ANGELA CARTER LA BOTTEGA DEI GIOCATTOLI (The Magic Toyshop, 1967) 1 L'estate dei suoi quindici anni Melanie scoprì di es...
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ANGELA CARTER LA BOTTEGA DEI GIOCATTOLI (The Magic Toyshop, 1967) 1 L'estate dei suoi quindici anni Melanie scoprì di essere fatta di carne e sangue. Oh, America, la mia scoperta, la mia Terra-Nuova! S'imbarcò in un viaggio incantato, esplorandosi tutta, risalendo per le sue catene montuose, penetrando la ricchezza umida delle sue valli segrete, quasi un Cortez della fisiologia, un Vasco de Gama, o un Mungo Park. Per ore continuava a fissarsi nello specchio del guardaroba; inseguiva col dito la struttura elegante della cassa toracica, dove il cuore palpitava sotto la pelle come un uccellino sotto una coperta, e tracciava la lunga linea dallo sterno all'ombelico (che era una caverna o una grotta misteriosa) e poi strofinava i palmi sull'accenno di ali che sembravano spuntarle sotto le costole. E poi ancora si rigirava, si abbracciava stretta, ridendo e facendo la ruota o la verticale, per la pura euforia che le metteva addosso scoprire la sua morbida sorpresa ora che non era più una bambina. Si metteva in posa anche con gli oggetti. Da preraffaellita, si pettinava i lunghi capelli neri, che le scendevano giù in morbide onde dalla scriminatura centrale e si guardava pensosa con un giglio tigrato del giardino che le lambiva il mento e con le ginocchia strette tra le braccia. Alla Toulouse Lautrec, si tirava i capelli in faccia arruffandoli e si sedeva su una sedia, a gambe larghe, con ai piedi una bacinella d'acqua e un asciugamano. Quando posava per Lautrec si sentiva sempre molto perversa e nella fantasia tornava indietro a quei tempi (era una ballerina o una modella e dalla finestra della sua soffitta parigina nutriva un passero con le briciole). In quelle fantasie era innamorata di lui e lo aiutava perché le faceva pena, perché era un nano e un genio. Era troppo magra per un Tiziano o un Renoir ma veniva bene come pallida Venere di Cranach, con un poco di tenda di rete avvolta intorno alla testa, e al collo la collana di perle coltivate che le avevano regalato per la cresima. Dopo aver letto L'amante di lady Chatterley, coglieva di nascosto i non ti scordar di me e se li infilava tra i peli del pube. Col tempo incominciò a usare la tenda di rete anche per drappeggiarsi attorno al corpo una serie di camicie da notte. Si incartava come un regalo per il fantomatico sposo che nel frattempo faceva la doccia e si lavava i
denti in un'immensa stanza da bagno sovradimensionata del futuro nella Cannes, Venezia, o Miami Beach della loro luna di miele. Lo evocava con una tale intensità da riuscire a superare la barriera del tempo che li separava e le sembrava quasi di sentire sulla guancia il fiato e la voce roca di lui che le sussurrava «tesoro». Pronta per lui, rivelava allo specchio la lunga gamba biancomarmorea fin su alla coscia (e intanto dimenticava la fantasia, improvvisamente assorta dal semplice gioco flessuoso dei muscoli della gamba che continuava ad allungare e a ripiegare); poi, stringendosi ancora più addosso la rete, osservava la forma strettamente fasciata dei seni piccoli e sodi: delusa dalle dimensioni ma immaginando che nell'insieme potessero andare. Tutto questo succedeva dietro la porta chiusa a chiave della sua camera da letto, con Edward Bear, l'orso di pelouche (dallo stomaco così gonfio da far scomparire nelle sue pieghe il pigiama a righe) che la guardava dal cuscino con i suoi occhi di bottone duri e luminosi e Lorna Doone aperto per terra nella polvere sotto il letto. Questo era quello che faceva Melanie l'estate dei suoi quindici anni, oltre ad aiutare a lavare i piatti e a controllare la sorellina piccola perché non si ammazzasse, giocando in giardino. La signora Rundle credeva che studiasse nella sua stanza. Diceva che doveva uscire di più e respirare l'aria fresca se non voleva diventare gracile come uno stecco. Melanie rispondeva che di aria fresca ne respirava abbastanza quando andava a fare le commissioni per lei e che comunque studiava con la finestra aperta. Soddisfatta dalla risposta, la signora Rundle non chiedeva altro. Era una donna grassa, vecchia e brutta e non si era mai sposata. Aveva unilateralmente adottato l'appellativo della donna sposata il giorno del suo cinquantesimo compleanno, decidendo di farsi un regalo. Era convinta che essere chiamata «signora» desse alla donna matura un tocco di dignità personale. E poi aveva sempre desiderato essere sposata. In vecchiaia memoria e fantasia si avvicinano e i confini mentali della signora Rundle avevano già cominciato a vacillare. A volte si sedeva in poltrona al caldo vicino al camino e nelle ore che aveva per sé, quando i bambini erano tutti a letto, inventava sognante i modi e il comportamento del marito che non aveva mai avuto, finché il viso dell'uomo non si delineava nel filo del fumo e del vapore che si alzava dalla sua tazza di tè e lei lo salutava cordialmente. Aveva dei porri pelosi e degli immensi denti finti. Parlava con un tono signorile e demodé, come la duchessa di una farsa di Whitehall. Era la governante. Aveva portato con sé il suo gatto e si sentiva perfettamente a
proprio agio. Si occupava di Melanie, Jonathon eVictoria mentre la mamma e il babbo erano in America. La mamma faceva compagnia al babbo, durante il suo giro di conferenze. «Un gilo di confidenze!» farfugliava Victoria, che aveva cinque anni, battendo il cucchiaio sul tavolo. «Mangia il pudding di pane, cara» diceva la signora Rundle. Con la signora Rundle si mangiava molto pudding di pane. Ne faceva dei più fantasiosi e dei più banali, con l'uvetta e con l'uvaspina, e poi si esibiva in una quantità di varianti della ricetta base, mettendoci la marmellata di arance, i datteri, i fichi, la gelatina di ribes nero e le mele cotte. Era una vera virtuosa del pudding di pane. A volte lo mangiavano anche freddo, col tè. Melanie col tempo aveva cominciato a temerlo, terrorizzata all'idea che, se ne avesse mangiato troppo, sarebbe ingrassata e nessuno si sarebbe mai innamorato di lei, che sarebbe morta vergine. Una Melanie di proporzioni pantagrueliche, gonfia come un cadavere annegato in un gigantesco pudding ricorreva nei suoi sogni e lei si svegliava terrorizzata, in un bagno di sudore. Giocherellava con la sua letale porzione di pudding, spingendolo qua e là per il piatto fino a che non lo scaricava furtivamente in quello di Jonathon, quando della signora Rundle si vedeva solo l'enorme sedere. Jonathon mangiava costantemente e più che altro per distrazione. Mangiava come una forza cieca della natura, spianando montagne di cibo come un bulldozer che attacchi una casa da un fianco. Mangiava fino a che non c'era più niente da mangiare, poi si fermava, metteva coltello e forchetta o cucchiaio e forchetta vicini, ordinati, si puliva la bocca col fazzoletto e se ne andava a fare i suoi modellini di barche. Quell'estate che Melanie aveva quindici anni, Jonathon ne aveva dodici ed era tutto preso dalla costruzione dei suoi modellini. Era piccolo col naso all'insù e con la pelle chiara, uno di quei ragazzini col berretto e la divisa della scuola di flanella grigia, e con una crosta quasi asciutta, sempre sul punto di staccarsi, su un ginocchio o sull'altro. Faceva modellini di nave con i suoi kit di costruzioni e quindi li dipingeva, li assemblava e li attrezzava con grande scrupolo per poi distribuirli sugli scaffali e sui caminetti di tutta la casa, dove poteva guardarli passando. Faceva solo modelli di barche a vela. Aveva fatto il modello dei velieri di Sua Maestà Britannica, del Beagle a tre alberi, e poi anche del Bounty, del Victory e del Thermopylae. Quell'estate aveva sempre le mani impiastrate di colla. Aveva negli occhi uno sguardo come di chi guarda lontano, come se non vedesse il mondo reale, ma i mari blu e le isole piene di palme da cocco, dove le sue navi, una vol-
ta salpate, avrebbero navigato per sempre. Come un Olandese Volante immaginario, Jonathon vagava per mari sconosciuti, sotto le ali aperte delle vele, e i suoi piedi poggiavano sempre e solo sui ponti di legno arsi dal sale senza mai avventurarsi sulla terraferma. Camminava con un leggero e appena percettibile ondeggiamento nautico che nessuno aveva mai notato. Come nessuno aveva mai notato che lui non li vedeva perché aveva gli occhi nascosti da tonde e spesse lenti. Per le cose di questo mondo era molto miope. Con i suoi occhiali, il suo berretto della scuola e le sue croste sulle ginocchia aveva l'aria di quei ragazzini che ti fanno subito pensare ai piccoli investigatori, Norman ed Henry Bones. Ingannati da quell'aspetto i genitori gli avevano riempito la libreria dei romanzi di Biggles, che erano rimasti lì intonsi a prendere polvere. All'inizio di quell'estate Melanie aveva sottratto sei di quei Biggles intonsi dalla stanza del fratello, e li aveva venduti a una libreria di libri usati e d'occasione di una cittadina vicina dov'era andata nel corso di una gita a buon mercato in pullman. Col ricavato si era comprata una scatoletta con le ciglia finte e tutto il necessario per applicarsele. Ma quando provò a mettersele, le ciglia finte le fecero piangere lacrime amare, rifiutandosi di stare al loro posto, e ostinandosi invece a scivolarle tra le dita, ricadendo sulla toletta come pelosi, sinistri millepiedi, dotati di una loro inquietante vita. In silenzio l'accusavano: ladra, ladra! Perfide, erano la ricompensa del peccato. Sentendosi in colpa Melanie le bruciò nel camino, pressoché inutilizzato, della sua camera da letto. Le sembrava evidente che non riusciva a metterle perché aveva rubato per procurarsi i soldi con cui comprarle. Quell'estate il suo senso di colpa era particolarmente sviluppato. Victoria non conosceva il senso di colpa. Né il senso di alcunché in generale. Era una tubante e rotondetta tortorella. Si rotolava al sole e strappava in tanti pezzettini le farfalle che riusciva ad acchiappare. Victoria era un giglio di campo, non faceva mai niente dalla mattina alla sera, e non era una bellezza. La signora Rundle le cantava vecchie canzoni, cantava di come le luci del porto le avessero detto che lui era partito e poi che erano tornate a fiorire le rose; e Victoria gorgliava ridendo sulle sue ginocchia e cercava di afferrare il gatto della signora Rundle con le manine rotondette. Il gatto della signora Rundle era maschio, obeso e col naso sempre all'aria. Acciambellato aveva la forma e le misure di un rotondo tavolinetto ricoperto di pelliccia. Forse la signora Rundle lo nutriva con gli avanzi del pudding di pane. Se ne stava sulle pantofole della signora Rundle (di feltro giallo con i
pon-pon rossi) mentre lei sferruzzava e cantava per Victoria. «Che fai?» chiedeva Victoria. «Una giacca» rispondeva la signora. «Gaccia» storpiava Victoria, soddisfatta. «Perché la fa nera, signora Rundle?» chiese Melanie, che era scesa a piedi nudi a prendersi un'aranciata con i cubetti di ghiaccio dal frigorifero. «Alla mia età» rispose la signora Rundle con un sospiro «c'è sempre qualcuno per cui portare il nero. Se non proprio subito, sarà prima o poi.» La o di poi le era uscita allungatissima come se l'avessero stirata sotto un rullo a vapore: «poooooooooooooooi.» «Ti ammazzerai, cara, con quei piedi nudi sul pavimento di pietra.» Nel bicchiere di Melanie i cubetti di ghiaccio tremarono. «Ha conosciuto tante persone che sono morte?» chiese. «Abbastanza» disse la signora Rundle, cominciando a tirarsi indietro. «Trovo la morte inconcepibile» disse Melanie lentamente, cercando la parola giusta. «È più che naturale alla tua età.» «Canta!» ordinò Victoria, battendo le manine rotondette sul ginocchio coperto di seta nera della signora Rundle, che, ubbidiente, fece sentire la sua voce. Melanie pensava alla morte come a una specie di cantina buia in cui si veniva rinchiusi. «Che mi succederà prima di morire?» pensò. «Be', crescerò e mi sposerò. Spero di sposarmi. Dio mio, sarebbe orribile se non mi sposassi. Magari avessi quarant'anni, così sarebbe già finita, e saprei già tutto quello che mi deve succedere.» Intrecciava margherite lunari tra i lunghi capelli e si guardava allo specchio come se fosse stata una fotografia del suo album di ricordi di adulta. «Io a quindici anni.» E poi, dopo, venivano le foto dei suoi figli con le uniformi marroni dei soldati o i costumi colorati da indiani d'America e poi i cuccioli di cane, e la sfilza di istantanee delle future vacanze. Secchielli e palette, sabbia nelle scarpe. Torquay? Era forse Torquay? Bournemouth (il Chine)? «Scarborough, così corroborante» e mai per esempio Venezia? E i cuccioli? Sarebbero stati terrier dello Yorkshire o corgi del Galles, o nobili afgani dal muso aquilino o una coppia di bianchi levrieri, con una catena d'oro per guinzaglio? Disse rivolta alla ragazzina con le margherite e i grandi occhi marroni: «Non sarà banale. No. Sarà divertente. Deve essere divertente!» Si riferiva
al suo futuro. Una margherita lunare le scivolò dai capelli e cadde per terra, quasi un vago segno di scherno dal cielo. Nel frattempo vivevano in una casa di campagna dove ognuno aveva la sua stanza tutta per sé e in più ce n'erano tante per gli ospiti e nei campi c'era un pony delle Shetland e un albero di mele che reggeva la luna tra le sue dita di rami proprio davanti alla finestra di Melanie, così che lei la poteva vedere dal letto, che era un divano con un materasso Dunlopillo e una testata bianca imbottita, e lei ci dormiva tra lenzuola a righe. La casa era di mattoni rossi con i cancelli edoardiani e sorgeva tutta sola in una distesa di uno o due acri di terra. Profumava di lavanda, di lucido per i mobili e di denaro. Melanie era cresciuta in quell'odore di denaro e non si rendeva conto di come permeasse l'aria che respirava, ma sapeva di essere fortunata ad avere una spazzola per i capelli col manico d'argento, una radio a transistor personale, una gonna e una giacchetta di seta grezza e rigida che le dava molta soddisfazione, fatta per lei dalla sarta della mamma, perfetta per andarci in chiesa la domenica. Al padre piaceva che tutta la famiglia andasse in chiesa la domenica. Qualche volta, quando c'era, leggeva la predica. Nato a Salford, si divertiva a giocare un po' a fare il signore di campagna, ora che non aveva più bisogno di pensare a Salford. Quell'estate in chiesa ci andavano con la signora Rundle, che era devota e portava con sé il voluminoso libro delle preghiere nero da cui, se non stava attenta a come lo prendeva, piovevano fiori secchi e pezzetti di felce. Victoria stava seduta ai piedi del loro banco e tubava, inseguendo i piccoli frammenti di foglie secche che piovevano dal libro delle preghiere della signora Rundle. A volte tubava forte. «Non sarà ritardata?» si chiedeva Melanie. «Non è che mi toccherà stare a casa e aiutare la mamma a occuparsi di lei, senza poter avere mai una vita mia?» Victoria, come la signora Rochester, il terribile segreto della camera sul retro, si sarebbe aggirata sorridendo vacua, giocando con il Lego e altre semplici costruzioni, mettendo insieme i pezzi di un puzzle di legno o aggrappandosi al corrimano delle scale per affacciarsi con la sua indecente faccetta da bambina per tubare agli ospiti imperturbabili. L'inno preferito di Jonathon era «Eternal Father, Strong to Save». Ogni volta che il vicario, un uomo pallido che andava a pesca e faceva battute infelici sui pescatori, passava a dare un'occhiata ai ragazzi, come aveva promesso di fare al padre, Jonathon gli si aggrappava alla giacca e chiedeva con foga che la domenica successiva cantassero «Eternal Father, Strong
to Save». «Vedremo» rispondeva il vicario, messo a disagio dall'intensità con cui lo fissavano gli occhiali del bambino. Durante tutta la prima colazione domenicale e mentre si mettevano i loro vestiti migliori, Jonathon fremeva per l'attesa e la speranza, ma il più delle volte l'inno non veniva cantato. La speranza svaniva appena vedeva esposto sul muro, nelle apposite teche, l'elenco degli inni che avrebbero eseguito. Allora Jonathon saliva a bordo del clipper per il trasporto del tè, il Cutty Sark, o del Bounty di Sua Maestà Britannica e salpava con le vele gonfie di una fresca brezza, via, lontano per le acque del mare blu a consolare la sua ferita. Il vicario lo aveva tradito. Infilzatelo con l'arpione per gli squali. Appendetelo all'albero di contromezzana e lasciatecelo un giorno intero, nudo, per tutto il lungo giorno tropicale. Fategli assaggiare la frusta. Melanie pregava: «Dio mio, te ne prego, fa' che mi sposi! O almeno che possa fare sesso.» Aveva smesso di credere in Dio a tredici anni. Una mattina s'era svegliata e Lui non c'era. Andava in chiesa per fare piacere al padre e non aveva bisogno di un inginocchiatoio per esprimere un desiderio. La signora Rundle soprendentemente pregava: «Dio mio, te ne prego, fa' che mi ricordi che ero sposata, come se mi fossi davvero sposata.» Perché sapeva che non poteva ingannare Dio con la storia della decisione unilaterale. «O perlomeno» continuava «fa' che mi ricordi di aver fatto sesso.» Solo che lo esprimeva in modo meno aspro. La signora Rundle ogni tanto si distraeva dal servizio religioso e si chiedeva a che punto fosse l'arrosto con le patate che aveva lasciato in forno. Ma appena ritornava con la mente a Dio gliene chiedeva scusa. Né Jonathon né Victoria pregavano. Victoria che non aveva niente per cui pregare strappava le frange degli inginocchiatoi e se le mangiava. Melanie aveva quindici anni, era bellissima, e non era mai uscita con un ragazzo, mentre per esempio Giulietta a quattordici anni già si era sposata ed era morta d'amore. Sentiva che stava invecchiando. Con le mani a coppa sotto i seni nudi, dalle punte rosa come i vibranti nasi dei conigli bianchi pensava: «Dal punto di vista fisico probabilmente ho raggiunto il massimo e d'ora in poi non potrò fare altro che deteriorare. O forse maturare.» Ma non voleva pensare di non essere già assolutamente perfetta. Una notte Melanie non riusciva a dormire. L'estate volgeva al termine e la luna rossa e gonfia occhieggiava dall'albero di mele tenendola sveglia. Il letto era bollente. E lei impaziente. Si girava e rigirava e prendeva a pugni il cuscino. Così tesa che le pizzicava la pelle dappertutto e le sembrava di
avere i nervi scoperti come se un centinaio di coltelli in concerto venissero strofinati stridendo su altrettanti piatti. Alla fine, non facendocela più, si alzò. La casa era immersa in un sonno pesante ma Melanie era sveglia come un grillo. Sentiva addosso una strana eccitazione a essere così sveglia e in piedi mentre tutti gli altri dormivano; s'immaginò uno sciame di zeta «... zzzzz...» che uscivano dalle tre bocche addormentate e giravano per tutta la casa riempendola di un ronzio sognante. Vagò pigramente fino alla camera da letto dei genitori. Le scarpe sotto il letto aspettavano pazientemente il ritorno dei piedi della mamma. La scatola di latta vuota del tabacco languiva sul comodino aspettando che tornasse il babbo per buttarla via. La stanza era inondata dalla luce lunare, la coperta bianca all'uncinetto risplendeva sul letto basso e largo come imbevuta di una densa luminosità. I suoi genitori dormivano in quel letto, grande e lussuoso come il giaciglio dei divi del cinema. Appoggiandosi alla base di vimini della struttura del letto, Melanie cercava di immaginare i genitori che facevano l'amore. Le sembrava un pensiero audace per una notte torrida come quella. Si sforzava di vederli abbracciati su quel letto. Ma sua madre sembrava inseparabile dal vestito nero che indossava per andare in città, mentre il padre portava l'eterna giacca di tweed spelacchiata con le toppe di pelle sui gomiti e la pipa infilata nel taschino. La pipa era lì nel taschino all'altezza del cuore anche mentre lo facevano. Per quanto si sforzasse, Melanie non riusciva a immaginare la nudità dei suoi genitori. Quando pensava a sua madre o a suo padre era come se i vestiti facessero parte di loro, come le unghie o i peli. Sua madre in particolare era una donna sempre esageratamente vestita, sempre con le calze in ogni stagione, col cappello e i guanti, pronta per uscire. Un cappello di velluto marrone a tesa larga, con una rosa nera di grò su un lato, si sovrapponeva nella fantasia di Melanie all'idea della mamma che faceva l'amore. Si ricordava che quando da bambina la mamma le faceva le coccole, c'era sempre uno strato di un qualche tessuto, di lana, di cotone o di lino, a seconda della stagione, a frapporsi ai loro abbracci. La mamma doveva essere nata vestita, magari con un'elegante sacca amniotica ispirata a una rivista patinata di moda: «Che cosa indosserà l'embrione elegante della prossima stagione». E il babbo? Il babbo era sempre lo stesso: tweed e tabacco, tabacco, tweed e nastro della macchina da scrivere. Di quelle tre cose, era fatto. La foto delle nozze dei suoi genitori era appesa sul caminetto, dove i so-
liti oggetti sembravano strani ed esotici, illuminati dalla luce lunare. Per esempio l'orologio francese che diceva l'ora ai suoi genitori e che si era fermato a cinque minuti alle tre del giorno dopo che erano partiti per l'America, senza che nessuno si preoccupasse più di caricarlo. E vicino all'orologio c'era un'anatra di ceramica messicana, colorata, allegra e stupida, con il dorso blu cosparso di fiori gialli. La mamma l'aveva comprata perché l'aveva vista riprodotta sul supplemento domenicale di un quotidiano. Melanie, arrivata fino al caminetto, aveva preso l'anatra e poi, rimessala giù, aveva alzato lo sguardo fino alla foto delle nozze. Il giorno del matrimonio sua madre era il trionfo del vestiario. Si era abbigliata con tale prodigalità che i suoi svolazzi oscuravano il futuro sposo. Non si vedeva altro che la smorfia sorridente di lui, annebbiata da una valanga di tulle, tanto che Melanie non era in grado di dire se, come sospettava, indossasse la sua giacca di tweed anche il giorno delle nozze perché non poteva proprio togliersela. La mamma invece era un'esplosione pirotecnica di rasi e di merletti, e sembrava che indossasse un costume per un banchetto medievale. Aveva la scollatura profonda a sottolineare il pendente, regalatole quale pegno d'amore e annidato sull'incavo alla base del collo, il vestito di raso bianco dalle ampie maniche, come ali di cigno che risalivano dalla vita di vespa da cui discendeva il lungo bianco strascico, sistemato attorno ai piedi per la foto, in modo tale che il vestito pareva immerso in uno specchio che lo duplicava. Sulla fronte aveva una ghirlanda di rose artificiali da cui sgorgava tutto intorno una fontana di tulle, schiumando giù fino alla vita. Tra le braccia aveva un fascio di rose bianche che cullava come un neonato. Sulle labbra un sorriso sdolcinato ed estatico, giovane e commovente. Era circondata da parenti che in seguito avevano frequentato sempre meno, da quando era andato così bene il romanzo del babbo e poi la biografia, e poi il film e via di seguito. C'era la zia Gertrude, con la permanente dai ricci troppo fitti e i piedi nelle scarpe troppo strette, che stringeva la borsa lucida di vernice nera come fosse la sporta della spesa settimanale. Melanie ricordava i baci al profumo di violetta della zia Gertrude per via di qualche Natale trascorso in famiglia, quando era vivo il nonno, che guardava in cagnesco la macchina fotografica quasi nel timore che gli volesse mangiare l'anima. Addio nonno e addio zia Gertrude. Addio anche allo zio Harry con i capelli impomatati di brillantina e la zia Rose sotto braccio. L'incipriata zia Rose. I pomelli di cipria sulle guance in foto risultavano neri. Poteva essere uno spazzacamino portafortuna. Addio zio Philip.
A differenza degli altri lo zio Philip non sorrideva, era come se non c'entrasse niente e fosse finito lì in mezzo per caso provenendo da un altro gruppo, magari da una solenne riunione degli Alci o dal funerale in pompa magna di un membro dell'antico e onorevole Ordine dei Bufali o anche da una riunione dei veterani della Guerra Civile americana. Portava un cappello nero, schiacciato in cima e con la tesa sgualcita, di quelli che si vedono sulla testa dei giocatori d'azzardo del Mississippi nei western americani, e un cravattino a cordino a cui aveva fatto un ridicolo fiocco. Anche l'abito era nero, con i calzoni attillati e la giacca lunga. Ma l'effetto complessivo non era di eleganza. Sotto il cappello nero i capelli sembravano bianchi o almeno molto chiari. Aveva dei baffoni da tricheco che gli nascondevano la bocca. Era impossibile indovinarne l'età, ma sembrava più vecchio che giovane. Era alto e di corporatura media. Tra le mani stringeva il pomo d'argento di un bastone di ebano da passeggio. Aveva lo sguardo vacuo, troppo vacuo perfino per sembrare annoiato. Era l'unico fratello della mamma, anzi il suo unico parente, perché tutti gli altri venivano dalla famiglia del babbo. E non era riuscito neppure a spremere un sorriso per il matrimonio della sorella. Non era villano da parte sua? Melanie non aveva mai visto lo zio Philip. Una volta, quand'era piccola, le aveva mandato un pupazzo, uno di quelli che saltano fuori dalle scatole. Faceva il giocattolaio. Quando la bambina aveva aperto la scatola, ne era venuto fuori un pupazzo che era la sua caricatura, e che la fissava con un ghigno lascivo. Quell'anno il babbo e la mamma gli avevano mandato una cartolina di auguri natalizi con la foto della famiglia al completo (Jonathon non era ancora nato) sorridente dietro la finestra della nuova casa che si erano appena comprati nei pressi di Chelsea, in un'ex scuderia. Il babbo cominciava a essere piuttosto famoso e a fare soldi. In cambio era arrivato quello spaventoso giocattolo. Il pupazzo nella scatola aveva terrorizzato Melanie, che cominciò a sognarlo, e l'incubo continuò a perseguitarla quasi fino a Pasqua. La mamma lo buttò via, era d'accordo con il babbo sul fatto che si trattava di un regalo sconsiderato e di cattivo gusto. Da quel momento in poi non mandarono più gli auguri allo zio Philip e quel pur tenue contatto si perse per sempre. Le foto sono blocchi di tempo che puoi tenere in mano e quella sul caminetto era un pezzo del periodo più bello della vita della mamma. Sembrava quasi che la sua sorridente e bellissima mamma fosse stata trafitta al cuore dallo scatto della macchina fotografica e intrappolata per sempre sotto vetro, come una farfalla in una teca. Melanie, guardando quella foto,
pensò che in quel frammento di un periodo felice della vita di sua madre, lo zio Philip non c'entrava niente. Era un colore che stonava con gli altri, anzi a dire il vero era come una macchia priva di colore. Occupava un tempo diverso. Aveva l'aria di aver incontrato il vecchio marinaio di Coleridge che si recava al ricevimento di nozze e di essere stato catapultato in un'altra dimensione, una dimensione in cui rose bianche e coriandoli non avevano più nessuna importanza. «Be',» pensò Melanie «non credo che lo vedrò mai.» Esaminò l'abito da sposa più da vicino. Uno strano modo di agghindarsi, solo per perdere la verginità. Si chiedeva se i suoi genitori avessero avuto rapporti sessuali prematrimoniali. E decise che doveva davvero essere cresciuta se cominciava a riflettere su temi del genere. Il babbo doveva essere stato un po' uno scavezzacollo, malgrado la sua famiglia, e poi viveva in un appartamentino da single. Un monolocale di Bloomsbury con il fornelletto a gas per il caffè e gran chiacchiere su Lawrence e l'amore libero e i loro dèmoni. Aveva già sacrificato la sua sorridente sposina ai suoi dèmoni? E se sì, lei avrebbe continuato a sorridere, ora che era diventata madre? E avrebbe indossato quel bianco verginale? E come spiegare le lettere mandate alle riviste femminili che Melanie prendeva segretamente in prestito dalla signora Rundle? «Il mio ragazzo dice che mi lascerà se non gli permetto di amarmi fino in fondo, ma io voglio arrivare illibata al matrimonio, in bianco.» Bianco simbolico e virtuoso. Il raso bianco mostra ogni segno, il tulle bianco si gualcisce appena lo sfiori con un dito, le rose bianche basta un sospiro perché t'inondino di petali. La virtù è fragile. Era uno stupendo abito bianco. Chissà, si chiese Melanie per un attimo, se mamma l'aveva tenuto la notte delle nozze? Sua madre era una donna sentimentale. In un baule cosparso di adesivi sbiaditi di luoghi esotici, sotto una pezza indiana ricamata buttata sopra per nasconderlo elegantemente, come se fosse un tesoro, c'era il vestito bianco della mamma, tutto avvolto in carta velina blu per mantenere bianco il raso. Perché lo conservava? Voleva forse che glielo mettessero quando sarebbe morta, voleva andare in cielo così? Ma in cielo non c'erano nozze, o qualcuno che ti accompagnasse all'altare. Melanie aggrottò la fronte nella luce lunare, con indosso il suo prosaico pigiama a righe, che quell'estate le stava ormai così piccolo che i calzoni le arrivavano a metà polpaccio. Si mise a giocherellare con le bottiglie di profumo che erano sulla toletta della madre. C'era un alberello di porcellana
per appenderci gli anelli (ma gli anelli erano tutti sulle dita della mamma in America, a vedere l'Empire State Building, il Grand Canyon e Disneyland) e c'era anche un vassoietto sempre di porcellana, come l'albero, per le spille, con due spille e il bottone rotto di una camicetta. E c'era una cornice con la foto di Victoria con un cane di pelouche, evidentemente un giocattolo da studio fotografico, che Victoria, altrettanto evidentemente, stava cercando di fare a pezzi. Proprio il tipo di fotografia, si disse Melanie, che solo una mamma poteva amare. Si chiese se anche lei sarebbe stata cieca davanti allo scarso fascino dei suoi figli, semmai si fossero rivelati altrettanto scialbi. Si passò distrattamente le dita con un goccio di Chanel svanito dietro le orecchie e all'improvviso si ritrovò a odorare talmente come la mamma che dovette guardarsi allo specchio per rassicurarsi sulla propria identità. In faccia aveva un'espressione trasognata, i capelli erano legati e tirati su per la notte; se li sciolse e li lasciò ricadere sulle spalle. Se li provò in diverse fogge, sul viso, tiratissimi stile ballerina, tutti raccolti da una parte, asimmetrici, mentre rifletteva sull'abito da sposa chiuso nel baule. «Mi starebbe?» Tutto il tempo, mentre si interrogava, si controllava allo specchio, sbottonandosi distrattamente la giacca del pigiama e provando alcune pose, nel caso avesse voluto diventare una modella o una ballerina da cabaret. Lo specchio della toletta della mamma era più largo, anche se più corto, del suo. Ma tutto il tempo le ronzava in testa lo stesso interrogativo: «Lo faccio? Non lo faccio?» Aprì un cassetto e in un angolo pescò un penny intriso di cipria. «Testa è sì» disse alle ombre. E testa fu. Fece un gran sospiro e cominciò a spostare il baule dal muro in modo da poter raggiungere le serrature con i ganci di ottone. Si sentiva malvagia, come un profanatore di tombe, ma la moneta era stata tirata e il dado era tratto. Il coperchio si aprì cigolando. Una gran quantità di carta velina blu pressata in cima iniziò a uscire fuori, frusciando pigramente dopo tanti anni di sonno indisturbato e s'innalzò per poco nell'aria, come per una momentanea levitazione, quasi fosse un ectoplasma. Melanie la scansò. Per prima venne fuori la ghirlanda, tutta imbottita di carta. Le rose finte e qualche stelo di mughetto che nella foto non si vedeva, con alcune perle qua e là a simulare rugiada. Petali di rosa erano piegati e accartocciati e una rosa era completamente schiacciata come un objet trouvé dadaista. Melanie li raddrizzò tutti e girò e rigirò la ghirlanda tra le mani. Una ghir-
landa matrimoniale. La mise sul letto. Spiegò chilometri di tulle, sufficienti per avvolgere le teste di un intero Parnaso di Veneri di Cranach. Melanie si ritrovò in trappola come uno sgombro nella rete, il velo le volteggiava attorno accecandola e tappandole le narici. Si rigirava da tutte le parti ma riusciva solo ad avvolgersi sempre di più. Cominciò a lottare, a dimenarsi e finalmente l'ebbe vinta. Aveva perso la pazienza e decise di ammonticchiarlo sopra il letto, senza tante cerimonie, vicino alla ghirlanda. Era l'ora del vestito. Il vestito era molto pesante. Il raso scivoloso aveva la lucentezza delle teiere d'argento che non vengono mai tirate fuori dalla vetrina del salotto tranne che per essere lucidate. Tutta la luce lunare della stanza si concentrava sulle sue ricche e misteriose pieghe. Melanie si strappò via il pigiama e s'infilò nel vestito. Era molto freddo sulla pelle. Le scivolò addosso come un sinuoso tubo da cui sgorgasse acqua gelida e lei rabbrividì, trattenendo il respiro. Era troppo grande. Sua madre s'era sposata nel pieno rigoglio delle sue floride carni. Due esili Melanie avrebbero potuto indossare quel vestito per un matrimonio da sorelle siamesi. Ricordava di aver letto la notizia del matrimonio di due sorelle siamesi. Avrebbero avuto bisogno di un grande letto, di un letto quadruplo. Era rimasta malissimo per il fatto che il vestito le stava grande. Si avvoltolava e arrotolava tutta nel raso bianco. Cominciò a prendere a calci l'orlo, per avvicinarsi alla toletta e recuperare gli spilli con cui fissarselo addosso. Ma nello specchio vide che non importava se era troppo grande. Sotto quella mobile massa di capelli neri il suo viso era come sbiancato e trasfigurato dal fulgore riflesso dal vestito, che arrivava a coprirle appena il seno, come le vesti delle vergini elisabettiane. Si muoveva dentro una specie di ricca tenda che stranamente sottolineava la sua magrezza e la illuminava come un candelabro. Sapeva che non sarebbe riuscita a maneggiare il velo ma prese la ghirlanda e se la mise in testa. Le piccole perle luccicavano come occhi, o come le lacrime dei pesci, che si dice siano la loro origine. Le perle della mamma erano finte, eppure, luccicavano. «E io sono davvero così bella?» pensò, piena di stupore, tra le perle e i fiori. Aprì l'armadio della mamma e si guardò nello specchio lungo. Continuava a essere una bellissima fanciulla. Andò nella sua stanza e si guardò anche lì, nel suo specchio, per vedere se le diceva qualcosa di diverso, ma ancora una volta era bellissima. Luce lunare, raso bianco, rose. Una sposa.
La sposa di chi? Ma per quella notte bastava a se stessa con tutto il suo fulgore e non aveva bisogno di uno sposo. «Guardami!» disse al melo che nutriva il suo placido frutto nel silenzio notturno della campagna. «Guardami!» gridò con veemenza al tondo faccione della luna che le sorrideva con quel sorriso gioviale che gli vedono solo i bambini. Un fresco vento profumato d'erba soffiò attraverso la finestra aperta e le accarezzò il collo, smuovendole i capelli. Sotto la luna, la campagna si distendeva come una terra esotica e incantata, in cui il granturco era immortale grano orientale, da non raccogliere né seminare, terra incognita, mai calpestata dal piede dell'uomo, né sfiorata dalla sua mano. Vergine. «Scenderò nel giardino. Nella notte.» Veloce giù per le scale, raccogliendosi intorno le pieghe delle gonne... attenzione! Attenta allo scalino che cigola. Afferrò i paletti del portone e cominciò a tirare trattenendo il respiro. Si ruppe un'unghia. Piano, lentamente, altrimenti sarebbe scesa giù la signora Rundle brandendo il bastone che teneva accanto al letto per affrontare i ladri notturni. Melanie si lasciò andare, scivolò dentro la notte che, subito, eliminò la Melanie del giorno, schiacciandola tra due delle sue scure dita. Nel giardino i fiori schiudevano le corolle con un'inimmaginabile dolcezza di mezzanotte e l'erba rabbrividiva e mormorava con la sua voce bassa, quasi intensificando il silenzio. Era tutto immobile, come alla fine del mondo. Lei era sola. Nel suo carapace di raso bianco, era l'ultima, l'unica donna. Tremò di eccitazione sotto l'alta, profonda cupola blu del cielo. Una luna così tonda. E gli alberi carichi fino a scoppiare della loro zavorra sognante di uccelli. I fili d'erba intrisi di rugiada le leccavano i piedi come altrettante umide lingue di piccoli animali festosi: l'erba sembrava più alta e più avvolgente che di giorno. Lo strascico del vestito la seguiva, lasciando una scia luminosa dietro i suoi passi. L'aria ferma era miracolosamente trasparente. Le ombre proiettate dagli oggetti - un ramo, un fiore vi si stagliavano con scura precisione, come sott'acqua. Camminava a passi lenti, silenziosi, nella notte sottomarina. Il respiro passava tremante per la sua bocca, imprimendole un gusto di vino nero. I cespugli di lillà si smossero. Un animale notturno piccolo e peloso sgattaiolò per il prato davanti a lei e scomparve raspando in un cumulo di erba tagliata. Qualunque cosa fosse, quella creatura non aveva più sostanza corporea delle foglie mosse dal vento. «Non avrei mai immaginato che la notte fosse così» si scoprì a sussurra-
re Melanie, con una vocina sottile. Tremava di gioia. Perché? Come mai? Era fuori di sé, non lo sapeva e nemmeno le importava. Nel cielo si formavano e si dissolvevano grandi banchi di nuvole e qua e là risplendeva una stella. Il mondo, che era tutto in quel giardino, era vuoto come il cielo, infinito come l'eternità. Alle elementari, durante le ore in cui si studiava la Bibbia, la maestra aveva descritto l'eternità. La signorina Brown, che aveva la lisca, portava gli occhiali e odorava di saponetta al limone, rigirava il gesso e parlava seriamente dell'eternità ai bambini, quando glielo chiedevano. L'eternità, diceva, era come lo spazio che non finiva mai e dentro da qualche parte c'era Dio, come la monetina nel pudding di prugne (pensava Melanie a sette anni), urtata dalle galassie invece che dall'uvetta e che forse si sentiva sola senza altre monetine a farle compagnia. Come doveva sentirsi solo Dio, pensava Melanie a sette anni. A quindici se ne stava lì, persa nell'eternità, dentro un vestito folle, a guardare il cielo immenso. Che era troppo grande per lei, proprio come il vestito. Era troppo piccola. La solitudine l'afferrò alla gola e all'improvviso non poté sopportarlo. Fu colta dal panico. Era persa in quella solitudine sconosciuta e il terrore si abbatté nel giardino e contro di lei inerme, ubriaca com'era di vino nero. Singhiozzando prese a correre, inciampando negli strati di gonne. Troppo per lei. Troppo presto per lei. Doveva tornare alla porta di casa e al buio gradevole, protetto, degli interni, all'odore degli esseri umani. I rami, minacciosi le strappavano i capelli e le graffiavano il viso. L'erba le s'intrecciava sotto i piedi formando delle trappole che le facevano storcere le caviglie. Quando aveva cominciato ad averne paura, il giardino le si era rivoltato contro. Il largo gradino bianco davanti al portone di casa era un santuario. Vi si accasciò sopra. La signora Rundle lo raschiava e lo spazzolava tutte le settimane, e lo strofinava ogni giorno con le sue brutte mani indurite dal lavoro. Melanie posò la guancia accesa sulla superficie fredda di pietra e con la polvere bianca per pulire il marmo si impiastrò la faccia, una specie di segno di casta. Ma la porta era sbarrata. Le si era richiusa alle spalle e lei non aveva le chiavi. Era chiusa fuori. Si era chiusa fuori. Quando capì che non avrebbe potuto passare quella soglia piombò quasi nella disperazione. E poi si era ferita i piedi correndo sulla ghiaia, lì per lì non se n'era neppure accorta, ma ora vide che erano lividi e sanguinanti e che sul bordo del vestito della mamma c'erano delle piccole macchie di sangue, nere nella luce lunare. Ma il peggio era ritrovarsi fuori di casa sen-
za modo di rientrare. Si afferrò alla pietra cercandovi conforto. «Devo reagire. Cosa faccio adesso?» Aveva lasciato aperta la finestra della sua stanza. Forse poteva arrampicarsi sull'albero di mele e da lì raggiungere la sua camera da letto, dove finalmente avrebbe potuto chiudere le finestre sui deserti della vasta eternità là fuori. Ma avrebbe dovuto abbandonare il rifugio del gradino e avventurarsi nell'ignoto ancora una volta. E d'altra parte o l'albero, o l'attesa fino al mattino. Fino a quando la signora Rundle non fosse scesa a preparare la colazione. E allora le avrebbe dovuto spiegare come fosse finita lì fuori con indosso il vestito di nozze della mamma. Aveva scalato il melo a otto anni e poi di nuovo a dodici. E ora che aveva quindici anni? Del resto non aveva alternative, anche se le sarebbe toccato arrivare fino al retro della casa e affrontare ciò che l'attendeva lì, in agguato. Qualunque fosse il mostro, quali che fossero le gigantesche, immobili cose che l'aspettavano con le tenebrose fauci spalancate, quelle cose fatte della stessa sostanza della notte. Sapeva che erano lì, ad aspettare solo che inciampasse e cadesse. Si muovevano nello spazio nebuloso oltre il suo campo visivo. Melanie cercava di scrutare dritto davanti a sé, in modo da non accoglierle per sbaglio nel suo sguardo. Si teneva il più possibile vicino alla casa, calpestando senza problemi le aiuole piene di fiori, poiché la casa rappresentava comunque una protezione. Il sangue le pulsava nelle orecchie e il rumore che faceva avrebbe potuto essere il respiro roco dei mostri che la circondavano. Nel silenzio di quella notte non le sembrava difficile credere al più incredibile dei film o dei fumetti dell'orrore, né al più mostruoso degli incubi. «Non fare la scema» si ripeteva. «Non c'è niente lì fuori. Niente.» Ma quel niente le risuonava nella testa, spaventandola con la sua eco. In preda al panico, arrivò finalmente alla sua scala, al suo albero, al suo amico, dai vecchi rami nodosi carichi di frutti. Ma quei frutti, proprio questa notte che era così spaventata, avevano l'aria di mele stregate, come se perfino il suo vecchio amico albero si fosse rivoltato contro di lei e nemmeno in lui ci fosse possibilità di conforto. Ai vecchi tempi, quando non faceva che scalare alberi, ci avrebbe messo pochi minuti a salire su. Ma aveva smesso di salire sugli alberi quando aveva cominciato a farsi crescere i capelli e aveva smesso di portare sempre i pantaloncini corti durante le vacanze estive. Dai tredici anni, quando le erano venute le mestruazioni, aveva iniziato ad avere la sensazione di esse-
re gravida di se stessa, di avere nel grembo l'embrione della Melanie adulta che andava lentamente maturando, una gestazione della cui durata sapeva ben poco. E allora in quella condizione scalare un albero avrebbe potuto causarle un aborto e lei sarebbe rimasta per sempre lì, arenata nell'infanzia, una maschiaccia con i capelli corti. Ma quando il diavolo ci mette la coda bisogna darsi da fare. «Come faccio a scalare l'albero con questo vestito?» Avvolta com'era in chilometri di raso che si sarebbe impigliato e strappato e attorcigliato irrimediabilmente mentre lei lottava per trovare un appiglio per le mani e i piedi. Si sarebbe incagliata tra i rami senza riuscire ad andare né su né giù. La mattina dopo avrebbero dovuto far venire gli uomini dalla fattoria con le scale e con le corde per tirarla fuori viva o morta. Non fare la scema. Viva. Viva per provare la vergogna di tutto questo. Perciò non c'era altro da fare che togliersi il vestito e arrampicarsi nuda come un verme su per la notte ingannevole e piena di insidie. Non c'era altro da fare. La colpì una zona di nero più profondo su un ramo basso, come un coagulo più fitto, uno dei mostri della sua immaginazione sovraeccitata. Il principio di un urlo le gonfiò la gola. Un lampo di occhi verdi e il nero profondo miagolò. Scosse il capo sollevata: era il gatto della signora Rundle. Non era sola, allora. Gli strofinò le orecchie e lo sentì pulsare e ronfare di piacere, un suono domestico, inaspettato e rassicurante. Come se qualcuno le avesse acceso un fuoco per riscaldarla. Mentre il gatto continuava a ronfare, Melanie trovò il coraggio per tirarsi fuori dal vestito. Si coprì con i capelli, per proteggersi, perché la notte, che ormai stava per finire insieme all'estate, s'era fatta più fredda. Arrotolò il vestito e lo mise su un ramo biforcuto. Poteva riportarlo su e metterlo via di nuovo nel baule e nessuno si sarebbe accorto che era stato indossato se non avesse visto il sangue sul bordo, e dopotutto il sangue era un'inezia. Il gatto inclinò la testa da un lato e fissò i suoi occhi lucenti come zecchini sul vestito arrotolato, poi allungò la zampa di velluto e lo accarezzò. La morbida zampa culminava in ricurvi, rosei e ingannevolmente teneri cuscinetti. La sua carezza fu crudele. Si sentì lo strappo. «Oddio» disse Melanie ad alta voce. Il gatto aveva fatto un lungo squarcio. Gli diede una manata e quello saltò via dall'albero, approdò morbidamente sul prato e svanì. Era di nuovo sola e la luna cominciava a scivolare via dal cielo. Presto sarebbe tramontata e la totale oscurità l'avrebbe cancellata. Pregò: «Dio mio, ti supplico, fa' che ritorni sana e salva nel mio
letto» e incrociò le dita. Era terribilmente consapevole della propria nudità. Se la sentiva addosso come una forma nuova e definitiva, come se si fosse tolta perfino la pelle e ora fosse rimasta vestita di niente, nuda, nella più estrema delle nudità, quella dello scheletro. Era quasi sorpresa di vedere la carne delle sue dita, le sue stesse mani avrebbero potuto essere rovesciate come guanti, svuotate di tutto tranne che delle ossa. Appena saggiò il primo ramo una pioggia di mele cadde al suolo sotto di lei. Ma era saldo abbastanza da sostenerla. Inspirò profondamente e spiccò un salto. La corteccia si sgretolò e le graffiò profondamente gli stinchi, le cosce e lo stomaco mentre lei tentava di aggrapparsi tra le braccia nodose dell'albero. Dovette arrampicarsi dolorosamente, guadagnandosi ogni minimo appiglio per le mani e i piedi. A un certo punto un ramo si spezzò sotto la spinta e si ritrovò, appesa per le mani, agonizzante tra cielo e terra, a scalciare ciecamente in cerca di qualcosa di solido e sicuro in un mondo fatto solo di tremulo fogliame e di ombre. Le mele le piovevano intorno a ogni movimento e la luna evanescente luccicava qua e là tra le foglie che le cacciavano mani dispettose di duro cuoio negli occhi e nella bocca aperta per lo spavento. Immersa nell'elemento estraneo, doveva lottare per poter trarre ogni affannoso respiro. I rametti le graffiavano le guance e i seni morbidi, sembrava che avesse ingaggiato un corpo a corpo con l'albero. Grondava di sudore. E c'era il vestito da trascinarsi dietro come una croce. Non avrebbe saputo dire quanto tempo avesse lottato per arrivare in cima, ma alla fine vide il davanzale della finestra sopra la testa, la terra promessa. Ma era lassù, oltre gli ultimi saldi rami e lei non poteva fare altro che rischiare e lanciarsi, lanciare se stessa e il vestito in su, pericolosamente. Grazie a Dio la finestra era spalancata sull'orsacchiotto, Edward Bear, e Lorna Doone e sulle spazzole col manico d'argento. Oscillando, aggrappandosi e mordendosi il labbro si tirò su in uno schiumare di foglie. Dopo due tentativi falliti durante i quali, confusa e tremante, era quasi precipitata giù dall'albero nella inospitale terra ai suoi piedi, lanciò il vestito, che si aprì sventolandole in faccia le sue bianche ali, sistemandosi come un albatro gigante nel vano della finestra, tremando per un momento, per poi scivolare in avanti e scomparire alla vista. Quindi si lanciò a sua volta, dietro il vestito, e precipitò a faccia in giù sul pavimento della stanza. Era tutta sporca e piena di lividi e sanguinava da un centinaio di taglietti. Rimase stesa sul suo tappeto indiano color crema singhiozzando per il sol-
lievo che le dava sentire il solido pavimento sotto di sé. Quando riuscì a rimettersi in piedi andò zoppicando fino alla finestra e mostrò il pugno alla Luna. Poi, stringendo forte l'orso, s'infilò sotto le coperte al centro del letto, dove s'addormentò istantaneamente. La mattina dopo vide che il vestito era ridotto a tante strisce. Lo stese sul letto, che scomparve sotto quella massa di stracci. L'albero aveva completato l'opera cominciata dal gatto. La gonna pendeva in tre pannelli separati e le maniche lacere e spiegazzate ormai erano attaccate al corpetto solo da qualche filo residuo. E poi era lercio, tutto striato del verde dell'albero e del rosso del suo sangue. Melanie aveva perso più sangue di quanto credeva. E ora sfiorava il vestito, paralizzata dall'orrore. E la ghirlanda che fine aveva fatto? Se n'era dimenticata, doveva averla ancora in testa mentre scalava l'albero. Ma nella stanza non c'era. Andò alla finestra. La ghirlanda era impigliata su uno dei rami più alti, tra mele irraggiungibili. Sembrava un bianco nido di uccelli. Le perle riflettevano il fresco sole mattutino. E lì sarebbe rimasta, a meno di non chiamare i pompieri. L'odore del pane tostato e della pancetta fritta saliva dalla cucina. La vita continuava. «Ah, che idiota!» si apostrofò Melanie con veemenza, guardandosi allo specchio. Aveva i capelli pieni di foglie di melo. Li spazzolò e li pettinò facendo cadere le foglie sul pavimento, insieme a lunghi ciuffi che si strappava nella furia. Le faceva bene provare dolore. Castigata e umiliata, una stupida ragazzina che, prima o poi, avrebbe dovuto confessare quell'avventura in una notte di luna che era andata a finire in modo così disastroso. Rimise i resti del vestito nel baule, li spinse dentro in qualche modo seppellendoli sotto montagne di carta velina. Quando la mamma fosse tornata glielo avrebbe detto in privato. E forse nel frattempo nessuno avrebbe fatto caso alla ghirlanda sull'albero perché era molto in alto e la signora Rundle era miope, Jonathon quasi cieco e Victoria non guardava mai in su. «Posso avere la pancetta di Melanie?» chiese Victoria. E Jonathon si prese le sue fette di pane tostato. Melanie non riusciva a mangiare, per il peso del senso di colpa e della vergogna che sembrava le si fosse insediato nello stomaco. Sparecchiata la tavola se ne tornò nella sua stanza e tirò fuori i libri di scuola, quasi che fare i compiti fosse un rito propiziatorio. Aveva trascurato Lorna Doone tutta l'estate, ora prese molti appunti. La signora Rundle e Victoria andarono al negozio del villaggio e Jona-
thon le seguì per comprarsi una nuova scatola di costruzioni. La casa vuota rimbombava piena di eco intorno a Melanie. Avvertiva la strana inesistenza di una casa ricca di stanze deserte e sentiva i brividi alla nuca ogni volta che per caso qualcosa cadeva o scricchiolava. Era una mattinata piena di sole e le mele sull'albero risplendevano di benessere. Una mela al giorno leva il medico di torno. Le vespe dovevano già essere al lavoro, a capofitto tra quella manna di mele cadute ai piedi dell'albero. Odiava le vespe, a stento riusciva a sopportare l'idea che stessero lì a ingozzarsi sotto la sua finestra. Alle undici e mezzo di quel sonnacchioso e afoso mattino bussarono alla porta, colpi tremendi, così forti e inaspettati che la mano che teneva la penna sussultò e produsse una macchia sul quaderno. Scese giù. Il gatto della signora Rundle andava pesantemente a caccia di mosche nella sala. Era stato testimone della sua follia, e nella catastrofe della notte precedente c'era anche il suo zampino. Passandogli vicino, Melanie gli tirò un calcio a cui lui rispose soffiando. Sulla porta c'era il postino con un telegramma m mano. Appena lo vide Melanie capì il contenuto della missiva, come fosse stato scritto sulla fronte del ragazzo. La luce si oscurò per un attimo e quando fu di nuovo giorno il postino era ancora lì, in attesa della mancia. C'erano delle monetine da sei soldi, il resto del latte, sulla cassettiera dell'ingresso; una fortuna, perché Melanie non aveva soldi. Il gatto se ne stava sul terzo gradino e socchiudeva gli occhi. Il ragazzo andò via. Sentì in lontananza il brum brum dello scappamento della sua motoretta. «È colpa mia» disse al gatto. Con una voce ondeggiante come alghe nel mare. «È colpa mia perché ho messo il suo vestito. Se non avessi rovinato il suo vestito, sarebbe andato tutto bene. Oh, mammina!» Le si strinse lo stomaco. Andò su, in bagno, e vomitò. Continuava a stringere il telegramma ancora chiuso tra le mani. Quando lo guardava correva a vomitare. Tornò nella sua stanza. S'incontrò nello specchio, capelli neri e viso bianco, la ragazzina che aveva ucciso sua madre. Prese la spazzola e la lanciò contro l'immagine riflessa. Lo specchio cadde in frantumi, dietro c'era solo il legno nudo del guardaroba. Ci restò male. Voleva continuare a vedere il suo specchio e la stanza riflessa nello specchio, tutto meno se stessa, scomparsa, annullata. Camminò sopra il vetro rotto fino alla finestra e guardò la ghirlanda sull'albero. «Ci andrò, la prenderò e la metterò via. Devo farlo. Così forse lei tornerà.»
Ma sapeva che se si fosse spinta sul davanzale della finestra sicuramente sarebbe caduta, e poi come potevano tornare i morti? «Oh, mammina!» Salì nella stanza dei genitori per guardarli com'erano il giorno delle nozze. L'abito bianco non c'era più e la donna non c'era più e l'uomo non c'era più; l'uomo che se ne stava diffidente appena dietro alla moglie, e che stringeva gli occhi per difendersi dal sole. «Mammina mia, papino mio!» Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo il viso. Prese la foto e la tolse cautamente dalla cornice mentre teneva il telegramma tra i denti, la strappò e gettò i frammenti bianchi nel camino. Poi ruppe la cornice. Dopodiché si mise a fare a pezzi la stanza. Aprì i cassetti e gli armadi e rovesciò a terra tutto quello che contenevano, a montagne, attaccando ogni cosa con le sue forti mani. Scavò tra le scatole e le boccette dei cosmetici e dei profumi, impiastricciando tutto, se stessa, i mobili e le pareti. Tirò via dal letto cuscini e materassi e li prese a pugni e ci saltò sopra e li sbatté dappertutto fino a che le molle non cominciarono a spuntare dalla fodera di broccato dei materassi e i cuscini non si disfecero in una fitta nebbiolina di piume. Il telegramma, ancora stretto tra i denti, si andava gradualmente scurendo per la saliva. Melanie non sentiva niente, non vedeva niente, andava avanti a distruggere tutto come un automa. Con le piume frammiste alle lacrime e le guance unte. La signora Rundle tornò a casa con Victoria, faceva caldo e tutte e due mangiavano un cono gelato. La signora Rundle mise a bollire le patate già sbucciate e apparecchiò la tavola. Jonathon entrò in casa con la sua nuova scatola tra le braccia. Aveva comprato il kit della Cutty Sark. Dietro gli occhiali, i suoi occhi erano luminosi per l'eccitazione. «Il pranzo è quasi pronto, Jonathon» disse la signora Rundle rassicurante. Il bambino si mise seduto a tavola obbediente, con la scatola sulle ginocchia. Era preziosa e lui era deciso a non mollarla. Victoria giocava con le buste di carta della spesa. La cena era servita e i due bambini cominciarono a mangiare. La signora Rundle si chiese dove fosse Melanie. Doveva nutrirsi, aveva anche saltato la colazione. Jonathon e Victoria mangiavano affamati e la signora Rundle non li voleva disturbare. «Melanie!» gridò la signora Rundle dal fondo delle scale. Nessuna risposta. Forse era nella sua stanza e si era addormentata sui libri? Ansimando un
poco per via delle scale, la signora Rundle trovò la stanza vuota e lo specchio rotto in terra. Guardò il disastro e sospirò. «Ha rotto lo specchio senza volere e adesso si nasconde perché non ha il coraggio di confessarlo» si disse saggiamente la signora Rundle. Arrivata sul pianerottolo udì con sorpresa un basso lamento, seguì il suono inaspettato e trovò Melanie seduta a gambe incrociate su una pila di camicie da notte stracciate. C'era un odore opprimente di Chanel Numero 5 che veniva da un mucchio di bocce rotte. Melanie stava seduta lì con la faccia stravolta, impiastrata di rossetto e di mascara, la faccia ridotta a una maschera stilizzata di cremisi e nero, e dalla bocca aperta usciva un fiotto continuo e inarticolato di disperazione. La signora Rundle ne aveva viste tante nella vita ed era abituata a prendere in mano ogni situazione. Dovette forzare le dita bollenti e tesissime di Melanie per aprirle e sottrarle il telegramma. Melanie non si era nemmeno accorta della signora Rundle, che tirò fuori gli occhiali da lettura dalla tasca del suo grembiule, li pulì e lesse il telegramma. Scosse lentamente il capo. Mise le braccia attorno a Melanie che rimase dritta impalata come un pezzo di legno, e continuò a piangere. Allora la signora Rundle scese pesantemente al piano di sotto. «Jonathon,» disse «corri a chiamare il dottore. Tua sorella sta proprio male.» «Non ho ancora avuto il dolce» disse Jonathon con aria giudiziosa. «Te lo tengo in caldo nel forno.» «Voglio il mio dolce ORA!» gridò Victoria, che si era accorta che quel giorno c'era una leccornia: la torta di mele. La signora Rundle ne tagliò una grossa fetta e ci versò sopra la crema. Era meglio che mangiassero finché potevano. Lei stessa mangiò la sua torta lentamente, cerimoniosamente, come se si fosse trattato della portata principale di un banchetto funebre. Sapeva per esperienza che la pancia piena è di grande aiuto se i tempi sono duri. Poi diede al suo gatto un piattino di patate col sugo di carne. «Io e te ben presto saremo in cerca di nuovo alloggio, Pussy» gli annunciò. E Pussy mangiò, ronfando e agitando la coda. 2 Melanie nuotava come un pesce cieco e senza orecchie in un mare di sedativi, dove non c'era tempo né memoria ma solo sogni. L'estate aveva lasciato il posto all'autunno prima che riemergesse pallidissima sul letto in
grado di ricordare. Quando si sentì abbastanza forte per farlo uscì all'alba una mattina e diede degna sepoltura al vestito di nozze sotto l'albero di mele. Si sentiva svuotata come se avesse seppellito il suo cuore, ma riusciva ancora a muoversi e a parlare. «Dovrai fare loro da mammina» le aveva detto la signora Rundle. La signora Rundle aveva cucito fasce nere sui cappotti di tutti e tre, perfino su quello di Victoria; il suo era comunque nero, perché la signora Rundle era sempre preparata ai colpi della mortalità. Era rimasta delusa, anzi addirittura addolorata del fatto che le spoglie mortali dei genitori non fossero state rispedite a casa per il funerale, perché non c'erano resti, per così dire. E però, malgrado tutto... Melanie cominciò a portare i capelli legati in rigide trecce, alla maniera di una squaw. Tirava le trecce a tal punto che le facevano male, tirava pelle e capelli fino a quando non aveva l'impressione che la riga bianca dietro la testa stesse per aprirsi facendo uscire il cervello. Era una penitenza. Masticava la punta ispida delle trecce e prendeva a calci le gambe delle sedie della cucina. Dalla porta aperta che dava sull'atrio venivano i sussurri dei battitori d'asta. Bisognava vendere tutto. Non c'erano soldi. Il babbo non aveva messo da parte niente perché pensava che ne avrebbe fatti sempre di più. I bambini vivevano alla giornata in una sorta di vuoto pneumatico. C'era ancora da mangiare per loro e la signora Rundle era ancora lì. Lei era un riferimento fisso. Melanie ora le stava vicina e l'aiutava in casa. Non le piaceva stare sola. Lo specchio era rotto e lei odiava l'immagine improvvisa di sé che le ritornava quando si lavava i denti o quando passava davanti allo specchio dell'ingresso. Ma la signora Rundle, mamma-chioccia, stava cercando un altro posto e la casa sarebbe stata venduta passando sopra le loro teste, come anche i mobili. «Una mammina» ripeteva Melanie. Doveva fare da madre a Jonathon e Victoria. Eppure quei due non sembravano sentire affatto la mancanza di una mamma. Avevano i loro mondi privati. Jonathon continuava a darsi da fare col suo nuovo modellino. Victoria era spumeggiante come un torrentello, a caccia delle pagliuzze nel pulviscolo dei fasci di luce. Nessuno dei due parlava mai dei genitori, né sembrava rendersi conto che quello stile di vita stava per concludersi. Victoria era troppo piccola e Jonathon troppo preso dalle sue cose. Quando i possibili acquirenti venivano a vedere la casa, e succedeva sempre più spesso, loro si tenevano alla larga finché non se n'erano andati.
«Il fardello è tutto mio» disse Melanie. La signora Rundle stava sferruzzando, faceva dei calzettoni lunghi per Jonathon, un regalo di addio. Era arrivata al calcagno. «Mi hanno detto di dirtelo» disse. «Gli avvocati, intendo. Hanno scelto me perché vi sono vicina, ma ho voluto aspettare il momento giusto.» «Di che si tratta?» «Dovete andare dallo zio Philip.» Melanie sbarrò gli occhi. «Lo zio Philip si prende tutti e tre, non è bello che una famiglia si divida.» La signora Rundle tirò su col naso con una certa partecipazione. «Ma se non l'abbiamo mai visto! Era l'unico fratello della mamma, ma poi si erano allontanati.» Aveva afferrato il nome da un accenno casuale di tanto tempo prima. «Il nome era Flower. Mamma era la signorina Flower.» «L'avvocato dice che è un perfetto gentiluomo.» «Dove abita?» «A Londra, dov'è sempre stato.» «Allora andremo a Londra.» «Sarò bello per te che cresci. Tutta Londra per te. I teatri, i balli...» ricordò qualche titolo di rivista, «... le soirées.» «Che lavoro fa? Era un giocattolaio.» «Lo è tuttora. Ed è sposato. Ci sarà la guida di una donna.» «Non sapevo che fosse sposato.» «Al giorno d'oggi» disse la signora Rundle con tono di disapprovazione «i rapporti sono così rari all'interno della famiglia! Pensa un po', non sapere della moglie di tuo zio! Dopotutto si tratta di tua zia!» I ferri rimandavano lampi di luce. «Sarà tutto nuovo e strano.» «È la vita» disse la signora Rundle. «Mi mancherete tutti e penserò spesso alla piccolina che diventerà una bella bambina e a te che diventerai una signorinetta.» Melanie chinò il capo e le trecce le oscillarono sulle guance: «È stata così gentile.» «Naturalmente vi aiuterò a fare le valigie.» «Quando» chiese Melanie deglutendo. «Quando andiamo?» «Presto.» Ottobre fresco, nebbioso, dorato. Ottobre quando la luce si fa dolce e pesante. Stavano sulla veranda e aspettavano il tassista che li doveva andare a prendere con le loro fasce nere sul braccio e con le valìgie in mano, pas-
seggeri abbandonati di una nave affondata, che avevano afferrato pochi oggetti salvati a caso e che guardavano sconsolati il mare agitato che dovevano affrontare. «Potrei non rivedere più questa casa!» pensò Melanie. Era un momento enorme, questo del saluto alla vecchia dimora, così enorme che lo coglieva a malapena, l'unica sensazione che riusciva a provare era quella di un gran rimorso. La ghirlanda di rose era ancora appesa all'albero di mele, e già segnata dalle intemperie. La signora Rundle le stampò baci bagnati sulle guance, uno dopo l'altro. Anche lei lasciava la casa quel giorno. Portava il cappotto buono di panno nero, e i guanti di panno accuratamente rammendati e le solide scarpe nere con i lacci. Il gatto dormiva in un cestino vicino al suo baule. Il suo nuovo datore di lavoro sarebbe venuto a prenderla in macchina. Il loro rapporto stava per concludersi. Lei apparteneva a un'altra casa, ad altra gente. «Accidenti» disse Melanie all'improvviso. «La scuola!» Se n'era ricordata alla vista del baule, fino a quel momento non ci aveva pensato neppure, ma sia lei che Jonathon sarebbero dovuti tornare a scuola e Victoria avrebbe dovuto cominciare l'asilo in quel paesino e questa volta in modo democratico, in una classe mista. «Vostro zio Philip si occuperà di tutto» disse la signora Rundle. «Mi raccomando, stai attenta a loro durante il viaggio e compragli caramelle e giornaletti per il treno.» Infilò una mano a pescare tra le boccette di aspirina e le forcine sparse, nonché tra i tubetti di mentine digestive nella borsa a bauletto di finta pelle nera. «Prendi questo» una banconota da una sterlina come regalo di addio. Poi arrivò il loro taxi. Il tassista e poi il controllore alla stazione e gli altri passeggeri che aspettavano sul binario se ne erano accorti, avevano sentito la diversità di quei bambini? E nel vedere le fasce nere sulla manica, avevano forse annuito tristemente, come chi si renda conto e poi sorrida in segno di incoraggiamento e simpatia? Melanie pensò che fosse andata proprio così e si sentì paralizzare al primo alito di compassione, chiamando a raccolta tutte le sue risorse per comportarsi freddamente. Una mammina. «Sono responsabile» pensava mentre erano lì, seduti in treno e Victoria tirava su il sedile della poltrona per vedere che cosa c'era sotto e Jonathon studiava uno schema per il montaggio di una goletta. «Non sono più un essere libero.» Un nero secchio di disperazione si era rovesciato sulla testa di Melanie.
Parte di sé, pensò, era stata uccisa, quella parte tenera che stava per sbocciare; la giovinetta con la ghirlanda di margherite che sarebbe rimasta lì a perseguitare la vecchia casa, ad apparire negli specchi dove il nuovo proprietario avrebbe pensato di vedere riflesso il proprio volto, biancheggiando all'improvviso nelle notti più buie dal cuore spinoso di un albero di mele. Come chi ha appena subito un'amputazione, non era ancora capace di abituarsi a quello che era andato perso e non c'era più, perso come i suoi genitori, i cui brandelli erano sparsi sopra il deserto del Nevada. Un volo di linea interno. Una tempesta imprevista. L'avaria di un motore. Due cittadini britannici tra le vittime. Ci addolora annunciare la morte di un insigne letterato e di sua moglie. Mammina. No, madre. Ora che è morta chiamala con l'onorevole nome di madre. «Madre». Nostra madre e nostro padre sono morti e noi siamo orfani. C'era qualcosa di dignitoso anche nella parola «orfani». Melanie non aveva mai conosciuto un'orfana in vita sua ed ecco che adesso lo era lei stessa. Come Jane Eyre, ma con un fratello e una sorella di cui si doveva occupare perché non avevano più altri che lei al mondo. «Londra, Londra!» gridava Victoria ogni volta che il treno rallentava e si avvicinava a una fermata, un treno bucolico e sonnolento che a volte si arrestava in una stazioncina di campagna con l'erba per il pascolo lungo i binari e altre si fermava in mezzo ai campi, tanto per riposarsi un po'. «Non ci riconosceranno alla stazione di Londra» disse Jonathon all'improvviso. «Non ci hanno mai visti.» «È facile riconoscere tre bambini che viaggiano da soli» disse Melanie. Il treno fu una specie di purgatorio, un tempo di attesa tra quel che era noto e ormai definitivamente alle spalle e il futuro imprevedibile che doveva ancora cominciare. Fu un lungo viaggio. Jonathon osservava dal finestrino un paesaggio diverso da quello che vedeva Melanie. Victoria alla fine si addormentò e non fece caso al lento avvicinarsi di Londra né si svegliò quando il treno finalmente si arrestò sotto le risonanti volte ad arco della stazione. Melanie era tutta indolenzita, contratta e coperta di fuliggine, si sentiva stranamente in preda al freddo e a un vago malessere ma si morse le labbra per farsi forza e raccolse i bagagli di tutti. «Jonathon,» disse «tu pensa a portare Victoria.» Il ragazzino considerò la cosa, stringendo un suo speciale pacchetto. «Preferirei portare il modellino a cui sto lavorando, per evitargli ogni rischio» disse con aria giudiziosa. Melanie si rese conto che non sarebbe
servito a niente discutere con lui. «Allora la porto io e ci prendiamo un facchino.» Victoria era una grossa bambocciona sotto il cui peso le braccia della sorella cedevano. Scontrandosi fatalmente con la folla in movimento, Melanie si guardava intorno sul binario. Non c'erano facchini e poi dov'era lo zio Philip? La sua attenzione fu attratta da due giovani appoggiati a un'insegna che sorbivano tranquillamente un tè da tazze di carta, con gesti lenti e rudi. A colpirla fu la loro immobilità. Tutto intorno a loro si era creata una sorta di atmosfera personale. Anche se dietro avevano una gigantesca bottiglia di birra attraversata da una fascia che a lettere rosse annunciava 'Per uomini veri!', i due vi si sovrapponevano come un roccioso e silenzioso paesaggio campestre in cui tirava sempre un po' di vento umido di pioggia e dove qualche uccello cantava. Erano uomini rudi ma gentili. Erano gente di campagna, ma in un senso diverso da quello di Melanie, anche se lei era appena arrivata dai campi verdi e loro potevano aver sempre vissuto a Londra. Erano fratelli. Chiaramente fratelli anche se diversi in modo impressionante - come due differenti vestiti tagliati da una stessa pezza. Il più giovane doveva avere circa diciannove anni, ed era di pochi centimetri più alto di Melanie, con i capelli lunghi, rosso vivo, sopra il colletto blu scuro di una giacca di taglio militare, con le spalline e i bottoni di ottone. Portava dei calzoni di velluto spelacchiato così stretti da produrre una serie di grinze. Vestiti che sembravano pescati da uno scatolone di quelli per i poveri della parrocchia. La faccia era quella del sempliciotto delle favole, Ivan lo Scemo, con gli zigomi alti e gli occhi a mandorla. L'occhio destro era leggermente strabico, cosa che dava allo sguardo un che di inquietante e obliquo. Respirava con la bocca leggermente aperta, mostrandone il cavo di un rosa intenso. Sembrava sorridere vacuamente, o per un suo scherzo segreto. Si muoveva con straordinaria grazia e morbidezza, portando la tazza alle labbra con gesto veloce e poetico. Il suo compagno era uguale a lui, solo più grande e come impietrito. Più alto, con le spalle più larghe, qualcosa di goffo nella figura e il volto segnato, impassibile. Un uomo con un'aria addolorata e un vestito gessato blu scuro con i calzoni sfilacciati sui risvolti, una camicia beige e marrone del genere che dovrebbe mimetizzare lo sporco. La sua cravatta blu e marrone era attraversata da una spilla a forma di arpa. Dietro l'orecchio teneva una sigaretta mezza fumata, arrotolata a mano, che si andava sfarinando in
pezzetti di carta e fili di tabacco. Bevevano il loro tè senza parlarsi. E se ne stavano muti e immobili nel trambusto della stazione che gli turbinava intorno. Abitavano, impassibili, il loro silenzio. Quando il più giovane ebbe finito il suo tè, lanciò la tazza al di là del tabellone col gesto poetico e circolare di un discobolo, quindi si passò il dorso della mano sulla bocca. Sembrava stesse ispezionando il treno, passandolo in rivista tutto col suo lento, sintetico sguardo in tralice. Aveva gli occhi di un insolito grigioverde. Il suo sguardo color dell'Atlantico passò su Melanie come un'onda e la sommerse, se fosse stata acqua ne sarebbe stata inzuppata. Toccò il braccio dell'altro che all'istante buttò via la sua tazza: insieme si diressero verso di lei. Se il passo del primo era come il vento tra i rami quello dell'altro era il minaccioso inclinarsi di una torre, un incedere assurdo e scoordinato, che a ogni passo minacciava un crollo ingovernabile, per poi scattare rigidamente all'indietro e oscillare sui talloni prima di riprendere il catastrofico passo successivo. Il ragazzo sorrideva e tendeva loro le braccia in segno di benvenuto. L'altro non sorrideva. Melanie aveva capito che erano lì per lei e si avviò. Era delusa di vedere quegli sconosciuti mentre si aspettava di trovare un vecchio col cappello da cowboy e una faccia da foto in bianco e nero. Le tornarono in mente cronache confuse lette sui giornali domenicali in cui si parlava di uomini appostati nelle stazioni principali di Londra per rapire le ragazzine e sfruttarle a scopi immorali. Ma il ragazzo disse: «Tu devi essere Melanie!» Allora sapevano il suo nome, era tutto a posto. La bocca del ragazzo si muoveva ancora, stava continuando a parlare, ma il fischio di un treno in partenza ne sommerse la voce, che era molto sommessa. «Sì sono Melanie.» «Lascia che ti prenda la bambina, Melanie.» Parlava con una leggera ma avvertibile cadenza irlandese. Melanie gli si avvicinò per sentire quello che diceva. Fu ben lieta di cedere Victoria e di sgranchirsi le braccia. Jonathon arrivò dal treno con un facchino carico di tutte le loro cose. «È entrato proprio dentro lo scompartimento dal corridoio e mi ha detto 'Immagino che abbia bisogno di una mano, signore'» spiegò Jonathon e aggiunse stupito: «Mi ha chiamato 'signore', che buffo!» «Questo è Jonathon» disse Melanie «e la pupa è Victoria.» «Mi chiamo Finn» disse il ragazzo «e questo è Francie. Finn e Francie Jowle. Felici di conoscervi.»
Con sconcertante sussiego i due strinsero la mano a Melanie e a Jonathon, anche se Finn, con Victoria in braccio, fu costretto a una serie di equilibrismi. «Ma voi chi siete?» chiese Melanie. «La zia Margaret è nostra sorella» disse Finn. «In un certo senso siamo gli zii.» Fece un ghigno, distratto e volpino, che gli scoprì i denti gialli e storti. «Ma siete irlandesi!» «Per quanto ne so non c'è una legge che lo proibisca» disse Finn con tanta gentilezza che lei si vergognò. Victoria si mosse tra le sue braccia. Lui le parlò e la bimba sprofondò ancora di più nel sonno e nel petto blumarino di Finn. Era una giacca smessa da pompiere, quella che portava. Melanie ebbe un sussulto di sorpresa. Andarono al posteggio dei taxi in disordinata processione. «È molto lontano per andare in taxi ma vostro zio ha dato i soldi a Francie e ha insistito» disse Finn. «Non avrebbe mai affidato i soldi a me, capite» e fece di nuovo quella smorfia. «Avevo una sterlina. Ma ci ho comprato la cioccolata e quella alle nocciole.» «Una sterlina di cioccolata?» «E i giornaletti. Uno che si chiama Venti di mare per Jonathon e poi l'Almanacco di Beano per Victoria. Dovevano stare allegri.» «E comunque sono un sacco di soldi» disse lui. Melanie era schiacciata tra lui e Francie, muto e monolitico. Jonathon era sul sedile ribaltabile di fronte a loro. Londra scorreva sotto i loro occhi ma Melanie non ci faceva caso. «Jowle?» provò a chiedere. «Jowle.» «Non suona molto irlandese come nome» disse. «Forse no, ma così è.» A quel punto tutti tacquero e dopo un po' Melanie cominciò a sentire il loro odore. All'inizio era perplessa, incerta sulla provenienza di quell'odore, non riusciva a capacitarsi che i fratelli fossero così sporchi. Stretta a quel modo, il cattivo odore le riempiva le narici fin quasi a soffocarla. Soffocava per l'odore e per il terrore, poiché prima di allora non era mai stata così vicina a uomini maleodoranti. Da tutti e due veniva uno spaventoso lezzo di non lavato, quasi animalesco. E per di più Finn aveva addosso una puzza di trementina e di vernice, oltre a quella del ghetto della povertà. Il
colletto di Francie poi aveva una riga nera, come il collo. Quello di Finn non lo poteva vedere perché era coperto dai capelli. Tutti i suoi quindici anni di bambina pettinata e strigliata le sfilarono di fronte agli occhi della mente, infinite visioni di bagni e di shampo e biancheria pulita, cortei di vasche piene d'acqua in cui si era immersa ed eserciti di saponette che aveva consumato strofinandosele addosso. Cercò di evocare il ricordo dell'acqua bollente piena di bolle di sapone per proteggersi da quel puzzo nauseabondo, ma non funzionava. Di certo quel viaggio in taxi non sarebbe finito mai e lei non sarebbe più riuscita a respirare aria fresca. Il tassametro inesorabile continuava a ticchettare al ritmo degli scellini. Jonathon per un po' l'aveva osservato entusiasta, come se ammirasse l'impudenza della cifra che avrebbero dovuto pagare. «È ancora molto lontano?» chiese Melanie con voce flebile, soffocata. «È più in là» rispose Finn distrattamente. A che pensava? Il suo profilo era selvaggio ed eccentrico, col naso adunco e gli occhi che ora sembravano incappucciati dalle pesanti palpebre. «Più in là» ripeté Finn. «Comincia a fare buio» disse Melanie, perché la luce sembrava abbandonare le strade e il volto di Jonathon vacillava e si dissolveva in quel lago buio dentro il taxi. «E farà ancora più buio» osservò Finn, con voce improvvisamente più calda. C'era qualcosa di rituale in quello scambio, come se Melanie si fosse imbattuta nella sequenza segreta di parole che l'avrebbe portata sana e salva oltre la lama di ponte nel Castello di Corbenico. Francie voltò la testa imprimendo alla sua bocca sempre serrata il sorriso arcaico di una statuetta greca di terracotta. Dalla giacca smossa emanò una zaffata di muffa. «E tu sai di tua zia?» chiese Finn. «Be', sì, Margaret. Tua sorella.» «Ma ti hanno detto...» e si fermò. I due fratelli si scambiarono nel buio un'occhiata subdola, che fece lampeggiare il bianco dei loro occhi. «È muta» disse Francie, che apriva bocca per la prima volta. Aveva una voce secca e piatta. Poi cominciò a canticchiare un motivo a bocca chiusa, dissociandosi dagli altri, e arrotolandosi una sigaretta con disinvoltura. Non sembrava che avesse bisogno di guardare, per farlo. «Muta?» ripeté Melanie querula. «Non dice una parola» disse Finn «come forse avrai saputo. È un malanno terribile che l'ha colpita il giorno delle nozze, il suo silenzio, come una maledizione.»
Francie, che si stava arrotolando la sigaretta, s'interruppe e aggrottò la fronte, come se suo fratello avesse detto troppo, ma Melanie non se ne accorse. La nuova zia era stata un'ombra nella sua mente, un'evanescente appendice dello zio giocattolaio. Ora aveva preso sostanza, perché aveva una sua caratteristica. Era muta. «Che orrore!» disse sconvolta. «Siamo molto uniti, noi tre» disse Francie. «È giusto che fratelli e sorelle siano uniti.» Il suo tabacco aveva un ricco odore d'erba, l'odore delle cose sane. «È una grande cuoca,» disse Finn, proponendo un'osservazione consolatoria, «fa una pasta frolla...» «Fa spesso il pudding di pane?» chiese Jonathon. «Di rado» rispose Finn dopo averci pensato un momento. «Meno male» disse Jonathon. Dunque doveva aver notato e alla fine anche mal sopportato l'infinita serie di pudding di pane della signora Rundle. Il taxi procedeva arrampicandosi per strade grigie e desolate, con smilzi alberelli autunnali qua e là che perdevano tristemente le loro foglie nella nebbia biancastra sempre più fitta. Era la melanconica, depressa periferia a sud di Londra. «Siamo quasi arrivati» annunciò Finn e Melanie non riuscì a trattenere i singhiozzi. Finn le mise una mano sulle ginocchia e disse dolcemente: «Anche noi viviamo qui da un po' di tempo, da quando sono morti i nostri genitori.» «Allora siamo tutti orfani!» «Sì, nella stessa barca.» «Barca» ripeté Jonathon rapito. Raggiunsero uno spazio aperto, incuneato su un'alta collinetta con al centro una bizzarra costruzione: un bagno pubblico decorato con i tipici ghirigori di ferro battuto vittoriano e con uno stanco sicomoro dal tronco pezzato di bianco, come per una malattia della pelle, che gli si reclinava sopra. C'era un gran numero di negozi bene illuminati. Una frutteria con tappetini di erba artificiale alle finestre e montagnole di arance risplendenti, come tanti piccoli soli invernali intrappolati, e con le mani giunte e macchiate dei caschi di banane, le rose giganti verdi e spiegazzate, che erano poi cavoletti rossi, l'allegro ribes nero, da cuocere a lungo nel vino speziato. Poi c'era la macelleria, dove un uomo coi capelli bianchi e il grembiule blu che portava un cappello di paglia macchiato di sangue si sporgeva per afferrare le salsicce tra due carcasse di agnello su un piano di
marmo. Un negozio di dolci con le sorprese e i dolcetti confezionati nelle scatole con le renne e l'agrifoglio e un Babbo Natale di cartapesta in vetrina, già con le candelette, le stelline e i petardi per il 5 novembre. E poi, altri negozi ancora. Uno di robivecchi dove una donna pallida e consunta sedeva e sferruzzava vicino a un fornelletto a gas, in mezzo a una montagna di cianfrusaglie mezze rotte - caraffe, candelabri, libri, sedie sfondate, tavoli zoppi, un portapane di smalto scrostato pieno di piattini incrinati. Poi c'era un negozio di mobili nuovi con in vetrina un divano e due poltrone ricoperti da una tappezzeria pelosa, vicino a un mobile bar lucido come uno specchio. I negozi erano tutti al piano terra di vecchie e alte case e avevano le insegne vecchio stile con le scritte ricciolute, tranne quello di mobili nuovi che esibiva una sgrammaticata scritta al neon: 'Tutto per l'acasa'. «Va bene qui» disse Finn al tassista quando furono davanti ai bagni pubblici. Francie lo pagò tirando fuori un grosso e unto rotolo di banconote. «Ma dov'è la casa dello zio?» chiese Melanie. «La sua bottega. Abitiamo sopra la bottega. Lassù.» Tra il negozio sbarrato di un gioielliere e un alimentari che esponeva in vetrina una quantità di cereali dorati c'era una bottega cavernosa, così malamente illuminata che a prima vista non la si distingueva neppure dall'edificio sovrastante. Nella caverna si vedevano i contorni indefiniti di un cavallo a dondolo col rosso scarlatto delle froge frementi e burattini di legno vestiti di stoffe dai colori ricchi e scuri, che oscillavano appesi ai loro fili; ma il manto marrone del cavallo e i prugna e porpora dei burattini formavano una sola macchia scura così che alla fine si distingueva assai poco. Sopra la porta c'era un'insegna 'GIOCATTOLI E NOVITÀ DI PHILIP FLOWER', a lettere rosso scuro su fondo cioccolata. Sulla porta, incollato sotto un cartello con la scritta 'APERTO' in corsivo, c'era un biglietto da visita più piccolo con su scritto 'Francis K. Jowle. Violino. Reel e gighe, e altro ancora. Una ventata di Vecchia Irlanda. Quasi sempre libero. Prezzi moderati'. E poi un trifoglio irlandese e una nota scritta a mano, 'chiedere all'interno'. Finn spinse la porta che per un attimo rimase bloccata su uno spesso stuoino, come se non volesse lasciarli entrare. Sulle loro teste risuonò un risentito campanello e un pappagallo rosa acceso, da un trespolo accanto al bancone, volò fino a loro e gracchiò in tono provocatorio. Ma aveva una zampa legata a una catena e presto rinunciò e se ne andò svolazzando. C'e-
ra un lungo bancone di lucido legno bruno rossiccio dietro il quale si accumulavano pile e pile di scatole di cartone, molte delle quali colorate e di strane fogge. Ma la luce era fioca come quella della vetrina, da cui li separava una polverosa tenda di velluto marrone. Nella bottega c'era solo il pappagallo e sul bancone un blocco e un pennarello. «Certo,» pensò Melanie «serve alla zia Margaret per poter vendere le cose; deve scrivere i prezzi visto che è muta.» La parola 'muta' le risuonava continuamente in testa come il rintocco di una campana. «L'uccello lo chiamiamo Joey» disse Finn. «In un certo senso è lui che sta a bottega.» «Niente vendita» gracchiò il pappagallo. Victoria alzò la testa ancora insonnolita e lo osservò con stupore. Stava ancora in braccio a Finn, che non sembrava affaticato. Doveva essere forte malgrado la magrezza. Si aprì una porta e dal retro fiottò una luce così improvvisa e brillante da far male agli occhi. Zia Margaret. La luce che emanava dalla massa di capelli appena fermati in un lento chignon li faceva brillare così tanto che si aveva l'impressione di potercisi scaldare le mani. Era rossa, più rossa ancora di Finn e di Francie. Le sopracciglia erano così rosse che sembravano disegnate apposta con l'inchiostro, ma il viso era pallido come se non circolasse sangue dietro quelle guance e quelle labbra sottili. Era magra da fare pena e gli zigomi alti di famiglia risaltavano forti e scheletrici, mentre le spalle strette spuntavano dal maglione come ali ossute. Era vestita di nero come la signora Rundle - un maglione informe e una gonna inzaccherata, calze nere (una delle quali con un grosso buco sul calcagno) e scarpe nere ormai ridotte a ciabatte, che sbatteva rumorosamente sul pavimento a ogni passo. Con un sorriso nervoso, quasi famelico, aveva spalancato le braccia per accoglierli, come aveva fatto Finn. Finn le mise Victoria tra le braccia e lei sospirò e se la strinse al petto in un abbraccio convulso e inesperto come quello di una donna che non ha avuto i figli che avrebbe desiderato. Melanie si chiese quanti anni avesse, ma era impossibile dirlo. Poteva avere un'età qualunque tra i venticinque e i quarant'anni. «Andate nel retro con la zia» disse Finn a Melanie e a Jonathon. «Io e Francie porteremo le vostre valigie di sopra, nelle stanze.» Nel piccolo salottino del retrobottega un fuoco di carbone, reso ancora più vivo dalle piccole dimensioni della grata di ferro piombato, mandava le sue fiamme gialle su per il camino. Un bollitore elettrico attaccato a una presa nel muro ribolliva su un vassoio di latta con le tazze sistemate tutto
intorno. In un angolo si trovava una grande gabbia di ottone dorato piena di uccelli impagliati dal piumaggio nero lucido, i becchi gialli e gli occhietti penetranti: sembravano incredibilmente veri e per un attimo Melanie pensò che lo fossero. Vi era solo una poltrona di pelle, vecchissima, comoda e mezza sfondata, col coprispalliera all'uncinetto che stava scivolando e un certo numero di sedie con la spalliera dritta e la seduta di vimini intrecciati. Una grande lavagna nera, con sotto un cassettino per i gessi, era inchiodata al muro. Sulla lavagna si leggeva la scritta «Salute a Melanie, Jonathon e Victoria» fatta col gesso bianco e circondata da graziosi svolazzi blu. Melanie sentì un nodo alla gola, era un benvenuto commovente e affettuoso. La zia Margaret prese il gesso e scrisse: «Levatevi i cappotti e mettetevi comodi. Devo badare al negozio perciò rimarremo qui giù per un po'.» Melanie notò che l'indice della donna era rigido per la quantità di gesso di cui era intriso. Sarebbe stata una chiacchierona, se avesse potuto. Poi sistemò Victoria sulla poltrona e si mise a fare il tè. Tirò fuori da una busta dei grandi pasticcini con la crema, due per ognuno dei bambini. «Dopo la prima colazione - salsicce e pancetta - non abbiamo mangiato niente» disse Jonathon. «Naturalmente eravamo a casa.» «A casa» disse Victoria, con le guance impiastrate di crema e di marmellata. «Niente casa ooora» concluse Victoria. Spalancando la bocca su quella dolorosa O e mostrando un ondulato panorama di pastarella alla crema rimasticata. La zia Margaret riprese il gesso, strofinò la lavagna col palmo e scrisse rapidamente: «La vostra casa è questa, ora!» «Non sa leggere» disse Melanie. Victoria piagnucolò e la zia Margaret si guardò attorno in cerca di qualcosa per distrarla. Schizzò nell'angolo dove si trovava la gabbia e tirò una levetta posta alla base. Gli uccellini cominciarono a salterellare su e giù e a cinguettare aprendo e chiudendo il becco. Immediatamente affascinata, Victoria sorrise radiosa mentre sotto gli occhi di tutti la sconsolata «O» si allargava in un sorriso come una gran fetta di cocomero. Mentre gli uccellini continuavano i loro cinguettanti saltelli, lei batteva le manine. La cosa andò avanti per circa due minuti, dopodiché con l'esaurirsi della carica i saltelli si fecero sempre più lenti e pesanti, i cinguettii sempre più deboli. Erano stanchi. Il sorriso di Victoria languì con loro. La zia Margaret tirò di nuovo la levetta e gli uccellini si tirarono su e ricominciarono a saltare vivaci come prima. «Che cosa straordinaria!» disse Melanie. La donna sfrecciò verso la lavagna e scrisse. «L'ha fatto vostro zio.»
«Dev'essere molto bravo.» «Gli è stato commissionato e l'hanno anche già pagato. In verità non dovrei toccarlo» e sulla fronte bianca si formarono rughe di preoccupazione. Anche la zia Margaret sembrava un uccellino con i suoi movimenti convulsi e quel suo modo di scuotere il capo come un passero in cerca di briciole. Un uccello nero con la cresta rossa e incapace di canto. Il pappagallo nella bottega, sentendo il dolce suono meccanico, attaccò a protestare producendosi in una furente tiritera: vibrate sillabe insensate, come mosse dall'ira per la convinzione che i giocattoli si volessero prendere gioco di lui. La casa era ancora piena di uccelli. I fratelli vennero per il tè, sorridendo alla sorella. Non avevano bisogno di parole per comunicare con lei. Margaret accarezzò i capelli scarmigliati di Finn e appoggiò la guancia sul petto di Francie. Si amavano e non ne facevano mistero. Il loro amore era quasi palpabile in quella stanzetta, caldo come il fuoco, forte e rassicurante come il tè dolce. Melanie guardandoli si sentì terribilmente sola e priva d'amore. Ma Finn si andò a sedere accanto a lei e le diede un altro pasticcino alla crema; Melanie lo accettò con piacere, come segno di amicizia, anche se non ne aveva voglia. «Però non ti devi rovinare l'appetito per la cena» le disse lui «perché c'è il pasticcio di coniglio e se c'è una donna che sa fare il pasticcio di coniglio quella è la nostra Margaret, non è vero, Francie?» Francie sorrise col suo sorriso arcaico e la zia Margaret scoppiò in una silenziosa risata. «Mangeremo il coniglio e lasceremo le ossa per il cane» osservò Finn. «C'è un cane? C'è un cane!» esclamò Victoria agitandosi per la gioia. «Ha sempre voluto un cane ma la mamma... nostra madre, non ce lo voleva concedere. Diceva che tutti i bambini vogliono i cani e poi non se ne occupano. Oppure i gatti.» «Be', a questo punto Victoria possiede un cane in comproprietà» disse Finn. Tutti ripresero il tè. Jonathon non sembrava interessato alla casa né alla compagnia. Sedeva con gli occhi fissi sulle grandi onde che spazzavano un atollo corallino in qualche luogo sperduto dell'immenso Oceano Pacifico. Una bottiglia arrivò fino ai suoi piedi, rollando nell'acqua intrappolata tra le rocce. La ruppe per aprirla, c'era dentro un messaggio. Lo lesse sorpreso, gli suggeriva una domanda. Da distanze siderali riemerse per chiedere: «Quando vedremo lo zio?» «Domani» rispose prontamente Finn. «Oggi è dovuto andare via all'im-
provviso e per questo siamo venuti a prendervi io e Francie.» Perché era Finn l'unico a parlare? Be', la zia Margaret non poteva e Francie non voleva. Fu Finn a mostrare le rispettive stanze a Melanie e a Jonathon. Jonathon aveva un'alta soffitta ariosa, appena riverniciata di bianco, con un piccolo letto da campo e una coperta fatta di quadrati lavorati ai ferri e cuciti insieme, come quelle per i rifugiati. Dalla finestra, incappucciata nel tetto, si vedeva una grande valle ondulata, piena di luci, come un'affascinante aiuola cittadina ricolma di fiori che sbocciano di notte. «Durante il giorno puoi vedere Saint Paul» annunciò Finn. «È quasi come la coffa di una nave. Solo che c'è un letto.» Per l'eccitazione il bambino si tolse gli occhiali e li strofinò col fazzoletto usato. Chissà se anche qui avremo tutti i giorni i fazzoletti puliti, si chiese Melanie con apprensione. Jonathon cominciò ad aprire e chiudere gli occhi, infastidito dall'insolito contatto con l'aria. Cominciò subito a disfare le valigie. La stanza gli era piaciuta molto. Lo lasciarono, adesso Melanie era sola con Finn. Lei e Victoria avrebbero dovuto dormire al piano inferiore, in una stanza lunga dal soffitto basso e dalle pareti foderate di carta a grandi rose rosso sangue. Melanie aveva un lucido letto di ottone con sotto un panciuto vaso da notte di ceramica bianca. Il fondo del vaso era coperto di polvere; chiaramente non veniva utilizzato da un bel pezzo e forse era lì per bellezza. Melanie fece voto di non usarlo mai. Per i vestiti c'era un armadio che puzzava di naftalina, poi un cassettone azzurrino con qua e là fiori ritagliati dalle bustine di semi e incollati per decorazione. In una cornice di bambù sopra il caminetto si notava una riproduzione della «Luce del Mondo». Nella stanza non c'erano specchi. Dal soffitto pendeva una lampadina elettrica dentro una lanterna sferica giapponese, blu con una seppia verde che le girava intorno producendo una luce fredda e abbagliante. Sul davanzale della finestra era posato un vaso di gerani rosa ancora in fiore. Le tende erano di percalle bianco e blu. Melanie guardò fuori della finestra e vide, molto più sotto, un piccolo giardino di città cinto da mura e abbandonato, tutto un intrico di cespugli nel buio. «Scusatemi» disse, e aprì il proprio baule per liberare Edward Bear l'orsetto. Si sentiva meglio quando c'era lui sul suo cuscino. Aveva vissuto col suo orsetto per dieci anni. Finn si accese una sigaretta e si appoggiò al cassettone, che si spostò sotto il suo peso. Melanie avrebbe voluto che andasse via.
«Quello sì che è un bell'orso» disse col tono di chi vuole fare conversazione. La sua voce era appena più percettibile del lontano borbottio del traffico londinese che veniva dalla finestra. «Fa parte dei vecchi tempi» rispose lei affondando le mani nella pelliccia morbida dell'orso. «Ma non sei troppo grande per i pelouche, Melanie?» «Ho quindici anni, anzi sedici a gennaio.» «Gennaio. Be' sei una bella ragazza per avere solo sedici anni.» Faceva di nuovo quel suo sorriso a bocca semiaperta. Gli occhi stretti guizzavano e scivolavano come mercurio su un piatto. Melanie intravedeva la punta della sua lingua tra i denti. Fece cadere la cenere della sigaretta sul pavimento. La curva del suo polso era come una corda musicale, perfetta, conclusa. Melanie all'improvviso sentì che faceva fatica a respirare. Sembrava si fosse messo addosso la sua mascolinità come uno sgargiante mantello. Era un leone fulvo pronto a spiccare il balzo - ed era lei, la preda? Le tornò in mente l'amante fatto di libri e di poesie che aveva inventato e sognato tutta l'estate; la sua immagine si appallottolò come la carta di cui era fatta di fronte a questa insolente, disinvolta, terrificante mascolinità, che riempiva la stanza del suo lezzo. Lo odiava ma non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. «Hai dei bei capelli» le disse. «Belli. Neri come la Guinness. Neri come un'ascella etiope.» Melanie pensò che stava allungando la sua nobile zampa, per stuzzicarla pigramente, lui, con quella assurda giacca da pompiere. «Perché ti leghi i capelli in quel modo, e te li tormenti con quelle trecce così strette? Perché, Melanie?» «Perché sì» rispose lei. «Sai bene che non è una risposta. Vuoi cancellare la tua bellezza, piccola. Vieni qui.» Lei non si mosse. Lui sbriciolò la sigaretta sull'infisso della finestra e rise. «Vieni qui» ripeté ancora, dolcemente. E lei ci andò. Le mise le mani sulle spalle e le ispezionò il viso da vicino, annuendo come in segno di approvazione, e cominciò a scioglierle i capelli. Sentendosi andare a fuoco lei trattenne il respiro. Non era mai stata così vicina a un ragazzo prima di allora. L'odore di vernice che lottò con quello del corpo di lui e vinse, era insopportabile. Le smosse la chioma, tirò fuori il pet-
tine dal taschino (un pettine nero con qualche dente rotto e pieno di capelli rossi) e la pettinò. Era concentrato, e Melanie si rese conto che aveva smesso di stuzzicarla. L'atmosfera intorno a lui cambiò, si fece meno tesa, più normale. Ora le stava solo acconciando i capelli, gonfiandoli come un vero parrucchiere. Per ignoti motivi, che le riusciva solo di intuire senza però capirli, Melanie si sentiva profondamente offesa. «Adesso sei carina» disse con tono di approvazione, passandole il palmo della mano sulla testa per darle un ultimo tocco di lucentezza. «Ora possiamo andare a cena e tu sarai la regina del ballo.» Mangiarono nella sala da pranzo carica di troppi mobili pesanti, sul tavolo rotondo di mogano con una tovaglia bianca inamidata. Tra le grandi poltrone e le credenze c'era appena lo spazio sufficiente a muoversi. Sul muro spiccavano macchie di umidità che trapelavano dalla vetusta carta da parati marroncina con un motivo di foglie intrecciate. In una fruttiera di legno sulla credenza si poggiava una sfera di cristallo deformante, da fattucchiera, grande come un pallone da calcio, in mezzo a una silenziosa congregazione di bottiglie di ketchup, di condimenti per l'insalata, la salsa H.P., la Daddies Favourite e lo sciroppo di frutta Okay, tutte striate da rivoletti che si erano seccati lungo i fianchi. La zia Margaret entrò dalla cucina portando una grande torta ovale tutta dorata, avvolta in un appetitoso vapore. Francie pronunciò uno strano ringraziamento. «Carne alla carne. Amen.» Poi mangiarono, col cane sotto il tavolo che poggiava l'umido naso sulle ginocchia di tutti in cerca di bocconcini. Era un bull terrier bianco con gli occhi rosa. «Ha un nome questo cane?» chiese Melanie. «Qualche volta» disse Finn. «È vecchio ormai.» Veder mangiare Finn era come assistere a un balletto, mentre Francie inzuppava il pane nella salsa e rosicchiava vistosamente le ossa. Era un mangiatore rumoroso, quasi volesse fornire un accompagnamento orchestrale a suo fratello. Il cibo era abbondante e delizioso. Sul tavolo c'era sia pane bianco che nero, riccioli del burro migliore, due tipi di marmellata (di fragole e di albicocche) sul tavolo e sulla credenza una torta con l'uvetta, pronta per quando avessero finito il pasticcio. La zia Margaret versò il tè appena fatto da una teiera di terracotta marrone, quella buona, quella della scuola di catechismo domenicale, così pesante da doverla sollevare con entrambe le mani. Bevvero tè molto scuro e ci misero tutti molto zucchero. La zia Margaret presiedeva alla tavola con
gioia pacata, invitandoli a mangiare con l'eloquente mobilità degli occhi e delle mani. I bambini mangiarono con appetito, e quel pasto li calmò. Dev'essere una persona carina se cucina così bene, pensò Melanie. Alla fine, quando il pasticcio finì sulla credenza al posto della torta e tutti ripresero una tazza di tè, il cane, convinto che non ci fossero più avanzi per lui, uscì da sotto il tavolo, si grattò l'orecchio sinistro in piedi su tre zampe, si sgranchì e andò a raspare sulla porta, uggiolando. Finn gli aprì e quello uscì scodinzolando. «Va a farsi un giretto notturno. Un giro dell'isolato, una pipì, un'annusata in tutti gli angoli per sentire che c'è di nuovo. Poi a casa e a letto.» «Come fa a rientrare?» chiese Melanie. Sembrava proprio un cane autosufficiente. «La porta sul retro non è mai chiusa e c'è un vialetto in fondo al giardino. Rientra e basta.» «Ma che succede se qualcuno, uno sconosciuto o un ladro per esempio, entra in casa, visto che lasciate la porta sempre aperta?» «Abbiamo un benvenuto per tutti» disse Francie con una voce che raspava per mancanza d'uso. Anche nella sala da pranzo spiccava una lavagna, sulla quale la zia Margaret scrisse: «La piccola deve andare a letto». E Jonathon voleva lavorare al suo modellino in camera. Ci fu una gran confusione e uno strusciare di sedie. Melanie si offrì di aiutare a lavare i piatti, ma la zia Margaret scosse il capo. Niente faccende per lei, la prima sera. Così Melanie avrebbe potuto tirar fuori un po' di cose dai suoi bagagli e andare a letto presto. Tremava dalla stanchezza e provava un po' di paura per quella gente nuova, soprattutto gli uomini. La zia Margaret entrò nella stanza delle ragazze e spogliò Victoria goffamente, anche se la bambina era perfettamente in grado di farlo da sola. La donna si chinò sulla bimba con un'espressione così materna che Melanie la trovò al tempo stesso commovente e imbarazzante. Scoprì che Margaret si portava sempre appresso un blocchetto e un pennarello. Quando diede un pizzicotto sulle cosce rotondette di Victoria (che si dimenava lanciando gridolini di piacere) scrisse sul blocchetto, perché lo leggesse Melanie: «Che bella pupa paffutella!» «Sì, lo dicono tutti» rispose Melanie. «Ne ha fatti cinque d'anni, non è vero?» scrisse la zia Margaret con un accenno di vezzo dialettale. «Cinque anni e quattro mesi.»
La zia Margaret rimboccò Victoria e rimase china sul lettino per un po', come se avesse voluto cantarle una ninnananna. I capelli rossi erano raccolti alla bell'e meglio in cima al capo, da dove le forcine piovevano come dalla testa della Regina Bianca. Una o due caddero rumorosamente sul lettino. Victoria sospirò e chiuse gli occhi mentre tutto intorno cadevano le forcine come una pioggia di acciaio. «Che meraviglia guardare una bambinetta che dorme!» «Già, suppongo che sia così» disse Melanie, che non aveva nessuna intenzione di portare avanti una lunga conversazione con quella garrula donna muta. Voleva andarsene a letto e abbracciare il suo orso. Le linee nere e svolazzanti della scrittura della zia Margaret cominciarono a slittare e a muoversi su e giù sulla carta, tanto gli occhi della ragazza erano stanchi. La zia Margaret si chinò e impresse un bacio fugace sulla fronte già assopita di Victoria e poi diede a Melanie il bacio della buonanotte, abbracciandola rigida come una bambola di legno. Le braccia sembravano due stecchi inchiodati e la bocca era fredda e secca come la carta. Quel bacio, inibito e con le labbra strette, era in un certo senso disperato, come un'angosciata richiesta d'amore. Quindi schizzò via dalla stanza, lasciando Melanie a toccarsi sorpresa la guancia. Una volta a letto col suo orso, la luce spenta e la notte chiusa fuori dalle tende tirate, Melanie pianse un po' perché non era al calduccio nel suo letto con la testiera di raso e la sopraccoperta a righe. Ma le sue lenzuola nuove profumavano di lavanda, una bottiglia di acqua calda era situata in fondo al letto, avvolta in un pezzo di vecchia coperta in modo da non scottarle la punta dei piedi, e il delicato respiro di Victoria era un buon sonnifero come il ronzare delle api, così si addormentò con le guance rigate dalla traccia delle lacrime. Ma la trama del suo sonno era leggera e luccicante e quando riaprì gli occhi, molto tempo dopo, non le sembrò neppure di aver dormito. Nella stanza il buio si era fatto più fitto e la bottiglia calda si era raffreddata. Si girò con ampio gesto su un fianco, sbadigliando e sentendo il letto di ottone cigolare sotto il suo peso, e nello stato di dormiveglia in cui si trovava le sembrò di sentire della musica. Una radio lontana. Ma era troppo tardi perché fosse una radio. Forse era il vento che cantava battendo sui fili del telegrafo. Ma quello era un rumore da campagna e lei era a Londra, in casa dello zio. Tirò su la testa per ascoltare meglio. Per la casa fluiva il suono flebile di un violino e anche di un altro strumento, un piffero o un flauto. Suonavano insieme, come un unico strumen-
to che sembrava al tempo stesso violino e flauto. Andavano su e giù per la scala musicale come capre selvatiche che saltassero secondo un loro ritmo interiore. Una musica da ballo per qualche intricato, introverso, timido ballerino. Musica in casa. Francis K. Jowle, violino. Ma chi era che suonava il flauto? Forse Finn? La musica finì. Senza veramente arrivare a una conclusione, piuttosto scemando, sfarinandosi nel silenzio, come se i suonatori si fossero annoiati della melodia e se la fossero lasciata scivolare tra le dita senza farci caso. Ci fu una pausa. Poi Francie cominciò a suonare da solo, teneramente, lentamente. Melanie si mise a sedere sul letto. Le sembrava che l'archetto le passasse proprio sulle corde del cuore. Il cuscino rotolò per terra senza che lei ci facesse caso, e altrettanto successe al suo orso. Ma lei si afferrò le mani e le strinse per aiutarsi a sopportare quel glorioso lamento della musica, un lamento per tutte le cose amate, perse e scomparse, l'espressione di un dolore che aveva pensato fosse troppo profondo per potergli dar voce. Fremeva per la pena che le faceva tutto ciò. La musica la tirò fuori dal letto. Voleva sapere da dove veniva. Alzandosi infilò i piedi nelle pantofole e andò a tentoni fino alla porta, l'apri, e seguì le tracce del suono giù per le scale. Due piani sotto il suo c'era la cucina, separata dalla sala da pranzo dal pianerottolo. Le luci erano ancora tutte accese e la musica filtrava dalla porta chiusa. Il volume aumentava sempre più e Melanie avvicinò l'occhio al buco della serratura per spiare quello che le riusciva di vedere. La prima cosa che notò fu il cane bianco, rientrato dalla sua passeggiata, seduto su un tappeto di stracci davanti a una stufa elettrica a due resistenze, che batteva la coda lentamente, ma ritmicamente, tump... tuummp... al ritmo tranquillo, pulsante dell'aria del violino. Era un cane sensibile e musicale. Quella vista la fece subito scendere dall'alto pinnacolo di malinconia e tutto le sembrò in qualche modo più confortevole, al pensiero che condivideva quella musica con un cagnone così saggio e festoso. Melanie cambiò leggermente posizione e il buco della serratura inquadrò la zia Margaret. Era seduta, o accoccolata, su un'alta sedia e sorrideva come un angelo appena sceso dal cielo. I capelli erano sciolti sulle spalle, un cespuglio ardente. Melanie immaginò che doveva averglieli sciolti Finn. Aveva il volto bianco come il latte scremato, un bianco azzurrino contro il rosso fiamma dei capelli. Teneva in grembo un flauto di ebano con i tasti d'argento e lo accarezzava distrattamente mentre ascoltava Francie.
Melanie si mosse di nuovo e vide Francie, come la statua di un violinista che avesse vive solo le mani. Il violino, con una forfora bianca di resina sotto le corde, era incuneato contro il mento. Le sue dita sulle corde aleggiavano come farfalle sulle aiuole in un afoso giorno d'estate. Il suo viso era duro, serio e dignitoso. La musica lenta finì e Melanie sospirò. La zia Margaret posò le mani su quelle di Francie, che abbassò il violino impassibile. Si guardarono scambiandosi un qualche loro muto messaggio. Poi la zia Margaret appoggiò il flauto di traverso sulle labbra, protesa, ansiosa, come se ne avesse fame e sete. Di nuovo un motivo di danza. La coda del cane accelerò il suo ritmo battente fino a sollevare una nuvola di polvere dal tappetino di stracci. Francie fece un largo sorriso e dopo le prime frasi attaccò a suonare con lei. L'archetto vibrava e lampeggiava nell'aria. Adesso Melanie sentì uno strano rumore metallico e si spostò di nuovo per capire cosa fosse. Era Finn che suonava i cucchiai. Melanie non li aveva mai visti suonare. La coppia di cucchiai da dessert messi insieme dorso contro dorso scorreva rapidamente tra le sue dita producendo una strana percussione, uno staccato che però Finn sembrava incapace di produrre per più di qualche minuto. Poi le dita gli si annodavano e i cucchiai si fermavano con un ultimo clangore, dopodiché Finn, scuotendo la testa infuriato, ricominciava tutto da capo. Non era un gran suonatore di cucchiai, questo lo capiva perfino Melanie. S'era tolto la giacca da pompiere e portava solo una maglietta di lana ingiallita col collo alto e le maniche corte, piena di aloni sotto le ascelle. Disgustato dalla propria incompetenza, Finn buttò i cucchiai sul tavolo e si alzò in piedi. I musicisti lo guardarono pieni di attesa. Lui si spostò al centro della stanza e Melanie si accoccolò sulle ginocchia per riuscire a vederlo. Cominciò a ballare. Manteneva tutte le promesse della sua grazia fisica, anche se la sua era una danza stilizzata, senza niente di vistoso. Il suo corpo sembrava stranamente molle, con le braccia abbandonate sui fianchi, mentre tutta la sua personalità sembrava concentrata negli abili, mobilissimi piedi, che disegnavano una sequenza varia e complessa. Non c'era una nota che non fosse commentata dal movimento corrispondente dei suoi eloquenti e vivacissimi piedi. Gli altri suonavano guardandolo e Francie lanciava anche piccoli grugniti di incoraggiamento, mentre la zia Margaret annuiva, con gli occhi che sembravano stelle. E così passavano il tempo e si divertivano quelli coi capelli rossi, quando credevano che nessuno li guardasse.
3 Ma chi avrà piantato questa fitta siepe di rose cremisi, con le loro spine crudeli, tra il lussureggiante fogliame verde scuro? Melanie aprì gli occhi e vide le spine tra le rose, come se si fosse svegliata da una notte durata cent'anni, la bella addormentata nel bosco, imprigionata in un rigoglioso giardino secolare. Ma era solo la nuova carta da parati, cosparsa di rose, anche se prima non aveva notato le spine. E il caro Edward Bear era come sempre sul cuscino, mentre Victoria dormiva a un metro da lei, a pancia sotto, nel suo lettino con le sbarre di legno laccato di bianco. Dalle tende filtrava una luce grigia, incerta. Melanie aveva la punta del naso ghiacchiata per il freddo. Affondò il viso nella pancia calda del suo orso. Il pelo aveva un odore pungente. Si ricordò del giorno prima: «L'ultima cena nella vecchia casa», come in un quadro di genere preraffaellita, i tre orfani e la governante addolorata, seduti attorno al vecchio tavolo tondo, con i vecchi coltelli e le vecchie forchette che non avrebbero mai più visto. Che ne sarebbe stato dei coltelli e delle forchette, chi avrebbe voluto comprare le loro posate? Relitti di acciaio inossidabile alla deriva per le spiagge distratte della vita degli altri. Forse sarebbero finite nella spazzatura. Sedevano intorno al tavolo con la tovaglia a quadretti e i loro piedi risuonavano sul pavimento di mattonelle (la mamma aveva portato quelle mattonelle dalla Spagna) e poi c'era un grande caminetto di mattoni con i finimenti da cavallo di ottone e le pentole di rame, con la caldaia per il riscaldamento al centro, proprio là dove avrebbe dovuto esserci un grande fuoco. Ma non importava. Era una cucina così carina, così all'antica. La mamma una volta era stata fotografata con un grembiule con i volants in cucina, mentre preparava una torta. Era un servizio di una rivista sulle mogli delle celebrità, chi erano e come se la cavavano in casa. Era una cucina deliziosa. La loro ultima cena avrebbe dovuto essere come un sacramento ma Victoria, troppo piccola per i sentimentalismi, si era impiastricciata tutta come un eschimese col grasso delle salsicce. Be', addio a tutto questo. Erano arrivati a Londra e avevano mangiato il pasticcio di coniglio e la giornata era finita in modo insolito, con la musica e il ballo. Finn che ballava con la canottiera macchiata e Francie che suonava il violino come il diavolo in persona, che infatti era violinista, e la zia muta avvolta nel suo manto di capelli di fiamma che suonava il flauto. Oppure l'aveva sognato?
E perché l'avrebbe sognato? Ma se non l'aveva sognato, come era tornata nel suo letto? Ce l'aveva portata Finn? S'immaginò infilata nello stretto e insipido pigiama, avvinghiata al petto giovane e magro di Finn, abbandonata come una bambola di pezza con una parrucca nera in testa. Finn sembrava un po' un satiro. Può essere che sotto i calzoni consunti avesse gambe lanose, gambe ruvide e caprine e i piedi con un simpatico zoccolo fesso. Solo che era troppo sporco per essere un satiro, che presumibilmente doveva lavarsi spesso nei torrenti montani. «Finn ha l'aria di uno di cui non ci si può fidare» pensò. Aveva quegli occhi così mobili, ironici e sfuggenti, e per quel leggero strabismo non si capiva mai bene da che parte stesse guardando. E poi quel suo modo sgradevole di respirare con la bocca. Le ricordava un venditore ambulante di mollette, o uno zingaro che cercasse di piazzare fiori di carta e che poi, alla prima occasione, avrebbe razziato il pollaio, o sedotto le cameriere o rubato la biancheria stesa o tutte e tre le cose insieme. La turbava ma non in modo piacevole. Però almeno era giovane e lei aveva temuto che la casa fosse piena solo di vecchi. La luce sembrava quella tremula dell'alba. Le sarebbe piaciuto dormire ancora ma scoprì che non le riusciva e dunque bisognava alzarsi. Il freddo la colpì attraverso il pigiama. Era abituata ad avere il riscaldamento centrale. Avrebbe dovuto comprarsi un nuovo pigiama bello caldo, con l'inverno alle porte. Se c'erano i soldi per farlo. Ma - e il pensiero l'agitò - ci sarebbero stati soldi per loro, una paglietta per le spese personali, tipo shampo e calze o magari un po' di crema per il viso, o roba simile? Non c'era modo di capirlo. Si mise l'impermeabile sopra il pigiama. La sua vecchia vestaglia di ciniglia si era ritirata al punto da essere ormai inutilizzabile, proprio prima della partenza dei suoi. Tra le tante cose da fare prima della partenza, la mamma non aveva avuto tempo di comprarne una nuova: «Te ne porteremo una super dall'America» le aveva detto. Doveva scoprire come arrivare in bagno e si compiacque con se stessa per essersi ricordata che stava in fondo al corridoio. Sapere dov'era il bagno la faceva sentire meno estranea. La sera prima, troppo stanca per lavarsi, non l'aveva usato. Ora, sentendosi addosso tutto l'appiccicume del treno, pensò di farsi un bagno. Sarebbe stato bello crogiolarsi nell'acqua calda. Ma dal rubinetto del lavandino usciva solo acqua fredda, tenne la mano sotto il getto per un bel po' ma l'acqua non accennava a scaldarsi. Seppur incredula, dovette accettare il fatto che non c'era acqua calda, né per farsi il
bagno né per lavarsi la faccia. Non aveva mai pensato che esistessero ancora case senza l'acqua calda, né che ci potesse vivere un suo parente. E non si vedeva nemmeno una vera saponetta. Schiacciato come un rospo, in un portasapone di porcellana bianca e blu con un disegno a greca, c'era un consunto blocco di sapone da bucato, gialliccio e rasposo e cosparso di impronte nere di mani sporche che l'avevano maneggiato. Sul viso pizzicava e probabilmente corrodeva. Melanie poteva sentire che le corrodeva la faccia. Acqua fredda e sapone da bucato, sarebbe stato così d'ora in avanti. In un'incrinatura della vecchia e profonda vasca a conca s'era insinuato un lungo capello rosso che galleggiava man mano che l'acqua saliva. L'asciugamano era poggiato su un rullo, e cadde, insieme al rullo, quando cercò di asciugarsi le mani. Era a righe, non propriamente immacolato e al tatto era viscido e duro al tempo stesso. Quattro spelacchiati spazzolini da denti, rosa, verde, blu e giallo, erano infilati in un portaspazzolini di plastica tutto incrostato di dentifricio. Su una mensola di vetro sbeccata una dentiera completa ghignava da un bicchiere nebbioso, come lo Stregatto di Alice. Le gengive di plastica erano di un vivace color rosa tramonto. Melanie pensò che dovesse essere dello zio Philip, e quindi che era tornato. In bagno le tubature della cassetta dell'acqua erano a vista. Quando tirò la catena (con un pomello di porcellana con su scritto un imperioso TIRARE) si scatenò un fracasso rauco e metallico capace di svegliare tutta la casa, ma non uscì neppure un rivoletto d'acqua. Ci riprovò. Questa volta alcune riluttanti gocce spruzzarono la superficie stagnante, ma senza turbarla. Rinunciò. Non c'era carta igienica ma solo, appesa a una corda, una mazzetta di fogli del Daily Mirror, approssimativamente ritagliati in tanti quadrati. Dietro il tubo del gabinetto era infilato un Irish Indipendent che qualcuno doveva aver letto durante un attacco di costipazione. Le pareti erano dipinte di verde scuro fino a mezza altezza e da lì in su erano color crema. Era un ambiente stretto e sproporzionatamente alto rispetto al finestrone, con il vetro opalino e la tendina di plastica mezzo strappata col disegno di un pesce di Disney. Non c'erano specchi nel bagno, neppure quello per farsi la barba. Sopra la vasca da bagno, che poggiava su quattro zampe di leone di ottone artigliate e conteneva una pozza d'acqua sporca di unto in cui galleggiava un piccolo sottomarino di plastica di quelli che si trovano nelle scatole dei cereali, stava un grande scaldabagno, le cui parti di metallo erano ormai verdi per gli anni. Melanie si lavò svelta svelta. Quel bagno la deprimeva terribilmente.
«L'ultimo bagno nella vecchia casa» non sarebbe stato un quadro di genere, ma una pubblicità di un catalogo. La brillante porcellana era di un rosa delicato, e rosa erano pure gli asciugamani di morbida spugna e la carta igienica. Il gran getto di acqua calda che scrosciava dai rubinetti a forma di delfino saturava l'aria di vapore e i flaconi di olii da bagno, di acqua di colonia e di dopobagno rilucevano come gioielli. L'acqua del basso water fluiva silenziosa ogni volta che si premeva l'apposito pulsante. Era un tempio dell'igiene. Alla mamma piacevano i bei bagni, sosteneva che erano terribilmente importanti. «Adesso» si disse Melanie bruscamente «non ti mettere a piangere per lo stato del loro bagno.» Ma era dura. Si sforzò di non pensare al vecchio bagno e per estensione a sua madre. Ora però si rendeva conto che tante cose che aveva sempre dato per scontate, cose semplici, carine, confortevoli, erano di fatto grandi lussi. Non c'era da meravigliarsi se non era rimasto niente per i figli; niente eredità, e ora le toccava pulirsi il sedere con i fogli di giornale e arrossarsi le manine ben curate con l'acqua gelida, ora che la gallina dalle uova d'oro era morta. La stanza le sembrava già nota e ci si sentiva sicura. Si mise i calzoni neri e il maglione color cioccolata perché erano le prime cose che le erano capitate sottomano aprendo la prima valigia e anche perché era il tipo di tenuta che avrebbe scelto a casa sua in una giornata d'autunno che si annunciava fredda, con la nebbia sulle colline e il fumo dei caminetti per le stradine e... guardò dalla finestra. Il mattino era umido, anche se non pioveva, e il giorno grigio stava per cominciare. In giardino poche foglie accartocciate e senza vita pendevano dai radi cespugli. Chiazze di spoglia terra bigia comparivano sotto la stenta erba del prato. I rampicanti crescevano sul muro, decidui, e allungavano le loro braccia nude in un complicato reticolo come di filo spinato. In fondo al giardino si apriva una stretta stradina con i secchi della spazzatura, che sbucava sullo squallido retro di una fila di povere case con le finestre chiuse dalle tendine e la biancheria (mutandoni lunghi e canottiere, lenzuola e camicie) rigida nell'aria senza vento, che pendeva da corde fissate con carrucole alle finestre più alte. A mezza altezza sul muro erano poste delle tinozze di latta, come tante lumache giganti fermatesi lì nel lungo viaggio verso la cima. Era quello il territorio nuovo dove lei avrebbe dovuto vivere. Victoria si rigirò nel sonno, tubando al suo sogno. Era fresca e vellutata
come una pesca e dolcemente intrisa del sonno dei bambini, con un fiocco blu tra i capelli scuri e riccioluti. Che ne sarebbe stato di lei, qui? Sarebbe diventata una di quelle ragazzine di strada in giro con le gambe nude e le magliette impataccate e un accento londinese che avrebbe fatto rabbrividire un orecchio educato? E Jonathon? Nella sua tana sotto la grondaia? E lei, Melanie? La casa era immersa nel silenzio. Melanie decise di avventurarsi al piano di sotto, in cucina, dove non era ancora stata. Voleva imparare prima possibile la nuova geografia domestica, scoprire cosa c'era dietro ogni porta, come accendere il gas e dove abitava il cane. Cominciare a sentirsi a casa. In qualche modo, doveva cominciare a sentirsi a casa sua. Non sopportava di essere un'estranea, così aliena e così insicura della sua stessa personalità, come se trovasse difficile perfino riconoscere se stessa in quel nuovo contesto. Scivolò giù per le scale ricoperte di linoleum. La cucina era buia perché le imposte erano chiuse. Si sentiva puzza di fumo e sull'acquaio stavano impilate le tazze da tè da lavare, ma la stanza era straordinariamente pulita. Era un ambiente piuttosto grande, con una credenza incassata marrone scuro, coperta di roba, vasellame, un barattolo di farina e il portapane. C'era un apposito ripostìglio per i viveri. Melanie provò a entrarci e si chiuse la porta alle spalle, sperimentando l'odore freddo di formaggio e di rugiada. Che cosa mangiavano? Una quantità di cibi in scatola: sembrava che andassero pazzi per le pesche sciroppate, ce n'era una pila intera. Poi fagioli in scatola, sardine in scatola. La zia Margaret doveva comprarle all'ingrosso. Vide anche un certo numero di torte in scatola e ne aprì una scoprendo il dolce all'uvetta della sera prima. Prese una delle fette già tagliate e la mangiò. Rubare qualcosa dalla credenza la faceva già sentire più a casa. Tornò in cucina facendo cadere le briciole. C'era una lunga tavola di pino con una tovaglia (decorata da crisantemi color ruggine, quel genere di tovaglie che si intravedono dalla finestra passando davanti alle case della gente all'ora del tè) ripiegata per coprire il vasellame già disposto sulla tavola e pronto per la colazione, forse per evitare che i topi sporcassero le tazze. Era una stanza marrone, come la bottega e i corridoi, tutti verniciati di uno spesso marrone scuro. La carta da parati della cucina era vecchia e marrone e tutta lucida e striata di grasso. Sul muro era appesa un'altra lavagna con la scritta: «Arrivati in orario. Subito a dormire». Lo zio Philip doveva essere tornato così tardi quella notte o così presto al mattino che solo la zia Margaret era in piedi. Melanie cercò di ricostruirne il ritorno,
con la zia Margaret che preparava il tè, lui che le chiedeva notizie dei nuovi arrivi e lei che gli rispondeva nel suo modo. Lui indossava il suo vestito da giocatore d'azzardo del Mississippi, Melanie però non riusciva a metterne bene a fuoco il volto. Una stanza piena delle vite sconosciute di altri. Una bruciatura sulla tovaglia con la sua storia segreta, misteriose lettere mai aperte dietro il piccolo modello di gesso di un pastore tedesco sulla mensola del camino (un brutto camino moderno rivestito di piastrelle beige). Era evidente che non veniva mai usato come camino vero e proprio: là dove avrebbero dovuto esserci i ramoscelli e il carbone ingialliva invece una pila di quotidiani. Sopra era appeso un quadro straordinario. Melanie spalancò le tende per riuscire a vederlo meglio. Era un ritratto del bull terrier bianco, realizzato con una precisione incredibile. Ogni pelo bianco risaltava sulla pelle rosa, come se fosse stato applicato singolarmente con apposita pennellata; era perfino ben visibile la struttura granulosa del naso. Il bull terrier stava accovacciato, in posizione perfettamente frontale, su una zolla d'erba a spazzola e reggeva in bocca un cesto di vimini, di quelli da piccole fioraie, pieno di margherite e garofanini. Sui fiori tremolavano gocce di rugiada. Gli occhi del cane, in realtà frammenti di vetro colorato incollati alla tela, brillavano di una luce innaturale. Dietro s'intravedevano una costa rocciosa e un mare increspato da linee parallele di bianchi, spumeggianti cavalloni sotto un cielo livido e spaventoso, gravido di tempesta e striato dell'arancione del sole al tramonto. Il cane dominava sull'intera stanza e c'era qualcosa di ufficiale in quella presenza, come se si trattasse di un cane da guardia o di una sentinella costantemente sul chi vive dietro ai suoi occhi di vetro, intenta ad aggirarsi intorno al vero cane di casa, col cesto di fiori in bocca nel tentativo di risultare disarmante, un accessorio preso in prestito per dargli un aspetto davvero innocuo. Del cane vero non vi era traccia, salvo che per un piatto da forno pieno d'acqua sul pavimento vicino al lavandino. Evidentemente non stava di guardia. Vicino al ritratto era appeso un orologio a cucii intagliato, con l'edera verde e i grappoli d'uva violacei che crescevano rigogliosi davanti a una porticina anch'essa verde. Mentre Melanie osservava attentamente il cane, la porticina in questione si spalancò con un frullo che la scosse profondamente; l'uccello apparve e fece cucii sette volte. Era un vero cuculo impagliato e con la suoneria incastrata, in qualche modo, dentro il petto piumato. C'erano una fantasia grottesca e una deliberata eccentricità che a Mela-
nie non era mai capitato di incontrare, in quell'idea di orologio a cucii. L'uccello indietreggiò e rientrò nella sua casa dopo di che la porticina si richiuse rumorosamente. Sperò che l'orologio si rompesse e che non le toccasse più vedere quell'uccello. Non le piaceva. Si sentiva afflitta e ridimensionata. Non c'era niente di ordinario, niente di prevedibile salvo le sue due gambe nere e le trecce nere ai due lati della testa. Forse avrebbe potuto fare il tè. La macchina del gas sembrava abbastanza normale, anche se molto vecchia, e aveva l'aria di reggersi regolarmente in piedi sulle sue quattro zampe. Riempì il grande bollitore nero e lo mise sul fornello. Il tè era una buona idea. Avrebbe dovuto portarlo anche alla zia e allo zio a letto? Poteva essere un buon inizio? Ma non sapeva quale delle tante porte del corridoio corrispondesse alla loro stanza. Oppure doveva portare il tè a Francie e Finn, con i capelli rossi di Finn addormentato sparsi sul guanciale bianco, come pane e marmellata? Sentì uno strano tremore allo stomaco al pensiero di Finn, una sensazione mista di paura e piacere. Ma non sapeva nemmeno dove dormisse il ragazzo. Su una mensola vicino alla macchina del gas c'era una scatola di tè decorata da figure cinesi moderne, avvolte in un chimono sullo sfondo di un giardino. Mise il tè nella teiera buona, uno due tre cucchiaini, e poi la riempì per metà facendo le proporzioni a occhio. Quindi si sentirono dei passi per le scale. Melanie rimase immobile con il coperchio della teiera in mano mentre il vapore profumato le saliva verso il viso. I passi superarono la cucina, e proseguirono verso il negozio; pensò che potessero anche svanire del tutto ma poco dopo si fecero udire di nuovo, accompagnati dal rumore sordo e secco di uno zampettio sul linoleum. Finn, con cinque bottiglie di latte e il cane al seguito, entrò in cucina. Melanie si rilassò e finalmente mise il coperchio sulla teiera. «Ciao» disse. «Sei già in piedi» commentò lui tranquillo. Aveva gli occhi ancora cisposi e colmi di sonno e i capelli erano annodati e intricati, decisamente non si era pettinato, quella mattina. Fece un gigantesco sbadiglio, tanto che Melanie poté notare un molare cariato. «Vuoi un tè? Spero di aver fatto bene, voglio dire, a fare il tè...» «Ma certo, a quest'ora... Bidoni di tè e tre cucchiaini di zucchero.» Melanie si chiese che cosa volesse dire con 'a quest'ora'. Non era permesso farsi il tè ad altre ore del giorno? Si accorse che Finn era solo parzialmente vestito. Portava i pantaloni di velluto, ma aveva i piedi nudi e la giacca del pigiama mezza sbottonata rivelava squarci di to-
race bianco come neve. Finn accese la stufa elettrica e si protese in avanti, esponendo le mani al calore delle resistenze che cominciavano a colorarsi di rosso. Melanie distolse lo sguardo dalla sua nudità e gli porse il tè, che Finn accettò riconoscente. Il cane, dopo aver lappato un po' d'acqua, si andò a sedere pesantemente accanto al ragazzo, con gli occhi pensosi rivolti al proprio ritratto, come se ne stesse dando una valutazione critica, o come in una silenziosa comunione spirituale con la bestia dipinta. Finn cercò le sigarette tastandosi le tasche del pigiama. Melanie si scottò la bocca con il tè bollente. Le tazze erano decorate da un motivo di salici, banale ma familiare. «Me ne dai ancora un po'?» chiese lui passandole la tazza. Ma come faceva a bere il tè bollente così in fretta? «Niente di meglio di una tazza di tè per svegliarsi al mattino.» Accanto a luì Melanie sentiva acutamente le sue mani impacciate e le gambe troppo lunghe che, per quanto ci provasse, non riusciva ad atteggiare con eleganza. Ma almeno non aveva gli occhi storti, mentre lo strabismo di lui sembrava ancora più visibile di giorno, come se il sonno lo avesse accentuato. «Ti sei di nuovo legata i capelli» disse Finn come per caso. «È più pratico» rispose lei arrossendo leggermente. «Ah, va bene» mormorò stropicciandosi gli occhi per tirare via il sonno che ancora li invadeva. Poi guardò Melanie con attenzione e disse con forza: «No! Non li puoi portare!» «Che cosa?» «I calzoni. È una delle manie di tuo zio Philip. Non sopporta le donne con i pantaloni. Non fa entrare donne coi pantaloni nel suo negozio e se una entra e lui se ne accorge la caccia via come una puttana. È terribile, a volte. Ti rendi conto che sei un affronto vivente per lui, Melanie?» «So che è tornato, ho visto i suoi denti finti nel bagno.» «Melanie, mi faresti il favore di correre su e metterti una gonna? Sennò ti butta fuori!» Incredula, si guardò le gambe. Erano coperte, e lei era vestita in modo decoroso. Forse Finn scherzava. «Te ne prego!» la scongiurò Finn, implorante. «Be'» concluse Melanie, anche se le sembrava assurdo. «Immagino che tu lo conosca meglio di me.» «Sì, lo conosco meglio di te.» Melanie si soffermò con la mano appoggiata alla maniglia della porta.
«C'è altro che è bene che io sappia di lui?» «Ricordati, niente trucco. E parla solo se ti rivolgono la parola. Sai, a lui piacciono le donne silenziose.» Melanie guardò la lavagna. «Sì» disse. Finn si alzò con mossa coreografica e si riempì la tazza per la terza volta. Il suo torace emerse dal pigiama sbottonato come la prua di una barca che cavalchi le onde. Aveva una carnagione di bianco velluto dalla lucentezza appena smorzata e i suoi capezzoli erano rosa come il pappagallino, ma riempiva la stanza col tanfo di sonno e sudore e Melanie avrebbe voluto che non respirasse a bocca aperta. Osservò le piante dei piedi: nere e granulose di sporcizia. «Corri a toglierti quei calzoni, Melanie.» Lei salì e tirò fuori dalla valigia una gonna grigia a pieghe e ci s'infilò dentro. Era una gonna da collegiale, molto innocente. D'istinto si sciolse i capelli e li scosse, li sentì frusciare intorno alle orecchie come le succedeva prima del lutto. Victoria non sembrava intenzionata a svegliarsi. Tornò in cucina. Finn, seduto sulla tavola, leggeva un vecchio giornale e sgranocchiava pezzetti di pane secco staccati da una pagnotta nella cui crosta le sue dita avevano lasciato impronte grigie. Il cane ringhiava preoccupato di fronte a una montagnola di spezzatino di carne di cavallo dentro una ciotola di coccio con su scritto «Cane». «Così va meglio» disse Finn annuendo in segno di approvazione. Chissà se aveva notato anche i capelli? «Prendi un po' di pane.» Così mangiarono insieme il pane mentre lui leggeva il giornale. Il cucù suonò la mezz'ora e Melanie fece un salto. «L'ha fatto tuo zio quell'orologio.» «Accidenti!» «Non hai idea della quantità di cose che sa fare, Melanie!» «Una volta mi aveva regalato una scatola a sorpresa fatta da lui col pupazzo che salta su, ma mi spaventava.» «Naturalmente sai delle bambole e dei cavallucci e delle casette e di tutto il resto?» «No» disse lei. «È un maestro» sentenziò Finn. «Non ci sono artigiani alla sua altezza per queste cose. A modo suo è un genio e sa di esserlo.» Poi rifletté: «Ti piacerebbe vedere qualcosa di quello che fa? Ora è il momento giusto. Prima che la casa si svegli. L'unico momento per vederle.»
«Perché?» «È fatto così. Non gli piace essere controllato. Soprattutto per il teatro. Quello che vuole tenere solo per sé è soprattutto il teatro.» «Il teatro? Che genere di teatro?» «Quello per i burattini e le loro rappresentazioni. Ma nessuno sa dei burattini. Non sono in vendita, sono il suo hobby.» C'erano tracce di rosso d'uovo, secco, sul davanti della camicia, e i polsini erano grigi e sfilacciati. Aveva i denti gialli per il fumo, come Francie. Accese un'altra sigaretta, una Sweet Afton, con l'immagine di Robert Burns sul pacchetto. Il cane, finita la colazione, sì era sdraiato con un sospiro sul tappetino di stracci e il fuoco gli colorava i fianchi di arancione. «Chi ha dipinto il ritratto del cane?» «Io.» «È molto... molto somigliante.» «Un cane è un cane» disse Finn, alzando le spalle. «Dipingo i suoi burattini, le sue scene e i suoi giocattoli. Cioè, alcuni dei suoi giocattoli.» «Che altro fai?» «Imparo il mestiere. Sono l'apprendista di tuo zio, Melanie.» Saltò giù dal tavolo. «Dài, vieni a vedere!» Non le piaceva il modo che aveva di chiamarla continuamente per nome. C'era un'intonazione canzonatoria sulle tre sillabe liquide, come se trovasse buffo quel 'Melanie'. Comunque era curiosa e lo seguì. Il cane aprì un occhio pigro con cui li accompagnò fino alla porta. Finn camminava producendo un rumore scivoloso con i piedi nudi e lerci. Le unghie dei piedi erano ricurve, come le corna di una capra, e le ricordarono lo zoccolo fesso che gli aveva immaginato addosso. Unghie che avrebbero spuntato un coltello e che forse non venivano tagliate da mesi o addirittura da anni. Finn aprì la porta della bottega al piano terra. Il negozio s'intravedeva appena con le sue imposte chiuse, e il pappagallino sonnecchiava. «Prima guardiamo una o due cose di quelle in vendita però» disse Finn e accese la luce. «Buono Joey» intimò al pappagallino che si stava svegliando e schiamazzava. «Tuo zio lavora sia il legno che certi tipi di metallo» spiegò. Parlava con la sua voce bassa e inespressiva. «Che ne pensi di questo?» Prese una scatola di cartone da cui estrasse un giocattolo formato da due scimmie dal lucido pelo marrone e con occhi fatti usando bottoni da stivali. Una scimmia portava un vestito gessato, in miniatura, perfettamente realizzato, e l'altra un vestito nero altrettanto ben fatto. Il maschio aveva un
violino e la femmina un flauto di latta, stavano su un palco anch'esso di latta, smaltato di rosso. Melanie provò una fitta di imbarazzo. Sorridendo vagamente Finn azionò una leva e le braccia pelose si mossero. L'archetto di latta si mosse sulle corde e il flauto di latta fece avanti e indietro sulla bocca pelosa. Da un carillon inserito nella base usciva una flebile, chiara parodia della musica della notte prima e le scimmie battevano i piedi a tempo. «È una giga» spiegò di nuovo Finn. «Si chiama 'La strada sassosa per Dublino'. Quella dove vorrei essere adesso.» Melanie osservò le scìmmie in silenzio. Alla fine la carica si esaurì e il pappagallo urlò «Niente vendita! Niente vendita!» «È una buona serie» disse Finn. «Vende bene. C'è anche una scimmia che balla con i campanelli sulle caviglie. Campanelli.» «Ho sentito la musica la notte scorsa.» «Sono stato io a riportarti a letto. Ti abbiamo trovata solo alla fine, stavi raggomitolata davanti alla porta della cucina. È stato molto commovente vederti lì in quel modo.» «Mi ero chiesta come avevo fatto a tornare a letto.» «Non sottovalutare tuo zio» disse Finn, liquidando il discorso sulla notte precedente. «Fa anche cose romantiche. Liriche.» E tirò giù un'altra scatola con dentro una rosa. «Una rosa bianca» disse Melanie trattenendo il respiro. «Che succede?» «Oh, niente.» Quando l'ebbe caricata i petali rigidi (tela inamidata, cartone, sottili trucioli di legno?) si curvarono in fuori teneramente, rivelando all'interno una gentile pastorella non più alta della manina di un bambino. Un leggero suono proveniva dal cuore della rosa. E la pastorella cominciò a ballare e a fare piroette prima su una gamba e poi sull'altra per concludere infine con una riverenza. Dopodiché i petali le si richiusero sul capo e il suono cessò. «La chiamiamo 'Coppa di Rosa con Sorpresa'» disse Finn. Tirò fuori un pacchetto di gomme americane dalla tasca, ne scartò una e se la mise in bocca. «Dieci ghinee. E convinto che sia meravigliosa.» Fece un palloncino con la gomma americana, che esplose come una scoreggia. «È geniale» disse Melanie incerta, insicura della sua stessa reazione. «È sciocco ma vende» rispose lui e la mise via. «Questo è meglio. L'idea di questo è mia.» E le mostrò un orso giallo con una cravatta a farfalla, che andava in bici-
cletta. Pedalava intorno al bancone suonando il campanello della bicicletta a intervalli. Procedeva in modo irregolare. Una sterzata particolarmente brusca lo fece cadere dal bancone e Finn lo riprese a mezz'aria, rovesciato e con le ruote che ancora giravano. Era un giocattolo così geniale e carino che Melanie rise e allungò la mano per prenderlo e caricarlo a sua volta. «Sono contento che ti diverti» disse Finn. «Pensavo che non ti interessasse. Ma puoi vedere il negozio in qualunque momento. Adesso scendiamo prima che si faccia troppo tardi.» Così scesero in cantina, una stanza lunga e dipinta a calce che correva per tutta la lunghezza della casa. Una finestra a un'estremità guardava in un pozzo per il carbone e un po' di luce del giorno filtrava di sbieco attraverso una grata di ferro che dava sul lastricato sovrastante. Si sentiva l'odore pulito e dolce del legno nuovo e quello acre della pittura fresca. Sotto i piedi scricchiolavano i trucioli. Lungo una parete vi era un tavolo da falegname coperto da una specie di fabbrica di gambe di legno da notte di Walpurga di arti staccati e intagliati. Lungo l'altro muro un altro tavolo da pittore spruzzato di tutti i colori dell'arcobaleno. Al muro erano appese scatole a molla, orsi che ballano e arlecchini che fanno le capriole. E anche burattini solo parzialmente montati di ogni misura, alcuni alti quasi come Melanie; burattini ciechi, altri senza braccia, altri ancora senza gambe, alcuni nudi, altri vestiti, tutti penzolavano dai loro ganci come animati da una strana vitalità. Sulle pareti poi vi erano anche maschere, di tutti i tipi e di ogni colore - rosa e viola fluorescenti striati di blu scuro e d'oro. Finn si mise una maschera e si trasformò in Mefistofele, con tanto di baffi e folte sopracciglia e barbetta a punta su una faccia ringhiosa, chiazzata di rosso e di giallo. «Sono peli veri» disse toccandosi la barba. «Vendiamo roba di qualità.» La stanza era illuminata da tubi al neon che non producevano ombre. Tende rosse di velluto cadevano a terra da una grande costruzione simile a una scatola all'estremità della stanza. Finn, mascherato, avanzò e tirò una corda. Le tende si aprirono, raccogliendosi a festone da entrambi i lati di un piccolo palcoscenico, su cui era riprodotta una caverna in una silente terra boschiva carica di attesa, con rocce di cartone. Per terra, a faccia in giù tra un garbuglio di corde, era disteso un burattino alto più di un metro e mezzo, una silfide in una fontana di tulle bianco, gettata a terra come se qualcuno si fosse stancato di lei mentre la stava manovrando e l'avesse lasciata cadere, per poi andarsene via. Aveva i capelli lunghi e neri che le arrivavano fino alla vita dello stretto corpetto di raso.
«È troppo!» disse Melanie, agitata. «C'è troppa roba!» «Ah, ma ancora non hai visto niente!» Melanie non riusciva a guardare quella bambola caduta, vestita di raso bianco e tulle. «Non mi piace il teatro, ti prego Finn, chiudi le tende, fallo per me.» Riluttante, Finn tirò di nuovo la corda e grazie a dio le tende rosse calarono sulla silfide abbandonata. «Sai, il teatro dei burattini è il suo preferito. In un certo senso. O piuttosto la sua ossessione. Dovresti vedere le scene che crea! E qualche volta mi lascia manovrare i fili. Quello è un gran giorno per me.» La sua voce sembrava accarezzare le parole con un'inflessione ironica. «È troppo» ripeté lei. Quel folle mondo le vorticava attorno, uomini e donne resi piccoli e insignificanti da giocattoli e burattini. Un mondo dove perfino gli uccelli erano meccanici e le poche figure umane andavano in giro mascherate e suonavano strumenti musicali durante le ore piccole e terribili della notte nella quale era di nuovo piombata. Era di nuovo in piena notte, e la bambola altri non era che lei. Le tremarono le labbra. Finn si rese conto dell'agitazione di lei e gli angoli della sua bocca semiaperta si piegarono in basso, per simpatia, come una mezzaluna rovesciata. Con grande sgomento e stupore di Melanie, si precipitò immediatamente a fare una serie di capriole per la stanza, trasformando la sua figura diabolica in quella di un saltellante buffone preso in una spumeggiante girandola che lasciava intravedere solo braccia e gambe, per poi approdare a testa in giù di fronte a lei, con la sua finta faccia al contrario oscurata da capelli veri come da quelli finti che gli coprivano le guance in cartapesta. «Dai, ridi, sto cercando di divertirti!» le disse. E agitò i calcagni lerci nell'aria. «Voglio andare a casa» si lamentò lei disperata, cupa come un giorno di novembre. Si coprì la faccia con le mani. Sentiva l'odore di lui, così vicino, un odore come di volpe. Lentamente Finn si tirò su e si tolse la maschera, anche se lei non poteva vedere il suo viso perché non guardava. «Ci ha portato la monaca» disse. «A me e a Francie, con i nostri vestiti migliori inamidati e le scarpe nuove che scricchiolavano. È venuta con noi dall'orfanotrofio dove stavamo - duecento teste per duecento letti e duecento cuori infranti sotto duecento coperte militari avanzate - e le buone suore che si occupavano di noi. Ci ha fatto attraversare il canale d'Irlanda fidando in Dio, ma Dio decise che avrebbe dovuto soffrire di mal di mare e lei rigettò anche l'anima nel Canale di San Giorgio, poveretta, con Francie che
piangeva perché aveva chiuso gli occhi della mamma, visto che non c'era nessun altro per farlo. Allora aveva solo quattordici anni ed era già un portento con il violino, ma non riusciva a levarsi quelle palpebre dalla memoria delle mani. Come petali di ninfee, continuava a dire. Bianche e umide, ma morte.» «Finn, smettila.» Si sentiva spuntare le lacrime, ma quelle lacrime sorprendentemente non erano per sé ma per Finn e Francie, per ciò che era accaduto tanto tempo fa, soprattutto a Francie. Finn spalancò le braccia per accoglierla ma lei teneva ancora i pugni sugli occhi per rimandare indietro le lacrime. Poi ci fu un gran frastuono dal piano di sopra. Lui scrollò le spalle. Lo faceva sempre. «Stanno suonando il gong della colazione, dobbiamo correre. Starai meglio dopo aver bevuto e mangiato qualcosa e poi non conviene arrivare tardi a tavola, in questa casa.» In cima alle scale sul pianerottolo che dava sulla cucina li sovrastava una figura immensa, impressionante, di un uomo. Aveva la luce alle spalle e Melanie non riusciva a vederne il viso, anche perché Finn la precedeva lungo le scale. Ma sembrava che l'uomo avesse in mano un orologio a cipolla e che lo stesse fissando con furore. Mormorava tra sé. All'improvviso si accesero le luci delle scale e il borbottio divenne un ruggito. «Tre minuti di ritardo! E arrivi pure ballando con addosso i tuoi stracci fetidi, come se niente fosse! Credi che tenga una pensione per sporchi capelloni? È questo che faccio? Questo credi?» E lanciò un gran colpo sulla testa di Finn che vacillò e quasi cadde, afferrandosi al corrimano per sostenersi. Traballando Finn cominciò a ridere. «Melanie, ecco lo zio Philip!» Ma lei l'aveva già riconosciuto dalla fotografia, anche se era enormemente ingrassato. Lui la ignorò completamente e afferrò invece la giacca del pigiama di Finn cercando di tirarlo da dietro. Ci fu una brutta zuffa e Finn, sgusciando avanti e indietro come un'anguilla, un'anguilla ridens, poiché continuava a sghignazzare, schivò il braccio dello zio Philip e da un attaccapanni sul pianerottolo afferrò la sua giacca blu che abbottonò velocemente fino al collo. «Quel che occhio non vede» disse senza fiato. «Il porridge si raffredda» intimò lo zio Philip. «Si raffredda perché tu sei in ritardo! Se c'è una cosa che mi dà la nausea è il porridge freddo. Oltre a voi Jowles» aggiunse. «Oltre a voi Jowles.» Ma si era considerevolmente rabbonito ora che Finn si era coperto. Sul-
l'attaccapanni Melanie vide un cappello piatto e nero col bordo ondulato come quelli dei giocatori d'azzardo del Mississippi nei film western. Con gli anni aveva perso gran parte del pelo e acquisito una patina, come quella di una vecchissima monetina da un penny. Quel cappello avrebbe potuto essere solo dello zio Philip. 4 Tutti gli altri pasti (fatta eccezione per una tazza di tè o un leggero spuntino) erano consumati nella sala da pranzo, che però non aveva mai perso quel suo odore di muffa e di chiuso, malgrado le continue occasioni in cui veniva usata. Solo la colazione faceva eccezione. E si teneva sempre in cucina, anche se Melanie non riusciva a capirne la ragione. In quella cucina Jonathon e Victoria, con i visi rossi e brillanti per il contatto con l'acqua fredda, sedevano davanti a ciotole di porridge intatte. La zia Margaret doveva essersi occupata di svegliarli e farli lavare. La zia indicò a Melanie la sedia accanto a quella di Victoria con un gesto nervoso del braccio magro. Portava uno sporco grembiule scuro, di cotone stampato, chiuso sulle spalle da esili cordicelle e che calava storto sulla gonna e il golf nero. Sembrava agitata e aveva i capelli in disordine come se li avesse tirati su e fissati con le forcine nel sonno. Victoria aveva il bavaglino con le rane verdi e sembrava affascinata dall'atmosfera cerimoniosa che circondava quel pasto: il gong e la scenata; perché, grazie a Dio, sembrava insolitamente silenziosa. Melanie non avrebbe sopportato una Victoria tutta risatine e filastrocche a colazione e lo zio Philip forse l'avrebbe addirittura picchiata, cosa che sarebbe stata spaventosa. I due fratelli Jowles sedevano di fronte a Melanie e a Victoria, come in un dipinto edificante che volesse mettere in contrasto ordine e pulizia con trasandatezza fisica e morale, perché Francie era già punitivamente vestito di tutto punto, con un completo immacolato e una cravatta nuova, verde, fermata ora da una nuova spilla, una piccola spada. A capotavola c'era una grande poltrona con i braccioli dove sedeva lo zio Philip, come su una cattedra, per presiedere la colazione e il cestino di pane a fette, col barattolo di marmellata di arance che era a forma di arancia ed era tutto appiccicoso. La zia Margaret se ne stava piegata ai piedi del tavolo con un occhio al bollitore per controllare la temperatura dell'acqua. Anche questa volta fu pronunciato un ringraziamento, meno strano di quello di Francie, ma comunque troncato a metà.
«Per quello che stiamo per ricevere» disse lo zio Philip, e si fermò lì. Poi prese il cucchiaio. Era un segnale. Come di comune accordo, tutti attaccarono il porridge. Il latte in una brocca marrone, una scelta di zucchero o sciroppo d'acero ancora nella sua lattina verde e oro. Finn monopolizzò lo sciroppo dorato e con quello cominciò a tracciare merletti ecclesiastici nella sua ciotola, sognante, senza mangiare. Silenzio totale, salvo che per la gamma sinfonica del rumoroso masticare e deglutire con cui Francie accompagnava il porridge. Finn continuava a fare sottili ghirigori di merletto mentre le altre ciotole si vuotavano. Il tempo passava. Lo zio Philip fulminava Finn con sguardi di Medusa sotto le folte sopracciglia. «Finn» disse alla fine, con voce terribile. «Sì, signore?» rispose Finn immediatamente, con un largo sorriso. Perché tutti quei sorrisi che gli mettevano in mostra i denti macchiati? «Smettila di giocare col cibo, dannazione!» «Stavo solo disegnando.» «Smettila di giocare col cibo, sennò...» La zia Margaret tremò e chiuse gli occhi, con un sospiro. Finn spazzolò il suo porridge a una velocità impressionante. Si sarebbe detto che se lo fosse infilato in tasca, invece di mangiarlo. Grazie al porridge che aveva fatto concentrare l'attenzione di tutti su Finn, Melanie osò finalmente posare gli occhi sullo zio Philip. Le sue dimensioni la impressionavano, considerando com'era magro al matrimonio della mamma. E poi quanti anni aveva? Era più vecchio della zia Margaret, non c'era dubbio, più vecchio, ma di quanto? Aveva i capelli da vecchio ma non bianchi, piuttosto erano giallastri, come l'argento appannato, ma setosi e lucidi e pettinati da una parte con la scriminatura a sinistra. Una gran massa di capelli curata con notevole vanità. I suoi ispidi baffi da tricheco erano di un colore più intenso, screziati di grigio ferro e marroni, bagnati sulle punte che pescavano dentro la sua tazza speciale da una pinta con la scritta «Papà» tratteggiata da boccioli di rosa. I baffi lo facevano somigliare a un non benevolo Albert Schweitzer. La tazza era giusta quanto a dimensioni ma sbagliata per la decorazione, troppo ricercata per la sua manona nodosa, ruvida, piena di cicatrici e di macchie accumulate in anni di lavoro col legno e le vernici. Melanie pensò che non le sarebbe piaciuto tenerlo per mano. Le sopracciglia sembravano scarafaggi, simili a quelle della maschera di Mefistofele, e coprivano occhi incolori, come una giornata di pioggia.
Portava una camicia troppo bianca con un colletto a punta, inamidato e lucido come il vetro, e una cravatta a cordicella che forse non si era più tolto da quando s'era sposata la sorella. Sedeva in tutta la sua patriarcale maestà in maniche di camicia con l'ampio gilet nero (il cui retro lucido era percorso da lunghe linee opache) allacciato da un'impressionante catena d'oro di quelle predilette dai padroni delle miniere vittoriani. Se nei pozzi fosse successo qualcosa, gli sarebbe importato poco. Sotto il mento portava un'enorme salvietta di lino bianco. La sua autorità era soffocante. La zia Margaret, fragile come un fiore secco, sembrava così intimorita dalla sua presenza che nemmeno osava guardarlo. Aveva preso la più piccola porzione di porridge immaginabile, una porzione da uccellino, di cui andava becchettando le briciole dai bordi del cucchiaio, cosicché era anche la più lenta a mangiare. Non aveva ancora finito quando il cucchiaio dello zio Philip risuonò nella ciotola vuota. «Finn cambia i piatti! Svelto!» La zia Margaret, lasciando il suo porridge, saltò su e corse ad aprire il forno da cui prese a tirare fuori, una dopo l'altra, una quantità di scodelle di pancetta e pane fritto, ma Finn intanto si stiracchiava tranquillo, sbadigliando - uno sbadiglio decisamente esagerato a bella posta - e mostrando la gola, come un tunnel rosso fiamma. Lo zio Philip lo guardava torvo. «Stai forse cercando di irritarmi, giovanotto?» Finn ritirò i piatti. Passando dietro le larghe spalle dello zio Philip con una torre pendente di stoviglie in mano fece un rapido balletto buffonesco che il vecchio non poteva vedere. Nessun altro parlò o si mosse. La colazione continuò con la pancetta e poi la marmellata, nello stesso silenzio oppressivo con cui era cominciata. Durante la settimana, per colazione, pranzo e cena usavano le tazze con i disegni che avevano in grande abbondanza anche se c'erano alcuni semplici tazzoni bianchi di quelli dell'esercito che Finn e Francie di tanto in tanto usavano per il cacao o il latte caldo di sera. Di domenica si usava invece il servizio completo con il piatto per le verdure e la zuppiera di porcellana fine, bianca, con una fascia verde sul bordo. La zia Margaret ne andava fiera. Era il servizio buono di sua madre, in Irlanda. Quel servizio di porcellana aveva fissa dimora nella camera da pranzo, dentro una credenza dalla quale usciva solo per andare in cucina ed essere scaldato in forno prima del pasto e lavato subito dopo. Più tardi Melanie avrebbe cominciato a contare mentalmente il passare delle settimane in base alla comparsa dei piatti con la fascia verde. «Ecco, è di nuovo domenica.» E il lunedì avrebbe guardato
il ponticello sul suo piatto col disegno dei salici e desiderava intensamente di poter correre su quel ponte, lontano dalla casa dello zio Philip, fino al luogo degli alberi in fiore. Ma quella prima mattina non immaginava certo che sarebbe andata così. «Per quello che abbiamo ricevuto» disse lo zio Philip. Lasciò cadere la salvietta nel piatto, spinse indietro la sedia ed esclamò: «Finn, renditi presentabile e scendi giù immediatamente!» La porta si richiuse sbattendo alle sue spalle. La stanza sembrò improvvisamente più luminosa. Finn sorrideva mentre con Francie accendeva le sigarette ed entrambi facevano dondolare le sedie sulle gambe posteriori. La zia Margaret mise il bollitore sul fuoco con l'acqua per lavare i piatti. Non c'era acqua calda nemmeno in cucina. I bambini si strinsero tra loro e i piccoli afferrarono ciascuno una mano di Melanie, perfino Jonathon. Victoria tirò su col naso rumorosamente e sul viso della zia Margaret si dipinse un'espressione agonizzante. «Can che abbaia non morde» scrisse col gesso sulla lavagna. Come eseguendo gli ordini di un regista invisibile, il cane abbaiò. «Non ci ha neppure chiesto come ci chiamiamo» disse Jonathon, vagamente stupito. «Li sa i vostri nomi» ricordò Finn gentilmente. «Non faresti bene a prepararti?» gli chiese Melanie. «Prima mi devo lavare, no? E farmi la barba.» «È ollibile!» balbettò Victoria, con un'illuminazione improvvisa a proposito dello zio Philip. Le erre che aveva da poco imparato a pronunciare scomparivano del tutto quando era agitata. La zia Margaret, accorata, la prese in braccio e cominciò a coccolarla. «Non è abituata alle voci dure» spiegò Melanie. «Le toccherà abituarsi, allora» disse Finn, grattandosi un'ascella. Melanie, dopo aver lavato i piatti, doveva stare con la zia nella bottega, quel giorno, per imparare i prezzi e la sistemazione della merce. Victoria poteva stare lì con loro a giocare per conto suo. Era una prospettiva domestica. Jonathon, libero di fare quello che voleva, chiese e ottenne il permesso di andare a lavorare alla sua nave. «Jonathon è bravo con le mani» disse Melanie. «Questo farà molto piacere a tuo zio» commentò Finn, venuto a mendicare un po' d'acqua calda per farsi la barba. «Potrebbe costruire uno o due burattini insieme a noi.» «La scuola...» disse Melanie bisbigliando, mentre asciugava una forchet-
ta. «Ah,» disse lui «è già troppo tardi per cominciare la scuola, adesso.» Francie, ancora a tavola con la sigaretta, rise producendo un rumore da macinacaffè, e la zia Margaret, con la saponata fino ai gomiti, si girò allarmata mettendosi il dito sulle labbra. «Lui non ci sente, Maggie» disse Finn, cingendo da dietro la vita della sorella. «Non ti preoccupare» continuò. Lei si abbandonò al suo abbraccio e Finn la baciò sul collo, dove ciocche di capelli rossi scendevano sconsolate dallo chignon. Melanie intervenne, separandosi però dalla loro intimità mettendo le forchette ordinatamente nel cassetto, dove stavano tutte le altre. Poi asciugò e ripose i coltelli e anche i cucchiai. Era una bambola con la carica, fatta apposta per mettere via le cose, ed eseguiva i movimenti per i quali era stata programmata. Forse lo zio Philip l'aveva già revisionata. Non aveva una propria volontà. Fuori era una di quelle mattine londinesi prive di carattere, monotone, senza sole, senza pioggia, un freddo vuoto. Quello, pensò Melanie, era il suo clima. Niente di estremo, mai più. Non avrebbe dovuto più temere il caldo sole e tutto il resto. Era nel Limbo e ci sarebbe rimasta per il resto della vita - se si poteva parlare di vita - trascinandosi per il suo faticoso corso senza più grandi gioie né grandi dolori, perché il suo sangue era troppo debole per sopportarli. E aveva solo quindici anni. Era spaventoso. Nel mettere via le posate, così sconsolata per la sua sorte, Melanie si rese conto che le era più facile sopportare gli eventi se li drammatizzava. O anche se li melodrammatizzava. Le era più facile per esempio sopportare la realtà dello zio Philip se lo trasformava nel personaggio di un film, interpretato da Orson Welles. Era seduta al cinema e guardava un film. Presto sarebbe arrivata una ragazzina vestita di bianco a vendere gelati, noccioline e popcorn. Ma il gusto di quel mese non aveva sapore. Cercò di non badare al semplice, reciproco, affetto che legava Finn, Francie e la muta sorella. La sera precedente quei tre si erano fusi insieme, come fosse la cosa più facile al mondo, per formare un nuovo animale mitologico a tre teste, che parlava tranquillamente a se stesso attraverso le mani di Francie, le labbra della zia Margaret e i piedi di Finn. E Melanie li aveva spiati dal buco della serratura e non sarebbe mai arrivata ad avvicinarsi al di là del buco della serratura dietro cui vivevano. Vedere un film era come essere un voyeur, vivere un surrogato della vita. I Jowles erano un'entità, calda come la lana.
Li invidiava terribilmente. «Fai come se fossi a casa tua.» Ma in che modo? All'improvviso tutto il suo distacco crollò miseramente e desiderò più di ogni cosa di irrompere nel loro film domestico. Ma voleva davvero appartenere a loro? Per un attimo ne aveva sentito un bisogno quasi doloroso, poi si ribellò. Erano sporchi e comuni. Odiava la parola 'comuni'. Solo la gente comune definiva gli altri 'comuni'. Glielo aveva insegnato la mamma. Però calzava bene. «Non ho visto nemmeno un libro in casa, neppure uno.» E poi quella sfilza di bottiglie di condimenti da tavola calda per camionisti che risaltava in camera da pranzo, e Francie che si rimpinzava di porridge per poi (ora) stuzzicarsi i denti con un fiammifero usato. E la canottiera sporca di Finn, e il suo pigiama ancora più lercio. E gli unici quadri che aveva visto in casa erano quelle stampe sentimentali in camera sua e il ritratto del cane fatto da Finn, sopra al camino, roba che avrebbe potuto fare un bambino per darsi delle arie. E poi il tè, il tè, sempre e solo tè in ogni occasione, proprio ora che aveva imparato ad apprezzare la raffinatezza del caffè. E i buchi nelle calze della zia Margaret e il bagno senza carta igienica. Era tutto disgustoso. Vivevano come maiali. Ma malgrado tutto ciò erano rossi e avevano una qualche sostanza, mentre lei, Melanie, era per sempre grigia. Un'ombra. Tutta colpa della notte del vestito da sposa, quando aveva sposatole ombre e il mondo era giunto al termine. Tutto ora si stava svolgendo in uno spazio vuoto alla fine del mondo. Asciugava le tazze, i piattini e i piatti con una spugna perché non poteva fare altro. Già, ma come facevano a restare rossi e dotati di sostanza (o, nel caso della zia Margaret, di sostanza intermittente) se vivevano sotto il peso schiacciante dello zio Philip, la Bestia dell'Apocalisse? Come avrebbe potuto lei, Melanie, immaginare che lo zio era un mostro con una voce così tonante da farle temere che tirasse giù il tetto seppellendoli tutti? Ah, povera zia Margaret, che era così gentile eppure (probabilmente) dormiva nello stesso letto dello zio, visto che erano sposati. Lui costruiva giocattoli che ridicolizzavano i suoi ingenui passatempi e quelli dei suoi fratelli e lei tremava quando il marito alzava la voce leonina. E poi la zia avrebbe voluto avere dei figli, Melanie se ne rendeva perfettamente conto, ma chissà se voleva avere figli dallo zio Philip? Desiderava così tanto dei figli che avrebbe voluto prendersi Victoria come figlia sua. Bene, la poteva avere. Melanie cedette all'istante tutti i diritti sulla bambina e si sentì alleggerita di un peso. Una responsabilità in meno.
«Immagino che potrei scappare» pensò mettendo i piatti del servizio sopra il piano della credenza, appoggiati alla parete. «Potrei trovarmi un lavoro e vivere in una stanzetta come le ragazze nei racconti sulle riviste.» Vivere preparandosi il Nescafé sul fornelletto da campo e dipingendosi le pareti una rosso geranio, l'altra azzurro fiordaliso e le altre bianche, come avrebbe voluto fare a casa sua, ma la madre glielo aveva impedito. Pensava a sua madre in modo chiaro e distinto. La vedeva rimpicciolita, come attraverso un canocchiale rovesciato, distesa a terra insieme ai rottami dell'aereo, nella sabbia gialla col suo vestito nero più bello e un cappellino da viaggio in testa, circondata dai frammenti della carne degli altri. Ma naturalmente non sarebbe andata a quel modo, nemmeno lontanamente. Melanie appendeva le tazze ai ganci sopra la credenza e vedeva le sue braccia andare su e giù, su e giù. Le guardò con una lieve curiosità, sembravano animate da una loro vita personale. Più tardi quella mattina, seduta nella stanzetta sul retro della bottega, scrisse la lettera che aveva promesso alla signora Rundle, su un foglio strappato dal blocco della zia. Masticava la matita, ingoiando i frammenti di legno. Che cosa poteva raccontare alla signora Rundle che ormai era (ammesso che fosse mai stata qualcosa di più) un'estranea, viveva lontano da loro e li stava dimenticando, infilandoli nel suo voluminoso borsone insieme agli altri ricordi? «Cara signora Rundle, abbiamo fatto buon viaggio. Ma è stato faticoso. Speriamo che lei abbia fatto buon viaggio.» Ci pensò un po' su e poi cancellò il secondo 'viaggio' e scrisse «speriamo che il suo sia andato bene» per non ripetersi. Era quello che le avevano insegnato a scuola a proposito dello stile. Aveva la sensazione che non sarebbe più tornata a scuola. «Io e Victoria stiamo nella stessa stanza. La zia Margaret sembra già innamorata della bambina.» Victoria, stranamente domata, sedeva ai piedi della zia e osservava il guizzante disegno proiettato dal fuoco sul muro e canticchiava tra sé una lamentosa canzoncina senza parole. Perché non le avevano dato un giocattolo? Lì era pieno di giocattoli. «La zia Margaret è muta» scrisse Melanie. E poi cancellò 'muta' e scrisse 'dolce' perché le era venuto in mente che la signora Rundle forse aveva già
saputo di quel problema dagli avvocati, ma non aveva avuto il coraggio di parlarne ai bambini. «Lo zio Philip è un po' all'antica, ma sono certa che tutti ci adatteremo bene molto» - sottolineò il punto - «molto presto. «Spero che anche lei si stia sistemando bene e così pure il gatto.» Quest'ultima era una bugia. Non sperava affatto che il gatto stesse bene. Sperava che fosse morto. Era convinta che il gatto fosse fondamentalmente cattivo, ma poiché la signora Rundle amava quel suo gatto malandrino lei era costretta a informarsene. «Con tanto affetto, da Melanie, Jonathon e Victoria.» Sospirò, appena ebbe finito la lettera. Avrebbe dovuto cercare una busta e comprare il francobollo (dov'era l'ufficio postale?) e impostarla. Poi sarebbe passato un giorno e la signora Rundle avrebbe tirato fuori gli occhiali per leggerla in una nuova cucina, con il frigorifero e la macchina del gas col controllo del forno automatico e il grill ad altezza d'occhio e lucide superfici di lavoro in plastica e un frullatore e forse anche un macinacaffè elettrico. Nella nuova casa della signora Rundle il caffè appena macinato sarebbe stato conservato in barattoli di lacca rossa, Melanie ne era certa. Si era aggrappata all'idea della signora Rundle in un'abitazione perché era stata parte della sua casa e i bambini erano stati per qualche tempo ormeggiati nel nero porto del suo grembo. Suonò il campanello del negozio, il pappagallo gracchiò e Melanie andò insieme alla zia a vendere maschere di Halloween a un ragazzino con dei minuscoli jeans e il moccio secco nelle narici. C'era un'impressionante scorta di maschere selvagge e spaventose. Svuotarono una scatola dopo l'altra sul bancone davanti al ragazzino: leoni, orsi, diavoli, streghe (verde pallido con i capelli fatti di paglia). Quelle maschere erano leggermente meno elaborate delle altre che aveva visto nel laboratorio. Quando lo disse alla zia, la donna scrisse: «Quelli sono i modelli di lusso, questi sono quelli standard. Ma per favore, non andare in laboratorio.» Poi offrì al ragazzino una maschera da orso grigio con le orecchie di pelliccia. Entusiasta, il bambino provava le maschere una dopo l'altra, ruggendo come un leone o miagolando come un gatto. Poteva avere circa sette anni e teneva i soldi annodati in un angolo del fazzoletto. La sua voce piatta, tipica della zona sud di Londra, sembrava a Melanie volgare e sgradevole e di nuovo si trovò a sperare che Victoria non prendesse quell'accento. Doveva aver messo da parte i soldi per molto tempo per potersi permettere una del-
le maschere dello zio Philip. A lei sembravano care per diciannove scellini e undici pence, ma il ragazzino le adorava. Con addosso una maschera da tigre si lanciò sul bancone verso Melanie, che si morse il labbro per reprimere un'esclamazione. La maschera era la quintessenza della tigre, e risplendeva di una tinta fosforescente. Era feroce e bestiale. Non pensava che le maschere fossero giochi adatti ai piccoli. Alla fine il bambino contò tutta una serie di spiccioli sul bancone fino a mettere insieme quelli necessari per la maschera da elefante che aveva scelto. Aveva zanne di plastica molto affilate e una proboscide di gommapiuma che si poteva alzare e abbassare tirando una cordicella. Sembrava un elefante in calore, pensò Melanie. Suggerì al bambino di mettere la maschera in una busta di carta ma quello si passò l'elastico intorno alla testa e scappò in strada, come un elefante imbizzarrito col maglioncino e la nuova proboscide ballonzolante. Sorridendo, la zia Margaret mise i soldi in un cassetto che faceva da cassa. Il suo era un sorriso caldo, amoroso e disteso. «È un piacere servire i bambini» scrisse. «Ma dev'essere faticoso, immagino» disse Melanie. «I bambini qui sono abituati a me» scrisse, e Melanie si domandò che cosa avesse capito della sua risposta. Grazie a Dio, la zia levò di mezzo quelle orribili maschere. Il tempo passava molto lentamente. Alle undici e mezzo si faceva il tè nel retrobottega. Melanie si chiese se avrebbe dovuto portare un vassoio nel laboratorio, ma a quanto pareva avevano il loro fornelletto a gas e preparavano continuamente il loro tè. Invece portò su il tè a Jonathon e la zia le mostrò come fare a mantenerlo caldo, mettendo il piattino sopra la tazza. La soffitta di Jonathon era molto fredda e lui era tormentato e smunto per il gelo, che gli aveva messo in risalto anche le croste sulle ginocchia, di un rosso vivo proprio come il naso. Quasi non alzò la testa quando entrò Melanie. Il pavimento era coperto di lacci e mucchi di cordami intrecciati e la sua barca filava fieramente sul tappeto turco, mentre lui, seduto sulle ginocchia, dipanava l'intricata matassa del sartiame. Era vestito tutto ordinato con la divisa di flanella grigia della scuola, come se si trattasse di un giorno normale. I calzoni corti, la giacchetta col distintivo sul petto e i calzettoni di lana lunghi, un po' arrotolati: erano gli stessi abiti che aveva indossato per il viaggio. Fu come un sospiro dal passato. Al mattino si rimetteva sempre automaticamente gli stessi vestiti che si era tolto la sera prima, a meno che qualcuno nottetempo non li sostituisse con altri sulla sedia accanto al letto.
«Eccoti una bevanda calda» disse Melanie. Lui non la sentì. «Jonathon! Ti ho portato il tè!» Melanie mise la tazza per terra vicino a lui e gli toccò la spalla. Il ragazzino si tolse lentamente il filo nero dalle dita, e la fissò oltre le lenti, come se si stesse chiedendo chi fosse. Gli occhiali erano opachi e sporchi. Se li tolse, ci alitò sopra e li pulì col fazzoletto che ormai era sudicio. Aveva un cerchio rosa attorno agli occhi indifesi. Le ricordava un animaletto, un criceto o una talpa. Si rimise di nuovo gli occhiali e tornò a esaminarla. «Ah, sei tu!» disse. E poi guardò il tè con aria perplessa. «Bevilo,» disse lei «prima che si raffreddi.» Con spaventosa arrendevolezza, Jonathon trangugiò il tè in tre veloci sorsi e le restituì la tazza vuota. Poi aspettò educatamente che lei se ne andasse, con gli occhi fissi sulla sua nave. Lei si rese conto di essere invadente, ma dopotutto era suo fratello e aveva un qualche diritto d'intromissione. «Jonathon, ti senti bene?» Lui considerò la domanda, o almeno parve considerarla. «In che senso?» chiese alla fine. «Sei contento, o comunque ti sembra di poterlo essere?» Rimase seduto immobile, con le mani sulle ginocchia, senza neppure tentare una risposta, come se la sua domanda fosse noiosa e irrilevante. «Jonathon, dimmi se sei contento oppure no.» Dopotutto era suo fratello e lei ci teneva al suo benessere. «Voglio continuare a fare la mia nave» disse. «Ti prego.» «Ah» commentò Melanie debolmente, e se ne andò. Passando per i lunghi corridoi marroni, superando le misteriose porte chiuse, si sentiva sola e raggelata. Il castello di Barbablù. Melanie tremava al pensiero che mentre ci passava davanti qualcuna di quelle porte potesse spalancarsi per fare emergere, mettendo alla prova il suo coraggio, un qualche mostruoso, gigantesco orrore meccanico, rotolante su piccole ruote, o qualche scherzo di pessimo gusto o anche una qualche orribile novità. E adesso era proprio sola, con Jonathon di sopra e Victoria di sotto; entrambi persi, per lei. Melanie attraversava la pericolosa strada tra i due, senza essere collegata né all'uno né all'altra. «Se almeno non fossi così giovane,» pensò «dipendente dagli altri e priva di esperienze.» Di notte dietro le porte (quali?) dormivano la zia Margaret, lo zio Philip,
Finn e Francie, ma ora no. Chi occupava quelle stanze di giorno? Era il castello di Barbablù o il maniero del signor Fox con «Sii coraggioso, coraggioso ma non troppo» scritto dappertutto sopra le porte e con i cadaveri fatti a pezzi e ordinatamente impilati dentro ogni armadio e credenza, sopra le lenzuola e le federe. Melanie sapeva bene di essere irragionevole e che tutt'intorno a lei si susseguivano solo stanze vuote e letti tranquilli, ma la paura era ancora lì e i suoi piedi timorosi producevano uno scalpiccio troppo udibile, risvegliando echi. Sul pianerottolo antistante la cucina, il cane sedeva fedele in cima alle scale, e le bloccava la strada, apparentemente immerso nei suoi pensieri. Era di un bianco prodigioso, come Moby Dick. E in quella casa marrone, risplendeva. Melanie ne era fortemente colpita. Rimase ferma dietro il cane, che non si mosse. Era in trappola. «Bravo cagnetto,» provò a dire «cagnetto bello, fammi passare, ti prego.» La sua coda cominciò a muoversi a destra e a sinistra con un leggero fruscio. «Ti prego» disse ancora. La bestia si voltò a guardarla con i suoi occhietti rossi e luccicanti. Melanie si chiese, follemente, «Qual è questo, il cane vero o quello dipinto?» Alla fine si decise a scavalcarlo e andare oltre, pur pensando, mentre lo faceva, che avrebbe potuto darle un morso alla gamba. Invece rimase immobile, guardandola senza battere ciglio, fino a che lei non ebbe raggiunto la stanza sul retrobottega e chiuso la porta sul suo sguardo di fiamma. La zia Margaret stava sbucciando le patate dentro una ciotola di plastica piena d'acqua, Victoria ai suoi piedi l'aiutava con un coltellino piccolo ma dall'aria pericolosa. Erano entrambe circondate da pozze d'acqua. La zia Margaret guardava la testa tonda di Victoria con sguardo caldo e tenero, con il suo capino da uccello piegato di lato. Almeno Victoria sembrava essersi integrata. Ben presto la zia andò a preparare il pranzo, portando con sé Victoria e lasciando Melanie a occuparsi della bottega. Provava una certa soddisfazione a starsene dietro il bancone, fino a quel momento era sempre stata una cliente, dall'altra parte della barricata. Giocò per un po' a fare la commerciante: contò i soldi in cassa e studiò un mazzo di fatture. Verificò ancora la posizione delle buste e della carta da pacchi, dello spago e dello scotch. Osservò alcuni degli articoli in vendita. Provava un misto di attrazione e
di repulsione per quelle maschere feroci, e alla fine se ne provò una o due, ma non c'era uno specchio dove guardarsi, anche se si sentiva particolarmente felina o volpina a seconda delle maschere che indossava. Le sembrava perfino che puzzassero di animali selvatici. Poi andò a scompigliare la cresta del pappagallo e lo guardò mentre becchettava un seme di girasole. Camminava lateralmente sul suo trespolo e curvava le spalle guardandola furbetto, come se, volendo, fosse in grado di raccontarle una o due storie. Non entrò nessuno a comprare. La bottega era così buia che la luce veniva tenuta sempre accesa. Lì dentro erano sempre le cinque di un pomeriggio invernale e tutti quei pacchetti tentatori conferivano al negozio un'atmosfera da notte di Natale, un'atmosfera ricca e piena di attesa e di sorpresa. Melanie si sentiva meglio al negozio che in casa. Soprattutto perché le piaceva stare vicina a una porta che dava sulla strada, da dove poteva vedere il passaggio della gente e rassicurarsi sul fatto che altre vite continuavano il loro placido corso. Toccava le scatole furtiva, come un bambino che frughi tra i pacchetti già pronti, con tanto di agrifoglio, e messi via sopra l'armadio dei genitori. Tolse alcuni coperchi che Finn aveva lasciato chiusi e trattenne il respiro con un misto di gioia e di meraviglia. Aveva di nuovo sette anni. Alcuni semplici giocattoli di legno per bambini piccoli, tenuti a parte su una serie di appositi scaffali, erano decisamente affascinanti. Cavallucci sulle ruote che si tiravano con la corda. Cavallucci rossi, blu e verdi, pezzati da fiori gialli, bianchi e neri. Sonagli a forma di maiali e di gufi con semi secchi nelle pance tonde. Fischietti a forma di uccelli dai colori diversi che funzionavano soffiandogli nella coda. Melanie si portò alle labbra uno di quegli uccelli-fischietto, producendo una nota di intensa, lancinante dolcezza. Acrobati di legno che facevano capriole all'interno delle loro cornici. Modelli di legno, dal disegno primitivo, come fossero i primi giocattoli dell'umanità, di due uomini che a turno battevano il martello sull'incudine. Cominciò a riconoscere la mano caratteristica di Finn, che risultava evidente nella decorazione dei cavalli a fiori, nelle strane facce piatte del gufo e del maiale, nella gloriosa picchiettatura a pavone degli uccelli, nelle smorfie tirate e professionali degli acrobati, nelle labbra strette per lo sforzo degli uomini col martello. Tutti i volti erano decorati da diversi tipi di peluria, che andavano da quella fina come un tratto di matita dei baffetti alla Ronald Coleman, a quelli riccioluti, stile assirobabilonese, e le piccole
giacche erano a righe e a stelle, disseminate qua e là in modo casuale. Era evidente che Finn adorava dipingere soprattutto i giocattoli per i più piccoli. Dentro una grande scatola quadrata c'era un'Arca di Noè che era un vero capolavoro. Melanie cominciò a disporne i pezzi uno per uno sul bancone. Noè, alto una ventina di centimetri, aveva la barba bianca che gli arrivava alle ginocchia e portava veri stivaloni di gomma. Quella di Noè era una strana famiglia: la signora Noè era fatta secondo la tradizionale foggia a piolo, come se quella fosse la forma perfetta, l'unica forma possibile per la signora Noè e l'artigiano l'avesse adottata, con sollievo, dopo aver tentato senza successo una serie di varianti che non avevano funzionato. Portava sulla nuca uno chignon da cui spuntavano delle forcine di legno intagliato, più sottili di fiammiferi. Aveva le guance tonde e rosse e sorrideva. Sem e Cam, invece, erano tipici orientali untuosi, con l'aria da padroni di sale da gioco o di locali da strip tease, e indossavano vestiti gessati, avevano neri ricci e rosse bocche sorridenti in cui brillavano i denti d'oro. Ma Giafet (sapeva che si chiamava così perché il suo nome era scritto sulla maglietta) era in realtà Finn, perfetto, con tanto di strabismo e blue jeans. Finn aveva messo se stesso come sua firma sull'arca. Melanie si ricordò che le aveva detto, «Siamo tutti nella stessa barca». Be', lui era nell'arca e molto probabilmente sarebbe sopravvissuto a ogni diluvio. Poteva contare trenta coppie di animali nel corpo dell'arca, che andavano dal leone con la leonessa, grandi quasi quanto Noè, a una coppia di topolini bianchi che non superavano l'unghia del mignolo di Melanie. Tutti e due i leoni erano incoronati per indicare che erano il re e la regina. Melanie rideva di gioia, felice di maneggiarli, così piccoli, così carini. I gatti identici ai gatti veri e i canguri (c'era anche il Piccolino nel marsupio di mamma canguro) così espressivi, della comicità caratteristica di quegli animali. Mise tutti gli animali in fila con i leoni in testa, una sfilata da circo intagliata nel legno e delicatamente colorata. Scoprì che si era messa a pensare in piccolo, perché improvvisamente le sue mani le erano apparse enormi, come quelle di Gulliver a Lilliput. L'arca col fondo piatto aveva un paesaggio marino dipinto sul fianco, fino alla linea di galleggiamento, una visione infinita di profondità remote pullulanti di pesci color fragola e di foreste d'alghe, di rocce incrostate di conchiglie con qua e là una di quelle floride sirene che i bravi marmai portano tatuate sulle braccia. E la sirena cavalcava robustamente le onde oppure stava seduta a cavallo della chiglia rovesciata di un vascello sommer-
so e si pettinava i lunghissimi capelli di un improbabile giallo. Lo scafo dell'arca era verde e dagli oblò spuntavano le teste di vari animali dipinti. Sull'albero maestro c'era il cartellino col prezzo. Settantacinque ghinee. «Accidenti!» esclamò Melanie. «È il prezzo giusto per quel lavoro» disse lo zio Philip. «Bisogna fare i prezzi giusti. È una legge commerciale. E per favore, signorina, rimetti via quella roba. Non mi piace che si maneggino i miei giocattoli.» «Niente vendita!» cantilenò il pappagallo. Lo zio Philip occupava tutta la porta. Si era fermato le maniche con braccialetti di acciaio al di sopra del gomito e si era messo addosso un rozzo grembiule che un tempo doveva essere stato bianco e lo copriva dal nodo della cravatta fino alle caviglie. Nei suoi occhi chiari non v'era gentilezza. Sulla fronte aggrottata le sopracciglia s'incontravano come una stanga di ferro. Melanie rimise nervosamente e rumorosamente gli animali nella loro scatola. «E poi attenta a come tratti queste cose. Adesso sono loro che ti danno da mangiare.» Ed era proprio così. Il gong che annunciava la cena risuonò sinistro sopra di loro. 5 «Potremmo non essere affatto a Londra» disse Melanie. In cucina c'erano solo lei e Victoria. «Potremmo benissimo essere da qualche altra parte.» «Dove per esempio?» chiese Victoria senza troppa curiosità. Col cucchiaio raspava il fondo di un barattolo di marmellata di lamponi. Stava seduta per terra con i capelli impiastricciati dalla marmellata, che aveva anche intorno alla bocca e sul vestito macchiato e appiccicoso. Era contenta. Più grassa che mai, sempre con una manciata di caramelle in mano oppure con un piccolo spuntino tra un pasto e l'altro o con una fetta di pane e latte condensato o con il resto della crema rimasto nei tegami in cui la zia aveva preparato i dolci. La zia la adorava e la viziava. «Dove per esempio?» chiese Victoria, tutta rossa di marmellata. «Ovunque.» Ma non dava soddisfazione parlare a Victoria, che aveva dimenticato ogni altro luogo perché viveva alla giornata. A Melanie avevano detto che si sarebbero trasferite in una grande città, ma lei si era ritrovata in un villaggio, un grigio villaggio. L'isolamento di
casa Flower sulla sua collinetta suburbana era completo. Melanie usciva, col cestino di vimini su un braccio e la lista della spesa in tasca, solo per fare le compere. Ma non le davano mai i soldi perché i Flower avevano credito in tutti i negozi e lo zio Philip pagava i conti ogni tre mesi con un assegno. A volte il cane andava con lei, altre stava a casa e altre ancora aveva da fare. Non aveva guinzaglio né catena e trotterellava felice al suo fianco. A volte Victoria andava con lei e altre restava a casa, ma non aveva mai da fare. Ora che Melanie faceva la spesa, la zia Margaret non usciva mai. Nei negozi, i clienti le mandavano i saluti attraverso Melanie e chiedevano di lei, così come si erano sempre informati della mamma di Melanie e della signora Rundle ai tempi in cui andava a fare la spesa al villaggio. Le teste commentavano con disapprovazione la fascia nera ancora sul braccio di Melanie, perché tutti (com'è normale che sia nei villaggi) sapevano dell'arrivo dei bambini e di come erano rimasti orfani. La zia Margaret doveva aver riempito blocchetti interi scrivendo la loro storia. Tutti erano gentili con lei, nei negozi. Il droghiere, un ex soldato dalla faccia dura, a cui mancava il pollice della mano destra (Melanie si chiedeva se se lo fosse tagliato affettando la pancetta, ma non aveva mai osato domandarglielo, per paura che le rispondesse), il droghiere, per esempio, le faceva qualche raro sorriso e di tanto in tanto allungava un cioccolatino a Victoria, che tornava alla bottega dei giocattoli con tanto di baffoni e basette marroni, da quella bambina tendenzialmente sciatta che era. Il macellaio, che era gentile e di cuore tenero, malgrado quelle crudeli macchie di sangue sul grembiule, le riempiva gratis il cesto di ossa per il cane e le offriva di introdurla ai misteri del suo magazzino dove, ispidi di brina, interi quarti di bue erano appesi nella buia ghiacciaia. Ma, pur apprezzando il gesto, Melanie aveva rifiutato quell'offerta. La verduraia ogni tanto le regalava un mazzo di violette o le metteva in mano un crisantemo il cui gambo si era accidentalmente spezzato e quella era la cosa che più la rallegrava. Era una donna scura con l'aria da zingara, che parlava ridacchiando, con una vocina uggiolante e adulatrice e che aveva sempre le mani nere di terra per via delle patate. Ogni volta che incontrava Victoria le dava una banana e invitava Melanie a prendere quello che voleva dai cesti con le noci e la frutta secca. Diceva «che Dio vi benedica» invece che arrivederci e Melanie usciva dal suo negozio sentendosi rassicurata e rompendo una mandorla tra i denti. «Che bello se lo zio Philip fosse un fruttivendolo» aveva detto Victoria una volta. «Oppure» aveva
aggiunto «un dolcivendolo.» Ma dov'era Londra e il trambusto anonimo della grande città? Ne vedeva le luci dalle finestre più alte ma non le si era mai neppure avvicinata. I Flower erano persone molto riservate. Nessuno li andava mai a trovare la sera o capitava lì tanto per fare due chiacchiere, salvo che per affari, per vendere legna allo zio Philip o prenotare Francie col suo violino. Né amici né conoscenti di passaggio. La vita scorreva in una quiete incantata. Senza televisione, senza giradischi e senza radio. Lo zio Philip amava il silenzio. Ma Francie aveva introdotto furtivamente una radiolina a transistor e sentiva di nascosto Radio Eireann quando c'era musica. Dopo aver fatto la spesa Melanie aiutava la zia, servendo al negozio, scrivendo i prezzi o dedicandosi al compito infinito di lucidare il legno del bancone e dei cassetti, una tela di Penelope della lucidatura, che non si faceva in tempo a terminare senza che le dita sporche dei piccoli clienti imponessero di ricominciare da capo. Il cambiamento intervenuto nel suo modo di vita era tale che lei stessa non ci credeva; a volte si fermava con lo straccio della polvere in mano, sotto lo sguardo attento del pappagallo, e diceva ad alta voce: «Ma questa non posso essere io, non è possibile!» E invece era proprio così. La sera, finita la cena e lavati i piatti, la zia avvolgeva Victoria nel suo plaid e Melanie rimaneva in cucina a leggere i suoi vecchi libri. Aveva visto bene, non c'era un solo libro nella casa dello zio Philip, a eccezione del libro contabile, o forse di qualche libro segreto nella stanza dei fratelli. Questo era possibile, ma certo è che lei non aveva mai visto i due con un libro in mano, anche se Francie di tanto in tanto comprava l'Irish Independent. E lo leggeva in bagno, dove Melanie l'aveva visto la prima volta. Poi lo riponeva sempre dietro il tubo e quando lo zio Philip lo trovava lo buttava per terra sul pianerottolo e ci saltava sopra pestandolo con i piedi. Ma presto ricompariva dietro il tubo, con sopra le orme dei piedi. Dei suoi libri si era salvata una sola cassa ed era una raccolta bizzarra, con Winnie the Pooh e i libri del Dottor Dolittle, che lei aveva cominciato a leggere e rileggere, piena di nostalgia. Era come se parte della sua infanzia fosse rimasta intrappolata in quelle pagine di tanti anni prima, che aveva sporcato di cioccolata, dove aveva messo i segni tra le pagine più amate con cartine di caramelle e pezzetti di nastri per i capelli. Non degnava di uno sguardo i pochi volumi da adulti, per lo più libri di testo scolastici; aveva nascosto la copia di Lorna Doone, ma si era aggrappata agli altri come se fossero salvagenti.
Melanie leggeva e leggeva mentre la zia rammendava i calzini del marito e dei fratelli o attaccava gli innumerevoli bottoni sulle loro camicie. Cuciva anche i vestiti per i giocattoli e i pupazzi e le giacche per orsi e scimmie antropomorfe e vestaglie e mantelle in seta e velluto per i pochi burattini che vendevano nel negozio e gonne e bretelle per tutti gli altri burattini del teatro. S'innalzava un'eterna pila di roba da cucire dal suo gigantesco cesto, che assomigliava a quelli in cui gli incantatori tengono i loro serpenti. Onda dopo onda di tessuto dai brillanti colori usciva dal cesto, minacciando di ingoiarla, ma lei la combatteva energicamente, con le sue dita veloci come la luce. Melanie pensava che lo zio Philip le avrebbe potuto comprare almeno una macchina da cucire, in modo da risparmiarle quei lunghi orli tutti a mano. Melanie e la zia Margaret sedevano nel silenzio più assoluto, rotto solo dal forte ticchettio dell'orologio a cucù e dalle sue regolari interiezioni di due note. Melanie non c'era abituata e ogni volta il suono la faceva sussultare. Il rubinetto gocciolava nel lavandino. A volte il cane raspava sulla porta per entrare. Altre faceva la stessa cosa per uscire. Altre ancora si addormentava sul tappetino di stracci davanti al camino elettrico e russava tranquillo, o agitava le zampe rincorrendo conigli nel sogno. Di tanto in tanto la zia Margaret tirava su la testa dal cucito per sorridere nervosamente a Melanie, e mostrarle amicizia. Finn qualche volta aveva una serata libera e allora lui e Melanie giocavano a dei giochi con carta e matita come battaglia navale ma per lo più lo zio Philip aveva bisogno che Finn rimanesse giù con lui ad aiutarlo con i burattini. Lo zio Philip lavorava ai suoi burattini la sera, dopo che erano stati messi via i giocattoli. Vedeva lo zio solo a tavola, ma la sua presenza cupa e oppressiva riempiva la casa. Camminava cauta, come se quegli occhi senza colore non facessero altro che valutarla e giudicarla. Quando lo vedeva non poteva trattenere un tremito involontario. Nella sua mente non le riusciva di collegarlo alla mamma, anche se i due, a loro volta, un tempo ne avevano condivisa una. Sembrava fatto di una sostanza diversa da quella di sua madre, così gentile e vaga; pareva sbalzato o intagliato nella materia del tuono. Melanie avvertiva la violenza irrazionale nell'aria tutt'intorno a lui. A volte si rovesciava su Finn come una valanga, colpendolo in testa al di sopra del tavolo da pranzo quando esagerava con la sua noncurante insolenza. Spesso Finn risaliva dal laboratorio con un livido sulla guancia o con un occhio nero, il risultato di una discussione su qualche dettaglio del lavoro che stavano compiendo. Allora la zia Margaret, con un lamento, lo cospargeva
con una pomata malgrado le sue proteste, oppure gli metteva un cerotto se la pelle era tagliata. Ma Finn sembrava assolutamente imperturbabile. Francie se ne stava giorno e notte chiuso a chiave nella stanza che condivideva con Finn (Melanie aveva scoperto che era quella vicina alla sua) a suonare ininterrottamente il violino, tranne quando era impegnato a esibirsi fuori, per i club irlandesi di Londra e per eventi vari. Melanie udiva il trillo liquido riecheggiare lieve nel pianerottolo, quando saliva su per le scale. Le sere in cui la piena del cucito cominciava a regredire a livelli più ragionevoli, la zia Margaret sgattaiolava su, fino alla stanza di Francie, per suonare il flauto insieme a lui. Non chiedeva mai a Melanie di andare a sentirli in quelle occasioni e Melanie, sola in cucina col cane vero o con quello dipinto, aveva la sensazione che nessuno al mondo s'interessasse a lei. Jonathon adesso lavorava a un modellino di nave sotto l'occhio vigile dello zio Philip e imparava a intagliare direttamente dal legno. Ogni minuto della sua vita che non era impiegato a mangiare o a dormire lo dedicava a quell'attività. Perfino la sera lavorava alle sue navi mentre lo zio Philip e Finn facevano i burattini e continuava fino alle otto e mezzo o alle nove, quando era ora di andare a letto. Allora passava per la cucina rilasciando un distratto «buona notte» e questo era tutto quello che ormai diceva a Melanie, anche se è vero che non le aveva mai detto molto. «Philip è contento di Jonathon» aveva tracciato col gesso sulla lavagna la zia Margaret. «Ah, bene» aveva risposto Melanie. Ma in cuor suo sapeva che, ammesso che Jonathon fosse mai stato suo, ora lo aveva perso per sempre. Non c'erano soldi per nessuno di loro. Lo shampo era lo stesso per tutti, in una grossa boccia, e Melanie aveva deciso di non accennare al desiderio di un nuovo pigiama fino a che non fosse diventato davvero indispensabile. Nel frattempo le ultime foglie del sicomoro della piazza erano cadute, spazzate via nel dimenticatoio dalle rigide scope dei dipendenti comunali. Le notti arrivavano sempre prima, avvolte in sinistri mantelli di nebbia, come personaggi di Edgar Allan Poe. Melanie se ne stava con la faccia schiacciata contro il vetro freddo della sua finestra, senza vedere il desolato giardino e le luci che spuntavano nel retro delle altre case, ma solo le rosse bacche che maturavano sulle siepi intorno alla casa e i campi che brillavano coperti di brina. Il fumo dei fuochi fatti con le foglie morte la prendeva alla gola. In piedi, con i guanti, in mezzo al giardino, tirava le briciole di pane e la pelle dura della pancetta sul prato e guardava gli uc-
cellini affamati arrivare in picchiata. Nella sua mente le immagini si formavano una dopo l'altra. Volti illuminati da una lampada attorno a una tavola con pietanze invernali, da cui saliva il fragrante vapore degli stufati e dei budini sui cui fianchi scorreva il dorato sciroppo. La mamma che chiudeva il cappotto di Melanie e le stringeva la sciarpa intorno al collo. I ciocchi di legna nel camino del salotto e il Babbo che fumava la sua pipa, con le pagine del Times che gli frusciavano tra le mani e la mamma che leggeva un romanzo, mentre Melanie sul tappeto di pelliccia si limava le unghie seduta tra di loro e la pioggia picchiava contro le finestre rendendo la vista del camino ancora più confortevole. Tutto era così ricco, strano e remoto, che le sembrava non fosse mai successo o fosse accaduto a qualcun altro. E invece era questa la realtà, questa casa alta, scomoda e fredda, con le minacciose distese di mura ingiallite lungo cui le tubature rumoreggiavano come motori. Era questa, si disse, la dura e sgradevole verità, il pane amaro e nero della vita, mentre il morbido lusso del passato era impalpabile, privo di consistenza. «Eva si dev'essere sentita così quando ha imboccato la strada a est, che la portava fuori dal giardino dell'Eden» pensò. «Ed era colpa sua.» La signora Rundle rispose alla sua lettera. Aveva una scrittura nera, tonda e pomposa che sembrava procedere nella pagina con tutta la maestà di una vecchia Rolls Royce. La signora Rundle era lieta di sentire che stavano bene e cominciavano a sistemarsi. Le famiglie dovevano riunirsi, questo era più che giusto. Lei si trovava bene nel nuovo posto ma le mancavano i bambini. «E mi piacerebbe tanto essere parte della vostra famiglia, per potervi essere di aiuto e avere il diritto di vedervi. Ma non è così e non ho altra famiglia che i miei ricordi. E non posso fare altro che ricordarvi nelle mie preghiere, cosa che faccio tutte le domeniche, e augurarvi tutto il bene del mondo. Mando un bacio speciale alla mia Victoria, la mia piccolina, e tutto il mio amore a voi tutti.» Tutto il suo amore. Bauli e cassettoni e pentole e armadi di amore finalmente distribuito. Ma non poteva fare niente, solo amarli a distanza. A Natale avrebbe mandato loro una cartolina piena di x al posto dei baci, anche se Victoria l'aveva già dimenticata e perfino la signora Rundle cominciava a scordarsi come erano stati davvero nella realtà. Le loro figure prendevano a dissolversi nella sua mente, i loro tratti a confondersi fino a diventare tenui e ambigui come lo stesso signor Rundle e, con la patina romantica e malinconica che aveva dato loro la morte dei genitori, divennero bambini
di sogno, belli e buoni. Chi era stato a fare quel sogno? A tratti si capiva e a tratti no. Era il sogno della signora Rundle di cui lei era entrata a fare parte? Comunque Melanie ripiegò la lettera e la mise tra calze e fazzoletti nel suo comò, come una sorta di talismano, in grado di ricordarle che il passato era reale. Il mercoledì pomeriggio la bottega era chiusa. Un attimo prima che voltasse il cartello sulla porta in modo che dall'esterno si leggesse 'Chiuso' entrò una donna per vedere i giocattoli. Era una donna di quelle 'con i soldi', tutta vestita di camoscio, che era arrivata in macchina dalla zona a nord del fiume. Era il tipo di cliente particolarmente attratto dal loro negozio, nonché particolarmente odiato dallo zio Philip. «Quel genere di persona» aveva detto una volta con furia «che viene a causa del supplemento domenicale a colori.» «Una volta è venuto qui un fotografo di uno di quei supplementi» aveva raccontato una mattina Finn a Melanie, che si era meravigliata della nuova, grande varietà di scatole a sorpresa (soldati con l'uniforme rossa, ognuno con una fila di medaglie accuratamente dipinte sul petto) dichiarando che erano troppo belle per i bambini. «Quell'uomo voleva fare un servizio fotografico. Giocattoli per adulti. Aveva dichiarato che noi - io e tuo zio - eravamo una straordinaria miscela di arte pop e arte folk. Ci aveva detto che se lo lasciavamo fare, avremmo avuto tutta Londra alla porta pronta a comprare.» Finn tirò la corda di un pupazzo che lanciò le braccia in alto. «Poi tuo zio gli ha rotto la macchina fotografica. Duecento sterline di materiale che sono rotolate a pezzi giù per le scale del retrobottega. C'è voluta tutta la mia parlantina irlandese per evitare il tribunale.» «Ma perché?» «Philip Flower è il padrone delle sue cose. Non vuole che la gente che lui disprezza comperi i suoi giocattoli per farne oggetto di conversazione.» «Mi piacerebbe qualcosa di piccolo e allegro» disse la donna sorridendo a Melanie con le sue labbra colorate nella più tenue sfumatura dell'arancione. «Qualcosa che faccia dire ai miei amici 'Ma dove l'hai trovato?'» Nonostante tutto bisognava servirla. Melanie coprì il bancone di giocattoli e lei cominciò ad accarezzare con le mani guantate le superfici dipinte di legno e di latta, gridando a tratti: «Fantastico! Super! Favoloso!» e alla fine si comprò solo una maschera da strega. «Brutta stronza» pensò Melanie che, suo malgrado, stava sviluppando doti da negoziante. Incartò gentilmente la maschera, anche se aveva sentito il suono del gong e capito che
sarebbe arrivata tardi a tavola. La donna si allontanò leggera sui suoi stivali di cuoio dai tacchi alti e raggiunse la giardinetta posteggiata accanto al bagno pubblico. Era il tipo di donna che a volte andava a trovare i suoi genitori in campagna, per il week end, e arrivava con una valigia piena di abitini neri per i cocktail e i pranzi. (Cos'è che rendeva il pranzo così diverso quando veniva servito a mezzogiorno come dai Flower?) Melanie sarebbe potuta diventare facilmente proprio quel tipo di donna. Finn, anche lui in ritardo per la cena, arrivò dal laboratorio e diede una mano a Melanie a rimettere via le cose tirate fuori e rimaste in disordine. Non si sentiva mai del tutto a suo agio con Finn, anche se giocavano insieme a battaglia navale; il suo sguardo obliquo le scivolava furtivamente addosso e lui sorrideva come se conoscesse dei segreti su di lei che non le avrebbe mai svelato. E poi non ce la faceva ancora a sopportarne l'incuria e la sporcizia fisica, la sua straordinaria, bizzarra, quasi appassionata sporcizia. Si era tolto il grembiule indurito dai colori, ma aveva ancora le mani e i capelli sporchi di blu come quelli degli omini della filastrocca che andarono a fare il bagno in un setaccio. «Che vogliamo fare oggi pomeriggio?» le chiese casualmente come se avessero sempre passato il mercoledì insieme. «Be'...» rispose lei esitante. «Ti piacerebbe fare una passeggiata?» «Fino a ora non sono mai arrivata oltre la piazza» rispose lei ovviamente desiderosa di uscire. Forse potevano andare a Londra, la città dorata? «Bene, allora faremo una passeggiata» le sorrise, quasi con dolcezza. Melanie era preoccupata perché non sapeva se le regole della casa permettevano che uscisse con Finn, e poi avrebbero fatto tardi per la cena. Ma lo zio Philip non era seduto a tavola a fissare cupamente i due posti vuoti. Il suo posto non era ancora stato messo. Era andato a comprare il legno. Aveva bisogno di altro legno. «Quando il gatto non c'è...» disse Finn e si respirò subito un'atmosfera di vacanza. Mangiarono il polpettone con straordinario appetito e quando tutto fu a posto Melanie corse nella sua stanza a pettinarsi. Rimase col nastro in mano per un attimo e poi scosse la chioma, liberandola, senza rifarsi le trecce, per far piacere a Finn, malgrado lui fosse così incivile. Dalla stanza accanto sentì salire le prime note lamentose di Francie che accordava lo strumento. La zia Margaret aiutava Victoria a costruire un'alta casa con un mazzo di carte semiunte sul pavimento della cucina. Sorrise a Melanie, indicando il
suo impermeabile e sollevando le sopracciglia rosse con aria interrogativa. «Porto Melanie a fare un giro del quartiere» disse Finn, afferrando le spalle della sorella e cullando avanti e indietro la sua forma china, in un abbraccio che la fece ridere silenziosamente, dandole l'aria di una bambina. I primi piani della casa di carte caddero e Victoria scoppiò a piangere. «Andiamo» disse Finn. Portava un impermeabile di plastica nera che scricchiolava a ogni movimento. Anche lui si era pettinato i lunghi capelli prima di uscire ed era arrivato perfino a strofinarsi le mani fino a togliersi la vernice blu dalle dita. Quei preparativi la turbarono: perché si era fatto bello per lei? Tutti i negozi erano chiusi e nella piazza regnava una pace domenicale. Il bull terrier bianco se ne stava nell'androne del negozio dell'usato e alzò una zampa per fare pipì quando loro gli passarono accanto. «Fa' il bravo» disse Finn. Su tre zampe il cane scodinzolò, ma non li seguì, forse per non essere indiscreto. Davanti al tabaccaio c'era un distributore di gomme americane. Finn ne comprò un pacchetto per ciascuno. «Non mangio una gomma americana da anni» disse lei incerta. «Io le mangio solo per dare fastidio a tuo zio.» Melanie la scartò e se la mise in bocca. Era un pomeriggio cupo con poche persone per le strade, e avevano un'aria congelata, come se non ci fossero abbastanza camini nelle case per tenerli caldi. Le siepi di ligustro erano abbattute dallo sforzo di dover tenere in vita foglie verdi tutto l'anno mentre tutte le altre piante si erano arrese rinunciando ai loro ultimi virgulti. Attraversarono luoghi desolati con bambini di colore seduti sui gradini di casa, troppo depressi e apatici perfino per giocare, che li guardavano con i loro enormi occhi neri in cui si era spento il sole dei tropici. Di tanto in tanto passavano davanti a qualche malandata carrozzina con dentro un bambinetto piangente, lasciata davanti a un portone scrostato. I bidoni dell'immondizia pieni zeppi avvelenavano i giardini pubblici e quelli abbandonati davanti alle case. File di bottiglie del latte vuote e sporche aspettavano un lattaio che non sarebbe mai venuto. «Questa parte di Londra ha conosciuto giorni migliori» le disse Finn, con la bocca colma di gomma americana. «Sì» disse Melanie, che per il momento non stava certo godendosi la passeggiata. Era un quartiere periferico alto e ventoso. Il suo misero centro era nella piazza, in cima a un'erta collinetta, e le strade scendevano giù ripide; strade che erano state ricche ed eleganti, piene di case abitate da una
solida borghesia, con i salottini in cui le figlie strette nei bustini suonavano «The Last Rose Of Summer» e «Believe me if all those Endearing Young Charms» compitamente sedute al pianoforte di palissandro, ramificato di candelabri; e le sale da pranzo rosa antico dove i signori dopo cena indulgevano al loro bicchiere di porto e il mogano rifletteva la luce della brace nei camini, sollecitamente accuditi da un esercito di cameriere. E ora, in piena decadenza, curve sotto il peso di una misera umanità, le case avevano l'aria di essersi messe in fila per lo sfascio, abbracciando ansiose l'estinzione della loro precedente magnificenza, offrendosi alla rovina con un abbandono quasi sensuale. Ma c'erano ancora gli alberi, piantati ai vecchi tempi, e si poteva ancora vedere un bel po' di cielo. Era un posto triste, irreale, quasi silvestre, praticamente senza traffico. «Vivevi in campagna, no?» «Sì, ma ricordo ancora quando vivevo a Chelsea. Ed è un po'...» «Ah, no» disse Finn. «Qui non è come a Chelsea.» «No» disse Melanie, dando un calcio a una lattina vuota, di quelle che contenevano ananas a fette, se si credeva all'etichetta. La lattina rimbalzò tintinnando per la strada risvegliando echi barocchi da timpani di mattoncini rossi, e da qualche parte, in una sala dove svolazzavano sporche tendine a rete, un neonato cominciò a piangere. «Dove andiamo?» chiese Melanie. «Al parco.» «Al parco?» «Tutto quello che resta dell'Esposizione Nazionale del 1852, Melanie. L'avevano allestita qui, in un bel villaggio fuori Londra e ci arrivavano cento treni al giorno. Avevano costruito un vasto castello gotico, una specie di fortezza sulle alture, solo più gigantesca e piena di tutto l'immaginabile, in mostra. Arte, invenzioni, merci e oggetti. Venne tutto il mondo a vederlo. Come alla Mostra di Parigi, solo che l'hanno fatta prima qui ed era meno frivola.» Fece un grande palloncino con la gomma americana, riflettendo: «Era di cartapesta studiata apposta per sopportare pioggia e vento. Era così ingegnoso, il castello!» «E poi che fine ha fatto?» «Qualcuno gettò per terra un fiammifero nel 1914. Un tempismo perfetto. Ha preso fuoco mentre le luci di tutta Europa si spegnevano. La pira della vittoria finale: gli sarebbe potuto venire in mente di farlo anche a prova d'incendio, e invece no. Una volta ho dipinto un'allegoria del fuoco. Era una donna grassa senza nulla addosso se non un plaid scozzese.» Gon-
fiò un altro palloncino. «Era alla maniera delle allegorie di Rubens.» Melanie si figurò nella mente rudi donnone nude e fiamme dritte e rigide come quelle che si vedono sulle scatole dei fuochi artificiali. «Dev'essere stato un quadro fantastico!» «Ah, sì.» Lui le fece gli occhi dolci e Melanie si rese conto che stava ridacchiando. Si sentiva a disagio nel camminargli accanto. Non avevano niente da dirsi. Tacevano. Presto arrivarono a una grossa e rozza palizzata di legno, nuova, con una porta su cui stava scritto 'Privato' sopra un lucchetto dall'aria sinistra. La palizzata continuava a perdita d'occhio e sopra si agitavano le chiome castane degli alberi. «È qui, Melanie.» «Ma...» «Hanno programmato di spianare il parco e costruirci appartamenti per gli operai. Ma è da quando sono arrivato qui che lo leggo sul giornale locale.» Prese una chiave dalla tasca e aprì il cancello. Entrarono direttamente dalla strada in un fitto boschetto di noccioli. Finn richiuse. La terra sotto i loro piedi era un cedevole pantano di foglie morte intrise d'acqua. Rami senza vita sbattevano sui loro volti come ossute nocche. Melanie sentiva l'odore dolciastro della plastica dell'impermeabile di Finn e d'impulso gli prese la mano in cerca di compagnia. Lui afferrò le sue dita con le mani callose e la trascinò con sé. Il silenzio le riempiva le orecchie come ovatta bagnata. Il parco era un intrico abbandonato, disteso, come morto, sulla propria superficie. Gli alberi noncuranti avevano perso enormi rami o s'erano rovesciati del tutto, mostrando le radici al cielo. Cespugli e sterpaglia, abbandonati, invadevano tutto come grasse donne che abbiano allentato il corsetto, e in molti casi si erano trasformati in trappole di spinoso sottobosco. Era una giungla nordica umida, fredda, fangosa. Ma Finn procedeva con passo fermo. Sembrava conoscesse a memoria ogni centimetro di quella confusione. Uscirono dal bosco per entrare in un arido campo dove l'erba spinosa lambiva le caviglie. Era quel tipo di erba che se la strappi incautamente ti taglia le dita. I suoi grigi flutti correvano lontani incontro al nulla e alla nebbia che già stava calando. Tutto era immobile. Erano soli. «È il cimitero di un parco dei divertimenti» disse Finn. «È per questo che si sente la disperazione, dappertutto.» Costeggiarono il bordo dello spazio aperto, attenendosi al disegno del paesaggio silvestre che un tempo era stato progettato e Melanie se ne ral-
legrò, perché si sarebbe sentita troppo visibile, troppo esposta là in quel mare d'erba. Come un bersaglio immobile per un tiratore scelto, per la freccia di una qualsiasi figura in verde oliva che dovesse passare fugacemente tra gli alberi muschiosi. Lì invece era al sicuro. Finn l'aiutò a scavalcare il tronco mozzo di un albero, dove prosperavano numerosi funghi gialli. «Ci dovevano essere i chioschetti col caffè e i biscotti e i souvenir» sussurrò Finn. «E anche gli spettacoli teatrali sotto le tende. E poi gli imbonitori e i cantastorie. Quella roba lì. E poi piccoli rifugi dove andarsi a riparare con la propria ragazza in caso di pioggia. E perfino un'atmosfera festosa, anche se è difficile crederci.» «È strano» mormorò lei. Scoprì che stava parlando a voce bassa, come Finn, con la sensazione che ci fosse qualcosa che non era giusto disturbare. «Guarda» disse Finn, scansando una frangia di fronde. Melanie vide una leonessa di pietra davanti all'ingresso di una grotta, che proteggeva i suoi cuccioli. Cent'anni di intemperie le avevano macchiato i fianchi di un verde nerastro e generazioni di uccelli avevano lasciato cadere i propri escrementi bianchicci sulla sua testa tonda. La leonessa li guardò a sua volta con gli occhi vuoti nelle occhiaie cave tipici delle statue che nella loro cecità sembrano sempre percepire un'altra dimensione, nella quale anche tutto il resto è fatto di statue. I cuccioli intanto le si stringevano attorno. «Dovrebbe portare la corona» disse Melanie, ripensando alla leonessa dell'arca di Noè. «Ti farò vedere la regina tra un attimo» aggiunse Finn. «È la regina della Terra Desolata.» Non sfoggiava il suo solito, ambiguo sorriso. Sembrava preda di un umore curiosamente elegiaco, e si muoveva delicatamente con piedi di velluto, come per deferenza nei confronti della tristezza del luogo, toccando di tanto in tanto un albero o un pezzo di pietra che era rimasto ancora lì, come se volesse salutarli e al tempo stesso scusarsi per la sua presenza. Melanie si chiese cosa dovesse significare per lui tanta desolazione, perché era evidente che ai suoi occhi aveva un significato profondo. Non avrebbe mai immaginato che la mente di Finn potesse contemplare quel genere di paesaggio. Mostrandole quel luogo, invitandola a camminare lì insieme a lui, Finn faceva un grande gesto di amicizia, e a lei dispiaceva non esserne coinvolta più di tanto. «Ha l'odore marcio della mortalità» disse Finn, guardando verso un'invisibile distanza.
«E che odore è?» «Fango.» A lei non importava perché sentiva una fredda disperazione penetrarle nelle ossa, con la stessa sicurezza con cui l'umidità penetrava attraverso le suole leggere. Ma lo seguiva per non perdersi. «Tutti questi giardini erano pieni di statue» disse Finn. «Driadi, schiave, busti di grandi uomini, grandi uomini a cavallo e a piedi. Un bel progetto silvestre dove si poteva passeggiare con l'accompagnamento di una banda di ottoni. Sono riusciti a vendere alcune delle statue ma non riesco a capire chi possa averle volute. Ma il resto delle statue è rimasto perché non poteva sopportare di andarsene.» «Sei buffo quando parli.» Melanie si lamentò perché aveva i piedi bagnati. Lui si voltò per lanciarle un'occhiata al di sopra della spalla luccicante di pioggia. «Vuoi dire che parlo strano per un ragazzino che viene dal lavoro nelle torbiere?» Lei arrossì. «Ho letto qualche libro preso in prestito in biblioteca e poi Dio solo sa se vivere con tuo zio non è una forma di educazione.» Improvvisamente la terra cadde a strapiombo davanti a loro e riemersero in uno spiazzo aperto con un pavimento di marmo a quadretti bianchi e neri e una larga scalinata di pietra con una balaustra che arrivava fino al fondale asciutto di un lago ornamentale, che la nebbia aveva trasformato in una coppa di latte. La scalinata era decorata qua e là da figure classiche, drappeggiate, e ancora animate da una loro graziosa compostezza, da una postura elegante e discreta, anche quando mancava loro una mano o un braccio o avevano il naso rotto o addirittura erano state decapitate dall'esposizione alle intemperie, e malgrado fossero sporche di fuliggine e malridotte. Le scale erano ingombre di calcinacci e sassi. Attraversarono il pavimento in marmo di una pista da ballo. Ci sarebbe voluta un'orchestra d'archi a suonare un vecchio valzer. Melanie, pochi passi dietro a Finn, camminava cautamente, solo sui quadrati bianchi. Se non avesse calpestato nessuno dei neri forse, arrivata alla fine della pista, si sarebbe riscossa tremante, e finalmente sveglia avrebbe ritrovato il suo vecchio letto con le lenzuola a righe e avrebbe potuto dire buongiorno al melo e guardarsi il volto nello specchio che non aveva rotto. In effetti, non si era più specchiata. Il panico l'afferrò al pensiero che da allora non aveva più visto la propria immagine riflessa.
«Avrò ancora lo stesso aspetto? Oddio, mi riconoscerò ancora?» Timidamente, quasi vergognandosi della sua paura superstiziosa, si toccò le guance fredde e il naso con le dita intirizzite, senza guanti. Ma il tatto non le disse nulla. Attenta a come cammini, solo i quadrati bianchi. Ma questo poi, come poteva essere vero, com'era possibile che le stesse succedendo una cosa del genere? Camminare sui quadrati bianchi dietro a Finn, che si muoveva come se non toccasse terra con i piedi, con tanta grazia, con tanto mistero. E che cosa sarebbe successo se calpestava quelli neri? Sarebbe continuato tutto nello stesso modo. Quel gelido incubo sarebbe andato avanti per il resto dei suoi giorni, per sessanta o settanta anni? E se invece avesse camminato sulle righe, dove spuntava l'erba, quelle si sarebbero aperte per ingoiarla, così tutto (qualunque cosa fosse) sarebbe finito? Arrivata alla fine della pista passò sull'erba. Si era religiosamente attenuta ai quadrati bianchi. La corazza brillante di Finn era ancora lì, solida, di fronte a lei. Non sapeva se credergli oppure no. «Eccola qui» disse Finn teneramente. «Ah, la tua regina.» Alla fine della bassa barriera ornata da pilastri davanti alla pista da ballo, c'era un plinto di pietra a vari piani, decorato come una torta nuziale. Su un morbido pezzo di glassa qualcuno aveva scritto col rossetto la frase: «Gordon Cox (Cazzi) ha un cazzo gigante.» «Mi dispiace» disse Finn. «Devono essere stati dei vandali.» Da quel piedistallo molto tempo prima doveva essere caduta lateralmente un'alta figura che ora giaceva a faccia in giù in una pozzanghera, rispecchiandosi come Narciso. La figura si era spezzata in due all'altezza della vita e stava prona, formando un angolo retto. Funghi e melma la striavano ma nonostante ciò era evidente che si trattava, inconfondibilmente, di una ReginaVittoria al principio della mezza età. «Alberto stava all'altra estremità a farle da contrappeso» disse Finn. «Ma qualcuno l'ha portato via, mi chiedo spesso dove sia finito. Forse sarà stato felice, finalmente lontano da quella petulante.» Tirò fuori il fazzoletto e con delicatezza cercò di liberare dal fango il viso imbrattato. Melanie spinse col piede il torso staccato, ma non riuscì a spostarlo. «Non mi piace» disse istintivamente «E poi, poveretta, stare lì col naso schiacciato per terra, nel fango.» «Così è» sentenziò Finn, filosofico, e la avvolse nell'onda grigio-verde
dei suoi occhi. Stava facendo buio perché gli orologi erano stati spostati un'ora indietro qualche settimana prima, e tra la nebbia il tremolio confuso della città si fece più intenso, come un'impronta fuligginosa. Si accese qualche luce. Alberi e cespugli persero la precisione dei loro contorni spogli. I quadrati di marmo bianco del pavimento rilucevano come quelli di una scacchiera fantasma. Melanie sentì qualche goccia umida sul viso - forse era pioggia o l'umidità coagulata dell'aria notturna, o il vapore acqueo dello sguardo di Finn. Il ragazzo tirò fuori dalla bocca la gomma americana ormai esaurita e la piantò con gesto deciso sul poderoso sedere di pietra della Regina Vittoria. Quando lo vide fare quel gesto, Melanie capì che l'avrebbe baciata o che avrebbe tentato di farlo. Non era in grado di muoversi né di parlare. Aspettava con un'apprensione dolorosa. Se doveva succedere, doveva succedere, e poi almeno avrebbe saputo com'era essere baciata. Cosa che ancora non sapeva. Almeno avrebbe avuto quell'esperienza in più, anche se era Finn che la baciava. I suoi capelli erano calendule, o fiammelle di candela. Melanie rabbrividì davanti a quei denti macchiati. Erano separati dalla statua della regina caduta. Lui appoggiò con leggerezza il piede sulle natiche di pietra e saltò dall'altra parte, e preso da un bizzarro capriccio a mezz'aria, sollevò le maniche di plastica nera dell'impermeabile, agitandole e gracchiando come un corvo. Intorno a lei tutto si oscurò tra le spire avvolgenti del suo abbraccio. Era sconvolta e aveva voglia di piangere. «Cra-cra» fece eco l'impermeabile. «Non avere paura» le disse lui. «È solo il povero Finn, che non ti farà niente di male.» Melanie si rianimò un poco, anche se era ancora scossa da un tremito. Vedeva il suo viso rimpicciolito riflesso nelle pupille nere di quegli occhi subacquei. Aveva ancora lo stesso aspetto. Si salutò. Finn era solo un po' più alto di lei e i loro occhi erano quasi allo stesso livello. Melanie, vagamente, desiderava che fosse sette centimetri più alto. O dieci. Sentiva il fiato caldo della sua bocca da bestia selvatica lambirle morbidamente la guancia. Non si mosse. Rigida, legnosa e impalata, stava tra le sue braccia e si guardava riflessa nei suoi occhi. La consolava vedere che era proprio come credeva di essere. «Su, su, facciamola finita» si disse spazientita, sottovoce. Lui aveva un sorriso sinistro, come quello di Pan nel bosco. La baciò
chiudendo gli occhi cosicché lei non vi si poté più rispecchiare. Aveva le labbra bagnate e screpolate, raspose. A baciarla avrebbe potuto essere uno qualunque e poi non lo conosceva bene, se pure lo conosceva. Si chiese perché Finn lo stesse facendo, perché metteva le labbra sulle sue che non lo volevano, muovendo dolcemente il corpo contro il suo. Che bisogno c'era? Lei si sentiva lontanissima da lui e anche superiore. Pensò per un attimo che dovevano essere una bizzarra visione, come in una ripresa di un film inglese new wave, stretti in un abbraccio accanto alla statua rotta in quel morto parco dei divertimenti, col crepuscolo novembrino che gli mulinava intorno e i capelli di Finn così rossi, e i suoi così neri, filati insieme dalle morbide manine del venticello, capelli gialli e neri. Desiderò che qualcuno li stesse guardando o che lei stessa potesse guardare la scena, vederli, Finn che baciava quella ragazzina con i capelli neri, da un cespuglio a un centinaio di metri. Allora le sarebbe apparso romantico. Finn le infilò la lingua tra le labbra, cercando, incerto, la lingua di lei nella sua bocca. Quel momento la sconvolse. Cominciò a dimenarsi e a battere i pugni contro di lui, travolta dall'orrore per quella commistione intima e sensuale, per quella rude invasione del suo corpo, per quell'umiliazione. Ondeggiava avanti e indietro e quasi scivolò a terra nel fango, vicino alla regina morta, ma Finn non mollava la presa, senza badare ai colpi che lei gli infliggeva, tenendola leggermente per le spalle per non farla cadere. Quando si fu calmata un po', lui allentò pian piano la presa e Melanie fece qualche passo per allontanarsi, vacillando, e infilandosi le mani nelle tasche gli voltò le spalle. Lui si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Guardate alle mie opere, voi potenti, e state attenti!» disse alla statua. Poi recuperò la sua gomma americana, l'osservò per vedere se si era sporcata e se la rimise in bocca. Per cena ci sarebbero state le frittelle di patate, spaccate a metà, col burro che si squagliava nelle loro cavità dorate e magari anche le tortine con la marmellata, perché la zia Margaret stava facendo la pasta frolla. La cucina profumava. La luce ferì gli occhi di Melanie e il calore le fece formicolare il naso e le dita dei piedi. Victoria, per terra, usava i ritagli della pasta frolla come plastilina. «Un uccello» disse a Melanie tendendole una pallottola grigia. «Già, immagino...» rispose Melanie e si accovacciò accanto alla sorella e l'abbracciò perché era piccola e morbida e felice. Victoria si divincolò. «No!» disse «Ho da fare, devo giocare!»
«È un bell'uccellino» aggiunse Melanie con tono conciliante. «L'avevo riconosciuto subito.» «E ora me lo hai fatto rovinare!» rispose Victoria e per dispetto lo lanciò lontano, dall'altra parte della stanza, dove andò a colpire con forza il cane che dormiva su un fianco. Il cane si svegliò, lo annusò e se lo mangiò, dopodiché fece un rutto. Melanie non aveva mai visto un cane che ruttava, prima di allora: era decisamente il giorno delle prime volte. Continuò a starsene seduta afflosciata per terra. La zia Margaret si pulì le mani piene di farina sul grembiule anch'esso pieno di farina. «Avete fatto una bella passeggiata?» scrisse sulla lavagna. Il viso era affilato, luminoso e curioso. Forse immaginava che Finn l'aveva baciata? O magari l'avevano concordato tutti insieme da prima: uno scherzo? Ma era stupido pensare una cosa del genere. «Ho i piedi bagnati» disse Melanie. «Forse mi prenderò un raffreddore.» E poi il raffreddore si trasformerà in polmonite e io morirò e non importerà a nessuno. Pensò che Finn doveva essere andato giù in laboratorio. Era entrato con lei nel negozio, ma poi non l'aveva seguita in cucina. Melanie non voleva vederlo, non gli voleva parlare. Voleva starsene da sola in un posto senza luci. Corse a rifugiarsi nella sua stanza e si sedette sul letto rannicchiandosi nel suo impermeabile e tirando via i punti della fascia nera sul braccio. «C'è qualcosa che non va in me, visto che mi sono sentita così svuotata? E dopo è stato così orribile! C'è qualcosa di ancora più grave che non va in me, perché mi è sembrato tutto così orribile?» Oppure era così perché era stato Finn a baciarla e non un uomo come quelli tra le cui braccia si era immaginata, quando in passato aveva sognato scene del genere? E ora non sarebbe più riuscita a sognarle perché avrebbe pensato ai baci bagnati di Finn. Scoprì che aveva strappato via quasi tutta la fascia del lutto dalla manica e che non c'era altro da fare che staccarla del tutto. Le tende si agií?rono. Il geranio vi proiettava sopra un'ombra fantastica, le foglie sembravano ombrelli, i fiorellini cavoli. Le sbarre del lettino di Victoria erano nere e minacciose e la striscia di luce del pianerottolo sotto la porta sembrava tracciata con una matita brillante che da un momento all'altro avrebbe potuto impennarsi, tracciando sul muro la scritta luminosa «Lei non è normale». Per calmarsi cominciò a contare le rose sulla carta da parati. Riusciva appena a vederne le teste piene. Una rosa, due rose, tre ro-
se... e, nel cuore della terza rosa, un barlume di luce, un barlume rotondo. In principio lo guardò pigramente, poi con curiosità crescente: un buco nel muro, un buco tondo e netto, attraverso il quale filtrava la luce della stanza attigua. Alla fine si alzò e andò a chinarsi vicino al buco, che era delle dimensioni di una monetina da un centesimo. Ripensando alla prima notte, quando aveva osservato i Jowles dal buco della serratura della cucina, osservò tra sé che stava sempre a spiarli. Ora vide la terra incognita della stanza da letto dei fratelli, illuminata da una lampadina centrale senza paralume. Due piccoli letti bianchi con il riporto delle lenzuola che copriva la sopraccoperta di raso a patchwork. Sul pavimento un tappeto nero e marrone di quelli molto economici. Una sedia di legno dipinta a rose e castelli, come una chiatta. Doveva essere la sedia di Finn. Un quadrato di specchio appoggiato a un muro dipinto di rosa. Vicino allo specchio, un quadro. Si contorse per riuscire a vederlo meglio. Era uno strano quadro, quasi non credeva ai suoi occhi. C'era la zia Margaret seduta su un cuscino di primule, nuda salvo che per un mantello verde brillante buttato casualmente sulle spalle. La sua magrezza da carestia era addolcita dalla massa di capelli scarlatti che le aleggiava attorno. I peli pubici erano una montagna di fuoco. I seni sembravano sul punto di trasformarsi in rose. La pelle era di un bianco abbagliante. Finn doveva aver usato il bianco direttamente dal tubetto senza mescolarlo con altri colori. Lungo le guance bianche le rotolavano due pingui lacrime che luccicavano perché fatte con due perle di cristallo tonde e sfaccettate fissate sulla tela. Sulla testa aveva una ghirlanda florida e riccioluta di strani fiori, tulipani, primule e asfodeli, legati insieme e stretti con un fiocco verde da tutti e due i lati. Due cupidi stavano aggrappati ai fiocchi e agitavano i grassi piedini nell'aria. Erano di plastilina rosa, in bassorilievo. Plastilina. Il quadro aveva qualcosa di privato e segreto, come un sussurro al riparo della mano. Anche quello doveva essere un'allegoria, anche se non nello stile di Rubens. L'impermeabile di Finn stava a terra, vicino alla custodia del violino, simile alla bara di un nano. A un certo punto Finn attraversò il suo campo visivo. I suoi capelli sfiorarono le tavole scheggiate del pavimento, camminava sulle mani. Non c'era più niente che la potesse soprendere. Camminando in quel modo non faceva alcun rumore, solo un ciabattare di mani sul tappeto. Lei si sedette a valutare la natura di quello spioncino. Aveva i bordi netti e tondi ed era decisamente premeditato. Qualcuno
l'aveva fatto. Perché? Probabilmente per spiarla. Allora non era solo lei a spiare, e invece quando pensava di essere sola c'era qualcuno che la spiava, mentre si spogliava e si vestiva. Tutto il tempo, sempre, c'era qualcuno che la guardava. Da quando era in quella casa non le avevano lasciato neppure la sua solitudine, avevano invaso anche quella. Immaginò che dovesse essere stato Finn quello che l'aveva guardata di più, a meno che i due fratelli non facessero a turno. Ma per qualche motivo non riusciva a immaginare Francie che metteva l'occhio dietro il buco di una serratura, neppure una volta sola, tanto per vederla senza mutandine aveva la schiena troppo dura, il collo troppo rigido. Finn, era lui che la spiava, lui che le aveva messo la lingua in bocca. Diventò tutta rossa per la rabbia. «Quel porco!» si disse. «Ma che razza di animale!» E per di più in quello stesso momento stava camminando sulle mani nella stanza accanto. Era abbastanza furibonda da marciare in quella stanza e accusarlo; ma ci ripensò perché lui era furbo e veloce e lei non lo voleva vedere. Dopo averci pensato un po' mise una sedia davanti al buco e ci appese sopra una giacca, in modo da oscurare la visuale. Forse bastava così e poi non sarebbe più andata a passeggio con lui e non sarebbe rimasta più sola con lui se poteva evitarlo e lo avrebbe gelato con una semplice occhiata se avesse cercato di parlarle. Non era un amico. Una serie di rumori sordi dalla stanza accanto indicavano che stava facendo le capriole. 6 La zia Margaret aveva un solo gioiello oltre alla sua spessa fede nuziale. Era una strana collana che si metteva la domenica pomeriggio dopo pranzo, quando si levava i soliti stracci neri della settimana e indossava il vestito migliore che aveva. Il lavoro di una settimana era finito e lei, in quel brutto vestito da festa, aspettava una nuova settimana di duro lavoro. Era un vestito all'antica fatto di lana dura e di poco prezzo, il colore una tonalità spenta di grigio, una tonalità che era la negazione stessa del colore, la negazione di ogni possibile eleganza, un grigio deprimente e miserabile. Aveva il collo alto e le maniche strette, troppo corte per lei; i polsi ossuti e screpolati e le sue mani su cui ogni vena e ogni groviglio di tendini erano visibili, emergevano flosce, come se fossero cucite ai polsini e non avessero niente a che fare col resto delle braccia. Era il suo vestito migliore, perché era l'unico: il resto del suo guardaroba consisteva di tre o quattro gon-
ne nere e quattro o cinque maglioni neri informi, con i punti sfilacciati che venivano via dappertutto e la lana consumata sui gomiti. Il vestito scendeva giù dritto dalle spalle all'orlo, a metà polpaccio, in un'unica, lunga linea verticale. Le stava male, sfiorandole appena il corpo e stringendosi poi sui fianchi ossuti. Era difficile immaginare che se lo fosse scelto, che un giorno di un tempo ormai lontano fosse entrata in un negozio e si fosse provata un vestito dopo l'altro fino a che, preso quel tubo grigio e informe da un attaccapanni pieno di vestiti colorati, se lo fosse fatto scivolare sulla testa, per poi esaminarsi allo specchio nel camerino di prova, sorridere compiaciuta, battere le mani con approvazione e dirsi: «Questo sì che è carino. È proprio quello che volevo!» mentre una commessa riccioluta e profumata la guardava dicendo, «Sembra fatto apposta per lei, signora!» Era più probabile che l'avesse ereditato o comprato a una vendita di beneficienza, tanto per avere qualcosa con cui coprirsi, oltre al suo sempiterno nero. Oppure, ancora più probabile, poteva averlo trovato in un cassetto di un comò della sua stanza matrimoniale, scelto per lei dallo zio Philip, in quanto adatto per essere indossato la domenica da sua moglie. Era un abito misero e vecchio, puzzava di naftalina e anche, seppur leggermente, di anni di sudore rimasti intrisi nel tessuto, però era stato conservato bene e con cura. Inoltre era comunque il suo migliore vestito, quello della domenica, e come tale, malgrado la sua bruttezza, aveva una certa dignità intrinseca. In qualche modo poi, visto che non le stava bene, le scendeva goffo e veniva religiosamente conservato, sempre accuratamente smacchiato e spesso stirato e spazzolato, diventava perfino commovente perché la faceva sembrare molto più giovane. Era il genere di vestito buono che le brave ragazze potevano portare a scuola di catechismo, e quando se lo metteva le dava un'aria giovane e ingenua. Lo indossava con le calze coi buchi rammendati e le smagliature riprese, quelle che riservava per la domenica, e con delle scarpe dalla punta tonda e i tacchi bassi, col cinturino, molto vecchie ma sempre lucide, anch'esse riservate alla domenica. Allora, quando era tutta pronta, tirava fuori la collana da qualche scatola o da un armadio e se la metteva al collo per completare la sua mise. Era un collare di argento opaco, costituito da due parti di argento incernierate da due pietre di luna che le si chiudevano strette attorno al collo magro e le arrivavano fin quasi al mento, così che riusciva a malapena a muovere la testa. Era pesante, paralizzante e preziosa e aveva l'aria di esse-
re molto antica, pre-cristiana, o addirittura antidiluviana, anche se di fatto non lo era. Portato sopra quel vestito grigio e miserello, il collare aveva un'aria quasi sinistra, gotica e bizzarra. Quando lo indossava doveva tenere la testa dritta ed eretta come la regina di Assiria, ma il suo sguardo era ansioso, triste e tutt'altro che fiero. La domenica si pettinava i capelli con molta più cura del solito, sistemandoli in morbidi ricci e onde rosse. Con la sua insolita pulizia, quel collare sontuoso e quell'aria da ragazzina, assumeva una fugace, impressionante bellezza, come una lepre ridotta all'osso. Una strana bellezza che durava fino alla sera, quando andava a letto e si toglieva il collare. Quella bellezza soprannaturale così brevemente esposta ogni settimana, era quasi sconvolgente. Con Victoria sulle ginocchia e il capo regalmente eretto per via della pressione del collare, sembrava un'icona di Nostra Signora della Carestia, rappresentata come una sparuta giovane fanciulla. Quando portava il collare, faceva molta fatica a mangiare. Le cene domenicali erano sempre le stesse. Sempre gamberi, pane e burro, una ciotola di crescione e mostarda e una torta ricca, leggera e dorata di pan di Spagna, messa al forno al mattino insieme all'arrosto del giorno di festa che le dava un leggero sapore di grasso di carne bruciacchiato. Il tavolo era pieno di gusci di gamberi e il pan di Spagna veniva fatto fuori fino all'ultima briciola, ma tutto quello che lei riusciva a fare era sorbire penosamente il suo misero tè fino all'ultima goccia e giocherellare con qualche filo di senape e di crescione, anche se aveva preparato tutta quella roba. Lo zio Philip rompeva la schiena a un intero battaglione di gamberi rosa e procedeva a ingozzarsi con una pagnotta di pane su cui spalmava una montagna di burro, mangiando senza sosta. Quindi procedeva ad accaparrarsi la fetta più grossa della torta, e intanto guardava lei con un'aria soddisfatta e vacua, e sembrava contento di vederla imbarazzata, come se la cosa gli rinvigorisse addirittura l'appetito. «Non ha sentimenti» pensò Melanie. Ma era quel collare regale e paralizzante a rendere così bella la zia Margaret. Il faut suffrir pour être belle. Tempestato di pietre di luna, il collare era primitivo e barbarico, sarebbe stato bene al collo del mastino di un principe medievale a caccia col falcone in una miniatura persiana. Non era certo il tipo di cosa che poteva avere scelto da sola. Si poteva immaginare che le piacessero le perle coltivate, come quelle che aveva ricevuto Melanie per la cresima, o forse gli Strass o le spille con delicati, fragili fiori di pietre brillanti e piccoli pendenti d'oro con dentro le fotografie di bambini e morbidi riccioli dei primi capelli ta-
gliati. Ma lei era fiera del suo collare. Era di argento vero. «È stato il regalo di nozze di Philip» scrisse la zia sulla lavagna. «L'ha fatto lui stesso. Su suo disegno.» «Accidenti, com'è bravo!» esclamò Melanie. «Sa fare qualsiasi cosa, col legno o il metallo. Forse un giorno farà un gioiello per te.» «Sarebbe bello» disse Melanie educatamente. Ma tra sé pensò, «Dio non voglia!» A proposito di quel collare, Finn disse: «Sai, fanno l'amore la domenica notte, lui e Margaret.» Aveva gli occhi freddi come acqua e sputò, cosa che diede un tale fastidio a Melanie da impedirle di capire bene quello che aveva detto. Il suo sputo per terra riluceva come una scheggia di pietra di luna. «Non ti piace molto lo zio Philip, non è vero?» chiese. «Perché dovrebbe piacermi?» reagì lui toccandosi un gran livido viola sotto l'occhio destro. Era stata una brutta giornata, quella. Il cesello gli era sfuggito e si era tagliato fino all'osso, per cui non poteva lavorare. Perfino dal negozio Melanie aveva sentito lo zio Philip gridare: «Apposta! L'hai fatto apposta, brutto bastardo irlandese!» e poi i colpi sordi delle percosse. Dopo Finn era salito, cupo, muto e sanguinante. Le aveva mostrato l'orrenda ferita senza dire una parola ed era andato su dalla sorella per farsi fasciare. Stava seduto sul bancone del negozio, ora, e giocava col gruppo delle scimmie suonatriri con la mano sinistra che non si era ferito. Improvvisamente disse: «Che vada al diavolo!» e scaraventò il giocattolo in un angolo con grande violenza. Andò a sbattere contro il rivestimento di pannelli e poi s'infranse al suolo, brandelli dentati di latta. Il meccanismo musicale che conteneva morì con una nota stonata. «Oh, Finn!» «Mi piacerebbe distruggere tutto» ringhiò Finn, che era stato picchiato. Sembrava così giovane, un adolescente, mentre parlava in quel modo, proprio come un ragazzino che fosse stato picchiato dai bulletti del parco giochi e non potesse fare niente per vendicarsi tranne odiarli. «Vorrei sbottare, urlare, buttargli giù la casa, prendere Maggie e portarmela via, con Francie. Tornare in Irlanda, e vivere tranquilli laggiù, dove potremmo suonare tutti insieme e ogni tanto ballare un po' di step.» «E io e i piccoli? Che ne sarebbe di noi?» «Ah, non te lo so dire. Ognuno per sé.» Si cullò la mano ferita. Il livido,
come un segno nero, ne sottolineava lo strabismo. «Dovevo proprio farmi male alla destra? Proprio alla mano con cui dipingo?» Melanie andò a raccogliere i pezzi del giocattolo rotto. Aveva deciso di non parlare più con Finn, ma poi quand'era arrivato e si era messo seduto sul bancone non era riuscita a farne a meno. E poi se non parlava con lui non avrebbe avuto nessuno con cui parlare, a meno di non considerare la comunicazione con la zia Margaret, e la solitudine era insopportabile. Tutto sommato non era così coraggiosa da chiudere del tutto con Finn. E poi lui aveva l'aria di non averla mai sfiorata con la sua bocca umida e bollente. Così dopo un po' Melanie cominciò a pensare - visto che lui era così tranquillamente amichevole - di aver immaginato più di quello che era davvero successo, o addirittura di averlo inventato di sana pianta. Eppure se spostava la sedia vedeva lo spioncino. Di conseguenza non la spostava. «A proposito di Jonathon» disse. «Che fa lui quando lo zio Philip ti picchia?» Non le piaceva pensare a Jonathon come spettatore silenzioso di quelle scene di fredda violenza in laboratorio. «Lui non vede. Monta le barche.» «Non vorrei che il mio fratellino ne restasse sconvolto.» «Ha la testa altrove, per lo più. Tuo zio è entusiasta di lui. E probabilmente ne farà il suo apprendista, come ha fatto con me. Le barche hanno colpito molto tuo zio. Parlava di cominciare a fare le navi in bottiglia perché Jonathon non fa altro che barche. Ma quelle le fa bene.» «È una specie di follia.» «Più che altro si direbbe un'ossessione.» «Non so.» «Però ha solo dodici anni. Mi sembra troppo presto per essere ossessionati o posseduti da una mania.» «La maggior parte del tempo» disse lei lentamente «sembra che Jonathon non ci sia proprio. È come se il vero Jonathon fosse da un'altra parte e avesse lasciato una copia di sé perché nessuno si accorga che se n'è andato. È sempre stato così, anche quand'era piccolo.» «Quando si leva gli occhiali, sbatte le palpebre per il contatto degli occhi con l'aria» disse Finn. «I giudizi che gli davano a scuola dicevano sempre così: 'Jonathon potrebbe fare meglio se si applicasse'.» «Già, tipico dei professori, no? Non ti agitare per Jonathon, Melanie. Lui è contento. È fatto della stessa stoffa di tuo zio. Un vero Flower.»
«Un Flower» ripeté lei assaporando la stranezza del nome di cui non si era mai resa conto prima. «All'inizio mi sono chiesto, come doveva essere la mamma visto che c'è così poco dei Flower in tutti loro, visto che sono così bravi e puliti e usano sempre i fazzoletti e non si puliscono mai il naso sulla manica? Ma la vernice già comincia a venire via.» «Mia madre» disse Melanie, evocandola con difficoltà, «portava i guanti e il cappello e ogni tanto partecipava alle attività di associazioni benefiche.» Ma Finn non la stava più a sentire. Aveva ripreso a pensare alla sua mano ferita, uno sguardo feroce negli occhi velati. Quella sera Melanie fece i piatti da sola, visto che la zia stava facendo il bagno a Victoria. Una volta a settimana la zia Margaret sfidava quel mostro cancrenoso fumante, scoppiettante ed esplosivo che era lo scaldabagno, tutto per il bene di Victoria, per farle un bagnetto in pochi centimentri d'acqua verde moccio, salmastra e tiepida, che ci metteva dieci minuti a gocciolare giù da quel becco sbuffante e brutale dentro alla vasca. Melanie pensò che la zia Margaret era davvero coraggiosa a sfidare quello scaldabagno maniacale e ad accenderlo contro il suo desiderio, forzandolo a sputare acqua bollente o comunque ragionevolmente calda. Melanie aveva provato solo una volta a usarlo per riempire la vasca e quello era esploso con tale violenza che gli spazzolini avevano sobbalzato scossi nel loro sostegno e il bicchiere con la dentiera dello zio Philip aveva fatto un volo suicida dallo scaffale fino in terra, per fortuna senza rompersi. Dopodiché si era sempre lavata solo con l'acqua fredda tranne che nelle occasioni in cui riusciva a farsi dare un bollitore fumante dalla zia per lavarsi a pezzi in cucina o nello stretto lavandino del bagno. Le parti pulite della pelle apparivano man mano sotto la pezza umida con uno splendore da albicocca. Prima una gamba, poi l'altra. Si ricordava le immersioni quotidiane nell'acqua profumata. A volte, nelle appiccicose giornate estive, si faceva il bagno anche due volte al giorno, ma fino a che non fosse cresciuta e non avesse avuto un bagno tutto per lei non le sarebbe successo più. Lì era difficile perfino lavarsi bene i capelli. Finn e Francie non provavano mai ad accendere lo scaldabagno. Melanie non sapeva come facesse Finn a lavarsi, quando si lavava, se mai si lavava, ma Francie a volte riempiva una tinozza di latta ovale con l'acqua bollente dei bollitori e delle pentole che aveva messo a scaldare sulla macchina del gas e si lavava tranquillamente in cucina dopo essersi chiuso dentro. An-
che la zia Margaret faceva la stessa cosa, molto spesso, dopo aver spedito Melanie a letto presto. Ma lo zio Philip si faceva il bagno nella vasca una o due volte la settimana; sembrava esercitare una qualche forma di autorità occulta sullo scaldabagno, perché non succedeva mai che cominciasse a scoppiettare quando lo accendeva lui. Lasciava il bagno in uno stato terribile, con l'acqua sparsa a terra dappertutto e gli asciugamani fradici. Melanie non aveva mai scoperto di chi fosse il giocattolo di plastica che aveva visto nella vasca la prima mattina: tutto faceva pensare allo zio Philip, ma le sembrava improbabile. Comunque il bagno settimanale di Victoria era un rituale che assorbiva tutta l'attenzione della zia Margaret e che richiedeva un bel po' di tempo. Melanie era da sola in cucina, al caldo, soddisfatta e compiaciuta perché il lavoro per quel giorno era finito. Le pentole sulla credenza e le sedie con il sedile alto e dritto e il tappeto di stracci, tutto sembrava al suo posto e in pace col mondo intero. Stare in cucina era piacevole e Melanie canticchiava sottovoce mentre appendeva le tazze ai ganci e metteva a posto i piatti. Aprì il cassetto della credenza per riporre i coltelli e i cucchiai. Nel cassetto della credenza c'era una mano da poco mozzata, tutta piena di sangue alla radice. Aveva un'aria morbida e rotondetta, con le dita belle e affusolate e le unghie laccate di un leggero smalto perlaceo. Sull'indice portava un anellino d'argento di quelli che mettono le bambine. Era la mano di una bambina che va a lezione di danza e indossa le sottovesti con i volants e le mutandine abbinate. Dal modo in cui la carne era strappata sul polso sembrava fosse stata recisa dal braccio con un coltello o un'ascia tutt'altro che affilata. Melanie sentì il sangue che gocciolava nel cassetto. «Sto impazzendo» disse ad alta voce. «Qui è passato Barbablù.» Chiuse il cassetto e si appoggiò alla credenza. Era fradicia di sudore ma aveva la bocca secca. Dopo un attimo le ginocchia le cedettero e scivolò a terra tra una tintinnante pioggia di posate. I mobili della stanza cominciarono a ballare, le sedie a dondolare prima su una zampa, poi sull'altra. La tavola attaccò uno sgraziato valzer. Il cucii cominciò a girare su se stesso come una trottola. Melanie giaceva al suolo, paralizzata e col terrore di muoversi. La cosa successiva che sentì fu una tazza che qualcuno le teneva vicino alla bocca. Nella tazza c'era acqua intorbidita per l'aggiunta di whisky. Francie l'aveva messa seduta e la sosteneva col braccio. Con una mano teneva la tazza e con l'altra una bottiglia aperta da un quarto di Teacher's Hi-
ghland Cream. Benché Francie avesse le mani occupate, Melanie si sentiva al sicuro. Vedeva i piccoli peli biondi nelle sue narici. E i denti le sbattevano contro la tazza. «Brava, bevilo, bevi» disse Francie. Oggi portava una cravatta con una spilla di metallo grigio molto annerito che rappresentava la croce di Santa Brigida. La cravatta era blu scuro a strisce rosse diagonali. Le guance erano come carta vetrata per la barba che spuntava. Aveva proprio un'aria da irlandese. Melanie era felice che fosse stato lui a trovarla, col suo vestito blu aviazione e la sua spilla da cravatta. «Sei una persona normale» gli disse benedicendolo. Lui sorrise col suo sorriso rustico. «Sì» disse. «Proprio un uomo normale.» Melanie gli abbandonò la testa sulla spalla. «Sono caduta.» «Forse sei svenuta. Ero venuto per la mia resina e tu stavi per terra. Col cane che ti annusava.» Parlava come se non avesse mai pensato a quali parole usare e le dovesse inventare man mano che descriveva i concetti informi e ingombranti che aveva in mente. Il cane con gli occhi pieni di preoccupazione le spingeva il muso sul palmo della mano, tirando su col naso e facendo rumori rassicuranti. Melanie fece uno sforzo per accarezzarlo. Improvvisamente lei e il cane erano amici. Sorbiva il whisky dolce e annacquato e cominciava a sentirsi meglio. «Avrei giurato che bevessi whisky irlandese» disse curiosa. «Va tutto giù allo stesso modo» rispose lui. «Anche se mi piace un goccio di roba buona.» Parlava lentamente, con voce stridente, come un carro tirato da un vecchio cavallo saggio lungo una strada sconnessa. Lei finì di bere sorridendogli al di sopra del bordo della tazza. Lui stesso si prese un sorso appoggiandosi a lei nel farlo. Poi le chiese: «Che succede, piccola?» Melanie fu scossa dai brividi e venne ripresa dall'incubo. «C'era qualcosa nel cassetto dei coltelli. L'ho visto. Sanguinava.» «Nel cassetto dei coltelli? Ma ci tiene i coltelli, solo i coltelli. Maggie non ci terrebbe altro. Dopotutto è il cassetto dei coltelli» «Vai a vedere. Fallo per me. Vedi se c'è ancora.» «Prima ti metto comoda sulla sedia, piccola.» Le faceva bene al cuore che la chiamasse piccola. La trasportò facilmente sulla poltrona dello zio Philip e ce la sistemò, avvicinandole la stufa elettrica. Poi andò ad aprire il
cassetto. Melanie si morse il pugno per la paura e il nervosismo. «Non c'è niente» disse. «Solo coltelli e forchette. E anche cucchiai. Cucchiai. Devi aver sognato.» «Sei proprio sicuro? Voglio dire, certissimo?» Scuotendo la testa Francie aprì e chiuse il cassetto più volte come a dimostrarne l'innocenza. «Che cosa credevi di averci visto, bambina?» «Una mano» disse lei. «Mozzata.» Lui si voltò a guardarla stupito. Aveva gli occhi grigioverdi come quelli di Finn, ma con dentro delle calde pagliuzze marroni, occhi che scrutavano dritti e candidi davanti a sé come se abbracciassero tutto quello che c'era da vedere senza dover scorrere da un lato all'altro. «Che cosa terribile!» pensò per un attimo. «Forse pensavi alla mano ferita di Finn e quello ti ha fatto credere di aver visto una mano?» «Non lo so, non lo so!» «Ora ti preparo una bella tazza di tè che ti calmerà.» Riempì il bollitore e lo mise sul fuoco con cura, ma malgrado ci avesse fatto attenzione fece cadere un po' d'acqua sul pavimento. Il suo corpo impacciato si piegava ad angolo retto sotto il peso della sollecitudine. «Quant'è carino,» pensò Melanie «e dire che non ci avevo fatto neppure caso fino a ora.» Era certa di aver visto una mano nel cassetto. Una mano con piccole unghie rosa e un anello d'argento a un dito. Il quarto dito, da cui parte una vena che arriva al cuore. Ma Francie non aveva visto nessuna mano e lei si fidava di Francie. Mentre beveva il tè caldo e dolce lui continuava a guardare nel cassetto, e a tirarne fuori il contenuto facendo schioccare la lingua. «Niente» disse. «Niente che si possa scambiare per una mano, a meno di non pensare che sia ancora per effetto del tuo dolore. Il dolore per la perdita che hai subito può farti vedere cose che non ci sono. È assolutamente normale.» Lui era fuori luogo tra le pentole, le padelle, i cani pastore di gesso e le cuccume di coccio. Era come una statua dell'Isola di Pasqua, brutta e antica, ideata in base a un modello precedente, diverso da quello della maggioranza degli uomini, così che non ti veniva in mente, guardandolo, che avesse un cuore buono. La sua dolcezza era travolgente e inaspettata, come quella della primavera nel suo paese, dove nei campi crescono solo rocce e
qualche filo d'erba. Melanie finì il suo tè e lui buttò il fondo nel lavandino. «Guarda» le disse, mostrandole il fondo della tazza dove le foglie del tè miste allo zucchero sciolto formavano un disegno. «È una nave. Questo vuol dire un viaggio.» «Per me?» chiese Melanie, senza riuscire a dissimulare la speranza e il desiderio. «O per qualcuno. Ma non stai bene. Devi andare a letto.» «Be', sì, è vero» ammise lei. «Ma devi aiutarmi ad andare su. Mi sento ancora le gambe molto deboli.» Nella sua stanza illuminata da una luce blu la zia Margaret stava ancora infilando la dolce Victoria, tutta pulita dopo il bagnetto, dentro la sua camicia da notte, e nell'aria c'era la nebbia profumata del talco. Tutte e due si stavano rotolando sul letto di Melanie, divertendosi un sacco. La zia Margaret, radiosa, faceva il solletico sul torace e sotto i piedini morbidi di Victoria, la lanciava in alto e la faceva rotolare mentre la bambina era in preda alle convulsioni per la gioia. Era una meraviglia vedere la zia Margaret così felice. I capelli le si erano sciolti e c'erano le forcine sparse dappertutto. «Melanie è svenuta.» Il gioco s'interruppe immediatamente. E l'angoscia si dipinse sul volto della zia, lavando via la gioia. Prese tra le braccia Victoria, ignorandone le proteste, le diede un bacio veloce e la mise nel lettino, facendo segno a Melanie di sdraiarsi. Accarezzò la fronte di Melanie col tocco fresco delle sue mani simile a un vento di pioggia. Le parole che non poteva dire sembravano pulsare dentro di lei. Tra lei e Francie sembrò passare una qualche forma di comunicazione non verbale, qualcosa di troppo profondo e troppo personale perché Melanie potesse capirlo. Poi Margaret sorrise accarezzandole ancora il viso con tale tenerezza che Melanie chiuse gli occhi e immaginò che fosse la sua mamma ad accarezzarla, o comunque una mamma che accarezzava la sua bambina. Ma non fece a tempo a chiudere gli occhi che la mano mozza le riapparve in un lampo come un fotogramma di un film dell'orrore e lei emise un lamento, dibattendosi. «Buona, buona» le disse Francie. Lui e la sorella erano in piedi ai due lati del letto, chini su di lei come per proteggerla dai pericoli della notte, facendole scudo con il loro stesso corpo. Davanti agli occhi abbacinati di Melanie, sembravano fondersi, come un arco vivo che si piegasse protettivamente sopra di lei, un arco sotto il quale avrebbe potuto dormire tranquilla.
Matteo, Marco, Luca e Giovanni Benedite il letto dove dormo Come quattro angeli attorno al mio sonno... Non quattro, ma tre angeli. Anche Finn era apparso ai piedi del letto. Tutta la tribù dei rossi accendeva per lei i fuochi che avrebbero tenuto lontani i lupi e le tigri di quella spaventosa foresta in cui viveva. «Rimarrò con lei fino a che non s'addormenta» disse Finn. Era il fratello di Francie e la donna muta era sua sorella. Non poteva farle del male. «È solo il povero Finn, che non ti farà del male.» Glielo aveva già detto, ma lei allora non gli aveva creduto. Be', ora gli credeva. Francie e Margaret le diedero baci leggeri, asciutti e affettuosi su entrambe le guance. Poi scomparvero. C'era una luce per la notte, mentre quella centrale era spenta. Lei non capiva da dove venisse quella luce morbida. Veniva da una candela che bruciava accesa su un piattino bianco e blu pieno di fiammiferi. Finn era seduto su una sedia accanto al letto. Nella semioscurità i suoi capelli scompigliati sembravano emanare a loro volta raggi luminosi. Le ombre ne incidevano profondamente i tratti cosicché le sembrava di poter vedere il profilo del cranio, il duro mistero del teschio. Teneva le mani placide e conserte sulle ginocchia. Ormai la fascia era sudicia. «Ti fa ancora male dove ti sei tagliato, Finn?» gli chiese mezza addormentata. «Non è stato mortale. Sopravviverò.» Nella stanza accanto, Francie stava accordando il violino e la zia Margaret provava il flauto. «Vuoi che li mandi via o riesci a dormire lo stesso?» «Mi piace sentirli.» Victoria, ignorata da tutti, già dormiva, facendo nel sonno un mormorio simile a quello di un favo pieno di api. Finn accese una sigaretta e il fumo gli si avvolse intorno in volute. Erano vicini, intimi. «Finn,» chiese lei a causa del sonno incipiente che le allentava i freni inibitori, «perché hai fatto lo spioncino nel muro per guardarmi?» «Perché sei così bella» rispose lui in un sussurro della sua bocca rossa più del vino. Avrebbe potuto essere il suo sposo fantasma addormentato e, vinta, lei si assopì. Dopo quell'episodio, superata ogni riserva, Melanie prese ad amarli tutti.
Non pensava che sarebbero potuti uscire dal loro privatissimo cerchio incantato. Ora anche lei si sentiva parte di quel cerchio. Adorava soprattutto Francie e gli lucidava le scarpe quando si presentava l'occasione ed era felice di aiutare la zia a rammendargli i vestiti. Aveva deciso che il suo destino era con i Jowles. Loro l'avevano adottata e sorridevano quando entrava nella stanza. Le piaceva perfino fare i lavori di casa con la zia Margaret; aveva un suo ruolo preciso nella conduzione della casa. Le era di grande aiuto. Un giorno, mentre preparavano la cena, la zia Margaret scrisse col gesso: «Non capisco come potevo farcela prima che arrivassi tu. È bello avere un'altra donna in casa.» Melanie si mise a giocare con i rubinetti del lavandino per nascondere l'imbarazzo e il piacere. Era piena di compassione per la zia, il cui silenzio sembrava così disperato quando non c'erano i fratelli. «Deve vivere per i suoi fratelli» pensò Melanie. «Deve aver sposato lo zio Philip solo per dare loro una casa quand'erano piccoli. Come può aver mai provato qualcosa per lui come uomo?» Lo zio Philip non parlava mai alla moglie salvo che per abbaiarle qualche brusco comando. Le aveva regalato un collare che la strozzava. Picchiava il fratello più giovane. Raggelava l'aria in cui si muoveva. La sua presenza torreggiante, il suo sguardo vuoto a capotavola succhiavano via il sapore dalle cose che lei preparava. Aveva soppresso l'idea stessa della risata. Melanie aveva deciso da che parte stare la notte in cui vide la mano: cominciò a odiare lo zio Philip. E lui ancora non le si era mai rivolto chiamandola per nome né aveva dato segno di aver registrato l'esistenza di Victoria. Le guardava in cagnesco quando erano sedute a colazione, spegnendo ogni mattutina allegria in cucina, e la sera le esaminava duramente come per vedere in che modo le aveva ridotte il giorno trascorso. Per il semplice fatto di stare seduto lì, riusciva a rendere la camera da pranzo fredda e senza vita, come una stanza di una pensione per commessi viaggiatori. Sapeva che le sue nipoti vivevano in quella casa. Le vedeva, ma non rivolgeva mai loro la parola, perché aveva altro da fare. Melanie capì ben presto in cosa consisteva questo 'altro'. Un giorno stava preparando i cavoletti di Bruxelles per cena, intagliando una croce nel fondo di ciascuno come le aveva insegnato la zia. La zia Margaret quel giorno aveva i nervi a fior di pelle. Aveva saltato poche maglie del suo lavoro ai ferri (stava facendo un golfino di angora giallo per Victoria) e sussultava ogni volta che il campanello del negozio suonava o
il pappagallo borbottava qualcosa tra sé. Adesso stava spuntando tutta agitata le cotolette di agnello, tagliando via da quella dello zio Philip il grasso che lui non sopportava, e di tanto in tanto lanciava un'occhiata a Melanie e apriva e richiudeva la bocca con aria angosciata. Come se non ce la facesse più a sopportare il suo stato d'ansia, a un certo punto prese il gesso e scrisse: «Domani c'è uno spettacolo.» Quel giorno aveva tutte e due le calze smagliate e i capelli sfuggivano dalla crocchia da ogni parte. «In che senso?» «I burattini. Uno spettacolo di burattini. Dobbiamo andare tutti ad ammirare i burattini. È un evento speciale per voi bambini che non l'avete ancora visto.» «Bene» disse Melanie. «Be', sarà una novità.» Incise un'altra croce chiedendosi vagamente se avesse un significato religioso. Erano irlandesi, voleva dire che erano anche cattolici? Non lo sapeva, ma sapeva che non andavano mai in chiesa. Lei non era mai stata minimamente interessata ai burattini, visto che li faceva lo zio Philip. La zia Margaret ripulì la lavagna per farsi più spazio. «Non capisci. Per lui è molto importante!» «Ah» disse Melanie, confusa. Non capiva come mai la zia facesse tante storie per uno spettacolo di burattini. Il giorno dopo era domenica. Ci sarebbe stato l'arrosto per cena e il negozio sarebbe rimasto chiuso. La zia Margaret le disse di vestirsi con i suoi abiti più belli e Melanie si mise un vestito che non aveva mai indossato a casa dello zio, uno dei suoi vestiti buoni dei vecchi tempi, di velluto verde scuro col merletto intorno al collo. Era rimasto appeso senza vita nell'armadio per quasi tre mesi. Ora si sentiva abbastanza forte da scuotere via i ricordi da quel vestito. Accarezzò la gonna con la mano e desiderò, ancora una volta, di possedere uno specchio dove guardarsi, per rendersi conto di quanto era cresciuta dall'ultima volta che l'aveva indossato, per un'allegra vacanza pasquale bianca e rosa. O anche per vedere se era invecchiata e se era cambiata. Si pettinò i capelli lasciandoli sciolti per far piacere a Finn. Le erano cresciuti di un centimetro e mezzo ed erano duri e sgradevoli al tatto perché non li lavava più nel modo giusto ma si arrangiava con un bollitore d'acqua nel lavandino della cucina. E questo era particolarmente difficile proprio perché erano così lunghi. Sarebbe stato ragionevole tagliarli corti, ma il fatto era che le erano cresciuti quando i suoi genitori erano ancora vivi e tagliarli le sembrava una forma di tradimento della memoria. I suoi capelli non erano mai perfettamente puliti ma ormai si stava abituan-
do a non essere mai del tutto pulita in senso assoluto. Dopo cena suo zio e Finn andarono di nuovo in laboratorio e la zia si mise il vestito grigio e il collare d'argento e si fece i capelli. Il bavaglino sporco di Victoria fu sostituito dal vestitino di flanella a fiori di Vyella e dalla sua faccia venne lavata via ogni traccia di budino di cioccolato. Il collo e le orecchie di Jonathon furono esaminati e puliti di nuovo, con una pezza umida, e gli fu dato ordine di cambiarsi la camicia. Comparve Francie col violino nella sua custodia; sulla cravatta portava la spilla a forma di arpa. «Mi piace la tua arpa» disse Melanie perché gli voleva bene. «Me l'hanno regalata la sera di San Patrizio,» spiegò «al Dagenham Irish Club.» Erano tutti pronti, lindi e pinti, come per andare in chiesa, con i vestiti buoni della domenica. Si diressero al piano di sotto col cane che li seguiva proprio con l'aria di un cane che stia facendo il suo dovere. Nel laboratorio regnava l'ordine e c'erano quattro sedie di fronte al palcoscenico del teatrino dei burattini. Erano le sedie con l'alto schienale del salottino nel retrobottega. Melanie non era più tornata in laboratorio dopo quella prima mattina. Cercava di non guardare i burattini smembrati appesi alle pareti. Le sfarzose tende rosse erano gonfie e dietro di esse si udivano colpi e rumori sordi. Si sedettero cerimoniosi, sistemandosi il vestito buono intorno alle gambe. Attaccato alle tende c'era un cartello scritto con l'inchiostro rosso: VIETATO FUMARE. Sulla parete, un manifesto dai colori sgargianti annunciava: «GRANDE SPETTACOLO - IL MICROCOSMO DEI BURATTINI DI FLOWER» con una grande figura in cui grazie ai baffi e al collo ad ala, lo zio Philip era riconoscibile, con il mappamondo in mano. Doveva averlo dipinto Finn. Finn emerse teso e preoccupato dal sipario. Spense le luci e tornò di corsa dietro le quinte. Erano lì seduti al buio, in trepidante attesa. Dall'alto venne un ruggito soffocato: «Suona quel maledetto violino, Francie Jowle! Perché ti tengo, altrimenti?» Francie accordò lo strumento e cominciò a suonare un'inattesa musica da sala da tè. Melanie lo guardò sorpresa, ma la sua faccia era priva di espressione, una pietra. Si aprì il sipario, rivelando la grotta blu pavone che aveva visto quell'unica volta. Ora era illuminata cupamente in verde e la marionetta col tutù bianco era in piedi di fronte a loro con i capelli raccolti in uno chignon da ballerina, le labbra di legno atteggiate a un sorriso troppo dolce. Era sostenuta da una rete di fili. Con uno scatto si mise en pointe su
una gamba di legno ed eseguì delle piroette. Mentre Francie suonava, lo zio Philip recitò: «Morte di una silfide, ovvero Morte di una ninfa del bosco». Poi commentò ad alta voce, «Povera bambina» era addirittura sentimentale. La marionetta allargò le braccia e fece un salto all'indietro. La zia Margaret cominciò ad applaudire energicamente, invitando Melanie a unirsi a lei. Applaudirono in coro. Le loro mani producevano un'agitazione sottomarina come di alghe mosse all'unisono. Quando la zia Margaret smetteva di applaudire, anche Melanie si fermava. Adesso la marionetta alzò le mani sopra la testa e oscillò da una parte all'altra del palcoscenico. I suoi piedi di legno (dentro le pantofoline di raso rosa) facevano tic toc sulle tavole. La luce si fece sempre più densa fino a che lei non apparve come una ballerina dentro una boccia di vetro verde. Si portò le mani di legno sul cuore e rovesciò il capo all'indietro e poi in alto. Dal cielo piovvero e volteggiarono nell'aria foglie di carta ritagliata di ogni forma, dimensione e colore. «Che strana signora» disse Victoria a voce alta. La zia Margaret si affrettò a scartare una caramella con cui chiuderle la bocca. «Con l'avvicinarsi dell'autunno,» intonò lo zio Philip «la ninfa del bosco sente la sua fine appressarsi.» La zia Margaret applaudì. Melanie applaudì. Poi si fermarono. Il violino singhiozzò e pianse. La ninfa tentò un arabesco finale ma lo sforzo si dimostrò eccessivo per il suo cuore debole. Crollò con grazia in una fontana di tulle bianco mentre le foglie fitte e veloci riempivano la grotta. Si spensero le luci, si chiuse il sipario. Francie fece risuonare un'ultima nota lamentosa e poi allontanò il violino dal mento. Melanie e la zia Margaret applaudirono fino a farsi male alle mani. Si aprì il sipario, rivelando di nuovo la ninfa, che sorrideva e faceva legnosi inchini. Poi si richiusero le tende e Melanie e la zia Margaret continuarono ad applaudire. Il sipario si aprì di nuovo e lo zio Philip si presentò vicino alla sua bambola, sorridendo orgoglioso. Sì, proprio così, sorridendo, con un sorriso da pescecane a trentadue denti. A Melanie tornò in mente il sorriso scialbo, professionale, da industria dello spettacolo che aveva visto sulle facce dei burattini-acrobati. Lo zio fece un profondo inchino. Era vestito con gli abiti buoni consunti, calzoni a righe e giacca da sera con un garofano bianco all'occhiello e una cravattina a farfalla di quelle a clip. Il garofano era finto e i vestiti avevano tutti l'aria di essere vecchi e fuori uso come se fossero rimasti per anni dentro boccioni di formalina. Era il suo
costume da burattinaio. La ninfa ondeggiava pericolosamente ora che a controllarla dall'alto era Finn. Oscillò e andò a sbattere contro lo zio Philip che lasciò cadere la sua giovialità come un mattone e agitò il pugno minaccioso in direzione di Finn sopra la sua testa. Finn era un burattinaio privo di esperienza e poco pratico. «Attento a te, giovane Finn!» La zia Margaret si affrettò a tirare fuori dalla borsa un mazzo di rose di carta che lanciò sul palco. Sfiorarono la testa della marionetta e caddero a terra. Lo zio Philip le raccolse e le infilò bruscamente nello spazio tra il petto di legno della marionetta e il suo corpetto di raso bianco. Dopo esere riapparso ancora due volte per gli inchini e gli applausi, lo zio abbaiò: «Luci!» e Francie le accese. Tutto lo spettacolo doveva essere durato circa sette minuti. «È finito?» mormorò Melanie. La zia scosse la testa con forza e le mise una caramella in mano con una leggera pressione delle dita. Dentro la carta della caramella aveva scritto un messaggio: «Fai vedere che ti diverti, fallo per me e per Finn.» Melanie per farle piacere sfoggiò subito un largo, luminoso sorriso. Francie accettò una caramella. «Sei un violinista fantastico» gli disse Melanie. Lui masticò e si mise un dito sul naso con aria pensosa. «Non per questa robaccia» disse. «Ma faccio del mio meglio, sono bravino con le gighe e il reel.» Finn attraversò il laboratorio in un lampo e uscì dalla porta. Fece ritorno trascinando un elaborato trono dorato in cartone. Aveva la faccia rigata di nero e di sudore. Le tende si gonfiarono ondeggiando. «Come una vela» disse Jonathon. La zia Margaret gli diede una caramella. Lui non la mangiò e se la mise nella tasca dove sarebbe rimasta dimenticata per mesi. «Posso andare adesso?» chiese. Melanie fu colpita dall'orrore che si dipinse sul volto della zia. «Non ancora, Jonathon.» «Spegni le luci, Francis Jowle, e accorda il tuo violino!» Le tende si aprirono di nuovo mentre Francie suonava «Greensleeves». Una luce artificiale dorata riempì la stanza rivestita di pannelli di legno con un fregio di unicorni che si affrontavano incornandosi. In cima a tre scalini posti al centro del palco c'era il trono di cartone.
«Holyrood Palace» disse lo zio Philip. La moglie e la nipote applaudirono con giudizioso entusiasmo. «Una scena storica» annunciò. «Maria, regina di Scozia, e Bothwell hanno un incontro segreto.» Francie cominciò a suonare il tema d'amore dall'overture del «Romeo e Giulietta» con un uso eccessivo, forse ironico, del tremulo. Entrò una marionetta con una bella fronte bombata, con grande fruscio di velluto nero. Applausi. La marionetta s'inchinò. Salì per le scale, uno due tre - un attimo di tensione sul tre perché il piede di legno rimase sospeso sopra lo scalino per un lungo momento prima di scendere a terra. La regina si girò lentamente tutt'intorno e poi si sedette. Portava un collare come quello della zia Margaret, ma a lei non avrebbe rovinato il collo perché era fatta di legno. La zia Margaret di nascosto si passò la mano sul suo nodo scorsoio d'argento come se la vista del collare della regina le avesse ricordato quanto le faceva male il suo. Ci fu una lunga pausa durante la quale le dita abilmente articolate della regina giocarono con una sfera d'oro. Poi entrò Bothwell. Era un bel burattino con un mantello rosso e un cappello piumato. Portava baffi lunghi e arricciati e una barbetta da capra, ma si muoveva incerto, a tentoni, e Melanie immaginò che fosse Finn a reggerne i fili. Bothwell camminava con l'andatura vacillante di Francie. Passò un'eternità prima che arrivasse al centro della scena mentre rumori di sommovimenti sismici e lamenti attutiti dall'alto indicavano che lo zio Philip non era contento di Finn. Melanie sentì sussultare la zia Margaret vicino a lei. Mary, regina di Scozia, scese dal suo rostro e tese le braccia in segno di saluto. Bothwell alzò le braccia. «L'incontro degli amanti» commentò lo zio Philip. Le marionette si abbracciarono e i loro volti si scontrarono producendo una sorta di codice morse della passione, abbracciati in un turbine di velluto rosso e nero. La zia Margaret e Melanie batterono le mani sempre di più. L'abbraccio non finiva mai. Francie finì la sua esecuzione del tema dall'overture del «Romeo e Giulietta» e cominciò a suonare il Liebestod dal «Tristano e Isotta» alla maniera di una lenta aria. Melanie si sentiva formicolare le mani ma non smise di applaudire. I burattini si strinsero e rimasero avvinti come se non si volessero staccare più. Cominciò a montare la tensione. Come un disco incantato continuavano a ripetere inesorabilmente un abbraccio dopo l'altro. Lo zio Philip produsse di nuovo il suo sordo rumore di tuono. Ancora abbracciati, i burattini si avventarono con violenza uno contro l'altro, come vinti dalla con-
cupiscenza. Melanie si accorse con un tuffo al cuore che quella scena non era nel copione. Gli applausi andarono spegnendosi. I fili di Bothwell erano sventuratamente intrecciati con quelli della sua amante regale; davvero stretti in un inestricabile nodo d'amore. I burattini cominciarono a lottare. Mentre Francie continuava a suonare il Liebestod, la zia Margaret si fece sempre più piccola sulla sedia, coprendosi gli occhi e aspettando la fine. Jonathon fissava davanti a sé con sguardo vacuo e vedeva solo l'albero maestro e una ricca vela rossa. Nell'aria volteggiavano i gabbiani facendo il loro verso sopra la sua testa. Victoria, annoiata, si sollevò il vestito, tirandosi giù le mutandine bianche di maglina per assicurarsi che l'ombelico fosse ancora al suo posto. C'era. «Posso avere un'altra caramella?» chiese, ma fu ignorata. Si sentì un rumore spaventoso di fil di ferro che si strappava. Finn era finalmente riuscito a liberare Bothwell ma solo spaccandone i fili di controllo. Bothwell si accasciò al suolo in uno spinoso alone di fil di ferro. Batté la testa sugli scalini del trono come per chiedere di assurgervi. Mary tentennò indietreggiando. Francie smise di suonare a metà cadenza. Seguì un silenzio di tomba. Rotto dal chiaro, irrefrenabile scoppio di risa di Finn. Che poi si modulò fino a diventare un grido acuto. In quel momento Finn venne giù, cadendo dallo spazio sopra il proscenio proprio come erano cadute le foglie, solo che il suo impatto non fu lieve. I capelli dritti nell'aria dietro di lui, come la coda di una cometa. Sprofondò per un interminabile secondo, con gambe e braccia aperte, abbandonate. Dimentico, si rotolava sul palcoscenico dove finì sdraiato sulla schiena sopra Bothwell, col mantello colore del sangue. Mary, regina di Scozia, girò i suoi regali tacchi e uscì traballando di scena, a testa alta. I suoi passi e il leggero rumore delle membra legnose che si strofinavano nell'incedere risuonarono come il meccanismo di una bomba a orologeria. Victoria cominciò a frignare. Jonathon spinse indietro la sedia e si alzò. «Penso che sia finito» disse. «Io vado» e se ne andò. Lente lacrime scorrevano sul volto della zia Margaret, andando a bagnare le guance di Victoria, che lei cercò di confortare, ostacolata nel movimento dall'odioso collare. Francie si chinò accanto a loro per proteggerle con la dura muraglia del suo corpo «Come fa a piangere senza fare nessun rumore?» si chiese Melanie. Finn non si mosse.
«Forse è morto? È per questo che lei piange tanto» pensò Melanie. «E se fosse morto davvero? Oddio, fa' che non sia morto!» Finn continuava a rimanere immobile, ma aveva gli occhi aperti, sbarrati sul nulla. Sembrava rotto come il giocattolo che aveva tirato contro il muro. Tutto il suo bel meccanismo era andato in frantumi. Melanie cercò di afferrare tutto l'orrore dell'idea che Finn fosse morto, ma non riuscì a connettere i pensieri per via del suono spaventoso del silenzio della zia Margaret. Lo zio Philip, scuro e gigantesco, comparve sulla scena, sistemandosi la cravatta a farfalla, che era andata di traverso. Diede un calcio nello stomaco a Finn, che non si mosse. «Non li toccherà più, i miei adorati burattini» disse. La sua voce era pastosa e dura come un salame di campagna. «Non gli farò mai più toccare i fili nemmeno con un dito!» Scostò il corpo di Finn da quello di Bothwell con la stessa disinvolta brutalità di un nazista che sposta i cadaveri ammucchiati in un documentario sui campi di concentramento. Tirò su il burattino e lo strinse a sé. Alla fine, lentamente, Finn si mosse, cercando di sollevarsi su un fianco e poi a quattro zampe. Strisciò come un cane, ansimando. Aveva la faccia più bianca di quella di sua sorella nel quadro che aveva dipinto. «Se almeno mi avessi ammazzato...» disse con voce roca allo zio Philip, «se almeno mi avessi ammazzato adesso saresti dannato.» Lo zio Philip non gli diede retta, stava accarezzando teneramente il mantello di Bothwell. «Non posso più usare Finn per i miei pupazzi» borbottò. «Inutile bastardo. Inutile!» Finn cercò di mettersi in ginocchio ma rantolò e cadde. «Potrei far recitare gli uomini con i burattini» disse lo zio Philip. «Ecco, questa è un'idea! Sarà la mia novità. Burattini e bambini. Userò la ragazza.» Fece una giravolta su se stesso e puntò il dito verso Melanie. «Userò te, signorina!» «Ah, no!» esclamò Francie. «No!» dissero le labbra della zia Margaret. «Che Dio ti faccia marcire all'inferno» urlò Finn e vomitò. Il suo vomito era misto a sangue. Lo fissò sorpreso, con orrore. «Perché mai non dovrebbe fare qualcosa per mantenersi? Dio sa se mangia, la ragazza! Potrà recitare con i burattini sul mio palcoscenico. Non è troppo grossa, non sarà sproporzionata.» Si sfregò le mani soddisfatto. «Come ti chiami, bambina? Avanti, parla!»
«Melanie» rispose lei, anche se aveva la bocca morta, come dal dentista dopo un'anestesia. Ma certamente lui sapeva come si chiamava, o no? «Un nome scemo,» disse lui «comunque siamo d'accordo. Ora fuori di qui, tutti.» «Ma Finn...» disse Francie. «Portatelo via, finalmente ce ne siamo liberati. Rovinare così il mio Bothwell. E tu Maggie puoi ripulire questo merdaio che ha fatto. È tuo fratello, no?» Lo zio Philip tirò su Bothwell e si avviò verso il banco da lavoro. Ci mise sopra il burattino come un cadavere sul tavolo di marmo, e intanto si lamentava: «Povero vecchio Bothwell! Tutti i fili distrutti!» Francie aiutò Finn a tirarsi su. Sempre stringendosi addosso Victoria, la zia Margaret corse dall'altra parte. Sulla faccia un'espressione da Madonna in una Pietà. Melanie e il cane, che era rimasto tranquillamente seduto vicino alla sua sedia a osservare gli eventi, li raggiunsero. Melanie non si teneva dalla gioia perché Finn era vivo e in grado di camminare. «Non mi sono fatto niente» disse. «Be', almeno credo. Ma è come se avessi perso la sensibilità e poi ho il sapore del sangue in bocca. Perché, Maggie?» Le chiese di nuovo con innocenza piena di stupore, «Perché?» Sembrava che i suoi occhi non riuscissero a mettere a fuoco. La zia Margaret, gemendo, gli coprì la faccia di baci. «Fuori dai piedi! Fuori tutti!» urlò lo zio Philip con un'improvvisa e smisurata rabbia. 7 Dopodiché Finn smise di sorridere. In seguito alla caduta cambiò. Gli angoli della bocca gli si piegarono all'ingiù, amaramente, come su quel buffo boccale che Melanie aveva visto una volta in un negozio di anticaglie. Sul boccale c'era un volto sotto il quale, quando stava in piedi, era scritto «PIENO» e la faccia sorrideva tutta contenta, ma quand'era rovesciato, con la scritta «VUOTO», le sopracciglia erano cadenti e la bocca faceva una smorfia di disgusto. Ora sul volto di Finn c'era sempre scritto «VUOTO». Parlava poco. La sua parlantina torrenziale si era come prosciugata alla fonte. E teneva la testa bassa. Diventava sempre più sporco e spesso non si faceva la barba per tre o quattro giorni fino a che la sua faccia non appariva cosparsa di una peluria gialliccia, come di funghi, o spruzzata come un'automobile di un luccicante color
mandarino. Ma quel che era peggio è che ogni grazia l'aveva abbandonato. La caduta l'aveva lasciato miracolosamente intatto, senza fratture interne o esterne, ma aveva tolto ogni bellezza ai suoi movimenti. Adesso camminava impacciato come un vecchio. A Melanie faceva male vederlo in quel modo. Era come trasformato in un pezzo di pasta di pane cruda e acida, e se il vecchio Finn con la voce bassa e la lingua veloce la turbava, questo nuovo Finn le spezzava il cuore. Lui la ignorava e non sembrava che lo facesse apposta ma semplicemente perché oramai soltanto lo zio Philip aveva una qualche realtà ai suoi occhi. I pasti erano un vero disastro. Lui non mangiava niente o quasi e se ne stava lì a fissare lo zio Philip tutto il tempo con lo sguardo fiero e gli occhi storti. Finn si era trasferito in uno scrigno di cristallo e non faceva caso se lei o Francie o la zia Margaret grattavano le pareti dello scrigno per attirarne l'attenzione. La zia Margaret era diventata ancora più magra e più spettrale. I suoi capelli, come rossi serpenti che lottassero per liberarsi dalle forcine, erano la sola cosa vitale rimasta in lei. Sotto le sopracciglia rosse nascondeva occhi spesso rossi di un pianto segreto. Finn continuava a trattarla con gentilezza anche se appariva distratto; le dava il bacio della buona notte come se le avesse già detto addio in precedenza. Il viso della zia era una maschera tragica, quella di una donna che ha mandato tutti i suoi figli in guerra e aspetta da un momento all'altro il telegramma che ne annuncia la morte. La tribù dei rossi era finita. Melanie si aggrappava a Francie, che era sempre lo stesso. A volte si fermava con lui nella sua stanza, la sera, quando si esercitava al violino, raggomitolata su uno dei letti con il suo cucito in mano. Aveva cominciato ad aiutare la zia con il cesto delle cose da cucire e rammendare di cui non si vedeva mai il fondo. Melanie adesso si rese conto che non c'era mai stato bisogno di un invito per ascoltare la musica da ballo, non doveva fare altro che aprire la porta ed entrare. Dopo la caduta di Finn la zia Margaret non lasciò più la cucina per suonare il flauto insieme a Francie. «Potrebbe venire su Philip in cerca di qualcosa» scrisse sulla lavagna. Ma fingeva. Restava sola in cucina in attesa che suo marito arrivasse per uccidere Finn. Melanie sapeva quello che si aspettava anche se non glielo aveva detto. Melanie stessa se lo aspettava. Lo zio, in un attacco di rabbia, si sarebbe avventato su Finn con un coltello o un bastone. Finn, cupo, vendicativo, cercava di provocare il colpo di grazia.
La violenza in casa era palpabile. La si vedeva tremare su per le fredde scale e ascendere in nuvole invisibili dai tappeti sfilacciati. Melanie la notte aveva paura, quando la sua lanterna blu era spenta e il lettino di Victoria, nel buio, si stagliava come una trappola per topi. Rabbrividiva nelle sue lenzuola che sapevano di lavanda, scongiurando se stessa di riposare, cercando di non pensare all'orribile cosa detta da Finn. Che voleva essere ammazzato dallo zio Philip perché così si sarebbe dannato l'anima. Una notte si tirò su, accese la luce e guardò il dolce viso di Gesù, la Luce del Mondo, che sorrideva dal quadro sopra al camino. Sorrideva sotto la sua corona di spine. «Dolce Gesù» disse. «Aiutami. Aiuta tutti noi.» Ma non arrivò nessun aiuto. La sua giovinezza era come una pietra appesa al collo, era il suo albatro. Era troppo giovane, troppo delicata e inesperta, per arrivare a capire persone come quelle, le cui menti sembravano divergere brutalmente rispetto alle strade brevi, dirette e senza scosse della sua esperienza personale. Intralciava le loro appassionate preoccupazioni. E Finn l'aveva dimenticata, era una bambina. Doveva essere semplice per lui dimenticarla, anche se le aveva sciolto i capelli e l'aveva stuzzicata e baciata (l'aveva baciata?) e aveva giocato a battaglia navale con lei. Ma poi tutto questo era finito per sempre. Ora Finn si dedicava a dipingere un altro quadro, in piena notte, dopo che Francie era andato a dormire e la giornata di lavoro era finita. Perché di giorno lavorava ancora ai giocattoli e la sera si dedicava di nuovo ai burattini in un impacciato, sinistro silenzio, là sotto. Poi dipingeva il suo quadro. Melanie lo sapeva perché lo spiava. Aveva finalmente ammesso l'esistenza dello spioncino e lo usava, a volte, quando non c'era verso di addormentarsi. Nel cono di luce di una lampada a braccio, rannicchiata su una sedia come un'enorme, nera mantide religiosa, Finn lavorava silenziosamente, per non disturbare Francie. Stava dipingendo un trittico. Francie, la zia Margaret e Finn stesso, ognuno su un diverso pannello, ognuno avvolto in un telo insanguinato, ognuno legato a un palo, ognuno un San Sebastiano pieno di frecce. Nel frattempo si avvicinava il Natale e la bottega era piena. Le prime navi di legno di Jonathon furono messe in vendita a dieci ghinee l'una; Jonathon si guadagnava il pane che mangiava e così pure Melanie, al negozio, in piedi tutto il giorno. Cominciarono a farle male le gambe e un giorno dopo l'altro rifletteva sulla possibilità che le venissero le vene varicose. La signora Rundle le aveva avute una volta, ma gliele avevano sfilate.
C'erano gli artìcoli speciali per il Natale - per esempio gli alberi di legno che si aprivano come un ombrello tirando fuori i loro rami dipinti di verde, le maschere da Babbo Natale, bianche e rosse come carne cruda, piccoli portacandela di latta a forma di gnomi ed elfi per decorare le torte natalizie. E c'era anche una carta speciale per fare i pacchi, tutta ricoperta di fiori, per via del nome del negozio. Margheritine rosa e azzurre. L'aveva disegnata Finn, quando ancora aveva il cuore di essere bucolico. Tutti i giorni lei e la zia Margaret avvolgevano un foglio dopo l'altro di margherite rosa e azzurre attorno a un giocattolo dopo l'altro e il cassetto dove tenevano i soldi a volte non si chiudeva tanto era pieno di banconote. «Be', adesso sono una commessa» pensò Melanie il giorno che vendette l'Arca di Noè. L'aveva comprata una donna grassoccia con un vestito di lana bianco e gli occhiali scuri e aveva cercato di pagare con un assegno. Melanie aveva portato l'assegno alla zia per sapere come regolarsi; le mani della zia si erano agitate piene di preoccupazione. «Philip non prende gli assegni, dice che sono innaturali.» Melanie disse alla donna, «Mi dispiace, non accettiamo assegni.» «Oddio,» aveva detto lei che era americana o comunque aveva un accento d'oltreoceano, «non ti preoccupare, è buffo. E comunque si adatta perfettamente al sapore dickensiano della bottega.» E poco dopo era tornata con un rotolone di banconote strette da un elastico, che Melanie aveva contato fino ad arrivare a settantotto sterline e dieci scellini. La donna le regalò anche cinque scellini che estrasse dal portamonete di coccodrillo. Allora Melanie si rese conto di quanto fosse redditizio il fascino all'antica della bottega. E cominciò a rispettare il genio commerciale dello zio. Anche se era un bastardo, bisognava dire che era un bastardo di genio. Era felice di aver venduto l'Arca anche se le era dispiaciuto separarsene, e pensare che dentro c'era Finn in miniatura, con i jeans e la maglietta. Aveva messo l'agrifoglio di plastica in vetrina per una questione di decoro. Tutti i negozi della piazza, perfino quello di seconda mano, erano decorati da un mucchio di ramoscelli e fogliame e catene di anelli di carta colorata. Quello di frutta e verdura aveva realizzato un pergolato di fronde di abete. Lì Melanie e Victoria avevano ricevuto in regalo un grosso mandarino avvolto nella carta stagnola. La fruttivendola lo aveva tirato fuori da una scatola di cartone tutta profumata e imbottita di carta velina, che stava aprendo proprio quando loro erano entrate in cerca di patate e mele da cuocere; la donna, facendo oscillare gli orecchini d'oro, aveva promesso a Vic-
toria un bel triangolo di uvetta se fosse stata brava e se l'uvetta non fosse andata via tutta. Dai ganci del macellaio pendevano tacchini violacei appesi per i piedi e intere schiere di polli appoggiati sulla schiena con le zampe all'aria. «Noi non festeggiamo il Natale» scrisse la zia Margaret. «Lo zio Philip pensa che sia uno spreco di soldi e una festa commerciale.» «Non avevo dubbi» pensò Melanie amaramente. «Ma fa uno spettacolo speciale giù in laboratorio il giorno di Santo Stefano» scrisse la zia Margaret. «È un grande spettacolo.» Poi non resse e scoppiò a piangere sulla carta da pacchi a fiori. Melanie abbracciò il corpo magro della zia. Di che cosa sarà fatta, si chiese? Ossa di uccellini e carta velina, vetro soffiato e paglia. Cullando tra le braccia la donna sfinita e triste, Melanie si sentì forte, giovane e vitale e dura. Conosceva il suo corpo e sapeva di poterci contare, un corpo sodo, veloce, resistente, nutrito, curato e lavato per anni in modo sano. La zia Margaret invece era fragile come i primi tremuli germogli bianchi che escono da un vaso tenuto al buio nello stanzino della caldaia. E Melanie sapeva che come la pianta anche la zia era stata infilata nello stanzino, in quell'alta e grigia casa. Sarebbe appassita, avrebbe retto? «Non piangere» disse Melanie alla zia, sapendo che, quanto a lei, era troppo forte per appassire. Ne era certa. «Ti vuole per il suo prossimo spettacolo.» «Oddio! Oddio!» «Non ti farà del male, sei la figlia di sua sorella.» E allora perché piangeva? Forse perché ricordava l'ultimo spettacolo di burattini? Melanie abbracciò la zia ancora più stretta, e poi stava arrivando il Natale e Natale per lei doveva essere molto duro perché adorava i bambini e non aveva figli e invece passava tutto il giorno, tutti i giorni a vendere giocattoli ai figli degli altri. Non sarebbe stato un felice Natale, quello in casa di Philip Flower. Be', Melanie ne aveva avuti quindici di Natali felici in cui attaccavano ghirlande di agrifoglio ai battenti della porta d'ingresso e offrivano i dolcetti di frutta secca ai bambini del coro che passavano di casa in casa. Forse quindici Natali felici erano sufficienti. E poi era troppo grande ormai per credere ai regali di Babbo Natale. Mise ancora un po' di agrifoglio di plastica in vetrina e sperò che lo zio Philip non se ne accorgesse. Arrivò un biglietto di auguri della signora Rundle, un cartoncino alto e stretto di tema religioso. Vi era raffigurato Gesù Bambino nella mangiatoia
col bue e l'asinelio e i pastori inginocchiati. Con la sua grafia monumentale la signora Rundle aveva scritto sul cartoncino di auguri tutto il suo AMORE. Melanie la sistemò sulla mensola sopra il camino, sotto l'immagine della «Luce del Mondo». Sul cartoncino c'era ancora il prezzo scritto con la matita, uno scellino e tre pence e la cosa le sembrò rassicurante, normale e carina. Era stato comprato con dei soldi veri in un negozio allegro e ben illuminato dove vendevano giornali pieni di storie normali, di nascite, morti e matrimoni e vendevano anche cioccolata e sigarette, le cose che piacciono alla gente normale. La signora Rundle aveva mandato anche un pacchettino morbido indirizzato a tutti e tre i bambini. Sul pacchetto c'era scritto dappertutto «Da non aprire prima del 25 Dicembre». Melanie l'aveva messo via in un cassetto, con tutta probabilità era l'unico regalo che avrebbero ricevuto e lei ne era profondamente commossa. Qualcuno si ricordava di loro, di tutti e tre. Ma era anche imbarazzata. Avrebbe dovuto spedire a sua volta un bigliettino alla signora Rundle e forse anche un regalino, ma non aveva soldi. Lo zio Philip ogni sera metteva sotto chiave tutti gli incassi. La zia Margaret le aveva spiegato che c'era una cassaforte nella camera da letto, e lì lui teneva i soldi fino a che, alla fine della settimana, non li portava in banca nella massiccia, ricca e luccicante cartella di nappa, chiusa da un grosso lucchetto. Melanie immaginava la cassaforte di un metallo nerissimo, sistemata in fondo al letto dove lui poteva vederla tutto il tempo, in quella strana camera dove dormiva con la zia Margaret in un letto che doveva essere quasi sfondato dal lato di lui, poiché era così grosso e pesante e lei era quasi disincarnata. Melanie non aveva mai ricevuto neppure una monetina da quando lavorava nel negozio. Per la prima volta chiese alla zia qualche soldo e lo fece tenendo gli occhi a terra, passando da un piede all'altro per l'imbarazzo. «Solo cinque scellini per... oh, per una saponetta profumata. Ecco sarebbe carino, una saponetta profumata. Lei è stata così gentile con noi e ancora ci vuole bene e ci pensa.» Si sentiva un nodo in gola al pensiero della signora Rundle che pensava a lei, a Jonathon e a Victoria mentre preparava il pudding di Natale e tagliava a cubetti la frutta candita nella sua nuova casa. Sarebbe stata contenta per loro, al pensiero che gli orfani passavano il Natale in seno alla famiglia, poiché, come si dice, Natale è una festa di famiglia. Le avrebbe fatto piacere quell'idea, e non avrebbe mai saputo che non era vero. La zia si torse le mani così espressive.
«Ma non dà mai un soldo neppure a me. Se li avessi io, li darei tutti a te.» «Va bene» disse Melanie. «Mi dispiace, ma è così, non si fida di darmi soldi.» L'ultima lettera tracciata sulla lavagna sembrava accasciata per il dolore. Aveva forse paura che scappasse? «Allora non fa niente» disse Melanie. «I negozi possono farmi credito. Non ho bisogno di avere liquidi, vedi... Lui è fatto così.» Cercò di glissare sull'umiliazione. «Capisco» concluse Melanie. Si scambiarono un sorriso d'intesa antico, erano povere donne, pianeti rotanti attorno a un sole maschile. Alla fine Francie diede a Melanie una banconota da una sterlina prendendola dai soldi che faceva col violino. Gliela fece scivolare nella tasca della gonna e lei non seppe proprio come ringraziarlo. Comprò una scatola di saponette profumate alla rosa e la spedì alla signora Rundle. Poiché le sembrava che ignorare il Natale fosse una cattiveria nei confronti dei piccoli comprò anche un barattolo di caramelle per Victoria (sul barattolo c'era un bel disegno di conigli con il cilindro) e poi tre fazzoletti con la cifra T per Jonathon, perché aveva decisamente bisogno di fazzoletti. Erano rimasti un po' di soldi con cui comprò una boccettina di profumo per la zia Margaret. Non era un profumo di gran marca ma comunque era qualcosa. Era animata da uno spirito di sfida nel comprare i regali di Natale malgrado la disapprovazione dello zio Philip, anche se lui non poteva sapere che gli affari natalizi stavano andando bene proprio grazie alla nipote. «Per regalo luciderò le scarpe di Francie ogni giorno per tutto l'anno» decise, ma non pensò a regalare niente a Finn che ormai viveva in un paese dove i regali, l'affetto, il dare e il ricevere non significavano nulla. Provava a non pensare a Finn perché quando lo faceva si sentiva debole e disperata. Le sembrava ancora di vederlo ballare, ma lui non ballava più. Una sera la zia tirò fuori da un sacchetto di carta una pezza di chiffon bianco. Il riflesso riempì di luci bianche gli occhi del cane dipinto. Chiamò Melanie a gesti perché andasse da lei e le drappeggiò la stoffa intorno alle spalle. All'improvviso, Melanie si ritrovò di nuovo a casa sua, ad avvolgersi in metri e metri di diafano velo davanti allo specchio. Ma l'orologio a cucii mise fuori la testa, annunciando che erano le nove e che lei si trovava in casa dello zio Philip. «Il tuo costume» scrisse la zia Margaret su un blocco, per non doversi
alzare. «Per lo spettacolo.» «Chi sono?» chiese Melanie. «Leda. Sta costruendo un cigno. E ha un po' di problemi, dice che Finn cerca di rovinarglielo.» A Melanie la cosa sembrò più che probabile. «E il cigno, quant'è grande?» La zia tracciò una vaga forma nell'aria. «Non credo di voler fare Leda» disse Melanie. «È così che ti vede. In chiffon bianco e con i fiori tra i capelli. Una giovinetta.» «Che tipo di fiori?» La zia Margaret tirò fuori una manciata di margherite artificiali gialle e bianche come uova al tegamino. Melanie sarebbe stata di nuovo una ninfa, incoronata di margherite; lui la vedeva proprio come una volta si era vista lei stessa. Malgrado tutto si sentì lusingata. «È un dovere, suppongo» disse. Le forbici della zia brillarono nell'aria come punti esclamativi, mentre le faceva passare sulla stoffa leggera. Quando il vestito fu più o meno imbastito, Melanie lo dovette indossare e andare giù a mostrarlo allo zio Philip. Si dovette togliere tutti i vestiti, lasciandosi solo la tunica con le spalline di raso incrociate sui seni (che, notò con interesse, sembravano cresciuti e con i capezzoli più scuri). La zia Margaret le spazzolò i capelli con la spazzola dal manico d'argento che, come Winnie the Pooh, era sopravvissuta al disastro. Spazzolò e spazzolò e spazzolò fino a che i capelli neri di Melanie non cominciarono a mulinare come il Tamigi in piena e allora ci versò sopra tutte le margherite. Prese una scatola di sigari da una credenza e l'apri, mostrandole una quantità di matite grasse per il trucco. Le palpebre di Melanie furono dipinte di azzurro e le sue labbra di rosso corallo. Si sentiva unta, come se l'avessero inzeppata di lardo. «Hai qualche bel gioiello?» «Solo le perle che ho ricevuto per la cresima.» Anche quelle erano sopravvissute, la zia Margaret le accarezzò e le guardò con adorazione, poi le mise al collo di Melanie. Alcuni spilli rimasti nella tunica di chiffon graffiarono Melanie che si dimenò. «Le perle sono il tocco finale. Sei così carina!» «Be', mi piacerebbe potermi vedere. È da un bel pezzo che non mi metto in ghingheri.» Poi, ricordando, si morse il labbro. «Ora vai giù.»
«Sola?» La zia Margaret annuì, Melanie si buttò la giacca sulle spalle perché la stoffa scivolosa e leggera non la difendeva certo dalle correnti e la casa era gelida. La cena era finita da un pezzo e là sotto il lavoro serale procedeva a pieno ritmo. Le tende erano aperte e Finn stava sul palco circondato da barattoli di vernice, occhi spalancati di colore puro, e lavorava a un fondale con un mare su cui tramontava un sole rosso arancio, simile allo sfondo del quadro del cane in cucina. Sotto la cruda e nuda luce lo zio Philip stava accucciato a terra con una montagna di piume su un lenzuolo steso. Stava separando le piume in mucchietti e i baffi erano ricoperti da un leggero strato di bianco piumaggio. «Eccomi qua» disse Melanie. Lui rimase appoggiato sui calcagni con le grosse mani sulle ginocchia della sua sporca tuta bianca. Stasera i suoi occhi erano del non-colore dei vecchi giornali. «Accidenti, ha la testa quasi quadrata!» pensò Melanie. Non ci aveva mai fatto caso prima. Stasera, una qualche irregolarità dei capelli slavati ne aveva enfatizzato gli angoli. La sua testa sembrava una di quelle scatole a sorpresa. Uno spillo le si conficcò dolorosamente nell'ascella. «Levati quel mantello» le disse. Ubbidì tremando, il sotterraneo era riscaldato solo da un'inefficiente stufa a olio. Finn continuava a dipingere. Melanie poteva sentire il rumore liquido del pennello che riempiva una larga area di cielo. «Sei fatta bene per avere quindici anni.» La sua voce era piatta e spenta. «Quasi sedici.» «È per via di tutto quel latte gratis e quel succo d'arancia... Hai le mestruazioni?» «Sì» disse lei, così scioccata da non riuscire a rispondere che con un bisbiglio. Lui grugnì deluso. «Volevo che la mia Leda fosse una bambina. Hai le tette troppo grandi.» Finn gettò a terra il pennello. «Non le parlare in quel modo!» «Chiudi il becco e fatti gli affari tuoi, Finn Jowle. Le parlo come mi pare e piace. E poi chi è che la mantiene?» «Anch'io posso parlare come voglio, proprio quanto te!» Lo zio Philip si accarezzò i baffi, pensieroso, senza nemmeno guardare Finn.
«Ah, no» disse pacato. «Ah, no, tu non puoi. Continua a dipingere. Non hai fatto niente tutto il giorno.» Tra i due si scatenò una rissa. A Melanie faceva male la testa. «Finn,» disse «ti prego, non mi importa.» «Vedi!» disse lo zio Philip con una strana inflessione di trionfo nella voce. Finn scrollò le spalle e raccolse il pennello. «E pulisci quella macchia che hai appena fatto per terra col pennello!» Torvo, Finn andò a strofinare la macchia sul pavimento col gomito della sua tuta irrigidita dalla vernice. «Allora mi dovrò accontentare» le disse lo zio Philip. «Immagino che dovrai andare bene. Hai bei capelli e anche le gambe sono carine.» Ma in verità non la sopportava perché non era una marionetta. «Girati.» Si girò. «Sorridi.» Sorrise. «Non così, brutta scema! Mostra i denti!» Melanie sorrise mostrando i denti. «Somigli un poco a tua madre. Non molto, ma un po'. E per niente a tuo padre, grazie a Dio. Non l'ho mai potuto sopportare, tuo padre. Si sentiva superiore ai Flower di una buona spanna. Uno scrittore, così si definiva. Bastardo rammollito, non s'è mai sporcato le mani.» «Ma era terribilmente intelligente!» protestò Melanie, rispondendo finalmente alla provocazione. «Non tanto intelligente da pensare a mettere qualcosa da parte per voi, per quando lui fosse morto» fece notare lo zio, con una certa ragionevolezza. «E così ho i suoi preziosi bambini a disposizione, tutti per me, non è vero? Per farne dei piccoli Flower.» Ricominciò a separare le piume. Gesù mi vuole per un raggio di sole, lo zio Philip per un piccolo fiore. Le penne svolazzavano nella corrente d'aria che soffiava da sotto la porta. Lo zio Philip fece un profondo sospiro, il sospiro di un uomo grato per la sua fortuna, anche se minima. «Mi dovrò accontentare» disse. «Suppongo. Ora fuori dai piedi!» Finn alzò la testa infuriato e Melanie corse su per le scale prima che iniziassero a volare parole grosse e pugni. Perché Finn la difendeva tanto, perché faceva il Don Chisciotte in quel modo? Lo faceva perché così gli era più facile provocare lo zio? Ma non si preoccupava di quanto la agitava vederli così furibondi l'uno contro l'altro? Forse non se ne accorgeva nep-
pure. Lei si tolse i fiori dai capelli e si sfilò cautamente la tunica. Non pensava che si sarebbe piaciuta se avesse potuto vedersi e non pensava di voler vedere la propria faccia lucida e piena di cerone. «Vorrei che lo spettacolo fosse già finito» disse. La zia annuì e gli occhi stranamente le si riempirono di lacrime. Si coprì il volto con i pugni e le spalle furono mosse dai singhiozzi. Piangeva spesso in quel periodo. Il bull terrier smise subito di lappare l'acqua dalla ciotola di alluminio e corse a metterle il muso sulle ginocchia. Melanie fu ancora una volta sorpresa dalla simpatia immediata e sollecita del cane e da come riusciva a combinare il ruolo di cane da guardia e di consolatore a quattro zampe. Le sarebbe piaciuto riuscire a essere altrettanto efficiente e silenziosa. Altrettanto semplice. Le mise una mano sulla spalla e la zia Margaret l'afferrò subito, ciecamente, col suo artiglio da uccello. Rimasero insieme così per un bel pezzo. Ogni volta che piangeva, la zia Margaret si avvicinava un po' di più alla nipote. Finn disse: «Devi fare le prove con me.» Non alzò gli occhi per guardare Melanie, ma rimase a fissarsi il dorso delle mani dove il taglio del cesello aveva lasciato una ferita larga, violacea, a forma di mezzaluna. «Come, sul palcoscenico?» «Credi che ci lascerebbe salire sul suo amato palcoscenico? Mai. Dovremo farlo nella mia stanza.» «Perché con te e non col cigno?» «Non devi vedere il cigno fino al momento della prima, così potrai reagire spontaneamente. Ma devi fare le prove con me per imparare i movimenti giusti. Per questo devo sostituire il cigno.» La sua voce era più morbida e impalpabile di un collo d'oca, quasi impercettibile, e lui continuava a distogliere lo sguardo. «Dovremo fare le prove in costume?» chiese lei con una certa apprensione, pensando al bianco chiffon e alla sua carne bianca che traspariva come latte in un bicchiere. «Che cosa? Credi che io debba riempirmi di penne?» Aveva l'aria di un relitto di cigno, intriso di petrolio, arenatosi in un fiume inquinato. I calzoni e la camicia (una camicia di foggia vecchia, di flanella a righe, che avrebbe dovuto includere un colletto ma non ce l'aveva) erano cosparsi da ogni tipo di macchie di vernice e da un miscuglio di sporcizia e sudore. I piedi nudi erano incrostati di terra. Intorno al collo aveva un segno di sporco e gran ditate nere sotto le orecchie. Sul mento c'era di nuovo il fungo. Puzzava di stantio in modo nauseabondo, un odore
agrodolce come se stesse andando a male. «Ti dovresti curare di più» gli disse. «Ti prego Finn, lavati e magari tagliati pure i capelli» aggiunse, vedendo i lunghi ricci arancioni che si arrotolavano sulle spalle della camicia lercia. «Perché dovrei?» Lei non seppe rispondere. Era un tranquillo pomeriggio domenicale, in cucina. La zia Margaret sedeva col suo vestito grigio e il suo maligno collare, e cuciva la tunica greca con punti quasi invisibili. Nella sala da pranzo tutto era già apparecchiato per il tè con la semplice tovaglia bianca, su cui era disposto il servizio di porcellana della domenica con le strisce verdi sui bordi e con il latte e lo zucchero pronti per essere messi nella brocca e nella zuccheriera. Victoria schiacciava un sonnellino nel suo box, vicino al geranio in fiore. Jonathon faceva la sua nave mentre lo zio Philip costruiva il suo cigno e progettava il congegno per tirarne i fili. Francie aveva preso il violino e se n'era andato per i fatti suoi col suo cappello floscio e l'impermeabile da Insurrezione di Pasqua. La casa riposava. «Allora vieni» disse Finn. Salirono su insieme oltrepassando tutte le porte del castello di Barbablù. Il respiro roco e rumoroso di Finn riecheggiava per le scale. Entrarono nella sua stanza e Finn si chiuse la porta alle spalle con un calcio. Tutto sul suo volto tradiva la noia e il malumore. «Allora, sbrighiamoci con questo stupido gioco.» Lei si guardò intorno, sconcertata. La stanza era vuota, come se tutte le cose dei fratelli fossero state impacchettate in valigie e bauli e messe via in preparazione di una partenza imminente. Sulla parete che non aveva mai visto perché era quella con lo spioncino, c'era una mensola con l'unico piccolo oggetto personale di quella stanza, una fotografia sbiadita in una cornice nera della misura sbagliata. Era la foto di una donna con una faccia quadrata che guardava dritto nell'obiettivo, senza un sorriso. Portava uno scialle irlandese, in cui era avvolto un bebè. «Nostra madre,» disse Finn «con Maggie in braccio.» Dietro la sua testa, rocce desolate. «Nel nostro paese» disse Finn. E poi tacque. Accanto alla foto c'era la lampada con la molla chiusa, pronta a saltare. Salvo che per la striscetta di specchio e il ritratto della zia, le pareti erano vuote. Non c'era traccia del trittico di San Sebastiano. Doveva averlo nascosto. Vicino alla mensola c'era un armadio a muro ma tutte le altre cose
le erano note. Si sedette sulla sedia con le rose e il castello provando un ridicolo senso di formalità, come se fosse venuta in visita con indosso un vestito di sartoria e un cappellino con la veletta. «Questa è la storia» disse Finn che sembrava tirare fuori le parole una per una, a fatica. «Leda è sulla spiaggia e sta raccogliendo le conchiglie.» Tirò fuori dalla tasca una conchiglia a torciglione, madreperlacea e lattiginosa, e la mise sul tappeto. «Sta per scendere la notte e lei sente un battere d'ali e vede un cigno che si avvicina. Scappa via ma quello la sopraffà e la inchioda al suolo. Sipario.» «Tutto qui?» «Dopo tutto è solo un veicolo per il suo bel cigno.» Melanie si alzò e si chinò a raccogliere la conchiglia. Si muoveva male perché Finn la stava guardando. «Più sciolta» le disse lui stancamente. «Muoviti dai fianchi.» Lei si chinò ancora agitando il sedere, che era il solo modo in cui le sembrava di potersi muovere dai fianchi. «Per Dio, Melanie. Ti hanno insegnato hockey a scuola?» «Be', sì, in effetti sì.» Finn fece un ghigno di scherno. «Muoviti... ecco. Così!» Si chinò a raccogliere la conchiglia. Ma non si muoveva più come un'onda del mare; cigolava invece, come un burattino. Aveva dimenticato di aver perso ogni grazia. S'inchiodò in quella posa, giocherellando con la conchiglia. «Comunque» disse «riprovaci.» Ci riprovò. «Meglio forse. Ora fallo di nuovo. Io sono il cigno.» Camminava sulla riva raccogliendo conchiglie. Finn stava sulle punte dei piedi. Aveva i capelli sul volto e lei lo vedeva a malapena. Fece rumori fruscianti, imitando il battere d'ali. «Quando senti questo rumore ti preoccupi e scappi. Corri un po'.» Corse un po'. «Bene.» Lui le corse dietro. Sembrava una sciarada. Lei ridacchiò. «No, non fare la scema. Sei una povera ragazzina spaventata.» «Non riesco a prenderla sul serio.» «Ma, Melanie, ti caccerà via se non sei in grado di lavorare per lui e allora che farai?»
«Non lo farebbe mai» disse lei, incerta. «Non potrebbe...» «Sì che potrebbe, e lo farebbe.» Aveva l'aria giudiziosa e seria. «E noi non potremmo fare niente per te. Moriresti di fame.» «Lo odio.» Non voleva dirlo. I loro occhi s'incontrarono e poi guardarono altrove. «Comincia dal principio. Fai finta. Recita.» Questa volta le cose andarono meglio. Sbarrò gli occhi guardando verso l'alto e fece finta di vedere la sera che si approssimava. E poi finse di sentire il lamento dei gabbiani e lo scricchiolio della sabbia sotto i piedi e il ritmo delle ali. Così le era facile avere l'aria spaventata e scappare un po'. «Tu corri, inciampi e io ti atterro.» Dissimulò uno sbadiglio. «Rimetti giù la conchiglia e lo rifacciamo tutto da capo.» Lei ubbidì. I gabbiani gridavano e la sabbia si smuoveva e il cigno si scagliò su di lei e fu semplice. Lei schizzò via da Finn e questa volta non era una finta. Inciampò sulla frangia annodata del tappeto. Perdendo l'equilibrio si aggrappò a Finn per salvarsi ma lo tirò giù con sé. Avvinti l'uno all'altra con Melanie che rideva rotolarono sul pavimento, quasi al rallentatore. Ma Finn non rideva e a Melanie il riso si prosciugò sulle labbra quando vide il viso ossuto e pallido di lui, seminascosto dai capelli, e non riuscì a cogliervi nulla, nemmeno l'accenno di un sorriso o un'inflessione di tenerezza, a significare che sarebbe stata risparmiata. Le era addosso incollato come un lenzuolo alla coperta e puzzava di marcio, ma questo non aveva più importanza. Tremando Melanie si rese conto che non aveva più importanza. E aspettò tutta tesa che accadesse. Era in preda a un'eccitazione nervosa diffusa e imprecisata. Stavano per terra sulle tavole nude e mezze scheggiate del pavimento. E non esisteva più il tempo e neppure Melanie. Era assolutamente soggiogata. Stava cambiando, crescendo. E l'unica cosa che contava era il ragazzo che lei toccava, ma non per tutta la lunghezza del corpo. Il momento era l'eternità, tremolante come una goccia di rugiada su una rosa, per sempre sul punto di cadere. Malvolentieri, lentamente, con riluttanza, le mise una mano sul seno destro. Il respiro di Melanie uscì con foga, sibilante. Lui chiuse gli occhi color dell'Atlantico. Sembrava la maschera funebre di se stesso. Lo uccideva dover lasciare il suo isolamento, ma doveva farlo. «Questo è l'inizio» si disse Melanie con chiarezza. Sentì la sua voce, sicura e distinta, risuonarle in testa. Non più false partenze, come nel parco dei divertimenti, ma l'inizio vero di un mistero profondo tra di loro. Che
cosa le avrebbe fatto? Sarebbe stato gentile? Abbassò la testa in un misto di paura e piacere per guardare la mano di lui macchiata e con la cicatrice. La sua mano da operaio, abile e forte. Le sembrò che la luce si oscurasse intorno a lei lasciandole solo i sensi per vedere. «No!» disse Finn ad alta voce. «No!» Saltò in piedi e schizzò dall'altra parte della stanza. S'infilò nell'armadio a muro e chiuse la porta. Dall'armadio venne un grido soffocato. «No!» ancora una volta. La tensione tra di loro fu distrutta con tale deliberata violenza che Melanie ricadde al suolo come paralizzata e lottò con le lacrime. Sentiva ancora i suoi cinque polpastrelli, cinque tizzoni di rossa brace, bruciarle sul petto. Ma lui non c'era più e lei aveva freddo e si sentiva male. «No!» più flebile. «Che cosa ho sbagliato?» chiese alla porta dell'armadio a muro. Nessuna risposta. «Finn?» Ancora nessuna risposta. Si sentiva una scema lì per terra con la gonna arruffata sopra le ginocchia. Sotto ciascuno dei due letti si vedeva un paio di scarpe e non c'era polvere. La stanza era molto pulita anche se Finn non lo era affatto. Le scarpe di Francie erano lucide ma quelle di Finn erano incrostate di fango, e a lei venne da chiedersi dove gli fosse potuto succedere. Era stato di nuovo al parco dei divertimenti da solo, a parlare con la regina rotta e a dare affettuosi colpetti sulla testa della leonessa di pietra? Le sue scarpe erano consumate da un lato per quanto ci aveva camminato. «Può darsi» si disse «che non abbia voluto perché non gli ho mai lucidato le scarpe.» Tutto era possibile se era andato a seppellirsi in un armadio solo per fuggire da lei. Dal buco della serratura dell'armadio usciva una leggera scia di fumo blu. Il terrore la prese fino a che non si rese conto che si era acceso una sigaretta. Chiuso in quel minuscolo spazio forse sarebbe soffocato nel suo stesso fumo. Oppure si sarebbe dato fuoco come un monaco buddista, ma per sbaglio. «Sarà scemo?» Si sentiva molto adulta ma non matura. «Non fumare nell'armadio» gli disse. Le rispose una boccata di fumo fresco. Brontolando a mezza bocca Melanie si sforzò di rimettersi in piedi e arrivò fino all'armadio. Lo aprì: era profondo appena quanto bastava a contenere lui seduto con le gambe incrociate e la testa nascosta tra le pieghe dell'altro vestito buono di Francie, quello gessato, che era appeso alla stampella. C'erano anche delle camicie
bianche con un'aria da fantasmi. Su un ripiano in alto erano riposti tanti dipinti, di tutte le forme e dimensioni, ammonticchiati uno sull'altro. La mano di Finn con la sigaretta sbucò dalle pieghe dei vestiti, scrollando la cenere sul pavimento. Lui taceva, esaminandosi le piante dei piedi incrociati. «C'è una scheggia di legno nel tuo piede sinistro, Finn.» «Vattene.» «Se non ti levi quella scheggia, s'infetterà. Forse ti dovranno tagliare la gamba, alla fine.» «Per favore, vai via.» «Perché ti nascondi nell'armadio, Finn?» chiese alla fine come una madre che si rivolga al figlio per lei incomprensibile alla fine di una lunga giornata. «Perché è della mia misura» rispose lui. La logica alla Lewis Carroll di quell'affermazione era troppo per lei. Sventolò bandiera bianca, dichiarandosi sconfitta. «Oh Finn, perché sei scappato via da me?» E le parole le uscirono di bocca come un lamento. «Sei troppo giovane» disse lui «per dire cose come queste. Devi averle lette su qualche giornale femminile.» La voce arrivava smorzata dalla lana pesante, quasi si fosse imbacuccata per un viaggio al Polo Nord con tanto di sciarpa e berretto. Lei scostò i vestiti e lui apparve, piccolo e sconsolato e tutto rattrappito, con le ginocchia sotto il mento, in posizione fetale. La guardò infuriato, con gli occhi socchiusi, feroci, come un gatto siamese recalcitrante. «Vedi,» disse «lui voleva che ti scopassi.» Prima di allora lei aveva solo letto quella parola, in scritti freddi e asettici, e non l'aveva mai sentita pronunciare tranne che dai contadini in pieno diverbio che non si erano resi conto che lei stava passando. Era agitatissima. Non aveva mai pensato di poter applicare a sé quella parola, il suo sposo immaginario non l'avrebbe mai scopata. Loro avrebbero fatto l'amore, ma Finn, invece, l'avrebbe proprio scopata. Lo capì, sentendosi gelare il cuore, dal modo in cui spense la sigaretta schiacciandola a terra. «È stata colpa sua» le disse. «L'ho capito all'improvviso mentre eravamo lì per terra. Lui stava tirando i nostri fili come se fossimo i suoi burattini. E mi sono ritrovato anch'io lì, pronto a metterti le mani addosso, proprio come voleva lui. Mi ha detto di fare con te le prove di Leda e il cigno. In un posto appartato. Per esempio in camera tua, mi ha detto. Vai su e fai le prove dello stupro con Melanie nella tua camera da letto. Cristo, voleva
che ti violentassi e aveva preparato la scena. Ah, se è diabolico!»! Melanie strofinò con la punta della scarpa un nodo del pavimento di legno e si rese conto che le sue scarpe erano veramente logore in punta e andavano riparate. Chissà se c'era un conto aperto anche dal calzolaio? Cercò di concentrarsi su quel tema per non pensare a quello che stava dicendo Finn. «Be'» disse Finn, facendo capolino tra i vestiti solo per accendersi un'altra sigaretta, «non lo farò, capito? Non farò quello che lui vuole che faccia, anche se tu mi piaci. Ecco tutto.» Melanie rinunciò al tentativo di concentrarsi sul calzolaio. «Ma Finn, perché mai dovrebbe volere che tu...» «Per umiliarti, Melanie. Non poteva sopportare tuo padre e non sopporta te e gli altri due in quanto figli di vostro padre, anche se gli andate abbastanza bene in quanto figli di sua sorella. Voi per lui siete il nemico, quelli con la carta igienica e i coltelli da pesce.» «Non abbiamo mai avuto coltelli da pesce.» Finn non ci fece caso. Il suo discorso divenne folle e incoerente. «E tu sei fresca e innocente, per questo vai distrutta. Be', Victoria ormai è la pupa di Maggie, e Jonathon gli lavora sotto gli occhi dalla mattina alla sera, ci sei solo tu che non servi a niente. Così vuole che ti scopi perché disprezza anche me, pensa che io sia la feccia dell'umanità. Davvero. Uno sporco capellone. Mi butterebbe fuori se non fosse per Maggie e perché so dipingere, e così io ti dovrei violentare perché ti radi le ascelle, così poi magari rimani incinta, per fare dispetto a tuo padre.» «Mio padre è morto.» «Lo sa. Ma non fa niente. Per lui è lo stesso.» «Non mi rado le ascelle.» «È solo un modo di dire.» Il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore o di puro disgusto e lui buttò via la sigaretta e nascose la testa tra le braccia. Lei altalenava da un piede all'altro, confusa e sconvolta. Non riusciva nemmeno a rendersi conto bene di quello che le aveva detto. Senza capire, aggiunse: «E tu? Allora tu non mi vuoi?» «Questo non c'entra niente» rispose seccato. «E poi sei troppo giovane. L'ho capito nel parco dei divertimenti. Forse più in là. Ora sei troppo giovane.» «Lo so, è la mia maledizione.» «Non è terribile?» disse lui. «Questo è un manicomio e lui mi sta facendo impazzire.»
Si nascose tra i vestiti, strattonandoli sulle loro stampelle. Così facendo disturbò la pila di quadri sulla mensola e quelli scivolarono giù. Melanie li tirò su stancamente. Non ne poteva più di quelle sorprese. Prima vide il trittico di San Sebastiano, finito, con tanto di punte di frecce e di grumi di sangue. Fece una smorfia e lo mise via. Poi fu turbata dalla propria immagine. Stava togliendosi il golf color cioccolata e si girava con una torsione quasi completa. Era una giovinetta magra ma molto carina, con un bel viso dall'espressione riservata, su uno sfondo di rose rosso scuro. La sua carta da parati. Aveva un'aria tirata a lucido. L'aria di una vergine che si lava i denti dopo ogni pasto e morde con gioia mele rosse. I capelli neri erano un'esplosione di grandi onde Art Nouveau intorno al capo. Sembrava che Finn avesse cercato di esercitarsi sulle curve. Il ritratto era piatto e inespressivo come tutti i suoi dipinti e lei sembrava uno strano tipo di pin up asessuata. Intorno al suo braccio destro nudo c'era una fascia nera. Lui non la vedeva certo come si vedeva lei, ma avrebbe potuto essere molto peggio. «Ma perché ci ha voluto mettere la fascia del lutto?» si interrogò. Comunque era compiaciuta. «Hai fatto degli schizzi preparatori studiandomi dallo spioncino mentre mi spogliavo?» gli chiese. «Non guardarli, non guardare i miei dipinti.» «Li sto solo mettendo via.» Fu allora che vide l'orrendo quadro. Era un inferno, in cui le fiamme lambivano figure nere in movimento. Lo zio Philip era steso su una graticola come una cotoletta di maiale sul barbecue. Era nudo, volgare e orribile. La carne cominciava a spaccarsi e a riempirsi di vesciche mentre il grasso ribolliva dentro di lui. I suoi capelli bianchi erano diventati altrettante fiammelle accese. Accanto a lui c'era un diavolo con la calzamaglia rossa, le corna e la coda biforcuta. In mano aveva una pinza rovente con la quale stuzzicava i testicoli dello zio Philip, che in faccia era stato marchiato a fuoco da un ferro di cavallo. La bocca era un antro nero, urlante, da cui fuoriusciva un nastro con la scritta «Perdonami!» Il diavolo aveva il ghigno ridente del Finn di un tempo. «Ecco dov'è andato a finire quel sorriso» pensò Melanie. «Lo ha cancellato dal suo volto e l'ha schiaffato sul cartone.» Finn non avrebbe più avuto quel sorriso. Dalle labbra dipinte di Finn, che erano di fuoco, usciva una parola:
«Mai!» Sopra il dipinto, su uno scudo bianco, c'era un titolo, sempre in caratteri gotici: «All'inferno tutti i torti vengono riparati.» L'ispirazione generale era Hieronymus Bosch. Melanie lasciò cadere il quadro singhiozzando. «Ti avevo detto di non guardare.» «Hai ragione. È un manicomio» e scoppiò a piangere. Finn strisciò fuori dall'armadio a quattro zampe e le abbracciò le ginocchia, posando la testa tra le sue gambe. Lei gli affondò le dita tra i capelli convulsamente e disse le parole che le erano affiorate in testa, senza riflettere. Se ci avesse pensato non le avrebbe mai pronunciate. «Credo che mi vorrei innamorare di te ma non so come fare.» «Ecco che parli di nuovo come una rivista femminile» disse Finn. «Quello che provi dipende dalla vicinanza, dal fatto che qui ci sono io. E comunque sei troppo giovane. Te l'ho già detto. E poi sarebbe una perdita di tempo perché io lo provocherò fino a farmi uccidere, non è vero?» Allora risuonò il gong della cena, che in qualche modo bisognava sopportare. Avrebbero dovuto sgusciare i gamberi, imburrare il pane, versare nelle tazze il latte e il tè e tagliare a striscioline la torta di Victoria in modo che se la potesse mangiare tutta. Erano tutti seduti nella sfera di cristallo della strega, con le facce mostruosamente gonfie e mangiavano a una tavola che si allungava all'infinito. Melanie teneva gli occhi inchiodati sulla sfera di cristallo in modo da non dover guardare lo zio Philip. Il giorno dopo era la sera di Natale ma non fu diverso da un altro giorno qualunque tranne che per il fatto che la bottega era piena di gente. Era stata affollatissima tutto il giorno e Melanie e la zia Margaret avevano i piedi incandescenti la sera, quando finalmente girarono su 'chiuso' il cartello della porta. Gli scaffali erano quasi vuoti, la merce pressoché finita. Dalla vetrina erano scomparsi perfino il cavallo a dondolo e i burattini, ed era rimasta solo la decorazione di agrifoglio in plastica. Le banconote straripavano dal cassetto. Erano arrivati all'ultimo rotolo della carta speciale per i pacchetti regalo e la bottega aveva l'aria di un campo di battaglia all'alba del giorno dopo. Perfino il pappagallo ciondolava sul suo trespolo come se anche lui fosse stanco morto. «Be'» scrisse la zia Margaret «almeno domani è giorno di riposo.» Già, sarebbe stato solo un qualunque giorno di riposo. Melanie lottava tra i ricordi e la tentazione di autocommiserarsi, seduta a leggere in cucina, vicino alla zia che finiva di cucirle la tunica greca. Niente agrifoglio in cucina, niente vischio sul lampadario, niente albero di Natale con le lucette
colorate. Lo zio Philip riceveva calendari e cartoline di Natale dai fornitori e dai venditori all'ingrosso, ma li strappava appena arrivavano, così non c'era nulla sulla mensola sopra il caminetto. Niente. E la casa era particolarmente fredda. Forse congelata dal malanimo. Melanie si chiese se sarebbero andati in chiesa, alla Messa di Mezzanotte, perché aveva l'impressione che nel loro modo confuso fossero religiosi, se credevano tanto all'inferno. Ma andarono a letto alla solita ora e Francie, che rientrò molto tardi, era leggermente ubriaco quando rincasò, dunque non poteva essere andato a Messa. Ne sentì i passi incerti sulle scale e lo sentì canticchiare sottovoce una piva. Finn doveva essere lì sdraiato nel buio, come del resto era lei, dall'altra parte del muro che li divideva come la spada di Tristano, perché riusciva a sentire il mormorio delle voci dei due che si parlavano, senza però afferrarne le parole. Poi un raggio di luce filtrò dallo spioncino, una luce tremula, furtiva. E le arrivò un odore di legno bruciato. Stavano incenerendo qualcosa. Pur sentendosi in colpa, Melanie si alzò e andò a guardare. Fuori dal letto faceva più freddo di quanto lei potesse immaginare, il freddo delle più fredde notti all'addiaccio in Russia. Dalle tavole del pavimento una sensazione di gelo le risaliva su per le gambe dalle piante dei piedi nudi. Aveva la pelle d'oca dappertutto. La stanza dei fratelli era semibuia e piena d'ombre, riuscì a malapena a riconoscerne le forme. Erano entrambi chini su qualcosa in mezzo alla stanza e all'improvviso la striscia di specchio rimandò il lampo di un fiammifero acceso. L'impermeabile di Francie luccicò, aveva ancora addosso impermeabile e cappello. Si inginocchiò a terra reggendosi con una mano mentre con l'altra teneva alta una piccola bambola scolpita nel legno con una gran chioma di capelli biondo biancastri fatti con una matassa di fili dipanati. Indossava una camicia aderente, elegante, con una cravattina a cordino. La camicia doveva averla fatta la zia Margaret. Era così piccola e bella. Doveva essere stato difficile farla così piccola. Finn con molta attenzione stava applicando ì fiammiferi alle varie parti della bambola. Non appena i vestiti cominciavano a bruciare e risplendere, dando fuoco al legno sottostante, lui toglieva la parte bruciata e ricominciava in un altro punto. Erano entrambi silenziosi e indaffarati, completamente assorbiti da quell'operazione. Vide che presenziava anche il cane, seduto a guardarli senza battere ciglio. Ogni volta che accendevano un fiammifero i suoi occhi risaltavano come lamponi fluorescenti. Il suo manto bianco sembrava innaturale, quasi appositamente sbiancato, per masche-
rarlo. Finn mise un fiammifero sull'inguine della bambola, che portava i calzoni e lui e Francie risero sommessamente. I Jowles facevano Natale a modo loro. Melanie tornò a letto e si tirò le coperte sulla testa. Ma non trovò calore tra le coperte, perfino la bottiglia d'acqua calda s'era freddata, nel frattempo. Era così freddo che pensò che il muco le si sarebbe congelato nel naso e il cervello sarebbe diventato una corrugata noce di ghiaccio. Continuò a tenere la testa sotto le coperte, per non vedere la luce magica. 8 La mattina di Natale, quando Melanie le diede timidamente la boccetta di profumo, la zia l'abbracciò e la baciò e mostrò una tale gioia per quel regalo che Melanie si vergognò per la sua modestia. «Com'è che non ci ho pensato?» si disse. «Avrei potuto darle le perle della cresima. Io non ne ho bisogno e non me le vorrò più mettere passato domani. E invece a lei piacerebbero tanto!» Immaginò la zia mentre toccava le perle con le sue dita incredule, trasfigurate, chiudendo quel filo di semi di luna intorno al suo povero collo. Le belle perle, tanto più adatte alla pelle delicata della zia che non quel tormentoso collare d'argento. E quelle sue perle preziose erano l'unico regalo che avrebbe potuto darle per dimostrare i sentimenti che nutriva per lei. Melanie decise che gliele avrebbe regalate per il prossimo Natale o per il suo compleanno, se fosse riuscita a scoprire quand'era. «Volevo comprare dei regali per tutti voi!» scrisse la zia sulla lavagna. «Ma non ho soldi, capite e poi Philip...» il gesso le cadde di mano. «Ma va bene così!» disse Melanie in un impeto d'amore «Non ti agitare, ti prego.» In camera sua aprì il suo unico pacchetto. La signora Rundle aveva fatto un golf ai ferri per ognuno di loro, per Jonathon era grigio, molto pratico, per Victoria era di un rosa fragola quasi da mangiare e per Melanie un elegante azzurro cielo. Poi li aveva incartati tutti in un bel pacchetto regalo. Melanie fece passare il nuovo golf sulla testa di Victoria; vestirla era come mettere un cuscino al di sopra di un altro, recalcitrante, cuscino. Questa volta non c'era la calza piena di cose per lei (niente arancia nella punta, noci nel calcagno e sorpresine che facevano capolino dal bordo), non c'era proprio niente per Victoria questo Natale, tranne il piccolo golf e le caramelle. Ma la bambina non ricordava il Natale precedente e nessuno l'aveva
preparata all'avvento del Natale quest'anno, perciò non ne avrebbe sentito la mancanza, anche se Melanie la sentiva per lei. Le sembrava terribile privare della festa una bambina così piccola, ma il golf non le aveva fatto né caldo né freddo e le caramelle le aveva accettate senza troppo interesse pensando forse che fossero un modo per ingraziarsela. Cominciò a mangiarle subito, non appena Melanie ebbe aperto il barattolo. Non le faceva bene mangiare caramelle a quell'ora di mattina, ma Melanie non se la sentì di impediglierlo. La lanterna di carta giapponese quella mattina sembrava una decorazione natalizia, era tonda, azzurra e allegra. Forse nasceva proprio come decorazione natalizia di un periodo lontano quando i Flower erano ancora una famiglia normale. Dovevano pur essere stati una famiglia normale quando la mamma viveva con loro. La mamma non era mai stata un'eccentrica. E i nonni, di cui non aveva mai sentito parlare, chissà com'erano i nonni? Certamente celebravano il Natale quando la mamma e lo zio Philip erano piccoli. Se lo zio Philip era mai stato piccolo. Era difficile immaginarlo così, con la divisa e il berretto della scuola e i calzoni corti, che giocava con la fionda, leggeva i fumetti e collezionava scatole di fiammiferi. Ma, pensò Melanie improvvisamente agitata, e se lo zio Philip dal pugno di ferro non fosse per niente il fratello della mamma? Forse quel grassone in qualche modo nel corso degli anni si era sostituito all'uomo magro della foto del matrimonio. Un estraneo, un impostore, che si era messo in faccia il volto di Philip Flower come una maschera e ne indossava gli abiti, ma in verità non era lui. Melanie avrebbe preferito che fossero andati a vivere con la famiglia del padre, invece. Tutte quelle persone carine che erano nella foto del matrimonio! Di certo tutti loro in quel preciso momento stavano trinciando un gigantesco tacchino e decoravano l'albero di Natale per preparare la grande festa. Ma se fosse andata dalla zia Rose o dalla zia Gertrude non avrebbe mai conosciuto Francie e la zia Margaret e Finn. Soprattutto Finn. Melanie si mise il golf nuovo. La lana pizzicava ma era meravigliosamente caldo, con un gran collo alto da arrotolare. Le sembrava che la riscaldasse con qualcosa di più che il semplice calore della lana, come se la signora Rundle vi avesse riversato un po' del suo amore a ogni giro di maglia. Le fu molto grata perché la casa era ormai sprofondata nel pieno inverno. E le poche stufe elettriche sembrava che accentuassero il freddo invece di sconfiggerlo. In quei freddi giorni di dicembre il naso affilato della zia Margaret era sempre rosso sulla punta. Ma Melanie non aveva neppure
bisogno di un cardigan sopra al nuovo golf azzurro cielo. Avrebbe scritto alla signora Rundle per ringraziarla. Pensò ai porri pelosi della signora Rundle, erano un ricordo forte, carino. Con sua grande sorpresa era stata preparata una cena speciale. Un'oca al forno materializzatasi inaspettatamente sulla tavola con tanto di ciotola piena di salsa di mele, come un fantasma del Natale passato. La zia Margaret doveva averla ordinata segretamente per conto suo per fare loro una sorpresa. Il vecchio Scrooge, alias zio Philip, vedendola si corrucciò e gli conficcò il coltellone nella pancia con tale violenza che il ripieno schizzò sulla migliore tovaglia di damasco della zia Margaret, che lo dovette recuperare col cucchiaio. Lo zio attaccò l'oca indifesa con tale violenza che sembrava la volesse uccidere di nuovo, forse ritenendo incompetente il macellaio che l'aveva già fatto, o magari pensando che la zia Margaret non l'avesse messa in un forno abbastanza caldo da finirla. Col coltello fumante in mano, guardò pensoso Finn. Per un attimo Melanie temette che avesse solo voluto provare il colpo fatale sull'oca per poi, una volta perfezionato il gesto, esercitarlo contro Finn. Ma alla fine si limitò a servirgli una magra porzione di pelle e ossa che Finn, torvo, spostò qua e là sul piatto senza mangiare. Lo zio Philip mangiò d'appetito e rosicchiò le ossa come Enrico VIII. Era una tavolata triste e non si soffermarono più di tanto. Dappertutto a Londra uomini e donne con i cappellini colorati in testa guardavano la televisione per ascoltare il discorso della regina, spaccando le noci e brindando tra di loro e versandosi il porto fulvo. Era difficile crederci, mentre in quella casa, non appena finito di mangiare senza gusto con i dolcetti e il burro al brandy, lo zio, Jonathon e Finn erano ridiscesi in laboratorio. La zia Margaret tirò fuori la tunica di chiffon non appena ebbero finito di lavare i piatti, per sistemare i lacci intrecciati. Victoria giocava con una pentola su cui batteva un cucchiaio di legno. Il burro al brandy era già spalmato sulle maniche del suo nuovo golfino rosa. Tambureggiava con la pentola e il cucchiaio e gridava allegramente. A Melanie cominciò a far male la testa. «La casa è piena di giocattoli e lo zio Philip non permette a Victoria di prenderne neppure uno per giocare in santa pace» pensò piena di risentimento. Non voleva guardare la tunica perché le ricordava il cigno sconosciuto che l'avrebbe assalita il giorno dopo. Aveva il terrore dell'idea stessa del cigno. Quel pomeriggio era oppressa dalla noia. Victoria continuava a fare fracasso con la pentola e a cantare brani di canzoncine mentre la zia Margaret le accarezzava il capo teneramente. Le due erano felici insieme.
Il mal di testa le andò aumentando. Sgattaiolò nella sua stanza ma c'era Francie che suonava lente arie e le frasi musicali la calpestarono con i loro teneri, piccoli, melanconici piedi finché non ebbe l'impressione che le si spezzasse il cuore. Non sapeva dove sbattere la testa. Raccolse alcune foglie gialle e secche di geranio e le accartocciò tra le dita riducendole a una polvere profumata. Si fissò le mani, quattro dita e un pollice. Cinque unghie. «È la mia mano ma a che serve?» pensò. «Che cosa significa?» La sua mano le sembrava bellissima e sorprendente. Un oggetto che non le apparteneva e di cui non conosceva l'uso. Le dita erano persone, i membri della sua famiglia. Il pollice era il padre, basso e tarchiato, forse un contadino del nord, che pronunciava le vocali aperte e volitive, l'indice era la madre, una signora alta come un salice, di origini borghesi, che diceva spesso «cava e tesovo», di quelle che alla fine del pasto mangiavano l'arancia con coltello e forchetta. Forse lui s'era sposato con una di condizione sociale superiore alla sua, per via dei soldi che era riuscito a guadagnare. Lui, il padre, aveva la postura dritta e sicura di uno che s'era fatto strada da solo nel mondo. E poi c'erano i tre bei bambini, due già grandicelli, un ragazzetto e una signorina, e poi l'ultimo, quasi adolescente. Piegò la mano e la famiglia dopo un inchino fece un balletto per lei. Poi Melanie si riscosse orripilata. «Forse sto impazzendo!» In questa gabbia di matti, come aveva detto Finn, stava succedendo anche a lei. Si avvolse la testa nella tenda per non sentire Francie e per non vedere la stanza farsi buia annunciando l'avvicinarsi del giorno successivo. Sentiva che il mondo girava muovendo verso il nuovo giorno e trascinandosi dietro lei, minuscola, furibonda, riluttante. Si vedeva minuta, in piedi nell'aula scolastica del mondo, che dal canto suo girava nello spazio vasto e silenzioso e ancora una volta sentì di essere sull'orlo della follia. Ma la gente aveva l'esaurimento nervoso a quindici, sedici anni? Doveva essere lei l'unica, la sola. Aveva un cigno sopra la testa, che oscillava come la spada di Damocle, e la seguiva dovunque, e lei, insignificante come la polvere, veniva trascinata dalle correnti incrociate di venti spaventosi. «Non devo avere paura del cigno. È solo una messa in scena!» Ma non era esattamente del cigno che aveva paura. Piuttosto la spaventava l'idea di darsi al cigno. Il giorno dopo, quando fu pronta la sua acconciatura ed ebbe indossato la tunica, Victoria afferrò lo chiffon con le sue manine appiccicose ed e-
sclamò: «Bella signora! Bella signora!» «Davvero ti sembro bella?» chiese Melanie triste, come se l'opinione di Victoria contasse sul serio o se la bellezza in qualche modo rappresentasse una protezione. «Sì!» rispose Victoria entusiasta, rotonda come un frutto nel suo golfino color fragola. La zia Margaret, mentre le fissava i fiori tra i capelli, annuì con tutta l'energia che le permetteva il collare. Aveva messo il vestito dritto e grigio e sembrava una colonna dorica, ma i capelli non erano fissali così bene come faceva in genere quando si metteva i vestiti buoni e un ricciolo le scendeva lungo l'orecchio dandole un'aria sciatta e incoerente. Doveva essere troppo preoccupata per dedicarsi a sistemarsi bene i capelli. Lei e tutti gli altri erano così eleganti, così puliti, così addobbati per la domenica che Melanie si sentì fuori luogo, come una ballerina che vada a ricevere la Santa Comunione con le calze a rete. Allora, ormai era entrata nel mondo dello spettacolo. «Non ho fatto abbastanza prove» disse rauca. «Andrà bene» disse Francie. «Non tentennare, piccola. È quasi ora che si apra il sipario.» «Oh, Francie» disse deglutendo a fatica. Lui le diede una pacca d'incoraggiamento sul sedere avvolto nello chiffon. «Can che abbaia non morde.» Lo aveva già sentito dire a proposito dello zio Philip ma non ci credeva più. Pensò rabbrividendo a cosa avrebbe potuto farle se avesse recitato male, pensò al sangue che le sarebbe sgorgato dalle vene, macchiando il palcoscenico. Ma quando la vide, lo zio sembrò abbastanza contento del suo aspetto, se non altro. La squadrò dall'alto in basso e disse «Va bene, vai dietro le quinte.» Era monumentale con la sua giacca da sera e i suoi calzoni a righe, un toro. Forse era un toro. Sputando fiamme dalle narici si sarebbe trasformato in Giove sotto le spoglie del toro, e scompigliando tutti i miti l'avrebbe rapita come Europa portandola al di là di quel mare dipinto dove saltavano i delfini. Era fuori di sé e immaginava di tutto. Questa volta erano solo tre le sedie pronte visto che Melanie non faceva più parte del pubblico, ma il cartello con «VIETATO FUMARE» era affisso sulle tende e un altro poster ridisegnato annunciava «NOVITÀ: GRANDE SPETTACOLO NATALIZIO - arte e natura si associano a Philip Flower per offrirvi un evento unico.» E lo zio Philip, circondato da un minuscolo circolo di fanciulle che saltavano alla corda, manovrava dall'alto i fili di un bel cigno.
Il palcoscenico era una graziosa scatola con una parete rossa e una azzurra come il mare e con una cornice piena di luci, in alto, dove Finn stava acquattato come un rospo, nero in volto, indifferente e di malumore. Melanie non vedeva il cigno da nessuna parte, doveva essere dietro le quinte. Sul palco era sparsa una gran quantità di conchiglie di ogni forma e dimensione, conchiglie di vongole, conchiglie grandi, tonde e madreperlacee, conchiglie piccole e con un puntale minaccioso. Dall'altra parte del sipario, in un'altra dimensione, la zia Margaret e i bambini si erano seduti per lo spettacolo. Melanie lì, sola tra le conchiglie, si sentì una stupida. «Levati quelle scarpe da zoticona, brutta scema!» urlò lo zio Philip mentre saliva lungo una corta scala che lo avrebbe portato da Finn. Lei aveva ancora addosso le scarpe con i lacci che si era messa per scendere giù. Dovevano essere ridicole con la tunica. Se le levò e le lanciò dietro le quinte. Ora che non aveva più le scarpe si sentiva davvero nuda. Le luci passarono per tutta una gamma di trasformazioni caleidoscopiche mentre Finn provava l'intera serie dei suoi effetti speciali. Melanie cercò di calmarsi pensando a qualcosa di diverso, a qualcosa di carino come dei morbidi gattini o i pasticcini per il tè, ma stranamente il pensiero di quelle dolci cose le fece venire le lacrime agli occhi. Per far passare il tempo si mise a recitare le tabelline. Sopra la sua testa si sentiva il fruscio e il mormorio di Finn e dello zio Philip. «Musica!» Dalla parte della parete rossa Francie intonò temi come «Il lago dei cigni» nello stile da Grand Hotel dei programmi radiofonici della domenica sera. «E poi?» si disse Melanie, reprimendo l'impulso improvviso di mettersi a ridere. «E poi?» La consolava sentirsi così superiore alla mediocrità dello zio Philip. Era evidente che amava Tchaikowsky perché adesso batteva il tempo col testone. Aprì un frusciante copione e lesse: «Leda raccoglie le conchiglie sulla riva mentre si fa sera. Neppure sospetta di essere stata scelta come sposa da Giove onnipotente.» Finn spinse un interruttore e la scena fu allagata da un chiarore brunastro. Melanie fu trafitta dalla luce del riflettore. Lo zio Philip sibilò: «Avanti, comincia, come ti chiami.» Lei allargò la sottana e cominciò a riempirla di conchiglie, chinandosi e tirandosi su, chinandosi e tirandosi su, seguita dalla luce del riflettore man mano che il sipario si sollevava. C'era Francie col violino sotto il mento. E c'era la zia con Jonathon e Victoria che applaudivano. Era come la recita scolastica. Lei aveva fatto l'angelo nella recita di Natale alla scuola, pro-
prio un anno prima, anche allora era vestita di drappi bianchi, ma allora aveva anche un'aureola di cartone sulla testa. Raccolse le sue conchiglie. «Ma che ci devo fare con tutte queste?» si chiese. Lo scoprì quando lo zio Philip colpì inaspettatamente un foglio di metallo con un bastone imbottito, simulando il tuono. Spaventata, le fece cadere tutte e a quel punto arrivò il cigno. Era alto quasi quanto lei. Una forma a uovo fatta di compensato dipinto di bianco su cui erano incollate vere piume. Immaginò che il lungo collo fosse fatto di gomma perché si piegava e si girava dappertutto con una sua inquietante vitalità. La testa e il becco però erano di legno intagliato e gli occhi di vetro nero. Il becco era dipinto con una vernice d'oro. Le ali erano costruite sul principio delle ali dei modellini di aeroplani, ma si curvavano come archi di legno leggero tutti ricoperti di carta bianca piumata. Le zampe nere erano ripiegate sotto il corpo. Era la grottesca parodia di un cigno vero, una figura che avrebbe potuto essere uscita dalla matita di Edward Lear. Non somigliava neppure un po' all'animale fallico e selvatico che aveva immaginato. Era brutto, rotondo ed eccentrico. Quasi scoppiò di nuovo a ridere vedendo come faceva fatica a scendere sulla scena. Ma scappò come era previsto dal copione, calpestando le conchiglie con i piedi nudi e ferendosi. Le ali del cigno si dispiegarono perché lo zio Philip tirava i fili. La seguiva, agitando qua e là il becco distratto. Il piccolo pubblico applaudì di nuovo. Il cigno abbassò le zampe fino ad atterrare come il modellino di un aeroplano. «Questo è geniale» si disse Melanie. Atterrò con un colpo sordo sulle zampe palmate, di plastica. Lei si bloccò non sapendo quale dovesse essere la mossa successiva. L'uccello s'incamminò verso di lei ondeggiando ma con decisione. Melanie pregò perché le si desse un indizio. Lo zio Philip lesse ad alta voce: «Leda cerca di fuggire dal visitatore celeste ma la sua bellezza e maestà la atterrano.» «Be', vuol dire che devo buttarmi a terra» capì e scansando le conchiglie, si inginocchiò. Puntuale come il fato, o l'orologio, arrivò il cigno, con le zampe che facevano splat, splat, splat. Melanie pensò al cavallo di Troia, anche quello fatto di legno cavo. Se non avesse recitato bene la sua parte poteva succedere che si aprisse una porticina sul fianco del cigno, lasciando uscire un esercito armato di zii Philip pigmei meccanici, che le sarebbero saltati addosso facendole violenza. Una possibilità che le sembrò reale e spaventosa. Il riso le si spense in gola. Era in preda all'allucinazione. Non
si sentiva più se stessa, era come staccata da sé, osservava quella fantasia da un altro luogo e in quella follia di messa in scena tutto era possibile. Perfino che il cigno, quella parodia di cigno, diventasse improvvisamente vero e violentasse quella ragazza in una tempesta di penne bianche. Il cigno torreggiava sulla ragazza con i capelli neri che era e non era Melanie. Il suo corpo vuoto era bianco e leggero come una meringa e la testa ballonzolava in tutte le direzioni sopra il collo prensile. La musica pulsava sempre più forte, quasi dolorosa. L'ultima volta che aveva sentito «Il lago dei cigni», era stato un paio di anni prima, sempre a Natale, e allora era seduta su una comoda poltrona di velluto rosso al teatro dell'Opera di Covent Garden, e ce l'aveva portata il babbo come regalo di fine trimestre. Le figure bianche volteggiavano davanti ai suoi occhi. Per un certo periodo si era appassionata al balletto e adesso era lei stessa a calcare le scene con un finto cigno. Sentì il finto cigno che le si accoccolava sui piedi con la pancia. Se guardava in alto poteva vedere lo zio Philip che manovrava i fili. Aveva la bocca semiaperta per la concentrazione. Notò che sulla cravatta a farfalla aveva delle macchie lucide che brillavano riflettendo la luce. Si spostò sotto il cigno frusciante che adesso sbatteva energicamente le ali arruffandole i capelli. Una margherita volò via. Poi non riuscì a vedere altro che il riverbero polveroso del riflettore. «Giove onnipotente in forma di cigno dà sfogo al suo desiderio.» La voce dello zio Philip, profonda e solenne come le note di un organo, si stagliò cupa e sonora sullo sfondo lamentoso del violino. Il cigno spiccò un goffo salto in avanti e approdò sui lombi della ragazza che si dimenò con tutte le sue forze per liberarsi, ma le sue ali l'avvolsero tutta come una tenda e la sua testa le si annidò sul collo. Il becco dorato scavò profondamente quella carne tenera. Melanie urlò, senza nemmeno rendersi conto che stava urlando. Era completamente coperta dal cigno tranne che per i piedi che scalciavano e la bocca che urlava. L'osceno cigno l'aveva coperta tutta. Urlò ancora, aveva la bocca piena di piume. Sentì frusciare le tende tra uno scroscio di applausi e pensò che fosse il suono del mare. Dopo un momento in cui aveva perso conoscenza si riprese e vide Finn, chino accanto a lei, che le tirava giù la tunica per coprirla. Il cigno appassionato l'aveva quasi denudata. Finn aveva in faccia un'espressione decisa. Lei lo guardò come se fosse uno sconosciuto con addosso una camicia scozzese e dei vecchi calzoni di velluto, con la barba leggermente incolta. «Ha delle belle orecchie» pensò, notandole per la prima volta. Erano orec-
chie piccole e ben disegnate. Cercò di ricordare dove lo aveva visto prima. Era un volto familiare. Ma era troppo difficile, così rinunciò. Si guardò intorno in cerca del suo cigno. Era stato tirato via. Appeso ai fili, ora che aveva perso la sua forza motrice, aveva un'aria patetica e oscillava appena da un lato all'altro. «Tutto bene,» le disse Finn «lo spettacolo è finito.» Allora lei lo riconobbe. Certo era uno che dipingeva, un amico, se quella parola significava qualcosa. Fu allora che tornò a essere Melanie indossando se stessa lentamente, come una giacca. Lo zio Philip scese giù dalla scala ansimando e soffiando e ordinò bruscamente a Finn di tornare alle luci. «Hai esagerato!» urlò a Melanie e le diede un manrovescio. «Sei stata melodrammatica. I burattini non lo sono mai. Hai rovinato la poesia.» Con lo schiaffo che le bruciava ancora, disse: «Il cigno mi ha sconvolta» Ma lui non sentì, si stava sistemando la cravatta a farfalla. Il palcoscenico fu allagato di luce. Lei, lo zio Philip e il cigno ricevettero una tumultuosa ovazione. Le sembrò che continuasse per ore e ore, con gli inchini e le rose di carta che le lanciava la zia. Finché a un certo punto lo zio gridò «luci!» e il sipario si chiuse per l'ultima volta. Subito spense il suo esagerato sorriso e abbracciò il cigno che pendeva floscio. «Bravo vecchio mio!» gli confidò. La testa di legno ballonzolò. «È tutto finito?» chiese Melanie scossa da un tremito e dalla nausea per la brusca conclusione. «Sì. Fuori dai piedi!» Melanie riprese le sue scarpe e se ne andò. La zia Margaret e Francie la baciarono e Francie disse: «Sei stata brava, bravissima.» Era tutto finito. Aveva fatto il suo debutto ed era di nuovo viva. Aveva le piume tra i capelli ed era tutta impolverata. Si spazzolò i capelli, togliendo le piume e le margherite e si infilò di nuovo nella sua gonna di tutti i giorni e nel suo golf nuovo che l'abbracciò con amore. Però continuava a sentirsi strana, distaccata. Per cena fu servito un tronchetto di cioccolata decorato da un pettirosso di zucchero che Victoria prese e mangiò. La torta aveva un'aria terribilmente esotica e improbabile come un frutto della fantasia. Lei mangiò la sua fetta ma non sentì alcun sapore. La compagnia attorno al tavolo era assurda quanto la sua immagine in miniatura dentro la sfera di cristallo della maga. Guardò lo zio Philip vuotare una dopo l'altra quattro tazze di tè di quelle con la fascia verde e pensò al liquido che gli passava attraverso i re-
ni e si trasformava in urina, una specie di alchimia: era capace di trasformare i liquidi dall'uno all'altro. Poteva anche trasformare il legno in cigni. Aveva la glassa di cioccolata sui baffi, in che cosa si sarebbe trasformata? Attese, rapita. Il suo silenzio era ingombrante, aveva un peso e un'altezza. Andava da lì al cielo e riempiva tutta la stanza. Lui era pesante come Saturno. E lei mangiava allo stesso tavolo con quel silenzio primordiale che avrebbe potuto annichilire ogni cosa. Ma il suo sguardo tornava continuamente sulla distorsione plausibile della sfera di cristallo. Si trovò a interrogarsi su quale fosse il tavolo vero e quale quello riflesso. Se la cioccolata sul suo coltello non era una prova empirica, l'agrifoglio di carta laccata sulla torta era a sua volta artificiale. Tutto sembrava appiattito e ridotto alla bidimensionalità delle figure ritagliate nella carta dalla gravità del silenzio dello zio Philip, che prendeva il suo tè in totale mutismo. Melanie sentì che non proiettava ombra. Non riusciva a ricordare come era trascorsa la sera ma doveva essere passata in qualche modo se era a letto e abitava quella grigia terra di nessuno che sta tra il sonno e la veglia. Victoria, l'allegra Victoria che ancora risiedeva nel paese di Bengodi dove il latte e il miele scorrono a fiumi, un Eden dove il serpente è ancora di là da venire, la spensierata Victoria dormiva come un ghiro, ma Melanie sentì raspare alla porta. Non ci volle credere e fece finta di essere addormentata tra le lenzuola a righe, a casa sua, con l'albero di mele carico di brina fuori in giardino. Ma quel raspare continuò e lei aprì gli occhi. Un dito di luna aveva fatto capolino tra le tende e si era fermato in fondo al suo letto, illuminando una montagnola che dopo un attimo realizzò con sollievo non essere prodotta da altro che dai suoi piedi. Qualcuno grattava, grattava ripetutamente alla sua porta, poi sentì sussurrare. «Sono Finn, ti devo parlare.» Stava sdraiata tra la lavanda e Finn le voleva parlare. Cercò di capire cosa stava succedendo, ma non ci riuscì. «Entra se vuoi» disse, lasciandosi portare dalla marea. Ma era Finn o no? Era troppo buio per poterci vedere e il bisbiglio era anonimo, un raspare metallico. Rimase per un po' in ansia mentre la figura d'ombra attraversava la stanza e si avvicinava al suo letto, fendendo il buio silenzioso come un nuotatore. Ma il respiro era quello di Finn. Per forza. Suonava come una sega musicale. Non potevano esistere due persone che respiravano in quello stesso modo. Lui si chinò accanto al suo letto. L'odore era quello di Finn. Non potevano esistere due persone con quell'odore.
Ma c'era in lui qualcosa di selvaggio, di notturno e il suo alito sapeva di liquore anche se non sembrava ubriaco. Batteva i denti così forte che sembrava stesse suonando i cucchiai. Rassicurata perché l'uomo era proprio Finn, Melanie si preoccupò dello stato in cui si trovava. «Che ti succede, Finn?» «Oh Melanie, oh...» batteva i denti troppo forte per riuscire a parlare coerentemente. Era squassato da un tremito. Gli toccò la fronte che bruciava per la febbre. Finn fece un salto come se quel tocco l'avesse ferito. «Stai male!» «Non lo so, no» disse, stringendo i denti perché smettessero di battere. Era triste e malato ed era venuto da lei. Melanie non aveva voglia di chiedersi come e perché era lì. E adesso? Un geranio appassito cadde dalla pianta proprio in quel momento, producendo un leggero rumore di carta velina. Un fiore di meno. «Melanie,» le disse «stammi a sentire, posso venire a letto con te per un po'? Mi sento malissimo.» Quando aveva l'età di Victoria e la notte vedeva i fantasmi Melanie correva nel letto della mamma nel turbinare della camicia da notte e si annidava nel caldo cuneo tra i suoi genitori; e lì si addormentava al sicuro, chiusa tra la loro carne che era la sua stessa carne. «Ma... veramente... Okay, va bene, sì.» Si arrotolò attorno le coperte per poteggersi ma non ebbe il coraggio di mandarlo via. Era tutto vestito, si tolse le scarpe e le lanciò lontano, una dopo l'altra, dopodiché si arrampicò sul letto accanto a lei. Aveva l'alito bagnato che sapeva di fango e i calzini erano umidi. «Sono pieno di terra» disse. «Non so come faremo a spiegare a Maggie le condizioni delle lenzuola. Per favore Melanie, potresti abbracciarmi fino a che non mi sento meglio?» Era una richiesta semplice e onesta e lei lo tenne abbracciato fino a che non smise di battere i denti. Non sapeva cosa pensare. Quell'incontro faceva parte dell'irrealtà di quel giorno, ma per qualche motivo sembrava più normale di notte, come se fosse successo già tante volte in precedenza. I bottoni di ottone della sua giacca da pompiere le si conficcarono nelle costole. «Dove sei stato?» chiese alla fine. «Al parco dei giochi.» «Santo cielo, ma che ci facevi là in piena notte?» «Sono andato a un funerale.»
«Di chi?» chiese Melanie preparandosi alla notizia della morte di qualcuno. «Del cigno.» «Che vuoi dire?» «Il cigno. Che dorma in pace. Il cigno.» «Hai seppellito» ripeté per chiarirlo prima di tutto a se stessa «il cigno?» «Sì, l'ho fatto.» Aveva una voce stranamente allegra e leggera. «Prima di tutto l'ho fatto a pezzi giù nel laboratorio. Sono sceso giù e l'ho fatto a pezzi con l'accetta di Maggie, quella che usiamo per la legna del camino. L'ho fatto in pezzi piccoli, è stato facile.» «Oh Finn, dimmi che non è vero!» «Sì, è vero.» Smisero di bisbigliare per un attimo. Il vento notturno fece gonfiare le tende. Ora che i suoi occhi si erano abituati al buio, Melanie riusciva a distinguere vagamente il volto di Finn appoggiato sul cuscino accanto al suo, ma niente di più. «Finn, ma ti rendi conto dell'enormità della cosa?» «È stato solo un gesto.» Sprofondarono di nuovo in un pozzo di silenzio da cui riemersero dopo un po'. «Tutto da solo?» chiese meravigliata, immaginandolo nel laboratorio, così pieno della presenza dello zio Philip, circondato da arti mozzi e maschere che lo guardavano. «Be', sai, Francie è fuori a suonare il violino. C'è una festa irlandese che va avanti tutta la notte a Kilburn. Sennò lui sarebbe venuto con me, credo. Per questo sono dovuto venire da te, perché Francie non c'è. Dovevo farlo, sai, dovevo stare vicino a qualcuno perché mi sentivo davvero male quando sono tornato a casa.» Si rigirò agevolmente. «Ora va molto meglio. Dio mio, pensavo che non mi sarei mai più sentito bene. Scottavo e gelavo al tempo stesso. Era come morire.» Nel letto c'era posto per tutti e due se stavano vicini. «C'è un po' di luna» disse lui. «E ho seminato penne per tutta la strada. Ho visto un uomo che portava a spasso il suo cane, ho avuto paura e mi sono nascosto in una siepe. Chi mai porterebbe a spasso il cane a quell'ora di notte? Doveva essere un pazzo furioso.» «Ma perché hai fatto a pezzi il cigno?» «Ero sdraiato sul mio letto quando all'improvviso ho pensato di farlo. Non so perché. Mi è venuta l'ispirazione. Gli ucciderò il cigno. Così ho
mandato giù un goccio dalla bottiglia di Francie per farmi coraggio.» «Ti ammazzerà» disse lei. Lui non rispose. Victoria ridacchiò nel sonno. Melanie ripeté «Ti ammazzerà» e pensò: «Ovviamente vuole sentirmi dire questo.» «Metteremo le carte in tavola. Io e lui.» «Ah, sei matto!» «Parla piano o sveglierai la piccola!» «Credo che la testa non ti funzioni quando c'è di mezzo lo zio Philip.» «Smettila di darmi il tormento» disse lui come se fossero una coppia sposata da anni. «Non mi tormentare dopo una sera come questa. Che Dio mi preservi dalle insidie e dai pericoli della notte.» Il letto si mosse. Melanie si tirò indietro istintivamente pensando che lui stesse cercando di toccarla e poi, con stupore, si rese conto che Finn si stava facendo il segno della croce. Non aveva idea di come interpretare tutto ciò. Doveva essere passato per un'ordalia. Doveva essergli capitato qualcosa di simile a quella che per lei era stata la notte dell'abito da sposa. Nel parco dei divertimenti Finn aveva camminato nella foresta della notte dove niente è sicuro. «Anche io ci sono stata» pensò, ed ebbe voglia di piangere per tutti e due. «Ho seppellito il cigno vicino alla regina» disse con l'aria di fare conversazione e con quella voce senza profondità che aveva da qualche tempo. «Pensi che sia stato carino da parte mia? Ho pensato che almeno si potevano fare compagnia tra di loro.» «Be',» rispose lei «immagino che vada bene come qualunque altro posto.» «Non ho capito perché sono andato al parco dei divertimenti quando avrei potuto buttare i pezzi del cigno nel secchio. Per qualche motivo il parco dei divertimenti mi è sembrato la cosa migliore. Sai che ero quasi in preda al delirio, lì nel parco. Sì, stavo male davvero. Melanie... la leonessa di pietra mi inseguiva, ne ero certo, ho sentito il suo brontolio e la regina era in piedi sul suo piedistallo. Mi hanno dato una scossa, devo dire. L'ho vista da lontano ma lei deve aver notato che mi avvicinavo e si è affrettata a sdraiarsi di nuovo, subito. Era di nuovo giù per terra quando le sono arrivato vicino, la puttana! E poi, da lontano, si udiva il suono di una concertina e quello mi ha turbato più di tutto il resto.» «Che musica era?» chiese Melanie. «Mi stai prendendo in giro» esclamò Finn in tono di rimprovero. «No.»
«E io mi ero portato la pala per scavare la fossa al cigno e la pala continuava a cadermi. Continuava a sfuggirmi tra le dita come se non volesse seguirmi a nessun costo. E il collo del cigno si era rifiutato di farsi tagliare: l'accetta ci rimbalzava sopra. Continuava a uscir fuori dall'impermeabile mentre lo abbottonavo per nasconderlo e insisteva a sbucare fuori mentre lo trasportavo insieme a tutti gli altri pezzi del cigno e la pala. Avevo le braccia piene e quando sbucava il collo del cigno avrò dato l'impressione a chi passava di lì di essere un porco esibizionista. Ero pieno di imbarazzo e continuavo a controllare se la lampo dei calzoni era chiusa.» Non la smetteva più di parlare e parlava liberamente come sempre, anzi più che mai. «Dev'essere stato terribile per te, povero Finn.» Era stata una giornata terribile per tutti e due. Lei aveva la sensazione che in qualche modo le loro esperienze fossero parallele. Capiva bene la sua pazzia. «Povero Finn.» «Ah, ma è stato un tale piacere distruggere il cigno!» «Vorrei che non l'avessi fatto.» «Ti ha coperto» disse Finn. «Ti ha cavalcato. In parte l'ho fatto per te, perché ti è montato in groppa.» «Non mi ha fatto male.» «E poi Philip Flower lo adorava.» «Che succederà?» «Non so dire. Posso solo immaginare.» Stavano tranquillamente a letto come una coppia sposata da tempo che per tutta la vita non abbia fatto altro che dividere tranquillamente il letto insieme. Dividere il cuscino con Finn sembrava la cosa più normale del mondo, ma quando chiuse ancora una volta gli occhi, Melanie si ritrovò dentro il bianco igloo delle ali del cigno. Il cigno era troppo grande e potente per poter smettere di esistere così, all'improvviso. «Era un oggetto grottesco, quel cigno» disse. «Ma ci aveva messo tanto lavoro.» «Ce l'aveva messa tutta. Per questo doveva morire. Ah, come sono stanco.» «Allora dormi, dai.» «Piomberà nella stanza dalla finestra, per tormentarmi.» «No, non lo farà, stupido.» «Sei dura con me» protestò Finn. «È solo che sono ragionevole.» «Forse.»
«Levati i calzini, Finn. Sono bagnati. Prenderai il raffreddore.» Nel letto ci fu un piccolo terremoto mentre lui eseguiva gli ordini. «L'erba era bagnata e arrivava sopra il bordo delle mie scarpe, così mi ha bagnato i calzini. Era molto alta. Sembra più alta di notte. Perché?» «Non lo so, ma l'ho notato anch'io.» Poi si sistemarono per dormire insieme. Lui russava come era del tutto prevedibile per uno che respira a bocca aperta, ma Melanie ben presto ci si abituò e cominciò a sognare. Sognò di essere Jonathon. Era stata così incerta della sua identità tutto il giorno che fu quasi un sollievo alla fine scoprire che in realtà era Jonathon. Attraverso quei fondi di bottiglia dei suoi occhiali il mondo era lo stesso ma differente e le ginocchia erano fredde e nude sotto l'orlo dei calzoncini corti e grigi e sopra i calzettoni di lana spessa che gli pizzicavano le gambe. Sentiva il richiamo insistente del mare. «Devo andare giù, al mare, di nuovo.» La spinta era molto forte, come il risucchio di un'onda. Il mondo era oscuro e miope e lei era Jonathon cieco come una talpa nel suo piccolo lettuccio di ferro, lassù nella sua grotta intonacata di bianco, lassù nella stanza arroccata sulla scogliera e le onde si infrangevano sul muro della casa dove in realtà doveva esserci il giardino. Ascoltò il canto delle acque e l'urlo dei gabbiani fino a che non poté più sopportare di rimanersene sdraiato lì e si alzò. Naturalmente indossava il pigiama bianco col disegno delle macchine da corsa, un po' sbiadito dai lavaggi, con l'etichetta della vecchia lavanderia di quando viveva in campagna ancora attaccata al colletto. Si infilò le scarpe e la sua giacca di flanella grigia con il distintivo della scuola sul petto a sinistra, per proteggersi dal morso salino dell'aria marina. Prese gli occhiali che erano sulla sedia accanto al letto e cautamente aprì la porta sul corridoio. Catturata dal lucernario, la luna gli faceva l'occhietto sbucando a intermittenza tra le nuvole che le correvano sopra. Jonathon scese giù per le scale attento a non far rumore. Cominciò a vacillare come in un film con dei disturbi di proiezione, Melanie si ritrovò sovrapposta a lui, mentre le due figure scendevano furtivamente le scale sugli stessi piedi. Una parte di questi gemelli siamesi sussultava passando davanti alle porte chiuse, immaginando un occhio attento dietro ciascuna di esse. Ma Jonathon non se ne dava pena e ben presto la figura di Melanie scomparve. Entrò nella bottega dove la luce della luna brillava facendo risplendere il legno lucido e dove il pappagallo era d'argento pieno e poi giù in laboratorio dov'era pie-
no giorno, come lui aveva immaginato. La luce del giorno riempiva l'ambiente provenendo dal sipario aperto del teatro e la scena marina dipinta da Finn luccicava con tutte le onde orlate di schiuma. Il cielo era blu e il sole splendeva. Era una giornata meravigliosa. Jonathon osservò la metamorfosi dell'acqua dipinta: mulinava e si abbatteva sulla riva sabbiosa, dove granelli di mica brillavano e lontano, laggiù, i delfini saltavano felici, facendo le capriole nell'acqua. Quando lo videro gli gridarono: «Ehi, Jonathon! Finalmente è arrivato Jonathon!» con le loro voci acute e adenoidali. L'aveva sempre saputo che i delfini parlano, l'aveva letto in un libro della biblioteca. La sabbia scrocchiava sotto i piedi, con un rumore di corn flakes freschi. Camminò lungo il mare con una fresca brezza che gli colpiva gli occhiali. Il palcoscenico non c'era più ma lui non si voltò per capire come mai, o dove fosse finito. Arrivò fino a una piccola barca, ferma sulla sabbia, con tanto di remi fissati ai loro sostegni. La trascinò verso l'acqua e ve la spinse fino a che non cominciò a galleggiare, poi ci saltò su. In piedi a prua perlustrò l'orizzonte riparandosi gli occhi con la mano, per assicurarsi che ci fosse la nave. Era pronta a salpare. Con un leggero (sciabordio si diresse in quella direzione. Non appena le si accostò una scala di corda scese giù lungo il fianco. Sentì un fischio preliminare, erano pronti a salutare il suo arrivo sul suo vascello col fischio d'ordinanza, come gli spettava. Gli occhiali si erano appannati per gli spruzzi d'acqua. Spazientito se li tolse e li gettò in mare perché non ne aveva più bisogno. Li vide affondare lasciandosi dietro una traccia di bollicine che ben presto si dissolse. Melanie si svegliò. La stanza era piena di una nebbia impenetrabile e le facevano male le mani come se avesse davvero remato. Scosse la testa per far uscire la nebbia dagli occhi. Finalmente era Melanie. Le sue mani si rilassarono. Era mattina. Victoria era seduta per terra vicino al suo letto, e la osservava con aria interrogativa. In qualche modo era riuscita a strisciare fuori dal suo lettino. La camicia da notte era tutta tirata su e il suo sederino di pesca poggiava nudo sulle nude tavole di legno. «Vieni a letto con me prima che ti ammali a morte, mezza nuda come sei, Victoria!» «Perché c'è lui nel tuo letto?» Melanie s'era dimenticata di Finn. Si voltò a guardarlo: dormiva con la guancia appoggiata alla mano sporca e la giacca sopra la testa a coprirgli le orecchie. Nel sonno sembrava dolce e infantile. Russava ancora. «Si è sentito male» disse Melanie a caso «stanotte.»
«Capisco. Capisco» disse Victoria imitando gli adulti, con tono soddisfatto. Melanie la invitò di nuovo nel suo letto. «Voglio la zia Margaretta! Voglio la ziaaa!» gridò Victoria e si tolse la camicia da notte con un gesto di provocazione. Nuda come un pesce cominciò a saltellare per la stanza canticchiando «La zietta Margaretta, la zietta Margaretta!» «Adesso zitta, Victoria!» Finn si tirò su sul letto, tutto intontito. «Per l'amor di Dio, vuoi far chiudere la bocca a quella mocciosa, Melanie!» Potevano essere sposati da anni e Victoria poteva essere figlia loro. Melanie ebbe una visione profetica di Finn con la sua orribile giacca che se ne stava lì sporco tra le sue lenzuola pulite, a sbadigliare fino a mostrare la cattedrale rossa a costoloni della sua bocca con tutti i denti ingialliti come altrettanti pallidi ragazzi del coro. Sapeva che un giorno si sarebbero sposati e avrebbero vissuto insieme per sempre e per sempre ci sarebbe stato quello squallore a circondarli e lo sporco e lo sciattume, sempre, sempre. E poi i bambinetti piangenti e le montagne di bucato da lavare, e i toast bruciati e tutto il resto così, per una vita. Mai niente di lussuoso, di affascinante o di romantico; per niente divertente. Solo un gran disordine e bambinetti coi capelli rossi. Si ribellò. «No!» gridò a voce così alta che Victoria s'interruppe e si mise a piangere offesa da tanta veemenza. «No, non ti voglio, Finn!» «Adesso smettila,» disse lui con un tocco della sua antica disinvoltura, «ancora non ti ho preso.» «È proprio questo che voglio dire, tu sei, sei sempre così... sporco!» disse in tono disperato. Lui lanciò un pacchetto di gomme americane a Victoria. «Mastica queste» le consigliò. Il suo strabismo era particolarmente forte, quella mattina. Le tirò i capelli con affetto. Lo sapeva anche lui. Erano legati, che lo volessero o meno; stava solo prendendo tempo. Le tirò i capelli più forte, quando vide che lei era rimasta in silenzio. «Che ti succede? Cos'è che ti rode dentro, cucciola?» «Cucciola è un nomignolo affettuoso degli irlandesi?» chiese lei distratta. «Direi che è piuttosto comune in tutte le Isole Britanniche, credo. Ma che c'è che non va? Non hai dormito?» Con un rassegnato senso dell'ineluttabilità del tutto, Melanie si lasciò
andare contro la sua spalla mentre Victoria si strozzava con la gomma americana. Era come se andasse con Finn da anni. Da qualche parte della sua mente albergava il desiderio che lui si mostrasse sorpreso o contento, ma lui si limitò a passarle il braccio attorno al collo, con semplice tenerezza. «Ho fatto il più assurdo dei sogni... sai?» gli confidò con riluttanza. «Davvero? Adesso?» «Ho sognato che ero Jonathon...» Il sogno era chiarissimo nella sua mente, spaventoso e pieno di significati. Pensò che il letto rullasse come una barca ma invece era Finn che si grattava sotto le ascelle. Non conosceva vergogna. Ci avrebbe dovuto fare l'abitudine. «Cosa hai sognato, cucciola?» «Che Jonathon è andato via. Una sensazione molto forte, come se io fossi lui.» «Ma era solo un sogno.» «Sì» annuì lei poco convinta. «Una volta» cominciò a dirle per rassicurarla «ho sognato che ero morto e andavo in cielo. Che era come un luna park, con le slot machine e i flipper.» «Ed era portento o premonizione?» «Non lo so... chissà... Il giorno dopo un'ape mi punse.» «Che cosa?» «È per questo che ho gli occhi storti. Ero all'orfanotrofio con tutte le monache dopo la morte della mamma. Immagino che sia per questo che ho sognato di andare in paradiso. Ma era un paradiso per bambini di sette anni, con lo zucchero filato, e io ho dimenticato la mamma, che riposi in pace, appena ho cominciato a giocare col calcetto.» Tirò fuori un pacchetto tutto accartocciato di sigarette e se ne accese una. «E quanto all'ape...» «Stavo giocando da solo in giardino perché gli altri erano tutti a pregare. Presi una rosa da cui volò via un'ape. Era furibonda perché l'avevo disturbata mentre si faceva i fatti suoi, storie di fecondazione. Mi punse nell'occhio. Sono stato fortunato a non aver perso la vista.» «Oddio! Ti ha fatto molto male?» «L'ho dimenticato. Loro sono state così carine, mi hanno dato un mucchio di caramelle e di gelatine e tante immaginette religiose durante la convalescenza. C'è qualcosa che posso usare come portacenere?»
«No.» «Ah, va bene, allora dovrò usare la scarpa.» «È ora di alzarsi» disse Melanie e tirò via le coperte. Lui rimase lì a fumare e la guardava. Il suo strabismo le sembrava meno pronunciato ora che sapeva cos'era stato a causarlo. Pensò al piccolo rosso Finn che allungava la mano per prendere la rosa e poi all'occhio che gli esplodeva di dolore, mentre le monache in ginocchio pensavano al Calvario. «Mi dispiace per lo strabismo» gli sussurrò. «Sono abituato, non mi riconoscerei senza.» Lei si sbottonò la giacca del pigiama ed ebbe un brevissimo tremito nello sfilarsela. Poi pensò che l'aveva vista abbastanza spesso senza vestiti addosso. E comunque non sembrava che lui facesse caso alla sua nudità. Continuava a starsene lì a fumare e a far cadere la cenere della sigaretta nella sua scarpa sotto il letto. Melanie si mise il golf azzurro e cominciò a vestire Victoria. C'era uno yacht ricamato sull'inutile tasca della camicia da notte di Victoria. «Ma non riesco a liberarmi dall'impressione che quel mio sogno avesse un significato. Spero che Jonathon stia bene. Ah Finn, spero proprio che stia bene!» Lui non rispose. «Finn!?» La sua faccia era una maschera di terrore. «Gesù!» disse. «Ho ucciso il cigno la notte scorsa, non è vero? Dovevo essere fuori di testa per l'ubriachezza!» 9 Si lavò via dagli occhi con l'acqua fredda i residui dell'assurda notte. L'impatto con l'acqua ghiacciata le fece bene, le mozzò il respiro e le diede uno scossone. Era palpabile. L'acqua è acqua. Con l'acqua non si discute. È lì. Ancora con la faccia gocciolante alzò lo sguardo dal lavandino che tossicchiava e vide che i denti dello zio Philip erano scomparsi. C'era il bicchiere, c'era l'acqua biancastra, con i frammenti di cibo marcio eliminati dalle fessure tra i denti e depositatisi sul fondo come un bianco sedimento, ma il largo sorriso della dentiera di plastica era di nuovo altrove. Dunque lo zio Philip era già in piedi e in giro, malgrado fosse molto presto. Era davvero presto. Il pesce di plastica sembrava più entusiasta del solito di stare sulla tendina della doccia perché i denti dello zio Philip non c'erano.
Nell'incrinatura del lavandino c'era un capello bianco e l'asciugamano era umido e appiccicoso. Allora si è lavato e ripulito e se n'è andato via, da qualche parte? Era possibile? Esaminò quell'ipotesi mentre si spazzolava i denti, sputava il bianco dentifricio e si sciacquava. C'era un nuovo portaspazzolini fissato sul muro per i tre spazzolini dei bambini. Vide con un certo sollievo che quello di Jonathon, tutto sporco e schiacciato, era ancora lì, malgrado il sogno. Se se ne fosse andato via per sempre, forse avrebbe portato con sé lo spazzolino... forse. Anche se (per l'agitazione ingoiò un po' di pasta dentifricia alla menta fredda) non era detto. Ma una volta che si fu lavata la faccia nella vera, buona acqua, era pronta a ridere del suo sogno. Adesso che era pulita e sana di mente, non si aspettava davvero di trovare Finn nel suo letto, rientrando nella stanza, e in un primo momento non lo vide. «Grazie a Dio,» si disse «sono tornata alla normalità!» Victoria, solo parzialmente vestita, era risalita nel suo lettino e ora stava lì, accucciata, afferrandosi alle sbarre con tutte e due le mani, con la sua fessura femminile che sorrideva in verticale tra le sue gambotte di raso. «Oddio, sei indecente, Victoria!» Victoria continuava a guardarla imbronciata e a non darle retta. «Il cattivo Finn è ancora a letto.» E infatti era così, era ancora a letto. Profondamente annidato, la sua piccola forma delineava un tumulo su un monticello funerario nella Piana di Salisbury del letto. Lei tirò via le coperte. E lo trovò tutto acciambellato come un merluzzo sul piatto, servito con la coda in bocca. Sarebbe stato bene con una guarnizione di farfalline di limone e qualche fogliolina di prezzemolo. «Finn? Finn!» «Sto raccogliendo le forze» le disse. Aveva gli occhi chiusi e stretti stretti. «I denti dello zio Philip non sono in bagno.» «È per mangiarmi meglio. Vuol dire che li ha già in bocca, naturalmente.» «Forse è andato via per una gita?» «Come no, come no. La verità è che si è svegliato presto e si sta preparando a darmi una caccia spietata.» «Avevo capito che lo volevi affrontare.» «Ah, ma adesso sono ritornato in me.» «Forse si è preso un giorno di vacanza?»
«Se tutti i miei forse ritornassero nel mio pollaio avrei di che nutrire il mio maiale in Irlanda.» Stormi di forse dalle penne marroni piovvero agitando ali stolide e lacere contro le finestre. Li sentiva fare i loro versi sgraziati. Ma una gallina triste e bagnata svolazzò dentro casa. Un miracolo. I capelli rossi della zia Margaret sventolavano una rossa e festosa bandiera. Lo zio Philip aveva portato Jonathon, nell'alba violacea, al raduno di appassionati di modellini di navi su un lago articificiale nelle Home Counties. «Oddio!» disse Melanie, che avrebbe voluto poter toccare Jonathon per convincersi che era stato solo un sogno. Ma la spedizione suonava così assurda che doveva essere vera. Nella cosa c'era una componente di ardua fatica che sicuramente era piaciuta allo zio. E poi in cucina l'atmosfera era così festosa che tutti i suoi dubbi furono ben presto fugati. Perfino la pancetta ballava sfrigolando felice in padella perché non c'era lo zio Philip. Il pane messo a tostare bruciò sopra un'allegra fiamma e non fu un disastro, come l'avrebbe fatto diventare lui, ma uno scherzo. «Avreste potuto dormire fino a tardi» scrisse sulla lavagna la zia Margaret che non aveva indossato i vestiti migliori e aveva le calze a colabrodo, ma in compenso era bellissima, sorrideva rilassata e si muoveva con mosse sicure e dolci, non come un passero affamato e nervoso in pieno inverno sotto l'occhio inquisitore di Philip Flower. Si sedettero attorno al tavolo e fecero la scarpetta nel rosso d'uovo con la crosta del pane. La grande sedia dello zio Philip era lì, vuota come il guscio di una minaccia, il Seggio Pericoloso. «Al diavolo!» disse Finn «Oggi mi siedo sulla sua sedia!» La mano della zia Margaret volò a coprirsi la bocca aperta per lo spavento. «Non ti agitare, Maggie. Non mi ingoierà!» Sedette a capotavola come il Signore del Disordine e diede in pasto al cane tramezzini alla marmellata, che il cane sembrava adorare. Ben presto sembrò normale che Finn fosse seduto lì. «Finn è papà» disse Victoria tutta soddisfatta. «Non ancora,» rispose Finn «ma la prima la chiameremo Vicinanza.» A Melanie rischiò di andare di traverso il boccone. Fuori dalla porta, magari proprio sul pianerottolo, c'era una truppa di schiamazzanti ragazzetti strabici con i capelli rossi che sgomitavano per arrivare per primi nella sua pancia. Francie le diede una pacca sulla schiena e ben presto lei si riprese e finì di mangiare. Sarebbe stato un peccato non godersi quella ric-
ca colazione. Uova e pancetta, pomodori e funghi e pane fritto e patate avanzate, fritte nel grasso della pancetta. La zia Margaret doveva aver fritto tutto quello che si poteva friggere nella sua dispensa. E poi c'erano i fagioli in scatola, che Francie amava molto. Sulla sua cravatta, che quella mattina era di raso da giorno di festa, con il disegno di tanti uccellini, comparvero macchie rossicce di salsa di pomodoro. Qualcuno doveva avergliela regalata. Rimasero a lungo a fare colazione e tutti mangiarono con appetito, perfino la zia Margaret. Seduto sulla sedia dello zio Philip, Finn sembrava più alto e si dava più arie del solito. «Oggi non si apre bottega» annunciò. La sedia gli conferiva autorità, tutti lo fissarono. «Vedete» continuò, accendendo una Sweet Afton con un gesto magniloquente. «Ho distrutto il suo cigno la notte scorsa.» Il silenzio s'ispessi come il grasso che andava raffreddandosi nei piatti. Senza fiato per l'ammirazione, Francie mormorò: «Che razza di canaglia.» La zia Margaret, improvvisamente spoglia della sua bellezza, si strinse al cuore Victoria come fosse uno scudo o un talismano. La bambina subito frignò e si mise a scalciare. «Perciò oggi niente bottega. Faremo una festa, anzi una veglia funebre per il cigno. Con la musica e i balli. No, niente balli.» «Hai fatto a pezzi il suo cigno» disse Francie impressionato. Le sue labbra si allargarono a mostrare tutti i denti, come un muro sfondato. Rise, rise a crepapelle, dondolando sulla sedia, e continuò a gridare senza sosta: «L'ha fatto! Finn l'ha fatto! Gli ha rotto il cigno! Bravo Finn!» Si allungò poi sul tavolo, facendo carambolare i vasetti di marmellata e le tazze di porcellana, e afferrò la mano di Finn e la strinse, continuando a ridere fino a che le lacrime non presero a scorrergli lungo le ruvide guance. La zia Margaret gradualmente si tranquillizzò per via di tutto quel ridere e il sole tornò a splenderle sul viso. Per la prima volta da quando Melanie l'aveva conosciuta, sembrò che stesse esaminando la possibilità di un domani suo, in cui sarebbe potuta andare e tornare dove e come voleva, e mettersi i vestiti che desiderava e chissà, forse anche aprire le sue labbra sigillate e parlare. O cantare. E di fatto aprì la bocca, dimenticando di essere muta: le sue labbra furono scosse da un tremito e poi si richiusero in un sorriso. Poi tutti quanti si misero a lavare i piatti insieme ridendo e spruzzandosi l'acqua addosso. Era come un carnevale di acqua saponata. Le bolle gal-
leggiavano nell'aria e scoppiavano poi in un 'pop' bagnato e opalescente, mentre Victoria le rincorreva dappertutto nella speranza di afferrarle prima che svanissero. Mentre asciugavano le tazze, Finn pensieroso prese quella dello zio Philip dal suo gancio nella credenza. Era così carina, con le sue scritte fatte di boccioli di rosa. La soppesò tra le mani. «Gesù, Giuseppe e Maria,» disse «oggi divento maggiorenne.» Alzò il braccio, mirò sull'orologio a cucù e lanciò la tazza. La porticina si spalancò. Il cucù venne fuori e cantò le quattordici, poi le quindici, poi le sedici. Melanie non aveva mai visto i fratelli ridere tanto. Poi Francie si piegò sul lavandino, come una torre parzialmente demolita, scosso dal singhiozzo e dalle risa sguaiate. Finn si rotolò per terra tenendosi la pancia. Victoria fu contagiata e impazzì di gioia, quasi cadendo dalle ginocchia della zia. Melanie non trovava la cosa così divertente anche se fu felice di vedere gli ultimi spasimi del cucù. L'uccello impagliato ragliò per ben trentuno volte e poi si richiuse per sempre nella sua cassa. La porta gli sbatté dietro con un brivido di agitazione. Smise di ticchettare. «Ecco come finisce il tempo» disse Finn asciugandosi gli occhi. La giornata si stendeva dinanzi a loro senza niente da fare. Sembrava il primo giorno di vacanza e infatti era proprio così. Fuori era una bella giornata invernale. I profili degli edifici risaltavano chiari e senza ombre e non c'era fumo nell'aria. Il piccolo giardino sul retro cercava di simulare la primavera mettendo fuori qualche fogliolina in punta di piedi. Finn aprì la finestra della cucina e si sporse sul davanzale, inspirando profondamente. Era la prima volta che Melanie vedeva aprire quella finestra. «Sento aria di mare» disse. «Dev'essere venuta su da Brighton a Victoria per una gita di un giorno.» «Oh Finn,» mormorò Melanie preoccupata «davvero senti odore di mare?» Le era tornato in mente il suo sogno con le onde che battevano contro il muro della casa. «Ma no! È solo che sono eccitato! Sai una cosa? Ho deciso di lavarmi!» E così fece. Si lavò tutto per bene, da capo a piedi, utilizzando una gran quantità di bollitori di acqua calda. Si lavò perfino i capelli e chiese alla zia Margaret di tagliarglieli con le forbicine da unghie. Una volta pulito abbagliò Melanie: sembrava fatto d'oro rosso e d'avorio, una stamina preziosa, una pedina della scacchiera. Andò nella sua stanza in cerca di una camicia pulita e ritornò giù splendido, con una camicia bianca plissettata sullo sparato, una camicia elegante, ma un po' troppo grande per lui. «Non ne avevo una mia pulita, così l'ho presa in prestito da Philip.»
«Sono certo che non te ne vorrà» disse Francie. La zia Margaret non sembrava più nemmeno apprensiva. Gli fece una leggera carezza sulla spalla e scrisse sulla lavagna: «Niente sarà più lo stesso ora.» Che voleva dire? Ma non ci fu tempo per riflettere. Tutti andarono a mettersi i loro vestiti migliori, perché Finn si era lavato. Nella sua stanza (dove l'impronta del corpo di Finn era ancora impressa sul letto sfatto) Melanie tirò fuori il suo bel vestito verde e si soffermò a guardarlo sulla stampella. Non poteva sopportare l'idea che la zia Margaret si rimettesse l'orrido vestito grigio, non quel giorno. Le avrebbe dato il suo vestito. Ne aveva tanti e anche se non era vero, avrebbe potuto vivere di rendita, dopo i quindici (quasi sedici) anni di bei vestiti che aveva avuto. Poi ci ripensò e prese anche la bella custodia di marocchino rosso dove teneva le perle della cresima. Dài una cosa, dài tutto. Forse le avrebbe fatto bene spogliarsi di ogni suo bene, comunque, così come le avrebbe fatto bene cancellare memorie e sogni, dargli una lavata nell'acqua fredda. Bussò alla porta della zia Margaret sul pianerottolo e la zia le aprì. Portava una sottana di cotone bianco. Sulle braccia aveva la pelle d'oca per il freddo. «Volevo...» disse Melanie e si fermò, non sapendo come regalarle il vestito. La zia sollevò le rosse sopracciglia ansiosa e le fece segno di entrare nella stanza. Melanie non vi aveva mai messo piede in precedenza ed entrò in preda a uno strano terrore. C'era un armadio a muro e una cassaforte profondamente incassata nell'intonaco, non ai piedi del letto come lei aveva immaginato. Il letto era molto largo e di fatto quasi sfondato dalla parte dello zio Philip, come si poteva evìncere dal pigiama a righe ripiegato sopra la coperta patchwork. La sopraccoperta patchwork era molto vecchia, stinta e bruttina, fuori luogo in quel posto così violentemente deserto di cose. Immaginò che fosse della zia Margaret e che fosse arrivata insieme a lei dall'Irlanda tanto tempo prima. Accanto al letto c'era una semplice sedia di legno dallo schienale alto, con sopra una sveglia. Sulla sveglia spiccavano molto distintamente delle figure nere e un campanello in cima che prometteva di svegliarti ringhiando. Non c'era altro, sulla sedia. Dal soffitto pendeva una lampadina con un paralume di plastica rosa e sul pavimento era disteso un quadrato di tappeto marrone così consunto che si vedeva l'ordito. La mensola sul camino era vuota tranne che per una foto. Era la stessa foto del matrimonio della mamma che stava sulla mensola sopra al caminetto della stanza dei
suoi genitori prima che Melanie la strappasse. «Oh!» disse Melanie. C'era la mamma in bianco e poi suo padre e la sua famiglia e lo zio Philip. La foto era incorniciata da una stretta cornice di ottone. Melanie si mise seduta sul letto. «La casa è tormentata dai fantasmi» disse. La zia Margaret scrisse sul suo blocco «Che vuoi dire?» «La fotografia. Mi ha sconvolto. Ma andrà tutto bene tra un minuto». «Poverina. Ti deve aver turbato.» La zia Margaret tolse la foto dalla mensola e la nascose. La sottoveste di cotone della zia Margaret aveva le spalline larghe e una scollatura non molto ampia ma ancora si vedevano le profonde saliere alla base della gola. Con quella sottoveste sembrava una bambina di un campo profughi, tutta braccia, gambe e occhi. Si era già messa le calze buone. La porta dell'armadio si spalancò rivelando il vestito, grigio e rigido come la moglie di Lot dopo che si era voltata a guardare. Melanie concepì un terrore superstizioso per quel vestito. Se la zia Margaret se lo fosse messo niente sarebbe andato per il verso giusto, le figure della foto potevano prendere vita e lo zio Philip sarebbe potuto tornare a casa in anticipo imbracciando un mitra. «Ecco,» disse spingendo il vestito verso la zia «ho pensato che il verde sarebbe stato bene con i tuoi capelli.» «È per me? Me lo presti?» «No, te lo regalo, se ti piace.» Melanie aiutò la zia come una damigella sistemandole il vestito sulla schiena e controllando che la gonna cadesse bene, dopodiché le chiuse la lampo. La zia stava ferma impalata e lasciava che Melanie la vestisse. Sembrava beatificata. Se fosse entrato un angelo a porgerle un lungo giglio bianco con un messaggio speciale da parte di Dio, nessuno si sarebbe meravigliato. «Dov'è il pettine, zia Margaret?» Su una mensola dell'armadio, vicino a un mucchio di forcine, Melanie prese il tutto e cominciò ad acconciare i capelli della zia, facendola sedere e mettendole un asciugamano sulle spalle, com'era consuetudine. «Ma come farà a farsi i capelli senza avere uno specchio?» si chiese Melanie. E le sembrò particolarmente brutto che la zia non si potesse vedere nel vestito verde scuro, su cui i suoi capelli rossi risaltavano con un ricco riflesso color ruggine e la pelle spiccava più bianca della schiuma. La sua
chioma era di seta e scivolava come quella della piccola Victoria e Melanie continuava a cercare di fissarla con le forcine, ma i capelli continuavano a sfuggirle tra le dita e le ci volle un bel po' prima di riuscire a fissarli in cima alla testa della zia. A quel punto pensò: «No, oggi dev'essere diversa» e tolse di nuovo tutte le forcine e lasciò che i capelli le ricadessero liberi sulla schiena come una cascata di scintille. Uno spettacolo di fuochi d'artificio, ma il cinque novembre era passato da un pezzo. Rosso e verde, rosso su verde, colori natalizi, come l'agrifoglio con la sua bacca rosso sangue. Melanie fece un passo indietro e osservò il risultato. «Mio Dio» pensò «sono davvero così magra?» perché il vestito verde stava a pennello alla zia Margaret e anzi le toglieva la stranezza delle sue linee troppo dritte conferendole una sua speciale grazia gotica. Sembrava che i fianchi ossuti fossero stati sfumati dal pollice di un pittore. E poi quei capelli pirotecnici, Melanie si sentiva come l'amica simpatica di un film di Hollywood che è appena riuscita a convincere la scialba stenografa a levarsi gli occhiali e truccarsi. Era stato semplicissimo: la zia Margaret era deliziosa, giovane e deliziosa, e ridacchiava e si lisciava le penne come un allegro uccellino che sfoggi il suo nuovo piumaggio. «Il vestito ti sta perfetto» disse Melanie. «Proprio perfetto. Ti prego prendilo, io ne ho tanti.» O meglio, ne aveva avuti. Alla fine la zia Margaret ritrovò la parola e scrisse: «Lo prenderò in prestito solo per oggi. Oggi che non c'è Philip. Non posso accettarlo.» «No, invece devi tenerlo, per sempre. E anche queste.» Le perle. E la zia Margaret si mise a piangere e non voleva accettarle. Melanie gliele mise al collo e annunciò che il 'no' era bandito dalle possibili risposte. Doveva dare via tutto, si doveva liberare di tutto. «Stavo per mettermi il collare» scrisse la zia Margaret mentre le lacrime confondevano le lettere che tracciava sul blocco. «Non oggi, oggi non va bene.» «Accetto le perle in prestito, Melanie!» Melanie scrollò le spalle. Voleva regalargliele subito e chiudere con loro, anche se la mamma stava a guardarla dalla sua cornice, da qualche parte nella stanza. Si sentiva giovane, forte e coraggiosa, a dare via le sue reliquie. E le perle si erano appoggiate così dolcemente, come accarezzando la pelle della zia, che aveva la stessa loro lucentezza. Sperava che quel giorno la zia si affezionasse tanto a quelle perle da pensare che erano sempre state sue. «E tu, tu che ti metti, Melanie?»
«I calzoni.» «Sei tutta gambe» disse Finn. «Proprio delle belle gambe.» «Sono secoli che non porto i calzoni.» «Per colpa di Philip.» «E lui ora non c'è.» «Ben detto.» Francie si mise seduto in cucina col violino in una mano e una bottiglia di whisky mezza vuota nell'altra. «Gesù, ci hai dato dentro con lo Scotch la notte scorsa!» «Era Natale dopotutto,» rispose Finn «e poi mi è venuta sete a notte fonda.» «Vedo, vedo» annuì Francie semiserio. «Devi essere stato ubriaco come una cocuzza, lì a roteare la tua accetta.» Cominciò ad accordare lo strumento. La zia Margaret aprì la porta della cucina, in mano aveva il flauto, e addosso il vestito e le perle di Melanie, con i suoi stupendi capelli. Francie abbassò l'archetto. «Ecco la mia bambina,» disse «così carina!» «Sei proprio come ti ricordo» aggiunse Finn. «In Irlanda, quando c'era ancora la mamma.» Il loro passato comune saltò fuori all'improvviso, tangibile, gli anni insieme, la vecchia casa, i genitori. La donna nella stanza dei fratelli, la mamma. Come si chiamava? Come parlava ai figli e come mostrava loro il suo amore, che nomignoli aveva dato? Com'era morta? E quei capelli rossi venivano da lei? E altrimenti di che colore erano i suoi capelli? E come li portava? Tutto quello che Melanie conosceva di lei era il suo volto riservato e la sensazione delle palpebre morte che era stata trasmessa ai suoi polpastrelli da Francie attraverso Finn. Melanie voleva sapere tutto del loro passato, ogni particolare, per condividerlo con loro. Voleva sapere quando Francie aveva cominciato a suonare il violino e chi aveva dato per primo a Finn una scatola di colori. E come si erano incontrati la zia Margaret e lo zio Philip, qual era stato quel giorno maledetto? E il padre, chi era? Tutto, gli scherzi che giravano in famiglia e le lettere d'amore dei loro genitori prima che si sposassero (se si erano scambiati lettere d'amore) e i ricci tagliati e conservati come un tesoro e i ritagli dei vecchi giornali locali ingialliti con gli annunci della loro nascita. Le sembrava che sarebbe morta se non fosse riuscita a sapere proprio tutto. «Com'era vostra madre?» chiese a Finn per cominciare. «Era una madre.»
Finn stava di nuovo bevendo whisky e presto sarebbe diventato sentimentale. Ma non le faceva quel suo sorriso speciale e lei era ben felice che il suo sorriso da satiro fosse al sicuro sul dipinto col diavolo, così non l'avrebbe più messa in imbarazzo. Francie e la zia Margaret cominciarono a suonare gighe e reel. Francie si accompagnava battendo il piede. «Su Finn, facci un po' di step dance» disse Francie. «Il tempo della danza è finito per me.» «Non è possibile.» «E invece è così. Sono caduto dall'alto, ho fatto un bel volo. E ho fatto a pezzi il cigno, così non danzerò più. E poi ormai sono quasi un padre di famiglia.» E sciolse i capelli di Melanie, che scesero liberi sulle spalle perché era un giorno di festa. «Stai scherzando?» chiese lei incerta. Lui l'abbracciò, ma Melanie non riusciva ad abituarsi al fatto che sapeva di sapone. «Il fato ci ha buttati l'uno nelle braccia dell'altro» sentenziò. «Sei ubriaco.» «Immagino che tra poco lo sarò.» «Sei tornato il Finn di un tempo.» «No. Adesso non esageriamo!» Si stava sforzando di essere felice. Non era una cosa spontanea, ce la metteva tutta. A Melanie dispiaceva per lui e gli si fece più vicina. Sedettero insieme sulla tavola. Il whisky di Francie era quasi finito. Victoria era fuori di sé dall'eccitazione, col suo vestitino a fiori e il fiocco rosa nei capelli. Mandava un urletto acuto saltellando per la cucina dalle ginocchia di uno a quelle di un altro e si aggrappava ai vestiti di tutti. Ma nessuno le dava retta. Facevano troppo rumore per sentirla. Francie e la zia Margaret appoggiati l'uno all'altra suonavano come fossero un musicista solo, scuotendo tutta la cucina, sei ottave, nove ottave, dodici ottave. «Rolling in the Barrel», «In the Tap Room», «The Earl's Chair», «The Morning Dew», «Kitty Gone A-Milking», «Galway Rambler», «A Trip to Athlone», «The Pipe on the Hob», una canzone dopo l'altra senza fermarsi mai. Il cane stava sul tappeto e batteva la coda a tempo. Di tanto in tanto Finn suonava i cucchiai fino a che non gli cadevano di mano. Era seduto sul tavolo insieme a Melanie e ogni tanto la accarezzava. Lei non lo fermava perché non sapeva come fare e anche perché non era del tutto sicura di volere che smettesse. Quando aprirono i pub Finn uscì e tornò facendo tintinnare un bel po' di bottiglie di Guinness, anche se Melanie non aveva idea di dove avesse trovato i soldi.
«Ho preso la Guinness per dimostrare che siamo irlandesi» disse. Francie e Finn spinsero Melanie a bere qualche sorso di quella roba sciropposa. Francie era molto eccitato, come un ragazzino, e la zia Margaret sembrava più giovane di Melanie, perché più spensierata. «When you're sick, is it tea you want?», «The Rakes of Mallow», «Off she goes». Gighe e reel, uno, due, e via proseguendo. «È molto meglio senza lo zio Philip» disse Melanie che cominciava a divertirsi. «Quando torna lo colpirò,» aggiunse Finn «Francie lo distrarrà e io lo colpirò. Poi ce ne andremo tutti insieme lasciandolo qui, che striscia a terra. Questo lo sistemerà. Sarà facile. Non avevo mai pensato che sarebbe stato tanto facile!» Il vestito di Melanie sulla zia Margaret aveva il colore delle foreste di pini e lei era sul ramo più alto di un albero felice, mentre suonava il flauto con Francie e Victoria si rotolava per terra. Sotto, nella bottega, regnava il disordine della sera di Natale e più sotto ancora il laboratorio era tutto invaso dalle piume sparse, ma la cucina traboccava di felicità. («Soldier's Joy», «Huish the Cat from under the Table», «Rakish Paddy»; non c'era fine ai motivetti che sapevano). Tappi di bottiglia e bottiglie vuote erano ovunque sul pavimento. L'aria era diventata azzurrina e spessa per via delle tante sigarette. Quando avevano fame mangiavano l'oca fredda e il ripieno, anch'esso freddo, e un po' di formaggio col pane e i dolcetti con la frutta secca. La musica continuava. Finn ebbe la folle idea di dare un po' di birra a Victoria che subito sprofondò a terra sul tappeto con la testa tra le zampe del cane. La stanza aveva assunto un aspetto di abbandono e mollezza. «Rispetterò la tua giovinezza e la tua innocenza, Melanie» disse Finn. «Non avere paura.» «E allora perché mi hai baciata al parco dei divertimenti, anche se a me non piaceva?» «Non sapevi che non ti piaceva fino a che non l'ho fatto» rispose lui. «Be', ormai è quasi fuori di testa, poco ma sicuro» pensò lei. «Guardami!» le disse facendola girare di fronte a sé. «Perché?» «Guardami!» Si guardarono. Stava forse cercando di ipnotizzarla? Come nel parco dei divertimenti si vide di nuovo nelle sue nero pupille strabiche. «Nel tuo occhio il mio volto, il tuo nel mio si specchia, e cuori semplici e fedeli ripo-
sano nei nostri volti.» John Donne, 1572-1632, alias Jack Donne, alias il diacono di St. Paul. A scuola di poesia, tra gli estratti da Shakespeare e quelli nell'antologia «Il ricciolo rapito» di Alexander Pope. Tutte le ragazzine adoravano John Donne e John Donne pensava che le anime si mescolano così come i muscoli dell'occhio si muovono all'unisono, intrecciandosi come i fili dei burattini la notte della caduta. Lei era nel volto di Finn, eccola lì, rispecchiata due volte. «Non mi farò mettere fretta» disse disperata. Lui si chinò verso di lei e le mise un dito sulle labbra. «Shhh.» La musica si era interrotta mentre si guardavano negli occhi. Violino e flauto erano stati gettati a terra e Francie e la zia Margaret si abbracciavano. Come si abbracciano gli amanti, annullando il mondo, come se tutto si stesse svolgendo a mezzanotte in cima a una collina mentre il vento scuote le fronde degli alberi sopra di loro. Fratello e sorella si inginocchiarono. La stanza era piena di pace. Il fumo della sigaretta brillò e si dissolse. Il cane saggio e il suo ritratto li guardavano senza rimprovero. «Andiamo via» disse Finn. «Siamo di troppo, qui.» Melanie aveva sbarrato gli occhi e si era fatta seria. Lui se la trascinò dietro e si chiuse la porta della cucina alle spalle. Fuori dalla cucina faceva freddo e la camicia bianca di Finn sembrava un iceberg. Prese la sua giacca da pompiere da un attaccapanni e se l'abbottonò tutta. Era decisamente sobrio. Forse aveva solo finto di essere ubriaco. «È incesto» sussurrò Melanie. «Come i re e le regine dell'antico Egitto.» «Sì» disse Finn. «Non l'avrei mai immaginato...» «No» disse lui. «Pensavo che volesse più bene a te che sei il più piccolo.» «Perché non chiudi il becco?» disse Finn. Andarono nella sua stanza e Melanie si rallegrò di avere addosso il golf regalatole dalla signora Rundle, sferruzzato dalle sue mani familiari con la lana di pecore grassottelle che mangiavano erba comune e probabilmente facevano «Beeeh, Beeeh». Si sedette sul letto di Finn. Era quieta e silenziosa. Finn si sdraiò a fumare sul letto di Francie. «Sono amanti. Sono sempre stati amanti, capisci?» «Sì» disse Melanie con una vocina. «Sono tutto l'uno per l'altra. È per questo che siamo rimasti qui, perché Francie e Maggie...» S'interruppe.
«Ma lei è molto più grande,» disse Melanie «sicuramente è molto più grande.» «Credi che importi qualcosa?» «Immagino di no» disse dopo un attimo. «Sei rimasta scioccata? Una ragazza per bene come te!?» Ci pensò su un momento. «Non mi è mai capitato prima» disse. «L'incesto mai, non nella mia famiglia.» Francie e la zia Margaret erano avvinti nell'abbraccio più primordiale e appassionato, a terra, vicino alla macchina del gas, tra le bottiglie vuote di birra e i piatti sporchi della cena ancora sul tavolo, briciole di formaggio, ossi di oca smangiucchiati e, sulla parete, l'orologio a cucù che non funzionava più. «E lo zio Philip...» «È un cornuto» disse Finn severo. «E proprio a causa del cognato di cui non avrebbe mai sospettato.» «Ho regalato le mìe perle alla zia Margaret» sussurrò Melanie. «Le rivuoi?» «No. Io la adoro!» Ed era vero, mentre parlava sentiva l'amore, caldo e pieno di comprensione, che nutriva per lei. E poi amava anche Francie, non c'era niente da fare. «Le perle sono le lacrime dei pesci» aggiunse in modo incoerente. «Che dici?» «Le lacrime dei pesci. Le perle. Non ti viene in mente che i pesci possano piangere. Me ne sono ricordata all'improvviso.» «Questo è il nostro segreto» disse Finn liquidando le lacrime dei pesci. «Ora conosci il fondo dei nostri cuori, sai quello che ci rende diversi dagli altri, Francie, Maggie e io.» Spense la sigaretta sul pavimento. La sera arrivò presto e si distese sopra i tetti e le luci si accesero nelle case dall'altra parte della strada, quelle strane case dove la gente non aveva segreti. Melanie rimase sul letto di Finn e Finn su quello di Francie e il segreto riempì lo spazio tra loro e tutt'intorno a loro. Era una presenza ieratica e antica. L'incesto, evocato al piano di sotto sul tappeto consumato, evocato al piano di sopra, nella quieta stanza. «Spero che Victoria non si svegli» disse Melanie. Malgrado il buio incombente vide un pezzo di legno bruciato nel caminetto, tutto ciò che restava del rito della sera di Natale. Si trovò a fissarlo come se fosse l'oggetto più significativo che avesse mai visto, come se po-
tesse cominciare a parlare loro di passato, presente e futuro e di un grande concetto generale in cui l'incesto aveva un posto spiegabile. Ma era solo un pezzo di legno bruciato. Erano circa le cinque e mezzo (l'ora del tè in un pomeriggio d'inverno, l'ora più britannica del giorno e dell'anno) quando udirono il primo schianto. «Oddio, no!» gridò Finn facendo cadere la sigaretta. «No!» Un altro schianto e poi un urlo di donna altissimo e subito spento. E dopo una voce che ruggiva. Da dov'erano, la udivano distintamente, tanto era alta. «Maiali, feccia!» Melanie fece un salto dal suo letto a quello di Finn per rifugiarsi nelle sue braccia e nascondere la testa nella sua giacca, dicendo: «Salvami, salvami!» La sigaretta fatta cadere bruciava sul lenzuolo. «Avevo pensato che avrebbe ucciso me» disse Finn. «Anche lui lo pensava. Abbiamo sempre creduto questo tutti e due, ma avevamo torto.» Perché lo zio Philip era tornato a casa e aveva trovato la moglie nelle braccia del fratello. Era quello il traguardo verso cui correva il tempo, quello il punto d'arrivo della corsa a ostacoli in cui gareggiavano vestiti di rosso. «Proteggimi» lo pregò Melanie aggrappandosi alla giacca di Finn come se stesse per affogare. «Va bene» la liquidò Finn distratto. «Non me lo ripetere, va bene.» Gli schianti e le urla continuavano. «Sta rompendo il vasellame» disse Finn stupito. Lo stupore l'aveva pietrificato. Non sembrava capace di muoversi. «Salvami» ripeté Melanie. La porta della camera da letto si spalancò e la zia Margaret corse dentro avvolta in un velo rosso di capelli scompigliati, il bel vestito verde mezzo strappato dalle sue spalle, con in braccio Victoria che piangeva come un'ossessa. Fu come un turbine nella stanza. Il tappeto si sollevò dal pavimento per la folata che aveva portato con sé. «Fuori» disse. «Subito.» Parlava. La catastrofe le aveva liberato la lingua. La sua voce era flebile ma reale. «Fuori finché siete in tempo. Proteggerò la piccola. Qualunque cosa accada si salverà.» «Dov'è Francie?» «Sta bene, ma dobbiamo chiudere i conti con Philip.» Insieme alla voce aveva ritrovato la forza, un coraggio fragile ma tenace, come un filo di se-
ta. Ammutolita il giorno del matrimonio, aveva ritrovato la voce il giorno della liberazione. «Maggie, Maggie cara...» «Pensa alla ragazza. Ma ora andate via. Philip sta raccogliendo la legna per dare fuoco alla casa.» «Baciami» disse Finn alla sorella, sopra la testa di Melanie. «Dio solo sa cosa succederà.» Lei lo baciò sulla bocca. In seguito Melanie avrebbe sempre ricordato la solennità con cui si erano baciati, come due generali che si salutino la notte prima di uno scontro in cui è probabile che uno dei due perda la vita. In seguito Melanie pensò di averli visti con un'aureola di fuoco intorno al capo, ma sapeva che era solo la sua fantasia. La zia era una dea del fuoco; con gli occhi ardenti e i capelli che le guizzavano tutto intorno. Mise la mano sulla testa di Melanie per un momento e poi scappò via. Così Melanie non ebbe modo di salutare Victoria. Il fracasso che veniva dal piano di sotto andò aumentando. Ora stava rompendo i mobili e Melanie sentì odore di bruciato, ma era solo la sigaretta di Finn che stava bruciando la coperta. Finn prese la foto della mamma dalla mensola sul caminetto e se la mise in tasca. «È ora di andarsene» disse. C'era una barricata di sedie rotte ammucchiate davanti alle scale, sul pianerottolo della cucina. Philip Flower spinse il tavolo oltre la porta per aggiungerlo al mucchio. La tovaglia a fiori ancora aleggiava sconsolata attorno alle zampe del tavolo e i resti del loro pasto erano rotolati a terra mentre lui spingeva e sollevava tutto. «In trappola come topi, arsi vivi!» gridò in preda a una gioia malata. E si trattava proprio di gioia. Dovevano finire tutti bruciati e lui li avrebbe guardati pieno di gioia. Aveva gli occhi iniettati di sangue. Portava ancora il cappotto e il vecchio cappello a larghe tese. Era troppo grosso e maligno per essere vero, pensò Melanie, mentre dalla cucina le giungeva il crepitio e l'odore di legna bruciata. Se ne stavano ancora incerti sulle scale quando il cane bianco si precipitò fuori dalla sala da pranzo, scalò inciampando la barricata e sorpassandoli sfrecciò su per le scale, ansimante, con i fianchi che gli pulsavano. Portava o non portava un cestino di fiori tra i denti? Era scomparso troppo rapidamente perché Melanie potesse dirlo con certezza. Philip Flower rovesciò il tavolo dietro le sedie e vide Finn, lanciò un mugolio d'odio e si avventò contro la barricata che ormai era piuttosto consistente. Mentre lottava per riuscire a tirarsi su e scavalcarla farfugliò: «Lascia che ti metta le
mani addosso, Finn Jowle, ci siete tutti dentro, ve la facevate a turno...» «Bugiardo» disse Finn. Prese per mano Melanie e avanzarono incespicando su per le scale. «Il lucernario» disse Finn, che era pallido ma calmo, come se tutta la scena fosse stata provata già da molto tempo. «Andiamo sul tetto.» Il rumore scoppiettante adesso era dappertutto. Lo zio Philip avrebbe potuto arrostire un esercito di maiali. «Con tutto il legno che c'è in cantina la casa brucerà in un attimo. Ci dobbiamo muovere!» Una delle sinistre porte del castello di Barbablù si spalancò mentre loro passavano. Ne uscì fuori Francie con una sbarra di ferro. «Buona fortuna» gli disse Finn. «Oh, stai attento!» gli gridò Melanie. «Che Dio ti benedica» disse Francie. Era in maniche di camicia e aveva neri aloni di sudore sotto le ascelle. Loro salivano e lui scendeva. Finn spinse Melanie su per il lucernario e poi si issò a sua volta. Sul tetto alto e ventoso, con le prime stelle e i comignoli, si fermarono un momento. Sally gira intorno alle stelle, Sally gira intorno alla luna, Sally gira intorno al camino La domenica al mattino Viaaaaaaaaaaaa! Quando era piccola il padre le recitava quelle rime e quando arrivava a Viaaaaaaa! la prendeva per la vita e la faceva volteggiare in aria. Lei e Finn sedettero tra i comignoli con la testa che girava e si presero per mano. Melanie pensò: «Adesso che abbiamo vissuto questo insieme, non potremo più essere come gli altri. Potremo essere solo come siamo noi, io e lui. Oramai siamo soli, l'uno per l'altro.» Poi ad alta voce disse: «Ho già perso tutto una volta.» «Anch'io» disse Finn. «Ma avevo mio fratello e mia sorella, allora. Dov'è Jonathon?» «Non lo so. Se hai ripreso fiato, adesso dobbiamo andare avanti, Melanie. C'è un'uscita di sicurezza nella prossima casa e possiamo arrivarci facilmente dal tetto.» Era il negozio abbandonato dell'orefice. Le traversine di metallo arrugginito risuonavano sotto i loro piedi. Le stanze sopra il negozio erano vuo-
te ma ben presto sarebbero state in preda alle fiamme. In pochi secondi si ritrovarono fino alle ginocchia nell'erba alta del giardino abbandonato. Era pieno di vecchie lattine, di barattoli di marmellata vuoti e di immondizia tirata al di là del muro. «Dobbiamo chiamare i pompieri. 999. Incendio. Ambulanza» disse Finn. «Polizia, qualcuno ci aiuti!» La casa bruciava come un crisantemo gigante, tutto d'oro. «Ma» disse Finn come a se stesso «immagino che qualcuno abbia già chiamato il 999.» Le finestre si spalancarono tutto intorno a loro e teste ansiose fecero capolino, in un coro di agitazione. Era notte. La casa sputava fiamme. Un uomo sulla stradina a pochi passi da loro sentenziò lugubre: «Non ci può essere rimasto niente di vivo, lì dentro.» «Pensi che siano bruciati tutti?» chiese Melanie a Finn. «Penso che Francie e Maggie e la bambina siano in salvo. E il cane è un vecchio furbastro che ne sa una più del diavolo.» «Tu non lo pensi, lo speri. E poi il povero uccello parlante...» «Povero Joey» disse Finn. «L'aveva comprato Philip.» Guardarono le fiamme. «La mia giacca» disse Finn soffocando un misto di riso e di pianto. «È ridicola in questa situazione: una giacca da pompiere.» «Mi sono chiesta dove l'avevi presa.» «All'usato.» «Oh!» Un piano sprofondò dentro la casa con un fiotto di fuoco. Tutto bruciava, tutto. Giocattoli e burattini, maschere e sedie, tavoli e tappeti e la cartolina di Natale della signora Rundle con tutto il suo amore e i paralumi che scoppiavano e lo scaldabagno che si squagliava e le tende di plastica del bagno che si scioglievano lambite dalle lingue di fuoco. Edward Bear bruciava col pigiama infilato tra le pieghe dello stomaco. «Tutti i miei quadri» disse Finn fievolmente. «Così com'erano.» «Perfino Edward Bear.» «Cosa?» «L'orso. Il mio orso. Finito. Tutto è finito.» «Siamo rimasti solo noi.» Di notte, nel giardino, l'uno di fronte all'altra, si lasciarono andare alle più folli congetture.
FINE