NELSON BOND LA CITTÀ INCANTATA (The Priestess Series, 1939-41) INTRODUZIONE Fin dal secondo volume della nostra collana,...
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NELSON BOND LA CITTÀ INCANTATA (The Priestess Series, 1939-41) INTRODUZIONE Fin dal secondo volume della nostra collana, il tema del medioevo postatomico è stato apprezzato dai lettori - ricordate il Farmer de Il segreto del tempo? - come è in fondo giusto che sia per uno degli argomenti più stimolanti e affascinanti della letteratura di fantascienza. Ed è interessante notare come le storie della catastrofe prodotta dall'uomo, e le conseguenze sull'ambiente e sulla civiltà, non siano esclusivamente patrimonio degli anni del secondo dopoguerra, quelli dominati dal ricordo di Hiroshima e Nagasaki, gli anni dei missili balistici intercontinentali e degli esperimenti atomici nell'atmosfera, della guerra fredda e delle mille e mille conferenze per il disarmo che non approdavano mai a risultati concreti, se non quello di produrre una rinnovata corsa agli armamenti: perché un secondo medioevo è postulato nell'opera degli autori di science fiction fin dai primissimi albori di questa letteratura, dal Darkness and Dawn di George Allan England in poi. È suggestivo, inoltre, notare quante interpretazioni possibili esistano a un tema apparentemente monocorde: sia sulla natura dalla catastrofe che minaccia il genere umano (guerra atomica, disastro ecologico, catastrofe naturale, implosione sociopolitica, eccetera) sia sulla ricostruzione della civiltà, tema sul quale esistono romanzi stupendi come La città proibita di Leigh Brackett, o come l'amaro e pungente I trasfigurati di John Wyndham. Tra i testi più interessanti e ammirati scritti su questo argomento prima della seconda guerra mondiale, è di particolare rilevanza il ciclo della Sacerdotessa, un'opera originale e ricca di tensione che un autore dotatissimo, anche se poco conosciuto qui in Italia, Nelson Bond, ha realizzato a cavallo degli anni '40, attraverso tre romanzi brevi apparsi, singolarmente, in un crescendo senza precedenti nella storia della fantascienza americana, su tre diverse riviste, sempre più prestigiose e 'ricche' a testimonianza del successo ottenuto da queste storie: ed è rarissimo che un ciclo appaia su riviste diverse, e soprattutto che esso venga pubblicato 'in crescendo', cioè mano a mano su pubblicazioni di più vasta diffusione e di più alti pagamenti per gli autori. In diverse occasioni si verificava in America
il caso inverso: e cioè di ottime storie che iniziavano un ciclo, ma poi non ottenevano il successo previsto e venivano rifiutate dal direttore della rivista sulla quale era apparsa la prima parte, e perciò venivano offerte dall'autore a riviste di minore diffusione, di compensi più bassi, e di conseguenza di più facile contentatura (che poi a volte si trattasse di macroscopici errori degli editors conta solo quel tanto: di errori gli editors ne commettono spesso, anche i migliori). In questo caso, l'impatto stesso del successo ottenuto da Nelson Bond ha provocato l'interesse e l'ammirazione di direttori esigenti come John Campbell, e ancora oggi nelle varie antologie tematiche e storiche della fantascienza l'uno o l'altro dei tre racconti che compongono il ciclo della Sacerdotessa vengono ospitati nella selezione del 'meglio'. Ed effettivamente i lettori, che ancora non conoscono Nelson Bond, troveranno in questo scrittore tutte le caratteristiche di un 'grande' della fantascienza moderna. Bond è l'autore di numerose opere, tutte antologizzate e più volte ristampate negli Stati Uniti, che variano di tono e di impostazione, dall'umorismo più autentico all'avventura più drammatica e ricca di tensione. Come mai in Italia Bond non è ancora conosciuto come dovrebbe? È un interrogativo che, come è capitato per altri scrittori rimasti assenti dal nostro paese per molti anni, o 'riscoperti' con anni e anni di ritardo, a volte ci ripetiamo senza riuscire a comprendere una vera e propria risposta. La presentazione delle opere di Bond, comunque, è un'altra delle iniziative che ci siamo assunti, e crediamo che già da questo intenso e bellissimo La città incantata - un romanzo che davvero ha le caratteristiche dell'opera 'classica', e un'impostazione splendida e validissima -; lettori possano comprendere quali sono i motivi della considerazione che questo scrittore gode negli Stati Uniti. L'idea di una comunità retta dal matriarcato, in una forma o nell'altra, non è certo nuova nella science fiction: basterà pensare a uno dei romanzi più interessanti e validi di un grande scrittore americano, Wilson Tucker, La città in fondo al mare, la cui concezione in alcuni punti ricorda quella de La città incantata, anche se mentalità e stile di Tucker sono molto diversi da quelli di Bond, e perciò contenuti e forme divergono sostanzialmente. Bond rappresenta una storia che ha più le caratteristiche della 'saga epica' ricca di azione, e singolarmente anticipa fedelmente Il pianeta delle scimmie cinematografico, mentre l'immaginaria America futura di Tucker è più raccolta e distaccata, a un tempo, a discapito dell'azione; ma è particolarmente interessante leggere questo libro, rimasto modernissimo an-
che perché la tematica è di quelle che malauguratamente non invecchiano... malauguratamente, perché il pericolo di un ritorno alle origini, di un fatto catastrofico, dovuto all'incuria o alla pazzia degli uomini, non è certo minore oggi di quanto non lo fosse trenta o quaranta anni or sono. Esistono differenze sostanziali nell'impostazione delle tre parti del ciclo (che viene per la prima volta riunito in un solo volume, precedendo ancora una volta un'analoga operazione che verrà realizzata il prossimo anno negli Stati Uniti) che, grosso modo, lo dividono in una sezione 'teologica', in una sezione 'etica' e in una sezione 'drammatica'. Ma la vivacità di espressione, la capacità stilistica dell'autore, rendono il tutto omogeneo, semplice e allo stesso tempo avvincente... tanto che possiamo dire, con sincero orgoglio, di avere potuto riunire in un solo volume un'opera che può trovare posto tra i maggiori testi della letteratura 'catastrofica' e sarà allo stesso tempo una piacevole scoperta per chi non conosce Nelson Bond, e una notevole soddisfazione per i molti che lo conoscevano per le opere apparse negli Stati Uniti, e ci chiedevano costantemente di pubblicare qualche esempio della narrativa di un autore che ha saputo veramente conquistarsi un posto di preminenza nella science fiction. Crediamo di avere soddisfatto, sia con questo libro che con i precedenti dedicati a H.L.. Gold e a Ray Cummings, una delle funzioni più interessanti della nostra collana, compiendo anche opere di scoperta o riscoperta tra gli scrittori famosi che, per vari motivi, non hanno trovato posto fino a oggi nelle collane italiane di fantascienza. Per quanto riguarda i prossimi volumi, possiamo già annunciarvi che il prossimo numero ospiterà nuovamente la firma apprezzatissima di Jean-Gaston Vandel, uno tra gli scrittori presentati da Saturno che hanno riscosso il maggiore successo di consensi del pubblico. Territorio robot, che leggerete nel trentesimo volume della nostra collana (che sta procedendo molto rapidamente a formare un'autentica biblioteca dell'avventura fantascientifica, con un successo che definire crescente parrebbe ormai scontato, e che meglio che a parole viene dimostrato dai fatti, e cioè dalla frequenza di uscita e dall'arricchimento di nomi importanti e famosi e di opere interessanti e valide) è uno dei migliori libri di Vandel, una storia di robot inviati sul pianeta Mercurio da un geniale uomo d'affari che intende utilizzarli per trasformare l'impervio pianeta in una specie di grande quartiere industriale del sistema solare... e delle conseguenze che derivano dalla nascita di una tecnologia robotica non guidata da menti umane. Un libro avvincente e origina-
le, nella migliore tradizione dell'autore di quello che si avvia a diventare il maggiore successo della nostra collana, e cioè lo splendido Fuga nell'ignoto. Un breve sguardo ai prossimi volumi ci offre opere di autori diversi ma ugualmente validi e interessanti: ricordiamo che il trentunesimo volume conterrà Le orribili salamandre, seguito e conclusione de I coloni dello spazio di Charles Carr, apparso nel precedente volume. E che, successivamente, oltre al già annunciato I misteri di Marte di Willy Ley, avremo opere di Raymond Z. Gallun, Vargo Statten, Theodore Sturgeon, e di altri importanti scrittori, alternati a quei piccoli classici dell'avventura che sono i libri di Vandel e degli altri scrittori così apprezzati tra quelli che appaiono sulle pagine della nostra collana. Ricordiamo ai lettori che è nata una collana gemella di Saturno, che avrete già visto nelle librerie e nelle edicole, e che vi preghiamo di considerare con particolare attenzione: si tratta di Narratori italiani di fantascienza, un'altra delle coraggiose iniziative della Libra, un tentativo mai fatto prima d'oggi per offrire una collana di volumi rilegati esclusivamente dedicati ai migliori narratori italiani di questa letteratura. I primi due volumi usciti sono un classico ben conosciuto della narrativa di fantascienza italiana, e cioè L'astro lebbroso di Franco Enna (un'opera che apparve a suo tempo su I romanzi di Urania, e che non veniva ristampata da più di vent'anni), e un romanzo nuovissimo e superavventuroso di Luigi Cozzi e Gianluigi Zuddas, I pirati del tempo, un'avventura nell'Inghilterra minacciata dalla flotta spagnola di Sua Maestà Cattolica che in realtà è la storia di una guerra condotta senza esclusione di colpi attraverso il tempo da uomini di epoche diverse, ciascuno dei quali lotta affinché il suo futuro sia l'unico futuro possibile della Terra. Coloro che hanno già letto i due romanzi si sono complimentati per l'alto livello e per l'originalità di questa iniziativa: che sta procedendo in modo ottimo, superando anche le più rosee attese di noi che l'abbiamo realizzata, e che smentisce quanto è stato detto a volte sull'impossibilità di avere in Italia un'ottima produzione di romanzi di fantascienza come in tutti gli altri paesi del mondo. Bene, non ci sembra di avere altre cose da dire (o meglio, ne avremmo moltissime ma come sempre lo spazio è tiranno). Vi diamo appuntamento al prossimo volume, che sarà un appuntamento sicuro per tutti gli ammiratori di Vandel, e vi auguriamo (visto che siamo agli inizi di un nuovo anno) ogni felicità per il 1981, augurandoci di poterlo trascorrere insieme, leggendo le opere più avvincenti degli autori di fantascienza ospitati da Saturno.
u. m. PROLOGO E venne il giorno in cui, su tutta la Terra, sbocciarono i fiori di fuoco, travolgendo, nelle loro immani esplosioni, ogni cosa. La Scienza dell'Uomo era infatti arrivata a un punto in cui aveva messo nelle mani di troppe persone prive di scrupoli le armi di una potenza inaudita, inarrestabili... contando, a torto, che la Ragione potesse prevalere sull'avidità e sulla stoltezza. Ma così non fu. Pochi uomini decisero per conto di miliardi di individui e, spinti e accecati dal loro odio sfrenato e dall'ambizione senza confini che li dominava, mossero guerra gli uni contro gli altri, pur sapendo che, in quel modo, nel tremendo conflitto sarebbe stato coinvolto l'intero pianeta. E così accadde. Una terrificante reazione a catena venne introdotta dall'azione avventata di quei pochi e la devastazione stese le sue cupe ali di morte e di gelo su tutte le regioni del nostro mondo. I mari si trasformarono in deserti incandescenti, mentre le terre verdi inaridirono, trasformate in brulle distese dove nulla poteva più crescere. Le ciclopiche metropoli e i grandi agglomerati urbani vennero annientati, ridotti in cenere in pochi secondi. Soltanto strutture contorte e semidistrutte rimasero così a testimoniare la grandezza che era stata raggiunta dalla razza umana, prima della catastrofe immane. E, com'era inevitabile, non ci furono né vinti né vincitori. Le ultime bombe erano infatti troppo potenti, troppo terribili... e niente poteva sfuggire alla loro distruzione. Fu così, che, nel giro di poche ore, tutto quel mondo che era stato faticosamente creato in quasi due millenni di storia cadde e si frantumò. L'Uomo era finito... Ma, tra le ceneri della devastazione atomica, qualcosa ancora esisteva... qualcosa ancora sopravviveva... qualcuno ancora si muoveva. Certo, pochi, molto pochi furono i sopravvissuti... e terribile era il mondo in cui ora vivevano. Ma davanti a loro c'erano ère intere... ère per ricostruire e cercare di ritornare sulla strada del Sapere. Ma la via per la rinascita avrebbe richiesto molto, moltissimo a quei poveri superstiti e alla loro progenie stravolta e stordita. La civiltà, infatti, era crollata e nulla più di quanto era stato raggiunto esisteva, tranne che
in pochi posti, tranne che in pochi luoghi. E così, in breve, i superstiti regredirono, imbarbarirono... dimenticando tutto, o quasi. L'umanità sopravviveva... ma era cambiata. E in quasi tutto ciò che restava del Nord America, un tempo la culla del mondo e della civiltà, i raggruppamenti di quei superstiti erano ben pochi, e quasi tutti ormai di tipo primitivo, preda delle leggende e dei miti, nei quali, ormai, si confondevano i ricordi degli antichi tempi perduti. Erano piccoli agglomerati sociali retti dalle donne, perché erano state proprio le femmine della specie umana a prendere il sopravvento, nelle ultime epoche. Donne che avevano molto in comune con le Amazzoni dell'antichità: donne intrepide, forti, robuste. Gli uomini, quei pochi che ancora restavano, vivevano né più né meno come schiavi o come puri stalloni da monta, buoni solo per la riproduzione. Erano considerati ancora meno degli animali... C'erano anche gruppi di uomini che si erano messi a vivere nei boschi e che, per questo, erano regrediti ancora di più. Li chiamavano i Selvaggi, e le donne guerriere, le Amazzoni di quel mondo futuro, li braccavano e li cacciavano con odio spietato. E poi c'erano anche... Sì, c'erano anche i figli dei figli dei figli dei figli di altri sopravvissuti ancora. E loro... Ma è bene cominciare dal principio. Correva dunque l'anno 3460, quando... LIBRO PRIMO LA SACERDOTESSA CHE SI RIBELLÒ Capitolo Primo: La «voce senza parole» Nella dodicesima estate della vita, la malattia colpì Meg. E la giovane ebbe paura. Sì, aveva paura, e tuttavia si sentiva scossa da un inspiegabile senso di esaltazione, differente da tutto quello che aveva conosciuto fino ad allora. Era ormai diventata una donna, e tutto ad un tratto, aveva anche compreso perfettamente che cosa ci si attendeva da lei, da quel momento in poi. Lo capì e... ne ebbe paura. Andò subito all'hoam della Madre. Perché questa era la Legge. Ma appena imboccò la «strada della passeggiata», cominciò ad osservare, piena di una curiosità diversa, gli uomini che incontrava.
Guardò quei corpi, pallidi, magri, glabri. Le mani inutili e flaccide. Le bocche indecise. Uno che stava vicino alla casa di 'Ana, senza far nulla, la guardò a sua volta, in modo invitante e sfacciato. Fece un gesto come per chiamarla. Meg fremette e atteggiò la bocca in un chiaro atto di rifiuto. Solo il giorno prima era ancora una bimba, ed ora era diventata una donna. Per la prima volta nella vita, Meg vide la gente quale effettivamente era. Le guerriere del Clan. Guardò con disgusto i loro corpi squadrati in una maniera incredibile. Le gambe dure, le mascelle decise, severe. Gli occhi glaciali. Le braccia forti, segnate fino al gomito dalle cicatrici di ferite mal rimarginate. Il petto magro, sfiorito, piatto e duro sotto placche di pelle dell'armatura. Erano delle combattenti, delle combattenti e null'altro. E non era questo quel che Meg desiderava fare. Vide le Madri. Le fattrici dei bambini, con le loro labbra carnose ed i seni sfatti. La loro pelle era bianca e molliccia come quella degli uomini. I loro occhi erano umidi, privi di ogni espressione per il desiderio troppe volte eccitato e troppe volte appagato. I loro corpi erano ridondanti sulle anche e sulle cosce. Ondeggiavano mentre camminavano, come semi maturi che si aprono in una terra fertile e grassa. Loro unico scopo di vita era che la tribù potesse accrescersi, continuare a vivere. Il loro scopo era la riproduzione... Non era questo, ciò che Meg voleva diventare. C'erano poi le contadine, i cui corpi avevano ancora un ricordo della grazia e della nobiltà tipiche della femminilità. Avevano la vita sottile, ma le mani erano dure e tozze. Le spalle erano ricurve per il peso del lavoro, ed erano ormai tutte inguaribilmente rese volgari per la lunga consuetudine all'accetta e alla vanga. I loro visi erano induriti dalla continua lotta contro una terra avara. E la terra, della quale ormai erano diventate solo una parte, aveva dato loro, in compenso, qualche cosa di sé... La pelle stessa delle contadine era infatti scura di terra. I loro corpi avevano il lezzo della sporcizia, della fuliggine e di un sudore mai lavato. No, nulla di tutto quello era ciò che Meg voleva per sé. Niente di tutto quello era ciò che Meg avrebbe voluto avere... ne era assolutamente sicura. Era tale la concentrazione di Meg nei propri pensieri, che entrò nell'hoam della Madre senza chiamare a voce alta, così com'era prescritto. In questo modo accadde che sorprese la Madre, mentre compiva i grandi riti magici per le Divinità. La Madre teneva nella propria mano destra un'esile bacchettina, e con
essa graffiava un rotolo liscio e ben conciato di pelle di vitello. Ogni tanto faceva bere quella canna sottile in una pozza di un liquido scuro che teneva davanti a sé, in una tazzina. E quando di nuovo strisciò la bacchettina sulla pelle, essa lasciò una traccia. Una traccia sottile, nera come una ragnatela... Meg rimase lì, ferma ad osservare, per un lungo momento, stupita. Poi fu sopraffatta dal timore. Il suo corpo fu scosso da ondate di paura. Meg, improvvisamente, pensò alle Dee. Alla severa Jarg, che comandava, alla eterea Ibrim, alla silenziosa Taamuz. E a Tedili, dal lungo sguardo: Tedhi, le cui risa echeggiavano nel rombo dei tuoni estivi. Quale furia la Dea suprema avrebbe ora scatenato addosso a chi aveva scrutato nei loro segreti? La giovane cadde in ginocchio coprendosi gli occhi. Ma udì dei passi avvicinarsi, e le mani della Madre le toccarono le spalle. E nella voce gentile della Madre c'era soltanto un tono di rimprovero, quando disse: «Forse che non conosci la legge, bambina mia? Tutti quanti debbono chiamare con voce decisa, prima di entrare nell'hoam della Madre.» I pensieri pieni di paura di Meg svanirono. La Madre era buona. Era lei che si occupava di sfamare e di vestire il Clan; e che durante l'inverno duro li riscaldava e procurava la carne, quando il cibo scarseggiava. E se proprio lei non vedeva il male nello spiare involontario di Meg, lei che era la rappresentante delle Divinità sulla terra... Meg ebbe il coraggio di sbirciare di nuovo la bacchettina magica. Nei suoi occhi c'era una muta domanda. Ed a questo interrogativo la Madre rispose: «Stavo solo ricorrendo alla scrittura, Meg. È un modo di parlare senza pronunciare le parole.» Un modo di parlare senza pronunciare le parole? Meg si accostò al tavolo; avvicinò un orecchio curioso ai curiosi segni della ragnatela di simboli tracciati dalla Madre. Ma non sentì alcun rumore. Non li udì parlare. Però, subito, la Madre le fu accanto, dicendo ancora: «No, bambina mia. Questo sistema non serve per parlare alle orecchie, ma agli occhi. Ascolta bene, io ora li farò parlare per te per mezzo della mia bocca.» A voce alta, lesse: «Rendiconto del mese di giugno dell'anno 3478 dopo Cristo. Non c'è stato nessun cambiamento nel numero dei membri del Clan di Jinnia. Continuiamo a essere cinque ventine più sette, con diciannove Uomini, dodici
mucche, trenta cavalli. Ma c'è motivo di credere che 'Ana e Sahlee faranno presto ad aumentare il nostro numero. «La scorsa settimana Darthee, Lina e Alis hanno effettuato una ricognizione nel territorio di Clina, in cerca di selvaggina. Là hanno incontrato numerosi elementi del Clan di Durm, ed hanno scambiato regali, sale ed incenso. Sono stati scambiati numerosi pegni di amicizia. Sulla strada del ritorno, Darthee è stata catturata da un Selvaggio, ma le sue compagne l'hanno salvata in tempo, prima che la razza fosse inquinata. Il Selvaggio è stato ucciso. «Il nostro villaggio ha, in questi giorni, una visitatrice, che proviene dai Delwurs dell'est, ma essa racconta che nel suo territorio i Selvaggi sono pressoché scomparsi. La malattia ha reso sterili i loro uomini, e mi domanda se posso prestargliene uno o due dei nostri, per qualche mese. Ho intenzione di darle Jak e Ralf. Entrambi sono montoni ben collaudati...» La Madre si interruppe. «Quando sei entrata, bambina mia, ero giunta fino a questo punto...» Meg spalancò gli occhi per lo stupore. In effetti Darthee, Lina ed Alis erano da poco rientrate dopo un viaggio a Clina, ed era anche vero che c'era un'ospite nel villaggio. Ma come faceva a sapere quelle cose, a dire queste cose quella «voce-senza-parole»? Poi domandò: «Ma, Madre... poi può dimenticare, la 'voce-senza-parole', oppure...?» «No, Meg. Noi possiamo dimenticare. I libri invece ricordano per sempre.» «I libri, Madre?» «Quelli sono i libri.» La Madre andò verso la sezione da notte del suo hoam e prese, da un mucchio disordinato, un rotolo di pelle di vitello. «Qui ci sono tutte le storie del nostro Clan dal passato... fin dall'epoca degli Antichi... Ma, purtroppo, non tutte ci sono rimaste. Alcune storie sono state perse, altre distrutte dall'acqua o dal fuoco. «Ma una Madre ha il preciso obbligo di continuare a scrivere queste memorie. È per questo motivo che una Madre deve conoscere l'arte di usare la 'voce-senza-parole'. È un'arte difficile, bambina mia, che richiede uno sforzo continuo e che non finisce mai...» Meg aveva gli occhi che le scintillavano. Quel malessere, quasi un gelo, che prima aveva provato dentro di sé, adesso era quasi sparito. Invece le
era venuto, adesso, un grande pensiero. Un pensiero così grande, così audace, che Meg fu obbligata a dischiudere due o tre volte la bocca prima di riuscire a profferire le parole. «È...» domandò quasi senza fiato, «è molto difficile diventare... una Madre?» La Madre le sorrise, in un modo gentile. «È un incarico molto, molto pesante, Meg. Ma tu non devi preoccuparti di queste cose. È troppo presto, per te, per decidere...» Si fermò un istante, osservando stranamente Meg, «O forse è tempo, bambina mia?» Meg divenne improvvisamente rossa, e gli occhi le si abbassarono. «È così, Madre. Il tempo è venuto...» «Allora non temere, figlia mia. Tu sai qual è la legge. In questo momento così importante, spetta a te stabilire quale debba essere il tuo incarico. Che cosa desideri? Vuoi diventare una guerriera, un'operaia, o una madre che genera i figli?» Meg rivolse alla donna che guidava il Clan uno sguardo audace. «Desidererei diventare una Madre» disse poi. Ed aggiunse rapidamente: «Ma non una madre che genera i figli, no. Intendo invece una Madre di Clan, come sei tu, o Madre!» La Madre spalancò gli occhi per le. sorpresa. E poi, scomparsa dal suo viso ogni espressione severa, disse pensierosa: «Prima di oggi, Meg, questa richiesta mi era stata presentata soltanto tre volte, ed io avevo sempre rifiutato. Beth è stata la prima a chiedermelo. Oh, ma questo avvenne molti anni fa. E poi, invece è diventata una guerriera che morì gloriosamente durante l'assedio di Loovil... «Poi ci fu Haizl. La terza volta è stata Hein. Hein divenne una madre normale, dopo che io rifiutai, e generò molti figli al Clan... «Io però allora ero più giovante. Adesso sono invecchiata. E mi sembra giusto ora che, quando me ne dovrò andare, ci sia già qualcuno che possa prendere il mio posto...» La Madre si interruppe e scrutò con estrema attenzione la ragazza. «Figliola, la tua non sarà un'impresa facile. Il lavoro da fare è tanto. Ed è un lavoro della mente, e non del corpo. Ci sono da risolvere molti problemi, da rispettare molti voti, e da compiere anche un arduo pellegrinaggio...» «Sarà una grande gioia per me fare tutte queste cose, Madre!» promise Meg. «Se me lo concederai...» La voce le si ruppe all'improvviso per l'emozione. Ma Meg riuscì a riprendersi e continuò a dire: «Io non posso essere che una Madre di Clan. Non voglio infatti diventare una guerriera, du-
ra e triste. Né un'operaia, scura di sporcizia. Né una madre normale che genera figli, no... preferirei accoppiarmi con un Selvaggio piuttosto che con uno degli Uomini! È sufficiente il pensiero delle loro mani viscide e mollicce sul mio corpo perché io...» Meg rabbrividì. E la Madre del Clan, comprensiva, assentì. «D'accordo, Meg. Da domani abiterai nella Hoam, qui con me. Abiterai con me e comincerai a studiare per essere la prossima Madre del Clan di Jinnia...» Capitolo Secondo: La difficile iniziazione E così Meg cominciò la sua istruzione. Ma quando aveva sostenuto che quel compito sarebbe stato tutt'altro che facile, la Madre aveva detto il vero. Furono molte le volte in cui Meg pianse per la rabbia e l'amarezza, perché non riusciva ad apprendere tutte le cose che una Madre deve sapere. C'era per esempio quello strano modo di parlare detto la «voce-senza-parole», che Meg imparò a definire più propriamente «scrittura». Apparentemente era una magia facile da fare, almeno quando era la Madre a compierla. Ma la sottile bacchettina, che si muoveva con tanta facilità fra le dita esperte della madre, si impuntava e scivolava con facilità, e lasciava delle macchie scure come la notte sulla pelle, quando era invece Meg che tentava di tracciare quella ragnatela di segni curiosi. Meg capì anche che quelle strane righe ondulate non erano casuali o prive di significato. Ogni linea era composta di «frasi», ogni frase di «parole» e ogni parole di «lettere». Ogni lettera aveva un suono, ed ogni insieme di lettere formava un «suono» o parola. Le lettere erano strane, e creavano facilmente confusione. Una lettera a sé stante, fuori dal suo posto, cambiava infatti del tutto significato di una parola; altre volte, invece, stravolgeva l'intero significato di una frase. Ma Meg voleva imparare e aveva una grandissima forza di volontà... Finalmente, giunse il giorno in cui la Madre acconsentì a che fosse Meg a scrivere il resoconto mensile nel libro della storia del Clan. A quel tempo, Meg aveva appena tredici anni. Ma già allora era ben più saggia e vivace delle altre ragazze del Clan... In quel periodo, la Madre incominciò anche a insegnarle una nuova magia: la magia dei «numeri». Nell'alfabeto scritto, c'erano infatti ventun let-
tere. Invece, i numeri erano solo dieci. Ma quella dei numeri era una magia tutta speciale. Riuniti insieme, essi costituivano infatti altri numeri, ed anche dei numeri molto grandi. Però, quegli stessi numeri, separati gli uni dagli altri, potevano andare a costituire un gruppo ancora diverso. Meg ebbe difficoltà ad imparare i nomi di queste magie. Erano nomi strani, apparentemente senza significato: «moltiplicazione» e «sottrazione». Ne imparò, però, ben presto il giusto uso. Il compito di Meg si fece ancora più arduo perché, proprio in quel periodo, gli Dei del Male le mandarono un pensiero perverso a turbarla. Quella specie di diavoletto le penetrò una notte, mentre dormiva, nella testa, passando dall'orecchio. Per mesi e mesi, poi, le restò annidato nella mente, esattamente al di sopra degli occhi. E ogni volta che Meg si sedeva per studiare la magia delle cifre, quel «diavoletto» cominciava a ballare su e giù, cercando di distrarla. Ma Meg, ostinata, proseguì. E, alla fine, quel demone perverso morì o se ne andò. E Meg seppe tutto sui numeri... C'erano anche da imparare le cerimonie e i riti. C'era il canto sacro che doveva essere appreso a memoria, ed era un canto che non era accompagnato da una melodia, ma solo dal battito ritmato dei tamburi della tribù. Le parole di quel canto erano terribili e strane, e facevano riecheggiare la grandezza delle Divinità attraverso le loro frasi quasi incomprensibili. «Oh, Sakan! Tu che vedi per mezzo di Tedhi e della sua prima luce...» Era un canto splendido. Ed evocava una magia molto potente. Era infatti l'unica canzone sacra che osasse pronunciare il nome di una delle divinità, almeno fra quelle che Meg aveva studiato. E quindi bisognava intonarla in un modo molto riverente, per evitare di irritare Tedhi, la Dea che vede lontano, e che, se veniva offesa, poteva mostrare i suoi terribili denti, distruggendo l'audace che la invocava con i tuoni e i fulmini inarrestabili. Meg imparò anche il canto rituale del Clan di Jinnia. Fin da quando era piccola lo conosceva, ma non ne aveva mai capito le parole. Ora aveva studiato a sufficienza per riuscire ad afferrarne invece anche il significato. Naturalmente, Meg ignorava cosa volessero dire effettivamente alcune delle tante parole antiche in esso, contenute, ma nel suo insieme quel canto intonato da tutta la tribù riunita, nelle allegre notti di festa, aveva un suo chiaro significato: «Torna a noi, torna qui a Jinnia...» E così, giorno dopo giorno, Meg crebbe in altezza, in età ed in sapienza. Nella sedicesima estate della sua vita, aveva ormai le gambe lunghe, robuste e dritte come i giavellotti delle guerriere. Il corpo le si era fatto sinuoso
ed abbronzato dal sole, tranne che in quei pochi punti in cui la minuscola tunica di pelle di daino aveva protetto la pelle conservandola bianca. Aveva dei capelli così lunghi da sfiorare il terreno, se i nodi non li avessero trattenuti, ma Meg li teneva sempre avvolti intorno al capo, stretti nella retina tessuta dalle madri ormai troppo anziane per portarla esse stesse. Meg non poteva rendersi conto di quanto era bella, visto che il dio della vanità era ormai morto da numerosi secoli. Ma era stupenda, magnifica. E certe volte, quando, facendo il bagno, guardava la propria immagine nuda riflessa nel lago, non poteva fare a meno di sentirsi più che soddisfatta, nel suo intimo, di avere quel corpo giovane e magro, pieno di curve sinuose. Ed era sempre più felice ed orgogliosa di essere diventata la discepola della Madre. E si compiaceva di avere il corpo fatto in quel modo... anche se non sapeva perché. Ma era ben contenta di non essere diventata magra e rigida come le sue coetanee che avevano scelto di fare le guerriere, o rozza e tozza come le contadine. O cadente e disfatta come le madri. La sua pelle era invece del colore dell'oro scuro, mentre d'oro fino era la peluria che aveva sotto le ascelle e sul pube... mentre le gambe, le braccia e gli splendidi seni pieni e sodi che aveva, erano tutti imbionditi dalla carezza del sole. E venne infine il giorno in cui la madre le permise di essere lei stessa ad officiare i riti della Festa della Fioritura. Ciò avvenne in luglio, quando Meg era appena entrata nel suo diciassettesimo anno di vita. E fu un grande momento e una grande prova. Ma Meg fu all'altezza della situazione: dall'inizio alla fine, riuscì a condurre il difficile rito senza uno sbaglio solo... Fu proprio in quella notte, dopo la Festa della Fioritura, nel silenzio e nell'intimità della loro hoam, che la Madre volle compiere un'ultima magia. Dalla sua raccolta di antichi tesori, estrasse un rotolo di pelle, e lo benedisse, prima di consegnarlo a Meg. «Adesso sei proprio pronta, finalmente, mia figlia diletta!» disse. «Partirai domattina.» «Partire, Madre?» esclamò Meg, stupita. «Sì. Per l'ultima prova, quella finale. Questa che io ti consegno ora è infatti una carta geografica, un foglio, cioè, che 'Indica-i-posti'. Qui infatti puoi vedere, dove la montagna e il fiume si incontrano, il cuore del territorio di Jinnia, con il nostro villaggio. Lontano, dalla parte dove il sole tramonta, e più a nord, come qui è indicato, c'è invece il Posto delle Dee. Là dovrai recarti in pellegrinaggio, per tornare poi qui ad assumere definiti-
vamente il ruolo di Madre.» Meg comprese che quello era un istante decisivo: quasi un addio... «E tu, Madre?» chiese allora. «Cosa avverrà di te, quando io diventerò Madre?» «Tutto quello che avverrà di me, sarà accettato con animo sereno, figliola. Quello che è importante per me è solo sapere che l'opera venga portata avanti...» la vecchia Madre si fermò un momento a riflettere. «Ci sono ancora molte cose che tu devi sapere, Meg, ma è proibito che io te le riveli fintanto che non sarai tornata dal Posto delle Dee. Là infatti vedrai e capirai molto da sola...» «E i... i libri?» chiese Meg, con esitazione. «Quando sarai tornata, potrai leggere anche tu i libri, così come pure io ho fatto dopo il mio ritorno. Ed allora capirai tutto. Anche l'estremo terribile, segreto che il resto del Clan non dovrà mai conoscere...» «Non capisco, Madre.» «Capirai, figliola... capirai tutto, dopo. E adesso vai a dormire. Poiché è domani, con il levar del sole, che il tuo pellegrinaggio deve iniziare...» Capitolo Terzo: Aggredita! Lontano, laggiù fra le colline, un coyote stava gridando il suo triste saluto alla luna che moriva. Il suo urlo acuto fendette il silenzioso stormire degli alberi e il brusio incessante della foresta che non conosce requie. Meg si svegliò a quell'urlo. Aprì gli occhi e vide che l'alba stava già tingendo il cielo, a oriente, con il suo orlo purpureo. Si scosse e scese dall'enorme radice su cui aveva dormito per tutta la notte. Il suo cavallo era già sveglio e stava mangiando l'erba, sotto l'enorme quercia, senza un attimo di riposo. Meg gli sciolse la briglia, e si diresse alla sorgente che aveva scoperto la sera precedente. Una volta lì, bevve e, nella piccola pozza creata dall'acqua si lavò per bene. Poi iniziò a prepararsi la colazione. Le era rimasto però ben poco cibo nella bisaccia: una coscia di coniglio, avanzata e messa da parte con cura dalla cena della sera precedente; due biscotti, ormai rinsecchiti, una preziosa manciata di sale. Mangiò quello scarso pasto, decidendo di accamparsi, prima del solito, la sera dopo, per poter disporre qualche trappola per gli animali e per cuocersi qualche altro biscotto. Ripulì, poi, un angolo di terreno, formando un cerchio di terra nuda,
sgombra dai rami e dalle foglie cadute. Quindi gli girò intorno tre volte, per allontanare gli Spiriti Maligni del Fuoco. Batté poi la pietra focaia contro un pezzo del metallo scuro che veniva dalla Città degli Antichi, un regalo della Madre, e si accese un piccolo fuoco. Erano trascorse ormai due settimane da quando Meg aveva lasciato il territorio di Jinnia. Aveva viaggiato dalla zona delle montagne di roccia, la sua terra natale, fino alle valli dominate dal Clan degli Hyan. Nella pianura squallida dello Yana, aveva fatto però un errore. La carta geografica indicava infatti in maniera chiarissima la via che lei doveva seguire, ma Meg si era imbattuta in una di quelle strade costruite dagli Antichi. Una strada bianca e compatta, ancora ben conservata. E siccome era molto più comodo procedere su una strada del genere, piuttosto che doversi aprire a fatica un passaggio attraverso la foresta, Meg l'aveva seguita e, senza rendersene conto, si era lasciata portare verso sud. Fu solo quando giunse all'antico e consunto villaggio di Slooie che alcuni Zuries molto gentili le fecero rilevare il suo errore. Meg fu costretta perciò a ritornare verso nord, dalla parte dove il sole tramonta, risalendo la regione del Grande Fiume fino alla terra dei Demoys. A quel punto, stando a quanto diceva la mappa, lei era entrata nella regione dei Braska. Ancora due settimane di viaggio (ma forse anche meno) e Meg sarebbe giunta alla sua destinazione: il sacro Posto degli Dei. Un improvviso rumore di rami spezzati, che giungeva della selva alle sue spalle, riscosse Meg da quelle riflessioni. Allora la giovane si girò di scatto ed estrasse la spada con una mossa fulminea. Ma adesso le fronde erano tornate immobili. Dalla boscaglia non giungeva alcun rumore. Rassicurata sulle sue paure, Meg si voltò di nuovo, riprendendo la delicata operazione di arrostire il coniglio che aveva trovato in una trappola. Ma doveva sempre stare all'erta. Meg aveva infatti dovuto imparare ben presto quella lezione, e cioè prima ancora che la seconda giornata del suo viaggio l'avesse portata fuori della regione di Jinnia. C'erano, infatti molti Selvaggi che infestavano quelle zone, proprio come l'aveva avvertita la Madre. Selvaggi che cercavano cibo, o che cercavano il prezioso metallo che era possibile trovare nei villaggi degli Antichi, ormai in rovina, e che serviva per accendere il fuoco. Ma erano anche selvaggi che cercavano, soprattutto delle donne. Erano rimaste infatti ben poche femmine, fra di loro. I selvaggi, per la maggior parte, erano così quasi tutti maschi... anche se, nei loro corpi tozzi, nei volti ferini e rozzi, nei muscoli duri e nodosi, c'era ben poco che assomigliava ancora alla figura di un uomo.
Quando s'era accampata per la seconda notte del viaggio, un Selvaggio aveva attaccato Meg. Per fortuna, quando l'aveva assalita, Meg non dormiva ancora... altrimenti il suo pellegrinaggio avrebbe avuto una conclusione repentina. Certo, il Selvaggio non l'avrebbe uccisa, perché quei bruti non catturavano le donne per ucciderle. No. Ma le portavano nei loro covi. E lì... molte volte Meg aveva udito raccontare quelle storie terribili! Le poverette catturate venivano violentate e stuprate e... ma una sacerdotessa non poteva permettere che il suo sangue puro si mischiasse con quello di un brutale Selvaggio, diventando, così, a sua volta, una madre normale buona solo a generare altri bambini e ad accudire ai figli. Per questo Meg aveva lottato con una forza disperata contro l'aggressore, e aveva vinto. Il corpo di quel Selvaggio giaceva così adesso tra le colline di Jinnia, ormai spopolato dagli uccelli rapaci. Ma da quando era riuscita a stento a salvarsi da quell'attacco, Meg aveva preso a dormire sempre in alto sugli alberi, la notte, tenendo sempre ben stretta in mano la spada... Finalmente, il cibo era cotto. Meg lo sfilò dallo spiedo, vi soffiò sopra per raffreddarlo e si accinse a mangiare, mentre tanti pensieri le si agitavano nella mente. La fine del pellegrinaggio era ormai vicina. Era prossimo, infatti, il momento in cui lei si sarebbe introdotta nel Posto delle Dee ed avrebbe conosciuto l'ultimo dei segreti, quello custodito più gelosamente... quello che la Madre del Clan non le aveva mai voluto rivelare. Fu per questo motivo che i sensi la tradirono. Fu per questo che non si accorse del Selvaggio nascosto lì vicino, finché lui, con un ringhio gutturale di bramosia, non le balzò addosso dai cespugli. E subito la abbrancò e la inchiodò contro il suolo, bloccandole le braccia, che tentavano una resistenza ormai vana e disperata, contro i fianchi, in una morsa d'acciaio. La lotta fu comunque dura, pur nella sua silenziosità. Il corpo di Meg, anche se magro, era robusto. E lei lottò come una tigre, ricorrendo a tutte le armi naturali delle quali gli Dei l'avevano fornita. Si difese con i pugni, con le ginocchia, con i denti... Ma il Selvaggio era forte almeno quanto era intenso il suo desiderio di possedere quella giovane. Schiacciò così Meg sotto il peso del proprio corpo fin quasi a soffocarla, mentre la puzza del suo sudore inondava le narici di lei, quasi stordendola. Con le braccia le coprì i seni di lividi, procurandole un dolore così intenso da bloccarle il respiro nei polmoni. Un braccio peloso le si strinse infine intorno alla gola bloccandole il flusso
dell'aria, così preziosa... Meg si dibatté disperatamente e riuscì, per un attimo, a sfuggirgli, a liberarsi, ed affondò nel braccio del Selvaggio i denti aguzzi. Dalla bocca del bruto uscì un ululato di dolore e di rabbia. Meg cercò di approfittarne per prendere la spada. Ma il Selvaggio le saltò di nuovo addosso, e questa volta la colpì impietosamente con una gragnuola di pugni. Meg vide una mano enorme e pesante come un maglio che le calava addosso poi vacillò per il colpo tremendo che il bruto le aveva inferto. Un lampo accecante. Tutto cominciò a girarle intorno. Il suolo le precipitò incontro. E poi... solo il silenzio. Capitolo Quarto: L'incontro inaspettato Meg si risvegliò, con un piccolo gemito. La testa le pulsava con violenza e sentiva tutte le ossa indolenzite. Tentò di alzarsi in piedi, ed a metà di quell'azione si rese conto, con enorme sollievo, di potersi muovere. Dunque, non era legata! Ma allora il Selvaggio... Si guardò rapidamente attorno. Era ancora nella piccola radura dove il bruto l'aveva attaccata. Il sole, nella sua orbita, aveva adesso raggiunto l'orizzonte, e disegnava una trina di ombre in quell'angolo di foresta. Il fuoco che Meg aveva acceso, aveva ancora qualche tizzone che bruciava, e vicino al fuoco era seduto un... un... Meg non riuscì a stabilire di che cosa si trattasse. Sembrava un Uomo, ma questo era, chiaramente, impossibile. Il corpo dell'essere era infatti fine e privo di peli quasi come il suo. Ed era abbronzato dal sole. Non era il corpo flaccido e pallido tipico degli uomini, no. Quell'essere era muscoloso, forte e saldo, più alto e robusto perfino di una guerriera. Il primo istinto di Meg fu quello di fuggire. Ma, più forte della paura, la trattenne la curiosità. Quell'essere costituiva infatti un vero mistero. E in più la sua spada era ancora lì, accanto a lei. Chiunque fosse e qualunque intenzione avesse lo Straniero, non sembrava dunque che volesse farle del male. Meg allora gli parlò. «Chi sei?» gli chiese. «E dov'è il Selvaggio che mi ha aggredita?» Lo Straniero alzò gli occhi e sui suoi lineamenti fini si dipinse un'espressione di soddisfazione. Accennò ai cespugli. Meg seguì con gli occhi il gesto, e vide che là sotto era steso il Selvaggio, morto. Guardò di nuovo, meravigliata, lo Straniero.
«Sei tu che l'hai ucciso? Non sei uno dei Selvaggi, allora! Ma io non capisco: non sei nemmeno un Uomo..» «Parli troppo,» le disse lo Straniero, con la voce più profonda che Meg aveva mai sentito uscire da una bocca umana. «Siediti lì e mangia, Femmina!» Lanciò a Meg un pezzo di carne di quel coniglio che lei stessa aveva cacciato e cucinato. Senza rendersi ben conto di quello che faceva, Meg lo raccolse e cominciò a mangiare. Con gli occhi sgranati fissava intanto lo Straniero. Poi lui, terminato il suo pasto, si pulì le mani sulla pelle che lo rivestiva e le si avvicinò. Meg lasciò cadere il boccone che aveva cominciato e si alzò di scatto per prendere la spada. «Non osare toccarmi, o Senza Peli!» gli urlò contro in un tono ammonitore. «Sono una sacerdotessa del Clan di Jinnia. Non ti azzardare quindi a...» Lo Straniero le passò accanto senza neanche ascoltare quello che stava dicendo. Si diresse al luogo dove Meg aveva legato il cavallo ed agitò con aria di scherno un brandello della briglia spezzata. «Le donne!» sbottò. «Bah! Non siete nemmeno capaci di ammaestrare un cavallo. Guarda! È fuggito!» Meg arrossì di rabbia. Il volto le scottava, benché il solo fosse tramontato da tempo. Gridò: «Uomo sconosciuto, come osi parlare in questo modo a una donna che potrebbe essere il tuo padrone? Per Jarg, dovrei farti frustare e...» «Parli troppo!» disse ancora lo Straniero, con aria stanca. Ed ancora una volta si sedette sui calcagni e la guardò attentamente. «Ma tu mi interessi. Chi sei? Cosa fai così lontana dal territorio di Jinnia? Dove ti rechi?» «Sono una sacerdotessa,» disse Meg, freddamente. «Le sacerdotesse non rispondono alle domande degli inferiori...» «Non sono un inferiore,» rispose lo Straniero, offeso. «Sono un Uomo. Uno della tribù di Kirki, che vive molto lontano da qui, più a sud. Il mio nome è Daiv, ma sono anche conosciuto come Colui-che-vuole-imparare. Dimmi, allora, o Donna... chi sei e che cosa fai qui?» La sua semplicità stupì Meg. La giovane si accorse che, suo malgrado, le parole le uscivano di bocca. «Io... io... mi chiamo Meg. Mi sto recando in pellegrinaggio al Posto delle Dee. È l'ultima prova che devo sostenere prima di diventare la nuova Madre del mio Clan.» Gli occhi dell'Uomo rivelarono, con una franchezza che la fece arrossire,
il loro apprezzamento per la bellezza della giovane. «Ah, davvero?» le disse poi. «Tu, una Madre del Clan? Meg, non preferiresti invece metterti con me, e diventare la madre del clan mio e tuo?» Meg sobbalzò per quella proposta sfrontata. Certo, gli Uomini erano i compagni delle Donne e a loro si accoppiavano, quando quelle lo decidevano. Ma non si era mai sentito di un Uomo che avesse avuto l'audacia di proporre lui una cosa del genere a una giovane! E in più tutti gli accoppiamenti dovevano venire stabiliti dalla Madre, dopo aver interpellato la Dea. E, inoltre, tutti sapevano che le Sacerdotesse non si accoppiano mai con nessuno... «Non conosci la Legge, Uomo?» gli rispose lei, allora. «Presto io sarò la Madre del Clan e quindi bada alle tue parole, oppure l'ira delle Dee...» Quell'Uomo che si chiamava Daiv emise una risatina. «Ricordati che sono stato io, e non le tue Dee, a salvarti dal Selvaggio,» le disse. «Fra la mia gente, o piccola testolina d'oro, si ritiene che non ci sia nulla di male nel fare una domanda. Ma se la mia proposta non ti va,» Daiv si strinse nelle spalle. «Allora ci salutiamo e riprendo la mia strada. Addio, sacerdotessa...» E, senza un'altra parola di commiato, si alzò in piedi e si mosse per allontanarsi. Meg si fece rossa in viso. Gridò con ira: «Uomo!» «Sì?» rispose lui, girandosi. «Non ho più il cavallo. Come potrò fare a giungere fino al Posto delle Dee?» «A piedi, Aurea. O è forse che voi Donne tanto superiori siete troppo fiacche per fare un viaggio del genere?» Rise di nuovo... e poi se ne andò, sparendo lontano. Per un lungo istante, Meg restò con gli occhi fissi a guardare la parete di foglie che si era richiusa dietro a Daiv. Provò allora un senso di freddo e di tristezza, nel sentirsi completamente sola e quasi circondata da un senso palpabile di abbandono. Poi compì un gesto che lei stessa non riuscì a spiegarsi: batté forte un piede per terra, con un gesto di stizza incontenibile... Capitolo Quinto: La guerra immane Il sole era ormai alto, e stava diventando a ogni istante più caldo. Ora
che non aveva più il cavallo, il viaggio verso il Posto delle Dee sarebbe stato molto più lungo. Ma per lei era un sacro dovere il compiere quel pellegrinaggio. Meg ricoprì quindi le braci del fuoco con la cenere. Si mise la bisaccia sulle spalle e si avviò nella direzione in cui cala il sole, affrettandosi. La strada era lunga, e la giornata calda ed afosa. Ancor prima che il sole fosse a perpendicolo sul suo capo, Meg si sentì tutta sporca di sudore e di polvere. Aveva i piedi indolenziti e le gambe pesanti per il lungo camminare, una cosa alla quale non era abituata. Quando giunse il pomeriggio, ogni passo divenne un tormento. Il sole era ancora troppo forte per poterlo fissare, quando Meg trovò una fonte d'acqua fresca: decise che quello era il posto più adatto per passare la notte. Mise delle trappole per la piccola selvaggina; prese dalla sacca il sale e la farina, e cominciò a preparare dei biscotti. Mentre la pietra sulla quale li avrebbe cotti si stava riscaldando si recò al ruscello e vi immerse le gambe, lasciando che la Dea dell'Acqua lambisse sui suoi poveri piedi le piaghe e il dolore. Non poteva vedere il fuoco, da dove si trovava. Era seduta in riva alla sorgente da una buona mezz'ora, quando le giunse al naso un odore strano e sconosciuto. Era un profumo dolce e amaro allo stesso momento, penetrante come di erbe aromatiche, ma tale da farle venire l'acquolina in bocca. Allora Meg si affrettò al campo e... vi trovò l'Uomo, Daiv, anche questa volta seduto presso il focolare di pietre. Stava sorvegliando una rozza padella appoggiata sul fuoco. Ogni tanto, con un bastoncino pulito, vi rimestava dentro. Avvicinandosi, Meg poté vedere dentro la pentola un liquido scuro, e l'aroma delizioso che sentiva proveniva proprio da lì. Stava per chiamare l'Uomo, quando fu lui a parlare per primo. Le disse: «Salve, Aurea.» Meg rispose, con aria gelida. «Cosa stai facendo, qui?» Daiv si strinse nelle spalle. «Sono Daiv, Colui-che-vuole-imparare. Ho riflettuto quindi un po' ed ho deciso di venire anch'io al tuo Posto delle Dee. Lo voglio vedere.» L'uomo annusò allora il profumo che saliva dal brodo scuro e ribollente; ne sembrò compiaciuto. Ne versò un poco in una ciotola di coccio e la tese a Meg, dicendole: «Ne vuoi?» Meg si avvicinò con fare circospetto: quello poteva essere forse un trucco dell'Uomo della tribù di Kirki per catturarla. Forse era una droga, quello
strano liquido aromatico, la Madre del suo Clan conosceva bene le ricette per i filtri di quel tipo: ne fabbricava spesso uno che confondeva i pensieri, asciugava la bocca e faceva vacillare i piedi... «Cos'è?» chiese Meg con cautela. «Cawfi, è naturale,» rispose Daiv, quasi sorpreso. «Non dirmi che non l'hai mai provato! O forse no, hai ragione... i fagioli non crescono nei vostri climi del nord. Ma ce ne sono tanti nella mia terra, e nei territori Sippe e Weezian. Assaggia, su! È squisito...» Meg provò la zuppa. Aveva un sapore che assomigliava al profumo che emanava: amaro e forte, ma insolitamente piacevole. Quel calore le scorse nelle vene, facendo sparire dal corpo della ragazza il dolore della fatica, così come l'acqua del ruscello le aveva attenuato il bruciore dei piedi. «È buono, Uomo,» ammise alla fine. «Daiv... il mio nome è Daiv, Aurea. È così che mi devi chiamare.» Meg aggrottò le sopracciglia, con un'espressione corrucciata. «Una sacerdotessa non deve mai rivolgersi a un Uomo chiamandolo per nome.» Daiv emise un'altra di quelle risatine allegre che gli erano tipiche. «Bisogna dire che oggi hai fatto un bel po' di cose che non si addicono a una sacerdotessa, o Aurea..., ma non sei a Jinnia, adesso, e qui le cose sono diverse. E per quanto mi riguarda...» si strinse di nuovo nelle spalle. «Pure la mia gente agisce in un modo differente. Noi siamo una delle tribù scelte, lo sai? Noi proveniamo dalla terra della Grande Fuga...» «La Grande Fuga?» domandò Meg, stupita. «Sì.» Pur parlando, Daiv lavorava velocemente. Dal suo sacco aveva preso della carne, e la stava ricoprendo d'argilla. Prese poi quelle specie di pani e li pose nella brace del rozzo forno. Aveva anche dei frutti, che da molto tempo Meg non aveva più assaggiato. Daiv li sbucciò con il coltello da caccia, lì tagliò a fette e li pose ad abbrustolire un poco sopra la pietra arroventata. «La Grande Fuga degli Antichi,» le spiegò. «La Grande Fuga...» «Io non credo di capire,» fece Meg, sinceramente perplessa. «Neanch'io, in verità. O, per lo meno, non del tutto. È accaduto tanto, troppo tempo fa. Prima ancora che ci fosse la tribù del padre del padre del padre di mio padre. Ma ci sono dei libri, nell'hoam del Signore della Tribù, che raccontano quella storia. Io ne ho visti alcuni...
«Un tempo, molto, molto tempo fa, la vita era assai diversa da ora. All'epoca degli Antichi, gli Uomini e le Donne in tutto il mondo erano uguali. In effetti erano gli Uomini i padroni, ma gli Uomini erano anche un po' troppo fieri e bellicosi...» «Come i Selvaggi, vuoi dire?» «Sì, ma non facevano le guerre con le lance e i bastoni, come i Selvaggi. No. Gli Antichi combattevano le loro guerre usando grandi catapulte, che scagliavano fuoco e fiamme e facevano avvenire tremende esplosioni. Usavano anche dei minuscoli archi che scagliavano piccolissimi dardi d'acciaio, e combattevano con gas micidiali che distruggevano ogni cosa o con una strana acqua che ustionava la pelle. «Combattevano le loro battaglie in mare e per terra, e pure nel cielo, giacché gli Antichi avevano le ali, come gli uccelli. E così riuscivano a salire molto in alto, producendo rumori come di tuono. E quando battagliavano, gettavano dall'alto enormi uova di fuoco, che uccidevano la gente a migliaia...» Meg gettò un acuto grido: «Oh...» «Non mi credi? Guarda che sto dicendo il vero, che...» «No, Daiv! È che stanno bruciando i frutti!» «Oh!» fece Daiv, scoppiando a ridere. E si affrettò a rivoltare con cura le fette di frutti che si stavano per carbonizzare. Poi riprese a parlare. «Raccontano che un giorno scoppiò la guerra finale, la più tremenda di tutte. Non fu la solita battaglia fra alcune tribù, ma fra tutti gli abitanti della Terra. E questo accadde nell'anno che è noto col nome di Millenovecentoottantaquattro... anche se non so bene che cosa questo nome voglia dire.» «Io lo so!» esclamò Meg, d'improvviso. Daiv la fissò con maggior rispetto. «Tu lo sai? Davvero? Ma bisogna, allora, che il capo della mia tribù ti conosca, perché...» «Questo non è possibile,» rispose Meg. «Ma vai avanti...» «Va bene. Per molti anni, quella guerra finale andò avanti... ma nessuno riusciva a prevalere. A quel tempo, erano gli uomini che combattevano, mentre le Donne restavano nelle case ad accudire alle faccende domestiche. Migliaia e migliaia di uomini morirono, e giunse il momento in cui le donne furono stanche di quella situazione. Si accordarono perciò tra loro, tutte le Donne che vivevano nelle regioni civili. E presero la decisione di disfarsi per sempre di quegli esseri troppo violenti, gli Uomini. E così ces-
sarono di lavorare e di inviare provviste e uova di fuoco agli Uomini che stavano combattendo la grande guerra al di là del mare. E costruirono invece delle immani città fortificate e vi si chiusero dentro. «Quando gli Uomini si accorsero che non avevano più nulla con cui combattersi, dovettero per forza concludere quella loro guerra terribile, senza né vinti né vincitori. Ritornarono poi tutti alle loro case, a cercare le Donne che amavano. Ma le Donne li respinsero, in un modo brutale. Scoppiò, allora, un'altra triste guerra... tra i due sessi, questa volta. Ma le Donne si erano ben preparate e riuscirono a difendere le loro fortezze, e poi passarono all'offensiva. E così...» «E così?» domandò Meg. «E così gli Uomini,» disse Daiv, con una certa tristezza, «a poco a poco si trasformarono, regredendo e imbarbarendo, in quei rozzi Selvaggi che oggi infestano le selve, soli e senza compagne femminili, tranne che per le poche Donne che riescono ancora a fare prigioniere. Il loro numero è perciò calato rapidamente, mentre invece è andato sempre aumentando quello dei Clan... ma soltanto in pochissime regioni, come nella mia terra di Kirki, la società non si è trasformata in un rigido regime matriarcale.» Daiv fissò Meg. E poi le disse ancora, leggendo lo scetticismo sul volto di lei: «Non ci credi? Non credi a quello che ti ho riferito?» No, lei non ci credeva proprio. E così Meg scosse la testa. E, all'improvviso, si accorse anche di sentirsi davvero molto dispiaciuta per quello Straniero che si chiamava Daiv. Sì, perché si era resa conto, proprio in quel momento, anche del motivo per cui lui non le aveva fatto del male o del perché non l'aveva costretta ad accoppiarsi con lui, quando l'aveva avuta inerme a sua disposizione... La ragione? Ma non l'aveva fatto solo e unicamente perché era pazzo. Completamente, totalmente, irrimediabilmente pazzo. Solo un pazzo poteva infatti raccontare, credendoci, una storia come quella che lui le aveva appena riferito... E così a lei non rimase altro che dirgli, con una certa gentilezza ma anche con un'intensa e sconsolata mestizia, e pure un po' rassegnata: «Lasciamo perdere, Daiv... e mangiamo.» E così fecero, senza più parlare. Capitolo Sesto:
La magia delle bocche Che quel giovane fosse pazzo o no, certo era comunque un gran piacere avere almeno un po' di compagnia per le tappe di quel lungo viaggio faticoso. Fu per questo che Meg non cercò in nessun modo di dissuadere Daiv dall'accompagnarla. Non era pericoloso, ed era un compagno simpatico... malgrado fosse un uomo. E il suo chiacchierare, per quanto a volte davvero delirante, era l'ideale per trascorrere delle ore che, altrimenti, sarebbero state molto noiose. Attraversarono insieme la regione dei Braska, e finalmente penetrarono nel territorio 'Kota. Ormai erano molto vicini al Posto delle Dee... che si trovava nel punto più ad occidente di quella regione, presso Yomin. Le giornate trascorsero lente e si assommarono fino a formare delle settimane. Nei primi giorni di marcia non avevano percorso che poche miglia, poiché i piedi di Meg erano ancora delicati e le sue gambe erano piene di fitte di dolore, come di diavoli che le saltellavano nelle vene. Ma quando l'abitudine a quell'incessante camminare fece morire quei demonietti, allora poterono cominciare a procedere con maggiore speditezza. E la meta si avvicinava... «Una volta, tempo fa, hai cominciato a narrarmi della Grande Fuga, Daiv,» gli disse Meg, una sera, «ma non hai mai finito quel tuo racconto. Qual è esattamente la leggenda della Grande Fuga?» Daiv si distese comodamente davanti al fuoco. Con gli occhi sognanti. «Avvenne nella regione che è detta di Zoni,» rispose lui, «non lontano dal territorio del mio Clan. C'era allora un Uomo-Dio chiamato Renn, che previde la fine degli Antichi. E così egli fabbricò un colossale uccello del cielo tutto fatto di metallo. E fece entrare nel suo interno due dozzine di Uomini e di Donne. «E presero il volo, e se ne andarono lontano da qui,» Daiv accennò ad un puntino lucente nel cielo, su in alto. «Andarono lassù, sulla stella della sera. Ma si dice che un giorno ritorneranno da noi. È per questo che il mio Clan cerca di conservare le usanze degli Antichi. Ed è sempre per questo che altri Clan, come per esempio il tuo, anche ormai fuorviati, fanno la stessa cosa conservando i libri...» Meg arrossì di collera. «Basta!» gridò. «Sono stata a sentire molte delle tue storie balzane senza commentarle mai in alcun modo, Daiv, ma adesso io ti ordino di non raccontarmi più storie come questa. È... è un sacrilegio!»
«Un sacrilegio?» «Non era già abbastanza perverso che la tua mente pazza venisse a raccontarmi dei giorni in cui erano gli Uomini che governavano la Terra? Adesso pretendi addirittura di farmi credere che esisteva persino un UomoDio!» «Ma, Aurea, pensavo che tu avessi capito che tutti quanti gli dei che voi adorate non erano altro che Uomini...» «Daiv!» Meg si alzò di scatto in piedi per affrontarlo, senza saper bene neanche lei perché lo faceva. Gli chiuse la bocca con le mani. Poi, in preda a una sensazione di paura, la giovane frugò il buio con lo sguardo e poi compì un rapido gesto pronunciando una ancor più rapida preghiera. «Non sfidare l'ira degli dei!» gli disse alfine. «Io sono una sacerdotessa e quindi lo so bene: tutte le divinità sono Donne! E nient'altro è possibile!» «Ma perché?» «Perché... perché... perché è così!» rispose Meg. «Non potrebbe essere altrimenti. Tutte quante le Donne sanno che le divinità sono grandi, buone e forti. E quindi, come potrebbero essere degli uomini? Jarg e Ibràm e Taamuz. E la grande Tedhi...» Gli occhi di Daiv si socchiusero, con un'espressione stupita. «Non ho mai sentito questi nomi,» disse fra sé, meditando. «Non sono gli stessi adorati dal mio Clan. Eppure... Ibràm... Tedhi...» La voce di Meg risuonò, piena di gran pietà per lui. «Abbiamo compiuto insieme un lungo viaggio, Daiv,» gli disse, quasi implorandolo. «Da quando è iniziato il mondo, mai un uomo e una donna sono stati insieme come lo siamo stati tu ed io ora. Certo, hai detto delle cose pazze e assurde, ma ti ho sempre perdonato perché... be', perché in fondo sei solo un Uomo. «Ma domani, o il giorno che lo seguirà, noi arriveremo al Posto delle Dee. Allora il mio pellegrinaggio sarà concluso, ed io finalmente conoscerò quello che è l'estremo segreto. Dopo di che dovrò tornare alla mia tribù per diventare la nuova Madre. Non roviniamo quindi queste nostre ultime ore insieme con discussioni inutili.» Daiv scosse il capo e sospirò. «Gli Antichi sono scomparsi, e le loro leggende ci dicono così poco! C'è persino il caso che sia tu ad avere ragione, Aurea. Ma io, anche se non so dire perché, sento che sono le leggende del mio Clan, quelle che non si sbagliano, ma... Meg, già un'altra volta, prima d'ora, ti ho fatto una domanda. Ora te la pongo di nuovo: vuoi stare con me ed essere la mia com-
pagna?» «Sai che non è possibile, Daiv. Le Sacerdotesse e le Madri non si accoppiano mai. Se vorrai, potrò condurti a Jinnia con me. E farò sì che lì abbiano cura di te, per sempre, come è giusto che si abbia cura di ogni Uomo.» Daiv scosse il capo di nuovo. «No, è impossibile, Meg. Le nostre usanze non sono le stesse. E c'è un costume, presso la mia tribù, una consuetudine che tu non conosci e che fa parte del rito del corteggiamento. Permettimi di mostrartelo...» Improvvisamente, le si accostò. Meg sentì la forza di quelle braccia abbronzate che la circondavano, stringendola a lui. Poi Daiv le toccò la bocca con la propria, in una maniera decisa, terribile, quasi brutale. Meg resistette e tentò di urlare, ma la bocca di lui era stretta sulla sua e la bloccava, facendole quasi male. Pensieri di fuoco l'attraversarono... ma, stranamente non c'era l'ira che li alimentava. C'era qualcosa d'altro che le faceva provare quel fuoco interiore. E di colpo fu come se nelle vene le fosse penetrato un fuoco liquido. Il suo cuore prese a batterle fortissimo contro i seni che, per l'ansimare, si sollevavano in continuazione, in preda a loro volta a uno strano, inspiegabile formicolìo che non aveva mai conosciuto prima... Con i pugni Meg prese a colpire le spalle di Daiv... ma invano... perché in quei suoi colpi c'era ben poca forza... E poi Daiv la lasciò andare, e lei ricadde all'indietro, stordita. Gli occhi le rilucevano per la rabbia e aveva la voce roca. Tentò di parlare ma non ci riuscì. E, in quell'attimo, una tremenda debolezza le calò su tutto il corpo. Comprese, con terrore, che se Daiv avesse cercato di possederla in quel momento, non sarebbe certo stata la sua sacra vocazione di sacerdotessa degli Dei a proteggerla. C'era infatti dentro di lei un desiderio che pulsava, ed odiava la virilità di lui... ma gridava e implorava per averla! Anche Daiv arretrò di un passo. La sua voce era quasi mezza soffocata, quando disse: «Meg?» Lei si pulì le labbra con il dorso della mano e rispose, con la voce tesa: «Che tipo di magia è questa, Daiv? Che razza di usanza è mai? Io la detesto, Daiv! E detesto anche te! Io vi odio! Io...» «È il toccarsi-delle-bocche, o Aurea. Costituisce un diritto che l'uomo ha sulla sua compagna. Ed io ti prego ancora di non andartene al Posto delle Dee, ma di venire invece con me, adesso, a Kirki, per restarvi come mia compagna.» Per un istante, Meg fu scossa dall'indecisione, ma poi:
«No, no! Io devo andare al Posto delle Dee,» disse. «Quella è la mia missione...» E così fu. Meg studiò per l'ultima volta sulla carta che indicava i luoghi l'itinerario da seguire il giorno seguente. E al calare della sera, quando il sole lanciò i suoi raggi purpurei sulle colline scure e ricurve, lei e Daiv superarono il cancello che, secondo quello che le era stato detto, delimitava il Posto delle Dee. In quel punto, i due sostarono per diversi momenti, fissandosi in silenzio. Erano troppe infatti le parole che si sarebbero voluti dire. E sapevano tutti e due che quella era la fine. «Non so di nessuna legge che impedisca a un Uomo di accedere al Posto delle Dee, Daiv,» disse Meg. «Perciò puoi venire con me, se lo vuoi. Ma è meglio se non lo fai: ti prego, infatti, di restare qui, mentre io varco la soglia da sola. Andrò avanti senza di te e scoprirò qual è il supremo segreto. E dopo averlo svelato, seguirò un'altra via per tornare fino a Jinnia.» «Te ne andrai da sola, allora?» «Sì, Daiv.» Daiv annuì. «D'accordo,» le disse. «Sta solo a te decidere. Ma, se per caso, tu dovessi...» «Se dovessi cambiare idea, per qualsiasi ragione,» concluse Meg per lui, «tornerò senz'altro da te. Ma non è possibile e perciò non mi aspettare.» «Ma se invece, lo stesso, tu...» «No. No. Non tornerò, Daiv, credimi!» «Io ti aspetterò lo stesso, Aurea,» le disse Daiv, serio. «E ti aspetterò finché non sarà davvero perduta ogni speranza!» Meg si girò, poi esitò e tornò a voltarsi verso di lui. Sentiva dentro di sé un intenso dolore. Non sapeva che cos'era a provocarlo... ma conosceva una prodigiosa magia che l'avrebbe di sicuro lenito. E allora... «Daiv...» gli sussurrò. «Sì, Aurea?» «Non lo saprà mai nessuno e perciò, prima che ci diciamo addio per sempre... non sarebbe possibile evocare ancora una volta la magia del vostro 'toccarsi-delle-bocche'?» Lui assentì e le sorrise. E così, di nuovo, si baciarono. Capitolo Settimo: Faccia a faccia con le... Dee
Da sola, portando nel cuore il ricordo di quell'istante di intensa passione, Meg, finalmente, si avviò verso il Posto delle Dee. Il luogo era selvaggio e deserto. In lontananza, si alzavano delle brulle colline sabbiose. E l'unica vegetazione era costituita da sparse erbacce e da fiori miseri, che ondeggiavano tristi nell'aria fredda e grigia. Il terreno era aspro e incolto, sotto i suoi piedi, e non c'erano uccelli che cinguettassero nella sera che calava su quella desolata brughiera. Lontano, Meg udì un coyote che sfidava il cielo con il suo urlo solitario. Le colline fecero eco al suo lamento... Una collina più grande dominava su tutte le altre. Meg si diresse verso di quella, con passo sicuro. Non sapeva che cosa dovesse attendersi. Poteva perfino darsi che, una volta giunta là, le apparisse un coro di vergini che, ballando e cantando, la conducessero verso un altare nascosto, davanti al quale, inginocchiata, le sarebbe stato svelato alfine l'ultimo segreto. Forse, le stesse Dee in persona regnavano lì, e poteva darsi che Meg sarebbe caduta in ginocchio, colta da venerazione profonda, davanti alla frusciante veste di Jarg, la severa, e che così avrebbe udito dalla stessa bocca delle divinità quel segreto per conoscere il quale aveva viaggiato fin lì da tanto, tanto lontano. Meg era pronta ad ascoltare il segreto, qualunque fosse la cosa che le dovevano rivelare. Altre prima di lei avevano raggiunto quel luogo, ed erano sopravvissute. Meg non aveva quindi paura di dover morire. Ma... e se le fosse capitata una sorte peggiore, come la 'morte-in-vita' perché era arrivata al Posto delle Dee dopo aver commesso un sacrilegio? Sì, perché lei portava ancora nel cuore il ricordo della bocca di un Uomo stretta sulla sua... Per un istante, Meg ebbe paura. Aveva tradito lo spirito della sua missione. Il suo corpo non era stato violato, ma se le Dee avessero sondato la sua anima, avrebbero scoperto che il cuore di Meg aveva ormai dimenticato la Legge e si era dato totalmente e per sempre a quello di un Uomo. Tuttavia, se il suo destino doveva essere proprio la morte... ebbene, lei non aveva paura, né si pentiva. E così Meg proseguì il cammino. Percorse un sentiero pieno di curve, superò una stretta gola fra due rocce, e finalmente giunse al Posto delle Dee. E non poteva aver scelto un momento migliore per giungere proprio lì: il sole era giunto, ormai, a sfiorare l'orizzonte, a occidente, con il suo disco. C'era ancora luce, e Meg, con gli occhi pieni d'ansia, cercò in quel chia-
rore. Cercò... e finalmente vide! E allora, con il cuore inondato da un profondo senso di sgomento, la giovane cadde in ginocchio. Anche se di sfuggita, tuttavia aveva visto ciò-che-non-si-doveva-vedere! Aveva visto le Dee stesse, immobili nella loro onnipotente solennità, in cima alla vetta della montagna a picco. Meg rimase in ginocchio, trepidante, per diversi momenti, mormorando le formule rituali che servivano a placare le Dee. Temeva, da un momento all'altro, di udire sulla spalla la mano di Jarg, quella che giudica. Ma, escluso il folle battito del suo cuore, lo stormire dolce dei cespugli e il sibilo del vento che s'incuneava tra le rocce, non si udì nient'altro. Meg, ancora una volta, sollevò allora il capo e osò tornare a guardare. Si trattava proprio di Loro. Un primordiale istinto, più radicato e sicuro della sua memoria confusa, le confermò che non aveva errato. Era proprio quello il Posto delle Dee. E le Dee erano proprio lì, davanti a lei... severe, infallibili, immortali. Scolpite nella roccia eterna, dalle mani di coloro che erano vissuti nei millenni passati. Erano tutte là, le Quattro Grandi. Jarg e Taamuz, con i capelli ricciuti che facevano da cornice al volto serio, da giudici. E Thedhi, colei che vede lontano, con gli occhi celati dietro un enorme apparecchio che-fa-vederedistante; le sue labbra, anche così, erano socchiuse, ma come se dovesse esplodere da un momento all'altro in una delle sue rombanti risate. Ma... il Segreto? Appena la domanda le si affacciò alla mente, ecco che Meg aveva già trovato anche la risposta. All'improvviso, Meg capì infatti che là non si sarebbe verificata alcuna apparizione. Nessun coro di vergini le sarebbe apparso innalzando canti né le grandi labbra di pietra delle Dee le avrebbero concesso alcuna rivelazione. Sì, perché il tremendo Segreto che la Madre le aveva preannunciato... quello che le donne del Clan dovevano assolutamente ignorare... era lo stesso contenuto nei racconti che Daiv le aveva fatto nelle soste del loro lungo pellegrinaggio. Sì... le Dee erano... Uomini! Oh! Non certo Uomini quali Jak o Raf, i cui pallidi corpi erano soltanto gli strumenti attraverso i quali si fecondavano i corpi delle madri che allevavano i figli. No! Quelli ritratti lì sulla montagna erano uomini come Daiv! Magri, con le mascelle dure, i muscoli forti e i corpi robusti. Neppure i capelli ricciuti potevano infatti celare la profonda virilità di Jarg e Taamuz. E le labbra di Tedili erano contornate di peli d'Uomo, ta-
gliati corti e lasciati ricadere sulla bocca sorridente. Il volto di Ibràm era coperto anch'esso di pelo, come lo era quello di Daiv, di tanto in tanto, prima che quello compisse la 'magia-del-taglio', propria della sua tribù, per mezzo di un affilato coltello. Le Divinità Supreme, i signori e padroni degli Antichi, erano Uomini. Quello che Daiv le aveva raccontato era perciò effettivamente successo, tante ère prima: le Donne si erano ribellate. E ora continuavano a seguire quel loro freddo, solitario destino, triste e senza amore, tranne che in quei pochi luoghi dove, come nel villaggio di Daiv, si erano mantenuti gli antichi costumi. Era un fatto estremamente amaro, ma importante e che bisognava conoscere. Ma costituiva pure un tremendo fardello per chi lo sapeva: ora Meg capiva per quale motivo era così triste il destino delle Madri. Soltanto esse, infatti, sapevano quanto la nuova vita dei Clan fosse futile. Sapevano che presto i Selvaggi sarebbero morti, ed insieme a loro anche gli Uomini prigionieri del Clan. Da quel giorno in poi, non ci sarebbero stati più bambini. Mai più nuovi Uomini o Donne. La fine della civiltà... Il mondo era condannato, questa era l'unica e sola realtà. L'atroce verità... E tutto questo gli Dei lo sapevano bene. Era per questo che se ne stavano, tristi, abbandonati, dimenticati, lassù fra le grigie colline di 'Kota. Erano infatti gli Dei morenti di una razza che andava spegnendosi. E l'umanità si stava suicidando per una male intesa forma di vendetta. Non c'era più speranza... Avendo finalmente appreso quel terribile segreto, Meg doveva ora far ritorno al suo Clan, con il silenzio impresso sulle labbra. E laggiù doveva, come già aveva fatto la Madre che l'aveva preceduta, rimanere a guardare, con gli occhi sbarrati, l'assottigliarsi lento ma costante del loro gruppo, assistendo all'estinzione degli ultimi, inutili e deboli resti dell'umanità. Finché... Capitolo Ottavo: La terribile decisione Poi di colpo, folgorante come lo splendore della luna appena nata, un'intuizione dardeggiò nei recessi della mente di Meg, inondandola di luce e di comprensione. La speranza non era ancora morta! La Madre si era infatti sbagliata, per-
ché la Madre non era stata fortunata, nel suo pellegrinaggio, come Meg, e così non aveva potuto sapere che vi erano ancora, nel mondo, dei luoghi nei quali l'umanità continuava a vivere a immagine e a somiglianza degli Antichi. Ad immagine e a somiglianza degli Dei! I veri Dei... Ma Meg, sì, lei ora lo sapeva! E poiché lo sapeva, le si imponeva adesso la più grave scelta che una Donna avesse mai dovuto fare... Più in là, dalla valle si dipartiva un sentiero che l'avrebbe ricondotta direttamente al suo villaggio. Una volta tornata là, Meg sarebbe presto diventata una Madre, e per tutta la vita sarebbe stata la guida e la tutrice del suo popolo. La più saggia, la più forte, la più rispettata. Però sarebbe restata una vergine fino alla morte, sterile e santa, come voleva la tradizione... Questa era una soluzione, una possibilità. Ma ce n'era anche un'altra. E Meg, rendendosene conto, levò in alto le braccia, gridando agli Dei di aiutarla nella decisione. Ma gli Dei non le risposero. Rimasero muti, con i gravi, enormi visi oppressi dal tempo e dalle intemperie, e non si mossero né le dettero un cenno di qualsiasi tipo. Ma mentre Meg cercava sempre più disperatamente sui loro volti la risposta a quel suo terribile dilemma, le tornò alla mente un versetto contenuto nelle «Preghiere di Ibrim»... o di Abram, come lo chiamavano altri. E mentre le labbra di Meg cominciavano a ripetere a memoria quelle parole sacre, alla giovane parve che i raggi del sole che moriva prendessero d'improvviso a concentrarsi proprio sul volto di Ibrim, facendone brillare, come di vita, gli immani occhi di pietra... quasi che, in quel modo, la divinità le volesse esprimere la sua comprensione e approvazione per quello che lei voleva fare. E i versetti dicevano: «... non scompaia dalla Terra, ma ci rimanga e ci viva per sempre...» Fu allora che Meg, la sacerdotessa, prese la sua decisione. Lanciando in alto un forte grido di gioia, la giovane si voltò e si lanciò di corsa via. Ma non verso il fondovalle: no, corse invece all'indietro... all'indietro... ripercorrendo il cammino che già aveva compiuto, con passi sempre più rapidi e colmi di ansia. Corse all'indietro, fin oltre la grande ombra del Monte Rushmore che la sovrastava, fin oltre la triste grotta che portava al cancello, e lì... E lì c'era ancora, per fortuna, l'Uomo che l'aspettava: Daiv, che le aveva insegnato l'arte magica e irresistibile del «toccarsi-delle-bocche». E così i due giovani si strinsero e si baciarono di nuovo. La sacerdotessa aveva scelto la sua strada. Ma, anche se lei non lo sapeva ancora, il cammino non sarebbe stato facile...
LIBRO SECONDO IL GIUDIZIO DELLA SACERDOTESSA Capitolo Nono: La bestia in trappola Dietro di loro il sole tramontava pigramente: un'enorme, distorta sfera di nuovo troppo luminosa perché fosse possibile fissarla, e le dita dell'oscurità si insinuavano subdole tra gli alberi, gettando ombre dovunque penetrassero. L'aria era rarefatta e resa fredda dall'alito della notte che incombeva: gli spiriti delle tenebre si annidavano tra le radici e le cavità degli alberi. Meg, tuttavia, non aveva paura. Era viva di calore, luce, felicità. Le colline intorno a lei erano dolci e gaie, tutte ormai vestite d'autunno; il passaggio non era più brullo e squallido come nel territorio del 'Kota, nel Posto delle Dee. Quella era la sua patria, la Jinnia dove era nata. Oltre quella svolta c'era un ruscello, e a mezza giornata di marcia, al di là del ruscello, c'era il villaggio delle donne della sua tribù. In sella a Nessa, la ragazza abbassò lo sguardo su Daiv, il suo Uomo, e parlò con voce vibrante di felicità. «Siamo quasi arrivati, Daiv! Presto conoscerai le mie compagne, parlerai con loro, imparerai ad amarle come io le amo.» Daiv le sorrise, un po' dubbioso. «Questo sono disposto a farlo, Aurea. Non posso fare a meno di chiedermi, tuttavia, come mi accoglieranno. Dopo quel che mi hai detto sugli Uomini della tua tribù...» e scosse il capo. Meg emise un suono gorgogliante di felicità; scivolò dalla groppa di Nessa e coprì con le mani le labbra di Daiv. «Non c'è nulla da temere, Daiv. Gli Uomini del mio Clan... puah! Non sono come te. Sono esseri deboli, buoni soltanto per la riproduzione. La Madre capirà, non appena ti avrà visto, che tu sei come gli Dei. Anche lei ha compiuto il pellegrinaggio. Si rallegrerà. E..» Meg si fece più vicina, nel cerchio delle braccia di Daiv. «E sarà ancora più lieta quando vedrà quanto noi due siamo felici insieme.» «Lo spero,» disse sobriamente Daiv. Le sue labbra incontrarono quelle della giovane donna nel dolce contatto che le aveva insegnato. «Ma è troppo tardi perché possiamo concludere oggi stesso il nostro viaggio,» le dis-
se. «Dobbiamo trovare un posto dove accamparci.» «Subito oltre la svolta,» gli disse Meg, animandosi. «Conosco ogni spanna di questo territorio, Daiv. Quando ero giovane, e studiavo con la Madre per diventare Sacerdotessa del Clan, venivo spesso qui in cerca di solitudine e per chiedere alle Divinità di guidarmi. Subito oltre la svolta vi sono una foresta e un ruscelletto. È una terra antica, questa, amore mio: gli alberi sono forti e possenti. Ma...» I suoi occhi cercarono con adorazione gli occhi di Daiv. «Ma non sono possenti e forti come te.» Daiv disse: «Suvvia, Aurea!» in tono di rimprovero, ma Meg si sentì colmare il cuore di gioia, quando lo vide tendere le spalle per addentrarsi nella foresta. Lei non rimontò in groppa a Nessa, e procedette a piedi dietro Daiv, conducendo per la briglia la cerva addomesticata. Nessa era il dono che le aveva fatto Daiv, una cavalcatura che aveva preso il posto del cavallo perduto da Meg lungo il tragitto per giungere al Luogo degli Dei, quando il Selvaggio l'aveva attaccata. «Un dono di nozze,» aveva detto Daiv... e per lei quella era una frase che non aveva senso. Ma del resto, non ci aveva fatto troppo caso perché Daiv diceva sempre molte cose strane. Ed era così, pensò Meg, un po' sgomenta, perché lui veniva da Kirki, che era un luogo sacro, lontano, nel sud, presso la Terra della Fuga. La sua tribù discendeva infatti dagli Antichi che, moltissimo tempo prima, erano fuggiti dalla Terra alla stella della sera, nelle viscere di un uccello metallico che sputava fuoco. Era stata l'abilità di Daiv a catturare Nessa, la cerbiatta selvatica della foresta: ma a domarla era stata la gentilezza di Meg. E la cerva aveva portato Meg attraverso tutti quei territori stranieri: attraverso Braska e Zurrie, fino ai campi azzurrolucenti di Tucky; e adesso, finalmente, l'aveva condotta alla sua amata Jinnia. Era stato un viaggio lungo e strano. Meg aveva veduto molte cose: curiosità che avrebbero strappato grida di stupore alle Donne del suo Clan, quando ne avrebbero parlato. Aveva visto le lunghe strade diritte costruite dagli Antichi, con il creet levigato ormai pieno di crepe e consunto, ma sempre più agevole da percorrere dei tortuosi sentieri boschivi. Aveva visto i resti di una gigantesca hoam chiamata Sinnaty, dove un tempo era vissuto un grande popolo chiamato «i Rossi». Lei e Daiv avevano sostato tre giorni presso le Donne della tribù di Loovil (la cui Madre conosceva la Madre del Clan di Meg, e aveva mandato saluti e doni di bacche mature e fragranti); e là avevano visto l'antica statua di un dio-cavallo chiamato
Manowah. Avevano persino (Meg si emozionava ancora al ricordo) dormito in una delle tradizionali hoam di quercia tipiche del popolo di Turky; dimore immortalate nel canto tribale di Tucky: «... canta una canzone della mia hoam di quercia...» «È una terra così grande, Daiv!» aveva detto una notte Meg a Daiv, mentre giaceva insonne, entusiasta per le meraviglie che aveva veduto quel giorno. «Una terra così grande, questo Tizathy! Come vorrei esservi vissuta quando gli Antichi l'avevano unificato sotto il loro dominio!» «Una terra veramente grande,» fu la risposta di Daiv. «Ma come l'hai chiamata? Tizathy?» «Sì,» spiegò Meg. «Era il suo nome. Ne parla uno degli antichi canti. 'Il mio paese, Tizathy, dolce terra della libertà'...» Daiv la guardò con immenso rispetto. «Un giorno o l'altro dovremo visitare la mia gente, Aurea. Gli anziani della mia tribù vorranno parlare con te. Tu sai tante cose...» Ma adesso, finalmente, il loro viaggio era terminato. Le dolci colline verdi di Jinnia ormai li cullavano: domani avrebbero raggiunto le sorelle di Meg. Quella notte avrebbero dormito nella piccola foresta che Meg conosceva così bene... Daiv si voltò, e sulla sua fronte era incisa una ruga. «Aurea, non avevi detto che saremmo giunti a una terra di foreste?» «Sì, Daiv. È proprio davanti a te. Là...» Poi Meg fu al suo fianco, con gli occhi sgranati per lo sbalordimento. «Ma... ma non è possibile!» gridò. Non c'era infatti una foresta, davanti a loro. Là dove la memoria di Meg le aveva detto che avrebbe dovuto trovare una giungla lussureggiante di verde, con grandi alberi che sfioravano il cielo e alte arcate di fronde e monarchi dei boschi dai tronchi immensi, non vi era null'altro che un'immensa pianura desolata, cosparsa di ispidi arboscelli! La pianura era spoglia e severa, priva di vegetazione, eccettuate quelle migliaia e migliaia di ramoscelli. Né erba, né arbusti, né fiori. C'era solo il fianco accidentato della collina, e quella schiera di rami stentati che arrivavano all'altezza delle caviglie. «Non... non capisco!» disse Meg, sbigottita. Guardò Daiv, improvvisamente presa da una paura che le agghiacciava il cuore, e si tracciò sul seno un simbolo magico per scacciare gli spettri maligni dei boschi. «Non è così
che doveva essere, Daiv! Qualcosa...» La pianura echeggiò dell'esclamazione gioiosa e baldanzosa di Daiv. «Qualcosa mi dice,» esclamò, «che hai commesso un errore, Aurea. Dunque, tu conosci ogni spanna di questo territorio, eh? Bene...» Scrollò le spalle. «È una notte senza nubi. E pianura o foresta, va bene lo stesso per accamparsi. Vai quindi a prendere l'acqua per il cawfee, Meg, mentre io accendo il fuoco.» Senza dir nulla, con le guance accese da un calore scottante, Meg andò al ruscello a prendere l'acqua. Poi, sempre in silenzio, ritornò nel luogo indicato da Daiv. Si aspettava che lui avesse prodotto le scintille del fuoco con una pietra e il pezzo di metallo che portava nella borsa... ma con sua grande sorpresa, vide che non c'era una vampa crepitante ad attenderla. Daiv, invece, era ritto accanto a uno dei fuscelli ramificati che festonavano la pianura. Sul suo viso c'era un'espressione incollerita; il sudore gli sgocciolava dalla fronte e dalla gola. Lo sguardo che le rivolse era arrossato dalla vergogna. «Meg,» cominciò. «Meg, sono stato colpito da una magia. Sono debole. Non ho forza!» «Non hai forza, Daiv?» «Sì. Guarda!» si chinò sul ramo spezzato che gli stava davanti. Le cosce robuste si tesero; i muscoli della schiena e delle spalle si gonfiarono per lo sforzo. Nuovo sudore sgorgò dai pori, quando l'uomo cercò, invano, di sollevare quel piccolo ramoscello. Poi sollevò le mani tremanti, dalle nocche sbiancate: e guardò di nuovo Meg. «È così piccolo,» disse con un filo di voce turbato. «Eppure non riesco a sollevarlo!» Meg gli balzò al fianco, si chinò sul ramoscello. Lei era un'esile ombra d'oro pallido accanto a Daiv, ma era forte. Le sue mani strinsero la corteccia ruvida: tirò... E cadde in avanti, completamente sbilanciata da un peso inaspettato e terribile. Il terreno duro le scalfì le ginocchia, ma non sentì dolore. Tutte le emozioni meno importanti erano smarrite nell'improvvisa paura superstiziosa che adesso la travolgeva. «La foresta è maledetta, Daiv! Dobbiamo fuggire!» Tenendosi per mano, corsero all'impazzata attraverso la pianura, per raggiungere il riparo del bosco. I raggi del sole morente gettavano ombre lunghissime davanti a loro, e un secco fremito di derisione per loro pareva salire dal groviglio dei ramoscelli irriducibili che ferivano i loro piedi...
Quella notte, Meg fece sogni spaventosi. Era perduta in una giungla d'alberi duri come fossero ossa; e mentre fuggiva, gli alberi scricchiolavano e cadevano verso di lei, tendendo i rami immobili come dita scheletriche. Lei gemette, gridò il nome di Daiv... e si svegliò, e lo vide chino ansiosamente su di lei. «Meg! Ascolta!» Nel fresco mattino, un suono giungeva chiaro alle orecchie di Meg. Era una voce umana, che si levava acuta in un urlo atroce. Una voce rauca, sgraziata. Meg rabbrividì. «Un Selvaggio, Daiv! È caduto in una delle nostre trappole.» «Un Selvaggio? Che trappole?» «Te lo mostrerò.» Meg si alzò prontamente, istantaneamente sveglia e vigile come un animale della foresta. Il sole fulgido del mattino scendeva su di lei, destandole un bagliore d'oro sulle braccia e le cosce, accendendo d'una vita tepida la peluria lionata che lei aveva sotto le ascelle. Eccettuata la bianca fascia di carne sotto il perizoma di pelliccia, Meg era tutta d'oro: i capelli raccolti in un nodo lento sulla testa erano come un'aureola splendente. Non tutte le Donne, pensò fuggevolmente Daiv, avevano un fascino capace di resistere nell'impietoso primo sole del mattino. Lui era stato quindi assai fortunato a trovare quella creatura così bella e incantevole... Aveva sete delle sue labbra. Ma era Daiv - detto anche «Colui-chevuole-imparare» - e lì c'era un nuovo mistero. Perciò seguì Meg. E Meg continuò a dirigersi verso le grida lamentose. Finalmente, si arrestarono sul ciglio di una spaccatura del suolo. Prima era stata coperta da una rete di fronde e di felci: ma ora il rivestimento s'era spezzato, e dal fondo del crepaccio salivano gli ululati di dolore che li avevano richiamati. Le labbra di Meg erano due linee pallide. «È lì dentro,» disse... E mentre parlava si tolse dalle spalle l'arco da caccia, estrasse dalla faretra una freccia dalla punta d'osso. Si accostò all'orlo del crepaccio, prese la mira. Poi... «Aspetta, Aurea!» Daiv le strappò l'arma dalle mani. Guardò nel trabocchetto, lanciò un grido e poi, ignorando l'avvertimento della compagna, si calò. Dopo un momento ritornò e si scaricò il fardello dalle spalle. Il suo carico, come Meg aveva previsto, era un Uomo-bestia villoso, fetido di sudore e di grasso, sporco di sangue e di terriccio. Un Selvaggio...
«Stavi per ucciderlo!» esclamò Daiv, in tono d'accusa. «È un Uomo ferito, e tu stavi per ucciderlo!» La sacerdotessa rise alteramente. «Non è un Uomo. È uno dei Selvaggi. Certo, stavo per ucciderlo. Questa è la Legge.» «È una Legge ben vile,» borbottò Daiv. Adesso si era curvato sul Selvaggio e gli tergeva le ferite con manciate d'erba secca e pulita. «Se le Donne della tua Tribù costruiscono queste trappole per gli Uomini, non sono certo di essere ansioso di incontrarle. Aagh! Coperture di frasche, e, sotto, rami acuminati!» Meg la Sacerdotessa sparì, e al suo posto apparve Meg la moglie, dagli occhi colmi di stupore. «Ma Daiv...» le disse con un filo di voce. «Anche tu hai ucciso uno dei Selvaggi! Quando ci siamo incontrati...» «L'ho fatto,» rispose seccamente Daiv, «perché aveva cercato di violentarti e di rapirti... mentre io ti volevo per me. Ecco... sta riprendendo i sensi. Come va, Uomo? Tutto a posto?» Gli occhi del Selvaggio guardavano sbalorditi la sacerdotessa aurea e quello strano Uomo glabro che gli stava davanti. Le labbra barbute gli si schiusero in un frammento soffocato di linguaggio. «Tutto... a posto.» Poi, rivolgendosi al solo Daiv: «Tu... mi hai salvato la vita!» Daiv annuì. Lentamente, i pensieri scorrevano dietro gli occhi del Selvaggio: poi il bruto prese una decisione. Estrasse dal lurido perizoma una lama scheggiata e arrugginita, e l'offrì a Daiv. Con l'altra mano si appiattì il groviglio verminoso di pelame sopra il cuore. «La mia vita è tua, straniero,» disse poi umilmente. Meg aveva spalancato gli occhi per lo sbalordimento. Fin dall'infanzia le era stato insegnato che i Selvaggi erano esseri pazzi e spietati, privi di sentimenti umani; bestie che si aggiravano per la foresta, pensando a tre cose soltanto: soddisfare gli appetiti del ventre, del loro membro virile e uccidere. Eppure lì c'era un Selvaggio che mostrava il sentimento civile della gratitudine. Meg si rivolse a Daiv con voce querula: «Deve essere impazzito, Daiv! Portiamolo con noi al villaggio. La Madre della tribù ci terrà a vedere questo prodigio... un Selvaggio con gli istinti di una Donna!» «E invece se ne andrà via libero!» disse Daiv, nello stesso tono secco. Rimise in piedi il Selvaggio. «Sei in grado di ritrovare i tuoi compagni?»
gli chiese. Il Selvaggio annuì in silenzio. «Allora vai!» ordinò Daiv. «E in futuro stai più attento alle trappole. Vai!» Ma il Selvaggio indugiò ancora un istante. Le parole gli uscivano esitando dalle labbra... ma venivano dal cuore. «La mia vita è sempre tua, Senza Pelo. Se mai tu decidessi di richiederla, mi troverai a nord di questo luogo. In una grotta vicino alla cascata...» Poi se ne andò: un'ombra villosa e nodosa che sparì nell'intrico della giungla. Daiv disse a Meg: «Vieni. Andiamo in cerca della tua gente. Voglio vedere bene le facce di chi è capace di fare male a dei poveri esseri come quello.» Meg rifletté per ore, mentre procedevano per le ultime miglia che li separavano dal suo villaggio natale, ma non riuscì a scoprire perché si sentiva avvampare alle guance e alla gola. Era come se il dio della febbre fosse entrato dentro di lei, ma sapeva di non essere ammalata... E così alla fine, lei in groppa a Nessa, Daiv che la precedeva a passi svelti e sicuri, raggiunsero la Patria di Meg. Il villaggio del Clan di Jinnia. Ma il ricordo del ramoscello pesantissimo e della strana foresta continuava a ritornare, portando con sé un sentimento affine alla paura. Rimaneva inquietante nelle loro menti come il residuo aleggiante di un sogno... Capitolo Decimo: Gli invasori Il lieto annuncio uscì dapprima dalle labbra delle Guerriere che custodivano le porte del villaggio. «È Meg! Meg è ritornata dal pellegrinaggio. Ditelo a tutte!» L'annuncio giunse alle Operaie nei campi, che si risollevarono dal lavoro, tergendosi le mani rese ruvide del terriccio: i loro occhi si illuminarono. «Meg è ritornata!» E le madri-fattrici udirono, mentre dormicchiavano, grasse e lustre, sulle soglie illuminate dal sole. Udirono, e i loro occhi dolci si riempirono di facili lacrime; si mossero, facendo ondeggiare i fianchi rotondi come grano maturo. «È Meg! È tornata dal Posto delle Dee!» Anche gli Uomini udirono. Ridacchiarono scioccamente e rotearono i grandi occhi e si allisciarono i capelli untuosi. E l'annuncio arrivò alla Madre tribale che uscì dalla sua hoam per andare incontro alla nuova Sacerdotessa. Si incontrarono entro i confini del villaggio; e l'anziana Madre tese
le braccia. «Sei ritornata sana e salva, figlia mia. Che le Dee vivano per sempre!» Meg non riusciva a parlare: un minuscolo folletto di felicità le stringeva la gola e le riempiva gli occhi di lacrime. Le sue mani, erano abbastanza eloquenti. La Madre si chinò su di lei e le tracciò un segno sulla fronte. «Tu hai dunque appreso il Grande Segreto, figlia mia; lo capisco dall'espressione dei tuoi occhi. Ora hai perciò superato l'ultima barriera tra te e la Maternità del nostro Clan. Questa notte faremo una grande festa: alla conclusione, io ti rivelerò gli ultimi misteri del tuo compito...» Vi fu un movimento nella folla che circondava Meg e la Madre: Daiv, che bolliva d'impazienza nel vedersi ignorato in quel modo, si era spinto avanti, al fianco della moglie. «Che significa, Meg?» esclamò la Madre. «Sei diventata Guerriera, oltre che Sacerdotessa? Dove hai catturato quest'Uomo-bestia senza pelo?» Era venuto il momento che Meg aveva nel contempo temuto e atteso. Prese Daiv per mano, orgogliosamente, e la sua voce risuonò come uno squillo di tromba. «Non è un Uomo-bestia, Madre. Non è un nostro inferiore. No, è un Uomo. Un vero Uomo, uguale a come erano gli Dei! Non una ridicola parodia come i nostri riproduttori, né un bruto puzzolente come i Selvaggi... ma un Uomo. È Daiv, il mio compagno!» «Compagno!» Quella parola scaturì non soltanto dalla bocca della Madre: venne gracchiata dalle Operaie e dalle Guerriere, e pigolata in un fremito impaurito dalle madri-fattrici. Gli occhi della Madre si rannuvolarono. «Il tuo compagno, Meg? Che pazzia è mai questa? Sicuramente sai che una Sacerdotessa destinata a diventare Madre non può accompagnarsi a un Uomo!» Daiv intervenne, parlando umilmente, e nel contempo con orgoglio. «Così credeva Meg, o Madre, fino a quando io le ho insegnato che le cose stanno ben diversamente... e fino a quando ha appreso il Grande Segreto ai piedi della Divinità. Io sono Daiv, chiamato 'Colui-che-vuole-imparare'; vengo dal luogo della Fuga. Il mio popolo vive secondo le Leggi degli Antichi. Nella nostra terra, l'Uomo e la Donna sono eguali: noi diamo e riceviamo l'amore nel sacro costume del matrimonio.» Meg si augurò disperatamente che Daiv non avesse detto nulla. Se lei avesse avuto il tempo di graduare quelle rivelazioni, pensava che sarebbe riuscita molto più convincente. Ma dalla voce profonda di Daiv quelle ve-
rità - che adesso lei riconosceva come tali - risuonavano solo come eresie temerarie e sfrontate. E ottennero dalle ascoltatrici la reazione che Meg aveva temuto. Con uno stridore di metallo contro il metallo, le Guerriere sguainarono a mezzo le spade dai foderi; un borbottio cupo di dissenso ringhiò nelle gole delle Operaie. Le madri-fattrici squittirono come animali percossi e fuggirono tappandosi le orecchie con le mani, per timore che le Dee le annientassero perché avevano ascoltato quelle empie affermazioni. Lora, Capitana delle Guerriere, si fece avanti con un'espressione torva sul viso magro. «Bestemmia, o Madre! Per Tedhi, Colei che ride, questo Uomo-bestia ci contamina con le sue menzogne! Devo ucciderlo?» Mosse un passo verso Daiv. Meg lanciò un grido, si mise in mezzo, e volse verso la Madre gli occhi imploranti. «No! Ti supplico, Madre, no! Guarda Daiv! Guardalo... e ricorda ciò che tu vedesti, molti inverni or sono, nel Posto delle Dee! Tu sai che dico la verità, Madre, e che la dice anche Daiv. «Di' alle mie sorelle che tutto va bene: che è come deve essere. Tu lo sai...» Jain, la Capitana delle Operaie, scosse tristemente la testa. Con voce gentile disse: «La nostra sacerdotessa è impazzita, Madre. Le fatiche del pellegrinaggio sono state troppo, per lei. Qual è la legge? Morte per lei, come per questo Uomo-bestia senza pelo? Oppure, poiché si è presa un Uomo, deve diventare una madre-fattrice?» Ma la Madre la trattenne. C'era un'espressione remota nei suoi occhi. Meg sapeva che la vecchia signora del Clan stava ricordando un pellegrinaggio compiuto molto, molto tempo prima al Posto delle Dee. La Madre, Meg lo sapeva, un tempo aveva veduto le figure maestose di Jarg, Ibrim, Taamur e Tedhi sul grande promontorio roccioso di Monte Rushmore e aveva visto, come Meg aveva veduto, che le Dee erano in verità... Uomini come Daiv! Una parola della Madre... La Madre parlò. Nella sua voce c'era un'infinita tristezza. «La Legge comanda,» disse, «Che nessuno deve cercare di cambiare i costumi del Clan. Tu, Meg, hai ignorato la Legge. Tu e il tuo compagno sarete quindi trattati secondo giustizia.» E voltò loro le spalle. Un'esclamazione soffocata attirò su Daiv lo sguardo di Meg. Era cremisi in volto per la collera, e grosse vene gli pulsavano sulla fronte. Ruggì:
«Ecco, dunque, il gioioso benvenuto del tuo Clan, Aurea! Giustizia? Che specie di giustizia possiamo aspettarci da una vecchia megera rimbambita...» «Daiv!» urlò Meg. Ma il suo grido giunse troppo tardi. Con un gesto fulmineo, Daiv aveva strappato la spada dalle mani di Lora. Ne controllò la lama, cinse Meg con un braccio, e rise in tono di sfida, guardando le sbalordite Donne del Clan. «Dunque, voi vorreste giudicare un Uomo?» esclamò. «Un uomo della tribù di Kirki? E allora fatevi avanti, luride scavatrici della terra, spaventapasseri senza amore! Che il giudizio sia dato dal mio acciaio contro il vostro!» Vi fu un momento di teso silenzio. Poi la collera, amara come il frutto dell'albero di simmon, fiammeggiò nelle voci delle sorelle di Meg. Una dozzina di Guerriere si fece avanti, con le spade sguainate. Ai loro fianchi, avanzarono le Operaie, brandendo le zappe e le asce. Meg sorrise pateticamente a Daiv e mormorò una rapida preghiera agli Dei. Era doloroso morire così, sotto le lame delle persone care. E... E un grido acuto e fievole li fece arrestare! Si voltarono e videro, alla deserta porta sud, la figura lacera e insanguinata di una Guerriera che, con i capelli scarmigliati, il volto sfregiato, le mani e le braccia segnate da cicatrici cruente, stava entrando nel campo di Jinnia, trascinandosi dietro una gamba sana e... un moncherino annerito. In quell'istante di impaurito sbalordimento non parve neppure strano alle Donne del clan che il primo a raggiungere la Guerriera ferita fosse Daiv, lo straniero. Ma fu proprio Daiv a sollevarla tra le braccia. Gli occhi della nuova venuta erano velati di sofferenza, orrore e stanchezza. Poi si schiarirono e brillarono di una volontà indomabile. Con voce arrochita, balbettò: «È troppo tardi... per salvarmi. Presto raggiungerò... Le Donne del mio Clan... e le Dee... ma voi... voi... salvatevi!» Nella voce di Daiv c'era una gentilezza incredibile. «Cosa è accaduto, Guerriera?» chiese. «Quale nemico ti ha colpita così crudelmente? Di cosa volevi avvertirci?» La messaggera trasse una forza nuova da una profonda riserva interiore. Con uno sfolgorio negli occhi, rispose: «Fuggite nei luoghi segreti delle montagne. Un nemico malvagio marcia contro questo campo. Uominibestie piccoli, perversi e gialli che rapiscono i nostri Clan e distruggono le nostre combattenti con canne che mutilano e stordiscono.»
La vecchia Madre si era avvicinata. «Chi sei, figlia?» chiese in tono supplichevole. «Da dove vieni?» «Sono Vivyun,» rispose faticosamente la donna, «del clan di Durm. Qualche giorno fa sono apparsi strani fulmini nei cieli, e tuoni incredibili sono echeggiati nelle foreste intorno al nostro villaggio...» Jain l'interruppe, sconvolta: «Madre! I presagi che abbiamo udito l'altra notte nella foresta, a occidente!» Meg lanciò un'occhiata a Daiv e gridò: «La foresta da cui siamo fuggiti, Daiv! Il bosco di ramoscelli pesanti!» Daiv la zittì con un cenno pensieroso. Vivyun continuò a parlare, a voce spezzata. «... poi è venuto l'assalto. Demoni corazzati, del colore dei semi di senape, ci sono balzati addosso. Le nostre Guerriere sono andate loro incontro, ma gli gnomi hanno lanciato luci dalle canne: e dove prima stavano le Guerriere erano comparse minuscole parodie impietrite di Donne. Una delle luci mi ha sfiorato per un istante la gamba...» Meg guardò e rabbrividì. La gamba della guerriera morente era solida e tornita dal fianco fino alla coscia: una spanna sopra il ginocchio, però, terminava bruscamente in un moncherino escoriato dal quale pendeva un'escrescenza ripugnante che - notò Meg, con nausea ed orrore - era il simulacro perfettamente formato di un arto umano... Daiv stava mormorando convulsamente: «Parla, Guerriera!» «Sono venuti,» continuò Vivyun, «per catturare molte Donne. Come i Selvaggi, anche gli gnomi malvagi si stanno estinguendo per mancanza di Compagne. Vengono dall'estremo meridione, da una terra chiamata Mayco. Portano altre armi strane. Una canna che lancia luci di pazzia... un muro costruito di mattoni invisibili...» «Continua!» implorarono Daiv e la Madre ad una voce, quando Vivyun s'interruppe. «Continua!» Ma una strana espressione stordita velò gli occhi della morente. Le labbra bianche si mossero, il suo respiro divenne un bisbiglio. «Tu sei... uno strano essere,» disse a Daiv. «Non so come, ma tu... mi rendi più facile morire... Uomo-bestia...» Poi non si mosse più. Lora, Capitana delle Guerriere, ruppe l'incantesimo che li paralizzava, con un grido tonante. «Invasore? Nessun invasore può conquistare il villaggio della tribù di
Jinnia! Alle armi, guerriere! Ai vostri posti! Che quegli gnomi gialli provino ad attaccare noi e...» rise, con cattiveria. Daiv balzò in piedi; la sua voce era una sfida perentoria. «Ferma, Guerriera! Non hai sentito ciò che ha detto Vivyun? Gli invasori hanno armi magiche: canne che sputano la pazzia e la morte. È meglio che ci rifugiamo tra le colline. Forse potremo trovare un modo...» Meg si sentì avvampare in volto quando la Capitana delle Guerriere guardò Daiv con aria sprezzante. «È un Uomo-bestia, non scordatevelo!» sibilò quella. «Un Selvaggio senza pelo e con gli istinti codardi di tutti gli Uomini. Stupido! Non sai che Vivyun delirava? Canne che rimpiccioliscono! Guerrieri! Muri senza mattoni!» Daiv ribatté: «Non ho tempo per discutere, Guerriera.» Poi gridò alla Madre in tono implorante: «Non ho molte ragioni per amare il tuo Clan, o Madre. Ma poiché siete le sorelle di Meg, vorrei vedervi vivere. Credetemi, l'avvertimento di Vivyun era vero. Anch'io ho sentito gli anziani parlare di una terra assolata chiamata Mayco e popolata da demoni feroci...» La Madre strinse le mani, in preda al tormento dell'indecisione. Si rivolse disperata a Meg, gridando: «Ora capisci, figlia mia, quanto è pesante il compito d'essere una Madre?» Poi mormorò, quasi tra sé: «Se è una menzogna...» Daiv, che era un uomo d'azione, si stancò ben presto di quei dubbi. Per la seconda volta in quel pomeriggio, afferrò Meg per la mano. «Vieni, Aurea! Lasciamo che queste sciocche muoiano; lasciamo che divengano rigidi alberi rimpiccioliti! Porterò in salvo te...» Meg avanzò di un passo. E poi... una delle Donne rise di scherno. Una risata sarcastica. Le guance di Meg avvamparono, la mano protesa le ricadde lungo il fianco. Scrollò la testa. «No, Daiv,» disse tristemente. «Non avevo immaginato che tu fossi un...» «Un vigliacco?» chiese rabbiosamente Daiv. «Sono un vigliacco, se ho il buon senso di fuggire per sottrarmi alla magia di uomini che conoscono i segreti degli Antichi? Per gli Dei, Aurea, sei tu che hai perduto la ragione. Se non verrai di tua volontà, ti salverò comunque. Vieni!» Si lanciò verso di lei. Meg arretrò barcollando, divisa tra mille sentimenti contrastanti. Poi, all'improvviso, avvenne un fatto che fece precipitare tutte le emozioni in un caos sconvolgente: dai boschi a sud del villaggio, venne un rombo poderoso; una parte delle mura crollò verso l'interno con
uno schianto immane; l'aria ululò con l'alito degli dei delle inondazioni e... Nella breccia, la luce dorata del sole brillò su un'armatura scintillante! E... un'orda di gnomi maligni che impugnavano canne lucenti si precipitò attraverso il varco! Capitolo Undicesimo: Una pantera per Gresu Ciò che avvenne poi, Meg non riuscì mai a ricordarlo con chiarezza. Si accorse che l'aria era scossa dalle grida degli gnomi; che quelle grida trovavano echi nelle urla delle sue sorelle Guerriere, balzate avanti a contrastarli. Si accorse che una Guerriera al suo fianco, con un grido semisoffocato di paura, era stata colpita al petto da una luce lanciata da una delle canne impugnate dagli invasori; udì il clangore del metallo sulla pietra quando la spada della Guerriera cadde. Non si accorse di essersi istintivamente chinata a raccattarne l'arma, fino a che si ritrovò lanciata alla carica, mulinando la spada sopra la testa e gettando urla che le dilaniavano la gola. Sembrava che vi fossero due Meg: una che correva con inutile vanagloria verso la banda sogghignante degli assalitori, l'altra che si estraniava da quella follia, e assisteva alla battaglia con imparzialità. Fu la prima Meg che si avventò su uno dei deformi uomini gialli senza che quello la vedesse, vibrò la pesante spada in un movimento fulmineo che gli tranciò l'usbergo e fece rotolare al suolo il corpo senza testa. Fu la seconda Meg che notò, con incredibile freddezza, che dalle canne degli invasori uscivano due tipi diversi di luce. Una pallida luce verdognola faceva sì che quante ne venivano colpite lasciassero cadere le spade, smettessero di lanciare grida e si allontanassero vagando senza meta sul campo bagnato di sangue. L'altra, una luce color ciliegia, era invece l'orrore contro il quale li aveva messi in guardia Vivyun, la Guerriera di Durm. Gli aggressori sembravano usarla solo quando era assolutamente necessario. I risultati erano orribili. La mente di Meg vacillò nel vedere un'operaia, alla sua destra, precipitarsi in quel raggio rosso. In un istante l'Operaia scomparve. Una zappa affilata rimase accanto a una sorta di bambola devastata dalla quale si levavano un vapore fumante e un tremendo odore di carne bruciata... Se avessero potuto combattere ad armi pari contro gli gnomi le Donne di Jinnia avrebbero vinto. Erano numerose quanto gli invasori; ed erano ani-
mate dallo spirito delle Donne che si battono per la loro patria. Avanzavano valorosamente... e altrettanto valorosamente perivano. Eccettuate quelle, più numerose, che assumevano la «vita nella morte» notata da Meg: la follia insensata che le spingeva ad allontanarsi, disarmate, per fare chissà cosa. Come conquistatori, gli uomini piccoli e orribili combattevano quella guerra in un modo molto stupido. Sembravano più intenzionati a fare prigioniere che ad uccidere... o forse non avevano previsto una resistenza tanto accanita. Comunque, ogni tanto una Donna del Clan di Jinnia, evadendo le canne che fiammeggiavano, riusciva a penetrare tra le linee nemiche. E là, prima che la luce color ciliegia ne trasformasse il corpo in un fragile tizzone fumante, la sua spada faceva scorrere il sangue vitale di un giallo invasore. Meg aveva appreso molte cose durante il suo lungo pellegrinaggio al Posto delle Dee. Daiv le aveva insegnato ad approfittare di tutte le protezioni naturali, quando si combatteva contro una forza superiore. Quelle tattiche da guerriglia adesso le tornavano utili. Con il primo scontro, era balzata in un nascondiglio dietro il muro abbattuto; e da quel riparo poteva vedere gli invasori che entravano nel villaggio; e questi non potevano vederla fino a quando sbarravano gli occhi alla vista di una spada sgocciolante assetata del sangue delle loro gole. Quattro morirono sotto la sua lama. Poi, cautamente, Meg scrutò la linea difensiva degli uomini sconosciuti. Vide quello che la sua intelligenza pronta le indicò come l'obiettivo dell'attacco. Fuori dal villaggio stava un gruppetto di gnomi dalle armature più scintillanti ed ornate di quelle di coloro che combattevano. Quelli erano i capi, pensò Meg. Il comandante supremo doveva essere un individuo color ocra, simile a una prugna troppo matura, con i gambali e il casco dorati: stringeva impaziente l'impugnatura della canna lancialuce e seguiva con gli occhi i progressi dei suoi guerrieri. Pensare fu agire. Meg non sospettò che quella sortita solitaria poteva rappresentare un suicidio. Scostando i corpi di quelli davanti a lei, scavalcò con un balzo la breccia nel muro, e corse, zigzagando per evitare d'essere colpita, verso il gruppo del comandante. Mentre correva, i suoi capelli ricaddero dalla cuffia lavorata a mano e i muscoli agili fecero schioccare i tendini che le trattenevano il mantello. Era una magnifica pantera dorata che, con i capelli fluenti in un fiume on-
dulato di miele e i magnifici seni che palpitavano nell'ansito del respiro, si lanciava alla carica contro i nemici della sua tribù. I pensieri intanto, le volavano vertiginosi attraverso la mente. E provò un grande slancio di esultanza: era troppo vicina, ormai, perché la potessero fermare! Poi sentì invece dentro di sé una delusione sconvolgente. Era stata vista! Uno degli ufficiali stralunò infatti gli occhi; spianò una canna lancialuce... E allora accadde la cosa più incredibile di tutte: il comandante in capo l'aveva vista, e gli occhi porcini, obliqui e incassati profondamente nei rotoli di carne, gli brillarono di gioia. Con la mano sinistra, deviò la fiamma color ciliegia del suo luogotenente, mentre con la destra puntava contro il petto di Meg la sua arma. La luce divampò... verdepallida. Qualcosa, dentro Meg, parve spezzarsi, e all'improvviso lei si sentì soffusa di un senso di gelo, con uno sbalorditivo svuotarsi repentino della febbre che le scorreva nelle vene. Che strano! Che strano, avere ritenuto tanto importante quella battaglia. Non lo era, infatti. Era quindi tutto un errore. E la spada che impugnava? Meg la guardò oziosamente, rallentando il passo. Gettò via l'arma. Il frastuono del conflitto era ormai per lei solo un suono lontano. Il mondo intorno a Meg era diventato dolce e verde... le nubi ondeggiavano in un azzurro infinito come barche a vela spinte dal vento. C'era però qualcosa che doveva ricordare. Una foschia le danzava davanti agli occhi... fiori intorno ai piedi. Doveva dirigersi verso quel campo lontano che cosa non riusciva a ricordare? - dove avrebbe trovato ranuncoli gialli e fiori austeri del granturco, pronti da cogliere... Era insonnolita, intorpidita da una sensazione di piacevole stordimento. Solo... c'era un Uomo; un Uomo chiamato Daiv... ecco, lì non poteva essere felice. A meno che non fosse riuscita a dimenticare i suoi guai, a dimenticare l'uomo chiamato Daiv, a dimenticare che il mondo le roteava e turbinava davanti agli occhi come una ruota gigantesca sempre più veloce, sempre più veloce. E poi... Poi vennero le tenebre. Il suo primo pensiero fu di essere caduta, stordita, sul campo di battaglia. Si svegliò con un sussulto, cercando a tentoni la spada che doveva essere al suo fianco. La spada non c'era. Toccò invece la carne flaccida di una madre-fattrice, che, tremante di paura e con i seni penduli, rabbrividiva accanto a lei in
un'estasi di paura. Meg si rimise in piedi barcollante, scossa dalla nausea. Aveva le membra ancora deboli, come se le vene che le alimentavano si fossero intasate; aveva la testa piena di minuscoli folletti che danzavano e strillavano senza pietà. Ma... era viva! E la nebbia le si andava dileguando dalla mente. Adesso sentiva che qualcuno singhiozzava accanto a lei. Uno strano singhiozzo. Non era sommesso come quello di una madre-fattrice: era un suono stridente, come quello di un'ascia sul creet. Era Lora, la Capitana delle Guerriere. Con l'armatura incrostata di sangue, le grandi mani contratte per l'angoscia, si dondolava avanti e indietro, di volta in volta piangendo e maledicendo le Dee. «Maledetta sia la madre-fattrice che mi ha dato la vita,» era il suo lamento. «Questa notte le mie stelle bruceranno..» Meg le scosse rudemente le spalle. «Lora!» Gli occhi della Capitana la riconobbero. Lora gridò, in tono supplichevole: «Cerca bene nella tua cintura, Meg! Hai con te un pugnale?» «No. Perché...» Lora si batté i pugni sui piccoli seni aridi. «Sono viva!» disse con voce spezzata. «Io, la capitana, continuo a vivere, mentre le mie guerriere giacciono in pace e in gloria...» Meg si accorse di essere in un gruppo al centro di quella che era stata la fortezza del loro Clan. Erano una sessantina: un gruppo misto di Guerriere, Operaie, madri-fattrici, persino un paio di Uomini pallidi e piangenti. Gli stalloni del Clan di Jinnia. Ma c'era un altro gruppo, all'altra estremità del cortile. Non avrebbero più riso né pianto. Erano morte. Quasi tutte Operaie e Guerriere, sebbene vi fossero anche alcuni corpi grassi e morbidi. In un altro luogo giacevano i cadaveri degli invasori uccisi: a questi era stata accordata una maggiore dignità. Tutto intorno c'erano sassi dalle forme bizzarre che - Meg comprese con un brivido di orrore - non erano sassi... ma le teste delle nemiche uccise. Due gnomi, sogghignando impassibili, stavano rastrellando quei macabri trofei. Meg disse: «La... la Madre?» E come in risposta al suo pensiero, una voce gentile le giunse all'orecchio. «Sono qui, Meg, figliola.» Meg si voltò di scatto. La Madre del Clan giaceva dietro di lei, immobi-
le, la testa appoggiata a un involto di stoffa. Nei suoi occhi c'era l'immagine di una sofferenza spaventosa. Meg le accorse al fianco, con il cuore colmo di angoscia. «Madre... sei ferita!» «Sì, figlia, sto morendo.» La Madre sospirò: un fievole gemito di rammarico. «Non avevano intenzione di uccidermi. Ma i raggi erano troppo potenti per il mio vecchio corpo. Sopravviverò ancora per un poco: ma me ne dovrò andare. È triste che debba lasciare il mio Clan prigioniero di una simile razza di bestie.» «I raggi, Madre?» chiese Meg. «Sì, figlia mia. Le armi che le nostre Guerriere non hanno saputo comprendere sono simili a quelle che, nelle vecchie leggende, furono usate dagli Antichi per distruggersi a vicenda. Vibrazioni che in un caso danno una morte orribile, e nell'altro lo stordimento.» «Ma... ma come?» «Non lo so esattamente. Ma credo che la luce color ciliegia abbia il potere di assorbire tutta l'acqua di un corpo umano, riducendolo istantaneamente a una buccia bruciata. Il raggio verde interrompe invece i centri nervosi, spezzando i contatti tra il cervello e gli altri organi.» Il viso della Madre aveva un'espressione rassegnata. «Tu avresti imparato tutte queste cose e molte altre, Meg, se questa catastrofe non si fosse abbattuta su di noi. E se tu non fossi ritornata dal Posto delle Dee con... con un compagno.» Quell'ultima parola ricordò a Meg l'interrogativo latente che il raggio verde aveva scacciato dai suoi pensieri. Subito la paura le raggelò il cuore. «Daiv! Oh, Madre... Daiv! Non lo vedo. È uno... uno di quelli?» I suoi occhi, inorriditi e affascinati, fissarono il piccolo mucchio di corpi orrendamente inceneriti che i guerrieri invasori stavano rastrellando. Ma non fu la madre a risponderle, bensì Lora, che si era accostata a loro. Il volto magro della Capitana aveva un'espressione di disprezzo. «No, Meg, il tuo Uomo-bestia non è là! Sarebbe stata una morte troppo onorevole per lui.» Meg balbettò: «Allora... allora dove...?» Gli occhi della Madre, pietosamente, evitarono i suoi. «È fuggito, Meg.» «Fuggito! Daiv è fuggito!» Meg spalancò gli occhi, con tutte le fibre del suo essere tese come le minugia di un arco. «Non... non lo credo!» Persino la voce aspra di Lora si addolcì un poco, quando disse: «È vero. Era soltanto un Uomo, Meg: un Uomo, debole e codardo. All'inizio della battaglia è fuggito dal campo. Nelle colline laggiù.»
La Madre intervenne: «Forse è meglio così, figlia mia. Forse la tua follia è fuggita con lui. Se mai ci libereremo da questa prigionia...» Il nuovo mondo d'amore e di felicità che Meg aveva appena scoperto andò in frantumi. Arrossì violentemente, vergognandosi per Daiv e per se stessa, che gli aveva permesso, prima, di sfiorarle la bocca con la bocca e, poi, di coglierla nella sua femminilità più segreta. Le lacrime per quella sua tragica debolezza le colmarono gli occhi; allora disse: «Così è, Madre...» In quel momento l'interruppe una voce rude, gutturale. «Ah... eccola! È quella, Leekno. Fatti avanti, tu color avorio!» Meg si voltò. Con le labbra rosse e umide come il frutto del pepe, la stava fissando il comandante con i gambali e l'elmo dorato che con i suoi gesti le aveva salvato la vita e le aveva tolto la volontà di combattere. Era un uomo simile a un fungo, con la bocca storta, e la fissava con occhi che la fecero sentire subito come nuda e insudiciata. Meg rabbrividì. «Fatti avanti, ho detto!» ripeté il comandante. Un soldato con la faccia da forca si mosse per costringerla a obbedire. Meg si liberò, avanzò di un passo con una fierezza che destò una luce negli occhi del comandante. La voce dell'uomo fremeva di soddisfazione. «Avevo ragione. Molto bene, Leekno, puoi distribuire le altre prigioniere ai nostri uomini, tirandole a sorte. E non voglio litigi tra di loro. Questa barbara la porterò invece nella mia tenda.» Meg domandò: «Che cosa significa tutto questo, piccolo mostro? Chi sei tu, per parlare in questo modo a una Sacerdotessa del Clan di Jinnia, e che cosa vorresti da me?» Gli occhi obliqui del comandante scintillavano di gioia. «Una ragazza energica, questa!» mormorò. «Sappi, Donna, che ti faccio un grande onore. Io sono Grensu, il capitano di questa squadra. Siamo una legione della potente razza dei Giapcani, che dominano l'assolata terra di Mayco, a molti giorni di marcia da qui.» Dietro Meg, la voce della vecchia Madre si levò in un mormorio di stupore. «Mayco? Nei libri degli Antichi è scritto di una terra di questo nome. Ma vi regnavano solo gli uomini buoni...» Grensu rise, ma senza molta allegria. «Quella vecchia mi sorprende: sa un mucchio di cose!» commentò. E poi, annuendo: «Sì, anticamente era proprio come tu dici. Ma era così prima delle grandi guerre, e prima della ribellione delle Donne. Ma già allora,
i membri fondatori della nostra specie vivevano laggiù, insieme ad altri, rinchiusi in enormi complessi dai quali non si poteva uscire. Loro li chiamavano 'penitenziari'... «Ma quando l'umanità si autodistrusse e gli Antichi si estinsero, combattendo prima gli uni contro gli altri, e poi tra i sessi, noi restammo fuori da quella lotta terribile... perché eravamo sempre rinchiusi in quegli enormi edifici dai quali non si poteva uscire e che erano totalmente autosufficienti. Lì c'erano uomini gialli, ma anche molti altri con la pelle bianca o nera... e, a poco a poco, mentre all'esterno il mondo crollava, i nostri progenitori si resero conto che era meglio restare chiusi là dentro, almeno finché l'olocausto là fuori non si fosse concluso. E rimasero rintanati in quegli enormi edifici, anche dopo che gli ultimi guardiani morirono e le porte vennero finalmente dischiuse. Ma nessuno volle uscire... anzi, i nostri antenati si dovettero difendere da molti uomini che cercavano adesso di entrare in quei palazzi, che costituivano ormai l'unica comunità autosufficiente e autonoma ancora in grado di funzionare sulla Terra devastata dal conflitto nucleare. «E lì noi siamo rimasti, per centinaia di anni, mischiandoci, riproducendoci e moltiplicandoci. Ma, poiché le donne erano ben poche tra noi, dapprima abbiamo lasciato entrare quelle che venivano, supplicanti, a implorarci di accoglierle; e poi, siccome ormai non ne giungevano più, siamo dovuti andare a cercarle in giro per le terre limitrofe, compiendo rapide incursioni. Molte ne abbiamo così catturate, e le abbiamo tenute con noi... e la nostra specie è andata perciò incrociandosi e moltiplicandosi ancora di più finché, finalmente, non abbiamo ritenuto che fosse ormai giunto il momento di tornare a riprenderci quello che ci apparteneva: il mondo esterno, cioè, dato che, fuori, nessuno era più sopravvissuto al disastro mantenendo il sapere e la scienza degli Antichi... che noi, invece, avevamo gelosamente conservato e custodito. E così noi oggi siamo la sola razza pura e perfetta che esiste su questo pianeta... l'unico gruppo che discende direttamente dagli Antichi...» a quel punto, l'orribile Grensu guardò con orgoglio la propria figura obesa. «E con il trascorrere del tempo, non siamo più soltanto i soli possessori dei segreti delle armi da guerra degli Antichi, ma siamo anche diventati gli esseri più perfetti della Terra, i più evoluti e i più civilizzati... i soli, in un mondo imbarbarito e imbastardito!» Meg rise, sprezzante. «Piccolo limone grasso, non mi sembri quell'essere perfetto che credi di costituire: io ti potrei strizzare tra le dita senza problemi... così!» E la giovane avanzò di un passo verso Grensu, il discenden-
te degli antichi criminali e delinquenti più pericolosi rinchiusi nelle carceri americane e messicane. Per un secondo, Grensu guardò Meg molto allarmato. Poi, però, un'espressione di stizza e di ammirazione gli apparve sui lineamenti grassi del viso. «Sarà difficile domarti, cerbiatta d'avorio,» le disse allora, sghignazzando. «Ma ti metterò lo stesso le briglia... e poi ti cavalcherò a dovere! Su, vieni!» Meg si fermò di colpo e si irrigidì. «Dove?» chiese con voce gelida. «Non ti ho detto,» ribatté Grensu, «che ti ho accordato un grande onore? Come i Selvaggi che infestano le foreste della vostra terra, anche noi che viviamo a Mayco, abbiamo sempre bisogno di nuove, robuste compagne... altrimenti la nostra specie orgogliosa rischia di impoverirsi. Per questo cerchiamo donne balde e fiere con le quali accoppiarci... un po' per il fine della perfezione razziale, e un po' per il nostro piacere. Questo è infatti lo scopo della nostra spedizione. E tu, pelle-bianca, ti puoi ritenere assai fortunata: io ti ho scelta per me, e ti assicuro che so come fare urlare di piacere una donna, anche la più frigida e dura. E poi porterai in grembo i miei eredi...» Un violento rossore invase le guance di Meg. «Tu hai scelto me, piccolo fungo velenoso? Ma non sai che io sono una Sacerdotessa, sacra e inviolabile?» Grensu rise... e poi la sua pazienza finì. Si rivolse al suo luogotenente. «Leekno!» gridò. Capitolo Dodicesimo: L'ardimento della Sacerdotessa Ma non doveva essere quello il momento in cui Meg sarebbe stata costretta a scegliere tra la sottomissione e la morte. Vi fu infatti un'interruzione. Uno dei luogotenenti si avvicinò al gruppo e salutò il comandante. «Il muro è pronto, o Grensu! Gli uomini attendono la tua ispezione prima di metterne in funzione il campo.» Grensu ringhiò: «Vattene, buono a nulla. Possibile che gli uomini non sappiano far niente senza... oh, sì, sta bene. Verrò immediatamente. Leekno, rimani qui e tieni d'occhio la mia riluttante sacerdotessa. Ritornerò presto.»
Si allontanò, come una ripugnante palla di pasta in un'armatura d'oro. Raggiunse poco lontano un gruppo di invasori intorno a una strana cassa lucente, dalla quale uscivano sottili barre di morbido metallo divino. Vi fu una breve conversazione fra Grensu e gli uomini, poi uno degli gnomi, che aveva la pelle nera, annuì e abbassò una leva. Dalle prigioniere della tribù di Jinnia si levò un grido di sbalordimento. Un'ondata di suono crepitante e rimbombante rotolò sul campo; dalle due barre dalla cassa magica uscì, inarcandosi, qualcosa che fece volare via la polvere, tracciando un cerchio misterioso intorno all'intero villaggio. All'estremità opposta del cerchio le due muraglie mobili d'invisibilità si incontrarono: vi fu un'eco sonante e un lampo. Dall'altro venne il grido di dolore di un avvoltoio; e mentre le Donne guardavano sbigottite, la parte posteriore di un rapace, tranciata di netto, precipitò al suolo con un tonfo, sobbalzando e sanguinando... già morta! Lora gridò: «Muri senza mattoni!» E Meg guardò incredula la guardia. «Che prodigio è mai questo, rospo assassino?» chiese. «Non vedo nessun raggio, eppure un avvoltoio è morto.» Leekno ringhiò: «Tieni la lingua a posto, Donna!» Ma sogghignò. «L'avvoltoio doveva trovarsi esattamente sopra il cerchio quando Togi ha attivato il campo di forza.» «Il campo di forza?» ripeté Meg, stordita. Non era sicura, adesso che il Clan avesse fatto bene ad opporsi agli invasori. Senza dubbio gli uomini che, sebbene brutti e dai modi mostruosi, possedevano simili magie, dovevano essere Dei. Forse sarebbe stato più saggio sottomettersi subito. Poi Meg pensò ai suoi Dei tribali: l'austero Jarg e il sorridente Tedhi; Taamus dai lunghi riccioli e Ibrim dagli occhi tristi, scolpiti nell'eterna roccia, nelle distese salate lontane molti giorni di marcia. No, solo i suoi Dei erano i veri Dei... «Non sai che cos'è un campo di forza, eh, Donna? Be', immagino di no. Allora vieni: te lo mostrerò. Così ti renderai conto che non potrai fuggire.» Leekno la condusse nel punto dove le guardie armate stavano chine sulla cassa divina. Grensu se ne era andato con i suoi genieri, in conferenza. Accanto al terreno smosso che segnava la barriera, Leekno si fermò. Il suo sogghigno era diabolico, beffardo. «Credo, Donna,» disse, «che ti lascerò scappare. Fuggi ora, mentre nessuno guarda.» Meg si sentì balzare il cuore nel petto come una cerbiatta sorpresa dalla
voce di un cacciatore. Mormorò in fretta: «La mia gratitudine infinita, amico. Meg la Sacerdotessa non lo dimenticherà mai...» Balzò avanti. La foresta circostante era a pochi passi da lei: le sarebbe bastato raggiungere quel rifugio ombroso perché nessun invasore potesse poi ricatturarla. Sarebbe corsa a raggiungere una tribù vicina, avrebbe cercato aiuto per le Donne prigioniere del suo Clan... Questi pensieri le turbinavano nella mente mentre compiva tre... quattro... cinque balzi verso la libertà. E poi... Vi fu un urto violento, sconvolgente. La sofferenza la fece tremare, inondandola di tormento: era come se una mano potente l'avesse percossa in viso, sul petto ansimante, scagliandola indietro. Restò a terra, stordita, scossa. E nelle sue orecchie risuonò la risata profonda e irridente delle guardie nemiche... e di Leekno! Il corpo tondo di Leekno fremeva come gelatina per l'allegria; lacrime di divertimento gli scendevano dagli occhi. «'Meg la Sacerdotessa,'» ululò, «'non lo dimenticherà mai!' Hai ragione, coscia lunga! Dimmi, i lividi serviranno a tener più vivo il ricordo nella mente?» Meg non disse nulla. Ma allungò cautamente le mani davanti a sé. Questa volta fu un dito esitante, anziché la forza avventata di un balzo, a toccare il muro invisibile. Ma anche così, il suo dito sussultò come un serpente colpito, quando la corrente passò attraverso di lei. Stringendo i denti, Meg sopportò il dolore e continuò a premere. Non accadde nulla. Con tutte le forze concentrate nella pressione, non riusciva a fare in modo che il dito penetrasse dentro la barriera. Si alzò, con una grande, gelida collera annodata nella bocca dello stomaco. Disse alle guardie che ridevano ancora: «Questa è un'arma da vigliacchi, gnomi assassini! Eppure ci vorrà ben altro che questo muro senza mattoni per salvarvi, quando le Donne dei Clan vicini verranno a salvarci. Le loro spade e le loro frecce faranno a pezzi questa barriera dentata...» «Davvero?» chiese beffardamente Leekno. «Fatti da parte, Togi.» Si avvicinò alla cassa divina, si spostò sulla destra e si mise di fronte a Meg. «Togi ti presterà il suo pugnale, Donna. Scaglialo contro il mio petto e scoprirai la verità.» Meg afferrò impaziente l'arma che le veniva offerta. E, con un unico movimento, girò su se stessa e lanciò la lama contro la figura massiccia di Leekno. Vi fu un breve, scintillante sprazzo di luce. Il pugnale cadde a terra, nel bordo del cerchio. Le labbra carnose di Leekno continuavano a sog-
ghignare, quando rientrò passando attraverso il varco che si apriva sopra la cassa. «Così hai imparato, Donna, che non c'è via di scampo. E adesso... torna dalle tue compagne!» La Madre disse: «Meg!» La sua voce era un bisbiglio, così fievole che Meg poteva udirla a malapena. La sacerdotessa si inginocchiò accanto a lei. «Sì, Madre?» «Il muro di forza. L'hai visto?» Meg rispose, disperata: «L'ho visto, Madre. Nessuna Donna può attraversarlo. E nessun'arma.» «Eppure,» mormorò debolmente la vecchia, «c'è un modo. L'ho osservato, mentre quel dannato ti sfidava. Come tutti coloro che irridono, ha rivelato la sua debolezza. Non hai notato che per due volte è passato indenne attraverso il muro?» Meg rispose tristemente: «Non è passato attraverso il muro, o Madre, ma nel punto d'incontro, dove sta la cassa divina. Io...» Poi capì e allora l'eccitazione le accese il fuoco alla punta delle dita. «Madre! Se l'ha fatto lui, posso farlo anch'io!» «Non gridare, figlia mia! Sì: solo da quel punto puoi sperare di fuggire. E devi fuggire, Meg. Corri dal Clan di Loovil, informalo della nostra sorte. Una volta le aiutammo quando i Selvaggi assediarono il loro villaggio. La loro Madre ti presterà le sue Guerriere. E forse anche altri Clan collaboreranno.» Meg implorò: «Ma come, Madre? Non posso...» «Io ti ho mostrato la via, Meg. Al resto dovrai provvedere tu.» La Madre si abbandonò contro di lei, respirando pesantemente. Un suono di passi energici indusse Meg ad alzare la testa. Grensu, che aveva terminato l'ispezione, era ritornato per reclamare la sua «puledrina». Ci fu un'espressione di trionfo nei suoi occhi quando Meg si alzò, obbedendo senza più protestare al suo comando. «Dunque, Donna d'avorio, hai deciso di accettare i miei favori? Molto bene. Vieni con me!» Meg era però la sola a sapere che quella sua docilità era l'obbedienza cieca di un corpo che agiva così perché privo dei suggerimenti della mente. Lei stava infatti pensando con disperazione, alla ricerca di un'astuzia che le desse il tempo e l'occasione, la rapidità e l'arma di cui aveva bisogno. Grensu, dimentico della guerra, stava già pregustando quel piacevole in-
terludio erotico. «Vedrai, non sarò un compagno sgradevole,» si vantò. «Sono un comandante potente e un uomo forte, mia cavallina selvaggia. Mia cara cerbiatta...» La cerva! All'improvviso tutto fu chiaro nella mente di Meg. Gli invasori, quando si erano impadroniti del villaggio, avevano preso i pochi cavalli di proprietà del Clan di Jinnia. Ma c'era Nessa! Senza dubbio nessuno poteva sospettare che quella cerbiatta dagli occhi dolci fosse qualcosa di più di un animale da compagnia... che fosse, cioè un destriero abituato alle redini e agli speroni! Si girò verso Grensu con un'esclamazione di sbigottimento. «La mia cerva! La mia bellissima bestiola! L'avete uccisa?» Grensu disse, bonariamente: «La cerva era tua, Donna bianca? No, non è stata uccisa... non ancora, almeno. Tuttavia, la sua carne...» Meg pregò tra sé che il comandante credesse alle azioni del suo corpo, anziché alla decisione impressa nei suoi occhi ardenti. «Hai intenzione di uccidere la mia Nessa? La mia bellissima cerva... la compagna della mia infanzia? Allora devi lasciarmela vedere ancora una volta, per dirle addio...» «Suvvia, Donna,» ribatté irritato Grensu, «non c'è tempo per questo!» «Te ne supplico...» Meg trasse un profondo respiro, odiando la parola che doveva contaminare le sue labbra. «...mio Padrone?» «Be', se proprio ci tieni.» Grensu aveva ora l'aria compiaciuta. Era un piccolo prezzo da pagare per quella docilità. Portava ancora sul volto i segni delle unghiate della megera urlante che aveva catturato a Lanta, e quella era un bocconcino molto meno attraente di questa Donna. «Be', se proprio ci tieni...» Grensu condusse Meg verso il praticello erboso dove Nessa pascolava libera. Con un grido di gioia, Meg gettò le braccia intorno al collo della cerva. Singhiozzò apertamente, sbalordendo persino l'addestrata Nessa con il fervore delle sue carezze. Impiegò molto tempo, di proposito: tanto tempo che Grensu si spazientì. «Basta così, Donna. Andiamo!» «Non ancora! Non ancora!» implorò Meg. «Dopo...» «Subito!» insistette Grensu. Si fece avanti per staccare le braccia di Meg. Per una frazione di secondo, entrambe le sue mani rimasero così libere e disarmate... E in quel secondo, Meg si mosse. «Dietro-front!» gridò a Nessa. La cer-
va ruotò, facendo perdere l'equilibrio a Grensu. Mentre l'uomo vacillava, come una palla vanitosa di grasso, Meg gli cinse la gola con il braccio sinistro, mozzandogli il respiro e facendolo diventare cremisi in volto. Con l'altra mano sfilò la spada dorata dalla sciabola: e poi, mentre l'invasore cadeva inerte al suolo, balzò sul dorso di Nessa. «Avanti, Nessa!» gridò... e piantò i talloni nei fianchi della cerva. Aveva attraversato metà della via che tagliava il villaggio prima che un grido d'avvertimento si levasse dalla gola di un nemico. Ma Meg si lanciò verso la cassa divina, lo stretto varco nella muraglia magica, prima che il grido avesse indotto i guardiani a voltare la testa. Poi vi fu una confusione folle. Meg gridò: «Nessa! Salta, Nessa!» mentre Togi e le altre guardie cercavano di estrarre le canne lanciaraggi. Uno degli uomini puntò l'arma per primo contro di lei... ma nell'istante in cui stava per far partire la scarica, la spada di Meg affondò nella sottile corazza che gli copriva le spalle. Il soldato urlò orribilmente e con la mano libera strinse un macabro moncherino da cui fiottava un nastro scarlatto di sangue. Le dita del braccio tranciato si contrassero in un riflesso insensato; la fiamma color ciliegia vomitò dalla canna che rotolava al suolo... e un'altra delle guardie arse in un bagliore fumante. Uno scossone pervase Meg quando gli zoccoli di Nessa incontrarono la terra solida, e un bronzeo grido di letizia lacerò l'aria. «Avanti, Nessa!» Era come un incubo vedere che, sotto di lei e dietro di lei, giacevano i corpi di coloro che avrebbero dovuto ostacolare il suo passaggio; la lama della spada un tempo lucente ora brillava del cremisi acceso della morte. Ma era un sogno gioioso... perché Meg aveva superato il varco, era al di là della barriera. Ancora pochi balzi della cerva spaventata, e sarebbe stata al sicuro entro la foresta. Se... Meg girò la testa per guardarsi indietro: se uno di coloro che stavano uscendo di corsa dal campo non fosse riuscito a offuscarle di nuovo il cervello con quel raggio verde. E se... Meg non voleva pensare a quell'altra, più terribile arma. Con mani esperte guidò Nessa verso destra... poi verso sinistra... un percorso zigzagante per impedire la mira agli gnomi. A un certo punto, l'aria sibilò e crepitò accanto alla sua testa, quando una raffica di fiamma color ciliegia la mancò di pochissimo, e saettò a incenerire un enorme albero,
mutandolo in un ramoscello avvizzito e rigido. Le sue narici percepirono un odore di pelame strinato, e Nessa si lamentò pietosamente... ma la corsa della cerva non rallentò. Ancora un volta la mente di Meg turbinò in un breve momento di vertigine; si sorprese a pensare che il tramonto era pallido e bellissimo... e subito comprese che il raggio verde l'aveva colpita. Chinò la testa in un ultimo gesto conscio, e sentì le sensazioni riaffluire come una marea purificatrice. E poi i rami verdi le investirono il volto, la sua pelle chiara fu sferzata dalla stretta famelica dei rovi della foresta... ma lei non sentiva più alcun male. La gioia le crebbe nel cuore, una gioia simile allo splendore della luna appena sorta. Libera! Libera di trovare un aiuto per le Donne del suo Clan! Libera di... Lo vide all'ultimo momento! Lo vide e lanciò a Nessa un grido brusco. La cerva addestrata obbedì al comando, ma Meg e la sua cavalcatura erano egualmente impotenti di fronte alla forza eterna che le portava avanti... la forza di gravità. Perché ciò che Meg aveva veduto troppo tardi era un tratto di suolo verde, troppo fresco, troppo regolare per integrarsi con il terreno circostante. Mentre le zampe scalpitanti di Nessa cercavano invano un appiglio sicuro, mentre Meg si sentiva precipitare a capofitto, impotente, dal dorso dell'animale, comprese che Daiv, ormai perduto per sempre, aveva avuto ragione di maledire le trappole con cui il suo Clan uccideva i Selvaggi. Era una di quelle trappole che adesso, proprio nel momento del trionfo, l'aveva distrutta! Il bramito querulo di Nessa le echeggiò agli orecchi; i lombi le tremarono nella sensazione della caduta; la luce del sole fuggì, e le tenebre inghiottirono ogni cosa. Le tenebre e grandi, vertiginosi cerchi di dolore che le scacciavano il respiro dal corpo. Meg tentò di gridare. Ma l'urlo le morì in gola. Aghi di fuoco le trafissero il braccio, e il respiro l'abbandonò. Un silenzio cupo... Capitolo Tredicesimo: L'ira e la rivolta Era uno strano paradiso-inferno, in cui si dibatteva debolmente. Era un paradiso perché Meg giaceva su un morbido, caldo letto di pelliccia; un in-
ferno perché un'orda di fiammeggianti folletti della sofferenza le torcevano e tiravano e strattonavano il braccio. Un paradiso perché intorno a lei c'era un'intensa fragranza di terra; un inferno perché nelle sue orecchie risuonava un baccano infernale di voci volgari e incomprensibili. Meg aprì gli occhi... poi li richiuse, scossa da un brivido violento: ora sapeva che non era né un paradiso né un inferno, ma soltanto la vita. Una vita inutile e indesiderata. Giaceva sul fondo della trappola per i Selvaggi, con il braccio destro piegato sotto di lei, il corpo dolorante per cento ammaccature. Ma era viva. Viva perché il caldo letto di pelliccia su cui giaceva era il corpo di Nessa, crudelmente trafitto e dilaniato dai bastoni aguzzi, dai quali la povera cerva aveva protetto Meg. Gli occhi di Meg si riempirono di lacrime di angoscia e di dolore. La dolce Nessa, la coraggiosa Nessa, non c'era più. E adesso... E adesso, sopra di lei, profili tozzi contro il cielo azzurro, c'erano gli invasori dai quali era quasi riuscita a scappare. Uno di loro stava venendo calato nella fossa e cercava cautamente di afferrarla, stringendo con una mano una canna lanciaraggi: Meg tastò intorno a sé, brancolando, per riprendere la spada che aveva lasciato cadere, ma il dito dello gnomo assassino si contrasse sul pulsante, e la radiazione verde scacciò ogni pensiero dal cervello della giovane. Come in sogno, Meg si sentì sollevare e trasportare, circondata da figure grasse che levavano la voce in rabbiose espressioni di condanna. Poi fu di nuovo entro i confini del campo; e Grensu le stava davanti, con i minuscoli occhi obliqui accesi di risentimento. «Sei furba come un animale, sacerdotessa d'una razza barbara,» sputò il comandante invasore. «Ho sbagliato quando ti ho creduto docile. D'ora innanzi ti domerò con la frusta e la catena.» Meg non disse nulla, Ma, alzando orgogliosamente la testa, si accorse che l'ometto era meno sicuro e che nel parlare girava impacciato il collo rigido. Ma nell'incavo del braccio di Meg c'era una forza sufficiente per strangolarlo... Leekno, con la faccia accesa da un'espressione d'ira, si pose al fianco di Grensu. «Quale è il tuo comando, o capo? Dobbiamo uccidere subito la donna dalle lunghe cosce o la torturiamo finché non...» La voglia di vendetta, ma anche un'intensa bramosia lasciva si scontrarono sui lineamenti del capo. «La donna mi piace...» borbottò.
«Ha ucciso Togi, Ras e Yinga,» gli ricordò l'altro ufficiale. «E altri due sono feriti. È scritto nella Legge: 'La morte sarà punita con la morte'...» «Conosco la Legge!» scattò Grensu. «Ma ora non siamo in Mayco. Qui la Legge sono io. E ho intenzione di...» un'esitazione interruppe le sue parole. Chiese a Meg: «Di' quel che hai da dire in tua difesa, Donna. Grensu ti ascolta.» Nel braccio di Meg c'era un dolore che incominciava dalle punte delle dita, saliva attraverso l'avambraccio e il braccio e si diffondeva nel resto del corpo, rivoltandole lo stomaco per la nausea. In più aveva il cuore straziato dalla delusione. Era quasi riuscita nel suo intento. Ma «quasi» era una bevanda amara, formata dalle acque di ciò che sarebbe potuto essere e non era stato. Quel giorno, che era sorto così bello e pieno di speranze, le era invece diventato un fardello plumbeo per il cuore. Ormai non c'era più nulla, più nulla per cui valesse la pena di vivere. Daiv, il suo compagno, s'era dimostrato un vile, alla prima battaglia. L'amata Madre del suo Clan stava morendo. Venti delle sue sorelle erano ridotte quasi in cenere, ammucchiate come una pila di rifiuti. Il suo ultimo, disperato tentativo di riguadagnare la libertà era fallito... «Non ho niente da dire, uomo,» disse altezzosamente. I guerrieri nemici borbottarono tra loro. Le labbra carnose di Grensu si sporsero irosamente. «Non hai capito, donna d'avorio. Ti offro un'ultima possibilità. Giurami fedeltà, anche in questo momento, e ti risparmierò la vita. Le tue ferite verranno curate dai nostri guaritori e, sì, anche ora Grensu ti concederà il grande onore di diventare la sua femmina.» La scrutò con gli occhi obliqui. «Ebbene, Donna? Quale è la tua risposta?» Una risata isterica; una risata, che era per metà un singulto incontenibile, proruppe dalla gola di Meg. Poi la giovane avanzò verso il piccolo comandante. «Ecco la mia risposta!» E sputò in faccia all'uomo! Grensu diventò livido. Le dita grasse tremarono mentre tergevano il volto. Urlò, inferocito: «Prendetela! Passala a fil di spada, Leekno... no, aspetta!» Fiamme d'odio puro gli sprizzarono dagli occhi. «Chi contamina il nostro sangue maestoso non muore senza soffrire. La sua morte sarà lenta; e
urlando per implorare misericordia, avrà il tempo di ricordare questo momento!» Tremante e sconvolto, Grensu cercava nella mente un tormento adeguato. Meg, attendendo, vide con la coda dell'occhio un movimento sulla destra. La Capitana delle Guerriere, Lora, si era avvicinata furtivamente a uno degli invasori, e in quell'istante tendeva la mano per sottrargli la spada. Meg comprese il significato di quel tentativo. Lora sapeva bene che non avrebbe avuto la possibilità di aprirsi combattendo la via della fuga: il suo solo scopo era impadronirsi della spada e di piantarla nel cuore di Meg per risparmiare alla sacerdotessa orrori più atroci. E allora, anche se fossero morte entrambe, sarebbero morte, almeno, in modo «pulito»... Dal varco giunse un grido. La voce di una guardia esclamò in tono divertito: «Per il serpente, o Grensu... siamo attaccati da una banda di scimmioni nudi! Vieni a vedere questo prodigio!» Tutti si voltarono. E una speranza fiammeggiò nel cuore di Meg quando vide i nuovi arrivati... una schiera di Selvaggi! Lora raggiunse Meg con un balzo e gridò con voce roca: «Quali altre meraviglie ci mandano oggi le Dee, sacerdotessa? Guarda! Persino i vermi della foresta si sono mossi in questo giorno contro di noi! Siamo dunque maledette?» Ma Meg, dimenticando il dolore come per il momento era stata dimenticata lei stessa, ansimò quando si rese conto del vero significato di quella spedizione. «Non attaccano noi, Lora! Guarda chi comanda i Selvaggi!» Non era difficile scorgerlo. L'agile figura glabra spiccava come una fiamma bianca contro lo sfondo degli scuri corpi pelosi dei bruti. La sua criniera castana torreggiava sopra i Selvaggi più alti; e stringeva in una mano una grande spada arrugginita, agitandola come un bambino che squassa un sonaglio. Era... Daiv! Poi Grensu afferrò Meg per la spalla, e la fece girare su se stessa. Gridò a una schiera di suoi guerrieri: «Portate questa prigioniera alle hoam. Ci occuperemo di lei quando avremo annientato quegli stupidi Uomini-bestie venuti dalle foreste. Venite!» Si allontanò insieme ai luogotenenti, mentre Meg veniva condotta nella hoam dove erano state rinchiuse le sue sorelle. Le due guardie la spinsero brutalmente all'interno, poi si piazzarono sulla soglia. Meg corse a una finestra per osservare la battaglia.
C'era ben poco da vedere. Prima che Meg arrivasse alla finestra, l'orda dei Selvaggi s'era disposta in un grande cerchio intorno al villaggio di Jinnia; e a un segnale di Daiv, tutti si alzarono come una grande marea scura e si avventarono sui nemici. A quell'avanzata, un gemito di disperazione salì dalle gole delle prigioniere. Daiv era fuggito troppo presto. Non aveva visto, non aveva sospettato l'esistenza di un'arma come il muro di forza degli invasori. La massa ruggente dei Selvaggi si precipitò verso il villaggio; e dopo un attimo, gli assalitori giacevano ammucchiati a dozzine, sconvolti e ammaccati, davanti a quella barriera invisibile. Illesi ma... tutto era stato inutile! In un primo momento, però, non si resero conto di quanto fosse stato inutile. I Selvaggi erano coraggiosi, quanto le Donne del Clan non avevano immaginato. Nonostante i lividi e il dolore straziante che - Meg lo sapeva per esperienza - pulsava nelle loro vene, si alzarono da terra, e si scagliarono di nuovo, rabbiosamente, contro la muraglia d'energia che non potevano vedere. Le lance s'infransero contro il campo di forza impenetrabile; le spade vennero martellate contro con furia... ma i Selvaggi non riuscirono a passare. Daiv era onnipresente: esortava, spronava, implorava e supplicava il suo nuovo esercito perché raddoppiassero gli sforzi! Per due volte, Meg tremò quando lo vide avventarsi invano contro quella forza; le sue guance erano pallide quanto quelle di Daiv, quando per la seconda volta il giovane si rialzò, debole, esausto, straziato dalla sofferenza. Meg strinse il braccio della Donna che le stava più vicina, Lora. «Sono più numerosi dei nemici. Il mio compagno aveva fatto conto su questo: pensava che, anche se molti sarebbero caduti vittima dei raggi degli invasori, sarebbero riusciti comunque a passare in numero abbastanza grande per liberarci. Dobbiamo aiutarli!» Lora scosse cupamente la testa. «Gli Dei sanno che lo vogliamo. Ma è impossibile!» «Non è impossibile! Se riusciremo a spegnere la cassa divina prima che sia troppo tardi...!» Meg urlò quelle ultime parole. Perché aveva appena veduto ciò che doveva annientare definitivamente gli attaccanti. Gli invasori, che si erano divertiti abbastanza nel vedere quell'assalto inutile, adesso si preparavano ad entrare in azione. In piena vista dei Selvaggi si stavano piazzando in posizione dietro la muraglia invisibile. Le canne lanciaraggi erano spianate
e pronte. Il segnale venne da Grensu, che ghignava malvagiamente dal centro del viale. «Giù lo schermo! Fuoco! E poi su lo schermo di nuovo!» Gli eventi si svolsero con la stessa velocità con cui Grensu parlava. Il geniere che stava accanto alla cassa divina alzò la leva: e subito le canne in quaranta mani sputarono fiamme color ciliegia contro le file dei Selvaggi. Il fumo si diffuse ovunque; i corpi scomparvero; le armi caddero dalle mani dei Selvaggi trasformate in braci. Poi il campo di forza fu reintegrato. Per puro caso, una o due armi dei Selvaggi passarono nel breve istante in cui la barriera s'era abbassata. Un invasore, con un urlo di dolore, strinse con le mani convulse una lancia che gli aveva trafitto la gola, l'aveva rovesciato all'indietro e inchiodato moribondo al suolo. Un altro si accasciò gemendo, con il femore fratturato da un'enorme pietra. Meg cercò freneticamente Daiv con gli occhi e lo trovò. Era ancora vivo. Ma anche a quella distanza poté leggergli la nausea negli occhi mentre fissava stordito i morti intorno a lui. Mentre Meg lo guardava, Grensu ripeté il triplice ordine: «Giù lo schermo! Fuoco! E poi su lo schermo di nuovo!» E ancora una volta la morte si sparse fra gli attaccanti, scegliendo le vittime con le sue dita di fiamma color ciliegia... La stretta di Lora strappò lo spavento dagli occhi di Meg. «Tu sei la più veloce di tutti, sacerdotessa,» gridò la Capitana delle Guerriere. «Tu devi raggiungere la cassa divina.» Meg vide che Lora non era rimasta inattiva. Aveva raccolto intorno a sé tutte le Donne del Clan che non erano invalide. Era una schiera eterogenea. Guerriere dalle labbra contratte, Operaie dalla pelle ruvida. C'erano persino, sorprendentemente, tre madri-fattrici, in quel piccolo gruppo. I fianchi torniti e la faccia molle e pallida erano strani attributi per una donna combattente: ma i loro occhi erano accesi dello stesso fuoco che soffondeva gli sguardi di Meg e Lora. Una delle madri-fattrici, una donna chiamata 'Ana, disse a Meg: «Molto tempo fa, Sacerdotessa, anch'io aspiravo ad essere una Madre. Non era scritto nel destino, perciò mi è toccata questa sorte più umile. Ma farò quello che posso per te, per la Madre e per il Clan...» Lora l'interruppe bruscamente: «Tu sei la più agile e svelta, Meg. Creeremo una diversivo alla porta...» Un sorriso privo d'allegria le sfiorò le labbra. «Allora dovrai passare dalla finestra e raggiungere la cassa divina.
Che le Dee siano con te, sorella!» Meg annuì. Il braccio destro le pendeva lungo il fianco, ma il dolore che lo straziava era divorato da un'intensità più grande, da una necessità più vitale. «Così sia, Lora!» «Allora avanti, Donne!» gridò la Capitana. Spalle robuste colpirono la porta con forza devastante; il legno si frantumò, e l'uscio si staccò dai cardini come un baccello spaccato. All'esterno, le due guardie si girarono di scatto, spalancando gli occhi, portando le mani alle canne lanciaraggi. Una lanciò un grido. Meg ebbe solo il tempo di vedere le Donne del suo Clan che si avventavano all'esterno, le due guardie che cadevano, i nemici riuniti entro il cerchio tattico volgersi a guardare. Tutti gli occhi erano puntati sulle prigioniere che uscivano correndo dalla porta; nessuno notò che lei scavalcava goffamente la finestra, sul lato opposto della hoam. Era il villaggio di Meg: lei lo conosceva benissimo. Ma non sempre lei prese la via più breve: sceglieva invece quella che meno avrebbe rischiato di farla scoprire mentre si avviava verso il solo punto vulnerabile della difesa dei nemici: la cassa divina. Ma se gli invasori non potevano vederla, neppure lei poteva vedere loro. Seguiva il progresso della battaglia in base ai pochi suoni che riusciva a identificare. La cosa più importante era che non aveva più udito la voce di Grensu levarsi nel comando di abbassare e rialzare il muro di forza. Dunque, il quel momento la distruzione non alitava sulle schiere dei Selvaggi... Ma la sua gente? Meg poteva solo pregare silenziosamente gli dei perché il valore delle sue compagne non fosse vano... e intanto continuava a correre. Fu un tragitto breve, ma il tormento nel suo cervello lo rese interminabile. Le sembrò che fossero passate molte ore quando finalmente Meg si trovò nell'ultimo vicoletto in ombra, di fronte al punto che era la sua destinazione... il punto sul perimetro del cerchio invisibile dove stava la cassa divina. Ora le restavano soltanto pochi passi, ma erano i più pericolosi. Se avesse potuto percorrerli senza attirarsi il fuoco delle guardie intorno alla cassa, avrebbe potuto alzare quella leva, anche per un solo istante, per fare entrare la schiera travolgente dei Selvaggi. E quando l'avesse sollevata, giurò Meg, la leva sarebbe rimasta in quella posizione fino a che lei avesse avuto
una mano per reggerla. Gli Dei la favorivano in due cose. Le guardie intorno alla cassa erano rivolte tutte dalla parte opposta, sbalordite dal contrattacco inatteso delle Donne già sconfitte. E... ai piedi di Meg giaceva qualcosa che era stata dimenticata dai soldati nemici incaricati di rimuovere le testimonianze della prima battaglia! Una delle canne lanciaraggi degli invasori! Con una certa difficoltà, Meg represse il grido che le balzò alle labbra. Per forza d'abitudine, si fermò per raccogliere la canna con la mano destra: rabbrividì di dolore quando le dita tormentate toccarono il suolo e rifiutarono di afferrare l'oggetto. La sua mano sinistra però lo serrò e lo tenne: e le dita ansiose trovarono il bottone che attivava il raggio. Quale raggio fosse, Meg non aveva possibilità di saperlo. Né poteva concedersi il tempo di fare esperimenti. Come un fulmineo spettro dorato balzò dal riparo del vicolo e si eresse nello spazio libero. L'aveva attraversato a metà quando uno dei guardiani della cassa divina, per puro caso, si voltò e la vide. Aprì la bocca per lanciare un grido d'avvertimento che non risuonò mai. Perché Meg alzò la canna... e premette il bottone! Uno sprazzo di fiamma color ciliegia avvolse l'uomo che si accasciò al suolo, privo di vita. Ma la sua morte era stata un monito sufficiente. L'orrore rallentò il movimento con cui gli altri guardiani si voltarono, e in quella lentezza trovarono la loro fine. Il dito di Meg restò rigido sul bottone; il suo raggio spazzò via tutti i difensori del campo di forza. E... E Meg raggiunse la meta! Con un grande grido di trionfo, la giovane passò tra la fetida nebbia fumante, sentì sotto i piedi le braci ancora roventi delle rovine, e trovò la leva. Con un movimento poderoso delle spalle, la forzò verso l'alto... E poi... venne il caos! Capitolo Quattordicesimo: Il vecchio ordine cambia... Una nota si levò improvvisamente nel frastuono della battaglia. Prima c'era stato solo un ululato generale di disperazione: le grida infuriate dei Selvaggi impotenti mescolate alle urla d'agonia delle Donne eroiche. Ora, invece, si innalzò al cielo una peana di gioioso trionfo. Roche voci mascoline acclamarono come impazzite, quando l'orda dei villosi Selvaggi si accorse che la barriera era scomparsa. Con Daiv alla testa, avanzarono, asse-
tati di vendetta, verso il villaggio. Là dove fino a pochi momenti prima lo scontro era stato un massacro delle jinniane, cui i Selvaggi erano costretti ad assistere impotenti, ora divenne una battaglia generale, suddivisa in cinquanta minuscoli settori. Qui una fiamma color ciliegia, impugnata da un invasore in armatura che indietreggiava, faceva ammiccare il suo diabolico occhio vermiglio tra Uomini che urlavano e cadevano fumando. Là una dozzina di Selvaggi si avventava su un gruppetto di invasori, li faceva letteralmente a pezzi e proseguiva la corsa... mentre adesso, uno di quei Selvaggi brandiva una canna letale tolta ai nemici uccisi! In un altro punto, un pugno di invasori di Mayco combatteva invano contro i nemici: le Donne che li fronteggiavano e i Selvaggi che lì caricavano dal fianco. Fino a quel momento, gli invasori si erano accontentati di mettere fuori combattimento la rivolta delle jinniane con il verde raggio soporifero; ma ora cominciavano ad usare solo l'arma rossa. Meg si sentì torcere per l'angoscia nel vedere le Donne che morivano sotto la fiamma color ciliegia... Ma... Daiv? Nell'attimo in cui con la sua mente si poneva quella domanda, Meg lo trovò. Dal perimetro più lontano del cerchio, lui stava ora correndo a precipizio attraverso l'arena centrale del villaggio, verso di lei. Per la fretta, o per pura spavalderia, non aveva raccolto una pistola lanciarazzi, e brandiva ancora con entrambe le mani l'enorme spada con cui aveva assalito la cittadella. Ma non fu questo che gli salvò miracolosamente la vita dai fulmini cremisi che lampeggiarono intorno a lui: fu la sua agilità istintiva, il suo tempismo perfetto. Più di una volta, le labbra di Meg formarono un urlo senza parole, quando pareva che una di quelle canne fiammeggianti dovesse sicuramente vomitare una scarica addosso al corpo levigato dell'uomo. Ma ogni volta Daiv vide subito il nuovo pericolo e deviò per evitare il raggio. E più di una volta la sua spada potente abbatté l'invasore che avrebbe voluto essere il suo distruttore. Poi, da un angolo del cortile, eruppe una figura grassa e agitata. Grensu. La sua armatura dorata, un tempo così orgogliosa, adesso era ammaccata in una dozzina di punti; c'era una macchia rossa sulla fronte, e le labbra carnose si muovevano con una rabbia tremenda. Il suo obiettivo era Meg: ed era verso di lei che avanzava, mormorando
vili minacce. «Dunque, Donna d'avorio, pensi di aver trionfato? Sappi, allora, che Grensu porta con sé i suoi avversari nella sconfitta!» E alzò l'arma lanciaraggi per colpire Meg. Per la prima volta, in tutti quei momenti frenetici, un senso di paura personale indebolì le ginocchia della Sacerdotessa. Non le era parso triste morire per una causa degna. Ma ora, quando la causa era quasi vinta e quando, tra pochi istanti, le braccia del suo innamorato l'avrebbero stretta... ora non voleva morire... Ma, come sempre, la vanagloria di Grensu fu la sua rovina. Una volta di troppo, aveva ritardato la vendetta per parlare. E così, mentre l'invasore stava per stringere il dito sul bottone che avrebbe gettato Meg in un rancido oblio, un oggetto immane giunse sfrecciando nell'aria... Era la spada di Daiv. Vedendo che non vi era altro modo di arrestare la mossa di Grensu, Daiv l'aveva lanciata contro il comandante nemico con tutta la forza delle sue braccia poderose. E la spada fendette l'aria come un sibilante flagello inviato dagli stessi Dei: strappò la canna lanciaraggi dalla mano di Grensu e, insieme con quella canna eruttante, tranciò anche le dita dell'uomo. Poi, mentre Grensu urlava per il tremendo dolore e si voltava per fuggire, Daiv gli balzò addosso. Afferrò il tozzo, pesante nemico, con ancora indosso l'armatura, e se lo sollevò sopra la testa; lo scrollò come un cane avrebbe scrollato un ratto. Le labbra carnose di Grensu balbettarono suppliche incoerenti, gli occhi strabuzzarono follemente. Ma c'era una pietra, al posto del cuore, nel petto di Daiv... Afferrò il comandante che urlava, per la testa e per i polpacci; le sue braccia fecero un movimento rapido. Il barrito timoroso di Grensu si trasformò in un soffocato gemito di sofferenza, mentre qualcosa in lui si spezzava come un fuscello della foresta... Poi, Grensu giacque immobile. Dopo, uno dei Selvaggi si avvicinò a Daiv che stava accanto a Meg, davanti alla cassa divina spenta. «Chiamano la Sacerdotessa, Padrone,» disse sorridendo. «La Vecchia sta per morire. Vuoi condurre la tua bella sposa alla hoam?» Daiv disse: «Te l'ho ripetuto tante volte, Wilm, non devi chiamarmi 'padrone'. Io sono un Uomo come te: siamo tutti Uomini, fieri e nobili... e uguali! Non dimenticarlo.» Poi, rivolgendosi a Meg: «Ricordi Wilm, non è vero, Aurea?»
Meg lo ricordava, sebbene fosse difficile vedere dietro il volto sorridente e sicuro di quell'essere villoso lo stesso essere atterrito che Daiv aveva salvato dalla trappola soltanto il giorno prima... possibile che fosse trascorso così poco tempo? Meg, tra sé, annuì: sì, era possibile... «Mi sono ricordato di Wilm,» le spiegò Daiv, con uno sguardo soddisfatto, «Quando la banda degli invasori ci ha attaccato. Fin dal primo momento, ho capito che sarebbe stato inutile difenderci. Eravamo troppo pochi, e troppo male armati. E avevamo bisogno di altri combattenti, più forti e decisi. Perciò sono andato a chiedere l'aiuto dei Selvaggi... l'aiuto che Wilm mi aveva promesso in caso di necessità. «Tuttavia,» aggiunse, scuotendo tristemente la testa, «non sapevo ancora che gli invasori avessero anche l'altra arma, il muro invisibile, quando siamo ritornati. Senza il tuo aiuto, Aurea, saremmo stati perduti.» «E senza il tuo,» mormorò Meg, «io sarei la pallida sposa della morte.» E poi la giovane fece un gesto senza precedenti per una Donna, una Sacerdotessa del Clan di Jinnia... ma Meg lo compì. Tese la mano al Selvaggio: «Desidero stringerti la mano, Uomo delle foreste. D'ora innanzi vi sarà solo la pace tra noi.» Rabbrividì alla stretta entusiastica di Wilm. Poi: «Ma ora affrettiamoci, o Daiv, amor mio. La Madre mi ha mandata a cercare; temo che presto raggiungerà gli Dei.» C'era già l'espressione delle divinità negli occhi della Madre, quando giunsero nella hoam. Ma un'impressione di strana pace e di felicità scese su di lei, quando fissò affettuosamente Meg. «Resterò con te ancora per poco, figlia mia,» mormorò sottovoce la Madre. «Gli Dei, quelli veri, mi hanno chiamato e le loro voci fremono già nei miei orecchi come il bisbiglio dei venti notturni tra le fronde. Presto dovrò partire.» La felicità di Meg divenne improvvisamente grigia, sotto la nube di affanno che ora le turbava il cuore. Si lasciò cadere in ginocchio accanto alla vecchia. «Non devi andartene, o Madre!» singhiozzò. «C'è tanto da fare, e solo la tua saggezza può aiutarci a realizzarlo.» La mano pallida della custode della tribù cercò e trovò la testa dorata di Meg. «Hai detto la verità, figlia mia. C'è tanto da fare. Ma tu sai già come guidare il nostro Clan perché ritrovi la statura degli Antichi. Con al fianco il tuo compagno...»
Vi fu un'esclamazione collettiva di enorme stupore da parte delle Donne del Clan. La Madre udì e sorrise debolmente. «Sì, approvo ora, qui, apertamente ciò che, fin dall'inizio, il mio cuore aveva già capito. Ascoltate, figlie mie... Meg aveva ragione. Nel suo pellegrinaggio ha appreso, come anche io avevo scoperto molti inverni fa, che le Dee... in realtà erano Uomini. Sì, Uomini come Daiv. Per questo Meg si è ribellata alla Legge che vietava a una Sacerdotessa di trovare un compagno... e aveva ragione. «Ora ascoltate, perché vi dirò la verità, con gli occhi onniveggenti di chi sta sulla soglia della morte. È giusto che le Donne si uniscano agli Uomini. Non devono esservi più Operaie e Guerriere e madri-fattrici. Il nostro Clan non dovrà più tenere i maschi-stalloni, pallidi e schiavi come i buoi e i nostri cavalli. È un errore.» Lora, con il volto duro sconvolto dalla confusione, gridò: «Ma, Madre... i Selvaggi... non puoi ora dirci che...» «Non dovremo mai più attaccare i Selvaggi. Non capite che gli Dei stessi si sono vendicati quando hanno permesso che Meg venisse presa in una delle trappole da noi scavate? «D'ora innanzi...» la voce della Madre si affievolì, e un demone della sofferenza trafisse il cuore di Meg. «Vi sarà solo pace e amicizia tra le Donne e i Selvaggi. Vedo un giorno... un giorno del futuro, in cui l'umanità potrà tornare a raggiungere le vette conseguite dagli Antichi. E quel giorno i Figli degli Antichi ritorneranno dalla stella della sera e troveranno un mondo nuovo, più felice di quello da cui fuggirono...» Daiv mormorò a Meg. «È santa come gli Dei. Ascolta la sua sacra visione!» E Meg vide che il suo compagno aveva gli occhi pieni di lacrime... Poi la Madre disse a Meg: «Una volta ho rimandato il giudizio su di te, figlia mia. Ora ti dò la mia approvazione... a te e a quest'Uomo che è il tuo compagno... e a tutto ciò che hai fatto. Guida bene il tuo popolo...» E spirò. Un mormorio sommesso risuonò nella stanza, un mormorio che era il pianto del Clan orbato della Madre. Una ad una, le Donne lasciarono la presenza della morte per il sole e la vita del mondo esterno... Solo un gruppo di prigionieri nemici, sorvegliati dalle torve guerriere, e i corpi dei caduti in battaglia, e le hoam distrutte o semidistrutte testimoniavano della battaglia avvenuta. Presto, però, tutto sarebbe cambiato: un'esistenza nuova e migliore sarebbe nata dagli errori del passato... Wilm rincorse Daiv, gli tirò febbrilmente il braccio. «Daiv, Padrone...»
«Niente 'padrone', Wilm!» gli ricordò severamente Daiv. «Daiv, amico,» si corresse il Selvaggio. «Le Donne faranno come ha detto la loro Vecchia? Forse accetteranno di diventare le nostre compagne?» C'era un'ansia quasi patetica nella sua voce. Meg si sentì commossa. Ma non così l'angolosa Lora, che sbuffò irritata. «La parola della Madre è Legge, o bestia pelosa e puzzolente.» Il suo tono era carico di derisione. «Quale Donna del nostro Clan stuzzica tanto la tua fantasia? Una di quelle, suppongo?» indicò una madre-fattrice giovane e prosperosa, dalla pelle bianca, non ancora ingrassata dalle gravidanze, che stava percorrendo il viale e ancheggiava voluttuosamente, sapendo di essere guardata. Ma Wilm scrollò la testa. «Quella?» esclamò. «Puah! Quale uomo potrebbe volere una cosa simile? A me piace una Donna forte: una donna con braccia di quercia robusta. Una Donna guerriera. Una Donna come...» Wilm s'interruppe, come senza fiato. Poi: «Una Donna come... te!» «Me!» La Capitana delle Guerriere represse un grido. Poi un lento rossore le salì dalla gola fino alle guance. E la sua voce era soffocata. «Come me, Uomo?» «Non come te,» disse con fermezza Wilm. «Te!» Meg attese la risposta della Capitana, fremendo di stupore e d'ilarità. Poi Lora parlò, e la sua fu la risposta di tutte le Donne al nuovo regime... «Devi essere pazzo, Uomo!» dichiarò. «Ma... credo che, in un certo senso, la tua pazzia mi piaccia. Ne riparleremo, ma solo se andrai prima a lavarti per toglierti quel puzzo di dosso. E se ti taglierai quella barba orribile...» Meg guardò Daiv, e Daiv la guardò, con un sorriso felice sulle labbra. Poi le mormorò: «Il cambiamento è già cominciato, Aurea. Il cambiamento che speravo. Presto vivremo in un mondo nuovo. Il poeta degli Antichi diceva la verità.» «Il poeta?» chiese Meg. «Non capisco, Daiv.» «Il suo nome,» disse sottovoce Daiv, «Era Tensun, credo. Molti secoli fa, scrisse: 'Il vecchio ordine cambia, lasciando il posto al nuovo... e gli Dei si realizzano in molti modi...'»
LIBRO TERZO LA CITTÀ DELLA LUNGA MORTE Capitolo Quindicesimo: Lo Spirito del Silenzio Nella dolce, vuota oscurità del sonno, Meg sentì una pressione sul suo braccio e una voce le sussurrò, incalzante: «Alzati, o Madre! O Madre, alzati e vieni, presto!» Meg si svegliò con un sussulto. Il piccolo folletto del sonno, nel suo cervello, si agitò, risentito di venire scacciato così rudemente. Fece un ultimo sforzo per tenere prigionieri gli occhi di Meg, gettandovi una nebbia di polvere soporifera, ma Meg scosse la testa risolutamente. Il folletto del sonno, imbronciato, le aprì a forza le labbra e se ne volò via. Ombre scure indugiavano negli angoli dell'hoam, ma le finestre erano contornate dal grigiore dell'alba ormai prossima. Meg gettò uno sguardo al giaciglio accanto al suo dove Daiv, il suo compagno, continuava a dormire imperturbato. La criniera castana del giovane era scompigliata, e sulle sue labbra gli aleggiava il ricordo di un sorriso. Il volto era stranamente, adorabilmente fanciullesco, ma le braccia e le spalle abbronzate erano quelle di un guerriero. «Presto, o Madre...» Meg disse: «Calma, Jain: vengo.» Parlò con calma, gravemente, come si conveniva alla matriarca del Clan di Jinnia, ma una fredda, sottile paura le toccava il cuore. Erano tanti, i doveri di una Madre: tanti e dolorosi. Meg la Sacerdotessa non aveva previsto gli affanni che stavano al di là dei giorni del noviziato. Ora la vecchia, buona Madre tribale era morta; alle salde mani di Meg era stato affidato il compito di guidare il destino del Clan. Ma era una missione così grande, e questo... questo era il compito più difficile. Trasse un profondo respiro. «Elnor?» chiese. «Sì, Madre. Già ora i Maligni si aggirano, cercando di rubarle il respiro dalle narici. Lui attende, ma è impaziente. Non c'è tempo da perdere.» «Vengo,» disse Meg. Da un ripiano prese un sonaglio fatto di una zucca disseccata, avvolto nei capelli di una vergine; da un altro prese una pietra focaia, un pezzo scheggiato di metallo divino e una striscia di pergamena sulla quale un sacro fuscello, intinto nell'acqua di mezzanotte, aveva lasciato una serie di lettere. Toccò quegli oggetti con reverenza; e gli occhi di Jain erano sgranati per
lo stupore. La Capitana delle Operaie rabbrividì, si nascose la faccia tra le mani perché la vista di quei sacri misteri non l'accecasse. Le felci secche frusciarono. Daiv, con le palpebre pesanti, si sollevò su un gomito. «Che c'è, Aurea?» «Elnor,» rispose sottovoce Meg. «Lo Spirito è venuto a prenderla. Devo fare ciò che posso.» L'impazienza incise rughe sottili sulla fronte di Daiv. «Con quelle cose, Aurea? Te l'ho detto tante volte, a Lui non fanno nessun effetto...» «Taci!» Meg fece un rapido gesto supplichevole perché Lui, udendo le empie parole di Daiv, non si offendesse. Spesso l'audacia di Daiv la spaventava. Daiv aveva così poco timore degli Dei che era un prodigio che lo lasciassero vivere. Certo, veniva da un luogo sacro, dalla Terra della Fuga. E forse questo serviva a proteggerlo... Meg disse ancora: «Devo fare quello che posso, Daiv. Vieni, Jain.» Lasciarono l'hoam della Madre, si avviarono a passo svelto lungo il viale deserto. La sinfonia mattutina degli uccelli era nella fase dei primi accordi. Il cielo era coperto, grigio e cupo. Una hoam era illuminata: quella dell'operaia in fin di vita, Elnor. Meg aprì la porta, accennò a Jain di entrare in fretta, richiuse l'uscio perché neppure un soffio dell'aria esterna, contaminata, penetrasse nella sana atmosfera calda e soffocante della stanza della malata. Notò con approvazione che le finestre erano state chiuse e sigillate, che le candele di sego di bue riempivano la stanza con il loro odore potente, capace di scacciare i demoni. Eppure, nonostante queste precauzioni, i Maligni, come aveva detto Jain, gareggiavano per impadronirsi del respiro di Elnor. Su una stretta branda al centro della stanza giaceva l'Operaia moribonda. Il suo respiro era soffocato e irregolare, come il canto della ghiandaia. Le sue guance, sotto l'abbronzatura, erano sbiancate; gli occhi erano carboni ardenti e cerchiati di scuro. La pelle era ruvida e secca; si agitava irrequieta, e si guardava intorno come se cercasse una presenza invisibile. Jain disse, timorosamente: «Osserva, o Madre! Lei Lo vede. Lo Spirito è dunque già qui.» Meg annuì. Strinse i denti. Due donne e Bil, il compagno di Elnor, stavano accovacciati accanto al letto della malata. Accennò loro di allontanarsi. «Combatterò con Lui,» disse decisa.
Rimase immobile un attimo, tesa prima di incominciare il conflitto. Poi, con un grande grido vibrante, Meg batté insieme le sacre pietre, il pezzo di pietra focaia e il metallo divino. Una pioggia di scintille dorate le scaturì dalle mani. Gli astanti gridarono di spavento e arretrarono tremando. Meg alzò la zucca. Tenendola alta e scuotendola, con il pezzo di pergamena stretto nella mano destra, cominciò a cantilenare le sillabe magiche che vi erano scritte. Gridò con reverenza, perché quelle erano parole potenti della forza risanatrice: nessuno sapeva quanto fossero antiche, ma erano state tramandate per un tempo immemorabile. Erano un rito degli antichi. «Io giuro,» intonò, «per Apollo il medico, ed Esculapio, e Igea e Panacea, e per tutti gli dei e le dee che, secondo la mia abilità e il mio giudizio, manterrò questo Giuramento e questo impegno...» La zucca sfidò i demoni che tormentavano Elnor. Meg strabuzzò gli occhi e girò tre volte in senso orario intorno al giaciglio della malata. «... non darò medicine mortali a nessuno...» Le frasi altisonanti ondeggiavano e pulsavano, e il sudore scorreva lungo le guance e la gola di Meg. Sotto le coperte, Elnor si agitò. Nell'angolo, Bil mormorò qualcosa, impaurito. «... non taglierò persone che soffrono della Pietra, ma lascerò fare questo ad uomini esperti del lavoro...» La candela scoppiettò e una goccia di sego cadde sul pavimento, quando la porta alle spalle di Meg si aprì e si richiuse dolcemente. Meg non osò guardare il nuovo venuto, non osò interrompere l'incantesimo. Un po' del colorito convulso sembrava aver abbandonato le guance di Elnor. Forse Lui se ne stava andando? Senza la Sua preda?» «... e finché manterrò inviolato questo Giuramento, mi sia concesso...» La voce di Meg vibrò di speranza. Oh, era potente la magia degli Antichi! L'incantesimo riusciva! In un immenso, trionfante clamore della zucca, dal tono stridente e gioioso, si lanciò nella perorazione. «... godere la vita e la pratica dell'Arte, rispettato da tutti...» Un suono improvviso, agghiacciante l'interruppe. Era Elnor. Un ansito di dolore, un grido soffocato, una contorsione del corpo straziato dalla sofferenza. E poi... «È troppo tardi, Aurea,» disse Daiv. «Elnor è morta.» Le Donne nell'angolo intonarono una nenia funebre. L'uomo, Bil, smise di mormorare. Andò al fianco della compagna morta, s'inginocchiò senza parlare, fissando Meg con occhi colmi di rimprovero. Soffocata, Meg balbettò le parole di prammatica: «Aamé, il dio, abbia
pietà dell'anima sua.» Poi fuggì da quell'hoam di dolore. Nessuno doveva vedere la Madre in lacrime. Daiv la seguì. Anche tra le sue braccia, non le riuscì di trovare molto conforto... Più tardi, nella loro hoam, Daiv rimase a guardare in rispettoso silenzio mentre Meg eseguiva la magia quotidiana che era un dovere della Madre. Dopo aver offerto una breve preghiera agli Dei, Meg prese nella mano destra una bacchetta. Poi la lasciò bere in una pozza nera come la mezzanotte nel piattino che le stava davanti, e quindi la fece scorrere sul rotolo di liscia pergamena sbiancata. Dove si muoveva, la bacchettina lasciava una traccia, una serie di sottili segni neri. Poi Meg finì, e Daiv la guardò con ammirazione. Era fiero della sua compagna che custodiva la conoscenza di tanti misteri perduti. Chiese: «È fatto, Aurea? Leggi. Fammi udire il discorso senza parole.» Meg lesse tristemente: «Rapporto del quattordicesimo giorno di giugno, 3485 d.C. «La nostra opera procede molto bene. Oggi Evalin è ritornata dalla visita nel territorio di Zurrie. Là, dice, il suo messaggio è stato accolto con stupore, ma in generale con approvazione. C'è qualche dissenso, specialmente tra le Donne più vecchie, ma la Madre ha ascoltato la Rivelazione e ha promesso che il Clan di Slooie cercherà immediatamente di comunicare la pace e la conoscenza del nuovo ordine ai Selvaggi. «Le nostre messi maturano, e presto Lima avrà completato la nuova diga attraverso il fiume Ronoaj. Abbiamo ora ottanta capi di bestiame, cinquanta cavalli e il nostro Clan conta trecentoventinove persone. Tutte le nostre Donne hanno un compagno. «Oggi abbiamo perduto una valida Operaia, quando lo Spirito del Silenzio è venuto a prendere Elnor, luogotenente del Campo Coar. Non avremmo potuto permetterci di perderla, ma non si può contrastarLo...» La voce di Meg si spezzò. Smise di leggere, gettò il rotolo in un mucchio insieme a innumerevoli altri, alcuni nuovi, altri ingialliti dal tempo, scritti nella meticolosa grafia di Madri da molto tempo morte e dimenticate. Daiv disse in tono consolante: «Non affliggerti, Aurea. Hai cercato di salvarla. Ma alla fine Lui viene per tutti. I vecchi, i deboli, i sofferenti...» Meg gridò: «Perché, Daiv, perché? Perché doveva venire a prendere Elnor? Sappiamo che Lui prende i vecchi perché nella loro debolezza sta la Sua forza; prende i feriti perché sente da lontano l'odore del sangue che
scorre. «Ma Elnor era giovane forte e sana. Non c'erano ferite o piaghe sul suo corpo. Non aveva assaporato le Sue bacche nei campi, e non aveva mai toccato una persona già presa da Lui. «Eppure è morta! Perché? Perché, Daiv?» «Non lo so, Aurea. Ma sono curioso. Perché sono Daiv, chiamato anche Colui-che-vuole-imparare. Qui c'è un mistero più grande di tutti i tuoi incantesimi. Forse è addirittura più grande della sapienza degli Antichi.» «Ho paura, Daiv. Lo Spirito del Silenzio è sempre così vicino; e noi siamo così deboli. Tu sai che ho cercato di essere una buona Madre. Sono stata io a compiere un pellegrinaggio al Posto delle Dee, ho appreso il segreto che le divinità erano uomini e ho stabilito un nuovo ordine, affinché Uomini e Donne potessero riprendere a vivere insieme, come avveniva anticamente. «Ho lavorato per diffondere questa conoscenza in tutto il mondo, in tutto Tizathy. Un giorno riscatteremo tutti i Selvaggi delle foreste, li condurremo nei nostri campi e insieme ricostruiremo il mondo. «Un solo ostacolo ci sbarra la strada: Lui! Lo Spirito del Silenzio! Colui che abbatte i nostri guerrieri con una spada invisibile, miete un raccolto incessante tra i nostri operai. È il nostro arcinemico. Un nemico feroce, beffardo, invisibile, contro il quale siamo impotenti...» Daiv borbottò. Tra i suoi occhi s'erano incise piccole rughe dure. Le sue labbra non erano incurvate verso l'alto nel solito sorriso felice. Disse: «Hai ragione, Meg. Lui, da solo, uccide un numero dei nostri più grande delle bestie della foresta e degli invasori occasionali. Se potessimo trovarLo e ucciderLo, il nostro popolo crescerebbe rapidamente in conoscenza e potenza.» Poi scosse la testa. «Ma non sappiamo dove cercarLo, Aurea.» Meg trasse un respiro rapido e profondo. Nei suoi occhi brillò un bagliore improvviso. «Io lo so, Daiv!» «Sai dove vive Lui, Aurea? Lo Spirito del Silenzio?» «Sì. Me lo disse la vecchia Madre, molti anni or sono, quando ero allieva sacerdotessa. Mi mise in guardia contro una città proibita a nord-est... la città conosciuta come la Città della Lunga Morte! Deve essere quello, il Suo covo!» Vi fu un attimo di stridente silenzio.
Poi Daiv disse, a denti stretti: «Puoi dirmi come raggiungere quel luogo, Meg? Potresti tracciarmi un disegno che mi permetta di trovarlo?» «Sì! È situato dove le grandi strade di creet degli Antichi incontrano un fiume e un'isola e un immenso mare salato. Ma... ma perché, Daiv?» Daiv disse: «Tracciami il disegno, Meg. È necessario distruggerLo. Andrò nella Sua città per cercarLo.» «No!» Non fu Meg la sacerdotessa a gridare: fu Meg la donna. «No, Daiv! È una città maledetta. Non posso permettere che tu vada!» «Non puoi trattenermi, Aurea.» «Ma tu non conosci incantesimi né sortilegi. Lui ti distruggerà...» «Prima sarò io a distruggere Lui.» Il sorriso riapparve agli angoli delle labbra di Daiv. Poi il giovane prese Meg tra le braccia abbronzate, accendendole il fuoco nelle vene con il bacio che le aveva insegnato. «Il mio braccio è forte, Meg, la mia spada è affilata. Lui dovrà sentirne il morso, se vogliamo vivere e prosperare. Non puoi farmi cambiare idea.» Allora Meg decise. «Sta bene, Daiv. Andrai. Ma non ti farò un disegno dei luoghi.» «Suvvia, Aurea! Se non l'avrò, non riuscirò a trovare...» La voce di Meg era ferma, irremovibile. «Perché io verrò con te! Insieme cercheremo e distruggeremo... Lui!» Capitolo Sedicesimo: Sulla pista degli Antichi E così Meg e Daiv partirono per la Città della Lunga Morte. Non fu una separazione lieta dagli Uomini e dalle Donne del Clan di Jinnia. Vi furono lacrime e lamenti e mesti mormorii, perché tutti conoscevano la legge: le città orientali degli Antichi erano proibite. Ma vi fu anche coraggio; e lealtà. L'austera Lora, Capitana delle Guerriere, attese Meg alla porta del villaggio. Era armata per la battaglia: la corazza e lo scudo di cuoio erano lustri, e portava la spada al fianco. Dietro di lei stava una squadra di guerriere scelte, con gli zaini per il viaggio. «Siamo pronte, o Madre,» disse laconicamente Lora. Meg sorrise, un dolce, orgoglioso sorriso. Conosceva troppo bene il terrore mentale, i fremiti fisici di paura che quelle Donne dovevano aver sconfitto dentro di loro prima di potersi offrire volontarie. Il suo cuore provò quindi un tuffo di gioia: ma Meg tese le mani per sciogliere il fodero della spada di Lora.
«Sei necessaria qui, figlia mia,» le disse. «Devi difendere il Clan fino al mio ritorno. E...» Esitò un istante, poi proseguì in fretta. «E se è volere degli dei che io non ritorni, dovrai avere cura che venga rispettata la legge fino a quando la giovane Sacerdotessa, Haizl, avrà finito il noviziato e potrà assumere il comando. «La pace sia con voi tutti!» Posò leggermente le labbra sulla fronte di Lora. Non sembrò strano a nessuno che chiamasse «figlia mia» la Capitana dal volto duro, che aveva parecchi anni più di lei. Perché lei era la Madre, e la Madre era senza età. Si fecero avanti altre tre, a chiedere una benedizione e a offrire agli dei e alla dee le loro preghiere silenziose per il ritorno di Meg. La giovane Haizl, la dodicenne attenta dagli occhi limpidi che Meg aveva scelto per succederle come matriarca del Clan di Jinnia, mormorò: «Sii forte, o Madre, ma non troppo temeraria. Ritorna sana e salva, perché non potrò mai prendere il tuo posto.» «Ma lo potrai, figlia mia. Studia con diligenza, impara il linguaggio senza parole e la magia del numeri. Osserva la legge e apprendi i rituali.» «Io mi sforzo, o Madre. Ma i minuscoli demoni del dolore si annidano dietro i miei occhi. Danzano e fanno muovere le lettere in un modo strano.» «Continua lo studio, persevera, e se ne andranno.» Poi venne 'Ana, che era stata una madre-fattrice, prima della Rivelazione, e che adesso era felicemente sposata. Aveva gli occhi rossi di pianto e non riusciva a parlare. Venne Isbel, la più forte delle Operaie, che a mani nude aveva ucciso un leone di montagna. Ma ora non c'era forza nelle sue mani: tremarono nello sfiorare gli stivali di Meg. E venne anche Bil, con gli occhi ardenti. «Vorrei venire con voi per distruggerLo, o Madre! È mio diritto. Non puoi rifiutarmelo!» «Posso e voglio, Bil.» Bil ribatté, in tono ribelle: «Sono un Uomo, forte e valoroso. Ho combattuto a fianco di Daiv, quando gli invasori malvagi ci attaccarono. Chiedi a lui se non sono un buon combattente.» «Questo lo so senza doverlo chiedere. Ma ora lottiamo contro un nemico invisibile. Di tutto il clan, soltanto io e Daiv possiamo stare di fronte a Lui. Io sono una Madre inviolabile; Daiv è nato da un'antica, sacra tribù: la tribù di Kirki, che dimora nella Terra della Fuga. «E ora... addio...»
Ma quando ebbero lasciato il villaggio, Daiv ripeté le sue obiezioni, espresse molte volte nelle ore che avevano preceduto la partenza. «Torna indietro, Aurea! Questo è un compito da Uomo. Lo Spirito del Silenzio è un nemico potente. Ritorna al Clan, attendi il mio ritorno...» Meg disse, come se non lo avesse udito: «Vedi, la strada davanti a noi. La strada di creet degli Antichi!» Non era un lungo viaggio. Solo otto giorni di marcia, secondo i calcoli di Meg. Era meno di un quinto della distanza che lei aveva percorso nel pellegrinaggio al Posto degli Dei nel territorio di 'Kota, tempo prima. E Daiv era un viaggiatore esperto; da solo, aveva vagato per gran parte di Tizathy, dal 'Vadah bruciato dal sole allo squallido Yomin, dalle giungle lussureggianti della Flarduh alle montagne crestate di neve dell'Orgen. Soltanto quella strada non aveva mai percorso, perché tutte le tribù, nell'immenso Tizathy, sapevano che la legge vietava di recarsi ad est. Perciò il loro viaggio fu pieno di molte meraviglie. Era difficile camminare sulle strade di creet sgretolato degli Antichi, e perciò Meg e Daiv procedevano nei campi, ma tenevano sempre in vista la via di pietra bianca. Passarono attraverso un villaggio abbandonato che si chiamava Lextun o Veémi - l'antico nome era confuso, negli annali - e un altro conosciuto come Stantn. Solo dalle intersezioni delle strade riuscivano a riconoscere le antiche città. Non restava in piedi una sola hoam; l'erbaccia invadeva quelli che un tempo erano stati campi fertili e pascoli ricchi. Al mattino del quarto giorno sbagliarono a svoltare, lasciarono l'altopiano e salirono verso est, in una catena azzurra e fumosa di montagne. Là trovarono una grande meraviglia. Fra gli alti colli s'imbatterono nelle mura diroccate di un antico santuario, costruite pietra su pietra, con il creet che teneva uniti i blocchi. Fissata al muro da chiodi di metallo divino c'era una lastra verde di muffa. Daiv, incuriosito, la pulì, scoprì una scritta in lettere dalle forme strane. Le lettere dicevano: URAY CAVERN ngress Un dol Oltre il santuario c'era una buca enorme che conduceva nelle viscere della terra. Daiv avrebbe voluto entrare, alla ricerca di una spiegazione per quella meraviglia, ma un freddo umido saliva dal varco, e il suono dei suoi passi all'entrata destò una miriade di orribili pipistrelli.
Meg comprese e si affrettò a trascinare via Daiv da quel luogo maledetto. «È la dimora di uno dei loro Dei malefici,» spiegò. «I pipistrelli sono le anime dei suoi adoratori. Non dobbiamo restare qui. Fuggirono, ritornando sui loro passi fino al punto dove avevano sbagliato il percorso. Ma mentre correvano, Meg, per stare più tranquilla, rivolse una breve preghiera di scusa a quel tenebroso, «Uray Caver». Oh, molte furono le meraviglie di quel viaggio! La più grande di tutte, o almeno la più inaspettata, fu la scoperta di un clan che viveva lontano, a nord-est, verso la fine del sesto giorno di cammino. Fu Daiv a notare per primo i segni della presenza umana. Avevano attraversato una stretta fascia di terra che, da una lastra arrugginita di metallo divino, Meg aveva identificato come parte del territorio del Maerlun, quando Daiv arrestò all'improvviso la sua sacerdotessa e le accennò di tacere. «Aurea... un fuoco! Un accampamento!» Meg guardò, e un lento brivido di apprensione le scorse nelle vene. Daiv aveva ragione, tranne in un particolare. Non poteva essere un accampamento. C'erano la fiamma e il fumo. Ma in quel territorio proibito, il fumo e la fiamma potevano significare una cosa sola... il fuoco di un carnaio. Perché si stavano avvicinando alla dimora dello Spirito del Silenzio. Le narici di Meg fiutarono l'aria delicatamente, quasi temendo l'odore che potevano percepire. Poi, sorprendentemente, una risata proruppe dalla gola di Daiv, che la spinse avanti. «Sono Uomini, Aurea! Uomini e Donne che vivono in pace e in armonia! Il messaggio della Rivelazione deve essere pervenuto, chissà come, anche in queste regioni proibite. Vieni!» Ma li attendeva una grande delusione. Infatti, quando incontrarono i membri di quel clan sconosciuto, si accorsero che non potevano assolutamente conversare con loro. Meg e Daiv riuscirono a capire una cosa soltanto: chiamavano Lankstr il loro villaggio. Non rivelarono il nome della tribù, sebbene Daiv pensasse che dovevano chiamarsi Nikvars. Meg era profondamente amareggiata. «Se potessero parlare la nostra lingua, Daiv, forse saprebbero dirci qualcosa della città dello Spirito del Silenzio, dato che ci vivono tanto vicino. Ma forse...» Lo guardò dubbiosa. «Credi che adorino... Lui?»
Daiv scosse la testa. «No, Aurea. Questi Nikvars parlano una lingua rozza e animalesca, ma credo siano d'animo mite. Non hanno mai ricevuto la Rivelazione, eppure vivono insieme come gli Antichi. Arano i campi e allevano il bestiame. Ci hanno ospitati e sfamati, ci hanno offerto abiti puliti. Non possono essere Suoi discepoli. Questo è un altro dei tanti, tanti misteri di Tizathy. E un giorno dovremo risolverlo.» Al mattino seguente lasciarono l'accampamento degli strani ospiti. Portarono con sé doni amichevoli di sale e bacche, e una borsa piena di uno strano cibo chiamato krowt. E con il bizzarro addio dei Nikvars negli orecchi, «Veedzain! O Veedzain!», proseguirono il cammino verso est, in un territorio evitato e temuto da tre volte cinque secoli. Attraversarono Lebnun e Alntun, aggirando un immenso mucchio di rovine che il disegno di Meg indicava come «Lizbeth», e proseguirono lungo le paludi salmastre del Joysy. L'aria salata pungeva le loro narici, e l'aria della pianura opprimeva i polmoni di montanara di Meg: ma lei dimenticò il disagio fisico al pensiero delle meraviglie ancora da vedere. E poi, al mattino del decimo giorno, la lancia rossa del sole che sorgeva si spezzò su una strana cosa paurosa che rispecchiava la luce, a una decina di miglia di distanza. Qualcosa di strano e innaturale, così assolutamente incredibile che Meg si sentì mozzare il respiro, e si aggrappò al braccio del suo compagno, ansimando e tendendo la mano. Hoam! Ma quali hoam! Grandi edifici torreggianti che affondavano le dita spezzate nel seno stesso del cielo; hoam di metallo divino e di creet, arrossati dalle lesioni causate dall'acqua, certo... ma ancora intatti. Alcuni... Meg chiuse gli occhi, poi li riaprì e vide che nulla era mutato... alcuni dovevano essere alti sessanta, novanta braccia! E come da lontano, udì la voce di Daiv ripetere l'antica descrizione: «Sorge dove le grandi strade di creet degli Antichi incontrano un fiume e un'isola accanto a un immenso mare salato. È questa, Meg! L'abbiamo trovata, mia Aurea!» Il sole si alzò, riversando il suo sangue su quell'enorme villaggio proibito. C'era un portento minaccioso in quel colore, e per la prima volta la paura uscì dal nascondiglio segreto nel cuore di Meg, corse con i piedi atterriti fino al suo cervello. Lei balbettò: «È... è la Sua città, Daiv. Vedi, persino le hoam sono scheletri sbiancati dai quali Lui ha strappato la carne. Pensi che dobbiamo andare avanti?»
Daiv rise, dal profondo della gola. Ma non era un vero suono di felicità: esprimeva collera, e coraggio e decisione. Disse: «Andiamo avanti, Aurea! La mia spada è assetata della Sua sconfitta!» E proseguì, a passo svelto e impaziente. E così Meg e Daiv giunsero alla Città della Lunga Morte. Capitolo Diciassettesimo: Nel mondo proibito Entrare nella città non fu facile come Meg aveva immaginato. Secondo il vecchio disegno dei luoghi che aveva portato con sé, la città era collegata alla strada da un tunl. Meg non sapeva cosa fosse un tunl, ma evidentemente doveva essere una sorta di ponte o di strada. E invece non c'era. La strada finiva bruscamente davanti a una grande buca nel terreno, simile a quella che avevano veduto al santuario di Uray Caver: ma questa era ingemmata di scintillanti lastre di creet, e tutto intorno c'erano bizzarri rettangoli di metallo divino iscritti con rune enigmatiche. Preghiere. «Tata svolta sin», diceva uno; «Osta vieta», diceva un altro. Daiv guardò Meg con aria interrogativa, ma lei scosse la testa. Erano o almeno sembravano scritte nella loro lingua, ma il significato era perduto nelle nebbie del tempo. Ed era perduto anche il significato della gigantesca formula magica scolpita nella pietra all'imboccatura della buca: N.Y. - MCMXXVII - N.J. Scoraggiati ma intrepidi, Meg e Daiv si scostarono dalla buca. Per fortuna, quello non era territorio civile: la foresta giungeva fino all'acqua. Era più facile, quindi tagliare piccoli alberi e costruire una zattera per traversare il fiume. Fu ciò che fecero durante il giorno, lavorando con le asce fasciate perché lo Spirito del Silenzio, Lui, non udisse e non frustrasse i loro piani d'invasione del suo dominio. La notte ritornarono nella foresta per accamparsi. Mentre Daiv andava a caccia e catturava un maialetto selvatico, Meg preparò la galletta fresca, fece bollire i pomodori che crescevano selvatici in una vicina radura e preparò il cawfee con la loro scorta che si andava assottigliando rapidamente.
Il giorno dopo ripresero a costruire la zattera, e anche il giorno successivo. Finalmente completarono il lavoro. Daiv esaminò il risultato e si dichiarò soddisfatto. Perciò al crepuscolo spinsero la zattera in acqua. E quando la luce gelida invase il cielo, costringendo il tenero sole a fuggire davanti alle raffiche di raggi argentei, si diressero verso la riva opposta. La raggiunsero senza incidenti. Daiv ormeggiò la zattera dietro un macchione; entrambi impararono a memoria la sua ubicazione. Poi salirono l'argine sparso di pietre e finalmente si trovarono nella Città della Lunga Morte, alla porta del Suo covo. E non c'era alcun dubbio che quella fosse la città del Signore della Morte. Fin dove giungeva lo sguardo, fin dove giungeva l'udito, non c'era segno di vita. Blocchi tormentati di creet logoravano le suole dei loro stivali, e non c'era un filo d'erba che addolcisse la severità raggelata dalla luna. Intorno a loro c'erano hoam incredibilmente antiche: le porte erano bocche spalancate, le finestre senza imposte parevano immensi occhi vuoti. Avanzarono alla cieca, ma neppure una lepre balzò spaventata da una tana davanti a loro; nessun uccello notturno spezzava il silenzio di tomba con un grido malinconico. Sotto l'alito fievole del vento, che scorreva tra le grandi strade vuote, mormorava loro ammonimenti in uno strano, triste sospiro. Un grande disagio opprimeva la mente di Meg, e nell'oscurità la sua mano stringeva la mano di Daiv, mentre continuavano ad avanzare nei cuore della città del Signore della Morte. Alti corridoi li stringevano ai lati; più per istinto che per altro, procedevano sempre verso nord. Mille interrogativi riempivano il cuore di Meg, ma in quel luogo sacro non riusciva a muovere le labbra. Ma mentre camminava, si meravigliava degli Antichi che, si diceva, avevano costruito e abitato quel grande villaggio di pietra. Forse il fondo stradale di creet su cui camminavano era stato un tempo levigato come affermavano le leggende, sebbene Meg ne dubitasse. Senza dubbio neppure il tempo poteva averlo trasformato in massi così irregolari e tormentati. E perché gli Antichi dovevano aver volutamente sfregiato le loro strade con tante buche, piazzando in fondo alle voragini tubi spezzati di rosso metallo divino? E perché gli Antichi avevano costruito hoam che, alti nel cielo, erano tuttavia privi di tetti, e in molti luoghi erano privi della facciata, così che dall'esterno si vedevano i piccoli cubi quadrati, simili a stanze? E perché
gli Antichi avevano piazzato lunghe travi di metallo in mezzo alle vie? Forse perché temevano i demoni, si chiedeva Meg? E avevano collocato quelle sbarre per tenerli lontani? Tutti i demoni, Meg lo sapeva, temevano infatti il metallo divino, e non l'avrebbero mai attraversato... Meg non avrebbe saputo dire per quanto tempo percorressero quelle vie deserte. Continuavano a proseguire verso nord, ma di frequente erano costretti a deviare perché Daiv, con gli occhi sgranati per lo stupore, si lasciava spesso indurre a esplorare qualche vicolo misterioso. Una volta rischiò addirittura la distruzione insinuandosi furtivamente nell'entrata di un hoam consacrato a un dio dall'aspro nome straniero, Mcmxl, ma Meg lo supplicò di uscirne subito, perché Lui non intuisse in qualche modo la loro presenza. Eppure fu l'insaziabile curiosità di Daiv a trovare un buon auspicio. Nel centro della città, s'imbatté nel primo segno di vita. Era un minuscolo riquadro verde, sovrastato da ogni parte dalla più squallida desolazione. Eppure dal tappeto di alta, sfrenata erba da giungla si levava una dozzina di alberi potenti, vivi come per sfida nella città dei morti. Meg cadde in ginocchio, baciò la terra e levò una preghiera agli Dei del suo Clan. Poi disse a Daiv: «Ricorda bene questo luogo. È un rifugio, un santuario. Forse, dunque, Lui non è invulnerabile neppure qui, se la vita persiste nella Sua fortezza. Se mai dovessimo restare separati, ritroviamoci qui.» Segnò il punto sul suo disegno dei luoghi. Da una lastra degli Antichi, ne apprese il nome. Era chiamato Madinsqua. Durante la lunga notte percorsero le strade della città ma quando il primo barlume grigio sollevò l'ombra della notte a oriente, Daiv emise un suono soffocato e sbadigliò. E Meg, conscia all'improvviso della propria stanchezza, ricordò che non dovevano incontrare in quello stato il loro potente nemico. «Dobbiamo riposare, Daiv. Dobbiamo essere forti e vigili quando saremo faccia a faccia con Lui.» Daiv domandò: «Ma dove, Aurea? Non entrerai in uno degli hoam...» «Gli hoam sono tabù,» disse piamente Meg. «Ma vi sono molti templi. Guarda: eccone uno molto grande davanti a noi. Io sono Sacerdotessa e Madre: per me, tutti i templi sono rifugi. Entriamo.» Entrarono nel possente edificio a colonne. E infatti era un tempio. Percorsero un lungo corridoio, scesero molti gradini, e finalmente si trovarono nella cripta torreggiante della sacrestia.
Là, un tempo, nelle grandi nicchie lungo le pareti, stavano le statue degli dei. Ora quasi tutte erano sparite, e i frammenti giacevano sul pavimento incrinato. Ma alcune erano rimaste al loro posto, e sotto la polvere dei secoli i due avventurieri potevano ancora vedere i colori sbiaditi dell'antica pittura. Il pavimento della sacrestia era un immenso cratere; un muro era crollato coprendo i confessionali dei sacerdoti. Ma sopra le loro teste era sospeso un oggetto temibile... un enorme quadrante rotondo, intorno all'orlo del quale apparivano simboli che Meg conosceva. Daiv l'interrogò con gli occhi. «È un segno sacro,» rispose Meg. «Quelli sono i numeri che si aggiungono e si tolgono. Ho dovuto impararli quando ero sacerdotessa. In essi c'è una grande magia.» E mentre Daiv rimaneva in silenzio, rispettosamente, lei li cantilenò come era stabilito: «Uno... due... tre...» L'imponenza di quel tempio destò in Meg un timore più grande di ogni altra cosa che avesse veduto prima di quel momento. Ora sapeva che doveva essere stata una razza grande e sacra, quella che era vissuta lì prima del Grande Disastro, perché migliaia di persone potevano stare nella sacrestia senza affollarsi; e inoltre, c'era una dozzina di sale più piccole e di camere da preghiera, molte delle quali un tempo avevano avuto sedili. Il muro occidentale della cattedrale era fiancheggiato da porte sbarrate; e da queste pendevano targhe metalliche indicanti le varie sette che erano autorizzate a celebrare in quel luogo i loro culti. Una, più leggibile delle altre, portava i nomi di comunità che Meg ricordava vagamente: THE SPORTSMAN - 12:01 Newark Philadelphia Washington Cincinnati Quella, naturalmente, era la lingua antica, ma Meg credette di notare una certa rassomiglianza con i nomi dei Clan attuali. Lei e Daiv avevano attraversato una città chiamata Noork, lungo il viaggio, e le leggende più vecchie parlavano di una Fideffia, la Città del Sonno Senza Fine, e di una Sinnati, dove un tempo aveva regnato un grande popolo, quello dei Rossi. Ma sarebbe stato un sacrilegio dormire in quelle sale consacrate. Su consiglio di Meg, cercarono rifugio in una delle stanze più piccole lungo il
corridoio dal quale erano entrati nel tempio. Ce n'erano molte, e una era ammirevolmente adatta al loro scopo: era la piccola camera da preghiera di un dio dimenticato, Ited-Ciga. In quella stanza c'era una pedana miracolosamente intatta su cui avrebbero potuto dormire. Avevano mangiato, ma da molte ore non avevano più placato la sete. Con gioia, Daiv trovò una nera fontana inserita in una delle pareti, completa di beccuccio e con una coppa stranamente modellata: ma per quanto cercasse, non riuscì a fare in modo che la fonte gettasse acqua. Anche quella era una magia: alla base c'era un quadrante di metallo divino, con i numeri e le lettere della lingua. Meg fece un incantesimo e, quando l'acqua rifiutò di sgorgare, Daiv, spazientito, batté sul beccuccio. Il legno fradicio si staccò dalla parete, l'intera fontana si staccò e cadde sul pavimento, rivelando un groviglio di fili inestricabili e di frammenti metallici. Quando cadde, dall'interno rotolarono via molti dischetti di metallo corroso, grandi e piccoli. Meg, vedendone uno, pregò gli Dei perché perdonassero l'impazienza di Daiv. «La fontana non ha dato acqua,» spiegò, «perché tu non avevi fatto il sacrificio prescritto. Vedi? Questi sono i tributi degli Antichi. Pezzi bianchi, con le facce degli Dei: il Dio Rosso, il Dio Bisonte...» La sua voce assunse un tono reverente. «Persino il grande Taamus! Ricordo il suo volto, nel Posto degli Dei. «Sì, Daiv, gli Antichi erano un popolo umile e temeva gli Dei!» E lì, nel massiccio pantheon del Ylvania Stat, i due giovani dormirono... Meg si destò dal sonno all'improvviso: un sesto senso le diede un disagio indefinibile. Il sole era alto nel cielo, l'umidità della notte si era asciugata. Ma quando si sollevò a sedere, il suo udito finissimo percepì di nuovo il suono che l'aveva destata, e la paura le strinse i reni. Anche Daiv era stato svegliato da quel suono. S'era messo a sedere, e le accennava di tacere. Mosse le labbra in un bisbiglio silenzioso. «Passi!» Meg replicò, impaurita: «I Suoi passi?» Daiv andò furtivamente alla porta e scomparve. I minuti trascorsero, e continuarono a trascorrere, fino a quando Meg, incapace di attendere il suo ritorno, lo seguì. Era accovacciato dietro la porta del tempio, e guardava lungo la strada che avevano percorso la notte precedente. Sentì sulla spalla l'alito di Meg e indicò, in silenzio. Non era Lui. Ma era qualcosa di poco meno pericoloso. Una piccola
banda di Suoi adoratori... tutti uomini. Era evidente che si trattava dei Suoi seguaci, perché oltre al perizoma e ai sandali di tutti gli Uomini dei Clan, portavano macabre decorazioni... collane di ossa umane! Ognuno di loro e dovevano essere sei o sette - aveva la Sua arma tradizionale, una spada affilatissima, curva come una scimitarra! Si erano fermati davanti all'entrata di una caverna, simile a dozzine di altre che Meg e Daiv avevano incontrato la notte precedente e non avevano osato esplorare. Due degli uomini, all'improvviso si insinuarono nelle profondità della caverna. Dopo breve tempo, due suoni spezzarono simultaneamente l'aria. Il grido trionfante di voci maschili, e l'urlo acutissimo di una Donna. E dall'imboccatura della caverna, con le labbra raggricciate sui denti in sorrisi malvagi, i due uscirono, trascinandosi dietro una Donna che si dibatteva e lottava disperatamente. Meg represse un grido; i suoi pensieri turbinarono, confusi da una dozzina di sentimenti contrastanti. Sbalordimento perché nella Città della Lunga Morte vi erano esseri umani. Poteva capire i Suoi ghoul e cioè gli spettri seguaci dello Spirito del Silenzio. Ma la Donna le sembrava normale come le sue Jinniane... E poi c'era la collera spaventosa al pensiero che qualcuno osasse mettere le mani a forza su una Donna. Meg apparteneva alla generazione più giovane ed emancipata; aveva accettato il nuovo principio che faceva degli Uomini gli eguali delle Donne. Tuttavia... Il desiderio di fare qualcosa lottava con la sua paura. Ma prima che uno dei due sentimenti avesse la meglio sui suoi muscoli, l'azione ravvivò il quadro. Di sotterra vennero grida furiose, il suono di armature tintinnanti, uno scalpiccio frettoloso. E dalla gola della caverna uscirono alla carica le Guerriere di quello strano Clan, completamente armate e furibonde, al salvataggio della loro compagna. Gli invasori erano pronti. Due si erano piazzati ai lati dell'entrata, un altro era balzato sulla tettoia metallica. Quando la prima Guerriera eruppe dalla caverna, tre spade a forma di falce scattarono all'unisono. Il sangue fiottò. Un corpo senza testa avanzò di un passo, cieco, crollò a terra e restò immobile. Le spade si alzarono ancora. Daiv non resistette più. Un ruggito soffocato di rabbia gli proruppe dalle labbra, e il suo movimento rapido sbilanciò Meg. E con i piedi che volavano, con la spada sguainata stretta nel pungo destro, urlando la sua collera, il giovane si avventò alla carica nella lotta impari!
Capitolo Diciottesimo: Il labirinto sotterraneo Meg non rimase molto indietro. Era una Sacerdotessa e una Madre, ma nelle sue vene, come nelle vene di tutte le jinniane, scorreva sempre l'ardente brama di battaglia. Il suo grido fu quindi alto come quello di Daiv, la sua carica altrettanto rapida. Come due lance vendicatrici, i giovani innamorati attaccarono da tergo gli invasori. I servi del Signore della Morte si voltarono di scatto, sbalorditi. Per un istante, l'incredulità li fece restare immobili: e quell'immobilità costò la vita al loro capo. Perché, nell'istante stesso in cui ritrovava la presenza di spirito e le sue labbra impartivano comandi ai suoi seguaci, Daiv gli fu addosso. Non era una falce ricurva e impacciata, quella che Daiv impugnava: era una spada a lama lunga e diritta. La lama scintillante balenò nel sole, colpì il petto del capo come una zanna d'una vipera acquatica... e quando incontrò di nuovo la luce del sole, il suo bagliore era diventato cremisi. La spada di Daiv parò una falce nemica; il suo avversario, disarmato e impazzito dallo spavento, urlò a gran voce e cercò di evitare la lama sgocciolante del destino. Le sue mani nude strinsero la spada di Daiv in una cieca, folle difesa. La lama morse a fondo, le dita grottescamente angolate caddero al suolo come vermi insanguinati, e lucenti nastri di sangue sgorgarono dalle palme recise. Tutto questo avvenne in un singolo batter d'occhio. Poi anche Meg si avventò sugli invasori; la sua spada assetata si inebriò di sangue a fianco di quella del compagno. E la battaglia finì quasi prima d'essere iniziata. Quando l'avanguardia delle Donne, incoraggiata da quell'aiuto inatteso, uscì correndo dalla caverna, mezza dozzina di corpi giacevano immobili sul creet, tingendo di scarlatto il suo grigiore. Ma ne rimaneva ancora uno: con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata per la paura, si voltò e fuggì per la lunga strada con piedi ai quali il terrore dava le ali. Poi si alzò la Donna che gli invasori avevano cercato di rapire. Nei suoi occhi c'era un immenso rispetto. Fissò dapprima Daiv, incerta, incredula. Poi si rivolse a Meg e s'inchinò profondamente. «Salve a te e grazie, o Donna venuta dal Nulla! Emma, Guardia del BeEmpty, ti consacra la vita e la mano, che sono veramente tue.» S'inginocchiò a baciare la mano di Meg. Poi il suo stupore ingigantì,
perché ansimò: «Ma... ma tu sei una Madre! Porti l'anello da Madre!» Meg disse quietamente: «Sì, figlia mia. Io sono Meg, la Madre del Clan di Jinnia, appena giunta alla Città della Lunga Morte.» «Il Clan di Jinnia!» Era la portavoce delle soccorritrici che parlava, adesso. Dalla sua bardatura, Meg comprese che era un luogotenente della tribù. «Che cos'è questo Clan di Jinnia, o Madre? Da dove vieni, e come...» Meg disse: «Calma, Donna! Non è lecito che una Donna del Clan rivolga domande a una Madre. Ma conducimi dalla vostra Madre. Parlerò con lei.» La luogotenente arrossì. In tono di scusa, disse: «Perdonami, Madre. Ti condurrò subito dalla nostra Madre, Alis. Ma che cosa...» Guardò incuriosita Daiv che, terminata la battaglia, stava meticolosamente asciugando la spada macchiata di sangue sull'orlo del perizoma. «Ma cosa devo pensare di questo Uomo-bestia? Sicuramente non è un maschio da riproduzione; combatte e agisce come un Selvaggio...» Meg sorrise. «Non è un Uomo-bestia, figlia mia. È un Uomo... un vero Uomo. Conducimi dalla vostra Madre, e a lei spiegherò questo mistero.» E fu così che, poco dopo, Meg e Daiv parlarono con Alis nella sua camera privata, nelle viscere della terra. C'era una grande meraviglia negli occhi della Madre e nella sua voce, ma c'era anche rispetto, e comprensione nell'orecchio che prestava alle parole di Meg. Meg le raccontò la storia della Rivelazione. Le disse che lei, quando era ancora Sacerdotessa, aveva compiuto un pellegrinaggio, com'era usanza del suo Clan, al lontano Posto delle Dee. «Viaggiai attraverso il Tucky dall'erba azzurra e attraverso lo Zurrie, o Alis; per molti giorni camminai nei campi piatti del territorio del Braska. In quel viaggio fui accompagnata da Daiv, che allora era un estraneo e oggi è il mio compagno, e che mi aveva salvata da un Selvaggio. E alla fine raggiunsi le grotte desolate del lontano 'Kotta, e là, con questi occhi vidi le facce di pietra delle divinità degli Antichi: Jarg, Ibrim dagli occhi tristi, Taamus dai capelli ricciuti e Tedhi che guarda lontano e che ride...» Alis tracciò un segno sacro. «Tu mi riveli un grande prodigio, o Meg. Sono anche le divinità supreme del nostro Clan, anche se nessuna compie mai il tuo pellegrinaggio. Ma
noi adoriamo anche un'altra Dea, il cui tempio non è lontano da qui. La potente Dea Granstoom. Ma... tu là apprendesti quale segreto?» «Ascolta bene, Alis, e credi,» disse Meg, «perché io ti dico la verità. Le divinità degli Antichi... erano uomini!» «Uomini!» Alis si alzò a mezzo. Le mani le tremavano. «Ma senza dubbio, Meg, ti sbagli...» «No. L'errore fu commesso molti secoli fa, Madre di un altro Clan. Daiv, che viene dalla sacra Terra della Fuga, mi ha insegnato la vera storia. «Molto, molto tempo fa, tutto Tizathy era governato dai grandi Antichi. Erano potenti, ed esperti di magie dimenticate. Potevano correre sul suolo con la velocità dei cerbiatti dei boschi: e costruivano a questo scopo grandi cavalli a ruote. Potevano volare nell'aria su uccelli fatti di metallo divino. I loro hoam toccavano le nubi, e quegli esseri non faticavano mai se non sui campi da gioco; la loro vita era lieta, ricca di divertimenti, trascorsa cantando in scatole che portavano dovunque le loro voci e guardando quadri che scorrevano. «Ma in un altro mondo, oltre l'acqua salata, lontano da Tizathy, c'erano altri Uomini e altre Donne. Tra loro ve ne erano molti malvagi, irrequieti, impazienti, avidi. Nel tentativo di impadronirsi del mondo, causarono una grande guerra. Noi non possiamo neppure concepire la guerra degli Antichi. Fecero ricorso a tutte le loro magie. «Gli Uomini si contrarono su giganteschi campi di battaglia, si uccisero a vicenda con fumo e fiamma e acidi e venti fetidi. E a hoam, le Donne, in segrete camere magiche chiamate laboratori, fabbricavano per loro canne che sputavano fuoco e grandi uova che generavano la morte.» «È difficile crederlo, o Meg,» mormorò Alis, «ma lo credo. Ho letto certi documenti enigmatici degli Antichi... ma continua.» «Finalmente venne il giorno,» continuò Meg, «in cui anche Tizathy entrò in guerra. Ma quando i loro compagni e i loro figli furono andati dallo Spirito del Silenzio a dozzine di dozzine di dozzine, la Donne si ribellarono. Si unirono, esiliarono per sempre tutti gli Uomini, crearono la forma di governo matriarcale, tenendo come riproduttori solo pochi maschi, i più giovani e i più deboli. «Quando non poterono più avere le uova di fuoco e le canne magiche, gli Uomini tornarono a Tizathy. Seguirono anni di un'altra grande guerra tra i sessi... ma alla fine, le Donne trionfarono. «Il resto lo sai. Gli Uomini, disorganizzati, diventarono Selvaggi, e vagarono nelle giungle in cerca di cibo, riuscendo a riprodursi con le poche
Donne dei Clan che rapivano di tanto in tanto. La nostra civiltà persistette, ma molte delle vecchie leggende e quasi tutta la vecchia sapienza erano svanite. Alla fine ci convincemmo che gli Uomini non avevano mai governato; che era giusto che governassero le Donne; che anche gli Dei erano Donne... dee. «Ma questo non è vero,» concluse con fermezza Meg. «Perché io ho portato la Rivelazione del Posto degli Dei e ora ne vado diffondendo la parola. È dovere dei Clan fare uscire i Selvaggi dalle foreste, e trasformarli in compagni, affinché il nostro popolo possa un giorno reclamare l'eredità meritata.» Vi fu un lungo silenzio. Quindi Alis chiese: «Devo riflettere profondamente su tutto questo, o Meg. Ma tu hai parlato della Terra della Fuga. Che cos'è?» «È la terra calda, a sud. Daiv viene di là. È un luogo sacro perché di là, dal cuore della Zoni, molto tempo fa un Saggio chiamato Renn previde la fine della Civiltà degli Antichi. «Nelle viscere di un uccello mostruoso, lui e pochi eletti fuggirono dalla Terra e volarono fino alla stella della sera. Da allora, non si è più saputo nulla di loro. Ma un giorno o l'altro ritorneranno. Dobbiamo prepararci alla loro venuta: questa è la legge.» Alis annuì tristemente. «Odo e comprendo, o Madre cui è stata rivelata la verità. Ma... ma temo che non potremo mai fare pace con i Selvaggi di Loalnyawk. Tu li hai visti e combattuti. Sai che sono malvagi e indomabili.» Meg, troppo assorta nel diffondere la novella della Rivelazione, aveva quasi dimenticato la sua vera missione. Ora quel pensiero le ritornò come una nube minacciosa. Annuì. «Loalnyawk? È così che chiamate la città dello Spirito del Silenzio? Forse hai ragione, Madre Alis. Sarebbe impossibile accoppiarsi con coloro che adorano come padrone il Signore della Morte.» «Il Signore della Morte?» Alis alzò bruscamente la testa. «Il Signore della Morte, Meg? Non capisco. Essi non adorano il Signore della Morte, bensì la sua amante. Adoravano la feroce dea guerriera, la temibile Salibbidà.» «Non l'ho mai sentita nominare,» disse Meg in tono dubbioso. «Ma tu dici cose che mi rattristano, o Alis. Io e Daiv abbiamo percorso una lunga strada per combattere Colui che falcia i fiori più belli del nostro Clan. E
ora tu mi dici che questa non è la Sua città...» «No, non ti devi sbagliare. Sicuramente la Sua città è questa. La Sua desolazione regna dovunque...» disse Daiv. Alis fece una smorfia pensierosa. «Tu mi costringi a domandarmelo, Meg. Sì, forse Lui è qui. In verità, prende molte di noi su cui non ha alcun diritto. Una luna fa si è preso la Sacerdotessa Kait che era giovane, felice, e in ottima salute. «Una dolce ragazza, ispirata dalle Dee. Solo il giorno prima aveva comunicato con loro: il suo giovane corpo tremava d'estasi, i suoi occhi erano rapiti, e le sue labbra erano umide dalla bava della loro sapienza. Spesso aveva queste estasi sacre, e io avevo progettato per lei un grande futuro. Ma...» Alis sospirò e scosse la testa. «Lui è venuto e l'ha portata via mentre comunicava con gli dei. È stata un'azione immonda e brutale.» Daiv disse, cupamente; «E da ciò noi sappiamo con certezza che questa è la Sua città, per davvero. Perché in quale altro luogo Lui sarebbe tanto potente e tanto audace?» «Sì,» disse Alis. «Più ci penso, e più credo che abbiate ragione. Il Suo dominio deve essere qui, almeno alla superficie. Non conoscevamo questa verità, perché da tempo immemorabile noi viviamo nascoste nei corridoi di Be-Empty.» «Parlaci ancora,» chiese Daiv, Colui-che-vuole-imparare, «dei corridoi di Be-Empty. Perché sono chiamati così?» «Non lo so, Daiv. È un nome antico, ma i corridoi non sono vuoti come esso indica. Sono un'immensa rete di passaggi sotterranei, costruita dagli Antichi per riti mistici di cui non sappiamo più nulla. Qui vi sono grandi meraviglie, e più tardi ve le mostrerò. «I corridoi sono rivestiti di creet lucente, e sulle loro strade vi sono lunghe sbarre parallele di metallo divino, rosso e consunto. Sì, e c'è una meraviglia ancora più grande! Di luogo in luogo, posso mostrarvi antichi hoam, con porte e molte finestre e sedili. Questi hoam erano legati insieme con aste di metallo divino, e quando gli Antichi volevano muoversi, non avevano altro da fare che spingere i loro hoam sulle barre parallele per giungere in un altro luogo! «Un tempo non eravamo un solo clan: ce n'erano molti. C'erano le Donne degli In-Deeps, e c'erano le Aiyartees. Ma noi eravamo le più forti, e unimmo in un unico, forte Clan tutte coloro che dimoravano sottoterra. «Abbiamo molti villaggi, ampie piattaforme costruite sulle strade sotterranee degli Antichi. Ogni villaggio ha un accesso alla città di lassù, la
proibita Loalnyawk, ma ce ne serviamo solo quando è indispensabile. Perché vi sono aperture al sole in grande abbondanza, e ruscelli d'acqua pura. E così qui, nel sottosuolo, al sicuro dai Selvaggi di lassù, coltiviamo verdure e alleviamo qualche animale da carne. «Eppure,» continuò orgogliosamente Alis, «non vi è un luogo in tutta Loalnyawk dove non abbiamo pronto accesso, se è necessario. In superficie vi sono molti santuari, come quello della grande Grandstoom e la torre caduta di Arciay. C'è anche la Cittadella di Clumby, a nord, e non lontano dal punto in cui siamo ora, potrei mostrarvi il Tempio di Shoobut, dove ogni anno gli Antichi sacrificavano mille vergini ai loro Dei. C'è l'altare proibito di Slukes...» Le labbra della Madre s'interruppero a metà della frase. I suoi occhi si spalancarono. «Slukes!» ripeté, sgomenta. «Ebbene?» Meg e Daiv si tesero verso di lei, attentissimi. «Deve essere quello! Le antiche leggende dicono che là Lui si recava più spesso. Deve essere il suo covo, il suo nascondiglio attuale!» «E allora è là che dobbiamo andare,» proclamò Daiv. Capitolo Diciannovesimo: La dimora del Male Meg inciampò su una pietra aguzza, urtò contro Daiv e ritrovò forza nella sua presenza rassicurante. Gli occhi le si erano un po' abituati all'oscurità interminabile, ormai, sebbene dolorassero e bruciassero per lo sforzo di scrutare nel buio e di vedere la tenebra rischiararsi di tanto in tanto, inaspettatamente, grazie a un fascio di luce dorata del sole che inondava i corridoi di Be-Empty dalla città sovrastante. Ma i suoi piedi, pensò sconsolata Meg, non si sarebbero mai abituati a quella strada irregolare e accidentata. Le era stato detto di camminare fra le parallele di metallo divino, perché quello era il percorso più sicuro e asciutto. Forse lo era davvero. Ma era infido. Perché c'erano le traverse di creet contro cui urtava continuamente i piedi, e c'erano le pietre e macigni sparsi inaspettatamente lungo il cammino. Meg non aveva la possibilità di sapere quanta strada avessero percorso. Dovevano essere parecchie miglia. Finora avevano incontrato almeno quaranta piccolo villaggi rialzati del Clan di Be-Empty. A ciascuno si erano soffermati per qualche istante mentre la luogotenente delle Guerriere, che
Alis aveva mandato con una piccola scorta a disposizione di Meg, si faceva riconoscere e spiegava la sua missione. Meg ansimava, maledicendo l'aria pesante e viziata che i suoi polmoni stentavano ad accettare, imprecando contro la lentezza della marcia, impaziente di arrivare a destinazione. Non migliorava il suo umore scivolare sui sassi rotondi e sprofondare fino alla caviglia nei rigagnoli d'acqua torpida. Chiese alla luogotenente: «È ancora molto lontano, figlia mia?» «Siamo quasi arrivati, o Madre.» Daiv borbottò. Era un borbottio pensieroso. Meg cercò di vederlo, ma nell'oscurità il suo viso era una macchia confusa. «Sì, Daiv?» «Stavo pensando a una cosa, Aurea. Questi corridoi non sono privi di scopo, come pensa Alis. Mi chiedevo...» «Sì?» «Be', ti sembrerà ridicolo. Ma ricordi quegli hoam su ruote? Quelli con le finestre? E se gli Antichi avevano il potere magico di farli correre come cavalli lungo queste parallele?» Meg scrollò le spalle. «Ma perché avrebbero dovuto farlo, Daiv? Non sarebbe stato molto più semplice farli correre sulla superficie? Queste grotte furono costruite per qualche scopo sacro, compagno mio.» «Credo che tu abbia ragione,» riconobbe Daiv. Ma non sembrava molto convinto. Qualche volta, Daiv faceva un po' spazientire Meg. Come tutti gli Uomini, era così difficile da convincere. Non era capace di ragionare con la fredda, chiara logica di una Donna; continuava a insistere che il suo «intuito maschile» gli suggeriva qualcosa di diverso... Era passato molto tempo. Avevano fatto colazione nel hoam della Madre, e avevano consumato il pasto di mezzogiorno lì, nelle profondità di Be-Empty. L'ultima apertura sotto la quale erano passati rivelava che il sole veniva inghiottito dalle nuvole a occidente; per dodici ore sarebbe passato nascosto nel ventre del cielo e poi, miracolosamente, l'indomani mattina sarebbe rinato a est. Era quasi notte quando la luogotenente si fermò a una minuscola, deserta piattaforma di creet. Si voltò e si toccò la fronte, guardando Meg. «È questa, o Madre!» «Questa?» Meg si guardò intorno. Il luogo non aveva caratteristiche insolite.
«Qui sopra c'è l'altare proibito di Slukes. Io... non oso.» Gli occhi della luogotenente erano turbati. «Non oso condurti oltre, o Madre. Tu e il tuo Uomo siete inviolabili; io e le mie guerriere siamo soltanto umili Donne. Sarebbe la distruzione per noi vedere ciò che sta lassù.» Meg annuì. «Così sia, figlia mia. Ora vi lasceremo, e andremo a sfidarLo nel Suo covo.» La luogotenente disse: «Attenderemo, Madre...» «Non attendere, figlia mia. Ritornate al vostro villaggio.» «Sta bene, Madre. La tua benedizione, prima che partiamo?» Meg gliela impartì, toccando con le dita le labbra e la fronte della luogotenente inginocchiata, cantilenando le sacre frasi della benedizione degli Antichi: «'Il mio paese, Tizathy, dolce terra di libertà...'» Poi vi furono passi smorzati nell'oscurità, e Meg e Daiv rimasero soli. Meg considerò solo fuggevolmente la possibilità di entrare nel Suo tempio in quel momento... e poi vi rinunciò. Sarebbe stato un suicidio. Tutti sapevano che Lui era più forte di notte. I suoi poteri si affievolivano con il rafforzarsi del sole. Perciò Meg e Daiv accesero un fuocherello nell'alloggio di un guerriero morto da molto tempo e chiamato Vietato l'Ingresso, e si raggomitolarono vicini vicini nella lunga, umida notte spaventosa. Si svegliarono con il sole, fecero colazione con le gallette che Alis aveva dato loro. Daiv, che era esperto di queste cose, esaminò con meticolosa attenzione le loro spade e le fionde. Alla fine diede la sua approvazione. E come se sentisse nel petto un'eco del timore che palpitava in quello di Meg, le posò le labbra sulle labbra. Poi, tenendosi per mano, salirono una lunga scalinata, nel sole, verso la soglia della Sua roccaforte. Era un edificio maestoso. Meg non riusciva neppure a concepire quanti passi fosse lungo e largo. In una direzione si estendeva quasi a perdita d'occhio, e nell'altra si ramificava in molti edifici più piccoli. Ed era alto come i pini. Una visione che incuteva paura. Daiv, che le stava accanto, scrutava dubbioso l'ingresso principale. Disse: «Può darsi che il posto non sia questo, Meg. Alis ha detto che il nome del tempio era Slukes, no? Questo si chiama...» Guardò di nuovo la scritta scolpita sopra il portale. «Si chiama Stlukes.» Come era avvenuto molte altre volte, Meg provò un impulso d'orgoglio per l'intelligenza del suo compagno. Daiv era la prova vivente del fatto che
gli Uomini erano eguali alle Donne... o almeno quasi eguali. Lei aveva impiegato molte, molte estati per apprendere l'arte della lettura della «vocesenza-parole»; lui aveva assimilato invece quella conoscenza in un decimo del suo tempo. «È il posto giusto, Daiv,» mormorò Meg. «Spesso gli Antichi erano noncuranti nello scrivere. Ma non senti che questa è la Sua dimora?» Lei lo sentiva. Quelle mura tetre e grigie esalavano un'atmosfera di morte e di putredine. Le pareti sbiancate erano simili alle ossa spolpate d'uno scheletro giacente in un campo dimenticato. E le grandi finestre vuote, i davanzali pendenti, il tratto di tetto crollato... erano i segni del Suo dominio. Meg non aveva neppure bisogno della presenza dell'avvoltoio dalla gola rossa che volteggiava pigramente, in eterno, sull'orrido altare di Slukes... «Vieni,» disse. «Entriamo.» Daiv indugiò. C'erano piccole grinze d'ansia intorno ai suoi occhi. «Lo Spirito del Silenzio non parla, Meg?» «Nessuno ha mai udito la Sua voce, Daiv. Perché?» «Mi è parso di sentire alcune voci. Ma devo essermi ingannato. Bene...» Daiv scrollò le spalle. «Non importa.» E così entrarono nel nascondiglio segreto del Signore della Morte. Tutti i grandi cortili erano silenziosi. Meg non sapeva esattamente che cosa aspettasse di vedere. Forse un carnaio di corpi umani, smembrati e sanguinanti, sfregiati da cicatrici spaventose, esalanti putredine dalle piaghe nauseabonde. O forse cose ancora più spaventose, camere dove erano imprigionate le anime piangenti dei morti. Di fronte alla carne e al sangue, anche spaventosi, Meg sapeva che il coraggio l'avrebbe sostenuta. Ma non sapeva se i suoi nervi avrebbero retto davanti alla fosca inquietudine dei morti. Ma non trovò né l'una né l'altra cosa, nel tempio di Slukes. Trovò solo pavimenti e pareti che un tempo erano stati di un bianco lucente, e adesso erano ingrigiti da secoli di polvere fluttuante. Si accorse che i suoi passi erano attutiti da uno strato di sostanza sgretolata ma ancora elastica. Trovò silenzio, silenzio: un silenzio che le assaliva i timpani fino a diventare un suono tangibile, terrificante. E cercò conforto nell'attenta, ansiosa ricerca di Daiv. Percorsero a passi felini un lungo corridoio; attraversarono una camera dove mucchi di polvere indicavano i seggi e gli sgabelli degli Antichi. Pas-
sarono davanti a un banco di metallo divino, e videro all'interno non una, ma mezza dozzina di fontane come quella che Daiv aveva strappato dal muro del sacrario di Ited-Ciga. Sopra le loro teste, di tanto in tanto, scorgevano strani pendenti magici di metallo divino, verde e rosso; e sotto uno di essi c'era una meraviglia ancora più grande... una pera dai semi di filo metallico. La buccia del frutto era trasparente, e scivolosa al tatto. Daiv cercò di spezzarla, avido di assaporare quella novità: ma gli esplose tra le mani con un pop! spaventoso... e non rimasero altro che il gambo e i semi. Il frutto era sparito; ma la buccia, come se fosse incollerita, aveva morso il palmo della mano di Daiv, facendo scorrere il sangue. Meg benedisse la ferita e implorò perdono con una rapida preghiera agli Dei delle messi per la distruzione della pera magica. E proseguirono. I lati del corridoio che stavano percorrendo erano fiancheggiati da porte. Avevano guardato in una di esse, credendo che Lui vi fosse nascosto, ma le stanze erano vuote: c'era solo uno strano oggetto di metallo divino, a quattro gambe, aggobbito al centro, su cui stavano spirali di metallo intrecciate inestricabilmente. La polvere copriva tutto, e in una stanza più riparata delle altre videro i cenci di una specie di tessuto che copriva le spirali. Ma quando Meg cercò di toccarli, l'aria smossa dalle sue dita ridusse in polvere il tessuto. Sì, era un luogo misterioso e potente, l'altare di Slukes, dove dimorava Colui che ruba il respiro! C'erano stanze in cui riposavano grandi urne e paioli di metallo divino; e quelle stanze contenevano anche enormi casse metalliche con maniglie, incrostate di antico grasso scrostato. Meg rabbrividì. «Qui,» mormorò a Daiv, «Lui bruciava i corpi di coloro che portava via.» Nella stessa camera c'era un'enorme cassa bianca con una porta. Daiv, l'aprì, e all'interno videro lucidi sostegni metallici. «E qui,» mormorò Meg, «Lui doveva riporre le anime rimpicciolite, fino a quando aveva di nuovo fame. Ma ora non usa più questo ripostiglio. Chissà perché?» E proseguirono. Finalmente, dopo aver salito molte rampe di scale, Meg e Daiv giunsero nella camera che stavano cercando. Era al piano più vicino al tetto. Lo Spirito del Silenzio era infatti un distruttore metodico. Gli scompartimenti in cui imprigionava le Sue vittime erano tutti scrupolosamente contrassegna-
ti: «Reparto contagiosi», «Reparto Bambini», «Reparto Maternità»... Meg vide le scritte, lesse, e rabbrividì nel riconoscerle. E quello, il Suo santo dei santi, era indicato come la Sua officina dalla scritta «Sala operatoria». Un tempo era stata una sala molto alta: adesso aveva per tetto l'infinito, perché un antico cataclisma l'aveva aperta al cielo. L'intonaco sgretolato e frammenti di mattoni si ammucchiavano sul pavimento. Ma al centro, sotto un'arma gigantesca che era impossibile descrivere, stava il Suo letto. Non poteva essere null'altro, perché anche ora vi giaceva il corpo di una Donna uccisa da poco. Il volto era una maschera di sofferenza; il tocco di Lui aveva teso i muscoli della gola, l'aveva marcata all'indietro nell'ultimo parossismo. Le dita inerti stringevano i bordi del letto con implacato fervore. E la stanza mostrava, tra la confusione e il disordine, i segni di una presenza recente! Le vesti della Donna uccisa da poco erano gettate con noncuranza in un angolo, insieme a innumerevoli altre. Molti piedi avevano reso compatta la polvere sul pavimento; in un angolo, non molto tempo prima, era stato acceso un fuoco. E il sangue che era sgorgato dalla Donna quando il suo cuore era stato strappato dal petto, macchiava ancora il pavimento! Meg gridò: un piccolo grido di terrore e di sgomento. «Lui è qui, Daiv!» Poi tutto accadde all'improvviso. Il grido destò echi minacciosi nelle sale adiacenti. Daiv la cinse con un braccio e la trascinò via. Poi giunse lo scalpiccio di passi, le voci si alzarono, e la porta in fondo alla stanza si spalancò. E Daiv gridò: «Non soltanto Lui, ma anche i Suoi ghoul! Dietro di me, Aurea!» Poi venne il diluvio. Un'orda di Selvaggi della stessa tribù che avevano combattuto due giorni prima si precipitò nella stanza. Capitolo Ventesimo: La Dea Reincarnata Non vi era ombra di vigliaccheria nel cuore di Meg la Madre. Se aveva un difetto, era l'eccessivo coraggio. Molte volte l'aveva dimostrato a proprio rischio e pericolo. Questa volta, la prontezza di Daiv non le lasciò l'occasione di diventare una coraggiosa vittima sacrificale dei Suoi servitori.
L'occhio svelto di Daiv misurò il numero dei loro avversari e il suo giudizio allenato alla battaglia operò istintivamente. Per un istante esitò, il tempo sufficiente per abbattere con la lunga spada mulinante il primo dei loro avversari. Poi spinse indietro Meg con il poderoso braccio sinistro, la spinse irresistibilmente verso una porta all'altra estremità della camera. «Fuggi, Aurea!» Meg non aveva scelta, perché Daiv era alle sue calcagna: il suo corpo costituiva allo stesso tempo un bastione difensore e un ariete di forza. Raggiunsero la porta, la chiusero con un tonfo in faccia ai ghoul che caricavano. Daiv si appoggiò con fermezza all'uscio, girando lo sguardo sulla stanzetta in cui si trovavano. «Quello!» comandò. «E quell'altro, Aurea. E quello!» I suoi cenni designarono mobili situati nella stanza: pesanti, solidi oggetti di metallo divino. Meg si mise all'opera, e prima che le forze di Daiv cedessero all'ormai tonante assalto contro la porta, questa venne puntellata e assicurata con le strutture massicce che erano stato un tempo sedie, una scrivania, uno schedario. Adesso c'era tempo per respirare e ispezionare il loro rifugio. E l'anima di Meg fu colta dalla nausea, quando vide la trappola in cui si erano cacciati. «Ma, Daiv... non abbiamo vie d'uscita! C'è soltanto una porta che conduce in questa stanza. Quella da cui siamo entrati!» Daiv disse: «C'è una finestra.» E si avvicinò. Meg vide l'espressione sbalordita che gli passò sulla fronte: e si portò al suo fianco e guardò fuori. Erano all'altezza di un nido d'aquila! Giù, giù, molte braccia più sotto, c'era il cortile dell'edificio. Ma il muro era liscio come le guance di un giovane magro: neppure un insetto strisciante avrebbe osato intraprendere quella discesa. Daiv la guardò tristemente, e la cinse con un braccio. «Poiché non possiamo fuggire, dobbiamo stancarli, Aurea. Se noi non possiamo uscire, loro, almeno, non possono entrare.» Non menzionò il pensiero che dominava la sua mente e la mente di lei. Le borse con il cibo erano rimaste laggiù, nella grotta buia di Be-Empty; e non avevano acqua. Anche il più breve degli assedi li avrebbe resi impotenti di fronte ai loro avversari. Ma poiché lui era Daiv, conosciuto come Colui-che-vuole-imparare, anche in quel momento in cui le prospettive sembravano più nere, il giovane era mosso a curiosità dalla camera in cui erano prigionieri.
Era una stanza piccola e ingombra. Più polverosa delle altre, e questo era strano, poiché non era aperta all'aria. Ma Daiv, cercando, ne scoprì la ragione. Il pavimento era grigio, non già per la polvere di pietra, ma per i frammenti di cose che... che... «Questo è un grande mistero Meg. Che cosa sono... o che cos'erano?» Anche Meg si era guardata intorno. Un vago sospetto crebbe nella sua mente. Ricordò una parola che aveva udito una sola volta in vita sua, quando era una bambina, Sacerdotessa neofita agli ordini della Madre precedente. «Scaffali,» mormorò. «Molti lunghi scaffali, tutti di metallo divino rovinato dall'acqua. Scrivania. E frammenti di pergamena. «Daiv, molto tempo fa gli Antichi avevano case, stanze, in cui tenevano, rilegate tra tela e tavole, pergamene scritte con il discorso senza parole. Erano chiamate...» Si frugò nel cervello alla ricerca del termine che le sfuggiva. «Erano chiamate 'blioteche'. I rotoli piatti erano conosciuti come 'libri'. Questa stanza doveva essere la blioteca di Slukes.» «E in quei libri,» disse Daiv in toni reverenti, «tenevano i loro annali?» «Sì, e molto di più. Tenevano tutta la loro scienza segreta. La storia dei loro incantesimi e della loro magia, e delle predizioni dei sogni.» Daiv gemette di dolore, quando un folletto d'infelicità gli trafisse il cuore. «Siamo nel cuore dei loro misteri, ma Colui che avvizzisce tutto ha strappato in frammenti le loro pergamene! Meg, è molto triste.» Daiv vedeva, adesso, che Meg aveva detto la verità. Frugò tra i mucchi di detriti putridi; in un punto trovò un rettangolo di pelle sfrangiato dal quale, quando lo sollevò, caddero granuli neri, carbonizzati. Trovò un pezzetto di pergamena scritta, ma andò in dieci milioni di particelle al tocco delle sue dita. «Ci sono stati fuoco e fiamme in questa camera,» disse Meg. «E l'acqua, e i venti dei secoli. Ecco perché non rimane neppure un libro. Deve essere accaduto durante le guerre, quando le uova di fuoco caddero sull'edificio. Daiv! Cosa stai facendo?» Perché Daiv, che frugava ancora tra le rovine, aveva scoperto un grande armadio metallico inserito nella parete. Questo solo sembrava essere sfuggito indenne all'olocausto che aveva distrutto il resto. Con un borbottio soddisfatto, stava tirando la maniglia dell'armadio. «Non aprirlo, Daiv! È proibito! Può essere un trucco degli Antichi. Di
Lui...» Ma l'avvertimento di Meg fu inutile. Le dita ansiose di Daiv avevano risolto il segreto dell'antica serratura; scricchiolando per protesta, la porta si aprì rivelando, in un vano buio in cui si agitava un lieve, muffito alito di vento... libri! Libri! Libri come li aveva descritti Meg. Libri, come Meg aveva imparato a conoscerli dalle labbra della vecchia Madre. Libri, ancora chiusi in rivestimenti di stoffa e di pelle, rimasti indenni dopo quindici secoli, conservati per un capriccio degli dei in un ripostiglio privo d'aria! Ancora una volta toccò a Meg salvare la vita e l'anima di Daiv perché lui, con l'impazienza caratteristica degli Uomini, non attese per placare gli Dei, e tese invece la mano verso il più vicino dei volumi proibiti. Meg pregò fervidamente e in fretta, perché gli Dei non lo distruggessero per la sua impazienza. E gli Dei accolsero benignamente le sue implorazioni, perché Daiv non cadde, mortalmente colpito, mentre stava inginocchiato sulla sua scoperta. «Guarda, Meg... i segreti degli Antichi! Ah, Aurea, presto... leggi! Questa voce-senza-parole è troppo potente per le mie capacità: solo la sapienza di una Madre può dirne il significato. Ma, ecco! Questi sono disegni! Guarda, Aurea! Ecco un uomo come me! Ma ecco, un mistero! La carne è stata tolta dal suo corpo, rivelando orde di minuscoli vermi rossi che ne coprono la carcassa... eppure rimane eretto! «E guarda, Meg... ecco una Donna con la testa avvolta in bende bianche. Cosa significa questo? E guarda questa testa d'Uomo! È aperta dalla fronte alla nuca, ma, Meg, non vi è un villaggio di minuscoli folletti del dolore, e di folletti della simpatia e dell'odio! Solo vermi rossi e blu, e nelle narici una spugna...» Meg prese il libro con mani tremanti. Era come aveva detto Daiv. C'erano innumerevoli disegni di Uomini e Donne che, orribilmente smembrati, continuavano a sorridere e a stare in piedi. Piccole frecce li trapassavano, e in fondo alle frecce c'erano piume di lingua che dicevano parole magiche: Serratus magnus... Legamento di Poupart... piano transpliorico. E il nome del libro era «Anatomia fondamentale». In quel momento di folle eccitazione, Meg e Daiv avevano dimenticato il pericolo. Perché i suoni oltre la porta della 'blioteca', che non erano mai cessati del tutto, divennero più forti. Vennero una voce imperiosa, grida di fatica raddoppiate e, con un tonfo echeggiante, qualcosa colpì l'uscio del
loro rifugio! La porta tremò; i puntelli cedettero di una frazione di pollice. E di nuovo il tonfo, lo scricchiolio, il cedimento. «Un ariete! Daiv, stanno forzando la porta!» Daiv il sognatore divenne fulmineamente Daiv, l'uomo d'azione. Con un balzo fu in piedi, con la spada in mano. La sua fronte era ansiosa. «Mettiti a destra della porta, Aurea; io starò dall'altra parte. Quando i ghoul faranno irruzione, noi li faremo a pezzi come baccelli...» Ma in Meg era nata una grande idea. Con il volto acceso da un'improvvisa espressione di felicità, si rivolse al compagno. «No, Daiv. Apri la porta!» «Cosa? Aurea, la paura ha sconvolto il tuo cervello?» «No, carissimo! Ma fai come ti dico! Guardami! Sono una Madre e una Sacerdotessa, no?» «Sì, ma...» «E ho appena scoperto un potente segreto. Il segreto della conoscenza degli Antichi.» «Eppure...» disse Daiv. «Non è forse vero che anche i Suoi subordinati,» gridò Meg, «sarebbero disposti a pagare un grande prezzo per questa conoscenza? Apri loro la porta, mio compagno! Parlamenteremo con loro o con lo stesso Signore della Morte, per uno scambio. Le nostre vite in pagamento per la divisione di questo segreto!» Forse Daiv si sarebbe opposto alla sua logica, ma non poteva rifiutare la supplica ansiosa dei suoi occhi. Stordito, andò alla porta, rimuovendo il baluardo mentre l'orda all'esterno continuava l'assalto. Quando ebbe quasi terminato, la porta tremò prima del crollo imminente... «Tieniti nascosto, Daiv. Li affronterò faccia a faccia.» E si piazzò con fermezza davanti alla porta. Nel cavo del braccio sinistro strinse il «Libro dei Segreti». Sul suo viso c'era il sorriso del trionfo e un'espressione di gloria esaltata. La porta tremò: questa volta si staccò dai cardini. Ancora una volta! Venne lo schianto finale e... «Fermatevi!» gridò Meg la Sacerdotessa. Oltre il rettangolo della porta, con le facce spaventose per il furore e la sete di sangue, si ammassavano i ghoul del Signore della Morte, le falci affilate oscillavano impazienti nelle loro mani; un urlo di trionfo aleggiò sulle loro labbra. Aleggiò... e poi tremò... e morì!
E all'improvviso avvenne un miracolo. Perché la fiamma si spense nei loro occhi, le braccia si abbassarono, e come un sol uomo gli attaccanti caddero in ginocchio, prosternandosi davanti a Meg. Un mormorio passò da un Uomo all'altro, come l'alito del vento notturno passa attraverso la foresta, fra i pini tristi e sussurranti. Fu un mormorio e poi un grido di paura e di adorazione. «Pietà, o Dea! Non uccidere i tuoi figli, o Eterna. O Dea... Grande Dea Salibbidà.» Capitolo Ventunesimo: Verso la pace Neppure nel momento della speranza più grande, Meg si era aspettata una vittoria così improvvisa e completa. Perché il suo piano aveva comportato grandi speranze, sì, ma aveva puntato la sua vita e quella di Daiv su uno scambio. Ma adesso, all'improvviso e inesplicabilmente, c'era la capitolazione completa. Una resa così totale che il capo dei guerrieri dello Spirito del Silenzio non osava neppure alzare gli occhi per guardarla, mentre mormorava parole di adorazione. Meg lanciò uno sguardo a Daiv, ma una volta tanto Daiv non aveva la conoscenza nei suoi occhi: erano vacui e interrogativi come i suoi. Tuttavia, Meg era Sacerdotessa e Madre. Ed era anche una Donna, e un'opportunista. E l'istinto governava le sue azioni. Si accostò al capo e gli sfiorò la fronte con le dita. «Alzati, o Uomo! La tua Dea ti concede la grazia.» Il ghoul si alzò sconvolto e timoroso. La sua voce era fievole e speranzosa. «Sii misericordiosa con noi, o Dea. Non sapevamo... non sognavamo... non osavamo sperare una Visitazione.» Meg scelse con cura le parole, le recitò come una Madre intona una sacra cantilena, in un tono calcolato per ispirare timore nei cuori dei fedeli. «Voi avete peccato grandemente, o Uomini! Avete assediato il sacro rifugio della Dea. Avete rapito e ucciso Donne del Clan di Be-Empty, un'azione gravissima. Avete dimenticato la Fede e vi siete inchinati ad adorare Lui, l'arcinemico, il Signore della Morte...» «No, o Dea!» la protesta era umile ma sincera. «Gli altri peccati li confessiamo, ma non quest'ultimo! Lui non l'abbiamo mai adorato! Mai!» «Voi dimorate nella sua cittadella.»
«La Sua cittadella!» C'era orrore nella voce del Selvaggio. «Non sapevamo che fosse Sua, o dolce Salibbidà! Noi viviamo in molti luoghi, spostandoci attraverso Loalnyawk. Oggi abbiamo riposato qui perché avevamo un sacrificio da farti: una Donna inadatta all'accoppiamento che abbiamo rapito la scorsa notte.» I suoi occhi assunsero un'espressione supplichevole. «Il sacrificio non ti è gradito, benigna Salibbidà?» «È immondo alle mie nari,» disse severamente Meg. «Il suo sangue è una ferita nel mio cuore. Questa sarà la Legge, d'ora innanzi! Non vi saranno più rapimenti né uccisioni di Donne. Vi sarà invece un nuovo ordine. Voi vi presenterete alle Donne e farete pace con loro. Esse vi riceveranno con canti e mani gentili, perché anche a loro ho dato la Legge. «Insieme, formerete una nuova città. Le Donne usciranno dalle caverne di Be-Empty. Insieme a loro, occuperete gli hoam degli Antichi. Quando ritornerò a visitare il villaggio di Loalnyawk, voglio vedere Uomini e Donne che vivono insieme in pace e in armonia, com'era nei tempi andati. «Avete compreso la Legge?» «Sì, possente Dea!» il grido si levò da ogni uomo. «Le obbedirete?» «Le obbediremo, dolce Salibbidà.» «Allora andate in pace e non peccate più.» Gli adoratori, conquistati, intonando preghiere di ringraziamento, uscirono a ritroso dalla camera. Quando anche l'ultimo fu scomparso, e i due rimasero di nuovo soli, Meg si rivolse al suo compagno. Le forti braccia di Daiv placarono il tremito del corpo di lei. «Non temere, Aurea,» le bisbigliò. «Oggi hai compiuto un miracolo. Nella vittoria incruenta hai portato la Rivelazione all'avamposto più lontano: alla maledetta e proibita città degli Antichi. Alla roccaforte di Lui.» «Ma loro hanno detto che non Lo adorano, Daiv! E non avrebbero osato mentire, credendomi la loro Dea. Se non è Lui che li governa, se non è qui che regna, allora dov'è, Daiv? E perché mi hanno accettato come la loro Dea? Perché?» Daiv scosse la testa. Pensava che questo, ormai, non avesse importanza. Era sufficiente che il nemico fosse stato sconfitto. C'erano grandi cose da fare. Ritornò allo stanzino, ne estrasse i libri preziosi... Più tardi, nell'hoam di Alis, Meg conobbe parte delle risposte alle sue domande. Quando ebbe detto ad Alis ciò che era accaduto, ed ebbe ricevuto dalla Madre la promessa di accogliere in pace e con buona volontà gli
inviati dei Selvaggi, parlò di nuovo della loro resa inaspettata. «Io volevo solo cercare di parlamentare con loro, Madre Alis. Stavo davanti alla porta, così, e attendevo con calma...» Ripeté quella posa. Con il libro nell'incavo del gomito, l'altro braccio alzato sopra la testa, il mento orgogliosamente sollevato. Poi Alis annuì. Ma anche nei suoi occhi apparve inattesa un'espressione adorante: e mormorò con voce spezzata. «Ora comprendo, o Dea che vuoi farti chiamare Meg, la Madre. Fin dall'inizio ho sentito la tua santità. Se allora avessi saputo...» Si alzò, condusse Meg alla superficie, sopra Be-Empty, che adesso non era più un territorio proibito per le Donne. Un tempo vi erano stati molti, grandi edifici, ma l'antica guerra li aveva colpiti come un turbine che lascia una scia di desolazione attraverso i boschi. Lontano, verso sud, dove le verdi acque dell'oceano incontravano le rive di creet di Loalnyawk, c'era una figura appena vagamente visibile... una grande figura che si ergeva titanica sopra le onde, appoggiata su un minuscolo lembo di terra sperduto nel mare. Era un'immagine fantastica e affascinante, grande quasi quanto gli Dei che Meg la Sacerdotessa aveva visto raffigurati sulla fiancata del Monte Rushmore, nel Dakota... e che era altrettanto venerata. Ma, questa volta, l'immagine non ritraeva un uomo... no. Questa volta ritraeva... una donna! Una donna che, per un caso curioso, appariva pettinata proprio come Meg... alla quale, in un certo senso, perfino assomigliava, anche se in un modo vago. Ed era una donna fissata per sempre nella pietra in un unico atteggiamento, una posa che era identica a quella assunta, per pura combinazione, da Meg quando si era eretta contro i guerrieri infuriati: il braccio sollevato come per richiamare l'attenzione, un libro sotto il braccio... «Ecco la tua immagine, dolce Salibbidà,» mormorò la Madre Alis, indicando la titanica figura femminile che si ergeva dal mare. «È ancora eretta come nei tempi degli Antichi e resterà là per sempre, e tu continuerai a essere la Dea del grande Tizathy.» Meg fissò, con un certo senso di sgomento, quella gigantesca figura femminile. Era davvero imponente e maestosa... e, in un certo senso, le assomigliava, effettivamente. Era... anche se lei ovviamente non lo poteva certo sapere... la Statua della Libertà, sopravvissuta persino all'immane olocausto atomico e ora vene-
rata come una divinità dai discendenti imbarbariti dei pochi superstiti dell'immane massacro di New York City! Meg scosse la testa, dopo aver ammirato per alcuni istanti, in un senso gonfio di stupore, la statua della donna che si ergeva in mezzo al mare. Poi disse: «Alis, ora capisco perché quei guerrieri si sono fermati. Senza saperlo, ho loro ricordato l'aspetto e il gesto della Dea, ma... ma non chiamarmi con il nome di Salibbidà, ti prego! Io sono soltanto Meg la Sacerdotessa, la Madre del Clan di Jinnia. Sono una Donna come te, non una Dea, né una divinità... incarnata...» Un sorriso di misteriosa complicità sfiorò le labbra di Alis. «Come vuoi tu... Madre Meg,» le disse. «Così ti chiamerò, se preferisci.» Ma era chiaro che nulla l'avrebbe mai convinta che Meg non era l'incarnazione della Dea. E perciò se ne restò sempre davanti a lei con la testa riverentemente china... EPILOGO E fu così che, allo spuntare del nuovo giorno, sui muri di creet di Loalnyawk, Meg la Sacerdotessa e Daiv l'Uomo dissero addio ai loro amici e ai neo-convertiti, e si avviarono verso sud-ovest, in direzione delle verdi colline di Jinnia. Non fu un commiato triste. Quella mattina era giunto un ambasciatore degli Uomini; aveva parlamentato a lungo con la Madre, ed era stata raggiunta un'intesa. Come sempre, c'erano Donne incerte, e Donne che chiaramente disapprovavano... ma Meg aveva visto una fanciulla che guardava con dolci occhi intenti l'ambasciatore. E una truce guerriera aveva parlato con calore insolitamente gentile a una delle guardie dell'inviato... un Uomo dalle guance ispide e dalla taglia di un combattente vigoroso. Tutto sarebbe andato a posto da sé, pensò quindi Meg, con il tempo e la calma. Il nuovo ordine si sarebbe affermato inevitabilmente perché gli Uomini e le Donne avrebbero voluto così... Poi era stato pronunciato l'ultimo addio, era stata impartita l'ultima benedizione. E ancora una volta Meg e Daiv percorrevano la lunga strada che portava a Jinnia. Daiv era stranamente taciturno. E stranamente disattento, perché era impegnato in un compito difficile. Cercava di camminare senza guardare la
strada che gli stava davanti. I suoi occhi erano fissi su uno dei tanti libri che aveva portato con sé; gli altri li teneva sulle spalle, in un voluminoso fardello. Incespicò per la centesima volta, e quando Meg lo aiutò a riassestarsi il carico sulla schiena gli disse, malinconicamente: «C'è una sola cosa che rimpiango, Daiv! Abbiamo compiuto molto, ma non quello che era nostra intenzione. Non abbiamo trovato lo Spirito del Silenzio, e non Lo abbiamo distrutto come volevamo. E il nostro problema è ancora grave, perché lui continuerà a cogliere i frutti più maturi della nostra messe di viventi.» Ma Daiv scrollò la testa. «No, Aurea.» «No?» «No, mia Sacerdotessa. Ho ormai compreso che noi abbiamo realizzato la nostra missione. Perché, vedi...» Daiv guardò il cielo e gli alberi e le nubi che fluttuavano lassù. Trasse un profondo respiro, e l'aria era dolce. La vita fluiva forte e vera nelle sue vene e la conoscenza che andava strappando laboriosamente ai libri magici era un liquido potente nel suo cervello. «Vedi, Aurea, c'eravamo ingannati. Il Signore del Silenzio non vive a Loalnyawk, non vi è mai vissuto. Non ha un hoam, perché Lui è dovunque, e attende di portarsi via coloro che violano le sue barriere.» Meg esclamò amaramente: «Allora, Daiv, saremo per sempre in Sua balia! Se non è possibile trovarLo e distruggerLo...» «Non si può ucciderLo, Meg... ed è un bene. Altrimenti gli storpi, i vecchi, i malati, i pazzi, vivrebbero per sempre, in un tormento interminabile. Ma Lo si può combattere... e in questi libri sono insegnati i modi per lottare contro di Lui. «Non sono modi magici, Aurea. O almeno, non appartengono alla magia che tu conosci. Sono modi nuovi che dobbiamo studiare. Queste magie sono chiamate con nomi strani... siero, e vaccinazione, e fisica. Ma in questi libri è spiegato tutto. Un giorno comprenderemo tutti i misteri, e la mano del Signore della Morte verrà finalmente arrestata. «Lui teme l'acqua bollita, e l'aria fresca e la pulizia. Non lo combatteremo con le spade e le fionde, ma con la luce del sole e l'acqua pura e il sapone di grassi bolliti. Perché era così al tempo degli Antichi...» E negli occhi di Daiv c'era una grande visione: e Meg la vide e la lesse con stupore. Un giorno futuro in cui Uomini e Donne, tenendosi per mano, sarebbero giunti di nuovo alle altezze perdute dalla follia degli Antichi.
La spalla di Daiv toccava la sua, e la giornata era calda, la strada lunga. Meg ardeva d'impazienza di ritornare a Jinnia, di portare la nuova conoscenza al suo Clan. Ma in lei c'era anche un altro fuoco, e il messaggio poteva attendere un po', mentre lei e Daiv indugiavano nella frescura di un albero fronzuto. La mano di lei toccò e strinse la mano di Daiv, le sue labbra si offrirono nel bacio. Lei era Meg, e lui era Daiv, ed erano un Uomo ed una Donna. E l'erba era morbida e fresca. Ed era così che avveniva anche al tempo degli Antichi... PROFILO DI NELSON BOND Tra gli ancora molti, troppi scrittori di fantascienza americani pressoché del tutto sconosciuti nel nostro paese, va anche segnalato quel Nelson Slade Bond che è l'autore del romanzo «ciclico» che avete appena finito di leggere, La città incantata. In Italia, infatti, Bond è pressoché sconosciuto, in quanto l'unica sua opera nota, a parte un delizioso racconto apparso sulla rivista Nova Sf di recente (e altri in programma), è un romanzo, Exiles of Time, uscito negli Stati Uniti nel 1940 ma pubblicato e tradotto su uno degli ultimissimi numeri della «gloriosa» Cosmo di Ponzoni. Eppure, Bond è uno scrittore che, sulle riviste di fantascienza americane, è stato assai popolare per almeno dodici o tredici anni, dal 1937 al 1951, quando vi ha pubblicato innumerevoli racconti, vari romanzi brevi e parecchi «cicli» collegati, quasi tutti di grande successo. Poi, nei primi anni cinquanta, Bond ha smesso praticamente di scrivere e da allora la sua penna non è più apparsa sulle riviste specializzate, anche se l'autore, che è nato nel 1908 e quindi ha ormai settantatre anni, è ancora vivo e in ottima salute, tanto che mi ha assistito molto quando mi sono messo in contatto con lui per «organizzare» la prima pubblicazione mondiale di questo suo celebre «ciclo», quello di «Meg la Sacerdotessa». Anche se è ancora poco noto in Italia, Bond è però considerato una delle figure principali dell'affermazione della fantascienza negli Stati Uniti. In particolare, i critici e gli storici l'hanno sempre lodato per l'eleganza raffinata del suo stile (che, tra l'altro, gli ha permesso, come Heinlein, di pubblicare parecchie novelle di fantascienza sui settimanali o sui mensili americani a grande tiratura, nell'immediato dopoguerra) e per la notevole carica di spirito e di umorismo caratteristica di molti dei suoi racconti migliori, al punto che John Clute, nella monumentale e fondamentale opera
The Science Fiction Encyclopedia, ha scritto: «Bond è pari, per spirito e umorismo, a scrittori come Robert Bloch e Fredric Brown ed è quindi un vero peccato che sia oggi meno noto di costoro, anche se le sue opere letterarie sono quasi sempre divertenti e, in alcuni casi, addirittura memorabili.» In effetti, alcune delle creazioni migliori di Bond rientrano proprio nei confini della satira e della presa in giro irresistibile: esemplare è il suo romanzo (formato da un lungo blocco di racconti apparsi separatamente sulle varie riviste) Lancelot Biggs, Spaceman, che, in tutta sincerità, mi ha fatto sbellicare dalle risa mentre lo leggevo... con la sua descrizione delle incredibili imprese che capitano a un «raccomandatissimo» ufficialetto incapace che comanda la nave più scassata della flotta spaziale: e questo libro, già acquistato dalla Libra, apparirà presto in una delle nostre collane, per la delizia dei lettori, che avranno così modo di approfondire ancora di più la conoscenza del suo autore. Diverse altre sono le «serie» di storie collegate scritte da Bond e ancora oggi citate immancabilmente in quasi tutte le 'cronache' della fantascienza: una è quella intitolata Mr. Mergen-thwirker's Lobblies, che, apparsa in volume nel 1946, fu persino trasformata in un programma radiofonico di grande successo negli Stati Uniti; un'altra è quella di «Squaredeal Sam McGhee», uscita tra il 1943 e il 1951, anch'essa di vasta fortuna, insieme alla serie dedicata a «Hank Horse-Sense», che fu ospitata sulle pagine di Amazing dal 1940 al 1942. E poi c'è pure un gruppo di divertenti avventure spaziali, imperniate sulle gesta di un ribaldo «frate» siderale, che ha ottenuto una grossa fortuna sulle pagine di Planet Stories e che noi speriamo, prima o poi, di potervi presentare, o qui su Saturno o sulla rivista Nova Sf. Molto celebre, infine è la serie dedicata a «Meg la Sacerdotessa», uno dei personaggi più celebri creati da Nelson Bond e forse, secondo molti, la prima figura femminile ad apparire come protagonista assoluta in un racconto di fantascienza (il ciclo apparve tra il 1939 e il 1942)... una «storia ad episodi» composta da tre racconti che sono quelli che costituiscono il volume che avete in mano. Curiosamente, però, il ciclo di Meg è assai diverso dagli altri scritti da Bond: l'umorismo è infatti quasi del tutto assente, tranne che per l'ironico gioco sulla distorsione dei nomi delle città e dei luoghi, mentre vi predomina una certa atmosfera soffusa di poesia e di magia. Si tratta indubbiamente, di tre novelle assai belle, che non a caso resero istantaneamente popolare presso i lettori americani lo scrittore. Il
successo del ciclo di «Meg» fu appunto, enorme, tanto che Bond, che non aveva avuto l'intenzione di creare un seguito alla prima novella, fu in pratica spinto a scriverne il resto dalle pressioni degli editori. E il metro per farvi intuire quanto furono effettivamente celebri negli Stati Uniti queste tre storie è determinato dal fatto che, mentre le prime due apparvero sulle riviste del gruppo della Ziff-Davis, la terza e ultima novella fu acquistata addirittura da John Campbell che la mise sulla mitica Astounding: e questo costituì un evento eccezionale, perché mai Campbell, che dirigeva la rivista più nota e venduta del mercato, «rilevava» i cicli iniziati sulle altre pubblicazioni, tutte meno diffuse e stimate della sua; di solito, infatti, avveniva il contrario: quando Campbell si stancava di un ciclo, l'autore provava allora a venderlo alle altre riviste che, pur di ospitare sulle loro pagine qualcosa che provenisse da Astounding, l'acquistavano in pratica a scatola schiusa. Nel caso di Nelson Bond e del ciclo di «Meg la Sacerdotessa», avvenne invece esattamente l'opposto: per via dell'enorme successo conseguito dalle due prime storie della saga (dalla prima, soprattutto), Campbell si sentì spinto ad offrire di più all'autore affinché consegnasse a lui la novella conclusiva. E così infatti avvenne e Magic City fu, meritatamente, stampata sulle prestigiose pagine di Astounding, al fianco delle opere più celebrate di Van Vogt e di Sturgeon e di Asimov e di Heinlein. Ancora oggi, il ciclo di «Meg la Sacerdotessa» è assai popolare negli Stati Uniti, tanto che in tempi recenti lo stesso Isaac Asimov ha dichiarato che, a suo parere, il primo di quei tre racconti non ha vinto il Premio Hugo solo e unicamente perché, quando fu stampato, quei riconoscimenti non erano stati ancora creati: ma, a suo dire, La sacerdotessa che si ribellò meriterebbe almeno un Hugo alla «memoria». E noi, che ammiriamo quanto lui questo racconto, non possiamo che dichiararci pienamente d'accordo, e riteniamo che d'ora in poi anche i lettori italiani condivideranno questa opinione, adesso che la novella è apparsa finalmente nel nostro paese in una traduzione degna e in una collana di vasta diffusione. Tra l'altro, siccome Nelson Bond smise di occuparsi completamente della sua carriera letteraria intorno ai primi anni cinquanta, quasi tutta la sua creazione artistica, compreso il ciclo di «Meg la Sacerdotessa», non è più stata ristampata negli Stati Uniti e quindi non ha praticamente mai goduto di una versione in volume. Rintracciare pertanto le riviste sulle quali era apparso in origine il ciclo di Meg la Sacerdotessa non è stato così per niente facile né per me né per la Libra: si trattava infatti di andare a ripescare vecchi e ingialliti numeri di pubblicazioni americane che ormai
risalgono a circa quarant'anni fa. Per fortuna, Forrest J. Ackerman e la biblioteca dei Fantasy Archives di New York hanno collaborato a questa opera di recupero, e le tre storie sono finalmente tornate alla luce, rendendo alfine possibile il lavoro di "assemblaggio" e di traduzione. L'autore poi, molto compiaciuto di vedere finalmente apparire in un singolo volume le tre novelle di questo ottimo ciclo, è stato prodigo di consigli e, tra l'altro, mi ha inviato tutta una serie di «modifiche» da apportare al secondo racconto della saga, in quanto questa novella, scritta quando gli Stati Uniti stavano per entrare in guerra con il Giappone, risente dell'odio «anti-nipponico» dell'epoca. I «cattivissimi» della vicenda sono infatti tutti di pelle gialla e descritti in una maniera tale da far apparire la loro intera razza a dir poco ributtante e quasi sub-umana. Oggi, ovviamente, la situazione mondiale è cambiata e lo stesso Bond non ritiene più né valide né giustificate quelle sue «descrizioni» di allora: mi ha pertanto inviato alcune pagine dattiloscritte piene di correzioni e di modifiche da apportare al testo, e così io ho fatto, sistemando la traduzione nel modo migliore, eliminando da essa tutto il pattume razzista e antigiapponese che, del resto, era letteralmente scadente e narrativamente immotivato, perché Bond l'aveva comunque inserito soltanto dietro esplicita richiesta dei dirigenti della Ziff-Davis (non c'è da stupirsi di questo, dato che è noto che gli americani, in buona parte, sono sempre stati abbastanza xenofobi: Lovecraft dichiarava tranquillamente che gli italiani erano «la feccia della feccia del mondo», per esempio, mentre John Campbell credeva che soltanto la razza anglo-ariana fosse destinata a un futuro radioso... quando addirittura non era una grande casa editrice come la Street & Smith a non voler assolutamente ebrei tra i suoi collaboratori!). Questa è dunque la prima edizione mondiale in volume del ciclo di «Meg la Sacerdotessa», compiuta e revisionata sotto le direttive dello stesso autore: un altro volume del quale noi della Libra siamo più che orgogliosi. E speriamo che, adesso, anche i lettori italiani, leggendo questo libro, comincino ad apprezzare Nelson Bond per tutto quello che questo scrittore effettivamente vale: e non è poco, credeteci! LUIGI COZZI FINE