli degli avambracci incominciavano a dolermi per lo sforzo. «Ho bisogno di aiuto!» La stanza si fece silenziosa. Qualcuno si avvicinò con passo incerto. «Ascolta, Michael» disse Carrick. «Taci, sto pensando.» «No, ascolta...» Si passò la lingua sulle labbra. «Caitlin non sarebbe venuta via con me.» Mi dimenticai di respirare. Lo guardai. «Questo non ha nessuna importanza ora.» «Invece è proprio adesso che ha importanza.» Fece una smorfia di dolore mentre cercava di spostare la schiena. «Stai fermo, per Dio.» «Mi aveva lasciato, Michael. Era tornata a casa. Per questo abbiamo litigato.» Un poliziotto si avvicinò e si inginocchiò accanto a me, staccando le linguette del giubbotto antiproiettile. Riconobbi il ragazzo che si era infuriato con me solo qualche minuto prima, ma ora sembrava abbastanza mansueto. Mi passò uno strofinaccio da cucina con la ricetta della crostata. «Le può servire?» chiese. «Trovami una cintura o una cinghia. Qualsiasi cosa per fissare questo strofinaccio.» Slacciò la fibbia, la sfilò dai passanti e me la passò. «Morirà?» La sua voce adesso era quasi stridula e con il giubbotto aperto aveva perso l'aria da duro. Immaginai che fosse stato lui a sparare. «Metti qui i pollici. Spingi forte.» Feci scorrere la cintura sotto la gamba di Carrick e la strinsi con forza. Il giovane poliziotto premette i pollici nello strofinaccio inzuppato di sangue con tale energia che Carrick trasalì. «Verrò a tirarti i piedi, ragazzo» disse. «Ci puoi contare.» Carrick girò la testa verso di me. «Le hai telefonato, vero, Michael? Non so da dove.» «Sì» dissi stringendo la cintura. «Dopo la tua chiamata è venuta qui, ha preso tutte le sue cose e mi ha lasciato. L'ho seguita a Londra, ma non mi voleva ascoltare.» Fissai la cintura molto stretta e cercai di flettere la mano libera per riattivare la circolazione. Le mie dita erano ricoperte di sangue. Non riuscivo a
guardarlo in faccia. «Caitlin voleva tornare da me?» «Era già tornata da te. I suoi bagagli erano in cima alla scala, quando sono uscito dalla casa.» Mi afferrò il polso con una mano. «Ho lasciato che se ne andasse, capisci, Michael? L'amavo talmente da permetterle di tornare da te.» Mi sedetti fissando il suo viso cereo. Pensavo che mi volesse dire altro, ma mentre lo guardavo i suoi occhi divennero vuoti. «Barney?» Lo schiaffeggiai un paio di volte. Le mie mani lasciavano chiazze rosse sulla sua pelle. «Barney?» «È morto?» chiese il poliziotto a voce altissima. «Non è morto finché non lo dico io.» Gli sentii il polso. Non era morto, ma aveva perso conoscenza. Sapevo dove si era rifugiato. Era ritornato nella voliera di Caitlin. La vedeva davanti a sé mentre lui la supplicava. Lei era alta, bella, spezzata dal dolore, con le valigie ammucchiate ai suoi piedi. Ascoltava quei passi avvicinarsi, li sentiva risalire il sentiero verso la porta posteriore. «L'elicottero sta arrivando.» Sul crinale della collina tra gli alberi lampeggiava la luce blu della polizia. L'elicottero volteggiò per un attimo, rimase immobile nella scia di luce con i rotori che fendevano l'aria, poi si diresse rapidamente verso nordovest. Non lontano sentivo il gracchiare delle radio della polizia e i motori accesi delle automobili. Sollevai il coperchio della botte dell'acqua fuori dalla porta. Spezzai il velo di ghiaccio che si era formato sulla superficie e mi lavai il viso e le mani come meglio potevo. L'acqua era spaventosamente gelida, ma ne avevo un disperato bisogno. Barrett mi si avvicinò. Con tutte e due le mani continuai a gettarmi getti d'acqua gelata in faccia. «Fino a un'ora fa non sapevo neppure dove si trovasse questa casa.» Barrett mi fissava con i muscoli del collo contratti. Il colletto della sua camicia era macchiato del sangue di Carrick. «Dottor Severin, lei non mi piace» disse infine. «Non mi è piaciuto sin dal primo momento. Le persone come lei pensano di avere diritto a regole diverse da quelle di tutti gli altri. E sa che cosa mi fa incazzare? Che di solito è vero.» «Mi dispiace che la pensi così.» Aveva il fiato grosso. «Morirà? Carrick?»
«Non credo. Non è il tipo.» «Peccato. Avrebbe fatto risparmiare un sacco di soldi ai contribuenti.» Scossi il capo spruzzando attorno l'acqua gelida. «Ha sentito qualcuno che entrava in casa» dissi. «Mentre stava andando via.» «Gliel'ha raccontato lui, vero?» «Qualcuno che stava entrando dalla porta posteriore. Ha detto che l'hanno sentito tutti e due, Caitlin e lui. Pensavano che fossi io.» «Oh, l'ha sentito anche sua moglie? Bene, mi sembra una buona notizia. Quello di cui ha bisogno Barney adesso è una medium che faccia in modo che la signora Severin confermi la sua versione, così lui ne esce pulito.» «Io gli credo.» «Sì, dottore. Certo. Lei è il paladino delle cause perse.» Mi venne vicino. «Mi ascolti. Non me ne frega un cazzo di quello che lei pensa. Ma perché lei lo sappia, non esiste assassino che non neghi di aver ucciso. Lo fanno tutti. Ne dicono di tutti i colori. Di tutti i colori. Non hanno niente da perdere.» «Penso che dicesse la verità.» «Questo tizio si scopava sua moglie. Ha precedenti penali. Sappiamo che era sul luogo del delitto quando è stata uccisa, abbiamo un testimone. Quando crede di essere in punto di morte tira fuori la storia che ha sentito una persona misteriosa entrare in casa - nel momento critico, badi - e così alla fine lui risulta innocente. E, naturalmente, lei gli crede.» «Brigadiere...» «Barney Carrick è colpevole. Se fossi in lei, dottore, non lo dimenticherei. In nome dell'amore per sua moglie, non lo dimenticherei.» Si allontanò inghiottito dal buio. 31 Arrivato a casa feci una doccia per ripulirmi del fango, del sudore, delle ultime tracce del sangue di Barney Carrick e dell'odore della paura. Indossai abiti puliti e scesi al pianoterra. Mi versai uno scotch e mi sedetti al tavolo della sala da pranzo. Nella mia mente le immagini si rincorrevano in una spirale, come spezzoni di un film. Poi lentamente rallentarono la loro corsa, si sfocarono e alla fine svanirono. L'ultima immagine mostrava una donna con una giacca di pelle, sola in una radura ombrosa, spaventata come un capriolo. Sembrava un'eroina della Resistenza francese. Indossava un berretto che mi impediva di vedere il colore dei suoi
capelli. Presi la bottiglia e mi versai un altro bicchiere, continuando a bere in attesa della pace o di un suo surrogato. L'estate si era spezzata, il vento umido soffiava contro le finestre e le luci di Londra sembravano correre lungo il vetro, riflesse nelle gocce di pioggia. Era quasi l'una di notte, una notte tempestosa di settembre, la notte prima che Stella e io partissimo per il Venezuela. Miles Davis mormorava dallo stereo e la luce delle candele scintillava sugli argenti e i cristalli del tavolo da pranzo. Ero un po' brillo. Osservavo i visi degli ospiti, a turno. Anthony, con il vestito scuro sgualcito. Caitlin luminosa nel suo abito di seta grigia. Stella che mi sedeva di fronte e parlava a voce troppo alta. Gordon, seduto accanto a lei, con un sorriso nervoso e gli occhiali baluginanti. Il loro calore e la loro energia riempivano la stanza. Dall'altro lato del tavolo Caitlin incrociò il mio sguardo e mi sorrise prima di riprendere la conversazione interrotta. Alcuni mesi prima si era tagliata i capelli, e se all'inizio la cosa mi aveva infastidito, ora trovavo che il cambiamento le aveva restituito l'aria da monella che aveva quando l'avevo conosciuta. Mi sentii invadere da un'improvvisa, struggente tenerezza, da un bisogno di tenerla tra le braccia e di proteggerla. Era molto tempo che non provavo quel sentimento con la stessa intensità. Il rendermene conto mi mise in allarme e per un attimo rimpiansi di dover partire così presto. Osservavo la linea scura del collo di Caitlin. Aveva un collo lungo e armonioso. Mi chiedevo quanto tempo sarebbe passato ancora prima che tutti quanti si decidessero ad andarsene. Per tutta la cena Caitlin non mi cercò più con lo sguardo. Era impegnata in una conversazione che assorbiva interamente la sua attenzione. Di solito Caitlin flirtava con Anthony e lui contraccambiava le sue attenzioni con una galanteria d'altri tempi. Era un gioco che li divertiva. Ma non li avevo mai visti così immersi in una conversazione. Colsi per caso una sola frase di Anthony. «Molto presto, cara,» Anthony tolse con mossa elegante il fazzoletto di seta blu dal taschino della giacca e se lo sventolò sul viso «sin dalla mia prima adolescenza, ho capito che i soli obblighi che veramente contano sono quelli che ci impegniamo a rispettare con gli altri.» Allora non avevo capito perché alle parole di Anthony Caitlin sembrasse turbata.
Quando la casa tornò tranquilla, mi sdraiai sul letto con un bicchiere di scotch nella destra e l'orso Beamish sotto il braccio sinistro. Caitlin ritornò dalla doccia strofinandosi i capelli con un asciugamano. Non capivo la natura del suo sguardo. Ero consapevole di aver bevuto troppo e forse per questa ragione non riuscivo a decifrare la sua espressione. Mi fissò tanto a lungo che mi sentii a disagio. «Se i Medici Senza Frontiere ti vedessero in questo momento... L'intrepido chirurgo e l'orso calvo.» Girai la testa di Beamish in modo che la guardasse con il suo unico occhio. Alzai il bicchiere verso l'orso. «Pensi che lo scotch gli farà venire gli occhi rossi?» le chiesi. «Certamente ha reso rossi i tuoi. Sono felice di non dover essere operata da te domani.» Caitlin si avvicinò alla finestra e rimase a guardar fuori volgendomi le spalle. Osservavo la sua figura, la curva dei suoi fianchi, il fascio di muscoli della coscia. Aspettai che parlasse, ma non disse più nulla. Mi misi a sedere sul letto e appoggiai Beamish accanto a me, sul cuscino di Caitlin. «Sei splendida stasera» le dissi. «Splendida?» Fece una smorfia e per qualche minuto rimase a osservarmi pensierosa. «Vuoi parlare?» chiesi. Caitlin si accorse di avere ancora l'asciugamano sul braccio e lo gettò nella cesta della biancheria sporca. Prese la sedia della toletta e si sedette, nuda, vicino alla finestra di fronte a me. La finestra era socchiusa e l'aria faceva ondeggiare la tenda. «Non questa sera. Non dobbiamo parlare questa sera.» «No?» Sapevo che tra noi incombeva qualcosa di taciuto, inespresso, qualcosa che non avremmo dovuto lasciarci sfuggire. «Non abbiamo più parlato sul serio dopo la nostra vacanza in Italia. Forse è stata colpa mia.» «Non dobbiamo parlare questa sera.» Avrei voluto che Caitlin non parlasse in codice. Mi faceva sentire stupido e goffo. «Cate, vuoi che annulli la mia missione in Venezuela?» «Cosa?» mi fissò esterrefatta. «Capisci che cosa intendo. Passare più tempo assieme. Aggiustare que-
sta faccenda.» «Non ho bisogno di essere aggiustata, Michael» disse con durezza. «Non sono un orologio che deve essere caricato regolarmente.» Quando vide il mio smarrimento corse verso di me, mi gettò le braccia al collo e spinse con forza il mio viso sul suo ventre. Dovevano essere passate molte ore. Lentamente mi resi conto di essere sveglio. Avevo l'impressione che fosse più di un'ora che ondeggiavo tra il sonno e la veglia, depresso dall'alcol e da un dubbio di cui solo parzialmente ero consapevole. Certamente l'alba non era lontana, lo capivo dal respiro mutato della città. Caitlin si mosse. Allungai la mano e le toccai la spalla. «Dovresti dormire.» Si rannicchiò stretta a me. «Anche tu.» Le baciai i capelli. Erano caldi. «Michael, non voglio che tu smetta di fare il tuo lavoro. Te l'ho già detto. Non è di questo che si tratta.» Chiusi gli occhi. Sapevo che una parte di me si aspettava che dicesse proprio questo, che mi concedesse un rinnovo della licenza. La tenni stretta, sapendo che le dovevo una spiegazione, anche se ero sicuro che lei capisse tutto meglio di me. «A volte,» dissi «quando sono al ristorante o a una festa, oppure qui con te, come ora, al caldo, al sicuro, mi capita di pensare: "Se fossi là ora, magari potrei salvare qualcuno. Se fossi rimasto, forse avrei potuto fare di più".» Si appoggiò sui gomiti. Chinò il viso sul mio petto, trovò la chiave attaccata alla catenina, la prese in mano e le diede un leggero strappo. «Non puoi sentirti responsabile di tutto, non credi?» «Non dico che sia sensato.» Dopo un lungo silenzio disse: «Devo dirti che cosa provo?». Appoggiò la guancia alla mia spalla. «Anche se non è affatto sensato?» «Dimmi.» «Il mio cavaliere arrivò al galoppo, proprio come nelle fiabe, mi liberò facendomi uscire dalla torre dove ero stata rinchiusa e mi portò via sul suo cavallo bianco.» Spostò un poco il viso e nell'oscurità ebbi la netta percezione che mi guardasse. «E mi portò nel suo castello. E mi elesse signora del suo castello. E mi diede tutto ciò che gli chiedevo. E vivemmo felici e contenti per sempre.» Si mise a piangere in silenzio.
Uscii di casa alle nove. Londra era gelida nella luce adamantina di dicembre. Mi faceva bene stare all'aperto. Lasciai la macchina dov'era e m'incamminai insinuandomi tra i pendolari del mattino e gli acquirenti dell'ultimo minuto. Tra i lampioni erano state tese luminarie natalizie; scintillanti esplosioni rosse e oro, stelle e comete che volteggiavano lanciando lampi di luce cangiante. Un autobus rosso per Parliament Square si fermò a qualche passo da me. Salii per la sola ragione che la destinazione familiare mi tranquillizzava. Pagai con un biglietto da dieci sterline e il bigliettaio dovette richiamarmi per prendere il resto. Mi sedetti in un posto accanto al finestrino. Quando scesi dall'autobus mi fermai a una bancarella fuori da una stazione della metropolitana e comperai un panino al prosciutto e del tè. Trovai una panchina sul fiume e mi sedetti. Non avevo fame, ma mangiai ugualmente, masticando coscienziosamente. Rimasi seduto sotto gli alberi spogli, mentre alle mie spalle gli autobus rossi rombavano attorno alla piazza. Quel rumore mi piaceva. Mi piaceva sentire il fiume che scivolava verso il mare, a pochi metri dai miei piedi e l'odore limaccioso che saliva dall'acqua. Mi avvicinai al parapetto e rimasi a contemplare il Tamigi grigio acciaio. Un sole tenue filtrava attraverso i rami spogli. Nella mia fantasia vedevo il cottage cadente, la luce che spioveva sul letto e i semplici oggetti della casa; le tazze del caffè, i libri, i CD di musica che non mi ero mai preso la briga di ascoltare. Vedevo la cartella e mi immaginavo Caitlin ritrarre per ore un uomo che posava pazientemente. Vedevo la sua scrittura sugli adesivi del frigorifero. E pensavo a Stella. Ormai era partita. La immaginavo attraversare decisa l'atrio di un aeroporto, la borsa a tracolla che le batteva sul fianco. Mi chiedevo chi avrebbe occupato il suo appartamento. Non riuscivo a immaginarci nessun altro. Mi chiedevo dove avesse trovato un acquirente per la sua vecchia Golf, dipinta a mano con due differenti toni di rosso. Vedevo nitidamente la sua figura sulla strada dell'aeroporto di Caracas congestionata di traffico, colori primari, taxi che strombazzavano, sapore di diesel e di peperoncino nell'aria soffocante: forse discuteva con un autista, con le mani sui fianchi, gli occhiali da sole spinti in alto sui capelli rossi, le borse consunte gettate nella polvere ai suoi piedi. Si sarebbe fatta accompagnare in uno di quegli alberghetti locali che le piacevano tanto. La vedevo mentre si sdraiava sul letto per provare il materasso sottile, mentre
apriva le persiane per farsi avvolgere nell'aria aromatica della sera tropicale. Dopo la doccia avrebbe fatto una passeggiata per le strade rumorose e si sarebbe seduta al tavolo di un caffè, avrebbe bevuto una birra, mentre i rami delle palme ondeggiavano nel cielo color lavanda. Un ragazzino vestito di stracci le avrebbe chiesto una moneta e lei sarebbe stata generosa. Poteva permetterselo. Era libera e padrona di sé. Nonostante i vuoti incolmabili - o forse proprio grazie a quelli - era libera e padrona di sé. Di noi era l'unica a esserlo veramente. Presi dalla giacca il biglietto che Stella mi aveva regalato e lo osservai per qualche minuto, poi lo strappai in tanti coriandoli minuti che volarono via con il vento. La bottega di Harry Judah si trovava in una squallida via laterale, non lontano da Edgware Road. Erano molti anni che non andavo da Harry, anche se da ragazzo Anthony mi accompagnava spesso nel suo negozio dopo il mercato della domenica. Nel retrobottega, lui e Harry contrattavano, discutevano, mentre si scolavano la bottiglia di Guiness di Harry. Li lasciavo alle loro schermaglie e mi perdevo per un paio d'ore nel magazzino al primo piano. Mi piaceva quella confusione di oggetti esotici, pile di vecchie riviste, vetrine con gli animali imbalsamati e l'odore segreto della polvere. Ma mi piaceva soprattutto il suono delle voci dei due uomini che scherzavano e ridevano al piano di sotto. C'era in quegli incontri qualcosa che comunicava un senso di continuità, di affidabilità e di sicurezza. Spinsi la porta del negozio. Harry era chino sul banco con una lente da gioielliere nell'occhio. Non alzò la testa. Il suo cappello di feltro era appoggiato accanto a lui sul vetro del banco. Mi sentii come se l'avessi sorpreso nudo in bagno. «Spiacente, è chiuso.» «Non è vero, Harry.» Si alzò sorpreso e la lente gli scivolò dall'occhio, ma lui l'afferrò con abilità senza guardare. «Signor Michael.» Fece scivolare l'altra mano verso il cappello e se lo calcò in testa. «Che sorpresa!» Gli sorrisi, incerto su come iniziare. Mi guardai attorno. Scaffali su scaffali di giocattoli meccanici, macchine a vapore rosse e verdi, macchine da corsa slanciate come torpedini, vetrinette colme di sveglie, orologi da polso, da taschino, con cassa metallica. «Ho bisogno di sapere alcune cose, Harry.» Storse la bocca ed espirò profondamente. «Riguardano il mio battibecco con il signor Gilchrist?»
«Sì.» «Da allora non l'ho più visto» disse Harry. «Nessuno l'ha più visto ai mercati. Non è venuto qui. So di aver parlato a sproposito, ma...» «Non è colpa tua, Harry.» «Signor Michael, non tocca a me...» esitò palesemente turbato. «Vorrei chiedergli scusa, capisce? Fare la pace, in un certo senso. Solo che non posso andare a trovarlo in quella sua grande casa. Cioè, non che io sia orgoglioso, ma non so se una mia visita sia gradita. Non più, almeno.» «Parlami di Amsterdam, Harry.» La domanda lo colse alla sprovvista. «Che cosa vuol sapere?» «Solo dell'ultimo giorno. Il venerdì. Anthony era in giro con uno dei suoi... amici quel giorno?» Harry mi guardò con diffidenza. «Preferirei non dire dov'era, signor Michael.» «Harry, ho solo bisogno di sapere se era ad Amsterdam, tutto qui.» «L'ho visto a cena giovedì sera» mi disse. «Non saprei dirle altro.» «Dopo non l'hai più visto?» «Mi può spiegare che cosa significa tutto questo, signor Michael?» «Non ti preoccupare, Harry». Tornai alla porta. «Mi sei stato di grande aiuto.» «Signor Michael...» Ma io avevo ormai chiuso la porta cigolante e mi ero incamminato lungo la via. Un'ora dopo il taxi mi lasciò alla fine della strada di Anthony, ai piedi della collina. Iniziai lentamente a salire il pendio, passando davanti alle case borghesi che conoscevo così bene. Vite rispettabili vissute nell'immutabile ciclo di lavoro, golf, figli, lavaggio della macchina al sabato, pensione, vacanze in luoghi tranquilli, dove il cibo è accettabile e non fa troppo caldo. La casa di Anthony era diversa da tutte le altre, ne ero consapevole da sempre. Anche dall'esterno si percepiva quell'indefinibile aria di bohème che caratterizzava il suo stile. I mobili scuri che si intravedevano attraverso il bovindo ricordavano un vecchio negozio di rigattiere. La Rover bianca, ormai decrepita, era parcheggiata al solito posto sul vialetto e anche se la giornata era luminosa, nel suo studio era accesa la luce. Dal comignolo si alzava una spirale di fumo e questo mi rassicurò. Temevo che fosse uscito, che fosse andato a curiosare per antiquari e per mercati, ma la casa aveva
l'aspetto di sempre, quello che ricordavo dall'infanzia. Un rifugio per i tempi duri. Trassi un profondo respiro e aprii la porta. Nel corridoio buio mi tolsi il cappotto e lo appesi alla ringhiera della scala. Mi fermai qualche attimo ad ascoltare i rumori della casa, il ticchettio degli orologi, gli scoppiettii del fuoco nello studio. E una voce meravigliosa che non udivo da tempo: Maria Callas che cantava La Bohème. Anthony era in piedi in mezzo alla stanza accanto allo stereo. Indossava il suo gessato scuro e un farfallino color vinaccia. Come aprii la porta mi guardò e il suo volto si illuminò. Abbassò il volume e tornò a guardarmi. Nei suoi occhi c'era un'espressione di sollievo. «Michael, mio caro ragazzo. Non ero sicuro che saresti tornato. Non così presto comunque.» Fece un breve sorriso. «A essere sincero, temevo che non saresti più venuto.» «Sapevi che dovevo tornare, Anthony.» «Ho sentito che cosa è successo. Con quel Carrick. Credi che...» inghiottì la saliva «sopravviverà?» «Sì.» «Grazie a Dio.» Emise un lungo sospiro. «Per molto tempo ho pensato che, se gli fosse successo qualcosa di orribile, ne sarei stato contento. Ora non più. C'è già stato troppo dolore, troppa sofferenza. A volte ho l'impressione che in questo mondo oscuro non ci sia altro che dolore e sofferenza.» Si sedette nella poltrona accanto al camino. «Ma finalmente è dietro le sbarre. Almeno così le cose sono chiare.» «Detenzione cautelare, la chiamano.» Anthony storse la bocca, come disgustato. «Che brutta espressione! E non è neppure precisa.» Sospirò. «Temo che in ogni campo gli standard si stiano abbassando.» Notai che sul tappeto ai suoi piedi c'era una scatola di legno di rosa, il tipo di scatola nella quale, invecchiando, uno potrebbe conservare i suoi tesori: un distintivo scolastico, l'anello di una donna amata, la foto sbiadita di un figlio perduto. Sul tavolino accanto alla poltrona c'erano un grosso bicchiere e una bottiglia di cognac. Anthony di solito non beveva durante la giornata, quando era solo. Vedevo la luce danzare attraverso il liquore dorato. A mano a mano che i miei occhi si abituavano alla luce fioca della stanza, mi rendevo conto che la scatola in legno di rosa non era l'unico tesoro in mostra. Tutto attorno al camino erano dispiegati oggetti che non vedevo da anni: orologi antichi, custodie colore vinaccia, una caffettiera
d'argento, squisite porcellane di Meissen, una vetrinetta di farfalle azzurre disposte a spirale, prime edizioni rilegate in pelle, un carillon con una ballerina che girava su se stessa. Mentre la osservavo la ballerina si fermò e l'orologio di cui faceva parte ritornò immobile. Dietro la ballerina c'era il ritratto di mio padre. «Tutte le mie belle cose» disse Anthony. Prese la caraffa e mi versò un brandy. «Hai l'aria distrutta, ragazzo mio. Siediti.» Presi il brandy e ne bevvi un sorso, ma non mi sedetti subito. La musica finì con un singhiozzo e io andai a spegnere lo stereo. «Stella è venuta a salutarmi mentre andava all'aeroporto. È stata gentile. A me è sempre sembrata una giovane donna piuttosto sguaiata, ma nelle ultime settimane, devo confessarlo, vedendo il modo in cui si è comportata, non ne sono più tanto sicuro. Mi è spiaciuto che partisse.» «Anche a me.» Mi sedetti nell'immensa poltrona marrone di fronte a lui, sull'altro lato del camino, dove il fuoco scoppiettava. Anthony mi guardò con i suoi occhi da boxer. Provavo un'insopprimibile tristezza per lui, con il suo farfallino color prugna e con l'animo sofferente e smarrito. Allungai una mano e la posai sulla sua, abbandonata sul bracciolo della poltrona. Chiuse gli occhi per un attimo. Tolse la mano e prese il bicchiere. «Non avevo mai picchiato un essere umano in vita mia.» La sua voce era quasi normale. «Non avevo idea delle possibili conseguenze. Devi sapere che non era nelle mie intenzioni... ciò che è successo. Ovviamente. Chi avrebbe potuto volere una cosa simile? L'ho colpita e lei è caduta. È caduto anche quel grottesco busto che teneva in cima alla scala.» Alzò lo sguardo su di me. «E...» Cercò la parola «e... l'ha mandata in pezzi. Come un vaso di porcellana. Come un bell'oggetto, in cocci.» Non parlai. «Mi piaceva occuparmi di lei quando tu eri via» continuò. «Mi doleva pensarla così sola. Conosco molto bene la solitudine. E così le facevo visita nei momenti più impensati.» Bevve un sorso di brandy e si passò una mano sul viso. «Spesso non era in casa. A dire il vero, sempre più spesso negli ultimi mesi.» «Anthony, perché non me ne hai parlato? Perché?» «Ma caro ragazzo, non ho mai sospettato di nulla.» Il solo pensiero lo straziava. «Non mi sarei mai sognato che la bella Caitlin potesse tradire la nostra fiducia. Anche adesso stento a crederlo. E se non avessi lasciato Amsterdam un giorno prima, non l'avrei mai saputo. Non potevo starmene
seduto accanto al povero Harry Judah al pranzo di chiusura della mostra ad ascoltare le sue battutine. Oh, senza cattive intenzioni. Credo che volesse solo mostrarmi la sua comprensione. Ma io ne soffrivo. Ne soffrivo moltissimo. E così ho preso un volo per Londra quel giorno stesso.» «E sei andato a far visita a Caitlin.» «Dall'aeroporto. Non la sentivo da una settimana. Sapevo che era tanto preoccupata per te, dopo il terremoto. Naturalmente tutti sapevamo che avresti preso parte ai soccorsi.» «Hai usato l'auto di cortesia. La grossa Volvo rossa con cui sei venuto a prendermi. Henry Kendrick l'ha scambiata per la mia auto.» «E lui era là, Michael. Quell'uomo. Quell'estraneo. Lui non mi ha visto, ma io sì, dal cancello sul retro. In casa tua.» Anthony respirava a fatica, cercando di controllarsi. «Non potevo far finta di niente. Mi dissi che avrei dovuto in qualche modo affrontare la situazione, comportandomi in modo civile.» «Capisco.» Mi sentivo immensamente stanco. «Sì, capisco.» «Come sai, l'ho sempre fatto.» Mi rivolse uno sguardo disperato. «Per tutta la vita mi sono comportato in modo civile.» «Giusto, Anthony. Ogni tua azione è sempre stata molto civile.» «Sono entrato dalla porta sul retro. Devono avermi sentito, perché quando sono arrivato di sopra lui non c'era più. E Caitlin gridava. Non posso descriverti le sue grida. Grida di un animale in trappola. Erano grida irragionevoli, insopportabili. Era in preda a una crisi isterica. Non avevo mai visto niente di simile in vita mia. Gridava che ti aveva tradito. Che aveva tradito tutti noi. Tradito se stessa. Era insopportabile.» Gli tremavano le mani. Bevve dell'altro brandy facendone cadere qualche goccia sul risvolto della giacca. Cercò di pulirsi con la mano, imbarazzato della propria goffaggine. «Non mi aspettavo che accusassero nessuno in particolare.» Ora la sua voce era calma. «Pensavo che potesse rimanere uno dei tanti casi irrisolti. È stato ingenuo da parte mia, ma ho persino pensato che tu potessi non venire mai a sapere del... dell'errore di Caitlin. Ho pregato che ti venisse risparmiato quel dolore. Forse non saresti mai venuto a sapere ciò che avevo fatto. Mi ingannavo.» «Quindi se non fossi venuto a saperlo, tutto sarebbe andato liscio?» «Liscio?» Mi fissò sbalordito. «Nulla al mondo avrebbe potuto cambiare la natura della mia azione. Michael, non puoi pensare che fossi preoccupa-
to per me stesso. Credi che potessi dimenticare la sofferenza che avevo causato? Sarò dannato per quello che ho fatto. Sono già dannato. Minuto per minuto. Ma a che cosa ti sarebbe servito saperlo? A che cosa ti serve adesso?» La testa mi martellava, stilettate di dolore mi trapanavano il cervello. Mi sforzai di bere qualche sorso di brandy. Anthony fissava il suo bicchiere. «Non ho fatto nessun piano. Volevo fingere che fosse solo un incubo spaventoso, e forse alla fine me ne sarei convinto, capisci? Solo uno spaventoso incubo. Perciò non sono tornato a casa. Quella notte la passai in albergo in modo da venirti a prendere alla stazione di polizia il giorno dopo. Ti dissi di essere venuto direttamente dall'aeroporto. Sai, forse a quel punto ci credevo davvero. Fino all'ultimo minuto pensai che forse mi sarei svegliato e tutto sarebbe tornato come prima.» Aspettai qualche attimo, riflettendo su come si fosse costruito un mondo fittizio di speranza e come lo avesse perduto. «Ma naturalmente niente era più come prima. Non sarebbe stato possibile. Lei era così bella. Vivere sapendo di aver distrutto una tale bellezza. Non è tollerabile.» Tolse con grazia il fazzoletto di seta color prugna dal taschino e se lo passò sui palmi delle mani, quindi lo infilò di nuovo al suo posto, attento a che facesse bella mostra di sé sul petto, come un'orchidea. «Non posso lasciare che incolpino Barney Carrick» dissi. «Non posso farlo, neppure per te.» Sembrava sbigottito. «Ma certo che non puoi farlo, ragazzo mio.» Infilò una mano nella tasca interna della giacca, ne estrasse una busta color crema e me la mostrò. Era indirizzata all'Ispettrice di Polizia Emma Dickenson. «Come vedi anch'io non posso farlo.» Tenevo gli occhi bassi, perché non volevo guardarlo. Le fiamme del camino si riflettevano sulla superficie lucida della scatola di legno di rosa e sulle finiture d'ottone. I fermagli erano aperti. "Wheelers di Londra, Armi di Qualità". Anthony si alzò e passò le dita sui risvolti della giacca. Appoggiò la busta alla ballerina di porcellana, immobile e silenziosa sulla sua scatola. Poi mi guardò aspettando che mi alzassi. «Penso che sia ora che tu te ne vada» disse. «Non credi?» Mi alzai lentamente e guardandolo in viso gli dissi. «Non ti permetterò di compiere un gesto simile.» «Tuo padre era un uomo meraviglioso, sai» disse come se quella osservazione fosse una risposta alle mie parole. Prese il ritratto incorniciato e lo
girò in modo che la luce cadesse sul vetro facendolo brillare. Mio padre ci sorrideva, sicuro di sé, bello, giovane per sempre. Anthony posò il ritratto sul tavolo e rimase a contemplarlo. «Devi cercare di perdonarci, Michael. Abbiamo provato con ogni mezzo a tenerti lontano dal male. Ma tutti quanti siamo creature così deboli. Come possiamo cambiare il mondo? Non siamo neppure padroni di noi stessi.» Rimanemmo per un attimo a qualche centimetro di distanza l'uno dall'altro, in un'atmosfera sospesa. Nei suoi occhi brillava la luce del fuoco. Senza sapere come mi ritrovai abbracciato al suo imponente corpo di pinguino e sentii il tremito della sua guancia contro il mio collo e l'odore della sua colonia fuori moda. «Anthony, non puoi chiedermi di...» «Mio caro vecchio» disse. Mi batté sulle spalle in modo rassicurante e mi spinse con garbo lontano da sé. «Se mi vuoi bene.» Non saprei dire con certezza se lo udii. Avevo raggiunto il fondo della strada, passando come un cieco davanti alle case finto Tudor, con i loro giardini ben curati. Un autobus rosso si fermò alla fermata devastata dalle sassate e ne scese una donna con un passeggino. Qualche metro più in là un uomo stava riparando uno steccato. Sull'altro lato della strada la gente entrava e usciva dalla bottiglieria. Incespicai e la donna con il passeggino mi afferrò per il braccio e mi sostenne. All'improvviso provai una sorta di vertigine e mi parve di sentire alle mie spalle uno schianto, breve e intenso. Simile una martellata su un chiodo. Quando mi ripresi guardai al di là del viso preoccupato della donna che gentilmente mi aveva soccorso e vidi solo uno stormo di piccioni che roteavano nel cielo bianco, spaventati da qualche insignificante segnale d'allarme. 32 Aspettai una settimana, prima di espletare le formalità più dolorose, rispondere alle domande più inquietanti e rendere le deposizioni. Poi, in una sera di freddo intenso, presi la macchina e mi diressi verso occidente. Non era ancora completamente buio. Il sole del tramonto scendeva in mezzo alle nubi come un disco di bronzo incandescente. Mi dirigevo verso il centro della sfera infuocata. Inconsapevolmente, ma senza esitare. Era un sollievo essere in viaggio. La macchina scivolava lungo il nastro interminabile dell'autostrada, verso l'ultimo ventaglio di luce. Il breve crepuscolo
turchino scivolò rapidamente nel buio della sera. Lasciai l'autostrada. Non c'era traffico sulla strada di campagna illuminata dalla luna. Gli alberi e i cespugli che la fiancheggiavano erano spolverati di brina che scintillava alla luce dei fari. In lontananza, nel fascio di luce degli abbaglianti apparve come per incanto un gufo, con i grandi occhi simili a specchi, che volò basso sopra la macchina. L'orologio del cruscotto segnava le otto meno un minuto nel momento in cui passai fra i due pilastri di mattoni dell'entrata e scesi lungo la buia galleria di faggi rossi e di cedri. Il viale era coperto di ghiaccio e i prati erano un tappeto di gemme preziose. Le alte finestre del pianterreno erano illuminate e quando scesi dalla macchina vidi Margot Dacre in cima alla scalinata. Prima di parlare lasciò che percorressi il sentiero di ghiaia, salissi i gradini e mi fermassi a qualche passo da lei. «Michael.» Indossava un golf blu e calzoni da cavallerizza porpora. «Ti aspettavo.» Rimanemmo in silenzio per qualche attimo. Poi i suoi occhi si posarono sui prati al di là delle mie spalle. «Se Caitlin si fosse confidata,» disse «l'avrei consigliata di raccontarti tutta quella sordida storia. Ci tengo che tu lo sappia.» «Lo so, Margot.» Inspirai profondamente. «Penso che abbia cercato di dirmelo. Mi lasciava indizi. Segnali. Molti. Penso che in realtà volesse che io interpretassi quei segnali e la cercassi. Ma ero troppo cieco per vederli.» Mi guardò con aria dura. «Indizi, segnali, tracce.» Ripeté le parole con disprezzo. «Che bambina sciocca! Come se la vita non fosse già misteriosa di suo.» Volse leggermente il capo e di nuovo il suo sguardo si perse tra i prati scuri. «Margot, mi piacerebbe molto fermarmi qui questa notte.» Mi sorrise, mi prese per mano e mi accompagnò all'interno della casa. Mi condusse attraverso l'atrio e l'immensa sala da pranzo, nel piacevole soggiorno sul retro. Il televisore era acceso. Non pensavo che nella casa dei Dacre esistesse qualcosa di banale come la televisione, e in quella scelta che si allontanava dalla consuetudine ravvisai un segno della rinascita di Margot, rimasta vedova da poco. Davano un vecchio film in bianco e nero, un programma natalizio. «Siediti, Michael» disse. Indicò lo schermo. «Sono film piuttosto vecchi e piuttosto sciocchi. Ma sento di essere rimasta indietro e voglio recupera-
re il tempo perduto.» Mi sedetti. Margot portò dei tramezzini e una bottiglia di vino. Una cena frugale nella vecchia biblioteca che Caitlin aveva trasformato in una stanza allegra. Io e Margot, la domenica sera, seduti davanti a un vecchio film. A fine programma si alzò e mi disse: «Naturalmente vorrai dormire nella stanza di Caitlin. L'ho preparata per te». Mi svegliai poco prima dell'alba. Dovevo essermi rigirato nel sonno, perché ero stato svegliato dal cigolio delle vecchie molle. La finestra era aperta e la tenda ondeggiava nella brezza notturna. Il cielo era ancora grigio antracite al di sopra dei pendii boscosi delle colline, sull'altro lato della valle. Mi misi seduto appoggiandomi a un gomito e da quella posizione vedevo - come doveva aver visto Caitlin negli anni della sua infanzia banchi di foschia lattiginosa sfiorare il fiume e rotolare verso il fondovalle. Avevo dormito un sonno senza sogni e ora mi sentivo riposato e calmo. Scivolai giù dal letto e mi vestii, poi silenziosamente lasciai la stanza, percorsi il lungo corridoio, scesi dalla scala posteriore, attraversai la cucina e uscii nel mattino rigido. L'aria pungente era impregnata dell'odore del fiume. Attraversai il prato sul retro della casa. Ormai il cielo alle mie spalle era abbastanza chiaro da rendere visibili le mie orme nere sull'erba bianca di brina. Superai il ceppo di cedro dove l'avevo vista la prima volta, il prato con l'erba alta dove un tempo lei mi aveva portato, trascinandomi lungo la buia navata tra i faggi, con il fiume nero e argento che mormorava scorrendo sotto la spessa coltre di vapore. Alcuni metri a valle la chiusa ribolliva. Del pontile non era rimasto molto, alcuni pali storti attorno ai quali vorticava l'acqua e una mezza dozzina di assi sospese sul fiume come gradini di una scala incompiuta. Misi un piede sull'asse più vicina. Cedette leggermente sotto il mio peso. Sul fondo limaccioso dovevano essere sepolte le monete che mi erano scivolate di tasca anni prima. Feci un altro passo incerto e poi un altro ancora e mi inginocchiai sul legno fradicio. Quando vuotai l'urna, le sue ceneri volteggiarono sull'acqua scura, raccogliendosi attorno ai legni sconnessi sotto di me. Dopo qualche attimo si persero nella foschia, lungo il nastro pallido del fiume, verso il fragore della chiusa. Le seguii con lo sguardo, finché sparirono. Quale frammento di fiume possedevamo? mi chiedevo. Quello di oggi o quello di ieri? «Non puoi tornare indietro» disse alle mie spalle. «Niente è come allora. Nemmeno tu sei più lo stesso.»
Sentii la voce di Caitlin, ma non avevo più paura, né di lei, né di nient'altro. Sentivo solo una grande tristezza quando mi voltai, perché sapevo che la voce non poteva essere la sua. Margot era ferma sul sentiero, nell'oscurità, avvolta in una giacca nera di pelliccia per ripararsi dal freddo dell'alba. Venne verso di me e finalmente la vidi. Verso oriente il cielo era d'oro e la luce del mattino le sfiorava il viso. Un airone si era posato sul terreno paludoso una decina di metri più a valle, dietro di me un pesce saltò fuori dall'acqua e vi ricadde tra gli spruzzi. Il risveglio del nuovo giorno. «Veniva qui a volte,» disse Margot «quando era bambina. Naturalmente le era assolutamente proibito. Lei pensava che io non lo sapessi. Ma io lo sapevo.» Inspirò profondamente l'aria gelida e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Lasciavo che venisse qui. Che avesse una sua via di fuga. Volevo che lei riuscisse a fuggire, visto che io non ne ero stata capace.» Scrutò il fiume. «Ora sono io che vengo qui e ogni volta spero di incontrarla.» «La incontri mai?» Sorrise. «In un certo senso sì, la incontro.» «E che cosa le dici?» «Che mi dispiace. Mi dispiace che non abbia potuto contare su di me.» «Che cosa risponde, Margot? Che cosa ti dice?» Alzò il viso per incontrare i miei occhi. «Dice che nessuno di noi può contare sugli altri. Neanche su se stesso. Dice che così è la vita. Dice che il segreto sta semplicemente nel fidarsi degli altri e di essere a nostra volta degni di tale fiducia.» Risalii la riva del fiume e mi incamminai per il sentiero seguendo Margot. «Sono le medesime cose che dice a me.» «Ma mi dice anche un'altra cosa, Michael. Dice che non dobbiamo pretendere di essere perfetti. Essere buoni è sufficiente.» La madre di Caitlin mi prese per il braccio e insieme percorremmo il sentiero verso casa, nel mattino che andava schiarendosi. «Sono contenta che tu l'abbia trovata, Michael» disse. Si fermò. «Ma viene il momento in cui dobbiamo lasciare i morti alle spalle. Il momento in cui dobbiamo tornare tra i vivi.» 33 Finalmente la voliera di Caitlin era vuota. Rimaneva solo uno spazio sgombro con l'eco della sua musica, dei suoi libri e dei suoi pensieri.
Dal pianterreno giungevano le voci degli uomini che portavano via le ultime cose dalle stanze. Sapevano che cosa era accaduto in quella casa e perciò lavoravano senza ridere, senza fischiettare, o canticchiare. Finirono in fretta. Non era rimasto molto. Gli addetti della casa d'aste avevano portato via praticamente tutto. Alcune cose di Caitlin le avevo messe in una cassa che avevo spedito a Margot, insieme a un paio di pezzi da regalare agli amici. Il resto era destinato al Centro di York Road. Non sapevo che cosa ne avrebbero fatto, ma non avevo dubbi che fossero loro i giusti destinatari. Aspettai finché ebbero finito. Ero contento di essermi liberato di tutto, ma non volevo vederli portar via gli umili oggetti della cucina. Erano cose senza alcun valore, ma avevano costituito il tessuto della nostra vita quotidiana; i piatti, le tazze, le posate, i tascabili, i mobiletti, i portavasi, i video che avevamo registrato e mai guardato, l'apriscatole, il portasapone, le calamite da attaccare al frigorifero e gli strofinacci. Si fece silenzio al pianterreno e sentii chiudere la porta. Gli uomini, impazienti di andarsene, ma troppo rispettosi per farmi fretta, mi aspettavano seduti sul camion che bloccava il traffico. Mi affacciai alla finestra. Il culmine dei tetti, la sporcizia lasciata dai piccioni nella grondaia del vicino e una grande estensione di cielo pallido. Ecco che cosa vedeva Caitlin dalla sua stanza. Giorno dopo giorno, mentre io vivevo una mia vita, una vita piena e lontana da lei. E ora sapevo che nel suo futuro vedeva una vita ordinata e decorosa, intessuta di promesse senza valore, perché nessuna sarebbe mai stata mantenuta fino in fondo. Una volta mi aveva detto che aveva paura di una vita priva di scopi. Uscii dalla stanza e senza più fermarmi scesi la scala a chiocciola dove l'avevo trovata morente. Passai davanti alla porta della nostra camera da letto, infilai la seconda rampa di scale e scesi in strada. «Non sarà un bel Capodanno per lei, eh?» L'autista era calvo, aveva un collo taurino e un orecchino al lobo sinistro. Guardò subito altrove. Erano in tre e lui era il capo. Sapevo che si era sentito in dovere di dire qualcosa, ma ora si sentiva a disagio. Gli altri due continuarono a fissare fuori dall'altro finestrino. Gli sorrisi per toglierlo dall'imbarazzo. Presi il blocco delle ricevute che mi passava e firmai dove mi indicava. Gli diedi del denaro. Mi ringraziò guardando la casa. Gli restituii le ricevute. Nei suoi occhi lessi la stessa compassione rispettosa che in quei mesi avevo scorto sui volti di tutti. Av-
viò il motore. «Buona fortuna, amico» disse. Mise la marcia e con un balzo si immise nel flusso del traffico. Il frastuono del camion riempiva la strada e in un primo momento non sentii il cellulare che suonava. «Sono io» disse Angie. Per un attimo non riuscii a rispondere. Ero impalato sul marciapiede, rigido, come sull'attenti. «Non sapevo che fossi ancora a Londra» dissi. «Partiamo. Oggi.» Fece una pausa. «Ascolta, non possiamo vederci? Per un secondo. Vorrei... Lo zio Stanley non vuol saperne di partire senza salutarti.» «Non potete venire qui. Non c'è più niente.» «Ti veniamo incontro. In un posto qualsiasi. Dove preferisci.» «Tower Bridge» dissi a caso. «Sul ponte. A metà del ponte.» Esitò, come se non fosse convinta di quella scelta. «Va bene» disse infine. «Ce la fai a venire subito?» «Se è questo che vuoi.» «Sì.» Ci fu silenzio. «Aspettami» dissi. «Voglio darti una cosa.» Mi feci lasciare dal taxi in una piazzola sul lato della City e li vidi sul passaggio pedonale proprio a metà del ponte. Il vento faceva svolazzare il cappotto dello zio Stanley. Lei era appoggiata al parapetto a qualche passo da lui e fissava il fiume. Sapevo che si rifiutava di guardare nella mia direzione. Pagai il taxista e scesi. Misi sulle spalle lo zaino e percorsi un centinaio di metri sotto i montanti di ferro dipinti di azzurro. «Il giovane dottor Seven» lo zio Stanley mi venne incontro con la sua corta pipa in bocca. Sembrava spenta, perché il vento di gennaio che spazzava il fiume trascinava via il fumo. Mi allungò la mano scarna, piegandosi in avanti e fissandomi con i suoi occhi azzurri. «Non dire che non ti do mai niente» disse. Angie mi guardò con un'espressione dura, tenendo le braccia incrociate sul petto. I suoi occhi erano molto neri. «Ciao, Angie» dissi. Non disse una parola e non si mosse. «Lasciala perdere» mi disse lo zio Stanley con indifferenza. «Io so come ci si comporta, anche se lei non lo sa. E non è buona educazione partire
senza dire arrivederci. Ecco, ora l'ho detto.» Mi batté sul braccio e si allontanò fermandosi a qualche decina di metri di distanza. Si appoggiò al parapetto e concentrò la propria attenzione sulla mole della Torre e sugli edifici della City che brillavano in lontananza. Voleva lasciarci soli. «Su una cosa ha ragione» disse Angie. «Non devo partire senza ringraziarti. Per Barney. So che senza il tuo aiuto sarebbe morto.» «È il mio lavoro» dissi cercando di sorridere. «Salvare gli altri è il mio mestiere.» Le parole sciolsero in parte la tensione. Ci spostammo sul bordo del marciapiede, dove un montante offriva riparo dal vento. Il suo sguardo vagava sul fiume. «Ti ho portato una cosa.» Lasciai cadere lo zaino sulle pietre della pavimentazione e lo aprii. Angie vide le due cartellette e sentii che tratteneva il fiato. «Non mi appartengono» dissi. «Sono suoi. Di Barney. Glieli puoi dare tu, da parte di Caitlin.» Fissò a lungo le cartellette. «I bellissimi disegni di Caitlin. Non ho niente da darti in cambio» disse con aria infelice. Mi avvicinai, ma lei si ritrasse. «Che cosa dovrei fare?» sbottò infuriata. «Star seduta nel mio appartamentino di Leeds in attesa che il mio cavaliere venga da me galoppando sulla M1, ogni volta che ritorna dall'estero? Non voglio.» Osservai il suo viso. I capelli si erano sciolti e le vorticavano attorno. Sembrava una Gorgone, selvaggia e pericolosa. «Non deve andare necessariamente in quel modo» dissi. «Alcune cose le ho imparate.» «Alla fine che differenza fa?» Tornò a fissare il fiume. «È come dice lo zio Stanley. Non abbiamo una pagina bianca su cui scrivere la nostra storia. Non più. Forse non l'abbiamo mai avuta.» «Potremmo provare» dissi. Si voltò di scatto. «Non capisci? Io ho da fare. Ho molte cose di cui occuparmi. Ho questo vecchio pazzo cui pensare. Ho un lavoro. Una mia vita da vivere.» Si chinò e si mise lo zaino in spalla. «Non sei il solo professionista del salvataggio, Michael.» Non avevamo altro da dirci, ma nessuno dei due si muoveva. Infine disse in tono più calmo. «Adesso che cosa farai?» «Per qualche tempo niente.»
«Ma quando ti sentirai pronto?» «Suppongo che tornerò a fare le cose di sempre. È l'unica cosa che so fare. Salvare il mondo.» «Forse ho qualcosa da darti in cambio.» «Davvero?» «Posso darti un piccolo consiglio.» «Cioè?» «Sali sulla tua bella macchina, Michael, e viaggia per una settimana. A sud. Verso il sole. Trova un posto grazioso vicino all'acqua, siediti con una bottiglia di vino. Vai a cercare la tua Itaca. E dài al mondo la possibilità di salvare te.» «E dopo?» «Non lo farai» disse con voce triste. «Non te lo puoi permettere.» Alzò una mano e con molta delicatezza mi appoggiò la punta di un dito sul petto, dove pendeva la chiave. Mi sentii mancare. Chiusi gli occhi. Vidi riaffiorare una successione di immagini che presero vita, nitide e precise. Caitlin in piedi nell'acqua gelida che ride, mentre i suoi occhi e il suo corpo mi rivolgono una supplica. Caitlin sul prato che con un dito tiene le scarpe gettate sopra la spalla e mi sorride nella luce dell'alba. Caitlin che nell'oscurità guida la mia mano sul suo ventre e lascia cadere la chiave sul mio petto. «Avevo chiuso la porta a chiave.» Fui sorpreso dalla chiarezza della mia voce. «La porta sul retro della casa. La sera dell'incendio. E avevo portato via la chiave. Non mi era permesso prendere la chiave. Ma pensavo che se mio padre fosse sceso e avesse trovato la porta chiusa a chiave, avrebbe pensato che fossi nella mia stanza. Invece camminavo per le strade, maledicendolo perché ancora una volta non mi portava con sé.» «Eri un bambino» disse Angie. «Solo un bambino.» Con aria grave e con il vento che le scompigliava i capelli aspettava che continuassi. «Quando tornai indietro, vidi le fiamme attraverso il vetro. Sapevo che erano intrappolati, ma non potevo entrare per avvertirli. Fui preso dal panico. Non mi venne neppure in mente di chiamare i vicini. Persi la chiave nel buio. La cercai in ogni tasca cinquanta volte. Mi misi in ginocchio e la cercai tastando nel prato. La trovai una settimana dopo, nell'erba, a mezzo metro da dove mi trovavo quella notte. La trovai, ma non nel momento in cui ne avrei avuto bisogno. Non potevo svegliarli. Picchiai sulla porta finché arrivò la polizia. Picchiai così forte che mi spezzai tre dita. Infilai le mani nel vetro rotto e mi dovettero dare quaranta punti. Gridai in modo co-
sì selvaggio che rimasi senza voce per una settimana. Ma non riuscii a trovare la chiave. Non riuscii a trovare il modo di salvarli.» Per un attimo rimase immobile. Poi appoggiò lo zaino per terra, mi si avvicinò e mi baciò con passione. Mentre eravamo avvinghiati improvvisamente infilò la mano nella mia camicia e la aprì strappando i bottoni. Afferrò la chiave e la tirò con tale violenza che la catenina si spezzò, quindi la lanciò in alto, oltre le sue spalle, oltre la balaustra. La guardai brillare nel sole dell'inverno e cadere con un piccolo spruzzo nell'acqua turbolenta. Un gabbiano color ardesia si tuffò per esaminare che cosa fosse caduto in acqua, ma, non trovando niente, volò via. Quando tornai a guardare sul ponte, Angie si stava allontanando con il braccio infilato in quello del vecchio e lo zaino sulle spalle. Vidi lo zio Stanley che scuoteva la testa, ma Angie non si volse. Epilogo Nick entrò nel porticciolo roccioso lasciando che la barca scivolasse dolcemente verso la riva. Il rumore del vecchio motore diesel era ridotto a un singhiozzo regolare. Mi piaceva il rientro dal mare. Nel momento in cui la barca entrava nella baia, il vento dello Ionio cadeva improvvisamente e io sentivo il viso teso e caldo nel sole del tramonto. Sotto la barca una frotta di pesci argentei apparve e sparì come una spira di fumo. Case bianche e blu punteggiavano il pendio roccioso della collina. Erano quasi le sei di sera e dalle taverne lungo la banchina si diffondeva odore di cibo, carne arrosto, erbe aromatiche, olio bollente. Ero in forma, rinvigorito dal sole e dall'esercizio fisico. C'erano altre barche nel porto - più numerose dei giorni precedenti - e il terzo dei quattro taxi dell'isola era uscito dal suo stato di ibernazione invernale. Sul molo il suo proprietario, un uomo grasso di nome George, lo lustrava in attesa dei nuovi clienti. Era il proprietario anche della taverna al porto, della lavanderia a gettoni, del negozio che affittava motorini e dell'agenzia turistica. Ma era solo aprile e la massa dei vacanzieri per il momento era lontana. Per qualche tempo ancora avrei potuto godermi il posto in pace, essendo uno dei pochi stranieri sull'isola. Nick fece scivolare la barca sulla banchina, non lontano dal punto in cui George stava lavando la sua macchina, e con agilità saltò a terra. Gli passai le ceste del pesce, in una delle quali un grosso polipo allungava i suoi ten-
tacoli inquisitori. «Ehi, George,» Nick tirò il mozzicone della sigaretta in acqua «oggi c'è mancato poco. Mike ha quasi preso un pesce.» «Davvero?» George batté la pelle di daino sulla carrozzeria della macchina e ciondolando venne verso la barca. «Ehi, ragazzi» dissi. «Era un pescespada.» «Non male, non male» fece George, porgendomi una mano per aiutarmi a uscire dalla barca. «Se penso che di solito riesci "quasi a prendere le sardine".» Scoppiarono a ridere e, secondo copione, incominciarono a scambiarsi manate sulla schiena e a ripetere a gran voce la battuta in greco, su e giù per la strada non meno di una decina di volte. Sapevo che non avrebbero mai smesso di prendermi in giro. Aiutai Nick a legare la barca azzurra e mi diressi verso la taverna di George. Salutai un paio di vecchi che giocavano a backgammon. Presi dal frigorifero una birra e mi sedetti al solito tavolo sotto il tendone. Mi piaceva osservare l'attività del porto dalla taverna. Era appena arrivato il traghetto da Leucade che aveva attraccato all'estremità opposta della baia. Vedevo i passeggeri che scendevano. Il porto non era sufficientemente grande per accogliere i moderni idrovolanti e il traghetto di Leucade era in realtà un ex caicco da pesca gestito da una famiglia locale che faceva servizio solo quando ne aveva voglia. Immaginavo che prima o poi avrebbero messo cariche di dinamite all'ingresso del vecchio porto per fare posto alle imbarcazioni più grandi e aprire l'isola al turismo di massa. Speravo che non succedesse troppo presto. Sdraiato sulla sedia bevevo la mia birra. Più tardi, dopo essersi ripulito e aver frettolosamente assolto i suoi doveri familiari, Nick mi avrebbe raggiunto, accompagnato da uno dei suoi fratelli e da un paio di cugini. Al gruppetto si sarebbero aggiunti il poliziotto locale, il proprietario belga del bar Scick che apriva solo a maggio, alcuni pescatori, e forse un paio dei turisti più curiosi. A quel punto l'atmosfera della taverna sarebbe diventata allegra, trasformando presto il rituale serale del nostro incontro in una vera e propria festa. Anche quel rituale mi piaceva, ma in attesa era bello guardare il sole scendere in mare e sognare il pescespada che nuotava libero lasciando una scia fosforescente. Finito di lustrare la macchina, George entrò nella taverna con parte del pesce pescato da Nick e passando tra i tavoli lo portò in cucina. Tornò dopo qualche minuto con in mano una caraffa di rosso locale resinato e la
mise davanti a me assieme a un bicchiere di vetro spesso. Si era messo il grembiule. Era il segnale che la taverna era ufficialmente aperta. Nessuno veniva servito prima che George indossasse il suo grembiule. Io ero autorizzato a prendere una birra dal frigorifero, solo perché avevo preso in affitto la casa bianca accanto alla taverna, che naturalmente apparteneva a George. «Allora, Mike!» gridò George con il tono di voce che usava per richiamare l'attenzione di tutta la clientela. «Che pesce vuoi "quasi" mangiare? Quello che hai "quasi" preso?» chiese sghignazzando fragorosamente. «Ciao, Michael» disse Angie. Improvvisamente nella taverna calò il silenzio. George, vedendo la mia faccia, sparì. Ero senza fiato. Tornò con un secondo bicchiere, lo riempì e con il viso raggiante avvicinò una sedia al tavolo per Angie, quindi sparì nuovamente. Lo sentivo muoversi nella cucina alle mie spalle. Angie indossava una camicetta di lino bianco ed era abbronzata. I lunghi capelli neri le scendevano sino alla vita. «Vedo che hai seguito il mio consiglio» disse guardandosi attorno. «Non ci contavo. Hai trovato Itaca.» Mi sorrise e si sedette. «Non è stato facile invece trovare te.» «Come hai fatto?» «Ho chiesto a tutti. Alla fine una donna del St Ruth ha avuto pietà di me. Meredith qualcosa. Non dovrei dirtelo. Ma anche lei non aveva l'indirizzo preciso. E mi ci sono voluti due giorni per prendere il traghetto da Leucade a qui.» Bevve un sorso di vino rosso, fece una smorfia, chinò la testa di lato e bevve ancora. «Non è male,» disse «una volta che ci si abitua.» «No. Infatti. Io mi sono abituato.» «Devo ammettere che stai benissimo, Michael.» Appoggiò il bicchiere sul tavolo. «Evidentemente il merito è di questo vino.» Nella taverna nessuno fiatava. Era come fare conversazione su un palcoscenico davanti a una platea affollata. Angie fece un profondo respiro. «Non preoccuparti, Michael. Non sono venuta a rubare la tua pace.» «Non sono preoccupato.» «Sono venuta a portarti un messaggio. Un messaggio triste, in un certo senso.» «Si?» «Lo zio Stanley. È morto una settimana fa. Anzi, dieci giorni fa.» «Mi spiace. Che cosa è successo?»
«Dicono che sia stato il cuore, ma credo che in realtà si sia semplicemente spento. È rimasto in ospedale solo due giorni. Voleva andarsene. Aveva ottantacinque anni, sai. L'avresti mai creduto?» «Sono contento che non abbia sofferto. Era un vecchio magnifico. Mi piaceva.» «A quanto pare anche tu piacevi a lui.» Posò la borsa sul tavolo e ne estrasse una grossa busta. «Sapeva di essere vicino alla fine. Mi ha fatto promettere che ti avrei consegnato questa busta. Subito.» Imitando l'accento dello zio Stanley e l'espressione seria che assumeva quando voleva scherzare disse: «Appena mi hanno messo sottoterra, bambina». Mi pareva di sentire la sua voce. «Non ha voluto che te la inviassi per posta. "Portala a mano" mi ha detto.» «Che cos'è?» «Non ha voluto dirmelo. Ha detto solo che dovevo consegnarla a te. Voleva addirittura darmi i soldi per il biglietto. Ma dovevo portartela io, a mano, e subito. Perciò, eccomi qui.» La busta era indirizzata, con una scrittura filiforme, al dottor Michael Seven. Non sapevo se aprire la busta subito, davanti a lei, o aspettare. Era rigonfia. «Deve essere strano per te vivere senza di lui» dissi, per prendere tempo. «Sì. Sono triste. Ma nello stesso tempo sono felice d'averlo conosciuto.» Bevve un altro sorso di vino. «E mi sento libera.» Posò il bicchiere e mi guardò negli occhi. C'era in lei una calma che non avevo mai visto prima. «Aprila, Michael.» Strappai la pesante busta, dalla quale sfilai un mazzetto di fogli. Forse una dozzina. Li feci passare uno per uno. «Sono bianchi, vero?» Alzai i fogli perché li vedesse anche lei. Sorrise e versò dell'altro vino per tutti e due. Appoggiò i gomiti sul tavolo e il viso sulle mani intrecciate. Dietro di noi una barca usciva scoppiettando dal porticciolo. Ascoltammo il ronzio del motore finché non svanì oltre l'imboccatura della baia sul mare blu cobalto. FINE