LOIS McMASTER BUJOLD LA MESSAGGERA DELLE ANIME (Paladin Of Souls, 2003) A Sylvia Kelso, per il suo amore della sintassi,...
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LOIS McMASTER BUJOLD LA MESSAGGERA DELLE ANIME (Paladin Of Souls, 2003) A Sylvia Kelso, per il suo amore della sintassi, e per essere la principale sostenitrice di Ista 1 Ista si sporse dal parapetto merlato sulla sommità della torre di guardia, appoggiando le pallide mani sulla pietra ruvida, e rimase a osservare, stordita ed esausta, l'ultimo convoglio uscire dal portone del castello. Gli zoccoli dei cavalli echeggiavano sul vecchio acciottolato, tra i saluti e tra le volte del portale. Il fratello, l'austero Provincar della Baocia, insieme con la famiglia e col seguito, erano gli ultimi ospiti ad andarsene dopo che i Divini avevano concluso i riti funebri di due settimane e la cerimonia di sepoltura. Dy Baocia stava ancora parlando con il siniscalco, Ser dy Ferrej, che gli si era avvicinato e ascoltava le ultime, e senza dubbio interminabili istruzioni. Il fedele dy Ferrej aveva servito la defunta Provincara Vedova negli ultimi due decenni della sua lunga permanenza a Valenda... Le chiavi del castello e della fortezza luccicavano, appese alla cintura che gli avvolgeva la vita corpulenta. Erano le chiavi della madre, che Ista dopo aver ricevuto e custodito, aveva consegnato al fratello maggiore insieme con altri documenti, inventari e istruzioni che la morte di una grande dama implicavano. E che lui non aveva restituito alla sorella, bensì al bravo, vecchio, onesto dy Ferrej, perché le custodisse per sempre. Chiavi per chiudere fuori ogni pericolo... e, se necessario, per rinchiudere la stessa Ista. Forza dell'abitudine. In realtà, non sono più pazza, pensò. Non che volesse le chiavi di sua madre, né quella sua vita che era svanita con loro. Sapeva a malapena ciò che voleva. Sapeva ciò che la spaventava: essere rinchiusa in qualche luogo buio e angusto da persone che l'amavano. Prima o poi, un nemico avrebbe abbassato la guardia e, sfinito dal suo compito, se ne sarebbe andato. L'amore, invece, poteva essere inesorabile. Le sue dita stringevano freneticamente la pietra. La colonna di dy Baocia discese la collina, sfilò attraverso la città e ben presto scomparve alla vista tra l'ammasso di tetti rossi. Dy Ferrej si girò e si avviò con passo stanco verso il portone, scomparendo.
Il freddo vento primaverile le sollevò una ciocca di capelli, che le s'impigliò tra le labbra; Ista fece una smorfia e la infilò tra le trecce che le incorniciavano il capo. Erano così tirate che il cuoio capelluto le doleva. In quelle ultime due settimane, il clima si era fatto più mite; troppo tardi, tuttavia, per alleviare la sofferenza di una donna anziana costretta a letto da un incidente e dalla malattia. Se la madre non fosse stata così vecchia, le ossa fratturate sarebbero guarite più in fretta, e l'infiammazione ai polmoni non avrebbe avuto il tempo di penetrare nel suo petto. Se non fosse stata tanto fragile, forse la caduta da cavallo non le avrebbe procurato delle fratture, in primo luogo. Se non fosse stata così ostinatamente cocciuta, probabilmente avrebbe evitato del tutto di montare a cavallo alla sua età... Ista abbassò lo sguardo e, rendendosi conto che i polpastrelli sanguinavano, nascose le mani in fretta tra le pieghe dell'abito. Durante le cerimonie funebri, gli Dei avevano indicato che l'anima della vecchia dama era stata presa dalla Madre dell'Estate, com'era prevedibile e giusto. Nemmeno Loro avrebbero osato contraddire le sue opinioni in merito al protocollo. Ista immaginò la vecchia Provincara che dettava ordini al cielo, e un sorriso leggermente arcigno le sfiorò le labbra. Eccomi finalmente sola. Considerò gli spazi vuoti di quella solitudine, e il suo spaventoso costo. Marito, padre, figlio e madre erano scesi nella tomba prima di lei, l'uno dopo l'altra. Sua figlia era stata reclamata dalla royacy di Chalion in un abbraccio tanto stretto quanto quello di un sepolcro, e un suo ritorno da quelle alte sfere era tanto poco probabile, ai cinque Dei piacendo, quanto un ritorno degli altri dai loro abissi. Di sicuro, io ho finito. I ruoli che l'avevano definita erano stati tutti espletati. Un tempo era stata la figlia dei suoi genitori. Poi la grande e sfortunata consorte di Ias, quindi la madre dei suoi figli. Alla fine, la custode di sua madre. Bene, adesso non sono più nessuna di queste cose. Chi sono, adesso che non sono più circondata dalle mura della mia esistenza? Ora che si sono ridotte in polvere e macerie? Be', era pur sempre l'assassina di Lord dy Lutez. L'ultima di quella piccola, segreta compagnia rimasta in vita. Quello aveva fatto di se stessa, e quello sarebbe rimasta. Si sporse nuovamente tra le merlature, con la pietra che graffiava le maniche color lavanda dell'abito da lutto, tirando i fili di seta. I suoi occhi seguirono la strada nella chiara luce del mattino, a iniziare dalle pietre sottostanti per poi scendere attraverso la città, e oltre il fiume... e poi dove? Tut-
te le strade erano un'unica strada, dicevano. Una grande rete diffusa sul territorio, che si allargava e si ricongiungeva. Tutte le strade seguivano due direzioni. Dicevano. Io invece voglio una strada senza ritorno. Un ansito spaventato alle sue spalle le fece girare di scatto la testa. Vide una delle sue dame con la mano davanti alla bocca, gli occhi sgranati, il respiro affannoso per la salita, che le sorrideva con falsa celia. «Mia Signora, vi ho cercata ovunque. Perché... perché non vi allontanate dal parapetto...» Ista ebbe una smorfia ironica. «Stai tranquilla. Non ho intenzione d'incontrare gli Dei faccia a faccia, oggi.» Né in qualsiasi altro momento. Mai più. «Tra gli Dei e me non corre buon sangue.» Lasciò che la donna la prendesse sottobraccio e l'accompagnasse, come se fosse una cosa del tutto casuale, lungo il parapetto merlato verso la scala interna, attenta, osservò Ista, a interporsi tra lei e lo strapiombo. Tranquilla, donna. Non desidero le pietre. Desidero la strada. Quel pensiero la fece trasalire. Era un pensiero nuovo. Io che ho un pensiero nuovo? Tutti i suoi vecchi pensieri sembravano così esigui e laceri, come un lavoro a maglia che venga fatto e disfatto, fatto e disfatto di nuovo, finché tutti i fili risultino sfilacciati. In che modo avrebbe potuto raggiungere la strada? Le strade erano fatte per i giovani uomini, non per le donne di mezza età. Il povero ragazzo orfano preparava il suo fagotto e s'incamminava lungo la via, nella speranza di realizzare i propri sogni... migliaia di racconti iniziavano in questo modo. Lei non era povera, non era un ragazzo, e dal suo cuore era stata sicuramente strappata ogni speranza, come soltanto la vita e la morte sanno fare. Però adesso sono un'orfana. Non è sufficiente per qualificarmi? Girato l'angolo, si diressero verso la torre rotonda dove si apriva l'angusta scala a chiocciola che portava al giardino interno, Ista lanciò un ultimo sguardo ai radi cespugli e agli stenti alberelli abbarbicati sulle cortine del castello. Lungo il sentiero che risaliva la scarpata, un servo tirava un mulo carico di legna, diretto verso l'entrata posteriore. Nel giardino della Madre, Ista rallentò, resistendo alla stretta insistente della sua dama sul braccio, avviandosi cocciutamente verso una panchina nel roseto ancora spoglio. «Sono stanca», le disse. «Riposerò qui per un po'. Potresti andarmi a prendere una tazza di tè?» Riuscì a vedere come la dama di compagnia stesse analizzando nella sua mente i vari rischi, considerando la sua alta carica con scarsa fiducia. Ista
si rabbuiò. La donna fece una riverenza. «Certo, mia signora. Lo dirò a una cameriera. Sarò subito di ritorno.» Non ne dubito. Ista attese giusto il tempo di vedere la donna girare l'angolo, poi scattò in piedi e corse verso l'uscita posteriore. La guardia aveva appena fatto entrare il servo col mulo. Ista, con il capo eretto, li superò come un lampo senza voltarsi indietro. Fingendo di non udire il flebile richiamo della guardia: «Mia signora...?» proseguì a passo svelto lungo il ripido sentiero. Le sottane che strisciavano e la sopravveste di velluto nero che ondeggiava, s'impigliavano tra le erbacce e i rovi come artigli che cercassero di trattenerla. Una volta al riparo dei primi alberi, accelerò i suoi passi fin quasi a correre. Quando era una ragazza aveva disceso numerose volte quel sentiero correndo fino al fiume. Prima che non fosse più nulla per nessuno. Adesso non era più una ragazza, questo doveva ammetterlo. Tremava e ansimava quando intravide il luccichio del fiume baluginare tra la vegetazione. Girò e proseguì lungo l'argine. Il sentiero conduceva ancora, come ricordava, alla vecchia passerella che attraversava il corso d'acqua, per poi risalire a ricongiungersi con le strade principali che aggiravano sinuose la collina verso o dalla città di Valenda. La strada era fangosa e disseminata d'impronte di zoccoli; forse la colonna di suo fratello era appena passata, diretta verso il principato di Taryoon. Nelle ultime due settimane aveva spesso cercato di convincerla ad accompagnarlo laggiù, promettendole stanze e servitù nel suo palazzo, sotto il suo occhio benevolo e protettivo, come se lì non avesse stanze e servitù e occhi indagatori a sufficienza. Ista prese la direzione opposta. L'abito da lutto e le scarpette di seta non erano certo adatti a una strada di campagna. Le sottane inzuppate d'acqua sporca ondeggiavano attorno alle caviglie; il fango aveva impregnato le calzature leggere. Il sole, che saliva nel cielo, le riscaldò la schiena coperta di velluto, e lei cominciò a sudare in modo poco appropriato per una signora. Continuò ad andare avanti, sentendosi sempre più a disagio e folle. Quella era follia. Proprio il genere di azione che faceva rinchiudere le donne nelle torri sotto la custodia di dame tutt'altro che intelligenti... e non ne aveva forse avuto abbastanza di tutto questo? Non aveva abiti di ricambio, né un progetto, né denaro, neanche una moneta di rame. Si toccò i gioielli che le cingevano il collo. Il denaro c'è. Sì, ma il valore era troppo alto: quale mercante sarebbe stato in grado di darle tanto? Quei gioielli non erano una risorsa, sem-
mai un obiettivo degno dei briganti. Il rumore di un carro le fece distogliere lo sguardo dal sentiero pieno di pozzanghere. Un contadino stava portando un carico di letame per concimare i campi. L'uomo girò la testa e la fissò ammutolito quando se la vide davanti. Lei gli restituì un cenno regale; dopotutto, quale altra cortesia avrebbe potuto offrire? Fu sul punto di scoppiare in una sonora risata, ma non osando farlo, soffocò quella manifestazione sconveniente, e proseguì senza voltarsi. Camminò per circa un'ora, finché, sfinita dal peso delle vesti, le gambe cominciarono a incespicare. Allora si fermò. Era sul punto di mettersi a piangere tanta era la frustrazione che provava. Così non funziona. Non so come farlo. Non ho mai avuto la possibilità d'imparare, e adesso sono troppo vecchia. Di nuovo sentì dei cavalli al galoppo, e un grido. Tra le altre cose aveva dimenticato di procurarsi un'arma, fosse anche un semplice pugnale per difendersi da un'aggressione. S'immaginò nella situazione di dover affrontare uno spadaccino con un'arma qualsiasi che fosse riuscita a trovare, e fece una smorfia. L'esito sarebbe stato talmente chiaro che non valeva neanche la pena di preoccuparsene. Si girò a guardare e sospirò. Ser dy Ferrej e un servitore galoppavano lungo il sentiero sulle sue tracce, col fango che schizzava ai lati dei cavalli. Pensò di non essere tanto stupida o tanto pazza da desiderare che al loro posto vi fossero dei banditi. Probabilmente era proprio questo il problema; forse non era diventata abbastanza pazza. Il vero squilibrio mentale non conosce limiti. Però si sentì sufficientemente folle da desiderare ciò che non era abbastanza folle da afferrare, e quella era una follia inutile. Il cuore le si strinse per il senso di colpa, vedendo il viso paonazzo, terrorizzato e sudato di dy Ferrej mentre le si affiancava. «Royina!» gridò. «Mia signora, che cosa fate qui?» Poco ci mancò che cadesse di sella per stringerle le mani e fissare il suo volto. «Mi sono stancata della sofferenza del castello. Ho deciso di fare una passeggiata sotto il sole primaverile per trovare un po' di conforto.» «Mia signora, avete percorso cinque miglia! Questa strada non è adatta a voi...» Sì, e io non sono adatta a questa strada. «Senza dame, senza guardie... Per i cinque Dei, pensate al vostro rango e alla vostra sicurezza! Pensate ai miei capelli grigi! Me li avete fatti rizzare con questa sortita.»
«Chiedo venia ai vostri capelli grigi», disse in tono contrito. «Non meritano un compito tanto gravoso per me, e neanche voi, buon dy Ferrej. Volevo solo... fare una passeggiata.» «Ditemelo la prossima volta, e vi organizzerò...» «È proprio questo che non desidero. Voglio essere da sola.» «Voi siete la Royina Vedova di tutta Chalion», affermò dy Ferrej con fermezza. «Siete la madre della Royina Iselle, per l'amore dei cinque Dei. Non potete andarvene in giro come una ragazza di campagna.» Ista sospirò al pensiero di essere una contadina, e non più la tragica Ista. Per quanto non dubitava che anche le ragazze di campagna avessero le loro tragedie, e che fossero commiserate in modo molto meno poetico rispetto alle Royine, non c'era nulla da guadagnare a discutere con lui. Dy Ferrej fece scendere il servitore da cavallo, e Ista lasciò che l'aiutasse a montare. Le gonne dell'abito non erano adatte per cavalcare, e la intralciarono mentre cercava le staffe. Ista si rabbuiò di nuovo quando il servitore le prese le redini e cominciò a condurre il cavallo. Dy Ferrej si chinò sull'arcione per prenderle la mano, per consolarla delle lacrime che le inumidivano gli occhi. «Lo so», mormorò con dolcezza. «La morte della vostra signora madre è una grande perdita per tutti noi.» Ho smesso di piangere per lei settimane fa, dy Ferrej. Una volta aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più pianto né pregato, ma in quegli ultimi, terribili giorni al capezzale della madre aveva dovuto rimangiarsi quel giuramento. Dopotutto, né le preghiere né le lacrime sembravano aver prodotto qualcosa. Decise di non turbare la mente del siniscalco spiegandogli che stava piangendo per se stessa, e non per il dolore, bensì per una sorta di rabbia. Se la credeva ancora sconvolta dalla recente perdita, quella era la soluzione migliore. Dy Ferrej, esausto quanto lei dalle passate settimane di sofferenza e di cura degli ospiti, non la turbò con altri discorsi, e non osò farlo neppure il servitore. Lei si sistemò sulla sella e lasciò che la strada si riavvolgesse alle sue spalle, come un tappeto messo via, cui si neghi l'utilizzo. A che le serviva ora? Si mordicchiò le labbra, fissando avanti con lo sguardo assente, tra le orecchie meste del cavallo. Dopo qualche minuto, le vide rizzarsi. Seguì lo sguardo della bestia sbuffante e s'avvide di un altro convoglio che si stava avvicinando su una strada laterale. Era composto da una o due dozzine di cavalieri su cavalli e muli. Dy Ferrej allarmato si alzò sulle staffe stringendo gli occhi per metterli a fuoco, ma subito si rilassò sulla sella riconoscendo i quattro esplora-
tori abbigliati con le tuniche azzurre e i tabarri grigi dei soldati-fratelli dell'Ordine della Figlia, il cui mandato comprendeva la tutela dei pellegrini sulla strada. Mentre il gruppo si avvicinava, vide che tra i suoi membri c'erano sia uomini sia donne, ciascuno abbigliato con i colori del proprio Dio, entro i limiti concessi dal loro guardaroba, e che alle maniche portavano nastri colorati a indicare le loro sante mete. I due gruppi raggiunsero l'incrocio delle strade nello stesso momento, e dy Ferrej scambiò dei cenni rassicuranti coi soldati-fratelli, uomini impavidi e coscienziosi come lui. I pellegrini guardarono incuriositi Ista, nei suoi eleganti abiti solenni. Un donnone dal volto rubizzo le rivolse un allegro sorriso. Sicuramente, non è più vecchia di me pensò Ista, e dopo un attimo d'incertezza le sue labbra s'incurvarono per restituire il cenno di saluto. Dy Ferrej aveva interposto il proprio cavallo tra i pellegrini e Ista, ma il suo intento protettivo venne meno quando il donnone tirò le redini della sua cavalcatura e, avanzando al trotto, lo aggirò. «Che gli Dei vi concedano una buona giornata, signora», ansimò la donna. Il suo grasso pezzato era sovraccarico di bisacce, alle quali erano legate altre sacche, e sobbalzava precariamente come il suo cavaliere. Procedendo al passo accanto a lei, la donna tirò il fiato, aggiustandosi il cappello di paglia. Indossava il verde della Madre con tonalità scure abbinate senza troppo gusto, tipiche di una vedova, ma i nastri intrecciati attorno alla manica scendevano in gruppi di cinque: azzurro intrecciato al bianco; verde col giallo; rosso con l'arancione; nero col grigio; e bianco col crema. Dopo un attimo di esitazione, Ista restituì l'augurio: «Anche a voi». «Siamo pellegrini della Baocia», spiegò la donna. «Stiamo andando a Taryoon, al santuario che testimonia la morte miracolosa del Cancelliere dy Jironal. Siamo al seguito di Ser dy Brauda.» E con un cenno del capo indicò un uomo anziano che indossava le tonalità smorzate del marrone e un nastro rosso e arancione indicante la fedeltà al Figlio dell'Autunno. Al suo fianco cavalcava un giovane con abiti dai colori più vivaci, che girando il capo verso la donna vestita di verde, represse un'occhiata di rimprovero. «Sta accompagnando il suo ragazzo... non trovate che sia un bel figliolo?» Il ragazzo si voltò e guardò davanti a sé, diventando sempre più rosso come per armonizzarsi coi nastri che portava sulla manica. Il padre che aveva osservato la scena non riuscì a trattenere un sorriso.
«Là sarà investito nell'Ordine del Figlio, come il suo papà prima di lui. La cerimonia sarà presieduta dal santo generale, il Royse-Consorte Bergon in persona! Mi piacerebbe così tanto vederlo. Dicono che sia molto bello. Proviene dalla costa ibrana, famosa per i suoi giovani aitanti. Dovrò trovare qualche scusa per andare a pregare a Cardegoss, e vederlo con i miei vecchi occhi.» «Sicuro», replicò Ista in tono neutro, di fronte a quella descrizione piena di aspettative, ma nell'insieme accurata, di suo genero. «Sono Caria di Palma. Ero la moglie di un sellaio, ma adesso sono vedova. E voi, mia buona signora? E questo arcigno signore è vostro marito?» Il siniscalco, udendo con palese disapprovazione tanta familiarità, fece l'atto d'indietreggiare il cavallo per scacciare quella donna noiosa, quando Ista alzò la mano. «Pace, dy Ferrej.» Lui inarcò le sopracciglia, ma scrollò le spalle e tenne a freno la lingua. Ista riprese a parlare con la pellegrina: «Sono una vedova di... Valenda». «Ah, davvero? Ma guarda, anch'io», ribatté la donna in tono allegro. «Il mio primo marito era di lì. Benché io abbia sepolto ben tre mariti.» E questo lo annunciò come se fosse un'impresa. «Oh, non tutti insieme, naturalmente. Uno alla volta.» E scoccò uno sguardo incuriosito ai regali colori da lutto di Ista. «Avete appena seppellito il vostro, signora? Peccato. Non c'è da stupirsi che siate così triste e pallida. Be', cara, sono momenti difficili, soprattutto col primo, sapete. All'inizio si vorrebbe morire. Lo so perché ci sono passata. Ma è una reazione dettata dalla paura. Le cose si sistemeranno di nuovo, non dovete preoccuparvi.» Ista sorrise appena e scosse la testa in un cenno di debole diniego, ma non fece nulla per correggere la sua errata interpretazione. Dy Ferrej era di sicuro impaziente di interrompere l'insolenza della donna, annunciando il rango di Ista e il suo, e di scacciarla, ma Ista si rese conto con una certa sorpresa che trovava Caria divertente. Il chiacchierio della vedova non le dispiaceva e non voleva che smettesse. E da questo punto di vista non c'era pericolo. Caria di Palma indicò i suoi compagni pellegrini, fornendo a Ista un resoconto abbastanza confuso della loro condizione sociale, delle loro origini, dei loro santi obiettivi; e quando era certa che non. la sentissero, rincarava le informazioni sui loro modi e sui loro costumi morali. Oltre al Devoto veterano del Figlio dell'Autunno e del timido figlio, il gruppo comprendeva quattro uomini di una confraternita di tessitori che
andavano a offrire le loro preghiere al Padre dell'Inverno, perché una causa legale avesse un buon esito; un uomo che indossava i nastri della Madre dell'Estate, che andava a pregare per la sicurezza della figlia che stava per partorire; una donna che portava l'azzurro e il bianco della Figlia della Primavera, che andava a raccomandarsi che sua figlia trovasse marito. Poi c'era una donna magra, abbigliata con l'elegante veste verde di una Accolita dell'Ordine della Madre, accompagnata da una dama di compagnia e da due servitori, che Caria di Palma riferì non essere una levatrice né un medico, ma un controllore. Un mercante di vini andava a rendere grazie al Padre, e a tener fede al suo voto per il rientro della sua carovana quasi perduta l'inverno precedente tra i passi innevati che conducono a Ibra. I pellegrini che erano a portata d'udito, e che viaggiavano già da parecchi giorni con Caria, alzavano gli occhi al cielo mentre la donna continuava a parlare. Faceva eccezione un grasso giovane del Divino dell'Ordine del Bastardo, che indossava la veste bianca non proprio immacolata, a causa della polvere e del fango della strada. Questi procedeva serafico, con un libro aperto appoggiato sul ventre sporgente, le bianche redini infangate del suo mulo allentate, e alzava lo sguardo solo quando girava pagina, socchiudendo gli occhi per aggiustare la miopia. La Vedova Caria alzò lo sguardo verso il sole che aveva raggiunto il suo apogeo nel cielo. «Non vedo l'ora di arrivare a Valenda. Dicono che c'è una famosa osteria specializzata in deliziosi piatti di porco arrosto.» E al pensiero fece schioccare la lingua. «È vero, a Valenda c'è proprio un'osteria di quel tipo», confermò Ista, rendendosi conto di non esserci mai andata, in tutti gli anni che aveva vissuto là. L'Accolita dell'Ordine della Madre, che era una delle ascoltatrici involontarie più indispettite dai discorsi della donna, increspò le labbra in segno di disapprovazione. «Io non mangerò carne», annunciò. «Ho fatto il voto che durante questo viaggio non toccherò carne grossolana.» Caria si chinò verso Ista e mormorò: «Se avesse fatto il voto d'ingoiarsi l'orgoglio, invece che l'insalata, sarebbe stato molto più indicato per un pellegrinaggio». Poi si raddrizzò, sogghignando; il controllore assunse un'aria sdegnata e fece finta di non aver sentito. Il mercante coi nastri grigi e neri dell'Ordine del Padre sulla manica, osservò, come se stesse parlando all'aria: «Sono sicuro che gli Dei non se ne fanno nulla delle chiacchiere senza senso. Dovremmo usare meglio il nostro tempo... parlando di nobili questioni per preparare la mente alla pre-
ghiera, e non la pancia alla cena». Caria lo guardò di traverso: «Certo, oppure le parti basse per cose ancora più piacevoli? E andate anche in giro coi colori del Padre sulla manica! Vergogna». Il mercante s'irrigidì. «Quello non è un aspetto per il quale ho necessità di pregare Dio, ve lo posso assicurare, signora!» Il Divino del Bastardo alzò lo sguardo dal libro e mormorò in tono pacato: «Gli Dei governano ogni nostra parte, da capo a piedi. C'è un Dio per tutti e per ogni parte». «Il vostro Dio ha notoriamente dei gusti infimi», osservò il mercante, sempre piccato. «Nessuno che apra il proprio cuore a uno degli Dei della Sacra Famiglia verrà escluso. Nemmeno il presuntuoso.» E così dicendo, il Divino inchinò il capo al mercante che sbuffò indignato. Quindi il Divino ritornò alla sua lettura. La donna sussurrò a Ista: «Mi piace quel ciccione. Non parla molto, ma quando lo fa, è sempre a tono. Gli uomini che amano i libri di solito non hanno pazienza con me, e io di sicuro non capisco loro. Ma lui ha dei modi adorabili. Anche se penso che un uomo dovrebbe trovarsi una moglie, fare dei figli, e lavorare per mantenerli, e non correre dietro agli Dei. Devo ammettere che il mio caro secondo marito invece di lavorare, beveva. Beveva così tanto che alla fine è morto, con gran sollievo di tutti coloro che lo conoscevano, che i cinque Dei l'abbiano in gloria». E con quelle parole si segnò, passandosi una mano sulla fronte, sulle labbra, sul ventre, sull'inguine e sul cuore, allargando le dita sul petto prosperoso. Increspando le labbra, sollevò il mento, e alzando la voce, disse in tono incuriosito: «Adesso che ci penso, non ci avete mai detto qual è il motivo del vostro pellegrinaggio, Erudito». Il Divino appoggiò il dito sulla pagina e alzò lo sguardo. «No, non credo di averlo detto», confermò in tono vago. «Tutti quelli che seguono la vocazione pregano per incontrare il loro Dio, non è così?» intervenne il mercante. «Io ho pregato spesso perché la Dea toccasse il mio cuore», s'intromise l'Accolita della Madre. «Il mio più grande desiderio è quello di vedere il Suo volto. E in effetti più di una volta mi è sembrato di percepire la sua presenza.» Chiunque desideri trovarsi al cospetto degli Dei è un pazzo, pensò Ista. Benché quello non fosse un impedimento, nella sua esperienza.
«Non avete bisogno di pregare per questo», spiegò il Divino. «Dovete semplicemente morire. Non è difficile.» Si strofinò il doppio mento. «Anzi, è inevitabile.» «Essere toccati dagli Dei in questa vita», corresse la donna controllore con freddezza. «Questa è la grande benedizione che tutti ricerchiamo.» No, non è vero. Se in questo momento tu vedessi il volto della Madre, donna, crolleresti piangendo nel fango di questa strada e non ti rialzeresti per giorni. Ista si accorse che il Divino, socchiusi gli occhi, la stava osservando con palese curiosità. Lui era uno di quelli toccati dagli Dei? Ista aveva una certa pratica nell'individuarli. Ma era vero anche il contrario, sfortunatamente. O forse quello sguardo un po' strabico era dovuto alla miopia. Imbarazzata, gli scoccò un'occhiata accigliata. Lui sbatté le palpebre in segno di scusa, e disse, rivolgendosi a lei: «In effetti, viaggio su richiesta del mio Ordine. Un Devoto sotto la mia tutela si è imbattuto per caso in un piccolo demone disperso, finito in un furetto. Lo sto portando a Taryoon, perché l'Arcidivino lo restituisca al Dio secondo la corretta cerimonia». Si girò verso le capienti sacche da sella ed estrasse una gabbietta di vimini. Una piccola sagoma grigia si agitò all'interno. «Ah, ah! Era questo che nascondevate lì dentro!» Caria avvicinò il cavallo, arricciando il naso. «Mi sembra un furetto come tutti gli altri.» La creatura si drizzò contro il lato della gabbia e fece vibrare i baffi. Il grasso Divino si girò sulla sella e alzò la gabbia perché Ista potesse vedere. L'animale, dopo aver girato su se stesso, s'immobilizzò sotto il suo sguardo. Per un breve istante, i suoi occhi luminosi brillarono di una luce che non era propriamente animale. Ista lo osservò con freddezza. Il furetto abbassò il capo e indietreggiò, finché non poté andare oltre. Il Divino guardò Ista di sottecchi pieno di curiosità. «Siete sicuro che questa povera creatura non sia semplicemente malata?» domandò Caria in tono dubbioso. «Voi che cosa ne pensate, signora?» chiese il Divino a Ista. Lo sai benissimo che è posseduto da un vero demone. Perché lo chiedi a me? «Be'... penso che l'Arcidivino saprà certamente che cos'è e cosa farne.» Il Divino sorrise debolmente di fronte a quella risposta prudente. «In realtà, non si tratta proprio di un demone.» Rimise la gabbia nella sacca. «Parlerei piuttosto di un semplice elementale, piccolo e non ancora svilup-
pato. Non è in questo mondo da molto tempo, credo, e quindi è improbabile che possa tentare gli uomini con la stregoneria.» Di certo non era una tentazione per Ista, ma comprese la sua esigenza di essere discreto. Acquisire un demone trasformava un uomo in stregone, così come un cavallo faceva del padrone un cavaliere, ma se abile o inetto era tutta un'altra questione. Come un cavallo, un demone poteva fuggire con il proprio padrone, ma, contrariamente a un cavallo, smontarlo significava mettere a rischio l'anima; da qui la preoccupazione del Tempio. Caria fece per aprire di nuovo la bocca, ma il sentiero che conduceva al castello si separava in quel punto, e dy Ferrej fermò il cavallo. La Vedova di Palma trasformò ciò che stava per dire in un allegro cenno di saluto, e il siniscalco scortò con decisione Ista fuori della strada maestra. Si girò a guardare, mentre riprendevano il sentiero che si addentrava tra gli alberi. «Che donna volgare. Scommetto che in quella testa non c'è un pensiero pio! Usa il pellegrinaggio solo per farsi una vacanza, al sicuro dalle critiche dei suoi parenti e per ottenere una scorta armata a buon mercato.» «Avete ragione, dy Ferrej.» Ista rivolse lo sguardo al gruppo di pellegrini che si allontanava lungo la strada principale. La Vedova Caria stava invitando il Divino del Bastardo a cantare con lei gli inni, anche se quello che stava suggerendo assomigliava più a un canto conviviale. «Non ha il sostegno di un uomo», continuò dy Ferrej indignato, «e presumo che non possa farci nulla, visto che non ha un marito. Ma possibile che non sia riuscita a scovare un fratello, un figlio o almeno un nipote? Mi dispiace che abbiate dovuto sopportarla, Royina.» Un duetto non proprio armonico, ma perlomeno allegro, si levò alle loro spalle, scemando in lontananza. «A me no», ribatté Ista. E un pallido sorriso le increspò le labbra. A me no. 2 Ista sedeva nel roseto della madre, stropicciando un fazzoletto di lino tra le dita. La dama di compagnia era seduta accanto a lei, intenta a ricamare con un ago tanto stretto quanto il suo cervello, anche se più aguzzo. Ista non aveva fatto altro che girare e rigirare attorno al giardino nella fresca aria del mattino, finché la donna l'aveva pregata di fermarsi, sollevando lo sguardo dal ricamo per fissare le mani di Ista. Lei, con gesto irri-
tato, aveva nascosto il fazzoletto stropicciato, ma occultato sotto le sottane, un piede calzato con una scarpetta di seta aveva iniziato a battere nervosamente... anzi, furiosamente. Un giardiniere era indaffarato ad annaffiare i fiori nei contenitori disposti attorno alle porte per la Stagione della Figlia, proprio come aveva fatto per anni sotto la direzione della vecchia Provincara. Ista si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che quelle abitudini così radicate scomparissero. Oppure sarebbero continuate per sempre, come se il fantasma meticoloso della vecchia dama controllasse ancora ogni compito? Ma no, la sua anima era stata presa e portata via dal mondo degli uomini; non v'erano nuovi fantasmi nel castello, altrimenti Ista se ne sarebbe accorta. Tutti gli spiriti recisi rimasti in quel luogo erano antichi, stanchi e sempre più sfocati. Emise un profondo sospiro. Aveva atteso parecchi giorni prima di proporre al siniscalco l'idea di fare un pellegrinaggio, nella speranza che si fosse dimenticato della Vedova Caria. Un pellegrinaggio umile, con una compagnia ridotta al minimo: pochi servitori, pochi bagagli, nessuna scorta regale composta da un centinaio di cavalieri, come lui avrebbe ritenuto indispensabile. Dy Ferrej aveva sollevato una dozzina di noiose obiezioni, piuttosto stupito dell'improvvisa devozione della sua signora. E certo non aveva creduto a Ista quando aveva detto di volersi pentire dei propri peccati, avendo l'impressione che non poteva averne commesso alcuno sotto la sua attenta sorveglianza. La qual cosa era sicuramente vera per quanto riguardava i peccati della carne. Dy Ferrej non era un uomo sofisticato dal punto di vista teologico. Via via che le argomentazioni di Ista erano cresciute d'intensità, dy Ferrej era diventato più imperscrutabile e cauto, finché Ista aveva dovuto trattenersi dall'impulso frenetico di urlargli in faccia. Lei era sicura che quanto più insistenti fossero state le sue obiezioni, tanto più stridente sarebbe suonata la propria causa ai suoi orecchi. Un paradosso irritante. Un paggio attraversò il giardino con passo veloce, rivolgendo a Ista una riverenza decisamente strana, una sorta d'inchino a mezz'aria, per poi scomparire nella fortezza. Qualche minuto dopo, dy Ferrej apparve seguito dal paggio, e ripercorse con passo solenne il giardino. Le chiavi del castello, simbolo della sua carica, tintinnavano appese alla cintura. «Quali nuove, dy Ferrej?» chiese noncurante Ista, costringendo il proprio piede ad arrestarsi. Lui si fermò, inchinandosi, un gesto adeguato al rango di lei, e alla pro-
pria dignità e corpulenza, che fu imitato in modo corretto anche dal paggio. «Mi dicono che sono arrivati dei cavalieri da Cardegoss, Royina.» Esitò un attimo. «Il vostro ragionamento in base al quale vi devo obbedienza oltre che proteggervi, in virtù della devozione che porto a voi e ai vostri congiunti, ultimamente ha occupato molto i miei pensieri.» Ah, ah, allora la mia richiesta ha colpito nel segno. Bene. Ista sorrise leggermente. Lui le restituì il sorriso, con un'espressione apertamente sollevata, carica di trionfo. «Dato che le mie esortazioni a quanto sembra non sono servite a convincervi, ho scritto a corte per chiedere a coloro che voi sicuramente ascolterete, di aggiungere la propria voce e la loro più augusta autorità, alla mia. Io, in effetti, non ho il diritto di ostacolarvi, salvo per qualche restrizione che può essermi dovuta... no, anzi, che voi potete conferirmi nella vostra benevolenza... per i miei anni di servizio...» Le labbra di Ista si assottigliarono. Mi ribello. «Ma adesso la Royina Iselle e il Royse Bergon, oltre ad avere a cuore la vostra sicurezza in quanto loro madre, e il Cancelliere dy Cazaril della cui opinione voi tenete conto, vi daranno qualche consiglio.» Annuì soddisfatto e si allontanò. Ista serrò i denti. Scartò l'idea d'inviare delle maledizioni su Iselle, Bergon o Cazaril. O, in verità, sul vecchio dy Ferrej, come si compiaceva di definire se stesso in modo discutibile, visto che aveva al massimo una decina d'anni più di lei. Era così tesa che aveva l'impressione di non riuscire a respirare. Fu sul punto di credere che nella loro ansia di proteggerla dalla vecchia follia, i suoi zelanti protettori l'avrebbero condotta verso una nuova forma di demenza. Uno scalpitare di zoccoli, delle voci e i richiami degli stallieri giunsero da dietro il torrione. Ista si alzò di scatto e seguì dy Ferrej. La sua dama si districò dal ricamo, si alzò a sua volta con qualche difficoltà e le andò dietro, emettendo lievi borbottii di protesta, per pura abitudine, decise Ista. Nel cortile coperto di acciottolato, due cavalieri con la livrea dell'Ordine della Figlia stavano smontando sotto lo sguardo benevolo e accogliente di dy Ferrej. Di certo non erano uomini che provenivano dal Tempio di Valenda; non v'era nulla nel loro abbigliamento o nella loro armatura che fosse fuori posto, rozzo o semplice. Dagli stivali lucidati ai pantaloni e alle tuniche azzurre, dalle linde sopravvesti di lana ricamate ai tabarri col cappuccio grigio del loro Ordine, tutto parlava dell'abilità sartoria di Cardegoss. Le armi e i loro foderi erano puliti e curati in modo meticoloso, le ri-
finiture in metallo lucide e le parti in pelle trattate con l'olio, ma non nuove. Un devoto-ufficiale era di media statura, snello e muscoloso. Il compagno era invece più basso e più massiccio, e il pesante spadone che gli pendeva dalla bandoliera, chiaramente non era il giocattolo di un cortigiano. Mentre dy Ferrej concludeva il suo benvenuto e dava ordini ai servitori, Ista si portò al suo fianco. Strinse gli occhi. «Signori. Ci siamo già visti?» Sorridendo, i due uomini porsero le redini al gruppetto di stallieri del castello, poi s'inchinarono in modo elegante. «Royina», mormorò il più alto. «È un piacere vedervi di nuovo.» E senza lasciarle il tempo di pensare, aggiunse: «Sono Ferda dy Gura e lui è mio fratello Foix». «Ah, sì. Siete i giovani che hanno accompagnato il Cancelliere dy Cazaril nella sua missione a Ibra, tre anni fa. Vi ho conosciuto all'investitura di Bergon. In quella occasione il Cancelliere e il Royse Bergon hanno avuto grandi parole di elogio per voi.» «Molto cortese da parte loro», mormorò quello massiccio, Foix. «Onorati di servirvi, signora.» Il maggiore dei fratelli attirò la sua attenzione e recitò: «Il Cancelliere dy Cazaril ci ha incaricati di porgervi i propri complimenti, e di scortarvi nel vostro viaggio, Royina. Vi prega di considerarci come la vostra mano destra». Ferda ebbe un attimo di esitazione, poi improvvisò: «O la vostra mano destra e sinistra, a seconda del caso». Il fratello sollevò un sopracciglio in modo impenitente, e bisbigliò: «Ma chi di noi è l'una o l'altra?» L'espressione soddisfatta di dy Ferrej si trasformò in stupore. «Il Cancelliere approva questa, questa... avventura?» Ista si chiese quale altra parola meno lusinghiera avesse appena ingoiato. Ferda e Foix si scambiarono un'occhiata. Foix scrollò le spalle, si girò e frugò nella sua bisaccia. «Lord dy Cazaril mi ha dato questa lettera da consegnare nelle vostre mani, signora.» Con allegra ostentazione, porse un foglio ripiegato che recava sia il grande sigillo rosso della cancelleria sia il timbro personale di dy Cazaril, un corvo appollaiato sulle lettere CAZ stampigliate nella ceralacca azzurra. Ista la prese con perplessità. Dy Ferrej allungò il collo mentre l'apriva, sparpagliando la cera sull'acciottolato, ma lei si allontanò leggermente da lui per leggerla. Il messaggio era breve, scritto con la brutta calligrafia del Cancelliere, e si rivolgeva a lei con tutti i suoi titoli formali; l'intestazione era più lunga del corpo della lettera. Si leggeva: Vi offro questi due bravi fratelli, Ferda e Foix dy Gura, perché vi assistano nel vostro cammino, ovunque esso vi
conduca. Confido che vi serviranno bene come hanno servito me. Che i cinque Dei vi guidino nel vostro viaggio. Il vostro umilissimo e devotissimo, e un semicerchio con un lungo svolazzo: la firma di dy Cazaril. Nella stessa brutta scrittura - le dita di dy Cazaril avevano più forza che delicatezza - era stato aggiunto un poscritto: Iselle e Bergon mandano una borsa di denaro, in memoria dei gioielli impegnati per un altro viaggio, e grazie ai quali una nazione è stata acquisita. L'ho affidata a Foix. Non allarmatevi per il suo umorismo, è un ragazzo molto meno semplice di quanto sembri. Le labbra di Ista s'incresparono in un sorriso. «Penso che sia molto chiaro.» Porse la lettera all'impaziente dy Ferrej. Sul suo volto si poté leggere la delusione mentre gli occhi scorrevano lo scritto. Le labbra formarono una O, ma erano troppo ben addestrate per completare l'esclamazione. E per questo doveva ringraziare la vecchia Provincara. Dy Ferrej guardò i due uomini: «Ma... la Royina non può mettersi in viaggio con solo due cavalieri di scorta». «Certo che no, signore», confermò Ferda con un breve inchino. «Abbiamo portato il nostro contingente. Ho lasciato gli uomini in città a ristorarsi presso la dispensa del Tempio, a eccezione di due uomini cui ho affidato un'altra missione. Dovrebbero ritornare domani, per completare i nostri ranghi.» «Un'altra missione?» ripeté dy Ferrej. «Il March dy Palliar ha approfittato della nostra venuta qui, per assegnarci un altro compito. Ci ha affidato uno splendido stallone roknary che abbiamo catturato lo scorso autunno, durante la campagna di Gotorget, perché si accoppi con le giumente della fattoria del nostro Ordine a Palma.» Il suo volto si animò. «Oh, se lo vedete, Royina! Sembra cavalcare a mezz'aria e il suo manto scintilla come argento... i mercanti di seta sbaverebbero dall'invidia. Zoccoli che tintinnano come cimbali quando toccano il suolo, una coda che sembra un vessillo al vento, una criniera simile ai capelli di una fanciulla, una meraviglia della natura...» Il fratello si schiarì la gola. «Ecco», concluse Ferda, «un cavallo davvero splendido.» «Suppongo», intervenne dy Ferrej, fissando un punto indefinito davanti a sé, con la lettera del Cancelliere ancora in mano, «che potremmo scrivere a vostro fratello dy Baocia, a Taryoon, per chiedere anche un distaccamento della sua cavalleria. E dame della sua casa che possano servirvi con tutti gli onori. La vostra buona cognata, forse... o una delle dame della sua cor-
te, e il vostro seguito, naturalmente, e tutte le cameriere e i servitori necessari. No, meglio ancora... scriveremo a Cardegoss e chiederemo all'Arcidivino Mendenal di mandare un Divino di grande conoscenza.» «Questo richiederebbe almeno altri dieci giorni», rispose Ista allarmata. L'eccitazione appena provata si trasformò in preoccupazione. Se lui avesse avuto la meglio, invece di sottrarsi a quella clausura, sarebbe stata costretta a procedere lentamente, seguita da un vero e proprio esercito. «Non voglio attendere tanto. Il clima e le strade sono molto migliorati», aggiunse. «E desidero approfittare di questi cieli azzurri.» «Bene, bene, ne possiamo discutere», ribatté il siniscalco osservando la giornata radiosa, come se le concedesse quel punto di vantaggio, anche se di poco conto. «Parlerò con le vostre dame e scriverò a vostro fratello.» Poi, con fare pensieroso aggiunse: «Iselle e Bergon intendono chiaramente inviare un messaggio con quella borsa di denaro. Forse desiderano che nel vostro pellegrinaggio preghiate per un nipote? Sarebbe indubbiamente una grande benedizione per la royacy di Chalion, e uno scopo molto appropriato per le vostre preghiere». Naturalmente, l'idea aveva molto più fascino per lui che non per lei, dato che la recente nascita del suo primo nipote lo aveva colmato di una grande gioia. Ma dal momento che era la prima osservazione positiva che faceva sulla sua... avventura, Ista si astenne dal contraddirla. I fratelli dy Gura vennero accompagnati nel castello e i loro cavalli condotti nelle scuderie, mentre dy Ferrej si affrettò ad andare a occuparsi dei compiti che si era assunto volontariamente. La dama di compagnia di Ista cominciò subito a enumerare tutti i problemi relativi alla scelta degli indumenti più adatti per un viaggio tanto arduo, come se Ista avesse proposto una spedizione attraverso le montagne che conducevano alla Darthaca, invece di una pia passeggiata per la Baocia. Ista considerò l'idea di addurre un'emicrania per interrompere le sue ciance, ma decise che non sarebbe stato utile ai suoi scopi, così strinse i denti e pazientò. A metà pomeriggio la donna non aveva ancora smesso di blaterare e di agitarsi. Seguita da tre cameriere, andava avanti e indietro dalle stanze di Ista, nella vecchia fortezza, a selezionare e riselezionare sottane, vesti, mantelli e scarpe, alternando la necessità di trovare colori adeguati al lutto di Ista, all'evenienza di dover affrontare probabili o improbabili contingenze. Ista era seduta in una rientranza della finestra che dava sul cortile d'in-
gresso, e lasciava che quel fiume di parole le scivolasse addosso come un rivolo che scenda da una grondaia. Adesso la sua emicrania era reale. Delle voci e un trambusto al portone del castello annunciarono, con una certa sorpresa, un altro visitatore. Ista si alzò e sbirciò fuori. Un cavallo baio superò l'arcata; il suo cavaliere indossava il tabarro con lo stemma di Chalion, castello e leopardo, su indumenti più sbiaditi. Con uno slancio smontò e atterrò... in quel momento Ista vide che si trattava di una giovane donna dal volto fresco, coi capelli raccolti in una lunga treccia nera che le ricadeva lungo la schiena. Sfilò un fagotto da dietro la sella e lo srotolò con un colpetto a rivelare una gonna. Con pudore decisamente sbrigativo, si sollevò la tunica e avvolse l'indumento attorno ai pantaloni, allacciandolo all'altezza della vita snella, e sistemando l'orlo attorno alle caviglie calzate di stivali con un leggiadro movimento delle anche. In quel momento apparve dy Ferrej. La ragazza tolse il sigillo dalla sacca della cancelleria ed estrasse una lettera. Dy Ferrej lesse il nome del destinatario e l'aprì all'istante. Ista dedusse che fosse una missiva personale dell'amata figlia, Lady Betriz, dama personale della Royina Iselle a corte. Forse conteneva notizie del nipotino, perché il suo volto si addolcì. Era già arrivato il momento del primo dente? Se così fosse stato, Ista avrebbe ben presto sentito parlare dei progressi del bimbo. Suo malgrado, abbozzò un sorriso. La ragazza si stiracchiò, ripose la sacca, controllò le zampe e gli zoccoli del cavallo, poi lo affidò allo stalliere del castello con una serie d'istruzioni. Ista si accorse in quel mentre che la sua dama di compagnia stava sbirciando dietro la sua spalla. D'impulso Ista ordinò: «Voglio parlare con quella ragazza. Portala da me». «Mia signora, aveva solo una lettera.» «Bene, allora, ascolterò le notizie di corte dalle sue labbra.» La donna sbuffò. «Una ragazza così rude è improbabile che sia in confidenza con le dame di corte di Cardegoss.» «Comunque sia, vai a chiamarla.» Colpita dal tono di voce aspro, la donna si allontanò. Poco dopo, un passo deciso e l'odore intenso di cavalli e cuoio annunciarono l'arrivo della giovane nel salottino di Ista, ancor prima della frase dubbiosa pronunciata dalla sua dama: «Mia signora, ecco il corriere, come avete chiesto». Ista si girò nella rientranza della finestra e alzò lo sguardo, facendo segno alla dama di andarsene; la donna scomparve con un'espres-
sione di disapprovazione. La ragazza le restituì uno sguardo incuriosito e vagamente intimidito. Si chinò in modo strano, qualcosa a mezza via tra un inchino e una riverenza. «Royina. In che modo posso servirvi?» Ista non ne aveva idea. «Come ti chiami, ragazza?» «Liss, mia signora.» E dopo un attimo di vuoto silenzio, aggiunse: «È l'abbreviazione di Annaliss». «Da dove vieni?» «Oggi? Ho preso la sacca per i documenti alla stazione di...» «No... dove sei nata.» «Oh. Uhm. Mio padre ha una piccola proprietà vicino alla città di Teneret, nella provincia di Labra. Allevava cavalli per l'Ordine del Fratello, e pecore per il mercato della lana.» Un uomo pratico; quindi non rifuggiva da una estrema povertà. «Come sei diventata corriere?» «Non ci avevo mai pensato, finché un giorno con mia sorella andammo in città a consegnare alcuni cavalli al Tempio, e vidi una ragazza arrivare al galoppo con un messaggio per l'Ordine della Figlia.» Sorrise come se stesse rivivendo un bel ricordo. «Da quel momento non ho pensato ad altro.» Forse erano la sicurezza e la forza della gioventù, comunque fosse, la ragazza, pur essendo molto cortese, non era per nulla imbarazzata dalla presenza della Royina. Ista lo notò con sollievo. «Non hai paura di viaggiare da sola sulle strade?» Scosse il capo, facendo ondeggiare la treccia. «A cavallo supero tutti i pericoli. Finora, almeno.» Ista non stentava a crederlo. La ragazza era più alta di lei, ma comunque più bassa e magra dei ragazzi massicci che venivano scelti per quel genere di lavoro. Doveva essere leggera sul cavallo. «Non provi disagio a cavalcare col caldo, col freddo, con qualsiasi clima...» «Non mi sciolgo sotto la pioggia. E cavalcare mi riscalda, se nevica. Se ho bisogno di riposare, dormo sotto un albero, avvolta nel mio mantello. Oppure sopra una pianta, se il luogo sembra pericoloso. Però le cuccette delle stazioni di posta sono più calde e meno sconnesse.» I suoi occhi brillarono divertiti. «In un certo senso.» Ista sospirò con una certa ammirazione di fronte a tanta energia incontenibile. «Da quanto tempo lavori per la Cancelleria?» «Sono tre anni ormai. Da quando avevo quindici anni.»
Che cosa faceva lei a quindici anni? Si stava preparando per essere la moglie di un grande Lord. Quando lo sguardo del Roya Ias si era posato su di lei, più o meno alla stessa età di questa ragazza, il risultato dell'educazione che aveva ricevuto era sembrato superare i sogni più arditi della sua famiglia... finché il sogno si era infranto nel lungo incubo della grande maledizione di Ias. Una maledizione annullata grazie agli Dei e a Lord dy Cazaril. Erano trascorsi tre anni quando la nube soffocante si era finalmente alzata dalla sua mente. Da quel momento però, la monotonia della sua esistenza, lo stallo della sua anima, erano diventate una consuetudine. «Come mai la tua famiglia ti ha permesso di uscire di casa così giovane?» L'aria leggermente divertita le accese il volto come il sole attraverso le foglie verdi. «Credo di essermi dimenticata di chiedere la loro approvazione.» «E il capocorriere ti ha ingaggiata senza il benestare di tuo padre?» «Penso che anche lui se ne sia dimenticato: aveva un gran bisogno di corrieri in quel momento. È incredibile come le regole cambino a seconda delle necessità. Ma con altre quattro figlie in età da marito, non mi aspettavo che mio padre e i miei fratelli venissero a cercarmi per riportarmi a casa.» «Sei partita quello stesso giorno?» chiese Ista stupefatta. Il suo sorriso si allargò... aveva anche una dentatura sana, notò Ista. «Certo. Era diventata insopportabile l'idea di tornare a casa e di rimettermi a filare. Tanto più che mia madre non ha mai apprezzato il mio filato. Diceva che era troppo ruvido.» Ista non ebbe difficoltà a comprendere quella situazione. Un sorriso forzato di risposta apparve sulle sue labbra. «Mia figlia è un'ottima amazzone.» «Così si sente dire in tutta Chalion, mia signora.» Gli occhi di Liss s'illuminarono. «Da Valenda a Taryoon in una notte, sfuggendo, per giunta, alle truppe nemiche... A me non è mai capitata una simile avventura.» «Speriamo che i venti di guerra non sfiorino mai più Valenda così da vicino. Qual è la tua prossima meta?» Liss scrollò le spalle. «Chi lo sa? Tornerò alla mia stazione di posta ad attendere il prossimo incarico, e andrò dove questo mi condurrà. In fretta, se Ser dy Ferrej desidera ricevere una risposta, o lentamente, per far riposare il mio cavallo, se non lo farà.» «Non scriverà questa sera...» Ista non aveva voglia di lasciarla andare,
ma la ragazza appariva in disordine e sporca dopo il viaggio. Sicuramente, desiderava lavarsi e riposarsi. «Resta ancora a mia disposizione, Liss di Labra. La cena sarà servita tra circa un'ora. Cenerai alla mia tavola.» La ragazza sollevò le nere sopracciglia in un moto di sorpresa. Inchinandosi di nuovo, disse: «Ai vostri ordini, Royina». Il tavolo d'onore della vecchia Provincara venne preparato esattamente come lo era stato per migliaia e migliaia di volte prima di allora, nei giorni in cui nessuna giocosità arrecava sollievo alla monotonia. Scontato che fosse accogliente, nella piccola sala da pranzo situata nella parte più nuova del castello, col focolare e con le finestre invetrate. Anche la compagnia era la stessa: Lady dy Hueltar, la parente più anziana della madre di Ista e compagna di lunga data; Ista e le sue principali dame di compagnia; il solenne dy Ferrej. Per tacito accordo, la sedia della vecchia Provincara era ancora vuota. Ista non aveva reclamato quella posizione centrale, e forse attribuendo erroneamente quel gesto al suo dolore, nessuno l'aveva invitata a farlo. Dy Ferrej arrivò scortando Ferda e Foix, entrambi molto eleganti. E giovani. Liss entrò subito dopo di loro esibendosi in una serie d'inchini. A tu per tu con la Royina Ista si era comportata con notevole coraggio, ma lì quell'atmosfera di grave contegno fu sufficiente a incrinare la sua naturalezza. Prese posto con una certa rigidità e si sedette come se volesse farsi più piccola, benché osservasse i due fratelli con interesse. L'odore di cavalli era molto meno forte adesso, anche se Lady dy Hueltar arricciò ugualmente il naso. Ma c'era ancora un posto vuoto - non quello della vecchia Provincara - di fronte a Ista. «Aspettiamo ospiti?» chiese Ista a dy Ferrej. Forse qualche anziano conoscente? Ista non osò sperare in qualcosa di più. Dy Ferrej si schiarì la voce e annuì in direzione dell'anziana Lady dy Hueltar. Il volto rugoso si aprì in un sorriso. «Ho chiesto al Tempio di Valenda di mandarci un Divino che vi faccia da guida spirituale durante il pellegrinaggio, Royina. Se non vogliamo inviare la richiesta a Cardegoss, ho ritenuto che potessimo richiedere l'Erudita Tovia, dell'Ordine della Madre. Forse è una teologa minore, ma è un medico eccellente, e vi conosce da molto tempo. Quale miglior sollievo di avere accanto un volto familiare, qualora doveste essere colpite da qualche disturbo tipicamente femminile lungo la via, o... o se i vostri vecchi problemi dovessero ripresentarsi. E
nessuno potrebbe essere più adatto al vostro sesso e al vostro stato.» Un sollievo per chi? La Divina Tovia era stata un'amica del cuore della vecchia Provincara e di Lady dy Hueltar; Ista riusciva a immaginare il trio che si godeva una bella gita nel sole primaverile. Per i cinque Dei, Lady dy Hueltar dava per scontato di andare anche lei? Ista soppresse uno sconveniente desiderio di urlare, proprio come Liss all'idea di essere costretta a filare per tutta la vita. «Sapevo che vi avrebbe fatto piacere», proseguì sottovoce Lady dy Hueltar. «Ho pensato che avreste potuto iniziare a discutere il vostro santo itinerario con lei durante la cena.» Corrugò la fronte. «Non è da lei essere in ritardo.» Ma l'espressione corrucciata si dileguò, quando un servitore entrò annunciando: «Il Divino è qui, mia signora». «Oh, bene. Fatelo entrare subito.» Il servitore fece per parlare, ma poi s'inchinò e si ritirò. Quando la porta venne spalancata, una figura ansimante, tutt'altro che familiare, fece il suo ingresso e si fermò, bloccato da un muro di sguardi. Era il grasso giovane Divino del Bastardo che Ista aveva incontrato sulla strada circa due settimane prima. Le sue vesti bianche erano solo leggermente meno sporche adesso, essendo state ripulite dalle macchie, ma recavano comunque degli aloni attorno all'orlo e sul davanti. Il suo sorriso iniziale si fece incerto. «Buona sera, gentili signore, e miei signori. Mi è stato detto di presentarmi a una certa Lady dy Hueltar. In merito a un Divino richiesto per un pellegrinaggio...» Lady dy Hueltar ritrovò la voce. «Sono io. Ma avevo inteso che il Tempio avrebbe mandato il medico della Madre, l'Erudita Tovia. Voi chi siete?» Ista ebbe l'impressione che quella frase sarebbe uscita come E voi chi diavolo siete? se Lady dy Hueltar non avesse fatto appello ai suoi modi cortesi. «Oh...» Il Divino fece un inchino. «Erudito Chivar dy Cabon, al vostro servizio.» Almeno reclamava un nome di un certo rango. Squadrò Ista e Ser dy Ferrej; il riconoscimento, pensò Ista, era reciproco, così come la sorpresa. «Dov'è l'Erudita Tovia?» chiese Lady dy Hueltar. «Credo che sia stata chiamata per un caso alquanto difficile, in una località piuttosto lontana da Valenda.» Il suo sorriso si fece ancora più incerto. «Benvenuto, Erudito dy Cabon», lo accolse Ista.
Dy Ferrej si ricordò dei suoi doveri. «Certo, benvenuto. Io sono il siniscalco del castello, dy Ferrej; questa è la Royina Vedova Ista...» Gli occhi di dy Cabon si strinsero in un'occhiata penetrante. «Così siete voi...» mormorò. Dy Ferrej, ignorando o non udendo quel commento, presentò i fratelli dy Gura e le altre dame in ordine di rango, e per ultima, e con una certa riluttanza: «Liss, un corriere della Cancelleria». Dy Cabon s'inchinò a tutti senza discriminazioni. «È tutto sbagliato... ci dev'essere un errore, Erudito dy Cabon», intervenne Lady dy Hueltar, lanciando uno sguardo supplichevole a Ista. «È la Royina Vedova in persona che propone d'intraprendere un pellegrinaggio in questa stagione, per chiedere agli Dei un nipote. Voi non siete... questa non è... noi non sappiamo... se un Divino dell'Ordine del Bastardo, un uomo, sia proprio la persona, uhm, più adatta...» Lanciò un muto appello a qualcuno, chiunque fosse, che la tirasse fuori da quel pasticcio. Da qualche parte dentro di sé, Ista cominciò a sorridere e con calma disse: «Errore o no, sono certa che la cena stia per essere servita. Volete onorare la nostra tavola questa sera con le vostre conoscenze, Erudito, e guidarci nell'invocazione di ringraziamento agli Dei per il cibo?» Il Divino s'illuminò. «Ne sarei molto onorato, Royina.» Sorridendo e sbattendo le palpebre, si sedette dove Ista gli aveva indicato e assunse un'espressione fiduciosa, mentre il servitore passava con la bacinella piena di acqua profumata di lavanda per lavarsi le mani. Benedisse l'imminente pasto in termini semplici e con un bel tono di voce. Qualunque cosa fosse, non era certo uno zotico. Divorò le portate servite con un entusiasmo che avrebbe riscaldato il cuore del cuoco della Provincara, se avesse avuto modo di vederlo, di solito scoraggiato dagli appetiti indifferenti dei più anziani. Foix tenne il passo con lui senza sforzo apparente. «Appartenete ai Cabon imparentati con l'attuale Santo Generale dy Yarrin dell'Ordine della Figlia?» chiese educatamente Lady dy Hueltar. «Penso di essere un cugino di terzo o quarto grado, signora», rispose il Divino dopo aver deglutito un boccone. «Mio padre era Ser Odlin dy Cabon.» La frase destò l'interesse dei fratelli dy Gura. «Oh», esclamò Ista sorpresa. «Credo di averlo conosciuto, anni fa, alla corte di Cardegoss.» Il nostro grasso Cabon, come veniva giovialmente soprannominato dal Roya; ma era morto tanto coraggiosamente quanto qualsiasi gentiluomo più magro al servizio del Roya nella disastrosa batta-
glia di Dalus. E dopo un attimo aggiunse: «Gli assomigliate». Il Divino chinò il capo apparentemente compiaciuto. «Questo non mi dispiace.» Una certa malizia indusse Ista a porre un'altra domanda, visto che sicuramente nessuno dei presenti avrebbe potuto: «E siete anche figlio di Lady dy Cabon?» Gli occhi del Divino brillarono di rimando, sopra una forchettata di arrosto. «Ahimè, no. Ma mio padre è stato comunque felice della mia nascita, e ha elargito una dote perché potessi studiare presso il Tempio, una volta raggiunta l'età dell'istruzione. Cosa di cui devo ringraziarlo moltissimo. La mia vocazione non è stata come un fulmine a ciel sereno, questo va detto, ma è arrivata lentamente, più simile alla crescita di un albero.» Il suo viso rubicondo e i suoi abiti lo facevano sembrare più vecchio di quanto in realtà non fosse. Non doveva superare la trentina, forse meno. Per la prima volta da molto tempo, la conversazione non volse su malattie, acciacchi, dolori e problemi digestivi dei presenti, ma spaziò su tutta Chalion-Ibra. I fratelli dy Gura avevano numerose notizie di prima mano sull'ultima e vittoriosa campagna condotta dal March dy Palliar per riconquistare la fortezza montana di Gotorget, che dominava il confine degli ostili principati roknari a nord, e sulle prodezze del giovane Royse-Consorte Bergon sul campo di battaglia. «Il nostro Foix è stato colpito duramente da una mazza roknari», spiegò Ferda, «nell'assalto finale alla fortezza, e ha trascorso quasi tutto l'inverno a letto, con un ammasso di costole rotte, oltre che a una infiammazione ai polmoni. Il Cancelliere dy Cazaril lo ha preso a lavorare con sé, in attesa che le sue ossa si riaggiustino. Nostro cugino dy Palliar ha pensato che un viaggio non troppo impegnativo lo avrebbe aiutato a riprendersi completamente.» Un lieve rossore colorì il faccione di Foix, che chinò il capo. Lo sguardo di Liss si fece più intenso, benché Ista non avrebbe saputo dire se in quel momento se lo stesse figurando solo con la spada in mano. Lady dy Hueltar non mancò di muovere le sue consuete critiche alla Royina Iselle per il fatto di essersi recata anch'essa al nord, per stare accanto al marito e seguire quegli avvenimenti turbolenti, anche se dopo, o forse proprio a causa di quella decisione, aveva dato alla luce una bambina. «Comunque, non credo che se Iselle fosse rimasta a letto a Cardegoss, avrebbe partorito un maschio», interloquì asciutta Ista. Lady dy Hueltar borbottò qualcosa; Ista rammentò le critiche taglienti di
sua madre quando aveva dato a Ias una femmina, tanti anni prima. Come se lei avesse potuto fare qualcosa per decidere altrimenti. Come se, quando il risultato era stato diverso durante la sua seconda gravidanza, fosse stato migliore... e inarcò un sopracciglio rammentando quel ricordo doloroso. Quando alzò lo sguardo incontrò quello intenso di dy Cabon. Il Divino spostò rapidamente la discussione su temi più leggeri. Dy Ferrej ebbe la soddisfazione di rispolverare un paio di vecchi aneddoti per un nuovo pubblico, che Ista non riuscì a invidiargli. Raccontò una vivace barzelletta, anche se meno piccante rispetto alle tante che Ista aveva ascoltato attorno al tavolo del Roya; Liss rise sonoramente, cosa che le valse uno sguardo severo di Lady dy Hueltar, allora si portò una mano alla bocca. «Per favore non smettere», la invitò Ista. «In questa dimora non si sentiva una risata simile da settimane. Mesi.» Anni. Come sarebbe stato il suo pellegrinaggio se, invece di trascinarsi dietro un corteo di stanchi guardiani su una strada così poco confacente alle loro vecchie ossa, avesse potuto viaggiare con persone che ridevano? Persone giovani che non fossero infiacchite da vecchi peccati e perdite? Persone che saltavano? Persone per le quali, osava pensarlo, lei sarebbe stata una compagna più anziana da rispettare, e non una bambina che aveva sbagliato e che bisognava correggere? Ai vostri ordini, Royina, e non il solito, monotono: Lady Ista, sapete che non potete... Di punto in bianco disse: «Erudito dy Cabon, ringrazio il Tempio per aver pensato a me, e sarà un piacere avervi come guida spirituale per il mio viaggio». «È un onore per me, Royina.» Dy Cabon s'inchinò più profondamente che poté sopra il ventre sporgente. «Quando partiamo?» «Domani», rispose Ista. Un coro di obiezioni si levò attorno al tavolo: elenchi di persone non ancora riunite, dame di compagnia, le loro cameriere, i loro servitori; d'indumenti, attrezzature, animali da soma; del piccolo esercito di dy Baocia non ancora arrivato. Stava quasi per aggiungere debolmente, O non appena tutto sarà pronto, ma poi s'impuntò sulla sua decisione. Il suo sguardo cadde su Liss, che masticava e ascoltava affascinata, ma con un certo distacco. «Avete tutti ragione», disse Ista alzando la voce per sovrastare il cicaleccio che si smorzò subito. Ma poi aggiunse: «Non ho più la gioventù, né l'energia, il coraggio o la conoscenza per mettermi in viaggio. Quindi recluterò qualcuno. Prenderò il corriere, Liss, come mia dama di compagnia.
E nessun altro. Questo ci farà risparmiare subito tre dozzine di muli». Liss per poco non sputò il boccone che stava masticando. «Ma è solo un corriere!» annaspò Lady dy Hueltar. «Vi assicuro che il Cancelliere dy Cazaril non avrebbe obiezioni. I corrieri sono sempre pronti a mettersi in viaggio, ovunque gli venga ordinato. Che ne pensi, Liss?» Liss, gli occhi sbarrati, finì di deglutire e bofonchiò: «Penso che riuscirei meglio come stalliere che come dama di compagnia, Royina, ma per voi farò il possibile». «Bene. Nessuno potrebbe chiedere di più.» «Ma siete la Royina Vedova!» protestò dy Ferrej quasi piagnucolando. «Non potete mettervi in viaggio in modo così poco cerimonioso!» «Il mio sarà un pellegrinaggio all'insegna dell'umiltà, dy Ferrej, e non una marcia all'insegna dell'orgoglio. E... se non fossi una Royina? Supponiamo che io sia una semplice vedova di buona famiglia. Quale servitù, quale ragionevole precauzione dovrei prendere a questo punto?» «Viaggiare in incognito?» L'Erudito dy Cabon colse l'idea al balzo, mentre gli altri continuavano a protestare inutilmente. «Questo toglierebbe sicuramente molte distrazioni dal vostro studio spirituale, Royina. Suppongo che... una simile dama chiederebbe semplicemente al Tempio di fornirle una scorta nel solito modo, e che gli Accoliti risponderebbero con i cavalieri a disposizione.» «Bene. Questo per me è già stato fatto. Ferda, i vostri uomini potrebbero essere pronti per domani?» Alla cacofonia di proteste si sovrappose la semplice risposta di dy Gura: «Certamente. Come ordinate, Royina». Il silenzio che seguì era carico di perplessità. E persino, se possibile, un po' riflessivo, se non era sperare troppo. Ista si appoggiò allo schienale, mentre un sorriso le increspava le labbra. «Devo pensare a un nome», disse alla fine. «Né dy Chalion né dy Baocia vanno bene, sono troppo pretenziosi.» Dy Hueltar? Ista rabbrividì. No. Passò mentalmente in rassegna un elenco di parenti minori dei Provincar della Baocia. «Dy Ajelo andrà bene.» La famiglia Ajelo aveva avuto scarsi rapporti con lei, e non aveva mai inviato una dama di compagnia per assistere la... custodia di Ista. Non aveva recriminazioni nei loro confronti. «Continuerò a chiamarmi Ista, comunque. Non è un nome così insolito da destare curiosità.» Il Divino si schiarì la gola. «Allora dovremo consultarci un po' questa
sera. Non so che tipo di guida volete da me. Un pellegrinaggio oltre ad avere un progetto spirituale deve averne uno anche materiale, come adeguato sostegno.» E il suo non aveva né l'uno né l'altro. E se non rivendicava un progetto, di certo gliene avrebbero imposto uno. Con cautela disse: «In che modo avete guidato i fedeli in passato, Erudito?» «Be', molto dipende dagli scopi dei fedeli.» «Ho delle mappe nelle mie sacche da sella che potrebbero darci qualche ispirazione. Vado a prenderle, se volete», si offrì Ferda. «Sì», ribatté il Divino con gratitudine. «Quelle ci saranno utili.» Ferda uscì a passo spedito. Fuori, il sole stava tramontando e i servitori si muovevano silenziosi per la sala, per accendere i candelabri da parete. Foix appoggiò comodamente i gomiti sul tavolo, sorrise amabilmente a Liss, e trovò spazio per un'altra fetta di torta alle noci, mentre attendevano il ritorno del fratello. Di lì a poco Ferda rientrò con una pila di carte ripiegate. «Ecco... no, questa è la Baocia, e le province a ovest, fino a Ibra.» Aprì una mappa macchiata e un po' logora sul tavolo tra il Divino e Ista. Dy Ferrej sbirciò ansiosamente da sopra la spalla di dy Cabon. L'Erudito fissò pensieroso la mappa per qualche minuto, poi si schiarì la gola e guardò Ista. «Ci viene insegnato che l'itinerario di un pellegrinaggio deve servire il suo obiettivo spirituale. Il quale può essere semplice o molteplice, ma che comprenderà almeno uno dei cinque scopi: servizio, supplica, gratitudine, divinazione ed espiazione.» Espiazione. Chiedere perdono agli Dei. Dy Lutez, non poté fare a meno di pensare. Il raggelante ricordo di quell'ora oscura aveva ancora il potere di serrarle il cuore in quella serata luminosa. Tuttavia, chi doveva chiedere perdono a qualcuno per quella tragedia? Eravamo tutti complici; gli Dei, dy Lutez, Ias, io. E se umiliarsi sull'altare degli Dei era il rimedio per quella vecchia ferita, aveva già mangiato abbastanza polvere per una dozzina di dy Lutez. Eppure quella ferita, se toccata, si riapriva e sanguinava ancora nella profonda oscurità. «Una volta ho visto un uomo pregare per dei muli», osservò Foix scherzosamente. Dy Cabon sbatté le palpebre. Dopo un attimo, chiese: «Li ha ottenuti?» «Sì, e anche di eccellenti.» «Le vie degli Dei sono... misteriose, talvolta», mormorò il Divino, che a quanto pareva stava assimilando quell'idea. «Ehm. Il vostro... Royina, è un
pellegrinaggio di supplica per un nipote, se ho compreso bene. Giusto?» E fece una pausa come a invitarla a confermare. Non lo è. Ma dy Ferrej e Lady dy Hueltar annuirono, e Ista lasciò perdere. Dy Cabon fece scorrere un dito sull'intricato disegno della mappa, gremita di nomi di località, solcata da piccoli fiumi, e decorata con più alberi di quanti ve ne fossero nella realtà sugli altopiani della Baocia. Indicò questo o quell'altro santuario dedicato alla Madre o al Padre, che si trovavano a una considerevole distanza da Valenda, descrivendo i pregi di ciascuno. Ista si costrinse a guardare la mappa. All'estremità meridionale, oltre i margini della mappa, c'era Cardegoss, col grande castello e con la fortezza dello Zangre con i suoi orribili ricordi. No. A est si trovava Taryoon. No. Allora a ovest e a nord. Fece scorrere il dito sulla mappa verso il rilievo dei Denti del Bastardo, l'alta catena montuosa che segnava il lungo confine settentrionale di Ibra, unito così di recente a Chalion col matrimonio di sua figlia. A nord, costeggiando le montagne, lungo qualche facile percorso. «Da questa parte.» Dy Cabon aggrottò la fronte, mentre osservava più da vicino la mappa. «Non sono sicuro che...» «A circa un giorno di viaggio a ovest di Palma c'è la città dove l'Ordine della Madre ha un modesto ostello, piuttosto gradevole», osservò Ferda. «Ci siamo già stati.» Dy Cabon si umettò le labbra. «Uhm. Conosco una locanda vicino a Palma che potremmo raggiungere prima di sera, se non ci attardiamo sulla strada. Si mangia in modo eccellente. Oh, e c'è anche una fonte benedetta, molto antica. Un luogo sacro minore, ma poiché Sera Ista dy Ajelo desidera un pellegrinaggio all'insegna dell'umiltà, forse un inizio modesto soddisferà meglio il suo intento. Inoltre, i grandi santuari sono abitualmente molto affollati in questo periodo dell'anno.» «Allora, Erudito, evitiamo in tutti i modi le folle, per ricercare l'umiltà, e andiamo a pregare a quella fonte. O a tavola, a seconda dei casi.» Le labbra di Ista s'incresparono. «Non vedo la necessità di misurare la preghiera in base al suo peso, come se fosse una moneta di dubbio valore», replicò dy Cabon allegramente, incoraggiato da quel sorriso appena abbozzato. «Facciamo entrambe le cose, e ricambiamo l'abbondanza con l'abbondanza.» Le dita grassocce del Divino si aprirono a compasso e toccarono Valenda, Palma e il punto indicato da Ferda. Esitò, poi la mano girò ancora una volta. «A un giorno di
viaggio da qui, se ci alziamo di buon'ora, si trova Casilchas. Un borgo molto tranquillo, dove il mio Ordine ha una scuola. Alcuni dei miei vecchi maestri sono ancora lì. E c'è anche una bella biblioteca, considerate le piccole dimensioni del luogo, perché molti Divini-insegnanti hanno donato i loro libri quando sono morti. Certo, un seminario del Bastardo non è esattamente... consono allo scopo di questo pellegrinaggio, ma confesso che mi piacerebbe consultare la biblioteca.» Ista si chiese, un po' seccata, se anche la scuola avesse un cuoco particolarmente dotato. Appoggiò il mento sulla mano e studiò il grasso giovanotto che le stava di fronte. Che cosa aveva indotto il Tempio di Valenda a inviarle proprio lui? Le sue radici semi aristocratiche? Difficile. Tuttavia, le guide esperte di pellegrinaggi di solito avevano i loro programmi spirituali già prestabiliti. Indubbiamente, v'erano libri d'istruzione devozionale sull'argomento. Forse era proprio quello che dy Cabon voleva dalla biblioteca, un manuale che gli spiegasse come proseguire. Forse si era addormentato un po' troppo spesso su quelle sacre scritture a Casilchas. «Bene», disse Ista. «L'ospitalità della Figlia per le prossime due notti, poi quella del Bastardo.» Questo avrebbe messo tra lei e Valenda almeno tre giorni di viaggio. Un ottimo inizio. Dy Cabon sembrò estremamente sollevato. «Eccellente, Royina.» Foix stava rimuginando sulle mappe; ne aveva tirata fuori una della provincia di Chalion, necessariamente meno dettagliata di quella che dy Cabon aveva studiato. Col dito percorse la strada da Cardegoss verso nord, fino a Gotorget. La fortezza sorvegliava l'estremità della catena di montagne impervie, anche se non particolarmente alte, che segnavano in parte il confine tra Chalion e il principato roknari di Borasnen. Foix corrugò la fronte. Ista si chiese quali ricordi dolorosi gli evocasse il nome di quella fortezza. «Penso che vogliate evitare questa regione», suggerì dy Ferrej, vedendo che la mano di Foix si fermava su Gotorget. «Certo, mio signore. Credo che dovremo evitare tutta la parte settentrionale e centrale di Chalion. La situazione è ancora molto instabile dopo la campagna dell'anno scorso, e la Royina Iselle e il Royse Bergon hanno già iniziato a radunare le forze in previsione del prossimo autunno.» Dy Ferrej sollevò le sopracciglia con interesse. «Pensate che abbiano già intenzione di attaccare Visping?» Foix scrollò le spalle, risalendo col dito verso la costa settentrionale e la città portuale appena nominata. «Non so se Visping posso essere presa in
una singola campagna, ma sarebbe un bene se così fosse. Dividere in due i Cinque Principati, aggiudicarsi un porto per Chalion dove la flotta ibrana possa trovare rifugio...» Dy Cabon si sporse sul tavolo, il ventre premuto contro il bordo, e sbirciò. «Il principato di Jokona, a ovest, sarebbe la meta successiva dopo Borasnen, allora. O punteranno verso Brajar? O su entrambi contemporaneamente?» «Due fronti sarebbe una follia, e Brajar è un alleato poco affidabile. Il nuovo principe di Jokona è giovane e inesperto. Prima stringiamo Jokona tra Chalion e Ibra... prima la tagliamo fuori. Poi ci dirigiamo a nord-est.» Gli occhi di Foix si strinsero, e la sua bocca ben disegnata si fece dura, contemplando quella strategia. «Partirete anche voi il prossimo autunno, Foix?» chiese Ista gentilmente. Il giovane annuì. «Dove il March dy Palliar va, i fratelli dy Gura lo seguono. In qualità di maestro di scuderia, con tutta probabilità Ferda sarà molto impegnato a radunare i destrieri della cavalleria entro la metà dell'estate. E, a meno che io non lo perda e non inizi a languire, troverà qualche sporco lavoro per me. Di quelli ce n'è sempre in abbondanza.» Ferda ridacchiò. La smorfia che Foix gli restituì parve del tutto priva di risentimento. Ista pensò che l'analisi di Foix fosse sensata, e non aveva dubbi su come ci fosse arrivato. Il March dy Palliar, il Royse Bergon e la Royina Iselle non erano degli stupidi, e il Cancelliere dy Cazaril era dotato di un'intelligenza profonda, e provava ben poco affetto per i Lord Roknari della costa, che un tempo lo avevano venduto come schiavo sulle galee. Visping era una ricompensa per cui valeva la pena rischiare. «Allora ci dirigeremo verso ovest, lontano da regioni in fermento», concluse Ista. Dy Ferrej espresse con un cenno del capo la sua approvazione. «Molto bene, Royina», disse dy Cabon. Il suo sospiro tradì una leggera ansia, mentre ripiegava le mappe di Ferda e gliele restituiva. Temeva di fare la fine marziale del padre, o la invidiava? Non v'era modo di saperlo. La compagnia si divise poco dopo. L'elenco dei preparativi e del complesso itinerario e le lamentele delle dame di Ista, invece, proseguirono all'infinito. Non avrebbero mai smesso di lamentarsi, decise Ista; ma lei poteva. L'avrebbe fatto. Non si possono risolvere i problemi fuggendo lontano, dicevano, e come la brava bambina che un tempo era stata, ci aveva creduto. Ma non era vero. Alcuni problemi potevano essere risolti solo fuggendo lontano da essi. Quando le sue lagnose dame alla fine spensero
le candele e la lasciarono al suo riposo, un sorriso le sfiorò nuovamente le labbra. 3 Ista trascorse la prima parte della mattinata a rovistare nel guardaroba con Liss, alla ricerca d'indumenti adatti al viaggio, e non solo al suo rango di Royina. Gran parte del vestiario vecchio era stipato negli armadi e nei cassettoni, ma di semplice c'era ben poco. Tutti gli abiti ricamati o delicati che a Liss facevano arricciare il naso, venivano immediatamente scartati. Ista riuscì a riunire un abbigliamento da cavallerizza composto di gambali, gonna pantalone, tunica e sopravveste, privi di qualsiasi traccia del verde della Madre. Infine, andarono a saccheggiare senza tanti complimenti i guardaroba delle dame e delle cameriere di Ista, con grande scandalo di queste ultime. Alla fine, riuscirono a mettere insieme indumenti pratici, semplici, lavabili e, soprattutto, pochi. Liss fu chiaramente più contenta di essere mandata nelle scuderie a scegliere il cavallo più adatto al viaggio e il mulo da soma. Un mulo da soma. Per mezzogiorno, il risultato della febbrile determinazione di Ista fu che entrambe le donne erano pronte per partire, i cavalli sellati e il mulo caricato. I fratelli dy Gura le trovarono nel cortile rivestito di acciottolato, quando superarono il portone del castello a capo di dieci uomini a cavallo, con la livrea dell'Ordine della Figlia, seguiti da dy Cabon sul suo mulo bianco. Gli stallieri tennero fermo il cavallo della Royina e l'aiutarono a montare, mentre Liss saltò in groppa al suo alto baio senza bisogno di assistenza. Nella primavera della sua vita, quand'era arrivata alla corte sfavillante del Roya, Ista aveva cavalcato molto; andava a caccia tutti i giorni e danzava finché la luna non tramontava. Dopo aveva passato troppo tempo a letto in quell'antico castello pieno di dolorosi ricordi. Un impegno non troppo pesante per recuperare la forma era proprio ciò che ci voleva. L'Erudito dy Cabon scese con notevole difficoltà dal suo mulo e dopo aver trovato l'equilibrio sui gradini, intonò una breve preghiera per chiedere clemenza e benedizioni sull'impresa. Ista chinò il capo, ma non partecipò alle invocazioni. Non voglio nulla dagli Dei. Ho già ricevuto i loro doni in passato. Quattordici persone e diciotto animali per accompagnarla nel viaggio! Che dire di quei pellegrini che in qualche modo riuscivano a cavarsela solo
con un bastone e un sacco? Lady dy Hueltar e tutte le dame e le cameriere di Ista si radunarono nel cortile, non per augurarle buon viaggio, come apparve subito chiaro, ma per piangerle addosso in un ultimo e decisamente controproducente tentativo di farle cambiare idea. A dispetto di ogni evidenza, Lady dy Hueltar gemette: «Oh, non fa sul serio... fermatela, per amore della Madre, dy Ferrej!» Stringendo i denti, Ista lasciò che i loro lamenti rimbalzassero alle sue spalle come frecce deviate da una cotta di maglia. Il bianco mulo di dy Cabon superò l'arcata e imboccò la strada procedendo lentamente, e alla fine si smorzarono. Il dolce vento primaverile arruffò i capelli di Ista che non si voltò indietro. Raggiunsero la locanda di Palma verso il tramonto. Mentre l'aiutavano a smontare, Ista si ritrovò a pensare che era moltissimo tempo che non trascorreva un'intera giornata in sella. Liss, chiaramente annoiata per la lenta andatura che avevano tenuto per tutta la giornata, smontò dal suo destriero come se avesse passato il pomeriggio sdraiata in poltrona. Apparentemente, Foix, già nel viaggio precedente aveva superato i problemi provocati dalle sue ferite, e persino dy Cabon non si muoveva goffamente come se fosse dolorante. Quando il Divino le offrì il braccio, Ista vi si appoggiò con gratitudine. L'Erudito aveva mandato avanti un uomo per prenotare i letti e la cena per la compagnia, ed era stata un'idea felice, come poterono constatare, perché la locanda era piccola e un gruppo di stagnai era stato dirottato altrove al suo arrivo. Un tempo quella locanda era una piccola fattoria fortificata, poi ingrandita con l'aggiunta di una nuova ala. Ai fratelli dy Gura e al Divino venne assegnata una sola stanza; a Ista e Liss un'altra, mentre alle guardie vennero destinati dei giacigli di paglia nel sottotetto della stalla, una sistemazione accettabile grazie al clima mite. L'oste e sua moglie avevano preparato due tavole vicino alla fonte sacra, in un boschetto dietro all'edificio, con numerose lanterne appese ai rami degli alberi. Il morbido muschio e le felci, le campanule e le potentille coi loro bianchi fiori stellati, i rami intrecciati e il delicato gorgoglio dell'acqua che scorreva sulle pietre levigate, facevano di quel luogo la sala da pranzo più incantevole in cui si fosse mai seduta da anni, pensò Ista. Tutti si lavarono le mani nell'acqua di sorgente portata in bacinelle di rame e benedetta dal Divino, e non ebbero bisogno di altri profumi. La moglie dell'oste era famosa per l'abbondanza delle sue porzioni. Un
paio di servitori andarono avanti e indietro più volte con pesanti vassoi e brocche: pane e formaggio, anatre arrosto, montone, salsicce, frutta secca, erbe e verdure di stagione, uova, olive nere e olio d'oliva del nord, torte di mele e noci, birra novella e sidro... cibi semplici ma molto genuini. Dy Cabon fece grande onore alla tavola, e persino l'appetito di Ista, assopito per mesi, si risvegliò. Quando alla fine si svestì e si coricò accanto a Liss nel lindo lettino della loro camera, si addormentò così in fretta da non serbarne quasi il ricordo il mattino dopo. Mentre le prime luci filtravano dalla finestra semiaperta, il risveglio si rivelò un po' goffo. A causa dell'abitudine radicata, Ista restò ferma per qualche tempo in attesa di essere vestita come una bambola, finché non si rese conto che la sua nuova cameriera doveva essere istruita. A quel punto, era più semplice che scegliesse da sola che cosa indossare, anche se le chiese aiuto per allacciare alcuni capi. Sui capelli, invece, ebbe qualche difficoltà. «Non so come acconciarli», confessò Liss, quando Ista le porse la spazzola e si sedette su una panca bassa. La ragazza osservò dubbiosa la folta capigliatura che ricadeva fino alla vita. La sera prima, coricandosi, senza riflettere, Ista aveva sciolto l'elaborata acconciatura che le era stata fatta prima di partire e durante la notte i riccioli si erano arruffati, tanto che sembravano dei serpentelli pronti a mordere. «Tu come te li sistemi?» «Be', faccio una treccia.» «Semplicemente?» «A volte ne faccio due.» Ista rifletté un momento. «Acconci i cavalli?» «Oh, sì, mia signora. Trecce a spirale ornate di nastri, e nodi a frangia con perline per il Giorno della Madre, e per il Giorno del Padre i nodi con piume intrecciate, e...» «Per oggi andrà bene la treccia», la interruppe Ista. Liss sospirò di sollievo. «Sì, mia signora.» Le sue mani erano veloci e sicure; molto più veloci di quelle delle cameriere del castello. E i risultati furono abbastanza adeguati per una modesta Sera dy Ajelo. La compagnia al completo si ritrovò nel boschetto per le preghiere dell'alba, per quello che sarebbe stato il primo giorno completo del pellegrinaggio. O, perlomeno, la considerarono alba solo per loro comodità, visto che il sole si era già levato da alcune ore. Anche l'oste, la moglie e tutti
i loro figli e servitori si radunarono per assistere alla cerimonia, approfittando dell'evento raro di vedere all'opera un Divino di una certa importanza. Oltre a questo, pensò Ista con un certo cinismo, c'era la possibilità che se l'accoglienza fosse stata abbastanza lusinghiera, il Divino avrebbe potuto indirizzare altri pellegrini in quel luogo santo decisamente secondario. Poiché la sorgente era sacra alla Figlia, dy Cabon si mise sull'argine del ruscelletto, riparato dai raggi del sole, e cominciò a leggere una breve preghiera alla primavera da un libretto di devozioni che portava nella sua sacca da sella. Il motivo esatto per cui questa fonte era sacra alla Signora della Primavera non era del tutto chiaro. Ista aveva trovato poco convincente la spiegazione dell'oste che si trattava della vera località segreta in cui era avvenuto il Miracolo della Vergine e dell'anfora d'acqua, dal momento che conosceva almeno altri tre siti nella sola Chalion che rivendicavano la stessa leggenda. Ma la bellezza del luogo era sicuramente una scusa sufficiente per la sua santa reputazione. Dy Cabon, con le sue vesti macchiate che sembravano quasi cangianti in quella luce pura, mise via il libro e si schiarì la voce per la lezione mattutina. Visto che le tavole alle loro spalle erano già state imbandite e la colazione sarebbe stata servita non appena concluse le preghiere, Ista era sicura che il sermone sarebbe stato succinto. «Poiché questo è l'inizio di un viaggio spirituale, riprenderò la leggenda delle origini che tutti noi abbiamo appreso nella nostra infanzia.» Il Divino chiuse un attimo gli occhi, come per mettere ordine tra i ricordi. «Questo è il racconto così come Ordol lo riporta nelle sue Lettere al giovane Royse dy Brajar.» Riaprì gli occhi e la sua voce prese un ritmo da narratore. «Per primo venne creato il mondo, e il mondo era in fiamme, mutevole e terrificante. Quando la fiamma si raffreddò, si formò la materia che acquisì grande forza e resistenza, un grande globo con un nucleo di fuoco al centro. Dal fuoco al centro del mondo lentamente si sviluppò l'Anima-Mondo. «Ma l'occhio non può vedere se stesso, nemmeno l'Occhio dell'AnimaMondo. Così l'Anima-Mondo si divise in due, perché potesse percepire se stessa. E così vennero alla luce il Padre e la Madre. E con quella dolce percezione, per la prima volta l'amore divenne possibile nel cuore dell'AnimaMondo. L'amore fu il primo dei frutti che il regno dello spirito restituì come dono al regno della materia, che era la sua sorgente e le sue fondamenta. Ma non l'ultimo, poiché poi venne il canto e infine la parola.» Dy Cabon abbozzò un sorriso e fece un altro lungo respiro.
«E il Padre e la Madre iniziarono a mettere ordine nel mondo, perché l'esistenza non venisse immediatamente consumata di nuovo dal fuoco, dal caos, dalla distruzione dilagante. Nel loro primo atto d'amore diedero alla luce la Figlia e il Figlio, e tra loro divisero le stagioni del mondo, alle quali ciascuno avrebbe conferito la propria bellezza speciale e particolare, e avrebbe governato in base alla propria signoria. E nell'armonia e nella sicurezza di questa nuova composizione, la materia del mondo crebbe in audacia e complessità. E dai suoi sforzi per creare la bellezza, nacquero le piante, gli animali e gli uomini, perché l'amore era entrato nel cuore ardente del mondo, e la materia cercò di restituire i doni dello spirito al regno dello spirito, come gli amanti si scambiano pegni d'amore.» La soddisfazione aleggiò sul volto paffuto del Divino, che accentuò un poco le sue cadenze via via che il racconto lo assorbiva. Ista ebbe il sospetto che fossero arrivati alla parte che preferiva. «Ma il fuoco al centro del mondo conteneva anche forze distruttive che non potevano essere ignorate. E da questo caos nacquero i demoni che proruppero nel mondo e lo invasero, avventandosi sulle fragili nuove anime che vi crescevano, come il lupo di montagna si avventa sugli agnelli delle vallate. Fu la Stagione dei Potenti Stregoni. L'ordine del mondo venne sovvertito, e inverno, primavera, estate e autunno vennero invertiti tra loro. Siccità e inondazioni, ghiacci e incendi minacciarono la vita degli uomini e di tutte le meravigliose piante e delle scaltre creature che la materia, contagiata dall'amore, aveva offerto sull'altare dell'Anima-Mondo. «Poi, un giorno, un potente Lord Demone, saggio e reso malvagio dalle innumerevoli anime di uomini che aveva consumato, giunse al cospetto di un uomo che viveva in solitudine in un piccolo eremo nel bosco. Come un gatto che pensa di giocare con la sua preda, il Demone accettò l'ospitalità dell'eremita e attese il momento opportuno per balzare dal corpo ormai consunto che possedeva nell'altro ancora giovane. Perché l'eremita, benché vestito di stracci, era bellissimo: il suo sguardo era come una spada sguainata, il suo respiro come profumo. «Ma il Demone, mentre si preparava a fare il balzo, venne tratto in inganno: accettò una piccola ciotola di vino, che bevve d'un sol fiato. Il Santo Eremita, infatti, aveva scisso la propria anima, riversandola nel vino, e donandola spontaneamente al Demone. E così, per la prima volta, questi acquisì un'anima, e tutti i suoi doni, dolci e amari. «Il Lord Demone si accasciò sul pavimento dell'eremo e urlò con tutto il dolore stupefatto di un nuovo nato, perché egli nacque in quell'istante al
mondo della materia e dello spirito. E prendendo il corpo dell'eremita che gli era stato donato liberamente, e non sottratto o defraudato, fuggì tra i boschi in preda al terrore, ritornando nella sua oscura dimora di stregone, ove si nascose. «Per molti mesi vi rimase rintanato, imprigionato nell'orrore del proprio io, ma lentamente il Santo dal nobile animo iniziò a insegnargli le bellezze della virtù. Il Santo era un devoto della Madre, e invocò la Sua grazia per guarire i peccati del Demone, perché insieme al dono del libero arbitrio facesse nascere in lui il senso di colpa, e la vergogna bruciante che esso procurava, tormentava il demone come nulla prima di allora. E tra le sferzate del proprio senso di colpa e le lezioni del Santo, l'anima del Demone cominciò a crescere in probità e potere. Come un grande stregone-paladino, col favore della Madre che sventolava su di lui, iniziò a muoversi nel mondo della materia e a combattere i malvagi demoni senz'anima per conto degli Dei, nei luoghi che Essi non potevano raggiungere. «Il Demone dal nobile animo divenne il campione e il capitano della Madre, e Lei lo amò senza riserve per lo splendore incandescente della sua anima. E così ebbe inizio la grande battaglia per liberare il mondo dai demoni che vi regnavano indisturbati e ristabilire l'ordine delle stagioni. «Gli altri demoni che lo temevano, tentarono di unirsi contro di lui, ma non vi riuscirono, perché tale collaborazione andava oltre la loro natura; tuttavia, il loro assalto fu terribile, e il Demone dal nobile animo, diletto della Madre, venne trucidato nella battaglia finale. «E fu così che nacque l'ultimo Dio, il Bastardo, figlio dell'amore della Dea e del Demone dal nobile animo. Alcuni dicono che Egli sia nato la vigilia dell'ultima battaglia, frutto di un'unione nel santo talamo della Dea; altri sostengono che la Madre, addolorata, raccolse i cari resti del Demone dal campo di battaglia e li mischiò al Suo sangue, generando così il Bastardo con la Sua grande arte. Comunque sia, al loro Figlio, tra tutti gli Dei, venne conferito il potere d'intervenire sia sullo spirito sia sulla materia, poiché Egli ereditò come servitori i demoni che, grazie al grande sacrificio di Suo padre, erano stati conquistati, resi schiavi e infine scacciati dal mondo. «Ciò che invece è sicuramente una menzogna», continuò dy Cabon con un tono di voce fattosi all'improvviso più prosaico, per non dire più irato, «è l'eresia della dottrina quaternaria in base alla quale il Demone dal nobile animo avrebbe preso la Madre con la forza, facendole generare il Bastardo contro la Sua volontà. Una menzogna scurrile, insensata e blasfema...»
Ista non era sicura se stesse ancora parafrasando Ordol, o se fosse farina del suo sacco. Il Divino si schiarì la gola e concluse in modo più formale: «Qui termina il resoconto dell'avvento dei cinque Dei». Ista aveva sentito diverse versioni delle vicende degli Dei centinaia e centinaia di volte da quand'era una bambina, ma dovette ammettere che l'eloquenza e la sincerità con cui dy Cabon aveva narrato l'antico racconto, le aveva dato l'impressione di udirlo per la prima volta. Certo, la maggior parte delle versioni non dava alla complessa storia del Bastardo più spazio che al resto della Santa Famiglia messa insieme, ma alla gente doveva essere concesso d'indugiare sui propri prediletti. Suo malgrado, Ista si commosse. Dy Cabon ritornò al rito e invocò la quintuplice benedizione, chiedendo a ciascun Dio i doni a esso peculiari, guidando gli astanti a rendere grazie di rimando. Alla Figlia: sviluppo, erudizione e amore; alla Madre: figli, salute e guarigione; al Figlio: cameratismo, una buona caccia e un buon raccolto; al Padre: figli, giustizia e una dolce morte a tempo debito. «E che il Bastardo ci conceda...» la voce di dy Cabon, che aveva assunto il tono cantilenante della cerimonia, venne meno per la prima volta, e rallentò... «nelle circostanze più atroci, i doni più semplici: il chiodo dello zoccolo, il piolo dell'asse della ruota, la piuma che ristabilisce l'equilibrio, il ciottolo sul picco del monte, il bacio nella disperazione, la parola di conforto. Nell'oscurità, comprensione.» Sbatté gli occhi, con un'espressione sconcertata. Ista alzò di scatto la testa; per un istante, sentì un brivido gelato percorrerle la schiena. No. No. Non c'è nulla qui, nulla, nulla. Nulla, mi sentite? Poi si costrinse a espirare lentamente. Non era la formulazione consueta. Nella maggior parte delle preghiere si chiedeva che venisse risparmiata l'attenzione del quinto Dio, il maestro di tutti i disastri fuori stagione che Egli era. Il Divino si segnò velocemente, sfiorandosi fronte, labbra, ventre, inguine e cuore con la mano allargata sul petto, sopra il ventre sporgente, e rifece il segno nell'aria per far scendere la benedizione su tutte le persone lì riunite. La compagnia, liberata, si ridestò e stiracchiò. Alcuni presero a chiacchierare a bassa voce, altri tornarono a occuparsi delle loro faccende quotidiane. Dy Cabon andò verso Ista, sfregandosi le mani e sorridendo ansiosamente. «Grazie, Erudito», disse Ista, «per questo ottimo inizio.» Lui chinò il capo, sollevato dalle sue parole di approvazione. «È stato un grandissimo onore, mia signora.» S'illuminò ancora di più quando i servi-
tori si affrettarono a portare fuori un'opulenta colazione. Di fronte all'eccellenza del suo sforzo, Ista, un po' imbarazzata per aver sottratto il Divino ai propri doveri con false pretese di un finto pellegrinaggio, si rincuorò all'idea che dy Cabon stesse chiaramente traendo grande soddisfazione dal suo lavoro. La campagna a ovest di Palma era piatta e spoglia, con pochi alberi ammassati lungo i corsi d'acqua che interrompevano il lungo e monotono panorama. L'allevamento, non certo le coltivazioni, era l'occupazione principale delle vecchie fattorie fortificate disseminate lungo la strada poco battuta. Ragazzi con i loro cani accudivano pecore e mucche, tutti sonnecchianti nelle lontane macchie d'ombra. Il caldo pomeriggio sembrava contenere in sé un lungo silenzio che invitava a dormire, non a viaggiare, ma poiché erano partiti tardi, la compagnia di Ista proseguì in quell'atmosfera pigra e sonnolenta. Quando la strada si allargò per un tratto, Ista si ritrovò a cavalcare tra il robusto mulo di dy Cabon da una parte e lo snello baio di Liss dall'altra. Come antidoto contro i contagiosi sbadigli del Divino, Ista gli chiese: «Ditemi, Erudito, che cosa ne è stato di quel piccolo demone che portavate quando ci siamo incontrati la prima volta?» Liss, che fino a quel momento aveva cavalcato coi piedi fuori dalle staffe e le redini allentate, si volse per ascoltare. «Oh, è andato tutto bene. L'ho consegnato all'Arcidivino di Taryoon, e abbiamo controllato che venisse eliminato. Adesso è al sicuro fuori da questo mondo. In effetti ero proprio sulla via del ritorno quando ho trascorso la serata a Valenda e...» Un'occhiata alla fila di cavalieri che procedevano alle loro spalle, indicò il suo nuovo e inatteso compito con la Royina. «Un demone? Avevate un demone?» chiese Liss in tono sorpreso. «Non io», la corresse il Divino con un certo fastidio. «Era imprigionato in un furetto. Per fortuna, un animale affatto difficile da controllare, se paragonato a un lupo o a un toro.» Fece una smorfia. «O a un uomo che cerchi di appropriarsi dei poteri del demone.» Il volto della ragazza si contorse. «Come fate a far uscire un demone dal mondo?» Dy Cabon sospirò. «Dandolo a qualcuno che se ne sta andando.» Liss corrugò la fronte fissando per un attimo le orecchie del suo cavallo, poi rinunciò a risolvere quell'enigma. «Cosa?»
«Se il demone non ha acquisito troppa forza, il modo più semplice per restituirlo agli Dei consiste nell'affidarlo a un'anima che sta andando dagli Dei. Che sta morendo», aggiunse rispondendo al suo sguardo assente. «Oh» esclamò. Un'altra pausa. «Allora... avete ucciso il furetto?» «Ahimè, non è così semplice. Un demone libero, il cui involucro sta morendo, non fa altro che saltare in un altro involucro. Vedete, un elementale che riesce a penetrare nel mondo della materia, non può esistere senza un essere corporeo che gli conferisca intelligenza e forza, perché per sua natura non può creare da solo tale ordine. Può solo rubare. All'inizio è irrazionale, informe, innocentemente distruttivo quanto un animale selvatico, almeno finché non apprende dagli uomini peccati più complessi. A sua volta è limitato dal potere della creatura o della persona sul quale prospera. Un demone scacciato cercherà sempre di entrare nell'anima più forte che ha vicino, in una creatura più grande, un animale in un uomo, un uomo in un uomo più erudito, perché diventa ciò che... mangia, in un certo senso.» Dy Cabon inspirò, e sembrò rovistare in qualche recesso della memoria. «Ma quando un Divino o una Divina di lunga esperienza sta per morire nella dimora del suo Ordine, il demone può essere costretto a entrare in quell'involucro. Se il demone è abbastanza debole e il Divino ha un cuore e una mente saldi anche in quest'ora estrema, allora la materia si estingue da sola.» Si schiarì la gola. «Persone dal nobile animo che sono ormai distaccate dal mondo e che desiderano ricongiungersi col proprio Dio. Perché un demone può indurre un uomo più debole a praticare la stregoneria con la promessa di una vita più lunga.» «Una forza rara», interloquì Ista dopo un attimo. Il Divino aveva appena assistito a una scena di morte tanto straordinaria? Così sembrava. Non si stupì della sua aria d'umiltà. Dy Cabon scrollò le spalle in segno di approvazione. «Sì. Non so se sarò mai... Per fortuna, i demoni dispersi sono rari. Tranne che...» «Tranne che cosa?» lo sollecitò Liss, quando sembrò che non vi fosse un seguito a quel discorso teologico così elevato. Dy Cabon increspò le labbra. «L'Arcidivino era molto infastidito. Il mio, era il terzo fuggitivo catturato quest'anno nella sola Baocia.» «Quanti ne catturate di solito?» chiese Liss. «Neanche uno all'anno in tutta Chalion, o almeno così è stato per molti anni. L'ultima grande irruzione risale all'epoca del Roya Fonsa.» Il padre di Ias; il nonno di Iselle, morto ormai da cinquant'anni. Ista ponderò le parole di dy Cabon. «Che cosa succede se il demone non
è abbastanza debole?» «Ah, una domanda interessante», ribatté il Divino. Poi rimase in silenzio per un attimo, fissando le orecchie flosce del suo mulo che sporgevano da entrambi i lati della testa come remi. «Questo è il motivo per cui il mio Ordine sta dedicando così tante energie a eliminarli quando sono ancora piccoli.» A quel punto, la strada si restrinse, curvando verso un ponticello che attraversava un torrente verdognolo, così dy Cabon fece un cortese cenno di saluto a Ista e spronò il mulo. 4 La cavalcata del giorno dopo iniziò presto e proseguì per molte ore. Lentamente si lasciarono alle spalle il paesaggio desolato della Baocia. La campagna si fece più ondulata, con numerosi corsi d'acqua e una vegetazione più folta, allungandosi verso i monti appena visibili a occidente. Ma al centro restava una terra spoglia. Infine arrivarono sotto le mura della città di Casilchas che costeggiava un affioramento roccioso sopra un torrente che scorreva limpido e gelido, la cui fonte scaturiva dalle lontane vette. La pietra grigia e ocra, grezza o lavorata, che era stata impiegata per erigere le mura e le costruzioni, era ravvivata, qua e là, da intonaci rosa o verde chiaro, o da porte o imposte di legno dipinte di un bel rosso acceso, azzurro o verde nella luce obliqua di quel pomeriggio di tarda primavera. Si potrebbe bere questa luce come vino e inebriarsi di colore, pensò Ista, mentre i loro cavalli percorrevano i vicoli. Il Tempio della città dava su una piccola piazza pavimentata con lastre di granito irregolari, assemblate come un puzzle. Di fronte, in quella che aveva l'aria di essere la vecchia magione di qualche aristocratico locale, lasciata in eredità all'Ordine, la compagnia di Ista trovò il seminario del Bastardo. Uno sportello, nelle doppie porte rivestite di legno e cerchiate di ferro, si aprì quando dy Cabon bussò. Il portiere uscì e rispose ai primi saluti del Divino scuotendo il capo in modo scoraggiante. Poi Dy Cabon scomparve all'interno per qualche minuto, e subito dopo entrambi i battenti vennero spalancati, e servitori e Devoti accorsero per assistere all'arrivo della compagnia. Il cavallo di Ista venne condotto all'interno. Tre ordini di portici in legno intarsiato si alzavano al di sopra del cortile coperto di acciottolato.
Un Accolita vestito di bianco accorse coi gradini. Un Divino anziano s'inchinò e offrì un umile benvenuto. L'accolse con il nome di Sera dy Ayelo, ma Ista non si fece illusioni: era Ista dy Chalion alla quale si stava inchinando. Dy Cabon poteva essere stato meno discreto di quanto avrebbe voluto, ma senza dubbio aveva procurato loro stanze più accoglienti, servitori più zelanti e l'assistenza migliore per i loro stanchi cavalli. Ista e Liss erano state appena accompagnate nella loro stanza, quando venne portata l'acqua per lavarsi. Il seminario non doveva avere stanze grandi, sospettò Ista, ma quella a loro assegnata aveva spazio a sufficienza per un letto, una branda e un tavolo con sedie, oltre ad avere un terrazzino che sovrastava le mura della città e il torrente che scorreva proprio sotto l'edificio. La cena venne portata poco dopo alle due donne su dei vassoi, e vasi di fiori azzurri e bianchi, in onore della stagione, vennero sistemati frettolosamente. Dopo cena, Ista con la sua dama, e Ferda e Foix come scorta, fece un giro per la città nella luce ormai tenue. I due devoti-ufficiali formavano una bella coppia, nelle loro tuniche azzurre e mantelli grigi, con le spade portate in modo che non dessero un aspetto tracotante; e non furono poche le fanciulle e le matrone di Casilchas che si girarono al loro passaggio. Il portamento e l'altezza di Liss erano molto simili a quelle dei fratelli dy Gura, una esibizione di giovinezza e salute da far apparire sete e gioielli come ninnoli di scarso valore. Ista si sentiva splendidamente servita come mai lo era stata alla corte del Roya. Il Tempio aveva una planimetria standard, anche se in scala minore: quattro lobi a cupola, uno per ciascun membro della Sacra Famiglia, attorno a un cortile aperto dove il sacro fuoco ardeva nel suo crogiuolo centrale, con la Torre del Bastardo a se stante dietro la corte di Sua Madre. Le mura erano fatte di pietra grigia nativa, anche se gli archi dei tetti erano di legno finemente lavorato, con un piccolo esercito di demoni, santi, animali sacri dipinti in colori vivaci, e di piante appropriate a ciascun Dio, che s'intrecciavano lungo le travi. In mancanza di un intrattenimento migliore, andarono tutti a seguire le funzioni serali. Ista era stufa degli Dei ma, dovette ammetterlo, i canti furono un piacere; il seminario offrì un emozionato coro di voci bianche, anche se l'effetto religioso venne leggermente rovinato dalla direttrice del coro che di tanto in tanto guardava Ista di sottecchi per vedere la sua reazione. Ista sospirò dentro di sé e si premurò di sorridere e annuire per sedare l'ansia della donna.
Tre giorni di viaggio avevano affaticato sia le persone sia gli animali, perciò il giorno dopo si sarebbero presi una pausa. Una vaga sensazione di serenità sembrava essersi insinuata nello spirito di Ista; se l'origine fosse il sole e l'aria aperta, l'esercizio, l'allegra compagnia dei giovani o la distanza da Valenda, non avrebbe saputo dire, ma per questo era grata. Quando rientrarono al seminario, il suo corpo scivolò sotto la trapunta di piume, trovando lo stretto letto più sfarzoso di quelli più decorati, ma meno comodi, dei castelli regali, e si addormentò prima che Liss smettesse di rigirarsi nella sua branda. Ista sognò, e sapeva che stava sognando. Attraversò il cortile pavimentato di un castello sotto il sole di mezzogiorno di un giorno di tarda primavera o inizio estate. Attorno al perimetro del cortile si snodava un porticato di pietra, con le colonne di fine alabastro scolpite con intrecci di viticci e fiori nello stile roknari. Il sole caldo splendeva alto nel cielo e le ombre erano neri accenti ai suoi piedi. Risalì, no, fluttuò sulla scala di pietra all'estremità, che conduceva a un porticato di legno. In fondo, c'era una stanza: vi penetrò senza aprirne la porta scolpita, che parve fendersi e richiudersi sulla sua pelle come acqua. La stanza era fresca e avvolta nella penombra, ma lamine di luce filtravano attraverso le persiane per ricadere sui tappeti, ravvivandone i pallidi colori. Nella stanza, un letto; sul letto, una sagoma. Ista scivolò più vicino, come un fantasma. La sagoma era un uomo, addormentato o morto, tuttavia molto pallido e immobile. Il suo lungo corpo snello era avvolto da una veste di lino grezzo, ripiegata sul petto e allacciata alla vita con una cintura di lino. Sul petto, a sinistra, una macchia di sangue rosso scuro aveva impregnato il tessuto. Nonostante la rigidità dei lineamenti, l'ossatura del volto era delicata: fronte alta, una mascella fine, il mento quasi aguzzo. La sua pelle non era rovinata da cicatrici o macchie, ma esili rughe gli segnavano la fronte, gli circondavano le labbra e gli occhi. I capelli neri e diritti, pettinati all'indietro, con una attaccatura molto alta, ricadevano sul cuscino fino alle spalle come un fiume notturno, sulle cui onde risplendevano tenui bagliori di luce riflessa dai fili argentati. Le sopracciglia erano lunghe e arcuate; il naso diritto, le labbra socchiuse. Le mani spettrali di Ista slegarono la cintura, e ripiegarono la veste di lino. I peli sul torace erano radi, per poi infittirsi all'altezza dell'inguine, do-
ve quello che lì riposava, grazioso e ben proporzionato, le strappò un sorriso. Ma la ferita alla sinistra del costato si apriva come una piccola bocca scura. Mentre guardava, il sangue cominciò a fiottare. Lei premette le mani sul taglio scuro per arrestare il flusso, ma il liquido rosso sgorgò tra le sue bianche dita, un'inondazione improvvisa che si riversò sul petto dell'uomo, spargendosi sulle lenzuola come una marea scarlatta. Improvvisamente lui spalancò gli occhi, la vide ed ebbe un sussulto. A quel punto Ista si risvegliò, scattò a sedere sul letto, premendosi le mani sulla bocca per soffocare un grido. Si aspettava di sentire il sapore del sangue caldo e appiccicoso, e quando si rese conto che non era così rimase quasi scioccata. Era in un bagno di sudore. Il cuore le martellava, e ansimava come se avesse fatto un grande sforzo. La stanza era buia e fresca, ma la luce lunare filtrava attraverso le fessure delle persiane. Sulla branda, Liss bofonchiò e si girò. Si era trattato di uno di quei sogni. Quelli veri. Non v'era modo di sbagliarsi. Ista si afferrò i capelli, aprì la bocca in una smorfia ed emise un urlo silenzioso. Poi sibilò: «Che Tu sia maledetto. Chiunque Tu sia. Che Tu sia maledetto, uno e cinque. Vattene dalla mia testa. Vattene dalla mia testa!» Liss produsse un suono simile a quello dei gatti quando fanno le fusa, poi borbottò assonnata: «Signora? State bene?» Si appoggiò a un gomito, sbattendo le palpebre. Ista deglutì per riacquistare il controllo, e si schiarì la gola secca. «Solo un brutto sogno. Rimettiti a dormire, Liss.» La ragazza grugnì piacevolmente e si rigirò. Ista tornò a sdraiarsi, coprendosi con la trapunta nonostante fosse madida di sudore. Stavano ricominciando? No. No. Non li voglio, ansimò. Deglutì e dovette lottare con tutte le sue forze per non scoppiare a piangere. Dopo qualche minuto, la respirazione tornò regolare. Chi era quell'uomo? Non lo aveva mai visto in vita sua, di questo ne era certa. Tuttavia, lo avrebbe riconosciuto all'istante se lo avesse visto di nuovo; i lineamenti fini del suo volto erano incisi nella sua mente come un marchio. E... e le altre cose su di lui? Era un nemico? Un amico? Un avvertimento? Chalionese, ibrano, roknari? Di nobile nascita o di umili origini? Che cosa significava la sinistra marea rossa di sangue? Niente di
buono, su questo non aveva dubbi. Qualunque cosa Tu voglia da me, non posso farla. L'ho già dimostrato in passato. Vattene. Vattene. Fu scossa a lungo dai tremiti; la luce lunare era mutata nella grigia foschia che precede l'alba quando, finalmente, riprese sonno. Non venne svegliata da Liss quando questa uscì dalla stanza, ma quando rientrò. Si vergognò, rendendosi conto che la sua dama l'aveva lasciata dormire durante le preghiere del mattino, un gesto scortese come pellegrina, per quanto falsa, e come ospite regale. «Avevate l'aria così stanca», si scusò Liss quando lei la rimproverò. «Non dovete aver dormito molto bene.» Esatto. Dovette ammetterlo, era contenta di quel riposo extra. La colazione le venne portata su un vassoio da un'Acconta tutto inchini, una cosa altrettanto insolita per un pellegrino così pigro da aver saltato la funzione del mattino. Una volta vestita e dopo essersi fatta acconciare i capelli in una treccia leggermente più elaborata - che non la facesse assomigliare troppo a un cavallo, si augurò - fece un giro nel vecchio edificio con Liss. Si fermarono nel cortile ormai soleggiato. Sedute su una panca addossata al muro, osservarono i frequentatori della scuola affrettarsi verso i loro compiti: studenti, insegnanti e servitori. Una cosa che Ista apprezzava di Liss, era che la ragazza non chiacchierava. Conversava piacevolmente quando veniva interpellata, ma per il resto del tempo rimaneva in un pacato silenzio. Ista sentì un alito freddo sul collo proveniente dal muro contro il quale era appoggiata; uno dei fantasmi del luogo. Volteggiava attorno a lei come un gatto che cerchi una posizione dove raggomitolarsi, e stava per alzare la mano per mandarlo via, quando l'impressione svanì. Qualche spirito triste, respinto dagli Dei, o che in qualche modo si era perso. I nuovi spettri conservavano per un po' la forma che avevano in vita, spesso violenta, crudele, risentita, ma col tempo cadevano tutti in un lento oblio sfocato, informe. Per un edificio tanto antico come quello, i fantasmi sembravano pochi e tranquilli. Per quell'aspetto, le fortezze come lo Zangre, di solito erano le peggiori. Ista si era rassegnata a quella persistente sensibilità, fintanto che nessuna di quelle anime perdute prendesse forma davanti al suo occhio interiore. Vedere gli spiriti significava che qualche Dio respirava troppo vicino, che la sua seconda vista stava ritornando... con tutto quello che comportava.
Ripensò al cortile del suo sogno. Non era un posto che conosceva, su questo non aveva dubbi, ma era convinta che si trattasse di un luogo reale. Per essere sicura di evitarlo, non avrebbe dovuto fare altro che tornare al castello di Valenda e starsene lì finché il suo corpo non fosse imputridito. No. Non tornerò indietro. Quel pensiero la rese inquieta, così si alzò e prese ad aggirarsi per il seminario, con Liss che la seguiva dappresso. Molti Accoliti o Divini, che incrociava lungo le gallerie o i corridoi, s'inchinavano e sorridevano, al che ne dedusse che l'indiscrezione di dy Cabon era ormai ampiamente condivisa. Fingere di essere Sera dy Ajelo per lei era già abbastanza, quindi considerava irritante vedere una cinquantina di estranei che stavano al gioco. A un certo punto si trovarono davanti a una serie di piccole stanze stipate di libri ammassati sulle mensole e impilati sui tavoli: era la biblioteca tanto ambita di dy Cabon. Con sorpresa, Ista vide Foix dy Gura seduto sulla rientranza di una finestra immerso nella lettura di un volume. Quando lui si accorse della loro presenza, sbatté gli occhi, si alzò e abbozzò una riverenza. «Signora. Liss.» «Non sapevo che ti interessassi di teologia, Foix.» «Oh, leggo di tutto. E qui non ci sono solo libri di teologia. Vi sono centinaia di altri argomenti, alcuni molto strani. Qui non buttano via mai niente. C'è un'intera stanza chiusa a chiave, dove tengono testi sulla stregoneria e sui demoni e, uhm, libri osceni protetti da catene.» Ista inarcò le sopracciglia. «Tenuti così per evitare che vengano aperti?» Foix fece un ampio sorriso. «No, penso che lo facciano perché non vengano portati via.» Mostrò il libro che aveva in mano. «Ci sono molti romanzi in versi come questo. Ve ne posso trovare uno.» Liss, che guardava stupefatta tutti quei libri, probabilmente era la prima volta che ne vedeva tanti, riuniti in un solo luogo, assunse un'aria speranzosa. Ma Ista scosse la testa. «Più tardi, forse.» In quel momento dy Cabon fece capolino da una porta, e disse: «Ah, Signora. Bene. Vi stavo cercando». Ista non lo aveva più visto dal loro arrivo, nemmeno durante la funzione della sera. Aveva l'aria affaticata, e sotto gli occhi gli erano spuntate delle borse grigie. Pensò che fosse rimasto alzato fino a tardi, assorto in qualche studio. «Desidero... anzi, chiedo umilmente un'udienza privata con voi, se possibile.» Liss, che stava sbirciando il libro da sopra la spalla di Foix, alzò lo sguardo. «Devo lasciarvi, Royina?» «No. La cosa corretta che una dama di compagnia deve fare, qualora la
sua padrona desideri parlare in privato con un gentiluomo che non appartiene alla sua cerchia familiare, è stare abbastanza lontana da non udire i discorsi, ma in vista o a una distanza tale da poter essere chiamata.» Con un cenno del capo Liss fece intendere di aver capito. Ista non avrebbe mai avuto bisogno di ripeterglielo. Forse Liss non aveva ricevuto un'istruzione adeguata, ma, per i cinque Dei, che gioia avere finalmente una persona al suo servizio che sapesse usare il cervello. «Potrei leggerle qualcosa, in questa stanza o nell'altra», si offrì immediatamente Foix. «Uhm...» Dy Cabon indicò un tavolo e delle sedie nella stanza adiacente. Ista annuì ed entrò prima di lui, mentre Foix e Liss si sistemarono nell'accogliente rientranza della finestra. Ebbe il sospetto che dovessero discutere di altri dettagli del loro santo itinerario, e delle noiose lettere che dovevano poi essere inviate a dy Ferrej per informarlo del loro tragitto. Dy Cabon la fece accomodare, poi girò attorno al tavolo e si sedette a sua volta. Ista riusciva a sentire la voce di Foix che iniziava a mormorare nella stanza accanto, a voce troppo bassa perché potesse capire le parole a quella distanza, ma con la cadenza di qualche strofa intensa e ritmata. Il Divino appoggiò le mani sul tavolo davanti a sé, le fissò per un attimo, poi la guardò negli occhi. In tono pacato, chiese: «Signora, qual è il vero motivo di questo vostro pellegrinaggio?» Le sopracciglia di Ista s'inarcarono di fronte a quella domanda così diretta, ma decise di rispondere senza tanti preamboli e con altrettanta schiettezza. «Per fuggire dai miei custodi. E da me stessa.» «Quindi, non avete e non avevate alcuna reale intenzione di pregare per la nascita di un nipote?» Ista fece una smorfia. «Per tutti gli Dei di Chalion, non insulterei mai in questo modo Iselle o mia nipote Isara. Ricordo ancora in che modo venni rimproverata e umiliata per aver dato una figlia a Ias, diciannove anni or sono. Quella stessa splendente ragazza che adesso è la speranza più luminosa che la royacy di Chalion abbia avuto nelle ultime quattro generazioni!» Cercò di controllare il suo tono feroce, che aveva chiaramente preso dy Cabon in contropiede. «Se dovesse nascere un nipote, a tempo debito, sarò naturalmente felice. Ma non implorerò mai gli Dei per questo.» Il Divino assimilò quelle parole, annuendo lentamente. «Sì. Avevo cominciato a sospettare qualcosa del genere.» «Ve lo concedo, è un sacrilegio usare in questo modo un pellegrinaggio
e abusare delle buone guardie che l'Ordine della Figlia mi ha assegnato. Anche se sono sicura di non essere la prima a farsi una vacanza a spese degli Dei. La mia borsa ricompenserà generosamente il Tempio.» «Questo non mi riguarda.» Dy Cabon liquidò con un gesto della mano quelle considerazioni così materiali. «Signora. Ho letto. Ho parlato coi miei superiori. Ho riflettuto. Ho... be', lasciamo perdere questo, adesso.» Trasse un sospiro. «Royina, io ho buoni motivi di credere che siate straordinariamente dotata dal punto di vista spirituale. Ne siete consapevole?» Il suo sguardo era profondamente indagatore. Quali motivi? Quali racconti farfugliati, segreti aveva udito quest'uomo? Ista si appoggiò allo schienale. «Spiacente, ma non è così.» «Credo che vi sottovalutiate. Che vi sottovalutiate seriamente. Questo genere di cose è raro in una donna del vostro rango, lo ammetto, ma sono giunto alla conclusione che voi siete molto particolare. E sono convinto che con la preghiera, una guida, la meditazione e l'istruzione, voi possiate raggiungere un livello altissimo di sensibilità spirituale. Una vocazione che la maggior parte di noi che indossiamo i colori del nostro Dio può solo sognare o agognare. Questi non sono doni che possano essere ignorati alla leggera.» Giusto, non alla leggera. Con estrema violenza. Nel nome dei cinque Dei, com'era giunto a quell'assurda e improvvisa conclusione? Si rese conto che il volto infervorato di dy Cabon era acceso dallo sguardo di un uomo colpito da una grande idea. Si stava immaginando nei panni del suo orgoglioso mentore spirituale? Nessuna vaga scusa da parte di Ista lo avrebbe distolto dalla convinzione di essere stato chiamato ad aiutarla a seguire un'esistenza di sacro servizio. Nulla avrebbe potuto fermarlo, tranne la verità. Sentì un vuoto allo stomaco. Dopotutto, non è che non avesse già fornito una piena confessione a un altro uomo ghermito dagli Dei. Forse con la pratica queste cose diventavano più semplici. «Vi sbagliate. Cercate di capirmi, Erudito. Ho già percorso quella strada, fino alla sua conclusione più amara. Un tempo, sono stata una santa.» Il Divino indietreggiò, stupefatto. Deglutì. «Voi eravate una coppa degli Dei?» Sul suo volto apparve un'espressione costernata. «Questo spiega... qualcosa. No, non lo spiega.» Si passò le mani tra i capelli, lasciandoli arruffati. «Royina, non capisco. Com'è accaduto che siate stata toccata dagli Dei? Quand'è avvenuto questo miracolo?» «Molto, molto tempo fa.» Sospirò. «In passato, questa storia era un se-
greto di Stato. Un crimine di Stato. Presumo che non lo sia più. Se col tempo diventerà pettegolezzo o leggenda, o se scomparirà nell'oblio, questo non lo so. A ogni modo, non è da condividere, neanche coi vostri superiori. O, se ritenete di avere validi motivi per farlo, chiedete prima istruzioni al Cancelliere dy Cazaril. Lui conosce tutta la verità.» «Dicono che sia molto saggio», ribatté dy Cabon, che adesso aveva sgranato gli occhi. «Per una volta tanto, dicono la verità.» Ista fece una pausa, per riordinare i pensieri, i ricordi, le parole. «Quanti anni avevate quando il grande cortigiano del Roya Ias, Lord Arvol dy Lutez, venne condannato per tradimento?» Dy Lutez. Compagno d'infanzia di Ias, fratello d'arme, il più grande servitore per tutti i trentacinque anni di quel suo regno travagliato. Potente, intelligente, coraggioso, ricco, bello, garbato... Sembrava non esservi fine ai doni che gli Dei, e il Roya, avevano dispensato sul glorioso Lord dy Lutez. Ista aveva diciotto anni quando aveva sposato Ias. Ias e il suo braccio destro dy Lutez avevano superato la cinquantina. Dy Lutez aveva organizzato il matrimonio, il secondo del Roya, ormai in là con gli anni, perché vi erano già delle preoccupazioni in merito alla sopravvivenza dell'unico figlio ed erede di Ias, Orico. «Be', ero un bambino.» Dy Cabon ebbe un attimo di esitazione, poi si schiarì la gola. «Anche se ne ho sentito parlare, in seguito. Le voci dicevano...» Si zittì di colpo. «Le voci che avete sentito dicevano che dy Lutez mi aveva sedotta ed era morto per mano del mio regale marito, giusto?» aggiunse Ista gelida. «Uhm, sì, signora. Erano... non erano...» «No. Non erano vere.» Il Divino non seppe trattenere un sospiro di sollievo. Ista increspò le labbra. «Non era me che amava in quel modo, ma Ias. Dy Lutez avrebbe dovuto essere un devoto laico del vostro Ordine, penso, invece che il Santo Generale di quello del Figlio.» Oltre ai bastardi, agli artisti occasionali e ai rinnegati del mondo, l'Ordine del Bastardo era il rifugio di coloro ai quali non era dato di conformarsi alle unioni feconde tra uomini e donne sovrintese dai grandi Quattro, ma che ricercavano l'amore del loro stesso sesso. Con quel distacco dal tempo, dallo spazio e dal peccato, era quasi divertente osservare il volto di dy Cabon mentre cercava di elaborare la sua descrizione. «Deve essere stato... piuttosto difficile per voi, come giovane sposa.»
«Allora, sì», ammise. «Adesso...» Protese la mano e l'aprì, come a lasciar scorrere della sabbia tra le dita. «È fuori questione. Molto più difficile è stato scoprire che dalla disastrosa morte del padre di Ias, Roya Fonsa, una grande e strana maledizione si era abbattuta sulla regale casa di Chalion. E che, senza saperlo, vi avevo esposto i miei figli. Nessuno mi aveva informata; nessuno mi aveva avvisata.» Le labbra di dy Cabon formarono una O. «Facevo sogni profetici. Incubi. Per qualche tempo pensai che sarei impazzita.» Per qualche tempo, Ias e dy Lutez l'avevano lasciata in quel terrore, da sola, senza conforto. Allora le era sembrato, e le sembrava ancora oggi, un tradimento ancor più grave di qualsiasi sdolcinata e triviale contorsione sotto le lenzuola. «Ho pregato e pregato gli Dei. E le mie preghiere sono state ascoltate, dy Cabon. Ho parlato con la Madre faccia a faccia, vicina come lo sono a voi adesso.» Il ricordo di quella incandescenza traboccante riusciva ancora a farla rabbrividire. «Avete ricevuto una grande benedizione», ansimò con soggezione il Divino. Ista scosse la testa. «Una grande disgrazia. In base alle istruzioni degli Dei, come mi vennero impartite, noi - dy Lutez, Ias e io - progettammo un pericoloso rituale per infrangere la maledizione, e restituirla agli Dei dalla quale un tempo era fuoriuscita. Ma noi... io, nella mia ansia e paura, ho commesso un errore, un grande errore, per giunta intenzionale, e dy Lutez è morto durante il rituale come diretta conseguenza. Stregoneria, miracolo, chiamatelo come volete, il rituale fallì, gli Dei si allontanarono da me... Ias, nel panico, fece circolare la voce del tradimento, per giustificare quella morte. La stella più luminosa della sua corte, il suo diletto, assassinato, sepolto, e infine diffamato, che equivalse a ucciderlo una seconda volta, perché dy Lutez aveva amato la sua grande reputazione più della sua vita.» Dy Cabon aggrottò le sopracciglia. «Ma... quella calunnia postuma di Lord dy Lutez da parte di vostro marito non è stata anche una calunnia nei vostri confronti, signora?» Ista trasalì di fronte a quella prospettiva che non aveva mai considerato. «Ias conosceva la verità. Che importanza potevano avere le altre opinioni? Che il mondo mi ritenesse un'adultera, sembrava molto meno orribile della possibilità che venisse a sapere che ero un'assassina. Ma poi Ias si lasciò morire di dolore, mi abbandonò, lasciandomi a gemere sulle ceneri del disastro, con la mente sconvolta e sempre avvolta dalla maledizione.»
«Quanti anni avevate?» chiese dy Cabon. «Diciannove quando ebbe inizio. Ventuno quando tutto finì.» Si accigliò. Quand'era iniziato a sembrarle così... «Eravate molto giovane per un fardello così grande», azzardò il Divino, dando voce ai suoi pensieri. Le sue labbra si assottigliarono in diniego. «Ufficiali come Ferda e Foix vengono mandati a combattere e a morire a un'età non di molto superiore. Ero più vecchia di quanto sia Iselle adesso, che porta tutto il peso della royacy di Chalion sulle sue esili spalle, e non solo la parte che spetta alla donna.» «Ma non è sola. Ha grandi cortigiani, e il Royse-Consorte Bergon.» «Ias aveva dy Lutez.» «E voi chi avevate, signora?» Ista rimase in silenzio. Non riusciva a ricordare. Era stata veramente così sola? Scosse la testa, e inspirò. «Una generazione diversa ha portato un altro uomo, più umile e più grande di dy Lutez, con un intelletto più profondo, più consono al compito. La maledizione è stata infranta, ma non da me. Eppure non prima che anche mio figlio Teidez morisse... a causa della maledizione, della mia incapacità d'infrangerla quand'era un bambino; a causa del tradimento di coloro che avrebbero dovuto proteggerlo e guidarlo. Tre anni fa, grazie al travaglio e al sacrificio di altri, sono stata liberata da quel lungo incubo. Nel silenzio della mia vita a Valenda. Insostenibile silenzio. Non sono vecchia...» Dy Cabon agitò le mani grassocce in segno di protesta. «Certamente no, mia signora! Siete ancora bella!» Ista fece un gesto brusco, per porre fine a quel malinteso. «Mia madre aveva quarant'anni quando sono nata, ero l'ultima dei suoi figli. Adesso sono io ad avere quarant'anni. Metà della mia vita giace dietro di me, e metà di quella esistenza mi è stata rubata dalla grande maledizione di Fonsa. L'altra metà è davanti a me. Chissà se ha in serbo solo un lungo, lento decadimento?» «Sicuramente no, signora!» Scrollò le spalle. «Adesso ho reso questa confessione per la seconda volta. Forse una terza occasione servirà a liberarmi.» «Gli Dei... gli Dei sanno perdonare molte cose, a un cuore sinceramente pentito.» Il sorriso di Ista si fece più amaro dell'acqua del deserto. «Gli Dei possono perdonare Ista dal mattino alla sera. Ma se Ista non perdona Ista, gli
Dei possono anche impiccarsi.» Il suo «Oh» fu molto lieve. Ma, da zelante e fedele creatura qual era, doveva riprovare. «Tuttavia voltare le spalle in questo modo... mi sia consentito, Royina, è come tradire i vostri doni!» Ista si sporse in avanti, abbassò la voce fino a farla diventare un rauco sussurro: «No, Erudito. Non vi è consentito». Dy Cabon si appoggiò allo schienale e rimase silenzioso per qualche minuto. Alla fine, il suo viso si contorse nuovamente. «Allora che cosa volete fare col vostro pellegrinaggio, Royina?» Lei fece una smorfia, agitando una mano. «Scegliete un percorso che tocchi le locande più rinomate, se volete. Prendiamo qualsiasi strada, purché non riconduca a Valenda.» Purché non riconduca a Ista dy Chalion. «Prima o poi dovrete tornare a casa.» «Piuttosto mi getterei in un burrone, se non fosse che finirei tra le braccia degli Dei, che non desidero rivedere. Quella via di fuga mi è preclusa. Devo continuare a vivere. A vivere. A vivere...» Cercò di abbassare i toni sempre più acuti. «Il mondo è cenere e gli Dei sono un orrore. Ditemi, Erudito, c'è un altro luogo dove potrei andare?» Lui scosse la testa con gli occhi sgranati. Adesso lo aveva terrorizzato, e ne era dispiaciuta. Mortificata, gli diede un buffetto sulla mano. «In verità, questi pochi giorni di viaggio mi hanno arrecato più serenità che gli ultimi tre anni d'inattività. La mia fuga da Valenda forse è iniziata come uno spasmo, come un uomo che stia per affogare e lotti per ritornare in superficie, ma ho la sensazione di riuscire a respirare di nuovo, Erudito. Questo pellegrinaggio può essere una medicina, mio malgrado.» «Io... Io... che i cinque Dei possano renderlo tale, signora.» E si segnò. Dal modo in cui la sua mano si attardava su ciascun punto sacro, Ista intuì che questa volta non si trattava di un gesto meramente rituale. Fu quasi tentata di raccontargli il sogno. Ma no, lo avrebbe eccitato di nuovo. Il povero Divino ne aveva sicuramente avuto abbastanza per quel giorno. Aveva le guance pallide. «Uhm, ci rifletterò ancora», la rassicurò, e allontanò la sedia dal tavolo facendola strisciare sul pavimento. L'inchino che fece mentre si alzava non era quello della guida all'allievo, né quello del cortigiano al mecenate. Le tributò la profonda riverenza di devozione riservata a un santo vivente. La mano di Ista scattò in avanti, afferrò quella di dy Cabon a mezz'aria mentre stava per effettuare il suo gesto di rispetto illimitato. «No. Non ora. E neanche in futuro. Mai più.»
Il Divino deglutì e tremante trasformò il suo saluto in un inchino nervoso, poi corse via. 5 Rimasero altri due giorni a Casilchas, in attesa che un'insistente pioggerella primaverile cessasse, avvolti da una ospitalità che Ista cominciò a trovare sempre più soffocante. Venne invitata a pranzi nel refettorio del seminario che non avevano nulla dell'austerità che avrebbero dovuto avere, ma erano molto più simili a banchetti in suo onore, con Divini anziani e notabili della città che si contendevano discretamente un posto alla sua tavola. Si rivolgevano sempre a lei col nome di Sera dy Ajelo, ma fu costretta a barattare la nuova tranquillità del suo incognito coi vecchi e forzati convenevoli di corte, appresi in una scuola troppo severa, a quanto sembrava, perché si potessero dimenticare. Fu cortese, fu attenta ai suoi ospiti, si complimentò, sorrise, strinse i denti e spedì Foix a informare l'elusivo dy Cabon che doveva immediatamente porre fine alle sue ricerche, qualunque fossero. Era tempo di rimettersi in viaggio. I giorni che seguirono furono decisamente migliori; un piacevole vagabondaggio attraverso la campagna in fiore, da un santuario minore a un altro, più o meno l'evasione che aveva sperato di ottenere. Spostandosi in modo costante verso nord-ovest, uscirono dalla Baocia ed entrarono nella vicina provincia di Tolnoxo. Le lunghe ore in sella venivano inframmezzate da escursioni in luoghi d'interesse storico o teologico: fonti, rovine, boschetti, santuari, famosi sepolcri, alture in posizioni dominanti, guadi dov'erano state combattute battaglie decisive. I giovani della scorta scandagliavano i siti militari alla ricerca di punte di frecce, frammenti di spade, e ossa, e discutevano a lungo se i grumi presenti su quei reperti fossero o non fossero macchie di sangue eroico. Dy Cabon si era procurato un libro sulla storia e sulle leggende della regione, dal quale leggeva brani edificanti ogni volta che se ne presentava l'opportunità. Nonostante la strana successione di umili locande e sacri ostelli, del tutto diversi da qualsiasi altra cosa avesse mai sperimentato come Royina o anche come figlia minore di un Provincar, Ista dormì meglio di quanto avesse mai fatto nel suo letto da... da quando riusciva a ricordare. E non rifece quel sogno inquietante, con suo segreto sollievo. I primi sermoni del mattino di dy Cabon, dopo che ebbero lasciato Casikhas, mostrarono i risultati delle sue frettolose ricerche, essendo chiara-
mente copiati da qualche volume di lezioni modello. Ma nei giorni che seguirono ebbero modo di ascoltare materiale più audace e originale, racconti eroici di santi chalionesi e ibrani, e di martiri toccati dagli Dei al servizio delle loro divinità di elezione. Il Divino faceva collegamenti tortuosi tra il racconto del giorno e i siti che avrebbero visitato, ma Ista non si fece ingannare. Le sue storie di famosi miracoli che uomini e donne avevano compiuto come coppe in cui si erano riversati i poteri degli Dei, facevano brillare gli occhi di Ferda e Foix e persino quelli di Liss di uno spirito di emulazione, mentre Ista trovava il messaggio del Divino, su tutti i vari livelli, affatto irresistibile. Lui la osservava ansioso per vedere le sue reazioni; lei lo ringraziava freddamente. Il Divino s'inchinava, reprimendo la delusione, ma anche, fortunatamente, la tentazione di riaprire l'argomento in modo più diretto. Una pausa nell'ambigua tattica di dy Cabon avvenne quando aggirarono le colline pedemontane della catena occidentale e arrivarono nella città di Vinyasca, giusto in tempo per la festa di metà primavera. Quel giorno di festeggiamenti cadeva all'apogeo della stagione, esattamente a metà tra il Giorno della Figlia e quello della Madre. A Vinyasca tale festività era associata anche alla riapertura dei passi montani dai quali scendevano le carovane provenienti da Ibra, che portavano vino novello e olio, frutta secca e pesce, e centinaia di altre prelibatezze di quella terra più mite, oltre che a prodotti esotici provenienti da coste ancora più lontane. Il luogo dove si svolgeva la fiera era stato scelto fuori delle mura della città, tra il torrente e una pineta. Volute di fumo da far venire l'acquolina in bocca si levavano da bracieri disposti dietro le tende che esibivano prodotti artigianali e articoli fatti a mano dalle fanciulle della zona, che gareggiavano tra loro per aggiudicarsi gli onori nel nome della Dea. Liss fece spallucce passando davanti alla tenda in cui erano esposti ricami, lavori di cucito e lavori a maglia; dy Cabon e Foix tornarono delusi da una ricognizione nella tenda dei prodotti alimentari, lamentandosi che gli assaggi venivano offerti solo ai giudici. Forse il cibo era l'attrazione principale, ma non si poteva certo ignorare tutta quell'energia giovanile. Era una festività dedicata alle giovani donne ancora nubili, e i ragazzi rivaleggiavano per attirare i loro sguardi in una dozzina di tornei di abilità e coraggio. Gli uomini che componevano la scorta di Ista, infiammatisi alla vista di tutte quelle gare, chiesero il permesso al loro comandante e si dispersero per tentare la fortuna, benché Ferda assegnasse a turno una coppia che fosse sempre a disposizione della
Royina. Il rigore di Ferda svanì all'istante quando scoprì le corse dei cavalli. Non avendo nessun altro a cui chiedere congedo, cercò quello di Ista, la quale, reprimendo un sorriso, gli diede il permesso di andare a preparare il suo destriero. «Il mio cavallo», si lamentò Liss, «potrebbe far sembrare tutti questi cavallini di campagna dei cavalli da tiro, cosa che indubbiamente sono.» «Purtroppo le corse destinate alle donne sono già finite», la informò Ista. Aveva visto passare la vincitrice attorniata da parenti esultanti, cavallo e ragazza ornati di ghirlande biancazzurre. «Quella era per le fanciulle giovani», precisò Liss, con una punta di disprezzo. «Ci sono delle ragazze più anziane che si stanno preparando per la corsa più lunga... le ho viste.» «Sei sicura che non fossero semplici serve, o proprietarie?» «No, perché si stavano legando i colori attorno alle maniche, e avevano l'aria di essere amazzoni.» Come Liss del resto. Stava facendo del suo meglio per mantenere un'espressione dignitosa, ma continuava a voltarsi per guardarsi intorno. «Bene», disse Ista divertita, «se Foix s'impegna a non abbandonarmi...» Foix, sorridendo, le rivolse un inchino di devozione. «Oh, grazie, mia signora!» gridò Liss, e sparì, precipitandosi nella scuderia della locanda dove avevano sistemato le loro cavalcature. Ista gironzolò sui terreni di gara improvvisati al braccio di Foix, soffermandosi a osservare i tornei dove partecipavano i suoi uomini. Uno di questi giochi, dove i concorrenti, sfrecciando al galoppo, dovevano prendere col giavellotto degli anelli infilati su pali, venne vinto da una delle sue guardie; in un'altra gara, in cui si doveva saltare da un cavallo e atterrare un giovenco, ebbe la meglio l'animale. Tutti portarono i premi al loro ufficiale, Foix, perché Ista potesse notarli. Si sentiva in parte adulatrice, in parte materna, e si dilungò a consolare l'impolverato, zoppicante concorrente che se l'era vista brutta col giovenco, e a congratularsi con i concorrenti più fortunati. All'inizio aveva sopportato gli uomini della sua scorta con fastidio, e li aveva ignorati. Ma col passare dei giorni aveva imparato i loro nomi, aveva ascoltato le loro storie... e aveva cominciato a considerarli sempre meno come anonimi soldati responsabili della sua sicurezza, e sempre di più come ragazzi, ognuno con la propria personalità. Tuttavia non voleva assumersi responsabilità nei loro confronti, anche se la lealtà doveva essere reciproca. Non ho avuto fortuna con i miei figli maschi.
Mentre i concorrenti per la corsa dei cavalli si radunavano, Foix trovò per Ista un posto sul versante della collina al di sopra del pubblico. Con un gesto galante distese a terra il suo mantello perché lei potesse sedersi. Da lì si poteva osservare tutto il percorso di gara, che si snodava per circa due miglia seguendo la strada che attraversava la vallata, girava attorno a un boschetto di querce e ritornava al punto di partenza. Una ventina di cavalli e di cavalieri attendevano nell'ampio spazio sulla strada. Ferda dy Gura, sul suo splendente destriero nero, stava sistemandosi le staffe quando Liss arrivò sul suo altissimo baio. Lui la guardò sorpreso, poi dovette rivolgerle qualche commento poco cortese, perché Ista vide che Liss ebbe un gesto di stizza e gli rispose duramente, prima di allontanarsi da lui facendo fare uno scatto al suo cavallo. «Cosa sta succedendo?» si chiese Ista ad alta voce. Foix sorrise compiaciuto. «Credo che mio fratello avesse intenzione di mostrare la sua destrezza a Liss, non di competere con lei. Temo che sia rimasto deluso.» Il tono della sua voce era di divertito interesse. «Come mai non sei andato anche tu a correre?» gli chiese. «Ti fanno ancora male le costole?» «No, signora. Io a cavallo non sono granché.» I suoi occhi si socchiusero divertiti. «Quando sono costretto a gareggiare, scelgo un altro tipo competizione.» Ista ebbe l'impressione che non si riferisse ai tornei di una festa campagnola. Sotto la direzione di un paio di organizzatori urlanti, i cavalieri si disposero l'uno accanto all'altro sulla linea di partenza, spingendosi e urtandosi. Il Divino della città di Vinyasca, con una fascia biancazzurra avvolta attorno alla vita, salì sulla tribuna e intonò una breve benedizione per dedicare la gara alla Dea, poi alzò un fazzoletto azzurro e quando l'abbassò, i cavalieri scattarono in avanti, tra le urla di incitamento del pubblico. Dapprima tra i concorrenti ci fu un grande parapiglia per guadagnare le prime posizioni, un cavaliere addirittura cadde, ma subito dopo i cavalli si distanziarono e la corsa cominciò a svolgersi normalmente. Il baio di Liss e il cavallo nero di Ferda correvano appaiati in prima fila e insieme sparirono dietro il boschetto che dovevano aggirare. Quando riapparvero, i due avevano guadagnato un enorme vantaggio sugli altri. Tutti quelli della compagnia di Ista proruppero in urla di incitamento. A metà del tragitto, Liss si accorse che il cavallo di Ferda era in difficoltà, allora si abbassò sul collo del suo baio e lo incitò. Il destriero parve levitare sul terreno, e il divario tra di loro aumentò rapidamente.
Ista si ritrovò a gridare: «Sì! Vai! Brava!» Liss aveva una dozzina di lunghezze di vantaggio, mentre si avvicinava alla tribuna. Ma all'improvviso si raddrizzò di scatto e il suo cavallo rallentò bruscamente a poche iarde dal traguardo, lasciandosi superare da Ferda per poi seguirlo al galoppo. L'animale di Liss dava l'impressione di poter affrontare un'altra gara come quella; d'altro canto era allenato a percorrere a tutta velocità almeno quindici miglia, distanza che rappresentava la tappa tipica di un corriere. Gli spettatori rimasero stupefatti per quell'improvviso cambio di situazione, tuttavia corsero dietro il traguardo per acclamare il vincitore. Foix soffocò una serie di borbottii. Ferda era rimasto ritto sulle staffe, ancora sconcertato e paonazzo per lo sforzo e la rabbia. Liss, con una smorfia sdegnosa, gli passò accanto al passo, diretta verso le scuderie. Ferda, in preda all'ira, se avesse potuto, avrebbe voluto scaraventare ai piedi della ragazza la ghirlanda biancazzurra del vincitore, ma quel gesto sarebbe stato come insultare la Dea e i suoi ospiti. «Se questo è un corteggiamento», commentò Ista rivolta a Foix, «dovresti consigliare a tuo fratello di, ehm, scegliere un altro sistema?» «Non ci penso neppure», ribatté Foix, «mia signora, io mi getterei tra mio fratello e la quadrella di una balestra roknari senza esitazione. E in realtà, l'ho fatto, ma in questo tipo di cose, conosco troppo bene mio fratello per intromettermi.» Ista sorrise. «Ah, capisco.» Poi, ricordando le gelosie e i dissidi di corte, decise che avrebbe dovuto mettere in guardia Liss dal creare spiacevoli tensioni nell'ambito del suo piccolo gruppo. In quanto a Foix... era sicura che non avesse bisogno di consigli. Nel frattempo il ragazzo si era alzato. «Devo andare a congratularmi con mio fratello per la vittoria.» Disse, aiutando Ista a mettersi in piedi, con una ostentazione che non sarebbe stata fuori luogo a Cardegoss. Nel pomeriggio, quando Liss era tornata al fianco di Ista, Foix trovò una gara che faceva al caso suo. Si trattava di spaccare ceppi con l'ascia. I concorrenti erano a torso nudo per la gioia delle signore e Ista notò che il suo torace muscoloso non aveva segni di grosse cicatrici, ed ebbe l'impressione che maneggiasse l'ascia con la stessa eleganza con cui usava la spada, tuttavia forse non si era ancora ripreso completamente, perché si aggiudicò il secondo posto.
Finita la gara, Foix diede una pacca sulla spalla al vincitore, gli offrì un boccale di birra per congratularsi, poi se ne andò. Ista trovò l'occasione di parlare con Liss solo dopo cena, quando si ritirarono sul terrazzino della loro stanza, una bella camera che dominava la piazza della città illuminata da centinaia di splendide lanterne di metallo traforato dove era in corso una festa con tanto di musica e danze. L'atmosfera era ancora abbastanza tranquilla: le giovani donne nubili erano guardate a vista dalle famiglie, ma da lì a qualche ora, una volta rincasate le fanciulle, bagordi più seri avrebbero avuto senz'altro inizio. Ista si accomodò su una sedia; Liss si appoggiò alla ringhiera di legno, e si mise a osservare con interesse la gente che si divertiva. «Allora», chiese Ista dopo qualche minuto, «che cosa avevate da discutere tu e Ferda prima della gara, che vi ha tanto innervosito?» «Oh!» Liss fece una smorfia, girandosi a guardarla. «Cose stupide. Mi ha detto che non era leale da parte mia partecipare, perché il mio cavallo era troppo allenato. Come se il suo non fosse il migliore che Cardegoss avesse a disposizione! Poi ha detto che non era una corsa adatta a una donna... anche se attorno c'era una mezza dozzina di altre donne che avrebbero gareggiato! Sembrava furioso di vedermi. Ha sostenuto che in una gara fatta nel nome della Dea, sono gli uomini che devono gareggiare per conto delle loro donne... e lui partecipava in vostro onore.» «È veramente poco credibile, te lo garantisco», mormorò Ista. «È stato odioso, ma gliel'ho fatta vedere.» «Uhm, ma gli hai anche confermato che in parte aveva ragione. Il tuo cavallo si è chiaramente dimostrato più allenato di tutti gli altri.» «Però anche il suo non era male. Comunque io volevo far vedere che il mio era migliore di tutti, questo mi bastava», ribatté Liss. Ista sorrise tra sé, e Liss, dopo un attimo, si girò di nuovo a guardare la gente in festa. Ista cercò di capire se il nervosismo nato tra i due fosse un problema, o il suo opposto. In verità, non sapeva neppure se Liss, entrata al suo servizio in modo tanto repentino, fosse ancora vergine. Si poteva presumere che le ragazze che facevano parte delle squadre dei corrieri reali facessero attenzione a non rimanere incinta, se non altro per non perdere il lavoro, ma questo non significava necessariamente che si astenessero dal fare sesso, o che fossero innocenti o ignoranti. Piuttosto il contrario, poiché l'innocenza fondata sull'ignoranza era tutt'altro che una protezione. Alla corte di Ias, Ista aveva capito alcune cose sul modo in cui uomini e
donne - o altre combinazioni di partner - potevano darsi piacere senza rischiare di mettere al mondo dei figli. Non sapeva quanti di questi segreti circolassero nei dormitori delle ragazze che facevano il corriere, o cosa venisse loro suggerito dalle donne che le sorvegliavano, che a loro volta erano state corrieri attente ai propri doveri. In ogni caso, Liss, cresciuta in una fattoria in cui si allevavano animali, era sicuramente meglio informata sulle nozioni basilari di quanto non lo fosse stata Ista alla sua età. D'altro canto, Ista aveva gli stessi dubbi sulle intenzioni dei fratelli dy Gura: era un corteggiamento serio oppure un tentativo di seduzione? Il divario sociale tra un aristocratico e la figlia di un piccolo proprietario terriero non era incolmabile per il primo, soprattutto se veniva offerta una dote, anche se questa sembrava poco probabile nel caso di Liss. Comunque era chiaro che Liss avesse attirato l'attenzione di entrambi i fratelli, e non c'era da stupirsi. La ragazza era bella e intelligente, i due giovani, sani e vigorosi... Nel complesso, Ista decise che non c'erano motivi per preoccuparsi dello screzio, tuttavia non si astenne dal fare altre indagini: «Allora che cosa ne pensi dei fratelli dy Gura?» «All'inizio Ferda mi era simpatico, ma ultimamente si dà un sacco di arie.» «Credo che senta il peso delle proprie responsabilità.» Liss scrollò le spalle. «Foix... Be', lui mi sembra passabile.» Foix si sarebbe fatto intimidire da quel tiepido giudizio? Forse no. Ista azzardò un suggerimento. «Spero che nessuno degli uomini della mia scorta ti abbia fatto delle avance. Per l'onore della sua signora, una dama di compagnia deve essere irreprensibile.» «No, sembra che tutti prendano in modo molto serio il loro giuramento alla Dea.» Sbuffò e un sorriso divertito le formò una fossetta a lato della bocca. «Il buon Divino, invece, non ha perso tempo. Lui mi ha fatto delle proposte la prima notte che abbiamo trascorso a Palma.» Ista sgranò gli occhi sorpresa. «Ah», disse cauta. «Non dobbiamo dimenticare che non tutti quelli affiliati all'Ordine del Bastardo hanno, uhm, quella preferenza.» Pensò a come formulare la frase successiva. «Tu non devi permettere che ti venga fatto alcun affronto, indipendentemente dal rango o dalla vocazione dell'uomo che te lo fa. Anzi, essendo al mio servizio, se dovesse sorgere un simile problema puoi venire a lamentarti con me.» Liss scosse la tesa. «Non mi sono sentita insultata. Il Divino è riuscito a essere gradevole, e ha accettato il rifiuto di buon grado. Poi è andato a
provare con la cameriera della locanda.» «Non ho ricevuto lamentele!» Liss ridacchiò. «Non credo che ne avesse da fare, visto che quando sono usciti dalla camera, lei rideva come una sciocca. Tanto che mi sono chiesta se mi fossi persa una buona occasione.» Ista cercò di dare un buon esempio evitando di ridere, ma non ci riuscì. «Oh povera me.» Liss ridacchiò a sua volta, poi tornò a guardare con invidia quelli che danzavano nella piazza. Dopo un po', Ista le diede il permesso di unirsi alla compagnia. La ragazza parve entusiasta di quel regalo inatteso, e sconvolse un po' Ista quando scavalcò direttamente la ringhiera, lasciandosi penzolare con una mano per ricadere sul selciato. Poi corse via agile e veloce. Rimasta sola, Ista si affacciò al balcone. Alcuni uomini che passavano sulla strada la notarono e le indirizzarono frasi che in altri momenti sarebbero state irrispettose. Non sapendo come gestire la cosa, lei li ignorò. Qualche attimo prima che se ne andasse, Liss aveva scambiato quelle battute in tutta allegria, e i suoi ammiratori ubriachi se n'erano andati sghignazzando. Questo non è il mio mondo. Eppure un tempo lo governavo, pensò con amarezza. Ferda dy Gura, che in quel momento era uscito sul terrazzino vicino, vide che Ista era sola, con uno sguardo furioso indusse un aspirante corteggiatore a svignarsela. Poi la rimproverò, anche se in termini molto cortesi, di aver congedato la sua dama. Quindi uscì dalla locanda per recuperare Liss. Quando pochi minuti dopo li vide tornare, notò che stavano discutendo animatamente, tuttavia smorzarono i toni non appena giunsero a portata d'udito di Ista. Infine Ista si ritirò per andare a letto, mentre la festa continuò chiassosa per parecchie ore, senza però impedirle di addormentarsi. Nel cuore della notte, sognò di essere nuovamente nel cortile del misterioso castello. Questa volta la scena era avvolta dall'oscurità. Quella che forse era la stessa luna calante che stava attraversando i cieli di Vinyasca irradiava una luce pallida, insufficiente. Ma le ombre non erano impenetrabili, perché uno strano bagliore aleggiava nell'aria, come una corda fatta di fuoco cangiante. Percorreva tutto il cortile, risaliva le scale, per poi scomparire attraverso la stessa pesante porta alla fine del porticato. Ista la
seguì, su per le scale, lungo il pavimento di legno. Attraverso la porta. La camera da letto era più buia del cortile, le persiane erano chiuse, la luce lunare non filtrava, eppure era illuminata; una corda infocata sembrava sollevarsi dal cuore dell'uomo disteso sul letto. Le pallide fiamme guizzavano lungo tutto il corpo come se bruciasse, e dalla spirale avvolta attorno al petto fluivano via... tanto che Ista si chiese se ciò che vedeva era una corda o un canale. E dove andava a svuotarsi quel canale? Seguì con lo sguardo la linea di luce fluttuante e fu tentata di afferrarla, di farsi condurre a destinazione come una fune che tiri fuori dall'acqua una donna che sta per annegare. La sua mano si protese, si strinse; la linea si spezzò, frantumandosi sotto le sue dita, cospargendo scintille luminose. L'uomo sul letto si destò, annaspò, cercò si sollevarsi. La vide. Protese una mano ardente. «Voi!» farfugliò. «Signora! Aiutatemi, nel nome di Dio...» Quale Dio? pensò Ista. Non osava afferrare quella mano infocata, malgrado fosse protesa verso di lei. «Chi siete?» I suoi occhi sbarrati la stavano divorando. «Lei parla!» La sua voce si spezzò. «Mia signora, vi prego, non andatevene...» Ista spalancò gli occhi nell'oscurità della piccola camera della locanda di Vinyasca. L'unico suono era il respiro lento e regolare di Liss sulla branda, dall'altra parte della stanza. I balli evidentemente erano finiti, gli ultimi festaioli ubriachi erano tornati a casa o forse si erano addormentati davanti a qualche porta sulla strada. Silenziosamente, Ista scese dal letto e si diresse verso le persiane chiuse del balcone. Sollevò il chiavistello e scivolò fuori. Le uniche fioche luci provenivano da un paio di lanterne a muro appese ai lati delle porte chiuse del Tempio, sull'altro lato della piazza. Alzò lo sguardo sul cielo notturno dove brillava la luna calante. Sapeva che era la stessa luna della sua visione. Il luogo, l'uomo, erano reali come lei, ovunque fossero. Quindi, quella notte, lo strano uomo aveva sognato Ista, come Ista aveva sognato lui? Che cosa avevano veduto i suoi affaticati occhi neri da indurlo a protendersi in modo tanto disperato? Ed era rimasto sconcertato nel vederla quanto lo era stata lei nel vedere lui? La sua voce aveva un timbro caldo, benché velato di dolore o paura o stanchezza. Ma aveva parlato nella lingua ibrana, non in roknari o darthacano, anche se con un accento del nord velato d'inflessioni roknari.
Non posso aiutarti. Chiunque tu sia, non posso aiutarti. Prega il tuo Dio, se vuoi salvarti. Anche se non lo raccomanderei a nessuno. Si ritrasse, chiuse le persiane e ritornò silenziosamente a letto. Si mise il cuscino sugli occhi per estraniarsi, ma non poté evitare di vedere quello che le ardeva nella mente. Quando si fosse risvegliata al mattino, tutto sarebbe apparso come un sogno. Avvinghiata alle lenzuola, attese la luce del giorno. Mentre Liss le pettinava i capelli, poco dopo l'alba, udirono un colpo alla porta della loro camera, e la voce di Foix dy Gura: «Mia signora? Liss?» Liss andò ad aprire la porta che dava sul porticato che circondava il cortile interno della locanda. Foix, già pronto per la partenza, la salutò con un cenno del capo, poi rivolse un breve inchino a Ista. «Buongiorno, mia signora. L'Erudito dy Cabon si scusa umilmente, ma non potrà recitare le preghiere del mattino. Sta molto male.» «Oh, no», proruppe Ista. «È una cosa grave? Dobbiamo mandare qualcuno al Tempio per far venire un medico?» Vinyasca era molto più piccola di Valenda; chissà se l'Ordine della Madre era abbastanza grande da permettersi un medico con buone conoscenze? «Ah, non credo che sia necessario, mia signora. Dev'essere stato qualcosa che ha mangiato ieri. Oppure, ecco... postumi di una sbornia.» «Non era ubriaco quando l'ho visto l'ultima volta», commentò dubbiosa Ista. «Uhm, quello è stato prima. Poi è uscito con un gruppo del Tempio e... l'hanno riaccompagnato piuttosto tardi. Non posso esserne certo, ma i gemiti che ho sentito attraverso la porta della sua stanza mi sono sembrati tipici di chi ha esagerato col vino. Terribilmente familiare, ha risvegliato dei ricordi. Per fortuna ricordi annebbiati, comunque sia.» Liss frenò una risata. Ista le lanciò un'occhiata severa, e disse: «Molto bene. Di' ai tuoi uomini di approfittare dell'attesa per dare la biada ai cavalli. Seguiremo la funzione del mattino al Tempio. Più tardi decideremo se rimetterci in viaggio. Dopotutto, non c'è fretta». «Molto bene, mia signora.» Foix la salutò con un cenno del capo e lasciò la stanza. La funzione del mattino durava un'ora, anche se Ista ebbe l'impressione che l'avessero abbreviata e che non fosse molto seguita; anche il Divino del luogo non aveva una bella cera. Al termine, lei, Liss e Foix fecero una
passeggiata per i vicoli del villaggio ancora addormentato. Le tende della fiera erano state smontate e messe da parte. Passeggiarono lungo il fiume, percorrendo la strada dove si era svolta la corsa. A quel punto Foix chiese a Liss a fargli un resoconto della gara. Liss spiegò che il suo notevole slancio di velocità, nell'ultima parte della corsa, era stato in parte illusorio. La verità era che gli altri cavalli, a quel punto avevano cominciato a rallentare. Ista non l'ascoltava, persa nelle sue riflessioni. Osservò con piacere che quella passeggiata di cinque miglia non la stava stancando com'era successo quando era uscita da sola dal castello, e non ritenne che fosse dovuto interamente al fatto che indossasse abiti e scarpe più adatti. Finalmente l'Erudito dy Cabon emerse dalla sua stanza verso mezzogiorno, col viso tumefatto. A Ista bastò uno sguardo per decidere di annullare la partenza, e lo rispedì a letto. Lui sgattaiolò via bofonchiando mesti ringraziamenti. La sollevò il fatto che non avesse la febbre. L'idea di Foix che avesse bevuto troppo vino le sembrò sensata, e fu confermata quando il Divino sgusciò fuori timidamente la sera e mangiò solo del pane tostato e del tè, rifiutando con espressione disgustata un bicchiere di vino annacquato. Il mattino dopo, dy Cabon aveva l'aria di essersi ristabilito completamente, anche se il sermone che recitò all'alba risultò abbastanza farfugliato. Infine la compagnia riprese il viaggio, guadando il torrente e inerpicandosi sull'erta strada che usciva da Vinyasca e puntava verso nord. La zona che attraversarono, sul lato delle montagne senza corsi d'acqua, aveva una vegetazione scarsa: gruppi di pini e di querce sempreverdi inframmezzati dalla boscaglia, rocce grigie che spuntavano tra l'erba gialla. Il terreno era troppo sterile perché vi fossero delle coltivazioni, a eccezione di appezzamenti e orti terrazzati ripuliti e curati manualmente, tanto che ben presto l'area, scarsamente popolata attorno a Vinyasca, lasciò il posto a un territorio selvaggio. La strada saliva e scendeva, e le vallette si succedevano una uguale all'altra. Ogni tanto attraversavano dei canali su vecchi ponti in cattivo stato, o guadavano impetuosi torrenti che scendevano dalle lontane vette alla loro sinistra, ma il più delle volte cavalli e muli dovettero farsi strada attraverso sentieri bloccati da massi. Nel primo pomeriggio si fermarono per una sosta sull'argine di uno di quei torrenti con l'acqua limpida, pura e fredda. L'obiettivo della sera era un famoso sito sacro abbarbicato sulle colline,
luogo natale di una pia guaritrice Devota della Madre, i cui miracoli erano avvenuti tutti lontano da lì. Altrimenti, rifletté Ista, sarebbero stati molto più oscuri. Le marmotte che correvano veloci sulle rocce, fischiando in modo poco ospitale, non avrebbero registrato il loro passaggio né l'avrebbero tramandato ad altri viaggiatori stranieri. Dopo la visita alla Devota, la strada avrebbe cominciato a scendere verso piste più agevoli nelle pianure chalionesi. Per poi svoltare di nuovo a sud verso la Baocia e verso casa? Ista non aveva nessuna voglia di ritornare. Ma per quanto tempo ancora poteva pretendere di trascinare con lei quei giovani uomini su percorsi scelti a caso? Ben presto sarebbero stati chiamati a svolgere servizi molto più importanti al seguito di Lord di Chalion che si preparava per la campagna d'autunno al nord. Bene, allora anche per loro rimandare per qualche tempo i loro doveri sarà apprezzato. L'odore del sangue, del sudore, del ferro li avrebbe sopraffatti anche fin troppo presto. Il sentiero si allargò, curvando attorno a un declivio boscoso, per poi scendere. Ferda e dy Cabon cavalcavano davanti, Liss era di fianco a Ista, Foix li seguiva con il resto della compagnia. Improvvisamente Ista avvertì un'ondata di emozioni: una minaccia calda e confusa; dolore e disperazione; un tremendo senso di soffocamento. Un attimo dopo, il suo cavallo puntò le zampe e si bloccò di colpo, tremante. Alzò il muso di scatto e sbuffò. Subito dal folto degli alberi, un orso uscì caricando. La testa bassa, le spalle enormi inarcate, il pelo bronzeo increspato. Si muoveva a una velocità incredibile per una creatura tanto tarchiata e bassa, e il suo ringhio tagliava l'aria come una lama. I cavalli e i muli impauriti tentarono di girare e fuggire. Una giovane guardia, Pejar, fu sbalzato a terra dal suo cavallo terrorizzato. Anche il cavallo di Ista s'impennò, nitrendo. Subito lei tentò di accorciare le redini, di afferrare la criniera, ma sentì la sella scivolare via e cadde rovinosamente. L'impatto le mozzò il respiro. Stordita, rotolò da parte evitando per un soffio di essere colpita dalla sella. I cavalli scappavano in tutte le direzioni, coi loro furiosi cavalieri che cercavano di riacquistarne il controllo. Il destriero di Pejar era già arrivato in fondo al sentiero, seguito a ruota da quello di Ista che sobbalzava e scalciava. Il giovane, disteso a terra, stava fissando terrorizzato l'orso con la bava alla bocca che incombeva su di lui. Era forse impazzito, per attaccare
in quel modo? Di solito gli orsi di montagna evitavano gli uomini, oltretutto quello non era una madre che difendeva i suoi piccoli, ma un grosso maschio. Quello non è un orso... non soltanto un orso. Col fiato corto, affascinata, Ista si avvicinò barcollando. Nonostante l'aspetto terrificante, vide che la bestia era sofferente. Il pelo era malridotto, a chiazze, e nonostante la mole, era magro. Le zampe tremavano. Alzò lo sguardo su Ista come se fosse affascinato tanto quanto lei. Ista ebbe l'impressione che la sua natura fosse stata consumata quasi del tutto; gli occhi che le restituivano lo sguardo avevano un'intelligenza impetuosa che non apparteneva alla mente di nessun animale. È stato catturato da un demone che lo ha quasi divorato. E adesso cerca un'altra cavalcatura. «Come osi?» urlò Ista. «Tu non appartieni a questo mondo, demone. Torna dal tuo maledetto maestro.» I loro sguardi s'incrociarono; lei si avvicinò di qualche passo e l'orso si allontanò dal ragazzo pallidissimo. Un altro passo. Un altro ancora. L'orsodemone abbassò la testa quasi fino a terra con gli occhi spalancati e cerchiati, fiutando, indietreggiando per la paura. «Royina, arrivo!» Con un urlo, Foix apparve roteando lo spadone in un arco possente. Le labbra erano tirate, i denti serrati per lo sforzo del colpo che stava per sferrare. «No, Foix!» urlò Ista, troppo tardi. La pesante lama staccò di netto la testa della bestia, e andò a conficcarsi nel terreno. Dal suo collo schizzò un potente fiotto di sangue, mentre la testa rotolava per terra. Una zampa anteriore ebbe uno spasmo, poi il grosso corpo peloso si accasciò. Ista ebbe l'impressione di vedere il demone con tutti i sensi tranne gli occhi: una forza palpabile, un fuoco iniettato di sangue, un odore simile a metallo incandescente. Si precipitò strepitando verso di lei poi, all'improvviso, barcollò all'indietro in una sorta di terrore animalesco. Per un disperato momento esitò tra Foix e il ragazzo riverso a terra. Poi volò nel corpo di Foix. Foix sbarrò gli occhi. «Che cosa?» esclamò. Quindi svenne. 6 Liss, che fu la prima a riprendere il controllo del proprio cavallo e a tor-
nare indietro, saltò giù dal suo baio, ansimante. Pejar si tirò su a sedere e trasalì vedendo l'orso decapitato. Le sue sopracciglia si corrugarono per lo stupore alla vista di Foix, disteso a terra accanto alla carcassa che perdeva ancora sangue. «Signore...?» Ista aveva lo stomaco in subbuglio per il contraccolpo dovuto al passaggio del demone. Le pareva che la testa fosse stranamente distaccata dal corpo. Si tolse la mantella, la ripiegò, e dopo essersi inginocchiata, sollevò la testa di Foix per mettergli sotto quel cuscino improvvisato. «Aspettate, signora...» disse Liss. «Ha perso i sensi dopo essere stato disarcionato? Potrebbe essersi rotto qualcosa...» «Il cavallo lo ha disarcionato? Non me ne sono accorta.» Ciò avrebbe spiegato perché era stato il primo a raggiungere l'orso. «No, non si è fatto male cadendo. E lui che ha ucciso la bestia.» Liss si avvolse una delle redini attorno al braccio per tenere a freno il cavallo che scalpitava, poi s'inginocchiò per dare una mano, e osservare, nel contempo, l'impressionante spettacolo della carcassa, della spada, e della testa finita a una certa distanza. «Per i cinque Dei, che colpo.» Abbassò lo sguardo su Foix. Il suo volto era pallido come un cencio. «Ma che cosa gli prende?» Ferda fu il secondo ad arrivare, diede una rapida occhiata e saltò giù dal cavallo senza neanche preoccuparsi di tenere le redini. «Foix! Royina, cos'è successo?» S'inginocchiò facendo scorrere le mani sul corpo del fratello, alla ricerca di una ferita, aspettandosi ovviamente di trovare lo squarcio sanguinante provocato da una zampata. Corrugò la fronte quando non trovò nulla e girò Foix su un fianco. Dy Cabon arrivò barcollando e ansimando, senza il suo mulo. Ista afferrò il braccio di Ferda. «No, tuo fratello non è stato colpito dall'orso.» «Ha tagliato la testa dell'orso. Poi è... semplicemente caduto», confermò Pejar. «La bestia era impazzita, per attaccare in quel modo?» ansimò dy Cabon guardandosi attorno. «Non pazzo», specificò Ista con un tono di voce inespressivo. «Posseduto da un demone.» Dy Cabon sgranò gli occhi, studiando il suo volto. «Siete sicura, Royina?» «Sicurissima. Io... l'ho percepito.» E lui ha percepito me. Ferda li guardava con un'aria allibita.
«Dov'è andato...» chiese dy Cabon osservando Ferda sconvolto e Ista, apparentemente in possesso di tutte le sue facoltà. Foix era a terra come se fosse stato colpito da una mazza. «Non è entrato nel suo corpo, vero?» «Sì.» Ista si inumidì le labbra. «La bestia stava indietreggiando. Ho cercato di fermarlo, ma penso che lui abbia visto solo un orso impazzito che sembrava minacciarmi.» Dy Cabon ripeté la parola sembrava. Il suo sguardo si fece più penetrante. L'espressione inequivocabile dell'Erudito alla fine convinse l'attonito Ferda. Il suo volto si contrasse, quasi sull'orlo del pianto. «Erudito, che cosa accadrà a Foix?» «Dipende...» - dy Cabon deglutì - «dalla natura del demone in questione.» «Una natura rozza, animalesca», precisò Ista con lo stesso tono di voce inespressivo. «Forse ha consumato altre creature prima dell'orso, ma probabilmente non aveva ancora acquisito la natura o l'intelligenza di un uomo. Non aveva il dono della parola.» Ma adesso possiede un vero e proprio banchetto di parole e intelligenza. Quanto ci avrebbe messo a iniziare il suo festino? Dy Cabon, facendo eco al pensiero di Ista, fece un profondo respiro. «Non succederà nulla nell'immediato», affermò alzando la voce. Ma a Ista non piacque quel tono. «Foix può resistere. Un demone inesperto ci mette del tempo a crescere, a imparare.» A scavare aggiunse mentalmente Ista. Ad attingere alla forza di un'anima, a prepararsi per l'assedio. Ne conseguiva che un demone esperto, ingrassatosi con le anime di molti uomini, poteva avere la meglio in un battibaleno? «Cionondimeno dobbiamo concedergli il minor tempo possibile per... Un Tempio in una delle sedi provinciali avrà gli strumenti, e degli studiosi capaci di gestire questa situazione. Dobbiamo portarlo immediatamente dall'Arcidivino di Taryoon... no, ci vorrebbe una settimana.» Lasciò vagare lo sguardo oltre le colline, verso le distanti pianure. «Il Tempio di Maradi è più vicino. Ferda, dove sono le tue mappe? Dobbiamo trovare la strada più breve.» Le altre guardie stavano ritornando, dopo aver catturato i cavalli e i muli fuggiti. Ferda si alzò per frugare nelle sacche del suo animale, ma si girò sentendo il fratello lamentarsi. Foix spalancò gli occhi. Fissò il cielo e la corona di volti che lo fissava-
no ansiosi, e le sue sopracciglia s'inarcarono. Ferda s'inginocchiò accanto a lui. «Come ti senti?» riuscì a dire. Foix sbatté le palpebre. «Mi sento molto strano.» Fece un gesto impacciato con la mano - un gesto simile a una zampa che sferri un colpo - e cercò di girarsi per alzarsi. Ma finì gattoni. Gli ci vollero altri due tentativi per rimettersi in piedi. Dy Cabon lo sorresse da una parte e Ferda dall'altra, mentre lui sbatteva le palpebre e contraeva la mascella. Cercò di portarsi una mano alla bocca, ma non ci riuscì, quindi riprovò. Le dita indagavano come per rassicurarsi che ci fosse una mascella e non un muso. «Che cosa è successo?» Per un lungo momento, nessuno osò rispondere. Passò in rassegna gli sguardi inorriditi con crescente sgomento. Fu dy Cabon a parlare per primo: «Riteniamo che tu abbia contratto un demone. Era nell'orso, quando ha attaccato». «L'orso stava morendo», aggiunse Ista. Anche ai suoi orecchi la sua voce risuonava stranamente distaccata. «Ho tentato di fermarti.» «Non è vero, non è così?» chiese Ferda. Supplicò. «Non può essere.» Il volto di Foix perse ogni espressione; gli occhi restarono fissi, vitrei per qualche secondo. «Oh», esclamò. «Sì. È... è questo che...» «Che cosa?» dy Cabon cercò di mantenere un tono tranquillo, ma la voce gli uscì carica di ansia. «C'è qualcosa... nella mia testa. Spaventato. Tutto aggrovigliato. Come se cercasse di nascondersi.» «Uhm.» Ormai era abbastanza chiaro che Foix non si sarebbe trasformato in un orso, in un demone o in chissà cos'altro, e che per il momento sarebbe rimasto solo un uomo sconcertato. Gli anziani della compagnia si allontanarono; due guardie discussero su cosa fare della carcassa, e decisero che non valeva la pena scuoiarla visto il pelo malconcio, ma presero comunque i denti e gli artigli come ricordo dell'avventura, poi la trascinarono lontano dalla strada. Ferda tirò fuori la mappa della regione e la distese a terra. Col dito tracciò una linea. «Credo che la via migliore per arrivare a Maradi sia di proseguire su questa pista ancora per una trentina di miglia, fino a questo villaggio. Poi giriamo e scendiamo verso est.» Dy Cabon guardò il sole che era già scomparso dietro i monti occidentali, anche se il cielo era ancora di uno splendido azzurro. «Non ce la faremo prima di notte.»
«Se proseguiamo ancora per qualche miglio, raggiungeremo l'incrocio che porta al villaggio della vecchia santa che intendevamo visitare.» Suggerì Ista. «Abbiamo già prenotato cena, foraggio e letti. E potremmo ripartire di buonora.» E vi sarebbero state spesse mura tra loro e altri orsi. Anche se non tra loro e il demone... una riflessione che decise di tenere per sé. Ferda si accigliò. «Altre sei miglia. Forse di più, se sbagliamo di nuovo strada.» Infatti un'ingannevole biforcazione del sentiero, quel giorno era costata un paio di ore. «Abbiamo cibo e foraggio a sufficienza per una notte... potremo rifornirci quando svolteremo a est.» Esitò, e in tono più cauto aggiunse: «Certo, se ve la sentite di affrontare una notte all'aperto, Royina. Il clima sembra comunque buono, per il momento». Ista restò in silenzio. Quel piano non le piaceva, ma le piaceva ancora meno la velata allusione che avrebbe anteposto la propria comodità personale all'esigenza del suo leale ufficiale. Dividere la compagnia, mandare avanti i cavalieri più veloci con Foix? Non le piaceva neanche quell'idea. «Io... non ho obiezioni.» «Te la senti di cavalcare?» chiese Ferda al fratello. Foix se ne stava seduto con lo sguardo pensieroso. «Eh?» chiese. «Oh. Sì, va bene. Mi fa male la schiena, ma questo non ha nulla a che fare con... con l'altra cosa.» Con il tono perentorio da militare, Ferda ordinò: «Allora proseguiamo finché possiamo e il più in fretta possibile». Un mormorio di approvazione si levò da tutti. Ista serrò le labbra. Fecero montare Foix sul suo nervoso cavallo e ci vollero due uomini per tenere l'animale che dapprima scartò e sbuffò, ma poi si calmò quando ripresero la marcia. Dy Cabon e Ferda cavalcavano al fianco di Foix. Per proteggerlo, anche se ormai era troppo tardi. La presenza del demone, avvertito da Ista in modo così cocente, anche se per poco, era di nuovo silente. Era occultato dalla materia oppure si nascondeva volutamente nella sua nuova tana di carne e ossa? O forse era la sua incapacità a sentirlo? Aveva represso la propria sensibilità per così tanto tempo, che estenderla di nuovo era come stirare un muscolo non allenato. Lord dy Cazaril sosteneva che il mondo dello spirito e il mondo della materia esistessero fianco a fianco, come i due lati di una moneta. Gli Dei non erano distanti, in qualche altro spazio, ma esattamente in questo, sempre celati dietro qualche strano angolo di percezione. Erano una presenza dilagante e invisibile come il sole sulla pelle.
Ista chiuse gli occhi, per mettere alla prova le sue percezioni. Il cigolio della sella, lo scalpiccio degli altri cavalli, il debole colpo di uno zoccolo che urtava una pietra; l'odore del cavallo, del suo sudore, dell'alito fresco dei pini... nulla di più, in quel momento. Poi si chiese che cosa aveva visto il demone quando l'aveva guardata. Sistemarono il campo presso un altro limpido torrente, con luce appena sufficiente per raccogliere legna da ardere che gli uomini trovarono in abbondanza; Ista ebbe l'impressione di non essere la sola a essere preoccupata degli animali selvatici. Per lei e Liss costruirono anche una sorta di piccola capanna con tronchi e rami, coprendo la nuda terra con fasci d'erba secca tagliata frettolosamente. Era un rifugio che a lei non sembrava particolarmente a prova di orso. Foix si rifiutò di essere trattato come un invalido e insistette per andare a raccogliere la legna. Ista lo teneva d'occhio con discrezione, e notò che anche dy Cabon faceva la stessa cosa. Foix trasportò un tronco piuttosto grande solo per scoprire che era marcio, pieno di vermi. Rimase a fissare quella scoperta con un'espressione molto strana dipinta sul volto. «Erudito», chiamò sottovoce. «Sì, Foix?» «Mi trasformerò in un orso? O in un folle che pensa di essere un orso?» «Né l'una né l'altra cosa», rispose deciso dy Cabon. Ma Ista ebbe il sospetto che neanche lui ne fosse davvero convinto. «Questa sensazione scomparirà.» Disse in tono rassicurante. Se il demone diventava meno simile a un orso, poteva significare solo che stava diventando più simile a Foix? «Bene», sospirò il ragazzo. Il suo volto si contorse in una smorfia. «Perché quelli sembrano deliziosi.» Spinse via il tronco con più forza di quanto fosse necessario e andò a cercare qualcosa di più asciutto. Dy Cabon si avvicinò a Ista. «Signora...» Per i cinque Dei, il tono di voce lamentoso era identico a quello che Foix aveva usato qualche minuto prima. Riuscì a malapena a modificare un dolce Sì, dy Cabon? in un più secco: «Cosa?» di modo che non pensasse che lo prendeva in giro. «A proposito dei vostri sogni. Quelli toccati dagli Dei che avete avuto tanto tempo fa.» Purtroppo non così tanto tempo fa. «Che cosa volete sapere?» «Be'... come fate a capire quando sono reali? Come fate a distinguere
una buona profezia da, diciamo, qualcosa di illusorio?» «Non c'è nulla di buono in una profezia. Tutto ciò che posso dirvi è che è inconfondibile.» Colta da un sospetto improvviso la sua voce si fece più aspra. «Perché me lo chiedete?» Lui tamburellò nervosamente le dita su un fianco. «Ho pensato che avreste potuto istruirmi.» «Cosa, la guida che viene guidata?» Cercò di dirlo in tono scherzoso, ma si sentì gelare la schiena. «Il Tempio non approverebbe.» «Non credo, signora. Quale apprendista non cercherebbe consiglio da un maestro, se potesse? Se si ritrovasse di fronte a un compito superiore alle sue capacità?» Socchiuse gli occhi. Per i cinque Dei - e mai quell'invocazione era sembrata più appropriata - che sogni aveva fatto? C'era un uomo sdraiato su un letto, in una camera buia, sprofondato in un sonno simile alla morte... «Che cosa avete sognato?» chieste Ista. «Ho sognato voi.» «Bene. Si sognano spesso le persone che conosciamo.» «Sì, ma questo è accaduto prima. Ancora prima che ci incontrassimo sulla strada vicino a Valenda.» «Forse... siete mai stato da bambino a Cardegoss o in un'altra località dove io e Ias eravamo andati in visita ufficiale? Vostro padre può avervi portato per farvi vedere la processione del Roya.» Dy Cabon scosse la testa. «Ser dy Ferrej era con voi allora? Indossavate una veste color lavanda e nera, montavate un cavallo condotto a briglia da uno stalliere lungo una strada di campagna? Eravate sulla quarantina, triste e pallida? Non credo, Royina.» Per un attimo distolse lo sguardo. «Anche il demone del furetto vi ha riconosciuta. Che cosa ha visto che io non sono riuscito a vedere?» «Non ho idea. Non l'avete chiesto prima che venisse eliminato?» Lui fece una smorfia e scosse la testa. «In quel momento non ne sapevo a sufficienza per porre domande. Gli altri sogni sono venuti dopo, più vividi.» «Quali sogni, Erudito?» E la sua voce era un sussurro. «Ho sognato la cena nel castello di Valenda. Di noi, sulla strada, più o meno con questa compagnia. Talvolta c'erano Liss, Ferda e Foix, tal'altra persone diverse.» Abbassò lo sguardo e confessò: «Il Tempio di Valenda non mi ha mai incaricato di farvi da guida spirituale. Mi aveva mandato solo a porgere le scuse dell'Erudita Tovia, che avrebbe risposto alla vostra
chiamata non appena fosse rientrata. Ho rubato il vostro pellegrinaggio, Royina. Ho pensato che fosse il Dio a chiedermelo». Ista rimase stupita da quella confessione, ma si costrinse ad assumere un tono di voce molto neutro, e per frenare il tremore delle mani strinse il ramo contro il quale era appoggiata, dietro la schiena. «Continuate.» «Ho pregato. Ho scelto di andare a Casilchas per potermi consultare coi miei superiori. Voi... mi avete parlato. I sogni sono cessati. I miei superiori mi hanno suggerito di darmi da fare per essere veramente la vostra guida spirituale, dal momento che mi ero già spinto tanto in là e, signora, ho fatto del mio meglio.» Ista allungò una mano per alleviare la sua preoccupazione, anche se non era sicura che potesse vederla con quella luce fioca. Quindi, le strane convinzioni sulle sue doti spirituali, quand'erano a Casilchas, provenivano da una fonte più diretta di un vecchio pettegolezzo. Attraverso la vegetazione rada, si videro i primi fuochi brillare da due buche scavate nell'argine sabbioso del torrente, in un'allegra sfida alla notte incombente. I fuochi apparivano... piccoli, ai piedi di quelle grandi colline. I Denti del Bastardo, così era chiamata quella catena montuosa, perché sugli alti passi azzannavano i viaggiatori. «Ma poi i sogni sono ripresi, qualche notte fa. Nuovi. Anzi uno, che si è ripetuto tre volte. Una strada, molto simile a questa. Una campagna molto simile a questa.» La manica bianca della sua veste ondeggiò nell'ombra. «Vengo sopraffatto da una colonna di uomini, soldati roknari, eretici della fede quaternaria. Mi tirano giù dal mulo. Mi...» Si zittì di colpo. «Non tutti i sogni profetici si avverano. O si avverano subito», disse Ista con cautela. Ebbe l'impressione che l'angoscia del Divino fosse molto profonda. «No, non possono esserlo», e la sua voce si fece quasi concitata, «perché ogni notte mi hanno torturato crudelmente in modo diverso.» Il tono della sua voce assunse una nota dubbiosa. «Comunque iniziavano sempre coi pollici.» E pensare che lei e Liss avevano riso della sua sbornia... mentre lui aveva cercato di annegare i sogni nel vino. Ma non serviva. Lei stessa aveva provato, tanto tempo prima alla corte di Ias. «Avreste dovuto dirmelo! Molto prima!» Esclamò Ista. «Qui non possono esserci i roknari. Dovrebbero attraversare due province per raggiungere questo luogo. L'intera campagna verrebbe sollevata.» Sembrava che la sua voce cercasse di respingere l'oscurità con la ragione.
«Quel sogno deve appartenere a un futuro lontano.» Non puoi respingere l'oscurità con la ragione. Devi usare il fuoco. Da dove le era venuto quel pensiero? «Oppure a nessun futuro. Alcuni sogni sono solo avvertimenti. Fatene tesoro, e la loro minaccia scompare.» La sua voce divenne un sussurro nell'oscurità. «Temo di aver deluso gli Dei, e questa sarà la mia punizione.» «No», replicò Ista freddamente. «Gli Dei sono molto più spietati. Se ti usano per le loro faccende, non mostrano maggiore interesse per te di quanto potrebbe averne un pittore per un pennello incrostato e rotto da buttare.» Esitò. «Se continuano a spronarti e a guidarti, puoi stare sicuro che significa una sola cosa: che hanno ancora bisogno di te.» «Oh», commentò senza alzare la voce. Ista avrebbe voluto muoversi. Potevano allontanarsi da quella strada? Adesso il percorso per tornare a Vinyasca era molto più lungo di quello che li avrebbe condotti alla prossima meta. Potevano seguire il letto del torrente e raggiungere le pianure? Immaginò cascate, grovigli spinosi, massi rovesciati che era impossibile superare a piedi o a cavallo. Se avesse chiesto di seguire un percorso tanto impervio l'avrebbero presa per pazza. Rabbrividì. «Sui roknari, comunque, avete ragione», disse. «Qualche spia, o piccoli gruppi camuffati, possono penetrare a sud senza essere visti. Ma nulla di abbastanza minaccioso da sopraffare la nostra compagnia che è bene armata, in ogni caso. Persino Foix non è fuori combattimento.» «Vero», ammise dy Cabon. Ista si morse un labbro, guardandosi attorno per accertarsi che il ragazzo non fosse nei paraggi e potesse sentire. «Che ne pensate di Foix, Erudito? Per un attimo, ho visto... è come se avessi visto lo spirito dell'orso. Era più corrotto e disgregato rispetto al corpo, e si dimenava in un'agonia di putrefazione.» «Il suo pericolo è reale, ma non immediato.» La voce di dy Cabon era di nuovo risoluta su questo terreno più sicuro, e la sua massa vestita di bianco si raddrizzò. «Ciò che lui ha acquisito per caso, alcuni uomini peccaminosi o poco lungimiranti o disperati lo cercano di proposito. Catturare un demone e nutrirlo lentamente di sé in cambio del suo aiuto... così gli uomini diventano stregoni. Per un po'. Alcuni di loro anche per parecchio tempo se sono intelligenti o cauti.» «Chi ha la meglio alla fine?» Il Divino si schiarì la gola. «Quasi sempre il demone. Alla fine. Ma con
questo giovane elementale, all'inizio Foix dovrebbe riuscire a padroneggiarlo, se facesse un tentativo. Ma non intendo parlare di questo con lui, né insinuargli l'idea, e vi prego, Royina, di essere altrettanto cauta. Però, più... si rinsalda il loro legame, più difficile sarà separarli.» Poi, abbassando la voce, aggiunse: «Ma da dove vengono? Che squarcio si è prodotto nell'inferno per farli uscire in numero tanto elevato? Il mio Ordine è chiamato a sorvegliare questa regione di confine nello stesso modo in cui le truppe degli Ordini del Figlio e della Figlia armati di scudi e spade contrastano diavolerie più materiali. Noi servi del quinto Dio camminiamo nell'oscurità, armati solo del nostro ingegno». Fece un sospiro sconsolato. «Vorrei avere un'arma migliore in questo momento.» «Speriamo che il sonno possa rendere più acute le nostre facoltà mentali», suggerì Ista. «Forse la notte ci porterà consiglio.» «Prego che così sia, Royina.» La riaccompagnò alla sua capanna improvvisata. Ista evitò di augurargli 'sogni d'oro', o qualsiasi altro tipo di sogno. All'alba, l'ansioso Ferda svegliò tutti, a eccezione del fratello. Solo quando la colazione fu pronta, si accovacciò accanto a Foix e lo chiamò con delicatezza. Liss, che stava passando per portare una sella, si fermò a osservare quella preoccupata tenerezza, e provò una sensazione di angoscia. Persero poco tempo per mangiare, togliere l'accampamento e rimettersi di nuovo in viaggio. L'altezza irregolare delle colline scoraggiava la velocità, ma Ferda riuscì a impartire un'andatura costante che divorò le miglia. La compagnia procedeva perlopiù silenziosa, persa in chissà quali lugubri riflessioni. Ista continuava a riflettere sull'acquisizione di Foix e sui sogni di dy Cabon. Il demone-orso di Foix era un evento sfortunato, se di evento si poteva parlare. I sogni di dy Cabon erano chiari avvertimenti, forse ingannevoli, ma pericolosi da ignorare. La concatenazione di quei fatti arcani che le turbinavano attorno le faceva rizzare i capelli e accapponare la pelle. Avvertì la sgradevole sensazione di essere entrata in uno schema non ancora percepito. Si. A Maradi torniamo a casa. Quella silenziosa decisione non le arrecò alcun sollievo; la tensione rimase, come una corda tesa al limite della rottura. Come la pressione soffocante che l'aveva spinta a uscire dal castello, vestita a lutto e con scarpette di seta, quel mattino a Valenda. Devo muovermi. Non posso stare ferma.
Dove? Perché? Lì le colline erano ancora più aride che a sud, anche se le acque dei torrenti continuavano a scendere abbondanti dalle vette, dove la primavera aveva sciolto le nevi. I pini nodosi erano più bassi e radi, e stretti canaloni pressoché privi di vegetazione divennero più frequenti. In cima a una salita, dy Cabon si girò a guardare il sentiero percorso. Fermò di colpo il suo mulo. «Quello che cos'è?» Ista si voltò sulla sella. Alle loro spalle, un cavaliere... no, dei cavalieri avevano appena superato la sommità delle lontane colline. Foix gridò: «Ferda, guarda tu che ci vedi meglio». Ferda girò il cavallo e socchiuse gli occhi nella luce accecante; il sole si era fatto più caldo e stava raggiungendo lo zenit. «Sono uomini a cavallo.» La sua espressione divenne più torva. «Armati... vedo che indossano cotte di maglia... lance. L'armatura è nello stile roknari... per i demoni del Bastardo, per i cinque Dei! Quelli sono i tabarri del principato di Jokona. Riesco a vedere gli uccelli bianchi su campo verde anche da qui.» A Ista apparivano ancora come macchie verdi indistinte, anche se aveva socchiuso gli occhi per metterli a fuoco. Con apprensione domandò: «Che cosa ci faranno in questa terra? Forse sono guardie di mercanti, alla testa di una carovana? Emissari?» Ferda si alzò sulle staffe per osservarli meglio. «Sono soldati. Tutti soldati.» Passò in rassegna la sua piccola compagnia e toccò l'elsa della sua spada. «Bene, ci siamo.» «Ah...» esclamò Foix. «Continuano ad avanzare.» Una fila dopo l'altra, in gruppi di due o tre, i cavalieri si riversavano sul dorso della collina. Ista ne aveva già contati più di trenta, quando dy Cabon, il cui volto aveva assunto il colorito di un cadavere, si segnò e la guardò. Dovette tossire prima di riuscire a profferire le parole, che parvero incespicare tra le labbra riarse. «Royina? Non credo che dovremmo incontrare quei signori.» «Di questo sono sicura, Erudito.» I primi soldati della colonna che li avevano avvistati cominciarono a gesticolare e urlare. «Cavalcate più in fretta!» ordinò Ferda. I muli non vollero saperne di essere trascinati a quella velocità e fecero rallentare gli uomini che li portavano. All'inizio, quello di dy Cabon rispose alle sollecitazioni del padrone, ma poi anche lui a ogni passo cominciò a ragliare per il peso sobbalzante che portava. E la stessa cosa faceva dy Cabon.
Quando raggiunsero la sommità dell'altura successiva, si accorsero che i jokoniani avevano mandato avanti un drappello di una ventina di uomini, col chiaro intento di raggiungerli. La fuga si era trasformata in una gara di velocità, per la quale non erano preparati. I muli da soma potevano essere abbandonati, ma quello del Divino? Aveva le narici dilatate e stava già iniziando a coprirsi di schiuma, e nonostante i calci e le urla di dy Cabon continuava ad alternare il piccolo galoppo a un trotto sostenuto che scuoteva dy Cabon come un budino; il suo viso passava dal rosso scarlatto al verde pallido e viceversa. Sembrava sul punto di vomitare per la fatica e il terrore. Se quella era veramente una colonna nemica - e nel nome dei cinque Dei come aveva fatto a spuntare alle loro spalle in modo tanto repentino? - Ista poteva offrire un riscatto per sé e per gli uomini della sua scorta. Ma un Divino dei cinque Dei sarebbe stato trattato come eretico e torturato; avrebbero iniziato col tagliargli i pollici, poi la lingua, e infine i genitali. Dopodiché, a seconda del tempo che avevano a disposizione, qualunque morte orrenda poteva essergli riservata: impiccagione, supplizio del palo, o anche di peggio. Per tre notti aveva sognato la sua fine, aveva detto dy Cabon, ogni volta diversa. Ista si chiese quale morte potesse essere più atroce del finire impalati. La campagna offriva ben poco riparo. Gli alberi erano bassi, e anche se ve ne fosse stato qualcuno alto, Ista non era sicura che sarebbero riusciti a issare il corpulento Divino. A parte il fatto che sue vesti bianche, pur essendo sporche, si sarebbero viste chiaramente a mezzo miglio di distanza. Ma poi superarono un'altra altura, momentaneamente nascosti alla vista dei loro inseguitori, e in fondo a quel canalone... Ista spronò il cavallo per affiancarsi a quello di Ferda e urlò: «Il Divino... non deve essere catturato!» Ferda si voltò a guardarla e fece segno di essere d'accordo. «Scambiamo i cavalli?» suggerì in tono dubbioso. «Non sarebbe sufficiente», gli urlò lei in risposta. Poi indicò un punto davanti a loro. «Nascondiamolo in qualche punto giù nel fiume!» Rallentò il cavallo, per lasciare passare gli altri, finché il mulo di dy Cabon arrivò arrancando. Foix e Liss si fermarono al suo fianco. «Dy Cabon!» urlò Ista. «Avete mai sognato di essere tirato fuori da un fiume?» «No, signora!» rispose lui con voce tremula. «Nascondetevi laggiù, allora, finché non saranno passati.» Foix... anche
Foix correva un rischio tremendo se l'avessero catturato. I quaternari si sarebbero accorti che era afflitto da un demone. Potevano tranquillamente scambiarlo per uno stregone e bruciarlo vivo. «Avete sognato che Foix era con voi?» «No!» «Foix! Puoi stare con lui... e forse aiutarlo. Tenete giù la testa e non uscite, qualunque cosa accada!» Foix abbassò lo sguardo sul nascondiglio che Ista stava indicando e parve comprendere all'istante il piano. «D'accordo, Royina!» I due scesero e si fermarono ai piedi della sponda scoscesa dove individuarono un anfratto per metà sommerso. Fortunatamente in quel punto il corso d'acqua non era al suo massimo, e anche se quell'anfratto sarebbe stato un nascondiglio angusto, soprattutto per la mole tremante di dy Cabon, poteva comunque servire a nasconderli. Foix smontò da cavallo con un balzo, lanciando le briglie a Pejar, e afferrò l'ansimante Divino mentre stava per caracollare dal mulo. «Mettetevi questo, nascondete quelle vesti bianche.» Foix avvolse il suo mantello grigio attorno alle spalle di dy Cabon. Un'altra guardia cominciò a tirarsi dietro il mulo del Divino, il quale, sollevato dal suo enorme fardello, riprese ad andare al piccolo galoppo. Ma quell'andatura non sarebbe stata sufficiente, pensò Ista. «Abbiate cura di voi!» gridò Ista in tono disperato. Ma i due si stavano già infilando carponi nel cunicolo, e non la udirono. La compagnia si rimise in marcia. C'era un'altra persona tra loro che non doveva finire nelle mani di rozzi soldati, pensò. «Liss!» chiamò. La ragazza le si affiancò. Il cavallo di Ista era madido di sudore e sbuffava. L'alto baio di Liss, invece, galoppava ancora con agilità. «Tu corri avanti...» «No, Royina, non vi lascerò!» «Sciocca, ascolta! Corri avanti e avvisa tutti coloro che incontri che stanno arrivando i nemici jokoniani. Cerca rinforzi e mandali da noi!» La ragazza comprese e assentì: «Va bene, Royina!» «Cavalca come il vento! E non voltarti indietro!» Subito Liss si chinò sul collo del cavallo e partì. La galoppata di tre o quattro miglia che avevano fatto fino a quel momento gli era chiaramente servita per riscaldarsi. Nel giro di qualche minuto, il baio superò tutti quelli del gruppo e iniziò a distanziarli. Sì, vola, ragazza. Non devi farti prendere dai jokoniani.
Quando giunsero in cima all'altura successiva, dove la strada aggirava una sporgenza nella collina, Ista si voltò. Non c'erano segni del Divino né di Foix. I primi cavalieri jokoniani stavano superando al galoppo il fiume senza guardarsi attorno, concentrati sulla preda che stava innanzi a loro. Il senso di costrizione che sentiva al petto si attenuò un po', anche se faticava a respirare. Alla fine, in mezzo a un turbinio di pensieri, cominciò a pensare a se stessa. Una volta catturata, avrebbe mantenuto l'incognito? Che valore avrebbe avuto per loro una cugina minore del ricco Provincar della Baocia? Lo status di Sera dy Ajelo sarebbe stato sufficiente per garantire la sicurezza per i suoi uomini e per sé? Ma la Royina Vedova di Chalion, la madre della Royina Iselle, era un bottino troppo interessante da lasciar cadere nelle sudice mani di un branco di soldati-banditi jokoniani. Lasciò vagare lo sguardo sugli uomini risoluti della sua scorta. Non voglio che questi ragazzi muoiano per me. Voglio che nessun uomo muoia per me, mai più. Ferda la raggiunse al galoppo, e fece segno alle loro spalle. «Dobbiamo abbandonare i muli.» Lei annuì con il capo. Le gambe le dolevano per aver stretto tanto tempo i fianchi del suo cavallo. «Le sacche di dy Cabon... dobbiamo sbarazzarcene o nasconderle. I suoi libri e documenti rivelerebbero la sua presenza, e quelli potrebbero tornare indietro a cercarlo! Anche le mie, ho delle lettere firmate a mio nome...» Ferda fece un ghigno di comprensione; si alzò sulle staffe e rallentò. Ista si girò sulla sella e armeggiò coi lacci di cuoio delle sacche. Per fortuna, Liss li aveva annodati in modo intelligente, perciò i robusti nodi si sciolsero al primo strattone. Ferda si avvicinò al mulo del Divino e staccò le due pesanti sacche che aggrappò al suo pomello. Ista guardò dietro di sé. I muli da soma lasciati liberi erano rimasti indietro, e gironzolavano grati lontano dalla strada quasi subito raggiunti dal mulo di dy Cabon. Si stavano avvicinando a un ponte che attraversava un corso d'acqua turbolento. Quando ci arrivarono sopra, Ferda fermò il cavallo e gettò le sacche oltre la balaustra di pietra semi sgretolata. Ista fece lo stesso. Queste volarono giù, rimbalzando sulle rocce, per poi affondare lentamente tra i flutti. Per un attimo, Ista rimpianse i libri del Divino... ma non la sua dannata corrispondenza e altri segni d'identità. Questa prudenza accorciò ancora di più la distanza già esigua che li separava dalle avanguardie jokoniane. Ista si alzò sulle staffe e incitò il suo
stanco cavallo ad affrontare la salita successiva. Forse la decisione di deviare per catturare i muli da soma avrebbe rallentato i loro inseguitori, ma il nemico aveva uomini in abbondanza per fare entrambe le cose. Infatti Ista aveva intravisto solo i primi cavalieri della loro colonna senza aver il tempo di attendere per vedere gli ultimi. Ciò che quei soldati rappresentavano, era piuttosto chiaro. Tutti avevano partecipato per generazioni a questi giochi diabolici d'incursioni e rappresaglie lungo quei confini che i quintariani chalionesi stavano lentamente facendo retrocedere verso nord. Nelle regioni oggetto di contesa, gli uomini si guadagnavano da vivere in questo modo, come se fosse una sorta di lavoro. A volte il gioco veniva svolto in base a elaborate regole di etichetta, dove gli accordi per i riscatti, talvolta simili a trattative commerciali, si univano a bizzarre gare d'onore. Altre volte i contrasti si svolgevano senza regole, e l'onore si tramutava in sudore, grida e fiumi di sangue. Quanto erano disperati quegli inseguitori che sembravano essere caduti dal cielo. Si trovavano distanti dai confini di Jokona, e andavano di fretta. Erano truppe fresche che stavano aggirando l'obiettivo prima di attaccarlo, oppure truppe stanche che non vedevano l'ora di tornare a casa? Se indossavano i tabarri del principe, almeno non erano una banda di predoni. Forse si trattava di rampolli di qualche signorotto con una certa disciplina, impegnati in qualche missione più ampia. Quest'ultima era la speranza di Ista. Raggiunta la cima dell'altura, Ista ebbe di nuovo un'ampia veduta della strada più a valle. Avvistò il baio di Liss ormai lontano, ma improvvisamente Ista ebbe un tuffo al cuore. Dal versante semi spoglio della collina un altro gruppo di cavalieri stava piombando su Liss. Si trattava senza dubbio di un drappello esplorativo inviato davanti al grosso del contingente. Ista tentò di calcolare le distanze, le velocità. L'intento dei jokoniani era di fermare Liss sulla strada. La ragazza non li aveva ancora visti, e di certo non avrebbe sentito Ista se le avesse urlato un avvertimento. Ferda si alzò sulle staffe, un'espressione di disperato raccapriccio dipinto sul volto; frustò il suo cavallo, ma non riuscì a fare accelerare l'animale ormai stremato. Alla fine, Liss li vide. Di sicuro anche il suo generosissimo cavallo prima o poi avrebbe raggiunto i limiti della resistenza... nel frattempo, però, ebbe la forza di allungare il passo e distanziarli. Una balestra luccicò, una quadrella saettò nell'aria, ma mancò il bersaglio. Il drappello raggiunse la strada; un paio di cavalieri partirono all'inseguimento di Liss, mentre gli altri si fermarono in mezzo alla strada. In at-
tesa. Ferda imprecò, guardò dietro di sé, poi davanti, con le mascelle serrate; poi volse uno sguardo preoccupato a Ista: come sarebbe riuscito a proteggerla, se la sua ridotta compagnia avesse tentato di farsi strada attraverso il nuovo blocco? Nel frattempo un numero sempre maggiore di cavalieri si stava riversando lungo il crinale alle loro spalle. «Ferda!» gridò Ista. E la voce le uscì come un gracidio. «Non abbiamo scampo. Dobbiamo fermarci e arrenderci alle loro condizioni!» «No, Royina!» Il suo viso si contrasse in una smorfia di rabbia. «Per il mio giuramento e il mio onore, no! Moriremo per difendervi!» «Mi difenderete meglio da vivi, con la vostra intelligenza e autocontrollo, Ferda!» Purtroppo avevano lasciato le loro migliori intelligenze nascoste in un anfratto della riva del fiume. Trasse un lungo respiro, e reprimendo una paura morale più vasta del terrore fisico che provava, lasciò che le parole le uscissero di bocca: «È un ordine! Dobbiamo fermarci!» Ferda serrò le mascelle ma, in realtà, una decisione in tal senso era ormai quasi superflua. Il grosso del nemico era su di loro, e li stava spingendo contro il drappello fermo sulla strada. Ista riuscì a individuare una mezza dozzina di balestre alzate tra i cavalieri in attesa. Ferda sollevò la mano. «Ci fermiamo!» I cavalli sfiniti arrancarono disordinatamente, mentre gli uomini mettevano mano alle armi. «Non sguainate le spade!» ordinò Ferda. Alcuni espressero ad alta voce il loro disappunto; altri divennero rossi in volto per la grande tensione, ma tutti ubbidirono. Anche loro sapevano in che modo si svolgeva il gioco. I jokoniani, spade sguainate e lance e balestre in posizione di tiro, confluirono da entrambi i lati e lentamente li circondarono. 7 Alzatasi sulle staffe, Ista cercò di rispolverare il suo roknari arrugginito. «Richiedo il riscatto.» Poi in ibrano: «Io sono Sera dy Ajelo, e il Provincar della Baocia è il mio protettore! Garantisco il suo riscatto per me e per tutti i miei uomini! Tutti!» E ripeté la frase in roknari, per essere sicura: «Riscatto per tutti!» Un ufficiale si staccò dai suoi uomini. Si distingueva per la cotta di maglia di fattura migliore, per le fini decorazioni in oro stampato sul cuoio
delle briglie, della sella e del fodero, e per la bandoliera di seta verde che recava il simbolo di Jokona: dei pellicani in volo ricamati con fili bianchi e dorati. I tipici capelli ricciuti e ramati dei roknari erano acconciati in una serie di treccine sovrapposte e legate dietro il capo. Contò mentalmente il numero dei chalionesi, e forse prese atto delle vesti e degli stemmi dell'Ordine della Figlia con una leggera punta di rispetto. Ista, che durante tutte le settimane del suo pellegrinaggio aveva ripudiato le preghiere dalla sua mente, in quel momento pregò in cuor suo: Signora, in questa Tua stagione di forza, lancia una coltre di protezione su questi Tuoi leali servitori. In un ibrano passabile, l'ufficiale gridò: «Gettate le armi!» Un'ultima angosciata esitazione, poi Ferda scostò la sopravveste e si sfilò la bandoliera dalla testa. Il fodero e la spada caddero al suolo con un rumore metallico, quindi gettò il coltello che portava alla cinta. Gli uomini della compagnia seguirono il suo esempio con eguale riluttanza. I loro cavalli sbuffanti e coperti di schiuma restarono tranquilli, mentre a Ferda e ai suoi uomini veniva ordinato di smontare e di sedere a terra, circondati da jokoniani con le spade sguainate e le balestre puntate. Un soldato afferrò le briglie del cavallo di Ista e le fece segno di scendere. Le gambe per poco non le cedettero, quando toccò terra; sentì le ginocchia molli, ma si ritrasse con uno scatto dalla mano protesa dell'uomo, anche se si rese conto quasi subito che intendeva solo sostenerla per impedirle di cadere. L'ufficiale si avvicinò e accennò un inchino, inteso forse come rassicurazione. «Una nobildonna chalionese?» Era solo in parte una domanda; i suoi abiti semplici non riflettevano lo status che aveva reclamato. I suoi occhi la scrutarono alla ricerca di gioielli, anelli, spille, che non trovarono. «Che cosa fate qui?» «Io ho tutti i diritti di essere qui.» Rispose Ista sollevando il mento. «Voi avete interrotto il mio pellegrinaggio.» «Un'adoratrice del diavolo quintariana.» E sputò, ritualmente, ma di lato. «Per che cosa pregate, eh, donna?» Ista inarcò un sopracciglio. «Per la pace.» Poi aggiunse: «E voi vi rivolgerete a me col titolo di Sera». Quello sbuffò, ma parve convinto, o almeno divenne meno curioso. Nel frattempo, una mezza dozzina di uomini aveva già iniziato a frugare nelle sacche da sella. Con un fiume di parole roknari troppo veloci perché Ista potesse afferrarne il senso, l'ufficiale si avvicinò e li fece smettere. Ista capì il motivo quando arrivò il resto della colonna e un paio di uo-
mini, con le borse verdi dei contabili reali, giunsero seguiti da quelli che erano palesemente gli ufficiali anziani. Allora le loro sacche vennero tirate giù e setacciate in modo più sistematico, e inventariate nei minimi particolari. I contabili erano presenti per garantire che un quinto del bottino, la quota spettante al principe di Jokona, fosse correttamente conteggiato. Uno annotò sulla sua tavoletta il numero dei cavalli e gli equipaggiamenti requisiti. Non v'erano dubbi che si trattasse di una spedizione ufficiale, e non di una scorribanda. L'ufficiale fece rapporto ai suoi superiori; Ista udì per due volte la parola Baocia. In quel mentre uno degli uomini che stava rovistando nelle sacche si alzò con un grido di gioia; Ista pensò che avesse trovato una borsa di denaro, invece agitò le mappe di Ferda. Corse dai suoi ufficiali, gridando in roknari: «Guardate, miei signori, guardate! Carte di Chalion! Adesso potremo ritrovare la strada!» Ista, sorpresa da quelle parole, iniziò a guardarsi attorno con maggiore attenzione. Le cavalcature dei jokoniani erano coperte di schiuma ed esauste come le loro, tanto che Ista si chiese se non si fossero fermati troppo presto; se avessero continuato, probabilmente sarebbero riusciti a sfuggire alla cattura. Gli uomini sembravano accaldati, sfiniti, sporchi, in disordine. Le loro belle acconciature erano mezze disfatte, come se non le rifacessero da giorni, forse da settimane. E gli ultimi arrivati avevano un aspetto anche peggiore. Molti avevano segni di ferite, altri conducevano per le briglie cavalli con le selle vuote, talvolta tre o quattro in fila. Non si trattava di bottini di guerra, perché perlopiù erano addobbati con finimenti in stile roknari. Il convoglio dei bagagli, che arrivò per ultimo, gli sembrò stranamente misero. Se le bestie con i bagagli erano la fine del contingente, e tra loro non c'erano Foix e dy Cabon... Ista si concesse un sospiro di speranza. Anche se i contabili si fossero accorti che tra i cavalli sequestrati c'erano due selle vuote, se si fossero organizzati per tornare indietro a cercarli, Foix avrebbe sicuramente avuto il tempo di trovare un nascondiglio migliore. Se Foix era astuto a piedi così come lo era nelle parole... se il demone che portava non aveva sconvolto troppo la sua mente... se i jokoniani non li avessero semplicemente ammazzati, abbandonando i loro corpi sul ciglio della strada... Una cosa era certa. Questi jokoniani non erano uomini che si preparavano per qualche azione segreta. Anzi, stavano fuggendo da una sconfitta, o
da qualche vittoria conseguita a caro prezzo. E ora volevano tornare a casa. Fu felice per Chalion, ma divenne più ansiosa per sé, per Ferda e per i suoi uomini, perché quei jokoniani ridotti al limite della resistenza potevano diventare aguzzini più pericolosi. L'ufficiale tornò indietro e le fece segno di andare a sedersi all'ombra di un alberello con larghe foglie palmate, mentre gli uomini che rovistavano nelle sacche trovarono una borsa di monete d'oro in quella di Ferda che rallegrò i contabili del principe. Poi i soldati cominciarono ad aprire i bagagli dei muli catturati. Ista cercò di ignorare i soldati che rovistavano con commenti lascivi tra i suoi indumenti intimi. L'ufficiale fece domande più precise sul suo rapporto di parentela col Provincar della Baocia, al che Ista sciorinò l'immaginario albero genealogico di Sera dy Ajelo. L'uomo sembrava ansioso di accertarsi che il ricco Provincar avrebbe realmente pagato un riscatto per lei. «Oh, sì», confermò Ista con distacco. «Mi aspetto che venga di persona.» Seguito da diecimila spadaccini, cinquemila arcieri e dalla cavalleria del March dy Palliar. Ma subito pensò che se non voleva che degli uomini morissero per lei, quello che aveva detto sarebbe stato il modo sbagliato di risolvere il problema. Dovevano esserci ancora delle possibilità di fuga. Liss... ce l'aveva fatta? Nessun soldato era ancora ritornato trascinando la recalcitrante ragazza, o con un corpo esanime sulla sella. Gli ufficiali presero a discutere animatamente sulle mappe, mentre uomini e animali riposavano in quel poco d'ombra che riuscirono a trovare. L'ufficiale che parlava ibrano le portò dell'acqua in un malconcio otre di pelle; Ista si umettò le labbra riarse e bevve. Almeno era abbastanza fresca. Poco dopo venne fatta rimontare a cavallo, dove le legarono le mani al pomo della sella, e la bestia a sua volta venne legata ad altri cavalli che seguivano il convoglio dei bagagli. Gli uomini di Ferda furono fatti montare, ma vennero portati molto più avanti, circondati da soldati armati. Agli esploratori vennero assegnati nuovi compiti, e la colonna si rimise in viaggio diretta verso nord. Ista lasciò vagare lo sguardo e si accorse che c'erano altri prigionieri legati come lei ai loro cavalli. Erano una dozzina tra uomini e donne e sembravano debilitati. Mentre procedevano, una donna anziana si trovò a cavalcare accanto a lei. I suoi abiti, benché sporchi, erano di ottima fattura e con decorazioni elaborate; chiaramente non era una donna qualsiasi, ma qualcuno la cui famiglia poteva offrire un ricco riscatto. Ista le chiese. «Da dove vengono questi soldati?»
«Da qualche inferno roknari, penso», rispose la donna. «No, quella sarà la loro destinazione», mormorò di rimando Ista. La bocca della donna s'increspò in un sorriso amaro; bene, non era del tutto intontita. «Prego che sia così», rispose. «Mi hanno catturato nella città di Rauma, a Ibra.» «Ibra?» Ista volse lo sguardo verso la catena montuosa che si levava in lontananza. Dovevano essere arrivati a Ibra da qualche passo poco utilizzato, attraversando poi Chalion per abbreviare il tragitto verso casa. Qualcuno doveva averli spietatamente inseguiti per indurli a scegliere un percorso tanto pericoloso. «Non c'è da meravigliarsi se sembravano piovuti dal cielo.» «In quale provincia di Chalion ci troviamo?» «Nel Tolnoxo. Hanno ancora un centinaio di miglia prima di essere al sicuro; devono attraversare una parte di Tolnoxo e tutta la provincia di Caribastos per raggiungere il confine di Jokona. Ammesso che ci riescano.» Ista esitò. «Ho qualche speranza che vengano rintracciati. Credo che alcuni dei miei uomini siano riusciti a fuggire.» Gli occhi della donna s'illuminarono. «Bene.» E dopo un attimo aggiunse: «Sono piombati su Rauma all'alba, all'improvviso. Devono aver aggirato una decina di città meglio preparate e più vicine al confine. Io avevo portato le mie figlie a Rauma per lasciare delle offerte sull'altare della Figlia, perché la mia primogenita doveva... prego la Dea che sia ancora così... sposarsi. All'inizio, quei soldati sembravano più interessati a raccattare bottini che a rapinare e distruggere. Il Tempio l'hanno lasciato stare, ma hanno tenuto sotto la minaccia delle armi tutti coloro che avevano catturato. Poi prima di partire hanno abbattuto la Torre del Bastardo e torturato la povera Divina che l'aveva in custodia». La donna fece una smorfia. «Non c'è stato tempo di nasconderla. Hanno ucciso il marito, quando ha cercato di difenderla.» Anche con una donna devota ai cinque Dei, i quaternari iniziavano coi pollici e con la lingua. Poi passavano alle violenze carnali, il più delle volte, prolungate e viziose. «Alla fine l'hanno bruciata nella torre del suo Dio.» La donna sospirò. «A quel punto sembrava quasi una benedizione. Ma il loro gesto blasfemo gli è costato tutto ciò che avevano guadagnato, perché le truppe del March di Rauma sono piombate su di loro mentre erano ancora in città. Il Figlio ha conferito forza alla sua spada! Non ha avuto pietà, perché la Divina era sua sorellastra.»
Ista espresse la sua simpatia con un sibilo. «Nella confusione, le mie figlie sono fuggite... almeno spero. Forse la Madre ha ascoltato le mie preghiere, perché nel terrore ho offerto me stessa in cambio di loro. Poi sono stata legata su un cavallo e portata via, mentre si davano alla fuga, perché dai miei abiti e dai miei gioielli hanno capito che potevano ricavare un buon riscatto.» Adesso, naturalmente, non portava gioielli. «La loro avidità mi ha valso una certa considerazione, anche se hanno abusato della mia cameriera... in modo ripugnante. Credo che sia ancora viva, comunque. Hanno abbandonato tutti i prigionieri di poco conto lungo la strada, perché rallentavano la loro marcia. Spero che non si siano lasciati prendere dal panico e siano rimasti uniti per aiutarsi a vicenda. Se hanno fatto così, a quest'ora saranno in salvo. Spero... spero che abbiano portato con loro i feriti.» Ista si chiese cosa stesse architettando il Principe Sordso di Jokona per permettere... no, per ordinare una simile incursione. Sembrava più un'azione per saggiare il terreno, piuttosto che una prima ondata di un'invasione. L'intento era forse quello di provocare semplicemente l'Ibra settentrionale e costringere le truppe del vecchio Roya a mettersi sulla difensiva, impedendo loro di andare a sostenere Chalion nella campagna d'autunno contro Visping? Se così stavano le cose, la strategia aveva avuto scarso successo, anche se quegli uomini avrebbero potuto essere stati usati intenzionalmente come vittime a loro insaputa. Anche i feriti non troppo gravi cavalcavano con il convoglio dei bagagli. Quelli gravi, immaginò Ista, erano stati abbandonati lungo la strada. Un uomo in particolare catturò la sua attenzione. Era un ufficiale anziano, molto anziano a giudicare dall'abbigliamento e dalla tenuta. Non aveva bende né ferite visibili, ma cavalcava legato alla sella come un prigioniero; aveva il volto stanco e si lamentava. Le parole che farfugliava non erano comprensibili neanche in roknari. Era stato colpito alla testa, forse? I suoi borbottii la disturbavano e le mettevano i brividi; provò un segreto senso di sollievo quando il convoglio dei bagagli cambiò assetto e lui venne allontanato. Dopo qualche miglio raggiunsero gli uomini che erano stati mandati all'inseguimento di Liss, i loro cavalli procedevano a fatica, zoppicando. Furono accolti da imprecazioni e da sonori ceffoni da parte del loro furioso comandante; poi i loro cavalli vennero lasciati liberi e sostituiti con due della scorta.
Ista riuscì a trattenere un sorriso arcigno. Seguì un'altra consultazione delle mappe di Ferda; degli esploratori vennero inviati in avanscoperta, mentre la colonna riprese a procedere lentamente. Un'ora dopo giunsero al piccolo villaggio dove la compagnia di Ista aveva progettato di deviare per prendere la strada per Maradi. Era completamente abbandonato, non c'era anima viva né un solo animale, salvo qualche gallina e dei gatti. Liss è passata di qui, a quanto pare, e li ha avvertiti, pensò Ista con soddisfazione. I jokoniani lo saccheggiarono in fretta, prendendo tutto il cibo che riuscirono a trovare. Poi discussero se era il caso d'incendiarlo, ma prevalse il buonsenso, perché se lo avessero fatto, le alte colonne di fumo, visibili a molte miglia di distanza, avrebbero rivelato la loro presenza. Quando se ne andarono, il sole stava scendendo dietro le montagne. La colonna imboccò un canalone sul fondo del quale scorreva un ruscello. Era il percorso più facile da percorrere, ma anche il più pericoloso perché esposto alla vista di eventuali esploratori. Dopo un paio di miglia, girarono di nuovo a nord, inoltrandosi in una boscaglia fitta di alberi, ma più riparata. Era un'inutile precauzione quella di nascondersi tra gli alberi, perché dietro di loro avevano lasciato sufficienti tracce del loro passaggio: impronte di zoccoli, arbusti spezzati e letame che chiunque sarebbe riuscito a seguire. Più tardi si fermarono in una valletta ombreggiata. Dovevano lasciare il tempo ai cavalli di foraggiare per riacquistare le forze, nel frattempo accesero piccoli fuochi, e solo per il tempo necessario a cucinare le galline rubate nel villaggio. Poi distribuirono delle coperte alla mezza dozzina di donne prigioniere, non peggiori di quelle che loro stessi usavano, e divisero con esse lo stesso loro cibo. Sdraiandosi al suolo per riposare, Ista si chiese se la coperta in cui si era avvolta era quella di un uomo morto, e quali sogni le avrebbe portato. Qualcosa di utile non sarebbe male tanto per cambiare. Non era proprio una preghiera. Ma quando si assopì non fece alcun sogno profetico; scivolò in una sorta di dormiveglia, ridestandosi di tanto in tanto a causa di rumori strani o quando udiva singhiozzare qualche donna tra le coperte. Uno dei jokoniani feriti morì quella notte, apparentemente a causa di una febbre provocata dall'infezione delle ferite. All'alba la sua sepoltura venne fatta frettolosamente e senza cerimonie, ma Ista fu certa che nella Sua misericordia il Fratello avrebbe comunque accolto la sua anima, perché non
avvertì alcun fantasma turbato mentre il morto veniva sotterrato. Dopo essersi accertata che nessuno la stava guardando, di nascosto fece il segno quaternario della benedizione, per quanto potesse servire a un ragazzo morto in una terra straniera. Quando ripartirono, la colonna proseguì verso nord attraverso una selvaggia regione collinosa che rendeva la marcia più lenta. E Ista avvertiva che quei soldati diventavano sempre più nervosi col passare delle ore. Verso sera, attraversarono il confine non segnato ed entrarono nella provincia di Caribastos. Il territorio si fece più irregolare, costringendoli oltretutto ad aggirare città e villaggi fortificati. In quella zona i torrenti erano meno frequenti, così quando ne trovarono uno, si fermarono per accamparsi e per far riposare i cavalli. Come provincia chalionese che confinava coi Cinque Principati, quella di Caribastos era la meglio armata, le sue fortezze erano ben tenute e la gente era sempre all'erta per le guerre che erano abituati a sostenere. La colonna probabilmente avrebbe tentato di attraversarla approfittando dell'oscurità. Altre tre tappe, valutò Ista. Le donne che costituivano un prezioso bottino vennero nuovamente sistemate sotto gli alberi, fornite di cibo e lasciate sole. Poi l'ufficiale che parlava ibrano, accompagnato da due dei suoi superiori, si avvicinò a Ista, che sedeva con la schiena appoggiata a un albero. Lei lo guardò, ma rimase in silenzio, perché fosse lui a parlare per primo. «Saluti, Sera.» Pronunciò quel saluto con una strana enfasi. Quindi, senza aggiungere altro, le porse le carte. Era una lettera, interrotta a metà, tutta sgualcita per essere rimasta in una sacca da sella. La scrittura era quella di Foix, decisa e squadrata. Ista si sentì mancare ancor prima di leggere. Era indirizzata al Cancelliere dy Cazaril, a Cardegoss. Dopo un rispettoso e inequivocabile elenco degli uffici e dei ranghi del grande cortigiano. Mio amatissimo Signore, continuo il mio rapporto come posso. Abbiamo lasciato Casilchas e finalmente siamo arrivati a Vinyasca; domani qui ci sarà una festa. Ho lasciato volentieri Casilchas. L'Erudito dy Cabon non ha idea di che cosa sia la segretezza o la discrezione. Dopo aver fatto una serie di gaffe, mezza città era a conoscenza che Sera dy Ajelo era la Royina Vedova, ed è venuta a renderle omaggio, cosa che non credo le abbia fatto molto piacere. Dopo ulteriori osservazioni, mi ritrovo a essere d'accordo con
voi; la Royina Ista non è pazza in nessuna normale accezione, anche se vi sono volte in cui mi fa sentire stupido, come se vedesse o percepisse o sapesse cose che io non conosco. Trascorre ancora molto tempo in silenzio, persa nei suoi tristi pensieri. Non so perché ero convinto che le donne chiacchierassero sempre. Sarebbe un sollievo se lei parlasse di più. Per quanto riguarda il suo pellegrinaggio, se è il risultato di qualche sollecitazione indotta dagli Dei, come voi temevate dopo le vostre lunghe preghiere a Cardegoss, ancora non ve lo so dire. Ma del resto sono rimasto tanto tempo con voi, accanto a miracoli eccelsi, senza accorgermi di nulla, quindi, questo non fa testo. La festa della Figlia sarà una piacevole diversione dalle mie preoccupazioni. Continuerò domani. Seguiva la data del giorno dopo, e la scrittura nitida ricominciava. La festa è andata bene... (venivano poi due interi paragrafi in cui descriveva quel che era accaduto.) Dy Cabon si è ubriacato pesantemente. Dice che è per dimenticare dei brutti sogni, anche se penso che sia più facile che il vino li induca. Ferda non è molto soddisfatto di lui, ma il Divino ha avuto la possibilità di stare con la Royina più di chiunque altro, quindi forse ne ha bisogno. All'inizio pensavo che fosse un nevrotico idiota, come vi avevo scritto, ma adesso comincio a credere di essere io l'idiota. Scriverò di più su questo argomento in occasione della nostra prossima tappa, in qualche ameno villaggio tra le colline dove nacque una certa santa. Dovrei riuscire a spedire questa lettera dalla Casa della Figlia, a Maradi, se decidiamo di seguire quella direzione. Cercherò di suggerirlo. Ma non credo che ci avventureremo più a nord... La lettera si interrompeva così, con mezza pagina ancora da riempire. Il giorno seguente, prima che i jokoniani avessero la meglio su di loro, evidentemente Foix era ancora troppo scosso per riuscire ad aggiungere un resoconto sulla vicenda dell'orso. Ista alzò lo sguardo. Un jokoniano, scuro di capelli e più giovane, la stava guardando con un sorriso deliziato e avido. Quello più vecchio e basso, che indossava una bandoliera verde tramata massicciamente d'oro, e che
lei immaginò essere il comandante della spedizione, o comunque un ufficiale anziano sopravvissuto, l'osservava con un'espressione più pensierosa. Nei suoi occhi lesse considerazioni strategiche più ampie, molto più preoccupanti della mera avidità. L'ufficiale che parlava ibrano aveva uno sguardo apprensivo. Lei fece un altro tentativo di aggrapparsi al suo lacero incognito, per quanto fosse futile. Allungò il foglio di carta con indifferenza. «Che cosa ha a che fare con me?» L'ufficiale lo riprese. «Molto. Royina.» Le fece un inchino nello stile di corte roknari, la mano destra abbassata davanti a sé, il pollice racchiuso nel palmo: un gesto in parte ironico, in parte guardingo. Il comandante disse in roknari: «Allora questa è proprio la scellerata madre pazza della Royina Iselle?» «Così sembra, mio signore.» «Gli Dei sono stati molto generosi», sottolineò quello con i capelli scuri, con una voce che vibrava di eccitazione. E si fece il segno quaternario della benedizione, sfiorandosi fronte, ventre, inguine, cuore e ripiegando attentamente il pollice sotto il palmo. «In un unico colpo fortunato, tutte le nostre sofferenze vengono ripagate e le nostre fortune realizzate.» «Pensavo che la tenessero rinchiusa in un castello. Come possono essere stati così incauti da lasciarla viaggiare in una regione come questa?» chiese il comandante. «La sua scorta non poteva prevedere il nostro arrivo. D'altro canto neppure noi avevamo previsto di essere qui», commentò quello coi capelli scuri. Il comandante aggrottò le sopracciglia guardando la lettera, anche se era chiaro che non riusciva a leggere una parola senza l'aiuto del suo ufficiale. «Questa spia del loro cancelliere parla degli Dei in modo troppo sconsiderato. È blasfemo.» E la cosa ti preoccupa? Bene, pensò Ista. Era difficile credere che Foix fosse una spia. Anche se non poté fare a meno di stimare ancor di più la sua scaltrezza, perché era riuscito a tenere nascosto il suo compito. Ripensandoci, però, la cosa aveva senso. Se avesse scritto a qualcun altro che non fosse Lord dy Cazaril, l'avrebbe offesa profondamente, ma tutto ciò che c'era a Chalion era sotto la sua responsabilità... e il debito che aveva nei confronti di quell'uomo era immenso come il mare. Il comandante si schiarì la gola, e si rivolse a Ista in un ibrano dal forte accento: «Ritenete di essere stata toccata dagli Dei, folle regina?»
Le labbra di Ista si curvarono in una smorfia enigmatica. «Se voi foste stato toccato dagli Dei, non avreste bisogno di chiedermelo. Conoscereste la risposta.» Quello trasalì e socchiuse gli occhi. «Eretica quintariana.» Lei lo fissò col suo sguardo più impassibile. «Chiedetelo al vostro Dio. Vi prometto che lo incontrerete presto. Il Suo marchio è sulla vostra fronte, e le Sue braccia sono aperte a ricevervi.» Quello con i capelli scuri guardò con espressione interrogativa l'ufficiale, il quale tradusse il gelido avvertimento di Ista, benché non fosse proprio necessario essere in comunione con gli Dei per fare quella profezia, vista la situazione precaria dei jokoniani. Le labbra del comandante si assottigliarono. Sembrava aver afferrato quanto fosse divenuta più rischiosa la loro ritirata, a causa della sua presenza come prigioniera. La fuga di quella cavallerizza che non erano riusciti a fermare si era rivelata un disastro più grande di quanto avesse immaginato. Le donne vennero fatte spostare accanto all'accampamento del comandante, e altre due guardie vennero assegnate alla loro sorveglianza... Ista, non aveva dubbi che quella maggior attenzione fosse riservata a lei, e la cosa mandava all'aria la sua speranza di riuscire a scappare approfittando di qualche attimo di disattenzione. La serata proseguì all'insegna del nervosismo. Un soldato jokoniano venne frustato per qualche infrazione... tentata diserzione, molto probabilmente. Gli ufficiali anziani si erano riuniti e discutevano sull'opportunità di tenere insieme la colonna per meglio difendersi, oppure dividerla in piccoli gruppi per permettere il rientro a Jokona senza essere notata. Ma Ista era convinta che a mano a mano che passavano i giorni sempre più soldati avrebbero disertato. Durante la lunga cavalcata, per distrarsi, aveva contato il loro numero: erano novantadue uomini. Meno numerosa era la loro compagnia, più deboli sarebbero diventate le loro difese. Quanto tempo sarebbe passato prima che la colonna fosse costretta a dividersi a causa delle defezioni? Il comandante jokoniano aveva buoni motivi per proseguire il più in fretta possibile, quindi Ista non si stupì quando venne svegliata a mezzanotte e fatta montare a cavallo. Questa volta, tuttavia, venne divisa dalle altre donne che procedevano con il convoglio dei bagagli e affidata all'ufficiale che parlava ibrano. Altri due soldati cavalcavano al loro fianco. La colonna si mosse nell'oscurità, tra le imprecazioni di quelli che incontrava-
no difficoltà a procedere. Ista all'inizio si era aspettata di veder spuntare dietro di loro le truppe di Tolnoxo, ma sicuramente queste avevano attraversato quel distretto molte miglia più a nord. Col passare delle ore, le circostanze mutavano: adesso era improbabile un attacco alle spalle, mentre era possibile un'imboscata frontale. La cosa aveva una certa logica dal punto di vista tattico: stavano aspettando che i jokoniani arrivassero su un terreno a loro favorevole. Oppure... era possibile che Liss avesse mantenuto l'incognito di Ista, svelando alle autorità solo che una nobildonna di rango minore era stata catturata durante il suo pellegrinaggio dai jokoniani? Ista riuscì a immaginare il Provincar di Tolnoxo che indugiava abbastanza a lungo da lasciare che i jokoniani uscissero dal suo territorio e diventassero un problema per il Provincar di Caribastos. Naturalmente se fossero stati lì, dy Cabon e Foix non avrebbero permesso un simile indugio... ma erano riusciti a mettersi in salvo, oppure vagavano ancora tra le colline, sopraffatti o deviati dal demone di Foix, il cui potere, la cui intelligenza e volontà erano divenuti improvvisamente più forti? Guidati da chissà quali rapporti degli esploratori, i jokoniani uscirono dalla rada boscaglia e imboccarono un sentiero buio e, procedendo al trotto, percorsero diverse miglia. Era quasi l'alba quando svoltarono nel letto di un fiume semi asciutto. Anche se gli zoccoli dei cavalli scricchiolavano rumorosamente nella ghiaia, se gli uomini dovevano parlarsi, si avvicinavano e discutevano a bassa voce. Ista si umettò le labbra riarse. Troppe ore erano passate da quando le avevano permesso di bere, di mangiare, di andare a fare i suoi bisogni, inoltre soffriva perché la parte interna delle ginocchia era infiammata. Cosa sarebbe successo se la colonna fosse riuscita a sfuggire all'imboscata, superando il confine verso Jokona? Non c'erano dubbi che sarebbe stata consegnata al Principe Sordso, portata nel suo palazzo, circondata da ogni comodità... e da molti servitori attenti. Era fuggita da un castello solo per finire prigioniera in un altro; e, peggio ancora, utilizzata come una leva politica contro le poche persone che amava. L'oscurità cedette il posto al grigiore, mentre il cielo stellato impallidiva nell'ora che precede l'alba. Una foschia bassa aleggiava tutt'intorno, ma permetteva ugualmente di vedere una piccola rupe che si alzava alla loro sinistra. Improvvisamente una pietra finì nell'acqua che lambiva la base della rupe. La guardia di fianco a lei girò la testa di scatto a quel rumore inatteso.
Poi si sentì un fruscio e una freccia lo colpì al petto. La guardia ebbe appena il tempo di emettere un rantolo, mentre cadeva nella ghiaia. Un attimo dopo, Ista avvertì l'urto della sua morte come lo schianto di una saetta attraverso i suoi sensi, tanto che le girò la testa. Tutt'intorno, gli uomini gridavano, urlavano ordini, imprecavano. Urla di risposta e altre frecce piovvero dall'alto. Per i cinque Dei, che questo attacco sia veloce, pregò Ista. Ferda e i suoi uomini erano quelli più a rischio, perché i jokoniani avrebbero potuto decidere di ucciderli, prima di occuparsi del nemico. Un'altra morte, e un'altra ancora, squarciò i suoi sensi interiori come fuoco cangiante, proprio mentre i suoi sensi esteriori venivano scagliati in un vortice di movimento. Tentò di liberarsi i polsi, ma i nodi erano fatti bene e non riuscì nemmeno ad allentarli. E non c'era neppure da pensare di lasciarsi cadere da cavallo per spezzare le corde; si sarebbe rotta i polsi e poi sarebbe stata trascinata. Un rimbombo di zoccoli, grida e urla si levò dalle prime fila della colonna; una carica di cavalleria urlante, proveniente dalla vallata del fiume, doveva essersi scontrata con l'avanguardia di Jokona. Poi altre grida giunsero dalle retrovie. L'ufficiale che conduceva il cavallo di Ista tirò le redini in modo così brusco che la bestia s'impennò, guardandosi attorno terrorizzata. In quel momento il comandante arrivò al galoppo, con la spada snudata, gridò in roknari di seguirlo. Gli uomini di testa si aprirono la strada tra alcuni arcieri con strani tabarri grigi che stavano accorrendo e sfrecciarono nella boscaglia che costeggiava il fiume. Ista aveva la testa che le pulsava, la vista le si oscurava e si schiariva in successione per gl'impatti di tante anime sradicate violentemente dai propri corpi in pochi attimi e in un unico luogo. Sperò di non svenire e cadere da cavallo. Non vedeva altro che il collo del cavallo allungato davanti a sé, le orecchie protese all'indietro, e la dura terra che sfrecciava sotto di lei. La bestia, spaventata a morte, non aveva certo bisogno di essere spronata, anzi, correva appaiata a quella che le stava accanto, finché per poco non la superò, rischiando di trasformare la sua guardia in un inseguitore. La pista piegò a destra in un'ampia curva. Alla fine rallentarono mentre si addentravano in una zona di collinette coperte di boschi, dove avrebbero potuto celarsi alla vista di qualsiasi inseguitore. Ma c'era qualcuno che li inseguiva? Il comandante trovò infine il tempo d'inguainare la spada. Non l'aveva
macchiata di sangue, notò Ista. Li guidò avanti, scansando e aggirando rocce e alberi. Ista ebbe il sospetto che non avesse intenzione di procedere su una pista, ma così facendo ben presto si sarebbe confuso. In ogni caso, con un gruppo così esiguo da nascondere, alla fine sarebbe riuscito a trovare il nord. La vegetazione s'infittì. Risalirono un'altura, discesero un burrone. Ista cercò di calcolare quante miglia avessero percorso dal luogo in cui era avvenuto l'attacco. Cinque o sei, almeno. Rifletté sui rischi che stava correndo, mentre i cavalli avanzavano nel letto pietroso del ruscello, e di nuovo il respiro le si bloccò in gola. Non temeva di essere violentata o torturata; quegli ufficiali avevano perso tutto: gli uomini, gli equipaggiamenti, i bottini, l'onore, persino la strada. Ma se fossero riusciti a portare Ista al principe di Jokona, questi avrebbe perdonato ogni altro fallimento. Quindi lei rappresentava la loro speranza e non l'avrebbero lasciata andare anche a costo della loro vita. Perciò non temeva di essere uccisa per mano loro, no; ma la morte poteva colpirla ugualmente per un incidente o in occasione di un nuovo agguato. Quello sì che era molto probabile. Scesero serpeggiando lungo la gola per più di un miglio. Le ombre si stavano infittendo a causa della vegetazione più rigogliosa e le pareti erano sempre più ripide, quasi a strapiombo, ma in lontananza s'intravedeva un pallore indistinto. Superarono una curva per scoprire che il burrone si apriva all'improvviso su un piccolo corso d'acqua scintillante, piatto. Incorniciato dalle pareti, proprio al centro, si ergeva un cavaliere solitario. Ista si sentì percorrere da un brivido che non seppe definire se fosse di paura, o di eccitazione. I fianchi del suo pomellato erano sudati e tradivano l'affanno, le narici erano dilatate e rosse, ma il destriero raspava il terreno e si spostava nervoso, i muscoli tesi pronti a scattare. Quell'uomo non sembrava affannato. I suoi capelli color mogano erano sciolti, tagliati corti nello stile chalionese, e arricciati attorno alle orecchie in ciocche intricate. Una corte barba gli copriva le guance. Indossava una cotta di maglia, pesanti avambracci di cuoio, un tabarro grigio lavorato in oro, macchiato di sangue. Gli occhi si muovevano a scatti mentre contava il numero dei nemici: si socchiusero, sfavillarono. Levò la spada in segno di saluto. La mano che stringeva l'elsa era sporca e incrostata di sangue. Per un attimo, apparve sul suo volto il sorriso più spettrale che Ista avesse mai visto, poi spronò il cavallo e partì alla carica.
8 Di fronte a quella sicurezza travolgente, gli esausti jokoniani esitarono un attimo di troppo. Il cavaliere piombò sui primi due, ancor prima che fossero riusciti a snudare la spada, e li abbatté, poi si lanciò sulla guardia di Ista. L'uomo urlò e si scansò, mettendo freneticamente mano alla spada; con un sibilo e un brusio, la pesante lama del cavaliere tranciò la corda che legava i due cavalli. Quello di Ista, liberato, scartò. Il cavaliere sollevò la spada che si passò in qualche modo alla mano sinistra, non meno abile della destra, poi roteò la lama verso l'alto e l'infilò tra le mani di Ista e la sella alla quale erano legate. Lei ebbe appena il tempo di ritrarre le dita prima che la lama aguzza schizzasse di nuovo verso l'alto tranciando i legacci e sibilando davanti al suo naso. Quindi il cavaliere le scoccò un ghigno tagliente come la sua spada, lanciò un grido e spronò il destriero. Con un feroce ansito di soddisfazione, Ista liberò i polsi dalle corde e fece per chinarsi per afferrare le redini. In quel mentre, l'ufficiale girò il proprio destriero, e i due cavalli si scontrarono con tanta forza che per poco Ista non venne disarcionata. L'uomo l'afferrò saldamente. «Lasciami! Lasciami!» strillò Ista, colpendo il braccio che la stringeva. L'ufficiale, che teneva contemporaneamente le briglie e la spada nella mano sinistra, era sbilanciato. In un lampo d'ispirazione terrorizzata, Ista afferrò la manica invece del braccio, e facendo leva sulle staffe tirò con tutte le sue forze. L'ufficiale sbigottito ruzzolò giù dalla sella, rovinando a terra. Le pietre del ruscello erano ricoperte di muschio, ed erano scivolose; il suo destriero oscillò e sobbalzò mentre incespicava. Adesso le briglie strisciavano a terra e c'era il pericolo che si attorcigliassero alle zampe. Allora Ista si sporse verso il basso tenendosi al pomo della sella e dopo qualche tentativo riuscì ad afferrarle. Quindi si raddrizzò e riacquistò il controllo dei suoi movimenti per la prima volta da molti giorni. Nel frattempo attorno a lei, le spade stridevano e cozzavano. Si guardò freneticamente attorno. Uno dei soldati stava cercando di spingere il cavaliere misterioso verso gli altri, mentre un secondo si era portato di lato per colpirlo sul fianco scoperto. Il comandante spronò il cavallo verso la mischia, ma la mano sinistra che brandiva in modo goffo la spada, era stretta sull'altro braccio dal quale colava del sangue che gli scorreva dalle dita e rendeva scivolose le redini. Un altro soldato, che era sfuggito al primo assalto, slegò la balestra
dai legacci e la caricò freneticamente con un dardo letale. Puntò l'arma; l'obiettivo si muoveva, ma la distanza era molto ravvicinata. Ista, che non aveva armi, spronò il cavallo attraverso il ruscello e lo portò a urtare il destriero dell'arciere. Quello imprecò quando la corda scattò e la quadrella volò da un'altra parte. Allora tentò di colpire con la pesante balestra sulla testa di Ista, ma lei riuscì a evitarla. Il comandante urlò in roknari all'arciere: «Prendi la donna! Portala al Principe Sordso!» Il cavaliere grigio, abbandonando i soldati della retroguardia senza cavalli e sanguinanti, sfrecciò in avanti, guidando il cavallo con le ginocchia, sollevato sulle staffe, pronto a far calare un potentissimo fendente a due mani. L'ultimo ordine dello sfortunato comandante venne reciso bruscamente, insieme con la sua testa. Ista ebbe una visione rapidissima del corpo che cadeva, del sangue che schizzava, del cavallo che scartava, della fiamma abbagliante di un'anima tormentata strappata al suo ancoraggio, e un pensiero vertiginoso sorse spontaneo nella sua mente: Adesso ci credi alle mie profezie? E, in modo ancor più vertiginoso si chiese: E io ci credo? La spada luccicante del cavaliere continuava a roteare per colpire l'arciere che stava freneticamente cercando di caricare di nuovo la balestra. La spada passò dalla destra alla sinistra ancora una volta, e la sua punta calò come una lancia. La sincronia tra cavallo e spadaccino era mostruosa, perfetta; la punta della spada si schiantò nel petto dell'uomo, perforando la cotta di maglia, sollevandolo dalla sella e scaraventandolo a terra in una pozza di sangue. Ista per poco non svenne di fronte al vortice bianco di anime urlanti, sconvolte, che le turbinavano attorno. Afferrò il pomo della sella e si costrinse a stare diritta, gli occhi spalancati per ignorare la seconda vista. Quel mare di sangue che adesso i suoi occhi vedevano era meno terrificante di quelle visioni indesiderate. Quanti uomini erano morti? Il comandante, l'arciere, i due soldati caduti al primo assalto. Un cavallo e il suo cavaliere erano fuggiti, lo si capiva da una striscia di sangue. Nel frattempo, l'ufficiale, abbandonata la spada nella fanghiglia, si era alzato ed era riuscito a montare su un cavallo abbandonato che spronò al galoppo senza voltarsi indietro. Il cavaliere grigio rivolse uno sguardo corrucciato al fuggitivo, poi si girò e guardò preoccupato Ista, avvicinandosi a lei. «Mia signora, state bene?» «Io... non sono ferita», ansimò Ista. Le visioni spettrali stavano sbiaden-
do, come il breve accecamento che coglie chi abbia guardato il sole in modo troppo diretto. «Bene.» Il suo ghigno lampeggiò di nuovo. Non era ancora ebbro di battaglia? La sua mente era certo indenne dalla paura, ma anche da tutto ciò che poteva assomigliare al buonsenso. Un uomo sensato non avrebbe caricato da solo un gruppo di nemici disperati. «Abbiamo visto che vi portavano via, e ci siamo divisi per perlustrare i boschi.» Si girò e controllò i dintorni in cerca di altri segni di pericolo; poi socchiuse gli occhi soddisfatto vedendo che era tutto tranquillo. Pulì la spada sul tabarro imbrattato, l'alzò in un breve saluto, e la rinfoderò con uno scatto soddisfatto. «Posso sapere a quale dama ho l'onore e il piacere di rivolgermi?» «Io...» Ista esitò. «Sono Sera dy Ajelo, cugina del Provincar della Baocia.» «Uhm.» Le sue sopracciglia s'incurvarono. «Io sono Porifors, e adesso devo trovare i miei uomini.» Ista fletté le mani. I suoi polsi erano lacerati, incrostati, sanguinanti. «E io i miei. Ma sono rimasta legata a questo cavallo per tutta la notte, senza riposo, cibo o acqua. Se volete coronare il vostro atto eroico, fatemi la cortesia di custodire il mio animale e il mio pudore mentre cerco un cespuglio.» Scrutò incerta attorno a sé. «Anche se dubito che abbia più voglia di me di fare un altro passo.» «Ah», disse lui, in un tono di divertita comprensione. «Ma certamente, Sera.» Scese con agilità dal cavallo e allungò la mano per prenderle le briglie, quando si accorse di com'erano conciati i suoi polsi. Allora aiutò Ista a smontare e con le sue forti mani la sorresse per un attimo, per essere certo che riuscisse a reggersi in piedi. «Sui vostri abiti vi è molto sangue», le disse «siete ferita?» Ista seguì il suo sguardo. Sulle pieghe della gonna pantalone c'erano macchie di sangue, secco e fresco, all'altezza delle ginocchia. Quell'ultima galoppata le aveva definitivamente abraso le gambe. «No, sono piaghe da sella. Ferite banali.» Lui aggrottò le sopracciglia. «Che cosa definireste grave, allora?» Ista superò il comandante decapitato. «Questo», disse indicandolo. Poi proseguì vacillando oltre i corpi e per un tratto della gola alla ricerca di un posto nascosto. Quando ritornò, lo trovò inginocchiato sul bordo dell'acqua. Le sorrise e le offrì qualcosa su una foglia; Ista socchiuse gli occhi e
dopo un attimo di totale stupore si rese conto che era un panetto di sapone di sego. «Oh», fu tutto quello che riuscì a dire. Fece uno sforzo estremo per non scoppiare a piangere. Si mise in ginocchio e si lavò le mani nel gelido rivoletto, poi, con maggiore cautela, i polsi feriti. E infine, chiudendo le mani a coppa, si dissetò. Il cavaliere le offrì delle pezze pulite tagliate a strisce come bende che aveva preso dalla sua sacca. «Sera, temo di dovervi chiedere di cavalcare ancora per un po'. Meglio che vi puliate e bendiate le ginocchia, prima, d'accordo?» «Oh. Sì. Grazie, signore.» Si sedette su una roccia, tolse gli stivali per la prima volta dacché riusciva a ricordare, e arrotolò con cautela la gonna pantalone, staccandola dalle piaghe dove si era attaccata e incrostata. Quindi la lavò con il sapone, che le procurò dolore ma anche sollievo. E che fu rivelatore dell'infezione delle ferite. «Ci vorrà una settimana perché guariscano» osservò il cavaliere. Come soldato, aveva senza dubbio trattato altre volte le piaghe da sella, e sapeva come curarle. La osservò ancora un attimo come per essere sicuro che non avrebbe avuto problemi, poi si alzò e andò a esaminare i cadaveri. Lo fece in modo metodico ma non per depredarli, non degnò neppure di uno sguardo gli anelli, le spille o le borse di denaro che spuntavano dalle loro tasche. Tutte le carte in cui s'imbatteva, invece, le esaminava per poi ripiegarle accuratamente nella sua tunica. Si era presentato come Porifors o dy Porifors - ma non aveva detto se era il suo nome di battesimo o il suo cognome. Era un ufficiale, non v'erano dubbi, e anche di valore; forse era un vassallo del Provincar di Caribastos addestrato per essere un signore della guerra. Per fortuna non trovò la lettera di Foix, probabilmente era rimasta con qualcuno della colonna dispersa o con uno dei fuggiaschi. «Potete dirmi, Sera, quali erano gli altri prigionieri dei jokoniani?» «Pochi, siano ringraziati gli Dei. Delle donne di Ibra, e sette uomini che i jokoniani avevano giudicato abbastanza preziosi da trascinarsi sulle montagne. E undici guardie dell'Ordine della Figlia, di scorta per proteggere il mio pellegrinaggio. Siamo stati catturati dai jokoniani... due giorni fa.» Solo due giorni? «Ho buone speranze che una delle mie guardie e altri della mia compagnia siano riusciti a raggiungere Tolnoxo, quando siamo stati sopraffatti.» «Eravate l'unica dama di Chalion tra i prigionieri?» Il suo sopracciglio s'inarcò ancora di più.
Ista annuì appena e si sforzò di pensare a qualcosa di utile da dire a quell'ufficiale così determinato. «Questi furfanti cavalcavano sotto l'insegna del principe Sordso, perché avevano ufficiali contabili preposti a calcolare la quinta parte del principe. Hanno attraversato Ibra, e saccheggiato la città di Rauma, poi sono fuggiti valicando i passi, quando il March di Rauma li ha inseguiti. Quello che avete decapitato, laggiù», disse, indicando il povero corpo, «era l'anziano, anche se non credo che fosse il comandante. Ieri loro erano in novantadue, ma alcuni devono aver disertato nella notte.» «Tolnoxo...» Il cavaliere si alzò, abbandonando l'ultimo cadavere, e si avvicinò a lei. Ista stava finendo di fasciarsi il ginocchio. La sua cortesia in qualche modo la rese consapevole di trovarsi da sola con un uomo strano. «Non c'è da stupirsi. Siamo a meno di trenta miglia dal confine di Jokona. Quella colonna ha percorso quasi cento miglia in questi ultimi due giorni.» «Avevano fretta. Erano spaventati.» Ista lasciò vagare lo sguardo attorno a sé. Mosche verdi iridescenti stavano iniziando a radunarsi sul sangue dei cadaveri. «Ma non abbastanza spaventati da restarsene a casa, sfortunatamente. Forse la prossima volta la loro paura sarà migliorata.» Si grattò la barba. Non era color mogano come i capelli, ma più chiara e con dei fili grigi. «Avete assistito alla vostra prima battaglia, Sera?» «Di questo genere, sì.» Legò l'ultima benda e strinse bene il nodo. «Grazie per aver spinto il tizio con la balestra. È stato un intervento provvidenziale.» L'aveva notato? Per i cinque Dei. Aveva pensato che fosse troppo occupato. «Era l'unica cosa che potessi fare.» «Vedo che riuscite a mantenere la calma.» «Lo so.» Alzò lo sguardo quando lui sbuffò sorpreso. E con voce tremula, aggiunse: «Se siete troppo gentile con me, comincerò a piangere». Lui venne colto apparentemente un po' alla sprovvista, ma poi annuì. «Siete una dama crudele, se mi impedite di essere gentile! E così sia allora. Adesso dobbiamo rimetterci in marcia, per raggiungere un luogo più sicuro dove riposare. Dobbiamo procedere guardinghi, perché penso che i vostri guardiani non fossero gli unici sbandati e sopravvissuti. Spero di riuscire a incontrare qualcuno dei miei uomini.» Si guardò attorno con aria corrucciata. «Li manderò indietro a raccogliere questi e i loro cavalli.» Ista osservò la scena silenziosa. I corpi giacevano a terra scomposti; nessuno dei cavalli esausti si era allontanato dai loro padroni.
Adesso le sue visioni urlanti erano completamente svanite e per questo non ringraziò gli Dei. Infatti il burrone sembrava riverberare ancora la sofferenza. E lei non vedeva l'ora di andarsene. Lui l'aiutò ad alzarsi. Ista lo ringraziò con un cenno del capo. Se fosse rimasta ancora ferma, non sarebbe più riuscita a camminare... o a montare. Il suo tentativo di salire a cavallo fallì, e Ista ansimò per il dolore; allora lui la prese semplicemente per la vita e la sollevò. Non era una donna alta, ma non era neanche il giunco che era stata a diciotto anni. Quell'uomo doveva avere più o meno la sua età, ma la sua forza, evidentemente non era stata intaccata dagli anni che gli avevano ingrigito la barba. Il cavaliere montò sul suo alto cavallo con agilità e grazia. Ista pensò che quello splendido pomellato doveva essere della stessa razza del baio di Liss, magro e muscoloso, addestrato per correre veloce e coprire lunghe distanze. Si avviarono verso il letto del fiume e lo risalirono contro corrente. I passi del suo cavallo stanco erano corti e rigidi; solo la presenza dell'altro compagno, pensò Ista, continuava a farlo muovere. Proprio come me. Studiò il suo salvatore in quella luce migliore. Come il cavallo e la spada, il resto della sua tenuta era della qualità migliore, ma senza sgargianti borchie ingioiellate o intarsi di metallo. Doveva essere un ufficiale povero, ma ligio ai propri doveri. Per sopravvivere vent'anni lungo quel confine, come la sua barba e le rughe del volto suggerivano, un uomo doveva prestare molta attenzione a ciò che faceva. Quel volto attirava il suo sguardo. Non era il volto di un ragazzo, fresco e roseo come quello di Ferda o di Foix, ma nemmeno il volto di un uomo già avanti con gli anni, floscio come quello di dy Ferrej. Aveva un volto nel pieno vigore della maturità. Pallido, però, nonostante l'evidente forza. Forse il recente inverno era stato insolitamente rigido a Caribastos. Era attratta da quell'uomo, ma non era l'attrazione cocente dell'amore a prima vista. Però era un invito a prendere in considerazione l'ipotesi. Ma lei, cosa si poteva dire dell'amore, dopotutto? A diciotto anni era stata cullata nell'abbagliante, facile e avvelenato trionfo del suo matrimonio col Roya Ias, per poi precipitare nella lunga, oscura nebbia della vedovanza e della maledizione, che le aveva inaridito il cuore e la mente. La parte centrale della sua esistenza era stata una nera devastazione e quei lunghi anni non avrebbero potuto essere recuperati né sostituiti. Non aveva avuto né la vita né i piaceri delle altre donne della sua età. Nonostante l'idealismo che circondava la verginità, la fedeltà e il celiba-
to, alla corte di Ias, Ista aveva conosciuto molte dame di rango che avevano degli amanti, apertamente o in segreto. E molte volte si era chiesta come riuscissero a gestire quelle relazioni. Nella corte minore della Provincara Vedova, a Valenda, quelle cose non erano mai accadute, naturalmente; la vecchia dama non aveva mai tollerato tali pratiche e si era guardata bene dal circondarsi di giovani sciocche, con la sola eccezione dell'imbarazzante presenza della folle figlia Ista. Nei due viaggi che Ista aveva fatto a Cardegoss, dopo che la maledizione era stata infranta, al seguito del convoglio della Provincara, per l'incoronazione di Iselle, non aveva mancato di attirare l'attenzione dei cortigiani. Ma nei loro occhi le era sembrato di leggere non il desiderio, bensì la mera cupidigia. Volevano i favori della Royina, non l'amore di Ista. Non che lei provasse desideri, anzi non provava nulla. Comunque, e lo guardò di sottecchi, era un uomo notevole. Ancora per un'ora, poteva rimanere la modesta Ista dy Ajelo, che sognava l'amore con un bell'ufficiale. Alla fine della corsa, il sogno sarebbe finito. «Siete molto silenziosa, signora.» Ista si schiarì la gola. «La mia mente vaga. Sono intontita dalla fatica.» Non avevano ancora raggiunto la sicurezza, ma quando lo avessero fatto, s'immaginò che sarebbe crollata come un sasso. «Anche voi dovete essere stato alzato tutta la notte per preparare l'accoglienza ai jokoniani.» Lui sorrise a quelle parole: «Non ho bisogno di dormire molto, in questo periodo. Mi riposo a mezzogiorno». I suoi occhi, altrettanto indagatori, la disturbarono per la loro intensità. Sembrava che lei rappresentasse qualche profondo enigma o dilemma per lui. Alla fine fu costretta a distogliere lo sguardo, imbarazzata, e guardando in basso vide un corpo che galleggiava, spinto dalla corrente del ruscello. «Un corpo.» Fece un cenno col capo. «È lo stesso fiume che la colonna di jokoniani ha disceso, dunque?» «Sì, forma un'ansa qui...» Spinse il cavallo nell'acqua increspata, fino alla pancia, si chinò e afferrò il corpo per un braccio, trascinandolo sulla sabbia. Ista vide con sollievo che non vestiva l'azzurro della Figlia. Era un altro giovane soldato sfortunato, che adesso non sarebbe più cresciuto. L'ufficiale abbassò lo sguardo sogghignando. «Un esploratore, a quanto sembra. Sono tentato di lasciarlo andare lungo il fiume come corriere fino a Jokona. Ma ve ne saranno senza dubbio altri, più loquaci, che porteranno le notizie.» Abbandonò il corpo fradicio e spronò il cavallo. «La loro colonna doveva girare da questa parte, per evitare la roccaforte di Oby e le
difese del Castello di Porifors. Avrebbero fatto meglio a dividersi in gruppi di due o tre; nel tragitto avrebbero perso degli uomini, ma non tutti. Erano troppo tentati dalla via più breve.» «E dalla più sicura, se avessero saputo che il fiume portava a Jokona. Sembrava che avessero dei problemi a orientarsi. Non credo che fosse nei loro piani ritirarsi da questa parte.» «Sì, avremmo potuto seguire le loro tracce semplicemente dai cavalli sfiniti che hanno abbandonato.» Scosse la testa con riprovazione militaresca. Il suo elegante destriero, nonostante gli sforzi di quella mattina, appariva superbamente in forma. «Ci vuole ancora molto per arrivare al campo?» chiese Ista «Credo che questo povero cavallo non ce la faccia più.» Infatti il destriero sembrava inciampare a ogni passo. «Non vorrei che si azzoppasse ancora di più.» Un leggero sorriso affiorò sul suo volto. «Vediamo di alleviargli le sofferenze.» Spinse il suo destriero ad affiancarsi a quello di Ista, lasciò andare le redini sul garrese, protese le braccia, la sollevò dalla sella e la sistemò sul suo grembo di traverso; Ista reagì con un poco dignitoso grido di protesta. Ma lui non fece seguire a quel gesto nessun tentativo di prendersi delle confidenze; si limitò a passarle il braccio dietro le spalle per afferrare le briglie del suo cavallo. Fu invece Ista che sentendosi in precario equilibrio non esitò a cingere con le braccia il suo torace. E il contatto con quel corpo forte e rassicurante fu quasi scioccante. Non puzzava di sudore, come si era aspettata; Ista non aveva dubbi di puzzare molto di più. Anche il sangue rappreso sul suo tabarro grigio non aveva quasi odore, malgrado avesse l'impressione che attorno a lui aleggiasse un gelo di morte. Si appoggiò alla curva del braccio, lontano dalle macchie più umide, intensamente consapevole del peso delle sue cosce sulle sue. Non si rilassava tra le braccia di un uomo da... non ricordava neanche più da quanto, e non lo fece nemmeno in quel momento. Lo sfinimento non era la stessa cosa del rilassamento. A un certo punto lui appoggiò il viso sulla sua testa; Ista ebbe l'impressione che inspirasse il profumo dei suoi capelli e sentì un brivido correrle lungo la schiena. Con voce piena di sollecitudine, lui mormorò: «Badate bene, sono gentile solo col vostro cavallo». Ista gli sorrise, e sentì la tensione del corpo di lui distendersi di fronte alla rassicurazione di quella sua mezza risata. Era bellissimo immaginare di lasciarsi andare, anche solo per un momento. Fingere che la sicurezza fos-
se qualcosa che un altro poteva elargire come un dono. Sarebbe durato ancora qualche minuto; di sicuro non l'avrebbe sorretta a quel modo col braccio che brandiva la spada se non fossero stati vicini al suo accampamento. Ma, presumibilmente, nella misura in cui lei fingeva, lo faceva anche lui. Così si strinse, e si lasciò cullare, abbassando le palpebre. Tonfi di zoccoli sulla ghiaia, un grido; seppe che erano amici ancor prima di alzare lo sguardo, perché nessuna rigidità disturbò il suo abbraccio sereno. Il sogno è finito. È tempo di svegliarsi. Ista sospirò. «Mio signore!» gridò un cavaliere. Attraverso le palpebre socchiuse vide che si trattava di un soldato abbigliato con un tabarro grigio, che scendeva al trotto lungo la sponda del fiume. Subito dopo altri cavalieri con la cotta di maglia si lanciarono al galoppo e si accalcarono attorno a loro ridendo. «L'avete trovata!» disse lo stesso uomo. «Avrei dovuto saperlo.» La voce del suo salvatore era divertita e se possibile leggermente compiaciuta. «Non avresti dovuto avere dubbi.» Ista si chiese come considerassero quegli uomini il quadretto che vedevano: lei in braccio all'eroico Lord. Senza dubbio, quella sera se ne sarebbe parlato a lungo tra i soldati. In questo modo un comandante conservava il suo alone magico, e se aveva ricavato anche un certo piacere dall'aver cullato in modo garbato il suo sé esausto, bene, nessuno poteva rimproverargli neanche quello. Gli uomini gli riferirono una serie di brevi rapporti: prigionieri catturati; feriti curati o trasferiti nella città più vicina; cadaveri enumerati. «Non li abbiamo ancora presi tutti», precisò il loro comandante. «Benché cominci a dubitare dell'esattezza delle informazioni venute da Lord dy Tolnoxo. Sembra che ve ne fossero solo novanta, e non duecento come sosteneva lui.» «Ne troverete altri cinque morti lungo il fiume. Uno che ho trascinato fuori dell'acqua, a circa tre miglia da qui. Penso che sia caduto durante il primo attacco al convoglio. Altri quattro li troverete all'ingresso della gola, un miglio più in giù, dove li ho sorpresi mentre cercavano di dileguarsi con questa dama. Andate a raccogliere i corpi, i cavalli e gli equipaggiamenti, e metteteli col resto, voglio che tutto sia elencato.» Passò le briglie del cavallo di Ista a uno di loro. «Abbi cura di questa bestia... appartiene a questa dama. Porta i suoi finimenti nella mia tenda. Mi troverete lì per un po'. Dite a tutti quelli che si sono occupati di liberare i loro prigionieri di venire subito a rapporto da me. Più tardi andrò a visitare i feriti.» Ista si raddrizzò per chiedere al soldato: «C'erano degli uomini dell'Or-
dine della Figlia, tra i prigionieri dei jokoniani... sono salvi?» «Sì, ne ho visti parecchi.» «Quanti?» chiese con impazienza. «Esattamente non lo so, mia signora... ve ne sono alcuni al campo.» E con la testa indicò a monte. «Tra un attimo sarete da loro, e potrete ascoltare dalla loro viva voce il resoconto di quanto accaduto stamani», la tranquillizzò il suo salvatore. «Chi sono questi soldati?» chiese Ista. «Sono i miei, per fortuna», rispose. «Ah, le mie scuse. Nella fretta ho dimenticato di presentarmi come si deve. Arhys dy Lutez, March di Porifors, al vostro servizio, Sera. Il Castello di Porifors sorveglia i confini di Chalion, tra Jokona e Ibra, e i miei uomini svolgono egregiamente i loro compiti. Ringraziando tutti gli Dei, sono compiti resi più semplici, adesso che a Ibra regna la pace grazie alla Royina Iselle.» Ista rabbrividì al contatto della sua stretta delicata. «Dy Lutez?» ripeté sbalordita. «Siete parente di...?» Lui s'irrigidì a sua volta; la sua gioviale amabilità fu come raggelata. Ma la sua voce improvvisamente studiata rimase giocosa. «Il grande cancelliere e traditore, Arvol dy Lutez? Mio padre.» Non era uno dei due eredi di dy Lutez, figli di primo letto del cancelliere che lo avevano seguito a corte al tempo di Ista. I famosi tre bastardi riconosciuti dal cortigiano erano tutte femmine, sistemate molto tempo prima con matrimoni di convenienza. Quando Ista l'aveva conosciuto, dy Lutez aveva alle spalle già due vedovanze, ed erano passati dieci anni dalla morte della seconda moglie. Questo Arhys doveva essere un figlio della seconda moglie, allora. Quella che dy Lutez, al culmine della sua virilità, aveva abbandonato nei suoi possedimenti in campagna per poter correre dietro a Ias, a corte e sul campo di battaglia, senza impedimenti. Una ereditiera del nord, sì, Ista se la ricordava. La voce di lui s'indurì leggermente. «Vi sorprende che il figlio di un traditore serva bene Chalion?» «Niente affatto.» Lei sollevò gli occhi per seguire i lineamenti del volto, così vicino al suo. Arhys doveva avere qualcosa della madre nel mento elegante e nel naso diritto, ma l'affascinante energia dell'uomo era tutta di dy Lutez. «Era un grande uomo. Voi avete... preso qualcosa da lui.» Le sue sopracciglia s'inarcarono; girò il viso e la guardò in un modo totalmente nuovo. Ista non si era resa conto della maschera che portava, finché non era scivolata. «Veramente? Voi l'avete conosciuto? L'avete visto?»
«Come? Voi no?» «Non che io ricordi. Mia madre aveva un suo ritratto, ma non credo che fosse molto somigliante.» Si accigliò. «Quando ero abbastanza grande per essere portato a corte a Cardegoss, lui... morì. Ma... forse è stato meglio così.» L'entusiasmo si velò di nuovo, e il suo sorriso sembrò leggermente imbarazzato. Un uomo maturo di quarant'anni che evitava di dare peso al dolore provato da un giovane di venti. Ista dovette ricredersi sulla propria capacità di restare impassibile, perché quell'attimo di distrazione le si ritorse contro come un coltello nella piaga. Superata un'ansa del fiume arrivarono a un prato attorniato da alberi. L'erba era calpestata e cosparsa dei detriti di un accampamento abbandonato: fuochi di bivacco spenti ed equipaggiamenti sparpagliati ovunque. In lontananza, tra gli alberi, s'intravedeva una fila di cavalli, e degli uomini che stavano sellandoli o che fissavano i bagagli ai muli. C'erano soldati indaffarati, altri seduti, alcuni dormivano su coperte o sul nudo terreno. Le tende di alcuni ufficiali erano state collocate al riparo di un boschetto, all'estremità più lontana del prato. Una dozzina di uomini si precipitò verso dy Lutez non appena lo videro arrivare, lanciando grida di gioia, saluti e domande, sommergendolo di notizie e chiedendo ordini. Una figura familiare in azzurro correva dietro di loro. «Ah! Ah! È salva!» Gridò gioioso Ferda dy Gura. «Noi siamo salvi!» Aveva l'aria di essere stato trascinato in mezzo a dei roveti; sporco, esausto, pallido per la fatica, ma vivo e vegeto; nessuna benda, niente sangue, solo un po' zoppicante a causa di qualche graffio. Il cuore di Ista si sciolse per il sollievo. «Royina!» gridò. «Che gli Dei siano ringraziati! Sia lode alla Figlia della Primavera! Ero sicuro che i jokoniani vi avessero portata via! Ho inviato tutti quelli che ancora riescono a cavalcare con gli uomini del March di Porifors per cercarvi...» «Che ne è della nostra compagnia, Ferda... ci sono feriti?» Ista fece uno sforzo per raddrizzarsi, una mano appoggiata al braccio del March, mentre Ferda si avvicinava al suo cavallo. «Uno è stato colpito alla coscia da una quadrella degli uomini del March, uno sfortunato incidente; uno si è rotto una gamba quando il cavallo gli è caduto addosso. Li ho affidati alle cure di due uomini, in attesa che i medici finiscano coi casi più gravi. Tutti gli altri stanno bene. E adesso
anch'io, che non sono più terrorizzato di avervi perduta.» Arhys dy Lutez si era irrigidito come una pietra sotto di lei. «Royina?» echeggiò. «Questa è la Royina Vedova Ista?» Ferda alzò lo sguardo, sfoderando un ampio sorriso. «Certo, signore. Se voi siete il suo salvatore, vi bacerò le mani e i piedi! Eravamo disperati quando abbiamo visto che non era tra le donne prigioniere.» Il March fissò Ista come se davanti ai suoi occhi ci fosse una straordinaria creatura mitica. Forse è così. Quale, delle numerose versioni della morte di suo padre, per mano del Roya Ias, aveva udito? Quale menzogna riteneva vera? «Le mie scuse, March», disse Ista, con una freddezza che non provava. «Sera dy Ajelo era il nome di copertura che avevo scelto per il mio pellegrinaggio, per amore di umiltà e per motivi di sicurezza.» Non che avesse funzionato. «Ma adesso che sono stata liberata grazie al vostro coraggio, posso ritornare a essere ancora una volta Ista dy Chalion.» «Bene», commentò lui dopo un attimo. «In fondo, dy Tolnoxo non si era sbagliato proprio su tutto. Che sorpresa.» Ista lo guardò. Adesso la maschera era ridiscesa, più rigida che mai. Il March la fece scendere con molta cautela tra le braccia protese di Ferda. 9 Ista si aggrappò al braccio di Ferda mentre la scortava sul prato dell'accampamento e le faceva un resoconto eccitato della battaglia, vista da un punto avanzato della colonna. Ista non riusciva a seguire più di una frase su tre, anche se non le sfuggì che era affascinato dalle doti militari di Arhys dy Lutez. Di colpo il manto erboso oscillò davanti ai suoi occhi. Aveva la sensazione che la testa non fosse bene attaccata al corpo, e che non avesse sempre la stessa dimensione. Gli occhi le pulsavano, e le gambe... «Ferda» lo interruppe gentilmente. «Sì, Royina?» «Voglio... un pezzo di pane e una coperta.» «Questo accampamento non è un luogo dove potete riposare...» «Qualsiasi tipo di pane. Qualsiasi coperta.» «Forse riesco a trovare delle donne in grado di accudirvi, ma non sono quelle a cui siete abituata...» «La tua coperta andrà benissimo.»
«Royina, io...» «Se non mi procuri subito una coperta, mi butto per terra e mi metto a piangere. Adesso!» Questa minaccia, pronunciata con un tono di voce calmissimo, alla fine sembrò dare i suoi frutti; perlomeno, il devoto ufficiale smise di preoccuparsi di tutte le cose che riteneva lei dovesse avere, e che non c'erano, e le procurò ciò che aveva chiesto. La guidò verso le tende degli ufficiali, ne scelse una a caso, infilò dentro la testa, e la spinse all'interno. Era gremita di mercanzie e calda, e odorava di muffa, di uomini, di cuoio, cavalli e grasso per le lame e le cotte. C'era una coperta. Lei vi si sdraiò sopra così com'era, con gli stivali, gli abiti insanguinati. Ferda ritornò di lì a poco con un tozzo di pane nero che mise nella mano che lei aveva alzato con un gesto vago. Poi lo masticò sonnecchiante. Se il proprietario della tenda fosse tornato... qualcun altro si sarebbe occupato di lei. Foix non aveva dubbi che si sarebbe convinto che per lui sarebbe stato un onore custodirla e proteggerla. Prima di assopirsi, Ista pensò a Liss che era chiaramente riuscita a fuggire e a raggiungere Maradi, ma dopo, cosa aveva fatto? Aprì gli occhi impastati e guardò verso l'alto. Punti di luce filtravano attraverso il ruvido tessuto della tenda, ammiccanti, mentre una debole brezza faceva ondeggiare le foglie che la sovrastavano. Sentiva il corpo indolenzito, e la testa le doleva. Un pezzo di pane mezzo masticato era rimasto dove la mano l'aveva lasciato cadere. Era pomeriggio? In base alla luce e ai brontolii del suo stomaco, doveva essere così. Una voce femminile concitata sussurrò: «Signora? Siete sveglia?» Ista si girò su un fianco e vide che Ferda, o qualcun altro, le aveva trovato due cameriere addette al campo. Due donne dall'aria sbrigativa, e una donna con la veste verde della Madre di Accolita-medico attendevano il suo risveglio. L'Accolita le disse che era stata chiamata dal villaggio più vicino da uno dei corrieri del March. Quelle donne dimostrarono di essere molto più pratiche delle nobili dame di Valenda che in passato avevano assillato Ista con i loro servizi. I suoi indumenti erano stati recuperati e adesso stavano ammonticchiati accanto a lei, insieme ad acqua per lavarsi, bastoncini per i denti, una pomata a base di erbe, medicamenti e bende nuove. Quando Ista uscì zoppicante dalla tenda nella luce del crepuscolo, appoggiandosi al braccio dell'Accolita, si sentì, se non regale, almeno di nuovo umana.
Il campo era tranquillo; piccoli gruppi di uomini andavano e venivano impegnati nei loro incarichi. Nessun movimento che indicasse una imminente partenza, e il pensiero di non dover rimontare a cavallo le risparmiò una crisi isterica. Alcuni uomini della sua guardia, ripuliti, anche se dall'aria esausta, avevano acceso un fuoco di bivacco nel boschetto. Quando la videro, l'invitarono a sedersi con loro: per lei avevano preparato un sedile ricavato da un tronco sul quale avevano steso delle coperte ripiegate. Su quel trono improvvisato Ista osservò pigramente i loro preparativi della cena, ma nel frattempo chiese all'Accolita di fare un giro tra di loro per accertarsi se qualcuno avesse ancora bisogno di cure; per fortuna la donna ritornò subito. Poco dopo arrivò Ferda che sembrava essersi riposato, anche se era evidente che non lo aveva fatto a sufficienza. Mentre un fumo aromatico si alzava dal falò, Arhys dy Lutez arrivò a cavallo, accompagnato da una dozzina di ufficiali e di guardie. Si avvicinò e le rivolse un inchino che non sarebbe stato fuori luogo nel palazzo di un nobile a Cardegoss, e le chiese come stava e se era stata trattata convenientemente. «A Cardegoss, in estate, le dame della corte vanno spesso a fare dei picnic nei boschi per godere dei piaceri della natura», gli spiegò. «In quelle occasioni si usa cenare su un tappeto steso sotto un boschetto proprio come questo.» Lui sorrise. «Spero di poter fare di meglio per voi, quanto prima. Ho ancora alcune questioni da seguire, e rapporti da inviare al mio Lord, il Provincar di Caribastos. Ma entro domattina la nostra strada dovrebbe essere sicura e libera dai jokoniani. Sarà un onore per me offrirvi l'ospitalità del castello di Porifors, finché non vi sarete ripresa e i vostri uomini si saranno riposati. Poi, vi assegnerò una scorta che vi accompagnerà ovunque desideriate andare.» Le sue labbra s'incresparono, mentre valutava quell'invito, e Ista percepì il peso premuroso del suo sguardo. «Il castello di Porifors è vicino?» gli chiese. «Non molto, ma è la fortezza più sicura. Ci sono villaggi e città più vicini, ma le loro mura sono deboli e, francamente, sono luoghi troppo umili per voi. Inoltre...» un sorriso gli sfiorò le labbra, un lampo di fascino e di calore, «è la mia casa e sarò orgoglioso di mostrarvela.» Ista ignorò il proprio cuore che si stava sciogliendo come neve al sole. Quell'invito significava stare ancora con lui, parlare e... questo a cosa avrebbe portato?
Notò che Ferda la stava osservando. Il giovane ufficiale emise un sospiro di soddisfazione quando Ista rispose: «Grazie, mio signore. Accettiamo con piacere la vostra ospitalità». E dopo un attimo aggiunse: «Forse i membri della nostra compagnia ancora dispersi potranno trovarci lì, se ci fermeremo per un po'. Quando scriverete a dy Caribastos, chiedetegli di diffondere la voce che li stiamo cercando, e che vengano senza indugio al castello, se... quando... verranno trovati». «Certamente, Royina.» Ferda le sussurrò: «E quando voi sarete al sicuro nella fortezza, potrò andare anch'io a cercarli». «Forse», mormorò lei di rimando. «Prima di tutto, arriviamoci.» Il March indugiò accanto al fuoco, mentre il sole tramontava e i servitori, impegnati più del dovuto dalla presenza regale di Ista, prepararono un pasto incredibilmente vario, vista la situazione. Ista non sapeva che fosse possibile cuocere il pane con erbe, aglio e cipolle, in un tegame sopra un fuoco all'aperto. Arhys rifiutò il cibo, dicendo che aveva già mangiato, ma accettò una tazza di vino annacquato o, meglio, di acqua spruzzata con una goccia di vino. Ben presto il cavaliere chiese congedo e più tardi Ista poté vedere la sua ombra riflessa sulla tenda dalla luce delle candele, mentre scriveva qualche rapporto che rapidi corrieri avrebbero recapitato. A un certo punto vide che uno degli ufficiali contabili jokoniani veniva scortato all'interno per un lungo interrogatorio. Quando Ista si ritirò nella sua tenda, che nel frattempo era stata liberata dalle cose del proprietario e cosparsa di erbe aromatiche, Arhys lavorava ancora e le luci della sua tenda brillavano come una lanterna nella notte. Al mattino, la partenza venne ritardata dalle delegazioni della città dove Arhys aveva mandato i prigionieri jokoniani, ma alla fine le tende furono smontate. A Ista venne dato un cavallo riposato, un bel castrato bianco, con tanto di sella e finimenti che qualche ora prima un soldato aveva cavalcato per calmarlo ed essere sicuro che fosse adatto a una dama. Una dama stanca e non più giovane. «È una buona bestia, Royina», disse il giovane soldato, inchinando la testa in segno di rispetto. «L'ho scelto io stesso perché il nostro maestro di scuderia si è ammalato. Ma quando torneremo a Porifors, spero che potrà riprendere le sue funzioni.» «Sono certa che sarà così.»
La compagnia risalì a fatica la vallata dove scorreva il fiume e si addentrò nella campagna arida. Era composta da quaranta uomini a cavallo nei tabarri grigi di Porifors che cavalcavano in testa, davanti a Ista e alla sua ridotta scorta, poi seguiva un lungo convoglio di muli e di servi, protetto da una retroguardia di un'altra ventina di uomini. Gli esploratori andavano e venivano, davanti e lungo i lati del convoglio, per scambiare brevi ma, all'apparenza, rassicuranti rapporti con gli attenti ufficiali di Arhys. Avanzarono a passo costante nella calda mattinata. Alla fine, quando Arhys riuscì a liberarsi dalle sue incombenze, andò a mettersi al fianco di Ista. Era di buonumore, adesso che il suo piccolo esercito era diretto verso casa. «Royina. Spero che abbiate dormito bene, e che quest'ultima cavalcata sia sopportabile.» «Sì, se andiamo di questo passo ce la farò. Ma non chiedetemi di andare al trotto.» Lui ridacchiò. «Nessuno vi chiederà tanto. Ci fermeremo per una pausa a mezzogiorno, e arriveremo a Porifors in tempo per una cena decisamente migliore di quella che sono riuscito a offrirvi ieri sera.» «Allora non vedo l'ora di arrivare.» Quella frase di cortesia scaturì automaticamente dalla sua bocca. Ma dalla tensione del suo sorriso, Ista capì che voleva qualcosa di più di uno scambio di battute cortesi. «Sento di dovermi scusare per non avervi riconosciuta ieri», continuò. «Il corriere di Tolnoxo che ci ha avvisati dell'arrivo del contingente nemico, riferendoci che avevano dei prigionieri di rango, ma i suoi rapporti erano confusi e poco credibili. Tuttavia, quando ho visto gli ufficiali jokoniani che vi portavano via in fretta e furia ho pensato che la sua storia fosse vera. Poi il nome che avevate assunto mi ha confuso.» «Non mi dovete alcuna scusa.» «Niente affatto. Però... non avrei mai immaginato d'incontrarvi. In carne e ossa.» «Devo dire che sono molto felice che lo abbiate fatto. Altrimenti a quest'ora mi troverei a Jokona.» Lui sorrise appena, poi diede un'occhiata infastidita a Ferda che cavalcava al fianco di Ista con l'aria soddisfatta per aver udito quel colloquio tanto nobile. Ista colse il significato di quell'occhiata e fece cenno a Ferda di allontanarsi. «Mio buon devoto, lasciateci per un po'.» Con uno sguardo deluso, Ferda tirò le redini e arretrò. Lei e Arhys pro-
seguirono fianco a fianco, un cavallo bianchissimo e uno grigio fumo; un quadro elegante e un giusto equilibrio tra riservatezza e rispettabilità. Sentì una fitta di nostalgia per Liss, e si chiese dove fosse in quel momento. Arhys la osservava con occhi leggermente socchiusi, come se stesse contemplando un enigma. «Avrei dovuto capirlo subito. Ho percepito in voi una sorta di solennità fin dal primo momento in cui vi ho vista.» Se era un delicato corteggiamento, era troppo stanca per affrontarlo; se si trattava di qualcos'altro... era ancora più stanca. Alla fine riuscì a dire: «Che idea vi eravate fatto di me?» Fece un gesto vago. «Più alta. Occhi di un azzurro più intenso. Capelli più chiari... dorati come il miele, dicono i poeti di corte.» «I poeti di corte sono pagati per mentire spudoratamente; ma è vero, erano più chiari quando ero giovane. Gli occhi invece sono gli stessi. E adesso vedono meglio, forse.» «Non mi immaginavo occhi del colore della pioggia d'inverno, né capelli della sfumatura dei campi invernali. Forse è stato il vostro lungo dolore a cambiarvi.» «No, sono sempre stata scialba», buttò lì. Lui non rise. Sarebbe stato d'aiuto. «Ve lo garantisco, l'età non ha migliorato nulla, tranne la mia comprensione.» E anche su questa avrei dei dubbi. «Royina... se ve la sentite, potreste dirmi qualcosa di mio padre?» Ecco, lo sapevo che tutto questo interesse non era solo per i miei occhi tristi del colore della pioggia. «Cosa resta da dire che già non sia risaputo? Arvol dy Lutez eccelleva in tutto ciò che faceva. Spada, cavallo, musica, poesia, guerra, l'arte di governare... Se la sua genialità aveva qualche pecca, questa stava nella sua versatilità...» S'interruppe, ma il pensiero proseguì. I numerosi grandi esordi di dy Lutez, si rese conto in quel momento, non corrispondevano ad altrettante grandi conclusioni. «Comunque era la delizia di ogni sguardo che si posava su di lui.» Eccetto il mio. Arhys abbassò gli occhi verso il suo cavallo. «Voi non siete scialba», disse dopo un attimo. «Ho visto donne molto più belle, ma nessuna di esse è mai riuscita a catturare il mio sguardo come sapete fare voi... Non so come spiegarlo.» Un corteggiatore galante non avrebbe mai commesso l'errore di ammettere l'esistenza di donne più belle di quella con cui stava discorrendo, ma avrebbe continuato dilungandosi in spiegazioni poetiche. Il mero corteggiamento poteva essere congedato con un sorriso. Le osservazioni di Arhys erano decisamente più inquietanti, se prese sul serio.
«Comincio a capire perché mio padre abbia rischiato la propria vita per il vostro amore», continuò. Ista, con rammarico, non riuscì a trattenersi dall'urlare. «Lord Arhys, adesso basta.» Lui le scoccò un'occhiata sorpresa. «Royina?» «Vedo che i pettegolezzi sono giunti fino a Caribastos. Ma non c'è stata alcuna lacuna nei suoi gusti, peraltro squisiti, che li giustifichino, perché Arvol dy Lutez non è mai stato il mio amante.» Preso totalmente alla sprovvista, Arhys assimilò per un attimo le sue parole. Alla fine azzardò con cautela: «Suppongo che... adesso non abbiate motivo di non dire la verità». «Ho sempre detto la verità. Io non ho nulla a che vedere con le voci e le calunnie che sono state fatte circolare. Io sono quasi sempre rimasta in silenzio.» E per questo sono meno colpevole? Difficile. La sua fronte si corrugò mentre elaborava il tutto. «Il Roya Ias non ha creduto alle vostre proteste d'innocenza?» Ista si sfregò le sopracciglia. «Vedo che è necessario fare qualche passo indietro. In tutti questi anni quale pensate sia stata la verità di quegli eventi fatali?» Lui si accigliò, a disagio. «Ho creduto che... sono giunto alla conclusione che... mio padre sia stato torturato per confessare il peccato di avervi amata. E quando, per proteggere voi o il suo onore, non ha voluto parlare, gli inquisitori hanno esagerato nella loro durezza, e forse è proprio a causa di questo che è morto nelle segrete dello Zangre. Le imputazioni di peculato e di tradimento, per aver tramato in segreto col Roya di Brajar, sono state sollevate in un secondo tempo, per mascherare il senso di colpa di Ias. Ne è una prova il fatto che i possedimenti di dy Lutez invece di essere confiscati, come succede nel caso dei veri traditori, sono stati assegnati ai suoi eredi.» «Siete sagace», osservò Ista. E almeno per tre quarti preciso. Gli mancava solo la parte segreta degli eventi. «Dy Lutez aveva sicuramente quel coraggio. La vostra è una buona versione, forse migliore di tante altre.» Le scoccò un rapido sguardo. «Se vi ho offesa, signora, vi supplico di perdonarmi.» Ista cercò di controllare meglio il tono della voce. Voleva disperatamente che sapesse che non era stata l'amante del padre. E perché? Che importanza aveva ormai? L'idea che si era fatto di dy Lutez, il padre che per quanto ne sapeva lei lo aveva ignorato completamente, era nobile e roman-
tica, e perché mai avrebbe dovuto togliergli quell'unico legame affettivo proprio adesso? Con la coda dell'occhio studiò quella figura alta e possente. Be', quella domanda aveva già una risposta, giusto? Non aveva senso sostituire la brillante menzogna di Arhys con un'altra menzogna. Ma spiegare la verità, in tutta la sua oscura complessità, e complicità, difficilmente avrebbe fatto fare dei progressi al suo segreto sogno d'amore. Forse, quando lo avesse conosciuto meglio, avrebbe osato raccontargli tutto. Cosa? Che suo padre è stato annegato per mio ordine? Quanto profondamente dovrò conoscerlo per svelargli una cosa del genere? Ista fece un lungo respiro. «Vostro padre non era un traditore. È stato l'uomo più coraggioso e nobile che abbia mai servito Chalion. Ciò che lo ha spezzato è stato un compito che superava ogni coraggio umano.» Fallimento, nel momento cruciale. Un fallimento non era un tradimento, anche se le macerie che aveva lasciato dietro di sé non erano meno terrificanti. «Signora, voi mi sbalordite.» I suoi nervi cedettero. Come fece dy Lutez, ahimè? «È un segreto di Stato, e Ias morì prima di liberarmi dal giuramento del silenzio. Promisi che mai ne avrei parlato ad anima viva. Non posso dire altro, eccetto assicurarvi che non dovete vergognarvi di portare il nome di vostro padre.» «Oh», esclamò, facendosi pensieroso. «Un segreto di Stato. Oh!» E il poveretto ci credeva, per gli Dei. Avrebbe avuto voglia di mettersi a urlare. Dei, perché mi avete portata qui? Non sono già stata punita abbastanza? La cosa vi diverte? Parlò con una leggerezza che non provava. «Ma basta parlare del passato. Parlatemi del presente. Ditemi di voi.» Era uno stratagemma che sarebbe bastato per il resto del viaggio; così avrebbe dovuto riscuotersi giusto ogni tanto per mostrare il proprio interesse con qualche commento, ammesso che non si trattasse di banalità com'era abituata a sentire dalla maggior parte dei cortigiani che aveva conosciuto. Lui scrollò le spalle. «Non c'è molto da dire. Sono nato in questa provincia, e ho vissuto qui tutta la mia vita, e sono impegnato nella sua difesa da quand'ero ragazzo. Mia madre morì quando noi... quando avevo circa dodici anni. Sono stato cresciuto dal suo fedele... da altri parenti, ed educato all'arte militare per necessità. Ho ereditato Porifors da mia madre, e mi è stato confermato dal Provincar quando ho raggiunto la maggiore età. I grandi possedimenti di mio padre andarono perlopiù alla sua prima fami-
glia, anche se alcune proprietà qui a Caribastos mi sono state assegnate per pura logica; credo che vi siano state delle trattative tra gli esecutori testamentari, ma a quel tempo avvenne tutto a mia insaputa.» E si zittì. Finito, a quanto pareva. Suo padre, brillante narratore qual era, sarebbe riuscito a tenere avvinta un'intera tavolata per tutta la sera con un incoraggiamento minore. Arhys lasciò vagare lo sguardo, socchiudendo gli occhi nella luce tagliente, poi aggiunse: «Amo questa terra, e saprei riconoscerne ogni miglio». Ista seguì il suo sguardo. Le montagne erano scomparse per lasciare posto a un'ampia campagna ondulata, che si apriva al cielo luminoso. Faceva abbastanza caldo per gli uliveti, che con le loro ampie chiome lucenti verde-argento punteggiavano i lunghi pendii. Alcuni villaggi fortificati si stagliavano in lontananza come balocchi indorati dalla luce, attorno ai quali coppie di buoi aravano le distanti vallate. Una grande ruota scricchiolava spinta da un corso d'acqua, sollevando miriadi di goccioline che avrebbero irrigato gli orti e i filari di vigne ricamati sui terreni più bassi e fertili. Lungo le alture, le grigie ossa del mondo spuntavano dal suolo più tenero, crogiolandosi al sole come vecchi sulla panca di una piazza. Credo che dal tuo racconto tu abbia omesso anche qualche difficile cambiamento. Ma quell'ultima osservazione aveva il peso e l'intensità di una verità troppo grande. Come poteva un uomo, che cambiava maschera come un giocatore, nascondere le proprie intenzioni, per poi lasciare con noncuranza il proprio cuore sul tavolo, completamente incustodito, perché tutti potessero osservarlo? Si avvicinò un esploratore che rivolse al suo comandante un saluto deferente. Arhys si appartò un attimo per conferire con lui, poi guardò il sole sbattendo gli occhi e si accigliò. «Royina, devo occuparmi di alcune cose. Spero di avere di nuovo il piacere di stare in vostra compagnia.» Con un solenne cenno del capo si allontanò. Ferda le si affiancò di nuovo, sorridendo con una curiosità ben celata. Nel giro di qualche minuto, alcuni muli da soma e dei servi vennero fatti passare avanti, scortati da una mezza dozzina di uomini armati. Dopo poche miglia, la strada curvò in una lunga valle stretta, dove alberi e vigneti le conferivano sfumature verdi e argento. Lì sorgeva un villaggio fortificato addossato a un piccolo corso d'acqua. Nell'uliveto vicino al torrente, i servi erano impegnati a montare un paio di
tende, accendere un fuoco e sistemare le vivande. Lord Arhys, Ista, la compagnia di Ferda e circa una dozzina di guardie si addentrarono nell'uliveto, mentre il resto del convoglio dei bagagli e dei soldati proseguì. Ista sorrise con gratitudine quando Ferda l'aiutò a smontare dal suo cavallo bianco che un giovane soldato portò ad abbeverarsi, mentre Ferda l'accompagnava a ripararsi sotto l'ombra di un antico ulivo dov'era stato preparato un tavolo. Le avevano anche allestito un sedile con selle, tappeti e coperte ripiegate, abbastanza morbido da alleviare le sue stanche membra. Lord Arhys in persona le portò un boccale di vino annacquato, e lui ne bevve un altro, più acqua che vino anche questa volta. «Royina, devo riposare un po'. La mia gente sarà lieta di esaudire ogni vostro desiderio. L'altra tenda è per voi, qualora vogliate ritirarvi.» «Oh, grazie. Questa piacevole ombra andrà benissimo per il momento.» Erano entrambe modeste tende da ufficiali, veloci da montare e smontare; la tenda del comando, più grande, evidentemente era stata spedita col convoglio dei bagagli. Lui si inchinò e si ritirò nella sua tenda. Non c'era da meravigliarsi che volesse approfittare di quell'ora di quiete se, come Ista sospettava, era rimasto alzato per due notti consecutive. Il suo servo lo seguì, e riemerse qualche minuto dopo, mettendosi a sedere a gambe incrociate davanti all'ingresso. L'Accolita, diventata momentaneamente la sua cameriera, s'informò se avesse bisogno di qualcosa, poi si sistemò accanto a lei sotto l'ombra; Ista la incoraggiò a chiacchierare amabilmente, apprendendo in quel modo molte cose della vita del villaggio. I servitori le portarono il pasto, osservandola ansiosi mentre lo consumava, e mostrandosi poi sollevati e felici quando lei sorrise e li ringraziò. Il villaggio era troppo piccolo per sostenere un Tempio, tuttavia, informati che un santuario dedicato proprio alla Figlia si trovava nella piazza del villaggio, accanto alla fontana, Ferda e i suoi uomini si allontanarono dopo pranzo per rendere grazie di essere stati liberati. Ista li lasciò andare volentieri, ma lei non sentiva il bisogno di trovare un luogo speciale dove cercare gli Dei che già la incalzavano da ogni parte e a tutte le ore. Semmai, sarebbe valsa la pena di fare un pellegrinaggio in un luogo dove non vi fossero. Si assopì in quella quiete soleggiata. L'Accolita si rannicchiò sulle coperte accanto a lei e si addormentò. Il suo respiro era quasi signorile, più simile alle fusa di un gatto.
Ista risistemò una coperta e si appoggiò contro l'albero. Il tronco nodoso doveva avere almeno cinquecento anni. Il villaggio era altrettanto vecchio? Così sembrava. Probabilmente aveva visto il dominio di dinastie di chalionesi, ibrani, principati roknari, di nuovo chalionesi... i suoi padroni erano passati come maree su una spiaggia, eppure era ancora lì, e lì sarebbe rimasto. Per la prima volta da giorni, Ista percepì che il proprio corpo iniziava veramente a rilassarsi, perciò lasciò che le si chiudessero gli occhi, solo per un po'. I suoi pensieri divennero informi, sospinti sulla soglia dei sogni. Qualcosa in merito a una corsa attorno al castello di Valenda, o forse lo Zangre, e una discussione su abiti che non andavano bene. Uccelli che volavano. Una camera in un castello, illuminata dalle candele. Sognò il volto di Arhys, deformato dallo sgomento con la bocca aperta in una muta esclamazione di stupore, le mani protese per l'orrore mentre inciampava in avanti. Questi emise un verso rauco, tra un grugnito e un grido, che si levò in un lamento di dolore. Ista si svegliò di soprassalto, con quel grido che ancora le risuonava nelle orecchie. Si raddrizzò, guardandosi attorno, col cuore che martellava. L'Accolita dormiva. Alcuni uomini stavano giocando a carte all'ombra del boschetto vicino. Altri dormivano. Nessuno sembrava aver udito quel suono; nessuna testa si voltò verso la tenda di Arhys. Era un sogno... giusto? Eppure era troppo intenso, troppo chiaro; si stagliava dai vagheggiamenti della mente che l'avevano preceduto come un masso nell'acqua. Si costrinse ad appoggiarsi di nuovo, ma il senso di pace non ritornò. Aveva l'impressione di avere delle bende strette attorno al petto, che le impedivano di respirare a fondo. Silenziosamente si alzò. In quel momento nessuno la stava guardando. Superò rapida le poche iarde soleggiate che separavano il suo albero da quello successivo, e fu di nuovo protetta dall'ombra. Si fermò davanti all'ingresso della tenda che adesso con era più custodito dalla guardia. Se Arhys stava dormendo, che scusa avrebbe inventato per svegliarlo? Se invece era sveglio e, diciamo, vestito, per quale motivo interrompere la sua intimità? Devo sapere. Ista sollevò il lembo della tenda ed entrò, lasciando che gli occhi si abituassero alla penombra. Il tessuto chiaro, abbastanza fine da consentirle di vedere le ombre sottili delle foglie degli ulivi che ondeggiavano al di sopra, era illuminato dalla luce esterna, che filtrava anche attraverso miriadi
di forellini. «Lord Arhys? Lord Arhys, io...» Il suo bisbiglio si spense. La tunica e gli stivali di Arhys erano ripiegati su una coperta alla sua destra. Lui giaceva supino su una branda bassa, coperto solo da un leggero lenzuolo di lino. Aveva un nastro intrecciato grigio e nero, legato attorno all'avambraccio, a indicare qualche voto al Padre dell'Inverno. Lui era immobile con gli occhi chiusi, l'incarnato pallido e traslucido come cera. Sul petto, sul tessuto di lino, c'era una macchia rossa. Il respiro le si arrestò in gola e soffocò un grido. Cadde in ginocchio accanto alla branda. Per i cinque Dei, lo hanno assassinato! Ma come? Nessuno era entrato in quella tenda da quando ne era uscito il servo. Il servo aveva forse tradito il proprio padrone? Era una spia roknari? La sua mano tremante scostò il lenzuolo. La ferita si apriva come una piccola bocca scura. Il sangue stillava lentamente. L'impronta di una pugnalata, forse, mirata al cuore. È ancora vivo? Premette la mano sulla ferita alla ricerca disperata di un battito o un fremito che indicasse che il suo cuore batteva ancora. Non riuscì a capire. Osava appoggiare l'orecchio al suo petto? Nell'occhio della mente le balenò come un lampo il ricordo spaventoso dell'uomo alto e magro veduto in sogno, della rossa marea di sangue che sgorgava impetuosa tra le sue dita. Allontanò di scatto la mano. Ho già visto questa ferita. Riusciva a sentire le sue pulsazioni accelerate batterle sul collo, martellarle nelle orecchie. Era proprio quella la ferita del sogno, avrebbe potuto giurarlo, esatta in ogni particolare. Ma si trovava sull'uomo sbagliato. Dei, Dei, Dei, cos'è questo orrore? Mentre guardava, le labbra dell'uomo si schiusero. Il petto nudo si sollevò in una lunga inspirazione. A partire dai bordi, la ferita lentamente si richiuse, la fessura scura impallidì, si restrinse. Di lì a un attimo, non fu che una cicatrice rosa circondata da una screziatura più rossiccia che si stava seccando. Ista si rialzò in fretta e furia, con la mano destra serrata attorno al liquido appiccicoso. Trattenendo il respiro uscì a grandi passi dalla tenda con il volto pallidissimo. Con la testa che le girava si portò velocemente sul retro della tenda, nascondendosi tra questa e il grande tronco dell'ulivo, per riprendere fiato. Sentì la branda cigolare, dei movimenti, un sospiro. Aprì la mano destra e fissò la macchia di sangue sul palmo. Non capisco.
Dopo un paio di minuti sentì di poter camminare di nuovo senza inciampare, respirare senza urlare, e assunse un'espressione impassibile. Ritornò al suo posto e si lasciò cadere. L'Accolita si stirò e si mise a sedere. «Royina? Oh, è già ora di rimettersi in viaggio?» «Penso di sì», rispose Ista. La sua voce, notò con piacere, uscì senza tremori o note stridule. «Lord Arhys si è svegliato... vedo.» L'uomo uscì dalla tenda. Aveva già calzato gli stivali. Si raddrizzò, mentre le dita chiudevano l'ultimo alamaro della tunica. La sua tunica pulita, intatta. Si stiracchiò, si grattò la barba, quindi si guardò attorno sorridendo: era l'immagine di un uomo appena risvegliatosi da un riposante pisolino pomeridiano. Il suo servo arrivò di corsa, per aiutarlo a infilare il tabarro e la cintura a bandoliera con la spada. L'uomo, molto più basso di lui, gli porse anche una sopravveste di lino grigio chiaro, con elaborati ricami in filo dorato sui bordi, e gliela sistemò di modo che cadesse morbida attorno ai polpacci. Un paio di ordini pronunciati pigramente misero in moto i suoi uomini per prepararsi a partire. L'Accolita si alzò per raccogliere le sue cose e metterle nelle sacche. Mentre Ferda passava, diretto verso i cavalli, Ista lo chiamò a bassa voce, e senza guardarlo in viso, e con un tono di voce studiatamente neutro, gli disse: «Ferda. Guarda la mia mano destra e dimmi cosa vedi». «Sangue! Mia signora, vi siete ferita? Chiamo l'Accolita...» «Grazie, non sono ferita. Volevo solo sapere... se vedevi ciò che vedo io. È tutto. Fai finta di nulla, per favore.» Si pulì la mano sulle coperte e protese l'altro braccio per farsi aiutare ad alzarsi. Dopo un attimo aggiunse: «Non farne parola con nessuno». Lui la guardò sorpreso, ma si limitò a salutarla e a proseguire per la sua strada. La seconda parte del viaggio fu molto più breve di quanto Ista avesse immaginato, solo cinque miglia o poco più per superare un'altra altura e attraversare un corso d'acqua un po' più ampio. La strada continuò tortuosa per qualche tempo, inclinandosi lungo il ripido pendio, per poi correre parallela al fiumiciattolo. Arhys percorreva in su e in giù la colonna, ma verso la fine si affiancò a Ista e a Ferda. «Guardate laggiù.» E indicò più avanti, con un gesto della mano. «È il castello di Porifors.» Un altro villaggio fortificato, molto più grande del precedente, sorgeva vicino al fiume, ai piedi di un'alta sporgenza rocciosa. Lungo la sommità, in posizione dominante sulla vallata, si stagliava una fila irregolare di mura
rettangolari, interrotte di tanto in tanto da torri rotonde. Le mura, punteggiate di saettiere e sormontate da merlature, erano in pietra finemente tagliata con lavorazioni geometriche che rivelavano che si trattava di una delle migliori opere murarie dei roknari, risalente ad alcune generazioni prima, quando la fortezza era stata costruita per proteggere Jokona da Chalion e Ibra. Il volto di Arhys per un attimo conservò una strana espressione, come se stesse assorbendo quella veduta, al tempo stesso impaziente e teso. E per una frazione di secondo sembrò affaticato oltre misura. Ma poi si girò verso Ista con un largo sorriso. «Venite, Royina! Siamo quasi arrivati.» Il convoglio dei bagagli si fermò al villaggio, così come la maggior parte dei soldati. Arhys condusse quel che restava del contingente e gli uomini di Ferda in fila indiana oltre le mura più basse e su per un viottolo che risaliva sinuoso la china. Cespugli verdi erano aggrappati vertiginosamente alle rocce, con radici simili ad artigli. I fianchi dei cavalli si gonfiavano e si flettevano, mentre si arrampicavano su quell'ultima pendenza mozzafiato. Grida di benvenuto risuonavano dall'alto, e riecheggiavano tra i massi. Se fossero stati nemici, frecce e pietre sarebbero cadute sulla loro testa altrettanto prontamente. La colonna si avvicinò a un ponte levatoio abbassato su una vertiginosa fenditura naturale nella roccia, che aggiungeva un'altra ventina di piedi all'altezza delle mura. Arhys, che adesso era in testa al suo contingente, rispose ai saluti, poi spronò il cavallo al piccolo galoppo e superò l'arcata con un rumore simile al rullio di un tamburo. Ista lo seguì a un'andatura più tranquilla, per ritrovarsi in quello che sembrò improvvisamente un altro mondo, una specie di giardino impazzito. Il cortile d'ingresso, di forma rettangolare, era circondato di grandi vasi di fiori e di piante grasse. Un muro traforato, ricoperto da altri vasi, assicurati ad anelli di ferro lavorato, era un'esplosione di colori: porpora, bianco, rosso, azzurro, fucsia, con edere verdi che scendevano lungo la severa pallida pietra. Un secondo muro ostentava un albicocco, diventato enorme lungo la spalliera che lo sorreggeva e che s'intrecciava a un mandorlo altrettanto vecchio, entrambi in fiore. In fondo al cortile, un porticato costituito da armoniche colonne di pietra sorreggeva un altro porticato. Una scalinata scolpita in modo delicato scendeva come una cascata di bianco alabastro nel cortile. Una giovane donna, il volto luminoso di gioia, scese quasi volando. I suoi neri capelli erano raccolti in trecce sulle tempie, e contornavano i li-
neamenti avorio soffusi di rosa, ma sulle spalle erano sciolti e le ricadevano come morbida seta. Leggeri indumenti di lino abbellivano il suo corpo snello e una veste di seta, di un verde pallido, con ampie maniche bordate d'oro, le fluttuava attorno, gonfiandosi come una vela mentre scendeva. Arhys saltò giù dal suo cavallo e lanciò le briglie allo stalliere appena in tempo per aprire le braccia e accogliere l'abbraccio frenetico e fragrante di lei. «Mio signore, mio signore! Che i cinque Dei siano ringraziati, siete tornato sano e salvo!» Un soldato che si era avvicinato al cavallo di Ista per aiutarla a smontare, girò la testa per osservare quella scena con una palese invidia negli occhi, anche se un po' divertito. «Che giovane incredibilmente bella», osservò Ista. «Non mi ero resa conto che Lord Arhys avesse una figlia.» Il soldato si girò verso di lei e si affrettò a tenerle la staffa. «Oh, la figlia del mio signore non vive qui, Royina...» Riuscì a smontare dalla sella restando in piedi, mentre Arhys si avvicinava a grandi passi, con la giovane donna stretta al suo braccio. «Royina Ista», disse Arhys senza fiato per l'orgoglio e un lungo bacio. «Posso avere il piacere e l'onore di presentarvi mia moglie, Cattilara dy Lutez, Marchess di Porifors?» La giovane dai capelli neri si abbassò facendo una riverenza di straordinaria grazia. «Royina Vedova. La mia casa è onorata oltre ogni misura dalla vostra presenza. Farò tutto il possibile per rendere il vostro soggiorno un piacere memorabile.» «Che i cinque Dei vi concedano una buona giornata, Signora di Porifors», disse Ista con voce strozzata. «Non dubito che lo farete.» 10 Affiancata da due dame di compagnia sorridenti, la giovane Marchess fece strada a Ista: superarono un fresco portico ombreggiato, per poi entrare in un altro cortile interno. Ferda e l'Accolita medico seguivano con una certa titubanza, finché Lord Arhys fece loro cenno di venire avanti. Il cortile era abbellito da una piccola vasca d'acqua cristallina a forma di stella, e da altri vasi di piante grasse e di fiori. Lady Cattilara li precedette su per le scale che conducevano al secondo piano e si fermò ad attendere, osservando preoccupata l'Accolita mentre aiutava Ista che faticava a salire i gradini a causa delle gambe piagate. Ferda si affrettò a porgerle il braccio che Ista
accettò con una smorfia che esprimeva gratitudine e al tempo stesso irritazione. I loro passi echeggiarono sul pavimento di legno diretti verso un angolo dove s'intravedeva una bassa torre, finché Lord Arhys non si fermò bruscamente. «Catti, no! Queste camere no di sicuro!» Lady Cattilara si fermò davanti a una doppia porta intarsiata che la sua cameriera aveva appena aperto, e rivolse un sorriso incerto ad Arhys. «Mio signore? Queste sono le stanze migliori della casa... non possiamo offrire di meno alla Royina Vedova!» Arhys si avvicinò alla moglie e abbassando la voce, a denti stretti sibilò: «Abbi un po' di buonsenso!» «Ma sono state pulite e preparate per lei...» «No, Catti!» La donna lo guardò confusa. «Mi... mi dispiace, mio signore. Io... io penserò a un'altra soluzione.» «Sì, fallo, per favore», rispose in tono brusco. Sembrava esasperato, ma con uno sforzo, si ricompose. Lady Cattilara si girò, con un sorriso teso. «Royina Vedova. Volete... venire nelle mie stanze per riposare e rinfrescarvi prima della cena? Da questa parte...» Tutti ritornarono sui propri passi, diretti verso una fila di porte all'estremità opposta del porticato. Per un breve istante, Ista si ritrovò accanto ad Arhys. «Qual è il problema con quelle camere?» chiese. «Il tetto perde», bofonchiò lui dopo un attimo. Ista lanciò uno sguardo al cielo azzurro. «Oh!» Disse. Gli uomini non potevano accedere in quell'ala del castello. «Porto le vostre cose qui, Royina?» chiese Ferda. Ista guardò Arhys con aria interrogativa. «Sì», rispose, trovando quest'altra sistemazione apparentemente accettabile. «Poi venite con me, dy Gura, vi mostrerò i vostri alloggi e quelli dei vostri uomini.» «Sì, mio signore. Grazie.» Ferda si accomiatò da Ista e seguì Arhys giù per le scale. Ista entrò nella camera dopo la dama di compagnia, che si era fermata per tenerle la porta aperta. La donna sorrise e fece un inchino. Ista provò subito una sensazione di conforto per essere finalmente arrivata in quelli che erano ovviamente gli alloggi privati di una donna. Una
luce soffusa filtrava attraverso elaborate grate alle finestre, alte e strette. Arazzi e vasi di fiori recisi posti agli angoli della stanza davano allegria alle austere pareti imbiancate a calce. Una porta, chiusa, dava accesso a una camera adiacente, e Ista si chiese se fosse quella di Arhys. Le pareti erano ingombre di cassapanche, scolpite, intarsiate o cerchiate di ferro. Le dame di Cattilara si affrettarono a riordinare evidenti segni di disordine, poi misero un cuscino di piume su una delle panche perché la Royina potesse sedersi. Ista guardò oltre le grate che davano sul tetto di un'altra corte interna, e accomodò il corpo dolorante con molta cautela. «Che bella stanza», osservò, per alleviare l'ovvio imbarazzo di Lady Cattilara che si era vista invadere così all'improvviso il proprio rifugio. Il sorriso di Cattilara era pieno di gratitudine. «La mia casa è ansiosa di onorarvi alla propria tavola, ma ho pensato che forse avreste innanzitutto desiderato lavarvi e riposarvi.» «Sì, proprio così», confermò Ista con un certo fervore nella voce. L'Accolita rivolse un inchino alla castellana, e disse in tono fermo. «E, per favore, signora, la Royina ha anche bisogno di cambiare le bende.» Cattilara sbatté gli occhi. «Siete ferita? Il mio signore non ne ha fatto parola nella sua lettera...» «Qualche graffio di poco conto. Ma sì, prima di tutto, una rinfrescata e un po' di riposo.» Tuttavia Ista non aveva intenzione di sottovalutare le sue ferite che avrebbero potuto infettarsi. Lady Cattilara impartì subito ordini alle proprie dame e cameriere perché provvedessero al necessario. Vennero offerti tè, frutta secca e pane; vennero portate bacinelle, una tinozza da bagno e acqua. L'Accolita e le dame di Cattilara non si occuparono solo del corpo di Ista, ma le lavarono anche i capelli. Quando queste gradite abluzioni furono terminate, la padrona fece portare una quantità incredibile d'indumenti perché Ista potesse scegliere, poi Cattilara aprì i suoi cofanetti di gioielli. «Il mio signore ha detto che i jokoniani vi hanno portato via tutti i vostri averi», disse Cattilara ansimando. «Vi prego di accettare quel che di mio può esservi di gradimento.» «Dato che lo scopo del mio viaggio era un pellegrinaggio, non avevo molto con me, quindi è stata una perdita di poco conto», spiegò Ista. «Gli Dei hanno risparmiato me e i miei uomini; a tutto il resto si può porre rimedio.» «Dev'essere stata un'esperienza terribile», commentò Cattilara. Era trasalita per la costernazione quando l'Accolita aveva scoperto le lesioni sulle
ginocchia di Ista. «I jokoniani hanno avuto la peggio, alla fine, grazie al vostro signore e ai suoi uomini.» Cattilara s'illuminò d'orgoglio a quel complimento velato rivolto al March. «Non trovate che sia bellissimo? Mi sono innamorata follemente di lui nell'istante stesso in cui l'ho visto, un giorno d'autunno, mentre varcava i cancelli di Oby con mio padre. Mio padre è il March di Oby... la più grande fortezza di Caribastos, a parte la sede del Provincar.» Le labbra di Ista s'incresparono. «Sì, lo ammetto, Lord Arhys a cavallo è decisamente impressionante.» Cattilara continuò bofonchiando: «Era così bello, ma così triste. La sua prima moglie era morta di parto anni prima, quando nacque la piccola Liviana, e si diceva che dopo di lei non avesse più guardato una donna. Mio padre sosteneva che fossi troppo giovane, e che si trattasse solo dell'infatuazione di una ragazzina, ma gli ho dimostrato che non era così. Per tre anni ho combattuto con lui per conquistarmi i favori del mio signore, e alla fine ho avuto il premio per la mia determinazione!» Decisamente. «Siete sposati da molto?» «Da quasi quattro anni.» Sorrise orgogliosa. «Figli?» Il suo volto si fece triste, e a bassa voce rispose: «Non ancora». «Be', siete così giovane... Ma suvvia, vediamo questi abiti», la incoraggiò Ista, nel tentativo di arginare quell'inattesa ondata di sofferenza apparsa così chiaramente sul volto della giovane. Ista sentì un tuffo al cuore quando contemplò l'offerta di Cattilara. I gusti della Marchess propendevano per abiti dai colori vivaci, frivoli e svolazzanti, che senza dubbio abbellivano anche fin troppo la sua figura alta e snella. Ma Ista aveva l'impressione che il suo corpo più basso sarebbe apparso più simile a un nano che trascini un tendone. Cercò delle scuse meno schiette. «Sono ancora in lutto per la morte recente della mia signora madre, ahimè. E il mio pellegrinaggio, anche se interrotto da quei furfanti jokoniani, non è ancora concluso. Avete qualcosa con colori adeguati al mio dolore...?» La più anziana delle dame di Cattilara lanciò un'occhiata a Ista e alle sete colorate, e parve interpretare in modo corretto le sue parole. Un'ulteriore ricerca nelle cassapanche e un paio di viaggi in altri punti in cui erano riposti gli indumenti, alla fine sortirono abiti e vesti dal taglio più severo, con strascichi meno appariscenti, e con colori più adatti, come il nero e il
lavanda. Ista sorrise soddisfatta, poi stava per guardare il cofanetto dei gioielli, quando Cattilara all'improvviso, fece un inchino e si scusò di doversi assentare. Ista udì i suoi passi percorrere il corridoio poi sentì l'eco di voci, quella di Cattilara e di un uomo. Evidentemente, Lord Arhys era ritornato. Il timbro e le cadenze della sua voce erano inconfondibili. Poco dopo Cattilara rientrò nella stanza con un sorriso soddisfatto, e protese la mano. Nel palmo aveva una splendida spilla da lutto in argento, incastonata di ametiste e perle. «Il mio signore non ha molti gioielli ereditati dal suo grande padre», esordì timidamente, «ma questo è uno di quelli. Sarebbe onorato se sceglieste di portarlo.» Ista, sorpresa, si lasciò sfuggire una risata stizzosa. «Certo. Conosco questo gioiello. Lord dy Lutez era solito indossarlo sul cappello.» Gliel'aveva regalato il Roya Ias... ed era uno dei meno preziosi tra i numerosi doni che avevano dimezzato la sua royacy prima che tutto precipitasse. Ista avrebbe giurato che Cattilara la stava guardando con occhi che brillavano di una soffusa luce romantica. La Marchess, presumibilmente, condivideva le teorie eroiche del marito in merito alla rovina del padre. Ista non era ancora sicura che Arhys le avesse creduto, quando aveva negato un suo coinvolgimento sessuale con un uomo, la cui reputazione come amante era di poco inferiore alla sua reputazione di soldato, o se aveva semplicemente accettato la sua versione per amor di cortesia. La immaginava ancora in lutto per dy Lutez? Per Ias? Per l'amore perduto, qualunque fosse l'oggetto? La spilla era un messaggio ambiguo, sempre che fosse un messaggio. La pelle di Arhys, quando lei aveva toccato quella ferita posizionata nel posto sbagliato, era rigida e fredda come la cera. Eppure si era alzato, aveva camminato e cavalcato, parlato, baciato sua moglie, riso e brontolato come qualsiasi uomo vivo. A quel punto, Ista avrebbe dovuto essersi convinta di aver sognato, non fosse stato per Ferda che aveva confermato di vedere del sangue sul palmo della sua mano. Ista richiuse la mano attorno al mistero delle intenzioni di quell'uomo, e disse: «Grazie, e ringraziate da parte mia il vostro signore». Cattilara parve estremamente compiaciuta e lasciò che l'onorata ospite riposasse finché il pasto serale non veniva servito. Probabilmente, pensò Ista, per correre a supervisionarne la preparazione. Nella quiete della stanza avvolta dalla penombra, la stanchezza e l'im-
menso sollievo che le procurava il fatto di avere il corpo e gli abiti puliti, diede a Ista la sensazione... l'illusione?... di essere al fine giunta in un santuario. Il mal di testa forse era causato da un po' di febbre dovuta alle piaghe e alla cavalcata da incubo... tuttavia, nonostante la persistente tensione che l'opprimeva, le sue palpebre si abbassarono. Quando si sentì sfiorare la guancia da un alito gelido, spalancò gli occhi, irritata. Non c'era da meravigliarsi che vi fossero dei fantasmi in quel castello, come in tutte le vecchie fortezze, né che sbucassero fuori per studiare un visitatore... Si girò su un fianco. Una pallida chiazza bianca fluttuò nel suo campo visivo. Mentre la fissava, contrariata e infastidita, altre due scivolarono fuori dalle pareti e andarono a unirsi alla prima, come se fossero attirate dal suo tepore. Spiriti antichi, senza forma e quasi decaduti nell'oblio. Misericordioso oblio. Le sue labbra si piegarono in un'espressione feroce. «Andatevene, anime recise», sussurrò. «Non posso fare nulla per voi.» Con un gesto della mano scacciò le forme come nebbia, e quelle si dispersero dalla sua vista interiore. Nessuno specchio avrebbe riflesso quelle visioni, nessun compagno le avrebbe condivise. «Royina?» mormorò con voce assonnata l'Accolita. «Nulla», disse Ista. «Stavo sognando.» Non era un sogno quello, ma la sua vista interiore fattasi nuovamente più nitida. Non richiesta, sgradita, avversata. Oppure era giunta in un luogo molto oscuro. Forse aveva bisogno di quella chiarezza. Gli Dei non elargiscono doni senza includervi dei tranelli. Ricordando il vivido, allarmante sogno di alcuni giorni prima, Ista ebbe timore di scivolare di nuovo nel sonno. Sonnecchiò per un intero giro di clessidra, finché Cattilara e le sue dame non vennero a prenderla. La dama di compagnia più anziana le acconciò i capelli nello stile abituale, intrecciati sulle tempie e poi lasciati sciolti sulle spalle. Su Cattilara, la massa lasciata libera formava ondulazioni affascinanti; Ista sospettò che i suoi capelli sbiaditi e stopposi, ribelli sulla nuca, avessero più l'effetto di una stuoia di saggina. Ma una veste di lino color lavanda, con una sopravveste di seta nera, allacciate insieme sotto il seno con la spilla da lutto, creavano un effetto adeguatamente dignitoso. La calura estiva giungeva presto in quella provincia settentrionale. I tavoli erano stati apparecchiati nel cortile, e il pasto sarebbe stato servito quando il sole fosse calato a occidente, e l'ombra che avanzava avrebbe risparmiato ai commensali la luce accecante. La tavola d'onore, posta all'e-
stremità del cortile, fronteggiava la fontana a forma di stella, e altri due lunghi tavoli erano stati disposti perpendicolarmente. Ista fu fatta sedere alla destra di Lord Arhys, con Lady Cattilara alla sua sinistra. Se Arhys era splendido in cotta di maglia e calzoni di pelle, nella tenuta grigia da cortigiano sfumata d'oro, e spruzzata di verbena, era devastante. Quando lui le sorrise, Ista sentì un tuffo al cuore, ma fece appello a tutta la sua riservatezza e rispose con un saluto più freddo, poi si costrinse a guardare altrove. A Ferda venne assegnato un posto d'onore al fianco della Marchess. Un gentiluomo anziano, nelle vesti di un Divino del Tempio, era seduto due sedie più in là, alla sinistra di Lord Arhys. Uno degli ufficiali anziani di Arhys si avvicinò, ma si fermò quando Lord Arhys sollevò una mano per indicargli di non occupare la sedia vuota verso la quale si stava dirigendo, e dopo un cenno di assenso, l'uomo andò a prendere posto presso una delle lunghe tavole. Lady Cattilara, notando il gesto, si chinò dietro a Ista per mormorare al marito: «Mio signore. Con questi ospiti onorati, certamente questa sera dovremmo usare quel posto». Gli occhi di Arhys si rabbuiarono. «Questa sera ancor meno di tutte le altre.» Poi le rivolse un'espressione corrucciata e si sfiorò le labbra con un dito. In segno di avvertimento? Cattilara si ricompose, sorrise a Ista e le rivolse una frase banale ma cortese. Ista fu felice di vedere il resto del contingente di Ferda, riposato e lavato, con abiti puliti presi in prestito, seduto alle altre tavole. Gli ufficiali di Arhys, le donne di Cattilara, e alcuni frequentatori con le vesti del Tempio, formavano il resto della compagnia. Il Divino anziano si alzò strascicando i piedi e con voce tremula recitò le preghiere: di ringraziamento per la vittoria del giorno precedente e il prodigioso salvataggio della Royina, di supplica per la guarigione dei feriti, di benedizione sul pasto che stava per essere servito. Continuò con uno speciale, anche se un po' vago, riferimento alla fermezza di Ferda e dei suoi uomini, in quella Stagione della Figlia, che Ista si accorse gratificò il devoto-ufficiale. «E, come sempre, imploriamo soprattutto la Madre, la cui Stagione è alle porte, perché il nostro Lord dy Arbanos possa guarire.» Fece un gesto di benedizione sopra la sedia vuota alla sinistra di Lord Arhys, e questi annuì, sospirando. Un mormorio di approvazione corse tra gli ufficiali seduti alle altre tavole. Mentre la servitù iniziava a passare tra loro con brocche di vino e acqua,
Ista chiese: «Chi è Lord dy Arbanos?» Cattilara guardò Arhys con circospezione, ma lui si limitò a rispondere: «Illvin dy Arbanos, il mio maestro di scuderia. In questi ultimi due mesi... non è stato bene. Come vedete, tengo il suo posto». Poi, dopo un lungo momento, aggiunse: «Illvin è anche il mio fratellastro». Mentre Ista sorseggiava il vino annacquato dalla sua coppa, tratteggiò nella mente un albero genealogico. Era un altro bastardo di dy Lutez, non riconosciuto? Ma il grande cortigiano aveva considerato importante riconoscere tutta la sua progenie disseminata un po' ovunque, offrendo preghiere e offerte regolari alla Torre del Bastardo per la loro protezione. Forse questo era nato da una donna già sposata, poi accettato silenziosamente in famiglia con l'approvazione del marito tradito...? Il nome lo suggeriva. Silenziosamente, ma non segretamente, se questo dy Arbanos aveva reclamato un posto nel casato e la sua richiesta era stata onorata. «È stata una grande tragedia», iniziò Cattilara. «Niente è troppo grande per rattristare questa serata», ringhiò Arhys. Cattilara si zittì; poi, con un certo sforzo, tirò fuori un discorso piuttosto illogico sulla sua famiglia a Oby, osservazioni sul padre e i fratelli e i loro scontri coi furfanti roknari lungo il confine, in occasione delle ultime campagne dell'autunno. Ista notò che Lord Arhys prese poco dal piatto di portata, e quel poco continuava a spostarlo da una parte all'altra con la forchetta. «Non mangiate, Lord Arhys?» si decise a chiedere. Lui fece un sorriso contrito. «Ho qualche problema di febbre intestinale. Trovo che digiunare sia la cura più efficace. Passerà presto.» Un gruppo di musici, seduti nel porticato superiore, intonarono un motivo allegro e Arhys, ma non Cattilara, lo prese come pretesto per lasciar languire la conversazione. Subito dopo si scusò e andò a parlare con uno dei suoi ufficiali. Ista adocchiò il posto vuoto accanto a quello di Arhys, apparecchiato di tutto punto. Qualcuno aveva posato sul piatto una rosa bianca. «Sembra che nella vostra compagnia si senta molto la mancanza di Lord dy Arbanos», disse Ista a Cattilara. La donna prima di rispondere si accertò che il marito fosse fuori portata. «Ci manca moltissimo. Per la verità, disperiamo che si riprenda, ma Arhys non vuole saperne... è molto triste.» «È molto più anziano del March?» «No, è il fratello più giovane. Quasi due anni di differenza. Per tutta la
vita sono stati inseparabili; il siniscalco del castello li ha allevati insieme dopo la morte della loro madre, e non ha mai fatto preferenze per l'uno o per l'altro. Da quel che mi ricordo, Illvin è sempre stato il maestro di scuderia di Arhys.» La loro madre? La mente di Ista si affrettò a recuperare l'albero genealogico ipotizzato. «Questo Illvin allora... non è figlio del defunto Cancelliere dy Lutez?» «Oh, no, affatto», rispose Cattilara tutta concitata. «È stata una storia così romantica, almeno così ho sempre pensato. Si dice che...» Si guardò attorno, arrossì un poco, poi abbassò la voce, chinandosi verso Ista. «... si racconta che quando Lord dy Lutez lasciò la signora di Porifors, la madre di Arhys... per recarsi a corte, lei si sia innamorata del siniscalco del castello, Ser dy Arbanos, e che sia stata ricambiata. Dy Lutez non tornava quasi mai a Porifors, e la data di nascita di Lord Illvin... be', non coincideva. In realtà lo sapevano tutti, ma Ser dy Arbanos riconobbe Illvin solo dopo la morte della madre, povera donna.» Ecco che emergeva un altro motivo per cui dy Lutez aveva trascurato tanto a lungo la sposa del nord... ma qual era la causa e quale l'effetto? La mano di Ista sfiorò la spilla che portava al petto. Quale imbarazzo doveva aver costituito questo Illvin per la vanità di dy Lutez. «Quale malattia lo ha colpito?» «Non proprio una malattia. Una tragedia... del tutto inaspettata, resa ancora più grave da tutte le congetture e incertezze. È stato un grande dolore per il mio signore, e uno shock per tutti coloro che vivono a Porifors... oh, ma ecco che ritorna.» Lord Arhys stava ritornando al tavolo. L'ufficiale col quale aveva parlato, nel frattempo si era alzato e aveva lasciato il cortile. Cattilara abbassò ancora di più la voce. «Al mio signore disturba profondamente sentirne parlare. Vi racconterò tutta la storia in privato, più tardi, d'accordo?» «Grazie», disse Ista, non sapendo bene come rispondere a tutti quei misteriosi sotterfugi. Conosceva però la domanda che le sarebbe piaciuto formulare. Lord Illvin è un uomo alto e magro, con capelli simili a un fiume notturno illuminato dalla luna? Se il giovane Illvin dy Arbanos, era basso, o rotondo come una botte, oppure calvo o coi capelli di un rosso fiammante, il nodo che aveva allo stomaco si sarebbe sciolto. I piatti vennero ritirati. Alcuni soldati, sotto la direzione dell'ufficiale che Arhys aveva fatto uscire, portarono una serie di cofanetti, bauli, borse e una quantità assortita di armi e armature, che ammonticchiarono davanti
al tavolo d'onore. I bottini della battaglia del giorno precedente, si rese conto Ista. Lord Arhys sollevò un cofanetto che posò e aprì davanti a lei. Ista per poco non sussultò di fronte al miasma di mortalità e dolore che si levò dal guazzabuglio di fronzoli ammassati all'interno. Si rese subito conto che non si trattava di un odore che sentiva col naso. Sembrava che dovesse essere la prima erede del disastro dei jokoniani. Molti anelli, spille e bracciali di lavorazione fine e di ovvia femminilità luccicavano nella luce soffusa. Quanti di quegli oggetti erano stati trafugati da Rauma? Quanti erano destinati a quelle ragazze jokoniane che non avrebbero più rivisto i loro corteggiatori? Fece un respiro, si stampò un sorriso di gratitudine sul viso come si conveniva, e rabberciò qualche parola appropriata, congratulandosi con Arhys e coi suoi uomini per il loro coraggio e per aver reagito all'incursione dei banditi, alzando la voce perché i complimenti venissero uditi da tutti. Una spada particolarmente bella venne offerta a Ferda, che l'accettò con evidente soddisfazione. Cattilara distribuì alcuni oggetti alle sue dame, mentre Arhys diede la parte più consistente ai propri ufficiali, con commenti o battute, mentre il resto venne offerto al Divino per le preghiere nel Tempio cittadino. Un giovane Devoto, apparentemente l'assistente personale del Divino anziano, se ne fece carico con ringraziamenti e benedizioni. Ista posò lo sguardo sul contenuto del cofanetto e subito sentì un fremito che le fece venire la pelle d'oca. Non voleva quell'eredità mortale, ma per questo c'era una soluzione. Cominciò con lo scegliere un anello per la sua coraggiosa dama di compagnia, formato da piccoli cavalli d'oro al galoppo... Dov'era Liss in quel momento? Ma dopo un attimo di esitazione, la mano si posò su un pugnale ricurvo col manico ingioiellato. Aveva una certa elegante praticità che sembrava più consona allo stile della ragazza corriere. Con un sospiro, nel rammentare che tutto il suo denaro giaceva sul fondo di un fiume a Tolnoxo, prese anche qualche ciondolo da usare come mancia. Mise da parte l'anello e il pugnale, poi spinse il cofanetto verso Ferda. «Ferda. Scegli il pezzo migliore per tuo fratello. E gli altri quattro più belli per i nostri feriti e gli uomini che sono stati lasciati con loro. Anche qualcosa di appropriato per dy Cabon. Ciascun uomo della tua compagnia potrà poi scegliere ciò che preferisce. Il resto, ti prego di sincerarti che venga consegnato all'Ordine della Figlia, coi miei ringraziamenti.» «Certamente, Royina!» Ferda sorrise, ma poi il suo sorriso si spense e si
fece più vicino. «Volevo chiedervi. Adesso che siete in un luogo sicuro, e che sotto la protezione del March non avrete nulla da temere, posso avere il vostro permesso di andare a cercare Foix, Liss e il Divino?» Non so che cos'è questo strano posto, ma non lo definirei sicuro. Però non poteva dirlo ad alta voce. Avrebbe quasi voluto ordinargli di preparare i suoi uomini per partire l'indomani. Ma sarebbe stato poco pratico, impossibile. Scortese. Inoltre gli uomini della Figlia erano esausti quanto lei. Metà dei loro cavalli era ancora sulla strada con gli stallieri di Porifors, e venivano condotti al castello un po' alla volta. «Hai bisogno di riposare come tutti noi», temporeggiò Ista. «Riposerò meglio quando saprò cos'è accaduto a loro.» Dovette ammettere che aveva ragione, ma il pensiero di restare intrappolata in quel luogo senza la sua scorta non le piaceva. Corrugò la fronte con una espressione d'incertezza, mentre Lady Cattilara ritornava frusciando al suo posto. Anche Lord Arhys ritornò al suo posto, e Ferda ne approfittò per informarsi sulle lettere in cui chiedeva notizie delle persone disperse del suo seguito. Lui ascoltò, con quella che a Ista parve una partecipazione particolarmente intensa, ma rispose che era troppo presto per avere risposte. Nessuno menzionò il fatto che Foix fosse posseduto da un demone. «Almeno sappiamo che Liss è riuscita a raggiungere il Provincar di Tolnoxo», interloquì Ista. «Altri potrebbero aver dato l'allarme sulla presenza dei briganti, ma solo lei sapeva che io ero tra i prigionieri. E se è riuscita a raggiungere un posto sicuro, avrà certamente avuto il buonsenso di chiedere che venissero inviati degli uomini a cercare tuo fratello e il buon Divino.» «Questo è... vero.» Le labbra di Ferda s'incurvarono, indeciso tra quella rassicurazione e la preoccupazione. «Se l'hanno ascoltata. Se le hanno dato rifugio...» «Le stazioni dei corrieri della Cancelleria le avranno dato rifugio qualora dy Tolnoxo non l'abbia fatto, ma se il Provincar non ha ricompensato il suo coraggio con una adeguata ospitalità, e non ha risposto alle sue implorazioni con tutto l'aiuto possibile, certamente mi sentirà. Così come sentirà il Cancelliere dy Cazaril, te lo garantisco. Con le lettere che ho fatto inviare da Lord Arhys, ben presto tutti sapranno dove siamo. Se i nostri dispersi trovano la strada per Porifors mentre tu sei fuori a cercarli, Ferda, li mancherai comunque. Comunque sia, non intenderai certo andartene in giro questa notte. Attendiamo il mattino. Chissà che non arrivino notizie.»
Ferda annuì, anche se a malincuore. Un fresco crepuscolo stava scendendo sul cortile. I musici conclusero i loro brani, gli uomini si assicurarono che le ultime gocce di vino non andassero sprecate, dopodiché vennero offerte le preghiere e le benedizioni finali. Il Divino se ne andò con passo malfermo al braccio del suo Devoto, seguito dalla gente rustica del Tempio. Gli ufficiali di Arhys rivolsero inchini quasi timorosi alla Royina Vedova, dando l'impressione di essere onorati di potersi inginocchiare e baciare quelle mani leggendarie. Ma dal modo con cui si allontanarono a lunghi passi, concentrati in previsione d'imminenti impegni, Ista si ricordò che quella era una fortezza attiva. Cattilara si affrettò a mettere una mano sotto il gomito di Ista mentre si alzava. «Adesso posso accompagnarvi nelle vostre stanze, Royina», annunciò sorridendo. Lanciò una breve occhiata a Arhys. «Non sono molto grandi, ma... il tetto è in condizioni migliori.» «Grazie, Lady Cattilara. Andranno benissimo.» Arhys le baciò in modo formale le mani per augurarle la buona notte. Ista non era sicura se le sue labbra fossero fredde o calde, confusa dal pizzicore irritante che il loro tocco aveva lasciato sulle sue nocche. In ogni caso, non bruciavano di febbre, anche se quando la fissò coi limpidi occhi grigi, lei arrossì. Seguita dal solito codazzo di donne, la Marchess la prese sottobraccio e insieme passarono sotto una serie di edifici incombenti, per poi emergere in un piccolo cortile quadrato. La serata era ancora luminosa, ma sopra di loro, nell'alta volta blu, brillava la prima stella. Attorno al perimetro del cortile si snodava un portico di pietra, con le colonne di fine alabastro scolpite con intrecci di viticci e fiori nello stile roknari... Non era né un mezzogiorno caliginoso, né una fredda mezzanotte rischiarata dalla luna, eppure era lo stesso cortile dei sogni di Ista, ogni dettaglio era identico, inconfondibile, inciso nella sua mente. Ista non riuscì a capire se era sorpresa. «Credo di aver bisogno di sedermi un attimo», disse con un filo di voce. «Subito.» Cattilara la guardò sbigottita e sentì la mano tremante di Ista sul suo braccio. Ubbidiente, la guidò verso una panca, una delle tante che circondavano il perimetro del cortile, e si sedette con lei. Sotto le sue dita, il marmo levigato dal tempo conservava ancora il tepore del giorno, benché
l'aria si stesse rinfrescando. Per un attimo si afferrò al bordo della panca, poi si costrinse a sedere diritta, traendo un profondo respiro. Quella sembrava la parte più vecchia della fortezza. Era priva dei variegati vasi di fiori; solo l'eredità degli scalpellini roknari le impedivano di essere austera. «Royina, vi sentite bene?» chiese Cattilara. Ista prese in esame varie menzogne o verità: Mi fanno male le gambe. Ho mal di testa. Decise per: «Tra un attimo sarà tutto passato». Studiò il profilo ansioso della Marchess. «Mi stavate raccontando ciò che è accaduto a Lord Illvin.» Con difficoltà, Ista evitò di girarsi verso quella porta, nell'angolo a sinistra delle scale che conducevano al piano superiore. Cattilara esitò, accigliandosi profondamente. «Non è tanto che cosa, quanto chi.» Ista inarcò le sopracciglia. «Qualche attacco demoniaco?» «Quello, di sicuro. È stato tutto molto complicato.» Alzò lo sguardo verso le donne che aspettavano e fece loro cenno di allontanarsi. Le osservò mentre si sistemavano fuori portata su una panca all'altra estremità del cortile, poi abbassò la voce in tono confidenziale. «Circa tre mesi fa, è giunta da noi la delegazione di primavera da Jokona, per concordare lo scambio dei prigionieri, definire i riscatti, ottenere lasciapassare per i loro mercanti, tutte le cose di cui si occupano questi inviati. Ma questa volta, recavano con sé un'offerta decisamente inattesa: una sorella vedova del Principe Sordso di Jokona. Una sorella maggiore, maritatasi già due volte, credo, con qualche vecchio Lord jokoniano ricco e orrendo, che faceva quel che i vecchi Lord fanno. Non so se si fosse rifiutata di sacrificarsi di nuovo, o se avesse perso il proprio valore di donna per via dell'età... aveva quasi trent'anni. Anche se, a dire il vero, era ancora piuttosto attraente. Era la Principessa Umerue. È apparso subito chiaro che il suo entourage cercava un'alleanza matrimoniale col fratello del mio signore.» «Interessante», commentò Ista in tono neutro. «Il mio signore ha pensato che fosse un modo per garantirsi il tacito consenso di Jokona nella futura campagna contro Visping. Se Illvin era disposto. Ed è parso subito evidente che Illvin... Be', non ho mai visto la sua testa girare in quel modo per nessuna donna, benché fingesse il contrario.» Se Illvin era solo di poco più giovane di Arhys... «Lord Illvin... Ser dy Arbanos? Non è mai stato sposato?» «Esatto, Ser dy Arbanos... ha ereditato il titolo dal padre circa dieci anni fa, credo. Comunque, no. Per due volte, mi sembra, venne promesso in sposo, ma poi i negoziati fallirono. Il padre l'aveva affidato all'Ordine del
Bastardo per un certo periodo in gioventù, per la sua educazione, anche se diceva di non aver sviluppato una vocazione. Ma col passare del tempo, la gente ha cominciato a fare delle allusioni. E la cosa lo ha sempre irritato.» Ista si rammentò di avere fatto simili allusioni su dy Cabon, e fece una smorfia sarcastica. Eppure, anche se quella Principessa Umerue aveva perso il suo lustro, un'unione con un Lord quintariano minore era un'ambizione curiosamente modesta per una quaternaria di nobili natali. Il nonno materno era il Generale Dorato in persona, se Ista ricordava correttamente le vecchie alleanze matrimoniali dei Cinque Principati. «Lei aveva intenzione di convertirsi, se il corteggiamento avesse avuto successo?» «Non ne sono sicura. Illvin era così attratto, che avrebbe potuto benissimo fare il contrario. Formavano una coppia notevole. Nero e oro: lei aveva la tipica pelle roknari, del colore del miele, e capelli quasi della stessa sfumatura. Era molto... be', era molto chiaro il modo in cui stavano andando le cose. Ma c'era una persona che non era contenta.» Cattilara fece un profondo respiro, e gli occhi le si adombrarono. «C'era un cortigiano jokoniano, Lord Pechma, al seguito della principessa, che era roso dalla gelosia e dal risentimento. La voleva per sé, presumo, e non riusciva ad accettare che dovesse servire come merce di baratto con un nemico. Il rango e la ricchezza di quel Lord Pechma erano di poco superiori a quelli del povero Illvin, anche se, naturalmente, non aveva la sua reputazione militare. Una notte lei mandò via le sue dame e Illvin andò in camera sua.» Cattilara deglutì. «Riteniamo che Pechma si sia accorto, e lo abbia seguito. Il mattino dopo, Illvin non si trovava da nessuna parte, poi le dame della principessa sono entrate nelle sue camere e hanno scoperto una scena terrificante. Sono corse a svegliare il mio signore e me. Arhys non mi ha lasciata entrare, ma si dice che...» la sua voce si abbassò ulteriormente «... si dice che Lord Illvin fosse nudo, privo di sensi e sanguinante. La principessa era accasciata vicino alla finestra, morta, come se avesse lottato per fuggire o chiamare aiuto, con un pugnale roknari avvelenato conficcato nel petto. E Lord Pechma, con il suo cavallo, gli equipaggiamenti, e tutto il denaro della compagnia jokoniana che gli era stato affidato, era scomparso da Porifors.» «Oh», commentò Ista. Cattilara deglutì, e si sfregò gli occhi. «Gli uomini del mio signore e i servi della principessa sono subito usciti alla ricerca dell'omicida, ma aveva molte ore di vantaggio. L'entourage jokoniano si è trasformato in una processione, e il cadavere di Umerue è stato riportato a Jokona. Da quel
giorno Illvin... non si è più risvegliato. Non siamo sicuri se si sia trattato di qualche vile veleno roknari impregnato nel pugnale che lo ha ferito, o se sia caduto e abbia battuto la testa, o se gli sia stato inferto qualche altro colpo. Ma temiamo che il suo cervello sia leso. E credo che questa tragedia addolori Arhys più di quanto avrebbe fatto persino la sua morte, perché ha sempre fatto grande affidamento sull'intelligenza del fratello.» «E... come hanno reagito a Jokona?» «Non bene, malgrado avessero una serpe in seno. Da allora, ci sono tensioni lungo il confine. E questo, dopotutto, è stato un bene per voi, perché tutti gli uomini del mio signore erano pronti a uscire quando il corriere del Provincar di Tolnoxo è giunto con le notizie.» «Non c'è da stupirsi se Lord Arhys è così teso. Avvenimenti decisamente spaventosi.» Tetti che perdono, davvero. Ista non poteva che essere grata a Arhys, per non averla voluta ospitare nella camera in cui era morta la Principessa Umerue, rifletté dopo l'orribile resoconto di Cattilara. Spaventoso e angosciante, vero. Ma non v'era nulla di misterioso. Nessun Dio, nessuna visione, nessun fuoco bianco accecante che non ardeva. Nessuna rossa ferita mortale che si apriva e si chiudeva come un uomo che si abbottoni la tunica. Vorrei vedere Lord Illvin, avrebbe voluto dire. Ma quale scusa poteva addurre per la sua morbosa curiosità di vedere un uomo malato? In ogni caso, non voleva guardare il nobile caduto in disgrazia. Ciò che desiderava veramente era montare su un cavallo... no, un calesse, ed essere portata via da lì. Si era fatto abbastanza buio. «È stata una giornata lunga. Sono esausta.» Ista si rimise in piedi. Cattilara si alzò di scatto per aiutarla a salire le scale. Ista strinse i denti, lasciò che la sua mano sinistra poggiasse appena sul braccio della giovane donna, e cominciò a salire faticosamente, reggendosi alla ringhiera con la destra. Le dame di Cattilara, che ancora parlottavano tra loro, le seguirono alla spicciolata. Quando arrivarono in cima alle scale, la porta all'altra estremità venne aperta. Ista girò la testa di scatto. Ne uscì un uomo basso, con le gambe arcuate e una barbetta brizzolata, che trasportava un fagotto di lenzuola sporche e un secchio col coperchio chiuso. Vedendo le donne, appoggiò il suo carico fuori della porta e si affrettò nella loro direzione. «Lady Catti», disse con voce stridula, chinando la testa. «Ha bisogno di altro latte di capra. Con più miele dentro.» «Non ora, Goram.» Con una smorfia irritata, Cattilara gli fece cenno di
andarsene. L'uomo fece un altro inchino con la testa, ma i suoi occhi sfavillarono da sotto le spesse sopracciglia quando guardò di sottecchi Ista. Se fosse curioso o no, era difficile dirlo con quelle ombre, ma Ista sentì il suo sguardo come una mano premuta sulla schiena, mentre girava a destra per seguire Cattilara nelle stanze all'altra estremità del porticato. Udì il tonfo dei passi dell'uomo allontanarsi. Ista si girò appena in tempo per vedere la porta in fondo aprirsi e richiudersi ancora una volta, e una lama di luce arancione avvampare, restringersi e infine spegnersi. 11 Le dame di Cattilara aiutarono Ista a indossare una graziosa camicia da notte trasparente, e a sdraiarsi su un letto coperto da finissime lenzuola ricamate. Ista le pregò di lasciare accesa la candela. In punta di piedi le donne uscirono e chiusero la porta dell'ultima stanza, dove l'Accolita e una cameriera avrebbero dormito quella notte, per essere a portata di voce della Royina. Ista si appoggiò ai cuscini, fissando la luce tremula e l'oscurità che faceva recedere. Meditando sulle alternative. Era possibile resistere al sonno per giorni e giorni, finché la stanza non avesse cominciato a girare e strane allucinazioni informi avessero preso a scaturire nel suo campo visivo come scintille di un fuoco scoppiettante. Aveva già provato a farlo, in passato, quando gli Dei avevano disturbato per la prima volta i suoi sogni, quando aveva temuto d'impazzire e Ias le aveva lasciato credere che fosse così. Ed era finita male. Aveva pensato di affogare i sensi e i sogni nel vino, ma alla lunga aveva funzionato ancora meno. Non v'era rifugio dagli Dei neanche nella follia; piuttosto il contrario. Pensò e ripensò a chi poteva essere sdraiato, su un letto non dissimile dal suo, anche se meno profumato, in quella stanza all'altro capo del castello. In realtà, ritenne di sapere che aspetto avevano il letto, i tappeti, la stanza... e il suo occupante. Non aveva nemmeno bisogno di guardare. Però non ho mai visto Goram. Anche se doveva supporre che la sua esistenza fosse implicita. Bene, Voi mi avete trascinata qui, chiunque di Voi mi stia tormentando. Ma non potete costringermi a varcare quella porta. Né potete aprirla da soli. Non riuscite a sollevare neanche una foglia, e piegare la mia volontà è un altro compito che trascende le vostre capacità. Erano a un punto mor-
to, lei e gli Dei. Poteva resistere. Ma non per tutta la notte. Alla fine, devo dormire, e questo lo sanno. Sospirò, e dopo essersi sdraiata, spense la candela. L'odore di cera calda indugiò nelle sue narici, e il bagliore della fiamma lasciò una striscia luminosa nei suoi occhi, mentre si girava e batteva il cuscino per fargli prendere la forma desiderata sotto la spalla. Non potete aprire quella porta. E non potete neanche costringermi a farlo; inviatemi tutti i sogni che volete. Fate quello che volete. La cosa peggiore me l'avete già fatta. Dapprima il suo sonno fu informe, senza sogni, neutro. Poi cominciò a nuotare per un po' in sogni ordinari, con le loro ansiose assurdità che s'intrecciavano le une alle altre. Infine entrò in una stanza, e tutto cambiò; la stanza era solida, quadrata, gli angoli rigidi come in qualsiasi luogo reale, benché non fosse un luogo in cui era già stata. Non era la camera di Lord Illvin. Né la sua. Era un pomeriggio radioso all'esterno, a giudicare dalla luce che filtrava dalle fessure delle imposte. Dallo stile seppe che si trattava di una stanza del Castello di Porifors, poi si rese conto che l'aveva già intravista una volta, nella luce fugace di una candela. Lord Arhys aveva urlato... Adesso regnavano un vuoto e un silenzio assoluti. La camera era pulita e in ordine. E non c'era nessuno, tranne lei... no, un attimo. Una porta si aprì. Per un istante, una figura familiare apparve in controluce nel bagliore incerto che inondava il cortile pieno di fiori alle sue spalle. Riempì completamente il vano della porta, sollevò le anche per passare e lasciò che l'anta si richiudesse. Per un attimo, il suo cuore sussultò di gioia e di sollievo nel vedere che l'Erudito dy Cabon era sano e salvo. Tranne che... non era dy Cabon. O non soltanto dy Cabon. Era più grasso, più luminoso, più cangiante. Leggermente androgino. Il suo corpo era rigonfio come per contenere l'incontenibile? Le sue vesti erano immacolate - solo da quello Ista avrebbe dovuto capire la differenza e splendenti come la luna. Sopra le pieghe del suo sorriso, riflesso gaiamente dalle pieghe del doppio mento, gli occhi del Dio la fissavano sfavillando. Più immensi del cielo, più profondi degli abissi marini, la loro complessità sprofondava all'interno senza fine, ciascuno strato era una lamina di altri strati, ripetuti all'infinito, o all'infinitesimale. Occhi che potevano osservare contemporaneamente ciascuna persona ed essere vivente al mondo, all'interno e all'esterno, con eguale e pacata attenzione. Mio Lord Bastardo. Ista non pronunciò il Suo nome ad alta voce, per
tema che la scambiasse per una preghiera. Al contrario, disse in tono ironico: «Non trovate che io sia un po' svantaggiata?» Lui s'inchinò. «Piccola, eppure forte. Io, come sai, non posso sollevare una foglia, né piegare il ferro. Né la tua volontà, mia Ista.» «Non sono vostra.» «Mi rivolgo a te pieno di speranza e di anticipazione, come farebbe uno spasimante.» Il suo sorriso tese ancora di più la pelle del grasso volto. «O con l'astuzia di un ratto.» «I ratti», osservò sospirando, «sono creature inferiori, timide, semplici. Molto limitate. Per l'astuzia occorre un uomo. O una donna. Astuzia, tradimento... verità, trionfo, trappole per orsi...» Lei si irrigidì a quel sottile riferimento a Foix. «Volete sicuramente qualcosa. Il linguaggio degli Dei riesce a essere piuttosto mellifluo quando vogliono qualcosa. Quando sono stata io ad avere bisogno; quando ho pregato con il viso schiacciato al pavimento, le braccia protese, in lacrime e scossa da un vile terrore, per anni, Voi dov'eravate? Dov'erano gli Dei la notte in cui Teidez è morto?» «Il Figlio dell'Autunno inviò molti uomini in risposta alle tue preghiere, dolce Ista. Essi deviarono dal loro cammino, ma non giunsero mai a destinazione, perché Lui non poteva piegare la loro volontà, né i loro passi. E così si sono dispersi al vento come foglie.» Le sue labbra s'incurvarono all'insù, in un sorriso più mortalmente serio di qualsiasi cipiglio Ista avesse mai visto. «Ora un altro prega, sprofondato in una disperazione cupa come la tua. Uno che mi è caro, come Teidez lo era per il mio Fratello dell'Autunno. E io ho inviato... te. Devierai dal tuo cammino come fecero quelli inviati da Teidez, a soli pochi passi dalla meta?» Tra loro scese il silenzio. Le mascelle di Ista erano serrate per la rabbia. E da cose più complicate, un calderone ribollente che neppure lei era in grado di separare e chiamare per nome. Uno stufato d'angoscia, pensò. A denti stretti sibilò: «Lord Bastardo, siete un bastardo». Lui si limitò a sogghignare in modo folle. «Quando nascerà l'uomo che riuscirà a farti ridere, solenne Ista, irata Ista, inflessibile Ista, allora il tuo cuore verrà guarito. Non hai pregato per questo: è una ricompensa che neanche gli Dei possono darti. Noi ci limitiamo a cose semplici, come la redenzione dai tuoi peccati.» «L'ultima volta che ho provato a seguire le sante, confuse, inadeguate i-
struzioni degli Dei, sono stata trascinata in un omicidio», sibilò rabbiosa. «Ma per Voi, non avrò bisogno di redenzione. Non voglio avere a che fare con Voi. Se ritenessi di poter pregare per chiedere l'oblio, lo farei; ma non desidero essere insudiciata, cancellata, annientata, come le anime recise che muoiono davvero; io voglio quindi rifuggire la sofferenza del mondo. Che cosa possono darmi gli Dei?» Le sue sopracciglia s'inarcarono in un'espressione di falsa benevolenza. «Come, dolce Ista? Possono darti da lavorare!» Si avvicinò; sotto i suoi piedi le tavole di legno scricchiolarono e gemettero pericolosamente. Ista fu sul punto d'indietreggiare davanti alla terribile visione di quei piedi che potevano sprofondare nel pavimento per precipitare nella stanza sottostante. Egli sollevò delicatamente le mani sulle sue spalle nude, ma senza sfiorarle. Si chinò e mormorò: «La mia impronta è su di te». Le sue labbra le sfiorarono la fronte. Quel punto bruciò come un marchio a fuoco. Mi ha ridato il dono della seconda vista. Una percezione diretta, non guidata, del mondo dello spirito, il Suo regno. Rammentò come il tocco delle labbra della Madre le avesse bruciato la pelle, in quella lontana visione nello stato di veglia che aveva prodotto conseguenze tanto disastrose. Puoi imprimere il tuo dono su di me, ma io non devo necessariamente aprirlo. Lo rifiuto, e Ti sfido! Negli occhi del Dio brillò una scintilla ancor più luminosa. Fece scivolare le grasse mani sulla schiena nuda di Ista e la trasse a sé, poi, chinandosi di nuovo, la baciò sulla bocca con una voluttà compiaciuta e lasciva. Un'eccitazione imbarazzante le infiammò il corpo, e questo la rese ancora più furiosa. Le nere infinità scomparvero di colpo da quegli occhi, così vicini ai suoi da incrociarsi. Uno sguardo semplicemente umano si dilatò, per poi inorridire. L'Erudito dy Cabon ansimò, ritrasse la lingua, e fece un balzo all'indietro come un animale spaventato. «Royina!» gridò. «Perdonatemi! Io, io, io...» Fece saettare lo sguardo attorno alla stanza, lo fissò su di lei, sgranò ancor di più gli occhi, poi cercò il soffitto, il pavimento, o la parete più lontana. «Non so bene dove mi trovo...» Lui adesso non era il suo sogno, ne era certa. Era lei a essere il sogno di dy Cabon. E anche lui lo avrebbe ricordato in modo vivido una volta risvegliatosi. Ovunque si trovasse.
«Il vostro Dio», disse brusca Ista, «ha un pessimo senso dell'umorismo.» «Cosa?» chiese lui con sguardo assente. «Era qui? E l'ho mancato?» Il suo faccione assunse un'espressione sconvolta. Se quelli erano sogni veri, dell'uno e dell'altro... «Dove vi trovate?» lo interrogò Ista con tono d'urgenza. «Foix è con voi?» «Cosa?» Ista spalancò gli occhi di colpo. Era sdraiata sulla schiena nella camera da letto buia, aggrovigliata alle lenzuola di lino e alla camicia da notte trasparente di Cattilara. Sola. Proruppe in una imprecazione. Deve essere mezzanotte, pensò. La fortezza si era fatta silenziosa. In lontananza, attraverso le grate della finestra filtravano i deboli frinii degli insetti. Un uccello notturno trillò una nota bassa, armoniosa. La pallida luce lunare penetrava nella stanza, schiarendola un poco. Si chiese di chi fossero le preghiere che l'avevano condotta in quel luogo. Ogni genere di persona pregava il Bastardo come Dio dell'ultima spiaggia, non solo quelli con una dubbia parentela. Poteva essere chiunque a Porifors. A eccezione, pensò, di un uomo che non si era mai risvegliato da un collasso per dissanguamento. Se mai troverò chi mi ha fatto questo, gli farò desiderare di non aver mai pronunciato una poesia prima di andare a letto... Un cauto scricchiolio e strascichio di piedi risuonò sulle scale. Ista si liberò delle lenzuola, appoggiò i piedi nudi sul pavimento di legno e si avvicinò silenziosa alla finestra che dava sul cortile. Tolse la barra dal battente interno di legno e lo aprì; per fortuna, non cigolò. Premette il viso contro l'elaborata lavorazione in ferro della grata esterna e sbirciò in cortile. La luna calante non era ancora scomparsa dietro il profilo dei tetti e la sua pallida luce scendeva obliqua sul porticato. Gli occhi di Ista, abituatisi all'oscurità, riuscirono a distinguere chiaramente l'alta e aggraziata figura di Lady Cattilara che procedeva silenziosamente; indossava una veste chiara, ed era sola. Si fermò davanti alla porta in fondo al corridoio, l'aprì delicatamente, e scivolò dentro. Dovrei seguirla? Spiare, origliare alle finestre, sbirciare come un ladro? Be', io non lo farò! Non importa quanto mi hai fatto diventare curiosa, che Tu sia maledetto... Gli Dei non potevano costringerla a seguire Lady Cattilara nella camera da letto del cognato afflitto dai propri tormenti. Ista chiuse il battente, si girò, ritornò senza esitazioni al letto e s'infilò sotto le coperte.
Restò sveglia, in ascolto. Dopo qualche furioso minuto, si alzò di nuovo. Sollevò silenziosamente uno sgabello fino alla finestra e si sedette, appoggiandosi contro la grata. La fioca luce delle candele filtrava attraverso le grate della finestra di fronte. Alla fine, si spense. Ancora qualche minuto, e la porta venne nuovamente socchiusa, quel tanto che bastava per lasciar passare una donna snella. Cattilara ritornò sui suoi passi. Sembrava non avere nulla in mano. E così, lei si prendeva cura dell'uomo malato, ma non lo faceva alla luce del sole come si addiceva a un uomo di così alto lignaggio, un ufficiale tanto essenziale, un parente così stretto e, apparentemente, stimato da suo marito. Forse Lord Illvin era sottoposto a qualche terapia notturna ordinata dai medici. Potevano esserci parecchie possibili spiegazioni al furtivo comportamento della ragazza. Be', una manciata. Una o due, almeno. Ista in preda a quel ragionamento ritornò a letto, ma trascorse parecchio tempo prima che riuscisse ad addormentarsi. Per una donna che a mezzanotte stava ancora aggirandosi per il castello, Lady Cattilara si presentò nelle stanze di Ista fin troppo presto dopo l'alba, scoppiettante di allegra ospitalità e con la proposta di accompagnarla al Tempio del villaggio per le preghiere di ringraziamento del mattino. Con uno sforzo, Ista soffocò l'acuta tensione che la presenza della giovane Marchess le procurava. Quando arrivò nel cortile traboccante di fiori, e vide che Pejar aveva un cavallo pronto per lei, era troppo tardi per tirarsi indietro. I muscoli le dolevano ancora, facendola sentire decrepita, e con un umore tutt'altro che grato si lasciò issare sulla sella. Fortunatamente Pejar condusse il suo destriero a passo lento. Lady Cattilara camminava in testa alla processione, con il capo eretto e le braccia che ondeggiavano liberamente; aveva persino fiato sufficiente per cantare un inno con le sue dame, mentre scendevano l'insidioso sentiero tortuoso. Il villaggio di Porifors, ammassato sotto la fortezza, era chiaramente in attesa di altre mura o che arrivasse un periodo di pace che le rendesse inutili. Similmente, il Tempio era piccolo e vetusto: gli altari dei quattro Dei erano poco più che nicchie a volta, mentre la Torre del Bastardo era un edificio che si era conservato egregiamente. Dopo la funzione, il vecchio Divino si fece vedere ansioso di mostrare alla Royina Vedova tutti i piccoli tesori del suo Tempio. Ferda fece segno a Pejar di scortare Ista e si scusò, dicendo che doveva allontanarsi, ma non per molto. Ista serrò le labbra di
fronte a quel tempismo. I tesori non si dimostrarono tanto esigui, viste le generose elargizioni che Lord Arhy destinava al Tempio dopo le numerose incursioni e scorrerie coronate di successo. Anche il nome di Lord Illvin fu spesso ricordato nell'inventario entusiastico del Divino. Effettivamente, sì, il crimine che lo aveva indebolito era un terribile, terribile avvenimento. Una tragedia, ahimè, contro la quale i medici di quel Tempio rurale non potevano combattere, benché vi fosse ancora la speranza che uomini più saggi, provenienti da una grande città, potessero produrre un miracolo. Si trattava solo di attendere che gli agenti inviati da Lord Arhys riuscissero a portarne uno. Prima che Ferda fosse di ritorno, il Divino riuscì a sciorinare le storie sulla provenienza di tutti quei tesori, proseguendo poi col fare un resoconto dettagliato dei progetti di costruzione di un nuovo Tempio, in attesa della pace e dei favori del March e della Marchess. A un certo punto, Ista, ignorando senza tante cerimonie il monologo del Divino, lo interruppe: «Scusatemi, Erudito, devo conferire subito con il mio ufficiale». Poi fece cenno a Ferda di seguirla. «Che cosa c'è?» gli chiese a bassa voce. Con un tono altrettanto basso, Ferda rispose: «È arrivato il corriere inviato da Lord dy Caribastos. Non vi sono notizie di Foix o di dy Cabon, né di Liss. Vi chiedo quindi il permesso di prendere due dei miei uomini e di andare a cercarli». Lanciò un'occhiata piena di ammirazione a Lady Cattilara, che cortesemente ascoltava il Divino. «Qui siete in buone mani. Ci vorranno solo due giorni di viaggio per arrivare a Maradi e tornare indietro... Lord Arhys si è impegnato a darci dei buoni cavalli freschi. Prevedo di rientrare prima che siate pronta a viaggiare di nuovo.» «Io... questa cosa non mi piace. Non mi va l'idea di essere sola, qualora dovesse esserci un'emergenza.» «Se le truppe di Lord Arhys non sono in grado di proteggervi, non sarebbero certo i miei pochi uomini a fare di meglio», ribatté Ferda. Fece una smorfia e la sua voce si abbassò ulteriormente. «E poi c'è la questione dell'orso.» «Dy Cabon è il più adatto tra noi a gestire quel tipo di complicazioni.» «Ammesso che sia vivo», azzardò Ferda. «Sono sicura che lo sia.» Ista non voleva spiegargli come faceva a saperlo. Peggio ancora, non era in grado di garantire la stessa cosa nel caso di Foix. «Conosco mio fratello. Sa essere forte e astuto, se la forza lo sostiene.
Ma se... la sua volontà non è più sua... dubito che dy Cabon riesca a gestirlo. Io invece posso. Ho gli strumenti.» Per un attimo, il suo volto fu illuminato da un sorriso fraterno. «Uhm», commentò Ista. La persuasione era un dono di famiglia. «E poi c'è Liss», aggiunse in tono più vago, ma non si dilungò a spiegare cosa intendesse dire in merito alla ragazza. Ista fu clemente ed evitò di pungolarlo. «Vorrei tanto che fosse qui.» Confermò invece. E dopo un attimo aggiunse: «E anche dy Cabon». Forse, soprattutto dy Cabon. Qualunque cosa stesse architettando il Dio, vi rientrava anche lo sconcertato Divino. «Allora, posso avere il vostro permesso, Royina? Pejar potrà occuparsi di tutte le vostre esigenze in questa corte minore, ne sono sicuro. Ed è abbastanza ansioso di farlo.» Ista lasciò cadere senza commentare quel piccolo guizzo di arroganza che nasceva dal suo essere al servizio di Cardegoss. Se Porifors fosse stata una normale corte rurale, Ferda avrebbe avuto senza dubbio ragione. «Hai intenzione di partire adesso?» Ferda chinò la testa. «Subito, a voi piacendo. Se ci sono problemi, prima arrivo meglio è.» E di fronte al suo silenzio accigliato, si affrettò a puntualizzare: «E se non ce ne sono, ritorno prima». Ista si mordicchiò un labbro dubbiosa. «E c'è, come dici tu, la questione dell'orso.» Trappole per orsi, aveva detto il Dio. Il Suo maledetto animale preferito, fuggito. Non aveva neanche senso pregare il Dio per chiedere protezione. Se fosse stato in grado di controllare direttamente i suoi demoni selvaggi insinuatisi nel regno della materia, probabilmente lo avrebbe fatto, e non avrebbe lasciato dipendere la propria debolezza divina dalla debolezza umana. «Molto bene», sospirò. «Vai, allora. Ma ritorna presto.» Ferda le rivolse un sorriso teso. «Chi può dirlo? Potrei incontrarli sulla strada che scende da Tolnoxo ed essere di ritorno prima del calare del sole.» S'inginocchiò, le baciò le mani con gratitudine e scomparve oltre le porte del Tempio. Ista scoprì con disappunto che il pranzo sarebbe stata una festa in onore della Royina Vedova, organizzata nella piazza del villaggio, con tanto di coro di voci bianche che si sarebbe esibito in canti, inni, nonché danze. Lord Arhys non era presente; fu la giovane Marchess a fare gli onori di casa, in uno stile affettuoso che naturalmente fu molto apprezzato. Più di una volta, Ista si accorse di come guardava i piccoli con occhi colmi di deside-
rio. Quando i monelli ebbero eseguito le loro ultime stravaganti giravolte, e Ista venne baciata sulle mani da tutti senza eccezione, venne rimessa sul suo cavallo e le fu consentito di ritirarsi. Di nascosto, si pulì sulla criniera del cavallo la viscida offerta lasciata sulle sue dita da un vagabondo col raffreddore. A quel punto, fu quasi felice di vedere quel cavallo. Quasi. Smontata nuovamente nel cortile d'ingresso brulicante di fiori, Ista stava giusto decidendo se accettare il suggerimento di Lady Cattilara di fare un pisolino pomeridiano, quando qualcuno lanciò un grido chiedendo di non chiudere il portone. «Salute, Castello di Porifors! Corriere dal Castello di Oby!» Ista girò su stessa nell'udire quella voce impetuosa e familiare. Quella che stava oltrepassando il portone su un corpulento cavallo da corsa coperto di schiuma gialla era Liss. Indossava il suo tabarro con lo stemma di Chalion, un leopardo sulla sagoma stilizzata di un castello, e sorreggeva una sacca di pelle nello stile ufficiale, coi sigilli di cera che battevano sui loro legacci. La camicia, sotto il tabarro, era bagnata di sudore come il cavallo, e il volto era arrossato dal sole. La sua bocca si spalancò quando vide tutti quei vasi di fiori e piante verdi. «Liss!» gridò felice Ista. «Ah, Royina! Allora siete qui!» Con uno strattone Liss si liberò delle staffe e saltò a terra. Sorridendo, s'inginocchiò ai piedi di Ista alla moda dei cortigiani; Ista la fece rialzare prendendola per le mani. Il massimo che poté fare per impedirsi di abbracciarla. «Come sei arrivata qui? Hai incontrato Ferda?» «Ferda? Ferda è salvo? Ah, Salve, Pejar!» Lui le rispose con un ampio sorriso. «Che la Figlia sia ringraziata, ce l'hai fatta!» «Se le storie che ho sentito sono vere, tutti voi eravate in una situazione peggiore di quanto io non sia mai stata!» Con voce carica d'ansia Ista aggiunse: «Ferda ha lasciato il castello neanche tre ore fa... devi averlo sicuramente superato sulla strada per Tolnoxo». Liss inarcò un sopracciglio. «Ma io arrivo da Oby.» «Oh. Ma come hai fatto a... Oh, vieni, vieni, siediti e raccontami tutto!» «Sì, mia cara Royina, ma prima devo consegnare le mie lettere, visto che ancora per oggi sono un corriere. Guardate quel ronzino: non è mio, siano ringraziati i cinque Dei. Appartiene alla stazione di posta che si trova a
metà strada tra qui e Oby. Entrambi avremmo bisogno di un secchio d'acqua.» Ista fece segno a Pejar, che annuì e corse via. Cattilara e le sue dame si avvicinarono. La Marchess rivolse un sorriso perplesso e curioso al corriere e a Ista. «Questa è la mia più leale e coraggiosa dama di compagnia, Annaliss di Labra. Liss, onora Lady Cattilara dy Lutez, Marchess di Porifors, e queste...» Ista sciorinò i ranghi delle dame di Cattilara, che guardavano stralunate la ragazza. Liss ubbidì con una serie di piccoli inchini amichevoli via via che le venivano fatte le presentazioni. Pejar ritornò con un secchio traboccante d'acqua. Liss glielo tolse di mano e ci infilò la testa. Quando la tirò fuori per respirare, con un sospiro di sollievo, la sua treccia nera impregnata d'acqua disegnò un arco di goccioline che per poco non annaffiò le dame di Cattilara. «Ah! Così va meglio. Per i cinque Dei, Caribastos è una regione calda in questa stagione.» Poi portò il secchio al cavallo, al quale diede una pacca affettuosa. «Eravamo sicuri che ce l'avessi fatta a sottrarti a quegli inseguitori e ad avvertire quel villaggio al crocevia», disse Pejar «ma poi sei sparita ed eravamo in pensiero per te.» «Il mio cavallo era sfinito quando sono arrivata al villaggio, ma il mio tabarro e il bastone della cancelleria hanno convinto gli abitanti a prestarmene un altro. Non avevano soldati per combattere i jokoniani, così li ho lasciati che si davano alla fuga e mi sono diretta a est più in fretta che ho potuto su quell'ansimante ronzino. Chissà se sono riusciti a salvarsi?» «Quando noi siamo passati, verso il tramonto, non c'era nessuno», rispose Pejar. «Ah, bene. Be', io, più o meno alla stessa ora, ero arrivata in una stazione di posta sulla strada principale per Maradi, e quando sono riuscita a convincere tutti che non vaneggiavo, si sono preparati per partire all'inseguimento. O almeno così ho pensato. Ho dormito lì, e il mattino dopo sono arrivata a Maradi a un'andatura più tranquilla. Proprio in quel momento il Provincar di Tolnoxo stava facendo uscire la sua cavalleria. Alla velocità con cui si spostavano i jokoniani, ho temuto veramente che fosse troppo tardi.» «E così è stato, infatti», confermò Ista. «Ma un corriere ha raggiunto il Castello di Porifors in tempo perché Lord Arhys potesse intervenire.» «Sì, dev'essere stato uno dei ragazzi partito direttamente dalla stazione di posta in cui mi sono fermata. Che i cinque Dei lo inondino di benedi-
zioni. Uno di loro ha detto che era nativo di queste parti. Ho sperato che sapesse il fatto suo.» «Hai notizie di Foix e del Divino dy Cabon?» chiese Ista. «Non li abbiamo più visti dopo che si sono nascosti in quel canale.» Liss scosse la testa, accigliandosi. «Ho parlato di loro alla stazione di posta, e quando ho incrociato i luogotenenti di Lord dy Tolnoxo ho avvisato anche loro, anche se a quel punto non potevo sapere se fossero stati catturati dai jokoniani, come è successo a voi, o se fossero riusciti a fuggire. Perciò sono andata al Tempio di Maradi, dove ho trovato una Divina anziana dell'Ordine dell'Erudito dy Cabon, alla quale ho raccontato tutta la storia, spiegando che il nostro Divino probabilmente era in mezzo alla strada e bisognoso di aiuto. Si è impegnata a inviare alcuni Devoti a cercarli.» «Questa è stata un'ottima mossa», disse Ista, con un tono di approvazione. Liss sorrise. «Mi è sembrata poca cosa. Ho aspettato un giorno all'ufficio della cancelleria di Maradi, ma non è arrivata nessuna informazione da parte della colonna di Lord dy Tolnoxo. Poi mi sono ricordata di una strada più veloce per arrivare a sud e mi sono offerta di fare da corriere per Oby. Speravo che, essendo la fortezza più grande, probabilmente eravate stata soccorsa dai suoi soldati e condotta là. Perciò sono partita come un lampo... non credo che un corriere abbia mai percorso quella strada più in fretta di quanto abbia fatto io quel giorno.» Spostò una ciocca di capelli umidi dal volto bruciato dal sole, infilandola nella treccia. «Quando sono arrivata alla fortezza quella sera, erano ancora tutti in subbuglio. Ma i miei sforzi sono stati ripagati il mattino dopo, quand'è giunto il messaggio del March di Porifors dove informava che eravate tutti in salvo. Anche il Lord di Oby e i suoi uomini erano usciti per pattugliare la zona alla ricerca dei jokoniani, ma sono ritornati quel pomeriggio stesso.» «Mio padre è il March di Oby», osservò Cattilara, con una lieve preoccupazione nella voce. «L'avete visto?» Liss abbozzò di nuovo quell'accenno d'inchino e di riverenza che solo lei sapeva fare. «È in buona salute, mia signora. L'ho pregato di affidare a me il compito di venire a Porifors come corriere, per ricongiungermi al più presto con la Royina.» Sollevò la sacca. «Quando sono partita, stamani all'alba, mi ha consegnato lui stesso questa sacca. Potrebbe esserci qualcosa per voi... ah.» I suoi occhi s'illuminarono vedendo arrivare il siniscalco di Porifors, un signorotto senza terra, già in là con gli anni, che a Ista ri-
cordò molto Ser dy Ferrej, nonostante fosse alto e magro invece che corpulento. Lo seguiva dappresso lo stalliere Goram. Il siniscalco prese in carico la sacca, con palese sollievo di Liss, e si allontanò frettolosamente, dopo aver dato ordini allo stalliere di occuparsi del cavallo del corriere. «Dovete essere esausta», disse Lady Cattilara che aveva ascoltato con interesse il racconto di Liss. «Oh, ma a me piace il mio lavoro», ribatté Liss in tono spensierato, spolverandosi il tabarro. «La gente mi procura cavalli veloci e si toglie di mezzo.» Le labbra di Ista s'incresparono a quelle parole. Era davvero un motivo sufficiente per gioire? Ma almeno sembrava che non avesse lasciato partire Ferda per una missione inutile, malgrado non avesse incontrato Liss sulla strada. Inoltre, poteva sperare che una volta raggiunta Maradi, avrebbe trovato il fratello posseduto dal demone e la sua guida sani e salvi presso il Tempio. Liss, cercando di seguire il cavallo mentre Goram lo portava via, fece piccoli inchini di scusa in tutte le direzioni. Con voce pacata Ista disse: «Quando la mia dama di compagnia avrà finito di occuparsi del suo cavallo, avrà bisogno di fare un bagno. E, vi prego, procuratele anche un cambio d'abiti. Tutto ciò che aveva le è stato rubato dai jokoniani, com'è successo a me». In realtà, l'esiguo guardaroba di Liss si trovava quasi tutto nelle sue sacche da sella. Ma Ista giudicò che non fosse solo l'olezzo di cavalli e di sudore di quella superba amazzone di basso rango che faceva arricciare il naso alle dame di Cattilara. «E da mangiare, vi prego, cara Royina!» Gridò Liss mentre si allontanava. «Sarà degno della tua grande cavalcata, la cui fama giungerà fino a Cardegoss con la mia prossima lettera», promise Ista. «Allora sarà una cosa veloce, scegliete voi!» Liss rimase a lungo nelle scuderie, prima di ripresentarsi a Ista che era tornata nei suoi nuovi alloggi. Le dame di Cattilara, figlie di signorotti del luogo, che avevano quasi fatto a gara per avere l'onore di servire la Royina Vedova, furono chiaramente meno contente di occuparsi di Liss. La ragazza riuscì comunque a fare un bagno tra un boccone e l'altro di pane, olive, formaggio e frutta secca, e parecchie tazze di una tisana tiepida alle erbe. I suoi luridi abiti da viaggio vennero portati via dalla servitù per essere lavati a dovere.
Gli indumenti smessi di Cattilara si addicevano molto meglio all'altezza e all'età di Liss che non a quelle di Ista, anche se erano un po' troppo abbondanti sul seno. Liss rise per la gioia e la sorpresa di quel dono di ricchezza insolita. La gioia che una persona riusciva a trarre dalla compagnia di Liss era genuina. Finalmente l'Accolita medico poteva ritornare al Tempio e alla famiglia che aveva trascurato, visto che adesso c'era qualcuno che si occupava di Ista. Liss non aveva ancora finito di asciugarsi, che l'Accolita aveva terminato d'impartire le istruzioni, consegnato una scorta di bende e unguenti, raccolto le sue cose, ricevuto da Ista una lauta mancia per il suo disturbo, ed era uscita di fretta per tornare a casa. Quella sera, la cena venne preparata in una sala più piccola, lontana dal cortile con la fontana a forma di stella, e fu una riunione quasi interamente femminile, sotto l'egida di Lady Cattilara. Nessuna sedia venne lasciata ritualmente vuota. «Questa sera Lord Arhys non cena?» chiese Ista, che era seduta alla destra della Marchess. «Immagino che siate preoccupata per la sua infezione intestinale.» «Non tanto per quella, quanto per i suoi doveri militari», confidò con un sospiro Lady Cattilara. «È andato a pattugliare il confine settentrionale. E ogni volta che se ne va muoio di paura, anche se, naturalmente, non devo darlo a vedere. Se dovesse succedergli qualcosa, penso che impazzirei.» Nascose quella gaffe sorseggiando un po' di vino, e alzando la coppa alla salute di Ista. «Ma voi mi capite, ne sono certa. Vorrei poterlo avere accanto a me per sempre.» «Ma le sue grandi doti militari non fanno forse parte del suo...» terrificante, bisogna ammetterlo «fascino? Mettetegli le briglie, e rischiate di uccidere proprio la cosa che ammirate di più in lui.» «Oh, no», ribatté Lady Cattilara in tono serio. Negando l'obiezione, ma evitando di rispondere, notò Ista. «Lo costringo a scrivermi ogni giorno, quand'è fuori. Se si dimentica, mi arrabbio...» e le sue labbra s'incurvarono all'insù, mentre gli occhi ridevano, «... per almeno un'ora! Ma non se ne dimentica. Comunque, penso che rientri prima che faccia buio. Io aspetto di vederlo spuntare sulla strada dalla torre settentrionale, e quando vedo il suo cavallo, il mio cuore comincia a battere all'impazzata.» Il suo viso si addolcì. Quella sera il cibo era eccellente. La cuoca di Lady Cattilara fortunata-
mente non aveva imitato gli eccessi dei banchetti di corte di Cardegoss, ma aveva servito pasti freschi e semplici. Liss mangiò di gusto, consumando una porzione invidiabile di dolci. Era molto silenziosa, in quella che Ista riteneva un'inutile soggezione dell'ambiente. Avrebbe di gran lunga preferito ascoltare i racconti della ragazza, piuttosto degli inutili pettegolezzi delle dame che parevano pensati solo per far trascorrere il tempo. Quando finalmente uscirono dalla sala e ritornarono in cortile, Ista la sgridò per la sua timidezza. «Veramente», ammise Liss, «mi sono sentita un'allocca vicino a quelle ragazze di alto rango. Non capisco come riescano a indossare tranquillamente questi abiti estrosi. Sono sicura che prima o poi inciamperò e lo strapperò.» «Allora facciamo una passeggiata sotto il portico, così ti eserciti a frusciare nelle sete per seguirmi a corte. E parlami di cosa è successo da quando sei scappata.» Liss rallentò il passo in un modo più consono a una dama, adeguandosi all'andatura zoppicante di Ista che la incitò con domande che vertevano su ogni aspetto del suo viaggio. Non che avesse bisogno della descrizione di ogni pelo, difetto, virtù e bizzarria di tutti i cavalli che Liss aveva cavalcato in quegli ultimi giorni, ma la sua voce era una musica così gradita, che poco importava ciò su cui si dilungava. Ista aveva meno cose da raccontare della sua avventura, certamente non i particolari dei cavalli jokoniani che aveva sperimentato come una penitenza. Né desiderava rammentare le mosche verdi che si erano radunate per banchettare sul sangue gocciolante. Passando davanti a una colonna, Liss allungò una mano e lasciò scivolare le dita sugli intarsi. «Sembra broccato di pietra. Porifors è un castello molto più bello di quanto mi aspettassi. Lord Arhys dy Lutez è proprio un grande spadaccino, come si vantava la Marchess?» «Sì, è così. Ha falciato quattro soldati nemici che cercavano di portarmi via. Due sono fuggiti.» Non li aveva dimenticati. Ripensandoci, era quasi contenta che l'ufficiale-traduttore fosse uno di quelli che era riuscito a fuggire. Aveva parlato con lui, guardandolo negli occhi, troppe volte per poterlo immaginare ridotto a una chiazza sfocata tra i caduti. Forse si trattava di una debolezza femminile, come rifiutare di mangiare un animale che è vissuto accanto a noi per una vita. «È vero che il March è arrivato portandovi sull'arcione del suo cavallo?» «Sì», tagliò corto Ista. Gli occhi di Liss brillarono di gioia. «Che meraviglia! Peccato che sia
sposato, eh? È proprio bello come sostiene sua moglie?» «Non saprei dirlo», borbottò Ista. Poi, con una franchezza riluttante, aggiunse: «Comunque è piuttosto attraente». «Che bello avere un simile Lord ai vostri piedi, comunque. Sono contenta che siate finita in questo posto, dopo tutte quelle peripezie.» Ista modificò la frase Non era esattamente ai miei piedi, in: «Non ho intenzione di stare qui per molto». Le sopracciglia di Liss s'inarcarono. «L'Accolita della Madre ha detto che non siete ancora in grado di fare molta strada a cavallo.» «Non dovrei, forse. Ma posso farlo se è necessario.» Ista seguì lo sguardo ammirato di Liss attorno al cortile ombreggiato dalla luce obliqua del giorno morente, e cercò di trovare un altro motivo che non fossero i brutti sogni, che potesse spiegare il suo disagio. Un motivo razionale, sensato, per una donna che non era per niente pazza. Si strofinò il punto che le prudeva sulla fronte. «Siamo troppo vicini a Jokona, qui. Non so quali trattati esistano attualmente tra Jokona e Borasnen, ma tutti sanno che il porto di Visping è la meta su cui è puntata l'attenzione della mia regale figlia. Ciò che si prepara per il prossimo autunno non è una semplice incursione sul confine. E comunque vi è stato un terribile avvenimento, qui, questa primavera, che sicuramente non ha giovato alle relazioni col principe di Jokona.» Ista non guardò verso la stanza nell'angolo del cortile. «Intendete dire il modo in cui il maestro di scuderia di Porifors è stato pugnalato da quel cortigiano jokoniano? Lo stalliere Goram mi ha raccontato la storia. È un tipo strano... mi sa che sia un po' tocco... ma sa fare bene il suo mestiere.» Poi aggiunse: «Venite qui, Royina, zoppicate peggio del mio secondo cavallo. Sedete, riposate». Scelse una panchina all'ombra, in fondo al cortile, quella dove le dame di Cattilara si erano riunite la sera prima, e con l'aria di chi è determinato a far bene una cosa, fece accomodare Ista. Dopo un attimo di silenzio la guardò di sottecchi e continuò il discorso interrotto: «Un vecchio proprio strano, quel Goram. Voleva sapere se una Royina è più importante di una principessa. Perché una principessa è figlia di un principe, ma voi siete solo la figlia di una Provincara. E Sara, la vedova del Roya Orico, era una Royina Vedova più recente di voi. Ho detto che un Provincar chalionese aveva lo stesso valore di un qualsiasi principe roknari e che, inoltre, voi eravate la madre della Royina di tutta ChalionIbra, e nessun altro lo è». Ista si costrinse a sorridere. «Le Royine non passano di qui molto spes-
so, credo. Le tue risposte lo hanno tranquillizzato?» Liss alzò le spalle. «Pare di sì.» Poi aggrottò la fronte. «Non è una cosa strana che un uomo resti privo di sensi in quel modo per mesi?» Fu la volta di Ista di alzare le spalle. «Paralisi, teste rotte, colli spezzati... succede così a volte.» «Ma alcuni si riprendono, giusto?» «Io penso che quelli che si riprendono, iniziano a farlo... molto prima. Molti di coloro che vengono colpiti in quel modo non vivono a lungo, tranne quando vengono curati in maniera straordinaria. È una morte lenta e orribile: meglio andarsene alla svelta, al primo colpo.» «Se Goram dedica a Lord Illvin anche solo la metà delle cure che dispensa ai suoi cavalli, forse si spiega perché.» Ista si rese conto che proprio quell'ometto di cui stavano parlando era uscito dalla camera d'angolo e si era accovacciato dietro la balaustra, a osservarle. Dopo qualche minuto, si alzò, scese le scale e attraversò il cortile. Mentre si avvicinava, i suoi passi rallentarono, il capo gli si ritrasse come quello di una tartaruga, e le mani si congiunsero. Si fermò a una certa distanza, piegò le ginocchia e chinò la testa prima in direzione di Ista, poi di Liss. I suoi occhi erano del colore dell'acciaio grezzo. Il suo sguardo era schietto. «Salute», disse alla fine, rivolto a un punto a mezza via tra le due donne. «Lei è quella di cui continua a parlare, non ci sono dubbi.» Increspò le labbra, e il suo sguardo si fissò all'improvviso su Liss. «Glielo avete chiesto?» Liss sorrise in modo strano. «Salve, Goram. Be', ci stavo arrivando.» Si strinse nelle braccia, dondolando avanti e indietro. «Chiedeteglielo, allora.» La ragazza inclinò la testa. «Perché non lo fate voi? Non morde.» «Ma... uhm», biascicò Goram in modo indistinto, guardando torvo i suoi piedi calzati di stivali. «Fatelo voi.» Con una scrollata di spalle, Liss si sbarazzò di un lieve imbarazzo e si rivolse a Ista. «Royina, Goram desidera che andiate a vedere il suo padrone.» Ista si appoggiò allo schienale e rimase silenziosa per un lungo attimo, trattenendo il respiro. «Perché?» chiese alla fine. Goram alzò lo sguardo su di lei. «Voi siete quella di cui lui continua a parlare.» «Di sicuro», commentò Ista dopo un attimo, «nessuno vorrebbe essere
visto al suo capezzale.» «Questo non è un problema», ribatté in modo solenne Goram. Sbatté le palpebre poi la fissò a lungo. Socchiudendo gli occhi, Liss si coprì la bocca con la mano e sussurrò nell'orecchio di Ista: «Era più loquace nelle scuderie. Penso che lo abbiate intimidito». Ista pensò che avrebbe dovuto resistere. In quello strano groviglio di sensazioni aveva difficoltà a trovare il capo di un logico ragionamento. Occhi insistenti, parole sconnesse, una silente pressione di aspettativa... Poteva maledire un Dio, ma non uno stalliere. Si guardò attorno. Non era mezzanotte né mezzogiorno; nessun particolare corrispondeva ai suoi sogni. Nel suo sogno non c'erano né Goram né Liss, l'ora del giorno era sbagliata... forse il momento era favorevole. Trasse un respiro. «Allora, Liss, andiamo a visitare un'altra rovina.» Liss l'aiutò ad alzarsi, con lo sguardo acceso di curiosità. Ista salì le scale appoggiandosi al suo braccio, lentamente. Goram la osservava ansioso, muovendo le labbra, come se mentalmente la sospingesse a ogni gradino. Le donne seguirono lo stalliere. Lui aprì la porta, indietreggiò, s'inchinò di nuovo. Ista esitò, poi seguì Liss all'interno. 12 La stanza non era buia come quella che ricordava di aver visto nel sogno; le imposte sulla parete più lontana erano spalancate sul cielo color cobalto. L'effetto era arioso e gradevole. Non aveva l'odore della camera di un malato, nessun fascio di erbe dall'intenso profumo scendevano dalle travi a mascherare il lezzo di feci, vomito, sudore o disperazione. Solo aria fresca, ginestrella e un lieve aroma di mascolinità per niente sgradevole. Nient'affatto sgradevole. Ista si costrinse a guardare il letto, e rimase di sasso. Il letto era rifatto di fresco. La figura distesa sul copriletto non dava l'impressione di un uomo malato, bensì di un uomo che avesse deciso di concedersi un attimo di riposo tra un impegno e l'altro. Era alto e magro, esattamente come nei suoi sogni, ma abbigliato in modo molto diverso: non come un malato o un dormiente, bensì come un cortigiano. Una tunica marrone chiaro, ricamata con foglie intrecciate, era allacciata al collo. Portava pantaloni infilati in stivali lucidati, stretti ai polpacci. Sotto di lui e
lungo i fianchi una sopravveste marrone dai riflessi rossicci, e una spada nel suo fodero era posata sulle pieghe disposte in modo ordinato, l'elsa intagliata sotto la mano sinistra inerte. Un anello con sigillo brillava a un dito. I capelli non erano semplicemente pettinati all'indietro, ma acconciati in trecce perfette che partivano dalle tempie e seguivano il contorno della testa. La massa scura screziata di fili d'argento terminava in una coda, stretta in un nastro marrone, che scendeva sulla spalla e finiva sul petto. Era sbarbato, e di recente. Un sentore di acqua di lavanda solleticò le narici di Ista. Si rese conto che Goram la stava osservando con una intensità dolorosa, tormentandosi le mani strette l'una all'altra. Tutta quella bellezza silente era opera sua. Che cosa doveva essere stato quell'uomo per ricevere una tale devozione da quel lacchè, adesso che, con ogni evidenza, aveva perso qualsiasi potere di punire o ricompensare? «Per i cinque Dei», annaspò Liss. «È morto.» «No, non è morto. Non si decompone», ribatté Goram spazientito. «Ma non respira!» «Fa anche quello. Si può vedere dallo specchio, guardate.» Girò attorno al letto, prese uno specchietto da una vicina cassapanca e lo accostò alle narici di Lord Illvin. «Vedete?» Liss si chinò sulla figura immobile e lanciò un'occhiata circospetta. «Quella è l'impronta del vostro pollice.» «Non è vero!» «Be'... forse...» Liss si raddrizzò e indietreggiò agitando nervosamente la mano, come a invitare Ista a prendere il suo posto accanto al letto e giudicare da sé. Ista si avvicinò sotto lo sguardo ansioso di Goram, cercando di trovare qualcosa da dirgli. «Lo accudite bene. Una tragedia che Ser dy Arbanos sia stato ridotto in questo stato.» «Sì», confermò. Deglutì e aggiunse: «Allora... procedete, signora». «Scusate?» «Be'... baciatelo.» Per un attimo, Ista strinse i denti tanto forte che sentì una fitta alla mascella. Ma non v'era allegria sottesa nell'espressione di quel volto segnato, teso, nessun segno di scherno. «Non vi capisco.» Goram si mordicchiò un labbro. «È stata una principessa a ridurlo così. Ho pensato che forse voi avreste potuto risvegliarlo. Essendo una Royina...» Dopo un attimo d'incertezza, soggiunse: «Royina Vedova».
Con suo disappunto, vide che era mortalmente serio. Col tono più gentile che riuscì a trovare, Ista replicò: «Goram, questa non è una fiaba. Qui non ci sono bambini, ahimè». «Potreste provare. Non c'è nulla di male a provare.» «Temo che non servirà a molto.» «Non farà male», ripeté lui ostinato. «Bisogna provare qualcosa.» Doveva aver passato parecchie ore a preparare meticolosamente quella scena in previsione della visita di Ista. Quale disperata speranza nutriva quell'uomo? Forse anche lui ha fatto dei sogni. Quel pensiero le bloccò il respiro. Il ricordo del secondo bacio del Bastardo la fece arrossire. E se non fosse stato solo uno scherzo empio, ma un altro dono... un dono inteso a essere trasferito? Possibile che fosse stato concesso proprio a lei di compiere un miracolo di guarigione così gradevole? È così che i santi vengono sedotti dagli Dei. Il cuore prese a martellarle nel petto, animato da una segreta eccitazione. Una vita per una vita, e grazie alla clemenza del Bastardo, il mio peccato è cancellato. Come se fosse sotto l'effetto di un incantesimo, Ista si chinò sulle guance appena rasate. Le labbra avevano un colore neutro, leggermente dischiuse sopra denti pallidi, regolari. Né calde né fredde, quando vi premette la propria bocca... Espirò in quella bocca. Ricordò che la lingua era l'organo sacro al Bastardo, come il ventre per la Madre, gli organi maschili per il Padre, il cuore per il Fratello e il cervello per la Figlia. Perché la lingua era fonte di ogni menzogna, accusavano falsamente gli eretici quaternari. Osò sfiorare quei denti, toccare la punta fredda della sua lingua, come il Dio aveva invaso la sua bocca nel sogno. Le sue dita si allargarono, sospese sopra il cuore, ma senza avventurarsi ad accarezzarlo. Il petto non si sollevò. Gli occhi neri, di cui conosceva il colore a memoria, non si aprirono. Rimase inerte. Represse un gemito di disappunto, nascose l'umiliazione, e si raddrizzò. «Come vedete, non è servito.» Folle speranza e folle fallimento. «Già», commentò Goram. I suoi occhi erano una fessura, taglienti su di lei. Anche lui sembrava deluso, ma per nulla vinto. «Dev'esserci un altro sistema.» Fatemi uscire da qui. È troppo doloroso. Liss, che era rimasta a guardare tutta la scena, scoccò a Ista un'occhiata di scusa. Una lezione sui doveri di una dama di compagnia nel proteggere
la propria padrona da persone importune, sarebbe stata indispensabile, una volta lasciata quella stanza. «Ma voi siete quella di cui continua a parlare», ripeté Goram ritrovando la propria audacia. O forse la futilità del suo bacio aveva indebolito la soggezione che provava nei suoi confronti? Dopotutto, era semplicemente una Royina Vedova, non abbastanza potente, questo era chiaro, per riportare in vita un moribondo. «Non tanto alta, capelli lunghi e crespi, occhi grigi, il volto serio... austero; ha detto che eravate austera.» La squadrò da capo a piedi, annuendo, come se fosse soddisfatto della sua gravità. «Proprio voi.» «Chi ha detto... chi mi ha descritto così?» chiese Ista esasperata. Goram girò la testa di scatto verso il letto. «Lui.» «Quando?» La voce di Ista uscì più tagliente di quanto avrebbe voluto. Liss sussultò. Le mani di Goram si aprirono. «Quando si sveglia.» «Si sveglia? Io credevo... Lady Cattilara mi ha fatto intendere... che non è mai uscito dal coma dopo essere stato pugnalato.» «Eh, Lady Cattilara?» fece Goram, ed espirò col naso. «Ma non rimane sveglio, capite. Si risveglia tutti i giorni per un po', verso mezzogiorno. Cerchiamo di farlo mangiare il più possibile, mentre riesce a deglutire senza soffocarsi. Ma non mangia abbastanza. Si sta consumando, lo potete vedere. Lady Catti ha trovato un'idea ingegnosa, gli versiamo in gola del latte di capra con un tubo di pelle, e potete vedere che a qualcosa serve, ma non è abbastanza. Adesso è troppo magro. Ogni giorno s'indebolisce sempre di più.» «È coerente quando si sveglia?» Goram scrollò le spalle. Non era una risposta incoraggiante. Ma se si svegliava, perché non era successo dopo il suo bacio, o in qualsiasi altro momento che non fosse mezzogiorno? «A volte continua a parlare. Alcuni direbbero che vaneggia», aggiunse Goram. «È un po' strano, non credete? Qualche stregoneria roknari?» interloquì Liss. Ista trasalì a quell'idea. Io non voglio avere nulla a che fare con cose arcane. «La stregoneria è illegale nei principati e nell'Arcipelago.» E non solo per motivi teologici. Era scarsamente incoraggiata persino a Chalion. Eppure, presentandosi l'opportunità, e laddove vi fosse una sufficiente di-
sperazione, un demone vagante poteva costituire una notevole tentazione sia per un quaternario sia per un quintariano. Tanto più che se un quaternario veniva posseduto da un demone rischiava la pericolosa accusa di eresia qualora si fosse rivolto al proprio Tempio per essere assistito. Goram scrollò di nuovo le spalle. «Lady Catti pensa che sia il veleno di quel pugnale roknari il motivo per cui la ferita non guarisce. Mi è capitato di avvelenare i topi nelle stalle... ma non ho mai visto nulla del genere.» Liss aggrottò le sopracciglia, mentre studiava la figura immobile. «Siete da molto al suo servizio?» «Da tre anni.» «Come stalliere?» «Stalliere, sergente, corriere, uomo di fatica, qualunque cosa. Adesso servitore. Gli altri sono troppo spaventati. Hanno paura di toccarlo. Sono l'unico che lo fa.» Liss inclinò la testa di lato; il suo cipiglio perplesso non diminuì. «Perché porta i capelli nello stile roknari?» «Ci andava spesso come esploratore del March. Così riusciva a entrare inosservato, conosce la lingua... la madre di suo padre era roknari, malgrado avesse imparato a farsi il segno dei Cinque.» Dei passi risuonarono all'esterno, e Goram alzò lo sguardo allarmato. La porta si aprì. La voce di Lady Cattilara disse in tono adirato: «Goram, che cosa stai facendo? Ho sentito delle voci... oh, vi prego di scusarmi, Royina». Ista si girò, incrociando le braccia; Lady Cattilara le rivolse una riverenza, anche se scoccò un'occhiata torva allo stalliere. Indossava un grembiule sopra l'elegante veste che portava la sera prima, ed era seguita da una cameriera che reggeva una brocca coperta. Sgranò leggermente gli occhi nel vedere l'elegante tenuta del malato. Goram si fece più piccolo, abbassò lo sguardo, e si rifugiò di nuovo in quel suo borbottio indistinto. Quell'aria da cane bastonato indusse Ista a risparmiargli dei guai. «Dovete scusarlo», disse pacatamente. «Sono stata io a chiedergli di vedere Lord Illvin, perché...» Giusto, perché? Per vedere se assomigliava al fratello? No, troppo debole. Per vedere se assomigliava a quello dei miei sogni? Peggio. «Ho avuto l'impressione che Lord Arhys fosse molto turbato da questa situazione. Ho deciso di scrivere a un medico di mia conoscenza e di grande esperienza, l'Erudita Tovia, per sapere se può offrire qualche consiglio. Quindi volevo essere in grado di descrivere il paziente e i suoi
sintomi in modo preciso. Lei è molto pignola nelle diagnosi.» «Questo è estremamente gentile da parte vostra, Royina, offrire il vostro medico personale», replicò Lady Cattilara, con aria commossa. «Mio marito è profondamente addolorato dalla tragedia che ha colpito suo fratello. Se i medici che abbiamo mandato a chiamare continuano a dimostrarsi riluttanti a intraprendere un viaggio così lungo, vi saremo molto grati di questo aiuto.» Lanciò un'occhiata dubbiosa alla cameriera con la brocca. «Lo alimentiamo col latte di capra. Purtroppo non è una cosa piacevole a vedersi. A volte si soffoca.» Le implicazioni erano chiare, sinistre e ripugnanti. Considerato tutto il lavoro che Goram aveva fatto per presentare il padrone in una luce più dignitosa possibile, Ista non ebbe cuore di guardare quel lungo corpo sottoposto a un trattamento indegno, per quanto necessario. «Presumo che l'Erudita Tovia sia perfettamente al corrente di tutti i metodi di assistenza. Non credo che avrò bisogno di prenderne nota.» Lady Cattilara sembrò sollevata. Con un gesto a indicare procedete, rivolto alla cameriera e a Goram, accompagnò fuori Ista e Liss, seguendole fino alle camere della Royina. Il crepuscolo era ormai sceso; il cortile era avvolto nell'ombra, anche se le nubi più alte erano sfumate di rosa contro il blu sempre più intenso del cielo. «Goram è un uomo molto premuroso», esordì Cattilara, «ma purtroppo è solo un sempliciotto. Anche se è di gran lunga il migliore degli uomini di Lord Illvin. Gli altri sono troppo terrorizzati, penso. Goram ha avuto una vita più dura, in passato, e non è schizzinoso. Senza di lui non sarei riuscita a occuparmi di Illvin.» Il linguaggio di Goram era semplice, ma non lo erano le sue mani, a parere di Ista, malgrado sembrasse il prototipo del servitore scemo. «Dà l'impressione di avere una rara lealtà nei confronti di Lord Illvin.» «Non c'è da stupirsi. Credo che sia stato il servo di un ufficiale, in gioventù, e che sia stato catturato dai roknari durante una delle infelici campagne del Roya Orico, per poi essere venduto come schiavo ai quaternari. In ogni caso, Illvin l'ha riscattato durante uno dei suoi viaggi a Jokona, credo. Non so se Illvin l'abbia semplicemente acquistato, perché pare che fosse implicato in una sgradevole disavventura. Da allora Goram è rimasto con Illvin. Presumo che sia troppo vecchio per andarsene e ricominciare da un'altra parte.» Lo sguardo di Cattilara ebbe un guizzo. «Che cosa ha cercato di raccontarvi quel pover'uomo?» Liss fece per rispondere, ma Ista le diede un pizzicotto sul braccio prima
che potesse parlare. «Purtroppo non è molto lucido», rispose Ista. «Speravo che potesse dirmi qualcosa dell'adolescenza dei fratelli, ma non è stato così.» Cattilara sorrise con fare comprensivo. «Intendete quando Lord dy Lutez era ancora vivo e giovane? Temo che il Cancelliere - era già il Cancelliere del Roya Ias a quel tempo o solo un cortigiano in ascesa? - non venisse spesso a Porifors.» «Così avevate detto», ribatté Ista freddamente. Poi lasciò che Cattilara le accompagnasse nelle loro stanze e che ritornasse frettolosamente a supervisionare l'alimentazione di Lord Illvin. O qualunque altra cosa facesse. Ista si chiese se nel latte di capra venisse aggiunto qualche altro ingrediente oltre al miele, o quali strane spezie venissero cosparse sul cibo che ingurgitava, tanto da farlo farfugliare in modo incoerente, prima di ricadere in un sonno che durava per un intero giro del sole. Questa era una considerazione piuttosto seducente. Forse non si trattava di una dose di veleno cosparsa sulla lama del pugnale roknari, ma di una somministrazione continua, a opera di qualcuno che gli stava vicino. La cosa avrebbe spiegato i sintomi che le erano stati descritti. Le dispiacque di averlo pensato. Meno irritante dei sogni con un fuoco cangiante, comunque. «Perché mi avete pizzicato il braccio?» chiese Liss, una volta chiusa la porta. «Per impedirti di parlare.» «Be', questo lo avevo capito. Ma perché?» «La Marchess non era contenta di quello che aveva fatto il suo stalliere. Ho voluto risparmiargli una punizione.» «Oh.» Liss si accigliò, mentre assorbiva quelle parole. «Mi dispiace di avergli permesso di disturbarvi. Nelle scuderie sembrava innocuo. Mi è piaciuto il modo in cui accudiva i cavalli, e non avrei mai immaginato che vi avrebbe chiesto di fare una cosa tanto stupida.» E dopo un attimo aggiunse: «Siete stata gentile a non rifiutare la sua supplica». La gentilezza non ha nulla a che fare con questo. «Si è sicuramente dato un gran da fare per convincermi.» Un lampo di allegria ritornò negli occhi di Liss in risposta al suo tono ironico. «Questo è vero. Eppure... in qualche modo ha reso tutto più triste.» Ista non poté che concordare con un cenno del capo. Le alleggeriva il cuore il fatto di essere di nuovo accudita in modo sem-
plice e pratico da Liss, che l'aiutò a prepararsi per andare a letto. La ragazza le augurò la buona notte e andò a dormire nella camera attigua, a portata di voce, lasciando la candela come voleva Ista, la quale, una volta sola, si mise a sedere sui cuscini e meditò sulle rivelazioni della giornata. Le sue dita tamburellavano. Si sentiva inquieta come quando aveva l'abitudine di passeggiare avanti e indietro sui bastioni del Castello di Valenda, finché i piedi non le dolevano e le cameriere la pregavano di rientrare. Quello era stato un narcotico per i pensieri, comunque, non un aiuto. Anche se apparentemente poteva sembrare che a condurla a Porifors fosse stata una serie d'incidenti, il Bastardo aveva affermato che lei non era lì per caso. 'Gli Dei sono parsimoniosi', le aveva fatto notare una volta Lord dy Cazaril, e 'colgono le loro opportunità dove le trovano'. E non la giudicava una cosa positiva, da uomo tormentato dagli Dei qual era. Ista fece un sorriso torvo. In che modo venivano ascoltate le preghiere, comunque? Le preghiere erano innumerevoli, ma i miracoli rari. Gli Dei affidavano il loro lavoro agli altri, così sembrava. Perché per quanto vasto potesse essere un Dio, possedeva solo l'ampiezza di un'anima alla volta per penetrare il mondo della materia: che fosse una porta, una finestra, una fessura, una crepa, un foro di spillo... I demoni, per quanto si supponesse che fossero legioni, non possedevano nulla di simile all'infinita profondità di quegli occhi, ma sembrava che potessero rosicchiare i bordi dei loro spiragli viventi, e di fatto allargarli, col tempo. Quindi, chi doveva accusare di aver pregato per il suo arrivo? O forse il fatto che fosse stata mandata in quel posto era solo uno scherzo di cattivo gusto del Bastardo. Aveva compianto Lord Illvin quando lo aveva creduto privo di sensi, ma se Goram diceva la verità, aveva periodi di... se non di lucidità, almeno di risveglio. E chi aveva lasciato quella silenziosa preghiera della rosa bianca sul piatto vuoto di Illvin? Lady Cattilara era chiaramente ansiosa di avere un figlio, e suo marito... forse anche lui non era ciò che sembrava. Assurdo oltre ogni logica inviare una ex pazza di mezza età in giro per le strade di Chalion per farla approdare in quella fortezza; e per quale motivo? Una santa fallita, una strega fallita, una Royina fallita, moglie, madre, figlia, fallite... be', quello di essere un'amante era un ruolo che non aveva mai sperimentato. All'inizio, quando aveva scoperto la parentela di Lord Arhys con dy Lu-
tez, l'aveva interpretato come un tribunale approntato dagli Dei per giudicare quel suo antico omicidio a sangue freddo e il proprio peccato confessato a dy Cabon quand'erano a Casilchas. Aveva temuto di venir condannata a penare all'infinito per il senso di colpa: Come dare un secchio d'acqua a una donna che affoga! Ma adesso... sembrava che le sue aspettative di essere coinvolta fossero ridicolmente ostacolate. Non era lei, ma un altro, era al centro delle attenzioni del Dio. Le sue labbra s'incresparono in una risata amara. E lei era quasi... cosa? Tentata d'intromettersi? Tentata, di sicuro. Il Bastardo l'aveva chiaramente preparata con quel Suo bacio lascivo. La sua lingua indagatrice aveva inviato un messaggio estremamente criptico, ma lei l'aveva inteso in modo chiaro, mente e corpo. Che senso aveva risvegliare quell'assopito appetito sessuale proprio adesso e in quel luogo? Che senso aveva risvegliarlo in generale? Non aveva conosciuto nessuno per il quale valesse la pena di sbavare, quindi non poteva essere biasimata di non aver adempiuto al proprio dovere femminile. Cercò d'immaginare dy Ferrej o qualsiasi altro gentiluomo dell'entourage della Provincara, come oggetto del desiderio, e sbuffò. Pazienza. Comunque, una dama doveva sempre tenere gli occhi bassi. Le era stata insegnata quella regola all'età di undici anni. Lavorare, aveva detto il Bastardo. Non amoreggiare. Ma quale lavoro? Una guarigione? Era un pensiero allettante, ma sembrava che non potesse essere effettuata con un semplice bacio. Forse le era sfuggito qualcosa in quel primo tentativo, qualcosa di ovvio. O di sottile. O di profondo. O di osceno? Anche se non se la sentiva di fare un secondo tentativo, per un attimo desiderò che il Dio fosse stato più esplicito, poi si rimangiò quel pensiero perché formulato male. Ma per quanto la situazione fosse già disastrosa, lei poteva peggiorarla ancora di più? Forse si trovava lì con lo stesso principio per cui i giovani medici facevano i loro esperimenti sui casi disperati. Di modo che nessun biasimo potesse essere attribuito ai loro fallimenti, di solito inevitabili. A Porifors hanno un moribondo. Poteva essere un elemento su cui fare pratica. Il fatto che ci fossero due fratelli, una moglie sterile, un castello... forse non trascendeva il suo scopo. Non come il futuro di una royacy, o il destino del mondo. Non come la prima volta in cui gli Dei l'avevano chiamata al loro servizio.
Ma perché mandare me in risposta a una preghiera, quando sai perfettamente che non posso fare nulla senza di te? Non era difficile seguire anche la logica di quel pensiero fino alla sua inevitabile conclusione. A meno che io non mi apra a Te, Tu non puoi sollevare neanche una foglia. A meno che Tu non ti riversi in me, io non posso fare... cosa? Se una posteria era un ostacolo non dipendeva dai materiali con cui era fatta, ma dalla sua posizione. Però, tutte le porte si aprivano in entrambe le direzioni. Non poteva socchiudere la porta del suo sé per sbirciare fuori, e pretendere di difendere al tempo stesso la fortezza. Ma non riesco a vedere... Maledisse gli Dei in modo metodico, cinque volte per ciascuno, feroce parodia di una vecchia preghiera che recitava da bambina prima di andare a letto; poi si girò e si mise il cuscino sulla testa. Questa non è una provocazione. È un imbroglio. Se qualche Dio aveva sguazzato nei suoi sogni, Ista non se lo ricordò quando i suoi occhi si aprirono nel buio. Ma indifferente alle immagini illusorie che disturbavano la mente, il corpo aveva bisogno di urinare. Sospirò, scese dal letto, e andò ad aprire la pesante imposta di legno per guardare fuori. Era quasi mezzanotte, calcolò, a giudicare dall'obliqua luce argentea della luna piena, ma la notte era fredda e limpida. Trafficò sotto il letto in cerca del pitale. Una volta terminato, con estrema cautela richiuse il coperchio che produsse un cigolio che la fece accigliare, poi ritornò alla finestra per chiudere l'imposta. Mentre lo faceva, udì uno strascichio di piedi calzati di pantofole che risuonò nel cortile sottostante, poi risalì in fretta le scale. Ista trattenne il respiro, sbirciando tra la fessura. Era Catti, che si muoveva con tutte le sue morbide sete scintillanti che le fluttuavano attorno. Di certo non trasportava una brocca di latte di capra questa volta, ma sembrava stringere qualche boccetta più piccola e pericolosa al petto, o forse semplicemente si teneva chiusa la veste leggera... Ista non poté dirlo. Cautamente aprì in silenzio la porta della stanza di Lord Illvin e scivolò dentro. Ista restò immobile alla finestra, con lo sguardo fisso nel buio. D'accordo. Hai vinto. Questa situazione non la reggo più. Digrignando i denti, Ista prese la veste di seta nera e la indossò sulla
camicia da notte. Non voleva rischiare di svegliare Liss, nell'attraversare la sua camera per arrivare alla porta. La sua finestra si apriva? Non era sicura che la grata di ferro poteva essere aperta. Provò con uno strattone e la grata si aprì verso l'esterno. Quindi uscì dalla stanza, mettendosi seduta sul davanzale, e lasciò penzolare fuori le gambe. I piedi nudi fecero meno rumore sul pavimento di legno del porticato rispetto alle pantofole di Catti. Nella stanza non si vedeva alcun bagliore e Catti era solo una sagoma scura che si muoveva tra sagome ancor più scure, uno strascichio, un respiro, lo scricchiolio di una tavola di legno più tenue dello squittio di un topo. Il punto in mezzo alla fronte di Ista doleva come una scottatura recente. Non riesco a vedere un accidente di niente. Voglio vedere. Nella stanza si sentì un frusciare di stoffe. Ista deglutì o cercò di farlo. E pregò, a modo suo. Una preghiera rabbiosa, come alcuni sostenevano di fare. 'Se la preghiera nasce dal cuore', dicevano i Divini, gli Dei avrebbero ascoltato. Il cuore di Ista traboccò. Se adesso non trovo il coraggio di guardare ciò che succede nel mondo, positivo o malvagio, meraviglioso o ripugnante che sia, quando lo troverò? È troppo tardi per l'innocenza. La mia unica speranza è la penosa consolazione della saggezza che può scaturire solo dalla conoscenza. Ridammi i miei occhi veri. Voglio vedere. Devo sapere. Lord Bastardo. Maledetto sia il Tuo nome. Apri i miei occhi. Il dolore sulla fronte prima si accentuò, poi diminuì. Dapprima vide un paio di vecchi spettri che aleggiavano nell'aria; non certo spinti dalla curiosità, perché nessuno spirito così sbiadito e freddo poteva avere un'emozione tanto coerente, bensì attratti come falene verso una luce. Poi, intravide la mano di Catti agitarsi nell'aria con un gesto impaziente, allontanandoli come si scacciano degli insetti fastidiosi. Anche lei li vede. Ista accantonò le implicazioni di quella scoperta sulla quale avrebbe riflettuto più tardi, mentre la sua vista cominciava a riempirsi di quel fuoco lattiginoso che aveva visto in sogno. Illvin ne era la fonte, una tremula incandescenza che percorreva tutta la lunghezza del suo corpo come olio rovesciato innescato da un tizzone. Catti era molto più scura, più solida, ma i particolari del volto, del corpo, delle mani, lentamente presero forma e divennero nitidi. Era ferma ai piedi del letto, e un filo di fuoco cangiante scaturiva dalle sue dita contratte. Ista girò il viso quel tanto che bastava per seguirne il tragitto, fuori della porta, e
attraverso il cortile. Senza dubbio, il suo movimento ondeggiante era diretto all'esterno e non verso la figura supina sul letto. Gli avevano rimesso una veste di lino grezza, più pratica, benché i capelli fossero ancora intrecciati in modo ordinato. Catti allungò una mano, slacciò il nodo della cintura, e scostò i lembi della veste, dalle spalle alle caviglie. Sotto era nudo, a parte la pallida striscia della fasciatura che gli avvolgeva il torace proprio sotto il cuore, la fonte nascosta dalla quale sgorgava e defluiva quel pallido fuoco. Il volto di Catti era distaccato, impassibile, quasi inespressivo. Protese una mano a toccare la fasciatura. La luce bianca sembrò avvolgersi attorno alle sue dita come lana. Di una cosa Ista era sicura: Cattilara non era il varco di nessun Dio. La luce degli Dei, in tutte le sue sfumature, era inconfondibile per l'occhio interiore. E Ista conosceva solo un'altra origine per tali stregonerie. Allora, dov'è il demone? Ista non aveva percepito la sua presenza maligna. Di fronte a Cattilara aveva avvertito più che altro un senso d'irritazione. Ma era sufficiente a mascherare quel disagio più profondo? A ripensarci, non del tutto; anche se Ista aveva interpretato erroneamente quella ricorrente tensione nei confronti della Marchess come invidia. Solo in parte errato, si corresse con risoluta onestà. Ista fece appello a tutta la chiarezza visiva di cui disponeva, ampliando il proprio occhio interiore perché assorbisse tutta la luce animata che fluttuava in un infelice disordine attorno alla stanza. Non luce: oscurità, ombre. Sotto lo sterno di Cattilara si agitava uno stretto groviglio, viola scuro, abbozzolato su se stesso. Per nascondersi? Se così era, non ci riusciva tanto bene, come un gatto in un sacco che abbia dimenticato di ritrarre la coda. Ma chi era il possessore e chi il posseduto? Il termine stregone si riferiva, in modo confuso, a entrambi gli stati spirituali; per quanto i Divini sostenessero che fossero distinti da un punto di vista teologico, dall'esterno non c'era modo di distinguerli. Io riesco a distinguerli, a quanto sembra. Ma del resto, sto guardando dall'altra parte. Cattilara dominava il proprio demone, e non viceversa; era la sua volontà a prevalere; era la sua anima ad avere l'ascendente su quell'adorabile corpo. Cattilara fece scorrere un'unghia sul torso di Lord Illvin, dalla cavità della gola fino all'ombelico, e oltre. Il fuoco parve intensificarsi nella sua scia, deviare verso il basso come se fluisse attraverso un nuovo canale.
Con cautela si distese sul letto al suo fianco, si piegò in avanti e cominciò ad accarezzare metodicamente quel corpo immobile, dalle spalle verso il basso, dalle caviglie verso l'alto, ricentrando la sorgente di luce sull'inguine. Le sue carezze si fecero più esplicite. Le palpebre grigie non vibrarono mai, ma altre parti del corpo di Illvin iniziarono a rispondere a quella sollecitazione. Era vivo almeno su un piano: quello fisico se non mentale. Visibilmente. Sono amanti, quindi? Le sopracciglia di Ista s'inarcarono. Malgrado i gesti esperti, quello era il contatto meno affettuoso che Ista avesse mai veduto. Cercava di stimolare, senza trarre soddisfazione per sé. Se si fosse trovata lei al posto di Catti e le sue mani avessero avuto il privilegio di sfiorare la pelle d'avorio di quel muscolo, quella sensibilità vellutata più scura, non sarebbero state rudi, brusche, rigide. Le sue palme si sarebbero aperte, per assorbire il piacere. Cioè... se mai avesse avuto il coraggio di toccare qualcuno. Lì la passione era rabbia, non desiderio. Lord Bastardo, le Tue benedizioni sono sprecate in questo talamo. Catti stava mormorando: «Sì. Così. Dai». Le dita si muovevano frenetiche. «Non è giusto. Non è giusto. Il tuo seme è denso, mentre quello del mio signore si è trasformato in acqua. Che cosa te ne fai? Che bisogno ne hai?» Il movimento delle mani rallentò. I suoi occhi si accesero, e la voce si ridusse a sussurro. «Potremmo accoppiarci a lui, sai. Nessuno verrebbe mai a saperlo. E un figlio sarebbe per metà di Arhys almeno. Fallo ora, mentre c'è ancora tempo.» Quel groviglio scuro sotto lo sterno si era messo a palpitare? Un breve silenzio, poi Catti sibilò: «Non voglio una cosa di seconda qualità. E comunque, non gli sono mai piaciuta. Tutti quegli stupidi scherzi che non sono mai riuscita a capire. Non può esserci altro uomo per me all'infuori di Arhys. Non vi sarà mai un altro uomo, all'infuori di Arhys. Ora e per sempre». Le mani di Cattilara si contrassero e dalla punta delle dita rigide e tese scaturì un filo di fuoco cangiante. «Ecco. Dovrebbe essere abbastanza.» Scese dal letto, che scricchiolò, sistemandosi la veste. Sollevò di nuovo il lenzuolo, con estrema delicatezza, e lo abbassò sul corpo di Illvin. Ista si accovacciò, nascondendosi, e sentì il cigolio della porta che si apriva e si richiudeva, lo scatto di un chiavistello. Rumore di passi in punta di piedi che correvano via. Cattilara attraversò come acqua increspata il cortile, sotto le sete che si alzavano fluttuanti dietro di lei gettando una luce che non spargeva né om-
bra né riflessi. Lei, e la luce, svanirono sotto il portico. Cos'è questa stregoneria, Cattilara? Ista scosse la testa sbalordita. Dovrò nutrire i miei occhi affamati, allora. Forse, quando saranno abbastanza sazi, mi insegneranno... qualcosa. E se così non fosse, avrò sempre afferrato una briciola. I cardini della porta della camera di Illvin erano ben oliati, e il pesante battente lavorato si aprì facilmente. Da quel punto, riusciva a sentire un lieve russare proveniente dalla camera accanto, al di là della porta interna. Goram, o qualche altro servitore, dormiva a portata di voce, qualora si fosse verificato un miracolo e Illvin si fosse svegliato. Attenta a non toccare il filo di luce ondeggiante, si avvicinò a passi felpati al letto, portandosi dalla parte opposta a dove si era messa Catti. Scostò delicatamente il lenzuolo, aprì la veste come aveva fatto Catti, e lo guardò con attenzione. Cercò di studiare la luce vorticante, per tentare di leggervi qualche schema o messaggio. La parte più luminosa era concentrata sull'inguine, per il momento; ma sull'ombelico, sulle le labbra, sulla fronte e sul cuore scintillavano come piccole fiamme. Quando l'aveva visto nel suo primo sogno, aveva le guance più incavate, le costole... non ricordava di averle viste prima, mentre adesso era in grado di contarle. Riuscì a seguire il profilo dell'osso pelvico, sotto la pelle. Le sue dita ne disegnarono il contorno, ma subito si arrestarono. Lui si mosse: spasmi impercettibili, ma riconoscibili, di desiderio... o, forse, gli echi del movimento appena concluso con Cattilara? I minuti scorrevano; Ista riusciva a contare i battiti del proprio cuore. Riusciva a contare i suoi. Accelerarono. Per la prima volta, le sue labbra si mossero, ma solo per emettere un gemito. Una tensione, un brivido, un bagliore di luce più intenso, poi tutto finì. Il freddo fuoco saettò in modo caotico sul suo corpo, poi rientrò nella propria sorgente sotto la fasciatura e continuò a pulsare. Pompando fuori... cosa? La pelle dell'uomo riacquistò quell'inquietante grigiore di morte. «Bene», sospirò Ista. «È... curioso.» Ista continuava a eludere la saggezza, o anche la conoscenza. D'altro canto, alcuni aspetti della scena di cui era appena stata testimone erano molto chiari. Altri... no. Delicatamente, gli richiuse la veste, allacciando la cintura. Rimise a posto il lenzuolo. Studiò il filo di luce fluttuante. Ricordò che era presente nel sogno. Ho il coraggio di osare?
Di certo non avrebbe combinato nulla restando a guardarlo. Protese le braccia, avvolgendo la mano attorno al filo luminoso. Si fermò. Goram, ti saluto. Si sedette sul bordo del letto e si chinò in avanti. Appoggiò le labbra su quelle di Illvin, e le premette. Chiuse la mano. La luce scoppiettò. L'uomo spalancò gli occhi; inspirò il respiro di Ista, che appoggiò una mano accanto alla sua testa, e fissò quegli occhi, neri come li ricordava dalle sue prime visioni. La mano di lui si mosse, le cinse la nuca, stringendole i capelli. «Oh. Questo è un sogno più bello.» Aveva una voce calda e un morbido accento settentrionale con una leggera inflessione roknari: più nitido di quello che ricordava di aver udito nelle sue visioni. Lui rispose al suo bacio, dapprima cauto, poi con maggiore sicurezza... non tanto perché ci credesse, quanto perché lo stordimento lo dispensava dal crederci. Ista aprì la mano. La luce si rinnovò, scaturì dal suo corpo in una spirale e fuggì via. Con un sospiro d'angoscia, impallidì di nuovo, le palpebre non si unirono perfettamente. Il bagliore tra le palpebre era la cosa più disturbante, essendo così immoto. Dolcemente, Ista le richiuse. Non era sicura di ciò che aveva appena fatto, ma il filo di luce era scomparso dal suo corpo fin dov'era riuscita a vedere. Anche all'altra estremità? E in quel caso... era stata la volta di qualcun altro di svenire? Arhys? Nelle braccia di Catti? Una volta, in preda all'ignoranza, e al terrore, aveva contribuito a provocare un disastro. La notte in cui Arvol dy Lutez era morto nelle segrete dello Zangre era torbida di stregoneria come questa. Permeata di visioni brucianti, come questa. Ma messe in moto da una Ista... che non era come questa. Il terrore che adesso le pulsava sordo nella testa, non poteva fare altro che sopportarlo. Nella sopportazione, se non altro, ormai sono un'esperta. L'impazienza la poteva inghiottire come una medicina amara; quanto all'ignoranza... poteva fare progressi. Come un esercito che innalzi gli stendardi, o semplicemente privo di speranza, non avrebbe saputo dire. Ma Ista non era preparata ad affrontare il lavoro di un'altra notte come quella, finché non avesse saputo se stava per compiere un miracolo o un omicidio. Velocemente e con rammarico si alzò dal letto di Lord Illvin, tirò bene il lenzuolo, si avvolse nella veste nera, e sgusciò fuori della porta. Percorse
in punta di piedi il porticato, riaprì la grata e scavalcando il davanzale entrò nella sua camera, chiudendo e sbarrando le imposte. Poi si avvicinò alla finestra e rimase a spiare attraverso la fessura. Un attimo dopo, in lontananza, passò tremolando il bagliore rosso di una candela e piedi calzati di pantofole percorsero veloci il cortile. Di lì a qualche minuto, ritornarono indietro... più lenti, titubanti. Perplessi? E frusciarono di nuovo sulla scala. Non sono portata per questi sporchi lavori. Il Bastardo non era nemmeno il suo Dio. Ma per quanti corrieri divini migliori di lei fossero stati inviati, dopotutto l'unica a essere arrivata a destinazione sembrava essere lei. Quindi. In un modo o nell'altro, era decisa a incontrare Lord Illvin da sveglio, l'indomani. Ciò che per altri era un vaneggiamento, a una pazza come lei avrebbe potuto rivelarsi chiaro come la luce degli Dei. 13 Il sole era da poco spuntato all'orizzonte, quando Lady Cattilara entrò tutta concitata nella stanza di Ista, pronta ad accompagnarla al Tempio per la funzione del mattino, cui sarebbero seguite una gara di tiro con l'arco femminile e la colazione. Questa volta, Ista aveva una scusa pronta. «Temo di aver esagerato, ieri sera. Sono stata male e avevo la febbre. Oggi vorrei rimanere tranquilla e riposare. Vi prego di non sentirvi in obbligo d'intrattenermi, Marchess.» Lady Cattilara abbassò la voce in tono confidenziale. «A essere sincera, la città di Porifors non offre molti diversivi. Questa è una terra di confine, e dobbiamo comportarci con rigore e semplicità, come il nostro compito richiede. Ma ho scritto a mio padre; Oby è la seconda città di Caribastos dopo la sede del Provincar. Sono sicura che sarebbe più che onorato di ricevervi alla sua corte in maniera più consona al vostro rango.» «Per il momento non sono in grado di viaggiare, però quando starò meglio, Oby sarà una tappa gradita nel viaggio di ritorno. Ma questa è una decisione che prenderemo più avanti.» Lady Cattilara annuì con fare comprensivo, tuttavia parve contenta di quel velato assenso. Sì, immagino che saresti sollevata nel vedermi andare da un'altra parte. Ista la studiò. Esteriormente, sembrava la stessa di sempre, tutta morbide sete verdi e leggere vesti sopra un corpo che prometteva un'arrendevolezza tutta fem-
minile. Ma interiormente... Ista guardò di sottecchi Liss, che le girava attorno sollecita, per finire di acconciarle i capelli e aiutarla a vestirsi. Una persona integra aveva un'anima conforme al corpo, allo spirito occluso dalla materia che lo generava e nutriva, e quindi quasi invisibile alla seconda vista come lo era alla vista fisica. Grazie alla sensibilità acuita, dovuta al tocco divino, Ista si figurò di poter percepire, non l'intelletto o le emozioni, ma lo stato dell'anima stessa. Quella di Liss era luminosa, fluttuante, animata da energie impetuose e totalmente centrata. La cameriera, che attendeva di portare via l'acqua usata per lavarsi, aveva un'anima più pacata, oscurata da un'ombra di risentimento, ma altrettanto conforme al resto della sua persona. Lo spirito di Cattilara era più scuro e più denso, reso torbido dalla tensione e da un malessere segreto. Sotto la superficie si nascondeva un altro strato, ancora più fosco e contratto, come una perla di vetro rosso lasciata cadere in un bicchiere di vino rosso. Il suo demone sembrava molto più abbozzolato quella mattina di quanto lo fosse stato la notte precedente. Si nascondeva? Da cosa? Da me, si rese conto Ista. Le cicatrici degli Dei che erano invisibili agli occhi mortali, sicuramente brillavano come fuochi di bivacco per le peculiari percezioni di un demone. Ma il demone condivideva tutte le sue osservazioni con l'essere che lo ospitava? Da quanto tempo Lady Cattilara era infestata dal suo passeggero? L'impressione che aveva ricavato dall'orso morente era di una creatura logora, come se il demone che conteneva fosse un famelico tumore che avesse diffuso i propri tentacoli in ogni parte del corpo, consumando e sostituendo il contenuto dell'anima dell'orso con se stesso. Qualunque cosa fosse l'anima di Cattilara, sembrava che le appartenesse ancora. «Lord Arhys è ritornato sano e salvo la scorsa notte?» s'informò Ista. «Oh, sì», rispose Cattilara con un sorriso d'intesa. «Presto le vostre suppliche alla Madre si trasformeranno in preghiere di ringraziamento, ve lo garantisco.» «Oh, spero tanto che sia così!» esclamò Cattilara facendosi il segno. «Il mio signore ha solo una figlia; benché Liviana sia una bella bambina, di quasi nove anni, che vive coi nonni materni, so che desidera un maschio. Se potessi dargli un figlio, mi onorerebbe sopra tutte le donne!» Sopra, forse, la memoria della sua prima moglie? Vuoi competere con una donna morta, ragazza? La luce sfocata del ricordo poteva creare una
perfezione che un corpo vivo difficilmente avrebbe saputo eguagliare. Suo malgrado, Ista fu mossa a pietà. «Ricordo questo terribile periodo di attesa - la delusione, mese dopo mese - in cui mia madre mi scriveva lettere severe, piene di consigli sulla dieta da seguire, come se fosse colpa mia se il mio ventre non concepiva.» Il volto di Cattilara si accese d'interesse. «Che ingiustizia! Il Roya Ias era un uomo abbastanza anziano... più vecchio di Arhys.» Esitò, curiosa, poi chiese più timidamente: «Avete fatto... qualcosa di speciale? Per restare incinta di Iselle?» Ista ebbe una smorfia di disappunto al ricordo. «Tutte le dame di compagnia dello Zangre, che avessero avuto dei figli o no, avevano decine di rimedi popolari da propormi.» Con un sarcasmo inatteso, Cattilara domandò: «Hanno offerto qualche rimedio anche a Ias?» «All'inizio, una giovane sposa sembrava un tonico sufficiente per lui.» Ma il desiderio stranamente diffidente che aveva mostrato da principio, si era affievolito col tempo e con la delusione, ben celata, peraltro, della nascita di una bambina. L'età e la maledizione erano più che responsabili del resto dei suoi problemi. Ista aveva avuto il sospetto che più che ingerire disgustose pozioni, avesse preso l'abitudine di passare dal suo amante per farsi eccitare, prima di recarsi nella sua camera. Se non fosse riuscita a concepire, Lord dy Lutez avrebbe persuaso Ias a prendere il suo posto e a dargli il permesso d'infilarsi nel letto di Ista? Per quanto tempo l'implacabile aspettativa avrebbe costretto Ista a sottomettersi? Comunque Arvol dy Lutez era un uomo bellissimo. Quella parte, almeno, della strana rabbia che Cattilara aveva mostrato nei confronti del cognato Illvin non le era affatto incomprensibile. Ista sbatté gli occhi, mentre le si presentava una soluzione al problema spinoso di togliersi dai piedi Cattilara e il suo demone, quando Illvin si sarebbe risvegliato a mezzogiorno. Con voce pacata aggiunse: «Per quanto mi riguarda, l'ultima cosa che ho provato prima di restare incinta di Teidez è stato un cataplasma con fiori di erba digitaria. Un rimedio suggeritomi dalla vecchia nutrice di Lady dy Vara, se non rammento male. Lady dy Vara giurò sulla sua efficacia. Aveva già avuto sei figli». Lo sguardo di Cattilara si fece all'improvviso intenso. «Erba digitaria? Non credo di conoscerla. Cresce qui al nord?» «Non lo so. Mi sembra di averla vista vicino al prato dov'era stato mon-
tato l'accampamento di Lord Arhys, l'altro giorno. Liss la saprà riconoscere, ne sono sicura.» Dietro alle spalle di Cattilara, Liss inarcò le sopracciglia in atto di protesta; Ista alzò due dita per ordinarle di fare silenzio. Poi proseguì: «La vecchia nutrice diceva che doveva essere raccolta dalla supplicante in persona, a piedi nudi, e a mezzogiorno, quando il sole è più fecondo. Va tagliata con un coltello d'argento mentre si prega la Madre, i petali avvolti in una fascia di stamigna, o di seta per una dama, e portata attorno alla vita fino a quando giacerà col marito». «Quali erano le parole della preghiera?» chiese Lady Cattilara. «Nessuna in particolare, dovevano essere solo sincere.» «Con voi ha funzionato?» «Chi può esserne certo?» In realtà, non si era mai fatta imbrogliare dai suggerimenti con cui l'avevano tempestata i benevoli amici. A eccezione della preghiera. E tutti sappiamo quanto abbia funzionato bene, alla fine. Ista architettò mentalmente l'esca successiva, ma venne interrotta perché il pesce saltò direttamente nella sua rete. «Royina... visto che non ci sarà nessun ricevimento di dame a mezzogiorno... posso chiedervi di lasciarmi la vostra ancella perché mi aiuti a individuare questi straordinari fiori?» «Ma certo, Marchess», sorrise Ista. «Io mi riposerò e mi occuperò della corrispondenza.» «Vado ad accertarmi che vi portino la colazione», promise Cattilara, e con un inchino si allontanò per andare a cercare un coltello d'argento e una sciarpa di seta, immaginò Ista. «Royina», sibilò Liss, quando i passi della Marchess si persero in lontananza lungo la scala esterna. «Non conosco assolutamente questo fiore di cui avete parlato.» «In realtà, si tratta di una pianticella verde, bassa, con un grappolo di fiorellini cadenti, nota più comunemente col nome di campanelle della Madre, ma ha veramente poca importanza. Ciò che devi fare è convincere la Marchess ad allontanarsi il più possibile da Porifors verso mezzogiorno. Lascia che raccolga qualsiasi fiore che non sia velenoso.» Ista si ricordò degli incontri giovanili con l'edera urticante e l'ortica, e sorrise torva. Ma adesso la cosa era mortalmente seria, e non un pretesto per fare degli scherzi. «Fai attenzione se all'improvviso le prende l'ansia di tornare, o se si comporta o parla in modo strano. Trattienila finché riesci e come puoi.» Liss si accigliò, corrugando le sopracciglia. «Perché?»
Ista esitò. «Quando il capo corriere ti affida una sacca sigillata, sbirci dentro?» «No, Royina!» esclamò Liss indignata. «Ho bisogno che tu sia il mio corriere in questa faccenda.» Liss sbatté gli occhi e le rivolse una riverenza. «Questo esercizio non farà male alla Marchess. Anche se... sarà necessario che usi la tua abilità per darle le indicazioni sbagliate, badando bene a non offenderla.» Che il demone non osasse mostrarsi davanti a Ista non significava che non osasse mostrarsi affatto. Ista non aveva ancora idea dei suoi poteri e dei suoi limiti. Sconcertata ma ubbidiente, Liss si assunse l'incarico. Ista consumò una colazione leggera nella sua stanza, aprì le imposte alla luce del mattino, poi si sistemò allo scrittoio con penne e carta. Il primo fu un breve ma brusco messaggio al Provincar di Tolnoxo, in cui esprimeva in toni non troppo delicati la sua incapacità di trovare in tempi rapidi Foix e l'Erudito dy Cabon, oltre alla richiesta di assistere meglio Ferda. Una lettera più schietta all'Arcidivino di Maradi, per chiedere l'aiuto del Tempio nella ricerca di Foix e del suo compagno. Liss era riuscita a trovare la strada per Porifors abbastanza in fretta, perciò quale infausto ritardo poteva ancora trattenerli...? Ista frenò la sua crescente ansia abbozzando una lettera al Cancelliere dy Cazaril a Cardegoss, lodando Liss, Ferda e Foix e tutta la compagnia per il coraggio e la lealtà dimostrati. Poi scrisse una blanda missiva a Valenda, per assicurare tutti che era al sicuro, evitando di menzionare i dettagli delle recenti avventure. Una nota in un certo senso meno blanda, ma altrettanto rassicurante, a Iselle e Bergon, in cui affermava di essere al sicuro, ma che desiderava un mezzo di trasporto... Lasciò vagare lo sguardo oltre la grata di ferro verso il porticato opposto, e lasciò quest'ultima missiva incompiuta, non essendo sicura di volere un mezzo di trasporto proprio in quel momento. Dopo un po' di tempo passato a tamburellarsi la guancia con la piuma della penna, riaprì la lettera indirizzata a Lord dy Cazaril e aggiunse una postilla. Mi è ritornata la seconda vista. Qui c'è una situazione difficile. Più tardi, si presentò un paggio per accompagnare Liss dalla Marchess. Poco dopo arrivò una cameriera col vassoio del pranzo, insieme a una gentildonna del seguito della Marchess alla quale, evidentemente, era stato
raccomandato di tenerle compagnia. Ista ordinò alla cameriera di posare il vassoio sul tavolo e di lasciarla, e in tono meno rude congedò anche la delusa dama di compagnia. Non appena i loro passi si furono allontanati, Ista attraversò la stanza attigua e sgusciò fuori della porta. Il sole risplendeva cocente sul cortile di pietra, rendendo le ombre delle macchie nere. All'estremità opposta bussò alla porta di Lord Illvin. Venne aperta di scatto. La voce rauca di Goram stava dicendo: «Quello stupido cuoco ha fatto cuocere troppo la carne...» ma subito si interruppe. «Royina.» Deglutì e chinò il capo, ma non la invitò a entrare. «Buongiorno, Goram.» Ista sollevò la mano e la premette contro la porta, spalancandola. Lui si spostò suo malgrado, con uno sguardo spaventato. La stanza era avvolta nella penombra ed era fresca, ma lame di luce si riversavano dalle imposte sui tappeti, accendendo brevemente i colori smorzati. L'occhio di Ista cercò di ricapitolare gli elementi di somiglianza con la sua prima visione, ma tralasciò bruscamente quell'operazione quando la sua seconda vista si posò su Goram. La sua anima era bizzarra all'apparenza, diversa da qualsiasi altra che avesse mai visto. Le evocò uno straccio lacero che fosse stato spruzzato di vetriolo, o consumato dalle tarme, e che restasse insieme solo grazie a qualche esile filo. Pensò all'orso logoro. Ma era chiaro che Goram non era infestato da demoni, né che stava morendo. Comunque, non sta bene. Non è... a posto. Dovette richiamare la propria percezione sulla sua emaciata superficie fisica. «Desidero parlare col vostro padrone quando si sveglia», gli disse. «Eh, uhm, non dice sempre cose che si capiscono.» «Va bene lo stesso.» La testa dello stalliere si ritrasse nelle spalle, di nuovo in quell'atteggiamento da tartaruga. «Lady Catti non approverebbe.» «Vi ha rimproverato ieri, dopo che me ne sono andata?» Lui annuì, guardandosi i piedi. «Be', adesso è uscita a cavallo. Non dovete riferirle la mia visita. Quando il servo porterà il vassoio di Lord Illvin, prendetelo e mandatelo via, e nessuno lo saprà.» «Oh.» Sembrò aver bisogno di qualche secondo per assimilare quelle parole, poi annuì e si fece da parte per farla passare. Lord Illvin era disteso sul letto con la sua veste di lino, i capelli sciolti e pettinati all'indietro, come l'aveva visto nel sogno. Immobile come la mor-
te, ma non privo di anima; eppure la sua anima non era centrata e congrua come quella di Liss, né lacera come quella di Goram. Era come se venisse estratta a forza dal cuore, per scorrere lontano in quell'ormai familiare linea incandescente. La cui pallida sfumatura restava entro i confini del suo corpo. Ista andò a sedersi su una cassapanca addossata alla parete alla destra di Illvin, e studiò quel profilo silenzioso. «Si sveglierà presto?» «È probabile.» «Allora proseguite con le vostre faccende, come al solito.» Goram annuì nervosamente e andò a prendere uno sgabello e un tavolo che sistemò sul lato opposto del letto. Fece un balzo quando sentì bussare alla porta. Ista si ritrasse per non essere vista, mentre lo stalliere prendeva un pesante vassoio coperto da un tovagliolo di lino e congedava il servo, che sembrò sollevato di potersene andare. Quando Goram si accomodò sullo sgabello, stringendo le mani e fissando Lord Illvin, sulla stanza scese un silenzio palpabile. La linea di fuoco cangiante si assottigliò gradualmente, fino a diventare un filo sottile. Il corpo di Illvin parve riempirsi, la sua anima era profondamente densa alla seconda vista, ma turbata da una grande agitazione. Le labbra si socchiusero. Di colpo inspirò per poi espirare. Gli occhi si aprirono, spalancati verso il soffitto. Si raddrizzò di scatto, coprendosi il volto con le mani. «Goram? Goram!» Nella sua voce c'era una chiara nota di panico. «Qui, mio signore!» rispose ansioso lo stalliere. «Ah. Eccoti.» Illvin pronunciò le parole in modo confuso. Le spalle ricaddero; si strofinò il viso, abbandonò le mani sul copriletto. «Ho fatto ancora quel sogno disperato la notte scorsa. La donna splendente. Per i cinque Dei, ma questa volta era reale. Ho toccato i suoi capelli...» Goram guardò Ista. La testa di Illvin si girò per seguire il suo sguardo. Gli occhi neri si dilatarono. «Voi! Chi siete? Sto ancora sognando?» «No. Non questa volta.» Esitò. «Mi chiamo... Ista. Sono qui per un motivo, ma non so qual è.» Gli uscì una risata dolorosa. «Ah. Neanch'io.» Goram si affrettò a sistemargli i cuscini, sui quali Illvin ricadde, come se quel piccolo sforzo lo avesse già sfinito. Lo stalliere gli allungò un cucchiaio con un boccone di carne stufata con erbe e aglio. «Ecco la carne, mio signore. Mangiate.» Illvin aprì la bocca, evidentemente prima di pensare di resistere; mandò
giù il boccone e con un gesto allontanò il secondo. Girò di nuovo la testa verso Ista. «Voi non... risplendete al buio, adesso. Vi ho sognata sul serio?» «Sì.» «Oh.» Aggrottò la fronte per lo stupore. «Come fate a saperlo?» Non riuscì a evitare l'insistente cucchiaio, e fu nuovamente costretto al silenzio. «Lord Illvin, che cosa ricordate della notte in cui siete stato pugnalato? Nelle camere della Principessa Umerue?» «Pugnalato, io? Io non sono stato...» La sua mano scivolò sotto la veste alla ricerca della fasciatura. «Accidenti a te, Goram, perché continui a mettermi questa maledetta benda? Te l'ho detto... te l'ho detto!» E afferratala, se la strappò, lanciandola ai piedi del letto. La pelle sul torace non recava alcun segno. Ista si alzò e raccolse la benda bianca. All'interno era intrisa di sangue rosso scuro. Alzando le sopracciglia con aria interrogativa, la inclinò di modo che lui potesse vederla. Illvin si accigliò furibondo e scosse la testa. «Non ho ferite! Non ho febbre. Non vomito. Perché dormo così tanto? Perché sto diventando così debole... Traballo come un vitello appena nato. Oh, Cinque Dei, per favore, non datemi una paralisi, che mi lasci rimbecillito e storpio...» La sua voce si tese per l'agitazione. «Arhys, ho visto Arhys cadere ai miei piedi. E sangue... dov'è mio fratello...?» La voce di Goram assunse una dolcezza quasi eccessiva. «Calmatevi, mio signore, calmatevi. Il March sta bene. Ve l'ho detto mille volte. Lo vedo tutti i giorni.» «Perché non viene a trovarmi?» Adesso le parole confuse avevano una nota querula, simile al piagnucolio di un bambino troppo stanco. «Viene a trovarvi. Ma voi dormite. Non vi agitate così.» Il tormentato Goram lanciò una breve, rovente occhiata a Ista. «Qui. Mangiate la carne.» C'era anche Arhys nella camera di Umerue, quella notte? Già il racconto cominciava a divergere dalla versione ordinata di Cattilara. «È stato Lord Pechma a pugnalarvi?» chiese Ista. Illvin sbatté le palpebre con aria confusa. Inghiottì l'ultimo boccone che Goram gli aveva infilato in bocca, e disse: «Pechma? Quell'idiota incapace? È ancora qui a Porifors? Cosa c'entra Pechma in tutto questo?» Ista continuò pazientemente: «Lord Pechma era presente?» «Dove?» «Nella camera della Principessa Umerue.» «No! Perché avrebbe dovuto? Quella sgualdrina dorata lo trattava come
uno schiavo, come tutti gli altri del resto. Doppio gioco... doppio...» La voce di Ista s'inasprì. «Sgualdrina dorata? Umerue?» «Per la Madre e per la Figlia, era terribilmente bella! A volte. Ma quando dimenticava di guardarmi, era scialba. Come quando l'avevo vista a Jokona. Però quando i suoi occhi ambrati si posavano su di me, io sarei stato disposto a recitare la parte dello schiavo. No, a non recitare, sarei stato il suo schiavo. Ma poi ha distolto il suo sguardo da me per posarlo sul povero Arhys... tutte le donne lo fanno...» Be', è vero... «Lo ha visto. Lo voleva per sé. Lo ha incastrato, con la stessa facilità con cui si raccoglie un fiore... me lo sono immaginato. Li ho seguiti. Lei lo aveva fatto sdraiare sul letto. Aveva la bocca sulla sua...» «Carne», ingiunse Goram, e gli infilò in bocca un altro boccone. Una donna esotica, un uomo virile, una visita notturna, uno spasimante rifiutato... i ruoli erano gli stessi, ma gli attori differivano dalla versione di Cattilara? Non Pechma, ma Illvin era l'intruso omicida in quella scena intima? Un'ipotesi che reggeva; non era difficile immaginare che Umerue, inviata a corteggiare Illvin con lo scopo di allacciare una alleanza con Jokona, per motivi personali avesse deciso di cambiare obiettivo e di puntare sul fratello più potente. Cattilara era un impedimento, vero, ma era semplicemente quel genere di asperità lungo il cammino che veleni sofisticati erano preposti a eliminare. La cosa più difficile da immaginare era che una tale seduttrice fosse riuscita innanzitutto a scavalcare Cattilara. Era chiaro che la Marchess considerasse Ista come una sorta di vecchia zia, visto che aveva una storia romantica deliziosamente tragica alle spalle; nondimeno, si era sforzata in tutti i modi di mettere bene in chiaro che Arhys era suo. La sua feroce possessività era solo un'abitudine... o il risultato di un recente turbamento? In quella nuova versione c'era qualcosa di verosimile. Il bastardo disdegnato, già privato di metà dei privilegi, che si era visto ronzare intorno una bellissima principessa solo per vedersela soffiare dal fratello maggiore che aveva già tutto, compresa una splendida moglie, e quindi non aveva bisogno di altro; il ricco che ruba al povero... Motivi in abbondanza per tentare il fratricidio in un attacco di gelosia. Molti uomini commettevano simili atti ovunque, quaternari o quintariani, di ogni razza e in ogni clima. Quindi: Illvin, aggrediva il fratello e la sua amante in un accesso di gelosia, pugnalava la principessa-sgualdrina, veniva disarmato e pugnalato a sua volta da un inorridito Arhys, e lasciato per morto tra le lenzuola?
No, un attimo. Illvin viene spogliato con cura, gli abiti stranamente privi di sangue ripiegati in modo ordinato su una sedia, il pugnale trasferito sul corpo di Umerue, e poi lasciato per morto, Ista riaggiustò la scena. Arricciò il naso dubbiosa. Lord Pechma e il suo cavallo, anche quelli eliminati in qualche modo. L'occultamento non sembrava nello stile di Arhys, ma... era possibile che temesse una rappresaglia da parte del principe di Jokona per la morte della sua bellissima, o scialba, sorella? Ragione sufficiente per indurlo a cambiare le carte in tavola, e gettare la colpa sul cortigiano jokoniano datosi alla fuga. O sul cortigiano jokoniano assassinato e sepolto, a seconda dei casi. Arhys aveva sicuramente la forza e il coraggio per compiere un simile atto. Quel depistaggio sarebbe anche servito a nascondere l'infedeltà di Arhys agli occhi dell'ignara moglie. Le preghiere pubbliche e la preoccupazione per il fratello caduto in disgrazia, un altro depistaggio, o il frutto del senso di colpa. Un'altra bella versione ordinata. Solo che non spiegava il demone di Cattilara, e una ferita mortale che apparentemente i due fratelli condividevano. E il fatto che Cattilara sembrava conoscere molti più dettagli di ciò che stava accadendo rispetto a Arhys. E poi c'erano i sogni di Ista. E il filo incandescente. E la visitazione di un Dio. E... «Mi sa», intervenne Lord Illvin con un filo di voce, «che sto impazzendo.» «Bene», ribatté seccamente Ista, «desiderate una guida esperta in questo campo? In tal caso, sono la persona che fa per voi.» Le lanciò un'occhiata carica di stupore. Del sogno che aveva fatto nell'accampamento, ricordava ancora il gemito di dolore di Arhys in una camera illuminata dalle candele. Ma era un'immagine del passato o un'immagine del futuro? Non aveva dubbi sul fatto che l'uomo di fronte a lei, una volta padrone di tutte le sue facoltà mentali, fosse capace di mentire in modo abile e sofisticato. Era altrettanto chiaro che in quel momento le sue facoltà mentali si erano perse per strada. Poteva farfugliare, vaneggiare o avere allucinazioni, ma non mentiva. Quindi... quanti modi diversi avevano tre persone per uccidersi a vicenda con un coltello? Ista si sfregò la fronte. Goram le rivolse un rapido e infelice inchino. «Signora. Vi prego. Deve riuscire a mangiare qualcosa. E fare i suoi bisogni.» «No, non lasciarla andare!» Illvin protese un braccio, che lasciò ricadere subito.
Ista annuì all'ansioso stalliere. «Uscirò per un po'. Ma resterò qui vicino. E tornerò subito», aggiunse rivolta all'agitato Illvin. «Promesso.» Uscì nel porticato, appoggiandosi alla parete con le braccia incrociate. Studiò la fluttuante linea di luce, ridotta a un esile filo ma sempre ininterrotta. Allora: Illvin non aveva mai parlato col fratello; Arhys non aveva mai visto Illvin da sveglio. Da quella fatidica notte, i due non avevano mai avuto occasione di confrontare le loro esperienze, o qualsiasi frammento della propria esperienza che riuscissero a rammentare. Lady Cattilara, invece, vedeva entrambi. Parlava a entrambi. Raccontava quello che le faceva comodo, a entrambi. Vediamo se riusciamo a cambiare questa situazione. Ista attese un po', mentre Goram finiva di occuparsi dei bisogni intimi del suo padrone, lo rimetteva a letto, gli faceva frettolosamente ingoiare il cibo che il poco tempo a disposizione consentiva. Il filo si stava ispessendo leggermente. Poi in modo più visibile. Protese un braccio e delicatamente lo circondò col pollice e con l'indice, formando una O. Lord Bastardo, guidami come desideri. Ordinò al filo di accorciarsi, avvolgendolo attorno al palmo come lana filata. Nel dono del Bastardo non c'era inclusa solo la vista, a quanto sembrava, perché la manipolazione non le costò alcuna fatica. Dapprima provò a raggomitolarlo su entrambe le mani, ma subito scoprì che poteva semplicemente ordinargli di scorrere. Tenne lo sguardo fisso sul portico di fronte, che proveniva dal cortile adiacente. Lord Arhys avanzava a lunghi passi sulle pietre inondate dal sole. Indossava indumenti leggeri adatti alla calura del meriggio, la sopravveste di lino grigia con l'orlo dorato gli ondeggiava attorno ai polpacci. Era pulito, la barba appena accorciata. Sbadigliò di gusto, alzò uno sguardo preoccupato verso la stanza d'angolo, vide Ista appoggiata alla balaustra e le rivolse un profondo inchino. Appena svegliato dal pisolino, eh? Ma io so fino a che ora sei rimasto sveglio la notte scorsa. Con una certa difficoltà, Ista si costrinse a distogliere lo sguardo. La sua anima era grigia, stranamente pallida, non centrata, come se restasse un po' indietro rispetto a lui e lasciasse una scia di fumo. Ah. Sì. Adesso ho capito. Ista si raddrizzò e si avviò verso la scala, per incontrarlo mentre saliva. Si ritrovarono faccia a faccia, con Ista ferma due gradini sopra l'alzata
sulla quale il suo piede calzato di stivale si era fermato. Arhys attese cortesemente, sorridendo con aria perplessa. «Royina?» Ista afferrò quel mento volitivo, rabbrividendo al contatto della barba ispida, si chinò in avanti, e lo baciò sulla bocca. Arhys sgranò gli occhi per la sorpresa, ma non si ritrasse. Ista gustò la sua bocca: fredda come l'acqua, e altrettanto insapore. Quando lei si staccò, con aria triste pensò: Ecco, neanche questo ha funzionato. Arhys incurvò le labbra in un sorriso confuso e incantevole, ammiccando come a dire: Che cosa significa, signora? Come se le donne lo baciassero spontaneamente sulle scale tutti i giorni, e lui ritenesse sgarbato tirarsi indietro. «Lord Arhys», disse Ista. «Da quanto tempo siete morto?» 14 Il sorriso di Arhys divenne teso e diffidente. La guardò con aria attonita e al tempo stesso preoccupata, come se temesse che la folle Royina fosse in preda a una ricaduta proprio davanti a lui e che, come ospite disattento, lo avrebbero ritenuto responsabile. «Signora, avete voglia di scherzare...?» Era un chiaro suggerimento. Per favore non farlo... «Di solito i miei baci non vengono tanto disprezzati!» «Mai avuto così poca voglia di scherzare in vita mia.» Lui rise a disagio. «Lo ammetto, la febbre mi ha tormentato in questo periodo, ma vi assicuro, che non è ancora giunta la mia ora.» «Voi non avete febbre. Non sudate nemmeno. La vostra pelle ha la stessa temperatura dell'aria. Se non fosse per il caldo bestiale di questo clima, molte più persone se ne sarebbero già accorte.» Continuò a fissarla con la stessa espressione attonita. Per i cinque Dei. Ignora sul serio la sua condizione. Sentì un tuffo al cuore. «Penso che dobbiate parlare con vostro fratello», disse Ista con cautela. Arhys fece una smorfia sofferente. «Lo farei se potessi. Prego ogni giorno perché sia così. Ma lui non si risveglia da quella ferita avvelenata.» «E invece si risveglia. Ogni mezzogiorno, quando voi andate a riposare. L'unico riposo che vi concedete nell'arco di un'intera giornata. Vostra moglie non ve lo ha detto? Si reca quasi ogni giorno a supervisionare le sue cure.» E qualche volta anche di notte. Anche se non sono esattamente le cure di Illvin a preoccuparla, presumo.
«Royina, vi assicuro che non è così.» «Io ho parlato con lui. Venite con me.» La piega incredula che aveva assunto la sua bocca non cambiò, ma quando Ista si girò per risalire i gradini, la seguì. Entrarono nella camera ordinata di Illvin. Goram, che sorvegliava amorevolmente l'uomo, scattò in piedi quando vide Lord Arhys, inchinandosi in quel suo modo strano e convulso, e borbottando: «Mio signore». Lo sguardo di Arhys scivolò sulla figura immobile distesa sul letto. Le sue labbra si tesero in un'espressione di disappunto. «Non è cambiato nulla.» «Lord Arhys, sedetevi», lo invitò Ista. «Resto in piedi, Royina.» Il suo sguardo accigliato divenne sempre meno divertito. «Come preferite.» Il filo di fuoco cangiante che univa i due uomini era corto e spesso. Adesso che sapeva in che modo cercarlo, riuscì a percepire in esso anche la presenza del demone, un debole bagliore violetto che correva in tre direzioni, ma c'era un solo collegamento che scorreva con il flusso dell'anima. Chiuse la mano attorno al cordone che univa i due uomini, schiacciandolo fino a ridurlo a metà del suo spessore. Il fuoco incandescente, così costretto, rifluì verso il corpo di Illvin. Le ginocchia di Lord Arhys cedettero, e il nobile si accasciò a terra. «Goram, aiuta il March a sedersi sulla sedia», lo istruì Ista. Stai così, ordinò silenziosamente alla legatura invisibile, e così avvenne. Si avvicinò al letto di Illvin, studiando i nodi di luce. Sollevatevi, ordinò loro in silenzio, e li sospinse con le mani, concentrandoli sulla fronte e sulla bocca, come Cattilara aveva fatto... sull'altro punto teologico. La luce si addensò come lei voleva. Rimani qui. Inclinò la testa da un lato e osservò l'effetto. Sì. Credo. Goram si precipitò a prendere una sedia di legno lucido tutta curve intrecciate, poi sollevò l'attonito Arhys per le braccia e lo fece sedere. Il March chiuse la bocca, sfregandosi il viso con una mano divenuta improvvisamente debole e tremante. Stava perdendo la sensibilità degli arti, giusto? Senza tante cerimonie Ista prese lo sgabello di Goram e si sedette ai piedi del letto, sistemandosi in una posizione da cui poteva vedere bene i volti di entrambi i fratelli. Gli occhi di Illvin si aprirono; trasse un respiro e mosse la mandibola. Lentamente, cominciò a sollevarsi su un gomito, finché il suo sguardo in-
tercettò il fratello che lo fissava a bocca aperta. «Arhys!» La voce era squillante di gioia. L'improvviso sorriso trasformò il suo volto; Ista oscillò all'indietro, sbattendo gli occhi, di fronte alla rivelazione di un uomo tanto affascinante. Goram corse a mettergli dei cuscini dietro la schiena. A fatica si raddrizzò ulteriormente, la bocca spalancata per lo stupore. «Ah! Ah! Sei vivo! Non volevo credergli... non mi guardavano mai negli occhi, ho pensato che mi mentissero per risparmiarmi... sei salvo! Io sono salvo. Per i cinque Dei, siamo tutti salvi!» Crollò all'indietro, ansimando e sorridendo, scoppiò in lacrime per lo stupore, poi riacquistò il controllo del respiro. Arhys lo fissava stordito. Ista notò che Illvin non parlava più in modo confuso, anche se gli arti inferiori sembravano paralizzati. Pregò che anche le sue facoltà mentali si fossero schiarite allo stesso modo. Con un tono di voce pacato, ben lontano da ciò che provava, chiese: «Perché pensavate che vostro fratello fosse morto?» «Per gli Dei, e che cosa avrei dovuto pensare? Ho sentito quel maledetto coltello entrare fino all'impugnatura, altrimenti come avrei fatto a sopravvivere a spese di qualche altro povero bastardo... Ho sentito la spinta e il cedimento contro la mia mano quando ha trafitto il cuore. Per poco non ho vomitato.» Per i cinque Dei, non un fratricidio, per favore. Non volevo che fosse un fratricidio... Ista continuò a mantenere un tono di voce calmo nonostante i crampi allo stomaco. «Come siete arrivato a questo punto? Raccontatemi tutto. Raccontatemi tutto dall'inizio.» «Lei lo ha portato nelle sue camere.» E rivolto a Arhys, aggiunse: «Ero nel panico, perché Cattilara era venuta a saperlo da quella impicciona di ancella, ed era decisa a seguirti. A quel punto ero sicuro che lei non fosse normale...» «Lei chi?» chiese Ista. «La Principessa Umerue?» «Sì. La scintillante ragazza dorata.» Sorrise di nuovo, ma questa volta era quasi un ghigno. «Arhys, se per favore la smettessi di metterti nei guai ogni volta che qualche aspirante seduttrice ti manda un bacio, sarebbe di gran conforto per tutti i tuoi familiari.» Arhys, i cui occhi s'illuminarono di una gioia che rispecchiava quella di Illvin, chinò la testa con aria imbarazzata. «Giuro che non faccio niente per incoraggiarle.» «Questo, lo garantisco, è proprio vero», assicurò Illvin, guardando Ista.
«Non che sia una consolazione vedere stuoli di donne passarmi davanti senza degnarmi di uno sguardo per correre da lui. Mi ricorda un garzone di cucina che dà da mangiare alle sue galline.» «Io non c'entro. Sono loro a gettarsi ai miei piedi.» Guardò di sottecchi Ista, e aggiunse seccamente: «Persino sulle scale». «Potresti sottrarti», suggerì Illvin con un tono di voce più dolce. «Provaci qualche volta.» «Lo faccio, accidenti a te. Hai una visione troppo lusinghiera della mia vita, se pensi che Cattilara mi conceda lo spazio per indulgere ad amoreggiare.» Ista non era sicura che quell'affermazione corrispondesse al modo in cui si era comportato quando l'aveva salvata, ma forse faceva il galante con tutte le dame che portava in salvo, se non altro per evitare che avessero delle crisi di pianto. Con rammarico, Ista interruppe quello scambio di battute scherzose, senz'altro abituali e di sicuro molto più blande del solito, data l'occasione. Non v'era dubbio che il Dio l'avesse inviata in quel penoso labirinto, allettandola in pari misura con la curiosità e un impegno segreto, ma non aveva intenzione d'indugiarvi. «Allora perché siete andato nelle camere della Principessa Umerue? Se ci siete andato.» Arhys esitò, e la gaiezza abbandonò il suo volto. Si massaggiò la fronte, poi la mascella e le mani. «Non lo so esattamente. In quel momento sembrava una buona idea.» Illvin intervenne: «Cattilara sosteneva che la principessa ti avesse fatto bere un filtro d'amore, e che avessi perso il controllo. Per quanto le sue fantasie mi irritassero, io... ho sperato che fosse così. Perché l'alternativa sarebbe stata peggiore». «Quale? Che mi fossi innamorato di Umerue?» «No. Non è quello a cui avevo pensato.» Lo sguardo di Ista si fece tagliente. «Allora cosa?» L'espressione di Illvin divenne pensosa, grave. «Perché aveva avuto lo stesso effetto su di me. All'inizio. Poi ha visto Arhys e mi ha messo da parte. Mi ha lasciato cadere a terra come un sacco di crusca. E... ho recuperato tutte le mie facoltà mentali. Alla fine mi sono ricordato di averla già vista, tranne che non era proprio la stessa... Arhys, ti ricordi quel breve viaggio che feci a Jokona, tre anni fa, quando partii camuffato da mercante di cavalli? Quella volta che ho riportato Goram e la pianta del Castello di Hamavik.»
«Sì...» «Comprai alcuni cavalli dal Lord di Hamavik. Li pagai una enormità, e questo lo rese felice e loquace, e incline a considerarmi uno stupido. Mi invitò a cenare nel suo palazzo al mare, gesto dal quale avrei potuto dedurre fino a che punto mi aveva spellato, se non l'avessi già capito. Mi mostrò con ostentazione tutti i suoi possedimenti, compresa sua moglie, giusto per un attimo. Una principessa di Jokona, nipote del Generale Dorato in persona, mi disse, come se fosse un bel cavallo purosangue barattato a caro prezzo. E non dubitavo che fosse stato così, perché è risaputo che la Vedova Reggente Joen non cede i suoi figli a basso costo. Per i cinque Dei, ma quello era un vecchio caprone ripugnante. Dorata era, ma anche la donna più timida, silenziosa e triste che avessi mai visto. Sciatta. Spaventata. E non sapeva dire più di due parole in croce di ibrano.» «Non la stessa principessa, allora», commentò Arhys. «Il Principe di Jokona ha un mucchio di sorelle. L'hai scambiata per qualcun'altra, forse. Umerue aveva una parlantina ardita e arguta.» «Sì. Faceva giochi di parole bilingui. Eppure, a meno che non fosse una sorella gemella, avrei giurato che fosse la stessa donna.» Illvin sospirò, poi corrugò le sopracciglia. «Catti si è lanciata come una furia verso le camere della principessa, e io le sono corso dietro. Temevo che... non sapevo bene cosa, ma ho pensato che, se non altro, avrei potuto avvisarti, ed evitare una scenata.» «Il mio fedele fiancheggiatore.» «Questo andava ben oltre i miei doveri, pensai. Saresti stato in debito nei miei confronti, e intendevo anche riscuotere il dovuto. Pregai Catti di lasciarmi almeno entrare per primo, ma lei mi sgusciò sotto il gomito. Il nostro ingresso precipitoso non poteva essere più inopportuno.» Gli uomini morti, notò Ista, non potevano arrossire. Ma potevano almeno mostrare vergogna. «Persino io non potei biasimare Catti per aver perso il lume della ragione», continuò Illvin. «Ma se quel pugnale appariscente si fosse trovato sotto quella pila d'indumenti, invece che sopra, sarei riuscito a trattenerla. Si è scagliata direttamente sulla principessa, urlando. Intendeva sfigurarla. Per motivi comprensibili.» «Ricordo quella scena», disse Arhys lentamente, con una nota d'incertezza. «Mi ritorna alla mente...» «Tu hai spinto da parte la sgualdrina dorata, io ho afferrato la mano di Catti che brandiva il pugnale, e insieme saremmo riusciti a salvare la si-
tuazione, se tu non fossi inciampato, saltando giù dal letto. Eri così eccitato da non avere neanche il tempo di svestirti? Se io avessi avuto una simile opportunità... ma lasciamo perdere. Il migliore spadaccino di Caribastos che incespica nei propri pantaloni... per i cinque Dei, Arhys! Catti non avrebbe avuto la forza di far penetrare quella grossa lama se avesse voluto colpire te, se tu non fossi ruzzolato su di noi con le caviglie attorcigliate.» La sua indignazione svanì, e la voce eccitata divenne più smorzata. «Ho sentito la lama entrare. Ero sicuro che ti avessimo ucciso.» «Non è stata colpa di Catti!» si affrettò a dire Arhys. «Oh, quell'espressione di dolore sul suo volto... è stato come se mi avessero pugnalato una seconda volta. Non c'è da stupirsi se... Dopo quello... dopo quello, non ricordo.» «Sei caduto ai miei piedi. Quella stupida ragazza ha estratto il coltello con uno strattone... io ho gridato: No, Catti! Troppo tardi. Anche se non sono sicuro che lasciandolo avrebbe arginato l'emorragia, visto come sanguinavi. Cercavo di tenere premuta una mano sulla ferita, e con l'altra trattenevo Catti per la manica, ma lei si è sfilata la sopravveste. Umerue urlava, e si stava arrampicando sul letto per prenderti; non capivo perché. Catti le ha infilzato il coltello nello stomaco. Umerue ha afferrato l'impugnatura, ha sollevato lo sguardo e mi ha guardato con due occhi tristissimi. Poi ha esclamato Oh, con una vocina smarrita. Come... come la sua voce quando la vidi per la prima volta.» La voce di Illvin si abbassò ancora di più. «Ha detto solo, oh. Il viso di Catti assunse un'espressione molto strana, dopodiché... io non ricordo più nulla.» Si accasciò sui cuscini. «Perché non ci riesco...» Le mani di Ista tremavano. Le nascose tra le pieghe della gonna. «Che cosa ricordate dopo questo episodio, Lord Illvin?» chiese. «Di essermi svegliato qui. Con la testa confusa. Stordito e malato. E poi di essermi risvegliato di nuovo qui. E di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. E... qualcosa deve essermi successo. Sono stato colpito alle spalle?» «Cattilara ha detto che è stato Pechma a colpirti», intervenne Arhys. Si schiarì la gola. «E Umerue.» «Ma quello non c'era. È venuto dopo di noi? Inoltre, io non sono stato...» la mano di Illvin scese sul torace, sotto il lenzuolo e ne uscì sporca di rosso «... pugnalato?» «Che aspetto aveva Pechma?» chiese Ista, ostinatamente. «Era il segretario di Umerue», rispose Arhys. «Aveva pessimi gusti nel vestire, ed era il bersaglio degli scherzi del suo seguito; c'è sempre uno
zimbello di turno. Quando Cattilara mi riferì che aveva aggredito Illvin, le dissi che era impossibile. Lei obiettò che era meglio che fosse possibile, altrimenti si sarebbe scatenata una guerra col Principe Sordso prima che il corpo venisse riportato a casa. E che nessuno tra i jokoniani avrebbe preso le difese di Pechma. E in effetti, in questo ha dimostrato di aver ragione. Mi disse anche di essere paziente, che Illvin si sarebbe ripreso. Cominciavo a dubitarne, ma adesso vedo che è così!» «Non mangiate da più di due mesi, e questo fatto non vi ha sorpreso?» Illvin distolse lo sguardo dalla sua mano macchiata per fissarlo su Arhys, sbigottito, e i suoi occhi si strinsero. «Mangiavo. Solo che non riuscivo a tenerlo tutto», spiegò Arhys scrollando le spalle. «Comunque, sembra che mi basti.» «Ma adesso si rimetterà», interloquì Illvin lentamente. «Vero?» Ista esitò. «No. Non si rimetterà.» Spostò lo sguardo verso il silenzioso ascoltatore, semi accovacciato in fondo alla parete. «Goram. Che cosa pensavate della Principessa Umerue?» Il rumore che fece con la gola risuonò come il ringhio di un cane. «Era cattiva, quella.» «Come fate a dirlo?» Il suo volto si contorse. «Quando mi guardava, mi sentivo raggelare dalla paura. Le stavo alla larga.» Ista valutò la sua anima devastata. Ci credo. «Mi piacerebbe pensare che sia stato Goram ad aiutarmi a recuperare il buonsenso», disse Illvin con voce mesta, «ma temo che sia stato solo l'effetto dell'indifferenza di Umerue.» Ista osservò velocemente lo stalliere. Decise che le cicatrici visibili sulla sua anima erano una distrazione in quel momento; erano provocate da una vecchia ferita, vecchia e fosca. Se, come iniziava a sospettare, era stato posseduto da un demone, era successo molto tempo prima. Il che lasciava... «Umerue era una strega», affermò Ista. Un breve, feroce ghigno illuminò il volto di Illvin. «L'avevo immaginato!» Esitò. «Come fate a saperlo?» E dopo un attimo: «Ma voi chi siete?» Ho visto il suo demone smarrito, Ista decise di non svelarlo subito. Desiderava disperatamente che dy Cabon fosse lì con lei, con l'esperienza teologica utile a sbrogliare quella matassa. Adesso Illvin la guardava con maggiore circospezione, preoccupato, ma non incredulo.
«Dicono che siete stato educato in seminario da ragazzo, Lord Illvin. Non potete esservi dimenticato tutto. Da un Erudito Divino dell'Ordine del Bastardo mi è stato detto che se l'ospite di un demone muore, e l'anima non ha la forza di riportarlo agli Dei, entra nel corpo di un altro. La strega è morta, e nessuno di voi due ha il demone, ve lo assicuro. Chi resta?» Arhys aveva una pessima cera. Per un morto che camminava, avrebbe dovuto essere un miglioramento, pensò Ista, ma non lo era. «Ce l'ha Catti», sussurrò. Non si mise a discutere con lei su questo punto, notò. Ista chinò il capo in un gesto d'approvazione. «Sì. Adesso ce l'ha Catti. E la sua richiesta è di tenervi in vita. Be', animato. Fintanto che i suoi poteri sono costretti a lavorare.» Arhys spalancò la bocca, poi la richiuse. Alla fine, disse: «Ma... queste cose sono pericolose! Consumano le persone; gli stregoni perdono l'anima. Catti deve essere curata; devo convocare i teologi del Tempio, per liberarla...» «Aspetta un momento, Arhys», intervenne Illvin con voce tesa. «Credo che dobbiamo riflettere su questa cosa...» Dall'esterno giunsero dei tonfi: piedi che correvano. Due paia. La porta venne spalancata. Cattilara, con gli abiti da cavallerizza in disordine, scarmigliata, irruppe nella stanza annaspando. Seguita da Liss, altrettanto affannata. «Arhys!» gridò Cattilara e si gettò su di lui. «Per i cinque Dei! Per i cinque Dei! Che cosa ti ha fatto questa donna?» «Mi spiace, Royina», sussurrò Liss all'orecchio di Ista. «Eravamo in mezzo a un campo, quando all'improvviso si è messa a gridare che c'era qualcosa che non andava al suo signore, è corsa a prendere il cavallo, ed è galoppata via. Non c'era modo di trattenerla.» «Sss... Va bene.» Ista soffocò una fitta di nausea pensando a come aveva ingannato Catti, per quanto avesse funzionato. «Bene, è sufficiente. Mettiti vicino a Goram, ma non devi parlare, né interrompere. Anche se senti delle cose che possono sembrare strane.» Liss s'inchinò e andò ad appoggiarsi alla parete, vicino allo stalliere, che la salutò con un cenno del capo. Inclinò la testa di lato con fare dubbioso, vedendo Lady Cattilara che singhiozzava tra le braccia prive di forza di Lord Arhys. Cattilara afferrò la mano del marito, ne valutò la debolezza, poi alzò su di lui il volto rigato di lacrime. «Che cosa ti ha fatto questa donna?» chie-
se. «Che cosa mi hai fatto tu, Catti?» domandò a sua volta dolcemente. Lanciò un'occhiata al fratello. «A noi due?» Cattilara si guardò attorno, scoccando un'occhiata furente a Ista e a Illvin. «Mi avete ingannata! Arhys, qualunque cosa ti abbiano detto, mentono!» Illvin inarcò le sopracciglia. «Sei tu che menti», mormorò. Ista cercò d'ignorare per un attimo le superfici distraenti. Il demone era più aggrovigliato che mai, denso e risplendente, come se, avendo tutte le altre vie bloccate, stesse cercando di fuggire dentro se stesso. Sembrava che tremasse. Come se fosse terrorizzato? Perché? Che cosa pensa che possa fargli? Anzi: Che cosa sa che io non so? Ista si accigliò, disorientata. «Catti.» Arhys le accarezzò i capelli arruffati, riordinandoli, assorbendo i singhiozzi sulla propria spalla. «È arrivato il momento di dire la verità. Calmati, adesso. Guardami.» Le prese il mento, lo girò verso di sé, sorrise in quegli occhi umidi, con uno sguardo che a Ista avrebbe fatto sciogliere il cuore facendoglielo scivolare fino a terra. L'isterica Catti si divincolò dalla sua debole presa, si accovacciò ai suoi piedi, e pianse sulle sue ginocchia mormorando: «No, no!» Illvin alzò gli occhi al cielo, e si massaggiò la fronte con aria esasperata, ma con gesti altrettanto deboli. Dava l'impressione che in quel momento avrebbe barattato volentieri ciò che restava della sua anima pur di fuggire dalla stanza. I suoi occhi incontrarono lo sguardo di commiserazione di Ista, che alzò due dita, come a dire: Aspetta... «Sì, sì», mormorò Arhys alla moglie. E con la mano posata sul suo capo, la cullava delicatamente. «Qui a Porifors comando tutti; tutte le vite di coloro che vi abitano sono nelle mie mani. Devo sapere tutta la verità.» «Bravo, Arhys», borbottò Illvin. «Fatti valere, per una volta.» Sì, meglio che glielo chieda lui. Catti non saprà resistergli o, almeno, non tanto. «Che cosa è successo dopo che hai pugnalato la... strega?» chiese Arhys. «Come hai fatto a catturare il suo demone?» Catti tirò su col naso, deglutì, tossì. Con voce rauca, rispose: «È semplicemente venuto da me. Potevo essere io o Illvin, ma aveva più paura di Illvin». Un lieve sorriso torvo le aleggiò sul volto. «Mi ha promesso mari e monti se fossi fuggita. Ma c'era una sola cosa che volevo. Volevo che tu tornassi indietro. L'ho costretto a riportarti indietro. Vuole ancora scappa-
re, ma io non lo lascerò mai andare, mai.» Volontà contro volontà. Ista ebbe il sospetto che si trattasse di un demone esperto e forte. Ma su certe questioni meschine, Cattilara era più ostinata. Più che ostinata: ossessionata. Se il demone aveva scambiato Catti per un ospite più arrendevole di Illvin, doveva avere avuto una bella sorpresa. Per quanto Catti la esasperasse, Ista provò una certa torva soddisfazione pensando allo sgomento del demone. «Vi rendete conto», intervenne Ista, «che il demone sta consumando la vita di Illvin per permettere a Arhys di... muoversi?» Con uno scatto, Catti sollevò la testa. «È giusto così. È stato lui a pugnalare Arhys; che paghi!» «Ehi, vacci piano!» sbottò Illvin. «Non c'ero solo io.» «Se tu non mi avessi afferrato la mano, non sarebbe successo!» «No, non se Arhys non fosse inciampato, o se Umerue non si fosse spostata dall'altra parte. Ma l'abbiamo fatto tutti noi.» Illvin chiuse la bocca serrando le labbra. «Sì», disse Ista lentamente. «Quattro persone unite per produrre un risultato che nessuno, suppongo, desiderava. Non sono così sicura in merito alla... quinta presenza.» «È vero», interloquì Illvin, «che i demoni prosperano sulla sfortuna e sul disordine; è nella loro natura, e la magia che offrono è pregna di quella natura. Almeno così mi hanno sempre insegnato i Divini.» Si girò contro i cuscini e si mise a scrutare con un certo disagio la cognata. «Be', questo demone è stato inviato qui», spiegò Cattilara. «Con uno scopo. Doveva sedurre Illvin, o Arhys, o entrambi, e conquistare il Castello di Porifors dall'interno per il Principe di Jokona. Io ho impedito che questo accadesse. Come un qualsiasi soldato che respinga una scala durante un assedio.» Agitò i capelli con uno sguardo torvo, come a sfidare chiunque dal criticare quel risultato. Le labbra di Illvin s'incresparono in un'espressione di comprensione. Arhys aggrottò le sopracciglia, preoccupato. «E Lord Pechma?» pungolò Ista. «Oh, con Pechma è stato facile. Il demone sapeva tutto di lui.» Cattilara espresse il suo sdegno arricciando il naso. «Dopo aver sistemato Illvin e riportato Arhys nel nostro letto, non ho fatto altro che trovare Pechma e accusarlo, convincendolo che al mattino sarebbe stato impiccato se non si fosse dato alla fuga. Il resto lo ha fatto da sé. Probabilmente sta ancora correndo.»
Quella giovane donna aveva avuto una notte movimentata, rifletté Ista. La furbizia che l'aveva indotta a sistemare Illvin dopo averlo denudato, la sconcertò. Una piccola vendetta, forse, su un uomo che non si era mai fatto abbagliare dalla sposa del fratello? «Arhys non ha nessuna colpa», continuò Catti con veemenza. «Perché dovrebbe essere lui l'unico a soffrire?» Girò il volto irato verso Ista. «Quindi, voi... qualsiasi cosa abbiate fatto per tenerlo su questa sedia... lasciate che si alzi!» Ista si sfiorò le labbra. «Moltissime persone soffrono, pur non avendo colpe», sentenziò. «Non è una condizione nuova nel mondo. Io libererò Arhys fra un attimo, ma prima, tutti devono parlare liberamente. Il Tempio ci dice che i demoni operano i loro prodigi a un costo terribile. Fino a quando pensate di poter tenere sotto controllo il vostro?» Cattilara serrò la mascella. «Non lo so. Finché vivo e ho volontà! Perché se il demone interrompe la sua magia, Arhys morirà.» «Se... questa è davvero l'alternativa», s'intromise all'improvviso Illvin, «forse questo scambio non è una cosa negativa. Posso sopportare di condividere, diciamo, la metà. Supponiamo che mezza giornata sia di Arhys, e l'altra mezza mia?» E così non sarebbe stato un fratricida? O magari un quarto di fratricida? Sul suo volto si poteva leggere chiaramente la crescente speranza. Cattilara s'illuminò di fronte a quell'inattesa offerta di alleanza, e guardò Illvin sotto una nuova luce. Ista esitò, scossa nelle sue certezze. Incertezze, corresse il suo fosco pensiero. «Io credo che non possa funzionare per molto tempo», esordì. «Per quanto affamato sia, comunque il demone consumerà lentamente Catti, altrimenti a quest'ora sarebbe già sbiadito, o incapace di mantenere la propria magia. L'Erudito dy Cabon mi ha detto che il demone capovolge sempre la situazione a danno del suo ospite, ammesso che abbia abbastanza tempo.» «Fintanto che Arhys è salvo, io mi assumerò il rischio!» incalzò Cattilara. Arhys emise un sibilo di protesta e scosse la testa. «A me sembra che valga la pena», borbottò Illvin scuro in volto. «Ma non è un rischio. È una certezza. Arhys morirà lo stesso, e Cattilara sarà distrutta.» «Ma quando, per quanto tempo, questa è la questione!» ribatté Cattilara. «Molte cose potrebbero succedere prima di... allora.»
«Sì, e ve ne posso dire alcune», continuò Ista. «Illvin, ne sono certa, deve avere studiato la teologia della magia di morte nel seminario del Bastardo. Ho avuto occasione di conoscerla da vicino, in passato. Arhys in questo momento non è vivo. Il demone ha catturato il suo spirito reciso e glielo ha restituito per infestare il suo corpo. Per certi versi, una dimora familiare, congeniale, direi. Ma è tagliato fuori dal sostegno del suo Dio, e il suo spirito è ugualmente separato dal nutrimento della materia. Non è in grado di provvedere alla propria vita, se non con ciò che viene sottratto a Illvin, né accrescerla né generarla.» Cattilara trasalì, alzando le spalle in segno di protesta. Ista continuò a spiegare a grandi linee le fosche conseguenze. «Quindi, il suo destino sarà quello degli spiriti perduti. Lentamente avvizzirà, sbiadirà, perderà gradualmente la consapevolezza di sé, del mondo, i suoi ricordi ciò che ama e ciò che odia -, dimenticherà. È una sorta di senilità. Io ho visto gli spettri vagare. È una quieta dannazione, e misericordiosa... per loro.» «Volete dire che perderà il senno?» chiese Illvin sconvolto. «Questa... non è una buona cosa», commentò Arhys. «Non ne ho tanto quanto te da sprecare.» Cercò di sorridere al fratello. Ma il tentativo fallì miseramente. Ista si morse il labbro e andò avanti. «Credo di sapere perché il demone concede a Illvin così poco tempo, appena sufficiente, no, neanche sufficiente, per mangiare. Perché il loro tempo è ripartito in modo così impari. Quando Illvin è sveglio, penso che il demone... perda terreno, nel mantenere il corpo di Arhys. Per ogni ora di risveglio concessa a Illvin, il corpo morto decade un po' di più. Col tempo, il processo di putrefazione comincerà a essere evidente.» Lo era già per la sua sensibilità acuita, adesso che sapeva come guardare. Non mi piace questa nuova conoscenza. «È questo il destino che desiderate per il vostro bel marito, Lady Cattilara? Una mente senile intrappolata in un corpo in decomposizione?» Le labbra di Cattilara si mossero per dire: «No, no», ma non emisero suono. Nascose il viso contro le ginocchia di Arhys. Dei, perché avete affidato a me questo compito orribile? Ista continuò, spietatamente: «Anche Illvin sta morendo, in quanto gli viene sottratta più vita di quanta riesca a rigenerare. Ma se Illvin muore, anche Arhys... si fermerà. Non per suo volere, ve lo posso assicurare. Quale dei due se ne andrà per primo non ve lo so dire. Ma questa è la logica della magia del demone: due vite in cambio di una, poi anche quest'ultima
sottratta, senza lasciare nulla in cambio. Ho esposto la situazione in modo teologicamente corretto, Lord Illvin?» «Sì», sussurrò. Deglutì e ritrovò la voce. «La magia dei demoni, dicono i Divini, genera invariabilmente più caos che ordine. E il costo è sempre più alto della ricompensa. Alcuni di quelli che si dilettano coi demoni cercano di scaricare il costo sugli altri e di tenersi il premio per sé. Tuttavia è raro che la cosa funzioni per molto. Anche se si dice che alcuni teologi molto saggi e arguti, stregoni del Tempio, sappiano usare la magia demoniaca seguendo la sua natura, e non contrastandola, e siano quindi in grado di produrre del bene.» Ista aveva molti dubbi in merito alla mossa successiva, ma sembrava una logica conseguenza. Aveva una profonda sfiducia nella logica; era possibile usare la ragione per aprirsi un varco, passo dopo passo, in una palude di gravi peccati, così com'era possibile precipitarvi a capofitto. «Ho udito le storie di tutti gli interessati, a eccezione di uno. Credo che questo demone abbia acquisito il dono della parola e voglio parlare con lui. Lady Cattilara, potete farlo emergere per un po'?» «No!» Vedendo lo sguardo di Ista si accigliò, poi aggiunse: «Non sono io il problema. Lui cercherà di scappare col mio corpo». «Uhm», mormorò Ista. Non si fidava molto di Cattilara, ma quell'affermazione poteva essere vera. «Legatela alla sedia», suggerì laconica Liss. Ista guardò la ragazza che inarcò le sopracciglia e scrollò le spalle. Aveva un atteggiamento distaccato, ma i suoi occhi erano sgranati e affascinati, come se stesse assistendo a una commedia e volesse vedere l'atto successivo. «Non capite», insistette Cattilara. «Dopo, non vorrà tornare dentro.» «Mi impegno io a trattenerlo», ribatté Ista. Illvin inarcò le sopracciglia con aria incuriosita. «Come?» «Non credo che ci riusciate», disse Cattilara. «Lui lo crede. Altrimenti non avrebbe così paura di me.» «Oh.» Il viso di Cattilara si fece pensieroso. «Io credo», esordì Arhys lentamente, «che l'interrogatorio sia molto importante. Te la senti di farlo, cara Catti... per me?» Cattilara tirò su col naso, si accigliò, strinse i denti. «So che ne hai il coraggio», aggiunse, scrutandola. «Oh... va bene!» Fece una smorfia e a fatica si rialzò. «Ma non credo che funzionerà.» La Marchess osservò con sgomento, mentre Goram, assistito da Liss,
trascinava il semi paralizzato Arhys dalla sedia al pavimento, dove venne fatto sedere con le spalle contro il letto. Cattilara cooperò, comunque, lasciandosi cadere nel posto appena liberato e sistemando le braccia sui braccioli di legno. Goram si affrettò a portare dei legacci di fortuna presi dal mucchio di cinture e fasce di Illvin. «Usate dei pezzi di stoffa», suggerì ansiosamente Arhys. «In questo modo non incideranno la pelle.» «Legatemi strettamente anche le caviglie», insistette Cattilara. Goram era estremamente cauto, sotto lo sguardo preoccupato del March, ma Liss alla fine fece dei nodi che Cattilara approvò. Quando Liss ebbe terminato, i legacci sembravano delle fasciature. Ista spostò lo sgabello e si mise di fronte a Cattilara, profondamente conscia del forte corpo afflosciato di Arhys accanto a sé. «Procedete, Lady Cattilara. Liberate il demone, lasciatelo risalire.» Cattilara chiuse gli occhi. Ista cercò di vedere quei confini interiori col suo occhio interno. Sembrava che non si trattasse tanto di lasciare, quanto di guidare. «Vieni fuori, tu», mormorò Cattilara, simile a un bambino che stuzzichi con un ramoscello un tasso per farlo uscire dalla sua tana. «Vieni su!» Un'ondata di luce viola invisibile... Ista fece appello a tutta la sua sensibilità. L'espressione di Cattilara mutò, e la rigida ansia cedette il posto, per un attimo, a un sorriso languido; si leccò le labbra, poi fece una smorfia, come se tendesse i muscoli del viso in modo non abituale. Una sfumatura viola percorse tutto il suo corpo, fino alle dita; gli occhi si spalancarono, dilatandosi per il terrore alla vista di Ista. «Risparmiateci, oh Splendente!» strillò. Tutti, nella stanza, sussultarono di fronte a quel grido lacerante. Cattilara cominciò a oscillare e a tirare con violenza i legacci. «Lasciateci uscire, slegateci! Ve lo ordiniamo! Lasciateci andare, lasciateci andare!» Poi tacque, ansimando, e un lampo di furbizia passò nel suo sguardo. Si accasciò all'indietro, chiuse gli occhi, li riaprì, ritornando a esprimere ansia e tensione. «Come vedete, è inutile. Questa stupida cosa non vuole uscire. Fatemi alzare.» Ista notò che la sfumatura viola era ancora presente sul corpo di Cattilara da capo a piedi. Con un cenno della mano fermò Liss, che si stava avvicinando con aria delusa. «No, non è Catti che parla, ma la creatura.» «Oh.» Liss ritornò ad appoggiarsi alla parete. Il volto di Cattilara cambiò di nuovo, dissolvendosi in rabbia. «Lasciate-
ci andare! Voi, teste di legno, non avete idea di che cosa avete attirato su Porifors!» Prese ad agitarsi e a dimenarsi con una forza terrificante, facendo oscillare la sedia. «Fuggire, fuggire! Dobbiamo fuggire! Tutti! Fuggite finché siete in tempo. Lei sta arrivando. Lei sta arrivando. Lasciateci andare, lasciateci andare...» La voce di Cattilara si alzò, spezzandosi in un urlo senza suono. La sedia cominciò a traballare; Goram l'afferrò e cercò di tenerla ferma mentre sbatteva e strisciava. La lotta frenetica non accennò a diminuire, benché Cattilara fosse paonazza per lo sforzo e il suo respiro uscisse in rantoli preoccupanti. Il demone era talmente disperato da tentare la fuga attraverso la morte di Cattilara, se solo ne avesse avuto l'opportunità? Sì, decise Ista. Riusciva a immaginarselo che spezzava il collo della sua ospite mentre si precipitava come una furia contro il muro. Minacciare di fare del male al corpo di Cattilara era inutile, anche se Arhys avrebbe... be', non aveva altra scelta che restare a guardare immobile. Ma era chiaramente una tattica futile. «Molto bene», sospirò Ista. «Tornate indietro, Lady Cattilara.» La marea viola sembrò fluire e rifluire entro i confini del corpo scosso da spasmi. La sfumatura recedette, ma poi dilagò di nuovo. Cattilara non riusciva a riacquistare il controllo? Questo Ista non se l'era aspettato. Oh, no. Le avevo promesso che l'avrei trattenuto... «Aspetta», ordinò Ista. «Sono stata inviata dal Dio per recidere questo nodo. Libera Arhys, e io libererò te.» Le avrebbe creduto? Il demone-Catti smise di lottare, scrutando Ista attraverso occhi sgranati. Un flusso violetto proruppe verso Illvin. Di colpo, l'espressione inorridita defluì dal volto di Arhys, per lasciare posto a... al nulla. Si rovesciò su un fianco come una bambola di pezza: il luminoso campione di Porifors si era trasformato in una massa di carne esitante che avrebbe richiesto due uomini per essere trascinata via. Ma il suo spirito non si era sradicato in quel fuoco cangiante che Ista aveva veduto altre volte nei morenti. Il suo spettro si fece semplicemente da parte, spostandosi dal suo corpo, ma non molto dissimile a prima. Ista fu percorsa da una scossa di terrore. Per i cinque Dei. La sua anima è già stata recisa. Il suo Dio non può raggiungerlo. Che cosa ho fatto? «Riportalo indietro!» Con un impeto d'ira, Cattilara riprese il controllo del proprio corpo, come un mastino lasciato libero che abbatta un toro afferrandolo per il collo. La luce viola si riavvolse in una matassa difensiva, i canali riapparvero, il fuoco ricominciò a fluire. Con un sussulto Arhys ri-
prese a respirare; sbatté le palpebre e con una spinta ritornò a sedersi, con un'espressione semi intontita. Ista tremava. La tattica aveva funzionato su Cattilara, come il suo intuito le aveva suggerito, ma aveva rivelato... qualcosa che comprendeva appena. Niente più tattiche. Non ho lo stomaco per queste cose. Costretta dai legacci, Cattilara fissava Ista con uno sguardo malvagio. «Orribile vecchia baldracca. Mi avete ingannata.» «Ho ingannato anche il demone. Ne siete dispiaciuta?» Fece segno a Goram e a Liss, che cominciarono a slegare con cautela i legacci della Marchess. Illvin, che era rimasto a osservare il fratello dal bordo del letto con grande apprensione, si sdraiò di nuovo e fissò Ista con un'espressione turbata. «Come fate, signora? Siete forse una strega anche voi?» «No», rispose Ista. «I miei doni indesiderati provengono da un'altra fonte.» Se possedere o essere posseduti da un demone faceva di un uomo uno stregone, e il fatto di ospitare un Dio rendeva santi, quale ambiguo ibrido diventava un uomo nelle mani del Dio dei demoni? «Toccata dagli Dei... È questo che siete, quindi?» chiese guardingo. «Con mio infinito dispiacere.» «Com'è accaduto?» «Qualche bastardo sofferente ha pregato un Dio troppo indaffarato per occuparsi di lui, e Lui ha delegato il compito a me. O così mi ha fatto credere.» «Oh», mormorò Illvin con un filo di voce, mentre assimilava il significato delle sue parole. Dopo un attimo, aggiunse: «Voglio parlare ancora di questa cosa con voi. Ehm, in un momento meno concitato di questo». Arhys protese la mano per accarezzare la caviglia della moglie. «Catti. Non possiamo andare avanti così.» «Ma, amore, che cosa faremo?» Girò la testa per mostrare a Ista uno sguardo straziato. «Non potete prenderlo adesso. È troppo presto. Non rinuncerò a lui adesso.» Si massaggiò i segni rossi sulle braccia, mentre le venivano tolti i legacci. «Ha già avuto più tempo di quanto sia concesso a molti uomini», la rimproverò Ista. «Egli ha accettato i rischi della vita del soldato molto tempo fa; quando vi siete legata a lui col matrimonio, anche voi li avete accettati.»
E che dire della sua anima recisa? Se la morte del corpo era un dolore già sufficiente, il lento decadimento degli spettri, anime che avevano rifiutato gli Dei, era un'autodistruzione. Ma Arhys non aveva scelto quell'esilio; gli era stato imposto. Non il suicidio della sua anima, bensì il suo assassinio... Ista temporeggiò. «Non occorre che sia oggi, in modo disordinato e frettoloso. C'è ancora un po' di tempo. A sufficienza per sistemare le sue faccende, mentre ha il controllo delle proprie facoltà mentali; a sufficienza per accomiatarsi per iscritto o a voce. Non più di questo, credo.» Considerò la fragilità pericolosamente emaciata di Illvin. Questa situazione ingarbugliata è decisamente peggiore di quanto avessi immaginato all'inizio. E persino la seconda vista non riesce a scorgere ancora una via d'uscita. Con una spinta, Arhys si raddrizzò. «Le vostre parole sono sensate, signora. Manderò a chiamare il notaio del Tempio... rivedrò il mio testamento...» «Non è giusto!» proruppe Cattilara con rabbia. «È stato Illvin a pugnalarti, e adesso si prenderà tutti i tuoi averi!» La testa di Illvin scattò all'indietro. «Non sono un pezzente. Non desidero le proprietà. Lascia tutto a mia nipote, o al Tempio... o persino a lei.» E così dicendo, contrasse le labbra a indicare Cattilara. Esitò. «Tranne Porifors.» Arhys sorrise, abbassando lo sguardo sugli stivali. «Bravo, noi non cediamo Porifors. Tienilo e continuerai a servirmi, anche quando riposerò nella tomba.» Cattilara scoppiò in lacrime. Ista sollevò il corpo esausto dallo sgabello e si rimise in piedi. Aveva la sensazione di essere stata bastonata. «Lord Illvin, vostro fratello deve prendervi a prestito ancora per un po'. Siete pronto?» «Eh», grugnì senza entusiasmo. «Fate ciò che dovete.» Le lanciò un'occhiata e celando l'inquietudine aggiunse: «Verrete ancora, vero?» «Sì.» Illvin si accasciò. Girando su un fianco, e nello stesso istante Arhys si rialzò, di nuovo il ritratto della forza. «Ah!» Strinse tra le braccia la piangente Cattilara e la portò fuori, mormorando parole di conforto. «Liss, vado a coricarmi. Ho mal di testa.» Disse Ista. «Oh.» Liss si affrettò al suo fianco, offrendole il braccio per appoggiarsi. Come dama di compagnia aveva i suoi limiti, ma Ista dovette ammettere
che era una delle migliori cortigiane che avesse mai incontrato. «Volete che vi faccia degli impacchi di acqua di lavanda sulla fronte? L'ho visto fare a una dama, una volta.» «Grazie. Sarebbe stupendo.» Si girò a guardare Lord Illvin, che giaceva nuovamente privo di vita e d'intelligenza. «Prenditi cura di lui, Goram.» L'uomo fece un inchino, le lanciò un'occhiata disperata, poi cadde di colpo ai suoi piedi e le baciò l'orlo dell'abito. «Benedetta», biascicò. «Liberaci. Libera tutti noi.» Ista, celando un senso di fastidio, gli rivolse un sorriso e liberò la veste dalla sua presa, quindi lasciò che Liss l'accompagnasse fuori. 15 Quella sera, su Porifors scese una coltre opprimente. Il padrone del castello e la sua consorte si ritirarono nelle loro stanze per conferire in privato, e tutti gli intrattenimenti programmati vennero bruscamente annullati. Ista si sentì sollevata di poter restare nelle sue camere. Verso il tramonto, le riferì Liss, Arhys aveva convocato alcuni degli ufficiali maggiori, che erano usciti parecchie ore dopo con un'aria molto cupa. Ista si augurò che il March avesse avuto il buonsenso di non modificare la versione originale della morte di Umerue, trovando un'altra scusa per giustificare la sua improvvisa malattia inguaribile. Ma poiché la verità implicava il coinvolgimento della Marchess nell'omicidio della principessa jokoniana, Ista non riuscì a immaginarsi Cattilara costretta a una confessione pubblica, né che Arhys lo avrebbe permesso. Quella notte, né Dei né visioni turbarono i sogni di Ista, anche se vennero resi sgradevoli da strani e oscuri incubi che riguardavano sia un viaggio disastroso su cavalli che si ferivano o morivano, sia un confuso vagare attraverso castelli in rovina, dall'architettura bizzarra, la cui riparazione ricadeva in qualche modo sotto la sua responsabilità. Si svegliò poco riposata, e attese con impazienza il mezzogiorno. Mandò Liss ad aiutare Goram e ad avvisarlo della sua visita, poi attese che portassero il vassoio col pasto. Quando una cameriera si presentò davanti alla porta di Lord Illvin, Liss uscì e tornò da Ista. «Quand'è pronto, Goram farà un segnale aprendo la porta», riferì Liss. Era una Liss ancora sconvolta dai portenti soprannaturali a cui aveva assistito il giorno prima, e sempre più preoccupata per la sorte di Foix, benché
Ista l'avesse rassicurata che lui, con tutta probabilità, si trovava ormai sotto la tutela dell'Arcidivino di Maradi, e si era ancor più consolata quando Ista le aveva detto che Lady Cattilara ospitava da oltre due mesi un demone molto più potente di quello di Foix senza mostrare segni visibili di deterioramento. Ista avrebbe voluto con tutto il cuore che quelle assicurazioni fossero vere. Alla fine, la porta intagliata si aprì, e Liss accompagnò Ista. Illvin era seduto sul letto. «Royina», la salutò, chinando il capo. «Mi dispiace. Giuro di aver pregato per chiedere aiuto, ma non volevo coinvolgere voi!» Biascicava di nuovo. Questo ricordò a Ista che se lei aveva avuto una giornata intera per elaborare gli sviluppi, a Illvin era stata concessa solo un'ora. Con un sospiro, si avvicinò al letto, e sottrasse il fuoco bianco dalla metà inferiore del suo corpo per rafforzare la metà superiore. Illvin sbatté gli occhi e deglutì. «Non è che io... non intendevo insultarvi...» Le parole gli vennero come un semplice borbottio, ma ben articolato. Cercò di sollevare le gambe, e non riuscendoci le guardò con apprensione. «Ho l'impressione», ribatté Ista, «di non essere stata convocata qui in veste di royina. Gli Dei non misurano il rango come facciamo noi. Una Royina e una cameriera probabilmente hanno un aspetto molto simile, dal loro punto di vista. A quanto pare ho una missione. Non per mia scelta. Gli Dei sembrano attratti da me. Come mosche sul sangue.» Con un debole gesto della mano Illvin mostrò di non condividere quella metafora. «Confesso di non aver mai pensato agli Dei come mosche.» «In realtà neanch'io.» Si rammentò di aver guardato in quelle oscure immensità. «Ma indugiare sulla loro vera natura, ferisce la mia... ragione, suppongo. Fiacca i miei nervi.» «Forse gli Dei sanno quello che fanno. Come fate a sapere che cosa ho sognato? Vi ho vista tre volte, quando mi sono destato dai miei sogni. Per due volte risplendevate di una luce arcana.» «Anch'io ho fatto quei sogni.» «Anche il terzo?» «Sì.» Non era un sogno, quello, ed era ancora imbarazzata da quel bacio sconsiderato. Anche se dopo la prestazione di Cattilara, quella sua debolezza sembrava ben poca cosa... Illvin si schiarì la gola. «Le mie scuse, Royina.»
«Per cosa?» «Ah...» Guardò di sottecchi le labbra di Ista, poi distolse lo sguardo. «Nulla.» Lei cercò di non pensare al gusto della sua bocca che si rianimava. Goram le portò una sedia, poi sistemò lo sgabello ai piedi del letto per Liss, prima di ritirarsi in fondo alla stanza. Ista e Illvin vennero lasciati a osservarsi l'un l'altra con pari perplessità. «Supponiamo», riprese Illvin, «che non siate qui per caso, ma in seguito alle preghiere di... be'...» Si schiarì la voce, imbarazzato. «Be', di qualcuno... per risolvere questa situazione complicata. Giusto?» «È meglio dire per svelarla, perché ignoro la soluzione.» «Pensavo che aveste un certo potere sul demone di Catti. Non siete in grado di eliminarlo?» «Non so come», ammise a disagio. «Il Bastardo mi ha dato la seconda vista, anzi, dovrei dire che me l'ha ridata, perché questa non è la prima volta che gli Dei mi usano. Ma il Dio non mi ha dato istruzioni, a meno che non ne sia a conoscenza un altro uomo che ho visto nei miei sogni.» E viceversa. Ripensandoci... l'apparizione di dy Cabon, subito dopo il secondo misterioso bacio del Bastardo, poteva essere interpretata come un'indicazione in tal senso? «Il Dio mi ha inviato una guida spirituale, l'Erudito dy Cabon, e desidererei avere il suo consiglio su questa faccenda prima di procedere. Credo che abbia studiato qualcosa su come i demoni vengono adeguatamente restituiti al loro Padrone. Sono sicura che anche lui sia stato mandato da me per uno scopo. Ma l'ho perso lungo la strada e temo per la sua sicurezza.» Esitò. «Comunque non ho fretta a liberare Arhys dal suo corpo solo per condannarlo alla dannazione di uno spettro perduto.» Illvin si tese. «Uno spettro? Ne siete certa?» «L'ho visto, quando l'incantesimo è stato interrotto, ieri. Non è successo... nulla, e avrebbe dovuto. Quando le porte di un'anima si aprono a causa della morte, c'è un vortice bianco che risale verso gli Dei; è un evento di enorme portata. La dannazione non è altro che silenzio, un lento congelamento.» Si fregò gli occhi stanchi. «Ma c'è dell'altro... anche se sapessi come indicargli la strada per raggiungere il suo Dio, dubito fortemente che Arhys riuscirebbe a convincere sua moglie a liberarlo. Ma se lui non è in grado di persuaderla, chi altri può farlo? E anche qualora lei dovesse lasciarlo andare... il demone che l'ha posseduta sembra abile e potente. Se non è più sostenuta dalla volontà di tenere Arhys in vita, diciamo così; se si abbandona al dolore... sarà molto vulnerabile.»
Illvin emise un sospiro che esprimeva un profondo dubbio. «Ha un carattere forte, secondo voi?» Lui corrugò la fronte. «Prima d'ora, avrei detto di no. Una ragazza splendida, adora Arhys, ma avrei giurato che se avessi avvicinato una candela accesa accanto al suo grazioso orecchio e vi avessi soffiato, l'aria sarebbe uscita dall'altra parte. Arhys sembra non farci caso.» Sorrise sarcastico. «Ma devo ammettere che se una tale bellezza mi avesse adorato con tanto ardore, sicuramente avrei avuto un'opinione migliore della sua intelligenza. Eppure... lei ha resistito all'alone di magia di Umerue, mentre io... no.» «Ho il sospetto che Umerue l'abbia sottovalutata. Ma questa è tutta un'altra faccenda», sottolineò Ista. «In primo luogo, come ha fatto una principessa di Jokona, una devota quaternaria, a trovare un demone? E a tenerlo nascosto, o comunque a evitare di essere accusata? Laggiù gli stregoni li bruciano, anche se non so come facciano i Divini quaternari a impedire che il demone salti in un altro corpo attraverso le fiamme. Probabilmente fanno qualcosa per legarlo al suo veicolo, prima di eliminarli entrambi.» «Sì, è così. Comporta una serie di cerimonie e di preghiere. Una procedura orribile che non sempre funziona.» Esitò. «Catti ha detto che Umerue è stata mandata.» «Da chi? Dal principe suo fratello? Ammesso che gli eredi del suo ultimo marito l'abbiano scaricata e rimandata alla sua famiglia.» «Credo che sia successo proprio questo. Ma... è difficile immaginare Sordso il Beone che si trastulla coi demoni per salvare l'onore di Jokona.» «Sordso il Beone? È così che gli uomini di Caribastos chiamano il giovane principe?» «Questo è il modo in cui lo chiamano tutti, da un capo all'altro del confine. Egli ha scelto di occupare il periodo di transizione, tra la morte del padre e la fine della reggenza della madre, senza studiare l'arte della politica o della guerra, ma dandosi al vino e alla poesia. In effetti è abbastanza bravo come poeta, con una vena melanconica, a giudicare dai brani che ho sentito. Tutti abbiamo sperato che seguisse questa vocazione, che appariva più gratificante per lui delle responsabilità di un principe.» Sghignazzò brevemente. «Il mio signore dy Caribastos sarebbe contento di assegnargli un vitalizio e un palazzo, e di togliere dalle sue spalle il fardello di governare.» «Sembra che adesso il principe non sia più così disattento. È stato lui a
inviare quella banda di saccheggiatori a Ibra, che fuggita da Rauma, attraverso i valichi orientali, ha finito per incontrare me. Avevano ufficialicontabili per calcolare la quota di un quinto che spetta al principe. Liss non ve l'ha detto?» «Solo in modo succinto.» Assentì in direzione di Liss, la quale confermò la cosa annuendo a sua volta. Fece una pausa, corrugando la fronte. «Rauma? Strano. Perché Rauma?» «Credo che l'abbia fatto per invitare la Volpe di Ibra a tenere il suo esercito a casa, in previsione della campagna d'autunno, invece d'inviarlo a sostegno del figlio contro Visping.» «Uhm, potrebbe essere. Rauma però si trova in pieno territorio ibrano per pensare di colpire in quel modo e le possibilità per battere in ritirata sono scarse, come hanno riscontrato.» «Lord Arhys ha detto che dei trecento uomini partiti da Jokona, solo tre hanno fatto ritorno.» Illvin emise un fischio. «Una tattica costosa per Sordso!» «Tranne che per poco non sono stati ripagati di tutto, riuscendo a portarmi via con loro. Una cosa che, peraltro, non poteva rientrare nei loro piani. Non avevano nemmeno delle carte di Chalion.» «Conosco da tempo il March di Rauma. Immagino che abbia dato un caldo benvenuto ai jokoniani. Un tempo era uno dei nostri più forti nemici, finché non abbiamo deciso di metterci tutti sotto la protezione di Ibra. Il matrimonio di vostra figlia ha alleggerito molto la pressione sul fianco occidentale di Porifors, e di questo la ringrazio, Royina.» «Il Royse Bergon è un caro ragazzo. Il Roya suo padre, però, è un po' come un cactus. Arido, spinoso, ti fa sanguinare le dita.» «Be', adesso è il nostro cactus.» «Indubbiamente.» Ista si appoggiò allo schienale con un sospiro preoccupato. «La notizia di questa... almeno, la notizia che una dama di alto rango della corte di Jokona ospitava un demone e che ha cercato di sottomettere una fortezza chalionese con la stregoneria, non può essere tenuta nascosta. Dovrò scrivere una nota di avvertimento all'Arcidivino Mendenal, a Cardegoss, e al Cancelliere dy Cazaril, almeno.» «Sarebbe bene», concesse con riluttanza, «anche se sono molto imbarazzato dal fatto che Umerue sia quasi riuscita nel suo intento. Eppure, non è stato l'Arcidivino di Cardegoss a essere trascinato qui. Siete stata voi. Una risposta più inverosimile di questa alle mie preghiere non riesco a immagi-
narla.» La sua bocca assunse una piega perplessa, mentre la fissava con occhi socchiusi. «Avete pregato il Bastardo, nei vostri momenti coerenti?» «Diciamo, di veglia più che coerenti. Tutto mi è sembrato avvolto da una nebbia fino a... ieri? Solo ieri. Sì, ho pregato disperatamente. Era l'unica cosa che mi restava da fare. Non riuscivo nemmeno ad articolare le giuste parole ad alta voce. Solo urlarle nel mio cuore. Al mio Dio, che ho abbandonato... da quando sono diventato un uomo non ho dedicato molto tempo alle preghiere. Se mi avesse detto: Togliti dai piedi, ragazzo, volevi startene per conto tuo, adesso arrangiati, ne avrebbe avuto tutti i diritti.» Poi, più lentamente, aggiunse: «Ma perché proprio voi? A meno che questa situazione intricata non abbia un'origine più antica, che si riallacci in qualche modo al padre di mio fratello e alla politica di corte di Cardegoss». La sua ipotesi la turbò. «Ho ancora un vecchio nodo che attende di essere sciolto col defunto Lord dy Lutez, è vero, ma non ha nulla a che fare con Arhys. E no, Arvol non era il mio amante!» Illvin venne colto in contropiede dalla sua veemenza. «Io non ho detto questo, signora!» Ista esalò. «No, non l'avete detto. È Lady Cattilara a pensare che la vecchia calunnia sia una storia romantica, che i cinque Dei mi risparmino. Arhys vuole considerarmi semplicemente una sorta di matrigna spirituale, penso.» Lui la sorprese sbuffando un: «Certo». Il modo esasperato con cui scosse la testa non servì a farle capire come interpretare quell'osservazione criptica. Con un tono di voce decisamente più aspro gli disse: «Finché non vi ho sentiti parlare tra di voi, avevo quasi deciso che foste voi l'assassino geloso; il fratello bastardo disprezzato a cui erano stati negati padre, titolo, proprietà». La sua mezza risata secca non suonò per nulla offesa. «È vero esattamente il contrario. Io ho avuto un padre per tutta la mia vita o, a ogni modo, finché lui è vissuto. Arhys aveva... un sogno. Mio padre si è occupato della nostra educazione e ha cercato di fare del suo meglio con Arhys, ma sempre con quel pizzico di sforzo in più. Verso di me il suo amore scorreva senza ostacoli. «Arhys, comunque, non è mai stato geloso né ha mai provato del risentimento perché, vedete, prima o poi tutto si sarebbe sistemato. Un giorno, quando fosse diventato adulto, il suo raffinato padre lo avrebbe chiamato a
corte. E una volta che fosse diventato abbastanza bravo: un bravo spadaccino, cavaliere, ufficiale. Il grande Lord dy Lutez lo avrebbe messo alla sua destra, presentandolo al suo fulgido seguito, e dicendo a tutti i suoi potenti amici: Guardate, questo è mio figlio, non è bello? Arhys non indossava mai i suoi abiti migliori; li custodiva per il viaggio. Per quando sarebbe stato chiamato. Era pronto a partire nel giro di un'ora. Poi Lord dy Lutez è morto, e... il sogno è rimasto tale.» Ista scosse la testa con aria di rammarico. «Nei cinque anni che l'ho frequentato, Arvol dy Lutez non ha mai nominato Arhys. E non ha mai parlato di voi. Se non fosse morto nelle segrete dello Zangre... penso che quella convocazione non sarebbe comunque arrivata.» «Anch'io ho immaginato una cosa simile. Ma vi prego, non lo dite a Arhys.» «Non sono ancora sicura di ciò che devo dirgli.» Benché io abbia i miei timori. Qualunque cosa fosse, era chiaro che sarebbe stato meglio evitare di rimandare a lungo. «Io avevo un padre in carne e ossa», proseguì Illvin. «Irascibile, a volte... quante volte abbiamo litigato quand'ero più giovane! Sono così felice che sia vissuto abbastanza a lungo da vederci diventare adulti insieme. Lo abbiamo accudito, qui a Porifors, dopo che ebbe una paralisi, anche se non per molto. A quel punto, penso che desiderasse andarsene per raggiungere mia madre, perché più di una volta lo abbiamo trovato fuori del castello che la cercava.» La sua voce calda si fece tesa. «Era morta da vent'anni ormai. Alla fine, la sua vita era così evanescente, che quando morì nella stagione del Padre, la perdita non è sembrata così dolorosa. Gli ho tenuto la mano fino alla fine. Era fredda e magra, quasi trasparente. Per i cinque Dei, perché mi sono messo a parlare di questo? Tra un po' mi farete piangere.» Lo stava già facendo, pensò Ista, ma lui si costrinse a ignorare quel luccichio sospetto nei propri occhi e gentilmente lei fece lo stesso. «Ecco la mia esperienza di bastardo.» Esitò, le lanciò uno sguardo furtivo. «Voi... voi avete detto di averli visti faccia a faccia... credete che gli Dei ci riportino da coloro che amiamo? Quando il nostro spirito se ne va?» «Non lo so», rispose, sorprendendosi della propria onestà. In quel momento, stava forse pensando al futuro di Arhys e in retrospettiva al più vecchio Ser dy Arbanos? «Forse non ho mai amato nessuno così tanto per saperlo. Credo che... non sia una folle speranza.» «Uhm.» Ista distolse lo sguardo dal suo viso, percependo un intruso sotto quel
cipiglio triste e meditabondo. I suoi occhi si posarono su Goram, che adesso aveva ripreso a dondolare e a tormentarsi le mani. Esteriormente, un servo già in là con gli anni. Interiormente... spogliato, depredato, distrutto come qualche villaggio devastato da truppe in ritirata. «Come avete trovato Goram?» chiese Ista a Illvin. «E dove?» «Ero andato a fare una ricognizione a Jokona, com'era mia abitudine quando avevo una settimana libera. Faccio collezione di progetti di castelli e città, per divertimento.» Il breve sorriso che aleggiò sulla sua bocca, implicava che collezionava molto di più, ma proseguì. «Arrivato a Hamavik sotto le spoglie di un mercante di cavalli, e avendo acquistato più esemplari di quelli che intendevo, mi sono ritrovato ad avere bisogno di un altro servo. In qualità di mercante roknari potevo comprare prigionieri chalionesi a mio piacimento. Gli uomini senza famiglia hanno poche speranze di essere riscattati e Goram meno degli altri, visto che aveva chiaramente perso il senno e la memoria. Penso che sia stato colpito alla testa nella sua ultima battaglia, anche se non ha cicatrici, quindi potrebbe essere stato sottoposto ad altri duri trattamenti, o forse è il risultato di una febbre. O di entrambe le cose. Era chiaro che nessun altro al mercato lo avrebbe comprato quel giorno, quindi feci un affare migliore di quanto mi fossi aspettato. Come si è dimostrato.» Il sorriso aleggiò di nuovo. «Quando siamo arrivati a Porifors e l'ho liberato, mi ha chiesto di restare al mio servizio, visto che non ricordava più dove fosse la sua casa.» Accanto alla parete, Goram annuiva per confermare il resoconto. Ista trasse un respiro. «Vi siete reso conto che è divorato da un demone?» Illvin si raddrizzò con un sussulto. «No!» Goram assunse un'aria altrettanto sgomenta. Liss girò la testa di scatto e fissò il servo con uno sguardo meravigliato. Illvin socchiuse gli occhi, pensieroso. «Come fate a saperlo, Royina?» «Posso vederlo. Posso vedere la sua anima. È sfilacciata e lacera.» Illvin sbatté le palpebre e si accasciò di nuovo. Dopo un attimo chiese, con maggiore cautela: «Riuscite a vedere la mia?» «Sì. Ai miei occhi appare come un fuoco bianco attenuato, che vi fuoriesce dal cuore per raggiungere vostro fratello. La sua anima è grigia come quella di uno spettro, e sta iniziando a decomporsi e a sbiadirsi. È ancora nel suo corpo, ma non è attaccata al corpo. Fluttua... semplicemente. Quella di Liss è luminosa e vivace, ma molto centrata, molto solida e attaccata alla materia che genera.»
Liss, che evidentemente aveva deciso di aver ricevuto un complimento, sorrise soddisfatta. Illvin si schiarì la gola. «Quindi, state dicendo che Goram era uno stregone?» Goram scosse la testa inorridito per esprimere il suo diniego. «Non lo sono mai stato, signora!» «Che cosa riesci a ricordare, Goram?» chiese Ista. Il suo volto si contrasse. «So di essere stato con l'esercito di Orico. Ricordo le tende del Roya, con le loro sete rosse e dorate. Ricordo... di aver marciato come prigioniero, incatenato. Di aver lavorato nei campi, sotto il sole cocente.» «Chi erano i tuoi padroni roknari?» Scosse la testa. «Non li ricordo.» «Navi? Sei mai stato sulle navi?» «Non credo. Cavalli, sì. C'erano cavalli.» «Abbiamo già discusso di ciò che riusciva a ricordare, quando ho cercato di rintracciare la sua famiglia», intervenne Illvin. «Perché doveva essere prigioniero già da parecchi anni, se il periodo corrispondeva al primo tentativo del principe di Borasnen di attaccare la fortezza di Gotorget, due anni prima della sua resa. Da alcune cose che Goram ha detto, penso che si tratti di quella campagna. Ma non rammenta molto neanche del periodo di prigionia. Ecco perché ho pensato che la sua mente fosse stata disturbata, forse poco prima che le nostre strade s'incrociassero.» «Goram, riesci a ricordare ciò che è accaduto da quando Lord Illvin ti ha riscattato?» domandò Ista. «Oh, sì. Quello non fa male.» «E non riesci proprio a ricordare nulla del tuo passato, prima che Lord Illvin ti acquistasse?» Goram scosse la testa. «C'era un posto scuro. Mi piaceva perché era fresco. Anche se puzzava.» «Intelligenza e ricordi divorati da un demone che lo ha posseduto, eppure... non è morto», rifletté Ista ad alta voce. «Abbandonare un veicolo vivo non è facile per un demone, a quanto dice dy Cabon. L'uccisione della persona costringe il demone a uscire. Come è successo con Umerue. O come succede nei roghi quaternari.» «Non bruciatemi!» gridò Goram. Si contrasse su se stesso, facendosi piccolo, fissandosi disperato il petto. «Nessuno ti brucerà» disse stentoreo Illvin. «Non a Chalion, a ogni mo-
do, e adesso non ce n'è più bisogno, perché la dama ha detto che il demone se n'è andato. È scomparso. Giusto?» E scoccò un'occhiata d'intesa a Ista. «Scomparso del tutto.» E con lui la maggior parte di Goram, a quanto sembrava. Si chiese se fosse stato un servo in passato... o qualcosa di più. «Hamavik...» mormorò Illvin. «Interessante. Sia Goram sia la Principessa Umerue si trovavano lì nello stesso periodo. Questo... danno alla mente di Goram potrebbe avere qualche attinenza col demone di Umerue?» Era un collegamento intrigante. Eppure... «Il demone di Catti non dava l'impressione di aver divorato anime di soldati. Sembrava... non so bene come spiegarlo. Troppo femminile. Presumo che da lui si possano ottenere altre informazioni. Non credo che il modo in cui si è comportato ieri fosse molto dissimile da quello di una persona. Altrimenti gli stregoni sarebbero molto più vistosi.» Ista notò che Liss aveva un'aria sempre più preoccupata. Stava forse vedendo un futuro Foix nel volto assente, timido, sconcertato di Goram? Dov'era il ragazzo? Ista non era ancora tanto disperata da pregare, considerati i suoi sentimenti verso le preghiere, ma pensò che avrebbe potuto diventarlo, se quella spaventosa incertezza si fosse protratta ancora a lungo. Ista continuò: «L'Erudito dy Cabon mi ha detto che i demoni sono sempre stati molto rari... tranne in questi ultimi anni. Che al Tempio non vedevano una simile epidemia dai giorni del Roya Fonsa, cinquant'anni fa. Non riesco a immaginare quale lacerazione si sia prodotta nell'inferno del Bastardo per farli fuoriuscire nel mondo tanto numerosi, ma questo è quello che comincio a figurarmi». «I giorni di Fonsa», Illvin aveva ricominciato a biascicare. «Strano.» «Il vostro tempo è quasi finito», lo informò Ista, osservando con disapprovazione il filo bianco che s'ispessiva. «Ancora qualche minuto.» «Però avete detto che Arhys inizierà a marcire», obiettò intontito Illvin. «Piena estate. Non ci ritroveremo con... qualche brandello della sua carne nella zuppa, spero...» La sua voce si stava affievolendo. Si alzò con uno spasmo di disperazione. «No! Dev'esserci un altro modo! Dobbiamo trovare un altro modo! Signora... tornerete...?» «Sì», rispose. Dopo quella assicurazione, lui abbandonò la presa sul bordo del letto e si lasciò scivolare. Il suo volto assunse ancora una volta una immobilità cerea. Anche quel giorno Ista rimase nelle sue camere, ad attendere con impa-
zienza che il sole seguisse il suo corso per poi risorgere. Scrisse altre lettere a Cardegoss e quando il sole tramontò cominciò a passeggiare su e giù per il cortile di pietra, finché persino Liss abbandonò il suo fianco e andò a sedersi su una panca, restando a guardarla mentre andava avanti e indietro. A metà mattino, scrisse un'altra dura missiva al Provincar di Tolnoxo, anche se la prima probabilmente era appena arrivata, e le richieste contenute non ancora messe in atto. Sulle scale esterne risuonò un rumore di passi affrettati; Ista distolse lo sguardo dalla piuma della penna che stava mordicchiando e vide con la coda degli occhi Liss che superava di corsa la grata. I passi rimbombarono mentre si avvicinavano alla camera di Ista, dopodiché Liss sbucò dalla porta. «Royina», disse senza fiato. «Sta succedendo qualcosa. Lord Arhys è uscito con un contingente di uomini armati... sto andando sulla torre nord per cercare di vedere qualcosa.» Ista si alzò così in fretta che per poco non rovesciò la sedia. «Vengo con te.» Risalirono la scala a chiocciola per raggiungere la posizione di vantaggio dietro a un frettoloso arciere che indossava il tabarro grigio e dorato di Porifors. Tutti e tre si portarono sul lato nordorientale e guardarono oltre il parapetto. Da quel lato del castello, di fronte alla ripida discesa che portava al fiume, una strada, sbiadita per la polvere, serpeggiava verso est, attraverso la campagna arida e soleggiata. «Quella è la strada che viene da Oby», ansimò Liss. Un paio di cavalieri che si vedevano sfocati per la distanza, la stavano percorrendo al galoppo. Ista riuscì a distinguere che un cavaliere era più corpulento dell'altro. Quello più grasso indossava una veste marrone da cui trasparivano dei lampi bianchi. L'andatura rigida di un cavallo che cercava di procedere al piccolo trotto sotto il peso sballottante dell'Erudito dy Cabon era inconfondibile, almeno per l'occhio esperto di Ista. I due erano inseguiti da una dozzina di uomini. Una scorta...? No. Erano i tabarri verdi di Jokona, qui, sotto lo sguardo severo di Porifors? Ista si sentì mancare il respiro. Gli inseguitori stavano accorciando le distanze sui due uomini. Con un frusciare di sete, Lady Cattilara emerse sulla torre e corse a guardare. Aveva il volto pallido e il petto ansimante. «Arhys... per i cinque Dei, oh, che il Padre dell'Inverno ti protegga...»
Ista seguì il suo sguardo. Sotto il castello, Arhys, in sella al suo pomellato, guidava un gruppo di cavalieri verso la strada. I loro cavalli erano meno potenti e dovevano essere duramente incitati per stare al passo con le lunghe falcate del pomellato. Liss mormorò parole di approvazione per come avanzava veloce. Le labbra di Cattilara si dischiusero mentre ansimava, e gli occhi sgranati erano carichi d'ansia. Le uscì un lamento. «Cosa?» le disse Ista sottovoce. «Non potete temere che venga ucciso.» Cattilara le scoccò un'occhiata fosca, scrollò le spalle, e tornò a fissare la strada. Il cavallo sovraccarico di dy Cabon era in difficoltà e stava perdendo terreno. L'altro cavaliere... sì, era sicuramente Foix dy Gura... si fermò e fece segno al Divino di proseguire. Il destriero di Foix recalcitrò, ma Foix lo tenne a bada con la mano sinistra, e con l'altra impugnò la spada, alzandosi sulle staffe per guardare con aria di sfida i suoi inseguitori. No, Foix! Pensò Ista inutilmente. Foix era uno spadaccino forte, ma privo della destrezza e della brillante velocità di Lord Arhys. Avrebbe sconfitto uno o due nemici, forse tre, ma poi gli altri lo avrebbero sopraffatto. Non aveva ancora scorto i cavalieri che stavano accorrendo in suo aiuto, nascosti alla vista da un profondo avvallamento. Avrebbe gettato via la propria vita per salvare il Divino, senza che ve ne fosse la necessità... La mano destra si alzò; il suo braccio si protese con estrema tensione. Una debole luce viola sembrò scaturire dal suo pugno, e Cattilara emise un ansito per lo stupore. Liss non reagì, ignara di cosa rappresentasse quella luce. Il primo cavallo del gruppo nemico incespicò e cadde a testa in giù, disarcionando il suo cavaliere. Altri due gli caddero sopra prima che potessero fermarsi. Numerosi cavalli s'impennarono o scartarono e cercarono di saltare ai lati. Foix girò di scatto la sua cavalcatura, lanciandola al galoppo dietro a dy Cabon. E così Foix ha ancora il suo Demone. E sembra che gli abbia insegnato a ballare. Le labbra di Ista s'incurvarono con un'espressione preoccupata al pensiero delle implicazioni. Ma c'erano altri problemi più immediati. Superata la salita, sull'altro versante della strada, dy Cabon incontrò Arhys. Il cavallo marrone del Divino, coperto di schiuma, si fermò barcollando e lì restò con le zampe divaricate; il pomellato s'impennò accanto a lui. Un gran gesticolare, indicazioni. Arhys alzò la mano e la sua truppa si raccolse attorno a lui. Altri gesti con
le mani, e le spade vennero sguainate, le balestre caricate, le lance abbassate e il contingente si sparpagliò, iniziando a risalire dietro il ciglio della strada. Il cavallo esausto di dy Cabon proseguì faticosamente al passo diretto verso Porifors, ma il Divino girò la sua massa sulla sella per guardare da sopra la spalla, mentre Foix superava la sommità della collina. Foix indietreggiò un attimo alla vista del contingente armato, ma la mano aperta che Arhys aveva sollevato e un gesto più ampio del braccio da parte dell'Erudito, apparentemente lo rassicurarono. Spronò il cavallo, scambiò con Arhys qualche parola, poi si girò e ringuainò la spada. Ista sentì il sangue martellarle nelle orecchie e, cosa assurda, un uccello che cinguettava nel bosco; un querulo, allegro, indifferente ciangottio, come se quella fosse una mattinata tranquilla e serena. Arhys sollevò la spada per poi riabbassarla bruscamente, dando il segnale, e la truppa partì alla carica. Gli uomini di Porifors superarono l'altura e piombarono sui jokoniani troppo in fretta perché i primi avessero il tempo di girarsi e ritirarsi. I cavalieri di entrambe le avanguardie vennero immediatamente impegnati. I jokoniani in retroguardia tirarono con violenza le briglie per girarsi e fuggire, ma non prima che un paio di quadrelle andassero a segno. Un cavaliere col tabarro verde barcollò e cadde dalla sella. La distanza era eccessiva perché l'arciere che stava con Ista sulla torre potesse sprecare le sue quadrelle. Bestemmiò frustrato per la propria impotenza, poi lanciò un'occhiata alla Royina, farfugliando una scusa. Ista lo dispensò in maniera regale con un gesto della mano, si aggrappò alla ruvida pietra calda e si sporse a guardare. La spada di Arhys danzava nel sole come una macchia scintillante. Il suo pomellato era circondato da cavalli che scalciavano e nitrivano. Un soldato jokoniano scagliò con violenza la sua lancia, maneggiandola in modo strano, di rovescio, facendola passare vicinissima al suo compagno che in quel momento impegnava Arhys. Arhys sobbalzò. Cattilara lanciò un grido. «Il mio signore è stato colpito!» urlò l'arciere, sporgendosi con la stessa tensione delle donne. «Oh... no. Il braccio che impugna la spada si è risollevato. Che i cinque Dei siano ringraziati.» I cavalieri si districarono, il jokoniano che stava affrontando Arhys vacillò sulla sella. Quello che aveva scagliato la lancia vide una breccia e partì al galoppo per seguire i compagni in ritirata, abbassato completamente sul collo del cavallo; una freccia passò sibilando sopra la sua testa per
incoraggiarlo a proseguire in quella direzione. Quella punta di lancia aveva colpito la spalla di Arhys; Ista aveva visto l'urto, eppure la spada di Arhys vorticava indisturbata... Si sentì mancare il respiro, poi si girò di scatto e corse verso le scale. «Liss, seguimi!» «Ma, Royina, non volete vedere come va a finire?» «Seguimi.» Senza attendere di vedere se la ragazza ubbidiva, con un movimento brusco, Ista sollevò le vesti color lavanda e si precipitò giù per la stretta e buia spirale di gradini. Nella fretta rischiò di cadere, ma poi si tenne vicina al muro esterno, mettendo i piedi sulla parte più ampia dei gradini, pur senza rallentare. Uscì dalla porta, superò il portico, ed entrò nel cortile di pietra. Su per le scale. I suoi passi risuonavano lungo la galleria. Spalancò la porta della camera di Illvin. Goram era accovacciato alla destra di Lord Illvin, e gemeva per la paura. La tunica di lino di Illvin era stata aperta in fretta e abbassata. Il servo lanciò un'occhiata da sopra la spalla quando Ista entrò e gridò: «Signora, aiuto!» Mentre si avvicinava vide che le sue mani, premute sulla spalla di Illvin, erano sporche di sangue. La manica della tunica era diventata scarlatta. Ista si guardò attorno finché trovò un indumento che potesse essere ripiegato a mo' di tampone, lo rivoltò dalla parte pulita e lo porse a Goram, per premerlo contro la ferita. «Non sono stato io! Non sono stato io!» le gridò, gli occhi cerchiati di bianco che roteavano. «È successo.» «Sì, Goram, lo so. È tutto a posto», lo rassicurò Ista. «Hai fatto la cosa giusta.» Fu quasi tentata di chiudere di nuovo il filo di fuoco bianco, per restituire quel fiotto orrendo al diretto interessato. Ma quello non era certo il momento adatto per far cadere Arhys dalla sella privo di sensi. Le palpebre grigie di Illvin non si muovevano, né tremavano né si stringevano per il dolore. Nel suo stato di torpore poteva essere curato liberamente, disinfettato con acqua salata, suturato con gli aghi. Così, si disse Ista, se il demone gli avesse permesso di risvegliarsi a mezzogiorno, forse la ferita sarebbe ritornata al fratello. La porta si spalancò. «Liss. Vai subito a cercare una donna che sappia curare le ferite; falle portare sapone, unguenti e aghi, e anche un servo con dell'acqua pulita.»
«Cosa? Perché?» Si avvicinò incuriosita. «Lord Illvin è ferito gravemente.» A quel punto, Liss vide il sangue. «Sì, Royina. Ma... com'è potuto...?» «Tu hai visto il colpo della lancia.» «Oh.» Sgranò gli occhi, si girò e corse via. Goram controllò velocemente sotto il tampone e tornò a premerlo. Ista si rese conto che la ferita non era così profonda come aveva temuto; il flusso di sangue stava già diminuendo. «Bravo, Goram. Continua a tenerlo premuto.» «Sì, signora.» Ista attese, impaziente, finché si sentirono di nuovo delle voci nel corridoio. Liss aprì la porta e fece entrare una donna che indossava un grembiule e reggeva una bacinella; seguita da un servo. «Lord Illvin...» cominciò Ista, e guardò di sbieco Goram, «è caduto dal letto e ha battuto la spalla.» Su cosa? La fantasia di Ista si fermò lì. Così passò oltre rapidamente. «Curatelo e fasciatelo. Aiutate Goram a pulire. Non fatene parola con nessuno, tranne che con me, Lord Arhys o Lady Cattilara.» Gli uomini del drappello uscito da Porifors, che non si erano gettati all'inseguimento dei jokoniani, in quel momento, probabilmente, stavano scortando i nuovi ospiti attraverso il portone, pensò Ista. Si diresse a grandi passi alla porta. «Liss, seguimi.» 16 Ista arrivò nel cortile d'ingresso in tempo per vedere l'arrossato e ansimante Erudito dy Cabon che si lasciava cadere tra le braccia di uno degli uomini di Lord Arhys. Il soldato lo aiutò a fare qualche passo barcollante fino al cono d'ombra accanto al mandorlo, dove si accasciò. Sfiorò con preoccupazione il volto di dy Cabon e disse qualcosa a un garzone che corse via. Il Divino si liberò con gesti goffi della sopravveste marrone che occultava in parte il suo rango, lasciandola cadere sul pavimento cosparso di petali. Foix, che aveva un'aria altrettanto accaldata e affannata, smontò agilmente dal suo cavallo, lanciò le redini, e raggiunse a grandi passi il Divino. «Maledizione, Foix», ansimò dy Cabon, alzando lo sguardo su di lui. «Quante volte te lo devo dire, che devi piantarla di giocare con quella co-
sa.» «Va bene», ringhiò lui di rimando. «Allora, tornate indietro, sdraiatevi sul ciglio della strada e datevi in pasto ai jokoniani, se la cosa non vi piace. Avrebbero da banchettare per un mese.» Arrivò il garzone con un secchio d'acqua che rovesciò lentamente su dy Cabon, inzuppando la sudicia veste bianca. L'Erudito non si ritrasse né protestò, limitandosi a restare inerte, col mento sollevato e con la bocca aperta. Foix annuì in segno di gratitudine e prese una tazza d'acqua che un altro servo gli offrì da un secondo secchio. Lo ingollò, poi ne tracannò un secondo e un terzo. Con una smorfia stizzosa, riempì un'altra tazza, si chinò accanto a dy Cabon e gliela accostò alle labbra. Il Divino bevve rumorosamente. Il soldato rivolse un saluto rispettoso a Ista quando la vide avvicinarsi, e le mormorò: «Ha rischiato un colpo di calore, quello. È un brutto segno quando un uomo così grasso smette di sudare. Ma non preoccupatevi, Royina, adesso sta bene». Foix girò bruscamente la testa. «Royina!» gridò. «Che i cinque Dei siano ringraziati! Vi bacio le mani, vi bacio i piedi!» Mise in mano a dy Cabon un'altra tazza d'acqua e ripiegò un ginocchio davanti alle sue vesti, afferrandole le mani e scoccandole un bacio ardente prima di premersele sulla fronte sudata in un gesto meno formale ma assolutamente sincero. Poi rivolse un sorriso a Liss, che si trovava di fianco a Ista. «E così sei anche tu qui. Avrei dovuto immaginarlo.» La ragazza gli restituì il sorriso. «Sì, avresti dovuto.» «Seguiamo le tue tracce da Maradi, ma tu avevi un cavallo più fresco e più veloce.» Sul volto di Liss apparve un sorriso compiaciuto. Foix socchiuse gli occhi. «Grazioso quel vestito. Un bel cambiamento.» La ragazza indietreggiò di qualche passo, un po' imbarazzata. «È solo un prestito.» Udendo un rumore di zoccoli, Foix alzò lo sguardo in tempo per vedere Lord Arhys che stava rientrando affiancato da un altro cavaliere. Il March smontò di sella e lanciò le briglie a uno stalliere. «Allora, Royina», disse Arhys rivolgendo a Ista un debole sorriso. «Credo che gli uomini che avevate perduto siano ritornati da voi.» Foix gli rivolse un inchino. «Solo grazie al vostro soccorso, signore. Non ho avuto il tempo di presentarmi là fuori. Sono Foix dy Gura, al vo-
stro servizio.» «Anche se non avessi conosciuto vostro fratello, la vostra spada e i vostri nemici sarebbero stati una raccomandazione sufficiente. Io sono Arhys dy Lutez. Porifors è mia. Più tardi vi darò un benvenuto migliore, ma prima devo occuparmi dei miei esploratori. Quei jokoniani non avrebbero dovuto trovarsi su quella strada; abbiamo catturato due prigionieri vivi, quindi ho intenzione di scoprire come hanno fatto ad avvicinarsi tanto senza essere visti.» Lanciò a Ista uno sguardo triste. «Adesso Illvin mi manca ancora di più, la sua padronanza della lingua roknari è migliore di qualsiasi altro, qui.» Arhys fece un cenno al Devoto Pejar, che stava entrando di corsa nel cortile con la tunica solo in parte allacciata e il cinturone storto per andare a salutare il suo ufficiale ritrovato. «Ecco uno dei vostri uomini, che vi mostrerà cosa fare.» Poi chiamò un servo. «Assicurati che questi uomini abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno, fino al mio ritorno. Qualunque cosa Pejar o la Royina chiedano.» Il servo annuì con un mezzo inchino. La rapida occhiata che Arhys scoccò a dy Cabon, ancora seduto in modo scomposto sul pavimento, era guardinga. Il Divino fece un gesto stanco, una benedizione a metà, promettendo cortesie maggiori in seguito. Arhys fece per rimontare a cavallo, ma si fermò, quando Ista lo prese per il braccio e allungando la mano gli tastò la tunica lacera e sporca di sangue sulla spalla destra; sondò attraverso lo strappo, e fece correre le dita sulla sua pelle fredda, intatta. Girò la mano davanti a lui per mostrargli silenziosamente la macchia scura. «Non appena avete un attimo di tempo, March, vi consiglio di andare a controllare la ferita di vostro fratello. La nuova ferita di vostro fratello.» Le sue labbra si socchiusero in un'espressione di sgomento; incontrò il suo sguardo fermo e trasalì. «Capisco.» «Fino a quel momento, cavalcate con cautela. E indossate la cotta di maglia.» «Siamo usciti in fretta e furia...» Si toccò lo strappo, corrucciandosi ancor di più. «Certo.» Annuì con fare fosco, poi montò di nuovo in sella e facendo segno all'altro cavaliere, uscì al piccolo trotto. Foix guardò Pejar, con un'espressione preoccupata. «Ferda è qui? Sta bene?» «Sta bene, signore, ma è partito per cercarvi», rispose Pejar. «A quest'ora avrà senz'altro raggiunto Maradi. Presumo che farà dietro front e sarà di ritorno tra qualche giorno, imprecando all'idea di aver sprecato tanto tem-
po inutilmente.» Foix fece una smorfia. «Spero che non prenda la strada che abbiamo fatto noi. Non era proprio quel che il March di Oby mi aveva fatto credere.» Perché non ti trovi all'ospedale del Tempio di Maradi? Avrebbe voluto chiedere Ista, ma decise di attendere. L'anima di Foix era vigorosa e centrata come quella di Liss, tuttavia con l'occhio interiore vedeva un'ombra a forma di orso acquattata nelle sue viscere. Sembrava che percepisse il suo sguardo indagatore, perché si avvolse ancora di più su se stessa, come se tentasse di ritrarsi. Fece segno al servo di avvicinarsi. «Fai in modo che questi uomini possano subito rinfrescarsi, soprattutto il Divino, e che siano alloggiati vicino alle mie stanze.» «Sì, Royina.» Poi, rivolta a Foix, aggiunse: «Dobbiamo parlare di... tutto, il prima possibile. Chiedi a Pejar d'indicarti la strada per raggiungermi nel cortile, non appena vi siete ripresi entrambi». «D'accordo», ribatté impaziente, «voglio sentire il vostro racconto. L'imboscata fatta da Lord Arhys ai jokoniani era sulla bocca di tutti, a Oby.» Ista sospirò. «Da quel momento sono accadute tante di quelle cose terribili, che me l'ero quasi dimenticato.» Foix inarcò le sopracciglia. «Oh? Allora, saremo da voi al più presto.» Si inchinò per aiutare dy Cabon a rimettersi in piedi. Il Divino non sudava abbondantemente, ma sembrava essersi risollevato un poco dalla spossatezza iniziale. In quel momento il passo leggero di Cattilara risuonò sotto l'arcata. Nonostante fosse debilitato dall'eccessiva calura, dy Cabon riuscì a sfoggiare un sorriso ammaliante alla Cattilara. Foix sbatté gli occhi e s'irrigidì. «Dov'è andato il mio signore?» chiese la Marchess con voce ansiosa. «È uscito dal castello coi suoi esploratori», rispose Ista. «Sembra che quel colpo di lancia che abbiamo visto, abbia trovato un altro obiettivo.» Cattilara sgranò gli occhi, e girò la testa verso il cortile. «Sì», confermò Ista. «Per il momento si stanno prendendo cura di lui.» «Oh, bene.» Il sospiro di sollievo di Cattilara era prematuro, a giudizio di Ista. La ragazza non si era ancora resa conto delle implicazioni. Ma probabilmente lo avrebbe fatto. «Lord Arhys ritornerà per mezzogiorno... senza dubbio.» Cattilara serrò brevemente le labbra. «Lady Cattilara dy Lutez, Marchess di Porifors» continuò Ista, «posso
presentarvi la mia guida spirituale, l'Erudito Chivar dy Cabon, e Foix dy Gura, devoto-ufficiale dell'Ordine della Figlia? Avete già conosciuto il suo capitano e fratello, Ferda.» «Oh, sì.» Cattilara accennò un inchino distratto. «Benvenuti a Porifors.» Fece una pausa, restituendo a Foix uno sguardo diffidente. Per un attimo, restarono immobili come due gatti randagi che si osservino l'un l'altro. Le ombre dei due demoni che ospitavano erano così contratte alla presenza di Ista, che era difficile immaginare la loro reazione a una distanza tanto ravvicinata, ma non aveva l'aria di essere di allegra accoglienza. Liss, vedendo che Foix non aveva reagito nel modo tipicamente maschile di fronte alla bellezza della Marchess, s'illuminò leggermente. Ista fece cenno al servo che attendeva, e aggiunse con un'enfasi voluta: «Lord Arhys ha ordinato a quest'uomo di occuparsi delle loro esigenze. Il Divino è estremamente provato dal caldo e deve essere accudito immediatamente». «Oh, certo», concordò Cattilara con un tono piuttosto vago. «Vi prego di continuare. Vi darò il benvenuto in modo più appropriato... più tardi.» Fece un inchino col capo e si diresse frusciando su per le scale. Foix e dy Cabon seguirono il servo e Pejar attraverso l'arcata, presumibilmente dov'erano alloggiati gli uomini della Figlia. Ista osservò a disagio Cattilara andarsene. All'improvviso, ripensando alla testimonianza di Lord dy Cazaril, le venne in mente che i demoni avevano modi più lenti di uccidere il loro veicolo. I tumori, per esempio. Forse se n'era già sviluppato uno? Cercò di leggerne la presenza nell'anima di Cattilara, qualche macchia nera di caos e decadimento. La ragazza era così torbida, che era difficile esserne sicuri. Ista riusciva a immaginare le conseguenze: la passionale Cattilara, pazza di speranza, insisteva che i sintomi indicavano la tanto desiderata gravidanza, custodendo gelosamente un ventre che si gonfiava rapidamente non di vita ma di morte... Rabbrividì. Illvin ha ragione. Dobbiamo trovare un modo migliore. E subito. Passò meno di un'ora prima che i due nuovi arrivati si presentassero a Ista nel cortile di pietra. Entrambi avevano un'aria più rinfrancata, dopo essersi evidentemente sottoposti a un bagno d'acqua fresca. Coi capelli ancora umidi, ma pettinati, e abiti asciutti i quali, pur non essendo propriamente puliti, perlomeno riuscivano ad avere una certa parvenza signorile. Ista invitò il Divino a sedersi su una panca di pietra all'ombra, sotto il portico, e si accomodò al suo fianco. Foix e Liss si sistemarono ai suoi
piedi. Liss passò qualche minuto ad aggiustarsi le gonne in una disposizione più aggraziata. «Royina, raccontateci la battaglia», esordì curioso Foix. «Tuo fratello l'ha vista da una prospettiva migliore. Fattela raccontare da lui, quando sarà di ritorno. Vorrei prima ascoltare il vostro racconto. Che cosa è accaduto dopo che vi abbiamo abbandonati sul fiume?» «Non direi abbandonati», obiettò dy Cabon. «Diciamo, piuttosto, salvati. Il nascondiglio da voi indicato si è rivelato ottimo, oppure il Dio ha udito le preghiere del mio cuore.» Foix assentì. «È vero. È stata un'ora terribile, accovacciati nell'acqua fredda mentre sentivamo gli zoccoli dei cavalli jokoniani che ci passavano sulla testa. Alla fine siamo sgattaiolati fuori e ci siamo diretti verso la boscaglia, cercando di stare lontani dalla strada ma seguendo la vostra direzione. Era già calata la notte quando abbiamo raggiunto il villaggio al crocevia, e i poveri contadini stavano cominciando a ritornare di soppiatto nelle loro case. Ancor più poveri, dopo il passaggio delle locuste jokoniane, ma avrebbe potuto andare peggio. All'inizio, evidentemente dovevano aver preso Liss per una pazza, ma quando siamo arrivati noi la lodavano come una santa inviata dalla Figlia in persona.» Liss sogghignò. «Senza dubbio devo aver avuto l'aspetto di una pazza, quando sono arrivata urlando. Per fortuna avevo il tabarro della cancelleria. Sono contenta che mi abbiano dato ascolto. Ma non ho aspettato per vedere se lo facevano.» «È quello che ci hanno detto. A quel punto il Divino non ce la faceva più...» «Tu non eri in condizioni migliori», borbottò dy Cabon. «... così abbiamo approfittato della loro ospitalità. Non smette mai di sorprendermi come le persone povere riescano a condividere quel poco che hanno con degli estranei. Che i cinque Dei dispensino benedizioni su di loro, perché hanno già avuto la loro dose di sfortuna per almeno un anno. «Li ho convinti a prestare un mulo al Divino, anche se ci hanno fatti seguire da un ragazzo per essere sicuri che glielo avremmo restituito; così siamo partiti per Maradi la mattina dopo, sulle tracce di Liss. Avrei preferito inseguire voi, Royina, ma non nelle condizioni in cui eravamo. Volevo un esercito. La Dea deve avermi ascoltato, perché alcune ore dopo ne abbiamo incontrato uno. Era il Provincar di Tolnoxo che ci ha dato dei cavalli freschi. Ci siamo uniti alla sua truppa che perlustrava la zona, e quando siamo ripassati dal villaggio abbiamo restituito il mulo, cosa che ha fatto
molto felice il suo proprietario.» Lanciò un'occhiata in tralice a dy Cabon. «Forse avrei dovuto mandare avanti dy Cabon per raggiungere il Tempio di Maradi, avrebbe potuto trovare Liss ancora lì, ma lui si è rifiutato, non voleva lasciarmi solo.» Dy Cabon espresse il suo assenso riluttante con un grugnito soffocato. «Forse avrei fatto meglio a farlo. Ho perso due miserabili giorni con il convoglio di Tolnoxo, e quelle parti del mio corpo che venivano a contatto con la sella erano una vescica unica.» Foix assentì con una smorfia, poi riprese il racconto. «Una volta giunti al confine, i tolnoxiani hanno rinunciato alle ricerche, sostenendo che la colonna di Jokona si era probabilmente divisa in dozzine di gruppetti, e che solo gli uomini di Caribastos, che conoscevano il territorio, avevano la possibilità di prenderli in trappola. Io ho suggerito che potevamo seguire solo un gruppo. Dy Tolnoxo mi ha detto che se volevo, potevo provarci, e per poco non l'ho fatto, giusto per sfidarlo. Avrei dovuto; probabilmente sarei giunto in tempo per godermi la festa di benvenuto di Lord Arhys. Ma il Divino ha fatto il diavolo a quattro per riportarmi a Maradi, per quanto alla fine questa si sia rivelata un'ottima decisione, inoltre ero inquieto per Liss, così ho desistito.» «Non ho dato in escandescenze», negò dy Cabon. «Ero solo preoccupato. Perché io ho visto quelle mosche.» Foix sbuffò esasperato. «Lasciate perdere quelle maledette mosche, per favore! Ce ne sarà stato un altro milione nel concime da dov'erano volate via!» «Non è questo il punto, e lo sai bene.» «Mosche...?» ripeté Liss perplessa. Dy Cabon si girò con aria impaziente e irata. «È successo dopo che abbiamo lasciato il contingente di dy Tolnoxo e siamo arrivati finalmente al Tempio di Maradi. Il mattino dopo. Quando sono entrato nella sua camera, l'ho trovato che addestrava una dozzina di mosche.» Liss arricciò il naso. «Che schifo. Non si spiaccicavano?» «No... marciavano. Come in una parata, avanti e indietro sul tavolo, in riga.» «Mosche da collezione», non poté fare a meno di mormorare Foix. «Stava facendo un esperimento col suo demone, ecco cosa», proseguì dy Cabon. «Dopo che mi ero raccomandato di lasciarlo stare!» «Ma erano solo delle mosche.» Il sorriso imbarazzato di Foix si contorse. «Ve lo assicuro, si sono comportate meglio di alcune reclute che ho
cercato di addestrare.» «Stavi iniziando a trastullarti con la stregoneria.» Lo rimbrottò il Divino. «E non hai smesso. Che cosa hai fatto per fare inciampare quel cavallo dei jokoniani?» «Nulla contro natura. Ho compreso la vostra lezione perfettamente; il vostro Dio sa quante volte me l'avete ripetuta! Non potete sostenere che tutto quel trambusto e quel disordine non siano fluiti liberamente dal demone... che stupenda ammucchiata! No, e neanche che non abbia sortito un buon esito! Se gli stregoni del vostro Ordine possono farlo, perché non io?» «Loro sono istruiti in modo corretto!» «I cinque Dei mi sono testimoni che voi state sicuramente istruendo me. O almeno, spiando e tormentando. Ho il sospetto che sia più o meno la stessa cosa.» Foix scrollò le spalle. «Comunque», riprese, tornando al resoconto, «a Maradi abbiamo saputo che Liss era partita per la fortezza di Oby, pensando che fosse il luogo più probabile dove trovarvi. O, se non voi, qualcuno in grado di farci seguire le vostre tracce. Così l'abbiamo seguita, alla velocità più sostenuta che dy Cabon poteva reggere. Siamo arrivati due giorni dopo che Liss era partita, ma abbiamo sentito che la Royina era stata salvata e che era sana e salva qui, quindi ci siamo concessi una giornata per far riposare le parti ammaccate del Divino...» «E le tue», bofonchiò dy Cabon. «Poi abbiamo proseguito», e a questo punto Foix alzò la voce, «scegliendo una strada che, in base a quanto ci aveva detto il March di Oby, era perfettamente sicura. Per le lacrime della Figlia, ho pensato che i jokoniani fossero tornati per prendersi una rivincita.» Dy Cabon si sfregò la fronte con un gesto stanco e preoccupato. Ista si chiese se la pericolosa disidratazione del mattino gli avesse lasciato qualche conseguenza. «Il demone di Foix mi preoccupa molto», disse Ista. «Anche a me», ammise dy Cabon. «Pensavo che il Tempio fosse in grado di occuparsi di lui, ma non è stato così. L'Ordine del Bastardo ha perso la santa di Rauma.» «Chi?» chiese Ista. «La Divina del Dio, a Rauma, era l'agente vivente del Dio per il miracolo del furetto. Royina, ricordate ciò che vi ho raccontato a questo proposito?» «Sì.»
«Nel caso di elementali deboli che s'insediano in qualche animale, per costringere il demone a entrare in un divino o una divina morente che lo restituirà al Dio, è sufficiente uccidere l'animale davanti a lui o a lei.» «Quindi, questa è stata la fine del furetto», precisò Ista. «Povera bestiola», commentò Liss. «È così», ammise dy Cabon. «Un'azione dura su una bestia innocente, ma voi cosa fareste? Queste situazioni di solito sono abbastanza rare.» Inspirò. «I quaternari usano un sistema simile per sbarazzarsi degli stregoni. Una cura peggiore della malattia. Ma una volta ogni tanto nasce un santo al quale il Dio conferisce la capacità di farlo.» «La capacità di fare cosa?» chiese Ista con una pazienza che non sentiva. «La capacità di estrarre il demone da un veicolo umano e di restituirlo al Dio, lasciando la persona viva. E con l'anima e l'intelletto intatti, o quasi, se tutto va bene.» «E... in che cosa consiste questa capacità?» Il Divino scrollò le spalle. «Non lo so.» La voce di Ista si alzò di tono. «Avete dormito durante tutte le lezioni impartite in quel seminario a Casilchas, dy Cabon? Voi siete la mia guida spirituale! Giurerei che non sapete spostare una penna da un margine della pagina all'altro!» «Non è una capacità», si affrettò a precisare. «È un miracolo. Non potete estrapolare i miracoli da un libro, e impararli a memoria.» Ista serrò i denti, infuriata e imbarazzata al tempo stesso. «Sì», disse a bassa voce. «Lo so.» Si appoggiò alla parete. «Quindi... che cosa è accaduto alla santa?» «È stata assassinata dallo stesso contingente di jokoniani che abbiamo incontrato noi.» «Ah», esclamò Ista. «Quella Divina. Ho sentito parlare di lei. Era la sorellastra del March di Rauma, mi è stato riferito da una delle donne che erano state catturate.» Violentata, torturata e bruciata viva tra le macerie della Torre del Bastardo. È così che gli Dei ricompensano i loro servitori. Liss intervenne indignata: «Che azione blasfema, assassinare una santa! Lord Arhys ha detto che dei trecento uomini che avevano lasciato Jokona, non più di tre vi hanno fatto ritorno. Adesso si capisce perché!» Il Divino si segnò. «Se così stanno le cose, è stata sicuramente vendicata.» «Sarei più impressionata dal vostro Dio, dy Cabon», sibilò Ista, «se fosse riuscito a disporre in anticipo la protezione di una vita preziosa, piutto-
sto che sprecare poi trecento vite per una volgare vendetta.» Fece un lungo e difficile respiro. «La mia seconda vista mi è stata restituita.» Dy Cabon girò la testa di scatto, e il suo sguardo intenso lampeggiò sul suo volto. «Com'è successo? E quando?» Ista sbuffò. «C'eravate anche voi. Dubito che abbiate dimenticato quel sogno.» Il volto già arrossato divenne paonazzo per poi impallidire. Qualunque cosa stesse cercando di dire, non riuscì a esprimerla. Tossì, poi riprovò. «Quello era un sogno vero?» Ista si sfiorò la fronte. «Mi ha baciato qui al centro, come una volta fece Sua Madre, posandovi un fardello indesiderato. Vi ho detto che qui sono accadute cose terribili. Questa è la minore. A Oby avete sentito dell'omicidio della Principessa Umerue per mano di un cortigiano geloso del suo seguito, avvenuto qui a Porifors due o tre mesi fa? E di Ser Illvin dy Arbanos pugnalato?» «Oh, sì», confermò Foix. «Lo raccontavano tutti. Lord dy Oby ha detto di essere molto dispiaciuto di quanto accaduto a Lord Illvin, e che poteva capire il dolore di Lord Arhys. Ha detto che conosceva da lungo tempo i due fratelli, ancor prima di diventare il suocero di Lord Arhys, e che erano sempre insieme, come la mano destra e sinistra di un solo uomo.» «Bene, questa non è la verità in merito al crimine.» Foix assunse un'aria interessata, anche se scettica; dy Cabon un'espressione interessata ed estremamente preoccupata. «Ho impiegato tre giorni per districarmi tra menzogne e depistaggi. Forse in passato Umerue era una principessa, ma quand'è arrivata qui era una strega divorata da un demone. Inviata, mi è stato detto, e a questo ci credo, per sottomettere Porifors e consegnarlo a qualcuno della corte di Jokona. La ripercussione che questo evento avrebbe potuto avere sull'imminente campagna contro Visping, soprattutto se il tradimento non fosse stato svelato fino all'ultimo momento, lo lascio alla tua immaginazione militare, Foix.» Foix annuì, lentamente. La prima parte, non ebbe problemi a seguirla, naturalmente. Quello che sarebbe venuto dopo... «In una strana e caotica colluttazione, sia Umerue sia Lord Arhys sono rimasti uccisi.» Dy Cabon sbatté le palpebre. «Royina, forse intendete Lord Illvin? Abbiamo appena visto Lord Arhys.» «Proprio così. Il demone di Umerue, commettendo un errore, è balzato
nella moglie di Arhys... e lei ne ha subito preso il controllo, costringendolo a rimettere l'anima recisa di Arhys nel suo corpo, sottraendo forza al fratello Illvin, per continuare a mantenere il suo cadavere in movimento. Una specie di magia di morte distorta... A voi, Erudito, chiederò di esporne il principio teologico non appena potete. Poi la Marchess ha finto che fosse stato Illvin a essere ferito, e che la principessa fosse stata uccisa dal suo segretario jokoniano, che ha terrorizzato al punto di farlo fuggire.» «Allora è questo che ho sentito quando l'ho vista», sussurrò Foix, con un'espressione più illuminata. «Un altro demone.» «Ho assistito a tutto», ammise lealmente Liss. «È tutto vero. Abbiamo interrogato persino il demone, anche se non è servito a granché. Quando Lord Arhys è stato colpito nello scontro di questa mattina dalla lancia del soldato jokoniano, la ferita è apparsa sul corpo di Lord Illvin. Una cosa terrificante e misteriosa.» Poi, in tono riflessivo, aggiunse: «E sanguinava anche come un maiale sgozzato». Ista guardò il sole e valutò le ombre che si ritraevano nel cortile di pietra. «Tra poco parlerete con tutti gli interessati, e farete anche da testimoni. Ma, dy Cabon, sentite: non so perché il vostro Dio mi ha portato in questa casa di dolore. Non so che cosa o chi può essere salvato da questa situazione intricata. So che prima o poi, in un modo o nell'altro, quel demone deve essere tirato fuori da Lady Cattilara. Sta fremendo per fuggire, di preferenza col suo corpo, ma la ucciderà per saltare in un altro veicolo qualora gli si presentasse l'occasione. Arhys sta cominciando a deteriorarsi, fisicamente e anche mentalmente, temo. Peggio, ho il sospetto che la sua anima sia già recisa. Lord Illvin sta morendo lentamente, prosciugato da questa stregoneria, che gli toglie più energia vitale di quanta il suo corpo riesca a rigenerare. Se lui muore, sarà la fine anche per suo fratello, e Cattilara, credo, verrà fagocitata dal demone.» Si zittì, deglutì, e osservò i volti sgomenti che la fissavano. Si rese conto con un brivido che nessuno la stava guardando come se fosse impazzita. Tutti attendevano che dicesse cosa sarebbe accaduto in seguito. In quel momento giunse l'eco di passi calzati di stivali. Ista alzò lo sguardo e vide Lord Arhys entrare, osservare lei e il suo piccolo seguito, e avvicinarsi. Si fermò, rivolgendole un inchino, poi si rialzò piuttosto sconcertato nel vedere gli sguardi indagatori che gli rivolgevano i suoi nuovi ospiti. «Lord Arhys.» Con un cenno del capo Ista accolse il suo inchino. «Ho messo al corrente il mio tenente, facente funzione di capitano della scorta,
e la mia guida spirituale, della reale situazione creatasi qui a Porifors. È necessario che essi sappiano, per potermi proteggere e consigliare nel modo migliore.» «Capisco.» Ista si costrinse a trasformare una smorfia in un sorriso. Lui rimase in silenzio per un attimo, come se stesse riflettendo su cosa dire di sé - scusarsi di essere morto, forse? - poi, apparentemente sconfitto dall'incertezza, passò a questioni più immediate. «I miei esploratori sono usciti, ma non sono ancora rientrati. I prigionieri non sono stati molto collaborativi, ma sembra che la loro pattuglia fosse una copertura per un contingente molto più numeroso, cui era stato dato l'ordine di tagliare le comunicazioni sulla strada tra Porifors e Oby. E che l'attacco a dy Gura e al Divino è stato in qualche modo prematuro per motivi che non siamo riusciti a estorcere loro, nonostante tutte le urla che gli abbiamo strappato. Stiamo prendendo delle precauzioni: riempiendo le cisterne, allertando il villaggio, inviando corrieri a dare l'allarme in zone più lontane. Non mi sono giunte notizie dell'avvistamento di un simile reparto jokoniano dalle guardie di confine, ma... sono stato molto distratto dai miei doveri in questi ultimi giorni.» Ista inarcò le labbra in un'espressione preoccupata. «Un attacco da Jokona? Perché in questo momento?» Arhys scrollò le spalle. «Una rappresaglia posticipata per la morte della loro principessa? Ce lo aspettavamo prima. Oppure è un tentativo per riconquistare un ostaggio perso di recente.» Il suo sguardo si posò su Ista. Nonostante la calura, Ista rabbrividì. «Se fosse così, non desidero coinvolgere nessuno per la mia protezione, tanto meno voi. Forse... dovrei trasferirmi a Oby.» Fuggire? Lasciare il castello, lasciare quella situazione ingarbugliata, lasciare che quelle anime angosciate e ottenebrate sprofondassero sotto il peso della loro miseria, del loro amore? Poteva farlo? «Forse.» Arhys le rivolse un cenno ambiguo del capo. «Ma solo se abbiamo la certezza che la strada sia sicura, altrimenti non faremmo altro che consegnarvi nelle loro mani. Oggi pomeriggio devo andare in ricognizione... non posso fermarmi adesso. Questo lo dovete capire.» Poi, con un tono stranamente intenso, aggiunse: «Non dovete fermarmi adesso». «Dal momento che non saprei come farlo», sospirò Ista, «per ora siete al sicuro da questa possibilità. Non posso dire altrettanto di altre possibilità.» «Tra poco sarò costretto a riposare...» «A Illvin deve essere concesso il tempo per mangiare, soprattutto adesso», ribadì allarmata.
«Non desidero altro. Ma prima voglio vedere la sua nuova ferita.» «Ah. Questo sarebbe saggio, penso.» Poiché sembrò che attendesse la sua compagnia, Ista si alzò e lo seguì su per le scale, insieme ai suoi accompagnatori che non riuscivano a celare la propria curiosità. L'ingresso di così tante persone allarmò Goram, che Ista cercò di rassicurare con qualche parola pacata. Ma l'uomo sembrò trarre una maggiore consolazione dal delicato buffetto che Liss gli diede sulla spalla. Su richiesta del March, tolse la nuova fasciatura. La valutazione di Arhys fu breve, esperta e fosca. Foix e dy Cabon osservarono con diffidente interesse lo strappo insanguinato sulla tunica di Arhys, mentre questi si chinava sul silenzioso fratello. La mano di Arhys si serrò sull'elsa della spada. Poi mormorò a Ista che si era messa un po' in disparte con lui: «Lo confesso, non ero del tutto dispiaciuto di aver trovato quei soldati jokoniani sulla mia strada, questa mattina. Penso che una parte di me cominciasse a sperare in una morte migliore. Meno... disonorevole, della prima, meno indegna per l'onore di mio padre. Vedo che questo progetto comporta qualche problema». «Sì», confermò Ista. «Mi sento come se mi fossi perso in qualche oscuro e diabolico labirinto, dal quale non riesco a uscire.» «Sì», disse Ista. «Ma... almeno non siete più solo in quel labirinto.» Le labbra si aprirono in un accenno di sorriso; le strinse la mano. «È così. La mia buona compagnia cresce rapidamente, da quando gli Dei vi hanno guidata qui. Un conforto molto più grande di quanto mi aspettassi.» Arrivò il vassoio col pasto. Lord Arhys si scusò; Ista era certa che avrebbe trovato il porto sicuro del suo letto prima di essere sopraffatto dal collasso del mezzogiorno. Accompagnò fuori il suo seguito, per lasciare a Goram il tempo di fare il lavoro necessario, ma disse a dy Cabon di restare, assistere e osservare. Appoggiata alla balaustra, guardò Lord Arhys allontanarsi a grandi passi, seguito dalla sottile voluta di fumo della sua anima che si stava erodendo. Si massaggiò il palmo della mano, che ancora le formicolava dove lui l'aveva stretto. Potrei fuggire. Qui, nessun altro può farlo, ma io potrei. Se scegliessi di farlo. 17
Con espressione turbata, Foix si appoggiò alla balaustra accanto a Ista, osservando Arhys che usciva. «Un uomo notevole», osservò. «Se lo scopo di quella strega jokoniana era quello di cancellare Porifors e annientare la sua forza come fortezza... pur nel suo fallimento ha ottenuto un certo successo, azzoppando un simile comandante. Peggio che azzoppato, che la Figlia mi perdoni.» Anche Liss, che era arrivata vicino a Ista, ascoltava corrugando la fronte preoccupata. «Che cosa hai percepito di quel demone, quando hai incontrato Lady Cattilara nel cortile?» chiese Ista a Foix. Lui alzò le spalle. «Nulla di preciso. Mi sono sentito... come punto da spine. A disagio.» «Non l'hai visto muoversi nella sua anima come un'ombra?» «No, Royina.» Esitò. «Voi ci riuscite?» «Sì.» Si schiarì la gola. «Ah... e potete vedere la mia?» Con un gesto vago si sfiorò la pancia. «Sì. Appare come l'ombra di un orso che si nasconde in una grotta. Ti parla?» «Non... esattamente. Be', un po'. Non con le parole, ma riesco a percepirlo se mi siedo in silenzio e mi concentro. È molto più tranquillo e felice di quanto fosse all'inizio.» Abbozzò un mezzo sorriso. «L'ho addestrato a fare qualche trucchetto, quando il Divino non mi tormenta.» «Sì. Ho visto quello che hai fatto sulla strada. Una mossa scaltra da parte di entrambi, ma molto pericolosa. Hai idea di che cosa fosse o dove si trovasse prima di scovare te?» «Era un orso che vagava in territori selvaggi. Ancora prima, un uccello, credo, perché né l'orso né io avremmo mai potuto osservare le montagne dall'alto, mentre adesso ho l'impressione di avere questo ricordo. E non credo di essermelo sognato. A ingoiare enormi insetti, puah. Tranne che non erano schifosi. Puah! Prima ancora... non so. Penso che non ricordi di essere rinato, più di quanto io ricordi di essere stato un neonato. Ha avuto delle esistenze, ma senza il dono dell'intelletto, in quanto tale.» Ista si raddrizzò, stirandosi la schiena dolente. «Quando rientriamo nella camera di Lord Illvin, osserva attentamente il suo servo, Goram. Credo che una volta sia stato posseduto da un demone, come lo sei tu ora.» «Il servo era uno stregone? Ah. Be', perché no? Se un demone può anni-
darsi in un orso, perché non in un villico?» «Non credo che sia sempre stato un villico. Ho il sospetto che in passato sia stato un ufficiale della cavalleria del Roya Orico, prima di essere fatto prigioniero e ridotto in schiavitù. Osservalo attentamente, Foix. Potrebbe essere il tuo specchio.» «Oh», commentò Foix, facendosi più piccolo. Liss aggrottò ancor di più la fronte. Alla fine, la porta intagliata si aprì, e Goram fece loro segno di entrare. Le lenzuola erano state cambiate, la veste di lino macchiata di sangue fatta sparire, e Illvin indossava la tunica con i pantaloni e i capelli gli erano stati raccolti sulla nuca. Ista fu cupamente grata che fosse stato reso così presentabile davanti ai suoi compagni. Goram prese la sedia per lei, e con una serie d'inchini la fece sedere accanto al letto di Illvin. Con un sussurro riverente, dy Cabon riferì a Ista: «Ho visto le ferite richiudersi, proprio ora. Straordinario». Lord Illvin si sfiorò con cautela la spalla destra e rivolse a Ista un sorriso. «Sembra che mi sia perso una mattinata movimentata, Royina, anche se non del tutto. L'Erudito dy Cabon mi ha raccontato ogni cosa. Sono felice che la vostra compagnia si sia riunita a voi. Spero che il vostro cuore sia sollevato.» «Molto sollevato.» Ista gli presentò Foix, e fece un succinto ma sincero resoconto del suo incontro con l'orso, come preambolo per descrivere ciò che aveva fatto sulla strada. Goram si muoveva ansioso dall'altra parte del letto, imboccando Illvin mentre questi ascoltava. Illvin, corrucciandosi, allontanò un pezzo di pane, e disse: «Che un simile drappello sia giunto così vicino a Porifors può significare solo due cose: che una giovane testa calda jokoniana ha deciso di mettersi in mostra, oppure che dietro le fila si sta muovendo qualcosa. Che cosa dicono i nostri esploratori?» «Sono usciti, ma non sono ancora rientrati», rispose Ista. «Lord Arhys si sta organizzando, e ha inviato dei corrieri ad allertare i villaggi.» «Bene.» Illvin si sistemò contro i cuscini. «Che i cinque Dei mi aiutino, i giorni scorrono via come ore. In questo momento dovrei essere là fuori a cavalcare!» «Ho detto a vostro fratello d'indossare la cotta di maglia», aggiunse Ista. «Ah», commentò. «Sì.» La sua bocca si serrò, e la mano sinistra ritornò
a controllare la spalla ferita in modo tanto ambiguo. Fissò lo sguardo sui piedi, assorto in chissà quali riflessioni. Ista si chiese se nella sua mente i pensieri si agitassero vorticosamente come i suoi. Fece un lungo respiro. «Goram.» L'uomo smise d'imboccare Illvin. «Signora?» «Sei mai stato a Rauma?» Lui sbatté gli occhi perplesso. «Non conosco il posto.» «È una città nella provincia di Ibra.» Scosse la testa. «Eravamo in guerra con Ibra, prima. Giusto? So che ero a Hamavik», aggiunse come per compensare. «Lord Illvin mi ha trovato lì.» «La tua anima mostra delle profonde cicatrici provocate da un demone. Eppure... se fossi stato uno stregone durante la prigionia, padrone delle risorse di un demone, avresti dovuto essere in grado di fuggire, o comunque di migliorare la tua situazione.» Goram assunse un'aria scoraggiata, come se fosse stato castigato per una qualche disattenzione. Ista distese la mano per tranquillizzarlo, poi proseguì: «Vi sono... troppi demoni in giro. Come se si fosse aperta una falla enorme, mi ha detto il Divino. Non è così, Erudito?» Dy Cabon si sfregò il doppio mento. «A quanto pare, in questo momento sembra proprio di sì.» «Il Tempio ha provato a tracciare una mappa dei vari avvistamenti? Provengono da un unico posto, o da più posti diversi contemporaneamente?» Un'espressione pensierosa trasparì sul suo grasso volto. «Non da località diverse, a quanto ho sentito dire. Ma da rapporti che ho avuto modo di ascoltare, sembrano provenire dal nord.» «Uhm.» Ista si rivolse a Lord Illvin. «Dy Cabon mi ha anche detto che la Divina del Bastardo di Rauma era una santa del suo Ordine, dotata della capacità di estrarre i demoni dal loro veicolo e di restituirli, in qualche modo, miracolosamente, al Dio. I briganti jokoniani l'hanno uccisa.» Illvin espirò attraverso le labbra increspate. «Una perdita decisamente infausta proprio in questo momento.» «Sì. Altrimenti il Divino avrebbe trascinato Foix direttamente da lei, invece che qui. Ma adesso mi chiedo se non sia stato qualcosa di più di una disgrazia. Quando sono stata catturata, nel convoglio dei bagagli della colonna jokoniana, ho visto una cosa strana. Un ufficiale di rango elevato, forse il comandante stesso, cavalcava legato alla sella come se fosse ferito
e troppo debole per reggersi da solo. Ho pensato che un colpo alla testa gli avesse tolto la ragione, ma non aveva bende né macchie di sangue. Adesso mi chiedo quali voragini avrei potuto vedere nella sua anima se in quel momento avessi avuto la seconda vista.» Illvin sbatté gli occhi di fronte a quell'ipotesi allarmante. La sua mente saltò alla conclusione che Ista non aveva ancora pronunciato ad alta voce. «Pensate che possa essere stato un altro stregone al servizio di Jokona ad avere il controllo del contingente?» «Forse. Potrebbe essere stata la santa di Rauma a strappargli i poteri demoniaci, mentre veniva sottoposta alle violenze. Ma potrebbe anche essere che l'omicidio della santa fosse invece lo scopo principale di quella scorreria per catturare il suo demone.» «Ma i demoni non lavorano insieme tanto facilmente», obiettò dy Cabon. «Uno stregone, che occupasse una posizione di rilievo nella corte jokoniana, potrebbe fare gravi danni, se avesse un'inclinazione malvagia. Be', anche un'inclinazione leale», concesse in modo imparziale. «Verso Jokona, naturalmente. Ma evocare o controllare una legione di demoni... è una prerogativa che appartiene solo al Bastardo. Un'arroganza impensabile in un uomo, soprattutto per un quaternario. Inoltre, una concentrazione così pericolosa di demoni genererebbe il caos ovunque.» «La guerra si sta preparando lungo i confini», fece notare Ista. «Non riesco a immaginare una concentrazione maggiore di caos.» Si sfregò la fronte. «Lord Illvin, ho l'impressione che voi abbiate avuto modo di osservare bene la corte di Jokona. Ditemi qualcosa. Come sono i consiglieri e i comandanti principali del Principe Sordso?» Lui la guardò con un acuto interesse. «Perlopiù sono gli uomini anziani che già servivano sotto suo padre. Il suo primo cancelliere è stato lo zio paterno, anche se ormai è morto. L'attuale generale di Jokona è alla corte da decenni. Gli amici e i compagni di Sordso sono molto più giovani, e nessuno di loro occupa posizioni di potere. È troppo presto per dire se qualcuno di loro è adatto alla guerra o al governo. Sono in gran parte figli di uomini ricchi con capacità d'iniziativa troppo scarse per imparare un mestiere. «Sua madre, la Principessa Vedova Joen, è stata la reggente di Sordso, insieme con lo zio e con il generale, finché non ha raggiunto la maturità. Io avrei voluto attaccare il principato quando fu lei a prendere le redini del potere, alcuni anni fa, ma Arhys si era fatto prendere da un eccesso di deferenza per il suo sesso e la triste vedovanza. E comunque, in quel periodo
Roya Orico stava per morire, quindi abbiamo temuto che Cardegoss non fosse in grado di tirarci fuori da eventuali guai.» «Ditemi qualcosa di più di Joen», disse lentamente Ista. «L'avete mai incontrata di persona? Avete pensato che se Umerue fosse riuscita nel suo intento iniziale, Joen sarebbe diventata vostra suocera?» «Una prospettiva terrificante. No, non ho mai incontrato Joen di persona. Ha quindici anni più di me, e si era già ritirata negli alloggi delle donne quando io ero diventato abbastanza adulto per capire le politiche del principato. Posso dire che nella storia recente di Jokona è stata la principessa col numero più alto di gravidanze... di sicuro assolveva bene i suoi doveri coniugali. Benché non sia stata molto fortunata, infatti di una dozzina circa di figli che ha avuto, solo tre erano maschi, due dei quali sono morti giovani. Anche parecchi aborti e feti nati morti, credo. Sette femmine sono sopravvissute e si sono sposate, stringendo alleanze in tutti i Cinque Principati. Posso dire che prende molto sul serio la sua discendenza dal Generale Dorato. Compensa le delusioni avute dal marito e dal figlio, presumo, o forse le alimenta, non so.» Il Generale Dorato, il Leone di Roknar. Per qualche tempo, all'epoca del regno del Roya Fonsa, il brillante leader quaternario aveva cercato di riunire i Cinque Principati per la prima volta in secoli, e si era abbattuto come un fiume in piena sulle deboli royacy quintariane, ma era morto prematuramente all'età di trent'anni, distrutto dall'anziano Roya Fonsa in un rito di magia di morte. Il rito che aveva ucciso entrambi i leader aveva salvato Chalion dalla minaccia roknari, però aveva anche riversato la maledizione che avrebbe perseguitato gli eredi di Fonsa fino ai giorni di Ista. Come eredità, il Generale Dorato aveva lasciato solo un nuovo disordine politico nei principati, e qualche figlio piccolo, di cui Joen era la più giovane. Non c'era da meravigliarsi se era cresciuta considerandolo un eroe. Ma se Joen non poteva seguire le orme del grande padre, esclusa dalla guerra e dalla politica a causa del proprio sesso, poteva aver cercato di ricreare quel mito almeno in un figlio? Tutte quelle gravidanze... Ista, che ne aveva avute due, non sottovalutò il loro brutale esaurimento sul corpo e sulle energie di una donna. Si accigliò. «Stavo pensando a quel che ha detto il demone di Catti. Lei sta arrivando, ha urlato, come se fosse un evento terribile. All'inizio ho pensato che si riferisse a me, perché credo che il fatto di essere stata toccata dagli Dei renda costernati i demoni, ma... io non stavo arrivando. Ero già qui. Quindi quell'ipotesi non ha senso, come non ne ha la maggior par-
te delle cose che ha detto.» Illvin osservò pensieroso: «Se qualcuno alla corte di Jokona si sta davvero interessando di stregoneria con l'intento di attaccare Chalion, devo dire che le cose non gli stanno andando tanto bene. Ha perso entrambi i suoi agenti-demoni: la triste Umerue e il comandante del contingente». «Forse», ribatté Ista. «Eppure non senza far avanzare gli obiettivi dei jokoniani. La santa di Rauma è morta, e Porifors... è molto turbata.» A quelle parole Illvin le rivolse uno sguardo severo. «Arhys continua a guidarci... non è così?» «Per il momento. È chiaro che le sue energie si stanno esaurendo.» Illvin, sollecitato, prese un altro boccone di pane e lo masticò diligentemente. Il suo volto assunse un'espressione pensierosa. Inghiottì e disse: «Mi è venuto in mente che qui abbiamo qualcuno che deve conoscere tutti i piani segreti di chiunque si nasconda dietro tutta questa faccenda alla corte di Sordso. Forse è il demone stesso. Dobbiamo interrogarlo ancora. In modo più deciso». E dopo una breve riflessione, aggiunse: «Sarebbe meglio che questa volta Arhys non fosse presente». «Io... comprendo il vostro punto di vista. Qui, magari domani?» «Se si riesce a organizzare. Non sono sicuro che Catti accetti, senza che Arhys la convinca.» «Deve essere convinta», replicò Ista. «Dovrò lasciare questa parte a voi.» Se Ista aveva interpretato correttamente il significato nascosto di quelle parole, lo avrebbe fatto con piacere. Ma queste perdite rappresentano tutti gli stregoni di Jokona, o solo due tra tanti? si chiese. Tamburellò le dita sul bracciolo della sedia. «No, non può essere Joen. Non metterebbe un demone nel corpo di sua figlia.» Lanciò un'occhiata a Goram. «A meno che non ignori completamente la loro natura e i loro effetti, e in tal caso non vedo come potrebbe controllare uno stregone, per non parlare di molti.» Illvin le scoccò una strana occhiata. «Voi amate moltissimo vostra figlia, a quanto mi sembra di capire.» «Chi non lo farebbe?» Il sorriso le si addolcì. «È la stella luminosa di Chalion. Molto più di quanto sperassi e meritassi, perché ho potuto fare ben poco per lei nei miei anni bui.» «Uhm.» Illvin le sorrise con curiosità. «Eppure avevate detto di non aver mai amato nessuno a tal punto da sperare di poterlo raggiungere nell'aldilà.»
Ista fece un breve gesto di scusa. «Credo che gli Dei ci diano i figli per insegnarci che cos'è il vero amore, perché si possa essere degni della Loro compagnia alla fine. Una lezione per chi, tra noi, ha il cuore troppo insensibile o indurito per apprendere in altro modo.» «Indurito? O semplicemente...» Il filo di fuoco bianco stava iniziando ad attenuarsi; la sua mano ricadde debolmente sul copriletto. Goram osservò con preoccupazione il cibo rimasto sul vassoio. Ista guardò Illvin scivolare, gli occhi che si richiudevano, e strinse i denti per la frustrazione. Voleva quell'intelletto al suo servizio per dipanare quel mistero, ma il corpo di Arhys sembrava altrettanto indispensabile in quel momento. Avrebbe voluto che fosse inverno, per poter rubare un'altra ora da regalare a Illvin. Ma faceva troppo caldo per lasciare che il March cominciasse a imputridire. «Venite ancora, splendente Ista», bisbigliò con un debole sospiro. «Portate Catti...» Andato. Era come vederlo morire ogni giorno. Non desiderava fare quel tirocinio. Ritornata nel cortile di pietra, Ista si mise in disparte. «Erudito, per favore, seguitemi. Dobbiamo parlare.» «E io, Royina?» chiese Liss speranzosa. «Tu puoi... metterti comoda a portata di voce.» Accogliendo il suggerimento, Liss si diresse verso una panchina all'altra estremità del cortile. Dopo un attimo di esitazione, Foix la seguì, con un'aria per nulla dispiaciuta. Nel momento in cui si sedettero le loro teste si avvicinarono. Ista riportò dy Cabon verso la panca all'ombra del chiostro e gli fece segno di sedersi. Con un grugnito stanco lui si accomodò. I giorni trascorsi a cavallo e l'ansia lo avevano segnato; la veste bianca macchiata sembrava essergli diventata larga e la cintura esibiva dei nuovi nodi. Ista, ricordando il ventre immenso del Dio e l'abbondanza straripante nel corpo di sogno di dy Cabon, tutto sommato non poté considerare quel dimagrimento un fatto positivo. Si sedette accanto a lui ed esordì dicendo: «Avete detto di aver assistito alla eliminazione di un elementale, quando l'ospite del furetto è stato bandito dal mondo. Com'è avvenuto esattamente? Che cosa avete visto?» L'Erudito scrollò le spalle massicce. «Non c'era molto da vedere coi miei poveri occhi. L'Arcidivino di Taryoon mi ha accompagnato alla presenza
della Divina che si era offerta per quel compito. Era una donna molto anziana, fragile come un foglio di pergamena nel letto dell'ospedale del Tempio. Sembrava già per tre quarti distaccata dal mondo. Vi sono così tante cose di cui gioire nel mondo della materia, che esserne stanchi mi sembra una cosa ingrata, ma lei mi disse che aveva già avuto tutte le sofferenze che poteva sopportare, e che sarebbe passata da questo banchetto a uno migliore. Desiderava sinceramente il suo Dio, come un viaggiatore stanco desidera il proprio letto.» «Un uomo di mia conoscenza, che ha avuto una visione mistica in circostanze straordinarie», lo interruppe Ista, «una volta mi disse di aver visto le anime dei morenti levarsi verso l'alto come fiori nel giardino della Dea. Ma era un devoto della Signora della Primavera. Presumo che ogni Dio abbia una metafora diversa: splendidi animali per il Figlio dell'Autunno, ho sentito dire; uomini forti e donne meravigliose per il Padre e la Madre. E per il Bastardo... cosa?» «Ci prende come siamo. Spero.» «Uhm.» «Ma no», continuò dy Cabon, «non ci sono stati trucchi speciali né preghiere. La Divina sosteneva di non averne bisogno. Poiché era moribonda, non mi sono messo a discutere. Le ho chiesto che cosa si prova in punto di morte. Mi ha lanciato un'occhiata torva poi, in tono piuttosto aspro, mi ha detto che se lo avesse scoperto me lo avrebbe senz'altro fatto sapere. A quel punto, l'Arcidivino mi fece segno di tagliare la gola del furetto, cosa che feci, sopra una bacinella. L'anziana donna sospirò, sbuffò e s'immobilizzò. Le ci è voluto solo un attimo per passare dalla vita alla morte, ma è stata una cosa inconfondibile. Non un sonno, mi è sembrato uno svuotamento. Così sono andate le cose. A parte la purificazione che ne è seguita.» «Questo... non ci è di particolare utilità», sospirò Ista. «È ciò che ho visto. Ho l'impressione che lei abbia veduto più cose. Ma non riesco a immaginare quali.» «Nel mio sogno... il sogno in cui voi siete entrato... il Dio mi ha baciata due volte. La prima sulla fronte», e si toccò il punto, «come Sua Madre fece una volta, e in questo modo l'ho riconosciuto come il dono della seconda vista, il dono di vedere il mondo dello spirito direttamente come fanno gli Dei. Ma poi mi ha baciata una seconda volta, sulla... in bocca. In modo più profondo e irritante. Erudito, ditemi, quale può essere il significato di quel secondo bacio? Voi dovete saperlo... eravate lì.»
Deglutì e arrossì. «Royina, non saprei. La bocca è il segno teologico e la manifestazione del Bastardo sul nostro corpo. Non vi ha dato altre indicazioni a parte me?» Ista scosse la testa. «Il giorno dopo, Goram, con un'idea molto confusa in merito al fatto che una Royina fosse in grado di disfare ciò che una principessa aveva fatto, mi ha invitata a baciare il suo padrone. E per un brevissimo istante di esaltazione ho pensato che sarebbe stato un bacio dispensatore di vita, come nelle fiabe. Ma non ha funzionato. Neanche su Lord Arhys, quando ho provato con lui, in un secondo tempo. Il bacio era chiaramente qualcos'altro, un altro dono o fardello.» Ista trasse un respiro. «Ho di fronte un triplice nodo. Due possono essere sciolti insieme. Se riesco a trovare il modo di bandire il demone di Cattilara, Illvin verrà liberato, e la Marchess salvata. Ma quale speranza può esserci per Arhys? Ho visto la sua anima, Erudito. L'ho vista recisa, salvo che i miei occhi interiori non siano diventati ciechi. Sarebbe già tragico portare a compimento la sua morte, e fargli perdere il suo Dio. Ma sarebbe ancora peggio saperlo smarrito nel nulla.» «Io... ecco... so che alcune anime, che hanno subito una morte particolarmente violenta, hanno indugiato per qualche giorno, per essere aiutate a trovare la loro strada con preghiere e cerimonie durante i funerali.» «Allora i riti del Tempio potrebbero aiutarlo a trovare la strada per raggiungere il suo Dio?» Era un'immagine bizzarra; Arhys che avrebbe partecipato al proprio funerale, e si sarebbe disteso nella sua bara. Dy Cabon fece una smorfia. «Tre mesi sembrano troppi. La scelta è la prova alla quale vengono sottoposti tutti coloro che restano intrappolati nel tempo; e quella scelta è l'ultima che il tempo impone. Se la sua ora fosse stata procrastinata, a causa di una sorta di assuefazione del corpo, la vostra seconda vista sarebbe in grado di vederlo?» «Sì», rispose Ista con un filo di voce. «Ma voglio un'altra risposta. Questa non mi piace. Quel bacio mi aveva fatto sperare, ma è stato inutile.» Il Divino si grattò il naso perplesso. «Avete detto che il Dio vi ha parlato. Che cosa ha detto?» «Che sono stata inviata qui, in risposta a delle preghiere, di Illvin tra gli altri, probabilmente. Il Bastardo mi ha sfidato, ricordandomi in che modo gli Dei hanno trascurato la morte di mio figlio, a non deviare dal mio cammino.» Al ricordo si accigliò con un'espressione furente, e dy Cabon si ritrasse un poco da lei. «Gli ho chiesto che cosa potevano darmi gli Dei, che si erano presi Teidez, da poter barattare con un bacio. Mi ha risposto:
Da lavorare. Le sue blandizie erano edulcorate da stupide tenerezze che a un corteggiatore umano avrebbero fatto guadagnare un rapido viaggio nella pozzanghera più vicina per mano dei miei servi. Il bacio che mi ha dato in fronte bruciava come un marchio. Il bacio sulla bocca...» Esitò, poi proseguì con ostinazione: «Mi ha risvegliata come un'amante, cosa che sicuramente non sono». Dy Cabon si ritrasse ancora di più, scoccandole un sorriso inteso a placarla, e facendo dei piccoli gesti di assenso e di negazione con le mani che sembravano delle pinne. «Certo che no, Royina. Nessuno potrebbe scambiarvi per tale.» Lei gli lanciò un'occhiata di fuoco, poi proseguì. «Poi è scomparso, lasciando a voi il fardello. Per così dire. E se quella era una profezia, non è di buon auspicio per voi, Erudito.» Lui si fece i segni. «Giusto, giusto. Uhm. Se il primo bacio era un dono spirituale, allora anche il secondo deve esserlo. Ecco, io la vedo in questo modo.» «Va bene, ma Lui non ha detto di che cosa si trattava. È uno dei suoi giochetti, a quanto pare.» Dy Cabon alzò gli occhi al cielo come per decidere se quella era una bestemmia, e dopo aver fatto un profondo respiro, riordinò i pensieri. «D'accordo. Ma qualcosa ha detto. Ha detto: Lavoro. E probabilmente era serio.» Poi, con maggiore cautela, aggiunse: «Sembra che siate stata fatta di nuovo santa, volente o nolente». «Oh, posso ancora rifiutare.» Aggrottò le sopracciglia. «Questo è ciò che tutti noi siamo, sapete. Degli ibridi, fatti di materia e spirito. Siamo gli agenti degli Dei nel mondo della materia, verso il quale non hanno altri ingressi. Lui bussa alla mia porta, chiedendo di entrare. Mi stuzzica con la sua lingua come un amante, scimmiottando, lassù, ciò che quaggiù desideriamo. Lui, non è così semplice come un amante, eppure desidera che io mi apra e mi abbandoni come se lo fosse. E lasciate che vi dica una cosa, detesto le metafore che sceglie!» Dy Cabon agitò di nuovo le mani freneticamente. «Voi siete una torre d'avorio, non c'è dubbio!» Ista soffocò un ringhio, vergognandosi di aver sfogato la rabbia che provava nei confronti del suo Dio. «Se non conoscete l'altra metà dell'enigma, perché vi hanno messo qui?» «Royina, non lo so!» Esitò. «Forse tutti quanti dovremmo dormirci sopra.» Si fece piccolo di fronte al suo sguardo tagliente, poi fece un altro
tentativo. «Cercherò di rifletterci.» «Fatelo.» In fondo al cortile, Foix e Liss adesso erano seduti vicini. Foix le teneva la mano e sembrava concentrato in un discorso molto serio. Lei lo ascoltava, secondo la visione ostile di Ista, con un'espressione troppo credulona sul viso. Si alzò di scatto e la chiamò. Dovette chiamarla due volte prima di attirare la sua attenzione. La ragazza scattò in piedi, ma il suo sorriso indugiò come un profumo nell'aria. Lady Cattilara, nel disperato tentativo di mantenere il suo ruolo di castellana, quella sera tenne una cena nella stessa sala dove lei e le sue dame avevano intrattenuto Ista due giorni dopo che era arrivata. Arhys era di nuovo fuori, perciò parteciparono solo pochi dei suoi ufficiali, più per la comodità di consumare un rapido pasto che per svolgere il ruolo di cortigiani. Alla tavola d'onore, Cattilara assegnò a Foix un posto più lontano possibile da sé, tanto più che, essendo il capitano della guardia di Ista, aveva diritto di sedere al suo fianco. Ista ebbe comunque l'impressione che i due rimasero fortemente consapevoli l'uno dell'altra per tutta la durata di quella cena. Consapevoli, ma chiaramente non attratti. L'Erudito dy Cabon, guidò le preghiere con discrezione ammirevole, mantenendo le richieste di benedizioni divine piuttosto vaghe. Poi si defilò impegnandosi con il cibo, senza tuttavia trascurare di ascoltare quello che si diceva attorno. Alla destra di Ista era seduto uno degli ufficiali anziani di Arhys, che faceva da cuscinetto tra Liss e Foix. Era gentile, per niente intimorito dal suo rango, ma appariva preoccupato. Dopo qualche battuta di prammatica sul cibo e sul vino, bruscamente le chiese: «Il nostro signore ci ha informati di essere molto malato. Avete sentito?» «Sì, lo so. Ne abbiamo discusso.» «È vero, avevo già notato il suo pallore, e il fatto che non mangiava né dormiva a sufficienza, ma non mi aspettavo che fosse tanto malato, non pensate che dovrebbe restare a riposo?» «Il riposo non servirà a curare ciò che lo affligge», rispose Ista. «Temo che il fatto di uscire con questo clima possa peggiorare le sue condizioni.» «Non vedo come.» Cattilara, alla sinistra di Ista, le scoccò un'occhiata di fuoco. «Non sapevo che foste un medico, Royina.» Disse con tono risentito.
«Non lo sono, ahimè.» L'ufficiale sbatté gli occhi un po' confuso, e comprese che era meglio abbandonare quell'argomento così palesemente sgradito alla Marchess. «I briganti dei principati confinanti di solito non si avvicinano così tanto a Porifors, ve lo assicuro, Royina. Ma questa mattina gli abbiamo dato una bella lezione, e credo che ci penseranno bene prima di fare un altro tentativo.» «Ho pensato che fossero qualcosa di più di semplici briganti», commentò Ista. «Sembrano truppe regolari, a vedere i loro tabarri, anche se presumo che i veri briganti non esitino a mascherarsi in tal modo. Secondo voi, Sordso ha assunto una posizione militare più elevata rispetto al passato, oppure pensate che qualcun altro, nella sua corte, stia sondando le vostre difese?» «Non avrei mai attribuito azioni di questo genere a Sordso; ma è anche vero che dopo la sfortunata morte della sorella Umerue, ha fatto un grande cambiamento.» «Davvero?» Incoraggiato, l'ufficiale sciorinò volentieri quello che si diceva a corte. «Si dice che abbia cominciato a dedicarsi all'esercito, cosa che non aveva mai fatto prima. E che abbia smesso di bere e allontanato tutti i suoi compagni di bagordi. Inoltre sembra che si sia improvvisamente sposato con una erede di Borasnen, e che abbia preso anche due concubine ufficiali, che i roknari definiscono mogli, in modo da evitare il marchio della illegittimità. Cosa di cui non si era mai preoccupato in passato, anche se noi ci auguriamo che questa sua nuova virtù non duri. La sua poesia non era male; sarebbe un peccato perderla.» E abbozzò un sorriso. Ista inarcò le sopracciglia. «Una descrizione che non sembra corrispondere a quella fatta da Lord Illvin, ma presumo che Illvin non abbia avuto possibilità di seguire gli sviluppi di Jokona, in questi ultimi mesi.» L'ufficiale girò la testa di scatto. «Illvin ha descritto... adesso parla? Ha parlato con voi, Royina? Oh, ma questa è una notizia stupenda!» Ista lanciò un'occhiata a Cattilara, e notò che le sue mascelle si serravano. «Ha brevi momenti di lucidità. Ho parlato con lui quasi ogni giorno da quando sono arrivata. Non vi sono dubbi che il suo intelletto sia integro, ma è ancora molto debole. Penso che comunque non sia del tutto fuori pericolo.» Restituì a Cattilara uno sguardo infuocato. «Eppure... eppure... avevamo temuto che avesse perso il senno, visto che non riprendeva i sensi. Sarebbe una grave perdita per Porifors come lo sa-
rebbe... il braccio armato di Arhys.» Colse lo sguardo minaccioso della Marchess e celò la sua confusione guardando da un'altra parte. Con sollievo di Ista, il tormento di quella cena non si trascinò per molto. Dy Cabon si ritirò nella sua stanza per un più che meritato e necessario riposo, mentre Foix accompagnò l'ufficiale di Arhys con il pretesto di valutare in che modo il suo ristretto contingente poteva aiutare Porifors in cambio del vitto e dell'alloggio che gli venivano offerti. Ma Ista, che lo conosceva bene, capì che Foix voleva avere maggiori informazioni in merito alle difese della fortezza e dei suoi abitanti. La prossima lettera di Foix a Cardegoss probabilmente sarebbe stata molto istruttiva. Si chiese se avesse già confessato la presenza del suo cucciolo di demone al Cancelliere dy Cazaril, o se quella notizia avrebbe continuato a restare celata tra l'abbondanza di altre notizie. 18 Liss stava spazzolando i capelli di Ista prima di andare a letto, un compito che alla ragazza sembrava piacere (aveva il sospetto che le riportasse alla memoria ricordi felici nelle scuderie), quando udirono un timido colpo alla porta della camera esterna. Liss andò ad aprire, ritornando un attimo dopo. «È uno dei paggi di Lord Arhys. Dice che il suo signore è giù che vi aspetta, e chiede di potervi parlare.» Ista inarcò le sopracciglia. «A quest'ora? Molto bene. Digli che scendo subito.» Liss andò a trasmettere il messaggio, mentre Ista si toglieva la veste da camera per indossare nuovamente l'abito di lino color lavanda e la sopravveste di seta nera. La mano esitò sulla spilla da lutto, posata sul tavolo, poi la prese e la usò per allacciare il morbido tessuto nero sotto il seno. Senza volerlo, è un abbigliamento appropriato per presentarsi a Arhys, rifletté. Accompagnata da Liss che reggeva una candela per illuminare i loro passi, uscì. Lord Arhys attendeva ai piedi della scala, tenendo sollevata una torcia, con lo sguardo intenso rivolto verso l'alto. Indossava ancora gli stivali e la cotta di maglia sotto il tabarro grigio e oro, come se fosse appena sceso da cavallo. «Royina, vorrei parlarvi. In privato.» Ista indicò una panchina dall'altra parte del cortile, e lui annuì.
«Aspetta qui», disse sottovoce a Liss, poi scese e s'incamminò al fianco di Arhys. Lui porse la torcia al paggio, ma il ragazzo non riuscì a raggiungere l'alto supporto posto su una colonna scolpita; con un accenno di sorriso Arhys la riprese e la infilò. Poi lo congedò, dicendogli di andare a fare compagnia a Liss. Si sedettero alle due estremità della lastra di pietra che non aveva ancora perso del tutto il calore assorbito durante la giornata. Le immensità stellate della volta celeste, incorniciate dal rettangolo formato dai tetti, sembravano inghiottire il bagliore dorato della candela di Liss e della torcia, senza restituire alcunché riflesso. Il volto di Arhys era un'ombra fulgida contro ombre più scure, ma i suoi occhi scintillavano. «Oggi è stata una giornata movimentata: l'arrivo dei vostri compagni, con l'appendice jokoniana che si sono portati dietro», esordì. «Due miei esploratori, inviati a sud e a ovest, sono ritornati senza riferire nulla. Gli altri due non sono ancora rientrati, e questo mi preoccupa.» Esitò. «Cattilara non è venuta ad accogliermi al ritorno. È arrabbiata con me, penso.» «Per essere uscito a espletare i vostri doveri? Senza dubbio vi perdonerà.» «Ma non perdonerà la mia morte. Per questo sono diventato suo nemico, nonché il suo premio.» Adesso? «Lei è ancora convinta di potervi riportare indietro. O, almeno, di evitare che ve ne andiate. Penso che non si renda conto dell'effetto distruttivo che questo ritardo ha su di voi. È accecata dagli aspetti superficiali delle cose. Anche se vede gli spettri, non credo che comprenda la natura della loro dannazione.» «Dannazione» ripeté con un filo di voce. «È questo il mio stato. Allora molte cose si spiegano.» «Da un punto di vista teologico, ritengo che sia precisamente questo, anche se l'Erudito dy Cabon potrebbe ingentilire il termine. Non conosco il linguaggio degli studiosi, ma quella cosa l'ho vista. Siete separato dal nutrimento della materia, ma bloccato dal sostentamento del vostro Dio. Tuttavia, non per vostra volontà, come lo sono i veri e compassionevoli spiriti recisi. A causa dell'interferenza di un'altra persona. Questo è... sbagliato.» Distese e richiuse le mani. «Non può andare avanti così. Non fingo neanche più di mangiare, adesso. Bevo solo qualche sorso. Le mani, il volto e i piedi si stanno intorpidendo. L'ho notato in questi ultimi dieci giorni, all'inizio in modo impercettibile, poi sempre di più.» «Non mi sembra un buon segno», convenne Ista. Esitò. «Avete prega-
to?» La sua mano sfiorò la manica sinistra, dove Ista ricordava di aver visto la treccina votiva nera e grigia che si nascondeva al di sotto. «Il bisogno degli Dei va e viene nella vita di un uomo. Cattilara desiderava un figlio, ho reso i miei omaggi... ma se mai il Padre dell'Inverno ha udito le mie parole, non mi ha inviato alcun segno. Il silenzio è sempre stata la parte riservatami in risposta alle mie preghiere. Ma ultimamente mi è sembrato che il silenzio sia diventato... più vuoto. Royina...» Il suo sguardo, che scintillava tra le ombre, parve trafiggerla. «Quanto tempo mi resta?» Stava per dire: Non lo so. Ma essere evasiva equivaleva a essere codarda. Nessun medico della Madre avrebbe potuto rispondergli con maggiore cognizione. Che cosa so? Lo studiò, con la vista esterna e interna. «Di spettri ne ho visti molti, ma più vecchi che nuovi. Si accumulano, capite. Molti conservano ancora la forma della vita, dei loro corpi, per due o tre mesi dopo la morte, ma si consumano lentamente. Un anno dopo, la seconda vista di solito non riesce più a distinguere le caratteristiche umane, anche se hanno ancora la forma di un corpo. Dopo alcuni anni, diventano una chiazza bianca, poi una chiazza più sfocata, e infine scompaiono. Ma ho l'impressione che i tempi varino enormemente, a seconda della forza del carattere della persona.» E le tensioni della loro esistenza sempre più evanescente? Arhys costituiva un'esperienza unica per lei. Le richieste fatte al suo spirito sarebbero già state enormi per un uomo vivo; come poteva sostenerle il suo affamato e desolato spettro? Le grandi anime danno molto, attingendo alla loro abbondanza. Ma anche loro devono giungere alla fine di se stesse, senza l'appoggio dei... Loro Dei. «Com'è il mio aspetto adesso?» «Quasi interamente incolore.» Aggiunse con riluttanza. «State cominciando a sbiadire alle estremità.» Lui si strofinò il viso con una mano indagatrice, e mormorò: «Ah. Molte cose si chiariscono». Rimase in silenzio per qualche minuto, poi si batté la mano su un ginocchio. «Mi avevate detto di aver promesso a Ias di non parlare ad anima viva della vera sorte di mio padre. Uhm. Be'. Eccomi qui, davanti a voi. Royina, vorrei conoscere la verità.» Ista si lasciò sfuggire uno sbuffo. «In primo luogo vi ho mentito. Ias non mi chiese mai di fare una simile promessa. A quel punto non mi rivolgeva quasi più la parola. Ciò che vi ho raccontato non era che una difesa, per
nascondere la mia vigliaccheria.» «Vigliacca non è esattamente l'aggettivo che userei per descrivervi, signora.» «Col tempo s'impara di meglio che affidare le proprie scelte alla paura. Con l'età, a ogni ferita e cicatrice, uno impara.» «Allora vi chiedo di dirmi la verità adesso, come dono da portare nella tomba. Molto più bello per me di un mazzo di fiori.» «Ah.» Lasciò uscire l'esclamazione con un lungo sospiro. «Sì.» Con le dita sfiorò le levigate e fredde ametiste e la filigrana d'argento della spilla, appuntata sotto il petto. Dy Lutez la portava sul cappello. Anche nel suo ultimo giorno, lo ricordo. «Questa è la terza volta in vita mia che faccio questa confessione.» «La terza volta paga per tutte, dicono.» «Che ne sanno?» Sbuffò di nuovo. «Non credo. Comunque, ho avuto i migliori confessori, come si addice al mio rango e al mio crimine: un Santo vivente, un Divino onesto e il figlio morto di un uomo morto.» Quella frase se l'era ripetuta mentalmente un incredibile numero sufficiente di volte. Raddrizzò la schiena e cominciò. «Tutti sanno che il padre di Ias, Roya Fonsa, disperato per la perdita dei suoi figli e della sua royacy, prima dell'attacco dell'alleanza del Generale Dorato, uccise il suo nemico con un rito di magia di morte, perdendo a sua volta la vita.» «Questa è storia, sì.» «Pochi invece sanno che il rito riversò un residuo, una maledizione sottile sugli eredi di Fonsa e su tutto il loro operato. Prima Ias, poi suo figlio Orico. Teidez. Iselle. La sterile moglie di Orico, Sara. E su di me...» Fece un respiro. «E su di me.» «Quello di Ias non era certo noto per essere uno dei regni più fortunati di Chalion», concesse lui con cautela. «E neanche quello di Orico.» «Ias lo Sfortunato. Orico l'Impotente. I soprannomi assegnati dal volgo non sfiorano nemmeno una parte della verità. Ias era al corrente della maledizione, conosceva la sua origine e la sua natura, benché persino a Orico lo abbia rivelato solo in punto di morte. Ma quel segreto l'aveva condiviso con Arvol dy Lutez, il suo compagno d'infanzia, ufficiale, cancelliere, braccio destro. Probabilmente, come fece in seguito Orico coi suoi favoriti, Ias cercava di usare Arvol come portavoce mediante il quale gestire gli affari di Chalion, senza diffondere su di loro i suoi diabolici ingranaggi. Non che la tattica abbia funzionato. Ma si confaceva molto bene alle ambizioni
e alle grandi energie di Arvol dy Lutez. E alla sua arroganza. Lo ammetto, vostro padre amava Ias, a modo suo. Ias lo venerava ed era totalmente succube del suo giudizio. Arvol ha persino scelto me per lui.» Arhys si tormentò la barba. «Le voci che ho sentito, sostenevano che, ecco, fossero più intimi di semplici amici del cuore. Devo prenderle come una calunnia a scopo politico?» «No», rispose semplicemente. «Erano amanti da anni, come tutta Cardegoss sapeva, ma di cui non si parlava all'esterno delle mura della capitale. Fu mia madre a dirmelo, poco prima che mi sposassi, di modo che non fossi ignara della situazione. Allora pensai che fosse stata insensibile. Adesso la giudico saggia. Col senno di poi, penso che fosse anche un'opportunità offertami per tirarmi indietro, ma a quel tempo non compresi che cosa significava. Come potevo? Una vergine romantica, sopraffatta da quella che sembrava una grande vittoria sul campo dell'amore: l'essere scelta come sposa dal Roya. Accettai, ansiosa di apparire raffinata e sensibile.» «Oh», fece Arhys pianissimo. «Quindi, se mai avete pensato che vostra madre sia venuta meno ai suoi doveri coniugali, portando il padre di Illvin nel proprio letto, state tranquillo che non è stata la prima dy Lutez a infrangerli. Ho l'impressione che sua madre sia stata meno accorta e onesta della mia, nel prepararla al suo importante matrimonio. Oppure meno informata...» Arhys inarcò le sopracciglia con fare riflessivo. «Questo spiega... molte cose che da ragazzo non capivo. Credevo che mio padre l'avesse ripudiata. Non ho mai pensato che fosse stata lei a cacciarlo.» «Oh, sono sicura che abbia profondamente offeso Lord dy Lutez», disse Ista. «A ogni modo, aveva ancora la proprietà di lei da aggiungere ai suoi vasti possedimenti, per compensare le proprie ferite.» Lui la guardò: «Lo giudicavate avido?» «Nessuno accumula tutto quello che lui aveva per puro caso. Eppure non la chiamerei proprio avidità, perché sapeva a mala pena ciò che possedeva, e un uomo avido conta ogni moneta.» «Allora come la definireste?» Ista inarcò le sopracciglia. «Consolazione», provò alla fine. «I suoi possedimenti erano uno specchio magico, che rifletteva la grandezza che desiderava raggiungere.» «Questo», commentò Arhys dopo un attimo, «è un giudizio terribile, Royina.»
Lei chinò il capo in un gesto di assenso. «Era un uomo molto complesso. Arvol e Ias non mi hanno tradita nascondendomi il loro amore. Mi hanno tradita nascondendomi la maledizione. Mi sono sposata con Ias ignara del pericolo che correvo, o del pericolo che avrebbero corso i miei futuri figli. Le visioni sono iniziate quando aspettavo Iselle. Gli Dei cercavano d'irrompere su di me. Pensai di essere impazzita. Ias e dy Lutez me lo lasciarono credere. Per due anni.» Sussultò un poco udendo l'improvvisa ferocia nella sua voce. «Questo sembra... molto crudele.» «Quella era vigliaccheria, e disprezzo per la mia intelligenza e la mia forza. Mi hanno fatto sprofondare nelle conseguenze del loro segreto, poi si sono rifiutati di darmi fiducia. Ero solo una ragazza, capite, inadatta a sostenere un simile fardello, benché non fossi inadatta a far nascere un figlio di Ias in quello stato. Gli Dei, però, è da me che sono venuti. Non da Ias. Non da dy Lutez. Da me.» Le sue labbra s'incresparono. «Ripensandoci... mi chiedo quanto questa cosa abbia infastidito Arvol. Avrebbe voluto essere l'unico, luminoso eroe a salvare Ias, se avesse potuto. Era il suo ruolo abituale. E in effetti, per qualche tempo sembrò che gli Dei glielo avessero assegnato. «Alla fine - anche gli Dei si spazientiscono della nostra ottusità? - mi è apparsa la Madre dell'Estate in persona, non in sogno, bensì nello stato di veglia. Ero prostrata... non avevo ancora imparato a essere sospettosa degli Dei. Mi disse che la maledizione poteva essere infranta e rimossa da un uomo disposto a offrire per tre volte la propria vita per la sventurata Casa di Chalion. Essendo giovane e terribilmente in ansia per i miei figli, ho preso le Sue parole troppo alla lettera, giungendo alla conclusione che intendeva che escogitassi un rito pericoloso per mettere in atto quel paradosso.» «Davvero pericoloso. E, uhm...» Aggrottò le sopracciglia. «Paradossale.» «Raccontai tutto a Ias e ad Arvol, e ci consultammo. Arvol, afflitto dal nostro pianto, si offrì di tentare il ruolo dell'eroe. Ci concentrammo sull'annegamento come metodo, perché si sapeva che vi erano stati casi in cui degli uomini erano ritornati dalla morte senza essere deturpati. Arvol studiò questo metodo, raccolse resoconti, interrogò vittime sia perdute sia salvate. In una grotta sotto lo Zangre, preparammo la botte, le corde, il verricello. Gli altari a tutti gli Dei. Arvol si lasciò spogliare, legare, immergere a testa in giù, finché non smise di divincolarsi, finché la luce della sua
anima scomparve dal mio occhio interiore.» Arhys fece per parlare, ma Ista alzò una mano per bloccare il malinteso. «No. Non ancora. Lo tirammo fuori, gli facemmo uscire tutta l'acqua dal corpo, gli massaggiammo il cuore, gridammo le nostre preghiere, finché cominciò a tossire e a respirare di nuovo. E io riuscii a vedere la crepa nella maledizione. «Avevamo predisposto che il rito sarebbe stato ripetuto per tre notti consecutive. La seconda notte, procedemmo nello stesso modo, finché i suoi capelli sfiorarono la superficie dell'acqua, e annaspando ci disse di fermarci, che non riusciva a sopportarlo. Urlò che stavo cercando di assassinarlo perché ero gelosa. Ias esitò. Io tremavo, avevo la nausea, ma mi sono lasciata sopraffare dalla ragione. Era il metodo scelto da Arvol, aveva funzionato la prima volta... Piansi disperatamente per la paura che nutrivo per i miei figli, e per la frustrazione di essere arrivata così vicina, e di non riuscire a salvarli per un soffio.» Arhys aveva dimenticato di respirare. Il suo corpo, forse, stava perdendo l'abitudine. Ista si chiese quanto ci avrebbe messo per accorgersene. «Quando lo tirammo fuori la seconda volta, era davvero morto, e tutte le nostre lacrime e preghiere, tutti i nostri rimpianti e recriminazioni e, oh, di questi ve n'erano molti, non servirono a riportarlo in vita. In seguito, Ias decise che l'accusa di gelosia mossami da Arvol era in parte vera; per metà del tempo fui d'accordo anch'io. L'errore era stato di Ias... dettato dalla debolezza; e mio, perché ero stata impaziente e per nulla saggia. Perché se Ias si fosse messo contro di me, io avrei ceduto, oppure, se avessi dato ascolto al mio cuore e non alla mia testa, e avessi concesso più tempo a Arvol, chi può dire se dopo un giorno, o una settimana, o un mese, non avrebbe ritrovato il coraggio? Non lo saprò mai. Gli Dei mi abbandonarono. Finché un'altra generazione non portò un altro uomo, più adatto a rimuovere la maledizione dal mondo.» Trasse un respiro. «E questa è la storia di come ho ucciso vostro padre.» Arhys rimase in silenzio a lungo, si ricordò di respirare, poi disse: «Signora, io credo che questa non sia una confessione. Questo è un atto d'accusa». Ista vacillò. «Di Arvol? Sì, anche», confermò lentamente. «Se non si fosse mai offerto, non lo avrei considerato un codardo. Se fosse morto al primo tentativo, be', avrei pensato che il compito era al di sopra delle possibilità di qualsiasi uomo, o che il mio piano fosse sbagliato. Ma dimostrare che era possibile e poi fallire... mi ha letteralmente spezzato il cuore.
Non era una morte meccanica ciò che gli Dei richiedevano, come arrivai a comprendere in seguito. Non si può costringere l'anima di un altro ad aprirsi a tal punto da ammettere un Dio nel mondo, ma quella dilatazione, non la mera morte, era ciò che veniva richiesto. Arvol dy Lutez era un grande uomo. Ma... non abbastanza grande.» Arhys fissò lo sguardo nell'oscurità. La torcia era quasi consumata, anche se in cima alla scala, la candela di Liss brillava ancora. Se ne stava seduta col mento appoggiato tra le mani, le palpebre che si chiudevano; il paggio si era addormentato, acciambellato contro le sue gonne. «Se mio padre fosse vissuto», chiese alla fine, «pensate che mi avrebbe chiamato al suo fianco?» «Se avesse spalancato la sua anima al punto da riuscire nel suo intento, ritengo che poi sarebbe stata più che ampia per accogliere anche voi. Nella mia esperienza, coloro che si sono aperti a un Dio non sono più tornati a essere come prima. Se non avesse mai fatto un tentativo... be', non fu mai abbastanza piccolo da sottrarsi al rischio. Quindi, non lo so.» «Uhm.» Un commento appena sussurrato, che però conteneva una certa dose di sofferenza. Alzò lo sguardo al cielo, leggendo l'orologio delle stelle. «Royina, vi sto trattenendo dal vostro riposo.» Lei colse quel suggerimento e si alzò. Lui la imitò, con la tenuta da guerra che scricchiolò. Le prese la mano, fece un mezzo inchino, premette per un attimo la sua gelida fronte contro il palmo. «Royina, vi ringrazio per queste perle di verità. So che vi sono costate care.» «Esse sono spine aride e amare. Vorrei avere la possibilità di offrirvi un regalo migliore da portare nella tomba.» Lo vorrei con tutto il mio cuore infranto. «Non desidero corona più dolce.» Liss, vedendo che attraversavano di nuovo il cortile, svegliò il paggio e scese le scale per avvicinarsi a Ista. Arhys salutò entrambe in modo solenne e s'incamminò, seguito dal paggio assonnato. Gli echi dei passi che si allontanavano sotto il portico risuonarono come rombi di tamburo attutiti nelle orecchie di Ista. Passò molto tempo prima che Ista riuscisse ad addormentarsi. Nel grigiore dell'alba, le parve di udire dei colpi e voci bisbigliate in lontananza, ma la profonda stanchezza la fece ricadere sul cuscino. Scivolò in un brutto sogno dove si trovava seduta al tavolo d'onore con Lady Cattilara. La
Marchess, avvolta da un lieve bagliore violetto, continuava a rimpinzarla di cibo, fino a farle gonfiare la pancia, mentre annebbiava la sua mente col vino, finché non si accasciò sulla sedia incapace di alzarsi. Solo un colpo più forte battuto alla porta della camera esterna la destò da quel sogno bizzarro. Sospirò sollevata vedendo che si trovava nel suo letto, col corpo di nuovo proporzionato e agile, anche se non si sentiva affatto riposata. Dalle lame di luce che filtravano dalle imposte, capì che era giorno fatto. Risuonarono i passi di Liss, poi delle voci: quella di Foix, profonda e con una nota d'urgenza; quella di dy Cabon, tesa e concitata. Ista era già scesa in fretta dal letto, e aveva infilato la veste nera, quando la porta tra le due camere venne aperta e Liss infilò la testa. «Royina, è accaduto qualcosa di molto strano...» Ista la trasse da parte. Foix era già abbigliato per la giornata: tunica azzurra, pantaloni, stivali e spada, il volto arrossato per lo sforzo; la sottotunica bianca di dy Cabon era tutta storta, perché i bottoni erano stati infilati nelle asole sbagliate, e i piedi erano nudi. «Royina.» Foix chinò la testa. «Avete sentito o udito qualcosa nelle camere di Lord Illvin o nel cortile, verso l'alba? La vostra stanza è più vicina delle nostre.» «No... forse. Mi sono riaddormentata.» Fece una smorfia al ricordo di quel sogno sgradevole. «Ero molto stanca. C'era qualcosa?» «Lady Cattilara si è presentata all'alba con alcuni servi e ha portato via Lord Illvin su una lettiga. Ha detto che voleva condurlo al Tempio per consultare i medici.» «A mio parere dovrebbero essere i medici del Tempio a venire a Porifors per visitarlo», disse Ista allarmata. «Lord Arhys è andato con loro?» «Il March non si trova da nessuna parte questa mattina. Uno dei suoi ufficiali ha chiesto a me se l'avevo visto.» «Ho visto Arhys per l'ultima volta la notte scorsa. È venuto a parlare con me verso mezzanotte. C'era anche Liss.» La ragazza annuì. Evidentemente si era svegliata prima di Ista, perché era vestita e aveva messo un vassoio con tè e pane fresco sul tavolo; ma non molto tempo prima, perché quelle notizie sembravano nuove anche per lei. «Be'», continuò Foix, «mi sono sentito stranamente a disagio... forse un residuo dei brutti sogni della scorsa notte, che mi hanno fatto seriamente dubitare della qualità del cibo del castello, ma, comunque, ho preso una
scusa e mi sono recato al Tempio per capire cosa sta succedendo. Lady Cattilara non era passata di lì. Ho chiesto in giro. E alla fine ho scoperto che aveva ordinato un carro e una coppia di cavalli da tiro dalla scuderia della guarnigione. Il carro, con Goram alla guida e uno dei servi seduto accanto a lui, è stato visto uscire dalla porta della città almeno un'ora fa, diretto a sud.» Ista trattenne il respiro. «Da quel momento lei o Arhys sono stati visti?» «No, Royina.» «Allora li ha sequestrati. Ha preso Arhys e rapito Illvin per sostenerlo.» Lo sguardo di Foix si fece tagliente. «Pensate che sia opera della Marchess? Non di Lord Arhys?» «Lord Arhys non abbandonerebbe mai Porifors e il suo posto. Nemmeno per tutte le lacrime di sua moglie», rispose Ista con sicurezza. «Ma ci avete detto che il demone della dama voleva fuggire», intervenne dy Cabon. «Supponiamo che abbia avuto il sopravvento.» «Allora perché prendere i bagagli?» osservò Liss con estrema logica. «Un cavallo veloce sarebbe stato più adatto allo scopo.» Foix la guardò con una luce di rispetto. «Non penso che abbia avuto il sopravvento», replicò Ista lentamente. «Supponiamo che il demone l'abbia convinta che una fuga avrebbe giovato a entrambi i loro obiettivi. A quel punto avrebbe avuto tutta la sua collaborazione.» «Desidera che al marito venga ridata la vita o, almeno, che questa strana mezza morte continui all'infinito», interloquì Foix. «A che pro trascinare lui e il povero Lord Illvin su un carro e sparire?» «Ecco...» esordì dy Cabon. Tutti i volti si girarono verso di lui. «Cosa?» lo incalzò Ista tagliente. «Ah, ehm... Mi stavo chiedendo se qualcosa che ho detto... Lady Cattilara è venuta da me ieri sera, dopo cena. Ho pensato che avesse bisogno di una guida spirituale. Abbiamo parlato di questa terribile situazione. Povera cara, le lacrime le scendevano come piccole perle di dolore sulle guance.» Ista alzò gli occhi al cielo. «Senza dubbio. E poi?» «Ho cercato di consigliarla e di consolarla, di farla ragionare sul pericolo teologico nel quale ha messo suo marito. Così come sul pericolo fisico inflitto al fratello, sul rischio che corre la propria anima. Le ho spiegato che la magia del demone non era una cura. Nulla, tranne un miracolo, avrebbe potuto modificare l'inevitabile corso degli eventi. Mi ha chiesto dove avevano luogo i miracoli, proprio come se provenissero da qualche emporio
sacro. Ho risposto che solo i santi hanno il potere di canalizzarli direttamente dagli Dei. Mi ha chiesto dove si potevano trovare i santi. 'In ogni sorta di luogo strano e inaspettato, sia in alto sia in basso', le ho risposto. Ho suggerito che secondo me voi, Royina, eravate la santa nelle cui mani era stata affidata questa matassa perché venisse dipanata. Ecco, ha fatto dei commenti piuttosto insensati e sconsiderati; sembra che vi consideri sua nemica. L'ho rassicurata che non poteva essere così. Lei ha suggerito che qualsiasi altro santo al mondo sarebbe stato più adatto al compito, e mi ha chiesto di mandarne uno, come se i santi si possano richiedere con una semplice richiesta. Ho suggerito che probabilmente non avrebbe ottenuto altre risposte dagli Dei; la maggior parte delle persone non ne ottiene neanche una. Purtroppo non mi è sembrata interessata alle verità teologiche più sottili.» «Vuole un rito meccanico», sentenziò Ista. Come feci io una volta. «Uno scambio da mercanti. Pagare in contanti e prendere la merce. Solo che non riesce a trovare il venditore.» Il Divino scrollò le spalle. «Temo che sia così.» «Quindi adesso si è presa il vivo e il morto ed è partita in pellegrinaggio. Alla ricerca di un miracolo.» «Le strade sono molto pericolose, come abbiamo constatato ieri», fece notare Foix con voce preoccupata. «Di certo Lord Arhys non permetterebbe a sua moglie di percorrerle in questo momento, indipendentemente dalle sue speranze.» «Pensi che abbia avuto la possibilità di scegliere? C'è una lettiga in quel carro o due... i fratelli sdraiati l'uno accanto all'altro come fasci di legna accatastata? Il suo demone potrebbe aiutarla in questo... la duplice inattività probabilmente è un sollievo per lui.» Dy Cabon si grattò la testa. «Ha il diritto di cercare una cura per Lord Arhys. È suo marito.» «Illvin non lo è», tagliò corto Ista. «E ciò di cui ha bisogno Arhys trascende la guarigione. Devono essere riportati indietro. Foix, raduna i tuoi uomini. Liss, fasciami le ginocchia, non voglio che queste croste si riaprano.» «Royina, neanche voi dovreste percorrere quella strada!» protestò dy Cabon. «Sono d'accordo con voi, ma Foix non ha l'autorità d'impartire ordini ai servi di Cattilara. E qualcuno deve gestire il suo demone.» «Penso di poterlo fare io, Royina», si offrì Foix, lanciando un'occhiata
diffidente a dy Cabon. «E pensi di essere in grado di gestire anche una donna che urla e strepita ed è fuori di sé?» «Ah», commentò, riflettendo su quell'immagine sgradevole. «Sareste voi?» «Credo di sì.» «Bene. Avverto gli ufficiali di Arhys...» Gli occhi di Ista si strinsero. «Ho il sospetto che Arhys non gradirebbe che questa storia si venisse a sapere. Dy Cabon. Se non siamo di ritorno entro... quanto, Foix? Due ore?» «Il carro è trainato da due coppie di cavalli, e hanno un'ora di vantaggio... potremmo metterci due o tre ore.» «Se non siamo di ritorno entro tre ore, informate gli ufficiali anziani di Arhys di ciò che abbiamo fatto, e fate in modo che ci mandino degli uomini.» Poi Ista si rivolse a Foix. «Sbrigati. Ci vediamo in cortile appena i cavalli sono sellati.» Lui la salutò e corse via. Liss si stava già togliendo il suo bel vestito e le scarpette. Ista spinse fuori della porta dy Cabon che protestava. «Dovrei venire con voi, Royina!» gridava il Divino. «E Foix non deve essere lasciato senza una guida!» «No. Ho bisogno che voi restiate qui. E se l'orso di Foix dovesse richiedere un collare, sono più adatta io a metterglielo.» «E poi siete troppo grasso e cavalcate troppo lentamente», aggiunse il commento impietoso di Liss attraverso la finestra, accompagnato da un tonfo di stivali che venivano allineati. Dy Cabon arrossì. Ista gli appoggiò una mano sulla spalla. «Questo è un paese arido, e i canali sono rari. Sarete un pensiero in meno per me, se so che siete qui al sicuro.» Il suo rossore si accentuò, e anche se di malavoglia, s'inchinò in segno di ubbidienza. Ista gli chiuse praticamente la porta in faccia e corse a vestirsi. 19 Nel cortile d'ingresso, Ista restò perplessa nel vedere il cavallo che Liss le aveva portato. Alto, con un lucido manto bianco, e un morbido naso grigio, criniera e coda simili a stendardi di seta... Il suo manto era stato accuratamente lavato; conservava solo qualche pallida traccia gialla di scuderia
che le ricordò le chiazze sulle vesti bianche di dy Cabon. La bestia l'annusò e la spinse col muso dai grandi occhi scuri, dolci e teneri. «E questo cos'è?» chiese Ista. «Mi hanno detto che si chiama Piuma. Diminutivo di Piumastolta. Ho chiesto il cavallo meglio addestrato, e mi hanno dato questo, perché da quando Lord Illvin si è ammalato non ha fatto altro che poltrire, mangiare e ingrassare.» «Allora è il cavallo di Lord Illvin?» chiese Ista, facendo passare una gamba sopra l'ampio dorso. Il cavallo rimase perfettamente immobile, mentre sistemava le ginocchia fasciate contro i suoi fianchi e cercava le staffe. «Di sicuro non è un cavallo da battaglia.» «No, per la guerra ha un altro stallone: nervoso, con delle cicatrici rosse, bizzarro, al quale nessuno può avvicinarsi.» Liss montò sul suo palomino, che si muoveva di fianco e sembrava piuttosto recalcitrante, ma che si calmò sotto la sua presa decisa. «Ha attaccato violentemente parecchi stallieri. Mi hanno mostrato le ferite. Impressionante.» La mano di Foix si alzò. Lui e Pejar, in sella ai loro destrieri, condussero il gruppo fuori del portone, seguiti da Liss e Ista, e da una mezza dozzina di uomini, tutto ciò che restava della compagnia della Figlia. Si disposero in fila indiana per scendere lo stretto viottolo a tornanti che portava al villaggio. Superate le mura, imboccarono la strada proveniente da Tolnoxo dalla quale era arrivata Ista molti giorni prima. Foix impose un'andatura vivace ma non impossibile: al passo sulle alture, al trotto nelle discese, al piccolo galoppo sul terreno pianeggiante. Chiamare il cavallo di Ista Piumastolta sembrava un'infamia, perché il cavallo rispondeva tanto prontamente ai leggeri comandi impartiti da Ista con le redini o i talloni, che dava l'impressione che fosse sufficiente formulare il desiderio mentalmente. Il suo trotto era simile a un'onda lunga e regolare, il piccolo galoppo come essere dondolati su una portantina. La posizione di Ista, in groppa a quel cavallo, era molto alta dal suolo; senza dubbio Lord Illvin aveva bisogno di un cavallo alto. Attraversando un'area boschiva umida vicino al fiume, sollevarono un nugolo di grossi tafani ronzanti. Ista fece una smorfia e schiacciò quelli che riusciva a raggiungere, mentre si posavano affamati sui fianchi vellutati di Piuma. Il palomino di Liss recalcitrava e nitriva. Foix si girò a guardare; solo Ista vide il tremolio violetto che fuoriuscì dalla sua mano, grazie al quale gli orrendi tafani abbandonarono il cavallo di Liss per riunirsi su quello di Ista. Finalmente il gruppo uscì all'aperto e si lasciò alle spalle gli
insetti. Imboccarono la lunga salita seguendo il ripido versante della vallata e si fermarono ad abbeverare i cavalli nel borgo del boschetto di ulivi, a circa cinque miglia da Porifors. Per fortuna, sotto quell'ombra non c'erano insetti che succhiavano il sangue. Pejar andò a chiedere informazioni agli abitanti sul carro che stavano seguendo. Ista, che si stava stiracchiando, si ritrovò vicino a Foix sotto l'ombra di un grande ulivo, mentre i cavalli sudati bevevano avidamente nel torrente. «Ti sei divertito con gli insetti, eh?» chiese a bassa voce. «Ho visto il trucco. Basta, per favore, altrimenti lo riferirò al Divino.» Foix arrossì. «È stata una bella mossa. E poi volevo far piacere a Liss.» «Uhm.» Ista esitò. «Ascolta il mio consiglio e non usare la magia per corteggiarla. Soprattutto non cedere alla tentazione di usarla per attirarti i suoi favori.» Dal suo sorriso imbarazzato, trasparì che aveva capito esattamente ciò che Ista intendeva dire; e quella non era la prima volta che l'idea di un qualche tipo d'incantesimo afrodisiaco gli avesse attraversato la mente. «Uhm.» Ista abbassò ancora di più la voce. «Perché se lo fai, e lei lo scopre, distruggerà non solo la fiducia che ha in te, ma anche la fiducia che ha in se stessa. Non sarà mai più sicura se un pensiero o un sentimento è veramente suo, e non farà che rimuginare. Alla fine di questa strada si trova la follia. Sarebbe meno dannoso e più amorevole se prendessi un martello e le spezzassi le gambe.» Il suo sorriso non mutò. «Come ordinate, Royina.» «Non ti parlo come Royina. Non parlo neanche come una persona toccata dagli Dei. Parlo come una donna che è arrivata in fondo a quella strada e ritorna per riferirne i pericoli. Se ancora possiedi metà dell'intelligenza con cui hai iniziato, ed è veramente amore quel che cerchi, ascolta il mio consiglio.» Il suo breve inchino, questa volta, era visibilmente più pensieroso, e sulle sue labbra il sorriso era scomparso. Pejar ritornò dicendo che un carro e un gruppo di persone in effetti si erano fermati poco prima presso quel boschetto, indugiando all'ombra abbastanza a lungo da staccare i cavalli e farli abbeverare. Pareva che fosse ripartito da meno di mezzora. Foix ascoltò con una smorfia soddisfatta e ordinò di rimontare in sella. Altre quattro miglia al trotto li portarono in cima a una lunga salita. Alla
fine scorsero il carro che procedeva traballante lungo la strada: un puntino in lontananza. Il telo che lo ricopriva, con il sigillo della guarnigione di Porifors, luccicava sotto i raggi del sole. Foix fece segno di avanzare. Avevano quasi colmato la distanza che li separava, quando qualcuno dal carro li vide. Il guidatore invisibile frustò i cavalli, ma i goffi ronzini, appesantiti dal carico, non potevano competere coi veloci destrieri degli inseguitori. Gli uomini della compagnia di Foix si avvicinarono al galoppo ai lati del veicolo che sobbalzava rumorosamente per chinarsi e afferrare le redini. Ista, che aveva spronato a sua volta il cavallo, riuscì a sentire Cattilara che protestava ad alta voce. Poi il carro fu fatto fermare. Cattilara, in un elegante abito da viaggio, stava sul sedile di guida e rampognava un terrorizzato Goram, il quale, con gli occhi quasi chiusi, teneva strette le redini con mani tremanti. Ista chiuse gli occhi alla luce del mondo e cercò di estendere la vista interiore per percepire direttamente non gli spiriti celati nella materia, bensì solo gli spiriti. Con sollievo, vide che il demone di Cattilara non aveva preso il sopravvento, ma era di nuovo avvolto su se stesso. All'interno del carro, rannicchiati nella parte posteriore, c'erano un servo, una delle damigelle più giovani di Cattilara e il paggio di Arhys. Nel centro, due figure immobili giacevano l'una accanto all'altra. Con il telo e il legno che le ostacolavano la vista corporea, le fu quasi più facile vedere ciò che di fatto stava cercando. Una sottile linea di fuoco bianco, che scorreva pigramente da un corpo all'altro. A un livello di percezione ancora inferiore, vide una rete di luce violetta che fluiva in tre direzioni: il canale dell'incantesimo. Serrò le dita, e Piuma si fermò, rimanendo placidamente obbediente. Lasciò cadere le redini sul garrese e distese le mani, lasciando che lo spirito seguisse il corpo. Poi, per la prima volta, lasciò che fluisse oltre il proprio corpo. Bastardo, aiutami. Che Tu sia maledetto. Per il momento non cercò e non osò spezzare le linee dell'incantesimo del demone, ma evocò il fuoco dell'anima. La linea bianca che scorreva da Illvin ad Arhys divampò all'improvviso, come un tetto di paglia che prenda fuoco in una lontana oscurità. All'interno, risuonò la voce profonda di Arhys, irritata come quella di un uomo che si sveglia dal sonno: «Che cosa sta succedendo? Illvin...?» Le urla di protesta di Cattilara si spensero all'istante. Abbassò il capo, rannicchiandosi sul sedile. Ansimando, lanciò un'occhiata furente a Ista.
All'interno del carro si udì del movimento: uno scricchiolio, rumori di stivali sul pianale. Arhys mise fuori la testa e si guardò attorno. «Per l'inferno del Bastardo! Dove siamo?» Un'occhiata al paesaggio familiare evidentemente fu una risposta soddisfacente alla domanda, perché Arhys si rivolse alla moglie in lacrime. «Cattilara, che cosa hai fatto?» Dall'altra parte del carro, Foix, tesissimo, emise un sospiro di sollievo e rivolse un piccolo cenno di ringraziamento in direzione di Ista. Il tremolio violetto che indugiava sul suo palmo svanì. Cattilara si girò e in un gesto di folle supplica gettò le braccia attorno alle gambe del marito. Goram si allontanò il più possibile da lei. «Mio signore, mio signore, no! Ordinate a queste persone di andarsene! Dite a Goram di proseguire! Dobbiamo fuggire! Lei è malvagia, vuole la vostra morte!» Con un gesto meccanico, Arhys le accarezzò i capelli. Poi i suoi occhi si posarono su Ista, che stava osservando con un'espressione cupa. «Royina? Che cosa sta succedendo?» «Qual è l'ultima cosa che ricordate, Lord Arhys?» Lui inarcò le sopracciglia. «Ho ricevuto un messaggio urgente da Cattilara in cui mi pregava di raggiungerla immediatamente nelle scuderie della guarnigione. Quando sono arrivato ho trovato questo carro pronto, poi... non ricordo più nulla.» Il suo cipiglio si fece più intenso. «Vostra moglie si è messa in testa di portarvi via e di cercare un modo per guarirvi fuori da Porifors. Fino a che punto sia stata incoraggiata dal suo demone, non lo so, ma di sicuro ha avuto la sua assistenza.» Arhys trasalì. «Abbandonare il mio posto? Abbandonare Porifors? In questo momento?» Cattilara indietreggiò udendo la durezza della sua voce. La sua crisi di pianto per una volta non servì a intenerirlo. Quando lui le alzò il viso, Ista riuscì a vedere la tensione nei tendini della mano, visibili come corde sotto la pelle trasparente. «Cattilara. Rifletti. Questa diserzione disonora il mio incarico e il giuramento che ho fatto al Provincar di Caribastos, alla Royina Iselle e al Royse-Consorte Bergon... ai miei uomini. È impossibile.» «Non è impossibile. Supponiamo che tu sia afflitto da un'altra... malattia. Qualcun altro dovrebbe assumere il comando. Tu adesso sei malato e un altro ufficiale deve prendere il tuo posto.» «L'unico al quale affiderei immediatamente il comando in una situazione così incerta è Illvin.» Esitò. «Sarebbe Illvin», si corresse.
«No, no...!» Lo colpì debolmente coi pugni in un parossismo di rabbia e frustrazione. Ista studiò le linee di luce palpitanti. Posso farlo? Non ne era certa. Be', sono sicura di poter provare. Incrociò serenamente le mani materiche sul grembo e protese quelle spirituali. Lasciando ancora una volta indisturbati i canali sottostanti del demone, strinse la legatura tra Illvin e Arhys fin quasi a chiuderla. Arhys crollò in ginocchio; le labbra socchiuse per lo shock. «Se volete che si alzi e si muova», sibilò Ista a Cattilara, «dovete tenerlo così com'è adesso. Niente più fughe.» «No!» urlò Cattilara, mentre Arhys si piegava su di lei. Goram lo afferrò per impedire che cadesse dal sedile. Cattilara abbassò lo sguardo sul volto pallido e confuso del marito con un'espressione terrorizzata di rifiuto. Il fuoco della sua anima divampò e andò a concentrarsi nel cuore. Sì! pensò Ista. Puoi farlo, ragazza! Poi, con un gemito e un'ondata cangiante, Cattilara svenne. Il fuoco caotico scaturì dal suo cuore, sciabordando in modo irregolare contro gli argini dell'incantesimo. Ista protese di nuovo una mano eterea. Il flusso si stabilizzò. Né troppo rapido, per non prosciugare completamente le proprie riserve, né troppo lento, per non fallire nel suo intento. Semplicemente... lì. Il suo occhio interiore ricontrollò le linee. Un esile rivolo di vita fluiva da Illvin, appena sufficiente a mantenere il contatto. Non osò toccare la sottile rete del demone, pur non essendo sicura di poterla spezzare qualora avesse provato. Arhys sbatté gli occhi, aprì e richiuse la mascella, si rialzò tremante, con un braccio attorno alle spalle di Goram. «Oh, grazie», mormorò Foix in quel silenzio benedetto. «Nel mio primo dolore, ogni tanto, mi capitava di comportarmi in un modo non dissimile da questo», gli sussurrò Ista, a disagio per quel ricordo. «Perché, nel nome dei cinque Dei, mai nessuno mi ha soffocata, strappandomi alla mia miseria?» Dal carro si udì provenire una voce rauca che diceva: «Per i demoni del Bastardo, e adesso cosa succede?» Un lampo di sollievo apparve nello sguardo di Arhys. «Illvin! Qui fuori!» Illvin, che indossava solo la veste di lino e aveva l'aria di chi si sia svegliato troppo presto dopo una notte di eccessivi bagordi, uscì incespicando e aggrappandosi al lembo del telone per non cadere. I suoi occhi si posarono su Ista, e il suo viso s'illuminò. «Testadilegno!»
gridò per la gioia. Quello strano saluto, concluse Ista rincuorata, era diretto al cavallo, che rizzò le orecchie e sbuffò, dilatando le grigie narici, e fece quasi per muoversi dal punto nel quale il suo cavaliere gli aveva ordinato di restare. «Royina», continuò Illvin, chinando il capo. «Spero che Piuma si sia comportato bene. Per i cinque Dei, a nessuno è venuto in mente di razionargli il foraggio?» «È perfetto», lo rassicurò Ista. «Lo trovo molto aggraziato.» Illvin abbassò lo sguardo su Catti, accasciata contro le spalle rattrappite di Goram. «Che cosa significa? Sta bene?» «Per il momento», rispose Ista, per rassicurare lui e Arhys, che stava osservando la moglie con una incertezza ancora maggiore. «Io, ecco... avevo bisogno che prendesse il vostro posto per un po'.» «Non sapevo che foste in grado di farlo», disse con una certa circospezione Illvin. «Neanch'io, finché non ho provato un attimo fa. L'incantesimo del demone non è spezzato, solo... ridistribuito.» Arhys, con il volto irrigidito per lo scacco subito, s'inginocchiò e sollevò Cattilara tra le braccia. Illvin si tastò la spalla destra e si accigliò, accorgendosi del rivolo rosso che iniziava a uscire dalla spalla di Cattilara. Si scostò per far passare il fratello e rientrò nel carro. Ista porse le redini a Liss e dalla sella passò sul carro. «Dobbiamo parlare», gli disse. Con un cenno del capo lui assentì, poi si rivolse a Goram: «Gira questo carro e riportalo a Porifors». «Sì, mio signore», rispose lui felice. Ista entrò nel carro dopo Arhys e Illvin, mentre Foix iniziava a impartire istruzioni ai suoi uomini per aiutare a fare indietreggiare e girare i cavalli. Arhys adagiò Cattilara, la testa ciondolante, sul giaciglio che aveva appena liberato. Sotto il telone regnava la penombra e un forte odore di muffa. Il servo, la damigella di Cattilara e il paggio, che non avevano osato uscire, si rifugiarono ancor più in fondo al carro, tra tre o quattro bauli. Arhys li chiamò e fece andare il servo e la donna a sedere con Goram, mentre il suo paggio, con gli occhi sbarrati dalla paura, gli si accoccolò vicino, e lui gli arruffò i capelli per rassicurarlo, prima di sedersi a gambe incrociate accanto alla testa della moglie. Illvin aiutò Ista a sedersi su quello che era stato il suo giaciglio, poi si accucciò anch'esso davanti a lei. Arhys guardò severamente la moglie. «Non posso credere che abbia
pensato che disertassi da Porifors.» «Non credo che abbia pensato a questo», lo rassicurò Ista. In quel momento il carro ripartì a un'andatura tranquilla. Arhys sfiorò la spalla di Cattilara, che mostrava la chiazza rossa della ferita che sanguinava. «Così non va bene.» Disse. «Deve stare così finché non rientriamo a Porifors», replicò Ista. «Spero che la guarnigione non sia caduta in preda allo scompiglio di fronte alla mia scomparsa», rifletté Arhys. «Non appena saremo arrivati», gli spiegò Ista, «dobbiamo fare un altro tentativo d'interrogare il demone di Cattilara. Deve essere al corrente di ciò che sta accadendo a Jokona e, soprattutto, di chi c'è dietro.» Riferì a Illvin il racconto dell'ufficiale in merito all'improvviso cambiamento di Sordso. «Questo è molto strano», si meravigliò Illvin. «Sordso non ha mai dato segni di avere a cuore la famiglia prima d'ora.» «Ma... riusciremo a interrogare quella creatura, Royina?» chiese Arhys, che continuava a fissare Cattilara. «Abbiamo avuto poca fortuna l'ultima volta.» Ista scosse la testa mostrandosi altrettanto dubbiosa. «Prima non avevo il consiglio dell'Erudito dy Cabon. Né l'assistenza di Foix dy Gura. Forse riusciremo a spingere un demone contro l'altro. Mi consulterò col Divino una volta rientrati.» «E io mi consulterò con mio fratello, finché posso», azzardò Arhys. «Io mi consulterei con un po' di cibo», scherzò Illvin. «C'è qualcosa da mangiare su questo carro?» Arhys fece segno al paggio di andare a cercare; il ragazzo rovistò tra i rifornimenti, e prese una pagnotta di pane, un sacchetto di albicocche essiccate e un otre d'acqua. Illvin si mise comodo e cominciò a masticare in modo coscienzioso, mentre Arhys riferiva i rapporti degli esploratori di Porifors. «Non abbiamo notizie dal nord», osservò Illvin, mentre Arhys faceva il suo rapido resoconto. «Questo non mi piace.» «Sì. Sono molto preoccupato per i due drappelli che non sono ancora ritornati e che non hanno inviato alcun corriere. Stavo per mandare un'altra pattuglia sulle loro tracce, quando Catti mi ha fatto chiamare.» Lanciò un'occhiata esasperata alla moglie priva di sensi. «O magari andare di persona.» «Ti prego di non farlo», disse Illvin, sfregandosi la spalla. «Be'... no. Forse non sarebbe saggio, viste le circostanze.» Lo sguardo
posato su Cattilara divenne ancora più allarmato. Aveva un'aria terribilmente indifesa, rannicchiata al suo fianco. Senza quella vena di perfidia sul volto, la sua sorprendente bellezza naturale era riapparsa. Rialzò lo sguardo e riuscì a fare un timido sorriso per tranquillizzare Ista. «Non allarmatevi, Royina. Anche se qualche forza oscura stesse arrivando da quella direzione, c'è poco che possa fare contro Porifors. Le mura sono solide, la guarnigione è addestrata. La fortezza è costruita su solida roccia e non può essere espugnata. Il sostegno da Oby arriverebbe prima che gli assalitori abbiano il tempo di sistemare l'accampamento per l'assedio.» «Ammesso che Oby non venga attaccata nello stesso momento», borbottò Illvin. Arhys distolse lo sguardo. «Ho parlato a lungo col notaio del Tempio in questi ultimi giorni, e gli ho affidato il mio testamento. Il siniscalco del castello ha in carico tutti gli altri documenti. Ho nominato te come mio esecutore e tutore congiunto della piccola Liviana.» «Arhys», intervenne Illvin, la voce velata di dubbio. «Vorrei ricordarti che non ci sono garanzie che anch'io riesca a uscire vivo da questa situazione.» Il fratello annuì. «In tal caso, il nonno di Liviana diventerà l'unico garante e tutore di tutte le sue proprietà a nome dy Lutez. Comunque vadano le cose - dato che io e Catti non abbiamo avuto figli - intendo che Cattilara venga affidata alla custodia di Lord dy Oby.» Poi Arhys guardò negli occhi il fratello. «Se tu... non potrai assumere l'autorità, il comando militare di Porifors dovrà ritornare al Provincar di Caribastos, per essere assegnato a un uomo che egli giudichi capace di portare avanti i suoi compiti. Gli ho già scritto per avvertirlo... be', che sono malato, e che magari potrebbe guardarsi attorno, non si sa mai.» «Hai pensato proprio a tutto.» Illvin sorrise con un'aria tetra. «Hai sempre cercato di occuparti di noi come un padre. Vi è qualche dubbio in merito a quale Dio attende di accoglierti? Ma speriamo che aspetti ancora un po'.» E scoccò un'occhiata in tralice a Ista. Ma nessun Dio lo attende, pensò lei. Questo è ciò che significa essere recisi. Arhys scrollò le spalle. «I giorni mi rosicchiano come dei topi che rosicchiano un cadavere. Adesso riesco a percepirlo, sempre di più. Mi sono già trattenuto più del dovuto, e in modo molto penoso. Royina...» Il suo sguardo era così penetrante da metterla a disagio. «Voi potete liberarmi? È per
questo motivo che vi hanno inviata qui?» Ista esitò. «So ben poco di ciò che posso o non posso fare. Se l'intento è quello che io faccia dei miracoli, non ho scelta. Tuttavia, è nella natura dei miracoli che i loro veicoli umani non possano sceglierli. È solo la stregoneria di un demone che possiamo piegare alla nostra volontà. Nessuno piega un Dio.» «Eppure», interloquì pensieroso Illvin, «il Bastardo è in parte un demone, dicono. Penso che la sua natura non sia integra come quella delle altre divinità. Quindi può darsi che non lo siano neanche i suoi miracoli.» Ista si accigliò con espressione confusa. «Io... non lo so. Nel sogno mi è sembrato infinitamente superiore a me, come quando vidi Sua Madre, vent'anni or sono. A ogni modo, ho solo cercato di riequilibrare la forza che scorre tra voi tre. Non ho cercato di spezzare i legami, o di costringere il demone a farlo contro la volontà della sua padrona, anche se è abbastanza chiaro che abbandonerebbe tutto per fuggire, se potesse.» «Provate adesso», suggerì Arhys. Ista e Illvin si guardarono l'un l'altro. «Perché se non potete farlo, io devo saperlo», disse con calma Arhys. «Ma... non vi è modo di saperlo se non facendolo. E poi non saprei come disfare ciò che ho fatto.» «Non ho suggerito che poi dovete provare a disfarlo.» «Avrei paura di condannarvi alla dannazione.» «Più di quanto non lo sia già?» Ista distolse lo sguardo, sconfitta. Sul suo volto lesse la profonda stanchezza dell'anima; come se Arhys fosse deciso a porre fine ai suoi travagli, persino nel declinante silenzio del nulla. «E... se questo non fosse il compito per il quale sono stata inviata? Se il mio ragionamento fosse sbagliato? Sarei onorata se mi fosse stata offerta la possibilità di guarirvi. Non voglio assassinare un altro dy Lutez.» «Lo avete già fatto una volta.» «Sì, ma non con la stregoneria. Affogandolo. Il metodo non funzionerebbe su di voi. Negli ultimi quindici minuti non avete respirato neanche una volta.» «Oh. Già.» Apparve imbarazzato e fece uno sforzo per trarre un respiro. Illvin sgranò gli occhi. «Che storia è questa?» Ista lo guardò di sottecchi, serrò i denti, e rispose: «Arvol dy Lutez non è morto nello Zangre sotto interrogatorio. Ias e io lo abbiamo affogato per errore durante un tentativo, deciso da tutti e tre, di evocare un miracolo per
il bene di Chalion. L'accusa di tradimento era assolutamente falsa». Bene. Con la pratica il resoconto si faceva decisamente succinto. Illvin spalancò la bocca e restò così per qualche minuto. Poi si riprese e disse: «Ho sempre pensato che in quell'accusa di tradimento ci fosse qualcosa di strano». «Il rito fallì perché ad Arvol venne meno il coraggio.» Ista s'interruppe, poi, bruscamente, sbottò: «Eppure avrei potuto salvare la situazione anche all'ultimo minuto, se fossi riuscita a evocare un miracolo di guarigione. Anche se giaceva morto annegato ai nostri piedi. La Madre, la Dea preposta alla guarigione, era alla mia destra, giusto dietro... qualche angolo di percezione. Se la mia anima non fosse stata così indurita dalla rabbia, dalla paura e dal dolore da non esservi spazio per farvi entrare un Dio qualunque». Si rese conto che tutte e tre le confessioni precedenti avevano evitato quel codicillo. Guardò di nuovo Illvin di sottecchi. «Oppure se lo avessi amato invece di odiarlo. O se... non lo so.» Illvin si schiarì la gola. «Quasi nessuno riesce a evocare dei miracoli. Una manchevolezza di questo genere non ha quasi bisogno di essere giustificata.» «La mia sì. Ero stata chiamata.» Si mise a riflettere tristemente, mentre il carro procedeva scricchiolando. Adesso sono stata chiamata di nuovo. Ma per quale motivo? Alzò lo sguardo su Arhys. «Mi chiedo quanto sarebbero state diverse le nostre esistenze se vostro padre vi avesse chiamato a corte. Forse abbiamo messo in quella botte il dy Lutez sbagliato.» Adesso, c'era una visione. «Illvin, com'era a vent'anni?» «Oh, più o meno come adesso», rispose. «Non così raffinato o esperto, forse. Non con le spalle così larghe, e senz'altro meno assennato.» «Non così morto», ringhiò Arhys, che si accigliò mentre osservava le mani che stava serrando e aprendo. Stava controllando quanto erano intorpidite? Sempre più intorpidite? «Quand'ero giovane e bella alla corte di Cardegoss...» Quando Arhys non si era ancora sposato, quando tutto era ancora possibile, avrebbe potuto prendere un dy Lutez come amante, rendendo vera la falsa calunnia? Ma la terribile maledizione di Fonsa aveva distrutto sul nascere tutte le speranze in quella corte... verso quali orrori avrebbe potuto portare quel dolce sogno, a quali disastri condurre la brillante giovinezza di Arhys? Sarebbe stato un vero o falso conforto suggerire a Arhys che suo padre Arvol lo aveva tenuto lontano per proteggerlo? Ista represse un brivido.
«Era comunque troppo tardi.» Arhys la guardò sbattendo gli occhi, senza cogliere le implicazioni, ma Illvin proruppe in una risata dolorosa. «Allora provate a immaginare che avreste potuto incontrarlo prima di sposare Ias, visto che state rimuginando su tutti i se e i ma», la consigliò seccamente. Le lanciò una strana occhiata. «Tutte le mie elucubrazioni a questo proposito hanno sempre dato lo stesso risultato, in un modo o nell'altro.» Il carro sobbalzò e oscillò, a indicare che stava lasciando la strada maestra. Ista sbirciò fuori e scoprì che erano ritornati nel borgo fortificato, e che si stavano di nuovo fermando nell'uliveto per abbeverare i cavalli. Il sole aveva raggiunto lo zenit, e la calura stava aumentando. Ista scese un attimo a sgranchirsi le gambe e per dissetarsi. Liss, che aveva ancora in carico il cavallo bianco di Lord Illvin, lo aveva portato al torrente per farlo bere. Illvin lo guardò con nostalgia, poi, di punto in bianco, scomparve all'interno del carro. Da dietro il telone giunsero voci concitate, come se Illvin, Goram e il servo stessero discutendo. Illvin ne uscì qualche minuto dopo con un sorriso soddisfatto, indossando i pantaloni di pelle del suo stalliere e gli stivali del servo sotto la leggera veste di lino. I pantaloni erano annodati in vita e gli arrivavano a malapena ai polpacci, ma gli stivali colmavano la differenza. Illvin reclamò il proprio cavallo e ridacchiò mentre montava in sella. Sul suo volto traspariva la gioia che nasceva dal sentire di nuovo il proprio corpo che si alzava e si muoveva a volontà nel mondo luminoso, una gioia forse percepita in modo ancora più intenso per la fragilità di quell'attimo rubato. Lasciò che Liss gli allungasse le staffe, la ringraziò, si sistemò sulla sella e rivolse a Ista un saluto allegro. Quando ripartirono. Foix mise quattro dei suoi uomini davanti e due dietro al pesante carro, mentre Illvin e Liss procedevano di lato, a portata di voce. A qualche miglio dal borgo giunsero in cima all'altura, girarono a destra lungo il declivio, e iniziarono a scendere nell'ampia vallata che Porifors dominava. Dopo aver aggirato una fila di alberi, Foix alzò improvvisamente una mano, facendo arrestare di colpo il piccolo convoglio. Illvin si alzò sulle staffe e sgranò gli occhi. Ista e Arhys raggiunsero a carponi la parte anteriore del carro e guardarono fuori. Proprio davanti a loro, una nutrita colonna di cavalleria stava svoltando sulla strada, proveniente da qualche marcia forzata attraverso la campagna. I bianchi pellicani di Jokona risplendevano sui tabarri color verdemare. Le
armature luccicavano e le punte delle lance scintillavano al sole in una lunga fila. 20 Un gemito soffocato proruppe dalle labbra di Goram mentre preso dal terrore stringeva spasmodicamente le redini dei cavalli. «Tornate indietro, tornate indietro», sibilò Arhys spingendo dietro di sé il servo e la dama di Cattilara, i quali andarono a raggomitolarsi sul pianale. La sua mano afferrò la spalla di Goram. «Vai avanti! Passa in mezzo a loro, se ci riesci.» Si alzò e facendo segno a Foix, gli gridò: «Prosegui!» Foix gli fece il saluto militare, snudò la spada e girò il cavallo. I quattro uomini dell'Ordine della Figlia che aprivano il convoglio, impugnarono le armi e lo affiancarono, preparandosi a liberare la strada per far passare il carro che li seguiva. Non era possibile vedere di quanti soldati fosse composta la colonna jokoniana: quelli che erano apparsi erano senz'altro la testa della truppa che ancora doveva spuntare dalla boscaglia che copriva il ripido fianco della valle alla loro sinistra. Goram frustò i cavalli. Il carro gemette e ripartì rumorosamente. A quel punto i jokoniani più vicini li videro. Subito seguirono grida, tintinnio di armi sguainate, nitriti dei cavalli girati di scatto e spronati in avanti. Arhys afferrò Ista per il braccio e la fece rientrare in fretta nel carro che sobbalzava e ondeggiava vistosamente, tanto che lei cadde sul fondo prima di riuscire a trovare l'equilibrio. Piuma arrivò al trotto e una volta affiancatosi al carro, passò al suo ondulato piccolo galoppo, mentre i ronzini acquistavano velocità. Illvin urlò: «Arhys! Ho bisogno di un'arma!» La mano protesa verso il fratello, il quale si guardò attorno freneticamente. Illvin lanciò un'occhiata davanti a sé. «Presto!» Con una bestemmia, Arhys staccò l'unico oggetto aguzzo a portata di mano: un forcone agganciato al telaio. Lo lanciò a Illvin che gli scoccò un'occhiata esasperata, ma l'afferrò comunque, facendolo roteare con le punte in avanti. «Stavo pensando a una spada.» Protestò. «Mi spiace», ribatté Arhys, sguainando la sua. «È già occupata, e io ho bisogno di un cavallo.» Girò la testa in direzione di Liss, che galoppava dall'altro lato del carro. «No, Arhys!» gridò Illvin sovrastando il rumore delle ruote, degli zocco-
li sempre più rapidi, e delle urla che si levavano davanti. «Non ti esporre! Abbi un po' di buonsenso!» E indicò Cattilara priva di sensi. Arhys girò la testa di scatto, e inspirò a denti stretti non per bisogno d'aria ma per l'angoscia, quando si rese conto di quale corpo avrebbe dovuto sopportare i rischi di uno scontro fisico. «Tu resta con la Royina! Io mi procurerò una spada in un altro modo!» Illvin spronò il cavallo che scattò in avanti con un balzo impressionante. La sua camicia di lino si aprì sul torso nudo e prese a svolazzare. I capelli raccolti sulla nuca formavano una scia dietro di lui. Ista aggrappata al bordo del carro guardò fuori sbalordita. Cavallo sbagliato, arma sbagliata, armatura sbagliata. Illvin impugnò il forcone e lo puntò come una lancia contro il soldato jokoniano che si stava avventando su di lui con la spada sollevata. All'ultimo momento, in risposta a un'invisibile pressione del ginocchio di Illvin, il pesante cavallo bianco scartò bruscamente, carambolando sul destriero del jokoniano. I denti del forcone agganciarono il polso del nemico che stava calando la spada. Una torsione, uno strattone, e Illvin si impossessò della sua spada, mentre il jokoniano rotolò dalla sella e rischiò di essere travolto dai cavalli dei due soldati della retroguardia di Foix che galoppavano dietro di loro. Illvin lanciò un grido di trionfo e brandì la spada, ma, esaminando pensieroso l'umile utensile che teneva con l'altro braccio, decise di tenere anche quello. Benché la loro rumorosa carica fosse riuscita ad allontanare dalla strada i primi soldati che si erano sparpagliati ai lati, i cavalieri nemici rinserrarono di nuovo le fila e ripresero l'inseguimento. Sul carro non sembrava esserci nulla da lanciare contro di loro, ma il paggio di Arhys frugò freneticamente alla ricerca di oggetti contundenti, mentre la damigella di Cattilara stringeva il corpo esanime della padrona, gemendo. Galoppando alla destra del carro, Liss impugnava il suo nuovo pugnale, che però sarebbe servito a poco contro le armi dei nemici. Arhys con la spada snudata, era pronto a lanciarsi sul primo avversario che avesse tentato di arrampicarsi sul carro. Illvin tornò velocemente al carro lanciando all'interno una spada che cadde sul pianale con un rumore metallico. Arhys la spinse con un calcio verso il servo scalzo, che l'afferrò con gratitudine e si mise in guardia. Qualche minuto dopo, sul suo scintillante cavallo bianco Illvin li raggiunse nuovamente con un'altra spada conquistata ai nemici. Dopo aver rivolto al fratello un sorriso sardonico saettò via, simile a un lampo di luce, e bran-
dendo il forcone si lanciò ancora una volta in avanti. Dal sedile di guida, Goram urlò. Arhys si sporse in avanti pronto a colpire un assalitore che cavalcava di fianco. Si mosse con grande potenza, velocità, e la massima sicurezza. La linea bianca di fuoco dell'anima che da Cattilara scorreva verso di lui sembrava aver raddoppiato velocità e densità. Troppo veloce, pensò Ista allarmata. Lei non riuscirà a sostenere a lungo questa tensione. La svuoterà... Il carro sbandò paurosamente imboccando una curva stretta. Ista scivolò sulle ruvide tavole, conficcandosi delle schegge di legno nei palmi, e andando a ruzzolare vicino a Cattilara. Fuori, davanti a Liss, uno degli uomini dell'Ordine della Figlia rimase indietro: sanguinava e vacillava sulla sella, mentre il cavallo, zoppicante, rallentava la sua corsa. Ista lo stava osservando per capire quale sarebbe stata la sua sorte, quando ruzzolò di nuovo nel centro del pianale a causa di una ruota finita in una buca, e quando si rimise in equilibrio vide che un jokoniano al galoppo stava infilando la sua spada nel telone in parte sollevato, e veniva contrastato in modo goffo dal paggio di Arhys, che agitava scompostamente la sua spada. Nello stesso momento si udirono grida più acute e bestemmie e un lampo di luce demoniaca rosso-violetta sfrecciò nella vista interiore di Ista, che si rannicchiò, abbassando lo sguardo. Un clangore di metallo torturato risuonò da sotto il carro, che traballò, per poi inclinarsi bruscamente sul fianco sinistro. Le tre donne scivolarono, andando ad ammassarsi dall'altra parte; Ista lanciò un grido quando udì lo schianto dell'assale posteriore, e sentì che il carro strisciava inclinato sul terreno. Il servo cadde fuori; Arhys fu sbalzato all'interno e per poco non trafisse la damigella con la punta della spada. Si guardò attorno con un'aria folle, poi urlò: «Liss!» «Eccomi!» Il cavallo della ragazza aveva mantenuto la propria posizione alla destra del carro e adesso stava rallentando. Altre grida si levarono più avanti, insieme al nitrito spaventato di un cavallo. Poi il carro traballante strisciò per mezzo giro e si fermò. Subito Arhys lasciò cadere la spada e, afferrato il corpo afflosciato della moglie, lo sollevò per deporlo tra le braccia della sconcertata Liss. «Prendila, prendila! E portala a Porifors se riesci!» «Sì, sì!» urlò Ista. Contemporaneamente il cavallo di Foix si fermò impennandosi davanti al carro. «Foix, è stato il tuo demone a fare questo?» chiese Ista indicando verso il basso.
«No, Royina!» rispose con gli occhi spalancati. In quel momento Ista vide che l'ombra dell'orso non era più raggomitolata, bensì eretta sulle zampe, e innervosito girava la testa da una parte all'altra. «Royina...?» La voce rauca di Liss esprimeva sconcerto, mentre tentava di afferrare il suo fardello inanimato. «Sì, prendi Cattilara e fuggi, altrimenti perderemo tutti! Foix, vai con lei, apri loro la strada!» «Royina non posso...» «Vai!» urlò Ista con un tono che non ammetteva repliche. Entrambi i cavalli sfrecciarono via. Dalla spada di Foix, che passò roteando, scaturì una pioggia di gocce scure. Nelle orecchie di Ista echeggiarono grida, il clangore del metallo contro il metallo, lo schiocco di una quadrella, il colpo sordo di una lama che penetrava nella carne... mentre la duplice eco degli zoccoli dei cavalli di Liss e Foix scemò in lontananza senza rallentare né deviare. Ista si aggrappò al bordo del carro per sbirciare fuori. In mezzo alla strada, davanti a loro, vide un grande palanchino con drappi verdi e decorazioni in oro che come il loro si era schiantato. Uno dei cavalli da tiro del carro scalciava con le zampe anteriori mentre le posteriori erano intrappolate nelle tavole spezzate che lo avevano ferito. L'altra bestia della pariglia era più o meno nelle stesse condizioni, sanguinava ed emetteva nitriti terribili. Una dozzina di uomini nelle uniformi verdi ricamate in modo elaborato erano sparpagliati tutt'intorno; urlavano e gridavano, e quelli che riuscivano ancora a camminare cercavano di aiutare i compagni feriti. Ista si rese conto che avevano percorso forse metà della discesa che portava al torrente, dove la strada formava l'ultima curva prima di arrivare a Porifors. Se non fosse stato per quell'incidente, sarebbero riusciti a superare l'avanguardia della colonna nemica, anche se magari poi non avrebbero potuto distanziare gli assalitori. Goram stava seduto immobile a cassetta, con le mani alzate, mentre un soldato jokoniano gli puntava contro la sua balestra. Ne arrivò un altro correndo, poi un altro, finché il carro fu circondato da una dozzina di uomini tesi, che brandivano le loro armi. Un soldato jokoniano si avvicinò con circospezione e tirò giù Goram dal sedile di guida. Lo stalliere scese e rimase immobile piagnucolando in modo incontrollabile. Il soldato ritornò a prendere Ista e la fece scendere rudemente senza che lei opponesse resistenza per reggersi meglio in piedi. Arhys saltò sul sedile e restò lì per qualche minuto, con la spada impu-
gnata con fermezza. La mascella gli si serrò quando il suo sguardo passò in rassegna i balestrieri. Poi un angolo della bocca s'increspò in uno strano sorriso, mentre, con tutta probabilità, veniva sfiorato dal pensiero che quelle quadrelle luccicanti gli avrebbero fatto ben poco, se avesse scelto di sferrare un attacco. Ma subito il sorriso si fece amaro pensando alle inevitabili conseguenze di un simile atto. Molto lentamente, abbassò la spada. Un balestriere gli fece cenno di gettare l'arma. Gli occhi di Arhys valutarono freddamente le balestre puntate contro Ista, e ubbidì. La lama tintinnò sul terreno, poi un jokoniano l'afferrò e Arhys scese senza fretta dal carro. Per un attimo ancora, la truppa nemica evitò - o ebbe paura - di catturarlo. Altri due portatori con l'uniforme verde aiutarono una piccola donna dall'aria scossa, vestita di sete verde scuro, a scendere dal palanchino pericolosamente inclinato. A Ista si mozzò il fiato in gola. La sua vista interiore le rivelò un'anima come non ne aveva mai vedute prima. Vorticava e ribolliva con colori violenti dentro il corpo della donna, ma verso il centro era più scura, finché Ista ebbe l'impressione di guardare in un pozzo nero a mezzanotte. Nero, ma non vuoto. Pallide linee colorate si sprigionavano da quel pozzo senza fondo in tutte le direzioni, una rete intricata che si contorceva, pulsava, si annodava. Ista fu costretta a sbattere le palpebre per escludere l'insopportabile seconda vista, in modo da studiare l'aspetto esteriore della donna. Sembrava un amalgama bizzarro di ricami eleganti, anzianità e sciatteria. Era poco più alta di Ista. I capelli ondulati, di uno spento color castano screziato di grigio, erano raccolti in una elaborata acconciatura roknari, legati con fili di perle luccicanti che formavano dei piccoli fiori. Aveva un viso giallastro e solcato di rughe, senza belletto né cipria. L'abito, fatto di numerosi strati sovrapposti, era ricamato con fili d'oro e di seta che creavano immagini di uccelli intrecciati. Il suo corpo era minuto, con seni cadenti e il ventre floscio. Le labbra erano contratte in un'espressione di rabbia. Gli occhi azzurri, quando si posarono infine su Ista, erano infocati. Bruciavano. Un giovane ufficiale su un cavallo estremamente nervoso si avvicinò a Ista; tirò le redini per farlo fermare, poi smontò accanto alla donna, abbandonando le briglie che vennero subito prese da un soldato accorso ad aiutarlo. L'ufficiale la fissò come se fosse paralizzato. Il suo alto rango si evinceva più dall'oro e dai gioielli che decoravano i finimenti del suo destriero che dai ricami elaborati della tenuta che indossava, però a tracolla portava una bandoliera verde bordata d'oro e decorata con una serie di
bianchi pellicani in volo. Gli zigomi alti ingentilivano un bel volto dall'aria sensibile, mentre i capelli tirati all'indietro sembravano luminose onde dorate sotto la luce accecante del mezzogiorno. La sua anima... era persa in un labirinto di un viola intenso che si estendeva fino ai margini del corpo. Hanno uno stregone. L'origine del lampo di potere caotico che aveva tranciato i perni dell'assale del carro e fatto staccare le ruote posteriori si rivelò all'occhio interiore di Ista, perché il colore nel corpo dell'ufficiale pulsava e vibrava ancora come in risposta a qualche reazione o eco dolorosa. Tuttavia, mentre lo fissava, la luce del demone parve rannicchiarsi su se stessa, ritrarsi. Il paggio e la dama di compagnia, stretti l'uno all'altra, vennero fatti scendere dal carro sotto la minaccia della spada e spinti accanto a Arhys che gli rivolse un'occhiata rassicurante. Poi volse lo sguardo sulla donna anziana e sull'ufficiale. Illvin e gli uomini della Figlia erano tutti scomparsi. Dispersi? Catturati? Uccisi? Ista si rese conto di indossare un semplice costume da cavallerizza, privo di decorazioni o segni di rango, e del suo volto arrossato, sudato, sporco. Calcoli fin troppo familiari le balenarono nella mente. Avrebbe potuto passare per una dama di compagnia o per una serva. Se riusciva a celare ai suoi aguzzini il valore del loro bottino, in seguito avrebbe potuto fuggire approfittando di una loro disattenzione. Si augurò che non decidessero di gettarla in pasto alle loro truppe come un bocconcino da poco, per essere tormentata e poi abbandonata come la sfortunata cameriera della ricca donna di Rauma. Gli occhi dell'ufficiale-stregone si accorsero di Goram e per un attimo si spalancarono, poi si strinsero pensierosi. O forse... era un riconoscimento? La sua espressione mostrò riflessione, ma non confusione. Vede l'anima devastata di Goram. E tuttavia non lo sorprende. Poi l'ufficiale osservò Arhys, e le labbra gli si schiusero esprimendo un genuino stupore. «Madre, lei risplende di una luce terrificante, e la sua guardia è un uomo morto!» disse in roknari. Il suo sguardo su Ista s'intensificò, assunse un'aria spaurita, come se si stesse chiedendo se fosse opera sua quel meraviglioso prodigio di resurrezione. Come se stesse valutando se nascondeva qualche altra guardia del corpo o cadavere ambulante, pronto a erompere dalla polvere della strada sotto i loro piedi. Quella dev'essere la Principessa Vedova Joen, pensò Ista con sgomento. E il Principe Sordso. C'era proprio Sordso, in quel corpo vigile? La luce
del demone sembrava predominante. Indietreggiò di qualche passo; la donna lo afferrò per il braccio, stringendo ferocemente le dita. «Ha accolto un Dio, siamo rovinati!» gridò lui con un terrore crescente. «Lei non può fare una cosa simile», gli sibilò la donna nell'orecchio. «Quelle sono solo fandonie. Possiede a malapena la capacità di canalizzare una debole vista. La sua anima è devastata dalle cicatrici e dalla distruzione. Lei ha paura di te.» Quello era sicuramente vero. Ista aveva la bocca impastata, la testa le pulsava; aveva l'impressione di fluttuare su gigantesche onde di panico. Gli occhi azzurri della donna si strinsero, ebbero un lampo di trionfo. «Sordso, guardala! Questa è Ista in persona, proprio come mi è stata descritta! Metà del premio per cui siamo venuti è caduto da solo nelle nostre mani! Questo è un dono degli Dei!» «Fa male guardarla!» «No, è una nullità. Puoi prenderla. Ti mostrerò come fare. Prendila adesso!» Con la mano avvinghiata sul braccio lo strattonò. «Distruggila!» Una delle spire di luce che si dimenavano nel suo ventre scuro sembrò accendersi, risplendere, mentre entrava nel corpo di Sordso. Il giovane si umettò le labbra; la luce viola ritornò verso i margini del suo corpo, intensificandosi. Sollevò una mano, usando le dense forme della materia per dirigere una forza che non aveva nulla a che fare con la materia. Un bagliore color porpora scaturì dal suo palmo e andò ad avvolgersi attorno a Ista come un serpente che si attorcigli. Per prima cosa le cedettero le ginocchia, che si piegarono, facendola cadere a terra. Le croste delle gambe si spaccarono tutte insieme, e riuscì a sentire il sangue che colava scivoloso sotto le bende allentate, sfilacciate, macchiate di sudore. Ebbe l'impressione che la spina dorsale si sganciasse, vertebra dopo vertebra, tanto si piegò in avanti. Sotto le scapole sentì formarsi dei noduli che provocavano spasmi di dolore. Anche le viscere sembrarono cedere, e non solo a causa del terrore che provava. Riuscì a intravedere le labbra di Arhys che si socchiudevano, i suoi occhi che s'incupivano per lo sgomento, mentre lei si accasciava davanti a quel pubblico a causa di una forza che nessun occhio umano poteva vedere. Protese le mani per rialzarsi, ma poi anche le braccia si afflosciarono. La testa divenne sempre più pesante, e fece appena in tempo a girarla di lato, di modo che fu la morbida guancia e non la bocca aperta a sbattere sulla terra. «Hai visto? È così che Chalion e Ibra s'inchineranno davanti a noi.» La voce di Joen trasudava soddisfazione. Ista riusciva a vedere le sue scarpet-
te di seta verde, che spuntavano da sotto le gonne, e gli stivali lucidi di Sordso. Gli stivali si mossero a disagio. Da una lontananza vertiginosa Ista ascoltò i singhiozzi sommessi, strozzati di Goram. Per fortuna, i nitriti disperati del cavallo ferito si erano interrotti; forse un uomo misericordioso gli aveva tagliato la gola. Forse un uomo misericordioso taglierà la mia. «Devo ammetterlo», continuò la voce della Principessa Joen, «non capisco l'uomo morto...» Le sue scarpette strusciarono sulla polvere, avvicinandosi a Arhys. Ista si rese conto che non riusciva neanche a gemere. A malapena poteva sbattere gli occhi; una goccia spuntò su una ciglia e andò a cadere nella polvere davanti al suo naso. Dal pendio sovrastante echeggiarono all'improvviso delle grida. La testa di Ista era girata dalla parte sbagliata, e guardava verso il ciglio della strada e nella vallata. Attorno e dietro di lei, piedi di uomini calzati di stivali si agitarono frenetici. Udì lo schiocco di una balestra, e trattenne il respiro temendo per Arhys. Rumore di zoccoli. Molti zoccoli si affrettavano, scendevano a precipizio. Udì il grido pazzoide di una voce divenuta all'improvviso estremamente familiare. Sordso ansimò. I suoi stivali passarono vacillando davanti al suo volto; poco lontano, degli zoccoli raschiarono. Riuscì a girare la testa un po' di più. Il cavallo del principe, con Joen, nel suo abito elaborato, aggrappata in modo goffo alla sella, veniva trascinato via al trotto da un portatore in corsa, che scoccò un'occhiata terrorizzata in direzione del pendio. Risuonò un colpo. Il peso invisibile che, come una mano enorme, teneva premuta Ista a terra, si allentò. Lo stridore della spada di Sordso che veniva sguainata le trafisse l'udito, poi trasalì e alla fine girò di scatto la testa dall'altra parte. Un arciere era stato così sconsiderato da distogliere per un attimo gli occhi da Arhys, e adesso il March era impegnato in una lotta serrata con lui. Nelle vicinanze, parecchi balestrieri avevano scoccato i loro colpi, e stavano freneticamente ricaricando le balestre. Arhys strappò il pugnale dal fodero dell'uomo che aveva atterrato e scaraventatolo da parte, parò giusto in tempo il colpo di Sordso. Era il colpo dell'acciaio, ma subito una luce viola si concentrò sul palmo del Principe, che scagliò davanti a sé. La linea infocata attraversò il corpo di Arhys senza provocare danni, andando a spegnersi sul terreno retrostante. Sordso squittì per la sorpresa e cominciò a indietreggiare freneticamente, mentre un altro affondo del pugnale per poco non gli strappò la spada di mano. La ritirata affannosa divenne una corsa precipitosa.
Quella che sembrò una vera e propria valanga di cavalli li sopraffece. I balestrieri jokoniani vennero abbattuti, disarcionati. Si udiva il clangore delle spade e i colpi delle lance, maneggiate con ferocia da uomini urlanti nei tabarri grigi e oro. Davanti al viso di Ista, una serie di grandi zoccoli si materializzarono all'improvviso, pareva che danzassero. Tre lunghe zampe erano bianche come la seta, la quarta intrisa di sangue. «Ti ho portato il cavallo che stavi aspettando», risuonò dall'alto la voce di Illvin che sarebbe stata laconica non fosse stato per l'affanno. Un'altra serie di zoccoli scricchiolarono vicino a Ista, poi una voce, con un tono più teso, urlò: «Per i cinque Dei! È ferita?» «Stregata, credo», rispose ansimando Arhys che s'inginocchiò accanto a Ista, la prese tra le sue fredde, inanimate e benvenute braccia, e la sollevò mettendola tra le braccia del fratello, il quale stava ordinando a qualcuno: «Prendi Goram!» «Stanno rinserrando le fila!» gridò Arhys. «Vai!» Una pacca sulla groppa del cavallo fu quasi inutile per accelerare la loro partenza. Si lanciarono giù per il pendio, allontanandosi dalla strada. Il cavallo di Illvin aveva una brutta ferita sulla spalla destra e sanguinava copiosamente. Il terreno sfrecciava via in modo vertiginoso. L'animale ebbe un attimo di esitazione, e il suo corpo si tese; Illvin indietreggiò ancora di più sulla sella e strinse il corpo di Ista come in una morsa. All'improvviso, cominciarono a scendere precipitosamente lungo il ripido declivio sollevando schizzi di terra e sassi; le gambe anteriori del cavallo si tesero; sembrò quasi accovacciarsi sulle ampie cosce posteriori. Illvin lanciò un altro grido. I cespugli sferzavano e graffiavano il volto di Ista. La minima perdita di equilibrio, e sarebbero ruzzolati giù. L'interminabile discesa si concluse in uno spruzzo incredibile nel piccolo fiume di Porifors. Adesso altri cavalli li stavano raggiungendo al galoppo. Illvin allentò la sua ferrea presa e le diede un buffetto distratto, rassicurante sulle natiche. Lei, che cominciava a riacquistare il controllo del corpo, sputò un misto di acqua di fiume e sangue. «Sto per vomitare», balbettò contro la spalla insanguinata del cavallo. Che cos'era accaduto al principe-stregone? Evidentemente, la sua attenzione era stata distratta. Per un attimo. Illvin la sollevò e se la mise in grembo, seduta di traverso. Con una grande debolezza si strinse a quel torso ossuto e sudato, che cercava affannosamente di respirare. La sua logora camicia era andata perduta da qual-
che parte lungo la strada, insieme col forcone. Aveva la bocca insanguinata. I capelli neri striati di grigio erano arruffati sul viso. Il corpo animato era bollente per lo sforzo. Ma non aveva ferite gravi, come la rassicurarono le sue mani indagatrici. La mano tremante di Illvin si sollevò sul suo viso, pulendolo delicatamente dal sangue del cavallo, sudore e terra. «Cara Is... Royina, siete ferita?» «No, è sangue del vostro povero cavallo», lo rassicurò, intuendo che fosse stato il sangue ad allarmarlo. «Sono solo un po' scossa.» «Un po'. Ah!» Inarcò le sopracciglia, e le sue labbra si fecero meno tese, incurvandosi di nuovo. «Penso che dopo questa cavalcata mi verranno dei lividi anche sullo stomaco.» «Oh.» Appoggiò la mano sul suo ventre e glielo massaggiò con un gesto goffo. «Sono veramente dispiaciuto, ma non c'era tempo di mettervi in una diversa posizione.» «Non vi scusate. Che cosa è accaduto alla vostra bocca?» E con un dito sfiorò il labbro tagliato. «La punta di una lancia.» Ripartirono ancora una volta. Illvin si girò a guardare. Si trovavano su una strada secondaria, poco più di un sentiero, che si snodava lungo la riva opposta del fiume, proveniente dalla strada principale. Vennero circondati da altri soldati coi tabarri grigi. «Questo è un brutto momento per attardarsi all'aperto.» L'informò Illvin. «Quella colonna jokoniana che abbiamo sorpreso è una delle tre che si stanno avvicinando al castello proprio in questo momento, dicono gli esploratori. Comunque non sono state avvistate macchine d'assedio nei convogli dei bagagli. Riuscite ad appoggiarvi a me se andiamo al piccolo galoppo?» «Certo.» Ista si sedette diritta e si tolse i capelli dalla bocca, senza capire a chi appartenessero. Sentì le gambe di Illvin stringersi sotto di lei, e il cavallo bianco partì senza esitazione in quella sua lunga e ondeggiante falcata. «Dove avete trovato gli uomini?» ansimò, stringendosi più forte al suo torace per contrastare i sobbalzi. «Li ho incontrati a metà strada mentre stavo raggiungendo Porifors al galoppo per avvertirli. Se siete stata voi a mandarli, vi ringrazio. Siete anche una veggente?»
Ah. Dy Cabon aveva seguito i suoi ordini, quindi. Forse un po' troppo presto, ma Ista non aveva alcuna intenzione di rimproverarlo per questo. «Solo prudenza. Avete visto Liss, Cattilara e Foix che abbiamo mandato avanti?» «Sì, ci sono passati accanto mentre stavamo raggiungendo la sommità del colle per aggirare la colonna jokoniana. Ormai dovrebbero essere sani e salvi all'interno delle mura.» Fece una torsione per guardare dietro di sé, ma non spronò il cavallo, e da questo Ista dedusse che per il momento avevano distanziato i loro inseguitori. La lunga falcata del cavallo stava rallentando, ma il suo respiro era simile a un mantice; Illvin lasciò che rallentasse l'andatura. «Che cosa è successo laggiù?» le chiese. «Che cosa vi ha fatto crollare a terra? Un atto di stregoneria?» «Sì. Sordso adesso è uno Stregone, a quanto sembra. Come abbia fatto ad avvicinare il suo demone, non lo so. Ma sono d'accordo con voi, il vecchio demone della sorella morta deve saperlo. Se dobbiamo affrontare Sordso in battaglia... vi risulta che la magia dei demoni abbia un raggio d'azione? Non importa, chiederò a dy Cabon. Mi domando se Foix lo sappia, visti i suoi esperimenti. La cosa non mi stupirebbe.» «Tre stregoni, ha riferito Foix. Almeno», la informò Illvin. «O almeno questo gli è sembrato di percepire, tra gli ufficiali jokoniani.» «Cosa?» Ista sgranò gli occhi. Ripensò all'intreccio di strane linee che si sprigionava come un covo di serpenti dal ventre della Principessa Vedova Joen. Una aveva affondato i propri artigli in Sordso, non c'erano dubbi. «Allora potrebbero essercene più di tre.» Una dozzina? Venti? «Voi ne avete visti altri?» «Ho visto qualcosa. Qualcosa di veramente soprannaturale.» Si girò di nuovo per guardare dietro di sé. «Cosa si vede?» chiese Ista. «Non Arhys, non ancora. Accidenti a lui. Deve sempre essere l'ultimo a rientrare! L'ho avvertito che simili bravate sono fuori luogo per un comandante responsabile. Però funziona sui ragazzi, questo devo ammetterlo. Per l'inferno del Bastardo, funziona anche su di me che so... ah.» Si girò di nuovo, un sorriso torvo di momentaneo sollievo gli incurvò un angolo della bocca. Lasciò che il cavallo rallentasse fino a procedere al passo; adesso zoppicava in maniera evidente, ma il castello di Porifors si stagliava ormai sopra di loro. Gli ultimi contadini stavano superando le porte della città provenienti dalla campagna circostante, senza manifestazioni di panico.
Arhys arrivò al trotto e si affiancò a loro, su un cavallo jokoniano che Illvin, evidentemente, aveva preso dalla stessa riserva dalla quale si era rifornito di spade. Il suo paggio, pallidissimo, era seduto dietro di lui, e si sforzava con coraggio di non piangere. L'occhio interiore di Ista controllò il debole filo di fuoco dell'anima che fluiva nel cuore del March; Catti era ancora viva, non v'erano dubbi, ovunque fosse. Il flusso non scorreva più con la stessa, terrificante velocità di prima, anche se restava molto denso. Ista fu felice di vedere che Goram era aggrappato a un altro soldato, e la giovane e sconvolta damigella di Cattilara dietro a un terzo. Non vide segni dell'altro servo. Arhys salutò il fratello con un gesto disinvolto, cui Illvin rispose con la stessa tranquillità e guardò Ista con occhi gravi e preoccupati. «È ora di rientrare», disse Illvin in modo significativo. «Sono d'accordo», ribatté Arhys. «Bene.» I loro stanchi cavalli si arrampicarono sul viottolo tortuoso che portava alla porta del castello e quindi entrarono nel cortile dove Liss attendeva per aiutare Ista. Arrivò subito anche Foix che le offrì il braccio. Lei vi si appoggiò grata, visto che l'alternativa era quella di accasciarsi. «Royina, vi accompagniamo nella vostra camera...» cominciò Foix. «Dove avete portato Lady Cattilara?» «Nella sua stanza, dove le sue dame si prendono cura di lei.» «Bene. Foix, vai a cercare dy Cabon e raggiungetemi lì. Subito.» «Devo occuparmi delle difese», interloquì Arhys. «Vi raggiungerò non appena possibile. Se posso. Illvin...?» Illvin distolse lo sguardo dallo stalliere cui stava dando istruzioni per prendersi cura del suo cavallo ferito. «Fai quello che devi.» «D'accordo.» Illvin fece una smorfia e si girò per seguire Ista. La sfrenata eccitazione che lo aveva sostenuto per tutto lo scontro stava scemando. Zoppicava come il suo cavallo, rigido e stanco, mentre oltrepassavano l'arcata che conduceva nel cortile con la fontana. 21 La camera di Cattilara conservava ancora la stessa atmosfera di alcova femminile di quando Ista vi era entrata per la prima volta, il giorno in cui era arrivata a Porifors. Adesso, tuttavia, le dame della Marchess erano irri-
tate più che accoglienti: ansiose e risentite o spaventate, dopo essere state messe al corrente della fuga della loro padrona. Quando Ista entrò, la fissarono con orrore la figura trasandata, sanguinante, affannata e ombrosa della Royina. Ista le congedò in modo rude, ma non prima di ordinare dell'acqua per lavarsi e da bere, e cibo per Lord Illvin e per tutti gli altri, che erano usciti a precipizio dal castello quella mattina. Illvin si avvicinò alla bacinella di Cattilara e intinse nell'acqua un asciugamano umido con il quale pulì il volto di Ista, accorgendosi che non tutto il sangue proveniva dal cavallo, ma da numerosi graffi. Poi andò a osservare Cattilara, che giaceva sul letto ancora col vestito da viaggio. La manica destra era stata tolta, e l'ambigua ferita sulla spalla era stata fasciata. Era bella come una vergine dormiente, e per nulla segnata, a parte una macchia sulla guancia che su di lei sembrava un'elegante decorazione. Ma il dito di Illvin seguì a disagio l'alone scuro attorno agli occhi. «Sicuramente il suo fisico è troppo debole per sostenere quello di Arhys e il proprio.» Ista guardò di sottecchi le guance incavate di Illvin e le costole sporgenti. «Per ore o giorni... penso che sia il suo turno. E in questo momento, so qual è la persona che Porifors non può permettersi di perdere.» Illvin fece una smorfia e guardò la porta che si stava aprendo. Foix fece entrare un ansioso dy Cabon. «Che i cinque Dei siano ringraziati, siete salva, Royina!» esclamò il Divino. «E anche Lady Cattilara!» «Anch'io vi ringrazio, Erudito», replicò Ista, «per aver seguito le mie istruzioni.» Guardò allarmato la figura immobile della Marchess. «Non è stata ferita, vero?» «No, non è ferita.» Poi, con riluttanza, Ista aggiunse: «L'ho indotta a prestare per qualche tempo la forza della sua anima a Arhys, al posto di Lord Illvin. Adesso dobbiamo costringere in qualche modo il suo demone a parlare. Non so se era il padrone o il servo della Principessa Umerue, ma sono sicura che sia stato testimone, anzi, forse il prodotto delle macchinazioni demoniache della Principessa Vedova Joen. Illvin aveva ragione, ieri: il demone di Cattilara deve sapere che cosa stava architettando, perché faceva parte della sua opera. Benché sembri che sia riuscito a sfuggire al suo... guinzaglio. Evidentemente il controllo di Joen non è inviolabile». Dy Cabon la guardava con un'espressione allarmata, e Ista si rese conto
solo in quel momento che il suo discorso doveva sembrargli insensato. Illvin inarcò le sopracciglia con un'aria altrettanto sconcertata e con cautela chiese: «Avete detto che Joen sembrava più arcana di Sordso. In che senso?» Ista descrisse ciò che aveva visto della Principessa Vedova, in quell'attimo fuggente e terrificante accanto al suo palanchino distrutto, e del Principe Sordso posseduto da un demone. Di come il fuoco demoniaco di Sordso fosse stato in grado, apparentemente, d'infiacchire le sue ossa. «Finora i demoni si sono sempre ritratti davanti a me, anche se non ne conosco il motivo. Non sapevo di essere così vulnerabile nei loro confronti.» E lanciò un'occhiata imbarazzata a Foix. «Ciò che avete descritto è molto strano», rifletté dy Cabon, strofinandosi il doppio mento. «La norma è un demone che prospera a spese di un'anima. Non vi è spazio per altri. E i demoni, di solito, non si tollerano neanche a una certa distanza, figuriamoci nello stesso corpo. Non so quale forza possa essere in grado di utilizzarli insieme, se non il Dio stesso.» Ista si mordicchiò il labbro con fare pensieroso. «Ciò che Joen conteneva non assomigliava a quello che conteneva Sordso. Lui sembrava posseduto da un demone comune, come quello di Cattilara e di Foix, tranne che era dominante invece di essere subordinato... come quello di Catti, quando lei lo ha lasciato salire per essere interrogato, e noi abbiamo faticato a riportarlo giù di nuovo. È stato il demone, non Sordso, a ubbidire all'ordine di Joen.» Il volto di dy Cabon assunse un'espressione disgustata mentre elaborava quelle parole. Ista guardò Foix, che si trovava alle spalle del Divino e aveva un'aria ancora meno compiaciuta. Come tutti loro, era madido di sudore e sporco, ma non sembrava aver riportato ferite. «Foix.» Il ragazzo sussultò. «Royina?» «Puoi aiutarmi? Voglio spingere il fuoco dell'anima di Cattilara nel suo corpo, e far risalire il demone alla testa, in modo che possa parlare con lui, ma senza impossessarsi di lei, e impedendogli di spezzare la rete attraverso la quale sostiene Arhys. Non essendo questo il momento per far cadere morto il comandante di Porifors...» Più morto. «Allora aspetterete finché Lord Arhys sarà pronto, Royina, per liberare la sua anima?» chiese Foix curioso. Ista scosse la testa. «Non so se questo è il mio compito, o persino se ci riuscirei, se provassi. Temo che resti un fantasma, separato irrimediabil-
mente dai suoi Dei. Pur essendo già appeso a un filo.» «È più probabile che lui attenda finché noi siamo pronti», borbottò Illvin. Foix guardò Cattilara con espressione accigliata. «Royina, sono pronto a fare qualsiasi cosa ordiniate, ma non capisco che cosa volete da me. Io non vedo fuochi, nessuna luce. Voi sì?» «All'inizio no. La mia sensibilità era solo un'accozzaglia di sensazioni, paure, intuizioni e sogni.» Ista tese le dita e serrò il pugno. «Poi il Dio ha aperto i miei occhi al Suo regno. Qualunque sia la realtà, la mia vista interiore adesso la scorge sotto forma di arabeschi di luci e ombre, colori e linee. Alcune luci sono sospese come una rete, altre scorrono come un torrente impetuoso.» Foix scosse la testa per la meraviglia. «Allora come sei riuscito a intervenire sulle mosche e sul cavallo che hai fatto inciampare?» chiese Ista pazientemente. «Non percepisci proprio nulla? Magari sotto una metafora diversa. Forse senti con l'udito? O col tatto?» «Io», cominciò, scrollando le spalle, «io ho desiderato che accadessero quelle cose. No... l'ho voluto. Mi sono figurato gli eventi nella mente in modo chiaro, poi ho dato ordini al demone, e le cose sono semplicemente accadute. Però, mi sono sentito... strano.» Ista si mordicchiò un dito, osservandolo. Poi, agendo d'impulso, si mise davanti a lui. «Abbassa la testa», gli ordinò. Con uno sguardo sorpreso, Foix ubbidì. Ista lo afferrò per la tunica e lo fece abbassare ancora di più. Lord Bastardo, fa' che il Tuo dono possa essere condiviso. Oppure no. Maledetti siano i tuoi occhi. Premette le labbra sulla fronte sudata di Foix. «Ah. Sì!» L'orso gemette di dolore. Per un attimo, una luce violacea sembrò lampeggiare negli occhi spalancati di Foix. Ista lo lasciò andare e indietreggiò. «Oh.» Si sfiorò il punto dove Ista aveva posato le labbra, e si guardò attorno, osservando i compagni a bocca aperta. «È questo che vedete? Sempre?» «Sì.» «Com'è possibile che non cadiate quando cercate di camminare?» «Ci si fa l'abitudine. L'occhio interiore impara a selezionare le cose insolite e a ignorare il resto. C'è il vedere senza l'osservare, e poi c'è l'assistere. Adesso ho bisogno che mi assisti con Cattilara.»
Le labbra di dy Cabon s'incurvarono, esprimendo timore e preoccupazione; si sfregò le mani in un gesto d'incertezza. «Royina, questo è potenzialmente molto pericoloso per lui...» «Lo sono anche le diverse centinaia di jokoniani che si stanno radunando attorno al castello di Porifors, Erudito. Lascio al vostro buonsenso decidere quale pericolo sia più imminente in questo momento. Foix, riesci a vedere...» Si girò e lo trovò che si stava fissando la pancia in una sorta di fascinazione inorridita. «Foix, vieni qui!» Deglutì e alzò lo sguardo. «Uhm, sì, Royina». La guardò con gli occhi socchiusi. «Voi riuscite a vedervi?» «No.» «Forse è meglio così. Il vostro corpo irradia piccoli lampi crepitanti... con bordi acuminati. Adesso capisco perché i demoni si ritraggono...» Entrambi si avvicinarono a Cattilara. «Adesso guarda. Riesci a vedere la luce del demone, raggomitolata nel torace? E il fuoco bianco che scorre dal suo cuore verso quello del marito?» La mano di Foix seguì esitante la linea bianca, a riprova delle proprie percezioni. «Adesso guarda sotto quel flusso, il canale che il demone mantiene.» Osservò la linea di fuoco bianco, poi il rivolo che proveniva ancora da Lord Illvin, e indietro fino a Cattilara. «Royina, non sta uscendo un po' troppo velocemente?» «Sì. Quindi non abbiamo molto tempo. Vieni, vediamo che cosa riesci a fare.» Prima fece scorrere le mani sul corpo di Cattilara, poi, giusto per curiosità, abbandonò le braccia sui fianchi e si limitò a usare il pensiero. Era più facile controllare il fuoco bianco utilizzando le dense forme della materia, ma si rese conto che le sue mani materiche di fatto non erano necessarie per quel compito. Il fuoco dell'anima di Cattilara si concentrò nel cuore. Ista non fece alcun tentativo d'interferire col ritmo con cui Arhys vi attingeva. In quel modo, almeno, sapeva che lui era ancora... animato, ovunque fosse. «Adesso, Foix. Cerca di far risalire il demone verso la testa.» Con un'aria decisamente dubbiosa, Foix girò attorno al letto e afferrò i piedi nudi di Cattilara. La luce dentro di sé baluginò; a Ista parve di udire l'orso ringhiare in modo minaccioso. Nel corpo di Cattilara la luce viola del demone schizzò verso l'alto. L'occhio interiore di Ista controllò che il sostentamento della rete vitale di Arhys continuasse, e cercò di fare una legatura attorno al collo della donna. Prima aveva funzionato col fuoco
dell'anima, ma col demone? Evidentemente, funzionò, perché gli occhi di Cattilara si spalancarono all'improvviso, brillando di una durezza aliena. La forma stessa del suo volto sembrò cambiare, mentre i muscoli ne modificavano la tensione. «Pazzi!» ansimò. «Ve l'avevamo detto di fuggire, e adesso è troppo tardi! È piombata su di voi. Verremo riportati tutti indietro, e piangeremo invano!» La sua voce era affannata e sincopata, perché il movimento dei polmoni non era coordinato con la parola. «Lei?» chiese Ista. «La Principessa Joen?» Il demone cercò di annuire, ma scoprì di non poterlo fare, allora fece abbassare le ciglia di Cattilara in segno di assenso. Illvin avvicinò silenziosamente una sedia dall'altra parte del letto e si accomodò, osservando con lo sguardo penetrante. Liss indietreggiò a disagio, e andò a sedersi su una panca lungo la parete opposta. «Ho visto Joen sulla strada», disse Ista. «Da un pozzo nero nel suo ventre sembrava che uscissero una dozzina o più di serpenti luminosi. Alla fine di ogni serpente c'è uno stregone?» «Sì», sussurrò il demone. «Questo è il modo in cui impone la sua volontà su tutti noi. Tutti, sottoposti solo alla sua volontà. Fa male!» «Uno di questi cordoni luminosi terminava nel Principe Sordso. Stai dicendo che questa donna ha messo un demone in suo figlio?» Inaspettatamente, il demone proruppe in una risata amara. Il volto di Cattilara si trasformò di nuovo. «Finalmente!» gridò in roknari. «Doveva essere l'ultimo a cedere. Ha sempre prediletto i figli maschi. Noi femmine eravamo delle inutili delusioni. Il Generale Dorato non poteva rivivere in noi, di sicuro. Nel migliore dei casi potevamo barattare denaro; nel peggiore, duri lavori... o biada...» «Questa è la voce di Umerue», bisbigliò Illvin con una smorfia di disappunto. «Non come quando si è presentata qui a Porifors, ma come l'avevo vista qualche anno fa a Hamavik.» «Dove prende questi spiriti?» chiese Ista. La voce del demone mutò ancora, ritornando a parlare in ibrano. «Li ruba dall'inferno, naturalmente.» «Come?» volle sapere dy Cabon, che sbirciava da sopra la spalla di Foix con gli occhi sgranati. Sollevando le sopracciglia di Catti, il demone fece intendere che avrebbe scrollato le spalle, se avesse potuto. «È stato il vecchio demone a fare tutto
per lei. Siamo stati presi dall'inferno, ignari e confusi, poi siamo stati legati ai suoi guinzagli, nutriti e addestrati...» «Nutriti come?» chiese Illvin, sempre più allarmato. «Con le anime. È uno dei motivi per cui riesce a gestirne così tanti; li affida ad altri perché si nutrano delle loro anime. Dapprima animali, servi, schiavi, prigionieri. Poi, via via che Joen ha imparato i trucchi del mestiere, li ha alimentati con altre anime catturate appositamente per le loro conoscenze o le loro doti. Ci metteva nei loro corpi finché non avevamo consumato tutto ciò che voleva che sapessimo, poi ci strappava fuori di nuovo. Finché non siamo stati idonei a cavalcare i suoi migliori schiavi-stregoni. Idonei persino ad accoppiarci con una principessa! Se era una principessa sufficientemente disprezzata.» «Goram», disse Illvin con una nota d'urgenza nella voce. «Il mio servo Goram era uno di loro? Trasformato in foraggio per i demoni?» «Lui? Oh, sì. Era un capitano chalionese. Mai stato uno dei nostri pasti, comunque. Per prima cosa, ci ha dato un uccello, poi una servetta. Poi quello studioso chalionese, il tutore. Ha lasciato che lo consumassimo completamente, visto che comunque sarebbe stato giustiziato per aver abbracciato la dottrina del Bastardo. Poi la cortigiana jokoniana. Lei è andata più d'accordo col tutore di quanto ci saremmo aspettati, essendo altrettanto affascinata dagli uomini. Joen la disprezzava per le conoscenze che aveva cercato di carpire, così l'ha lasciata andare, priva di senno, abbandonandola al suo destino sulla strada.» Dy Cabon e Illvin avevano entrambi un'espressione disgustata; Foix, invece, era quasi inespressivo. «Intendi dire che la Principessa Joen riesce in qualche modo a strappare i demoni dai loro veicoli mentre questi sono ancora vivi? Che li separa dalle anime delle vittime come faceva la santa di Rauma?» chiese dy Cabon. Le labbra di Catti s'incurvarono in un sorriso sgradevole. «Esattamente il contrario. Per Joen, lo scopo era quello di legare, non di separare. Una volta nutriti a sufficienza, ci tirava fuori, distruggendo le anime. Prendendo ciò che desiderava per noi, e lasciando il resto come spazzatura. Un processo doloroso per entrambe le parti, anche se serviva a destabilizzarci e a renderci servili.» Ista non capiva bene perché il demone avesse deciso di essere improvvisamente così disponibile, ma decise d'incalzarlo prima che cambiasse atteggiamento. «Il vecchio demone», ripeté. «Chi è?» «Ah. L'eredità di Joen», rispose il demone. Adesso parlava, pensò Ista,
con la voce dello studioso, precisa e asciutta, il suo ibrano con un puro accento nativo di qualche regione centrale di Chalion, del tutto dissimile dalla più morbida inflessione settentrionale di Cattilara. «Volete che vi raccontiamo tutta la storia? I nemici del nostro nemico non sono amici nostri. Eppure, perché no? sappiamo ciò che ci attende, perché non dovreste saperlo anche voi? Pazzi.» Queste ultime parole vennero pronunciate con un tono stranamente spassionato. Attese che il corpo gli rifornisse aria a sufficienza, poi continuò: «Nei giorni gloriosi del Generale Dorato, gli uomini giungevano a frotte dall'Arcipelago, per cercare di migliorare se stessi presso la sua corte e per approfittare di bottini sui suoi campi di battaglia. Tra questi vi era uno stregone molto, molto vecchio, che nelle isole aveva esercitato per lungo tempo la magia demoniaca tra i quaternari, passando inosservato tra loro. Il suo demone era ancora più vecchio, vecchio di decine di esistenze. Il caos e il disordine della guerra promessa li aveva attirati come un profumo. Ma fu un grande errore, perché il Leone di Roknar era il prediletto del Padre, e possedeva molti doni concessigli dal Dio, tra questi, la vista interiore. «Il vecchio stregone venne scoperto, accusato, imprigionato e bruciato. Grazie all'arte immensa che aveva accumulato, l'antico demone balzò fuori dal suo veicolo morente, sottraendosi alle precauzioni dei Divini quaternari. Tuttavia, non poteva balzare tanto lontano da raggiungere la salvezza, così scelse come nuovo veicolo una persona che il Generale Dorato non avrebbe messo al rogo... la sua figlioletta di tre anni, Joen». «La Principessa Joen è una strega da tutti questi anni?» gridò dy Cabon per lo stupore. «Non proprio.» Il demone increspò le labbra di Catti in un pallido, amaro sorriso. «Il Generale Dorato era fuori di sé dalla rabbia e dal dolore. Rivolse le proprie preghiere al suo Dio, e un altro dono gli venne concesso. Il Padre gli permise d'incapsulare il demone, di farlo assopire dentro la bambina. L'intenzione del Leone, una volta conquistata Chalion, era quella di cercare in segreto una santa del Bastardo, se fosse stato possibile trovarne una, e di portarla a corte per estirpare in modo sicuro il demone dalla figlia, seguendo i riti quintariani proibiti. Poi partì per la guerra. «Ma attraverso il grande sacrificio del Roya Fonsa, il Leone di Roknar morì prima di realizzare i suoi obiettivi. I principati disuniti proseguirono per un'altra generazione a battagliare lungo i confini con le royacy quintariane. E il demone sigillato attese che il suo veicolo morisse, per essere
nuovamente liberato nel mondo degli uomini. Ha atteso per cinquant'anni. «Poi, circa tre anni fa, è accaduto qualcosa. La capsula si è spezzata, rilasciando il demone in Joen. Ma non nella bambina malleabile che il demone aveva scelto. In una donna dura, determinata, amareggiata e forte.» «In che modo?» chiese dy Cabon. «Sì», osservò Illvin. «Perché attendere cinquant'anni per poi fallire? A meno che non fosse stato deciso così...» «Io so come», intervenne Ista, con la mente che le bruciava di fredda soddisfazione. «Credo di poter indicare il giorno e l'ora esatti. Ve lo dirò tra un attimo. Ma adesso silenzio, fatelo continuare. Poi cosa?» Gli occhi del demone-Catti si strinsero, quasi a esprimere una sorta di rispetto per lei. «A quel tempo, Joen si trovava in una situazione molto imbarazzante. Era coreggente del Principe Sordso insieme con due dei suoi peggiori nemici, il generale di Jokona e il fratello del suo defunto marito. Sordso era un giovane arrogante e ubriacone che odiava tutti loro. Il generale e suo zio stavano tramando per imprigionare Sordso e usurpare il suo trono.» «Ah», fu il commento sconsolato di Illvin. «Quello era il periodo in cui volevo attaccare Jokona. Che tempismo eccellente sarebbe stato, proprio durante un colpo di stato... oh, be'.» «Joen era disperata», continuò il demone. «Era convinta che il vecchio demone fosse un'eredità che il grande padre le aveva lasciato in segreto, perché fosse risvegliato in un'ora tanto infelice per salvare il nipote dai traditori. Così lo tenne occultato e cominciò a imparare da lui. Il vecchio demone era contento di avere un'allieva tanto intelligente, e le insegnò tutto, pensando che presto avrebbe rivoltato le carte e l'avrebbe dominata. Aveva sottovalutato la sua enorme forza di volontà, temprata attraverso quattro decenni in cui era stata costretta a ingoiare rabbia. Divenne ancora di più il suo schiavo.» «Sì», sussurrò Ista. «Ti seguo.» «I coreggenti di Joen furono i primi nemici a guadagnarsi la sua attenzione. Facili perché così intimi, supponiamo. Lo zio, be', morì serenamente. Il generale subì invece un destino più ingegnoso, e presto divenne il sostenitore più appassionato di Joen in tutte le sue decisioni.» «Joen è una quaternaria, ma pur sempre blasfema», osservò dy Cabon, il cui viso aveva assunto un'espressione costernata. «Eppure, un pessimo quaternario non è l'equivalente di un buon quintariano. Non può possedere il bagaglio teologico per gestire in modo sicuro qualsiasi elementale, per
non parlare di un esercito.» «Esatto», sospirò Ista, «non lo possiede.» Il demone-Catti proseguì: «I demoni che aveva assoggettato, ben presto divennero più importanti per lei della salvezza di Sordso; divennero la sua gioia. Finalmente, poteva esercitare la propria volontà e forzare una sottomissione che mostrava il sorriso sulle labbra mentre ubbidiva. I membri della sua famiglia non furono gli ultimi, bensì i primi a cadere sotto il suo giogo. A eccezione di Sordso». La voce e la lingua del demone cambiarono nuovamente. «Ha preso me quando mi sono rifiutata di sposare un lord bastardo quintariano, e i suoi occhi scintillarono trionfanti quando lo fece. Tutti, tutti avrebbero fatto esattamente quello che diceva lei, sempre, fino al minimo dettaglio. A eccezione di Sordso, il suo cucciolo dorato. Oh, mi rallegra il cuore, persino in questa morte vivente, sapere che alla fine ha preso anche mio fratello Sordso.» Le labbra di Catti - di Umerue - si ritrassero in un ghigno feroce. «L'avevo avvertito di non sfidarla. Mi ha forse dato retta? Naturalmente no. Ah!» «Cattilara ha detto che siete stata mandata per sobillare Porifors», disse Ista al demone. «Da qui, presumo, l'idea della cortigiana...» Le emozioni si avvicendavano sul volto assorto di Illvin, in un amalgama complicato di ricordi, rimpianti, sconforto. Ista si chiese se quelle anime in parte assimilate si sarebbero precipitate in un'unica mente, col tempo, o se avrebbero continuato a restare un po' discoste. «Era Illvin o Arhys che tua madre ti aveva ordinato di vincolare?» chiese Ista. «O entrambi?» Il sorriso del demone si addolcì. «Lord Illvin. All'inizio ci è sembrato abbastanza carino. Ma poi abbiamo visto Arhys... Perché accontentarsi di un partito di seconda scelta, di un comandante in seconda, senza parlare del complicato complotto di usurpazione e di rivolta che ne sarebbe seguito, quando potevamo prendere Porifors da cima a fondo in modo tanto semplice e piacevole?» E in ibrano aggiunse: «Lord Arhys, sì», sospirando in una lingua indecifrabile. «Sembra che sia stata una decisione unanime», mormorò seccamente Illvin. «La servetta, la principessa, la cortigiana, e senza dubbio anche lo studioso. Tutti sciolti, non appena lo hanno visto. Mi chiedo se anche quell'uccello fosse una femmina. In tal caso, probabilmente sarebbe volata sul suo dito. E così il complotto di Joen è stato sventato da una stregoneria più antica della magia demoniaca.» Corrugò le sopracciglia con un'aria in
parte divertita, in parte sofferente. «Fortunatamente per me.» Per un attimo, la sua profonda fatica risalì in superficie, come se il peso di tutto il mondo gli avesse fatto incurvare le spalle. Poi i suoi occhi neri s'illuminarono e si raddrizzò. «Allora in che posto questo potente demone è stato liberato dalla sua lunga prigionia? Avete detto di saperlo, Royina.» «Credo di saperlo. I tempi coincidono... non capite? Tre anni fa, nel Giorno della Figlia, la maledizione di morte del Generale Dorato è stata rimossa da Chalion, e dalla mia Casata; tutti i perversi doni divini che aveva rilasciato, spazzati via e ripresi dagli Dei attraverso il santo da loro scelto. E se tutto è stato recuperato in quel giorno, allora doveva esserci anche il potere dell'incapsulamento.» Illvin incontrò lo sguardo di dy Cabon; il Divino annuì con fare riflessivo. «Se Arvol, Ias e io fossimo riusciti a spezzare la maledizione vent'anni fa, a Joen sarebbe stato concesso il suo demone con due decenni d'anticipo? E chi dei due avrebbe preso il dominio, a quel punto?» rifletté Ista. Dy Cabon fissò Cattilara con un'espressione assorta di curiosità teologica, «Io mi chiedo se le azioni di questo maestro stregone roknari non siano responsabili dell'ondata di demoni che si riversò su Chalion nel giorno di Fonsa...» Scacciò dalla mente quelle divagazioni di teoria storica, perché forse si rese conto che l'ondata di emozioni di fronte alla quale si trovavano in quel momento era fin troppo attuale e concreta. Perché questa creatura ci sta dicendo tutte queste cose? Si chiese Ista. Per insinuare la paura e la confusione tra tutti? Per diffondere la propria angoscia? Guardò attorno a sé l'impassibilità di Foix, la riflessività di dy Cabon, la concentrazione sofferta di Illvin. Se quello era l'obiettivo, non stava funzionando. Forse aveva semplicemente rubato una dose sufficiente di umanità per godere del fatto di potersi lamentare davanti a un pubblico attento. Forse, perse tutte le speranze di fuggire, nell'ultimo respiro dell'agonia, e nonostante la propria natura solitaria, cercava degli alleati. La porta si aprì. Allarmata, Ista si girò di scatto. Lord Arhys entrò e le rivolse un cenno del capo. Era seguito da alcuni camerieri con dei vassoi di cibo e aveva con sé degli indumenti e l'armatura di Illvin. Arhys si avvicinò al letto e osservò la moglie con un'espressione cupa sul volto. Il demone gli restituì lo sguardo, ma non disse nulla. Ista si augurò che non fosse il desiderio di Cattilara che trapelava in quello sguardo. Poi si chiese se i suoi occhi avevano quell'espressione quando si erano posati su di lui.
«È sveglia?» chiese flettendo la mano con fare sorpreso. «Allora come ho fatto...?» «Cattilara dorme», gli rispose Ista. «Abbiamo fatto in modo che il demone parlasse attraverso la sua bocca. E ci siamo riusciti.» «Che cosa è successo là fuori, Arhys?» domandò Illvin, Alternava bocconi di pane e carne con sorsi di tè freddo, mentre veniva vestito dal suo servitore. «Circa millecinquecento soldati jokoniani, secondo gli esploratori. Cinquecento per ogni colonna, hanno riferito i due esploratori che sono ritornati. Visto che il cerchio di assedianti si è ormai chiuso attorno a Porifors, dispero per l'altra dozzina che ancora manca all'appello. Non ho mai perso così tanti esploratori prima d'ora.» «Macchine d'assedio?» chiese Illvin. «Sembra di no. Carri con rifornimenti, sì, ma nient'altro.» «Ah.» Arhys lanciò un'occhiata a Ista. Non sapeva quale espressione avesse sul viso, ma lui cercò di rassicurarla. «Porifors ha già resistito a degli assedi, Royina. Le mura della città sono ben protette; ho duecento dei miei uomini e metà dei cittadini sono ex soldati della guarnigione. Vi sono delle gallerie tra la città e il castello per far passare i rinforzi. Quand'è stato, Illvin, quindici anni fa che la Volpe di Ibra ha sferrato un attacco con tremila uomini? Abbiamo resistito per quindici giorni, finché dy Caribastos e dy Tolnoxo, il padre dell'attuale Provincar, non sono venuti a liberarci.» «Non credo che siano le macchine d'assedio che Jokona intende usare contro di noi, in questo momento», bofonchiò Illvin. «Credo che si tratti di stregoni.» Fornì al fratello una sintesi succinta della testimonianza del demone. Mentre parlava, Goram, pallido ma risoluto, gli pettinava con perizia i capelli all'indietro, legandoli in uno stretto nodo dietro la nuca, poi spiegò la cotta di maglia pronta da indossare. «Se questa pazza di Joen si trascina veramente una dozzina o più di stregoni legati al guinzaglio», concluse Illvin, infilandosi nella cotta, «puoi stare sicuro che ha intenzione di scioglierli per aizzarceli addosso. Probabilmente, non tanto per vendicarsi della figlia perduta, quanto per sferrare un colpo contro Chalion, con l'intento di rovesciare l'intera linea di attacco che il March dy Palliar ha in programma nei confronti di Borasnen. Un colpo anticipato, e duro; e se avrà successo, sarà seguito da un'avanzata impetuosa nella parte centrosettentrionale di Chalion, prima che le forze di Iselle e Bergon abbiano il tempo di radunarsi... Questo è ciò che io farei,
nei panni dei jokoniani. Ovvero, se fossi solo pazzo, e non stupido.» Arhys ridacchiò. «Non riesco a immaginare che atteggiamento possano avere gli ufficiali del comando di Sordso attualmente.» «Collaborativo», intervenne Ista tetra. «Una sola mente.» Illvin fece una smorfia, e quando Goram gli batté sulla spalla, allargò un braccio perché il servitore potesse infilargli il bracciale dell'armatura. «Arhys», continuò Ista con tono urgente. «Nonostante il vostro strano stato, non avete la vista interiore, giusto?» «Nulla di simile a ciò che descrivete, no, Royina. Semmai, la mia vista sembra essersi indebolita rispetto a prima. Non sfocata o abbassata, ma privata dei colori. Tranne che adesso vedo meglio di notte; quasi come di giorno.» «Quindi non avete visto, non avete percepito il colpo che il Principe Sordso vi ha inferto, quando stavate combattendo sulla strada?» «No... voi che cosa avete visto?» «Quella luce scura che segnala la magia del demone al mio occhio interiore. Un dardo penetrante fatto di qualche sostanza. Comunque, era chiaro che Sordso fosse sicuro che sarebbe stato un dardo lacerante. Ma vi ha trapassato da parte a parte senza fare danni, come se voi non foste presente.» Entrambi guardarono dy Cabon, che aprì le mani grassocce in un gesto incerto. «In un certo senso, lui non è presente. Non come lo sono le anime vive, neanche come lo sono i demoni. I veri fantasmi recisi sono separati da ogni realtà, dal mondo della materia e dal mondo dello spirito.» «Allora lui è immune alla stregoneria?» cominciò Ista. «Eppure è la stregoneria che lo sostiene in questo momento... Erudito, non capisco.» «Ci rifletterò...» Un caos intricato di linee luminose viola apparvero all'improvviso in tutta la stanza, avvamparono per poi svanire. Foix fece un salto. Un attimo dopo, fecero la stessa cosa tutti gli altri, mentre le brocche col tè, col vino o con l'acqua si rovesciavano e andavano in frantumi. La tazza d'argilla che Illvin si stava portando alle labbra gli si spaccò tra le mani, tanto che dovette fare un balzo all'indietro per evitare che il contenuto gli finisse sul tabarro grigio e oro. «Gli stregoni di Joen sono all'opera, a quanto pare», annunciò Ista laconica. Foix si guardò attorno con occhi sgranati per lo sgomento; dentro di lui, l'ombra dell'orso si era sollevata sulle zampe, e ringhiava. «Qual è lo scopo di questo gesto? Un avvertimento? Se possono fare questo, perché non far-
ci esplodere il ventre o la testa, e farla finita?» Dy Cabon alzò una mano tremante. «I demoni liberi non possono uccidere in modo diretto...» «I demoni morti del Bastardo lo fanno», puntualizzò Ista. «L'ho visto coi miei occhi.» «Quello è un caso molto speciale. I demoni liberi, quelli fuggiti nel regno della materia... be', possono provare a uccidere direttamente, ma... la morte apre l'anima agli Dei. Che l'anima scelga di superare quella soglia in quel momento o no è una questione di volontà, ma in quell'istante si apre su entrambi i mondi. E il demone vulnerabile può essere ripreso.» «E quindi saltano fuori quando il loro veicolo viene ucciso...» aggiunse Foix. «Sì, ma usando la magia per uccidere si crea anche un legame tra lo stregone e la vittima. Si presuppone che lo sforzo e le ripercussioni siano altrettanto pesanti per lo stregone.» Fece una pausa riflessiva. «Naturalmente, se uno stregone utilizza la magia per far imbizzarrire il tuo cavallo, o qualsiasi altro metodo indiretto per farti morire, il rischio non sussiste.» Un soldato ansimante irruppe nella stanza. «Lord Arhys! C'è un araldo jokoniano che chiede di parlamentare.» Arhys inspirò a denti stretti. «Davvero un avvertimento. Bene, adesso avranno tutta la mia attenzione. Illvin, Foix, Erudito dy Cabon... Royina, volete seguirmi? Voglio i vostri occhi e il vostro consiglio. Ma state nascosti sotto le merlature, non voglio che vi vedano.» «Sì.» Ista indugiò un attimo per sciogliere la legatura attorno al collo di Cattilara e accertarsi che il demone rimanesse tranquillo. Foix rimase a guardare in silenzio, prendendo posizione alle sue spalle come per proteggerla. Liss non era stata chiamata da Arhys, ma si alzò lo stesso, le braccia incrociate e le spalle ricurve, come se cercasse di farsi piccola e di passare inosservata. Illvin, avviatosi verso la porta, si fermò bruscamente, imprecando. «Le cisterne!» Arhys girò di scatto la testa; i due si guardarono. Illvin strinse una mano sulla spalla del fratello. «Vado io a controllare. Ci vediamo sulla torre di guardia.» «Fai presto, Illvin.» Arhys fece segno a tutti gli altri di seguirlo. Illvin li lasciò e corse via. 22
Attraversarono il cortile coi fiori e risalirono la scala interna. Sulla sommità della torre di guardia, c'era un parapetto sporgente. Arhys passò tra i balestrieri appostati lungo il cammino di ronda, salì in cima al parapetto e mettendosi a gambe divaricate, guardò giù. A destra, dove la strada svoltava verso Oby, riusciva a vedere i jokoniani che stavano allestendo il campo in un bosco fuori portata delle quadrelle o della catapulta. All'estremità del bosco, dei servi, alcuni dei quali indossavano le uniformi dei portatori del palanchino, stavano montando delle tende particolarmente grandi. A sinistra, nella vallata che fiancheggiava il fiume, si stava riversando un'altra colonna, che minacciava le case del villaggio. Dietro di essa, alcuni soldati stavano guidando delle pecore e alcuni capi di bestiame che avevano razziato. Al di là, sulla campagna regnava un'atmosfera ingannevolmente tranquilla... e deserta, si augurò Ista. Solo un paio di fienili e alcuni fabbricati sembravano bruciare, presumibilmente dove i soldati avevano trovato una disperata resistenza. Il nemico non aveva ancora dato alle fiamme i campi. Forse dava per scontato di entrarne in possesso entro il periodo del raccolto. La terza colonna stava prendendo posizione dietro al castello, lungo il crinale. Davanti al ponte levatoio sollevato, al di là del fossato, c'era un ufficiale jokoniano, a capo scoperto. Il vessillo azzurro del suo ufficio era afflosciato sull'asta che teneva in mano nella calura pomeridiana. Era affiancato da due guardie che indossavano i tabarri color verdemare sopra la cotta di maglia. Quando l'araldo alzò il viso, Ista trattenne il respiro. Era lo stesso traduttore che aveva incontrato nella colonna in ritirata da Rauma. Quindi, la sua nuova mansione era una ricompensa o una punizione? Non la vide, nascosta com'era tra le feritoie; ma era abbastanza chiaro, dal modo in cui aveva spalancato gli occhi allarmato, che aveva riconosciuto in Arhys il folle spadaccino che per poco non gli aveva staccato la testa in quel burrone. Dall'espressione impassibile di Arhys non si capiva se il riconoscimento era reciproco. Il jokoniano si umettò le labbra, schiarendosi la voce. «Nella veste di araldo vengo a parlamentare a nome del Principe Sordso», esordì in un ibrano alto e chiaro. Afferrò l'asta col vessillo azzurro come un uomo che impugni uno scudo, e lo batté sul terreno polveroso ai suoi piedi con un vigore un po' eccessivo. «Il Principe di Jokona avanza delle richieste...»
«Non ti preoccupa, quaternario», lo interruppe Arhys, pronunciando le parole con affettazione, «che il tuo principe sia diventato uno stregone guidato da un demone? Come uomo pio, non dovresti metterlo al rogo invece di obbedirgli?» Le due guardie non reagirono, e Ista si chiese se erano state scelte perché ignoravano l'ibrano. Dalla smorfia che trasparì sul viso dell'araldo, si sarebbe potuto dedurre che Arhys avesse colpito nel segno, invece ribatté duramente: «Dicono che voi siate un uomo morto da mesi. Le vostre truppe non sono preoccupate di seguire un cadavere?» «Non in modo particolare», rispose Arhys, ignorando il mormorio sommesso dei balestrieri raccolti alle sue spalle. Gli sguardi che si scambiarono coprivano una gamma di espressioni che andavano dall'incredulità allo sgomento. «Immagino che questo fatto sia un problema per voi. Dopotutto, come fate a uccidermi? Persino uno stregone non ci riuscirebbe.» Con uno sforzo palese, l'ufficiale riportò bruscamente l'attenzione sullo scritto. «Queste sono le condizioni del Principe di Jokona. Consegnerete subito la Royina Vedova Ista, come ostaggio per la vostra collaborazione. Tutti gli ufficiali e i soldati della guarnigione deporranno le armi e usciranno dal castello, arrendendosi. Fatelo, e le vostre vite verranno risparmiate.» «Per essere ammassate come foraggio per i demoni, per caso?» borbottò dy Cabon, che se ne stava rannicchiato un po' più lontano sul cammino di ronda e sbirciava da una feritoia. Un destino molto più clemente, non poté fare a meno di pensare Ista, di quello che un Divino del Bastardo, catturato in un simile frangente, di solito può aspettarsi da truppe quaternarie sovreccitate. «Suvvia, jokoniano, vuoi costringermi a sputarti in faccia?» «Vi prego, risparmiate la saliva, Lord Arhys. Presto i liquidi scarseggeranno da voi.» Lord Illvin, che era salito dietro al parapetto in tempo per sentire quello scambio di battute, sorrise amaramente. Lanciò una rapida occhiata a Ista, imprimendosi velocemente la disposizione del nemico. Arhys guardò verso di lui; Illvin, con un tono di voce basso, perché i jokoniani non potessero udire, riferì: «Hanno colpito entrambe le cisterne. Sembrano due colabrodi. Ho affidato agli uomini il compito di trovare qualsiasi recipiente per raccogliere l'acqua, e di cercare di tamponare i buchi per rallentare il flusso. Ma è un disastro». «D'accordo», ribatté Arhys. Poi, alzando la voce, disse rivolto all'araldo:
«Naturalmente, rifiutiamo». L'ufficiale alzò lo sguardo con un'espressione di torva soddisfazione di fronte a quella che era, ovviamente, una risposta prevedibile. «Non meritate la clemenza del Principe Sordso e della Principessa Vedova Joen. Vi concederanno un giorno per ripensarci. Ritornerò domani per ascoltare la vostra nuova risposta. A meno che non la inviate prima voi... naturalmente.» Con un inchino, cominciò a indietreggiare, protetto in modo inadeguato dalle due guardie. Si allontanò parecchio, sempre camminando all'indietro, prima di avere il coraggio di voltare la schiena. «E adesso cosa succede?» chiese preoccupato dy Cabon. «Assaliranno o aspetteranno sul serio un giorno?» «Non mi fiderei di loro», rispose Arhys, ritornando con un balzo sul cammino di ronda. «Un assalto, sì», intervenne Ista. «Ma non credo con le truppe. Scommetterei qualunque cosa che Joen vuole divertirsi coi suoi nuovi giocattoli. Porifors rappresenta la prima occasione di mettere alla prova la sua schiera di stregoni in un conflitto aperto. Se i risultati la soddisfano...» Una linea porpora, anche se solo una, questa volta, balenò nella vista interiore di Ista. Quasi tutte le corde tese delle balestre si spezzarono contemporaneamente, con un colpo secco. Colpiti dalle corde che si riavvolgevano, alcuni soldati lanciarono un grido. Un'altra balestra, invece, scagliò la sua quadrella che finì nella coscia di un soldato vicino; l'uomo, urlando, precipitò dal cammino di ronda andandosi a schiantare sulle pietre del cortile, dove giacque immobile. Il compagno inorridito guardò ansimando la sua balestra, la gettò da parte come se scottasse, e si precipitò a soccorrere il compagno caduto. Un altro lampo più scuro passò crepitando. «E adesso cosa succede?» bofonchiò Foix a disagio, spostando lo sguardo sui balestrieri attoniti. Alcuni, che stavano già cercando nei cinturoni le corde da sostituire, scoprirono che si disfacevano tra le mani. Di lì a qualche minuto, dai tetti dei cortili interni del castello, si levò una spira di fumo. «Fuoco nelle scuderie», constatò Illvin con un tono laconico che non corrispondeva allo scatto che fece. «Foix, per favore, ho bisogno di te.» Si precipitò giù per le scale, saltando tre gradini alla volta. Adesso cominciano a fare sul serio, pensò Ista, con lo stomaco contratto. Liss aveva gli occhi sgranati. «Royina, posso andare con loro?» ansimò. «Sì, vai», le rispose Ista. La ragazza sfrecciò via. Ogni mano competente
sarebbe stata utile... E poi ci sono io. Decise di scendere dal parapetto. Arhys, che la stava superando correndo, urlò: «Signora, potete occuparvi di Cattilara?» «Certo.» Forse, da prudente comandante quale era, voleva semplicemente riunire in un unico posto sicuro tutti quelli che non servivano sugli spalti. Ista trovò le dame di Cattilara in preda a una crisi di nervi; Cattilara non era cambiata, solo che la delicata pelle del viso si stava già raggrinzendo visibilmente. La luce del demone era raggomitolata dentro di lei, e non dava segni, per il momento, di voler lottare per assicurarsi il predominio. Ista sospirò a disagio, ma si assicurò che il fuoco dell'anima continuasse a scorrere liberamente verso Arhys. Per tutto l'infinito pomeriggio, Ista lasciò parecchie volte le stanze della Marchess per andare a controllare l'effetto delle numerose increspature di luce magica che erano strisciate attraverso le sue percezioni. Solo quel primo grande assalto alle riserve d'acqua era sembrato del tutto coordinato. Dopodiché, l'attacco era proseguito in modo caotico come testimoniavano i suoi effetti. La gente cadeva e si fratturava le ossa. I cavalli salvati dalle scuderie in fiamme, lasciati liberi nel cortile a forma di stella, avevano abbattuto un porticato in preda a un nervosismo incontenibile. Un nido di vespe era caduto e tre uomini erano morti tra grida e rantoli, in preda alle convulsioni per essere stati punti; altri erano stati colpiti e feriti dai cavalli resi folli dalle punture. Negli altri cortili avvampavano piccoli incendi. La poca acqua rimasta diminuiva rapidamente. Si era scoperto che gran parte delle scorte di carne, indipendentemente da com'era stata conservata, cominciava a marcire e a puzzare; pane e frutta producevano una muffa verde che sembrava diffondersi solo a guardarla. I vermi proliferavano nelle scorte di farina. Le cinghie di cuoio e le corde marcivano e si disfacevano tra le mani. Il vasellame si crepava. Le tavole di legno si rompevano. Le cotte di maglia e le spade presero ad arrugginire alla velocità con cui una fanciulla arrossisce. Gli uomini che in passato avevano contratto la febbre terziaria ebbero violente ricadute; la deliziosa sala da pranzo di Cattilara ben presto venne riempita di uomini che si lamentavano, bruciavano, tremavano e avevano allucinazioni. Dy Cabon venne sollecitato a offrire il proprio aiuto per assistere i malati e, incredibilmente troppo presto, i moribondi. Verso la fine del pomeriggio, i volti dei soldati e dei servi che Ista incontrava, non ave-
vano più un'aria tesa e impaurita ma esprimevano un pallido, stupefatto sconcerto. Al tramonto, Ista salì sulla torre settentrionale, la più alta, per valutare attentamente la situazione. Liss, che puzzava di fumo e zoppicava per essere stata calpestata da zoccoli frenetici, la seguì lentamente. Un uomo col tabarro grigio e oro arrivò con passo pesante dietro di loro e lasciò cadere una bracciata di pietre su una pila vicino al parapetto, scambiò qualche borbottio irrequieto coi due compagni, le cui balestre deformate e prive di corde erano state abbandonate in un angolo, poi si girò e ridiscese la scala. Nella luce uniforme del sole che tramontava, la campagna deserta appariva assurdamente bella e quieta. Nel bosco, l'accampamento ben ordinato dei jokoniani sembrava godersi un banchetto; le uniche volute di fumo erano delle scie aromatiche che si alzavano dalle braci. Gruppetti di uomini a cavallo si spostavano da un punto all'altro, per pattugliare, tranquillamente, come se fossero in giro per una gita serale, a giudicare da quello che Ista vedeva. Tutti indossavano i tabarri verdemare. Anche dal villaggio, adagiato nella valle e riparato dalle sue mura, si levavano pennacchi di fumo, sinistri e neri. Con un accesso migliore all'acqua rispetto al castello appollaiato sulla collina, i cittadini erano riusciti a circoscrivere la maggior parte degli incendi, fino a quel momento, almeno. Ma le poche minute figure che Ista riuscì a vedere, e che si aggiravano intimorite nelle strade e nei vicoli, erano già rigide per la fatica. Gli uomini dietro alle mura se ne stavano rannicchiati, o seduti, senza osare muoversi, o sdraiati come se lo sfinimento li avesse fatti assopire. Dalla scala di pietra giunse il rumore di passi strascicati, e quando Ista si girò a guardare, vide Lord Illvin emergere sulla piattaforma della torre con un sacchetto unto in mano. Persino la luce rossa del tramonto non riuscì a fare apparire diverso il suo volto pallido e sporco. Fuliggine e sudore si erano mischiati e formavano delle strane strisce prodotte da qualche gesto della mano passata sugli occhi per togliere il sudiciume. Aveva abbandonato la cotta di maglia e il tabarro bruciacchiato ore prima, e la semplice camicia di lino, punteggiata di forellini neri, era in parte appiccicata al torace. «Ah», disse con una voce che sembrava provenire dal fondo di un pozzo. «Eccovi.» Lo salutò con un cenno del capo; lui si avvicinò e insieme osservarono il disastro di Porifors, all'interno delle mura ingannevolmente vuote e solide. Tutto il complesso delle scuderie era stato distrutto dal fuoco. Travi di
legno annerite erano sparpagliate qua e là, con un caos di tegole rotte cosparse sopra. Per il momento, non si vedeva altro fumo, ma anche un angolo dell'edificio delle cucine era annerito e crollato. Il cortile a forma di stella era tutto sottosopra: il portico abbattuto, la fontana vuota e piena di detriti. I cavalli erano stati legati da una parte; i loro posteriori apparivano strani e a forma di losanga da quell'altezza. Le persone che si potevano vedere, si aggiravano ansiose, con le spalle ricurve. «Avete visto l'Erudito dy Cabon?» chiese Ista. Illvin annuì. «È nella stanza dei malati. Adesso abbiamo barelle sparpagliate in tre camere. Una mezza dozzina di ragazzi è appena scesa con la dissenteria. Senza più acqua per lavarsi, non sono neanche necessari i demoni per diffonderla in tutta la fortezza. Per l'inferno del Bastardo. Di questo passo, domani Sordso riuscirà a conquistare Porifors sferrando un attacco con sei pony, una scala di corda, e un coro di bambini di un tempio quaternario.» Digrignò i denti, che col loro candore creavano un contrasto abbagliante sul volto annerito. «Oh.» Allungò il sacchetto. «Volete un po' di carne di cavallo cotta al forno? Non è marcia. Non ancora.» Ista l'adocchiò dubbiosa. «Non so. È di Piuma?» «No, per fortuna.» «Non... adesso, grazie.» «Dovreste tenervi in forza. Solo i cinque Dei sanno quando potremo mangiare di nuovo.» Ne prese un pezzo e cominciò a masticarlo lentamente. «Liss?» E le porse il sacchetto. «No, grazie», rispose a sua volta la ragazza con un filo di voce. Invece di seguire il consiglio che aveva appena dato, passò il sacchetto agli ex balestrieri, trasformatisi in lanciatori di sassi, che l'accettarono con ringraziamenti bofonchiati e con meno repulsione. Risuonò uno scricchiolio, mentre un'altra trave nelle scuderie cedeva e precipitava alzando una nube di cenere. Illvin ritornò sul lato interno della torre per osservare di nuovo lo sfacelo sottostante. «Tutto questo in un giorno. Per le lacrime del Bastardo, come saremo ridotti fra una settimana?» Ista si appoggiò al muro, colta da una profonda disperazione. «Sono stata io a provocare tutto questo», disse con un filo di voce. «Mi dispiace.» Illvin inarcò le sopracciglia. «Non sono sicuro che possiate rivendicare questo onore, signora. La situazione qui era precaria ancor prima che voi arrivaste tra noi. Se la vostra presenza non avesse spinto i jokoniani ad attaccare adesso, potete stare sicura che lo avrebbero fatto fra un mese o po-
co più, sferrando il loro attacco contro una fortezza con entrambi i suoi comandanti più esperti morti e putrefatti, e ancora peggio, con nessuno in grado di spiegare gli orrori riversati su di essa dal nulla.» Ista si massaggiò la fronte dolorante. «Quindi non sappiamo se la mia presenza fa qualche differenza, tranne per il fatto che posso consegnarmi a Joen come ostaggio.» Forse. Abbassò lo sguardo sui disegni della pavimentazione di pietra del lontano cortile sottostante. Vi sono altri modi per evitare di diventare un ostaggio. Illvin seguì il suo sguardo, e i suoi occhi si strinsero in un cipiglio penetrante. Protese la mano e con delicatezza le girò il mento. «Voi avete reso tutto diverso per me», confessò. «Qualsiasi donna che riesca a risvegliare un uomo dal sonno della morte con un bacio, merita un secondo sguardo, credo.» Ista sbuffò con amarezza. «Non vi ho risvegliato con un bacio. Ho semplicemente interrotto e riallineato il flusso del vostro fuoco dell'anima, come ho fatto in seguito con Cattilara. Il bacio è stato solo... una debolezza da parte mia.» Un debole sorriso incurvò le sue labbra. «Mi sembrava che aveste detto che fosse un sogno.» «Uh...» Aveva detto proprio così. Le labbra di Illvin s'incurvarono ancora di più, in modo esasperante. «Uno stupido impulso, allora, se preferite», corresse Ista. «Suvvia, a me è sembrato un impulso geniale. Voi vi sottovalutate, signora.» Ista arrossì. «Spiacente, ma non sono portata per...» deglutì «il corteggiamento. Quand'ero giovane ero troppo stupida. Adesso che sono vecchia, sono troppo pigra.» Troppo stupida, poi troppo pazza, poi troppo pigra, poi troppo in ritardo. «Davvero?» Le prese la mano con un'aria di grande curiosità. Un dito sudicio cominciò a seguire le linee sul palmo annerite dalla polvere. «Mi chiedo perché no? Dicono che io sia un uomo intelligente. Dovrei essere in grado di capirlo, con un minimo di osservazione...» «Volete trovare i miei punti deboli?» Con fermezza, ritrasse la mano. «Lord Illvin, non è questo il momento né il luogo per una cosa del genere!» «Vero. Sono così stanco che faccio fatica a reggermi in piedi.» Ci fu un breve silenzio. Le sue labbra si sollevarono mostrando i denti bianchissimi. «Ah. Ho vi-
sto la vostra bocca contrarsi.» «Non è vero.» Lo stava facendo in quel momento, suo malgrado. «Oh, meglio ancora... sorride compiaciuta!» «Non è vero.» «I poeti parlano di speranza nei sorrisi delle dame, ma datemi un sorriso compiaciuto al giorno, dico io.» In qualche modo, il suo pollice stava massaggiando di nuovo il palmo della sua mano, seguendone i muscoli. Provò una sensazione meravigliosa, avrebbe voluto che le massaggiasse le spalle, i piedi, il collo, tutte le parti del corpo che le dolevano. E tutto doleva. «Mi era sembrato di capire dalle vostre parole che fosse Arhys il grande seduttore della famiglia.» Cercò di fare appello a tutta la sua energia per ritrarre la mano, ma non ci riuscì. «Nient'affatto. Non ha mai sedotto una donna in vita sua. Erano loro a tendergli le imboscate. Non senza motivi, ve lo garantisco.» Sorrise appena. «C'è un vantaggio a essere il compagno d'allenamento del migliore spadaccino di Caribastos. Ho sempre perso. Ma se mai dovessi incontrare il terzo migliore spadaccino di Caribastos, correrà sicuramente dei grossi guai. Arhys è sempre stato il migliore in tutte le cose che facevamo. Ma c'è una cosa che sono abbastanza sicuro di poter fare, al contrario di lui.» Fu il massaggio alla mano a trarla in inganno; la stava cullando. Senza riflettere, chiese: «Quale?» «Innamorarmi di voi. Dolce Ista.» Si ritrasse con uno scatto. Aveva già sentito quell'espressione affettuosa, ma non su quelle labbra. «Non mi chiamate così!» «Amara Ista?» Inarcò le sopracciglia. «Eccentrica Ista? Collerica, irascibile, selvatica Ista?» Ista sbuffò; Illvin si rilassò e le sue labbra assunsero di nuovo un'espressione furba. «Be', posso senz'altro adeguare il mio vocabolario.» «Lord Illvin, siate serio.» «Certamente», ribatté all'istante. «Come ordinate, Royina.» S'inchinò leggermente. «Sono abbastanza vecchio da avere molti rimpianti. Ho commesso la mia dose di errori, alcuni», fece una smorfia «davvero ripugnanti, come voi sapete bene. Ma sono le piccole cose semplici: i baci che non ho dato, e l'amore che non ho espresso perché non avevo tempo, quelle che mi sono sempre mancate. Penso che stasera tutte le nostre opportunità saranno ridotte al minimo. Quindi ho deciso di ridurre i miei rimpianti, anche se per poco.» Si avvicinò. Affascinata, Ista non si ritrasse. In qualche modo, quel lun-
go braccio era riuscito a circondarle le spalle doloranti. E l'avvolsero. Era piuttosto alto, rifletté; se non avesse ripiegato la testa all'indietro, si sarebbe ritrovata col naso schiacciato contro il suo sterno. Alzò lo sguardo. Le sue labbra sapevano di fuliggine, di sudore salato, e del giorno più lungo della sua vita. Be', e di carne di cavallo, ma almeno era carne fresca. I suoi occhi neri brillarono tra le ciglia socchiuse, mentre le braccia di Ista avvolgevano quel torace ossuto, stringendolo a sé. Che cosa aveva detto con parole irate a dy Cabon: scimmiottando, lassù, ciò che quaggiù desideriamo...? Alcuni minuti dopo - troppi? troppo pochi? - Illvin alzò di nuovo la testa e la allontanò un po' da sé, come per guardarla senza dover incrociare gli occhi. Il pallido sorriso sulle sue labbra era ormai privo di qualsiasi ironia, ma non di soddisfazione. Ista sbatté gli occhi e indietreggiò. Liss, seduta a gambe incrociate contro il parapetto, dalla parte opposta della piattaforma, li stava guardando a bocca aperta. I due soldati non stavano neanche fingendo di controllare il nemico. I loro sguardi fissi erano quelli di uomini che stavano riflettendo su una situazione disperata. «Il tempo», mormorò Illvin, «lo si trova là dove uno vuole prenderselo. Il tempo non aspetta nessuno.» «È così», sussurrò Ista. Improvvisamente una luce viola scuro sfrecciò nella sua visione interiore, e Ista la seguì, girando la testa. Da qualche parte, in basso, risuonò un grido irato. Sospirò, troppo esausta per indagare quel mistero. «Non voglio neanche guardare.» Anche la testa di Illvin si era voltata udendo il grido. Nemmeno lui allungò il collo per vedere che cos'era successo, anch'egli stanco di quell'eccesso di orrori. Ma poi tornò a guardarla, socchiudendo gli occhi. «Vi siete girata prima di udire qualsiasi suono», osservò. «Sì. Vedo gli attacchi magici come lampi di luce nella mia vista interiore. Come piccole saette, che volano dalla fonte all'obiettivo, o come frecce infuocate lanciate a grande velocità. Però non sono in grado di dire quale sarà il loro effetto solo vedendole. Si assomigliano tutte.» «Riuscite a distinguere uno stregone da un uomo comune, semplicemente guardandolo?» «Oh, sì. Sia il demone di Cattilara, sia quello di Foix mi appaiono come sagome di luce e ombra racchiuse entro i confini delle loro anime. Il demone di Foix conserva ancora la forma di un orso. L'anima sfilacciata di Arhys lo segue, come se lottasse per stare al passo.»
«Fino a che distanza riuscite a distinguere se un uomo è uno stregone?» Ista alzò le spalle. «Fin dove i miei occhi riescono a vedere, suppongo. No, ancora più lontano: perché il mio occhio interiore vede le forme spirituali attraverso la materia, se presto attenzione e mi concentro, e magari chiudo gli occhi fisici per ridurre la confusione. Tende, pareti, corpi, tutto appare trasparente agli Dei e alla loro vista.» «Che mi dite della vista di uno stregone?» «Non sono sicura. Quella di Foix non sembrava essere acuta, prima che condividessi il mio dono con lui, ma il suo demone non ha esperienza.» «Uhm.» Per un attimo assunse un'aria sempre più distratta. «Venite qui.» La prese per mano e la portò sul lato occidentale della torre, da dove di poteva vedere il bosco. «Ritenete di poter individuare il numero esatto degli stregoni di Joen, se ci provaste da questa posizione?» Ista sbatté gli occhi. «Non lo so. Posso provare.» Gli alberi erano ormai avvolti da ombre grigie alla base, anche se le cime risplendevano ancora di un verde dorato nella luce del crepuscolo. I fuochi di bivacco scintillavano tra le foglie, e le forme quadrate di molte tende s'intravedevano appena. Le voci degli uomini giungevano fino alla torre, ma non con una chiarezza tale da comprendere ciò che dicevano in lingua roknari. Sull'altro lato del bosco, delle grandi tende verdi, sulle quali svettavano i vessilli, cominciarono a brillare come lanterne verdeggianti, riflettendo la luce delle lampade che erano state accese all'interno. Ista trasse un lungo respiro per cercare di quietare la mente. Estese le proprie percezioni, chiudendo gli occhi. Se riusciva a percepire Joen e Sordso da quella posizione, loro potevano percepire lei? E se Joen riusciva a sentirla... scacciò quel pensiero inquietante, e con determinazione dispiegò ancora una volta la sua anima. Più di cinquecento pallide luci di anime si muovevano come lucciole tra gli alberi; erano i soldati jokoniani e i civili al seguito indaffarati nelle loro faccende ordinarie. Un piccolo numero di anime brillava di una luce più intensa, molto più violenta e disordinata. Sì, c'erano i fili, i serpenti, che tremolavano nell'area da quelle spire sparse per convergere tutte in un unico punto nero, allarmante. Proprio in quel momento, una linea incrociò un'altra, mentre i loro possessori si spostavano nello spazio, passando come due trefoli di un filato inconsistente che non si annodava né intrecciava. «Sì, riesco a vederli», disse a Illvin. «Alcuni sono fermi vicino a Joen, altri sono sparpagliati per il campo.» Le sue labbra si mossero mentre li
contava. «Sei di loro si trovano nelle tende del comando, dodici sono in prossimità del bosco, più vicino a Porifors. Diciotto in tutto.» Socchiuse gli occhi, si girò in parte verso il fiume e verso il secondo campo dei jokoniani che circondava il villaggio, poi li richiuse. Infine si concentrò sul bivacco della terza colonna accampatasi lungo il crinale a est del castello, che bloccava la strada per Oby e dominava la vallata superiore. «Tutti gli stregoni sembrano trovarsi nel campo principale, vicino a Joen. Non vedo filamenti scorrere verso gli altri due campi. Sì, certo. Vorrà avere tutti i suoi stregoni sotto controllo.» Completò la panoramica, poi riaprì gli occhi. «La maggior parte degli stregoni sembra essere nascosta sotto le tende. Uno è in piedi sotto un albero e sta guardando da questa parte.» Non riusciva a vedere il suo corpo fisico, attraverso le foglie, ma poteva dire di quale albero si trattava. «Uhm», commentò Illvin, guardando oltre la sua spalla. «Foix riuscirebbe a distinguere chi è uno stregone?» «Oh, sì. Adesso può. Ha visto la luce magica insieme con me quando le tazze si sono rotte, e poi le ha viste come me, qui sugli spalti quand'è iniziato tutto il resto.» Guardò il volto teso, concentrato di Illvin. «A che cosa state pensando?» «Sto pensando... che in base a quello che avete detto, Arhys sembra essere immune alla stregoneria, ma gli stregoni non lo sono all'acciaio. Come ha dimostrato Cattilara sulla povera Umerue. Se Arhys riuscisse ad avvicinarli, ad avvicinare solo loro, e a evitare in qualche modo gli altri cinquecento jokoniani che circondano Porifors...» Fece un lungo respiro, e girò su se stesso. «Liss», chiamò. La ragazza scattò in piedi. «Lord Illvin?» «Andate a cercare il Lord mio fratello, e chiedetegli di venire quassù. Portate anche Foix, se riuscite a trovarlo.» Liss annuì, un po' sorpresa, e di corsa scese la scala a chiocciola. Illvin fece vagare lo sguardo sull'accampamento del Principe Sordso e della Principessa Joen, come per memorizzarne ogni dettaglio. Ista si sporse accanto a lui, inquieta, e studiò quel profilo fattosi all'improvviso distante e freddo. Lui ricambiò lo sguardo e le sorrise in segno di scusa. «Sono stato folgorato da un'idea. Temo che scoprirete che sono un uomo che si fa distrarre facilmente.» Non era il modo in cui lei lo avrebbe descritto, ma gli rivolse un pallido sorriso nel tentativo di rassicurarlo.
Sulle scale risuonò fin troppo presto un rumore di passi. Arhys emerse nel luminoso tramonto, seguito da Liss e da Foix. Il March sembrava poco più di un cadavere rispetto a chiunque altro a Porifors in quel momento, ma al suo viso erano risparmiati i soliti rivoli di sudore. L'impassibilità di Foix mascherava una profonda stanchezza. Aveva trascorso il pomeriggio nel goffo tentativo di disfare tutte le stregonerie piovute sul castello, con scarso successo. Dy Cabon ne aveva sentenziato la fondamentale inutilità, per svariati motivi teologici che nessuno era stato ad ascoltare; eppure aveva pregato Foix di aiutarlo, quando si era trovato a far fronte alle richieste sempre più numerose dei malati. «Arhys, vieni qui», lo chiamò Illvin. «Guarda.» Il fratello lo raggiunse sul parapetto occidentale. «I cinque Dei ci sono testimoni che conosciamo questo terreno. La Royina Ista dice che ci sono solo diciotto stregoni al seguito di Joen. Una dozzina si trova davanti al campo, laggiù...» e la sua mano disegnò un arco «altri sei sono nelle tende del comando, una zona meglio protetta, suppongo. Un gruppo di uomini potrebbe aggirarli, se fosse abbastanza rapido. Quanti stregoni pensi di riuscire a eliminare con la spada?» Arhys inarcò le sopracciglia. «Tanti quanti ne riesco ad avvicinare, presumo. Ma dubito che resteranno semplicemente ad aspettare mentre noi gli piombiamo addosso. Non appena decideranno di abbattere i nostri cavalli, ci ritroveremo a piedi.» «Che ne dici se attaccassimo al buio? Hai detto che in questi giorni riesci a vedere meglio al buio che di giorno.» «Uhm.» Lo sguardo di Arhys sul bosco s'intensificò. «Royina Ista.» Illvin si girò con urgenza verso di lei. Dov'era andato a finire il Dolce Ista? «Che cosa succede quando uno stregone tenuto al guinzaglio viene ucciso?» Ista si accigliò. La domanda era sicuramente retorica. «L'avete visto voi stesso. Il demone, con qualsiasi brandello dell'anima del suo veicolo che abbia assimilato, salta verso il primo ospite che può raggiungere. Il corpo dello stregone muore. E non so quale sia la sorte delle parti restanti della sua anima.» «Un'altra cosa», incalzò Illvin, l'eccitazione trapelava dalla sua voce. «Quanti demoni Joen può sostenere di vedersi sottrarre dalla sua schiera, che saltano a casaccio in ospiti non preparati, o che addirittura le si rivoltano contro, prima di essere costretta a ritirarsi in disordine?» «Sempre che non ne abbia altri di riserva, pronti da sfruttare come una
coppia di cavalli freschi», intervenne Arhys. «No», ribatté lentamente Ista. «Non credo che ne abbia. Devono essere tutti lì, legati alla sua rete, altrimenti fuggirebbero, lontano l'uno dall'altro, se non da lei. In base alla testimonianza di Umerue, Joen ha impiegato tre anni a creare questa schiera, a portare ciascuno stregone-schiavo verso l'apice di un'abilità attentamente selezionata e rubata. Senza fare un'altra visita a qualsiasi porta secondaria dell'inferno, che solo il suo maestro demone può aprire, dubito che possa sostituirli. E all'inizio, tutto ciò che ha ottenuto è stata un'esplosione di elementali irrazionali, informi, ignoranti. Sappiamo anche che li sparpaglia, e questo non può essere un processo ben controllato, non quando si ha a che fare con l'essenza stessa del disordine. Benché... il demone di Cattilara tema di essere catturato di nuovo, se questa non è una qualche ossessione filiale di Umerue, implica che la riconquista è possibile. Non so se Joen è in grado di farlo in tempi rapidi.» «Con diversi demoni liberati che fuggono in tutte le direzioni, dovrebbe essere più difficile, immagino», disse Illvin. Arhys guardò il fratello. «Stai pensando a una sortita. Una caccia agli stregoni.» «Esatto.» «Non si può fare. Sono sicuro che mi colpirebbero, e Catti sarebbe costretta a subire le mie ferite.» Illvin lasciò vagare lo sguardo. «Stavo pensando che la Royina potrebbe sintonizzarti di nuovo su di me. Per l'occasione, per così dire.» Ista protestò con un ansito. «Vi rendete conto di che cosa significherebbe? Le ferite di Arhys sarebbero vostre.» «Sì...» Illvin deglutì. «Ma Arhys potrebbe resistere più di quanto si aspettano i suoi nemici. Dei medici o delle donne potrebbero restare accanto a me, per fasciarmi le ferite via via che si aprono. Guadagnando altri minuti preziosi.» Arhys si accigliò. «E poi... cosa? Quando esalerai l'ultimo respiro, spezzare il legame e restituirmi in una volta sola tutte le ferite?» Ista cercò di non far assumere alla sua voce una nota stridula. «Lasciandovi intrappolato in un corpo ridotto in pezzi che non può morire né guarire?» Arhys disse in modo vago: «In verità, non ho più così tante sensazioni... Forse non resterei intrappolato. Forse...» i suoi bellissimi occhi grigi incontrarono quelli di Ista, e la luce improvvisa che vi si accese la terrorizzò fino al midollo, «... potrei essere liberato.»
«Alla morte del nulla? No!» esclamò Ista. «Certo che no!» intervenne Illvin. «Intendo un assalto di sorpresa, dopo il quale i componenti del gruppo facciano ritorno a Porifors. Gli altri cavalcherebbero al tuo fianco per proteggerti, e aprirti la strada fino agli stregoni, e assicurarsi che torni indietro.» «Uhm.» Arhys abbassò lo sguardo nel crepuscolo. «Secondo te, quanti uomini ci vorrebbero?» «Un centinaio, ma non li abbiamo. Cinquanta andrebbero bene.» «Non ne abbiamo neanche cinquanta. Illvin, non arriviamo a venti, e senza cavalli.» Illvin si allontanò dal parapetto. L'eccitazione abbandonò il suo volto. «Venti sono troppo pochi.» «Troppo pochi per uscire? O per tornare?» «Se sono troppo pochi per tornare, allora sono troppo pochi per uscire. Non lo chiederei a nessuno se facessi parte io stesso del drappello, ma io sarò costretto a restare qui.» «Solo in un certo senso», precisò Arhys con un'espressione sempre più intensa. «Di ora in ora stiamo già morendo, e peggio ancora, Lord dy Oby viaggerà a tappe forzate per soccorrerci. Non ha mai indugiato, ma per amore della figlia non tollererà ritardi. All'oscuro degli inganni demoniaci di Joen, cadrà in questa trappola con le sue truppe.» «Non potrà essere qui prima di dopodomani, nella migliore delle ipotesi», precisò Illvin. «Non ne sarei tanto sicuro. Se il corriere di oggi non è riuscito a superare la cortina jokoniana e non è arrivato a Oby, lo saprà ugualmente, perché so che gli è giunta la notizia dell'imboscata tesa a Foix e al Divino. La fortezza di Oby è già stata messa in allarme.» Arhys aggrottò ancora di più la fronte. «Inoltre, più aspettiamo, peggiori diventeranno le condizioni in cui ci troviamo.» «Su questo ci sono pochi dubbi», concesse Illvin. «E», aggiunse abbassando la voce, «peggiore la condizione in cui mi troverò io. I nostri uomini stanno morendo senza che sia stata sollevata una lama o scoccata una quadrella. Di questo passo, entro domani sera le forze di Sordso saranno in grado di entrare indisturbate in un castello abitato esclusivamente da cadaveri immobili, salvo uno. E mi ritroverò ad affrontare lo stesso nemico: solo e senza sostegno.» «Ah», commentò Illvin, con aria scossa. «Non ci avevi pensato? Mi sorprende. Royina», disse poi rivolto a Ista,
«adesso la mia anima è recisa. Liberarmi da questo corpo non modificherà il mio stato. Che sia fatto mentre... mentre mi rimane ancora un po' di onore.» «Arhys, non potete chiedermi questo.» «Sì, posso.» La sua voce diventò un sussurro. «E non potete rifiutarmelo.» Ista stava tremando, sia per ciò che Arhys aveva proposto, sia per ciò che immaginava. Quel destino, dovette ammetterlo, era la logica successione degli eventi. «Arhys, no, è troppo assurdo», protestò Illvin. «Assurdo è l'uomo che va in cerca della morte. Io mi volto indietro a guardare la mia. Credo di aver trasceso l'assurdità. Se dobbiamo correre questo rischio, dobbiamo farlo subito. Con le tenebre, prima dell'alba.» «Questa notte?» chiese Illvin. Persino lui, che aveva proposto quel piano, sembrava sgomento da quell'improvvisa accelerazione. «Proprio questa notte. Siamo stati costretti sulla difensiva, e i jokoniani per il momento badano a noi, e non hanno certo intenzione di attaccarci. Se mai gli Dei mi hanno conferito il dono di cogliere il momento adatto per scendere sul campo, ti giuro, che è questo.» Illvin socchiuse le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Arhys sorrise, poi si girò di nuovo a guardare il bosco nella luce che si affievoliva. Ma forse non si era affievolita per lui, si rammentò Ista. «Allora, come faccio a trovare questi stregoni senza perdere tempo a macellare uomini comuni?» Foix si schiarì la gola. «Io li posso vedere.» Dietro di loro, rannicchiata a gambe incrociate accanto al muro, Liss trattenne il respiro. Arhys fissò Foix. «Verreste con me, dy Gura? Sarebbe un bell'accoppiamento. Penso che siate meno vulnerabile agli attacchi di quegli stregoni di qualsiasi altro uomo.» «Io... lasciate che osservi il terreno.» Anche Foix si avvicinò al parapetto e si sporse, guardando verso il campo. Ista vide dal modo in cui i suoi occhi si aprivano e si chiudevano che stava mettendo a fuoco la sua seconda vista per valutare la situazione. Arhys si rivolse a Ista. «Royina, ce la fate a gestire questa situazione? Né Illvin né io saremo in grado di comunicare con voi; dobbiamo affidarci al vostro giudizio in merito a quando creare o interrompere il legame.» Io sono spaventata sotto ogni punto di vista: fisico, magico, morale. Ma
soprattutto morale. «Penso di poter liberare Illvin dal legame con voi, sì. E Cattilara?» «La risparmierei», rispose Arhys. «Lasciate che dorma.» «Per risvegliarsi vedova? Non sono sicura che potrebbe mai perdonare un simile tradimento. Può essere giovane e sciocca, ma non è più una bambina, e non lo sarà più. A ogni modo, le deve essere concesso il tempo di svegliarsi e mangiare, per potervi dare forza, ed evitare di fallire per un errore che non può esserle imputato.» «Se dovesse sospettare ciò che sta per succedere, temo che potrebbe impazzire», commentò Illvin. «E dubito anche che il suo demone voglia stare dalla nostra parte.» Le stelle stavano spuntando nella volta celeste. A occidente, sbuffi di nubi rosa stavano sfumando sul grigio. Così tanta bellezza indifferente, nel mondo della materia... «Devo occuparmi di Cattilara», disse Ista. Sembra che nessun altro sia disposto a farlo. Dalle ombre che si stavano allungando, Foix parlò: «Lord Arhys, se decidete di uscire, verrò con voi. Se la Royina mi autorizza a seguire i vostri ordini». Ista esitò per tre dolorosi attimi. «Ti autorizzo.» «Grazie, Royina, di questo onore», disse Foix in modo formale. «Vieni», fece Arhys a Illvin. «Andiamo a vedere se ci sono abbastanza finimenti intatti nel castello di Porifors per andare a questa curiosa caccia. Foix, seguitemi.» Si girò, avviandosi verso le scale. Illvin tornò velocemente indietro, prese la mano di Ista e se la portò alle labbra. «Ci rivediamo tra poco.» «Sì», sussurrò Ista. La stretta si fece più intensa, poi scomparve. 23 Era quasi mezzanotte quando Lord Arhys andò a riposare nelle sue stanze, così che Cattilara, nella camera accanto, potesse essere svegliata per mangiare. Il paggio gli tolse gli stivali, ma nient'altro, e si accovacciò ai piedi del letto per vegliare sul suo riposo. Ista pensò che il ragazzo, sfinito, si sarebbe addormentato sul pavimento nel giro di cinque minuti. Arhys si sdraiò sul letto, gli occhi spalancati e scuri nella luce dell'unica candela. «Siate tenera con lei», la pregò. «Ha sofferto anche troppo.» «Mi appellerò al buonsenso», ribatté Ista. Arhys accettò le sue parole
con un cenno del capo. Fu Illvin, che stava dando le ultime disposizioni prima di ritornare alla veglia notturna densa di avvenimenti, a inarcare un sopracciglio con fare curioso, mentre si allontanavano. «Fate attenzione a lei come al suo demone, ma non nel senso che intende Arhys», bisbigliò. «Dopo l'attacco al carro, credo che non vi siano limiti a ciò che potrebbe fare per perseguire i suoi fini.» «Mi appellerò», ripeté Ista in tono neutro, «al buonsenso.» Lasciò che Foix e Liss entrassero prima di lei nella camera di Lady Cattilara, poi lo chiuse fuori, gentilmente, ma con fermezza. Una delle dame di Cattilara stava arrivando col vassoio del pasto. Lo sguardo stravolto sul suo viso, nonché l'attenzione con cui posò il cibo, fece capire a Ista quanto fosse disperata. Le fece segno di allontanarsi e di andare a sedersi su una panca all'altro capo della stanza. Liss rimase al fianco di Ista mentre si avvicinava al letto di Cattilara. «Foix, mettiti ai piedi del letto. Tieni d'occhio il demone», lo istruì Ista. Foix annuì, ubbidendo. Le dispiaceva di dover essere ancora esigente con lui, quand'era così palesemente esausto al punto di vacillare sulle gambe. Aveva bisogno di riposare per qualche ora prima della sortita, ma Joen le aveva insegnato a usare maggiore cautela coi demoni. Ista richiamò la vista interiore e serrò le mani attorno al flusso di fuoco dell'anima che scaturiva dal cuore di Catti, riducendo il legame con Arhys a un rivolo sottilissimo. Immaginò l'energia vitale defluire dal suo volto nella stanza accanto, e sentì una fitta al cuore. L'ombra del demone si contorse, ma non sfidò il suo controllo. Gli occhi di Cattilara si spalancarono, poi di scatto si mise a sedere, ma oscillò colta da un capogiro. Liss le mise una tazza d'acqua tra le mani. Dal modo in cui beveva, premendo la tazza contro le labbra riarse, Ista pensò che non erano arrivati troppo presto a offrirle quel sostentamento. Liss spostò il vassoio su un tavolino accanto al letto e tolse il panno di lino, scoprendo un cibo semplice e stantio, disposto su vecchi piatti sbreccati. Catti lanciò uno sguardo ostile a Ista da sopra la tazza, poi lo abbassò sul vassoio osservandolo con aria torva. «Che cos'è questa roba? Cibo per servi? O per una prigioniera? La padrona di Porifors è stata forse detronizzata?» «È il cibo migliore e incontaminato che è rimasto, ed è stato conservato per voi. In questo momento siamo circondati dall'esercito jokoniano e assediati da una schiera di demoni. La loro magia sta riducendo a brandelli ogni cosa all'interno di queste mura. L'acqua è finita; la carne brulica di
vermi. Metà delle corti è stata distrutta dal fuoco, e un terzo dei cavalli è morto. In questo momento, sotto di noi, vi sono uomini che stanno morendo di malattie e ferite senza neanche essere arrivati a portata di tiro degli archi delle truppe di Joen e Sordso. Il nuovo modo di fare guerra di Joen è ingegnoso, crudele ed efficace. Straordinariamente efficace. Quindi, mangiate, è l'unico pasto che Arhys riceverà stanotte.» Cattilara strinse i denti, ma almeno li strinse sul primo boccone di pane secco. «Avremmo potuto fuggire. Avremmo dovuto fuggire! A quest'ora io e Arhys saremmo a quaranta miglia da qui, lontani da tutto questo. Che siate maledetta, stupida baldracca!» Foix e Liss s'irrigidirono udendo quell'insulto, ma la mano alzata di Ista li placò. «Arhys non vi avrebbe ringraziato. E chi sono questi noi? Potete affermare con sicurezza di chi è la voce che sta parlando dentro di voi in questo momento? Mangiate.» Catti riprese a masticare in modo sgraziato, ma troppo presa dalla fame feroce con cui si era risvegliata per disdegnare il cibo offerto. Liss continuò a versarle l'acqua, perché le guance incavate di Cattilara tradivano quanto si fosse pericolosamente disidratata. Ista lasciò che mangiasse e bevesse per parecchi minuti, finché non cominciò a rallentare visibilmente. «Tra qualche ora, stanotte», riprese, «Arhys tenterà una pericolosa sortita, un'azione rischiosa per salvare tutti noi. O morire nel tentativo.» «Voi volete che muoia», biascicò Catti. «Voi lo odiate. E odiate me.» «Siete doppiamente in errore, anche se devo ammettere che a volte devo fare uno sforzo per non prendervi a schiaffi. E, comunque, Lady Cattilara, voi siete la moglie di un comandante e la figlia di un comandante. Non è possibile che crescendo in questa difficile terra di confine vi sia stato insegnato a essere tanto egoista.» Cattilara distolse lo sguardo, forse per nascondere la vergogna che aveva arrossato il suo viso. «Questa stupida guerra si è sempre trascinata. E sempre si trascinerà. Ma una volta che Arhys morirà, sarà morto per sempre. E tutto ciò che di bello esiste al mondo, scomparirà con lui. Gli Dei lo prenderanno e mi lasceranno senza nulla, e io li maledico!» «Io li ho maledetti per anni», ribatté Ista con voce cupa. «I voltafaccia sono ammessi.» Cattilara era furente, sconvolta, afflitta da un dolore immenso. Ma era totalmente scissa dalla ragione? Quindi, qual è la realtà presente in questo incubo reale? Dov'è la ragione? Assurdo che, tra tutte le donne, sia proprio io a insistere sulla ragione.
«Continuate a mangiare.» Ista si stirò la schiena dolorante, e incrociò le braccia. «Ho una proposta da farvi.» Cattilara la guardò torva e sospettosa. «Potete accettare o rifiutare, ma potreste non avere altre scelte. Sembra quasi un miracolo, da questo punto di vista. Stanotte Arhys uscirà per affrontare gli stregoni di Joen. Illvin si è offerto di accettare le sue ferite, fino a morirne. A me sembra che due corpi, che nutrano entrambi il braccio armato di Arhys e che sopportino le sue ferite, potrebbero condurlo più lontano che uno solo. Forse fino a quella differenza impercettibile che si situa a metà tra un successo e un fallimento. Potete far parte di questa sortita, oppure potete restarne fuori.» Foix, stupefatto, proruppe: «Royina, Lord Arhys non sarebbe d'accordo!» «Zitto», gli ingiunse Ista con freddezza. «Nessun altro qui vi offrirà questa scelta, Cattilara.» «Non potete farlo alle sue spalle!» insistette Foix. «Sono io l'esecutrice di questo rito. Questa è una faccenda tra donne, Foix. Taci. Cattilara», Ista fece un profondo respiro «vedova siete e sarete, ma il dolore che porterete per il resto della vita sarà diverso, a seconda delle scelte che farete stanotte.» «Quanto migliore?» ringhiò Cattilara, con le lacrime agli occhi. «Senza Arhys, tutto sarà finito.» «Io non ho detto migliore. Ho detto diverso. Potete accettare quello che vi propongo, oppure sdraiarvi su un letto e lasciarvi morire. Se non accettate e lui fallisce, non saprete mai se avreste potuto fare la differenza. Se accettate la parte, e lui fallisce comunque... allora saprete anche quello. «Arhys vi avrebbe protetto da questa scelta, come un padre protegge l'amata figlia. Ma in questo sbaglia. Io vi offro la scelta di una donna all'ultimo respiro. Lui pensa a risparmiarvi la sofferenza di una notte, io penso alle vostre notti per i prossimi vent'anni. Per essere precisi, in questo non c'è qualcosa di giusto o di sbagliato, ma il tempo per rettificare tutte le scelte si sta esaurendo come l'acqua di Porifors.» «Voi pensate che morirà in questo scontro», chiese con voce rotta Cattilara. «Lui è morto da tre mesi. Io non ho ingaggiato una battaglia contro la sua morte, bensì contro la sua dannazione. E ho perso. Nella mia vita, ho guardato negli occhi due Dei, e la cosa mi ha segnata a tal punto da non temere più nulla nel mondo della materia. Ma ho paura di questo, per lui.
Questa notte egli si trova sull'orlo della vera morte, la morte che dura per sempre, e non vi è nulla che possa trattenerlo da quel precipizio. E neanche gli Dei possono salvarlo, se cade adesso.» «La vostra scelta è una non-scelta. È morte comunque.» «No: una morte diversa. Voi avete potuto godere della sua presenza più di qualsiasi donna. Adesso la ruota gira. Ma state tranquilla, un giorno girerà per voi. Tutti sono uguali in questo. Sarà il primo ad andarsene, ma non l'unico. Né sarà solo, perché avrà una nutrita scorta di jokoniani, penso. «Voi avete la possibilità di lasciar partire Arhys col cuore sereno, con la mente lucida e libera da preoccupazioni, concentrata sulla spada che è il suo simbolo. Non vi permetterò di mandarlo via tormentato e turbato, distratto e addolorato.» Cattilara ribatté con voce aspra: «Perché dovrei consegnarlo alla morte... o agli Dei, o a voi o a chiunque altro? Lui è mio. È tutta la mia vita». «Allora resterete una cavità vuota ed echeggiante, quando se ne sarà andato.» «Questo disastro non è opera mia! Se gli altri avessero fatto le cose a modo mio, tutto questo avrebbe potuto essere evitato. Tutti sono contro di me...» Sul vassoio non restava più cibo. Sospirando, Ista sfiorò la legatura, e aprì il canale ancora una volta. Cattilara si accasciò sul letto, imprecando. Il flusso di fuoco dell'anima che sgorgava dal cuore di Catti era lento e minaccioso, ma sarebbe bastato per le prossime ore. «Avrei voluto darle la possibilità di dirgli addio», commentò Ista tristemente. «Le osservazioni di Lord Illvin sui baci trattenuti e sulle parole non dette pesano come un macigno sul mio cuore.» Foix, con un'espressione stupefatta, mormorò: «È meglio che le sue osservazioni non giungano all'orecchio di Lord Arhys, in questo momento». «Ho pensato la stessa cosa. Per i cinque Dei, perché sono stata assegnata a questa corte? Vai, Foix, e cerca di riposare. Adesso è il tuo compito più urgente.» «Va bene, Royina.» Lanciò un'occhiata a Liss. «Verrai a vederci partire? Più tardi?» «Sì», sussurrò Liss. Foix annuì in segno di ringraziamento, e dopo essersi inchinato, uscì. Anche Ista andò a coricarsi per qualche ora. Avrebbe voluto sprofondare in un sonno senza sogni, perché i sogni li temeva, ma a ogni modo sonnec-
chiò semplicemente, turbata dai lamenti di agonia che attraverso la grata giungevano da un castello che si stava disgregando. Quando Liss, con il volto teso e illuminato da un moccolo infilato in un candeliere di ottone, andò a svegliarla, Ista era già in piedi e vestita. Il tetro abito da lutto era ormai sporco e logoro, ma si adattava al suo umore e alle ombre di quell'ora. Liss la seguì, reggendo la fioca luce, mentre Ista usciva dalla porta per percorrere il porticato. Scese i gradini della scala vuota prima di bloccarsi con un sussulto. Un uomo alto e compunto era lì che aspettava. Si trovò con il viso a livello del suo, precisamente nella posizione in cui aveva baciato e sfidato il morto Arhys. Il volto e la figura avevano un profilo incerto; Ista pensò che assomigliasse un po' a Arhys, un po' ad Arvol, e un poco di più al suo defunto padre, benché dy Baocia fosse stato un uomo più basso e massiccio. Di Ias, invece, non aveva molto. Era abbigliato come un ufficiale di Porifors, con la cotta di maglia e il tabarro grigio e oro; ma la cotta riluceva e il tabarro era stirato e perfetto, i ricami scintillavano come fuoco. I capelli e la barba erano di un grigio puro, tagliati corti come quelli di Arhys, puliti e ben curati. La tremula luce della candela non si rifletteva sul suo volto proteso, né nelle immense profondità dei suoi occhi, che invece risplendevano di luce propria. Ista deglutì a stento. «Non mi aspettavo di vedervi qui.» Il Padre dell'Inverno le rivolse un cenno del capo solenne. «Tutti gli Dei sono presenti sui campi di battaglia. Quale genitore non attenderebbe ansioso il ritorno del figlio partito per un periglioso viaggio? Tu stessa hai atteso accanto a quella soglia, sia invano sia in modo fruttuoso. Moltiplica quell'angoscia per diecimila, e abbi pietà di me, dolce Ista. Perché la grande anima di mio figlio è molto in ritardo, e si è smarrita lungo la via.» La risonanza profonda della sua voce sembrò farle vibrare il petto e ripercuotersi nelle ossa. Ista respirava a fatica. Le lacrime le annebbiarono la vista. «Lo so, Sire», sussurrò. «Egli non può udire il mio richiamo. Egli non può vedere la luce alla mia finestra, perché è stato reciso da me, è cieco, sordo e incespicante, e non vi è nessuno che possa prenderlo per mano e guidarlo. Solo tu puoi toccarlo, nella sua oscurità. E io posso toccare te, nella tua. Prendi dunque questo filo che possa condurlo attraverso il labirinto, dove io non posso andare.» Si chinò e la baciò sulla fronte. Le sue labbra bruciavano come metallo
freddo. Timorosa, protese la mano a sfiorargli la barba, come aveva fatto con Arhys quel giorno, morbida e pungente sotto il suo palmo. Mentre egli chinava il capo, una lacrima sua cadde come un fiocco di neve sul dorso della mano di Ista, si sciolse e svanì. «Devo essere una guida spirituale per Vostro conto, adesso?» chiese sbalordita. «No, la mia soglia.» Le sorrise in modo enigmatico, una scia bianca nella notte, simile a un lampo attraverso i suoi sensi, e la sua mente vacillante scivolò dallo sbalordimento alla meraviglia. «Lo attenderò là, per un po'.» Indietreggiò e la scala ritornò a essere vuota. Ista si raddrizzò, scossa. Il punto dov'era caduta la Sua lacrima era gelido come il ghiaccio. «Royina?» chiamò Liss, con grande cautela, fermatasi alle sue spalle. «Con chi state parlando?» «Hai visto un uomo?» «Uhm... no.» «Mi dispiace.» Liss sollevò la candela. «State piangendo.» «Sì, ma va tutto bene. Adesso andiamo. Forse è meglio che mi tieni il braccio finché non siamo scese.» Il cortile di pietra, l'arcata, la corte a forma di stella con gli irrequieti cavalli allineati, e la porta che dava nel cortile d'ingresso sfilarono come una scura immagine confusa. Liss le tenne sempre il braccio, accigliandosi quando si rese conto di come tremava. Il cortile d'ingresso, illuminato dalle torce, era affollato di uomini e cavalli. I vasi da fiori erano in gran parte rotti, caduti dalle pareti o rovesciati, con tutta la terra secca sparsa attorno. Le piante grasse erano schiacciate, i fiori più teneri, avvizziti e flosci come ortaggi cucinati. I due alberi che crescevano in fondo al cortile, perdevano le foglie secche che cadevano una dopo l'altra sopra un cumulo in decomposizione. Foix fu il primo ad accorgersi del suo arrivo. La guardò e rimase stupefatto; senza dubbio si muoveva in una nube di luce divina, in quel momento, essendo stata toccata così di recente. E porto un fardello che sono solennemente tenuta a consegnare. Si guardò attorno, individuò Arhys e Illvin, ma la sua attenzione venne momentaneamente distratta dal cavallo che entrambi stavano studiando. Era uno stallone sauro alto e dal lungo muso, tenuto da tre stallieri sudati. Una benda gli copriva gli occhi e sotto la briglia si vedeva il segno di un
morso profondo. Uno stalliere gli teneva sollevato il muso con uno stringinaso. Aveva le orecchie appiattite, nitriva rabbioso, mostrando lunghi denti gialli, e scalciava. Illvin si teneva a una distanza di sicurezza, con un'aria afflitta. Ista si avvicinò a lui e gli disse: «Lord Illvin, lo sapevate che questo stallone è posseduto da un demone?» «Così mi ha appena detto Foix, Royina. Spiega molte cose di questo cavallo.» Ista scrutò attentamente con gli occhi socchiusi l'ombra color malva che si contorceva all'interno dell'animale. «Sembra trattarsi di un piccolo, informe, stupido elementale.» «Per l'inferno del Bastardo. Volevo dare questa maledetta bestia a Arhys. La sua si è azzoppata, insieme con la metà dei cavalli che ci rimangono... un'epidemia che si è sviluppata con una rapidità innaturale, e spero che Arhys possa presto portare i nostri ringraziamenti allo stregone jokoniano che ha avuto questa bella idea.» «Ma questo è un cavallo particolarmente valido per la battaglia?» «No, e a nessuno importerebbe se Arhys lo perdesse in battaglia. In realtà, penso che gli stallieri nutrano proprio questa speranza. I cinque Dei sanno se ho provato, senza successo.» «Uhm», commentò Ista. Si avvicinò alla bestia, protese il braccio e appoggiò la mano bagnata dalla lacrima divina sulla fronte dello stallone. Un piccolo marchio a sei punte ardeva sulla sua pelle, bianco come la neve per la sua vista esteriore, una scintilla penetrante per il suo occhio interiore. «Toglietegli la benda.» Lo stalliere lanciò uno sguardo disperato a Illvin, il quale espresse il proprio consenso con un cenno del capo, ma estrasse la spada per precauzione. Gli occhi del cavallo erano marrone scuro, con le pupille rosse. Quasi tutti i cavalli avevano pupille rosse, si ricordò Ista, ma di solito non avevano un luccichio tanto profondo. Gli occhi si fissarono su di lei e rotearono mostrando la sclera. Lei restituì lo sguardo. All'improvviso, l'animale s'immobilizzò. Ista si alzò in punta di piedi, afferrò un orecchio, e vi sussurrò: «Comportati bene con Lord Arhys. Altrimenti ti farò desiderare di averti semplicemente strappato le viscere, strangolato con quelle, e dato in pasto... agli Dei». «... ai cani», corresse il nervoso stalliere che stava tenendo lo stringilabbro.
«Anche a loro», confermò Ista. «Adesso toglietegli lo stringinaso e spostatevi.» «Signora...?» «Va tutto bene.» Lo stalliere indietreggiò. Il cavallo, fremendo, alzò di scatto le orecchie e arcuò il collo, appoggiando il muso, con fare sottomesso, contro il petto di Ista sul quale dette una leggera spinta e rimase perfettamente tranquillo. «Fate spesso questo genere di cose?» chiese Illvin, avvicinandosi. Con estrema cautela, allungò una mano per dare un colpetto affettuoso sul collo della bestia a titolo sperimentale. «No», sospirò Ista. «È la prima volta.» Illvin indossava un paio di pantaloni di lino e la camicia bruciacchiata, in previsione del suo imminente ruolo. L'aspetto di Arhys era molto simile alla prima volta in cui l'aveva visto e le aveva tolto il respiro. Tranne che la cotta di maglia e il tabarro non erano macchiati di sangue. Le fece un sorriso solenne mentre si avvicinava. «Vorrei dirvi una parola, Royina, prima che io vada. Anzi due.» «Quante ne volete.» Abbassò la voce. «In primo luogo, grazie per avermi dato la forza di affrontare una morte migliore. Meno indegna, infima e banale della prima.» «Su questo punto, i nostri uomini potrebbero ancora sorprenderti», intervenne Illvin. Dall'altra parte del cortile, anche una dozzina di uomini stava preparando le proprie cavalcature. Pejar era tra loro; il suo volto era arrossato per la febbre, notò Ista. Avrebbe dovuto stare disteso su una branda, e non impegnato in quel tentativo. Poi si chiese se a quel punto ci fossero ancora uomini, a Porifors, in grado di camminare. Arhys fece un pallido sorriso al fratello, evitando di contraddirlo o di correggerlo, o di togliergli quell'esile speranza. Rivolgendosi di nuovo a Ista, disse: «In secondo luogo, ho una richiesta da farvi». «Qualsiasi cosa nel limite delle mie possibilità.» I suoi occhi chiari si fissarono nei propri con una intensità tanto penetrante e che le fece scorrere un brivido lungo la schiena. «Se questo dy Lutez riesce a morire con onore stanotte, portando a termine il rito interrotto così tanto tempo fa, voglio che questo serva per guarirvi dalla lunga ferita infertavi da un altro dy Lutez.» «Oh», esclamò Ista. Oh. Non voleva che la voce facesse trapelare la commozione; aveva ancora un compito da svolgere. «Anch'io ho un messaggio per voi.»
Arhys inarcò le sopracciglia, con un'aria un po' sorpresa. «Nessun corriere è più riuscito a superare il blocco jokoniano. Da chi viene il messaggio?» «Ho incontrato Lui sulle scale, poco fa. Ecco chi è il messaggero.» Deglutì, per schiarirsi la voce. «Vostro Padre vi chiama presso la Sua Corte. Non avete bisogno di fare i bagagli; andrete abbigliato di gloria così come siete. Attende ansioso presso le porte del Suo palazzo per accogliervi, e ha preparato un posto accanto a sé al tavolo d'onore, in compagnia delle grandi anime, onorate e più amate. Le mie parole sono sincere. Chinate il capo.» Con gli occhi sgranati, attonito, ubbidì. Ista premette le labbra sulla sua fronte, la cui pallida pelle non era né calda né fredda, e nemmeno imperlata di sudore. Dalla sua bocca parve uscire un anello di brina che svaporò nell'aria opprimente della notte. Una nuova linea apparve nella sua seconda vista, un sottile filo di luce grigia, teso tra loro due. È una linea di vita. In qualche modo seppe che poteva estenderla fino ai limiti del mondo senza spezzarla. Oh. Commossa, completò il rito formale baciando i palmi, poi inginocchiandosi ai suoi piedi e sfiorando con le labbra ciascuno stivale. Arhys sussultò un poco, come per dissuaderla, poi rimase fermo e le permise di proseguire. Riafferrò le sue mani per aiutarla ad alzarsi. Ista si sentiva le ginocchia molli. «Di sicuro siamo benedetti», sussurrò Arhys con deferenza. «Sì. Perché ci siamo benedetti a vicenda. Quietate il vostro cuore. Andrà tutto bene.» Indietreggiò per lasciare che Illvin abbracciasse il fratello. Poi, tenendolo per le spalle, Illvin lo allontanò un poco da sé, e fissò con un sorriso perplesso quegli strani occhi esultanti, che sembravano guardarlo da un'immensa lontananza, mentre le fredde labbra sorridevano. Illvin si girò, offrendogli un appoggio per montare sullo stallone penosamente mansueto, controllò il sottopancia, le staffe e i finimenti per l'ultima volta, poi diede uno schiaffo al gambale di cuoio in un gesto abituale. Infine si allontanò. Ista si guardò attorno con occhi velati di lacrime per cercare Liss, che vide accanto al cavallo di Foix. Il devoto-ufficiale salutò la ragazza col gesto dell'Ordine della Figlia, toccandosi la fronte. Lei gli rispose col saluto dei corrieri: il pugno posato sul cuore. Foix, incontrando lo sguardo di Ista, salutò anche lei; e Ista lo ricambiò col segno della quintuplice benedizione.
La dozzina di uomini che componeva la derelitta compagnia di Arhys montò silenziosamente a cavallo rispondendo a un suo silenzioso ordine. «Liss», balbettò Ista «seguimi. Dobbiamo salire sulla torre.» Illvin si avviò con loro, mentre le porte di Porifors iniziavano ad aprirsi con il clangore metallico delle catene del ponte levatoio. Illvin si voltò per un attimo, puntando lo sguardo sulle tenebre screziate dai fuochi, ma Ista si costrinse a non guardare. 24 Con le gambe dolenti, Ista salì le scale ed emerse sulla torre che trovò illuminata da una luce inattesa. File di candele le cui fiamme ardevano luminose erano state accese lungo i quattro lati. Il calore sembrava fluire verso il cielo stellato, e lì l'atmosfera era molto meno opprimente e stantia di quella del cortile. Col loro arrivo, la piattaforma parve gremita. Ista controllò che tutto fosse stato predisposto come aveva ordinato. Su un lato, Lady Cattilara giaceva silenziosa su un pagliericcio ricoperto da un lenzuolo. Un altro pagliericcio vuoto gli era stato sistemato accanto. La donna preposta alla cura delle eventuali ferite di Illvin, Goram e l'Erudito dy Cabon attendevano ansiosi. Quell'esiguo gruppo di persone sarebbe dovuto bastare, visto che i pochi medici e Accoliti della Madre, sopravvissuti nel villaggio assediato, erano caduti sotto le sferze della febbre. Illvin, emergendo dall'oscurità della scala, si riparò gli occhi contro il bagliore delle candele. «Royina, riuscirete a vedere là fuori, per seguire l'avanzata di mio fratello?» «Non saranno gli occhi che userò per seguirlo. Sono i vostri assistenti che dovranno riuscire a vedere voi.» La sua mano fisica si protese a sfiorare l'invisibile rassicurazione del filo grigio, che sembrava srotolarsi dal proprio cuore per immergersi nelle tenebre sottostanti. «Non lo perderò adesso.» Illvin grugnì qualche parola sconsolata e si sedette sul pagliericcio vuoto togliendosi la camicia e arrotolando i pantaloni. Dopo che Goram lo aiutò a sfilare gli stivali, Illvin allungò le lunghe gambe e si sdraiò rivolgendo alle stelle i suoi occhi scuri. «Sono pronto.» La sua voce risuonò impastata, ma non per mancanza d'acqua. Da sotto si udì lo scricchiolio delle catene del ponte levatoio che veniva richiuso e il tonfo di zoccoli che si allontanavano dalle mura.
Il filo grigio si stava muovendo nella polla di oscurità sottostante, simile al filo di una canna il cui amo avesse catturato un pesce. «Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo iniziare.» Si inginocchiò tra i due pagliericci. Illvin le prese la mano e per un attimo se la premette alle labbra. Lei lo accarezzò prima di ritrarla, poi si concentrò. Escluse la vista caotica dei suoi occhi e lasciò emergere l'intreccio di luci e ombre attraverso il quale il regno dello spirito rappresentava se stesso alla sua vista interiore. Ebbe il sospetto che gli Dei non le avessero semplificato il compito, e che la realtà sottostante fosse ancora più strana e complessa. Ma questo era ciò che le era stato dato, e doveva bastare. Slegò la legatura attorno al rivolo bianco proveniente dal cuore di Illvin e il fuoco dell'anima scaturì, si unì al flusso lento e cupo di Cattilara, per riversarsi nella notte, avvolgendosi attorno al filo grigio, ma senza toccarlo. La vita defluì dal volto di Illvin, lasciandolo rigido e pallido. Ista rabbrividì. Si girò e studiò Cattilara che dormiva. Il demone si agitava con frenesia sotto il suo esile petto e una pressione enorme si propagava da quel punto, facendo temere una rottura disastrosa. Il passo successivo era davvero molto pericoloso, pericoloso per tutti loro, ma Ista non poteva sottrarsi a esso: troppe anime erano in pericolo in quel momento... Strinse la legatura di Cattilara, sospingendo il fuoco dell'anima dal cuore verso la testa. Il demone cercò di seguirlo. Posò la mano sinistra, dove scintillava il fiocco di neve, sulla clavicola di Cattilara, e fissò affascinata il bagliore grigio che s'irradiò all'improvviso dalle sue dita. Il demone si contrasse nuovamente, urlando di rinnovato terrore. Gli occhi di Cattilara si aprirono. Cercò di alzarsi a sedere, solo per scoprire di avere il corpo ancora paralizzato. «Voi!» gridò a Ista. «Maledetta, lasciatemi andare!» Ista espirò a denti stretti. «Arhys è appena uscito. Pietà per i suoi nemici, perché la morte su un cavallo indemoniato sta per abbattersi su di loro dalle tenebre, recando con sé ferro e fuoco. Stanotte, molti gli faranno compagnia nel suo viaggio verso la dimora del Padre. Dovete scegliere ora. Lo aiuterete o lo ostacolerete, in questo suo ultimo viaggio?» Cattilara scosse furiosamente la testa da una parte all'altra. «No! No! No!» «Il Dio in persona attende il suo arrivo. Il cuore di Arhys vola avanti verso la mano del Padre come un uccello messaggero. Anche se adesso potesse essere riportato indietro, trascorrerebbe il resto della sua breve vita
davanti a quella finestra, bramando la sua ultima dimora. Non vi ringrazierebbe. Non potrebbe amarvi, col cuore ancorato nell'altro regno. Penso che arriverebbe addirittura a odiarvi, sapendo quale gloria gli avete negato. Per l'ultima volta, non pensate a ciò che voi desiderate, ma a ciò che egli fa; non al vostro bene, ma al suo bene più grande.» «No!» urlò Cattilara. «Molto bene.» Ista protese la mano per aprire la legatura, con un occhio sul demone inquieto, ma in quel momento Cattilara voltò il viso dall'altra parte, e sussurrò: «Sì». Ista si fermò, trasse un respiro. Mormorò: «Allora prego che gli Dei possano ascoltare anche me, e che i miei si possano risalire tutta la strada fino al loro quintuplice regno». Deglutì a fatica. «Tenete a bada il vostro demone. Non sarà facile.» «Soffrirò molto?» chiese Cattilara. I suoi occhi incontrarono finalmente quelli di Ista. La sua voce sarebbe stata quasi impercettibile, se non fosse stato per il silenzio che regnava sulla piattaforma. Sì, no, non ho idea. «Credo di sì. Tutte le nascite lo sono.» «Oh!» Girò di nuovo la testa dall'altra parte, ma non per un gesto di negazione. I suoi occhi erano lucidi, però il volto era immobile come avorio intarsiato. Ista sollevò la mano, ma il suo intervento non era necessario. Mentre il volto di Cattilara si afflosciava, il fuoco cangiante scaturì raddoppiato dal suo cuore, per congiungersi al flusso proveniente da Illvin, e insieme formarono un torrente che debordò oltre il parapetto. Ecco, adesso non cavalchi da solo, Arhys. I cuori delle due persone che più ti amano sono con te. Si augurò che il corpo di Arhys percepisse quel flusso straripante come un'esaltazione. Si alzò e corse a sporgersi dal parapetto, facendo segno agli altri di prepararsi. Immerse lo sguardo nell'oscurità: le strade sembravano nastri grigi; le radure sgualcite come coperte su un letto sfatto; gli alberi del bosco neri e silenti. Nel campo nemico ardevano alcuni fuochi di bivacco, e uomini a cavallo perlustravano svogliatamente la zona, a debita distanza dal tiro delle balestre. Ista vide una chiazza scura di ombre in movimento raggiungere gli alberi e scivolare furtiva tra le guardie. Osservò con tutta la forza della sua seconda vista, seguendo il sottile filo grigio fin dove si muoveva una dozzina di scintille animiche, sopra le macchie di vita più indistinte dei loro cavalli. Il bagliore grigio di Arhys era inconfondibile, la doppia ombra sfumata di viola di Foix ancora di più.
Attraverso tutte quelle figure in movimento, riuscì a scorgere chiaramente l'attimo in cui Arhys spronò al piccolo galoppo il suo cavallo acceso dal demone e si avvicinava rapidamente a un filo quiescente, colorato di luce stregonesca, come un falco che cali sulla preda ignara. «Riuscite a vedere Foix?» Risuonò ansimante al suo orecchio la voce di Liss. «Sì. Cavalca al fianco di Arhys.» Non si sentirono grida di allarme finché non venne abbattuta la prima tenda, poi, quando il tintinnio dell'acciaio squarciò la notte, le guardie a cavallo girarono su se stesse e tornarono al galoppo verso il campo. Bruscamente, il serpente del fuoco stregonesco si tese, spezzandosi. Scaturì un fiotto bluastro di fuoco dell'anima che si separò da un'impetuosa striscia color porpora, la quale saettò via trascinando con sé brandelli d'anima in un vortice di frammenti lacerati. Il fiotto bluastro si raggrinzì agonizzante e svanì in un altrove. La striscia color porpora si radicò in una scintilla animica in movimento in qualche punto dietro gli alberi; sia il veicolo sia il demone finirono a terra per lo shock dell'impatto. Ma il serpente non rinnovò se stesso. «E uno», annunciò Ista ad alta voce. Gli assalitori si muovevano in un cupo, determinato silenzio. La macchia sfocata di un'altra tenda, che custodiva la testa di un altro serpente colorato, ondeggiò, vibrò e crollò. Lo stregone jokoniano acquisì energia per qualche colpo inferto al suo assalitore; Ista vide la magia del demone trapassare Arhys come un dardo abbagliante, e udì il grido di stupore e sgomento dello stregone spegnersi. Ebbe l'impressione che il fievole, distante, fluido tonfo potesse essere il rumore di una testa decapitata. Un'altra striscia viola si separò da un altro schizzo bianco. In preda allo shock e barcollante, la macchia viola rovinò su un cavallo che un soldato jokoniano stava lanciando nella mischia. L'animale incespicò, scartò di lato, disarcionò il cavaliere, poi si girò e galoppò via lungo la strada per Oby. La testa mozzata del serpente parve rincorrerlo come se cercasse di colpire, poi rotolò su se stessa, disintegrandosi in una pioggia di scintille. «E due», disse Ista. Dagli alberi si levò un bagliore tremolante, giallo e lucente, mentre una tenda prendeva fuoco. Oltre il bosco, nelle grandi tende verdi del comando si accesero delle luci. Ista non aveva dubbi che quegli stregoni, addormentati quando il primo colpo si era abbattuto, fossero ormai svegli, ridestati con violenza da Joen. In quanto tempo sarebbero riusciti a coordinare le lo-
ro difese? Un altro spruzzo di fuoco dell'anima, senza demone questa volta, sfrecciò davanti al suo occhio. Un comune soldato nemico ucciso, o uno dei compagni di Arhys? Dal punto di vista divino, si rese conto, non faceva alcuna differenza. Tutte le morti-nascite erano accettate in modo eguale in quel regno. «E tre», contò, mentre l'assalto proseguiva. Davanti alla quarta tenda, gli assalitori cominciarono ad avere dei problemi. Tre stregoni erano riusciti a radunarsi in quel punto. Forse Arhys era stranamente invisibile per loro, perché scelsero di concentrarsi su Foix. Dovevano aver pensato che un altro stregone costituisse il pericolo maggiore per loro, scambiando Foix per il cuore dell'attacco nemico. Luci animiche ondeggiarono, sobbalzarono, rotearono nelle percezioni caotiche di Ista. L'orso cadde, grugnendo, sotto una pioggia di fuoco. Ma il quarto e il quinto serpente vennero decapitati, i loro corpi mutilati si dibattevano furiosamente negli spasimi della morte, prima di disintegrarsi in un'aurora dirompente. Da quella lontana tenda illuminata, Ista riuscì a sentire una donna urlare in modo feroce, ma le parole roknari giunsero confuse e incomprensibili a causa della lontananza e della rabbia. «Credo che abbiano catturato Foix», annunciò Ista. Alle sue spalle, sentì un ansito. «Aiuto!» gridò la donna preposta alle suture. Bianca come un cencio, Liss tornò accanto a Cattilara. Sulla coscia destra di Cattilara e di Illvin si erano aperte lunghe e scure lacerazioni inondate di rosso. La donna, Liss, Goram e dy Cabon si affrettarono a tamponare il flusso di sangue e a bendare i tagli. Sì. Sì, pensò Ista. La sua strategia era buona. Su un corpo solo quel fendente sarebbe stato letale. Le mezze ferite erano gravi per metà. Fu sul punto di ridere, pensando allo sconcerto dell'assalitore di Arhys che sapeva, dall'urto del contatto, dal contraccolpo della lama sull'osso, dalla ripercussione sul suo braccio, quanto intenso fosse stato il proprio fendente, eppure vedeva la ferita rimarginarsi davanti ai suoi occhi... E il grido selvaggio che si levò in quell'istante dal bosco poteva essere proprio di quell'uomo. Credevi di aver rovesciato su Porifors tutti gli orrori di un incubo, standotene tranquillamente seduta. Adesso guarda Porifors che ti restituisce il favore. Noi resistiamo, resistiamo. Ancora per un po'. Si girò di nuovo per cercare di vedere tra gli alberi. Riusciva a seguire la rapida avanzata di Arhys attraverso il campo grazie alle urla di terrore dei
nemici che fuggivano davanti al suo pallido volto e alla sua lama letale. E ai torrenti di fuoco bianco che si alzavano repentini dietro di lui. Aveva perso il cavallo; non sapeva con certezza quando fosse accaduto. Si augurò che non fosse ancora da solo, senza un compagno a proteggergli le spalle. Adesso penso che sia solo. Alle sue spalle risuonò un tonfo strano, acquoso. Sbirciò dietro di sé e vide i suoi assistenti precipitarsi a tamponare Illvin e Cattilara sullo stomaco. Quella era la quadrella di una balestra. Si chiese se Arhys se la fosse strappata per gettarla addosso ai nemici stupefatti, o se l'avesse lasciata dov'era, come un trofeo. Sarebbe stato un colpo mortale per qualsiasi altro uomo. Presto ve ne saranno altri. Per gli Dei, un dy Lutez sa come morire tre volte, e tre volte tre, se necessario. Cadde in ginocchio dietro il parapetto, aggrappandosi alla pietra. Le parve che un immenso ghiacciaio nero, una sorta di diga di ghiaccio innalzata nella sua anima, si stesse sciogliendo, come se il calore di un centinaio di estati l'avesse riscaldato, crepandolo, spaccandolo. E che nel lungo e profondo lago di gelida acqua turchese che si stava formando, un'ondata travolgente si sollevasse da sponda a sponda, dalla superficie fino ai recessi più profondi, sconvolgendo le acque. Nel cortile d'ingresso io ho pronunciato una benedizione per te. Ma tu ne hai pronunciata una anche per me. Un riscatto reciproco. I cinque Dei ci osservano cavalcare insieme in queste prime luci dell'alba. Forse Voi Cinque ci mettete soggezione. Ma credo che anche Voi dovreste avere soggezione di noi. «Sette», sussurrò alzando la voce. Poi qualcosa andò storto. Un'esitazione, un cambiamento di rotta. Troppe, decisamente troppe scintille animiche volteggiavano attorno a quella fiamma grigia. Adesso è circondato, isolato. Quelli che prima si erano dati alla fuga, adesso convergevano su di lui, incoraggiati dal numero, trovando il coraggio di abbatterlo. In mezzo ai tuoi nemici, il Padre tuo ha preparato un banchetto per te, su una tavola imbandita molto tempo fa. Ecco che viene... Un altro tonfo, poi un altro. Alle sue spalle, la voce brusca di Liss gridò: «Signora, si stanno aprendo troppe ferite! Dovete impedirlo!» Poi seguì il brontolio teso di dy Cabon: «Royina, ricordate che avete promesso a Arhys che Lady Cattilara sarebbe sopravvissuta...!» E un certo Dio ha promesso Illvin a me, se non l'ho frainteso. Se entrambi sopravviviamo. Un amante offerto da un Dio, insistente e sfacciato
come un gatto randagio segnato da cicatrici, che strofinandosi è riuscito a entrare nelle mie grazie, superando le mie difese. Se riesco a tenerlo in vita. Lo guardò. Il corpo di Illvin sussultò con uno scatto per la forza riflessa di qualche colpo tremendo sferrato alla schiena di Arhys, e Goram, con il viso sconvolto, lo girò su un fianco per raggiungere lo squarcio rosso. La pallida mano di Cattilara penzolava quasi recisa dal polso. Liss si precipitò ad arginare l'emorragia. Adesso. Oh sì, adesso. Ista strinse la mano attorno al torrente di fuoco bianco che da lei si riversava nell'accampamento. Il flusso s'interruppe bruscamente. Scosse tremende percorsero entrambe le direzioni pulsando. Il canale viola andò in pezzi. Il fuoco bianco, costante compagno del suo occhio interiore per giorni, si estinse. Un'esitazione soffocata: poi, nel bosco avvolto dall'oscurità, un grottesco boato di trionfo venato d'isteria si levò dalla gola di una cinquantina di jokoniani. La diga di ghiaccio esplose. Un muro d'acqua torreggiò, s'inclinò e infine tracimò, rovesciandosi con un fragore di tuono, travolgendo gli argini, spalancando la sua anima, sempre di più, trascinando e spazzando via una vita di pietre, detriti, immondizia putrida e raggrumata. Ribollendo, rombando verso l'esterno. Ista allargò le braccia, aprì la bocca, e lo lasciò andare. Il filo grigio, ormai quasi invisibile tra i violenti bagliori, s'irrigidì, simile a una corda tesa. Cominciò a retrocedere attraverso la sua nuova dilatazione, sempre più veloce, finché parve sprigionare fumo per il calore che sviluppava al suo passaggio, come una fune di corda tesa all'inverosimile che sta per bruciacchiarsi e prendere fuoco. Per un istante, l'anima stupefatta, disperata, estatica di Arhys si mosse attraverso la sua. Sì. Tutti noi, ciascun essere vivente, siamo delle soglie tra i due regni, quello della materia che ci fa nascere, e quello dello spirito nel quale rinasciamo nella morte. Arhys era separato dalla sua soglia, e aveva perso per sempre la strada per farvi ritorno. Quindi a me è stato concesso di prestargli la mia, per un po' di tempo. Ma un'anima tanto grande non ha bisogno di un ampio portale; allora abbatti le mie porte, squarcia le mie mura, falle esplodere, e riversati liberamente attraverso la mia uscita. E addio. «Sì», bisbigliò Ista. «Sì.» Non si guardò indietro. Considerato ciò che lo attendeva, Ista non ne fu per niente sorpresa.
L'opera è compiuta, Sire. Spero che Tu la ritenga ben fatta. Non udì alcuna voce, non vide alcuna fulgida figura. Ma ebbe l'impressione di percepire una carezza sulla fronte, e il dolore che l'aveva assillata per ore, come se la testa fosse stretta in una morsa d'acciaio, svanì. La fine del dolore fu come il canto degli uccelli che salutano il nuovo giorno. C'era veramente il canto degli uccelli nell'amabile regno della materia, si rese conto intontita, un allegro, vanesio cinguettio tra i cespugli che crescevano sotto le mura del castello. Gli sbuffi grigi delle nubi tra le stelle che si andavano spegnendo, cominciavano a tingersi di un rosa infuocato che s'insinuava furtivo da est a ovest. Una striscia gialla segnava l'orizzonte a oriente. Illvin si lamentò. Ista si girò e lo vide seduto tra le braccia di dy Cabon, che si tirava via le bende intrise di sangue dal corpo intatto. Le labbra si socchiusero in un'espressione di sgomento, mentre assimilava la portata dello scompiglio, e la sua pelle si tinse di scarlatto mentre i colori rientravano furtivi nel mondo. «Per i cinque Dei.» Deglutì per ricacciare un conato di bile. «Un vero disastro, alla fine. Giusto.» Non era una domanda. «Sì», confermò Ista. «Ma Arhys se n'è andato. Ed è salvo.» Sapeva che nel bosco i jokoniani impazziti dalla paura stavano facendo a pezzi il corpo di Arhys, straziandolo, terrorizzati dall'idea che potesse ancora ricomporsi e sollevarsi nuovamente contro di loro. Non vide alcuna buona ragione per dirlo a Illvin in quel momento. Cattilara giaceva su un fianco. Piangeva silenziosamente, scossa dai singhiozzi, che quasi le impedivano di respirare. Teneva la mano così stretta sulla spugna che le tamponava lo stomaco, che il sangue le sgorgava tra le dita. La donna che l'assisteva le dava dei buffetti sulla spalla in modo impacciato e inutile. Il mondo si oscurò attorno a Ista, come se l'alba, sconvolta da quella scena, recedesse di nuovo oltre l'orizzonte. Errando nella sua mente come un casuale viandante, una Voce parlò: familiare, ironica, e immensa. Parola mia. Tutt'a un tratto c'è un grande spazio, qui, non trovi? «Voi che cosa ci fate qui adesso?» Mi hai invitato tu. Suvvia, non puoi negarlo; ti ho sentita bisbigliare in quell'angolo. Non era sicura di avere ancora emozioni. Nessuna rabbia, in ogni caso. La quiete incorporea che provava poteva benissimo essere serenità o sgomento. Ma il Bastardo era sicuramente un Dio che andava preso con le pinze. «Perché non apparite davanti a me?»
Perché adesso sono dietro di te. La Voce si fece più calda e divertita. La pressione di un ventre enorme sembrò riscaldarle la schiena, insieme con l'oscena implicazione di lombi contro le sue natiche, e la stretta di due mani enormi sulle spalle. «Avete un pessimo senso dell'umorismo», disse Ista debolmente. Sì, e tu cogli anche tutti i Miei scherzi. Amo la donna che ha un orecchio fine. Sembrava che respirasse dentro di lei. Ti assicuro che dovrai avere anche una lingua affilata con loro. «Perché sono qui?» Per portare a termine la vittoria di Arhys. Se ci riesci. La Voce scomparve. L'oscurità sbiadì, rischiarata dalla pallida luce dell'alba. Si ritrovò in ginocchio sulla piattaforma della torre, sostenuta dall'abbraccio allarmato di Illvin. «Ista? Ista!» la stava chiamando. «Royina, cara, non spaventate un povero cavaliere nudo. Parlatemi!» Sbatté gli occhi velati. Era solo un cavaliere mezzo nudo, scoprì con suo rammarico. I pantaloni di lino sbrindellati e sporchi di sangue erano ancora arrotolati attorno ai lombi. Era comunque una meraviglia di disordine: i neri capelli ricadevano tutti aggrovigliati sul viso e sulle spalle, era sudato, sporco, puzzolente e imbrattato di sangue. Ma tutte le cicatrici erano di vecchia data, guarite e pallide. Lui sbuffò di sollievo quando vide che lo guardava e si chinò per baciarla. Ista scansò le sue labbra col palmo della mano. «Aspettate, non ancora.» «Che cos'era quello?» chiese. «Avete udito qualcosa? Visto qualcuno?» «No, ma giurerei che voi avete udito o visto qualcuno.» «Cosa? Non giurereste invece che sono pazza?» «No.» «Eppure non vedete luci divine, non udite voci. Come fate a saperlo?» «Ho visto il volto di mio fratello quando lo avete benedetto. E il vostro quando lui ha benedetto voi. Se quella e pazzia, la rincorrerei per la strada vestito come sono e scalzo.» «Camminerò adagio.» «... Bene.» Sospirò lui e l'aiutò ad alzarsi. Liss chiese ansiosamente: «Royina, che cosa è accaduto a Foix?» Ista sospirò. «Foix è caduto per mano di molti soldati e stregoni. Non ho visto la sua anima levarsi, né il suo demone fuggire. Temo che sia stato catturato, forse anche ferito.»
«Questa... non è una bella notizia», commentò dy Cabon, digrignando i denti per il nervosismo. «Ritenete che... pensate che Joen possa vincolarlo al suo gruppo?» «Credo di sì, col tempo. Ciò che non so è per quanto riuscirà a resisterle.» Cinque Dei, non voglio perdere un altro ragazzo. «Una notizia per niente bella», concordò Illvin con un profondo sospiro. Stava per alzarsi, quando si udì l'urlo di Goram: «Lady Catti! No!» Ista girò su se stessa. Cattilara si era alzata. Aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta. La luce del demone dentro di lei si era espansa fino ai margini del corpo, e pulsava con violenza. «Il demone ha preso il sopravvento!» urlò Ista. «Fermatela, non fatela scappare.» Goram, che era il più vicino, cercò di afferrarla per il braccio. Nel palmo della donna apparve una luce viola che scagliò contro di lui, facendolo cadere a terra in preda a conati di vomito. Ista si avvicinò con passo barcollante, interponendosi tra lei e l'apertura della scala. Cattilara avanzò, ma poi si ritrasse, sollevando le mani come per proteggersi gli occhi. Si guardò attorno freneticamente. Fece uno scatto e si diresse verso il parapetto. Liss balzò in avanti, afferrandola per la caviglia. Cattilara si dimenò, ringhiò e l'afferrò per i capelli. Illvin avanzò vacillante, esitò per un attimo, poi la bloccò con una presa precisa sulla testa. Catti cadde all'indietro, mezza stordita. Ista andò a inginocchiarsi accanto a lei. Le sembrava di vedere il demone come un tumore che diffondeva i propri tentacoli in tutto il corpo di Cattilara, avvolgendosi come una pianta parassita attorno all'albero del suo spirito, succhiando forza, vita, luce. Rubando le elevate complessità della personalità, del linguaggio, della conoscenza e della memoria che mai avrebbe potuto sviluppare da solo, nel fondamentale disordine della propria natura. Oh. Adesso ho capito cosa devo fare. Protese le mani spirituali e sollevò il demone dall'anima di Cattilara, trascinando i tentacoli che si ritorcevano. Si dibatteva recalcitrante, come una creatura marina tirata fuori dall'acqua. Ista allungò una mano fisica, le dita distese per proteggersi, e la spinse dentro i brandelli dell'anima di Cattilara, finché non rimase che il demone nella sua mano. Allora lo tenne davanti al proprio volto dubbioso. Sì, disse la Voce. Così va bene. Procedi. Ista scrollò le spalle, si ficcò il demone in bocca e lo ingoiò.
«E adesso? Avete intenzione di estendere la metafora alla sua logica conseguenza? Sarebbe da Voi, penso.» Questo te lo risparmierò, dolce Ista, rispose la Voce, molto divertita. Ma mi piace il tuo pessimo senso dell'umorismo. Penso che andremo d'accordo, non credi? Non v'erano recessi nel suo spirito fortificato dove il demone potesse incunearsi, aggrapparsi, avvinghiarsi; e non solo perché era stata colmata dal Dio. Percepì il demone, attorcigliato su se stesso per il terrore, uscire dall'altra parte della sua anima. Nel regno dello spirito. Nelle mani del Dio suo Padrone. Andato. «Che cosa accadrà ai frammenti delle altre anime che sono intrecciate con lui?» chiese preoccupata. Ma la Voce era svanita di nuovo o, comunque, aveva scelto di non rispondere. Cattilara era rannicchiata per terra, ansimante e singhiozzante. «Cos'è successo?» chiese. Illvin rilasciò la presa. «Il demone ha cercato di spingerti verso la morte e verso la propria liberazione», le spiegò. Alzò lo sguardo su di lui con un volto distrutto. Con voce aspra, disse: «Lo so. Vorrei che ci fosse riuscito». Ista fece segno alla donna, a Goram e a Liss di avvicinarsi. «Portatela a letto, un vero letto, e chiamate le sue dame. Procuratele tutte le comodità che questo castello è ancora in grado di offrire. Fate in modo che non venga lasciata sola. Andrò da lei non appena possibile.» Poi Ista si girò e vide Illvin e dy Cabon che si sporgevano pericolosamente dal parapetto orientale, scrutando il campo jokoniano nella luce crescente. Ferveva di attività: pennacchi di fumo salivano ancora dalle tende che erano state bruciate. Un cavallo sellato scappò via al trotto da un uomo che cercava di trattenerlo; le imprecazioni in roknari giunsero deboli nell'aria afosa dell'alba. Ista guardò speranzosa, ma non le sembrò lo stallone di Illvin. «Allora, che cosa è successo, Royina?» chiese dy Cabon, guardandola perplesso. «Abbiamo vinto o perso?» «È stata una grande caccia. Arhys ha ucciso sette stregoni prima di essere abbattuto. Ha esitato sull'ottavo. Penso che fosse una strega. Mi chiedo se fosse giovane e bella, e se non gli sia mancato il coraggio di colpire.» «Ah», esclamò tristemente Illvin. «Potrebbe essere stata la sua rovina.» «Forse. A quel punto, comunque, i jokoniani avevano capito quanto esiguo fosse il suo gruppo e stavano convergendo su di lui. Ma i demoni liberati sono fuggiti in tutte le direzioni; Joen non li ha recuperati.»
«Peccato che non abbiamo altri due Arhys che possano portare a termine il compito», commentò Illvin. «Forse adesso degli uomini comuni potrebbero tentare.» Alzò le spalle e si accigliò. Ista scosse la testa. «Joen ci ha ferito, e adesso abbiamo ferito lei. Ma non l'abbiamo sconfitta. Ha ancora undici stregoni ai suoi ordini e un esercito a malapena scalfito. È furiosa; il suo assalto raddoppierà, senza pietà.» Dy Cabon si accasciò sul parapetto. «Allora Arhys è morto invano. Siamo perduti.» «No. Arhys ha conquistato tutto per noi. Dobbiamo solo allungare la mano per prenderlo. Non mi avete chiesto che cosa ho fatto col demone di Cattilara, Erudito.» Il Divino aggrottò le sopracciglia. «Non l'avete legato come le altre volte?» «No.» Le labbra di Ista si ritrassero in un sorriso che lo fece indietreggiare. «L'ho mangiato.» «Cosa?» «Non guardatemi così; è la metafora del vostro Dio. Ho finalmente penetrato il mistero del secondo bacio del Bastardo. So in che modo la santa di Rauma scacciava i demoni dal mondo, restituendoli al loro santo comandante. Perché, a quanto pare, questo compito adesso è ricaduto su di me. È il dono d'addio di Arhys.» Rabbrividì dispiaciuta al pensiero di ciò a cui non osava ancora rinunciare. «Illvin.» Chiamò. La sua voce tagliente, con un tono d'urgenza, lo scosse dall'addolorata stanchezza che sembrava averlo sopraffatto, mentre era appoggiato con tutto il peso contro il muro e fissava il nulla. Aveva perso una quantità incredibile di sangue nell'ultima ora, per un uomo già così provato. Mescolato a quello di Cattilara, il sangue era sparso in pozze raggrumate su metà della piattaforma. Le sue ferite si erano tutte rimarginate, come se non vi fossero mai state, eccetto la fila di punti che gli erano stati cuciti sulla spalla, ormai incrostati. Sbatté gli occhi e la fissò con uno sguardo penetrante. «Qual è il modo più veloce ed efficace possibile per trovarmi faccia a faccia con Joen?» Senza riflettere, lui rispose semplicemente: «Arrendersi». Poi la guardò inorridito, portandosi una mano alla bocca come se un rospo gli fosse appena uscito dalle labbra. 25
Ista aveva appena finito di lavarsi o, perlomeno, di pulirsi con mezza tazza d'acqua e qualche panno cencioso, quando Liss ritornò nella sua stanza. Stringeva tra le braccia una pila d'indumenti bianchi. «Sono le cose migliori che le donne di Cattilara sono riuscite a trovare», annunciò. «Bene. Metti tutto sul letto.» Ista si riavvolse nella sudicia veste nera e si avvicinò. Non si poteva certo dire che fosse stato un bagno, ma almeno la sensazione della pelle meno appiccicosa a contatto con indumenti puliti non avrebbe avuto l'aria di una violazione. «Come sta la Marchess?» «Sembra che stia dormendo, ma potrebbe anche essere priva di sensi. A guardarla è difficile capirlo. Comunque è molto pallida e grigiastra.» «Tanto meglio. Il sangue che ha perso sulla torre tutto sommato forse le ha reso un favore, facendola scivolare in questo torpore.» Ista cominciò a scegliere gli abiti. Una sottogonna di lino color panna, con elaborate lavorazioni, che aveva un orlo abbastanza corto nel quale non sarebbe inciampata; una delicata sopravveste bianca, ricamata con luminosi fili bianchi che veniva indossata in occasione del Giorno del Bastardo. La sconosciuta ricamatrice era riuscita a decorarla in modo particolarmente gradevole con topolini e corvi danzanti. «Perfetto», mormorò Ista, sollevandola. Notò che la sua mano sinistra non scintillava più, benché vi fosse ancora il marchio ghiacciato sulla pelle. «Mia signora, ehm... non è un po' provocatorio consegnarsi nelle mani dei quaternari indossando il colore del Bastardo?» Ista sorrise torva. «Lasciamo che lo pensino. Non credo che siano in grado di cogliere il vero messaggio. Adesso sbrigati. Stringi bene i nastri della sottogonna, per favore.» Liss ubbidì, stringendo la graziosa vita. Ista s'infilò la sopravveste, spiegò le ampie maniche, poi la chiuse sotto il seno con la spilla da lutto d'argento e ametiste. Ebbe l'impressione che il significato di quel ricordo di famiglia fosse cambiato almeno una mezza dozzina di volte da quand'era entrato in suo possesso. Tutte le antiche sofferenze a esso legate erano svanite durante la notte. Oggi lo indossava col rinnovato dolore per la scomparsa di Arhys e di tutti coloro che avevano cavalcato con lui. Adesso, tutto, attorno a lei, doveva essere rinnovato. «Mettimi a posto i capelli», disse, sedendosi sulla panca. «Qualcosa di ordinato e semplice. Non voglio presentarmi a loro con l'aria di una pazza che sia stata trascinata in mezzo ai rovi.» Sorrise al ricordo. «Raccoglili in un'unica treccia.» Liss deglutì e cominciò a spazzolarle i capelli. Ma si interruppe per un
attimo, e per la quarta o quinta volta da quand'era spuntata l'alba, disse: «Vorrei che mi faceste venire con voi». «No», ribatté Ista senza rimpianto. «Anche se saresti molto più al sicuro come dama di un prezioso ostaggio, che non tra le mura di una fortezza che sta per capitolare, se dovessi fallire nel mio tentativo, Joen ti darebbe in pasto ai demoni, ruberebbe la tua mente, i tuoi ricordi, il tuo coraggio. Oppure ti userebbe come merce di scambio per gli stregoni-schiavi che Arhys ha ucciso la notte scorsa, e ti affiancherebbe a me non come mia dama bensì come sua spia. O peggio.» E se Ista riusciva nel suo intento... non aveva idea di ciò che avrebbe potuto accadere dopo. I santi non erano più immuni all'acciaio di quanto lo fossero gli stregoni, come il suo predecessore, la defunta santa di Rauma, purtroppo non era più in grado di testimoniare. «Che cosa potrebbe esserci di peggio?» I lunghi colpi di spazzola vacillarono. «Pensate che abbia già asservito Foix e il suo orso?» «Lo saprò tra un'ora.» Il peggio in cui Liss avrebbe potuto imbattersi, se fosse caduta nelle mani di Joen, le venne improvvisamente alla mente. Ora, quella sarebbe stata la perfetta, sacrilega unione di due cuori: dare in pasto Liss all'orso di Foix, e lasciare che l'affetto del ragazzo lo facesse impazzire di orrore e di dolore mentre le loro anime s'intrecciavano... Poi si chiese quale mente fosse più perversa: quella di Joen, nel compiere una simile azione, o la sua, nel pensare a un tale comportamento di Joen. «Li intreccio con dei nastri bianchi?» «Sì, per favore.» La piacevole, familiare sensazione dei capelli che venivano tirati a formare una treccia, proseguì rapidamente. «Se hai anche una minima possibilità, voglio che tu fugga. Questo è il compito più importante che devi svolgere per me. Adesso sei il mio corriere. Diffondi la voce di tutto ciò che è accaduto qui, anche se ti prenderanno per pazza. Lord dy Cazaril ti crederà. Costi quel che costi, devi andare da lui.» Alle sue spalle, silenzio. «Ripeti: Lo prometto, Royina», le ordinò con fermezza. Una piccola esitazione ostinata, poi un sussurro: «Lo prometto, Royina». «Bene.» Liss strinse l'ultimo nodo, poi s'inginocchiò e le fece calzare un paio di graziosi sandali bianchi, legando i lacci attorno alle caviglie. Quando fu pronta, Ista uscì nel porticato. Lord Illvin era appoggiato contro la parete esterna, con le braccia conserte. Sembrava che anche lui avesse trovato una mezza tazza d'acqua per lavarsi, perché, anche se emanava ancora un olezzo piuttosto intenso, le
mani e il volto appena sbarbato erano puliti. Indossava i colori del lutto di corte, nei leggeri tessuti di quell'estate settentrionale: stivali neri, calzoni neri di lino, una tunica nera senza maniche, in cui risaltavano delle righine create con cordoncini color lavanda, e attorno alla vita portava una fascia di broccato lilla con nappe nere. Nella calura del meriggio, era stato dispensato del peso della sopravveste color lavanda, benché un ansioso Goram indugiasse con l'indumento ripiegato sul braccio. Goram aveva raccolto i capelli del padrone nell'elegante acconciatura, composta di trecce legate dietro il capo, che Ista aveva visto la prima volta; la coda nera striata di grigio, che gli ricadeva sulle spalle, era legata con un cordoncino color lavanda. Illvin si raddrizzò quando la vide, e le rivolse una riverenza appena accennata, troncata a metà a causa delle vertigini dovute alla perdita di sangue. «Che cosa significa?» chiese sospettosa. «Be', non pensavo che foste lenta nel capire, cara Royina. Secondo voi cosa ci faccio qui?» «Voi non venite con me.» Le sorrise. «Peserebbe in modo eccessivo sull'onore di Porifors il fatto di consegnare la Royina Vedova di tutta Chalion-Ibra nelle mani del nemico senza neanche una scorta.» «È quello che ho detto anch'io», borbottò Liss. «Voi comandate la fortezza», protestò Ista. «Non potete andarvene in questo momento.» «Porifors è uno sfacelo. Qui c'è poco da difendere, e il numero di uomini in grado di difenderla è troppo esiguo, anche se preferirei nascondere questo fatto a Sordso ancora per un po'. Le trattative di questa mattina per la vostra consegna ci hanno fatto guadagnare ore preziose, che non saremmo riusciti a conquistare nemmeno con il sangue. Quindi, se questa deve essere l'ultima sortita di Porifors, la reclamo di diritto. A causa della disgraziata situazione, nella mia ultima pessima idea, non ho potuto unirmi a loro per correggere la mia strategia. Ma tale logica, qui, non prevale.» «La vostra presenza non avrebbe cambiato il risultato.» «Lo so.» Sconcertata, Ista lo studiò. «Non è che per qualche strana bizzarria state cercando di superare vostro fratello?» «Non ci sono mai riuscito prima; non vedo perché dovrei farlo adesso. No.» Le prese la mano e con il pollice le massaggiò il palmo con movimenti circolari. «In gioventù, ero allievo dell'Ordine del mio Dio, ma non
mi sono accorto del sussurro della vocazione. Adesso non ho intenzione di lasciarmela sfuggire. Be', del resto non vedo come potrei, quando mi schiaffeggia sulla testa e urla: Seguimi! con una voce che farebbe crollare delle travi. Ho trascorso gli anni della maturità senza una meta, per mancanza di una direzione migliore. Adesso ho una direzione migliore.» «Per un'ora, forse.» «Un'ora sarà sufficiente. Se è l'ora giusta.» Lo sconsolato paggio di Arhys entrò nel cortile e fermandosi ai piedi della scala, gridò: «Royina? Sono venuti a prendervi, all'entrata posteriore». «Arrivo», gli rispose lei gentilmente, poi guardò Illvin con aria accigliata. «Ma i jokoniani vi faranno venire con me?» «Saranno contenti di avere un altro prigioniero di rango, nel frattempo, così travestito, potrò studiare il loro accampamento e l'entità delle loro forze.» «Che genere di ricognizione pensate di poter fare come prigioniero?» Lo fissò, socchiudendo gli occhi. «E quale sarebbe il vostro travestimento?» Le sue labbra s'incresparono. «Da codardo, cara Ista. Dato che credono che vi stiamo tradendo per salvare la nostra proprietà, penseranno che mi sono aggrappato a voi per salvarmi la pelle.» «Non credo che penseranno una cosa del genere.» «Allora, tanto meglio per la mia povera reputazione.» Ista sbatté gli occhi, iniziando a sentirsi un po' stordita. «Se fallisco, vi daranno in pasto ai demoni. Un vero e proprio banchetto per qualche ufficiale-stregone jokoniano. Magari Sordso in persona.» «Ah, ma se voi avrete successo, Royina! Non avete pensato a ciò che farete dopo?» Lei distolse lo sguardo da quegli occhi neri e penetranti. «Il dopo non è un compito che mi riguarda.» «Proprio come pensavo», ribatté Illvin con un tono di trionfo. «E voi accusate me di essere bizzarro! Andiamo?» Si ritrovò la mano posata sul suo braccio mentre stava ancora cercando di decidere se era convinta o solo confusa. L'aiutò a scendere le scale come se avanzassero insieme per un matrimonio, un'incoronazione o una celebrazione, oppure nella sala da ballo nel palazzo di un Roya. L'illusione svanì anche fin troppo presto, mentre attraversavano lo spettrale sfacelo del cortile a forma di stella (altri due cavalli giacevano morti e rigonfi quella mattina). Superarono l'ombra dell'arcata, ed entrarono nel
caos del cortile d'ingresso. Una dozzina di uomini era assiepata sulle mura, di fronte alla delegazione jokoniana che attendeva all'esterno; in pratica, quasi l'intera guarnigione ancora in grado di reggersi in piedi. Una larga, familiare figura in abiti poco familiari, attendeva accanto al torrione. Ista e Illvin, seguiti da Goram e Liss, si fermarono. «Erudito.» Ista gli rivolse un cenno del capo. Aveva tolto gli inconfondibili abiti dell'Ordine e indossava un assortimento d'indumenti di tutti i colori, tranne il bianco, notò Ista. «Royina.» Deglutì. «Prima che voi andiate... volevo chiedere la vostra benedizione.» «Allora è un felice incontro; prima di andare, intendevo chiedere la vostra.» Si alzò in punta di piedi, si appoggiò al suo ventre tristemente ridotto, e lo baciò sulla fronte. Se la luce divina gli aveva trasmesso qualche messaggio, era troppo sottile persino per il suo occhio interiore. Dy Cabon deglutì e poggiò la mano sulla fronte di Ista. Qualunque benedizione cerimoniosa avesse avuto intenzione di dispensare gli sfuggì, perché scoppiò in lacrime; riuscì solo a balbettare: «Bastardo aiutaci!» «Sst, sst», cercò di calmarlo Ista. «Va tutto bene.» O bene nel limite del possibile, viste le circostanze. Lo osservò con attenzione. Le ore insonni lo avevano scosso profondamente. Il rito di sangue sulla torre settentrionale era stato ancora più straziante. Il suo Dio aveva logorato e minato la sua anima quasi fino al punto di rottura, portandolo vicino al crollo, anche se lui non se ne rendeva conto. Gli Dei erano stati particolarmente fortunati a incontrarli sulla strada che conduceva al Loro obiettivo a Porifors, oppure ce l'avevano messa veramente tutta... Che dy Cabon non sia la Loro seconda sortita? Per i cinque Dei! era possibile chiedere che il suo fardello venisse trasferito a lui? L'idea stessa la scosse, e sbatté gli occhi per schiarirsi la vista. Aveva la spaventosa convinzione che la risposta fosse sì. Sì. Sì! Che la responsabilità del disastro passasse a qualcun altro, non a lei, non di nuovo a lei... Tranne che le probabilità di dy Cabon di sopravvivere al successo, per non parlare del fallimento, le sembravano persino inferiori alle sue. Si trattenne dall'impulso di gettarsi ai suoi piedi e di pregarlo di prendere il suo posto. No. Ho pagato per avere questo posto. Mi sono svuotata, tanto mi è costato. Non vi rinuncerò per nessun uomo al mondo.
«Fatevi coraggio, dy Cabon, altrimenti andatevene», borbottò Illvin accigliato. «Le vostre lacrime la innervosiscono.» Dy Cabon deglutì di nuovo, riacquistando a fatica un minimo di controllo. «Mi dispiace. Sono così dispiaciuto che i miei errori vi abbiano condotta qui, Royina. Non avrei mai dovuto rubare il vostro pellegrinaggio. È stato un gesto presuntuoso.» «Be', certo, se non fosse stato voi, gli Dei avrebbero dovuto semplicemente mandare qualcun altro a compiere gli errori.» Che avrebbe potuto fallire lungo la strada. «Se volete servire me, allora dovete vivere, per essere un testimone. Il vostro Ordine deve conoscere tutta la verità su quanto è accaduto qui, in un modo o nell'altro.» Il Divino annuì con ardore, poi fece una pausa, come se avesse trovato la sua offerta di liberazione più difficile da accettare di quanto si aspettasse. Fece un inchino e indietreggiò. Illvin si tolse la spada e la porse a Goram. «Conservala fino al mio ritorno. Non ha senso regalare la lama di mio padre a Sordso, a meno che non sia puntata contro di lui.» Goram fece un mezzo inchino e tentò di controllare l'emozione, ma i suoi lineamenti finirono con l'esprimere una smorfia di dolore. Ista abbracciò Liss, la quale, lanciando un'occhiata a dy Cabon, cercò di non piangere a sua volta. Dopodiché, Illvin l'aiutò a superare il buio e stretto andito sotto la torre. La porta si aprì alla luce, e un soldato grugnì sollevando qualcosa che ricadde con un tonfo sordo, poi si fece da parte per lasciarli passare. Il tonfo era stato causato da una stretta passerella che era caduta sul fossato che si apriva davanti al muro del castello. Illvin ebbe un attimo di esitazione, pensando a tutti i crolli che Porifors aveva subito il giorno prima, e si domandò se quella passerella fosse stregata in modo altrettanto perfido. Ma poi con passo svelto l'attraversò. Questa si arcuò in modo preoccupante, al centro, ma resistette. Ista guardò la delegazione jokoniana schierata davanti alla porta per accogliere la sua resa: una dozzina di uomini a cavallo, perlopiù soldati, insieme con tre ufficiali. Riconobbe immediatamente il Principe Sordso. Il traduttore-ufficiale si trovava al suo fianco, palesemente nervoso. Anche l'altro ufficiale, un uomo corpulento dalla pelle coriacea e bronzea, e capelli ramati striati di grigio, era uno stregone-schiavo che Ista riconobbe subito per la luce del demone che lo avvolgeva. Come nel caso di Sordso, un filo intrecciato di luce fluttuava dal suo ventre verso le lontane tende
verdi. Altrettanto vincolata era la donna che cavalcava dietro a un servo, nello stile roknari, seduta di traverso su una sedia imbottita, montata sulla parte posteriore del cavallo, coi piedi appoggiati su un predellino. La strega indossava eleganti abiti con lo strascico, e un cappello a falda larga legato sotto il mento con nastri verde scuro. Era molto più giovane di Joen, benché non fosse più una fanciulla. Fissava intensamente Ista. Ista uscì dopo Illvin, tenendo gli occhi fissi sul suo volto e non sull'oscura voragine sottostante, sul fondo della quale spuntavano rocce appuntite e scintillanti schegge di vetro. Quando entrambi superarono la passerella, essa venne ritirata e chiusa con un colpo secco. La donna si avvicinò. Nello stesso istante in cui Ista alzò gli occhi per restituirle uno sguardo infuocato, la luce del demone dentro di lei si spense, lasciando la mera espressione di un volto, non i colori di un'anima. Il respiro le si serrò in gola, e tornò a guardare Sordso. Adesso non era che un giovanotto dai capelli biondi, su un cavallo nero che s'impennava. Nessuno stregone alzò le mani per ripararsi gli occhi, accecato dal fulgore della luce divina di Ista, né i demoni si ritrassero: lei non riusciva a vedere i demoni dentro di loro. Mi è stata rubata la vista interiore. Sono cieca. Mancava qualcos'altro. Anche la pressione del Dio sulla schiena, che l'aveva sospinta facendola fluttuare come in un sogno, da quell'alba macchiata di sangue sulla torre settentrionale, se n'era andata. Dietro di lei, incombeva solo un vuoto silenzio. Infinitamente vuoto, proprio come qualche minuto prima era infinitamente pieno. Cercò disperatamente di pensare quand'era stata l'ultima volta in cui aveva percepito le mani del Dio sulle spalle. Era sicura che fosse con lei nel cortile posteriore, quando aveva parlato con dy Cabon. Pensava che fosse stato con lei quando aveva messo piede sulla passerella abbassata sul precipizio. Non era con me quando ne sono scesa. I suoi inutili occhi esteriori si annebbiarono per il terrore e per un senso di smarrimento. Riusciva appena a respirare, come se il petto fosse stretto da robuste corde. Dove ho sbagliato? «E quello chi è?» chiese il Principe Sordso, indicando Illvin. Lo stregone dalla pelle bronzea avvicinò il proprio cavallo a quello del principe e abbassò uno sguardo sorpreso su Illvin, che lo guardò freddamente. «Credo che si tratti di Ser Illvin dy Arbanos in persona, Vostra Altezza; il fratello bastardo di Lord Arhys, il flagello dei nostri confini.»
Sordso inarcò le sopracciglia. «Il nuovo comandante di Porifors! Che cosa ci fa qui? Chiedetegli dov'è l'altra donna», disse, rivolto al traduttore. L'ufficiale avvicinò il cavallo a Illvin. «Voi, dy Arbanos! Ci eravamo accordati per la Royina Vedova e la figlia del March di Oby», disse in ibrano. «Dov'è Lady Cattilara dy Lutez?» Illvin gli rivolse un leggero inchino ironico. I suoi occhi neri erano gelidi. «È andata a raggiungere il marito. Quando la scorsa notte, in cima alla torre, ha compreso che era morto, si è gettata dal parapetto offrendo il proprio dolore alle pietre sottostanti. Adesso attende di essere sepolta, quando voi vi ritirerete, come concordato, e noi potremo raggiungere di nuovo le nostre tombe. Sono venuto al suo posto, e per servire la Royina Ista come guardia e servitore. Avendo visto il vostro esercito e la sua dubbia disciplina già una volta, la Royina non desiderava portare con sé le sue dame.» Il traduttore si accigliò, e non solo per l'insulto sottinteso nelle parole di Illvin. Ripeté le informazioni a Sordso e agli altri. La strega fece segno al suo cavaliere di avvicinare il cavallo. «È vero?» chiese. «Andate a controllare voi stessi», ribatté Illvin, rivolgendole un inchino. «Credo che il Principe Sordso sia in grado di riconoscere i resti di sua sorella Umerue da questa distanza, se fosse ancora... be', viva, e se dimorasse ancora nel corpo di Lady Cattilara dietro a quelle mura.» Il traduttore trasalì, ma Ista non seppe dire se per la sorpresa del messaggio di Illvin o per la lingua che aveva usato. Sordso, l'ufficiale dalla pelle bronzea e la strega girarono contemporaneamente la testa verso Porifors, con un'espressione intensa e concentrata. «Nulla», sussurrò Sordso dopo un attimo. «È morta.» La strega lanciò un'occhiata a Illvin. «Quello sa troppo.» «La mia povera cognata è morta, e la creatura che voi avete perso è fuggita e non potrete riprenderla», ribatté Illvin. «Vogliamo chiudere qui la faccenda?» A un cenno del principe, due soldati smontarono. Il primo prese la precauzione di controllare se Illvin nascondesse armi nella fascia e negli stivali; lui sopportò le loro mani con un'aria di annoiato fastidio. La tensione irrigidì il suo corpo longilineo quando uno dei soldati si avvicinò a Ista, ma si rilassò quando vide che l'uomo s'inginocchiava accanto alle bianche gonne. «Dovete togliervi le scarpe», la informò il traduttore. «Camminerete a piedi scalzi e a capo scoperto alla presenza dell'Augusta Madre, come si addice a una donna inferiore e a un'eretica quintariana.»
Illvin sollevò il mento e serrò la mascella. Qualunque fosse l'obiezione che stava per esprimere, comunque, se la tenne per sé. Era una sottigliezza interessante, pensò Ista, che non avessero chiesto che anche Illvin si togliesse gli stivali. Quella disparità non faceva che ribadire la sua impotenza nel proteggerla. Le mani dell'uomo afferrarono i lacci che Liss aveva legato alle caviglie di Ista. Le sfilò i leggeri sandali dai piedi e li gettò da parte. Poi si rialzò, indietreggiò e rimontò sul cavallo. Sordso avvicinò il suo destriero, scrutandola dall'alto da capo a piedi. Ebbe un sorriso arcigno di fronte a ciò che vide o, possibilmente, a ciò che non vide. A ogni modo, non ebbe paura di volgerle la schiena, perché con un gesto deciso le fece capire di mettersi direttamente dietro il suo cavallo, nella colonna che si stava formando. Illvin cercò di porgerle il braccio, ma l'ufficiale dalla pelle bronzea estrasse la spada e con essa gli indicò di camminare dietro Ista. La mano di Sordo sì alzò e si riabbassò dando il segnale di incamminarsi. Ista cercò a tentoni nella propria mente, all'interno di un'oscurità echeggiante. Rivolse silenti maledizioni al Bastardo. Poi, silenti preghiere. Non le venne restituito nulla. Erano gli stregoni jokoniani i responsabili di quella situazione? Come potevano configgere un Dio nel regno della materia? Di sicuro quegli avversari non erano in grado di sopraffare questo Dio... Non era il fallimento del Dio, quindi, ma il proprio. Le porte del suo spirito erano state in qualche modo richiuse, infrante e abbattute, ostruite con pietre di paura, rabbia o umiliazione, negandole quel passaggio appena aperto... A un certo punto, in quegli ultimi minuti fuggenti, doveva aver commesso un errore, qualche errore mostruoso. Forse ci si aspettava che trasferisse il suo compito, che affidasse il Dio a dy Cabon. Forse tenerlo per sé era stata una grande presunzione, un'enorme, fatale presunzione. Un'arroganza smisurata, pensare che un simile compito fosse stato affidato a lei. Chi sarebbe stato tanto stupido da affidare un simile compito a lei? Gli Dei. Due volte. Era un mistero, come esseri tanto immensi potessero sbagliarsi in modo tanto macroscopico. Lo sapevo che non dovevo fidarmi di loro. Eppure eccomi qui, di nuovo... La colonna deviò per dirigersi verso il bosco, curvando attorno a un piccolo avvallamento coperto di letame che impregnò gli zoccoli dei cavalli e dal quale si levava un lezzo di acqua stagnante. Riusciva a sentire la lunga
falcata di Illvin dietro di sé, e il suo respiro affannato, che rivelava il suo stato debilitato molto più del suo volto. Il bosco si stagliò davanti ai suoi occhi, e la sua ombra fu come un sollievo benedetto dal sole martellante. Ma non fu così benedetto, dopotutto, né un sollievo di alcun tipo. Marciarono in mezzo a una fila di cadaveri lasciati appositamente lungo il percorso, come a farne dei testimoni: c'erano i corpi degli uomini di Porifors uccisi la notte prima durante la sortita di Arhys. Erano stati denudati, e le ferite esposte, perché le iridescenti mosche verdi che ronzavano attorno potessero banchettare. Guardò di sottecchi la fila di pallidi corpi, e li contò. Otto. Otto, dei quattordici che avevano cavalcato contro cinquecento. Sei dovevano essere ancora vivi e tenuti prigionieri da qualche parte nell'accampamento, quindi, feriti e catturati. Il corpo muscoloso di Foix non era tra le figure immobili. Quello di Pejar sì. Guardò di nuovo e rifece il calcolo: cinque ancora vivi. Infatti ne vide un altro, ma non era un corpo. Più un... ammasso. Una lancia era stata conficcata nel terreno dietro a quello sfacelo, con la testa sfigurata di Arhys esposta in cima all'asta, che scrutava senza occhi il campo nemico. Quegli occhi un tempo meravigliosi erano stati strappati da un soldato impazzito dalla paura, che si era voluto vendicare su quel corpo svuotato. Troppo tardi. Se n'era già andato prima che tu arrivassi, jokoniano. I piedi scalzi inciamparono su una radice, e lei ansimò per il dolore. Illvin allungò il passo e la sorresse per un braccio, prima che finisse lunga distesa per terra. «Ci vogliono tormentare. Guardate dall'altra parte», le disse a denti stretti. «Cercate di non svenire. O vomitare.» Lui ha tutta l'aria di essere sul punto di fare entrambe le cose, pensò. Il suo colorito era grigio come quello dei cadaveri, benché i suoi occhi ardessero di una luce che lei non aveva mai veduto nel volto di un uomo. «Non è questo», gli sussurrò di rimando Ista. «Ho perso il Dio.» Illvin aggrottò le sopracciglia con aria costernata e confusa. L'ufficiale dalla pelle bronzea, con la spada puntata, fece loro cenno di proseguire, anche se non fece nulla per allontanare Illvin da Ista. Forse anche lei sembrava sul punto di svenire. Pensò che la definizione di Illvin fosse precisa: tormentare. Nell'ipotesi che uno di loro due tenesse ancora nascosto qualche potere arcano, o solo un po' di forza, quell'esibizione l'avrebbe senz'altro spinto a qualche furio-
so e futile atto contro i nemici compiaciuti. Se lei fosse stata una strega, o una spadaccina, avrebbe giurato che il principe non sarebbe sopravvissuto al ghigno soddisfatto che aveva gettato oltre la spalla, mentre lei passava incespicando davanti ai resti di Arhys. Da una santa fallita, i jokoniani erano abbastanza al sicuro, a quanto sembrava. «Volevano che Catti ci passasse davanti», mormorò a bassa voce Illvin. «Se mi fossi unito a loro, e ai cinque Dei piacendo, sarei stato uno di quelli da venire a raccogliere...» I suoi occhi non smettevano di correre da una tenda all'altra, ripercorrendo l'itinerario della distruzione della notte prima, valutando la condizione degli uomini e dei cavalli mentre passavano. Rivoli argentati gli rigavano il volto, ma la sua mano li asciugò con un gesto di spregio, sotto lo sguardo di poche decine di soldati che si erano raccolti per seguire la colonna con i prigionieri e che li schernivano. Ista non conosceva a sufficienza il vile roknari da comprendere gli insulti, ma non c'era dubbio che Illvin li capisse, tuttavia sembrava ignorarli. A un certo punto le sussurrò: «Non hanno intenzione di togliere il campo. Stanno preparando un assalto. Ah! una cosa è chiara: non sanno fino a che punto ci siamo indeboliti. Altrimenti si preparerebbero per un'irruzione...» Ista tentò ancora di estendere i propri sensi accecati per percepire l'afflato del Dio, ovunque fosse. Nulla. Joen e Sordso avevano esposto la testa di Arhys lungo il sentiero perché fosse un simbolo del loro fallimento, una mazzata per farli cadere nella disperazione. Mi chiedo se Arvol dy Lutez si sia sentito altrettanto orbato, quando i suoi capelli ciondolanti toccarono l'acqua per la seconda volta. Eppure il simbolo si ritorceva contro i nemici, perché il ricordo della sconfitta era anche il ricordo del trionfo. Una presenza in un'assenza. Strano. Il Dio potrà anche essere assente, ma io sono ancora presente. Forse questo è un compito per la materia, per realizzare ciò che la materia meglio sa fare: resistere. Aspirò profondamente e continuò a camminare. Giunsero davanti alla più grande delle tende verdi. Un lembo era arrotolato, mostrando l'interno che sembrava la sala del trono. Il suolo era ricoperto di tappeti. Un palco occupava la parte posteriore, sul quale erano disposte due sedie intagliate, decorate con foglia d'oro, e una serie di cuscini per uomini di rango inferiore. Il colore verde scuro che rappresentava la posata e severa vedovanza materna era ovunque, e sovrastava persino il verdemare delle armature jokoniane, e mai prima di allora Ista aveva odiato tanto quel colore.
La Principessa Vedova Joen indossava una serie altrettanto elaborata di rigide gonne rispetto a quando si erano... per i cinque Dei, era stato solo il giorno prima, a quella stessa ora, che si erano incontrate sulla strada? Occupava lo scanno più piccolo e più basso. Il suo seguito di donne era inginocchiato sui cuscini, e una giovane dall'aspetto grigio e dal volto rotondo, che avrebbe potuto essere un'altra figlia, era accovacciata ai suoi piedi. Ista non era in grado di dire quante di loro fossero streghe. Una dozzina di ufficiali stava penosamente sull'attenti ai due lati. Forse gli undici demoni sopravvissuti erano riuniti per quella... dimostrazione. Dodici. Foix si ergeva rigido tra gli ufficiali jokoniani. Il suo volto presentava lividi e tagli, ma era pulito, ed era stato vestito a nuovo con la divisa e un tabarro con i bianchi pellicani in volo. Aveva un'espressione stordita e sul viso appariva uno strano sorriso, forzato e innaturale. Ista non aveva certo bisogno della vista perduta per sapere che un nuovo scintillante serpente fluttuava dalla donna seduta sullo scanno fino a lui, e che i suoi denti affondavano in profondità nel suo ventre. Anche Illvin lo vide e, se possibile, serrò ancor di più la mascella. Le possibilità di un tormento ancora più crudele erano infinite. Per fortuna il tempo non lo era. L'ufficiale dalla pelle bronzea indicò a Ista di avanzare fino al centro di quella rappresentazione di potere, di fronte a Joen. Illvin venne fermato con una spada qualche passo indietro, alle spalle di Ista che si chiese quale altra umiliazione fosse stata preparata per lei. Oh. Naturalmente. Non umiliazione. Controllo. L'umiliazione di prima era servita a gratificare le truppe di Sordso stordite dall'assalto. La donna lì presente era più pratica. Ista sbatté gli occhi, vedendo Joen per la prima volta senza la vista interiore, senza la vasta, oscura minaccia del demone che occhieggiava torvo dal suo ventre, simile a un pozzo nero come la pece, nel quale si sarebbe potuto precipitare all'infinito. Senza il demone, era semplicemente... una piccola, amareggiata donna di mezza età, incapace d'incutere rispetto. Insignificante. Per i cinque Dei, era proprio insignificante, tutte le sue possibilità rattrappite su se stesse. La sua unica risorsa era la forza di una volontà ostinata. La madre di Ista un tempo aveva riempito la casa della sua autorità da parete a parete. Il marito della Provincara aveva governato la Baocia, ma tra le mura del suo castello persino lui aveva vissuto sotto la paziente sopportazione della consorte. Il fratello maggiore di Ista, una volta ereditata la sede del padre, aveva trovato più semplice spostare la capitale, per sfuggire
alla madre, piuttosto che cercare di reclamarne il dominio. Tuttavia, anche nei suoi momenti peggiori, la vecchia Provincara aveva conosciuto i suoi limiti, e non aveva scelto uno spazio più grande di quello che era in grado di occupare. Ista ebbe l'impressione che Joen stesse cercando di riempire Jokona con la sua autorità come una donna riempiva la casa, e con le stesse tecniche; e nessuno poteva estendersi tanto in là. In un mondo sconfinato di spazio infinito, uno poteva muoversi a volontà, ma doveva per forza lasciare spazio alla volontà degli altri. Neanche gli Dei lo controllavano appieno. Gli uomini si schiavizzavano a vicenda, ma se c'era una cosa sacra e inviolabile per gli Dei, questa era la silente volontà dell'anima. Joen, invece, si stava impadronendo dei suoi schiavi alla rovescia. Ciò che Joen faceva ai suoi nemici poteva essere descritto come guerra, ma quello che faceva al suo popolo era un sacrilegio. Il Principe Sordso prese posto sull'alto seggio, sistemando il proprio corpo in una posizione che la disciplina demoniaca non aveva ancora sradicato. Si guardò attorno con una smorfia compiaciuta. Quando lo sguardo della madre si posò su di lui, si raddrizzò con aria attenta. Ista venne di nuovo attirata dalla principessa dal volto rotondo, seduta ai piedi di Joen. La ragazza poteva avere quattordici anni, ma era bassa per la sua età, con dita tozze e occhi strani, tipici di quei bambini nati da madri già in là con gli anni e tristemente privi d'intelligenza, e che spesso non vivono a lungo. Era una principessa che non sarebbe sfuggita al potere della madre attraverso il matrimonio in qualche paese lontano. La mano di Joen si posò sul suo capo, benché non nell'atto di una carezza, e a Ista venne in mente una cosa: Sta usando la ragazza come deposito di un demone. L'anima della figlia disdegnata funge da recinto. Il demone che intende mettere dentro di me. Joen si alzò, fronteggiando Ista. In un ibrano dal forte accento, annunciò: «Benvenuta alla mia soglia, Ista dy Chalion. Io sono la Madre di Jokona». Sollevò la mano dalla testa della ragazza, e la protese di scatto, allargando le dita. All'interno di Ista, il Dio si dispiegò. La seconda vista esplose di nuovo nella sua mente come un lampo accecante, fulgido oltre ogni speranza, rivelando un paesaggio terrificante. Vide tutto, con un'unica occhiata: la dozzina di demoni, le linee di potere vorticanti e crepitanti, le anime agonizzanti, lo scuro, denso passeggero di Joen che si contorceva. Il tredicesimo demone che roteava in modo sfrena-
to nell'aria verso di lei, trascinandosi dietro il malvagio ombelico. Ista aprì le mascelle in un ghigno feroce, e lo ingoiò. «Benvenuta alla mia di soglia, Joen di Jokona», replicò. «Io sono la Bocca dell'Inferno.» 26 Un'ondata di luce attraversò il cordone viola scuro che si estendeva da Joen a Ista, e il colore e la brillantezza parvero intensificarsi. Il primo impulso di Joen, provocato dallo shock, era stato quello di rafforzare la propria linea? Per un istante vertiginoso, Ista si chiese chi era la pescatrice e chi il pesce. Poi percepì il demone, che lottava e si dibatteva disperatamente, passare saldamente nelle mani del Bastardo, dentro di sé. Hai preso all'amo un Dio, Joen. Adesso cosa farai? Era come se una galea avesse gettato un rampino su un continente, pensando di rimorchiarlo. «Reca in sé il demone-Dio!» strillò Joen. «Uccidetela subito!» Sì. Così andrà bene... Nell'attimo in cui Joen urlò, il tempo sembrò dilatarsi nella percezione di Ista, come freddo miele che goccioli da un cucchiaio in una mattina d'inverno. Non pensava che si sarebbe dilatato all'infinito. Da dove comincio? chiese Ista alla Presenza dentro di sé. Inizia dal centro, rispose. Il resto verrà da sé. Ista aprì le mani fisiche e lasciò che quelle spirituali seguissero il cordone viola per entrare nel corpo di Joen attraverso quel canale e avvolgere la massa scura e tirarla verso di sé. Joen oppose resistenza, agitandosi e crepitando, spargendo corrosive ombre viola come acqua che si rovesci. Bruciò le sue mani spirituali come vetriolo. Ista ansimò per l'inatteso dolore, che sembrò colpire il centro del suo essere per poi rimbalzare a ogni estremità, come la scossa di una grande ferita che si ripercuote in tutto il corpo. La creatura era molto densa, e orrenda. E grande. Una creatura antica, antica di secoli, e corrotta dal tempo. È ripugnante. Sì, disse il Dio. Continua. Concludi la cavalcata di Arhys. Le mani materiche di Ista erano troppo lente per stare al passo con la sua dirompente volontà. Solo con le mani spirituali districò i fili dell'anima di Joen intrecciatisi col demone. Tuttavia, con la stessa velocità con cui procedeva, Joen scagliò i tentacoli di gelido fuoco bianco per riavvolgere il demone e riportarlo indietro. Il demone squittì.
Lascialo andare, la esortò Ista. Lascialo andare, e occupati di un compito più degno. Persino ora puoi scegliere. No! urlò la mente di Joen. È il mio dono, la mia grande occasione! Nessuno me lo toglierà con la forza, tanto meno tu! Eri una tale nullità, che non sei riuscita nemmeno a salvare la vita di tuo figlio! Il mio avrà il suo posto; l'ho promesso! Ista vacillò, ma la Presenza la sostenne. Continua. I tuoi tentativi d'imporre l'ordine creano una distruzione ancora più grande, disse Ista a Joen. Tu tormenti e demolisci proprio le anime di coloro che più desideri far crescere e che ti amino. Tu possiedi doni più nobili, benché non siano stati sviluppati. Lascia andare, scopri quei doni, e scegli di vivere. La sferza del fuoco bianco fu l'urlo visibile di diniego. In esso Ista riuscì a discernere che non v'era neanche il più piccolo sussurro di assenso. Così sia. Ista si portò alle labbra il grande demone viola scuro, e lo cacciò dentro. Sembrò allungarsi e deformarsi mentre passava, i suoi squittii divennero dolore nella sua bocca, fuoco nella gola. All'interno ci sono delle anime, si rese conto. Molti brandelli di anime antiche, tutte assimilate e annientate insieme. Anime di defunti recenti e antichi. Che cosa ne sarà di loro? I morti appartengono a Noi; separarli trascende il tuo compito. Le anime di coloro che ancora vivono, strappate anzitempo, mentre erano ancora intrappolate nel regno della materia, di quelle te ne devi occupare tu per Nostro conto. E questa? chiese Ista. Il fuoco dell'anima bianca di Joen, intrecciata col demone, stava passando dentro di lei in quel momento. Ghermiva e bruciava. Esce dalle tue mani per venire nelle Mie. Questa non è la quieta dannazione delle anime recise. Effettivamente, il bianco fuoco sembrò ululare, spaccando le orecchie di Ista dall'interno. Non è neanche la guarigione del paradiso. No, infatti, confermò la Voce con un tono di rammarico. Questa è la non-volontà. Quindi passerà col suo demone nel luogo del non-essere. Ista ebbe una visione di un vuoto privo di dimensione; l'immagine filtrò, probabilmente, dalla mente del Dio nella sua: una pozza turbolenta di energia demoniaca, senza forma, senza personalità, senza mente né volontà né canto né parola né ricordi, priva di qualsiasi altro dono di ordine più elevato: l'inferno del Bastardo. Un pozzo di pura distruzione. Da lì, un sotti-
le flusso controllato stillava nel mondo della materia per equilibrare la vita, esattamente a mezza via tra la calda morte che è caos e la fredda morte che è stasi. Finalmente Ista comprese perché l'aggregazione dei demoni di Joen l'avesse innervosita, al di là della minaccia diretta che rappresentava per Porifors. Era possibile che un tale vortice di disordine potesse creare una simile lacerazione tra i due regni, che persino gli Dei avessero difficoltà a richiudere? Così tanta attenzione divina concentrata in un piccolo luogo... In questo momento, un po' di attenzione umana mi gratificherebbe enormemente, mormorò la Voce. Ista notò che non aveva confermato né negato la sua intuizione. Portami il resto del mio piccolo gregge, dolce Ista, più alla svelta che puoi. Ci vorrà indubbiamente un po' di pratica prima che diventi una cosa semplice. Quindi la mia prima prova è una dozzina di demoni in una volta sola? Il dolore bruciante che sentì allo stomaco le diede l'impressione di essere stata costretta a ingoiare piombo fuso. Insieme con quella vomitevole cosa contorta? Be', disse la Voce con tono affabile, c'è; se sopravvivi a questo, in futuro nessun altro demone che si perda nel regno della materia dovrebbe essere per te una sfida troppo gravosa. Ista passò in rassegna un'infinità di obiezioni, a partire da: Che cosa intendi con «se»? ma abbandonò quell'impulso. Iniziare a discutere con quella Presenza non l'avrebbe portata da nessuna parte, tranne a far ridere Lui. Non mi abbandonerai di nuovo? chiese sospettosa. Non ti avevo abbandonato prima... né tu Me, come ho detto. Tenace Ista. Rivolse nuovamente la seconda vista all'esterno. Cercare di vedere il Dio con essa era stato futile come cercare di vedersi la nuca. La bocca di Joen era spalancata, gli occhi rovesciati, il corpo si stava afflosciando. In qualche punto sotto lo sterno, la prima fitta di dolore stava diminuendo, mentre il Dio riportava nel proprio regno l'antico demone e la sua feroce padrona. Poi vide irrompere, ma non verso di sé né verso Joen, una dozzina di cordoni di luce, intrecciati e contratti, che si dimenavano e sussultavano, come se i demoni incatenati su di essi cercassero di sfuggire alla temuta presenza del loro Dio. I corpi umani nei quali avevano preso dimora si stavano muovendo sotto le sferzate frenetiche di quelle presenze. Uno alla volta o tutti insieme? Ista protese le mani spirituali e afferrò un cordone a caso, lasciando scivolare i palmi lucenti su di esso fino al demo-
ne che si trovava in una delle donne del seguito di Joen. Questo era ben coltivato, con parti di tre o quattro anime differenti che vorticavano all'interno. Il fuoco dell'anima bianco dell'ospite vivente era maggiormente discernibile, e lo districò, restituendolo alla donna, in modo imperfetto. Ista inghiottì il demone. La donna inarcò la schiena, poi iniziò ad afflosciarsi. Questa volta, il demone passò con più facilità nelle mani del Dio, quasi immediatamente. Questi cordoni. Li riconosco. La scorsa notte ho trascinato Arhys verso la salvezza con qualcosa di molto simile. Ci sono stati rubati molto tempo fa. Il demone non avrebbe saputo crearli da solo, sai. La Voce aveva una nota rabbiosa, benché solo il minimo riflesso di essa pervenne a Ista, altrimenti ne sarebbe rimasta schiacciata. Ista allungò la mano verso un'altra corda, afferrandola e districandola. Era un uomo, uno degli ufficiali che spalancò la bocca per emettere un urlo. Non riesco a separarli tutti, si preoccupò. Non riesco a farlo nel modo giusto. Hai un grande talento, la rassicurò la Voce. Non è perfetto. Così sono tutte le cose intrappolate nel tempo. Ciononostante, tu hai un grande talento. Quale fortuna per Noi essere assetati di anime gloriose piuttosto che di anime impeccabili, altrimenti saremmo davvero inariditi e terribilmente soli nella Nostra perfetta rettitudine. Prosegui in modo imperfetto, splendente Ista. Un altro e un altro ancora. I demoni fluivano verso di lei, attraverso di lei, sempre più veloci, ma era innegabilmente un processo disordinato. Il demone successivo fu quello di Sordso, la costruzione più complessa che Ista avesse incontrato fino a quel momento. Strati su strati di anime coi loro talenti erano aggrovigliati all'agonizzante, inibito fuoco dell'anima del giovane. Era una struttura stranamente bella. Ista ebbe l'impressione di percepire brandelli di soldati, studiosi, giudici, spadaccini, asceti. Tutte le virtù pubbliche del Generale Dorato, riunite e concentrate: lo schema purificato della perfetta virilità. Raccapricciante. Com'era possibile che una cosa composta di tante anime fosse così freddamente senz'anima? Nessun poeta, tuttavia. Neanche uno. Questa parte scura di anima è diversa, si rese conto, mentre un frammento cominciò a fluire tra le sue dita. Sì, confermò il Dio. L'uomo è ancora vivo, nel regno della materia. Dove? È forse...? Posso tentare di...?
Sì, se pensi di poterlo sostenere. Non sarà piacevole. Ista arrotolò il frammento di oscurità e, formando una matassa, lo mise da parte. Cominciò a pulsare, caldo e denso. Da qualche parte, al limitare della sua vista materica, l'ufficiale jokoniano dalla pelle bronzea stava sollevando la spada, e iniziava a voltarsi. Un'ombra nera, Illvin, cominciò a muoversi. No, non era lui. Ista ignorò tutto e continuò a districare i fili. Sordso aprì la bocca in un grido muto, che però non era quello di un uomo privato della sua espropriazione. Avrebbe potuto essere rabbia. O trionfo. O follia. Poi un'altra corda, poi... l'ultima. Sollevò lo sguardo sia con la vista materica sia con quella interiore sul volto cinereo di Foix nel suo tabarro verde, tra gli ufficiali jokoniani sconvolti. L'ombra viola dentro di lui non aveva più la forma di un orso, ma era distribuita in modo difforme in tutto il corpo. Sembrava che si ritraesse da lei e al tempo stesso che la fissasse affascinato. Indugiò un attimo su quell'ultima corda che aveva nella mano spirituale. La portò alle labbra. E diede un morso. Bene, disse la Voce. Oh. Avrei dovuto chiederlo? Tu sei il guardiano della mia Soglia nel regno della materia. Il custode designato da un Lord non corre a chiedergli se ogni mendicante, sia esso vestito di stracci o di seta, debba essere ammesso o scacciato, altrimenti potrebbe stare egli stesso di guardia alla sua porta. Si presume che il custode usi il proprio buonsenso. Il mio buonsenso? Ista lasciò andare la corda. Tornò indietro con uno scatto in Foix, e lui fu libero. Ovvero... ciò che adesso Foix era diventato, era libero. Il volto del giovane ebbe un fremito; le labbra si aprirono, si serrarono, poi, dopo un attimo, si tesero di nuovo in quell'orribile sorriso tirato di perfetta approvazione. Falsa perfidia; tradimento volatilizzato. È molto meno semplice di quanto appaia. Ista era a malapena consapevole delle grida e del trambusto che regnavano nella tenda. Le voci divennero sempre più deboli e lontane, le figure sempre più sfocate. Si voltò per seguire l'incantevole voce. Ebbe l'impressione di giungere davanti alla porta di se stessa e di guardarvi dentro: una sensazione soverchiante di colori e bellezza, schemi e complessità, musica e canto, tutti infinitamente elaborati, che stupirono i
suoi sensi. Si chiese quanto dovesse essere sconcertante il mondo per un nuovo nato, che non aveva nomi per ciò che vedeva e nemmeno il concetto dei nomi. Pensò che il neonato cominciasse dal volto e dal seno della madre, per poi procedere verso l'esterno... e in una vita intera non riusciva a pervenire alla fine di tutto. Questo è un mondo più grande e strano di quello della materia che ha dato i natali alla mia anima, e persino il mondo della materia trascendeva la mia comprensione. Adesso da dove comincio? Be', Ista, disse la Voce. Hai intenzione di restare o di andare? Non puoi indugiare per sempre davanti alla Mia porta come un gatto, sai. Non ho parole per questo. Vorrei vedere il Vostro volto. All'improvviso si ritrovò in una stanza spaziosa, molto simile a una camera di Porifors. Abbassò gli occhi e fu sollevata nello scoprire che le era stato concesso non solo un corpo, risanato, luminoso e libero dal dolore, ma anche dei vestiti; più o meno quelli che indossava nella realtà, ma ripuliti dalle macchie e con gli strappi rammendati. Alzò lo sguardo, e vacillò all'indietro. Questa volta, Lui aveva assunto le sembianze di Illvin. Era una versione sana e paffuta, ma pur sempre alta e slanciata. L'abito da cortigiano era bianco, con ricami argentei. La bandoliera era di seta e l'impugnatura della spada e l'anello col sigillo brillavano. I capelli, raccolti in trecce nello stile roknari dietro la nuca, terminanti in una lunga e folta coda, erano di un bianco cangiante. Tuttavia, le infinite profondità dei Suoi occhi distrussero l'illusione di umanità, anche se il loro colore nero ricordava l'uomo. «In effetti, mi sarebbe piaciuto», ammise debolmente, «vedere come sarebbe stato Illvin coi capelli bianchi.» «Allora dovrai tornare indietro e aspettare un po'», ribatté il Bastardo. La sua voce era solo leggermente più profonda o calda dell'originale; aveva persino adottato delle inflessioni settentrionali. «Dovrai accettare ogni evenienza, naturalmente; quando giungerà l'ora dei capelli bianchi, se gliene saranno rimasti.» Il corpo e il volto mutarono in cento possibili Illvin in altrettante possibili età: diritto o curvo, magro o grasso, calvo o no. La risata sulle Sue labbra restò tuttavia la stessa. «Vorrei... questo.» Non fu chiaro nemmeno a Ista se il gesto che fece indicasse il Dio o l'uomo. «Posso entrare?» Il suo sorriso si addolcì. «La scelta è tua, mia Ista. Poiché tu non respingi Me, io non respingerò te. Tuttavia, continuerò ad attenderti, se scegli di
ripercorrere la lunga strada verso casa.» «Potrei perdermi lungo la strada.» Distolse lo sguardo. Si sentì colmare da una calma infinita. Nessun dolore, nessun terrore, nessun rimpianto. Le loro immense assenze sembravano lasciare spazio per... qualcosa. Qualcosa di nuovo, qualcosa mai immaginato prima. Se quella era stata l'esperienza di Arhys, non c'era da meravigliarsi che non si fosse mai voltato indietro. «Quindi, questa è la mia morte. Perché l'ho temuta?» «Non mi è mai sembrato che tu la temessi», disse seccamente. Ista si girò a guardare. «Forse nel paradiso c'è ben altro della cessazione del dolore, ma, oh, sembra un paradiso sufficiente. La prossima volta potrebbe... essere doloroso?» Scrollò le spalle. «Una volta che ritorni nel regno della materia, la protezione che posso offrirti è limitata, e i suoi vincoli, ahimè, non escludono il dolore. Questa morte è una tua scelta. La prossima potrebbe non essere così.» Le labbra di Ista s'incurvarono suo malgrado. «Mi state dicendo che potrei ritrovarmi davanti a questa stessa porta tra un quarto d'ora?» Il Dio sospirò. «Spero di no. Dovrei addestrare un altro guardiano. Mi piace l'idea di avere una Royina per un po'.» Gli occhi scintillarono. «E la grande anima del mio Illvin pensa la stessa cosa. Dopotutto, ha pregato Me per avere te. Pensa alla mia reputazione.» Ista pensò alla Sua reputazione. «È tremenda», osservò. Lui si limitò a sogghignare, quel lampo di denti familiare, irresistibile. «Quale addestramento?» aggiunse, sentendosi all'improvviso irritata. «Non mi avete mai spiegato nulla.» «Istruire te, dolce Ista, sarebbe come insegnare a un falcone a volare verso la sua preda. Lo si può fare con grande sforzo, ma si finirebbe coi piedi doloranti e un uccello irascibile, e una tediosa attesa per la cena. Con un'ampiezza d'ali come la tua, è molto più semplice accompagnarti verso l'alto con un semplice gesto del polso e lasciarti volare.» «O precipitare», grugnì Ista. «No. Non tu. Certo, incespichi e ti lamenti a metà dell'abisso, ma alla fine allarghi le ali e t'innalzi.» «Non sempre. Non la prima volta.» Inclinò di lato la testa in un cenno di assenso. «Ma non ero io il tuo falconiere a quei tempi. Noi due ci intendiamo, sai.» Distolse lo sguardo e lo fece scorrere attorno a quella strana, perfetta, ir-
reale stanza. È un'anticamera, pensò, una delimitazione tra l'interno e l'esterno. Ma quale porta era quella giusta? «Il mio compito. È concluso?» «Concluso e ben fatto, mia sincera figlia adottiva.» «Sono arrivata in ritardo per tutto. Per il perdono. Per l'amore. Per il mio Dio. Persino per la mia vita.» Ma chinò il capo sollevata. Concluso era ottimo. Significava che ci si poteva fermare. «I jokoniani mi hanno uccisa, come ha ordinato Joen?» «No. Non ancora.» Sorridendo, Lui si avvicinò e le sollevò il mento. Abbassò la bocca su quella di lei con la stessa audacia dimostrata da Illvin quel pomeriggio sulla torre. Tranne che la Sua bocca non sapeva di carne di cavallo, ma di profumo, e nei Suoi occhi non c'era incertezza. I suoi occhi, il mondo, le percezioni di Ista, cominciarono a vacillare. Le infinite profondità divennero occhi neri arrossati da un pianto disperato. Il profumo divenne carne salata, inaridita, poi fragranza, poi carne. Il dolce silenzio si trasformò in grida e clamore, poi silenzio, poi nuovamente clamore. Un fluttuare indolore divenne una pressione opprimente, mal di testa, sete, che a loro volta si fusero in beatitudine. Penso che abbia avvicinato il piede alla Sua gatta per spingerla a decidere. Non aveva dubbi che avrebbe potuto continuare a eludere quel piede, senza decidere in quale direzione andare. Ma la direzione che Lui desiderava era chiara. Tuttavia, quell'inquietante 'non ancora' almeno suggeriva che non la invitava a ritornare in un corpo trafitto dalle spade. Il Bastardo mi manovra in questo, maledizione a Lui. Era molto confortante poter maledire il suo Dio. Era un Dio che avrebbe sempre potuto maledire, e più l'inventiva era feroce, più Lui avrebbe riso. Un'ottima intesa, davvero, per la sincera Ista. Il senso di vertigine si affievolì, cessò su una bocca riarsa, peso e pressione, clamore e dolore. Su cari, turbati, inquieti occhi, semplicemente umani. Sì. Per di più, il mio Dio imbroglia. Aveva già preparato questa ciotola di crema ancor prima di tenere aperta la porta, e lo sapeva bene. Ista sorrise, e cercò di respirare profondamente. Illvin ritrasse la lingua indagatrice dalla sua bocca e ansimò: «È viva, oh, per i cinque Dei, respira di nuovo!» La pressione opprimente, scoprì Ista, erano le braccia di Illvin che la stringevano. Fissò i rami degli alberi, il cielo azzurro, e il suo volto, china-
to sul proprio. Era arrossato e angustiato; segnato da parte a parte di schizzi di sangue. Ista sollevò debolmente la mano e sfiorò le gocce, rincuorandosi quando si accorse che non sembravano essere sue. Attraverso labbra secche e screpolate sussurrò: «Che cosa è successo?» «Questo è quello che ho pregato di sentire dalle vostre labbra», rispose la voce roca di Foix. Ista alzò lo sguardo e vide che incombeva su di loro. Indossava ancora la cotta di maglia e il tabarro jokoniani, e il suo atteggiamento minaccioso, a guardia dei presunti prigionieri, era piuttosto convincente. Lei e Illvin erano seduti per terra, non lontano dalle tende verdi del comando. Gli occhi di Foix erano cerchiati, ma non sembrava che fossero i jokoniani circostanti a preoccuparlo. «Siete stata condotta nella tenda», continuò Foix a bassa voce. «Avevate un'aria... normale. Indifesa. Poi, all'improvviso, la luce divina è esplosa dentro di voi, tanto intensa che per un breve istante ne sono rimasto accecato. Ho sentito Joen urlare di uccidervi.» Sul suo braccio, la stretta di Illvin si fece più intensa. «Quando sono riuscito a vedere di nuovo», proseguì Foix, e distolse lo sguardo fingendo di stare di guardia, «tutti i demoni nella tenda sembravano correre dentro di voi, come metallo fuso versato da uno stampo. Vi ho vista inghiottirli, anche l'anima di Joen. Tutto finito in un batter d'occhio.» «Tranne una», mormorò Ista. «Eh, uhm. Già, c'era ancora quella. L'ho percepito quando mi avete liberato dal giogo di Joen. Sono quasi schizzato fuori della tenda, ma poi ho riacquistato il controllo giusto in tempo. Il Principe Sordso e alcuni ufficiali stavano sguainando le spade... per i cinque Dei, uno stridore che è sembrato durare un'eternità. Le nocche di Sordso erano bianche.» «Ho cercato di mettermi in mezzo tra voi e loro», intervenne Illvin con voce roca. Si strofinò il naso e sbatté gli occhi. «Già», confermò Foix. «A mani nude. Vi ho visto balzare in avanti... una mossa davvero intelligente. Ma poi Sordso si è girato, avventandosi su Joen.» «A quel punto era già morta», mormorò Ista. «Lo so. Stava iniziando a barcollare, ma la sua lama l'ha colpita giusto... in tempo. O qualcosa del genere. Ha colpito con tale violenza, che ha fatto una giravolta ed è caduto dal palco di schiena. Metà degli stregoni liberati stava scappando, ma giuro che l'altra metà ha avuto la stessa idea di Sordso. Una delle dame di Joen aveva estratto un pugnale, e si stava avvicinando al corpo mentre stava cadendo. Non sono sicuro se sapesse o gliene
importasse che fosse morta... voleva solo pugnalarla. A quel punto c'era una confusione tremenda, tutti urlavano e fuggivano in ogni direzione. Così sono saltato davanti a Illvin e a voi e ho urlato: 'Indietro, prigionieri!' sguainando la spada.» «Maledettamente convincente», borbottò Illvin. «Stavo per saltarti addosso. Tranne che avevo le mani occupate.» «Voi, Royina, siete caduta. Siete semplicemente diventata... grigia, avete smesso di respirare e vi siete accasciata. Ho pensato che foste morta, perché non vedevo più la vostra anima, come una lanterna che venga spenta. Illvin ha cercato di sollevarvi, è caduto, si è rimesso in piedi. Io non osavo aiutarlo e ho lasciato che vi trascinasse fuori, fingendo di sorvegliarlo. Anche la maggior parte dei jokoniani era convinta che foste morta, penso. Uccisa dalla vostra magia, una sorta di magia di morte, ancora una volta come quella tra Fonsa e il Generale Dorato. Quindi, ecco... restate immobile ancora per un minuto, finché non decidiamo cosa fare.» Non era un suggerimento difficile da seguire. Mentre in quel momento lo sarebbe stato qualsiasi altro ordine. Illvin la stava fissando con l'aria di un uomo i cui baci avevano appena riportato indietro dalla morte l'amata e che adesso era troppo terrorizzato per muoversi, per tema di diffondere inattesi miracoli in tutte le direzioni. Ista sorrise stordita della sua deliziosa confusione. «Tutti i demoni sono stati eliminati», li informò con una voce vaga, sognante, in caso nutrissero ancora qualche dubbio. «Questo era il compito per il quale sono stata mandata, e l'ho svolto. Ma il Bastardo mi ha concesso di ritornare.» Il suo era stato un interludio infinito, ma per tutti gli altri, si rese conto, erano passati solo pochi minuti dalla sanguinosa fine di Joen. Comunque per quanto l'alto comando fosse stato decapitato, non tutti gli ufficiali nemici avrebbero continuato a rimanere nella confusione. Nel suo stato di beatitudine era difficile evocare la paura, tuttavia riuscì ad avere un lampo di prudenza. «Penso che dovremmo andarcene adesso. Seduta stante.» «Riuscite a camminare?» chiese Illvin in tono esitante. «E voi?» domandò a sua volta incuriosita. In quel momento, di lui avrebbe detto che poteva al massimo avanzare carponi, nello stato debilitato in cui si trovava. Avrebbe dovuto essere a letto, decise. Preferibilmente, nel suo letto. «No», mormorò Foix. «Dobbiamo portarla in braccio. Riuscite a fingere di essere morta ancora per un po', Royina?»
«Oh, certo», lo rassicurò, e si accasciò grata tra le braccia di Illvin. Per Illvin portarla in braccio si rivelò un'impresa superiore alle sue forze. Una breve discussione, alla quale Ista, in quanto cadavere, evitò di partecipare, si concluse con Foix che aiutò Illvin ad alzarsi sulle gambe tremolanti col suo carico sulla spalla con braccia e gambe che ciondolavano inerti. Quella situazione le rammentò la cavalcata su Piuma. Cercò di non sorridere a quel ricordo. Anche il suo abito bianco era schizzato di sangue, una continuazione, sospettò, dello stesso spruzzo che aveva segnato il volto di Illvin. Riuscì a indovinare qual era la fonte, e rabbrividì. Si allontanarono vacillando. «Girate a sinistra», disse Foix. «Continuate a camminare.» Dei soldati jokoniani si stavano avvicinando. Con la spada, Foix indicò dietro di sé, verso le tende del comando e urlò un paio di ordini in roknari. I soldati corsero via come aveva ordinato il loro apparente ufficiale. Illvin borbottò a denti stretti: «Foix, tu parli con scioltezza il roknari da campo, ma ti prego di lasciare a me le frasi che abbiano più di una sillaba. Quel tabarro non nasconderà tutto». «Per fortuna», ribatté piano Foix. «Eccoci, siamo quasi arrivati ai cavalli.» «Pensi che ci lasceranno tranquillamente avvicinare e portar via i loro cavalli?» chiese Illvin. La sua voce affannosa suonò più curiosa che contrariata. Ista sbirciò a testa in giù con gli occhi socchiusi per valutare il numero delle guardie che si aggiravano nell'ombra. «Sì», rispose Foix, battendo una mano sul tabarro verde. «Sono un ufficiale jokoniano.» «Tu fai affidamento su qualcosa di più di un tabarro», osservò Ista, il suo tono di voce quasi distaccato come quello di Illvin. «Già, perché sei così sicuro che non ci fermeranno?» chiese Illvin, con una punta di nervosismo nella voce, mentre alcuni si giravano a guardarli. «Voi avete fermato la Principessa Umerue?» «No, non all'inizio. Ma questo cosa c'entra adesso?» «Prima non mi sono espressa in modo corretto», bofonchiò Ista. «C'è ancora uno stregone in questo campo. Ma è dalla nostra parte. Mi è sembrata una buona idea. Il Dio non ha fatto obiezioni.» Illvin si tese, girandosi a fissare Foix. «Due», precisò Foix. «Uno stregone e una strega. Se questo è il termine esatto per voi, Royina. Non ne sono sicuro.»
«Non lo so neanch'io. Dovremo chiedere a dy Cabon», ribatté amabilmente. «Giusto», concordò Foix. «Non fate nulla che attiri l'attenzione, comunque. Preferirei evitare di fare cose troppo vistose; c'è un limite a tutto.» «Proprio così», mormorò Illvin. «Bene», disse Foix, fermandosi davanti a una fila di cavalli, «avete qualche preferenza, Lord?» «Qualsiasi cosa che sia già sellata e con le briglie.» Una scelta venne fatta per loro. Alla fine della fila, un enorme e brutto stallone, all'improvviso sollevò la testa e nitrì eccitato. Rizzò le orecchie e cominciò ad agitarsi mentre si avvicinavano, alzando e abbassando la testa, e sbuffando. «Per gli occhi del Bastardo, Royina, potete far tacere quell'idiota di bestia?» borbottò Foix. «Gli uomini cominciano a guardarci.» «Io?» «È voi che vuole.» «Allora mettetemi giù.» Illvin se la fece scivolare tra le braccia, scrutando il suo volto con uno sguardo tanto intenso che per un attimo fu bello quanto un bacio. L'animale posseduto si avvicinò e appoggiò il muso contro il suo corpetto insanguinato, in quella che avrebbe potuto sembrare sottomissione, amore o demenza. Ista l'osservò affascinata. Sul corpo aveva una dozzina di tagli, ma stavano già guarendo a una velocità innaturale. «Sì, sì», mormorò con voce suadente. «Va tutto bene. Non potevi seguirlo nel luogo in cui è andato. Hai fatto quello che hai potuto. Adesso va tutto bene.» Cercò di riscuotersi dalla sua languidezza sognante, dicendo a Illvin: «Credo che sarebbe meglio che lo cavalcassi io, se non vogliamo che ci segua nitrendo fino a spaccarsi il cuore». Si alzò in punta di piedi e osservò il suo dorso. «Però dobbiamo trovare una sella», aggiunse. Foix raccolse una sella da una pila accatastata dietro le bestie e Illvin strinse il sottopancia, mentre Foix sceglieva altri due cavalli. «Come si chiama?» chiese a Illvin, mentre questi univa le mani a coppa per aiutarla a montare. Sembrava una notevole altezza da terra, tipico dei suoi destrieri. Sistemò le gonne alla meglio sulla sella militare, e lasciò che le sue mani calde le guidassero le caviglie nelle staffe. Le sue dita indugiarono sopra i graffi e i tagli che le segnavano i piedi. Illvin si schiarì la gola. «Preferirei non dirlo. È... rozzo. Non è mai stato
il cavallo di una dama. Anzi, non è mai stato il cavallo di una persona sana di mente.» «Oh? Ma voi lo cavalcavate.» Diede un colpetto affettuoso al collo sinuoso; il cavallo girò la testa e strofinò il muso sul suo piede scalzo. «Bene, se d'ora in poi dovrà essere il palafreno di una dama, allora sarà meglio dargli un altro nome. Demone andrà bene.» Illvin la guardò sollevando le sopracciglia, poi un pallido sorriso increspò le sue labbra. «Carino.» Si girò per prendere il suo cavallo, esitando un attimo per raccogliere le forze necessarie per montare in sella. Si sistemò, lasciandosi sfuggire un grugnito di fatica. Di comune accordo, e in silenzio, si misero in marcia a un'andatura posata attraversando il campo confinante. Nel bosco alle loro spalle, qualcosa aveva preso fuoco; Ista riusciva a sentire il fragore attutito delle fiamme e gli uomini che gridavano di portare acqua. Quanto caos era stato liberato sui jokoniani dalla morte di Joen? Non si girò a guardare. «Teniamoci sulla sinistra», disse Illvin. «Non sarebbe meglio nasconderci aggirando quell'altura a nord?» chiese Foix «Alla fine. Più avanti c'è una gola che ci offrirà un nascondiglio più immediato. Procediamo lentamente, comunque, perché potrebbe essere sorvegliata. Almeno, quello è un punto in cui io metterei degli uomini.» Quella calma apparente continuò. I rumori assordanti del campo si affievolirono alle loro spalle, e la vuota campagna cominciò a ostentare un altro pomeriggio, tranquillo, sonnolento, soffocante, un pomeriggio che non era stato consegnato alla stregoneria, agli Dei, e alla follia. «Alla prima occasione», disse Ista, «dovete portarmi Goram.» «Tutto ciò che desiderate, Royina.» Illvin studiò il terreno che stavano attraversando. «Abbiamo intenzione di fare un lungo giro per poi ritornare a Porifors?» chiese Foix, seguendo il suo sguardo oltre le cime degli alberi verso la lontana fortezza. Una spirale di fumo nero si levava ancora da qualche punto all'interno. «Col favore delle tenebre, penso che riusciremmo a entrare.» «No. Se riusciamo a superare la gola, vorrei tentare di raggiungere il March di Oby.» «Non so se la Royina è in grado di fare una cavalcata tanto lunga», ribatté Foix, pensando non solo a Ista, ma anche a loro due che da un momento all'altro avrebbero potuto cadere di sella. «Oppure credete d'incontrarlo sulla strada?» «Non sulla strada. Se il mio intuito è giusto, avremo meno di dieci mi-
glia da percorrere. E se non è ancora lì, i suoi esploratori non tarderanno ad arrivare.» Scesero nella gola, dove trovarono la pattuglia che Illvin aveva previsto. Tra la direzione inattesa che seguivano, la tenuta da ufficiale di Foix e il suo alone di magia, i finimenti jokoniani dei cavalli e il chiaro, arrogante gergo di corte roknari di Illvin, tolsero i picchetti in fretta e furia, lasciandoli passare. Illvin restituì ai soldati il quadruplice segno quaternario, sfiorandosi la lingua col pollice in un muto cenno di scusa al quinto Dio, non appena furono di nuovo nascosti alla vista. Quindi spronarono i cavalli a un'andatura più veloce a ridosso dei ripari che la campagna offriva con piccoli avvallamenti, corsi d'acqua, boschetti e macchie. Percorsero quattro o cinque miglia prima di fermarsi a bere e ad abbeverare i cavalli. Benché numerose colonne di fumo annerissero ancora il limpido cielo azzurro alle loro spalle, Porifors era scomparsa alla vista dietro qualche ondulato crinale. «Riesci ancora a percepire il tuo orso?» chiese Ista a Foix, quando ebbe finito d'immergere la testa nel torrente. Lui si sedette sui talloni e corrugò la fronte. «Non come prima. Joen ci ha fatto qualcosa. Spero che non sia qualcosa di ripugnante.» «La mia impressione», azzardò Ista con cautela, «è che voi due siate stati uniti da tutti questi eventi più rapidamente di quanto sarebbe accaduto, diciamo, in modo naturale. Senza che l'uno o l'altro sia diventato dominante o asservito, vi siete semplicemente fusi. Questo perché ritengo che il tuo demone non ti abbia rubato l'anima, né tu hai depredato i suoi poteri. È stata una libera condivisione.» Foix aveva un'aria imbarazzata. «Mi è sempre piaciuto dare da mangiare agli animali...» «Allontanarti trascende le mie attuali capacità, o le tue attuali esigenze. Hai raggiunto un curioso stato teologico, ma ho il sospetto che non sia unico. Più di una volta mi sono chiesta da dove venissero gli stregoni del Tempio. Adesso lo so. Credo che fosse uno dei compiti della santa di Rauma giudicare chi poteva sostenere questo potere senza soccombervi. Probabilmente dovrai essere istruito dall'Ordine del Bastardo. Sono sicura che il tuo Ordine potrà fare a meno di te.» Foix fece una smorfia. «Io, un Accolito del Bastardo? Non credo che mio padre ne sarà contento. O mia madre. Me la vedo, mentre dà spiegazioni alle sue amiche.» Suo malgrado sogghignò. «Però non vedo l'ora di
vedere che faccia farà Ferda...» Scoccò un'occhiata maliziosa a Ista. «Anche voi vi farete istruire, Royina?» Sorrise. «Tutori, Foix. Una donna del mio rango può chiedere dei tutori, che siano a mia disposizione quando meglio mi aggrada. Penso che questo accadrà molto presto, e che non sarà molto comodo per loro.» Il ricordo di Ferda e la speranza di avere notizie del fratello ebbe la meglio sull'iniziale urgenza di Foix di vezzeggiare Ista, e fu proprio lui a riprendere i cavalli e a spronare i compagni a rimontare. «Arrotola quel tabarro e nascondilo nella sacca», lo consigliò Illvin, sistemandosi sulla sella. «Al Bastardo piacendo, i prossimi esploratori che incontreremo saranno quelli di Oby. Baby-stregone del Tempio o no, una quadrella scoccata per sbaglio non farebbe bene alla tua salute.» «Ah. Sì», concordò Foix, e si affrettò a seguire il consiglio. Illvin osservò lo stallone che portava Ista con tale squisita sollecitudine, che avrebbe potuto avere in mano una brocca d'acqua senza rovesciarla, e scosse la testa per lo stupore, come se fra tutti i prodigi cui aveva assistito in quegli ultimi giorni, quello fosse il più inspiegabile. «Ce la fate?» le chiese. «Non manca molto.» «Dopo aver percorso quel miglio, cavalcare è un'inezia», lo rassicurò. «Temevo che il Dio mi avesse abbandonata, ma sembra che si fosse semplicemente nascosto dentro.» Lasciando che lo trasportassi. Era uno dei giochetti del Bastardo, decise, il fatto che le fosse apparso, la prima volta, sotto i panni di un uomo tanto enorme. Lo aveva fatto di proposito? Persino lei, che ormai ne aveva incontrati tre faccia a faccia, non riusciva a immaginare quali fossero i limiti della preveggenza degli Dei. «Eravate impenetrabile», disse Foix. «Gli stregoni jokoniani non vi avrebbero trascinata al cospetto di Joen se aveste avuto l'aspetto di una sacra. Non erano così stupidi. Ma quando vi siete accesa...» Si zittì. Foix non era un uomo incapace di esprimersi; ma cominciò a capire perché Lord dy Cazaril una volta avesse detto che solo la poesia poteva cimentarsi con gli Dei. Alla fine Foix riuscì a dire: «Non ho mai visto nulla del genere, e sono felice di essere stato presente. Ma se non vedrò mai più qualcosa di simile, andrà bene lo stesso». «Io non ho visto nulla», interloquì Illvin, in tono dispiaciuto. «Però ho visto benissimo quando le cose hanno cominciato ad accadere.» «Io sono felice che voi eravate presente», ribatté Ista. «Ho fatto ben poco», sospirò. «Siete stato un testimone. Questo significa molto per me. E poi c'è stato
quel bacio. Non mi è sembrata una cosa da poco.» Arrossì. «Le mie scuse, Royina. Ero disperato. Ho pensato di riportarvi in vita, come avete fatto voi una volta.» «Illvin?» «Sì, Royina?» «Mi avete riportato in vita.» «Oh!» Continuò a cavalcare immerso in un profondo silenzio. Ma uno strano sorriso apparve sulle sue labbra. Quando poco dopo alzò lo sguardo e si sollevò sulle staffe, facendo appello a un'impensabile riserva di energia, a Ista ci volle un attimo per discernere le pallide spirali di fumo che si levavano da falò ben occultati, indicanti la presenza di un campo nascosto in una valletta con un ruscello. I falò non erano pochi. Seguivano il crinale attorno a una leggera ansa, oltre la quale s'intravedeva una parte più consistente del campo. Erano centinaia di uomini e di cavalli, più che centinaia; non riusciva a quantificarli, seminascosti com'erano. «Oby», annunciò Illvin soddisfatto. «Un tempismo eccellente. Anche se ringrazio gli Dei che non sia arrivato prima.» «Bene», sospirò Ista sollevata. «Io ho finito.» «È vero, e vi ringraziamo per il vostro lavoro, senza il quale, a quest'ora, saremmo tutti morti. Io, d'altro canto, ho ancora millecinquecento jokoniani da scacciare da Porifors. Non so se Oby intendesse attendere l'alba, ma se colpiamo prima...» I suoi occhi s'illuminarono, alternando occhiate penetranti che facevano la somma degli uomini, a sguardi persi nel nulla. Ista evitò d'interromperlo. Una pattuglia si avvicinò al galoppo. «Ser dy Arbanos!» gridò lo stupefatto ufficiale. «Che i cinque Dei siano ringraziati, siete vivo!» Gli uomini si disposero in cerchio attorno a loro, scortandoli verso la parte del campo dove avevano senza dubbio approntato il quartier generale. Una voce risuonò tra gli alberi, e una figura familiare sbucò fuori precipitosamente. «Foix! Foix! Che la Figlia sia ringraziata!» Ferda corse verso di loro; Foix smontò con un balzo, per abbracciare l'impaziente fratello. «Chi sono quegli uomini?» chiese Illvin all'ufficiale di dy Oby, indicando verso una compagnia di uomini a cavallo con l'uniforme nera e verde, seguiti da una folla di persone che si avvicinava a piedi. Alcune correvano, altre procedevano con movimenti pesanti e goffi, altre ancora avevano un'andatura più lenta e decorosa, e tutti chiamavano Ista. Ista restò a guardare dibattuta tra la gioia e lo sgomento. «Che il Bastar-
do mi risparmi, è mio fratello dy Baocia», disse con un tono di voce sbigottito. «E dy Ferrej, e Lady dy Hueltar, e la Divina Tovia, e tutti gli altri.» 27 Lord dy Baocia e Ser dy Ferrej furono i primi ad accorrere. Lo stallone di Ista nitrì e mostrò i denti, tanto che entrambi gli uomini dovettero indietreggiare. «Per i cinque Dei, Ista», gridò dy Baocia, «ma che razza di cavallo è mai questo! Chi è quel pazzo che ti ha messo in sella a questa bestia?» Ista diede un colpetto affettuoso al collo di Demone. «È perfettamente adatto a me. Appartiene a Lord Illvin, ma ho il sospetto che diventerà un prestito permanente.» «Di entrambi i suoi padroni, sembra», mormorò Illvin. Lanciò un'occhiata al campo. «Royina... Ista... amore, per prima cosa devo andare dal March dy Oby a fare rapporto.» La sua espressione si fece più greve. «Sua figlia è ancora intrappolata nel castello di Porifors, se le mura resistono, come prego.» Insieme con Liss e dy Cabon, rifletté Ista, e aggiunse le sue silenziose preghiere a quelle di Illvin. Percepì che le mura erano ancora salde ma, in verità, aveva un'unica certezza: che Goram fosse ancora vivo. «Con le notizie che portiamo», continuò Illvin, «mi aspetto che le sue truppe saranno pronte a partire entro un'ora. Tremo al pensiero delle voci che gli saranno ormai giunte sulla sorte di mio fratello. C'è molto da fare.» «Che i cinque Dei vi guidino. Ma cercate anche di pensare a voi stesso. Non costringetemi a venire di nuovo a cercarvi.» Un largo sorriso aleggiò sulle sue labbra. «Mi seguireste fino all'inferno del Bastardo, cara strega?» «Senza esitazioni, adesso che conosco la strada.» Illvin si sporse dalla sella, le prese la mano e se la portò alle labbra. Lei afferrò a sua volta la sua, e senza darlo a vedere, lo ricambiò con un bacio che gli fece brillare gli occhi, poi, con riluttanza, si staccarono l'uno dall'altra. «Foix», chiamò Illvin, «seguimi.» Dy Baocia si girò verso Foix. «Devo ringraziare voi, giovanotto, per aver salvato mia sorella?» «No, Provincar», rispose lui, rivolgendogli un saluto cortese. «È stata lei a salvare me.»
Dy Baocia e dy Ferrej lo fissarono con uno sguardo privo d'espressione. Ista si rese conto del quadro bizzarro che dovevano rappresentare: Foix, grigio per la fatica, che vestiva un'uniforme jokoniana; Illvin, uno spaventapasseri puzzolente con gli occhi infossati, abbigliato con vesti da lutto; lei stessa, con un abito stropicciato, schizzato di sangue ormai rappreso, scalza, piena di lividi e graffi, i capelli arruffati che completavano l'impressione della totale demenza. «Prenditi cura della Royina», disse Foix rivolto a Ferda, «poi raggiungici nella tenda di Oby. Abbiamo molti fatti da riferire.» Diede una pacca al fratello e si girò per seguire Illvin. Non sentendosi, per il momento, minacciato dall'eccentrico destriero di Ista, Ferda si avvicinò alla spalla di Demone per aiutarla a smontare. Ista aveva le vertigini tanto era esausta, ma una volta a terra rimase in piedi con determinazione. «Bada che questo maestoso cavallo sia ben curato. L'altra notte ha portato fedelmente Lord Arhys. Anche tuo fratello ha fatto parte di quella grande sortita, resistendo alla cattura e a un trattamento penoso. Ha bisogno di riposare, se riesci a convincerlo. Siamo in piedi da ieri mattina all'alba, passando attraverso la fuga, l'assedio e... e cose peggiori. Lord Illvin ha perso moltissimo sangue l'altra notte. Assicurati che gli venga dato subito da bere e da mangiare.» E dopo una pausa riflessiva, aggiunse: «E se cerca di andare in battaglia nello stato in cui si trova ora, atterralo e siediti su di lui. Anche se confido che abbia più buonsenso». Non appena il suo cavallo venne condotto via da un soldato di Oby, dy Ferrej si avvicinò a Ista, togliendola in pratica con la forza dalle mani di Ferda. «Royina! Abbiamo temuto molto per la vostra sicurezza!» «Be', adesso sono al sicuro.» E per calmarlo gli diede un buffetto sulla mano che le stringeva il braccio. Lady dy Hueltar arrivò traballando, al braccio della Divina Tovia. «Ista, Ista, tesoro!» Dy Baocia seguiva Illvin con uno sguardo pieno di interesse. «Penso che sia opportuno che anch'io venga da dy Oby.» «Hai portato con te delle truppe, fratello?» chiese Ista. «Sì, cinquecento cavalieri. È tutto ciò che sono riuscito a radunare in poco tempo, quando queste persone sono arrivate con la tua lettera allarmante.» «Allora devi assolutamente presentarti da dy Oby. La tua guardia avrà forse la possibilità di guadagnarsi la moneta con cui la paghi. Chalion deve
alla guarnigione del castello di Porifors... molto, ma certamente per prima cosa assistenza, e questo il più presto possibile.» «Ah.» Chiamò Ferda e dy Ferrej e si affrettò a seguire gli altri uomini, in parte per la curiosità, in parte, sospettò Ista, perché non vedeva l'ora di sfuggire al suo fastidioso seguito. Ista decise che il problema di spiegare loro le sue avventure senza apparire una pazza poteva essere rimandato - possibilmente all'infinito - facendo domande invece di rispondere. I cinquecento cavalieri, come ebbe modo di scoprire, erano stati seguiti, a quanto sembrava, da un centinaio di persone tra servi, stallieri e cameriere, per assistere la dozzina di dame delle corti di Valenda e di Taryoon che avevano accompagnato Lady dy Hueltar nella missione di riportare Ista a casa. Dy Ferrej, che aveva l'incarico di guidare quel convoglio, aveva fatto dei miracoli, facendogli percorrere quella distanza in una settimana, invece che in un mese. Finalmente Ista riuscì a liberarsi da tutta la gente che l'attorniava e subito chiese di essere accompagnata dove potesse trovare acqua per lavarsi, cibo e un letto. La Divina Tovia, sempre più pratica della maggior parte delle donne del seguito di Ista, e con un occhio al sangue sul suo abito, la spalleggiò. L'anziano medico riuscì a far uscire tutti dalla tenda dove condusse Ista per un bagno e un trattamento rigenerante. Ista dovette ammetterlo, era delizioso e confortante sentire quelle mani familiari su di sé, che applicavano unguenti e bendaggi alle sue ferite. Anche l'ago ricurvo da sutura di Tovia era molto sottile e appuntito, e le sue mani lavoravano veloci al fastidioso compito di ricucire le ferite laddove era necessario. «Cosa diamine sono questi lividi?» volle sapere la Divina. Ista allungò il collo per guardare la coscia dove il medico stava indicando. Cinque macchie violacee formavano un arco. «Per i cinque Dei, Royina», gridò con raccapriccio Lady dy Hueltar. «Chi ha osato farvi questo?» «Queste sono di... ieri, quando Lord Illvin mi ha salvata dalla colonna jokoniana sulla strada.» «Lord Illvin è quel tipo alto e strano che cavalcava con voi?» chiese sospettosa Lady dy Hueltar. «Devo dire che non mi è piaciuto il modo in cui vi ha baciato la mano.»
«No? Be', andava di fretta. Gli farò fare qualche esercizio, in futuro, finché la sua tecnica non sarà migliorata.» Lady dy Hueltar fece una smorfia offesa, ma la Divina Tovia ridacchiò. Ista venne fatta coricare in una tenda sotto la custodia delle dame, ma si alzò poco dopo per sbirciare fuori, quando sentì che molti cavalli stavano lasciando il campo. Era solo metà pomeriggio; in quella lunga giornata d'estate, la cavalleria di Oby sarebbe scesa su Porifors con davanti a sé ancora molte ore di luce per svolgere il proprio lavoro. La scelta del momento, pensò Ista, era eccellente. Massima confusione, disordine e sgomento dovevano essersi diffusi tra le forze jokoniane a causa dei terribili avvenimenti del mezzogiorno, e l'eventualità che una guida competente fosse già emersa - tenuto conto dell'abitudine alla fosca e ottusa obbedienza indotta da Joen - era remota. Finalmente si lasciò persuadere a tornare a letto da coloro che l'amavano. Anche se la Ista che loro pensavano di amare, era una donna che esisteva solo nella loro fantasia. Quella riflessione non la depresse eccessivamente, adesso che sapeva che c'era qualcuno che amava la vera Ista. Si addormentò pensando a lui. Il suono di voci femminili che discutevano la destò da sogni orribili, ma non interamente suoi. «Lady Ista vuole dormire, dopo quello che ha passato», diceva Lady dy Hueltar con durezza. «Non ho intenzione di disturbarla.» «Dovete farlo», ribatté Liss «la Royina vorrà senz'altro avere un rapporto da Porifors. Siamo partiti prima dell'alba per portarle le notizie.» Con movimenti lenti e pesanti Ista si liberò delle lenzuola. «Liss!» gridò. «Da questa parte!» A quanto pareva aveva dormito per tutta la breve notte estiva; era sufficiente. «Ecco guardate cosa avete combinato!» rincarò la dose Lady dy Hueltar. «Cosa?» Lo stupore di Liss era sincero; non aveva gli anni di esperienza di Ista per decifrare le frasi ambigue dell'ormai anziana dama di compagnia. Ista la tradusse con facilità in: Oggi non avevo alcuna intenzione di viaggiare, e adesso vi sarò costretta, accidenti a te, ragazza. Rendendosi conto che non le era possibile scendere dalla branda con un salto, Ista riuscì a fatica a mettersi in piedi prima che il lembo della tenda venisse alzato, facendo entrare un fiotto di luce dorata e una Liss sorridente. Il sorriso e la presenza della ragazza all'apparenza costituivano tutto il rapporto di cui aveva bisogno. Porifors è stata liberata. Nella notte non
c'erano più stati decessi devastanti. Il resto poteva essere appreso in ordine, o senza alcun ordine, così come veniva. «Siediti», la invitò Ista, senza lasciarle le mani. «Raccontami tutto.» «Lady Ista deve essere vestita prima di ricevere i supplicanti», redarguì severa Lady dy Hueltar. «Idea eccellente», ribatté Ista. «Andate a cercarmi degli abiti da indossare. Abiti adatti per cavalcare.» «Oh, Ista, voi non andrete da nessuna parte oggi, dopo tutto quello che vi è successo! Avete bisogno di riposare.» «A proposito», interloquì Liss, «il March dy Oby ha inviato alcuni ufficiali per assicurarsi che il campo venga smontato e trasferito a Porifors il più in fretta possibile. Ferda sta aspettando con alcuni uomini per scortarvi, Royina, non appena sarete pronta. A meno che non preferiate salire su un carro col convoglio dei bagagli.» «Vorrà sicuramente viaggiare nei convogli con noi», replicò Lady dy Hueltar. «È allettante», mentì Ista, «ma preferisco il mio cavallo.» Lady dy Hueltar sbuffò minacciosa e si ritirò. Ista si rivolse con impazienza a Liss. «Riderai del mio nuovo cavallo. Penso che lo si potrebbe considerare come un bottino di guerra, anche se sono convinta che Illvin me ne farà regalo. È quel tremendo stallone di Illvin.» «Quello che era posseduto da un elementale?» «Esatto; ha sviluppato un'improvvisa adorazione per me, ed è sorprendente il modo in cui si umilia, una cosa insolita per un cavallo. Lo troverai molto cambiato, ma se a tuo giudizio non lo fosse, ti prego di dirmelo, e lo terrorizzerò di nuovo. Ma continua tu, cara Liss.» «Be', il castello e la città sono al sicuro, e i jokoniani sono stati dispersi o catturati; la maggior parte è scappata a nord, ma ci sono ancora in giro degli sbandati.» «O anime semplicemente smarrite», commentò Ista asciutta. «Non sarebbe la prima volta.» Liss sorrise. «Abbiamo catturato il Principe Sordso e tutto il suo seguito, cosa che ha fatto un enorme piacere a Lord Illvin e al March dy Oby. Dicono che il principe sia impazzito. È vero che l'avete stregato inducendolo ad accanirsi sulla Principessa Vedova?» «No», rispose Ista. «Mi sono limitata a togliergli l'incantesimo. Penso piuttosto che sia stato un impulso irrefrenabile da parte sua, ma Joen era
già morta prima che la sua spada si abbattesse su di lei; il Bastardo ha preso la sua anima. Mi chiedo se sarebbe un sollievo o un dispiacere per Sordso saperlo. Credo comunque che glielo dirò. Vai avanti. Che mi dici di Lady Cattilara e del nostro coraggioso Divino?» «Be', siamo saliti tutti sulle mura per vedere i jokoniani che vi portavano via. Poi tutto è rimasto tranquillo per un po', dopodiché abbiamo sentito un trambusto terribile provenire da quelle grandi tende verdi, ma non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Lady Cattilara ha sorpreso tutti. Dopo che voi e Lord Illvin siete stati presi in ostaggio, o così tutti pensavamo, si è alzata dal letto. Ha trascinato le sue dame a difendere le mura, dato che quasi tutti gli uomini erano troppo malati per stare in piedi. Sembra che al castello facessero dei tornei di tiro con l'arco, e gli incantesimi degli stregoni jokoniani non avevano distrutto gli archi da competizione. Alcune dame hanno dimostrato di avere un'ottima mira. Le frecce non avevano il potere di penetrare una cotta di maglia, ma ho visto Lady Cattilara conficcarne una nell'occhio di un ufficiale jokoniano. L'Erudito dy Cabon è rimasto con lei; ha giurato che Porifors non sarebbe caduta mentre era ancora la sua castellana. Io invece mi sono messa a lanciare pietre; se ne lanci una da una torre abbastanza alta, acquista un notevole peso prima di atterrare sull'obiettivo, anche se non riesci a imprimere una grande forza al lancio. «Si vedeva chiaramente che quelle dei jokoniani erano semplici azioni per sondare il terreno, ma abbiamo continuato a colpirli. Penso che non saremmo riusciti a resistere a un attacco deciso, ma li abbiamo scoraggiati dall'assalire subito le mura; comunque era troppo tardi, perché le truppe del March di Oby si sono abbattute su di loro, disperdendoli. Lady Catti era splendida quando ha aperto le porte al padre. Ho pensato che sarebbe crollata, scoppiando in lacrime, quando lui l'ha abbracciata, invece è rimasta impassibile.» «Che mi dici di Goram?» «Ci ha aiutati anche lui. Era esausto e febbricitante questa mattina, ecco perché Lord Illvin non lo ha mandato qui, così mi ha detto di riferirvi. Dal momento che vi recherete voi stessa a Porifors, non aveva senso far fare a Goram due volte dieci miglia per incontrarvi.» «Eccellente riflessione. Sì, partiremo subito.» Si guardò attorno; Lady dy Hueltar stava rientrando nella tenda accompagnata da una cameriera che reggeva una pila di abiti. «Ah, bene.» La soddisfazione di Ista svanì quando vide l'abito che la cameriera stava
scuotendo davanti a lei; un bel capo di seta, adatto per una funzione di corte, nel colore verde scuro della vedovanza. «Questo non è un abito da cavallerizza.» «Certo che no, cara Ista», confermò Lady dy Hueltar. «Lo indosserete per fare colazione insieme a noi.» «Prenderò solo una tazza di tè e un pezzo di pane, poi partirò subito.» «Oh, no», la corresse severa Lady dy Hueltar. «La colazione è quasi pronta. Siamo tutti impazienti di festeggiare, adesso che siete di nuovo con noi.» Il banchetto sarebbe durato almeno due ore, calcolò Ista, forse tre. «Una bocca in meno non si sentirà. Voi dovete comunque mangiare prima di smontare il campo; nulla andrà sprecato.» «Lady Ista, abbiate un po' di buonsenso.» La voce di Ista s'indurì. «Io partirò. Se non mi portate gli abiti che ho chiesto, manderò Liss a cercare qualcuno che me li presti.» Lady dy Hueltar assunse un'aria offesa o, possibilmente, sulla difensiva. «Lady Ista, non dovete essere così irragionevole!» La sua voce divenne un sussurro. «Non vorrete che la gente pensi che siete stata di nuovo sopraffatta dai vostri vecchi problemi.» Ista fu tentata, per un pericoloso istante, di verificare quanto potere magico il Bastardo le avesse conferito. Ma l'obiettivo era troppo piccolo e insignificante, a suo modo degno di compassione. Un'adulatrice innata, Lady dy Hueltar si era fatta strada nel mondo in modo confortevole negli ultimi due decenni come compagna dell'anziana Provincara, godendo di una indispensabilità immaginaria e dello stato conferitole dalla sua augusta protettrice. Era chiaro che desiderava che quella piacevole esistenza continuasse, se solo Ista avesse occupato il posto della madre e condotto il suo stile di vita. Ista si girò verso la cameriera: «Tu, ragazza... vai a cercare degli abiti adatti per cavalcare. Bianchi preferibilmente, o di qualsiasi colore, ma in ogni caso, non verdi». La ragazza spalancò la bocca colta dal panico; con lo sguardo andava da Ista a Lady dy Hueltar, combattuta tra due autorità in conflitto tra loro. Ista socchiuse gli occhi. «Perché mai dovete andare a Porifors?» chiese Lady dy Hueltar. Il volto segnato dalle rughe era sull'orlo del pianto. «Col contingente di vostro fratello come scorta, potremmo sicuramente partire direttamente da qui per raggiungere Valenda!»
Doveva preoccuparsi di più di Lady dy Hueltar, decise Ista, perché effettivamente i suoi anni di servizio le avevano fatto guadagnare un certo rispetto. Ma per il momento, Ista voleva partire. Rilassò la mascella e in tono più gentile disse: «Funerali, cara Lady dy Hueltar. Oggi, a Porifors, seppelliranno i morti. È mio solenne dovere partecipare. Desidero che mi portiate gli indumenti adatti, quando ci seguirete». «Oh, funerali», ripeté Lady dy Hueltar, con un tono di sollevata comprensione. «Funerali, oh, certo.» Aveva accompagnato l'anziana Provincara a una moltitudine di quelle cerimonie. Sembrava che negli ultimi anni fosse il loro principale diversivo, pensò freddamente Ista, anche se era tentata di nominarne uno più comune. Almeno Lady dy Hueltar comprendeva i funerali. Non comprenderà questi. Ma non sarebbe stato importante. Per il momento, almeno, il suo vecchio ruolo le sembrava confermato. L'anziana dama s'illuminò all'istante. Di fatto si spinse al punto di andare a cercare lei stessa l'abito da cavallerizza, mentre Liss andava a sellare Demone e Ista ingurgitava un po' di tè e di pane. Il tenue marrone del costume appariva persino bello sullo stallone dal manto rossiccio, pensò Ista, sistemandosi finalmente sulla sella. La cavalcata avrebbe sciolto il suo rigido corpo, almeno. Aveva un mal di testa persistente, ma ne conosceva la causa; e la sua cura si trovava a Porifors. Ferda diede il segnale al contingente baociano che guidava, e Liss si affiancò a Ista. Cavalcarono spediti nella luminosa aria mattutina. Una squadra di uomini di dy Baocia stava portando le macerie fuori dalle porte di Porifors, quando entrò la compagnia di Ista. Lei li osservò lavorare compiaciuta. La ricostruzione sarebbe stata lunga, ma con così tante mani, almeno la ripulitura sarebbe stata effettuata velocemente. Il cortile d'ingresso era già stato risistemato. I fiori avvizziti nei due o tre vasi rimasti intatti sul muro sembravano persino risollevare le corolle. Ista era segretamente grata del fatto che in tutta quella confusione, qualcuno avesse risparmiato un po' d'acqua per loro, e si chiese di chi fossero le mani che lo avevano fatto. Anche l'albicocco e il mandorlo, benché semi spogli, avevano smesso di perdere le foglie. Si augurò che potessero riprendersi. Possiamo fare di meglio che sperare, si rese conto, e rivolse a loro questo pensiero: Vivere. Con la benedizione del Bastardo. Se quel gesto aves-
se conferito agli alberi un qualche particolare vigore, non fu immediatamente evidente, ma confidò nel fatto che l'esito finale non si rivelasse troppo eccentrico. Si sentì alleggerire il cuore quando vide Lord Illvin attraversare a grandi passi l'arcata. Era in ordine, i capelli pettinati, vestito a nuovo, con l'uniforme di ufficiale di Porifors; aveva anche l'aria di essere riuscito a dormire qualche ora. Il più basso e massiccio Lord dy Baocia trotterellava al suo fianco, sbuffando per stare al passo. Di fianco a lui veniva l'Erudito dy Cabon, che agitava con impazienza le mani verso di lei. Con suo sollievo, alle loro spalle vide giungere un affaticato Goram. Con cautela, Goram prese tra le mani la testa del suo cavallo, osservando con diffidenza la nuova docilità della bestia, mentre Ista si lasciava scivolare nelle braccia protese di Illvin, restituendogli il suo segreto abbraccio mentre toccava terra. «Benvenuta, Ista», la salutò Lord dy Baocia. «Adesso, ti senti, uhm, bene?» Aveva un'espressione leggermente stordita, come avrebbe avuto qualsiasi comandante che avesse girato per il castello di Porifors quel mattino. Il sorriso che le rivolse non aveva quella vaghezza cui Ista era abituata, ma tutta la tenerezza di un fratello. Una sensazione molto strana. «Grazie, fratello, sto bene; un po' stanca, ma indubbiamente meno affaticata di molti altri qui.» Lanciò un'occhiata a dy Cabon. «Come stanno i malati?» «Da ieri a mezzogiorno non abbiamo avuto altri decessi, ringraziando i cinque Dei.» E si segnò con sincera gratitudine. «Alcuni si sono persino alzati, anche se ritengo che la guarigione di tutti gli altri sarà lunga, con queste malattie arcane. Molti li abbiamo portati al villaggio per essere curati al Tempio o dai loro parenti.» «Mi fa piacere sentirlo.» «Mi hanno raccontato delle gesta e dei portenti che avete compiuto ieri nelle tende dei jokoniani, con l'aiuto del Bastardo. È vero che siete morta?» «Io... non ne sono sicura.» «Io lo sono», mormorò Illvin. La sua mano strinse quella di Ista. «Ho avuto una strana visione, che prometto di raccontarvi in un momento meno concitato, Erudito.» Be', almeno una parte, comunque. «Per quanto fossi terrorizzato, avrei desiderato essere presente anch'io, Royina! Mi sarei ritenuto il benedetto tra tutti quelli del mio Ordine.»
«Davvero? Allora, fermatevi ancora un momento. Ho un altro compito, che mi preme concludere. Liss, per favore, prendi il mio cavallo. Goram, venite qui.» Con un'espressione sorpresa e sospettosa, Goram ubbidì, avvicinandosi con passo stanco e chinando leggermente la testa. «Royina.» Si stringeva le mani nervosamente, lanciando occhiate supplichevoli al suo padrone. Illvin la guardò preoccupato. Ista osservò per l'ultima volta le vuote cavità nell'anima di Goram, posò le palme sulla sua fronte, e dalle mani spirituali lasciò che fuoriuscisse un flusso di fuoco bianco che andasse a colmare quei contenitori oscuri e vuoti. Il fuoco schizzò in modo caotico entro i suoi nuovi confini, poi lentamente si calmò, come se cercasse un equilibrio. Sospirò di sollievo quando la sgradevole pressione attorno alla testa scomparve. Goram crollò sull'acciottolato a gambe incrociate, la bocca spalancata, nascondendosi il volto tra le mani. Dopo un attimo, le spalle cominciarono a sussultare. «Oh», esclamò con una voce che sembrava provenire da lontano. Di punto in bianco scoppiò a piangere, per lo shock, pensò Ista, e per altre reazioni più complicate. I sogni che aveva fatto durante la notte le avevano fornito qualche indizio. «Lord Illvin; fratello, lui è il Capitano Goram dy Hixar, un tempo al seguito della cavalleria del Roya Orico sotto l'egida di Lord Dondo dy Jironal. Più recentemente al servizio, anche se involontario, di Sordso di Jokona, in qualità di maestro d'armi e di scuderia.» Goram alzò lo sguardo, attonito. Attonito ma non assente; i lineamenti sembravano tendersi via via che l'intelletto veniva risanato. «Gli avete restituito i ricordi e l'intelligenza? Ma Ista, questo è meraviglioso!» gridò Illvin. «Adesso potremo trovare finalmente la sua casa e la sua famiglia!» «Questo resta da vedere», mormorò Ista. «Ma adesso è ritornato in possesso della propria anima, che è di nuovo integra.» Gli occhi grigi come l'acciaio di Goram incontrarono i suoi, e per un attimo non li distolse. Erano colmi di stupore e di una moltitudine di altre emozioni. Ista pensò che una di queste fosse angoscia. Gli rivolse un grave cenno del capo, esprimendogli tutta la sua comprensione. Lui le rispose con un tremulo scatto della testa. «Erudito», continuò, «avevate chiesto il dono della testimonianza, e l'avete ottenuto. Per favore, aiutate il Capitano dy Hixar a ritornare nella sua camera. Ha bisogno di riposare, perché fino a quando non riuscirà a rimet-
tere tutto in ordine, la sua mente e i suoi ricordi saranno molto instabili. Un conforto spirituale non sarà inopportuno, quando si sentirà pronto.» «Certo, Royina», rispose dy Cabon, segnandosi. «Sarà un onore per me.» Aiutò Goram - dy Hixar - ad alzarsi, e lo accompagnò via. Illvin li seguì con lo sguardo, poi tornò a guardare Ista pensieroso, coi suoi occhi neri. Dy Baocia le sussurrò: «Ista, che cosa è accaduto?» «La Principessa Joen, attraverso il suo demone, aveva l'abitudine di sottrarre frammenti dalle anime di altre persone che fossero utili per i suoi stregoni. Tra gli altri, da prigionieri di guerra. Il Principe Sordso era la sua opera più importante, ricolma di simili frammenti. Quando il demone di Sordso è passato attraverso di me, ieri, il Dio mi ha permesso di riconoscere e trattenere la parte appartenente al Capitano dy Hixar, intrecciata agli altri frammenti, e di restituirgliela. Questo è un aspetto del compito affidatomi dal Bastardo: dare la caccia ai demoni nel mondo, estrarli dai loro veicoli, e restituirli al Suo inferno.» «Questo compito... adesso è concluso, vero?» chiese speranzoso. O, forse, preoccupato. Fece vagare lo sguardo sullo scompiglio di Porifors. «Ieri, giusto?» «No, mi aspetto che sia solo l'inizio. Negli ultimi tre anni, Joen ha liberato un vero e proprio flagello di elementali. Sono fuggiti in tutti e cinque i Principati e nelle royacy, anche se, con tutta probabilità, la maggiore concentrazione si trova ancora a Jokona. La donna alla quale era stata affidata questa missione prima di me è stata uccisa a Rauma. Non è per niente facile, per niente facile... essere addestrati a tale compito. Se ho compreso bene il Dio - Lui si diverte con messaggi ermetici e indovinelli - penso che voglia un successore che abbia una protezione migliore, per quello che promette di essere un periodo difficile dal punto di vista teologico.» Gli occhi di Illvin s'illuminarono a quelle parole. «Molte cose diventano chiare adesso», mormorò. «Mi ha detto che non voleva addestrare un altro guardiano», aggiunse Ista, «e che gli andava a genio l'idea di avere una Royina, per un po'. Sono le sue precise parole.» Lasciò che una breve pausa enfatizzasse quell'ultima frase. «Sono stata chiamata. E ho risposto.» E tu, fratello, puoi aiutarmi, oppure toglierti dai piedi. «Penso che formerò una corte itinerante, ristretta e versatile. Probabilmente, le richieste del Dio continueranno a essere faticose dal punto di vista fisico. Il mio segretario, non appena ne nominerò uno, e il tuo, dovranno incontrarsi presto per consegnarmi la mia ren-
dita vedovile, perché dubito che i miei doveri mi riporteranno a Valenda.» Dy Baocia si prese un attimo per assimilare tutto, poi si schiarì la gola, e azzardò: «I miei uomini stanno montando l'accampamento vicino alla sorgente, a est del castello; vuoi trasferirti lì, Ista, oppure preferisci ritornare nei tuoi alloggi qui al castello?» Ista lanciò un'occhiata a Illvin. «Questo dovrà deciderlo la castellana di Porifors. Ma finché questa fortezza non avrà avuto il tempo di riprendersi, non desidero infastidirla col mio numeroso seguito. Riposerò nel tuo accampamento per un po'.» Con un breve cenno del capo, Illvin espresse il proprio apprezzamento per la sua delicatezza, e tutto ciò che ne conseguiva, ovvero: fino a quando i morti non verranno seppelliti. Il fratello si offrì di scortarla nella sua tenda, poiché andava in quella direzione, e Illvin le rivolse un inchino formale. «Oggi i miei impegni sono incessanti», mormorò, «ma più tardi devo parlare con voi della questione di una scorta appropriata per questa vostra corte itinerante.» «Senz'altro», ribatté Ista. «E anche di altre nomine.» «E vocazioni.» «Anche quelle.» Quel pomeriggio, Pejar e gli altri due compagni uccisi dell'Ordine della Figlia vennero seppelliti fuori delle mura di Porifors. Ista e tutta la sua compagnia presenziarono alla cerimonia. Qualche ora prima, l'Erudito dy Cabon era andato da lei tutto afflitto, perché, se da una parte poteva benissimo officiare la funzione (e secondo Ista nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui), dall'altra non aveva animali sacri che indicassero quale divinità avrebbe accettato le anime; quelli appartenenti al Tempio di Porifors erano sovraccarichi e si diceva che fossero sull'orlo dell'esaurimento tante erano le richieste. «Erudito», lo aveva ripreso con dolcezza. «Non abbiamo bisogno degli animali. Ci sono io.» «Ah», aveva esclamato, vacillando all'indietro. «Oh. Naturalmente... visto che siete stata fatta di nuovo santa.» Sotto la luce del sole, s'inginocchiò davanti a ogni salma avvolta nel sudario, posando la mano sulla fronte e pregando per avere un segno. Nei riti presso i principali templi, come quello di Cardegoss, ciascun Ordine mandava un Accolita con un animale sacro, appropriato, per colore e sesso, al
Dio o alla Dea che rappresentava. Le creature venivano incitate, a turno, ad avvicinarsi alla bara; attraverso il loro comportamento, i Divini erano in grado di dire ai dolenti qual era il Dio che aveva accolto l'anima del loro caro defunto e, di conseguenza, a chi rivolgere le preghiere e, non a caso, a quale altare dell'Ordine lasciare le loro offerte più materiali. Il rito offriva conforto ai vivi, sostegno al Tempio, e ogni tanto delle sorprese. Spesso si era chiesta che cosa provassero gli animali addestrati a questo compito. Fu sollevata quando non sperimentò alcuna sacra allucinazione: solo una silente certezza. Pejar e il primo dei suoi compagni vennero accolti dalla Figlia della Primavera, che avevano servito tanto fedelmente, percepì all'istante, e così riferì. L'ultimo uomo, come ebbe modo di scoprire, era diverso. «Curioso», disse a Ferda e a Foix. «Il Padre dell'Inverno ha preso Laonin. Mi chiedo se sia in nome del coraggio dimostrato al fianco di Arhys o... se abbia un figlio da qualche parte. Non era sposato, vero?» «Uhm, no», rispose Ferda. Lanciò un'occhiata alle vesti bianche di dy Cabon e inghiottì qualunque imbarazzo avesse provato per conto del Devoto morto. Ista si alzò dalla fossa. «Allora ti incarico di scoprirlo, e se un bambino c'è ed è vivo, assicurati che venga accudito. Scriverò anche al Santo Generale dy Yarrin. Riceverà da me del denaro per mantenerlo, e il diritto di reclamare un posto nella mia casa, quando raggiungerà l'età, se lo desidera.» «Sì, Royina», disse Ferda. Di nascosto, si asciugò gli occhi col dorso della mano. Il bosco dove si stavano scavando ancora molte fosse per i defunti era stato scelto in una posizione che dominava il bel fiume, e lì molte persone addolorate assistevano ai riti della sepoltura. Quali voci stessero circolando sul suo conto a Porifors, Ista non lo sapeva, ma di lì a un'ora, umili supplicanti cominciarono a rivolgersi a dy Cabon per chiedere l'indulgenza della regale santa per i loro cari. Di conseguenza, Ista trascorse tutta la giornata, fino al tramonto, accompagnata da dy Cabon e da Liss da una fossa all'altra, a riferire le sorti delle anime. Ve n'erano troppe, ma per fortuna non tante quante ve ne sarebbero state se i sacrifici di Porifors non avessero fermato la devastazione che gli stregoni di Joen avrebbero lasciato in tutta Chalion. Ista non respinse le richieste di aiuto di nessuno, perché, di sicuro, nessuno di loro aveva respinto lei. Ogni dolente sembrava avere una storia da raccontarle sul defunto; non perché si aspettasse che facesse qualcosa di
particolare, tranne ascoltare, come comprese alla fine. Servire. Royina, guardate quest'uomo; rendetelo reale nella vostra mente, così come lo è nella nostra; perché nel regno della materia, adesso egli vive solo nei nostri ricordi. Ascoltò finché le orecchie e il cuore non le dolsero. Quando calò la sera, crollò sulla branda come se fosse ella stessa un cadavere. Mentre la notte scorreva, continuò a ripetere mentalmente i nomi, a ricordare volti, frammenti delle esistenze di tutti quegli uomini. Come facevano gli Dei a ricordare le storie complete di tutte le esistenze? Perché Loro ci ricordano perfettamente. Alla fine, esausta, si girò su un fianco e si addormentò. 28 Il funerale di Arhys ebbe luogo il mattino dopo nel piccolo Tempio del villaggio di Porifors, come se un normale Lord di una terra di confine fosse morto in una battaglia normale. Il Provincar di Caribastos con il suo contingente era arrivato troppo tardi per unirsi agli altri soldati, ma in tempo per aiutare a trasportare il feretro chiuso, insieme a dy Oby, dy Baocia, Illvin, Foix e a uno degli ufficiali anziani di Arhys. Una scorta più che onorevole. Qui, l'animale sacro al Padre dell'Inverno era un bel levriero grigio, il cui pelo era stato spazzolato fino a farlo risplendere come argento per l'occasione; si sedette immediatamente accanto alla bara quando l'Accolita lo lasciò andare, e anche in seguito non volle abbandonare il suo posto. Illvin, solitamente loquace, era pallido e di poche parole. Riuscì solo a dire: «Era una grande anima», con voce malferma, poi ritornò subito al fianco di Ista. Era chiaro che qualsiasi altra richiesta di fare un discorso lo avrebbe fatto crollare per l'emozione. Per risparmiarlo, dy Oby e dy Caribastos si fecero avanti per recitare tutte le orazioni, elencando i successi pubblici del loro defunto parente e luogotenente. Anche Lady Cattilara era pallida e silenziosa. Non parlò molto con Illvin, giusto i necessari convenevoli. Non ci sarebbe mai stata esattamente dell'amicizia tra loro; ma Ista ritenne che sarebbero riusciti a rispettarsi a vicenda, grazie al sangue che avevano mischiato sulla torre. Cattilara, la mascella serrata, riuscì persino a rivolgerle un cortese cenno del capo. Per loro tre, quel rito era un addio ridondante, più un fardello sociale da sopportare, che un'ora di commiato. Dopo la sepoltura e il banchetto funebre, Illvin convocò i militari per
una riunione. Lady Cattilara andò a mettere via poche cose, lasciando alle sue dame il compito di preparare tutto il resto, e lasciò il castello sotto la scorta di uno dei suoi fratelli, diretta a Oby. Sarebbe arrivata a destinazione dopo il calare della sera, ma Ista, ricordando l'orrore che aveva provato nei confronti dello Zangre dopo la morte di Ias, non ebbe difficoltà a comprendere il desiderio di Cattilara di non dormire un'altra notte nel vuoto letto matrimoniale. Lungo la strada che conduceva a oriente, Cattilara avrebbe portato nel proprio cuore un immenso dolore, ma non un fardello contorto di odio, rabbia o sensi di colpa. Ciò che alla fine avrebbe riempito quel vuoto, Ista non lo sapeva, ma aveva l'impressione che non sarebbe stato qualcosa di meschino. Nelle prime ore del pomeriggio del giorno dopo, Lord Illvin si recò da Ista, nell'accampamento di dy Baocia. Insieme risalirono il sentiero sopra la sorgente, in parte per la vista che spaziava sul Castello di Porifors e sulla valle che sovrastava, in parte per distaccarsi da tutte le dame del seguito di Ista, tranne l'atletica Liss. Quando si fermarono, con un gesto galante, Illvin adagiò la sua sopravveste su una roccia perché Ista potesse sedersi. Liss nel frattempo gironzolava vicino, guardando con bramosia un'invitante quercia da sughero sulla quale non poteva arrampicarsi a causa dell'abito che indossava. Ista indicò con un cenno del capo il cinturone di Illvin, dal quale adesso pendevano le chiavi di Arhys e di Cattilara. «Il Provincar dy Caribastos vi ha confermato comandante di Porifors, vedo.» «Per il momento», ribatté Illvin. «Per il momento?» Lasciò vagare lo sguardo pensieroso sul crinale dove le mura della fortezza svettavano dalle rocce. «È strano, sono nato a Porifors, ho vissuto quasi tutta la mia vita qui, eppure non l'ho mai posseduta, né mi aspettavo che succedesse. Oggi appartiene a mia nipote Liviana, una bambina di nove anni che vive dall'altra parte della provincia. Tuttavia è la mia casa, ammesso che qualche posto lo sia. Ho una mezza dozzina di piccoli possedimenti a Caribastos, lasciatimi in eredità da mia madre senza il vincolo dell'inalienabilità; ma sono semplici possedimenti, che ho visitato di rado. Eppure, inevitabilmente, Porifors deve essere difesa.» «Inevitabilmente... da voi?» Scrollò le spalle. «È la fortezza principale lungo questo confine.» «Penso che questo confine subirà presto delle modifiche.»
Sorrise per un attimo. «Già. Le acque si stanno agitando nei nostri consigli. Io stesso le sto agitando. Non ho bisogno del genio di Arhys per capire che non vi sarà occasione migliore di questa, e che non può essere sprecata.» «Lo penso anch'io. Mi aspetto di vedere arrivare a Porifors il March dy Palliar e il Cancelliere dy Cazaril entro una settimana. Se le lettere di mio fratello, di dy Caribastos, di Foix non sono servite a smuoverli, allora non sono gli uomini che ho sempre pensato che fossero.» «Credete che lo capiranno? Qui è il momento di rovesciare la strategia di Joen; di calare inattesi su Jokona mentre è così destabilizzata, e aggirare il fianco di Visping... e la campagna potrebbe concludersi ancor prima dell'inizio previsto.» «Non ci vuole la seconda vista per prevedere questo esito», confermò Ista. «Se funziona, dy Palliar verrà senza dubbio acclamato a gran voce per la sua superba strategia.» Illvin sorrise torvo. «Povera Joen, perderà anche questo credito. Avrebbe dovuto essere un generale.» «Tutto, tranne il burattino frustrato che era costretta a essere», concordò Ista. «Che ne sarà di Sordso? Io non credo che sia proprio pazzo, nonostante tutto il piagnucolare e il baciarmi l'orlo del vestito quando sono passata davanti a lui, ieri, nel cortile d'ingresso. Adesso possiede di nuovo la propria anima, anche se ci vorrà del tempo prima che i suoi nervi scossi guariscano.» «Sì, è difficile capire se ci sarà più utile come ostaggio, o se, lasciato libero, diventerà uno dei nostri peggiori nemici.» «Ha parlato di vocazione religiosa, e di conversione alla fede quintariana. Non ho idea fino a quando durerà questo capriccio.» Illvin sbuffò. «Forse d'ora in avanti la sua poesia migliorerà.» «Non mi sorprenderebbe.» I parapetti merlati del castello si ergevano severi e pallidi nella luce scintillante, celando i danni che all'interno venivano riparati. Ista sentiva la debole eco di colpi di mazza. «Quando il futuro marito di Liviana succederà al comando di Porifors, sarà diventato un angolo tranquillo, come Valenda. Credo che questo posto si sia guadagnato la sua pace.» Lanciò un'occhiata a Illvin, che le stava sorridendo. «Vi sono due pensieri, in questo momento, nella mia testa.» «Solo due?» «Duemila, ma due sono prioritari. Il primo è che la mia corte itinerante ha bisogno di un ufficiale competente ed esperto, preferibilmente che co-
nosca questa regione, per dirigere i miei spostamenti e proteggere la mia persona.» Illvin inarcò le sopracciglia con fare incoraggiante. «Il secondo è che il March dy Palliar avrà bisogno di un abile informatore, un ufficiale che conosca Jokona e i jokoniani meglio di chiunque altro, che parli e scriva sia il roknari di corte sia il volgare, che possieda bauli pieni di mappe, carte, piante degli edifici, per consigliare le sue strategie in questa regione. Temo fortemente che questi siano incarichi che si escludono a vicenda.» Illvin si sfiorò le labbra con aria pensierosa. «Potrei menzionare il fatto che parecchie menti militari qui presenti hanno pensato, ciascuna indipendentemente dall'altra, e che un esercito che attualmente voglia marciare a nord sarebbe molto felice di avere un rimedio contro gli stregoni a fianco, nell'eventualità che durante questa campagna si incontrino altri stregoni nemici. Le risorse dedicate alla protezione di una siffatta santa-strega non verrebbero considerate uno spreco. Quindi, il siniscalco della santa e l'informatore del March potrebbero non trovarsi a lavorare così tanto distanti l'uno dall'altro.» Ista lo guardò perplessa. «Uhm? Forse... Se resta chiaro che la santa non serve né Chalion né il Tempio, bensì il Dio, e che deve andare dove Egli la guida. Al seguito del March per un po', ma non sotto le sue tende. Bene, bene, dy Cazaril comprenderà questo aspetto; e credo che riuscirà a farlo entrare nella testa di dy Palliar, è l'unico che possa farlo.» Illvin fissò pensieroso la strada che attraversava la vallata. «Una settimana, avete detto, prima che arrivino?» «Al massimo dieci giorni.» «Uh.» Con le lunghe dita fece tintinnare le chiavi appese al cinturone. «Nel frattempo... In realtà sono venuto fin qui per invitarvi a ritornare nel Castello di Porifors, adesso che abbiamo messo un po' di ordine. Se lo desiderate. Il tempo dovrebbe cambiare, a giudicare dal vento; per domani sera dovremmo avere un po' di gradita pioggia.» «Non la vecchia camera di Umerue, spero.» «No, ci abbiamo messo il Principe Sordso e i suoi guardiani.» «Neanche quella di Cattilara.» «Dy Caribastos e il suo seguito hanno occupato l'intera ala di quel porticato.» Si schiarì la gola. «Stavo pensando a quelle che occupavate prima. Di fronte alle mie. Anche se... temo che non vi sia spazio a sufficienza per ospitare tutte le vostre dame.»
Ista riuscì a non sorridere, o almeno a non farlo in modo appariscente. «Grazie, Lord Illvin; mi farebbe piacere.» I suoi occhi neri scintillarono. La tecnica del baciamano stava decisamente migliorando con la pratica, pensò. Ista si fece precedere dagli indumenti giunti da Valenda. Anche senza tutti i solenni abiti verdi da lutto che aveva lasciato nelle tende del fratello, da quel momento in poi non avrebbe avuto più bisogno di farsi imprestare degli abiti. Di lì a poco, dy Baocia la scortò fuori dell'accampamento. Foix, che era presente, aveva abbandonato i panni della guardia per passare a quelli del cortigiano senza traumi apparenti. La transizione di dy Baocia fu un po' meno tranquilla, ma nell'insieme sembrò gestire abbastanza bene il cambiamento improvviso della nuova Ista: evitò di discutere dell'aspetto inquietante che riguardava i demoni fagocitati, menzionò raramente il Dio, ma affrontò la questione materiale della sua nuova vocazione con un'attenzione ai particolari gratificante. «Dobbiamo stabilire il numero di uomini che farà parte della tua scorta personale», osservò, mentre superavano le porte di Porifors. «Un numero eccessivo prosciugherà i tuoi averi, mentre un numero esiguo si dimostrerà una falsa economia.» «Giusto. Le mie esigenze muteranno in base al luogo in cui sarò diretta. Aggiungi questo aspetto alla tua lista, per discuterne con il mio siniscalco; sarà lui che, meglio di altri, potrà giudicare ciò che è necessario per viaggiare in questa regione.» «Il tuo siniscalco svolgerà anche il compito di maestro di scuderia, come faceva per il defunto fratello? O devo raccomandarti qualcuno?» «Le mansioni di Ser dy Arbanos saranno troppo impegnative. Sto pensando a un'altra persona, anche se non sono ancora sicura se accetterà. Mi rivolgerò a te, se dovesse rifiutare.» «Non il qui presente dy Gura?» volle sapere dy Baocia. Foix fece un inchino cortese. «O suo fratello?» «Ferda è già richiesto dal cugino, il March dy Palliar, per la prossima campagna, e tra non molto dovrà partire per raggiungerlo. Pur in qualità di ufficiale della mia casata, con tutta probabilità Foix dovrà assentarsi spesso per conto del Tempio; mentre i compiti di un maestro di scuderia sono quotidiani. Non so ancora quale titolo offrirò a Foix. Stregone reale? Maestro dei Demoni?» «Sarei perfettamente soddisfatto di conservare il mio titolo di ufficiale-
devoto, Royina», si affrettò a precisare Foix, con un tono di voce un po' allarmato, poi socchiuse gli occhi sospettoso vedendo il suo sorriso compassato. «Prima ti troverò un'occupazione, poi il titolo», specificò. «Avrai bisogno di qualcosa di cui andare fiero, quando visiteremo altre corti, per tenere alto il mio nome.» Un sorriso aleggiò sulle sue labbra. «Come ordinate, Royina.» Entrarono nel cortile di pietra e salirono al piano superiore; Ista represse un brivido, mentre superava i gradini dove qualche giorno prima aveva incontrato faccia a faccia un Dio. Dalla porta aperta della sua doppia camera giunse una voce familiare ma inattesa. «Lei non vi vuole», disse severamente Lady dy Hueltar. «Lei non ha bisogno di voi. Adesso ci sono io, e vi assicuro che conosco molto meglio tutte le sue esigenze di quanto voi potreste mai riuscire a fare. Quindi fatemi il favore di tornare alle scuderie o da qualunque posto venite. Fuori, fuori!» «Signora, non può essere come dite voi», ribatté Liss con un tono di voce sorpreso. Foix inarcò le sopracciglia, poi le corrugò, torvo. Ista gli fece cenno di pazientare e, superandolo, entrò per prima. «Cosa sta succedendo qui?» chiese. Le gote di Lady dy Hueltar avvamparono. Esitò, poi sospirando rispose: «Stavo spiegando a questa maleducata che adesso che avete concluso quello sconsiderato pellegrinaggio, cara Ista, avrete bisogno di nuovo di una dama di compagnia più adatta. Non una ragazza addetta alle scuderie». «Al contrario, ho più che mai bisogno di Liss.» «Non è adatta per essere la dama di compagnia di una Royina. Non è nemmeno una lady!» Liss si grattò la testa. «Be', questo è vero. Io sono più portata a cavalcare veloce.» Ista sorrise. «È proprio così.» Il suo sorriso si tese leggermente, mentre rifletteva sulla scena che aveva interrotto. Lady dy Hueltar aveva forse pensato di ingannare Liss o di allontanarla, facendole credere di essere stata congedata? Lady dy Hueltar fece un gesto nervoso con la mano, sotto lo sguardo freddo di Ista. «Adesso che siete più calma, Lady Ista, è sicuramente giunto il momento di pensare a ritornare in tutta sicurezza a Valenda. Il vostro buon fratello ci darà una scorta più che adeguata per il viaggio di ritorno,
ne sono certa.» «Non ho intenzione di ritornare a Valenda. Seguirò l'esercito a Jokona per cacciare i demoni per il Bastardo», rispose Ista. «La sicurezza ha poco a che fare con le faccende del Dio.» Le sue labbra si incresparono, ma non era più un sorriso. «Nessuno vi ha ancora spiegato la situazione, cara Lady dy Hueltar?» «Io l'ho fatto», intervenne Liss. «Molte volte.» Abbassò la voce rivolta a Ista: «È normale. Avevo una prozia che a questa età divenne molto confusa, povera donna». «Non sono confusa», protestò Lady dy Hueltar alzando la voce, ma poi si zittì. Dopo un attimo riprese: «È troppo pericoloso. Vi prego di ripensarci, cara Ista. Mio signore dy Baocia... come capofamiglia, adesso è vostro compito insistere che abbia maggiore buonsenso!» «Di fatto», osservò Ista, «è capofamiglia da più di dieci anni.» Dy Baocia sbuffò, e a denti stretti mormorò: «Già... in ogni angolo della Baocia tranne che a Valenda...» Ista prese la mano di Lady dy Hueltar e la posò con fermezza sul braccio del fratello. «Sono sicura che siete molto stanca, cara signora, per aver affrontato un viaggio così lungo, in così breve tempo e, in pratica, inutilmente. Ma mio fratello veglierà su di voi nella strada del ritorno verso casa, domani... o possibilmente questa sera.» «Ho già portato qui le mie cose...» Ista lanciò un'occhiata ai bagagli ammassati. «I servi penseranno a portarli via. Più tardi, parlerò più a lungo con te, dy Baocia.» Con qualche altra allusione non proprio gentile, Ista fece in modo che entrambi uscissero. Fallita la sua ultima speranza in un sostegno da parte di dy Baocia, Lady dy Hueltar si allontanò con lui in una nube di reciproca esasperazione, con un'espressione decisamente annientata. «Da dove viene quella donna?» chiese Foix scuotendo la testa meravigliato. «L'ho ereditata.» «Mi spiace.» «Se la caverà. Mio fratello troverà un altro angolo della famiglia dove infilarla; non le piacerà come una casata d'alto rango, ma forse trarrà qualche soddisfazione nell'esibire le sue passate glorie. Tuttavia, non è una persona che sta con le mani in mano, sai, lei sa rendersi utile. È triste, comunque, che sia lei stessa a distruggere la gratitudine che dovrebbe essere la sua ricompensa.»
Foix guardò in tralice Liss, che aveva un'espressione un po' contrariata. «Trovo la mia gratitudine piuttosto limitata, purtroppo», commentò. Liss scosse la treccia. «Non importa.» «Stava cercando di convincerti che ti avevo congedata?» volle sapere Ista. «Oh, sì. Si è infuriata parecchio quando ho fatto la parte della stupida, fingendo di non capire le sue allusioni.» Rispose seria. «È però vero che non sono una donna di nobili natali.» Ista sorrise. «Penso che incontreremo la corte di Iselle e Bergon prima della fine dell'anno, a Visping, se non prima. A quel punto, su mia richiesta e per il tuo coraggio, sarai nominata lady. Sera Annaliss dy... qual era il nome di quel villaggio infestato dalle pecore?» «Teneret, Royina», rispose Liss in un sussurro. «Sera dy Annaliss dy Teneret, dama di compagnia della Royina Vedova Ista. Suona molto dignitoso, non trovi, Foix?» Foix fece un largo sorriso. «Già... penso che a mia madre piacerà. Be', il Bastardo sa che adesso ho da offrire qualcosa per ingraziarmelo.» «Ah, aspiri a una scalata sociale, è così? Bene, non è impossibile; ho l'impressione che quest'anno vi saranno molte opportunità di promozione per i giovani ufficiali.» Foix rivolse a Liss una riverenza da cortigiano. «Posso aspirare, Lady?» Liss lo guardò con un sorriso meditabondo, poi attraversò la stanza e cominciò a mettere in ordine le cose di Ista. «Chiedetemelo di nuovo a Visping, Devoto.» «Lo farò.» Ista chiese a dy Cabon di condurre Goram da lei, nel cortile di pietra. Si sedettero all'ombra del porticato, sulla panca dove si erano rivolti la parola la prima volta, e studiò le differenze. Gli abiti di Goram dy Hixar erano ancora quelli dello stalliere, la sua figura ancora bassa, le gambe arcuate, la barba brizzolata. Ma aveva perso quel portamento ricurvo da tartaruga; adesso si muoveva con l'equilibrio di uno spadaccino. E con la tensione. Il suo cortese inchino era abbastanza ossequioso per una corte provinciale. «Penso che l'Erudito dy Cabon vi abbia parlato della mia esigenza di avere un maestro di scuderia, vero?» esordì Ista. «Sì, Royina.» Dy Hixar si schiarì la gola, a disagio. «Potete assumervi questo incarico?»
Fece una smorfia. «Il lavoro, sì. Ma Royina... non sono sicuro che abbiate compreso chi ero. E il motivo per cui non sono stato riscattato.» Ista alzò le spalle. «Capitano di cavalleria, spadaccino, bravaccio, ex omicida, distruttore di vite... non solo quelle di nemici, ma anche di amici... devo proseguire? Il genere di persona alle cui orazioni funebri si commenta: Be', questo è un sollievo.» Goram trasalì. «Vedo che non ho bisogno di confessarmi con voi.» «No. Ho visto.» Distolse lo sguardo. «Tutti i miei peccati restituiti... è una cosa strana, molto strana, Royina. La remissione dei propri peccati di solito viene considerata un miracolo degli Dei. Ma il vostro Dio me li ha restituiti tutti. Goram lo stalliere... era un uomo mille volte migliore di quanto potrà mai essere Goram dy Hixar. Ero una tabula rasa, e sono stato condotto - salvato, per nessun merito mio - a vivere per tre anni con i due uomini migliori di Caribastos. Non solo i migliori spadaccini... gli uomini migliori, capite?» Ista annuì. «Prima non sapevo che potessero esistere persone simili. Né volevo saperlo. Mi sarei preso gioco delle loro virtù, ne avrei riso. Lord Illvin ha pensato che fossi sopraffatto dalla gioia, quando sono caduto in ginocchio davanti a voi nel cortile d'ingresso. Ma non è stata la gioia a farmi crollare. È la stata la vergogna.» «Lo so.» «Non voglio essere... ciò che sono. Ero più felice prima, Royina. Ma tutti pensano che dovrei esprimere la mia gratitudine.» Ista gli rivolse un sorriso ironico. «State tranquillo, non sono una di quelli. Ma... avete di nuovo la vostra anima, adesso, e potete farne ciò che volete. Ciascuno di noi è il risultato delle proprie azioni; alla fine dell'esistenza presentiamo l'anima ai nostri Protettori come un artigiano presenta ciò che ha prodotto con le proprie mani.» «Se è così, sono troppo rovinato, Royina.» «Siete incompleto. Sono Protettori che sanno discernere, ma non credo che sia impossibile accontentarli. Il Bastardo mi ha detto, dalle Sue stesse labbra...» Dy Cabon trattenne il respiro. «... che gli Dei non desiderano anime immacolate, bensì grandi anime. Credo che sia proprio da quella oscurità che nasce la grandezza, come i fiori dalla terra. Infatti, non sono sicura che la grandezza possa sbocciare
senza di essa. Voi siete stato toccato dagli Dei come chiunque altro qui; non disperate di voi stesso, perché penso che gli Dei non lo abbiano fatto.» I confusi occhi grigi si arrossarono, riempiendosi di lacrime. «Sono troppo vecchio per ricominciare.» «Avete davanti a voi più tempo di Pejar, che aveva metà dei vostri anni, e che abbiamo seppellito fuori da queste mura due giorni fa. Andate davanti alla sua tomba e usate il dono del respiro per lamentarvi del vostro tempo limitato. Se osate farlo.» Goram trasalì un poco udendo il tono tagliente della sua voce. «Vi offro un modo onorevole per ricominciare, anche se non garantisco come andrà a finire. I tentativi falliscono, ma non con la stessa certezza dei compiti mai tentati.» Fece un profondo respiro. «Allora... considerato come stanno le cose, e sapendo ciò che conoscete di me - che penso sia più di quanto io abbia mai confessato a qualcuno - sono l'uomo che cercate, se volete accettarmi, Royina.» «Grazie, Capitano, accetto. In qualità di maestro di scuderia, riceverete gli ordini dal mio siniscalco. Credo che lo troverete un comandante tollerabile.» Goram fece un pallido sorriso e con un inchino la salutò. Dy Cabon rimase accanto a lei ancora un attimo, osservandolo uscire dal cortile. Il suo volto era preoccupato. «Allora, Erudito? Come vi sentite adesso, riguardo alla vostra testimonianza?» Il Divino sospirò. «Sapete, questa faccenda dell'essere toccati dagli Dei non era proprio... ecco... proprio piacevole come pensavo che fosse, quando siamo partiti da Valenda. Ero terribilmente eccitato all'idea di essere scelto per svolgere l'opera del Dio.» «Io ho cercato di spiegarvelo quando eravamo a Casilchas.» «Sì. Adesso penso di capire meglio.» «La mia corte avrà anche bisogno di un Divino, sapete. Poiché diventerò una devota laica dell'Ordine del Bastardo, e penso che voi facciate proprio al caso mio. Con tutta probabilità viaggeremo per i Cinque Principati. Se aspirate veramente al martirio, come mi era sembrato di capire dai vostri primi sermoni, avete ancora una possibilità.» Dy Cabon diventò tutto rosso. «Per i cinque Dei, ma quelli erano dei sermoni stupidi.» Trasse un profondo respiro. «Sarò felice di rinunciare alla parte del martire. Quanto al resto, ebbene... vi dirò sì, Royina, con tutto
il cuore. Anche se non ho fatto sogni in cui mi sia stata indicata una direzione. Anzi, soprattutto perché non ho fatto questo genere di sogni. Comunque non sono sicuro di volerli ancora.» Esitò, poi aggiunse con un tono nella voce del tutto contraddittorio: «Avete detto di... averlo visto faccia a faccia, nei vostri sogni, giusto? Nei vostri sogni reali?» «Sì.» Ista sorrise. «Una volta ha preso in prestito il vostro volto per parlarmi. Sembra che Qualcuno ritenga che non siate del tutto indegno di indossare i Suoi colori, Erudito, e di assumere a sua volta le vostre sembianze.» «Oh.» Dy Cabon sbatté gli occhi, assimilando quelle parole. «È proprio così? Davvero? Santo cielo.» Sbatté di nuovo gli occhi. Quando si congedò, la sua bocca borbottava sommessamente. La sera, dopo cena, con il sole ormai tramontato e le bianche stelle che spuntavano nel cielo color cobalto sopra il cortile di pietra, Lord Illvin salì a bussare alla porta di Ista. Liss lo fece entrare nella camera esterna, con una riverenza amichevole. Con un'espressione di estremo stupore sul volto, Illvin protese le mani verso Ista. «Guardate. Le ho trovate proprio ora, mentre passavo.» Liss sbirciò. «Sono albicocche. Ha senso che fossero dove le avete trovate... no?» Esitò. I frutti erano grandi e di un colore intenso, con una sfumatura rossa sulla buccia dorata. Ista, chinandosi a guardare, ne inspirò l'intenso aroma. «Hanno un profumo delizioso.» «Sì, ma... non è la stagione. Mia madre piantò quell'albero quando nacqui, e il mandorlo per Arhys. So perfettamente quando maturano i frutti, li ho osservati per una vita intera. Mancano mesi. Vi sono ancora dei fiori, benché metà delle foglie siano cadute. Queste due albicocche erano nascoste tra il rado fogliame... le ho viste per caso.» «Sono buone?» «Non ho avuto il coraggio di assaggiarle.» Ista sorrise. «Forse saranno anche fuori stagione, ma non dovrebbero essere cattive. Penso che siano un dono. Non ci saranno problemi.» Con un piede spalancò la porta della sua camera interna. «Entrate. Le assaggeremo.» «Uhm», disse Liss. «Posso stare nei paraggi, se lasciate la porta aperta, ma penso di dover rimanere a portata di udito.» Ista fece a Illvin un cenno del capo. «Scusateci un attimo.» Con un leggero sorriso che gli incurvò le labbra, Illvin annuì con estre-
ma grazia ed entrò. Ista chiuse la porta e si rivolse a Liss. «Non credo di averti ancora spiegato l'altra serie di regole che riguardano la discrezione di una dama di compagnia...» Lo fece in termini chiari, succinti, ma nell'insieme cortesi. Gli occhi di Liss si illuminarono, mentre ascoltava con grande attenzione. Ista fu sollevata, benché per niente sorpresa, di vedere che Liss non sembrava né confusa né scioccata. Tuttavia, non si aspettava tanto entusiasmo. «Penso che andrò a sedermi sui gradini per un po', cara Royina», fece Liss mentre usciva. «È più fresco, e penso che ci resterò per parecchio tempo.» Ista udì anche il rumore della porta esterna che si chiudeva. Gli occhi di Illvin esprimevano una risata silenziosa. Le porse uno dei frutti; nel prenderlo, Ista sussultò leggermente quando le sue dita sfiorarono quelle di lui. «Bene», disse Illvin, portandosi l'albicocca alle labbra. «Facciamoci coraggio...» Ista seguì il suo esempio. L'albicocca aveva un sapore delizioso, come il suo aspetto e il suo profumo, e nonostante i tentativi di non sporcarsi, un po' di succo le colò sul mento. Cercò di asciugarselo con la mano. «Oh, santo cielo...» «Vieni», disse Illvin, avvicinandosi. «Lascia che ti aiuti...» Il bacio durò un'eternità, con le dita pregne del profumo d'albicocca che si insinuavano piacevolmente tra i suoi capelli. Quando si staccarono per respirare, Ista osservò: «Ho sempre avuto il sospetto che ci volesse l'intervento divino per trovare un amante... Mi sa che avevo ragione». «Ehi, ehi, guardati, dolceamara Ista. Santa, strega, Royina Vedova di tutta Chalion-Ibra, che conversa con gli Dei quando non li maledice... solo un pazzo scatenato oserebbe anche solo pensare a te in modo tanto insolente... Ma questo è un bene. Metterà fuori gioco tutti i miei rivali.» Lei non poté fare a meno di ridere per lo stupore, la gioia e l'immensa sorpresa. Anche lui gustò la sua risata, come se fosse un'albicocca miracolosa. E io che temevo di non sapere come farlo. Si era presentato con una lunga tunica nera, i pantaloni e gli stivali, ma è ancora più bello senza, pensò Ista, strettamente abbracciata a lui sul letto. La calda notte non richiedeva né lenzuola né coperte. Lasciò ardere una coppia di candele, per vedere meglio i doni del Dio. FINE