STEL PAVLOU LA COSPIRAZIONE DEL MINOTAURO (Gene, 2005) Per papà Paul Pavlou 1928-1999 «Render noto il passato, diagnosti...
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STEL PAVLOU LA COSPIRAZIONE DEL MINOTAURO (Gene, 2005) Per papà Paul Pavlou 1928-1999 «Render noto il passato, diagnosticare il presente, predire il futuro» Ippocrate CYCLADES NELL'ADE Me lo ricordo il giorno che sono morto. I particolari mi giungono come avvolti dalla nebbia. Una foschia attraverso la quale si riescono a distinguere solo incubi. Ricordo il rumore del metallo contro il metallo, la carne insanguinata. La sete di sangue. I rivoli di sudore che scendono seguendo le vene delle mie braccia. Sporcizia e grasso animale che ungono una superficie di marmo. L'odore della carne che brucia. Come strisce di maiale rancido che crepitano e scoppiettano sopra un falò. Succhi che colano lenti. Sangue che scorre come vino. La bestia umana rende un sacrificio eccellente. Dissero che il cavallo aveva funzionato. Non so perché ricordo questo dettaglio. Il cavallo aveva funzionato. Ma era andata così. Ricordo di aver ucciso, con le mie stesse mani. Uno lo infilzai più veloce di uno starnuto. Ricordo di aver preso il viso di un altro fra le mani come per accarezzarlo e di avergli cavato gli occhi con i pollici, conficcandoli in profondità fino alle nocche. Non ricordo se urlò. Suppongo che lo abbia fatto. Adesso mi appare tutto come una macchia confusa. Tutti i dettagli di quell'orgia di sangue che ebbe fine quando mi tagliarono di netto il ventre, e le mie viscere si riversarono fuori come nastri che fluttuano in un gioco di bambini. Ricordo che ero sul punto di sferrare un altro colpo, quando un fendente mi colse di lato staccandomi una mano. Mentre rotolavano nella polvere le mie dita insanguinate stringevano ancora la spada. Quello che è accaduto dopo non lo so. I particolari mi giungono come avvolti dalla nebbia. Una foschia attraverso la quale si riescono a distinguere solo incubi. Forse è meglio così. Spero di non ricordare mai l'orrore
di cui sono stato testimone, perché quello che so è che incontrai il Male quel giorno, e non fui abbastanza forte da provare a fermarlo. Tornai prima che facesse buio, trascinato per i vestiti strappati. Forse pensavano che fossi una carogna. I miei lamenti chiarirono presto la cosa. Fui trascinato per le strade e caricato su qualcosa, non saprei dire cosa. Poi ci fu un gocciolare. Uno sporadico schizzo d'acqua sporca raggiunto a tratti dalla flebile fiamma dei fuochi nella caverna. Rimasi sdraiato lì, dentro e fuori lo stordimento, per non so quanto tempo. Solo lei potrebbe saperlo. Quella strega scarmigliata con i suoi occhi smaniosi di vedermi soffocare. Lei che spandeva il fumo dei suoi strani unguenti, tenendomi fermo perché non potessi voltare lo sguardo, costringendomi a sorbire le sue stomachevoli pozioni. Esaminò le mie interiora come contenessero una profezia. Come se le mie carni potessero raccontarle il futuro. Non so cosa vide, perché il futuro lì non c'era. Non potevo più essere curato, ormai. Ma lei mi unse lo stesso col miele e mi fasciò con delle bende. Mi nutrì di bacche, infusi e strisce di corteccia, conficcandomi ogni boccone giù per la gola riarsa. Recitò i suoi incantesimi e, quando le fiamme cominciarono a danzare, quando la caverna prese a ondeggiare, si sfilò le vesti e mostrò il folto pelo scuro del suo sesso bagnato. Si accovacciò sopra di me, e, con mia grande sorpresa, ottenne più controllo sulle mie membra di quanto ne avessi io stesso. Si dimenò, imprecò e mi insultò affinché le eiaculassi dentro. Mi colpì con i pugni chiusi. E per tutto il tempo le fiamme e il fumo del fuoco continuarono ad alzarsi attorno a lei, in un crescendo, fino ai suoi capelli e a quei suoi occhi smaniosi. Finché, infine, liberai in lei quello che andava cercando. Una volta soddisfatta, soffocò le fiamme e mi lasciò allo squallore e alla fame. E mentre giacevo lì, con le narici che si riempivano del fetore biliare della mia carcassa morente, lo condusse dentro e dichiarò di avermi salvato per lui. Questi sollevò la spada e me la conficcò nella tempia. Mentre morivo guardai nel fondo di quegli occhi smaniosi, e seppi. Me lo ricordo il giorno che sono morto. Il giorno in cui fui testimone del mio concepimento. Il mio nome è Cyclades. E questa è la mia storia. LE SETTE PROVE DI CYCLADES LIBRO PRIMO
«Conosci te stesso» Massima socratica NEW YORK CITY Pugnalò il primo visitatore alle 10:23 in punto. Lo stabilirono in seguito, deducendo l'orario dal video delle telecamere di sicurezza. Accadde così: vagò nella Sala Grande con indosso una semplice felpa grigia, l'aspetto innocuo, un ragazzo normale. Passò sotto il metal detector senza far scattare l'allarme. Restò fermo sotto le imponenti cupole di vetro dell'ingresso per dieci minuti. Non prese una mappa al banco informazioni. Né chiese indicazioni. Osservò il personale cambiare i fiori, una donazione vitalizia di Lila Acheson Wallace, per almeno tre minuti, poi accennò un passo verso le scale che salivano al piano superiore, cambiò idea, voltò a sinistra in direzione contraria alla rampa e, camminando per i circa trenta passi che lo separavano dalla scultura greca, senza fermarsi per pagare l'ingresso a sottoscrizione libera a nessuno dei due botteghini, entrò nella Sala Belfer con aria... smarrita. Non come quella di un turista. Qualcosa di diverso. Fu allora che cominciò a piangere. Non fu uno scoppio improvviso. Se così fosse stato, forse uno degli uomini della sicurezza in completo blu si sarebbe avvicinato per aiutarlo, accorgendosi che c'era qualcosa che non andava. Invece proseguì verso il Cubiculum di Boscoreale, pareti affrescate e pavimento a mosaico assemblati per riprodurre la stanza di una villa romana, dove Margaret Holland (un'insegnante di storia della Scarsdale High School, al museo per una visita guidata) lo notò: somigliava tanto a un ragazzo che conosceva, quello che fumava tutto quel crack nella biblioteca degli studenti. Ne sapeva abbastanza da decidere di tenersene alla larga. Davanti alla Grande urna sepolcrale, più in là sulla destra, seguì con il dito il profilo dei corpi proni dipinti sulla superficie di terracotta. Toccò molti altri oggetti, finché raggiunse il centro della sala. Circondato su ogni lato da statue in marmo di dèi e sovrani, il giovane fu attratto dalla figura nel mezzo, il Volneratus deficiens, il guerriero ferito, una rappresentazione di Protesilao, la prima vittima greca della guerra di Troia, ma qui raffigurato con la lancia sollevata, pronto a uccidere. Lauren Bergen, una ventunenne specializzanda in Storia dell'Arte alla
New York University, ha raccontato che stava abbozzando un ritratto del Volneratus deficiens quando, improvvisamente, l'uomo era apparso al suo fianco e si era messo a parlare alla statua. Perplessa, gli aveva chiesto se avesse familiarità con l'opera. Lui aveva risposto che non aveva familiarità con l'opera ma con l'uomo. A quel punto, Lauren Bergen aveva deciso di lasciare la Sala Belfer. Fu nel momento in cui lei si allontanò e lui cercò di seguirla che il giovane sembrò notare la galleria delle mostre speciali attraverso la soglia della porta con l'insegna: "Le conquiste greche". All'interno erano esposti manufatti risalenti all'epoca fra la guerra di Troia e i primi giochi olimpici, in occasione di quelli in corso proprio quell'estate. Dischi, lance, vasi, coppe, monete. Ma erano le spade a interessarlo di più. Le spade e i teschi. Lauren Bergen disse che non avrebbe mai voluto aver attaccato discorso con quel tipo. Perché così, forse, lui non avrebbe fatto quello che poi fece. * Alle 10:23 il giovane prese una corta spada di bronzo vecchia di tremila anni dalla parete del museo e, proseguendo quello stesso movimento, squarciò il braccio di Richard Scott, unico visitatore nella stanza. Dopo, in pochi secondi, aveva fatto crollare sotto i suoi fendenti il custode della sala e quello della sala accanto che aveva cercato di intervenire, sbaragliandoli entrambi con una certa disinvoltura, da vero esperto. La spada sembrava ancora solida e affilata. C'era molto sangue. Roteando la spada di bronzo sopra la testa, abbatté rumorosamente l'antica arma sulla teca numero 43. Dentro c'erano un elmo e un teschio scheggiato. Allungò la mano, cosparsa di frammenti di vetro e rossi rivoli di sangue, e tirò fuori quegli oggetti. Poi, nello stesso modo improvviso in cui era esplosa la sua furia, prese a iperventilare. In seguito, il video della sicurezza avrebbe mostrato come appariva confuso mentre studiava quelle ossa umane, poco prima di impallidire e accasciarsi su se stesso. Per qualche minuto rimase sul pavimento, farneticando in una lingua che nessuno riuscì a capire. Si premeva il teschio contro il petto. E piangeva.
NORTH Quella mattina di metà agosto era calda e opprimente, un'asfissiante giornata newyorkese che rendeva l'aria pesante e carica, pregna dei fumi concentrati delle auto a benzina e diesel che scorrevano lentamente lungo la Quinta Avenue come rivoli di sudore. Parcheggiato dietro tre untuosi scuolabus della Scarsdale accanto al marciapiede, North rimuginava sul rapporto di Bruder. Segnò la posizione del criminale su una stropicciata planimetria bianca e blu del museo prima di tirarla via dal cofano della sua auto di servizio, un'Impala blu scuro. «Quando arriva l'ESU 1 ?», domandò. L'ESU era il ramo tattico del NYPD. Negoziatori e SWAT. Essendo un detective investigativo del quarto distretto, North non trattava ostaggi: dovevano essere a corto di personale. I lineamenti gonfi di Don Bruder, a circa tre minuti da un colpo di calore, si ingrossarono per l'agitazione mentre sui gradini del Metropolitan Museum of Art continuava a riversarsi senza sosta una folla caotica. I poliziotti stavano accompagnando il pubblico alle uscite. Gruppi di turisti morbosi si assembravano attorno ai venditori di hot dog e di quadri. E, nonostante North sentisse le sirene di più auto che cercavano di farsi largo per superare l'incrocio dell'Ottantaseiesima, solo un isolato più in là, finora solo due volanti erano riuscite ad arrivare lì davanti a lui. Erano le 10:41. «Sta a te chiamare», replicò Bruder. «Tu sei il primo agente sulla scena. Hai fatto la richiesta per l'ESU o no?», chiese North brusco, spalancando il baule posteriore. «Alla centrale non te l'hanno detto?» «Detto cosa?». North tirò fuori il suo pesante giubbetto antiproiettile e strinse le cinghie sopra la sua t-shirt zuppa di sudore. «Ah, Gesù», fremette Bruder. «Sta a te chiamare l'ESU». «Perché?» «Perché il pazzo ha chiesto espressamente di te». North sbatté lo sportello del cofano. La sua fronte umidiccia si imperlò di sudore freddo. Mentre scuoteva la testa, sentì sulla nuca lo spesso e scuro strato di sporcizia della città. 1
Emergency Service Unit: Unità d'emergenza.
«Ha chiesto di me?» «Il detective James North. È quello che continua a dire. Pensi che potresti aver fatto incavolare qualcuno?». North si meravigliò di quell'eufemismo. «Sono un poliziotto», disse. «Senti, chiama Central Park, digli di muovere il culo e mandare altri ragazzi a isolare la zona», ordinò. «Hai bloccato le uscite laggiù?». Bruder indicò la folla che ancora si spintonava per uscire dall'edificio. «Mi prendi in giro? Ci saranno più di tremila persone lì dentro, e un ragazzino chiuso in trappola con quello schizzato. Dicono che ci vorrà più di mezz'ora solo per evacuarlo». North osservò una coppia di dipendenti del museo che veniva aiutata dai paramedici a raggiungere l'unica ambulanza del FDNY EMS2 riuscita a far breccia nell'ingorgo del centro. Uno si premeva una benda insanguinata sul viso. L'altro aveva una t-shirt avvolta attorno alla mano. Se ha toccato quel ragazzino... North allungò la mano per controllare che il suo pezzo da novanta fosse a posto, ma la nube che attraversò la faccia di Don Bruder parlò per lui. «Non vorrei essere al tuo posto in questo momento». «Credimi, tutti vorremmo essere qualcun altro». «La centrale ha dato ordini precisi: nessuna sparatoria all'interno del museo». North era sbalordito. «Prego?» «Qualcuno ha chiamato l'ufficio del sindaco. Hanno fatto una donazione trimillenaria alla mostra. L'altra cosa che so è che quella roba vale più di chiunque entri là dentro». North non rispose. Controllò il funzionamento della sua quarantacinque Glock 21.45, poi la rimise nella fondina. Otto proiettili. Bucati. Tutti i poliziotti sapevano che un proiettile completamente rivestito penetrava l'obiettivo, entrava e usciva. Ma uno bucato si apriva come un fiore di piombo. Il danno prodotto era grave, il potere di arresto assoluto. E non c'era pericolo che fuoriuscisse dall'obiettivo e colpisse qualcuno tanto sfortunato da stare sulla sua traiettoria. Portò l'arma con sé. «Io non ti ho visto». North non gli diede peso. «Vuoi dirmi qualcos'altro?» «Sì», disse il giovane in uniforme guardando la scalinata che saliva verso le imponenti colonne dell'immenso e imperioso edificio. «Abbiamo tro2
Fire Department of New York Emergency Medical Service: Servizio di emergenza medica dei vigili del fuoco di New York.
vato la madre del ragazzino». «Matthew Hennessey», ripeteva in continuazione la donna. «Matthew Hennessey». Ma era solo uno dei nomi che frullavano confusi nella testa di North. Amos Arreilamo, Louis Rosario - Louis l'aveva messo al fresco per rapina. Era già uscito? Michael Francos Duffy era dentro per duplice omicidio. Impossibile che fosse fuori. E Denni? Assomigliava alla moglie di Dennichola Martinez, quello che aveva inchiodato per furto aggravato. Il guaio di essere un detective investigativo era che ti mettevano ovunque servissero due braccia in più. Avrebbe potuto conoscere quel tizio in mille occasioni diverse, dall'associazione a delinquere all'attraversamento fuori dalle strisce. «Mi sente?», chiese la donna in preda a una disperazione estrema. «Mi sta ascoltando?». North mentì e rispose di sì. «È asmatico», singhiozzò la donna con le mani tremanti e le lacrime che le sporcavano le guance, a dimostrazione che il suo trucco da cinque dollari non era resistente all'acqua. Continuava a tormentarsi gli abiti da poco, vecchi, ma per il resto immacolati. Questa donna sapeva come far durare il denaro. C'era un'altra bambina con lei. Una ragazzina con un vestito di cotone giallo pallido. Nessun padre all'orizzonte. «Signora Hennessey», disse North gentilmente. «È un bravo ragazzo?», Lei non ascoltava. Era sotto shock. «Signora Hennessey. Suo figlio, come si chiama?» «Gliel'ho detto, Matthew. Si chiama Matthew». Gesù Cristo, North, riprendi il controllo, «Quanti anni ha?» «Undici». Il suo sguardo era assente. North doveva distrarla. Le toccò il braccio. «Signora Hennessey, mi ascolti. D'accordo? Mi guardi... guardi me». Lo guardò negli occhi, e North si trasformò nella sicurezza fatta persona. «Tireremo il suo bambino fuori di lì, ok? Ma avrò bisogno del suo aiuto». Lei annuì per far intendere che aveva capito. «Ha detto che ha l'asma. Segue una cura?» «Il suo inalatore. Ha un inalatore di plastica». «Cosa gliela fa venire? Ha degli attacchi di panico?» «No. No, è congenita». Bene, è già qualcosa. «Ce l'ha con sé?».
Era una domanda semplice, ma era del tipo a cui una madre angustiata non poteva rispondere. Tremava ancora, incapace di dare una risposta coerente. Portava i capelli biondi scoloriti legati dietro e tenuti a posto da un fermaglio. Non doveva avere che qualche anno più di North. A occhio e croce trentacinque, anche se la lieve traccia dei capillari esplosi intorno al naso suggeriva qualcosa di diverso. «L'ha messo nella borsa della mamma...», suggerì la figlia. «Odia portarselo in giro. Lo fa sembrare uno scemo». North rivolse di nuovo l'attenzione alla madre. «Ce l'ha?». Lei rovistò esitante nella sua borsa stracolma finché non tirò fuori il piccolo apparecchio di plastica blu. Lo allungò a North. L'etichetta diceva: "Albuterol". North la riconobbe immediatamente. Sua nipote, la figlia di sua sorella, usava l'Albuterol. Ma questa bomboletta era vuota e non veniva utilizzata da molto tempo. North sorrise, in un modo che sperò essere rassicurante. Il piccolo Matty non aveva affatto l'asma. Stava prendendo in giro sua madre, per motivi noti solo a lui. «Mi assicurerò che lo abbia». Le opprimenti nubi color arancio, coperte da uno strato lucido, minacciavano un temporale, ma North non ci sperava. Avrebbe continuato a sudare. Il caldo ha strani effetti sulla mente di un uomo. Può farlo ribollire fino all'irrazionale, può portarlo ad attaccare senza temere le conseguenze. Il caldo interferisce con l'abilità di ragionare. Quando entrò nel museo, affrontando la violenta marea di visitatori in preda al panico che ancora si riversava sulla scalinata principale nel tentativo di uscire, North aveva due alternative: far alzare l'aria condizionata e sperare che ritornasse in sé, o farla spegnere del tutto e lasciare che il caldo lavorasse per lui. Che rendesse l'uomo lento, più facile da prendere, ma pericolosamente imprevedibile. Come si fa a calmare un calabrone? «Che sta facendo adesso?». North raggiunse un agente, rannicchiato dietro uno dei botteghini. «Affila la spada». «Oh Gesù». North si affacciò cauto all'angolo per dare un'occhiata più da vicino, ma da vedere non c'era proprio nulla. Poté invece udire il suono di quella che sembrava una pietra passata lentamente, molto lentamente,
sul filo di un'antica spada. «Dov'è?». Il poliziotto indicò una galleria laterale. «Continua a fare su e giù. C'è un'uscita dall'altro lato». North controllò la mappa del museo. Sentì i muscoli della mascella che gli si contraevano per la frustrazione. Non c'erano abbastanza poliziotti, e c'era ancora troppa gente. Mise via la mappa costernato. «Troppe variabili». All'altro capo della Sala Belfer un unico agente dirigeva i visitatori che uscivano confusi dal bar e dalla mostra sulle Americhe giù per le scale, oltre il guardaroba e fuori sull'Ottantunesima. Dava le spalle alla sala. Non aveva altra scelta. Non c'erano porte interne da bloccare, nessuna sbarra apparsa per magia. La totale accessibilità era il fiore all'occhiello del museo. Sarebbe bastato che quel criminale cambiasse idea su dove stare perché si accorgesse di tutto. Nel frattempo, stava continuando ad affilare la spada. Dalla galleria laterale proveniva un penetrante odore di metallo. «È molto che va avanti così?» «Più o meno dieci minuti. Quelli del museo hanno detto che è una autentica spada di Troia». North ci dovette pensare un po' su. «Antica Grecia». Ah. «Scommetto che vale un sacco di soldi». Bruder lo raggiunse. «Non più». North guardò le uscite. «Ha fatto qualcosa al ragazzo?» «Credo che non sappia nemmeno che è lì». Ma North non aveva dubbi. «Credetemi», disse, «lo sa». A Bruder non piaceva tutta quell'attesa. La punta delle dita gli era diventata bianca a forza di stringere la radio. «Insomma, qual è il problema con l'ESU? Ho chiamato, no?». North ci rimuginò. L'ESU sarebbe stata la prima scelta se la situazione non fosse stata sotto controllo. Ma lo era, per ora. In quella città la media dei casi con ostaggi era di un centinaio all'anno. La squadra del NYPD che negoziava in quelle situazioni aveva una percentuale di successo del novanta per cento nella contrattazione con i disperati, i suicidi e i pazzi che perdevano il controllo sui loro insondabili impulsi. Non per niente avevano un "Parla con me" ricamato sulle loro uniformi.
«Richiedi l'HNT3 », ordinò North. Ma in quel preciso istante la situazione cominciò a degenerare. La folla al capo più lontano del piano cominciò a riversarsi sull'agente e a invadere la sala, proprio lì dove North non li voleva: nel bel mezzo della crisi. North non si fermò a pensare. «Indietro!», strillò correndo verso di loro. «Tornate indietro!». Prima ancora di accorgersene, si ritrovò al centro della sala. I visitatori erano disorientati. Esitarono. North, disperato, fece loro segno di allontanarsi. Vicino ai botteghini, Bruder e il suo compagno furono costretti a dirigere la marea di visitatori che straripava dalle scale lontano dal centro dell'azione, verso le uscite. «Andatevene!», implorò North. E fu allora che la prima ragazza vide lo squilibrato in piedi giusto qualche metro più in là, nella galleria delle mostre speciali, e gridò. Forse settanta chili, capelli chiari rasati a zero, stava a circa due metri di distanza dando le spalle al suo pubblico, con le braccia chiaramente cosparse di denso sangue rosso scuro. I visitatori tornarono precipitosamente da dove erano venuti, ma ormai lo straniero si stava già voltando verso North. Era più giovane, e di molto. Poteva avere venticinque o ventisei anni. North si allenava, ma quel ragazzo sembrava un atleta. Sarebbe stato un avversario rapido e agile. North si meravigliò della propria stupidità. Pensò che avessero ragione. Che la durata media della carriera di un poliziotto newyorkese era davvero di sette anni. Per riflesso strinse con forza l'inalatore blu e cercò di valutare la mossa successiva. Adesso era in campo nemico. E North questo nemico non lo conosceva affatto. GENE L'agghiacciante suono dei lenti e deliberati colpi della pietra sul freddo, duro metallo dell'antica spada continuava a rimbombare da una parete all'altra. Ora North sentiva che erano accompagnati da respiri affannosi emanati a forza dalla gola contratta e secca di quello sconosciuto. Era asmatico anche lui, o si sentiva male? Era un indizio di polmonite quello che North udiva, un'infezione bronchiale? O quell'uomo con la spa3
Hostage Negotiation Team: Squadra negoziazione in caso di ostaggi.
da era semplicemente strano, oltre che squilibrato? Lì vicino, dietro la grande statua di marmo di un dio greco da tempo dimenticato, Matthew Hennessey piangeva a dirotto. Era così terrorizzato che ai suoi piedi c'era una pozzanghera e lungo i jeans gli colava una lunga macchia blu scuro. Se ne sarebbe fatta sotto dell'altra se gliene fosse rimasta ancora un po'. North era troppo lontano per afferrarlo e scappare, il criminale l'avrebbe fatto a pezzi prima che potesse arrivarci. Il ragazzo cercò di incrociare lo sguardo di North per farsi confortare, ma lui non poteva permettersi di rassicurarlo. Doveva distogliere l'attenzione dell'uomo dal ragazzo, a tutti i costi. Quando lo sconosciuto, sempre affilando la sua lama, si voltò per guardare Bruder che dirigeva i visitatori irrequieti e curiosi verso le uscite, lo fece strascicando i piedi. North osservò la sua camminata incerta. Di cosa si era fatto? PCP? Crack? Qualcosa di nuovo? Evidentemente se la poteva permettere. Aveva abiti costosi. Pantaloni firmati. Scarpe da ginnastica da duecento dollari. Le dita erano ben curate e senza calli. Non un colletto bianco qualunque, evidentemente. Cosa, in mezzo a quei vetri infranti e a quelle ossa umane frantumate ricoperte di argilla, i manufatti e gli occhi di vetro sparpagliati sul pavimento di duro marmo, poteva averlo reso tanto furioso? Forse quella ricostruzione facciale in argilla che aveva schiacciato calpestandola, quella a cui, con la sua esplosione d'odio, aveva fatto schizzare fuori gli occhi? Tutti quegli occhi. Persino North riusciva a sentire gli occhi, lo sguardo penetrante degli dèi allineati lungo la galleria, che incombevano su di lui, come se lo stessero osservando. Giudicando. Era questo che l'aveva fatto impazzire, non gli piaceva essere guardato? North conosceva uomini che avevano ucciso per molto meno. Dico semplicemente: Ciao, hai chiesto di me? No. Così lui avrebbe in mano tutte le carte. North prese l'inalatore blu, lo agitò con violenza, assicurandosi che la pallina all'interno tintinnasse rumorosamente, e finse di inspirare una profonda boccata di Albuterol. «Sono nervoso», annunciò North scusandosi. Nessuna risposta. Se il pazzo aveva sentito qualcosa, non lo diede comunque a vedere. Continuò a sfregare il coltello come fanno i cuochi. In qualche modo North avrebbe dovuto prendere l'iniziativa. Porsi al centro dell'attenzione di quell'uomo. Fare qualcosa di inatteso, ma non minaccio-
so, che gli fornisse un altro spunto. Notò un pesante giubbotto di pelle marrone sul pavimento, abbandonato da un visitatore in fuga. North aspettò un momento prima di avvicinarcisi lentamente. «Ehi, è tuo?», chiese malgrado lo sconosciuto indossasse già una felpa. Era solo uno spunto per iniziare una conversazione. Lo sollevò con cautela, senza mai staccare gli occhi da lui. «Ecco, lascia che lo prenda per te», si offrì rassicurante. Ancora niente, solo lo straziante stridore della pietra contro il freddo metallo. Il giubbotto non era roba da poco ed era troppo pesante per essere adatto a un giorno come quello. Doveva essere stata l'abitudine a spingere qualcuno a portarselo dietro. North fece scorrere rapidamente le dita lungo la fodera, tanto per controllare, ma le tasche erano vuote. Ci riprovò. Aveva solo un'altra possibilità. «Mi chiamo James», disse. «James North». Lo sconosciuto smise di colpo di affilare la sua spada. Il torace gli si sollevò nello sforzo di tirare un altro respiro affannato. Stava pensando a una risposta? Difficile da dire. North si accorse che mormorava qualcosa fra sé, anche se non riusciva a comprendere la sua lingua. Forse era mediorientale, ma non ne era sicuro. Che fare? «Vuoi che lo poggi lì vicino a te?». Lo straniero alzò i suoi curiosi occhi assenti all'altezza di quelli di North. Bene, bene. Guardami... Lo sguardo di quell'uomo rivelò a North un tratto familiare, che tuttavia non riuscì proprio a identificare. Aveva una voglia dalla forma circolare vicino all'occhio destro. North non lo fissò troppo intensamente, distolse rapido lo sguardo per mostrargli deferenza. Cercò di sembrare compiacente. «Chiamami Jim», disse porgendogli il suo giubbotto, anche se il criminale continuava ad agitare la spada con una certa disinvoltura. «E tu?». L'uomo restò a lungo in silenzio, assorto. Era davvero così difficile? Alla fine rispose in un sussurro: «Sono la maledizione di Satana». North non volle nemmeno pensare a cosa potesse significare. Ci stava provando o intendeva proprio quello? Lascia stare. Calmalo. Rispose gentilmente: «Ma non è il tuo nome, che invece è?». Lo straniero si soffermò su quella rivelazione. «Gene... loro mi chiamano Gene». Chiunque fossero questi loro, North era sicuro che non fosse l'unico modo in cui lo chiamavano. Lasciò che i toni si addolcissero un po'. «Ciao,
Gene. Non rivuoi il tuo giubbotto?». Gene sorrise compiaciuto. Reagiva in modo molto mite, quasi ingenuo. «Non è mio», rispose con modestia. «Ti piace la mia spada?». North raggelò, ben consapevole del sangue sulla lama e di quello che impregnava tutta la sua t-shirt. Attento a come rispondi. Non alludere alla situazione presente. Quelle erano le regole. Ottenere la fiducia del ragazzo. Conservare la sua fiducia. Ma nessun riferimento alla realtà. «Questi giubbotti costano molto». Devi solo calmarlo. «Ne avevo uno, ma l'ho lasciato sulla metropolitana. Ci vogliono trecento dollari per prenderlo nuovo. Non so per te, ma trecento dollari sono difficili da rimediare». Gene non era interessato. Passava il dito lungo la scintillante lama affilata della spada. Quasi tutta la superficie era incrostata da una spessa patina verde. Sembrava estremamente fragile. Avrebbe dovuto frantumarsi al primo colpo, ma era come se fosse bastata la volontà di chi la maneggiava a tenerla insieme. Le dita di Gene indugiavano affettuosamente sul bassorilievo delle corna di toro inciso sull'impugnatura. «Erano molti anni che non la vedevo». North ne approfittò per continuare la conversazione su un tono amichevole. «Vieni spesso al museo?». Aspirò di nuovo dall'inalatore vuoto. Gli dava il tempo di pensare, mentre procurava allo squilibrato qualcosa su cui concentrare l'attenzione. Gene scosse la testa. «No», disse in una maniera di fatto preoccupante. «È la prima volta». Sollevò la spada e la mosse avanti e indietro in un movimento di prova sempre più ampio. Il sangue schizzò dalla lama e finì sul pavimento di marmo formando grosse chiazze a pochi centimetri dai piedi di North. «Tu, ehm, sei di queste parti, Gene? I miei sono di Brooklyn, nati e cresciuti lì. Che mi dici di te? Di dove sei?». Gene rispose fendendo l'aria con la spada, infilzando nemici immaginari. Schivando un attacco invisibile. «Di qui e lì», disse alla fine, ma la vivace curiosità nei suoi occhi era rivolta alla prova di bilanciamento dell'arma. Ripeté il movimento. Abbassando le spalle per provare una sferzata circolare, agile. Aveva i riflessi pronti, era rapido. C'era un contrasto netto con il modo in cui si era comportato giusto qualche minuto prima. «So tutto di te», disse Gene. «Sì?». Con la bocca asciutta per il terrore e la rassegnazione, North guardò indietro verso il fondo della galleria in direzione di Bruder. Ma che
succede? L'HTN ci mette cinque minuti di solito. Ma potrebbero anche essere cinque ore. «Dove, ehm, dove pensi di avermi conosciuto?» «Non è una cosa che penso. Sei tu che non te lo ricordi». «Cosa te lo fa dire?» «Devi fermare tutto questo». «Fermare cosa, Gene? Sei tu che hai cominciato. Non credi di essere tu quello che può fermare tutto?». Gene smise di volteggiare in aria la spada. Le narici gli si allargarono gli occhi gli si spalancarono. La voce gli tremava. «Tu non capisci». Si diede dei colpi sulla testa. «Tu solo puoi farlo finire. Aiutami». «Come?». Gene non rispose. North osservò la lama brillante della spada ondeggiare minacciosa. Si voltava di scatto con un movimento elegante e studiato, come se la lama fosse un'estensione del suo braccio e il suo affondo un superamento dei suoi stessi limiti. Attraverso quella spada Gene sondava l'ambiente intorno a sé con una destrezza e una grazia in totale distonia con il suo stato mentale. Tornò a girare su se stesso, come in trance. E non vide arrivare il giubbotto. North fu lesto. Lanciò la pesante giacca marrone sulla testa di Gene, consapevole ma ancora totalmente impreparato all'agilità di quell'uomo più giovane di lui e alla sua forza esplosiva. Gene gli diede una violenta gomitata nello stomaco con la forza di un pistone d'acciaio, ma, avendo lo slancio dalla sua, North completò il suo tiro con un calcio al fondo schiena che spinse il giovane in avanti, contro quello che era rimasto di una delle vetrinette. In un istante North spostò la sua attenzione su Matthew Hennesey, ma il ragazzo era così confuso dagli eventi che fece un passo indietro, come se fosse proprio lui a spaventarlo. Nient'affatto scoraggiato, North lo raggiunse con due ampie falcate afferrandolo per il colletto con una mano, per la cintura con l'altra, e scagliò, disperato, quel ragazzo perplesso in fondo alla sala, verso Bruder. Al momento del brusco atterraggio Matthew Hennessey urlò, poi scivolò sul marmo, per finire tra le braccia del poliziotto pronto a raccoglierlo. Ma quel momento fu tutto ciò che North ebbe a disposizione prima che
Gene si riprendesse, scagliando il giubbotto sul pavimento. Lo colpì energicamente con il lato piatto della spada, battendogli la schiena con una tale ferocia che il detective si accasciò, ansante, tenendo ancora in pugno l'inutile inalatore. Solo l'agente vicino all'uscita sull'Ottantunesima Strada ebbe la presenza di spirito di fermarlo prima che andasse oltre. «Fermo!», urlò mirando al criminale ignaro dell'ordine di non aprire il fuoco. Gene esitò, come momentaneamente rinsavito, mentre North ansimava ai suoi piedi. Voltandosi, sforzandosi di trovare un appiglio, il detective cercò a tentoni la sua pistola. Riusciva a sentire le parole girargli e rigiragli in testa, ma i suoi polmoni proprio non ne volevano sapere di lasciare che elencasse all'uomo i suoi diritti. Strinse i denti e finalmente tirò fuori la sua pistola con uno strattone. Fece per prendere la mira, ma ormai Gene se n'era andato. North guardò l'agente sovreccitato che gli indicava da che parte era fuggito Gene, dritto verso il retro dell'edificio, in direzione del Central Park e di una più rassicurante oscurità. North si trascinò in piedi facendo segno a Bruder, dall'altro capo della sala, di andare. «Porta quel ragazzo da un dottore». Bruder fece come gli era stato detto. L'altro poliziotto si diresse dove c'erano i manufatti di Africa, Oceania e delle Americhe. North, invece, andò nella direzione che aveva preso Gene. Sondò il buio, alla ricerca di qualcosa, con piccoli e rapidi movimenti, inquieto, con la Glock puntata contro tutto quello su cui gli capitava di posare lo sguardo, la mano sinistra serrata al polso destro. Scricchiolio di frammenti di vetro sotto i piedi. Cos'è questo odore? Così acre e pungente. Fiori? Profumo. C'era una pozzanghera appiccicosa rappresa intorno ad alcuni bulbi oculari di vetro, come una macabra zuppa. Proseguì, con il collo che gli formicolava sotto l'implacabile sguardo di pietra degli dèi nella galleria, finché si ritrovò in uno spazio dedicato a un mobilio francese squisitamente decorato. Scrittoi, cassettoni e l'armadio "merovingio", ma nessuna traccia di Gene. In che direzione è andato? Al museo c'erano dei lavori in corso, e il passaggio diretto al lungo e vasto salone della scultura europea era bloccato. North cercò di concentrarsi sulla planimetria e di ricordare la posizione delle uscite. Continuava a muoversi cercando una scorciatoia. In fondo al salone della scultura europea c'era un bar e una porta girevole bloccata che
dava sul parco. A sinistra della porta la mostra di Arte Moderna, una rampa di scale... e un'uscita di emergenza. North corse fra arazzi, porcellane e strani oggetti in legno, e finì in un corridoio scuro tinteggiato in ocra, accanto a un negozio di souvenir con alte pile di guide e t-shirt. Alla sua sinistra, verso l'ingresso da cui veniva, c'erano le scure maschere in legno dell'Arte Africana, cariche di cupi presagi. Di fronte, gli incomprensibili sgocciolamenti e macchie di vernice di Jackson Pollock; e tutto intorno a lui l'impenetrabile silenzio di una traccia che si raffredda alla svelta. Avanzò lentamente verso l'uscita d'emergenza, girandosi, in attesa di un movimento, di un'ombra fuggevole, di una voce distante. Non c'erano tracce. È già fuori, o si sta nascondendo qui dentro? Sentì sbattere la porta delle scale, c'era qualcuno lì dentro. North si avvicinò concentrato e udì il debole suono del metallo che sfrega contro il metallo. Dietro la porta? Su per le scale? Sollevò la sua Glock, entrò e mirò. Una semiautomatica d'ordinanza lo fissava dritto in mezzo agli occhi. North abbassò l'arma mentre sollievo e panico si diffondevano in ogni suo nervo come un veleno. Il poliziotto che proveniva dall'uscita sull'Ottantunesima si stringeva convulsamente la gola, ma fra le sue dita disperatamente serrate sgorgava a fiotti un sangue schiumoso rosso chiaro. Cercò di parlare, ma tutto quello che gli uscì dalla bocca fu un gorgoglio di sangue. Il poliziotto abbassò l'arma e si accasciò contro la porta. North gli si lanciò incontro per sostenerlo e attivò con uno strattone la sua radio Motorola. «Mandatemi un mezzo! Subito! Agente a terra!». Urlò la loro posizione ai paramedici in uno scatto così improvviso che qualcuno si spaventò al punto da sentirsi costretto ad addentrarsi nel museo. Ci fu un gran fracasso di sedie e tavoli caduti in direzione del bar. Gene. North aveva pochi secondi. Furibondo per la frustrazione si precipitò di nuovo al negozio di souvenir e arraffò una t-shirt, la premette sul collo del poliziotto spingendola a forza sotto le sue dita rigide, ma il sangue non accennava a fermarsi. Aveva l'arteria danneggiata? North non sapeva proprio dove altro fare pressione. «Andrà tutto bene», disse. Ma la terribile verità era che non avrebbe potuto dire se stava mentendo o no. Udì il rumore di vetri infranti nella sala, mentre quegli spaventosi se-
condi scorrevano con la velocità delle ore. North allungò il collo. Perché il bar? Perché non ha usato questa uscita? North spinse la porta: chiusa con la catena. Si aspettava una via di scampo. Gene deve aver ripiegato quando ha incontrato resistenza. North era disperato. Ce la posso fare, lo posso prendere. Ma non poteva allontanarsi. Agente a terra. Quell'agente doveva essere assistito. Ma è proprio lì! Dove sono i paramedici? Forse poteva sfilarsi i lacci delle scarpe e legargli la t-shirt al collo? Ragiona! Finiresti per strangolarlo! Allungò una mano insanguinata fino alla tasca posteriore e tirò fuori il suo Nextel passando dalla funzione cellulare a quella di radio. «Bruder! Dove sei?». Ma non ebbe alcuna risposta turbata o ansante, piuttosto il silenzio divorante della quieta recriminazione e dell'angoscia che cominciò ad avvolgere entrambi con la sua misera e logora coperta. Strinse disperato il collo del collega, mentre sentiva la presa dell'uomo che si allentava e osservava il sangue caldo traboccare fra le sue stesse dita per poi colar via di nuovo. Un ruscello cremisi che si versava sulle nocche e scorreva giù nella pozza che si andava allargandosi ai suoi piedi. Premette più forte, pigiando la tshirt più a fondo nella ferita, malgrado uno schiacciante senso di inutilità. Dio, non sapeva nemmeno il nome di quell'uomo. Il fracasso sordo degli scarponi dei paramedici invase la sala. Bruder era con loro. «North! Da che parte è andato?». Un paramedico rapido e sgarbato staccò le dita di North dalla ferita con l'efficienza dettata dalla routine. North si asciugò il sangue dalle mani passandole sullo scuro giubbetto antiproiettili. Tergendosi il sudore sulla bocca con un palmo untuoso, non poté fare nulla per mascherare il suo sconvolgimento. «North?». Ma lui si era già addentrato nella sala, verso il bar, senza dire una parola. Bruder non poté fare altro che seguirlo. Una vetrina spessa separava il bar dal parco all'esterno. Le finestre ad angolo acuto offrivano una visuale del Cleopatra's Needle che faceva capolino dietro le fronde scure sul limitare del Turtle Pond. I tavoli, le sedie e i pesanti piani in legno delle casse giacevano sparpagliati e capovolti a formare un sentiero scintillante, che attraverso il bar portava direttamente ai piedi ben divaricati di un trionfante arciere di bronzo.
North proseguì tra quei rottami con attenzione, all'erta sulla possibilità di un agguato. Ma sentiva che Gene se ne era già andato. Lo seppe ancora prima di posare lo sguardo sul varco che l'uomo si era ferocemente aperto in uno dei pannelli rinforzati. North allungò il passo. «A tutte le unità in ascolto, è nel parco». Bruder cercava di tenere il passo, ma North stava già saltando sul prato oltre il varco. Un'altra vittima giaceva riversa sull'asfalto della East Drive. Accasciata con la faccia a terra. Aveva stivali da cavallerizzo di pelle nera e una toppa gialla triangolare sul braccio: un poliziotto dell'Unità a cavallo. Fa che non abbia preso il cavallo. North si precipitò in aiuto del poliziotto mentre Bruder giungeva svelto dietro di lui. «Vai! Ci penso io! Ci penso io!». Ma da che parte è andato? Il distretto di Central Park era a qualche isolato di distanza sulla sinistra. Non di là. Il paese delle meraviglie era alla sua destra. Gene non aveva altra scelta: stava attraversando il parco. North scattò oltre il terrapieno, in direzione del rumore assordante di gomma e sughero che urtavano contro il frassino bianco, l'eco del quale rimbalzava di albero in albero: una partita di softball sul Great Lawn. Saettò fra gli alberi rinfoderando la Glock. C'era troppa gente in giro. Troppe possibilità che le cose andassero storte. Dall'altra parte dell'obelisco sentì odore di cavallo e seguì il puzzo dello sterco fin quando udì una voce: l'intima e rassicurante conversazione fra il cavaliere e il suo destriero. Gene stava all'ombra dell'obelisco, a lato del cavallo - un altissimo baio color nocciola - e lisciava il sensibile e vellutato muso bianco dell'animale con confidenza disinvolta. Sembrava lievemente perplesso che la bardatura includesse due morsi, ed era chiaramente sconcertato dalle staffe, che aveva legato insieme sotto il ventre della bestia. North non ebbe neanche il tempo di pianificare la mossa successiva che l'animale si accorse della sua presenza, rizzando istintivamente le orecchie nella direzione da cui sentiva provenire i pesanti passi del poliziotto che si avvicinava. Diede a Gene tutto il preavviso di cui aveva bisogno. Gene sollevò una scura borsa da fattorino, una borsa che North era sicuro non avesse prima. Doveva averla lasciata lì, doveva sapere già che sarebbe ritornato da questa parte. L'ha programmato! Ha un piano! North si mise a correre. Gene si muoveva rapido, ma calmo. Salì in groppa, tirò le briglie per far
girare il cavallo verso North. Teneva la spada stretta al suo fianco. Partì alla carica. 10-88 Un fragoroso tumulto di zoccoli ridusse velocemente la distanza che li separava. Mentre cavallo e cavaliere si avvicinavano rapidi, North si rifugiò tra gli alberi. L'antica e affilata lama di bronzo fendette l'aria a pochi centimetri dalla sua testa e il freddo alito di vento che sentì sul collo fu come il monito spettrale di ciò che sarebbe potuto accadere. North si nascose, sperando di riuscire a coglierlo di sorpresa, ma Gene non aveva nessuna intenzione di sferrare un altro attacco: si allontanò tra gli alberi, dirigendosi a ovest attraverso il parco. Mise al sicuro la spada e spronò il cavallo ad accelerare dandogli colpi con i talloni. North gli corse dietro, sapendo fin troppo bene che non aveva speranza di tenere il passo con un cavallo al galoppo. Emerse dall'ombra degli alberi e l'afa estiva gli riempì i polmoni di aria rovente. Lungo il viso gli scorrevano rivoli di sudore salino che gli bruciavano gli occhi. Il petto ansava sotto il giubbetto antiproiettile stretto al busto, ma North non voleva arrendersi. A malapena in grado di parlare, allungò di nuovo la mano per prendere il suo Nextel. «Dieci ottantotto! Criminale... diretto a ovest...! Delacorte Theater!». «Ripeti?». No, non posso ripetere! Avanzò inciampando in una coppia di turisti e corse a tutta velocità lungo il sentiero d'asfalto che portava al teatro di legno a forma di ferro di cavallo, dove il prato digradava. C'era stato talmente tante volte da non poterle contare. Ai piedi della piccola discesa c'era un incrocio, con un galoppatoio. Riusciva a vedere la coda del cavallo che si agitava da una parte e dall'altra mentre Gene, con consumata abilità da cavaliere, riduceva l'andatura dell'animale a un lento trotto. Gruppetti di preoccupati passanti si disperdevano in fretta per lasciarli passare, qualcuno gesticolando in segno di rimprovero, mentre i due sparivano in cima alla salita. Quando North arrivò, quel caldo frastornante aveva già sortito il suo effetto. Rallentò bruscamente tenendosi stretto il fianco destro mentre lo spasmo lancinante gli cavava l'aria fuori dai polmoni. Respirò profonda-
mente cercando di controllare il tremore che si era impossessato di lui, e fissò l'incrocio in basso attraverso una patina cremisi. Si costrinse a proseguire inoltrandosi tra la folla nonostante il dolore, modificando il ritmo del respiro in modo da espirare ogni volta che il piede sinistro toccava terra, premendosi il fianco destro, dove il fegato picchiava con forza contro il diaframma. Da che parte adesso? Il galoppatoio era costituito da uno strato di diversi centimetri di terra fine. Le orme di cavallo erano ben impresse e portavano in entrambe le direzioni. Sovrapposte. Confuse. Due pony grigi pezzati trottavano sotto la volta frondosa in direzione dei quartieri residenziali. C'era parecchia gente in giro, che si riversava nel Central Park Ovest per una pausa pranzo anticipata. North udì un nitrito proveniente dalla strada e avanzò svelto, a scatti, su per il pendio che portava al marciapiede. Gene era sull'altro lato della strada che conduceva il cavallo in mezzo alla colonna di macchine in coda. Per un attimo North si domandò se per caso Gene volesse essere catturato. Con un cavallo, a quest'ora sarebbe dovuto essere a chilometri di distanza. Un giovane fattorino in calzoncini neri di spandex e maglietta gialla, si stava preparando a montare in sella alla sua mountain bike quando North gli mostrò in un lampo il distintivo e gli spiegò chi era. «Signore, ho proprio bisogno della sua bici». Il fattorino esitò, ma il caos provocato da Gene parlava da sé, quindi si arrese all'evidenza e North partì in un baleno. Erano anni che non montava su una bicicletta, e questo aggeggio aveva troppe marce per i suoi gusti. Si lanciò tra i veicoli pressati uno addosso all'altro, evitando per poco uno scontro quando la coda di auto si spostò in avanti. Un tassista gli diede un rabbioso colpo di clacson quando il suo passaggio consentì a un'auto proveniente da un'altra strada di sorpassarlo. North abbassò la testa e continuò semplicemente a pedalare. C'è uno spazio! Balzò in avanti, schivò un furgone e si scontrò frontalmente con una scintillante Chrysler Sebring berlina grigio metallizzato. Accasciato sul cofano, North alzò gli occhi rabbiosi verso l'autista al di là del parabrezza. Una donna mozzafiato, con lunghi capelli ramati e un paio d'occhiali da sole alla moda, gli restituì lo sguardo. Stava cercando
anche lei di svoltare per l'Ottantunesima Ovest. North si scollò dal cofano e raccolse la bicicletta, non senza un briciolo di rimpianto. Dov'è quel cavallo? Spingendo sul pedale riprese la sua corsa, prima di perderli definitivamente di vista, ondeggiando in mezzo al traffico mentre cercava di tenere lo sguardo sopra tutte quelle teste. Là! Perché Gene doveva raggiungere quella parte della città? Dove stava andando? Era il tipo che vive nell'Upper West Side? Era un avvocato, un medico? Quale delle due definizioni si adattava meglio al personaggio? Dove sta andando? Gene tirò le redini per indirizzare il cavallo verso sud, sulla Columbus Avenue. Sud? Cosa cerca a sud? HELL'S KITCHEN Sulle mappe per turisti quella zona la chiamavano Clinton, ma sapevano tutti che in fondo sarebbe sempre rimasta Hell's Kitchen. North pedalava con foga. L'aria afosa e carica di gas di scarico gli scottava la pelle. Non importava quanto si sforzasse, isolato dopo isolato, proprio non riusciva a guadagnare terreno. Gene era troppo veloce. Il traffico troppo denso. Perché aveva la sensazione di aver passato la sua vita a dare la caccia a quell'uomo? Gene si lanciò un'occhiata dietro le spalle, sicuro che North lo stesse seguendo, e spronò il cavallo al galoppo. Quelle strade avevano un'aria molto calma e signorile, grazie al fatto che molti artisti e scrittori vi si erano trasferiti dall'East Village diverso tempo prima; ma North, come ogni poliziotto, sapeva che sarebbe bastato grattar via lo strato superficiale perché emergesse il loro cuore più nero. Inviolato. Gli scrittori non erano che impostori, in cerca della prossima buona storia di cui approfittare, come parassiti. In mezzo agli isolati eleganti, agli edifici alla moda, ottenuti ristrutturando mattatoi e fabbriche di colla del XIX secolo, sui marciapiedi sopravvivevano ancora piccoli alimentari disordinati e squallidi ristoranti. Quel posto era un barilotto di polvere da sparo: una classe di bianchi borghesi mescolata a povera gente dalle origini più disparate. E Gene sembrava conoscere bene la zona. Fece salire l'animale sul marciapiede e superò la barriera che lo divideva da una piccola area di par-
cheggio. North sfrecciò in quello strettissimo spazio di lato alla recinzione, e pedalò veloce lungo il vicolo laterale. Sbucò a tutta velocità sulla strada principale, dove l'industria del porno si era trasferita dopo lo sgombero da Times Square. Se c'era un posto che rappresentava la vera natura della città, quello era Hell's Kitchen. Avevano provato a disneyficarla, e avevano fatto persino un buon lavoro. Ma come un mostro che indossa un costume da Topolino a buon mercato, aveva un sorriso falsamente rassicurante, perché dietro la maschera il demone rimaneva se stesso. Intento ad affilare gli artigli. In attesa del suo momento. Forse il demone aveva preso a dipingere il suo ritratto. Forse il demone aveva dipinto Gene. Lì dove i marciapiedi si affollavano di individui tristi che si trascinavano fuori e dentro squallidi locali di peep show, North udì provenire dal fondo della stessa strada le urla della gente che spintonandosi cercava di evitare la traiettoria del pazzo in groppa al cavallo. Il Lincoln Tunnel era a pochi isolati di distanza: se Gene voleva allontanarsi dalla città e spingersi nel cuore del New Jersey, quella era la strada giusta. A Manhattan un uomo a cavallo avrebbe sempre dato nell'occhio. Eppure, continuava a non avere senso. C'erano percorsi più semplici di quello. Poteva darsi che Gene fosse uno straniero? All'improvviso, due volanti irruppero da un'uscita laterale con luci accese e sirene spiegate. Gene si curvò all'indietro con un'energia tale che il cavallo si sollevò sulle zampe posteriori. Ignorando un agente che gli ordinava di fermarsi, girò il cavallo e spronò l'animale con un colpo di tacco. Sollevò lo sguardo e guardò North dritto negli occhi. I due uomini ora correvano inesorabilmente uno verso l'altro. Ecco. I battiti di North accelerarono. Posso prenderlo. Era esausto, eppure le gambe continuavano a spingere sui pedali furiosamente. Gene allungò la mano verso la borsa. Cerca la spada! Forza, fallo! Il cavallo abbassò il collo e tirò indietro le orecchie in segno di protesta. Gli zoccoli gli scivolavano sull'asfalto, ma Gene lo spronò a proseguire ugualmente. North saltò dalla mountain bike in corsa assalendo il giovane a cavallo. Finirono entrambi a terra. I veicoli intorno a loro inchiodarono in uno stridere di freni, mentre il cavallo continuò la sua corsa.
North tirò il primo pugno. Aveva le dita così legate che la mano gli si intorpidì ancor prima di incontrare il viso di Gene. Si sentì un forte scricchiolio di ossa. Le dita di Gene allentarono la presa sulla spada di bronzo. North approfittò dell'occasione e colpì ripetutamente l'avambraccio dell'uomo finché l'affilato pezzo di metallo non cadde a terra. Lo allontanò con un calcio. La spada scivolò sull'asfalto, mentre North allungava la mano verso la pistola. Ma Gene fu più rapido. Tirò fuori l'altra mano dalla sua scura borsa e affondò un oggetto di metallo luccicante nella coscia di North. Il poliziotto ringhiò, colto da un immenso dolore, mentre dietro le palpebre serrate gli balenavano esplosioni di luce bianca. Gene lo spinse via e si sollevò in piedi malfermo. Gli agenti delle due volanti stavano correndo verso di lui e sfoderando le loro armi. North si riprese e allungò il braccio per prendere la Glock. Anche stavolta, Gene fu più svelto. Diede un calcio alla pistola e si tuffò tra due auto in sosta. Scrutando attraverso i finestrini, senza che gli agenti lo vedessero, cercò una via di scampo. Dopo aver individuato un vicolo pieno di bidoni per la spazzatura a pochi metri da là, si alzò in piedi di scatto e iniziò a correre. North, che nel frattempo era riuscito a rimettersi in piedi, tentava di inseguirlo zoppicando, cercando di ignorare il lancinante dolore alla coscia. Quando Gene raggiunse l'angolo, un mattone esplose in un mucchio di polvere sopra la sua testa: gli agenti avevano aperto il fuoco. E su tutti i marciapiedi esplose il panico. North correva, spingendo di lato chiunque si trovasse fra i piedi, ma più lottava contro quella marea, più la testa gli si riempiva di nubi nere e tuoni assordanti, che oscuravano anche il suo buon senso. Raggiunse l'angolo barcollando, il desiderio di trovare quell'uomo e catturarlo una volta per tutte era così assoluto da impedirgli di pensare a cosa potesse effettivamente aspettarlo dietro quell'edificio. Gene voleva essere trovato, e North sarebbe stato felice di accontentarlo. Le ombre che vedeva intorno a sé sembravano muoversi, tremare. L'assordante boato di un'improvvisa sete di sangue gli riempiva le orecchie di una rabbiosa confusione. Come in uno scoppio di vecchie lampadine, una serie di immagini confuse e distorte accompagnavano quel miscuglio di sensazioni in un implacabile assalto alla sua immaginazione. Il cranio gli pulsava a ogni passaggio di sangue nelle vene. North raggiunse un cortile sul retro e trovò Gene che strappava dispera-
tamente in mille pezzi sacchetti di sudicia immondizia marcescente. L'accesso al vicolo era bloccato. I bidoni maleodoranti erano ammassati contro un muro lontano, ma tutte quelle buste non gli consentivano di arrampicarsi per scappare. «Fermo!». Gene aprì un altro sacchetto, che si lacerò dopo che l'ebbe lanciato in direzione di North. Rotolarono a terra dei piccoli posacenere neri di ceramica incrostata. Con il divieto di fumo in tutta la città si erano trasformati in inutili oggetti d'arte. North ne afferrò uno e lo impugnò come un disco. Gene lo fissò sprezzante. «Sono la maledizione di Satana!». Come poteva rispondere a un'affermazione del genere? Quel che vedeva di fronte a lui era una specie di toro, con le narici gonfie, il respiro caldo, e un'espressione rabbiosa di sfida dipinta su un muso arrogante. North distolse lo sguardo, confuso. Sto perdendo la testa. Barcollò in preda alla più assoluta incredulità quando il Toro abbassò le corna. «Hai il diritto di rimanere in silenzio». Il Toro scavò con lo zoccolo nel terreno. «Hai diritto a un avvocato». Il Toro si mosse verso di lui. «Fermo dove sei!». Ma il Toro continuò ad avanzare. North indietreggiò soppesando il posacenere che aveva in mano, senza essere pienamente consapevole di ciò che faceva. Si girò sui talloni come gli atleti dell'antichità e lanciò l'arma contro il nemico che lo stava caricando. Il posacenere di ceramica esplose in una nuvola di farfalle svolazzanti sopra l'orecchio destro del Toro, il suo manto, madido di sudore, si scurì per l'afflusso di sangue mentre caricava North e sferrava con le corna un brutale colpo alla sua spalla sinistra. North girò violentemente su se stesso. Mente e vista gli si liberarono per un istante dalla foschia. Gene era in piedi di fronte a lui e brandiva il manico spezzato di una scopa come fosse una lancia affilata. Poi, di colpo, balzò in avanti, affondando l'asta nello stomaco dolorante di North, ma il giubbetto antiproiettile non cedette. Gene lo scaraventò contro un bidone della spazzatura, digrignando i denti per la rabbia. «Arrenditi!».
North afferrò il coperchio del bidone e lo gettò con forza sull'arma, poi lo sollevò e lo usò come scudo per difendersi dai colpi. Le prime gocce di un forte acquazzone estivo lo colpirono negli occhi. Poi, sempre più grosse, sferzarono il viso di entrambi mentre giravano uno intorno all'altro. Gli spruzzi divennero infine un torrente e il torrente un diluvio. In cielo si rincorrevano i tuoni. I rivoli di pioggia che scendevano a cascata lungo il volto di Gene sembravano contorcersi e trasformarsi in tanti piccoli serpenti. Si staccavano dalle sue guance e sibilavano verso North con odio velenoso. North si ritrasse. Che succede? Non può essere vero. Doveva essere un'allucinazione. Si sentì un clacson suonare da qualche parte oltre il muro. L'ho sentito davvero? Gene drizzò la testa. Sì! North approfittò di quella distrazione per afferrare l'arma, ma Gene non oppose alcuna resistenza, tutto lo slancio di North andò a vuoto, e lui scivolò a terra, come se gli avessero strattonato un braccio, lasciando a Gene un passaggio libero per scappare. Lo squilibrato corse verso il cassonetto dei rifiuti più vicino, ci saltò sopra, si arrampicò sui sacchi e, una volta in cima, saltò oltre il muro. North gettò via il suo scudo e tentò di emulare l'agilità di Gene. Non ci riuscì. Era esausto. Non aveva il senso della distanza, né equilibrio. Ogni cosa sciabordava fuori e dentro la sua mente come un'onda che lambisce una riva. Ormai senza fiato, si accasciò, e come unica compagnia ebbe il rumore distante di un'auto e le sferzate di quella pioggia scura e untuosa. Dopo un attimo, North sentì lo sportello di una macchina che si apriva e una voce che diceva: «Posso aiutarti. Sali». Udì dei passi. Lo sportello che si richiudeva. L'auto che partiva. Udì tutto. Ma era reale? Non riuscì a vedere l'auto. Era a malapena consapevole di dove si trovasse. Sapeva quello che doveva fare, eppure non aveva l'energia né la forza di volontà per farlo. Se ne stava seduto sul bagnato cercando di riprendere fiato, distrutto e sconfitto, finché il dolore pulsante alla gamba lo strappò da quello stato riportandolo alla realtà. Attraverso la nebbia della sua mente confusa abbassò lo sguardo su un sottile spuntone d'argento conficcato nella gamba. Allungò il braccio per estrarlo, ma scoprì di non riuscire a controllare i suoi movimenti: non sentiva la mano che, pure, vedeva muoversi. Insistette e tastò per un attimo la zona intorno allo spuntone prima di estrarlo bruscamente dalla carne.
Portò quel brillante pezzo di metallo vicino agli occhi. Non era stato pugnalato. Era stato trafitto dall'ago di una grossa siringa. Gene gli aveva fatto una puntura. Che diavolo mi ha iniettato? Otto centimetri di freddo metallo cavo, sporco del suo sangue che andava coagulandosi in fretta. Un fatale regalo d'addio. SOTTO LA SUPERFICIE Tu-tump. Non sono al sicuro. Non sono al sicuro qui. Arriva. Tu-tump. Devo andare. Devo. Ora. North si tirò su barcollando. Aveva le dita intorpidite. Si teneva in equilibrio con affanno. Il silenzio era rotto solo da ronzii e boati gorgoglianti. Dove sono i miei piedi? La pioggia gli sferzava il viso. Sollevò lo sguardo verso il cielo e percepì tutta la forza della natura. Non riesco a respirare. Non riesco a respirare. Aria. Si strappò le cinghie del giubbetto antiproiettile. Si trascinò nel traffico. PeeeeePeeeeeeeeeeeeeeeeeee! Tu-tump. Tump. Tump. Non di là. Mi sta aspettando. Si mescolò alla folla, tentando di nascondersi. Evitar/o. Stargli lontano. Ma sentiva il suo fiato caldo sul collo. Sentiva che stava guadagnando terreno, lo sentiva avanzare. Lui era quello braccato. Era la preda. Disperato, continuò a farsi strada tra la folla. L'ignorante e il cieco che danzano con la morte. Attento! Muoviti! Arriva! La folla rifiutava di farsi da parte. Lui spingeva e spintonava. Si faceva largo a suon di graffi e gomitate. Tu-tump! TU-TUMP! Mille direzioni. Un milione di scelte. Percorsi infiniti. Lo trovarono in un discount due isolati più in là, mezz'ora dopo. A terra, nella corsia dei prodotti in scatola, con il giubbetto antiproiettile ai piedi, senza t-shirt, stava usando una limetta monouso per prendere il miele dal barattolo e applicarlo direttamente sulla ferita aperta. Il miele scendeva lentamente come un nastro, mischiandosi al sangue.
Quando arrivarono gli altri, stava strappando la magliette in strisce, per usarle come garze intorno al braccio. Il proprietario del negozio era all'entrata insieme a qualche cliente attonito, con una mazza da baseball in pugno che si augurava di non dover usare. I poliziotti esitavano. Bruder portava un copriberretto per la pioggia in plastica chiara e un poncho sopra l'uniforme. Dopo il primo passo, l'acqua cominciò a gocciolargli lungo il corpo, plin, plin, plin. Il suono fece girare North di scatto. «Detective?». North non rispose. Spalmò ancora un po' di miele su una garza spessa e la legò stretta. «Ehi bello, eri sparito. Non rispondevi alla radio». «Sto facendo pulizia». North lo disse come se quello che stava facendo fosse perfettamente naturale. Con un agente al suo fianco il proprietario del negozio si sentiva più sicuro. Sollevò la mazza lamentandosi del disordine. Bruder poggiò una mano sul calcio della sua pistola e con l'altra fece cenno all'uomo. «È tutto sotto controllo, ok?». Si mosse con cautela lungo il corridoio. «Perché te ne sei andato? La scientifica non sapeva nemmeno se aveva recintato l'area giusta. Ti stavano cercando tutti». «Avevo delle cose da fare». North alzò lo sguardo, aveva gli occhi gonfi e iniettati di sangue. «Gesù». Bruder lanciò un'occhiata all'agente sulla porta. Nessuno sapeva bene come procedere quando si trattava di uno di loro. Per lo meno non era violento. North guardò fuori. «L'avete trovato?». «No, è scappato». North si limitò ad annuire, o a scuotere la testa. Sembrava stesse sostenendo un'intera conversazione di cui nessun altro era a conoscenza. «Pagherai questo negozio per la merce che hai usato?». North balbettò. Il suo discorso sembrava impenetrabile. «Ho... ho preso una bicicletta». «Hai preso una bicicletta». Bruder si grattava la testa cercando di capire il senso di quel commento. «Ok, pagherò io il tizio. Sarai in debito con
me». «Grazie». «Vuoi un passaggio?». North osservò i pesanti scrosci di pioggia impietosa. «Sicuro». Lo sistemarono sul sedile posteriore di una volante con una coperta sulle spalle. Era il fantasma di un uomo tormentato e confuso, docile dietro le sbarre. Lo condussero lentamente oltre la zona in cui stavano lavorando quelli della scientifica in giacca a vento e guanti di gomma. Il peggio che può capitare durante la raccolta delle prove è la pioggia, che lava via tutto. Stavano lavorando in fretta. Trovarono la siringa, tutta sporca perché era rotolata sotto un cassonetto. C'erano dei residui di un liquido rosso scuro. La infilarono in una busta di carta: come tutte le altre prove organiche doveva poter respirare. Uno degli investigatori della scientifica si avvicinò all'auto e mostrò la busta a North attraverso il finestrino posteriore, come un trofeo, ma la soddisfazione di Robert Ash si mutò in preoccupazione quando vide lo stato in cui era ridotto il detective. North nemmeno si accorse che stava guardando un uomo con cui in passato aveva lavorato tante volte. Ash si rivolse a Bruder: «Ha toccato questa roba? Deve fare un'analisi del sangue il prima possibile. Dio solo sa cosa potrebbe essersi beccato». «Niente di cui preoccuparsi quindi». Bruder abbozzò un sorriso amichevole. Un paramedico si avvicinò e controllò i suoi riflessi. North sembrava stabile, aveva solo bisogno di dormire. La sua mente era altrove, la sua psiche galleggiava in un mare di confusione, si accorse appena delle variazioni nel panorama mentre lo portavano a casa, nel suo appartamento al terzo piano di un edificio in mattoni rossi a Woodside. «Ho chiamato il quarto distretto», spiegò Bruder, «ti daranno un paio di giorni». Ma quanto gli ci sarebbe voluto in realtà per riemergere da quelle tenebre? Una volta solo nell'appartamento, le lampadine ricominciarono a scoppiare. Un'immagine dopo Pum! L'altra. Un attacco senza Pum! fine.
Pum. Perle di sudore. Formiche liquide. Crepitii nei muri. Dita scheletriche. I rami degli alberi. Mappe di sentieri verso luoghi oscuri e pieni di disperazione. Tu-tump. Tu-tump. Come una scarica elettrica un dolore bruciante gli attraversò la testa, da tempia a tempia. Il suo cervello era un fascio in attesa di... Pum. «Ce l'ho fatta. Lui non sa che sono qui». «Non lo sa?» «Sta lavorando. Abbiamo tutta la notte. Tutta la notte». Le strappò i vestiti. Tirò via il reggiseno. Divorò in un boccone i suoi seni carnosi. Le prese i capezzoli tra i denti, e conficcò le unghie nella sua bramosa, soffice pelle bianca. Strinse fra le mani le sue natiche rotonde, e la penetrò per farle sentire tutta la sua rabbia. Una frenesia di gonfia lussuria animale, che scuote la gabbia. Mille grugniti e mille urla, il dolce gusto dell'amara segretezza, il bisogno impetuoso. E prima dell'orgasmo, l'intimità di un crimine condiviso, lei gli accarezzò la nuca, persa in quegli occhi misteriosi, mentre lui si consumava dalla familiarità dei suoi. Ma neppure questo lo fermò. Eiaculò. Un fremito così violento da farla gridare. Eiaculò dentro di lei. Sua madre. North si svegliò nudo, scosso dai singhiozzi. Avvolto come un bozzolo nelle sue lenzuola. Inzuppato del sudore di tre giorni. Sua madre. PORTER Samir Farouk sbandò per evitare un rognoso cane randagio lungo la strada polverosa che portava a Jbeil alle 8:30 circa. Era martedì, 1 aprile 1997. Era alla guida di un vecchio pick-up Isuzu con la vernice bianca scrostata e seriamente ammaccato. C'erano bolle di ruggine gonfie sul parafango, proprio sopra le ruote. Le sospensioni erano così lente che reggevano a malapena il pesante carico di pezzi di ricambio che Samir portava con sé per la sua piccola attività di refrigerazione.
Il mezzo non era in condizioni di affrontare le buche profonde che si aprivano sotto la sporcizia lungo i margini di quella strada dissestata. E quando incontrò la prima, il pick-up prese quasi immediatamente il volo. Samir Farouk, a trentun'anni, venne catapultato attraverso il parabrezza. Il suo corpo privo di sensi atterrò sulla corsia delle auto provenienti nel senso di marcia opposto. Morì alle 8:32. Quando William Porter sollevò il telefono, la voce dall'altro capo della linea disturbata suonava timida e spaventata. Si scambiarono i saluti. Lei aveva saputo di lui da un amico di cui non voleva dire il nome. Non voleva che venisse riportato a qualcun altro. Il suo inglese era ottimo, per fortuna, perché Porter, pur avendo vissuto e lavorato in Libano spesso negli ultimi ventitré anni, ancora non riusciva a parlare l'arabo fluentemente. Chiamate come quella erano rare. Di solito doveva andare a cercarseli i casi, mantenersi con borse di studio universitarie e caritatevoli elargizioni. Ma non importa come, né ogni quanto incontrasse questa gente, era sempre colpito dal fatto che fossero il più delle volte curiosi e preoccupati in eguale misura. Quando la sua interlocutrice arrivò al punto, e Porter badò a non metterle fretta, lo fece in modo molto ingenuo. «Dicono che lei è il cercatore di reincarnati...». «Sì». Dall'altro capo del telefono vi fu silenzio. Riuscì a sentire che accendeva un cerino, poi una sigaretta. L'angoscia nella sua voce cominciava a divenire contagiosa. Disse: «Normalmente non fumo». Normalmente non lo facevano mai, queste persone che si ritrovavano a dubitare sia delle proprie convinzioni che dell'evidenza. «Come posso aiutarla?». Sentì che gettava via il cerino annerito, e l'eco del pezzetto di legno che girava a spirale in un posacenere di vetro vuoto. «Mi chiamo Najla Jabara», disse, «il mio ragazzo, il mio ex ragazzo, mi ha scritto. Dice che gli manco. Mi vuole rivedere. Ho la lettera proprio qui». Udì che distendeva le pieghe della carta. «Dice che non riesce a capire perché non sono mai andata a trovarlo. Dottor Porter, Samir è morto da sette anni». Qualche giorno dopo si incontrarono di nascosto sulle scale di un edifi-
cio malandato. Porter, con la sua altezza di un metro e novanta e il corpo assottigliato dall'età, aveva una figura europea ben riconoscibile in mezzo agli arabi e Najla non osava rischiare di farsi vedere con lui. Adesso era una donna sposata e non voleva dare al marito un motivo per cominciare a picchiarla. I granelli di polvere turbinavano nei caldi raggi di sole che fendevano l'oscurità di quel posto polveroso. In piedi, nel buio, gli allungò una busta piena di dollari americani. Lui li contò. Era quanto avevano pattuito. Mise via la busta. Non si sentiva in colpa. Sapeva quali altre attività il pagamento di Najla sovvenzionava. Najla era una sarta delle viuzze secondarie di Beirut. Il salario era misero, ma tre volte a settimana aveva l'opportunità di fare gli straordinari e ne approfittava sempre, tagliando tessuti e indumenti nell'angusto e opprimente negozio succhiasangue. Cuciva finché le si arrossavano le dita. Gli mostrò la lettera e lesse ad alta voce i passaggi che pensava rappresentassero maggiormente Samir. Il timbro postale era recente. Anche se Porter riusciva a leggere solo qualche parola qui e là, persino lui poteva affermare che l'autore non aveva una bella grafia. La lettera era scritta con mano particolarmente acerba. Era proprio come Porter sospettava. L'indirizzo del mittente indicava lo Chouf, una regione montagnosa del sud est, dove, sulle pendici del Monte Libano, se ne stava abbarbicato l'oscuro villaggio di Fawwara. Per oltre metà della sua esistenza Porter aveva cercato di penetrare l'alone di mistero che circondava lo Chouf. Aveva capito istintivamente che quello che cercava giaceva nascosto da qualche parte nel cuore di quelle montagne. Ora poteva tornarci e continuare la sua ricerca. Ma non era un uomo disonesto. Non aveva intenzione di prosciugare le risorse di quella donna. Avrebbe indagato sull'autore della lettera che sosteneva di essere il defunto Samir Farouk e se avesse percepito che la storia non meritava attenzione non avrebbe continuato a prendere il suo denaro. «Devo sapere se è lui», insisté Najla. La replica di Porter fu garbata, espressa in un accento inglese addolcito dagli anni trascorsi all'estero. «E ha pensato a cosa farà se dovesse essere lui?». I suoi occhi scuri, per quanto gentili, erano intensi. E lei sentì di avere davanti un uomo capace di guardare nell'animo di una persona.
Sembrava disperata. Era evidente che dovevano girarle per la testa diverse questioni rimaste in sospeso. «Lo incontrerò». Nello Chouf, Porter era già molto noto. I locali che lo avevano conosciuto lo consideravano un personaggio esotico e si spingevano fino ad apprezzare alcune delle sue speciali usanze straniere. Ebbe una serie di lunghi incontri prima di convincersi che ci fosse qualcosa di vero nella storia dell'autore della lettera. Trovare il villaggio era stato relativamente semplice e quindi aveva potuto dedicare più tempo al suo secondo lavoro. Era vicino. Tanto così. In quel villaggio, lo sapeva, c'erano anche altre risposte. Najla, nel frattempo, teneva da parte i suoi risparmi. Porter l'avvisò che non si sarebbe dovuta aspettare troppo, quando fosse arrivato il momento, ma lei, mentalmente, aveva già deciso tutto. In un chiaro mattino d'estate, le cose si misero finalmente in moto. Najla parlò al marito dei terribili problemi che una lontana cugina stava avendo nel suo villaggio riconciliato al sud. La ragazza con cui giocava da bambina nello squallore della periferia di Beirut durante i tumulti. Era credibile quel tanto che bastava per non destare sospetti. Era quanto le occorreva per andarsene. Montò sul sedile posteriore di una Mercedes 500SL, con due uomini che conosceva appena, fiduciosa che non l'avrebbero delusa. DRUSI «C'è stato sangue fra noi, e il sangue non si dimentica facilmente». Ma'mun al-Suri guidava la scintillante 500SL in uno slalom rombante, cambiando continuamente direzione in mezzo al traffico. I lamenti di protesta del clacson sostituivano la necessità di usare i freni. Correva avanti, verso il monte Libano e i villaggi riconciliati. «Tutti abbiamo preso parte alla guerra. Tutti ne abbiamo pagato il prezzo», aggiunse il traduttore di carnagione scura. Era un cristiano maronita, che prima della guerra aveva vissuto a fianco dei Drusi nello Chouf. Israele aveva compiuto l'invasione e poi si era ritirato, e il vuoto di potere aveva fatto implodere un'intera nazione. Amici e vicini si erano rivoltati gli uni contro gli altri. Era stato un bagno di sangue. Porter notò che i vivaci occhi di Najla erano velati da un evidente senso
di colpa. Quella bugia di copertura aveva risvegliato ricordi spiacevoli. Lei e le bugie non andavano d'accordo. Guardò fuori, scostando i lunghi capelli scuri dal viso, mentre dai finestrini aperti entrava un'aria calda e secca. Porter diede una pacca gentile sulla spalla di al-Suri. In passato aveva già ingaggiato molte volte il traduttore libanese. Andavano piuttosto d'accordo. «Concentrati sul traffico, per favore». Al-Suri rise. «Come le ragioni delle donne, amico mio, queste strade obbediscono a leggi tutte loro». Osservò Najla attraverso lo specchietto retrovisore con un amichevole scintillio nello sguardo. Non si era lasciato ingannare dalla sua bugia, ma in fondo non erano affari suoi, il traffico, invece, sì. Najla se ne stava seduta a torcersi le dita in grembo, torturata dalle incertezze. «I Drusi non consentono matrimoni all'interno o all'esterno della loro religione. Non capisco come Samir possa essere fra loro». «Le loro credenze sono diverse da quelle a cui è abituata». «So molto poco delle loro credenze». «Ed è proprio quello che vogliono. I Drusi hanno tanti segreti. Molti dei loro seguaci vengono chiamati juhhal, gli ignoranti. A questi è negato l'apprendimento dei sacri insegnamenti del Kitab al Hikmah, le sacre scritture note nell'insieme come "Libro della Saggezza". Sono davvero pochi quelli a cui i saggi hanno trasmesso la completa conoscenza. E anche in quel caso, solo dopo i quarant'anni possono divenire uqqat, sapienti. È stato così per migliaia di anni». «Come ci si può fidare di loro? Rinnegano la loro stessa fede». L'at-Ta-lim, o l'insegnamento, accordava una concessione, detta taqiyah. Di fronte all'oppressione i Drusi avevano il permesso di rinnegare apparentemente la loro fede per poter sopravvivere. Porter la considerava una politica illuminata, ma a quel tempo non aveva una fede particolare. Teneva le passioni del fervore religioso a una ragionevole distanza. Porter non confortò Najla, né la ingiuriò. «Lasciano che Samir ti spedisca le sue lettere, no?». Najla non aveva una risposta. Le credenze dei Drusi erano fondate su un principio che poche religioni in quell'area trovavano morale. Eppure era sufficiente a spingere una semplice sarta di Beirut a mentire al marito e viaggiare per centinaia di chilometri solo per vedere se dicevano la verità. I Drusi credevano nella trasmigrazione dell'anima. Nella reincarnazione.
Al-Suri fece rallentare la sua Mercedes lungo la ripida salita della montagna. Il terreno era riarso e il veicolo sollevava grosse nubi di polvere color ambra. Dai frutteti che costeggiavano la strada proveniva forte il dolce odore delle pesche. Nella polverosa vallata verde crescevano albicocche, prugne e pomodori in piccole piantagioni. La vita nel cuore delle montagne era dura e povera. Una specie di inquieta pace celava un segreto e amaro risentimento verso tutti coloro che arrivavano lì a sfoggiare la loro ricchezza. Porter si domandò, e non per la prima volta, se la Mercedes di al-Suri era l'auto migliore su cui viaggiare. Il vecchio e scrostato cartello di stagno al margine della strada diceva: "Fawwara". Il rumore della sorgente che aveva dato nome al villaggio era anche la sua eterna voce. Sulla strada principale era rimasta in piedi una piccola postazione di blocco dell'esercito, abbandonata e depredata. Un tuffo nel passato, ai tempi in cui l'ordine in quel territorio veniva imposto con la forza. La Mercedes si trascinò lentamente oltre le macerie e gli spettrali scheletri delle case. L'immagine del villaggio, ora in ricostruzione, era ancora orrendamente deturpata e butterata dalle devastazioni della guerra. Poco lontano da là c'era il suo cuore pulsante, un piccolo Caffè sul bordo della strada accanto a un souk, un alimentari cencioso ma ben fornito che vendeva tutto, dal sapone allo zucchero, dalle lampadine alle sigarette. Quando l'auto si fermò lì davanti, c'era un gruppetto di ragazzini che giocava in strada. Tre anziani Drusi sedevano intorno a un tavolaccio sporco, a bere tè alla menta. Indossavano pantaloni ottomani, secondo lo stile tradizionale, e sul capo portavano un fez bianco. Due di loro avevano la barba lunga, e una carnagione scura e coriacea. Il terzo, con i suoi baffi ricurvi, si alzò in piedi appena Porter scese dall'auto. Lo stava aspettando. «Ahlen wa sahlen». A quel benvenuto Porter sorrise. «Sabah el khair, kifak?», rispose. Buongiorno, come va? Il vecchio Druso scrollò le spalle pudico, sfregandosi imbarazzato il ginocchio sinistro con dei leggeri schiaffetti. «Mnih, mnih», rispose, ma dal modo in cui ondeggiava camminando era chiaro che non andava così bene come sosteneva. I suoi occhi raccontavano una storia diversa. Era in ansia, e i suoi compagni ne erano ben consapevoli. Il suo sguardo si posò su Najla, e Porter fece in fretta le dovute presentazioni. Il vecchio si chiamava Kamal Touma. Batté le mani sui fianchi. Era
tempo. La famiglia Touma viveva tutta insieme in una casa più in alto, dove la linea degli alti pini si infittiva. Allevavano polli nel cortile sul retro, mentre in quello anteriore sorgeva un giovane limone. Sul lato c'era un enorme e raro cedro del Libano che riparava dal sole cocente con la sua vasta ombra. All'interno la casa era di una pulizia immacolata e l'arredamento era sorprendentemente moderno. Gli ospiti furono raggiunti dall'odore di cibi in cottura che proveniva dalla cucina attraversando tutta la casa, mentre all'ingresso riecheggiava l'instancabile ticchettio di una pendola antica. Touma fece loro strada attraverso il salotto e chiese a tutti di accomodarsi prima di sparire in cucina, solo Najla proseguì. Porter si fermò, tirando al-Suri da una parte. «Vai da loro», disse. «Digli che sono qui. Che vorrei incontrarli oggi». Al-Suri era scettico. «Lo sai com'è fatta questa gente. Sono diffidenti nei tuoi confronti». «Dì loro che ho portato il libro». Porter infilò la mano nella cartellina che aveva sotto braccio e ne estrasse un vecchio quaderno verde rilegato in pelle, pieno di scarabocchi e schizzi. Lo diede ad al-Suri. «Non diranno di no quando lo vedranno». Al-Suri era sorpreso. Porter non si era mai separato dal libro prima di quel momento. Lo prese, ma non era ancora convinto. «Vedrò cosa posso fare». Si allontanò in fretta lasciando l'inglese solo nell'ingresso. Tic tac, tic tac. Porter raggiunse Najla nel salotto. Perché ci voleva così tanto? Forse la famiglia aveva cambiato idea. Cose del genere potevano accadere. Najla aveva ricominciato a torcersi le dita in grembo, stranamente a tempo con il vecchio orologio che scandiva la loro vita un ticchettio dopo l'altro. Continuò così finché la porta si aprì. Najla si alzò in piedi d'istinto, con gli occhi spalancati, mentre nella stanza entravano due persone. La più grande era una donna che indossava il mandeel bianco, o foulard, simbolo della devozione religiosa drusa. Porter fece le presentazioni ma non offrì la mano alla donna. Alle donne druse non è consentito toccare alcun uomo al di fuori dei familiari prossimi. Poi la donna disse semplicemente, «Questo è Khulud». Khulud uscì dall'ombra della donna, aveva gli occhi bagnati di lacrime.
Sentiva qualcosa nell'aria e respirò a fondo. «Riesco a sentire il tuo odore. Hai lo stesso profumo della notte in cui ci siamo dati il primo bacio». Sorrise. «Mi sei mancata», disse, «tanto». Najla era incerta, lanciò una rapida occhiata a Porter per avere il suo sostegno. «Cosa non va in lui? Perché non mi guarda?». «È cieco dalla nascita». Khulud fece un altro passo avanti, eccitato. «Ricordi, quando ho cercato di toccarti sotto la camicetta? Quella blu con gli uccellini sulle maniche e mi si è impigliato l'orologio sui bottoni! "Così impari!", mi dicesti». La madre di Khulud scosse la testa imbarazzata. Najla arrossì e indietreggiò. Era sconvolta. «Smettila. Non dovresti parlare di queste cose». Khulud era confuso, aveva un'espressione innocente. «È il motivo per cui sei qui, no? Perché non dovrei parlare di queste cose?». Per Najla il perché era ovvio. Quelle parole non venivano dalla bocca dell'uomo che amava, ma dalla bocca di un ragazzo. Khulud Touma era un bambino di sette anni. Si sentiva così ridicola. Khulud lo sapeva. «Sono Samir», insisté, «E sono anche Khulud». Najla cominciò a tremare. «Samir non c'è più», singhiozzò. Takamous, il cambio d'abito. Secondo il principio della reincarnazione, il corpo fisico è solo un abito per l'anima. Erano passati solo sette anni. Sarebbe in ogni caso stato un bambino. Porter l'aveva avvertita che sarebbe stato difficile trovarsi di fronte a questo ragazzo. Khulud chiese di essere guidato da lei. La sua piccola figura rimpiccioliva al cospetto della donna, sembrava irritato di non poterla vedere. Mantenne stoicamente la posizione e prese la mano di lei fra le sue, accarezzandone il dorso teneramente. «Ricordi quando tuo padre ha comprato quei pantaloni ridicoli che si fermavano dieci centimetri sopra il collo del piede, e che svolazzavano quando camminava?». Mentre si asciugava una lacrima a Najla sfuggì una risata involontaria. «Sì», disse. Non voleva - non poteva - credere, ma come faceva a sapere quelle cose? Forse le aveva imparate a memoria, in qualche modo? Porter era sicuro che non fosse così. Era venuto diverse volte per determinare se i ricordi di Khulud fossero autentici oppure no. Poteva essere certo che non si trattava di un trucco della famiglia per sfilare quattrini a
Najla, come accadeva spesso da quelle parti. Khulud sapeva cose che solo Najla era stata ogni volta in grado di confermare. E questo rendeva i ricordi di Khulud autentici. Najla richiamò altri dettagli di quello stesso ricordo. «Non importava cosa gli dicessero, lui insisteva nell'indossare quegli stupidi cosi. Non poteva permettersi altro. Non aveva più denaro». Abbassò lo sguardo verso il ragazzo. «Ti ricordi come lo stuzzicavi? Cosa gli dicevi?». Khulud stava per rispondere, ma non ci riuscì. Fu il ritratto dell'incertezza, il volto gli si incupì. Indietreggiò verso sua madre. A Najla ricominciarono a scendere le lacrime. Porter sospirò. «I dettagli possono essere incompleti», disse. «Questo spesso li fa sembrare incoerenti». «Forse non dovremmo ricordare», disse Najla malinconica. «Forse i ricordi di una vita passata sono uno sbaglio». «Può darsi». Najla si asciugò le lacrime e passò le sue dita umide sul viso di Khulud. Il ragazzo aveva una voglia su tutta la fronte e intorno agli occhi. «Cos'è stato a provocare questi segni?». Khulud sembrava non saperlo. Ma Porter sì. Aveva visto diversi casi nel corso degli anni. In India, ad esempio, c'era una donna che sosteneva di essere stata bruciata viva nella sua vita precedente, bruciata viva su una stuoia di paglia intrecciata. In questa vita la forma di quella stuoia era stata impressa per sempre sul suo corpo sotto forma di voglia. C'era Cemil Fahrici, un uomo di origine turca con una voglia sotto il mento e un altro segno proprio a sinistra della calotta cranica, su una linea lungo cui non crescevano capelli. Fahrici ricordava che nella vita precedente era stato un bandito che, messo con le spalle al muro dalla polizia, si era sparato. Le voglie di Fahrici coincidevano perfettamente con le ferite del bandito messe a verbale nei documenti della polizia. Le voglie rappresentavano il trauma fisico sopportato da un'anima reincarnata durante la sua vita precedente. Nel caso di Samir, il viso gli si era sfregiato gravemente quando il parabrezza si era frantumato in mille pezzi. «È stato accecato prima di morire», le ricordò gentilmente Porter. Najla tentò di conservare la dignità. Certo. Come aveva potuto dimenticarsene? «Possiamo stare un po' da soli?», chiese, mettendosi a fissare il ragazzino che era venuta a incontrare da tanto lontano.
Porter, in realtà, avrebbe preferito restare e vedere fino a che punto i due sarebbero riusciti a ristabilire il contatto, ma decise di non imporre la propria presenza. La madre di Khulud lo invitò ad accomodarsi nel cortile sul retro. Aveva preparato una limonata fresca e lui poteva servirsela. Era una magra consolazione, ma Porter la ringraziò ugualmente. Uscì in cortile e si versò un bicchiere. Riuscì a sentire il rumore di un motore acceso che penetrava la quiete di quella campagna. Era al-Suri che stava tornando dalla strada principale, a bordo di una strana auto in compagnia di altri tre uomini che Porter non conosceva, e che di sicuro non avevano una bella espressione. Al-Suri confermò le sue preoccupazioni appena sceso dalla macchina. «È la famiglia che li manda», disse, «ma non mi fido di loro». Il più corpulento dei tre, quello con il respiro pesante, mostrò il quaderno in pelle verde di Porter. «È una cosa piuttosto insolita. Nessuno straniero dovrebbe conoscere queste cose». Porter lo prese e lo ripose. «Avete un bambino natiq che ha letto i miei appunti?». «La nataq ne è al corrente, sì», rispose l'uomo corpulento. Un natiq era qualcuno che parla della generazione precedente. Ma l'uomo aveva usato la parola nataq, la forma femminile. Porter non aveva pensato che potesse essere una ragazza. «Mia nipote la riceverà». Porter sentì che gli prudeva la nuca. «Le parlerà della settima prova. Ma dopo non la vedrà mai più. Noi non vogliamo entrarci». Gli aveva dedicato tutta la vita, e finalmente qualcuno gli aveva dato conferma dell'esistenza della settima prova. L'uomo più alto si fece avanti e mostrò un piccolo sacco di tela. Fu chiaro a tutti che aveva intenzione di infilarlo sulla testa di Porter. Avrebbero potuto condurlo dalla ragazza, o altrettanto facilmente accompagnarlo alla sua esecuzione. Porter avrebbe dovuto compiere il salto della fede. In entrambi i casi non avrebbe conosciuto il percorso che lo portava verso la sua destinazione. Non volevano che in futuro ritrovasse la strada, senza invito. Poi arrivò l'ultimatum. «Adesso, o mai più». Al-Suri imprecò in arabo. «Non ti fidare». Porter aveva preso la sua decisione. «Devo». Montò in auto. Era nera e
grande. Confidava che al-Suri avrebbe imparato a memoria gli altri dettagli. «Se non sarò di ritorno al tramonto, riporta Najla da suo marito». Porter si accomodò sul sedile posteriore e attese nervoso. Un sudore freddo gli scese lungo il torace quando l'uomo più grosso gli calò il ruvido sacco sulla testa e strinse forte il legaccio. Non si accertò che Porter potesse respirare. Gli sportelli si chiusero sbattendo e, prima che al-Suri potesse protestare ancora, Porter fu portato via senza tante cerimonie. AISHA Da quanto tempo erano in viaggio? Un'ora? Due? La strada procedeva a scossoni. Dopo le prime svolte aveva completamente perso il senso dell'orientamento. Porter suppose che lo stessero conducendo per sentieri di campagna. Non poteva esserne certo, la luce che penetrava attraverso il tessuto grezzo del cappuccio non gli forniva alcun indizio. L'unica cosa di cui era sicuro era che non avessero percorso nemmeno un pezzo di strada dritta per più di qualche minuto. Sembrava che fossero ancora da qualche parte sulle montagne. La musica della radio era alta, probabilmente per impedirgli di ricordare qualunque rumore esterno che gli potesse essere d'aiuto. Si faceva poca conversazione. Era lì su richiesta della nataq e nient'altro. Nessun altro ce lo voleva. L'auto si fermò slittando. Nessuno disse una parola. Attesero per quella che sembrò un'eternità e poi spensero il motore. Porter udì uno sportello che si apriva. Passi. Qualcuno che camminava fino alla parte posteriore. Un altro sportello che si apriva. Lo trascinarono fuori. «Fermo qui». Porter fece come gli fu ordinato. Cercò di inghiottire, ma aveva la bocca secca. Li sentì parlare. Stavano prendendo una decisione. Cosa ne avrebbero fatto di lui? Tremava di paura, non aveva che il suo respiro intermittente come compagnia. Non osava parlare. Semplicemente aspettava, e sperava. Gli levarono il sacco dalla testa in modo brusco, e gli concessero qualche istante per far adattare gli occhi.
L'auto si mise in moto con un rombo e sparì in fretta. Era stato lasciato in compagnia del più robusto, che gli restituì la sua roba e gli indicò il piccolo cancello che portava al cortile sul retro. «Aisha la sta aspettando». La ragazza era seduta all'ombra di un alto cipresso, intenta a disegnare con ossessiva determinazione su un quaderno color cremisi grande e molto sciupato. Non doveva avere più di nove anni e i capelli le cadevano liberi sul viso severo. Doveva mancare poco al momento in cui avrebbe dovuto indossare il tradizionale foulard. Porter si avvicinò inquieto. Dietro al cipresso, le porte che davano su un ampio salotto erano spalancate e lasciavano intravedere alcuni divani disposti in cerchio su cui la grande famiglia allargata della ragazza li stava aspettando entrambi, placida e sospettosa. «Hanno paura di te», disse la ragazzina. «Sono uno straniero». «Io non ho paura degli stranieri». Sulla soglia apparve un giovane accigliato, in età da leva. Porter era stato avvertito. «Mio fratello. Dice che voi occidentali vi state avviando all'estinzione. Dice che i miscredenti finiranno per non tornare». «Apparteniamo a due culture differenti che sono state a lungo in conflitto. È la nostra storia. E forse persino il nostro destino». Aisha sollevò lo sguardo. Il viso le si illuminò. «Sei sicuro che non siamo la stessa cosa, tu e io?». Lo sa. Porter si sedette per guardare il disegno. Lei aveva un giornale ai suoi piedi. Mentre muoveva in fretta la matita sulla pagina, raccolse i suoi capelli sottili dietro l'orecchio, rivelando così una particolare voglia circolare sulla tempia, proprio come la sua. Le voglie sono i traumi delle vite precedenti. «Perché hai scelto il verde per i tuoi ricordi?». Lasciò che la matita scorresse libera, abbozzando un volto con tratti di grafite nera. Era estremamente brava. Più abile di qualunque adulto Porter avesse mai visto. Fu preso alla sprovvista dalla sua maturità. «Non capisco». «Il tuo quaderno è verde». Porter ci pensò, ma non trovò una risposta. «Ero molto giovane. Avevo l'età che hai tu adesso. Era un istinto. Un giorno mi svegliai con l'urgenza di scrivere, i miei genitori pensarono si trattasse di un capriccio».
Porter si accorse che il viso che prendeva forma su quel quaderno era il ritratto di un bambino. Aisha definì le tonde guance da cherubino con tratti gentili. «Il verde è una scelta interessante. Niente accade per caso», disse, «per noi Drusi ci sono cinque colori sacri. Il giallo è al-kalima, la parola. Il blu è as-sahik, il potere mentale della volontà. Il bianco indica ciò che diventa realtà grazie al potere del blu. Ma tu hai scelto il verde, che è al-'akl, la mente, e la mente comprende la verità. Hai scelto il verde perché comprendi la mente». «Sono uno psichiatra, se è questo che intendi». «In questa vita», disse lei. Porter la guardò da vicino. Osservò che impugnava la matita in modo stranamente familiare; lo stesso in cui la teneva lui. Una ragazzina di nove anni che faceva esattamente quello che aveva fatto lui quando era un ragazzo, che dimostrava una saggezza e una conoscenza di gran lunga superiori ai suoi anni, che lottava per riuscire a comprendere i propri incubi. Con spessi tratti di matita Aisha inserì un'ombra nel disegno, scurendo la pagina. Poggiò la matita e sollevò il quaderno per apprezzare il suo disegno. «È fatta», disse, «è il momento della settima prova». Era la testa di un bambino, nato da non più di qualche settimana, decapitata e impalata su un bastone. Porter era scioccato. Sfogliò rapidamente le pagine. Erano piene di scritte, a volte in diverse lingue, sempre accompagnate da un torrente di immagini folli e nauseanti. Era scioccato, ma non perché lo disturbassero le immagini, ma perché quelle brutali scene di morte scaturite dalla mente della bambina coincidevano con quelle contenute nel suo quaderno verde. Erano identiche. Tutto ciò che i suoi incubi gli avevano raccontato, mentre cresceva come figlio unico in una rigogliosa fattoria casearia vicino a Canterbury, dimostrava che il suo istinto di lasciare le verdi scogliere inglesi per la sua ricerca non gli aveva mentito. C'erano altri come lui. «Questo è per lui», disse lei, «colui che guiderai». Di chi sta parlando? «Questo quaderno è rosso. Il rosso è ah-nahts, l'anima. Quello che ho scritto, l'ho scritto per l'anima di Cyclades», spiegò. Cyclades. Il solo udire quel nome sulle labbra di qualcuno diverso da sé lo rassicurò in maniera indescrivibile.
«Ma ce ne sono altri», disse Aisha. «Il sesto quaderno è nero. Il nero è la disperazione, il caos della distruzione mentale». «E il settimo?». La ragazzina aveva un'espressione pensierosa. «Il settimo libro è dentro di noi. Guidalo con il sesto perché possa conoscere chi è. Il filo del destino di Cyclades è come una corda sottile che si è sfilacciata. Sta a te intrecciarla di nuovo». Aisha poggiò il suo quaderno rosso sopra quello verde di Porter. Sembrava stranamente sollevata. Come se le fosse stato tolto un grosso peso dalle esili spalle. «Non posso venire con te. Ma giustizia deve essere fatta e devi assicurarti che ciò accada. È il tuo destino». Provava un forte e profondo sentimento di incertezza. Era una sensazione sgradevole e Aisha sembrava condividerla. «Chi è che devo guidare?» «Accidenti, il sole picchia forte, oggi». Porter esitò. «Sì». «Riesci a vedere la tua ombra?». Porter guardò il terreno. Alzò la mano e osservò l'ombra delle sue dita danzare. «Guardala da vicino. Ti capita mai di pensare di essere la tua ombra?» «No. È solo un'ombra». «E la tua immagine riflessa? O il modo in cui ti vedi in sogno? Quello sei tu?» «Certo che no». «Noi Mowahhidoon siamo definiti dalla natura dell'anima reincarnata». Mowahhidoon era uno dei tanti nomi con cui i Drusi chiamavano se stessi. Monoteisti che credevano in un unico dio le cui qualità non possono essere capite né definite da alcun uomo. Che erano nati come una setta dell'Islam, benché l'Islam li avesse espulsi dalle sue fila già da tempo. «Come non dovremmo identificarci con un'ombra o con un riflesso, così non dovremmo farlo con il nostro corpo mortale. I corpi sono l'abito della nostra anima. Ma quello che sento non è ciò che la mia famiglia dice che dovrei credere». Allungò a Porter il giornale che aveva ai piedi. Era un'edizione recente dell'«International Herald Tribune». Un misto di articoli del «New York Times» e del «Washington Post» talvolta diffusi gratuitamente da alcune linee aeree. Questa edizione era stata stampata a Parigi. Non c'era niente di significativo. Nessun titolo particolare saltò all'occhio di Porter mentre scorreva in fretta le pagine.
Non capiva. «Mio zio va sempre in Europa per affari. Ogni settimana mi porta qualcosa da leggere. Dice che è importante che io conosca il mondo. Caro, tenero uomo. Lo conosco meglio di quanto lo conoscerà mai lui. Dimmi, cosa vedi?». Al centro della pagina c'era la fotografia di due uomini. Zuppi di pioggia. Due uomini che si battevano in un vicolo di New York. Che si battevano come guerrieri dell'antichità. "Poliziotto si batte contro un sequestratore". Porter sentì il gelo impossessarsi delle sue ossa. «Il corpo non è che un abito, e il viso una maschera. Eppure io quel viso lo conosco. Anche tu conosci quel viso. Siamo entrambi attratti da quel viso. Una volta, eravamo quest'uomo». Porter esaminò l'articolo. Questa piccola Drusa aveva appena confermato tutto quello che lui aveva sentito e saputo da bambino, che esistevano persone reincarnate, che erano allo stesso tempo un paradosso vivente. Prima che facesse sera Porter aveva già prenotato il suo biglietto per New York e concluso i suoi affari. Sapeva che non sarebbe tornato. A New York lo aspettava l'uomo di cui Porter era la reincarnazione vivente, un uomo che sembrava più giovane di lui, un uomo che non era ancora morto. LIBRO SECONDO «Conosci te stesso? Se conoscessi me stesso, scapperei via» Goethe RISVEGLIO Si svegliò sul sedile posteriore della berlina con la lingua che sembrava un tappeto di muco secco. Sulle prime ebbe qualche difficoltà a muoversi, la pelle del viso gli si era appiccicata agli interni di pelle nera, da cui riuscì a scollarsi non senza difficoltà. Aveva i capelli impastati in un misto di sudore congelato, sporcizia e sangue. L'auto non si stava muovendo. Quanto tempo era rimasto lì? «Puzzi», annunciò la voce irritata, «non vorrà vederti in questo stato». Gene si strofinò via le cispe dagli occhi e scese dall'auto. Aveva la voce roca e il volto straziato dalla confusione.
«Chi sei?». Lei sospirò, impaziente e senza compassione. «Succede ogni volta». All'inizio non si reggeva bene sulle gambe, come un puledro appena nato. Afferrò lo sportello con mani tremanti e lasciò che i suoi piedi nudi assorbissero il confortante freddo del parcheggio sotterraneo. Le luci a nastro sul soffitto ronzavano. Le unità del condizionamento d'aria brontolavano, riversando in basso, attraverso le lucenti condutture metalliche, dei soffi sibilanti. La donna aveva lunghi capelli ramati e fieri occhi scuri. Sembrava un volto familiare, sebbene non riuscisse a collocarlo. «Quello che hai fatto è stato pazzesco. Veramente stupido!». «Cosa ho fatto?» «Non fare giochetti con me. Ti conosco troppo bene». Gene si sentiva a disagio. Insicuro. «Non ci pensavo neanche». «Questo è chiaro». La donna avanzò a grandi passi verso le porte di sicurezza, dove due grossi agenti vestiti in maniera elegante l'aspettavano sull'attenti, mostrò il suo pass e le pesanti porte di metallo si aprirono. «Vieni con me». «Dove sono?» «Dove credi di essere?» «Non ne sono sicuro». «È solo un effetto collaterale. Ci siamo già passati altre volte. Appena ti sarai sistemato, ti tornerà in mente tutto. Vieni». Gene rifiutò caparbiamente di spostarsi, e lei passò a un tono più dolce. Lo raggiunse, prese le sue mani segnate e gli accarezzò le unghie scheggiate e annerite. «È come se fossi regredito a uno stato selvaggio». Lui non rispose. Lo prese per un braccio. «Vieni», gli disse con gentilezza, e lo guidò oltre le porte di sicurezza come un bambino. Le pareti erano di quel grigio lievemente irregolare del cemento armato grezzo. Le finestre negli uffici erano tutte grandi e disadorne in modo omogeneo. Sembrava che ci fossero agenti della sicurezza a ogni angolo. Le spie rosse brillavano severe sotto le numerose, piccole telecamere in acciaio. Troppe per poterle contare. Lei gli tenne stretta la mano per il resto del tragitto attraverso i vari posti di controllo. Serpeggiando da un corridoio a quello successivo. Senza mai
dire una parola. Senza mai presentarlo a nessuno. Senza mai permettergli di guardarsi intorno. Era tutto così rigido che Gene ebbe la bruciante sensazione di essere dove avrebbe dovuto. Ebbe dei barlumi di reminiscenza. Quel luogo gli era familiare, ma era come se lo vedesse con gli occhi di qualcun altro. In una stanza in cui erano allineati armadietti d'acciaio senza targhetta, lei gli indicò un vano sul retro da cui entrambi sentivano provenire il rumore dell'acqua che scorreva e disse: «Mi aspetto di trovarti pronto quando torno». Gene guardò disperato la schiera di sportelli tutti uguali. «Qual è il mio?» «Non importa. Non sono chiusi». «Non posso prendere gli abiti di qualcun altro, così». «Qui portano quasi tutti la stessa taglia. Troverai qualcosa che ti va bene. Suggerirei un abito elegante. Un completo». Il tono della sua voce nascondeva qualcosa. Vi era una certa disapprovazione. Era arrabbiata. Non era ancora fuori dalla stanza che Gene si voltò verso di lei e chiese, «Perché mi odi?». Non ebbe risposta. Gene tuffò la testa sotto il torrente d'acqua che scendeva a cascata emanando vapore. L'onda di sporcizia ai suoi piedi ci mise un po' a scorrere giù nello scarico. Prese la saponetta e la sfregò energicamente fra le mani. Ne grattò i bordi ammorbiditi. Ripose il sapone nella sua vaschetta, attento ad allinearlo precisamente in parallelo con la geometria del vano. Ripeté il gesto altre cinque volte, anche se sapeva che quello che voleva cancellare non era sulla pelle, era qualcosa di molto più profondo. Dove si trovava? Chi erano queste persone? Cosa volevano da lui? Come poteva scappare? Alzò lo sguardo verso la doccia e godette di quel sollievo, delle gocce calde che gli cadevano sugli occhi. Lo facevano sentire vivo. Nello spogliatoio trovò un asciugamano piegato e spalancò gli sportelli di parecchi armadietti. Procurarsi un completo semiserio era facile, ma un paio di scarpe era tutta un'altra cosa. Se ne provò tre prima di trovarne un paio di pelle nera, liscia che lo soddisfacesse. Indossò una camicia fresca di bucato, ma decise di rinunciare alla cravatta. Non era un colloquio di lavoro. Chiunque l'avesse portato lì, chiaramente desiderava che rimanesse. La donna con i capelli ramati non era d'accordo. Era tornata e se ne stava
in piedi sulla soglia, a osservarlo. Poi rovistò frettolosamente in un altro armadietto tirandone fuori una elegante, di suntuosa seta italiana. Gliela avvolse sotto il colletto e fece un perfetto nodo Windsor, dimostrando una certa abilità. «Una cravatta è il riflesso del corpo e dello spirito di chi la indossa. Hai un'immagine da difendere». «Perché?» «Fai troppe domande». «E tu dai poche risposte». La sua rabbia tornò di nuovo a galla. Lei, per tutta risposta, gli assestò un violento schiaffo sulla faccia. «Non sono qui per rispondere alle tue domande!». Gene sollevò istintivamente il dorso della mano e la colpì sul viso con una forza tale da farla barcollare e poi cadere a terra. La donna si strofinò via il rossetto dalle labbra. Era dolorante, ma non sanguinava. Gene guardò verso il corridoio. Avrebbe potuto chiamare la sicurezza in qualunque momento. Perché non l'aveva fatto? Capì che quello schiaffo doveva nascondere una rabbia più antica, più profonda. La donna si ricompose. Calde lacrime le rigavano le morbide guance, ma non avrebbe ceduto. Si riavvicinò. «Perdonami ti prego», gli disse, e lo baciò esitante su una guancia, nel punto in cui lo aveva colpito. Gene si ritrasse sospettoso. «Me ne voglio andare», disse energicamente. «E dove?», replicò lei. «Sei a casa». LAWLESS C'erano quindici agenti della sicurezza di ronda sul pianerottolo e nell'atrio. Dalle porte in vetro dell'ascensore ne videro almeno altri due a ogni piano. Questa non era casa sua. Cos'era questo posto? Dalla finestra si vedevano dei taxi circolare in mezzo al traffico. Era ancora in città. Ma dove? Nelle volte della sua mente annebbiata riecheggiò una domanda che qualcuno gli aveva fatto una volta. Cosa sai della tua vita? Strano. Non riusciva a trovare una risposta. Le porte si aprirono e la donna con i capelli ramati lo guidò fuori. Gli fece superare il successivo posto di controllo in silenzio. Aveva già valutato le reazioni di Gene durante il tragitto: i suoi occhi non avevano lasciato trasparire granché. «Non c'è nulla che ti sembri familiare in questo luogo?»
«Nulla. Dovrebbe?». La donna spalancò una pesante porta metallica che dava su un'ampia stanza. Si spostò da un lato senza rispondere, chiudendo invece bene la porta dietro di lui. Come poteva essere così stupido? Mossa astuta quella di farlo vestire per l'occasione. Gene provò ad aprire la maniglia, ma era bloccata. Era così solida che non fece nemmeno uno scatto. Girò su se stesso per cercare una via d'uscita. Al centro della stanza erano in attesa un lettino completamente bianco e un tavolo ingombro di attrezzature informatiche. Incombenti vetrate segnalavano la presenza di una stanza d'osservazione dall'altra parte, dove la donna con i capelli ramati prese posto fra diversi tecnici di laboratorio affaccendati, e si mise a osservarlo con freddezza. Distolse lo sguardo. Quella donna non meritava altra attenzione. «Per favore, sdraiati sul lettino». La voce era maschile. Fredda. Quando gli ripeté l'ordine Gene capì che proveniva da un altoparlante. Non obbedì. Sul lato opposto della stanza c'erano alcune porte a doppio battente. Era la sua unica possibilità. Si mise a correre, ma le porte si spalancarono prima ancora che le raggiungesse. Quattro robusti agenti della sicurezza, un dottore e un sesto uomo, molto più anziano, si diressero verso di lui. «Resta dove sei!», gli ordinò uno degli agenti. Gene ignorò la grossolana stupidità di quella richiesta. Cercò di aggirarli, ma vide che tenevano in mano dei pungoli per bestiame e un'asta di quelle che si usano per gli animali, con in cima un cavo d'acciaio a forma di cappio. Volevano metterlo all'angolo come una bestia. Non ci sperate. Gene si lanciò sull'agente più vicino, lo afferrò alla gola e lo fece girare in tondo con un unico movimento fluido, riuscendo a conficcare la punta del pungolo nella coscia di un secondo agente. Un lampo di bianca e crepitante elettricità esplose nell'istante in cui la sua gamba fu attraversata da una scossa di settemila volt. Gene era stato veloce, ma gli altri uomini lo furono di più. Gli infilarono il cappio sulla testa senza che avesse neanche il tempo di fiatare. Lo strinsero forte. L'improvviso schiacciamento della trachea lo fece piegare in due. Stava soffocando con la lingua schiacciata contro il palato. Lottò per riuscire a respirare e crollò in ginocchio.
«In piedi!». Una nuova scarica di elettricità lo colse alla schiena. I muscoli si contrassero in uno spasmo. Il sangue gli andò a fuoco. Lo colpirono sulla nuca con l'asta costringendolo a camminare carponi, come una scimmia. «Sul lettino». Gene rifiutò nuovamente di muoversi. Nel suo campo visivo apparve la minacciosa punta ronzante di un altro pungolo, stavolta tenuto da una mano anziana. La pelle era cosparsa da una costellazione di macchie, tipicamente dovute dell'età. La carne sottile si raggrinziva sopra le ossa delicate e le vene bluastre. «Gene, ti prego fa' quello che dicono questi uomini, o saranno costretti a farti del male». La voce era forte e compassionevole, ma il tono tradiva una cupezza che non ispirava alcun genere di fiducia. La mano si avvicinò e con una presa sorprendentemente salda sollevò il mento di Gene in modo che potessero guardarsi negli occhi. Irresistibile. Volitivo. Era chiaro che nessuno dei due aveva intenzione di arrendersi. «Dobbiamo proseguire con il nostro lavoro, non possiamo permetterci che te ne vada in giro in preda a una follia sanguinaria. Semplicemente non c'è tempo per questo. Ora... obbedirai?». Gene guardò l'uomo dritto nei suoi severi occhi freddi. «Ti ucciderò», promise. A sorpresa, il vecchio si addolcì. «Su questo», disse, «non ho assolutamente il minimo dubbio». Il giovane tecnico applicò altro gel e attaccò l'ultimo dei trentadue elettrodi metallici, freddi e piatti, sul cranio di Gene. Controllò che i contatti fossero a posto e che ci fosse il segnale di basso voltaggio. «Siamo pronti signor Lawless». Lawless sollevò una piccola fiala di vetro con dentro un denso liquido rosso. «Cosa ne hai fatto dell'altra?». Gene tentò di non tradirsi con lo sguardo, ma dal guizzo sul suo volto era chiaro che l'immagine dell'ampolla era impressa da qualche parte nel profondo della sua torturata memoria. Distolse lo sguardo. «Non lo so». Tirò con forza le cinghie che gli tenevano polsi e caviglie saldi al lettino. «Cosa mi state facendo?» «Rispondi alla domanda». Con il suo corpo anziano eppure vivace, Lawless si avvicinò a Gene, poggiando entrambe le mani in cima a un lungo,
decorato bastone da passeggio in ebano. «Dov'è la seconda fiala?» «L'ho mangiata». «Tenendo conto del tuo comportamento recente, non mi sorprenderebbe. Abbiamo un programma rigido qui. Una fiala. Una sola volta al mese. Hai infranto le regole». «Non me ne frega niente di meno delle tue regole». Gene tirò ancora con energia. Non c'era speranza. Lawless alzò il bastone e lo puntò contro la guancia di Gene, costringendolo a voltarsi. «Guardami in faccia quando ti parlo, ingrato e ripugnante caprone. Sarebbe spiacevole se dovessi iniziare di nuovo la procedura, con qualcun altro». Gene sputò contro il vecchio, ma non riuscì a far altro che vomitare una sgraziata poltiglia ai suoi piedi. «Ti avevo detto che non era adatto». Lawless lanciò un'occhiata in alto, verso la vetrata d'osservazione, alla donna con i capelli ramati che teneva il microfono. «Meg, lasciaci soli». Quindi era così che si chiamava. «Non è adatto. È pazzo», insisté lei. «Megaera! Quali che siano i suoi difetti, tu non andrai mai bene per questa procedura. Lasciaci soli, immediatamente. Non riesco a sentire i miei pensieri se non stai zitta!». Gesticolò con la mano. Senza bisogno di altre istruzioni due agenti di sicurezza entrarono nella cabina e trascinarono fuori la donna. Gene rivalutò quel vecchio raggrinzito. Teneva le redini del potere come un re. «Lawless». Si rigirò il nome sulla lingua, saggiandolo come se stesse assaporando un fruttato vino rosso. «Allora ti ricordi». «In realtà no. Ho sentito lui che lo diceva». Il tecnico voltò loro le spalle e si concentrò sulla fila di monitor piatti in cui le linee dentellate dell'attività cerebrale di Gene mettevano in evidenza il suo turbolento stato mentale. Gene guardava quei complicati grafici con una certa inquietudine. «Stiamo facendo un EEG», spiegò Lawless. «Un elettroencefalogramma. Una mappatura delle tue onde cerebrali. Di sicuro ricorderai d'averlo fatto altre volte prima d'ora». «Cosa speri di ottenere?» L'innocenza di quella domanda lasciò Lawless piuttosto spiazzato. C'era
forse un'altra risposta oltre quella ovvia? Poggiò le sue mani avvizzite sulle giovani, agili dita di Gene. «Quello che fu offerto a Ulisse e che lui come un folle rifiutò. Quello che Gilgamesh cercava ma non riuscì a trovare. Quello che Titone ottenne e a causa del quale fu trasformato in cicala, che è già più di quello che toccò al perfido fratello di Priamo. Quello che le concubine di Cibele promisero eppure rifiutarono di concedere. Il dono che le Parche assegnarono a Cyclades per punire me. L'immortalità». «Sei pazzo». «Caro il mio ragazzo, sei molto strano. È la ricchezza che segna il confine fra pazzia ed eccentricità, e dunque io sono molto, molto eccentrico. Ora dimmi, cosa sai della tua vita?». Gene lanciò al vecchio uno sguardo spaventato. Ancora quella domanda. I grafici sui monitor sussultarono contemporaneamente. Il tecnico allarmato si rivolse al suo benefattore. «Funziona». «Alla fine, qualche progresso». Lawless diede a Gene un paio di colpetti sulla mano. «Bene. Forse la tua piccola bravata ha portato qualche frutto». Sollevò il bastone e spinse la punta contro la faccia di Gene, premendola forte contro la sua carne, costringendolo a guardare ancora in direzione dei monitor. «Quelle sono onde alfa. I segni rivelatori che indicano la pura verità nella tua mente». Gene fu vagamente consapevole del rumore delle porte che si aprivano e di passi che si avvicinavano. Alzò gli occhi e vide la donna dai capelli ramati in piedi accanto a lui. Indossava un camice bianco. Aveva portato diverse bottigliette di vetro con dentro dei liquidi chiari, qualche tampone di cotone e una pipetta. «Meg». Lei non rispose. Prese la pipetta e iniziò a versare delle piccole quantità di liquido sopra i tamponi. Gene era allarmato. Tirò le cinghie nonostante il dolore ai polsi arrossati. «Credevo le avessi detto di andarsene!». Lawless sembrò sinceramente perplesso. «Non ho mai fatto nulla del genere». «Che sta facendo?» «Sta ricreando il contesto».
«Non capisco!». «Certo che no. È per questo che siamo qui». La donna con i capelli ramati sorrise a Gene. Perché lo faceva? Era o non era Megaera? Gli venne il sospetto che non lo fosse, quando lei prese uno dei tamponi e lo agitò sotto il suo naso con gentilezza. Un profumo stordente di spezie pungenti e fiori esotici gli colmò le narici. «Le anime del mondo sotterraneo percepiscono il nostro mondo solo attraverso il suo profumo». Gene cercò di non inspirarlo. «Il mondo sotterraneo è il regno in cui nulla di solido esiste, solo immagini, fantasmi, nebbia, ombre e sogni. Non può essere visto, né toccato. È l'esperienza seppellita nel profondo, dentro di te. È la memoria. Mandalo giù. Devi respirare profondamente se dobbiamo far risorgere la tua anima». Lawless usò il suo bastone per colpire forte il giovane sulla pancia. Gene tossì, farfugliò e inspirò riluttante, ma i grafici rifiutarono di muoversi. Non era la reazione che si aspettava. «Provane un altro». La donna ripeté la procedura con una nuova combinazione di prodotti chimici versata su un altro tampone di cotone. Lawless si avvicinò e carezzò i capelli del giovane con la sua mano ossuta. Fece correre un dito lungo il viso di Gene, invitandolo alla comprensione. Gene cercò di respingere il successivo attacco di aromi stimolanti. Lime. Lavanda. «Il senso dell'olfatto è il più antico, il più essenziale, la più ferina delle nostre molte nature. Non richiede alcuna incursione oltre i cancelli del talamo per essere elaborato. L'odore affonda le sue radici direttamente nel centro del tuo Io più profondo». La donna dai capelli ramati agitò ancora un altro tampone odoroso sopra il naso di Gene imperlato di sudore. Gelsomino. Inevitabile. Immutabile. Lawless risalì con il dito lungo il viso di Gene, fino agli elettrodi incollati sul suo cranio. «Il tuo senso dell'olfatto non solo si connette direttamente con la corteccia cerebrale nel lobo medio temporale, ma con tutte le parti del sistema limbico, andando a colpire direttamente l'amigdala, il centro delle tue emozioni, e l'ippocampo, sede della memoria». Di cosa andava farneticando questo vecchio pazzo? Era un discorso del tutto inintelligibile. La stanza sembrava più luminosa. Stavano facendo
qualcosa alle luci? «E così i meccanismi della tua memoria si mettono in moto, come un telescopio ad alta precisione». Cosa sai della tua vita? Gene respirava affannosamente in cerca d'aria, mentre lampi di immagini indesiderate costellavano l'oscurità del suo occhio mentale. «Mentre parlo, il tuo cervello sta riconoscendo queste molecole di odore, innescando miriadi di reazioni chimiche, elettrificando intere reti di engrammi responsabili della memoria olfattiva. Comincia a essere così inondato dal ricordo, che sta infuocando ogni percorso connesso a questo odore. Una fiammata tumultuosa e inarrestabile. Le tue onde alfa decrescono, la tua memoria episodica è stata attivata. Il tuo ippocampo sta rilasciando onde teta nel disperato tentativo di interpretare questa nuova informazione, combinandola con quella che già esiste. Sta rinforzando la tua memoria a lungo termine. Rafforza i collegamenti fra i neuroni. Le molecole di odore, i tasselli mancanti del puzzle, finalmente uniscono i punti di un'esperienza a lungo dimenticata, a lungo sopita. Una rete che ha catturato la sua preda. Brucia. Riesci a sentirla? Riesci a vederla?». Gene tossiva, emettendo strani suoni acuti. Lungo le guance gli scorrevano le lacrime. Era schiavo del viscerale assalto della memoria. «Ricordi? Cosa sai della tua vita?». L'OMBRA DELL'ORLOJ Il ragazzo se ne stava lì in piedi, sconcertato dalle lancette d'oro scintillante dell'orologio astronomico. «Pensa! Cerca di ricordare! Pensa a tutte le cose che hai fatto. Cosa sai adesso con precisione?». Il congegno tuonò sopra le loro teste, il rumore degli ingranaggi e delle ruote dentate scandiva il battito del tempo, un colpo dopo l'altro. «Io... non ho fatto nulla, maestro Athanatos». «Nulla». Athanatos si gettò con disgusto la cappa sul farsetto di seta rossa finemente ricamato. «Sei uscito dall'utero di tua madre in fretta. Quella è stata una vera avventura. Il tuo primo atto di gratitudine nei suoi confronti è stato quello di sporcare entrambi mentre ti nutriva. Questo difficilmente si può definire nulla». «Nulla che avesse delle conseguenze». Athanatos si lanciò in avanti e afferrò il ragazzo per le guance, cercando
qualcosa nei suoi occhi. «Non ti credo». Era sempre difficile arginare le sue sfuriate. Era un uomo di una natura così insondabile, e imprevedibile. Sirocco non osava rispondere per timore di ravvivare la sua collera. L'aria fu attraversata da uno scalpiccio di zoccoli sul ciottolato. Athanatos spintonò bruscamente il ragazzo, pur senza intenzioni minacciose, ma quel cavallo non era per lui. Li superò in fretta, spingendosi verso la città. Verificò a che punto fosse il calare del sole, scrutò il cielo e, infine, posò il suo sguardo intenso sul quadrante blu dell'orologio. «Dov'è la mia carrozza, Sirocco? Hai detto alle otto, non posso arrivare in ritardo dall'imperatore, o sarà la tua testa a cadere». «Non sono ancora le otto, maestro. Vedete? L'orologio deve ancora battere l'ora». La cosa divertì Athanatos. «Ma ha suonato l'ora di Mikulas, no?». Mikulas, il mastro orologiaio di Kadan che aveva costruito l'imponente Orloj, aveva scoperto a sue spese la natura insidiosa di un piccolo sapere. «Magnifico. Un orologio che scandisce tre ore diverse. Il cerchio con i numerali romani ci offre le ventiquattro ore del giorno. L'anello più esterno, con i numerali gotici, segna il tempo boemo. Vedi che si avvicina a ventiquattro e, in effetti, per il sole è giunta l'ora di tramontare. E infine, Mikulas ha ritenuto opportuno aggiungere il mio tempo. Il tempo babilonese. Il vero tempo del giorno». Il congegno tuonò nel profondo della torre, e a quel rumore assordante seguì il suono a distesa delle campane. «Il più grande orologio mai costruito da mano umana, e cosa ha ottenuto Mikulas per il suo disturbo?» «Il re Venceslao IV», Sirocco si guardava le scarpe sporche, vergognoso, «gli ha fatto cavare gli occhi con un attizzatoio rovente affinché non potesse rifare questo straordinario lavoro per altri». Athanatos si meravigliò dell'amara ironia della cosa. «Per un congegno che misura solo il tempo. Pensa quale ricompensa spetterebbe a chi scoprisse i segreti di un anti-orologio». «Maestro?». Athanatos lanciò un'occhiata alle stradine tortuose davanti a sé. «Vieni, è una bella serata. Dovremmo passeggiare». «Ma la carrozza?» «Non mi importa più». Athanatos indicò con il dito l'orologio mentre procedeva verso le ban-
chine della possente Moldava. «Mastro Hanus deve aver pensato di essere piuttosto fortunato che sul trono sedesse un monarca diverso quando aggiunse il suo astrolabio». Camminarono di buon passo, godendosi la passeggiata, fino a spuntare sul Ponte Carlo che portava al grande castello, in posizione dominante sulla collina dall'altro lato del fiume. Il rabbioso ruscello del Diavolo, che separava l'isola di Kampa dalle banchine del fiume, già suggeriva la possente tempra della Moldava, ma solo in minima parte. Quale demone si agitava in fondo a quelle acque? «Mi preoccupi Sirocco. Non sono sicuro che tu possa accompagnarmi in questo viaggio». «Al castello, maestro? Ma ci siamo quasi. Non capisco». «Ecco, è proprio questo il punto». La Città delle Cento Torri sembrava decisamente irreale, avvolta com'era nel mantello del crepuscolo. Quella era una città di luce e ombra, dove ogni strada serbava come monito i suoi fantasmi e i suoi ricordi. «Mi avete domandato cosa so della mia vita, maestro. Perdonate la mia impudenza, io non sono che il vostro apprendista...». «L'apprendista dell'imperatore, l'inviato della corte per sorvegliarmi. Nulla di più». «Ma io servo voi». Athanatos non rispose. «Maestro, cosa sapete della vostra vita?». Athanatos si fermò in quel punto e poi di nuovo sopra il ponte. La città se ne stava lì, presa nell'abbraccio di stravaganti spiritelli, ondine e tristi eroi leggendari. Erano loro a tenere in piedi le torri e i tetti di tegole rosse come ripari di pietra, eppure Athanatos non si sentiva al sicuro in quel posto. Si portò un dito alla tempia. «So tutto. Da quando sono nato e oltre». «Oltre?» «Questo ti spaventa?» «Solo questo vorrei chiedervi, come potete essere certo che i vostri ricordi siano reali? La mente può giocare strani scherzi». «Questi non sono scherzi». «Quale ne è la prova? Quali prove potete addurre per rendere indubbia una teoria del genere?» «Vuoi prove? Le prove non esistono! La memoria è un intrigo di mezze verità e reminescenze imperfette. Ragione ed emozione intrecciati come
serpenti intorno al collo della verità! Guarda lassù, la luna e l'universo, diviso nella sua immutabile perfezione: i cieli sopra, e sotto la terra corrotta e degenerata. Intorno alla luna, i pianeti; i pianeti interni, il sole, i pianeti esterni e le stelle fisse, ciascuno mosso da un angelo celeste. E intorno a questi cieli, la dimora di Dio, la Grande Catena dell'Essere. Ma io so che questa Grande Catena dell'Essere non è lì fuori. È dentro». Sirocco ci rifletté. È dentro. «Dimmi, Sirocco, cosa pensi che farà di me l'imperatore Rodolfo quando gli avrò svelato un tale segreto? Certo non può accecarmi con l'attizzatoio per paura che lo riveli ad altri. Il segreto dell'universo esige ben altra ricompensa». «Perché dunque siete venuto qui, maestro?» «Per nascondermi, naturalmente, miserabile come ciò che mi rende tale. Anche se Cyclades è già qui. Posso sentirlo dentro queste mura. I suoi occhi sono puntati su di me. L'ultima volta che ci siamo incontrati è quasi riuscito a distruggermi. Ha portato disastro e rovina sul mio Impero ed è da allora che vago. Non mi sono ancora ripreso per affrontarlo di nuovo, così sono venuto qui, a Praga, per nascondermi tra astrologi e negromanti, indovini e alchimisti. Qui a Praga che importanza può mai avere l'ennesima promessa di rivelare l'essenza della pietra filosofale in mezzo ad altre cento dicerie?». Gene sollevò lo sguardo verso Lawless, con gli occhi che si schiarivano e il cuore che batteva. «Ricordo, padre. Ricordo». Lawless contrasse le labbra asciutte e lo baciò. SANGUE Martedì, 8:32. «Come ti senti?». Come rispondere a questa domanda? North si lasciò andare sulla sedia nera e si tirò su la manica sgualcita della camicia. Era felice di trovarsi in una sala privata e non sotto gli occhi di tutti al pronto soccorso. Lì i medici li conosceva: suo padre era in cardiologia almeno una volta al mese. Levine era giovane, risoluto, e in fondo sembrava sincero. North, capo chino per un senso di vergognosa frustrazione, si sentiva intontito. «Non dormo molto bene». Sapeva che questa sua dichiarazione rivelava ben poco, ma una spiegazione più approfondita era fuori dalla sua portata.
Levine legò un laccio di gomma scuro intorno al bicipite di North per aumentare la pressione sanguigna nella vena e pulì l'interno del gomito semplicemente sfregandovi dell'alcool. «Ti aspettavamo prima». North non aveva nulla da aggiungere a quella calma richiesta di ulteriori dettagli. Voleva farla finita. Voleva indietro la sua vita, voleva viverla nell'unico modo che conosceva. Non aveva voglia di approfondire oltre la conoscenza del contorto e informe mondo allucinatorio degli scheletri. Non valeva certo la pena di farne un'ossessione o di discuterne. «Ti hanno già detto cosa c'era dentro quella cosa?». La siringa. North scosse la testa. «Non ancora». «Peccato». Levine preparò un ago sterile. Aveva provette di lunghezze differenti e con tappi dai colori diversi. Rossi, grigi. Per prima scelse una provetta con il tappo viola, la inserì nel vacutainer e infilò l'ago nella vena di North. Il vuoto parziale nella provetta aspirò immediatamente il suo ricco sangue rosso e scuro in un flusso ininterrotto. Il liquido, denso e brillante, la riempì tutta. «Ti parlerò francamente». Bene, è un sollievo. «Al momento in cui facciamo i test, potrebbe essere troppo presto per stabilire se hai contratto l'HIV, quindi non c'è ragione di somministrarti il cocktail finché non ne sappiamo di più. L'unico sistema per metterti il cuore in pace è fare gli esami il più in fretta possibile, ok? Altrimenti dobbiamo aspettare calmi, e rifare il test tra qualche tempo». Controllò i suoi appunti. «Di solito ci bastano sette millilitri, ma purtroppo nel tuo caso abbiamo ricevuto dall'OCME 4 una richiesta per gli stessi campioni». Questo perché North non si fidava di nessuno per i prelievi giù all'OCME. Quelli giocavano con i cadaveri tutto il giorno. Era poco probabile che un corpo morto si lamentasse se qualcosa andava storto. Qualunque cosa ci fosse nelle sue vene era una prova, ma solo qualcuno di cui si fidava davvero avrebbe avuto il privilegio di estrarla. Levine scelse un'altra provetta e la sostituì alla precedente. Anche questa iniziò a riempirsi a un buon ritmo. Il medico cominciò a scrivere le etichette e a riempire alcuni documenti. «Sei A o B?» «Non ho capito la domanda». «Gruppo sanguigno, intendo. Fa niente, c'è un sacco di gente che non sa quale sia il suo gruppo sanguigno». 4
po.
Office of the Chief Medical Examiner: Ufficio del medico legale in ca-
North rinvangò nella memoria. «Sono zero. Zero positivo». La punta della penna di Levine restò sospesa sul foglio. «Sicuro?». North scrollò le spalle. «Sì, perché?». Levine esitò ancora, come se non fosse capace di scriverlo. Ripose la penna nel taschino del suo camice bianco e sostituì la provetta. Dopo averne riempita una quarta levò l'ago, prese un batuffolo di cotone e lo premette sulla puntura. «Ok, aspetta qui. Tieni premuto ancora un po'». North obbedì, mentre Levine sistemava tutte le provette piene di sangue. «Porti i campioni personalmente, o vuoi che li spediamo noi?» «Li porto io. Così non si interrompe la catena di custodia delle prove». «Fammi imbustare queste». Levine uscì dalla stanza lasciando North ai suoi turbamenti. Cosa c'entrano i gruppi sanguigni? Controllò il batuffolo di cotone, sanguinava ancora. Lo premette di nuovo e si alzò in piedi. Fuori dalla finestra si preparava un temporale, nubi malefiche che rifiutavano di sparire. Chi era Gene? Dove era Gene? L'orologio alla parete segnava le 8:43. Levine tornò, era concentrato sui documenti della cartella clinica. «Il gruppo sanguigno di tuo padre è AB, giusto?». North tentò di frenare la sua impazienza. «Senti, apprezzo tutto quello che stai facendo, ma io devo proprio andare». Levine non gli diede ascolto. «Il gruppo sanguigno di tua madre è A». Questo non significava niente per North. «Vuoi sederti un attimo?» «Sto bene». Levine era esitante. Incontrò lo sguardo severo di North, mentre i suoi pensieri gli gravavano sulla coscienza. «Hai mai pensato di fare un test di paternità?». North si dondolò da un piede all'altro. «Su chi?» «Su di te». North scosse la testa. «Non ti seguo». Levine incalzò. «Senti, non voglio annoiarti con le questioni di scienza, ma quando ci sono due persone, una delle quali ha il gruppo sanguigno A e l'altra AB, la possibilità che abbiano un figlio del gruppo zero è praticamente nulla». Levine gli consegnò i campioni per l'OCME impacchettati in un sacchet-
to. Aveva difficoltà a trovare le parole. «Mi dispiace dover essere io a dirtelo, ma devi saperlo, perché è una cosa che riguarda la tua personale storia medica. Tu hai il gruppo zero. Ciò vuol dire che uno dei tuoi genitori probabilmente non è biologicamente imparentato con te. Molto probabilmente, la cosa riguarda tuo padre». North diede segno di trascurare ciò che gli era stato appena detto tirando il batuffolo di cotone sul tavolo. «È una follia». «Dovresti parlarne con loro». North ci pensò su, ci pensò seriamente. Vedeva il mondo con occhi nuovi adesso, e gli sembrò un luogo duro e severo. Questo come mi aiuta? Che cosa dovrei farmene? Lasciò il Jamaica Hospital Medical Center sotto il selvaggio abbraccio di un altro feroce rovescio. Si cercò in tasca le chiavi della Lumina blu scuro del 1994. Dove aveva parcheggiato quell'affare? Sto per urlare. Pesanti e pungenti gocce di pioggia tamburellavano sui cofani di tutti i veicoli del parcheggio, creando una fitta nebbiolina difficile da penetrare. Arrancava faticosamente con il ginocchio che gli doleva e i pensieri in subbuglio, cercando sistematicamente in ogni fila. Eccola. La chiusura era difettosa e la maniglia rovinata. Lo sportello aveva bisogno di un po' d'olio. E puzzava, un misto nauseante di odore stantio e cibo rancido. Rimpiangeva l'Impala, ma con il parco macchine impegnato non gli restava molta scelta. Lanciò con rabbia i campioni sul sedile del passeggero e restò ad ascoltare la pioggia. Era un'ottima distrazione, ma non riusciva a soffocare l'eco degli incubi che non volevano affievolirsi né scemare. Sua madre. Insaziabile. Essere dentro di lei, vivo e vigoroso. Sistemò lo specchietto retrovisore. Lo specchio. Quando a North tornò in mente la lussuria che aveva condiviso con la madre, ricordò di essersi guardato allo specchio proprio mentre lo stavano facendo, e che la pervertita e contorta estasi che aveva percepito in modo così violento era dipinta su un volto che non era il suo. Era lui, eppure non era lui. Quello non era il suo volto. Né il volto di suo padre. Di chi era, dunque? Sono la Maledizione di Satana.
9:56. Venti minuti per trovare posto. Cosa avevano pensato di fare trasferendo l'intera sezione scientifica del NYPD in un vecchio grande magazzino riconvertito, senza parcheggi, su Jamaica Avenue, nel Queens? Con le prove che venivano portate lì per i test da tutti e cinque i distretti, l'edificio era costantemente in piena attività, circondato da molti altri edifici governativi, anch'essi in piena attività. Quello amministrativo della Sicurezza Sociale, tre tribunali, la motorizzazione: la strada era piena, su entrambi i lati, delle auto degli impiegati. North nascose i campioni di sangue sotto il cruscotto, prese il distintivo e il taccuino. Non indossava la giacca. Non possedeva un ombrello. Era fradicio e non ci fece caso. Il voluminoso fascio di foto lucide e i relativi verbali d'accompagnamento, con gli appunti stampati in modo ordinato, facevano del rapporto preliminare della scientifica una lettura deprimente. Sui frammenti della spessa vetrina raccolta sulla scena del crimine, nel museo, avevano lasciato le loro impronte digitali, dalla più chiara alla più confusa, centoquarantotto individui diversi. Erano state passate tutte all'AFIS 5 e avevano dato tutte esito negativo. Non un solo criminale noto fra loro. «Qui dice che non avete tutto il vetro. Dov'è il resto?». Ash, l'investigatore legale che aveva diretto la raccolta di prove sia sulla scena del crimine al Metropolitan, sia su quella secondaria e di fronte al Jiggle Joint, il locale di peep show, era un uomo molto vecchio con un'indole riflessiva e tuttavia risoluta. Condusse North in una delle salette ristoro del piano, incuriosito dalla vistosa andatura zoppicante del detective. «Le schegge con gli schizzi di sangue sono finite dritte all'OCME. A te che cosa è successo?» «Ah, ho battuto il ginocchio». North era più interessato al rapporto. «Avete trovato fibre di cotone? Potrebbero appartenere a qualcuno». «Cotone egiziano». Ash si versò un caffè, riempiendolo di latte e zucchero. «Serviti pure, comunque». North non lo sentì nemmeno. «E quindi?» «È importato. La miglior qualità di cotone che si possa comprare. Scommetto che non troverai molti negozi che vendono indumenti di coto5
Automated Fingerprints Identification System: Sistema automatico di riconoscimento impronte digitali.
ne importato, e che quelli che troverai saranno molto costosi». «Che genere di abiti? Felpe?» «Forse. Ma il cotone egiziano viene utilizzato più spesso per fare lenzuola pregiate». «Evidentemente al ragazzo piace parecchio starsene sdraiato». North cambiò argomento. «La spada è all'OCME, in sierologia, e la siringa in tossicologia. Avete rilevato impronte?» «Certo, come prima cosa. Pagina sei. Hai qualcosa in particolare contro le nuove tecnologie? Se avevi tutta questa fretta di leggere il fascicolo potevamo faxartelo». «Passavo di qua». «Senti, abbiamo rilevato due piste utili sulla siringa. Una è venuta fuori dall'AFIS. Inoltre abbiamo un'impronta rilevata sulla spada. Un pollice. Anche questa è venuta fuori dall'AFIS, e combacia con quella sulla siringa». «Chi avete trovato?» «Te». North sentì quel colpo raggelargli le ossa. Possibile mai che avessero tutti il dito puntato dritto contro di lui? Le impronte digitali dei poliziotti erano tenute in archivio per poter essere automaticamente escluse dalle indagini. Date le circostanze, c'era da aspettarselo che avrebbero trovato le sue impronte. Eppure questa volta sembrava diverso, sembrava una questione personale. A differenza degli altri detective della scientifica, gli investigatori legali di New York lavoravano per l'Ufficio Investigativo, quindi non incarnavano il perfetto prototipo dello scienziato. Erano poliziotti, avevano lavorato di pattuglia e Ash conosceva North abbastanza da capire che le cose non si stavano mettendo bene. «Jim, perché ti disturbi tanto per questo caso?». North non rispose. «Non è morto nessuno. Il ragazzino sei riuscito a salvarlo». «C'è della gente in ospedale. Quattro civili. Due poliziotti, uno con la gola tagliata. Vuoi abbandonare due dei nostri? La prossima volta potrebbe uccidere». «Non sto mica dicendo che li voglio abbandonare. Mi hai sentito dire questo? Ma sono già passati tre giorni, e le tracce si raffreddano in due. Il criminale è in fuga ormai, e tu ti vuoi accollare l'intera faccenda da solo? A quest'ora quel ragazzo potrebbe essere a metà strada per l'altro capo del
paese, forse persino per l'altro capo del mondo». North sentì una strana agitazione nel petto. Non avrebbe saputo spiegarlo, riusciva solo a percepirlo. «Lascia che sia io a preoccuparmi di quale sia il caso a cui voglio lavorare». Eccolo, zampillava dentro di lui, quel furente, vendicativo genere di emozione per cui non c'è spazio sul lavoro. «Questi due poliziotti, chi sono?» «Manny Siverio e Eddie Conroy». Lo sapeva solo perché aveva impiegato il tempo della colazione a scoprirlo. Il senso di colpa lo sopraffaceva. «Li conosci?». North minimizzò. «No, sono di Central Park. Ma non ha importanza, no?». Non era una domanda. Sul volto di Ash era già apparsa un'aria di rimprovero. L'uomo si prese un po' di tempo. «Sai, quando tuo padre era nel corpo mi diceva sempre...». North non aveva nessuna intenzione di proseguire quella conversazione. Si infilò il rapporto sotto il braccio. «Mi hai fatto delle copie dei nastri di sorveglianza del museo?». 11:03. Al secondo piano del numero 520 della Prima Avenue, North osservava il traffico attraverso le austere finestre dell'OCME, mentre le goccioline di pioggia sulle vetrate distorcevano le grigie attività in corso lì sotto. Sedette alla scrivania e mise mano al fascicolo sulla catena di custodia dei suoi campioni di sangue. Il problema con le prove era sempre quello: la catena di custodia. Gli investigatori della scientifica dovevano poter risalire a tutti gli spostamenti delle prove, dal momento in cui venivano raccolte a quello in cui venivano presentate in tribunale. Bisognava fornire informazioni il più possibile dettagliate. Chi ha raccolto le prove? In che condizioni erano? Ogni dato relativo a come le prove erano state trovate veniva catalogato. Avevano saputo sin dall'inizio che quella sarebbe stata una prova, oppure erano tornati indietro a prenderla? Ogni volta che la prova veniva toccata o esaminata la cosa doveva essere registrata. Veniva presa ogni misura per evitare che l'avvocato della difesa provasse a sostenere che le prove erano state contaminate. North fu meticoloso, mentre qualcosa che Ash gli aveva detto continuava a risuonargli nelle orecchie: avevano trovato l'impronta del suo pollice sulla spada.
Non l'ho mai toccata. L'ho allontanata con un calcio. L'impronta di un pollice? Dan Sheppard, uno dei dirigenti del Dipartimento di Biologia Legale, si fermò sulla porta. Aveva in mano le fotografie che North aveva richiesto. «Lo sai che ci vuole almeno una settimana. Non sono sicuro di poterti dire quello che vuoi sapere in tre giorni». North raccolse le carte su cui stava lavorando. «Questa è una cosa importante». «Tutti i casi sono importanti». Gli consegnò le fotografie, ma era completamente assorbito da un'insolita attrazione per la testa di North. North se ne accorse. «Che c'è?» «Posso?». Sheppard estrasse rapidamente un paio di pinzette di freddo metallo e tirò via qualche capello dalla chioma di North. Lì depositò in una bustina di carta bianca. «Qualunque cosa tu abbia in circolo potrebbe già essere stato espulso. Vedremo». North si sfregò la testa. «Credi che troverai qualcosa? Sono passati tre giorni». «Dipende. Per certe sostanze fai appena in tempo, per altre non c'è alcuna fretta. Le benzodiazepine, come il Librium e il Valium, possono rimanere da qualche parte nell'organismo per più di trenta giorni. I cannabinoidi, quella che chiami erba, per oltre novanta giorni. Hai detto che ti sembrava di sperimentare una specie di distacco e degli effetti psicotropici. La psilocibina, l'umile fungo magico, l'LSD e l'MDMA possono rimanere in circolo dai tre ai cinque giorni. Se ci sono, li troveremo». «Sicuro di non sapere cosa cercare? Hai già fatto esaminare il contenuto della siringa?» «No». A Sheppard piaceva agitare le acque. Era una specie di divertimento sadico. North non abboccò. «Ne ho bisogno». «Allora aspetterai parecchio, perché non ho intenzione di farla esaminare». Quindi non stava scherzando. Ancora quel rimbombo nella testa. «Perché no?». Per Sheppard era ovvio. «Troppo rischioso. L'assicurazione non ci copre. Non voglio che qualcuno del mio team si punga con quella, roba. Non accadrà. Potresti andare in un laboratorio privato, ma dubito che la toccherebbero, e dubito che l'FBI sia interessato a questo caso. È per questo che ho richiesto sangue, urine e capelli. Riusciremo a capire cos'è. E comun-
que, dov'è il tuo campione di urina?». North estrasse una vecchia bottiglia di Gatorade da una busta di plastica e la poggiò sul tavolo. «Mi bastavano dieci centilitri. Quello è mezzo litro». «Problemi tuoi». Sheppard allungò la mano per prendere la busta di plastica. Riavvolse con cautela la bottiglia e la sollevò tenendola a distanza. «È a posto, l'ho asciugata». Sheppard si diresse fuori dalla porta aspettandosi di essere seguito da North. «Un dottorato in chimica e guarda come sono finito: a trasportare la tua pipì. Non dai un'occhiata alle foto? C'è anche la tua siringa». «Vale la pena?». Il viso di Sheppard si illuminò. «È uno strumento piuttosto insolito quello che ha usato». North scorse disordinatamente le immagini. La siringa era stata fotografata a dimensioni reali, con un righello a fianco come riferimento. Era più grande del normale e il tubo di vetro era tappato su entrambi i lati con argento decorato. «Sembra qualcosa che un veterinario userebbe su un cane». «C'è di meglio». Sheppard teneva la porta aperta perché North lo seguisse. «È antica. Credo che nessuno usi più una di queste cose a livello professionale da oltre un secolo». North era sorpreso. «Come lo sai?» «Lavoravo con un certo dottor Willoughby al Centro Medico della New York University. Collezionava queste piccole rarità. Nel suo studio ce n'era una vetrinetta piena». «Credi l'abbia rubata?» «Oppure è un collezionista. La siringa, il museo. Il soggetto sembra seguire uno schema ben preciso. È ossessionato dagli oggetti antichi». Due oggetti non fanno uno schema, ma North l'avrebbe preso come punto di partenza. Era già qualcosa. Perché una siringa antica? «Credi che potrei parlarne al dottor Willoughby?» «Se possedessi una tavoletta Ouija credo che potresti. È morto da due anni». North cancellò il nome dal suo taccuino. «Bene, per caso tu sai dove potrei trovare qualcosa di simile?». Sheppard ci pensò su. «Dubito che ci siano molti antiquari forniti di cose del genere in città, ma sono certo che esistano un paio di negozi specializ-
zati». «Cosa indicano queste lettere incise sulla parte metallica? H-R-S-H». «Non ne ho idea, ma un collezionista lo saprà». Fecero visita a uno dei tecnici di laboratorio in fondo al corridoio. Sheppard infilò la testa nella porta e omaggiò allegramente una ragazza del suo dono. «L'illustre urina del detective North». Lei la prese prima che North potesse nascondere il viso. Gli sorrise. North non aveva altra scelta che ricambiare la cordialità. Sheppard proseguì. Il suo studio trasudava erudizione. Una parete era dedicata ai suoi numerosi riconoscimenti accademici e ai titoli. La scrivania era invasa da una vasta scelta di libri e riviste, appunti e fotocopie. Vicino al computer c'era un assembramento di pillole: vitamine e aspirina. Lavorava sodo, e il lavoro non era sempre facile. Girò attorno alla scrivania ansioso e si accomodò su una grande poltrona di pelle. «Abbiamo trovato quattro differenti campioni di sangue sulla spada. Pelle, capelli e sangue sui frammenti della vetrina. Non li abbiamo ancora passati al CODIS6 , ma quando lo faremo sarà nel rapporto». Il CODIS era il database nazionale del DNA dell'FBI. Non c'era niente di strano se qualcuno era schedato nel CODIS ma le sue impronte digitali non erano nell'AFIS, e viceversa. North non entrò, rimase indietro, indugiando sulla porta. Non voleva essere lì. Era in ansia. Era come se non volesse essere da nessuna parte. «Ash mi ha detto che avete rilevato la mia impronta sulla spada». «Sì, molto curioso. Non sappiamo come hai fatto. Sembra esserci un residuo antico sull'elsa. In qualche modo, sei riuscito a lasciarci un'impronta, ma dai nostri test risulta calcificata. Uno dei piccoli misteri della vita». 14:38. Il quarto distretto era un'opprimente pentola a pressione per niente adatta ai deboli di cuore. Animato dalla squallida attività d'investigazione, era un mondo davvero brutale. Quando North sbatté con violenza un grosso e pesante volume delle Pagine Gialle sulla sua scrivania in un angolo del vivace ufficio, il forte tonfo fu notato a malapena. Il distretto era il rifugio di un mondo parallelo, un mondo sordido, grottesco e distorto, nascosto appena da uno strato superficiale di decenza. Esigeva il suo tributo, che si pagava puntualmente. Qui dentro North non era 6
Combined DNA Index System: Sistema indicizzato combinato del DNA.
più un uomo solitario in visita di cortesia, perché, in realtà, tutti gli uomini della squadra erano dei solitari. North era solo una nube di rabbia nel mezzo di una furiosa tempesta. Aprì la documentazione del caso e sparpagliò le fotografie sul piano di lavoro in un conflittuale collage che seguiva le leggi delle sue deduzioni e intuizioni. Solo lui ne capiva appieno il procedimento: era tutto fatto secondo l'istinto, di pancia. E le sue viscere gli dicevano che mancava qualcosa. Tirò fuori la foto della siringa e la poggiò accanto al telefono mentre scorreva l'elenco con il dito. L'attenzione passava dall'elenco alle altre foto. Scrisse: Teschio? Ricordava che Bruder, della Stazione di Central Park, aveva detto qualcosa a proposito di testimoni che raccontavano di aver visto Gene prendere un teschio. Nei resoconti sulle prove non se ne faceva cenno. Tirò a sé il pacchetto di foto e le dispose nuovamente. Tornò all'elenco. C'erano ditte che trattavano antiquariato sparse in tutta la città. Si attaccò al telefono e provò subito con la casa d'aste Christie's, dove gli snocciolarono un paio di nomi. La cosa andò avanti così per una mezz'ora. Alcuni nominativi erano ricorrenti. Ne depennò qualcuno. Certi si erano trasferiti. Altri avevano cambiato personale o non trattavano più quegli articoli. Quanto poteva essere difficile trovare qualcuno in grado di fornire qualche dettaglio su un'antica siringa da inserire nel dossier? Sparpagliò le fotografie ancora una volta. E poi qualcuno accennò a un nome che veniva ripetutamente a galla, un antiquario specializzato in rarità di natura più esotica, un tale di nome Samuel Bailey. Lui avrebbe saputo cosa voleva dire H-R-S-H. Si era trasferito due volte. Può darsi che gli affari non andassero così bene. Qualcuno disse che a novembre dell'anno precedente si era sistemato con la sua piccola ditta nell'edificio del Chelsea Antiques sulla Venticinquesima Ovest. North li chiamò. Bailey aveva un negozio lì, certo, ma non riusciva mai a pagare l'affitto e la donna stava pensando di notificargli un avviso di sfratto. «È lì adesso?» «No». «Mi può far richiamare?» «Non riesco nemmeno a farmi richiamare». Sembrava esasperata, ma non stava cercando di fare la difficile. North si offrì di lasciare il suo numero, ma lei stava già rovistando fra le
carte. «Ecco», disse. «Questo è il suo indirizzo. Ha una penna?». Quando attaccò il telefono, era già in piedi. Scompigliò un altro po' le foto. Cosa manca? Come se n'è andato Gene? L'auto. 16:13. La scura, imponente ombra dei tergicristalli cigolanti scattava avanti e indietro sul cruscotto, battendo il tempo come il metronomo di un musicista, perfetto nella sua insistenza. Aveva il telefono in mano, sul display c'era il numero dei suoi genitori, era pronto per chiamare. Ma per dire cosa? Come poteva domandare a suo padre se era veramente suo padre? Il pollice rimase sospeso sul pulsante di invio chiamata. No. Non ora. North osservò la strada di fronte al Jiggle Joint attraverso le nebbie della memoria, rivedendo tutta la scena ripetersi davanti a lui, come ombre della sua mente impresse sulle tende zuppe di pioggia di Hell's Kitchen. Nessuno aveva raccontato di aver visto un veicolo che fuggiva. Non me lo sono immaginato. Avevano setacciato tutta la zona. Persino gli agenti che l'avevano seguito nel vicolo non ricordavano di aver udito o visto un veicolo. North si infilò una gomma in bocca, e masticare allentò la tensione. Si sbagliano. C'era un'auto. Chiuse lo sportello della sua automobile e zoppicò sul retro dell'edificio, dove la porta del Jiggle Joint era ancora sigillata col nastro. Quando aveva seguito Gene lì dietro non aveva nemmeno notato il nome di quel posto. Adesso gli era impossibile ignorarlo. Era un locale di peep show per transessuali. Nel cortile posteriore, nel melmoso fango nero che incrostava la superficie d'asfalto, era ancora impresso il ricordo tangibile di quanto era accaduto. Gli artigliati, strascicati segni degli scarponi, i segni della battaglia. Lungo una parete laterale imbiancata a calce, all'altezza della vita, centinaia di curiose macchie gialle chiazzavano il muro: erano la debole traccia di qualcosa che doveva esservi finito sopra ripetutamente. Il forte e nauseante odore di seme umano bastava a capire ciò che succedeva lì dietro. Sulla parete più distante c'erano ancora i cassonetti dell'immondizia allineati, i sacchetti giacevano alla rinfusa ancora abbandonati a terra. North si chinò passando sotto il nastro giallo e nero della polizia e rovistò un po' in giro.
Perché questo edificio avesse un cortile posteriore era una specie di mistero, anche se non era un fatto del tutto insolito a Manhattan. Forse un tempo era stata un'area di carico e scarico. North si arrampicò su uno dei cassonetti dell'immondizia, proprio come aveva fatto Gene, e guardò attentamente oltre la cima del muro. Dove si sarebbe potuta parcheggiare un'auto? C'era un vicolo che andava da sinistra a destra, cosa poco comune in centro. La scala antincendio in ferro nero pendeva minacciosa sul piano stradale sottostante. C'era spazio sufficiente per un'auto, ma niente di più grosso. «Ehi, non sei autorizzato a entrare qui dietro a quest'ora! Fottuti poliziotti. Se vuoi possiamo andare a farlo dentro, oppure hai una macchina?». Fare cosa? North si guardò alle spalle, affrettandosi a esibire il distintivo con astiosa noncuranza. Una ballerina di corporatura esile con indosso dei calzoncini color oro si era avventurata fuori a fumare una sigaretta. Lo sguardo di North fu istintivamente attratto da quegli occhi di straordinaria bellezza, quei tondi seni pieni e quegli invitanti fianchi formosi. Tuttavia, l'innaturale sporgenza all'altezza del cavallo, il mento pronunciato e il grosso collo mascolino soffocarono presto la sua eccitazione. Gesù. Lei si limitò a sorridergli. Inaspettatamente la sua reazione risultò efficace, perché era chiaro che il suo disgusto la divertiva. North scese giù di nuovo. «Come ti chiami?» «Come vorresti che mi chiamassi?». Le sue lunghe ciglia finte, incrostate di spesso mascara nero e glitter sgargiante, sembravano fremere per l'aspettativa. Aveva una voce bassa e roca. «Vuoi che ti rovini la giornata?». Sentendosi insultata, abbandonò ogni finzione e rispose con voce profonda dal timbro chiaramente maschile: «Claudia». «Il nome vero». Lo sguardo di Claudia si indurì. La donna non c'era più. Adesso c'erano solo North e un uomo in calzoncini color oro. «Mi conoscono tutti come Claudia». «Eri in servizio tre giorni fa?». Claudia non era più in vena di scherzare. Spense la sigaretta sullo stipite della porta e la gettò via. «Lavoro tutti i giorni». «Ricordi la rissa che c'è stata qui dietro l'altro giorno?» «Rissa?» «La zuffa».
«Lo so che vuol dire rissa». Si spostò i capelli della parrucca rossa da quattro soldi dal viso accigliato. «Non ne so molto. Avevo da fare». «Fare cosa?» «Farmi chi. Vuoi che ti faccia un disegno?» «Ma sai cosa è successo?» «Ho sentito qualcuna delle altre ragazze che ne parlava». Ragazze. «E c'è qualcuna di loro, oggi?». Pronunciò la frase come una domanda, ma North non stava facendo nessuna richiesta. Claudia scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, seccata per l'inconveniente. Fece cenno a North di seguirlo all'interno. 16:57. Accanto alla finestra di un piccolo bagno al piano di sopra, Mario, noto come Mona, fece vedere a North che il vetro era bloccato dal ghiaccio, e si apriva solo di poco. Aveva sentito solo il suono di un motore. Ci si doveva proprio sporgere se si voleva vedere davvero, e perché avrebbe dovuto voler vedere? Si stava lavando dopo uno spettacolo. North diede un'occhiata passando sotto una corda da bucato carica di collant e reggiseni bagnati. «Non è venuto nessuno a parlare con te dopo il fatto?» «Ohmmioddio, miprendingiro? Voi ragazzi in blu vi spaventate facilmente». «Era solo un'auto. Perché ci hai fatto caso?». Mario si strinse addosso l'accappatoio di spugna. «Salta all'occhio... capisci cosa intendo? I nostri clienti sanno benissimo che non si può entrare dal vicolo, bisogna fare il giro davanti. In quel vicolo non ci va mai nessuno». Ventuno persone in tutto l'edificio, e Mario era l'unico testimone. 17:22. Da una scatoletta di plastica nel portabagagli tirò fuori un rotolo di nastro argentato per condutture e ne strappò due strisce. Prima di muoversi ne attaccò una sotto ognuna delle sue suole. Dovette costeggiare l'intero isolato prima di fare il giro completo e trovare l'ingresso del vicolo. Da un lato era recintato e protetto con del filo spinato. Lo scopo di quella struttura non era del tutto chiaro a prima vista, dato che dall'altro capo il vicolo era aperto, ma con tutta probabilità era stata messa lì anni prima per impedire il passaggio.
Manhattan era costruita secondo un sistema a griglia, ma la gente spesso dimenticava che le cose non erano sempre state così. Le fondamenta di Manhattan poggiavano su costruzioni molto più vecchie, che ogni tanto riaffioravano sotto forma di piccole stranezze, a volte neppure segnalate sulle cartine stradali. North si imbatteva costantemente in questo genere di stranezze. Un vicolo in centro era una rarità, un manto stradale di mattoni persino più raro, ma non impossibile. Nel Greenwich Village c'erano dei piccoli tratti in mattoni o ciottolato che risalivano all'Ottocento. Il debito di riconoscenza verso la storia era là, se per caso qualcuno avesse deciso di pagarlo. North proseguì con cautela, pronto a notare tutto ciò che saltava all'occhio. Quello non era lavoro suo, in un mondo ideale sarebbe stato compito di un investigatore della scientifica, che invece a quella zona non c'era nemmeno arrivata. E soltanto agitando un po' le acque poteva sperare di capirci qualcosa. Il nastro per condutture serviva a differenziare le sue impronte da quelle di chiunque altro. In mezzo alla spazzatura, alle erbacce e alle tane di ratto, North notò una macchia scura, sotto la sporgenza di un'arrugginita e dimenticata scala antincendio. Era solo a pochi metri dal muro che delimitava il cortile posteriore del Jiggle Joint. Quando si avvicinò riconobbe immediatamente la scura consistenza vischiosa dell'olio per motori, e quando si avvicinò ancora un po' vide schegge lisce di plastica rotta, incastrate nell'impronta di un pneumatico. 18:04. Robert Ash piazzò un righello a L per la misurazione dei copertoni accanto alla chiazza d'olio, era di trenta per quindici, nero su bianco, poi scattò un'altra fotografia. Aveva lasciato la scientifica ed era già sulla strada di casa quando aveva ricevuto la chiamata, ma era arrivato in fretta e aveva portato a termine il lavoro senza lamentarsi. North gli era rimasto vicino tutto il tempo. «Che ne fai di questo?». «L'olio è olio. Non si può rintracciare un'auto a partire dall'olio per motori, ma ti dirò una cosa: dubito che provenga da un'automobile. È sul lato del vicolo, vedi? L'olio solitamente cola dalla parte inferiore del motore, cioè dal centro. E un'auto qui sotto non ci può essere entrata». «Pensi a una moto quindi?» «E a una potente, anche. Oltre i cinquecento di cilindrata. Mai sottovalu-
tare il potere che la fortuna esercita su un'indagine, eh? Un motore a quattro tempi usa olio viscoso. Un motore a due tempi usa un olio più leggero e a quest'ora sarebbe stato spazzato via da tutta quella pioggia, e invece questo è ancora qui. È molto scuro, azzardando un'ipotesi direi che non proviene da una moto ben tenuta». North lasciò che la sua frustrazione affiorasse ribollendo in superficie. «Io ho sentito lo sportello di un'auto. Non mi interessa una moto». Cos'è quest'odore? «Ho parlato con tuo padre stamattina». North si insospettì. Si voltò. «Ah sì?» «Sì, ha invitato un po' di ragazzi a casa per un barbecue nel fine settimana. Ci vai?» «Io, ehm». Digli che hai da fare. «Non lo so. Ehi, lo senti questo odore?». Ash annusò l'aria. «Che odore?». Quell'odore gli faceva venir voglia di coprirsi la faccia. Adesso aveva le narici piene di quel puzzo rivoltante della carne bruciata in putrefazione. Cercò di capire da che direzione provenisse, forse dal cortile posteriore del Jiggle Joint, ma sembrava non avere un punto d'origine. Aveva in bocca un sapore amaro. «Sicuro di non sentirlo, quest'odore?». Ash era in ginocchio per terra intento a esaminare la chiazza d'olio con una pinzetta. «No». Raccolse il primo di una serie di piccoli frammenti traslucidi. Erano straordinariamente puliti e non erano stati in alcun modo rovinati dall'olio. Non era semplice plastica, c'era anche del vetro e i frammenti andavano direttamente dal retro del Jiggle Joint, lungo il vicolo e oltre la chiazza per un altro paio di metri. Erano recenti. «Dici di aver udito quel ragazzo sbattere lo sportello dell'auto?» «Sì». North tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e se lo premette sul naso e sulla bocca. Ma non servì a molto. Ash annuì. «Sì! Ecco come si è staccata questa roba». Indicò il punto in cui iniziava la traccia. «Sale in auto sbattendo lo sportello e fa staccare questi frammenti. Quando l'auto fa retromarcia, i frammenti continuano a cadere. Non sono colorati, dunque non si tratta di un fanale posteriore. Il veicolo che cerchi ha un faro rotto, ed è uno di quelli anteriori». 20:39. Quell'odore non voleva proprio andarsene. L'intero distretto sembrava invaso da un olezzo di carne in decomposizione che solo lui riusciva a sen-
tire. Nella saletta ristoro trovò una brocca di caffè forte e se ne versò una tazza. Non lo bevve, lo portò in giro come fosse una specie di incenso e si augurò che nessuno facesse domande imbarazzanti. Cosa ho che non va? Archiviò il suo modulo sessantuno. Ce n'era già uno di Bruder, ma anche North era stato lì, e anche lui avrebbe dovuto compilare una scheda sul caso. Era scritta veramente coi piedi - non aveva scuse - ma ormai era fatta. Salì di sopra. In una stanzetta al secondo piano del quarto distretto passò in rassegna i nastri della sicurezza grazie a un paio di vecchi videoregistratori neri e una fila di televisori. Li controllò uno dietro l'altro; inserire un'altra cassetta, premere play; stessa sala, angolatura differente, il tutto in uno sfumato bianco e nero. L'ingresso di Gene si vedeva chiaramente. Entrava nel museo, da solo, alle 10:07. Vagava un po', anche se non era chiaro se stesse cercando di capire da quale parte andare o se dovesse incontrare qualcuno. Osservava qualcosa nella Sala Belfer, rimaneva affascinato dalla mostra greca. Pugnalava il primo visitatore esattamente alle 10:23. North allungò le braccia sopra la testa e si stiracchiò. Aveva letto delle storie a proposito di gente che dopo essere rimasta seduta nella stessa posizione sui voli a lunga percorrenza era morta per una trombosi fulminante. Cinquanta dollari che ai poliziotti costretti a esaminare ore di riprese del genere accadeva la stessa cosa. Infilò un altro nastro. Un'altra angolazione. Ancora Gene che entrava nel museo. C'era qualcosa di diverso. North riavvolse il nastro e lo guardò di nuovo. Gene entra nel museo. Indugia. Entra nella Sala Belfer. Ma che sta facendo quella? North fermò il nastro e lo mandò indietro. Gene è in piedi e osserva un grande vaso. Una donna con capelli lunghi e occhiali da sole gli si avvicina da dietro. Si ferma. Gli sta piuttosto vicino. Che sta facendo? Si porta una mano al viso. Ecco. Uno spruzzo. Una nube. Che cos'è? È fumo? Non l'aveva notato prima perché l'angolazione della luce non lo consentiva. Ma qui era perfetto. Accostò il viso allo schermo tentando di compensare così il leggero sfarfallio dell'immagine in pausa. Il viso della donna gli ricordava il suo, anche se non sapeva proprio come spiegarselo.
Udì dei passi nel corridoio all'esterno. Nancy Montgomery, l'assistente amministrativa assegnata al loro ufficio, aveva addosso il cappotto ma si stava ancora dando da fare. Con un mucchio di cartelline sotto braccio, la donna lanciò a North un'occhiata di disapprovazione. «Non ce l'hai una casa?». North si fregò il viso stanco fra le mani ruvide. «E tu l'hai visto il posto in cui abito?». Lei continuò a camminare. «Allora trovati una ragazza». Quella frase lo colpì. Più di quanto lei potesse immaginare. North tenne la cosa per sé e studiò le figure indistinte sullo schermo. Stava davvero facendo quello che sembrava stesse facendo? Aveva una mezza idea e sporse la testa fuori, nel corridoio. «Ehi, hai da fare? Puoi venire a dare un'occhiata a questo? Mi serve l'opinione di una donna». Gli arrivava il ronzio della fotocopiatrice in funzione nella stanza accanto. «Che cosa ti ho appena detto di fare?». Sentiva Nancy che continuava a imprecare mentre gli cadeva qualcosa di pesante. La donna si trascinò fuori, scostando con delicatezza i capelli neri e stirati dal suo perfetto viso color cioccolata. «Mi pagano per fare il detective?» «Stai richiedendo una decurtazione dello stipendio?». La donna si fermò sulla porta e incrociò le braccia. Se lo trovava divertente non lo dava a vedere. «Non ho tutto il giorno». North le mostrò lo schermo del televisore. «Che cosa sta facendo questa donna?». Avviò il nastro. La donna si avvicinava a Gene, alzava una mano. Uno spruzzo. Nel frattempo Nancy lanciava allo schermo occhiate distratte. «Rimandalo da capo». North riavvolse il nastro fino al punto giusto. Lei alzò gli occhi al cielo. «Si sta mettendo il profumo. È un vaporizzatore. Ho risolto il caso?». North passò il dito sull'immagine. «Tu lo usi così il vaporizzatore?». La donna cambiò decisamente espressione. Ora lo vedeva anche lei. «Perché lo sta spruzzando sul ragazzo che guarda il vaso?». North posò la penna, esausto. «Appunto». Tornò nell'ufficio e sfogliò il rapporto della scientifica poggiato sulla sua scrivania. Vetro che scricchiola. Quando aveva seguito Gene. Aveva sentito un profumo, e il vetro che scricchiolava. Il rapporto confermava che erano stati recuperati i resti di una bottiglietta di profumo. Vi attaccò un post-it in modo che Ash lo riesaminasse in
cerca di tracce. Profumo. Se solo avesse potuto sentirlo, al posto di quel puzzo nauseante che lo soffocava. 22:57. La strada vuota fuori dal suo appartamento appariva spoglia sotto il cono di luce dei lampioni. Era un luogo in cui il rimbombo non svaniva mai. Dai tombini e dalle grate sfogavano sottili fili di vapore. Era come essere nel ventre della bestia: un drago assopito. Nel buio brillava un'unica luce rossa, un messaggio in segreteria da parte di sua madre. Non poté evitare di trasalire al suono della sua voce. Andò a prendere il bourbon. La pioggia batteva contro le finestre e il liquore smorzò l'eco di un appartamento vuoto. Mandò giù due dita senza pensarci su, se ne versò un altro po' in un bicchiere e fece zapping finché trovò i lanciatori di giavellotto delle Olimpiadi. I Giochi. Cosa, nel lancio di quelle aste, gli diceva qualcosa? La padronanza delle lance si era spostata dalla guerra allo sport. Perché lo interessavano tanto? Non se n'era mai interessato prima, e invece adesso sembrava esserne ipnotizzato. Qualcosa gli parlava dall'oscurità, con un tono cupo che richiedeva più che semplice attenzione, qualcosa di fetido, putrido, con un tanfo così forte e invadente che si ritrovò a vomitare senza neanche fare in tempo ad alzarsi. Nato da tre, forse quattro giorni. La pelle carbonizzata e spaccata lasciava vedere la carne bianca, lungo le guance lisce si aprivano crepe di carne cotta. Con la carnagione scurita dalle fiamme roventi della città rasa al suolo, la donna gli portava la testa di un neonato bruciato conficcata su una lancia. Di chi era figlio? Quale terribile crimine aveva commesso un neonato per meritare di essere servito come pasto a orde vendicatrici? Quello era l'inferno? O era forse un luogo sepolto ancora più in fondo? La donna gli si avvicinò, con i gonfi seni nudi rilucenti per via del grasso di carne umana. Guidò la sua mano e gli spinse gentilmente il cadavere arrostito verso la bocca. «Mangia». Lo stomaco gli si rivoltò al solo pensiero, si torse in preda a spasmi lancinanti, eppure non riusciva a resistere al potere di quella donna. Aprì la bocca e diede un morso alla croccante guancia salata.
North si svegliò gridando. Davanti a lui, dipinto malamente su una delle pareti del suo appartamento con una sostanza che somigliava più a secrezioni umane che alla vernice, il muso del Toro che lo ossessionava. Era il Toro che lo riempiva di paura, terrore e rabbia. Era il Toro che gli diceva di uccidere. LA GABBIA DORATA Il bagliore irriverente dell'alba infuocò le sopracciglia di Gene, destandolo da una misteriosa oscurità altrimenti inesorabile. Non era la prima volta che si ritrovava cosciente ma del tutto privo di ricordi che lo aiutassero a comprendere dove si trovasse e in che situazione fosse. Giaceva su un letto semplicemente immenso. Le lenzuola erano del più morbido cotone che avesse mai visto, con ricami pregiati degni di un principe. Non aveva assolutamente idea di come ci fosse arrivato, né, se è per questo, a chi appartenesse. Forse era suo. Decise che sarebbe stato così finché qualcuno non l'avesse informato del contrario. Udiva una debole musica angelica, un coro che cantava con gaudio barocco, a un volume così basso da essere quasi impercettibile. Non avrebbe saputo stabilire da dove venisse esattamente, e sembrava non ci fosse modo di fermarla. Si tirò su. La stanza era lussuosissima. Il tappeto era più folto di qualunque altro ricordasse di aver calpestato prima. Gli alluci affondarono in una morbida massa di colore chiaro. C'erano specchi alle pareti e installazioni luminose incassate in alcune nicchie sul soffitto. C'erano quadri e stole di seta. Nudo, si avvicinò all'ampia finestra che dava sull'Hudson. Si trovava a un piano decisamente alto, nel cuore di Manhattan. Qualche pensiero sciolto rotolò per la scarpata rocciosa della sua mente. Si controllò i polsi. Erano ancora doloranti e graffiati. Si passò le dita fra i capelli. Erano impastati di gel. Sentiva quel che restava di un potente sedativo martellargli i sensi. Cosa gli avevano fatto? Non riusciva a ricordare i dettagli, ma aveva la sensazione che ogni giorno fosse un nuovo esperimento e un altro snervante viaggio nell'abbrutimento. Un giorno avrebbe reciso questi soffocanti legami. Se l'era giurato. Lui rendeva le cose difficili, e lo faceva davvero spesso, eppure loro continuavano a rifiutarsi di lasciarlo andare e, via via che le loro losche attività proseguivano, trovava sempre più difficile tirarsene fuori. Si gettò indosso una vestaglia e la fermò con un unico nodo. Era affama-
to. Aprì la prima porta. Era un bagno, sontuosamente decorato. Una seconda porta lo condusse a un guardaroba ricolmo di vestiti, camicie e scarpe, con un'altra porta, che però era chiusa a chiave. Tornò alla stanza da letto. C'era una terza porta. Non aveva una serratura classica, ma una piccola tastiera numerica montata accanto alla maniglia. Qual era il codice? La sua mente era vuota. Si avvicinò un po' trepidante, rifiutava di farsi intimidire da una combinazione, e digitò la prima serie di numeri che gli passò per la testa. La pesante porta si spalancò senza troppe cerimonie. «È mancino stamattina». «Interessante», replicò Lawless con approvazione. «Gli inconvenienti del procedimento non smettono mai di deliziarmi». «Sembra più soggetto a variazione di personalità di quanto avessimo previsto». Lo sguardo di Lawless era fermo. Savage non era un uomo che si poteva intimidire con facilità, ma Lawless era una forza della natura. Savage si mosse infastidito sulla sua sedia vicino al tavolo di mogano della colazione. «Stai dicendo che abbiamo scelto il successore sbagliato?», domandò Lawless. L'altro uomo sedeva in silenzio. Savage dovette vedersela da solo. «Affatto. Sto solo facendo notare che quello che cerchiamo di fare è qualcosa di completamente nuovo. Era normale che avesse delle conseguenze». Lawless ammirò l'abile difesa dell'uomo. «Non è completamente nuovo». Studiò i visi dei suoi tecnici, i dottori e gli scienziati che avevano perfezionato e inventato, sperimentato e raffinato, gli uomini che avevano dato vita al procedimento. Immerse un pezzo di pane tostato nel ricco tuorlo di un uovo à la coque. «Quali sono gli ultimi risultati?». Megaera era seduta all'altro capo del tavolo. Raccolse in fretta il telecomando e sintonizzò lo schermo a parete sulle telecamere di sicurezza che controllavano Gene nell'appartamento sottostante. Si era avventurato nella sala circolare e stava esaminando una vasta collezione di ritratti appesi sopra il camino. Erano tutti uomini anziani, e fra loro c'era anche Lawless. Savage disse: «I risultati dell'EEG mostrano che sta sperimentando due diverse personalità. Si stanno entrambe battendo per il controllo e cercano di dominare le sue funzioni mnemoniche».
«C'è qualche segno di convergenza?» «No». L'esitazione nella voce di Savage non era ciò che Lawless avrebbe voluto sentire. «Perché all'improvviso sono costretto a tirarvi di bocca le informazioni? Continua». «Siamo fortunati che non si stia verificando nessuna convergenza, ma nessuna delle due personalità ha ancora preso il sopravvento. Sta dando prova di essere particolarmente testardo». Lawless sorrise, pur mantenendo il solito distacco. «È quello che mi piace di lui». Savage si alzò in piedi e presentò un grafico a Lawless. «Abbiamo passato tutta la notte scorsa a stimolare la regione CA3 del suo ippocampo». Lawless continuò a sgranocchiare il toast impregnato d'uovo. «Ah, la sua via d'accesso alla memoria a lungo termine. Come la state stimolando?» «Suoni. Musica, in particolare». «Molto affascinante. A quale risponde?» «Dato il suo attuale stato mentale, alla musica di fine XV, inizio XVI secolo. I madrigali di Josquin Desprez e l'opera di Claudio Monteverdi si stanno rivelando quelli più efficaci». Lawless si riaccomodò sulla sedia con aria di assoluta soddisfazione. «La mia musica preferita, ai tempi in cui mi trovavo a Praga». Megaera era tutt'altro che entusiasta. «È proprio quello che mi preoccupa. È a Praga che ci siamo imbattuti per l'ultima volta in Cyclades. E Cyclades è mancino». Lawless gettò il tovagliolo. «Questa musica è la mia preferita. Non la sua». Schioccò le dita per far segno che sparecchiassero la tavola. Dagli angoli bui comparvero dei camerieri che tolsero di mezzo i piatti cinesi e le posate. Domandarono cos'altro dovevano fare. Megaera non alzò nemmeno lo sguardo dalle sue carte mentre ordinava che predisponessero i pasti della dieta quotidiana di Lawless. Gli posero davanti una nutrita schiera di pillole e pozioni. I tonici per ritardare l'invecchiamento includevano ferro per il sangue, aspirine per il cuore, antinfiammatori per il cervello, e per reni e fegato, Tribulus Terrestris. Prese le vitamine B12 e B6 e il ginseng rosso. Ginkgo biloba e zinco. Tale farmacopea di ringiovanimento in pillole era riuscita a ridurre la crisi. In realtà, da tempo, non aveva più la minima idea di quale fosse l'utilità di molti di questi farmaci. Se i suoi tecnici si erano presi il disturbo di scovare un ingrediente e includerlo nella sua lista, lo assumeva
senza creare problemi. A questa veneranda età non poteva certo permettersi di perdere tempo a pensarci. Megaera lo guardò con durezza. «Sta facendo un gioco che conosci. Ho le prove che Gene sta cercando fra la documentazione genealogica. E nessuno gli ha dato il permesso di farlo». «E questo cosa prova, mia cara? Che è un bibliotecario appassionato, forse?» «Non essere così irriverente». «Sennò cosa mi farai, di preciso...?». I volti degli uomini seduti intorno alla tavola mostravano un chiaro imbarazzo. Lawless ne fu piuttosto divertito. «Come hai ottenuto questa informazione?». La donna sembrava scossa da quella domanda. «Ho i miei mezzi». Lawless valutò per un attimo le sue parole. Stava tramando qualcosa. «Gli stessi grazie ai quali ti è capitato di essere al museo quando Gene ha avuto il suo piccolo accesso? La tua gelosia è patetica. A un certo punto deve familiarizzare con la documentazione, non sei d'accordo? La curiosità è l'essenza più profonda di ciò che siamo». «Non in questo modo!». Megaera sbatté il palmo sulla superficie liscia del solido tavolo di mogano. «Hai mai pensato che potrebbe essere in cerca degli altri?» «Gli altri? Quali altri?» «Che uomo arrogante sei. Sai bene di doverti aspettare che ne arrivino altri». Lawless agitò un dito. «Ecco che di nuovo balli il tip tap sul filo della mia pazienza. Dimentichi che io sono passato attraverso il procedimento. Io sono stato quell'animale. Lo comprendo. Dagli del tempo e capirà anche lui». Si voltò verso Savage. «Diresti che è pronto per un po' più di libertà o dobbiamo tenerlo in gabbia?» «Non si può dire. Megaera ha ragione a dire che è instabile». «Bene, è deciso. Ridategli accesso all'edificio». Bevve un sorso da un bicchier d'acqua e fece segno agli uomini di allontanarsi. «Potete andare». Gli scienziati e i dottori si alzarono svelti e uscirono, palesemente sollevati. Megaera, tuttavia, rifiutò fermamente di muoversi. «In confronto alle nostre precedenti esperienze questo non è che un grandioso esperimento che potrebbe fallire da un momento all'altro». «Tu non sai nulla».
«Ahi sì? Be', tieni a mente queste parole, perché di sicuro non sarò io a tramandarle ai posteri». «No», borbottò Lawless allegro. «No, non lo farai». Soffocò una risata, mentre prendeva il suo bicchier d'acqua e ricominciava il rituale mattutino, un medicinale dopo l'altro, infilandosi le pasticche in bocca con un orribile dito ossuto, masticandole una a una con denti fragili e indeboliti. Le sue preferenze andavano naturalmente verso la chiarezza di pensiero e il rafforzamento della memoria, perché questo era quanto richiedeva il procedimento. Senza memoria non sarebbe stato nulla, semplicemente. Assumeva acido alfalipoico in combinazione con l'acetil L-carnitina per contribuire a prevenire l'Alzheimer, benché, naturalmente, nulla indicasse che ve ne fosse il pericolo. Nel suo cervello non c'erano masse di proteine né lesioni infiammate, ma bisognava comunque essere prudenti. Quella mattina scelse salvia concentrata e capsule ambrate di omega tre per migliorare la memoria e aumentare l'elasticità mentale. Di contorno, i rimedi per esigenze più tipicamente maschili, estratti puri di corteccia di Yohimbe e radici di violetta africana. Megaera spuntava ogni cosa dalla lista mentre lui se ne rimpinzava, assicurandosi che il vecchio completasse il suo programma alimentare. La donna era ferma accanto allo schermo, in uno stato di quieta impazienza. «Allora? Che ne faremo di lui?». Lawless trovò assurda quella domanda. Si asciugò la bocca con un tovagliolo bianco e si alzò in piedi. «Megaera, sei amareggiata e piena di risentimento. Per te nessuno è adatto. Bocci tutto e tutti prima ancora che i procedimenti possano iniziare. E invece questo scaltro serpente si è rivelato un ottimo soggetto, il che alimenta la tua ira vendicatrice. Ma perché fai tante storie?» «Non è troppo tardi», supplicò lisciando i capelli bianchi di Lawless. «Abbiamo fatto così tanti progressi. Possiamo trovare un modo affinché io recuperi il posto che mi spetta». Lawless rivolse la sua attenzione all'immagine di Gene proiettata sullo schermo. «Forse può lui, ma il mio tempo è limitato». «Dovrei essere io!». «Megaera, non c'è nulla che noi due possiamo fare. È il tuo destino che ti impone dei limiti. Non è contro di me che stai combattendo, ma contro la biologia. Le donne non possono ottenere il mio tipo di immortalità, tu non sei che un recipiente per la prossima generazione di maschi».
Cos'erano tutti quegli oggetti? Trofei o ninnoli? Li conosceva? Avrebbe dovuto conoscerli? Erano oggetti importanti? O simboli tangibili di una vita passata? Gene osservò i dipinti sopra al caminetto, una strage di anziani che lo fissavano dall'alto con un severo e speranzoso desiderio nello sguardo. La stirpe di una catena ininterrotta; loro erano il modello, lui era l'argilla informe. Gli zigomi di uno potevano essere più alti rispetto a quelli di un altro, le orecchie potevano essere leggermente piegate, oppure potevano avere il naso diverso. Ma esisteva una chiara progressione da un uomo al successivo, un'evoluzione nella morfologia facciale. Guardò nello specchio ed esaminò il proprio viso. Anche se era un anello appartenente alla catena evolutiva, non riusciva a individuare nessun particolare che glielo confermasse. Forse non voleva. Guardò i libri sullo scaffale. C'era ancora qualcosa che non quadrava, ma per ora lo avrebbe tenuto per sé. Per la sua mente e per il suo archivio personale. Sapeva che lo stavano osservando. Percepiva i loro occhi indagatori. Che guardino pure. Io non mi nascondo. Aveva ricordi chiari, impressioni di più identità. Eppure nessuna sembrava più reale delle altre. Tutto ciò che desiderava era comprendere questa vita e il proprio posto in essa, ma percepiva un guazzabuglio di esistenze precedenti che premevano dietro i suoi occhi, che si accapigliavano per ottenere la sua attenzione, che si distruggevano l'un l'altra per assumere il controllo della sua persona. Aveva già percorso prima questo sentiero. Rimaneva da scoprire se sarebbe riuscito ad arrivare in fondo, se l'avrebbe compreso. Dov'era il passato? In quell'antico pugnale che aveva migliaia di anni e forse aveva ucciso altrettanti uomini? Era quello il passato? Subiva una forza d'attrazione simile alla sua? Il semplice fatto di ricordare alterava in qualche modo il passato? Oppure il passato era solo un parto della sua fantasia; una cascata di invenzioni, come foglie secche su un fragile ramoscello, che si sbriciolano senza vita? Gene proseguì tra gli oggetti sotto i quadri. A ogni scaffale e a ogni nuovo manufatto e gingillo si schiudeva un'altro ricordo profondamente radicato che traboccava di immagini e suoni di un passato lontano. Sentì il rimbombo di qualcosa che si apriva, disturbando le esili e torpide ragnatele del suo deposito mentale. E oltre ogni pesante porta, gli odori stantii della memoria. Una cosa tangibile, mezza seppellita sotto la polvere, come un pregiato libro antico mai dimenticato, con la copertina in pelle
logora e consunta dagli anni, in attesa di essere svelata da un rapido respiro improvviso. Le tavole del pavimento scricchiolavano, scricchiolavano e sospiravano. Rifuggivano la luce del sole e singhiozzavano nell'ombra, affaticate sotto il peso di così tanti ricordi. Riusciva a sentirli, annusarli, assaporarli, i fatiscenti pezzi di sé, ansiosi di completare il mosaico. Chi è stato a dire che il corpo può muoversi in avanti, mentre l'anima si muove in cerchio su se stessa come se tornasse sempre al punto di partenza? Gene rispose dopo un istante. «Plotino. Era Plotino». Da dove fosse spuntata quell'informazione, così all'improvviso, era un mistero. Era chiaro che i meccanismi della sua mente funzionavano benissimo, era solo che lui non prendeva parte alla procedura. Era un semplice spettatore. Lui aveva aperto un libro della memoria, ma a leggerlo era qualcun altro. Sì, Plotino. Sarebbe stato bello incontrarlo. Peccato... Non è vivendo che si scopre quali sono le figure decisive di un'epoca. Certe cose si stabiliscono solo col senno di poi. Si fermò di fronte allo specchio e si aprì la vestaglia. Il suo petto nudo ora sembrava strano: vuoto. Manca qualcosa. «Ah, sì», commentò. «Giusto. Dove sono i miei seni?». NEL TEATRO DELLA MEMORIA «I miei umili omaggi a Sua Maestà, imperatore Rodolfo, Sacro Romano Imperatore, grande conquistatore, re di Germania, re di Ungheria, di Boemia, Dalmazia, Croazia e Slovenia, arciduca d'Austria, margravio di Moravia, margravio di Lusazia, duca di Slesia, duca del Lussemburgo, signore delle terre d'Asburgo di...». «Sì, sì, sì, sì, sì!». L'imperatore Rodolfo fece segno alle sue guardie di rimanere alla porta, senza attendere che la corte si riunisse dietro di lui prima di scendere verso Athanatos. «Cosa hai per me oggi?». Athanatos si inchinò, profondamente e lentamente. «Mnemonica visiva, Vostra Maestà». «A che scopo?» «Perché Vostra Maestà possa essere un po' più vicino all'infinito».
Athanatos guidò deferente l'imperatore su un raffinato palco nel cuore di una grande costruzione in legno, che occupava un'intera sala dell'ultimo piano nella Torre delle Polveri dell'imperatore Rodolfo. Rodolfo aveva costruito l'imponente aggiunta al Castello di Praga con lo specifico intento di ospitarvi i più noti alchimisti dell'epoca mentre compivano le loro calcinazioni, mortificazioni, putrefazioni e sublimazioni; tutti a lavoro sulla Grande Opera che avrebbe prodotto i molti nomi della Materia Originale, la Pietra filosofale, il segreto dell'immortalità. L'imperatore era perplesso. «Se questo è l'infinito, è strano». «Tutto deve essere rivelato, Vostra Maestà». «Da quanto tempo siete al mio servizio?» «Poco più di un anno, Vostra Maestà». Il Sacro Romano Imperatore infilò la mano nella tasca posteriore e ne estrasse una collezione di dita scurite che portava con sé come amuleto per il computo. Athanatos osservò l'imperatore accarezzarle in tenera contemplazione come se fossero vive. «È di sicuro l'approccio più strano che abbia mai visto». Di nuovo quel preoccupante sibilo si insinuava nella conversazione; oggi la pronuncia blesa dell'imperatore Rodolfo si presentava con vigore allarmante. Di ficuro. Vifto. «Non somiglia a nessuna delle opere che ho visto prima d'oggi. Molto curioso». Fomiglia. Neffuna. Curiofo. L'imperatore, da parte sua, non faceva alcuno sforzo. Era tutta opera del suo mento smisurato, nascosto appena sotto una barba incolta, un dono dei suoi antenati asburgici insieme a un ridicolo labbro inferiore troppo carnoso che sembrava vivere di vita propria. L'imperatore Rodolfo non era un uomo affascinante. Qualcuno diceva che, con quelle gambette tozze e quei lugubri crolli depressivi, era già un miracolo che volesse vivere, figuriamoci poi per sempre. «Con rispetto, Vostra Maestà, alcuni di quelli cui avete dato ospitalità in passato erano dei ciarlatani, a dir poco». Un colpo di tosse imbarazzato echeggiò da dietro la parete della struttura di legno; la frecciata di Athanatos non aveva dovuto allontanarsi molto per colpire nel segno. «Tycho», gridò l'imperatore, «sono convinto che l'attacco non fosse diretto a te». Athanatos si inchinò condiscendente, come se non fosse stata sua intenzione offendere, ma gli altri sapevano che le cose stavano in un modo diverso. Tycho Brahe, l'astrologo danese dell'imperatore, restò nei paraggi ad
origliare intenzionalmente mentre il suo ossuto assistente tedesco, Giovanni Keplero, prendeva nota. Athanatos aveva protestato, ma l'imperatore aveva insistito perché lo accompagnassero alla presentazione dell'invenzione di Athanatos. Sirocco, il vigile apprendista, teneva d'occhio entrambi. Athanatos proseguì. «Ho pensato molto a quel furfante inglese, l'ingombrante divinatore della regina Elisabetta. Come si chiamava? Dee, giusto?» «John Dee...», l'imperatore Rodolfo sembrava perso nel ricordo. «Sì, si presentò alla mia corte proclamando che una visione gli aveva predetto che avrei dovuto avviare una riforma oppure Dio mi avrebbe messo un piede sul petto e mi avrebbe schiacciato». «Che impudenza!». «Era solo una tattica; un messaggio da parte della sua regina di resistere alla dominazione cattolica. In cambio, mi promise la Pietra filosofale. Ma io riconosco un ciarlatano quando ne vedo uno. E quando ha fallito nel suo compito l'ho incarcerato». «Infatti, Vostra Maestà. Allora potrebbe interessarvi sapere che il suo ambiguo leccapiedi sensitivo, quel falsario con l'orecchino, è tornato in questa grandiosa città». «Edward Kelley è a Praga? Senza Dee?» «Per quanto ne so, i due non sono più in contatto». «E perché mai?» «Sembra che una sera, mentre scrutavano la sfera di cristallo, Kelley abbia convenientemente iniziato un contatto medianico con un angelo, anche se a dire il vero somigliava più a un demonio, a quanto si racconta. Questo angelo avrebbe detto a Kelley di suggerire a Dee che avrebbero dovuto scambiarsi le mogli». «È un peccato che avrebbe potuto condannare all'inferno le anime di entrambi». «Decisamente. Il fatto curioso è che Dee accettò. Si sa che Jane, sua moglie, disprezzava Kelley, ma lo scambio ebbe luogo e lei rimase incinta. Non si parlano da allora». «Athanatos, sembra che tu non creda a questa intercessione angelica». «Semplice manipolazione, Vostra Maestà. Vi ho già assistito prima. Kelley avrebbe potuto dire a Dee qualsiasi cosa, e Dee gli avrebbe creduto. Adesso Kelley calca di nuovo le vostre strade, portando con sé, per caso o per calcolo, le spie dell'Inquisizione». «La mia città è piena di spie dell'Inquisizione. Cercano quel monaco ri-
belle e arrogante, Bruno, e potrebbero prenderlo. Già accarezzano la sua pira. Ma venite, non siamo qui per fare chiacchiere oziose sui vostri rivali». Athanatos chinò il capo e incontrò lo sguardo di Sirocco attraverso gli spazi vuoti della struttura in legno. Strizzò l'occhio al suo apprendista accennando un sorriso. Il lavoro era compiuto, i suoi rivali non avrebbero frequentato la Torre delle Polveri per un bel po' di tempo. L'imperatore Rodolfo camminò impettito sul palco e allargò le braccia per contenere la visione che aveva davanti. Costruito in solida quercia con tutte le circonvolute ondulazioni di un anfiteatro vitruviano, il Teatro della Memoria di Athanatos era un auditorium semicircolare diviso in sette parti da altrettanti archi, che sostenevano sette sezioni ascendenti sovrapposte. Al posto del pubblico, ognuna delle sette sezioni ospitava dei dipinti: motivi codificati, alcuni tratti dalla mitologia classica, altri dalla vita dell'imperatore. Altre sezioni contenevano cartigli e ninnoli, stemmi e rarità di altro genere. «Questi oggetti, questi mnemonica, permettono a un individuo di starsene qui e raccontare sin nel minimo dettaglio ogni sfaccettatura della vostra vita, Maestà, dettagli che forse avete dimenticato persino voi. Questi oggetti possono essere rimpiazzati per permettere a un individuo di conoscere, ad esempio, ogni dettaglio di qualsiasi opera letteraria». Athanatos guidò lo sguardo dell'imperatore. «I ricordi non sono che una successione di fondali che cambiano. Come un attore che recita la sua parte. Qui, Vostra Maestà, avremmo accesso alla conoscenza dell'intero universo, se lo desiderassimo». L'imperatore era paralizzato. «Per caso, si ispira all'opera di Simonide di Ceo?». Fimonide di Zeo. «Ho letto qualche opera di recente acquisizione. Il mondo dovrebbe essere eternamente grato al fiorentino Cosimo de' Medici per aver salvato tanti antichi manoscritti greci dalle grinfie di quegli spregevoli turchi che hanno osato far breccia nelle mura di Bisanzio. Persino in questo momento quegli indegni animali premono lungo i miei confini. Sembra che il mondo occidentale sia destinato e restare sempre in guerra con questi barbari orientali». Le narici di Athanatos si allargarono per la rabbia. Venire insultato su così tanti piani era molto più di quanto potesse tollerare. E da un uomo che era a malapena in grado di parlare! «Simonide affermava che la distribuzione spaziale aiuta la memoria, Vostra Maestà. Nient'altro».
«E questo è quanto abbiamo qui, no? Vedo che su uno scaffale hai disposto i ritratti dei miei antenati, su un altro ci sono manoscritti e proclami. Aiuti per la memoria. Popolo così affascinante, i Greci». «È gente insopportabile!». La rabbia di Athanatos echeggiò tra le pareti curve del Teatro della Memoria e finì intrappolata dalle mura esterne della Torre delle Polveri. Sirocco rimase in silenzio, badando alla fiammella che, tra alambicchi e storte, ardeva sotto un liquido scuro che schiumava in un piccolo becher di vetro, e osservò Brahe e Keplero trasalire allo scoppio d'ira di Athanatos. Poteva ritenersi fortunato che l'imperatore non l'avesse fatto uccidere. Alzare la voce con il sovrano era di certo segno di pazzia. Tuttavia, l'imperatore, a dispetto della sua ottusa malinconia, reagì con una risata. «Che arroganza! Mi stupisci, Athanatos. Ti prego, dimmi: chi reputi migliore?» «Vostra Maestà, mi considero migliore di qualsiasi Greco». Rodolfo batté le mani, rapito dal divertimento. «Athanatos, potresti vivere mille anni e non diventare mai migliore di un Greco. I Greci onorano il mondo. I turchi lo predano. Noi altri restiamo nel mezzo». Sirocco doveva porre fine alla conversazione. L'apprendista gridò: «Maestro Athanatos, la bevanda è pronta». Nel Teatro della Memoria Athanatos si ricompose. «Con il vostro permesso, Vostra Maestà, cominciamo». Sirocco entrò da una delle cinque soglie e offrì all'imperatore la sua bevanda bollente. L'imperatore fissò il pallido apprendista dalle gote rosate. «Che viso fresco. Che labbra piene». Sirocco rifiutò di incontrare lo sguardo del monarca, tremando nervosamente. Rodolfo sollevò il mento dell'apprendista. «Assaggia». Sirocco portò con deferenza il bicchiere alle labbra e mandò giù un sorso della strana bevanda. Non c'era veleno. «È la vostra amata cioccolata calda, Vostra Maestà. Ho pigiato le fave personalmente tutta la mattina. Vedete, ho le nocche scorticate». L'imperatore prese il bicchiere. «Non ti piace?» «Forse aggiungendo dello zucchero di canna diventerà più gradevole, Vostra Maestà, ma non credo che questa nuova bevanda prenderà mai piede». «Mi auguro di no. È il segreto della mia famiglia».
Athanatos lanciò uno sguardo a Sirocco e l'apprendista si eclissò nuovamente dietro le quinte. L'imperatore alzò il bicchiere con un certo cinismo. «È questo il tuo elisir, Athanatos?» «Il burro estratto dalla fava del cacao non guasta, Vostra Maestà. Contiene una proprietà magica di cui dovremmo avvalerci. Ma il cioccolato caldo non è che un ingranaggio nel meccanismo del mio piano». Attese che l'imperatore iniziasse a bere prima di dirigere con prudenza il suo sguardo verso il ritratto di una donna. «Questa è vostra zia Maria, Vostra Maestà...». «So chi è, santo cielo! Perché mi appendete davanti la miserabile faccia di quella vecchia rugosa? Mi struggo per i miei denti persi ogni volta che la guardo. Li avevo tutti prima di andare in Spagna. Sperava di estirpare ogni idea protestante che io e mio fratello Ernst potessimo aver acquisito a Vienna ospitandoci presso la rigida corte cattolica di Madrid». Athanatos sembrava realmente addolorato per il monarca. «Deve essere stato molto... difficile». «Mi ritrassi nell'oscurità della depressione e scelsi la luce della fantasia. Questa bevanda che avevano riportato dal Nuovo Mondo mi dava sempre conforto. Quando ho lasciato la Spagna ho portato la ricetta con me». Athanatos sospettava che fosse stata piuttosto la bevanda a fargli perdere i denti. Un oggetto argentato luccicò alla luce del sole che penetrava attraverso una delle finestre smerigliate. Gli occhi di Rodolfo si illuminarono di gioia assoluta. «Il mio fioretto!». Balzò in avanti e lo afferrò, fendendo l'aria. «Dopo la sofferenza di Monserrat, quel vecchio monastero decrepito, mio zio Filippo portò me ed Ernst ad Aranjuez, dove abbiamo tirato di scherma tutta l'estate! Non vedevo questa spada da molti anni». Il ricordo lo fece sorridere di cuore, ma la gioia svanì presto. «Quell'estate lo zio Filippo si ammalò gravemente. Fu costretto a letto dalla febbre. Ernst e io andavamo a caccia. Andò tutto bene finché non incontrammo lui...». Athanatos spinse l'imperatore a proseguire con una domanda maliziosa. «Non è stata colpa vostra, era uno squilibrato, no?». L'imperatore si voltò verso lo stregone. «Tu non hai il diritto di parlar male di don Carlos, mio cugino! Quello è un mio privilegio!». «Come volete, Vostra Maestà». Rodolfo ripose con cura l'arma nel suo compartimento. «Dopo che mia
sorella Anna ha sposato lo zio Filippo, sono tornato a Vienna. Ero talmente sopraffatto dalla gioia che non riuscivo a chiudere occhio». «Gli anni spagnoli vi hanno segnato profondamente». «Mio padre disse che ero diventato freddo e distante. Che mostravo un'indole spagnola. Ordinò che io ed Ernst modificassimo il nostro contegno, ma era troppo tardi ormai. Eravamo stati plagiati». Una nuvola nera si addensò sopra il Teatro della Memoria e avvolse i due uomini. L'imperatore ne fu infastidito. «Pensavo di essermi bagnato nelle acque del Lete abbastanza a lungo da allontanare questi ricordi. Non ci pensavo da così tanto tempo. Ed ecco che sgorgano fuori senza preavviso». «Tutta questa memoria, Vostra Maestà, è stata riportata in superficie dal limaccioso letto del Lete grazie solo a un dipinto, un fioretto e una coppa di cioccolata calda». Athanatos fece un passo avanti e, con un gesto della mano, guidò lo sguardo dell'imperatore per tutto l'anfiteatro. «E abbiamo ancora così tanto della vostra vita da esplorare. Eppure questi sono solo alcuni dei ricordi che volevo svelarvi, Vostra Maestà». «Forse i Greci avevano ragione. Forse la vita è più facile se durante il viaggio si guada il fiume dell'oblio. Credi che esista davvero un Lete nell'Ade?» «Vostra Maestà, cosa saremmo senza memoria?». L'imperatore Rodolfo si sorprese commosso dal teatro, tanto potenti erano i ricordi che suscitava in lui. «Ora capisco cosa hai costruito. Ti prego, vai avanti». «Finora abbiamo parlato dei ricordi di questa vita. Ma conservate ricordi ancora più antichi, di vite precedenti, ed è questo l'aspetto che offre l'immortalità». «È una teoria?» «È un fatto. E ve lo proverò». «Ho viaggiato in lungo e in largo, Vostra Maestà, e ho visto molte cose. Ho visto le sorgenti del Nilo». L'imperatore era sbalordito. «Le sorgenti?» «Lì vive una specie di coccodrillo costretto a nascondersi dentro tane scavate in profondità nel terreno senza cibo né acqua per sopravvivere alla lunga e secca estate. Tuttavia, prima di scendere nel sottosuolo procrea e lascia le sue uova in superficie. Ogni anno, senza eccezioni, le uova del coccodrillo si schiudono. E anche senza l'insegnamento di un genitore, la
prima azione dei piccoli è quella di cercare l'oscurità della tana e strisciare verso la salvezza. Alla nascita, Vostra Maestà!». «Senza insegnamenti? Quello non né altro che istinto». Athanatos agitò un dito. «Precisamente. Ma cos'è l'istinto? Nel mondo animale, l'istinto è la memoria. Prendiamo le oche. I piccoli di oca appena usciti dall'uovo nascono con un sapere innato. Se in cielo si muove qualcosa e i piccoli vedono che le ali sono sulla parte posteriore del corpo, sanno che quella è un'oca, e sono salvi. La forma del corpo di un'aquila è simile a quella di un'oca, solo che le ali sono poste sulla parte anteriore, vicino alla testa. Un piccolo d'oca, alla nascita, è in grado di individuare la differenza fra gli uccelli in volo, e se vede un'aquila si nasconde». «Ippocrate sostiene che l'indole degli animali è spontanea. Per ragioni insondabili, tu trovi i Greci spiacevoli, eppure conosci l'opera del medico Galeno del II secolo, o no?» «Infatti, quello è il mio prossimo esempio, Vostra Maestà. Egli fece nascere un capretto tagliando l'utero della madre, in modo che non vedesse mai chi lo aveva generato. Lo mise in una stanza con ciotole di vino, olio, miele, latte, cereali e frutta; come prima cosa il capretto si alzò istintivamente sulle zampe, poi si scrollò di dosso gli umori materni, si grattò e annusò le ciotole. Poi bevve il latte. Una mucca appena nata mangia carne? No. Senza ricevere istruzioni si attacca alla mammella materna prima di camminare sul prato. Noi umani abbiamo un'innata paura di ragni e serpenti che è difficile da controllare. È un istinto antico che è servito alla sopravvivenza. È memoria dei tempi antichi. Ma non è l'unico tipo di memoria che conserviamo». Athanatos indicò all'imperatore un altro ritratto. Guntram il Ricco, 950 a.C, il primo degli Asburgo. L'imperatore Rodolfo esaminò l'immagine, il suo occhio attento studiò ogni sfumatura, ogni deformità. «Vedete il suo mento? Vedete il suo labbro, Vostra Maestà? Non ne conservate voi memoria sul vostro volto? Ciascuno di noi è una mescolanza dei propri antenati, un naso familiare, un sorriso materno, tenuti insieme da un filo saldo. Ma non sono forse, questi, ricordi impressi sulla carne?» «È inevitabile. È nel sangue». «Sì, Vostra Maestà, nel sangue. E immagini cosa accadrebbe se tutto ciò che siete potesse essere trasmesso altrettanto facilmente? Tutti i vostri ricordi di giovinezza, e oltre. Una forma d'immortalità degna degli dèi. Forse persino più alta». L'imperatore si voltò di scatto verso l'alchimista. «Più alta?»
«Considerate questo. Se vi rompeste una gamba così violentemente, Vostra Maestà, da spezzarla e non potesse essere ricomposta, se foste costretto a usare le grucce perché una grande epidemia ha decimato i vostri cortigiani e non fosse rimasto più nessuno per sorreggervi, cerchereste ancora l'immortalità intrappolato in quell'inutile corpo?» «Non ci sarebbe altra alternativa che la morte!». «No, Vostra Maestà, esiste un altro modo. Ditemi, come sarebbe la vita in un corpo virile più nuovo e più giovane? Rinascere, ricominciare da capo, quando il vecchio e grasso guscio è sopravvissuto alla sua utilità? Viviamo attraverso i nostri figli, no?» «Cosa mi stai suggerendo?» «Di non lasciare che il Lete ci faccia dimenticare. Di scorrere avanti con i fiumi prodotti dai nostri lombi, fiumi di Sé che ci trasportano attraverso le generazioni, vivi e pieni di vigore». L'imperatore era davvero scosso da questa teoria, aveva il viso cinereo e le guance ceree e pallide. «E cosa accade all'anima?» «L'anima entra nel corpo al primo respiro del neonato, come sapete. Ma il sangue vi giunge molti mesi prima. Cosa siamo noi se non un insieme di ricordi ed esperienze? Se questi vengono trasferiti in un figlio, alla nascita questi non potrà ospitare una nuova anima, perché il recipiente è già colmo». «Ma cosa accadrà alla mia anima? Se io sono vivo, e lo è pure il figlio che è parte di me, questi sarebbe un'immagine riflessa di me stesso, o sarei proprio io?» «L'anima sarà semplicemente frantumata, e il bambino non ne prenderà che una parte. Alla vostra morte i pezzi si riuniranno e sarete di nuovo uno intero». «Cosa proponi?» «Propongo una prova, Vostra Maestà, una prova per confermare che quanto ho detto è vero. Propongo di prendere una concubina, scelta da voi personalmente. Io e voi faremo un discorso. Mi rivelerete alcune informazioni di cui voi solo siete a conoscenza. Non metteremo nulla per iscritto, e non sarà presente nessuno al momento in cui me le direte. A entrambi verrà richiesto uno sforzo di memoria. Poi, io giacerò con questa concubina e avremo un figlio. Quando mio figlio raggiungerà l'età di cinque anni, gli somministrerete il mio elisir, e quando gli passerà la febbre lo metterete alla prova, lo interrogherete facendogli domande sull'argomento che voi e io
abbiamo discusso, e la sua anima si rivelerà». «Se voi siete il padre, potreste averlo addestrato». «Affatto, perché non dovrà essere allevato da me». «Lo bandirete?» «No, Vostra Maestà, propongo che voi bandiate me; garantendomi i mezzi per vivere una vita confortevole e continuare il mio lavoro. Ma il bambino deve rimanere assieme a voi. E quando i tempi saranno maturi per il raccolto, mi richiamerete e farete la vostra prova». «E che accadrà se avete torto?» «Allora mi ucciderete. Se vi avrò tradito non potrà esserci altra punizione». «E se avete ragione?» «La decisione spetterà a voi, naturalmente, Vostra Maestà. Se ho ragione e voi mi ucciderete, vivrò nel corpo della mia progenie. Ma se ho ragione e mi lascerete vivere, potrò darvi un erede, che non sarà altri che voi stesso, rinato». LA MAGIA DELL'INGANNO Era la cosa peggiore che potesse accadere. Athanatos avanzava a passo di marcia verso la taverna, per andare a pavoneggiarsi tra i suoi rivali, ma Sirocco aveva ancora del lavoro da fare. L'apprendista stava correndo a perdifiato lungo la Viuzza d'Oro, ma era così spaventato che si rese necessaria una breve sosta nell'oscurità. Vomitò il pasto serale che finì nei canali di scolo ghiacciati fra i ciottoli della strada. Athanatos aveva giurato solennemente di non rivelare mai il suo segreto all'imperatore, per paura di allertare Cyclades, tuttavia lo aveva fatto, dopo aver pianificato e preparato tutto a lungo, e aveva tenuto completamente all'oscuro il suo apprendista, distratto dal lavoro sul teatro, circa le proprie intenzioni. Era un inganno magistrale. Mentre gli orafi cesellavano le loro creazioni davanti agli sportelli delle fornaci, le dita incurvate, annerite e artigliate, come quelle dei coccodrilli; mentre l'odore del legno che bruciava si diffondeva di casa in casa lungo la via, lo scintillio dei loro smalti illuminava le finestre a vetri foderate di carta oleata con fiori rosso rubedo e giallo citrinas; mentre il turbinio del loro operato partoriva creazioni più nere dei corvi, più bianche dei cigni e più rosse del sangue, Sirocco barcollò fino alla dimora di Athanatos e si
barricò dentro. L'imperatore non smetteva mai di chiedergli delle risposte, e Sirocco era puntualmente e abilmente riuscito a non fornirgliene nemmeno una. L'apprendista affermava di aver messo tutto a soqquadro, ruote, sospensioni cardaniche, cilindri e ingranaggi: i rotoli di pergamena gli si mostravano bianchi in maniera insolente e, nonostante i calderoni distillassero le loro sostanze mortifere, giurava di non essere riuscito a trovare nulla che potesse soddisfare le richieste dell'imperatore. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, i segreti di Athanatos erano rimasti quindi assolutamente celati, disperatamente inaccessibili. Ma il gioco era finito. Si udì il rumore di stivali in marcia che si avvicinavano. Bussarono con forza alla pesante porta di quercia e subito gridarono il nome di Sirocco. «Vieni fuori! L'imperatore Rodolfo aspetta!». L'apprendista e spia scrutò attraverso il velo di ghiaccio che copriva il vetro della finestra per vedere i visi distorti degli uomini che erano venuti a prenderlo. «La presunzione dell'uomo è quella di credere che troverà un modo di sconfiggere la morte. Sfuggire all'orologio finito, spostare indietro le lancette e ritardare l'ultimo rintocco della campana. Dimmi, Sirocco, qual è la presunzione di una donna?». Sirocco se ne stava in piedi, nervoso, nella camera da letto dell'imperatore, tremando come un fuscello mentre lui si trastullava con uno degli orologi ornati di gioielli posti su varie superfici. «Sei venuto da me un anno prima dell'arrivo di Athanatos, giusto? Mi hai detto di aspettarmi il sol niger, l'anima nera dell'alchimia, un Lucifero, un principe dell'Oriente; un uomo dagli spregevoli trucchi risorto innumerevoli volte dalla terra infestata di vermi. Mi hai detto di non fidarmi di lui, e mi hai raccontato la storia di una lotta eterna tra un malvagio uomo orientale e un valoroso Greco di nome Cyclades». L'imperatore si trascinò verso di lui con un coltello in pugno. Afferrò Sirocco e gli strappò il raffinato farsetto con furia selvaggia, tagliando le fasciature dalle quali, con sua soddisfazione, spuntarono due seni rotondi che sotto quegli abiti maschili svelavano una donna. «Un eroe che rinasce in continuazione? Dimmi, strega, perché Cyclades dovrebbe tornare nel corpo di una fragile donna?». Lacrime amare bagnarono il viso della ragazza, davanti a tutti. «Forse sono un giocattolo degli dèi, uno scherzo crudele durato più di loro. Tutto
quello che so è che il tempo gira in tondo attorno a me e mi offre in dono un'inesorabile pazzia. Vi ho detto di essere Cyclades, e Athanatos è come un'idra dalle molte teste, quando una vita ha esaurito le sue risorse lui si sposta verso la successiva, facendo rivivere d'un colpo la sua stirpe. Ma io non posso scoprire i segreti di Athanatos perché lui non ne lascia traccia scritta. Sono sotto chiave nel profondo della sua mente, dove io non posso arrivare». «Oh, ma tu puoi. Sei il recipiente perfetto». Cyclades si strinse i seni disperata. «Non potete volere questo!». L'imperatore agitò il coltello. «Mi hai promesso il suo segreto per la vita eterna e non sei riuscita a ottenerlo! Ora lui me lo offre deliberatamente chiedendo in pegno niente più che una concubina!». «La commistione delle nostre due stirpi, la sua e la mia, è esattamente quello che vuole! Se il figlio della nostra unione rivelasse i suoi segreti a voi, di certo rivelerebbe a lui il mio!». «Allora avresti dovuto pensarci quando hai deciso di tornare in questo mondo sublunare usando come arma l'astuzia femminile. Sei un'inetta o una bugiarda». «Non darò una progenie a quell'infame stregone». «Non hai scelta, mia cara. Questo è un accordo siglato con il sangue. O dovrei piuttosto gettarti ai miei leoni? Guardie!». Le guardie si scagliarono in avanti e afferrarono Cyclades ciascuna per un braccio, mentre l'imperatore brindava alla sua dipartita. «All'immortalità. Al tempo tenuto fermo dal filo che non conosce fine. Portatela ad Athanatos. È la sua prostituta». Come consolare l'angosciante consapevolezza che, pur continuando a vivere, la vera comprensione delle cose era possibile solamente guardandosi indietro? In questo modo, nessuno avrebbe mai potuto sapere dove stava andando. E accontentarsi, quindi, di imbattersi accidentalmente nelle cose. Gene strinse il pugnale e seppe dove l'aveva già visto prima di allora. La sua delicata elsa spuntava dal fodero elaborato, mentre la lama affilata rimaneva nascosta e protetta al suo interno. Questi maledetti ricordi erano un problema. Gli parlavano da molteplici prospettive, con tante voci, tutte sue. Eravamo una ragazza. Vedeva la ragazza attraverso gli occhi di Athanatos. Eppure poteva ve-
dere Athanatos attraverso gli occhi della ragazza. Aveva in sé la memoria di una donna. Cosa che Athanatos riteneva impossibile nel suo disegno di immortalità. È una contraddizione... È una vita di contraddizioni... Non siamo sicuri che tu sia pronto per questo... «Silenzio!». Mentre riponeva il pugnale, cadde sul pavimento un pezzetto di carta appallottolato. Non farlo... Ci guardano... Fai attenzione... Ci osservano, nutrono oscuri propositi... Armeggiò con il pugnale e lo lasciò cadere sul tappeto. Fece un passo indietro, sbirciò la striscia di carta e se la nascose nella mano quando si chinò per recuperare l'arma. Furbo... Ben fatto... La tenne nascosta fra le dita e tornò a esaminare gli altri manufatti custoditi nella sala. Lo fece per una mezz'ora circa prima di tornare alla stanza da letto e prepararsi a fare una doccia. Colse l'occasione per leggere cosa c'era scritto sulla striscia solo dopo aver appeso l'accappatoio a un gancio. Una serie di numeri. Era il codice di una serratura? Ma la porta l'aveva già aperta. Un'altra porta? Forse poteva fuggire da quella prigione. Lo aveva fatto una volta, forse poteva farlo ancora. Un conto bancario? Oppure un numero di telefono? Poteva essere ognuna di quelle cose: le cifre erano scritte lì, nella sua mano. «Uno di voi sa più di quel che dice». Sì, ma non posso parlare... «Perché no?». Mi hai fatto giurare il silenzio... Perché aveva scelto di lasciare a se stesso un messaggio così criptico? Forse per metterlo in guardia? Era un'ipotesi sin troppo ovvia. Doveva sforzarsi di cercare una risposta più profonda. Ricordava il momento della nascita, l'agonia, le urla. E il coltello alla gola al momento del parto. Cyclades? Athanatos? Chi siamo dei due?
LIBRO TERZO «Una vita, senza ricerche, non è degna di essere vissuta» Socrate (in Platone, Apologia di Socrate) CACCIA ALL'UOMO Porter atterrò al JFK alle 2:30 del mattino con il volo Air France 8994. Nonostante la calca, transitare in quel terminal era un'esperienza di vuota solitudine. Era felice di aver preso un volo con scalo a Parigi. Chiunque arrivasse con un volo mediorientale, indipendentemente dal colore della pelle, sembrava impiegare più tempo degli altri per il controllo passaporti. Aveva una valigia a rotelle. Intontito da un viaggio così lungo, con le orecchie doloranti che gli rimbombavano ancora, Porter trascinò il bagaglio dietro di sé e si unì alla coda fuori dall'aeroporto. Si rivolsero a lui tre o quattro persone, ognuna di razza diversa, dicendogli qualcosa con marcati accenti che lui non riuscì a capire. Era così assuefatto all'inflessione libanese che l'inglese pronunciato con qualsiasi altro accento gli risultava incomprensibile. Quarantacinque dollari più le tasse, tariffa standard di un taxi per Manhattan, gli consentirono di mettersi in viaggio attraverso le strade del Queens. La città sembrava illuminata da migliaia di piccole lucine, come quelle che si accendono la notte per i bambini che hanno paura del buio. Per essere una città che non dormiva mai, Manhattan sembrava quanto meno sonnecchiare, e Porter ne fu un po' confortato. Sulla Settima Avenue, di fronte alla Penn Station, il tassista lo lasciò davanti al Pennsylvania Hotel. Prese la sua valigia e la portò oltre le consumate porte di vetro dell'ingresso. Fu accolto da uno strano suono proveniente dall'altro capo del grande atrio deserto e che ricordava il tintinnare di un centinaio di triangoli da orchestra. E in mezzo a quell'arredo d'ottone macchiato e ammaccato, trovò due uomini su una scala, vicino al bancone della reception, che pulivano un colossale lampadario a bracci, un lungo ciondolo di cristallo alla volta. Porter prese una stanza, la più economica che avevano, si fece dare le chiavi e si avviò nel suo viaggio solitario verso il nono piano. I corridoi dipinti di verde erano i più larghi che avesse mai visto; la stanza era stretta e malridotta, ma perfettamente pulita e molto pratica. Poteva scegliere fra
due letti abbondanti, entrambi appoggiati a una parete. Il bagno era un buco e le mattonelle dei singolari, piccoli esagoni che non fecero che accentuare il suo senso di spossatezza. Un tempo doveva essere stato un gran bell'albergo, un luogo sfarzoso. Ma ora era scricchiolante e appassito, una carcassa. Le sue stanze erano come foglie secche che cadevano una a una. Allontanò le scarpe con un calcio e scartò i suoi quaderni sullo stretto scrittoio di legno. Armato di una piccola guida grigia di New York che aveva comprato all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi - un libretto curioso, con una cartina ripiegata e una bussola di plastica - si accinse ad imbastire un piano d'azione. Nei cinque distretti amministrativi di New York vivevano e lavoravano più di sette milioni di persone che parlavano otto lingue diverse. La guida lo informava cordialmente che lì c'erano più italiani che a Roma, più irlandesi che a Dublino e più ebrei che a Gerusalemme, ma questo non lo scoraggiò. Solo durante il lungo viaggio, e dopo un'attenta analisi della fotografia sul giornale di Aisha, Porter aveva colto appieno tutte le implicazioni di quel che lei aveva cercato di dirgli. Quella fotografia racchiudeva molte sorprese, e lui aveva preso zelanti appunti sull'articolo d'accompagnamento. Conteneva parecchie informazioni, nomi e luoghi, ma niente di preciso circa quei due uomini, né su chi fosse incaricato dell'indagine. Partendo dal luogo in cui tutto era iniziato, il Metropolitan Museum of Art, avrebbe potuto trovare qualcuno degli indizi che cercava. Ma gli occorreva qualcosa di più che semplici indizi, aveva bisogno di risposte. Conosceva poco quella città, tranne quel che aveva visto nei film o al telegiornale. Non aveva la benché minima idea di come funzionasse. Aveva bisogno di una lista dettagliata di tutti i distretti di polizia di Manhattan e forse uno di questi avrebbe potuto indicargli la giusta direzione da seguire. E poi gli altri giornali. Forse avrebbero potuto essergli d'aiuto. Aprì la mappa e tracciò un cerchio tra la Quarantaduesima e la Quinta: la biblioteca pubblica di New York. La colazione non fu da Tiffany, ma al Dunkin' Donuts di fianco all'ingresso del Pennsylvania, e gli fu servita da una graziosa ragazza russa di nome Irina. Non sarebbe certamente stata una sua prima scelta, in effetti non era una scelta, ma senza punti di riferimento le opzioni su quel tratto di strada sembravano essere sorprendentemente poche. Decise di mangiare
durante la passeggiata, e la pioggerellina fu una variante ben accetta rispetto alle aride colline cui era abituato. Alla luce del giorno, New York era un'altra città. Il deprimente caos urbano lo sopraffece, inondando di vertigini i suoi sensi incontaminati. Folte maree di pedoni e veicoli fluivano e rifluivano secondo i capricci di incostanti semafori. Quando le ondate convergevano, il tutto si trasformava in una danza di api, corpi e veicoli che comunicavano tramite movimenti muti, schemi e ritmi. Lo sguardo benevolo degli impassibili leoni ai piedi della biblioteca pubblica di New York gli trasmise una sensazione di sollievo. Porter camminò fino alla Sala Astor al primo piano, dove depositò l'impermeabile al guardaroba e chiese informazioni. Stanza 108. Passando sotto la cattedrale di archi rivestiti in marmo, si diresse lungo il corridoio che portava alla Sala di lettura periodici recenti. I giornali, si era informato, generalmente venivano conservati lì dalle due alle quattro settimane. Porter ebbe il sospetto che gran parte di ciò che gli occorreva fosse proprio lì, davanti a lui. Cominciò a raggruppare quel che aveva trovato, organizzando il materiale su un tavolo in pile settimanali. Le ultime sette uscite del «New York Post» e del «Daily News». L'equivalente di una settimana del «New York Times». Era poco probabile che il «Wall Street Journal» si fosse occupato della storia, e non tenne in conto nemmeno l'«Observer» e il «Village Voice». Ma c'erano altre riviste che potevano rivelarsi utili, pubblicazioni locali che non aveva mai sentito nominare ma che potevano contenere qualcuno dei dettagli mancanti. Il suo approccio fu sistematico. Una pila alla volta, esaminò minuziosamente anche la prima pagina, sebbene dubitasse che la storia avesse avuto una tale rilevanza. La sua prima scoperta era nascosta all'undicesima pagina: un ritratto del criminale fatto da un vignettista. Lentamente, ma con metodo, assemblò un quadro più dettagliato dei luoghi e dei fatti, finché trovò il nome dell'uomo che stava cercando. Non restava che rintracciarlo. Sotto i soffitti dipinti della tetra Sala centrale di lettura Rose, all'ultimo piano, Porter sfruttò ogni minuto della mezz'ora concessagli per usare uno dei computer collegati alla rete. Trovò quel che cercava con sorprendente rapidità, anche se gli ci volle un po' più di tempo per passare al setaccio la lunga lista di indirizzi e numeri telefonici. Stampò le mappe e gli ulteriori dettagli.
Al piano di sotto, Porter tirò fuori la sua riserva di quarti di dollaro e alzò la cornetta del telefono pubblico. «Quarto distretto». «Sì. Potrei parlare con il detective James North?» «Chi lo desidera?» «Mi chiamo Porter. Dottor William Porter». Gli era difficile contenere l'agitazione. Se la donna dall'altro capo si era accorta del suo stato d'animo, di certo non lo diede a vedere. «Qual è il motivo della chiamata?» «Può domandargli se gli incubi sono già iniziati?». H-R-S-H Mercoledì, 7:21. Il suo appartamento era una fornace. In ogni minuto trascorso fra le mura domestiche aveva sentito quel senso di inevitabile putrefazione avanzare sempre più in fondo nelle ossa, come se il suo destino fosse una spada che attendeva solo di tagliarlo in due; era in bilico su quel precipizio, attanagliato dalla paura. Dove aveva la testa? E perché aveva disegnato un toro con i suoi stessi escrementi? Sentiva quel feroce respiro caldo sulla pelle, e non osava incontrare il suo sguardo accusatorio. North si avvolse in un cappotto invernale e si trascinò in mezzo alla nebbia, invidiando quelli che ancora potevano godersi il loro sonno tranquillo. Aveva parcheggiato quasi quattro isolati più in là: i bravi ragazzi della strada dicevano che era imprudente fare altrimenti. Non gli era mai piaciuto usare le auto civetta per tornare a casa a meno che non vi fosse costretto: erano così facilmente riconoscibili. Era come lanciare un razzo di segnalazione per comunicare alla folla che fra loro c'era un poliziotto. Rendeva la vita più complicata e pericolosa. Il sedile del guidatore era freddo e umido. Accese il riscaldamento e si fregò le mani sopra la bocchetta. Le strade erano deserte quando sbucò su McGinnis Boulevard, sarebbe arrivato per tempo al Williamsburg Bridge, se fosse stato diretto lì. Ma quel giorno non sarebbe andato in città. Aveva da fare altrove. Svoltò sulla I-278 in direzione nord.
8:13. Era sulla Centottantasettesima Est, a ovest di Belmont Avenue, dove qualcuno del quarantottesimo distretto gli aveva raccomandato una piccola bodega con un posteggio più o meno sorvegliato. Se avesse parcheggiato lì, c'era la possibilità di avere ancora un'auto con cui tornare a casa una volta finito. Oh, benvenuto nel South Bronx. E come disse Tim Dog una volta: «Fanculo Compton». Al di là della nostalgica patina dei famosi anni Settanta, durante i quali il South Bronx si presentava come Berlino nel dopoguerra, c'era un perverso senso di conforto nel sapere che alcuni proprietari erano ancora riluttanti a far esplodere i loro stessi locali per i soldi dell'assicurazione. Una carcassa bruciata qui, pezzi di lamiera ondulata là, tutto in attesa di crollare, castelli di carte tra mani nuove, distribuite da mazzi appena scartati, villette unifamiliari a schiera appena costruite, generosamente innaffiate con abbondanza di auto abbandonate, cartelli arrabbiati e occhi tristi. Una vista che innesca l'allarme. Fanculo Compton. North bussò un'altra volta alla sudicia porta dell'appartamento 2C. Sentì qualcuno che agganciava il chiavistello. La porta di legno scuro si aprì cigolando. «Che vuoi?» «Samuel Bailey?». Esitazione. «Non lo so». North cercò a tastoni con la mano sinistra il suo distintivo. «Signore, ho il sospetto che sappiate se siete o no il signor Bailey». Tutto quello che riusciva a vedere erano capelli grigi scompigliati e un naso butterato e graffiato. «Mi scusi se è troppo presto». «Sei pazzo?». North non rispose. Onestamente era una domanda alla quale lui stesso non avrebbe saputo rispondere. «Sei del fisco? Non parlo con te se sei del fisco». «Signore, non sono del fisco. Sono della polizia di New York. Ho provato a telefonare...». «Non rispondo al telefono». «Mi bastano cinque minuti del suo tempo». «Di che si tratta?». North combatté la sua frustrazione. «Signore, possiamo parlarne nel suo appartamento?»
«Sono in qualche guaio?». Questo era da vedere. «Mi è stato segnalato come esperto. Pare che le antiche attrezzature mediche siano una sua specialità». «Può essere. Segnalato, eh?». «Voglio chiederle un consiglio». North tirò fuori la fotografia della siringa antica e la tenne in alto davanti alla porta perché Bailey potesse vederla. «Le consulenze si pagano, sai?». Ci siamo. «Quanto vuole?». Vide Bailey leccarsi le labbra. «Io, ehm, non mangio da giorni. Un panino? E magari qualcosa con cui buttarlo giù. Un buon bourbon forte». C'è un vecchio detto: in America è impossibile morire di fame. È una bugia. È assolutamente possibile, basta lavorarci un po'. Samuel Bailey afferrò il panino e se lo strinse al petto come se qualcuno potesse portarglielo via, e guardò con sdegno la lattina di soda. Si avviò fra i mucchi di rottami in metallo grigio e le squallide cianfrusaglie che costituivano le sue giacenze di magazzino. A North quell'appartamento faceva accapponare la pelle. Il puzzo di carogna e urina stantia era opprimente, permeava tutto. Nel minuscolo salotto non c'era abbastanza spazio per ricavare una cucina, così da un lato c'era un semplice bancone con sopra un fornello. Si accorse che Bailey non cucinava da settimane, la ceramica intorno alle piastrelle era macchiata da un'untuosa e spessa crosta marrone indurita. Bailey trovò quel che cercava e raccolse in fretta un pesante elenco. Sedette su una pila di riviste e scorse la lista tenendo la fotografia a portata di mano. «È in condizioni eccellenti. Appartiene a qualcuno?». Era in boxer e aveva un accappatoio sbrindellato che si aprì all'altezza del cavallo, presentando una visione decisamente sgradita. «A meno che non riusciamo a restituirla al legittimo proprietario, resterà in mio possesso fino a che non ci sarà un'asta». «Fattura eccezionale. Guarnizioni in argento autentico. Misure del volume incise a mano su cilindro di vetro. Prodotta intorno al 1870. È una Ferguson, di Londra». «Ne ha viste parecchie? Intendo, dove si trovano queste cose?» «Di questi tempi basta andare su eBay». La zona non sbarbata del labbro inferiore di Bailey tremava, in accordo con il valore che evidentemente as-
segnava a quell'oggetto. «Su eBay si può essere rintracciati. E se uno volesse evitarlo?» «Brimfield». «Chi è?». North allungò la mano per prendere il taccuino. Non era nella tasca del cappotto. «Brimfield, Massachusetts: la più grande esposizione all'aperto della zona. Cinquemila antiquari da tutto il Paese. Vuoi disfarti o prendere qualcosa senza che nessuno si ricordi chi sei? Brimfield è il posto giusto per te». Non era in nessuna delle due tasche. «Conosce la strada?» «Certo, ma adesso non c'è nessuno. La manifestazione dura cinque giorni e si tiene ogni maggio, luglio e settembre. L'incontro di settembre non sarà che fra tre settimane». Vicolo cieco, dimenticare. North riuscì a trovare una penna; dov'è il mio taccuino? Una penna e una copia della fotografia di Gene ricavata dai nastri della sorveglianza: la mostrò a Bailey. «Ha mai visto questo tizio prima? Mai fatto affari con luì?». Bailey distolse per un attimo lo sguardo da quel che stava facendo. Socchiuse le palpebre per dare un'occhiata concentrata, ma alla fine scosse la testa. «Mi spiace». North la girò e prese appunti sul retro. «Che mi dice delle lettere H-R-SH?» «Ci stavo arrivando». Bailey sfogliò diverse pagine del suo elenco con stizzita irritazione. «Interessante». Tirò giù un altro elenco dallo scaffale. C'erano pagine e pagine di nomi e numeri telefonici. Alcuni erano sottolineati con una spessa linea d'inchiostro. Le pagine erano ingiallite dal tempo. North poteva solo sperare che le informazioni fossero aggiornate. «H-R-S-H. Hudson River State Hospital. È un manicomio». North prese nota. «Dice anche dov'è?» «Dutchess County». «È ancora lì?» «Meglio. È un museo». Un museo? Ha ragione Sheppard? North provò a immaginare la scena. Gene visita il museo, ruba la siringa, magari qualche altro oggetto. Cosa fa dopo? Viene in città e cerca un ricettatore? «Ha mai sentito di qualche altro oggetto proveniente da quel posto e finito in vendita in città?» «No. Ma sai che conosco quel posto? Hanno un prete che ancora pratica
esorcismi sui malati». «Pensavo avesse detto che è un museo». «La parte vecchia lo è. Ho fatto affari con loro anni fa. Ma un'ala dell'edificio è ancora attiva. Si chiama Hudson River Psychiatric Center». Rivedere la scena: dunque Gene è un paziente? North balzò in piedi, con grande sorpresa di Bailey. «Tutto qui?» «Grazie per il suo tempo». Bailey gli indicò la porta. «Detective, se non ti spiace che te lo dica, sembri malato. Intendo molto malato. Hai mai pensato di farsi prescrivere qualcosa?». North non apprezzò il consiglio, ma tenne la risposta per sé. Aveva la testa altrove: un prete che ancora pratica esorcismi? Sono la maledizione di Satana. 9:55. Tirò fuori il suo atlante stradale dal cruscotto e scorse l'indice. Dutchess County era a nord. Partendo subito poteva essere lì per l'ora di pranzo. Dunque Gene veniva da lì? Aveva fatto tutta quella strada con la precisa intenzione di fare quello che aveva fatto? Se sì, chi c'era in auto con lui? Avevano fatto il viaggio insieme? Avrebbe chiamato l'ospedale lungo la strada e chiesto a Nancy di scovargli il numero dell'ufficio dello sceriffo più vicino. Forse avevano qualche notizia del furto. Gettò l'atlante sul sedile del passeggero. Lì accanto giaceva aperto il taccuino nero. Maledisse la sua memoria confusa e affondò il taccuino nella tasca del cappotto prima di avviare il motore e fare bruscamente inversione. Un lampo in movimento attraversò gli specchietti. Beeeeeeeeeep! Schiacciò il freno mentre una Toyota rosso chiaro riuscì per miracolo a evitare lo scontro e il ciclista che stava passando in mezzo a loro. Da parte sua il ciclista si limitò a proseguire, ignaro di quanto fosse stato vicino alla morte. North era scosso. Idiota. Osservò la bicicletta scomparire e istintivamente si strofinò il ginocchio finché un dolore acuto gli penetrò il cranio. Si cullò la testa fra le mani stanche mentre dietro agli occhi gli esplodevano i lampi di un dolore allucinante. Sentiva i nervi che gli andavano a fuoco, una tormentosa, cocente catena che gli si allungava dentro fin dietro la testa.
Un taxi giallo diede un rabbioso colpo di clacson. Poi un vuoto. Il cofano di una scintillante berlina metallizzata. L'autista al di là del parabrezza. Una donna mozzafiato, con lunghi capelli ramati e un paio d'occhiali da sole alla moda. North si scrollò quei ricordi di dosso e si aggrappò al volante con il respiro irregolare e affannato. La donna che spruzzava il profumo a Gene nel museo. Le aveva già viste prima. L'auto. La donna. Fuori da Central Park. Erano la stessa persona? Era stato un caso? O aveva cercato di farlo fuori intenzionalmente? Il suo Nextel squillò. North impiegò un po' a rispondere, l'intuizione gli si stava già sbriciolando fra le mani. «North». La voce, calma, esitò. Il luogotenente Hyland sospirò come se le parole proprio non volessero uscirgli di bocca. Il tono era serio. «Hanno chiamato da Central Park. Manny Siverio se n'è andato». Così gli ho mentito. Manny Siverio, l'agente che aveva cercato di salvare, il cui sangue era colato sopra le scale del museo. La violenza di quel colpo fu terribile. «Quando?» «Un paio d'ore fa». North restò calmo. A quel punto le regole erano cambiate: non più l'inseguimento di un semplice squilibrato, ma una caccia all'assassino. DD-5 10:59. Le pareti del piccolo ufficio di Hyland erano fatte di legno e vetro. Come in un acquario, tutto ciò che era all'esterno appariva ingrandito: il mare di scrivanie d'acciaio ammaccate sui tre lati e tutte le cianfrusaglie di quell'ufficio, in cui risuonava forte lo sciabordio delle indagini. E non c'era modo di nascondersi da nessuna parte. Un assalto che North non poté eludere. Si sentiva sotto assedio. «Il funerale è sabato. Ci vai?» «Non lo so. Non lo conoscevo». «Hai cercato di salvargli la vita». «Ma non ci sono riuscito».
Hyland era seduto dietro la sua scrivania, d'umore instabile come la cigolante macchina da scrivere che stava usando, e batteva sui tasti con poderosi colpi martellanti. Non alzò lo sguardo. «Credo che dovresti». North rimase in silenzio. Il luogotenente non gli stava dando un ordine, altrimenti North non lo avrebbe neppure ascoltato. Dirigere un ufficio era un lavoro politico e quella che gli stava offrendo era, appunto, una soluzione politica. Spettava a North decidere se accettarla o meno. Il luogotenente sfogliò la cartellina lentamente, come una segretaria artritica. La sua figura sottile e l'altezza inferiore alla media avevano di certo giocato a suo favore nello sfocato e lontano passato, quando lavorava come vice. Ma quell'aria innocente non era che una maschera. In realtà era un uomo acuto e meticoloso. «Il DOT7 ti ha già informato di quante telecamere costeggiavano la strada verso il museo?» «Il DOT dice che il Centro Gestione del Traffico ha solo ottantasei telecamere in giro per la città; stanno mettendo insieme i nastri, ma onestamente mi meraviglierei se riuscissero a tirarne fuori più di un paio». «Speri in un colpo di fortuna?» «Se così non sarà, tornerò sul posto e controllerò le telecamere dei negozi con vista sulla strada, e i bancomat». Hyland non gradì l'idea. «È un sacco di lavoro». North rispose con un certa reticenza. «Immagino che mi basterebbero le telecamere che inquadrano l'angolo fra l'Ottantunesima Ovest e Central Park, e quelle dentro e intorno a Hell's Kitchen». «Hai qualcosa su marca e modello?» Ma che succede? «Era grigio metallizzato. La scientifica sta esaminando la traccia e i segni di pneumatico». Hyland sfogliò di nuovo la documentazione sul caso. Pagina dopo pagina, scorse i fogli con le annotazioni a penna e quelli ordinatamente stampati. «Qui non ne parla». «L'ho saputo solo ieri». «Ho bisogno del DD-5». Un DD-5? Erano le note in cui il detective elencava dettagliatamente i suoi progressi nel caso, un'integrazione del sessantuno. Non è passata neanche una settimana. «Dice sul serio?» «Non si può stilare un DD-5 una volta ogni sei mesi in un caso di omicidio, specialmente se si tratta di un poliziotto». 7
Department of Transportation: Dipartimento dei trasporti.
Nubi di burrasca oscurarono la mente di North. Sistemiamo questa faccenda. «Perché mi sta dicendo come devo fare il mio lavoro?» «C'è una squadra intera qui fuori. Usala. Lavorare da solo su un'indagine per omicidio può essere svantaggioso». «È una minaccia?» «È un dato di fatto. Se non posso essere certo che sei la persona giusta, il caso verrà riassegnato, il tuo vecchio saprebbe dirti come vanno queste cose. Il DD-5, domani mattina». Il mio vecchio? Quelle erano tenebre da cui davvero non era possibile nascondersi. «Ho parlato con Martinez». «Che c'entra lui?» «Vuole aiutarti». «Ha già un compagno». «Conosceva Manny. È pronto a fare gli straordinari, a colmare le lacune. Non lavorerete in coppia, ma ti guarderà le spalle. È un buon affare». North si alzò in piedi. «Per chi?». 11:37. Nancy Montgomery consegnò a North i suoi fax, i messaggi telefonici, le lettere e i bollettini. «Ash ha richiamato dalla scientifica. Dice che stanno esaminando la bottiglia di profumo. La mountain bike che hai preso in prestito è già stata restituita al proprietario». «Ti ha detto quanto tempo fa?» «Nnnno». North sospirò. «Devo rintracciare quella bicicletta». «Posso occuparmene io». Vincent Martinez non aveva ancora il distintivo. Aveva ventisei anni ed era detective da tre. Era sincerità quella che North vedeva in lui? Se sì, era davvero una strana sensazione. «Sicuro?». Martinez era qualche scrivania più in là. Con il suo completo a buon mercato ma ben tenuto se ne stava in piedi accanto a una lavagna bianca su cui aveva attaccato una mappa della città e una fotografia di Gene servendosi del nastro adesivo. Stava ricostruendo ogni passaggio, esaminando ogni movimento, segnandolo in dettaglio. «Posso farlo, voglio farlo. Non mi costa niente». North acconsentì. «Grazie». Nancy non aveva finito. «Hai una visita, comunque».
Questa è nuova. «Chi è?» «Uno psichiatra. Ti ha lasciato un mucchio di messaggi telefonici. Alla fine si è stancato ed è venuto qui». Uno psichiatra? Ebbe un fremito. Bailey aveva contattato il museo? «Che cosa vuole?». Nancy indicò il fascio di post-it che aveva già in mano. North li sfogliò. «Gli incubi sono già iniziati?». Avvertì un colpo alla bocca dello stomaco. Che razza di messaggio è questo? Scosso, balbettò: «Ha un nome?» «Puoi chiederlo a lui, è all'entrata». «Perché non mandi me a chiederglielo?». Martinez si stava già affrettando. «Tu sei il responsabile, non dovrebbe essere così facile arrivare a te. Lascialo friggere un po'». North non era entusiasta. «Dobbiamo parlare». «E allora parleremo». Martinez si diresse all'entrata. North osservò quell'uomo sedersi ed estrarre con calma da una consunta valigetta di pelle un unico foglio di carta: la sua vita in duecento parole. Lo passò al detective della omicidi con mani che tradivano un certo nervosismo. A North non sembrava un viso conosciuto, nemmeno quando riuscì a confrontarlo con i ricordi della sua mente tormentata, ma lui sapeva degli incubi e questo lo rendeva intimo a sufficienza. Martinez si mise a fianco della scrivania di North e lesse direttamente dal curriculum. «William Porter. Anni sessantadue». North prese il foglio e lesse da solo. Porter era inglese. Sosteneva di essere stato studente in medicina allo University College di Londra e di aver fatto un dottorato in psichiatria a Oxford. Fino a pochissimo tempo prima aveva ricevuto abbondanti fondi di ricerca da un'organizzazione chiamata DOPS, Divisione Studi sulla Personalità, a sua volta dipendente dal Dipartimento di Medicina Psichiatrica dell'Università della Virginia. «Credi che sia tutto vero?» «Chiunque può redigere un curriculum». «Sono iniziati gli incubi? Che significa? Ti dice qualcosa?». Gli incubi. North non si tradì. «Magari è solo uno che ci prova. Ha letto qualcosa sul giornale. Vuoi che gliela faccia fare sotto dallo spavento e lo cacci via?».
North sedette pesantemente alla sua scrivania. «Me ne occuperò io». «Senti, ehm, ho qualche ora, posso darti una mano». North: «Dov'è il tuo compagno?» «In maternità». Questo spiega molte cose. «Hai qualche pista?». Sì, ho una pista. «Gene non era solo». «No?». Martinez avvicinò una sedia. «Ecco perché devo rintracciare la bicicletta». «Che cosa stai cercando?». North poggiò il curriculum di Potter sul tavolo, mostrando chiaramente a Martinez le sue riserve. Si prese una lunga pausa e rifletté. Che faccio? Cercò di sembrare il più possibile condiscendente. «Parla». Martinez non sapeva da dove cominciare. I suoi occhi si rabbuiarono, la cosa lo turbava profondamente. «Manny era mio cugino». Non c'era frase con cui North potesse rispondere. Niente che valesse la pena di dire, niente che valesse la pena di ascoltare. «Sua madre, sai? La vedo in chiesa. Le ho promesso che avrei indagato, che ne sarei venuto a capo. So che a indagare sulla propria famiglia si incappa nel conflitto di interessi. Voglio solo dare una mano. Io, Manny, mio zio: siamo una famiglia di poliziotti, sai? Come te e tuo padre. Ce l'abbiamo nel sangue. È il nostro mestiere». Una famiglia di poliziotti. E che faresti se scoprissi di aver vissuto una menzogna? «Qual è la relazione fra te e il tipo del museo?». Si muove in fretta. «Nessuna». «Nessun vecchio caso?» «Non lo conosco. Potresti rivedere i documenti dei vecchi casi per un mese, non lo troveresti mai, perché non ci siamo mai incontrati». «Ma ha chiesto proprio di te». «Esatto». «E questo lo ha fatto scattare?». Sta cercando qualcuno da incolpare? «Qual è il punto?» «Non ha senso. Un tizio arriva e di punto in bianco dice di voler parlare con un uomo che non ha mai incontrato?». North aveva una risposta più semplice. «Forse odia i poliziotti. Forse hai ragione tu. Forse ha preso il primo nome che ha letto sul giornale. Ho visto cose più inverosimili di questa».
«Che mi dici di questo strizzacervelli, Porter? Credi che il tizio sia in cura da lui?» «Lo scopriremo». «Hai interrogato qualcun altro? Ci saranno diecimila strizzacervelli in questa città». «Ho un indizio. Ci vado nel pomeriggio». Potrei perfino farmi internare. Martinez si appuntò l'informazione, aggiungendola alla lista. «Ehi, vuoi che faccia pressione all'OGME mentre sei via, per vedere se hanno i risultati del tuo esame del sangue?». Ha già esaminato il mio dossier. North era pacificamente furioso. Martinez aveva oltrepassato i suoi limiti. Per lui era scorretto addirittura toccare il dossier senza autorizzazione. Eppure North sentì di non poterlo biasimare per il suo zelo; inoltre, doveva esserci lo zampino di Hyland. «E quella donna sul nastro della sicurezza con quello spray o quello che è. Pensavo che potremmo chiedere al TARU8 di elaborare una foto segnaletica chiara dal nastro, così puoi esaminare i registri». Il TARU della polizia di New York aveva già realizzato una foto chiara di Gene ricavandola dal nastro, quindi aveva già il materiale necessario. North convenne che era la cosa giusta da fare. «Hai qualcos'altro?», chiese Martinez. Sì, quello che continuava a esser messo da parte. Forse gli serviva una mano. «Il teschio». «Un teschio?» «Esatto. I testimoni hanno raccontato che Gene ha strappato un teschio da una teca. Dicono sia stato quello a farlo scattare, per cui ha cominciato a piangere. Il teschio manca. Non è nella lista delle prove». «L'ha preso lui?» «Io non l'ho visto. Scommetto che uno degli impiegati del museo ha contaminato la scena, ma non ne sono sicuro. Dobbiamo parlare con loro». Il detective più giovane annotò anche quello. Aveva raggiunto il fondo della lista. «È tutto?». North ci pensò su. «Stai lavorando su altri casi, giusto?». Martinez si tirò su. «Sì, sì. Non ti preoccupare, non ti starò troppo intorno». 8
Technical Assistance Response Unit: Unità di risposta di assistenza tecnica.
SOTTO ESAME 12:01. North non aveva il tempo né i fondi per fare una visita all'università di Porter, ma era essenziale verificare le sue credenziali. Si collegò a un sito chiamato UMI, microfilm universitari, con sede vicino ad Ann Arbor, che forniva servizi vari, dall'accesso a giornali, libri e periodici fino alle tesi universitarie. Le fonti del database non erano sempre attendibili e dunque le informazioni non erano infallibili, ma era sostanzioso e risaliva fino agli anni Sessanta dell'Ottocento. Era molto probabile che, se Porter fosse stato un terapista autentico, la sua tesi di dottorato fosse in quell'elenco, e per quaranta dollari North avrebbe potuto acquistarne una copia cartacea. North, però, non aveva intenzione di comprare niente. L'abstract della tesi sarebbe bastato. William Porter era nella lista. Oxford. Millenovecentosettantadue. Abreazione, memoria e delusione. Abreazione? Che vuol dire? North trovò un dizionario on line e cercò il lemma. Il risultato fu un enigma sconcertante. Consultò ancora il curriculum di Porter per verificare chi fosse stato il suo ultimo datore di lavoro. Non c'erano informazioni su come contattare la Divisione Studi sulla Personalità, ma l'Università della Virginia doveva essere sull'elenco del telefono. Mentre aspettava che l'impulso completasse il suo viaggio nel labirinto di cavi del centralino universitario scarabocchiò su un post-it. Andò dritto al punto. Sì, gli risposero, William Porter era stato un membro della facoltà. No, non era più idoneo al sovvenzionamento. Perché? Aveva smesso di pubblicare. Aveva alle spalle una ricerca di anni, ma non era riuscito a concludere nulla. I ricercatori che tengono per sé i risultati delle loro indagini non possono essere sovvenzionati dall'Università. North prese nota. Così, Porter era un uomo con dei segreti. Aveva esercitato da qualche altra parte, per esempio, New York? No, risposero prontamente, secondo il Dipartimento stava ancora conducendo una ricerca in Medio Oriente. Medio Oriente? «Tanto per curiosità, in che genere di ricerche è specializzata la Divisione Studi sulla Personalità?».
La voce dall'altro capo della linea sembrò sorpresa da quella domanda. «Siamo il principale centro scientifico nazionale a indagare sulla possibilità delle vite passate». «Come quelli che pensano di essere stati Maria Antonietta? Ed esistono prove scientifiche su questo genere di cose?» «Non necessariamente Maria Antonietta, ma le assicuro che rimarrebbe sorpreso». Gli incubi sono già iniziati? 12:36. North voleva un po' di privacy. Non sapendo se le rivelazioni di quell'uomo avrebbero avuto carattere personale o avrebbero riguardato il caso, optò per un luogo appartato piuttosto che restare in ufficio sotto tutti quegli sguardi indiscreti. Sotto la luce fioca della stanzetta degli interrogatori, la più piccola della stazione, North attaccò con le domande. «Lei è uno psichiatra?». Porter poggiò le mani sul tavolo di legno. «Sì». Sa cosa mi sta succedendo? «Prima era un medico?» «Sono stato un dottore per sei anni prima che le cose cambiassero». «Quali cose sono cambiate?». Un sottile velo d'ansia calò sul viso dell'uomo, accentuando i segni dell'età. In preda ai suoi demoni, non si era preparato a quella domanda ed esitò un momento. «Mia moglie è morta». L'uomo offrì al detective un sorriso malinconico, e North percepì chiaramente in lui come un senso di colpa, un disprezzo di sé. Era solo un'impressione, come l'ombra di qualcosa di nascosto e segreto. Eppure lo sentì nitidamente. Era primordiale. Era come guardare in uno specchio. «So che deve sembrare insolito». North cercò di rimane sul vago. «La gente legge i giornali. Si fa delle idee. Non posso certo impedirglielo». «Non deve assecondare un vecchio, detective». «Non ho il tempo di assecondare nessuno. Non ci sono portato». «Non ho intenzione di farle sprecare tempo. Sono venuto per aiutarla». Questo era il punto cruciale della questione. «Aiutare chi?» «Lei, naturalmente». North rimase coi piedi per terra. «Per via degli incubi?» «Sì». «Non ho nessun incubo».
«Non le credo». Porter sembrava fermamente convinto di quanto affermava, anche se non diede a vedere molto altro, a eccezione di un lampo di curiosità che balenò quando North poggiò sul tavolo il suo taccuino nero. Vuole vedere i miei appunti sul caso? Sta tramando qualcosa. North ticchettò con la penna sul taccuino chiuso in modo provocatorio e allungò la mano per prendere un foglio di appunti che si era preparato prima. «Mi sembra di capire che lei pensa che Gene abbia abreagito, è giusto?» «Sì». Nella voce di Porter c'era una punta d'eccitazione. «È ben informato su cosa sia un'abreazione, presumo?». North bluffò, sperando che non si accorgesse che aveva semplicemente memorizzato la definizione del dizionario. «Certo: lo scatenarsi spontaneo di emozioni represse, spesso evidente in coincidenza di disordini dissociativi, personalità multiple, e cose del genere». «Esistono meno di trenta casi autentici di disordini da personalità multipla negli Stati Uniti. Ha pensato pressappoco a cosa potrebbe essere quello con cui abbiamo a che fare noi qui?» «Non c'è nessun noi, dottor Porter». «Sospetta delle mie intenzioni». «Sospetto delle intenzioni di chiunque». «È un mondo proprio brutto». Mi sta nascondendo qualcosa. «È un mondo realistico. Lasci che sia io a svelare a lei un piccolo segreto. Nel mio lavoro ci sono due tipi di persone. Quelle che vengono catturate, e quelle in attesa di esserlo. Lei a quale categoria appartiene?». Porter si sentì chiaramente a disagio di fronte a quella domanda. Qualunque cosa si aspettasse al momento di recarsi alla stazione di polizia, non era certo questa. Fece un sorriso nervoso appena percettibile. «D'accordo, un plurale maiestatis allora». North non rispose. Stava a Porter nuotare contro corrente. «Un'abreazione progredisce. All'inizio avviene unicamente nell'immaginazione: un sogno a occhi aperti, o un incubo». Il viso di North rimase inespressivo; Porter non sollecitò alcuna risposta. «Un'abreazione comincia a manifestarsi con il tempo; un individuo che ne è colpito si metterà a scrivere o dipingere abbondantemente, finché, al culmine dell'intensità, l'abreazione lo costringerà a darle sfogo». «Darle sfogo? Come un comportamento psicotico?»
«Imita la psicosi: l'individuo che ne è affetto non è consapevole che quanto sta sperimentando non è reale. Le illusioni sono estremamente vivide. Ma non si tratta di uno stato di psicosi. Parlerà con persone che non ci sono, la sua voce assumerà l'accento e adotterà il lessico dell'epoca del ricordo sperimentato; tuttavia queste persone esistono unicamente nella memoria. Dal suo punto di vista crederà di rivivere effettivamente quel momento storico». «Cosa ha che fare la memoria con questo?» «Un'abreazione è il risultato finale del risveglio di ricordi da lungo tempo sopiti, e delle intense emozioni a essi associate. Ha un effetto profondo che causa disorientamento e confusione». North si agitò sulla sedia infastidito. «Le è familiare». Non era una domanda. Il commento di Porter era secco e preciso. «Interessante». «È quello che faceva Gene». North aveva già parlato con funzionari di igiene mentale in passato: quella era New York. «Poteva essere un'allucinazione, un sintomo della sua schizofrenia». Porter liquidò la cosa. «Può sembrare così a un occhio poco allenato». «Perché dovrebbe sembrare qualcos'altro?» «Perché a un uomo che soffre di allucinazioni dovrebbe essere somministrato un farmaco che cerca di incrementare i sintomi della sua malattia?». Sa cosa c'era nella siringa? È un bluff? «Vada avanti». «Le allucinazioni sono casuali. Sono una fantasia. Le abreazioni sono molto più concrete. La gente acquisisce improvvisamente capacità che non sapeva di avere, parla lingue che non sapeva di conoscere. Questo è possibile grazie alla memoria, non alla fantasia. Si è mai domandato perché Gene fosse così ossessionato dal teschio nel museo? Non pensa sia possibile che conoscesse quell'uomo?». North esitò. È assurdo. «Quella cosa aveva migliaia d'anni». «O ancora, perché cavalcava per la città senza usare le staffe? Era perfettamente a suo agio in sella. Le sue azioni sono coerenti con un'autentica conoscenza dell'equitazione». «È un cavallerizzo acrobata. Magari è cresciuto in un circo». «Le sembra credibile?» «Più credibile del fatto che serbi memoria di una vita passata».
Le parole di North rimasero come sospese, a dividerli. Pur colto alla sprovvista da tale incontestabile verità, Porter non si fermò. «Allora perché lei sta sperimentando esattamente la stessa cosa?». Adesso stava a North sentire la silenziosa, strisciante agitazione del senso di colpa. Il flusso del sangue riecheggiava nelle orecchie così forte da offuscargli la ragione. Porter doveva essersi buttato a indovinare. Forse era stato mandato lì da Gene per scoprire a che punto fossero le indagini. La sincerità sarebbe potuta essere controproducente. Non conosceva quell'uomo. Devo stare attento. «Non capisco di cosa stia parlando». Porter era sereno. Era chiaro che percepiva il disagio di North, e questo rafforzava il suo senso di sicurezza. Allungò una mano verso la valigetta, ne estrasse un giornale e un quaderno verde. Il giornale era piegato in modo da mostrare l'immagine di North e Gene scattata in strada accanto al Jiggle Joint. Lo distese per bene sul tavolo. «È venuto a contatto con lo stesso farmaco che ha preso lui. C'è un ago ipodermico appeso alla sua gamba». North guardò il giornale. Quell'informazione non era stata divulgata. Si rifiutò di commentare. Porter si sporse in avanti. «So cosa le sta accadendo. Lo so perché ci sono passato. Gene ci sta passando. Non si deve vergognare. Un testimone del "New York Post" ha detto di aver sentito il detective strillare che lo stava inseguendo un toro. Lei pensava che la stesse inseguendo un toro». North percepì la morsa sempre più stretta della paura. «Si è sbagliato». Porter aprì il suo quaderno. Sfogliò qualche pagina e glielo mise davanti mostrandogli le immagini da lui abbozzate molti decenni prima. Il Toro. North ne fu scioccato. «Questa immagine le è familiare?». Lo stava divorando dall'interno. Il Toro. Quel tratto avrebbe quasi potuto essere il suo. «Avevo sette anni quando il Toro è venuto da me». Porter piazzò il quaderno fra le mani di North e lo guidò con calma fra le pagine ingiallite, piene di immagini e scritte accalcate, strato dopo strato, vergate con inchiostri diversi. In lingue diverse. Porter lesse sul suo viso che gli erano familiari. Guardò dall'altro lato del tavolo in direzione del taccuino di North. «Ha sempre scritto su un taccuino nero?». North non voleva rispondere. Il Toro lo consumava e non lasciava la
presa. Il Toro. Chiudi la porta a quest'uomo. Chiudila ora. North chiuse il quaderno verde sbattendolo e lo gettò sul tavolo. «Non lo voglio». Le sue dita giocherellavano con la penna, rigirandola in un tintinnio senza fine che lo irritava e lo calmava al tempo stesso. «No. Suppongo di no». Porter si infilò una mano in tasca e rovistò in cerca di una penna. Scrisse il numero del Pennsylvania sul retro di un biglietto da visita, lo poggiò sul tavolo e lo fece scivolare più vicino a North. «Immagini quello che sta passando, visto attraverso gli occhi di un bambino di sette anni: la realtà stranamente contorta, uno strano guazzabuglio disgustoso e rivelatore; l'incubo di aver fatto sesso con la propria madre. Quel nauseante senso di ebbrezza permeato dal senso di colpa che senti perché l'emozione di quel ricordo ti dice che ti è piaciuto». «Zitto...». «Non deve sentirsi colpevole. Quelli non sono ricordi suoi. Appartengono a suo padre». North balzò in avanti con una tale rabbia esplosiva che Porter dovette risedersi sulla sedia. «Vaffanculo!». Il silenzio aveva spalancato un abisso fra loro. Porter non si mosse, aspettava la reazione di North. «Non ho i ricordi di mio padre. Non posso averli». «Perché no?». Da dove comincio? «Perché non è morto». «Lei non capisce». «Ho capito fin troppo bene». A entrambi fu chiaro che la conversazione non sarebbe proseguita. La replica di Porter sembrò più una valutazione clinica. «Abbiamo parlato abbastanza per oggi». «Fuori di qui». Porter si alzò in piedi e tamburellò lieve le dita sul biglietto. «Se vuole parlare un altro po' mi può trovare qui». North non disse nulla. «Buona giornata». North lo osservò mentre usciva, fosse solo per accertarsi del suo definitivo allontanamento. Restò seduto da solo nella stanzetta degli interrogatori, tormentato. Questa è pazzia. Io sono impazzito. Ha sempre scritto su un taccuino ne-
ro? Ma che c'entra? Stava di fronte a lui, beffardo. Era soltanto il suo taccuino. Che c'era da temere? Ma, nel profondo, dentro di sé, North era consapevole di quanto aveva scoperto, quello che cercava di negare. Prendi una decisione. Aprì il taccuino con un movimento rapido e l'aria di sfida, fu più una spacconata che un autentico desiderio. Inizialmente trovò il conforto dei semplici appunti sul caso, pagine e pagine di conversazioni. Dettagli. Luogo. Orario. Ma sapeva che c'era dell'altro. La sua stessa follia lo stava aspettando: una rabbia impregnata di rancore, colata da lui e penetrata nella carta. LE PIRE DI ACRE Cavalcammo con il sangue dei saraceni che bagnava i nostri destrieri fino alle ginocchia: questa fu la vigilia della nostra vittoria ad Acre, il decimo giorno di agosto, nell'anno del Signore 1191. Da lì iniziammo a devastare quella terra. Il lezzo delle pire impetuose avvolgeva la sua preda con un fumo oleoso che saturava le narici di ogni singolo uomo; gli accampamenti erano disseminati delle carcasse dei saraceni che colavano grasso dagli spiedi. Udii il crepitio dei falò, e mi riempii dell'odore della carne umana che bruciava. Puzzava di maiale. Fra loro c'erano anche dei cristiani, ma noi gloriosi cavalieri crociati non avevamo esitato nel nostro massacro. Questo era il settimo villaggio dal nostro arrivo. Appena giunti ci eravamo domandati come fare a distinguere il meritevole dal selvaggio. «Uccideteli tutti», dissi infine, «ci penserà il Signore». Quella prima notte festeggiammo, come bestie arrivate dalle profondità dell'inferno; sotto il mantello dell'oscurità che copriva quella terra sassosa ci stringemmo l'un l'altro, bruciacchiati dalle pire, e quando fui seduto lo portarono da me. La spia disse: «Questo è quanto ho udito. Barbarossa ha inviato un messo a Damasco prima del vostro arrivo». Il re Federico di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero, era morto. Era annegato al nord mentre guidava circa centocinquantamila dei suoi soldati nel guado di acque traditrici. Avevano combattuto valorosamente, ma senza guida erano stati definitivamente umiliati. A eccezione delle compagnie più piccole, avevano fatto tutti dietro front ed erano tornati a casa, senza mettere mai piede sul suolo dell'antica Fenicia. Non parte-
ciparono mai alla terza crociata. Eppure, Barbarossa aveva dimostrato di non essere un pazzo e i suoi preparativi si erano già rivelati utili all'impetuoso re Riccardo Cuor di Leone. Sapeva che la Siria aveva molte facce. «Cosa ha scoperto il messo?» «Ha detto che fra Damasco, Antiochia e Aleppo, fra le montagne, vive una razza speciale di saraceni. Questi figli degli uomini vivono senza legge. Mangiano carne di maiale e si uniscono con tutte le donne senza distinzioni». «Tutte le donne?». Il giovane annuì. «Madri e sorelle allo stesso modo». «Sono ripugnanti». «Sì, per i cristiani quanto per i saraceni. Si dice che si siano allontanati dalle Scritture». «Ha un nome, questa progenie di saraceni?». Il giovane fu cauto, come se pronunciando quella parola spaventosa potesse attirare su di sé la malasorte. Si guardò intorno nella tenda, per assicurarsi che nessuno origliasse, e si fece più vicino. «Hanno molti nomi». Il giovane trattenne il fiato. Sapeva dal bagliore nel mio sguardo che non gli avrei chiesto altro senza esserci accordarti sulla ricompensa. «Ho sentito che nella loro lingua si chiamano fra loro Heyssessini, mentre altri dicono Ashishin. Poi mi sono imbattuto in un erudito. L'ho lasciato vivere, così possiamo domandarglielo. È là, può dirti molto più di me. Dice che nel loro idioma sono noti come Hashishi, per via della passione del loro capo per un'erba secca di cui non so nulla. Ma i cristiani di qui trovano che la loro lingua sia difficile da pronunciare e hanno preso a chiamarli Assassini». Gli Assassini. «Sono assetati di sangue, uccidono innocenti dietro pagamento. A loro non importa nulla della vita o della salvezza. Sono come il demonio: imitano le popolazioni di qui nei gesti, nelle azioni, nell'abbigliamento e nel linguaggio. Si nascondono come lupi in mezzo alle pecore, fin quando giunge il momento di colpire. Questo villaggio ne è pieno, proprio come supponevate. Il loro mestiere è perverso. Sono un abominio. Che razza di uomo celerebbe volontariamente la propria identità in maniera così codarda? Sono loro che state cercando?» «Senza dubbio. Qual è il nome del loro capo?» «Quell'uomo è un mistero. Alcuni lo conoscono come il Vecchio della
Montagna. È vecchio quanto il tempo. Altri dicono invece che si chiami Sinan...». «Sinan? Si beffa di me?» «Vi dice qualcosa questo nome?» «In un passato lontano. Oggi non ha più importanza. Sinan non è il suo vero nome. Ha molti nomi, benché tenga la sua vera identità nascosta di epoca in epoca, ma io so. È Athanatos, il grande ingannatore dell'Est. Gli do la caccia da quando il filo del tempo ha tessuto la trama della mia vita per la prima volta, e sarà mio piacere ucciderlo nel suo letto. La morte di questo demonio sarà il principio della beatitudine. Lo schiaccerò sotto la ruota della perdizione. Con la sua carcassa come carburante l'inferno brucerà i suoi seguaci». La spia aveva il terrore negli occhi, e io ne fui felice. Le parole che seguirono le farfugliò. «La loro fortezza è inespugnabile. Non so come riusciremo a infilarci fra loro, se non mettendoli in ginocchio». «Marceremo e raderemo al suolo ogni accampamento degli Assassini che incontreremo finché il serpente non si deciderà a lasciare la sua tana». Cavalcammo per molti chilometri con il sangue dei saraceni che bagnava i nostri destrieri fino alle ginocchia. E ogni volta che una pira bruciava carne degli Assassini permettemmo a un numero sufficiente di voci di fuggire nella notte terrorizzate, perché raccontassero l'intensità della mia furia. Avevo di nuovo un esercito, ma anche se stavamo devastando le sue terre, Athanatos ancora non mi veniva incontro. Compivamo massacri e ordivamo piani marciando verso le montagne, finché la notte della settima pira mi imbattei in un mercante che faceva rotta per Byblos. Mentre attendevo contemplando il fetido mucchio di carne che arrostiva, portarono il saraceno al mio cospetto: era un ometto che tremava di paura. Chiesi di essere lasciato solo con lui e così fu. «Come ti chiami, mercante?». L'ometto esitò. «Mi chiamo Samir». Diedi un'occhiata al suo carretto. Era carico di alte pile d'oggetti ed era in gran parte annerito di fuliggine. Era stato depredato. «Commerci con quegli Assassini. Sei uno di loro?» «Commercio, ma non sono uno di loro, oh grande cavaliere! Loro credono di avere un interesse in comune con me, è tutto». Indagai oltre, insoddisfatto di quella spiegazione. Samir, il mercante, era riluttante a rispondere; sul suo viso si dipinse la
vergogna e lui divenne pallido. «Sono druso». Fui scioccato. Quei parassiti erano come gli Assassini. Ogni franco conosceva i Drusi, un popolo che venera un uomo come se fosse dio: alHakim, il sesto califfo del Cairo. Proprio come Nerone aveva fatto uccidere Seneca, così al-Hakim aveva macellato il suo precettore, l'eunuco Barjawan. Questo strumento del male frequentava le vie del Cairo in compagnia del suo schiavo africano Masoud, che somigliava a un orso e sodomizzava pubblicamente ogni bottegaio sorpreso a imbrogliare i clienti. Anche se non ne avevo prova e non potevo esserne certo, persino questa storia mi ricordava il primo incontro con Athanatos. Mi era sin troppo familiare. Benché sua madre fosse cristiana, al-Hakim non lo era e li perseguitava con gusto. Come questi folli fossero giunti a provare adorazione per un uomo del genere era un vero mistero. Forse lo facevano per prenderci in giro. Era stato al-Hakim a marciare su Gerusalemme nell'anno del Signore 1009 e a radere al suolo la Chiesa del Santo Sepolcro. Era stato al-Hakim a incoraggiare la prima grande crociata. Ma se davvero al-Hakim era stata un'altra delle incarnazioni di Athanatos, il fatto che fosse stato proprio lui a fornirmi la scusa perfetta per arruolare il mio esercito rivelava l'intervento di una superba giustizia. Samir, il mercante, si ritrasse spaventato dall'odio che ribolliva nel mio sguardo. Era all'oscuro delle mie vere intenzioni e del vero obiettivo della mia ardente crudeltà. Gli domandai: «Perché Sinan dovrebbe avere qualche affinità con uno come te?». Non riusciva a guardarmi negli occhi. Al contrario, teneva lo sguardo fisso a terra. Forse sapeva che sarebbe divenuta presto la sua tomba. «Potrebbe dipendere, oh grande cavaliere, dal fatto che crediamo di reincarnarci a ogni generazione; per quanto ne so anche gli Assassini seguono la stessa fede». Percepii quelle parole come un veleno che si faceva strada divorandomi lo stomaco. «Mi porterai da questo Sinan». «Sarebbe un suicidio, oh grande cavaliere, hanno ucciso generali e principi. Il prezzo per la testa di un Assassino è il massacro di settanta Greci, e vorresti che ti portassi nel loro alveo? Non posso. E poi, non conosco la strada». Lo strinsi con una presa serrata e promisi di lasciargli segni sulla pelle.
«Menti come respiri!». «No! Giuro che non conosco la strada. Hanno dieci roccaforti. Posso solo indovinare quale sia quella da cui impartisce ordini lui. Ma... sono uomini, e gli uomini hanno esigenze che devono essere soddisfatte. So dove si possono trovare i fida'i quando vagabondano lontano dalle fortezze». Dalla mia espressione era evidente che il termine non mi era familiare. Il mercante mi fece cosa grata proseguendo. «I fida'i sono i fanti dell'ordine degli Assassini. Il nome significa "devoto al vero assassino"». Solo ora le sue vere emozioni erano visibili. «Forse lì potreste trovare un modo per unirvi a loro. Potrebbero condurvi alla fonte che cercate». «Portamici e sarai ricompensato». «Una ricompensa? Non credo che abbiate abbastanza dinari per coprire un rischio simile. Vi ringrazio e non voglio mancarvi di rispetto, grande cavaliere, ma come pensate di unirvi agli Assassini? Cosa potete offrire loro che non possano già procurarsi da soli? Se andate per ucciderli, io sono già un uomo morto e la vostra ricompensa non sarà altro che vuote parole». «Se permetterti di vivere è una ricompensa senza valore allora vieni, gettati sulla mia spada qui e subito. Io offro agli Assassini una via per liberare questa terra dal loro mortale nemico». Samir tremava come un cespuglio animato da pernici. L'offerta era talmente ghiotta che nemmeno la paura avrebbe potuto superarla. Ero divertito. Questo mercante era un pazzo. L'idea dell'inganno gli andò giù come il miele. A portata del suo orecchio diedi istruzioni ai miei compagni Ospedalieri di unirsi a re Riccardo, perché quel compito era per me solo. Avevo seminato la paura e il dubbio nella mente di Athanatos - diecimila dei suoi uomini giacevano uccisi per mano mia - ma se dovevo avvicinarmi abbastanza da tagliargli la gola, il mio arrivo non poteva essere annunciato da pesanti passi di marcia attraverso la valle. Sarebbe dovuta rimanere una deliziosa sorpresa. LA DANZA DELLA URI Viaggiammo per sei giorni e sei notti, nella luce accecante di un sole infiammato e sotto la volta di stelle del crepuscolo, costantemente all'erta per non imbatterci in banditi lungo la via. Quello della Siria era un paesaggio
discontinuo di montagne e vallate dove i deserti davano riparo ai forti e alle cittadelle degli eserciti selgiuchidi, a loro volta circondati da orde di turcomanni che vagavano libere, depredando il popolo diviso di questa arida terra. Il tesoro di Samir era considerevole e allettante. Aveva messo a buon frutto la mia ricompensa. Otto mantelli di seta, qualche cappuccio, qualche pelliccia e due cappe, una bordata di seta e l'altra in crespo di Cina, adagiati in una grande scatola di cedro sotto ventisei abiti di gala. Aveva acquistato due cinture dal costo di un centinaio di dinari, novantatré pezze di stoffa e tre cavalli in gualdrappa con sella e finimenti. Aveva settemila dinari d'oro ed era entrato in possesso di una fila di cammelli che costituivano la spina dorsale della nostra carovana. Da principio non disse nulla. Ci accampammo, lui catturò una lepre del deserto, e fui io a scuoiarla, perché non mi andava che tenesse in mano un pugnale per troppo tempo. La cucinò con il viso pallido e l'espressione spaventata. Quale notte, si domandava, avrei scelto per scuoiare lui? Dalla seconda sera la lingua gli si sciolse un po' e riuscii a sapere qualcosa in più sulla natura di quegli Assassini. «Studiano il latino, il greco e l'arabo. Sin dall'infanzia vengono educati come prìncipi, ma addestrati a obbedire agli ordini del Vecchio come se fosse un dio con potere sugli dèi. Alcuni di loro sono persino figli dei suoi nemici. Quando raggiungono l'età adulta gli viene consegnato un pugnale dorato, con il quale devono compiere il primo omicidio e uccidere chiunque il Vecchio abbia designato loro. Un Assassino è consapevole che gli può capitare di uccidere chi lo ha messo al mondo, senza poter mai considerare le conseguenze delle proprie azioni o la possibilità di fuggire. Solo il suo zelo, la sua fatica e il suo lavoro lo porteranno in paradiso, e aspetterà una vita, se occorre, per compiere quel che deve. I pugnali degli Assassini hanno colpito a morte più di un principe saraceno, perché Sinan lusinga con promesse di piaceri e di eterno godimento, tanto che i fida'i preferiscono morire piuttosto che vivere». Non trovai nulla di sorprendente in quei racconti, che sembravano turbare così tanto il mercante. Anzi, mi colpiva il fatto che forse Athanatos aveva imparato qualcosa nel corso delle epoche. Non aveva importanza. Confermai il mio voto di ucciderlo e distruggere tutto ciò che era suo. La terza notte il mercante singhiozzò come un bambino, e, con le guance inondate da lacrime di terrore che disegnavano strisce verticali sul viso impolverato, alla fine fece con coraggio la sua domanda. «Perché siete così
pieno di odio?». Era passato così tanto tempo, ero sempre più stanco e quasi non lo sapevo più. Ma poi tornavano i lampi, attimi di tempo catturati nelle gocce di pioggia di una tempesta, illuminati da quella scintilla divina che alimentava lo spirito demoniaco dentro di me. Lo sapevo. Il sesto giorno, a mezzogiorno, mentre tirava il carretto che sobbalzava sul terreno sconnesso e sassoso, disse: «Siamo nel loro jazeera adesso, la loro isola, il loro dominio. Devi prepararti se non vuoi che si accorgano che sei franco». Con in mano quel che rimaneva della nostra preziosa acqua mi invitò a spogliarmi e mi allungò una spazzola perché mi strofinassi. Non ero così pazzo da rinunciare a tenere una spada nell'altra mano, ma quando mi rovesciò addosso l'acqua fredda mi lamentai. «Che cos'è questo?! Cosa mi stai facendo?» «Se fossi un cane, oh grande cavaliere, mi vergognerei di lasciarti girare in presenza dei miei vicini. In questa terra ci laviamo». «È un'azione meschina! Tradimento!». «Calmo!». Mi sollevò il braccio e strofinò la superficie di uno strano panetto chiaro e oleoso lungo la mia schiena. Aveva l'odore delicato dei petali di rosa e lasciava una traccia sulla pelle. «Inganno o stregoneria!». «Sapone». Lo assaggiai. Era disgustoso e lo sputai via in fretta. «È l'ultimissima invenzione dei nostri grandi pensatori e aiuta a rimuovere lo sporco dal corpo». Che teoria ridicola. «Non credo che una cosa simile avrà molto successo», brontolai. «Fra gli animali», rispose, «forse no». Gli girai intorno con una tale rapidità che il suo sguardo rimase pietrificato. Premetti la spada contro la sua gola e lui si mise a piagnucolare. Pensava di ingraziarmisi perché mi aveva offerto il suo aiuto? Non mi conosceva affatto. Dopo quell'episodio non disse altro. Arrivammo avvolti dal crepuscolo in una città sulle rive di un corso d'acqua, inondata dalla cacofonia dei petulanti mercanti di strada. Mentre Samir si accingeva a liquidare i suoi cammelli, tre a un altro mercante e quello zoppo per la macellazione, provai a distinguere da solo gli Assassini dai saraceni.
Non era un compito facile, e i miei sforzi si dimostrarono infruttuosi. Cominciai a distinguere una flebile musica in mezzo al baccano, udii battere un tamburo, i deboli sussurri ronzanti di strumenti a fiato simili a insetti in estasi; udii delle risate, giovani, vivaci e gioiose risate. Mi aprii un varco nel trambusto e rubai uno sgabello al lato di una piazza in cui si era raggruppato un piccolo uditorio. Se è vero che gli Assassini avevano le loro esigenze, io avevo trovato qualcosa che certo non mi aspettavo, in un luogo squallido come quello, per soddisfare le mie. Quando le si attorcigliava attorno alle caviglie, il vestito scintillava. Era di un blu diafano che svelava ogni suo più nascosto segreto, mentre danzava davanti a tremolanti lampade a olio. Si muoveva al ritmo della musica, tenendo il viso rivolto verso il basso, i capelli corvini, lunghi e sottili, spuntavano dal foulard che aveva in testa, liberi e pieni di vita. I suoi fianchi pieni dondolavano in un movimento ondulatorio che incantava e ubriacava, e quando aprì gli occhi, occhi così chiari, luminosi e penetranti, ne fui rapito. Mi aveva visto? Quel sorriso era per me? Non avevo considerato una cosa simile. Non mi aspettavo una cosa simile. Avevo bandito una tale bellezza dai miei pensieri e dal mio cuore. In me c'era spazio solo per un amaro rancore. Eppure, percepivo il rimescolamento di cose che avevo dimenticato. Pensavo che me l'avessero strappato molto tempo prima. Come poteva quella donna toccare qualcosa che non c'era? «Le delizie di una semplice prostituta sono sufficienti a infiammare qualunque uomo, no?». Samir venne a sedersi accanto a me. Ero sorpreso. Non l'avevo udito avvicinarsi, benché avvertissi tutto intorno a lui una cappa odorosa di bevanda dolciastra. Aveva speso la sua ricchezza appena conquistata in folli piaceri. La sua lingua lunga poteva dimostrarsi preziosa, ora che il mio viaggio si trovava a un bivio. «Come si chiama?» «Chi può dirlo? Sono sicuro che per qualche dinaro assumerà qualunque identità tu le chieda». Lo aggredii. «Non voglio più sentire le tue oscenità». «Ti prego, sii ragionevole. È difficile che sia una uri». Ancora una volta il mio sguardo arcigno tradì la mia ignoranza. «Una delle vergini dalla bellezza perfetta che vivono nel paradiso benedetto». Un gruppo di uomini origliò il nostro scambio. Scoppiarono in una risa-
ta. «Pensa che sia una uri?». Non potei agire come mi suggeriva l'istinto e scagliarmi contro di loro, non lì e non allora. Rimasi invece seduto tranquillo, ma le mie parole non erano cadute nel vuoto. Lei le aveva udite, e ne sembrò profondamente colpita. Danzò con una dignità ispirata che io seppi rivolta solo a me, l'uomo che l'aveva scambiata per un angelo. «Conoscevate questo medico-astrologo, l'uomo che si chiama Sinan?», Samir si trascinava portando in mano datteri e un'altra bibita. «Conoscevo quando?» «Prima di oggi, prima di ogni giorno vissuto in questa vita». Era così evidente che ne avessi vissuta più d'una? «Non sono un Druso», dissi. Mi osservò attento. «Ma lo conoscevate?» «Sì, lo conoscevo». «E lo riconoscereste se lo vedeste adesso?». Non risposi. Banchettai con il dolce frutto carnoso e rimasi in silenzio. «Ha vissuto molte vite, giusto? E dunque è nato molte volte e ha avuto molte facce. Come lo riconoscete, l'uomo che cercate? Come potete essere sicuro che lui sia chi pensate, e non sia qui in mezzo alla folla? Come potete essere certo che io non sia lui?». Percepii i freddi sguardi della folla e mi gettai addosso il mantello. Avevo marciato con arroganza e troppo in fretta verso la mia morte prima che il gesto fosse davvero compiuto? La musica ora sembrava stonata. Non c'era nulla di celestiale lì. Dopo altri balli, quando la luna brillava oramai luminosa, lei si avvicinò, ma, dato che l'avevo osservata esercitare il suo fascino su ognuno dei presenti, la scintilla nel mio cuore si era spenta tanto in fretta quanto si era accesa. Quando venne a sedersi per parlare un po' e conoscere l'uomo capace di tali complimenti, la meraviglia sul mio volto era già svanita, rimpiazzata da uno sguardo duro. Il disappunto per la mia reazione le pesò molto. Le avevo dato speranza e l'avevo crudelmente delusa. E non me ne importava. Era solo un miraggio, un'eco distante. Era effimera come l'abito che indossava. Era un'idea, l'incarnazione di un ricordo lontano che serviva solo a rammentarmi perché ero lì e perché dovevo andare avanti, ma lei non era lei. Mi prese le mani fra le sue sperando di trovarvi calore, ma già da qualche tempo avevo diretto la mia attenzione alle montagne qualche chilometro più in là.
«Cosa devo cercare fra quelle rocce?» «Un paradiso», rispose Samir, «dove non dovrebbe essercene nessuno. Si dice che il Vecchio abbia creato un giardino pensile per ricordare la sua giovinezza. È all'interno del palazzo, nella sua fortezza inespugnabile, circondata da alte mura, con poche vie d'accesso. Solo tramite l'astuzia o un invito vi si ottiene libero accesso. Guardati intorno, questi uomini ti danno l'impressione di esser pazzi?» «Nient'affatto». «Allora non aspettarti un invito». La mia uri decaduta, piena di sollecitudine, mi prese la mano e la premette contro il suo seno. Sapeva di cosa stavamo discutendo. «C'è il paradiso qui, se è quello che desideri». Sentii la sua pelle soffice sotto la mia mano ruvida e fui disorientato scoprendomi ancora pieno di vivo desiderio, e per la prima volta in quella vita, fui incerto. La fiamma era veramente spenta, o ero io a soffocarla? Samir si levò barcollando. «Il paradiso! Il paradiso con la sua uri! Non avete forse le stesse esigenze di ogni altro uomo?». Avvolto nel silenzioso manto vellutato della fresca aria notturna, mi lasciai condurre per mano fra le tranquille vie secondarie della città sul fiume, verso un luogo in cui c'era un intenso profumo di gelsomino. Accolsi con piacere il nostro ritiro nell'ombra e, sereno, la seguii fino a casa sua. Mi guidò al suo letto e mi fece sedere in mezzo a cuscini di seta. Mi prese le mani e le fece correre sotto il suo vestito finché non circondai i suoi abbondanti fianchi rotondi. Si aspettava che la tirassi a me, ma ero paralizzato, torturato dal senso di colpa per ciò che non avrebbe dovuto essere. Si chinò verso di me, proteggendomi con i suoi capelli sottili e profumati da un mondo tormentoso, e, quando premette il mio viso contro la sua carne calda, quella tenerezza mi commosse fino alle lacrime. Perché adesso? Non ero degno di quel gesto, nemmeno da parte di una prostituta. Di poter conoscere ancora le delizie dell'amore, sia pure un sussurro, dopo quanto avevo fatto in nome del denaro. Le sue dita corsero gentili intorno alle mie spalle, i suoi morbidi baci alleviarono la mia tortura, e quando fu troppo, quando il fuoco che bruciava il mio cuore non poté più trattenersi, le afferrai le cosce con crescente desiderio. La trovai bagnata e la penetrai con forza. Sprofondammo nei guanciali, le sue grida erano una dolce musica per la
mia furia. Lei non era lei, ma, per ora, era il mio dolore tornato in vita. Tornai strisciando nella tenda disordinata di Samir e ascoltai il pesante russare del suo sonno ebbro mentre mi preparavo per dormire. Mi coricai su un fianco con le palpebre pesanti e tentai di ignorare il baccano che faceva. Intanto, pensieri atroci continuavano a correre nelle vene delle mie mani tremanti. Quando il battito del mio cuore si affievolì, udii l'abbaiare distante di un cane da caccia incatenato in città. Il suo guaito non poteva essere causato da altro che dal muoversi furtivo degli uomini. Scattai in piedi. Vidi in lontananza la ritirata di un cavaliere solitario che si dirigeva verso le colline, galoppando lungo un sentiero che poteva portare solo alle montagne. Un saraceno? Un Assassino? Ma non aveva un lento cavallo da soma, bensì un vigoroso purosangue arabo, molto alto e con un ampio petto che palesava tutta la sua potenza. Era la mia occasione per seguirlo. Feci presto, raccolsi le mie spade, due otri e una zucca piena d'acqua. Diedi un calcio a Samir, che non smise di russare. «Dobbiamo andarcene subito!». Gli assestai un altro calcio, e quando non volle muoversi mi chinai per costringercelo. «Mercante, sveglia!». La sua fu una risposta strana. La testa rotolò giù dal guanciale, nella polvere ai miei piedi, mentre continuava indisturbato a russare. «Anche se partissi adesso, non lo prenderesti mai». Non si sentiva più russare e la voce nell'oscurità proveniva da qualche altra parte dietro di me. «Mio fratello sarà molto compiaciuto di questo suo dono», disse, gettando un cesto vicino a me. «La tua testa». «Fratello? Athanatos non ha fratelli, solo cani». Con un passo, l'Assassino uscì dall'oscurità per esporsi alla pallida luce della luna, così potei vedere i suoi occhi. «Siamo un esercito, e tu non sei che un povero pazzo». Non usava eufemismi. Riuscii a vedere chiaramente il suo stretto legame con la famiglia. Chinai il capo. «Le mie scuse. Tu sei peggio di un cane». L'Assassino fece un movimento rapido in avanti stringendo il pugnale. Lo scansai lesto e lo tirai in avanti, facendogli perdere l'equilibrio e costringendolo a cadere in terra, ma non era uno sprovveduto. Si levò in pie-
di di scatto e menò un fendente con una precisione tale che dalla mia guancia uscì del sangue. Mentre sulla polvere schizzavano grosse gocce scarlatte, affondai i miei pugni nel suo ventre e gli diedi una gomitata sul mento. Gli cadde dalla bocca un dente scheggiato, ma non cedette. I suoi calci erano rapidi e la sua abilità impressionante. Le ginocchia mi si piegarono e crollai a terra. Di nuovo il suo pugnale mi dardeggiò davanti agli occhi. «Hai un messaggio per mio fratello prima che ti restituisca alla terra?» «Sì», dissi meditando con calma. «Ho fiducia che sappia apprezzare lo sforzo che ho fatto, per portargli fin qui questo suo dono». L'Assassino mi afferrò per i capelli e mi sollevò il capo cercando la mia gola, ma nel farlo espose la sua. Non lo mancai. Gli infilai la spada nel collo e non mi fermai nemmeno quando incontrai l'osso. Ruggii in preda alla furia, mi sollevai in piedi e affondai ancora. Pronunciai con violenza i miei insulti fra i denti serrati e lo spinsi a terra, con lacrime di rabbia gli tagliai la testa dal collo e sputai sulla sua faccia ancora calda. I BASTIONI DEGLI ASSASSINI Cavalcai nella notte seguendo le tracce fresche finché la ripida salita sul vero e proprio versante della montagna divenne praticabile soltanto seguendo un cornicione di roccia scoscesa, stretto e ventoso che all'inizio mi portò lungo una gola angusta. Da qualche parte sotto di me scorreva un fiume. Potevo sentirlo anche se non riuscivo a vederlo. Davanti c'erano assembramenti di rocce, sospesi, che ostruivano il passaggio. Più di una volta fui costretto a chinare il capo per non sbattervi contro e precipitare nell'oblio. Proseguimmo in salita, allontanandoci di qualche chilometro dalla grande piana desolata alle mie spalle, finché, alle prime carezze dell'alba, raggiunsi il castello arroccato su una rupe apparentemente incontaminata. Sentii l'odore del limone e di altri frutti e capii che le storie sul giardino erano vere. Con il vento che frusciava tra i miei abiti rubati, galoppai verso il portone principale tenendo in alto il mio pugnale dorato, fingendomi un Assassino. Udii un potente fischio levarsi come segno di riconoscimento e vidi molti visi precipitarsi verso di me.
In risposta, infilai il pugnale nella mia fusciacca insanguinata e tirai su il cesto perché tutti lo vedessero. Gridai nella loro lingua: «È morto! È morto!». E per la mia dimostrazione fui accolto con uno scoppio, un'acclamazione tumultuosa che echeggiò per tutta la valle, mentre il pesante portone veniva spalancato per accogliere la mia cavalcata vittoriosa. All'interno di quelle possenti mura scoprii il più grande e il più bel giardino che avessi mai visto, circondato da filari d'alberi e pieno di ogni genere di frutta. E in lontananza vidi il palazzo decorato con l'oro più puro del mondo. Non era difficile immaginare che lì scorressero liberamente vino e latte, miele e acqua. Se Athanatos desiderava far credere alla gente che questo era il paradiso, bisogna dire che ci era quasi riuscito. Tuttavia, a dispetto della meraviglia di quei campi elisi, la mia sicura consapevolezza che nel suo cuore albergassero male e corruzione non fu compromessa. Cavalcai lungo il prato antistante i bastioni, tenendo sollevato il cesto e gridando in segno di trionfo. Gli abitanti giunsero a salutarmi, ignari che la sciarpa del loro fratello nascondesse il volto del loro più acerrimo nemico. Dopo poco, anche Athanatos si eccitò al punto di uscire dal palazzo e fu allora che mi sorprese il ricordo delle parole di Samir. Seppi che era Athanatos solo perché gli altri lo avevano chiamato Sinan. Non conoscevo il suo viso. In verità, non lo riconobbi. Avrebbe potuto essere chiunque altro. Il Vecchio che camminava verso di me era affiancato da visir in vesti elaborate. Il suo volto era una maschera. Mi aveva già riconosciuto, o stava per farlo? Al suo arrivo feci sollevare il mio destriero sulle zampe posteriori e scagliai il cesto ai suoi piedi. Il cesto cadde in terra e il coperchio volò via, e a quel punto la testa del fratello di Athanatos rotolò fuori. Ci furono dei sussulti, ma Athanatos e i suoi più intimi consiglieri si limitarono a un sospiro, rivelando un sentimento di autentica tristezza. «Oh, Cyclades, amico mio, perché ti ostini?» «L'omicidio è una cosa che hai inventato tu». Estrassi la spada. Mi scontrai con molti uomini armati, ma fu Athanatos a fermare il loro braccio. «Omicidio? Noi uccidiamo sempre per una giusta causa, per questo ci chiamano così». «Metterò fine ai fetidi prodotti dei tuoi incroci. Di te non rimarrà altro che una storiella sulla bocca degli uomini, una diceria tessuta con il filo del dubbio». «Perché ti ostini? Il mio dono non ha toccato il tuo cuore? La sua bellez-
za non ha riportato un momento di felicità nella tua vita? Non ho agito come farebbe un padre e condiviso con te tutto ciò che ho? Ti avrei fatto visita io stesso, ma solo le donne riescono ad avvicinare uomini tanto riservati». Pensai alla mia uri e fui immediatamente disgustato. Mentiva. Mentiva come respirava. Lei non era un suo dono. «Calco il suolo di questa terra da oltre duemila anni ormai. Ho visto gli dèi nascere, morire e venire dimenticati. Credi che uccidendomi adesso la mia vita avrà fine? Ce ne sono molti altri come me, coloro che hanno i miei lineamenti, e la mia volontà». I suoi consiglieri si fecero avanti e uno per uno mostrarono i loro volti, i tanti volti di Athanatos. «Io non sono un mago. Sono il plurale di un mago. Tagliami una testa e ne farò spuntare altre sette. Tutta questa morte non significa niente per me». Balzai in avanti e afferrai il consigliere più vicino per il collo. Lo tenni sospeso per aria mentre lui scalciava e soffocava. «Lo ucciderò». «Ebbene uccidilo. Ne ho molti altri». «Non prenderti gioco di me!». «Non mi prendo gioco di te, Cyclades, vorrei solo che comprendessi. Preferiresti che fossi io a ucciderlo? Forse preferiresti che ne uccidessi molti? Voi tre, parenti, figli ed eredi, buttatevi giù. Dategli una dimostrazione, qui e ora. Frantumatevi il cranio e morite di una morte miserevole, se ciò farà felice il mio amico». Inorridito, osservai tre dei suoi migliori fida'i fare come aveva ordinato loro senza discutere e senza esitazione. Scavalcarono i bastioni, fissarono l'abisso ai loro piedi e, fermandosi solo per assicurarsi di avere la mia attenzione, senza emettere alcun suono, si gettarono. «Tu sei il diavolo!». «Beati sono coloro, così si dice, che versano il sangue degli uomini e per vendetta patiscono anche loro la stessa sorte». «Così sia». Torsi il collo dell'uomo nelle mie mani e quello cadde in terra, il suo filo spezzato. La mia sicurezza provocò in Athanatos una certa agitazione, quando ricompose lentamente il puzzle di informazioni che le sue spie gli riportarono circa i miei spostamenti. «Non sei solo». «Non lo sono». Al di là delle montagne avanzava l'esercito di Ospedalieri che mi aveva
seguito da lontano. Ero stato un'esca perfetta. Sarebbero piombati sulla fortezza in poche ore. Tesi la mia spada in direzione di Athanatos, caricai e lo passai da parte a parte, ma come mi aveva promesso, venne un altro a prendere il suo posto. Caddi da cavallo e i suoi Assassini si avventarono su di me. Mi aprii un varco, ma ero solo un mortale. Fu una battaglia gloriosa. Il mio unico desiderio sarebbe stato di poterla vedere. 17:40. Una tale rabbia. Un tale odio. Da quali profondità si riversava? La prosa incandescente scribacchiata sul taccuino sembrava cruda come le emozioni che aveva nell'animo. Ma come poteva esser stato lui a scrivere quelle cose, se a malapena se ne ricordava? Cosa altro aveva fatto in quei momenti di alienazione da quando Gene gli aveva fatto quel suo regalo appuntito? North tentò di razionalizzare, di classificare quello che aveva letto come una specie di macabra testimonianza oculare, eppure ogni riga, persino quelle scritte in francese antico, suscitava in lui il mormorio di una passione nascosta in cui stava cominciando a riconoscersi. Inorridì osservando i suoi lineamenti pallidi e turbati nello specchio del bagno. La pelle intorno agli occhi era contusa e incavata come se quelle tenebre stessero cercando un varco per filtrare all'esterno. Quello che vedeva era un giovane uomo, eppure in qualche modo riempito dallo spirito di qualcosa di antico. Ebbe dei conati, quel poco che aveva mangiato a colazione adesso era una poltiglia acida nel lavandino. Si sciacquò il viso con dell'acqua fredda. Si asciugò con una ruvida salvietta di carta. I ricordi di suo padre? Forse, se suo padre avesse avuto centinaia d'anni. Quelle devono essere allucinazioni, fantasie, non ricordi. Si aggrappò a quell'idea perché l'alternativa era la disperazione. Le ho fatte io quelle cose? Ricordi di una vita precedente? Sembravano così reali, come se le avesse vissute davvero, diventando in questo modo tutto ciò che disprezzava. Era l'assassinio che lo disgustava più di tutto? Sette anni nelle forze di polizia non l'avevano messo al riparo da quella sensazione. O era il fatto che in questa vita, anche in questa, era stato con una prostituta solo per sentirsi meglio? Era quella la beffa del suo destino? Se quanto aveva scritto era vero allora, a dispetto dell'inevitabile procedere del tempo, certe cose non cambia-
vano mai. Non gli serviva una vita passata per sapere che le relazioni non funzionavano. Non per lui. Era lui stesso a non permetterlo. Trenta dollari per un po' di tenerezza, senza complicazioni. Era la soluzione migliore, no? Allora perché ci stava ancora così male? Perché era tanto torturato dai sensi di colpa? Esistevano cose come il fato e il destino? Tempo addietro era giunto alla triste conclusione che la sua dolce metà non esistesse. Tuttavia, sentiva ancora di averla tradita, di aver tradito qualcuno senza nome e senza volto. Stava davvero rifacendo le stesse scelte ancora e ancora, come una macchina, incapace di imparare? Nei suoi occhi atterriti vide una profonda, inevitabile verità e non gli piacque. Erano iniziati gli incubi? Sì, e non si sarebbero fermati. Erano l'icóre di un muscolo cardiaco che palpita, inaccessibile e impenitente. ATHENAEUM Ci vollero solo quattro agenti di sicurezza per scortarlo nell'edificio. Lo prese come il segno che stavano cominciando a fidarsi di lui. Gene osservò i due che aveva di fronte: la forma del loro collo gli sembrava in qualche modo familiare. Drizzavano le orecchie a ogni fruscio dei suoi abiti. Si aspettavano che facesse qualcosa, tutto tranne che osservarli. Chi siamo oggi? Era così difficile da stabilire. Chi sono loro oggi? Osservava le loro rughe ondeggiare su quel mare di pelle contratta fino all'attaccatura dei capelli, folti come una foresta. Contegno, struttura, portamento: era difficile distinguerli. «Sembrate tutti uguali». Gene udì dietro di sé le risatine beffarde tipiche di chi si diverte. «Siete fratelli?». Risposero continuando a marciare all'unisono, il che non fu di certo esauriente. Doveva conoscere già la risposta a quella domanda. L'aveva già fatta prima? Doveva averla fatta uno dei suoi sé. Lo guidarono nell'ascensore, lo circondarono su ogni lato e premettero il pulsante del terzo piano. Per accedere a quel piano era necessario digitare un codice numerico sulla tastiera. È questo che ci dicono i numeri? Riusciva a sentire quella striscia di carta che si era nascosto nel calzino pizzicargli la pelle. Memorizzò i movi-
menti della mano della guardia e, mentre l'ascensore scendeva, cercò di elaborare quella sequenza mentalmente, muovendo a scatti le dita. Non corrispondeva. Quando si riaprirono le porte si trovò davanti un grande e lussuoso tappeto. Quel luogo sembrava in qualche modo sereno, avvolto in una calma piatta. Non gli ispirò fiducia. Lo scortarono fino a un pesante portone. Aveva chiesto di essere portato in biblioteca, gli spiegarono. Loro avrebbero aspettato fuori. Quando l'aveva chiesto? Ogni mercoledì pomeriggio, dissero, degli ultimi sette mesi. Era una delle sue abitudini. Cos'altro c'era che sapeva e non riusciva a ricordare? Un edificio con appartamenti, laboratori di ricerca e ora una biblioteca: che razza di labirinto era quel posto? All'interno trovò una vasta collezione di libri: era tutto in legno di quercia intarsiato a mano e ottone luccicante, riempito con file su file di pesanti tomi; era in quel modo che i mortali presumevano di ricordare il proprio passato. Quella era la loro immortalità. Notò immediatamente le telecamere. Certo, non lasciavano nulla al caso. Ma lui preferì ignorarle, e dirigersi dritto al cuore della sala senza esitazione e, al centro, trovò un lungo tavolo da lettura. Distesi lì sopra c'erano rotoli di documenti in pelle, pergamena e carta. Sembravano i brandelli della carne marezzata di una carcassa, ogni pagina era coperta da migliaia e migliaia di linee rosso scuro vergate delicatamente in un intreccio sottile, come vene che segnano il percorso del sangue. Migliaia di nomi e date fiorivano sulla loro superficie, campi di funesti papaveri che tradivano la lenta marcia verso la morte: erano le linee di un albero genealogico. Sedette al tavolo e srotolò una delle pergamene per esaminarla. Se quella era una sua abitudine doveva avere una buona ragione per studiare quella stirpe, ragione che per quanto fosse inafferrabile non era del tutto fuori della sua portata. Riusciva a sentirla che si muoveva furtiva da qualche parte nell'oscurità, come un prurito. Seguì col dito uno dei rami e vi trovò in cima il suo nome. Suo padre era Lawless, che, evidentemente, era padre di molti. La curiosità divenne più forte. Non c'erano molti rami in quell'albero, ma parecchie diramazioni che portavano a ulteriori fratelli, sorelle e cugini, di cui non veniva specificato il nome. I nomi mancanti erano un segreto che lui non poteva conoscere?
O era un segreto per tutti? «Ogni membro del popolo cinese Hani è in grado di recitare i nomi dei suoi avi fino alla cinquantottesima generazione: mille anni in tutto». L'uomo che era entrato dall'altro capo della sala indossava occhiali dalla montatura delicata e reggeva un libro mastro. Aveva già incontrato quell'uomo prima d'ora? Pensaci. Sì. Savage. «Le famiglie reali d'Europa possono ricostruire il loro lignaggio persino oltre: ma quando avremo finito, tu sarai in grado di battere tutti». Come? Savage se ne stava in piedi in fondo al tavolo ed esaminava gli alberi genealogici con quello che sembrava essere puro orgoglio. Sorrise. «Che ne pensi dei tuoi antenati?» «Ce ne sono troppi». Savage si sedette. «Quanti dovrebbero essercene?». È a circa due metri. Potremmo rompergli il collo... È forte... Chiamerebbe le guardie... Non se siamo abbastanza rapidi. Potrebbe avere una chiave... Gene distolse lo sguardo e represse l'impulso. Non è lui. Si concentrò invece sulle linee rosse svolazzanti. Quanti antenati dovrebbero esserci? «Non lo so». «Ce ne sono più che in una famiglia normale». La cosa non gli fece effetto: non aveva idea nemmeno di quanti antenati avrebbero dovuto esserci in una famiglia normale. «Non pensi che con tutti questi antenati potresti avere anche un numero maggiore di parenti in vita?». Gene non disse nulla. Savage lo aveva osservato. Se voleva davvero sondare i suoi pensieri avrebbe dovuto impegnarsi di più, invece di limitarsi a spiarlo dalle telecamere di sorveglianza. Savage avvertì la sua tensione. «Lascia che ti faccia un esempio. Centotrentuno anni fa, un milionario brasiliano di nome Domingo Faustino Correa morì lasciando la sua proprietà da dividere equamente tra i suoi eredi, ma solo dopo cento anni dalla sua morte. In quanti pensi siano stati, nel 1973, a rivendicare la proprietà?». Gene rimase impassibile. «Quasi cinquemila. Credo che il caso sia aperto ancora oggi. La tua stirpe è una catena ininterrotta che si allunga fino a tremila anni fa. I tuoi parenti in vita sono milioni».
Milioni? «Tutti hanno milioni di parenti in vita», disse Gene, «ma i parenti di chiunque altro non portano con loro i ricordi di questa catena. Se i ricordi rivivessero in ciascuno dei nostri parenti, saremmo una legione monomente». Gene si alzò in piedi, lottando contro un'ondata di claustrofobia che lo sopraffaceva. Sembrava che ogni libro nella biblioteca stesse assumendo improvvisamente le sembianze di un uomo, ogni pagina quelle di una donna, ogni parola l'aspetto di un bambino. Era questo ciò che udiva? Sì... Un milione di voci di un milione di persone? Sì... Barcollò, afferrò lo scaffale più vicino e vi si aggrappò. Il suo respiro era irregolare. Savage scivolò sulla punta della sedia allarmato. «Gene, fai dei respiri profondi. Lentamente. È solo l'effetto collaterale. I tuoi ricordi torneranno nel giro di un paio di giorni. So che ti senti disorientato. Stai bene?» «Dimmelo tu». La morsa della nausea si allentò. I suoi occhi si posarono sui volumi che aveva davanti: c'erano dei numeri sul dorso. 613.48 613.49 Il sistema di classificazione decimale Dewey. I numeri nascosti nel calzino assunsero improvvisamente un senso. Doveva essersi segnato la collocazione di un libro. Ma su quale scaffale si trovava il libro con quel numero? Non era serendipità: lui sapeva che l'avrebbero riportato lì. Aveva cercato di trasmettersi un messaggio. Non poteva cercare il libro in quel momento, non con Savage nella stanza. Sarebbe dovuto ritornare. Ogni mercoledì. Non possiamo aspettare una settimana. Si voltò di nuovo verso il tavolo. «Che vuoi? Perché sei venuto a trovarmi?» «Quando ho visto che eri in biblioteca ho pensato che fossi pronto per tornare a lavoro. Evidentemente mi sbagliavo. A ogni buon conto, il procedimento ha una tabella da rispettare. È ora di prenderti altri campioni». «Che genere di campioni?» «I soliti. Sangue, urine». Savage era preoccupato, anche se non lo disse apertamente. «Sono passate due settimane, quindi abbiamo bisogno anche
di un campione di sperma». Sperma? «Perché?» «È ciò che richiede il progetto». «Che cos'è il progetto?» «Tu sei il progetto». Noi siamo il progetto? Savage si alzò in piedi. Non si accorgeva che Gene stava barcollando? «Non ti allarmare. Ci siamo già passati. Questo è quello che succede quando il procedimento comincia a selezionare alcuni dei tuoi ricordi piuttosto che altri». Non capiamo. Se ci porta via come faremo a tornare qui senza destare sospetti? Dobbiamo vedere quel libro. «Non sono in condizioni di lavorare». Gene non aveva idea di quale fosse il suo lavoro. «Interferirà con i miei studi». Savage tirò un respiro misurato. La biblioteca sembrava divertirlo. «Presto tutto questo sarà superfluo per te». «Il mio futuro non mi preoccupa. Il mio presente sì». «Capisco che non ti senti bene, ma questo causerà uno sconveniente ritardo». «Mi scuso per la mia sconvenienza». «Molti mesi fa hai dato esplicito ordine di non permettere che questo accadesse». Abbiamo dato ordine? Sta mentendo... Cerca di confonderci... Era chiaro che Savage non era venuto per fare una richiesta: era solo che aveva metodi diversi da quelli di Megaera. In realtà era solo un altro caso in cui Gene non aveva scelta. Odiò Savage per questo. Savage si avvicinò lentamente. «La tabella non può essere modificata». Gene lottò contro l'impulso di voltarsi e scappare. Tamburellava con le dita sul pesante tavolo di quercia. Come prendere il coltello dalla parte del manico? Minaccialo. «Mi ricorderò, quando il procedimento sarà completato, se mi hai complicato la vita più del necessario, zio». Savage sembrò prendersela a cuore. Interessante. Sorrise dispiaciuto. «Ci stai causando qualche preoccupazione. La tua risposta al trattamento è stata... incostante». Gene si allontanò lentamente. «È normale?» «Non lo sappiamo. Le tue condizioni sono insolite».
Gene non sapeva cosa intendesse Savage, ma non avrebbe rivelato ulteriormente la propria ignoranza. Tanto era inutile, Savage poteva leggergli dentro e sembrava provare un piacere perverso per lo stato mentale in cui versava. «Vorresti che ti dicessi che cos'è il progetto?» «Mi tornerà in mente». «Il tuo DNA contiene un pezzo molto speciale di codice genetico. Tu sei il più grande libro che possediamo e continueremo a leggere le tue pagine finché non capiremo quello che abbiamo bisogno di sapere». Io sono il più grande libro? Non c'era dunque da sorprendersi che questo scienziato trovasse divertente il fatto che Gene passasse il suo tempo proprio lì, nella biblioteca. «Tu hai dato il via a un progetto, nato per individuare i marcatori che ci indicheranno se possiedi o meno un certo gene, e se questo è espresso». Gene era in stato di allerta: in mezzo all'oscurità apparve un bagliore. «Espresso? Vuoi dire se è attivo». Savage fu preso in contropiede. «Ti ricordi delle tue conoscenze». «E se si fosse attivato?» «Allora tu saresti un fenomenale successo». Gene vagliò le implicazioni. «E se così non fosse?» «Allora sarai in competizione come chiunque altro». «In competizione per cosa?» «La tua sopravvivenza». Savage sembrò improvvisamente pensieroso. «Sai che è morto un ufficiale di polizia? È su tutti i notiziari». «No». «Lo hai ucciso tu?». Ripensò al museo. Era tutto così vago, confuso, una nebbia sconnessa di irrealtà. «Ne dubito». «Il Dipartimento di polizia di New York non la pensa così. Studi questi archivi come se dessi la caccia a qualcuno». North. Cerchiamo un uomo di nome North... North è morto? Perché lo stavamo cercando? Ho chiesto il suo aiuto. «La cosa avrà serie ripercussioni». «Siamo in America. Quando mai un piccolo omicidio è stato un problema per gente che ha i soldi, come noi? Se sono davvero così importante fate sparire le prove». Savage apparve di nuovo preoccupato. «Dunque lo hai ucciso».
«Non ho ucciso nessuno. Ma voglio uccidere qualcuno». Savage fece qualche passo indietro. La camicia gli stringeva un po' al collo. «Chi?». Gene tamburellò con le dita sul tavolo con un certo disagio. Questa moltitudine di menti annebbiava tutto, ma l'impulso era innegabile. L'attenzione di Gene si concentrò su Savage. «Ancora non lo so». LIBRO QUARTO «Il sangue che vive nella memoria risplende nei secoli» Eschilo SULLA STRADA PER IL MANICOMIO Giovedì, 3:30. All'inizio era perché aveva paura di andare a dormire, poi perché non ci riusciva. Terrorizzato da quello che avrebbe potuto vedere, terrorizzato da quello che avrebbe potuto fare, North non voleva partecipare alla follia che si impossessava di lui quando non era vigile. Basta con i tori. Fissò con sguardo assente la superficie irregolare della parete, osservando le ombre che strisciavano dalla finestra e danzavano per lui come in uno spettacolo di marionette Rorschach. Basta con i tori? L'ho detto a voce alta? La sua voce gli arrivava dall'oscurità. La bestia poteva sentirlo? Se ne stava sdraiato su un fianco abbracciato a un cuscino, ci si aggrappava come se fosse la sua unica àncora. Gli occhi gli facevano male e le palpebre gli andavano a fuoco. Era esausto, eppure non riusciva a smettere di pensare, ma la ragione era irrilevante ormai. Ogni battito delle lancette del suo orologio a muro segnava il tempo della sua disperazione, un miserabile secondo dopo l'altro. Lo sentiva in ogni nervo. Ogni tic tac era un filo invisibile attaccato alle ciglia, che non si allentava mai. Il suo corpo voleva riposare. La sua testa no. 3:52. Ancora sveglio. 4:17.
Mi domando come sia essere sani... 7:38. La pelle sul dorso delle sue mani tremanti era pallida. Il naso era freddo, la fronte umida. Nello specchietto retrovisore vide che aveva gli occhi iniettati di sangue. Guarda la strada. Vedi di non accartocciarti contro un albero. Trovò il cartello per Poughkeepsie dopo un'ora e mezzo di ipnotica monotonia sulla Taconic Parkway. Dove la foresta si infittiva la Lumina uscì dalla Cinquantacinquesima e proseguì sulla Nona. North rovistò sul sedile del passeggero in cerca delle indicazioni. Il museo si trovava proprio a nord della città ed era sostenuto e finanziato dall'Hudson River Psychiatric Center. Aveva il numero di un direttore di ricerca, uno psicologo clinico che aveva chiamato già un paio di volte senza successo. La terza volta fu accolto da una voce zelante. «Il museo può essere visitato solo per appuntamento». «Che razza di museo ha bisogno di un appuntamento?» «Questo». Superò i semafori e seguì le indicazioni. «Allora, per quando è possibile prendere questo appuntamento?». Udì un fruscio di carta, forse i fogli di un'agenda. «Il prossimo martedì fra le nove e le dieci potrebbe andare?». «Sarò lì fra un'ora». North attaccò e usò tutta la sua concentrazione per riporre il telefono nella tasca. 9:57. Il centro di Poughkeepsie si trovava in mezzo a una specie di vasta depressione. A partire da lì, la strada principale si arrampicava, lunga e ripida, dall'Hudson fino al punto in cui North trovò una serie di negozi sprangati e marciapiedi deserti. Guidava lentamente, aspettando di poter imboccare Cheney Drive da Fulton Street, ma la desolazione che lo circondava era soffocante. Avrebbe voluto andarsene da Poughkeepsie con la stessa velocità con cui era arrivato, e, anche se il suo desiderio fu presto soddisfatto, quel luogo gli rimase dentro, cupo e sospeso come un ritratto della sua anima. Un vento freddo ululava tra i rami che si azzuffavano in cima alla collina dove trovò quello che una volta era l'Hudson River State Hospital. Era uno snervante insieme di mattoni rossi sporchi e scheggiati, le lugubri torri e-
rano scure e le finestre gotiche sprangate con vecchie tavole di compensato. Alcune addirittura murate. La visione diede a North la netta impressione che, malgrado apparisse tutto calmo e deserto, quella strana ristrutturazione riflettesse non tanto la necessità di tener fuori la gente, quanto quella di tener dentro qualcosa. A paragone con il più moderno edificio dell'ospedale, in attività proprio lì di fianco, e in ombra per via di alcuni alberi, quell'ala sembrava un fantasma che resisteva strenuamente a un esorcismo. Una staccionata di paletti in legno grezzo segnava il confine di un parcheggio vuoto e, quando cominciò a cercare di orientarsi, si accorse che tutta la segnaletica era affissa alla rovescia. Accettò di buon grado l'avvertimento. 10:20. L'edificio amministrativo era piccolo e pieno di uffici minuscoli e deserti. I corridoi si estendevano sinuosi in un contorto labirinto di vicoli ciechi e incroci. Nonostante la confusione, North trovò la porta di un ufficio contrassegnata con il fantasma di un nome scritto sul vetro sporco: "Dottor C.H. Sullivan". Era ancora la stanza giusta? North indugiò un attimo per ricomporsi. Recita la tua parte. Conosci la parte. Prese un lungo respiro, mentre il cuore gli pompava furioso nel petto e il battito sembrava impazzito. Bussò alla porta ed entrò. Fu accolto da un uomo alto con i capelli crespi, forse un paio d'anni più grande di lui, dall'aria piuttosto perplessa. «Eh, no, questo proprio non va bene», si lamentò l'uomo, immerso nei documenti sulla sua scrivania. North aspettò qualche secondo, in attesa che l'uomo terminasse quel che stava facendo, ma sembrava non averne proprio alcuna intenzione. «È una scrivania molto ben organizzata, dottor Sullivan. Sono sicuro che sia tutto in ordine...». L'uomo sembrò subito un po' meno diffidente. «Sono certo di sì, ma io non sono il dottor Sullivan». North rimase in attesa. «Sono il dottor Oak. Il dottor Sullivan è andato in pensione lo scorso anno. E lei chi è?». North si presentò mostrando il distintivo. «Le mie informazioni sono evidentemente poco aggiornate. Mi spiace interrompere il suo lavoro», rispose North senza nemmeno un briciolo di sincerità. Oak osservò il suo visitatore con maggiore attenzione. «Capisco. Di che
si tratta?». North prese la fotografia della siringa ipodermica e la poggiò sulla scrivania. La sua voce era stanca e venata da una specie di spossatezza. «È vostra?» «Intende del museo?». Oak la sollevò con prudenza. L'immagine del vetro levigato e della parte argentata era chiara e nitida. Di certo notò la sigla H-R-S-H. Hudson River State Hospital. Oak era sorpreso, e non si preoccupò di nasconderlo. «Come l'ha avuta?» «Mi ci sono imbattuto in città». Era riluttante a fornire qualsiasi altra informazione. Oak non sembrava interessato ai dettagli, tornò a guardare la fotografia. «Avrebbe potuto ucciderla». «Così mi hanno detto. Vi manca per caso una siringa antica?» «Ne dubito. Abbiamo una siringa antica che fa parte di una collezione in mostra più o meno da quando l'ospedale è stato inaugurato». «E cioè quando?» «Milleottocentosettantuno. La siringa, due aghi, qualche stantuffo di ricambio, alcuni pulitori, tutto in una piccola scatola con un coperchio di seta viola. È piuttosto affascinante». «Sembra conoscerla molto bene». Oak accettò il complimento. «Non ci sono molti centri psichiatrici con un museo annesso. Tutti noi in qualche modo ce ne interessiamo». Restituì la fotografia. «Di certo non ha fatto tutta questa strada solo per indagare su un furtarello?» «È morto un poliziotto». L'espressione sul viso di Oak si indurì. North tirò fuori la foto segnaletica di Gene e la fece scivolare sulla scrivania verso di lui. «Sto cercando di rintracciare quest'uomo. Lo riconosce?». Oak osservò con attenzione la fotografia e rispose pacatamente. «No. Non l'ho mai visto prima. Perché un giovane come questo dovrebbe irrompere in un museo solo per rubare una siringa? Per un tossico ci sono cliniche e farmacie più accessibili». «Forse è una questione di opportunità. Pensano che potesse aver lavorato qui o che potesse essere stato un paziente». «Capisco». «È sicuro di non riconoscerlo?»
«Mi dispiace». Sto per uccidere quest'uomo. Sto per allungarmi e cavargli un occhio. «Il museo si visita solo per appuntamento. Per lo meno esiste un registro dei visitatori?». Oak rovistò un attimo fra le carte sulla scrivania. «Purtroppo non è qui. Ha un nome oltre alla fotografia?» «Gene. È tutto quello che so». «Non c'è molto su cui lavorare». Oak afferrò il suo cappotto e un mazzo di chiavi e precedette North fuori dall'ufficio. Controllò l'orologio che aveva al polso. «Le posso concedere mezz'ora, ma poi devo davvero andare. Vediamo quello che riusciamo a trovare». Nascosto dietro una pesante porta, il museo era costituito da un'unica stanza cavernosa in cui grandi scaglie di vernice cadevano dal soffitto simili a fiocchi di neve, ricoprendo il pavimento di legno. C'era poca luce, l'aria era umida e c'era odore di disfacimento ovunque. Proprio vicino all'entrata, vicino ad altri terrificanti strumenti di costrizione, c'era una sedia di legno con lo schienale alto e delle stringhe alla base e sui braccioli. La sedia, con quel buco sulla seduta, sembrava una comoda, ma all'altezza della testa sporgeva una specie di barriera. Era progettata per evitare che chiunque vi fosse legato potesse mordere o sputare a chi gli stava vicino. La targhetta diceva: "Sedia della tranquillità di Benjamin Rush. Inizio del 1800". North la guardò nauseato. Tranquillità per chi? Strana invenzione per un uomo che aveva firmato la Dichiarazione di Indipendenza. Gli altri strumenti non sembravano certo migliori. «Cos'è questo?», chiese North con aria diffidente indicando un catafalco simile a una cassa da morto che aveva una serie di sbarre al posto del coperchio ed era tenuto appeso a pesanti catene. «Questa è la culla di Utica», spiegò Oak orgoglioso, «viene dal Manicomio di Utica dello Stato di New York. Il paziente ci dormiva dentro e veniva cullato, serviva a calmarlo. A ricordargli il senso di sicurezza provato nella culla durante l'infanzia». Chissà dove me ne posso procurare una. Sulla parete dietro la culla era appesa una camicia di forza, immediatamente sotto a quel che sembrava un morso di cavallo. Poi vide un manichino con indosso l'uniforme di una scuola per infermiere un tempo annessa al manicomio. C'erano vecchie scrivanie e libri di medicina, vetrinette
polverose che contenevano frammenti di abiti, bottiglie, ventagli, pettini, persino rasoi affilati. North cominciò a sudare. Sentiva una sensazione di freddo scorrergli lungo la nuca. È questo che mi aspetta? Che cosa facevano a chi perdeva la testa, in un moderno ospedale psichiatrico? «Allora l'ospedale era una comunità autosufficiente, si capisce». Oak scorse con il dito le vetrine cercando quella che gli interessava. «Gestivano una fattoria, il bestiame, confezionavano abiti, scarpe e...». Nella vetrina, una solitaria sagoma rettangolare più chiara rispetto alla mensola impolverata, indicava quello che un tempo doveva esser stato il posto della scatola, ormai desolatamente vuoto. «Sembrerebbe che il suo signor Gene sia stato qui». Il piccolo registro marrone era su uno scaffale vicino all'ingresso. Oak lo aprì e iniziò a sfogliarlo cercando tra i nomi dei visitatori, a cominciare dai più recenti. Non ci volle molto. «G... G... No, mi dispiace. Nessun visitatore il cui nome inizia con la G. Sicuro di avere il nome giusto?» «Sì». Ma in fondo perché Gene avrebbe dovuto dire la verità? «E il cognome?». Oak diede un'altra occhiata, ma non ci volle molto perché tornasse a scuotere la testa. «Gerard. Goldstone. Nessun Gene». Non si sta impegnando abbastanza. «Fino a che data ha controllato?» «Non abbiamo molti visitatori. La lista arriva fino a cinque anni fa, e non tutti si registrano». Gene. Che cosa mi sfugge? Fece capolino dietro le spalle di Oak e seguì con il dito la lista dei nomi. D.B. COLE, ED DYBBUK, JANET COURTLANDT M.D., A.H. ROMER, ED DYBBUK un'altra volta. JANE SHORE, JAY... Ecco. Forse aveva pensato per tutto quel tempo che fosse scritto in altro modo? «Jean, con la J. Guardi sotto la J». Oak fece come gli era stato detto, ma la dura realtà divenne presto chiara. Negli ultimi anni solo quattro persone il cui nome iniziava con la J avevano visitato il museo. Avevano firmato tutti con il nome per esteso. Erano tutte donne. Nessuna Jean. Oak chiuse il libro. «Chiederò alla sicurezza per vedere se è stata rilevata un'irruzione di cui non ero al corrente, ma qui il suo uomo non c'è.
Comprendo la situazione, ma lei ha sprecato una giornata, detective». 11:00. North se ne stava seduto in auto vicino all'edificio amministrativo, chiedendosi se tornare a casa o ricoverarsi direttamente lì, mentre osservava il livido cielo della Dutchess County avvolgere l'Hudson e le montagne Shawangunk. Il lussureggiante bosco che proteggeva parte dell'ospedale e rendeva il complesso così isolato cominciò a sussultare per le prime gocce di pioggia. Lo spazio aperto era qualcosa di meraviglioso, esprimeva un genere di libertà a cui non era abituato. Era un paradiso tutto suo. Quel punto lassù, sulla collina, non era tanto alto da dargli le vertigini, ma abbastanza per offrirgli una nuova prospettiva. Affacciandosi alla finestra del suo appartamento avrebbe potuto godere solo della vista di tre perfetti sconosciuti che si grattavano i genitali. Si strofinò gli occhi gonfi e in fiamme. Qui avrebbe per lo meno potuto riposare un po'. Rimanere fuori gioco per qualche tempo. Fuori gioco e fuori di testa. Santo cielo. Il trillo del suo Nextel non fu del tutto inaspettato. Si meravigliò, piuttosto, che la chiamata non fosse arrivata prima. «Ho detto a Hyland che sei fuori a lavorare sul caso». Quella sì, fu davvero una sorpresa. Era Martinez. «Sono fuori a lavorare al caso». North avviò il motore e cominciò ad avviarsi lentamente verso l'uscita. «Bene, così non ci faccio la figura del bugiardo. Trovato niente?» «No, la clinica è un buco nell'acqua». «Accidenti. Stammi a sentire, due cose: la prima, Hyland vuole sapere che fine ha fatto il suo DD-5». «Digli che è sulla sua scrivania». «Sa bene che non è sulla sua scrivania». «Allora digli che sono un bugiardo». «Andrà fuori di testa, cavolo!». «Buon per lui. È tutto?» «No, quest'altra notizia l'ho voluta tenere per ultima. Ash ha confermato il tuo sospetto sull'auto. Il battistrada del pneumatico corrisponde a un Michelin MX4». North accostò. Estrasse rapidamente il taccuino e lo sfogliò fino a una pagina vuota. «Continua».
«È piuttosto comune. I frammenti di vetro corrispondono al faro frontale sinistro di una Chrysler Sebring berlina del 2004. E... le Sebring di questo tipo montano di serie sia le Goodyear Eagle LS che le MX4». North stava prendendo nota alla velocità della luce, mentre la testa gli correva in fretta. «Scritto. E la bicicletta?» «Ash dice che sulla canna ha trovato schegge di vernice dovute allo scontro con un veicolo. La vernice è grigio metallizzato, il nome esatto del colore è grafite metallizzata chiara. È una delle opzioni di rivestimento della Sebring berlina». Adesso sì che si comincia a ragionare. «Che altro?» «Sono stati rinvenuti frammenti di vetro conficcati nella ruota anteriore della bicicletta. Alcuni sono compatibili con i vetri del faro frontale sinistro di una Chrysler Sebring berlina». North era eccitato. «I frammenti corrispondono o è solo lo stesso modello di auto?». Martinez rispose pronto. «Il danno esaminato sulle due serie di frammenti corrisponde. È la stessa auto. Qualcuno vi stava seguendo». Gene è salito su quell'auto. North fu preso dal panico. «Il Dipartimento dei Trasporti ha già inviato i nastri di quelle telecamere per il controllo del traffico?» «Me ne sto occupando». «Dobbiamo tirare fuori un gruppo di targhe da quelle telecamere». «Ehi, ho detto che me ne sto occupando. Nel frattempo ho chiesto al DMV 9 di inviare una lista di intestatari di Sebring che corrispondono alla descrizione della nostra auto. Male che vada andremo a trovarli uno per uno». North si sentì vivo, come se si fosse di colpo liberato da un grosso peso. Doveva tornare indietro e rivedere quei nastri. Controllò gli specchietti. In piedi accanto a lui, sotto quella pioggia fitta, vide una grossa sagoma scura. L'uomo bussò al suo finestrino. «Detective North? Detective North!». Per lo spavento, attaccò involontariamente il telefono in faccia a Martinez. Si avvicinò al vetro per vedere meglio. Era Oak. North abbassò il finestrino. 9
Department of Motor Vehicles: Dipartimento dei motoveicoli.
«Sono così felice di averla raggiunta in tempo». «Che succede?» «Si tratta di questo registro delle visite». Lo psicologo estrasse il libro di pelle marrone da sotto il cappotto per mostrarglielo. «Lo stavo sfogliando da capo e all'improvviso mi sono accorto di riconoscere uno dei nomi». Glielo allungò. North lo aprì, Oak lo guidò verso una pagina precisa, infilando la testa nella macchina per ripararsi dalla pioggia. «L'anno scorso, per diverse settimane, abbiamo avuto in cura una paziente con una situazione a dir poco insolita, che si chiamava Cassandra Dybbuk». «E lei ha visitato il museo?» «No, ma le firme di questo visitatore con lo stesso cognome risalgono più o meno allo stesso periodo. Qui, vede? Ed Dybbuk». North fu cortese. Dybbuk aveva visitato il museo molte volte, più di chiunque altro, ma non capiva come questa informazione potesse avere una qualche rilevanza. «Ho verificato. Quest'uomo era il figlio di Cassandra Dybbuk». «Ma lei mi ha già detto di non riconoscere l'uomo che le ho mostrato in fotografia, dottore». «Io non ho mai incontrato suo figlio. Tuttavia, un paio di medici su in reparto l'hanno visto. È stato lui a volerla internare. È il suo tutore, ma non si chiama affatto Ed Dybbuk». Oak attirò l'attenzione di North sul registro. «È il modo in cui è scritto, vede? Ha omesso i punti. In realtà si legge E.D. Dybbuk». North chiuse il registro e glielo restituì. «Non sono sicuro di riuscire a seguirla». Oak sorrise eccitato. «Il nome del figlio di Cassandra Dybbuk, detective, è Eugene». North seguì precipitosamente Oak nell'edificio principale. Qualcuno mi dia un riscontro positivo sulla sua identità, per favore. La luce scura del temporale proiettava un'ombra lugubre sullo spartano banco dell'accettazione. Oak lo lasciò da solo per andare a cercare il medico che aveva tenuto in cura Cassandra Dybbuk. North ne approfittò per mostrare la fotografia agli impiegati dell'accettazione. Niente da fare. Alla fine Oak tornò, accompagnato da un gruppo di psichiatri alquanto agitati. Uno di loro, una donna minuta con capelli rosso scuro, guardando la fotografia confermò che Gene aveva sicuramente una straordinaria somi-
glianza con Eugene Dybbuk, ma non aggiunse altro. Subito dopo arrivò un amministratore più anziano. Seguì una discussione dai toni piuttosto accesi. Oak sembrava imbarazzato. Dopo qualche minuto l'amministratore si rivolse a North. «Mi dispiace, non possiamo proprio darle altre informazioni». È incredibile. «Non voglio accedere ai dati medici. Voglio solo un modo per contattare Cassandra o Eugene Dybbuk». «Dobbiamo attenerci all'HIPAA10 . La privacy del paziente ha la priorità su qualsiasi altra cosa. È parte della nostra politica persino non confermare se un paziente si trovi qui o meno». La frecciata era diretta a Oak. Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. North sentì un crescente senso di frustrazione impadronirsi di lui. Non era la prima volta che si scontrava con la legge sulla privacy. L'HIPAA era nata su buone premesse. Nella pratica, però, creava solo dei grandi casini. Una volta aveva cercato di interrogare la vittima di una sparatoria. Aveva bisogno di una descrizione del criminale. Non solo l'ospedale non confermò la sua presenza, ma impiegò due giorni per avere un mandato che gli consentisse di vederla. E al quel punto se n'era già andata. North si aggrappò al banco dell'accettazione. Devo tentare. «Forse non mi sono spiegato. Questa è un'indagine per omicidio. È stato ucciso un ufficiale di polizia». «Forse io non mi sono spiegato: no». 11:38. North si precipitò alla sua macchina e infilò la strada principale. Dovrà pur esserci un altro modo. Si diresse verso il centro. Non ho tempo di procurarmi un mandato. Dybbuk, Dybbuk. Che razza di nome è? Polacco? Olandese? Cercò di ricordare il registro. Non l'aveva trascritto. Come l'aveva pronunciato? Tentò di visualizzare le righe su cui Gene aveva scarabocchiato il suo nome. Dybbuk. D-u...? D-y...? D-y-bb... C'era quasi. Ne sentiva il profumo. Senza guardare e senza fare attenzione prese una curva mentre tirava fuori il suo Nextel e digitava il quattro uno uno. 10
Health Insurance Portability and Accountability Act: Legge sulla trasferibilità e sulla responsabilità dell'assicurazione sulle malattie.
Diede i dati all'operatore. «Che città?» «L'intero stato». «Signore, è consapevole che con una ricerca di questo genere potrebbero venir fuori migliaia di voci?» Ne dubito. «Con un nome come Dybbuk?». L'operatore, riluttante, fece quanto gli era stato chiesto. North udì il ticchettio dei tasti di plastica sulla tastiera. «Signore? Sotto il nome Dybbuk ho tre voci. Ha un nome di battesimo o un'iniziale?». Non può essere così semplice, o sì? Fai un tentativo. «Provi con Eugene». L'attesa era penosa. E fu anche vana. «Ok, provi con la C. Nome per esteso: Cassandra». «Ho quel nome nell'elenco. Cassandra Dybbuk. Prefisso cinque uno otto...». Cinque uno otto? È fuori città. Sostenne il telefono con la spalla e scrisse il resto del numero sul dorso della mano. «Qual è l'indirizzo?» «Indirizzo: due-cinquanta-due, Sesta Avenue. Troy». LE OMBRE DELL'ALBERO GENEALOGICO Non era che una cavia da laboratorio, in realtà: un altro test per un altro pezzo di formaggio? Savage condusse Gene attraverso una serie di stanze, superando grandi vasche contenenti elementi chimici volatili come acetone e butanolo. Gli prelevarono il sangue, gli strofinarono bruscamente la punta ruvida di uno spazzolino di plastica in bocca per avere dei campioni biologici. Mentre le infermiere si stavano occupando di lui, una di loro con i capelli raccolti in uno chignon si lasciò sfuggire di averlo visto parlare da solo nella doccia. Gene rimase senza parole, e non disse nulla. In un certo senso non ne era sorpreso. Dunque ci osservano. Lo avevano visto quando aveva trovato quei numeri? Uscì dalla stanza e chiese con calma: «In quanti mi osservano?». Savage era visibilmente a disagio, anche se sembrò prenderla come una domanda estremamente ovvia. «Tutti. Siamo tutti interessati a te». Tutti. Ogni laboratorio in cui passarono si trovava a un piano più in alto rispet-
to al precedente, come in una specie di ziggurat, finché raggiunsero i piani superiori dove non c'era più possibilità di fuga. Che importa? Lasciamogli prendere i loro campioni. Era già stato imprigionato prima, confinato nella torre, in balìa del capriccio altrui. Doveva solo avere pazienza. Avrebbe aspettato la sua occasione. Al trentatreesimo piano lo fecero salire su un tapis roulant e lo collegarono a una serie di macchine per misurargli respiro e battito cardiaco, e quando fu sufficientemente sudato raccolsero campioni della traspirazione. Mentre lo staff medico sciamava intorno a lui, Savage cominciò a prendere appunti su un registro, facendogli anche una serie di domande. «Ti senti perso?». Come potrebbe essere diversamente? La verità era un incubo senza fine. «Vuoi dire come se non sapessi più chi sono?». Savage sembrava inquieto. Intervenì sui parametri della macchina per aumentare velocità e inclinazione. «Non sai chi sei?». Gene stava facendo una gran fatica per riuscire a tenere il ritmo. Il battito del cuore accelerato e il ronzio dei motori di quell'attrezzo divennero assordanti. «Ma certo che so chi sono!». Savage era diffidente. «Mi pare di capire che dimentichi le cose. Fai qualcosa e dimentichi il motivo per cui la stai facendo». «Sì». «Come al museo». «Sì». Savage annuì compiaciuto dei piccoli progressi. «Dunque non era nelle tue intenzioni andare al museo?» «Perché avrei dovuto volerci andare?» «Dimmelo tu». Al trentaquattresimo piano la loro meticolosa ispezione della sua persona richiese un campione di urina. Senza concedergli altra privacy che quella consentita da uno schermo di vetro opaco, discussero della loro ricerca, della concentrazione di neurotrasmettitori che si aspettavano di trovare nel sistema, e così via. Li ascoltò, mentre urinava in un barattolo. I neurotrasmettitori guidavano le emozioni e i ricordi della mente. Stavano tentando di sollecitare in lui ricordi che affondavano le loro radici nella polvere dell'antichità, ma qualcos'altro li turbava. A questo proposito si dimostrarono, tuttavia, più prudenti e non fecero trapelare nulla. Gene si sforzò di mettere insieme qualche altro dettaglio, ma non gliene diedero il tempo. Uno di loro, ormai stanco di aspettare, gli chiese di darsi
una mossa. Gli ci volle un attimo. Al trentacinquesimo piano fu scortato lungo una serie di corridoi con pareti di vetro rinforzato attraverso cui si vedevano alcuni macchinari. Finalmente qualcosa di familiare, qualcosa che era in grado di riconoscere, fu uno shock. Questo sì che lo conosceva. Faceva parte del suo Io più profondo. C'erano macchine di forma cubica e computer, programmati per manipolare la struttura essenziale del suo DNA, una doppia elica storta di molecole, come due serpenti intrecciati che intrappolavano la sua anima tra i loro denti velenosi; due serpenti, ciascuno con miliardi di squame in quattro colori diversi: adenina, citosina, guanina e timina. A, C, G, T, i quattro componenti base: l'alfabeto del suo destino. Ne era come irresistibilmente attratto, mentre tutti i tecnici erano in piena attività tra analizzatori di immagini e chip genetici, ossia dei quadratini di vetro con materiale biologico al posto dei circuiti elettronici. Come le due metà di una chiusura lampo, le doppie trecce di DNA si saldavano l'una all'altra perfettamente: A solo con T, C solo con G. Avevano isolato un campione di DNA, mettendone le singole trecce su questi speciali chip insieme a marcatori fluorescenti. In questo modo, mentre le trecce di DNA appartenenti a Gene, anch'esse isolate, galleggiavano sul chip immerse in una soluzione liquida, si allacciavano a quelle del campione facendole illuminare e indicando quali dei suoi geni fosse attivo e in quale cellula, in quel preciso momento. Ma perché la ricerca avesse successo, il DNA di Gene doveva essere elaborato insieme a un altro campione di DNA, non uno qualsiasi, ma quello che conteneva il gene che stavano cercando. Un gene che solo Cyclades possedeva e che avrebbe svelato loro la chiave dell'immortalità. La domanda era: a chi apparteneva il DNA usato per i chip genetici? Avevano sfruttato quello di un donatore vivente che era proprio come lui, o avevano usato una fonte più antica? Forse dei resti, presi da una vita precedente, come ad esempio la polpa estratta dal dente di un teschio. Le cose si andavano complicando sempre di più, gli scoppiava la testa. Ripensò al museo e a tutto lo scompiglio che aveva provocato lì dentro. Aveva davvero tenuto fra le mani il teschio che un tempo era appartenuto a lui? «Il gene che siete ansiosi di trovare renderà tutto questo obsoleto, non è così?». Savage sembrò compiaciuto. «Athanatos ha tenuto in vita la sua essenza,
generazione dopo generazione, un corpo dopo l'altro, per migliaia di anni, l'ha tenuta in vita attraverso un'alchimia continua. Ma tu possiedi quel che renderà la sua rinascita automatica. E noi lo troveremo, e se il procedimento a cui ti stai sottoponendo risulterà valido, tutta la sua progenie ne beneficerà per diritto di nascita». Cosa intende? «Se questo procedimento ha funzionato per millenni, perché cambiare ora?». Savage gli girò la domanda. «E la chiami vita, questa?», chiese. «Questa immortalità deve essere raggiunta solo attraverso uno sforzo senza fine? Cosa impedisce che sia un nostro diritto di nascita?». Gene comprese. «Il sistema è difettoso». Savage trovò doloroso doverlo ammettere. «Sì, è difettoso. Ultimamente ci sono delle falle. La rivivificazione selettiva della memoria di generazione in generazione significa'che Athanatos non può essere del tutto certo di aver trasmesso il suo intero sé. Ci è sorto il dubbio che... si stia dissolvendo». Savage mise la mano sulla spalla di Gene. «Tu cambierai le cose». Allarmato, Gene seguì Savage attraverso una serie di uffici in pieno fermento, fino a un'imponente porta nera. Sulla soglia c'era... era Megaera quella? Si era già sbagliato in passato. In questo luogo non poteva essere sicuro di nulla. La donna teneva un bambino fra le braccia. Avrà avuto due anni, i suoi strani capelli erano chiari e sottili, e non coprivano a sufficienza la sua testa deforme. Dal suo piccolo mento colava della bava, e benché i suoi occhi brillassero luminosi non rispondeva agli stimoli intorno a sé. Megaera non lo amava e sembrava trovare oltraggiosa la sua sola presenza. Lo spinse di nuovo fra le braccia della tata, che commentò amaramente: «Vuole solo passare un po' di tempo con sua madre». Megaera non ne fu commossa. «E tu credi di sapere cosa vuole questo coso? Portalo lontano dalla mia vista». Lo aveva visto? Nel caso, se ne sarebbe data pena? Gene rimase saldamente inchiodato lì dov'era, e lei gli passò accanto come una furia. Osservò la tata che offriva al piccolo un po' dell'affetto che la donna con i capelli ramati rifiutava di dargli. La tata faticò a prendere il suo badge e poi lo passò lungo la serratura. Nessuno si offrì di aiutarla. Quando la minacciosa porta nera si aprì, Gene allungò il collo per vedere cosa c'era dietro, ma non gli fu concesso indagare oltre. Savage gli fece segno di seguirlo lontano da lì più in fretta possibile.
«Non di là». «Cosa c'è laggiù?» «Niente». «Un niente che richiede un pass di sicurezza». «Niente di importante». Falso anche questo. Osservò il corridoio e tutte le ramificazioni che da lì si dipanavano. «Da che parte?». Savage lo condusse davanti a un vasto ufficio con la porta ben chiusa. I pannelli di vetro su entrambi i lati erano smerigliati. Il nome sulla porta era: "Eugene Dybbuk". Aveva un ufficio? «Pensavo che potremmo continuare le nostre ricerche qui dentro, con il tuo permesso». Forse all'interno avrebbe potuto trovare delle risposte. Provò ad aprire la maniglia. Pazzesco. Ci voleva un altro codice. Percepì una schiera di occhi bruciargli dentro. Un altro test per verificare che fosse davvero tornato in sé? Cercò di rilassarsi e svuotò la testa. Digitò d'istinto la prima serie di numeri che gli venne in mente. La serratura meccanica di precisione murata nel raffinato legno scattò. «Nelle mie condizioni, sei fortunato che me lo sia ricordato». Gli occhi di Savage si illuminarono di soddisfazione. «Affatto. Non hai mai saputo la combinazione. Come ogni altra cosa è codificata in ogni fibra del tuo essere. Anche se non ne sei cosciente la tua funzionalità mnemonica è intatta e accessibile». Come possiamo usare tutto questo a nostro vantaggio? Savage gli allungò un altro contenitore. «Dovrebbe esserci un giornale nel cassetto se hai bisogno di aiuto per entrare nel giusto stato d'animo, per così dire. Fai con comodo. Aspetterò qui». Gene fece scattare la maniglia e spalancò la porta. All'interno trovò Megaera che lo stava aspettando. Era seduta sulla scrivania, con le gambe incrociate, e sembrava contenta che Gene fosse arrivato, finalmente. Non si fidava di lei. Sulla scrivania c'era un giornale aperto. Megaera lo stava pigramente sfogliando. Un'infinità di donne nude si affacciavano dalle pagine con i loro giovani corpi in contorte posizioni provocanti. «Giornata piena, vedo». Lo aveva osservato anche lei. Gene si chiuse la porta alle spalle. «Per lo
meno tu non ti nascondi dietro una telecamera». Megaera guardò il recipiente che Gene aveva in mano. «Oh, fai pure quello che devi fare, non disturbarti per me», «Se è per questo, credo che non comincerò neanche». Posò con fermezza il recipiente sulla scrivania accanto a lei. E fu allora che vide quella pagina, tutta piena di una scrittura simile a una ragnatela, incorniciata vicino allo schermo del computer. Si accese una scintilla. La sollevò per studiarla, fosse solo perché la cosa gli permetteva di darle la schiena. «Sei sempre stato così ossessionato da quel quadro». Davvero? Era un esempio della scrittura di Darwin. Nel periodo in cui stava abbozzando la sua teoria dell'evoluzione lo scienziato aveva notato che la sua scrittura somigliava notevolmente a quella di suo nonno Erasmus. Era solo un caso? O era un tratto distintivo? Persino Darwin non riusciva a decidersi. «Ricordi quando te l'ho dato?» «No». «I tuoi ricordi sono ancora in subbuglio. Un peccato. Si stabilizzeranno e torneranno da te. Mi dicesti: geneticamente parlando, la scrittura di Erasmus era un'espressione della sua abilità di coordinazione motoria. Era quello l'aspetto che aveva trasmesso al nipote. Dicesti: e chi può dire che la scrittura di Erasmus non somigliasse a quella di suo nonno? Ti rifiutavi di credere nella memoria genetica». Rise. «Eri così buffo». Ma perché la sua risata suonava così falsa? Era come se Megaera fosse divorata da una feroce invidia per lui. Gene posò il quadro. «Il tuo istinto materno è sorprendente». «Che te ne importa?» «Perché odi tuo figlio?» «Non lo odio». «Ma nemmeno lo ami». «Non me ne curo. È una massa informe di carne inutile. Tu ti affezioni così tanto ai tuoi esperimenti? A che pro? Mangia, produce escrementi e non serve a niente». Gene resistette alla tentazione di giudicarla. Sì, era senza cuore. Ma perché? Indagò più a fondo. «Come suo padre?». Si alzò in piedi evasiva. «Accipicchia, siamo in vena di lusinghe? In ogni caso», disse, «sarebbe un complimento troppo grande per suo padre». Fece correre le dita sulla scrivania. «Come va con le voci?»
Touché. «Non sento voci», mentì con fermezza. «Ho dei ricordi». «È questo lo scopo complessivo del procedimento. Con il tempo le tue personalità sommerse si fonderanno in una cosa sola. Sarai molto di più che la semplice somma delle tue parti». «E tu, non lo sarai?» La domanda la colpì. L'invidia che fino a quel momento era riuscita a contenere proruppe in tutta la sua forza. Afferrò il quadro sulla scrivania e lo scagliò contro il muro. Il vetro si frantumò in migliaia di schegge irregolari. «Non mi è permesso! Nonostante tutto, nonostante tutte le complicazioni sorte per colpa tua, il nostro glorioso padre ha deciso che tu sarai il prossimo Athanatos. Nonostante tutto, il mio lavoro sull'Ipotesi di Correlazione con il nostro sfuggevole CREB...». CREB? Gene pensò rapidamente. Il gene CREB1 era sul secondo cromosoma. Che cosa fa? Memoria, ecco, una delle sue funzioni ha qualcosa a che fare con la memoria. E lui avrebbe dovuto rinfrescare la propria, una volta che lei se ne fosse andata. «Nonostante i miei progressi nell'individuare il tuo funzionamento, la gloria spetta a te. Sei tu che andrai avanti». I suoi occhi, grandi e pieni di autentica frustrazione, erano bagnati di lacrime. «Il mio duro lavoro, per nulla: e tutto per la mancanza di una Y». Gene non fece nulla per consolarla. Non era nemmeno sicuro di volerlo fare, in realtà. Lei prese un fazzoletto e si tamponò gli occhi. «Potresti benissimo marcire in galera per quello che hai fatto. Hai messo a repentaglio tutto. E invece lui sceglie ancora te». «Savage non ne è sicuro». Megaera sembrò divertita da questo commento. «Savage non conta niente. È un sognatore, e neanche uno dei migliori. È l'ultima ruota del carro». Si gettò i capelli ramati dietro le spalle e guardò i vetri sul pavimento, senza espressione. Prese il cestino della carta straccia e cominciò a rimettere in ordine tutta la confusione che aveva fatto da sola. «Il prossimo Athanatos sarai tu. Così è stato deciso, quindi eccomi, pronta ad omaggiare e promettere eterna fedeltà al re». Gene continuava a essere diffidente. La osservò mentre raccoglieva quei vetri, era come una mano strisciante pronta a guidarlo allegramente verso il ciglio del burrone, e capì che come sempre, le sue motivazioni non erano sincere. Era già stato manipolato in precedenza. Manipolato e messo all'angolo.
Quei ricordi erano una cicatrice che nemmeno il procedimento poteva cancellare. L'ambiguità implicita nel piano di Athanatos lo faceva star male. Era ora di finirla con quei giochetti. «Che cosa stai tramando?». In un gesto di rabbia feroce, non paga di quanto li avesse già frantumati, la donna scaraventò i pezzi di vetro nel cestino e si tagliò un dito, perdendo gocce lucide e rosse sopra i fogli bianchi accartocciati là dentro. Avanzò lentamente verso di lui e sollevò il dito. «Non vorresti baciarlo?». Gene rimase impassibile. Lei sorrise. Le piaceva. Si avvicinò ancora e gli sporcò le labbra di sangue. Lui ci passò sopra la lingua, d'istinto. Gli sussurrò all'orecchio. «Cosa pensi che abbia in mente?». Gene non rispose. Si asciugò il dito insanguinato sulla camicia bianca. «Oh, andiamo fratellino, abbiamo entrambi gli stessi ricordi. Siamo schegge della stessa anima. Sono sicura che riesci a vedere quello che ho in mente». Era eccitata, il collo le si era lentamente arrossato e aveva le pupille dilatate. Lo toccò con l'altra mano sulla gamba, fino al cavallo, e lì si fermò. Si accorse con un certo piacere che la cosa aveva sortito il suo effetto. «Vieni, lascia che ti aiuti. Vogliono il loro campione, e noi qui siamo in due. Siamo la stessa cosa, io e te. Vedila come una masturbazione all'ennesima potenza». Sentiva che le pulsazioni nel pene aumentavano d'intensità. Perché non la respingiamo? Lo toccò di nuovo, e più forte. Aprì la chiusura lampo tenendola stretta tra il pollice e l'indice, e quando lui finalmente le riempì la mano tirò con decisione indietro la pelle e iniziò quel lungo e regolare movimento che gli incendiò i sensi. Il respiro di entrambi intrappolato in gola. Era tutto così familiare, così spaventosamente evocativo. Era già stato ingannato una volta. Non poteva lasciare che accadesse di nuovo. Non di nuovo. «Mi fai schifo». Eppure non riusciva a respingerla. «Posso ampiamente dimostrare che stai mentendo». Sorrise e sussurrò ansimante nel suo orecchio caldo. «Goditela, mio carissimo fratello, perché io ti distruggerò». IL COLORE DEL FUOCO GRECO
Quando aveva nove anni, suo padre si ammalò. Il grande imperatore bizantino Leone IV, fu colto dalla febbre e costretto a letto. Sulla fronte gli erano comparse enormi vesciche e mostruose pustole infiammate, eppure ancora non rinunciava alla corona che gli avevano detto esserne la causa. Oh, quanta passione per quella sua corona. Gli avevano detto: «Non entrare là dentro. Tuo padre è malato. Non desidera essere visto in queste condizioni». Quindi rimase nell'ombra, nella camera da letto di suo padre, a guardarlo morire. Sua madre non venne mai. Cyclades se ne stava in piedi nell'oscurità della Porphyra aspettando il suo destino. Era una notte fredda. Un vento gelido soffiava dal Bosforo e affondava i suoi artigli su tutta Costantinopoli, ma lui non aveva paura. Sapeva già a cosa avrebbe portato l'ineluttabile fato, c'era poco di cui avere paura. Appena otto secoli dalla nascita di Cristo ed ecco il luogo in cui Cyclades si era reincarnato. Lì dove era nato suo figlio. Lì dove pensavano che fosse morto. Un padiglione in porfido, del rosso più intenso e del viola più puro. Una stanza ornata con esotiche e lussuose sete viola e arazzi della stessa tinta. Quello era il colore dell'Impero. Lì dentro sua madre, l'imperatrice Irene, lo aveva partorito. Non avrebbe mai pensato di nascere tra le braccia del suo più grande nemico. La sua memoria era lunga. «Dov'è lei adesso?». Dall'oscurità della Porphyra le voci risposero: «Verrà». Quando compì nove anni e mezzo e il quarantesimo giorno di lutto fu tramontato, gli comunicarono che non era abbastanza grande per regnare da solo, così lo incoronarono imperatore assieme a sua madre. Lo portarono in trionfo per le strade e si svolsero celebrazioni in tutta la città. I Verdi e i Blu fecero esibire gli orsi ballerini, e quando questi si stancarono, fu la volta degli acrobati danzanti. Dall'imponente volta della chiesa di Hagia Sophia all'altura dell'Acropoli che si affacciava sul Bosforo, cupo come il vino, e sulle agitate acque del Mar di Marmara, dai quattro destrieri dorati di Chio che stavano a guardia dell'Ippodromo alle possenti mura teodosiane, dal foro di Costantino il Grande fino alle strade bordate da colonne, si levò il canto: «Questo è il giorno della salvezza dei
Romani! Gloria a Dio che ha posto la corona sul tuo capo. Possa Egli, che ti ha incoronato Costantino VI, conservarti con la Sua stessa mano la veste regale per molti anni ancora, per la gloria e il giubilo dei Romani!». Costantino. Rispondeva a quel nome solo perché ci si aspettava che lo facesse. Sapeva di essere qualcun altro. Qualcuno intrappolato, i pensieri di un uomo in un bambino, ma dato che il suo corpo stava ancora crescendo e il suo intelletto era quello di un fanciullo non era capace di dare un senso al tutto. Dopo la cerimonia lo condussero attraverso il Grande Palazzo, ma i mormorii erano cominciati ancora prima che le grida festanti della proclamazione avessero finito di risuonargli nelle orecchie. Tanti anni. Tanti anni. Una tale doppiezza. Persino all'età di nove anni e mezzo sapeva che si trattava di una menzogna. Quelli erano tempi di grandi macchinazioni. All'angolo di ogni strada, dai bagni di Zeuxippos a Chalke, il glorioso portale di bronzo del Grande Palazzo, c'era sempre qualche esule ostile che complottava con il compare romano per riconquistarsi la terra. Come un'epidemia, il bisogno di complottare e ricomplottare infettava tutto e tutti, nessuno ne era immune. Suo padre aveva cinque fratellastri che vivevano anch'essi nel Grande Palazzo della Città Regia. Il più anziano si chiamava Nikephoros. Una sera, quando le ombre erano lunghe e il sole nel cielo un'eco, l'uomo costrinse all'angolo l'imperatore. «Vieni qui, ragazzo». Il giovane imperatore fu intimidito dai pendenti, dai gioielli e dagli strati di fine seta che indossava lo zio. Per tutta risposta gonfiò il petto, atterrito da quelle brusche maniere. «Io sono l'imperatore. Posso avere la tua testa». «Io sono un uomo, ragazzo. E posso avere la tua». Tirò il ragazzo più vicino a sé e lo costrinse ad ascoltare le sue riflessioni. «Perché tua madre si accompagna agli eunuchi?», chiese. «Cosa le danno loro che il tuo debole padre non poteva darle? Tu sei il sovrano legittimo di questa terra. Non loro. Eppure detengono il potere di questo trono. Ti definisci un imperatore? Allora dimmi, nipote, dov'è il tuo potere?» «Io ho il potere», rispose il ragazzo, ma nella sua voce c'era una nota di incertezza. «Se vuoi il potere, mio giovane imperatore, io posso darti il potere. Devi solo chiedere». L'imperatore era scosso. Cosa aveva in mente suo zio Nikephoros? Corse per il Grande Palazzo, spaventato e solo, precipitandosi di ombra
in ombra, nella speranza di potersi dissolvere in una di queste. Non sono pronto per questi intrighi. Non sono ancora un uomo. Udì delle risate provenire dagli appartamenti di sua madre. Lei avrebbe saputo cosa fare. Era l'imperatrice. Era forte. Udì il suo allegro trillare e ne fu attratto, come una formica dal miele. Perduto tra festoni svolazzanti, mentre gli arazzi di seta che ondeggiavano al sospiro del tramonto sventolavano lenti e calmi, strisciò verso la voce di sua madre, e, in quel nascondiglio d'avorio e perle rosa, si scelse una fessura da cui spiare. Ascoltò e osservò. «Ce l'abbiamo fatta!». Questo era il grido di giubilo. Li udì cinguettare del piano che avevano ordito molti anni prima della sua nascita, quando Costantinopoli (così gli era stato insegnato) era stata decimata da una grande piaga e assediata dall'esercito saraceno per un anno intero. «Abbiamo un Impero tutto nostro». Loro avevano un Impero? Il ragazzo era sorpreso. Perché sua madre non li correggeva? Ma poi sentì sopraggiungere dei passi e la terribile vergogna di essere scoperto. «Cosa fate nell'ombra, giovanotto?», gli chiese la voce. Ezio era il più intimo di tutti gli eunuchi di sua madre. I suoi occhi erano duri come il marmo. Il piccolo Cyclades era spaventato. Ezio disse: «Questo è il mio dominio, non il vostro. Non sapevate che è nell'oscurità che aspettano in agguato i pericoli, cumuli su cumuli di guai?» «Sono venuto per mia madre». «Non può ricevervi». «Ma deve. Io sono l'imperatore. Deve ricevermi! Lo zio Nikephoros...». Le parole gli si bloccarono in gola. Di chi poteva fidarsi? A chi poteva rivolgersi? Ezio sorrise e gli si inginocchiò di fianco. Lo tenne saldamente per le spalle. «Vostra Maestà, potete fidarvi di me». Il giovane imperatore sollevò il mento. Poteva? «Voi siete l'imperatore. Di cosa avete bisogno? Sia compiuta la vostra volontà». L'eunuco chinò il capo in segno di deferenza. «Cosa vi ha detto vostro zio?». Il giovane Cyclades disse: «Lo zio Nikephoros ha detto che se avessi voluto il vero potere non avrei dovuto far altro che chiedere, e lui me l'avrebbe dato».
Ezio accolse la notizia con un pensoso cenno d'assenso. «Bene. E cosa avete risposto voi?» «Ho detto che ho già il potere perché sono l'imperatore e nessuno può toccarmi». Ezio rise. «Nessuno può toccarvi... Sì. Ah, la gioventù...». Si alzò in piedi. «Va bene. Va bene». Diede qualche pacca sulla testa del ragazzo e scomparve di nuovo nell'oscurità. Il giovane imperatore era confuso. Continuò a osservare sua madre da lontano. Era di una bellezza incomparabile, e gli uomini che aveva intorno si trovavano in evidente soggezione. Ezio andò a sedersi accanto a lei. Perché sua madre gli accarezzava i capelli sulla nuca? «Che mi dici del ragazzo?» «Che ti dico di lui?», rispose Ezio. «Sopravvive», comunicò Staurakios, uno dei più potenti fra quegli eunuchi dal viso severo. «Deve», disse Ezio risoluto con grande sollievo del giovane imperatore. «Se vogliamo mantenere le nostre posizioni, deve». Sua madre andò a sedersi in mezzo a loro. «Per ora». Fu gelida, come un vino alterato. «Per ora...». Il giovane imperatore non poté far altro che produrre un rantolo inorridito e ritrarsi davanti a quella terrificante rivelazione. Cyclades se ne stava in piedi nell'oscurità della Porphyra aspettando il suo destino. Gli eunuchi lo avevano circondato. Non c'era via di fuga. Che ne era dei suoi zii? Vivevano al Nord, da qualche parte sulla costa, l'ultima volta che ne aveva avuto notizia. Sua madre li aveva convocati in una delle grandi sale per poi metterli in ginocchio. Li aveva tonsurati rasando grossolanamente le loro teste e, senza il loro consenso, come indegni criminali, li aveva allontanati perché si consacrassero sacerdoti. Povero zio Nikephoros. Cyclades avrebbe voluto dimenticare quello che aveva fisso in mente. Aveva passato l'infanzia fra terribili incubi e vividi sogni. Le visioni crescevano insieme a lui. A ogni nuova esperienza nella sua vita si sbloccava un vecchio ricordo. Un bambino non dovrebbe affrontare tutto questo da solo. Cyclades osservava gli eunuchi farsi sempre più vicini. Era ovvio che si trattava di eunuchi diversi da quelli che conosceva. Avevano la peluria sul
corpo e voci profonde. E benché non fosse insolito che diventassero eunuchi anche uomini d'età matura, era insolito che ce ne fossero così tanti nello stesso luogo. Avevano molte facce, questi eunuchi. Ma un'unica volontà. Era una sfortuna che si fosse fidato del peggiore. «Dov'è Ezio?». L'eunuco si fece avanti dall'oscurità della Porphyra e rispose: «Sono qui». Quando compì dieci anni Ezio divenne il suo tutore. Tenevano le lezioni passeggiando per le vie della città. Un giorno raggiunsero la Colonna di Costantino da cui il giovane imperatore si sentì attratto: «Ezio, sono confuso». «Come mai, Vostra Maestà?» «Noi siamo Romaioi, giusto? Siamo Romani». «Sì, Vostra Maestà». «E come mai parliamo greco e non latino?» «Il tempo passa, Vostra Maestà. Nulla resta uguale a se stesso. Siamo romani, ma questa non è Roma. Siamo sulla terra su cui sorgeva una volta l'antica città greca di Bisanzio, ma non siamo loro. Noi siamo i romani dell'Est. Noi siamo ciò che rimane dell'Impero diviso». Il ragazzo soppesò la questione all'ombra della svettante colonna, immaginando il potente Costantino il Grande e la fondazione della città, circa cinque secoli prima, che egli dichiarò la sua Nova Roma, la Nuova Roma. «Prima del latino parlavamo ancora greco. E anche altre lingue». «Cosa sai delle altre lingue?» «La scorsa notte ho sognato di un'antica forma di greco e di un linguaggio dell'antica Frigia». «Interessante». «E qui sotto, Ezio, sotto questa colonna c'è il Palladio di Troia!». Ezio emise una risatina soffocata. «Avete fatto i vostri compiti di storia». «È vero!». Ezio si guardò intorno per cercare un posto in cui sedersi e invitò il giovane a continuare provocandolo con un'ambigua ironia. «Credo che non sappiate nemmeno cosa sia un Palladio». «Lo so! L'ho visto!». «Con i vostri occhi, senza dubbio».
«Con i miei occhi precedenti». «E cosa vi hanno detto i vostri occhi precedenti?». Il giovane, precoce imperatore misurò a passi lo spazio davanti al suo tutore, come se stesse tenendo una lezione al foro. «Dall'altra parte del Bosforo e giù lungo la costa si erge Troia. O vi si ergeva. Oggi è ormai perduta. I Troiani veneravano Minerva, che i Greci chiamavano Atena e che i primi chiamavano Pallade. In suo onore e per assicurarsi la sua protezione sulla possente Troia, i cittadini costruirono una statua raffigurante un cavallo che tenevano nel cuore della fortezza e che chiamarono Palladio». Ezio sorrise di fronte alla passione con cui il giovane imperatore raccontava la storia. «Ma questo succedeva a Troia, Vostra Maestà. Come arrivò fin qui il Palladio?». Una nube attraversò la fronte del ragazzo. «Non lo ricordo. Non chiaramente. Ho solo letto qualcosa». «Perché mai?». Il ragazzo fissò il suo tutore negli occhi. «Credo di essere morto». Gli occhi che rispondevano allo sguardo del ragazzo erano scuri, socchiusi e sospettosi, ma lui non se ne accorse: il suo racconto non era ancora finito. «Dopo la battaglia, quando la città era perduta, ci fu una grande tempesta. Fu feroce e implacabile». «Sì, fu terribile». Ezio guardò di nuovo il ragazzo. «Voglio dire, ho letto che fu terribile». «Molti Greci trionfanti, ma anche Troiani in fuga, vi persero la vita. La tempesta infuriò per settimane, per mesi. Ulisse fu condannato a vagare per mare, Menelao ed Elena si rifugiarono in Egitto e un principe troiano chiamato Enea guidò i sopravvissuti verso una nuova patria, ma la tempesta era tanto violenta che fu gettato sulla costa cartaginese dove si vide costretto a chiedere aiuto». «Ma ce la fece, Vostra Maestà. Alla fine». «Sì. Sulle colline nei pressi del fiume Tevere fondò una nuova città che chiamò Lavinio, e da lì sorse Roma. Portò il Palladio con sé, e quando Costantino giunse qui vi portò il Palladio da Roma. Vedi dunque Ezio che noi discendiamo da Troia, l'intero Impero Romano discende dai Troiani. Ma quando noi romani portammo il Palladio, portammo anche la tempesta. E sai perché ci fu la tempesta? A causa di un uomo». Ezio si levò in piedi. Sembrava circospetto. «Un uomo, eh?» «Un uomo che combatteva contro un potente mago chiamato Athanatos, un mago che gli aveva fatto una grande ingiustizia. Quell'uomo ero io, E-
zio, e i crimini che compì contro di me furono deplorevoli». «Deplorevoli? Di che si trattò?». Ezio invitò il ragazzo ad allontanarsi dalla folla. «Venite, torniamo al palazzo...». «Non... non ricordo. Non ancora». «Crimini deplorevoli, che però non ricordate. Ma ancora non mi avete detto nulla che mi confermi che avete visto il Palladio con questi occhi o con altri». Il ragazzo, confuso, si sforzava di tenere il passo del suo tutore. Su di lui gravava il peso dell'incertezza. «L'ho visto. Devi credermi. Se potessimo disseppellirlo vedresti gli sfregi sui suoi fianchi da dove combattei una grande battaglia». «Sfregi, eh? E avevate un nome in questa vita precedente?» Il giovane imperatore prese il suo tutore per mano. «Sì. Mi chiamavo Cyclades». Ezio serrò la sua stretta. Attraversarono la folla mentre i passi impazienti di Ezio si facevano sempre più veloci. «E quando stavo per morire senza che giustizia fosse stata fatta, ruggii dal mio letto di morte, Ezio. Ruggii. E dalla mia bocca nacque la tempesta». Ezio strattonò violentemente il braccio del ragazzo mentre si precipitava tra la folla. «Ahi! Ezio, mi stai facendo male!». L'altro nemmeno rispose. «Penso che potrebbe persino essere qui, Ezio. Qui in città. Mi aiuterai Ezio? Vuoi?». Il tutore gli diede delle pacche sulla schiena. «Vi aiuterò, Vostra Maestà. Vi aiuterò lungo il vostro cammino». Quella notte piovve, forse erano le lacrime degli dèi disperati per il suo destino. Aveva di nuovo sognato la tempesta e strisciò fin sopra le mura teodosiane per osservare i possenti fulmini. Quello che udì, però, non fu il rumore del tuono nella notte, ma il suono dei tamburi. In piedi sui bastioni, inzuppato di pioggia da capo a piedi, udì levarsi il suono di un potente corno. Vide le fiamme color ambra delle torce impugnate dai soldati che avanzavano lentamente attraverso il Bosforo. Chi erano stavolta? I Bulgari? I saraceni? Immaginò che non facesse differenza. I soldati si erano appostati lungo tutte le mura. Gli arcieri si preparavano, mentre sulla prua di ogni nave della flotta bizantina venivano occupate le feritoie. Al Corno d'Oro la grande catena di ferro, che si stendeva dalla città di
Pera proteggendo l'imboccatura del porto, fu sollevata, intrappolando tutte le navi al suo interno. Le spezie e l'avorio egiziani, le sete e i gioielli cinesi, le pellicce e l'ambra del nord erano stati tutti ammassati sulle banchine, come un invito all'avanzata nemica. Le nere imbarcazioni si avvicinarono. L'ordine fece il giro delle mura e gli arcieri presero la mira con le frecce accese. «Attaccare!». Di feritoia in feritoia vennero liberate all'unisono lingue di fuoco che arrestarono l'avanzata delle navi nere in un torrente di fiamme. Il più grandioso di tutti i poteri bizantini. Il fuoco greco. Il fuoco che nemmeno l'acqua poteva smorzare. La rabbia che nemmeno la storia poteva soffocare. Come un'armata di angeli fiammanti, i corpi incendiati dei soldati e dei marinai venivano gettati nel blu cupo a illuminare il Bosforo, che scintillava di queste faville, sempre più deboli man mano che i cadaveri si allontanavano dalla superficie e sprofondavano nelle tenebre sottostanti, come tante stelle cadenti, uno dopo l'altro. Dalla nebbia indistinta della pioggia emerse un soldato che pose la mano sulla spalla del ragazzo per pregarlo di rientrare. «Venite, Maestà», disse, «non siete al sicuro qui. I nemici vi circondano da ogni lato». Cyclades se ne stava in piedi nell'oscurità della Porphyra aspettando il suo destino. Ezio era in piedi di fronte a lui. Si sollevò le vesti per esporre al buio le sue nudità. «Credo sarete d'accordo anche voi che non sono affatto un eunuco». Cyclades aveva altre preoccupazioni. «Athanatos...». Athanatos si inchinò, sinceramente eccitato dal complimento. «Sono mortificato che ricordiate il mio vero nome». Cyclades si lanciò di corsa verso di lui, ma gli eunuchi lo bloccarono in fretta. «Questa è la mia pozione, caro il mio Cyclades. Il mio elisir. È la mia maniera di andare avanti. La bevo e la mia essenza viene trasferita alla mia progenie, e così io sopravvivo, ma tu? Tu sei la mia maledizione. Tu non hai un elisir. Eppure torni a darmi la caccia come un fantasma che si ostina a non morire. Dopo qualche centinaio d'anni, puntuale come il calar del sole e le stagioni nei campi, tu torni. Sempre. Cos'hai tu, che io non ho?» «Presto non avrai più nemmeno un Impero. Ho provveduto io». Athanatos lo schiaffeggiò. «Cosa hai fatto?».
Cyclades sorrise e si leccò il sangue dal labbro spaccato. «Ho scritto a Carlo Magno. In questo medesimo istante si prepara a dichiarare un nuovo Impero, un Sacro Romano Impero che sostituirà il tuo. Abituati a questi saraceni, Athanatos. Sarai costretto a vivere in mezzo a loro». La voce che rispose dal buio era femminile e affilata. «Non importa!». «Madre». L'imperatrice Irene fece il suo ingresso a grandi passi per unirsi al suo consorte. In mano aveva un pugnale lucente arroventato nelle fiamme da un fabbro. Lo passò ad Athanatos, che lo impugnò con una certa gioia. Sua madre lo baciò sulla guancia. «Non importa, figlio mio adorato. Sei diventato quasi un uomo, ma in questa vita non rappresenti una minaccia; quando tornerai il mondo avrà compiuto un altro ciclo, nel quale tu sarai confuso come prima». Senza preavviso e con ferina brutalità, Athanatos conficcò il pugnale incandescente nella faccia di Cyclades, cavandogli entrambi gli occhi. Gene fissò senza espressione quella poltiglia di destino racchiusa nel campione del suo sperma: una coppa di ricordi in attesa di essere seminati. Rimise il coperchio al suo posto con uno scatto e si pulì con un fazzoletto. Il profumo di Megaera, pungente, era ancora sospeso nell'aria del suo ufficio, e la sua determinazione palpabile, come sempre. E così lui sarebbe diventato il prossimo Athanatos? Che bugiarda. Noi siamo Cyclades. SOTTO IL VELO DI ILIO 4:12. Non aveva idea di dove si trovasse la Sesta Avenue. North si prese la testa dolorante fra le mani. Le linee colorate della sua mappa si stavano prendendo gioco di lui, tremando come vibranti corde di uno strumento musicale, minacciando di abbandonare del tutto il foglio di carta, il loro compito, e sgusciare via senza dargli alcuna indicazione. Poco dopo Chatham la Taconic Parkway si congiungeva con la I-90: una interstatale a pedaggio che cambiava completamente direzione dirigendosi verso Albany. Non era lì che voleva andare. Troy era forse venti minuti più a nord della capitale, ma da questo lato dell'Hudson il percorso era più tortuoso. O no? Per lo meno era quello che la mappa gli diceva. Forse. Ma allora la
mappa gli diceva che Troy era solo un punto. Come avrebbe potuto farsi strada attorno a un punto? Non riesco a pensare. Ho bisogno di dormire. Le mani gli tremavano mentre portava alle labbra una tazza di caffè nero. Il dolce afflusso di zucchero provocò una sorta di offuscamento che gli distese i nervi, ma la caffeina non gli diede la carica che cercava. Non ne trasse alcun vantaggio. L'eccitazione per quell'indizio era un flebile ricordo. In qualche modo, ora sembrava impossibile trovare l'energia per una qualsiasi intuizione. Un rombo di rimprovero si levò dall'untuoso televisore nero inchiodato alla parete. Finiranno mai questi giochi? La folla era scontenta. Sentì che si voltavano verso di lui. Lo scherno di centomila spettatori olimpionici pressati dentro e intorno agli antichi monumenti di Atene. Intonavano un messaggio diretto unicamente a lui. Erano interdetti. Si aspettavano di più. Il vento e la pioggia battevano sulle finestre. Fragorosi scrosci attraversavano la strada affollata come lame affilate. North si alzò in piedi malfermo. Infilò la mano in tasca con l'intenzione di pagare, ma fece cadere una cascata di monete che rimbalzò sul pavimento. La cameriera, con una matita gialla masticata dietro l'orecchio, si avvicinò e si chinò per aiutarlo. Chiese se andava tutto bene, ma North evitò di rispondere. Anzi mormorò: «Mi servono solo delle indicazioni». La cameriera lo portò alla cassa e con una matita segnò la strada sulla sua mappa. «Deve rimanere su questa strada», gli disse, «raggiunga la I90, imbocchi la I-87 verso nord ed esca alla 23. Va bene? Si ritroverà sulla I-787, e dovrà uscire alla 23 per Troy». Aspetta un momento. Era lei che spiegava a mitraglia o lui che non era più in grado di seguire? «Uscita 23? Mi ha già detto di prendere l'uscita 23». La cameriera rispiegò pazientemente tutto da capo. «Deve prendere l'uscita 23 due volte». Cosa? Gli disse che avrebbe dovuto stare attento perché le previsioni del tempo dicevano che era in arrivo una tempesta. Quella donna aveva dato un'occhiata fuori dalla finestra? Per quel che ne sapeva North, la tempesta era già arrivata. 4:41. Le luci posteriori delle auto davanti a lui lo stavano accecando. Solo riuscire a tenersi sulla propria corsia era già una lotta. Seguì le indicazioni
della cameriera meglio che poté: si rivelarono accuratissime. L'uscita dalla I-787 lo immise direttamente sulla riva ovest dell'Hudson tormentato dalla tempesta, e si ritrovò su un ponte, a pochi isolati dalla Sesta Avenue. Il quartiere non era che un assembramento di villette a schiera unifamiliari, in stile vittoriano, ben tenute. Case come quelle, in città, sarebbero costate una fortuna. Come a Poughkeepsie, le strade erano fastidiosamente tranquille. Nonostante le auto parcheggiate davanti alla porta di casa o nei garage, in giro non c'era nessuno. Percorse lentamente la Sesta Avenue e si arrestò dietro una vecchia Camaro color bronzo del 1981. Chiunque ne fosse il proprietario non era un grande appassionato. La carrozzeria in rovina era piagata da bolle rigonfie di ruggine e le gomme erano lisce. Probabilmente era l'unica auto che avessero mai posseduto. Mentre la pioggia rimbalzava violentemente sul cofano della sua Lumina coprendogli la vista della strada, trovò il numero del Dipartimento di polizia di Troy dall'altra parte del fiume, al cinquantacinque della strada statale, e fece loro una chiamata di cortesia per avvertirli che si trovava in zona. Parlare con loro lo aiutò a concentrarsi e a chiarire quella confusione indesiderata che gli comprimeva le tempie. Gli sembrarono entusiasti. Immaginò che non avessero molto da fare. Gli chiesero se avesse bisogno di aiuto. Improvvisamente se ne ricordò: Cassandra Dybbuk era stata paziente del reparto psichiatrico. Ma non aveva assolutamente idea di cosa le avessero curato. Dio, spero che non sia violenta. Alzò il bavero del cappotto stringendoselo intorno al collo e con passo pesante salì arrancando gli scalini di cemento grigio. Piegò la mappa e se la tenne sopra la testa mentre cercava il campanello. Il bottone era di ceramica ingiallita ed era infilato in fondo a un fiore d'ottone piuttosto elaborato ma ormai ossidato. Non lo sentì suonare. Sotto l'arco dell'ingresso c'era una vecchia doppia porta in mogano con dei lunghi vetri chiari. Quella non era di certo New York. Mancavano le sbarre di metallo. Pilota automatico. Ce la puoi fare. Quando viene alla porta, basta che inserisci il pilota automatico. All'interno non riusciva a vedere nessuno. Fece un passo indietro. Non
c'erano luci accese. Magari è ancora a lavoro. Vicino ai gradini c'era una finestra. Si sporse sopra il corrimano in ferro battuto e cercò di sbirciare dentro. «Posso aiutarla?». North ci mise un attimo a capire da dove provenisse la voce. A lato degli scalini c'era un altro ingresso che portava al cortile sul retro. Il viso della donna, mezzo coperto dalla porta, si vedeva solo in parte. Indossava spessi guanti da lavoro macchiati di concime scuro. North scese gli scalini verso di lei. «Signora Dybbuk?». Sembrava incuriosita dal fatto di avere un ospite, benché la cosa avesse un che di sospetto. North cercò nei suoi tratti un qualche genere di somiglianza, una relazione con l'uomo che aveva affrontato al museo. Gli occhi della donna sembravano gentili. Non come quelli di Gene. La sua pelle era sciupata e pallida. Dei suoi capelli, tinti di una tonalità più scura rispetto al colore naturale, si intravedevano solo delle ciocche sotto il foulard verde che teneva annodato sotto il mento. Doveva avere più o meno cinquant'anni. Di certo l'età giusta per essere la madre di Gene. North ripeté la domanda cercando di fare in modo che la sua esasperazione non lo facesse sembrare brusco. «Lei è Cassandra Dybbuk?» «Sì. Mi scusi se ci ho messo così tanto a rispondere alla porta. Facevo un poco di giardinaggio». Con questo tempo? North scrutò il cielo tuonante attraverso l'acqua che scendeva a catinelle. Lei lo guardò calma. «Ho una serra». Giusto. «Come posso aiutarla?». Tenne la mappa sulla testa mentre frugava in cerca del distintivo. «Detective North, Dipartimento di polizia di New York». Era sempre sufficiente a incupire il viso di chiunque. «È molto lontano dalla città, detective». «Vorrei farle qualche domanda... su suo figlio». La reazione fu istantanea. Aprì la porta un altro po'. «Ha saputo qualcosa di Eugene?». North fu cauto. Per lo meno il nome è quello giusto. «Dipende», e le mostrò la fotografia. «Riconosce quest'uomo? È questo Eugene?». Sembrava terrorizzata. Aveva persino paura di toccare quella foto. North non riusciva a immaginare perché. L'aveva riconosciuto? Era o non era suo figlio? Le aveva fatto qualcosa? Difficile da dire.
La donna non tentò di levarsi i guanti, al contrario, fissò l'acqua che scendeva giù a cascata dalla mappa zuppa che North usava come cappello e disse: «Venga via dalla pioggia». Sotto l'eco dei vetri battuti dalla pioggia, la serra di Cassandra Dybbuk era vivacizzata da boccioli profumati, delicati fiori e una ricca vegetazione. North riusciva a malapena a tenere in vita un cactus. Quella schiera di vasi disposta sui banchi da lavoro gli fece venire le vertigini. Bastò un attimo. Quell'aria umida era così pulita. Nonostante si trovasse in un ambiente chiuso, la inspirò e si sentì un po' più libero di prima. North pensò di riconoscere qualche pianta: un'orchidea e forse un geranio in mezzo alla confusione di contenitori in plastica nera da cui spuntavano bulbi e germogli. Per il resto dovette affidarsi alla lettura delle targhette, quando ce n'erano: delicati petali di gardenia, le bianche corone del ciclamino e il misterioso, pungente profumo del gelsomino. Ma che gli prende a tutti con questo gelsomino? Gelsomino al museo. Gelsomino qui. Si complimentò con lei per il suo lavoro, ma Cassandra Dybbuk era persa nei suoi pensieri. Alla fine si era tolta un guanto e teneva la fotografia di Gene fra le sue esili dita piene di rughe. Seguiva le linee del suo viso con il palmo della mano. «Quando ha visto suo figlio per l'ultima volta?». Lei scosse la testa. Era un accenno di rimorso? «Mesi fa. Anni». Strano. Che razza di madre non saprebbe esattamente dove e quando ha visto suo figlio l'ultima volta? «Sembra lo stesso. I suoi capelli sono gli stessi». La sua espressione diventava via via più impenetrabile. «Questi sembrano i suoi abiti. E questa voglia vicino all'occhio?...», fu come guardare un fermo immagine. «Eugene ne ha una proprio uguale». «Dunque questo è Eugene?». Cassandra Dybbuk non aveva ancora detto di sì. Cosa la disturbava così tanto? Mise giù la foto e gli voltò le spalle. «Dunque dice che le piacciono le mie piante? Mio figlio ha coltivato quelle laggiù». Indicò dei piccoli vegetali verdi dall'altro capo della serra vicino ad alcune piante di piselli. «Sono molto carine. Cosa sono?» «Si chiamano eliotropii». «E così condividete la stessa passione?» «Oh, no. Io lo faccio per divertimento. Gene passa il suo tempo a fare
esperimenti. Legge tutto quello su cui può mettere mano. Non so dove prenda quella roba. Un giorno entrò qui dentro e disse "Mamma, se può farlo De Mairan posso anch'io"». «Chi?» «È quello che ho detto io. Mi spiegò che era uno scienziato francese, non so. Mi raccontò tutto sulla faccenda, ma francamente ho preferito spegnere il cervello, se capisce che intendo». North capiva. «Non sono un granché in scienze. Qualunque cosa per farlo contento, eh?» «Lei sa che abbiamo un orologio interiore? Come lo chiamava? Un ritmo circadiano. Significa che se lei o io avessimo trascorso tutto il tempo in una stanza buia il nostro orologio interiore sarebbe andato un tantino più lento. Se non avessimo potuto vedere il sole avremmo finito per lavorare venticinque ore al giorno». North non lo sapeva. «È buffo, a volte si memorizzano certe cose... Gli eliotropii gli servivano perché voleva dimostrare che anche le piante hanno un senso del tempo. Ogni mattina spiegano steli e foglie e li puntano verso il sole. E ogni notte li riavvolgono. Ricordo che li mise in una scatola con sopra un coperchio, in modo che solo lui potesse vedere dentro». «E cosa accadde?» «Non potevano vedere il sole, ma si aprivano e si chiudevano lo stesso, puntuali come un orologio. Mi disse "Mamma, è quello che avviene alle nostre anime. Moriamo e le nostre foglie si chiudono. Rinasciamo e si riaprono"». È l'uomo giusto. Cassandra Dybbuk tornò vicino alla fotografia, la sollevò attentamente e gliela restituì dicendo: «Non è lui». North accusò il colpo. «Prego?» «Questo non è mio figlio. Conosco mio figlio e questo non è lui». Non può essere. Si sbaglia. «È sicura?» «Mi sta dando della bugiarda?». Il suo sguardo era carico di rabbia, e a mezzo metro da lei c'era un paio di cesoie da giardino. North ascoltò il rumore della pioggia e sincronizzò la sua risposta. «Lei conosce suo figlio». «Sì, lo conosco». «Io no». Guardò la fotografia che adesso aveva gli angoli piuttosto sciupati e logori. La ripose nel cappotto. «Ha qualche sua fotografia recente a
cui potrei dare un'occhiata, per constatare con i miei occhi?». Il viso le si illuminò all'istante. «Certamente. Credo che mi farà piacere mostrargliele». Entrarono passando dalla cucina. Le assi in legno duro del pavimento nella sala erano lisce e scure come la boiserie delle pareti. Il tutto sembrava conservare la caratteristica originale di una dimora molto ordinata, tutt'altro che povera. Magari troppo ordinata. Non era come la serra. Era opprimente e claustrofobico. La carta da parati raffigurava una rete infinita di forme geometriche concatenate su un mare blu petrolio. Una sfaccettatura per ogni paura nascosta. Un esercito di occhi che penetravano dentro la sua anima. Mentre lei lo guidava lentamente su per le scale intagliate a mano, North si rese conto che c'erano pochissimi quadri alle pareti, e quelli che c'erano mostravano astratte esplosioni di colore. Nessun ritratto. Era tutto privo di calore e poco confortevole. North procedette con cautela. «Mi sono sorpreso di averla trovata in casa oggi, signora Dybbuk». «Ah sì?» «Si è presa un giorno a lavoro o è uscita prima?». Quando furono in cima alle scale lei esitò. Rispondere a quella domanda la metteva a disagio. Si bloccò di colpo, tanto che North stava per finirle addosso. «Io non lavoro», spiegò. «Davvero? Qual è il suo segreto?». Quando Cassandra Dybbuk raggiunse il pianerottolo North si trovò di fronte uno sguardo freddo che gli fece correre un brivido lungo la schiena. Gli occhi la tradivano. Sembrava aver smarrito il senso della ragione. Il pallore del suo sguardo era inumidito dalle lacrime. Un'istantanea incapacità di mettere a fuoco. In quel momento North intravide dietro la maschera la ragione per cui era finita in quell'istituto. Sotto la superficie si era spezzato qualcosa. North se ne stava in piedi in cima alle scale, fortemente consapevole del vuoto che si apriva alle sue spalle. Mise le mani sul levigato corrimano e si afferrò forte. Le nocche gli divennero bianche. «Intendevo dire che questa è una grande casa. Come fa a mantenerla?» «Loro mi spediscono del denaro una volta al mese». Loro? «Il suo ex marito?» «Non siamo mai stati sposati».
«Capisco». La donna si trascinò lungo il corridoio come se nulla fosse. North doveva fare attenzione che il suo prepotente bisogno di dormire non lo costringesse ad abbassare la guardia. Così facendo, la seguì comunque a una certa distanza, per nulla ansioso di vedere cosa gli avrebbe rivelato aprendo la porta di una delle stanze da letto. Lo invitò ad avvicinarsi, ma lui rimase sulla soglia. Proprio vicino alla porta c'era un piccolo letto rifatto con cura. L'armadio aperto dall'altro lato della stanza rivelava che molti degli abiti erano stati portati via. Le librerie erano ancora piene di pesanti tomi e di fronte alla finestra c'era una lunga e consumata scrivania di legno coperta da untuosi tubi di vetro e da quelle che sembravano vecchie e polverose vasche per pesci. «Questa è la camera di suo figlio?». La donna vi entrò senza accendere la luce. «Una volta. Adesso non è che una brutta copia». «Non è come l'ha lasciata lui?». Lei si strinse forte attorno alla vita il lungo grembiule che indossava. «È esattamente come l'ha lasciata», replicò infastidita. North balbettò. «Non capisco». «Non mi aspettavo che lo facesse». Incrociò le braccia con aria di sfida. «Quando andò al college sono arrivati loro». North ancora non riusciva a seguire. Chiese con cautela: «Chi?». Sembrava disgustata. Da lui o da quanto era accaduto? Non avrebbe potuto dirlo, ed era proprio la cosa che lo spaventava di più. «Cercavano qualcosa». «Cosa cercavano?» «Mah... non lo sapevano neanche loro». Il modo in cui lo disse. Loro. Gli stessi loro che avevano fatto montare Gene sull'auto? «Sono venuti mentre non c'ero. Hanno rivoltato la casa da cima a fondo». Le parole le si bloccarono in gola e gli occhi le si velarono di lacrime. Singhiozzò, dapprima con calma e poi senza controllo. «È terribile». «Quei bastardi. Hanno rovistato dappertutto. Hanno controllato persino nel mio cassetto della biancheria. Chissà che cercavano nella mia biancheria?». North avrebbe potuto raccontarle un paio di storie. Di quando aveva
beccato un pervertito che, dopo un'effrazione, si masturbava sul letto della vittima con le sue mutandine in testa. O di tutte le volte che era capitato sulla scena di un crimine per un furto e aveva scoperto che il criminale aveva scaricato le sue libidini nel salotto. «Ha fatto una denuncia?» «A chi? Tanto non interessa a nessuno...». «Be', se hanno preso qualcosa...». «Vuole sapere qual è la parte peggiore? Che quando hanno finito hanno rimesso tutto precisamente com'era». «Esattamente nello stesso modo?» «Esattamente. Non un solo oggetto fuori posto. Perfetto al millimetro». Ricacciò indietro le lacrime tirando su col naso e si asciugò gli occhi sulla manica. «Ma io non sono un'idiota, detective. Sapevo che erano stati qui». È paranoica o spaventata? «Suo figlio era coinvolto in qualche brutta storia?» «Ce l'ho cacciato io, è colpa mia». «Perché è colpa sua?» «Perché ho accettato di averlo». Quello era un campo minato, ma North non aveva altra scelta. Con tutta la gentilezza di cui era capace cercò di indagare più a fondo di quanto forse lei avrebbe voluto. Ma non esisteva un tono tanto gentile da addolcire quel che doveva chiederle. «Voleva abortire?». La donna fu investita dalla vergogna e dal senso di colpa. Abbassò lo sguardo scuotendo la testa. «Volevo il denaro». Ha avuto un figlio per denaro? Per conto di chi? Il padre? Quello non era un interrogatorio, lei non era costretta a rispondere alle sue domande, ma lui ne aveva così tante. Insisté ancora. «E Gene è venuto a saperlo?». La donna annuì senza riuscire a guardarlo negli occhi per la vergogna. «È per questo che se n'è andato?» «No», disse, «ma è il motivo per cui non è mai tornato». «Ha mai più avuto notizie di lui?». Il viso le si illuminò di colpo al ricordo. «Ah sì, ogni tanto mi telefona. È così bello sentire la sua voce. Io voglio parlare di più, ma lui è sempre tanto impegnato. E sembra sempre tanto triste». «E lei, l'ha mai chiamato?».
Scosse la testa. «Non ho il suo numero». Lo conoscerà la compagnia telefonica. «Ha mai pensato di usare il servizio di richiamata dell'ultimo numero in entrata?». La donna fu di nuovo vaga. «E l'indirizzo?» «Non so dove sia». Potrebbe mentire. «Avrebbe qualcosa in contrario se dessi un'occhiata ai suoi tabulati telefonici?». Sembrava perplessa. «Sì, se è in qualche genere di guaio». Per come stavano le cose non aveva ottenuto un riscontro d'identità positivo. La cosa aveva le sue implicazioni: se in quel momento avesse mentito la prova sarebbe crollata in tribunale più tardi. «Mi voglio solo assicurare che non sia così». «Bene, allora, presumo che possa. Se pensa di doverlo proprio fare». North cercò di sembrare amichevole. «Be', questo dipende dalle fotografie». La donna sentì la tensione allentarsi, accennò un sorriso e si scusò per l'attesa. Si riavventurò fuori con l'intenzione di trovare le fotografie che aveva promesso di mostrargli. Gli disse che sarebbe potuto rimanere nella stanza di Gene mentre aspettava. North la ringraziò, ma appena arrivò all'altezza della soglia la donna si aggrappò allo stipite tamburellando nervosamente con le dita sul legno. Si voltò verso di lui e disse in un sussurro: «Una volta ha detto che sarebbe venuto a trovarmi». «E non si è fatto vedere?» «È successo di peggio». Lanciò un'occhiata dietro le sue spalle. La sua voce era debole. Abbassò ancora di più il tono come per non essere spiata. «Hanno mandato un impostore, ha presente?». L'aveva posta in forma di domanda perché pensava sarebbe sembrato più plausibile? Un impostore? «Come fa a saperlo?» «Era un uomo abbastanza gradevole. Identico a mio figlio quasi in ogni dettaglio: imitava persino la sua leziosaggine. Ma non era lui». Si guardò intorno per accertarsi definitivamente che ci fossero loro due soli. «Loro pensano che non lo sappia». La sua voce divenne un sospiro. «Ma io so». Cassandra Dybbuk si lasciò un vuoto alle spalle. North non riusciva a identificare la sua malattia e la sua instabilità lo tormentava. Solo quando fu sicuro che se ne fosse andata colse la sua più grande occasione.
Nella tasca del cappotto teneva sempre qualcosa per raccogliere prove, ma non aveva il tempo di indossare i guanti in lattice. Decise di usare un fazzoletto, e si diresse dritto verso la scrivania. A cosa stava lavorando Gene? Sollevò uno dei sudici tubi ritorti e lo mise controluce: rivelò uno schema vagamente familiare di vorticilli stratificati e strisce. Anche se le prove fisiche non avessero potuto piazzare l'arma del crimine direttamente nelle mani di Gene, c'erano una montagna di impronte non identificate sui frammenti di vetro del museo, e un riscontro d'identità positivo, come ultima risorsa, avrebbe potuto inchiodare definitivamente Gene alla scena del crimine. Quante volte North era stato in tribunale a guardare gli avvocati della difesa smontare le prove? Aveva perso il conto. Argomentare contro le impronte digitali era più difficile. Non aveva il kit standard con sé. Niente polvere nera per impronte latenti e di certo niente strisce adesive per il rilevamento. Doveva improvvisare. Aprì uno dei cassetti e vi trovò un vecchio rotolo di nastro adesivo. Era un inizio. Maledisse il fatto di non fumare: se avesse potuto bruciare qualcosa, come la cima di una matita, la fuliggine si sarebbe attaccata all'impronta e avrebbe potuto rilevarla con il nastro adesivo. Frugò in qualche altro cassetto e rovistò negli armadietti. Trovò una candela e una confezione di fiammiferi. Doveva sbrigarsi. Il primo non bruciò. North, preso dal panico, riprovò. Il secondo tentativo fallito sembrò produrre più luce del primo, tanto che avrebbe potuto mettere in allarme la padrona di casa. Provò una terza volta. Le scintille fiorirono in una fiammella gialla. L'avvicinò alla candela che liberò un sottile filo di fumo nero. North pose rapidamente la fiamma sotto il tubo di vetro e la fece fluttuare verso le impronte. L'attesa di una quantità sufficiente di fuliggine gli sembrò interminabile. Sentiva Cassandra Dybbuk che rovistava al piano di sotto, lanciando maledizioni ogni volta che le cadeva una scatola. I secondi scorrevano. Cominciò a soffiare sul fumo sperando di sollecitarlo. L'invisibile stava diventando visibile. O almeno era quello che sperava. Spense la candela con un soffio e la lanciò nel cassetto della scrivania, strappò un pezzo di nastro e lo premette sull'impronta. Uno, due. Lo staccò e lo piegò, utilizzando la parte avanzata come protezione. Si affrettò a controllare. L'impronta era utilizzabile. Se la infilò nella ta-
sca del cappotto e all'improvviso sentì un respiro sul collo. Lanciò una rapida occhiata alle sue spalle. Non c'era nessuno. Sto diventando paranoico. Si avvicinò con calma alla porta e sbirciò fuori. Dalla sala al piano di sotto risuonavano ancora gli inconfondibili rumori prodotti da Cassandra Dybbuk che rovistava dappertutto. Capitava proprio a fagiolo. North non aveva mai visto tanti libri di genetica e neurobiologia. C'erano testi su Mendel e sulle sue scoperte genetiche con i piselli. C'erano libri sulla scoperta del DNA di Watson e Crick, ricerche di molti altri scienziati di cui non aveva mai sentito parlare, Seymour Benzer e Eric Kandel. E prolisse descrizioni su come i geni controllavano sia la memoria che il tempo. L'interesse di Gene per il funzionamento della memoria e lo scorrere del tempo travalicava la fascinazione. Era un'ossessione. C'era un intero scaffale pieno di quaderni. North ne prese uno a caso. Le pagine erano coperte da appunti e accurati disegni di scatole di vetro e tubi. In ogni aggeggio c'erano centinaia di pallini neri indicati come drosophila. Si trattava di moscerini della frutta che, attraverso un processo selettivo praticato utilizzando i tubi di vetro, Gene aveva ordinato in specie che mostravano diverse mutazioni, e i vasi per pesci erano i vivai che usava per allevarli. La nota nel quaderno recitava: Il senso del tempo è innato. È il più antico di tutti i nostri istinti. Ogni creatura lo esperisce, ogni creatura gli è sottomessa. Persino i batteri con un ciclo vitale misurabile solo in ore trasmettono alla successiva generazione un senso del tempo perfettamente tarato. I segni dentro di noi sono visibili a tutti. Alle 4:00 l'asma colpisce con tutta la sua furia. Alle 2:00 le ulcere erompono senza pietà. All'1:00 la morte sotto i ferri è quasi una certezza. Il corpo ha un orologio e le nostre vite ne sono schiave. North sfogliò diverse pagine, saltando intere sezioni di appunti fino a un altro passaggio sufficientemente chiaro da consentirgli di comprendere. Descriveva per filo e per segno il funzionamento fisico dell'orologio biologico:
Nel nucleo di una cellula nervosa con sede nel cervello, il gene Orologio e il gene Infinito intrecciano le loro proteine. Quando le loro armate sono pronte, queste legioni di proteine entrano nel nucleo e spingono il loro re a fermarsi. Montano di guardia, risolute, finché queste proteine, una dopo l'altra, si riducono e muoiono. E il re, rimasto solo, riceve notizia da un messaggero, un terzo gene chiamato Ciclo che lo invita a mettere insieme una nuova armata. Questo ciclo dura ventiquattro ore, dopo le quali si ripete daccapo. È questo che genera il senso del tempo. Gli dèi non c'entrano niente. Gli appunti proseguivano, a volte farneticanti, altre volte chiari e concisi. Se aveva capito bene il gene Orologio era composto da tremilaseicento lettere, o nuclotidi. La modifica anche di una sola lettera produceva effetti sostanziali. Gene aveva scoperto che se una particolare lettera, che normalmente era una G, veniva sostituita con una A, l'orologio biologico andava cinque ore più veloce. Ma se a essere sostituita con una A era un'altra specifica lettera, cioè una T, l'orologio biologico andava cinque ore più lento. Gene sembrava alla ricerca di un metodo che permettesse all'orologio biologico di innescare altri eventi interni. Per North gran parte di quella roba era arabo. Gene il suo nome. I geni la sua ossessione. Gene Dybbuk era di gran lunga più furbo e acuto di quanto North si sarebbe mai aspettato. Aveva saputo cosa cercare, era andato e l'aveva trovato. Ora, se si doveva credere ai suoi appunti, aveva intenzione di ripetere i suoi esperimenti con la drosophila esaminando con attenzione l'essenza dell'animale uomo. North ripose il quaderno lì dove l'aveva preso ed esitò a sceglierne un altro. Da quanto tempo se ne stava lì? Cassandra Dybbuk si era allontanata da un bel po', oramai. Alla fine l'impulso fu troppo forte. Allungò la mano sullo scaffale per prendere il quaderno blu, l'ultimo, quello in ombra. Lo aprì alla prima pagina. Vi lesse: «Sono la maledizione di Satana». Sono la maledizione di Satana? Che voleva dire? Lo aveva detto al museo e allora non aveva avuto alcun senso. Cosa cercava di dirgli Gene? Aprì la seconda pagina, ansioso di vedere se contenesse altri indizi per capire i suoi pensieri. Fu il Toro a rispondere al suo sguardo.
North rimase senza fiato. Tu-tump. Ansimava. Aveva la gola secca. Tu-tump. Barcollò all'indietro con le ginocchia che gli si piegavano. Cadde sul letto. Il Toro. Il respiro dell'animale si faceva sempre più forte, il battito del suo cuore sempre più intenso. Le mani gli tremavano fortissimo. Le ginocchia ondeggiavano. Tu-tump. Tu-tump. Tu-tump. Si guardò intorno. Di Cassandra Dybbuk non c'era traccia. Si asciugò il sudore dalla faccia, guardò il quaderno e lo richiuse. Si alzò in piedi e camminò avanti e indietro. Il quaderno da parte sua non fece nulla. Stava lì. Quali risposte c'erano fra quelle pagine? Cosa sapeva quell'oggetto più di lui? Che cazzo succede? Che faccio adesso? Che faccio? Sapeva che quello che stava per fare avrebbe cambiato le cose per sempre. La vergogna lo aveva già preso nella sua morsa. North agguantò il quaderno, lo infilò nella tasca interna del cappotto e da quel momento non fu più un poliziotto. «No! No! No! No!». L'urlo rabbioso proveniente dalla sala al piano di sotto perforò il silenzio asfissiante di quella casa. North si precipitò verso la stanza da letto di Cassandra Dybbuk. Rimase sulla soglia e la osservò da lì. Era seduta sul pavimento e batteva i pugni su una scatola rovesciata ai suoi piedi: intorno a lei il pavimento era pieno di fotografie. «Le hanno cambiate! Le hanno cambiate! Sono tornati e hanno cambiato le mie fotografie. Dov'è il mio ragazzo? Dov'è il mio bambino?». La donna ne lanciò una manciata contro il muro. Una cadde ai piedi del detective. Si chinò a raccoglierla. Si trattava di Gene, senza alcun dubbio. Era la foto della laurea alla Columbia University. North non sapeva che fare. Riusciva a malapena a controllarsi. Disse:
«Signora Dybbuk? Signora Dybbuk, per favore si calmi». Ma Cassandra Dybbuk era tutt'altro che calma. Mentre le lacrime le scendevano lungo il viso, sollevò lo sguardo verso North e inorridì. Arretrò sul pavimento e si raggomitolò nell'angolo. «Cosa ne hai fatto del detective? Cosa ne hai fatto di lui, impostore». LIBRO QUINTO «Un cuore di tenebra non sempre può essere imputato ai genitori o alla società» Steven Pinker L'ECO DEL DEMONIO 20:27. Col respiro infernale del Toro che gli bruciava dietro la nuca, la lasciò che strillava nella stanza da letto. Nulla di ciò che disse riuscì a calmarla. Nulla di quello che fece cambiò la situazione. La sua testa era andata, e lui non era quello che diceva di essere. L'ironia stava nel fatto che aveva ragione. Probabilmente lo vedeva per quello che era davvero. Lei vedeva dietro la maschera. Vedeva le sue corna, e lui si sentiva nudo e vulnerabile. Dovrei chiamare un medico? No. Pensò che probabilmente erano già stati lì un migliaio di volte. Se avessero potuto fare qualcosa per lei, l'avrebbero già fatto molto tempo prima. Si lasciò quel misero vaso di Pandora alle spalle. Ma si accertò comunque che la porta di ingresso fosse ben chiusa, sapeva bene che, nascoste in fondo alla tasca del cappotto, c'erano molte cose che gli avrebbero dato la caccia. Udiva l'eco di quattro potenti zoccoli dietro di sé. La pioggia cadeva con una violenza maggiore di prima e anche il cielo era più scuro. Ma non bastava a cancellare quella puzza. Il fetore di pelle inzuppata di pioggia misto a quello dell'erba. Il Toro gli stava addosso e non l'avrebbe lasciato andare. North si fermò a sentire il ronzio elettrico di un lampione che stentava ad accendersi. Tornò alla sua auto e crollò sul sedile sentendosi un po' più al sicuro. Ma solo un po'. L'oscurità cominciò a circondarlo. Aveva bisogno di bere qualcosa. Si allontanò lentamente. Guidò con attenzione per il centro di quella cit-
tà fantasma in cerca di un locale e di un posto dove parcheggiare. Per venti minuti buoni non riuscì a fare altro che scoprire un antico edificio greco dopo l'altro, una colonna dorica dopo l'altra, e su ciascuno l'ombra del Toro che lo seguiva. Quando si trovò davanti a un edificio che somigliava molto al tempio di Atena, il Partenone di Atene, che infestava ogni canale televisivo, l'effetto fu tanto soprannaturale quanto familiare e, per un attimo, il Toro indietreggiò. Gli edifici di mattoni e tutti i cartelli stradali continuavano a dirgli che era nella patria dello Zio Sam: lo Zio Sam era vissuto là. Lo Zio Sam era morto là. Era reale lo Zio Sam? Quella era una novità per lui. Sembrava che lo Zio Sam fosse un produttore di carne in scatola chiamato Samuel Wilson, che aveva rifornito le truppe durante la guerra del 1812. Lo Zio Sam era greco? Niente sembrava avere senso. Troy era un posto con un'acuta crisi d'identità. E lui conosceva bene quella sensazione. Aveva bisogno di un bar. Trovò un posto all'angolo fra la Quarta Avenue e Fulton, ma appena uscì dall'auto il Toro si mise a seguirlo riflettendosi nelle vetrine lungo la strada. Non passò molto prima che North trovasse un buco in cui nascondersi. Le poche luci di quel locale erano confortevoli, comunque. Tuttavia, proprio mentre sgattaiolava al riparo dalla pioggia, capì che il Toro, sempre all'erta, avrebbe saputo aspettare. * North sedette di peso al bancone e fece scivolare un biglietto da venti, incontrando sotto le dita i graffi e le scanalature impresse in quel vecchio legno, impregnato di chissà quanti litri di birra versati nel corso degli anni. Chiese un whisky. Liscio. Non importava di che marca, purché fosse del colore giusto e gli bruciasse la gola. Qualunque cosa. Il barista era giovane. Aveva i capelli chiari e corti. Indossava una maglietta grigia del Politecnico Rensselaer e stava chino su un giornale a tormentarsi con le parole crociate. Non sollevò lo sguardo quando prese il denaro di North, né ebbe urgenza di servirlo. A eccezione di altri tre o quattro avventori, il bar era vuoto, le luci erano basse e così anche il volume del televisore. A tutti pareva andar bene così.
North stava appoggiato sui gomiti e guardava la pioggia di fuori. Il barista poggiò il suo bicchiere su un tovagliolo di carta bianco e se la svignò all'altro capo del bancone dove sedevano altri due uomini. «Nove verticale. Otto lettere. L'incauto, che aderisce a una setta». «Che?» Quello coi baffi folti chiese: «L'incauto, che aderisce a una setta? Che razza di definizione è?» «Hai qualche lettera?». L'uomo coi baffi gli prese il giornale e lo voltò per dargli un'occhiata più da vicino. «La seconda lettera è una U, come Union, e la quarta è una A, come Adam». Union. Adam. Quella era una compitazione usata solo dai poliziotti. North li ascoltò discutere sulla risposta finché, quasi inaspettata, non venne in mente a lui. Con calma levò il tovagliolo di carta da sotto il bicchiere, prese la penna e la scrisse. Fece scivolare il tovagliolo lungo il bancone verso di loro. Il più vicino dei tre lo prese e lesse a voce alta. «Lunatico?». North mandò giù il suo drink e poggiò il bicchiere sul bancone. «Scusate per l'interferenza». Il giovane barista sembrò non darsene pena. Scorse soddisfatto le parole crociate con la penna. «C'entra». «Non ci arrivo». L'uomo più vicino a North capì. «È un anagramma: l'incauto diventa lunatico». Levò il bicchiere alla sua salute. «Grazie amico». North fece un cenno educato con la testa ma non riuscì a guardarlo negli occhi. Il sorriso di quell'uomo sembrava arrivargli fino alle orecchie e la sua pelle appariva di un rosso demoniaco sotto la luce del neon. North spinse il bicchiere in avanti e chiese un altro drink. Mentre il ragazzo glielo preparava, l'uomo all'altro capo del bancone si accese una sigaretta. Lanciò il cerino nel suo bicchiere vuoto e lo fece roteare sul fondo. I suoi occhi erano socchiusi, come se stesse scrutando qualcosa. «Vieni dalla casa dei Dybbuk?». North percepì il tocco di un'inquietudine strisciante. Come faceva lui a saperlo? Aveva ancora vive in mente le folli divagazioni di Cassandra Dybbuk. È uno di loro? North gli lanciò una rapida occhiata furtiva. L'uomo satanico con la sigaretta si diede dei colpetti sul petto a voler spiegare qualcosa e gli fece un
cenno con la testa. North abbassò lo sguardo su di sé. Aveva ancora il distintivo in vista. Sospirò e lo mise via. Il demone con la sigaretta si avvicinò e si sedette accanto a lui. «Roy. Roy Conner». Indicò il suo compagno in fondo al bancone che ancora si dava da fare sulle parole crociate e si accarezzava i baffi mentre rifletteva sulle risposte. «Dicono che hai chiamato in stazione. Vieni dalla città?». North cullò il suo drink. «Sì». Roy Conner scosse la testa. Riconosceva tutti i sintomi. «Quella vecchia pazza. Amico, è più matta di un cavallo. Ehi, ha fatto quel pezzo che tu te ne stai in piedi nella stanza e lei all'improvviso dice che sei una qualche specie di clone? Ti ha chiesto che hai fatto al vero poliziotto che è venuto a trovarla?». North ammise che era andata così. Roy Conner non ne fu sorpreso. «Non credo che sia stato qualcuno a farla impazzire, è una malattia». Con un colpetto fece cadere la cenere della sua sigaretta. «Ehi A.J., cosa ha detto che ha Cassandra Dybbuk quel, ehm, primario?». Il suo compagno non sollevò nemmeno la testa dal giornale. «La sindrome di Capgras». «Sì, quella. Tutto e tutti vengono sostituiti. Sai che ha persino denunciato la scomparsa del figlio quella volta che è venuto a trovarla dal college? Si rifiutava di credere che fosse quello vero». North cercò di mostrare un po' di entusiasmo. «Quando è successo?» «Oh, deve essere stato sei o sette anni fa. Poveraccio. È dovuto andare in un motel. Lascia che te lo dica, era partito come un bravo ragazzo. Te l'ha detto cosa gli ha fatto?» «No». «Già, ci scommetto. Si è dimenticata di dirti di quella volta che ha pensato fosse qualcosa di più che un semplice impostore?». North era riluttante a chiedere cosa fosse accaduto, ma non poté farne a meno. «Entra nella sua stanza alle tre del mattino, convinta che sia un robot. Suo figlio di diciassette anni. E cerca di aprirgli la testa con un cric in cerca di microchip. Ecco perché poi ha trovato quel lavoro in città». «Che lavoro?» «Non so. Roba che riguarda il cervello. Quello che è. Per quel ragazzo è stata dura».
North mando giù l'ultimo sorso del suo secondo whisky. «Non mi interessa quanto è stata dura per lui. Lo sbatto dentro». Roy Conner era curioso. «Che ha fatto?» «Ha ucciso un poliziotto». «Porca vacca». Satana spense la sigaretta, non particolarmente sorpreso. «Già, be', la mela non cade mai lontano dall'albero». 22:34. Un motel. Sembrava una buona idea. Il barista gli parlò del Super 8 un isolato più in là, all'angolo fra la Quarta e Grand. La stanza veniva quarantacinque dollari a notte. Pagò in contanti alla reception, chiese una ricevuta e si fece lentamente strada fino al secondo piano. Non sentiva nulla. Quel silenzio gli concesse una tregua. L'aveva seminato? Era libero? Era sveglio da più di quarantuno ore quando crollò sul letto. Aveva ancora paura di dormire. Sentiva gli acuti angoli del quaderno blu dentro la tasca del cappotto che gli si infilavano tra le costole. Trepidante, lo prese e lo scaraventò lontano. Lo sentì cadere. Proprio non riusciva a guardarlo. Non da principio. Ma quando i minuti decisero di non voler scorrere, sentì lo sguardo del quaderno blu che lo fissava. L'oggetto sapeva delle cose. Su di lui. Segreti. Cose che lui stesso non sapeva. Il quaderno blu spinse North a sedersi sul bordo del letto. Si alzò in piedi ed esaminò il suo corpo pieno di paura allo specchio mentre si spogliava. Si strappò la cravatta dal collo e la buttò in terra disgustato. Nella lotta per sfilarsi la camicia fece cadere un bottone, che rotolò per la stanza producendo un suono metallico. Cos'erano quei due segni sulla fronte? Due sporgenze rosse. Le toccò. Facevano male. Tentò di ignorarle. Spense la luce e si tirò le coperte fino al collo. I suoi occhi, tremando, imploravano riposo. La lingua gli affondò in gola, soffocandogli il respiro. Si voltò su un lato. Fu allora che udì scuotere la porta. Prima afferrarono la maniglia. Lo avevano seguito dal bar? North non aveva nessun'altra certezza se non quella del freddo metallo della sua pistola sul comodino. Tirò fuori la mano nell'oscurità ma non riuscì a trovare nulla. Si mise a
sedere. La luce filtrava da sotto la porta, dove danzava l'ombra di piedi esitanti. North scivolò giù dal letto. Ancora la maniglia, che si piegava ma non voleva cedere. Ben presto si unì alla partita il raschiare di attrezzi metallici sulla serratura. Non ci sarebbe voluto molto, a quel punto. North tastò ancora il comodino. Dov'era finita la sua pistola? La porta sbatteva impaziente. Non riuscivano ad aprire e la cosa pareva per loro inaccettabile. Sentiva che stavano parlando. Seguì un tonfo sordo, una spallata, poi un pesante colpo di stivale. Loro erano venuti per Cassandra Dybbuk e adesso venivano per lui. Bene, avrebbero trovato ad aspettarli una sorpresa. Lui non era una vecchia donna indifesa. Afferrò la sedia nell'angolo e la sollevò all'altezza del petto con le gambe che sporgevano come aculei. North gridò nel buio: «Vi avverto! Sono armato!». La porta non smetteva di sbattere. Nessuna esitazione. Nessuna paura. Le sue minacce non avevano importanza. Si sarebbe aperta, che North lo volesse o no. Tu-tump. Tu-tump. Muggiti e sbuffi lo avrebbero raggiunto, che fosse pronto o no. Che si battesse o no. La porta si schiantò davanti a lui e le schegge caddero in una pioggia ai suoi piedi. A testa bassa e con occhi ardenti, il Toro era arrivato lì a reclamare la sua anima. Quando infilò la testa nella porta, sulle sue terrificanti e potenti spalle si contrassero gonfi grovigli di muscoli guizzanti. Le sue corna, affilate come rasoi, sporgevano dallo stipite della porta mentre l'animale si faceva brutalmente strada verso l'interno. Le ginocchia di North si piegarono e le braccia si misero a tremare. Il Toro, furioso, si accorse di lui. Caricò, con il sudore che scendeva dal suo lucido e spesso manto nero. North strillò fracassando la sedia contro la possente fronte di quella bestia inferocita. L'uomo saltò sul letto, ma il Toro non si accontentò di girarci intorno. La bestia incurvò il potente collo e si sollevò sulle gambe posteriori per seguirlo. Gli zoccoli impolverati saltarono sul materasso. North lottò per fuggire. Gridò, scalciò e si rotolò sul pavimento. Scappò via dalla stanza, ma le corna lo seguivano, implacabili. Venivano per lui, cariche della promessa di una selvaggia strage, in un vortice di cupo rancore.
North corse lungo il corridoio con il petto in fiamme. Ma, metro dopo metro, un'enorme bestia furiosa lo incalzava senza lasciargli altro margine. Il terribile scalpiccio di zoccoli era assordante. Lo spruzzo di bava rovente che gli usciva dalla bocca gli inzuppava la schiena. La nuvola di polvere che riempiva il corridoio lo stava soffocando. L'agonia della furia che pretendeva il suo dazio. Il Toro conficcò le corna in profondità nella carne di North e lo scagliò contro il muro. L'uomo piombò al suolo pesantemente. Il suo corpo era un ammasso di ossa doloranti. Il Toro scalciò e muggì sbattendo gli zoccoli, gli stava chiedendo di rialzarsi. North si acquattò sul pavimento e tentò disperatamente di strisciare via. Furioso, il Toro affondò ancora le corna nella carne di North. E quando ebbe terminato lo lanciò di nuovo. North si schiantò contro lo specchio in fondo al corridoio e cadde scomposto a terra. Nelle schegge di vetro colse una fugace visione del suo viso distrutto, delle rosse protuberanze che gli spuntavano dalla fronte. Alzò gli occhi. La coda nera del Toro si muoveva sferzando da una parte e dall'altra mentre il suo sguardo penetrante lo perforava. L'animale grattò il pavimento con lo zoccolo in modo risoluto e feroce, e caricò un'altra volta. North balzò in alto e, afferrando entrambe le corna con un'agile mossa, montò sopra la bestia, che se lo scrollò di dosso con furia scatenata. Lui atterrò in piedi e corse via. Il Toro andò a sbattere contro il muro. L'impatto fu di una forza tale che il corpo dell'animale fu colto da uno spasmo. Ridotto in ginocchio si affannava a riguadagnare terreno. Era senza fiato, ma avrebbe recuperato in fretta. Si voltò di scatto, ma North fu più veloce. Davanti alla bestia si apriva un labirinto, ma la sua preda ferita si era già nascosta. North fuggì verso il cuore del labirinto, nel dedalo di tunnel e porte. Sentiva il respiro echeggiare da una parete all'altra. Il magnifico potere della bruta creatura che gli dava la caccia, veloce e determinata. Era vicino e non avrebbe ceduto. North arrancava per trovare una via di fuga, un modo di salvarsi dall'ira della sua vendetta. Cosa aveva fatto per destare il suo furore? E cosa poteva fare per fermarlo? Aveva i piedi pesanti, le braccia sfinite e il petto affannato nell'attesa di
un'irragionevole, impossibile boccata d'aria. Voltò l'angolo e si trovò il Toro di fronte. Lo stava aspettando. Cambiò direzione e il Toro era lì, sempre lì. Inesorabile e pronto a caricare. Qualunque strada North scegliesse, lui era lì. Invalicabile. Inevitabile. North spalancò la porta più vicina. Si trovò davanti un muro di pietra polverosa che gli bloccava il passaggio, negandogli la libertà. Batté il pugno contro la rigida superficie. Graffiò il cemento, finché le unghie gli si consumarono e cominciarono a sanguinare. E quando fu esausto, ormai in compagnia della sua sola disperazione, le corna del Toro trapassarono la pietra, fracassandogli le ossa del petto. Trafitto, North crollò sul pavimento stringendosi il corpo e le ferite. Immobile, non poté far altro che fissare in un tremendo tormento la pietra che stava per crollargli addosso, e il grosso muso del Toro, che si scrollava di dosso la polvere della disfatta. La belva si impennò, muggì e sbuffò. Sollevò un immenso zoccolo e lo abbassò, infilandolo nel petto di North, rompendo e polverizzando le sue fragili ossa. Abbassò l'immensa testa e la scosse con potenza furiosa, afferrando il corpo di North con le corna. Gli sollevò le costole e le rimosse una a una, per lasciare in mostra quell'orrendo disordine di carne e sangue. Ma il Toro non era ancora sazio. Incapace di respirare, incapace di muoversi, North fu costretto a osservare la bestia premere il suo enorme muso fino in fondo, nei suoi organi, e conficcare la testa fino alla spina dorsale. A quel punto si mise a scalciare, lo mutilò e si bagnò nel suo sangue. Scavò un buco e vi si infilò. Il Toro era dentro di lui. Il Toro dilagava. Il Toro non poteva essere domato. North sentiva una pressione nella testa e percepiva un paio di corna spuntare e fracassargli il cranio. Pianse. Pianse tanto da sommergersi. Tanto da non riuscire a sentirsi gridare. 1.06. North si svegliò farfugliando sul grigio cemento delle scale d'emergenza del Super 8. L'acqua che usciva dalla pompa antincendio era ghiacciata e inesorabile. Si sforzò di respirare. Tenne le mani sollevate e le implorò di fare qualcosa. Ci volle parecchio per chiudere l'acqua. Si concentrò sul suono di quel gocciolio e con occhi doloranti levò lo sguardo al portiere notturno
che dal bancone della reception incombeva minaccioso su di lui. Fra le sue gambe e attraverso la porta North vide il corridoio del motel. Le porte delle stanze erano spalancate, gli ospiti innervositi lo stavano guardando. North non sapeva cosa dire. Rabbrividì e tentò di alzarsi dritto in piedi, ma scivolò cadendo contro la parete. Il portiere notturno non fu comprensivo. «Si dia una pulita», disse, «e se ne vada». North annuì. Era il minimo che potesse fare. 4.47. I colpi alla porta erano forti e impazienti. Perso nell'oscurità, Porter si ridestò dal suo sonno agitato nella stanza del Pennsylvania. Si sforzò di trovare l'interruttore per la lampada accanto al letto e rimase seduto un attimo per riprendere un po' di contegno. I colpi non accennavano a smettere. Lanciò un'occhiata di sguincio all'orologio. Forse era l'allarme antincendio. Porter si tirò giù la sottile t-shirt bianca fino alle mutande e si avviò alla porta. Sbirciò attraverso lo spioncino. C'era un uomo con un lungo impermeabile zuppo. Sembrava agitato, ma non aveva fretta di andarsene. Avrebbe svegliato i vicini di stanza con quel fastidioso baccano se fosse rimasto lì ancora a lungo. Esitante, Porter sistemò il chiavistello al suo posto e dischiuse la porta. «Sì?». L'uomo con l'impermeabile trascinava i piedi. Porter sentì che respirava a fatica. L'andatura era malferma. È un drogato? Era difficile da dire, ma a quest'ora le probabilità che lo fosse erano parecchie. Forse non era stato saggio aprire la porta. Fu solo quando l'uomo gli offrì il suo profilo che Porter si illuminò e cominciò a riconoscerlo. Aprì la porta e scrutò il suo ospite scarmigliato. «Detective North?». Il volto del detective tradiva una certa confusione, e sembrava sinceramente disperato. Aveva con sé un quaderno blu. Quando lo sollevò per mostrarlo a Porter e lo aprì sulla prima pagina, i suoi occhi annunciarono senza possibilità di errore che quell'uomo stava lottando per non perdere la salute mentale. Porter indietreggiò. Ma poi, con più calma, si riaccostò pian piano per leggerlo.
La scritta proclamava fredda: «Sono la maledizione di Satana». In basso, con inchiostri differenti, si poneva la domanda: «Sono quella di Athanatos?». North aveva i brividi, le dita gli tremavano mentre riprendeva il quaderno e cercava invano di chiuderlo e riporlo nella tasca del cappotto. Si sentiva perso e non sapeva cosa fare. Porter gli credette quando lo sentì implorare: «Mi aiuti, la prego». IN CERCA DI UN'ANIMA Non avrebbero lasciato che se ne andasse da lì. Quando Gene arrivò con il recipiente in mano, gli offrirono l'opportunità di saperne di più. E quella era una tentazione irresistibile per lui. Conoscevano bene il suo tallone d'Achille. Malgrado l'istinto di fuggire, la voce della passione era più forte. Seguì le attività degli scienziati di Lawless fino a tarda notte. Una goccia del suo campione fu messa al centro di una camera di Makler, un piccolo strumento rotondo di metallo che teneva gli spermatozoi di Gene schiacciati fra due lastre di vetro, dove erano ancora liberi di dimenarsi e contorcersi, ma non di scappare. Ingranditi sotto la lente del microscopio, sugli schermi sembravano enormi, tanti pallidi girini. Ognuno con il proprio flagello 11 , che muoveva con frenetici colpi di frusta, come ad incitare invisibili cavalli a trasportare quel carico di DNA sempre più avanti. Scodinzolando impeccabili secondo un preciso modello a zig-zag, alcuni nuotavano su un'indecisa linea retta. Altri, invece, sembravano malformati. Nonostante ciò, il campione fu dichiarato buono e ne conservarono metà. Fu estratta una vasca di metallo color indaco raffreddata ad azoto liquido. Da lì presero una ruota di provette, il campione più vecchio fu rimosso e scartato senza troppe cerimonie, e fu aggiunto il campione più nuovo. Gene era stato impegnato per più di due anni, e se ne ricordava bene. Tutto questo per poter scrutare dentro una singola cellula riproduttiva e separare i ventitré cromosomi che possedeva. Eppure, Gene continuava a non capire come quei cromosomi potessero contenere la sua memoria. «A cosa stai pensando, ragazzo mio?». Gene non si aspettava di trovare lì Lawless. «Mi chiedevo da dove proviene la mia anima». Lawless gli porse il suo bastone d'ebano mentre scivolava in un inamida11
In botanica e zoologia, organo di locomozione cellulare (n.d.r.).
to camice bianco. Gene rimase imbambolato per un istante, con il bastone in mano. Potremmo colpirlo. Il decorato pomo in metallo era pesante. Un colpo alla testa. Lawless era divertito dal dilemma che attanagliava il suo legittimo erede. «Una domanda così semplice». «Non conosco ancora la risposta». «Fino a oggi nessuno è riuscito a rispondere, nonostante tutta questa scienza e tutta questa religione. Non ti sembra che le cose vadano un tantino a rilento?». Con il bastone ancora in mano Gene chiese: «E a te non sembra?». C'erano diverse guardie lì dentro, gli sarebbero arrivati addosso in un secondo. Non ce la faremo mai. Lawless sollevò il palmo della mano in silenzio. Dopo un attimo di esitazione, Gene restituì diligentemente il bastone. «Non oggi, sembrerebbe». Lawless si appoggiò al bastone e invitò Gene a seguirlo per osservare il grande laboratorio. Un esercito di scienziati era in piena attività sotto l'accecante luce al neon, e lanciava occhiate furtive a Gene tra una procedura e l'altra, tra un esperimento e l'altro. Era snervante. «Non diresti anche tu che i tuoi piccoli soldati sono vivi? Guarda come si muovono. Hanno un istinto per la caccia, sanno di doversi aprire un varco, di dover trovare una strada». «Ma da soli non sopravvivono. Soltanto uno di loro arriva vivo al momento del concepimento». Lawless batté il suo bastone sul duro pavimento di marmo. «Ah il momento del concepimento. Quanto dura questo momento? Un secondo? Un minuto? Due?». Gene infilò le mani nelle familiari, profonde tasche del suo camice. La sua fu una risposta abbottonata. «Fra le ventiquattro e le quarantotto ore». «Questo momento del concepimento dura due giorni? E dov'è l'anima in quel frattempo, sospesa in aria? Galleggia nell'etere girandosi gli "eterei" pollici?» «Creare la vita non è come accendere un interruttore. Una volta che uno spermatozoo ha penetrato un ovulo, può rimanere diviso dai suoi geni per oltre un giorno. Dell'anima non so niente». «Forse non sai nulla dell'anima perché non ne hai una?» «Per questo è te che devo ringraziare. Credevo che il trasferimento dell'anima fosse quello che stiamo cercando di fare qui». La frecciata fece trasalire alcuni degli scienziati, ma sentì una reazione del tutto differente da parte di Lawless: l'uomo sorrise. «Vedo che sei una
scelta valida. Ma non essere troppo esuberante, ragazzo mio». «Di cosa hai paura? Dell'anarchia?» «Oh, no, niente di così volgare. Quel che temo è una semplice, piccola morte». Diede a Gene un colpo secco col bastone. «Noi abbiamo delle regole. Abbiamo un sistema ordinato che ci ha servito bene per molti secoli. Col tempo sarà utile a te». Gene non disse nulla. Evidentemente Lawless non sapeva quello di cui gli aveva parlato Savage, e cioè che il suo sistema era difettoso. Megaera li raggiunse. Mentre Lawless programmava il macchinario secondo le sue impostazioni personali, lei distribuiva fogli di carta con stringhe di numeri e complessi diagrammi. Aveva raccolto i lunghi capelli rosso fuoco in una retina. Lanciò a Gene un sorriso curioso. Lo fece sentire a disagio. Si comportava come se non lo conoscesse. Poi la donna disse: «Ci siamo imbattuti in più di tre milioni di differenze nel DNA di Gene, rispetto all'ultimo campione. Il suo processo di codifica è ancora pienamente funzionante, malgrado le sue recenti difficoltà». Il tasso di mutazione nel genoma umano era di cinque volte superiore negli uomini, proprio in virtù della loro costante produzione spermatica. Queste mutazioni avevano qualcosa a che fare con il modo in cui venivano codificati i ricordi? «Eccellente». Lawless non alzò lo sguardo dai risultati. «Dimmi, Gene, cosa succederebbe se, disastro dei disastri, più di uno dei tuoi spermatozoi dovesse raggiungere un ovulo? Quante anime pensi che verrebbero generate allora?» «L'ovulo si libera da solo di tutto il materiale genetico in sovrabbondanza, finché non rimane una sola serie di cromosomi maschili da fondere con i propri». «Ah, ma che succederebbe se un embrione decidesse di scindersi in diversi embrioni generando, ad esempio, gemelli omozigoti? Cosa accadrebbe all'anima in quel caso? I gemelli prenderebbero mezza anima ciascuno? O una sola che sarebbero costretti a palleggiarsi avanti e indietro in continuazione?» «Non lo so». «Non lo sai». Lawless non sembrava convinto. «Proviamo con qualcosa di un po' più semplice. Cosa accade nel caso in cui due embrioni diventano una persona sola. Quando i gemelli si fondono in un singolo. Una grottesca chimera. Quella creatura ha ricevuto due anime? Diventa un coro di
eco? L'identità del suo tessuto cellulare non è che un'illusione? Diventa un uomo con una personalità multipla?». Noi? Si riferisce a noi? Gene sentì il gelo avvolgergli le ossa. «Penso che potrebbe». «Pensi che potrebbe? Sì. Ecco l'impedimento. La verità è che tutto questo parlare di un'anima è una totale assurdità. Tu sei stato definito in tutta la tua gloria molto tempo prima che ti imbattessi in qualsiasi ovulo». Lawless spostò l'attenzione di Gene sul suo campione di sperma ancora in mostra su una fila di schermi. Lo osservò trionfante. «Questa confusione microscopica, questa stringa di amminoacidi», disse entusiasta, «questa è la tua anima. Questa è la vita che hai forgiato in catene». Lawless, appollaiato su uno sgabello a sorvegliare i lavori, teneva il bastone tra le gambe, battendolo nervosamente a terra. «Letha, siamo pronti?». La donna non rispose. Era evidente dal modo frenetico in cui stava lavorando che non era pronta. Gene si avvicinò. Stava controllando e ricontrollando tutto per la seconda o terza volta. In quel momento la sua gemella le si affiancò per aiutarla. Megaera e Letha erano assolutamente identiche. Gli stessi capelli rosso fuoco, la stessa determinazione. Erano solo due? Era stato catturato da un esercito di donne dai capelli ramati credendo che fosse una sola? Parlò a quella che Lawless aveva chiamato Letha, c'era un'ombra nei suoi occhi, una specie di ottusità. Quello, si rese conto, era quanto la differenziava dalla sorella. «Prima. Eri tu quella con i tamponi di profumo», disse. Letha sorrise malinconica. «Dici?» «Tu non sei Megaera». Osservò con attenzione Megaera che assisteva la sorella nel suo lavoro. Lei sapeva di avere i suoi occhi addosso e sembrava compiaciuta da quelle attenzioni. Il calore di Letha sembrava incostante, ma durevole. «No, non sono lei», disse, «anche se qualcosa mi dice che sei un tantino ossessionato da nostra sorella. È una sensazione intangibile quella che ho, ma tuttavia reale». Gene ignorò il commento. Aveva lo sguardo fisso altrove. «Sei molto silenziosa, Megaera». Megaera non alzò lo sguardo. «Sono divertita. Sono così felice che siamo diventati più intimi in questi ultimi giorni». E a quel punto fece la sua mossa. «Hai sentito, padre, cosa abbiamo fato io e Gene questo pomerig-
gio?». Ci sta per umiliare. Fermala. «Non è stato nulla». «Nulla? Abbiamo risolto le nostre divergenze. Pensavo che avresti gradito la mia collaborazione. Padre? Perché devo sempre rimettere a posto i casini di Gene?». Lawless era concentrato sul suo obiettivo con spietata risolutezza. I loro insignificanti alterchi non lo interessavano. La sua replica fu piatta e fredda: «Perché questo è il tuo lavoro». Né Gene né Megaera furono soddisfatti della risposta. Gene si mise a sedere. «Quanto manca prima che tu possa provare la mia Ipotesi di correlazione con il CREB?». Il volto di Megaera si incupì. «La tua ipotesi?» «Sarò io il prossimo Athanatos, siamo tutte schegge del suo albero. È tanto mia quanto di chiunque altro. Forse di più». Lawless trovò divertente il loro scambio, con grande costernazione di sua figlia. Era esattamente come Gene aveva previsto. Più emulava l'arroganza implacabile del vecchio, più imitava il suo atteggiamento condiscendente, più conquistava la sua fiducia. Lawless invitò Gene a partecipare alla procedura. Proprio come un chirurgo impegnato in una complessa operazione endoscopica, anche Lawless usava minuscole pinze e forbici laser - fasci di luce estremamente concentrata che intrappolavano le molecole - per dare inizio alla manipolazione del DNA di Gene, come se fosse un anagramma disposto lungo interminabili intrecci. Gene scoprì di sapere d'istinto quali geni si trovavano in quali cromosomi, e Lawless era interessato a quei cinquecento da cui dipendevano la personalità e le funzioni legate alla memoria. Era un mondo che riusciva a figurarsi in modo assolutamente chiaro, come se ci stesse dentro. Le interazioni che avvenivano nella mente fra le miriadi di molecole deputate alla formazione della memoria costituivano un processo degno della più grande corsa a staffetta mai disputata in nessuna Olimpiade. Come arena, non un ippodromo, ma l'ippocampo. Bastava che si verificasse un momento di particolare tensione, perché il corpo rilasciasse un ormone. Quello era il segnale del via. In prima posizione c'era la vasopressina, con l'epinefrina subito dietro e il neurone recettore in vista. Passaggio del testimone!
L'ormone si legava al recettore, ed ecco che il ciclo-AMP entrava in gara, in corsa per la gloria, in corsa per la memoria. Dalla superficie della cellula, il cAMP trasportava il testimone, correndo lungo la parete interna. Davanti a lui il suo compagno di staffetta aspettava pronto. Saltando su e giù, mantenendosi caldo. Aveva un nome difficile da pronunciare, proteina cAMP Response Element Binding: CREB. Che però in realtà erano due: il CREB attivatore per generare i ricordi e il CREB repressore per dimenticare! Passaggio del testimone! Lungo le tortuose spire del DNA il CREB cercava un compagno, ma in questa gara ce n'erano molti, perché il CREB aveva un segreto. Il CREB era un ammiraglio. Il CREB aveva una flotta. Sceglieva quindi i suoi uomini uno per uno, geni che prendevano vita al suo comando e consegnavano ai loro RNA messaggeri il progetto delle proteine che sarebbero dovuti andare a costruire. Passaggio del testimone! A quel punto i marinai si mettevano a lavoro, correndo attraverso i neuroni, issando le cime per stringere i legami fra di loro, e segnando il tracciato secondo il piano del CREB finché le vele della memoria non venivano spiegate. Era con la funzione mnemonica vivificata in carne e ossa che il CREB poteva levare in alto il testimone. Con la memoria resa ormai permanente il CREB vinceva la sua corsa. Eppure per Lawless non era ancora vinta. Per Lawless esisteva un altro meccanismo che andava preso in considerazione. Il CREB non dominava, infatti, solo su quel particolare centralino telefonico, quel grandioso centro commutazione che era l'ippocampo, ma impartiva ordini anche dall'ipotalamo, la capitale dell'impero sessuale. Nell'ipotalamo il misterioso meccanismo del ciclo circadiano, il formidabile orologio biologico di cui tutti siamo schiavi, scandiva il suo ritmo, un inesorabile giorno dopo l'altro. E lì, quando il corpo era sotto l'influenza della luce del giorno, il CREB riceveva e smistava i suoi ordini. La teoria di Megaera sosteneva che, da qualche parte nell'ipotalamo, il CREB o uno dei suoi luogotenenti inviava una seconda flotta per ordinare e strutturare i ricordi, ma stavolta lungo una rotta diversa e verso un'altra destinazione, ossia fino al luogo in cui lo sperma veniva prodotto. Questo era il processo al quale Gene stava assistendo: il trasferimento dei ricordi di Athanatos da uno stato dormiente codificato nel suo DNA a
uno stato attivo vivificato nella sua mente dal CREB. Ricordi che avrebbero preso il sopravvento su qualsiasi altra personalità. Ma più osservava, più aveva la sensazione che fosse in corso anche un altro processo. Una caccia sistematica. E mentre se ne stava seduto lì, finalmente capì cosa Lawless stesse cercando: il tassello mancante che avrebbe reso superfluo quell'imprinting, secoli di elisir e anni di laboratorio. Cercava l'uomo nel cui genoma era già codificata l'eternità. Cercava Cyclades. Gene comprese che se aveva i ricordi di Athanatos, ma anche quelli di Cyclades, le voci che sentiva assumevano un senso: la battaglia finale di quella guerra si combatteva nella sua mente sfinita. Gene era un ibrido in tumulto, un'anima saldata che veniva sistematicamente fatta a pezzi. Ma se avessero trovato quel qualcosa che Cyclades possedeva nei tanti campioni forniti da Gene, lui e il procedimento a cui era sottoposto sarebbero diventati del tutto inutili. ALTRI RISVEGLI Venerdì. «Dove sei?». Bella domanda. North tenne il suo Nextel premuto contro l'orecchio. Si tirò su lentamente. Era a letto, completamente vestito a eccezione delle scarpe. Che ora è? Acute fitte di dolore gli fluttuavano nella testa. Non era a casa. Su una sedia nell'angolo c'era un uomo che dormiva profondamente con indosso solo una t-shirt e le mutande, durante la notte l'asciugamano che aveva usato come coperta era placidamente scivolato sul pavimento. Porter. Cosa lo aveva portato a rivolgersi a Porter? L'istinto o la disperazione? Forse un po' entrambi. Sul comodino c'era un cocktail di Nyquil e sonniferi. Una potente combinazione che gli fece sospettare che l'uomo addormentato fosse un tantino più saggio di lui. Un fascio di minacciosa luce diurna splendeva luminoso dietro le tende. Gli feriva gli occhi. «Che ore sono?» «Mezzogiorno», rispose Martinez. North ascoltò l'ufficio in fermento dietro di lui mentre il giovane detective si occupava delle sue cose. Aggiunse: «È tutta la mattina che l'OCME cerca di parlare con te. Mi sto limi-
tando a passarti il messaggio. Sheppard dice che è molto urgente». I risultati di sangue e urine. «Mi vuole lì?» «No, basta che lo chiami». «Che altro hai?» «Nastri video». North sentì un'ondata di sollievo. «Sono arrivati quelli del DOT?». Martinez non sembrava altrettanto eccitato. «Sì, adesso li devo passare tutti al setaccio». «Quanti ne hanno mandati?». Lo udì impilare e contare le cassette di plastica sbatacchiandole. «Quindici. Venti». North non lo invidiava. «Cosa hai tu?» «Io ho un nome». La molla giusta per far scattare Martinez. «Davvero?». Le giunture gli facevano male, i muscoli erano rigidi e poco collaborativi. A passi felpati scese traballando dal letto con il telefono in mano, e senza pensarci troppo gli rivelò i dettagli. «Eugene Dybbuk. Precedente indirizzo Sesta Avenue, Troy, Stato di New York. Studente della Columbia University». North riconobbe una nota di tensione nella voce del giovane: la repentina stretta del rancore. «Ti sei dato da fare. Hai un riscontro positivo?». Questa era la domanda che North non avrebbe voluto sentirsi fare. Doveva già vedersela con i suoi demoni personali. Non gli servivano anche quelli di un altro. Esitante, cercò l'impronta digitale che aveva rilevato con il nastro adesivo e tenuto in una delle tasche del soprabito. Era ancora lì. «Devo fare una visitina al laboratorio del Jamaica, ma sono sicuro al novanta, novantacinque per cento». Martinez fu determinato. «Mi muoverò di conseguenza». Scommetto di sì. «Se trovo il tempo faccio un salto al campus per vedere cosa riesco a scovare». «Vacci piano, eh?!». Martinez non rispose all'avvertimento. «Ehi, e firmami la presenza». «Già provveduto. Lo vedi? Non è poi così male lavorare in coppia». «Sicuro». «Vieni oggi?». North diresse la sua attenzione a Porter che dormiva ancora profondamente sulla sedia.
«Sì», rispose North a disagio. «Devo solo occuparmi di una cosa». Attaccò sentendosi più disorientato che mai. Rimase ad ascoltare il respiro di Porter e scorse il menù del telefono per trovare il numero dell'OCME. Il centralino lo mise in attesa, ma non per molto. Sheppard prese in fretta la linea. «Come ti senti?». A North non piacque la domanda o non gli piacque il tono serio con cui venne posta. «Bene». «Nessuno strascico di nausea? Vertigini?» «Un po'». «Vomito?» «Sì». Sentì Sheppard che scarabocchiava su un pezzo di carta. «Senti, ti consiglio di tornare indietro e prendere un appuntamento con il tuo medico. I risultati sono un tantino, come dire, preoccupanti». «Come, preoccupanti?» «Rolipram». North ne sapeva quanto prima. «Mai sentito nominare». Sheppard disse che si sarebbe stupito del contrario. «È un antidepressivo elaborato negli anni Ottanta poi ritirato dal commercio». «Una droga di vent'anni fa?». North rovistò in giro in cerca di qualcosa su cui prendere appunti. «Come hanno fatto a procurarsela?» «C'è ancora qualche industria farmaceutica e biotecnologica che ci lavora. È venuto fuori che è un potente rafforzativo della memoria. Un'alta dose di Rolipram provoca il vomito. Gli altri effetti collaterali non sono altrettanto innocui». North se lo appuntò, ripetendo ad alta voce quello che scriveva per accertarsi di averlo scritto bene. «Cosa altro mi ha iniettato?» «Un cocktail decisamente pericoloso. Qualche rimedio erboristico: la lista è lunga. Alcune di queste sostanze non sono mai nemmeno andate vicino all'approvazione della FDA12 ». «Credi che Gene sia un dilettante o un professionista?». Sheppard non era in grado di dirlo. «È roba che si trova in qualsiasi negozio di cibo biologico?» «Dipende dal negozio, tutto è possibile. Ti ha iniettato una dose massiccia di ma huang, ad esempio. Che si trova in commercio, anche se la FDA l'ha classificata come un'erba di, cito: "sicurezza non accertata"». 12
Food and Drug Administration: l'ente che si occupa di approvare cibi e medicinali (n.d.t.).
North appuntò anche questo. «Ma huang?». Sulla sua sedia nell'angolo Porter si svegliò. «Efedrina», sbottò. North lanciò un'occhiata all'alto e scarno inglese vagamente imbarazzato per non essersi coperto meglio. Porter non disse altro: sembrava non sapere nemmeno da dove cominciare. Intanto cominciò a vestirsi. La curiosità di Sheppard, che aveva sentito qualcosa, fu più forte di lui. «Chi è?» «William Porter», spiegò North, «uno psichiatra che mi aiuta con il caso». L'atteggiamento di Sheppard mutò. Era il suono del sollievo? «Allora potrà dirtelo lui», disse. «Avrebbero fatto meglio a portarti dritto all'ospedale quel giorno. È un piccolo miracolo che non tu sia caduto in coma». North ci pensò su. Forse è successo. «Dove deve andare una persona normale per trovare una manciata di ma huang in città?» «Chinatown. Non mi viene in mente nessun altro posto in cui si possano mettere le mani su queste cose. E i fornitori sono zelanti e riservati. Senti, ti mando i risultati per fax...». «Puoi spedirli per e-mail? Non sono in ufficio». «Certo». Prima che North riattaccasse, Sheppard gli raccomandò, per la seconda volta, di prendere un altro appuntamento con il suo medico. Certo, come se ne avessi il tempo. North concesse a Porter la sua totale attenzione. I due si sedettero, a disagio per il reciproco silenzio. Non era ciò che North voleva. Quando si teneva in attività, quando elaborava le domande e se le poneva di frequente, allora sì che si sentiva bene. Il silenzio era il momento in cui riaffioravano i ricordi, l'amarezza e il senso di colpa. Sulla scrivania c'era la raccolta di quaderni colorati: il polveroso quaderno blu di Gene era in cima agli altri e gli occhiali da lettura di Porter vi erano poggiati sopra ripiegati per bene. Che ne pensava? North teneva il telefono con entrambe le mani, cosciente del letto e delle medicine che lo avevano aiutato a riposare bene per la prima volta dopo tanti giorni. Fece a Porter un umile gesto di ringraziamento. Non riuscì a trovare parole per accompagnarlo, la vergogna e l'imbarazzo non glielo permisero. Porter finì di infilarsi la camicia nei pantaloni e gli disse educatamente di non preoccuparsi. North si sentì sopraffatto. Non riusciva a guardare quell'uomo negli occhi.
Porter attese paziente, ma North non si mosse. Si riaccomodò ed esaminò attentamente il detective. Conosceva i sintomi. «Sei arrabbiato?» «Sì». «Da quanto tempo?». North era rassegnato a quella risposta. «Tutta la vita». «Tutta "questa" vita». North non era preparato. «Per favore, no». «Se ti bruci la mano non ha senso biasimare il fuoco: è solo fedele alla sua natura. È la fonte che alimenta la fiamma. Sei d'accordo?». North non vedeva come avrebbe potuto. «Puoi stabilire "perché" sei tanto arrabbiato?» «No». «Ma ci avrai pensato». «È solo una di tante cose». «E se non lo fosse?» «Non ci voglio pensare». Porter si spinse sulla punta della sedia. «Mi hai chiesto aiuto. Il mio aiuto "necessita" che tu ci pensi». North non voleva rispondere. «Questi sentimenti ti spaventano?». Sì. È tanto sbagliato? North tirò un respiro, profondo e lento. «Il problema», osservò aspramente Porter, «è che hai impiegato il tuo tempo a fuggire da tutto questo. E ora che è venuto a galla, non sai come gestirlo». Scappare dal Toro. Scappare dalla bestia. È davvero questo che sono? North aveva bisogno di una risposta. «Il Toro è un simbolo?» «No. È estremamente reale». È reale? Allora cosa significa? «Pensa», lo incalzò Porter. «È davvero là che hai più paura di andare?». No, c'era un altro luogo che lo spaventava più profondamente di quello. North lottò per trovare la voce. «Sono Athanatos?». L'attesa della risposta fu lunga e dolorosa. «No». Non era quel che si aspettava di sentire. "No". Guardò lo psichiatra dritto negli occhi. «Come può esserne tanto sicuro?» «Non posso. Perché tu credi di "esserlo"?». Mangiare carne di bambino arrostita? Osservare corpi che bruciano su una pira? Nuotare fino al collo nel sangue innocente? Che bisogno aveva di ricordare tutto questo se non per via di qualche oscuro sentimento interiore su cui non aveva il controllo?
North sentì l'ossessionante gelo della memoria dilagare dentro di lui. Non era purificante, ma corrosivo. «Fiuto il "male". Ne sento il "sapore"». «Conoscere il male non equivale a "essere" il male». «Come lo sa?» «Perché è tutto qui». Porter pizzicò la carne del suo braccio. «E qui». Portò il dito alla tempia. «E "qui". Scritto nella trama della nostra carne, come un gomitolo di filo che si svolge attraverso il tempo, "noi" siamo le sue cime sfilacciate. Fili sciolti che tessuti assieme creano l'intero. Tu e io siamo ombre della stessa persona. Frammenti di un'anima». «Io non sono collegato a lei». «Ti posso assicurare che lo sei. Il tuo sangue e il mio sono diramazioni dello stesso potente fiume - è solo che i nostri corsi si sono separati moltissimo tempo fa, ma i ricordi sono in entrambi. In rari casi, come il mio, possono essere rievocati. Oppure possono essere forzati, come nel tuo. Ma tu e io, pur essendo oggi due estranei, abbiamo le stesse origini genetiche. Abbiamo in comune un nonno di oltre quattrocento anni fa. Prima di quel momento la nostra storia è la stessa. Il modo in cui la ricordiamo è identico. Siamo lo stesso uomo». SUSSURRI CINESI 13:28. North non ne poteva più. Ma non c'è l'aria condizionata questo posto? Aveva il colletto zuppo. Sentiva l'acido della bile salirgli in gola. Due metri alla porta. Si sforzò di inghiottire. Ancora due passi. Era fuori. Porter lo seguì lungo il marciapiede. Il cielo minacciava pioggia, ma nel frattempo la città si era ritrasformata in una fornace, e sembrava che ogni cosa esalasse vapore. Quella foschia appiccicosa infettava le strade come una malattia e arroventava il cemento. North rovistò in cerca delle chiavi dell'auto. «Prima mi ricordo di vite che non so di aver vissuto e ora mi dici che non sono nemmeno una persona intera. E cosa sarei, un frammento?» «Capisco che sia difficile». North cercò di buttarla sul ridere. Aprì lo sportello con uno strattone. «Certo». Porter montò sul sedile del passeggero e si allacciò la cintura. North non obiettò, si buttò in mezzo al traffico e si unì a quella marea ininterrotta di
macchine che si dirigeva verso il centro. Stringeva il volante così forte che le nocche gli diventarono bianche. «Sai quanti anni ha mia madre?». Porter scosse la testa. «Cinquantasei. Mi ha avuto a ventidue. Mio padre era in servizio da due anni. Ho visto alcune foto in cui aveva lunghi capelli scuri e indossava un tubino corto e attillato. Era...». Sexy? Riuscì a sentirla gemere di piacere, contorcersi e palpitare di desiderio. E di nuovo fu preda di quel familiare moto di odio dal quale non trovava scampo. «Era una bella ragazza», concluse debolmente. Aveva perso il controllo. Quel caos che si agitava dentro di lui, denso e fangoso, sembrava muoversi secondo una volontà autonoma dalla sua. North fermò l'auto al semaforo e si girò a guardare il suo passeggero. «Ma non ho mai pensato di farmela prima d'ora». Porter evitò il suo sguardo. Tenne gli occhi sulla strada, cercando di concentrarsi sulle vibrazioni del motore. Non ne uscirai così facilmente. «Hai una spiegazione per questo? Perché io me ne tiro fuori. Me ne voglio tirare fuori». Porter era palesemente a disagio. Guardò distrattamente la giungla di macchine che avevano intorno. Scattò il semaforo. «È verde». «Fanculo il semaforo». La coda di automobili che avevano dietro cominciò a dare insistenti colpi di clacson, e qualcuno iniziò a superarli facendo elaborate manovre. E dal momento che anche gli automobilisti avevano cominciato a insultarli, Porter non sapeva davvero più dove guardare. «Cos'è che ti dà più fastidio? Avere questi ricordi? O ricordare che ti è piaciuto?». North era disgustato, ma cercò di non darlo a vedere. Sa cosa sto pensando. «Mia madre, dottor Porter. Ho fatto sesso con mia madre». Ingranò la prima e riprese a muoversi. «La reincarnazione è una cosa. Ma perché avrei fatto questo?» «Non è ovvio?» «Non per me». «Perché parliamo di memoria genetica, detective North, ricordi trasmessi per via patrilineare, tramandati di padre in figlio». Di padre in figlio. Non da suo padre. Non dall'uomo che credeva essere suo padre.
«È la nostra biologia», spiegò Porter. «La biologia dei nostri ricordi, conservati nella nostra mente e quotidianamente rinnovati, in modo che i nostri ricordi possano essere ereditati dai nostri figli». North era impaziente. «Cos'è, una lezione di scienze?» «Volevi una spiegazione». «Io voglio sapere perché». «Sperma». North era confuso e non si preoccupò di darlo a vedere. «Le donne nascono già con i loro ovuli. Trascorrono la vita sapendo che avranno solo ciò che è stato dato loro. Noi, invece, produciamo seme continuamente. E ogni partita è tanto diversa dalla precedente che le implicazioni per la nostra memoria sono critiche». Talmente critiche che non so nemmeno cosa siano. «La produzione di nuovo seme avviene perché il vecchio non è più vitale, o perché il suo proprietario è riuscito a liberarsene». «Sesso». «I ricordi sono fatti per sopravvivere ai processi di sollecitazione ed eccitazione. Lo stimolo a produrre nuovo sperma giunge perché le condizioni dell'incontro sessuale generano la stessa eccitazione che forma quei ricordi. Penso che noi due abbiamo in comune la stessa anomalia genetica: creiamo lo sperma al momento». North prese la prima curva che si trovò davanti, accecato dalla frustrazione. «Questo non mi dice nulla». «Dice tutto, invece. Il primo ricordo genetico di un bambino in questa vita sarà spesso quello dell'ultima azione di suo padre... il sesso con sua madre». Porter era colpito dalla crudele natura dell'intreccio. «È tutto terribilmente freudiano». Non mi sta dicendo nulla. «Vuol sapere cosa è terribile?» «Cosa?» «Che non ha risposto alla mia domanda». Porter rimase perplesso. Tentava di rispondere, ma North non gliene dava modo. «Mi sta dicendo come è successo. Non mi importa del come. Le ho chiesto perché». Fra loro calò un silenzio insormontabile. Porter guardò fuori dal finestrino. «Dove stiamo andando?». North era sovrappensiero. Svoltò di nuovo, imboccando un'altra strada.
Porter osservò il volante nero scorrere tra le forti mani di North. C'era tensione nelle sue dita, dita senza anelli. «Hai una fidanzata, detective?» «Cosa?» «Hai qualcuno che ti aspetta, a casa?». North tentò di minimizzare. Era un colpo personale contro cui non aveva alcuno scudo. Cercò di non darlo a vedere. «No». Porter non sembrò particolarmente colpito dalla risposta. Guardò scorrere dal finestrino una gran folla di persone, mentre la Lumina si faceva strada scivolando in quel quartiere sconosciuto. «Non ti sei mai chiesto perché?». Certo che mi chiedo perché. «No», mentì. In verità la cosa non gli era mai sembrata giusta. Aveva sempre sentito un istinto profondamente radicato che lo tratteneva dall'impegnarsi. «Magari semplicemente non era destino». North preferì dirottare l'attenzione da quell'argomento sgradito. Porter aveva detto che sua moglie era morta. North domandò delicatamente: «E lei?». Porter non disse una parola. Era difficile dire dove fossero i suoi pensieri o quali segreti nascondessero. Quando rispose, lo fece con un'altra domanda. «Perché credi che vada così?». Sviano tutti. North strinse il volante. «Che vada così, cosa? Che non sto con nessuno?» «Sì». Questa è facile. Penosa, ma facile. «Ho degli stupidi orari di lavoro. Vedo cose che mi rimangono dentro per mesi. Il mio non è il tipo di lavoro che lascia spazio per una relazione». Non vedeva che criminali e violenza; il lato oscuro della società che getta lunghe ombre dalle sue aggrovigliate viscere. «Non mi riesce facile fidarmi». «I tuoi genitori lo fanno. Sono ancora insieme». North fu punto sul vivo. Come lo sa? Non gli piaceva la piega che stava prendendo la conversazione. Balbettò: «È diverso». «Non hai sempre fatto il poliziotto. Che mi dici di prima?». Di prima? North trovò un parcheggio sotto un lampione fulminato. Erano su Canal Street. Non lontano da Chinatown, dove insegne pacchiane e scritte esotiche incombevano su quel terribile caos.
North spense il motore. Avvertì una punta di malinconia mentre cercava faticosamente una risposta. «È solo che sembrava sempre che non funzionasse». Recuperò il telefono e digitò il numero del Centro Servizi. Attese il suono familiare che gli comunicava una e-mail ricevuta. Sheppard gli aveva spedito la lista, come promesso. North aprì lentamente il suo taccuino, cercò una pagina vuota e iniziò a ricopiarla. «A volte», disse, «penso che sia solo perché la ragazza giusta non esiste». Strappò la pagina dalla salda rilegatura e mise via il telefono. «A volte credo che non sia da nessuna parte». Era in bilico sull'orlo di un abisso, e si domandava cosa mai si nascondesse là in fondo. «Curioso, non trovi?», commentò Porter. «Sembra che tu abbia qualcuno di molto specifico in testa». North non era certo di capire cosa Porter intendesse. «E sua moglie? Com'era?». Porter si chiuse a riccio. «Non me lo ricordo». Che razza d'uomo non ricorda sua moglie? «Ma lei ha cambiato il corso della sua vita». «Non ricordo l'amore che se n'è andato con lei, solo il vuoto che mi ha raggiunto senza di lei». Dentro di lui una scintilla tremò, fioca. «Non so altro. Credo di non averlo mai saputo». North aprì lo sportello e scese dalla macchina. Sentì grosse gocce di pioggia colpirlo in viso come uno schiaffo. Sollevò lo sguardo verso il cielo. Che estate deprimente. Guardando lo psichiatra seduto nella sua auto North lo vide per un attimo con occhi diversi: un uomo anziano, stanco e provato. Era sollievo quello che North vedeva impresso nelle rughe del suo viso, sollievo perché finalmente aveva qualcuno con cui condividere il peso di una vita in frantumi? Il pensiero lo terrorizzò. È questo che mi aspetta? Non poteva certo lasciarlo lì seduto, non aveva scelta. «Viene con me?». 14:16. Si fecero strada a forza per le stradine sovraffollate e i vicoli di Chinatown, dove la pioggia si rifletteva lucida sulle vetrine. Il torrente d'acqua rimbalzava con violenza schizzando loro i piedi, ma lo scroscio rumoroso della pioggia era coperto dallo strepito dei venditori ambulanti,
impegnati nei loro furiosi commerci cantonesi. Qualcosa, nei ricordi di entrambi, sembrò di colpo allertarsi, ma nessuno dei due disse una sola parola. Quell'odore e quei suoni erano un promemoria più che sufficiente. Quando i negozi non erano videoteche illuminate come reliquiari al neon che rigurgitavano di film importati, erano angusti forni straripanti di budini al mango e dolcetti a forma di nido. Oppure erano caotici ed eclettici bazar, affollati da scatole piene di ghiaccio e pesce argentato, e volte di rubiconde oche affumicate che pendevano scure come foglie d'autunno, inchiodate ad affilati uncini metallici. I ristoranti emanavano vapore di pallido summaco e lucidi tagliolini arrotolati in spessi involtini odorosi di aglio, zenzero e vino troppo aspro. Fra agopuntori ed erboristi, dove si bruciavano incensi e le radici di ginseng sembravano cadaveri lasciati a gonfiarsi in qualche lago avvelenato, scoloriti dal tempo, vittime di un crimine dimenticato, North e Porter raggiunsero l'insegna del "Dott. Fong Wan Peng". North lo conosceva semplicemente come Jimmy Peng. Porter chiese: «Ti puoi fidare di quest'uomo?». North pensò che la domanda fosse superflua. Certo che no. Erano nel cuore di quella complicata carcassa in decomposizione che è il crimine organizzato cinese, nella fossa malsana degli Snakehead che trafficavano schiavi, Triadi, società segrete, e bande putrescenti come i potenti Fuk Ching, i Ghost Shadow e i Tung On. Questo era il luogo in cui pastori corrotti, nonni chiamati ah kung, o zii chiamati shuk foo, proteggevano le loro bande tramite una piramide di altre organizzazioni cancerose come la Fukien American Association. Non aveva importanza che North e Jimmy Peng avessero dei trascorsi burrascosi, anzi: era sicuro che proprio in virtù di questa ragione, nessuno gli avrebbe sbattuto la porta in faccia. Porter indugiò all'ingresso del lungo e stretto negozio. Fu North a varcarne la soglia, appena un gradino al riparo dalla pioggia. La stanza consisteva in un ingresso e in un lungo bancone ricolmo di barattoli con erbe, radici e polveri. Jimmy Peng emerse dal retrobottega con dei pacchetti di carta per due clienti. Peng era smilzo, aveva corti capelli neri venati di grigio e dita macchiate dalla nicotina. Jimmy Peng, medico, dava consigli che raramente seguiva. Vide North, ma non disse nulla. Il detective attese mentre Peng batteva la vendita alla cassa. Solo dopo aver salutato e ringraziato i suoi clienti con
un largo sorriso rivolse la sua attenzione all'ospite. E il sorriso gli si spense quasi immediatamente. «Arriva sotto una nube nera». La sua inflessione era appena percettibile, sepolta sotto decenni di lingua americana. Lo faceva sembrare raffinato. «Deve essere la sua personalità vincente». North ignorò il commento. Si concentrò invece sugli intrugli che riempivano il bancone. È un altro mondo. «Che cos'è?» «Corteccia di salice». «A che serve?». Peng non aveva alcuna fretta di rispondere alle sue domande. Fu invece Porter ad avvicinarsi lentamente con le mani ben conficcate in tasca. «L'aspirina è fatta con corteccia di salice». North guardò l'ingrediente con sospetto. «Sembra sorpreso, detective. Il suo amico conosce la sua medicina». «Un po'», disse Porter pensieroso. «Il vero esperto è lei». Negli occhi dubbiosi di Peng apparve un guizzo. «Molto gentile». Porter sa il fatto suo. Bene. North si sentì un po' rassicurato dalla sua presenza. «Un terzo di tutti i farmaci occidentali provengono ancora dalle piante. Se si includono le muffe la proporzione aumenta ancora», spiegò Peng. «Nell'antica medicina cinese la muffa è spesso ridotta in scaglie e viene usata come antibiotico», aggiunse Porter con una certa soddisfazione. «La penicillina è una muffa». North fu disgustato. Muffa? Aveva visto quelle macchiette nere che salivano lungo le pareti a casa della gente. Estrasse il suo pezzo di carta. «Parliamo di droghe». La cortesia abbandonò rapidamente i lineamenti spigolosi di Peng. «Non me ne occupo più. Sono pulito». Come no. «Ho solo bisogno del tuo aiuto». «Il mio aiuto?», rise Peng, «C'è un'inversione di ruoli». North ebbe qualche difficoltà ad aprire per bene il pezzo di carta. Aveva le dita anchilosate. E il foglio si strappò. «È arrabbiato». Il detective cercò di minimizzare. «Non più del solito». Peng sembrò godere di quella debolezza. «Ha qualcuno alle costole?». North distese il foglio sul vetro. «No, sto solo cercando di capire chi ho fatto incazzare in una vita precedente».
Peng lo avrebbe ignorato d'istinto prendendola come una beffa, ma dopo un attimo di riflessione vide qualcosa in North che non aveva mai visto prima. «Lei sta parlando sul serio». North non alzò lo sguardo. L'attenzione di Peng si spostò su Porter. Il vecchio lasciava trasparire una quieta preoccupazione ma, neppure lui stava mentendo. «Ah, ma ancora non vuole accettarlo». North si rifiutò di rispondere. Peng disse: «Ce li ho gli occhi. Posso vedere. Tutti viviamo molte vite. Se fosse in Oriente non starebbe nemmeno a interrogarsi su fatti tanto comunemente accettati». «L'hai letto in un biscotto della fortuna?». Peng sorrise lanciando uno sguardo fuori dal negozio su quel carnevale che era Chinatown. «Mia sorella ha appena aperto un ristorante. Ha trovato un fantastico fornitore per i suoi biscotti della fortuna. Sono così popolari fra i turisti». Peng riprese il suo lavoro e cominciò a impacchettare con cura un rimedio erboristico, deponendo piccole quantità di ingredienti su una serie di piatti per bilancia. «Mi sono mancati quando ho fatto la mia visita imprevista a Sing Sing». North si trattenne per paura di peggiorare la situazione. Prese il foglio e lo rigirò, facendolo scivolare in modo che Peng lo vedesse bene. «Queste cose ti sembrano familiari?». Peng lo lesse tutto, attentamente. La lista degli ingredienti iniettati dalla siringa di Gene nel sangue di North sembrò conquistare il suo interesse. «Perché dovrei aiutarla?». Che ne dici del fatto che so cosa nascondi? North lanciò un'occhiata al retrobottega. Questo lo avrebbe fatto sudare? No. Lo sguardo sul volto di Peng gli comunicò che se l'aspettava. North doveva trovare un altro modo. «Vedo che hai preso a fare il superiore». «I sentimenti sono transitori». Qualcos'altro. Fallo abboccare. Proponi un baratto. Aveva solo un'altra cosa da offrire. Disse: «Sarò in debito con te». «Ah, i debiti. Sì, possono rivelarsi molto utili». North alzò un dito per illustrare il concetto. «Solo uno», disse, «dunque gioca bene la tua carta». «Sì, ma quale carta?», Peng accettò lo scambio. «Cosa vuole che faccia
con questa lista? Vuole che gliela prepari?» «Voglio sapere se hai mai realizzato qualcosa del genere prima d'ora». Peng prese una matita e scorse la lista. «No». «Sai chi potrebbe averlo fatto?». Osservava l'erborista mentre cerchiava gli ingredienti con cui aveva maggiore familiarità. «Non ne sono sicuro. Dovrò fare qualche telefonata. Ho il sospetto che non sia stata lavorata qui a Chinatown, anche se qualcuno potrebbe riconoscere parte della lista. C'è un'abbondante dose di ma huang, è per qualcuno con l'asma?». Asma? Quel ragazzo al museo. «No». Peng prese per buona la risposta, disse che non ci sarebbe voluto molto e si allontanò nel retrobottega. North aspettò. Seguì il suono familiare di una cornetta che veniva sollevata e di numeri digitati sulla tastiera. Dopo non molto giunse loro alle orecchie la lingua madre di Peng. Soddisfatto, North si rivolse Porter. «Ho un inalatore di Albuterol...». Porter scosse la testa. «L'Albuterol funziona in un modo diverso. L'efedrina nel tuo sistema proviene da un elisir di ma huang». La scelta di termini mise a disagio North. «Non so come altro chiamarlo. Fa quello che si suppone faccia un elisir: prolunga la vita». «Cosa altro fa l'efedrina?». Porter spiegò con voce monotona. «È simile all'adrenalina: in dosi abbondanti provoca agitazione, e persino psicosi. Come ti potrebbero dire i veterani della guerra del Vietnam, innesca violenti e incontrollabili flashback. Ma non hai bisogno di chiederlo a loro». No, non ne aveva bisogno. Come l'aveva chiamato prima? «Come un'abreazione?». Porter convenne. «Sono le due facce della stessa medaglia, riesumazione indotta della memoria. Quello che le divide è l'intensità». L'intensità. Qualunque cosa fosse, era sgradevole. Orrenda, cupa e perversa. «Ci deve essere qualcosa che posso fare per fermarle». Porter valutò le opzioni. «Il Propanolol contrasterebbe l'efedrina. Comunque non so se riusciresti a trovare un medico che te lo prescriva. Penso che in questo paese sia in commercio con il nome di Inderai. È...» «È un beta-bloccante». North lo conosceva bene. L'Inderai era il farmaco che suo padre prendeva per il cuore.
Papà. North osservò la pioggia che infuriava e rifletté sulle implicazioni. E non riuscì a raggiungere altra conclusione. «Gene voleva che ricordassi». Porter si trovò d'accordo. «Sì, è così». «Cosa voleva che ricordassi?» «Chi sei». Peng ritornò dal retrobottega con le sue considerazioni strette in pugno. «Allo stesso modo, poteva volerla far dimenticare». Da quanto tempo stava ascoltando? Porter era curioso. «Non capisco». «C'è qualcuno che ha familiarità con questa lista. Ha un acquirente occasionale che si reca da lui in casi speciali e a cui fa spesso trovare articoli sottobanco. Dice che secondo questa persona lo scopo del composto è quello di far assorbire i ricordi, come si fa con i lividi». Come un livido? «E perché?» «In modo che dopo un po' possano essere cancellati, lasciandosi dietro una tabula rasa, una schermata bianca». North si accorse del foglietto fra le dita di Peng e si avvicinò per prenderlo, ma l'erborista voleva prima assicurarsi che il patto fosse ancora valido. North annuì riluttante. «Alcuni uomini di una compagnia di biotecnologie stanno per fare una capatina da lui. Le suggerisco di affrettarsi». North non contestò il consiglio. Controllò il foglietto mentre si precipitava fuori dalla porta. Nome e indirizzo indicavano un altro erborista, a qualche isolato più in là. 15:40. North camminava veloce, e Porter si sforzava di tenere il passo. Sotto i piedi l'asfalto era duro, ma la superficie era scivolosa e traditrice. «Questo potrebbe certamente spiegare perché Gene abbia perso il controllo nel museo, non crede?», ragionò Porter. «Se è stato esposto allo stesso elisir: un attimo prima lo scompiglio dei ricordi, un attimo dopo il vuoto». North allungò un braccio per farsi strada in mezzo a quella massa di corpi scuri che gli impedivano di proseguire. «Non mi devo fare domande. Lo devo trovare e basta». Porter lottò contro la spinta di piedi e gomiti. North era davanti a lui a una certa distanza. Quando cominciò a perderlo di vista fu costretto a cor-
rere, mentre la pioggia lo sferzava in viso. «Quando ero in clinica, qualche anno più giovane di lei, fui costretto a osservare un mio paziente patire l'oltraggio dell'Alzheimer. Divorava la sua memoria dall'interno». North controllò il suo appunto. Cambiò direzione senza preavviso. «Ogni giorno mi trascinavo a lavoro, consumato dal suo tormento. Gli leggevo il giornale del mattino, monitoravo i suoi progressi, gli somministravo pillole che non servivano a nessuno e osservavo con assoluto terrore come le lesioni distruggessero implacabili la sua mente». «Mi dispiace». Porter lo raggiunse. «Quell'uomo dimenticò i suoi figli, lentamente, uno dopo l'altro. Il ricordo della sua vita piano piano si oscurò, cancellando, uno alla volta, ogni miserabile anno. Dimenticò sua moglie, e lei pianse per un mese. Finché un giorno si svegliò e non riconobbe nemmeno chi era colui che gli restituiva lo sguardo dallo specchio. Respirava, dormiva, mangiava. Ma senza memoria non era nessuno. Era una macchina senza scopo. La memoria è il nucleo centrale di ciò che siamo». North comprese la sofferenza, e capì il valore di quel che Porter gli aveva detto. «A volte», disse, «è meglio dimenticare». «Anch'io la pensavo così una volta. Ma adesso non ne sono tanto sicuro». North fece segno che avrebbero dovuto attraversare la strada. Il traffico proprio non ne voleva sapere di rallentare per lasciarli passare. «Dovremmo sbrigarci». «Perché dici che a volte è meglio dimenticare?». Non è ovvio? «Perché ci rende liberi». «La libertà è un'altra cosa. Liberi in che senso? Liberi di fare ciò che vogliamo?» «Sì. Senza essere ossessionati o senza essere prigionieri». «Dunque tu non sei legato al destino?». I veicoli sfrecciavano implacabili. L'espressione di North era fissa. «Posso fare qualunque cosa io voglia». Si accorse che poteva provare ad andare e si lanciò in strada. Le auto reagirono con indignate proteste. Porter faticò per stargli dietro. «Allora perché hai tanta fretta?». North saltò sul marciapiede dall'altra parte della strada. Porter non era così agile, e il detective ormai era solo un fantasma lontano e confuso dalla pioggia.
Porter gli urlò: «Ti stai affrettando solo perché è quello che ti hanno detto di fare, non ne hai chiesto il motivo. Questo è fare qualunque cosa tu voglia?». North non sapeva come rispondere. Non nel modo in cui Porter avrebbe voluto. Sto facendo il mio lavoro. Cosa c'è da capire? Lì la folla era altrettanto compatta, i suoni e gli odori altrettanto spiazzanti e penetranti. Scrutò le vetrine dei negozi in cerca dell'insegna giusta. Là. Si fece strada a forza nella mischia. Porter era proprio dietro di lui. «Se, come tu dici, sei dotato di libero arbitrio, perché non riesci a controllare le tue azioni? Perché non riesci a fermare i tuoi incubi? Perché ti fanno correre?». North ci rifletté un istante. Lo fece con riluttanza. Infilò la mano nella tasca interna del soprabito e ne estrasse impaziente la lista degli ingredienti e la foto di Gene. Le sue intenzioni erano chiare. Quello che Porter aveva da dire era secondario. Il dottore lo sapeva, ma proseguì comunque. «Siamo tutti limitati dalla nostra natura fisica. Non abbiamo alcun controllo sul colore della nostra pelle o sul sangue che ci scorre nelle vene, perché dipende da quali geni ci vengono dati in dotazione al concepimento». Non mi parlare di sangue. «Sono i ricordi a determinare chi siamo. Danno voce al destino. Sei un'orchestra i cui archi vengono pizzicati da forze che non puoi vedere e che non conosci. Quando il mio paziente ha perso la memoria, ha perso la libertà. La malattia non ha mutato nulla del suo mondo. Lo ha reso impotente. Lo ha privato della sua volontà perché non sapeva più chi era, o di cosa fosse capace». North esaminò la fotografia dell'uomo che stava inseguendo. «Dovrei essere dispiaciuto per Gene?». Porter si prese un attimo per ponderare attentamente le parole. «Ti ha chiesto aiuto. Come hai fatto tu con me. È stato spogliato della sua identità. Tu sai chi è. È parte di te». Parte di me? La sola idea gli faceva schifo. Il pensiero non lo aveva nemmeno sfiorato. L'insinuazione di Porter era offensiva. L'istinto spinse North a rifiutare. «Non è carne della mia carne». «Sapeva di dover cercare te, sapeva di doverti trovare, proprio come me».
Come poteva? «Tu avevi un giornale da cui partire. Cosa aveva Gene?». Porter non aveva una risposta pronta, ma si infilò una mano in tasca e ne estrasse il suo quaderno verde. «Le abreazioni iniziano in concomitanza dell'impulso a scrivere. Tu, Gene e io. È probabile che ce ne siano molti altri oltre a noi tre, ma ognuno si sente spinto a scrivere, e tutti scrivono le stesse cose». La pioggia era sempre più forte. Ogni volto in mezzo alla folla inzuppata sembrava conoscerlo, ogni volto rimandava a una qualche connessione. Si sentiva così sopraffatto che si strinse addosso i suoi pezzi di carta e disse: «Devo andare». Porter gli toccò il braccio come avrebbe fatto un padre. «Ti sto distogliendo dal tuo lavoro. Parleremo dopo?». North annuì, ma solo perché dubitava di poterne parlare con qualcun altro. Diede le spalle a Porter, ansioso di dimenticare ogni complicazione, ansioso di procedere con il suo dovere e seguire questa nuova pista. Si mise in marcia, lasciandosi Porter alle spalle, ma abbandonato quel vecchio, incappò in un altro. North continuava a scusarsi, ma l'uomo con l'ombrello nero non si spostava. Era impalato lì, con la faccia sbieca, paralizzato dall'immagine di Gene che vide nella mano del detective. North voleva spostarsi, ma quell'ombrello nero tremolante, che peraltro sgocciolava implacabile su di lui, glielo impediva. Il tremolio era dovuto alla mano dell'uomo che teneva l'ombrello. Era lieve, ma in aumento. L'uomo con l'ombrello nero sembrava riconoscere l'immagine impressa sulla fotografia. Questo era l'uomo che Peng lo aveva avvertito di aspettarsi? North percepì che avrebbe dovuto muoversi in fretta o avrebbe perso la sua opportunità. Tirò fuori il distintivo e lo incalzò. «Signore, lei conosce quest'uomo?». L'uomo con l'ombrello nero non rispose. «Signore, capisco che sia preoccupato. Con me può parlare». Si avvicinarono degli altri, zelanti uomini in soprabito scuro che parevano come infastiditi da qualcosa. Allungarono le braccia passando in mezzo alla folla disordinata e, con uno strattone, invitarono l'uomo con l'ombrello nero a tornare con loro. «Non da quella parte», lo ammonirono. «Non con lui». North ne afferrò uno e sollevò furioso il suo distintivo. «Questa è un'indagine di polizia! Giù le mani da quest'uomo!».
Quello con l'ombrello nero alzò lo sguardo. Nell'altra mano teneva gli acquisti fatti in erboristeria. Negli occhi i segreti del suo proposito. Il suo sguardo era penetrante. Conosceva l'uomo nella fotografia e conosceva chi la teneva in mano, eppure era ancora a labbra risolutamente serrate mentre gli uomini della sua scorta lo trascinavano via. In quell'attimo North rimase sconcertato. Lo conosco. Sentì che stava per svenire. Si fece prendere da un lieve stato di panico. La sua mente cominciò a vacillare. «Aspetti!», North cercò di fermarlo. «Chi è lei?». Quel volto. Invecchiato dal fumo di tre lunghi decenni, la smorfia nello specchio, la maschera che indossava quando godeva di sua madre. Il volto del suo vero padre. Era tutto reale. North si sforzò di capire da quale parte lo avessero portato. Le teste di tutta quella gente lo rendevano un compito impossibile. Nemmeno saltando riuscì a individuare una traccia in mezzo alla folla. Erano svaniti in una marea di volti. Udì la voce di Porter. Le sue grida disperate. «No!», urlò. «No!». North si voltò di scatto. Nel frastuono generale udì qualcuno pronunciare un distorto «Spuntate come insetti». Il familiare suono del metallo che scivola contro un fodero tagliò la pioggia come un digrignar di denti. Uno degli uomini con il soprabito scuro si scagliò su di lui, mentre la corta lama scintillava nell'opprimente umidità del giorno. North reagì velocemente. Ma Porter fu ancora più lesto. Si gettò sul coltello e prese il colpo non destinato a lui. Il metallo gli trapassò il ventre e straziò le sue budella. Fra le dita rigide dell'uomo sgorgò un vortice scarlatto. Il coltello rimase dentro Porter, che crollò nella pozza di pioggia ai suoi piedi. North si gettò su di lui lasciando cadere tutti i fogli che aveva in mano. Il feroce scambio di colpi proseguì sull'asfalto. Quando l'uomo tornò all'attacco, North afferrò i lembi del suo soprabito, ma le dita gli scivolarono su quel tessuto bagnato e non riuscì ad atterrarlo. L'uomo sgusciò via come un pesce, lasciando a North nient'altro che un souvenir: il soprabito scuro. North lo scagliò in terra e impugnò la pistola. Cominciò ad inseguirlo gridando alla folla di lasciarlo passare, e sparò un colpo in aria.
La massa scomposta di pedoni si ritirò come una marea. North si precipitò lungo la strada sgombra, ma gli uomini con il soprabito scuro erano scomparsi. Dissolti, come le ombre in fuga degli scarafaggi che si disperdono per un lampo di luce artificiale. Dove sono andati? Dove? Fece un giro completo su se stesso, ma non riuscì a individuare alcuna traccia. C'erano solo i passanti, che lo fissavano pieni di paura. North era solo, con quel che restava di un uomo in fin di vita in una pozza di pioggia. Il mio sangue. La mia anima. Una parte di me. North corse in fondo alla strada mettendo via la pistola e tirando fuori il telefono. Porter si stringeva gli intestini, era pallido, la pelle tesa in un'agonia senza tregua. North ruggì che chiamassero un'ambulanza e si chinò per cullarlo fra le braccia, bagnandosi nel fiume del suo sangue, un corso che si allargava in rivoli e che portava via con sé la fotografia di Gene ridotta a brandelli. IL CERUSICO E IL GLADIATORE Le mie ferite erano profonde, e ancor di più il mio tormento. Eppure, non bastava a saziare l'ingordigia di quella folla impazzita. Il sannita 13 tornò alla carica, una finta, solo per spaventarmi. Io balzai in avanti, gli tolsi il gladio di mano e incontrai il suo scudo. Lui mi assalì, proteggendosi dal mio attacco come meglio poté. Mi spinse fino a farmi perdere l'equilibrio e mi colpì con lo scudo per spaccarmi la mascella. Crollai a terra su quella sabbia fredda, e fissai disperato la copertura che ondeggiava sopra l'arena di Nerone ai pungenti venti invernali. Una larghezza di centoventi cubiti, dicevano. E due di altezza. Era l'arena più grande di Roma, dicevano, in grado di reggere quel tetto. Speravo solo che mi ci inchiodassero e mi lasciassero appeso fino alla morte, qualunque cosa piuttosto che quell'atroce sofferenza. Gamba sinistra avanti, stretta in un gambale di cuoio bollito, il sannita si avventò su di me. Mi rotolai per schivare il suo attacco furioso. Il sibilo che la sua lama sussurrò alle mie orecchie toccò il terreno con un rumore 13
La specialità gladiatoria più antica, che deriva il suo nome dai temibili nemici di Roma. Il sannita era un gladiatore con elmo a calotta, con o senza cimiero, protetto solo da un grande scudo rotondo o rettangolare, perché il torace nella maggior parte dei casi era indifeso, e da uno o due schinieri. La sua arma era un corto gladio o una lancia (n.d.r.).
sordo. La spada era rimasta conficcata. Vidi che si affannava nel tentativo di liberarla e colsi la mia occasione. Gli piantai il mio gladio dietro al ginocchio, spaccandogli di netto la rotula. Il suo grido fu terribile, un ruggito d'agonia così acuto e disperato che quasi suscitò in me il pianto. La mia azione non fu accolta con favore dal pubblico. Dalla folla arrivarono grida di scherno e ossa rosicchiate. «Pazzo!», gridavano. «Perché non vuoi morire, bastardo? Ho scommesso su di lui!». Il suo dolore era tale che gli impediva di tamponarsi la ferita e persino di far appello alla presenza di spirito necessaria per implorare una fine pietosa. Così lo feci io per lui. Diressi lo sguardo al palco dell'organizzatore, ma l'uomo che si occupava dei Giochi saturnali non era là. Trascinai la mia carcassa ferita in parata attraverso l'arena, scrutando la folla seduta al riparo dietro una lunga fila di zanne aguzze, alte come un uomo, che servivano a difendere il pubblico. Nessuno diede l'ordine. Guardai oltre i cilindri d'avorio intagliato e al di là delle reti dorate anch'esse una protezione, nel malaugurato caso che una bestia impegnata in combattimento nell'arena decidesse di avventarsi sul pubblico - ma nemmeno allora trovai qualcuno che mi desse l'ordine. L'arena era ipnotizzata da quell'orgia di sangue. Mi avevano dimenticato con la stessa rapidità con cui mi avevano punito. Il destino di un semplice uomo non aveva alcun valore. C'erano almeno altre cento coppie di gladiatori in combattimento sul campo. Troncavano e fendevano, affondavano lame, facevano a pezzi gli avversari e li mutilavano senza pietà. Vidi un uomo, un andabata dalla pelle scura, che combatteva alla cieca, con la visiera sigillata, e che agitava la spada in modo tanto violento che per pura fortuna riuscì a tranciare un braccio al suo rivale. L'eco delle risa che provenivano dalla folla aumentava a ogni nuovo getto di sangue che sprizzava da quel disgraziato. La scia di disegni rosso scarlatto che si lasciava dietro rappresentavano la sua fugace eredità, il tributo al suo talento artistico. Continuarono a ridere, anche molto tempo dopo la sua morte. Ne vidi un altro, un agile retiarius, roteare la sua rete con una forza così selvaggia che il secutor lasciò cadere la sua spada14 . Quest'uomo era così 14
Il tradizionale avversario del retiarius, gladiatore che combatteva armato solo di un tridente e di una rete, con una manica sul braccio sinistro come unica protezione, era infatti il secutor. Quest'ultimo indossava, di contro, una pesante armatura completa di elmo e scudo, e la sua arma era il
confuso, così terrorizzato, che nella fretta di liberarsi il viso da ogni impedimento non si accorse dei tre rebbi affilati del tridente che gli si scagliavano contro. All'inizio fu come osservare Poseidone - il Greco che era in me non si rassegnava a chiamarlo Nettuno - alle prese con un granchio. Il retiarius prese la sua preda a calci nella schiena, gli piantò con forza un calcagno sul petto, in cerca di un punto più morbido in quella dura corazza dove affondare il colpo. Non gli ci volle molto per individuare lo spazio fra l'elmo e la fragile armatura. Gli piantò il piede dritto nella gola. Invece di un urlo si levò un forte suono aspirato. Alla fine, fu come vedere infilare lo spiedo in un maiale, intero, salato e pronto per essere arrostito. L'entusiasmo ossessivo per la crudeltà sanguinaria si annidava tutto sul petto straziato della grande Meretrice. Ho visto uomini perdere lo sguardo e la ragione, ebbri di quello scempio senza fine. Guerra per divertimento. In che mondo perverso ero rinato in questa vita. I Greci avevano dei giochi, ma non come questi. Che cosa, nella natura dei Romani, li rendeva a tal punto assetati di sangue? Se non era la furiosa maledizione di Athanatos che aveva attraversato i campi e infettato i cuori di così tanti uomini, che speranza c'era per l'umanità? Il rumore grasso di ruote, catene e ingranaggi giunse da dietro le mie spalle. La puzza di carne ustionata e pelliccia bruciata delle tigri e degli orsi, intrappolati a girare su se stessi nelle loro gabbie sotto lo sprone di attizzatoi incandescenti, arrivò insieme al primo squarcio di buio che accompagnò l'apertura del cancello. Gli schiavi piegarono la schiena, fecero girare il pesante tronco di legno, avvolsero corde e azionarono robuste assi per sollevare il cancello. Ma il guerriero in attesa lì dietro era troppo impaziente di lanciarsi in quella follia. Si rotolò sotto l'apertura come un'acrobata e atterrò, piegato sulle ginocchia, davanti a me. Mi trovai di fronte al volto del demone etrusco Charun, torturatore di anime nel mondo sotterraneo. Era lì per combattere? Non seppi decidermi. Girammo intorno al sannita provocandoci a colpi di spada. Il pubblico rise, dimostrando in questo modo un certo apprezzamento. Evidentemente, Charun era venuto solo per ustionare il corpo dell'uomo e assicurarsi che non stesse fingendo. Il sannita, che già da molto era svenuto dal dolore, si agitò sulla sabbia bagnata quando il metallo arroventato gli bruciò la carne. Gridò, e così facendo decretò la sua fine: Charun si gettò su di lui per punire la sua codardia e gli tagliò la gola in un batter di ciglia. gladio (n.d.r).
Mi girai di scatto con il gladio, pronto all'attacco, ma Charun non era venuto per me. Si era lanciato in mezzo a quella carneficina per rimuovere il cadavere che imbrattava l'arena. Tra fischi e brontolii di protesta, dall'oscurità una voce mi urlò: «Vattene di qui, pazzo, hai finito di combattere!». Ah, se la mia miserabile vita fosse stata davvero così semplice. La mia anima era inchiodata alla carne. Per me non c'era riposo. Avevo guardato attraverso gli occhi dei miei antenati per un numero incalcolabile di vite, fino al momento in cui, come la cometa infuocata che brillava quella notte sui sette colli di Roma, ero tornato. Non era la prima notte che passavo fissando senza espressione il cielo nuvoloso dietro le sbarre della mia cella al ludus, e non avevo speranze che potesse essere l'ultima. Oltre la parete, coperta di graffiti che molti altri prima di me vi avevano inciso, tutti morti ormai, mi giunse una voce: «Lo hai cercato di nuovo nell'arena, Aquilo?». Samuel il giudeo era vivo. Per me fu una vera sorpresa, dopo tutto quello che avevo visto. Aquilo era il mio nome in questa vita, anche se in realtà mi riconoscevo ancora nell'altro. Mi aggrappai stretto alle sbarre, animato dal pensiero che qualcuno che conoscevo fosse ancora con me. «Sei vivo». «A malapena», fu la sua debole risposta. «Ah, il mio Greco malinconico con il suo grande cruccio. Non dovresti darti tutta questa pena. Troverai quel mago babilonese con cui hai in sospeso una questione così importante». «Questione?», risi mettendomi a sedere sul gelido pavimento di pietra. Sotto il crepitio e il sibilo della rossa luce tremolante della torcia, che si rifletteva sulle pareti fuori dalle nostre celle, mi strinsi addosso la mia pelliccia in quella rigida notte di dicembre. «È ben più che una semplice questione». «Dici che sono stati i tuoi dèi a farti questo?» «Non mi parlare degli dèi», risposi sprezzante. «Sono una maledizione per me. Il loro dono non è più gradito». Samuel il giudeo stava lottando con le sue ferite. Lo sentivo rantolare nel buio, tanto era forte e intenso il suo dolore. Dopo un po' aggiunse: «Sì, ma pensaci bene: se, come dici, i tuoi dèi hanno voluto farti questo, non ti avrebbero forse messo su questa terra proprio vicino a quest'uomo?».
Ascoltai ciò che aveva da dire. «Voi siete come fratelli secondo i criteri degli dèi: due serpenti in competizione uno con l'atro. Non ha senso collocarvi in due arene diverse. Che divertimento ci sarebbe per gli spettatori? Che siedano sulle tribune dell'Olimpo o negli anfiteatri del Campo Marzio, fra cui comunque corre una bella differenza. Costringerci a marciare per le strade prima di arrivare lì dove dobbiamo essere non avrebbe senso. Se davvero siamo come una mandria di bestie destinata al loro divertimento, come minimo dovrebbero tenerci a pascolare tutti insieme là dove è stabilito che li si debba intrattenere». «Dillo più forte, amico mio, e potrebbero accontentarti. O abbattere le mura del tempio dedicato al tuo dio a Gerusalemme e costruire un'arena qui al ludus solo per esaudire il tuo desiderio». «Non essere così perverso!». «Non dipende da me. Umiliare è nella natura dei Romani». Sentivo Samuel il giudeo muoversi in continuazione e lamentarsi nella sua agonia, sdraiato su quel ripiano di pietra che era il nostro giaciglio. «Ah, questa paglia è sudicia. Mi ammalerò prima che faccia giorno». Tornai a guardare la cometa nel cielo, splendente di una luce così pura e forte, che proseguiva senza mai deviare dal suo percorso. Il suo destino era già scritto. Era sempre stato Athanatos a trovarsi in vantaggio su di me. Come invertire la tendenza e porre fine a tutto questo una volta per tutte? Dissi: «Sono il figlio bastardo della Futilità, e questa madre nutre per me un amore davvero malvagio». «Sono sicuro che lo troverai, così come spero che si possa trovare presto entrambi qualcosa da mangiare». Lo udii lanciarsi con violenza contro le sbarre. «Quanto manca per queste capre?». Vicino ai cancelli principali due soldati alimentavano il fuoco dei loro bracieri. Assaporavamo quelle promesse odorose con le nostre bocche secche e asciutte, ma quel cibo non era per noi. Samuel il giudeo era aggrappato alle sbarre. Nel buio, non riuscivo a vedere altro che le sue mani insanguinate e sporche. «Dovresti vedere quali delizie offrirei a te e ai miei onorati ospiti se fossimo al mio palazzo». «Ancora il tuo palazzo?» «Hai un impegno da qualche altra parte, forse?». Cosa si stavano cucinando quei soldati? Era una vera tortura. «Allora, sentiamo. Cosa ci offriresti?»
«Il meglio!». Parlava gesticolando come se avesse le mani impegnate a pulire grassi pezzi di carne. «Per iniziare, succulente e tenere foglie di lattuga spruzzate con una pioggia di olive e olio. Poi un tonno giovane, non più grande di un pesce lucertola, tenuto in salamoia fino a staccare le sue carni dalla bianca lisca. Servito insieme a piccole e tenere uova di piccione avvolte in foglie di ruta scura». Mancava qualcosa. «E forse qualche noce». «Ah». «Il tutto lasciato cuocere a fuoco lento su una fiamma bassa. Poi ci sarebbe pepe della migliore qualità, che mangeremmo con il più delizioso formaggio delle vie del Velabrum, e vino, ottimo vino per accompagnare il pasto». Sorrisi. «È un bel sogno». Al crepitio delle torce accese, riflettei ancora sul nostro banchetto. La fame cresceva, e quindi chiesi: «E per quanto riguarda la lena? Cosa ci serviresti come portata principale? Siamo nel tuo triclinium e io sono il tuo onorato ospite». «Ma certo!». Dal tono della sua voce capii che doveva avere un sorriso largo come un remo. «Dioniso saltella con alcune fanciulle sul meraviglioso mosaico del pavimento della tua sala da pranzo. Hai nove tavoli...». «Nove? Dieci! Undici!». «E ospiti da ogni angolo del mondo!». «Ecco». «Mi stendo sul tuo triclinio. Mi appoggio sul gomito. Cosa mi portano i servi?» «Vedo che sei l'ospite più onorato e onorevole di tutti, ed è qui che comincia il nostro vero banchetto. Da principio ecco che ti inebria il forte aroma di sale marino. Alla luce della luna crescente ti vengono serviti la carne color corallo dei ricci marini affumicati provenienti da Miseno, saporite ostriche del Circeo e polpose scaloppine del Tartano sfrigolanti di burro d'oliva e piene di spezie egiziane». «E garum, non dimenticare il garum come salsa di accompagnamento». Da ragazzo avevo dato una mano a preparare il garum secondo la ricetta bitina con le interiora di pesce salato lasciate a macerare in una robusta tinozza sotto il sole rovente. Poi setacciavamo i succhi e a questo scuro e forte liquamen aggiungevamo il vino per. realizzare il garum. Il sapore era inebriante.
«Ma poi, e questo cos'è? Senti profumo d'aglio e limone e ti viene servito un verro umbro ingrassato a ghiande e cucinato arrosto! La pelle è scura e si spezza al tocco, la sua carne ti scivola tra le mani». Percepii con crescente intensità le proteste del mio stomaco. Era un gioco autolesionista, il nostro. «Poi ti portano mammelle di scrofa e pollo ruspante farcito, un fagiano di monte per due ma servito solo per il mio onorato ospite. Vassoi ricolmi di cervella di pavone, lingue di fenicottero e fegatelli di luccio guarniti con ceci, viticci curvati come corna d'ariete e opulenti fichi africani. Subito dopo ecco che arriva un piccione arrosto pieno di sugo bianco e un po' di pane crostoso da inzupparci dentro». «Oh, il mio stomaco ti implora di smettere». Scoppiammo in una fragorosa risata, che tuttavia fu presto interrotta. Vedemmo uno dei soldati riempire a cucchiaiate due scodelle con la zuppa di grano fumante, seguendo da lontano l'appassionato scambio mentre ne passava una al suo compagno. Per noi non ci sarebbe stato cibo quella notte. Restammo a fissarli attraverso le sbarre delle nostre celle umide e piene di mosche. «Dai», dissi, «mettiamoci a sognare di questo vino senza fine». Era insolito, ma non impossibile, che a Roma facesse tanto freddo da nevicare, e così accadde quella notte. Si sarebbe posata sulla cima dei colli ma qui ne sarebbe arrivata poca. Attraverso le sbarre della mia cella, i fiocchi danzavano muti e cadevano gentili sul mio viso, come tenere dita che mi accarezzavano gli occhi, una dolce canzone sussurrata appena, che mi guidava verso un sonno tranquillo. Mi si chiusero le palpebre e mi cedette il capo. Morfeo mi accolse finalmente tra le sue braccia. Non avrei più dormito così bene. Nei mesi successivi e durante il lungo e faticoso inverno mi battei con molti uomini e molti ne uccisi, in combattimento e, una volta, in allenamento. L'ultima volta che parlai con Samuel il giudeo mi disse, lamentandosi, che se fosse mai tornato su questa terra per la sua seconda vita, sarebbe vissuto in una torre circondato da ninnoli. Questo era, fra tutto, ciò che lo avrebbe reso più felice. Eravamo in una gabbia, in attesa di combattere l'uno contro l'altro. Mi chiese: «Te ne prego, quando sarà il momento, colpisci in fretta». Era mio amico. Come avrei potuto non accontentarlo? Quando finì sotto la mia spada e rotolò nella polvere piansi per lui e pregai che gli dèi, in cui non credevo, provvedessero a esaudire il suo desiderio.
Il giovane murmillo 15 riusciva a tenersi fuori dalla mia portata anche se si avvicinava un po' di più a ogni passo. Il suo volto era di un bianco cadaverico alla luce grigia di quella rigida giornata. Era inesperto e terrorizzato. Partì all'attacco, e arrivò così vicino che riuscii vedere distintamente il muso del brutto pesce di metallo piazzato sul suo elmo. Lo colpii con il mio parma, con tanta ferocia da spezzargli il naso. Gli si allentarono le viscere, scaricando un liquido nero talmente fetido che mi sentii soffocare e mi allontanai barcollando. Si era ricoperto le gambe delle sue stesse feci. Rimase paralizzato e pieno di vergogna, mentre la folla gridava. «Verbera!», mi aizzavano dal pubblico. «Colpisci!». Come potevo uccidere un ragazzo così terrorizzato? Sollevai la mia sica corta e ricurva sulla testa e gli marciai incontro. Quel luogo mi disgustava. Non era questo bambino colui che cercavo. Urlai verso il pubblico. «Athanatos! Mi vedi? Dove sei, vigliacco? Sono la tua cometa cretese, sono tornato! Perché non vieni a sfidare la tua memoria troiana?». Tra la folla si diffuse una certa agitazione. Non sapevo perché e di certo non ebbi il tempo di pensarci. Il colpo dell'ampio scudo ovale del murmillo sulla schiena mi fece prontamente tornare in me. Mi girai verso il giovane e gridai in preda a una terribile rabbia per il suo tradimento. «Mi aggredisci quando ti ho dato il tempo di riprendere fiato? È questo che ti hanno insegnato a Capua?». Ci scambiammo svelti e vendicativi colpi. Rapidi, furiosi e brutali. Il sangue gli schizzava dal naso come boccioli di rosa al primo sole di primavera. Intorno a noi esplose un altro tripudio, rivolto al bell'incontro che stavano combattendo a cinque metri da noi. Un uomo con le carni dilaniate giaceva ai piedi di un dimachaerus16 che faceva roteare le sue lame gemelle in attesa di poter assestare il fendente decisivo. L'arena era forse in vena di clemenza? Quel pensiero mi distrasse, e fu la 15
Il termine trae origine da murma, nome latino di un pesce di mare. Questo gladiatore era armato di una lunga spatha e si proteggeva con un grande scudo gallico e un elmo a calotta decorato di piume. A volte aveva sull'elmo una piastra con l'immagine di un pesce, elemento che completa la metafora del suo combattimento contro il retiarius, armato infatti anche di una rete (n.d.r.). 16 Gladiatore che combatteva con due spade (n.d.r.).
mia rovina. Il giovane e spaventato murmillo intravide la sua occasione: affondò la lama nel mio fianco e la rigirò con forza. Mi si spezzò il fiato in gola, e sfiorai le gelide acque del mondo sotterraneo. Mi curvai dal dolore, vittima tanto di quella giovane spada quanto della mia arroganza. Piegato in due, caddi in ginocchio e pregai che non finisse così. Non avevo nemmeno visto Athanatos in questa vita. Era ancora vivo? Era stato umiliato dai lunghi anni della mia assenza? La mia rabbia era diventata inutile? Si levò un grido solitario. «Non lasciate che quest'uomo muoia per mano di uno che se la fa sotto!». La volgare risata che seguì mi fece sollevare il dito per chiedere la grazia. Il giovane murmillo tremava convulso e attendeva istruzioni. Si vomitò sul petto. Lo udii sussurrare la sua preghiera in una lingua che potevo a malapena riconoscere. Pensai che probabilmente non aveva mai ucciso prima. E di certo non ci provava gusto. Quando qualcuno urlò: «Mitte!», egli accolse volentieri la voce della ragione. Quando la folla gridò: «Milte!», cominciai a temere che venisse smentita. Ero salvo? Sollevai lo sguardo. Il pollice non era verso. Ero stato risparmiato17 . L'emorragia era sempre più forte, mentre mi trascinavano per la buia galleria riservata ai perdenti, anziché farmi passare per la Porta Triumphalis. Il lamento delle giovani spose, disposte lungo il corridoio nella speranza che le salde lance degli sconfitti si posassero sui loro lunghi capelli bagnati e assicurassero loro un matrimonio fertile, era un guaito assordante di melodioso tormento. La gente che allungava gli artigli per una goccia del mio sangue, leccandola dalle mie ferite nella cieca speranza che restituisse un qualche vigore alle loro braccia avvizzite e alle loro membra cadenti, mi fece esplodere la rabbia, e li allontanai tutti scalciando e urlando. Non mi portarono al sanatorium, né allo spoliarum, dove i morti vengono brutalmente separati dalla loro armatura. Al contrario, le sei fiere guar17
Dopo i combattimenti, il gladiatore che aveva avuto la meglio sull'avversario, si girava verso la folla per domandare la sorte riservata allo sconfitto. Gli spettatori esprimevano la loro sentenza con un gesto della mano: pollice in su (mitte, salvo), o pollice in giù (jugula, a morte). Ma, era l'imperatore, o chi organizzava i giochi, che con il pollice della propria mano, decretava la sentenza finale (n.d.r.).
die pretoriane mi incatenarono, mi chiusero in una gabbia come un animale e mi trasportarono gridando lungo le fangose strade di Roma. Serrai il macello delle mie carni nel tentativo di evitare che le viscere mi si rivoltassero ai piedi. Gridai attraverso i denti spezzati: «Dove mi state portando?». Mi risposero allegramente: «L'imperatore vuole sapere perché hai dichiarato guerra al suo cerusico?». Athanatos era il cerusico di Nerone? Mi portarono in fretta oltre il colle Palatino, dove i Galli, i sacerdoti effeminati del tempio della dea madre Cibele, portati dalla lontana Frigia e trapiantati a Roma, mi osservavano soddisfatti con l'aria di chi la sa lunga. Ci spostammo rapidamente per trenta leghe fino a Sublaquaeum18 , dove Nerone abitava in una villa sul litorale del lago Simbruino. Al nostro arrivo era passata l'ora del crepuscolo, e la cometa, un tempo enorme, non era che una piccola macchia nel cielo. Tra i soldati non circolavano comunque buoni auspici: una cometa significava rivoluzione e la gente aveva cominciato a chiedersi se Nerone sarebbe stato spodestato. Ne parlavano fra loro mormorando mentre trascinavano sui talloni scorticati la mia carcassa in putrefazione verso un antro buio, dove mi gettarono su un tavolo alla luce tremolante di una torcia. Entrò impetuoso un chirurgo: non conoscevo il suo volto, ma percepivo la sua natura. Come un serpente che fiuta l'aria, riconobbi Athanatos. «Svelti», disse, ordinando ai suoi schiavi di sistemare la sua abbondante serie di arnesi metallici. Controllò la reazione dei miei occhi e mi auscultò il cuore. «Non è sedato. Non gli avete dato del giusquiamo? Dell'oppio?». Alle guardie pretoriane non interessava. Era compito di Athanatos guarire, non loro. Si ritirarono all'aria fresca senza commentare. Il cerusico si muoveva con grande rapidità, tagliando i miei abiti sporchi ed esaminando le mie ferite con abile sollecitudine. Mi dava la nausea vedere tanta fasulla preoccupazione. «Athanatos, vedo che sei ancora vivo. Il mondo non si è ancora stancato di te?» «No, Cyclades, non si è stancato». Non era compassione quella nella sua voce, piuttosto una controllata irritazione. Stavo soffocando nel mio stesso sangue. «Ma come fai?» «Mi muovo liberamente perché la gente sceglie di non vedere». Affondò le mani nella mia putrida ferita, esaminando con cura ogni più piccola parte di me. Sbrogliò le mie viscere insanguinate, nel tentativo di 18
Subiaco (n.d.t.).
ricostruire il percorso di quella lama fatale. Da parte mia, accompagnai queste manovre con un urlo di tale agghiacciante ferocia da costringerlo a tapparsi quelle abbondanti orecchie ripiegandole su se stesse. Con il braccio inzuppato fino al gomito del mio sangue caldo afferrò i suoi scalpelli di bronzo e cominciò a sezionarmi. Gettò ai topi alcuni pezzi scuriti e in cancrena, sembrava che stesse preparando un pasto con carne avariata di cui stava salvando quel che poteva. «Guarda le tue ferite, sono isole di tormento. Cyclades, sei una mappa di sofferenza». Mi esplorò con i suoi sottili uncini e tirò su le mie budella per vedere meglio. E quando comprese quale fosse il percorso dei miei fluidi li bloccò con un dito tutto sporco. «Ah, quante cose potrei imparare da te. Il tuo sangue è un fluido così speciale. Non sarebbe meraviglioso, Cyclades, se un giorno tu e io potessimo essere un solo individuo, se potessi trovare un modo di mescolare il nostro sangue, cancellare i tuoi pensieri e sottrarti il tuo potere?». Delirante per la mia furiosa agonia, rassegnato alla morsa dell'Ade, sussurrai: «Vuoi quello che ho io? Allora prenditelo. Non lo voglio più. Sono un uomo in trappola. È un fardello che non voglio portare oltre. Hai vinto! Adesso, aiutami a morire». «Ah! Vorrei che fosse così semplice. Ma oggi mi è stato chiesto di ricucirti, fetido idiota». Schioccò le dita senza degnare di uno sguardo i suoi schiavi. «Portatemi i ferri per le suture». Con la poca forza che possedevo sollevai la mano e gli afferrai il polso. «Trafiggimi. Metti fine a questa storia!». «Non posso, è un ordine dell'imperatore! Un accenno ai Troiani, un altro ai Greci e quell'uomo è impazzito di curiosità, effeminato incontentabile che non è altro! Se sarò costretto ad ascoltare il suono della sua lira ancora una volta, giuro che lo soffocherò con quelle corde. Tu puoi scegliere: puoi sparire per qualche centinaio d'anni e ritornare a tuo piacimento; mentre io devo sopportare queste assurdità. No, mio caro Cyclades, resta un po' con me. Condividi la mia disgrazia». Prese un paio di foglie e le schiacciò su una goccia di miele, poi tenne il tutto pigiato contro la mia bocca. «Prendilo». Mi rifiutai. Mi tappò il naso e aspettò che rimanessi senza fiato per cacciarmelo in bocca e massaggiarmi la mascella finché non l'avessi inghiottito.
«È per il tuo bene». Avevo forti dubbi a riguardo. Il suo schiavo tornò, era un uomo alto e dall'aspetto desolato, con occhi torbidi e incavati e la carnagione olivastra. Portò una rustica pentola d'argilla da cui Athanatos estrasse un paio di lunghe pinze d'acciaio. «Osserva il mio lavoro, Cyclades. Guarda cosa so fare, guarda quali traguardi ho raggiunto in tua assenza. Questo schiavo aveva le cataratte. Io le ho rimosse e ora vede di nuovo. Tu sanguini, e io fermerò l'emorragia». Raccolse qualcosa con le pinze e lo tirò fuori. Era una formica grande come il mio pollice, che dimenava in segno di protesta le sue zampe sottili e raschiava furiosa contro il metallo che le infliggeva tanto tormento. Il maledetto me l'avvicinò per mostrarmela. Le sue mandibole schioccarono davanti ai miei occhi. La pentola brulicava fino all'orlo di queste creature, tutte intente ad arrampicarsi una sull'altra per scappare. Ebbi paura. «Che stai facendo?» «Ti suturo». Afferrò un brandello insanguinato della mia carne e ci posò sopra la formica, che lo azzannò senza pietà chiudendo stretta la mia ferita. Il dolore liberato lungo ogni mio nervo fu un fuoco impossibile da spegnere, ma lui non lasciò che l'insetto mi mordesse ancora. Con una rapida mossa gli strappò il corpo, lasciando attaccata solo la testa. «Le chiamo graffette». Non mi importava come le chiamasse e nutrivo seri dubbi che loro lo capissero. «Levami di dosso questa diavoleria!». «I tuoi liquidi si occuperanno di dissolverle! Adesso rimani tranquillo! Ne devo mettere molte altre». Nella sua sadica generosità mi ricompensò con un'altra formica. La polvere che incrostava le mie guance incavate fu bagnata dalle lacrime amare della mia insopportabile agonia. Sollevai la testa dal tavolo, avvelenato dalla fatica degli anni. «Me la pagherai, me la pagherai per tutto quello che hai fatto». Agitando le pinze insanguinate rispose: «Tutti gli uomini hanno un passato. Il mio è lungo un migliaio di anni. E proseguirà per altri mille. E altri ancora. Onestamente, il tuo cuore può mantenere e nutrire un simile odio per così tanto tempo?». Era stato proprio il mio odio a portarmi fin lì. «Perché l'hai fatto? Perché me l'hai portata via?». Athanatos non rispose. Mentre frugava tra i suoi ricordi sembrava rilas-
sato. Era sinceramente perplesso. «Portato via chi?». Com'era possibile che non se ne ricordasse? Io mi ero afflitto ogni ora di ogni giorno, mentre quegli orrori non significavano nulla per lui. Mi sentivo perso. La mia vita non aveva più senso, e in me si era spalancato un vuoto enorme, nel punto dal quale mi aveva un tempo strappato il mio bene. E lui non aveva neanche la grazia di ricordarsene. Era spregevole. Gli sputai sui piedi. «Moira», singhiozzai, «la mia vita. Il mio amore. Mia moglie». Gli avrebbe fatto effetto quello? Ero riuscito a raggiungere un qualche punto della sua mente schifosa che gli permettesse di comprendere la mia angoscia? Non ne era toccato. «Oh, risparmiamelo. Quello? Sono passati più di mille anni. Ora lei è polvere, pazzo che non sei altro, sarebbe successo comunque da tempo anche senza di me. Era polvere prima e rimarrà polvere ora. Non risorgerà». «È risorta». Mi afferrai il cuore. «È qui dentro». «Cyclades, hai ricevuto un dono. Un dono che è mio di diritto, ma non importa, farò in modo di riprendermelo alla fine. Aspetti settecento anni per passare cinque minuti con me? Spero che lo consideri tempo ben speso. Adesso è finita. Vattene». La sua voce era piatta. Il tono misurato. Ma il luccichio degli strumenti che stava riponendo mi disse che le sue dita tremavano. Mi temeva, più di quanto avrebbe mai voluto farmi sapere. Una volta sedato e ricucito, dopo che le mie carni erano state unte e massaggiate e miei brandelli gettati via, incontrai lo scontroso schiavo di Athanatos. Sembrava che il fatto che qualcuno potesse essere interessato a me provocasse in lui una profonda perplessità. Mi gettò un tozzo di pane e mi disse di seguirlo. Riuscivo a malapena a reggermi in piedi, le arti magiche di Athanatos mi avevano privato di gran parte delle mie difese. Ricordo che sentii l'erba fredda e umida sotto i piedi nudi. Ma non c'era profumo di fiori, nell'aria aleggiava solo il fetore del disfacimento, del pacciame di foglie morte, una cappa di fumo che odorava di legna bruciata e quell'odore tipico che mandano le zolle di terra prima che inizi a piovere. La villa di Nerone mi appariva assurda: le sue mura dai colori vivaci sembravano ondulare, come se stessero respirando. Le sale erano riempite dalla musica e dal flebile suono di una risata roca.
Lo schiavo mi fece fermare al buio, fino all'apparizione di una guardia pretoriana che mi ordinò di procedere. Camminai lungo il corridoio fin quando il mosaico sconnesso e irregolare sul pavimento iniziò a trafiggermi la pelle dei piedi. Che razza di creatura era quella che mi scrutava da quel pavimento scomposto? Un toro? «Parla solo quando l'imperatore si rivolgerà a te direttamente!». Mi assestò un calcio sulle gambe e caddi in ginocchio. La risata che seguì quel gesto mi scosse dal mio torpore. Qualcuno si era rivolto a me? Mi guardai intorno. Ero nella sala da pranzo di Nerone, dove era in corso un banchetto. I miei sensi non furono assaliti dal profumo di carne raffinata e vino corposo, ma dalle esalazioni della pozza di bile in cui mi ritrovai inginocchiato, un mare in cui vagavano relitti non digeriti in putrefazione. Non somigliava affatto ai banchetti che avevo immaginato si svolgessero nel palazzo di un imperatore. L'ingorda frenesia di riempirsi non veniva ostacolata da qualcosa di tanto insignificante come la perdita dell'appetito. Dopo essersi saziati, infatti, gli ospiti rigettavano il contenuto dei loro stomaci sul pavimento, e riprendevano tranquilli a mangiare. Mi alzai in piedi malfermo, ma scoprii di non aver nulla su cui asciugarmi le mani, dato che me ne stavo lì davanti a tutti completamente nudo. Qual era l'imperatore? Quale fra loro era il mio grande signore che aveva assassinato la propria madre, la propria moglie ed era destinato ad ammazzarne molti altri ancora? Cercai qualcuno con le vesti viola e vidi un giovane paffuto dai capelli corvini con un grosso naso e il mento sottile. Era disteso e mi guardava con occhi avvinazzati: «Ti ho chiesto come ti chiami». «Il mio nome è Cyclades». Si sciacquò la bocca con il vino. «Non è quello che mi ha detto il tuo lanista. Era piuttosto sicuro che il tuo nome iniziasse per A». Era risaputo che avesse l'abitudine di pagare il pubblico perché applaudisse i suoi sforzi artistici, e questa sembrava essere proprio una di quelle occasioni. Una grassa megera osservò allegra le mie parti basse e allungò le sue dita unte per verificare la mia salute. Diede una salda stretta ai miei testicoli e ridacchiò dicendo che, quando Nerone avesse finito, le sarebbe piaciuto molto avermi tutto per sé. Personalmente avrei preferito la morte. Avevo nuotato nel suo vomito. Ne avevo avuto più che abbastanza. Il fragore dei tuoni riecheggiava in ogni angolo della stanza. Gli schiavi impegnati a cucinare qualcosa sulle rive del lago si precipitarono dentro per scampare al rovescio di pioggia, cercando di salvare anche le pietanze.
«Di che razza sei?», indagò pigro l'imperatore parlando sopra quel baccano. «Vengo da Creta». Nerone si sollevò rumorosamente. «Questo mi lascia perplesso. Il tuo lanista insisteva che fossi un prigioniero di guerra catturato in Licia. Sei dunque Greco o Licio?». Non ci avevo pensato. Avevo iniziato come Greco, ma la mia stirpe mi aveva portato a reincarnarmi in Licia. Questo mi rendeva licio? Suppongo di sì. Significava che in qualche modo mi ero diluito? Come potevo definirmi un Greco se non mettevo piede in patria da centinaia di anni? Dissi con una certa preoccupazione. «Sono entrambe le cose. Il mio corpo è licio, ma la mia anima è greca». «Che fatto straordinario». Mi fece un cenno. «Vieni, rimani con me». Il pretoriano mi costrinse ad avanzare. La grassa megera mi assestò una pacca sul sedere. In quel momento, ero spaventato proprio come quel giovane murmillo. Nerone sollevò la sua lira. «Sto scrivendo una canzone», disse accompagnandosi con un sonoro rutto. «Parla del rogo di Troia. Hai detto al mio cerusico che tu sei la sua memoria troiana. I suoi schiavi mi dicono che hai combattuto là e sei rinato». Pizzicò qualche corda. Suonava in modo orrendo. Mi fissò con occhi maliziosi e sorrise. «Dimmi, è la verità?» «È la verità». Nerone ridacchiò come un bambino. Allungò la mano per prendere un frutto e diresse lo sguardo ai suoi ospiti. «Ve l'avevo detto che ci sarebbe stato da divertirsi!». Fecero tutti finta di trovarsi d'accordo. Nerone disse: «Quella di Troia è la storia dei re, ma non ho mai sentito parlare del re Cyclades. Se non sei Achille, non sei Agamennone, non sei Ulisse e nemmeno il re Priamo, chi saresti dunque? Non sei che un uomo, e dovresti saper stare al tuo posto». «Ho servito alle dipendenze di un re», risposi. «Tutti servono il loro re». «Io ho servito il re Idomeneo nel suo palazzo di Cnosso, sull'isola di Creta». Riuscivo ancora a vederlo, chiaro come se fossi appena entrato nell'ombra delle possenti colonne rosse del cortile interno. C'erano delfini blu che danzavano sulle pareti e i cancelli erano aperti per far entrare il sole. Che ricordi.
Nerone li interruppe bruscamente. «Dunque sei aduso alla schiavitù». «Sono abituato a essere schiavo del destino». Con sguardo malizioso mi chiese: «Dimmi, sei stato nel labirinto?» «E dove altro avrei dovuto combattere altrimenti?». Si rivolse a me come un bambino impaziente. «Ti sei battuto con il Minotauro?». Ero riluttante a dare una risposta. «Il re Teseo di Atene e le sue gesta sono venuti prima della mia epoca». «Devi avere altre storie da raccontare». «Qualcuna». «Raccontamele. Mi piacciono le storie. Perché, mi domando, un guerriero ucciso nella guerra di Troia dovrebbe ritornare quando le sue gesta non hanno lasciato che un timido segno nella storia?» «Per dispensare giustizia». Nerone si grattò la testa e, disgustato, gettò in terra la sua lira. «Che storiella schifosa». «Mi spiace di non poter offrire maggior divertimento». «Athanatos può, giusto, mio umile cerusico?». Non mi ero accorto della sua presenza, lì in piedi nell'ombra. Annuì con il capo. «Com'era, tua moglie?». Mi punse sul vivo. Non dissi nulla. La pioggia diventava più fitta man mano che aumentava il mio sconforto. «Il mio cerusico, qui, dice che è morta urlando. Poiché non ha saputo essere più preciso, non so se accadde perché agonizzava o perché era in estasi». Contrassi i muscoli luccicanti di sudore. Il sangue scorreva così velocemente che riuscii a sentirmelo sull'inguine. Ebbi una lama sotto il mento prima di poter fare qualsiasi movimento. Gli odiosi leccapiedi alla tavola dell'imperatore avevano visto molto chiaramente quale piacere mi procurava il pensiero di ucciderlo. «In quale libro l'hai letto, Athanatos, che ha tanto eccitato il mio ospite?». Non gli lasciai la possibilità di parlare. «Non l'ha letto in nessun libro, perché lui c'era». Nerone rise. «Oh sì! Il mio cerusico è un mago millenario! Ah, sei troppo divertente!». E prese un altro sorso. «Lo sanno tutti che la guerra di Troia è iniziata quando Paride ha rapito Elena da Argo». «Molte furono le mogli rapite, in ogni regione greca. Le nostre città fu-
rono saccheggiate anno dopo anno. Li abbiamo fermati. Elena non era che il volto di molte altre donne». «Ma se voi eravate a Creta, non potevate sapere cosa accadeva ad Argo, se non che la guerra era stata dichiarata con il rapimento di Elena». «Paride rapì Elena e la ricchezza di Argo. Furono i suoi perfidi inganni orditi sul suolo cretese mentre l'amato marito di lei, il re Menelao, era stato convocato per un funerale nella mia terra a offrirgliene l'opportunità. Non c'è questo nei libri di storia?» «Oh, sì, da qualche parte. Chi era morto quella volta?» «Il nonno del re, Catreo, figlio di Mino, che era in viaggio per far visita al figlio a Rodi, e fu ucciso sulla spiaggia appena sbarcato. Scambiato erroneamente per un predone, dissero». «E cosa ha a che fare questo con Athanatos?» «Fu Athanatos ad aspettarlo a Rodi per ucciderlo. Fu Athanatos a riportare il suo corpo a Creta per la sepoltura. C'era Athanatos dietro quel suo funerale, fu lui a regalarci dieci anni di guerra». Nerone sorrise. Bevve il suo vino e annuì rivolto ai suoi ospiti che scoppiarono in un applauso. Guardò Athanatos con aria divertita. «Ci crede davvero. È fantastico. Qualcuno ha scritto tutto?». Si alzò in piedi e si pavoneggiò per la sala rovesciando il vino mentre camminava. «Stanziate mezzo milione di sesterzi e ce ne saranno altri se dovessero servire. Voglio che venga ricostruita l'intera Troia. Il Campo Marzio è troppo piccolo, usiamo il Circo Massimo. Voglio diecimila uomini da ciascun lato». Si voltò verso di me e mi strinse le spalle. «E tu Aquilo, o Cyclades, o comunque ti chiami, tu che conosci così bene la storia, capeggerai i Greci nella battaglia. Ma per favore, scegli un nome che la gente possa riconoscere. Farai questo per me? Puoi mostrarmi Troia com'era davvero?». Ribollivo di rabbia. Athanatos mi lanciò uno sguardo sardonico quando gli dissi che era un bastardo farabutto. A quel punto entrò di corsa uno schiavo. «Imperatore», disse spaventato, «c'è stato un fulmine. Il vostro tavolo. È spezzato in due». Osservai i pretoriani. Prima una cometa e adesso questo. Erano prodigi oscuri e tremendi. Il viso di Nerone si adombrò. Tra i suoi ospiti si diffuse un chiacchiericcio allarmato. L'imperatore scagliò la sua coppa contro il muro e si precipitò fuori dalla sala senza aggiungere altro.
Morituri te salutant! Morituri? Che umorismo perverso. Quante altre volte sarei dovuto morire prima di poter smettere di tornare al mondo? Lo squillo delle trombe fu seguito dal corteo dei potenti, gli aurighi e i gladiatori marciavano ordinati. C'erano intere squadre di arcieri in piedi su baldacchini d'oro montati sulla schiena di robusti elefanti. I nubiani erano ai lati della cavalleria di Nerone. I leoni, gli orsi e le tigri incatenati venivano trascinati dai loro domatori, mentre gli incantatori di serpenti coi loro pitoni tenevano a bada antilopi e giraffe. All'ora di pranzo le amazzoni si cimentarono in combattimenti contro orde di nani e pigmei, e i pretoriani in cacce alla iena. Vi furono uomini incornati e donne picchiate e stuprate per diletto. Nel pomeriggio, raccolte lungo la spina, vennero spiegate le truppe di Troia, mentre i cocchi impazzavano massacrando vigorosi guerrieri uno dopo l'altro. Quando giunse il momento, condussi in battaglia i miei opliti. Assalti, cariche e bagni di sangue. E quando, dopo ore e ore di massacro, Nerone si fu divertito, mi fece impalare, mi fece immergere nella pece e mi fece accendere come una torcia per i giochi notturni. Ero stato fedele al mio giuramento. Ero un gladiatore di Roma e avevo giurato di sopportare che mi dessero fuoco, che mi legassero, mi picchiassero e mi uccidessero con la spada. Avevo imparato la lezione, sebbene dubitassi che fosse quella che intendevano insegnarmi loro. Guardando verso il Circo Massimo, attraverso l'inferno che piagava la mia carcassa in fiamme, assorbii dalla città di Roma l'odio di cui avevo bisogno per resistere. Athanatos aveva fatto in modo che, benché fossi ormai morto, potessi rigenerarmi ancora. L'avrei rincorso, inesorabile e furioso, attraverso tutte le epoche a venire, mentre gli altri sarebbero di lì a poco stati testimoni di un disastro, che certo non avevano chiesto di vedere. Mentre bruciavo su Roma, infatti, ero consapevole che, una volta tirato giù, sarebbe stata Roma a bruciare su di me. 22:41. North fu svegliato da un'infermiera. Il quaderno verde di Porter giaceva aperto sul suo petto, e quando si mosse cadde a terra con un sonoro tonfo che echeggiò nella sala d'aspetto del pronto soccorso del New York University Downtown Hospital.
Era nella tasca del soprabito dell'inglese. E quando gli avevano tolto i suoi effetti personali per darli in custodia a North, non aveva certo avuto bisogno di incoraggiamento per cominciare a leggerlo. Più come una catena di ferro che come un filo di perle, ogni rimando proveniente da un'altra vita faceva sì che le pagine sembrassero trascinarlo a fondo con tutto il peso della sua stessa storia. L'agonia era ancora molto vivida, imprigionata nelle sue ossa. L'infermiera si chinò per raccoglierlo e gli chiese se non preferisse parlare in privato. North sapeva già cosa voleva dirgli. «A che ora è stato dichiarato il decesso?» «Dieci minuti fa», rispose lei. North si alzò in piedi. Non era preparato. Si sentiva tradito. Si sentiva ingannato. «Posso vederlo?». L'infermiera disse che era già stato trasferito, ma che avrebbe fatto il possibile. 23:13. Gli fece strada lungo gli sterili corridoi e oltrepassò un gran numero di porte prima di scendere nel seminterrato ed entrare in una stanza refrigerata. Oltre una doppia porta c'era l'obitorio. L'infermiera accese le luci e aspettò che i suoi occhi si adattassero alle impietose strisce di neon sul soffitto. Il corpo di William Porter, dentro una sacca nera, giaceva su un carrello in attesa di essere prelevato dall'OCME per un'autopsia. «Dobbiamo contattare un suo parente prossimo», spiegò l'infermiera allungando la mano per tirare giù la lampo. Suppongo sia io. North disse che se ne sarebbe occupato lui. Non era una camera ardente e il corpo non era stato reso presentabile. Sulla pelle c'era ancora del sangue incrostato e il sudiciume della strada gli era rimasto attaccato ai capelli. Si vedevano persino i segni e i solchi di tubi e altri arnesi medici. Ma qualcosa era rimasto: la voglia accanto all'occhio. Fu solo allora che North si sentì davvero solo. Ho così tante domande. Che faccio? North si rese solo vagamente conto che l'infermiera stava continuando a parlare. Tentò di ascoltarla. Era difficile. «Non ce la poteva fare», disse lei. «Aveva il corpo pieno di cicatrici. Deve aver avuto una vita dura. E alla fine è stato come se avesse rinuncia-
to. Ha perso ogni volontà di combattere». Ha perso ogni volontà di combattere. «Lo conosceva bene?». North ci pensò su. «Sì», disse, «da tutta la vita». LIBRO SESTO «È in un'epoca buia che gli occhi cominciano a vedere» Thomas Roethke MEIOSI MNEMONICA Non li aveva mai visti così presi dal panico prima di allora. Quando giunse il messaggio dalla reception, si erano spostati in un altro laboratorio per proseguire il lavoro. Fu Megaera a prendere la chiamata. Le sue lunghe dita eleganti stringevano forte la piccola cornetta di plastica bianca. C'era stato un problema. Lawless si alzò. All'inizio sembrava lievemente irritato, benché non troppo allarmato, ma quando strappò il telefono alla figlia e intervenne nella discussione si sfilò con rabbia i guanti di lattice dalle mani avvizzite e li gettò con violenza sul pavimento. Il suo bastone scricchiolava ogni volta che toccava terra mentre si dirigeva a passo di marcia ad affrontare di persona quella complicazione. Gene chiese cosa mai fosse successo, e lo fece perché sapeva che era quella sollecitudine, quella gentilezza, a distinguerlo da loro. Non fu sorpreso quando Megaera lo liquidò dicendo che non era nulla. Era davvero bellissima. E dotata di una notevole intelligenza. Era in tutto il resto che difettava. Tutta quella sterile scenografia sembrava esser frutto soltanto della forza delle loro personalità iperboree. All'improvviso fu tutto chiaro. Gene non era che un animaletto a malapena tollerato, cui lasciavano credere di essere un re solo perché faceva comodo a loro. E in quel momento a loro non faceva comodo. Lawless e Megaera si precipitarono in un'ampia sala riunioni e si chiusero bruscamente la porta alle spalle. Gli agenti della sicurezza sbarrarono la strada a Gene. Che cosa era successo? Come possiamo sfruttare la situazione? Quanti vuoti nei suoi ricordi, quante lunghe e oscure lacune dietro quel
coro di voci che infuriava nella sua testa. Se solo avesse potuto colmarne qualcun'altra sarebbe stato in grado di comprendere meglio tutto. Altrimenti, l'unica alternativa che gli restava era fare quel che aveva già fatto: scappare. Non dobbiamo permettere che ci trattino in questo modo. Gene udì un debole ronzio di carrucole. Gli ascensori in fondo alla sala si stavano muovendo. Era quella la sua opportunità? Si mise a gironzolare lontano dalla sala riunioni tenendo d'occhio le porte dell'ascensore. Quando le lucide superfici a specchio iniziarono a scorrere lentamente non si aspettava certo di veder comparire Savage. Il viso dell'uomo tradiva la sua angoscia. Uscì dalla cabina in un turbine di disperazione. Gli uomini intorno a lui non dimostravano un migliore stato d'animo. Uno era stato picchiato. Aveva contusioni violacee e tagli incrostati di sangue sulle guance e intorno a un occhio. Savage trasalì quando Gene gli rivolse la parola. «Dove sei stato? Non ti ho visto uscire». Savage era in uno stato confusionale. Cosa lo aveva scosso a tal punto? Stringeva in mano un sacchetto accartocciato. «Avevo una commissione urgente». «Non abbiamo qualcuno per questo?». «Siamo noi quel qualcuno». Continua a tenerlo in agitazione. Mettilo fuori gioco. Attirò l'attenzione di Savage verso l'altro capo della sala. «Ti stanno aspettando», disse con il volto cupo. L'uomo non sapeva che fare. Non riusciva a pensare. Scrutò le pesanti porte chiuse della sala riunioni e i piedi gli si pietrificarono all'istante. Qualunque fosse la cosa che andava risolta, evidentemente lo riempiva di terrore. Continuò a essere cauto, diffidente nei confronti di Gene, incapace di stabilire quanta fiducia riporre in lui. Cercò di sembrare sicuro di sé, ma il tremolio nella sua voce era palese. «Vieni anche tu?». Come doveva giocarsela? Non poteva ammettere di essere stato ignorato. «No», disse Gene, «ho del lavoro da fare. Megaera vuole che mi occupi dei nostri nuovi risultati in uno degli altri uffici. Ho smarrito la sua chiave». Savage era torturato dall'indecisione. Gene intravide la sua opportunità. «Magari puoi aiutarmi tu». Savage guardò il pass di sicurezza in plastica che aveva tirato fuori dalla tasca. Pendeva da una catenina metallica, che aveva l'aria di voler tenere ben nascosti i suoi segreti. Senza pensarci oltre, lo rimise prontamente via.
«No», disse, «non posso dartelo». Riprese la sua lunga camminata verso la sala riunioni. Gene non si arrese. «Non ho bisogno della chiave», gli assicurò, «mi serve solo qualcuno che apra la porta. Inoltre, è colpa tua se non posso continuare il nostro lavoro». Savage trasalì. Dunque era di questo che si trattava. Cosa aveva fatto? Si strofinò la fronte dolorante, massaggiandosi con le dita quella pelle bianca e sottile. Il peso della decisione era troppo grande. Forse era più semplice limitarsi ad accettare la richiesta. «Uno di voi vada con lui e apra la porta». L'uomo con i lividi e i lineamenti spigolosi si fece avanti per primo, ma Savage aveva altri progetti per lui. «Non tu». Quando la scelta fu compiuta Gene lo ringraziò, ma all'agente di sicurezza fu impartito un ordine preciso: «Non ti allontanare mai da lui». Quando Savage raggiunse la soglia verso cui era diretto, le ampie porte di legno si spalancarono per un istante. I tre cominciarono subito a parlare animatamente. «Gene ne ha trovato un altro», annunciò Savage. «Di chi?», sbottò Lawless. «Uno dei miei». Né Lawless né Megaera si alzarono in piedi per salutarlo quando la sala riunioni inghiottì Savage condannandolo al suo destino. Ne abbiamo trovato un altro? Gene guardò il suo sorvegliante, ma era certo che da lui non avrebbe cavato nulla. Non indugiò. C'erano poche possibilità che lo lasciassero origliare, e provarci sarebbe stato una follia. Avrebbe dovuto trovare le sue risposte altrove. L'agente di sicurezza lo teneva d'occhio, ma non disse nulla. Aspettava i suoi ordini. Rimasero in silenzio nell'ascensore che saliva fino al trentacinquesimo piano. L'agente era vigile e ben addestrato. Non guardava scorrere pigramente i piani. Guardava Gene. E continuò a guardarlo anche quando arrivarono davanti alla porta nera. Quando vi fece scorrere sopra il suo pass, il puntino di luce passò da un rosso bruciante a un verde emolliente. L'agente aprì la porta con una spinta ed entrò. Gene rimase sulla soglia. Nella stanza c'erano pochi mobili: un computer, una scrivania, un telefono, qualche libro e un mucchio di grafici
e note cliniche attaccati come squame di carta su due intere pareti. Gli altri due ingressi portavano fuori dall'ufficio. L'agente di sicurezza si accertò che fossero chiusi e si mise in piedi in un angolo ad aspettare. Che sta facendo? «Hai intenzione di starmi a guardare mentre scrivo?». L'agente rimase impassibile come una colonna di pietra. Deve andarsene. «Dove pensi che possa scappare? Attraverso delle porte che non posso aprire, per le quali non ho la chiave? Levati di torno, adesso, o hai dimenticato chi sto per diventare?». L'uomo tentò di digerire quella sgradevole informazione. Gene si mise a lavoro con naturalezza. Si spostò dietro l'ampia scrivania di legno duro, si sedette e cominciò a lavorare in silenzio al computer senza guardarsi indietro. Sulle prime l'agente non si mosse, ma visto che i minuti passavano e riusciva a tenere d'occhio Gene senza problemi, ne approfittò per rilassarsi un poco. Dopo qualche minuto controllò di nuovo che le due porte fossero effettivamente ben chiuse prima di dirigersi verso l'uscita. Uscendo ci tenne a sottolineare che sarebbe rimasto proprio lì fuori. La porta si chiuse, lasciando Gene con la domanda più importante. Cosa c'era di tanto speciale in quella stanza, da doverlo tenere fuori di là? Iniziò dai grafici e dalle note sparsi sulle pareti. Non erano i risultati di esperimenti genetici, ma appunti di embriologia. Mappe del destino. Avevano meticolosamente studiato un migliaio di embrioni, e li avevano mappati per mostrare le corrispondenze fra gruppi di cellule e parti di un corpo futuro sviluppate quando i geni fossero entrati in azione. Il numero di geni che facevano di un essere umano un uomo in carne e ossa non era nemmeno il dieci per cento del suo DNA totale. Così, il resto del suo cordone intessuto di destino sembrava del tutto superfluo, ma a uno sguardo successivo, più approfondito, quel caos risultava ordinato. Lo scopo c'era ed era semplice ed elegante: la memoria. Tutte le mutazioni nelle eliche di DNA cui aveva accennato Letha erano i ricordi. Gene sapeva che generare un individuo era come mescolare insieme due mazzi di carte. Le cellule spermatiche non assumevano, infatti, tutti i cromosomi dalle cellule esistenti: ne sceglievano alcuni pezzi e li usavano per costituire ex novo altre serie di ventitré cromosomi. Questa ricombinazione genetica, questa meiosi di infinitesimali scambi di lettera e riorganizzazioni genetiche, costituiva i ricordi, immagazzinati nelle parti di
DNA scartate, in attesa di essere letti come il nastro di una telescrivente, e strutturare la mente dell'embrione in modo che i ricordi facessero parte di quel bambino sin dal suo concepimento. Una volta collocati nel cervello, però, i ricordi non erano come video da riguardare in una sorta di televisione mentale. Ciascuno di loro era come una mappa, dove ogni città rappresentava un colore, una forma o un odore. La memoria genetica funzionava tramite l'impressione, nel cervello in via di sviluppo del feto, di una mappa di tutte le strade che connettevano fra loro gli elementi della memoria, salvo che, per economia, i nomi delle città, ossia gli elementi stessi, mancavano. Più il bambino cresceva, più le sue esperienze andavano a riempire i nomi di quelle città con i loro colori, le loro forme e i loro odori, completando i circuiti e ripristinando i ricordi e le personalità che vi si associavano. Gene adesso capiva il perché di quei vuoti, e il motivo per cui Savage e Lawless erano tanto preoccupati che il loro sistema stesse perdendo Athanatos. Se un erede non avesse compiuto un'esperienza e non fosse riuscito a inserire gli elementi determinanti, ad esempio nascendo semplicemente daltonico, si correva il rischio che non venissero fatti rivivere tutti i ricordi e che, in questo modo, la discendenza li perdesse per sempre. Quello che non riusciva a capire era come potessero essere tanto certi che ciò che possedeva Cyclades avrebbe rovesciato la tendenza e ricomposto quell'entropia. Sembrava un atto disperato. Spostò la sua attenzione sulle foto a ultrasuoni dello sviluppo embrionale e le studiò attentamente. Quello che scoprì negli appunti lo fece inorridire. Tutti gli embrioni erano figli suoi. Ogni feto deforme, con un braccio dove non avrebbe dovuto essere o una gamba senza piede, era così perché il progetto d'incremento della memoria affidata al DNA che Lawless stava realizzando era sperimentale, e i risultati erano nauseanti e crudeli. Tirò via la propria scheda dal gancio sul muro e la lesse con attenzione. Gene era l'ambizioso esperimento di Athanatos e il suo più grande rischio. Sebbene le donne non potessero produrre ricordi genetici, conservavano un'impronta di quelli paterni. Athanatos aveva seguito meticolosamente le tracce di quanti più rami della discendenza di Cyclades gli era stato possibile nel corso dei secoli, in previsione del suo ritorno. E sua madre era stata evidenziata come una di quelle eredi. Questo confermava quel che aveva sospettato, che lo scopo del progetto
fosse quello di creare un ibrido con il corpo di Cyclades e la mente di Athanatos. Un uomo che potesse riprocreare se stesso a piacimento senza bisogno di pozioni ed elisir. Un uomo che fosse veramente immortale. Gli embrioni illustrati sulle pareti erano i ripetuti e consecutivi tentativi che testimoniavano come i ricordi di Cyclades venissero strappati con successo dal suo DNA, lasciando solo quelli di Athanatos e il gene che consentiva a Cyclades di rinascere. Fu la deduzione, non il ricordo, a dirgli che quello era il motivo per cui aveva tanti inspiegabili vuoti di memoria. Che quello era il motivo per cui c'erano buchi che collassavano in straordinari abissi. Tremila anni della sua vita stavano sgretolandosi nella sua mente. Ma quello che Gene non aveva intuito era che lui stesso aveva contribuito parecchio a quel progetto. La sua naturale predisposizione favoriva Athanatos. Era stato lui a farsi questo. Ma il procedimento che faceva uscire fuori Cyclades affinché potesse essere cancellato era proprio quello che gli dava la sensazione di essere Cyclades, in un modo o nell'altro. Una sensazione provvisoria e precaria. In realtà, lui era allo stesso tempo lo spirito in guerra di Cyclades e quello di Athanatos. Quella era la settima prova. La lotta che infuriava da oltre tremila anni era dentro di lui. Ne era diventato il campo di battaglia. E la sua scheda parlava chiaro: non era l'unico a patire l'incubo di questi impulsi conflittuali. FRAMMENTI Sabato, 4:07. Aveva mandato un bacio a North all'ingresso del Lincoln Tunnel e ora lui le stava strappando la camicia per sentire i suoi piccoli seni a noleggio tra le sue mani rabbiose. Era ancora giovane. Ancora vitale. Aveva i capelli scuri e la pelle di un dolce color caramello portoricano. La luce del distante lampione che entrava dal parabrezza lasciava intravedere i suoi lineamenti delicati e accaldati, un raggio luminoso nel buio di quello squallido vicolo. La sua bellezza era più di quanto potesse sopportare. L'afferrò saldamente e la spinse indietro. «Attento!». La richiesta cadde nel vuoto. «Ehi, vacci piano».
Tu-tump. «Mi fai male!». Tu-tump. Tu-tump. Con le spalle piene di furore animale, si liberò nel preservativo e la strinse fino a farla soffocare. Tu-tump. North non si muoveva. Si limitava a tenerla stretta, con respiro affannato e irregolare. Tu-tump. La ragazza riuscì a liberarsi un braccio e lo colpì, ma lui non la lasciò andare. Tu-tump. La giovane mulatta tentò un approccio differente. Tu-tump... Gli strinse il collo e lo lisciò con le sue dita calde, a suggerire che tutto ciò fosse in qualche modo reale. Che in qualche modo era stata soddisfatta. North si tirò indietro di colpo. Non erano le bugie che voleva. Se gliel'avesse chiesto, avrebbe ammesso che a malapena si rendeva conto di chi fosse il corpo che stava appagando i suoi bisogni, ma lei non era così ingenua da domandarlo e nemmeno le importava. «Non mi avevi detto che volevi una cosa brutale. Ti costerà il doppio», disse lei furiosa. North tirò fuori altro denaro. «Dì a Moira che volevo rivederla». «Te l'ho detto, nessuno vede Moira da settimane. Forse l'hai pagata troppo. Forse s'è ritirata dagli affari». North distolse lo sguardo per la vergogna. «Vattene». «Con piacere, fottuto psicopatico». Controllò di aver preso i suoi soldi e si precipitò di nuovo nell'ombra, lasciando North a rigirarsi il coltello nella piaga. Il sesso non lo aveva aiutato. La sua anima rimestava, sempre vendicativa, sempre attenta a trovare quella crepa da cui poter scappar fuori, ma lo sforzo era vano. North portava addosso strati e strati di disgusto per se stesso, così resistenti che i colpi della sua furia non riuscivano a far altro che mutilarlo dall'interno. Tu-tump. Con le dita che gli tremavano in maniera incontrollata strinse con un nodo affrettato il preservativo e lo gettò dal finestrino, mentre con l'auto sbucava di nuovo sulla strada principale. Fece bruscamente inversione quando
nello specchietto vide di sfuggita un'altra prostituta guizzar fuori dal buio e rovistare nella spazzatura per recuperare il suo preservativo. Cosa ci vuole fare? Frenò e uscì come un lampo dall'auto, ma quando arrivò lì se n'era già andata. Adesso si dava valore persino a un preservativo usato? Non la riconosceva quella città. Non più. Le strade claustrofobiche lo opprimevano, gli sembrava che la sua vita fosse spezzata. Come un mucchio di tessere alla ricerca di un mosaico. Fottuto psicopatico. Guidava nel buio, col volto del suo vero padre che si impadroniva via via dei suoi lineamenti e gli restituiva lo sguardo dallo specchietto retrovisore. Fottuto psicopatico. Chi era quell'uomo che conosceva sia lui che Gene? Alla confusione si sommava altra confusione. Aveva davanti agli occhi l'immagine cerea del cadavere di Porter. Decise che era ora di tornarsene a casa. Ma, una svolta sconclusionata dietro l'altra, North non riusciva a trovare la strada: non sapeva più dove fosse la sua casa. Era imprigionato in un labirinto che non aveva costruito lui e in cui non aveva scelto spontaneamente di entrare. Si era perso, e non riusciva a trovare il modo di venirne fuori. 5:22. Dopo che ebbe saldato il conto di Porter alla reception dell'Hotel Pennsylvania il portiere notturno lo accompagnò fino alla camera e lasciò che raccogliesse gli effetti personali dell'inglese. Era rimasto tutto come Porter l'aveva lasciato. L'asciugamano che aveva usato come coperta era ancora abbandonato sul pavimento. Gli occhiali da lettura erano disposti come se dovesse tornare da un momento all'altro per riprendere lo studio dei quaderni. Quali risposte vi si celavano? North mise i quaderni da un lato prima di decidersi a infilarli nella piccola borsa da viaggio nera che l'inglese aveva usato per il passaporto e altri documenti di riconoscimento. Quando aprì la lampo di uno degli scomparti trovò una raccolta di articoli di giornale in cui si raccontava nel dettaglio quello che era successo al museo, gli appunti di Porter su come rintracciarlo e una rivista che l'uomo aveva comprato di recente. Sulla copertina c'era un teschio dall'aria molto familiare con un foro sulla tempia che il terapista
aveva cerchiato. North lesse il titolo. Si pubblicizzava la mostra Volti dal passato al Museo Americano di Storia Naturale, un luogo diverso da quello in cui aveva incontrato Gene la prima volta. Cosa mi sfugge? North sfogliò la rivista per leggere l'articolo, col portiere notturno che, irritato per l'attesa, controllava l'orologio spostando il suo scomodo peso da un piede gonfio all'altro. «Deve farlo proprio qui?», chiese lui. North fu freddo e tagliente. «Ha un appuntamento?». Il portiere notturno si allontanò e prese a bighellonare nel corridoio. Il Metropolitan si trovava più o meno di fronte al Museo di Storia Naturale, dall'altra parte della lussureggiante distesa di Central Park. I due musei avevano stabilito una collaborazione per l'estate, allo scopo di pubblicizzare l'uno la mostra dell'altro. La cosa era insolita, proseguiva l'articolo, perché il Metropolitan di norma non si occupava di paleontologia: si interessava soprattutto di cultura e arte. North si sentì stupido. Perché non era al corrente di una cosa così semplice che riguardava la sua città? Il teschio in prestito al Metropolitan era stato intenzionalmente esposto di fronte alla statua in marmo bianco di Protesilao, il primo Greco a morire nella guerra di Troia, perché i due oggetti si rispecchiassero. L'osso sbiancato era il teschio ferito di un guerriero portato alla luce a Hissarlik, il nome moderno della collina turca su cui sorgeva l'antica Troia. Il museo aveva fatto una riproduzione di quel teschio, aveva messo dei puntelli come riferimento in vari punti sulla sua superficie per calcolare lo spessore medio del tessuto e uno scultore aveva poi usato un'argilla terrosa scura per ripristinare ogni muscolo, ogni nervo sottile e ogni strato di grasso scivoloso e pelle liscia e tesa per ricostruire lentamente il viso dell'uomo che aveva perso la vita in battaglia a Troia. Quel teschio al Metropolitan dava un'idea dell'insieme di teschi sottoposti a una simile ricostruzione facciale al Museo di Storia Naturale, un procedimento pieno di sorprese. La faccia di un coltivatore bimillenario di Severnside in Inghilterra era la copia sputata di quella dell'uomo nella fotografia sottotitolata: «Guy Gibbs, discendente diretto, oggi». C'era un esempio simile alla pagina successiva. Un inglese di Cheddar che somigliava in modo sorprendente al suo antenato, il cui teschio risaliva a oltre novemila anni prima. Accanto all'articolo Porter aveva spillato la fotografia di North e il ritratto che era stato fatto di Gene. Aveva anche cerchiato la particolare voglia
che Porter e Gene avevano in comune con il teschio in copertina. La cosa cominciava ad assumere un senso. North ricordò di aver calpestato l'argilla gettata rabbiosamente sul pavimento di marmo e ricordò i bulbi oculari di vetro che galleggiavano in un mare di profumo al gelsomino. Gene aveva distrutto quella faccia. Il gelido ricordo del momento in cui per la prima volta era entrato al museo e aveva incontrato Gene all'ombra delle statue lo scosse. Rammentava le dita rigide che stringevano quel teschio come se anche Gene fosse bloccato dalla morsa spietata della sua medesima orrenda consapevolezza, stritolato dai suoi pensieri in un enorme bolo, come un osso intrappolato nelle fauci di un segugio dai denti aguzzi intento ad assaporare il grasso del midollo. Un uomo che rinasce più e più volte, e ogni volta scopre che i suoi pensieri sono stati trasferiti da un guscio all'altro: Gene aveva tenuto fra le mani i resti della sua stessa testa? O della mia? Ma io non ho la voglia. Non sono Cyclades? Porter mi ha mentito? Perché Porter non gliene aveva parlato? Perché aveva tenuto per sé tutti questi segreti? North ripose la rivista nella borsa da viaggio. Porter aveva vissuto sempre con quella valigia in mano. Non c'era molto altro da infilarci dentro. 6:36. In quella trappola che era il quarto distretto, la scrivania era per North un'ancora a cui aggrapparsi e lui ne approfittò. Si aggrappò alle sue pile di indizi accatastate lì sopra. Si aggrappò al semplice fax del CSU che confermava in un inflessibile nero su bianco che l'impronta rilevata in casa di Cassandra Dybbuk a Troy corrispondeva a quella rilevata sui frammenti di vetro insanguinati del museo. Eugene Dybbuk era Gene. Era una vittoria piccola ma se ne rallegrò comunque. Lanciò un'occhiata dall'altra parte dell'ufficio, verso la scrivania di Martinez. Disposti in ordine sparso sulla sua lavagna magnetica c'erano identikit abbozzati degli aggressori di Chinatown, accompagnati da un mucchio di testimonianze oculari. Alcuni erano più somiglianti di altri. Quello dell'uomo più anziano era il più formidabile di tutti, il più fastidiosamente familiare.
Com'era possibile che fosse più semplice affrontare quel volto che non i messaggi che Nancy, la segretaria amministrativa, gli aveva lasciato accanto al telefono della sua scrivania? Sua madre aveva chiamato diverse volte il giorno prima. Era per il barbecue di suo padre? Mio padre. Quale padre? Non si sentiva pronto ad affrontarla in quel momento. E, in ogni caso, era ancora troppo presto. Lasciò l'appunto lì dov'era, si alzò dalla sedia e andò a strappare i ritratti accanto alla postazione di Martinez. Dopo averli disposti ordinatamente sulla sua scrivania li esaminò accuratamente, nei dettagli: la forma degli occhi, la curva delle labbra, i nasi importanti. Cosa avevano di così speciale quei visi, da colpirlo tanto? Forse il fatto che sembrassero tutti in qualche modo collegati? Ho dei fratelli? Era qualcosa di più. Allungò la mano nella borsa da viaggio di Porter, ne estrasse la sua raccolta di giornali e li poggiò sulla scrivania. Li scombinò fin quando non trovò la rivista che aveva in copertina la fotografia del teschio. Il buco dai bordi frastagliati, in corrispondenza del punto in cui l'osso era stato colpito, era sulla tempia, vicino a un occhio, lo stesso punto in cui Porter e Gene avevano una voglia curiosamente simile. Tuttavia, nessuno di quegli altri uomini aveva un segno del genere e, cosa forse più penosa di tutte, nemmeno lui. Porter ha mentito. North si sedette di peso sulla sua sedia, di umore sempre più nero. Mi ha usato per arrivare a Gene? Devo vedere quel teschio. Sfogliò la rivista e trovò gli orari d'apertura del museo. Le porte sarebbero rimaste ben chiuse fino alle dieci. «Hai trovato il teschio?». North alzò gli occhi doloranti e vide Martinez chino su di lui. Gli stava offrendo una tazza di cartone piena di caffè nero, che accettò senza mostrare un'eccessiva gratitudine. «Forse. Lo scoprirò nel giro di un paio d'ore». «Capisco...». Il più giovane dei due sedette, ma era ben lontano dal sentirsi a suo agio, l'inquietudine segnava visibilmente i suoi lineamenti e aveva occhi pieni di apprensione. Per North fu come guardarsi in un altro specchio. Mise da parte la rivista e attirò l'attenzione di Martinez sugli identikit. «Cosa sappiamo di questi
uomini?» «Niente». Martinez bevve un altro sorso del suo caffè amaro. North non era soddisfatto. «Sul serio, nessuno sa niente. È una specie di bizzarro miracolo. Saranno tre gli isolati che ho passato al setaccio. Nessuno parla. E il tuo amico Jimmy Peng? Sparito dalla faccia della terra». North non ne fu sorpreso. «Chiunque fossero quei tizi, hanno Chinatown in pugno. Non so se la cosa mi rende più curioso o più nervoso». «I soldi possono comprare il silenzio». Martinez colse il sottinteso. Non stavano cercando solo Gene, c'era dell'altro. North controllò l'ora sull'orologio alla parete. «Pensavo che avessi la giornata libera. Che fai qui così presto?». Martinez mandò giù altro caffè. «Ah, non riuscivo a dormire». Misera scusa. Martinez rimase in silenzio. Il ginocchio gli rimbalzava su e giù rivelando un notevole livello di nervosismo. Fu allora che North notò che indossava un paio di scarpe seminuove in cuoio nero, diligentemente lucidate. Scarpe da cerimonia. Doveva esserci un'uniforme da cerimonia per corredarle nel suo armadietto. Il funerale di Manny Siverio si sarebbe svolto di lì a poche ore. North chinò la testa. «Avrei dovuto ricordarmene...». «Ehi, tu hai i tuoi problemi, no?». Non ne hai idea. Il viso di Martinez rimase una maschera ambigua mentre aspettava una replica eloquente, ma era destinato a rimanere deluso. North scelse di non rispondere, così lui non insistette oltre. Senza preavviso si sporse sulla scrivania e prese uno dei giornali di Porter per scorrerne le vecchie pagine consunte. «E così il tuo amico teneva dei diari, eh?». Quella scrittura illeggibile non aveva senso per lui. Fu l'odore a stuzzicare la sua curiosità. Si portò il quaderno logoro al naso e diede una rapida sniffata. Qualunque cosa fosse, era chiaro che non proveniva da lì. «Lo senti questo odoraccio?». Avrei dovuto cambiarmi la camicia. North riprese il quaderno e lo sistemò ben in vista insieme agli altri, ma Martinez non si lasciò dissuadere tanto facilmente. «Hai già dato un'occhiata a queste cose?». «E tu hai dato un'occhiata ai nastri del traffico?». Martinez scrollò le spalle. «Alla maggior parte». «E?».
Il giovane detective si infilò una mano nella tasca del giubbotto e mise tre fotografie in bianco e nero sulla scrivania di North allargandole a ventaglio. Erano fastidiosamente sfocate, pressoché inutili, ma mostravano quello che sembrava essere North su una bicicletta, che si scontrava con una Sebring berlina. Il detective sentì uno scarico di adrenalina. «Hai uno scatto chiaro delle targhe?». Martinez scosse la testa. «Ho lasciato il nastro al TARU, stanno cercando di migliorare l'immagine proprio in questo momento. Se ottengono qualcosa la passeranno alla motorizzazione e ci faranno sapere a chi è intestata l'auto, ma non la vedo tanto bene». North tamburellò le dita sul freddo e duro acciaio della sua scrivania. «Grazie», disse, «hai fatto un buon lavoro». «Ehi, non è questa la parte migliore. Ho fatto un giretto alla Columbia ieri. Ho parlato con il preside. Sapevi che Eugene Dybbuk aveva uno sponsor all'università?». North si arrese al seducente solletico della sua curiosità. «Uno sponsor? Chi?» «Un'industria biotecnologia chiamata A-Gen. Ne hai mai sentito parlare?». North non poté dire di conoscerla. «Non era una normale borsa di studio, gli pagavano le tasse, l'alloggio e, secondo il preside, molto altro. Dolce lavoro». «Che genere di studente era?» «La media del trenta. Uno studente di prima categoria». «Dunque la A-Gen ha investito bene il suo denaro». Martinez mise giù la tazza di caffè e prese i suoi appunti. «È proprio questo il punto. Sulla carta non è così». «Che intendi con "sulla carta"?» «Solitamente gli accordi sono questi: un'industria sponsorizza uno studente e lo studente si impegna con loro per qualche anno dopo la laurea, altrimenti si riprendono i soldi. Gene non è mai andato a lavorare da loro. Prima è stato al Cold Spring Harbor a Long Island. Poi è tornato alla sua università per il master e ha ottenuto un posto alla Eric Kandel's Memory per lavorare su farmaci che rallentano, bloccano e addirittura invertono la perdita di memoria». Memoria. I pezzi cominciavano a collocarsi al posto loro. North prese il suo blocchetto nero e trovò una pagina vuota. «Cos'è il Cold Spring Harbor?»
«Il laboratorio Cold Spring Harbor». «Che si occupa di?» «Ricerche genetiche. Hanno una sede enorme. Il preside dice che uno dei tizi che ha scoperto il DNA teneva dei corsi là». North rievocò un'immagine talmente vivida di tutti i libri di genetica sciupati dall'uso che affollavano gli scaffali di Gene nella sua vecchia stanza a Troy che quasi riusciva a sentirsi tra le dita quelle pagine polverose. Chi ha scoperto il DNA? Watson e Crick. «Gente di un certo livello». «James Watson. Eric Kandel. Se la fa con dei Premi Nobel». «Se la fa con loro. Questo non lo rende uno della partita. E quindi lascia il Cold Spring Harbor...». «Non vuoi sapere cosa faceva lì?». North non vedeva come potesse essere rilevante. Gene era un genetista, la cosa era fuori discussione. «Studiava gli HERV». North non aveva idea di cosa volesse dire e Martinez glielo spiegò. «Retrovirus endogeni umani. Infezioni che inseriscono il proprio DNA nel tuo, in modo che qualunque cosa ti becchi finisci per passarla ai tuoi figli. Perfidi bastardelli. Gene era interessato solo ai retrovirus che colpivano il cervello. Virus mnemonici, capisci dove voglio arrivare?». North si raggelò. Sa dei miei ricordi? Non può saperlo. Restò in silenzio. Martinez sembrò colpito dalla paura scritta sul suo volto. Capì di aver toccato un nervo scoperto ma non riusciva a immaginare perché. Adottò un approccio diverso. «Ehi, sto solo dicendo che non si sa che altro ha messo nella siringa quel figlio di puttana. Accertati che ti facciano gli esami per tutto, sai com'è?». Tu-tump. Fottuto psicopatico. North gli assicurò che l'avrebbe fatto. Tu-tump. Prese la penna, provando un acuto senso di sollievo. La sua vergogna era ben nascosta. «Ti sei tenuto impegnato», disse. «Ho imparato un sacco di cose». «Dunque, Gene lavora ancora per la Kandel?» «No. Ho parlato con la responsabile delle risorse umane. Ha detto che
hanno dovuto mandarlo via». Hanno dovuto? «Ti ha anche detto perché?» «Sospettavano che fosse una spia e lavorasse per conto di un concorrente». Spionaggio industriale? North si dibatté in quel guazzabuglio di informazioni riuscendo a intravedervi un bagliore di logica. «Forse, alla fine, stava lavorando per la A-Gen». Martinez disse che pensava fosse sicuramente così. «Hanno fatto qualche denuncia?» «Non che lei sapesse, e fra i nostri documenti non risulta. Volevano solo che se ne andasse». «Ultimo indirizzo conosciuto?» «La casa dello studente. Un vicolo cieco». North si appuntò qualcosa sul taccuino. A-Gen. «Dov'è la sede?» «Questo non lo so. Non ho avuto il tempo di fare una ricerca. Ho avuto da fare con la storia di Chinatown...». North rilasciò tutto il peso della sua schiena dolorante sulla sedia. Era un sollievo scoprire che Martinez fosse tanto acuto, eppure qualcosa continuava a sfuggire a entrambi. Doveva pur esserci una traccia da qualche parte. Soldi? «In che modo veniva retribuito alla Kandel?». Martinez era un passo avanti. «La classica busta paga. Ci ho già pensato. Ma non sta più con la stessa banca in cui gli facevano i versamenti, e nessuno ha i suoi recapiti». «Qualcuno li avrà. Stava di fronte a me con scarpe da ginnastica da duecento dollari. Da qualche parte li incasserà gli assegni». «Be' ho passato il suo nome all'AutoTrack19 : non vota, non ha una carta di credito, non ha un'ipoteca, non possiede nemmeno un telefono...». I conti non tornano. «Ma Cassandra Dybbuk ha detto che di tanto in tanto suo figlio la chiama, l'ultima volta lo scorso anno». «Non da un telefono che possiede». «Dunque, dopo la laurea... così? È sparito? E di cosa campa?». Aiutami. «Magari ha cambiato cognome?». No. Perché avrebbe dovuto farlo? «O forse è solo il tipico caso dello schizofrenico paranoico?». 19
Database pubblico (n.d.t.).
Fottuto psicopatico. North si passò le dita sulla fronte in un disperato tentativo di rallentare l'avanzata del Toro dentro di lui. «Che pensi?» «Forse», disse con una certa riluttanza, ragionando, «forse... E se qualcuno cercasse appositamente di tenerlo nascosto?». Martinez non trovò alcun conforto in quella teoria. «Guarda», disse, «l'unica cosa che posso dare per certa è che alla motorizzazione c'è ancora un'auto intestata a lui. Se stanno cercando di tenerlo nell'ombra non hanno cancellato tutte le tracce». North si ricordò di un'auto parcheggiata davanti alla casa della famiglia Dybbuk. «Una Camaro del 1981 color bronzo?». Martinez era colpito. North lo mise al corrente di un dettaglio marginale. «Quel rottame non fa un metro da anni». Gene è finanziato. Cassandra Dybbuk è finanziata. Sua madre... L'attenzione di North tornò al telefono e ai messaggi che gli dicevano di richiamare sua madre. Tirò via i post-it dalla cornetta e rimase con i pezzi di carta in mano. Il giovane detective lo osservava a disagio. «Sai, ieri ha chiamato qui sei volte chiedendo di te». «Ha detto che cosa voleva?». Martinez scrollò le spalle. «È tua madre. Presumo che abbia visto la storia di Chinatown al telegiornale, si è preoccupata». Cosa ha visto? Era un poliziotto da anni, e non era la prima aggressione di cui era stato vittima in servizio. Cosa l'aveva preoccupata tanto da spingerla a chiamare? Gli identikit? Tu-tump. «Per caso la scorsa notte è andato in onda uno di questi?». Martinez disse che a tarda notte ne era stato divulgato uno in un bollettino. Tu-tump. «Sai quale?». Martinez rovistò nella pila ed estrasse il foglio con il volto dell'uomo più anziano, quello che North aveva riconosciuto come il suo padre biologico. Lo ha riconosciuto anche lei. Tu-tump.
Cosa altro potrebbe sapere? Il giovane cercò di interpretare lo strano comportamento del detective. «Stai bene?». «Sai che la madre di Gene mi ha detto di essere stata pagata per farlo nascere?». Martinez trasalì. «Era una specie di utero in affitto?». North non era certo che fosse il modo giusto di descriverla. «No, gli ha fatto da madre ed è stata pagata anche per crescerlo». Martinez volle sapere perché. «Ha detto che voleva il denaro». «Questa sì che è una doccia fredda». Il giovane poliziotto lottò contro l'acredine che quel nuovo scenario gli procurava. «E Gene lo sa?». North disse che lo sapeva. «Amico, questa cosa snerverebbe chiunque. Chi è il padre?» «Di questo non sono a conoscenza, ma quello che so è che la sta ancora pagando». Era una vera svolta o solo una cieca speranza? L'uomo che finanziava l'educazione di Gene tramite la A-Gen era lo stesso che lo aveva fatto concepire e allevare? Lo stesso uomo di Chinatown? Il mio padre biologico. Tu-tump. Toccò a Martinez stavolta controllare l'ora sull'orologio a parete. 7:21. Il giovane disse che si sarebbe occupato lui delle scartoffie, ma entrambi si alzarono in piedi. «Sai che non fanno più il turno notturno giù alle Tombe, no?». Certo che lo sapeva. Le Tombe, l'edificio del Tribunale Criminale di New York al 100 di Center Street qualche isolato più in là, era solito adottare un sistema di contestazione d'accusa in funzione ventiquattro ore al giorno. Adesso chiudeva all'una e non ci sarebbe stato nessun giudice disponibile per firmare il mandato fino alle nove. North raccolse la rivista del museo, ma la sua attenzione era fissa sugli identikit. Cosa sa mia madre? Se li infilò sotto il braccio e tirò fuori le chiavi dell'auto. «Allora io esco. Tu resti tutto il giorno qui?». Il triste pensiero del funerale gravava sullo stato d'animo di Martinez,
che tuttavia si mostrò piuttosto risoluto. «No. Starò fuori un paio d'ore al massimo», disse. «Dopodiché, finché siamo in ballo, non c'è nessun altro posto in cui dovrei essere». Con uno strattone tirò la sedia da sotto la scrivania. «Dunque notifichiamo il mandato, controlliamo i movimenti bancari di questa signora, e scopriamo chi è che la sta pagando». «E occorre anche un ordine della corte per i tabulati telefonici di Cassandra Dybbuk», aggiunse North. «Ha detto che è lui a chiamare lei, e che non conosce il numero per poterlo richiamare». Martinez era scettico. «Ne dubito». Era così anche per North. «Ma forse quando la chiama, chiama dal lavoro». CATTIVO SANGUE Gene tornò a sedere sulla poltrona dell'ufficio. Non era solo. C'erano degli altri simili a lui. Proprio come noi. Loro capiranno. Chi erano? Gli appunti e i documenti, le mappe del destino e i segreti di cui Megaera era padrona erano considerevoli, ma non rispondevano a quell'unica semplice domanda. Dobbiamo sapere. Da quando era tornato dal museo lo osservavano tutti con diffidenza, sospettavano dei suoi movimenti e delle sue ragioni. Il suo improvviso comportamento violento, per Lawless era poco più che un fastidioso, occasionale effetto collaterale del procedimento. Ma era stata Megaera a chiedergli perché avesse messo a repentaglio tutto quello per cui stavano lavorando coinvolgendo il detective. Ricordava a malapena il detective e il museo. Quando lo privavano dei ricordi e rimettevano in ordine la sua personalità, la foschia attraverso cui procedeva a tentoni gli lasciava intravedere solo un tremolante profilo del mondo reale. Eppure, non gli avevano ancora sottratto la ragione. Se Megaera aveva dovuto fargli quella domanda, allora era lui il detentore di quel segreto, non loro. Allora perché aveva scelto il detective? I numeri sulla striscia di carta. Il libro nella biblioteca. Aveva già trovato la risposta? Gene poggiò l'orecchio alla porta. Il legno era spesso e i suoni nel corridoio oltre il piccolo ufficio di Megaera erano attutiti. Era ancora là fuori
l'agente della sicurezza? Era rimasto lì per ore, molto più a lungo di quanto avesse previsto. Era improbabile che si fossero dimenticati di lui. Forse erano ancora impegolati nella loro nuova crisi, o forse aspettavano di vedere quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Tornò alla scrivania. Dall'altra parte c'era un armadio, a fianco un casellario e sotto una cassettiera. Erano tutti chiusi. Doveva esserci una chiave da qualche parte, qualcosa che gli permettesse di aprire le altre due porte che l'agente, con una certa premura, si era assicurato fossero chiuse. Non gli importava cosa ci fosse dietro, erano comunque una via di fuga. Gene perlustrò la scrivania in cerca di qualcosa per forzare le serrature. Non c'era nulla. Meditò se forzare la cassettiera, ma il rumore avrebbe attirato l'attenzione. Forse poteva smontarla. Gene strisciò sotto la scrivania e si fermò con la testa contro la parete. La cassettiera era fissata all'interno di un solido involucro. Non c'era una via d'accesso evidente da dietro. Un improvviso luccichio di metallo, tuttavia, gli offrì tutto ciò di cui aveva bisogno. Da un gancio infilato dietro la parte superiore della scrivania pendeva un mazzo di riserva di piccole chiavi argentate. Dentro la cassettiera c'erano le chiavi del casellario e dell'armadio. Dentro l'armadio un pass di sicurezza. Gene scelse una porta e uscì da lì. Udì dei deboli pianti che echeggiavano in quel lungo e scuro corridoio che stava percorrendo. Non era il gutturale singhiozzare di un adulto, ma l'angoscia di neonati ignari, la cacofonia di un tormento distante. Cartelle cliniche ed esperimenti visti sulla carta erano una cosa, ma i risultati viventi erano tutta un'altra. Senza volerlo, cominciò ad avanzare verso quei pianti. Era un luogo talmente desolante, così tristemente grigio e freddo. Non era un posto per bambini. I nostri figli. Non impiegò molto tempo a perdersi nei meandri del labirinto, e a ogni respiro i polmoni gli si riempivano del profumo di neonato, dello sgradevole odore di pannolini, del debole, nauseante odore di vomito stantio e pappine in polvere e del pungente olezzo antisettico di polveri, unguenti e oli.
Valutò la possibilità di tornare indietro, ma la curiosità era troppo forte. Qualunque fossero state le sue aspettative, raggiunte le vetrate si scoprì impreparato a quel che si trovò di fronte. C'erano file di culle in metallo con coperte inamidate bianche, rigide e poco accoglienti. I neonati abbandonati in quegli squallidi fagotti, avendo percepito la presenza di un visitatore, si agitavano per farsi notare. Lo avevano riconosciuto? O era una cieca disperazione ad alimentare i loro ansiosi tentativi di rubargli attenzione? Si avvicinò piano alle vetrate per guardarli meglio e qualcuno rispose, agitando convulsamente gambe e braccia. Ma molti altri non lo fecero. Alcuni fissavano il vuoto senza espressione e con occhi ciechi, altri non avevano gli arti. Alcuni somigliavano a distorti grovigli di carne umana storpiata. E questi erano quelli più fortunati. L'agghiacciata attenzione di Gene fu attratta soprattutto dai neonati che non si muovevano. Quei fragili piccoli sembravano talmente esausti della loro sofferenza da avere le boccucce contratte in un silenzioso urlo fisso e piedini e manine coperti di ferite, provocate dal loro costante graffiare contro quel materiale ruvido, in un coro di pianti che sostituiva quello degli ormai impotenti occhi secchi. Quelli erano i suoi discendenti, le repliche del suo sé, gli esperimenti che scandagliavano il suo genoma in cerca di qualche segno di immortalità, e la cosa lo riempiva di un tale disgusto da contorcergli l'intestino fino a farlo piegare in due e costringerlo a vomitare. Si aggrappò al vetro cercando di calmarsi. È questo che significa essere Athanatos. Come sarebbe? Il nostro lavoro non ci ispira?! Ci repelle! Tu non capisci. Ma presto non ci sarai più. Gene camminava svelto nel vano tentativo di sfuggire alla battaglia in corso nella sua mente. La dualità della sua natura si stava accentuando ancora di più. Dove una volta regnava un'inquietante pace ora infuriava una guerra che non voleva cessare. Dobbiamo continuare il nostro lavoro... Dobbiamo andarcene... «Zitti! Zitti! Zitti!». Quell'incessante conflitto gli procurava fitte di dolore in ogni nervo del suo cranio. Si conficcò le unghie nella pelle, ma non riusciva a placare
quella tempesta di voci. Con i denti digrignati cercava di dare un senso a quel che vedeva, ma nulla in quelle sale gli appariva familiare. Forse i demoni di quei ricordi erano già stati esorcizzati, ma non aveva alcun dubbio che se l'avessero catturato avrebbero ripreso a vivere. In quel momento, un urlo di rabbia e dolore coprì il frastuono di quei pianti. Eravamo noi? No. Era una donna che partoriva, da qualche parte nel dedalo di corridoi. Cos'altro stava per aggiungersi a quella figliata di miserabili? Dalla soglia di una delle piccole camere sterili diede la prima occhiata al neonato, un groviglio di carne infantile, fluido amniotico e sangue. Per un unico gioioso momento il piccolo quietò le voci. L'infermiera gli controllò il respiro, il sesso e prese nota che gli mancava la gamba sinistra prima di arrotolarlo in un asciugamano e portarlo nella stanza a fianco senza nemmeno un pensiero per la carcassa esausta della madre. Fu come osservare un nastro trasportatore in una fabbrica di carne umana. La disputa riprese. «Non so nemmeno perché li lasciamo vivere. Quando sono inutili come quello sono un tale spreco di spazio». È una voce reale? Siamo in pericolo? Le gambe di Gene si paralizzarono mentre meditava su quel commento. Poteva tranquillamente provenire dalle tenebre della sua anima spaccata. I passi si fecero più vicini. Non era Megaera, furono i suoi strani occhi a dirgli che era l'altra. Letha. Da dove era spuntata fuori? La donna si passò un sottile dito pallido fra i capelli ramati e con occhi malinconici osservò insieme a lui il completamento della procedura. «Vorresti uccidere quel bambino?», domandò Gene. «Interessante. Ti hanno lasciato tornare qui. Pensavo che dopo l'ultima volta avessero deciso di tenertene fuori fino alla conclusione del procedimento». Gene esitò. A Letha non servì altro. La conclusione era ovvia. «Non hai il permesso, eh?!». Gene rifiutò di rispondere, ma quando lei si mosse la fermò. «Non hai risposto alla mia domanda».
«Benché mi dicano che bambini come quello hanno un senso», disse, «senza dubbio vorrei che carne così inutile venisse scartata». Su di lui gravava una domanda sgradita, impossibile da digerire senza vomitare. Riuscì appena a pronunciare le parole. «È mio?». Letha sembrò sinceramente sorpresa. «È improbabile che sia di qualcun altro». Il rancore profondo che covava da tempo dentro di lui esplose senza controllo in superficie. Gene la sbatté con forza contro il muro. «Che razza di donna sei?». Il rumore mandò in tilt lo staff medico, che si affrettò a chiudere le porte e corse a nascondersi. Lei fece un malinconico e sognante sorriso. «Dovresti essere felice che non sia io a comandare». E non lo siamo nemmeno noi. Letha era proprio come la sorella, la compassione di Gene non suscitava in lei che disprezzo, ma non cercò di sedurlo come aveva fatto Megaera. Aveva un programma diverso. Si divincolò, afferrò la cornetta al muro lì vicino e digitò rapidamente un codice interno. «Emergenza», disse, «Gene sta avendo un'altra ricaduta. Lo sta facendo di nuovo...». Gene le strappò di mano il ricevitore con uno strattone e lo staccò dal muro. «Non voglio far parte di questo». Lei sembrò interdetta. «Ma tu sei questo». «Io non sono Athanatos», urlò gettandole il ricevitore ai piedi. «E chi sei?». Il pass le pendeva in modo allettante dal taschino. Due pass mi saranno utili. Lo agguantò prima che lei potesse reagire. Avrebbe trovato l'uscita, ma prima c'era qualcos'altro che doveva fare. Gene non corse in preda al panico, ma con prudente controllo di sé, pienamente consapevole di ogni dettaglio di ciò che lo circondava. Se aveva lasciato quel posto prima di allora, poteva farlo di nuovo. Proprio come il codice per sbloccare la porta della sua camera da letto che giaceva sepolto nella sua mente, era certo che la conoscenza di quell'edificio fosse pronta per essere utilizzata. Solo che c'erano così tanti corridoi e porte, così tante possibilità. Avrebbe potuto perdersi per sempre. Ci guiderà l'istinto.
Agitò entrambi i pass a caso sui ricevitori alle pareti, nel tentativo di confondere la rete di sorveglianza, ma fu solo alla quarta occasione che ne utilizzò uno davvero. Davanti a lui si apriva un ennesimo corridoio spoglio e porte che davano su altre stanze, che non avrebbe mai avuto tempo di esplorare. Ma in un angolo in fondo vide la rientranza buia di un ascensore di servizio. Si mosse rapido. Usò uno dei pass su una porta mentre, contemporaneamente, chiamava l'ascensore con l'altra mano. Chiunque stesse controllando la sua fuga sulla rete di sicurezza non sarebbe stato in grado di determinare quale strada avesse preso. Udì l'ascensore che saliva verso di lui e cercò di rimanere calmo. Ogni rumore inaspettato che riecheggiava nel corridoio aumentava la sua agitazione. Quando lo scampanellio che segnalava l'arrivo dell'ascensore fece scorrere le porte, Gene temette il peggio... ma la cabina era vuota. Entrò e selezionò tre piani a caso. Quando le porte furono chiuse selezionò il quarto. Quando si fermò alla seconda destinazione, scese e cercò le scale d'emergenza. Salì una rampa fino al piano superiore, trovò un altro ascensore e ripeté tutto da capo finché i suoi movimenti divennero così imprevedibili che se un qualunque agente di sicurezza avesse provato a seguirlo gli sarebbe risultato impossibile. Quel disordine lo nascose perfettamente, e riuscì a raggiungere le lunghe ombre del terzo piano. L'atrio era vuoto. Gene aspettò un minuto, nascosto al buio in un angolo, per accertarsi che non ci fosse nessuno. Poi strisciò lungo il morbido tappeto e scivolò silenzioso nella biblioteca. Le luci erano spente e le tende tirate, ma nella stanza filtrava una quantità sufficiente di sole per consentirgli di lavorare. Iniziò una caccia sistematica alla fila che combaciava con il numero decimale Dewey che si era lasciato come promemoria. La ricerca lo condusse alla sezione medica, volumi dedicati alla psicologia e alla decostruzione delle psicosi d'ogni genere, dove, vicino al pesante volume giallo di Spira sul trattamento del disordine da dissociazione identitaria, trovò... Uno spazio vuoto... Si avvicinò. Un volumetto viola era stato spinto più in fondo. Il codice numerico sul dorso appariva sbiadito: combaciava. Quando lo tirò fuori si accorse che il dorso era stranamente diverso da qualsiasi altro libro avesse mai visto: aveva delle cerniere. Sulla copertina c'era una piccola fibbia d'ottone. La fece scattare con
l'unghia del pollice e con le dita tremanti aprì la copertina in seta viola per vedere cosa nascondesse. Quel libro non era affatto un libro. Era una scatola, che ricordava vagamente di aver acquistato. Una volta conteneva una vecchia siringa chirurgica? Sì. L'aveva usata quella siringa. Il rivestimento su cui era poggiata era stato tagliato, e al posto della siringa adesso c'era un quadernino, un cellulare grigio, spento, e una piccola calibro 22. Prese per prima la rivoltella e controllò che fosse carica. Era carica. Se la mise in tasca e si concentrò nuovamente sulla scatola. Sulla prima pagina del quadernino trovò il proprio nome e, segnata sotto, una tabella di numeri e lettere. Etichettati su ognuna delle pagine successive, c'erano altri nomi, altre tabelle e una sequenza di catene monocromatiche, come una serie di codici a barre sfocati. Erano impronte di DNA. Il DNA di un gruppo selezionato di individui spezzato in piccole parti attraverso enzimi restrittivi e scisso con l'utilizzo di corrente elettrica su un letto di gel e membrana di nylon. Erano stati selezionati venti punti sui frammenti di DNA, venti punti in cui reagenti chimici radioattivi, i tester, avrebbero determinato se esistesse una corrispondenza. Stavamo cercando qualcuno. Avevano tutti caratteristiche simili alle sue. Ma, uno dopo l'altro, i nomi erano stati cancellati con una linea ferma. Tutti tranne uno sull'ultima pagina, l'impronta etichettata come "North". Aiutami? Prese il cellulare dalla scatola e lo accese. Dopo un attimo il telefono lampeggiò, mandò un bip e chiese il codice di sblocco. Gene premette i pulsanti istintivamente e navigò nel menù in cerca dell'ultimo numero composto. C'era solo un numero, lo stesso numero anonimo che costituiva l'unica voce nella rubrica dell'apparecchio. Il pollice di Gene rimase sospeso sul bottone della chiamata. Ma non ebbe l'opportunità di premerlo. Le luci della biblioteca si accesero sfarfallando, accompagnate da un rumore di pesanti passi che si avvicinavano in fretta. Erano lì. VERGOGNA E CASTIGO 9:43. North se ne stava seduto dietro il vetro appannato della sua auto dall'al-
tra parte della strada, davanti alla piccola casa marrone in legno dei suoi genitori, nel cuore di Greenpoint. Ce l'ho fatta. Lui non sa che sono qui. Non lo sa? È a lavoro. Abbiamo tutta la notte. Tutta la notte. Quelle voci non volevano tacere. Le strappò i vestiti. Tirò via il reggiseno. Divorò in un boccone i suoi seni carnosi. Le prese i capezzoli tra i denti, e conficcò le unghie nella sua bramosa, soffice pelle bianca. Strinse fra le mani le sue natiche rotonde, e la penetrò per farle sentire tutta la sua rabbia. Una frenesia di gonfia lussuria animale, che scuote la gabbia. La porta d'ingresso si aprì. Sotto il gocciolio di un'implacabile pioggia una donna uscì sulla veranda, scese i gradini e marciò fino alla fine della strada con la faccia nascosta dall'ombrello. Sua madre. North controllò l'orologio. Sapeva dove stava andando. Mille grugniti e mille urla. Un isolato più giù. Il fornaio polacco all'angolo. Il dolce gusto dell'amara segretezza. Due danesi al formaggio, forse un babka. Il bisogno impetuoso. Batté nervosamente con la penna sulla copertina della rivista del Museo di Storia Naturale di Porter. Il teschio lo fissava dal suo grembo. Di chi era quel viso che aveva tanto impressionato Gene? Passò il cellulare all'altro orecchio. Alla fine qualcuno del museo tornò al telefono. «Sono il dottor Birch», annunciò brusca la voce. «Temo che l'oggetto che cerca sia già stato recuperato dal corriere per essere restituito al legittimo proprietario». «Che proprietario?» «Ci creda o no, alcuni collezionisti preferiscono rimanere anonimi». North fu impassibile. «Posso avere un mandato». Birch non sembrava un tipo ragionevole. «Detective, quello che è accaduto al Metropolitan ha rovinato le nostre recenti collaborazioni con loro e ha indotto alcuni dei nostri finanziatori a ritirare il proprio appoggio». Non è un problema mio. «Alterare le prove di un'indagine in corso è un reato punibile con la reclusione da tre a cinque anni. Capisce cosa le sto dicendo?».
«Che ho bisogno di un avvocato? Abbiamo consultato la nostra assicurazione e siamo stati in contatto con i suoi colleghi al Dipartimento di polizia di New York. Abbiamo seguito ogni istruzione alla lettera. Non abbiamo commesso alcun errore». North non stava scherzando. Non gli importava di chi gli avesse detto che poteva restituire gli oggetti in mostra al Metropolitan Museum of Art, nessuno si era degnato di chiarire la faccenda con lui. «Posso essere lì a mezzogiorno», spiegò North, «con un mandato. Sono certo che gradirà il disturbo. Oppure può faxare al mio ufficio i dettagli sull'identità di chi possiede il teschio, dove posso contattarlo e quale corriere ne è attualmente in possesso». Sentì che l'uomo stava prendendo appunti. «Qualcos'altro?». Sì. Cosa ha visto Gene? «Si limiti a spedirmi tutto quello che ha». North gli comunicò il numero di fax e attaccò. Guardò la strada bagnata dalla pioggia. Sua madre era di ritorno con le paste incartate in una sottile busta di plastica. Aveva l'aria stanca, ma il lento avanzare dell'età era stato clemente con lei. Aveva ancora un bel profilo. Era ancora aggraziata. Portava i suoi cinquantadue anni incredibilmente bene. Era qualcosa che North non aveva mai notato prima d'ora, sua madre era una donna molto attraente. La cosa lo rese nervoso. L'intimità di un crimine condiviso, lei gli accarezzò la nuca. Tirò fuori il pezzo di carta che aveva infilato fra le spesse pagine patinate della rivista. L'identikit del suo padre biologico. Non posso rimandare oltre. Attese che si avvicinasse ancora un po' prima di scendere dall'auto, deciso a dare inizio all'inevitabile, straziante procedura. Attraversò la strada lentamente, augurandosi di non arrivare mai dall'altro lato. La pioggia sembrava in qualche modo più pesante. Un fremito così violento da farla gridare. La pioggia gli cadeva sulle spalle e scorreva in torrenti lungo la sua schiena, martellandolo come se ogni goccia portasse con sé un fardello troppo pesante persino per il cielo. Tentò di prepararsi. Era solo pochi passi dietro di lei. «Mamma...», disse. Elizabeth North udì la voce spezzata di suo figlio. Si voltò, piena di paura.
«Jimmy...». Da principio North non riuscì a muovere un muscolo. Poi l'imbarazzante disagio della situazione gli impedì di fermarsi. Armeggiò nervosamente con l'identikit mentre la pioggia gli rigava le guance, come lacrime di un dio affranto, e le mostrò il volto dell'uomo che conoscevano entrambi. «C'è qualcosa che vorresti dirmi?». 10:04. «Non stavi andando a quel funerale da qualche parte nel Bronx?». St Raymond, sulla Centosettantasettesima. Cosa avrei detto alla famiglia di Manny Siverio? «No», disse. Troppo imbarazzante. Sua madre poggiò le paste su un piatto bianco e gettò la busta di plastica nella spazzatura. «Hai già mangiato?». A North non interessava. Osservava le pozze d'acqua piovana che si erano formate ai piedi di sua madre sullo scolorito pavimento della cucina. «Ti abbiamo chiamato e richiamato. Eravamo preoccupati». Tu e papà o tu e lui? «Perché non me l'hai detto?». Lei non riuscì a guardarlo in faccia. Lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, suo marito era indaffarato ad armeggiare intorno al casotto per gli attrezzi dall'altra parte del giardino. «Non sembrava mai il momento giusto». «Lui lo sa?». La donna tentò di trovare un angolo in cui nascondersi. Non ce n'era neanche uno, solo foto di famiglia appese alle pareti. Tre generazioni di maschi North che avevano prestato servizio nel Dipartimento di polizia di New York, eredità che, a un esame accurato, si andava sgretolando. «Certo che lo sa». «Sono cresciuto vivendo in una bugia». «Sei cresciuto con due genitori che ti amano. Questo è quello che conta». Avanzò fino alla piccola credenza di ciliegio vicino alla porta e afferrò una stecca di Lucky Strike. Era già iniziata. Quando vi infilò dentro la mano per prendere un pacchetto le dita le tremavano al punto che la fece quasi cadere. Dopo essere riuscita ad accendersi la sigaretta nascose il pacchetto nella tasca del cappotto. «Non dirlo a tuo padre». Quanti altri segreti nascondeva? Non l'aveva mai vista fumare prima di allora. «È così che mi guarderai sempre da oggi in avanti?».
«Come ti sto guardando?» «Mi stai giudicando». «Cosa c'è da giudicare? Che mia madre è una fottuta sgualdrina?». La donna gli piazzò uno schiaffo rapido e bruciante lasciandogli un bel segno rosso sulla guancia. Si sentì in colpa. Tentò di scusarsi. «Mi dispiace... Mi dispiace». North le allontanò bruscamente la mano. La sua voce era dolce, ma le sue parole erano aspre. «Non hai il diritto di guardarmi dall'alto in basso in questo modo, tu non sai cosa è successo. Non sai cosa ci vuole per far funzionare un matrimonio perché non ti sei mai sposato». «Oh, ho capito cosa pensi. Credi di poter mettere i tuoi errori sul conto di qualcun altro? Quello che hai fatto tu è colpa di altri, giusto, mamma?». «È colpa mia? Tuo padre beveva, le sue battone e le sue scuse...». Sta mentendo. «Che c'è Jimmy? Tuo padre non è l'eroe che pensavi? Si è dimenticato di raccontarti di tutte le volte che venivano a cercarlo? Non ricordi la zia Ginny, quella che ti ha regalato quel trenino rosso per Natale? Da che ramo della famiglia viene la zia Ginny secondo te? E perché credi che quella puttana non scriva mai neanche due righe?». Era tutto molto doloroso, tutto così confuso. «Tu non sai...». Nemmeno tu. «Cercavo solo un po' di conforto. Un po' di equilibrio. Ma non biasimo tuo padre. Tu sei colpa mia». North accusò il colpo. La guardò negli occhi. «Che sono io per papà, allora? Il suo castigo?». Sua madre non sapeva cosa dire. Sapeva solo che le strappava le lacrime dagli occhi. «Sei suo figlio». North le gettò in faccia l'identikit. «Come si chiama lui?». Lei si rifiutò di guardare l'immagine. «Se non te l'ha detto forse non vuole che tu lo sappia». «Peccato». «Non ha mai fatto parte della tua vita». Stava cominciando a innervosirsi. «Non ne possiamo parlare più tardi?». «Sto lavorando a un omicidio!». La madre scosse la testa e si legò indietro i capelli scuri, lasciando esposti i segni irregolari del passaggio del tempo, radici bianche e argentate in
attesa che un flacone di tintura li rimettesse a nuovo. Cercò una tazza e un filtro, poi infilò un cucchiaio in un contenitore, nei fondi di polvere di caffè. Si rifiutava di guardare in faccia il figlio. «Si chiamava dottor Savage». «Il nome di battesimo?». La donna fece una smorfia per la propria ingenuità. «Non me lo ha mai detto. Faceva tutto parte del nostro piccolo gioco». Andò al frigorifero: il latte era in una bottiglia da un quarto. «Se ne andava sempre in giro con le sue auto fiammanti, era pieno di soldi». Savage, selvaggio. È il mio nome o la mia natura? «Come vi siete incontrati?» «Servivo ai tavoli. Disse di essere un chirurgo. Non so se fosse vero. Non sono mai andata a trovarlo a lavoro». «Che mi dici del posto in cui viveva?» «Non ne ho idea. Credo nell'Upper West Side. So che aveva un permesso di parcheggio per la Columbia University, e passava tutto il tempo in quella zona». Columbia. L'università di Gene. «Allora come funzionava, veniva lui qui?». Sua madre si sentiva sempre meno a suo agio. Si sfilò il cappotto bagnato e lo gettò sullo schienale di una delle sedie del tavolo da pranzo. «Ci sono molti hotel a Manhattan, tesoro». North non riuscì a trattenersi. In tutta quella situazione c'era qualcosa di ridicolo, una specie di grottesco umorismo. Il suo concepimento era stato una barzelletta, di cui lui era la battuta finale. «Dov'è ora?». La madre scosse la testa. «Non lo vedo da allora». «Sa di me?» «Credevo di no». Nella sua voce non c'era più alcuna traccia di conflitto. Guardò fuori dalla finestra in direzione del casotto per gli attrezzi e rovistò in cerca di un cucchiaio per lo zucchero. «Devo prendere le pillole per tuo padre. Non può saltarne una». «Le prendo io». «Sai dove sono?». North non rispose. Ma era un'altra la domanda che voleva disperatamente fargli. «Non capisco», disse, «come l'hai saputo?».
11:21. L'armadietto dei medicinali era dietro lo specchio sopra il lavandino del bagno. Trovò i beta-bloccanti in mezzo a una marea di scatole e flaconi. North aprì la confezione di Inderai e tirò fuori due pillole. Non la richiuse subito. Porter ha detto che avrebbero fermato i flashback. Ma la domanda era: voleva fermarli? Tu-tump. Poteva sopportare di negarsi le risposte che gli avrebbero fornito? Tu-tump. Trasalì nel vedersi riflesso allo specchio, pietrificato da quello scambio di sguardi - occhi negli occhi - con la sua stessa immagine. La pelle era pallida e tesa. Il sudore e la pioggia gli imperlavano le guance e dalla fronte gli spuntavano due affilati, spessi, luccicanti corni neri. Il Toro non era più dentro di lui. Era lui il Toro. Tu-tump. Gli tremavano le mani. Tirò fuori qualche pillola dal flacone, ma non le prese. Non osò. Invece, se le mise in tasca, ripromettendosi di non essere tanto debole. La sua immagine allo specchio gli disse che non riponeva alcuna fiducia in se stesso. Prese quelle per suo padre e scese velocemente al piano di sotto. Mise insieme il caffè e il danese e glieli portò nel casotto degli attrezzi. Aveva un giornale aperto e stava scegliendo i cavalli. «Sembra che dovrai rimandare il tuo barbecue, con questo tempo», disse North. «Ah, e che vuoi che sia un po' d'acqua?... Parlavi con tua madre?». Il suo forte accento di Brooklyn oggi sembrava ancora più marcato. «Sì». Il padre scosse la testa e continuò a sintonizzare la sua radiolina. «Strana cosa, la vita». Niente da aggiungere. «Sai chi ho visto ieri? Il ragazzo di Billy Mead». North non lo conosceva. «Ma dai. Eddie Mead. Suo padre viveva proprio vicino al convento di Sant'Alfonso. Andavamo tutti là a giocare a stickball con una stecca, a colpisci la palla, schiaccia la palla, perdi la palla. Strillavamo alle suore: "Ehi,
sorella! Mi puoi ritirare la palla? Ok, mi puoi ritirare peeeeerfavooore la palla?"». North avrebbe voluto dirgli che era successo prima del suo arrivo, ma pensò che sarebbe stato fuori luogo. Suo padre mando giù una sorsata del caffè che non avrebbe dovuto nemmeno guardare da lontano, e prese i beta-bloccanti. «Eravamo un gruppetto. Billy viveva in uno di quei palazzoni delle ferrovie all'ultimo piano. A un isolato dall'Astral, un isolato dall'East River. Chicky viveva a Dupont Street. Schultzy a Kingsland Avenue, ed era fantastico perché allora andavamo tutti da Ralphie's. Quel buchetto che vendeva caramelle vicino a Nassau Avenue, giusto dietro Gerke's Gin Mill. Barrette di gelatina da due cent e coppette Dixie, perché alla mia fidanzata del tempo piaceva staccare il cellophane dai coperchi e collezionare le fotografie degli attori famosi». North non sapeva di cosa stesse parlando. Non che la cosa avesse importanza. Erano ricordi così dolci a confronto dei suoi terribili incubi, e oltretutto stranamente privi di quelle ombre di cui gli aveva parlato sua madre. Qual è la caratteristica essenziale dei ricordi? Che li puoi scegliere. «Sai, a quei tempi la zona portuale era ancora in piena costruzione». Gli anni Cinquanta. «C'erano navi cargo che venivano da ogni parte del mondo. Ci andavamo per quelle che trasportavano banane a dar fastidio agli scaricatori per farcene dare qualcuna, poi andavamo a venderle e spendevamo tutto a Eagle Street, dove c'era un vecchio con un negozio di biciclette. E potevi affittare una bicicletta per venticinque cent all'ora. Sceglievi quella che ti piaceva. Io e Billy litigavamo sempre per la bicicletta nera, perché era la più veloce di tutte. Poi andavamo a tutta birra da Gus Walters su Driggs Avenue, all'angolo con Leonard Street. Al secondo piano, sopra il barristorante Park Inn. Sua madre lo chiamava saloon e aveva da ridire su tutte le donne che lo frequentavano, e che ovviamente erano il motivo principale per cui stavamo tutto il tempo affacciati alla finestra». Tracciò qualche altro cerchio attorno ai nomi dei cavalli sul giornale, tirò fuori il suo Zippo e si accese una Lucky Strike mentre sintonizzava la radio in cerca di un'altra stazione. North si sentiva completamente alienato. La storia di quell'uomo che chiamava papà non era la sua. Era in prestito. «Non ne sapevo niente». Suo padre sembrò sinceramente sconcertato. «E perché dovresti? Tutti conduciamo vite diverse, figliolo».
A volte no. «Allora, Eddie ti ha detto come sta suo padre?» «Sì, è morto sei mesi fa. Una cosa terribile». «Era malato?» «Nah, Eddie dice che Billy un giorno era fuori a spasso con il cane. Questo ragazzo prende e gli si avvicina. Vuole il portafogli. Billy non vuole guai. Glielo dà. Dentro ci sono un paio di centoni. Il ragazzo dice: ehi, grazie. Poi senza ragione lo pugnala al collo. Su due piedi. Nervi tagliati e addio Billy». North disse che gli dispiaceva. Per quanto potesse valere. «Figliolo, sono stato in servizio per ventotto anni. Lo sai. Alcuni nascono così. È nella loro natura. Non è colpa di nessuno. Sono morti dentro. Ci nascono cattivi». North annuì. Sì. «Ma questo non li giustifica. Non sono costretti ad agire in quel modo. Tutti hanno una scelta. Ricorda». Come puoi aver scelta se non conosci alternativa? Ascoltarono la radio e guardarono la pioggia cadere sul prato. Suo padre mandò giù un boccone di danese con un altro sorso di caffè. «Quel tipo ti preoccupa». «Sì», rispose North. «Direi di sì». «Be', stai all'erta. Ma ti assicuro questo, figliolo: qualunque cosa lo abbia mandato fuori di testa, pazzo o no, tu sei preoccupato solo la metà di quanto lo è lui in questo momento». LA CASA DEI SEGRETI 13:24. Attraverso la pioggia che cadeva fitta sul lucido Pulaski Bridge dall'altra parte di Newtown Creek, tra Greenpoint e Woodside, North vide legioni di lugubri pietre tombali: un esercito di corpi in decomposizione che montavano la guardia al Calvary, attraversavano il New Calvary, e procedevano fino al Mt Zion e oltre. Quelle tetre file si estendevano da un cimitero all'altro, per chilometri. Cosa li aveva seppelliti? L'età? Il destino? Tutti hanno una scelta. Cambiò corsia meditando sull'uscita da imboccare. La sua casa era vicina. Poteva farsi una doccia, dare una pulita alle pareti incrostate del suo
appartamento. O poteva rispondere al cellulare. Tirò fuori dalla tasca il Nextel, controllò il numero in entrata e rispose in viva voce. «Come è andato il funerale?» «Be', non è resuscitato, e adesso è troppo tardi». North apprezzò il conforto di un po' di sano umorismo macabro. «Ho dato un nome a un volto», disse. «Savage. Niente nome di battesimo. Pensiamo possa avere una connessione con la Columbia University». «Ancora la Columbia?», riuscì a sentire Martinez che prendeva appunti. «Credi che lui e Gene potrebbero essersi incontrati là?». Come glielo spiego? «Credo che la faccenda sia più complicata. Comunque, dobbiamo fare una ricerca. Finanze, motorizzazione, proprietà...». «Forse vive al Barrio». East Harlem, o El Barrio, iniziava vicino alla Centesima Est e arrivava alla Centotrentacinquesima Est passando sopra l'East River a nord di Manhattan. Un posto assurdo e affollato. Ma era giusto a qualche isolato dalla Columbia University. North si insospettì. Martinez sembrava troppo allegro per uno che aveva appena assistito al funerale del cugino. «Cosa te lo fa credere?», chiese. «Oh, solo il fatto che il tipo gentile della compagnia telefonica ha stampato i tabulati di Cassandra Dybbuk e ha trovato l'unico numero che la collega alla città». 141, appartamento 12C, Centodiciottesima Est, vicino all'incrocio con la Lexington. 13:57. North guidò sparato attraversando il Triborough Bridge, zigzagando in mezzo al traffico fitto con la luce blu che lampeggiava furiosa sul tettuccio della macchina. Il rumore dei pneumatici sull'acqua era più forte di quello del motore. Quando raggiunse l'altro lato fece emettere alla sua sirena un improvviso suono acuto. Dopo aver oltrepassato l'incrocio si lanciò sulla Centoventicinquesima Est: i fatiscenti edifici ispanici d'arenaria rossa minacciavano di schiacciarlo, se solo avesse accennato a rallentare. La Lumina curvò all'inizio della Lexington e si trovò di fronte un lampo di luce che proveniva dall'altro senso. Una Ford Crown Victoria blu scuro.
Martinez aveva fatto fuoco e fiamme sulla FDR Drive20 per potergli andare incontro. Sulla Centodiciottesima parcheggiarono uno vicino all'altro. Salirono i gradini dell'edificio indicato con il 141, ben consapevoli che gli occhi del vicinato erano tutti puntati su di loro. North fece scattare la sicura della sua Glock. «Questo posto è intestato a Gene?». Martinez sollevò lo sguardo per vedere se qualcuno li osservava dai piani superiori. «No, ma a meno che non sia un ospedale psichiatrico o una banca, è l'unico indirizzo privato da cui è stata chiamata la madre negli ultimi nove mesi». 14.06. La pesante porta verde era chiusa a chiave. North cercò il campanello di un custode o di un amministratore. La scritta sull'etichetta diceva Saul Poisonberry. L'uomo che venne alla porta era un individuo rozzo, ripugnante e corpulento con una barbetta rossa sul mento arrotondato. Aveva una specie di affannata espressione lasciva, un pornografo tronfio che avrebbe fatto venire i conati persino a prostitute stagionate alla sola idea di ritrovarselo intorno. Poisonberry biascicò qualcosa. North gli mostrò il distintivo. «Appartamento 12C». Il custode bofonchiò qualcosa di simile a «terzo piano». Gli credettero sulla parola. Quando varcarono la soglia del palazzo furono entrambi soffocati dal puzzo. Il fetore d'urina e la pungente esalazione di ammoniaca stantia usata per tagliare il crack fece venir loro la nausea. Tu-tump. Il terzo piano era persino peggio. Via via che si facevano cautamente strada lungo quel corridoio avvelenato, dalle pareti marce esalava un pungente odore d'umidità. Qualcuno li aveva sentiti arrivare: sul pavimento erano sparse diverse siringhe usate. Tu-tump. L'appartamento era il terzo della fila. Si disposero ciascuno su un lato della porta, estrassero le armi e bussarono. Nessuna risposta. Si sentiva solo il suono di deboli graffi, ma nulla di più. North batté di nuovo contro la porta. «Eugene Dybbuk? Polizia di New York! Vogliamo solo parlarti!». 20
Franklin D. Roosevelt East River Drive, conosciuta come FDR Drive (n.d.t.).
Quella bugia gli squassò il sistema nervoso. Non voleva parlargli. No. In quel momento la cosa più terribile era che davvero non sapeva cosa volesse. Tu-tump. Lanciò un'occhiata a Martinez che si stava sforzando di origliare. Scosse il capo. Non riusciva a sentire niente. North urlò ancora. «Non fare stupidaggini, Eugene!». Ma dentro di sé gli stava gridando di farla, una mossa sbagliata, e procurargli una scusa. Tu-tump. Martinez si allontanò dal muro. Tu-tump. North strinse il dito sul grilletto. Tu-tump. Martinez sollevo la gamba e assestò un calcio alla serratura. La porta si spalancò in una nuvola di schegge. 14:09. Quando Martinez fece per seguire North nella stanza, l'improvvisa esalazione di nauseante carne umana in putrefazione ebbe la meglio su di lui. Il puzzo ripugnante gli strinse l'intestino al punto che fu costretto a rigettare sulla soglia. North respirava con la bocca. Procedette cauto, mirando alla nuca dell'uomo che era seduto immobile sul divano davanti a lui. Ma, quando si fu avvicinato ancora un po', la pelle scura e raggrinzita sotto i capelli e il ronzio monotono delle mosche gli suggerirono che non potesse costituire in alcun modo una minaccia. I batteri e gli enzimi avevano iniziato da tempo a divorare i suoi umidi organi interni e la carne un tempo elastica, riempiendo le sue cavità con i fluidi della decomposizione. La pelle si era scurita e il corpo gonfiato fino a esplodere. Il grasso e i muscoli sciolti avevano già iniziato a colare dalle orecchie. Quando North aggirò cauto il bracciolo del divano, scoprì che il profondo sfregio annerito lungo la gola brutalmente tagliata della vittima era coperto. Il teschio era privo di espressione, ma non era Gene. Martinez si asciugò la bocca nascondendosi dietro il suo humour nero. «Credi che una CPR 21 potrebbe essere d'aiuto?». North non lo stava ascoltando. Ai piedi del cadavere alcune pagine gri21
Cardio Pulmonary Resuscitation: tecnica di rianimazione composta dalla combinazione di respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco.
gie, strappate da un blocco scritto a mano, danzavano sospinte da uno spiffero che filtrava da un'asse rotta nel pavimento. I fogli crepitavano, come le profetiche foglie secche dell'Oracolo di Delfi, girando in cerchio attorno al corpo di un ragazzo che stava a gambe incrociate sul pavimento, vestito con una t-shirt leggera e dei calzoncini, curvo su un tavolino, con il viso rivolto a una televisione muta sintonizzata sulle immagini delle Olimpiadi. Giochi funebri. La mano scarna del ragazzo, con la pelle putrefatta che pendeva flaccida dalle ossa bianche, impugnava ancora la penna con la quale stava scrivendo sul suo quaderno bianco, proprio come prima di lui aveva fatto North, proprio come Gene e Porter, riversandovi ricordi come quelli che ora giacevano sparsi tutto intorno a lui. Ne era stato così rapito da non udire nemmeno l'avvicinarsi del coltello prima che qualcuno glielo affondasse nella nuca. La testa gli era caduta in avanti. Il cervello era liquefatto, dal naso e dalla bocca gli era colata una disgustosa melma grigia che si era raccolta intorno al mento, mentre un bulbo oculare doveva essergli scivolato lungo la guancia e ora si era incollato alla carta. I contorni di quello schifo non erano più distinguibili, si confondevano sotto la crosta scura di puntuali visite notturne. Le blatte dovevano aver fatto un giro di rifornimento. North si accorse di un secondo quaderno, poggiato accanto a una lampada rivolta all'insù: probabilmente era da lì che erano stati strappati quei fogli. Riuscì a leggerne di sfuggita alcune parti, che rimandavano alla sua stessa scrittura. Due corpi. Altre due parti di sé brutalmente assassinate. North si sentì violato. Si chinò per recuperare qualche pagina quando udì un rumore, come un graffio. Anche Martinez lo udì. Insieme, si fecero strada cauti lungo il corridoio, verso le altre stanze. Il rumore non aumentava né cambiava ritmo mentre si avvicinavano. Martinez scelse la stanza sulla destra. North quella sulla sinistra. Aprì con una spinta la porta e trovò un bagnetto pieno di sporcizia dove un grosso ratto bagnato fradicio venuto fuori dal water stava masticando gli alluci senza vita di una donna. C'erano vermi bianchissimi che si dimenavano e si contorcevano accanto alle sue minuscole zampe, a ogni nuovo morso ne liberava degli altri. La donna doveva trovarsi sul water quando avevano fatto irruzione, aveva ancora il tanga nero arrotolato alle caviglie. I suoi dozzinali abiti da prostituta si erano macchiati e strappati.
Non si capiva se fosse stata spinta o se si fosse fatta prendere dal panico, ma aveva sfondato un vecchio box doccia in vetro le cui schegge affilate le si erano conficcate dritte in gola. Gli schizzi di sangue avevano innaffiato le pareti. Quando si avvicinò per guardarle il viso, North si rese conto di intravedere qualcosa di terribilmente familiare in lei. La conosceva. Era stato a letto con quella donna. Avrebbe voluto rivederla ancora quella mattina, ma non era riuscito a trovarla e si era dovuto accontentare di un'altra. Una prostituta che conosceva solo come... Moira. «Se solo i morti potessero parlare, eh?». North alzò lo sguardo verso Martinez che se ne stava stomacato sulla soglia tirando fuori un fazzoletto e mettendoselo davanti al naso. «Devi venire a dare un'occhiata a questo». North lo seguì nella stanza accanto, dove la puzza era così disgustosa che fu costretto a fare come il suo compagno. 14:30. Lungo il muro c'erano quattro grossi bidoni neri della spazzatura allineati. Quando North trovò il coraggio di sbirciare rapidamente dentro il più vicino, fu accolto dalla squallida vista di centinaia e centinaia di preservativi usati e marciti, il cui contenuto scolorito era coperto di muffe e vermi. «Contengono tutti la stessa cosa», spiegò Martinez attraversando la stanza verso un vecchio frigorifero arrugginito all'ombra di una finestra sudicia. «Mi è già capitato di vedere cose del genere. Prostitute che vendono i preservativi ai criminali per inquinare le prove? Per far incolpare qualcun altro. Ma questa è una macchinazione assurda». Appoggiate alla parete di fronte c'erano attrezzature inquietanti a cui North non sapeva dare un nome e che servivano a scopi che non riusciva neanche a immaginare. Le uniche cose che riconobbe furono i risultati di quell'armamentario: centinaia di impronte genetiche ordinate e catalogate. E sull'altra parete erano affissi appunti e risultati, ciascuno dei quali ricordava a chiunque avesse lavorato lì che tutto doveva essere sistematicamente valutato e approvato da Gene. Martinez aprì con cautela il congelatore. Aveva smesso di funzionare da tempo e lui era determinato a non farsi sorprendere senza fazzoletto. «Qui dentro ce ne sono altri», disse. «Devono essere speciali». Prese una penna, infilò la mano e sollevò un altro preservativo usato.
North si sentì improvvisamente nauseato, mentre un'impetuosa cascata di connessioni gli balenavano in testa. Si ricordò della prostituta che rovistava nella sporcizia. Quante altre volte aveva gettato un preservativo usato dall'auto? Quelle impronte genetiche dimostravano inequivocabilmente che era collegato all'uomo morto, al ragazzo massacrato, alla prostituta assalita: era collegato a Gene. E come lo avevano cercato? Fissata al preservativo penzolante c'era una fotografia, una Polaroid che ritraeva lui nell'abbraccio carnale di una prostituta, ormai morta. Il suo nome era scarabocchiato frettolosamente sul margine inferiore. Se solo i morti potessero parlare? E infatti stavano parlando. SACRIFICIO IN FRIGIA Per quanti interminabili giorni questi spiriti avevano danzato davanti ai miei occhi menzogneri? Due? Tre? Quell'antro sibillino era pieno di spaventose immagini di spiriti, ombre e demoni di ributtante volgarità, moltiplicati da quell'unica lampada a olio che proiettava migliaia di fantasmi ballerini in una processione tremolante attorno al mio esausto corpo febbricitante. Mi facevano cenno di unirmi alle loro eteree giravolte per attraversare le cose solide della terra e discendere nelle loro congiure infernali dove le pareti si muovevano, gli insetti parlavano e i canti del silenzio erano riempiti dalle voci del sospetto. Tali erano i deliranti rituali di purificazione dell'Oracolo della Morte. Mi dimenavo nella sporcizia, schiavo del ritmo ondulatorio della terribile fiamma, stringendomi gli occhi iniettati di sangue e macchiati dal bacio di lacrime terrorizzate, trovando il coraggio di sbattere le palpebre solo quando gli spiriti lasciavano le pareti e stendevano le loro braccia spettrali per accogliere la mia follia. «Quando mi riceverà l'Oracolo?», gridai all'oscurità. Quando ti vedrà, rispose l'oscurità in un bisbiglio. Le mie dita si piegarono nella polvere, trovando solo gli avanzi secchi del mio ultimo pasto, un grumo di fagioli avvelenati e cibi sacrificali che se n'erano stati nel mio ventre prima che li scaricassi ovunque su quel pavimento freddo. Quando poteva essere stato? Quando era iniziato il mio digiuno insonne? Due giorni prima? Tre?
Quegli incantesimi immortali e quelle misture amare mi avevano condotto sull'orlo di questo baratro tremolante: se solo fossi riuscito a costringermi ad abbassare lo sguardo. Come mi tentavano quelle ombre danzanti. «Devo consultare le Parche», supplicai. E se le Parche non desiderassero essere consultate da te? Poi ci fu il sonoro scatto di un chiavistello e si spalancò una porta. Per quanto tempo quei due bellissimi giovani... Erano ragazzi o ragazze? Erano abbigliati con seta verde prato e lini bagnati nello zafferano. Avevano oro agli alluci e sandali rosa, e uno portava nastri - nei capelli? Quanto tempo sono rimasti a vegliare su di me? Mi facevano contrarre la pelle come se si accapponasse. Da dove erano spuntati con i loro riccioli soffici come fiocchi e il tocco simile a quello degli dèi? Erano reali, o erano un altro scherzo di questo principio di tramonto? Se erano immateriali, come riuscivano a tenermi la mano? E perché, benché odorassero di profumo, avevano una forza mascolina? Urlai quando mi trascinarono fuori, all'aria fredda della notte dove trillavano cembali e risuonavano tamburelli, dove i suonatori di flauto soffiavano nelle curve dei giunchi. I ballerini, ravvivati da un'orgiastica frenesia, volteggiavano nella pungente aria della notte frigia con il respiro mozzato dai fumi impetuosi dei falò di legna spaccata che mandavano faville. Coribanti ornati di pennacchi percuotevano la pelle dei tamburi, cureti piumati battevano scudi e lance, cabiri danzavano, cantavano e guaivano; le adoranti puttane in calore di Cibele, uomini convinti di essere donne, erano travolti dal fervore orgiastico al punto che alcuni avevano preso a tagliarsi i genitali e a gettarli nel fuoco in segno di devozione per la dea. Mi trascinarono sulle ginocchia tremanti al cospetto di sette enormi tori sacri che circondavano l'altare al tempio della Grande Madre Cibele, che proteggeva le grotte che portavano all'Ade. Grovigli di muscoli gonfi guizzavano sotto il loro spesso e scuro manto madido di sudore, nel punto in cui spuntavano corna affilate come lame: erano la mia offerta a un dio. «Perché vieni al nostro cospetto, panfilio? Perché ci rechi questi sacrifici?». Di chi era quella voce? Non riuscivo a vedere. Panfilio. Ero nato all'ombra del Monte Tauro, sì, ma non ero panfilio. Gridai all'oscurità punteggiata solo dal tremolio delle torce, sopra il rumore dei tamburi, delle lance e del selvaggio dervisciare dei danzatori: «Io sono morto a Troia!». Le sacerdotesse uscirono dall'oscurità: erano donne vere. «Tutti i panfilii
nati negli ultimi settecento anni sono discendenti dei sopravvissuti di Troia. È così che si è generata la tua nazione». Mi tirai su a fatica, mentre i tori osservavano attenti ogni mia mossa. «Ma nulla è come era!», proclamai nella mia incerta confusione. «Sono cambiate le città, sono svaniti i palazzi e interi fiumi hanno cambiato il loro corso. Ero morto. Avrei dovuto raggiungere i Campi Elisi, ma ora non sono là. Sono qui». Tremavo per la paura dei miei ricordi, esitante delle mie sensazioni. C'era ancora la terra sotto i miei piedi contratti? «Ricordo che il mio corpo, che ora giace sotto la polvere proprio ai piedi di questa montagna, fu trascinato qui da Troia in fiamme. Voi mi avete concesso questo destino, qui a Ida». Le sacerdotesse sibilline furono decise. «Non ti abbiamo concesso noi questo destino. Non è nei nostri poteri. Possiamo averti cresciuto, ma tu sei figlio di Cibele. Se la Grande Madre, dispensatrice di vita, ha voluto risollevarti dalla polvere, come ha fatto con Attis, chi sei tu per interrogarla?». Attis, figlio e amante di Cibele, reso folle dalla lussuria materna, si era castrato ed era morto, ma lei lo aveva resuscitato. Adesso stava a guardia delle pesanti colonne del tempio in cui ci trovavamo. «Devo sapere chi sono», implorai, «devo sapere cosa mi aspetta». «La Grande Madre Cibele è vita e i suoi segreti sono i segreti della vita. Preclusi agli uomini, noti solo alle donne». «Come scoprì Athanatos quando venne qui a cercarli da Babilonia sette secoli fa». Il solo accenno al suo nome le fece esitare. Prima di allora non avevo mai visto incertezza negli occhi delle sacerdotesse. Proseguii. «Quando al principe di Troia, il fratello del re Priamo, Titone, fu donata l'immortalità da Zeus che esaudì il desiderio della sua amata Eos, non fu qui, sul Monte Ida, che ciò accadde?». Non risposero. Le urla, le grida e il suono dei tamburi crescevano intorno a noi, ma non mi diedi per vinto. «Non a Ida la mia patria», dissi, «non a Ida di Creta, luogo natio del padre Zeus, ma qui, presso la Madre Cibele. Credete che non giungeranno altri quando si saprà che sulle sponde inospitali di Troia si trova l'immortalità?». Le sacerdotesse sibilline si riunirono attorno all'altare. «Come ti chiami?». Avevo il petto oppresso dalla fatica che tutto ciò mi costava. «Un tempo mi chiamavo Cyclades».
Un altro lampo attraversò i loro nobili volti. «Ti conosciamo, Cyclades». «Dunque sapete cosa mi attende e come posso porvi fine». Le sacerdotesse non risposero, si sciacquarono le mani e innalzarono al cielo dell'orzo. La più giovane, al centro, quella con i riccioli dorati e la veste bianca, si levò in mezzo a loro e tese le sue innocenti braccia. «Ascoltami, oh grande Ade! Protettore delle tenebre! Udite le sue parole, oh grandi Parche, tessitrici del destino! Lasciate che quest'uomo conosca il corso della propria vita!». Ciò detto, le altre sacerdotesse lanciarono l'orzo, mentre la prima sollevò la coda del toro più vicino e prendendo una lama arroventata ne recise lo scroto nero e il membro in un unico, fluido gesto. Il toro muggì di dolore. Si impennò e tuonò, ma le corde lo tenevano stretto. E con il caldo sangue che le correva sulle mani, la grande indovina tagliò le viscere maleodoranti della bestia e scrutò in cerca di favorevoli auspici che mi consentissero la discesa. La luce della torcia le illuminò il viso, le altre estrassero le spade e recisero i nervi del collo alla bestia, per privarla di ogni vigore. Lo scuoiarono e ne trinciarono le carni. Avvolsero i femori nel grasso, e arrostirono la sua carcassa versandovi sopra vino lucente. Mi dondolavo sui calcagni, tormentato dai morsi della fame, scrutando la carne che sfrigolava; venivano portate anfore del più fine olio d'oliva che le sacerdotesse versarono poi sull'arrosto scoppiettante. Si misero a battere sui tamburi, a danzare invasate e a tagliare la carne in pezzi per farne degli spiedi, riempiendo le loro coppe con il vino versato in onore degli dèi, nel cui regno stavo per fare il mio ingresso e dalle cui mani il mio destino sarebbe stato presto deciso. E una volta sazie, le sacerdotesse si alzarono insieme e mi illuminarono la strada con torce tremolanti. Mi invitarono a seguirle, attraverso lo spiazzo in cui avevo trascorso i giorni della purificazione, e poi nell'umida caverna scura che scavava nelle profondità del cupo Monte Ida. Quella cavità era l'entrata dell'Ade, il passaggio che portava alle Parche e agli orrori tremendi che mi attendevano, e di cui già potevo udire gli strani suoni echeggiare in lontananza. «È giunto il tempo», dissero a una sola voce. «È giunto il tempo che Cyclades compia il viaggio negli inferi». Il grembo nero dell'Ida mi avvolse nel suo viscido abbraccio e mi trascinò per cunicoli limacciosi e meandri chimerici, secondo il suo infernale
capriccio, giù, giù nelle profondità della terra, oltre i vermi e le radici degli alberi, oltre le rocce e le sorgenti, in un luogo di tale spregevole desolazione da poter condurre gli uomini alla follia. Qui l'aria era calda, appiccicosa e satura di fumo; qui i sussurri degli spiriti e le urla dei dimenticati incontravano la morsa di ombre cariche di rabbia; giunsi all'Acheronte, il fiume del dolore, oltre il quale si ergevano i cancelli opachi della Dimora dell'Ade. Stavo sulla riva, sconsolato e pietrificato, e sentivo le acque gelide lambirmi gli alluci mentre, fendendo il velo d'oscurità, il traghettatore si avvicinava, il decrepito Caronte sulla sua vecchia scialuppa. Stringevo con forza il mio obolo d'argento e quando allungò la mano vizza pagai con la moneta il suo tributo. Non disse nulla, né mi aiutò a salire in barca. Il delirio mi rendeva malfermo, così crollai seduto, mentre lui tendeva la schiena e con due poderosi colpi di remo salpava sulle acque chete. Navigammo nelle nebbie dell'Acheronte, in quel luogo silenzioso in cui le mie membra esauste e il mio respiro affievolito languivano. Chiusi gli occhi non riuscendo più a sopportare il pesante fardello di tutto quel turbinio. Mi destai udendo dei forti rumori. Ero accasciato sulla lontana sponda dell'Ade, circondato dalle ombre adirate di soldati con l'armatura fantasma brunita dai fabbri degli inferi. Saltai in piedi e arretrai davanti alle loro lance di cenere e bronzo scintillante. Una voce nel buio chiese: «Li riconosci, Cyclades? Riconosci i volti degli uomini con cui sei andato in guerra?». Non c'era alcun Ulisse lì, nessun Achille, né il possente Aiace. Quelli non erano i re greci che mi avevano guidato verso Troia, né gli eroi delle epopee di guerra celebrati con gli onori divini. Quelli erano uomini senza volto, padri di figlie rapite, mariti di mogli prigioniere. Quelli erano i figli rabbiosi della Grecia, uomini come me, gli uomini che avevano combattuto la guerra. Distolsi lesto lo sguardo e feci un passo indietro per paura che si impossessassero della mia anima, ma le ombre indietreggiarono. Si ritirarono svelte, a gemere nelle loro cavità. «Vedono in te qualcosa di più cupo dell'oscurità dell'Ade». Le visioni sibilavano e gridavano nel buio spettrale del mondo sotterraneo, rivelando davanti a me l'Oracolo, seduta in penombra sotto le Porte dell'Ade, intenta a divinare le acque raccolte nel suo vaso. Dietro la sua testa incappucciata si estendeva una vasta fossa scavata nel
terreno. E, in qualche maniera, ben oltre la portata della mia immaginazione, gli altri spaventosi tori dell'altare di Cibele erano stati scaraventati giù nell'Ade prima di me. Le loro gole sgozzate riempivano la fossa di sangue caldo. Giganti e altre rivoltanti creature erano chine a berne il contenuto per recuperare un poco di vigore. «L'antica violenza ha brama di generarne altra», disse l'Oracolo. «E quando la sua ora fatale sarà giunta, il demone riscuoterà il suo tributo. Né guerra, né forza, né preghiere potranno ostacolare la vendetta elargita per tua mano». Inquieto, mi avvicinai lentamente a lei sulla fredda sponda fangosa. «Per mia mano?». «Hai stretto un patto di vendetta con la Madre Cibele, Cyclades: tu per giustizia, lei per disprezzo». Perché non mi mostrava il volto questa vecchia ingobbita? La raggiunsi. «Qual era il mio patto?» «Per il delitto che Athanatos ha compiuto contro di te e per la sua impertinenza nel cercare l'immortalità, la dea ha giaciuto con il tempestoso dio della sua gente, il Grande Toro, il babilonese Adad, Signore della Tempesta! Dalla loro unione ha tratto il suo seme e lo ha messo in te, perché potesse generare in un letto di rabbia nel corso dei secoli la più vendicativa di tutte le tempeste!». Spiriti e tenebre emisero un potente boato. Le ombre riunite attorno alla fossa gridarono, ulularono e si batterono il petto con sudici pugni chiusi. Per conto mio, rimasi paralizzato dal terrore. «Cyclades, sei stato lanciato su un cocchio tirato dalle Ore in persona. Ognuna delle tue vite future sarà come un'isola, come quelle disposte in cerchio a nord della potente Creta, come un filo ricamato nel mare del tempo. Ogni punto di questo ricamo sarà un'isola di quel mare e ti sveglierai sulle rive di ciascuna di esse, conducendo il tuo filo intorno al cerchio finché il ciclo del tuo destino non sarà compiuto». Sarebbe mai finita? Era una pazzia. Forse ero pazzo. «Il sangue di un uomo è scuro e mortale», supplicai, «una volta incontrata la terra quale lamento può mai rievocarlo? Nessuno. Eppure, sono resuscitato dal mio tormento. Dovrei essere morto!». «La morte sarà un obiettivo che scoprirai sfuggente». L'Oracolo si sciacquò le dita nella coppa. «La morte mi trova forse... sgradevole?». La donna si levò sui piedi minuscoli con il volto ancora nascosto dal
cappuccio e si dileguò curva nel buio. La voce diventò un'eco della precedente. «Osi ripudiare il tuo destino?». Come poteva lasciarmi lì? Le corsi dietro. «Lo ripudio!», gridai. «Come puoi ripudiare un sentiero che stai già percorrendo?», chiese ammonendomi mentre la inseguivo fra le nebbie e correvo in mezzo a una rete di fili insanguinati. Da migliaia e migliaia di fibrosi cordoni ingarbugliati che punteggiavano la nebbia in ogni direzione colavano pesanti gocce rosse, e, nelle pozze sul terreno in cui queste si raccoglievano, le vite di cui ciascuna raccontava il destino affioravano in superficie. Ero come un dio che osservava la pochezza delle loro esistenze. Ma i fili non erano immobili: si muovevano e si allungavano, si annodavano e si torcevano, e nel punto in cui entravano in contatto le vite si incrociavano. Quando incontrarono le mie carni mi trapassarono e mi trascinarono urlante sull'orlo del baratro, che sprofondava oltre i confini dell'Ade, dove, all'interno di un mortaio senza fondo, un pestello enorme si allungava nel ventre della terra, il Fuso dell'Inevitabile al cui ritmo girano tutte le trasformazioni umane. Intorno a esso ruotavano con orbite lente sette enormi cerchi di bronzo, ciascuno dotato di una sirena che intonava il suo inno al trono su cui sedevano le tre Parche, figlie dell'Inevitabile, che facevano tremare persino il padre Zeus. A far girare gli arcolai della vita e della morte, a intrecciare i fili del destino erano Cloto, che avvolgeva i fili del Passato, Lachesi, che li misurava e li intesseva nel Presente, e Atropo che li tagliava quando giungeva il loro tempo. «Guarda galleggiare la tua rabbia, Cyclades!». Dalla mia pancia si protese un filo colante di destino, e benché lo afferrassi e tentassi di controllare le mie azioni, mi gettò sul primo cerchio di fato in movimento. Mi colò il sangue tra le dita, e nelle pozze ai miei piedi vidi scorrere il mio passato che mi lasciò affranto. Moira, moglie mia, amore mio. Lei era il mio destino compiuto, la linea che gli dèi avevano ritenuto di intrecciare con la mia. Caddi in ginocchio e piansi. E tra le lacrime, nel mio sangue, lei tornò a vivere. Mi rividi accanto a lei sui dirupi in fiamme lungo le scogliere selvagge di Creta, che guardavo il re Idomeneo riaccompagnare solennemente a Cnosso il corpo di suo zio Catreo, ucciso a Rodi, e organizzare i giochi funebri tenuti dall'onorato casato di Minosse, giochi in cui il re Menelao era venuto a dare al nonno il
suo estremo saluto. Di nuovo al suo fianco, sentii ancora un po' del suo calore, della sua gioia davanti alle corse dei cocchi, al lancio del giavellotto. Mi seguiva ansante insieme alla folla, giù nel labirinto, mi guardava correre con i tori, montare sopra le loro corna nere e affilate, sfuggire il calpestio degli zoccoli nel polverone caldo e secco, mentre gli enormi cancelli in legno ci bloccavano il passaggio. La sera, quando fu posta la torcia sulla pira, guardai il suo viso illuminato dalle fiamme e seppi che non avrei mai più visto un volto più bello del suo. Non avrei mai più trovato un altro cuore la cui sincerità avrebbe reso persona degna un miserabile come me. Allungai la mano per toccarla, ma non trovai altro che sangue. L'Oracolo diede uno strattone al mio filo colante e mi trascinò oltre, attraverso le pozze in cui mi attendeva Athanatos. Scivolai sul sangue dei miei ricordi, osservando la mia vendetta spiegarsi attraverso i secoli, la mia rabbia e la tempesta, ingrossata dal fuoco dell'odio e della furia, ancora e ancora da un'isola all'altra, da una vita all'altra! Crollai ai piedi dell'Oracolo, consumato, amareggiato e in lacrime. «Significa così tanto per te, Cyclades?». «Lei è il mio voto». «Allora guardati indietro, guarda i cerchi della tua vita. Guarda il sangue, guarda il tuo voto!». Feci come mi era stato detto, scrutando le pozze appiccicose del mio sangue. «Se lei significa tanto per te, perché non è che un petalo in questo mare di odio?». «Tu non capisci». «Trova Athanatos. Dai sfogo alla tua rabbia, Cyclades, se devi, se questo ti dona pace. Ma sappi che lo fai per te stesso. Non per me». Udii le sue parole ma non riuscii a credere che le avesse pronunciate. Tormentato dalla nausea sollevai lo sguardo verso il volto dell'Oracolo e al suo posto vidi Moira, che piangeva per me. «Mio adorato Cyclades, non sono stata altro che una pena per te?». Tremavo tutto, fino alle mani. Tentai di prenderle i piedi per baciarli, ma lì non c'era materia. «Sono uno spirito», disse, «sono un pensiero. Sono una donna che ti ha toccato e del cui tocco senti la mancanza come se fosse una parte di te.
Perché la rabbia dovrebbe rendere onore a tutto questo? Io sono la dolce aria di primavera. Sono la rugiada sul terreno. Gli uccelli che saettano in cerca di bacche. Sono la quiete al sorgere del sole. Sono con te ogni giorno. Così, quando avrai finito di sfogare la tua rabbia, amore mio, e il dolore sarà finalmente passato, ricorda questo e onora me». Quando mi fecero salpare sullo Stige e mi trasportarono lungo l'amaro fiume dell'odio, lei non c'era più e fu come se lui me l'avesse presa di nuovo. Era la ferita che più di tutte mi doleva. Ansimavo tentando di respirare e trattenevo le lacrime della mia follia. Probabilmente l'Oracolo mi avrebbe ricevuto presto. La stella del mattino aveva già portato il crepuscolo al nuovo giorno e fatto brillare le lacrime di Niobe, lungo le rupi scoscese dell'Ida? Il sole aveva nuovamente compiuto il suo giro e illuminava le cime irregolari delle montagne nella lontana Frigia? O era rimasto intrappolato nell'ombra, signora della fredda aria di montagna? Per quanti interminabili giorni questi spiriti ardenti avevano danzato davanti ai miei occhi menzogneri? Due? Tre? Non avrei potuto dirlo, né tentare di indovinarlo. 15:08. Tutti hanno una scelta. Nauseato da quell'odore di morte, North stringeva il fazzoletto contro il viso augurandosi di poter respirare un'aria relativamente più pulita in corridoio. Sentì la voragine di una perdita spalancarsi dentro di lui e scuoterlo dal profondo del petto. Moira. Un altro tecnico della scientifica entrò nella fetida stanza in fondo all'appartamento, con una cassetta argentata piena di attrezzature pesanti. Tentò di iniziare una conversazione con North mentre rovistava nel caos di preservativi usati, raccogliendo vermi e larve con paio di pinzette, ma North era da un'altra parte, lontano da quel posto. Sentì uno scambio tra Martinez e Robert Ash in quel salotto diventato ormai una tomba. La morte di tutte e tre le vittime risaliva a otto o dieci giorni prima. Quando cominciarono a scattare i flash che immortalavano le prove, North ne aveva già avuto abbastanza. Doveva andarsene. Si fece strada spingendo la marea di investigatori della scientifica, ma
quando raggiunse la porta Martinez gli sbarrò la strada: l'apprensione che aveva negli occhi sfumava in un atroce sospetto. «Che cosa vuole Gene da te?». North disse che non lo sapeva. «Ci sono persone che vorranno avere delle risposte». «Tu vuoi delle risposte». «Certo che voglio delle fottute risposte». North non sapeva cosa dire. Non sapeva da dove cominciare. Riusciva a sentire gli occhi di tutti quelli intorno a lui che, alle spalle, gli penetravano nella testa, bruciavano, sondavano, cercavano di strappare via gli strati della sua maschera e di guardare sotto la superficie. Si sentiva bruciare. Si voltò verso di loro. E fu allora che squillò il telefono. L'ordinario e irrilevante apparecchio nero in dotazione all'appartamento 12C. Ash, rapido, fece segno che non ci avevano ancora passato la polvere per le impronte. North usò il fazzoletto, e quando nella stanza piombò il silenzio sollevò il ricevitore e se lo portò all'orecchio. All'inizio non udì nulla. Dopo un attimo, qualcosa che somigliava al fruscio di un abito. North era riluttante a parlare per primo: chiunque fosse si sarebbe accorto che qualcosa non andava nell'istante stesso in cui avesse aperto bocca. Ma quando il silenzio si protrasse, si sentì costretto a dire qualcosa. «Chi è?», domandò infine, con decisione. «Salve, detective North». North sostenne gli sguardi impazienti intorno a lui nel migliore dei modi. Inspirò tranquillo, mentre i capelli sulla nuca già cominciavano a pizzicargli. Tentò di apparire più calmo possibile. «Salve, Gene», disse. LIBRO SETTIMO «Il carattere è destino» Eraclito IL DOMINANTE Gene era rannicchiato, nascosto in una corsia della biblioteca, ai suoi piedi giacevano i corpi di due agenti della sicurezza morti. Sotto le loro te-
ste, segnate da fori di proiettile piccoli ma letali, si raccoglievano pozze di sangue scure e compatte. Teneva il cellulare premuto contro l'orecchio mentre rovistava nel giubbotto dell'agente più vicino: trovò un sottile portafogli nero. Sentì il respiro di North e il fervore di un'attività nascosta da qualche parte dietro di lui dall'altro capo del telefono. Non era solo: North non era alla deriva come lui, costretto a fare quello che poteva. «Ti invidio». Nella voce di North si sentiva una certa reticenza, ma anche la curiosità che lo stava divorando passò attraverso la linea telefonica. «Perché?». Il portafogli non conteneva nulla di importante, giusto un po' di denaro, ma non era ciò che lui stava cercando. Gene lo poggiò su uno scaffale e cercò in un'altra tasca. «Come ci si sente a essere resuscitati?». Il rimbombo del silenzio di North parlò da solo. «Snervante, no? Gli incubi che contaminano ogni tuo pensiero consumandoti fino a paralizzarti dalla paura». «Dove ti trovi?». La domanda fu così brusca che colse Gene di sorpresa. Rispose esitante. «Non perdi tempo». Dispose le sue nuove scoperte sul pavimento. Uno Zippo, un temperino, un altro pass. Così va meglio. «Sono morti tutti?». «Sono morti tutti, chi?». Infilò una mano nel giubbotto dell'altro agente morto e trovò un'altra pistola, una SIG Sauer P245 nera e compatta. Meglio. «Gli altri», disse, «quelli come noi». «Come noi? In cosa siamo simili io e te?», domandò North. «Io non ho massacrato quattro persone». Gene si alzò in piedi e si spostò verso il centro della biblioteca, perlustrando la stanza finché non ebbe trovato quello che cercava. «Forse non ricordi di aver ucciso qualcuno di recente», rispose semplicemente. «È l'unica cosa che conta», disse North. 15:13. Tu-tump. North fece segno a Martinez di sbrigarsi. Il giovane detective era al suo cellulare a sollecitare la compagnia telefonica perché rintracciasse in fretta
la chiamata. Ash aveva già ispezionato il telefono, che però non visualizzava il numero in entrata. North si risolse a mantenere un tono impassibile e indomito, e a tener viva la conversazione, ma era difficile. Chiese: «Come sta Savage?». Tu-tump, Gene non rispose. L'unica replica che North riuscì a sentire fu uno sfregamento di metallo, il cigolio di una vite e uno spezzarsi secco di plastica. Che sta facendo? North lo incalzò ancora. «Savage», disse, «è molto più vecchio di quanto ricordassi». Il commento non passò inosservato fra gli altri nella stanza. Alla fine Gene rispose: «Lo hai spaventato». Tu-tump. Bene. «Perché io l'avrei spaventato?» «Tu sei l'esperimento che non voleva saperne di funzionare, quello che non voleva ricordare. Tu sei il figlio inutile di Savage, quello che non ha acquisito la sua autorità, ma che è riuscito ugualmente a trovarlo». Sono un esperimento? La morsa della rabbia fu assoluta. Un esperimento. Non abboccare. Tutti hanno una scelta. «Magari non volevo ricordare». «E ti domandi perché t'invidio? Io mi chiedo come sia avere una vita normale. Un'infanzia incontaminata dagli squallidi incubi di morte, decadenza, massacro e sesso che dilagano nella testa di un bambino di tre anni». North non provava pietà. «Non doveva andare per forza così». La risposta fu disperata. «Credi avessi scelta? Non sono chi credi che io sia». «No, Gene. Non sei chi credi di essere tu». Martinez scarabocchiò febbrile qualcosa sul suo blocchetto e lo mostrò a North. «È a un cellulare», diceva l'appunto. Poteva essere ovunque. Gene rimosse il coperchio dall'ultimo rilevatore di fumo sulla parete posteriore e lasciò che cadesse ai suoi piedi. Con il temperino rimosse i cavi
metallici prima di svitare i contatti elettrici. Li tenne tutti premuti contro la lama lucente in modo che, mentre li rimuoveva dal rilevatore, l'unità rimanesse collegata alla rete di sicurezza dell'edificio. «Perché darci la caccia e massacrarci se siamo così simili?», domandò North. Gene intrecciò i cavi per chiudere il circuito con un ponte provvisorio. «Perché voglio che finisca, questa malattia della memoria. Voglio essere di nuovo un uomo tutto intero». Si infilò in tasca il coltello e tornò al centro della biblioteca passando sopra i due agenti della sicurezza morti. «Sei una scheggia di un'intelligenza precedente, ti sei mai chiesto a chi appartenesse la mente?». Gene lo ignorò. Era sgradevole. Si concentrò invece sui dispositivi antincendio in metallo scintillante distribuiti lungo il soffitto. Al piano superiore c'erano le vasche e i recipienti degli elementi chimici che utilizzavano nei laboratori, e alcuni di questi erano altamente infiammabili: l'idrogeno, l'acetone e il butanolo. Altri, come l'acido cloridrico, si diffondevano nell'aria in forma di nubi gassose e avevano un effetto corrosivo. Gene non poteva raggiungere i dispositivi, e quindi non poteva disattivarli, anche perché ognuno di loro era indipendente dagli altri. Doveva pensare a qualcos'altro, Cambiare la disposizione del piano. Spostare le librerie. Impedire agli spruzzatori di raggiungere gli angoli della stanza. Guardò le due telecamere di sorveglianza. Sarebbe dovuto rimane anche fuori dal loro raggio, se voleva che la cosa funzionasse. «Non so perché ho chiesto il tuo aiuto. Tu non capisci», disse. «Quello che capisco, Gene, è che quello che siamo ci viene rivelato non da ciò che pensiamo, ma da ciò che facciamo». «So già quello che farai tu». «Che cosa?» «Mi ucciderai». 15.16. La linea fu interrotta. North digitò asterisco sei nove e chiamò il numero che gli fu dettato, ma Gene non rispondeva. Il detective sbatté furioso la cornetta. «Dov'è?». Martinez coprì il suo Nextel con la mano a coppa. «Stanno rintracciando
il ripetitore più vicino». «Dimentica il ripetitore», si intromise Ash irritato, «dovrai passare a setaccio quattro isolati. Dì loro di controllare la portata dell'E911. Avrai un'approssimazione di cinquanta metri». Martinez scosse la testa concludendo la chiamata. «Niente E911. Sta usando un vecchio apparecchio intestato a questo indirizzo». «Che mi dici del ripetitore?», insisté North. «È al centro. Settima Avenue. Da qualche parte a nord di Times Square». È abbastanza vicino a Hell's Kitchen. Gene non si era diretto al Lincoln Tunnel quando North lo aveva inseguito fuori dal museo: nella confusione si era fatto prendere dal panico. Si era perso. Gene accatastò altri libri in un angolo della biblioteca finché non fu soddisfatto della dimensione della sua pira. Riparato dai dispositivi antincendio e dalle telecamere grazie alla disposizione delle librerie in solide pareti, accese lo Zippo e diede il via a quel rogo purificatorio. Le fiamme lambirono la carta, prima che le pagine dei tomi allineati in alto cominciassero ad annerire e incresparsi, come fossero stati tra le mani di un demone infernale deciso a leggerne gli esotici contenuti. Se i libri erano il mezzo con cui i mortali ricordavano, forse questo era il modo in cui dimenticavano. Nostro padre ha molto di cui rispondere. Raccolse i rotoli di pergamena e cartapecora, la registrazione accurata di un lignaggio immortale, e li gettò sulla pira. Mentre correva fuori notò che qualcuno aveva lasciato in un cestino della carta straccia una bottiglia di plastica vuota che una volta conteneva dell'acqua minerale. La recuperò velocemente scovando anche un rotolo di nastro adesivo in un cassetto più lontano per poterla attaccare alla canna di una delle due pistole: un piccolo silenziatore, buono per un colpo solo. Al telefono d'emergenza fissato alla parete vicino alla porta digitò il codice che aveva visto inserire a Letha e mascherò la voce. «Gene», disse, «si dirige al piano terra. Sta tentando di fuggire». Appese la cornetta, si diresse a grandi passi verso il corridoio, salì in ascensore e premette il bottone che lo avrebbe portato all'ultimo piano. 15:55. Mentre Martinez tentava di stargli dietro, North schizzava con la Lumina
sotto un fragoroso scroscio di pioggia nera, sfrecciando in mezzo al traffico e illuminando di blu la corsia d'immissione della Henry Hudson Parkway. North contattò via radio la Centrale e comunicò un 10-48. In risposta giunse gracchiando l'ordine alle prime sei auto disponibili di pattugliare gli otto isolati intorno alla Settima e Broadway, dal lato di Duffy Square. La grigia e tetra tempesta che si abbatteva sulla città si illuminò dei lampi rossi e blu delle sirene. Il Nextel di North squillò dal sedile del passeggero. Rispose in viva voce: era Martinez, che procedeva velocemente di fianco a lui. «In ufficio non hanno trovato niente. Hanno passato il nome Savage all'Autotrack e all'Accurrint22 . (Fischio). E non esiste nessuna società chiamata A-Gen. È come se stessimo dando la caccia ai fantasmi». Magari. «E società bio-tech con uffici nella zona dei teatri e dintorni?». «È un buco nell'acqua. Forse hanno chiuso? Forse è una copertura per un'altra società?». A-Gen. A per Athanatos? «O forse è l'abbreviazione per qualcos'altro?». Non sarebbe così sfacciato, no? «Cazzo! Sei un fottuto psicopatico? Non la vedi la luce blu?». Che? North guardò attraverso le file di automobili spazzate dalla pioggia, e vide Martinez che sbandava per evitare un veicolo più lento che si era incolonnato davanti a lui. Stava continuando a imprecare. North riagganciò e lo abbandonò al suo sproloquio. Tirò fuori il suo taccuino nero e lo poggiò aperto sul cruscotto dietro il volante: ne sfogliò inquieto le pagine alla ricerca di una qualunque cosa che potesse stimolargli la memoria, tentando di tenere un occhio alla strada. Cosa sto dimenticando? Gene uscì dall'ascensore con estrema cautela, e nel corridoio trovò ad aspettarlo un agente della sicurezza. Sollevò velocemente la pistola e sparò subito un colpo. La bottiglietta di plastica brillò come un neon spaccandosi da un lato, e il proiettile esplose in silenzio. Raggiunse in un lampo il cranio dell'agente, che crollò a terra senza fare rumore, mentre uno spruzzo di sangue schizzava la parete. Una doppia porta in mogano gli sbarrava il passaggio e sembrava non 22
Strumento di ricerca che sfrutta database pubblici e privati.
esserci alcuna fessura in cui passare il suo badge, né tastiere su cui digitare i suoi codici. Passò le dita sul duro legno per trovare il modo di aprirla, ma quando le porte dell'ascensore si chiusero dietro di lui udì il pesante suono della serratura scattare automaticamente. Si ritrovò così in un grande salone di marmo, faccia a faccia con il suo passato babilonese. Appese alle maioliche blu, facevano orgogliosa mostra di sé delicate tavolette di argilla impolverate, coperte da intricati disegni cuneiformi. Riusciva a leggerle con la stessa facilità con cui leggeva in inglese, e la cosa lo infastidiva non poco. Liste di re, poesie e grandi epiche che narravano la vita di eroi e l'ingerenza degli dèi... Inanna, la dea della guerra e del piacere carnale; Gilgamesh, eroe di tutti gli uomini che osò sfidare l'ira degli dèi nella sua ricerca dell'immortalità. «La morte è ciò che gli dèi hanno dato agli uomini, la vita l'hanno tenuta per loro». Gene osservò suo padre avanzare lentamente nell'oscurità, con il bastone che batteva a ogni passo sul duro pavimento di marmo. Il suo viso pallido non si mostrava sorpreso del fatto che Gene fosse arrivato a lui, ma era palese la sua arrogante soddisfazione per il perfetto funzionamento dell'istinto omicida del figlio. Sapeva che stavamo arrivando. «Non è questo che ci hanno insegnato a Babilonia?», chiese Lawless. «Che la Morte non ha volto né voce finché non manda in pezzi le nostre vite, abbandonando i nostri spiriti nel miserabile buio della terra senza ritorno? Ti chiedo, è forse vita questa?». Gene non disse nulla. Osservò quel vecchio raggrinzito e provò repulsione per lui. Lawless conosceva quello sguardo. Gli voltò le spalle. «Non sono io quello che odi», disse. Procedette nel buio del suo appartamento, certo che Gene lo avrebbe seguito. «Credi che non provi anch'io la stessa repulsione quando guardo nello specchio? È l'età che ti ferisce, Gene, da sempre. La decadenza e la corruzione dell'implacabile e spietato tempo». «Odio te per molto più di questo», disse Gene seguendo cupo la sua scia. «Io l'amavo». «Allora ricordi di averla presa?». «L'ho baciata...». «Ricordi di averla stuprata?». Le parole di Lawless erano taglienti come il metallo arrugginito di una
lama senza filo. Gene cercò di difendersi ma ne fu lacerato comunque. «Ho combattuto per lei...», disse. Il vecchio avvizzito fissò suo figlio. «E poi?». E poi la risposta era già lì. Pronta e terribile. Gene balbettò. «L'ho ammazzata». «Sì. Come è facile dimenticare». Spostò la sua attenzione alle tavolette di pietra e corse con un dito tremante sulla loro superficie irregolare. «L'ho scritta io questa, così mi dicono i ricordi. Non ne ho memoria. È andata perduta. Mi distrugge contemplare cos'altro manca di me, ma per lo meno insieme possiamo invertire il flusso». Lawless condusse Gene nel salotto, da cui potevano vedere infuriare la scura tempesta che sferzava la città e picchiava contro le finestre. «Sei in conflitto», spiegò Lawless. «Com'è che la chiamano gli indù, Maya? Il Sé è un'illusione, un velo che ci rende ciechi alla nostra vera natura. La mente è un atlante pieno di mappe. I neuroni cercano le nostre identità a seconda della loro direzione. Le persone nate con delle malformazioni percepiscono movimenti inesistenti perché alla nascita hanno nella mente un'immagine del proprio corpo completo. E come nel caso degli arti fantasma, tu hai una personalità fantasma dentro di te che insieme stiamo allontanando, la stiamo smettendo come un vecchio abito. Ragazzo mio, quando il procedimento sarà completato, in te avremo ottenuto quello che ci siamo proposti nel corso di tutti gli anni passati. Avremo l'immortalità senza bisogno di pozioni, senza bisogno di dèi misericordiosi. Durare sarà semplicemente una nostra caratteristica». L'espressione sul viso di Gene suggerì che la notizia gli dava ben poco conforto. «Sembri perplesso. Cercavi una risposta differente?» «Gilgamesh ha fallito», disse Gene. «E sono millenni che cantano le gesta di quel folle. Eppure, eccoci. Noi abbiamo fatto ciò che a Gilgamesh non è riuscito. Ho messo radici e non smetterò di prosperare». Prese la giovani mani di Gene nel groviglio nodoso delle sue e ne carezzò il dorso con i sottili pollici storti. «Mille mani non hanno bisogno che di una mente sola». Scrutò nella profonda inquietudine che vide negli occhi del figlio. «Questa pistola non ti serve». Gene osservò con disprezzo il rozzo silenziatore incollato alla SIG Sauer. «No», disse, «hai ragione». La gettò e l'arma cadde sul pavimento. Osservò la forte tempesta sferzare le finestre. Se quest'ira non era la sua, allora perché sentiva di doverle
prestare obbedienza? Percepì la rabbia di secoli e, con l'eco di fantasmi infuriati nelle orecchie, capì cosa doveva fare. Si gettò sulla gola del padre. «Farà male», disse. Prima che le dita violente e implacabili del figlio si stringessero sulla sua sottile trachea, prima che le lacrime gli rigassero le guance pallide, prima che nei suoi occhi fiorissero i boccioli di capillari esplosi, Lawless fece un debole, malinconico sorriso di rassegnazione. «Fa sempre male». NELLA TEMPESTA DI LANCE Noi, furiosi figli della Grecia, che coltiviamo una rabbia tanto amara... oh Muse, cantate la storia della nostra furia! Fateci annodare le corde della morte attorno a questi colli troiani e lasciate che le suoniamo come strumenti, in un canto funebre che ci inebri del nostro riscatto. Ascoltate quando vi dico che ero lì. Ero lì al primo bacio dell'alba, quando salpammo sulle acque rilucenti. Lunghe navi nere, veloci e agili, uno sciame furioso, mille pentecontori su un mare scuro come il vino, consacrati a placare la sete di sangue troiano. Io ero lì. In mezzo ad altri cinquanta rematori su ogni nave, che allungavano la schiena. Facevamo virare le nostre possenti imbarcazioni lungo la costa per domare le onde selvagge dell'est, e giuravamo di saziarle col frutto insanguinato del massacro che avremmo presto compiuto. Piangi, Troia, piangi. Noi, furiosi figli della Grecia, che coltiviamo una rabbia tanto amara, vedremo crollare le tue torri. Io ero lì. Il giorno in cui cinquantamila uomini si riversarono giù da quelle nere navi e marciarono sulle piane burrascose che si estendevano davanti alle fredde acque del vorticoso Scamandro. Come tremava la terra sotto i passi degli uomini e dei cavalli! Come impallidiva l'accecante e disperata luce del giorno al cospetto della furia dei Greci dai lunghi capelli. Il cielo si anneriva di lance e la morte giungeva sotto le loro lunghe ombre. Protesilao si abbatté al suolo, infilzato, e il suo sangue zampillante fu il primo monito per tutti noi. Urla, Troia, urla! Come una bestia selvatica sbattuta sul dorso contro rocce appuntite. Piangete infanti lagnosi, e cadete in ginocchio. Noi prodi guerrieri greci siamo preparati per un assedio infinito, respiriamo all'unisono, siamo un leone alle tue calcagna, tu sei la nostra preda. Adesso ripa-
rati dunque dietro i tuoi scudi e soffoca per queste nubi di polvere che turbinano ai tuoi piedi. Un uomo caduto non è nulla rispetto all'enormità che ne rimane. Agamennone, re di tutti i re greci, chiamaci a raccolta con il tuo grido di battaglia! Assicuraci che il padre Zeus non proteggerà mai un Troiano. Fa' che gli avvoltoi se li mangino vivi. Ulisse, scaltro re di tutti gli strateghi, illustraci i tuoi piani! Assicuraci che Atena non ci darà in pasto ai lupi. Fa' che le tue trappole adeschino i Troiani, che li rendano corpi che si corrompono nella polvere. Achille, re di tutti i grandi guerrieri, mostraci quanto è affilata la tua spada! Assicuraci che Ares non farà scempio di noi. Fa' che noi si possa scalare i bastioni, e udire il tuo ruggito di guerra. Noi, uomini dalle dieci lingue della lontana Grecia, siamo al tuo fianco su questa piana. Noi mirmidoni e uomini di Argo, Egina e Fere. Noi truppe beozie e ftiani, uomini di Itaca e della Locride. Truppe loriane coperte da lunghe vesti da guerra, e celebri guerrieri epei. Noi, furia cipriota, e noi filaciani. Noi, cretese sete di giustizia. Noi, uomini dalle dieci lingue della lontana Grecia, pronunceremo la sentenza di morte. Siete condannati, Troiani, in questo giorno in cui faremo strage di chiunque ci si parerà davanti, e segneremo il sentiero che proietterà le vostre anime sulla via del Tartaro. Udite il selvaggio risuonare delle armi e il clamore degli scudi! Udite la martellante forza degli uomini in battaglia e il tuono della lotta. Le grida e le urla di trionfo, e i rantoli di disperazione quando il bronzo inondato di caldo sangue scarlatto muove guerra per dieci lunghi anni! Oh Muse, cantate la storia del nostro massacro! Fateci raccontare la storia di come tanti uomini si batterono e morirono. Non i re, non noi, ma anonimi soldati, bestie selvatiche sulle cui spalle ha viaggiato quest'epoca di guerra. Ascoltate quando dico che fui colto dalla disperazione. Fui colto dalla disperazione davanti alla ricompensa di un'opera impietosa che ha reso tutti invalidi, riducendo gambe e braccia a monconi insanguinati. Fui colto dalla disperazione davanti ai tonfi e ai colpi, al rumore sordo delle frecce che cadevano come pioggia facendo breccia nelle corazze, trafiggendo le carni. Davanti al sangue che sgorgava schiumando dove braccia e gambe erano ridotte a una poltiglia che rotolava nella polvere. Fui colto dalla disperazione. Uno in mezzo ad altri mille. Soldati di ogni
armata con il braccio teso, scagliammo le nostre possenti lance lungo la piana per infilzare quei vigliacchi dell'est. Tagliammo loro il ventre e restammo a guardare le loro budella rovesciarsi al suolo. Strappammo le spade conficcate dietro la testa dei Troiani e usammo le loro sbrindellate vesti da guerra per ripulirle dal loro stesso sangue. Infuriate, Greci, infuriate! Perché l'ingordigia degli uomini troiani ha reso inevitabile questo compito tanto tetro e avvilente. Noi mortali figli della Grecia fummo colpiti da così tante morti. Oh Muse, cantate la storia dei nostri caduti. Ecco ciò che vidi su quella piana burrascosa. Corpi ammucchiati uno sull'altro con le costole in decomposizione, simili ai terribili artigli di Ade bramosi di depredare ancora. Corpi gonfiati dalla figliolanza delle mosche che si nutrivano dei vermi. Scempio, cadaveri e mucchi di armature, denti rotti e anneriti, uomini senza lingua. Arti spezzati e crani bucati, grasso e polvere trasformati in fango. Le lugubri ossa dei Troiani giacevano sparse come schiere di pesci catturati nella rete di Poseidone, non un solo scampolo di sabbia era rimasto indenne da quando avevano aperto la prima breccia in quelle piane, così ora lo Scamandro vorticava insanguinato e piangeva amare lacrime di vergogna. E quella notte, su quel crinale orlato, osservando dall'alto il campo di battaglia troiano, fummo colti dall'orrore alla vista di mille fuochi accesi: erano i campi a ridosso delle mura di Troia, alleati parassiti che non l'avrebbero vista soccombere. Calammo su di loro in silenzio, preparati a subire le leggi del destino. Non era finita, non ancora, la sete doveva ancora essere saziata. La guerra di Troia, l'ingordigia della meretrice, voleva sangue, voleva me. Gene se ne stava in piedi davanti alle finestre, scrutando attraverso il tumulto della città battuta dalla tempesta, e osservando le luci rosse e blu radunate lì sotto. Udì il suono di un respiro leggero. Qualcuno lo stava osservando. «Sei stata lì per tutto il tempo?». L'ospite non volle rispondere. Gene non temeva d'essere giudicato. «Rimani nell'ombra, allora, se proprio devi restare», disse. Megaera, con i suoi lunghi e fiammanti capelli sciolti sulle spalle, fece qualche passo avanti, ma non era sola. Gli agenti della sicurezza tenevano
in mano quelle aste per animali con il cappio in cima, ormai familiari. «Cosa vedi dalle tue Porte Scee?», chiese lei. Gene sentì il brivido gelido della memoria: quella tremenda torre da cui Athanatos aveva visto il massacro farsi strada verso Troia. Da quanto questi ricordi giacevano nel sangue? Più di tremila anni? Osservò sul vetro le figure che si stringevano alle sue spalle, come il riflesso di fantasmi. «Sono qui per me», disse. Si allontanò dalle finestre, mentre lei ordinava a due agenti di raccogliere il corpo di Lawless e trasportarlo giù da Savage al Teatro Uno. I due lo poggiarono rapidamente sul solido metallo di una barella e cominciarono a spingerla fuori lentamente. «Perché non mi hai fermato?» «È così che vanno le cose», spiegò Megaera, «quando separiamo il forte dal debole. Anche se io non ti avrei mai concesso tutta la libertà che ti ha concesso lui. Ti senti meglio ora che è morto?» «No. Ho risposto al mio istinto, questo è tutto». Megaera lo spinse contro il vetro umido della finestra. «Bene, ora rispondi a questo. Puoi scegliere», disse. Le luci del crescente esercito di pattuglie lampeggiavano sotto la scarica di fulmini che fendevano quel cielo nero. «Che scelta ho?». Megaera gli si avvicinò e gli passò una mano tra i capelli. «Puoi mettere fine a questa follia. Queste voci che si combattono nella tua testa, una Cyclades e una Athanatos, che lottano per il controllo di un solo corpo. Io ti offro la possibilità di mettere a tacere queste voci e lasciare che sia una a prendere il sopravvento. Una mente sgombra, un solo intento. Niente più dubbi. Niente più confusione. Porta a termine il procedimento, oppure muori». Megaera lo vide dibattersi in una violenta confusione, e ne approfittò per insistere a proprio vantaggio. «Le leggi sono per gli umili e i deboli», disse. «In questa società la libertà si compra. Noi abbiamo tasche profonde, possiamo arrivare ovunque. Ma non vedrò questa discendenza sgretolarsi per mano di uno come te. Non come sei ora». L'ira di Gene cresceva. «E cosa mi offriresti allora?» «Se desideri cedere alla debole natura della tua personalità infetta, ti lasceremo a quelli laggiù. Marcirai in una cella facendo il conto alla rovescia dei tuoi giorni fino alla tua insignificante esecuzione».
Gene ponderò con attenzione ciò che lei gli stava dicendo: era poco affascinante come tutto il resto. «Oppure, puoi fare quello per cui sei nato. Diventare più di quanto tutti noi siamo mai stati». «Parli come lui». «Noi tutti siamo lui, la Discendenza di Athanatos. Quando siamo in una stanza con dodici persone, noi siamo quelle dodici persone. Una mente con dodici paia di avide braccia, dodici paia di occhi indagatori, tutti intenti a pensare e sentire la stessa cosa. Ma c'è una sola testa in questa progenie. Ora che abbiamo reso la tua mente plasmabile come la cera, non resta che imprimervi il sigillo finale, le proteine della memoria prese dalla mente di Lawless per cementare quelle che hai dalla nascita. I ricordi di Athanatos». A Gene sembrava che quelle pattuglie che avevano circondato il palazzo costituissero una minaccia per la riuscita del progetto. «Chiederanno giustizia», disse. «E l'avranno. Gli consegneremo qualcuno che risponda dei tuoi crimini. Abbiamo una vasta scelta». Cambia o muori. «In entrambi i casi», rifletté Megaera soddisfatta, «otterrò ciò che mi ero ripromessa: la tua distruzione». AL BIVIO 16:27. Il furioso e spietato assalto della pioggia si abbatteva sulla auto in coda a Times Square. La calca era così impietosa che North si decise ad abbandonare la Lumina e proseguì correndo sul marciapiede, esaminando con occhio vigile ogni finestra, ogni portone, ogni angolo. Quale di questi edifici nascondeva Gene? Raggiunto il lato di Duffy Square aprì il Nextel e fece un'altra chiamata al quarto distretto. Era fermo sulla Broadway e aveva la vista offuscata dalle stilettate pungenti della pioggia. Il luogotenente Hyland disse: «Sì, ti è arrivato un fax». North udì il fruscio della carta. «Gli oggetti della mostra di Storia Naturale sono in viaggio verso una ditta chiamata American Generation. La consegna è fissata tra le cinque e le sette di stasera». American Generation? A-Gen. «Non sono un'industria biotecnologica?». «Sto controllando in questo momento». Il suono dei tasti in mezzo al ca-
os dell'ufficio non riusciva ad allentare l'acuta tensione dell'attesa. North attraversò il pantano all'incrocio e corse esausto lungo il successivo isolato, superando altre pattuglie. «Non è nel settore biotecnologico», confermò Hyland. «Sono genealogisti. Sono specializzati in database: dati relativi a nascite, morti e matrimoni in più di un centinaio di paesi, compiono test di paternità, rintracciano figli adottati. Sono anche detentori del più grande database genetico privato del paese, più grande di quello del governo federale. Ma decisamente non sono nel settore biotecnologico». «Allora che settore è?» «È un istituto noto per le sue attività filantropiche». Gli studi di Gene alla Columbia. «Dov'è la sede?» «Settecentocinquanta, Settima Avenue, all'altezza della Quarantanovesima Ovest». È tra due isolati. North accelerò il passo, sempre più esausto. «A che piano?» «Tutto il palazzo». 16:33. North costrinse le sue gambe sempre più deboli a trascinarsi in quel pantano di fango. Aveva i vestiti zuppi e pesanti. Si lanciò come una freccia in mezzo al traffico, all'altezza dell'ultimo incrocio quasi inciampando per le scarpe fradice, soffocato dalla sagoma imponente di quelle sinistre torri che spuntavano dal terreno come rabbiosi denti pronti a morderlo, schiacciarlo e divorarlo. All'angolo fra Broadway e la Quarantanovesima Ovest, North si strinse contro il muro mentre le violente gocce di pioggia gli martellavano la testa e il fragore di un tuono cupo rimbombava sopra di lui. Non ce la faccio più. Era ormai senza fiato, quando vide il proprio destino stagliarsi davanti a sé. Il 750 della Settima Avenue si allungava fino al cielo, una ziggurat di vetro e acciaio che si avvolgeva in una spirale nella sua ascesa verso le volte dei cieli. Al pianterreno le sue fauci buie se ne stavano spalancate, inghiottendo qua e là un'automobile. North proseguì verso il gruppo di uomini in completo scuro che si riparavano sotto la tettoia. Chinatown. Gli energumeni lo videro avvicinarsi e gli si pararono davanti per sbar-
rargli la strada. «Non può entrare qui dentro, è proprietà privata». North fissò negli occhi il più vicino e dal lampo che attraversò improvvisamente il volto di quell'uomo, capì di essere stato riconosciuto. E non per l'episodio di Chinatown, si erano già incontrati in un passato molto più lontano. North non tirò fuori il distintivo. Si limitò a domandare: «Dov'è l'entrata principale?». Nessuno rispose. Qualcuno tentò di intimidirlo, ma sapevano che ci sarebbe voluto ben altro per dissuaderlo. Eppure, tutti insieme, gli avevano suggerito molto più di quanto non si fossero accorti d'aver fatto. «Grazie», rispose North. Rimasero in silenzio, mentre tiravano giù le saracinesche del parcheggio sotterraneo, ma era troppo tardi: North aveva già visto la Chrysler Sebring berlina grigio metallizzato del 2004. Al centro della stanza c'era uno scintillante e immacolato tavolo operatorio per l'autopsia. Mentre Savage indossava un paio di sottili guanti in lattice e sistemava i suoi strumenti chirurgici sul bianco panno liscio del carrellino lì a fianco, il cadavere di Lawless veniva trasportato dentro su una barella, coperto da un telo bianco inamidato. Gli agenti della sicurezza contarono fino a tre prima di spostare il corpo sul tavolo e tirare via il telo. Nemmeno la morte era riuscita a cancellare quell'espressione soddisfatta dal viso di Lawless. Savage si accostò una mascherina chirurgica blu alla bocca, si coprì la faccia con una maschera sagomata in policarbonato e gli occhi con un paio d'occhiali di protezione. Fece segno a Gene e agli altri di fare lo stesso. Era un lavoro macabro e le ossa, disse, sarebbero schizzate dappertutto. Megaera e la sua corte di agenti di sicurezza stettero a osservare Gene che faceva Come gli era stato detto. Savage prese un bisturi e avvicinò con precisione la lama scintillante all'orecchio sinistro di Lawless, nel punto in cui una chiazza di lentiggini spariva sotto la linea dei capelli. Savage premette il bisturi contro la fredda carne, e non si fermò finché non sentì la lama urtare l'osso. Tenendo la testa di Lawless con la mano libera, incise il tessuto intorno all'orecchio destro con la punta del bisturi. Quella era l'arte del macello. Savage afferrò la parte superiore dell'incisione e la tenne aperta mentre infilava il bisturi in profondità, squarciando il tessuto connettivo finché la pelle dello scalpo perse aderenza all'osso e
lui poté inserirvi la mano per ripiegare il lembo flaccido di carne sul viso del cadavere, come un macabro parrucchino a rovescio. Il calvarium, la parte superiore del cranio che conteneva il cervello, era ben in vista. «Stryker». Gene prese il bisturi dalla mano insanguinata di Savage e gli passò la sega per ossa. La dentellata lama semicircolare vibrava roteando a centinaia di giri al secondo. «Puoi poggiare il bisturi Gene», lo istruì attenta Megaera. Gene scrutò la lama insanguinata e, lentamente, fece come gli era stato ordinato. Savage non aveva esagerato quando aveva parlato della confusione che si sarebbe venuta a creare. Schegge di ossa e tessuti di un intenso color rosso riempirono l'aria e gli si attaccarono alla maschera quando incise l'osso secondo linee zigzaganti lungo la fronte di Lawless in modo che, una volta concluso, la calotta cranica potesse agevolmente tornare al suo posto. Infine, usando uno grosso scalpello in metallo, fece leva nel solco segato girando l'attrezzo per distaccare il calvarium dalla parte inferiore del cranio finché, con uno schiocco sordo e bagnato, portò alla luce le brillanti rotelle interne di Lawless, le sue meningi, le membrane umide che racchiudevano al proprio interno la sua materia grigia. «Sembra in buone condizioni», osservò Savage. Fece segno a Gene, dicendo: «Per favore puoi separare gli emisferi per me». Le dita di Gene tremavano al solo pensiero. Toccare i ricordi intrappolati nelle curve della rugosa corteccia di Lawless, tenere fra le mani la sua essenza non corrispondeva ai suoi desideri, ma quella era la seducente prigione in cui si era incarnato. Gli altri osservavano attentamente ogni sua mossa. Perché gli allarmi non sono ancora suonati? Avevano trovato l'incendio e l'avevano spento? Riluttante, Gene si avvicinò e separò delicatamente i freddi emisferi grigi del cervello di Lawless mentre Savage vi inseriva un lungo ago che giungeva fino alla colonna vertebrale, da cui estrasse un campione di fluido cerebrospinale, il lucente liquido che bagnava il cervello e il midollo spinale. Pieno di proteine assorbite dal sangue, il fluido cerebrospinale veniva sostituito ogni sei o otto ore e allontanava i rifiuti metabolici, gli anticorpi e i prodotti patologici della malattia dal cervello. Era la strada su cui viag-
giavano inizialmente le proteine della memoria, le proteine che dirigevano la meiosi delle cellule spermatiche, e lo stesso liquido che conteneva le proteine rimanenti che riempivano le urne della memoria, gli ultimi ricordi di Lawless. Savage poggiò la siringa sul vassoio. Tenendo il cervello fuori dal teschio, con il bisturi scintillante recise i legami con il resto del corpo tagliando i nervi facciali e uditivi, e scollegando gli occhi. Una volta che il cervello di Lawless fu completamente staccato, Savage lo posò sulla bilancia, ne annotò il peso e lo mise in un barattolo di soluzione salina per la conservazione. Savage ordinò a Gene di imbottire il cranio vuoto con tamponi di fazzoletti di carta per arrestare la fuoriuscita del fluido spinale residuo dalla testa di Lawless. Poi, facendo combaciare le linee zigzaganti, ricollocò il calvarium e riaccostò lo scalpo insanguinato. «Lo sutureremo più tardi», sottolineò Savage togliendosi i guanti e la maschera. «Ora finiamo il nostro lavoro». 18:48. Il gioco dell'attesa era lungo. La grande ziggurat si stagliava illuminata su tutti i lati da decine e decine di sirene rosse e blu. La pioggia pestava sui cofani delle pattuglie e martellava le spalle di un piccolo esercito di poliziotti e agenti dell'ESU. Martinez uscì dall'edificio dove gli avevano detto che all'interno non c'era nessuno che rispondesse al nome di Eugene Dybbuk. «Credo stiano mentendo». North non aveva dubbi a riguardo. «Certo che stanno mentendo». Chiamò Hyland per ottenere un mandato. Non ebbe risposta per più di un ora, così si ritrovò senza altro da fare che osservare e domandarsi dietro quale finestra anonima si trovasse Gene. Fece il giro del perimetro alla ricerca di un punto debole, alla ricerca di una soluzione. Dopo qualche minuto si trascinò dove Martinez aveva parcheggiato la sua Crown Victoria. Un agente dell'ESU con il suo ingombrante giubbetto antiproiettile scuro, Heckler e Koch MP 5 appesi alla spalla, si chinò arrabbiato sulla fradicia portiera e rimase in attesa. All'interno della vettura Martinez attaccò il telefono in preda a un'amara frustrazione. «Hyland non riesce a trovare un giudice disposto a firmare il mandato». L'agente dell'ESU era impaziente. I suoi uomini aspettavano di entrare.
«Dice che questi della A-Gen conoscono i segretucci sporchi di tutti. È come se fossero degli intoccabili. Ungono gli ingranaggi degli uffici pubblici e lo fanno per bene». Nessuna sparatoria all'interno del museo. «Per ora tutto quello che dobbiamo fare è rimanere qui a circondare l'edificio». Dall'altro lato della strada, apparve un furgoncino delle consegne bianco che si fermò al posto di blocco. Il giovane autista scese nervoso e iniziò a mostrare ai due poliziotti di guardia cosa stivava dietro il portellone scorrevole. North li osservò tranquillo attraverso la pioggia battente: il corriere era quello del Museo di Storia Naturale. Il teschio. «Diamogli quello che vogliono», disse semplicemente. Martinez seguì lo sguardo di North. «Se è me che vuole, sarò io a portargli il suo regalo», aggiunse. «Busserò direttamente alla sua porta, e se ho qualche problema vi chiamo». L'agente dell'ESU sembrava soddisfatto. «Giusto», replicò Martinez. «In questo modo non avremo bisogno di un mandato». «Nessuno è intoccabile», disse North. 19:04. Dopo che si furono assicurati l'autorizzazione da parte della compagnia di trasporti, l'autista guidò lento il veicolo davanti all'entrata principale. Tirò via tre scatole di cartone e le mise ordinatamente su un carrello a mano. La vista di tanti poliziotti lo rendeva parecchio nervoso. Con mani tremanti il giovane passò a North il blocco delle bolle di consegna e si allontanò velocemente sotto la pioggia. North diede un'occhiata dentro l'edificio. Infilò una mano in tasca e tirò fuori le pillole che aveva preso dall'armadietto delle medicine di suo padre. Se voglio posso dimenticare. Tu-tump. «Cosa sono quelle?», chiese Martinez. «Beta-bloccanti». Martinez si sentì ancora più allarmato. «Sei malato di cuore?» «No». Ho altri problemi. Tu-tump.
Tutti hanno una scelta. Ci fu uno scambio di sguardi con gli agenti della sicurezza. Tu-tump. «Vuoi davvero sapere che relazione ho con Gene?», North gettò le pillole in terra e le osservò sciogliersi nella pioggia. Martinez non disse nulla, non era necessario. North ridispose le scatole e aprì quella in cima, buttando da una parte l'imballaggio finché non gli rotolò fra le mani un teschio antico. Lo strinse forte a sé: riuscire finalmente a tenerlo tra le mani era un'esperienza così strana. Era tanto vecchio, tanto fragile, tanto corroso dai ricordi. I denti, consumati e scoloriti, erano perforati in piccoli punti da cui era stata estratta la polpa. A chi somigliava quel volto, la carne che una volta era attaccata a quelle ossa? Gene aveva distrutto la ricostruzione, ma la bolla diceva che da qualche parte nella scatola ce n'era qualche immagine, fotografie dei risultati raggiunti. North appoggiò il teschio e rovistò nella scatola finché non trovò una piccola busta bianca. Erano le polaroid di una testa in argilla color terra vista di dietro, di lato e di fronte. Passò le foto a Martinez. Aveva visto esattamente ciò che si aspettava: quel volto era il suo. Martinez era esterrefatto: «Lo ha mandato fuori di testa perché somiglia a te?». «Credo fosse più arrabbiato del fatto che non somigliasse a lui». «Non capisco». «Non devi. È una vecchia storia fra me e lui, ecco tutto», rispose North. Riprese il teschio. Ben consapevole di avere tutti gli occhi puntati addosso, avanzò a grandi passi verso l'edificio dell'American Generation, oltrepassò le pesanti porte di vetro che si aprirono scorrendo lentamente ed entrò nell'atrio dove l'accoglienza fu più ostile persino della tempesta che infuriava di fuori. All'ombra di due imponenti tori alati babilonesi dalla testa antropomorfa, North raggiunse il bancone della reception. «Scommetto che oltre al signor Dybbuk oggi non c'è nemmeno il dottor Savage?». L'agente della sicurezza fu risoluto. «No, signore, non c'è». «In ogni caso, può gentilmente chiamare di sopra e far sapere ad Athanatos che ha un ospite». Il solo accenno al nome mise in crisi gli agenti della sicurezza. Per un
momento sembrò che non sapessero cosa fare. «Chi devo dire?». North poggiò il teschio sul bancone. «Gli dica che Cyclades lo sta aspettando». Gene era seduto alla scrivania di legno nell'appartamento di Lawless. Savage depose la siringa e accanto a essa posò una fiala dal contenuto scuro, ogni goccia del quale era colmata dai boccioli neri della memoria di Athanatos. Gene la scrutò con terrore. Non dobbiamo ricordare. Era paralizzato. Non dobbiamo ricordare. Lo raggiunse un intenso profumo di gelsomino. Gene si voltò e trovò Megaera che lo fissava gelida con una boccetta di profumo in mano. Ripensò al museo, e si ricordò che lei non faceva mai nulla senza uno scopo preciso. «Pensavo avessi perso la tua bottiglia di profumo», le disse. Megaera sembrò sorpresa che ricordasse quel dettaglio. «Ne ho più di una», replicò un po' divertita. «Ti dà fastidio?». «Volevi vedermi fallire». «Certo. Ma sei ancora in tempo, se scegli di farlo». Gene non rispose. Prese la fiala e la fissò al lungo ago scintillante. Tenne la siringa fra le dita tremanti e la puntò verso una vena. Il telefono sulla scrivania si mise a squillare. Megaera poggiò rabbiosa il profumo e prese la chiamata in vivavoce. «Che c'è?» «C'è un uomo di sotto», spiegò la voce in palese stato d'agitazione. «Digli di andarsene». «Si chiama Cyclades». Megaera lanciò a entrambi gli uomini una tonante maledizione. Savage si voltò, le implicazioni erano tali che la curvatura delle sue spalle cedette sotto il loro peso. Ma l'attenzione preoccupata di Gene rimaneva fissa sulla bottiglia di profumo che aveva davanti, mentre un sorriso gli tirava le labbra. Megaera ne fu inquietata. «Che vuole?», domandò. «Vuole vedere Athanatos. Da chi lo devo mandare?». I GIORNI DELLA FINE
Le ferite di guerra si incidono a fondo nei corpi degli uomini. Solo la pazzia è capace di cicatrici più profonde. Quando la tremenda rovina si abbatté su di noi, Achille, vincitore di Ettore, figlio prediletto del re Priamo e flagello di tutti Greci, vincitore di Pentesilea, regina delle amazzoni, vincitore del vigoroso Memnone, generale dell'orda etiope, figlio dell'immortale Titone fratello del re Priamo, cadde. Quando la tremenda rovina si abbatté su di noi, Achille cadde atterrato dalle frecce scoccate con l'arco in corno di montone di Paride, reso pingue dall'indolenza, causa dell'assedio del re Menelao, con il sangue che gli sgorgava a fiotti lungo le gambe. Quando la tremenda rovina si abbatté su di noi Achille cadde, e la potenza di quel dolore colpì tutti i Greci. Quando posai per la prima volta lo sguardo sulle piane di Troia, cimiero di crine spazzolato e irto su uno scintillante elmo di raffinate zanne di cinghiale, vessillo di guerra proteso, scudo a scudo, uomo a uomo, stretti come quando un mastro costruttore dispone massicci blocchi di granito, eravamo un tutt'uno, eravamo come gli dèi. Guardateci adesso, ricacciati fino al mare, condotti contro le prue delle nostre navi nere, condotti alla disperazione. Guardateci adesso, sperduti in una foresta di bastioni fatti dalle ossa in decomposizione dei caduti, sepolti sotto il fango di una lotta decennale, torturati da un'epidemia contratta per aver continuato a dormire accanto alle carogne. Guardate il possente Aiace massacrare il bestiame, avvolto nell'impietosa malinconia della guerra, tanto da afferrare la propria spada e squartarsi da solo un viaggio per l'Ade. Guardateci adesso, atterriti di fronte all'implacabile ingordigia dei Troiani che non riescono ad abbandonare la propria avidità nemmeno quando la morte li fissa dalle spiagge. Guardate l'indolente Paride, morto, e già un altro miserabile figlio di Priamo, Deifobo, si affretta a prendere Elena in sposa mentre ancora nessuna delle nostre donne ci viene restituita. Dov'è la grazia dei Troiani? Non esiste, non è che una leggenda. Noi, soldati greci, ce ne stiamo ogni notte accalcati attorno al fuoco, piangendo come bambini per le mogli che non possiamo rivedere. «Cyclades». Scrutai nel buio freddo della notte e vidi il mio re, Idomeneo, in piedi alla luce tremolante dei nostri fuochi. Ma l'uomo fiero che conoscevo a Cnosso, quello che guardava i tori con il cuore pieno di passione, non c'era più. La lucentezza del suo bel volto era offuscata. Dunque, le pene della
guerra erano tanto dure anche per i re. Quella scoperta mi fece sentire in qualche modo soddisfatto. Mi trascinai verso di lui. «Grande sovrano», dissi, «cosa comandate?». «La lingua di un uomo può essere limpida o infida, dico bene?». «Avete bevuto assieme al re Ulisse?». Era un sorriso quello sepolto da qualche parte nel profondo del suo viso pensieroso? «Sei in lutto per la tua Moira». Appena quel nome sfiorò le mie orecchie in fiamme provai un dolore tremendo, come se le mie carni venissero straziate da uncini. «È rinchiusa dietro quelle mura», dissi. «Sebbene lei mi sia fedele, io sono ancora furioso». «Siamo tutti furiosi, Cyclades. Questo è fuori questione». Cosa turbava tanto il mio re? Idomeneo lanciò un'occhiata ai suoi soldati consumati dalla guerra, curvi attorno al fuoco. «Vieni», disse, «facciamo una passeggiata». Oltrepassammo il tremolio delle fiamme crepitanti e giungemmo sulla riva buia dove il mare ci spruzzava d'acqua fredda. «Ti ho visto montare i tori. Ti ho visto lottare con loro: belle e possenti bestie nere con le corna ritorte nelle tue forti mani all'interno del Labirinto di Cnosso. Dimostri coraggio. Dimostri di non avere paura». Ero lusingato che si ricordasse di me. «È ancora vivo quell'uomo? È l'uomo che montava i tori a camminare ora con me? O questa miserabile guerra lo ha ucciso?». Mi sentivo insultato dal fatto che avesse bisogno di chiederlo. Fui insolente. «Grande sovrano, vi ho già chiesto cosa comandate». Il re Idomeneo soppesò le mie parole con seria preoccupazione. Allungò il braccio e mi comandò di seguirlo sotto la tenda del re Ulisse. In piedi di fronte alla generosa tavola di Ulisse, in mezzo a un gruppo di comandanti greci, c'erano due nobili troiani con un'espressione torva in viso, uomini che avevo visto uccidere con gioia i miei compagni greci, Antenore ed Enea. Feci per prendere la spada, ma il re fermò la mia mano zelante. «Sei un soldato», disse, «non sta a te comprendere». I due nobili con il viso torvo portarono a compimento il loro affare. «Allora è deciso, io riceverò la metà delle ricchezze di Troia e uno dei miei figli siederà sul trono. La discendenza di Enea sarà risparmiata e i suoi pos-
sedimenti resteranno intatti». L'astuto re Ulisse allargò le mani sul vino brillante. «Avete la mia parola». «E Agamennone?» «Su questa faccenda parlo io a nome di Agamennone». Enea voltò le spalle alla tavola e si avvicinò fissando lo sguardo su di me. I suoi occhi scuri minacciavano di risucchiare il mio destino in un sol boccone. «E l'uomo che lascerete sulla spiaggia?», domandò. «Quali sono i suoi desideri?». Non capivo. Guardai il re Ulisse in cerca di una spiegazione. Lui sorseggiò il suo vino e si passò una mano ruvida sull'ispida barba. «Cyclades, Idomeneo dice che sei l'uomo giusto per questo compito infame. Mi fido del suo giudizio. Se dovessi passare sotto le Porte Scee in questo preciso istante e marciare su Troia, chi vorresti riconoscere fra gli altri?». «Che scherzo è questo?». Ulisse rise davanti a una simile dimostrazione di diffidenza. «Cyclades, potresti essere mio cugino. Non è uno scherzo. Quando marcerai su Troia, chi assaggerà la tua spada?». C'era un unico uomo. «Il babilonese», dissi con il respiro ingrossato dall'ira. «Il mago che si chiama Athanatos, quello che mi ha strappato via il cuore e che ancora lo trattiene a sé: è lui che vorrei riconoscere in mezzo a tutti gli altri». Enea accettò il mio desiderio e tornò al tavolo con Antenore. «Il Palladio sarà scomparso dal tempio di Atena per l'alba. Diremo che lo ha preso Ulisse. Da quel momento potrete attuare il vostro piano e il casato di Priamo cadrà». Non capivo su cosa si fossero accordati, ma l'alleanza era stata ormai stretta e Ulisse dispose che i due torvi Troiani fossero scortati fino alle porte della città. Mi lanciai alla tavola di Ulisse. «Adesso stringiamo patti con i Troiani?» «Non verremo a patti con loro», mi assicurò Ulisse. «Siamo venuti per combatterli fino alla morte». Idomeneo si affrettò ad aggiungere: «Cyclades, se hai ancora brama di guerra noi siamo con te. Onoreremo il patto con i Troiani come Paride ha onorato il suo con Menelao». «Epeio ha tre giorni per consegnare il frutto del nostro piano», ordinò Ulisse. «Ma tutto dipende dalla lingua limpida e insieme infida di un uomo
a cui i Troiani crederanno perché sapranno che non è un re». La nera cappa di fumo restava bassa nell'aria sull'accampamento greco, abbandonato e ridotto a ceneri ardenti. Con le labbra riarse e spaccate mi liberai dei miei ruvidi legacci e raccolsi il liquido che colava dalla testa in frantumi di un toro nero abbattuto. I suoi occhi furono come frutti davanti alla mia fame, l'intruglio delle sue viscere grondanti e malate furono il succo che calmò la mia sete. Udii delle voci e corsi via inciampando sulle ossa in putrefazione di centinaia di cadaveri, finché non caddi rovinosamente sulle ginocchia, ai piedi dei Troiani. Mi infilarono una lama di bronzo nella spalla. Mi tenni stretta la ferita mentre fra le mie mani sgorgava abbondante il rosso del sangue. «Come ti chiami? Parla!». Come mi chiamo? La paura me lo aveva fatto dimenticare. Balbettai, «M-mio padre viene dalle terre del sud. Sono stato cresciuto come un Greco, mi chiamo... Sinon». «Sinon...?». Non mi credevano. Che folle ero. Sinan! Dovevo usare il nome Sinan! Quello era un nome della zona, uno schiavo costretto a servire i Greci. Non Sinon. Dovevo agire in fretta. Continuai, ancora incapace di trovare il coraggio per guardare quegli uomini negli occhi. «Non c'è più nulla per me», dissi, «in mare o a terra». «Dov'è il tuo esercito?» «Se ne sono andati», dissi malinconico. «I Greci sono fuggiti». «Perché ti hanno abbandonato qui?». Tradimento. Sì, loro sanno tutto sul tradimento. «Ho visto coi miei occhi Ulisse uccidere gli uomini che si opponevano a questa guerra. E quando ho rivelato ciò che avevo appreso, tra i ranghi si è seminato un panico tale da indebolire le armate, e poi c'è stata un'epidemia, così i Greci hanno chiesto a gran voce la ritirata. E, per aver abbattuto il Palladio di Troia, Ulisse, uomo perverso che non è altro, è stato costretto a lasciare un tributo ad Atena perché vegli sulle navi greche durante il lungo viaggio di ritorno verso casa». I Troiani non ebbero alcun dubbio che il tributo in questione fosse lo svettante cavallo di legno arenato sulla spiaggia. Grande come una nave, con tronchi di pino intrecciati come costole, una ruota sotto ogni zampa, diede immediatamente da discutere ai Troiani. Laocoonte, sacerdote di Poseidone, non vedeva che oscuri presagi in
quell'offerta, poiché in sogno, mentre sacrificava un toro sull'altare, dalla schiuma marina erano emersi due enormi serpenti intrecciati che avevano tentato di divorare lui e la sua prole. Mentre lui voleva che fosse bruciato sul posto, io sostenni invece che il suo presagio era vero, proprio quello era infatti il destino che aspettava ogni Greco se il cavallo fosse stato trainato dentro le mura di Troia in onore di Atena. Fu allora che, per la prima volta, vidi davvero i Troiani per quel che erano: così disperatamente desiderosi di un po' di fortuna, così ansiosi di strapparne un pizzico in grado di cambiare il corso del loro destino e porre fine al tormento che avevano attirato su di sé, che persino allora l'avidità li portò a scegliere ciò che avrebbe gettato la rovina sul nemico. Assicurato il cavallo con le corde, curvarono la schiena e cominciarono a trainarlo, e con il rombo eccitato di Troia che risuonava loro nelle orecchie portarono l'enorme cavallo di legno attraverso le Porte Scee perché potesse erigersi al cospetto del tempio di Atena. Quando sulla lontana Troia cadde il mantello della notte scura, quando le loro pance furono sazie e i loro cuori ebbri dei festeggiamenti, vagai per i loro viottoli intricati. Fu quando sganciai i paletti di pino sul ventre del cavallo che una voce mi chiamò urlando. «Che altra scelta avevamo?». Ero stato sorpreso? Mi calai giù lentamente per non destare sospetto, e mi trovai di fronte una donna rannicchiata che parlava al cavallo, che piangeva ai suoi piedi, che toccava il legno di cui era fatto per ottenere perdono. «Mille donne greche e per ciascuna la speranza di un riscatto: combattere o arrendersi? Respingere i carcerieri o darsi per vinte, in nome di un po' di conforto che alleviasse il peso della prigionia? I tormenti sono stati lunghi e duri. Nel caso delle donne nate tra gli agi, il bisogno di avere tali comodità le ha condotte subito fuori strada. Si sono convinte che forse avrebbero potuto avere una nuova vita qui, quando in realtà stavano solo lottando per la sopravvivenza. L'istinto di sopravvivenza è più forte di ogni uomo o donna. Dunque chiedo ancora, che altra scelta avevamo?». Emersi dall'ombra, incerto se interrompere la preghiera della donna, ma non potei trattenermi. Ero spinto a domandare l'inevitabile. «Hanno ceduto tutte?». La donna sembrava sorpresa. Si levò svelta e si voltò tirandosi un cap-
puccio sul viso. Con un gesto rapido allungai un braccio per afferrarla. «Ti prego», la implorai. Non voleva guardarmi in faccia. «A ogni mente la sua pazzia, a ogni cuore una tragedia disonorevole. Alcune sono state forti. Alcune si sono ribellate e ne hanno pagato il prezzo. Elena ha cominciato ad amare i suoi carcerieri, come se non le avessero fatto del male, costringendosi a credere che sarebbe riuscita a vedere del buono in loro, fosse stato solo per alleviare il suo dolore. Non era in sé». «Conosci le altre?» «Dopo dieci anni, conosco ogni volto». Potevo fidarmi di lei? Si era arresa alla slealtà troiana tanto da tradirmi? Sentii che valeva la pena rischiare. «E Moira?», chiesi. «Mi ha tradito?» «Come la conosci poco! Si è battuta, prode come un guerriero!». Avevo una paura terribile di sapere, ma la incalzai comunque. «Dov'è?» «È morta...». «Da quanto?» «Nove lunghi anni. Fu la prima. Athanatos la prese, la costrinse a portare in grembo il figlio grazie al quale supponeva che la benedizione dell'Oracolo gli avrebbe garantito il dono dell'immortalità, ma lei rifiutò di portare quel fardello e se lo estirpò dall'utero. Mentre giaceva sanguinante, la trascinò via dal tempio fra le sue urla, le tagliò la testa e la conficcò su una lancia alle porte della sua torre. È ancora lì, ogni mattina la prego di darmi la forza di continuare». Crollai sulle ginocchia, senza respiro, avevo il petto come un palpitante groviglio di muscoli incordati, incapace di prendere aria. Moira giaceva morta da nove anni? Avevo combattuto per nulla. Ansioso di strisciare nella notte, libero di vagare come solo quelli che hanno collaborato potevano essere, le chiesi il suo nome. Le sue guance, che un tempo erano state soffici, si venarono di lacrime. «Sono Elena». Era bella come dicevano. Ero sinceramente commosso per lei quando le chiesi: «Ti prego, mostrami dove posso accendere un segnale». Trema, Athanatos! Trema! Potresti temere gli dèi, ma è me che devi temere ora! Appena gli uomini nascosti all'interno del cavallo di legno spalancano i
cancelli di Troia, ecco che i Greci fanno ritorno da Tenedos accecati da un odio assassino. Si affollano sotto le Porte Scee e sotto le Porte Dardane. Guardate la fine di Troia, guardatela incenerire! Guardate la sua gente sepolta, gli scoppi e i sibili delle pire dell'Ade, le urla del fantasma di Ettore, il massacro per le strade e nei templi, i Troiani arsi vivi! Noi, guerrieri greci, marciamo tra le fiamme della morte troiana, fra le crepitanti lingue del fuoco soffocato dalla polvere. Quelli che dormono non si desteranno mai, i desti moriranno di certo. Non c'è nobiltà nella vittoria per noi Greci quando veniamo mossi a distruggere. Rabbrividisci, Athanatos! Rabbrividisci! Se non temi gli dèi, temerai me! Guardate la fine del regno di Priamo, guardate il suo corpo massacrato nel tempio. Guardate suo nipote, il piccolo Astianatte, scaraventato dalle mura della città. Vengo per te stanotte, mio nemico. Vengo per versare il tuo sangue. Come un forte vento spazza un incendio in un campo di granaglie lasciate a seccare, così la tua distruzione sarà la falce che mieterà la mia collera. NEL CUORE DEL LABIRINTO 19:24. L'aculeo rovente delle vecchie cicatrici della memoria penetrò acuminato dietro gli occhi di North mentre saliva con l'ascensore in cima all'edificio. Si scansò come a schivare un colpo e si afferrò il volto in uno spasmo. Si premette le dita sulle tempie e scoprì che erano piene di sangue. Lo specchio gli disse ciò che già sospettava: le cicatrici del suo passato stavano affiorando in superficie, le ferite mortali di Cyclades emergevano sotto le sue corna, aguzze e pronte all'attacco. Tu-tump. Semplicemente, non sapeva se il sangue che aveva sulle mani era reale. Di certo lo era stato in un tempo lontano. 19:27. Quando le porte dell'ascensore si aprirono scivolando lentamente, North uscì con in pugno il teschio del suo sé passato. Le luci erano spente. Tu-tump.
Un pallido spiraglio di luce filtrava da sotto la porta in fondo al corridoio. North gli andò incontro mentre con la mano libera cercava la sua Glock. Alle sue spalle le porte dell'ascensore si chiusero scorrendo con un'eco fragorosa, e portando via la luce. North rimase in silenzio in attesa che i suoi occhi si adattassero al buio. Tu-tump. Il cellulare prese a vibrare nella tasca della giacca. North premette il tasto della risposta e ascoltò la voce angosciata di Martinez nell'auricolare. «Vieni fuori di là, amico». North spostò con cautela le dita sulla pistola. «Che succede?» «I tiratori scelti dell'ESU hanno individuato un incendio al terzo piano». North gli disse di chiamare i vigili del fuoco. Martinez gli spiegò che lo aveva già fatto, ma quando il detective fece un altro passo avanti il segnale si affievolì e cadde la linea. North tornò indietro e premette nervosamente il pulsante per richiamare l'ascensore. Niente. Devo trovare le scale. Tu-tump. Estrasse la Glock e si avviò lentamente in fondo al corridoio. Man mano che si avvicinava, dallo spazio vuoto tra le pesanti porte di legno penetrava un pervasivo odore di gelsomino. La sua mente indolenzita fu attraversata da immagini e sensazioni, pensieri ed emozioni, oscurità e antico odio. Quando la porta si spalancò davanti a lui lasciò che fossero quei sentimenti a guidarlo. 19:31. «Piangi la tua vita, Cyclades?». North procedette a tentoni in quell'inesorabile oscurità, puntando la Glock verso le ombre in movimento, mentre attraverso le finestre dall'altra parte della stanza il cielo esplodeva in violenti lampi di luce. Posò il teschio sulla scrivania, appena riconoscibile nel buio. «Sto solo cominciando a conoscere me stesso», disse. «Abbiamo lo stesso sangue», fece notare Gene dal gelo dell'oscurità. «Non ti ci vorrà molto a piangere la mia». North trasalì all'idea che fosse un po' come se stesse davvero parlando con se stesso. «Cosa altro sono gli dèi, detective, se non un Dio con una personalità multipla? Cosa altro sono i personaggi di un dramma, se non le sfaccetta-
ture di una medesima gemma? Cosa altro sono le facce in questa stanza, se non i rami di un unico albero, un cancro che a secco di sangue avvizzisce e muore?». Facce? Chi altro c'era? Tu-tump. North si girò di scatto, ma non vide altro che ombre in movimento. Tu-tump. Il penetrante suono dell'allarme antincendio esplose, preannunciando l'accensione delle deboli luci d'emergenza. Tu-tump. Gene era solo qualche passo più in là, tra la familiare figura della donna con i lunghi capelli ramati che guidava la Sebring berlina, e Savage, l'uomo che North sapeva essere suo padre. Erano legati e imbavagliati alle loro sedie. Gene teneva in una mano una siringa insanguinata, nell'altra una piccola rivoltella nera. North impugnò al volo la Glock e la tenne puntata. 19:35. Le finestre tintinnavano e la tempesta infuriava quando North ordinò a Gene di fare come diceva. «Mettile giù!». Tu-tump. Gene non voleva dargli ascolto. Inalava profondamente il profumo. «Mi ricorda Moira. A te?». «Mettile giù!». «Chi dei due ha ucciso Moira?», incalzò Gene. North osservò il suo padre biologico che tentava di liberarsi dai legacci, pieno di paura negli occhi. Non perché il suo destino fosse nelle mani di Gene, ma per l'odio che vide nello sguardo di suo figlio. Cosa sai della tua vita? «L'ho uccisa io?», proseguì provocatorio Gene. Il procedimento. «O tu?». Il Toro. «Immergiti negli abissi, detective», lo ammonì. «Non è così facile quando la preda si moltiplica, no?». Sangue innocente. «Sai quali ricordi si nascondono in quelle lontane ombre e in quei lontani luoghi». Aiutami.
«Non c'è una singola cosa che separi te da me». Fottuto psicopatico. «Non c'è un singolo ricordo che uno dei due non condivida con l'altro». Sono la maledizione di Satana. «Per sapere chi ha ucciso Moira non devi far altro che guardarti allo specchio!». Cosa sai della tua vita? Il procedimento. Il Toro. Sangue innocente. Aiutami. Fottuto psicopatico. Sono la maledizione di Satana. Il profumo di gelsomino divenne più intenso. A quel pensiero, il tocco di Moira gli punse la pelle. Sono la dolce aria di primavera. Ricorda questo. Onora me. Il vetro delle finestre tremava e la tempesta infuriava. L'edificio fu scosso dall'esplosione di fiamme incandescenti che salivano dal fluttuante inferno scatenato molti piani più in basso. E quando il calore ebbe fuso, distorto ed eroso, le finestre si incrinarono e il vetro cedette. La furia esplosiva delle fiamme e le sferzate rabbiose della tempesta si fusero in un vortice sregolato che scaraventò Gene contro le lastre di vetro tagliente. North non sapeva, né comprendeva come riuscisse a rimanere in piedi. Puntò la pistola contro Gene. Tutti hanno una scelta. Tese il dito sul grilletto. Il guscio dolorante di Gene si mosse. Sollevò la siringa e gliela offrì. «Questo è ciò che siamo. Questa è la nostra fine». «Non vivrò nel passato», mentì North spingendo forte il muso della sua pistola fredda contro il volto di Gene. Tutti hanno una scelta. Strinse la presa. Gene si levò sulle ginocchia insanguinate. «Siamo cambiati», disse. «È quello che temo», replicò North.
I SOGNI ELISI DI CYCLADES Me lo ricordo il giorno che sono nato. Ora i dettagli mi giungono nitidi. Una chiarezza che solo il racconto può dare. Ricordo il suono di labbra che succhiano da un seno, il gorgoglio di un parto insanguinato sulla paglia umida. La fame. I rivoli d'acqua del bagno che mi scorrono lungo il viso. L'olio d'oliva che si assorbe sulla mia pelle. L'odore di un profumo dolce. Come boccioli di gelsomino che ondeggiano alla brezza estiva. Gocce di denso miele. Il vino che scorre come un fiume. L'animale uomo può essere una creatura così incredibilmente tenera. Ricordo mio padre, grande e vigoroso, oleosi capelli neri intrecciati su braccia muscolose. Forte, forte come un toro. Ricordo che giocava con me nei luoghi scuri e umidi del Labirinto di Cnosso, dove ai bambini non era permesso andare. Lui mi cullava fra le braccia e io tentavo di vedergli il viso, ma loro non gli lasciavano levare la maschera. Così, lui abbassava la testa e io mi arrampicavo, e giocavo ore con le sue corna. Lo avrei rivisto, se il mio destino non fosse stato così incatenato alla carne. Ma la mia prigione me la sono costruita io solo: l'ho fatta e non so come disfarla. Da mio padre ho ereditato la rabbia, ma io ho la colpa d'averla alimentata. L'edificio è in fiamme. Le vampe roventi mi lambiscono i calcagni, fameliche. E rimango con una domanda senza risposta: l'uomo consuma il suo passato, o è il passato a consumare l'uomo? La vendetta è un serpente che si morde la coda. È un circolo. E un circolo è sempre vuoto. Eppure non posso ripudiare la mia natura. Non posso sfuggire al mio destino. Sono il serpente che si morde la coda. Me ne sto in piedi qui, con il metallo freddo della mia pistola piantato in questo volto familiare, premuto contro la sua tempia, ma potrebbe anche essere la mia. Dentro di me tutto rimane una menzogna, anche se scelgo di premere il grilletto. Il mio nome è Cyclades e volli essere la giustizia. Ma non sono la giustizia. Sono l'ira. Sono la tempesta.
NOTA DELL'AUTORE Le Cicladi sono un arcipelago di isole adagiate sul blu scuro del Mar Egeo, e rappresentano l'occhio di un enorme ciclone che infuria da oltre tremila anni. Seguendo il profilo della costa mediterranea, a partire dalle Cicladi, si incontrano Grecia, Turchia, Siria, Libano, Israele, Egitto e Italia. Creta e Troia. Si scopre che ciò che è accaduto intorno a queste isole ha fortemente influito sulla storia dell'Occidente, quasi come se la storia si fosse mossa seguendo le lancette di un orologio cicladico: a mezzanotte la guerra di Troia, alle tre del mattino le Crociate, e così via fino all'alba. Persino oggi quel che succede intorno alle Cicladi è al centro dell'attenzione di tutto il pianeta. La più giovane potenza del mondo, l'America, è particolarmente interessata a questa regione che chiama Medio Oriente. L'antica Babilonia rimane la bestia. È come se il cerchio si chiudesse, eppure i nemici sono gli stessi di sempre. Questa è la natura di un orologio. La natura dell'uomo. La natura delle Cicladi, che segnano le tappe del nostro viaggio. La cospirazione del Minotauro è un fantasy storico in cui, per quanto possibile, i fatti e i personaggi sono tratti dalla realtà, anche se, in qualche caso, alcuni elementi sono stati intenzionalmente modificati per esigenze narrative. I miei personaggi di fantasia interagiscono con i personaggi storici, a volte sono loro, sebbene, naturalmente, il mio racconto non sia che un nuovo intreccio in questa lunga trama. Ho adattato alle mie esigenze anche la città di New York. Molti elementi sono reali, ma a volte li ho modificati, come ad esempio l'altezza dei palazzi o la disposizione geografica. Spero che i cittadini di NYC possano perdonarmi: l'ho fatto con rispetto e sentimento autentici. Anche le procedure del Dipartimento di polizia di New York sono state modificate intenzionalmente quando necessario, ma solo un vero poliziotto potrebbe accorgersene. E lo sottolineo solo per riguardo nei confronti del NYPD. Grazie a William Belmont, direttore delle operazioni al Pinkerton Consulting & Investigations, a W. Mark Dale, direttore del laboratorio scientifico del NYPD, al detective del NYPD, Peter Dzik, oramai in pensione, al detective del NYPD John Cornicello anch'egli in pensione, a Steve Pinker, che non ha dovuto rispondere alle mie domande sul suo ottimo libro The Blank Slate, a Jim B. Tucker, medico e professore associato di Medicina
Psichiatrica alla Virginia University, a Gary A. Wasdin della biblioteca pubblica di New York City, a Jon Thorpe, al dottor Andrew Holder, specialista in Scienze Mediche, a James Sprules, a Louis e Christina Pavlou, ad Alex Franke, a MA e a Carol Anderson. Quando le esigenze artistiche lo richiedevano, li ho completamente ignorati e aggiungo che tutti gli errori che potrei aver commesso sono soltanto miei. Un ringraziamento speciale per il loro enorme aiuto, consiglio e supporto, va a Maureen Pavlou e Rowland Wells. Grazie anche ai miei editor John Jarrold e Ben Ball (cui auguro di ritrovare la salute mentale), e ai miei agenti, Sophie Hicks, Jeff Graup, Alex Goldstone e Linda Seifert, che fanno tutti un'enorme quantità di lavoro dietro le quinte, difficile da descrivere ma senza il quale sarebbe davvero dura andare avanti. Infine, ma assolutamente non in ordine di importanza, un ringraziamento a Lise, che si è occupata della mia salute durante quest'avventura, che mi ha tirato su quando ero depresso, e mi ha incoraggiato quando non volevo altro che fuggire via. Ho cominciato questo libro per me e l'ho finito per te. BIBLIOGRAFIA W.H. CALVIN, How Brains Think: Evolving Intelligence, Then and Now, London, Weidenfeld & Nicholson, 1997. J.F. CASEY - L.WILSON, The Flock: The Authobiography of a Multiple Personality, New York, Fawcett Columbine, 1991. B.M. COHEN - E. GILLER - L. WILSON, a cura di, Multiple Personality Disorder from the Inside Out, Towson, Sidran, 1997. R. DAWKINS, Il fiume della vita, Firenze, Sansoni, 1995. ID., Il gene egoista: la parte immortale di ogni essere vivente, Novara, Mondadori-De Agostini, 1995. D.C. DENNET, La mente e le menti, Milano, Rizzoli, 2000. ERODOTO, Storie, Roma, Newton&Compton, 1997. ESCHILO, Prometeo Incatenato, in Tutte le tragedie, Newton&Compton, 2004. ESIODO, Teogonia, Milano, Rizzoli, 1959. ID., Le opere e i giorni, Torino, Paravia, 1921. R.N. GEHLEK, Good Life, Good Death: Tibetan Wisdom on Reincarnation, New York, Riverhead Books, 2001.
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