NEAL BARRETT JR. LA LEGIONE DEI SEMIUMANI (Aldair: the Legion of the Beasts, 1982) ALDAIR: ULTIMO ATTO Non vi renderei c...
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NEAL BARRETT JR. LA LEGIONE DEI SEMIUMANI (Aldair: the Legion of the Beasts, 1982) ALDAIR: ULTIMO ATTO Non vi renderei certo un buon servigio se, arrivati all'inizio di questo quarto e conclusivo volume della serie di Aldair, vi dicessi come va a finire la ricerca del nostro eroe snodatasi lungo tutto l'arco dei tre precedenti volumi. Mi limiterò quindi ad alcune brevi note generali inerenti il Ciclo dei Semiumani nel loro complesso. Avevo avuto modo di dirvi nella presentazione al primo volume di questa Saga, ALDAIR IN ALBION, come, a differenza della maggior parte dei Cicli di fantascienza e di fantasy, questo si sviluppava «in crescendo», ossia l'interesse del lettore aumentava di volume in volume, rimanendo sempre desta la sua attenzione. Ottenere un risultato del genere in un insieme narrativo comprendente ben quattro romanzi, non è certo cosa da tutti, ma Barrett c'è riuscito. E come c'è riuscito? È molto semplice. In primo luogo, Barrett è uno scrittore con la S maiuscola e ben lo sanno gli appassionati americani di fantascienza e fantasy i quali, ormai da anni, lo situano ai vertici delle loro preferenze. In secondo luogo la struttura del Ciclo. Come vi potrete facilmente accorgere dalla lettura dei tre precedenti volumi, la trama complessiva della vicenda è estremamente lineare: non vi è nulla di complesso, d'intricato, di tortuoso, in una parola, di difficile comprensione od intelligibilità. E questa, signori miei, checché se ne dica, è sempre una formula vincente nella narrativa. Il lettore di questo particolare genere di narrativa infatti, non è assolutamente favorevole all'immissione nei contesti narrativi di questo genere, di forti dosi di problematiche sociali, politiche, o al lancio di «messaggi» più o meno dissimulati dai contesti fantastico-spaziali che fanno obbligatoriamente da contorno alle vicende che vengono narrate. In oltre trent'anni di frequentazione di appassionati di fantascienza e fantasy - salvo pochissime eccezioni - ho sempre sentito dire che, per fare politica, bandire crociate a livello sociologico, o comunque lanciare messaggi di alto contenuto etico e morale, esistono dei contesti molto più idonei e consoni che non certamente la narrativa di fantascienza e di fantasy. E, francamente, non posso dar torto a questa tesi: è un po' come voler
andare a fare una gita sui prati in smoking o in frac. Attenzione però a non equivocare. Non voglio certo con questo affermare che la narrativa di fantascienza e fantasy debba ridursi ad una letteratura di puro escapismo dove tematiche di un certo impegno debbano obbligatoriamente essere fatte oggetto del più severo ostracismo. Assolutamente no, e stanno a dimostrarlo le molte opere di indubbio valore contenutistico che sono per la maggior parte frutto della penna degli autori che diedero origine alla «new wave» o che in seguito si richiamarono ad essa, come tutti voi sapete bene. Il problema è solo una questione di «dosaggio», nel senso che bisogna stare molto attenti a non calcare eccessivamente la mano, ottenendo così da parte del lettore un rifiuto. Il lettore, nel momento che prende in mano uno di questi libri, si spoglia della sua identità di tutti i giorni, che lo vede impegnato nel lavoro, nella casa, nella politica, nella famiglia, eccetera, per concedersi un momento di riposo in quei mondi dell'immaginario che scaturiscono dalle sue letture preferite. È bombardato quotidianamente da messaggi di tutti i tipi portati ad invadere la sfera del suo io in tutti i modi immaginabili, per cui non gli si può certo imputare a delitto il desiderio di voler abbandonare per qualche ora il meccanismo perverso e vorticoso nel quale è costretto a vivere, per seguire le vie dell'immaginario che gli prospettano gli scrittori di fantascienza e fantasy. Il vissuto quotidiano, la realtà di tutti i giorni gli sono ben note: spesso e volentieri anzi, gli sono tristemente note, forse proprio perché non riesce a vedere realizzate quelle istanze sociali, di giustizia, etiche e morali, delle quali sente tanto parlare ma che raramente riesce a vedere concretizzate. Le frustrazioni sono il pane quotidiano. Esistono frustrazioni nell'ambiente di lavoro, nella famiglia, con gli amici, e così via dicendo: che male c'è allora se l'appassionato di narrativa fantastica chiede agli autori dei suoi libri un po' di quel «sense of wonder» che è stato, è, e sarà sempre alla base di questo genere di narrativa? E Neal Barrett è uno di quegli autori che sanno immettere nei loro scritti anche il «senso del meraviglioso». Meraviglioso che scopriamo attraverso gli occhi di Aldair e dei suoi compagni in questa lunga ricerca condotta in un mondo che ci appare allo stesso tempo così diverso da quello che noi conosciamo e così familiare. Ma forse l'abilità dello scrittore consiste proprio in questo, ossia nel farci riscoprire ed apprezzare cose che, data la lunga abitudine ad esse, non siamo più in grado di valutare appieno.
Per dirla con Aldair - il quale apprezza molto i proverbi e le citazioni un vecchio detto cita che «una cosa la si apprezza quando non la si ha più» e, a ben vedere, forse questo è l'unico, timido messaggio che il nostro scrittore statunitense ci propone. Comunque abbiamo già perso troppo tempo in questioni serie o seriose (a seconda di come ciascuno le interpreta) per cui mi sembra che sia ora finalmente - di conoscere l'esito della quest (fa molto fantasia eroica, non trovate, anche se vuol dire solo «ricerca») di Aldair, per cui... buona lettura della conclusione del Ciclo. Ma sarà poi certo che Barrett ha posto veramente la parola fine al Ciclo dei Semiumani? Quando un ciclo ha successo... Gianni Pilo PROLOGO Una volta, nella piazza del mercato di Chaarduz, mi ero imbattuto nel più fantastico e prezioso dei tesori. Si trattava di una semplice scatola, finemente lavorata, non più grande della mia mano, laccata di un colore azzurro cobalto come quello del mare. Quando aprii quella scatola, al suo interno ce n'era ancora un'altra. E, all'interno di quella, un'altra ancora. Affascinato, continuai a tirar fuori una scatolina dall'altra, finché raggiunsi un quadratino minuto e sottile, simile ad una pietra preziosa, di colore blu intenso e non più grande degli escrementi di un topo. Lì mi fermai, temendo che le maldestre dita di un guerriero potessero ridurre in polvere quella meraviglia. «Buon uomo,» chiesi al mercante che gironzolava alle mie spalle, «quante altre scatole si trovano all'interno di questa? Non riesco a credere che ce ne possa essere ancora anche una sola, perché persino gli artigiani di Nicea non arrivano ad essere tanto abili.» Gli occhi neri come l'agata del vecchio incontrarono i miei. «Signore, posso solo dirti ciò che è stato detto a me. E cioè che non vi è fine alle scatole...» La piazza del mercato di Chaarduz, e quella stessa stupenda città, sono state da lungo tempo inghiottite dalla Grande Depressione. L'Impero di Nicea è scomparso e, presumibilmente, ogni cosa che lo riguardava. Persino Rhemia, antica e acerrima nemica dei Niceani lungo le coste del Mar Meridionale, giace tetra e gelida sotto una coltre di paura. In verità, il re-
sto del mondo non se la passa molto meglio. Tuttavia, sebbene siano passati innumerevoli anni e milioni di stelle, mi ricordo molto bene quel momento sotto il fiero sole di Nicea. Sono più vecchio ora, anche se non molto più saggio, e il tempo mi ha insegnato una cosa, anche se forse è stata l'unica: non sono più certo che il vecchio mercante abbia mentito sulla storia delle sue scatole. In effetti, sembra che ogni piccolo pezzo di verità porti a un altro frammento di verità, e poi ad un altro ancora: e il successivo è sempre più sconcertante del precedente. So che il mio mondo non è così come sembra... so che siamo solo le creature dell'Uomo, foggiate con pelliccia, peli, piume e scaglie, per il suo crudele divertimento... So che l'Uomo si stancò di questi giocattoli, proprio come un bambino viziato, e li abbandonò al loro destino... Ora, finalmente, ho seguito le sue tracce confuse e caotiche fino alle stelle. So cos'è, e cosa è arrivato ad essere. Mi sono trovato di fronte a lui, l'essere creato davanti al suo creatore, e ho guardato nei suoi occhi tristi e terribili. Conosco tutte queste cose. Tuttavia, ci sono ancora altre scatole da aprire. E solo una creatura insensata come me può desiderare di svelare cosa si nasconde al loro interno...» Aldair, già dei Venicii, Capo della Legione dei Semiumani UNO Quando ero più giovane, pensavo che nel mondo ci fosse poco da scoprire. Tutti i giorni erano perfettamente uguali nella sconfinata e vasta terra degli Eubironi e, se pure le cose cambiavano, cambiavano molto lentamente, e senza dare troppo nell'occhio. Era un mondo solido e affidabile, che si reggeva sui sani valori di verità e tradizioni incrollabili. Crescendo, ho imparato che non tutte quelle verità sono sempre vere. Così, un serpente non diventa un bastone se sputi sui suoi escrementi. Un foruncolo sul muso non se ne va se lo strofini con un ravanello. Anzi, si infiamma ancora di più. Ancora più tardi, quando cominciarono le mie avventure, scoprii che il Mare delle Nebbie non si dilegua nella vuota immensità dell'Isola di Albion. Conduce, invece, in terre strane e terribili, da
lungo tempo dimenticate da tutto il resto del mondo. Così, nel giro di pochi anni, ho visto vacillare la ragione e la verità mutarsi in menzogna almeno una dozzina di volte. Ho visto fiorire la bellezza sulle ceneri della distruzione. Ho imparato che niente rimane immutato. Tranne Rhalgorn. I guerrieri Stygiani sono incapaci di cambiamenti. Conta ben poco per loro trovarsi all'improvviso ad essere violentemente scagliati attraverso il tempo e lo spazio, da un mondo all'altro. Rimangono testardi e irragionevoli come sempre, come se non avessero mai abbandonato le rigogliose foreste dei Lauvectii. Osservavo Rhalgorn se ne stava accovacciato a pochi metri di distanza. I suoi occhi rosso fuoco fissavano un punto non ben definito al di là del muso, e le lunghe orecchie appuntite gli penzolavano abbandonate lungo la testa. La sua pelliccia aveva un colore grigiastro in quella strana luce indistinta, e riuscivo a vedere i forti fasci di muscoli che si tendevano sotto la sua pelle. Non è difficile indovinare a cosa sta pensando un Signore dei Lauvectii. Dal momento che gli Stygiani sono i più abili e i più astuti assassini del mondo, qualche volta pensano alla morte. Mai alla loro, naturalmente. Spesso riflettono su qualche profondo problema filosofico per giorni e giorni. Come sarebbe un rospo se potesse volare? Una formica fa pipì tutti i giorni, e in che quantità? Per la maggior parte del tempo, comunque, gli Stygiani pensano al cibo. A giudicare dal modo in cui la sua grossa e folta coda batteva nervosamente sul terreno, decisi che era quello l'argomento che dominava i suoi pensieri. Quasi certamente nel giro di pochi minuti si sarebbe messo in posizione eretta, si sarebbe stiracchiato con comodo e si sarebbe messo a scrutare l'orizzonte con aria cupa. «Aldair,» mi annunciò, «ho fame. Poiché in quest'assurdo posto non c'è modo di sapere che ora è, non so più dire quanto tempo è passato dall'ultima volta che la mia povera pancia ha toccato qualcosa da mangiare. Ma direi che si tratta di una mese e giù di lì.» «Lo sapresti se fosse un mese,» lo rassicurai. «Oh, davvero?» Alzò il muso e annusò con fare sdegnato dalla mia parte. «Bene, è inutile dire che mi sento enormemente sollevato dalle tue parole.» «Rhalgorn...» «No, Aldair. Vedi, mi era venuta questa stupida idea che potessimo aver
fame, e che fossimo ormai irrimediabilmente persi. Così, solo perché siamo stati trasportati per non so quanto tempo tra le stelle, e siamo atterrati su un mondo dove gli alberi crescono a testa in giù...» «Io non credo che siano esattamente a testa in giù,» gli dissi. «Penso invece che sia proprio così che debbano essere.» «Certamente. E il cielo di solito è giallo e rosa. Come le interiora di un pollo.» Rhalgorn emise uno strano suono, si tirò su il cinturone e se lo fissò intorno alla vita. «Dove stai andando?» «Ti ho detto che avevo fame, Aldair.» Sollevò un angolo del muso e mi mostrò i suoi denti affilati e la lingua rossa. «Quando i Signori dei Lauvectii hanno fame, mangiano. Non se ne stanno seduti da qualche parte a tirarsi i peli della barba dal grugno come fa qualcuno di mia conoscenza.» Non mi pareva proprio di stare facendo niente di simile, e quindi lo interruppi bruscamente. «Buona fortuna,» dissi. «Sarà interessante vedere cosa riuscirai a catturare, e che colore avrà.» Rhalgorn mi guardò con fare stupito. «So di che colore sarà. Sarà marrone, con la coda corta e le orecchie lunghe. È questo l'aspetto delle lepri, se ti ricordi bene.» Io lo guardai. «Stai per andare a caccia di lepri?» «Certamente.» «Su questo mondo...» «Certo, su questo mondo. Dove altro dovrei andare? Aldair, ammetto che i colori e gli odori sono piuttosto sconvenienti in questo posto. Non è il luogo più adatto per dei guerrieri Stygiani ma, ciononostante, è pur sempre un mondo. Il Creatore ha commesso un piccolo errore con il colore del cielo e con la sistemazione degli alberi, ma sono sicuro che Lui non ha dimenticato di creare qualche grossa e bella lepre. Sarebbe semplicemente ridicolo.» Sì,» dissi stancamente, non avendo nessuna voglia di litigare. «Sono certo che tu abbia ragione.» Rhalgorn ghignò. «Forse troverò anche qualcosa di simile ai fagioli e a qualche brutta radice lungo la strada. Se così dovesse essere, te ne porterò un po'.» «Quelle cose, come tu dici, si chiamano verdure, e tu lo sai bene. Dal momento che stai andando a cercarle, mi staranno benissimo delle carote, delle rape e qualche bella patata. E anche qualche pomodoro, se ne trovi.
Ma rossi, per favore. Non mi piacciono se non sono ben maturi.» «Me ne ricorderò,» disse lui, e si avviò a grandi passi verso occidente. Almeno, presumo che fosse verso occidente. In precedenza le nuvole color verde-giallo che coprivano quel mondo avevano brillato più luminose sopra le nostre teste. Ora, quella lucentezza si era avvicinata all'orizzonte. Calcolai che ciò stesse a indicare l'esistenza di qualcosa di simile a un sole lì su, e che questo stesse tramontando proprio davanti alla strada lungo la quale Rhalgorn si era incamminato. Perché tutto ciò che sapeva era che quella specie di sole tramontava a est il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Ovviamente era solo un'utile perdita di tempo voler paragonare quel mondo così assurdo e bizzarro con quello che ci eravamo lasciati alle spalle. L'ampia pianura erbosa dove la sfera d'oro ci aveva lasciati non aveva in realtà assolutamente niente a che fare con l'erba. Il terreno era sì ricoperto da alcune piante, ma si trattava di un tipo di vegetazione simile a delle escrescenze scolorite e carnose che non superavano la grandezza delle mie dita, tinte di una debole e malsana tonalità di marrone. Qui e là un gruppo di rocce bulbose della grandezza di piccole case spuntavano dal terreno. Queste brutte montagnole erano dello stesso colore delle piante e assomigliavano in tutto e per tutto agli escrementi di qualche enorme animale. Eppure, gli alberi erano le cose più affascinanti che ci fossero in quel posto. Alti come querce, avevano il colore del ferro arrugginito ed erano del tutto simili a come Rhalgorn li aveva descritti. A testa in giù. Se quei giganti pieni di radici avevano delle foghe di qualche genere, io non ero riuscito a scovarle. E quindi si può dire che si trattava di un ambiente pastorale veramente idilliaco... per qualcuno. Ma per un individuo abituato al verde lussureggiante della Terra e ai suoi cieli turchini, era a dir poco sconvolgente. Penso che non fosse passata più di un'ora quando Rhalgorn si rifece vivo. Si era fatto buio, ma riuscii facilmente a rendermi conto che non trasportava sulle spalle nessuna lepre. «Non dire niente,» grugnì prima che io aprissi bocca. «Non sono dell'umore adatto per poter sopportare l'acuto spirito dei Venicii.» «Non avevo assolutamente intenzione di fare apprezzamenti,» mentii spudoratamente. «Bene. E allora non farlo.» Si lasciò cadere su una grossa pietra tonda e mi guardò. «Aldair, siamo veramente nei guai. Per quanto ne sappia, non c'è assolutamente nulla da mangiare su l'intera
superficie di questo mondo.» «Non credo che tu sia riuscito a girarlo tutto.» Mi lanciò un'occhiata torva e mostrò i denti. «Non ho avuto bisogno di girarlo tutto. Dall'altro lato di questi ridicolissimi alberi c'è un altro tratto di terra come questo. E, finito quello, ci sono altri alberi, e poi un altro pezzo di terra. Non ci sono uccelli, non ci sono insetti: non c'è praticamente nulla. Tranne questo.» Si alzò in piedi, cercò nella pelliccia e tirò fuori un pezzetto di stoffa ripiegato. «Che cos'è?» «Stendi la mano e te lo farò vedere.» Lo fissai con aria stanca e tenni ferma la mano lungo il corpo. «Rhalgorn, noi abbiamo un proverbio negli Eubironi. Solleva le mani al cielo, e qualche uccello ti lascerà un regalo.» Rhalgorn sembrò ferito. «Siamo ben lontani dagli Eubironi, e questo direi proprio che non assomigli ad un uccello.» Con molta riluttanza aprii la mano. Rhalgorn ci fece scivolare qualcosa. Osservai la cosa alla fioca luce del tramonto. Non sembrava molto diverso da un fungo... anche se non mi era mai capitato di vedere dei funghi ricoperti da ispidi peli grigiastri. Mentre stavo osservando quella strana cosa, sulla parte superiore spuntarono due sottili peduncoli. All'estremità di ognuno dei peduncoli si trovava un occhio nero e lucente. Gli occhi scrutarono l'ambiente circostante, si accorsero di me, e poi si ritrassero di nuovo. Allora quella bizzarra creatura si sollevò di circa due centimetri su delle zampette simili a quelle di un ragno, saltò a terra e scappò via. Io rimasi piuttosto perplesso a guardarmi il palmo della mano. Proprio nel mezzo c'era un piccolo mucchietto grigio di un'odiosa sostanza. «Molto divertente,» dissi, mentre mi strofinavo la mano su una roccia li vicino per ripulirmi la mano da quella robaccia. «Pare anche a te?», ghignò Rhalgorn con aria soddisfatta. «È esattamente lo stesso ricordo che ha lasciato anche a me.» «Potevi farmi la cortesia di avvertirmi.» «Sì, avrei potuto. Ma non avrebbe fatto lo stesso effetto. C'è differenza tra sentir raccontare una cosa e provarla effettivamente...» Rhalgorn si interruppe. Rimase con le mascelle spalancate a guardare qualcosa dietro le mie spalle. Con un balzo mi spostai lateralmente e vidi la cosa arrivare.
«Abbassati!», urlò Rhalgorn, e mi spinse violentemente a terra. Aveva appena finito di pronunciare quelle parole, quando la cosa passò rombando sulle nostre teste e si perse lontana nel cielo, scomparendo immediatamente alla nostra vista. Un fragore scosse la terra ed io avvertii il forte calore del suo passaggio. Sconvolto mi rialzai in fretta e mi girai. La cosa mostruosa si trovava ora verso nord, a meno di sei-settecento metri di distanza da noi. Continuava a volteggiare in quel momento: una scura scoria di ferro bitorzoluta che eruttava fiamme bluastre del suo ventre. Poi si abbassò lentamente sul terreno, scomparendo dietro un alto cumulo di pietre. «Per la Vista del Creatore,» mormorò Rhalgorn, «cosa diavolo era quell'orrore?» Il tono della sua voce sembrava fin troppo alto nell'improvviso silenzio che era calato. «Suppongo che faremmo meglio a scoprirlo il più presto possibile,» dissi. «Anche se ci sarebbero parecchie cose che preferirei fare in questo momento.» «Potrebbero avere qualcosa da mangiare,» disse Rhalgorn speranzoso. «Sì, potrebbe essere così.» Mi girai a guardarlo.«È vero. Pur tuttavia bisogna anche considerare l'ipotesi che siano in cerca del pranzo, e non di compagni con cui pranzare.» Rhalgorn mostrò i denti. «Se così stanno le cose, mi va benissimo. Vedremo chi si siederà a tavola per primo...» DUE Le tenebre calarono veloci su di noi e non ci permisero di trovare facilmente la strada in quell'immensa pianura. Quella strana prateria roteante con la sua vegetazione ispida non offriva infatti più ricovero della superficie di un tavolo, e non avevamo assolutamente intenzione di essere catturati al suo interno. Ero perfettamente consapevole che quella macchina nera non indicava nient'altro che la presenza dell'Uomo. Nello stesso istante in cui la sua ombra scura si era addensata su di noi, una mano spettrale si era allungata e mi aveva stretto violentemente il cuore. Lui era lì: ci dividevano al massimo uno o due respiri! Avevo seguito le sue tracce orribili e raccapriccianti praticamente per mezzo mondo, e avevo trovato la sua ultima orma nel grembo dell'Amazzone. Ora, qualsivoglia divinità mi avesse scagliato tra
le stelle, l'aveva fatto per mettermi faccia a faccia con lui. Risi quasi di gusto al solo pensiero. Così ora ci sei, Mastro Aldair. Che cosa hai intenzione di fare di lui? Fare strage con la tua spada della sua razza e obbligarlo a rispondere dei suoi crimini? «Aldair...» Battei le palpebre, e scacciai i miei pensieri. «Mi dispiace, vecchio mio, avevo la testa occupata a fantasticare.» «Cerca invece di tenerla occupata con qualcos'altro,» mi ammonì, «se ti fa ancora piacere conservartela sulle spalle. C'è ben altro a cui pensare in questo postaccio, piuttosto che fantasticare!» Mi guardai intorno. Nere dita di pietra si allungavano verso il cielo buio. Tra le nuvole non si intravedeva neanche una stella. «A che distanza pensi che ci troviamo da quel marchingegno?», chiesi. «Voglio dire, da quella navicella di ferro e dalle creature che c'erano dentro?» Rhalgorn storse il muso. «Se tu fossi uno Stygiano, riusciresti a sentire il loro fetore molto bene. Sono proprio alle nostre spalle, dall'altro lato. E sono anche abbastanza, se il mio naso funziona ancora bene.» «E allora andiamo a dare uno sguardo,» dissi. «Ho aspettato già abbastanza l'arrivo di questo momento.» «Sì, ma c'è anche qualcos'altro,» prese a dire Rhalgorn. «Non so dire precisamente di che si tratti, ma so che non è di mio gradimento.» «Bene, allora conservatela per qualche altra volta. Abbiamo già abbastanza misteri da scoprire per ora.» Prima che fosse in grado di rispondermi, io ero già alle sue spalle e avevo cominciato a scalare la ripida collinetta con tanta agilità quanta mi era permessa dalle mie corte gambe. La macchina dell'Uomo se ne stava rannicchiata come un brutto rospo sul terreno sotto la collinetta. Ora era perfettamente ferma, ma un sordo ronzio vibrava in profondità all'interno delle sue budella, anche se più che sentirlo in effetti lo si intuiva. Rimbombava attraverso il terreno passando per le dure radici di pietra, ed io riuscivo a sentirne il rumore come fosse un ritornello sotto i miei stivali. L'Uomo era lì, ma io non ero ancora in grado di scorgere il suo volto. Era un'ombra fuggitiva, un vago movimento che si stagliava contro una pallida luce che andava facendosi mano a mano più intensa e che proveniva dal grande scafo. «In quel mostro c'è una potenza sufficiente a illuminare tutte queste sconfinate pianure e molte altre ancora,» dissi a Rhalgorn. «Perché allora se ne vanno in giro al buio?»
L'unica risposta di Rhalgorn fu un grugnito che tirò fuori dal profondo del petto. «Ti avevo già detto che c'era dell'altro oltre a ciò che saltava immediatamente all'occhio. Ma tu eri troppo impegnato nella tua scalata per ascoltarmi.» «Hai ragione. Comunque ora sono tutto orecchi.» «Se sapessi di che si tratta, Aldair, mi sembra ovvio che te lo direi. Gli Stygiani sentono cose che gli altri non percepiscono. Niente più di questo. Non mi piace ciò che sento lì giù. Si tratta principalmente di un prurito che avverto dietro la testa. Ma c'è anche l'odore. Ne sono rimasto colpito proprio un attimo fa.» «Un attimo fa?» Mi voltai verso di lui con fare accigliato. «Ciò è molto poco probabile.» «Probabile o no, è esattamente così,» disse lui irritato. «Aldair, sto cercando di dirti...» Le sue parole si spensero rapidamente mentre l'aspra luce del giorno fioriva sulla pianura sottostante. Avevo invocato la luce e, per tutte le divinità, adesso l'avevo ottenuta: e molta più di quanta me ne fossi aspettata! Era una vista terrificante e sbalorditiva: non si riusciva a realizzarla con un solo sguardo. La navicella di ferro sembrava ancora più smisurata, e faceva apparire ogni cosa che la circondava ancora più piccola. Alti steli di metallo, ognuno sormontato da un fiero sole fiammeggiante, circondavano il vascello ed emettevano sgradevoli raggi d'ombra nella notte. Dietro, sul limitare di questo cerchio, agglomerati di baracche cadenti e bassi edifici in rovina si stringevano alla base della falesia. Nel migliore dei casi si trattava di misere strutture tirate su senza alcun criterio, assolutamente fuori luogo se affiancate al nero vascello. Non sembrava per niente verosimile che un popolo che solcava il cielo con apparecchi così sofisticati abitasse in tali spregevoli tuguri. Un certo numero di uomini si affaccendavano tutt'intorno, entrando e uscendo dalla navicella e dalle costruzioni che si trovavano alle sue spalle. Non riuscivamo a vederli bene dal momento che indossavano un pesante mantello munito di cappuccio. «Rhalgorn,» bisbigliai, «che pensi di tutto ciò? Se questa è una delle città dell'Uomo, bisogna dire che gli anni hanno offuscato le sue qualità. Queste luride catapecchie assomigliano molto poco alle rovine delle torri della Terra.» Rhalgorn non risposte. Aveva gli occhi sbarrati e fissi sulla scena che ci stava davanti, ed io seguii il suo sguardo. Le figure incappucciate si stava-
no raccogliendo ai lati della navicella e, mentre noi eravamo intenti a seguire la scena, una stretta scaletta toccò il suolo sferragliando. Un'oscura luce giallastra lampeggiò all'interno della navicella. Poi, riuscimmo a intravedere una lunga fila di individui che si avvicinavano allo strano mezzo. Senza neanche rendermene conto, afferrai l'elsa della mia spada. L'Uomo! Per tutti gli Dei, era proprio lui, il grande avversario in carne e ossa davanti a me! Avevo visto le sue immagini nelle grandi sale sotto Albion, e in seguito durante la navigazione del Mare delle Nebbie. Non c'era nessuna creatura che gli somigliasse. Brutti, con i volti dai lineamenti emaciati e una testa in tutto e per tutto simile a un uovo. Non presentavano nessuna caratteristica particolare, tranne forse quella fenditura rosa che era la loro bocca e quella bizzarra protuberanza dove si sarebbe dovuto trovare un muso o un grugno. Piccole orecchie storte che stavano attaccate al cranio, e volti e corpi quasi completamente privi di peli o di pelliccia. Era davvero difficile credere che esseri simili fossero veramente i Signori della Terra. Il gruppo che stavamo osservando aveva l'aria di essere piuttosto misero e dolente, e all'improvviso mi resi conto di quale fosse la causa di quella situazione. Quelli con l'aria smarrita e stanca, e praticamente nudi, erano stati fatti prigionieri dagli altri, gli Uomini che indossavano i mantelli neri. I capi dello scuro vascello sembravano provare un grande piacere nel tormentare quei poveri prigionieri. Uno, una creatura lunga e sottile che pareva aver superato la giovinezza da lungo tempo, inciampò e uscì dalla fila. Tre dei catturatori gli furono addosso in un attimo e presero a frustrarlo senza pietà con scudisci e bastoni. Non avevo nessuna simpatia per l'Uomo, ma il sangue mi si raggelò nelle vene a quella vista. «Rhalgorn,» dissi, «questa è davvero una brutta faccenda. Noi...» Mi interruppi e continuai a scrutare nel buio alla sua ricerca. «Rhalgorn!» Tutt'a un tratto lui fu di nuovo lì, un'ombra che usciva dalle ombre. «Per la Vista del Creatore, dove diavolo ti eri cacciato?» «Aldair,» disse lui in tono molto agitato, «non fare domande. Impugna la spada e seguimi velocemente. Non c'è assolutamente tempo da perdere!» «Cosa? Ma dove diamine...» Si girò di scatto e mi strinse selvaggiamente il braccio. «Mi hai sentito? Saremo spacciati se ce ne stiamo seduti qui ad aspettare. Sono stato là dove sarei dovuto andare subito. Li giù. Se tu continui a fare altre stupide domande scoprirai perché... e non sarò io a dirtelo!» Si mosse con movimenti agili nella notte. Io lo seguii arrancandogli dietro con tutta la velocità di cui ero capace. Per un attimo lo persi tra quella
confusione di pietre. Poi me lo trovai di nuovo vicino: si stava tenendo in equilibrio su un enorme masso tondeggiante e faceva gesti frenetici nella mia direzione esortandomi a raggiungerlo. In verità, non avevo affatto bisogno che mi si mettesse fretta. Gli Stygiani non temono nulla al mondo più di una pancia vuota, ed io avevo colto l'espressione dei suoi occhi. In qualsiasi cosa si fosse imbattuto, io non avevo nessun interesse ad incontrarla. Le pietre rotolarono sotto i miei piedi. Io scivolai e cercai, un appiglio a cui aggrapparmi, ma trovai solo aria. All'improvviso mi trovai a ruzzolare giù per un sentiero ripido e sassoso nel vano tentativo di raggiungere qualcosa che potesse fermare la mia caduta libera. Una grossa mano si sporse dal nulla. Lunghe e forti dita afferrarono la mia giubba e mi fecero saltare di nuovo in piedi. Per poche frazioni di secondo pensai che potesse essere stato Rhalgorn. Poi la cosa mi sollevò fino all'altezza della sua faccia per potermi guardare. Se era destino che dovessi morire di crepacuore, evidentemente era quello il momento giusto. La cosa ghignò con la sua bocca ripugnante, un brillio passò per il suo unico occhio giallo e, con modi ben poco gentili, mi issò sulle sue spalle. Per qualche motivo mi ricordai di ciò che Rhalgorn aveva detto a proposito del pranzo... La stanzetta puzzava in maniera indescrivibile, e il motivo era anche molto chiaro. Come ogni bambino fa presto ad imparare, è molto ragionevole fare i propri bisogni lontano dal luogo dove si mangia, si fa all'amore, o dove si gusta un buon boccale di birra. Evidentemente questo concetto non godeva di molta fortuna presso i nostri prigionieri. Mentre Rhalgorn ed io giacevamo legati sul lurido pavimento, uno di quei mostri si staccò dagli altri e si avviò a passi pesanti verso un angolo che si trovava lì vicino. Senza ulteriori cerimonie si calò i suoi sudici pantaloni e si accovacciò. «Aldair,» disse Rhangorn con grande calma, «questa gente non è abituata a comportarsi esattamente come noi.» «Sì,» dissi, «me ne sto rendendo conto. Nel caso in cui non ne avessi più l'opportunità, mi voglio scusare con te per averti fatto tutte quelle stupide domande. Avevi ragione. Correre era di gran lunga più importante che parlare.» Dei passi pesanti risuonarono alle nostre spalle. Le altre due creature al-
zarono lo sguardo e si fecero prontamente da parte davanti al nuovo arrivato. Lui si fermò proprio sopra Rhalgorn, ci squadrò dritto in volto e si tirò indietro il cappuccio. «Bene, che c'è di nuovo qui?» La sua voce risuonava come la ghiaia che stride su una superficie non perfettamente levigata. Non era più brutto degli altri... e neanche più gradevole. Fino a quel punto ne avevamo visti circa una dozzina, uno più bizzarro dell'altro. Non erano né Uomini né bestie, ma avevano qualcosa di tutti e due. Rhalgorn aveva ragione. Noi li avevamo già visti prima. «Voi... che diamine siete?» Mi sferrò un violento calcio nello stomaco. Io mi ritrassi indolenzito ed ebbi dei conati di vomito. Rhalgorn ringhiò e diede uno strattone alle corde che lo legavano guadagnandosi una brutale pedata in volto. Alzai lo sguardo per guardare la cosa. «Faresti meglio a non riprovarci,» dissi con spavalderia. «L'Imperatore non ama vedere i suoi soldati presi a calci.» «L'Imperatore?» La creatura socchiuse il suo occhio catarroso.» Di che diavolo di Imperatore parli?» «Quello i cui vascelli io comando. Ce ne sono a migliaia proprio sopra di noi. Come i vostri ma solo più grandi.» La cosa rimase un attimo perplessa, con l'occhio fisso nel vuoto, poi rise. «Uccidete gli altri,» disse a uno dei suoi amici. «Ho ancora qualcosa da dire a questo qui. Mi piace. È divertente...» TRE «Aspetta,» urlai, «non puoi farlo!» L'odioso sogghigno svanì dal suo volto. «Piccolo verme», disse con voce rauca, «hai fretta di morire anche tu?» Io mi strinsi nelle spalle con tanta naturalezza quanta può averne uno che sta per farsela nelle mutande. «Stavo solo tentando di evitarti un sacco di guai,» dissi. «Se insisti, prego, prosegui pure. Sarà divertente vedere ciò che accadrà.» Rhalgorn mi lanciò un'occhiata minacciosa. «Di che cosa stai blaterando? Di che diavolo di guai parli?» L'espressione del mostro non mutò affatto: sollevò solo leggermente una mano per fermare i suoi compagni. «Sto parlando di magia,» dissi semplicemente. «La sua. Comunque, dal
momento che sei protetto da incantesimi grandi e potenti, tu non correrai nessun pericolo.» La cosa impallidì. La sua grossa mano raggiunse istintivamente i talismani che gli pendevano dal collo. Avevo avuto una felice intuizione. Quella bizzarra accozzaglia di pietre e di piume era in realtà proprio un amuleto magico. I suoi amici si allontanarono di un paio di passi da Rhalgorn. Il mio catturatore studiò lo Stygiano con grande attenzione, poi si girò di nuovo verso di me. Una peluria scura ricopriva metà del suo volto, mentre l'altra parte era escoriata e coperta di macchioline. Un sopracciglio calloso e ricoperto di squame si inclinava verso il basso fino a raggiungere il muso, corto e orribile a vedersi, e la fenditura della bocca. Proprio la bocca era la caratteristica più irritante di tutte, perché era sistemata in un singolare angolo della mascella ed era piena di denti spuntati e di grandezza abnorme. «Dici che lui è in grado di fare delle magie? Quello lì?» «Sì, lui ne è capace,» dissi. «Ed è capace di magie anche molto potenti, in verità.» La cosa emise uno strano rumore. «Hai mentito quando hai parlato di Imperatori e roba simile. Probabilmente stai mentendo di nuovo.» «Sulla magia?» Cercai di dipingermi sul volto un'espressione quanto più sconvolta e terrorizzata possibile. «Non sono così sciocco da attirare sulla mia testa la collera del Demone Turnip!» L'occhio del mostro si spalancò. «È un Demone? Ne sei sicuro?» «Sì, lo è. In effetti...» Rhalgorn roteò gli occhi all'indietro. Emise un ululato talmente raccapricciante da far letteralmente gelare il sangue nelle vene che poi, a poco a poco, si stemperò nel rauco e gutturale modo di parlare dei Lauvectii. Non era nient'altro che una litania che il suo popolo considerava d'aiuto nella cattura delle lepri, ma ebbe un effetto molto efficace. Come fossero stati un solo individuo, i nostri catturatori indietreggiarono terrorizzati, e automaticamente si coprirono il volto ed afferrarono i loro amuleti e i loro talismani. «Tu,» urlò con quanto fiato aveva in gola il loro capo, «fermalo!» «Ci proverò. Ma una volta che ha iniziato a lanciare un incantesimo...» «Mi hai sentito? Fermalo!» «Rhalgorn,» dissi allora io nella sua strana lingua, «è stata una magia già abbastanza grande, per il momento. Sono già sufficientemente impressionati.»
«Meglio così,» disse lo Stygiano, «perché sono già a corto di ricette valide.» Ad ogni modo continuò ad emettere dei lugubri lamenti per circa un altro minuto, e poi si lasciò andare in quello che aveva tutta l'aria di essere il riposo dopo il delirio. Gli Stygiani amano molto essere al centro dell'attenzione, anche in circostanze piuttosto drammatiche e particolari. I nostri tennero una breve e frettolosa consultazione. Al termine di questa il loro capo si girò verso di me. «Tu vivrai ancora per un po'. Forse. Finché ojt'Miyer non sarà arrivato.» «Chi è questo oshmire?» Il volto della creatura si rabbuiò. «Lo scoprirai da te, piccolo grande chiacchierone. E anche abbastanza presto!» Con un gesto comandò che fossimo allontanati. Gli altri due ci rimisero in piedi e ci fecero marciare senza tanti complimenti fuori dalla stanza. Rhalgorn ed io rimanemmo in silenzio durante il nostro trasferimento per il campo. Camminando sotto l'ombra dello scuro vascello, decisi che, guardato da quella posizione, sembrava molto meno malaugurante. Il nero nascondiglio di metallo era tutto escoriato e butterato, ed era difficile individuare un solo pezzetto che non fosse stato rozzamente rappezzato o imbullonato. Ciò rafforzò in me l'idea che mi si andava formando nella mente. Quegli individui avevano delle potenti macchine a loro, disposizione, ma ero quasi del tutto certo che non fossero stati loro a costruirle. Oltrepassata la navicella, c'era un'altra serie di tuguri e, al di là di questi, un recinto all'aperto circondato da un'alta staccionata sulla quale correvano dei fili metallici. Venne aperto un cancello arrugginito e fummo introdotti all'interno di quel recinto. Mi guardai intorno. Il recinto era addossato al fianco di un dirupo. Nella parte posteriore c'era una baracca praticamente mezza diroccata e sepolta nelle tenebre. «Credo che quelle rocce siano impossibili da scalare,» dissi a Rhalgorn. «E anche quella staccionata ha l'aspetto piuttosto impervio: scavalcarla non deve essere impresa da poco.» Rhalgorn sospirò. «Due buone ragioni. Punto primo, io riesco a vedere decisamente meglio di te al buio, e ti informo che ci sono almeno un'altra dozzina di quelle creature appostate nell'oscurità. Punto secondo, se potessi scalare quest'affare e scappare, non riuscirei certo a farlo con te sulle spalle.»
«Oh, bene, queste mi sembrano due buone ragioni.» «Naturalmente, noi siamo protetti dal Demone Turnip.» Inarcò i sopraccigli e si girò verso di me. «Sono certo che ciò voglia dire molto.» «Io ci conto molto.» «Bene. In effetti ci sono per fortuna tantissimi modi per cacciare le lepri e...» Si interruppe, annusò l'aria e si irrigidì. «Aldair, non siamo soli. C'è qualcosa in quella baracca dietro di noi.» Io socchiusi gli occhi per riuscire a vedere meglio nell'oscurità. «Io non vedo assolutamente nulla.» «Neanche io. Ma riesco a sentirne benissimo l'odore.» «Questo non vuol dire granché in un posto del genere.» Mentre stavamo lì intenti a guardare, un pallido volto apparve sull'arco della porta. Ci studiò per un lungo momento, poi, anche se con molta circospezione, fece un passo in avanti. «Non muoverti,» dissi io con calma. «Dagli tempo.» Rhalgorn obbedì, ma io percepii chiaramente il cupo grugnito che emise dal profondo della gola. La creatura accennò un altro timido passo, poi si fermò e divenne ben visibile sotto la forte luce di una specie di riflettore. Era un Uomo, smilzo e sottile, ricoperto di stracci. Aveva i capelli tagliati all'altezza delle orecchie, ma presentava una folta crescita di peli intorno alla bocca e alle mascelle. Per quanto io odiassi la sua razza con tutte le mie forze, non potei fare a meno di ammirare il suo coraggio. Anche per lui si trattava della prima volta. Neanche lui aveva mai visto nessuno della nostra specie, e non poteva sapere cosa aspettarsi. Ci guardò ancora per un momento, poi si fece ancora più vicino. «Voi, bestie... sapete parlare?» Se non avessi fermato Rhalgorn afferrandogli il braccio, gli sarebbe senz'altro saltato alla gola e l'avrebbe fatto fuori immediatamente. Anch'io stavo tentando di fare del mio meglio per ingoiare la rabbia che mi stava sopraffacendo al cospetto di quella fragile e stupida creatura. Ma certo non avevo potuto fare a meno di notare che le prime parole che erano uscite dalla bocca dell'Uomo erano state sia arroganti che presuntuose. «Sì,» gli risposi, «le bestie sanno parlare. E certamente sono abili in quest'arte tanto quanto gli Uomini.» Le mie parole lo fecero indietreggiare leggermente. Spalancò gli occhi e lanciò una rapida occhiata dietro le spalle. Allora, scrutando le tenebre con più attenzione, mi accorsi dei suoi compagni.
«Osi venire ancora più vicino?,» gli intimò Rhalgorn con tono irato, «o forse hai paura di parlare con delle bestie?» «Calma,» dissi io sottovoce, e all'Uomo: «Se hai qualcosa da dire, avvicinati e parla. Se il mio amico decide di farti a pezzi, qualche altro metro non farà nessuna differenza.» L'Uomo si mise a scrutare Rhalgorn. «Sì. Io... aspetto proprio questo.» Fece ancora qualche passo. Si vedeva chiaramente dal suo sguardo che aveva paura, ma manteneva un certo ritegno. «Che cosa siete voi,» disse con fare esterrefatto. «Chi siete voi? Non siete Uomini, ma non siete nemmeno dei loro!» «No,» gli dissi, «infatti non siamo dei loro. È una storia molto lunga e, se vivremo abbastanza a lungo, la conoscerai anche tu. Come ti chiami, Uomo? Hai un nome?» «Caldus. Io...» Scosse la testa, ancora non del tutto convinto di stare facendo la cosa più giusta. «E tu? Tu... chi sei?» «Aldair degli Eubironi, del Clan dei Venicii. E Rhalgorn è uno Stygiano, un vero Signore dei Lauvectii.» Caldus si morse le labbra. Un solco profondo si scavò tra i suoi sopraccigli. «Questi posti che tu hai nominato non significano assolutamente niente per me. Non li ho mai sentiti prima.» «Non ho dubbi a riguardo,» dissi freddamente. «La tua specie dimentica con molta facilità le terre che mette da parte.» «E con questo che vorresti dire?» Caldus allargò le braccia e accennò un sorriso. «Io sono Caldus, del Nuovo Arizona. Proprio lì, al di là del mare.» Fece un gesto vago verso destra. «Ho vissuto lì per tutta la mia vita, e né io, né nessuno della mia gente, abbiamo mai sentito parlare dei posti di cui tu stai parlando. E neanche di voi, in verità!» Io guardai i suoi compagni con un misto di rabbia e di tristezza. Cosa potevo fare di loro ora? Potevo maledirlo per le colpe dei suoi padri... ma lui aveva dimenticato quei peccati o, addirittura, non ne aveva mai saputo nulla. La verità era che il tempo e il luogo mi avevano davvero beffato. Il nemico della Terra era già in ginocchio. Ed io non potevo fare a meno di odiarlo per quello...» QUATTRO
Non era certo quello il momento o il luogo più adatto per mettere a conoscenza quei tristi figli dell'Uomo delle loro vere origini. Era più che evidente che c'erano già fin troppi problemi a tenerci occupati. E in quell'occasione fu Caldus ad insegnarci qualcosa. Lui e i suoi compagni erano molto ben informati sul conto dei nostri catturatori, perché quelli avevano da sempre terrorizzato la sua razza. Mentre lui era curioso di sapere noi che ruolo avevamo in tutta quella storia, io lo convinsi che, comunque, saremmo stati d'aiuto. Molto presto imparammo che Caldus non era uno completamente assimilabile al suo popolo, nel senso che non ne condivideva tutte le caratteristiche. A me e a Rhalgorn sembrava spaventato ed esitante: una lepre intimorita che poteva fuggire da un momento all'altro. Tra la sua gente, ad ogni modo, lui era un coraggioso, anzi persino audace. I suoi compagni si erano rifugiati nella loro baracca e non avevano mostrato la benché minima volontà di avvicinarsi a noi. Se lo Stygiano avesse emesso uno solo dei suoi grugniti, penso che si sarebbero letteralmente sciolti dalla paura. Rhalgorn, naturalmente, l'aveva perfettamente intuito, e provava un gusto enorme nel mostrare le sue zanne affilate e nel roteare gli occhi in tutte le direzioni, soprattutto quando pensava che io non lo guardassi. «Aldair, la supposizione che hai fatto su quelle creature è giusta,» mi disse Caldus. «Hanno un enorme rispetto della magia.» «E per poche altre cose, immagino.» Caldus annuì. «Le Bestie non hanno paura di nulla,» disse freddamente. «Assolutamente di nulla. E perché dovrebbero? Hanno armi crudeli e macchine che volano tra le stelle. Quando vogliono altri schiavi, vanno e se li prendono. È sempre stato così.» Io tentavo di nascondere il mio disprezzo per quella cosa priva di peli. «La creatura con cui abbiamo parlato, sembra essere un capo, o qualcosa di simile.» «sht'Ingo,» disse Caldus. «Lui è un mercante di schiavi, ed è il capo di quella navicella. sht'Ingo ci ha tormentato già in passato... e suo padre prima di lui.» L'Uomo dominò a stento un brivido. «Il fatto è che c'era un Diavolo. Uno dei veri Signori dei Dieci Mondi. sht'Ingo non arrivava a raggiungere il suo livello di crudeltà, e neanche quello di suo fratello. Fu brr'Luk che assassinò suo padre e gli sottrasse il regno, lasciando sht'Ingo al freddo e con la navicella come suo unico bene. Dopo di ciò...» «Aspetta,» lo interruppi alzando una mano. «Io non riesco a seguirti,
Caldus. Questi nomi impronunciabili che stai facendo e che sarebbero stati i massacratori dei loro padri, non significano assolutamente nulla per me. Ma invece qualche altra cosa che hai detto mi suona più familiare. Dieci mondi? Volevi proprio dire, come mi pare di aver capito, che quelle creature controllano veramente dieci mondi?» «Sì, perché, che c'è di strano?» Mi guardò con aria incuriosita. «Non lo sapevi? Io non so da dove venite tu e il tuo compagno, ma se è al di là dei Dieci Mondi delle Bestie, deve essere davvero da molto lontano!» «Tu!» Sbottò all'improvviso Rhalgorn, spaventando Caldus quasi a morte. «Mi sono mantenuto calmo fino a quando tu hai usato quella parola, ma ora non rispondo più di me stesso. Quella tua bocca senza forma ha pronunciato quella parola ormai già tre volte. Una volta per descrivere Aldair e me, e due volte per definire quei mostri. Sarebbe meglio che non accadesse più!» Caldus fissò quegli occhi rossi infuocati ed adirati, poi deglutì a malapena. «Io... io non volevo dire niente di offensivo. So che non siete come loro, solo che...» «Rhalgorn ha perfettamente ragione,» mi introdussi io. «Il mio compagno si fa prendere facilmente dalla collera, Caldus, ma io non sono affatto più tollerante di lui. Le cose come si chiamano tra di loro? Io non posso credere che il termine che usano sia proprio Bestie.» Caldus divenne rigido come un masso. «Temo che siamo di nuovo al punto da dove eravamo partiti,» disse con fermezza. «Voi non volete tollerare il nome che io uso per definire quegli esseri, ed io non riesco a tollerare quello che loro adottano per sé stessi!» «E perché no?» «Perché loro si definiscono Uomini.» Rhalgorn ed io ci scambiammo delle rapide occhiate d'intesa. Naturalmente, ci dicemmo senza aver bisogno di parole, che cos'altro potevano pensare di essere? Dal momento che eravamo arrivati in quel mondo a metà della giornata, non avevo nessuna cognizione di come funzionassero da loro le ore. Tuttavia, mi ero fatto l'idea che il giorno durasse un po' in più che sulla Terra. Dopo aver parlato con Caldus, pregai che la notte potesse durare una settimana o qualcosa di simile, perché l'indomani si presentava con presagi per niente allegri. La cupa navicella non sarebbe stata adoperata per portarci da qualche altra parte ancora più lontana. Al contrario, i nuovi schiavi
che venivano catturati, marciavano per un breve tragitto verso il mare e da lì venivano presi e portati su un'isola al largo della costa. Dove sarebbero poi stati caricati a bordo di un vero vascello spaziale e portati in uno dei Dieci Mondi. «Come il mondo lì fuori?», chiesi. «Gli altri mondi sono simili a questo?» Caldus sembrava completamente assente. «Aldair, come faccio a saperlo? Io posso solo dirti quello che ho sentito. Storie che la mia gente si è tramandata attraverso gli anni. Certo, non credo che tu sia così ottimista da pensare che qualcuno sia ritornato da uno dei Dieci Mondi.» Scosse la testa allibito. «Questa è una cosa che non è mai successa, e con ogni probabilità non succederà mai.» «Bene, io sono assolutamente certo di non voler fare un viaggio in nessuno di questi loro mondi,» disse con aria sprezzante Rhalgorn. «Figurarsi poi dieci. Non mi sembrano per niente convenienti per un Signore dei Lauvectii.» La sua lunga coda grigia sbatteva nervosamente nell'oscurità. «Il che equivale a dire che noi dovremo essere fuori da questo posto prima che faccia giorno,» dissi io. «Una volta fuori di qui e sull'isola, sarà praticamente impossibile fuggire. Caldus, quanti tuoi compagni ci sono in quella baracca? Ci sono pezzi di legno, di ferro... qualcosa che possa essere usata come un'arma?» «E della biancheria, se se ne trova in giro,» aggiunse Rhalgorn. «Una coperta, per esempio, può essere strappata e intrecciata per farne un'ottima corda lungo la quale arrampicarsi.» Caldus ci guardava con gli occhi spalancati, come se fossimo tutt'a un tratto usciti di senno. «Ma di cosa... di cosa state parlando?», urlò atterrito. «Non c'è assolutamente nessun modo per sfuggire a queste creature. È impossibile!» Rhalgorn fece una smorfia. «Come fai a saperlo, specie di Uomo? Ci hai mai provato?» «Naturalmente no. Io non ero mai stato catturato prima. Sai, succede una sola volta!» «Caldus,» dissi, cercando di essere ragionevole e di mediare tra quei due, «non ha in realtà molto senso stare qui seduti ad aspettare di essere portati al macello. Vale sicuramente la pena di fare almeno un tentativo.» «E allora provateci,» disse con rabbia. «Ma non tirate in ballo anche me o i miei compagni in una tale folle idiozia. Io, per quanto mi riguarda, non sono disposto a sprecare la mia vita per niente!»
«Ma sei disposto a passarla in schiavitù?» «Questo è il modo in cui stanno le cose.» Distolse lo sguardo e si mise a fissare un punto del terreno. «È sempre stato così, e non c'è molto altro da dire.» «Capisco.» «No. Tu non capisci proprio nulla.» «Io sì, però,» disse Rhalgorn brusco. «Capisco che l'Uomo non ha abbastanza fegato per combattere.» «Rhalgorn...» «Per la vista del Creatore, Aldair: guardalo!» Io presi Caldus per un braccio e con una rapida mossa lo allontanai dallo Stygiano. «Quello che intendi fare della tua vita, è affar tuo,» gli dissi. «Il mio compagno ed io non abbiamo alcuna propensione per la schiavitù. Ho incontrato per ora poche di quelle creature, e non provo alcun desiderio di conoscerne altre.» Caldus se ne uscì in una risata soffocata. «Tu non sai ciò che stai dicendo, ma è la verità. Non hai ancora visto i peggiori! sht'Ingo è come una buona madre paragonato ad altri.» Un fremito gli corse sul viso. «Come ojt'Miyer, per esempio. Che Dio ti aiuti se mai...» «ojt'Miyer?» Scrutai Caldus con molta attenzione. «L'altro ... sht'Ingo, ha fatto questo nome.» «Cosa?» Il colore svanì dalle sue guance. «Cosa, cosa ha detto?» «Semplicemente che Rhalgorn ed io potevamo vivere ancora per un po', fino a quando non fosse arrivato questo ojt'Miyer.» Caldus indietreggiò terrorizzato come se io stesso fossi diventato un demone in carne ed ossa. «ojt'Miyer? Starebbe arrivando qui? Aldair, se hai abbastanza fortuna da trovare una pietra appuntita, tagliati le vene e lascia che la vita scorra via da te ora, prima che sia troppo tardi. È la cosa migliore che tu possa fare per te stesso. Lui è... è... un...» Le parole gli morirono in gola e Caldus si girò e corse via dai suoi compagni verso la baracca. Rhalgorn lo seguì con lo sguardo e aggrottò le sopracciglia. «Che cosa hai fatto a quel poveraccio? Era incredibilmente sconvolto, come se avesse visto il suo stesso fantasma.» «No,» gli risposi, «Penso che abbia visto il mio fantasma. E il tuo, vecchio mio.» Gli dissi ciò che era accaduto. Rhalgorn si fermò un attimo a ri-
flettere, poi si grattò i peli dietro il collo. «Penso che faremmo meglio a lasciare questo luogo quanto prima,» disse alla fine. «Non mi sto più divertendo tanto.» «Non pensi davvero che questo ojt'Miyer riuscirà a farsi beffe del Demone Turnip?» Rhalgorn si fece passare la sua linguaccia tutt'intorno al muso e si mise a fissare l'odiosa navicella. «Aldair, io penso che questo ojt'Miyer forse è il Demone Turnip.» Nonostante ciò che avevamo detto a Caldus, penso che sia io che Rhalgorn sapevamo benissimo che c'erano ben poche speranze di riuscire a scappare da quel posto. Tuttavia, ci dedicammo a quel progetto con grande accanimento, discutendo i vari piani possibili, e cercando di individuare quale potesse essere il punto più favorevole per scavalcare la staccionata. Alla fine, fu Rhalgorn che diede forma compiuta ai nostri pensieri. «Non è questo il momento adatto, Aldair. O, se lo è, la mia testa è troppo confusa per rendersene conto.» «Ce ne sarà un altro,» lo rassicurai. «Ce n'è sempre un altro. Non è certamente questa la prima Volta che tu ed io ci sentiamo con le code al muro.» Rhalgorn rise, di quel particolare suono simile alla tosse che passa per una risata tra la sua gente. «Ciò di cui avremmo bisogno adesso, sarebbe il buon vecchio Pelliccia Grassa qui con noi. Così potremmo smetterla di darci tanta pena per uscire da questa situazione, e potremmo scagliarlo contro questo ojt'Miyer e farlo stendere in men che non si dica!» Non potei fare a meno di ridere a quest'affermazione, perché Signar, Thareesh e gli altri che ci eravamo lasciati alle spalle, occupavano in quel momento tutti i miei pensieri. Quante lunghe e terribili miglia ci dividevano, mi domandavo, da quando quella sfera dorata ci aveva strappato dalla Terra e ci aveva scagliati fra le stelle? Di certo loro erano ormai persi per me. Questa era una verità dolorosa, direi crudele, da affrontare, ma era la cosa più realistica da pensare. La Terra si trovava ad un incredibile distanza da noi, alla deriva nel Mare delle Nebbie, dove una gelida stella assomigliava in tutto e per tutto ad un'altra. Da qualche parte quella sera stava scorrendo della buona birra d'orzo, ma né io né Rhalgorn saremmo stati lì a dividerla con qualcuno. In quel preciso momento, giusto per l'arco di un respiro, il pensiero di
Corysia mi attanagliò la mente. Riuscii a vederla chiaramente, a sentire il caldo del suo corpo che sì stringeva al mio, a toccare i suoi seni delicati. Poi, all'improvviso, tutto si dissolse... CINQUE Finalmente l'alba sfiorò il piatto orizzontale e respinse le tenebre. Ancora per un altro giorno il sole era una cosa pallida e malaticcia sotto malsane nuvole giallastre. Mi proposi di chiedere a Caldus se la piena luce del giorno venisse mai ad illuminare quel mondo triste e desolato. Da qualche parte dietro la scura navicella arrivò l'acuto e lugubre lamento di un corno di guerra. In un attimo il campo divenne brulicante di figure incappucciate, che andavano e venivano mostrando di darsi molto da fare. La brezza mattutina portò fino a noi un odore che non avrei definito spiacevole: l'odore di un appetitoso stufato e di un buon vinello giovane. Sia Rhalgorn che io ci ringalluzzimmo al pensiero di qualcosa da bere e da mangiare. L'ultimo pasto di cui conservavamo memoria era lontano nel tempo e nello spazio, ben al di là delle stelle, e noi eravamo molto impazienti e desiderosi di riempire le nostre povere pance. Ad ogni modo l'odore se ne andò così come era venuto. C'era evidentemente del cibo lì fuori, ma non era per noi. «Avevo pensato di farla passare liscia a queste creature,» disse Rhalgorn con aria cupa. «Ora ti assicuro, Aldair, che ho tutta l'intenzione di fargliela pagare cara, sì molto cara. Far morire di fame un Signore dei Lauvectii non è il modo migliore per renderlo felice.» «Sono certo che abbiano sentito parlare della collera degli Stygiani. Ed è senza dubbio questo il motivo per cui desiderano vederti indebolito.» Rhalgorn si illuminò. «Ebbene, credo proprio che tu abbia capito come stanno le cose. Questo potrebbe dare una spiegazione logica a tutta la faccenda, non ti pare?» Sembrava particolarmente soddisfatto di quell'assurda fantasticheria, ed arrivò persino a gratificare di uno stupido sogghigno i mostri che vennero a prenderci. Le creature ci misero in riga davanti alla grande navicella, raggruppandoci insieme con degli Uomini provenienti da altri recinti che si trovavano nel campo. Caldus si mantenne a una certa distanza, fingendo di non averci mai visti prima. Evidentemente, la sua paura di ojt'Miyer lo aveva convinto che non eravamo affatto una buona compagnia. La piena luce del giorno non rendeva per niente più affascinante i nostri
catturatori. Per quanto potessi giudicare, non c'era nessuno tra loro che assomigliasse ad un essere vagamente normale. Ognuno di loro non era altro che un'odiosa accozzaglia di parti messe insieme alla rinfusa, senza nessun ordine particolare. Pelli squamose e verrucose emanavano un olezzo simile a quello del sego di candele disciolto, e qua e là c'erano dei ciuffi di pelliccia o strisce di pelle dell'Uomo, glabra e rosa. Né i volti, né le membra di questi esseri offrivano un insieme accettabile. Un grugno diventava un muso. Un arto terminava con un artiglio, l'altro in uno zoccolo o in una mano. Alcune creature avevano un modo di incedere normale, ma la maggior parte di loro ci passavano accanto con un'andatura goffa e maldestra. Erano armati, anzi era più appropriato dire corazzati, di tutto punto: avevano armi, elmi e lamine, munite di punte e di chiodi. C'erano anche spade, scudisci e asce infilate nelle loro cinture, ed alcuni portavano dei tubi lucenti e smussati che io non avevo mai visto prima d'allora. La rabbia sembrava essere il sentimento loro più congeniale, in quanto sembravano trarre grande gioia e soddisfazione dall'andare in giro sghignazzando e deridendo tutto e tutti. Un lamento cupo e spaventoso si alzò tra i prigionieri. Bisbigli soffocati si diffusero come fragili foglie secche. Alcuni prigionieri urlarono e persero i sensi, e non ci fu modo di farli rimettere in piedi con fruste o con randelli. Tagliati le vene e lascia che la vita scorra via da te ora, mi aveva detto Caldus. Alcuni poveretti avevano imparato a memoria questa frase e speravano con tutte le loro forze di morire lì dove erano caduti. Rhalgorn quasi mi stritolò il braccio e accennò alla nostra sinistra. All'inizio non c'era niente. Poi le ombre si dileguarono davanti alla luce del giorno e ojt'Miyer cominciò a incedere tra di noi... Non era il volto di quella creatura che riusciva a sconvolgere tutti a quel modo, in quanto aveva la faccia nascosta come tutti gli altri. Era l'intuizione di ciò che lui era, a tramutare in pietra i cuori di chiunque avesse la disgrazia di vederlo. Io penso che ognuno vedeva realizzarsi in lui i suoi incubi più profondi e radicati. Per me si trattò di cose bianche simili alle teste di orribili vermi che davano l'impressione di contorcersi e dimenarsi al di sotto del cappuccio, e scontrarsi senza sosta. In seguito, Rhalgorn mi disse di aver visto delle cose completamente differenti, ma non ebbe alcuna voglia di raccontarmi di che si era trattato. ojt'Miyer stava fermo davanti a noi e lasciava scorrere il suo terribile sguardo su di noi. All'improvviso fece segno a sht'Ingo di avvicinarsi a lui e gli disse qualcosa. sht'Ingo si affrettò a bisbigliargli all'orecchio una ri-
sposta e subito dopo si ritrasse. Ancora prima che ciò accadesse, sapevo già cosa poi si sarebbe verificato. ojt'Miyer si girò, mi guardò dritto in volto, e cominciò a muoversi nella mia direzione. Il sangue che avevo nelle vene divenne ghiaccio. «Rhalgorn,» dissi più in fretta possibile, «sei ha un piano per fuggire, è arrivato il momento di rendermelo noto.» ojt'Miyer si fermò. Io tentai di guardare da qualche altra parte ma non ne fui capace. «Magia, vero?», disse lui con calma. «Incantesimi, demoni e cose del genere.» La sua voce divenne più acuta e mi colpì come un vento gelido sul picco di una montagna rocciosa. «Parleremo di questo più tardi, piccola creatura.» Fece una pausa e si guardò intorno alla ricerca di Rhalgorn, poi si girò di nuovo verso di me. «Ti piacerebbe vedere di quali magie è capace ojt'Miyer? Ho uno o due trucchi da mostrarti.» «No... non in modo particolare,» dissi io. ojt'Miyer rise, un suono che mi fece battere i denti fino a farmeli dolere. «Bene, solo uno allora.» In una frazione di secondo qualcosa di pallido e umido uscì strisciando rapidamente dal suo mantello, in un lampo si avvinghiò attorno ad un Uomo che mi stava a fianco e lo attirò verso di sé. L'Uomo emise un grido di terrore veramente spaventevole. ojt'Miyer lo teneva stretto a sé come un amante impetuoso che soffocava le sue urla con carezze crudeli e mortali. Lo schiacciava, lo lacerava, lo sfregiava e lo dilaniava. L'uomo strillava in preda a un cieco raccapriccio. ojt'Miyer lo uccideva poco a poco, gentilmente, tormentando la sua preda con inutili sofferenze. Le ossa scricchiolavano. Le carni si aprivano e sanguinavano. E ancora la cosa-Uomo viveva, perché ojt'Miyer era un maestro in quest'arte. Infine tenne stretto il poveraccio in una presa micidiale e cacciò la sua testa insanguinata sotto il suo misterioso mantello. Le urla cessarono all'improvviso, e si persero in un suono che non venne dimenticato in fretta da quelli che l'avevano udito. ojt'Miyer si fermò e lasciò che quella cosa flaccida e senza più alcuna forma scivolasse via. Senza aggiungere neanche una parola si girò e, passando accanto ai suoi servi, se ne tornò nelle ombre dalle quali era emerso. Quando fu definitivamente scomparso dalla vista, sht'Ingo urlò un secco ordine e le guardie ci fecero avanzare in ordine sparso. Poco tempo dopo ci trovavamo già fuori del campo ed eravamo in cammino per quelle squallide pianure. Anche se me ne vergogno, devo ammettere che in quel mo-
mento condividevo i pensieri dei miei amici prigionieri. Paragonato a ciò che ci eravamo lasciati alle spalle, guardavamo con speranza alle gioie e alle benedizioni della schiavitù... Rhalgorn ed io avemmo ben poche occasioni di poterci parlare durante il nostro viaggio, dal momento che le guardie non incoraggiavano nessuno a parlare. Comunque, quel paio di occhiate che riuscimmo a scambiarci furono sufficienti. Sarebbe arrivato il momento giusto, e noi l'avremmo colto al volo, a qualunque costo. La vita è molto cara a chiunque, ma ci sono volte in cui il prezzo da pagare è troppo alto. I pensieri dello Stygiano combaciavano perfettamente con i miei quando raggiungemmo la cima di quella bassa collinetta e vedemmo la distesa di mare color grigio-ardesia che si stendeva sotto di noi. In quel punto, il braccio di mare era piuttosto stretto perché si apriva in una baia che si trovava in una depressione a circa un miglio di distanza dal mare aperto. L'insenatura era cosparsa di centinaia di minuscole isolette, piazzate una vicina all'altra e ricoperte di fitta boscaglia. Se fossimo riusciti a raggiungere quelle isole e a far perdere le nostre tracce, avrebbero avuto un bel daffare per scovarci. Le imbarcazioni delle creature erano piccole, scoperte e munite di remi: il che voleva dire che in ognuna avrebbero preso posto circa una dozzina di prigionieri, più, molto probabilmente, una sola guardia. «A giudicare dalle apparenze,» dissi a Rhalgorn, «si fidano molto di loro e non hanno invece alcun rispetto degli Uomini. Supponi che quei poveri diavoli abbiano mai tentato di sopraffarli?» Rhalgorn emise uno dei suoi strani rumori gutturali. «Dubito fortemente che abbiano lo stomaco a sufficienza per un simile tentativo. Questi pelle pallida sono nati per essere schiavi, Aldair.» «C'è molta verità in quello che hai detto,» ammisi. «Caldus è chiaramente il più audace tra di loro, e certo anche lui non è un caso esemplare.» Rhalgorn si strofinò la pancia. «Loro possono pure starsene seduti e immobili a vedere cosa gli succederà, se sono contenti così,» disse tagliando corto. «Io, per quanto mi riguarda, conto di svignarmela da questo posto il più presto possibile e di trovare un pasto decente.» Mi girai verso di lui sogghignando. «Spero che tu non voglia tentare di nuovo una battuta di caccia alla lepre!» «Ora come ora mi accontenterei anche di una carota fibrosa e filacciosa
e una di quelle schifose patate di cui tu sei così ghiotto.» Scosse la testa con aria disgustata. «Per tutte le divinità! Non avrei mai immaginato di ridurmi a sognare di poter riempire la mia povera pancia con delle radici! Mi trovo davvero in una brutta situazione!» I mostri sbraitavano, impartivano ordini e ci pungolavano per spingerci verso la spiaggia, perdendo di tanto in tanto tempo a bastonare qualche infelice prigioniero. Il fatto era che sembravano non poter procedere senza ammazzare qualcuno, o almeno picchiarlo senza che ci fosse alcun motivo per farlo. Rhalgorn ed io riuscimmo a sederci in quella che reputavamo una posizione favorevole, e cioè a poco più di un metro di distanza dalla guardia che si era sistemata a prua. Guadagnare quella posizione non ci presentò grandi problemi visto che nessuno dei nostri compagni provava un particolare desiderio di occupare quel posto. Mentre già si remava per allontanarci da quella riva fangosa, io contai dodici barche in tutto. Su ognuna delle barche c'era una guardia e circa dodici prigionieri. In testa e in coda al gruppo c'era un'imbarcazione che portava solo quattro guardie. La nostra guardia sembrava del tutto incurante del suo carico. Se ne stava seduta lì a guardarci remare e andava avanti a tirarsi delle crosticine da quella sua orribile faccia con aria del tutto assente. Nella cintura aveva una lama piatta e corta che era così arrugginita che temo avrebbe incontrato delle serie difficoltà anche a tagliare il burro. L'unica arma che aveva con se era uno di quei bizzarri tubi che avevo già notato prima. Quell'aggeggio mi incuriosiva enormemente, perché non riuscivo proprio a vedere quale uso se ne potesse fare. Era corto, non andava infatti oltre i trenta centimetri di lunghezza, ed assomigliava in tutto e per tutto ad un pezzo di canna lucente. Lanciai un'occhiata a Rhalgorn e mi accorsi che anche lui era molto interessato da quello strano oggetto. In alcune cose gli Stygiani sono bravi proprio quanto loro pensano di essere. Se quella creatura coperta di croste pensava davvero di riuscire a picchiare Rhalgorn con quell'affare, io gli facevo i miei migliori auguri. Lo Stygiano gli avrebbe tagliato la gola in una quarantina di posti differenti prima che fosse in grado di recitare le sue preghiere. Il suo piano appariva ogni momento più praticabile. C'erano momenti in cui la fitta e ombrosa vegetazione si univa con le numerosissime alghe che vedevamo sotto la nostra imbarcazione, formando delle scure gallerie che
non permettevano di scorgere le altre barche. Io con un occhio sorvegliavo la guardia e con l'altro non perdevo di vista Rhalgorn. Era lo Stygiano che avrebbe deciso qual era il momento più adatto per agire. Io avrei attirato l'attenzione della guardia e Rhalgorn avrebbe colpito. Lui riusciva ad essere più veloce del vento, e nel breve arco di un secondo... All'improvviso qualcosa di argenteo balenò tra le acque, ruppe la superficie e si avvicinò a noi come un insieme non ben definito nel quale spiccavano denti e mascelle. La guardia si girò. Il tubo scintillante sputò fiamme bluastre. Una testa squamosa venne troncata di netto dal collo di quell'assurdo animale che non avevamo fatto in tempo ad individuare, ed affondò nelle acque profonde. Il tutto fu veloce, semplice e letale. La guardia riprese a strapparsi le crosticine dalla faccia. Rhalgorn fissò tutta la scena con gli occhi spalancati. Io rabbrividii e mi rimisi stancamente a remare. Ora avevamo le idee molto chiare su quale fosse l'uso che si poteva fare di quelle piccole canne scintillanti. Erano lo strumento ideale per tagliare le cose a metà con ben poco sforzo. Ed erano di gran lunga più rapidi degli Stygiani... SEI Ora che il nostro brillante e baldanzoso piano non era più di nessun valore, ogni momento che passava ci faceva sentire più vicini a una vita da passare in schiavitù tra i piacevoli compagni di ojt'Miyer. Da tutto quello che avevo visto fino a quel momento, non mi pareva, comunque, che sarebbe stata una vita molto lunga. Soprattutto considerando il fatto che l'orrore da cui eravamo continuamente circondati aveva già lasciato un segno indelebile su di noi. Nella mia mente fiorirono almeno un'altra dozzina di piani. Alcuni avevano degli spunti interessanti, ma tutti presentavano una grossa pecca: in ogni caso, Rhalgorn ed io saremmo stati ammazzati immediatamente. Eravamo, insomma, di nuovo allo stesso punto di partenza. Speravamo sempre di poter cogliere al volo qualche occasione favorevole e, soprattutto, pregavamo gli Dei affinché ci salvassero la pelle. In un modo o in un altro il tutto si riduce sempre a quello. Qualsiasi cosa avremmo dovuto fare, la dovevamo fare il più in fretta possibile. Ci trovavamo ancora in mezzo al gruppo di isolette, ma io avevo già cominciato ad adocchiare dei luminosi squarci di mare aperto. Ero in attesa. Guardavo Rhalgorn. Lui era il più veloce, e doveva essere
quindi lui a fare la prima mossa. Mentre ero in attesa dell'attimo favorevole, notai un qualcosa di molto particolare. Anche Rhalgorn ebbe la mia stessa sensazione, ed io mi accorsi che con i suoi occhi infuocati stava dardeggiando velocemente il folto della boscaglia. C'era un movimento, un qualcosa che sì agitava, un'ombra nel folto della vegetazione che non era familiare in quell'ambiente. Un'infinita tranquillità che si riusciva a percepire solo con quel senso che non ha nome. Lì... e lì di nuovo! Scuro contro chiaro. Un lampo di verde che spiccava sull'enorme distesa grigia. La guardia non si era accorta di niente. Era come se non avesse orecchie per quell'incalzante silenzio, per quel bagliore di colore che era durato appena l'arco di uno sbatter di ciglia. Eppure, Rhalgorn ed io l'avevamo visto chiaramente. Eravamo abituati al respiro della terra, al bisbiglio del vento che passava tra l'erba secca e leggera. Quel mondo non ci apparteneva, ma il suo cuore batteva quasi alla stessa maniera. Per un momento qualcosa aveva toccato quel cuore, e il vento aveva urlato: Un Intruso! Un Intruso! L'asta fischiò sinistra nell'aria e perforò il petto del mostro. Lui prima tossì, poi gli occhi gli si gonfiarono inverosimilmente. Il micidiale tubo tremò tra le sue mani e Rhalgorn ne approfittò per colpirlo violentemente spargendo la sua vita in una sola macchia di sangue. Fiamme blu si sprigionarono dal tubo per la disperata stretta mortale della creatura, e fecero sfrigolare i rami degli alberi che si trovavano lì intorno. Io urlai e cercai di agguantare la cosa. L'imbarcazione diede un violentissimo strattone e venni catapultato fuori bordo. Urtai contro qualcosa, risalii a galla velocemente sputando acqua grigiastra, e mi affannai a raggiungere la più vicina isola. Altri prigionieri dalla pelle-pallida si dibattevano intorno a me. Era difficile stabilire che cosa temessero di più: se fossero le mascelle argentee che vivevano lì, o gli intrusi che si trovavano sulle loro teste. «Aldair!» Rhalgorn urlò il mio nome e mi spinse sulla terraferma. Aveva sottratto la spada rugginosa alla nostra guardia e me la mise in mano. Il mondo esplose intorno a noi. Gli Uomini urlarono terrorizzati. Una luce blu affilata come un rasoio brillò tra la fitta vegetazione. I mostri ruggivano per la rabbia e per il dolore mentre le frecce andavano a bersaglio. Le mascelle argentee si erano raccolte e si affilavano i denti davanti a quel banchetto inaspettato. Rhalgorn ed io facemmo tutto quello che potevamo per mettere quanti più Uomini possibile in salvo sull'isola. Gli intrusi
non si erano ancora mostrati: continuavano a rimanere nascosti e a mietere vittime, rendendo praticamente impossibile per le creature il compito di individuarli. Le loro armi micidiali erano del tutto inutili in quell'occasione. All'improvviso uno strano rumore, del tutto insolito fino a quel momento, colpì le mie orecchie. Sapevo di che cosa si trattava. Non esiste quiete più terribile di quella dell'approssimarsi della fine della battaglia. È il momento in cui i morti si sollevano e scivolano attraverso le loro ferite come la nebbia del mattino. «Aldair,» disse Rhalgorn stancamente, «penso di essere sul punto di perdere il ben dell'intelletto.» «Lo so. Quando l'hai scoperto?» «Per favore. Sono molto serio. Lo sento... so che sarà così!» «Sentito cosa?» Lui annusò di nuovo l'aria. «Birra d'orzo. Un po' inacidita, un po' stantia e in qualche modo usata, ma, ciononostante, birra d'orzo.» Io lo guardai. «Questo è il tuo stomaco che parla, non il tuo naso.» «No, per tutti gli Dei, non è così. Aldair...» Improvvisamente si rizzò in piedi e lanciò una delle sue terribili urla di guerra Stygiane. «Guarda Aldair, vedi quella cosa lì?» Gettò indietro la testa e cominciò a ridere forte, si fece largo tra i cespugli e si mise a saltare su e giù urlando con quanto fiato aveva in gola. «Rhalgorn...» Mi fermai. Alle sue spalle vidi la grossa creatura tarchiata che rimbalzava di isola in isola verso di noi. Una folta pelliccia color giallo-bruno ricopriva la sua enorme corporatura, ed era striata qui e là dalle numerose cicatrici, segni di centinaia di battaglie. L'ampia testa piatta era parzialmente nascosta sotto un elmo Vikoniano, ma io sarei stato in grado di riconoscere quei lineamenti in qualsiasi situazione. Il muso corto e nero e gli occhi scurissimi mi erano familiari come il dorso della mia mano. Era Signar... ed era proprio lì! Non ad un milione di stelle di distanza dove l'avevo lasciato! Il mio cuore ebbe un sobbalzo e mi precipitai per andargli incontro. Rhalgorn era già lì. Signar lo sollevò con un forte ruggito che lasciò lo Stygiano boccheggiante, poi lo lasciò libero per poter soffocare me contro la sua enorme pancia. «Dannazione a me,» ringhiò, mentre sfoderava un sorriso da orecchio a
orecchio, «siete proprio voi, e questa sì che è una notizia! Anche se come ciò sia potuto accadere non saprei davvero dirlo!» «Sapevo che eri tu,» rise Rhalgorn. «Perché un Vikoniano fa sempre cadere più birra di quanta non ne beva.» Signar si girò a guardarlo con un ghigno divertito dipinto sul volto. «Alito di coniglio, questo mondo è così pieno di bizzarri individui, che sono quasi contento di rivederti. Dannazione a te!» Scosse il capo con l'aria di chi non si è ancora reso conto di quello che sta succedendo e continuò a guardare quello strano paesaggio. «Non riesco a proprio a credere come tutto ciò sia potuto accadere. Thareesh!» urlò all'improvviso. «Guardatevi un po' intorno per vedere se lo scovate!» «Thareesh... è qui anche lui?» «Certamente,» si imbronciò Signar. «Lui e un'altra dozzina del vecchio Ahzir. Non si può partire all'improvviso e lasciare indietro il proprio capitano e il proprio equipaggio, Aldair. Loro troveranno le tue tracce, in un modo o in un altro.» A poco a poco, dietro a Signar cominciarono ad apparire tra il folto della vegetazione altre figure. Grandi Vikoniani dall'aspetto simile a Signar, o altri neri come la notte, delle terre occidentali di Raadnir. Guerrieri bassi e tarchiati della mia stessa razza compreso il buon Stumbacius. Agili arcieri Nicieani si calarono dagli alberi, con le loro membra sottili completamente ricoperte di scaglie verdi dalla testa ai piedi, con la testa piatta e delle semplici fessure al posto del naso e della bocca. Sembravano davvero uscire da un incubo. Ora quel tempo mi sembrava invece come se non fosse mai esistito, giacché ero arrivato a chiamare fratello più di un Nicieiano. «Thareesh.» Strinsi forte la tua mano tra le mie. «Questo è un giorno al quale brinderemo per molte notti.» «Aldair, amico mio...» Il suono sibilante della sua voce era musica per le mie orecchie. «È davvero un gran giorno questo. Aver ritrovato te e il buon Rhalgorn.» Si fece avanti e abbracciò lo Stygiano. Io sentii l'aroma secco e forte della sua pelle. I Nicieani sono una razza fortunatissima perché, dovunque vadano, un po' del deserto che è la loro patria è sempre con loro. «I tuoi arcieri si sono comportati molto bene oggi,» gli dissi. «Avevano compiti importanti e sgradevoli.» «Questo è il solito modo di parlare dei Niceiani, fin troppo modesto.» «Forse hai ragione.» Thareesh si guardò intorno. «Suppongo che siamo stati abbastanza bravi.»
Quell'adunata di compagni perduti si interruppe all'improvviso quando un grosso Vikoniano arrivò trafelato e balbettò qualcosa a Signar. SignarHaldring bestemmiò, si avviò, poi si girò e mi fece segno di avvicinarmi a lui. «Non riesco a capire questa faccenda,» disse con aria molto cupa, «e forse tu riesci meglio di me a fartene un'idea. Per la Vista del Creatore, Aldair... queste specie di Uomini sono senz'altro il popolo più strambo che io abbia mai visto!» «Che cosa è successo ora?» Signar mi indicò l'uomo dell'equipaggio che era al suo fianco. «Signore,» mi disse lui, «abbiamo con noi degli Uomini che erano nelle imbarcazioni con le quali siamo arrivati qui. Stiamo tentando di metterli insieme a quelli con i quali siete stati rinchiusi voi per allontanarci da qui. Solo che... quei maledetti idioti si rifiutano di muoversi!» Io lo interruppi. «E perché non vogliono? Che cosa non gli sta bene?» Il Vikoniano allargò le braccia. «Mastro Aldair, il fatto è che non si piacciono. Ci era già capitato prima.» «Ma sì, è per qualche loro assurda fissazione religiosa,» disse Signar con fare sprezzante. «Semplicemente sono come stregati, questo è certo!» Dalla mia breve ma significativa esperienza con l'Uomo, sapevo che era una creatura di indole codarda, cocciuta e irritabile. Tuttavia, riuscii a stento a credere alla scena che si presentò davanti ai miei occhi. Miracolosamente, solo un gruppetto di prigionieri erano stati sbranati dalle mascelle argentee. Pochi altri presentavano ferite gravi e profonde, e con ogni probabilità sarebbero morti di lì a poco. Il resto, circa un centinaio in tutto, erano al sicuro su quelle isolette, e se ne stavano a farfugliare strane cose o a urlare con quanto fiato avevano nei polmoni. Le lucide imbarcazioni di legno che avevano trasportato Signar e il suo equipaggio stavano attraccate lì vicino. Alcune cose dell'Uomo aspettavano nelle imbarcazioni: erano puliti e decentemente vestiti, ed era più che evidente che non appartenevano al mio gruppo. Io mi avvicinai per guardare un po' quella calca, poi mi girai verso Signar. «Amico mio, sii così gentile da lanciare uno degli urli di guerra dei Vikoniani. Qualcosa di chiaro e semplice sarà più che sufficiente.»
Signar fu piuttosto stupito da questa mia richiesta, poi ne afferrò il senso e ghignò molto soddisfatto. Tirò un profondo respiro. Cominciò come un brontolio, che veniva su dal profondo della sua enorme pancia, sali fino al petto dove si trasformò in un ruggito, poi sbraitò dalla gola come un vero e proprio tuono. Fece tremare la terra, fece increspare le acque livide e fece cadere i ramoscelli degli alberi. Mancò poco che le cose dell'Uomo morissero di paura. Io mi feci avanti. «Caldus, sei qui da qualche parte?» Dapprima ci fu silenzio, poi: «Cosa vuoi da me, Aldair? Ti avevo detto che non avrei avuto niente a che fare con i tuoi folli e stupidi piani!» Fece alcuni passi in avanti e si mise a fissare l'acqua con fare molto accigliato. «Guarda cosa hai fatto. Hai fatto sì che alcuni dei nostri fossero ammazzati!» Quel loro blaterare cominciò di nuovo, ed io lo interruppi in fretta. «Caldus... alcuni dei tuoi compagni sono morti. Ciò è molto increscioso. Ma tutti quelli di voi che sono sopravvissuti ora sono liberi. Non sarai venduto come uno schiavo. Capisci quello che sto dicendo? Ora: convinci immediatamente tutta la tua gente a salire su quelle imbarcazioni... e dico tutti! Le creature di ojt'Miyer faranno in fretta a realizzare che qui è successo qualcosa. Ed io non intendo essere ancora nelle vicinanze quando ciò accadrà.» Caldus mi guardava con occhio torvo. «Noi non verremo nelle barche con gli infedeli. Mai.» «A chi ti stai riferendo?» «A loro!» Puntò un dito tremante in direzione degli Uomini ben vestiti che si trovavano sulle imbarcazioni di Signar. «Loro sono impuri!» All'improvviso mi sentii molto stanco ed annoiato da tutta quella storia. Non avevo nessuna intenzione di continuare ad ascoltarlo. Avevo già sentito delle discussioni religiose e sapevo benissimo dove saremmo arrivati. C'era evidentemente una notevole differenza tra la dottrina della gente di Caldus e quella degli altri. Qualche fondamentale punto della dottrina, come la vera lunghezza dell'organo genitale di un nano in piena erezione. «Caldus,» dissi alla fine, «credete all'esistenza di un paradiso in questa vostra religione?» «Sì, certo!» rispose lui gelido. «E ci sono dei santi. Avete anche dei santi, vero?» «Certamente. A cosa vuoi arrivare, Aldair?» Indietreggiando verso la spiaggia afferrai l'enorme ascia di guerra di Si-
gnar e la misi tra le mani di Caldus. «Innalza questo tuo caro popolo al livello della santità,» gli dissi. «Ora!» Per un breve attimo ci fu tutt'intorno un silenzio di morte. Poi, circa un centinaio di anime furono improvvisamente illuminate e si agitarono freneticamente per essere le prime a salire sulle barche di Signar... SETTE I mercanti di schiavi avevano stabilito di seguire una rotta in direzione nord-ovest attraverso quelle intricate isolette, fino a raggiungere la loro base in mare aperto. Signar invertì quella rotta e ci mise a remare velocemente verso sud-est. Quella densa vegetazione divenne presto come una vera e propria superficie solida al di sopra delle nostre teste. In meno di un'ora stavamo silenziosamente scivolando su acque molto scure attraverso una fitta caverna legnosa. Persino le cose dell'Uomo, che stavano sempre lì a lamentarsi di qualcosa, sembravano più sollevati. Signar disse che per il momento ci potevano considerare al sicuro. Dall'idea che mi ero fatto di quel posto, stavamo risalendo verso la foce di un fiume non particolarmente impetuoso. Signar non aveva nessuna idea di dove nascesse quel fiume, ma era quasi convinto che si spingesse per molte miglia all'interno della terraferma. Gli Uomini, spiegò, non conoscevano nulla della terra che si stendeva alle spalle di quel delta paludoso, dal momento che l'acqua rappresentava una specie di barriera protettiva contro le creature di ojt'Miyer. Una domanda mi bruciava in mente fin dal momento in cui ci eravamo liberati dai mostri. Le casuali parole di Signar sul fiume e sugli Uomini che abitavano lì, mi avevano notevolmente disturbato. «Vecchio mio,» dissi, «sembri conoscere molte cose su questo mondo, e sono sbalordito da come tu possa essere riuscito a saperle. Come hai fatto a trovare gli Uomini che sono con te, e in così poco tempo? E come fai a sapere tutte queste cose sulla loro terra? A me e a Rhalgorn sono accadute tantissime cose nel giorno e nella notte che abbiamo trascorso, qui, ma non conosciamo ancora praticamente nulla. Tu, comunque...» Mi interruppi. Il grosso guerriero se ne stava seduto dritto come un fuso e mi fissava come se avessi perso il lume della ragione. Thareesh mi guardava anche lui ed aveva tutta l'aria di pensarla esattamente come lui. «Beh, che avete da guardarmi così voi due? Ho solo chiesto...»
«Sappiamo che cosa ci hai chiesto,» disse Signar con molta cautela. «Ed è proprio quello il punto. Aldair... hai detto un giorno e una notte. Da quando sei stato dove?» «Come dove? Qui, naturalmente,» dissi io piuttosto arrabbiato. «Su questo mondo così assurdo e bizzarro! Che cosa pensavate che intendessi?» Signar e Thareesh si scambiarono delle occhiate molto perplesse. «Aldair,» disse alla fine il Niceiano, «c'è in effetti qualcosa di terribilmente sbagliato qui, e non sono del tutto certo di sapere di cosa si tratti. Noi sappiamo parecchio su questo posto perché abbiamo avuto un periodo di tempo piuttosto ampio per studiarlo e farci delle idee a riguardo. Signar ed io siamo stati qui più di due anni e mezzo...» I peli mi si rizzarono sul collo. «Ma questo non è possibile, Thareesh! Non è possibile!» «Ovvio che no,» sbottò Rhalgorn. «Dannazione a tutti voi, questo non è il momento adatto per raccontare pessime barzellette Nicieiane!» Guardai Thareesh e scossi la testa. «Temo che non sia affatto una barzelletta, Rhalgorn.» Il Vikoniano tirò un profondo grugnito. «No, infatti non lo è per niente.» Lanciò un'occhiata dietro le spalle di Rhalgorn, poi guardò di nuovo me. «Aldair, ti spiego come ciò è potuto accadere, sebbene tu conosca la maggior parte della storia bene quanto me. Mi ricordo di aver visto Barthius afferrare Corysia e trascinarla dentro quella stanza sotto la Fortezza di Amazzone, con te e Rhalgorn alle calcagna. Lui saltò in una di quelle lucide e splendenti cose rotonde...» «... le sfere d'oro.» «Sì. Poi la cosa si accese di un bagliore improvviso e in un attimo scomparve dalla vista.» «E Rhalgorn ed io li seguimmo in un'altra sfera,» finii io per lui.«In men che non si dica fummo trasportati dalla corrente non so assolutamente dove, con un milione di stelle tutt'intorno a noi.» «Con niente da mangiare,» aggiunse Rhalgorn in tono molto acido. «Poi,» dissi io, «dopo un... certo periodo di tempo, vedemmo comparire intorno a noi questo mondo e la sfera scomparve dalla nostra vista.» Mi sporsi verso loro due. «Ma questo è stato ieri... non due anni fa!» Signar si strinse nelle spalle e continuò a guardare le scure acque. «Aldair,» disse con tono distaccato, «non sono passati dieci minuti da quando io e gli altri ti abbiamo raggiunto. Non tutti i nostri se la sono sentita di intraprendere un viaggio del genere, ma c'è stato un numero abbastanza con-
sistente che avuto lo stomaco per farlo. Siamo arrivati proprio dove eri arrivato tu, o comunque nelle vicinanze...» Si girò verso Thareesh e il Nicieiano annuì. «Anche noi siamo scesi lungo il fiume,» disse Thareesh, «solo che abbiamo fatto un altro percorso.» Io lo guardai per un lungo momento. «Quindi non esiste un'altra risposta più convincente di questa? Il tempo si è in qualche modo sconvolto e noi siamo rimasti imbrigliati in questa sua logica.» Eppure un piccolo spiraglio di speranza apparve nella mia mente dopo aver ascoltato quella notizia. Signar era stato l'ultimo a partire ed il primo ad arrivare lì. Forse Corysia, che era stata la prima a prendere il volo, sarebbe arrivata per ultima. Ma il problema era... quando? Tra due anni o tra cento? E che senso aveva quella differenza? I Signori della Terra avevano costruito quelle sfere per poter raggiungere le stelle. Non riuscivo a credere che semplicemente ci saltassero dentro e si lasciassero trasportare da un tempo all'altro. Era più che chiaro che gli anni avevano arrecato dei danni alle navicelle o, più probabilmente, noi non eravamo capaci di guidarle. Il che poteva voler dire che Corysia sarebbe forse stata trasportata dalla corrente nel Mare delle Nebbie per sempre. O che avrebbe potuto trovare qualche altro mondo distante milioni di miglia da quello dove ci trovavamo riuniti noi in quel momento. Quella verità faceva vanire i brividi solo a pensarci, ma le cose stavano proprio così. Credo che i miei compagni intuissero ciò a cui stavo pensando, perché si misero immediatamente a fare qualcosa, impegnandosi in qualche piccolo compito, anche se, in realtà, c'era davvero ben poco da fare... Più o meno a metà del pomeriggio, ci fu dato uno sgradevole segnale che ci fece capire che quelle maledette creature non ci avevano dimenticato. Un cupo brontolio di tuoni partì da est, si fece progressivamente più vicino, poi rombò al di sopra delle nostre teste, e il rumore fu cosi forte e violento che per poco non ci fece stramazzare al suolo. Signar ci fece segno di interrompere qualsiasi attività e cominciò a spingere le sue imbarcazioni verso un'isola dove c'era una vegetazione particolarmente fitta e lussureggiante con delle radici spesse e forti come querce acquatiche. Per una lunga ora ce ne restammo seduti lì in silenzio, con i nervi pronti
a saltare da un momento all'altro, mentre l'odiosa navicella navigava dolce sopra di noi, mandando di tanto in tanto dei lampi di fiamme bluastre che si infrangevano nelle acque del fiume. «Stanno puntando a qualcosa in particolare,» chiesi io, «o semplicemente ci stanno informando che sono qui?» «Molto probabilmente si tratta solo di una dimostrazione,» disse Signar. Si sporse e con la mano fece sollevare un po' d'acqua. «Le cose degli Uomini dicono che quelle creature hanno delle macchine capaci di individuare qualcosa che si muove al di sotto, sia che la vedano o no. Ora c'è un trucco, e la macchina non può distinguere la differenza.» Non erano passati neanche pochi minuti, quando la navicella invertì la rotta e risalì il corso del fiume. Rimanemmo immobili lì dove ci trovavamo, a riposarci e a mandar giù un pasto frugale. Gli Uomini, che avevano passato quell'ultima interminabile ora con la testa stretta tra le gambe, ripresero di nuovo il loro passatempo preferito: ciarlare e litigare tra loro. Caldus aveva trovato un degno nemico tra gli Uomini di Signar, una femmina dotata di una gran voce, chiamata Becky-Sue Elainesdotter. Dal mio punto di vista assomigliava moltissimo ai maschi, anche se i peli dorati che aveva sulla testa erano alquanto più lunghi. Aveva, ad ogni modo, un'altra caratteristica che la distingueva. Gli Uomini hanno solo due mammelle, ma questi attributi sono piuttosto prominenti in alcune femmine - una peculiarità che loro hanno in comune con molte altre razze - compresa, fortunatamente, la mia. Stavo bighellonando senza meta, quanto mi imbattei in quella strana coppia. Rimasi per un bel po' a guardarli mentre si scambiavano sguardi torvi ed improperi, poi con grande calma mi misi tra di loro. «Caldus,» dissi, «stai facendo un grande baccano. Ti suggerirei di farla finita, prima che i nostri nemici ci sentano nonostante il rombo della loro navicella.» La femmina mi guardò di traverso. Caldus fece qualche passo avanti. «Questi non affari tuoi!» disse con rabbia. «Ti posso assicurare, Aldair, che i mostri non ci sentiranno!» «Questa improvvisa ostentazione di coraggio è davvero illuminante, ma decisamente fuori luogo. Qual è il nocciolo della questione?» «È una faccenda personale,» disse Caldus con fare burbero. «Non avrebbe alcun interesse per te.» «Certo che l'avrebbe,» se ne uscì irata la femmina.«Lui è qui, no?» Mi squadrò molto attentamente. «Se tu sei Aldair, l'amico di Signar, conosco
già parecchie cose sul tuo conto. Sicuramente abbastanza per sapere che sei un essere ragionevole. Vorresti, per favore, ascoltare ciò che ho da dirti?» Caldus rise. «Ecco, ora avrai anche tu la tua tirata d'orecchi!» «Forse,» dissi io, «ma ho intenzione di ascoltare tutti e due, se ciò che avete da dire ha qualcosa a che fare con il nostro viaggio e la sua felice conclusione. Se invece così non è...» «È esattamente di questo che intendo parlare,» disse lei in fretta, facendo segno a Caldus di tacere con un gesto della mano. «Questa... persona, ci chiede di dargli le nostre imbarcazioni, per permettere a lui e alla sua gente di tornare a casa. Le nostre imbarcazioni!» Si buttò indietro i capelli e dai suoi occhi sembrarono uscire lampi di fuoco. «Sarai riportato nella tua terra,» dissi a Caldus. «Signar ha già spiegato tutto.» «Ah, Non riuscirai a giocarmi così facilmente!» «Di quale trucco parli?» «Sai che cosa è lei?» Puntò un dito accusatore in direzione della femmina. «No. Che cos'è, Caldus?» «Quello che sono anche tutti gli altri. Pagani cultori della Nuova Dottrina. Miscredenti!» «Stammi bene a sentire, ora!» Becky-Sue gli si lanciò contro. «Calma,» dissi io, «calmatevi tutti e due.» Un sordo e familiare dolore cominciò a farsi sentire dietro la mia nuca. «Per caso tutto ciò ha qualcosa a che fare con la religione? Se è così, farete bene a tener presente che io ho già un'efficace risposta pronta.» «Non riesco a credere che tu abbia tirato di nuovo in ballo questa faccenda,» mormorò Caldus. «Su, fatti avanti.» Caldus abbassò lo sguardo al suolo. «Noi... abbiamo bisogno di quelle imbarcazioni, Aldair. Tu non capisci. Io non posso permettere che dei seguaci della Nuova Dottrina arrivino a sapere la posizione del Nuevo Arizona.» «Ah, ah!», se la rise Becky-Sue. «Chiudi il becco. Perché no?» Caldus mi guardò sconvolto. «Perché? Ma perché sono dei pagani! Pensi che io voglia condurre quelli
come lei nel rifugio dei Divini Tradizionalisti?» «Divini... cosa?» «I Veri Uomini, Aldair. Questi esseri non sono come. Sono certo che tu riesci a vedere la differenza.» Io li osservai per un lungo momento. «Caldus, manderò qui Rhalgorn. Sarà meglio che voi due facciate una chiacchierata. Una brevissima chiacchierata. Gli dirai tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere su questo tuo rifugio, così ci potremo sbarazzare di te e dei tuoi amici al più presto possibile.» Caldus spalancò gli occhi. «Tu mi stai minacciando, Aldair! Questo non è leale!» «Nella mia religione,» gli dissi, «il Meraviglioso Ravanello, tutto è leale. Dopo che Rhalgorn ti avrà parlato della nostra Santa Dottrina, sono certo che tu ne diventerai un fervente seguace.» Lui urlò e mi mostrò i pugni. Io mi girai, poi mi fermai e lo fronteggiai di nuovo. «Sei uno stupido, Caldus. Non hai neanche idea di chi tu sia, quale sia il tuo ruolo e da dove tu sia venuto. Non sono affatto una persona crudele o vendicativa, ma credo davvero che mi divertirò a raccontarti la vera storia dell'Uomo!...» OTTO Il resto del nostro viaggio in quel dedalo di isole fu, per fortuna, piacevolmente monotono. Più o meno a metà del secondo giorno, imboccammo un affluente del fiume che scorreva verso sud e che ci avrebbe condotto verso la terra della gente di Caldus. La folta vegetazione, composta soprattutto da alberi con enormi radici, continuava ad accompagnarci, ma ora le isole lasciavano qua e là il passo a scogliere scoscese che ci sovrastavano. Era un percorso buio ma molto ben nascosto. Ero sicuro che dall'alto nessuno avrebbe potuto immaginare che lì sotto scorreva un piccolo corso d'acqua. Eppure, io mi domandavo: era davvero sicuro? Non era stato Caldus a dire che i mostri arrivavano e rapivano senza ostacoli quelli della sua gente per farne degli schiavi? «Non hai bisogno di preoccuparti,» disse lui con fare scontroso. «Siete praticamente al sicuro ora.» «Non so perché, ma le tue parole mi confortano molto poco,» gli dissi.
«Forse dipende dal fatto che quando ci siamo conosciuti voi eravate degli schiavi. Ed io non ho alcun desiderio di fare quell'esperienza.» «Tu non la farai.» «Tu continui a dirlo. Perché non riesco a darti fiducia?» Caldus abbassò lo sguardo e si guardò le mani. «Non mi hanno preso al porto,» biascicò. «Dove allora?» «In... da qualche altra parte.» «E dove è stato? Dannazione, rispondimi!» Gli afferrai la testa tra le mani e lo costrinsi a guardarmi. Per un breve attimo i nostri sguardi si incrociarono. Vidi il suo profondo disprezzo, il suo gelido disdegno per ogni essere vivente che non appartenesse alla sua razza. Non poteva sapere che era uno dei decaduti Signori della Terra, ma qualcosa in lui lo faceva ricordare. Più tardi mandai di nuovo Rhalgorn ad interrogarlo, ma persino le minacce dello Stygiano non sortirono alcun effetto. Non aveva assolutamente intenzione di dire altro su dove fosse stato catturato o come. Quando alla fine venni a scoprire la verità sull'intera faccenda, avrei ardentemente desiderato di aver insistito ancora di più. Quando arrivammo a circa una lega di distanza dal porto, lasciai andare avanti Caldus e un altro dei suoi per avvertire i suoi compagni del nostro arrivo. Mi era sembrata la cosa più prudente da fare, dal momento che lui stava riportando a casa nuove e spaventevoli «bestie» ed «eretici» da mandare in giro per il loro paese. Mentre lui era via, parlai con Becky-Sue Elainesdotter di quegli assurdi screzi tra le tribù dell'Uomo. «Non sono per niente assurdi e neanche stupidi!» mi informò gelida. «Semplicemente tu non capisci, Aldair.» «No,» dissi io molto pazientemente, «ma ci sto provando. Non è questa la prima volta che mi capita di assistere a delle liti tra due religioni diverse. Per quanto riesca a ricordare, i Nicieani ebbero una discussione interminabile sui materiali adoperati nella costruzione della Scala del Paradiso. Alcuni dicevano che era legno, mentre altri dichiaravano fieramente che era fatta di pietra. Quelli che sostenevano l'ipotesi del legno dicevano che ciò era semplicemente ridicolo: una scala di pietra sarebbe crollata a causa del suo stesso peso molto prima di raggiungere la meta. I seguaci della teoria della scala di pietra dicevano che quello era un ragionamento fanciullesco. Cifre alla mano potevano facilmente dimostrare che il legname di tutte le
foreste del mondo si sarebbe esaurito molto tempo prima che una scala di legno potesse essere ultimata.» «E come andò a finire la storia?» «In verità non c'è stata nessuna fine. Proprio poco prima che l'Impero cadesse, correva voce che i dissidenti di ambedue quelle sette avessero formato un nuovo gruppo di veri credenti che erano in grado di provare al di là di ogni dubbio che la scala era fatta di corda. Becky-Sue aggrottò le ciglia molto irritata. «Questa è una vera idiozia. Ti assicuro che la differenza tra i Cultori della Nuova Dottrina e quegli stupidi Tradizionalisti è molto più importante.» «Vale a dire?» «Sei sicuro di volerlo sentire?» Si rigirò una ciocca di capelli tra le dita. «In verità non ne sono così ansioso,» le dissi in tutta sincerità, «ma credo che sia molto meglio così.» Lei diede uno sguardo furtivo alla spessa superficie che stava sulle nostre teste. Un solitario raggio di luce colpì l'acqua come una lancia, poi fuggì via. «Sono certa che non ti interessa conoscere tutto quello che dice il Santo Documento, così cercherò di raccontarti le cose più importanti il più in fretta possibile. Un tempo l'Uomo viveva in Paradiso con il Creatore. Ma lui ingannò Dio, apprese il segreto della vita, e si mise a creare egli stesso. Per questo peccato, fu cacciato dal Paradiso. Dio punì tutti gli Uomini, e li scagliò lontano dal Paradiso in uova dorate. In quelle uova c'era possibilità di respirare, e quindi di vivere, ma la memoria del Paradiso era stata cancellata dalla mente dell'Uomo.» Fece una pausa per prendere respiro. «Dopo un certo periodo di tempo che non era tempo, le uova dorate di Dio ci portarono qui, a soffrire sottomessi alle Bestie.» «E le discussioni tra la tua gente e gli altri?» Gli strani occhi blu della femmina si incupirono. «Loro credono alla permanenza del peccato. Credono che... «si interruppe e quasi si soffocò nel pronunciare le altre parole, «...che le uova di Dio si siano dissolte nella polvere quando noi siamo nati di nuovo su questo mondo, Ma non è così,» urlò lei. «La scrittura dice chiaramente che le uova si sono semplicemente perdute, non che sono scomparse. Ecco qual è lo scopo dei Cultori della Nuova Dottrina, Aldair. La redenzione dell'Uomo. Un giorno noi ritroveremo quelle uova e ritorneremo in Paradiso!» «Ti ringrazio,» le dissi con un certo distacco. «Hai aggiunto cose molto
importanti alle mie conoscenze.» «Capisci ora perché siamo diversi, vero? Voglio dire, questa non è una faccenda stupida e insulsa come quella della scala!» «No,» fui d'accordo io, «non lo è». A quel punto lei si allontanò da me e ritornò tra i suoi compagni. Io tirai un grosso sospiro di sollievo. Avevo tentato di nascondere i miei sentimenti, sebbene fossi letteralmente sconvolto dalla sorpresa. Mi domandavo che cosa avrebbe detto quella femmina dell'uomo se le avessi detto che la sua storia era praticamente vera in quasi tutti i particolari. E cioè che io ero arrivato recentemente da quel suo Paradiso proprio in una di quelle sue uova dorate. Senz'ombra di dubbio mi avrebbe considerato pazzo almeno quanto ojt'Miyer stesso... Non mi ero atteso un'accoglienza fraterna nel rifugio di Caldus. Tuttavia, ero ben più che deluso. Verso sera arrivammo ad un'ansa del corso d'acqua che stavamo percorrendo, dove un fiume più grande e ricco aveva scavato una rientranza cavernosa sulle sue rive. La rientranza era protetta da una vegetazione soffocante, ma rimaneva uno stretto passaggio per le nostre imbarcazioni. «Non siete i benvenuti qui,» disse Caldus rudemente mentre saltava da una sporgenza della roccia sulla nostra prua. Lanciò un'occhiata feroce a Becky-Sue. «Lo so. Il discorso vale anche per me. Solo cerca di non dimenticare che non saresti qui ora se non fosse per la mia gente!» Caldus la ignorò e guardò avanti con un volto completamente privo d'espressione. La cavità dove eravamo entrati si restrinse all'improvviso e, aiutandoci con dei pali, proseguimmo lungo un tunnel di pietra che si avvolgeva e si contorceva sotto la terra. La strada era illuminata da torce conficcate nei muri da ambedue i lati, e l'aria aveva un odore di umido e fuliggine. «Mi dispiace che siamo venuti qui,» mormorò Becky-Sue alle mie spalle. «Questa non è gente a cui si può accordare fiducia. Guardò Signar e Thareesh con aria molto triste. «Vi ho avvertito su di loro... vedrete!» «Forse non sarà così terribile come credi,» sibilò il Nicieiano. «BeckySue, non avrai dimenticato che anche la tua gente all'inizio non ci ha riservato un'accoglienza che si può definire amichevole.» «È vero quanto è vero che esiste la pioggia,» disse Signar, sfoggiando uno dei suoi ghigni più fulgidi. «Pensavate che fossimo delle specie di mo-
stri, proprio come stanno facendo adesso loro.» Becky-Sue lo guardò con aria di superiorità. «Questa sì che è bella, non avrai mica pensato che io avessi paura di te?» A quel punto se ne uscì in una risata acuta e squillante che fece tintinnare le pareti. «Signar, non possono farvi del male: siete più grandi di loro e inoltre siete armati. È di me che mi sto preoccupando. Loro ci odiano, non lo sapevi questo? Sarebbero ben contenti di vederci tutti morti, se ciò fosse possibile!» «Non mi preoccuperei tanto di chi morirà e chi no,» rifletté ad alta voce Rhalgorn. «Potreste avere delle spiacevoli sorprese.» Caldus non disse niente ma, anche se mi dava le spalle, lo vidi irrigidirsi alle parole di Rhalgorn. Alla fine lasciammo le imbarcazioni in una caverna più ampia e seguimmo Caldus giù per un passaggio di una certa larghezza che scendeva nelle viscere del terreno descrivendo numerose curve. Le cose dell'Uomo che avevamo salvato sgambettarono veloci giù per uno dei numerosi buchi di cui era primo quella specie di sentiero che stavamo percorrendo. Becky-Sue e i suoi compagni procedevano attaccati a me e al mio equipaggio. Non erano per niente felici di trovarsi in quel posto, e non avevano nessuna intenzione di andarsene in giro a fare qualche passeggiata da soli. Rhalgorn camminava a fianco della femmina, canticchiando qualcosa dietro a Caldus. Lo Stygiano non aveva gran simpatia per l'Uomo - maschi o femmine che fossero - ma si stava divertendo a fare il paladino della causa della gente della femmina. Ovviamente ciò rendeva Caldus estremamente nervoso, il che procurava ancora più piacere a Rhalgorn. Ad un certo punto Caldus si fermò e con un gesto vago indicò qualcosa sulla destra. «Queste sono le vostre stanze. Occupate tutte quelle che volete. Per favore rimanete qui finché non verrò a chiamarvi. C'è da mangiare e tutto ciò che può servirvi.» «Grazie,» gli dissi. «Quando ti rivedremo di nuovo?» Caldus stava iniziando a parlare, poi si fermò. Stava cercando disperatamente di mantenere ferma la voce. «Io... io non ho idea. Una volta o l'altra. Io... non lo so...» «Caldus,» gli dissi con molta calma, «mi hai fatto capire più che chiaramente che qui non siamo molto graditi, né io, né i miei compagni, né tanto meno questa gente della tua stessa razza. Tuttavia, anche se tu non vuoi assolutamente crederci, noi potremmo esserti di grande aiuto.»
Caldus mi fissò con aria sbalordita. «Aiuto? Ma per il Respiro di Dio, non hai idea di quanto tu ci abbia già aiutati! Io sono in un mare di guai proprio a causa tua e dei tuoi amici ficcanaso. Aldair. Mi dovrò considerare molto fortunato se riuscirò a venir fuori da questa storia tutto intero, e sempre grazie a te!» «Dannazione!», gracchiò Signar proprio come avrebbe fatto un rospo. «Se davvero tu sei così preoccupato, e hai tutti questi problemi, sarò ben felice di riportarti lì dove ti ho trovato!» «Tu non puoi capire,» disse Caldus ostinato. «Tu semplicemente... non capisci!» A quel punto si girò e scomparve sotto uno scuro passaggio. NOVE Caldus non tornò quella sera, e neanche durante la notte. Ciò non mi sorprese affatto, perché avevo ormai capito che gli Uomini trattano i loro problemi in maniera molto simile a quella delle altre creature: li ignorano, sperando che si risolvano da soli. «Che io sia dannato se riesco a capire questo popolo,» grugnì Signar, «ed è proprio la verità. Ma come: pensa un po' che praticamente abbiamo fatto il guaio più grande che potevamo fare a salvargli quelle odiose pellacce senza peli!» Il grosso Vikoniano mi passò ancora una volta accanto mentre faceva un altro dei suoi instancabili giri intorno alla stanza. Quegli irsuti giganti sono felici solo quando sentono sotto i loro stivali un bel ponte di legno e la distesa del mare aperto davanti a loro. Non si entusiasmano molto di buchi cavernosi incastrati nella roccia. Quando sono confinati in posti del genere, diventano una vera e propria minaccia anche per i loro amici. «Signar,» dissi io alla fine, «se non ti metti un attimo seduto, ce ne andremo tutti e lasceremo questo posto interamente a tua disposizione. Così potrai misurarlo a grandi passi a tuo piacimento, gettare all'aria tutto quello che c'è dentro, e ringhiare contro i muri.» Signar si voltò a guardarmi con aria torva. «Non è colpa mia se queste creature non costruiscono delle stanze di grandezza appropriata.» «Qualcosa non è della grandezza giusta qui dentro,» disse tirando rumorosamente su col naso Rhalgorn. «Solo che saprei dire esattamente cos'è.» Signar tirò fuori dal profondo del petto uno dei suoi soliti rumoracci, ma
poi si andò momentaneamente ad accucciare in un angolo, non essendoci sgabelli o sedie abbastanza robusti da sopportare il suo peso. «Ho bisogno di un tuo parere,» gli dissi, «e più presto lo avrò meglio sarà. Mi sembra che abbiamo offeso Caldus in modo molto pesante, e mi sto rompendo la testa nel cercare di capire quale possa essere il motivo. Non ci amano, se così si può dire, ma non si tratta solo di questo.» Mi girai verso il Niceiano per includere anche lui nel discorso. «Tu e Thareesh avete vissuto tra le cose dell'Uomo. Forse voi potete far luce su questo mistero.» «Sì, abbiamo vissuto tra di loro,» disse il Vikoniano. «Solo che non è la stessa cosa, Aldair. Questo popolo e la gente di Becky-Sue non sono per niente simili, anzi sembrano appartenere a due razze completamente diverse.» «Questo è vero,» si intromise Thareesh. «Ci sono delle notevoli differenze tra gli Uomini, come ce ne sono tra tutte le specie. Il popolo di Becky-Sue vive prendendo molte precauzioni ed è sempre vigile, perché sa bene il grande potere che hanno i mostri. Ma...», sollevò una delle sue dita sottili per sottolineare quanto stava per dire, «ma non vive in un perenne stato di paura. Credo che sia proprio questa la differenza tra di loro.» «E non vivono nemmeno in buchi scavati nel terreno,» fece notare Signar. «No, infatti. Ed è questo il motivo per cui vengono raramente catturati da ojt'Miyer. Sono dei nomadi come la mia gente. Quelle isole paludose e lussureggianti sono i loro deserti. Si spostano tranquillamente da una parte all'altra, e molto di rado si fermano a lungo in uno stesso posto.» Signar si massaggiava il ginocchio per un crampo che gli era venuto alla gamba e cercava di stenderla in tutta la sua lunghezza senza riuscirci. «Comunque, Aldair, non si può esprimere un giudizio negativo su di loro. Non sono dei guerrieri, questo è certo e, con ogni probabilità, non lo saranno mai.» Le sue parole mi fecero subito venire in mente una cosa, ma Rhalgorn fu più rapido di me ad intervenire. «Eppure voi eravate con loro sulle barche,» disse, «e avete attaccato la squadra che ci stava portando sulle isole.» Signar apparve molto sorpreso, poi scoppiò a ridere. «Dannazione a te, Rhalgorn... è giusto dire noi, ma non loro. Si è trattato di fortuna bella e buona e niente di più. Stavamo facendo una battuta di caccia in cerca di mascelle-argentee ed eventuali altre imbarcazioni. Sarebbero scappati immediatamente dopo che vi avevamo individuato, se
non fossimo stati noi a trattenerli.» «Tuttavia,» riflettei io, «una differenza c'è, come hai detto tu stesso.» Guardai Thareesh. «Caldus è assolutamente ignorante su tutto ciò che riguarda l'eredità dell'Uomo. Becky-Sue conosce la storia, ma non ne è consapevole. Presumo che voi non le abbiate detto nulla.» Thareesh scosse la sua testa squamosa. «Avevamo già abbastanza problemi a convincerli della nostra buona fede. Quella storia non ci avrebbe certo accattivato la loro benevolenza.» «Avete agito saggiamente.» Thareesh si alzò e si gettò il suo mantello scarlatto sulle esili spalle. Nato sulle coste del Mar Meridionale, non aveva nessuna predilezione per il freddo. «Aldair, mi pare di aver intuito che tu non intendi tenere le cose dell'Uomo all'oscuro della verità ancora per molto.» «Sì, hai intuito bene il mio pensiero. Solo che non riesco ad immaginare quale sarebbe l'occasione giusta per raccontar loro la storia, ma deve essere raccontata.» «Non credo saranno particolarmente contenti e desiderosi di ascoltarla,» disse Rhalgorn. Non la si può definire una storia particolarmente lusinghiera.» Fece una smorfia che esprimeva chiaramente il suo truce divertimento. Non potevo biasimarlo per ciò che stava pensando. Nessuno di noi riusciva veramente a provare un sentimento di simpatia per quelle creature. Era difficile ricordarsi del fatto che anche loro erano vittime della follia dell'uomo esattamente come noi. Credo che fosse una mattina quando Caldus ritornò. Non c'era in realtà un modo efficace per distinguere il giorno dalla notte in quel posto. Il suo abbigliamento sembrava addirittura peggiorato, e sono certo che non aveva passato la notte a riposare tranquillamente come avevamo fatto noi. Aveva gli occhi profondamente cerchiati e vuoti, e sembrava portare sulle spalle il peso del mondo intero. «Ho parlato al Consiglio,» disse molto freddamente, e quasi scagliandoci contro quelle parole. «Essi hanno deciso che non sarebbe prudente per voi rimanere qui. Così, sei libero di andartene, Aldair.» Rhalgorn scoppiò in una sonora risata, imitato dalla maggior parte dei guerrieri che si trovavano raccolti attorno a me. Caldus si irrigidì. I due Uomini che si trovavano al suo fianco sbiancarono. A giudicare dai loro
abiti, dedussi che quei tipi dovessero essere una specie di guardie d'onore. Le loro camicie e i loro pantaloni pieni di tasche erano assolutamente identici in ogni minimo particolare, ed ognuno di loro portava un arco e una faretra piena di frecce. Osservai attentamente quelle armi, e mi chiesi a cosa servissero. Se una fascia attaccata ad un pezzo di legno basta per fare un arco, allora erano degli archi. Ad ogni modo, io avevo usato un arco lungo, vale a dire gli archi comuni di Gaullia, fatto di resistente legno di frassino fin dalla mia infanzia, ed avevo anche appreso la tecnica per maneggiare il particolare arco dei Nicieiani che presentava una doppia curvatura ed era fatto di corno e fibre animali. Persino un legionario Rhemiano si sarebbe vergognato di avere come armi quelle miserevoli cose, e quegli individui sicuramente erano ben poco pratici dell'arte del tiro con l'arco. «Liberi di andarcene,» dissi io. «Sono state queste le tue parole, vero Caldus? Non è in verità una gran notizia quella che ci porti. Come vedo io la cosa, siamo anche liberi di rimanere.» Di nuovo il colore abbandonò le sue guance. «Non era questo... non intendevo dire questo,» disse lui con la voce che gli si strozzava in gola. «Aldair, non perdiamo tempo nel cercare di essere gentili l'uno con l'altro. Non sei il benvenuto qui. Ormai ciò dovrebbe esserti più che chiaro.» «Infatti lo è. Ma è anche evidente che non ho raggiunto lo scopo che mi ero prefisso venendo qui. Voglio dire, oltre al compito di riportarvi a casa sani e salvi, il che è stato chiaramente un errore da parte mia. Io devo parlare con la tua gente, Caldus. Te l'avevo già ripetuto più di una volta. Non abbiamo nessuna intenzione di partire prima che ciò sia avvenuto.» «Questo... questo non è assolutamente possibile!», biascicò mentre teneva le braccia tese lungo il corpo con i pugni stretti. «Perché?» «Perché... perché il Consiglio non ha niente da dirvi». Lanciò un'occhiata torva in direzione di Becky-Sue. «E neanche a quelli della sua razza!» «Ciò non di meno lo faranno,» gli dissi. Mi girai a dare uno sguardo veloce alle mie spalle dove si trovavano i miei guerrieri armati e corazzati. Al mio fianco c'era la tozza e impassibile figura di Stumbacius. Uno della mia stessa razza, e che era stato nel passato un soldato Rhemiano, il che voleva dire un compagno leale e devoto. Una cicatrice gli correva lungo tutto il muso. La sfoggiava con fierezza, e
quello era un segno del suo valore che non diminuiva affatto il suo aspetto intrepido. «Stumbacius,» dissi senza neanche guardarlo, «incolonna l'equipaggio e portaci fuori da "questo passaggio. Se incontrerai degli ostacoli, trattali gentilmente, per quanto la situazione lo consenta.» Caldus indietreggiò barcollando, insieme incredulo e arrabbiato. «Aspettate... voi... voi... non potete...!» Se le cose dell'Uomo non si fossero appiattite contro il muro, Stumbacius avrebbe marciato su di loro senza perdere neanche un passo. I soldati Rhemiani non sono addestrati per far interporre qualcuno sul loro cammino. Così, ci avviammo per il lungo corridoio, con Caldus e i suoi seguaci che correvano davanti a noi, urlando e mostrando i pugni. Di solito non è mia abitudine incedere in modo così impudente per le città degli altri popoli, ma era stato proprio Caldus ad obbligarmi a quella tattica. Non avevamo passato anni lunghi e dolorosi alla ricerca dell'Uomo per andarcene via come miti agnellini proprio ora... All'improvviso, senza che niente lo facesse prevedere, il nostro angusto passaggio si interruppe e si allargò in una stanza vasta e cavernosa. Mi fermai, e così fecero anche tutti gli altri, colpito dall'incredibile bellezza del luogo. Immense dita di pietra gelata pendevano dal soffitto, altre salivano verso l'alto dal terreno, e alcune volte si incontravano per formare colonne enormi e mirabili più robuste di un albero. Mi sembrava come se gemme di ogni colore immaginabile si fossero fuse nel cuore della terra, e poi fossero di nuovo sgorgate di nuovo tutte insieme per formare quella meraviglia. Delle torce erano sistemate tutt'intorno alle pareti formando così un cerchio, ma la loro flebile luce non riusciva a raggiungere la parte più alta. Fino al soffitto c'era infatti una notevole distanza, ed infatti anche il più piccolo rumore doveva compiere un lungo viaggio nel vuoto per quell'immensa sala. «Aldair... ti prego!» Caldus si avvicinò con molta cautela. La rabbia ora l'aveva abbandonato. Ma, al suo posto, nei suoi occhi era rimasta la paura, e le sue parole ebbero il tono di una supplica. «Io... io parlerò di nuovo al Consiglio,» disse in fretta. «Loro verranno da te, e tu potrai dire ciò che vuoi. Solo... tu non puoi stare qui!» Lo guardai cercando di capire quale poteva essere il motivo di quel suo repentino cambio d'umore. Dietro di lui delle figure andavano su e giù tra
le ombre. Avevano paura di avvicinarsi a noi, ma erano abbastanza curiosi per restare. «Se siamo capitati su qualche luogo sacro della tua gente, me ne dispiace. Sei tu che hai fatto sì che le cose andassero così.» «Semplicemente... torna indietro,» disse ormai completamente indifeso. «Farò come dici tu. Ma tu non puoi stare qui!» «E perché no? Ci troviamo a nostro agio qui, e ci fa piacere vedere ancor quelle stanze.» «Tu... tu... non puoi...» Improvvisamente divenne cinereo. Le gambe non lo ressero più e cadde in ginocchio, affondando il volto tra le mani. I suoi compagni caddero anche loro per terra al suo fianco, lamentandosi e coprendosi il volto con le mani. Rimasi a fissarli tutti e tre. «Ora, per tutti i diavoli, che diamine significa tutto ciò?» «Lì, Aldair. Guarda.» Signar mi toccò il braccio e mi indicò. Circa una dozzina di cose dell'Uomo stavano immobili nelle tenebre e ci guardavano spavalde, come se non avessero paura di nulla e di nessuno. Le loro facce erano dipinte di un bianco terreo e spettrale. Per un attimo mi diedero l'impressione di stare fluttuando nell'aria, come se non avessero corpo. Poi mi accorsi che erano vestite di tutto punto e tutte in nero. «Non sono mai stato qui prima d'ora, ma io conosco questo posto.» Mi girai verso Becky-Sue che si era portata al mio fianco. «Allora forse saprai spiegarmi cosa ha ridotto l'amico Caldus in quello stato.» Becky-Sue ghignò visibilmente a disagio. «Questo non è un luogo sacro, Aldair. Sono loro che sono sacri. Lui li teme, perché loro sono i morti della sua gente...» DIECI La fissai irritato. «Becky-Sue, non crederai davvero a quello che hai detto? Quelli sono Uomini vestiti di nero che si sono dipinti la faccia.» Lei scosse la testa. «Naturale che non ci credo. E neanche lui. Almeno non veramente. Ma ha paura di loro... più di tutti gli altri, credo, dal momento che è entrato
nella loro comunità solo da poco.». Stavo per parlare, ma lei lesse la domanda nei miei occhi. «Sono certa che sia questo il motivo per cui Caldus era così arrabbiato. Era quello che rischiava di più. Nel corso degli anni, alcuni della sua gente sono riusciti a trovare la strada per il nostro rifugio e hanno più volte accennato a questo fatto. Ti ricordi che ci hai detto di non essere stato preso in questo posto? Penso che sia vero. I morti sono scelti e vengono inviati in un altro posto per essere portati via dai mostri.» Ero troppo sconvolto per essere in grado di rispondere. Thareesh si fece avanti. «La sua gente... sacrifica quelli della sua stessa specie ad ojt'Miyer?» Becky-Sue annuì. «A meno che io non mi sbagli, sì.» «Mi sembra una spiegazione ragionevole,» disse Rhalgorn con torio molto acido. «Le cose dell'Uomo non provano nessun desiderio particolare di combattere.» Becky-Sue si girò a guardarlo. «Se le cose stanno davvero così,» dissi io, «si spiega facilmente perché Caldus sentiva che io gli stavo causando un sacco di guai. Deve essere imbarazzante per i morti ritornare tra i vivi.» «Certo,» disse Thareesh. «L'abbiamo fatto vergognare davanti alla sua gente.» Annuì pensieroso. «Strana faccenda. Davvero strana.» «Strana non è forse l'aggettivo più adatto,» mormorò Signar. Il muso gli si torse in una smorfia. «Rhalgorn ha detto una cosa giusta, per come la penso io. Semplicemente, sacrificano i loro stessi fratelli a quei diavoli...» Scosse la sua grossa testa. «Mi pare proprio che non ci sia molto altro da dire su una cosa così!» «Così pare anche a me,» disse Becky-Sue, senza guardarlo. «Il loro modo di fare non ha niente a che vedere con il nostro, Signar, ma ci sono molte cose che tu non... non riesci a capire, in questo mondo...» Non finì neanche di parlare e si girò da un'altra parte. Signar si accorse di questo strano comportamento e ne fu molto stupito. Aveva dimenticato che in fin dei conti erano tutti Uomini, nonostante le differenze che li dividevano. «Dove pensi che sia?», chiese Thareesh all'improvviso. «Dove penso che sia cosa?» «Il posto dei morti,» rispose Rhalgorn per lui. «Non deve essere lontano. Mi pare di aver capito che bisogna percorrere uno di questi passaggi che
portano via da qui.» Io ero profondamente scosso al pensiero di quella pratica. Non c'era da stupirsi che Caldus dicesse che il suo rifugio era sicuro. Lo era... finché non usciva fuori il tuo nome e tu venivi dato ad ojt'Miyer! Mi sembrava che sarebbe stato mille volte meglio essere davvero ammazzati, che stare sempre lì a mezza strada. Come mio nonno era solito dire: Colui che possiede tutte le cipolle del mondo, un giorno potrebbe pregare per avere un cavolo. I Signori della Terra avevano fatto il loro tempo. Ora stavano pagando un prezzo molto amaro per tutto quello che erano stati... Non tornò Caldus, ma un'altra cosa dell'Uomo, più anziano di lui. Apparve all'improvviso da dietro una di quelle immense colonne di pietra, ci fece segno di seguirlo, e poi scomparve in gran fretta. Signar strinse i suoi occhi neri con aria preoccupata. «Aldair, questa gente non mi fa più paura di quanta potrebbe farmene una frotta di nani. Ma non mi fido di loro. Potrebbero stare tramando qualcosa.» «Per una volta, credo che Pelliccia Grassa abbia ragione,» disse Rhalgorn tirando rumorosamente su con il naso. Il Vikoniano si girò ringhiando verso di lui. Poi rimase a guardare lo Stygiano per un lungo momento. «Devo ammetterlo. Il naso di Rhalgorn serve anche a qualche altra cosa oltre che a stanare le lepri. Senti puzza anche tu, vero?» «Non c'è niente di imminente,» disse Rhalgorn con grande calma, «ma ci sarà.» «Ah, bene, non potresti essere un po' più preciso?», chiesi io. Rhalgorn sembrò offeso. «Non sono il mago alla fiera del villaggio, Aldair. I Signori di Lauvectii non vendono incantesimi e non predicono il futuro.» «Questo lo so bene, Rhalgorn.» «Bene. Sono felice di sentirtelo dire.» «Ti stavo solo chiedendo...» «So cosa mi stavi chiedendo. La risposta è che dobbiamo stare molto attenti a tutto quello che faremo.» «Uhm,» fece Signar. «Questo mi pare un vero e proprio avvertimento. Non dice molto di più di quanto io non avessi saputo fin dall'inizio.» Rhalgorn lo guardò. «Sì, invece, pancia piena di birra. Io so di cosa sto parlando, mentre tu
stai semplicemente aprendo la bocca. Come al solito, d'altra parte. Per come la vedo io, c'è una grande differenza.» Detto ciò si avviò, e il rumore dei suoi passi cominciò a rimbombare tra le pareti. Gli Stygiani sono inclini ad essere permalosi e scontrosi, in particolar modo se vengono messe in discussione le loro qualità. Tuttavia, le loro qualità sono reali, ed io tengo sempre in gran conto i loro avvertimenti. Alla lunga, comunque, il buon senso ci sarebbe stato molto più utile di ogni profezia. La nostra guida ci condusse per il maestoso scenario di una caverna fino ad un passaggio tagliato nella roccia, molto simile a quello che avevamo percorso all'andata. Scure rientranze disseminavano tutto il percorso e, infine, la cosa dell'Uomo si fermò davanti a una di quelle rientranze, un portale ricoperto di fetide pellicce. «Tu entrerai,» disse indicandomi. «Gli altri rimarranno fuori.» «No,» gli dissi, «ti stai decisamente sbagliando.» Lo scansai, oltrepassai quella specie di tenda e feci segno ai miei compagni di seguirmi. Questo gesto fece un'enorme impressione sulle creature che stavano ad aspettare lì dentro. Qualsiasi cosa si fossero aspettata, non si trattava certamente di una dozzina di guerrieri armati e dall'aria feroce. Erano in cinque, compreso Caldus, seduti dietro un tavolo di legno sopra il quale erano sistemate delle torce. Tutti, ad eccezione di Caldus, saltarono dalle sedie e ci guardarono esterrefatti. Uno, comunque, arrivò fino a me e mi fronteggiò audacemente. «Mi pare di capire che sei tu il capo,» disse con tono molto aspro. «Se non mi sono sbagliato, puoi dire ciò che hai da dire. Gli altri devono andar via.» «Non lo faranno,» gli dissi. La cosa dell'Uomo rise. «Perché? Vi facciamo paura?» «Sì,» dissi in tutta sincerità. «È così, almeno per me. Ma non nella maniera in cui voi pensate. Io vi temo perché so chi siete e cosa siete. Siete i poveri fantasmi dell'Uomo, ma l'astuzia della vostra specie non è venuta meno con gli anni. Solo per questa ragione vi temo.» A sentire queste parole lui rimase molto scosso, e indietreggiò un po'. Ma a suo merito bisogna dire che non perse terreno. Era magro, aveva una lunga barba bianca, ed era molto in là con gli anni, ma una luce potente brillava ancora nei suoi occhi. Mi studiò per un lungo momento e infine
parlò. «Mi è stato detto che tu ti chiami Aldair. Io sono Paulus, il capo di questo Consiglio. Ti starò ad ascoltare perché è un mio dovere... perché tu sei voluto arrivare a tutti costi in questo rifugio.» L'odio brillò nei suoi occhi color del cielo. Il disprezzo gli incurvò l'angolo della bocca. «Tu non ti prenderai gioco di me,» disse seccamente. «Io so cosa siete. Non siete come le altre bestie, ma siete pur sempre dei loro fratelli!» Un rumore cupo e minaccioso salì tra i miei guerrieri. Io mi diressi dritto verso la cosa dell'Uomo e ficcai il mio muso proprio davanti alla sua faccia. «Paulus, tu sei uno stupido,» gli dissi. «Sei uno stupido vecchio e per giunta presuntuoso. Vivi acquattato qui in queste caverne e pensi di intimorirmi con le tue parole. Eppure, date in pasto ad ojt'Miyer quelli della vostra stessa gente e ve ne andate in giro con quella specie di giocattoli che vorreste far passare per armi. Le bestie non fanno nulla di simile. Solo l'Uomo arriva a tanto.» «Quello che facciamo e come lo facciamo non è affar tuo,» disse lui con durezza. «No, infatti.» Guardai gli altri che si trovavano alle sue spalle.» Dal momento che vi piace parlare di bestie, vi farò sentire qualcosa sulle bestie. Quegli esseri lì fuori, sono dei vostri fratelli, non miei. E voi sapete bene che è la verità, proprio come lo so io!» UNDICI Chiaramente, avrei potuto scegliere un inizio più carino per il racconto che mi accingevo a fare. Le mie parole colpirono Paulus e il suo Consiglio come se fossero state frecce ben appuntite. Perché loro sapevano! Loro sapevano! I figli dell'Uomo impallidirono e divennero del tutto simili ai loro morti. Tutti si guardavano l'un l'altro con aria attonita. Paulus fu il primo a riprendersi. Ma la maschera che aveva indossato era ormai del tutto inutile, perché io avevo scoperto cosa c'era sotto. «Voi non avete niente da dirci che noi desideriamo ascoltare,» urlò con rabbia. «Solo eresie e superstizione!» «Se eresia è un altro modo per dire verità, sentirai effettivamente molte eresie,» gli dissi. Lui rise con amarezza.
«Mi pare che non abbiamo scelta, vero?» «Nessuna, Paulus. Cioè non più delle bestie che vi siete lasciati alle spalle sulla Terra.» Per un attimo la cosa dell'Uomo apparve davvero sconvolta. Poi tirò indietro la testa e scoppiò in una sonora risata. «Che favola è questa, ora? Pretendi forse di dirmi che siete delle divinità? Le bestie vengono dall'Inferno, Mastro Aldair. Solo l'Uomo è nato in Paradiso.» «Ah, certo,» dissi io, che avevo tutt'a un tratto capito ciò che voleva dire. «E il nome con cui gli Uomini chiamano il Paradiso è Terra, a meno che io non abbia intuito male.» «Certamente,» disse lui brevemente. «Perciò non continuare a dire cose blasfeme. I Santi e i diavoli non vivono insieme in Paradiso.» Uomo, dissi tra me e me, mi auguro che tu un giorno possa vedere questo Paradiso... Così, anche se nessuno era particolarmente desideroso di ascoltarla, narrai la storia che così a lungo avevo atteso di raccontare... «Come ci dice la storia,» cominciai, «il mio mondo nacque circa tremila anni fa. Tutto ciò che è accaduto è racchiuso in quel periodo di tempo, dal primo alito di vita fino ad ora. La mia gente dice che le prime creature della Terra apparvero in Albion, dove peccarono contro il Creatore, e da dove furono cacciate nel mondo. I Vikoniani raccontano la storia in un modo diverso, e i Nicieiani in un altro ancora. Tutti, comunque, parlano dell'Oscura isola di Albion nei loro racconti. «Parlerò brevemente dell'inizio delle mie peripezie. Appartengo al Clan dei Venicii, della terra degli Eubironi, nel paese chiamato Gaullia. La mia gioventù l'ho passata a coltivare la terra e a combattere i predoni Stygiani. Più tardi ho trascorso un anno all'Università dove ho appreso alcune mezze verità ed il gusto per la birra d'orzo. Fu lì che incontrai Rheif, cugino di Rhalgorn, tenuto prigioniero dentro una gabbia dai legionari, nella piazza del mercato. Dopo poco, questo nemico per la pelle del mio popolo ed io riuscimmo a sfuggire ai soldati Rhemiani e fummo fatti schiavi dai Nicieiani. «Nell'assolata città di Chaarduz, arrivai ad ottenere una carica molto alta al servizio di Lord Tharrin, Aghiir di Nicea. Fu lui che mi mise a parte del terribile segreto che aveva appreso tra le rovine delle città dei Tarconii: «Il mondo è molto più vecchio di quanto noi possiamo immaginare,» mi disse.
«Degli individui hanno camminato per le strade di queste città ormai morte, ben più di cinquemila anni prima di quanto le storie sulla Creazione vogliono farci credere!» Furono queste parole che diedero inizio alla mia ricerca, e alla mia avventura per scoprire la verità. «Lord Tharrin morì, e l'Impero crollò. Ma non prima che quel gentile maestro mi conducesse dal suo schiavo Nhidaaj, che non era affatto uno schiavo. Nhidaaj mi guidò per la Grande Desolazione che si trova sotto Xandropolis, oltre le cuspidi sepolte delle tombe. Lì, in un sogno che non era un sogno, incontrai uno spettro con delle orecchie nere simili alle lame e una pelliccia lucida come l'acqua. I suoi occhi avevano un colore indefinito tra il verde e il giallo e la loro forma era simile a quella dei semi di zucca. 'Vai in cerca della verità,» mi disse, «Vai in cerca della verità, e non avere paura di trovarla...'» «Così, io obbedii, anche se a malapena immaginavo dove questa mia ricerca mi avrebbe condotto. Con Rheif e Signar-Haldring alzai le vele in direzione dell'Isola di Albion, non immaginandomi nemmeno in sogno cosa mi sarei trovato davanti lì... «Ed è a questo punto, Paulus, che tu e la tua gente entrate a far parte del racconto. Perché in mezzo ad una foresta lussureggiante io trovai i resti di una città morta. E sotto quella città, trovai la verità. «C'era una stanza immensa inondata da una luce fredda e costante. Le due pareti erano costellate da migliaia di finestre che affacciavano tutte rigorosamente sul nulla. Eppure, quando mi misi davanti a loro, come per miracolo, apparvero immagini meravigliose. Le finestre si muovevano e mostravano la vera rappresentazione di cose che un tempo erano esistite. «Fu lì che per la prima volta vidi la faccia dell'Uomo, e appresi che era stato lui a crearci. In una finestra lo vidi portare i suoi strani arnesi celesti sul terreno e lasciare della capsule splendenti su una collina. Nelle capsule c'erano dei corpi nudi... immobili, come se fossero dei morti. Allora, mi accorsi che si trattava di creature come me... «Quando gli Uomini fecero cadere i loro arnesi celesti, contemporaneamente videro la luce i miei antenati. Si aggrapparono l'uno all'altro, tremanti nel momento della creazione. Il mio cuore urlò per la vergogna, perché sapevo di aver visto i primordi del mio mondo. «C'erano altre finestre per cui guardare, altre razze da veder nascere... ma non mi dilungherò su questo argomento. «In fondo a quell'enorme sala giunsi alla visione più spaventosa di tutte. C'erano delle custodie di vetro. Gli animali che si trovavano all'interno
sembravano vivi, anche se non lo erano. C'era una sola creatura grossa e pelosa che aveva quattro zampe e passava il tempo a tirare i pesci fuori dall'acqua... Un'altra custodia conteneva animali macilenti e ricoperti di pelliccia accucciati ai margini di una foresta. Uno sbranava la sua preda. Un altro aveva il muso rivolto verso l'alto e ululava al cielo... C'era una custodia che mostrava delle piccole creature verdi con delle lunghe code e la pelle ricoperta di scaglie che si crogiolavano al sole... «Alla fine arrivai faccia a faccia con me stesso. Un animale grasso e con il corpo rotondeggiante, con zoccoli al posto dei piedi e la coda arricciata. Sgranocchiava chicchi di grano secco in prossimità di una staccionata. Vicino c'era una femmina che allattava i suoi piccoli... «Su tutte le custodie c'erano dei nomi. «Ma non c'era scritto Vikoniano, Stygiano o Nicieiano. Loro non chiamavano i miei antenati Gaulliani o Rhemiani. Avevano dei nomi per loro... ma io ora non li ripeterò. «Seppi, allora, come tutti noi eravamo stati creati. Delle cose a cui erano state date delle mani invece che degli zoccoli o degli artigli. Voci al posto di grugniti e ululati. «In seguito, appresi che non era stato quello il più grande peccato dell'Uomo. Ce n'era uno ancora più grande. E un altro ancora più grande di quello. L'Uomo non si era accontentato solo di cambiarci, di creare praticamente delle parodie di se stesso. Aveva piazzato sulla Terra delle macchine per stabilire il nostro futuro così come era stato per il nostro passato. Come un cavallo messo nel mezzo di un campo, potevamo brucare l'erba di una certo sentiero, ma non oltre. Eravamo dei pupazzi, a cui era stata data la vita per ripetere le follie dell'Uomo. «Più tardi, attraversando il Mare delle Nebbie, vidi ancora altri vostri peccati. Vidi i mostri che l'Uomo aveva creato dal suo stesso seme, unendosi con le bestie che lui stesso aveva creato. Loro sono forse dei nostri cugini... ma sono certamente dei vostri fratelli! «Infine, e siamo alle battute finali, la razza dell'Uomo cominciò a combattere se stessa, utilizzando delle creature da lui stesso create, e degli uomini di ferro per combattere le sue battaglie. Alla fine di tutto ciò sopravvissero solo due grandi roccaforti. L'Isola di Albion e un'altra: la Fortezza di Amazzone. È stato lì che abbiamo scoperto le sfere dorate che l'Uomo ha usato per lasciarsi alle spalle la Terra. Albion, io credo, cadde nelle mani dei padri di ojt'Miyer. Dal momento che ora loro sono qui tra le stelle, è chiaro che seguirono i Veri Uomini. Come possa essere accaduto che i vo-
stri fratelli possedessero le armi del passato mentre voi vi siete rifugiati qui, in queste caverne, io non so dirlo. Per come la penso io, questo fatto è abbastanza giusto. «Questa è la fine della mia storia, Paulus. C'è ora solo un'altra cosa da dire. La vostra storia sulla Creazione è piuttosto vicina alla verità. Le sfere dorate vi hanno effettivamente portato su questo mondo, anche se non si è trattato della rinascita che voi vi eravate immaginati. Io prego affinché la gente di Becky-Sue abbia ragione, e voi abbiate torto. Io credo che le sfere che ci hanno portato non siano ritornate sulla Terra. Credo che si trovino ancora qui, su questo mondo o su di un altro. Se riusciremo a trovarle, noi saremo in grado di combattere contro le creature che vi hanno resi schiavi. E per combatterli, Paulus, dovete dimenticare le differenze che ci sono tra la vostra stessa specie e quelle che vi dividono da noi. Voi avete lì fuori un nemico ben più grande e temibile, e lui un giorno o l'altro scoprirà questo rifugio e vi distruggerà una volta e per tutte. Succederà, perché non può esserci altra fine plausibile per una razza che se ne sta rannicchiata nelle tenebre aspettando solo di morire!...» DODICI Versare acqua gelida su dei miti prediletti non è il modo più rapido per farsi degli amici. Tuttavia, rimasi sorpreso nel vedere che il Consiglio di Paulus non esplodesse in un attacco d'ira, né si buttasse a terra disperato. Certo rimasero tutti scioccati ed increduli. E forse un po' arrabbiati, come era d'altra parte più che comprensibile. Tuttavia, seppero tenere i loro sentimenti ben nascosti dietro quei loro occhi color del cielo. Paulus non mi aveva guardato neanche una volta durante tutto il mio racconto. Aveva accuratamente evitato il mio sguardo, tenendo con ostinazione gli occhi fissi sulle nocche delle sue mani. Ora, dopo aver scambiato dei bisbigli concitati con i suoi compagni, si girò di nuovo verso di me. «Mastro Aldair,» disse, con quel tono freddo e altezzoso così comune tra gli Uomini, «noi abbiamo ascoltato il tuo racconto. Certamente non possiamo dirci compiaciuti di quello che abbiamo ascoltato. Tu hai infamato il nostro passato ed hai gettato la vergogna sulle nostre teste. Hai imprecato contro la nostra gente e hai gettato discredito sulle gesta dei nostri padri. E tuttavia, noi siamo Uomini, e gli Uomini si fanno sempre guidare dalla ragione. Dobbiamo mettere da parte i nostri sentimenti e lasciare che a parlare sia la ragione. Mi sono chiesto: se sta mentendo, quale potrebbe essere
lo scopo delle sue bugie? Se non è colui che dice di essere, allora chi è? "E che cosa vuole da noi? Queste sono cose sulle quali dobbiamo riflettere. Vi chiedo quindi di ritornare nei vostri quartieri per darci il tempo di riflettere.» Si fermò e diede una rapida occhiata a Caldus e agli altri. «Sembra... sembra che noi dobbiamo interrogarci su parecchie cose prima di parlare di nuovo con voi...» «Faremo come tu dici,» gli dissi. «Perché, Paulus, gli Uomini non sono le uniche creature ragionevoli.» La mia risposta non fu per niente di suo gradimento, e lo fece vedere chiaramente. Io non mi curai assolutamente di ciò che a quell'essere potesse piacere o non piacere. Caldus mantenne un silenzio ostinato per tutto il tragitto che percorremmo dal luogo del Consiglio. Stranamente anche Becky-Sue Elainesdotter, che prima si era sempre tenuta accostata a noi, ora si manteneva ad una certa distanza. Non parlò, né mi guardò mai negli occhi. «Non puoi biasimarla,» disse Thareesh. «Hai parlato anche della sua gente.» Naturalmente aveva ragione. «Continuo a dimenticare che anche lei è un Uomo. Sembra una persona così sensibile.» «E lo è. Signar ed io ne abbiamo avuto più di una prova. Ma gli Uomini, Aldair, sono particolarmente suscettibili per quanto riguarda i loro miti.» «Sì, l'ho notato,» dissi io acido. «Evidentemente è molto più semplice creare dei miti che conviverci in seguito. Comunque sono rimasto piacevolmente sorpreso dal modo in cui Paulus ha reagito. Mi aspettavo di peggio.» «Uh!» Signar-Haldring si avvicinò a noi. «Se quella gente avesse avuto la schiuma alla bocca, mi sentirei molto meglio di come non mi sento ora!» Io mi strinsi le spalle. «Può essere un segno del fatto che l'Uomo sia in effetti più civile di quanto non sembri.» «Forse,» grugnì, «o forse no...» Un solco profondo passò sul suo muso arricciato. Mi fermai a guardarlo. «Signar... io non mi fido di quelle creature più di te. Tuttavia, se hanno espresso il desiderio di parlare tra di loro, diamine, lasciamoli liberi di farlo. Forse vedranno la luce, o almeno qualche bagliore. Se così non sarà, noi non avremo comunque perso niente. Possiamo partire quando voglia-
mo e portare avanti la nostra impresa.» Signar soffocò a stento un'imprecazione e si lanciò in avanti, una nuvola scura e ricoperta di pelliccia in cerca di qualcosa su cui sfogare la sua ira. In verità, non ero poi così contento come pretendevo di essere. Noi avevamo bisogno dell'aiuto di Paulus. Gli Uomini potevano essere la pedina vincente per permetterci di abbandonare quel mondo e, allo stesso tempo, potevano conquistare la loro libertà. Ma prima dovevano decidersi a buttarsi alle spalle le loro paure e ad accettare alcune tristi verità. Un compito molto arduo, forse, ma io mi ero già sbagliato in passato. Una certa agitazione in testa al gruppo mi distolse dai miei pensieri, e così sorpassai Thareesh per vedere cos'era successo. Rhalgorn, che stava attaccato alle costole di Caldus, ora l'aveva messo contro il muro e gli teneva una lama puntata proprio sotto il mento. Caldus se ne stava rigido e immobile come un cadavere, e guardava lo Stygiano con gli occhi sbarrati per la paura. Li raggiunsi e scostai la lama dal volto di Caldus. «Rhalgorn, c'è qualcosa che non va qui?» «Questa cosa è il problema,» disse infuriato. «Se tu avessi gli occhi di uno Stygiano, ti accorgeresti che non stiamo tornando indietro per la stessa strada che abbiamo fatto all'andata. Avremo dovuto girare a sinistra lì in fondo... e non a destra!» «È vero Caldus?» Caldus cercò di sorridere. «Stavo... stavo tentando di spiegare a quest'individuo...» «Spiegalo a me. Se stai tramando qualcosa, stupida cosa dell'Uomo...» «Aldair,» lui scosse la testa violentemente. «Stavo semplicemente facendo un'altra strada. Per evitare il posto... il posto dei morti. Non mi aspettavo che voi ve ne rendeste conto. È solo...» «Oh, capisco perfettamente,» gli dissi. «Se io stessi per mandare la mia stessa famiglia e i miei amici in schiavitù, farei del mio meglio per evitarli.» «Non è per questo e tu lo sai!» «Caldus, se tu vuoi andare in giro per questo posto, fai pure. Solo stai bene attento.» «Questa storia non mi piace neanche un po',» mormorò Rhalgorn. «Allora non perderlo d'occhio, cosa che d'altra parte stai già facendo. Signar, Thareesh: controllate la coda della colonna. È tempo che noi... Grandi Divinità, che cos'è quello?» La terra tremò. Piccole pietre caddero dal soffitto e una tromba d'aria mi
colpì violentemente alle spalle. «Aldair,» ringhiò Signar. Rhalgorn afferrò Caldus alla gola e lo sollevò in aria. «Aspetta ad ucciderlo,» urlai. «Prima ne voglio un pezzo!» A quel punto mi lanciai indietro verso la retroguardia, sapendo fin troppo bene ciò che ci avrei trovato. Signar stava fermo nel mezzo del passaggio, con un'espressione ebete dipinta sul volto e fissava il massiccio muro di pietra che si trovava a non più di un paio di centimetri di distanza dal suo naso. «Si è staccato dal soffitto più veloce della pioggia,» disse con grande calma. «Che io sia dannato... ancora un pelo e mi avrebbe ridotto come una bella porzione di stufato!» «Sì. Penso proprio che tu abbia ragione.» Diedi un'occhiata a quel nuovo muro, poi corsi indietro da Caldus. «Tu devi darmi qualche spiegazione,» gli dissi. «Se io fossi in te, mi sbrigherei.» «Vai avanti,» disse Caldus minaccioso. «Ammazzami, Aldair. Sono pronto a morire.» Il suo volto si contrasse in una smorfia nell'attesa di ciò che sarebbe accaduto. «Caldus!» Lo colpii in pieno volto con violenza. Lui aprì gli occhi e batté le palpebre. «Non hai fatto niente per guadagnarti una cosa così nobile come la morte, cosa dell'Uomo. Potrei farti scorticare vivo da Rhalgorn, ma non ho intenzione di ucciderti. Chiaramente tu hai bloccato la nostra ritirata. Perché, Caldus? Dove porta questo passaggio?» «Non puoi tornare al rifugio, Aldair.» Accennò quasi un sorriso. «Porta lì su. Fuori. Dove vanno i morti.» Non so perché ma ciò non mi stupì affatto. «Thareesh, manda avanti degli arcieri. Vedi che c'è lì.» «Dannazione!», perse la pazienza Rhalgorn. «Dimmi solo una parola, Aldair!» «Questa è opera di quel maledetto Paulus,» borbottò Signar, «sicuro come è sicuro che io ora sono qui.» «Ovvio che sia così,» disse Caldus con calma. «Che ti aspettavi, Aldair? Pensavi davvero che noi avremmo creduto a quel tuo racconto? Paulus ha capito subito il tuo trucco. Noi tutti l'abbiamo capito. Lui non è sicuro da quale dei Dieci Mondi tu sia venuto: ma sa cosa sei venuto a fare.» «E cioè cosa?», chiesi molto seccato. «Ma, diamine, è stato chiaro fin dall'inizio. ojt'Miyer è sempre in guerra con gli altri per procurarsi nuovi schiavi. Avresti voluto spaventarci col
farci fare un accordo con te, solo che noi non siamo interessati...» «Aspetta.» Lo interruppi e mi avvicinai ancora di un passo. «Che cosa vuoi dire con la parola accordo, Caldus? Io so che voi sacrificate quelli della vostra stessa specie per mantenere al sicuro il rifugio, ma...» «Facciamo cosa?», Caldus portò indietro la testa e rise. «Pensi che ojt'Miyer sia uno stupido, Aldair? Che lui non sappia dove si trova il rifugio? Ho detto che qui era sicuro. E lo è. Ma non è certamente un grande segreto.» Io rimasi per un attimo a guardarlo. «Se non lo è, allora, per tutti i diavoli, perché non viene qui a farvi fuori? Potrebbe fare migliaia di schiavi invece di un centinaio!» Caldus apparve molto stupito. «Perché dovrebbe fare una cosa del genere? Se ci prendesse tutti non potremmo più riprodurci. Ci estingueremmo... e loro sarebbero persi.» Aggrottò le ciglia e scosse la testa. «Devi essere proprio un novellino in questi affari, Aldair. Non conosci proprio ogni cosa, non ti pare?» TREDICI «Affari?» Rimasi impalato, incapace di credere alle sue parole. «Per la Vista del Creatore, è così che dite voi? Sembrate mercanti che trattano una partita di vino!» «È così che continuiamo a sopravvivere,» disse molto bruscamente. «È così che stanno le cose, ed è così che continueranno ad essere.» «Mi sembra,» gli dissi «che questa sia la tua risposta per ogni problema. Sono stato davvero uno stupido pensando che mi avreste ascoltato e che vi sareste poi comportati lealmente. Il tradimento è stato sempre un modo di comportarsi tipico dell'Uomo: vedo che non è cambiato granché. Rhalgorn, tienilo d'occhio, e portalo lontano dalla mia vista!» Detto questo mi girai e li lasciai. «Aldair...» Mi fermai. Becky-Sue si stava dirigendo verso di me. «Aldair, non giudicarci tutti prendendo a esempio Caldus. Siamo tutti Uomini, ma non siamo tutti uguali.» «Infatti non lo pensavo,» dissi. «Davvero non credo sia così.» «È stupido pensare che tu possa venire da uno dei Dieci Mondi,» disse lei impetuosamente, «o che tu abbia qualcosa a che fare con la gente di ojt'Miyer. Io conosco Signar e Thareesh, e loro sono il popolo migliore che
si possa desiderare di incontrare!» «Loro ti tengono in grande considerazione... e anch'io la penso come loro. Sono felice che tu sia con noi, Becky-Sue.» Lei mise una mano sulla mia spalla. «Aldair, io sono spaventata a morte. Lo sai? Io... io non credo che riuscirei a sopportare di vivere in schiavitù.» «Mi sono trovato in guai più grossi di questo,» le dissi, cercando disperatamente di farmene venire in mente almeno uno. «Ne verremo fuori.» Lei tentò di sorridere. «Io non so chi sei o da dove vieni. E in verità non ho nessuna necessità di saperlo. Ho fiducia in te e tanto basta.» «Cosa?» Mi bloccai e la fissai stupito. «Becky-Sue, tu sai chi sono. Mi hai sentito dirlo a Paulus e agli altri.» «Oh, sì, naturalmente ho sentito.» Mi guardò con aria maliziosa, come se dividessimo qualche segreto. «Tu dovevi raccontare loro qualcosa. Come tu stesso ti sei detto, a loro non si può accordare fiducia. Solo, non avresti dovuto parlare di religione nel tuo racconto, Aldair. E... e neanche del fatto che l'Uomo è fratello delle bestie.» Si strinse nelle spalle e fece una smorfia. «Io sono dalla tua parte, eppure mi hai fatto quasi arrabbiare.» Io la afferrai violentemente per le spalle. «Che io sia dannato, BeckySue! Io non l'ho inventata quella storia. È la verità!» «Aldair...» Spalancò gli occhi e per poco non soffocò. «Mi stai facendo male!» La lasciai andare. Lei indietreggiò. Il sangue le salì di nuovo sulle gote. «Va bene,» disse con voce rotta, «se non mi credi, non sei obbligato a farlo. Mi sono sbagliata. Tu non sei come Signar e Thareesh. No, tu non sei come loro!» Con un salto si allontanò da me indignatissima, e passò davanti a Thareesh senza dire una parola. Il Nicieiano la guardò con aria sbalordita. «Che cosa sta succedendo?» «Niente. Gli Uomini danno più problemi di quanto non valgano, amico mio. Ecco cosa c'è.» «Ho sempre pensato che Becky-Sue fosse una persona molto comprensiva.» «Bene,» dissi per farla breve. «Quando avrai un momento libero, raccontale come hai fatto ad arrivare qui dal Paradiso. Ti accorgerai che sarà una conversazione molto illuminante...» I miei arcieri riferirono che il passaggio si allargava in una caverna,
qualcosa di molto simile alla grande sala che ci eravamo lasciati alle spalle, solo più piccola. C'erano degli Uomini tutt'intorno a quel posto, sia maschi che femmine. Si erano dileguati non appena avevano intravisto i nostri: alcuni indossavano ancora i vestiti dei morti. Al di là di quella stanza, la caverna si apriva sul mondo. Mi confortò un po' il fatto di vedere di nuovo la luce del giorno, anche se il sole era ancora nascosto sotto le nuvole rosa e gialle. Ora ci trovavamo in un posto un po' più alto. Mentre ci arrampicavamo sulla sommità della caverna, riuscii a vedere dei tratti del fiume che scorreva lento tra la folta vegetazione. Ancora più in là c'era la sottile striscia grigia del mare. «La cosa migliore che possiamo fare è prendere le loro imbarcazioni e volare più veloci della pioggia fino al popolo di Becky-Sue,» disse Signar, socchiudendo gli occhi non più abituati alla luce del sole. «Rimanere qui non è molto salutare, Aldair.» «Bene,» fui d'accordo. «Solo, dove pensi che possano essere le barche? Ho completamente perso il senso dell'orientamento. Siamo stati per troppo tempo lì sotto.» «Da questa parte,» disse Rhalgorn annusando l'aria. «Ho appena chiesto a questa cosa dell'Uomo, e lui è stato così gentile da dirmelo.» «È molto probabile, però, che abbia mentito. Non sanno proprio un bel niente, loro.» Rhalgorn mostrò i denti. «Ti assicuro che non ha mentito. Abbiamo avuto una simpatica chiacchierata sull'argomento. Mi ha anche detto che non c'è un momento particolare in cui i mostri vengono a fare la loro raccolta. Solo che, di tanto in tanto, vengono ad esaminare il posto per vedere cosa c'è.» «Senza dubbio.» Diedi a Caldus un'occhiata lunga e significativa. «Sarebbe preferibile che quelle barche si trovassero nello stesso posto dove le avevamo lasciate. Se così non fosse...» Caldus si morse il labbro. «Sono lì. Per quanto vi possano essere utili. Non riuscirete mai ad uscire da questo posto.» Rhalgorn ringhiò e lo sollevò da terra. «E perché dovrebbe essere così?» «Perché nessuno ci è mai riuscito,» rispose lui boccheggiante. «Non... non è previsto!» Rhalgorn rise e lo gettò da parte.
«Dannazione, l'ho già detto una volta e lo ripeto. Non ho mai visto un popolo più adatto a essere schiavo!» Non potevo dargli torto. Sembrava proprio che la cosa dell'Uomo avesse detto la verità perché, dopo poco, la collina che nascondeva la caverna cominciò dolcemente a declinare verso nord. Era difficile farsi strada, perché in quel mondo gli alberi crescevano così vicini gli uni gli altri che quasi rendevano impossibile il passaggio tra di loro. Si procedeva quindi con molta lentezza. Tre Vikoniani di Signar erano ormai praticamente sfiniti a furia di farsi strada con le loro spade, quando dissi loro di fermarsi. Quel legno rossastro era resistentissimo: sembrava infatti ferro più che legno", e così arrecavamo più danno alle armi che non agli alberi. «Faremmo meglio a cercare un sentiero in questo guazzabuglio,» dissi a Signar. «Non sono così sicuro che ci sia un sentiero, Aldair. Maledizione... non so cosa darei per lasciarmi alle spalle la terraferma e poggiare i miei stivali sul ponte di una bella nave!» Lo guardai. «Arriverà anche quel momento, vecchio mio.» Signar non disse più niente. Scosse solo la testa si girò da un'altra parte. Conoscevo benissimo i suoi pensieri, perché erano anche i miei. Sembrava passata un'eternità da quando avevo sentito per l'ultima volta una brezza fresca e piacevole riempire le vele dell'Ahzir al'Rhaz, e avevo visto la nostra prua fendere le onde e creare ai lati tanta schiuma brillante. Non riuscivo ad immaginarmi niente di simile senza sentire al mio fianco la presenza di Corysia. Se pure non l'avessi vista mai più, il suo volto mi sarebbe rimasto impresso nella memoria per sempre, con la stessa forza e chiarezza della prima volta che la vidi. Non avrei dimenticato così in fretta quei meravigliosi occhi neri e liquidi e tanto meno quel delizioso, allegro musetto. Il suo corpo era ricoperto da una splendida peluria di colore castano chiaro con riflessi ramati, ed era uno spettacolo davvero bello da guardare. Il suo abito di raso verde le si piegava dolcemente sulla pancia descrivendo dei sublimi mezzi cerchi, e nascondeva a stento le tenere file di mammelle. Ero rimasto lì impietrito come se mi fossi congelato nei miei stivali, perché non avevo mai visto niente di più grazioso prima. In quel momento non avrei mai detto che un giorno sarebbe stata mia. In
seguito, quando lei cominciò ad amarmi, non avrei sognato nemmeno nel peggiore degli incubi che avrei potuto perderla... e ora c'erano quei lunghi e penosi anni che ci dividevano... «Sei molto lontano da qui, amico mio,» disse Thareesh. Guardai in su e mi sforzai di sorridere. «Sì, direi di sì. Stiamo arrivando da qualche parte seguendo questa strada?» «No. Sembra proprio di no.» La sua lunga coda irsuta batteva nervosamente contro gli stivali. «Ma Rhalgorn sta fiutando di nuovo qualcosa. E ci sono dei segni che fanno pensare che anche qualcun'altro ha già percorso questa strada.» Nel sentire quella notizia mi accigliai. «Le cose dell'Uomo, forse?» Thareesh scosse la testa. «Rhalgorn non pensa che si tratti di loro. E neanch'io.» Mi fece segno di andare avanti ed io lo seguii. «Lì,» disse Rhalgorn. «I cespugli sono venuti su in un modo molto particolare. Aldair. Normalmente non crescono così.» «Puh!», grugnì Signar al di sopra della spalla. «Non vedo niente di diverso dalle stesse cose che ho visto per tutta la giornata.» «Da te infatti non ci si aspetta che tu veda un bel niente,» disse Rhalgorn con stizza. «Da te ci si può aspettare solo che tu vada in giro a fare strani e orribili rumoracci, cara Pelliccia Grassa. Ma gli Stygiani sanno che non sei pericoloso.» Signar aprì la bocca per rispondergli, ma io lo fermai. «Thareesh ha detto che si sentiva anche un odore. Che tipo di odore?» «Niente di particolare. È solo che non c'è l'odore giusto.» «Vuol dire che c'è l'odore sbagliato?» Rhalgorn sollevò un sopracciglio. «Che te ne pare di questo, Aldair?» Mi chinai a guardare. In effetti il cespuglio non era esattamente come tutti gli altri, e presentava come delle piccole cicatrici sulle sue radici. Qualcosa era venuta a disturbare quella zona, ma non sapevo proprio immaginarmi cosa. L'osservai ancora più da vicino, poi feci segno a Rhalgorn di avvicinarsi. «Vedi, proprio lì... a circa una decina di centimetri dal terreno. Che cos'è? Tu riesci a vedere questo genere di cose meglio di me.»
Rhalgorn abbassò il muso fino a terra. «Ho fatto di te ormai un battitore, Aldair.» «Che cos'è?» «Un filo piccolo e sottilissimo. Come la ragnatela di un ragno, ma non proprio uguale. Si allunga per il terreno in tutte le direzioni.» Allungò un dito cercando di toccare la cosa. «Non farlo!» Lo misi in guardia. «Non toccarla, Rhalgorn!» «Non ti preoccupare, stavo semplicemente...» Rhalgorn si afflosciò. La testa penzolava da un lato e lui stava perfettamente immobile. Mi chinai per aiutarlo. Solo che non fui in grado di arrivare lì. Tutto intorno a me si dipinse di blu, e fui avvolto come da una specie di nebbia. Tutto cominciò a correre rapidamente lontano da me. Con la coda dell'occhio vidi Signar che ondeggiava come un albero al vento. Lo vidi pronto a partire. Mi chiesi se sarebbe ricaduto su di me, o da qualche altra parte... QUATTORDICI «Aldair? Aldair, ti prego, svegliati!» Sognavo ancora, allora... ma era un bel sogno... un sogno in cui io sentivo la sua dolce voce... «Aldair!» Aprii gli occhi. Guardai in su. Li chiusi di nuovo, strizzandoli forte: pensavo di stare ancora sognando. Il suo volto ondeggiò e poi si dileguò, velato da un mare di colore blu scintillante... «Guardami, caro. Va tutto bene ora, Aldair. Guardami...» «Co... Corysia?» Saltai a sedere urlando il suo nome. «Per tutti gli Dei, sei vera... sei qui davvero!» Una sensazione dolce e sciropposa mi attraversò lo stomaco. Dannazione, pensai freddamente, non sarebbe stato affatto carino vomitare su Corysia... non era forse meglio... Lei mi costrinse dolcemente a stendermi di nuovo. «Sono vera, sì. Sono proprio io.» Sorrideva con aria rassicurante. «E anche tu sei vero. O lo sarai presto, se te ne starai ancora un po' tranquillo a riposare...» La seconda volta che mi svegliai lei era addormentata al mio fianco, calda e rassicurante: stava appoggiata tra il mio braccio e la mia spalla. Avrei
voluto svegliarla per tenerla stretta e assicurarmi così che fosse davvero lì. Invece me ne rimasi lì dov'ero senza muovermi, lasciando correre lo sguardo su tutto ciò che c'era da vedere. Sopra di me c'era un soffitto a volta, che quasi si perdeva in un vago chiarore giallino e in ombre color dell'ambra. Un bizzarro groviglio di canne e di tubi d'acciaio stava abbarbicato ai muri ricurvi e ricadeva tutt'intorno in gigantesche antenne e bobine. I colori spaziavano dal grigiopiombo al grigio ferro, fino al verde-rame. L'aria era umida e pesante, impregnata di esalazioni forti e grasse a cui non sapevo dare un nome. E poi si udiva un'interrotta pulsazione che assomigliava vagamente al sordo rumore di un tuono in lontananza, un suono che comunque faceva pensare a qualche forza sinistra. Avevo l'impressione di percepire tutto il mondo come se fossi nelle budella di qualche mastodontica balena in putrefazione. Eppure, sapevo che non era così. Questo era un posto ben più alieno e terribile di quello... «Non ho mai perso la speranza che un giorno ci saremmo potuti ritrovare,» disse lei, «anche se avrei avuto tutti i motivi per farlo.» «Oramai tutto questo è passato. Ora siamo di nuovo insieme.» Tenevo stretta la sua mano tra le mie. «Non ci potrà dividere più nulla, Corysia. Te lo prometto.» Lei mi guardò con aria coraggiosa, ma intanto si mordeva il labbro per ricacciare indietro le lacrime. «Per quanto ancora, Aldair? Tu conosci queste creature. Sai cosa sono e dove ci stanno portando. Io ho visto cosa fanno agli altri individui: non saprei proprio come definire i loro creduli divertimenti!» «Corysia, ti prego, non darci per spacciati così in fretta,» le dissi con decisione. «Non quando siamo ancora vivi e abbiamo ancora la nostra testa per pensare. Ti ricordi quella volta sul ponte? E ancora, alla foce del grande fiume? Anche allora tutto sembrava perduto... eppure, eccoci ancora qui, tutti insieme. È vero, in questo momento ci troviamo in una situazione... piuttosto spiacevole...» «Oh, Aldair!» A quelle mie parole scoppiò quasi a ridere. «Se questa è una situazione piuttosto spiacevole, non riesco a immaginare come sarebbe se fossimo 'in un mare di guai'!» «Quando saremo in quella situazione,» dissi io ostentando grande calma e sicurezza, «te lo dirò, Corysia.» «Dubito seriamente che ne avrai l'occasione, amore mio...»
Così, non avendo nulla di più piacevole da fare, ci abbracciammo e ridemmo a lungo senza alcun motivo, forse solo per tentare di allontanare il pensiero del cupo futuro che ci attendeva. Non lontano da noi stavano seduti Rhalgorn, Signar, Thareesh e il resto del mio equipaggio. Dietro a loro e un po' in disparte, c'erano le cose dell'Uomo facenti parte del clan di Becky-Sue che erano stati presi insieme a noi. Con mio grande stupore, la femmina e Caldus ora si parlavano tranquillamente. Evidentemente, le avversità avevano gettato un ponte sul meschino golfo della differenza di religione che si stendeva tra di loro. Ora avevano un argomento in comune da discutere: l'eresia di Aldair la Bestia. Ero rimasto dolorosamente deluso da Becky-Sue. Per quanto potesse apparire intelligente e sensibile, era pur sempre una cosa dell'Uomo. Prima avevo fatto un po' sgranchire le gambe e mi ero unito a Signar e agli altri. Non era difficile capire ciò che ci era accaduto. I mostri avevano sistemato una specie di trappola per evitare che i loro schiavi scappassero. In un modo o nell'altro, noi l'avevamo fatta accidentalmente scattare. O, meglio sarebbe dire, che Rhalgorn l'aveva fatta scattare, anche se lui insisteva nel dire che ero stato io a far oscillare la sua mano, la qual cosa avrebbe poi portato al disastro. Sull'argomento si svolse una lunga conversazione tra Signar e lo Stygiano. Non vedevo alcuna ragione plausibile per rimanere lì ad ascoltarla, e quindi me ne tornai da Corysia. «Sentire quei due che vanno avanti ostinati come al solito ad insultarsi, mi fa sentire di nuovo a casa, Aldair.» Scosse la testa e rise. «Caro Rhalgorn... non se ne troverebbe un altro uguale a lui da nessuna parte. Ho sentito moltissimo la sua mancanza.» «Non ho dubbi,» dissi io scuro in volto. «Uno Stygiano è come una pustola sul muso, Corysia. Quando se ne va, ti domandi dove sia andato... e quando comincerà a farti male di nuovo.» Corysia lanciò un'occhiata alle mie spalle. «Potrei sistemare la contesa, ma detesto privarli del loro divertimento. Io so cos'è quella luce blu e cosa è capace di fare, Aldair. È una cosa davvero orribile da vedere.» «Darei non so cosa per poter mettere le mani su uno di quei dannati tubi,» le dissi. «Spade e frecce sono del tutto inutili contro di loro!» «Quella non sarà una cosa semplice da fare.» «Niente lo è. Né in questo mondo, né in quello che ci siamo lasciati alle spalle. Corysia... Nell'attimo in cui mi sono svegliato in questo posto, mi sono immediatamente reso conto che non mi piaceva. E non è successo
niente che mi abbia fatto cambiare idea.» Corysia mi raccontò com'era accaduto che lei fosse capitata sulla navicella di quelle creature. Come tutti noi, aveva fluttuato per un periodo di tempo indefinibile attraverso le stelle, poi aveva avvistato un mondo alieno e bizzarro, che non le era per niente familiare. Fin dalle primissime battute del suo racconto, mi resi conto che non poteva trattarsi dello stesso mondo che avevamo trovato noi, perché lì c'erano alberi giganteschi con tronchi spessi come case, e rami che arrivavano a sfiorare le nuvole. Devo dire a questo punto, che il traditore Barthius, che l'aveva costretta a salire in una delle sfere ed era stato la causa di tutti i nostri guai presenti, alla fine si era riscattato. Dopo aver vagato per alcuni giorni per la foresta, i mostri avevano individuato e raggiunto i due, e Barthius li aveva fronteggiati con audacia, dando la vita per difendere Corysia. «Per questo, e solo per questo, potrò perdonarlo,» le dissi. «Ma non per tutto il resto... per tutto quello che era successo prima.» «Forse questo è già abbastanza,» disse lei. In conclusione, le cose che fu in grado di dirmi Corysia non furono di grande valore. Nel ventre della nostra navicella non c'era differenza tra il giorno e la notte. Lei non aveva nessuna idea su quanto tempo avesse trascorso lì dentro. I mostri ogni tanto si facevano vedere, ma non ad intervalli regolari. Da quando lei si trovava a bordo, erano atterrati due volte. Una di queste due volte, i mostri avevano catturato dei nuovi schiavi. E la parte più interessante del racconto, come avrei io stesso avuto modo di constatare dopo poco, fu che uno di quegli schiavi non era né un Uomo, né un mostro, né una creatura simile a noi. Era assolutamente differente da ogni essere che avevo mai visto o che potessi immaginarmi. Fu Rhalgorn a presentarmi quell'essere. Nel corso delle poche ore che avevamo trascorso a bordo, lo Stygiano aveva accuratamente esplorato con il suo finissimo olfatto tutta la zona che occupavamo e aveva delimitato i confini della nostra prigione. Non era stato un compito molto difficile da realizzare, in quanto eravamo liberi di spostarci dove volevamo all'interno della navicella. Oltre a noi, la stanza era occupata dalle cose dell'Uomo. Non c'era alcuna necessità di tenerli sotto controllo; erano docili e contenti di essere schiavi, e questo i nostri catturatori lo sapevano molto bene. Il fatto che a bordo ci fossero alcune centinaia di cose dell'Uomo mi preoccupava non poco. Corysia mi aveva detto che erano già lì quando lei era stata presa. Io avevo appreso, quando in precedenza avevo chiacchiera-
to con Becky-Sue e Caldus, che nessuno era a conoscenza di altri rifugi su quel mondo. Così, mi domandavo, da dove venivano quei prigionieri? Riuscivo a intravedere una sola risposta plausibile. «Non essere stupido,» mi disse Caldus stizzito. «Non ci sono altri mondi dell'Uomo all'infuori del nostro.» «Ha ragione,» fu d'accordo Becky-Sue. «Le Scritture dicono così... sia le sue che le mie.» Per essere stati in passato dei nemici, ora quei due parevano intendersela davvero a meraviglia. Becky-Sue sedeva a fianco di Caldus, con le mani poggiate sulle ginocchia di lui, in un atteggiamento che avrei definito anche più che familiare. «Bene,» dissi loro, «presumo che questo metta la parola fine alla questione. Quindi questi altri esseri semplicemente non esistono, dal momento che voi due non li avete mai visti prima d'ora.» Becky-Sue parve addolorata. «Naturalmente esistono. La spiegazione è ovvia, Aldair. Ci sono rifugi sul nostro mondo di cui noi non siamo a conoscenza.» «Loro erano già a bordo,» spiegai cercando di mantenere la calma. «Prima che Corysia fosse presa. Prima che le imbarcazioni arrivassero al vostro mondo.» «E allora la tua Corysia deve essersi sbagliata. C'è un solo mondo di Veri Uomini. La Scrittura...» «Lo so Becky-Sue. Mi siete stati di grande aiuto. Come sempre.» Detto ciò, mi girai e li lasciai prima di perdere completamente la calma. Era veramente impossibile riuscire a far ragionare gli Uomini. Erano creature meschine e ridicole. Ora che avevo imparato a conoscerli, stentavo davvero a credere che avessero avuto intelligenza sufficiente per essere i Signori della Terra... QUINDICI «Quel tipo non è molto interessante da vedere,» disse Rhalgorn, «ma è stato prigioniero per un certo periodo di tempo, e sa molte più cose di noi sui mostri. È piuttosto particolare, Aldair, ma ci può essere di grande aiuto.» Rimasi ad osservare il mio compagno per un lungo momento. C'era un lampo strano ed irresoluto nei suoi occhi. «Spiegati meglio, cosa c'è di particolare in lui?» «Rhalgorn si strinse nelle spalle.
«Niente di ben definito. Solo che mi ha colpito proprio... proprio perché era diverso.» «Diverso?» «Sì, proprio così. Diverso.» «E allora perché provo la strana sensazione che ci sia dietro qualcos'altro? C'è forse qualcosa che mi stai nascondendo?» Rhalgorn cominciò a spazientirsi. «Non posso farci niente se tu hai delle sensazioni! Io ti ho detto tutto quello che c'era da dire. Io...» Si interruppe e mi guardò con un'espressione ebete. «Aldair, non ho proprio idea del perché sto parlando in questo modo. Io non so perché quella creatura è diversa. Per qualche arcano motivo, parlare di lei mi rende incredibilmente nervoso. Forse che questo significa qualcosa?» «No,» gli risposi, «ma ultimamente sono davvero poche le cose che hanno senso. Forse faremmo meglio a non perdere altro tempo e ad andare a vedere questo tipo. Cosa gli hai detto su di noi?» «Niente,» disse Rhalgorn emettendo uno dei suoi soliti rumoracci e facendo sbattere la sua grossa coda grigia contro gli stivali. «Tu dimentichi che sono un guerriero Stygiano. Diversamente dalle cose dell'Uomo, io sono uno che combatte, non uno che chiacchiera a vanvera.» Pensai che fosse saggio non fare alcun commento su quella sua ultima affermazione. Difficilmente avrei potuto dar torto a Rhalgorn per quanto riguardava quella creatura chiamata Te'dchak. In verità, particolare era il termine più adatto per descriverlo. Era basso, aveva un aspetto meschino ed era magro come un fuscello secco. Pezzi di pelle pallida e chiazzata cascavano molli come degli stracci sulla misera figura e, sebbene non fosse così privo di peluria come l'Uomo, la sua pelliccia non meritava di essere menzionata. Il tutto si riduceva a dei pezzetti dall'aria malaticcia che non si sollevavano dal terreno per più di una trentina di centimetri. Aveva delle orecchie piccolissime, una coda ispida e un muso storto e sproporzionato rispetto alla sua grandezza. Eppure, quando vidi Te'dhack per la prima volta, notai a stento questi lineamenti così inconsueti, perché non riuscivo a staccare lo sguardo dai suoi occhi. Erano enormi e sorprendenti, lucenti come oro nuovo, ed ebbi l'impressione che brillassero grazie ad una nascosta fonte di luce interna. Era come se tutta la forza e l'energia di quella creatura fossero racchiuse in quelle cavità luminose e che il suo corpo non fosse altro che la conchiglia
necessaria a proteggerli. Non mi faceva nessuna meraviglia che Rhalgorn non sapesse dare un nome a ciò che aveva visto! C'erano delle cose che sembravano aleggiare intorno a Te'dchak che le parole non riuscivano ad esprimere. Per un lungo momento lui rimase a fissare Rhalgorn, poi si girò per guardare me. «Io ti conosco,» disse con voce flebile, e la bocca piccola e triste fu increspata da un gentile sorriso. «E io conosco te,» gli risposi, e lui non fu né stupito né allarmato dalle mie parole. Fu invece Rhalgorn a guardarci con aria molto perplessa, ma io non ero in grado di dirgli nulla. Io conoscevo quell'individuo, altrettanto bene quanto conoscevo me stesso. Tuttavia, non avrei assolutamente saputo spiegare come ciò poteva essere. «Il tuo amico Rhalgorn sentiva che dovevamo incontrarci,» disse Te'dchak. «Aveva ragione in questo, e anche per quanto riguarda l'altra faccenda. Lui è il tipo che dice poco a parole, ma sa parlare molto bene con gli occhi.» Rhalgorn impallidì e mi lanciò una rapida occhiata. «No,» disse Te'dchak rivolgendosi a lui direttamente ed alzando una delle sue minuscole mani. «Non hai detto niente che non avresti dovuto dire, amico mio. Aldair ha capito ciò che voglio dire.» «Vuol dire che hai scritta la parola fuga a chiare lettere sul volto,» dissi allo Stygiano. «In effetti è proprio così,» disse sorridendo la creatura. «Ed è bene che sia lì. Ho aspettato a lungo per vedere una cosa del genere!» «Rhalgorn mi ha detto che sei prigioniero già da parecchio tempo. Puoi dirmi da quanto tempo?» «Ventitré anni,» disse lui con tono solenne. «Su una navicella o su un'altra...» Rhalgorn ed io rimanemmo colpiti. «Da... da così tanto tempo? Ma, Te'dchak, perché queste creature ti lasciano sempre qui? Questa è una navicella piena di schiavi, o almeno così pensavo che fosse. Perché allora...» «Perché non sono stato venduto a uno dei Dieci Mondi?» Te'dchak batté le palpebre di quei suoi enormi occhi. «Bene, come potete rendervi conto voi stessi, dalla mia vendita non guadagnerebbero certo una grossa somma. Ma c'è un motivo molto più valido. Non ho una grande forza in questo mio povero corpo, ma ci sono altri modi per combattere.» «Quali altri modi?»
«La natura ci fornisce armi molto differenti tra loro, Aldair.» Girò i suoi accattivanti occhi lucenti su di me. «Ad alcuni vien fatto dono di un'intelligenza brillante e muscoli sodi, come nel caso di Rhalgorn, qui. Ad alcuni... ad alcuni viene data una... una...» Ero solo vagamente consapevole che qualcuno stesse parlando. O, forse, me lo stavo solo immaginando. C'era qualcuno lì, vicino a Rhalgorn, ma non si trattava di nessuno che mi interessasse vedere. Nessuno che potesse avere alcuna importanza. Nessuno di cui mi dovessi preoccupare veramente, e di cui neanche mi dovessi ricordare... Sbattei le palpebre. Te'dchak mi stava guardando e aveva dipinto sul volto un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. «Per la Vista del Creatore, cosa mi è successo?» «Niente più di quello che succede quando una creatura si sente tutt'uno con gli alberi della foresta, o se ne sta perfettamente immobile su una spiaggia. Lui è lì ma, a meno che l'occhio non sia allenato a vederlo, è molto probabile che tu gli passi accanto senza renderti conto di lui. Ai primordi del mio mondo c'erano in giro una gran quantità di predatori. Noi non eravamo adatti né a combattere né a scappare... ma avevamo un'arma.» «Se tu sei in grado di fare ciò,» disse Rhalgorn, «perché sei stato prigioniero così a lungo? Perché semplicemente non ti sei alzato e te ne sei andato?» «È facile. Perché loro sono in troppi,» disse lui perfettamente padrone di sé. «E l'effetto non dura poi così tanto. Se tu, Aldair, fossi stato un predatore, io avrei avuto il tempo necessario a correre via e a nascondermi. Ma niente di più. Mi avresti poi raggiunto abbastanza in fretta.» «Capisco...» Te'dchak allargò le braccia. «Ad ogni modo, anche se fossi riuscito a scappare... dove sarei andato? Mi avrebbero dato la caccia e mi avrebbero riacciuffato.» Si fermò e ci squadrò per un po'. «Capite perché ho aspettato per così tanto tempo il vostro arrivo? Io posso distrarre i mostri, Aldair, ma niente di più. Tuttavia, con il vostro aiuto...» «Per gli occhi del Creatore!» Rhalgorn spinse il pugno sull'altra mano. «Te'dchak, qui ci sono guerrieri perfettamente in grado di fare il resto!» I suoi occhi rossi brillarono di piacere. «Aldair, riusciremo certamente a trovare il modo di scappare da qui. Qualcosa nei prossimi dieci minuti mi renderà incredibilmente felice.»
«Perché non facciamo cinque?», gli dissi io. «Ma sarà meglio che prima prepariamo un piano ben preciso. Te'dchak: quanti mostri ci sono a bordo della navicella? Lo sai?» Te'dchak aggrottò le ciglia pensieroso. «Non è facile dirlo. Sono solo in pochi a scendere fin quaggiù. Il resto è indaffarato a guidare la navicella, il che non è un'operazione tanto semplice e tiene occupati molti di loro, questo te lo posso dire per certo. Io non so quanto tu li conosca, Aldair, ma io li conosco piuttosto bene. Sono creature crudeli e selvagge ma, per la maggior parte, non sono dotate di un ingegno particolarmente acuto. Queste navicelle e le altre macchine di cui si servono sono incredibilmente vecchie.» Si fermò e guardò di nuovo Rhalgorn e me. «Credo che voi sappiate già che le hanno rubate alle cose dell'Uomo.» «Sì, lo sappiamo. Anche se gli Uomini sembrano non volerci credere.» Te'dchak si strinse stancamente nelle spalle. «Ho smesso da molto tempo di parlare con gli Uomini. A me pare che non cambino mai. In ogni caso, quando qui qualcosa non va per il verso giusto, i mostri hanno solo una vaga idea di come si possa provvedere. Di solito, loro non fanno altro che abbandonare il mezzo e salire su un altro. Oh! Ma io non ho ancora risposto alla tua domanda. Penso che ci saranno a bordo circa venti creature. Sicuramente non più di trenta.» «Direi che è un numero adeguato,» disse Rhalgorn. «Molti di loro hanno però armi più potenti delle vostre,» gli ricordò Te'dchak. «Ma non le avranno ancora per molto,» sbottò lo Stygiano. «Rhalgorn,» lo ammonii, «ora non facciamoci prendere dall'ansia. Ci sono ancora parecchie questioni da chiarire.» «Questioni?» Rhalgorn sembrava incredulo. «Che tipo di questioni?» «Per esempio, una che mi è venuta in mente ora, anche se sono certo che non presenta difficoltà insormontabili. Supponiamo di riuscire ad impadronirci di questa navicella: poi cosa ne sarà di noi? Se la prenderemo dopo l'atterraggio, non ci ritroveremo a combattere solo con una ventina di loro, ma con migliaia di mostri. Se invece riusciamo ad impossessarcene adesso, sperduti tra le stelle come siamo, cosa proponi di farcene?» Il sorriso di Rhalgorn svanì. «Questo, Aldair, mi sembra uno dei punti più importanti dell'intera faccenda. Penso che dovremmo pensarci su molto attentamente.» «Pensavo che forse tu potevi occuparti di ciò. E penso che ormai stiamo parlando da più di dieci minuti.»
Rhalgorn fiutò l'aria. «Naturalmente è così come tu dici. E poi i Signori dei Lauvectii non si buttano mai alla cieca in una battaglia. Ci piace considerare tutto prima con attenzione.» «Sì,» dissi. «L'avevo quasi dimenticato...» Corysia, Signar e Thareesh, rimasero ad ascoltarci tranquillamente mentre noi raccontavamo del nostro nuovo compagno e della parte che avrebbe avuto nel nostro piano. Quando finimmo, Signar si alzò in piedi stiracchiandosi le lunghe braccia. «Bene, io non ho mai navigato su un'imbarcazione che non fosse sull'acqua, Aldair, ma non deve essere poi impossibile dopo aver fatto un po' di pratica.» Rhalgorn mugugnò qualcosa e poi aggiunse: «Per il Respiro di Dio, sapevo che avrebbe detto esattamente così! Pelliccia Grassa, non stiamo parlando di qualche asse di legno messa insieme, di una vela e di un timone. Stiamo parlando di una macchina grande e complicata. Della quale tu non conosci assolutamente nulla!» «E tu sì, invece?» «No. Naturalmente no. Ma io sono abbastanza intelligente da saperlo. Il che non si può dire di tutti qui. Cosa penseresti di fare, Grande Capitano? Portarci a remi di nuovo sulla Terra?» «Per quanto ne so io, non c'è né vento né acqua tra le stelle. Tuttavia...» «Ah!» Rhalgorn alzò un dito. «Niente vento hai detto, vero? Vedi, Aldair...» «Va bene,» dissi io, «basta così. Fatela finita tutti e due. Mi pare evidente che un vascello che solca il cielo tra le stelle non è la stessa cosa dell'Ahzir al'Rhaz. Ciò non di meno, a meno che qualcuno non abbia un'idea migliore, non vedo altra soluzione che provare a guidarla. O ci proviamo, o cominciamo a farci piacere l'idea di rimanere schiavi.» «Io non ci penso neanche!», sibilò Thareesh. «E tanto meno io,» si inserì Corysia. «Aldair... non è la prima volta che tentiamo di fare cose che non avevamo mai fatto prima. Forse nessuna grande e arrischiata come questa, ma, come hai già detto tu: abbiamo per caso un'alternativa? Preferisco mille volte provare e fallire, che affrontare quello che altrimenti mi aspetterebbe.» «Abbiamo almeno una dozzina di guerrieri validissimi che la pensano esattamente alla stessa maniera,» disse Signar.
«Guerrieri senza armi,» gli fece notare Thareesh. «A questo si può rimediare,» disse lo Stygiano. «Se le nostre non sono a portata di mano, prenderemo in prestito le loro.» Li scrutai bene in volto. «Noi non abbiamo un'idea chiara del numero di nemici che dovremo affrontare, che armi avranno, o di come si guida questa navicella. Come la vedo io, fare grandi piani non è granché utile. Dobbiamo solo cercare di trovare un modo, con l'aiuto di Te'dchak.» «È certo meglio che starsene seduti qui,» disse Signar. Infatti lo è. Cominciamo a parlare con l'equipaggio, diciamo anche a loro il poco che siamo venuti a sapere. Rhalgorn ed io discuteremo la cosa con Te'dchak e decideremo...» Rhalgorn mi fulminò con un'occhiata e non mi permise di completare ciò che stavo dicendo. Mi girai di scatto e udii il suono squillante del metallo che cozza contro il metallo. Due dei mostri stavano scendendo piuttosto impacciati per una stretta scala che si trovava proprio sopra le nostre teste e guardavano dritto dalla nostra parte. Il più grosso e sgradevole dei due indicò proprio me. «Tu,» mi ordinò secco, «quello basso. Vieni qui! ojt'Miyer vuole vederti immediatamente!» Gli altri risero sgradevolmente sotto i loro cappucci. «Dì addio ai tuoi compagni. Non li rivedrai tanto presto!» SEDICI Se non avessi fermato il mio equipaggio, si sarebbero scagliati contro i due mostri già allora, senza pensare alle conseguenze. «No!» Afferrai il braccio di Rhalgorn appena in tempo, e sentii i suoi muscoli e i tendini che si allungavano sotto la mia stretta. «Stammi a sentire: è meglio così,» disse, con i suoi occhi infuocati che non si staccavano da quei due. «Lui sta dicendo la verità, Aldair. Se te ne vai, non tornerai più.» «Voi avete molte cose da fare,» gli dissi con calma. «Fatele, Rhalgorn.» Le corde sotto le mie dita si allentarono un po'. Lui non mi guardò, perché non c'era bisogno di parole tra noi. Guardai dietro di lui e colsi l'impercettibile cenno d'assenso di Signar. Anche lui aveva capito. Mi diressi con passo deciso verso la creatura e lasciai che mi stringesse intorno al collo un collare di ferro. Avevo già portato quel collare prima, e l'avevo barat-
tato onorevolmente con una sciarpa... una cosa che non credo sarebbe successa con ojt'Miyer. Non guardai indietro per cercare Corysia... Attaccata al mio collare c'era una corta catena. Il tipo che ne teneva stretto l'altro capo provava gusto nel darci ogni tanto qualche strattone mentre proseguivamo all'interno della navicella. Rideva ogni volta che inciampavo e cadevo a faccia per terra. Non ha importanza dire quante volte ciò si verificò, perché anzi, ogni volta raddoppiava la dose e sembrava divertirsi sempre di più. Mentre venivo trascinato per quei corridoi arrugginiti che si susseguivano monotonamente uno dietro l'altro, mi sforzavo di tenere a mente la strada che stavamo percorrendo. Ma presto mi resi conto che era praticamente inutile. Ogni muro era uguale all'altro: sfregiato, rappezzato e sporco. C'erano delle porte di metallo da tutti e due i lati, ma anche quelle erano sempre identiche. Intuii che stavamo salendo verso l'alto, perché il rombo dei motori si stava riducendo ad un lontano ronzio. A un certo punto passammo davanti ad una stanza buia, dove alcune creature erano indaffarate a fare non so cosa. C'era un tavolo in quella stanza, illuminato da luci accecanti di tutti i colori. Più avanti riuscii a carpire la fuggevole vista di un'altra stanza ancora più grande. La luce lì dentro era addirittura troppo forte per poterla reggere. Per un attimo ebbi l'impressione di aver guardato nel cuore di qualche immenso gioiello vivente. Purtroppo queste brevi visioni svanivano troppo in fretta, e non rimaneva altro che guardare se non la porta butterata che mi stava davanti. Nessuno ebbe bisogno di dirmi dove ci trovavamo. Riuscivo a percepire benissimo che lì, dietro quella porta, c'era lui che mi stava aspettando. La paura passò attraverso quel solido muro di ferro come fosse qualcosa di umido e vivo. Il cuore quasi mi si fermò, e io riuscii a stento a mettere uno stivale davanti all'altro. Fino a quel momento mi ero comportato coraggiosamente, come avrebbe fatto qualsiasi altro guerriero. Ma aveva già visto ojt'Miyer una volta. Ed ero madido di sudore gelato al pensiero di incontrarlo di nuovo. I miei carcerieri non mi seguirono: si limitarono ad aprire la porta e a spingermi dentro. La stanza era lunga e stretta e dannatamente fredda. La luce era fioca e di un color giallo ambrato che sembrava fluttuare nell'aria come nebbia. Un colore che mi ricordava il colore degli occhi di qualcos'altro. Quella luce mi fece subito venire un tremendo mal di testa. Dov'era?
Perché non... «Qui dietro, piccola creatura...» Mi girai di scatto. Qualcosa di molto simile al ghiaccio mi sfiorò la nuca. La cosa rise: era più vicina ora. Qualcosa si mosse nella penombra. Lui era lì: una figura scura vicino ad una finestra dalla quale si vedevano le stelle. Fortunatamente i suoi lineamenti erano nascosti dal bavero del suo mantello. «Bene, bene...» Di nuovo quella sua orribile voce che ricadeva come un macigno in un fiume fangoso. «Mi riconosci, allora?» «Sì, Ti riconosco ojt'Miyer...» «E tu sei quella creatura che parlava di magia, vero?» Le sue parole erano più che gelide. «Non pensare che io sia come gli altri. Non mi diverto affatto a sentir raccontare storie di demoni e incantesimi. Sarebbe stato un grave sbaglio da parte tua averlo pensato. Lo sai questo, o no?» «Sì,» gli risposi, e le parole mi uscirono a stento dalla gola. «Io... io lo so.» Si mosse, una specie di macchia sfocata con alle spalle lo sfondo immenso del cielo stellato. «Voglio delle risposte da te, strana creatura... Chi sei?... Che cosa sei?... Da dove vieni e dov'è la tua nave?... Dimmi tutte queste cose...» Quelle che stava facendo non erano delle domande. C'è sempre qualcosa di sottinteso in una domanda. ojt'Miyer non stava chiedendo nulla: semplicemente mi stava dicendo cosa dovevo fare. «Non ho motivo di non risponderti,» gli dissi con tono spavaldo. «Noi non siamo schiavi, ojt'Miyer, come le altre creature senza peli. Come puoi vedere tu stesso, noi siamo molto simili a voi. Veniamo da un mondo chiamato Mousedung, che è piuttosto lontano da qui. Siamo commercianti, per la maggior parte: commerciamo in formaggio, pastinache e birra d'orzo. Ci siamo allontanati dalle nostre rotte abituali e ci siamo persi... sì, abbiamo avuto dei problemi con la nostra navicella...» Pensai che quello che gli stavo raccontando potesse essere plausibile. «... Semplicemente eravamo approdati in quel mondo dove ci avete trovati. La nostra nave è affondata e solo pochi di noi sono riusciti a raggiungere la riva. I sopravvissuti si sono sparsi dappertutto. Abbiamo capito immediatamente che non potevamo fare affidamento su quel popolo di schiavi. Non abbiamo niente in comuni con quegli esseri. Non avevamo idea che ci fossero delle... delle creature civilizzate come voi da quelle parti. Non abbiamo avute molte opportunità di spiegare chi eravamo. Noi, ah, naturalmente non ve ne faccia-
mo una colpa...» Raccontai tutte quelle bugie con quanta più calma mi fu possibile. Se avessi smesso di usare il cervello, non avrei detto assolutamente più nulla. ojt'Miyer continuava a rimanere silenzioso. Sentivo il suo sguardo gelido posato su di me. Poi, qualcosa all'interno di quell'oscuro cappuccio si allungò come per cercare di raggiungere direttamente il mio cervello. Io feci un balzo all'indietro, e per poco non lanciai un urlo quando mi sentii sfiorare da quella che sembrava una lama di un rasoio. «E questo è tutto ciò che hai da dirmi?», mi chiese alla fine. «Sì, ma... se c'è qualche altra cosa che vuoi sapere...» Mi fece segno di tacere, si spostò dalla finestra e mi indicò di seguirlo. Io esitai, poi gli obbedii, cercando di mantenere una distanza di sicurezza tra me e lui. Mi aveva creduto? E che differenza faceva se mi aveva creduto? Un improvviso senso di disperazione cadde su di me come un insopportabile peso. ojt'Miyer non aveva probabilmente prestato nessuna attenzione al mio racconto. Era stato solo un momento di pausa a cui avrebbe posto fine in breve tempo. ojt'Miyer si fermò. C'era nella stanza un piccolo portale di cui fino ad allora non mi ero accorto. Girò la maniglia, aprì la porta ed entrò. Io lo seguii, anche se era l'ultima cosa che mi sarebbe piaciuto fare. La luce in un certo senso era migliore. Tenebrose ombre color dell'ambra si fondevano con altre color ocra. C'era qualcosa davanti a ojt'Miyer... un'ombra, un movimento che si intravedeva in un angolo. ojt'Miyer fece un passo verso di me. Poi un altro. Fui investito dal suo alito fetido. Riuscivo quasi a sbirciare sotto il suo cappuccio, le cose che si muovevano lì dentro. «Hai paura di me, piccola creatura?...» «Sì,» dissi sinceramente. «Penso che tu sia un essere che incute molta paura.» Questa mia affermazione parve essere di suo gradimento. «Ti ricordi di ciò che hai visto, vero? Cosa ho fatto a quella cosa dell'Uomo...» Se ne uscì in una risata soffocata. «Quella non sarà la tua sorte. Ricordatelo.» «Sono contento di saperlo». C'era ancora qualcosa lì... C'era qualche altra cosa insieme a noi nella stanza... «Ascolta molto attentamente,» disse ojt'Miyer. «Ti ho detto che non ti farò niente di male. Ci puoi credere. È la verità... anche se non mi hai raccontato altro che bugie.»
«Cosa?» Scossi la testa. «No, io...» «Tranquillo. Hai detto tutto quello che avevi bisogno di dire. Ora invece ascolterai. Io ti dirò cose vere e non bugie. E quando avrò finito tu parlerai di nuovo. Mi dirai ciò che vorrò sentire.» Guardò nell'angolo della stanza e poi di nuovo dalla mia parte. «Ti dirò che so chi sei e da dove vieni, piccola creatura. Le pallide cose che si definiscono Uomini hanno ormai dimenticato, ma noi ricordiamo ancora bene. Sappiamo che voi venite dal mondo della Nascita, e anche loro vengono da quello stesso mondo. Noi conosciamo le navi e le macchine che sono appartenute a loro prima che noi le prendessimo. Voi non venite da un popolo di commercianti, piccola creatura. Voi siete arrivati su delle navicelle dorate che volano veloci attraverso uno spazio in cui il tempo non passa mai. Ho potuto osservare io stesso questo fenomeno, anche se solo per un attimo, quando stavamo sorvolando il mondo degli schiavi. Brillava come una stella, poi si posò sul suolo e svanì. È chiaro che voi siete arrivati in quelle navicelle dorate. Voi mi darete quelle navicelle. Così verrò a conoscere anche la strada che porta al mondo della Nascita...» Riuscivo a stento a muovermi. Le parole di ojt'Miyer mi trapassavano come lame che arrivavano dritte al cuore. Per gli occhi del Creatore... se loro entrassero in possesso di quelle navicelle e portassero le loro orde sulla Terra! «Io... io non so come risponderti,» dissi tranquillamente. «Io... non so niente di queste cose. Tu devi credermi.» ojt'Miyer fece una risatina soffocata. «Ah, e invece sì che le conosci. Io so che tu le conosci, piccolo essere!» Di nuovo qualcosa si mosse e si contorse sotto il suo cappuccio. «Eppure, ho dato la mia parola, non è così? Non ti sarà fatto nulla di male. ojt'Miyer non ricambia una bugia con un'altra bugia. Ora guarda lì. Laggiù...» Mi girai. All'improvviso quell'angolo remoto venne illuminato, da un ampio e giallastro raggio di luce. Lanciai un urlo. Le gambe non mi ressero più e caddi in ginocchio. «Buon Dio... no!» C'erano lì due creature. Stavano su di una ruota di ferro, fissata al suolo. Sulla ruota c'era un guerriero Vikoniano, con le braccia e le gambe divaricate e incatenate. All'inizio pensai che fosse Signar, poi mi resi conto che il colore della pelliccia era più scuro e che apparteneva alla gente di Raadnir. Mi vergognai incredibilmente, perché non riuscivo neanche a ricordare
il suo nome. Lui comunque mi riconobbe e mi chiamò con quella voce profonda e rauca tipica della sua gente. «Non preoccuparti assolutamente per me, Mastro Aldair! Non dire a queste cose niente che tu non debba...» Uno dei mostri lo zittì immediatamente assestandogli un feroce colpo al ventre. Il Vikoniano emise un grugnito e contorse il volto in una smorfia. «Dannazione a te,» urlai in direzione di ojt'Miyer. «Se hai delle domande da farmi, fammele! Lui non sa niente!» «Ah, cominci a capire che cosa succede qui,» disse ojt'Miyer con irritazione. «Io non gli faccio domande su di lui. Io faccio a tutti loro domande su di te. In questo momento l'unica cosa che devi fare è guardare, piccola creatura. Guardare e dirmi ciò che voglio sapere. Se le tue risposte non saranno di mio gradimento, la faremo finita con quello e ne porteremo su un altro. E poi un altro ancora, e così via...» «Non servirà a niente, ojt'Miyer. Ci puoi torturare tutti e continuerai a non sapere nulla! Io non ho le tue dannate navicelle!» «Se è così,» disse lui lentamente, «vuol dire che perderemo un po' di tempo e niente di più. Ma non lo sapremo finché non avremo finito, giusto?» Le sue braccia ebbero un movimento inconsulto e ordinò, «Cominciamo con questo, in fretta!» Io mi girai. ojt'Miyer se l'aspettava. Diede uno strattone alla mia catena e mi fece voltare dalla parte della ruota di ferro. «Guarda,» sibilò, ed il suo alito per poco non mi fece cadere. «Guarda, e pensa bene a come dovrai rispondermi!» Non posso raccontare le cose che accaddero li. Le creature avevano una varietà infinita di lame a loro disposizione... delle armi sottili ed affilate che si incurvavano in mille modi diversi. Il mio compagno aveva una pelliccia molto spessa che gli ricopriva tutto il corpo. Ci volle un tempo interminabilmente lungo per portarla via tutta. Quelle stupide creature erano molto abili nella loro arte. Dissi a ojt'Miyer tutto quello che voleva sapere. Che eravamo effettivamente arrivati dal mondo in cui lui voleva approdare nelle uova dorate dell'Uomo. Lui mi credette... Ma non fermò le sue torture. Voleva di più. Dov'erano ora le navicelle? Quante ne erano rimaste? Quando avrei potuto condurlo lì? Io lo maledissi, urlai che non lo sapevo! Ma ojt'Miyer pensò che stessi mentendo. Così mi
inventai le cose che voleva sapere. Trovai una risposta ad ogni cosa che mi chiedeva. Ma non era ancora soddisfatto. Io capii, e fui preso da un improvviso moto di orrore, che lui non si sarebbe accontentato mai. Avrebbe riservato quel suo efferato trattamento a tutto l'equipaggio, ed io sarei stato lì a guardare. Rhalgorn. Signar. Thareesh. Corysia. Per gli Occhi del Creatore: come avrei potuto sopportare che facessero quelle cose a Corysia! Una porta sbatté alle mie spalle. Una luce accecante riempì la stanza e il mostro sht'Ingo apparve lì in mezzo. ojt'Miyer si girò e cominciò a sfogare tutta la sua rabbia su di lui. «Tu... esci immediatamente da qui! Nessuno può entrare!». La creatura indietreggiò tremando. «ojt'Miyer - stanno... stanno scappando dal buco!» Per una frazione di secondo ojt'Miyer allentò la presa sulla catena del mio collare. Quell'attimo mi bastò. Mi infilai rapidissimo tra le gambe di sht'Ingo e corsi a perdifiato. DICIASSETTE ojt'Miyer urlò come se tutti i diavoli dell'inferno si fossero uniti insieme. Fiamme blu fischiarono alle mie spalle e mi spruzzarono con qualcosa di simile a delle scorie vulcaniche. L'acciaio sibilava e ribolliva. Fui colpito da un dolore lancinante ai talloni e urlai con quanto fiato avevo in gola, barcollai, caddi nel punto dove il passaggio faceva una curva, e balzai di nuovo in piedi. La strada davanti a me era libera, ma li sentivo distintamente appena dietro di me. Sempre più vicini. Altri stavano sopraggiungendo da sinistra. Mi lanciai a destra, vidi la stretta scaletta di metallo e mi arrampicai velocemente al livello sottostante. Rannicchiato, immobile, e trattenendo persino il respiro, rimasi in ascolto. Il cuore mi martellava contro il petto. Tirai un profondo respiro nel tentativo di farlo rallentare. Un rumore. Lontano, poi più vicino. Un urlo... poi un altro. Stivali che raschiavano sul metallo. Quella specie di tosse delle armi dei mostri. Ma dove? Le pareti di metallo traevano in inganno, era difficile individuare la provenienza dei suoni. Potevo dirigermi dal lato opposto a quello dove si trovavano le creature, o lanciarmi direttamente tra le loro braccia. Non c'era tempo per prendere decisioni ponderate. Allo stato attuale delle cose una valeva l'altra. Se gli altri erano riusciti a liberarsi, ragionai, e-
rano ancora lontani lì sotto. E quindi il tentativo migliore da fare era quello di continuare a scendere. Cercare di raggiungere nel più breve tempo possibile i miei compagni e sperare di non incontrare nessun mostro sulla mia strada. Fortunatamente quella era una serie di scale; sotto una rampa ce n'era subito un'altra. Superai la prima senza problemi, e stavo già per imboccare la seconda, quando li sentii. Due, forse tre. Mi guardai intorno alla ricerca di un'eventuale porta, di un angolo, di qualcosa dove potermi nascondere. Ancora un altro minuto e mi avrebbero sorpreso lì, a ghignare come un cretino! Mi stesi sulla pancia: non c'era più tempo per poter pensare a niente altro. Comparve una figura incappucciata, si arrampicò fino al mio livello e proseguì. Il secondo gli stava subito dietro, e seguì esattamente i suoi movimenti. Poi si fermò. Diede delle occhiate tutt'intorno e guardò dritto dalla mia parte. Io mi lanciai giù per le scale e sentii tutte le sue imprecazioni. Arrivai giù e mi misi dietro il primo angolo che trovai prima che la sua arma cominciasse a lanciare le sue scorie metalliche nel posto dove mi trovavo. I suoni di una piccola guerra si stavano facendo più vicini. Cacciai quel pensiero dalla mente. In quel momento avevo io stesso un'ardua battaglia da combattere, e non potevo certo permettermi di pensare ad altri. Il mostro ora era proprio alle mie spalle. Cominciai a correre curvando ora a destra ora a sinistra. Ero più veloce, ma lui era comunque avvantaggiato: aveva un'arma micidiale e un'idea ben precisa su dove mi stavo dirigendo. All'improvviso comparvero delle porte di metallo. Un'intera fila. Provai ad aprirne due. Bloccate. La terza si aprì e io mi ci lanciai dentro sbattendola con violenza alle mie spalle. Era una stanza piccola, in penombra e senza uscite. Bene. Mi ero rinchiuso proprio in un ottimo posto per farmi trovare subito e, per di più, senza nessuna possibilità di fuggire. Non so cosa avrei dato per una spada, una mazza... per una cosa qualsiasi. Non c'era niente nella stanza, neanche... mi fermai. Guardai ciò che la mia mano aveva afferrato. La fastidiosa catena che avevo sempre tenuto in mano per non inciamparci dentro. Mi toccai istintivamente il bordo del mio collare di ferro. Non c'era chiave. La creatura l'aveva fatto chiudere con uno scatto. Le mie dita sentirono una protuberanza simile a un piccolo pomello, un bottone di ferro. Lo spinsi. Non accadde nulla. Tirai via le dita e cercai di frenare il tremito delle mie mani. Quel bottone l'aveva fatto chiudere. Così doveva anche farlo aprire. Con calma, delicatamente, feci
scivolare il pomello a destra, poi a sinistra. Ancora niente, Su e giù, poi... Con un leggerissimo, piacevole scatto, il collare cadde a terra. Lo presi e lo chiusi di nuovo, mi arrotolai circa mezzo metro di catena intorno al pugno e saggiai la consistenza della mia arma. Non era un granché, ma era abbastanza pesante. Ero di nuovo almeno un mezzo guerriero e un po' meno una lepre in fuga. Lo sentii arrivare e mi appiattii contro la porta. Un attimo dopo, quella si spalancò e la creatura fece irruzione nella stanza. Scagliai la catena con tutta la forza che avevo. La creatura barcollò, si portò le orribili mani al volto e indietreggiò. Il tubo argenteo cadde al suolo tintinnando. Si aggirò alla cieca per trovarmi. Lo colpii di nuovo. Lui prima cadde in ginocchio, poi si accasciò pesante come un sacco. Il cappuccio gli scivolò dalla testa. Intravidi della pelliccia, della carne e dei lineamenti deformi. Mi chinai a raccogliere la sua arma e la rigirai con cautela tra le mani. Farla funzionare sembrava piuttosto semplice: se lui era in grado di farlo, sicuramente lo ero anch'io. C'era un'impugnatura che era stata realizzata per delle mani più grandi delle mie. C'era un pezzo di metallo incurvato dove chiaramente bisognava introdurre il dito. Spinsi. L'arma sputò le sue micidiali fiamme bluastre e fece crollare tutto un pezzo di muro. Mi sentii molto sollevato. È facile passare dallo stato di schiavo a quello di padrone. Il padrone è quello che ha sempre a disposizione delle armi. Dopo aver lanciato una rapida occhiata fuori dalla porta, scivolai di nuovo nel corridoio e cercai di scoprire dove si trovava il prossimo angolo. Ora non c'era da sbagliarsi su quale fosse il luogo dove si stava svolgendo la battaglia. Era proprio su quello stesso livello, molto vicino a me. Corsi velocemente giù per un passaggio, mi fermai un attimo e poi girai di nuovo. Il corridoio si interrompeva all'improvviso: c'era una biforcazione, si poteva andare a destra o a sinistra. Il rumore delle armi era ora davvero vicinissimo. La puzza di metallo bruciato rendeva l'aria sempre più pesante. Luci e ombre si alternavano sui muri. Si trovavano a una ventina di metri di distanza sulla sinistra. Erano in tre. Figure incappucciate chine sulle loro armi facevano fuoco e si muovevano con grande rapidità. Qualche volta, nel furore della mischia, c'era il pericolo di ammazzare un amico. Qui questo problema non sussisteva. Sbagliarsi era impossibile. Strisciai dietro l'angolo, alzai l'arma fino all'altezza della loro schiena e urlai. Si girarono tutti e tre all'unisono, impietriti dallo stupore. Io spinsi il pezzettino di metallo e tenni stretta l'arma. Loro gridarono, ondeggiarono, ruzzolarono rovinosamente.
Con grande cautela una figura venne allo scoperto. Basso e tarchiato. Occhi piccoli, un muso storto e con una lunga cicatrice sopra, un pesante elmo a coprirgli la testa. Era davvero molto piacevole vedere una creatura che mi assomigliava. «Mastro Aldair!» Un ghigno gli fece allargare le mascelle. «Stumbacius... tu qui!» Urlai dalla gioia e mi misi a correre verso di lui. Tre arcieri Nicieiani gli stavano alle calcagna. L'ultimo aiutava un compagno che zoppicava. Un rivolo di sangue scendeva giù per la sua coscia verde e ricoperta di scaglie, ma sarebbe sopravvissuto e avrebbe combattuto ancora. Stumbacius era un soldato e non perse tempo in saluti. «Siamo una pattuglia,» mi spiegò in fretta. «Signar ci ha mandati in avanscoperta e siamo rimasti tagliati fuori.» Accennò dietro alle sue spalle. «La battaglia si stava svolgendo lì, e siamo nei guai, Mastro Aldair!» «Avete armi? I tubi?» «Qualcuno.» Sollevò il suo. «Fuori dal buco abbiamo trovato le nostre spade e i nostri archi, ma non servono a molto.» «Ora siamo tre di più, e ciò sarà di grande aiuto,» si intromise un Nicieiano. Stumbacius fece tornare indietro un arciere per la strada da cui loro erano arrivati e mi fece segno di seguirlo. «Aspetta. Se lì ci sono delle difficoltà, potremo aiutarli di più rimanendo qui. Manda indietro due di loro con quello ferito. Fai restare gli altri con noi.» Stumbacius richiamò il suo esploratore. «Dì a Signar che noi ci spostiamo: saliamo al livello superiore e cerchiamo di prendere le creature alle spalle. Digli che dobbiamo spostarci più in alto. Due livelli sopra questo. Lì c'è il cuore della navicella: ce ne dobbiamo impadronire. Capito?» Il Nicieiano fece cenno di sì con la testa e corse veloce dietro ai suoi compagni. Condussi Stumbacius e gli altri indietro per la strada che io stesso avevo percorso per arrivare lì. Risalimmo quindi le scale fino al livello superiore. La via era libera. Eravamo pronti ad affrontare qualsiasi problema, ma non ne saremmo stati certo contenti. Dopo una falsa partenza, arrivammo ad una scala a chiocciola che portava di nuovo giù. I Nicieiani sono degli ottimi arrampicatori, ed io mandai uno dei nostri arcieri ad esplorare la strada. Infatti disprezzò le scale e si inerpicò strisciando sulla parete, una striscia scura e verde contro il metallo butterato. Nel giro di pochi secondi era di nuovo al mio fianco.
«La battaglia è proprio dietro l'angolo,» sibilò piano. «Noi possiamo vederli, ma loro non possono vedere noi.» Annuii. Si arrampicò di nuovo, Stumbacius ed io lo seguimmo. Il corridoio piegò bruscamente a destra. Appena sorpassato l'angolo, vedemmo qual era la situazione. Più di venti mostri avevano intrappolato il mio equipaggio dietro a due angoli, alla fine del passaggio. Era una situazione assolutamente senza speranza. Quasi tutte le creature incappucciate avevano armi, mentre non più di quattro tra quelli di Signar erano provvisti dei micidiali tubi. Feci un segno agli altri, mi lasciai cadere a terra a pancia in giù e aprii il fuoco. Figure nere scattarono sorprese e confuse, contorcendosi e urlando per il dolore. Risposero al nostro attacco, ma noi ci mantenevamo bassi e i loro colpi non andarono a segno. Uno, più audace degli altri, si lanciò direttamente verso di me, barcollando su quelle orribili gambe e facendo fuoco alla cieca. Stumbacius lo tagliò praticamente in due parti. Signar si rese immediatamente conto della situazione. Un terribile urlo di guerra Vikoniano risuonò al di sopra del crepitio delle armi e delle grida dei moribondi. Lo vidi scansare le armi dei mostri e seminare il terrore con la sua enorme ascia da guerra per aprirsi la strada. Gli altri guerrieri della sua razza combattevano spalla a spalla al suo fianco, e non c'era nessuno che poteva impedire la loro avanzata. Uno, con la pelliccia quasi dello stesso colore di quella di Signar, non aveva né ascia né spada ma non se ne dava assolutamente pensiero. Il suo braccio menava colpi come fosse una mazza di ferro e fracassava ossa a destra e a manca. Un nemico si poteva rendere conto che un Vikoniano lo stava per uccidere, ma quelli che cadevano sotto i colpi di Rhalgorn raramente capivano cosa era stato ad ammazzarli. Un attimo era lì, l'attimo dopo non c'era già più, e dietro di sé aveva lasciato la strada insanguinata, nel modo veloce e silenzioso degli Stygiani. Signar uccideva come un tuono. Rhalgorn come una folata di vento estivo. «Signar, Rhalgorn!», urlai. «Prendete i vostri migliori elementi e venite come: non li abbiamo ancora in pugno!» Mi raggiunsero in un battibaleno, ombre scure e minacciose ricoperte del sangue di altre creature. «Questi sono sistemati,» dissi, «ma ojt'Miyer ne avrà altri a disposizione. Dobbiamo impadronirci dei livelli superiori, e in fretta!» «E allora andiamo,» grugnì Signar, «anche se non credo che riconoscerei questo oshimire anche se me lo trovassi davanti.»
«Invece sì,» gli dissi con calma, «ti assicuro che lo riconosceresti, amico mio. Non è possibile confondere ojt'Miyer con nessun...» DICIOTTO «Tra gli Eubironi noi abbiamo praticamente un proverbio per ogni situazione,» dissi ai miei compagni. «In questo momento me ne viene in mente uno in particolare.» Rhalgorn fece roteare gli occhi. «Non so perché, ma sono convinto di sapere già qual è.» «Stai zitto e ascolta!», sbottò Signar. «Potremmo fare buon uso di un proverbio, questo è sicuro!» «Se nessuno ha niente in contrario,» disse Rhalgorn, «penso che farò una passeggiata. Sì una passeggiatina!» «No,» dissi io cupo, «non la farai. Siediti qui e ascolta. Questo è il proverbio: Se sei arrabbiato con un serpente, regalagli dei guanti per il suo compleanno.» Signar batté le palpebre. Il suo sorriso svanì e lui mi guardò con una faccia priva di qualsiasi espressione. «Béh, Aldair, questo è davvero un proverbio molto carino.» Rhalgorn rise. Corysia e Thareesh scelsero proprio quel momento per entrare insieme a Te'dchak. «Mi sono persa qualcosa?», chiese lei sorridendo. «Sì,» disse Rhalgorn. «Aldair ci stava giusto spiegando qualcosa sui serpenti e sui guanti.» «Cosa?» «C'è un motivo,» dissi io piuttosto irritato, «se vi interessa saperlo. Se ci riflettete un po' su, vi renderete conto che noi abbiamo esattamente lo stesso problema del serpente, caro Rhalgorn. Ci siamo impadroniti di questa navicella e ci siamo liberati dei nostri carcerieri. Il guaio è: cosa ci facciamo con questo regalo di compleanno?» Con un ampio gesto della mano indicai la stanza in cui ci trovavamo. Era uno spazio ampio e circolare a prua della navicella, in prossimità della parte più alta della nave. Le pareti erano ricoperte da uno schieramento sconcertante di macchine che ronzavano, scattavano e vibravano in continuazione come insetti su un albero. Le luci si accendevano e si spegnevano senza nessuna ragione particolare. Dovunque posassi lo sguardo, c'erano bottoni leve e aggeggi dall'uso incomprensibile. Nessuna di queste cose
pareva avere un senso. Io ero quasi certo che quella fosse la cabina di comando da cui si guidava la navicella. Ma come? Luci e bottoni erano utili come una spada per una rapa, se non si ha la minima idea di come maneggiarli. «Bene, su questo punto hai sicuramente ragione,» annuì Signar. «Ho capito ora dove vuoi arrivare.» «Bene. Proprio questo è il punto. Noi non stiamo andando da nessuna parte. O, ipotesi ancora peggiore, stiamo andando dove non vogliamo andare.» «Probabilmente Aldair ha ragione,» sibilò Thareesh. Fissava con i suoi occhi senza palpebre le pareti colorate e teneva la coda nervosamente attor cigliata sotto il mantello. «È ragionevole pensare che, quando ci siamo impadroniti della navicella, ci stessimo dirigendo verso il mondo di ojt'Miyer. Potevano aver cambiato rotta quando si erano resi conto di essere spacciati: ma perché avrebbero dovuto farlo? Sarebbe stato un colpo davvero ben assestato mandarci comunque in schiavitù mentre pensavamo di aver acquistato la libertà.» «Se la navicella sta procedendo in un senso,» disse Corysia, «sicuramente possiamo farla andare in un altro.» «Non è esattamente come governare una nave,» mormorò Signar. «Questa è la prima cosa che ho detto anch'io,» sbuffò Rhalgorn. Signar lo fulminò con lo sguardo. «Non ho ancora finito, Alito di Coniglio! Quello che stavo per dire era, che se è vero che non è la stessa cosa che andare a vela, c'è però una cosa che è la stessa.» Continuò ad annuire col capo. «Le stelle. Non ce n'è nessuna che io abbia già visto prima, ma non posso assicurarti che si siano mosse da quando noi siamo qui. Sono stato capitano su parecchi ponti per essere in grado di dirti che stiamo seguendo una rotta ben precisa, anche se non saprei dire chi sia il timoniere.» «Sono queste macchine che fanno da timone,» disse Te'dchak. «Di questo sono assolutamente certo.» La piccola creatura non era mai intervenuta fino a quel momento. Mi girai a guardarlo. «Tu lo sai per certo? Hai dimestichezza con le macchine?» Si strinse nelle esili spalle. «Aver dimestichezza con quelle macchine forse non è l'espressione più appropriata, Aldair. Io so quello che fanno. Il che non è la stessa cosa che sapere come lo fanno».
Si fece avanti e si avvicinò ad un banco pieno di luci. Era ancora molto debole dopo lo sforzo che aveva sostenuto. Aveva offuscato le menti dei mostri, anche se solo per un momento, per dare a Signar e a Rhalgorn il tempo necessario... ma lo sforzo gli era costato molto caro. «È solo una mia intuizione,» continuò lui, «ma penso che sia giusta. Sono certo che ojt'Miyer sia scappato in una delle navicelle più piccole. La nave non può andare lontano, ma potrebbe anche non averne bisogno. Forse siamo vicini alle altre navi, o a uno dei Dieci Mondi.» I grandi occhi dorati mi guardarono dritto in volto. «Aldair, avrebbe potuto distruggere questa navicella prima di andarsene. Ma non l'ha fatto. Le navi sono tutto per questi individui. Quando vengono distrutte o si perdono, non possono essere sostituite.» Mi misi a riflettere su questo punto. C'era molta saggezza in ciò che aveva appena detto. Probabilmente ci stavamo dirigendo proprio nel covo di ojt'Miyer. E lui stesso sarebbe stato li ad accoglierci. Il fatto che quel diavolo ci fosse sfuggito, mi aveva irritato più di quanto potessi dire. Dopo la nostra vittoria nella parte inferiore della navicella, l'incursione ai livelli superiori non aveva dato nessun frutto. Tutte le stanze e tutti i passaggi erano vuoti. Non c'era rimasto più nulla, tranne i poveri resti insanguinati di quel corpo dilaniato sulla ruota di ferro. Non dimenticherò in fretta il lampo che passò negli occhi di SignarHaldring quando vide la scena. I suoi cupi lineamenti si contorsero in una smorfia di rabbia terribile e silenziosa. Un suono spaventoso cominciò a salire dalla sua gola e mi fece rizzare i peli dietro il collo. Poi tirò fuori il suo coltello e con un colpo rapido e ben assestato mise fine alle sofferenze del suo compagno. Dopo di ciò, Rhalgorn mi spinse in fretta fuori dalla stanza. Durante i combattimenti avevamo perso due arcieri, ma erano caduti in battaglia. E quello è un modo molto diverso di morire... «C'è ben poco da aggiungere,» disse a Te'dchak e agli altri. «Sarà stata davvero una vittoria inutile se dopo tutto ciò arriveremo dritti dritti nel mondo di ojt'Miyer. Signar, Te'dchak... noi dobbiamo cambiare questa rotta e sceglierne un'altra.» Signar si grattò le orecchie. «Hai ragione com'è vero che esiste la pioggia. Solo, Aldair, hai idea di come potremo riuscirci?» «Non ne ho la più pallida idea. Ma se quegli stupidi individui hanno imparato a guidare questa navicella, allora possiamo farlo anche noi.»
«Non abbiamo però molto tempo per imparare,» disse Thareesh con molta freddezza. «Loro si dedicano a quest'attività ormai da centinaia di anni.» «Più probabilmente un migliaio. Ciononostante, non serve a niente stare qui a piangere sulle nostre disgrazie, o sbaglio? Te'dchak; ti dispiacerebbe rimanere qui con Signar e vedere cosa riuscite a imparare? Non avremo bisogno di sapere tutto. Girare a destra, a sinistra, fermarsi e ripartire sarà sufficiente.» Signar mi lanciò un'occhiata minacciosa. «Ah, sì, così ti basta?» «Sì, amico mio, così basterà.» Ghignai e gli diedi una pacca affettuosa sulla spalla. «Sei un ottimo marinaio. Forse il migliore. Sono certo che tu e Te'dchak ci darete la vostra risposta in pochissimo tempo.» Corysia alzò un sopracciglio. La ignorai e continuai a ridere. Nutrivo davvero poche speranze che saremmo riusciti a portar fuori la testa o la coda da quel folle ammasso di luci e di bottoni. Tuttavia non potevo assecondare un vikoniano che medita tristemente sulla sua sorte e quella dei suoi compagni. Avevo già abbastanza cose di cui preoccuparmi senza aggiungerci anche quella tempesta che aleggiava nell'aria. Corysia e Thareesh se ne andarono dopo poco. Io avevo chiesto loro di guidare delle squadre ad ispezionare la nave. Non ne conoscevamo neanche la metà, e mi sembrava prudente acquistare un po' più di dimestichezza con la navicella. Sia che riuscissimo a capirne il funzionamento, sia in caso contrario. Avevamo anche discusso su cosa sarebbe stato meglio fare con le cose dell'Uomo, e avevamo deciso di lasciarle lì dove si trovavano. Questa era stata una decisione molto facile da prendere. Nessuno dei prigionieri pensava che il passaggio della navicella nelle nostre mani preludesse a qualcosa di meglio. Per quanto ci era dato capire, dal loro punto di vista, un'altra razza di bestie aveva ora preso il comando della navicella, e loro erano diventati i nostri schiavi. Naturalmente, Caldus e Becky-Sue sapevano molto di più degli altri, ma la battaglia aveva sottratto loro ogni traccia di vita. Erano usciti dal buco a malincuore, si guardavano intorno sempre con aria impaurita, e poi si ritraevano frettolosi. Tuttavia, quei pochi momenti di libertà non erano stati del tutto inutili. Avevo colto lo sguardo di Becky-Sue quando aveva visto i corpi senza vita dei mostri. Non aveva mai immaginato che quegli esseri potessero essere
come tutte le altre creature, che per esempio potessero sanguinare, e quindi pensai che per lei potesse esserci ancora qualche speranza. Caldus era invece ostinato e insensato come al solito. Mi disse che ci saremmo procurati un gran numero di guai, e che ci saremmo pentiti di quello che avevamo fatto per tutta la nostra vita. E tutto ciò era detto da un individuo che aveva sotto gli occhi i suoi nemici ridotti in cenere. «Ho fatto sistemare i corpi dei nostri cari amici in un angolo remoto della nave,» mi disse Rhalgorn. «Ma non è una soluzione che può andare avanti per le lunghe, perché già ora emanano un odore insopportabile. Se è possibile, ancora peggiore di quello che avevano quand'erano vivi.» «In seguito dovremo trovare un modo per liberarci di loro,» dissi io. «Non possono rimanere qui dentro con noi.» Rhalgorn mi guardò con aria adirata e si mise a pulirsi i denti. «Una bella risposta, Aldair. Naturalmente, ci avevo già pensato anch'io. Se avessi potuto buttarli fuori da qualche parte ti assicuro che l'avrei già fatto.» «Bene: cosa te lo ha impedito?» «Non ci sono porte in questo maledetto posto. Neanche una. Per uscire fuori, deve esserci una porta, Aldair.» Lo guardai. «Ci deve essere per forza una porta, Rhalgorn. Anzi sicuramente più d'una, immagino. Queste creature hanno bisogno delle porte, come chiunque altro.» «Bene,» disse lui acido. «Allora indicamele tu, Mastro delle Porte. Così potrò liberarmi dal cattivo odore.» Te'dchak che si trovava lì vicino si girò a guardarci. «Temo che non sia così semplice, caro Rhalgorn. Non si può semplicemente aprire una porta nello spazio tra le stelle. Esiste una macchina anche per fare quello. È assolutamente necessario che l'aria non esca dalla navicella.» «Che cosa?» Rhalgorn lo guardò con aria incuriosita. «Io non so come funzionano le cose nel tuo mondo, Te'dchak, ma nel nostro questa è una cosa perfettamente normale. Noi apriamo una porta e l'aria esce fuori. E, naturalmente, altra invece ne entra. Niente di eccezionale, almeno come la vedo io.» Te'dchak guardò lo Stygiano con fare molto pensieroso, poi si grattò il petto chiazzato. «Ho paura che tu non sia pienamente consapevole di cosa ci sia lì fuori,»
disse molto pazientemente. «O, fatto forse ancora più importante, cosa non c'è. Non c'è aria nello spazio, Rhalgorn. In verità non c'è assolutamente nulla. Se tu riuscissi ad aprire uno dei portelli ti congeleresti e moriresti all'istante.» Rhalgorn si schiarì la gola e mi guardò con aria scettica. «Ah, e perché non dovrebbe esserci aria lì fuori, Te'dchak?» «Non lo so. Semplicemente non c'è.» «E che cosa ne è stato di lei?» «Cosa?» «Ho detto, cosa ne è stato di lei? Perché non è più lì?» Te'dchak chiuse gli occhi. «Rhalgorn non le è successo niente. Per quanto ne so io non c'è mai stata e basta. Lo spazio tra le stelle è stato sempre così e così sarà.» Rhalgorn mi guardò. «Aldair, ti pare che tutto ciò abbia un senso?» «Non ne ho idea,» risposi. «In tutta onestà, non avevo mai pensato a una cosa del genere prima d'ora. Se Te'dchak sostiene che è così, probabilmente è vero.» «Aldair,» Te'dchak sembrava allarmato. «Non si tratta di probabilità!» Rhalgorn sorrise alla piccola creatura con aria maliziosa. «Allora, Te'dchak, rispondi a questa mia domanda. Se lì fuori non c'è aria, come fa a navigare questa navicella? Ah? Rispondi a questo, se ne sei capace!» «Rhalgorn,» il tono di voce di Te'dchak era ora piuttosto teso, «questa navicella non è né un uccello, né una barca. Quindi, non sta affatto navigando.» Scosse la testa e si mise di nuovo ad occuparsi del suo compito. «È davvero un bel tipo,» disse Rhalgorn quando l'altro era ormai lontano e non poteva più sentirlo. «Ma non ha le idee molto chiare su come funziona il mondo.» «E tu invece sì? Rhalgorn, io credo che sia possibile che lui sappia bene di cosa parla.» Rhalgorn sorrise pazientemente e mostrò i denti. «Vedi le stelle lì fuori, Aldair? Ce ne sono milioni e milioni, e non sono tenute lì da nastri o cose simili. Loro navigano, come può vedere chiunque, anche se ha solo mezzo occhio. Solo per il fatto che vengo dalle foreste dei Lauvectii, non vuol dire affatto che io sia uno stupido...!» DICIANNOVE
Non ero del tutto certo che Te'dchak sapesse di cosa stesse parlando. D'altra parte, ero sicurissimo che Rhalgorn non lo sapesse. Io conoscevo bene gli Stygiani. Una volta che un'idea gli è entrata in testa, ci rimane attaccata come una sanguisuga. Può essere un'idea assurda e inconcepibile, ma questo vuol dire davvero poco per i Signori dei Lauvectii. È una loro idea, e loro continueranno a pensarci fino alla morte, o fino a che un'altra idea migliore non verrà ad occupare la loro mente. Così, benché avessi molte altre cose da fare, mi sembrò prudente seguire quella storia personalmente. Ci sono molti modi ragionevoli per appurare se effettivamente c'è o non c'è aria nello spazio. Poi, c'è il modo Stygiano: trovare una porta, mettere fuori la testa e fiutare. Seguii Rhalgorn che oramai era ben più che irritato e non potei fare a meno, comunque, di rimanere colpito dal modo che aveva escogitato per dirimere la questione. Come avevo immaginato, in effetti a bordo della navicella c'erano delle porte, sebbene non fossero del genere che mi sarei aspettato. Davanti ad ogni porta c'era una piccola finestra, munita di uno spesso pannello. Attraverso quella finestra si riusciva ad intravedere una stanzetta stretta e piuttosto lunga. E dietro quella un'altra porta. Accanto alla finestra c'erano due bottoni e due luci. Dopo alcuni tentativi con relativi errori, apprendemmo che la porta esterna si apriva direttamente sulle stelle. Quando quella porta era aperta, una luce rossa si accendeva e si spegneva in continuazione. Mentre la porta esterna era aperta, era impossibile aprire l'altra porta. «Ci deve essere un motivo per tutto ciò,» dissi io a Rhalgorn. «Naturalmente c'è. Se un nemico cerca di salire a bordo, rimane intrappolato in quella minuscola stanzetta. E si può osservarlo attraverso quella finestra.» «Non so dire perché, ma non credo sia questa la ragione.» «Naturalmente.» Rhalgorn mi guardò con aria afflitta. «Suppongo che tu abbia una risposta migliore.» «Potrei. Prendiamo uno dei corpi e mettiamolo in questa stanza.» «A che scopo? Che cosa hai intenzione di dimostrare?» «Se lo sapessi,» gli dissi, «non avrei bisogno di farlo, non ti pare?» Mugugnando per tutta la strada, Rhalgorn mi aiutò a trascinare un cadavere fino al portello. Lo mettemmo lì dentro e chiudemmo la porta. Premetti il bottone giusto. In un attimo la luce rossa cominciò a lampeggiare in continuazione, e una cosa veramente sconcertante e spaventosa ebbe
luogo lì dentro. Il cadavere del mostro si sollevò dal pavimento e cominciò a fluttuare tutt'intorno. Ciocche di capelli ed altri orrori caddero dalla sua testa, insieme a milioni di globuli di sangue. Poi, all'improvviso, la porta esterna si spalancò e la sua enorme massa fu inghiottita dal vuoto. Guardai Rhalgorn. Era terreo sotto la pelliccia, e i suoi occhi rossi erano talmente spalancati da sembrare dei piattini. «Bene. Che ne pensi?» Rhalgorn si leccò il muso. «Ah, chiaramente c'è dell'aria lì fuori. Come immaginavo. Hai visto anche tu che il vento si è portato via la creatura.» «Io ho visto qualcosa. Non penso che fosse il vento. E neanche tu!» «E invece sì,» disse lui con tutta la convinzione di cui fu capace. «È evidente, come è evidente che esista la pioggia, Aldair.» Lui non credeva assolutamente a quanto aveva detto, ma si rifiutava di ammettere che aveva torto. Ciò non di meno quella fu l'ultima volta che discutemmo la questione dell'aria tra le stelle... Potrei riempire libri interi sulle cose strane e curiose che scoprimmo a bordo della navicella di ojt'Miyer. Alcuni misteri, come quello della doppia porta di Rhalgorn, li risolvemmo dopo ripetuti tentativi. Per la maggior parte, comunque, la nave si tenne ben stretti i suoi segreti. Cosa aveva dato la possibilità alla nave di spostarsi per il Mare delle Nebbie? Se non c'era aria nello spazio, come riusciva a galleggiare la nave? Perché non cadeva? E tutto ciò portava ovviamente ad un'altra domanda. Come faceva qualcosa a cadere da lì? Quando non c'è un su e un giù a cui fare riferimento o anche destra e sinistra - lo stesso concetto di caduta non ha più alcun senso. Tuttavia, quando si è in viaggio da un modo a un altro, fioriscono un numero incredibile di fantasie. Come avevo già fatto presente a Signar e a Te'dchak, io mi accontentavo per ora di imparare come quelle cose funzionavano, e lasciavo i perché a dopo. Con un grande sforzo di volontà, li lasciai al loro compito. Non volevo rimanere lì impalato ad aspettare la risposta, prima che loro avessero delle risposte da dare. Ma questa fu una cosa semplice per me. Ero dolorosamente consapevole del tempo che passava. Stavamo sprecando delle ore preziose, e non avremmo dovuto. E ci avvicinavamo spaventosamente ad un mondo a cui non volevo nemmeno pensare. Così, mi sentii immensamente sollevato quando un uomo dell'equipaggio mi trovò mentre mi aggiravo come un'anima in pena e mi disse che Si-
gnar voleva che lo raggiungessi. Erano passati ben due giorni da quando quei due avevano cominciato, ed era chiaro che non avevano sprecato tempo a dormire. Signar era stanco ed irascibile. Te'dchak aveva un aspetto peggiore del solito, il che la dice lunga sulla situazione in cui si trovavano quei due. «Abbiamo imparato molte cose,» ci disse quando fummo tutti raccolti nella stanza circolare. «Abbastanza, io penso, per fare un tentativo.» «Un buon tentativo è tutto quello che chiedo.» «Ci auguriamo di poter fare anche di meglio.» Mi rivolse un sorriso quasi affettuoso ma molto stanco. «Come hai detto tu, le creature che guidavano questa navicella non sono dotate di un'intelligenza brillante, Aldair. Semplicemente erano più pratiche, avevano più esperienza. Abbiamo cercato di risolvere il problema procedendo logicamente, e abbiamo avuto alcune buone intuizioni. Venite...» Ci fece segno di seguirlo fuori dalla stanza. «Andiamo giù, all'entrata, perché è lì che inizia tutta la storia.» Rhalgorn, Corysia. Thareesh ed io, li seguimmo obbedienti. A pochi passi di distanza c'era una piccola porta di metallo. All'interno c'era una stanza di cui mi ricordavo molto bene. I mostri mi ci avevano fatto passare quando mi avevano condotto da ojt'Miyer. Era quasi completamente buia, dal momento che era illuminata solo da uno strano raggio verde. Nel centro c'era un tavolo concavo, che sembrava essere di vetro, pieno di luci dai colori accecanti. «Non perderò tempo a spiegarvi come abbiamo appreso tutte queste cose,» disse Te'dchak. «Invece vi voglio mostrare ciò che ora sappiamo. Queste luci presentano un quadro dei mondi che si trovano nello spazio, dove la nave si sta dirigendo. Quella sottile linea rossa indica la rotta che sta seguendo la navicella. Lì,..», indicò un punto con un dito, «c'è il mondo che abbiamo lasciato per ultimo. La parte rosa della linea, davanti alla navicella, è il luogo dove stiamo andando.» Guardai più attentamente, poi mi rivolsi verso Te'dchak. «Per il Respiro del Creatore, se tu hai ragione, siamo quasi arrivati!» Signar annuì. «Sì, Aldair, hai ragione. Facendo i conti come meglio abbiamo potuto, cercando di stabilire quanto tempo è passato da quando siamo a bordo, poi studiando i segmenti di quella linea, abbiamo calcolato al massimo altri due giorni.» «Sì, al massimo,» sottolineò con cautela Te'dchak. «Davvero al massimo, Signar.»
Abbassò lo sguardo e premette qualcosa che non riuscii a vedere. Luci blu, legate insieme come fossero delle perle, brillarono all'improvviso più luminose di tutte le altre. La luce verso la quale noi ci stavamo dirigendo si trovava tra di loro. «Contale, e ti renderai conto che sono dieci,» disse Te'dchak. «Possiamo ragionevolmente pensare che quelli sono i Dieci Mondi delle creature.» «Una giusta osservazione,» dissi io. «E gli altri?» Te'dchak si strinse nelle spalle. «Posso solo avanzare un'ipotesi. Mondi che le creature hanno visitato. Mondi dai quali prelevano schiavi.» Mi misi ad osservare le luci. Oltre ai Dieci Mondi c'erano più o meno un'altra dozzina di luci. Mentre stavo lì a guardare, un'idea prese a poco a poco forma nella mia mente. I mondi non erano piazzati lì disordinatamente. Al contrario, rappresentavano i punti degli invisibili raggi di una ruota, e tutti insieme facevano cerchio intorno ad una luce dorata che si trovava nel centro ed era più luminosa di tutte le altre. Feci partecipi gli altri di questa mia osservazione. Te'dchak scoppiò in una sonora risata. «Ah, bene, te ne sei accorto, ora! Tutti i mondi che le creature visitano fanno parte di una stessa famiglia. Ognuno di loro ha un sole in comune.» Per un attimo mi parve di intravedere una speranza, ma poi subito svanì. Era ovvio che il mio mondo non era nessuno di quelli. Eravamo ben più lontani da casa! Se così non fosse stato, i mostri ci avrebbero trovato già da tempo. Te'dchak indovinò i miei pensieri. «Non è lì, amico mio. Il mio sì, senza dubbio. Ma non riesco ad immaginare quale possa essere.» Ci portò fuori da quella stanza buia e ci riunimmo di nuovo nel posto dà cui eravamo partiti. Durante il tragitto, mi venne in mente una cosa e mi fermai. Aprii una porta e sbirciai dentro. Quella era la stanza che scintillava come il cuore di un gioiello. Era come se lì dentro venisse cantata una canzone che io non potevo udire, e come se qualcosa danzasse con le scintille di luce. «Io... io non ho idea di cosa succeda lì dentro,» disse Te'dchak velocemente. Poi mi guardò e incrociò il mio sguardo. «Va bene,» sospirò, «tu leggi al di là delle mie parole, vero Aldair?» «Che cosa vedi lì dentro, Te'dchak? Tu vedi qualcosa, io lo so.» Gli altri in quel momento erano lontani e non potevano sentirci.
«Io non so dire come lo so, ma lo so,» mi disse. «Quella cosa pensa, Aldair. Pensa per la navicella. E sono certo che questo i mostri non lo sapessero.» Lo guardai perplesso. «Pensa? Vuoi dire, come una persona?Come può essere?» «Come può essere tutto ciò? Eppure esiste, è tutto reale: giusto?» «Ora,» disse Te'dchak, quando fummo di nuovo tutti riuniti nella grande sala circolare, «a questo punto arriviamo sia ad una risposta che a una domanda.» Si diresse verso la lunga parete e indicò un punto. «Vedete quel punto sotto le quattro luci blu? Lì c'è una fessura nel pannello, e in quella fessura c'è una di queste.» Si spostò e tirò fuori da un vassoio una luccicante barra di metallo. Assomigliava in effetti in tutto e per tutto a quella che si trovava nella fessura. «Io e Signar abbiamo avanzato un'ipotesi,» ci spiegò. «E credo che non sia tanto malvagia, in verità. Ci sono ventisette luci sul tavolo nell'altra stanza...» «... Ventisette mondi,» disse Thareesh. «Esattamente. E ci sono ventisette barrette di metallo come questa. Secondo me è più che una semplice coincidenza.» «Per tutte le divinità,» urlai io, «è certamente più di una coincidenza!» Saltai su dalla mia sedia e mi diressi verso il pannello. «Metti la barretta giusta in una fessura, e la navicella ti porterà dritto in quel mondo. È questo ciò che stavi per dire?» «Sì,» rispose Te'dchak. «Solo che c'è una cosa da aggiungere, temo.» Lanciò un'occhiata a Signar. «Vi avevo detto che ci sarebbe stata una risposta e una domanda. Ci sono dei segnetti su ognuna di queste barrette, Aldair. Senza dubbio rappresentano i nomi di ognuno dei ventisette mondi. La domanda è: quale corrisponde a quale? Non è neanche il caso di pensare che potremmo riuscire in breve tempo a decifrare quella scrittura. Così possiamo cambiare rotta e andare dove ci pare. .. ma non sapremo dove ci stiamo dirigendo fino a che non ci arriveremo!» «E se sbagliamo la prima volta, conclusi io per lui, «non ci sarà la possibilità di un secondo tentativo...» VENTI
Per un lungo momento, una cappa di disperazione quasi visibile ci immobilizzò tutti. Potevo sentire il bisbiglio dell'aria attraverso la feritoia che si apriva sulla mia testa e il sordo ronzio dei motori sotto di noi. Nella mia immaginazione il ritmo di quei vecchi motori sembrava accelerarsi ogni momento di più, spingendoci sempre più vicino ad ojt'Miyer. Guardai Corysia, Thareesh, Rhalgorn. «Ci proveremo, naturalmente,» disse Signar. «Non ci diamo ancora per sconfitti, Aldair.» «No,» intervenne Te'dchak, «è chiaro che no! Abbiamo imparato moltissime cose...» La sua voce si affievolì. Si girò e si mise ad osservare le luci che continuavano a lampeggiare. Prima ancora che i suoi occhi si fossero allontanati dai miei, capii cosa c'era lì. Mi alzai e lo raggiunsi. «Naturale che non siamo stati ancora vinti. Come hai detto tu, abbiamo imparato tantissimo in molto poco tempo. Troveremo la risposta. Io sono molto fiducioso.» Sollevai un cubetto di metallo dal vassoio che stava a fianco di Te'dchak, lo osservai attentamente, lo posai, ne presi un altro. I segni erano leggermente diversi su ognuno. E per me non volevano dire assolutamente nulla. «Possiamo almeno cambiare direzione,» dissi io. «Questo ci farà guadagnare comunque del tempo. Non saremo costretti ad atterrare, o mi sbaglio? Quando saremo arrivati vicino alla nostra destinazione...» Te'dchak mi interruppe. «Potremmo. Ma non ci sarebbe di grande aiuto. Potrebbe anche ucciderci più in fretta.» Si lasciò cadere in una sedia accanto a Signar. «Tu dimentichi da quanto tempo io mi trovo a bordo di queste dannate navicelle, Aldair. La navicella non può navigare nello spazio a tempo indeterminato. Hanno bisogno di fermarsi di tanto in tanto. Per dei motivi che non hanno nulla a che fare con gli schiavi o con le merci. Ho idea che si tratti del materiale che è in grado di far muovere i motori. Queste navicelle non sono come le uova dorate che tu mi hai descritto: loro si spostano solo tra i mondi che circondano un unico sole. Non vanno in giro tra le stelle.» «Non mi farà meraviglia che ojt'Miyer volesse mettere le mani sulle sfere,» disse Thareesh. «Gli avrebbero conferito un potere terribile ed infinito!» «Se però fosse stato in grado di capire il modo in cui funzionano,» disse
Signar. «Se le trova,» dissi io con ansia, «capirà come si usano. Puoi scommetterci. Questo non deve accadere. In un modo o nell'altro, noi dobbiamo evitarlo!» «Un'idea davvero nobile,» disse Rhalgorn secco. «Anch'io penso che dovremmo farlo, Aldair. Non appena avremo risolto questo insignificante problemuccio.» Feci un balzo in avanti pronto a sfogare tutta la mia rabbia sullo Stygiano. Poi colsi il primo ghigno ironico sulla sua faccia e capii. «Hai ragione,» gli dissi. «Dovremmo cercare di risolvere una volta per tutte l'insignificante problema di sopravvivere per un giorno o due. È effettivamente una cosa che si deve risolvere prima delle altre.» Rhalgorn rise imitato poi da tutti gli altri. «Cambia la nostra rotta,» dissi a Signar. «Ci darà un po' di tempo, e non vedo proprio come potrebbe procurarci più guai di quelli che non abbiamo già ora.» «A meno che non succeda qualcosa alla navicella,» disse Te'dchak, «e noi non ci ritroviamo catapultati fuori di qui nelle tenebre.» Lo guardai. «E sarebbe forse peggio che finire nelle mani di ojt'Miyer?» Te'dchak a sua volta mi guardò, ma non disse niente. «Stavi sognando,» disse Corysia. «Hai lanciato un urlo, ma non sono riuscita a capire quello che dicevi. Era un brutto sogno?» Mi tirai su per toccarla. «Non particolarmente piacevole.» «Mi dispiace, Aldair. Raccontamelo. Se riesci a ricordarlo ti farà bene. Questo è un ottimo rimedio per i brutti sogni.» «Soprattutto il tenerti vicina è un ottimo rimedio per molte cose. Comunque, di qualcosa mi ricordo, ma solo molto vagamente.» «Lei mi si fece più vicina e mi sussurrò dolcemente all'orecchio: «Solo vagamente, vero?» «Temo proprio di sì.» «Forse posso rinfrescarti la memoria.» «È del tutto... del tutto possibile.» «Se mi ricordo bene, è altamente probabile che io ne sia in grado.» «Lo pensi davvero?» «Sì, io oh...! Tesoro, stai di nuovo sognando, non è vero?»
«Vagamente.» «Oh, no, Aldair. Vagamente per nulla...» La volta successiva si trattò di un sogno all'interno di un altro sogno. Io ero me stesso, ma me stesso come riflesso in uno specchio. Mi ricordo molto chiaramente di quella notte. Combattevamo per salvare le nostre vite su quello stretto ponte di legno nel cuore di Rhemia. Io ero caduto a terra, c'era del sangue nei miei occhi, una dozzina di spade mi stavano puntate alla gola. Poi, l'insulsa e scintillante immagine di me stesso mi apparve davanti... vaghe e nebulose fonti di luce mi circondavano, come lucciole in una sera d'estate. I miei nemici urlarono e si ritrassero. Io mi rimisi in piedi, anche se con una certa difficoltà, afferrai la mia lama e mi misi alla ricerca di Corysia. Quando guardai di nuovo, lo spettro di me stesso era sparito... Non era quella la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con il fantasma di me stesso. Era accaduto già un'altra volta prima: a largo della costa di Kenyarsha. L'immagine oscillò e si dissolse come fumo sospinto dal vento. Mi trovavo di nuovo sul ponte dell'Ahzir al'Rhaz, alla foce del fiume Amazzone... Il sole accecante batteva impietoso su di noi. Combattevamo come furie contro la cosa del mare che minacciava di trascinarci giù nelle profondità marine. Vidi Rhalgorn, Thareesh, Signar. E vidi di nuovo l'abbagliante pallone d'argento che all'improvviso si metteva a lampeggiare nei cieli. Rimasi a guardare, come ero rimasto a guardare quel giorno, quando un pallido raggio di colore blu chiaro si era sprigionato da quell'apparizione e aveva bruciato la cosa del mare riducendola in gelatina... Guardavo, e mi ricordai della paura e dello stupore che mi attanagliavano il cuore quando aveva visto esattamente la stessa figura del mio vascello impressa su quella specie di pallone... L'Ahzir al'Rhaz, a vele spiegate che correva veloce sulle onde... Ma perché ora stavo rifacendo quel sogno? E, cosa ancora più strana, perché non ero quell'Aldair, ma un altro? Perché nei miei sogni io ero lo spettro di me stesso, il fantasma che dovevo fronteggiare una seconda volta. Ed io ero la creatura che guardava giù da quella feroce navicella le minuscole imbarcazioni che si trovavano sotto... Non sarei riuscito a riaddormentarmi, ne ero sicuro. Mi staccai da Corysia il più silenziosamente possibile e mi avviai per le sale della navicella. Forse anche Rhalgorn era sveglio e si stava aggirando da qualche parte.
Gli Stygiani dormono molto poco; è tipico della loro natura andare in giro alle ore più inverosimili. Ma, comunque, ciò non si verificò quella notte. Il ponte era vuoto. Solo il brillio delle luci sulla scintillante parete di metallo dava qualche segno di vita. Mi allontanai e mi diressi verso la stanza dove era custodito il modello dei mondi su quel tavolo di vetro. La piccola linea rossa che rappresentava la nostra navicella si muoveva lentamente seguendo la sua rotta. Chi poteva dire se verso il meglio o verso il peggio? Alla fine, entrai in quella particolarissima stanza che sembrava il cuore di un diamante. Rimasi immobile al centro di quell'incredibile luminescenza, rapito dalle luci che danzavano sulle sue infinite facce. Ascoltai la dolce cantilena della sua canzone. C'era una sola sedia in un angolo, fissata al pavimento e incurvata in modo da accogliere una figura più sottile e slanciata della mia. Caldus ci sarebbe stato comodissimo, o qualsiasi altro Uomo. Non era una sedia ideata per le bestie. E, forse, fu proprio quello il motivo per il quale ero fermamente deciso che ora ne avrebbe accolta una. Mi sedetti. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi... «Fase Operativa. Pronto a ricevere...» Saltai su, allibito. I peli drizzati dietro la nuca. «Che cosa... chi è là? Chi è stato a parlare?» Mi guardai intorno, perlustrai tutta la stanza. «Pronto a ricevere...» Mi aggrappai ai braccioli della sedia. «Chi... chi sei? Rispondimi!» «CONVAC CENTO,» disse la voce. «Pronto a ricevere...» Era una voce fredda e razionale. La voce di una femmina delle cose dell'Uomo. Veniva dal nulla, contemporaneamente da tutti i lati. La stanza, se possibile, brillava ancora più luminosa. Le sfaccettature dei gioiello erano come esseri vivi che rilucevano di luce propria. «Puoi rispondere a delle domande?», le chiesi esitante. «Fase Operativa. Pronto a ricevere...» Il cuore mi saltò in gola. Per la Vista del Creatore! Te'dchak aveva ragione: quella cosa pensava! Era una macchina, ma sapeva parlare!» «Ho delle domande da farti,» dissi. «Chiedi. La tua autorizzazione, prego.»
La gola mi si seccò. «Che tipo di autorizzazione preferisci?» «Il codice di autorizzazione del Capitano, prego. Non ho il permesso di rispondere a domande di altri Ufficiali che non siano il Capitano. A meno che non ci sia il codice giusto». «Io sono il Capitano, ora,» le dissi spavaldo. La voce fece una breve pausa. «Negativo. Ivan Petersonn è registrato come Capitano...» «Quando è stata l'ultima volta che hai parlato con il Capitano Petersonn?» «Questa è una domanda. Tu non hai l'autorizzazione per fare delle domande...» Perfetto, pensai io oltremodo irritato. Siamo di nuovo al punto di partenza. «Non definiamola una domanda,» suggerii io. «Direi che si tratta piuttosto di un chiarimento, non trovi? Che mi permetterebbe di ottenere l'autorizzazione di cui hai bisogno.» «Accettato», la voce rispose immediatamente. «Il Capitano Petersonn ha comunicato con me cinquemilatrecentododici anni standard fa. Più due mesi e...» «Questo... questo può bastare,» dissi. Divinità Potenti! Pensai con incredibile meraviglia al fatto che quella cosa se ne stava seduta lì da tutto quel tempo. In attesa... Aveva la voce parlato con i mostri? ojt'Miyer sapeva che era lì, e sapeva come usarla? «Ho un altro chiarimento,» dissi. «Il Capitano Petersonn non è più il Comandante. Tu devi esserne a conoscenza. Sei consapevole della durata della vita di un Uomo?» «Sì, lo sono. Il Capitano Petersonn non è più vivo. È morto...» Eccoci al punto, pensai. «Hai riconosciuto qualche altra autorizzazione da allora?» «No.» «Perché no?» «Nessun essere dotato di senso, sia qualificato che privo dei requisiti necessari, mi ha chiesto l'autorizzazione.» «Tirai un sospiro di sollievo. «Io... sono qualificato?» «Sì.» «Spiegami perché, per favore. Sai chi sono?»
«Io so che tu non sei un Uomo. Ma l'essere qualificati non dipende dall'aspetto esterno, ma dai modelli di pensiero. Ci sono parametri di accettabilità molto severi. Tu rientri in questi parametri.» «Bene,» dissi. «Ora ho bisogno di un altro chiarimento. Per un certo numero di anni questa navicella è stata nelle mani di esseri non autorizzati. Come tu stessa hai accennato, non erano neanche consapevoli della tua presenza. Io ho cacciato quegli esseri e ho preso il comando. Se mi dichiaro Capitano di questa navicella, sono, secondo il tuo punto di vista, investito di pieni poteri. Intuisco che tu sei una... persona dotata di notevole logica. Se è così come credo, ti rendi conto che una navicella deve avere un Capitano qualificato.» Il grande gioiello fece una pausa. Mi resi conto che il lampeggiare delle sue innumerevoli luci aveva un ritmo sempre più selvaggio. Quella specie di canzone che mi pareva di udire raggiunse dei toni sempre più alti, poi tutto tornò normale. «Accettato,» disse alla fine. «Posso sapere qual è il tuo nome per registrarlo, Capitano? Prego, fammi tutte le domande che desideri...» VENTUNO Avrei potuto urlare di gioia in quel momento, e forse persino danzare per tutta la stanza. E senz'altro l'avrei fatto se non avessi temuto di sconvolgere la mia nuova amica. È vero che avevo l'impressione che quelle macchine non si stupissero tanto facilmente, ma la voce che mi aveva parlato era vera come quella di una persona, e non riuscivo a pensare a lei in un modo diverso. «Puoi chiamarmi Aldair,» dissi, «e sono molto felice di averti conosciuto. A proposito, ed io come posso chiamarti? Spero che non ti sia offesa per quello che ho detto. CONVAC CENTO è un po' troppo formale.» «Il Capitano Petersonn mi chiamava Connie,» mi disse, «tu puoi fare lo stesso se ti piace.» «Benissimo, allora vada per Connie. Ora, se non ti dispiace, vorrei farti una domanda. Io non ho dimestichezza con i codici di destinazione di questa navicella. I cubi di metallo che indicano la direzione della nave. Per noi sono pericolosi molti di quei mondi: specialmente i dieci che sono segnati dalle luci blu nella stanza che si trova accanto a questa.» «La tavola delle rivelazioni, Capitano...» «Sì, credo che si tratti di quella. Se puoi aiutarmi, avrei bisogno di sape-
re su quale mondo potremmo dirigerci per ora, Connie. Uno in cui i mostri - gli esseri privi di autorizzazione di cui abbiam parlato prima - non siano in grado di trovarci con facilità.» Connie fece una breve pausa, intonando una breve musichetta all'interno delle sue pareti. «Posso rispondere a questa domanda solo in modo negativo», disse alla fine. «Logicamente, dal momento che questa nave toccherà prima o poi tutti i ventisette mondi di questo sistema, non c'è nessun luogo dove riuscireste a non essere scovati. Ad ogni modo, tu hai adoperato la parola 'facilmente'. Qui c'è una lista dei ventisette mondi con i loro codici di destinazione, le coordinate e il tempo che occorre per arrivarci dalla nostra attuale posizione. Vengono indicati anche i nomi comuni con cui sono conosciuti questi mondi.» Una piccola sfaccettatura proprio sopra di me divenne all'improvviso opaca. Delle parole segnate in bianco apparvero in rapida successione su quella superficie, una fila dopo l'altra. «Avrai notato,» continuò Connie, «che nella mia lista i mondi sono elencati in ordine discendente, il che si riferisce al loro isolamento, e alla frequenza delle visite che queste o altre navicelle vi hanno fatto.» Io mi sporsi in avanti per studiare meglio la carta. «Connie, vedo che hai sottolineato con una linea i primi quattro mondi, e poi l'ottavo... e ah, il quindicesimo e il ventiduesimo.» «Giusto, Capitano. Quei mondi non possono essere raggiunti da questo punto senza una sosta per lavori di manutenzione ed altre riparazioni necessarie. Tenendo presente la tua posizione di preminenza e di responsabilità, non credo che troveresti prudente agire in quel modo. Devo farti notare che la navicella si trova in uno stato deplorevole, Capitano Aldair. La mia proiezione di sicurezza operativa è zero-zero-zero-punto otto-settezero.» «Vorresti dirmelo in una lingua normale?» «In una lingua normale,» disse in modo confuso Connie, «se non fai qualcosa il più presto possibile, Capitano, perderemo i pezzi ad uno ad uno.» «La nave è durata per un periodo di tempo molto lungo,» le feci notare io. «Ma senza nessun merito da parte delle creature che ne sono state responsabili,» disse lei. «Per esempio. Le principali connessioni di guida...» «Connie. Mi piacerebbe rendermi utile, ma temo che al momento non
sia possibile fare niente.» Mi misi di nuovo a studiare la carta. «Quella ci porta al numero cinque, vero? Codice di guida Epsilon Omega. Coordinate... qualsiasi. Tre giorni di viaggio da qui. Connie, potresti...» «Aldair, con chi diamine stai parlando?» Sobbalzai e feci girare la mia sedia. Corysia e Te'dchak stavano fermi all'entrata e mi guardavano come se avessi perso il lume della ragione. Quando vidi l'espressione che era dipinta sui loro volti, scoppiai in una sonora risata. «Stavo solo passando un po' di tempo con Connie,» dissi senza dilungarmi in spiegazioni. «Mi ha detto un mucchio di cose interessanti.» Corysia sollevò un sopracciglio. Era più che perplessa. «Faresti molto meglio a non passare il tempo con qualcuno che si chiama Connie,» mi avvertì. Io ghignai e alzai lo sguardo verso le pareti scintillanti. «Connie, per favore, vuoi salutare Corysia e Te'dchak?» «Ciao, Corysia e Te'dchak,» disse lei obbediente. Corysia sbarrò gli occhi. Te'dchak rimase allibito, poi sorrise con aria di chi aveva capito. «Avevo ragione,» disse comunque con tono sorpreso, «quella cosa pensa!» «Non quella cosa,» lo corresse Connie, ed io colsi una nota di disappunto nella sua voce. «Lei, se non ti dispiace.» «Na... naturalmente.» I luminosi occhi di Te'dchak si scurirono un po'. «Ti chiedo scusa.» «Venite qui, tutti e due;» dissi, invitandoli a raggiungermi in fretta. «Guardate: Connie ha risolto per noi il nostro problema.» Indicai loro la lista luminosa. «Quel punto, il quinto, è il posto dove dobbiamo fare rotta. È chiamato...» «...Fe'niel!» Te'dchak completò la frase per me con una specie di urlo.«Per tutti gli Dei... Fe'niel!» Lo guardai. Tremava in tutto il corpo. Folte ciocche di capelli gli erano ricadute sul suo volto chiazzato. «Che c'è Te'dchak? Conosci quel mondo?» Lui si girò a guardarmi e vidi che grosse lacrime gli cadevano dagli occhi. «Conoscerlo? Certo che lo conosco, Aldair. È il mio mondo, che non ho rivisto da più di vent'anni!»
Sia io che i miei compagni ci sentimmo molto confortati dal sapere che era quella la nostra nuova destinazione, anche se Connie mi mise in guardia dicendomi che avrei anche potuto avere delle brutte sorprese lì, e persino essere catturato di nuovo. Secondo lei, Fe'niel era sicuro solo in relazione alle altre nostre possibilità. Non potevo sperare di nascondermi a lungo in quel posto, mi avvertì. Infatti i mostri conoscevano quel mondo, e tra l'altro la presenza di Te'dchak come prigioniero ne era una prova più che evidente. «Tuttavia loro non arrivano spesso lì,» mi disse lui. «Come tu già sai, abbiamo il particolarissimo dono di renderci pressoché invisibili, e siamo praticamente inservibili come schiavi.» Così, nonostante gli avvertimenti di Connie, noi eravamo ansiosi di arrivare lì e, quando quel grande cerchio verde-blu finalmente troneggiò sulle nostre teste, persino Caldus e Becky-Sue Elainesdotter salirono sul ponte a vederlo. Fe'niel era davvero uno spettacolo affascinante e meraviglioso da vedere mentre tuonavamo attraverso il suo polo nord, e poi urlavamo attraverso pesanti cumuli di nuvole giù fino al suolo di colore verde. Il cielo era di nuovo di un piacevole e familiare colore blu: davvero una gradita sorpresa, dopo lo squallido mondo di Caldus. La grande navicella rimase sospesa sul terreno, tremò, scricchiolò e infine si fermò. Il metallo vecchio e malridotto emise gemiti e lamenti e, tutt'a un tratto, ci rendemmo conto di un nuovo rumore che non ci era per niente familiare. Ci volle un lungo momento affinché io realizzassi di cosa si trattava. Silenzio. L'assenza di rumore e del ronzio dei motori che era una presenza costante sulla navicella. Signar si mise alla guida di una squadra per perlustrare i dintorni. Fece ritorno in meno di un'ora. «Non si vede in giro nessuno,» riportò, «ma loro sono stati qui. Ci sono tracce della loro robaccia dappertutto, e questo sarebbe il posto che sceglierebbero per atterrare se dovessero ritornare.» «Ce lo aspettavamo,» dissi io. «Non possiamo farci niente.» Signar roteò all'indietro gli occhi dalla meraviglia. «Aspetta a dire cosa ti aspettavi, Aldair. Questo è un mondo davvero mirabile, te lo assicuro!» Lo era e come. Stavo ritto sul ponte esterno della navicella con gli occhi sbarrati, e così tutti gli altri membri dell'equipaggio; Per la prima volta nella mia vita, provai la stessa sensazione che deve provare una formica
quando se ne sta tra l'erba. Tutt'intorno a noi, al di là della radura dove eravamo atterrati, c'erano alberi: alberi come non mi ero mai immaginato potessero esistere. I loro rami si allungavano come a voler raggiungere le nuvole, e i loro tronchi giganteschi erano larghi duecento metri o forse più... «Aldair!» Corysia mi strinse forte il braccio e si girò a guardarmi. «È questo,» gridò esterrefatta. «Qui, su questo mondo! È questo il posto dove siamo stati presi Barthius ed io!» Rimasi con lo sguardo fisso su di lei. «Ne sei sicura?» «Certo che ne sono sicura,» disse lei con impazienza. «Potrei mai dimenticare o confondere un posto come questo?» Effettivamente no. Quando riferii a Te'dchak questo fatto, lui guardò Corysia per un lungo momento, poi distolse lo sguardo e si mise a fissare il terreno con aria accigliata. «Ci deve essere qualche altra cosa. Anche se non so dire di che si tratta. Noi ci siamo conosciuti sulla navicella, e non è stato un caso. Di questo sono assolutamente certo. Corysia è già stata qui. Connie ci ha fatto tornare indietro...» «Puoi aver ragione,» dissi. «Ci sono parecchie coincidenze e non di poco conto, Te'dchak.» «No,» disse lui con lentezza, «non sono per niente insignificanti, proprio per niente, Aldair.» Ancora una volta fui sconvolto dalla malvagità delle cose dell'Uomo. Mi sarei dovuto aspettare ciò che avevano ideato, ma quelle creature erano una continua sorpresa. Messi davanti ad un'altra possibilità di riacquistare la loro libertà, più dei tre quarti di quegli stupidi esseri scelsero di starsene rintanati nel ventre della navicella tra i loro stessi escrementi. Gli altri, individui audaci e avventurosi, misero il naso fuori del ponte, e poi se ne scapparono terrorizzati tra gli alberi, disperdendosi in tutte le direzioni possibili e facendo del loro meglio per allontanarsi il più possibile da noi. Con mia grande sorpresa, Caldus e Becky-Sue mostrarono un po' più di buon senso. Perché, non saprei dirlo. Te'dchak sembrava conoscere a perfezione il luogo dove ci stavamo dirigendo, perché ci conduceva abile e veloce per le foreste, sempre più lontano dal punto in cui si trovava la navicella. Per quanto mi riguardava, io trovavo quello spostamento oltremodo prudente. Per il momento non mi
stavo occupando di dove eravamo diretti o di che cosa avremmo fatto una volta giunti a destinazione. I piani a lunga scadenza potevano attendere. Ciò di cui avevamo bisogno era solo un posto dove nasconderci e rifocillarci. Certo, quando avevo appreso che la sfera dorata di Corysia l'aveva portata su Fe'niel, avevo cominciato a sperare che Te'dchak avesse ragione: che in realtà ci fosse una ragione ben più profonda di quella che ci potevamo immaginare come giustificazione della nostra presenza lì. Quello non era un mondo dell'Uomo. E, a sentire Te'dchak, non lo era mai stato. Tuttavia, in tempi remotissimi, i sopravvissuti della Fortezza dell'Amazzone dalla Terra erano approdati fino a quel mondo. Il che voleva dire che potevano esserci delle sfere su Fe'niel. La razza di Te'dchak non ne conosceva l'esistenza, ma ciò non provava in nessun modo che in realtà non ci fossero. Continuavo a ripetermi questo concetto, sperando con tutto il cuore che potesse essere vero. Le foreste di Fe'niel non erano il luogo più adatto al crepuscolo, perché solo pochi, pallidi raggi dorati, riuscivano a farsi strada attraverso il fittissimo fogliame. Così la notte calava all'improvviso e senza che niente la lasciasse presagire e, in pochi attimi, gli enormi tronchi degli alberi cominciarono a spandere le loro ombre tutt'intorno a noi. Te'dchak non fu per nulla preoccupato dal calare delle tenebre. Fe'niel era il suo mondo, e i suoi grandi occhi luminosi sembravano fatti apposta per adattarsi all'oscurità senza alcun problema. Anche Rhalgorn si sentiva perfettamente a suo agio. Le foreste sono un porto sicuro per i Signori dei Lauvectii, e lui si deliziava incredibilmente dello spettacolo che lo circondava. «Sono certo che tra la tua gente e gli Stygiani ci siano dei legami molto stretti,» fece sapere a Te'dchak. «Se così non fosse, il Creatore non vi avrebbe assegnato una foresta così splendida per viverci.» Te'dchak non aveva alcuna risposta da dargli, ma annuì educatamente. In verità, non credevo proprio che ci fossero probabilità che lui fosse una sorta di cugino di Rhalgorn. Poco prima che la notte scendesse su di noi, Te'dchak si era fermato, era rimasto perfettamente immobile per un attimo, poi si era lanciato precipitosamente verso un albero che si trovava a poca distanza da lui. Lì si fermò di nuovo e ci fece segno di raggiungerlo. Non riuscivo a capire dove, finché non lo vidi scivolare agilmente nell'incavo di un'enorme radice che tor-
reggiava su di noi e subito dopo scomparire. Lanciai uno sguardo alle mie spalle ed ebbi conferma del fatto che stava facendo buio, quindi mi decisi a seguirlo seguito a ruota da tutti i miei compagni. Te'dchak sorrideva alla luce ondeggiante di una torcia. «Questa è una delle città della mia gente,» disse. «Una vecchia città che è stata abbandonata. Penso che servirà benissimo al nostro scopo.» Mi guardai intorno. Ci trovavamo in un'ampia stanza di legno, che era una delle pareti dell'albero. Le pareti erano lisce come le pietre di un fiume, ed erano incise con delle figure geometriche. Un passaggio, a volta abbellito da sculture, conduceva sulla destra, e Te'dchak ci guidò in quella direzione, facendoci scendere per delle ripide scale di legno. Corysia si guardava intorno con aria stupitissima. «Aldair, è tutto di una bellezza indescrivibile,» disse sottovoce. «Questo è proprio il posto dove avevo immaginato che Te'dchak potesse vivere.» «Si è davvero splendido,» fui d'accordo io. «Una vista davvero mirabile.» «Le persone che vivono nelle foreste, non so perché, ma hanno un gusto più delicato di quelle che non ci vivono,» disse Rhalgorn. «Sì,» dissi io. «Penso che sia normale che tu la veda così. Eppure dovresti ricordare che, mentre gli Stygiani vivono effettivamente nelle foreste, non ci costruiscono delle città. E per questa ragione, loro non costruiscono niente altro.» Rhalgorn sembrò dispiaciuto. «Avremmo potuto farlo,» disse con tono indignato, «se solo avessimo voluto, Aldair. Ma non era nostra intenzione. Ad ogni modo, gli alberi qui sono alquanto più grandi di quelli delle foreste dei Lauvectii.» «Oh, davvero? Non ci avevo fatto caso.» «E inoltre,» aggiunse lui, «mentre la gente di Te'dchak, pur essendo chiaramente imparentata con gli Stygiani, non è per niente attrezzata per combattere e ha bisogno di buoni nascondigli per difendersi, gli Stygiani, naturalmente, non ne hanno bisogno.» «Giusto. Ci sono invece popoli che vivono dalle loro parti che hanno bisogno di nascondersi quando gli Stygiani imperversano con le loro scorrerie. I Venicii, i Coronalli, i Tybionii...» Rhalgorn si strinse nelle spalle. «Tutti dobbiamo fare qualcosa, Aldair.» «Comunque, hai ragione. Se la gente di Fe'niel ha bisogno di un posto
dove nascondersi, certo bisogna dire che hanno scelto bene. Non riesco ad immaginare un rifugio più sicuro per difendersi dai mostri, o...» A quel punto gli Dei, come ogni tanto sono propensi a fare, decisero di ridermi in faccia. Avevo appena finito di pronunciare quelle parole, quando un terribile tuono fece tremare le pareti tutt'intorno a noi. Afferrai Corysia e la tenni stretta a me. Arrivò un altro tuono. E poi ancora un altro. Era come se qualcuno o qualcosa lì fuori ci stesse cercando per vendicarsi di noi... VENTIDUE Te'dchak urlò e fece dei gesti concitati nella mia direzione. Le sue parole si persero a causa del fragore di un altro tuono che fece tremare la terra proprio sopra di noi. Presi sulle spalle Corysia e mi affannai a seguirlo. Da qualche parte, Signar lanciò un secco comando accompagnato da una lunga sfilza di bestemmie Vikoniane. Te'dchak si portò rapidamente fuori dal sentiero che avevamo percorso e si lanciò giù per una stradina scoscesa e molto più stretta, praticamente una specie di tunnel scavato nelle radici che ci portò nelle viscere della terra, ben lontani dall'albero stesso. Continuammo a seguirlo seguendo l'incerta luce della sua torcia. Dopo numerose curve, persi completamente il senso dell'orientamento. Potevo ancora sentire il rombo delle esplosioni, ma era ormai lontano, un tremore distante in un punto non ben precisato della terra. Quando alla fine Te'dchak si fermò, mi affiancai immediatamente a lui. «Li abbiamo seminati. Almeno per ora. Per tutti i diavoli come diamine hanno fatto a trovarci qui? Scopriranno l'entrata e seguiranno le nostre tracce...» «Non lo faranno.» Te'dchak scosse la testa e rimase in ascolto. «Non credo che scenderanno qui giù. Aldair. Se ho ragione, non dovrebbero farlo. Loro hanno delle macchine che sentono l'odore di esseri viventi, o seguono le tracce nei punti dove almeno sono passati.» «Ha ragione,» si intromise Becky-Sue. «Ve lo posso confermare. Le hanno usate anche con noi.» «Allora non funzionano tanto bene,» disse Thareesh speranzoso. «Altrimenti non sareste sopravvissuti così a lungo.» Becky-Sue si strinse nelle spalle. «Le tengono appese al braccio e quegli strumenti emettono dei segnali
luminosi quando individuano qualsiasi essere vivente. Ma non penso che riescano davvero a distinguere un uccello da un pesce, per esempio.» Mi misi di nuovo in ascolto ma non sentivo niente. «Penso che tutta la terra che è sopra di noi, ci aiuterà in qualche modo. Non riusciranno ad arrivare tanto vicini a noi. Te'dchak, dove porta questo tunnel? Se riesci a portarci abbastanza lontano, possiamo far perdere loro le nostre tracce. Non rimarranno qui sotto all'infinito.» Te'dchak mi guardò. Io non pensavo veramente ciò che avevo detto, e neanche lui. ojt'Miyer non si sarebbe arresto tanto facilmente. Mi chiesi come fosse riuscito a rintracciarci su Fe'niel. Forse erano in grado di seguire la scia delle navicelle. O forse aveva chiamato in suo aiuto delle altre unità per trovarci. Una volta gli Uomini avevano conosciuto un modo per mettersi in contatto anche da grandi distanze. Con ogni probabilità anche ojt'Miyer era in grado di fare la stessa cosa. C'erano ancora moltissime cose di cui noi non eravamo a conoscenza, e la nostra ignoranza poteva esserci fatale. «Per rispondere alla tua domanda,» disse Te'dchak, «ti dirò che il tunnel può portarci dovunque ci faccia comodo. Le città sono tutte collegate tra loro, in un modo o nell'altro. Quelle più grandi sono scavate proprio alle basi degli alberi, ma nel mezzo ci sono anche dei piccoli villaggi. La strada che stiamo percorrendo ora, Aldair, può condurci in qualsiasi città del mio mondo.» «Aspetta un momento,» lo interruppi. «Tu non devi portarci dalla tua gente. Loro non possono esserci di grande aiuto, e sarebbe del tutto inutile metterli in pericolo.» Negli occhi di Te'dchak si riflessero i bagliori della torcia. «Io non sono sicuro che noi dobbiamo preoccuparci per la mia gente,» disse solennemente. «Non ho detto niente su quest'argomento finora Aldair, ma, come tu sai, io sono capace di fare alcune cose. Posso avvertire la presenza di quelli della mia razza anche da molto, molto lontano, e non ho sentito assolutamente nulla da quando siamo atterrati su Fe'niel.» Sostenne il mio sguardo per un lungo minuto. «Non siamo mai stati molti. Ora, non sono per niente sicuro che sia rimasto qualcuno. Sento dentro di me un vuoto incredibile. Una sensazione che non avevo mai provato prima, e nel mio stesso mondo.» Di nuovo, come era già accaduto a bordo della navicella dei mostri, il tempo cominciò a non avere alcun senso. Intuii che già metà della notte
doveva essere trascorsa quando Te'dchak intimò l'alt. Non avevamo udito nessuna esplosione per un certo periodo di tempo, e questo aveva notevolmente confortato l'equipaggio. Mi sarebbe piaciuto condividere quel sentimento, ma non fu così. ojt'Miyer non si sarebbe dato per vinto tanto in fretta. Per ora ci aveva persi, forse, ma ci avrebbe ritrovati. Se un metodo era fallito, ne avrebbe adottato prontamente un altro, e poi un altro finché non avesse raggiunto il suo scopo. E in effetti non trascorse molto tempo prima che ci facesse sapere che non ci aveva affatto dimenticati. Te'dchak fu il primo a rendersene conto, poi Rhalgorn. Erano passati solo pochi minuti da quando ci eravamo messi di nuovo in cammino, quando tutti e due si bloccarono all'improvviso. Te'dchak rimase perfettamente immobile. Le orecchie appuntite di Rhalgorn si rizzarono nervosamente e i suoi occhi infuocati si strinsero nello sforzo di riuscire a vedere più lontano possibile. «Non viene da sopra. È qui, in basso. Nelle viscere della terra.» «Cosa?» Mi portai al suo fianco. «Sono nel tunnel? Ne sei certo?» «No, non sono nel tunnel.» Te'dchak scosse la testa. «È come dice lui. Sono nel terreno. Da quella parte, e piuttosto vicini. Venite... presto!» Senza aggiungere altro, si lanciò in avanti e ci guidò lontano da quella nuova minaccia. Il tunnel descriveva curve tortuose su se stesso, e scendeva sempre più profondamente nel cuore della terra. Quando ci fermammo per la seconda volta, udii anch'io qualcosa. Non si trattava di un tuono stavolta. Era ancora peggio. Una specie di orribile scatto che si ripeteva in continuazione e che faceva saltare i nervi. «Ce ne sono due ora. Non più di due,» disse Rhalgorn. «Dio Grande, due cosa?» Te'dchak si irrigidì. Le gambe presero a tremargli così come ogni parte del suo minuscolo corpo. «Gli arrotini!», urlò all'improvviso. «Non... non può essere. Erano tutti morti da più di cent'anni!» «Arrotini? Te'dchak...» Lui non rispose. Invece si girò e volò giù per il tunnel, molto più velocemente di quanto io potessi crederlo capace. «Rhalgorn,» urlai, «stai con lui. Qualcosa lo ha atterrito al punto da fargli perdere completamente la testa, ed io non sono sicuro che sappia dove si sta dirigendo.»
Rhalgorn aveva un'aria a dir poco sconvolta. «Se non lo sa lui, chi può saperlo?» Ordinai all'equipaggio di seguirlo", mentre io percorrevo il passaggio a ritroso per raggiungere Signar. Corysia mi chiamò. Io risposi, ma le parole mi morirono in gola. La terra fu scossa da un tremito devastante, e una parete del tunnel si spaccò in due cadendo rovinosamente al suolo. Terra umida e pietre cominciarono a piovere su di me. Per poco non soffocai, e cominciai a sputare polvere. «Aldair: guarda fuori!», ringhiò Signar. Delle mani molto forti mi afferrarono per le spalle e mi gettarono di lato. Fiamme bluastre uscirono dalle mani del Vikoniano. Sobbalzai e mi scansai. Il legnò sputò di nuovo fiamme e qualcosa si contorse e si attorcigliò nell'oscurità. Signar fece fuori di nuovo. La cosa rispose con un lamento di dolore acuto e sgradevolissimo. Si trascinò per un po' nel tentativo di raggiungerci. Signar assestò un altro colpo violentissimo sul terreno. Quella cosa orripilante gemette ancora, si ritrasse e poi si mosse rumorosamente dritto verso di noi. «Grandi Divinità di Ragnir,» sussurrò Signar, «non riesco a fermare quella dannata cosa in nessun modo!» La carne friggeva e crepitava. Noi indietreggiammo. Non riuscivo a trovare la mia arma. Un guerriero che era al mio fianco mi gettò la sua. Signar lanciò uno dei suoi terribili urli. Qualcosa di umido e giallastro lanciava colpi alla cieca dal terreno. Io la bruciai, e la cosa mi si attaccò ai piedi, perdendo sangue di colore scurissimo. Mi vennero i conati di vomito e indietreggiai sconvolto. All'improvviso la cosa scoppiò sulle nostre teste, riempiendo il tunnel con la sua forma mostruosa. Le lanciai contro ancora una fiammata poi mi girai e corsi via. Una sola, rapida occhiata ci bastò: davanti a noi non c'erano altro che denti obliqui e mascelle spalancate. Incontrammo Rhalgorn e gli altri a metà del passaggio, e loro ci fecero segno di tornare indietro. «Un altro è penetrato lì,» disse concitato. «Quella strada è impraticabile!» «Sicuro come è sicuro l'inferno, noi non possiamo tornare indietro. Te'dchak... presto! Ci stanno stringendo nel mezzo.» Te'dchak non si muoveva. I suoi grandi occhi guardavano dietro di me. «Te'dchak!» Lo scossi forte. Lui sbatté le palpebre, mi fissò attonito. «Dannazione a tutto, non possiamo rimanere qui. Che strada possiamo prendere?»
«Ah... da questa parte,» mormorò. «Giù e poi a sinistra.» Feci un cenno rapidissimo a Rhalgorn, e mi avviai in quella direzione. Avevamo subito afferrato che Te'dchak ci aveva indirizzati verso il primo passaggio che aveva visto. Non era più in grado di pensare con lucidità. Avevamo perso la nostra guida, e pressoché tutte le speranze di far perdere ad ojt'Miyer le nostre tracce. Bastò un attimo per rendermi conto che avevo purtroppo intuito bene. Thareesh e due arcieri vennero veloci verso di me e si fermarono. «Siamo corsi avanti,» disse Thareesh in fretta. «Il passaggio non porta da nessuna parte, Aldair: fa un solo giro intorno alla strada che abbiamo fatto per arrivare qui!» «Mi... mi dispiace,» disse Te'dchak che continuava a tremare in tutto il corpo. «Pensavo che...» «Non preoccuparti. Hai fatto quello che hai potuto. Thareesh: ora le creature ci saranno addosso da tutti e due i lati. Trattienile come meglio potrai e dacci il tempo!» «Per fare che?», chiese Thareesh. «Come faccio io a saperlo? Vai!» Mi girai di nuovo verso Te'dchak. «Ascolta. Tu devi aiutarci. Non c'è nessun altro in grado di poterlo fare. Cerca di scacciare gli Arrotini dalla tua mente e pensa a dove ci troviamo. Se tu non...» «Io so dove ci troviamo,» disse lui con improvvisa calma. «Per quello che può esserti utile. Abbiamo fatto il giro a ritroso, ed ora ci troviamo esattamente sotto il luogo dove è atterrata la navicella.» Lo fissai. «Allora anche ojt'Miyer è lì. Grandi Divinità, anche se riuscissimo a venir fuori di qui, ci andremmo a buttare direttamente tra le sue braccia!» «Aldair,» disse lui molto esitante, «c'è... c'è un'altra cosa...» «Quale? Sbrigati!» Un urlo altissimo di rabbia e di dolore risuonò in basso nel passaggio alla nostra destra. Ci avevano stretti in trappola! Non poteva finire così: Corysia apparve dietro l'angolo: il suo volto era pallido e tirato. «Aldair, non riescono a fermarli... quelle cose incassano ogni genere di colpo e continuano ad avanzare!» «Rimani qui,» le dissi. «Forse un'arma in più potrà essere d'aiuto.» «Aldair...» «Te'dchak. Non ho tempo ora.» «Ascoltami... ti prego! Tu non li fermerai. Gli Arrotini ci hanno tormen-
tato per migliaia d'anni. Non puoi ucciderli. Io... io pensavo che se ne fossero andati.» «Infatti l'avevi detto,» intervenni io. Ma Te'dchak non mi lasciò continuare. «Ti avevo detto anche qualche altra cosa. Io sono capace di sentire in che punto mi trovo quaggiù, Aldair. Io so dove portano i tunnel, sia che li veda, che non li veda. C'è un altro posto...» Toccò la parete alle sue spalle; «...lì. Proprio dietro di noi. Dall'altro lato. C'è qualcosa di molto particolare lì, ma è lì.» Mi chinai su di lui per essere certo di aver capito bene in tutto quel fracasso. «Un altro tunnel? Cosa dici?» «Non so. Forse. Non direi che sia un posto che mi da sensazioni piacevoli...» «Dannazione, non m'importa un tubo di che sensazioni ti dà!», esplosi io. «Tu...» urlai a un grosso Vikoniano. «Porta qui delle altre armi... svelto!» Tornai indietro e tirai Te'dchak verso di me. «Stammi bene a sentire. Non so cosa diavolo ci sia lì, ma ci andremo a dare uno sguardo.» Premetti il grilletto dell'arma e una sottile linea blu fece aprire lo spesso muro di radici. Il legno sì annerì, poi andò in fiamme. Il Vikoniano e Stumbacius si fecero avanti per starmi a fianco e si misero all'opera. In pochi secondi, quell'arma che riusciva a vincere anche muri di ferro, aprì un varco di circa due metri nel legno. «Aspettate,» dissi. «C'è qualche altra cosa.» Il fumo svanì ed io mi chinai sul buco annerito. Al centro c'era una superficie dura e porosa. I peli mi si rizzarono. La Pietra dell'Uomo! I Signori della Terra avevano coperto il loro mondo della loro robaccia ed eccola anche lì, sotto Fe'niel! «Passateci in mezzo,» urlai con quanto fiato avevo in gola. «Sbrigatevi!» Le loro armi fecero fuoco ripetutamente nel buco. La Pietra dell'Uomo brillò, si fuse e scomparve. Io li lasciai, trovai un arciere e lo mandai a chiamare gli altri. Stumbacius urlò e io tornai di nuovo verso il buco. Si erano riusciti ad aprire la strada. Mi piegai e passai attraverso il buco che ancora scottava. Qualsiasi cosa ci fosse lì, non poteva essere peggio di un Arrotino. Mi gelai, aprii e chiusi gli occhi più volte sotto la fredda luce dell'Uomo. Per un attimo, pensai di essere di nuovo nelle profondità della Fortezza di Amazzone dove quell'avventura aveva preso il via. La stanza in cui mi trovavo era una gemella di quella che c'era lì: quella luce particolarissima che
non tremava mai, le pareti bianco-latte che descrivevano folli angoli sulla mia testa. E tutt'intorno a me, disposti in circolo, c'erano i tesori che cercavo... quegli strani globi d'argento, perle ed oro intessuti insieme in un filato più sottile di un velo... le inafferrabili sfere dell'Uomo. Mancò poco che ridessi apertamente di me stesso. Avevo detto la verità ad ojt'Miyer, perché non avevo assolutamente idea di dove fossero nascoste quelle meraviglie. Ora quella verità era una bugia. Ed io l'avevo condotto proprio nel luogo dove quelle meraviglie erano custodite... VENTITRÉ Sapevo che era lì... Quando mi girai, vidi un Caldus che non avevo mai visto prima. Il colore aveva abbandonato le sue guance. I suoi occhi luccicavano di una luce che era un misto di gioia e paura. Io avevo visto le macchine dell'Uomo. Ma, per quanto meravigliose potessero essere, erano pur sempre delle cose e niente di più. Tuttavia, Caldus riconobbe le uova d'oro del suo Paradiso. Signar gli correva dietro, quando mi vide si fermò, e scosse la testa stupito. «Per gli occhi degli Dei potenti, Aldair... non siamo di nuovo nel punto da dove siamo partiti!» «Più o meno. Maledizione, Signar, ci hanno chiusi nell'angolo. Non credo che nessuno di noi abbia voglia di lanciarsi di nuovo tra le stelle... e come altra alternativa ci resta solo quella di fermarci e combattere!» Signar sembrava sconvolto. «Non c'è dubbio. Preferisco mille volte combattere piuttosto che salire di nuovo su uno di quei palloni.» A quel punto Rhalgorn si affiancò a noi. «Avrai immediatamente l'opportunità di rimangiarti le tue parole, Pelliccia-Grassa. Quegli incubi ci sono alle costole, e i loro padroni anche!» «ojt'Miyer?» Corsi velocemente verso il varco che ci eravamo aperti. Una mezza dozzina di uomini dell'equipaggio stavano acquattati lì e facevano fuoco in continuazione verso l'interno del buco. Thareesh si girò a guardarmi. «The l'ha detto Rhalgorn? I mostri si trovano nel tunnel ora... ma non stanno facendo fuoco contro di noi!» «Naturale che no.» Mi resi conto all'istante di ciò che stava accadendo.
«Sono occupati a cercare il passaggio. La stessa cosa che abbiamo fatto noi. Signar!» Mentre parlavo, la pietra dell'Uomo che si trovava sulle nostre teste tremò e cedette sotto l'inesorabile peso degli Arrotini. Indietreggiai cercando di appoggiarmi alle pareti. Ecco lì: si era aperto un cerchio della grandezza della mia testa. Signar se ne accorse e urlò per chiamare rinforzi. «No...» Gli feci segno di tornare indietro. «È troppo tardi. Dobbiamo tentare la carta delle sfere!» Ci ritirammo tenendo ben strette le armi in pugno. Il sapore del rame che avevo in bocca stava diventando sempre più amaro. Potevamo morire lì. Oppure saltare in quei cerchi lattei e sparire in un attimo in direzione di qualche mondo lontano. La fortuna non ci avrebbe favorito per due volte. Non ci saremmo mai ritrovati tutti insieme di nuovo. «Aldair, aspetta...» Corysia mi aveva afferrato il braccio e mi tirava via. Mi liberai dalla sua stretta. «Non c'è tempo. Stai vicino a me. Se è destino che ci perdiamo di nuovo, saremo almeno insieme.» «No,» urlò lei. «C'è un'altra possibilità. Vieni... presto!» La guardai attonito. Rhalgorn urlò e mi scostai con un balzo. Il muro dietro di noi crollò. L'orribile figura di un Arrotino si mosse pesantemente tra le macerie. Era sporco, ricoperto di polvere, di pietre e aveva dei pezzi di legno che gli pendevano dalle mascelle. Vacillava sui suoi arti ripugnanti, gridava e si avvicinava sempre di più facendo dondolare la sua enorme testa a destra e a sinistra. Fiamme blu venivano lanciate in continuazione per cercare di tirargli via la carne. Ma non c'era nulla da fare. Si piegava in due, lanciava ululati spaventosi ma poi avanzava di nuovo. «Non si può fermarlo,» urlò Te'dchak. «Non muore mai!» «Meglio così,» dissi minaccioso. «Rhalgorn, il muro!» C'erano sparsi dappertutto cumuli di pietre e di detriti. Rhalgorn e tre arcieri si inginocchiarono e riempirono il buco di fuoco. Uno dei mostri urlò e cadde con un tonfo nella stanza. In risposta fischiarono sulle nostre teste numerosissime fiamme blu. «Indietro,» urlai, cercando di farmi sentire nonostante l'assurdo fracasso. «Indietro!» Scaricai nel buco tutta la mia arma e corsi dietro a Corysia. Lei mi condusse velocemente all'interno del cerchio delle sfere. Lì c'era una porta piccola e bassa. Mi abbassai per poterci passare. Una volta dentro mi bloccai e il sangue mi si gelò nelle vene. «Per gli occhi del Creatore!»
Troneggiava su di me una sfera dorata di grandezza esorbitante, alta sicuramente più di quaranta metri. E dietro a quella ce n'era un'altra, e poi un'altra ancora. Mi resi conto, in quel soffio di tempo che tempo non era, che tutti i miei ora e i quando degli altri erano confluiti per dar vita a quel momento. «Aldair...» Signar mi scosse con violenza. «Dannazione, Aldair, non c'è tempo per starsene lì a guardare!» «Cosa?» Lo guardai e non ero per niente certo di conoscerlo. «Stanno arrivando.» Gli occhi di Rhalgorn fiammeggiavano. «Ora, Aldair!» «Fai... fai salire l'equipaggio a bordo,» dissi con aria assente. «Fare cosa?,» chiese Signar infuriato. Mi girai verso di lui. «Falli salire a bordo, Signar. Non c'è altro.» Gli occhi del Vikoniano divennero neri, ma obbedì. Guardai Corysia, poi mi precipitai ad attraversare il portello arrotondato della navicella. Trovai la ripida scala d'argento che mi portò in un attimo sul ponte. La liscia sedia di cuoio si inclinò per accogliere la mia persona. Sul pannello davanti a me si accesero innumerevoli luci. Le conoscevo, come conoscevo tutta la schiera di manopole e di interruttori. Maneggiavo con dimestichezza i bottoni di avorio disposti in circolo. Lasciai che le mie dita danzassero tra quella marea di congegni, e non avevo bisogno di vedere quali erano i tasti che toccavano. «Connie sei lì?» «Sono qui, Capitano Aldair. Ai tuoi ordini. Il trasferimento è stato completato. Ho abbandonato la navicella scura. Sono una parte dell'Ahzir al'Rhaz.» Alzai lo sguardo costernato. «Come... come fai a conoscere quel nome? È il nome che io avevo dato ad un altro vascello. Uno che veleggia sui mari della Terra.» «È anche il nome di questa navicella, ora». Questa fu la sua risposta. «Perché tu in questo momento l'hai inserito nel codice della mia mente...» «Io... io cosa? Sì, naturalmente. Pronti a partire, Connie?» «Prontissimi, Capitano.» «Aldair!» Becky-Sue lanciò un urlo alle mie spalle e mi afferrò le mani. Rhalgorn
la spinse via. Io mi girai di scatto per guardarla e lei gridò di nuovo, rafforzando la sua stretta. «È qui fuori,» biascicò Rhalgorn tra i denti. «Caldus.» «Beh, che aspetti? Fallo entrare, dannazione!» «Attento, Aldair...» Scattai in piedi e guardai fuori dall'enorme finestra di cristallo. Tre mostri di ojt'Miyer giacevano riversi ai piedi dello stretto portale della nostra stanza. Caldus stava ritto in piedi in mezzo a loro: con la sua arma bruciava il passaggio, e li spingeva indietro. Riuscivo a sentire gli ululati di rabbia e di dolore dei mostri. Lui faceva fuoco a ripetizione. Le creature riuscivano ogni tanto a sollevarsi un po' e gli alitavano contro delle vere e proprie tempeste di vento. Fiamme blu sprizzavano fuori dello scafo.' La navicella tremò sotto i miei stivali. Chiusi gli occhi sulla scena e mi diressi a tentoni verso la sedia. «Connie... blocca tutte le entrate.» «No,» urlò Becky-Sue. «Non puoi abbandonarlo!» «Devo farlo,» le dissi. «Non ho scelta, Becky-Sue...» Premetti la mia mano sul cerchio blu-argento. Il mondo intorno a me bruciò senza fiamme, come il respiro di un Dio. Il tempo si frantumò in bilioni di pezzettini... Non c'erano stelle. L'aria era fina e fredda e odorava di ferro come dopo un acquazzone. La navicella emanava l'unica luce che si potesse scorgere tutt'intorno. Si era fermata in una caverna sabbiosa scavata nella roccia e lanciava la sua ombra cupa su un paesaggio spoglio e desolato. Sollevai una pietra e la tenni un po' in mano. Era grigia e porosa, vuota e morta come una scoria vulcanica. La lanciai lontano e la sentii rotolare giù dalla collina. «Dove pensi che ci troviamo?» mi chiese Corysia. Si avvicinò a me ancora di più: tremava in tutto il corpo. «È spaventoso non vedere neanche una stella.» «Connie ci ha spiegato il perché. È difficile capire le parole che lei usa, ma sembra che noi siamo molto vicini al nulla. Non ci sono stelle perché ce le siamo lasciate alle spalle.» Sorrisi e guardai Corysia. «Lei dice che pensa all'oscurità come un golfo: un mare tra due corpi di terra. Ho tentato di vederla anch'io in questo modo, ma con me non funziona. Questo è un mondo ben più spaventoso di quello che lei descrive.»
Corysia non mi disse nulla a proposito della navicella. Né lo fece nessuno degli altri. Nessuno sentì il bisogno di chiedermi come facessi a conoscere così bene la navicella, né come fosse possibile che ora quell'infinità di luci e di bottoni mi fosse quasi più familiare dell'elsa della mia spada. Anche loro provavano la mia stessa sensazione. Di essere già stati lì prima: come se fossimo dei fantasmi che ricordavano solo a metà chi erano stati. «Sta bene Becky-Sue?», chiesi a Corysia. «Sta bene come può star bene.» Corysia colse il mio sguardo e intuì cosa mi stava passando per la testa. «Non c'era davvero nient'altro che tu potessi fare, Aldair.» «Questo però non lo riporterà di nuovo tra noi.» «No,» disse lei con tono piatto, «non lo riporterà tra noi. Ma non si può ormai fare niente per cambiare questa situazione, giusto?» «No, almeno per ora. Forse avrei potuto aspettare, mandare qualcuno in suo aiuto.» «...e farci uccidere tutti,» finì lei. «Ti pare che avresti dovuto agire così, Aldair? Se ti trovassi di nuovo in quella situazione, ti comporteresti così?» Non risposi, ma mi allontanai da lei e mi misi a guardare in alto, quella completa oscurità. «Abbiamo fatto tutto ciò per niente, Corysia, o almeno così mi pare. Forse, se non avessi fatto nulla, le cose non sarebbero andate peggio di così. Il giorno che mi trovai di fronte quel diavolo di ojt'Miyer e scoprii che sapeva dell'esistenza delle sfere, decisi che l'avrei fermato. Che in qualche modo le avrei raggiunte prima di lui.» «E ci sei riuscito,» disse lei forzando un sorriso. «In un certo senso è stato così.» «Perfetto,» sbuffai io. «Di quanto: due, o tre minuti? Corysia, se fossimo riusciti a distruggere le sfere, gli avremmo impedito di raggiungere la Terra per sempre!» «Ma... lui... lui potrebbe non trovarle mai,» disse lei con aria speranzosa. Le lanciai un'occhiata torva. «Corysia, c'è un modo di guidare queste navicelle. E noi ce ne siamo lasciati alle spalle altre due. Cosa pensi che ci farà con quelle?» Corysia si accigliò pensierosa. «Non ti sei forse dimenticato qualcosa? Noi già conosciamo il destino di questa navicella. Non può essere altro che il vascello che apparve sull'Ahzir al'Rhaz sull'Amazzone, e ci salvò dalla cosa del mare. Così noi torneremo sulla Terra, e...»
«Corysia...» La scossi forte afferrandola per le spalle. «Questo lo so. So che è accaduto e che accadrà: qualsiasi cosa. È impossibile che noi potremo guardare giù dalla navicella e vedere noi stessi in piedi sui ponti. Tuttavia, so che è così perché sono stato lì. Ma non è tutto qui. Forse noi rivedremo ancora la Terra... sì, sembra proprio che sarà così. Ma questo non impedirà ad ojt'Miyer di trovarci anche lì.» «No,» disse lei dopo un attimo, «non glielo impedirà. Ma non posso credere...» «... credere che siamo arrivati così lontani per perdere? Perché no, Corysia? Solo perché noi abbiamo ragione, ed ojt'Miyer no?» «Sì,» rispose lei con la voce che le si stava rompendo in pianto, «per tutti gli Dei, non è forse questo un motivo sufficiente?» «Dovrebbe esserlo,» le dissi. «Ma non lo è. Oramai ho imparato questa verità da molto tempo.» VENTIQUATTRO Sono un guerriero di professione, non uno scolaro. La mia breve permanenza all'Università mi aveva insegnato che ero molto più adatto a maneggiare la spada che la penna. Lì non imparai nulla che mi potesse risultare utile per risolvere i problemi che mi trovai ad affrontare su quel mondo desolato tra le stelle. Come è possibile conoscere una cosa ancora prima che accada? Se una tale cosa è già accaduta - o accadrà - non avevo io altra scelta che recitare la parte che ho recitato? E cosa accadrebbe, o cosa sarebbe accaduto, se non lo facessi o non l'avessi fatto? Le risposte a queste domande diventavano altre domande. Mi lasciavano un dolore ostinato alla nuca, come quello che ti affligge la mattina dopo che hai bevuto troppa birra d'orzo. Solo che, in questo caso, non c'era stato niente di piacevole prima del dolore. Se il destino era sovrano, decisi, avrei lasciato che seguisse il suo corso. Pescai nelle mie tasche una moneta d'argento rhemiana che avevo sempre portato con me per tutti quegli anni. Su un lato c'era l'effigie delle spade incrociate della Legione. Sull'altro era raffigurata la testa di Titus Augustus, ultimo Imperatore di quella terra sfortunata, e zio di Corysia. Testa e avrei assecondato il fato dipingendo il vecchio Ahzir al'Rhaz sulla prua di
quella navicella. Croce, non l'avrei fatto. Uscì croce. Così, quando e se fossimo arrivati di nuovo sulla Terra, la nostra navicella non avrebbe avuto dipinta sulla sua prua l'immagine dell'Ahzir al'Rhaz. Anche se avevamo visto chiaramente quell'immagine dai ponti della nostra navicella. Era meglio lasciare al fato la risoluzione di quel piccolo problema! Connie cercò di rendersi utile, e non ci riuscì. Ma fu per colpa mia almeno quanto sua. «Queste navicelle sono diverse da quelle che fanno la spola tra i mondi,» mi spiegò. «Quelle che usano ojt'Miyer e i suoi mostri sono delle produzioni tarde, e non delle più importanti dell'Uomo, costruite dopo che aveva abbandonato la Terra.» «So che sono diverse,» le dissi. «Le sfere viaggiano in un altro modo, anche se non sono affatto certo di quale sia questo modo.» «Capitano, Aldair,» disse lei pazientemente, «forse sarà meglio non perdere tempo a discutere 'quale' potrebbe essere questo modo.» Queste sue parole mi irritarono oltre ogni dire. «E perché no, Connie? Non sarò un Maestro di Ragionamento, ma non sono neanche una rapa!» «Mi dispiace. Dammi un definizione di rapa.» «Lascia stare, dimentica quello che ho detto? Probabilmente hai ragione tu.» «Il modo più semplice per spiegare questa differenza è che i mezzi di trasporto dei mostri navigano attraverso lo spazio: da un punto all'altro come una nave sul mare. Questa navicella prende invece come una specie di scorciatoia, e non è legata alla dimensione spazio-tempo.» Tentai di non pensare a ciò che aveva detto. «Connie, adesso ti farò una domanda più pratica, o almeno spero che lo sia. Noi tutti ricordiamo di aver visto questa navicella sulla Terra. Tu questo lo sai. Presumo che io mi trovassi al suo interno... o che mi ci sarei trovato, insieme a tutti i miei compagni.» «È chiaramente un paradosso,» disse lei. «Ci sono delle teorie su questi...» «Per favore: non mi interessa sapere quali sono. La mia domanda è più semplice di quanto tu immagini. Dal momento che questa navicella andrà sulla Terra, do per scontato che tu conosca la rotta da seguire per arrivarci.»
«No, Capitano, io non la conosco...» Mi tirai su e la guardai come se mi avesse assestato un tiro mancino. «Ma, dannazione a tutto!» Diedi un pugno sul bracciolo della sedia con tutta la forza di cui ero capace. «Tu... tu ci hai portato lì... o ci porterai!» «Forse l'ho fatto. Ma questo non è ancora successo, Capitano». «Allora come ho fatto ad arrivarci? Rispondi a questa mia domanda.» «Io non sapevo che tu ci fossi arrivato,» disse lei stoicamente. «Ovviamente, mi ricorderò la strada. Quando e se accadrà.» «Splendido. Così non avrò bisogno di sapere ciò che ora ti sto chiedendo, non ti pare?» Connie non ebbe alcuna risposta da darmi. Potrei passare tantissimo tempo ad elencare le meraviglie del nostro vascello dorato. Era incredibilmente vecchio, eppure sembrava essere nuovo e pulito come nei tempi passati. A bordo c'era cibo in grandi quantità, e c'erano cose che non avevamo mai provato prima. Dopo aver imparato quali erano i bottoni giusti da premere - o dopo che ci ricordammo di nuovo quali erano - una provvista di delizie senza fine era a nostra completa disposizione. Inclusa, fortunatamente, una degna sostituta della birra chiara e della birra d'orzo. Chiaramente, le cose che mangiavamo e bevevamo erano vecchie di una cinquantina di secoli e forse più. Eppure avevano un gusto eccellente, come se fossero fresche, e nessuno di noi si era posto il problema di come ciò potesse essere. Nella navicella c'erano montate delle armi: delle versioni più grandi e ancora più micidiali di quei tubi che sputavano fiamme di fuoco bluastre. Con l'aiuto di Connie, quelle armi potevano venir puntate contro un eventuale nemico con velocità e precisione. Rhalgorn e Thareesh si deliziarono a giocare con quei giocattoli, e distrussero una gran quantità di cumuli di pietre prima che io gli imponessi di smetterla. Una sera, dopo cena, Signar-Haldring e Te'dchak mi presero da parte e mi guidarono verso il cuore del vascello. Non avevo assolutamente idea di come fosse fatto, e loro non avevano intenzione di anticiparmi niente lungo la strada che dovemmo percorrere per arrivarci. Mi guardai intorno, ma non vidi niente di particolarmente interessante. C'era una colonna di metallo bianco, spessa come una quercia di proporzioni ragguardevoli. Incastonato in quella colonna c'era un pannello con dei bottoni. «Ebbene?» Rivolsi a quei due uno sguardo molto perplesso. «Che fa quest'affare? Ci si può spillare birra d'orzo o ci si può saltellare sopra?»
«Nessuna delle due cose,» grugnì Signar. «Semplicemente stai lì e guarda, Aldair.» Detto questo, fece un cenno a Te'dchak che a sua volta si fece avanti e spinse quei bottoni colorati seguendo un ordine speciale. Un pannello che si trovava nella colonna scivolò lateralmente, benché io non vedessi nessuna fessura dove potesse essersi ritirato. Dietro a quel pannello c'era una spessa lastra di cristallo. Mi ci avvicinai e sbirciai dietro incuriosito. All'inizio non c'era proprio niente da vedere: solo una massa grigiastra e confusa, assolutamente priva di colore. Poi qualcosa si mosse, proprio nell'angolo del mio occhio. Era qualcosa di fastidioso perché, quando diressi il mio sguardo verso quel punto, svolazzò lontano, ai margini del mio campo visivo. È un quadrato, decisi: un quadrato più scuro del vuoto che lo circonda. Solo che non era un quadrato, perché aveva troppi lati, o forse non ne aveva abbastanza. Mentre stavo lì a guardare, un piano si mosse in un posto dove non sarebbe potuto arrivare, si annebbiò in una macchia indistinta, si spostò, disegnò un angolo impossibile, e si capovolse chiudendosi in se stesso. Troppo tardi: sentii che tutta la mia cena mi saliva alla gola. «Avreste potuto avvertirmi,» dissi furioso, asciugandomi il sudore freddo dalla faccia. «Non è una sorpresa tanto piacevole, Signar.» «Béh, sì...» Signar si strinse nelle spalle e si grattò sotto la pancia. «Ci abbiamo pensato, Aldair. Solo che non è una cosa tanto semplice da spiegare, se non la si vede con i propri occhi.» «Un po' meno di comprensione mi sarebbe andata bene lo stesso, te lo assicuro. Per tutti i diavoli, cos'è quella cosa?» «In mancanza di un termine più adatto,» si intromise Te'dchak, «è il motore. Il meccanismo che manda avanti questo vascello.» Lo fissai e scossi la testa. «Quello sarebbe un meccanismo? Te'dchak, non assomiglia in nessun particolare a tutti i meccanismi che ho visto finora. Per prima cosa, non rimane lì sempre.» «Oh?» Te'dchak sollevò un sopracciglio. «Per una navicella che non sta ferma lì per sempre, mi sembra proprio il motore giusto, Aldair.» Naturalmente aveva ragione. Ne ebbi in seguito la conferma da Connie. Il fatto di rivolgermi a lei non fu in verità un'idea brillante, perché lei tentò subito di spiegarmi perché un motore in realtà stava o non stava nel posto giusto. Fortunatamente riuscii ad interromperla prima di saltare un altro pasto.
Così, senza che comparisse mai una stella, né tanto meno il sole, passarono alcuni giorni e alcune notti. Noi ci leccavamo le ferite, imparavamo qualcosa di più sul nostro vascello, e ci interrogavamo su quello che sarebbe stato di noi. Questa naturalmente era la cosa che mi preoccupava più di tutte. Quando eravamo scappati dalle viscere di Fe'niel, qualche ricordo del passato o del futuro mi era venuto in aiuto. Istintivamente, avevo deciso di trasferirci in un posto più sicuro, lontano da qualsiasi stella. Ora, mi trovavo nell'impossibilità di fare di più. La mia mente era vuota. Nessuna reminiscenza del passato o del futuro era venuta in mio aiuto per guidarmi. Con molta calma Connie mi informò che lei sarebbe stata in grado di portarci quasi in un numero indefinito di altri posti. Tutto ciò che avevo da fare era dirle dove. E come. «Sei tu che dovresti saperlo,» protestai io. «L'altra navicella aveva delle destinazioni: perché questa qui non ce le ha?» «Sì che ce le ha», disse lei. «Sono qui, ma non riesco ad accederci. Senza dubbio tra di loro ci sarà anche il codice per la Terra.» A quelle parole balzai in piedi. «Che cosa vuol dire che non puoi accederci?» «Esattamente quello che ho detto, Capitano. È stata sistemata una protezione nella memoria di questa navicella. Io non ho la chiave di lettura per liberarmene.» «In nome del Creatore, Connie, stai cercando di dirmi che noi non possiamo andare da nessuna parte?» «Sì. Temo proprio che sia così.» «Ma... ma noi siamo arrivati qui! Se siamo riusciti a farlo, dovremmo essere in grado di raggiungere qualsiasi altra destinazione.» «Negativo, Capitano. Non so spiegarti il perché. Nessun altro eccetto te può spiegare come facevi a conoscere il funzionamento dei controlli e dei meccanismi di questa navicella, come prima questione. E poi come hai fatto a trasferirmi su quest'altra navicella.» «Non possiamo andare proprio da nessuna parte?», chiesi di nuovo. «Siamo bloccati qui?» «Oh, no, Capitano Aldair. Ci possiamo muovere liberamente attraverso tutti i doppi-infiniti fuori del tempo. Semplicemente siamo impossibilitati a raggiungere un'altra destinazione in tempo reale. Almeno fino a quando non sarai in grado di rimuovere la protezione.»
All'improvviso mi sentii dolere in tutto il corpo, come se fossi stato percosso ripetutamente con un bastone. «Connie,» dissi stancamente, «cosa significa esattamente questo fuori del tempo di cui parli? È forse qualche posto dove sia desiderabile approdare?» «Ti ricordi quello che hai visto quando hai guardato nel motore, Capitano?» Deglutii a fatica. «È... sarebbe quello il fuori del tempo?» «Qualcosa di molto simile.» «Connie, perché non me lo hai detto prima?» «E perché avrei dovuto, Capitano? Tu non me lo avevi chiesto.» «Aldair, puoi venire fuori un minuto? Abbiamo trovato qualcosa che vorremmo farti vedere.» Sollevai lo sguardo e vidi la figura enorme di Signar che occupava la soglia della porta. Un ghigno di soddisfazione gli passava da un lato all'altro della faccia e riusciva a contenersi con difficoltà. «No, grazie lo stesso,» gli dissi. «Il mio stomaco si è appena ripreso dalla tua ultima sorpresa.» Signar sembrò dispiaciuto. «Oh, ma non ha niente a che fare con quella roba, Aldair. Alzò una delle sue grosse mani. «Ti giuro che non si tratta di niente che ti farà star male.» «Anche Rhalgorn ha a che fare con questa faccenda?» «Sì, c'è anche lui.» «E Thareesh?» «Uhm.» «Scordatelo.» «Non vedo proprio come potrei,» sospirò lui. Con due passi poderosi mi raggiunse, mi caricò gentilmente sulle sue spalle e mi portò fuori della navicella. Gli altri erano tutti riuniti lì. C'era l'equipaggio al gran completo. Signar mi mise giù e tutti esplosero in un urrà, lanciando in aria le loro spade e i loro elmi. «Va bene,» dissi io, «e tutto questo perché?» «Di qua,» fece Signar, il cui ghigno diventava sempre più largo. «Allora ti piace?» Seguii l'arco che stava descrivendo il suo braccio e lo vidi. Era un magnifico disegno dell'Ahzir al'Rhaz con tutte le vele spiegate al vento che
fendeva le onde agile e sicuro. Occupava completamente una delle fiancate della navicella. Io non avevo detto a nessuno del lancio della monetina, neanche a Corysia. Evidentemente, decisi, era del tutto inutile giocare d'azzardo con gli Dei. Anche quando perdono, riescono poi ad avere l'ultima mossa. «È... è un emblema davvero molto bello,» dissi a tutti loro. «Sì, veramente splendido. Vi ringrazio per quello che avete fatto.» «Abbiamo pensato che fosse la cosa più giusta da fare,» sibilò Thareesh. «Ciò che sarà, sarà, Aldair. Lo stemma della nostra nave appartiene anche a questa navicella.» «Sì,» dissi io, «ovviamente hai ragione. Non è mai saggio combattere contro il fato.» Rhalgorn bisbigliò all'orecchio di Corysia qualcosa che io dovevo sentire. «Spero che non abbia già pronto uno dei suoi proverbi per l'occasione. Sarebbe più di quanto riuscirei a sopportare.» L'equipaggio scoppiò a ridere, ed io risi con loro. «Nessun proverbio, per ora. Anche se, vi avverto, ne tirerò fuori uno abbastanza presto. In effetti...» Non riuscii a finire. In quel preciso momento la voce di Connie tuonò dalla navicella. «Capitano: due navicelle in spazio reale! Vieni dentro, presto!» VENTICINQUE Non ci fu bisogno di chiedere da dove venivano le navicelle. Prima ancora che riuscissi a guadagnare il ponte e a cadere nella mia sedia, fiamme blu cominciarono ad illuminare il paesaggio. «Connie,» sbottai, «pensavo che tu mi avessi detto che queste navicelle non potessero andare da nessuna parte. Per tutti i diavoli, allora come hanno fatto a trovarci?» «C'è solo una spiegazione, Capitano. Sono riusciti a rimuovere le protezioni.» «E come?» «Non lo so, Capitano. Ma è chiaro che ci sono riusciti.» Un tuono scosse la navicella. Le armi di Rhalgorn risposero lanciando a loro volte fiamme dal cielo. «Andiamocene via di qui, Connie... e in fretta!»
«Destinazione, Capitano?» «Dannazione a tutto,» urlai con voce roca. «Qualsiasi!» «Dammi un codice aperto zero-nove-quattro, prego,» disse lei con calma, come se avessimo a disposizione tutto il tempo che volevamo. Io vibrai colpi sui bottoni d'avorio. Non accadde nulla. Non c'era nulla... Ammutolito, guardai le mie dita che si spostavano alla cieca da una chiave all'altra, da un interruttore all'altro, con la velocità e la forza di una lumaca che sta per morire. La mia testa si spostò, si girò come se fosse immersa nella melassa verso il portello che si trovava sopra di me. In un lasso di tempo che mi sembrò un anno o anche di più, mi trovai a guardare lo spazio buio e allucinante. Una linea di fuoco blu crepitò nel cielo alla mia sinistra. Si muoveva alla folle velocità di due o tre centimetri al giorno, dritto in direzione della navicella. Aprii la bocca per avvertire Connie. Forse il suono salì fino alla mia gola e cominciò il suo faticosissimo viaggio per superare la barriera dei miei denti. «Coooooooooooooonnnnnnnnnnnnnniiiiiiiieeeeeeeeee......» Il fuoco blu ci raggiunse. Fu una scarica violentissima, ed ora si trovava a meno di un metro dalla lastra di cristallo. Continuava ad avanzare. In un secondo... o in un secolo... «...eeeee, Grandi Dei, che cosa è successo? Dove siamo?» Fuori della navicella non c'era nulla. Letteralmente niente. Il vuoto. Solo il vuoto. Niente più di quell'indistinto grigiore. «Mi hai dato un codice aperto,» mi spiegò Connie. «Per quanto riguarda il posto dove ci troviamo, darti una risposta è un po' più difficile. Non siamo da nessuna parte. O forse dappertutto. Una cosa equivale all'altra.» Rhalgorn fece irruzione nella stanza, seguito da Signar. «Ora spiegaci che ci hai fatto!» Disse Rhalgorn infuriato. «Questo non è un posto decente dove stare, Aldair. Penso che faremmo bene ad andare da qualche altra parte.» «A stare a sentire Connie, è esattamente lì che siamo.» Alzai lo sguardo verso il soffitto, dove avevo sempre avuto la sensazione che si trovasse. «Bene. Ed ora che facciamo? Non possiamo rimanere qui.» «Se ho capito bene la tua prima domanda, Capitano, tu hai già la risposta pronta. Tu devi riuscire da eliminare la protezione ed ottenere l'accesso alle destinazioni in tempo reale.» «Ma io non so come farlo!», urlai esasperato. «La tua seconda asserzione è sbagliata. Noi possiamo benissimo stare qui. E infatti, così sarà a meno che...»
«È proprio quello che volevo dire.» Mi lasciai cadere di nuovo sullo schienale della sedia e chiusi gli occhi. Per tutti i diavoli, che diamine ci facevo io lì? Io ero un semplice guerriero. Non me ne intendevo affatto di luccicanti sfere dorate che non vanno da nessuna parte. Io mi intendevo di campi sconfinati e di furiosi combattimenti. Mi intendevo di vere estati e veri inverni, dove la principale preoccupazione di un guerriero è avere muscoli forti e una lama affilata. Non sapevo proprio come parlare a delle macchine" femmine che vivono incastrate nelle pareti. «Se il nostro mezzo è fatto alla stessa maniera di quelli che ci stanno inseguendo,», dissi, «allora vuol dire che ojt'Miyer ha imparato come si fa ad arrivare da un posto reale ad un altro. Se lui ci è riuscito, ci dobbiamo riuscire per forza anche noi.» Signar si strinse nelle spalle. «Forse i codici di quelle navicelle non sono bloccati, come dice Connie. Forse solo questa è così...» Mi alzai e mi misi a fissare un punto nel vuoto. «Forse. Ma io penso che lei abbia ragione. Ragioniamo: gli Uomini devono aver installato le protezioni su queste navicelle per un motivo. Quale? L'idea che mi sono fatto io è che stavano ormai perdendo tutte le loro ultime battaglie con i mostri. Volevano accertarsi che le navicelle non potessero essere usate se cadevano nelle mani sbagliate. Ma come avranno fatto?» «Pensavo che fosse esattamente quello che cerchiamo di scoprire,» disse Signar. «Infatti lo è, Pelliccia-Grassa.» Rhalgorn guardava il Vikoniano con aria di sfida. «Penso di aver capito dove vuole arrivare. Aldair: a volte tu vedi le cose proprio come uno Stygiano. Appassionato. Tenace...» «Ah, ah!», se la rise Signar. «Ostinato, stupidamente cocciuto...» «Finitela e ascoltatemi!», urlai dando un pugno nella parete. «Deve essere così. Un codice o una parola potrebbero essere andati persi nel corso degli anni. Si tratta in effetti di qualcosa di molto semplice, eppure... Rhalgorn, porta qui Becky-Sue. Subito!» «Becky-Sue?» «Sì. A meno che non mi sbagli, è l'Uomo stesso la chiave per risolvere il problema.» Indicai il posto di comando. «Una cosa dell'Uomo deve stare seduta lì. Nessun altro.» Rhalgorn mi guardò.
«Se hai ragione, non si tratta poi di un gran segreto. ojt'Miyer l'ha capito piuttosto in fretta.» «ojt'Miyer non è un mostro come gli altri. Lui è...» «Capitano...» Connie tuonò al di là della parete. «Sono qui... gli altri!» Balzai dalla sedia. «Non può essere!» «Ti dico che sono qui, Capitano. In modo o nell'altro sono riusciti a seguire la nostra rotta.» Fiamme blu cominciarono a balenare a prua della nostra navicella. «Dannazione,» gridai, «avevi detto che eravamo fuori della dimensione temporale!» «È così. Ma non avevo detto che eravamo al sicuro, Capitano. Avevo anche detto che non eravamo da nessuna parte.» All'improvviso mi balenò in mente che faceva ben poca differenza morire con o senza un orologio. Ed io sarei decisamente morto se uno di quei colpi micidiali avesse raggiunto la navicella, perché l'avrebbe tagliata in due. «Connie, fai qualcosa,» dissi «Qualsiasi cosa!» Tutt'a un tratto il mio stomaco si rivoltò e lei ci scagliò da nessun posto a un altro... Tutto intorno a me galleggiava, ma ciò non sembrava preoccupare granché l'Aldair che era dentro di me. Il terrore che mi aveva preso allora era la traccia di qualcosa che apparteneva a un altro mondo, dove c'era una maledetta direzione chiamata su... e un 'altra chiamata giù... Urlai: sconvolto da quell'incubo, cercavo disperatamente di aggrapparmi a qualcosa di piatto... mi muovevo lungo il levigato piano della ragione, mi affrettavo da un punto all'altro come un'immagine sulla carta, cercavo di sfuggire ai demoni dell'Alto e del Basso... Click! Ero Aldair ed ero tutto... un 'enorme cosa solida come un universo di ferro... Non c'erano parole come 'spazio' o 'altro' o 'lì'... C'ero solo io... Ero solo, lo sapevo... ma il significato di quella parola mi sfuggiva... Click! Click! Un circolo di angoli bizzarri... il quadrato con i lati ricurvi che fluttuava intorno a me era di un colore che non avevo mai visto prima... Io parlavo con lui. «Rhalgorn?» Da quella cosa informe che ero, saltavano fuori parole appiccicaticce e lo ricoprivano come una ragnatela. Lui cercava di liberarsene, e poi gettava quello scuro groviglio filamentoso verso di me.
Quando quei fili mi toccarono, io li odorai a lungo e poi li scagliai lontano. «Penso che sia così, Aldair,» dissero loro. «Non posso esserne certo. Questo non è per niente un posto decente... spero di non avere un'aria idiota come quella che hai tu...» «Dov'è Becky-Sue? L'hai portata?» Il circolo con gli angoli bizzarri fece cadere delle perle d'argento irte di spine da tutti i lati. Mi trafissero e mi fecero venire il prurito. «Sono qui,» disse lei con irritazione. «Aldair, ti prego, ferma tutto ciò. Immediatamente! Non mi piace!» «Non posso Becky-Sue. Solo tu puoi farlo.» «Io?», biascicò lei, ed altre perle spinate si sparsero intorno a me. «Siediti su quella sedia,» disse Connie in tono gelido. «Io ti aiuterò, Becky-Sue.» «Sedia? Quale sedia?» «Quella che ti sta cullando, quella blu pallido. La vedi? Pensa molto attentamente a lei, Becky-Sue. Così va bene... Tocca i controlli... Io ti aiuterò...» «No!» Becky-Sue sussultò terrorizzata e indietreggiò. «Fa freddo, fa così terribilmente freddo! «No. È solo un'impressione.» «Non farmelo fare, Connie.» «Tu devi. Ora... quei bastoncini piumati che sono tutti lunghi e molli... quelli sono i bottoni. Spingili, no... voglio dire premili con forza, così.» «Connie, mi fa male!» «Solo per un attimo. Ora, ora... ecco. Comandami. Destinazione Codice Terra...» «Des... des... non ci riesco... sto per cadere... aiutami!» «Resisti Becky-Sue. Fatti forza, ci sono qui io. Ti aiuterò. Becky-Sue...» «Destin... azione...» «...Codice Terra, Becky-Sue...» «...Codice Terra, Oh, Dio... sono persa!» Click! Click! Click! Rhalgorn... di nuovo un volto familiare... pelliccia grigia e orecchie appuntite... Si sforzava di ghignare. Becky-Sue se ne stava sprofondata nella sedia, con i capelli gialli riversi sul volto. «Maledizione,» urlai. «Guarda lì!» Corsi verso il portello e vidi il cielo
azzurro, un sole luminoso e familiare. Sotto, La Terra era... «Connie: è il mondo sbagliato. Non è la nostra Terra, no, non lo è affatto!» Il mio cuore per poco non cessò di battere. Il mondo era sconvolto da vere e proprie tormente. Il fuoco serpeggiava tra le nuvole scure. Lampi si rincorrevano sul globo. «È il mondo giusto,» disse Connie. «Siamo solo arrivati un po' in anticipo, Capitano.» «Becky-Sue...» La afferrai per le spalle e la scossi forte. «No,» disse Connie, «Ora non ho bisogno di lei...» Click-CLICK! «Non è facile, Capitano... non è per niente facile. Io non so... esattamente quanto... quanto tempo fa hai lasciato il tuo mondo...» CLICK! «Ah, sì. Guarda sotto di te ora, Capitano Aldair!» Mi affrettai di nuovo verso il portello, spingendo Rhalgorn da parte. Signar, Corysia e Thareesh si affollarono sul ponte dietro di noi. Era lo spettacolo più bello che avessi mai visto in vita mia, o che avessi mai sperato di vedere. A occidente c'era la costa scura di Merkkia Meridionale, e le acque marroni dell'Amazzone, lievemente increspate dal vento, si andavano a gettare nelle acque blu del Mare delle Nebbie. Nel mezzo della pianura fangosa c'era una piccola macchia bianca. La nostra navicella si avvicinava sempre di più al terreno. La macchia bianca diventava sempre più grande, e si distingueva ora chiaramente che erano le vele dell'Ahzir al'Rhaz, che procedeva ingavonato tra un groviglio di assi e di alberi. Lo stomaco mi si strinse, perché sapevo benissimo cosa stava accadendo laggiù. Stavamo combattendo disperatamente sotto un sole cocente, menavamo colpi con spade e con asce per tagliare le braccia pallide e scintillanti della cosa del mare che ormai si era arrampicata sul nostro ponte e cercava di avvolgere tutto lo scafo nei suoi tentacoli per trascinarci nelle profondità marine con lei. Non mi ponevo più domande impossibili. Potevo vedere l'Ahzir. Se mi fossi dato la pena di guardare più da vicino, avrei potuto vedere anche me stesso, che alzavo lo sguardo stupito verso quella straordinaria navicella che era comparsa all'improvviso sopra le nostre teste. Mi girai per chiedere a Rhalgorn di tenere pronte le armi, per bruciare la cosa del mare e allontanarla dalla nave che si trovava sotto di noi per mantenere fede alla promessa fatta in passato. Non ebbi bisogno di chiedere. Ci abbassammo descrivendo dei cerchi nell'aria, e un raggio di fuoco blu balenò verso il basso riducendo le acque fangose in vapore acqueo, e facendo
friggere il mostro che viveva in quel luogo. Mi ricordavo che, per un momento o poco più, la nostra sfera si era abbassata fino quasi a sfiorare il mare, fluttuando proprio sull'albero di quell'altro Ahzir. Sapevo quello che allora non avevo potuto sapere: che Connie stava controllando che quella creatura fosse davvero morta e non potesse danneggiarci più. Distolsi in fretta lo sguardo dal portello, imitato subito dai miei compagni. Solo Becky-Sue fu lasciata a fissare quei volti che guardavano verso l'alto del ponte sotto di noi... e che tuttavia erano ben dietro di lei. VENTISEI Se c'era una cosa che avevo imparato nel corso delle mie avventure, è che un problema lascia rapidamente il passo ad un altro. Così, dopo aver ritrovato la Terra ed aver salvato i noi stessi di prima dal sicuro disastro, mi trovai ad affrontare il difficile problema di quale sarebbe stata la prossima mossa da fare. «Siamo di nuovo al punto di partenza,» dissi ai miei compagni «O, più letteralmente, siamo arrivati solo qualche mossa più avanti del gioco. Quella nave sta ora seguendo il suo cammino lungo l'Amazzone. Tra breve raggiungerà il grande muro sul fiume, e noi... e loro, scopriremo la Fortezza di Amazzone.» «...Dove fronteggeremo la rivolta di Barthius, e da dove saremo scagliati tra le stelle,» completò Thareesh. Mi guardò con quei suoi occhi neri come l'agata e si attorcigliò la coda intorno agli stivali. «Io, Aldair, sono il primo a non essere particolarmente desideroso di andarmi a salutare sulla banchina. Difficilmente mi sembrerebbe la cosa più adatta da fare.» «Tutta questa faccenda non ha alcun senso,» borbottò Signar, «ma ho l'impressione che ci stiamo affannando per niente. Se avessimo incontrato noi stessi già prima - voglio dire, l'ultima volta, quando eravamo loro - sarebbe qualcosa di cui certamente non ci saremmo dimenticati, non ti pare? Così suppongo che non sia accaduto e che non accadrà di nuovo. Se qualcosa non succede una volta e tu semplicemente ti ricordi che non è successa a quel modo, perché allora, quando capita di nuovo, o sembra essere...» Signar si fermò, si morse la mascella e mi guardò confuso. «Dannazione, non sono nemmeno sicuro di ciò che dico.» Rhalgorn scoppiò a ridere e il Vikoniano lo fulminò con un'occhiataccia. «Io so quello che volevi dire,» gli dissi. «Evidentemente ci sono delle
regole in questo gioco che consiste nel saltare da un tempo all'altro. Comunque, c'è una cosa che mi riguarda.» Feci una pausa per studiare le loro reazioni. «Se vi ricordate, durante il periodo che trascorremmo alla Fortezza, trovammo il relitto di questa navicella. Era prigioniera di un groviglio di alberi e di foglie e sembrava incredibilmente vecchia. Così mi sembra chiaro che atterreremo di nuovo alla Fortezza di Amazzone. Ma perché atterriamo secoli prima che gli altri noi stessi riescano a risalire il fiume? Noi non avremmo mai scelto disfare così. Noi ce ne stiamo seduti qui a preoccuparci di come poter tornare troppo giù dopo essere partiti per le stelle. Non succede - o non è successo - affatto, così!» I miei compagni sembravano sconcertati. Sapevo a cosa stavano pensando. «Quindi c'è sia un futuro che un passato di cui noi non conosciamo nulla, giusto?», chiese Corysia. «Non c'è alcun modo per prevedere se sopravviveremo a questo naufragio, Aldair.» «No,» dissi io, «non c'è. Possiamo solo aspettare e vedere...» Connie poté fare ben poco per chiarire la faccenda, ma era fiduciosa che tutto sarebbe andato per il meglio. «Siamo apparsi sul tuo vascello a vela proprio al momento giusto, Capitano. In un'ora di un giorno fra tutti i tempi possibili che ci sono mai stati o che mai ci saranno.» «Sì,» fui d'accordo io, «questa è una navigazione tranquillissima: poi non so cosa accadrà, Connie. Quello che non mi va giù è la storia del relitto. Sì, c'è proprio qualcosa che non va in quella storia.» «Per ora non ho alcuna risposta, da darti, Capitano Aldair.» «E io nemmeno.» Alzai lo sguardo verso il posto dove pensavo si trovasse Connie. «Non c'è motivo di rimandare la cosa, non pare anche a te? Vado a dirlo anche agli altri. Vorranno essere messi al corrente.» «Quanto lontano vuoi spingerti, Capitano?» «Sei mesi, credo. O forse un anno. Dopo la nostra partenza dalla Fortezza di Amazzone. Dannazione, vorrei farla finita il più presto possibile, Connie! Dobbiamo distruggere quel rifugio di sfere sotto la Fortezza. Finché quel posto esiste ancora...» «Capitano, che differenza fa? ojt'Miyer non ha bisogno delle capsule ora. Ha delle navicelle che può far andare tranquillamente dove vuole, come d'altra parte sei in grado di fare tu.» «Lo so,» dissi io con amarezza. «Ma sono alle corda ormai, Connie. For-
se anche le navicelle hanno bisogno di qualcosa per... per aiutarle a raggiungere il tempo e il luogo giusti. Forse la Fortezza è una sorta di torre di segnalazione, un segnale. Non so... solo che devo provare a fare qualcosa!» «In seguito penseremo anche a questo,» disse lei con calma. «Sono certa che tutto andrà per il meglio, Capitano.» Le sue parole non riuscirono assolutamente a tranquillizzarmi. Chiunque avesse inventato e costruito Connie, aveva voluto che lei parlasse con quella voce calma e un po' melliflua in qualsiasi occasione. Se ojt'Miyer fosse piombato all'improvviso sul ponte e mi avesse spaccato in due con un'ascia da guerra, ero sicuro che lei avrebbe riferito i particolari dell'incidente sempre con lo stesso modo tranquillo e disinteressato. «Sembra che tu sia morto, Capitano Aldair...» Connie era davvero una persona simpatica, ma alle volte a dir poco sconcertante. Click! Dalla spessa finestra di quarzo vidi scorrere i giorni e le notti... Click-Click-Click! Il tempo perse la mia vita nelle sue mani, la strinse fino a ridurla in polvere e mi gettò attraverso gli anni in un battibaleno... Crescevo, combattevo gli Stygiani tra gli Eubironi, a Silium incontravo Rheif, il cugino di Rhalgorn, diventavo schiavo dei Nicieiani... veleggiavo sul Mare delle Nebbie e poi venivo scagliato tra le stelle... Lungo il cammino diventavo il fantasma di me stesso, spiavo quell'altro Aldair che combatteva sul ponte di Rhemia, e poi ancora fuori le coste di Kenyarsha... Sì, lì c'era ogni respiro della mia vita... che scorreva via così veloce come se nemmeno ci fosse mai stato davvero... Click! Ci lanciamo tutti verso la finestra per guardare giù. In un modo o in un altro, il tempo era passato. La scura colonna di una tempesta incombeva a nord; prima non c'era. «Connie, sai dirmi quanto siamo lontani?» Connie attese a rispondermi più a lungo di quanto mi fossi aspettato. «Non ne sono certa, Capitano. Sembra che ci siano delle... delle irregolarità.» Mi accigliai rivolto verso il soffitto. «Per favore, traduci con parole più semplici.» «Sì, Capitano. Non sono perfettamente sicura in che periodo noi veramente ci troviamo.»
«Interessante, Connie, molto interessante.» «Béh, comunque, siamo nel dove giusto,» disse Signar. «Quello è il fiume, e dietro quell'ansa, lì, c'è la strada che porta alla Fortezza. Mi ricordo delle secche insidiose che c'erano in quel posto e...» Signar spalancò le mascelle. «Per il Respiro del Creatore, cos'è quello?» «Navicelle, Capitano: sono sotto di noi, ma si stanno sollevando in fretta,» si intromise Connie. «Quattro... sei... nove in tutto.» Navicelle? Da dove! Accadde in un lampo, prima che riuscissi a raggiungere la finestra. Ci furono subito addosso, fecero circolo attorno a noi: sfere blu come il colore del cielo, grandi come la nostra. «Fuoco!», ululò Signar. «Connie, fai qualcosa!» «No,» dissi io secco. «Aspetta: è troppo tardi per questo.» «Aldair,» urlò Corysia, «guarda i loro scafi!» Indicò un punto fuori del portello. Io strizzai gli occhi contro il sole. C'era un cerchio bianco disegnato su ogni scafo. All'interno del cerchio c'era una carta geografica della Terra, e dietro quella, due mani strette - una era la mano priva di peli di un Uomo, l'altra, la zampa pelosa di una bestia. «Grandi Dei,» mormorò Signar mentre veniva verso di me, «Che diamine significa?» «La risposta è semplice,» tagliò corto Rhalgorn, «le cose dell'Uomo hanno stretto un patto con ojt'Miyer. Cosa c'è di così sorprendente?» «Non è vero,» sbotto Becky-Sue. «Non avrebbero mai fatto una cosa simile!» «Hai ragione, sono sicuro,» replicò con fare sdegnoso Rhalgorn. «I padroni non stringono la mano dei loro schiavi, né lì piazzano nelle loro effigi.» Mi girai a guardarlo. «Hai ragione.» Risi mentre gli davo una pacca sulla spalla. «Più di quanto tu non pensi, Rhalgorn!» Rhalgorn si accigliò. «Non vedo quale motivo ci sia per divertirsi. Sei fuori di te, Aldair. Non ti riconosco.» «Oh, ma non è vero. Non vedi...?» Prima che potessi rispondergli, sei navicelle virarono con una manovra rapidissima e uscirono dal nostro campo visivo. La loro partenza fece tremare violentemente la nostra navicella e Connie ritenne opportuno allontanarsi a non so quante centinaia di leghe di distanza in due vertiginosi secondi. Fiamme blu brillarono nel cielo e caddero appena dietro di noi.
All'improvviso il cielo si riempì di navicelle. Navicelle di tutti i colori immaginabili si spostavano all'impazzata nei cieli da un orizzonte all'altro. Le navicelle blu erano chiaramente le meno numerose: per ognuna di loro c'erano una dozzina di altri mezzi rappezzati e malconci con delle strisce bizzarre e multicolori: nere, gialle, rosso sangue, marroni. Ragnatele di fuoco solcavano il cielo. Tre navicelle blu spruzzarono una specie di matassa aggrovigliata contro una macchia color ocra che era stata evidentemente schedata come un nemico. Quello si scostò di lato, si accorse della trappola tesagli dalla quarta navicella, ma era troppo tardi. Non ci fu nessuna esplosione violenta; semplicemente il cerchio giallo si dissolse prima di un alone e poi scomparve del tutto. Connie ci fece fare un altro girotondo nei cieli. Sembrava essere in grado di anticipare le mosse che gli altri vascelli facevano per tentare di colpirci. Ci rendeva agili come un ago e ci faceva uscire indenni dall'ammucchiata della battaglia. Sterzando... slittando con destrezza da una parte all'altra... svolazzando da uno spicchio di cielo a un altro. Mi resi conto che, quando potevamo, le navicelle blu ci stavano aiutando; ci sorpassavano rapidissime e attiravano su di loro uno dei nemici, facendo a loro volta fuoco su di lui. A un certo punto Connie scese in picchiata per passare al di sotto di un paio di sfere e riuscì a stento a portarci in un punto sicuro. Una delle due continuò a seguire la rotta sbagliata... l'altra descrisse un arco strettissimo e ci venne contro. Stavo a guardare e urlai qualcosa che nessuno udì. La navicella nera e rosso lacca si avvicinava sempre più veloce e faceva fuoco a ripetizione. Non aveva nessuna intenzione di virare! Una navicella blu ci vide: virò per cercare di mettersi tra noi e il nostro nemico. Ma la navicella nera e rossa era più veloce. Le fiamme lambirono le nostre fiancate, la navicella sembra urlare e descrisse percorsi iperbolici nei cieli. «Siamo stati colpiti.» Annunciò Connie con la sua solita calma. «Molto gravemente, Capitano.» «Per la Vista del Creatore, Connie... questo lo so!» Il mondo si capovolse. La Terra e il cielo si scambiarono il posto. Becky-Sue lanciò un urlo. Corysia affondò le unghie nel mio braccio. Io feci in tempo a scambiare una rapida occhiata con Rhalgorn al chiarore di quella luce tremolante. Poi lui mi rivolse un ghigno ampio e idiota. Se fossi uscito vivo da tutto ciò, gli avrei chiesto cosa ci trovava di così divertente...
Lo stomaco mi salì alla gola. Click-Click-Click! Nero-bianco-nero-bianco-nero... Stavamo scendendo in picchiata e Connie ci stava spostando in continuazione e con mosse repentine fuori e dentro il tempo. In qualche recesso della mia mente mi domandai perché, per tutti i diavoli, lo stesse facendo... Non avevamo già abbastanza problemi in quel tempo? La navicella colpì qualcosa, rimbalzò, fu scossa da tremiti, e alla fine si fermò. Mi tirai su a sedere, aprii e chiusi gli occhi più volte. Guardai i miei compagni. L'aria era pesante e c'era un forte odore di ferro misto a quello del rame. «Connie, ce l'hai fatta,» urlai, «ed è praticamente un miracolo che noi...» «Capitano,» mi interruppe, «non c'è tempo per parlare. Il miracolo di cui parli non durerà per sempre. Ho rallentato il tempo per farvi salvare: siamo indietro di uno o due secoli rispetto al tempo in cui ci trovavamo. La navicella sta implodendo rapidamente, mentre noi risaliamo il corso degli anni... tutto accadrà in meno di un secondo, anche se voi non ve ne accorgerete.» «Connie,» sbottai, «un secolo prima! Grandi Dei, noi non possiamo stare qui!» «Voi non siete qui... io sono qui. Andate via... presto. Andate via, Capitano... Non posso fermarla!» Ci guardammo l'un l'altro per un breve attimo, poi ci lanciammo per la stretta rampa di scale. Signar urlò con quanto fiato aveva in gola e raccolse dietro di lui tutto l'equipaggio. Poi ci trovammo tutti a terra a correre: solo che non correvamo affatto. Guardai Signar. Stava nuotando nella melassa... trascinando una bracciata dietro l'altra come se fosse agonizzante... mi girai indietro per guardare la navicella... il movimento era continuo... fummo fatti prigionieri dalla pesante melma del tempo della navicella... ci trascinò indietro... indietro negli anni... Poi, all'improvviso, fui libero: mi affannavo sul terreno umido e morbido, e respiravo con lentezza la calda aria tropicale. Mi girai ancora per guardare la navicella. C'era una macchia incolore. La navicella giaceva lì, accartocciata su se stessa. Tutt'intorno a lei cresceva una vegetazione aggrovigliata fatta di vigne e alberi antichissimi. Era come se avessi già visto quella scena, quando avevamo risalito l'Amazzone e a-
vevamo trovato la Fortezza. Era chiaro che era rimasta lì per secoli. «Addio, Connie,» dissi tra me e me. «Non ti dimenticherò tanto in fretta.» VENTISETTE Ci spostammo velocemente da quel posto e non ci guardammo più indietro. Essere sballottati dal proprio passato al proprio futuro è una cosa che lascia estremamente sconcertati. Io per primo pensavo che fossimo fatti per assistere al passare degli anni con un ritmo molto più regolare: un pezzetto alla volta. Ci incamminammo nel pomeriggio caldo ed afoso e imboccammo il sentiero che ci era già familiare e che portava alla Fortezza di Amazzone. Signar mandò i suoi esploratori in avanscoperta, perché, anche se le navicelle blu che si erano alzate in volo da quel luogo ci erano sembrate amiche, non potevamo essere certi di chi ci saremmo trovati di fronte. «...o quando,» come prontamente puntualizzò Rhalgorn. «È una cosa davvero indecente, Aldair, non sapere mai quale compleanno ti sei lasciato alle spalle e quale sarà il prossimo.» «Abbiamo già passato tutto ciò,» dissi. «Non fa molta differenza venire scagliati mille anni avanti o un milione indietro, Rhalgorn. Non ha niente a che fare con i compleanni. Ad ogni modo, non dobbiamo essere molto lontani da un tempo che troveremo abbastanza familiare. Un mese dopo la nostra partenza dalla Fortezza, o forse un anno. Non più di questo.» Rhalgorn ammiccò con i suoi occhi rosso scuro. «Naturalmente,» disse con tono seccato. «È com'è che non mi ricordo di navicelle blu con quegli emblemi così particolari dipinti sui loro scafi... o di battaglie combattute nei cieli con altre navicelle multicolori?» «Non ho detto che non è possibile che si tratti di più di un anno. Potrebbe anche essere.» Rhalgorn si blocco e mi guardò. «Hai dimenticato quello che ci ha detto Connie? Ci ha portati indietro nel tempo per farci salvare. Ho l'impressione che ci abbia portato un bel po' più indietro di quanto lei stessa non avesse immaginato, e che ci abbia lasciato lì. Quelle erano le navicelle dell'Uomo che si combattevano tra di loro, Aldair. Molto tempo prima che tu ed io fossimo creati. Non c'è nessun'altra spiegazione logica a ciò che abbiamo visto.» «No. Connie sapeva ciò che stava facendo. Non credo che quello che hai
detto sia vero.» «Bene.» Si strinse nelle spalle. «Sarò molto contento di scoprire che mi sono sbagliato.» Qualche minuto dopo uscimmo fuori dal folto della foresta e li vedemmo. Il cuore per poco non cessò di battere a quella vista. Allora Rhalgorn aveva ragione ed io mi sbagliavo. Le tre figure che ci stavano davanti erano delle cose dell'Uomo, non appartenevano a nessuna delle nostre razze! Ci fermammo e rimanemmo a squadrarci incuriositi attraverso la piccola radura che ci separava. Gli Uomini erano vestiti con degli abiti a macchie verdi, dello stesso colore della giungla. Avevano delle armi allacciate alle cinture, ma non accennarono a nessun movimento per prenderle. Io feci un passo avanti. «Chi siete, Uomini, e da dove venite?» Uno, il più alto di loro, mi guardò e rise. «Potrei fare a te la stessa domanda. Non ti ho mai visto prima d'ora.» Una risposta davvero particolare, decisi. «Siete venuti per unirvi a noi?», chiese. «Se è così, siete i benvenuti.» «Unirci a voi? Grandi Dei, questa è un'offerta davvero strana da parte di un Uomo!» Il sorriso del tipo svanì. Si girò verso i suoi compagni, poi si fermò e si guardò alle spalle. Un altro Uomo comparve da un rifugio nascosto tra gli alberi e si diresse verso di me. Era alto, molto magro e con i capelli completamente bianchi. Gli occhi blu chiari e la pelle rugosa indicavano che era molto avanti negli anni. Si fermò a pochi passi da me e sorrise. «Conosco quest'individuo, Morgan, anche se lui non si ricorda di me.» Tese la sua mano verso di me. «È passato molto tempo, Aldair... almeno per me.» Io lo fissai allibito. C'era qualcosa che mi era familiare in lui, ma non riuscivo ad afferrare cosa. Gli Uomini si assomigliano tutti moltissimo ed è difficile distinguerne uno dall'altro. Certamente, io non potevo conoscere nessun Uomo sulla Terra, perché erano scomparsi prima che io venissi al mondo. «Aldair,» ripeté lui, «sono cambiato così tanto? Davvero?» In quel preciso istante Becky-Sue lanciò un urlo, mi spinse lontano e si gettò tra le sue braccia. «Caldus!» urlò, nascondendo le sue lacrime nell'incavo della sua spalla. «Buon Dio, sei pronto tu!» Io feci qualche passo indietro, molto scosso... perché in effetti era davve-
ro Caldus, l'Uomo che avevamo dato per morto sotto Fe'niel non più di una settimana prima! Lui accarezzò Becky-Sue con dolcezza e i suoi vecchi occhi brillarono di gioia e di dolore insieme. Io distolsi lo sguardo, perché non era bello stare a guardare quello che in quel momento succedeva tra quei due. Si erano ritrovati. Ma il tempo aveva scavato un fosso profondissimo tra loro. Non vedevo due amanti che si riunivano. Vedevo un vecchio che teneva abbracciata una bambina. Ci trovavamo su un'ampia terrazza, scavata nelle poderose pareti della Fortezza di Amazzone. Quando ero partito da quel posto, la giungla aveva quasi soffocato la sua superficie con la crescita di cinquanta secoli e più. Ora le cicatrici della battaglia avevano bruciato ogni cosa vivente per miglia e miglia tutt'intorno, e avevano eliminato i primi tre livelli della Fortezza stessa. Caldus sorseggiava la sua birra e di tanto in tanto guardava fuori. «È una lotta continua per poter sopravvivere, Aldair. Qualche volta riusciamo a colpirli, e li danneggiamo anche seriamente. Ma il costo che paghiamo è comunque molto alto, e un giorno o l'altro la spunteranno. Ci sono rimaste oramai poche navicelle: venti forse, mentre loro ne hanno centinaia. Loro possono permettersi di perderne qualcuna, mentre per noi ogni perdita è un vero e proprio disastro.» «Non si può fare in nessun altro modo?», gli chiesi. «Catturare le loro navicelle quando atterrano, o bloccarle nel luogo di partenza?» Caldus scosse la testa. «Non ne abbiamo un numero sufficiente per adottare una tattica simile, Aldair. Ci eliminerebbero in breve tempo, e non avremmo ottenuto nulla.» «Voi avete fatto ottime cose finora, a quanto vedo.» «Siamo qui, e siamo ancora vivi.» Mise un pugno nell'altro, e i suoi occhi stanchi brillarono di un lampo di rabbia e di fierezza come quelli di un ragazzo. «Loro sanno che gli Uomini e le Bestie sono ancora alleati per combatterli, ed è già qualcosa, Aldair. Sì, è già qualcosa!» In verità, questo non assomigliava in nulla al Caldus che avevo conosciuto un tempo. Il lumacone pallido e spaventato che si era sempre nascosto ed aveva accettato la schiavitù come il male minore, ora urlava vendetta contro i suoi nemici. Era stato rafforzato e provato dagli anni, e ora era di nuovo un vero Signore della Terra. Ad ogni modo, Caldus sarebbe rifuggito con piacere da quei titolo e sa-
rebbe stato capace di dirigere tutta la sua rabbia contro chi avesse osato tirarlo fuori dal passato. Le due mani strette sul suo blasone rispecchiavano fedelmente il piccolo mondo all'interno della Fortezza di Amazzone. Il Grande Vikoniano, Nicieiani ricoperti di scaglie verdi e molti della mia stessa razza uniti in libertà e su un piano di completa uguaglianza con l'Uomo. In verità era veramente sorprendente andare in giro per la Fortezza e chiacchierare con quelli che erano venuti a combattere lì. Appartenevano a una razza diversa da tutte quelle che mi era capitato di conoscere nel corso delle mie peregrinazioni intorno al mondo. C'era qualcosa nei loro occhi e li distingueva da tutti gli altri: da quelli che non conoscevano la verità sulla loro eredità. Molti avevano trascorso lì la maggior parte della loro vita, combattendo fianco a fianco con l'Uomo. Guardavano alle cose dell'Uomo con un atteggiamento diverso, perché li avevano già conosciuti in veste di amici e compagni di lotta. E, a loro volta, gli Uomini consideravano alla stessa maniera le Bestie della Terra. Questa era naturalmente un'ottima cosa, ed ero orgoglioso di esserne testimone. Eppure, ci volle un po' di tempo per farmici abituare. Sia per me che per i membri del mio equipaggio che avevano visto l'altra faccia della medaglia, non era una cosa tanto facile da dirigere. In un modo o nell'altro, non potevamo fare a meno di provare risentimento verso quel quadretto di pace e fratellanza. Secondo il nostro modo di ragionare, non era passato più di un mese da quando eravamo partiti da quel posto. Non riuscivamo a farci una ragione del fatto di essere volati attraverso il tempo come una pietra lanciata su uno stagno... e che invece per gli altri che vivevano lì fossero passati cinquant'anni e più. In verità, quello non era per niente il nostro mondo. Era il loro. Noi avevamo avuto una parte nella sua costruzione, ma era difficile dire quale. Ci sentivamo stranieri nelle nostre stesse case. Non fu un'impresa facile arrivare a conoscere la gente della Fortezza di Amazzone. Erano abbastanza socievoli e desiderosi di fare la nostra conoscenza, ma ciò non voleva dire che ci accettassero. Con nostra grande sorpresa apprendemmo che non ci vedevano come esseri veri, in carne e ossa come loro, perché per loro eravamo degli eroi, delle leggende tornate a vivere. Caldus aveva raccontato la storia delle nostre avventure su questo e su altri mondi, e non c'era neanche un bambino nella Fortezza che non conoscesse i nomi di Aldair, Rhalgorn e degli altri. Così, mentre noi incontravamo un bel po' di problemi ad abituarci a quel
popolo, per loro era un compito ancora più arduo. Pochi si sarebbero sentiti a loro agio a dividere un boccale di birra con un Mito. Caldus intuì il mio sconforto. «Questo è il prezzo che pagano gli eroi,» disse trattenendo a stento un sorriso. «Prendiamo molto seriamente le nostre leggende, da queste parti.» «Sì,» dissi io un po' seccato. «È facile da dire se non sei tu uno di loro. Mi sento più un fenomeno da baraccone che un eroe, Caldus. I bambini mi ridono dietro. I guerrieri hanno paura di parlarmi, hanno paura che in un modo o nell'altro possano offendermi. Ma io non mi offendo così facilmente, amico mio. E non sono certo una statua nel parco.» «Non ancora, almeno.» Caldus rise e mi abbracciò affettuosamente. «Passerà. Molto presto saranno tutti occupati a combattere e avranno poco tempo per adorare il dio Aldair.» Poi il suo volto si fece serio e i suoi occhi blu di Uomo si fissarono su di me. «Non risentirti di ciò che sto per dirti, è solo un'idea che mi sono fatto; ma non mi sembra tanto cattiva. Il tuo arrivo ha ridato loro la speranza, e proprio in un momento in cui avevamo disperatamente bisogno di aggrapparci ad una speranza. Neanch'io sono veramente certo di non credere alle storie che sento.» «Credere a quali storie?» Fissò lo sguardo nell'oscurità. «Che il tuo ritorno ci porterà fortuna. Che... che tu sei quello che stavamo aspettando.» «Via, smettila ora,» protestai, e mi scrollai di dosso quella storia con una risata. «No.» Alzò in alto una mano. «Io sono vecchio, Aldair. Ma non ho perso la ragione.» Mi guardò e sorrise. «Quando tu mi hai conosciuto, io non credevo in niente. Ero un completo idiota come solo un Uomo può esserlo, credo, e chiamarmi così è un eufemismo. Pensavo di sapere tutto quello che c'era da sapere sul nostro rifugio. In verità, non sapevo proprio nulla. La paura era il mio Dio, e la mia fede era una bugia enorme e mostruosa.» «Eri nato con quelle convinzioni,» gli ricordai. «Non ci potevi fare nulla e non devi fartene una colpa.» Si accigliò e scosse la testa. «Tutte le creature sono nate con delle convinzioni. Questo non vuol dire però che debbano rimanerci ancorate per tutta la loro vita.» Si fermò e si morse il labbro pensieroso. «Per te non è stato così, Aldair. Tu hai vinto l'ignoranza del mondo intero.»
Fui costretto a ridere di nuovo. «Vieni, Caldus, e non cominciare anche tu a fare di me una statua. Tu conosci la mia storia bene quanto me. Sono stato coinvolto in questa ricerca proprio come te: non mi sorprenderebbe che fosse stato così per tutti quelli che vengono definiti eroi. Una persona viene lanciata come un truciolo sulla corrente e va dove la corrente lo porta. È solo un'impressione il fatto che lei sappia ciò che sta facendo.» Gli occhi di Caldus si illuminarono. «Ah; non è questo il punto, giusto? Chi lancia il truciolo in quella corrente e lo mette sulla retta via? Credo in un tipo di Creatore diverso da quello in cui credevo nel nostro Rifugio. Io non credo che Lui rivolga verso le sue creature un occhio cieco.» Rimasi a guardare quella cosa dell'Uomo per un lungo momento. Non lo conoscevo più, o meglio non lo riconoscevo più. «Che diamine mi stai dicendo Caldus! Io non so neanche dove tutto ciò mi porterà.» «Ti porterà dove sei già stato,» disse lui con calma. «Tu sei stato aiutato lungo il tuo percorso, e sei stato tu stesso a dirmelo. La creatura che hai incontrato sotto Xandropolis. Quella con gli occhi simili a semi di zucca.» «Sì, è vero: questo mi è successo..» «E non pensi che queste forze abbiano ancora una parte nella partita che stai portando avanti?» «In verità,» gli dissi, «non ne sono più così sicuro. E come potrei esserlo? Dove mi hanno realmente portato quelle forze? Il mondo era incatenato alla storia dell'Uomo quando ho iniziato. Io ho spezzato quelle catene e ho riportato alla luce la verità. E a che scopo in fin dei conti? Sotto parecchi punti di vista non era un mondo poi così cattivo. Non più crudele e retrogrado di tanti altri, immagino. Ma che cos'è ora? È stata la mia intrusione che ha fatto raggiungere un orrore più grande di quello che gli Uomini o le Bestie fossero ancora riusciti a creare.» Mi alzai e mi misi davanti a lui. «Stai di fronte al leggendario Aldair, Caldus. L'eroe che ha aperto ad ojt'Miyer le porte della Terra!» Caldus si passò una mano sul volto ricoperto di rughe. «Tu hai abbandonato gli Dei, Aldair, e questa non è una buona cosa. Fortunatamente non credo che loro abbiano abbandonato te.» «Perfetto,» dissi io con amarezza. «Mi fa piacere sentirlo. Spero che anche ojt'Miyer abbia sentito questa notizia...»
VENTOTTO La storia di Caldus e di come era arrivato alla Fortezza di Amazzone è una cronaca a sé, ed io qui posso solo cercare di darne un'idea. Copre un periodo di cinquanta lunghi anni ed una saga di audaci avventure come tutte quelle che si rispettino. Caldus è molto riluttante ad apparire un eroe agli occhi degli altri, ma merita ampiamente quest'appellativo. Dopo che l'avevamo dato per spacciato nelle viscere di Fe'niel, riuscì a sfuggire alla furia dei mostri e visse per circa sei mesi in quei tunnel, sempre a stretto contatto con gli Arrotini e sempre sul punto di morire di fame. Alla fine riuscì di nuovo a farsi strada verso la superficie, e trovò le altre cose dell'Uomo che erano fuggite dalla navicella appena eravamo atterrati, o meglio, ciò che ne rimaneva, perché molti di loro si erano fatti catturare di nuovo. Il primo anno che li liberò dalla schiavitù pensarono che fosse pazzo. Il secondo anno riuscì a far tornare in loro dei sentimenti e il coraggio. E il terzo anno li condusse all'attacco di una navicella dei mostri e massacrò tutti quelli che si trovavano a bordo. Fu l'inizio dei nuovi Signori della Terra... Caldus sapeva di non poter combattere ojt'Miyer con quelle imbarcazioni più lente che navigavano tra i mondi. ojt'Miyer stesso aveva ora due di quei vascelli senza tempo, e l'unica navicella di Caldus non poteva certo competere da sola contro tutte quelle di ojt'Miyer. La ragione gli suggerì che, se un nascondiglio di sfere dorate si trovava sotto l'antico luogo di atterraggio a Fe'niel, altri se ne dovevano trovare su altri mondi. ojt'Miyer, naturalmente, fece anche lui rapidamente lo stesso ragionamento. Tra loro iniziò una gara per trovare i preziosi vascelli, una gara che Caldus sapeva non sarebbe mai stato in grado di vincere. I mostri avevano armi e navicelle a volontà. Lui aveva solo una navicella e pochi Uomini male addestrati. Tuttavia Caldus non rimase a mani vuote. Dopo dieci lunghi anni di battaglie su una dozzina di mondi differenti, riuscì a mettere insieme una formidabile flotta di navicelle e un numeroso esercito di fedelissimi. I mostri erano comunque sempre più forti e numerosi di lui. Alla fine lo cacciarono da tutti i ventisette mondi. Caldus non aveva più nessun posto dove andare. Partì con la sua gente per la Terra, la sua antica patria. Non si era mai riuscito a perdonare per quel che aveva fatto, anche se per me era più che chiaro che ojt'Miyer non aveva seguito le sue tracce, ma
le mie. ojt'Miyer aveva cercato affannosamente e per lungo tempo la chiave d'accesso alla Terra. Lì si potevano catturare schiavi a volontà e, soprattutto, lì c'ero io. Diciassette anni dopo l'arrivo di Caldus, ojt'Miyer apparve nei cieli della Fortezza di Amazzone. E da quel giorno fino ad ora, le navicelle blu avevano avuto sempre un bel daffare. «Sono stato io a portare la distruzione qui,» disse Caldus con grande calma. «Sono io che ho reso schiava la Terra, e ora non c'è più niente da fare!» «Ascolta,» gli dissi, «Questa è la mia storia, ricordi? Se tu non mi permetti di addossarmi la colpa, come potrai addossartela tu? Perché non diciamo le cose come stanno, e non diamo anche ad ojt'Miyer la sua parte? Dio sa se la merita!» Caldus non avrebbe accettato nulla di tutto ciò. Gli anni avevano affaticato incredibilmente le sue spalle, e l'amarezza che si portava nel cuore non gli avrebbe permesso di darsi pace. Nella sua mente aveva tradito il mondo dei suoi padri ed arrecato ancora più dolore alle Bestie che ora vivevano in quel mondo. In verità, credo che avesse ragione. Avevamo giocato tutti e due una partita che non portava a nulla. «Caldus mi ha detto di non disprezzare gli Dei,» dissi a Corysia, «eppure lui stesso ha abbandonato tutte le speranze.» «Forse,» disse lei. «Anche se penso che lui creda davvero che tu abbia portato una nuova speranza nella Fortezza. Molte persone con cui ho parlato pensano che sia vero.» Risi forte. «Il fatto è che Caldus vuole che loro ci credano, cara Corysia. È alle corde ormai. Parlare a dei guerrieri che in ogni nuovo attacco dei mostri perdono altri amici: cosa vuoi che ti dicano? Oppure che hanno visto trasportare i loro bambini nelle navicelle degli schiavi dalla Gaullia o da Niciea. Loro ti daranno sempre una versione diversa dei fatti. Questa è una battaglia perduta, amore mio. È stata perdente fin dall'inizio. Caldus lo sa meglio di chiunque altro.» Corysia si guardò pensierosa le mani. «E tu Aldair, tu cosa faresti al suo posto?» «La stessa cosa che sta facendo lui, ovviamente,» le risposi senza pensarci su neanche un attimo. «Continuerei a combattere fino alla fine. Cosa altro c'è da fare?»
«Qualcosa che Caldus ha dimenticato,» disse lei serenissima. «Qualcosa che non mi aspettavo avresti dimenticato anche tu. Pensare di vincere, per esempio.» «Hai ragione. Anche se è più facile a dirsi che a farsi.» «Béh, certo Aldair,» disse lei con aria assente. «Sono sicura che sia così. Tu sei un guerriero e io sono solo una femmina. Se tu dici che siamo perduti...» «Non ho detto esattamente così.» «...Se tu dici che ormai tutto è perso, che ojt'Miyer alla fine l'avrà vinta su tutti noi, io pure mi convinco che sarà così.» Guardai l'espressione tranquilla del suo volto. Era stata un'ottima imitazione del mio modo di parlare ed io non potei fare a meno di ridere forte. «Solo una povera femmina, hai detto, vero? Per la Vista del Creatore, Corysia, il sangue di Rhemia scorre abbondante nelle tue vene, questa è la verità. Tu sì che saresti stata un'ottima Imperatrice. Hai ereditato tutta l'astuzia e l'intelligenza di tuo zio Augustus!» «Mi sarebbe piaciuto,» disse con aria altezzosa, «se non fossi stata rapita da un barbaro.» «Bisogna stare attenti a quei barbari. Hanno buon gusto e prediligono le fanciulle belle e nobili.» «Questo è vero.» Sorrise lei. «E se poi non gli dai retta, si intestardiscono ancora di più.» «Almeno per uno di loro, questo è sicuro,» le dissi. Ci trovavamo alla Fortezza da non più di tre giorni, quando ojt'Miyer venne di nuovo ad attaccarci. Capii subito che non si trattava di schermaglie ordinarie - già prima aveva impegnato tutte le sue navicelle - ma in quest'attacco ce n'erano ancora di più che nell'ultimo. «È ciò che temevamo,» mi disse Caldus cupo in volto, «Stavolta ojt'Miyer ha intenzione di far sbarcare le sue truppe, e le sue macchine da terra. Ci ha provato almeno un'altra mezza dozzina di volte nel corso di questi ultimi anni, ma siamo sempre stati abbastanza forti da respingerlo. Penso proprio che questa volta abbia deciso di farla finita.» «Può farcela?» Caldus mi guardò per un attimo e poi si precipitò nei sotterranei per incontrarsi con i suoi comandanti. Pochi momenti più tardi le spesse pareti furono scosse e cominciarono a tremare sotto i colpi di ojt'Miyer. Campane d'allarme suonarono tutt'intorno alla Fortezza. Soldati armati e provvisti di armature mi sciamarono a fianco e andarono a raggiungere i loro posti. Al-
cuni erano addetti alle grandi armi fornite di più barili che si trovavano incastonate nella pietra tutt'intorno alla Fortezza. Altri si diressero in alcune posizioni strategiche da dove era più facile neutralizzare l'esercito dei mostri che calava dalle scure navicelle. Per la prima volta nella mia vita, mi sentii praticamente inutile. Io sono un guerriero, e se c'è una battaglia che si svolge vicino a me, io sono sempre stato nella mischia. Non ho mai strisciato carponi come un bambino impaurito e tanto meno mi sono nascosto la testa tra le gambe. Eppure, in quell'occasione, mi sentivo come un relitto del passato con quell'antiquata spada di ferro e l'arco di legno. Qui non c'era assolutamente bisogno di me. Anzi, ancora peggio, probabilmente ero d'impaccio agli altri. «Non mi piace tutto ciò,» dissi a Rhalgorn; «mi sento come un pezzo esposto in un museo.» «E anche molto antico,» ghignò lui. Mi accingevo a rispondergli. Un lampo passò sulla mia testa e con il suo rumore seppellì le mie parole. Cominciò a cadere una cascata di pietre che ci fece cadere. Una cosa dell'Uomo ricoperta di ferro sul torace e sulle braccia, si fermò e si diresse veloce verso di noi. «Signori... dovete mettervi al riparo, stiamo subendo un attacco!» Rhalgorn si passò una mano sul muso e grugnì. «Siamo ancora capaci di rendercene conto, amico. Questa non è la nostra prima battaglia, te lo posso assicurare.» L'Uomo sorrise educatamente. «Sì, certo. Solo che...» «Solo che?», dissi io. «Tu forse ti troverai un posto dove ripararti. Il mio amico ed io andremo a cercarci il posto dove si sta combattendo. Non ci interessano i buchi per i conigli.» L'Uomo arrossì. Una raffica di colpi fischiò vicinissima alle nostre orecchie e si abbatté poco lontana da noi. Lui si girò e ci fece segno di seguirlo. Ci affrettammo giù per una scala di pietra mentre la stanza esplodeva dietro di noi. Sapevo dove erano ormeggiate le sfere e condussi Rhalgorn in quella direzione, cioè verso il livello più basso della Fortezza. La grande stanza era ravvivata dal vocio di moltissime persone. Navicelle blu schizzavano fuori e dentro la stanza seguendo un ritmo frenetico di cui non riuscivo a seguire lo schema. Uomini e Bestie correvano di qua e di là, portando armi e munizioni alle navicelle, e prendendo i morti e i feriti. Mi guardai intorno ed individuai un capitano che conoscevo. Era un tipo
magro e ossuto, con una faccia scavata, occhi blu profondi ed un sorriso aperto. Il suo nome era B'Wayne, ed era uno dei fedelissimi di Caldus. Signar mi aveva detto che gli altri piloti delle navicelle lo avevano soprannominato «l'Indistruttibile» Wayne, perché in battaglia riusciva sempre a cavarsela e a ritornare illeso. «B'Wayne,» gli dissi, «Rhalgorn ed io vorremmo venire con te. Qui non serviamo praticamente a nulla e forse potremmo essere di qualche aiuto a bordo della tua navicella.» B'Wayne ci guardò e aggrottò le sopracciglia. «Sono sicuro che voi vi sapreste rendere utili, Mastro Aldair. Solo che Caldus mi taglierebbe la testa se io...» «Ho capito,» tagliai corto. «Siamo divinità del passato e non dobbiamo subire danni.» «Caldus in questo momento è impegnato da altri problemi,» rifletté Rhalgorn. «Non penso che avrà il tempo di controllare ogni navicella che parte.» «E in particolare questa qui,» aggiunsi io, «che sembra essere in qualche modo fuori del suo campo d'azione.» B'Wayne ci lanciò un'occhiata sfuggente. «Mi dispiace, ma quello che mi state chiedendo è assolutamente impossibile.» Guardò di sottecchi la superficie rattoppata del suo scafo. «Ad ogni modo se volete salire un attimo a bordo per dare un'occhiata in giro, siete liberi di farlo. Io devo andare a dire una cosa a quel tipo laggiù.» Senza voltarsi indietro, si diresse a grandi passi verso un grosso Vikoniano che si stava dando da fare attorno alla bocca di un'arma da fuoco. Mi girai per parlare con Rhalgorn. Lui non c'era già più: era salito a bordo. Per la prima volta, capii veramente cos'era diventato il mondo. Caldus e gli altri avevano ragione. Per lo più, non era più un mondo adatto ai guerrieri. Certamente, non c'era posto per noi nei cieli, perché quella era una battaglia troppo veloce per le menti sia degli Uomini che delle Bestie. Wayne l'«Indistruttibile» occupava la sedia del comando, ma una voce chiamata Leigh ci scagliò nel groviglio di scure navicelle descrivendo archi e curve ad una velocità che era impossibile da immaginare. Anche le armi dipendevano da lei, e le usava con assoluta precisione, spedendo uno dietro l'altro i vascelli dei mostri fuori del tempo. Non appena una navicella color giallo e rame scomparve dalla vista,
B'Wayne lanciò un urlo acutissimo e mostrò il pugno in direzione dei cieli. «Maledizione, Mastro Aldair, oggi sì che li stiamo trattando come meritano! Ne abbiamo fatte già fuori tre. E non finirà qui!» «Noi?» Vidi Rhalgorn pronunciare quell'unica parola quasi in silenzio e rivolto verso di me. Io chiaramente afferrai subito ciò che voleva dire. Che utilità c'era a rischiare la vita dei piloti in quelle navicelle? Era più che evidente che la macchina chiamata Leigh poteva farne benissimo a meno. «È del tutto simile a starsene tranquilli davanti a un bel boccale di birra,» disse Rhalgorn sottovoce, «e mandare la tua spada in battaglia da sola.» B'Wayne lo sentì e si girò verso di lui ridendo. «Non è affatto come sembra, Mastro Rhalgorn. Non ce ne stiamo comodamente seduti qui mentre Leigh fa tutto il lavoro da sola.» «Béh...», Rhalgorn si schiarì la voce. «Sono certo che sia tu ad avere ragione e che io abbia torto...» «Infatti è così,» annuì con convinzione il pilota. Batté con la mano sui braccioli della sua sedia. «Leigh pensa più in fretta di me, e di ogni essere vivente, se questo è quello che vuoi dire. Ma non conosce gli schemi di combattimento. Io sì, perché nella mia vita non ho fatto nient'altro che combattere. Lei esegue i miei pensieri, mette in pratica le mie direttive.» Toccò di nuovo la sedia. «Le mie o quelle di chiunque altro stia seduto qui.» Rhalgorn lo guardò con aria molto annoiata. «Tu stai seduto sulla sedia e lei... ah, ho capito cosa vuoi dire.» «Naturalmente. Perché non lo sapevate?» «No, Capitano. Confesso di no.» Guardai lo Stygiano. Non c'era malafede in quello che stava dicendo. Lui sapeva che B'Wayne stava dicendo la verità. Io non avevo bisogno di ascoltare le sue parole perché in un certo senso, potevo leggere i suoi pensieri. Hai ragione Aldair, stava dicendo. La nostra epoca è veramente finita e noi apparteniamo a un museo. Non c'è proprio spazio per i guerrieri... VENTINOVE Quando sbarcammo dalla navicella di B'Wayne e ci ritrovammo nella stanza sotto la Fortezza di Amazzone, fui incerto se fossimo nel mezzo di una celebrazione o di una veglia funebre. In verità mi sembrava che ciò che si stava svolgendo avesse delle carat-
teristiche di entrambe le cose. La battaglia aerea era andata eccezionalmente bene. Erano state distrutte più di trenta delle navicelle di ojt'Miyer: il numero più grande che fosse mai stato raggiunto in un singolo combattimento. Ma, d'altro canto, noi avevamo perso sette navicelle, poco meno della metà della nostra intera flotta. I conti erano presto fatti: un'altra vittoria come quella, e la Fortezza sarebbe scomparsa per sempre. Tra l'altro, anche la stessa Fortezza aveva subito gravi danni. Un altro intero livello era ora in rovina. Le forze di terra di ojt'Miyer si erano attestate ad appena poche leghe di distanza dal fiume. Il che voleva dire che, da quel momento in poi, potevamo aspettarci arrembaggi sia da terra che dal mare. Caldus aveva già convocato tutti i suoi comandanti quando arrivai. Infatti la riunione era ormai alle ultime battute e Caldus stava dando delle rapide istruzioni ad uno dei suoi capitani. Aspettai che avesse finito e poi attraversai la stanza dirigendomi verso di lui. Caldus mi vide e i suoi occhi brillarono di rabbia. «È stata una cosa molto stupida quella che hai fatto, Aldair. Potevi farti ammazzare, e senza alcun motivo.» «Un guerriero non muore mai inutilmente,» gli dissi, «o, almeno, spera che sia così.» Caldus scosse la testa con irritazione e si girò dall'altra parte. «Tu non capisci questo tipo di combattimento, amico mio. Non ci sono da fare cose da guerrieri. Almeno non quelle che ti ricordi tu nelle battaglie che hai combattuto!» Lo guardai dritto negli occhi. «Che diamine stai dicendo, Caldus? Chi sono gli Uomini e le Bestie che ho visto correre avanti e dietro senza sosta? E armati fino ai denti? A me davano l'idea di non essere altro che guerrieri!» «Va bene. Chiamali come vuoi.» Si passò con molta lentezza una mano tra i capelli grigi. «Come ti ho già detto, non sono guerrieri nel senso che tu sei abituato a dare alla parola. Combattono in un modo differente. Non saltano semplicemente da un lato all'altro in cerca di qualche nemico da affrontare. Loro sono... impiegati tatticamente, ed eseguono le direttive più realizzabili delle proiezioni che Arvac riesce a dare loro.» «Arvac?» Pensai di non aver capito bene il nome. «Uno dei tuoi comandanti che non ho ancora conosciuto?» Caldus sospirò e si sforzò di sorridere. «No, Aldair, non penso che tu l'abbia incontrato. Vieni, forse ora potre-
sti. Ti aiuterà a capire come stanno le cose.» Detto questo, mi portò fuori dalla stanza e passammo nel corridoio, fermandoci alla fine davanti ad una pesante porta di ferro. Lo guardai sorpreso, mentre cercava con un certo affanno una chiave nel fondo della sua tasca. Era forse pazzo quell'Arvac, o cosa? Se non lo era, perché mai dovevano tenerlo rinchiuso lì? All'interno, la stanza era del tutto spoglia tranne che per un unico tavolo e una sedia. Sul tavolo c'era una piccola macchina di metallo che brillava di innumerevoli luci. Mi guardai intorno e non vidi nessuno. «Dov'è questo Arvac, Caldus?» «Proprio lì.» Indicò la macchina. «Lo stai guardando.» Sgranai gli occhi. «Arvac... Arvac è una macchina?» «Certamente. Tu hai dimestichezza con i meccanismi a bordo delle navicelle. Arvac è molto simile a tutti gli altri, solo che fa molte più cose.» Avevo capito cosa voleva dire il riferimento alle navicelle, ma non riuscivo a vedere il collegamento tra le due cose. «Che cosa ha a che fare quest'aggeggio con i guerrieri? I guerrieri che non sarebbero per niente guerrieri, come tu dici?» Caldus mise la mano sullo schienale della sedia. «È molto di più che un guerriero. È tutta la battaglia, Aldair. La guerra. Il passato e il futuro della Fortezza. È tutto racchiuso qui.» Guardai quella macchina con una certa preoccupazione. «Per il Respiro del Creatore! Tu... stai governando la Fortezza con questo... questo profeta di metallo?» «Non è stata una cattiva definizione, la tua.» Sorrise. «Solo che Arvac è un po' più accurato del tuo rilevatore di media.» «Naturalmente. Aveva predetto che oggi avremmo perso quasi metà della nostra flotta?» Caldus arrossì. «No,» disse, cercando di trattenere la rabbia. «C'erano dei fattori sconosciuti. Cose che non potevamo immaginare. L'attacco è stato molto più feroce di quanto Arvac non avesse previsto.» A quel punto risi forte. «Caldus, ti serve una macchina per sapere il perché? Io sono il perché. ojt'Miyer sa che io sono qui. Certo io non sono poi così importante; ma io sono un chiodo fisso nella sua mente. Aspetta da molto tempo il momento della mia cattura. Non si fermerà davanti a niente pur di ottenere il suo
scopo!» Caldus spalancò la bocca per la sorpresa. «Diamine, penso che tu abbia ragione. Come ho fatto a non pensarci prima?» «Perché non ci ha pensato Arvac?» Caldus mi ignorò completamente. «Al punto in cui siamo, conosci già molto, e hai diritto a conoscere anche il resto. I miei capitani ed io ci siamo appena riuniti. Qui. Con Arvac. La guerra è definitivamente persa, temo. È finita. Arvac ci ha mostrato una curva costantemente in discesa negli ultimi diciotto anni: sì, ci ha avvertiti da lungo tempo. Solo che noi non volevamo arrenderci all'evidenza dei fatti. I pronostici hanno dato definitivamente ragione ad ojt'Miyer.» Guardai quella piccola scatola di metallo. «Tu ti lasci dire da quella macchina che siete finiti?» «Aldair, la verità è che noi eravamo finiti fin da quando abbiamo iniziato quest'avventura,» mi rispose lui con molta pazienza. «Questo te l'avevo già detto. Era già tutto deciso nei ventisette mondi, prima di venire qui. Ho continuato a combattere perché... perché avevo bisogno di combattere. Tu puoi capirmi. Avevo vissuto tutta la mia vita nascosto in un buco e non avevo fatto niente. Tu mi hai fatto vedere qualcosa di meglio.» Rise amaramente e si diresse nell'angolo della stanza. «L'Uomo ha creato le Bestie. Poi le Bestie hanno fatto sì che l'Uomo diventasse di nuovo Uomo. Ora siamo tutti qui,» disse con tono acido, «amici e fratelli come saremmo sempre dovuti essere. Scosse la testa. «Non è stato tutto inutile, credo. Noi abbiamo conquistato la libertà e questo conta già qualcosa.» Indovinai che Caldus fosse oramai vicino ad avere ottant'anni. In quel momento sembrava molto più vecchio. «Cosa hai intenzione di fare ora?», gli chiesi. «Ritirarti e lasciare via libera ad ojt'Miyer? Forse potremmo mandare la nostra macchina ad arrendersi alla sua.» «Loro non hanno un Arvac,» disse lui molto seriamente, non cogliendo affatto la mia ironia. «Tu mi conosci meglio di chiunque altro. Se moriremo, moriremo in un modo diverso. Combatteremo fino a quando ne saremo capaci. Ma dobbiamo abbandonare la Fortezza immediatamente. Non c'è assolutamente nessun'altra soluzione.» «Fare cosa?» Mi alzai e mi misi di fronte a lui. «Se perdiamo la Fortezza è davvero tutto finito e tu lo sai benissimo.» Caldus si strinse stancamente nelle spalle.
«Aldair, è persa comunque. Combatteremo da qualche altra parte. Noi abbiamo già pronto tutto, nel caso si fosse verificata quest'evenienza. Resisteremo più a lungo possibile. Arvac dice...» «Al diavolo Aryac!» Battei violentemente il pugno sul tavolo. Caldus mi fissò allibito. Le luci di Arvac cominciarono a lampeggiare in segno di pericolo. «Al diavolo tutto quello che ti pare, Aldair.» Mi disse Caldus con calma. «Ma è la verità. I numeri non mentono. È finita per noi qui.» Devo dare ragione ad Arvac almeno in una cosa. Riuscì a prevedere l'inizio del prossimo attacco di ojt'Miyer con incredibile precisione. Ci disse l'ora esatta in cui sarebbe successo. Prese il via con una ferocia inaudita poco prima dell'alba. Le sue navicelle colpirono la Fortezza con le loro armi micidiali, riducendo in polvere gli spessi muri di pietra. Degli esploratori ci portarono notizie fresche sulle forze di terra dei mostri. Si stavano aprendo la strada per risalire il corso del fiume con gigantesche macchine di ferro che abbattevano qualsiasi tipo di vegetazione al loro passaggio. Caldus mise in azione il piano di Arvac ancora prima che l'attacco avesse inizio. Non ci fu niente in grado di dissuaderlo. Lui era dannatamente convinto che le parole di Arvac fossero la voce della ragione. Quando chiesi ai suoi comandanti delle spiegazioni sull'argomento, loro mi guardarono come se avessi perso il lume della ragione. Era sempre stato Arvac a prendere le decisioni. Perché mettere adesso in discussione il suo ruolo? Mi ricordai di ciò che Caldus aveva detto sugli Dei - di come lui ora credesse in un nuovo Creatore - uno che senza dubbio non godeva della mia approvazione. Un brivido freddo mi passò lungo tutta la spina dorsale al pensiero di quella conversazione. Era stata una chiacchierata e niente di più. Qualcosa in cui un vecchio voleva credere, ma non ci riusciva. Caldus aveva certamente un nuovo dio in cui credere. E il suo nome era Arvac. «Maledizione,» dissi ai miei compagni, «Caldus ha tradito una religione falsa e stupida per un'altra ancora peggiore. È Arvac che ora lo governa, e Arvac ha detto che è giunta l'ora di chiudere bottega. Senza dubbio, stiamo per ascendere verso qualche paradiso meccanico.» «È abbastanza chiaro quello che sta succedendo qui,» sibilò Thareesh. «Ho passato parecchio tempo a parlare con la gente della Fortezza, specialmente con quelli occupati a combattere. Sono troppo coinvolti per riuscire a vedere le cose con obiettività. Non si rendono conto di ciò che sta
succedendo, Aldair, ma io sono pronto a scommettere un barile di birra che so già come andrà a finire. Ci squadrò tutti con i suoi occhi neri come l'agata. «Se vi soffermate a riflettere sull'andamento dei combattimenti qui, la verità vi salterà agli occhi come un porro. Certo i mostri sono molto più numerosi, ma non è quello il problema. ojt'Miyer li ha sovrastati anche con il pensiero.» «Penso di sapere dove vuoi arrivare,» disse Rhalgorn. «Vuoi dire che i mostri sono ben più avanti di questo Arvac, vero?» «Esattamente,» disse Thareesh. «Avanti è la parola appropriata. Le persone attraversano dei periodi positivi e dei periodi negativi. Non si prendono sempre le stesse decisioni. Arvac prevede... ma è anche prevedibile.» Tirai un lungo respiro. «Per la Vista del Creatore, Thareesh... hai ragione come è vero che piove, e questi stupidi non l'hanno ancora capito. Stanno andando al macello da soli e nemmeno lo sanno!» «Credi che ojt'Miyer già sappia quali saranno le loro prossime mosse?», chiese Signar. «Voglio dire, il fatto di voler abbandonare la Fortezza e tutto il resto?» «Certo che lo sa. Per forza. Non ha lasciato a Caldus nessun'altra porta aperta. Con le perdite che abbiamo subito, è l'unica cosa che quella dannata macchina potesse suggerire. Uno meno uno uguale niente. Così, facciamola finita. Questo è stato il ragionamento.» «E allora noi che abbiamo intenzione di fare?», chiese Rhalgorn con aria molto cupa. «Spero che non ce ne staremo qui ad aspettare.» «Non è ne ho la più pallida idea,» dissi io onestamente. «Ma ti assicuro che non ce ne staremo con le mani in mano.» Le tattiche di Arvac erano piuttosto ragionevoli, e naturalmente, era proprio quello l'ostacolo più grosso. Una rapa avrebbe capito immediatamente qual era il suo ruolo. Avrebbe risposto all'attacco sporadicamente, lanciando di tanto in tanto delle scariche contro i mostri per tenerli occupati mentre noi avremmo a poco a poco evacuato completamente la Fortezza... per andare poi lo sapeva Dio dove. Nessuno era stato incaricato di comunicarmi quel particolare del piano. ojt'Miyer conosceva già tutti i nostri movimenti e aveva spostato l'attacco verso il centro inviandoci contro molti dei suoi mezzi a grande velocità, e faceva lanciare colpi a casaccio senza seguire nessuno schema prestabilito.
Arvac tirò fuori qualche altro numero nel frenetico sforzo di resistere. Fece esattamente ciò che ojt'Miyer si aspettava. Perdemmo una gran quantità di guerrieri e altre due delle nostre preziose navicelle. Caldus si rifiutò di darmi ascolto. Il fatto che Arvac ci stesse portando alla rovina, e anche molto in fretta, era una realtà che non voleva assolutamente prendere in considerazione. «Tu non capisci come stanno le cose,» disse seccato e lanciandomi un'occhiata di disprezzo aggiunse: «Ti ho già spiegato, Aldair: le guerre non sono più come tu le ricordi.» «Oh, davvero? Bene, allora non ti chiederò più nulla,» dissi adeguando il mio tono al suo. «Dimenticavo che sto parlando con un vero Signore della Terra e non con uno schiavo nascosto in un buco!» A queste parole il suo volto sì incupì, e un velo di tristezza gli passò negli occhi. Era stata un'inutile crudeltà, e me ne ero pentito nel momento stesso in cui la pronunciavo. Tuttavia, quella breve discussione servì a qualcosa. Caldus mi fece capire senza mezzi termini che non avevamo più tempo per discutere. Non aveva bisogno dei consigli di un mitico guerriero del passato. Arvac ci avrebbe guidato nel mare della storia e nel tempo giusto. Non ci furono problemi per portare il mio equipaggio nel livello più basso. Una dozzina di creature e forse più erano perse nel tumulto dell'attività. Navicelle entravano e uscivano, comparendo e scomparendo dalla vista come gigantesche lucciole. Alcune stavano combattendo le scure navicelle dei mostri, mentre altre erano occupate a trasportare fuori della Fortezza Uomini e Bestie. C'erano lì esseri delle razze più disparate che lavoravano insieme. Avevo visto persino alcuni uomini che avevamo incontrato durante la scoperta della Fortezza di Amazzone. Riconobbi Walldrop, il più vecchio e il più curvo di tutti. Come al solito, non faceva altro che stare chino su di un muro, una posizione che era stata la sua preferita per qualcosa come cinquemila anni o forse più. Wayne, «L'Indistruttibile», era ancora impegnato in battaglia, e ciò mi fece tirare un sospiro di sollievo. In quel momento non avevo nessuna voglia di salire a bordo insieme a un carico di soldati armati e di evacuati. B'Wayne ci vide arrivare e lanciò a Rhalgorn e a me un'occhiata torva. «Fareste bene ad andarvene da qualche altra parte,» disse secco. «Sono in un bel mare di guai a causa vostra.»
«Ho detto a Caldus che quello che è accaduto non è stata colpa tua. Che noi ci siamo intromessi a bordo a tua insaputa.» B'Wayne fece una smorfia e si tolse del grasso dal sopracciglio. «Caldus non vi ha creduto, e nemmeno me ha creduto. Che cosa vuoi, Mastro Aldair? Qualsiasi cosa sia, la risposta è no.» «Temo che sarà sì,» gli dissi. «Credo che saremo costretti a forzarti di nuovo la mano.» B'Wayne stava studiando una specie di carta geografica. La distese con calma e mi guardò con aria strana. Vidi che sospettava qualcosa e che i muscoli delle spalle gli si erano irrigiditi all'improvviso. «Non farlo,» gli dissi con calma. «Rhalgorn è proprio dietro di te con una lama tra le mani. Gli sei simpatico e non vorrebbe usarla contro di te.» La faccia dell'Uomo si incupì ancora di più. «Che diamine vuol dire tutto ciò, Aldair?» «Non ne sono del tutto certo,» gli dissi sinceramente. «Ma te lo comunicherò non appena lo saprò.» TRENTA La navicella blu schizzò fuori dalla stanza, apparve per una breve frazione di secondo sopra la Fortezza, poi cominciò una complessa serie di manovre fuori e dentro il tempo reale per sfuggire alle navicelle dei mostri. B'Wayne rimase attentissimo allo svolgimento di quel compito finché non fu sicuro che ci eravamo messi in salvo. Poi si girò nella sua sedia di comando e mi guardò. «Hai perso il lume della ragione?», disse furioso. «Cosa speri di ottenere con questa bravata, Mastro Aldair? Questa navicella è assolutamente necessaria lì, non qui.» «Ora Stammi a sentire,» gli dissi. «Si dà il caso che io ne abbia più bisogno, come spero che ti renderai conto anche tu.» «Ah, certo, capisco,» sbottò lui. «La tua gente è tutta al sicuro a bordo e lontana dalla battaglia!» Rhalgorn tirò fuori dalla gola uno dei suoi rumoracci e fece per scagliarsi su di lui. Io feci un balzo in avanti e lo bloccai. «No. Non si tratta di questo. Voglio solo che tu mi stia a sentire e risponda alle mie domande. Abbiamo davvero poco tempo.» Mi allontanai e diedi un'occhiata fuori del portello, poi mi girai di nuovo verso di lui.
«Dimmi un po' se ho ragione o no. Tu hai un altro posto dove portare la gente della Fortezza. La maggior parte delle navicelle sta portando in salvo gli abitanti mentre le altre mantengono occupato ojt'Miyer.» «Questo è quello che stiamo tentando di fare,» mormorò lui, «e abbiamo bisogno di tutte le navicelle per fare andare in porto l'operazione. Inclusa questa.» «E non pensi che ojt'Miyer conosca già tutto il piano? Per la Vista del Creatore, Capitano: lui non è un idiota. Ha abbastanza forza sia per terra che per aria per impadronirsi della Fortezza prima che voi riusciate a portare in salvo tutti. Tu questo lo sai bene quanto me!» B'Wayne saltò dalla sedia. «No,» disse senza scomporsi, «Io non lo so. Se lui avesse potuto intrappolarci l'avrebbe senz'altro fatto. Perché non avrebbe dovuto? Pensi che si accontenterebbe di uno solo di noi?» «No. Naturalmente non lo penso.» «Allora quello che stai dicendo ha davvero poco senso.» «Invece ce l'ha,» dissi io, «sento che ojt'Miyer sa già dove state andando.» B'Wayne rimase un attimo perplesso. Poi mi guardò e scoppiò in una risatina un po' ironica. «Ma lui non lo sa. Noi ci siamo assicurati che sia così.» «Ti sbagli, Capitano. Lui vi sta lasciando andar via, e per un ottimo motivo. Prenderà la Fortezza senza perdere né troppi guerrieri, né navicelle. Vi lascerà approdare a questa specie di rifugio, e poi si impadronirà anche di quello. ojt'Miyer vuole vincere tutta la partita, B'Wayne... non solo una parte.» Lui rifletté un po' sulle mie ultime parole, poi scosse la testa. «È una teoria interessante, ma niente più di questo. Non può sapere dove siamo diretti.» «Perché è Arvac a dirlo?» L'uomo arrossì. «Arvac ci ha fatti sopravvivere fino ad ora. Lui sa cosa fa!» «E ojt'Miyer sa quello che Arvac sta facendo. Questo è il punto cruciale di tutta questa triste storia. Tu, Caldus e gli altri siete completamente ciechi davanti a ciò che accade intorno a voi. Vi siete abituati al fatto che sia una macchina a pensare per voi. Arvac somma due a due e se ne viene sempre fuori con quattro. Le persone qualche volta commettono degli errori e come risultato ottengono cinque. L'errore giusto può vincere una batta-
glia. Tu questo lo sai. Ma Arvac non fa mai errori. Lui è prevedibile. Lui fa sempre ciò che sarebbe più logico fare. È questo il motivo per cui ojt'Miyer può leggerlo come fosse un libro. Ora, B'Wayne, dimmi solo dov'è questo nuovo rifugio!» B'Wayne si morse il labbro e guardò oltre le mie spalle. «È... è in un buon posto. Sicuro. Arvac ha preparato con molta accuratezza una base segreta ed ora...» «Con Arvac,» dissi io secco, «la parola 'segreta' non è molto appropriata. Comunque, ora il punto è un altro. Dove si trova?» B'Wayne era tesissimo. «È in Africa.» «E dove precisamente?» Spinse alcuni bottoni sul bracciolo della sua sedia. Una carta si illuminò al di sopra delle nostre teste. «Ah, capisco. Noi la chiamavamo Kenyarsha. Un buon posto per una base... o meglio, lo sarebbe se ojt'Miyer non ne fosse già a conoscenza.» «Maledizione a tutto, lui non lo sa!» B'Wayne si irrigidì e si sporse dalla sedia. «Siediti!», gli dissi. Si sedette. «Supponiamo che tu... che tu abbia ragione,» disse lui rigido, «cosa che comunque non è. Cosa pensi di poter fare che Arvac non sia in grado di fare meglio?» Sapevo a cosa si riferiva. Aldair la Leggenda stava mettendo il naso dove non doveva. «Ci arriverò tra poco,» gli dissi. «C'è ancora qualche altra cosa che ho bisogno di sapere. So che tu puoi metterti in contatto con la Fortezza e con le altre navicelle. Quindi cerca di scoprire quando verrà portata a termine l'evacuazione.» Mi guardò di traverso. «Basta. Adesso è troppo. Da ora in poi ti conviene risparmiare il fiato.» «Fallo, B'Wayne. Mi scuserò in seguito!» Azionò un pulsante sotto il palmo della sua mano. «Non posso dire molto. ojt'Miyer può intercettare la nostra conversazione, se vuole.» Mi girai verso Rhalgorn. «Porta Thareesh qui... in fretta!» Rhalgorn sparì. Io mi girai di nuovo verso B'Wayne. «Dì loro di chiamare un Nicieiano. Uno che parla la Lingua dei Guerrie-
ri.» B'Wayne era furioso ma fece ciò che gli avevo chiesto. Una voce usciva dalla parete. «B'Wayne, dove diavolo ti sei cacciato? Che diamine sta succedendo lì? Sei praticamente scomp...» «Più tardi,» sbottò B'Wayne. «Ora ascoltami, Morgan. Fai venire lì Fe'eerin se si trova ancora nella Fortezza. Sbrigati!» Thareesh arriva subito dietro a Rhalgorn. Gli dissi ciò di cui aveva bisogno. A un cenno di assenso di B'Wayne, lui parlò con l'altro Nicieiano in una rapida serie di suoni sibilanti. Anche se ojt'Miyer avesse avuto a disposizione un prigioniero Nicieiano, sarebbe riuscito a capire ben poco di quel farfuglio. È una lingua che gli arcieri dell'Impero parlano solo fra di loro. B'Wayne interruppe il segnale per un momento e Thareesh si girò verso di me. «Saranno tutti fuori nel giro di un'ora. ojt'Miyer ti tiene sotto tiro ma non sta spingendo.» «Non pensavo che sarebbe andata così.» Guardai B'Wayne. «Ti pare che ciò abbia senso? Perché non sta bombardando la Fortezza con tutto quello che ha a disposizione? Sicuramente nella Fortezza non avrebbero avuto la forza di resistere a un simile attacco.» L'Uomo serrò le labbra. «Io... io non lo so. Non mi sembra ragionevole. Arvac aveva detto che saremmo andati incontro ad alcuni infortuni nelle ultime ore...» «E invece non è così, giusto? ojt'Miyer sta permettendo a tutti di mettersi in salvo. L'hai sentito tu stesso. Non hai bisogno di fidarti della mia parola per questo.» B'Wayne lottò con se stesso per un attimo, poi si sedette di nuovo nella sua sedia di comando. Era fedele a Caldus. Ma era anche un esperto guerriero. Non era rimasto vivo sbattendo la porta contro la verità. «Va bene,» disse alla fine, «che cosa vuoi che faccia?» «Qual è il piano per l'ultima fase dell'operazione? Penso di saperlo, ma tu comunque dimmelo.» «Noi voleremo via con il grosso della flotta mentre la retroguardia li terrà occupati. Le navicelle dovranno passare attraverso una frazione di un secondo del tempo reale prima di mettere in codice la nuova base. L'idea è quella di tenere ojt'Miyer occupato in modo che non possa tracciare il nostro percorso.»
«Solo che lui ha già il percorso,» aggiunsi io. «Bene. Può funzionare anche così.» B'Wayne alzò un sopracciglio. «Funzionare anche così? Cioè come? Esattamente nella maniera in cui vuole ojt'Miyer?» Io ghignai nella sua direzione. «Se saremo fortunati... esattamente nel modo che vuole ojt'Miyer. Lui segue Arvac punto per punto. Noi siamo prevedibili, e dobbiamo continuare ad esserlo. Per il momento, almeno.» B'Wayne si accigliò e scosse la testa. «Qualsiasi cosa tu abbia in mente, Aldair, non funzionerà. Caldus ha ancora il comando della Fortezza.» «Noi non andremo a chiedere a Caldus il suo parere sull'argomento. Non dobbiamo farlo. Perché non cambierà assolutamente nulla nel programma stabilito. Devono pensare che siamo davvero finiti, Capitano. Proprio fino all'ultimo secondo.» B'Wayne si fece molto pensieroso e si guardò attentamente la punta delle dita. «Mi sono fatto un'idea di dove vuoi arrivare, e credo che tu abbia maledettamente ragione. Ci vorrà all'incirca poco più di un secondo. E se noi lo perdiamo...» «Se lo perdiamo,» finii io per lui, «quello che doveva succedere accadrà in ogni caso.» B'Wayne mi guardò di traverso. «Quindi penso che sarà meglio non perderlo. Fammi vedere di cosa hai bisogno e esci di qui, Aldair. Avrò parecchio da fare con Leigh qui.» «Fammi solo accertare che due più due fa sei,» lo avvertii io. Aspettammo. B'Wayne se ne rimase seduto nella sua sedia di comando pressato da un indicibile tensione, nello sforzo di carpire quanto più possibile in quella ridda di ordini che veniva impartita avanti e dietro per tutta la Fortezza, a mezzo mondo di distanza. Grosse gocce di sudore gli colavano dalla fronte. Le sue dita si posavano sui bottoni multicolori. «È fatta...», disse senza alzare lo sguardo. «Gli ultimi due vascelli sono pronti a partire... la retroguardia segue...» Ora non ci sarebbe voluto più molto. Le navicelle di ojt'Miyer stavano sorvolando la Fortezza, in attesa. La nostra intera flotta si sarebbe alzata in
volo per andare incontro alla sua e per coprire gli ultimi vascelli in partenza per il rifugio. ojt'Miyer le avrebbe lasciate avvicinare. Poi sarebbe scattato all'improvviso, sarebbe uscito dal campo visivo, e li avrebbe lasciati li per andare a concentrare tutte le sue forze sulla nuova base in Africa. In pochi secondi, la terribile potenza della sua flotta al gran completo avrebbe ridotto in polvere quel posto. Le nostre navicelle l'avrebbero seguito. Ma sarebbe stato ormai già troppo tardi. ojt'Miyer si sarebbe impossessato della vecchia Fortezza, e tutti quelli che si trovavano nella nuova sarebbero morti. Le nostre navicelle non avrebbero avuto scampo, perché non avrebbero avuto nessun posto dove rifugiarsi. ojt'Miyer avrebbe potuto distruggerle ad una ad una a suo piacimento. Sarebbe andata proprio così... se i mostri e la nostra gente avessero seguito la logica di Arvac. Sapevo di poter contare su Caldus. Era troppo tardi per insegnargli la bizzarria di due più due. Pregai tutti gli Dei che ojt'Miyer non scegliesse proprio quel momento per gettare all'aria tutto il suo piano e si facesse venire qualche idea originale. Ma perché avrebbe dovuto? Tutto ciò che doveva fare era seguire Arvac e così ci avrebbe avuto in pugno. B'Wayne si irrigidì. «Sono partiti!», urlò. «Le nostre navicelle sono in volo... tutte... Stanno facendo cerchio intorno ad ojt'Miyer... ojt'Miyer sta rispondendo ai loro colpi...» «Ora!», gridai io e B'Wayne cominciò a fare volare veloci le sue dita sui bottoni. «Ordine di Emergenza! Coordinate sette-cinque-cinque-tre-due. Settore S per Scimmia. Eseguire!» Leigh volò fuori del campo visivo in nessun tempo. Quasi all'istante ci trovammo a circa trenta miglia al di sopra del rifugio africano. Corsi verso il portello. «Grandi Déi, dove sono?» Il cuore per poco non mi cedette. I cieli erano vuoti. Questo era veramente il punto cruciale del piano, la sfasatura che poteva ucciderci. I piloti di B'Wayne erano ben addestrati, dei combattenti disciplinati. In teoria, dovevano eseguire gli ordini senza porsi domande sul fatto che sembrassero o meno ragionevoli. Se non l'avessero fatto... B'Wayne urlò. «Eccoli lì!» La flotta blu brillò nel nostro campo visivo. B'Wayne impartì il nuovo ordine. «Fuoco, punto trentadue-sette e resistere...» Lo schema
di fuoco di B'Wayne era un ampio campo conico. Una volta attivato, avrebbe aperto un fuoco a ventaglio nei cieli e sulla terra passando proprio dietro il nuovo rifugio. Ora il gioco passava nelle mani di ojt'Miyer. Avrebbe pensato che le navicelle fossero partite in direzione del nuovo rifugio. Perfetto. Tutto andava per il meglio. Le avrebbe tenute sotto tiro e poi le avrebbe finite tutte insieme. Passò un secondo. Poi due. «Eseguire!», scattò B'Wayne. La flotta eseguì immediatamente. Un campo accecante di lampi blu coprì i cieli. Tre secondi. Quattro... All'improvviso la flotta di ojt'Miyer arrivò in vista. Più di trecento navicelle dai colori sgargianti pronte al massacro apparvero proprio nel mezzo della nostra ragnatela in attesa di distruggerli. B'Wayne lanciò un urlo di guerra e si alzò dalla sua sedia; la vista sotto di noi era terribile, sconvolgente. Le navicelle di ojt'Miyer venivano distrutte in un battibaleno, a dozzine. Un centinaio - forse anche più - furono eliminate solo nel primo mezzo secondo di battaglia. I nostri capitani non avevano più bisogno di ordini. Comandi crepitavano da tutte le parti. Per la prima volta, le cose stavano andando diversamente. Vascelli neri, gialli e marroni che erano riusciti ad evitare il peggio nella primissima fase del combattimento, ora si trovavano inseguiti da tutti i lati dalle navicelle blu dello stesso colore del cielo. I nostri piloti colpivano con velocità inaudita, con cupa determinazione. Anche dopo che fu passato il primo momento di assoluta meraviglia, la flotta nemica perdeva secondi preziosi a riprendersi dai colpi ricevuti. Ed erano secondi che costavano davvero molto cari. B'Wayne decideva quali erano i bersagli, e Leigh li seguiva ondeggiando fra i cieli alla ricerca di nuove vittime. Un vascello color rosso sangue si dissolse nel nulla davanti alla nostra prua. Descrivendo un arco impossibile, Leigh ci scagliò verso l'alto. Il fuoco brillava intorno al nostro scafo. Leigh ci fece sprofondare abilmente al di sotto, e poi risalire rapidissimi. Una sfera gialla troneggiò all'improvviso sopra di noi e lei la prese, volando dritta attraverso il vuoto in cui la navicella si sarebbe dovuta trovare. Slittava fuori del tempo reale e un attimo dopo vi ritornava. Ci inclinava-
mo descrivendo ampie curve sopra il campo di battaglia, sorvolando la zona come uno sparviero in cerca di nuove vittime. Potevo vedere le navicelle sotto di noi, e i lampi blu che sprizzavano tra le nuvole. Poi, all'improvviso, vidi anche qualche altra cosa. Una singola navicella si stava allontanando dal campo di battaglia, e si stava dirigendo rapida come una scheggia sempre più alto. Era molto lontana, ma io riuscivo ad individuarne il colore. Era nera: non aveva nessun colore. Il piatto nero che assorbe tutti i colori dello spazio tra le stelle. «Lì, B'Wayne.» Gli indicai il posto. «È ojt'Miyer? Deve essere lui!» «B'Wayne abbaiò qualcosa a Leigh. Schizzammo fuori del tempo reale per la piccolissima parte di un secondo, poi indietro di nuovo. La navicella nera apparve all'altezza del nostro portello, lanciando fiamme nel cielo come un'enorme stella scura. Leigh fece fuoco. Sparì di nuovo. Apparve sotto di noi e aprì il fuoco di nuovo. Fiamme blu lambirono la nostra prua: non ci raggiunsero solo per pochi centimetri. Leigh era già andata via. Colpì la scura navicella ripetutamente. Quella tremò e cadde lontano. Era stata colpita, ma non affondata. Non era stato sufficiente a farla sprofondare nel vuoto. Leigh fece ancora fuoco. La navicella svanì all'improvviso. Io urlai, battendo violentemente sulle spalle di B'Wayne. «L'hai colpita... è scomparsa!» «No,» corresse Leigh. «È svanita su se stessa. È seriamente danneggiata, ma non distrutta.» «Ma è come se fosse rimasta azzoppata,» mi assicurò B'Wayne. «Non andrà lontano.» «Allora so dov'è,» dissi io. B'Wayne mi guardò. Sì, io lo sapevo. Sapevo dove doveva essere... TRENTUNO Ancora una volta mi trovavo su quella verde collinetta all'ombra di quelle querce imponenti. Il sepolcro di Rheif era a pochi passi di distanza. Il suo elmo era ancora dove l'avevo lasciato, ricoperto ora da una folta distesa d'edera. Rhalgorn era al mio fianco. Guardava il luogo dove giaceva il cugino, ed io mi ricordai del giorno in cui Rheif era morto. Era un giorno molto simile a questo. L'avevo lasciato lì seduto sotto l'albero. Sapevamo tutti e due che quella ferita gli sarebbe stata fatale; che lui sarebbe stato già morto quando io fossi ritornato. Ma non parlammo di questo tra di noi.
Avevamo parlato di altre cose. Dopo un po', Rhalgorn ed io scendemmo giù per la collina ed entrammo nella foresta. Era ricca e lussureggiante, piena di uccelli e di selvaggina di tutti i tipi. Seguii il sentiero che già avevo percorso. Sugli alberi vedemmo le ossa bianche della città morta che sporgevano le loro dita macilente sulla corona di verde. In breve raggiungemmo la radura, un'ampia distesa di prato ricoperta di erba alta e verde. Proprio nel mezzo c'era la navicella. Sembrava del tutto fuori posto in quel luogo, una cosa scura dove non avrebbe dovuto esserci niente di scuro. «Sarà sicuramente morto,» disse Rhalgorn. «Niente avrebbe potuto sopravvivere lì dentro.» Girai intorno al relitto accartocciato. Non era più una sfera. Era un'ombra sottile che sembrava fatta di carta. «Dovrebbe essere morto, ma non lo è,» dissi io. «È ojt'Miyer, ed è ancora vivo.» Rhalgorn mi guardò sbigottito. «Non puoi saperlo.» «Eppure lo so.» «Va bene,» sospirò lui, «lo sai. Allora lo troveremo.» «Non ne abbiamo bisogno. So dov'è. E non saremo insieme questa volta amico mio. È una cosa che devo sbrigare da solo.» Rhalgorn si schiarì la voce. «In qualche modo me lo aspettavo. Aldair, non è questo il momento per fare delle sciocchezze. Spero che tu non abbia cominciato a credere alla tua stessa leggenda.» «Questo è davvero molto difficile.» «E allora che ti prende? Io non posso...» Si fermò. «Ah, naturalmente. È per Rheif, non è vero? Dimentica quella storia, Aldair. Quando questa storia sarà finita, ci sarà un solo Stygiano sepolto qui.» «No,» gli dissi, «non si tratta solo di quello. Anche di quello, probabilmente. Ma non è tutto.» Lo guardai dritto negli occhi e gli misi una mano sulla spalla. «Devo farlo, Rhalgorn. Non posso dire perché.» «O non vuoi,» disse lui cupo. «No. Io non so perché. È così che deve essere...» Zaffate d'aria calda salirono dalla parte più bassa. Io mi feci strada nella cavità come avevo già fatto prima, tenendo in mano una torcia di rami sec-
chi per illuminare la strada. Trovai il corridoio e la stanzetta che stava subito dietro. Sorpassata quella c'era la porta di metallo. E dietro a quella il luogo dove ojt'Miyer stava aspettando. Dove altro poteva essere se non sotto l'Isola di Albion? Sarebbe dovuto venire: avrebbe dovuto conoscere quel luogo dove la follia dell'Uomo aveva preso il via, e dove probabilmente aveva anche avuto termine. Aprii la porta, scesi giù per il passaggio e salii per la stretta tromba di scale. La grande sala era esattamente lì dove l'avevo lasciata. La luce dell'Uomo rischiarava la stanza. Migliaia di finestre grigie stavano allineate alle pareti su entrambi i lati, in attesa di raccontare le loro storie. Le scatole di vetro che si trovavano in fondo alla sala riflettevano quella gelida luce. Lasciai scorrere lo sguardo lungo il nero pavimento. Feci un altro passo, poi mi inginocchiai per vedere meglio. Lì a terra c'era una vaga macchia, forse si potevano definire più propriamente delle gocce di liquido. Gialle e viscose come il rosso d'uovo. Dietro ce n'erano altre. E poi altre ancora. Mi rialzai in fretta e toccai l'arma che avevo a fianco. Era ferito ma vivo. Rimasi immobile dov'ero, senza spostarmi neanche di un millimetro. Lasciai correre lo sguardo lungo tutta la grande sala. Mi misi in ascolto. Alla fine feci un passo avanti. Sfilai il tubo scintillante dalla mia cintura e lo tenni fermo tra le mani. All'improvviso, qualcosa di umido e nero guizzò fuori dalle tenebre e si avvinghiò alla mia mente. Lanciai un urlo... barcollai, caddi in ginocchio. Mi strinsi la testa tra le mani per placare l'atroce dolore che provavo. L'arma mi cadde dalle mani e scivolò di lato. ojt'Miyer rise. Un vento freddo che soffia su foglie aride e secche. «Laggiù, piccola bestia...» Le mie gambe erano come acqua. Mi sforzai di rimettermi in piedi. Vidi l'arma, che era arrivata quasi a metà della stanza. Non era il caso di tentare di raggiungerla. Non avrebbe mai permesso che arrivassi fin lì. «Non riesco a vederti,» lo chiamai. «Vieni alla luce, ojt'Miyer, a meno che tu non abbia paura.» Lui rise di nuovo. Io feci un balzo e lo vidi proprio alle mie spalle, un'ombra sotto una colonna di pietre. Indietreggiai velocemente. Un'altra ondata d'odio investì la mia mente. Scossi la testa; barcollai ancora, cercai di allontanare il buio che stava calando intorno a me. Stava abbarbicato alla colonna e la batteva con qualcosa, producendo un rumore insopportabile. Macchie scure e umide gli imbrattavano il mantello. Il pavimento sotto
di lui era appiccicaticcio. «Avevo sperato che gli anni ti avessero ucciso,» gli dissi. «Ora, però sono felice che non sia stato così. Non avrei voluto essere derubato in questo momento.» «Anni, hai detto?» Dal suo cappuccio uscì una risata soffocata. «È questo ciò che pensi? Che sarà quello a farmi morire? Come un Uomo o una Bestia? Cosa pensi che io sia, piccola cosa?» Tentai una risata. «Io so cosa sei, ojt'Miyer. Un po' Uomo e un po' Bestia. E in te c'è il peggio delle due specie!» Si tirò su, tremando sotto il mantello. «Uno stupido come tutti gli altri? Tu non hai mai neanche intuito la verità, e cioè che ojt'Miyer non è come nessun altro? Loro sanno... le creature che mi seguono sanno!» «Sanno cosa?» Qualcosa di mostruoso si affacciò nella mia mente. «Tu sei uno stupido come tutti gli altri!», si innervosì. «Non sei affatto meglio di tutti gli altri. Non ti sei mai fatto delle domande su quelli che mi servono? Uno schiavista dove vende la sua merce... se tutti i suoi amici sono anche loro schiavisti?» Si allontanò dalla colonna. Il mantello gli si attorcigliò intorno e poi cadde giù come fosse acqua... Un urlo rimase sospeso nella mia gola. Fui scosso dall'orrore che mi stava davanti. Era una figura, eppure non era affatto una figura... si muoveva e scorreva dentro di sé, luccicava come carne morta che tornava in vita... Mi girai e corsi più in fretta che potevo... giù per la lunga sala... su per il corridoio stretto fino alla superficie... affannavo... il sole cominciò a scaldarmi il volto ed ero libero... c'erano querce scure... il cielo blu e le nuvole bianche... e quell'orrore chiamato ojt'Miyer era oramai lontano dietro le mie spalle... ...Il sogno esplose. Tintinnò come il vetro e svanì. ojt'Miyer rise. Io battei le palpebre, vidi il pallido nido di cose rosa che strisciavano rapide fuori dalla sua faccia e si attorcigliavano intorno al mio torace. Troppo tardi: quel senso di umidità mi colò fino alla bocca, mi scivolò lungo la pancia e giù fino alle gambe. La ragnatela si strinse intorno a me, mi attirò verso di lui... Non c'era più aria intorno a me... e tutto era nero... e niente aria... per... per respirare! Ebbi un movimento inconsulto di tutto il corpo, sputai
quella cosa dalla mia bocca e lanciai un urlo allucinante... «Pensavi davvero che potessi morire,» bisbigliò lui nella mia testa. «La morte non è per la mia razza, Aldair... Lo capisci ora? Guarda più vicino... più vicino...» «No!» «Guarda, e vedi cosa c'è là... vieni a vivere per sempre, piccola bestia... vieni a vivere per sempre in me...» Mi attirò verso di sé, mi accarezzò con arti simili a rasoi... mi riempì di baci dalle migliaia di dita che venivano fuori dalla sua faccia... Poi mi indicò il luogo grigio... il luogo dove mi avrebbe preso. Gli altri che erano arrivati prima si girarono a guardare con occhi ciechi. Per salutarmi con le loro bocche che non potevano parlare. «No!» Cercai di distogliere la mia mente. Il luogo grigio si vanificò. Mi trascinai fuori, mi misi a dargli calci con tutta la forza di cui ero capace. Un pallido tendine cedette. E poi un altro. «Maledizione a te,» disse lui infuriato, «è troppo tardi... troppo tardi per questo!» Gli diedi un altro calcio con la punta dei piedi. ojt'Miyer indietreggiò, emise un suono orribile e tolse l'aria dai miei polmoni. Le ossa si spezzarono nelle mie braccia. Io urlai, boccheggiai in cerca d'aria e cacciai indietro il dolore. Cerchi di sangue navigavano davanti ai miei occhi. Dovevo rimanere sveglio... dovevo combatterlo. Se avessi ceduto anche solo per una frazione di secondo, lui mi avrebbe portato in quel luogo e non sarei mai più stato in grado di andarmene... Io... io non potevo... non potevo lasciarmi prendere da lui! Era quello lo sforzo in cui mi dovevo impegnare, e ci misi tutto me stesso. Il mio braccio partì rapidissimo nella sua direzione, afferrò qualcosa di umido e la buttò da parte. ojt'Miyer ululò. Un gelo scuro e mortale mi attanagliò la mente, indugiò per un po', poi si allontanò. Un urlo terribile e assordante esplose dai polmoni di ojt'Miyer. Il suo corpo fu scosso da brividi violenti e mi scagliò lontano da lui. Caddi pesantemente a terra, battendo la testa sul pavimento. Il dolore che provai fu talmente forte che per poco non svenni. Mi allontanai con movimenti simili a quelli di un granchio, mi girai e guardai ojt'Miyer. Si stava trascinando dietro la colonna come una creatura impazzita. Con un urlo allucinante cominciò a strapparsi le membra del suo stesso corpo, procurandosi atroci ferite una dopo l'altra.
Fissai quella scena a dir poco allibito. Non mi illudevo certo che potessero essere stati i miei deboli tentativi ad aver causato a quell'orrida creatura tanto danno. Eppure, stava morendo: si stava uccidendo più in fretta che poteva. Attesi. Quando tutto fu finito, mi avvicinai tanto quanto riuscii ad osare e lo guardai. Non c'era niente da vedere. Un mantello vuoto. Un'umida macchia gialla. E un odore di rame e di cenere... EPILOGO «Sei stato molto tranquillo in questi ultimi giorni, Aldair. Non penso che tu abbia detto più di mezza dozzina di parole.» Alzai lo sguardo su Corysia e poi lo feci scorrere dietro di lei. Dietro all'ampia terrazza di pietra c'era un sentiero di sabbia bianca e ancora dietro le acque profonde del Mare Meridionale con il loro splendido colore verde-blu. La villa si trovava sulla costa di Nicea. Era stata la casa di qualche nobile ormai morto da tempo, e era ancora in buone condizioni. La sedia era molto comoda, e avevo di fianco a me un piatto di cipolle verdi e un bel boccale di birra fresca. Corysia era vicino a me. Non sentivo davvero nessun'altra esigenza. «Le femmine non sono mai soddisfatte,» le dissi. «Pensano sempre che tu parli o troppo, o troppo poco.» Lei si avvicinò a me e si sedette sul basso muretto di pietre. «Io ti conosco, Aldair.» «E chi potrebbe negarlo?» «Io so perché tu parli molto. E perché non dici assolutamente nulla. Non sei costretto a dirmelo se non ne hai voglia.» «Dirti cosa?», chiesi con tutta l'innocenza di cui ero capace. Corysia si accigliò. «Va bene, Aldair.» Guardò il mare, poi si girò di nuovo verso di me. «È venuto Rhalgorn mentre tu dormivi. Seppelliranno Caldus domani. Alla Fortezza di Amazzone.» «Noi ci andremo, naturalmente.» «Te la senti?» «Corysia, ho solo una costola un po' incrinata. Non mi pare che sia qualcosa in grado di mettere un guerriero fuori combattimento.» Corysia parve divertita.
«Tu hai due costole rotte. E un braccio fratturato. E...» «Sia quel che sia. Ad ogni modo noi ci andremo. Un viaggio di due o tre secondi non mi stancherà poi così tanto.» Allungai la mano per prendere il boccale di birra e ne bevvi una bella sorsata. «È vissuto fino a vedere la fine dell'avventura,» dissi, «sono molto contento di questo.» «Era molto vecchio. B'Wayne dice che semplicemente... si è spento. Un buon modo per morire, se devo dire la mia.» «E Becky-Sue? Sta bene?» «Sì, abbastanza,» disse Corysia. «O comunque lo sarà. C'è un capitano chiamato Morgan. Ti ricordi di lui? Era nella squadra che abbiamo incontrato quando siamo arrivati alla Fortezza.» «Sì, mi ricordo di lui.» «Bene. Io credo che sia lui il motivo per cui Becky-Sye starà presto bene.» «Oh, ne sono contento!» C'erano delle altre novità, ma per la maggior parte, ne ero già a conoscenza. Oltre a Rhalgorn, mentre dormivo, erano venuti anche B'Wayne e Te'dchak. C'erano ancora alcune navicelle dei mostri in circolazione, ma i nostri piloti le stavano inseguendo e mettendo ad una ad una fuori combattimento. Tutto lasciava credere che non ci sarebbe voluto ancora molto per sbarazzarci definitivamente di tutti loro. Stranamente avevamo trovato poche navicelle vuote e abbandonate dopo la battaglia. Te'dchak disse che avevano perso tutto il loro coraggio appena erano stati privati del loro leader, e che semplicemente si erano fatti da parte quando avevano appreso che ojt'Miyer era morto. In questo aveva parzialmente ragione, ma B'Wayne trovò una ragione molto più attendibile. Gironzolando intorno ad una navicella abbandonata, scoprì che i controlli erano stati cambiati. Le navicelle avrebbero fatto tutto ciò che avrebbero dovuto... tranne ritornare nei ventisette mondi. «ojt'Miyer non aveva fiducia in loro,» mi aveva detto B'Wayne dopo questa scoperta. «Questo è ormai chiaro, Aldair.» «Suppongo che tu abbia ragione,» gli dissi. E in effetti era così. Anche se non gli dissi perché. Corysia interruppe il corso dei miei pensieri. «È ojt'Miyer, non è vero?» «Che cos'è?» «La cosa di cui tu non vuoi parlare. Cosa è accaduto laggiù, Aldair? Non
credo che debba tenerti tutto per te.» «Tenermi cosa, Corysia?» Mi strinsi nelle spalle e mi misi a fissare il mare. «L'ho trovato. Si era gravemente ferito durante la collisione. L'ho ucciso. È tutto quello che c'è da raccontare. Davvero.» «Sì?» «Certo.» Mentre parlavo tenevo nascosta la faccia dietro al mio boccale di birra, perché Corysia era bravissima a leggermi in volto le bugie. Prima o poi sarei stato costretto a dirlo a tutti loro. Loro pensavano ancora che ojt'Miyer fosse come tutti gli altri. Più crudele e scaltro, forse, ma niente di più di un mostro. Non potevano immaginare che fosse qualcosa di diverso. Sarebbe stato consolante pensare che non ce n'erano altri della sua specie in giro, che eravamo al sicuro su questo nostro mondo, lontani come eravamo da altre stelle. Comunque, in tutta sincerità, non ci potevamo sentire per niente al sicuro. Perché io ora sapevo che erano stati i suoi stessi compagni a scovare ojt'Miyer e a farlo fuori. Lui era ferito, indebolito... ed occupato con me. Era bastato un attimo e l'avevano preso. Io mi ero sentito toccare da loro, poi si erano spostati su di una preda più appetibile. Senz'ombra di dubbio lui rappresentava un bel trofeo, e i suoi fratelli avevano escogitato un modo davvero spaventoso per eliminarlo. Lì fuori erano affamati di anime. E quella era una fame davvero terribile... FINE