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DEAN KOONTZ INCUBI (The Door To December, 1985) Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, fatti o luoghi realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. PARTE PRIMA La Stanza Grigia Mercoledì ore 2.50 — 8.00 1 Appena ebbe finito di vestirsi, Laura andò alla porta d'ingresso, in tempo per vedere l'autopattuglia del dipartimento di Polizia di Los Angeles fermarsi davanti alla casa. Uscì, chiuse la porta dietro di sé e fece di corsa il vialetto. Non aveva preso neppure l'ombrello. Non ricordava dove l'avesse messo e non aveva voluto perdere tempo a cercarlo. I tuoni rombavano nel cielo nero, ma lei si accorse appena di quei brontolii minacciosi. Sentiva solo il battito sordo del suo cuore. Lo sportello dell'auto bianconera si aprì dalla parte del guidatore e ne uscì un agente in uniforme. La vide arrivare, rientrò, allungò la mano dall'altra parte del sedile e aprì la portiera dal lato del passeggero. Lei gli si sedette accanto e richiuse lo sportello. Con una mano fredda e tremante si scostò dal viso una ciocca di capelli bagnati e se la sistemò dietro l'orecchio. L'auto della polizia aveva un forte odore di disinfettante al pino, che ne copriva un altro, più vago, di vomito. «La signora McCaffrey?» domandò il giovane poliziotto. «Sì.» «Mi chiamo Carl Quade. Devo portarla dal tenente Haldane.» «E da mio marito», aggiunse lei ansiosamente. «Questo non lo so.» «Mi hanno detto che hanno trovato Dylan, mio marito.»
«Sicuramente il tenente Haldane gliene parlerà.» Fu assalita da un'ondata di nausea; deglutì e scosse la testa, disgustata. «Mi dispiace, qui dentro c'è puzza», si scusò Quade. «Abbiamo arrestato uno che guidava in stato di ubriachezza, e si è comportato come un porco.» Non era stato l'odore a farle rivoltare lo stomaco. Aveva la nausea perché pochi minuti prima, al telefono, le avevano riferito che avevano ritrovato suo marito, ma non avevano fatto parola di Melanie. E se Melanie non era con Dylan allora dov'era? Era scomparsa? Morta? No. Dio mio, no. Laura si portò una mano alla bocca, strinse i denti, trattenne il fiato, aspettò che la nausea le passasse. «Dove... dove stiamo andando?» chiese con un filo di voce. «A Studio City. Non è lontano.» «È lì che hanno trovato Dylan?» «Se le hanno detto che l'hanno trovato, immagino che ci sarà.» «Come lo hanno trovato? Non sapevo neppure che lo stavate cercando. La polizia mi aveva spiegato che non c'era motivo che se ne occupassero loro... poiché non era nella loro giurisdizione. Pensavo che non avrei più avuto modo di rivederlo, o di rivedere Melanie.» «Di questo dovrà parlare con il tenente Haldane.» «Avrà rapinato una banca o qualcosa del genere», riprese lei senza riuscire a nascondere la sua amarezza. «Portar via una bambina alla madre non basta perché se ne occupi la polizia.» «Si agganci la cintura di sicurezza, per favore.» Trafficò con la cintura con le dita che le tremavano, mentre l'auto si staccava lentamente dal marciapiede, e Quade fece un'inversione a U in mezzo alla strada deserta battuta dalla pioggia. «E la mia Melanie?» domandò. «Prego?» «Mia figlia. Sta bene?» «Mi dispiace. Non ne so niente.» «Non era con mio marito?» «Non credo.» «Non la vedo da... da quasi sei anni.» «Una controversia sull'affidamento?» chiese lui. «No. L'ha rapita.» «Davvero?» «Be', la legge l'ha definita una controversia sull'affidamento, ma per quanto mi riguarda si tratta di un rapimento puro e semplice.»
Il pensiero di Dylan le provocò rabbia e risentimento, ma si sforzò di vincere queste emozioni, si sforzò di non odiarlo: improvvisamente la paura le aveva fatto venire la folle idea che Dio la stesse guardando, che la giudicasse, e che se si fosse fatta prendere dall'odio, se avesse ceduto a pensieri negativi, Lui non l'avrebbe ritenuta degna di farle riavere la sua bambina. Era un'idea folle, ma Laura era così stanca e debole che per un momento le parve di non essere in grado neppure di respirare. Dylan: Laura si chiese che effetto le avrebbe fatto ritrovarsi a faccia a faccia con lui. Che cosa le avrebbe detto? Che cosa avrebbe detto lei a lui? Il fremito di poco prima si trasformò in un tremito violento e incontrollato. «Sta bene?» chiese Quade. «Sì», mentì lei. Quade tacque. Con il lampeggiatore d'emergenza acceso, ma senza usare la sirena, attraversarono a forte velocità la zona occidentale della città spazzata dal temporale. In ogni pozzanghera sollevavano ai lati due spruzzi d'acqua di una luminosità irreale, fosforescenti, come due tendine bianche che si aprissero al loro passaggio. «Ha nove anni, ormai», riprese Laura. «Mia figlia, dico. Non posso descrivergliela meglio. L'ultima volta che l'ho vista ne aveva solo tre.» «Mi dispiace. Non ho visto nessuna bambina.» «Bionda. Con gli occhi verdi.» Il poliziotto non disse nulla. «Melanie deve essere con Dylan», insistette Laura, con un tono quasi disperato, lacerata fra gioia e terrore, tra la felicità alla prospettiva di rivedere Melanie e la paura che la bambina fosse morta. Laura aveva sognato così spesso di ritrovare Melanie morta che in quel momento era angosciata dal sospetto che quell'incubo ricorrente fosse una premonizione. «Deve sicuramente essere con Dylan. C'è stata per tutti questi anni, per sei lunghi anni, perché non dovrebbe esserci adesso?» «Pochi minuti e ci siamo», le assicurò Quade. «Il tenente Haldane potrà rispondere a tutte le sue domande.» «Non mi avrebbero svegliata alle due e mezzo del mattino, trascinandomi in mezzo a un temporale, se non avessero trovato anche Melanie. Sono sicura.» Quade era concentrato sulla guida e il suo silenzio fu peggio di qualsiasi risposta. Le palme di Laura erano bagnate. Le strofinò sui jeans. Sentì il sudore
scorrerle dalle ascelle. Il nodo di nausea le serrò lo stomaco. «È ferita?» domandò. «È questo? È per questo che non vuole dirmi niente?» Quade le lanciò un'occhiata. «Davvero, signora McCaffrey, non ho visto nessuna bambina nella casa. Non le sto nascondendo niente.» Laura si lasciò andare contro lo schienale. Era sul punto di piangere, ma doveva assolutamente trattenere le lacrime. Avrebbero significato che aveva perso ogni speranza di trovare Melanie viva, e se avesse perso la speranza (altra idea folle) allora lei sarebbe stata responsabile della morte della bambina perché (ancora più folle) forse l'esistenza di Melanie era come quella di Campanellino in Peter Pan, retta solo da una fede costante e ardente. Sapeva che quella era una forma di calma isteria. Capiva che l'idea che Melanie potesse continuare a vivere solo se lei riusciva a credere, e a trattenere le lacrime, era un'idea assolutamente irrazionale; se ne rendeva conto perfettamente; ma vi si aggrappò ricacciando giù le lacrime, ricorrendo a tutta la sicurezza che riusciva a raggranellare. I tergicristallo pulsavano monotoni, la pioggia tamburellava sul tetto, le gomme frusciavano sull'asfalto bagnato, e Studio City sembrava lontana quanto Hong Kong. Svoltarono da Ventura Boulevard in Studio City, una comunità dall'architettura disordinata, con case in stile Cape Cod, spagnolo e coloniale, addossate l'una all'altra. Aveva preso il nome dai vecchi Republic Studios dove, prima dell'avvento della televisione, si giravano tanti western a basso costo. Negli ultimi anni, Studio City era diventata una calamità per sceneggiatori, pittori, artisti e artigiani di ogni genere, esuli per la maggior parte dai quartieri di Hollywood, in continuo degrado e ora impegnati in una guerra di stili architettonici con i precedenti proprietari. L'agente Quade si fermò davanti a una modesta casa in stile ranch in fondo a una tranquilla stradina alberata. Fra i vari veicoli parcheggiati davanti alla casa, c'erano due Ford berlina verde scuro, altre due auto della polizia bianche e nere e un furgoncino grigio con lo stemma del municipio sullo sportello. Ma fu un altro furgone a richiamare l'attenzione di Laura, un furgone con la scritta CORONER sui portelli posteriori. Oh, Dio, ti prego, no. No. Laura chiuse gli occhi, cercando di convincersi che era tutto parte del sogno che stava facendo quando aveva chiamato la polizia. La telefonata faceva parte dell'incubo. E anche Quade e la casa. Adesso si sarebbe svegliata, e niente di tutto quello sarebbe stato più reale.
Ma, quando riapri gli occhi, il furgone del coroner era ancora lì. Le finestre della casa erano tutte chiuse da pesanti tende, ma la facciata era interamente immersa nella luce violenta dei riflettori. La pioggia argentata fendeva la vivida illuminazione e le ombre dei cespugli agitati dal vento tremolavano sui muri. Sul marciapiede stazionava un poliziotto in divisa con un impermeabile. Un altro agente stava sotto il tetto che sporgendo riparava il tratto davanti alla porta d'ingresso. L'ora e la pioggia sembravano rendere inutile la loro funzione di scoraggiare i curiosi. Quade scese dall'auto, ma Laura non riusciva a muoversi. Lui rimise dentro la testa e annunciò: «Siamo arrivati». Laura annuì, ma ancora non si mosse. Non voleva entrare in quella casa. Sapeva che cos'avrebbe trovato. Melanie. Morta. Quade attese un momento, poi fece il giro della macchina e aprì lo sportello, porgendole la mano. Il vento soffiò nell'auto pesanti gocce di pioggia. Quade aggrottò la fronte. «Signora McCaffrey? Sta piangendo?» Laura non riusciva a staccare gli occhi dal camioncino del coroner. «Lei mi ha mentito», lo accusò. «Come? Ehi, no, assolutamente no, davvero.» Lei continuava a non guardarlo. Soffiando l'aria fra le labbra, con uno strano verso equino ben poco appropriato alla situazione, ammise: «Va bene, sì, questo è un caso di omicidio. Abbiamo due corpi». Laura sentì un urlo crescere dentro di sé. Quade si affrettò ad aggiungere: «Ma la sua bambina non c'è. Non è uno dei due cadaveri. Sul serio, non lo è». Laura incontrò il suo sguardo. Sembrava sincero. Scese dall'auto. Lui la sostenne per un braccio e attraversarono il vialetto fino alla porta. La pioggia picchiava come un tamburo in un corteo funebre. 2 La guardia entrò a chiamare il tenente Haldane. Laura e Quade aspettarono fuori, sotto la tettoia, riparandosi alla meglio dal vento e dalla pioggia. La notte portava un odore di ozono e di rose. Dai cespugli disposti lungo
la facciata della casa, fioriti nell'inverno californiano, sgocciolavano i fiori pesanti e gonfi di pioggia. Haldane uscì subito. Era alto, con le spalle larghe e sembrava sbozzato con l'accetta, con i capelli corti e un gradevole, squadrato viso irlandese. I suoi occhi azzurri sembravano spenti, come due ovali opachi di vetro pitturato, e Laura si chiese se avesse sempre quello sguardo spento o se fosse l'effetto di quanto aveva visto nella casa. Dio mio. Portava una giacca sportiva di tweed, una camicia bianca, la cravatta allentata, calzoni grigi e mocassini neri. A parte lo sguardo, appariva un tipo rilassato, cordiale, e il breve sorriso che le rivolse mostrava un autentico calore. «La dottoressa McCaffrey?» disse. «Sono Dan Haldane.» «Mia figlia...» «Non l'abbiamo ancora trovata.» «Non è...» «Che cosa?» «Morta?» «No, no. Grazie al cielo, no. Questo no. Non la sua bambina. Se fosse stato così non l'avrei fatta venire qui.» Ma Laura continuava a sentirsi sull'orlo di una crisi. Non riusciva a rilassarsi perché non sapeva se credergli. In quella casa era accaduto qualcosa di orribile, ne era sicura. E se non avevano trovato Melanie perché l'avevano portata fin lì a quell'ora? Haldane congedò Carl Quade, che ritornò alla macchina sotto la pioggia. «Dylan? Mio marito?» chiese Laura. Haldane distolse lo sguardo. «Sì, pensiamo di averlo trovato.» «È... morto?» «Be', sì, credo che sia lui. Abbiamo un corpo con i suoi documenti, ma non lo abbiamo ancora identificato definitivamente. Per essere sicuri al cento per cento occorrerà controllare le impronte digitali.» La notizia della morte di Dylan ebbe su di lei un effetto così scarso che la sorprese. Nessuna sensazione di rimpianto, naturalmente, visto che gli ultimi sei anni li aveva passati a odiarlo. Ma non ne fu neppure contenta: nessun sentimento di trionfo o di soddisfazione, nessuna impressione che Dylan avesse avuto quello che meritava. Era stato un oggetto d'amore, poi di odio, quindi di indifferenza. Non sentiva assolutamente nulla, e forse questa era la cosa più triste.
Il vento cambiò direzione, e una raffica di pioggia gelata arrivò fin sotto la tettoia. Haldane attirò Laura verso l'angolo, dove era ancora asciutto. Perché non mi porta dentro? si domandò lei. Che cosa non vuole che veda? Che cos'è successo là dentro? «Com'è morto?» «Assassinato.» «Chi è stato?» «Non lo sappiamo.» «Gli hanno sparato?» «No. È stato... picchiato a morte.» «Dio mio.» Sentì di nuovo la nausea. Si appoggiò al muro, con le gambe improvvisamente molli. «Dottoressa McCaffrey?» La prese premurosamente per un braccio, pronto a sostenerla. «Sto bene», lo tranquillizzò lei. «Ma mi aspettavo che Dylan e Melanie fossero insieme. Dylan me l'ha portata via.» «Lo so.» «Sei anni fa. Estinse i nostri conti in banca, lasciò il lavoro e fuggì perché io volevo il divorzio e lui non intendeva dividere l'affidamento di Melanie.» «Quando abbiamo immesso il suo nome, il computer ci ha dato il suo nominativo, dottoressa, e tutta la pratica», spiegò Haldane. «Non ho avuto il tempo di apprendere tutti i particolari, ma ho letto i punti salienti sul terminale portatile in auto, per cui sono abbastanza informato sul caso.» «Sicuramente, se ha rovinato la sua vita, se ha buttato via tutto per avere Melanie, lei doveva essere ancora con lui», ribadì Laura esasperata. «Infatti. Viveva qui con lui...» «Viveva qui? Qui? A soli dieci minuti, un quarto d'ora da me?» «Proprio così.» «Ma mi sono rivolta a investigatori privati, a più di uno, e nessuno è riuscito a trovare una traccia...» «A volte», commentò Haldane, «il trucco della lettera smarrita è quello che funziona meglio di tutti.» «Cristo, e io che pensavo che avessero addirittura lasciato il Paese, che fossero andati in Messico, chissà, mentre loro sono sempre stati qui.» Il vento si calmò e la pioggia prese a scendere dritta, ancora più forte di prima. Presto il prato sarebbe stato un pantano. «In ogni modo», riprese Haldane, «qui ci sono abiti da bambina, alcuni
libri adatti alla sua età. C'è una scatola di cereali nella credenza, di quelli che in genere mangiano i bambini.» «Crede che ci fossero altre persone, oltre a Dylan e Melanie?» «Non ne siamo sicuri. Ci sono altri cadaveri e riteniamo che uno di loro vivesse qui, perché ci sono abiti maschili di due taglie diverse negli armadi.» «Quanti sono gli altri corpi?» «Due.» «Picchiati a morte?» Lui annuì. «E non si sa dove sia Melanie?» «Non ancora.» «Allora, forse, chi ha ucciso Dylan e gli altri l'ha portata con sé.» «È possibile.» Anche se non era ancora morta, Melanie era in ostaggio di un omicida. Forse non solo un omicida, ma anche uno stupratore. No. Aveva solo nove anni. Che cosa poteva volere da lei uno stupratore? Era poco più che una bambina. Ma questo oggigiorno non contava più. Il mondo era popolato da mostri che aggredivano i bambini, che avevano una speciale inclinazione per le ragazzine. «Dobbiamo trovarla.» La sua voce era un gracidìo sottile che lei stessa non riconobbe. «Ci stiamo provando», rispose Haldane. In quegli occhi azzurri ora lei riconobbe solidarietà e commiserazione, ma non riuscì a trame conforto. «Vorrei che venisse dentro con me», continuò, «ma devo avvertirla che non è una bella scena.» «Sono una psicologa, tenente, ma sono anche un medico.» «Oh. Non lo sapevo.» «Immagino che voglia farmi identificare il corpo di Dylan.» «No. Non intendo chiederle di guardarlo. Non servirebbe. C'è altro che voglio farle vedere. Qualcosa che spero sia in grado di spiegarmi.» «Di che cosa si tratta?» «Qualcosa di strano», disse lui. «Qualcosa di maledettamente strano.» 3
Nella casa tutte le luci erano accese. Laura sbattè gli occhi per un momento prima di guardarsi attorno. Il soggiorno era arredato con accuratezza, ma senza gusto: la sgargiante tappezzeria a disegni geometrici del divano faceva a pugni con le pesanti tende a fiori; la tonalità di verde del tappeto con quella, diversa, delle pareti. A parte la libreria, due o trecento volumi che davano l'impressione di essere reali e usati, il resto della stanza pareva una scena teatrale messa insieme alla bell'e meglio, da una compagnia con scarsi fondi a disposizione. Accanto al caminetto freddo, un dozzinale recipiente di latta nera si era rovesciato, spargendo gli attrezzi di ferro battuto sul focolare di mattoni bianchi. Due tecnici di laboratorio stavano spandendo una polvere sulle superfici esposte, rilevando le impronte digitali. «Per favore, non tocchi nulla», disse Haldane a Laura. «Se non ha bisogno di me per identificare Dylan...» «Come le ho detto, non servirebbe a molto.» «Perché?» «Non c'è niente da identificare.» «Intende dire... il corpo è così...» «Malridotto», completò lui. «Non è rimasto niente della faccia.» «Dio mio.» Erano fermi nell'ingresso presso l'arcata del soggiorno e Haldane sembrava riluttante a portarla più nell'interno della casa, come lo era stato prima a farla entrare. «Aveva qualche segno particolare?» le domandò. «Una macchia sulla pelle...» «Una voglia?» «Sì.» «Dove?» «In mezzo al torace.» «Probabilmente non servirà.» «Perché no?» Lui la guardò per un attimo, poi distolse lo sguardo e fissò il pavimento. «Sono un medico», gli ricordò lei. «Ha il petto sfondato.» «A bastonate?» «Già. Ogni costola spezzata in più punti. Lo sterno fracassato come un piatto di ceramica.»
«Fracassato?» «Esattamente. Non semplicemente spezzato. Non semplicemente fratturato o spaccato. Fracassato. Come se fosse fatto di vetro.» «È impossibile.» «L'ho visto con i miei occhi e preferirei non averlo visto.» «Ma lo sterno è un osso compatto; quello e il cranio sono come armature, nel corpo umano.» «È per questo che pensiamo che l'assassino sia di taglia piuttosto massiccia.» Lei scosse la testa. «No. Lo sterno ce lo si spacca in un incidente d'auto, dove intervengono forze enormi, un impatto improvviso a ottanta o cento chilometri l'ora... Ma con una bastonata non può succedere.» «Pensavamo a un tubo di piombo o...» «Nemmeno quello», ribadì lei. «Fracassato sicuramente no.» Melanie, mia piccola Melanie, Dio mio, che cosa ti è successo? Dove ti hanno portato? Ti rivedrò mai più? Rabbrividì. «Senta, se non le servo per identificare Dylan, non so bene che aiuto potrei...» «Come le ho detto, c'è una cosa che voglio farle vedere.» «Qualcosa di strano.» «Sì.» Eppure continuava a trattenerla nell'ingresso e sembrava perfino che stesse usando il suo corpo per impedirle di spingere lo sguardo più in là. Era chiaramente combattuto fra la necessità di raccogliere le informazioni che lei poteva dargli e la riluttanza a portarla in quella scena di sangue. «Non capisco», insistè lei. «Strano? Che cosa?» Haldane non rispose alla domanda. «Voi due lavoravate nello stesso campo.» «Non esattamente.» «Non era anche lui psicologo?» «Psicologo comportamentale», spiegò lei. «Si interessava specificamente di modificazioni del comportamento.» «E lei?» «La mia specialità è la psicologia infantile.» «Campi diversi, quindi?» «Diversissimi.» Lui si accigliò. «Bene, se dà un'occhiata al suo laboratorio, potrebbe comunque essere in grado di spiegarmi che cosa stesse facendo.»
«Laboratorio? Lavorava anche qui?» «Lavorava soprattutto qui.» «A che cosa?» «Faceva esperimenti, esperimenti che non siamo riusciti a capire.» «Diamo un'occhiata.» «È... è un disastro», l'avvertì lui studiandola attentamente. «Gliel'ho detto: sono un medico.» «Già, e io sono un poliziotto, e un poliziotto vede più sangue di un medico, e qui la scena è così raccapricciante che mi ha fatto star male.» «Tenente, lei mi ha portato qui e ora non può liberarsi di me senza che io sappia che cosa facevano in questa casa mio marito e mia figlia.» Lui annuì. «Prego, da questa parte.» Lo seguì oltre il soggiorno, al di là della cucina, in un breve corridoio, dove un uomo snello, dal gradevole aspetto latino, vestito di scuro, controllava il lavoro di due individui in camice bianco dell'ufficio del coroner. I due stavano sistemando un cadavere in una sacca di plastica opaca. Uno di loro finì di chiudere la cerniera lampo. Attraverso la plastica lattiginosa Laura vide solo una vaga forma umana, senza dettagli, e qualche striatura di sangue. Dylan? «Non è suo marito», la informò Haldane, come leggendole nella mente. «Questo non aveva documenti. Dovremo basarci interamente sul controllo delle impronte digitali.» Altro sangue era schizzato sulle pareti e raccolto in pozze sul pavimento, moltissimo, tanto che non sembrava reale, ma una scena di un film di Brian De Palma. In mezzo al corridoio era stata distesa una passatoia di plastica perché gli uomini della squadra non finissero con i piedi nel sangue. Haldane le lanciò un'occhiata, e lei cercò di non mostrargli quanta paura avesse dentro. Melanie era lì quando erano avvenuti i delitti? Se c'era, e se ora era con l'uomo - o con gli uomini - responsabili di quel massacro, anche lei era destinata alla morte perché ne era stata testimone. Anche se non aveva visto nulla, l'assassino l'avrebbe uccisa quando ne avesse avuto abbastanza di lei. Su questo non c'erano dubbi. L'avrebbe uccisa perché ucciderla gli avrebbe procurato piacere. Dall'aspetto di quel luogo si capiva che era uno psicopatico, perché nessuna persona sana di mente avrebbe infierito con una tale gioia selvaggia, sanguinaria.
I due inservienti in camice uscirono a prendere una lettiga con cui portar via il corpo. Il magro latino si rivolse a Haldane, con una voce sorprendentemente profonda: «Abbiamo raccolto tutto, tenente, finito con le fotografie, con tutto il resto. Adesso portiamo fuori questo». «Niente di speciale nell'esame preliminare?» chiese Haldane. L'uomo, pensò Laura, doveva essere un patologo della polizia, ma era troppo scosso per essere uno avvezzo a scene di morte violenta. «A quanto sembra», rispose lui, «praticamente ogni osso del corpo è stato spezzato in uno o più punti. Una contusione sopra l'altra, a centinaia, è impossibile stabilire quante. Cavoli... questo corpo è un'unica lesione. Sono sicuro che l'autopsia troverà una quantità di organi interni danneggiati, i reni spappolati...» Rivolse uno sguardo a Laura, a disagio, incerto se proseguire, e lei gli rispose con un'espressione di blando interesse professionale, sperando che non si notasse quanto era forzata. Lui riprese: «Cranio sfondato. Denti divelti. Un occhio è stato estratto dall'orbita». Laura vide un attizzatoio a terra, accanto al camino. «È quella l'arma del delitto?» «Riteniamo di no», rispose Haldane. E l'altro aggiunse: «L'aveva in mano quest'uomo. Abbiamo dovuto toglierglielo con la forza. Evidentemente cercava di difendersi». Guardarono tutti la sacca opaca, e per un momento nessuno parlò. Gli altri uomini ritornarono con la barella; una delle rotelle cigolava come un carrello guasto del supermercato. Tre porte si affacciavano sul breve corridoio, una in fondo e due sui lati. Tutt'e tre erano socchiuse. Haldane fece passare Laura attorno al cadavere e la condusse a quella in fondo. Nonostante il maglione pesante, l'impermeabile foderato che indossava e il riscaldamento acceso, si sentiva gelata. Le sue mani erano così esangui che sembravano quelle di un morto. Sapeva che il riscaldamento era acceso, aveva sentito un soffio di aria tiepida passando accanto al condizionatore: allora quel gelo doveva venire da dentro di lei. La stanza, che un tempo era uno studio, ora appariva come un monumento alla distruzione e al caos. I cassetti degli schedari erano stati strappati via dai mobiletti metallici, spaccati e ammaccati, le maniglie staccate, il contenuto disperso sul pavimento. Una pesante scrivania di noce e metallo cromato era ribaltata sul fianco; due delle gambe metalliche erano piegate, e il legno spaccato e scheggiato in più punti come se fosse stato
preso a colpi di accetta. Una macchina per scrivere era stata scaraventata contro una parete con tanta violenza che un paio di tasti si erano staccati rimanendo inchiodati nel pannello di legno che rivestiva il muro. C'erano carte dappertutto - fogli dattiloscritti, grafici, pagine coperte di cifre e annotazioni con una grafia piccola e precisa - molte delle quali strappate o appallottolate. E c'era sangue ovunque, a terra, sui mobili, sulle pareti, perfino sul soffitto. C'era un odore di rame, un odore di carne cruda. «Gesù», mormorò lei. «Quello che voglio farle vedere è nell'altra stanza», le disse, conducendola verso una porta sul fondo dello studio demolito. Laura notò due sacchi di plastica opaca sul pavimento. Non avrebbe voluto fermarsi, ma si fermò. Non avrebbe voluto guardare i due corpi racchiusi lì dentro, ma guardò. «È uno di questi... Dylan?» Haldane, che l'aveva preceduta, tornò accanto a lei. «Questo», precisò, indicandone uno, «aveva i documenti di Dylan McCaffrey. Ma, le assicuro, non le conviene guardare.» «No», annuì lei, «non guardo.» Accennò all'altro sacco. «Questo chi era?» «Secondo la patente e altre carte che aveva nel portafogli, il suo nome era Wilhelm Hoffritz.» Lo stupore di Laura fu così evidente che Haldane le chiese: «Lo conosceva?» «Era all'università. Uno dei colleghi di mio marito.» «All'UCLA?» «Sì. Dylan e Hoffritz hanno collaborato a un certo numero di ricerche. Condividevano le stesse ossessioni.» «Mi sembra di capire che lei disapprovava, giusto?» Laura non rispose. «Hoffritz non le piaceva?» insistè Haldane. «Lo disprezzavo.» «Perché?» «Era un ometto presuntuoso, pieno di sé, paternalistico, pomposo.» «Cos'altro?» «Non basta?» «Lei non è il tipo da usare alla leggera la parola 'disprezzo'», insistè Haldane. Quando alzò gli occhi su di lui vide nei suoi un'intelligenza acuta e pe-
netrante di cui prima non si era accorta. Chiuse gli occhi. Lo sguardo diretto di Haldane era inquietante, ma non voleva guardare altrove: c'era troppo sangue dappertutto. «Hoffritz», spiegò, «era un fautore della pianificazione sociale centralizzata. Era interessato all'uso della psicologia, dei farmaci e del condizionamento subliminale per riformare e dirigere le masse.» Per un momento Haldane tacque. Poi: «Controllo della mente?» «Esatto», confermò lei, con gli occhi ancora chiusi e la testa china. «Era un elitario. No, elitario è un eufemismo: era un totalitario. Sarebbe stato un ottimo nazista come un ottimo comunista - l'uno o l'altro, non ha importanza - non aveva alcuna politica, tranne la politica del potere. Voleva il potere a tutti i costi.» «All'UCLA fanno questo genere di ricerche?» Lei riaprì gli occhi e vide che l'uomo non stava scherzando. «Certo. È una grande università, un'università libera. Non esistono restrizioni esplicite sugli indirizzi che la ricerca di uno scienziato può prendere, purché sia in grado di assicurarsene i fondi.» «Ma le conseguenze di quel genere di ricerca...» Con un sorriso amaro, lei replicò: «Risultati empirici. Scoperte. Il progresso della scienza. Questo è quello che interessa a un ricercatore, tenente. Non le conseguenze». «Ha detto che suo marito condivideva le ossessioni di Hoffritz. Intende dire che si occupava delle applicazioni del controllo mentale?» «Sì. Ma non era un fascista come Willy Hoffritz. Quello che gli interessava di più era la possibilità di modificare il comportamento di personalità criminali allo scopo di ridurre il tasso di delinquenza. Questo è quello di cui allora parlava di più. Ma più Dylan era coinvolto in un progetto, più ne era ossessionato, meno ne parlava, come se parlandone sprecasse energia che poteva essere impiegata meglio nel pensiero e nel lavoro.» «Aveva finanziamenti dal governo?» «Dylan? Sì. Lui e anche Hoffritz.» «Il Pentagono?» «Può darsi. Ma non era interessato principalmente ai problemi della difesa. Perché? Che cosa ha a che fare con questo?» Lui evitò di risponderle. «Mi ha detto che suo marito lasciò il posto all'università quando scomparve con sua figlia.» «Sì.» «Ma ora scopriamo che lavorava ancora con Hoffritz.»
«Hoffritz non è più all'UCLA. Non c'è da... tre o quattro anni, forse di più.» «Che cos'è successo?» «Non lo so», rispose lei. «Ho sentito dire che era passato ad altro. E si diceva anche che gli fosse stato chiesto di andarsene.» «Perché?» «Si parlava di una qualche violazione dell'etica professionale.» «Cioè?» «Sembra che nessuno lo sappia.» «Lei è in contatto con l'UCLA?» «No. Non mi occupo di ricerca. Lavoro al St. Mark's Children's Hospital e ho una piccola attività privata. Forse se parlasse con qualcuno dell'UCLA riuscirebbe a scoprire che cosa ha fatto Hoffritz per rendersi sgradito.» Si rese conto che non aveva più la nausea, che guardare tutto quel sangue non le dava più fastidio, anzi, se ne accorgeva a stento. C'era troppo orrore da assorbire: la mente era come stordita. Un solo cadavere o una sola goccia di sangue avrebbero avuto su di lei un effetto più duraturo di questo rivoltante mattatoio. Capì come succede che i poliziotti si abituino così presto alle scene di sangue e violenza: o ci si adatta o si perde la ragione, e la seconda alternativa non è affatto un'alternativa, in realtà. Haldane riprese: «Credo che suo marito e Hoffritz stessero di nuovo lavorando insieme. Qui. In questa casa». «Che cosa stavano facendo?» «Non lo so. È per questo che l'ho voluta qui. È per questo che voglio mostrarle il laboratorio qui accanto. Forse può dirmi lei che cosa diavolo stava succedendo.» «Andiamo a vedere.» Lui esitò. «C'è solo un'altra cosa...» «Che cosa?» «Be', credo che sua figlia facesse parte dei loro esperimenti.» Laura lo fissò. «Credo che la stessero usando.» «In che modo?» sussurrò lei. «Questo dovrà dirmelo lei», rispose il tenente. «Io non sono uno scienziato. Ma prima di entrare voglio avvertirla che sono quasi certo che alcuni aspetti di quegli esperimenti fossero dolorosi.» Melanie, che cosa volevano da te, che cosa ti hanno fatto, dove ti hanno portata?
Fece un profondo respiro. Si passò sul soprabito le mani madide di sudore. Seguì Haldane nel laboratorio. 4 Dan Haldane rimase ammirato dalla reazione di Laura. Certo, era un medico, ma i medici non sono abituati a sguazzare nel sangue; in situazioni del genere anche loro perdono il controllo e stanno male come tutti i comuni mortali. Ma non era solo la preparazione medica di Laura McCaffrey a farle superare tutto quello: aveva anche una forza interiore, una solidità, che Dan ammirava e che al tempo stesso ne suscitava la curiosità. Sua figlia era scomparsa, poteva essere ferita, forse addirittura morta, ma finché alcune domande importanti su Melanie non avessero avuto risposta, perdio, lei non si sarebbe lasciata andare a cedimenti. Quella donna gli piaceva. Era attraente, anche senza trucco e con i capelli bagnati e un po' arricciati per la pioggia. Aveva trentasei anni, ma ne dimostrava di meno. I suoi occhi verdi erano limpidi, diretti, penetranti e bellissimi. E angosciati. Haldane sapeva che Laura sarebbe stata ancor più turbata da quanto avrebbe visto nel laboratorio improvvisato e detestava l'idea di portarla lì, ma era proprio quello il motivo per cui l'aveva chiamata in piena notte. Anche se erano sei anni che non vedeva il marito, lei lo conosceva meglio di chiunque altro, ed essendo anche una psicologa era lei quella che molto probabilmente meglio poteva comprendere gli esperimenti e le ricerche che stava conducendo Dylan McCaffrey. E Dan aveva la sensazione che non sarebbe mai riuscito a risolvere quei delitti - né a trovare Melanie - se non avesse prima ben capito di che cosa si stava occupando Dylan McCaffrey. Laura lo seguì nel laboratorio. Haldane osservò le espressioni che si susseguirono sul suo viso: sorpresa, perplessità, disagio. Quello che un tempo era stato un garage a due posti era stato ristrutturato in un unico ampio locale, senza finestre e di un grigiore senza spiragli. Soffitto grigio. Pareti grigie. Moquette grigia. Le lampade mandavano dal soffitto una luce fioca da dietro grigiastri pannelli di plastica. Perfino le maniglie degli sportelli scorrevoli dell'armadietto grigio erano state dipinte
dello stesso colore. E anche le griglie del riscaldamento, che originariamente dovevano essere di un grigio metallico, erano state ridipinte, evidentemente perché il loro colore era troppo scintillante. Non era stata lasciata una sola macchia di colore vivace. L'effetto non era semplicemente freddo e istituzionale, ma funereo. Il pezzo di arredamento che spiccava maggiormente nella stanza era un contenitore metallico che ricordava un antiquato polmone d'acciaio, ma molto più grande. Era dello stesso grigio opaco della stanza. Ne uscivano delle tubature che finivano nel pavimento e un cavo elettrico saliva dritto a una scatola di raccordo sul soffitto. Una scaletta mobile di tre gradini dava accesso allo sportello di entrata del contenitore, che era aperto. Laura salì i gradini e guardò dentro. Haldane sapeva che cosa vi avrebbe trovato: un informe interno nero illuminato a stento dalla scarsa luce che riusciva a penetrare dall'entrata; un rumore di acqua leggermente mossa dalle vibrazioni trasmesse attraverso la scaletta; un odore di umido e salmastro. «Sa che cos'è?» le chiese. Lei ridiscese. «Certo, una camera di privazione sensoriale.» «A che cosa serve?» «Intende dire, quali sono le sue applicazioni scientifiche?» Haldane annuì. «Bene», prese a spiegare lei, «lo si riempie d'acqua per qualche spanna... O meglio, si usa una soluzione del dieci per cento di solfato di magnesio per la massima galleggiabilità. Poi si porta la temperatura dell'acqua a trentaquattro gradi, la temperatura a cui un corpo in immersione risente meno della forza di gravita. Oppure, a seconda della natura dell'esperimento, la si riscalda a trentasei gradi e mezzo per ridurre la differenza fra la temperatura del corpo e quella dell'acqua. Quindi il soggetto...» «Che è una persona, non un animale?» Lei lo guardò per un attimo, sorpresa dalla domanda, e lui si sentì un ignorante totale, ma Laura non mostrò alcun segno di disprezzo o di irritazione, e lui fu subito di nuovo a suo agio. «Sì, una persona, non un animale. Dunque, quando l'acqua è pronta, il soggetto si spoglia, entra nella camera, chiude lo sportello dietro di sé e rimane a galleggiare nel buio totale, nel silenzio assoluto.» «Perché?» «Per privarsi di ogni stimolo sensoriale. Senza vista. Senza udito. Gusto scarso o nullo. Stimolo olfattivo minimo. Nessuna sensazione di peso, di
luogo o di tempo.» «Ma perché si fa una cosa del genere?» «Inizialmente questi serbatoi furono usati perché si voleva scoprire che cosa accadeva a privare qualcuno di quasi tutti gli stimoli esterni.» «Sì? E che cosa accadeva?» «Non quello che ci si aspettava. Niente claustrofobia. Niente paranoia. Un breve momento di paura, sì, ma poi un disorientamento temporale e spaziale non sgradevole. La sensazione di imprigionamento scompariva in pochi minuti. Alcuni soggetti riferivano di aver avuto la netta sensazione di non trovarsi in un ambiente ristretto, ma in uno spazio enorme. Priva di stimoli esterni, la mente si rivolge verso l'interno per esplorare tutto un nuovo mondo di stimoli interiori.» «Allucinazioni?» Per un momento la sua ansia parve scomparire. L'interesse che provava per il suo campo era evidente. Se avesse scelto la carriera scolastica, pensò Dan, si sarebbe rivelata un'insegnante nata. Era chiaro che le piaceva spiegare. «Sì, qualche volta allucinazioni. Ma niente di pauroso. In molti casi fantasie sessuali intense e straordinariamente vive. E praticamente tutti i soggetti parlano di affinamento dei processi mentali. Alcuni di essi hanno risolto complessi problemi di calcolo e di algebra senza servirsi di carta e penna, problemi che normalmente sarebbero stati ben al di là delle loro capacità. Esistono addirittura dei terapeuti che impiegano questo strumento per incoraggiare i pazienti a concentrarsi in un'autoesplorazione guidata.» «Mi sembra di capire che lei questo non lo approvi.» «Be', non che lo disapprovi», spiegò lei, «ma con un individuo psicologicamente disturbato che già si sente disancorato, con uno scarso autocontrollo, il disorientamento di una camera di privazione sensoriale quasi certamente può avere effetti negativi. Alcuni pazienti hanno bisogno di ogni presa possibile sul mondo fisico, ogni possibile stimolo esterno.» Si strinse nelle spalle. «Ma forse sono troppo cauta, troppo all'antica. Dopotutto questi affari sono ormai in commercio e sicuramente qualcuno sarà capitato in mano a persone instabili, ma non ho mai sentito di nessuno che abbia perso la ragione per colpa di questi serbatoi.» «Devono essere costosi.» «Decisamente. Quelli che finiscono nelle case private sono, si può dire, giocattoli per i ricchi.» «Ma perché tenerlo in casa?»
«Be', a parte il periodo allucinatorio e successivamente la chiarezza dei processi mentali, tutti riferiscono di uscirne straordinariamente rilassati e rivitalizzati. Dopo un'ora passata galleggiando, le onde cerebrali sono come quelle di un monaco zen in meditazione profonda. Diciamo che è il modo di meditare del pigro, non richiede studio né regole da apprendere o rispettare; è un modo per racchiudere in un paio d'ore il rilassamento di una settimana.» «Ma suo marito non lo stava usando solo per rilassarsi.» «Ne dubito», convenne lei. «Ma allora che cosa cercava?» «Non ho modo di saperlo.» L'espressione di angoscia le ritornò sul viso, negli occhi. «Ho motivo di ritenere che questo non fosse solo il suo laboratorio, ma anche la camera di sua figlia. Secondo me era tenuta qui praticamente prigioniera. E dormiva in questo contenitore tutte le notti, passandoci a volte anche dei giorni.» «Giorni? No. Questo non è possibile.» «Perché?» «La possibilità di danno psicologico, i rischi...» «Forse suo marito dei rischi non si curava.» «Ma era sua figlia. Lui amava Melanie, almeno questo non posso negarglielo, l'amava sinceramente.» «Abbiamo trovato un diario in cui suo marito ha riferito di ogni minuto del tempo di sua figlia durante gli ultimi cinque anni e mezzo.» Strinse gli occhi. «Voglio vederlo.» «Tra un attimo. Non l'ho ancora studiato attentamente, ma ritengo che sua figlia non sia mai uscita da questa casa in cinque anni e mezzo. Mai a scuola. Mai dal dottore. Mai al cinema o allo zoo né altrove. E, anche se lei dice che è impossibile, da quello che ho visto sono convinto che qualche volta ha passato anche tre o quattro giorni nel serbatoio senza uscirne.» «Ma il cibo?» «Credo che in quel periodo non venisse alimentata.» «L'acqua?» «Forse ne beveva un po' da quella in cui era immersa.» «Avrà avuto delle altre necessità...» «Da quello che ho visto, c'erano momenti in cui veniva fatta uscire per dieci minuti o un quarto d'ora, appena il tempo per usare il bagno. Ma in altri casi è stato usato un catetere, perché potesse orinare in un contenitore
sigillato senza inquinare l'acqua in cui era immersa.» La donna appariva affranta. Per lei, ma anche perché cominciava lui stesso a essere nauseato da quel posto, Dan la allontanò dal serbatoio, verso l'altra attrezzatura. «Una macchina da biofeedback», spiegò lei. «Comprende un apparecchio da elettroencefalogramma. Dovrebbe aiutare a controllare le onde cerebrali e, quindi, lo stato mentale.» «Il biofeedback lo conosco.» Indicò al di là della macchina. «E quella?» Era una sedia, dalla quale partivano cinghie di cuoio e cavi che terminavano in elettrodi. Mentre lei la esaminava, Haldane ne avvertì il crescente senso di disgusto e di terrore. «Un apparecchio di terapia dell'avversione.» «A me pare una sedia elettrica.» «Lo è. Non di quelle che uccidono. La corrente non viene dalla rete, ma da quelle batterie. E questo», toccò una leva posta su un lato della sedia, «regola il voltaggio. Si può ottenere da un formicolio a una scossa dolorosa.» «È un apparecchio di ricerca psicologica che si usa comunemente?» «Santo cielo, no!» «Ne ha già visti in laboratorio?» «Una volta. Cioè, due.» «Dove?» «Uno studioso di psicologia animale, privo di scrupoli, che conoscevo un tempo. Usava il condizionamento negativo delle scosse elettriche con le scimmie.» «Le torturava?» «Di sicuro lui non la vedeva a questo modo.» «Ma non fanno così tutti gli psicologi animali?» «Le ho detto che lui era privo di scrupoli. Senta, voglio sperare che lei non sia uno di quei neoluddisti convinti che tutti gli scienziati sono dei pazzi o dei mostri.» «No, no. Da ragazzino guardavo sempre Mr. Wizard alla TV.» Laura accennò un sorriso. «Non intendevo offenderla.» «S'immagini. Dunque, mi diceva di aver visto due volte uno di quegli attrezzi. La seconda?» «La seconda l'ho visto in fotografia. In un libro sugli esperimenti... scientifici, diciamo così, nella Germania nazista.»
«Capisco.» «Loro la usavano sugli esseri umani.» Haldane esitò. Ma doveva dirlo. «Anche suo marito.» Laura McCaffrey lo guardò. Era pallidissima, del colore della cenere. «Io credo», riprese Dan, «che mettesse sua figlia in questa sedia...» «No.» «... e credo che lui e Hoffritz e sa Dio chi altro...» «No.» «... la torturassero», terminò Dan. «No.» «È nel diario di cui le ho parlato.» «Ma...» «Io credo che usassero quello che lei ha definito 'terapia dell'avversione' per insegnarle a controllare le onde cerebrali.» L'immagine di Melanie legata su quella sedia era così angosciosa che l'aspetto di Laura McCaffrey ne fu profondamente trasformato. Ora non era più soltanto sfinita, soltanto pallida; ora il suo colorito era cinereo, cadaverico. Gli occhi, infossati nelle orbite, avevano perso ogni luce. Sembrava che la pelle del viso le si fosse afflosciata come cera molle. «Ma...» mormorò, «ma questo non ha senso. La terapia dell'avversione è il metodo meno efficace per insegnare le tecniche di biofeedback.» Dan sentì l'impulso di abbracciarla, di stringerla, di accarezzarle i capelli, di consolarla. Di baciarla. Dal primo momento che l'aveva vista l'aveva trovata attraente, ma finora non aveva avvertito quanto di sessuale ci fosse in quell'attrazione. Ma non era sempre così? Non si sentiva sempre attratto dai micini sperduti, dalle bambole rotte, dai più deboli, smarriti, indifesi? E finiva sempre con il desiderare di non esserne coinvolto. Se solo adesso sentiva quel genere di attrazione per Laura McCaffrey era perché ora cominciava a cedere, a non mostrarsi più in pieno controllo, a non nascondere più la paura, i dubbi. Nick Hammond, un altro investigatore della Omicidi, lo aveva accusato di avere istinti da chioccia, e c'era del vero. Che cosa mi prende? si chiese. Perché continuo a fare il cavaliere errante, sempre alla ricerca di damigelle a cui dar soccorso? La conosco appena, questa donna, e vorrei che si affidasse completamente a me, che scaricasse sulle mie spalle tutte le sue speranze, le sue paure. Certo, signora, si appoggi pure a Big Dan Haldane e a nessun altro; ci pensa lui a mettere le mani su quei demoni maligni e a rimettere insieme i pezzi del suo mondo disastrato. Big Dan può farlo, signora, anche se ha il cuore di uno stupido
adolescente. No. Questa volta no. Aveva un lavoro da svolgere e l'avrebbe svolto, ma in maniera totalmente professionale. Non avrebbe permesso che i sentimenti personali si intromettessero. E comunque quella donna non avrebbe accettato una relazione personale con lui. Era più istruita di lui, molto più raffinata. Era un tipo da brandy; lui non andava al di là della birra. E poi, Dio santo, non era certo il momento di fare i sentimentali. Lei era ancora troppo vulnerabile: era terrorizzata per la figlia; suo marito era stato ucciso, e questo, anche se aveva smesso di amarlo tanto tempo prima, non poteva non avere un effetto su di lei. Che razza di uomo poteva vedere una prospettiva sentimentale con lei in un momento del genere? Si vergognava di se stesso. Eppure... Sospirò. «Chissà, quando avrà studiato il diario di suo marito, magari potrà provare che non ha mai messo la bambina su quella sedia. Ma ho paura di no.» Lei rimase lì immobile, con un'aria smarrita. Lui andò all'armadio e aprì gli sportelli. C'erano alcune paia di jeans, magliette, maglioni e scarpe, tutto di una misura per una bambina di nove anni. E tutto grigio. «Perché?» chiese Dan. «Che cosa intendeva provare? Quali effetti cercava sulla bambina?» La donna scrollò la testa, ancora troppo scossa per parlare. «E c'è un'altra cosa che mi domando», proseguì Dan. «Tutto questo, per sei anni, ha richiesto più denaro di quanto ne aveva quando ha chiuso il conto in banca e l'ha lasciata. Molto di più. Eppure non lavorava. Non usciva mai. Forse i soldi glieli dava Hoffritz. Ma dovevano essercene altri. Chi? Chi finanziava questo lavoro?» «Non ne ho idea.» «E perché?» domandò ancora. «E dove hanno portato Melanie?» chiese lei. «E che cosa le stanno facendo adesso?» 5 La cucina aveva un'aria trasandata. I piatti sporchi erano ammucchiati nel lavandino. Il tavolo, che stava vicino all'unica finestra della stanza, era coperto di briciole. Laura gli si sedette accanto, e spazzò via con la mano un po' di briciole,
ansiosa di vedere il diario degli esperimenti di Dylan. Haldane esitava a mostrarglielo. Lo teneva in mano, un libro formato registro rilegato in similpelle, e camminava su e giù per la cucina, parlando. La luce dei lampi, trapassando il vetro della finestra inondato dalla pioggia, dava a tratti alla stanza un'atmosfera amorfa, semitrasparente, come di un miraggio, proiettando sulle pareti il mobile disegno delle gocce d'acqua. «Vorrei saperne di più su suo marito», riprese Haldane. «Per esempio?» «Per esempio, come mai decise di divorziare da lui.» «C'entra?» «Potrebbe.» «In che modo?» «Intanto, se ci fosse coinvolta un'altra donna, forse lei potrebbe dirci di più su quanto accadeva qua dentro. Magari potrebbe perfino dirci chi l'ha ucciso.» «Non c'erano altre donne.» «Allora perché ha deciso di divorziare?» «Semplicemente perché non lo amavo più.» «Perché?» «Non era l'uomo che avevo sposato.» «Era cambiato?» Lei sospirò. «No. Non era mai stato l'uomo che avevo sposato. Ero io a crederlo. Più tardi, con il passare del tempo, mi resi conto di quanto mi fossi sbagliata, fin dall'inizio.» Haldane si fermò, si appoggiò a un mobile, incrociando le braccia sul petto, sempre con il diario in mano. «In che cosa si era sbagliata?» «Be', prima dovrà sapere qualcosa di me. Alle superiori e al college non sono mai stata una ragazza, particolarmente corteggiata. Ricevevo pochissimi inviti.» «Faccio fatica a crederlo.» Lei arrossì, desiderando invano di potersi controllare. «È così. Ero di una timidezza avvilente. Evitavo i ragazzi. Evitavo tutti. Non ho mai avuto neppure amiche intime.» «Forse qualcuno avrebbe dovuto consigliarle il deodorante più adatto o un efficace shampoo antiforfora.» Lei sorrise, grata per il tentativo di metterla a suo agio, ma parlare di sé la imbarazzava sempre. «Non volevo che qualcuno arrivasse a conoscermi perché ero convinta che non sarei piaciuta, e non avrei sopportato un rifiu-
to.» «Perché mai non doveva piacere?» «Oh, perché non ero abbastanza spiritosa, abbastanza brillante, abbastanza carina da essere all'altezza.» «Sullo spirito non saprei dire: vorrei vedere chi riesce a dire battute in questo posto. Intelligente lo è senz'altro, dopotutto ha preso la laurea. E non capisco come facesse a guardarsi in uno specchio senza pensare di essere stupenda.» Lei alzò gli occhi. Lo sguardo di Dan era diretto, attraente, caldo, senza essere né sfacciato né allusivo. Il suo atteggiamento era semplicemente quello di un poliziotto, che faceva un'osservazione, affermava un dato di fatto. Eppure, sotto quell'aria professionale in superficie, avvertì che lei lo attraeva e il suo interesse la mise a disagio. Distolse lo sguardo, fissò le vaghe scie argentate della pioggia sulla finestra nera e spiegò: «A quel tempo avevo un terribile complesso di inferiorità». «Come mai?» «I miei genitori. Soprattutto mia madre.» «Com'erano?» «Loro non hanno nulla a che fare con questo caso. Comunque, se ne sono andati tutt'e due.» «Morti?» «Sì.» «Mi dispiace.» «Non è il caso. A me no.» «Capisco.» «Ma con Dylan...» «Mi stava dicendo in che senso lo aveva mal giudicato fin dall'inizio.» «Vede, ero così abile a respingere la gente, così brava ad alienarmi tutti e a rimanere rinchiusa nel mio guscio, che nessuno era mai riuscito ad avvicinarmi. Soprattutto i ragazzi, gli uomini. Sapevo come liberarmene in fretta. Finché arrivò Dylan. Lui non si dava per vinto. Continuava a chiedermi di uscire con lui. Io lo respingevo, e lui tornava. La mia timidezza non lo scoraggiava. Villania, indifferenza, freddi rifiuti: niente lo fermava. Non mi dava tregua. Non mi era mai capitato che qualcuno mi facesse la corte. Certamente non come Dylan. Era implacabile. Ossessionato. Cercava di colpirmi servendosi di mezzi addirittura sdolcinati. Io me ne rendevo conto, ma la cosa funzionava ugualmente. Mi mandava fiori, cioccolatini,
ancora fiori, una volta perfino un gigantesco orsacchiotto.» «Un orsacchiotto per una donna che lavora alla tesi di laurea?» «Gliel'ho detto che era sdolcinato. Mi scriveva poesie firmate 'un ammiratore segreto'. Mezzucci, forse, ma per una donna che a ventisei anni aveva ricevuto sì e no un bacio e già si vedeva come una vecchia zitella erano cose che davano alla testa. Fu la prima persona a farmi sentire degna di attenzione, importante. Abbattè tutte le mie difese.» Parlandone, quel particolare periodo, quei sentimenti le ritornarono alla mente con una vivezza sorprendente. E assieme al ricordo venne la malinconia per quello che sarebbe potuto essere, una lacerantissima sensazione di innocenza perduta. «Più tardi, quando fummo sposati, vidi che la passione e il fervore di Dylan non erano riservati esclusivamente a me. Oh, non che ci fossero altre donne. No. Ma seguiva ogni interesse con lo stesso ardore con cui aveva incalzato me. Le sue ricerche nel campo della modificazione del comportamento, il suo fascino per l'occulto, il suo amore per le auto veloci... in tutte queste cose metteva la stessa passione ed energia che aveva impiegato nel mio corteggiamento.» E le tornò alla mente quanto avesse temuto gli effetti che l'iperesigente personalità di Dylan avrebbe potuto avere su Melanie. Quest'ultimo era uno dei motivi per cui aveva chiesto il divorzio. «Per esempio, allestì un elaborato giardino giapponese dietro la nostra casa, dedicandovi ogni minuto libero per mesi e mesi. Era freneticamente determinato a renderlo perfetto. Ogni pianta, ogni fiore, ogni pietra in ogni vialetto doveva essere un campione ideale. Ogni bonsai doveva essere squisitamente proporzionato e armonioso quanto quelli che vedeva nei libri sull'Oriente. Si aspettava che quel progetto - ogni progetto - mi assorbisse quanto assorbiva lui. Ma per me non era possibile. Non volevo. E poi era così fanatico nel suo perfezionismo che qualunque cosa si facesse con lui si rivelava un'ingrata fatica anziché un divertimento. Era un nevrotico ossessivo-coatto e, nonostante il furioso entusiasmo che metteva in tutto, niente gli dava piacere, nessuna gioia, perché non c'era tempo per la gioia.» «Si direbbe una cosa sfiancante, essere sposata con lui», commentò Haldane. «Dio mio, sì! Nel giro di un paio d'anni la sua eccitazione non fu più contagiosa perché era continua e universale, e nessuna persona sana può vivere continuamente in quello stato febbrile. Smise di essere interessante
e stimolante; ormai era solo stancante. Ossessionante. Mai un momento di distensione o di pace. A quel punto mi stavo specializzando in psicologia ed ero in analisi, obbligatoria per chiunque voglia dedicarsi alla pratica della psichiatria, e mi resi conto che Dylan era un uomo disturbato, non solo un entusiasta, non solo un perfezionista, ma, come ho detto, un ossessivo-coatto. Cercai di suggerirgli un'analisi, ma per questo non mostrò alcun entusiasmo. Infine, gli dissi che volevo divorziare. Non mi diede neppure il tempo di preparare i documenti. Il giorno dopo aveva ripulito i conti in banca ed era scomparso con Melanie. Avrei dovuto prevederlo.» «Perché?» «Era ossessivo nei confronti di Melanie come lo era con qualsiasi altra cosa. Ai suoi occhi, era la bambina più bella, meravigliosa, intelligente che si fosse mai vista su questa terra. Si preoccupava sempre che fosse perfettamente vestita, perfettamente pettinata, che si comportasse perfettamente. Aveva solo tre anni e lui le stava insegnando a leggere, cercando di insegnarle il francese. Solo tre anni. Lui diceva che più si è giovani e più si impara; il che è vero, ma lui non lo faceva per Melanie. Oh, no. Quello che lo preoccupava era se stesso, avere una figlia perfetta, perché non sopportava l'idea che la sua bambina potesse non essere il meglio in tutto.» Tacquero entrambi per un momento. La pioggia picchiava contro la finestra, tamburellava sul tetto, scrosciava nelle grondaie. Infine, Haldane parlò, a voce bassa: «Un uomo così potrebbe...» «Sì. Potrebbe fare esperimenti su sua figlia, potrebbe sottoporla a torture, se pensasse che così facendo la renderebbe migliore. O se fosse ossessionato da una serie di esperimenti che richiedessero un bambino come soggetto.» «Gesù», mormorò Haldane con un tono che era al tempo stesso di disgusto, di incredulità, di pena. Laura scoppiò a piangere. Il detective si avvicinò al tavolo. Scostò una sedia e le si sedette accanto. Lei si asciugò gli occhi con un Kleenex. Lui le mise una mano sulla spalla. «Andrà tutto per il meglio.» Lei annuì, si soffiò il naso. «La troveremo», le assicurò lui. «Temo di no.» «Sì, invece.» «Ho paura che sia morta.»
«No, non è morta.» «Ho paura.» «Non deve.» «Non posso farci niente.» «Lo so.» Per una mezz'ora, mentre Dan Haldane si occupava di altro nella casa, Laura studiò il diario di Dylan, che era in realtà un semplice resoconto di come era impiegato il tempo di Melanie. Quando il detective ritornò in cucina, Laura era paralizzata dall'orrore. «È vero», confermò. «Sono stati qui almeno cinque anni e mezzo, da quando è iniziato il diario, e Melanie non è uscita nemmeno una volta da questa casa.» «Dormiva tutte le notti nella camera di privazione sensoriale?» «Sì. All'inizio otto ore per notte. Poi otto e mezzo. Poi nove. Alla fine del primo anno, passava dieci ore per notte nella camera e due ore ogni pomeriggio.» Chiuse il libro. La vista della grafia ordinata di Dylan improvvisamente la rese furibonda. «Che altro?» chiese Haldane. «Come prima cosa al mattino passava un'ora in meditazione.» «Meditazione? Una bambina così piccola? Non sapeva neppure il significato della parola.» «In sostanza, meditare non è altro che rivolgere la mente verso l'interno, escludendo il mondo attorno a sé, cercando la pace nella solitudine interiore. Non credo che stesse insegnando a Melanie una meditazione con sfumature religiose o filosofiche, come quella zen. Probabilmente le stava solo insegnando a rimanere immobile, a rivolgersi verso l'interno senza pensare a nulla.» «Autoipnosi.» «Si può chiamare anche così.» «Ma perché?» «Non lo so.» Si alzò, nervosa, agitata. Avrebbe voluto muoversi, camminare, sfogare l'energia frenetica che aveva accumulato. Ma la cucina era troppo piccola; in cinque passi l'aveva attraversata tutta. Fece per avviarsi verso la porta del corridoio ma si fermò, rendendosi conto che non poteva andare su e giù per il resto della casa, accanto ai cadaveri, in mezzo al sangue, ostacolando
i movimenti dei poliziotti e degli uomini del coroner. Si appoggiò a un mobiletto basso, premendovi con forza le palme, come sperando di scaricare l'energia nervosa irraggiandola su quella superficie fredda. «Ogni giorno», riprese, «dopo la meditazione, Melanie passava alcune ore ad apprendere le tecniche di biofeedback.» «Seduta in quella sedia elettrica?» «Credo di sì. Ma...» «Ma?» «Ma credo che quella sedia fosse usata per qualcosa di più. Per condizionarla, credo, contro il dolore.» «Non capisco.» «Credo che Dylan usasse le scosse elettriche per insegnarle a bloccare la sofferenza, a sopportarla, a ignorarla come fanno i mistici orientali.» «Per quale motivo?» «Forse perché, più in là, riuscire a controllare il dolore l'avrebbe aiutata a sopportare le sedute più lunghe nella camera di privazione sensoriale.» «Allora avevo ragione?» «Sì. Le ha aumentato gradatamente i periodi di permanenza finché, entro il terzo anno, qualche volta è rimasta a galleggiare per tre giorni di fila. Al quarto anno è arrivato a quattro o cinque giorni. Più recentemente, appena la settimana scorsa, l'ha tenuta nella camera per sette giorni.» «Cateterizzata?» «Sì. E con una fleboclisi di glucosio, perché non perdesse troppo peso e non si disidratasse.» «Gesù.» Laura non disse nulla. Si sentiva sul punto di scoppiare di nuovo a piangere. Era in preda alla nausea. Le bruciavano gli occhi e si sentiva la pelle come unta. Si avvicinò al lavandino e si bagnò il viso con l'acqua fredda. Prese tre o quattro asciugamani di carta da un rotolo fissato al muro. Non le servì a molto. «Ha detto», riprese Haldane, «che lui intendeva condizionarla contro il dolore per farle affrontare più facilmente le lunghe sedute nella camera.» «Può darsi. Non si può sapere per certo.» «Ma che cosa c'è di doloroso nella permanenza in quel serbatoio? Da quello che lei mi ha detto, mi sembrava di aver capito che non ci fosse alcuna sensazione.» «In una seduta di lunghezza normale non c'è niente di doloroso. Ma, se si rimane immersi per più giorni, la pelle comincia a raggrinzirsi, a screpo-
larsi, e cominciano a formarsi delle piaghe.» «Ah.» «E poi c'è il catetere. Alla sua età, probabilmente lei non ha mai avuto malattie così gravi da renderla incontinente, da richiedere l'applicazione di un catetere.» «No, mai.» «Be', vede, dopo un paio di giorni l'uretra risente dell'irritazione. Fa male.» «Ci credo.» Laura sentì che aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Normalmente non era una bevitrice. Un bicchiere di vino di tanto in tanto. Più raramente un martini. Ma in quel momento aveva voglia di stordirsi. «Insomma, che cosa stava facendo?» chiese Haldane. «Che cosa cercava di dimostrare? Perché la sottoponeva a tutto questo?» Laura alzò le spalle. «Una qualche idea deve averla», insistette lui. «Nessuna. Il diario non descrive gli esperimenti né fa cenno delle sue intenzioni. È semplicemente una registrazione delle sedute con le varie attrezzature, una cronaca, ora per ora, della giornata della bambina.» «Lei ha visto tutti quei fogli nel suo ufficio, sparsi in giro. Devono essere più particolareggiati del diario. Da lì si potrà capire di più.» «Può darsi.» «Ho dato un'occhiata a qualcuno, ma non ci ho capito gran che. Linguaggio molto tecnico, gergo psicologico. Per me è arabo. Se tra un paio di giorni le mando le fotocopie, ha voglia di esaminarle e vedere se riesce a metterle in ordine e a tirarne fuori qualcosa?» «Non saprei, solo a sfogliare il diario mi stavo sentendo male.» «Non vuole sapere che cos'ha fatto a Melanie? Se la troviamo dovrà saperlo: altrimenti non avrà nessuna possibilità di affrontare gli eventuali traumi psicologici di cui soffre.» Era vero. Per trovare la cura adatta, avrebbe dovuto calarsi nell'incubo di sua figlia e farlo suo. «E poi», proseguì Haldane, «in quelle carte potrebbero esserci degli indizi, qualcosa che ci aiuti a stabilire con chi stava lavorando, chi può averlo ucciso. Se riusciamo a determinare questo, potremmo anche scoprire chi ha adesso Melanie. Se studia le carte di suo marito, potrebbe scoprire qualche informazione che ci possa aiutare a trovare la sua bambina.» «Sta bene», rispose infine lei, stancamente. «Quando avrà preparato le
fotocopie, le mandi pure a casa mia.» «So che non le sarà facile.» «Può ben dirlo.» «Voglio sapere chi ha finanziato la tortura di una bambina in nome della ricerca», aggiunse, con un tono di voce che a Laura parve troppo duro e vendicativo per un imparziale tutore dell'ordine. «Voglio saperlo.» Stava per aggiungere qualcosa, ma fu interrotto da un agente in uniforme che entrò dal corridoio. «Tenente?» «Che cosa c'è, Phil?» «In questa faccenda lei sta cercando una bambina, vero?» «Sì.» «Bene, ne hanno trovata una.» Il cuore di Laura si strinse in un nodo. Una domanda urgente le si formò nella mente, ma non fu in grado di formularla: la gola le si era bloccata. «Quanti anni?» chiese Haldane. Non era questa la domanda che Laura avrebbe voluto sentire. «Otto o nove, sembrerebbe», rispose Phil. «Hai una descrizione?» domandò ancora Haldane. Neppure questa era una domanda. «Capelli castani. Occhi verdi.» Laura vide i due uomini volgersi verso di lei, guardare i suoi capelli castani, i suoi occhi verdi. Cercò di parlare, ma rimase muta. «Viva?» chiese Haldane. Ecco la domanda. «Sì», rispose l'uomo in uniforme. «Una pattuglia l'ha trovata a sette isolati da qui.» La gola di Laura si aprì, la sua lingua si sciolse dalla paralisi. «Viva?» chiese ancora, senza avere il coraggio di crederci. L'agente annuì. «Sì. Gliel'ho detto. Viva.» «Quando?» domandò Haldane. «Circa un'ora e mezzo fa.» «E nessuno me lo dice, maledizione!» esclamò Haldane arrossendo. «Erano in un pattugliamento di routine quando l'hanno vista», spiegò Phil. «Non sapevano che potesse entrarci con questo caso.» «Dov'è?» domandò Laura. «Al Valley Medical.» «L'ospedale? Dio mio. Che cos'ha? È ferita? È grave?»
«No, non è ferita», disse l'agente. «Da quello che ho capito l'hanno trovata che si aggirava per la strada, nuda e intontita.» «Nuda», ripetè debolmente Laura e la paura ritornò, la colpì come una mazzata. Dovette reggersi al mobile della cucina con tutt'e due le mani. Se non l'avesse fatto sarebbe crollata a terra. Sostenendosi, cercando di fare un respiro profondo ma non riuscendo che a inghiottire un breve, spezzato sorso d'aria, ripetè: «Nuda?» «E in uno stato di confusione totale, incapace di parlare», precisò Phil. «Sembrava sotto choc, o magari drogata, e così l'hanno portata subito al Valley Medical.» Haldane prese Laura per un braccio. «Andiamo.» «Ma...» «Che cosa c'è?» Lei si passò la lingua sulle labbra. «E se non è Melanie? Non voglio mettermi a sperare e poi...» «È lei», assicurò il detective. «Noi qui abbiamo perso una bambina di nove anni e loro hanno trovato una bambina di nove anni a sette isolati di distanza. Non è certo una coincidenza.» «Ma se...» «Signora McCaffrey, qual è il problema?» «E se questa non è la fine dell'incubo?» «Come?» «Se è solo l'inizio?» «Intende dire che dopo sei anni di questa tortura...» «Non può più essere una bambina normale», concluse Laura con voce rauca. «Non lo dica. Non lo saprà con certezza finché non l'avrà vista, non le avrà parlato.» Lei scosse la testa. «No. Non può essere normale. Dopo quello che le ha fatto il padre, dopo anni di isolamento forzato. Sarà una bambina malata, profondamente disturbata. Non può essere normale.» «No», confermò lui, gentilmente, avvertendo che qualche vuota frase di rassicurazione non sarebbe servita che a farla adirare. «No, non sarà una bambina equilibrata, sana. Sarà smarrita, spaventata, forse ritirata nel suo mondo, forse irraggiungibile, forse per sempre. Ma c'è una cosa che lei non deve dimenticare.» Laura lo guardò negli occhi. «Che cosa?» «Ha bisogno di lei.»
Laura annuì. Si lasciarono alle spalle quella scena di sangue. La pioggia spazzava la notte e i tuoni schioccavano come colpi di frusta. Haldane la fece salire su una berlina senza contrassegni. Fissò un lampeggiatore di emergenza sul tetto dell'auto. Si diressero verso il Valley Medical con il segnalatore e la sirena accesi, e le gomme che sollevavano l'acqua con un suono sibilante, un suono che faceva pensare che il mondo stesso si stesse sgonfiando. 6 Il medico di servizio al pronto soccorso si chiamava Richard Pantangello. Era giovane e aveva folti capelli neri e una curata barba rossiccia. Andò a prendere Laura e il tenente Haldane al banco di accettazione e li condusse alla stanza della bambina. I corridoi, a parte qualche infermiera che passava silenziosa, erano deserti. Nell'ospedale, alle quattro e dieci del mattino, c'era un silenzio soprannaturale. Durante il tragitto il dottor Pantangello parlò, con una voce bassa, quasi un sussurro. «Non aveva fratture, lacerazioni o abrasioni. Soltanto un segno sul braccio destro, sopra la vena, che sembrerebbe prodotto da un ago inserito senza troppa perizia.» «Era intontita?» domandò Haldane. «Non esattamente», rispose Pantangello. «Più che altro sembrava in trance. Nessun segno di colpi alla testa, ma da quando l'hanno portata non è stata in grado di parlare, o non ha voluto.» Cercando di adeguare la sua voce al tono sommesso del medico, ma incapace di nascondere l'ansia, Laura domandò: «C'è stato... stupro?» «Non ho trovato alcun segno di violenza carnale.» Svoltato un angolo, si fermarono davanti alla camera 256. La porta era chiusa. «È qui», annunciò il dottor Pantangello, affondando le mani nelle tasche del camice bianco. Laura stava ancora riflettendo inquieta sul modo in cui Pantangello aveva formulato la risposta alla sua domanda. «Non ha trovato segni di violenza carnale, ma questo non vuol dire necessariamente che non sia stata sottoposta a molestie sessuali.» «Nessuna traccia di sperma nel tratto vaginale», precisò Pantangello.
«Nessuna lacerazione o emorragia delle labbra o delle pareti vaginali.» «E in una bambina di quell'età ci sarebbero stati», aggiunse Haldane. «Sì. E l'imene è intatto», riprese Pantangello. «Allora», concluse Haldane, «non è stata violentata.» Laura si sentì invadere da un senso di sconforto davanti allo sguardo di commiserazione del dottore, che con una voce mesta e sommessa proseguì: «Non è stata sottoposta a un rapporto ordinario, no. Questo possiamo escluderlo. Ma, be', non posso esserne certo...» Si schiarì la voce. Laura capiva che questa conversazione era per il medico un tormento quasi quanto lo era per lei, e avrebbe voluto dirgli di smetterla, ma doveva sentire tutto, doveva sapere, e toccava a lui dirglielo. Pantangello finì di schiarirsi la gola e riprese da dove si era interrotto: «Non posso affermare con sicurezza che non ci sia stato un rapporto orale». Un suono inarticolato sfuggì dalle labbra di Laura. Haldane la resse per un braccio e lei gli si appoggiò. «Calma. Stia calma adesso. Non sappiamo neppure se è davvero Melanie.» «È lei. Sono sicura che è lei.» Voleva vedere sua figlia, lo desiderava disperatamente. Ma aveva paura di aprire la porta ed entrare nella stanza. Il suo futuro stava al di là di quella soglia, un futuro che poteva essere fatto solo di dolore, di disperazione. Un'infermiera passò senza guardarli, anzi evitando di proposito i loro occhi. «Mi dispiace», mormorò Pantangello. Tolse le mani dalle tasche; sembrava volesse consolarla, ma al tempo stesso sembrava timoroso di toccarla. «Senta, se può esserle di aiuto... bene, a mio parere, non è stata molestata. Non posso dimostrarlo. Lo sento, semplicemente. E poi è molto difficile che un bambino venga molestato senza che rimangano segni visibili di violenza, lividi, ferite, sul suo corpo. Il fatto che non abbia segni tende a indicare che non è stata toccata. Davvero, ci scommetto.» Le sorrise. Almeno, lei lo interpretò come un sorriso; era in realtà una specie di smorfia di dolore. «Ci scommetto un anno della mia vita.» Lottando per trattenere le lacrime, Laura disse: «Ma, se non è stata molestata, perché l'hanno trovata nuda in strada?» La risposta alla sua domanda le venne quando ancora non aveva finito di formularla, e venne anche a Dan Haldane. Fu lui a parlare. «Doveva trovarsi nella camera di privazione sensoriale quando l'assassino, o gli assassini, sono entrati in casa. In quel serbatoio sarebbe stata nuda.»
«Privazione sensoriale?» Pantangello sollevò un sopracciglio. «Forse è per questo», riprese Laura rivolta ad Haldane, «che non è stata uccisa come gli altri. Forse l'assassino non sapeva che era lì.» «Può darsi», convenne Haldane. Laura sentì la speranza crescerle dentro rapidamente. «E deve essere uscita dall'apparecchio dopo che l'assassino è andato via. Se ha visto i cadaveri, tutto il sangue era uno spettacolo traumatico che spiegherebbe il suo stato di choc.» Pantangello rivolse uno sguardo incuriosito ad Haldane. «Deve essere un caso singolare.» «Molto singolare», commentò il detective. D'un tratto, Laura non ebbe più paura della porta chiusa. Fece per aprirla. Il dottor Pantangello la fermò mettendole una mano sulla spalla. «Un momento. Un'ultima cosa.» Laura attese ansiosa mentre il giovane medico cercava le parole meno dolorose per comunicare l'ultima cattiva notizia. Che era cattiva, lei già lo sapeva. Poteva leggerlo sul viso del dottore, troppo poco esperto per mantenere un'espressione neutra di distacco professionale. «Lo stato in cui si trova...» disse infine, «prima l'ho definito 'trance'. Non è proprio così. È uno stato quasi catatonico. Molto simile a quello che si osserva talvolta nei bambini autistici.» Laura sentì di avere la bocca secca, come se per l'ultima mezz'ora avesse mangiato sabbia. Avvertiva anche un sapore metallico, un sapore che riconobbe subito: la paura. «Lo dica pure, dottor Pantangello. Sono anch'io un medico. E una psicologa infantile. Quello che ha da dirmi, me lo dica pure.» Il medico rispose parlando rapidamente, ora, quasi correndo, come ansioso di dirlo, e farla finita: «Autismo, disordine mentale in generale, non sono il mio campo specifico, sono più il suo campo, per cui probabilmente farei meglio a non parlarne affatto. Ma voglio che lei sia preparata, prima di entrare là dentro, voglio che lei sappia che il suo isolamento, il suo silenzio, il suo distacco... ebbene, non credo che si supereranno facilmente o rapidamente. Ritengo che abbia vissuto un'esperienza traumatica, fortemente traumatica, e che si sia ripiegata su se stessa per allontanarsi da quel ricordo; riportarla indietro richiederà molta pazienza». «E forse non ritornerà mai?» chiese Laura. Pantangello scosse la testa, si accarezzò la barba rossiccia, giocherellò
con lo stetoscopio. «No, no, non ho detto questo.» «Ma è quello che sta pensando», mormorò Laura. Infine aprì la porta ed entrò nella camera seguita dai due uomini. La pioggia picchiava sull'unica finestra. Lontano, nella notte, verso l'oceano invisibile, un lampo schiarì il buio due volte, tre, poi morì nell'oscurità. C'erano due letti. Quello più vicino alla finestra era vuoto, e quella metà della stanza era immersa nel buio. Sopra l'altro letto c'era una luce accesa; sotto le lenzuola giaceva una bambina, vestita della camicia da notte di dotazione dell'ospedale, con la testa appoggiata al cuscino. La parte superiore del letto era sollevata e il viso della bambina era perfettamente visibile nel momento in cui Laura entrò nella stanza. Era Melanie. Laura non ebbe alcun dubbio. Sei anni avevano trasformato completamente la bambina che lei ricordava, ma le somiglianze con i genitori - gli occhi, i capelli, il naso di Laura, la forma del viso di Dylan erano nettissime. Eppure, a confermarle al di là di ogni dubbio l'identità di Melanie, c'era qualcosa di immateriale, un alone familiare forse, un legame emotivo che scattò nell'attimo in cui Laura mise piede nella camera. Sapeva che quella era la sua bambina anche se le sarebbe stato difficile spiegare come facesse a esserne così certa. Melanie sembrava uno di quei bambini nei manifesti di propaganda delle organizzazioni internazionali di soccorso contro la fame, o contro una qualche rara e debilitante malattia infantile. Aveva un colorito giallastro. La pelle era pallida, sgranata, insana. Le labbra, più grigie che rosate, erano screpolate. Attorno agli occhi, infossati, la pelle era scura, come se se li fosse strofinati con le dita sporche d'inchiostro. E gli occhi: gli occhi erano la cosa peggiore. Fissavano il vuoto davanti a sé, sbarrati ma senza muoversi, aperti ma senza vedere nulla, nulla di questo mondo. Sembrava non esserci, in quegli occhi, né paura né dolore. Solo desolazione. «Amore?» provò Laura. La bambina non si mosse. I suoi occhi rimasero fissi. «Melanie?» Nessuna risposta. Esitante, Laura si avvicinò al letto. La bambina non mostrò di accorgersi di lei. Laura abbassò la sponda di sicurezza, si chinò sulla bambina, ripetè il suo nome, ma non ebbe alcuna reazione. Con una mano tremante, toccò il
viso di Melanie, un po' caldo di febbre, e quel contatto fece crollare ogni riserva. Un'ondata di emozioni irruppe dentro di lei; afferrò la bambina, la sollevò dal letto, l'abbracciò, la tenne stretta. «Melanie, bambina mia, Melanie mia, è tutto passato, andrà tutto bene, ora sei al sicuro, al sicuro con me, grazie a Dio, al sicuro, grazie a Dio.» E mentre parlava scoppiò in lacrime e pianse senza ritegno, senza controllo, come non piangeva da quando era anche lei bambina. Se solo avesse pianto anche Melanie. Ma la bambina era al di là delle lacrime. Non ricambiò neppure l'abbraccio di Laura; rimaneva inerte fra le braccia della madre, un corpo inanimato, cedevole, un guscio vuoto, ignara dell'amore che stava ricevendo, incapace di accettare la protezione che le offriva la madre, lontana, isolata nella sua realtà, smarrita. Dieci minuti dopo, nel corridoio, Laura si asciugava gli occhi con un fazzoletto di carta. Dan Haldane passeggiava nervosamente su e giù. Le sue scarpe cigolavano sulle mattonelle lucidissime del pavimento. Cercava di scaricare, parve a Laura, almeno un po' della rabbia che provava per quanto era accaduto a Melanie. Forse c'erano dei poliziotti più umani di quanto lei avesse creduto. Quello, almeno, sembrava esserlo. «Voglio trattenere Melanie qui», comunicò il dottor Pantangello, «almeno fino a domani pomeriggio. In osservazione.» «Certo», annuì Laura. «Quando sarà dimessa avrà bisogno di una terapia psichiatrica.» Laura fece segno di sì con la testa. «Mi domandavo... ecco, non intenderà prenderla in cura lei stessa, vero?» Laura si mise in una tasca del cappotto il fazzoletto bagnato. «Lei pensa che sarebbe meglio un estraneo, un terapeuta non coinvolto, per occuparsi di lei.» «Sì.» «Ecco, dottore, capisco benissimo il suo punto di vista e nella gran parte dei casi sarei d'accordo. Ma in questo caso no.» «Di solito non è bene che un terapeuta si occupi dei propri figli perché, mi scusi ma è proprio così, un genitore nei confronti del figlio è più esigente che verso un paziente comune, oppure perché lui stesso fa parte del problema.» «Sì. Ha ragione. Di solito. Ma questa volta no. Non sono stata io a fare
questo a mia figlia. Per lei sono praticamente un'estranea come qualsiasi altro psicologo, ma io potrò dedicarle più tempo, più cure, più attenzione di chiunque altro. Per me sarà la mia unica paziente. Mi metterò in congedo dal St. Mark's. Per qualche settimana, eventualmente per qualche mese, passerò i miei pazienti privati a colleghi. Non pretenderò in alcun modo progressi rapidi da lei perché avrò tutto il tempo di cui ho bisogno. Melanie riceverà tutto da me, tutto quanto ho da offrirle come medico, come terapeuta, come madre.» Pantangello parve sul punto di insistere, ma si trattenne. «Allora... le faccio i miei auguri.» «Grazie.» Quando il medico se ne fu andato, lasciando lei e Haldane soli nel corridoio silenzioso, il tenente disse: «È un impegno gravoso». «Sarò in grado di affrontarlo», rispose lei. «Ne sono certo.» «Tornerà a star bene.» «Lo spero.» Dalla stanza delle infermiere, in fondo al corridoio, giunse attutito lo squillo di un telefono. «Ho mandato a chiamare un agente in divisa», riprese Haldane. «Ho pensato che era meglio mettere qualcuno di guardia, nell'eventualità che Melanie abbia assistito agli omicidi. Comunque, fino a domani pomeriggio.» «Grazie.» «Lei non rimarrà qui, no?» «Sì.» «Non troppo a lungo, spero.» «Qualche ora.» «Ha bisogno di riposare, dottoressa McCaffrey.» «Melanie ha bisogno di me. Comunque non riuscirei a dormire.» «Ma, se domani viene a casa, non dovrà prepararle qualcosa?» Laura sbattè gli occhi. «Già. Non ci avevo pensato. Dovrò prepararle una camera. Non può più dormire nella culla, questo è certo.» «Sarà meglio andare a casa», insistè lui dolcemente. «Tra un po'», annuì lei. «Ma non a dormire - non ci riuscirei - solo a preparare la casa per Melanie.» «Vorrei non doverglielo chiedere, ma dovrò farle prelevare un campione di sangue.»
La richiesta la lasciò perplessa. «Perché?» Haldane esitò. Poi: «Vede, con un prelievo del suo sangue, di quello di suo marito e della bambina, possiamo stabilire con un certo margine di sicurezza se lei è veramente sua figlia». «Non ce n'è bisogno.» «È il modo più semplice...» «Ho detto che non ce n'è bisogno», ripetè lei irritata. «È Melanie. È la mia bambina. Lo so.» «Certo», annuì lui comprensivo. «Lo capisco, sono sicuro che è sua figlia. Ma, considerato che non la vede da sei anni, sei anni in cui è cambiata tanto, e visto che la piccola non è in grado di parlare, avremo bisogno di una qualche prova, qualcosa di più del suo istinto, altrimenti il tribunale dei minori potrebbe affidarla a un istituto. Lei questo non lo vorrebbe, vero?» «Dio mio, no.» «Il dottor Pantangello mi dice che hanno già un campione di sangue della bambina. Non ci vorrà più di un minuto per prendere un prelievo del suo.» «D'accordo. Ma dove?» «C'è una sala prelievi accanto alla stanza delle infermiere.» Laura guardò ansiosa la porta chiusa della camera di Melanie. «Possiamo aspettare che arrivi la guardia?» «Certo.» Si appoggiò alla parete. Laura rimase immobile, a fissare la porta. Per spezzare il silenzio, resosi insopportabile, lei riprese: «Avevo ragione, vero?» «Su che cosa?» «Quando ho detto che probabilmente l'incubo non sarebbe finito quando avessimo trovato Melanie, che forse sarebbe appena cominciato.» «Già», commentò lui. «Aveva ragione. Ma se non altro è un inizio.» Laura capì che cosa intendeva dire: avrebbero potuto trovare il corpo di Melanie con gli altri tre, bastonato a morte. Così era meglio. Pauroso, oscuro, opprimente, ma infinitamente meglio. 7 Dan Haldane sedeva alla scrivania che gli avevano assegnato nel suo incarico temporaneo alla East Valley Division. La vecchia superficie di le-
gno era segnata da innumerevoli bruciature di sigarette lungo i bordi, piena di graffi, di incisioni e di decine di anelli scuri sovrapposti lasciati dalle tazze di caffè. Dan non faceva caso all'ambiente. Gli piaceva il suo lavoro e, se necessario, lo avrebbe svolto anche in una tenda. In quell'ora prima dell'alba la East Valley Division era immersa nel silenzio. Gran parte delle vittime potenziali non si era ancora svegliata e anche ai criminali capita di dormire un po'. Gli unici rumori, nella stazione di polizia che funzionava a ranghi ridotti in attesa del primo turno, erano il ticchettio di una macchina per scrivere in una stanza in fondo al corridoio e il fruscio della scopa dell'addetto alle pulizie. Da qualche parte squillava un telefono; anche a quell'ora qualcuno era nei pasticci. Dan aprì la sua vecchia valigetta e ne sparse il contenuto sulla scrivania. C'erano Polaroid dei tre cadaveri rinvenuti nella casa di Studio City, un campione casuale delle carte trovate sul pavimento dell'ufficio di Dylan McCaffrey, dichiarazioni dei vicini, rapporti manoscritti preliminari degli uomini del coroner ed elenchi. Dan era un convinto assertore degli elenchi. Aveva elenchi del contenuto dei cassetti, degli scaffali e degli armadi della casa del delitto, un elenco dei titoli dei libri nel soggiorno, un elenco di numeri telefonici presi da un blocchetto accanto al telefono nell'ufficio di McCaffrey. Aveva anche dei nomi: ogni nome annotato su qualsiasi pezzetto di carta in quella abitazione di Studio City. Finché il caso non fosse stato chiuso li avrebbe portati sempre con sé, tirandoli fuori e rileggendoli ogni volta che aveva un momento libero - a pranzo, in bagno, a letto prima di spegnere la luce - allo scopo di stimolare il subcosciente, con la speranza di raggiungere un'intuizione importante, di imbroccare un collegamento vitale. Stanley Holbein, vecchio amico ed ex partner della sezione RapineOmicidi, una volta, a una festa di Natale della sezione, aveva messo Dan in imbarazzo raccontando una lunga storia molto divertente (e completamente inventata) sul fatto che avrebbe visto alcune delle sue liste più private, tra cui quelle su cui registrava ogni pasto consumato e ogni movimento di viscere dall'età di nove anni. Dan, che era stato lì ad ascoltare, divertito ma rosso in faccia, con le mani nelle tasche del giubbotto, alla fine aveva finto di voler strangolare Stanley ma, togliendo le mani dalle tasche per slanciarsi contro il suo amico, ne aveva accidentalmente fatto uscire una mezza dozzina di liste che si erano sparse sul pavimento provocando l'ilarità generale e costringendolo a una precipitosa ritirata in un'altra stanza. Ora diede una rapida scorsa ai suoi ultimi elenchi, nella vaga speranza
che gli balzasse agli occhi qualcosa, come una figura mobile in un libro tridimensionale per bambini. Niente. Ricominciò da capo ripercorrendo le liste più lentamente. Fra i titoli dei libri non ce n'era nessuno che gli fosse familiare. La biblioteca conteneva un singolare miscuglio di psicologia, medicina, scienze e occultismo. Perché un medico, un uomo di scienze, doveva interessarsi alla chiaroveggenza, ai poteri psichici e ad altri fenomeni paranormali? Lesse da cima a fondo la lista dei nomi. Non ne riconobbe nessuno. Con lo stomaco che gli si rivoltava sempre di più, continuò a esaminare le foto dei cadaveri. In quattordici anni passati nel dipartimento di polizia di Los Angeles e, prima, nei tre anni in Vietnam, di morti ne aveva visti non pochi. Ma questi superavano ogni sua esperienza. Aveva visto uomini dilaniati da una mina in condizioni migliori di quelle. Gli assassini sicuramente dovevano essere più di uno, avevano avuto una forza incredibile o una furia disumana, o entrambe le cose. Le vittime erano state colpite ripetutamente quando già erano morte, ridotte in poltiglia. Che razza di uomini potevano essere quelli che uccidevano in quel modo? Quale folle odio poteva averli spinti a tanto? Prima che potesse concentrarsi su queste domande, fu interrotto da un rumore di passi che si avvicinavano. Ross Mondale si fermò davanti alla scrivania di Dan. Il capitano della divisione era un uomo massiccio, poco più di un metro e settanta, con un paio di spalle potenti. Come sempre, il colore predominante in lui era il marrone: capelli castani; folte sopracciglia castane; occhi nocciola, sottili e attenti; un abito color cioccolato, camicia beige, cravatta marrone scuro, scarpe marroni. L'unico tocco di colore era il rubino scintillante del suo massiccio anello. L'uomo delle pulizie era andato via. C'erano solo loro due nella grande sala. «Sei ancora qui?» chiese Mondale. «No. Sono soltanto un fantoccio di cartapesta. Il mio vero io è al cesso a farsi una pera.» Mondale non sorrise. «Pensavo che ormai te ne fossi tornato alla Centrale.» «Mi sono affezionato a East Valley. Qui la nebbia ha un profumo particolare.» Mondale si accigliò. «Questa riduzione di fondi è una rottura di coglioni. Un tempo, se avevo uno in malattia o in ferie, ce n'erano un mucchio a so-
stituirlo. Ora ci tocca prendere in prestito gli uomini da altre divisioni. È uno schifo.» Dan sapeva che Mondale non sarebbe stato altrettanto seccato per dover prendere personale in prestito, se quel prestito fosse stato chiunque altro. Dan non gli piaceva. E l'antipatia era reciproca. Avevano fatto l'accademia insieme, e in seguito erano stati assegnati alla stessa autopattuglia. Dan aveva chiesto, inutilmente, un altro partner. Alla fine, un incontro con uno squilibrato, un proiettile nel petto e una permanenza all'ospedale procurarono a Dan quello che non era riuscito ad avere con le richieste ufficiali: quando era tornato al lavoro aveva un nuovo partner. Dan era per natura un poliziotto d'azione: gli piaceva stare per strada, dove c'era da agire. Mondale, invece, preferiva l'ufficio. Era un PR nato quanto Itzhak Perlman era nato per suonare il violino. Maestro in sotterfugi, lecchinaggio e adulazione, aveva una capacità fuori del comune nel percepire i mutamenti nelle correnti di potere all'interno della gerarchia del dipartimento, nello schierarsi con i superiori che più potevano essergli utili, nell'abbandonare ex alleati ormai perdenti. Sapeva parlare a politici e giornalisti. Talenti che gli avevano procurato più promozioni di quante ne avesse avute Dan. Si diceva che il nome di Mondale fosse tra le prime posizioni sulla lista dei candidati a capo della polizia. Solo con Dan non riusciva mai a trovare una parola gentile. «Ti sei sbrodolato la camicia, Haldane.» Dan abbassò lo sguardo e vide una macchia color ruggine grossa come una moneta. «Chili», spiegò. «Dovresti saperlo, Haldane, ognuno di noi rappresenta l'intero dipartimento e ha l'obbligo, il dovere di offrire al pubblico una buona immagine.» «Giusto. Non mangerò mai più chili. Solo croissant e caviale, d'ora in poi.» «Hai l'abitudine di sparare spiritosaggini con tutti i superiori?» «No. Solo con te.» «Non ci tengo.» «Non pensavo che ci tenessi.» «Guarda che non ho intenzione di sopportare per sempre le tue stronzate, solo perché eravamo insieme all'accademia.» Non era la nostalgia il motivo per cui Mondale tollerava le battute di Dan, e lo sapevano entrambi. La verità era che Dan era al corrente di qualcosa su Mondale che, se rivelato, avrebbe distrutto la carriera del capitano, qualcosa che era avvenuta quando erano al secondo anno di pattuglia, u-
n'informazione vitale che avrebbe mandato in estasi un ricattatore. Lui, naturalmente, non l'avrebbe mai usata contro Mondale; per quanto lo disprezzasse, non si sarebbe mai abbassato al ricatto. Se i ruoli fossero stati rovesciati, però, Mondale non avrebbe avuto alcuno scrupolo a ricorrere al ricatto o alle rivelazioni per vendetta. Il fatto che Dan continuasse a tacere lasciava perplesso il capitano, lo metteva a disagio, e lo costringeva a muoversi con circospezione ogni volta che si incontravano. «Precisiamo», disse Dan. «Per quanto tempo ancora, esattamente, sopporterai le mie stronzate?» «Non per molto, grazie a Dio. Finito questo turno te ne tornerai alla Centrale», rispose Mondale con un sorriso. Dan si appoggiò allo schienale della poltroncina, facendolo cigolare, e mise le mani dietro la testa. «Mi dispiace di deluderti. Mi avrai fra i piedi per un po'. Mi è toccato un omicidio questa notte. Ora il caso è mio. Immagino che rimarrò qui per tutto il tempo.» Il sorriso del capitano si fuse come un gelato su un piatto caldo. «Intendi dire il triplo uno-otto-sette di Studio City?» «Ah, ecco perché sei arrivato così presto in ufficio. Sei già al corrente. Due psicologi abbastanza noti sono stati liquidati in circostanze misteriose, per cui sai già che la stampa ci si butterà a pesce. Ma tu come hai fatto a saperlo così presto, Ross? Dormi con la radio della polizia accanto al letto?» Ignorando la domanda, Mondale si sedette sull'orlo della scrivania. «Qualche indizio?» «Niente, ma ho le foto delle vittime.» Notò, con soddisfazione, il pallore che si dipinse sul viso di Mondale quando vide le immagini dei corpi massacrati. Il capitano non finì neppure di sfogliare tutta la serie. «Sembrerebbe un furto finito male», azzardò Mondale. «No, no, no! Tutt'e tre le vittime avevano denaro addosso, e ce n'era dell'altro in giro per la casa. Non è stato rubato niente.» «Va bene», replicò Mondale in tono di difesa. «Non lo sapevo.» «Ma dovresti sapere che i ladri uccidono solo se si trovano con le spalle al muro, e fanno una cosa rapida e pulita. Mai una cosa del genere.» «Ci sono sempre delle eccezioni», dichiarò Mondale con aria pomposa. «Perfino le nonne, ogni tanto, rapinano le banche.» Dan scoppiò a ridere.
«Guarda che è vero», insistè Mondale. «Questa è magnifica, Ross.» «Guarda che è vero.» «Mia nonna, no.» «Non ho detto tua nonna.» «Mi vuoi dire che tua nonna rapina le banche, Ross?» «Qualche dannata nonna lo fa, ci puoi scommettere.» «Conosci un allibratore che prende scommesse sulle rapine in banca delle nonne? Se la dà bene potrei metterci cento carte.» Mondale si alzò, si raddrizzò il nodo della cravatta. «Non ti voglio più a lavorare qui, figlio di puttana.» «Be', ti ricordi quella vecchia canzone dei Rolling Stones, Ross? Quella che dice che non sempre si può avere quello che si vuole?» «Posso far arrivare a calci il tuo culo alla Centrale.» «Dovrai farci arrivare anche il resto di me, e il resto di me ha tutte le intenzioni di rimanere qui per un po'.» La faccia di Mondale si fece paonazza, gli occhi gli si gonfiarono, le labbra diventarono bianchissime. Sembrava stesse per scoppiare. Prima che potesse fare qualcosa di brutto, Dan lo anticipò. «Senti, non puoi togliermi questo caso, che è mio fin dall'inizio, senza che io pianti una grana. Conosci le regole. Ma non ho intenzione di litigare con te, mi distrarrebbe solo dal caso. Allora, facciamo una tregua, ti va? Tu stai alla larga da me e io da te.» Mondale non rispose. Respirava affannosamente, pareva non fidarsi di quello che poteva dire. «Noi due non ci siamo troppo simpatici, ma possiamo ugualmente lavorare insieme», riprese Dan, cercando di mostrarsi il più conciliante possibile. «Perché ci tieni tanto a questo caso?» «Mi sembra interessante, ecco perché. La maggior parte degli omicidi sono una noia: un marito uccide l'amichetto della moglie; un matto fa fuori un mucchio di donne perché gli ricordano sua madre; uno spacciatore liquida un altro spacciatore. Tutto questo l'ho visto centinaia di volte. Questo, secondo me, è diverso. Per questo ci tengo. Tutti abbiamo bisogno di variare nella vita, Ross. Ed è per questo che sbagli a vestire sempre di marrone.» Mondale ignorò la frecciata. «Credi che questa volta abbiamo per le mani un caso importante?»
«Tre omicidi: non ti sembra abbastanza importante?» «Dico qualcosa di veramente grosso. Come la famiglia Manson o lo Strangolatore di Hillside o qualcosa del genere?» «Potrebbe darsi. Dipende dagli sviluppi. Ma, sì, ho idea che sarà il tipo di storia che piace ai giornali.» Mondale riflette sulla risposta, con gli occhi persi nel vuoto. «Su una cosa devo insistere», riprese Dan, spingendosi in avanti con la sedia, unendo le mani sul piano della scrivania e assumendo un'espressione decisa. «Se devo essere responsabile di questo caso, non voglio perdere tempo a parlare con i giornalisti, a concedere interviste. Devi assolutamente tenermeli alla larga. E poi in queste cose non ci so fare.» Gli occhi di Mondale ripresero espressione. «Be', certamente. La stampa può essere una rottura. Lasciali a me.» «Benissimo.» «E riferisci a me, esclusivamente a me.» «Certamente.» «Rapporti quotidiani, aggiornati al minuto.» «Come vuoi.» Mondale lo fissò per un attimo, incredulo davanti a tanta cedevolezza, ma non disposto a metterla alla prova. Chiunque ama sognare. Persino uno come Ross Mondale. «Con tanta carenza di personale», disse Dan, «non hai molto da fare?» Il capitano si girò, si avvicinò verso il suo ufficio, ma dopo qualche passo si fermò. «Dan, finora abbiamo due psicologi di una certa importanza morti, e la gente importante tende a conoscere altra gente importante, per cui ti capiterà di frequentare un ambiente diverso da quello a cui sei abituato quando ti capita uno spacciatore liquidato. A parte questo, se effettivamente il caso si rivela scottante e richiama l'attenzione della stampa, tu e io avremo probabilmente colloqui con il capo, con membri della commissione, forse persino con il sindaco.» «E allora?» «E allora non pestare i piedi a nessuno.» «Non preoccuparti, Ross, non ho intenzione di ballare con nessuno di loro.» Mondale scosse la testa. «Cristo.» Dan guardò il capitano allontanarsi. Quando fu di nuovo solo, ritornò ai suoi elenchi.
8 Il cielo si stava schiarendo, dal nero al grigio scuro. L'alba non era ancora spuntata dalla sua tana, ma si avvicinava, e sarebbe emersa dall'orizzonte montagnoso entro dieci o quindici minuti. Il parcheggio del Valley Medical era quasi deserto, una scacchiera di ombre e luci a distanza regolare. Seduto al volante della sua Volvo, Ned Rink assisteva con dispiacere al finire della notte. Era una persona notturna, lui, un gufo più che un'allodola. Non gli riusciva di funzionare bene, di pensare con chiarezza, prima del pomeriggio, e raggiungeva la piena forma solo dopo la mezzanotte; era un fatto genetico, ereditario: anche per sua madre era stato così. Ma vivere di notte era anche una questione di scelta: nelle tenebre si sentiva più a suo agio. Era un uomo brutto, e lo sapeva. Alla luce del giorno era troppo esposto, mentre la notte, ne era convinto, ammorbidiva un po' la sua bruttezza e la rendeva meno appariscente. La sua fronte, bassa e spiovente, suggeriva un'intelligenza limitata, ma in realtà era tutt'altro che stupido. Gli occhi, piccoli, erano troppo vicini, il naso troppo grosso, e tutti gli altri tratti sembravano disegnati in maniera approssimativa. Non era alto, sì e no un metro e settanta; le spalle larghe e le lunghe braccia e il torace a barilotto mal si adattavano alla sua struttura. Per questo, da bambino, aveva dovuto sopportare le crudeli prese in giro dei suoi compagni che lo chiamavano «scimmia». Il risultato era stato un'ulcera già a tredici anni. Ma oggi Ned Rink non le accettava più da nessuno, quelle cose; oggi, se qualcuno si permetteva di sfotterlo, lo ammazzava. Era un sistema fantastico per combattere lo stress. Prese la ventiquattrore nera dal sedile accanto al suo. Conteneva un camice bianco, un asciugamano da ospedale bianco, uno stetoscopio e una Walter .45 semiautomatica dotata di silenziatore e caricata con proiettili a punta cava rivestiti di teflon per assicurare la penetrazione anche in un giubbotto antiproiettile. Non gli fu necessario aprire la valigetta per essere sicuro che ci fosse tutto: l'aveva preparata lui stesso meno di un'ora prima. Il suo programma era entrare nell'ospedale, dirigersi alle toilette del pubblico sull'atrio, togliersi l'impermeabile, indossare il camice, avvolgere la pistola nell'asciugamano e puntare direttamente verso la camera 256, dove avevano portato la bambina. Gli avevano detto di aspettarsi un poliziotto di guardia alla porta. Bene. Sapeva come fare. Avrebbe finto di essere un medico, trovato una scusa per portare il poliziotto nella camera della
bambina, dove le infermiere non potevano vedere; quindi avrebbe sparato a lui e alla bambina. Poi il colpo di grazia: un proiettile per ciascuno nell'orecchio, giusto per assicurarsi che fossero morti. Compiuto il lavoro, Rink sarebbe ritornato immediatamente alla toilette, avrebbe ripreso l'impermeabile e la ventiquattrore e sarebbe uscito. Era un piano semplice, pulito: non c'era praticamente nulla che potesse andare storto. Prima di aprire lo sportello della Volvo, guardò attentamente in giro per il parcheggio, per accertarsi di non essere osservato. Il temporale era cessato già da mezz'ora, ma una nebbia sottile indicava ancora la direzione della brezza leggera, avvolgendosi in lente volute, rivestendo alcuni oggetti, distorcendone l'aspetto. L'asfalto del parcheggio era punteggiato di pozzanghere di pioggia che rimandavano il riflesso giallastro della luce dei lampioni. A parte il fluttuare della nebbia, la notte era assolutamente immobile. Rink concluse che era solo, che nessuno lo vedeva. Verso oriente, il cielo grigiastro stava assumendo una vaga sfumatura opalescente, di un azzurro rosato. Il primo barlume del viso raggiante dell'alba. Ancora un'ora e la tranquilla routine notturna dell'ospedale avrebbe lasciato il posto all'affaccendarsi del giorno. Era tempo di muoversi. Non vedeva l'ora di dedicarsi al lavoro che lo aspettava. Non aveva mai ucciso un bambino. Doveva essere interessante. 9 Sola nella stanza, la bambina si svegliò, si drizzò a sedere nel letto, cercando di urlare. La sua bocca era spalancata, i muscoli del collo tesi, i vasi sanguigni nella gola e alle tempie gonfi e pulsanti per lo sforzo, ma non produceva alcun suono. Rimase seduta così per mezzo minuto, con le manine strette al lenzuolo inzuppato di sudore, gli occhi sbarrati. Non vedeva qualcosa che era lì presente, non reagiva a qualcosa che era nella stanza. Il terrore era al di là di quelle mura. Poi, per un momento, lo sguardo le si schiarì, prese coscienza della camera dell'ospedale. Parve accorgersi per la prima volta di essere sola. Il suo sguardo atterrito mostrava il suo disperato bisogno di qualcuno, di qualcuno a cui aggrapparsi, di un contatto umano, di calore umano. «Ehi», bisbigliò. «C-c-c'è qualcuno? Qualcuno? Qualcuno? Mamma?» Se ci fosse stato qualcuno, forse la sua attenzione sarebbe stata totalmen-
te catturata da questi e distolta definitivamente da quell'orrore. Da sola, però, non poteva strapparsi alla visione da incubo che la attanagliava e, dopo quel brevissimo momento di lucidità, i suoi occhi tornarono, vitrei e il suo sguardo tornò a fissarsi su una scena di un altro luogo, di un'altra dimensione. Infine, con un guaito disperato, scese dal letto. Fece barcollando un paio di passi, poi cadde in ginocchio. Ansimando, con il respiro sibilante del panico, strisciò verso la metà buia della stanza, oltre il letto non occupato, nell'angolo dove le ombre tenevano silenzioso raduno. Si sedette con le spalle al muro, le ginocchia tirate su, le braccia avvolte alle gambe sottili, stringendosi in un nodo impenetrabile. Dopo solo un minuto cominciò a piagnucolare e a miagolare come una bestiola spaventata. Si coprì la faccia con le mani, come per difendersi da una visione insopportabile. Poi, con un respiro corto e rapido, con il panico che cresceva, abbassò le mani, a pugno, e si colpì il petto, forte, più forte, molto più forte di quanto sarebbe bastato a farle sentire male, se fosse stata in grado di sentire qualcosa. «La porta», disse piano, con un tono di voce che era l'immagine stessa della paura e dell'orrore. «La porta... la porta...» Non era la porta della stanza a spaventarla, né quella del bagno adiacente. Non guardava nessuna delle due. Sembrava di nuovo inconsapevole del mondo che la circondava, ma concentrata su qualche ricordo da incubo, su qualche regno immaginario, vedendo cose che nessun altro poteva vedere. Sollevò le mani, le tenne davanti a sé, come spingendo una porta invisibile, nel tentativo frenetico di tenerla chiusa. I muscoli magri delle sue braccine sottili si gonfiarono, e poi i gomiti le si piegarono, come se quella porta invisibile avesse davvero un peso, come se si stesse davvero aprendo contro i suoi sforzi, come se qualcosa, dall'altra parte, la spingesse. Qualcosa di grande, di incredibilmente forte. D'un tratto, con un sussulto, balzò via dall'angolo in ombra e si infilò sotto il letto vuoto strisciando fino al muro. Qui si fermò e si raggomitolò in posizione fetale, mormorando qualcosa, tentando disperatamente di nascondersi dall'immagine - ricordo o incubo - che l'aveva catapultata fuori dal sonno. «La porta», ripetè. «La porta... la porta di dicembre...» Con le braccia incrociate sul petto, le dita serrate attorno alle spalle ossute, cominciò a piangere sommessamente. «Aiuto, aiutatemi.» Ma il mormorio di invocazione era così flebile che
non poteva arrivare fino al corridoio, dove le infermiere avrebbero potuto udirlo. Se qualcuno avesse risposto al suo grido, Melanie molto probabilmente si sarebbe abbarbicata a quella persona in preda a un muto terrore, senza riuscire a liberarsi dalla cappa di autismo che la proteggeva da un mondo per lei intollerabilmente crudele. Eppure, anche quel minimo contatto con un altro essere umano, nel momento in cui lei lo avesse voluto, sarebbe stato un piccolo primo passo verso la ripresa in un momento cruciale, quella prima notte libera dal controllo di suo padre. Ma nessuno aveva previsto che potesse parlare così presto, che potesse così presto cercare un contatto. Per una bambina in uno stato catatonico profondo come il suo cercare conforto in modo così improvviso e disperato era una cosa assolutamente insolita. Così, con le migliori intenzioni, l'avevano lasciata sola, perché riposasse, e la sua accorata preghiera - due braccia che la confortassero, una voce rassicurante - cadde nel vuoto. Rabbrividì. «Aiuto.» Il richiamo si sciolse in un verso sommesso di pura, nera disperazione. Un'angoscia terribile, totale, un'angoscia intollerabile. Ma, dopo un momento, il suo respiro si fece meno agitato, meno spezzato, tornò regolare. Il pianto si calmò. Rimase sdraiata in silenzio, assolutamente immobile, come profondamente addormentata. Ma nel buio, sotto il letto, i suoi occhi erano ancora spalancati, fissi, pieni di angoscia e di terrore. 10 Quando rientrò a casa, prima dell'alba, Laura preparò il caffè e se ne portò una tazza nella camera degli ospiti dove l'avrebbe sorseggiato mentre spolverava i mobili, preparava il letto e organizzava il posto per Melanie. Pepper, la sua gatta color ruggine di quattro anni, continuava a starle fra i piedi, strofinandosi alle sue gambe e chiedendo con insistenza, a suo modo, di essere accarezzata, coccolata. Pareva intuisse che stava per essere soppiantata nella sua posizione privilegiata in casa. Per quattro anni, Pepper era stata una sorta di sostituta della figlia, una valvola di sfogo per le energie materne che Laura non aveva potuto riversare sulla bambina. Sei anni prima, quando Dylan era sparito, ripulendo i conti in banca e lasciandola senza liquidi a disposizione, Laura era stata costretta a farsi in quattro per mantenere la casa. Non era una reggia, ma un'abitazione piutto-
sto spaziosa, in stile spagnolo, a Sherman Oaks dal «lato giusto» di Ventura Boulevard, su una strada dove molte case erano fornite di piscina, dove quasi tutti i bambini frequentavano scuole private, e dove i cani di famiglia non erano bastardini ma pastori tedeschi, spaniel, golden retriever, aire dale, dalmata, tutti con pedegree e registrati presso l'American Kennel Club. La casa era seminascosta dagli alberi del corallo, i ficus benjamina, i cespugli di ibisco rossi e viola, le azalee, e da una siepe di buganvillea con una fitta bordura variopinta di balsamina lungo il vialetto di mattoni che portava all'ingresso. Laura era orgogliosa della sua casa. Tre anni prima, quando aveva deciso di smettere di pagare investigatori privati perché cercassero Dylan e Melanie, aveva cominciato a investire i suoi risparmi in piccoli progetti di ristrutturazione della casa: zoccolature e stipiti delle porte in quercia scura; una nuova piastrellatura blu nella stanza da bagno principale, con apparecchi di ceramica bianca e rubinetteria dorata. Aveva eliminato il giardino orientale di Dylan dal prato posteriore perché le ricordava troppo il marito, e lo aveva sostituito con venti specie differenti di rose. In un certo senso, la casa aveva preso il posto della figlia che le era stata portata via: la curava, l'accudiva, l'abbelliva, la guidava verso la maturità. Il suo impegno a tenere la casa in buone condizioni non era dissimile dalle premure di una madre verso la salute di un figlio. Ormai poteva smettere di sublimare quegli istinti. La sua Melanie finalmente tornava a casa. Pepper miagolò. Laura la sollevò da terra, portandola all'altezza degli occhi, con le zampe ciondolanti. «Non temere, terrore dei topi, ci sarà ancora affetto a sufficienza per una vecchia, misera gatta.» Squillò il telefono. Lei rimise giù la gatta, attraversò il corridoio fino alla camera da letto principale, sollevò il ricevitore. «Pronto?» Nessuna risposta. Dall'altra parte del filo ci fu un momento di esitazione, poi riattaccarono. Laura rimase a fissare il telefono, a disagio. Forse qualcuno aveva sbagliato numero. Ma in quella notte fuori del comune, poco prima dell'alba, una telefonata seguita dal silenzio all'apparecchio richiamava sinistri presentimenti. Controllò di aver chiuso le porte. Sentiva che era una reazione inadeguata, ma non le venne in mente altro. Cercò, sempre a disagio, di scrollarsi di
dosso la tensione, e infine tornò nella stanza vuota che un tempo era stata la camera della bambina. Due anni prima aveva eliminato il mobilio infantile di Melanie, quando era arrivata ad accettare l'idea che la figlia scomparsa era ormai diventata troppo grande. Non aveva riarredato la stanza dicendosi che quando Melanie fosse ritornata sarebbe stata abbastanza grande da esprimere una sua preferenza sui mobili; ma, in realtà, l'aveva lasciata vuota perché, nel profondo del cuore, senza poterlo ammettere apertamente, sentiva che Melanie non sarebbe mai più tornata, che la bambina era scomparsa per sempre. Qualche giocattolo della figlia, però, l'aveva conservato. Prese lo scatolone dei vecchi giochi dal guardaroba e vi frugò dentro. Una bambina di nove anni non ha molto in comune con una di tre, ma Laura trovò due giocattoli che potevano ancora piacere a Melanie: Ann, una grande bambola di pezza un po' macchiata, e un orsacchiotto più piccolo, con le orecchie flosce. Li portò nella camera degli ospiti e li sistemò sui cuscini, appoggiati alla testata del letto, così che Melanie li vedesse appena entrata nella stanza. Pepper saltò sul letto, si avvicinò alla bambola e all'orsacchiotto con curiosità e trepidazione. Li annusò, poi si acciambellò accanto a loro: aveva deciso che potevano essere amici. I primi raggi di sole entravano dalle finestre. Il colore della luce del mattino, che passava dal grigio al dorato e ancora al grigio, fece capire a Laura, anche senza guardare il cielo, che la pioggia era cessata e che le nuvole si stavano un po' diradando. Pur avendo dormito solo tre ore, quella notte, e benché la figlia non avrebbe lasciato l'ospedale prima di sei o otto ore, Laura non aveva voglia di tornare a letto. Si sentiva sveglissima, piena di energia. In cucina, si preparò una spremuta di due arance, di quelle grandi, mise un pentolino d'acqua sul fornello, prese una scatola di farina d'avena e un pacchetto di uva passa da un pensile, e infilò due fette di pane nel tostapane. Uscì dalla porta anteriore a prendere il giornale del mattino avvolto nella plastica. Cominciava ad albeggiare e aveva smesso di piovere; le nuvole si stavano anche un po' diradando. Ritornò in cucina, finì di preparare la colazione, e quando si sedette a tavola si accorse che stava canticchiando. Sua figlia tornava a casa. La prima pagina del giornale - le agitazioni in Medio Oriente, gli scontri in America centrale, le macchinazioni dei politici, le aggressioni, le rapine, gli omicidi - non l'avrebbe avvilita o preoccupata, proprio quella mattina.
Degli omicidi di Dylan, Hoffritz e dello sconosciuto non c'era traccia: evidentemente erano stati scoperti troppo tardi per essere nella prima edizione. Se quegli omicidi fossero stati riportati dal Los Angeles Times, forse non si sarebbe sentita così su di giri. Ma non se ne faceva parola e Melanie sarebbe stata dimessa dall'ospedale quel pomeriggio e tutto considerato aveva vissuto mattine peggiori di quella. Sua figlia tornava a casa. Quando ebbe finito la colazione, spinse via il giornale e rimase seduta a guardare dalla finestra il roseto umido, dove i fiori bagnati dalla pioggia spiccavano vividissimi sotto i raggi del sole, di un colore innaturale come fiori in un sogno. Perse la cognizione del tempo: poteva essere seduta lì da due minuti come da dieci quando un tonfo e uno scalpiccio in un'altra parte della casa la distolsero improvvisamente dalle sue fantasticherie. Per un momento si drizzò a sedere, rigida, tesa, impaurita, con la mente affollata dalle immagini di pareti macchiate di sangue, di forme morte e fredde in opachi sacchi di plastica. Ma Pepper spezzò quel momento di angoscia piombando in cucina dalla sala da pranzo. Si rifugiò in un angolo, vi si fermò sulle quattro zampe, con i peli ritti lungo il dorso, le orecchie appiattite, fissando la porta da cui era arrivata. Dopo un momento lanciò un'occhiata a Laura e con una comica espressione di imbarazzo finse la massima disinvoltura, si accoccolò sul pavimento, sbadigliò e rivolse gli occhi assonnati a Laura, come per dire: «Io? Io perdere la mia dignità felina? Mai!? Nemmeno per un momento! Io spaventata? Ridicolo!» «Che cosa fai, micia? Hai rovesciato qualcosa? Hai avuto paura?» La gatta sbadigliò di nuovo. «Sarà meglio per te se non era niente di fragile», la minacciò Laura, «altrimenti ti trasformo in quei paraorecchie di pelo che desidero da tanto tempo.» Andò in giro per la casa alla ricerca del danno fatto da Pepper e lo trovò nella camera degli ospiti. L'orsacchiotto e la bambola erano a terra. Per fortuna la gatta non li aveva svuotati dell'imbottitura. La sveglia era caduta dal comodino. Laura la raccolse e vide che funzionava ancora; neppure il vetro si era rotto. La rimise al suo posto e sistemò di nuovo i giocattoli sul letto. Strano. Erano anni che Pepper aveva superato la fase dei disastri. Ormai era una gatta tranquilla, grassoccia, soddisfatta. Quel comportamento non
era nel suo carattere, un'altra indicazione del fatto che sentiva che ormai non era più la seconda, dopo Laura, in ordine di importanza in casa McCaffrey. Nella cucina, la gatta era ancora nell'angolo. Laura versò del cibo nella scodella di Pepper. «Ti è andata bene che non si è rotto niente. Non ti avrebbe fatto piacere fare da paraorecchie.» Pepper si mise a sedere, con le orecchie ritte. Laura battè la ciotola con la scatoletta vuota di Nine Lives. «Si mangia, feroce ammazzatopi.» Pepper non si mosse. «Lo mangerai quando ne avrai voglia», concluse Laura, portando il barattolo vuoto al lavandino per sciacquarlo prima di gettarlo nell'immondizia. Di scatto, Pepper schizzò via dall'angolo, attraversò come un fulmine la cucina, imboccò la porta della sala da pranzo, scomparve. «Matta di una gatta», mormorò Laura, guardando perplessa la ciotola gialla intatta di Nine Lives. Di solito Pepper ci si buttava sopra prima ancora che lei avesse finito di vuotare il barattolo. Strano. PARTE SECONDA Nemici senza volto Mercoledì ore 13.00 — 19.45 11 All'una del pomeriggio, quando Laura giunse con la sua Camaro azzurra al Valley Medical, un poliziotto in uniforme all'ingresso del parcheggio principale le bloccò la strada, indirizzandola verso il parcheggio del personale, che era stato aperto al pubblico «finché non sistemiamo le cose». Dietro di lui, a una ventina di metri, c'era un gruppo di auto della polizia e altri veicoli ufficiali, alcuni dei quali con i lampeggiatori in funzione. Mentre si dirigeva al punto indicatogli dalla guardia, Laura lanciò un'occhiata verso destra, al di là della cancellata, e vide il detective Haldane, il più alto e robusto degli uomini raggnippati attorno alla scena dell'incidente, o del delitto, o di quello che fosse, e fu allora che le balenò l'idea che
potesse entrarci in qualche modo Melanie e i delitti in quella casa di Studio City. Quando ebbe parcheggiato, mentre tornava di corsa verso l'ingresso dell'ospedale, Laura era ormai quasi convinta che Melanie fosse ferita, o scomparsa, o morta. Il poliziotto al cancello non aveva voluto lasciarla passare, neppure quando lei gli aveva detto chi era; lanciò un richiamo ad Haldane, che le si precipitò incontro. Notò che zoppicava lievemente, così lievemente che non se ne sarebbe neppure accorta se i suoi sensi non fossero stati affilati dalla paura. La prese per un braccio e la condusse via dall'ingresso, lungo la cancellata, fino a un punto dove potessero parlare in privato. Mentre camminavano, lei domandò: «Melanie? Che cos'è successo a Melanie?» «Niente.» «Mi dica la verità!» «È questa la verità. È nella sua camera. Al sicuro. Così come l'ha lasciata lei.» Si fermarono; lei, con le spalle alla recinzione, guardò oltre Haldane, verso le luci pulsanti dei segnalatori di emergenza. Vide che insieme con le autopattuglie c'era un furgone dell'obitorio. No, non era giusto. Trovare Melanie dopo tanti anni e poi riperderla così presto... non poteva pensarci. Sentiva una stretta al petto, le tempie che le martellavano. «Chi è morto?» «L'ho chiamata a casa...» «Voglio...» «... cercando di mettermi in contatto con lei...» «... sapere...» «... per un'ora e mezzo.» «... chi è morto!» «Mi stia a sentire, non è Melanie. È chiaro?» La sua voce era curiosamente morbida, gentile, rassicurante, per un uomo della sua corporatura. «Melanie sta bene. Davvero.» Lei studiò il suo viso, i suoi occhi. Le stava dicendo la verità. Melanie stava bene. Ma lei era ancora terrorizzata. «Sono tornato a casa solo alle sette di stamattina», spiegò Haldane. «Mi ero messo a letto. Alle undici mi hanno telefonato chiamandomi qui, al Valley Medical. Pensano che possa esserci un legame fra questo omicidio e Melanie, visto che...»
«Visto che...?» «Be', dopotutto è ricoverata qui. Per questo ho cercato di raggiungerla...» «Ero uscita a comprarle dei vestiti», disse Laura. «Che cos'è successo? Chi è morto? Vuole dirmelo o no, per l'amor di Dio?» «Un tale nella sua auto. Quella Volvo là in fondo. Morto sul sedile anteriore della sua Volvo.» «Chi è?» «Secondo i documenti, si chiama Ned Rink.» Laura si appoggiò al reticolato metallico, sentendo che il battito frenetico del suo cuore cominciava a rallentare. «Ha mai sentito questo nome?» chiese Haldane. «Ned Rink?» «No.» «Pensavo che potesse essere collegato con suo marito. Come Hoffritz.» «Non mi risulta. Il nome non mi dice niente. Perché pensa che conoscesse Dylan? Per come è morto? È questo? È stato picchiato a morte come gli altri?» «No. Ma era fuori del comune.» «Mi dica.» Dan esitò, e nell'espressione dei suoi occhi azzurri lei poté vedere che si trattava di un altro omicidio particolarmente brutale. «Mi dica», ripeté. «Aveva la gola distrutta, come se qualcuno gli avesse dato un colpo spaventoso con un tubo di piombo, cogliendolo giusto sul pomo d'adamo. Più di un colpo. Danni vastissimi. La trachea letteralmente polverizzata, il pomo d'adamo sbriciolato, le corde vocali in pezzi. Le vertebre del collo fratturate.» «Va bene, va bene», disse lei con la bocca secca. «Il quadro mi è chiaro.» «Mi scusi. Comunque, questo non è come i cadaveri a Studio City, ma è ugualmente fuori del comune», riprese Haldane. «È per questo, vede, che abbiamo pensato a una relazione tra i due casi. In tutti questi omicidi è stata impiegata una dose di violenza fuori del normale. In quest'ultimo molto inferiore, certamente, ma ciononostante...» Laura si allontanò dall'inferriata. «Voglio vedere Melanie.» Improvvisamente doveva vederla; era un impellente bisogno fisico; doveva toccarla, stringerla, assicurarsi che la bambina stesse davvero bene. Si diresse verso l'ingresso principale dell'ospedale. Haldane la raggiunse,
zoppicando lievemente, ma evidentemente in modo non doloroso. «Ha avuto un incidente?» gli domandò lei. «Come?» «La sua gamba.» «Oh. No. Una vecchia ferita da football al college. A volte, quando è umido, il ginocchio si fa sentire. Senta, c'è dell'altro a proposito di quel Rink.» «Che cosa?» «Aveva una ventiquattrore con sé. Dentro c'era un camice bianco, uno stetoscopio e una pistola con il silenziatore.» «Ha sparato all'aggressore, state cercando qualcuno con una ferita da arma da fuoco?» «No. La pistola non ha sparato. Ma capisce dove voglio arrivare? Il camice? Lo stetoscopio?» «Non era un medico?» «No. La nostra ipotesi è che intendesse entrare nell'ospedale, mettersi il camice, infilare lo stetoscopio e fingersi un medico.» Laura gli lanciò un'occhiata. «Perché una cosa del genere?» «Be', da un esame preliminare risulta che Rink sarebbe stato ucciso fra le quattro e le sei di questa mattina, anche se l'hanno trovato solo verso le dieci meno un quarto. Ora, se aveva in mente di visitare qualcuno all'ospedale alle cinque, diciamo, l'unico modo per farlo era farsi passare per un dottore, perché le ore di visita iniziano all'una del pomeriggio. Se avesse tentato di girare per i corridoi in abiti civili a quell'ora sarebbe stato notato e fermato da qualche infermiera, o forse da qualcuno del personale di guardia. In camice bianco e con lo stetoscopio, invece, forse ce l'avrebbe fatta.» Avevano raggiunto l'ingresso principale dell'ospedale. Laura si fermò sul marciapiede, girandosi verso Haldane. «Quando dice 'visitare' lei non intende 'visitare'.» «No.» «Quindi pensa che intendesse entrare per uccidere qualcuno.» «Non si va in giro con una pistola con il silenziatore se non si ha intenzione di usarla. Un silenziatore è illegale. La legge ci va giù dura. Se gliene trovano uno, lei è nella m... nelle peste. E poi non ho ancora esaminato i particolari, ma mi hanno detto che questo Rink ha precedenti penali. Si sospetta che negli ultimi anni abbia lavorato come esecutore indipendente.» «Un killer a pagamento?»
«Sarei pronto a scommetterci.» «Ma questo non vuol dire che sia venuto qui per Melanie. Potrebbe esserci qualcun altro nell'ospedale...» «Ci abbiamo pensato. Stiamo controllando l'elenco dei pazienti per vedere se c'è qualcuno che abbia precedenti o magari un testimone che dovrà deporre. O qualche spacciatore o un membro di una famiglia della criminalità organizzata. Finora non abbiamo trovato niente. Nessuno che potesse essere il bersaglio di Rink... tranne Melanie.» «Lei sta dicendo che questo Rink potrebbe aver ucciso Dylan e Hoffritz e l'altro uomo a Studio City, e poi è venuto qui a uccidere Melanie perché la bambina l'ha visto?» «Potrebbe darsi.» «Ma allora chi ha ucciso Rink?» Lui sospirò. «È qui che il ragionamento logico casca.» «Chi l'ha ucciso non voleva che uccidesse Melanie», considerò Laura. Haldane si strinse nelle spalle. «Se è così», riprese Laura, «sono contenta.» «Che c'è da essere contenti?» «Be', se qualcuno ha fatto fuori Rink per impedirgli di ucciderla, deve significare che Melanie non ha soltanto nemici, ma anche qualcuno che la protegge.» Haldane non cercò di simulare la sua pena. «No, non significa necessariamente questo. È probabile che chi ha ucciso Rink voglia Melanie tanto quanto la voleva lui solo che loro la vogliono viva.» «Perché?» «Perché lei sa troppe cose sugli esperimenti che si facevano in quella casa.» «Ma allora la vorrebbero anche loro morta, come Rink.» «A meno che non abbiano bisogno di lei per continuarli, quegli esperimenti.» Laura avvertì immediatamente che quanto aveva detto lui era vero, e sentì sulle spalle il peso di questa nuova paura. Perché Dylan stava lavorando con un fanatico screditato come Hoffritz? E chi li finanziava? Nessun ente legittimo, università o istituto di ricerca avrebbe concesso dei fondi a Hoffritz, a uno che era stato sbattuto fuori dall'UCLA. Né a Dylan, un uomo che aveva rapito sua figlia e si nascondeva ai legali di sua moglie, un uomo che usava la sua bambina come cavia in esperimenti che l'avevano portata sull'orlo dell'autismo. Chiunque avesse sborsato quel dena-
ro per sostenere Dylan e condurre quel genere di esperimenti doveva essere folle, folle quanto Dylan e Hoffritz. Desiderò che fosse tutto passato, finito. Desiderò portar via Melanie dall'ospedale, andare a casa, e vivere felice e contenta per sempre, perché se c'era qualcuno al mondo che meritava pace e felicità questo era la sua bambina, ma ora «loro» non lo permettevano. «Loro» cercavano di riprendersi Melanie. «Loro» volevano la bambina per motivi e scopi che solo «loro» conoscevano. Ma chi erano? Senza volto. Senza nome. Laura non poteva combattere un nemico che non poteva vedere o, vedendolo, riconoscere. «Sono bene informati», disse. «E non perdono tempo.» Haldane sbattè le palpebre. «In che senso?» «Melanie era in ospedale solo da un paio d'ore, quando è arrivato Rink. Non gli ci è voluto molto tempo per scoprire dove era stata portata.» «No, infatti», annuì lui. «Farebbe pensare che avesse degli informatori.» «Può darsi. E non hanno impiegato molto tempo nemmeno quegli altri a scoprire che Rink era sulle sue tracce», continuò Laura. «Si muovono tutti rapidamente.» Ferma lì, davanti alla porta principale dell'ospedale, irrazionalmente anche il sole e l'aria tiepida le facevano rabbia. Haldane le aveva appena detto che qualcuno voleva morta sua figlia e che qualcun altro voleva impadronirsi di Melanie e rificcarla in una camera di privazione sensoriale o forse su un'altra sedia elettrica casalinga, dove potessero continuare a torturarla per Dio sa quale scopo; e per una notizia di quel genere l'atmosfera era tutta sbagliata. Il temporale non doveva essere già passato. Il cielo doveva essere ancora basso e grigio, pieno di nuvole, la pioggia doveva cadere ancora, il vento doveva soffiare raffiche fredde. Le sembrava ingiusto che il mondo attorno a lei fosse così dolce, che la gente passeggiasse al sole, fischiettando e sorridendo, mentre lei sprofondava sempre più giù in un tormentoso, nero incubo vivente. Guardò Haldane. La lieve brezza gli agitava i capelli biondi e il sole ravvivava i suoi gradevoli lineamenti, rendendolo più bello di quanto fosse in realtà. In effetti, era un uomo attraente. In altre circostanze, venne da pensare a Laura, sarebbe stata contenta di conoscerlo, avrebbe anche provato interesse per lui, per quel che di mistico che nasceva in lui dal netto contrasto tra il fisico quasi brutale e la dolcezza dei modi. E ora il potenziale buttato via di questo rapporto era una colpa
in più che lei attribuiva a loro, quei «loro» ignoti. «Perché aveva tanta fretta di parlarmi?» volle sapere. «Perché mi ha chiamato per un'ora e mezzo? Non sarà stato solo per dirmi di Rink. Sapeva che sarei venuta qui, avrebbe potuto aspettare per darmi la brutta notizia.» Lui volse lo sguardo verso il parcheggio, da dove il furgone dell'obitorio stava allontanandosi. Quando tornò a guardare Laura, la sua espressione era preoccupata. «Volevo dirle di mettersi in contatto con qualcuno che la protegga quando Melanie sarà tornata a casa.» «Una guardia del corpo?» «Sì, più o meno.» «Ma, se la sua vita è in pericolo, non sarà la polizia ad assicurare la protezione?» Lui scosse la testa. «In questo caso no. Non c'è stata alcuna minaccia diretta alla sua vita. Niente telefonate, niente lettere.» «Rink...» «Non sappiamo per certo che fosse qui per Melanie. Lo sospettiamo soltanto.» «Eppure...» «Se il bilancio statale cittadino non fosse sempre in emergenza, se i fondi della polizia non fossero stati tagliati, se non fossimo cronicamente a corto di personale, forse potremmo riuscire a farle sorvegliare la casa. Ma, data la situazione, non sarei in grado di giustificarlo. E se lo organizzassi senza l'approvazione del mio capo, con cui tra l'altro già non vado d'accordo, finirei come mangime per i cani. Ma un servizio di sicurezza, guardie del corpo professioniste, possono offrire una protezione efficace quanto la nostra. Può permettersi di pagarla, solo per qualche giorno?» «Penso di sì. Non ho idea di quanto costi una cosa del genere, ma qualcosa da parte ce l'ho e se si tratta di pochi giorni...» «Ho il sospetto che la cosa si svilupperà in fretta. Tutti questi omicidi, tutti i rischi che stanno correndo, tutto indica che sono sotto pressione, che c'è una sorta di scadenza. Non ho la minima idea di cosa stessero facendo alla sua bambina o di perché vogliano così disperatamente metterle le mani addosso, ma ho la sensazione che ci troviamo di fronte a una gigantesca palla di neve che rotola da una montagna, veloce come un treno, che diventa sempre più grande, a valanga. In questo momento è già enorme, gigantesca, inarrestabile, e non è lontana dal fondo, e quando ci arriverà esploderà in mille pezzi.»
Come psicologa infantile, un'ottima psicologa, era sempre sicura di sé, mai incerta su come procedere con un nuovo paziente. Certo, prima di scegliere una terapia, rifletteva a lungo, ma una volta deciso non esitava mai ad applicarla. Era una guaritrice, una «riparatrice» della psiche, con una serie impeccabile di successi alle spalle, successi che le avevano dato quella sicurezza e quell'autorità che producono sempre nuovi successi. Ma ora era smarrita, si sentiva piccola, vulnerabile, impotente. Era una sensazione nuova, che non provava da molti anni, che non aveva più provato da quando aveva imparato ad accettare la scomparsa di Melanie. «Non so... non so neppure come... come si fa a cercare una guardia del corpo.» Lui tirò fuori il portafogli, vi frugò, ne estrasse un biglietto. «Non dovremmo fare raccomandazioni. Ma so che questi sono bravi, e hanno tariffe concorrenziali; più che concorrenziali, ragionevoli.» Lei prese il biglietto da visita e lo guardò: CALIFORNIA PALADIN, INC. Investigazioni private Sicurezza personale In fondo c'era un numero di telefono. Laura infilò il biglietto nella borsa. «Grazie.» «Li chiami prima di lasciare l'ospedale.» «Va bene.» «Faccia mandare un uomo qui. Vi seguirà fino a casa.» «D'accordo.» Si sentiva intontita. Si volse verso la porta dell'ospedale. «Un momento.» Le porse un altro biglietto, il suo. «Il numero stampato sul davanti è il mio telefono alla Centrale, ma lì non mi troverà. In questo momento sono assegnato alla East Valley Division: il numero l'ho scritto sul retro. Mi chiami se le viene in mente qualcosa, qualunque cosa sul passato di Dylan o sulle sue vecchie ricerche, qualunque cosa che possa avere una relazione con questo.» Lei girò il biglietto. «Qui ci sono due numeri.» «Quello di sotto è il telefono di casa. Se non mi trova in ufficio.» «L'ufficio non inoltra i messaggi?» «Sì, ma potrebbe volerci del tempo. Se deve raggiungermi in fretta, voglio essere certo che possa farlo.» «È una sua abitudine dare il numero di casa?»
«No.» «Allora, perché?» «La cosa che più odio sono i crimini come questo. La violenza sui bambini, di qualsiasi genere. È una cosa che mi fa infuriare. Mi avvilisce. Mi fa star male. Mi fa ribollire il sangue.» «Capisco quello che intende.» «Già. Lo credo bene.» 12 Il dottor Rafael Ybarra, primario di pediatria al Valley Medical, ricevette Laura in una stanzetta accanto al locale delle infermiere, dove il personale andava nelle pause per il caffè. Contro una parete c'erano due distributori. Una macchina del ghiaccio rumoreggiava. Dietro Laura, un frigorifero ronzava sommessamente. Si sedette di fronte a Ybarra a un lungo tavolo su cui erano appoggiati due posacenere pieni di mozziconi e qualche vecchia rivista. Il pediatra era scuro di carnagione e snello, con lineamenti aquilini. Era compassato, quasi affettato. Il colletto della camicia era rigido e ben stirato, la cravatta annodata alla perfezione, il camice fatto su misura. Camminava come se temesse di sporcarsi le scarpe, e sedeva con le spalle rigide e la testa ritta, dritto e formale. Guardò le briciole e la cenere sul tavolo, storse il naso e appoggiò le mani in grembo. Laura sentì subito che non le piaceva. Ybarra parlava con un tono bruscamente autoritario. «Almeno fisicamente, sua figlia è in condizioni sorprendentemente buone, considerando le circostanze. È, sì, un po' sottopeso, ma non in modo preoccupante. Sul braccio destro ci sono numerosi segni di un ago da endovena inserito da qualcuno non particolarmente esperto. L'uretra ha una lieve infiammazione, forse da cateterismo, e le ho prescritto delle medicine. Questo è il quadro del suo stato fisico.» Laura annuì. «Lo so. Sono venuta per portarla a casa.» «No, no. Non lo consiglierei», replicò Ybarra. «Intanto, a casa sarebbe troppo difficile da seguire.» «È incontinente?» «No, usa il bagno.» «È in grado di mangiare da sola?» «In un certo senso. Bisogna cominciare a imboccarla, poi continua lei.
Ed è necessario continuare a tenerla d'occhio quando mangia perché dopo qualche boccone sembra dimenticare quello che sta facendo, perdere interesse. Bisogna continuare a sollecitarla. Ha anche bisogno di essere aiutata a vestirsi.» «Sono in grado di farlo.» «Io sono comunque riluttante a dimetterla», dichiarò Ybarra. «Ma questa notte il dottor Pantangello mi ha detto che...» Al nome di Pantangello, Ybarra storse il naso. «Il dottor Pantangello ha finito la specializzazione solo l'autunno scorso ed è con noi da appena un mese. Il primario di pediatria sono io, e la mia opinione è che sua figlia debba rimanere qui.» «Fino a quando?» «Il suo comportamento è sintomatico di una grave catatonia inibita, non insolita in casi di prolungato isolamento e maltrattamenti. Dovrebbe rimanere qui per un completo accertamento psichiatrico. Una settimana, dieci giorni.» «No.» «È la cosa migliore per la bambina», ribadì lui, ma la sua voce era così fredda e misurata che era difficile credere che potesse provare interesse per qualcuno che non fosse Rafael Ybarra. Laura si domandò che razza di rapporto potesse mai instaurarsi tra un medico del genere e i suoi giovani pazienti. «Sono una psicologa», gli ricordò. «Sono in grado di valutare le sue condizioni, di offrirle in casa l'assistenza più adeguata.» «E fare da terapeuta a sua figlia? Non mi sembra opportuno.» «Non sono d'accordo.» Non aveva nessuna intenzione di dare spiegazioni a quell'uomo. «Qui, una volta completata la diagnosi e stabilita una terapia, abbiamo tutti i mezzi per provvedere al trattamento. Lei, a casa, non disporrebbe dell'attrezzatura adatta.» Laura si accigliò. «Attrezzatura? Di che trattamento sta parlando.» «Questo dipenderà dal dottor Gehagen, della psichiatria. Ma se in Melanie dovesse perdurare questo stato catatonico, o se dovesse peggiorare, ebbene, i barbiturici e una terapia elettroconvulsiva...» «Un accidente!» esclamò lei bruscamente, allontanando la sedia dalla tavola e alzandosi. Ybarra sbattè le palpebre, sorpreso dalla sua ostilità. «Farmaci ed elettrochoc», riprese lei, «proprio quello che le ha fatto il
padre negli ultimi sei anni.» «Ma naturalmente noi non useremmo gli stessi farmaci né lo stesso tipo di elettrochoc e le nostre intenzioni sarebbero completamente diverse.» «Sì, come no, ma Melanie come fa a sapere, quali sono le vostre intenzioni? So che in alcuni casi queste terapie funzionano, ma per mia figlia non vanno bene. Quello che le occorre è recuperare la fiducia, il senso di autostima. Ha bisogno di essere libera dalla paura e dal dolore. Ha bisogno di stabilità. Ha bisogno di essere amata.» Ybarra si strinse nelle spalle. «Be', non comprometterà la sua salute portandosela a casa, oggi, per cui non ho modo di impedirle di andarsene con lei.» «Esattamente», confermò Laura. Quando il furgone dell'obitorio se ne andò, mentre i tecnici della Scientifica perlustravano il parcheggio attorno alla Volvo, Kerry Burns, un poliziotto in uniforme, si avvicinò a Dan Haldane. «Una chiamata da East Valley, messaggio dal capitano Mondale. Vuole vederla subito.» «Che cos'è, sente la mia mancanza?» «Non ha detto il perché.» «Sicuramente sentirà la mia mancanza.» «C'è qualcosa, tra lei e Mondale?» «Assolutamente no! Può anche darsi che Ross sia gay, ma io sono normale.» «Ha capito benissimo quello che intendo. C'è dell'attrito, qualcosa che non va?» «Si vede tanto?» «Si vede tanto che cani e gatti non vanno d'accordo?» «Diciamo che se avessi preso fuoco e Ross Mondale avesse l'unico secchio d'acqua nel giro di dieci chilometri, preferirei spegnere le fiamme a sputi.» «Questo è chiaro. Ci va subito, a East Valley?» «Me l'ha ordinato, no?» «Sì, ma lei ci va o no? Devo richiamare per dare conferma.» «Certo.» «La vuole immediatamente.» «Certo.» «Richiamo per avvertire che è già in marcia.» «Assolutamente», concluse Dan.
Kerry si diresse all'autopattuglia, e Dan salì sulla sua macchina, un'auto di servizio senza contrassegni. Uscì dal parcheggio dell'ospedale, si immise nella strada e puntò verso il centro, nella direzione opposta a quella di East Valley e di Ross Mondale. Prima di parlare con il dottor Ybarra, Laura aveva chiamato il servizio di sicurezza consigliatole da Dan Haldane. Quando ebbe finito di parlare con Ybarra, vestito Melanie in jeans, scarpette da ginnastica e camicetta a quadretti azzurra, ed ebbe firmato i moduli di dimissione, l'agente della California Paladin era arrivato. Si chiamava Earl Benton, e aveva l'aspetto di un ragazzone di campagna che, svegliatosi nella casa sbagliata, era stato costretto a vestirsi con l'abito di un banchiere. Anche il taglio perfetto dei capelli biondo scuri sembrava un po' fuori posto; la sua faccia squadrata, i suoi lineamenti un po' rozzi, probabilmente sarebbero stati accompagnati meglio da un abbigliamento più casual. Il suo collo taurino sembrava sul punto di far saltare il bottone del colletto della camicia Yves St-Laurent, e in quell'abito grigio - giacca, cravatta e panciotto - sembrava starci come un pesce fuor d'acqua. Le mani, grosse, con le dita tozze, non sarebbero mai state eleganti ma le unghie erano perfettamente curate. Laura capì con una sola occhiata che Earl era uno dei tantissimi venuti a Los Angeles con la speranza di avanzare nella vita, cosa che probabilmente aveva già fatto, e molto probabilmente sarebbe salito ancora più su, una volta smussati gli angoli più spigolosi e imparato a sentirsi a suo agio nel suo abito elegante. Lo trovò simpatico. Aveva un sorriso ampio e i modi aperti, e un'aria attenta, sveglia, intelligente. Si incontrò con lui nel corridoio, davanti alla camera di Melanie, e dopo avergli spiegato i particolari della situazione più di quanto avesse fatto al telefono aggiunse: «Immagino che sia armato». «Sissignora.» «Bene.» «Io starò con voi fino a mezzanotte», spiegò Earl, «e poi verrà un altro a sostituirmi.» Pochi minuti dopo, Laura portò Melanie nel corridoio ed Earl si chinò al suo livello. «Che bella bambina che sei.» Melanie non disse nulla. «Il fatto», continuò lui, «è che mi ricordi tanto mia sorella, Emma.» Melanie continuò a fissarlo come se non lo vedesse.
Prendendo tra le sue manone la mano inerte della bambina, Earl continuò a parlarle con scioltezza, come se lei gli rispondesse: «Emma ha nove anni meno di me. Ha appena iniziato le superiori. Sai che lei, Emma, ha allevato due vitelli da premio? Ha una collezione di premi, forse una ventina, di ogni genere, comprese delle esposizioni di bestiame in tre diverse fiere agricole. Ne sai niente dei vitelli? Ti piacciono gli animali? I vitelli sono bestie carine. Hanno dei musi simpatici. Scommetto che saresti bravissima con loro, proprio come Emma». Osservandolo accanto a Melanie, Laura pensò che Earl Benton le piaceva sempre di più. «Benissimo», continuò lui, «Melanie, non devi preoccuparti di niente, d'accordo? Ora io sono tuo amico e finché il vecchio Earl è tuo amico nessuno si sognerà nemmeno di darti fastidio.» La bambina sembrava totalmente ignara della presenza dell'uomo. Lui le lasciò andare la mano, e il braccio le ricadde lungo il fianco. Lui si rialzò e si diede una sistemata alla giacca, poi guardò Laura. «Ha detto che è stato suo padre a ridurla così?» «È uno dei responsabili», rispose Laura. «Ed è morto?» «Sì.» «Ce ne sono altri ancora vivi, però.» «Sì.» «Le assicuro che mi piacerebbe incontrarlo uno di questi. Mi piacerebbe farci due chiacchiere. A quattrocchi. Gliel'assicuro.» C'era un tono duro nella sua voce, una luce fredda nei suoi occhi, una rabbia che prima non c'era, una rabbia che, per la prima volta, lo faceva apparire pericoloso. Anche questo piacque a Laura. «Ora, signora - dottoressa McCaffrey, credo di doverla chiamare così quando usciamo, passo prima io dalla porta. So che non è da cavaliere, ma d'ora in poi, il più delle volte, dovunque andremo io starò avanti di un paio di passi, come in avanscoperta, diciamo così.» «Non credo proprio che si metteranno a spararci addosso alla luce del sole, o qualcosa del genere», replicò Laura. «Forse no. Ma vado io per primo lo stesso.» «Va bene.» «Quando le dirò di fare qualcosa, lo faccia senza domande.» Lei annuì. Lui riprese: «Potrei non alzare la voce. Può capitare che le dica di but-
tarsi a terra o di scappare, e potrei dirglielo con una voce calma come se dicessi: 'Guarda che bella giornata', per cui dovrà essere sempre all'erta». «Ho capito.» «Bene. Sono sicuro che andrà tutto per il meglio. Ora, signore, siete pronte ad andare a casa?» Si diressero verso l'ascensore che li avrebbe portati nell'atrio. Mille volte, negli ultimi sei anni, Laura aveva fantasticato sul giorno in cui avrebbe riportato Melanie a casa. Aveva sempre pensato che sarebbe stato il giorno più felice della sua vita. Non aveva mai immaginato che sarebbe stato come quello. 13 Alla Centrale, Dan Haldane si fece dare due cartelle dall'impiegato dell'archivio e le portò a uno dei piccoli scrittoi lungo la parete. Il nome sul primo fascicolo era Ernest Andrew Cooper. Le impronte digitali avevano permesso di identificare la vittima sconosciuta trovata la notte prima con Dylan McCaffrey e Wilhelm Hoffritz nella casa di Studio City. Cooper aveva trentasette anni, era alto un metro e ottanta, pesava settantadue chili. C'erano delle foto segnaletiche, ma a Dan non servivano perché la faccia della vittima era stata ridotta in una massa informe e sanguinolenta. Avrebbe dovuto basarsi sulle impronte. Cooper abitava in Hancock Park, in una strada di case da milioni di dollari. Era il principale azionista e il presidente del consiglio di amministrazione della Cooper Softech, un'azienda di software. Era stato arrestato due volte entro i limiti cittadini di Los Angeles, tutt'e due le volte per guida in stato di ubriachezza, e tutt'e due le volte era stato trovato senza patente. Aveva contestato entrambi gli arresti, era stato portato in tribunale in entrambi i casi, ed era stato condannato due volte a pene pecuniarie, ma senza detenzione. In entrambi i casi, gli agenti che lo avevano arrestato avevano annotato che Cooper sosteneva che fosse immorale - e una violazione dei diritti costituzionali - che il governo pretendesse che un uomo portasse con sé un documento di identificazione, fosse pure una patente. Il secondo agente aveva anche scritto: «Il signor Cooper ha provveduto a informare il sottoscritto della sua appartenenza a un'organizzazione, Freedom Now, che avrebbe messo in ginocchio tutti i governi; che detta organizzazione avrebbe usato questo arresto come spunto per mettere in discussione deter-
minate leggi; e che il sottoscritto era un involontario strumento di forze totalitarie. Quindi ha vomitato ed è svenuto». Sorridendo per l'ultima frase, Dan chiuse il fascicolo. Guardò il nome sul secondo incartamento - Edward Philip Rink - ansioso di vedere che cosa avessero su di lui, ma prima trasportò i due fascicoli al più vicino dei tre terminali video e si sedette davanti al computer. Lo accese, compose il codice di accesso e chiese un profilo di Freedom Now. Dopo una breve pausa, le informazioni cominciarono a lampeggiare sullo schermo: FREEDOM Now COMITATO DI AZIONE POLITICA REGISTRATO CON LA COMMISSIONE ELETTORALE FEDERALE E IL FISCO. ANNOTAZIONI FREEDOM NOW È UN'ORGANIZZAZIONE LEGITTIMA DI PRIVATI CITTADINI CHE ESERCITANO I LORO DIRITTI COSTITUZIONALI. TALE ORGANIZZAZIONE NON È SOGGETTA ALLE INDAGINI DI ALCUNA SEZIONE INFORMAZIONI DELLA POLIZIA NÉ DEVE ESSERE SOGGETTA AD ALCUNA DI TALI INDAGINI FINCHÉ È IMPEGNATA NELLE ATTIVITÀ PER LE QUALI È STATA FONDATA E SULLE QUALI HA RICEVUTO IL BENESTARE DELLA COMMISSIONE ELETTORALE FEDERALE. LE INFORMAZIONI PRESENTI IN QUESTA SCHEDA SONO STATE RACCOLTE DA DOCUMENTI PUBBLICI. QUESTA SCHEDA È STATA CREATA CON L'UNICO SCOPO DI IDENTIFICARE LE ORGANIZZAZIONI POLITICHE LEGITTIME E DISTINGUERLE DAI GRUPPI SOVVERSIVI; L'ESISTENZA DI QUESTA SCHEDA NON SUGGERISCE IN ALCUN MODO PARTICOLARI INTERESSI DELLA POLIZIA NEI CONFRONTI DI FREEDOM NOW. Il Dipartimento di Polizia di Los Angeles era stato bersagliato dalle critiche della Associazione Americana per le Libertà Civili e altri organismi per i controlli segreti a cui aveva sottoposto gruppi politici sospettati di essere coinvolti in attività sovversive pericolose. Il dipartimento aveva ancora la facoltà di condurre indagini su organizzazioni terroristiche, ma gli
veniva vietato di compiere infiltrazioni in gruppi politici legalmente registrati, a meno di non fornire a un giudice prove sufficienti a dimostrare che l'organizzazione in questione avesse legami con altri gruppi o singoli dediti ad attività terroristiche. L'annotazione in cima alla scheda informativa, analoga a quella di tutti i gruppi politici legittimi, era ben nota a Dan, che non si soffermò a leggerla. Schiacciò un tasto per chiamare altri dati. FREEDOM Now — CARICHE ATTUALI PRESIDENTE: ERNEST ANDREW COOPER, HANCOCK PARK TESORIERE: WILHELM STEPHAN HOFFRITZ, WESTWOOD SEGRETARIA: MARY KATHERINE O'HARA, BURBANK FREEDOM NOW È STATA FONDATA NEL 1979 CON LO SCOPO DI SOSTENERE QUEI CANDIDATI DI ORIENTAMENTO LIBERTARIO CHE ABBIANO ESPRESSO PUBBLICAMENTE L'INTENZIONE DI LAVORARE IN DIREZIONE DELL'ABOLIZIONE DEL GOVERNO, SE NON NELLA SUA FORMA MINIMA, E PER LA DISSOLUZIONE DI TUTTI I PARTITI POLITICI. Cooper e Hoffritz, presidente e tesoriere, erano morti. E Freedom Now era stata istituita l'anno stesso in cui McCaffrey era scomparso con sua figlia, il che poteva essere una coincidenza, ma, più probabilmente, poteva anche non esserlo. Comunque, era interessante. A Dan occorsero venti minuti per leggere il file del computer e prendere appunti. Quindi spense il video e prese il fascicolo su Ned Rink. C'era una quantità di documenti, ma nemmeno uno gli sembrò noioso. Rink, l'uomo trovato morto nella Volvo quella mattina, aveva trentanove anni. Si era diplomato all'Accademia di Polizia di Los Angeles quando ne aveva ventuno, e aveva lavorato per quattro anni nella polizia seguendo corsi serali di diritto penale. Per due volte era stato messo sotto inchiesta dal dipartimento in seguito ad accuse di brutalità ma, in mancanza di prove, non c'erano state conseguenze. Aveva fatto domanda per l'FBI, era stato accettato, e aveva lavorato cinque anni per il Bureau. Nove anni prima, era stato allontanato dall'FBI per motivi sconosciuti, ma si capiva che aveva abusato della sua autorità e, in più di un'occasione, aveva mostrato eccessivo zelo durante l'interrogatorio di un sospettato.
Dan conosceva il tipo. C'è chi sceglie di lavorare nella polizia perché vuole impegnarsi in una funzione socialmente utile, altri perché i loro eroi dell'infanzia erano i poliziotti, altri perché erano figli di agenti, altri perché si tratta di un lavoro relativamente sicuro e con una buona pensione: i motivi sono innumerevoli. Fra le tante ragioni che spingono un uomo a entrare nella polizia, per Rink l'attrazione era il potere; uomini del genere provano un'emozione particolare a dare ordini, esercitare l'autorità, non per il piacere di dirigere qualcosa nel migliore dei modi, ma soltanto per il gusto di dire agli altri che cosa fare. Secondo il fascicolo otto anni prima, dopo l'uscita dall'FBI, Rink era stato arrestato per aggressione e tentato omicidio. L'imputazione era stata derubricata ad aggressione semplice, per assicurare la detenzione, che era stata ottenuta, e Rink aveva scontato dieci mesi uscendo prima del tempo per buona condotta. Sei anni prima era stato arrestato di nuovo, sospettato di omicidio, ma le prove non erano sufficienti e alla fine l'imputazione cadde. Dopo di che Rink si fece più cauto. Le autorità locali, statali e federali ritenevano che fosse un killer indipendente, al servizio della malavita e per chiunque fosse disposto a pagarlo, e c'erano prove circostanziali che lo collegavano a nove omicidi negli ultimi cinque anni - probabilmente solo la punta dell'iceberg - ma nessuna istituzione di polizia era stata in grado di raccogliere prove concrete sufficienti a portare Rink in tribunale. Haldane chiuse il fascicolo, lo mise su quello di Cooper e tolse di tasca il mazzetto di elenchi. Passò qualche minuto a esaminarli, e qualcosa venne fuori. Un nome: Mary O'Hara. Uno dei dirigenti di Freedom Now. Il suo nome e il numero di telefono erano sulla rubrica nell'ufficio di Dylan McCaffrey. Mise via le liste e rimase seduto per un momento, a riflettere. Gesù, due dottori in psicologia, entrambi provenienti dall'UCLA, entrambi morti. Un uomo d'affari milionario e attivista politico, morto. Un ex poliziotto, ex agente dell'FBI, sospetto sicario, morto. Un'allucinante stanza grigia in una comune casa suburbana, dove una bambinetta veniva, fra le altre cose, torturata con l'elettricità. Da suo padre. Dio mio. La stampa ne sarebbe stata entusiasta. Riportò i due fascicoli all'archivio e prese l'ascensore fino al piano della Scientific Investigation Division. 14
Appena entrati in casa, Earl Benton andò in tutte le stanze, per assicurarsi che le finestre e le porte fossero chiuse. Tirò le tende e abbassò le tapparelle e consigliò a Laura e Melanie di tenersi alla larga dalle finestre. Dopo aver scelto un paio di giornali dal portariviste nello studio di Laura, Earl trasportò una poltrona vicino a una delle finestre anteriori del soggiorno, dalla quale aveva la visuale della strada. Si sedette. «Potrebbe sembrare che stia perdendo tempo, ma non si preoccupi: niente in queste riviste mi distrarrà.» «No, non sono preoccupata.» «Gran parte di questo lavoro consiste nello star seduto ad aspettare. C'è da diventare scemi se non si ha qualcosa da leggere sottomano.» «Lo capisco benissimo», lo rassicurò lei. Pepper sembrava più interessata a Earl che a Melanie, e gli girò attorno per un po' con circospezione, studiandolo attentamente, annusandogli i piedi e infine saltandogli sulle ginocchia e pretendendo di farsi coccolare. «Ma che bella micina», fece lui, grattandola dietro le orecchie mentre lei gli si accoccolava in grembo con un'espressione beata di appagamento. «Di solito non è così socievole», gli disse Laura. Earl sorrise. «Sono sempre andato d'accordo con gli animali.» Poteva essere una stupidaggine, ma la prontezza con cui Pepper aveva accettato Earl Benton rassicurò Laura e glielo fece sentire ancora più simpatico. A questo punto si fidava completamente di lui. Perché a questo punto? si domandò. Non mi fidavo già completamente? Forse, dentro di me, avevo dei dubbi? Era stato assunto per proteggere Melanie, e lo avrebbe fatto. Non c'era alcun motivo per sospettare che fosse in combutta con quelli che volevano Melanie morta - o con quelli che apparentemente la volevano viva e in un'altra camera grigia. Eppure, capì Laura, era esattamente quello che aveva sospettato, appena un po', nel profondo, a un livello puramente inconscio. Doveva guardarsi dalla paranoia. Non sapeva chi fossero i suoi nemici: rimanevano gente senza volto; questo spiegava la sua tendenza a sospettare di chiunque, a costruirsi grandiose teorie di complotto, teorie che avrebbero finito con il veder coinvolto tutto il mondo tranne lei e Melanie. Dopo aver preparato il caffè per Earl e per sé, fece una cioccolata calda per Melanie e la portò nel suo studio, dove la bambina la aspettava. Aveva preso un congedo a tempo indeterminato dal St. Mark's e affidato i pazienti privati a un collega, almeno per la settimana successiva. Intendeva iniziare immediatamente la terapia con Melanie, quello stesso pomeriggio, ma non
voleva che la seduta si svolgesse nella stessa stanza occupata da Earl, che avrebbe costituito una distrazione. Lo studio era piccolo ma confortevole. Due pareti erano interamente ricoperte di libri, un'eclettica raccolta di titoli, dalle aree più specialistiche della psicologia alla narrativa di consumo. Le altre due pareti erano ricoperte di tessuto beige. C'erano due stampe di Delacroix, una scrivania di pino nero con una poltroncina imbottita, una sedia a dondolo e un divano verde smeraldo con una quantità di cuscini. Due lampade d'ottone diffondevano una morbida luce ambrata; Earl aveva accostato le tende verde smeraldo di entrambe le finestre. Melanie era seduta sul divano, con gli occhi fissi sulle mani appoggiate in grembo. «Melanie.» La bambina non alzò lo sguardo. «Tesoro, ti ho portato un po' di cioccolata calda.» Visto che la bambina non reagiva ancora, Laura le si sedette accanto. Tenendo la tazza con una mano, con l'altra le sollevò il viso, guardandola negli occhi. Erano due occhi angosciosamente vuoti, e Laura non riuscì a stabilire alcun contatto, a suscitarvi alcuna consapevolezza. «Voglio che tu beva questo, Melanie. È buono. Ti piacerà. Lo so che ti piacerà.» E le appoggiò il bordo della tazza alle labbra. Con un certo sforzo, riuscì finalmente a fargliene prendere un sorso. Un po' le si versò lungo il mento e Laura lo pulì con un tovagliolino di carta prima che potesse sgocciolare sul divano. Con un po' di incoraggiamento la bambina cominciò a bere meno svogliatamente e finalmente le sue deboli manine salirono verso la tazza, tenendola abbastanza saldamente così che Laura lasciò la presa. Il resto della cioccolata calda la bevve in fretta, con avidità. Quando ebbe finito, si leccò le labbra. Nei suoi occhi ci fu, per un attimo, una scintilla di vita, un segno di consapevolezza; e per un secondo, non di più, i suoi occhi si incontrarono con quelli della madre, non più attraversandola con lo sguardo come se non ci fosse, ma guardando proprio lei, e quell'istante prezioso di contatto fu elettrizzante. Durò solo un attimo, ma ora Laura sapeva che la bambina poteva ritornare dal suo esilio autoimposto; e che quindi c'era la possibilità, per quanto ridotta, di poterla riportare alla realtà esterna non solo per un secondo, ma definitivamente. Le tolse la tazza dalle mani, l'appoggiò su un tavolino, poi sedette sul divano, mettendosi di fronte a Melanie. Le prese tutt'e due le mani. «Teso-
ro, è passato tanto tempo e tu eri così piccola quando ci siamo viste l'ultima volta. Forse non sai neppure bene chi sono. Sono tua madre, Melanie.» La bambina non reagì. Continuò a parlarle in tono morbido, rassicurante, perché era convinta che, almeno a livello subcosciente, riuscisse a comprenderla. «Ti ho messa al mondo perché volevo te più di qualsiasi altra cosa. Eri una bambina bellissima, dolcissima, mai un problema. Hai imparato a camminare e a parlare prima di quanto pensassi e io ero fiera di te, orgogliosissima. Poi mi sei stata portata via, e mentre non c'eri quello che volevo più di tutto era riaverti. E ora, bambina mia, la cosa più importante è farti star bene, portarti fuori da quel buco in cui ti stai nascondendo. Lo farò io, tesoro. Ti farò star bene. Ti aiuterò a star bene.» La bambina non disse nulla. Quegli occhi verdi erano lontanissimi. Laura la prese in grembo, la cinse tra le braccia, la strinse a sé. Per un po' rimasero così, immobili, vicinissime, lasciando solo che il tempo scorresse, permettendo così di stabilire un legame, quel legame che avrebbe dato alla terapia una possibilità di riuscita. Dopo qualche minuto, Laura si accorse che stava mugolando una ninnananna, poi cantilenandone i versi, quasi in un sussurro. Accarezzò la fronte della figlia, scostando con le dita i capelli dal viso. Lo sguardo di Melanie continuava a rimanere assente, velato, ma sollevò una mano e si infilò il pollice in bocca. Come un bambino piccolo. Come faceva quando aveva tre anni. Laura fu invasa da un'onda di commozione e la voce le tremò, ma continuò a canticchiare piano, continuò a passare le dita fra i capelli della figlia. Le vennero in mente gli sforzi che aveva fatto sei anni prima per togliere a Melanie il vizio di succhiarsi il pollice, mentre ora la cosa le dava tanta gioia e commozione. Improvvisamente si trovò fra le lacrime e il riso: doveva essere ridicola, ma la sensazione era meravigliosa. Anzi, si sentiva così bene, e così incoraggiata da quel pollice in bocca e da quel fugace contatto di sguardi che c'era stato dopo la tazza di cioccolata calda, che decise di tentare l'ipnosi subito senza aspettare l'indomani, come aveva programmato in un primo momento. Nel suo stato, consapevole ma semicatatonico, la bambina si era ritirata negli strati più profondi della sua fantasia e resisteva al tentativo di farla risalire dagli abissi protettivi della sua psiche. Ipnotizzata, però, sarebbe stata più malleabile, più aperta alla suggestione, e forse le si sarebbe potuto far compiere almeno in
parte il cammino verso il mondo della realtà. Ipnotizzare qualcuno nelle condizioni di Melanie poteva essere molto più facile che con una persona in uno stato normale o impossibile. Continuò a cantilenare piano e cominciò a massaggiare le tempie della bambina muovendo le dita in piccoli cerchi, premendo leggermente. Quando vide che le sue palpebre cominciavano ad appesantirsi, Laura smise di cantare e mormorò: «Andiamo, piccola. Ora dormi, piccola, dormi, su, voglio che tu dorma, rilassati... stai sprofondando in un profondo sonno naturale... sprofondando sempre più giù, come una piuma nell'aria calda e immobile... dormi... ma continuerai a udire la mia voce... sempre più giù come una piuma che scende e si rigira pigramente nell'aria... in un sonno profondo... ma la mia voce ti seguirà giù... giù... giù... e tu mi sentirai e risponderai a tutte le domande che ti farò... dormi, ma ascolta e obbedisci». Continuò a massaggiarla, ancora più leggermente di prima, muovendo le dita più lentamente, finché gli occhi della bambina si chiusero e il suo respiro indicò che era profondamente addormentata. Pepper comparve sulla soglia e le guardò con evidente curiosità, poi entrò nella stanza e balzò sulla sedia a dondolo acciambellandovisi. «Ora sei in fondo», riprese Laura, «in un sonno profondo. Ma mi senti e risponderai alle mie domande.» La bocca della bambina era inerte, le labbra socchiuse. «Mi senti, Melanie?» La bambina non disse nulla. «Melanie, mi senti?» Lei sospirò, un suono sommesso come la luce ambrata delle lampade d'ottone. «Eh...» Era la prima volta che Laura sentiva la sua voce da quando l'aveva vista, la notte prima, all'ospedale. «Come ti chiami?» La bambina aggrottò la fronte. «Me...» La gatta sollevò la testa. «Melanie? È così che ti chiami? Melanie?» «Me... Me...» Pepper drizzò le orecchie. «Sai chi sono, Melanie?» Sempre dormendo, la bambina si leccò le labbra. «Me... è... eh... è...» Rabbrividì e cominciò ad alzare una mano come per scacciare qualcosa.
«Buona», disse Laura. «Rilassati. Stai calma. Rilassati, stai calma e dormi. Sei al sicuro. Con me sei al sicuro.» La bambina abbassò la mano. Sospirò. Quando le rughe sul suo viso si spianarono un po', Laura ripetè la domanda: «Sai chi sono io?» Melanie fece un suono inarticolato. «Sai chi sono, Melanie?» Le rughe, di ansia e di paura, ritornarono sul suo viso. «Um... uh... uhuh... è... è...» «Di che cosa hai paura, Melanie?» «È... è... lì...» mormorò la bambina, ora con la paura nella voce e sul volto pallido. «Che cosa vedi?» domandò Laura. «Di che cosa hai paura, tesoro? Che cosa vedi?» «La... là... la...» Pepper inarcò il dorso, tesa, osservando attentamente la piccola. L'aria era innaturalmente immobile, pesante. Non era possibile, ma le ombre negli angoli della stanza ora sembravano più fitte e più grandi. «È... lì... no, no, no no no...» Laura appoggiò una mano sulla fronte contratta della figlia, a tranquillizzarla, e attese con ansia mentre la bimba si sforzava di parlare. Una sensazione strana, sconcertante, la invase, e sentì un brivido freddo salirle come una cosa viva lungo la spina dorsale. «Dove sei, Melanie?» «No...» «Sei nella stanza grigia?» A denti stretti, gli occhi serrati, le mani a pugno, la bambina sembrava stesse resistendo a qualcosa di fortissimo. Laura aveva in mente di portarla a regredire, di riportarla nel tempo alla stanza grigia, ma sembrava che la piccola vi fosse giunta senza incoraggiamento, appena ipnotizzata. Sembrava impossibile: Laura non aveva mai sentito parlare di una regressione ipnotica spontanea. Il paziente andava sempre guidato, incoraggiato a ritornare alla scena del trauma. «Dove sei, Melanie?» «N-n-no... là... no!» «Calma. Sta' buona. Di che cosa hai paura?» «Prego... no...»
«Stai calma, amore. Che cosa vedi? La camera, la camera di privazione? Nessuno ti ci farà tornare, amore.» Ma non era questa la sua paura. Le rassicurazioni di Laura non la calmarono. «La... la...» «La sedia? La sedia con l'elettricità? Neanche lì ti metteranno mai più.» Era qualcos'altro a terrorizzare la bambina. Rabbrividì e prese ad agitarsi contro Laura, come se volesse scappar via, fuggire. «Tesoro, con me sei al sicuro», riprese Laura, stringendola più forte. «Io non posso farti del male.» «Si apre... si apre... no... si sta aprendo...» «Sta' buona», disse Laura. Mentre quel brivido freddo le saliva su fino alla nuca, ebbe la sensazione che stesse per accadere qualcosa di enorme importanza. 15 Alle sue spalle, il tenente Felix Porteau della scientifica, lo chiamavano Poirot, dal nome del pomposo poliziotto belga di Agatha Christie. Dan però era convinto che il tenente Porteau amava vedersi come Sherlock Holmes, nonostante una faccia da Babbo Natale e una corporatura che ricordavano ben poco l'investigatore inglese. Per rafforzare l'immagine auspicata Porteau si separava raramente dalla sua pipa ricurva. La pipa non era accesa quando Dan entrò nell'ufficio di Porteau, ma l'uomo della Scientifica la raccolse subito per indicare una sedia. «Siediti, Daniel, siediti. Ti aspettavo. Suppongo che tu sia qui per sapere che cosa ho scoperto sulla faccenda di Studio City.» «Supposizione straordinariamente acuta, Felix.» Porteau si appoggiò allo schienale. «Un caso singolare questo. Naturalmente ci vorrà qualche giorno prima che i risultati completi escano dal mio laboratorio.» Per Felix era sempre il mio laboratorio come se lui non fosse il responsabile del reparto scientifico del dipartimento di polizia di una grande città, ma stesse conducendo degli esperimenti in una delle stanze del suo appartamento privato in Baker Street. «Se lo desideri, però, potrei metterti al corrente di alcune rilevazioni preliminari.» «Sarebbe una grande cortesia da parte tua.» Porteau mordicchiò il bocchino della pipa, rivolse a Dan uno sguardo sospettoso, poi sorrise. «Mi stai prendendo in giro, Daniel.» «Non mi permetterei mai.»
«E invece sì. Tu prendi in giro tutti.» «Mi fai sembrare un cinico sfottitore.» «E lo sei.» «Grazie tante.» «Ma un cinico sfottitore simpatico, spiritoso, intelligente, affascinante... questa è la differenza.» «Adesso mi fai sembrare Cary Grant.» «Non è così che ti vedi?» Dan ci pensò su per un momento. «Be', forse mezzo Cary Grant e mezzo Alex Karras.» «E chi è Alex Karras?» «Era un campione di football. Adesso fa l'attore.» «Non lo conosco. Se lo conoscessi, sospetto che troverei divertente la tua immagine.» «Sospetto di sì. Ma dimmi del caso di Studio City. Avete trovato delle impronte che ci possano aiutare?» Porteau aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse un sacchetto di tabacco. Cominciò a caricare la pipa. «Molte impronte appartengono alle tre vittime. In tutta la casa. Altre sono della bambina, ma queste erano nell'ex garage.» «Il laboratorio.» «La stanza grigia, come l'ha chiamata uno dei miei uomini.» «Allora era tenuta sempre in quella stanza.» «Sembrerebbe. Cioè, abbiamo qualche impronta parziale nella stanza da bagno, che potrebbe appartenere a lei, ma in nessun altro punto della casa.» «Nient'altro? Nessuna impronta che potrebbe essere degli assassini?» «Oh, certo, abbiamo trovato altre impronte, perlopiù frammenti. Le stiamo studiando con il nuovo programma veloce al laser, raffrontandole con le impronte di criminali che abbiamo in archivio, ma finora non abbiamo avuto fortuna. E non so se ne avremo.» Fece una pausa, aveva finito di pigiare il tabacco nel fornello della pipa e si frugò in tasca alla ricerca dei fiammiferi. «Nella tua esperienza, quante volte un assassino ha lasciato delle impronte chiare, facilmente identificabili, sulla scena del delitto?» «Due volte, in quattordici anni. Insomma, dalle impronte non avremo alcun aiuto. Invece, che cosa abbiamo?» Porteau accese la pipa, esalò il fumo dolciastro e scosse il fiammifero. «Non è stata trovata alcuna arma...»
«Una delle vittime aveva un attizzatoio.» Porteau annuì. «Cooper. Ma non è stato usato. Il sangue che vi abbiamo trovato era di Cooper, e solo poche gocce, le stesse spruzzate in giro sulle pareti e sul pavimento intorno al corpo.» «Quindi Cooper non è riuscito a colpire l'aggressore, né è stato colpito lui con l'attizzatoio.» «Esattamente.» «Con gli aspiratori si è raccolto niente, oltre la polvere?» «Si stanno analizzando i risultati. Francamente, non sono ottimista.» Porteau solitamente era ottimista, altra caratteristica holmesiana, per cui la sua sfiducia in quel caso era particolarmente inquietante. «Niente sotto le unghie delle vittime?» domandò Dan. «Niente di interessante. Niente pelle, niente peli, niente sangue se non il loro, il che significa probabilmente che non hanno avuto la possibilità di mettere le mani sugli aggressori.» «Ma gli assassini si sono dovuti avvicinare. Voglio dire, Felix, li hanno picchiati a morte.» «Già. Ma, anche se si sono dovuti avvicinare, nessuno di loro sembra sia stato ferito. Abbiamo preso decine di campioni di sangue da ogni superficie, da ogni angolo di quelle stanze, e risultano provenire tutte dalle vittime.» Rimasero per un momento in silenzio. Porteau soffiava nuvole di fumo profumato nell'aria, sopra la sua testa. I suoi occhi erano fissi su un punto lontano mentre rifletteva sugli elementi del caso, e se, come Sherlock, avesse suonato il violino, quello sarebbe stato il momento di prenderlo. Infine Dan parlò. «Hai visto le fotografie dei corpi?» «Sì. Orribile. Incredibile. Una tale furia...» «Non hai anche tu la sensazione che verrà fuori qualcosa di veramente sinistro?» «Daniel, per me tutti gli omicidi sono sinistri», replicò Porteau. «Ma questo lo sembra più del solito.» «Più sinistro del solito», concesse Porteau, e sorrise, come contento della sfida. Dan lasciò il tenente della Scientifica nel suo alone aromatico e riprese l'ascensore, scendendo questa volta nei sotterranei, dove c'era il dipartimento di patologia.
16 Sempre nel suo stato ipnotico, la bambina urlò:«No!» «Melanie, tesoro, sta' tranquilla, ora sta' tranquilla. Nessuno vuole farti del male.» La piccola scosse la testa, con un respiro rapido e affannoso e un gemito acuto di paura strozzato in gola. Si divincolò e cercò di scendere dal grembo della madre. Laura la tenne stretta. «Non agitarti, Melanie. Stai ferma. Stai calma.» Improvvisamente la bambina si diede a colpire l'aria con tutt'e due le mani, contro un aggressore immaginario, urtando involontariamente Laura al petto, e poi in faccia, due colpi duri e dolorosi. Per un attimo Laura rimase stordita. I colpi erano stati così forti da farle salire lacrime di dolore agli occhi. Melanie rotolò a terra e si allontanò strisciando dal divano. «Melanie, fermati!» Nonostante l'ingiunzione ipnotica di rispondere e obbedire ai comandi di Laura, la ignorò. Arrivò sempre strisciando oltre la sedia a dondolo, emettendo penosi versi animaleschi di terrore cieco. La gatta ora era ritta sulle quattro zampe, sopra la sedia a dondolo, con le orecchie appiattite, e soffiava. Mentre Melanie passava accanto alla sedia, Pepper la superò con un balzo, toccò terra e sfrecciò fuori dello studio. «Melanie, ascoltami!» La bambina scomparve dietro la scrivania. Con la guancia che ancora le bruciava per il colpo, anche Laura si calò dietro la scrivania. Melanie si era rintanata in un angolo e stava seduta, con le ginocchia ritratte, le braccia strette alle gambe, raggomitolata su se stessa, con due occhi sbarrati che, come prima, non vedevano né Laura né nient'altro nella stanza. «Amore?» Ansimando come dopo una lunga corsa, la piccola disse: «Non fatela... aprire... tenetela... chiusa... ben chiusa...» Earl Benton apparve sulla soglia. «Tutto bene?» Laura alzò lo sguardo su di lui. «Sì. Solo... mia figlia, ma starà subito bene.» «È sicura? Ha bisogno di me?» «No, no. Ho bisogno di stare sola con lei. Posso farcela.» Riluttante, Earl tornò in soggiorno.
Laura guardò di nuovo sotto la scrivania. Melanie respirava ancora affannosamente e ora era anche scossa da un tremito violento, e le lacrime le colavano lungo le guance. «Vieni fuori, tesoro.» La piccola non si mosse. «Melanie, adesso mi ascolterai e farai quello che ti dico. Vieni subito fuori di lì.» Ma la bambina si ritrasse ancora di più, anche se non c'era più spazio dove arretrare. Laura non aveva idea che un paziente potesse ribellarsi così completamente durante la terapia ipnotica. La fissò per un istante, poi decise di permetterle di rimanere per un momento sotto la scrivania, dato che lì sembrava sentirsi almeno un po' più al sicuro. «Amore, da che cosa ti stai nascondendo?» Nessuna risposta. «Melanie, devi dirmelo... che cosa vedi, che vuoi tenere chiuso?» «Non fatela aprire», gemette miseramente la piccola, come rispondendo per la prima volta a Laura, anche se i suoi occhi rimanevano fissi su qualche orrore di un altro tempo, di un altro luogo. «Non fate aprire che cosa? Dimmelo, Melanie.» «Tenetela chiusa!» gridò la bambina e strinse gli occhi e si morse il labbro così forte che comparve una piccola macchia di sangue. Laura si protese sotto lo scrittoio, mise una mano sul braccio della figlia. «Tesoro, di che cosa stai parlando? Ti aiuto io a tenerla chiusa se solo mi dici di che cosa stai parlando.» «La p-p-porta...» balbettò la bambina. «Quale porta?» «La porta!» «La porta di quel serbatoio?» «Si sta aprendo, si sta aprendo!» «No», esclamò seccamente Laura. «Ascoltami. Devi ascoltarmi e accettare quello che ti dico. La porta non si sta aprendo. È chiusa. Sbarrata. Guardala. Vedi? Non è neppure socchiusa, nemmeno di un filo.» «Nemmeno di un filo», ripetè la bambina, e ora non c'era più dubbio che una parte di lei fosse in grado di udire Laura e risponderle, anche se continuava a trapassarla con lo sguardo, anche se rimaneva quasi interamente in un'altra realtà, una realtà creata da lei. «Nemmeno di un filo», ripetè ancora Laura, sentendo con gran sollievo che finalmente esercitava un minimo di controllo.
Melanie si era un po' calmata. Tremava e aveva ancora il viso contratto dalla paura, ma non si mordeva più il labbro. Il sangue le disegnava un filo rosso lungo il mento. «No, amore», disse Laura, «la porta è chiusa e chiusa rimarrà, e niente dall'altra parte riuscirà ad aprirla perché io ci ho messo un catenaccio nuovo, un pesante catenaccio. Hai capito?» «Sì», rispose la bambina debolmente, dubbiosa. «Guarda la porta. C'è un grosso catenaccio luccicante, tutto nuovo. Vedi il catenaccio nuovo?» «Sì», disse Melanie, questa volta più sicura. «Un grosso catenaccio di ottone, enorme.» «Sì.» «Enorme e forte. Niente potrebbe spaccarlo.» «Niente», ripetè la piccola. «Bene. Benissimo. Ora, anche se la porta non si può aprire, mi piacerebbe sapere che cosa c'è dall'altra parte.» La piccola tacque. «Amore? Dimmi che cosa c'è dall'altra parte della porta.» Le manine bianche di Melanie si mossero nel vuoto sotto la scrivania, come se cercasse di raffigurare l'immagine di qualcosa. «Che cosa c'è dall'altra parte della porta?» chiese ancora Laura. Le mani continuavano a muoversi. La bambina emetteva un suono inarticolato, il verso di uno sforzo impotente. «Dimmi, amore.» «La porta...» «Dove conduce la porta?» «La porta...» «Che genere di stanza c'è dall'altra parte?» «La porta per...» «Per dove?» «La porta... per... dicembre...» riuscì a dire Melanie. La sua paura cedette sotto il peso insostenibile di altre emozioni - infelicità, disperazione, dolore, solitudine, frustrazione - tutte emozioni distinguibili nei suoni inarticolati del suo singhiozzare convulso. Poi: «Mamma? Mamma?» «Sono qui, bambina mia», si affrettò a risponderle Laura, stupita di sentirsi chiamare dalla figlia. «Mamma?» «Qui. Vieni da me, bambina. Vieni fuori da lì sotto.»
Fra le lacrime, la piccola non uscì ma continuò a chiamare: «Mamma?» Doveva pensare di essere sola, lontana dall'abbraccio consolante di Laura, pur essendo in realtà distante solo un palmo. «Oh, mamma! Mamma!» Con lo sguardo fisso nel recesso buio sotto lo scrittoio, guardando la sua bimba piangere e tremare, tendendosi verso di lei, toccandola, Laura sentì dentro di sé qualcosa di quello che sentiva Melanie, soprattutto dolore e frustrazione, ma fu anche invasa da un potente desiderio di sapere. La porta di dicembre? «Mamma?» «Qui! Sono qui!» Erano così vicine, eppure separate da un immenso e misterioso golfo. 17 Luther Williams era un giovane patologo di colore che lavorava per il dipartimento di polizia di Los Angeles. Vestiva come Sammy Davis, Jr. abiti comodi e troppi gioielli - ma era un buon parlatore, e spiritoso, come Thomas Sowell, il sociologo di colore. In effetti Luther era un ammiratore di Sowell e degli altri sociologi ed economisti che rappresentavano il crescente movimento conservatore all'interno della comunità intellettuale nera. Era in grado di citare ampiamente dai loro libri. Fin troppo ampiamente. Più di una volta aveva intrattenuto Dan con i suoi sproloqui sulle virtù dell'economia di mercato come strumento per togliere i poveri dalla loro povertà. Ma era un ottimo patologo e Dan era arrivato alla conclusione che valesse quasi la pena di sopportare le sue «dissezioni» politiche pur di ottenere le informazioni che desumeva dalle sue «dissezioni fisiche». Quasi. Quando Dan entrò nel laboratorio, Luther era seduto davanti a un microscopio a esaminare un campione di tessuto. Alzò lo sguardo e fece un gran sorriso. «Danny! Hai usato quei biglietti che ti avevo dato?» Per un attimo Dan non capì di che cosa stesse parlando, ma poi gli tornò alla mente. Luther aveva acquistato due biglietti per un dibattito fra William F. Buckley e Robert Scheer, ma poi era intervenuto qualcosa che gli aveva impedito di partecipare. Aveva incontrato Dan in corridoio, la settimana prima, e aveva insistito perché prendesse lui i biglietti. «Servirà a elevare la tua coscienza», gli aveva assicurato. Ora, Dan esitò. «Te l'avevo detto che era difficile che ci andassi. Ti avevo chiesto di dare i biglietti a qualcun altro.» «Ma non ci sei andato?» chiese Luther, deluso.
«Non ho avuto tempo.» «Danny, Danny, il tempo si trova per queste cose. È in corso una battaglia che modellerà la nostra vita, una battaglia fra chi ama la libertà e chi non la ama, una guerra silenziosa fra libertari da una parte e fascisti e sinistra dall'altra.» Dan non votava - non si era neppure iscritto al voto - da dodici anni. Non gli interessava molto quale partito, quale fazione ideologica fosse al potere. Non che pensasse che repubblicani e democratici, liberali e conservatori fossero tutti della stessa pasta di farabutti; probabilmente lo erano, ma in realtà non gli interessava, e non era questa la ragione del suo disimpegno politico. A suo parere la società se la sarebbe cavata indipendentemente da chi sedesse al vertice, e lui, personalmente, non aveva tempo da perdere ad ascoltare noiosissime discussioni di politica. Il suo interesse principale, l'interesse che lo assorbiva tutto era l'omicidio, e questo era il motivo per cui non aveva tempo per la politica. L'omicidio e i suoi autori. Alcune persone erano capaci della più inimmaginabile brutalità e da questi lui era affascinato. Non gli assassini che erano chiaramente degli squilibrati. Non quelli che uccidevano in preda a un impeto cieco di rabbia o di passione dopo essere stati sottoposti a comprensibili provocazioni. Ma gli altri. Il marito capace di uccidere la propria moglie solo perché ne era stufo, senza rimorsi. La madre che poteva sopprimere il proprio figlio solo perché non ne voleva più la responsabilità, e si ritrovava, dopo l'atto, priva del minimo senso di colpa. Diavolo, c'era gente in grado di uccidere chiunque, per qualsiasi motivo, anche motivi banali come un sorpasso; erano sociopatki, totalmente amorali, e Dan non si stancava mai di loro né della loro psicologia aberrante. Il suo desiderio era comprenderli. Erano solo degli ammalati mentali, o rappresentavano una regressione? Chi era capace di uccidere a sangue freddo, quando non c'era alcun elemento di autodifesa, apparteneva a una razza a parte? Se erano speciali, lupi in una società di pecore, lui voleva sapere che cosa li rendeva diversi. Qual era l'elemento mancante, in loro? Perché la comprensione, l'umanità erano a essi sconosciute? Lui stesso non riusciva a capire bene il motivo dell'attrazione intellettuale che esercitava su di lui il delitto. Non aveva una particolare tendenza a rimuginare, un lato filosofico; almeno non credeva di averlo. Forse, lavorando un giorno dopo l'altro in un mondo di sangue, di morte e di violenza, era impossibile non sviluppare quelle tendenze nel corso degli anni. Forse era la gran parte dei poliziotti a passare tanto tempo contemplando il lato
oscuro del potenziale umano; forse non era lui l'unico; non aveva modo di saperlo; non era il genere di cose di cui si parla, tra poliziotti. E, nel suo caso, forse il bisogno di comprendere il delitto e la mente dell'assassino era legato al fatto che suo fratello e sua sorella erano stati entrambi assassinati. Sì, forse. Luther Williams, con addosso un forte odore di alcol e un vago sentore di altri prodotti chimici usati nel laboratorio di patologia, gli sorrise dalla sua sedia. «Ascolta, Dan, la settimana prossima ci sarà un dibattito interessantissimo tra Milton Friedman e Galbraith...» Dan lo interruppe. «Luther, devi scusarmi, ma non ho tempo per chiacchierare. Mi servono delle informazioni, e mi servono subito.» «Che cos'è questa fretta?» «Ehm, be', è che devo andare a pisciare.» Luther fece un'espressione fra l'incredulità e l'irritazione. «Senti, Danny, lo so che la politica ti annoia, ma...» «No, davvero, non è questo», ribadì Dan con un'espressione sincera. «È che devo davvero andare a pisciare.» Luther sospirò. «Un giorno o l'altro il totalitarismo avrà il sopravvento e quando non potrai neppure andare a pisciare senza un permesso scritto, verrai da me con la vescica che ti scoppia e mi dirai: 'Luther, Dio mio, perché non mi hai messo in guardia contro questa gente?'» «No, no. Ti prometto di strisciare da qualche altra parte, tutto solo, e di farmi scoppiare la vescica in silenzio. Ti prometto che non verrò a disturbarti.» «Certo, perché preferisci fartela scoppiare piuttosto che sentirti dire 'te l'avevo detto'.» Dan si sedette su uno sgabello davanti a lui. «Okay. Adesso illuminami con il raggio della scienza, dottor Williams. Hai tre clienti arrivati questa notte. McCaffrey, Hoffritz e Cooper.» «L'autopsia è in programma per questa sera.» «Non l'avete ancora fatta?» «C'è un sovraccarico di lavoro, qui, Danny. Fanno più in fretta loro a ucciderli che noi ad aprirli.» «Si direbbe una violazione dei principi del libero mercato», commentò Dan. «Eh?» «L'offerta supera la domanda.» «Perché, non è vero? Vuoi venire nella cella frigorifera, a vedere come li
teniamo ammucchiati l'uno sull'altro sui tavoli? Diamine, tra un po' ci toccherà infilarli negli armadi con dei sacchetti di ghiaccio.» «Almeno li hai visti, almeno, i tre che mi interessano?» «Oh, certo.» «Puoi dirmi qualcosa?» «Sono morti.» «Appena il totalitarismo prende il potere, come prima cosa faranno fuori tutti gli spiritosi patologi neri.» «Proprio quello che dico io», replicò Luther. «Hai esaminato le ferite di quei tre?» Il viso cupo del patologo si oscurò ancora di più. «Mai visto niente del genere. Ognuno dei cadaveri è un ammasso di contusioni sovrapposte, a decine, forse a centinaia - che macello, Cristo! - e di quelle ferite non ce ne sono due che abbiano la stessa configurazione. In più, decine di punti di frattura, ma senza un disegno. L'autopsia ce lo confermerà, ma, da un esame preliminare, le ossa sembrano in qualche punto spezzate di netto, in qualche punto scheggiate, altrove sfracellate. Ora, è impossibile che un corpo contundente, usato come una mazza, polverizzi un osso. Un colpo può spezzare o scheggiare, ma questo è l'effetto dell'impatto; l'impatto non frantuma, a meno che non sia un impatto spaventoso, come quello di una macchina che piomba su un pedone e lo spiaccica contro un muro. In generale, un osso si stritola solo applicando una pressione, schiacciando, e ti parlo di una pressione forte, tremendamente forte.» «E allora, con che cosa hanno colpito?» «Non mi sono spiegato. Vedi, quando qualcuno viene colpito forte e ripetutamente come questi tre, si ritrova la configurazione della superficie d'impatto: scabrosa, liscia, acuminata, arrotondata, o altro. Si è in grado di dire: 'Questo qui è stato pestato con un martello che aveva la faccia convessa e lo spigolo leggermente smussato'. O magari si tratta di un piede di porco, della parte piatta di un'accetta, un reggilibri, un salame, ma in ogni caso esaminando le ferite normalmente si può identificare il tipo di strumento. Questa volta no. Ognuna delle contusioni ha una forma diversa. Ogni ferita sembra prodotta da uno strumento differente.» «Suppongo», replicò Dan pizzicandosi il lobo sinistro, «che possiamo escludere la possibilità che l'assassino sia entrato in quella casa con una valigia piena di strumenti contundenti soltanto perché gli piace variare. Non me le immagino le vittime che se ne stanno tranquille ad aspettare mentre lui sostituisce il martello con la pala e la pala con una chiave in-
glese.» «Direi che è una supposizione fondata. Il fatto è che non ho notato una sola ferita che si presentasse esattamente come una martellata o come il segno lasciato da un piede di porco o una chiave inglese. Ogni contusione non era solo differente da tutte le altre contusioni, ma era unica, con una forma stranissima.» «Nessuna idea?» «Be', se questo fosse un vecchio romanzo di Fu Manchu, direi che qui abbiamo un cattivo che ha inventato una nuova arma diabolica, una macchina ad aria compressa che ha più forza di Arnold Schwarzenegger armato di maglio.» «Una teoria suggestiva. Ma non troppo probabile.» «Hai mai letto Sax Rohmer, quei vecchi libri di Fu Manchu? Erano pieni di armi stravaganti, di metodi di assassinio bizzarri.» «Ma questa è la vita vera.» «Così dicono.» «La vita vera non è un romanzo di Fu Manchu.» Luther alzò le spalle. «Non ne sono sicuro. È da molto che non guardi un telegiornale?» «Mi serve qualcosa di più solido, Luther. Con questa faccenda ho bisogno di tutto l'aiuto possibile.» Si fissarono per un momento. Poi, questa volta senza la minima traccia di spirito, Luther disse: «Ma sembrerebbe proprio così, Danny. Come se fossero stati ammazzati di botte con un martello fatto di aria». 18 Quando la ebbe riacciuffata da sotto la scrivania, Laura fece uscire Melanie dallo stato ipnotico nel quale l'aveva condotta. Fuori dall'ipnosi, però, la bambina ritornò allo stato semicatatonico nel quale si trovava fin da quando la polizia l'aveva trovata. Sotto sotto Laura aveva sperato che il termine della trance ipnotica l'avrebbe strappata anche dalla sua catatonia. Per un momento, gli occhi della piccola si fissarono in quelli di Laura, e le appoggiò una mano sulla guancia come non credendo ai suoi occhi, come stupita della presenza di sua madre, e Laura la pregò: «Rimani con me, piccola. Non andar via. Rimani con me». Ma la bambina scivolò ugualmente via. Il momento di contatto
fu intenso ma breve, dolorosamente breve. La seduta aveva stremato Melanie. Il suo viso era sfinito, gli occhi arrossati. Laura la mise a letto per un sonnellino e la bambina si addormentò appena toccato il cuscino. Quando uscì in soggiorno, Laura vide che Earl Benton si era alzato dalla poltrona e si era tolto la giacca. Aveva anche estratto la pistola dalla fondina ascellare e la teneva nella destra, lungo il fianco, come pensando che ne avrebbe avuto bisogno presto. Era accanto alla finestra, con lo sguardo fisso su qualcosa e un'espressione preoccupata. «Earl?» lo chiamò incerta. Lui le lanciò un'occhiata. «Dov'è Melanie?» «Riposa.» Lui riportò l'attenzione sulla strada di fronte alla casa. «Meglio stare con lei.» Il respiro le si fermò nella gola. Deglutì. «Che cosa c'è?» «Forse niente. Mezz'ora fa un furgone della società dei telefoni ha parcheggiato di fronte alla casa. Non ne è uscito nessuno.» Lei gli si fece accanto vicino alla finestra. Il veicolo, fermo accanto al marciapiede di fronte, mezzo al sole e mezzo sotto l'ombra di una jacaranda, era un comunissimo camioncino grigio e azzurro, con la scritta blu e bianca, uguale a quelli che si vedevano comunemente: niente di speciale, niente di sinistro. «Perché le sembra sospetto?» gli domandò. «Come le ho detto, da quello che ho potuto vedere, non ne è uscito nessuno.» «Forse l'operaio sta semplicemente facendo un sonnellino a spese della compagnia.» «Improbabile. La società dei telefoni è diretta troppo bene per lasciare che queste cose avvengano. E poi semplicemente puzza. È una mia sensazione. Ho già visto cose del genere, e quello che significa, per me, è che siamo sorvegliati.» «Sorvegliati? Da chi?» «Difficile dirlo. Ma i furgoni della società telefonica... be', i federali spesso lavorano così.» «Agenti federali?» «Già.» Stupita, portò gli occhi dal camioncino al profilo di Earl. Lui non sembrava altrettanto sorpreso. «Intende dire l'FBI?»
«Può darsi. O il ministero del Tesoro. Magari il settore sicurezza del ministero della Difesa. Sono tutti federali.» «Ma perché mai degli agenti federali dovrebbero tenerci sotto sorveglianza? Noi siamo le vittime, vittime potenziali, almeno, non i criminali.» «Non ho detto che sono sicuramente loro. Ho detto solo che spesso lavorano così.» Fissando Earl mentre lui fissava il furgone, Laura si rese conto che era cambiato. Non era più il ragazzone di campagna con una ripulita cittadina. Ora aveva un aspetto più duro, più vecchio dei suoi ventisei anni, e il suo modo di fare era più brusco e professionale. Laura era confusa. «Ma allora, se sono uomini del governo non c'è di che preoccuparsi.» «No?» «Non sono loro quelli che vogliono uccidere Melanie.» «No?» Laura era sempre più disorientata. «Ma certo che no. Non è stato il governo ad ammazzare mio marito e gli altri due.» «Che cosa ne sa?» chiese lui, gli occhi sempre inchiodati sul veicolo. «Oh, per l'amor del cielo...» «Suo marito e uno degli uomini uccisi con lui un tempo lavoravano all'UCLA.» «E allora?» «Ricevevano finanziamenti. Per ricerche.» «Sì, certo, ma...» «Alcuni di quei finanziamenti, forse la maggior parte, provenivano dal governo, no?» Lei non rispose perché era chiaro che lui conosceva già la risposta. «Finanziamenti del ministero della Difesa», riprese lui. Lei annuì. Earl proseguì: «Il ministero della Difesa è interessato alle modificazioni del comportamento. Controllo della mente. Il modo migliore per affrontare un nemico è controllarne la mente, farselo amico, senza che lui sappia neppure che cosa è successo. Una scoperta importante in questo campo potrebbe mettere fine alle guerre nella forma che noi conosciamo». «Come sa tutto questo sul lavoro di Dylan? Io non gliel'ho detto.» Earl non rispose alla sua domanda. «Forse suo marito e Hoffritz lavoravano ancora per il governo.» «Hoffritz era uno scienziato screditato e...»
«Ma se la sua ricerca era importante, se produceva risultati, a loro non sarebbe importato niente che fosse screditato nella comunità accademica. Potevano ancora usarlo.» La guardò di nuovo e nei suoi occhi c'era un cinismo, un'espressione stanca e navigata, che glielo fece apparire totalmente diverso da come l'aveva visto inizialmente. E improvvisamente non fu più sicura di potersi fidare di lui. «Una congiura del governo? Ma allora perché avrebbero dovuto uccidere Dylan e Hoffritz se lavoravano per loro?» Earl non esitò un attimo. «Forse non sono stati loro. Forse la ricerca di suo marito stava sfociando in qualcosa di grosso con applicazioni militari e forse per questo motivo l'altra parte lo ha liquidato.» «L'altra parte?» Earl si era messo di nuovo a guardare la strada. «Agenti segreti.» «Russi?» «Esistono davvero, sa? I sovietici sono gente in carne e ossa, non orchi delle favole come qualcuno sembra pensare.» «Ma è pazzesco», protestò lei. «Perché?» «Agenti segreti, storie di spie, intrighi internazionali... la gente comune non finisce invischiata in queste cose, capita solo nei film.» «Esatto. Suo marito non era gente comune», replicò Earl. «E nemmeno Hoffritz.» Laura non riusciva a distogliere lo sguardo da quell'uomo che stava subendo una profonda metamorfosi - invecchiando, indurendosi - sotto i suoi occhi. Ripetè la domanda alla quale prima non aveva ottenuto risposta: «Tutte queste ipotesi lei non avrebbe potuto farle senza conoscere il campo di studi di mio marito, la sua personalità, il tipo di lavoro che forse stava svolgendo. Come sa tutto questo di Dylan? Io non le ho detto niente». «Me ne ha parlato Dan Haldane.» «Il tenente? Quando?» «Quando mi ha telefonato. Poco prima di mezzogiorno.» «Ma io mi sono messa in contatto con voi solo dopo l'una.» «Dan mi ha detto che le avrebbe dato il nostro biglietto, assicurandoci che ci avrebbe chiamati. Voleva che fossimo informati di tutte le possibili ramificazioni del caso fin dall'inizio.» «Ma a me non l'ha detto che potessero esservi coinvolti agenti dell'FBI e, per l'amor di Dio, russi!» «Lui non lo sa che sono coinvolti, dottoressa McCaffrey. Si è solo reso
conto che c'è la possibilità che questi delitti siano collegabili a qualcosa di molto più ampio. A lei non ha detto niente perché non voleva farla preoccupare inutilmente!» «Mio Dio!» Quell'insensato, allettante mormorio di paranoia stava ritornando. Si sentì intrappolata in un'intricata ragnatela di complotti. «Meglio tener d'occhio Melanie», la invitò Earl. Fuori, una berlina Chevy avanzava lentamente lungo la strada. Si fermò accanto al furgoncino della compagnia dei telefoni, quindi si mosse e vi parcheggiò davanti. Ne scesero due uomini. «Nostri», disse Earl. «Agenti della Paladin?» «Sì. Ho chiamato l'ufficio un po' di tempo fa, quando ho concluso che il furgoncino era qui per un'operazione di sorveglianza, e ho chiesto di mandare qualcuno a controllarlo, perché non volevo uscire io lasciandovi da sole.» I due uomini scesi dalla Chevy si posero sui due lati del camioncino. «Meglio che vada a vedere Melanie», ripetè Earl. «Sta bene.» «Allora almeno si allontani dalla finestra.» «Perché?» «Perché io sono pagato per correre rischi, lei no. E l'ho avvertita fin dall'inizio di fare quello che le dico.» Lei arretrò dalla finestra, ma non si allontanò completamente. Voleva vedere che cosa succedeva fuori. Uno degli agenti della Paladin era ancora accanto allo sportello dal lato di guida. L'altro aveva fatto il giro verso il retro del veicolo. «Se sono agenti federali non spareranno», disse lei. «Neppure se vogliono Melanie.» «Giusto», annuì Earl. «Dovremo cederla. Ma comunque sapremmo chi ce l'ha, e potremo rivolgerci al tribunale per riprenderla. Ma, come ho detto, potrebbero non essere federali.» «E se sono russi?» chiese lei. «Allora potrebbe mettersi male.» La sua mano grande, forte, strinse il calcio del revolver. Tesa, Laura guardò dalla finestra. Il sole del tardo pomeriggio tingeva la strada di sfumature di ottone e rame. Socchiudendo gli occhi, vide una delle portiere posteriori del furgoncino
della compagnia dei telefoni spalancarsi. 19 Dan lasciò il dipartimento di patologia ma fece solo pochi passi lungo il corridoio prima che un pensiero lo facesse fermare. Tornò indietro, aprì la porta e vi si affacciò mentre Luther rialzava lo sguardo dal microscopio. «Ma non dovevi andare a pisciare?» chiese il patologo. «Ci hai messo meno di dieci secondi.» «L'ho fatta qui nel corridoio.» «Tipico di un detective della Omicidi.» «Ascolta, Luther, tu sei un libertario?» «Be', sì, ma di libertari ce n'è di ogni genere. Ci sono conservatori libertari, anarchici libertari, libertari ortodossi. Ci sono libertari che credono...» «Luther, guardami e vedrai la definizione di 'noia'.» «Ma allora perché mi hai domandato...» «Volevo solo sapere se hai mai sentito parlare di un gruppo libertario chiamato Freedom Now.» «Che io ricordi, no.» «È un comitato di azione politica.» «Non mi dice niente.» «Tu sei piuttosto attivo nei circoli libertari. Avresti sentito parlare di Freedom Now se fossero davvero nel giro?» «Probabilmente sì.» «Ernest Andrew Cooper.» «Uno dei tre di Studio City», replicò Luther. «Già. Prima di quest'occasione l'avevi mai sentito?» «No.» «Sei sicuro?» «Sì.» «Dovrebbe essere un pezzo grosso nei circoli libertari.» «Dove?» «Qui, a Los Angeles.» «Be', non lo è. È un nome che non avevo mai sentito.» «Ne sei certo?» «Certo che ne sono certo. Perché giochi a fare il piedipiatti della Omicidi con me?» «Perché lo sono, un piedipiatti della Omicidi.»
Il patologo rise. Aveva una risata cordiale e un sorriso che invogliava al sorriso. Dan non riusciva a capire perché mai un uomo simpatico, vivace, ottimista, energico come Luther Williams avesse deciso di passare la sua vita lavorativa a trafficare con i cadaveri. La dottoressa Irmatrude Gelkenshettle, preside della facoltà di psicologia dell'UCLA, aveva un ufficio d'angolo con tante finestre e la veduta sul campus. Ora, alle cinque meno un quarto, la breve giornata invernale stava già svanendo, avvolta in una fumosa luce arancione come quella di un fuoco che si muta in brace. Fuori, le ombre si allungavano, di minuto in minuto, e gli studenti affrettavano il passo per il freddo della sera che arrivava anticipando di poco il buio. Dan sedeva in una moderna poltrona di stile danese davanti alla scrivania della dottoressa Gelkenshettle. Era una donna bassa e robusta sulla cinquantina. I capelli grigio ferro erano tagliati alla bell'e meglio; benché non fosse mai stata bella, il suo viso era interessante e cordiale. Indossava calzoni blu e una camicia bianca di stile maschile, con ampie tasche e spalline; le maniche erano arrotolate e portava perfino un orologio da uomo, con il cinturino elastico. Nonostante l'aspetto, non era lesbica; Dan ci avrebbe scommesso. Pur essendo la prima volta che la vedeva, gli sembrava di conoscerla bene, dato che sua zia Kay - la sorella della sua madre adottiva, ufficiale di carriera nell'esercito - era esattamente come lei. Era chiaro che Irmatrude Gelkenshettle sceglieva il suo abbigliamento in base a criteri di praticità, durata e valore. Non che disprezzasse chi ci teneva a essere alla moda; semplicemente non le veniva in mente che la moda potesse essere un elemento di valutazione nei momenti in cui riforniva il suo guardaroba. Esattamente come zia Kay. Perfino l'orologio: anche zia Kay ne aveva uno maschile perché con il quadrante più grande era più facile leggere l'ora. Sulle prime l'aveva lasciato sconcertato. Non corrispondeva all'idea che aveva lui del preside di una facoltà di psicologia di un'importante università. Ma poi aveva notato che nella libreria dietro la scrivania ventiventicinque volumi - uno scaffale intero - recavano il suo nome sul dorso. «Professoressa Gelkenshettle...» Lei alzò una mano, interrompendolo. «Ho un nome impossibile. Le uniche persone che mi chiamano professoressa Gelkenshettle sono gli studenti, quei colleghi che detesto, il mio meccanico - bisogna tenerli a distanza altrimenti ti mangiano lo stipendio di un anno per una messa a punto del
motore - e gli estranei. Noi siamo estranei, o qualcosa di molto vicino, ma siamo anche dei professionisti, per cui lasciamo perdere i formalismi. Chiamami Marge.» «È il secondo nome?» «Ahimè, no, ma Irmatrude non è meglio di Gelkenshettle e il mio secondo nome è Heidi. Ti sembro una Heidi?» Lui sorrise. «Direi di no.» «Hai maledettamente ragione. I miei erano delle bravissime persone, e mi volevano bene, ma con i nomi erano un disastro.» «Io mi chiamo Dan.» «Molto meglio. Semplice. Sensato. Chiunque sa dire Dan. Allora, volevi parlare di Dylan McCaffrey e Willy Hoffritz. Non riesco a credere che siano morti.» «Non ti sarebbe tanto difficile se vedessi i loro corpi. Parlami prima di Dylan. Che opinione avevi di lui?» «Quando McCaffrey era qui io non ero ancora preside. Sono a capo di questa facoltà da poco più di quattro anni.» «Ma insegnavi qui, a quel tempo.» «Sì. Non lo conoscevo bene, ma abbastanza da sapere che non ci tenevo a conoscerlo meglio.» «So che era molto attaccato al suo lavoro. Sua moglie, anche lei una psicologa, lo ha perfino definito un nevrotico ossessivo-coatto.» «Era uno svitato», disse Marge. I due nuovi agenti della Paladin si allontanarono dal furgoncino dei telefoni puntando direttamente sulla porta anteriore di Laura. Earl Benton li fece entrare. Uno era alto, l'altro basso. Quello alto era magro e con un viso grigiastro. Quello basso era piuttosto grassoccio e lentigginoso. Earl chiamò quest'ultimo Flash, ma Laura non capì se era un soprannome o il suo nome vero. Parlò solo Flash mentre quello alto gli rimase accanto con un viso inespressivo. «Sono inferociti perché gli abbiamo fatto saltare la copertura», comunicò Flash. «Se non vogliono farsi fregare, devono stare più attenti», commentò Earl. «È quello che gli ho detto io», annuì Flash. «Chi sono?»
«Hanno mostrato i documenti dell'FBI.» «Hai preso i loro nomi?» «Nomi e numeri.» «Ti sembrano autentici?» «Sì», rispose Flash. «E loro ti sembrano i tipi giusti?» «Sì», ripetè Flash. «Vestiti a dovere. Calmi, modo di parlare cortese, gentili anche quando erano arrabbiati, ma con quella sfumatura di arroganza sotto, hai presente?» «Ho presente», annuì Earl. «Ma ora torniamo in ufficio a controllare, vediamo se il Bureau ha degli agenti con quei nomi.» «I nomi li troverai sicuramente, anche se quelli non sono legittimi», ribattè Earl. «Quello che dovete fare è procurarvi le foto dei veri agenti e vedere se sono gli stessi.» «Faremo così», rispose Flash. «Tornate qui appena possibile», concluse Earl, e i due si girarono verso la porta. «Un momento», disse Laura. Tutti si volsero a guardarla. «Che cosa vi hanno detto? Che motivo vi hanno dato per tenere sotto controllo la mia casa?» «Quelli del Bureau non parlano delle loro operazioni se non ne hanno voglia», rispose Earl. «E quelli non ne avevano voglia», aggiunse Flash. L'uomo alto annuì. «Se fossero qui per proteggere Melanie e me», riprese Laura, «ce lo direbbero, no? Per cui devono essere qui per riprendersela.» «Non necessariamente», disse Flash. Earl rimise la rivoltella nella fondina. «Guarda, Laura, la situazione potrebbe essere poco chiara per il Bureau come lo è per noi. Per esempio, supponiamo che tuo marito stesse lavorando a un importante progetto del Pentagono quando sparì con Melanie. Supponiamo che l''FBI lo cercasse fin da allora. E adesso lui spunta fuori, morto, in circostanze singolari. Magari non era il nostro governo a finanziarlo, per questi ultimi sei anni, e forse si chiedono dove trovasse i soldi.» Di nuovo, Laura ebbe la sensazione che il pavimento le oscillasse sotto i piedi, la sensazione che il mondo che aveva sempre creduto reale fosse u-
n'illusione. Sembrava quasi che la vera realtà fosse quel mondo paranoico da incubo fatto di nemici invisibili e complotti di inimmaginabile complessità. «Insomma, mi stai dicendo che sono lì in quel furgone, a guardare la mia casa, perché credono che altri possano venire a prendere Melanie e loro vogliono coglierli sul fatto. Ma continuo a non capire perché non sono venuti da me a dirmi che ci avrebbero sorvegliate.» «Non si fidano di lei», spiegò Flash. «Ce l'avevano con noi perché gli abbiamo fatto saltare la copertura», continuò Earl, «non solo nei confronti di quelli che forse sono lì fuori a tenerci d'occhio, ma anche nei tuoi confronti.» «Ma perché?» fece lei, sconcertata. Earl sembrava imbarazzato. «Perché, per quello che ne sanno loro, tu potresti essere stata fin dall'inizio d'accordo con tuo marito.» «Lui mi ha rapito Melanie!» Earl si schiarì la gola. La spiegazione che stava per darle lo metteva chiaramente a disagio. «Dal punto di vista del Bureau tu potresti aver permesso a tuo marito di portar via tua figlia, perché potesse fare i suoi esperimenti su di lei senza interferenze da parte di parenti o amici.» «Ma è pazzesco!» esclamò Laura quando si fu ripresa dallo sbalordimento. «Tu hai visto che cosa hanno fatto a Melanie. Come avrei potuto? Io la amo. È la mia bambina. Dylan era disturbato, pazzo forse, d'accordo, e troppo squilibrato per accorgersi che le stava facendo del male, che la stava distruggendo, o forse non gliene importava. Ma io non sono squilibrata, io! Io non sono come Dylan.» «Lo so», cercò di calmarla Earl. «Io lo so.» Negli occhi di Earl Benton c'era fiducia, fiducia e compassione, ma, quando guardò gli altri due scorse nel loro sguardo un'ombra di dubbio e sospetto. Lavoravano per lei, eppure non erano pienamente convinti che avesse detto la verità. Follia. Era incappata in un gorgo che la stava trascinando in un mondo da incubo, un mondo di sospetti, inganni e violenza, in un paesaggio alieno dove nulla era ciò che sembrava. Chissà come, le venne in mente Dorothy e Toto, presi in un tornado nel Kansas, e trasportati nel Regno di Oz. Ma ciò verso cui lei stava precipitando non era Oz: era l'inferno.
Dan, sorpreso, ripetè: «Svitato? Non sapevo che gli psicologi usassero termini del genere». Marge fece un sorrisetto. «Oh, non in aula, non nelle pubblicazioni, e certamente non in tribunale se mai ci dovessero affidare una perizia. Ma qui siamo nell'intimità del mio ufficio, tra quasi-estranei, e te l'assicuro, Dan, quello era matto. Non accertabile clinicamente, bada. Ma neppure semplicemente eccentrico. Il suo campo primario di ricerca doveva essere lo sviluppo e l'applicazione di tecniche di modificazione del comportamento che avrebbero trasformato la personalità criminale. Ma lui era sempre pronto a partire per la tangente, a cavalcare qualche stranezza, profondamente impegnato - 'ossessionato' è la parola giusta - in qualche nuova linea di ricerca, ma solo per sei mesi, diciamo, per poi disinteressarsene completamente.» «Quali stranezze, per esempio?» Lei si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. «Be', per un periodo, era decisissimo a trovare una terapia che combattesse con i farmaci la dipendenza da nicotina. Ti sembra una cosa sensata? Aiutare a fare a meno delle sigarette... e a non potere più fare a meno di un farmaco? E per sei o otto mesi era convinto che la suggestione subliminale, la programmazione subconscia, potessero metterci in condizioni di eliminare i nostri pregiudizi contro la fede nel soprannaturale, aiutarci ad aprire la mente alle esperienze psichiche, così che saremmo riusciti a vedere gli spiriti con la stessa facilità con cui ci vediamo tra noi.» «Spiriti? Parli di fantasmi.» «Sì. O meglio: lui parlava di fantasmi.» «Non pensavo che gli psicologi credessero negli spiriti.» «Stai parlando con una che non ci crede. Ma McCaffrey era uno che ci credeva.» «Mi vengono in mente i libri che abbiamo trovato in casa sua. Alcuni parlavano di scienze occulte.» «Probabilmente questo rappresentava una metà dei suoi hobby», disse lei. «Fenomeni paranormali.» «Ma chi poteva pagare per ricerche del genere?» «Dovrò controllare l'archivio. Probabilmente queste attività sull'occulto le faceva per conto suo, senza finanziamenti o impiegando illecitamente fondi concessi per altri lavori.» «Chi finanziava la sua ricerca primaria?» «Qualcosa la riceveva da fondi istituiti da ex studenti dell'università a
scopo di ricerca. E poi finanziamenti dalle imprese, ovviamente. E dal governo.» «Soprattutto il governo?» «Direi di sì.» Dan si accigliò. «Se Dylan McCaffrey era uno svitato, perché il governo aveva a che fare con lui?» «Oh, be', era sì uno svitato, e i suoi interessi per l'occultismo erano esasperanti, ma era una persona brillante. Questo devo concederglielo. Se avesse avuto una personalità più stabile, il suo intelletto lo avrebbe portato molto lontano. Sarebbe diventato famoso nel suo campo, e forse anche tra il grosso pubblico.» «Erano finanziamenti del Pentagono?» «Sì.» «A che cosa stava lavorando per il Pentagono?» «Non posso dirlo. Innanzitutto, non lo so. Potrei controllare in archivio, ma anche se lo sapessi non potrei dirlo. Tu non hai l'autorizzazione del servizio di sicurezza.» «Giusto. Che cosa puoi dirmi di Wilhelm Hoffritz?» «Era una merda.» Dan rise. «Dottoressa... Marge, certo che tu non usi eufemismi.» «È la pura verità. Hoffritz era un aristocratico figlio di puttana. Avrebbe voluto essere a capo di questa facoltà. Non gli è stato possibile. Sapevamo tutti come sarebbe andata se avesse ottenuto il potere su di noi. Era malvagio. Prepotente. Avrebbe raso al suolo l'intera facoltà.» «Anche lui faceva ricerche per la Difesa?» «Quasi esclusivamente. Non posso parlarti neppure di questo.» «Si dice che fu costretto a dimettersi dall'università.» «Quello fu un giorno di festa per l'UCLA.» «Come mai lo buttaste fuori?» «C'era una ragazza, una studentessa...» «Ah.» «Molto peggio di quello che pensi», precisò Marge. «Non era solo una questione di turpitudine morale. Non era il primo professore ad andare a letto con una studentessa. Faceva del sesso con lei, sì, ma l'ha anche mandata all'ospedale. La loro relazione era... anormale. Una notte, le cose gli sfuggirono di mano.» «Parli di giochi fatti con legami, cose del genere?» «Sì. Hoffritz era un sadico.»
«E la ragazza collaborava? Era una masochista.» «Sì. Ma gliene venne più di quanto avessero pattuito. Una notte Hoffritz perse il controllo, le ruppe il naso, tre dita, il braccio sinistro. Andai all'ospedale, la vidi. Tutt'e due gli occhi neri, un labbro spaccato, piena di lividi.» Laura ed Earl stavano alla finestra a guardare Flash e quello alto scendere lungo il vialetto nel crepuscolo che avanzava. Il furgoncino era solo una sagoma indistinta. «FBI, eh?» disse lei. «Ma non vanno via, adesso?» «No.» «Anche se ora so di loro?» «Be', non sono convinti che tu fossi in combutta con tuo marito. Anzi, questa ai loro occhi dovrebbe essere una delle eventualità meno probabili. Pensano ancora che qualcuno - quelli che finanziavano le ricerche di Dylan, chiunque siano - verrà a cercare Melanie, e vogliono trovarsi qui quando ciò accadrà.» «Ma io ho bisogno comunque che tu stia qui», riprese Laura. «Nel caso che sia l'FBI a prendere mia figlia.» «Sì. Se le cose vanno così, avrai bisogno di un testimone per poterti rivolgere al tribunale.» Laura si avvicinò al divano e si sedette sul bordo, con le spalle incurvate, la testa china, le braccia appoggiate alle ginocchia. «Mi sembra di star perdendo la testa.» «Andrà tutto nel migliore dei modi se...» Fu interrotto dall'urlo di Melanie. Dan sussultò alla descrizione di Marge della studentessa malmenata. «Ma non risulta che Hoffritz sia mai stato arrestato.» «La ragazza non presentò denuncia.» «Lui le fece quello e lei gliela fece passar liscia? Perché?» Marge si alzò, si avvicinò alla finestra e guardò giù verso il campus. La luce aranciata del tramonto aveva lasciato il posto alle tonalità grigie e blu del crepuscolo. Dalla parte del mare arrivava qualche nuvola. Infine, la psicologa riprese a parlare: «Quando sospendemmo Hoffritz e cominciammo a indagare sulle sue passate relazioni con gli studenti, scoprimmo che quella ragazza non era la prima. Ce n'erano state almeno altre quattro nel corso degli anni, tutte coinvolte in una relazione sadomasochi-
sta con Hoffritz, ma nessuna di esse aveva mai riportato contusioni gravi. Fino a quella ragazza, era sempre stato più che altro un gioco sporco. Quelle prime quattro accettarono di parlare quando insistemmo e vennero fuori alcune informazioni interessanti... e spaventose». Dan non la sollecitò a continuare. Si rendeva conto che doveva essere penoso, umiliante, per lei, riconoscere che un collega - anche un collega che non le piaceva - fosse capace di cose del genere, e che la comunità accademica non fosse più nobile del resto del mondo. Ma lei era una donna realista, in grado di affrontare le verità spiacevoli - cosa rara all'interno quanto all'esterno della comunità accademica - e gli avrebbe detto tutto: bisognava solo lasciarle tutto il tempo che le occorreva per farlo. Sempre guardando fuori della finestra, Marge riprese: «Nessuna di quelle quattro ragazze aveva abitudini sessuali promiscue, Dan. Brave figlie di buona famiglia, qui per farsi un'istruzione, non per sottrarsi all'autorità dei genitori e darsi alla pazza gioia. Anzi, due di loro erano vergini prima di cadere sotto l'influsso di Hoffritz. E nessuna, prima di Hoffritz, era mai stata coinvolta in rapporti sadomasochisti; e certamente nemmeno dopo. Provavano ripugnanza al ricordo di quanto gli avevano permesso di far loro». Tacque di nuovo. Dan sentì che questo era il momento di fare una domanda: lei stessa lo voleva. «Be', ma se non gli piaceva, perché lo facevano?» «La risposta è un pochino complessa.» «Magari la capisco. Anch'io sono un pochino complesso.» Marge si girò dalla finestra e sorrise, ma solo per un attimo. Quanto aveva da dirgli bastava a spegnergli quel sorriso. «Ognuna di quelle quattro ragazze, scoprimmo, si era fatta coinvolgere volontariamente da Hoffritz in esperimenti di modificazione del comportamento. Esperimenti che comprendevano suggestione postipnotica e certe sostanze che agivano sulle inibizioni.» «Ma perché accettavano di farsi coinvolgere in qualcosa del genere?» «Per compiacere un professore, per ottenere un buon voto. O forse perché la cosa le interessava davvero. Talvolta gli studenti provano interesse per quello che studiano, perfino oggi, perfino gli studenti di calibro ridotto che ci arrivano negli ultimi tempi. E Hoffritz un certo fascino lo aveva, un fascino che funzionava su qualcuno più che su altri.» «Con te non funzionava affatto.» «Quando azionava il suo fascino, lo trovavo ancora più viscido del soli-
to. In ogni modo, lui era il loro professore, e le affascinava, e non bisogna dimenticare che era un personaggio ben noto nel suo campo, e si era guadagnato un certo rispetto.» «E fu dopo l'inizio di questi esperimenti che ognuna delle ragazze si trovò coinvolta sessualmente con lui. Tu credi dunque che usasse l'ipnosi, le droghe, la programmazione subconscia per, come dire, per convertirle.» «Per programmare le loro matrici psicologiche in modo da includere promiscuità e masochismo. Sì, è esattamente quello che penso.» Lo strillo acuto di Melanie riempì la casa. Urlando il nome di sua figlia, Laura si precipitò dietro Earl Benton lungo il corridoio. La guardia del corpo, impugnando la pistola, entrò nella camera della bambina e accese la luce. Melanie era sola. La minaccia che le aveva strappato quelle urla poteva vederla solo lei. Rannicchiata in un angolo, con indosso un paio di calze bianche e le mutandine bianche di cotone che Laura le aveva messo portandola a letto, con le mani alzate davanti alla faccia per allontanare un invisibile nemico, urlava così forte che la gola doveva farle male. Appariva così fragile, così penosamente vulnerabile... Per un attimo, Laura fu, sopraffatta dall'odio per Dylan; sentì che le ginocchia le cedevano quasi sotto il peso della sua rabbia. Earl rinfoderò l'arma. Si protese verso Melanie, ma lei gli diede un colpo sulla mano e si allontanò strisciando lungo il muro. «Melanie, amore, calmati! Non c'è niente!» disse Laura. La bambina non le diede ascolto. Raggiunse l'altro angolo, vi si sedette, tirò su le gambe, strinse a pugno le manine e le tenne alzate in difesa. Non urlava più, ma emetteva uno strano verso di panico. «Uh... uh... uh... uh... uh...» Earl si accoccolò davanti a lei. «Tutto a posto, piccola.» «Uh... uh... uh... uh...» «Ora è tutto a posto. Davvero. È a posto. Ci sono io.» «La p-p-porta», balbettò Melanie. «La porta! Non fatela aprire!» «È chiusa», assicurò Laura, inginocchiandosi accanto a lei. «La porta è chiusa e sbarrata, amore.» «Tenetela chiusa!» «Non ti ricordi? C'è un grande catenaccio, tutto nuovo e pesante, sulla porta», riprese Laura. «Non ti ricordi, tesoro?» Earl la guardò, chiaramente perplesso.
«La porta è chiusa», continuò Laura. «Sbarrata, sigillata. Nessuno può aprirla, amore. Nessuno.» Due grosse lacrime spuntarono negli occhi della bambina, riversandosi lungo le guance. «Qui sei al sicuro, piccina. Nessuno può farti del male.» Melanie sospirò, e la paura cominciò a svanire dal suo viso. «Sei al sicuro. Perfettamente al sicuro, ora.» La bambina portò una mano alla testa e si mise a giocherellare con una ciocca di capelli con aria distratta, come una qualsiasi normale ragazzina immersa in pensieri normali, pensieri di ragazzi, di cavalli, di feste, di una qualunque delle cose che occupano la mente dei ragazzini della sua età. Dopo il comportamento altalenante fra isteria e catatonia, mostrato fino a quel momento, vederla compiere un atto così quotidiano era commovente e incoraggiante al tempo stesso: una piccola cosa, semplice, tutt'altro che un passo risolutivo, non un'incrinatura nel suo scudo autistico, ma qualcosa di normale. Laura colse quel momento. «Ti piacerebbe venire con me dal parrucchiere? Sì? Da un vero parrucchiere non ci sei mai stata. Ci andiamo insieme e ci facciamo sistemare i capelli. Che cosa ne dici?» Benché lo sguardo rimanesse un po' velato, Melanie aggrottò la fronte e parve considerare la proposta. «Avresti proprio bisogno di fare qualcosa ai tuoi capelli», continuò Laura, cercando con ansia di non disperdere quel momento, di espanderlo, di approfondire e ampliare questo inatteso contatto con la bambina all'interno del suo guscio. «Li facciamo tagliare e pettinare. Magari con i riccioli. Ti piacerebbe avere i riccioli, tesoro? Staresti benissimo.» Il viso della bambina si ammorbidi e per un attimo un accenno di sorriso si dipinse sulle sue labbra. «E dopo il parrucchiere, possiamo andare a comprare dei vestiti. Che te ne pare? Tanti vestiti nuovi. Gonne e golfini. Anche uno di quei giubbini lucidi come quelli di Michael Jackson. Ti piacerebbe, ne sono sicura. Ah, già, ma forse non lo sai chi è Michael Jackson, vero? Aspetta di scoprirlo e vedrai! Tutte le ragazzine, dagli otto ai diciotto anni, ne vanno pazze: vorrai anche tu un suo poster in camera.» Il sorriso indefinito di Melanie si dissipò di colpo. Benché Laura continuasse a parlare, quello stato d'animo scomparve, repentino com'era arrivato. L'espressione serena della bambina lasciò il posto a un'aria di disgusto, come se avesse visto qualcosa, nel suo mondo privato, che la terrorizzava e
le ripugnava. Quindi fece una cosa inattesa e inquietante: si colpì con i piccoli pugni le ginocchia e le cosce, colpi forti e sonori, poi si percosse il petto... «Melanie!» ... e le braccia con tutt'e due i pugni, con una forza e un furore inattesi. «Fermati! Melanie!» ripetè Laura, scossa e spaventata dall'improvvisa furia autodistruttiva della figlia. Melanie si assestò un pugno in faccia. «La prendo io!» gridò Earl. La bambina lo morse mentre lui cercava di fermarla. Si liberò una mano e si artigliò il petto con tanta ferocia da sanguinare. «Gesù!» esclamò Earl mentre la bambina lo tempestava di calci con i piedi nudi e si divincolava. Dan aggrottò le sopracciglia. «Programmate a essere promiscue e masochiste? È possibile una cosa del genere?» Lei annuì. «Con uno psicologo senza scrupoli, al corrente delle moderne tecniche di lavaggio del cervello, che abbia a disposizione un soggetto disponibile o uno su cui possa esercitare un controllo fisico per lunghi periodi, è possibile. Ma normalmente la cosa richiede molto tempo, molta pazienza e perseveranza. La cosa che stupisce e spaventa in questo caso è che Willy Hoffritz trasformò quelle ragazze nel giro di qualche settimana, dopo aver lavorato con loro solo per una o due ore al giorno, tre o quattro volte la settimana. A quanto pare, aveva sviluppato dei suoi metodi, straordinariamente efficaci, di condizionamento psicologico. Ma con le prime quattro non durò a lungo, mai più di qualche settimana, qualche mese, al massimo. Alla fine, la reale personalità di ciascuna di esse riemerse. Dapprima si sentirono in colpa per le loro acrobazie sessuali con Hoffritz, ma continuarono a trarre un perverso piacere dall'umiliazione e dalle sofferenze del loro ruolo masochistico; poi, gradatamente, giunsero a temere e a disprezzare questo aspetto della loro relazione. Ognuna di esse raccontò che era stato come risvegliarsi da un sogno quando alla fine avevano cominciato a sentire la necessità di liberarsi da Hoffritz. Tutte e quattro, in ultimo, trovarono la forza di volontà per divincolarsi.» «Buon Dio», commentò Dan. «Sì, credo anch'io che esista un buon Dio, ma certe volte mi domando come faccia a permettere che ci siano uomini come Hoffritz sulla faccia della terra.»
«Perché nessuna di loro, di queste quattro ragazze, non lo ha denunciato alla polizia, o almeno alle autorità dell'università?» «Avevano troppa vergogna. Una vergogna profonda. E finché non le abbiamo trovate e abbiamo cominciato a interrogarle non avevano mai sospettato che le loro aberrazioni masochistiche fossero opera di Hoffritz. Erano convinte che quei desideri contorti fossero dentro di loro fin dall'inizio.» «Ma è incredibile. Sapevano di essere coinvolte in esperimenti di modificazione del comportamento: quando cominciarono a comportarsi in un modo del tutto nuovo avrebbero dovuto...» Marge alzò una mano, interrompendolo. «Probabilmente Hoffritz aveva inculcato nelle loro menti direttive che impedivano alle ragazze di considerare la possibilità che fosse lui responsabile del loro comportamento.» Dan provò un brivido di paura al pensiero che il cervello umano potesse essere manipolato così facilmente, proprio come la cera. Melanie sgusciò dalle mani di Earl, si alzò e fece due passi barcollanti verso il centro della camera, dove si fermò ondeggiando, e cadde quasi, poi riprese a percuotersi, picchiandosi come se sentisse che meritava di essere punita o se cercasse di scacciare dalla sua carne traditrice qualche spirito oscuro. Laura riuscì ad avvicinarsi scansando i colpi, la cinse con le braccia, la strinse, cercando di bloccarle le braccia lungo i fianchi. Con le mani imprigionate, Melanie non si calmò. Cominciò a scalciare e a urlare. Earl Benton le arrivò da dietro, stringendola fra sé e Laura in modo che non potesse più muoversi, ma solo gridare e piangere nel tentativo di liberarsi. I tre rimasero così per un minuto, mentre Laura le parlava in tono rassicurante, finché Melanie non smise di dibattersi. Si accasciò inerte fra i due. «Ha finito?» chiese Earl. «Penso di sì», rispose Laura. «Povera piccola.» Melanie appariva sfinita. Earl si ritrasse. Ormai docile, Melanie permise a Laura di condurla al letto. Si sedette sul bordo. Stava ancora piangendo.
«Bambina», mormorò Laura, «stai bene, adesso?» Con uno sguardo spento, la bambina disse: «Si è aperta. Si è aperta di nuovo, si è aperta tutta». Rabbrividì dall'orrore. «La quinta ragazza», disse Dan. «Quella finita in ospedale. Come si chiamava?» La psicologa si allontanò dal vano della finestra su cui batteva la luce ormai fioca del crepuscolo. Ritornò alla sua scrivania e si lasciò cadere nella poltrona come se questi ricordi spiacevoli l'avessero sfinita, molto di più che qualsiasi giornata di duro lavoro. «Non so se sia il caso di dirtelo.» «Credo proprio di sì.» «E il rispetto della privacy?» «E le indagini di polizia?» «E la riservatezza professionale nei confronti di una paziente?» «Ah, sì? La quinta ragazza era una tua paziente?» «L'ho visitata diverse volte all'ospedale.» «Non funziona, Marge. L'hai messa bene, ma non funziona. Io facevo visita tutti i giorni a mio padre quando era ricoverato per un'operazione di by pass, ma non credo che una visita quotidiana mi dia il diritto di definirmi il suo medico.» Marge sospirò. «È solo che quella povera ragazza ha sofferto tanto e ora, quattro anni dopo il fatto, ritirare fuori tutta quella faccenda...» «Non ho intenzione di presentarmi da lei e rivangare il passato davanti all'eventuale marito», le assicurò Dan. «Posso sembrare stupido e rozzo, ma in realtà so essere sensibile e discreto.» «Non sembri né stupido né rozzo.» «Grazie.» «Ma pericoloso sì.» «È un'immagine che coltivo. Mi serve per il lavoro.» Lei esitò ancora per un istante, poi si strinse nelle spalle. «Si chiamava Regine Savannah.» «Ma che nome è? Stai scherzando!» «Ti pare che Irmatrude Gelkenshettle scherzerebbe sul nome di qualcuno?» «Scusa.» Annotò «Regine Savannah» sul suo taccuino. «Sai dove abita?» «Quando era qui viveva in un appartamento a Westwood con altre tre studentesse. Ma sono sicura che non sta più là da tempo.»
«Che cosa fece quando uscì dall'ospedale? Abbandonò la scuola?» «No. Finì gli studi e si laureò, benché ci fosse chi avrebbe preferito un suo trasferimento. Per qualcuno era un continuo imbarazzo averla qui.» La cosa lo lasciò perplesso. «Imbarazzo? Penserei che dovessero essere tutti contenti che si fosse rimessa, fisicamente e psicologicamente, così bene da riprendere una vita regolare.» «Solo che continuava a vedere Hoffritz.» «Che cosa?» «Da non credere, eh?» «Vuoi dire che continuò a vederlo dopo che l'ebbe mandata in ospedale?» «Esatto. Peggio, Regine mi scrisse una lettera, quale preside di facoltà, in cui difendeva Hoffritz.» «Buon Dio.» «Scrisse anche al rettore dell'università e ad altri professori del consiglio di amministrazione. Fece tutto quanto le era possibile perché Willy Hoffritz non perdesse il posto.» Dan si sentì nuovamente invadere da una strisciante sensazione di disagio. Non era portato, per natura, alle azioni o ai pensieri melodrammatici, ma in qualche modo il solo parlare di Hoffritz cominciava a fargli gelare il sangue nelle vene. Se quell'uomo era in grado di imporre un tale controllo a Regine, che cosa mai avrebbero potuto ottenere lui e Dylan McCaffrey combinando i loro diabolici talenti? A che scopo avevano trasformato Melanie in qualcosa di simile a un vegetale? Dan non riusciva più a star fermo. Si alzò in piedi. Ma l'ufficio era piccolo e non c'era molto spazio per muoversi, per lui che era così grosso. Rimase lì, ritto accanto alla sedia, con le mani in tasca. «Quindi, anche dopo essere finita all'ospedale, Regine non riuscì a liberarsi del suo influsso.» Marge scosse la testa. «Dopo che Willy Hoffritz fu mandato via, Regine continuò a farsi accompagnare da lui alle cerimonie e alle feste del campus. E fu lui l'unico suo invitato alla cerimonia della consegna della laurea.» «Gesù.» «Ci godettero tutti e due a sbattercelo in faccia.» «Quella ragazza aveva bisogno di un aiuto psichiatrico. Aveva bisogno di essere deprogrammata.» Una grande tristezza calò sul viso gentile della psicologa. Si tolse gli occhiali come se fossero diventati improvvisamente un peso insopportabile.
Si stropicciò gli occhi stanchi. Dan capiva piuttosto bene quello che provava la donna. Era dedita al suo lavoro, era molto capace in quel che faceva, ed era una persona dotata di canoni morali, di scrupoli, di ideali. La sua coscienza doveva avvertire che un uomo come Hoffritz era un discredito non solo per la professione ma anche personalmente per lei. «Cercammo di fare in modo che Regine avesse l'aiuto di cui aveva bisogno. Ma lei lo rifiutò.» Fuori, si.erano accesi i lampioni, che cercavano senza successo di tener lontana la notte. «Evidentemente», riprese Dan, «se Regine non si ribellò a Hoffritz fu perché le piaceva essere picchiata.» «Evidentemente.» «Lui l'aveva programmata perché le piacesse.» «Evidentemente.» «Aveva imparato dalle prime quattro ragazze.» «Sì.» «Su di loro aveva perso il controllo, ma aveva imparato dai suoi errori, e una volta arrivato a Regine aveva imparato come mantenere una presa d'acciaio.» Dan doveva muoversi, scaricare un po' di energia. Fece cinque passi verso la libreria, tornò alla sedia e appoggiò le mani sulla spalliera. «Non potrò più sentire l'espressione 'modificazione del comportamento' senza avvertire un senso di nausea.» Marge assunse un tono difensivo. «La modificazione del comportamento è un'area di ricerca legittima, una branca della psicologia che ha una sua dignità. Può aiutarci a trovare metodi di insegnamento più efficaci, a ridurre la criminalità, a curare, forse persino a creare un mondo più pacifico.» Contrariamente a Dan, che diventava sempre più irrequieto e bisognoso di azione, Marge sembrava cercare rifugio in una sorta di letargo; si accasciava sempre di più nella poltrona. Era una donna energica e battagliera, ma davanti a inesplicabili mostruosità come quella sembrava sempre meno una combattente e sempre più una nonna che ha bisogno di una sedia a dondolo e di una bella tazza di tè con il miele. Una vulnerabilità che la faceva piacere ancora di più a Dan. Riprese con voce stanca: «La modificazione del comportamento e il lavaggio del cervello non sono assolutamente la stessa cosa. Il lavaggio del cervello ne è un figlio bastardo, una deviazione perversa, così come Hoffritz non era un uomo comune, o uno scienziato comune, ma una perversione dell'uno e dell'altro».
«Regine sta ancora con lui?» «Non lo so. L'ultima volta l'ho vista più di due anni fa e allora stava con lui.» «Visto che non l'ha lasciato dopo le percosse, immagino che nulla di quanto lui abbia fatto potesse convincerla ad andarsene. È probabile che lo vedesse ancora.» «A meno che non sia stato lui a stancarsi di lei», aggiunse Marge. «Dall'idea che mi sono fatto di lui, non si stancava mai di qualcuno che potesse dominare e terrorizzare.» Marge annuì mestamente. Dan guardò l'orologio, ansioso di andarsene, di muoversi, di agire, di fare qualcosa. «Hai detto che Dylan McCaffrey era brillante, un genio. Diresti la stessa cosa di Hoffritz?» «Probabilmente sì. Ma il suo genio era di una qualità oscura, contorta, perversa.» «Anche quello di McCaffrey.» «Nemmeno la metà di quello di Hoffritz», replicò lei. «Ma lavorando insieme, con finanziamenti sostanziosi, forse illimitati, su un soggetto umano, assolutamente privi di restrizioni legali o morali, dovevano costituire una combinazione pericolosa, no?» «Sì», rispose lei. Una pausa. «Diabolica.» Quella parola, «diabolica», sembrava stranamente esagerata, venendo da Marge. Ma Dan era sicuro che fosse stata scelta con cura. «Diabolica», ripetè lei, togliendogli ogni dubbio sulla profondità della sua apprensione. Nel bagno, con della tintura di iodio e un po' di cerotto, Laura fu in grado di medicare la piccola ferita alla mano di Earl Benton, i segni del morso che gli aveva dato Melanie. «Non è niente», le assicurò Earl. «Non dartene pensiero.» Melanie era seduta sul bordo della vasca, con lo sguardo perduto sulle mattonelle della parete. Non sarebbe potuta essere più differente dalla furia che si era scatenata contro di loro nella camera da letto. «Un morso umano rischia di far infezione più di quello di un cane o di un gatto», disse Laura. «Lo hai coperto per bene di tintura, e non sanguina quasi. Solo un morsetto. Non fa nemmeno male», insisté lui, anche se lei sapeva che almeno un po' doveva bruciare.
«Hai fatto un'antitetanica di recente?» domandò Laura. «Sì. Il mese scorso ero sulle tracce di certi delinquenti. Uno di loro ha avuto da obiettare sul fatto che l'ho trovato e mi ha tirato una coltellata. Non ha fatto troppi danni. Sette punti per chiuderla. È stato allora che ho fatto l'antitetanica. È recentissima.» «Mi dispiace di quello che è successo.» «Sì, me lo hai detto.» «Mi dispiace davvero.» «So che non lo ha fatto con cattive intenzioni. E poi è il lavoro.» Laura si accovacciò davanti a Melanie e controllò i lividi sulla guancia sinistra della piccola. I lividi segnavano il punto dove, al culmine della sua crisi, si era colpita. Dall'apertura della camicetta si vedevano i graffi sul collo e sul petto dove erano arrivate le sue unghie. Il labbro era ancora gonfio e arrossato, dove se l'era morso, alla fine della seduta ipnotica di quel pomeriggio. Con la bocca secca per la paura e l'apprensione, Laura chiese a Earl: «Come possiamo proteggerla? Non è solo un nemico senza volto quello che vuole raggiungerla. Non sono solo agenti del governo o spie russe. È anche lei che vuole farsi del male. Come possiamo proteggerla da se stessa?» «Bisognerà che qualcuno le stia accanto, la tenga d'occhio ogni istante.» Laura pose una mano sotto il mento della figlia, le alzò la testa perché i loro sguardi si incontrassero. «Questo è troppo, piccola. La mamma può cercare di vedersela con quegli uomini cattivi che vogliono metterti le mani addosso. La mamma può cercare di vedersela con il tuo stato, aiutarti a uscirne, ma ora... questo è troppo. Perché vuoi farti del male, bimba? Perché?» Melanie si agitò, come se desiderasse disperatamente rispondere, ma fosse trattenuta da qualcuno. La bocca le si torse, si mosse, ma senza emettere un suono. Rabbrividì, scosse la testa, mandò un gemito. Laura sentì una dolorosa stretta al cuore davanti alla scena di sua figlia che lottava senza successo per liberarsi dalla rete del suo autismo. 20 Ned Rink, l'ex poliziotto ed ex agente dell'FBI trovato morto nella sua auto nel parcheggio dell'ospedale, possedeva una piccola casa in stile ranch sul limite di Van Nuys. Dan vi si recò direttamente dal suo colloquio
con Marge Gelkenshettle. Era una costruzione bassa con il tetto piatto coperto di pietre bianche, posta nel mezzo di una zona particolarmente pianeggiante della San Fernando Valley, su una strada tutta di case ugualmente basse e squadrate. La vegetazione - con la tipica esuberanza californiana - era l'unica cosa che ammorbidisse la secca geometria della casa e del tratto di terreno che la circondava, tipico prodotto dei tardi anni Cinquanta. La casa era buia. Il globo sporco del lampione che aveva davanti non mandava troppa luce. Tra le sagome d'ombra delle siepi, degli ibischi, degli aranci nani e delle palme si intravedevano le finestre nere e qualche chiazza di stucco giallastro sui muri. Su un lato della strada c'erano delle auto parcheggiate; benché fosse annidata nell'ombra fra due lampioni, sotto un immenso lauro, Dan individuò immediatamente la macchina della polizia, senza contrassegni. Al volante della Ford, sprofondato nel sedile, quasi invisibile, c'era un uomo che osservava la casa di Rink. Dan superò la costruzione, fece il giro dell'isolato, ritornò e parcheggiò a una certa distanza dalla berlina del dipartimento. Sceso dall'auto, si avvicinò alla Ford. Il finestrino dell'autista era semiaperto. Dan sbirciò dentro. Il poliziotto in borghese di guardia era un detective della East Valley Division e Dan lo conosceva. Il suo nome era George Padrakis e sembrava Perry Como. Padrakis finì di abbassare il finestrino. «Sei venuto a rilevarmi, o che cosa?» Aveva anche la voce di Perry Como: morbida, dolce, sognante. Guardò l'orologio. «Ho ancora un paio d'ore. È troppo presto per darmi il cambio.» «Sono venuto solo a dare un'occhiata dentro», replicò Dan. Padrakis alzò il capo per guardarlo in viso. «È tuo il caso, eh?» «È mio il caso.» «Wexlersh e Manuello hanno già setacciato il posto.» Wexlersh e Manuello erano i collaboratori più stretti di Ross Mondale nella East Valley Division, due investigatori carrieristi che si erano legati al suo carro ed erano disposti a fare qualsiasi cosa per lui, non escluso infrangere la legge di tanto in tanto. Erano dei vermi e Dan non li sopportava. «Si occupano anche loro di questo caso?» domandò Dan. «Non crederai di averlo tutto per te? È una cosa troppo grossa. Già quattro morti. E uno di loro è un milionario di Hancock Park. Troppo grossa per un approccio alla Cavaliere Solitario.»
«Che cosa ti tengono a fare qui?» chiese Dan, chinandosi per mettersi all'altezza di Padrakis. «Vattelapesca. Forse si immaginano che potrebbe esserci qualcosa, in casa di Rink, che può far capire per chi stava lavorando, e magari che quelli che lo pagavano lo sanno e verranno a far sparire le prove.» «E a questo punto salti fuori tu e li becchi.» «Ridicolo, eh?» commentò Padrakis in tono assonnato. «Chi l'ha avuta l'idea?» «Indovina un po'?» «Mondale», disse Dan. «Il signore ha vinto l'orsacchiotto di peluche.» La lieve brezza improvvisamente si trasformò in un vento quasi freddo, che fece muovere le foglie del lauro. «Deduco che stai lavorando da ventiquattr'ore, se ieri notte eri in quella casa di Studio City», disse Padrakis. «Sì, quasi.» «E allora che ci fai qui? Dovresti essere a casa con i piedi sul tavolo e una birra in mano. Almeno io sarei lì.» «Sono uno dedito al lavoro», rispose Dan. «Ti hanno dato la chiave, George?» «Sei fissato con il lavoro, da quello che si dice.» «Hai intenzione di psicanalizzarmi prima o puoi dirmi se ti hanno lasciato una chiave?» «Sì. Ma non so se posso dartela.» «Il caso è mio.» «Ma il posto è già stato perquisito.» «Non da me. Dai, George, perché devi rompere tanto?» Riluttante, Padrakis si frugò in una tasca della giacca in cerca della chiave della casa di Ned Rink. «Mondale vuole parlare con te, ci tiene proprio.» Dan annuì. «Gli piace la mia conversazione brillante...» Padrakis trovò la chiave ma non gliela porse subito. «È tutto il giorno che cerca di rintracciarti.» «E dice di essere un detective?» chiese Dan, tendendo la mano. «È tutto il giorno che ti cerca e tu te ne vieni qui anziché andare alla stazione di polizia come gli avevi promesso, e io ti do anche la chiave... Non ne sarà affatto felice.» Dan sospirò. «Credi che sarebbe più felice se tu me la rifiutassi e io fossi
costretto a forzare una finestra per entrare in casa?» . «Non lo faresti.» «Scegli tu la finestra.» Finalmente, Padrakis gli diede la chiave. Dan arrivò in fondo al marciapiede, attraversò il cancello, risalì il vialetto fino alla porta, trascinando un po' la gamba. Doveva piovere ancora: il ginocchio glielo diceva. Aprì la porta ed entrò. Si trovò in un piccolo ingresso. Il soggiorno sulla destra era illuminato debolmente dalla luce proveniente dalla strada. A sinistra, in fondo a uno stretto corridoio, c'era una luce accesa in una stanza che poteva essere la camera da letto o lo studio. Dalla strada non si vedeva. Wexlersh e Manuello, secondo il loro stile trasandato, dovevano aver dimenticato di spegnerla prima di uscire. Fece scattare la luce nel corridoio, entrò nella stanza buia sulla sua destra, trovò una lampada e diede un'occhiata per prima cosa al soggiorno. Fu una sorpresa. Era una casa modesta, in un quartiere modesto, ma era arredata come se fosse il rifugio segreto di uno dei Rockefeller. In mezzo alla stanza c'era un lussuoso tappeto cinese con motivi di draghi e fiori di ciliegio. C'erano poltrone francesi di metà Ottocento con le gambe intagliate a mano, un divano nello stesso stile tappezzato con un tessuto di lusso di un bianco avorio che corrispondeva perfettamente al colore di fondo del tappeto. Due lampade di bronzo con la base lavorata avevano i paralumi di gocce di cristallo. C'era un tavolino da caffè di un genere che Dan non aveva mai visto: era molto ampio, pareva fatto interamente di bronzo e di peltro, con il ripiano abbellito da una scena orientale incisa magistralmente; la superficie superiore si incurvava lateralmente a formare i fianchi, e i fianchi si curvavano a loro volta formando i piedi, cosicché il pezzo sembrava ricavato da un'unica lastra lavorata. Sulle pareti, i paesaggi, ciascuno lussuosamente incorniciato, sembravano l'opera di un maestro. Nell'angolo in fondo, un'etagère francese antica conteneva una collezione di cristalli statuine, vasi, tazze - un pezzo più splendido dell'altro. Il solo arredamento del soggiorno doveva essere costato più dell'intera modesta casa. Evidentemente Ned Rink se la passava bene da sicario prezzolato. E sapeva anche come piazzare i suoi soldi passando inosservato: se avesse comprato una casa di lusso nel quartiere migliore, prima o poi il fisco lo avrebbe notato e gli avrebbe chiesto come poteva permettersela; qui invece riusciva a vivere, nel lusso, in una situazione apparentemente modesta.
Dan cercò di immaginarselo in quella stanza. L'uomo era tozzo e decisamente brutto: il suo desiderio di circondarsi di cose belle era comprensibile, ma lì seduto doveva dare l'impressione di uno scarafaggio su una torta di compleanno. Dan notò che non c'erano specchi in soggiorno, si ricordò che non ce n'erano neppure nell'ingresso e sospettò che non ne avrebbe trovato nessuno in tutta la casa, tranne che nel bagno. Affascinato, si diresse in fondo al corridoio per dare un'occhiata al resto della casa, puntando innanzitutto verso la stanza dove Wexlersh e Manuello avevano lasciato la luce accesa. Nell'attimo in cui attraversò la soglia, gli venne in mente che forse la luce non era stata una distrazione di Wexlersh e Manuello, che forse in quel momento c'era qualcun altro in casa, che forse qualcuno fosse lì illegalmente nonostante la sorveglianza di George Padrakis, e in quello stesso istante colse un movimento con la coda dell'occhio, ma era troppo tardi. Girandosi vide il calcio di una pistola che gli calava addosso. Quel movimento della testa fece sì che il colpo gli arrivasse sulla fronte anziché sul cranio. Crollò a terra. Di schianto. La luce si spense. Ebbe la sensazione che il cranio gli si fosse spaccato, ma non perse i sensi. Sentendo un movimento, capì che il suo aggressore si stava dirigendo verso la porta. Nel corridoio c'era la luce accesa, ma la vista di Dan era offuscata, e non poté vedere altro che una sagoma informe che sembrava muoversi su e giù e, allo stesso tempo, in circolo, come su una giostra. Dan capì che il suo contatto con la realtà era appeso a un filo. Ciononostante, si trascinò sul pavimento, rantolando per il dolore che dalla testa si diramava alle spalle e cercò di agguantare il fantasma in fuga. Afferrò della stoffa, una gamba dei pantaloni dell'uomo e tirò più forte che poteva. Lo sconosciuto barcollò, urtò contro l'intelaiatura della porta ed esclamò: «Cazzo!» Dan continuò a stringere. Bestemmiando, l'intruso gli assestò un calcio alla spalla. Poi un altro. Ora Dan teneva la gamba dell'uomo con tutte e due le mani e cercava di atterrarlo, ma quello si teneva alla porta e scalciava per divincolarsi. Gli sembrava di essere un cane che aggredisce il postino. Questa volta il calcio lo prese al braccio destro e la mano gli si intorpidì.
La vista gli si oscurò ancora, come se la luce calasse. Gli occhi gli bruciavano. Strinse i denti. Lo sconosciuto, sempre una forma nera sullo sfondo della vaga illuminazione del corridoio, si chinò e lo picchiò di nuovo con il calcio della pistola, questa volta sulla spalla, poi nel centro della schiena, poi ancora sulla spalla. Dan lasciò andare la gamba e fece scattare verso l'alto la sinistra puntando alla faccia o alla gola del bastardo. Afferrò un orecchio e tirò con forza. L'uomo cacciò un urlo. La mano di Dan era scivolata dall'orecchio insanguinato, ma ora teneva solidamente il colletto dello sconosciuto. Riuscì a fargli perdere l'equilibrio gettandolo a terra e gli fu subito sopra. La vista era ancora offuscata e gli occhi gli bruciavano, ma la sensibilità alla mano destra stava ritornando. Estrasse dalla fondina ascellare la .38 Police Special, ma non riuscì a vedere il colpo in arrivo sulla mano. Qualcosa di duro si abbattè sulle dita e la pistola gli volò via. Approfittando del momento l'uomo riuscì quasi a divincolarsi e cercò di allontanarsi strisciando verso la cucina, ma Dan, tenendolo per la giacca, non mollò la presa. Con la vista che gli ballava e gli si oscurava sempre di più, Dan si slanciò in avanti in un ultimo sforzo disperato, ma l'altro sembrava aver deciso che la migliore difesa era un buon attacco, e così si rivolse verso Dan, tempestandolo di colpi, così numerosi e ravvicinati che sembrava fornito di quattro o cinque braccia; rotolarono di nuovo avvinghiati lungo il corridoio finché si fermarono e l'uomo era sopra. Qualcosa di freddo e duro premette contro i denti di Dan. Sapeva bene che cosa fosse. La canna della pistola. «Vediamo, se adesso ti fermi!» sibilò l'uomo. Con la canna che gli vibrava contro i denti, Dan ansimò: «Se volevi uccidermi, l'avresti già fatto». «Vedi di non tirare troppo la corda», ringhiò l'altro, con una voce così furiosa che sembrava capace di premere il grilletto da un momento all'altro, lo volesse o no. Sbattendo gli occhi freneticamente per liberarli dal velo di sangue e sudore, Dan riuscì a schiarirsi un po' la vista, non molto, solo quel tanto da poter vedere la pistola, confusa, enorme come un cannone, piantata sulla sua faccia. Vedeva anche l'uomo che c'era dietro, ma indistintamente. Controluce, la faccia era ancora in ombra, ma la sagoma dell'orecchio sinistro sporgeva in modo strano, gocciolando sangue.
Dan sentì di avere le palpebre come incollate dal sangue. Il sangue gli colava negli occhi misto al sudore salato, e anche per questo, pensò, non riusciva a schiarirsi la visione. Smise di dibattersi. «Fermo... cane... bastardo!» annaspò lo sconosciuto sopra di lui, bloccandolo con un ginocchio sul petto, ansimando a ogni parola, come se le parole fossero state lingotti di piombo che per formarsi richiedevano uno sforzo tremendo. «Okay», mormorò Dan, lasciando la presa. «Ma sei pazzo, di'?» «Va bene», disse Dan. «Mi hai mezzo strappato questo cazzo di orecchio!» «Va bene, okay», ripetè Dan. «Non lo capisci quando devi piantarla, stronzo, figlio di puttana?» «Quando, ora?» «Già, ora!» «Okay.» L'uomo si tirò su, sempre puntandogli la pistola in faccia, ma non più tenendogliela contro i denti. Studiò Dan con diffidenza per un attimo, poi si alzò tremando. Ora Dan riusciva a vederlo meglio, ma non gli servì: non ricordava di averlo mai visto. L'uomo indietreggiò verso la cucina. Con una mano impugnava la pistola e con l'altra si teneva l'orecchio sanguinante. Indifeso, non osando muoversi per paura che quello gli sparasse, Dan rimase disteso supino sul pavimento del corridoio, con la testa sollevata, il sangue che gli scorreva sugli occhi, sentendo l'odore del sangue, il sapore del sangue, con il cuore che gli martellava, la voglia di saltargli addosso, Cristo, scagliarsi su quel bastardo nonostante l'arma, ma obbligato a controllarsi, a non far altro che assistere alla fuga dell'uomo. Si sentiva inferocito. La porta che dava sull'esterno della casa era aperta; l'uomo l'attraversò rinculando, esitò un momento, poi si girò e fuggì. Dan si tuffò sulla sua pistola, ancora a terra accanto alla porta della stanza dov'era stato aggredito. Impugnò il revolver, si alzò a fatica, cacciò un grido mentre una bomba di dolore gli esplodeva nel ginocchio difettoso che era stato colpito durante la colluttazione; riuscì con uno sforzo a cancellare il dolore e si slanciò verso la cucina.
Quando uscì dalla porta posteriore, nella fresca aria notturna, lo sconosciuto era scomparso. Impossibile capire da quale parte avesse saltato la siepe. Si lavò la faccia nel bagno di Rink. Aveva la fronte contusa e scorticata. Ora la vista gli era tornata a fuoco e, benché si sentisse la testa come se un fabbro l'avesse usata da incudine, sapeva che non c'era commozione. Ma non era solo la testa a fargli male, era dolorante un po' dappertutto: collo, spalle, schiena, e soprattutto il ginocchio sinistro. NelParmadietto dei medicinali sopra il lavandino del bagno trovò una confezione di garza, ne fece una compressa, la mise da parte per il momento. Trovò anche della tintura di iodio, e la versò sulla pelle profondamente lacerata della fronte, la tamponò con cautela, ne versò ancora. Riprese la compressa di garza e la tenne con forza sulla fronte con la destra, sperando di fermare completamente il flusso di sangue mentre riprendeva il giro della casa. Ritornò nella stanza dov'era stato aggredito e accese la luce. Era uno studio arredato in maniera meno elegante, ma altrettanto costosa del soggiorno. Una parete era occupata interamente da scaffali. Nel mezzo c'erano un televisore e un videoregistratore. Metà degli scaffali era occupata da libri; l'altra metà da videocassette. Guardò prima le cassette e vide alcuni titoli familiari: Vagon-lits con omicidi, Arturo, tutti i film di Gianni e Pinotto, Tootsie, Goodbye, amore mio!, Gioco sleale, diversi film di Charlie Chaplin, due dei fratelli Marx. Tutte le cassette lecite erano film comici o commedie brillanti e si capiva che un sicario di professione avesse bisogno di farsi due risate quando rincasava da una dura giornata passata a far schizzare le cervella dalle teste della gente, ma la maggior parte di quelle cassette non erano lecite. Molte erano pornografiche, con titoli come Debbie si fa Dallas e Gola profonda. Dovevano esserci trecento titoli porno. I libri erano più interessanti perché era tra di essi che, apparentemente, lo sconosciuto cercava. Per terra, di fronte alla libreria, c'era uno scatolone di cartone, dove erano stati infilati diversi volumi tolti dagli scaffali. Con un rapido esame della libreria Dan vide che ciascuno dei libri era un saggio su uno o un altro aspetto dell'occultismo. Poi, sempre tenendosi la garza sulla fronte con una mano, esaminò i sette volumi nello scatolone e vide che erano tutti dello stesso autore, Albert Uhlander. Uhlander?
Dalla tasca interna della giacca, prese la rubrica degli indirizzi che aveva preso la notte precedente nell'ufficio devastato di Dylan McCaffrey: la aprì alla lettera U e trovò un solo nome, Uhlander. McCaffrey, che era interessato all'occulto, conosceva Uhlander. Rink, che era interessato all'occulto, aveva almeno letto Uhlander; forse lo conosceva anche lui. Ora tra McCaffrey e Ned Rink un legame c'era. Ma erano dalla stessa parte o nemici? E che cos'aveva a che fare l'occulto con tutto questo? I pensieri gli turbinavano nella testa, e non soltanto a causa del colpo alla fronte. In ogni modo Uhlander era evidentemente una chiave per comprendere quel che stava accadendo. Sembrava chiaro che l'intruso si fosse introdotto lì dentro solo per portar via quei libri dalla casa, per occultare il collegamento Uhlander. Tenendo la garza premuta sulla fronte, Dan uscì dallo studio. Come una corrente elettrica, il dolore nella testa sembrava passare attraverso la garza, nella mano, lungo il braccio, nella spalla destra, lungo la schiena, poi di nuovo su verso la spalla sinistra, nel collo, sul viso, fino a completare il circuito ritornando alla fronte e ricominciando di nuovo. Zoppicando con la gamba sinistra, frugando fra le cose con una sola mano, perquisì la casa in modo abbastanza superficiale, senza trovare nulla di particolarmente interessante. Rink era un killer professionista, e i killer professionisti non collaborano alle indagini di polizia tenendo comode rubriche di indirizzi e registri dei loro affari. Tornato nel bagno, tolse il tampone e vide che finalmente l'emorragia superficiale si era fermata. Aveva un aspetto da far pietà e giustamente, perché si sentiva anche in condizioni da far pietà. 21 Quando Dan uscì zoppicando sul marciapiede, portando con sé la scatola di libri, George Padrakis era ancora al volante della berlina, seduto nel buio, con il finestrino semiaperto. Quando vide Dan abbassò tutto il vetro. «Ho appena finito di parlare alla radio. Mondale vuole... Ehi, che cos'hai combinato alla fronte?» Dan gli raccontò dell'intruso. Padrakis aprì lo sportello e uscì dall'auto. Se assomigliava, nell'aspetto e
nella voce, a Perry Como, lo ricordava anche nel modo di muoversi, elegante e disinvolto. E con un gesto elegantemente disinvolto portò la mano all'interno della giacca e ne estrasse la pistola. «Se n'è andato», gli disse Dan, mentre lui faceva un passo verso la casa di Rink. «Da un pezzo.» «Ma come ha fatto a entrare?» «Dal retro.» «La strada è sempre stata silenziosa, e io tenevo il finestrino giù», protestò Padrakis. «Avrei sentito il rumore dei vetri rotti, qualcosa del genere.» «Non ho trovato nessuna finestra rotta»., gli assicurò Dan. «Credo che sia entrato dalla porta della cucina, probabilmente con una chiave.» «Be', cavoli, non possono incolparmi di niente», esclamò Padrakis rimettendo il revolver nel fodero. «Non posso essere contemporaneamente in due posti. Se volevano sorvegliare anche il retro della casa, dovevano mandare due uomini sul posto. Te lo sei guardato bene, il tizio che ti ha fregato?» «Non troppo.» Dan restituì la chiave che gli aveva dato Padrakis. «Ma se vedi uno con un orecchio massacrato è lui.» «Eh?» «Gliel'ho quasi strappato via.» «Perché?» «Perché lui stava cercando di ammaccarmi il cervello», rispose Dan irritato. «E poi, io sono come un torero, cerco sempre di portarmi a casa un trofeo, e quel tizio non aveva la coda.» Padrakis lo guardò perplesso. Un camper mastodontico svoltò l'angolo, con il motore rombante, e si avviò lungo la strada, pesante come un dinosauro. Abbassando lo sguardo sulla scatola che Dan aveva fra le mani, Padrakis alzò la voce per superare il rumore del veicolo di quegli amanti della vita all'aria aperta. «Che cos'hai là dentro?» «Libri. Fogli di carta messi assieme con su stampate delle parole allo scopo di informare e divertire. Ma che cosa mi stavi dicendo della radio? Che cosa vuole Mondale?» «Te li porti via, quei libri?» «Esatto.» «Non so se puoi.» «Non preoccuparti, grazie; ce la faccio: non sono tanto pesanti. Allora, che cosa vuole Mondale?»
Padrakis fissò con aria poco convinta lo scatolone. «Avevo chiamato per far sapere a Mondale che tu eri qui. Stava per recarsi al Segno del Pentagramma a Ventura, e vuole che vi incontriate lì.» «Che diavolo è il Segno del Pentagramma?» «Deve essere una libreria o qualcosa del genere», spiegò Padrakis, continuando a guardare accigliato la scatola di libri. «Un tizio è stato ucciso.» «Che tizio?» «Il proprietario, credo. Scaldone, si chiama. Mondale dice che è come i cadaveri di Studio City.» «E la cena se ne va», commentò Dan. Si incamminò lungo il marciapiede, tra pozze alternate di ombra e luce, verso la sua macchina. Padrakis lo seguì. «Senti, per quei libri...» «Tu leggi, George?» «... sono di proprietà del defunto...» «Non c'è niente di meglio che mettersi distesi con un buon libro.» «... e questa non è una scena del delitto, da dove siamo autorizzati a portarci via quello che potrebbe essere una prova...» Dan appoggiò lo scatolone sul paraurti della sua auto, aprì il portabagagli, vi depose i libri. «'L'uomo che non legge buoni libri non ha alcun vantaggio sull'uomo che non è in grado di leggerli.' Lo ha detto Mark Twain, George.» «... per cui, finché non si riesce a individuare un membro della sua famiglia, che dia l'approvazione, non credo proprio che tu possa...» Sbattendo il cofano, Dan continuò: «'Si trovano più tesori nei libri che in tutto il bottino dei pirati sull'Isola del Tesoro.' Questo l'ha detto Walt Disney. E aveva ragione, George. Dovresti leggere di più». «Ma...» «'I libri non sono semplici cumuli di carta senza vita, ma menti vive sugli scaffali.' Gilbert Highet.» Battè Padrakis sulla spalla. «Amplia la tua ristretta esistenza, George. Aggiungi colore a questa grigia vita di detective. Leggi, George, leggi!» «Ma...» Dan salì in macchina, chiuse lo sportello e mise in moto. Padrakis lo guardava sempre più cupo dal finestrino. Dan fece un cenno di saluto con la mano e partì. Svoltato l'angolo, dopo un paio di isolati, accostò al marciapiede. Trasse dalla tasca la rubrica di Dylan McCaffrey. Sotto la S trovò Joseph Scaldone, seguito dalla parola «Pentagramma», da un numero di telefono e un in-
dirizzo di Ventura. Quasi certamente, gli omicidi di Studio City, la morte di Ned Rink e ora l'assassinio di Scaldone erano collegati. Sembrava sempre più evidente che ci fosse qualcuno che tentava disperatamente di coprire un bizzarro complotto eliminando tutti quelli che vi erano coinvolti. Prima o poi, avrebbero eliminato anche Melanie McCaffrey o l'avrebbero portata via alla madre. E se questi nemici senza volto se ne fossero impadroniti di nuovo, la bambina sarebbe scomparsa per sempre; non avrebbe avuto la fortuna di essere salvata una seconda volta. Alle sette e cinque Laura era in cucina a preparare la cena per sé, Melanie ed Earl. Una grande pentola d'acqua stava per bollire sul fornello e accanto, in un pentolino più piccolo, si stava riscaldando il ragù per gli spaghetti. La stanza era piena di profumi stuzzicanti: aglio, cipolle, pomodori, basilico e formaggio. Laura sciacquò un po' di olive nere e le aggiunse a una grande ciotola di insalata. Melanie sedeva al tavolo, silenziosa, immobile, la testa china come se si stesse fissando le mani che teneva in grembo. Ma aveva gli occhi chiusi. Poteva star dormendo o forse si era solo ritratta ancora di più nel suo mondo segreto, privato; era difficile stabilirlo. Era il primo pasto che Laura preparava per sua figlia in sei anni, e neppure lo stato avvilente di Melanie riusciva a sciupare quel momento. Laura si sentiva piena di sentimenti materni. Era da tanto che non le capitava, e aveva dimenticato che essere madre poteva dare altrettanta soddisfazione dei risultati positivi che poteva raggiungere nella sua professione. Earl aveva preparato la tavola accuratamente. Ora era seduto di fronte a Melanie in camicia - e fondina - e guardava il giornale, leggendo di tanto in tanto ad alta voce a Laura una notizia o una frase che lo colpiva. Pepper, la gatta, era acciambellata comodamente nell'angolo accanto al frigorifero, cullata dal ronzio e dalle vibrazioni del motore. Sapeva che non le era permesso salire sul tavolo o sui mobili della cucina, e normalmente si teneva lontana, da quella stanza, per non farsi cacciar via. Improvvisamente, però, la gatta miagolò e balzò su. Inarcò la schiena, rizzò i peli del dorso. Si guardò attorno, con occhi feroci, e soffiò. Earl mise giù il giornale. «Che cosa c'è, micia?» Laura alzò gli occhi dall'insalata che stava preparando e vide Pepper agitata in maniera allarmante. La gatta aveva le orecchie piatte, le labbra sollevate con i denti in mostra. «Pepper, che cos'hai?»
Gli occhi dell'animale, che ora sembravano voler schizzare via dalla testa per il terrore, si fermarono per un attimo su Laura; in quell'istante non c'era più niente in loro della bestiola domestica, ma solo pura ferocia selvatica. «Pepper...» L'animale saltò fuori dall'angolo, con un verso di paura o di rabbia o di tutt'e due le cose, balzò in direzione di una fila di armadietti, ma improvvisamente scartò come se da quella parte avesse visto qualcosa di mostruoso, sfrecciò verso il lavello, ma all'improvviso cambiò di nuovo direzione. Si inseguì la coda girando su se stessa una mezza dozzina di volte, soffiando e azzannando l'aria, quindi, come colpita da un calcio, fece un balzo. Artigliò il vuoto ritta sulle zampe posteriori, contorcendosi come in una sorta di ballo di San Vito, ricadde a quattro zampe e schizzò sotto la tavola, tra le sedie, fuori dalla porta della cucina, e scomparve nella stanza da pranzo. Era stata una scena incredibile. Laura non aveva mai visto nulla del genere. L'esibizione della gatta non aveva colpito minimamente Melanie, che se ne stava ancora seduta con le mani in grembo, la testa china, gli occhi chiusi. Earl aveva lasciato cadere il giornale e si era alzato. In un altro punto della casa Pepper lanciò un ultimo grido. Poi silenzio. Il Segno del Pentagramma era un negozietto in un isolato attivissimo, quintessenza delle speranze e dei sogni della California meridionale. Piccole botteghe e ristoranti, imprese possedute e gestite da imprenditori di ogni età e provenienza etnica, qualcosa per ogni gusto e ogni interesse: un ristorante coreano con una quindicina di tavoli; una libreria femminista; un venditore di coltelli fatti a mano; qualcosa chiamato Gay Resource Center; una lavanderia e un negozio di forniture per feste; una libreria specializzata in fantasy e fantascienza; la Ching Brothers Finance, «Prestiti a Solvibili»; un piccolo ristorante che offriva «cucina nigeriana americanizzata» e un altro specializzato in «cucina franco-cinese»; un negozio che vendeva aggeggi militari di ogni genere, tranne armi. Alcuni di questi imprenditori si stavano arricchendo, altri non ce l'avrebbero mai fatta, ma tutti loro avevano dei sogni, e a Dan venne fatto di pensare, nella prima oscurità del crepuscolo, che Ventura Boulevard era illuminata dalla speranza quasi quanto dai lampioni.
Parcheggiò a un isolato di distanza dal Segno del Pentagramma e passò a piedi accanto al furgoncino dell'Eyewitness, accanto a veicoli dello stesso tipo dei servizi informazioni del KNBC e del KTLA, accanto ad auto della polizia, contrassegnate e no, e a un furgone del coroner. Sul marciapiede si era raccolta una folla variegata di curiosi: abitanti del quartiere, ragazzotti con un look punk, che ci tenevano ad apparire come delinquenti di strada ma che probabilmente vivevano con i genitori in case della Valley da duecentomila dollari e giornalisti in cerca di notizie sensazionali con quello sguardo famelico che a Dan faceva sempre pensare a degli sciacalli. Si fece largo tra la folla, vide l'uomo del Los Angeles Times, cercò di tenersi alla larga dall'occhio della telecamera con cui Pete Pepper stava filmando un pezzo per il telegiornale delle undici di Channel Four. Scansò una ragazza giovanissima con i capelli a ciuffi blu e verdi; portava un paio di stivali neri alti al ginocchio, una minuscola gonna rossa e un golf bianco con un bizzarro disegno di bambini morti. L'intera facciata del negozio era coperta di rozzi disegni di simboli astrologici e occultistici. Un poliziotto in uniforme stava a guardia dell'entrata sotto una sbiadita stella a cinque punte, rossa, il Pentagramma. Dan mostrò il distintivo ed entrò. L'entità dello sconquasso non lo sorprese. Il gigante infuriato che aveva distrutto la casa di Studio City la notte prima doveva essere uscito di nuovo dalla sua tana imperversando allo stesso modo nel negozio. Il registratore di cassa elettronico, sembrava colpito nel mezzo da un maglio; era però rimasta nei suoi circuiti devastati una corrente di vita, e sul display digitale fracassato baluginava un solo numero rosso, un sei tremolante, che sembrava l'ultima parola di una vittima moribonda, come se il registratore tentasse di dire ai poliziotti qualcosa sull'assassino. Alcuni scaffali erano stati fatti a pezzi, e tutti i volumi erano sul pavimento in mucchi devastati di copertine accartocciate, rilegature spaccate e pagine strappate. Ma i libri non erano l'unico articolo in vendita presso il Segno del Pentagramma, e il pavimento era disseminato anche di candele di ogni forma, dimensione e colore, di mazzi di tarocchi, una coppia di gufi impagliati, totem, statuine e centinaia di boccette di strane polveri e olii. Il posto odorava di essenza di rose, di incenso e di morte. Nel negozio, tra i poliziotti e i tecnici della Scientifica, c'erano Wexlersh e Manuello, che videro subito Dan. Si diressero verso di lui, facendosi strada tra i frantumi, con due sorrisi identici sul viso. Quei sorrisi ricordarono a Dan il vecchio programma televisivo Saturday Night Live, quando Chevy Chase faceva la caricatura di Lo squalo, interpretando lo «squalo di
terra». Wexlersh e Manuello erano una coppia di squali di terra, proprio, solo che non erano affatto divertenti come Chevy Chase, nemmeno lontanamente. Wexlersh, era basso e aveva un paio di occhi grigi slavati e un colorito cereo che sembrava fuori posto, in California, persino d'inverno. «Che cosa ti è successo alla testa?» gli domandò. «Sono andato a sbattere contro un ramo basso», rispose Dan. «Sembrerebbe più che ti stessi lavorando un povero innocente sospetto, ignorando i suoi diritti civili, un povero innocente sospetto tanto scemo da opporre resistenza.» «È così che trattate i sospetti nella East Valley Division?» «O forse è stata una puttana che non ha voluto concederti un saggio gratuito solo perché le hai fatto vedere il distintivo», continuò Wexlersh, ghignando. «Non dovresti sforzarti di fare lo spiritoso», gli consigliò Dan. «Di spirito ne hai quanto una tazza del cesso.» Wexlersh continuò a sorridere, ma i suoi occhi grigi erano cattivi. «Haldane, secondo te con che genere di maniaco abbiamo a che fare qui?» Manuello, nonostante il nome, non aveva un aspetto latino, era alto e biondo con lineamenti squadrati e una fossetta alla Kirk Douglas in mezzo al mento. «Già, Haldane, dividi con noi la saggezza della tua esperienza.» E Wexlersh aggiunse: «Tu sei il tenente. Noi siamo appena investigatori, di primo grado». «Aspettiamo le tue osservazioni e intuizioni su questo orrendo crimine», riprese Manuello. «Siamo senza fiato dall'attesa.» Nonostante il grado superiore di Dan, i due potevano permettersi queste piccole manifestazioni di insubordinazione perché erano della East Valley Division e non della Centrale, dove normalmente lavorava Dan e soprattutto perché erano nella manica di Ross Mondale e sapevano che il capitano li avrebbe protetti. «Sapete», disse Dan, «voi due avete sbagliato carriera. Sono sicuro che vi sentireste molto più realizzati a infrangere la legge che a difenderla.» «Divertente», commentò Wexlersh, «ma ora, davvero, tenente, ormai devi avere una teoria. Che genere di maniaco può essere questo che se ne va in giro a ridurre la gente in marmellata di fragole?» «Anzi», aggiunse Manuello, «che genere di maniaco era questa vittima in particolare?» «Joseph Scaldone?» chiese Dan. «Era il libraio, no? In che senso era un
maniaco?» «Be'», disse Wexlersh, «certamente non era un commerciante come tutti gli altri.» «Decisamente uno svitato», aggiunse Manuello. «Ma che cosa state dicendo?» disse Dan. «Non credi che ci voglia uno svitato per tenere un negozio», rispose Manuello togliendo dalla tasca un vasetto di vetro del tipo di quelli delle olive, «un negozio che vende roba come questa?» Sulle prime il vasetto sembrava contenesse proprio olive, piccole olive, ma poi Dan vide che si trattava di occhi. Non occhi umani. Più piccoli. E strani. Gesù. Alcuni avevano l'iride gialla, alcuni verde, alcuni arancione, ma, sebbene differenti nei colori, avevano tutte approssimativamente la stessa forma: non erano iridi rotonde, come negli umani e in gran parte degli animali, ma oblunghe, ellittiche. «Occhi di serpente», spiegò Manuello, mostrandogli l'etichetta. «E questo?» Wexlersh tolse una boccetta dalla tasca. Questa era piena di una polvere grigiastra. L'etichetta, scritta a macchina, diceva GUANO DI PIPISTRELLO. «Merda di pipistrello», tradusse Wexlersh. «Merda di pipistrello in polvere», precisò Manuello. «Occhi di serpente, lingue di salamandra, collane di aglio, fiale di sangue di toro, amuleti, fatture, ogni tipo di stronzate del genere. Che razza di gente viene qui a comprare questa roba, tenente?» «Streghe», rispose Wexlersh anticipando Dan. «Gente convinta di essere streghe», precisò Manuello. «Maghi», aggiunse Wexlersh. «Gente convinta di essere maghi.» «Gente fuori di testa», disse Wexlersh. «Maniaci». Aggiunse Manuello. «Dov'è la vittima?» chiese Dan. Wexlersh. accennò con il pollice verso il retro della libreria. «È là in fondo. Sta facendo un provino per una parte in un seguito di Non aprite quella porta.» «Spero che voi della Centrale abbiate lo stomaco forte», disse Manuello, mentre Dan si dirigeva verso il punto indicato. «Non vomitare là dentro», gli lanciò dietro Wexlersh. «Già, i giudici non ti fanno portare una prova in tribunale se un poliziotto ci ha vomitato su», aggiunse Manuello.
Dan li ignorò. Se gliene fosse venuta voglia, avrebbe fatto in modo di vomitare su Wexlersh e Manuello. Scavalcò un mucchio di libri sconquassati, saturi di olio di gelsomino versato, e si diresse verso l'assistente del coroner che era chino su una cosa informe, vermiglia, che evidentemente costituiva quanto rimaneva di Joseph Scaldone. Ipotizzando che la gatta avesse colto un rumore furtivo troppo lieve per l'orecchio umano e fosse stata spaventata dalla presenza di un intruso in casa, Earl Benton fece il giro delle stanze controllando porte e finestre, guardando dentro gli armadi a muro e dietro i mobili più grandi. Ma la casa era al sicuro. Trovò Pepper nel soggiorno, non più spaventata ma un po' circospetta. Era sdraiata sopra il televisore; si lasciò accarezzare e cominciò a ronfare. «Che cosa ti ha preso, micia?» le chiese. Dopo essersi fatta accarezzare per un poco, sporse una zampa oltre il bordo del televisore come indicando i comandi, rivolgendogli un'occhiata che sembrava chiedergli se volesse essere così gentile da mettere in funzione quel calorifero-con-figure-e-voci, in modo che il suo rifugio preferito si riscaldasse un po'. Senza accendere il televisore, ritornò in cucina, Melanie era ancora seduta al tavolo, non più animata di un vegetale. La madre era accanto al mobile dove Earl l'aveva lasciata, sempre con un coltello in mano, ma aveva l'aria di non aver lavorato alla cena mentre lui era via. Doveva aver soltanto aspettato, impugnando il coltello, nel caso che non fosse stato lui a ritornare. Quando lo vide, fece un'espressione sollevata e depose lo strumento. «Allora?» «Niente.» Improvvisamente lo sportello del frigorifero si spalancò, come dotato di volontà propria. I vasetti, le bottiglie e gli altri oggetti sui ripiani di vetro cominciarono a traballare tintinnando. Come toccati da mani invisibili, diversi sportelli degli armadietti si aprirono. Laura annaspò. Istintivamente, Earl portò la mano alla pistola, ma non c'era nulla contro cui sparare, e lui si fermò con la mano sul calcio dell'arma, sentendosi un po' stupido e non poco perplesso.
I piatti si misero a tremare rumorosamente sulle mensole. Un calendario appeso a una parete cadde a terra sfogliandosi come in un frenetico frullo di ali. Dopo dieci o quindici secondi che parvero un secolo, i piatti smisero di tintinnare, gli sportelli degli armadietti smisero di oscillare sui cardini, e il contenuto del frigorifero si acquietò. «Un terremoto», disse Earl. «Sì?» Laura McCaffrey pareva niente affatto convinta. Earl comprendeva bene il tono di dubbio della donna. Era stato come una leggera scossa di terremoto, eppure era... differente. C'era stato uno strano mutamento di pressione nell'aria, e un freddo improvviso troppo acuto per poterlo attribuire semplicemente alla porta aperta del frigorifero. Infatti, quando il tremito cessò, l'aria tornò a riscaldarsi immediatamente, benché il frigorifero fosse rimasto aperto. Ma allora, che cos'era stato? Non il bang di un aereo: non si sarebbe spiegato il freddo, il calo di pressione. Non un fantasma: ai fantasmi non ci credeva. E comunque come diavolo gli era venuta quell'idea? La sera prima aveva guardato la cassetta di Poltergeist: forse era quello, ma non poteva credere di essere diventato così impressionabile che un film lo portasse a cercare spiegazioni soprannaturali lì, in quel momento, quando una spiegazione notevolmente meno stravagante era così evidente. «Solo un terremoto», la tranquillizzò, pur essendone tutt'altro che convinto. Immaginarono che fosse Joseph Scaldone, il proprietario, perché tutti i documenti che aveva nel portafoglio erano intestati a Scaldone, ma finché non avessero avuto una conferma dentale o digitale il portafoglio era l'unico mezzo con cui potessero identificarlo. Nessuno che lo conoscesse sarebbe stato in grado di effettuare un'identificazione visiva, perché al poveraccio non avevano lasciato la faccia. Non c'era neppure speranza di ottenere un'identificazione basata su cicatrici o altri segni particolari, visto lo stato in cui era ridotto tutto il corpo. Le costole spezzate spuntavano dai buchi nella camicia e una sorta di lancia frastagliata gli aveva trapassato gamba e pantalone. Sembrava... spiaccicato. Distogliendo lo sguardo dal corpo Dan individuò un uomo il cui orologio biologico sembrava affetto da confusione cronologica. Aveva il viso liscio, aperto di un trentenne, i capelli brizzolati di un cinquantenne e le spalle curve di un pensionato. Indossava un abito blu di buon taglio, cami-
cia bianca e cravatta blu, e un fermacravatte fatto con una catenina d'oro. Gli si avvicinò. «Lei è Haldane?» «Esatto.» «Michael Seames, FBI.» Si strinsero la mano. Quella di Seames era fredda e un po' molliccia. Si allontanarono dal cadavere, in un angolo dove c'era uno spazio privo di detriti. «Adesso ve ne occupate voi?» domandò Dan. «Non la stiamo affatto mettendo fuori», lo rassicurò Seames. «Vogliamo soltanto partecipare. Solo come osservatori per il momento. Ho parlato con tutti quelli che lavorano a questo caso, per cui volevo dirlo anche a lei: mi tenga informato; qualsiasi minimo sviluppo, per poco importante che possa sembrare, voglio essere informato.» «Ma che giustificazione ha l'FBI per intervenire?» «Giustificazione? Lei da che parte sta, tenente?» «Intendo dire, quale legge federale è stata infranta?» «Diciamo che si tratta di una questione di sicurezza nazionale.» In mezzo a quel viso così giovane, gli occhi di Seames erano vecchi, molto vecchi, e attentissimi, come gli occhi di un animale da preda. «Hoffritz lavorava per il Pentagono», disse Dan. «Faceva ricerche per loro.» «Esatto.» «Si occupava ancora di ricerche per la Difesa quando è stato ucciso?» «No.» La voce dell'agente era piatta, totalmente priva di emozioni e di inflessioni e Dan non riuscì a capire se mentisse. «McCaffrey?» chiese Dan. «Lui stava facendo ricerche di tipo militare?» «Non per noi», rispose Seames. «Per qualcun altro? I russi?» «Non lo sappiamo. È per questo che intendiamo seguire questo caso. McCaffrey lavorava a un progetto finanziato dal Pentagono quando sparì con la figlia. Esaminammo la cosa allora, su richiesta del dipartimento della Difesa, e concludemmo che non era fuggito con alcuna informazione importante collegata al suo lavoro. Immaginammo che le cose stessero come sembrava: una questione esclusivamente personale riguardante una controversia sull'affidamento della figlia.» «Forse lo era.» «Sì, forse lo era», ripetè Seames. «Almeno, all'inizio. Ma dopo un po'
McCaffrey dovette finire coinvolto in qualcosa di grosso, forse di pericoloso. Almeno questo è quello che sembra se si dà un'occhiata alla stanza grigia in quella casa di Studio City. Quanto a Willy Hoffritz, un anno e mezzo dopo la scomparsa di McCaffrey, portò a termine un progetto del Pentagono e declinò l'offerta di altri lavori collegati alla Difesa. Diceva che quel genere di ricerche cominciava a dargli problemi di coscienza. I militari cercarono di convincerlo a cambiare opinione, ma alla fine dovettero accettare il rifiuto.» «Da quello che so di lui», commentò Dan, «non credo che Hoffritz avesse una coscienza.» Gli occhi penetranti, da falco, di Seames erano fissi in quelli di Dan. «Su questo ha ragione, credo. Al tempo in cui Hoffritz fece la sua scena di meo culpa, il dipartimento della Difesa non ci chiese di verificare la sua improvvisa svolta pacifista. Presero per buone le sue parole. Ma oggi che sto approfondendo il personaggio, mi sono convinto che smise di accettare i finanziamenti del Pentagono solo perché non voleva più essere soggetto alle periodiche indagini di sicurezza. Non voleva avere la preoccupazione di qualcuno che lo controllasse. Aveva bisogno di anonimità per un qualche suo progetto.» «Come torturare una bambina di nove anni.» «Sì. Sono stato poche ore fa a Studio City e ho visto quella casa. Disgustoso.» L'espressione del viso, degli occhi non corrispondeva al tono schifato della sua voce; a giudicare dagli occhi, si sarebbe pensato che Seames trovava la camera grigia più interessante che repellente. «Secondo lei», chiese Dan, «perché stavano facendo quelle cose a Melanie McCaffrey?» «Non lo so», rispose Seames, ma lo sguardo di innocenza sul suo viso sembrava calcolato. «Quali effetti tentavano di raggiungere?» «Non lo so.» «In quella casa non erano impegnati soltanto a studiare le modificazioni del comportamento.» Seames si strinse nelle spalle. Dan proseguì: «Si occupavano di lavaggio del cervello, controllo totale della mente... qualcos'altro... qualcosa di peggio». Seames sembrava seccato. Non guardava più Dan. Aveva spostato lo sguardo sui tecnici della Scientifica che trafficavano fra il materiale sporco
di sangue. «Ma perché?» concluse Dan. «Non lo so», ripetè Seames, questa volta in tono irritato. «Ho solo...» «Ha solo una voglia disperata di trovare chi finanziava questo diabolico progetto», lo interruppe Dan. «Non direi disperata. Direi frenetica.» «Allora avrà una qualche idea di quello che stavano facendo. Deve sapere che cosa la rende frenetico.» «Cristo, Haldane», replicò Seames adirato, ma con un'ira che sembrava calcolata. «Ha visto in che condizioni sono i cadaveri. Scienziati di prestigio, a suo tempo finanziati dal Pentagono, ritrovati assassinati in un modo inesplicabile. Diamine, è ovvio che siamo interessati!» «Inesplicabile?» chiese Dan. «Non è inesplicabile. Sono stati picchiati a morte.» «Andiamo, Haldane. Non è così semplice. Se avesse parlato con l'ufficio del coroner avrebbe saputo che non riescono a immaginare che razza di arma è stata usata. E avrebbe saputo che le vittime non hanno avuto nemmeno una possibilità di reagire: sotto le unghie niente sangue, niente frammenti di pelle. E avrebbe anche saputo che molti dei colpi non li avrebbe potuti assestare un uomo con una mazza: nessun uomo ha la forza di sbriciolare le ossa di un altro. Per farlo ci vorrebbe una forza tremenda, meccanica, una forza inumana. Non sono stati semplicemente picchiati a morte, sono stati schiacciati come insetti! E poi la questione delle porte, qui?» Dan si accigliò. «Le porte?» «Qui, in questo negozio, la porta anteriore e quella posteriore.» «Che cos'hanno?» «Non lo sa?» «Sono appena arrivato, nessuno mi ha detto niente.» Seames si aggiustò nervosamente la cravatta e Dan si trovò spiazzato a vedere un agente dell'FBI nervoso. Era la prima volta che gli capitava. E non sembrava che Seames ora fingesse. «Le porte, quando è arrivata la polizia, erano chiuse. Scaldone aveva chiuso la libreria subito prima di essere assassinato. Quella di dietro probabilmente era già chiusa, ma prima di essere ucciso aveva chiuso quella anteriore, e aveva anche abbassato la tapparella. Molto probabilmente contava di uscire dal retro - la sua macchina è lì - appena avesse finito i conti della giornata. Ma non li ha finiti. È stato colpito mentre le porte erano ancora chiuse. Il primo poliziotto arrivato qui ha dovuto sfondare la porta anteriore.»
«E allora?» «E allora, dentro, c'era solo la vittima», rispose Seames. «Le porte erano tutt'e due chiuse, ma l'assassino non era dentro con Scaldone.» «Che cosa c'è di tanto strano? Evidentemente il killer aveva una chiave.» «E si è fermato a chiudere quando è andato via?» «È possibile.» Seames scosse la testa. «Oltre alle serrature normali c'era anche un chiavistello, un chiavistello a mano che poteva essere inserito solo dall'interno.» «Chiavistelli su entrambe le porte?» «Sì. E nel negozio ci sono soltanto due finestre. La vetrina, che è al suo posto: nessuno avrebbe potuto uscire di lì senza spaccarla con un mattone. L'altra finestra è nella stanza sul retro, l'ufficio, un finestrino per l'aerazione.» «Sufficiente a farci passare un uomo?» «Sì», disse Seames. «Ma è fornita di sbarre di ferro.» «Sbarre?» «Sbarre.» «Allora deve esserci un'altra via d'uscita.» «La trovi lei», lo invitò Seames con un tono di voce che sottintendeva: «Non ci riuscirà». Dan fece scorrere di nuovo lo sguardo sul negozio disastrato, si passò una mano sulla faccia come se avesse potuto togliere via la stanchezza e sobbalzò quando le dita sfiorarono la ferita ancora fresca. «Mi sta dicendo che Scaldone è stato picchiato a morte in una stanza chiusa a chiave.» «Ucciso in una stanza chiusa a chiave, sì. Quanto al picchiare, ho i miei dubbi.» «E l'assassino non sarebbe potuto uscire di qui prima che arrivasse la prima autopattuglia.» «In alcun modo.» «Eppure qui non c'è.» «Esatto.» Il viso troppo giovane di Seames sembrava invecchiato di qualche anno negli ultimi minuti. «Ora lo capisce che cosa mi rende frenetico, tenente Haldane. Sono frenetico perché due ex ricercatori della Difesa, due pezzi grossi, sono stati uccisi da persone o forze sconosciute, con un'arma che può passare attraverso le porte chiuse o i muri, e contro la quale sembra non esserci alcuna difesa.»
Eppure quel terremoto aveva qualcosa di diverso da un normale terremoto, anche se Laura non avrebbe saputo individuare con precisione la differenza. Bene, intanto, non ricordava di aver sentito i vetri tremare, e in un terremoto così forte da aprire gli sportelli dei mobili, i vetri si sarebbero sentiti sicuramente. Né c'era stata una sensazione di movimento, o il pavimento che oscillasse; certo, se erano lontani dall'epicentro, era possibile che quella sensazione non si avvertisse. E c'era stato qualcosa di strano, di opprimente nell'aria, come se fosse carica. Laura ne aveva visti diversi di terremoti, e non ricordava di aver mai avvertito una sensazione simile nell'aria. Ma c'era anche qualcos'altro che andava contro la spiegazione sismica, qualcosa di importante che lei non riusciva a identificare con chiarezza. Earl tornò al tavolo e al giornale e Melanie continuò a fissarsi le mani. Laura finì di prepararsi l'insalata. La mise in frigorifero per raffreddarla mentre cuoceva la pasta. L'acqua aveva preso a bollire e Laura stava prendendo gli spaghetti dalla scatola quando Earl alzò gli occhi dal giornale. «Ehi, questo spiega la gatta!» Laura non capì. «Come?» «Qui dice che gli animali solitamente si accorgono di un terremoto in arrivo. Diventano nervosi, si comportano stranamente. Forse è per questo che Pepper ha fatto quella scena isterica.» Prima ancora che Laura avesse il tempo di riflettere su quanto Earl aveva detto, la radio, sul mobile della cucina accanto al portapane, a un passo da Laura, si accese, come se una mano invisibile avesse girato la manopola. Negli ultimi sei anni passati da sola, Laura in alcuni momenti aveva trovato il silenzio e la solitudine della casa quasi insostenibili, e in molte stanze teneva una radio. Quella che era in cucina, accanto al portapane, a pochi passi dal punto dove Laura si trovava in quel momento, era una radiosveglia Sony, e quando si accese, autonomamente, era sintonizzata sulla KRLA, la stazione che stava sentendo l'ultima volta che l'aveva usata. Bonnie Tyler stava cantando Total Eclipse of the Heart. Earl aveva abbandonato il giornale. Era di nuovo in piedi. Laura fissava incredula l'apparecchio. Come dotato di vita propria, il bottone del volume cominciò a ruotare verso destra. Lo si vedeva distintamente muoversi. La voce gutturale di Bonnie Tyler si faceva più forte, sempre più forte. «Ma che diavolo!» esclamò Earl. Melanie era immersa nel profondo del suo buio mondo privato.
La voce della cantante e la musica che ne avvolgeva le parole ora rimbalzavano sulle pareti della cucina facendo tremare i vetri così come non aveva fatto il «terremoto». Sentendo il gelo che si era di nuovo insediato nella stanza, Laura fece un passo verso la radio. In un altro punto della casa Pepper aveva ripreso a fare versi. Mentre Dan stava per allontanarsi da Michael Seames, l'agente dell'FBI gli chiese: «A proposito, che cosa ha fatto alla fronte?» «Stavo provando dei cappelli», rispose Dan. «Eh?» «Ne ho provato uno che era troppo piccolo. C'è voluta la mano di Dio per togliermelo. Mi ha tolto via la pelle.» Prima che Seames potesse rispondere, entrò Ross Mondale dalla porta posteriore, vide Dan e disse: «Haldane, vieni qui». «Che cosa c'è, capo?» «Voglio parlarti.» «A che proposito, capo?» «Da solo», replicò Mondale con asprezza. «Arrivo subito, capo.» Lasciò Seames, perplesso, si fece strada in mezzo alla baraonda del negozio, superò il cadavere, passò attorno al bancone. Mondale gli fece segno di entrare nel retrobottega, poi lo seguì. La stanza posteriore era larga quanto il negozio ma profonda solo tre metri, con pareti di mattoni e cemento. Fungeva da ufficio e da magazzino. Sulla sinistra c'erano pile di scatole, evidentemente piene di merci. Sulla destra c'era una scrivania, un personal computer, alcuni schedari, un piccolo frigorifero e un tavolo da lavoro sul quale stava una macchina per il caffè. Lì non c'erano segni di violenza: tutto era in ordine. Mondale aveva esaminato il contenuto dei cassetti della scrivania. Sul piano di questa erano appoggiati alcuni oggetti, fra cui una piccola rubrica telefonica. Quando il capitano chiuse la porta, Dan fece il giro della scrivania e andò a sedersi. «Che cosa credi di fare?» chiese Mondale. «Mi sono seduto a riposare. È stata una giornata lunga.» «Sai benissimo che non mi riferisco a questo.» «Ah, sì?» Come il solito Mondale era vestito tutto in marrone e beige.
Sembrava che i suoi occhi mandassero una luce omicida, simile a quella riflessa dal rubino dell'anello. «Volevo vederti nel mio ufficio alle due e mezzo.» «Non ho avuto il tuo messaggio.» «E invece so per certo che l'hai avuto.» Dan si limitò a fissarlo. Il capitano si teneva a qualche passo dalla scrivania, rigido, con le braccia tese lungo i fianchi; apriva e chiudeva le mani come se faticasse a impedirsi di stringere i pugni e buttarsi contro Haldane. «Che cos'hai fatto tutto il giorno?» «Ho riflettuto sul senso della vita.» «Sei stato a casa di Rink. Io non ti ci avevo mandato.» «Sono un tenente investigativo a pieno titolo. Di solito in un'indagine seguo l'istinto.» «In questa no. Questa è grossa. In questa sei solo uno della squadra. Quello che devi fare te lo dico io, dove devi andare te lo dico io. Se non ti do io l'okay, non devi andare neppure a cacare.» «Vacci piano, Mondale. Il potere comincia a darti alla testa.» «Che cos'hai fatto alla fronte?» «Sto prendendo lezioni di karaté.» «Che cosa?» «Ho cercato di spaccare una tavola con la testa.» «Come no.» «Va bene, quello che è successo è che quando George Padrakis mi ha detto che mi volevi vedere, a sentire il tuo nome, sono caduto in ginocchio e mi sono inchinato così in fretta che ho sbattuto la fronte sul marciapiede.» Per un momento Ross rimase senza parole. Il suo viso già colorito era avvampato. Ansimava. Dan guardò con maggiore attenzione gli oggetti che Mondale aveva tolto dai cassetti e appoggiato sulla scrivania: la rubrica, il libretto degli assegni di un conto intestato al Segno del Pentagramma, un'agenda per gli appuntamenti e un grosso mazzetto di fatture. Prese in mano la rubrica. «Metti giù e stammi a sentire», disse Mondale seccamente, una volta recuperata la voce. Dan gli regalò uno sguardo dolcemente innocente. «Ma potrebbe contenere un indizio, capitano. Sto indagando su questo caso e non farei bene il mio lavoro se non ricercassi ogni indizio possibile.»
Mondale si mosse verso la scrivania, furibondo. Le sue mani si erano infine contratte in due martelli di ossa e di carne. Ah, finalmente, pensò Dan, la resa dei conti che aspettavamo tutt'e due da anni. Laura era immobile davanti alla radiolina, fissandola, senza il coraggio di toccarla, rabbrividendo nell'aria gelida. Il freddo sembrava provenire dalla radio, portato dalla pallida luce verde del quadrante. Era un'idea pazzesca. Quella era una radio, non un condizionatore d'aria. Non un... nient'altro. Solo una radio. Una comune radio. Una comune radio che si era accesa da sola, senza l'intervento di nessuno. La canzone di Bonnie Tyler aveva lasciato il posto in dissolvenza a un nuovo pezzo, un pezzo degli anni d'oro: i Procol Harum che cantavano Whiter Shade of Pale. A tutto volume, la radio vibrava sul mobile, riverberando sui vetri delle finestre, aggredendo le orecchie di Laura. Earl si era portato dietro di lei. Se Pepper stava ancora miagolando in un altro punto della casa, la sua voce era sommersa dalla musica esplosiva. Esitando, Laura mise le dita sulla manopola del volume. Era gelida. Rabbrividì e tirò quasi via di scatto la mano, non solo perché la plastica era freddissima, ma perché si trattava di un freddo di diverso genere, un freddo strano, che gelava non solo la carne ma, in qualche modo, anche la mente e l'anima. Eppure, riuscì a tenere ferme le dita e tentò di ridurre il volume, ma la manopola non si muoveva. La voce dei Procol Harum non si abbassava, e poiché la manopola del volume era la stessa che comandava l'accensione non poteva neppure spegnere l'apparecchio. Provò con forza, sentì i muscoli del braccio che si tendevano, ma senza risultato. Tremava violentemente. Lasciò andare la manopola. Whiter Shade of Pale era una canzone melodica e gradevole, ma a quel volume aveva un suono aspro e minaccioso. Ogni colpo della cassa era come il passo di una temibile creatura che si avvicinava, il gemito degli strumenti a fiato era il verso ostile della stessa belva. Laura afferrò il cavo della radio e gli dette uno strattone. La spina venne fuori dalla presa di corrente. La musica cessò immediatamente. Aveva avuto paura che continuasse a suonare, anche senza elettricità.
Dopo un momento di immobilità nella cucina silenziosa, Earl disse: «Ma come ha fatto...» «Non lo so», rispose Laura. «Aveva mai?...» «Mai.» La radio non sembrava più un innocuo elettrodomestico. Ora c'era qualcosa di torvo, di minaccioso in essa. «Rimetti la spina», suggerì Earl. Per un istante Laura fu certa che, se avesse ridato corrente alla radio, questa avrebbe emesso zampe da granchio in plastica e si sarebbe messa a strisciare lungo il mobile. Il pensiero la colpì: proprio lei, una donna di scienze, sempre logica e razionale, così facile preda di quelle paure superstiziose. Eppure non riusciva a liberarsi dall'idea che dentro la radio si annidasse ancora una forza maligna, ansiosa che la spina tornasse al suo posto. Sciocchezze. Eppure, indugiava. «Rimetterla? Perché?» «Be'», rispose Earl, «voglio vedere che cosa fa. Non possiamo lasciar perdere così. È tutto troppo maledettamente strano. Dobbiamo capire di che cosa si tratta.» Laura sapeva che Earl aveva ragione. Esitante, raccolse il cavo. Dentro di sé, c'era il vago timore che le si mettesse a guizzare in mano, viscido e freddo come un'anguilla. Ma era solo un cavo elettrico: senza vita, niente di insolito. Toccò il comando del volume, che ora si poteva muovere. Lo fece ruotare completamente, portandolo con uno scatto sulla posizione di OFF. Con non poca apprensione rimise la spina nella presa. Niente. Cinque secondi. Dieci. Quindici. «Be', qualunque cosa fosse...» La radio si accese di scatto. Il quadrante si illuminò. L'aria si gelò di nuovo. Laura si allontanò dal mobile, indietreggiando contro il tavolo, quasi temendo che la radio le balzasse addosso. Si fermò accanto a Melanie e le mise una mano sulla spalla, per rassicurarla, ma Melanie era ignara di quegli strani avvenimenti quanto lo era di tutto il resto. La manopola del volume ruotò e Laura sentì l'ultimo successo di Bruce
Springsteen. Questa volta non girò al massimo, ma si fermò a metà, con una musica forte ma non insopportabile. Un'altra manopola cominciò a ruotare come regolata da una mano invisibile. Il selettore della sintonia. Il puntino indicatore rosso si mosse veloce lungo il quadrante luminoso verde, lasciandosi dietro Bruce Springsteen, suscitando nel suo rapido tragitto solo lampi di canzoni, pubblicità, notizie, voci di DJ su una decina di altre stazioni. Raggiunse l'estremità della fascia radio e tornò indietro, sino in fondo verso sinistra, poi di nuovo a destra, più veloce, fondendo insieme i brani delle varie trasmissioni in un unico sinistro ululato elettronico. Earl si avvicinò allo strumento. «Attento», disse Laura pur rendendosi conto di quanto fosse ridicolo metterlo in guardia contro una semplice radio. Era un oggetto inanimato, per l'amor di Dio, non una cosa viva. L'aveva in casa da tre o quattro anni. Le aveva dato musica, compagnia. Era solo una radio. Ma la resa dei conti si tradusse, invece che in un'epica scazzottata, in un ridicolo tira e molla per il possesso della rubrica, in una specie di braccio di ferro - occhi negli occhi - nel quale Mondale rischiò di slogarsi un dito. Il mio cane è più pulito del tuo, la mia mamma è più bella della tua, pensò Dan. Mamma mia! Ma quanti anni abbiamo? Quattordici? Dodici? Quando Mondale, abbandonata la preda, recuperò la mano malconcia, non se la strofinò né tentò di fletterla per scaricare il dolore. Come un ragazzino, doveva dimostrare di essere lui il più forte. Se la mise in tasca con disinvoltura, come per controllare di avere con sé degli spiccioli, o le chiavi, e la tenne lì. Puntò un dito, dell'altra mano, contro Dan. «Non riuscirai a mandarmelo a puttane, Haldane. Questo è un caso importante. Un caso che scotterà, scotterà un sacco. Ci sembrerà di lavorare in un forno. Ho la stampa alle calcagna e l'FBI alle costole, e già hanno cominciato a chiamarmi il sindaco e il capo Kelsey, e vogliono risultati. Non ho intenzione di mandarlo a puttane, questo caso. Ci può essere attaccata la mia carriera. Questo è un lavoro di squadra, hai capito? E io sono il capitano, l'allenatore e il quarterback, tutti in uno, e chi non sa fare il gioco di squadra non deve neppure scendere in campo. Sono stato chiaro?» Insomma, dopotutto, quella non sarebbe stata la resa dei conti finale. Ross voleva solo fare un po' di scena, puntare l'indice contro un subordinato per sentirsi importante. Dan sospirò, un po' deluso, e si allungò sulla
poltrona dell'ufficio, intrecciando le mani dietro la testa. «Forni, campi da football... Ross, stai un po' incasinando le tue metafore. Devi riconoscerlo, vecchio mio, non sarai mai un oratore trascinante.» Guardandolo torvo, Mondale riprese: «Su richiesta del capo Kelsey, sto mettendo insieme una squadra speciale che si occupi del caso, come fecero qualche anno fa per la faccenda dello Strangolatore della Collina. Tutti gli incarichi vengono direttamente da me e l'incarico che do a te è dietro una scrivania al quartier generale. Coordinerai le pratiche su alcuni aspetti delle indagini». «Non sono un uomo da scrivania.» «Adesso sì.» «Pensavo che domani mattina, come prima cosa, avrei cominciato a dare un'occhiata a questo gruppo di Freedom Now e...» «Se ne occuperanno Wexlersh e Manuello», lo interruppe Mondale. «Parleranno anche con il capo del dipartimento di psicologia all'UCLA. E tu sarai alla tua scrivania, a fare quello che ti si dice.» Dan non rivelò di essere già stato all'UCLA e di aver già parlato con Irmatrude Heidi Gelkenshettle. «Wexlersh non è un detective. Diamine, gli tocca dipingerselo di giallo fosforescente per poterlo trovare quando deve pisciare. E Manuello beve.» «Questo te lo stai inventando», replicò seccamente Mondale. «Beve in servizio.» «È un detective eccellente», insistè Mondale. «La tua definizione di 'eccellente' corrisponde alla tua definizione di 'obbediente'. Ti piace perché è un leccaculo. Tu, Ross, nell'autopromozione sei un maestro, ma come poliziotto sei scarso, e peggio ancora come capo. Per il tuo bene, ignorerò quella scrivania che mi hai assegnato e condurrò le indagini a mio modo.» «Basta così, bastardo. Sei finito! Chiamerò il tuo capo, chiamerò Templeton e ti farò inchiodare il culo alla Centrale, là dov'è il tuo posto!» Il capitano si girò e si mosse verso la porta. Dan non si scompose. «Se tu dici a Templeton di togliermi questo incarico, sarò costretto a raccontargli - a lui e a tutti gli altri - di Cindy Lakey.» Mondale si fermò con la mano sulla maniglia della porta, ansimando, ma non si girò verso Dan. Haldane proseguì, parlando con la schiena di Mondale: «Dovrò raccontare di come la piccola Cindy Lakey, quella povera bimba di otto anni, oggi sarebbe ancora viva, una signorina ormai, forse sposata e con una figlia
sua, se non fosse stato per te». Laura stava accanto a Melanie, con una mano sulla spalla della bambina, pronta ad afferrarla e scappare, se fosse stato necessario. Earl Benton era chino sulla radio, ipnotizzato dalla manopola che girava come per magia e dal selettore che sfrecciava avanti e indietro sul quadrante illuminato. Improvvisamente il punto rosso si fermò, ma solo per un momento, un momento in cui un DJ pronunciò una sola parola... «... qualcosa...» ... e poi schizzò via di nuovo e si fermò su un'altra frequenza, ma anche qui cogliendo solo per un attimo due parole di un annunciatore... «... sta arrivando...» ... e balzò nuovamente lungo la fascia verde fosforescente, si fermò nuovamente, spiccando stavolta una parola in mezzo a una canzone... «... qualcosa...» ... poi, su un'altra stazione, piombò nel mezzo di uno slogan pubblicitario... «... sta arrivando...» ... e scivolò via ancora lungo la banda. Laura capì all'improvviso che nelle pause del sintonizzatore c'era una successione logica. Ci stanno mandando un messaggio, pensò. Qualcosa sta arrivando. Ma un messaggio da chi? Da dove? Guardò Earl e lo sbalordimento che vide sul suo viso le disse che anche lui aveva in mente quella domanda. Avrebbe voluto muoversi, fuggire, uscire di lì. Non poteva neppure sollevare un piede. Tutte le ossa le si erano bloccate; i muscoli si erano pietrificati. Il punto rosso si fermò ancora. Questa volta Laura riconobbe la canzone dalla quale veniva ritagliata la parola: «Qualcosa...» Il selettore si mosse lungo la fascia verde, si arrestò per una frazione di secondo: «... sta...» Lasciò quella stazione, puntò su un'altra: «... arrivando...» L'aria era fredda, ma non era questa la sola ragione per cui Laura tremava. Qualcosa sta arrivando.
Non era solo un messaggio. Era un avvertimento. Senza aprirla, Mondale si era girato dalla porta che metteva in comunicazione l'ufficio di Joseph Scaldone con il settore vendite del Segno del Pentagramma. Una volta a faccia a faccia con Dan, la rabbia e l'indignazione in lui avevano ceduto il posto a un'emozione più primordiale. Ora a scavargli il viso, a illuminargli gli occhi c'era l'odio, un puro odio nero. Dan aveva nominato Cindy Lakey per la prima volta dopo più di tredici anni. Questo era il segreto sporco che i due dividevano, il cancro in continua espansione dentro le viscere del loro rapporto. Ora che l'aveva portato allo scoperto, Dan era eccitato dalla prospettiva di costringere finalmente Mondale ad affrontare le conseguenze delle sue azioni. Con voce bassa, tesa, il capitano disse: «Io non ho ucciso Cindy Lakey, maledizione!» «Lo hai permesso quando avresti potuto impedirlo.» «Non sono il Padreterno», replicò Mondale aspramente. «Sei un poliziotto. Hai delle responsabilità.» «Tu sei un bastardo.» «Hai giurato di proteggere il pubblico.» «Sì? Be', quel pubblico fottuto non piange mai su un poliziotto morto», ribattè Mondale, in tono feroce ma sommesso, perché la conversazione non arrivasse alle orecchie degli altri che erano nel negozio. «Hai anche il dovere di difendere un compagno, di proteggere le spalle del tuo partner.» «Ecco il boyscout», fece Mondale sprezzante. «Spirito di corpo. Uno per tutti e tutti per uno. Stronzate! Quando vieni al dunque, è sempre ognuno per sé, e lo sai benissimo.» Dan era già pentito di aver nominato Cindy Lakey. Si sentiva in preda a una sensazione di stanchezza infinita. Si era illuso di mettere Mondale davanti alle sue responsabilità, dopo tanti anni, ma era troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi. Mondale non avrebbe mai ammesso una debolezza o un errore. Era sempre riuscito a scaricarsi dei suoi sbagli: la sua carriera era pulita, impeccabile e probabilmente lo sarebbe rimasta per sempre, non solo agli occhi degli altri, ma anche ai suoi propri occhi. Non era capace di ammettere neppure con se stesso le proprie debolezze, i propri errori. Mondale era incapace di provare rimorsi, sensi di colpa. In quel momento, era chiaro, non sentiva alcuna colpa, alcuna responsabilità, alcun rimorso per quel che era accaduto a Cindy Lakey. L'unica emozione che gli bolliva
dentro era l'odio, un odio irrazionale per Dan. Mondale riprese: «Se c'è qualcuno responsabile della morte di quella bambina, è sua madre». Dan non voleva continuare il discorso. Si sentiva vecchio di cento anni. L'altro continuò: «Prenditela con lei, non con me». Dan non disse nulla. «Era lei che usciva con Felix Dunbar.» Dan lo fissò con un'espressione schifata. «Mi stai dicendo che Fran Lakey avrebbe dovuto sapere che Dunbar era uno squilibrato?» «Diamine, sì.» «Era uno simpatico, da tutti i punti di vista.» «Ma l'ha fatta fuori, no?» «Aveva un lavoro. Vestito come si deve. Fedina penale pulita. Andava in chiesa. All'apparenza, era un cittadino assolutamente rispettabile.» «I cittadini rispettabili non fanno fuori la gente. Fran Lakey usciva con uno sballato, un verme, un vero spostato. Da quello che ho sentito poi, usciva con un sacco di gente, quasi tutti sballati. Lei ha messo a repentaglio la vita di sua figlia, non io.» Dan lo guardò come si guarda un insetto particolarmente repellente che striscia sul tavolo da pranzo. «Doveva prevedere il futuro? Doveva sapere che il suo amico sarebbe andato fuori di testa quando lei si decise a lasciarlo? Doveva sapere che le sarebbe andato in casa con una pistola, che avrebbe cercato di uccidere lei e sua figlia solo perché si era rifiutata di andare al cinema con lui? Se avesse avuto il dono di vedere il futuro avrebbe tolto il lavoro a Jeanne Dixon. Sarebbe stata famosa.» Si protese in avanti, chinandosi sulla scrivania, abbassando ancora di più la voce. «Se avesse avuto il dono di vedere il futuro, avrebbe saputo che non le serviva a niente chiamare la polizia, quella sera. Avrebbe saputo che tu eri uno dei poliziotti che avrebbero risposto alla chiamata, e avrebbe saputo che saresti andato in tilt. E...» «Non sono affatto andato in tilt», replicò Mondale. Fece un passo verso la scrivania, ma come gesto di minaccia fu del tutto inefficace. «Qualcosa sta arrivando...» Earl, incantato, fissava la radio. Laura guardò la porta che dava sulla veranda posteriore. Era chiusa. Anche le finestre erano chiuse. Con le tapparelle abbassate. Se qualcosa doveva arrivare, da dove sarebbe venuto? E che cosa sareb-
be stato, per l'amor di Dio, che cosa sarebbe stato? La radio disse: «State...» Poi: «Attenti...» Laura guardò la porta sul soggiorno, aperta. Quello che doveva arrivare poteva essere già in casa. Forse sarebbe venuto dal soggiorno, attraverso la stanza da pranzo... L'asta delle frequenze si fermò di nuovo e la voce di un DJ riecheggiò dall'altoparlante, un chiacchierio veloce, senza altro scopo che riempire i pochi secondi di vuoto fra un pezzo e l'altro, ma per Laura aveva un tono involontariamente minaccioso: «State attenti là fuori, miei piccoli sgranocchiatori di rock and roll, state attenti, perché questo è un mondo strano, un mondo freddo, pieno di cose che strisciano nella notte, e l'unica difesa che avete è vostro Cugino Frankie, sono io, e allora, se cambiate canale adesso, vi conviene stare attenti, vi conviene stare in guardia perché quei mostriciattoli rattrappiti che vivono nascosti sotto il vostro letto hanno paura solo della voce di Zio Frankie. Vi conviene stare all'erta!» Earl mise una mano sopra la radio. Laura temette di vedere aprirsi una bocca nella plastica e mordergli le dita. «Fredda», disse mentre la manopola della sintonia girava su un'altra stazione. Laura scosse Melanie. «Amore, andiamo, alzati.» La bambina non si mosse. Una parola emerse nitida dal mezzo di una notizia di cronaca: «... assassinio...» Dan desiderò trovarsi al Saul's Delicatessen, a mangiare un enorme sandwich, a bere una Beck's Dark. Se non da Saul, andava bene Jack-in-theBox. Se non Jack-in-the-Box, allora a casa, a lavare i piatti sporchi che aveva lasciato in cucina. Dappertutto tranne che lì. Qualsiasi cosa tranne che quella. Quella che stava svolgendosi in quella stanza era una cosa inutile e deprimente. Ma ormai era troppo tardi. Ormai dovevano ripercorrere da cima a fondo l'omicidio Lakey, grattarlo, scrostarlo, per vedere se sotto la ferita era rimarginata. Uno spreco di tempo e di emozioni, perché entrambi sapevano già che non era, e non sarebbe mai stata, rimarginata. «Quando Dunbar mi sparò», disse Dan, «sul prato davanti alla casa della Lakey...» «Adesso anche quello è stato colpa mia», lo interruppe Mondale. «No. Non avrei dovuto tentare di saltargli addosso. Non pensavo che a-
vrebbe usato la pistola e mi sbagliavo. Ma dopo avermi sparato, Ross rimase stordito per un momento, stupefatto da quello che aveva fatto, ed era vulnerabile...» «Stronzate. Era vulnerabile come un carro armato impazzito. Era un matto, uno squilibrato, aveva la più grossa dannata pistola...» «Una 32», lo corresse Dan. «Ce ne sono di più grosse. Ogni poliziotto si trova continuamente davanti a pistole più grosse di quella. E lui era vulnerabile per un momento, per tutto il tempo che ti serviva a bloccarlo.» «Lo sai che cosa ho sempre odiato in te, Haldane?» Dan lo ignorò. «Ma tu ti sei girato e sei scappato.» «Ho sempre odiato quella tua grossa, grossa vena di presunzione ipocrita.» «Se avesse voluto, Dunbar avrebbe potuto piantarmi un'altra pallottola in corpo. Senza nessuno che lo fermasse dopo che tu te n'eri scappato dietro la casa.» «Come se tu non avessi mai fatto uno sbaglio in tutta la vita.» Ormai bisbigliavano quasi. «Ma invece mi ha lasciato perdere...» «Come se tu non avessi mai avuto paura.» «... e ha fatto saltare la serratura della porta d'ingresso...» «Ti piace fare l'eroe, avanti. Tu e Audie Murphy. Tu e Gesù Cristo.» «... è entrato e ha dato una botta in testa con la pistola a Fran Lakey...» «Ti detesto.» «... e poi l'ha costretta a guardare...» «Mi fai vomitare.» «... mentre lui ammazzava l'unica persona al mondo che lei amasse davvero», concluse Dan. Si sentiva smanioso, ora, perché non era possibile fermarsi finché non fosse stato detto tutto. Desiderò non aver mai cominciato, averlo lasciato sepolto, ma ora che aveva iniziato doveva finire. Perché si sentiva come il Vecchio Marinaio di quell'antica poesia. Perché aveva un incubo da togliersi dalla mente. Perché si sentiva spinto, costretto, ad arrivare sino in fondo. Perché, se si fosse fermato a metà, la parte non detta gli sarebbe rimasta come un grumo di vomito in gola, che lo avrebbe soffocato. Perché ecco com'era, ecco la verità della cosa, niente eufemismi, questa volta perché dopo tutti quegli anni la sua anima era ancora accartocciata in un fitto gomitolo di senso di colpa per la morte della piccola Lakey, e forse se finalmente ne avesse parlato con Ross avrebbe trovato una chiave che lo
liberasse da quella palla di ferro, da quella catena. La radio era di nuovo a pieno volume e ogni parola esplodeva come una cannonata. «... sangue...» «... arriva...» «... scorre...» «Amore, alzati, andiamo», ripetè Laura con un tono più urgente di prima, terrorizzata da quello che poteva stare per accadere: Melanie doveva essere in piedi e pronta a fuggire in qualsiasi momento. Dalla radio: «... nasconditi...» E: «... sta...» E: «... arrivando...» Il volume aumentò ancora. «... si sta...» Earl portò la mano alla manopola del volume. «... liberando...» Ma la ritrasse di scatto come se avesse ricevuto una scossa, e guardò Laura con un'espressione di orrore sul viso. Si passò la mano sulla camicia, la strofinò e lei vide che non era stata una scossa, ma che era stato qualcosa di soprannaturale quello che aveva sentito quando aveva toccato il comando, qualcosa di disgustoso, di repellente. La radio disse: «... morte...» L'odio di Mondale era come una vasta e nera palude nella quale poteva ritirarsi quando l'insostenibile verità su Cindy Lakey sorgeva a tormentarlo. Quando la verità si avvicinava, lo tallonava più insistente, lui si ritirava in quel suo grande odio nero e vi si rintanava tra i serpenti, gli insetti, il fango della sua psiche. Continuò a guardare Dan in cagnesco, a incombere minaccioso sulla scrivania, ma non c'era pericolo che il suo odio si trasformasse in azione. Non avrebbe sferrato un solo pugno. Non aveva né bisogno né desiderio di scaricarlo, quell'odio; gli serviva, anzi, alimentarlo, perché lo aiutava a non vedere la responsabilità. Era un velo tra lui e la verità. Era così che funzionava la mente di Mondale. Dan lo conosceva, conosceva i suoi meccanismi. Oh, sì, lo conosceva bene. Ma, per quanto Ross potesse cercare di ignorarla, la verità era che Felix Dunbar aveva sparato a Dan, e Mondale era stato troppo terrorizzato per
rispondere al fuoco. La verità era che Dunbar, dopo, era entrato nella casa della Lakey, aveva colpito Fran Lakey con la canna della pistola, aveva sparato tre volte a Cindy Lakey, otto anni, mentre Ross Mondale era Dio sa dove, a fare Dio sa cosa. E la verità era che, ferito e sanguinante, Dan aveva recuperato la sua arma, si era trascinato nella casa e aveva ucciso Felix Dunbar prima che questo potesse far saltare il cervello anche a Fran Lakey. Nel frattempo, Ross Mondale forse stava a vomitare dietro la siepe, o stava perdendo il controllo della vescica, o se ne stava appiattito sul prato posteriore facendo di tutto per sembrare un elemento del paesaggio. Era riapparso quando tutto era finito, madido di sudore e pallido come un cadavere. «Prova a togliermi questo caso, prova a limitare i miei movimenti», riprese Dan, «e io racconterò tutta la storia della sparatoria dalla Lakey, racconterò la verità a chiunque voglia ascoltarla e questa sarà la fine della tua brillante carriera.» «Avresti dovuto raccontarlo anni fa.» «Potrà essere un'idea confortante per te, ma è sbagliata. Allora ti ho coperto perché eri il mio partner, e pensavo che chiunque ha il diritto di sbagliare una volta. Ma tutti questi anni li ho passati a pentirmene, e se me ne dai l'occasione sarò felicissimo di mettere le cose a posto.» «È successo tanto tempo fa», disse Mondale. «E tu credi che una cosa del genere non interessi a nessuno solo perché è successa tredici anni fa?» «Nessuno ti crederà. Penseranno che lo fai per invidia. Io sono andato avanti, mi sono fatto degli amici. Tu... tu sei sempre stato un isolato. Uno sbruffone. Nessuno crederà alle stronzate che dirai contro di me. Puoi contarci.» «Ted Gearvy mi crederà», replicò Dan, con una voce così sommessa che si sentì appena. Ma, nonostante il tono, quelle parole ebbero su Mondale l'effetto di una martellata. Gearvy, più anziano di loro di dieci anni, era stato il partner di Mondale durante il suo anno di tirocinio in pattuglia. Aveva visto Mondale fare degli sbagli, ma niente di così grave come quello che era accaduto nella casa della Lakey in seguito, quando Dan aveva sostituito Gearvy come partner di Mondale. Solo allarmanti errori di valutazione. Uno scarso senso di responsabilità. Gearvy aveva visto anche la vigliaccheria di Ross, ma l'aveva coperto, come avrebbe fatto Dan in tempi successivi.
Qualche mese dopo l'incidente Lakey, quando Dan era tornato al lavoro con un nuovo partner, Ted Gearvy aveva provato a sondare Dan, lasciando cadere qualche allusione, temendo di aver fatto un grave errore a coprire sempre le spalle a Ross. Alla fine, si erano scambiati le loro impressioni scoprendo di aver fatto entrambi il medesimo sbaglio. Si erano resi conto che la cattiva condotta di Ross non riguardava solo degli episodi sporadici. Ma a quel punto era sembrato troppo tardi per tirare fuori la verità. Agli occhi dei pezzi grossi del dipartimento il fatto che Gearvy e Dan avessero trascurato di riferire le manchevolezze di Mondale sarebbe apparsa una mancanza quasi altrettanto grave della manchevolezza in sé. Gearvy e Dan non erano disposti a rovinarsi la carriera, considerando, oltretutto, che ormai a Mondale, che non faceva più servizio di pattuglia, difficilmente sarebbe capitata un'altra occasione di mettere a repentaglio la vita di qualcuno. Nessuno dei due immaginava che Mondale un giorno sarebbe diventato un probabile candidato alla carica di capo. Se lo avessero previsto forse avrebbero agito. Non averlo fatto era per entrambi il peggior rimpianto di tutti i loro anni di servizio. Quella, chiaramente, era la prima volta che Mondale capiva che Gearvy e Dan si erano scambiati le opinioni su di lui. Quello che significava gli fu immediatamente chiarissimo. Fu un brutto colpo. La radio rimbombò. «Eccolo!» «Arriva!» «NASCONDITI! ARRIVA!» Le parole sconnesse esplodevano dalla radio a un volume incredibilmente alto, molto più alto di quello che avrebbe potuto fornire l'altoparlante. Assordante. Da scuotere le pareti. La radio avrebbe dovuto disintegrarsi, bruciarsi, con quelle tremende vampate di suono, ma chissà come continuava a funzionare. «LIBERO!» «ARRIVA!» Ogni parola scoppiava dentro Laura, spezzandone sempre di più l'autocontrollo. Il panico e la paura lievitavano dentro di lei. Le luci della cucina pulsavano, affievolendosi. Al tempo stesso, il riverbero verde che illuminava il quadrante della radio si faceva più vivo, innaturalmente vivo, come se l'apparecchio avesse acquisito una coscienza e
una sete smodata di elettricità, come se stesse risucchiando per sé tutta l'energia disponibile. Una cosa del genere non era possibile, ma l'effetto era quello. Via via che la lampada del soffitto si faceva più fioca, il pannello di plexiglas davanti alla radio proiettava fasci verde smeraldo sempre più abbaglianti, tingendo il viso di Earl Benton, riflettendosi sulle cromature del fornello e del frigorifero, dando alla stanza un'atmosfera sottomarina. «... STRAPPA...» «... A PEZZI...» L'aria gelava. «... LACERA...» «... A PEZZI...» Laura non riusciva ad afferrare questa parte del messaggio, a meno che non fosse una minaccia di violenza fisica. La radio prese a vibrare ancora più forte; ben presto si sarebbe messa a saltellare sul mobile. «... SPACCA... IN... DUE...» «Se dico tutto», riprese Dan, «probabilmente lo farà anche Ted Gearvy. E può darsi che ci sia anche qualcun altro in giro che ti ha visto nei tuoi momenti peggiori. Forse, quando lo faremo noi, si faranno avanti anche loro; forse anche loro hanno una coscienza.» L'espressione di Mondale diceva che sicuramente doveva esserci qualcun altro in grado di mandargli a picco la carriera. Non era più tanto sicuro di sé quando disse: «Un poliziotto non denuncia mai, mai un altro, maledizione!» «Sciocchezze. Se uno di noi è un assassino, non lo proteggiamo.» «Non sono un assassino», ribattè Mondale. «Se uno di noi è un ladro, non lo proteggiamo.» «Non ho mai rubato nemmeno un dannato centesimo.» «E se uno di noi è un vigliacco e vuole diventare capo, sono convinto che dobbiamo smetterla di proteggerlo, prima che finisca nell'ufficio grande e si metta a giocare con la vita di altri uomini, come fanno certi vigliacchi appena hanno abbastanza potere da trovarsi al di fuori della mischia.» «Sei il più spocchioso, presuntuoso figlio di puttana che abbia mai conosciuto.» «Detto da te, lo prendo come un complimento.» «Lo conosci il codice, si tratta di noi contro di loro.» «Ma, per l'amor del cielo, Ross, solo un minuto fa mi hai detto che la re-
gola è: ognuno per sé.» Tentando irrazionalmente di separare la propria condotta in casa della Lakey dal codice d'onore che ora professava, Mondale non riuscì a far altro che ripetere: «Si tratta di noi contro di loro, maledizione!» Dan annuì. «Sì, ma quando io dico 'noi' non includo te. Tu e io non possiamo appartenere alla stessa specie.» «Ti rovinerai la carriera», disse Mondale. «Può darsi.» «Sicuramente. La Divisione affari interni vorrà sapere perché hai coperto questo preteso abbandono di dovere.» «Malintesa solidarietà con un collega in uniforme.» «Non basta. Ti mangeranno vivo.» «Sei tu quello che ha bruciato attivamente la cosa. La mia responsabilità morale riguarda un atto passivo, un peccato di omissione. Non mi butteranno fuori del corpo per questo.» «Forse no. Ma non avrai mai più neanche una promozione.» Dan si strinse nelle spalle. «Pazienza. Mi basta dove sono arrivato. Non sono spinto dall'ambizione come te, Ross.» «Ma... nessuno si fiderà più di te quando avrai fatto una cosa del genere.» «Ma sì.» «No. Non dopo che hai fatto la spia contro un collega.» «Se il collega fosse un altro, e non tu, potrebbe essere vero.» Mondale avvampò. «Guarda che ho degli amici.» «Ai pezzi grossi vai a genio», disse Dan, «perché tu dici sempre quello che loro vogliono sentire, e sai come manovrarli. Ma i poliziotti veri, quelli che sono in strada tutto il giorno, ti considerano una mezza sega.» «Stronzate. Ho amici dappertutto. Finirai isolato, sfuggito come la peste.» «Anche se fosse vero - e non lo è - che cosa devo farci? Sono comunque un solitario. Non ti ricordi, lo hai detto tu stesso. Che cosa me ne importa se mi eviteranno?» Per la prima volta, sul viso di Mondale c'era più preoccupazione che odio. «Vedi?» continuò Dan. Sorrise di nuovo, questa volta un sorriso più ampio. «Non hai scelta. Sei costretto a lasciarmi lavorare a questo caso come voglio io, senza interferenze, per tutto il tempo che voglio. Se mi metti i bastoni fra le ruote, ti rovino. Quanto è vero Iddio, anche se questo doves-
se creare dei problemi pure per me.» L'illuminazione della lampada si fece ancora più fioca. Ora la luce innaturale della radio era così viva da ferire gli occhi di Laura. «...FERMA... AIUTO... SCAPPA... NASCONDITI... AIUTO...» Il plexiglas che ricopriva il quadrante della radio improvvisamente si crepò nel mezzo. La Sony si scosse, vibrando con tanta violenza che cominciò a spostarsi sul mobile e Laura ricordò l'immagine da incubo che le si era presentata un paio di minuti prima: zampe da granchio che spuntavano dalla superficie di plastica. Lo sportello del frigorifero si aprì, di nuovo, da solo. Con un sibilo e cigolii di cardini gli sportelli di tutti i mobili della stanza si spalancarono, all'improvviso e contemporaneamente. Uno di essi urtò contro le gambe di Earl, che per poco non cadde. La radio aveva smesso di emettere parole scelte dalle varie stazioni e ora mandava soltanto un acuto fischio elettronico a un volume più alto del massimo, come se stesse tentando di sbriciolare la loro carne e le loro ossa allo stesso modo in cui un «do» acuto perfettamente intonato può sbriciolare il sottile cristallo. Ross Mondale si era seduto su una cassa da imballaggio e nascondeva la faccia tra le mani, come piangendo. La cosa stupì e sconcertò Dan Haldane. Era più che convinto che Mondale fosse un uomo incapace di versare lacrime. Il capitano non singhiozzava, né gemeva, né mandava alcun suono e quando rialzò lo sguardo, dopo circa mezzo minuto, i suoi occhi erano perfettamente asciutti. Allora non piangeva affatto, stava soltanto riflettendo. Riflettendo disperatamente. Aveva anche assunto un'altra espressione, un'azione consapevole come quella di chi cambia maschera. La paura, la preoccupazione, l'ira erano completamente scomparse. Anche l'odio era piuttosto ben celato; ne rimaneva solo una traccia scura ancora visibile negli occhi del capitano, come un sottile strato di ghiaccio nero sopra una pozzanghera alla fine dell'inverno. Aveva indossato la sua faccia cordiale-e-umile, trasparente nella sua insincerità. «Okay, Dan», riprese Mondale. «Okay. Un tempo eravamo amici e forse possiamo tornare a esserlo.»
Mai stati veramente amici, pensò Dan. Ma non disse nulla. Era curioso di vedere fino a che punto Ross Mondale sapesse fingersi conciliante. «Almeno», continuò Mondale, «possiamo cominciare tentando di lavorare insieme. Da parte mia, se può servire, devo riconoscere che tu sei un ottimo investigatore. Sei metodico, ma anche intuitivo, e io non dovrei cercare di metterti il guinzaglio perché sarebbe come impedire a un cane da caccia di seguire il suo naso. Okay. Su questo caso, sei autonomo. Va' dove vuoi, vedi chi vuoi, quando vuoi. Cerca soltanto di mettermi al corrente di tanto in tanto. Lo apprezzerei. Forse, se cediamo un po' tutti e due, scopriremo che possiamo non solo lavorare insieme, ma anche tornare a essere amici.» Dan decise che preferiva la rabbia e l'odio non celato di Mondale a questo untuoso tentativo di rappacificazione. L'odio era il suo sentimento più onesto. Il miele della sua voce e del suo atteggiamento non tranquillizzavano affatto Dan, anzi, gli facevano accapponare la pelle. «Ma posso chiederti una cosa?» riprese Mondale, protendendosi dalla cassa su cui era appollaiato, con un'aria seria e ben intenzionata. «Che cosa?» «Perché questo caso? Perché ti appassiona tanto?» «È solo che voglio fare il mio lavoro.» «No, c'è di più. La donna?» «No.» «È molto attraente.» «Non è la donna», ribadì Dan, benché la bellezza di Laura McCaffrey non gli fosse sfuggita e avesse, in effetti, un certo ruolo, almeno secondario, nella sua determinazione nei confronti del caso. «È la ragazzina?» «Forse.» «Ti sei sempre impegnato al massimo nei casi in cui c'era un bambino maltrattato o minacciato.» «No, sempre no.» «Sì, sempre», insistè Mondale. «È forse... per quello che accadde a tuo fratello e a tua sorella?» La radio vibrò più forte, più veloce, saltellò quasi sul ripiano e improvvisamente si alzò in aria, levitò, rimase sospesa, oscillando, ondeggiando in cima al cavo elettrico come un palloncino. Laura la guardava sgomenta, immobile, non più neppure sorpresa, nep-
pure tremendamente spaventata, solo intorpidita dal freddo e dall'incredulità. Il sibilo elettronico si fece più acuto, più sottile, salì a spirale, come il suono di una bomba che cade sentito al contrario. Laura guardò Melanie e vide che la bambina, finalmente, cominciava a uscire dal suo isolamento. Non aveva ancora aperto gli occhi - anzi, ora li stringeva forte - ma aveva portato alle orecchie le manine, e aveva spalancato la bocca. Dalla radio sospesa nel vuoto cominciò a uscire del fumo. Esplose. Laura chiuse gli occhi e chinò la testa nel momento in cui la Sony scoppiava e sentì i frammenti di plastica che le piovevano addosso, pungendole le braccia, la testa e le mani. I pezzi più grossi, ancora attaccati al cavo, piombarono a terra, fragorosamente, staccando la spina dalla parete. Quando era avvenuta l'esplosione, Melanie aveva finalmente reagito con forza al caos che aveva attorno. Era balzata via dalla sedia e prima ancora che i frammenti avessero finito di cadere era sgattaiolata a quattro zampe nell'angolo accanto alla porta posteriore. In quel momento s.tava rannicchiata, riparandosi la testa con le braccia, singhiozzando. Nel silenzio seguito all'esplosione, i singhiozzi della bambina sembravano particolarmente penetranti e ognuno di essi colpiva il cuore di Laura, non con forza fisica ma con enorme impatto emotivo, spingendola ora verso la disperazione, ora verso il terrore. Mondale, visto che Dan non rispondeva, ripetè la domanda con una voce che sotto il tono di innocente curiosità nascondeva una vena di perfidia. «Per quello che è successo a tuo fratello e a tua sorella?» «Forse», rispose Dan, desiderando non aver mai parlato a Mondale di quella cosa. Ma, ovviamente, quando due giovani agenti sono insieme in un'autopattuglia solitamente finiscono con il dirsi tutto a vicenda durante le lunghe notti di servizio. Lui aveva detto troppo prima di essersi reso conto che Ross Mondale non gli piaceva e non gli sarebbe mai piaciuto. «Può darsi che c'entri anche questo nei motivi per cui non voglio abbandonare questo caso. Ma non è solo questo. È anche per Cindy Lakey. Non lo capisci, Ross? Qui c'è un altro caso in cui una donna e una bambina sono in pericolo, minacciate da un maniaco, forse da più di uno. Come le Lakey. Per questo forse è un'occasione per riscattarmi. Un'occasione per rifarmi del non essere riuscito a salvare Cindy Lakey, per liberarmi finalmente di un
po' di quel senso di colpa.» Mondale lo guardò, stupito. «Tu ti senti in colpa perché la piccola Lakey è stata uccisa?» Dan annuì. «Avrei dovuto sparare a Dunbar nell'attimo in cui si voltò verso di me con quella pistola. Non avrei dovuto esitare. Se lo avessi liquidato subito, non sarebbe mai entrato in quella casa.» «Ma, Cristo, lo sai come stavano le cose allora. Anche peggio di adesso. Il gran giurì stava esaminando una mezza dozzina di denunce di brutalità poliziesca, che le accuse avessero o meno fondamento. A quei tempi anche gli attivisti più tiepidi si accanivano contro l'intero dipartimento. Già, anche peggio di adesso. Se un poliziotto ammazzava qualcuno, anche in un chiarissimo atto di autodifesa, tutti gli davano addosso, tutti dovevano avere dei diritti tranne i poliziotti. Noialtri dovevamo starcene lì a farci riempire di proiettili. I giornalisti, i politici... parlavano tutti di noi come se fossimo dei fascisti sanguinari. Cazzo, ti ricordi?» «Mi ricordo», annuì Dan. «Ed è per questo che non sparai a Dunbar quando avrei dovuto. Vedevo che era squilibrato, pericoloso. Sapevo d'istinto che quella sera avrebbe ucciso qualcuno, ma sotto sotto ero certo che se gli avessi sparato avrei dovuto risponderne, e con il clima che c'era nessuno mi avrebbe ascoltato. Avevo paura che mi avrebbero bruciato, che avrei perso il posto, che mi avrebbero buttato fuori dal corpo. Avevo paura di rovinarmi la carriera. E così aspettai che spianasse la pistola, che me la puntasse contro. Ma gli concessi un secondo di troppo, e lui mi beccò, ed ebbe la possibilità di beccare anche Cindy Lakey.» Mondale scosse la testa energicamente. «Ma niente di tutto ciò è stata colpa tua. La colpa è di quei dannati riformatori sociali che prendono posizione senza conoscere i problemi, senza sapere che cosa c'è là fuori. La colpa è loro. Non tua. Non mia.» Dan lo guardò duramente. «Non permetterti di metterti sulla mia stessa barca. Tu, Ross, sei scappato. Io mi sono bloccato perché stavo pensando alla mia sicurezza - alla mia pensione! - invece di pensare esclusivamente a fare il mio lavoro nel modo migliore. E di questo mi porterò dietro il rimorso per tutta la vita. Ma non permetterti nemmeno di suggerire che questo carico grava ugualmente su di te e su di me. Non è così, e tu lo sai benissimo.» Pur sforzandosi di continuare a mostrarsi solidale, Mondale faceva sempre più fatica a trattenere l'odio. «O forse non lo sai», riprese Dan. «E questo mi fa ancora più paura.
Forse non stai semplicemente cercando di pararti il culo. Forse credi davvero che badare a se stessi è l'unico atteggiamento morale che abbia un senso.» Senza rispondere, Mondale si alzò e si diresse alla porta. «È veramente pulita la tua coscienza, Ross?» lo incalzò Dan. «Che Dio ci aiuti, ho paura proprio di sì.» Mondale gli lanciò uno sguardo. «Fa' quello che vuoi, in questo caso, ma non venirmi tra i piedi.» «Tu non hai perso nemmeno una notte di sonno per Cindy Lakey, vero, Ross?» «Ho detto di non venirmi tra i piedi.» «Ne sarò felice.» «Non voglio sentirne più di queste tue stronzate.» «Sei incredibile.» Senza rispondere, Mondale aprì la porta. «Da quale pianeta vieni, Ross?» Mondale uscì. «Ci scommetto che sul suo pianeta di origine c'è un solo colore», disse Dan alla stanza vuota. «Marrone. Tutto deve essere marrone nel suo mondo. Perciò veste così, gli ricorda casa sua.» Era una battuta fiacca, forse per questo non riuscì a sorridere. Forse. La cucina era silenziosa. L'aria era tornata tiepida. «È finita», disse Earl. La paralisi allentò la sua presa su Laura. Un frammento della radio distrutta scricchiolò sotto il suo piede quando attraversò la cucina per inginocchiarsi accanto a Melanie, asciugandole le lacrime, parlandole con dolcezza e accarezzandola. Earl si mise a frugare tra i frammenti della Sony, mormorando fra sé, sbalordito e affascinato. Seduta a terra con Melanie in grembo, stringendola, cullandola, traendo un immenso piacere dal fatto che la bambina era ancora lì per essere confortata, Laura avrebbe voluto cancellare gli eventi degli ultimi minuti, avrebbe dato qualsiasi cosa per poter negare la realtà di quanto aveva visto. Ma sapeva che quella non era stata un'allucinazione. Quell'episodio paranormale - fenomeni soprannaturali? - non si poteva liquidare spiegandolo con una confusione dei suoi sensi: le sue percezioni erano state precise e
affidabili nonostante l'incredibilità di quel che lei percepiva. Anche Earl l'aveva visto. E quella non era un'allucinazione comune, un'illusione collettiva. Era folle, impossibile... ma reale. La radio era stata posseduta. Alcuni dei pezzi fumavano ancora. L'aria era carica dell'odore acre della plastica bruciata. Melanie mandò un gemito sommesso. Rabbrividì. «Buona, amore, buona.» La bambina alzò gli occhi sulla madre e Laura ebbe un sobbalzo al contatto degli sguardi. Melanie non la guardava più come se non la vedesse. Era ritornata di nuovo dal suo mondo oscuro, e Laura pregò che questa volta il ritorno fosse definitivo, pur non credendolo possibile. «Io... voglio...» disse la bambina. «Che cosa, amore? Che cosa vuoi?» Gli occhi della piccola scrutarono quelli di Laura. «Mi... serve...» «Qualunque cosa, Melanie. Qualunque cosa vuoi. Devi solo dirmelo. Di' a mamma che cosa ti serve.» «Li prenderà tutti», mormorò Melanie con una voce carica di paura. Earl aveva alzato lo sguardo dai resti fumanti della radio e la fissava. «Che cosa?» chiese Laura. «Che cosa li prenderà, amore?» «E poi... prenderà... me.» «No», disse subito Laura. «Niente ti prenderà. Baderò io a te. Io...» «Verrà... spunterà da... da dentro...» «Da dentro, dove?» «... da dentro...» «Che cos'è, tesoro? Di che cosa hai paura? Che cos'è?» «... verrà... e... mi mangerà...» «No.»,. «... mi mangerà... tutta quanta», finì la piccola e rabbrividì. «No, Melanie. Non temere. Non devi...» La frase le si smorzò in gola: vide che gli occhi della bambina avevano una luce diversa. Non erano del tutto sfocati, ma non fissavano più Laura. Il ritmo del suo respiro cambiò. Era rientrata in quel luogo segreto in cui era nascosta fin da quando l'avevano trovata che si aggirava nuda per la strada. «Ti spieghi qualcosa di tutto questo?» chiese Earl. «No.» «Perché io non ci capisco niente.» «Neppure io.»
Prima, mentre preparava la cena, lei aveva cominciato a sentirsi più ottimista a proposito di Melanie e del futuro. Aveva cominciato a sentirsi quasi normale. Ma ormai la loro situazione era mutata in peggio, i suoi nervi erano di nuovo tesissimi. C'era qualcuno, in quella città, che voleva rapire Melanie per continuare gli esperimenti su di lei. Laura non sapeva che cosa sperassero di ottenere o perché avessero preso di mira Melanie, ma era certa che esistevano. Anche l'FBI ne sembrava sicura. E c'era anche chi voleva la bambina morta. La scoperta del cadavere di Ned Rink sembrava una prova che la vita di Melanie era indiscutibilmente in pericolo. E di colpo sembrava che questa gente senza volto non fosse l'unica a voler mettere le mani su Melanie. Ora c'era anche un altro nemico. Questa era la sostanza dell'avvertimento che li aveva raggiunti attraverso la radio. Ma chi, o che cosa, controllava la radio? E in che modo? Chi, o che cosa, aveva mandato l'avvertimento? E perché? Cosa più importante: chi era questo nuovo nemico? Qualcosa, aveva detto la radio, si era liberato. Un «qualcosa» più spaventoso e più pericoloso di tutti gli altri nemici combinati. «Qualcosa» stava arrivando. Dovevano scappare, aveva detto la radio. Dovevano nascondersi. Da «quello». «Mamma? Mamma?» «Sono qui, amore.» «Mammaaaaa!» «Sono qui. Va tutto bene. Sono qui.» «Ho... ho... ho... paura», disse Melanie, ma non era a Laura o a Earl che parlava. Sembrava non sentire le rassicurazioni di Laura e parlava a se stessa, con un tono di voce che era la quintessenza della solitudine, la voce di chi è completamente perduto, abbandonato. «Tanta paura. Tanta paura.» PARTE TERZA La caccia Mercoledì, ore 20.00 Giovedì, ore 6.00 22
ancora seduto alla scrivania di Joseph Scaldone nell'ufficio-deposito sul retro del negozio a Ventura, Dan Haldane passò in rassegna i dischetti nel raccoglitore accanto al computer IBM. Si soffermò su quello contrassegnato LISTA CLIENTI PER CORRISPONDENZA. Accese il computer, attese che lo schermo si illuminasse, inserì il floppy e chiamò la lista. Comparve, in caratteri verdi sullo schermo scuro. Era divisa in ventisei file, uno per ciascuna lettera dell'alfabeto. Chiamò la M e la fece scorrere lentamente, cercando nome e indirizzo di Dylan McCaffrey. Lo trovò. Chiamò la H e trovò Willy Hoffritz. Nel file C, trovò Ernest Andrew Cooper, l'uomo d'affari milionario "il cui corpo maciullato era stato trovato nella casa di Studio City, la sera prima, con McCaffrey e Hoffritz. Dan riflette un momento, poi chiamò la R. Ned Rink c'era. Aveva trovato un filo che legava insieme tutte e quattro le vittime: l'interesse per l'occulto e, più specificamente, l'appartenenza alla clientela dello stravagante negozietto di Joseph Scaldone. Guardò la U. C'era un indirizzo, a Ojai, e un numero di telefono sotto Albert Uhlander, l'autore di quei volumi di occultismo che qualcuno aveva tentato di portar via dalla casa di Ned Rink. Chi altro? Soppesò la domanda per un momento, poi chiamò il file della S e cercò Regine Savannah, la ragazza che quattro anni prima era stata sotto il controllo totale di Hoffritz. Non era fra i clienti di Scaldone. La G. Non si sa mai. Ma Irmatrude Gelkenshettle non c'era. Non che si fosse aspettato di trovarla, anzi provò un po' di vergogna solo per aver controllato. Ma un detective della Omicidi non si fida di nessuno per natura. Richiamato il file O, cercò Mary Katherine O'Hara di Burbank, la segretaria di Freedom Now, l'organizzazione di cui Cooper e Hoffritz erano rispettivamente presidente e tesoriere. Ma a quanto pareva Mary O'Hara non condivideva l'entusiasmo dei suoi soci per la letteratura e l'armamentario dell'occulto. A Dan, sul momento, non vennero in mente altri nomi da controllare ma, molto probabilmente, ce ne sarebbero stati di altri interessanti quando avesse letto l'intera lista. Accese la stampante che si trovava su un tavolino accanto alla scrivania del computer. Tornò alla tastiera e ordinò una stampa della lista di indirizzi. La prima pagina uscì dopo meno di un minuto. Dan raccolse il foglio dal cassettino e cominciò a leggere mentre la mac-
china continuava il suo lavoro. Sul foglio c'erano venti nomi e indirizzi su due colonne di dieci. Fin qui non riconobbe nessuno. Sulla seconda pagina uscita dalla stampante, verso il fondo della seconda colonna, vide un nome che non solo gli era familiare ma che lo stupì. Palmer Boothe. Proprietario del Los Angeles Journal, erede di una fortuna immensa, ma anche uno dei più accorti uomini d'affari del Paese, Palmer Boothe aveva accresciuto di molto la ricchezza ereditata. Non aveva le mani solo nella stampa, ma anche nell'edilizia, nella finanza, nella produzione cinematografica, nei trasporti, in settori ad alta tecnologia di vario genere, nell'agricoltura, nell'allevamento dei cavalli da corsa, e probabilmente in qualunque cosa rendesse quattrini. Era un uomo che godeva di grande stima, un mediatore del potere politico, un filantropo che si era guadagnato la gratitudine di una schiera di istituzioni benefiche, un uomo noto per il suo caparbio pragmatismo. Davvero? Come poteva coesistere il caparbio pragmatismo con la fede nell'occulto? Perché mai un astuto uomo d'affari, paladino della concretezza delle regole, metodi e leggi del capitalismo, perché mai era cliente di un posto stravagante come il Segno del Pentagramma? Strano. Naturalmente, le eventualità che Palmer Boothe fosse coinvolto con uomini come McCaffrey, Hoffritz e Rink erano praticamente mille. Il suo nome sulla lista di Scaldone non lo legava a questo caso. Non tutti quelli che facevano i loro acquisti presso il Segno del Pentagramma erano necessariamente implicati nel complotto. Ciononostante, Dan aprì la rubrica personale di Scaldone - quella che lui e Mondale si erano contesa - e la aprì alla B, per vedere se Boothe fosse qualcosa di più di uno dei tanti clienti di Scaldone. Il nome non c'era. Il che probabilmente stava a significare che il suo solo contatto con Scaldone era quello di acquirente occasionale di libri sull'occultismo. Dan estrasse dalla tasca interna della giacca la rubrica di McCaffrey. Il nome non era neppure lì. Binario morto. Lo aveva previsto. Poi, ripensandoci, cercò Albert Uhlander nel libretto di McCaffrey. L'autore era presente, con lo stesso indirizzo e numero telefonico di Ojai. Guardò di nuovo nella rubrica di Scaldone. Uhlander era anche lì, per cui evidentemente era più che un cliente della libreria. Simpatico gruppetto. Che cosa facevano quando si riunivano? Metteva-
no a confronto varie marche di merda di pipistrello? Preparavano gustosi piattini a base di occhi di serpente? Discutevano progetti megalomani di fare a tutti il lavaggio del cervello e di governare il mondo? Torturavano bambine? La stampante finì di emettere la quindicesima e ultima pagina della lista di nomi e indirizzi prima che Dan avesse letto tutto il quinto foglio. Le raccolse, le pinzò insieme, ripiegò i fogli e li mise in tasca. C'erano quasi trecento nomi sulla lista, e voleva studiarseli con calma, a casa, dove, da solo e con una birra, poteva concentrarsi meglio. Infilò le due rubriche e altri oggetti in una scatola vuota da cancelleria e la portò fuori dell'ufficio; attraversò il negozio, dove gli uomini del coroner stavano riponendo in un sacco di plastica il corpo orrendamente dilaniato di Joseph Scaldone, e uscì. La folla di curiosi si era ridotta, forse perché ora la notte si era fatta più fredda. Attorno al negozio indugiavano ancora alcuni reporter, con le mani in tasca, stretti nelle spalle, tremanti. Un vento raggelante fischiava e ululava a raffiche lungo Ventura Boulevard, assorbendo calore da tutto. L'aria era pesante, umida. Probabilmente la pioggia sarebbe tornata prima del mattino. Nolan Swayze, un giovane poliziotto, era uno degli agenti in uniforme in servizio davanti al Segno del Pentagramma. Dan gli consegnò la scatola che aveva con sé e disse: «Consegnala a East Valley. Tra questa roba ci sono due rubriche di indirizzi. Voglio che venga fatta una trascrizione del loro contenuto, e che una copia delle trascrizioni venga distribuita a ognuno degli uomini che si occupano del caso entro domani mattina». «Si può fare», confermò Swayze. «C'è anche un dischetto di un computer IBM. Fallo stampare, e fai una copia per ciascuno. C'è anche un'agenda d'appuntamenti.» «Una copia per ciascuno?» «Impari in fretta.» Swaize annuì. «Intendo diventare capo, un giorno o l'altro.» «Auguri.» «Mia madre ne sarà orgogliosa.» «C'è anche un mazzetto di fatture...» «Vuole che le informazioni vengano trascritte in una forma più maneggevole.» «Esatto», rispose Dan. «Con una copia per ognuno.»
«Forse riuscirai a diventare addirittura sindaco.» «Questo libretto...» «È un libretto degli assegni», spiegò Dan. «Vuole che vengano trascritte le informazioni dalle matrici con una copia per ciascuno. Forse riuscirò addirittura a diventare governatore.» «No, non ti piacerebbe.» «Perché?» «Saresti costretto a trasferirti a Sacramento.» «Gesù, è vero. Preferisco la civiltà.» Cenarono tardi perché c'era da ripulire la cucina. Dovettero buttar via l'acqua per gli spaghetti perché ci galleggiavano frammenti di plastica bruciacchiata. Laura lavò per bene la pentola, la riempì di nuovo e la rimise sul fornello. Quando si sedettero a mangiare, non aveva più fame. Oltre al profumo stuzzicante del sugo era rimasto nell'aria un odore di plastica bruciata e di metallo surriscaldato che sembrava la traccia olfattiva di una presenza spirituale maligna. Sufficiente a toglierle l'appetito. Earl Benton mangiò più di lei, ma nemmeno lui molto. Né parlò molto. Nelle lunghe pause fra un boccone e l'altro fissava il piatto e l'unica volta che alzò lo sguardo fu quando lanciò un'occhiata verso il punto, sul mobile, dove prima c'era la radio. Il suo solito atteggiamento efficiente, concreto, era scomparso e i suoi occhi avevano uno sguardo assente. Anche quelli di Melanie erano ancora fissi su un punto lontano, ma la bambina mangiò più di Laura o di Earl Benton. A volte masticava lentamente e con aria assente, altre volte trangugiava quattro o cinque bocconi in rapida successione, come se fosse affamata, altre volte ancora dimenticava del tutto che stava mangiando, e bisognava ricordarglielo. Mentre imboccava la figlia, Laura non poté fare a meno di pensare alla propria infanzia infelice. Sua madre, Beatrice, era una fanatica religiosa a cui non era mai stato permesso di cantare, ballare, leggere altro che la Bibbia e determinati libri di argomento religioso. Reclusa e affetta da un complesso di persecuzione, Beatrice aveva fatto di tutto perché Laura rimanesse una ragazza timida, isolata e terrorizzata dal mondo e se Laura fosse diventata come era in quel momento Melanie, Beatrice molto probabilmente ne sarebbe stata felicissima. Avrebbe interpretato la schizofrenia catatonica come il rinnegamento del marcio mondo della carne, l'avrebbe vista come una profonda comunione con Dio. Beatrice non solo non avrebbe
saputo, ma non avrebbe neppure voluto aiutare Laura a ritornare nel mondo reale. Ma io, tesoro, saprò aiutarti, pensò Laura, togliendo con il tovagliolo un po' di sugo dal mento della figlia. Io posso e voglio aiutarti a ritrovare la strada, Melanie, se tu solo potessi venirmi incontro, se tu solo ti lasciassi aiutare. La testa di Melanie crollò, le si chiusero gli occhi. Laura avvolse degli altri spaghetti sulla forchetta e li portò davanti alle labbra della bambina, ma lei sembrava essere scivolata dall'apatia verso un livello più profondo, forse nel sonno. «Forza, Melanie, un altro boccone. Devi mettere su un po' di peso, tesoro.» Si sentì il rumore di uno scatto. Earl Benton alzò gli occhi dal piatto. «Che cos'era?» Prima che Laura potesse rispondere, la porta posteriore si spalancò con tanta violenza che la catena di sicurezza fu strappata dallo stipite con uno schianto di legno in frantumi. Il primo scatto era stato il rumore del chiavistello che si apriva. Da solo. Earl balzò in piedi, rovesciando la sedia. Dal patio dietro la casa, dal buio e dal vento, qualcosa varcò la soglia. Alle nove e un quarto, dopo aver parlato con il proprietario del negozio accanto al Segno del Pentagramma, senza aver appreso nulla di interessante, Dan si fermò a un McDonald's per cenare. Acquistò due cheeseburger, una porzione grande di patatine e una Tab, e andò a mangiare in macchina, usando nel frattempo il video dell'auto per cercare di localizzare Regine Savannah. Il video era montato sul cruscotto e la tastiera sistemata fra i due sedili anteriori. Tutte le autopattuglie del dipartimento di Los Angeles erano state attrezzate di terminali negli ultimi due anni, e anche la metà circa delle auto civili appartenenti, al dipartimento erano dotate di questo avveniristico apparecchio. Il videoterminale mobile era collegato per mezzo di trasmissioni a microonde con il centro Comunicazioni della polizia - sotterraneo, sicurissimo, a prova di bomba - il quale a sua volta aveva accesso, tramite modem, a svariate banche dati del governo e dell'industria privata. Dopo aver dato un morso al cheeseburger, Dan accese il motore della berlina, poi mise in funzione il terminale, digitò il suo codice personale e si collegò con la banca dati della compagnia telefonica. Chiese il numero corrispondente a una Regine Savannah entro l'area di Los Angeles.
Dopo pochi secondi lampeggiò sullo schermo la risposta negativa. Formulò allora la richiesta di eventuali numeri non sull'elenco intestati a una R. o Regine Savannah, ma anche questo non diede risultati. Mangiò qualche patatina. Si collegò con l'elenco delle patenti del dipartimento della Motorizzazione e ordinò una ricerca a quel nome. Di nuovo risposta negativa. Mentre rifletteva su un altro approccio, finì il primo cheeseburger guardando il traffico che scorreva sulla strada ventosa. Si riallacciò di nuovo con il dipartimento della Motorizzazione e chiese la ricerca delle patenti di tutte quelle che si chiamavano Regine di nome, con Savannah come secondo nome. Poteva darsi che si fosse sposata ma non avesse abbandonato il nome da ragazza. Centro! Dopo due o tre minuti lo schermo lampeggiò la risposta: REGINE SAVANNAH HOFFRITZ Dan fissò il video incredulo. Hoffritz? Marge Gelkenshettle non gli aveva detto niente in proposito. Davvero la ragazza aveva sposato l'uomo che l'aveva mandata all'ospedale? No. Dalle informazioni che aveva raccolto, Wilhelm Hoffritz non era sposato. Il suo parente più stretto era una sorella, che era stata rintracciata e stava arrivando - da Detroit o Chicago, un posto del genere - per occuparsi dei funerali. Se Regine e Hoffritz si fossero sposati, Marge Gelkenshettle glielo avrebbe detto. A meno che non ne fosse all'oscuro anche lei. Secondo i dati della Motorizzazione, Regine Savannah Hoffritz era di sesso femminile, capelli e occhi neri, un metro e sessantotto, cinquantasette chili. Era nata il 3 luglio 1961. L'età corrispondeva a quella della donna di cui aveva parlato Marge. L'indirizzo sulla patente era a Hollywood, sulle colline, e Dan lo annotò. Wilhelm Hoffritz viveva a Westwood. Se era sposato con Regine Savannah, perché avevano due case? Divorzio. Sì, era un'ipotesi plausibile. Eppure, nonostante fosse finito in un divorzio, il fatto stesso del matrimonio era incredibile. Che razza di vita poteva essere stata la sua, sposata a un sadico violento che le aveva fatto il lavaggio del cervello, e che già una volta l'aveva ridotta male, quando era solo una sua studentessa? Il pensiero di quello che avrebbe potuto farle da marito, quando erano
soli nell'intimità della casa, gli fece accapponare la pelle. Earl Benton aveva la pistola in mano, ma quello che entrò nella cucina dal buio esterno non era cosa che si potesse abbattere con un paio di pallottole ben piazzate della sua calibro 38. Con uno schianto fragoroso la porta fu sbattuta contro il muro e nella cucina si formò un mulinello freddo, una ventata che sembrava una belva viva, una belva che soffiava e ringhiava, che annusava e si dimenava. E se la sostanza della bestia era il vento, il suo manto era fatto di fiori, poiché l'aria si era riempita all'improvviso di fiori, rose gialle, rosse, bianche, steli rigogliosi di tutti i colori, un fiume di fiori del giardino dietro la casa, alcuni con ancora il gambo, altri senza, alcuni spiccati dalla pianta, altri sradicati. La bestia di vento si scrollò; il suo manto di fiori si agitò, sparse foglie lacere come fossero peli, e petali variopinti e gambi schiacciati e grumi di terra umida che aderiva alle radici. Il calendario fu soffiato via dal muro e svolazzò per la stanza su ali di carta prima di deporsi al suolo. Con un fruscio come di penne le tende si tesero dalle finestre divincolandosi per liberarsi dai bastoni che le ancoravano, ansiose di unirsi a questa danza demoniaca di cose inanimate. Uno spruzzo di terra bagnata inzaccherò Earl, e una rosa gli colpì il viso; avvertì il graffio di una spina sulla gola quando il fiore gli rimbalzò contro, e sollevò un braccio a proteggersi. Vide Laura McCaffrey che schermava sua figlia con il corpo e si sentì impotente e stupido davanti a questa minaccia informe. La porta si richiuse di scatto, improvvisamente come si era spalancata. Ma il vortice di fiori continuò a roteare, come se quella folata non facesse parte del più grande vento che sferzava di fuori, la notte, ma ne fosse piuttosto una creatura autonoma. Questo era ovviamente impossibile. Folle. Impensabile. Ma reale. Il turbine ululava, sibilava, gettava in giro altre foglie, fiori e gambi spezzati, scuoteva via altra terra, boccioli e petali variopinti. Nel suo manto di vegetazione turbinante, la creatura di vento si fermò davanti alla porta (ma il suo fiato si poteva sentire in ogni angolo) e rimase lì, come osservandoli, come decidendo che cosa fare e poi semplicemente si dileguò. Il vento non morì lentamente; cessò di botto. I fiori rimanenti, quelli che non erano stati sparsi in giro, si ammucchiarono all'improvviso sul pavimento della cucina, con un fruscio simile a un sospiro. Poi, il silenzio. Nella sua auto, nel parcheggio del McDonald's, Dan chiuse il contatto con il computer del dipartimento della Motorizzazione e si ricollegò con la
banca dati della compagnia telefonica. Cercò il numero e l'indirizzo di Regine Hoffritz. Era lo stesso che compariva sulla patente. Guardò l'orologio: ventuno e trentadue. Aveva lavorato al video per una decina di minuti. Un tempo, prima dell'avvento dei computer mobili, per raccogliere queste informazioni avrebbe perso almeno due ore. Mentre finiva il secondo cheeseburger e sorseggiava la Tab, non poté fare a meno di riflettere sui rapidi mutamenti che si verificavano nel mondo in cui viveva. Un nuovo mondo, una società fantascientifica stava crescendo attorno a lui con una velocità e un vigore che lasciava sconcertati. Era entusiasmante, ma anche preoccupante, vivere in un momento come quello. L'umanità aveva acquisito la capacità di raggiungere le stelle, di staccarsi con un balzo gigantesco da questo mondo per allargarsi nell'universo, ma aveva acquisito anche la capacità di distruggere l'intera umanità prima che potesse avere inizio l'inevitabile migrazione. La nuova tecnologia liberava l'uomo da tante incombenze ingombranti, gli faceva risparmiare enormi quantità di tempo. Eppure il tempo risparmiato non sembrava tradursi in riposo in più o in maggiori opportunità di meditazione e riflessione. Anzi, a ogni nuova ondata di tecnologia, il ritmo della vita aumentava; c'era sempre più da lavorare, più decisioni da prendere, più esperienze da fare. Ogni anno la vita sembrava svolgersi a velocità maggiore dell'anno precedente, come se Dio avesse ruotato la manopola del flusso temporale. Ma anche il concetto di Dio sembrava datato e poco credibile in un'epoca in cui l'universo veniva costretto ad abbandonare i suoi misteri quasi quotidianamente. Scienza, tecnologia e mutamento erano ormai gli unici dei, la nuova trinità; e, se non erano consapevolmente crudeli e severi come i vecchi dei, erano troppo freddamente indifferenti per offrire alcun conforto agli infelici, agli isolati, agli smarriti. Come faceva un negozio come il Segno del Pentagramma a prosperare in un mondo di computer, di farmaci miracolosi, di veicoli spaziali? Chi poteva rivolgersi all'occulto, in cerca di risposte, quando medici, biochimici e genetisti stavano offrendo ogni giorno sempre più risposte, più di tutte le tavolette magiche, delle sedute spiritiche e degli indovini dall'inizio della storia ai giorni nostri? Perché mai uomini di scienza come Dylan McCaffrey e Wilhelm Hoffritz si associavano con un rivenditore di stereo di pipistrello e di occhi di serpente? Bene, evidentemente non credevano che fosse tutta paccottiglia. Alcuni aspetti dell'occulto, alcuni fenomeni paranormali, dovevano aver suscitato
l'interesse di McCaffrey e Hoffritz e dovevano essere apparsi, ai loro occhi, come qualcosa di utilizzabile per le loro ricerche. In qualche modo, quei due avevano voluto fondere scienza e magia. Ma come? E perché? Mentre finiva la sua Tab, gli tornarono alla mente dei versi: Piomberemo nelle tenebre tra le mani del male quando la Scienza e il Diavolo se ne andranno a braccetto. Non riusciva a ricordare dove li avesse sentiti, ma gli sembrava che facessero parte di una canzone, forse di un vecchio rock 'n' roll, dei tempi in cui ascoltava con regolarità il rock. Si sforzò di ricordare, ci riuscì quasi, pensò potesse trattarsi di una canzone di protesta contro la guerra e la distruzione nucleare, ma non riuscì ad andare oltre questo. La Scienza e il Diavolo, a braccetto. Era un'immagine ingenua, banale. Probabilmente la canzone voleva essere solo un pezzo di propaganda per coloro che sognavano di smantellare la civiltà e tornare a vivere nelle tende. Dan non aveva simpatia per quel punto di vista. Sapeva che le tende erano umide, che ci passavano gli spifferi. Ma per qualche motivo l'immagine - «la Scienza e il Diavolo, a braccetto» - su di lui quella sera avevano un effetto potente; si sentì percorrere da un brivido freddo. Improvvisamente non aveva più voglia di far visita a Regine Savannah Hoffritz. Era stata una giornata lunga, lunghissima. Era il momento di tornarsene a casa. La fronte, colpita, gli faceva male, e si sentiva ammaccato dappertutto. Aveva le giunture in fiamme, gli occhi gli bruciavano e gli lacrimavano. Avrebbe avuto bisogno di una birra, forse di due, e di dieci ore di sonno. Ma aveva ancora del lavoro da fare. Laura si guardò attorno attonita, incredula. Terra, fiori, foglie e altri detriti erano sparsi sul tavolo della cucina e sui resti della loro cena. Rose malconce coprivano il pavimento e i mobili. Ciuffi di fiori variopinti spuntavano dal lavandino. Una rosa bianca pendeva dalla maniglia del frigorifero, e pezzetti di erba e centinaia di petali staccati erano appiccicati alle tendine, alle pareti, agli sportelli dei pensili. Un mucchietto inerte di erba, steli e fiori bruciati dal vento segnava, sul
pavimento, il punto dove il turbine si era spento. «Andiamo via di qui», disse Earl, con la pistola ancora in mano. «Ma in questo stato...» «Dopo», la interruppe lui, avvicinandosi a Melanie, e facendola alzare dalla sedia. Laura era come intontita. «Ma devo pulire...» «Andiamo, andiamo», ordinò Earl impaziente. Il sano colorito da ragazzo di campagna era scomparso, ora era pallidissimo. «Nel soggiorno.» Lei esitò ancora, guardandosi attorno. «Andiamo», ripetè Earl, «prima che da quella porta arrivi qualcosa di peggio!» 23 Regine Savannah Hoffritz abitava in una delle strade meno lussuose sulle colline di Hollywood. La sua casa era un classico esempio di quell'architettura eclettica e anacronistica che, pur rara in California, era ritenuta dagli sciovinisti newyorchesi come un esempio della tipica mancanza di gusto degli abitanti della West Coast. A giudicare dall'impiego di mattoni e dalle travi esterne a vista, Dan suppose che la casa volesse essere in stile Tudor, ma le sue grondaie elaboratamente lavorate erano vittoriane, le imposte erano coloniali americane, e le lanterne di bronzo da rimessa che fiancheggiavano l'ingresso principale e l'entrata del garage non appartenevano ad alcun periodo o stile riconoscibile. Le due colonnine che inquadravano l'imbocco del vialetto avevano un'aria messicana, e reggevano due lampade di ferro battuto completamente diverse (ma non più Tudor di quelle) delle lanterne di ottone impiegate altrove. Nel vialetto davanti alla casa era parcheggiata una Porsche nera. Alla luce fioca della strada, la curva superficie lucida del lungo cofano dell'auto ricordava il guscio di un coleottero. Dan suonò il campanello, tirò fuori il documento della polizia, attese con le spalle curve contro il vento freddo, poi suonò di nuovo. Quando finalmente la porta si aprì, era fissata con una catena di sicurezza. Mezza faccia, molto graziosa, lo scrutava; folti capelli neri, una pelle di porcellana, un grande occhio castano, metà di un naso delicato, metà bocca carnosa e invitante. «Sì?» domandò lei con un tono morbido, sommesso, una voce che poteva benissimo essere naturale ma che aveva ugualmente un che di falso, di
calcolato. «Regine Hoffritz?» «Sì.» «Tenente Haldane. Polizia. Gradirei parlare con lei. Di suo marito.» Lei esaminò il documento che Dan le mostrava. «Quale marito?» Ora lui sentì dell'altro nella sua voce, una cedevolezza, un'arrendevolezza, una debolezza tremula e intimidita; sembrava non aspettasse altro che un comando che la obbligasse a obbedire senza discussioni. «Suo marito», ripetè lui. «Willy Hoffritz.» «Ah. Un attimo.» La porta si chiuse e rimase chiusa per dieci secondi, venti, mezzo minuto, e più. Dan stava per suonare di nuovo quando sentì che la catena veniva tolta. La porta si aprì. Lei arretrò e Dan entrò passando accanto a tre valigie posate a terra. In soggiorno, si sedette su una poltrona, mentre lei si sistemò sul divano. Nei modi, nell'atteggiamento, si mostrava decisamente riservata, ma l'effetto primario che suscitava era potentemente seducente. Pur essendo una donna molto attraente, c'era qualcosa in lei che non quadrava. La sua forte femminilità sembrava studiata, esagerata. La sua acconciatura era così perfetta, il trucco applicato con una precisione così impeccabile che sembrava sul punto di iniziare a girare uno spot pubblicitario per la Revlon. Portava una vestaglia di seta color panna, lunga fino a terra, stretta alla vita che ne sottolineava il seno abbondante, il ventre piatto e i fianchi pieni. Al collo, portava una sorta di collare dorato da cane; era una di quelle collane strette che si usavano una decina di anni prima; ormai, nel grosso pubblico, dove oggetti di quel genere non avevano particolare significato al di là della semplice decorazione, quei collari si vedevano solo occasionalmente, anche se tra le coppie sadomasochiste erano ancora molto richiesti perché li si vedeva come un simbolo di sottomissione sessuale. E anche se Dan vedeva Regine allora per la prima volta, capì subito che portava il suo collare esattamente con quell'intenzione, poiché lo spirito schiacciato e obbediente era evidente nel modo in cui la ragazza distoglieva lo sguardo, nel modo elegante eppure umiliato in cui si muoveva (come aspettandosi, e perversamente desiderando, un pugno, uno schiaffo, una stretta dolorosa), nel modo in cui continuava a evitare il contatto con gli occhi di Dan. Aspettò che lui iniziasse. Per un momento Dan non disse nulla, rimanendo con l'orecchio teso. Il
tempo che aveva lasciato passare prima di togliere la catena alla porta gli aveva fatto venire il sospetto che non fosse sola in casa. Evidentemente si era affrettata a consultarsi con qualcuno e aveva ottenuto il permesso di lasciar entrare Dan. Ma il resto della casa era silenzioso e appariva deserto. Sul tavolino erano sistemate delle fotografie, una mezza dozzina, tutte di Willy Hoffritz. O, almeno, le tre rivolte verso Dan erano di Hoffritz, e lui suppose che lo fossero anche le altre. Era lo stesso viso comune, gli stessi occhi distanziati, le stesse guance un po' paffute e il naso porcino che lui aveva visto nella foto sulla patente nel portafogli di uno dei morti a Studio City, la notte prima. Finalmente parlò. «Sono sicuro che sa già che suo marito è morto.» «Willy, dice? Sì.» «Vorrei farle alcune domande.» «Sono sicura di non poterle essere d'aiuto», rispose lei docilmente, guardandosi le mani. «Quando ha visto Willy l'ultima volta?» «Più di un anno fa.» «Divorziati?» «Be'...» «Separati?» «Sì, ma non... non come intende lei.» Dan desiderò che non continuasse a evitare il suo sguardo. «E lei, in che modo lo intende?» Lei cambiò posizione, nervosamente, sul divano. «Non siamo mai stati sposati legalmente.» «No? Ma ora porta il suo nome.» Sempre con gli occhi fissi sulle mani, lei annuì. «Ha permesso lui che me lo cambiassi.» «Vuol dire che si è rivolta al tribunale, si è fatta cambiare il nome in Hoffritz? Quando? Perché?» «Due anni fa. Perché... perché... be', non capirebbe.» «Proviamo.» La risposta non arrivò subito e, mentre aspettava che lei formulasse la spiegazione, Dan si guardò attorno. Sulla cappa del camino di mattoni bianchi, c'erano altre otto fotografie di Willy Hoffritz. Benché la casa fosse ben riscaldata, Dan sentì un brivido mentre guardava quelle immagini incorniciate e ben ordinate dello psicologo morto. «Volevo mostrare a Willy che ero sua, completamente sua», rispose alla
fine. «E lui non ha fatto obiezioni? Non ha pensato che lei potesse star preparando una causa per gli alimenti?» «No, no. Non avrei mai fatto una cosa del genere a Willy. Lui lo sapeva che non l'avrei mai fatto. Oh, no. Impossibile.» «Se lui voleva darle il suo nome, perché non l'ha sposata?» «Non voleva sposarsi», rispose lei a bassa voce, con un tono inequivocabile di rimpianto. «Non voleva sposarla, ma voleva farle portare il suo nome. Per far capire che lei apparteneva a lui.» «Sì.» «Prendere il suo nome era come essere marchiata.» «Oh, sì», mormorò lei con voce rauca, con un sorriso di autentico piacere al ricordo di questo singolare atto di sottomissione. «Sì, come essere marchiata.» «Un vero innamorato», osservò Dan. Ma lei non colse il suo tono ironico e così lui decise di andar giù più pesante, nella speranza di fare breccia in quel comportamento da cane bastonato. «Cristo, doveva essere un vero maniaco egoista!» Lei alzò la testa di scatto e lo guardò per la prima volta negli occhi. «Oh, no», esclamò accigliandosi. Non parlava con rabbia o con irritazione, ma con calore, ansiosa di chiarire l'equivoco sul carattere del defunto. «Oh, no. Willy no. Non c'era nessuno come Willy. Era meraviglioso. Non c'era niente che non avrei fatto per lui. Niente. Era speciale. Lei non l'ha conosciuto, altrimenti non direbbe nemmeno una parola contro di lui. Non potrebbe.» «Ma qualcosa di lui la conosco, qualcosa che non lo presenta in maniera tanto esaltante. Sono sicuro che lei se ne renda conto.» Lei abbassò di nuovo lo sguardo. «Sono tutti dei bastardi, dei bastardi invidiosi, gelosi, bugiardi», disse lei, ma con quello stesso tono morbido, dolce, sommessamente femminile, come se le fosse vietato macchiare la sua perfetta femminilità con un tono di voce aspro, con una qualsiasi manifestazione di rabbia. «Fu buttato fuori dall'UCLA.» Lei non rispose. «Per quello che fece a lei.» Regine continuò a tacere, continuò a non guardarlo, ma di nuovo cambiò nervosamente posizione. La vestaglia si aprì un poco, rivelando uno snello
polpaccio, dalla forma perfetta. Un livido grosso come una moneta macchiava la pelle bianchissima. Altri due, più piccoli, erano visibili sulla caviglia. «Voglio che mi parli di Willy.» «No.» «Che cosa faceva con Dylan McCaffrey a Studio City?» «Non dirò mai una parola contro Willy. Mi faccia quello che vuole, non mi interessa. Mi metta dentro, se vuole. Non mi interessa, non mi interessa. Sono state dette troppe brutte cose su Willy, da gente che non è degna di leccargli le scarpe.» «Regine, guardami.» Lei portò una mano alla bocca, si mise una nocca tra i denti e cominciò a mordere delicatamente. «Regine? Guardami, Regine.» Succhiando e mordendo nervosamente la nocca, lei alzò la testa, ma non incontrò il suo sguardo. Fissava lontano, al di là di lui. «Regine, lui ti picchiava. Ti ha mandato all'ospedale.» «Io lo amavo.» «Lui ha usato sofisticate tecniche di lavaggio del cervello su di te, Regine. È riuscito a entrare nella tua mente, ti ha cambiata, piegata e questa non è l'opera di un uomo dolce e meraviglioso.» Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance e il suo viso si contrasse in un'espressione di dolore. «Lo amavo tanto.» La manica della vestaglia di Regine era scivolata lungo il braccio quando aveva portato la mano alla bocca. Dan vide una piccola contusione sulla parte carnosa dell'avambraccio e, peggio, qualcosa che sembrava l'abrasione provocata da una corda sul polso. Gli aveva detto che non vedeva Willy Hoffritz da un anno, ma qualcuno aveva continuato a fare quei giochi con lei, e di recente. Dan abbassò lo sguardo sulle fotografie incorniciate sul tavolino, il sorrisetto sul viso dello psicologo, e improvvisamente sentì l'aria farsi greve, untuosa, sporca. Il desiderio di aria fresca lo fece quasi saltar su dalla sedia, quasi precipitare verso la porta. Ma rimase dov'era. «Come potevi amare un uomo che ti faceva tanto male?» «Mi ha resa libera di essere...» «Di essere che cosa?» «Quello che dovevo essere.»
«E che cosa dovevi essere?» «Quello che sono.» «E cioè?» «Qualunque cosa si voglia che io sia.» Le lacrime erano cessate. Un sorriso le aleggiò sulle labbra mentre riconsiderava quello che aveva detto. «Qualunque cosa si voglia da me», e rabbrividì, come se il solo pensiero della schiavitù e della degradazione le provocasse un fremito di piacere fisico. Dan sentì crescere dentro di sé la rabbia e la frustrazione. «Mi stai dicendo che sei nata per essere solo quello che Willy Hoffritz voleva che tu fossi? Sei nata per fare qualunque cosa voleva che tu facessi?» «Qualunque cosa si voglia», ripetè lei, questa volta guardandolo negli occhi. Ma lui desiderò che avesse continuato a fissare il vuoto dietro le sue spalle perché vide, o credette di vedere, un tormento, un disprezzo per se stessa, una disperazione di una tale intensità che sentì una stretta violenta al cuore. Quello che gli apparve fu un'anima a brandelli, uno spirito lacerato, accartocciato, strappato, insozzato. Dentro il corpo pieno, maturo, squisitamente sensuale di quella donna, sotto quel personaggio esteriore, visibile di donna-bambina sottomessa, c'era un'altra Regine, una Regine migliore, intrappolata, sepolta viva, ancora esistente dietro i blocchi psicologici che Hoffritz aveva instillato, tuttavia incapace non solo di fuggire ma anche di intravedere una speranza di fuga. In quel breve momento di contatto fra i loro sguardi, Dan vide che la donna reale, quella che esisteva prima di Hoffritz, era come una malconcia bambola imbottita di paglia, inaridita da tutti quegli anni di violenza, ora trasformata in un misero essere da un incubo di umiliazioni e torture; agognava al fiammifero che le avrebbe dato fuoco e l'avrebbe, misericordiosamente, finita. Pieno di orrore, non riusciva a distogliere lo sguardo. Fu lei ad abbassare per prima gli occhi. Dan aveva le labbra secche, una sensazione di nausea. «Sai quali ricerche stesse facendo Willy dopo essere stato cacciato dall'UCLA?» «No.» «A quali progetti stavano lavorando lui e Dylan McCaffrey?» «Non lo so.» «Hai mai visto la stanza grigia a Studio City?» «No.»
«Conosci un uomo chiamato Ernest Andrew Cooper?» «No.» «Joseph Scaldone? Ned Rink?» «No.» «Che cosa facevano a Melanie McCaffrey? Che cosa volevano da lei?» «Non lo so.» «Chi finanziava il loro progetto?» «Non lo so.» Dan era sicuro che gli stesse mentendo. Oltre alla sicurezza di sé e al rispetto per sé, e all'indipendenza, aveva perduto anche la capacità di mentire con decisione o convinzione. Ora che aveva visto Regine e conosceva le cose incredibili, mostruose che le erano state fatte, Dan non aveva più il minimo rispetto per Hoffritz come uomo, ma più che mai temeva le sue capacità manipolatorie, la sua feroce crudeltà, il suo genio oscuro, e più forte che mai gli si presentò la necessità di risolvere in fretta quel caso. Se Hoffritz aveva trasformato Regine così completamente, che cosa aveva potuto ottenere nelle sue ricerche con Dylan McCaffrey, ricerche per le quali aveva avuto a disposizione più tempo, più risorse? Dan avvertì di nuovo la sensazione che il tempo si avviava a scadere, un senso crescente di urgenza. Sentiva che Hoffritz aveva messo in moto una sorta di macchina spaventosa, una macchina che avrebbe schiacciato ancora tante persone, presto, se non la si capiva, localizzava e bloccava. Regine gli stava mentendo, e lui questo non poteva permetterlo. Doveva trovare delle risposte, presto, prima che fosse troppo tardi per aiutare Melanie. 24 Uscirono dalla cucina disseminata di fiori e di terra, ma Laura non si sentiva al sicuro. Le crisi si erano succedute l'una all'altra fin da quando erano arrivati a casa, quel pomeriggio. Prima, Melanie si era svegliata, urlando di terrore, graffiandosi e colpendosi con i pugni come una penitente, una fanatica religiosa che scacciasse il demonio dalla sua carne. Poi aveva preso vita la radio seguita dal turbine di vento entrato dalla porta posteriore. Se qualcuno le avesse detto che la sua casa era infestata dagli spiriti, avrebbe avuto difficoltà a ridere dell'idea. Evidentemente, spostarsi dalla cucina al soggiorno non faceva sentire più tranquillo neppure Earl, visto che quando Laura fece per parlare lui la
zittì, portò lei e Melanie nello studio, trovò un blocco di carta e una penna nel cassetto della scrivania e buttò giù rapidamente un messaggio. Sconcertata dal suo comportamento misterioso, Laura gli si fece accanto e lesse quanto aveva scritto: Lasciamo la casa. Laura acconsentì alla proposta senza la minima esitazione. Ricordava fin troppo bene l'avvertimento arrivato attraverso la radio: «Quello» stava arrivando. Il turbine di fiori aveva l'aria di un altro avvertimento con il medesimo messaggio. Stava arrivando. Voleva Melanie. E sapeva che erano lì. Earl scrisse ancora: Prepara una valigia per te e una per Melanie. Evidentemente riteneva che qualcuno avesse impiantato delle microspie in casa. E inoltre doveva pensare che non ce l'avrebbe fatta a portar via Laura e Melanie indenni, se chi era in ascolto avesse saputo che progettavano di andarsene. Questo aveva una sua logica. Chi aveva finanziato Dylan e Hoffritz avrebbe voluto sapere continuamente dove si trovasse Melanie per poter cogliere l'occasione, prima o poi, di ucciderla o di rapirla. E anche l'FBI avrebbe voluto sapere dove si trovasse in ogni momento, per poter mettere le mani su quelli che cercavano di mettere le mani su Melanie. A meno che non fosse proprio l'FBI a volerla. Laura ebbe di nuovo la sensazione di essere intrappolata in un incubo. Forse non erano tutti contro di loro, ma sicuramente la sensazione era quella. Peggio, non c'erano soltanto dei qualcuno, contro di loro: c'era un qualcosa. Nascondersi. Questo era tutto ciò che potevano fare adesso. Dovevano andare dove nessuno potesse seguirli, dove nessuno potesse trovarli. Laura raccolse la penna e scrisse: Dove andremo? «Dopo», bisbigliò lui. «Ora dobbiamo sbrigarci.» «Quello» stava arrivando. In camera da letto, aiutò Laura a preparare le due valigie. «Quello» stava arrivando. E il fatto che lei non sapeva che cosa potesse essere - il fatto che si sentiva perfino un po' stupida a credere che quella Cosa esistesse - non alleviava minimamente la paura che le incuteva. Quando i bagagli furono pronti, quando si furono infilati i cappotti, Laura chiamò più volte Pepper, ma la gatta non comparve, e un rapido giro della casa non diede risultati. Si stava nascondendo, come avrebbe fatto, in quelle circostanze, qualsiasi gatto. «Lascia stare», mormorò Earl. «Domani potrà passare qualcuno a darle
da mangiare.» Arrivarono in garage attraverso la lavanderia. Non spensero le luci per non segnalare le loro intenzioni. Earl mise le valigie nel portabagagli della Camaro azzurra di Laura. Certo, questa fuga precipitosa poteva essere un errore, perché l'FBI poteva non avere altra intenzione che aiutarli. O forse no. In entrambi i casi, la cosa migliore sembrava fidarsi solo di Earl Benton. Lui sistemò Melanie nel sedile posteriore, le fissò la cintura di sicurezza. Dal sedile anteriore, Laura si girò a guardarla, e il suo aspetto la sorprese. Nel garage chiuso, illuminato solo dalla luce sotto il tettuccio dell'auto, il viso della bambina sembrava, per un gioco di ombre, un po' meno smunto; i lineamenti duri e le ossa marcate erano ammorbiditi da quel bagliore lunare. Per la prima volta, Laura si rendeva conto di come sarebbe stata bella la sua bambina appena avesse acquistato un po' di peso e la pace della mente, l'avrebbero completamente e miracolosamente trasformata; ma per entrambe le cose occorreva tempo. Con questo pensiero, Laura sentì rinnovarsi dentro di sé la speranza e la determinazione di scoprire la verità e di sconfiggere i loro nemici: anche se il mondo intero fosse stato schierato contro loro due. Earl si mise al volante. Lanciò un'occhiata a Laura. «Nei prossimi minuti faremo delle cose un po' folli.» «È già un po' che siamo in mezzo a cose folli», rispose lei allacciandosi la cintura di sicurezza. «Ho seguito un corso di guida in cui insegnano a evitare terroristi e rapitori, per cui le cose che farò non saranno avventate come potranno sembrare.» «Non sarà un po' di avventatezza a turbarmi», gli assicurò lei. «Soprattutto adesso che ho visto quella cosa di vento accomodarsi nella mia cucina. E poi ho sempre pensato che sarebbe stato divertente fare una corsa in macchina alla James Bond.» Lui le sorrise. «Hai fegato.» Mentre lui metteva in moto, lei raccolse dallo spazio tra i sedili il telecomando che apriva la porta del garage. «Ora», avvertì lui. Laura schiacciò il bottone e la porta cominciò ad alzarsi. Prima che si fosse sollevata completamente, Earl innestò la retromarcia e vi passò sotto in velocità, sfiorandola quasi. Laura temette che l'auto avrebbe agganciato la porta, ma uscirono inco-
lumi dal garage e si allontanarono dalla casa a velocità sostenuta. Rallentarono nel punto in cui il vialetto si immetteva sulla strada, ma non molto, ed Earl girò con decisione lo sterzo verso destra, e si trovarono sulla lunga via in discesa. L'FBI, nel suo furgone, non aveva ancora reagito. Earl piantò i freni, mise la marcia in avanti, schiacciò a fondo l'acceleratore. Le ruote fischiarono, e l'auto sembrò rimanere incollata sul posto per un attimo, ma poi schizzò in avanti, lungo la strada buia. A due isolati di distanza, Earl guardò nel retrovisore. «Arrivano.» Laura si girò e guardò indietro, attraverso il lunotto posteriore, nel momento in cui il furgone si staccava dal marciapiede. Earl diede un colpo di freno e ruotò il volante di scatto verso destra e la Camaro si infilò slittando nella traversa. All'incrocio seguente svoltò a sinistra, poi di nuovo a destra alla fine di quell'isolato, sfrecciando attraverso il tranquillo quartiere residenziale, fino a uscire del tutto da Sherman Oaks, verso l'imboccatura della valle, oltre il crinale, infilandosi poi nel Benedict Canyon, giù lungo le pendici alberate, nell'oscurità, verso le luci lontane di Beverly Hills e Los Angeles. «Li abbiamo seminati», annunciò contento. Laura non era del tutto sollevata. Non era certa che potessero seminare il loro nemico non umano con la stessa facilità con cui si erano liberati del furgoncino dell'FBI. 25 Dan guardò attentamente Regine, cercando di immaginare in che modo potesse spingerla a dirgli quel che sapeva. Era così malleabile che certamente poteva piegarla ai suoi fini se solo fosse riuscito a determinare come e dove esercitare la pressione. Lei non stava più mordendosi la nocca; ora si era infilata un pollice in bocca e lo succhiava delicatamente. Era una posa così provocatoria - l'innocenza che aspetta di essere violata - che sicuramente doveva avergliela insegnata Hoffritz. Forse l'aveva programmata a farlo? Ma era anche evidente che quel gesto, quel rituale infantile di rassicurazione, l'aveva anche calmata. Da quando aveva cominciato a succhiarsi il dito, aveva smesso di sedere eretta e rigida. Si accasciò addirittura nell'angolo del divano. Lo scollo della vestaglia si era un po' aperto, rivelando una profonda scollatura liscia e
ombreggiata. Dan aveva un'idea abbastanza chiara su come farla parlare, ma non gli andava di fare quello che avrebbe dovuto. Lei si tolse il pollice dalla bocca appena per. il tempo di dire: «Non posso proprio aiutarla. Davvero non posso. Vuole andarsene adesso? Per favore?» Lui non rispose. Si alzò dalla poltrona, aggirò il tavolino e si fermò davanti a lei, guardandola dall'alto. Lei tenne la testa bassa. Con severità, quasi con durezza, le ordinò: «Guardami!» Lei lo guardò. «Vuole andarsene adesso? Per favore? Vuole andarsene?» «Devi rispondere alle mie domande, Regine», insistè, fissandola inflessibile. «Non devi mentirmi. Se non rispondi o se menti...» «Mi picchierà?» lo anticipò lei con ansia. Non era più una donna, quella che aveva davanti, ma una creatura malata, sperduta, infelice. Non, però, una creatura spaventata. L'idea di essere picchiata non la riempiva di terrore. Al contrario. Era malata, sperduta, infelice e... assetata. Assetata dell'eccitazione di essere colpita, affamata del piacere della sofferenza. Scacciando la repulsione, cercando di mantenere la voce il più possibile calma, Dan rispose: «Non ti picchierò. Non ti toccherò. Ma tu mi dirai quello che voglio sapere, perché questo è il motivo per cui tu in questo momento esisti. Tu fai sempre quel che si vuole da te, vero? Tu sei quello che gli altri si aspettano che tu sia. Io mi aspetto che tu collabori, Regine. Voglio che tu risponda alle mie domande, e tu lo farai, perché questa è l'unica dannata cosa che sai fare... rispondere alle domande». Regine lo fissò con aria di attesa. «Hai mai conosciuto Ernest Andrew Cooper?» «No.» «Stai mentendo.» «Sì?» Reprimendo tutta la pena e la compassione che sentiva per la donna, Dan diede alla sua voce un tono ancora più freddo e sollevò un pugno sopra di lei, pur non avendo alcuna intenzione di usarlo. «Conosci Cooper?» Lei non rispose, ma il suo sguardo si focalizzò sul pugno, uno sguardo sinistro che a lui parve intollerabile. Seguendo un'ispirazione improvvisa, finse una rabbia che non sentiva. «Rispondimi, troia!» Lei trasalì all'insulto, ma non perché la offendesse o la sorprendesse.
Trasalì, piuttosto, come se una piccola scossa di piacere l'avesse attraversata. Quel piccolo attacco verbale era stato una chiave, una chiave che l'aveva aperta. «Non mi dicono mai il cognome. Conoscevo un Ernie, ma non so se fosse Cooper.» Lui descrisse il milionario morto. «Sì», annuì lei. «Era lui.» «L'hai conosciuto tramite Willy?» «Sì.» «E Joseph Scaldone?» «Willy mi ha presentato a un tale chiamato Joe, ma nemmeno di questo conosco il cognome.» Dan descrisse Joseph Scaldone. «Era lui.» «E Ned Rink?» «Non credo di averlo mai conosciuto.» «Basso, tarchiato, piuttosto brutto.» «No. Mai visto.» «Hai mai visto la stanza grigia?» «Sì, ma diversi anni fa, quando avevano appena finito di dipingerla, di sistemare l'attrezzatura...» «Che cosa stavano facendo con Melanie McCaffrey?» «Non lo so.» «Non mentirmi, maledizione. Piantala con le stronzate e rispondimi.» «No, davvero, non lo so. Willy non me l'ha mai detto. Era un segreto. Un segreto importante. Avrebbe cambiato il mondo, diceva lui. Non so altro. Non mi diceva molto di quelle cose. La sua vita con me era separata dal suo lavoro con quegli altri uomini.» Dan continuava a incombere su di lei, e lei continuava a starsene rannicchiata in un angolo del divano, e anche se la minaccia era palesemente una scena, Dan si sentiva ugualmente a disagio in quella posa da bullo. «Che cosa aveva a che fare l'occulto con i loro esperimenti?» «Non ne ho la minima idea.» «Willy credeva nel soprannaturale?» «No.» «Come fai a dirlo?» «Be', perché Dylan McCaffrey ci credeva indiscriminatamente - credeva in tutto, i fantasmi, le sedute spiritiche, per quello che ne so perfino i fol-
letti - e Willy lo prendeva in giro per questo, diceva che era un credulone.» «E allora perché lavorava con McCaffrey?» «Secondo Willy, Dylan era un genio.» «Nonostante le sue superstizioni?» «Sì.» «Chi li finanziava, Regine?» «Non lo so.» «Andiamo. Chi pagava i conti? Chi?» «Lo giuro, non lo so.» Dan si sedette sul divano accanto a lei. La prese per il mento, le tenne il viso, non delicatamente, non con dolcezza, ma come un'estensione della minaccia prima rappresentata dal pugno alzato. «Chi?» ripetè lui. «Non lo so. Lo direi se lo sapessi. Lo giuro.» Questa volta le credette. Ma non le lasciò andare il viso. «So che Melanie McCaffrey ha dovuto sopportare una quantità di violenze mentali e fisiche in quella stanza grigia. Ma voglio sapere... Cristo, non vorrei saperlo ma devo... Ci sono state anche violenze sessuali?» La bocca di Regine era semicoperta dalla mano che le stringeva il mento e la mandibola; la voce ne uscì leggermente distorta. «Come potrei saperlo?» «Lo sapresti», insistè lui. «In un modo o nell'altro una cosa del genere l'avresti saputa anche se Hoffritz non ti diceva molto di quanto accadeva a Studio City. Può non averti raccontato che cosa cercava di ottenere con la bambina, ma si sarebbe certamente vantato del controllo che aveva su di lei. Di questo ne sono certo. Non l'ho mai conosciuto di persona, ma lo conosco abbastanza per essere sicuro di questo.» «Non credo che ci fosse qualcosa di sessuale», disse Regine. Dan le strinse con forza la faccia, e lei fece una smorfia di dolore, ma lui si accorse con ribrezzo che le piaceva lo stesso, e così allentò la stretta, senza però lasciarla andare. «Ne sei sicura?» «Praticamente sicura. Ha ragione: una cosa del genere me l'avrebbe detta.» «Mai, neppure un accenno?» «No.» Dan si sentì profondamente sollevato. Riuscì perfino a sorridere. Almeno questo alla bambina era stato risparmiato. Ma poi gli venne in mente quanto altro le era stato imposto, e il sorriso svanì in fretta.
Lasciò andare il viso di Regine, ma rimase accanto a lei sul divano. «Hai detto che non vedevi Willy da più di un anno. Come mai?» Lei abbassò gli occhi, chinò la testa. Si accasciò ancora più profondamente nell'angolo del divano. «Come mai?» ripetè lui. «Willy si era stancato di me.» «Gesù.» «Non mi voleva più.» Dal tono di voce era chiaro che essere respinta da Willy era l'avvenimento più tragico, più devastante che potesse immaginare. «Ha rotto, così a freddo?» «Cioè, non l'ho mai più visto dopo che mi ha mandato via. Ma ci sentivamo ogni tanto al telefono. Dovevamo.» «Dovevate parlare al telefono? Di che cosa?» Quasi bisbigliando: «Degli altri, quelli che mandava da me». «Quali altri?» «I suoi amici. Gli altri... uomini.» «Ti mandava degli uomini?» «Sì.»" «Per sesso?» «Per sesso. Per qualunque cosa volessero.» L'immagine di Wilhelm Hoffritz nella mente di Dan si faceva più mostruosa e disgustosa dì minuto in minuto. Non solo aveva fatto il lavaggio del cervello a Regine e. aveva imposto il suo controllo su di lei per soddisfare le proprie voglie, ma anche dopo, quando non la voleva più, aveva continuato a controllarla e ad abusare di lei per interposta persona. A quanto pareva, il semplice fatto che Regine continuasse a essere trattata così, anche non sotto i suoi occhi, era per lui una gratificazione sufficiente a spingerlo a mantenere la sua presa di ferro sulla mente torturata della donna. Regine alzò lo sguardo e disse, non senza calore: «Vuole che le dica alcune delle cose che mi facevano fare?» Lui la fissò, senza parole per la repulsione. «Non ho problemi», insistè lei. «Non avevo problemi a fare quelle cose e non ho problemi a dire a lei esattamente che cosa facevo.» «No», la interruppe lui rauco. «Potrebbe piacerle sentirlo.» «No.»
Lei ridacchiò. «Potrebbe darle qualche idea.» «Zitta!» esclamò lui e dovette frenarsi per non schiaffeggiarla. Lei chinò la testa, come un cane sgridato da un padrone severo. «Gli uomini che Hoffritz ti mandava», riprese lui. «Chi erano?» «I cognomi non li so. Uno di loro era Andy. Lei mi ha detto che il cognome era Cooper. Un altro era Joe.» «Scaldone? Chi altri?» «Howard, Shelby... Eddie...» «Eddie chi?» «Gliel'ho detto, i cognomi non li conosco.» «Con quale frequenza venivano?» «Una o due volte la settimana.» «Continuano a venire?» «Certo. Ce n'è stato uno solo che è venuto una volta e non è tornato più.» «Come si chiamava?» «Albert.» «Albert Uhlander?» «Non lo so.» «Che aspetto aveva?» «Alto, magro, con una faccia ossuta. Non so. Lineamenti affilati da rapace.» Dan non aveva guardato la fotografia dell'autore sui libri che erano nel baule della sua macchina, ma l'avrebbe fatto appena fosse andato via di lì. Riprese le domande. «Albert, Howard, Shelby, Eddie... qualcun altro?» «Ecco, come ho già detto, Andy e Joe. Ma loro sono morti adesso, vero?» «Decisamente.» «E poi ce n'è un altro. Viene spessissimo, ma di lui non conosco nemmeno il nome.» «Com'è fatto?» «Circa un metro e ottanta, distinto. Splendidi capelli bianchi. Splendidi abiti. Non è bello, ma elegante. Si comporta benissimo, parla molto bene. È colto.» «Se non conosci neppure il suo nome, come lo chiami?» Lei sorrise. «Oh, su questo è stato chiaro. Vuole che lo chiami solo in un modo.» Gli strizzò l'occhio. «Papà.» «Come?»
«Lo chiamo papà. Sempre. Fa finta di essere mio padre, capisce, e fa finta che io sia veramente sua figlia e mi seggo sulle sue ginocchia e poi...» «Basta», scattò lui, con la sensazione di essere capitato in un angolo di inferno, dove conoscere gli usi locali equivaleva a un obbligo a seguirli. Preferiva non sapere. Gli venne voglia di spazzar via dal tavolino tutte le fotografie, fracassarne il vetro, togliere le altre dalla cappa e gettarle tutte nel camino e bruciarle. Ma sapeva che distruggere i ricordi di Hoffritz non sarebbe servito a niente; quell'uomo era morto, sì, ma sarebbe sopravvissuto per anni nella mente di quella donna, come uno gnomo malvagio in una caverna segreta. Dan le toccò di nuovo il viso, ma brevemente stavolta, con tenerezza. «Regine, come passi il tempo, le tue giornate, la tua vita?» Lei si strinse nelle spalle. «Vai al cinema, a ballare, a cena con amici, o te ne stai qui seduta, ad aspettare qualcuno che abbia bisogno di te?» «Perlopiù sto qui», rispose lei. «Qui mi piace. Qui è dove Willy mi voleva.» «E che cosa fai per guadagnarti da vivere?» «Faccio quello che vogliono.» «Ma hai una laurea in psicologia, sei laureata in psicologia, Dio santo.» Lei non rispose. «Perché hai preso la laurea se non intendevi usarla?» «Willy ha voluto che finissi di studiare. Era buffo, sa. Loro, quei bastardi dell'UCLA, hanno buttato fuori lui, ma di me non potevano liberarsi altrettanto facilmente. Io ero lì come un ricordo di Willy per loro. La cosa gli piaceva. Lo trovava uno scherzo magnifico.» «Potresti fare un lavoro importante, interessante.» «Faccio quello per cui sono fatta.» «Questo lo diceva Hoffritz. È molto diverso.» «Willy sapeva. Willy sapeva tutto.» Negli occhi si affacciarono di nuovo due lacrime. «Così quelli vengono qui e ti usano, ti fanno male.» Le afferrò il braccio, spinse su la manica della vestaglia, scoprendo i lividi e i segni di corda che aveva intravisto prima. «Ti fanno male, no?» «Sì, in un modo o nell'altro, chi più chi meno.» «Perché lo sopporti?» «Mi piace.» L'aria sembrava essersi fatta più pesante, più opprimente di qualche mi-
nuto prima. «Chi ti paga l'affitto?» volle sapere lui. «Non c'è affitto.» «Chi è il proprietario della casa?» «Una società.» «Quale società?» «La John Wilkes Enterprises.» «Chi è John Wilkes?» «Non lo so.» «Qua non è mai venuto nessuno chiamato John?» «No.» «Come fai a sapere di questa John Wilkes Enterprises?» «Mi mandano un assegno ogni mese. Un bell'assegno.» Lui si alzò provocando in lei un'espressione di delusione. Si guardò attorno, scorse accanto alla porta le valigie che aveva notato quando era entrato. «Stai partendo?» «Per qualche giorno.» «Dove?» «Las Vegas.» «Scappi, Regine?» «Da che cosa dovrei scappare?» «Stanno uccidendo della gente per quello che succedeva in quella stanza grigia.» «Ma io quello che succedeva nella stanza grigia non lo so, e non voglio saperlo. Quindi sono al sicuro.» Guardandola, Dan si rese conto che anche lei aveva una sua stanza grigia, una stanza grigia che si portava dietro dovunque andasse, perché lì la vera Regine era rinchiusa, intrappolata, imprigionata. «Regine, hai bisogno di aiuto.» «Sto benissimo.» «Hai bisogno di chi ti consigli.» «Sono libera. Willy mi ha insegnato a essere libera.» «Libera da che cosa?» «Dalla responsabilità. La paura. La speranza. Libera da tutto.» «Willy non ti ha liberata. Ti ha resa schiava.» «Lei non capisce.» «Era un sadico.» «Non c'è niente di male.»
«È entrato nella tua mente, ti ha piegata. Non stiamo parlando di un professorucolo di psicologia di mezza tacca, Regine. Quel pazzo era un pezzo grosso. Era uno che lavorava per il Pentagono, faceva ricerche sulla modificazione del comportamento", sviluppava nuovi metodi di lavaggio del cervello. Farmaci per la soppressione dell'io, Regine. Persuasione subliminale. Era per il Grande Fratello quello che Merlino era per Re Artù. Solo che la sua era una magia nera, Regine. Ti ha trasformata in una masochista, Cristo santo!» «Ed è così che mi ha resa libera», rispose lei serenamente. «Vede, quando non si teme più il dolore, quando si impara ad amare il dolore, allora non si può più avere paura di niente. È per questo che sono libera.» Avrebbe voluto scrollarla. Sapeva che non sarebbe servito a niente. Avrebbe voluto portarla davanti a un giudice comprensivo e farla internare anche senza il suo consenso per darle le cure psichiatriche di cui aveva bisogno. Ma lui non era un parente, per lei era un estraneo; nessun giudice gli avrebbe dato retta: le cose, semplicemente, non andavano così. Niente di quello che avrebbe potuto fare sarebbe servito. «Sa una cosa interessante?» chiese lei. «Io credo che forse Willy non è morto veramente.» «Oh, è morto, è morto. Ho visto il cadavere. Abbiamo avuto un'identificazione definitiva con le impronte dentali e digitali.» «Può essere», riprese lei. «Ma... be', ho la sensazione che sia ancora vivo. A volte avverto la sua presenza là fuori, lo sento. È una cosa strana, non so spiegarla. Ma è per questo che non sono a pezzi come dovrei. Perché non sono convinta che sia morto. In qualche modo, lui è ancora là fuori.» L'immagine che aveva di se stessa, le ragioni principali per continuare a vivere, dipendevano talmente da Willy Hoffritz - dalla prospettiva di ricevere la sua lode, la sua approvazione, o almeno di sentire ogni tanto la sua voce al telefono - che non sarebbe mai riuscita ad accettare l'idea della sua morte. Dan sentiva che poteva anche portarla all'obitorio, metterla davanti a quel corpo sanguinolento, costringerla a mettere le mani su quella carne fredda, farle guardare quel volto grottescamente sfigurato, sventolarle sotto il naso il rapporto del coroner, senza riuscire neppure così a convincerla che Hoffritz era morto. Hoffritz era penetrato dentro di lei, ne aveva sconquassato la mente, poi aveva ridisposto i pezzi in un disegno più conveniente per lui, diventando lui stesso il collante che la teneva insieme. Se Regine avesse accettato la realtà della sua morte, quel collante si sarebbe
dissolto, e lei sarebbe piombata nella follia. La sua unica speranza - o almeno così doveva sembrarle - era credere che Willy fosse ancora vivo. «È ancora là fuori», ripetè. «Lo sento. In qualche modo, in qualche luogo, è ancora là fuori.» Sentendosi totalmente impotente, Dan si girò e si diresse verso la porta. Dietro di lui, lei si alzò in fretta dal divano. «Aspetta.» Lui si girò a guardarla. «Potresti avermi...» «No, Regine.» «Farmi qualsiasi cosa.» «No.» «Sarò il tuo animale.» Lui proseguì verso la porta. «La tua bestiola.» Lui lottò contro l'impulso di scappare. Regine lo raggiunse mentre apriva la porta. Gli mise una mano sulla spalla. «Tu mi piaci.» «Dove sono i tuoi, Regine?» «Mi ecciti.» «Tua madre, tuo padre? Dove vivono?» Lei gli pose le dita, dita sottili, calde, sulle labbra. Segnò il profilo della sua bocca. Lui le scostò la mano. Lei disse: «Mi piaci, mi piaci davvero». «Forse i tuoi potrebbero aiutarti a uscirne,» «Mi piaci.» «Regine...» «Fammi male.» Lui la spinse via come un ipocondriaco compassionevole allontanerebbe un lebbroso; fermamente, con disgusto, con la paura del contagio, ma con riguardo per la delicatezza delle sue condizioni. «Quando Willy mi mandò all'ospedale», riprese lei, «veniva a trovarmi tutti i giorni. Mi fece avere una camera privata e quando veniva chiudeva sempre a chiave la porta. Quando eravamo soli baciava le mie ferite. Ogni giorno veniva e baciava le mie ferite. Non puoi sapere com'era bella la sensazione delle sue labbra sulle mie ferite. Un bacio, e ogni punto dolente, ogni piccola tenera contusione, si trasformava. Invece del dolore, ogni contusione si colmava di piacere. Era come, come se sul punto di ogni feri-
ta spuntasse un clitoride, e quando lui mi baciava io venivo, avevo un orgasmo, poi un altro, all'infinito...» Dan riuscì a uscire dalla casa e sbattè la porta dietro di sé. 26 Con un vento freddo che soffiava a raffica sollevando cartacce per le strade deserte, e con un presagio di pioggia nell'aria, Earl portò Laura e Melanie al pianoterra di una costruzione a tre piani a Westwood, a sud di Wilshire Boulevard. C'erano un soggiorno, un'anticucina e una cucina, una sola camera da letto e un solo bagno, ma non sembrava piccolo com'era in realtà grazie ai finestroni che davano su un giardino molto curato che, a quell'ora, era illuminato dalla luce azzurra e verde delle lampade nascoste fra i cespugli. Earl spiegò che l'appartamento era di proprietà della California Paladin ed era usato come «casa di sicurezza». L'agenzia riceveva occasionalmente l'incarico di recuperare qualche ragazzo da una delle tante sette religiose di fanatici, ed era lì che lo si portava immediatamente appena liberato, per trascorrere alcuni giorni di «deprogrammazione» prima di essere restituito ai genitori. L'appartamento veniva anche utilizzato, talvolta, come rifugio temporaneo per mogli minacciate da mariti abbandonati, o come luogo sicuro per incontri importanti fra dirigenti d'azienda che non potevano rischiare la presenza di microspie. In quell'appartamento la California Paladin aveva ospitato anche un sacerdote battista, dopo che una banda di quartiere aveva giurato di fargli pagare con la vita una testimonianza contro uno dei «fratelli». Una star del rock aveva abitato lì il tempo necessario a evitare un mandato di comparizione particolarmente gravoso in una costosa causa civile. E un'attrice di gran nome aveva avuto bisogno della totale privacy che quel luogo appartato poteva offrire per rimettersi in sesto dopo l'asportazione di un tumore fatta in segreto, operazione che, se rivelata, le sarebbe costata i ruoli nei prossimi film: i produttori erano riluttanti a impiegare qualcuno che rischiava di ammalarsi se non di morire nel bel mezzo della lavorazione di un film. Almeno per quella notte Melanie e Laura avrebbero utilizzato queste tranquille, modeste stanze nella speranza che in quel nascondiglio sarebbero state al sicuro da quella strana forza che le inseguiva. Earl accese il riscaldamento e andò in cucina a preparare il caffè. Laura cercò di interessare Melanie all'idea di una cioccolata calda, ma
non ebbe successo. La bambina si diresse come una sonnambula verso la poltrona più grande del soggiorno e vi si accucciò con le gambe ripiegate sotto di sé e rimase a fissarsi le mani, con una tale intensità che pareva quasi non si rendesse conto che facevano parte di lei, come se le credesse due animaletti che le giocavano in grembo. Il caffè attenuò il gelo che si era impadronito di loro mentre attraversavano il parcheggio ventoso, ma nulla poté contro quell'altro gelo, quello provocato non da uno stimolo fisico ma dal loro imprevisto e indesiderato incontro con l'ignoto. Mentre Earl chiamava il suo ufficio per riferire dello spostamento dalla casa di Sherman Oaks, Laura si mise alla finestra del soggiorno, con la tazza del caffè tra le mani, inalandone il vapore profumato, guardando fuori le pozze d'ombra e le macchie di luce azzurra e verde, e le prime gocce di pioggia che cominciavano a battere sulle foglie delle palme. Da qualche parte nella notte, qualcosa stava dando la caccia a Melanie, qualcosa al di là della comprensione umana, una creatura invulnerabile che riduceva le sue vittime come se fossero passate sotto un compressore. Gli studi .universitari di Laura, la sua specializzazione in psicologia, potevano permetterle di tirar fuori Melanie, prima o poi, dal suo stato di isolamento quasi autistico, ma non c'era università in cui si insegnasse qualcosa che potesse aiutarla ad affrontare «Quello». Era un demone, uno spirito, una forza psichica? Cose del genere non esistevano. Vero? Non esistevano. Eppure... che cosa poteva essere quello che Dylan e Hoffritz avevano scatenato? Dylan aveva sempre creduto al soprannaturale. Periodicamente, era stato ossessionato da questo o quell'aspetto dell'occulto, e durante quei periodi era stato più teso, nervoso e polemico del solito. In effetti, quando era ossessionato in quel modo, a Laura ricordava sua madre, perché la sua fede cieca nella realtà dell'occulto, il continuo insistere su quella realtà, era molto simile al fanatismo religioso e alla mania superstiziosa che aveva fatto diventare Beatrice un incubo per Laura; era stato questo, più di ogni altra cosa, a spingere Laura a divorziare, incapace com'era di sopportare ciò che le ricordava tanto la sua infanzia di terrore. Ora, lei cercava di ricordare gli specifici entusiasmi che si erano impadroniti di Dylan, le teorie che lo avevano ossessionato; cercava di ricordare qualcosa che potesse spiegare quanto stava accadendo, ma non ci riusciva perché si era sempre rifiutata di dargli ascolto quando lui parlava di quegli argomenti che, per lei, suonavano come inverosimili fughe nella fantasia o nella follia.
Per reazione all'irrazionalità e alla credulità di sua madre, Laura aveva voluto basare la sua vita sulla logica, la ragione, la fede solo in quelle cose che poteva vedere, udire, toccare, odorare e gustare. Non credeva che rompere uno specchio costasse sette anni di guai, se rovesciava del sale non ne gettava un pizzico dietro la spalla, e potendo scegliere passava sempre sotto una scala anziché evitarla, solo per provare che in lei non c'era niente di sua madre. Non credeva nei diavoli, nei demoni, nelle possessioni, negli esorcismi. Dentro di sé, credeva all'esistenza di un Dio, ma non frequentava la chiesa né si identificava con alcuna religione particolare. Non leggeva storie di fantasmi, non le interessavano i film di vampiri e lupi mannari. Non credeva ai poteri psichici, alle premonizioni, ai chiaroveggenti. Era profondamente impreparata agli eventi delle ultime ventiquattr'ore. Di colpo si rendeva conto del fatto che, se la logica e la ragione costituivano le migliori fondamenta su cui costruire una vita, il cemento andava mescolato con un certo senso dello stupore, con il rispetto per l'ignoto, o almeno alleggerito con una mentalità aperta. Altrimenti, sarebbe stato un cemento fragile che, essiccandosi, si sarebbe crepato e sfarinato. La fede totale di sua madre nella religione e nella superstizione aveva sicuramente un carattere morboso, ma forse la sua fuga all'altro estremo dello spettro filosofico non era stata una scelta saggia. L'universo ora le appariva assai più complesso di quanto (ai suoi occhi) fosse prima. Là fuori c'era qualcosa. Qualcosa che lei non capiva. E che voleva Melanie. Ma già mentre era lì, accanto alla finestra a studiare la notte piovosa con un nuovo rispetto per le cose misteriose e incomprensibili, la sua mente cercava spiegazioni più razionali, tangibili malfattori fatti di carne e ossa. Sentì Earl parlare al telefono con qualcuno del suo ufficio, e d'un tratto le venne in mente che tranne la California Paladin nessuno sapeva dove fossero lei e Melanie. Per un terribile momento, sentì di aver fatto qualcosa di assolutamente sbagliato, di assolutamente stupido, a permettersi di farsi allontanare dall'occhio vigile dell'FBI, dal contatto con amici e vicini e con la polizia. Melanie non era il bersaglio solo di quella Cosa invisibile, contro cui erano state messe in guardia, ma anche da persone reali, persone come quel sicario che era stato trovato nel parcheggio dell'ospedale; e se quella gente aveva contatti nella California Paladin? E se Earl stesso era l'esecutore? Basta! Fece un respiro profondo. Un altro.
Era in cima a una discesa fatta di emozioni scivolose, una discesa che portava verso l'isteria. Per il bene di Melanie, se non per se stessa, doveva mantenere il controllo. 27 Dan uscì dalla casa di Regine e sbattè la porta dietro di sé, ma non si incamminò lungo il vialetto. Attese, in ascolto, accanto alla porta; i suoi sospetti furono confermati quando sentì la voce di un uomo: Regine non era sola. L'uomo era furibondo, gridava, e lei gli rispondeva con una voce sottomessa, chiamandolo Eddie. Ci fu un rumore, il suono inequivocabile di uno schiaffo, seguito da un grido di lei, un grido di dolore e di paura, ma anche di piacere ed eccitazione. Il rumore del vento e dei rami degli alberi che si agitavano impediva a Dan di sentire bene quel che si diceva nella casa, ma le parole che riuscì a cogliere bastarono a fargli capire che Eddie era infuriato perché Regine aveva rivelato troppo. Con una voce penosamente servile Regine cercava di spiegargli che non aveva potuto fare a meno di dire a Dan quel che sapeva; Dan non le aveva chiesto delle risposte, le aveva pretese. E, cosa più importante, le aveva pretese in un modo che toccava tutti i suoi punti deboli; lei era una creatura obbediente che trovava senso, scopo e gioia solo nel fare quanto le si diceva; a Eddie e ai suoi amici lei piaceva così, disse, la volevano così, disse, e a lei non era possibile essere così con loro e non con altri. «Non capisci, Eddie? Non capisci?» Forse capiva, ma le spiegazioni non placavano la sua furia. La schiaffeggiò ancora, ancora e ancora. Dan si spostò dalla porta, lungo la facciata della casa, fino alla prima finestra. Voleva cogliere un'immagine di Eddie. Attraverso un punto in cui le tende si separavano, vide una porzione del soggiorno e un uomo sui trentacinque anni, con i capelli rossi, i baffi e i lineamenti mollicci; c'era nel suo viso un che del bambino viziato, e si muoveva per la stanza con un innaturale passo da galletto, come se fosse convinto che l'autorità andava sempre espressa gonfiando il petto e drizzando le spalle. Nonostante l'atteggiamento, sembrava debole e impotente, come un timido professore di liceo che ha dei problemi a mantenere la disciplina. Non era affatto il tipo d'uomo che schiaffeggiasse le donne, e molto probabilmente non avrebbe preso a schiaffi Regine se fosse stata un'altra, perché un'altra glieli avrebbe resi.
Più di ogni altra cosa, Eddie era infuriato perché lei aveva detto a Dan della John Wilkes Enterprises, la società che era proprietaria della casa in cui lei viveva e che ogni mese le mandava un assegno. Regine era in ginocchio, con la testa china, davanti a lui che gesticolava nervosamente ed energicamente. John Wilkes Enterprises. Dan sapeva di aver avuto un'altra chiave di un'altra serratura per questo mistero dalle tante porte. Si allontanò dalla casa ritornando verso la strada dove aveva lasciato l'auto. Aprì il portabagagli e prese uno dei sette libri di Albert Uhlander dalla scatola di cartone. Regine aveva detto che un certo Albert era andato a trovarla una volta e, a differenza degli altri, non era più tornato; aveva detto che aveva una faccia ossuta con lineamenti affilati, da rapace. Ora, sotto la scarsa luce di un lampione, Dan studiò la fotografia dell'autore sulla copertina del libro. Il viso di Uhlander era lungo e sottile, quasi cadaverico, con sopracciglia, zigomi e mascella prominenti; c'era nei suoi occhi qualcosa di freddo e di predace, qualcosa che, insieme con il suo naso a becco adunco, gli conferiva davvero l'aspetto di un falco o di qualche altro uccello da preda. E così era stato Uhlander quello che aveva visitato Regine una sola volta, forse non spinto da un'incontrollata e perversa esigenza sessuale, come gli altri, ma dalla curiosità, come se volesse controllare di persona che lei esisteva veramente e che Hoffritz l'aveva davvero trasformata in una schiava. Forse Uhlander aveva voluto verificare il genio di Hoffritz in queste faccende prima di unirsi a lui e a Dylan McCaffrey nel progetto che avevano intrapreso con Melanie. In ogni caso Dan voleva parlargli. Aggiunse Dan alla lista mentale delle persone che intendeva interrogare, una lista che comprendeva già Mary O'Hara, la moglie di Ernest Andrew Cooper, la moglie (se esisteva) di Joseph Scaldone, i dirigenti e/o i proprietari della John Wilkes Enterprises, il distinto pervertito dai capelli argentati che visitava regolarmente Regine e che lei chiamava «papà» e gli altri uomini che la usavano - Eddie, Shelby, Howard. Rimise il libro nella scatola, chiuse il baule e salì in macchina nel momento in cui alcune grosse gocce di pioggia cominciavano a toccare il marciapiede. La lista degli indirizzi di Scaldone era ancora nella sua tasca, ed era sicuro che vi avrebbe trovato i cognomi da affiancare a Eddie, Shelby e Howard; lì però la luce era scarsa e lui era stanco, e gli bruciavano gli occhi e voleva ancora parlare con Laura McCaffrey prima che si facesse troppo tardi. Quindi lasciò la lista nella tasca, mise in moto e si la-
sciò alle spalle le colline di Hollywood. Erano le 22.44 quando raggiunse la casa di Laura a Sherman Oaks, e cadeva una pioggia fredda. Nonostante le luci accese in più di una stanza, non venne nessuno ad aprire. Suonò diverse volte il campanello, poi bussò, sempre più forte, senza risultato. Dov'era Earl Benton? Sarebbe dovuto essere lì fino a mezzanotte, finché non fosse arrivato un altro agente della Paladin a rilevarlo. Con un'ansia crescente, Dan si allontanò dalla porta, attraversò il prato bagnato, si infilò tra due cespugli fioriti di ibisco e sbirciò dalla finestra più vicina. Non vide nulla di fuori dell'ordinario, né corpi né sangue né devastazioni, e si spostò all'altra finestra, ma neppure lì vide nulla, e così si precipitò al cancello sul lato della casa, lo attraversò, seguì il vialetto verso il retro, con il cuore che gli martellava e una fitta dolorosa che gli bruciava nelle viscere. La porta della cucina era socchiusa. Quando la spinse ed entrò si accorse che la cornice era staccata e che dall'infisso penzolava contorta la catena di sicurezza. Poi vide le condizioni della stanza: dappertutto fiori maciullati, foglie strappate e gambi spezzati, mucchietti di terriccio umido. Niente sangue. Sulla tavola c'erano tre piatti di spaghetti, sporchi di terra e di detriti. Una sedia rovesciata. Ma niente sangue. Grazie a Dio, niente sangue. Finora. Estrasse il revolver. Con una fredda paura nera, con una pena incipiente che cominciava a crescergli dentro in dolorosa attesa dei corpi martoriati che dovevano giacere in qualche punto della casa, uscì con cautela dalla cucina esaminando una stanza dopo l'altra. Non trovò altro che un gatto spaventato che lo fuggì subito. Controllando il garage, vide che la Camaro azzurra di Laura McCaffrey non c'era, ma non seppe quale significato dare alla cosa. L'immensità del sollievo che provò per non aver trovato i cadaveri temuti gli fece capire che i suoi sentimenti nei confronti di quella donna e di sua figlia erano diversi, per quantità e qualità, da quelli che aveva provato per tutte le altre vittime da lui conosciute in quattordici anni di servizio. Né questo suo insolito coinvolgimento poteva attribuirlo solo alle varie analogie fra questo caso e quello di Fran e Cindy Lakey, al fatto che salvando Laura e Melanie poteva riscattare quel fallimento. C'era anche questo, certamente, ma c'era anche un'autentica attrazione. Un'influenza come quella che Laura esercitava su di lui non l'aveva mai conosciuta; e non solo per la
bellezza della donna, innegabile, e non solo per la sua intelligenza, cosa importante per lui che non aveva mai condiviso l'attrazione provata da tanti uomini per le oche appariscenti, ma anche per la sua incredibile forza e determinazione davanti all'orrore e alle avversità. Ma anche se lei e Melanie escono vive da questa situazione, pensò Dan, mi sarà molto difficile sperare in un rapporto fra lei e me. Lei è dottoressa in psicologia, Cristo. Io sono un poliziotto. È più colta di me. Guadagna più di me. Scordatene, Haldane. Sei fuori dal giro. Eppure, quando verificò che nella casa non c'era alcun cadavere, si sentì immensamente sollevato e il suo cuore si riempì di una gioia particolare che non avrebbe provato se a sfuggire alla morte fosse stato chiunque altro. Quando tornò in cucina per cercare di capire che cosa fosse successo, vide che non era più solo nella casa. Accanto al tavolo, con le mani nelle tasche dell'impermeabile, c'era Michael Seames, l'agente dell'FBI che aveva conosciuto qualche ora prima al Segno del Pentagramma. Si guardava attorno con un'espressione turbata e perplessa. «Dove sono andate?» chiese Dan. «Speravo che potesse dirmelo lei.» «Avevo suggerito di assumere delle guardie del corpo...» «California Paladin.» «Sì. Ma per quanto ne so non le avrebbero consigliato di nascondersi o di scappare. Dovevano rimanere qui con lei.» «Uno di loro era qui. Un certo Earl Benton.» «Sì, lo conosco.» «Fino a più o meno un'ora fa. Poi, senza preavviso, è uscito con Laura McCaffrey e la bambina, come un pipistrello dall'inferno. Avevamo un furgone di sorveglianza di fronte alla casa.» «Ah, sì?» «Hanno cercato di seguire Benton, ma andava troppo veloce.» Seames si accigliò. «Anzi, sembrava più che altro che cercasse di liberarsi di noi. Ha idea di quale motivo potesse avere?» «Forse non si fida di voi.» «Siamo qui per proteggere la bambina.» «È sicuro che il governo non vorrebbe averla a disposizione per un po', per cercare di capire che cosa stessero facendo con lei McCaffrey e Hoffritz nella stanza grigia?» «Può darsi», ammise Seames. «Questa decisione non è stata ancora pre-
sa. Ma siamo in America, sa. Non la rapiremmo. Chiederemmo il permesso alla madre per una cosa del genere.» Dan sospirò, incerto se credergli. «Probabile.» «Non sarà stato lei a dire a Benton di portarcele via?» «Perché avrei dovuto? Sono un funzionario pubblico, come lei.» «E lavora sempre per tutte queste ore, tutto il giorno e metà della notte, in ogni caso che le capita?» «Non in ogni caso.» «In tanti casi?» Dan poté rispondere sinceramente. «Sì, in tanti casi lavoro per molte ore. Quando si mette in moto un'indagine, una cosa porta a un'altra e non sempre è possibile chiudere baracca alle cinque del pomeriggio tutti i giorni. Sono tanti gli investigatori che lavorano oltre le ore d'ufficio, che fanno turni irregolari. Dovrebbe saperlo.» «Ma lei, ho sentito dire, lavora più di tanti altri.» Dan si strinse nelle spalle. Seames riprese. «Dicono che lei è un vero bulldog, che ama il suo lavoro e che quando affonda i denti è ben difficile farle mollare la presa.» «Può darsi. Può darsi che ci metta impegno nel mio lavoro, ma, sa, in un omicidio, il piatto fa in fretta a raffreddarsi. Di solito, se non si trova una pista che porta al suo autore in tre o quattro giorni, si rischia di non arrivarci più.» «Ma in questo sta mettendo più impegno della media dei detective della Omicidi, e anche più impegno di quanto vi dedica lei stesso normalmente. Non è vero, tenente?» «Può darsi.» «Lo sa che è così.» «Probabilmente avevo bisogno di azione.» «È qualcosa di più», ribadì Seames. «Lei qui ha un interesse speciale.» «Sì?» «No?» «Che io sappia, no», disse Dan, e l'immagine di Laura McCaffrey gli si presentò alla memoria. Seames lo guardò con sospetto. «Ascolti, Haldane, se qualcuno pagava McCaffrey e Hoffritz perché il loro progetto aveva applicazioni militari, allora questi stessi – chiamiamoli finanziatori - questi stessi finanziatori potrebbero benissimo essere disposti a dare in giro un mucchio di soldi per rimettere le mani sulla bambina. Ma questo denaro sarebbe sporco, ma-
ledettamente sporco. Chiunque lo prendesse si beccherebbe molto probabilmente un'infezione. Capisce quello che intendo?» In un primo momento, Dan aveva pensato che Seames fosse chissà come al corrente dell'attrazione che Laura esercitava su di lui. Ora, improvvisamente, era chiaro che a tormentare l'agente era un timore più oscuro. Dio santo, pensò Dan, si sta chiedendo se mi sono venduto ai russi, o a chissà chi! «Cristo, Seames, guardi che ha sbagliato strada!» «Potrebbero essere disposti a pagare cifre esorbitanti per rimettere le mani sulla piccola, e anche se in questa città un poliziotto è ben pagato non diventerà mai ricco, tranne che con un secondo lavoro.» «La sua insinuazione mi offende.» «E io mi rammarico per la sua riluttanza a smentire esplicitamente l'implicazione.» «No. Non mi sono venduto a nessuno. No, nyet, negativo, assolutamente no. Sono stato abbastanza chiaro?» Seames eluse la domanda. «In ogni modo, quando la squadra di sorveglianza ha perso Benton, è tornata qui ad attendere, per vedere se la donna e la bambina sarebbero ritornate, o se magari comparisse qualcun altro. A un certo punto hanno deciso di dare un'occhiata alla casa, hanno trovato la porta così come l'ha trovata lei e questo macello.» «Che roba è, secondo lei?» «I fiori vengono dal giardino sul retro», rispose Seames. «Ma che cosa ci fanno qui? Chi li ha portati dentro?» «Non riusciamo a immaginarlo.» «E perché la catena di sicurezza è strappata dalla porta?» «Sembrerebbe che qualcuno sia penetrato con la forza.» «Davvero? Cavoli, a voi federali non sfugge niente.» Dan andò al telefono. «Chiamo la Paladin. Se Earl ha pensato che Laura e Melanie fossero in pericolo qui, avrà senz'altro comunicato al suo ufficio dove le ha portate.» Iò centralinista notturno della California Paladin, Lonnie Beamer, conosceva Dan. Ne riconobbe la voce. «Sì, tenente, Earl le ha portate a Westwood, alla casa di sicurezza.» Lonnie sembrava convinto che Dan ne conoscesse l'indirizzo, ma non era così. Earl gli aveva parlato di quel posto ma, se gli aveva anche detto dove fosse, lui se l'era dimenticato. Non poteva chiederlo a Lonnie Beamer senza mettere in allarme Seames, che lo guardava con attenzione. Avrebbe
dovuto richiamare da un altro telefono, una volta liberatosi dell'agente dell'FBI. Lonnie, al telefono, riprese: «Ma probabilmente non saranno ancora lì per molto». «Perché?» «Non lo ha saputo? La signora McCaffrey e la bambina non avranno più bisogno della nostra protezione, anche se non ha ancora deciso di lasciarci andare. Potrebbe chiederci di rimanere nei paraggi, ma perlopiù ci rimpiazzeranno i vostri. Ora avranno la protezione della polizia.» «Dici sul serio?» «Certo», rispose Lonnie. «Protezione della polizia ventiquattr'ore su ventiquattro. In questo momento Earl è a Westwood, nella casa di sicurezza, ad aspettare che arrivino un paio dei vostri a rilevare le McCaffrey. Saranno lì da un momento all'altro.» «Chi?» «Dunque, vediamo, il capitano Mondale ha deciso la protezione ed Earl ha avuto l'ordine di lasciare le nostre clienti ai detective Wexlersh e Manuello.» Qualcosa non quadrava. Per niente. Il dipartimento era troppo a corto di personale per fornire una protezione totale, anche in un caso come quello. E Ross non avrebbe chiamato personalmente la Paladin; inoltre, se protezione doveva esserci, sarebbe stata affidata a poliziotti in uniforme, non a detective in borghese, di cui c'era carenza ancora maggiore che di agenti. E perché Wexlersh e Manuello, in particolare? «Per cui le conviene rimanere lì a Sherman Oaks», continuò Lonnie, «perché immagino che i vostri riporteranno lì le McCaffrey.» Dan avrebbe voluto sapere di più, ma non poteva parlare liberamente con Seames che gli alitava sul collo. «Be', grazie lo stesso, Lonnie. Ma mi sembra inconcepibile che tu non sappia dove si trovi il vostro agente o che cosa sta succedendo alle vostre clienti!» «Come? Ma ho appena detto...» «Avevo sempre pensato che la Paladin fosse l'agenzia migliore, ma se non riuscite a mantenere i contatti con i vostri agenti e clienti, soprattutto clienti che potrebbero essere in pericolo...» «Ma che cosa sta dicendo, Haldane?» «Certo, certo, probabilmente sono al sicuro. So che Earl è in gamba, e sono sicuro che non permetterà che succeda niente, ma sarà meglio che vi diate una regolata o, prima o poi, qualcosa sì che accadrà a un cliente, e al-
lora la licenza dell'agenzia parte.» Lonnie fece per dire qualcosa, ma Dan riappese. Doveva assolutamente andarsene, trovare un altro telefono e rimettersi in contatto con Lonnie per sapere di più. Ma non voleva apparire troppo ansioso di allontanarsi perché, se Seames sospettava che lui sapesse dov'erano Laura e Melanie, non avrebbe più avuto modo di arrivarci da solo e senza impedimenti. L'agente dell'FBI lo fissava. «Alla Paladin non sanno niente», disse Dan. «È questo che le hanno detto?» «Già.» «Che altro?» Avrebbe voluto fidarsi di Seames e del Bureau. Dopotutto era un poliziotto per sua scelta, e credeva nell'autorità, nella legge e nell'ordine. In altre circostanze gli avrebbe dato tutte le informazioni, automaticamente, senza esitare. Ma questa volta no. Questo era un caso maledettamente singolare, così singolare che le regole normali non funzionavano. «Nient'altro», rispose Dan. «Che cosa intende dire?» «C'è qualcosa che all'improvviso le ha messo paura.» «No.» «È tutto sudato.» Dan sentiva il sudore sul viso, grosse gocce fredde. Cercò in fretta una scusa. «È questa botta che ho preso alla fronte. Va tutto bene, me ne dimentico, e poi all'improvviso mi prende una fitta così forte che mi infiacchisce.» «E il cappello?» «Come?» «La storia del cappello stretto che mi ha raccontato al Segno del Pentagramma: era una balla? Che cos'è successo veramente?» «Insomma, vede, di solito non penso troppo. Non sono abituato, piedipiatti grande e grosso e scemo, sa com'è. Ma oggi mi è toccato pensare così forte che la testa mi si è infiammata e mi ha bruciato la pelle.» «Sono convinto che lei pensi forte continuamente, Haldane. Ogni minuto.» «Lei mi dà troppo credito.» «E voglio avvertirla di pensare forte a questo: lei è solo un poliziotto mentre io sono un agente federale e, se non posso intromettermi nella sua
giurisdizione con una scusa qualsiasi, sono in grado di trovare il modo di farle desiderare di non avermi mai incontrato.» «Non potrei mai, signore. Lo giuro.» Seames si limitò a fissarlo. «Allora», riprese Dan, «io andrei.» «Dove?» «A casa, direi. È stata una lunga giornata. Lei ha ragione: sto lavorando troppo. E questa testa mi fa un male cane. Mi servono un po' di aspirine e un impacco freddo.» «Tutt'a un tratto non è più preoccupato per le McCaffrey?» «Certo che sono preoccupato», rispose Dan, «ma per il momento non c'è altro che posso fare. Con Earl Benton saranno al sicuro. È uno che ci sa fare. E poi, signor Seames, noi poliziotti della Omicidi dobbiamo avere la pelle dura, altrimenti non potremmo neppure cominciare a identificare le vittime. Giusto?» Seames continuava a fissarlo. Dan sbadigliò. «Bene, è l'ora di una birra e poi in branda.» Si diresse verso la porta. Si sentiva irrimediabilmente trasparente, scoperto; non era minimamente portato per i sotterfugi. Seames gli parlò nell'attimo in cui stava per varcare la soglia. «Se le McCaffrey sono in pericolo, tenente, e se lei davvero vuole aiutarle, la cosa più saggia che può fare è collaborare con me.» «Be', come ho già detto, non credo che in questo momento siano in pericolo», replicò Dan, anche se sentiva il sudore scorrergli lungo il viso, anche se il cuore gli martellava, anche se lo stomaco era di nuovo stretto in un nodo bruciante. «Perché è così ostinato?» insistè Seames. «Perché non collabora, tenente?» Dan lo guardò negli occhi. «Si ricorda quando mi ha praticamente accusato di essermi venduto, di aver ceduto a qualcuno le McCaffrey?» «Essere sospettoso fa parte del mio lavoro», disse Seames. «Anche del mio.» «Intende dire che sospetta che io vada contro gli interessi di quella bambina?» «Signor Seames, mi scusi, ma anche se lei ha la faccia liscia e paffuta di un cherubino, questo non vuol dire che ha anche un cuore di angelo.» Uscì dalla casa, salì in macchina e si allontanò. Non tentarono di seguirlo, probabilmente convinti che sarebbe stato uno sforzo inutile.
Il primo telefono che Dan vide era uno di quegli oggetti in rapida sparizione il cui declino sembrava un simbolo del declino della civiltà moderna: una cabina di vetro completamente chiusa. Sorgeva sull'angolo di una stazione di servizio Arco. Quando scorse la cabina e fermò l'auto, Dan tremava violentemente; non era proprio preso dal panico, ma certamente vi era molto vicino, cosa non da lui. Normalmente era calmo, controllato. Quanto più le cose peggioravano, quanto più le situazioni si deterioravano, tanto più riusciva a rimanere freddo. Ma questa volta no. Forse perché non riusciva a togliersi dalla mente Cindy Lakey, forse perché suo fratello e sua sorella gli erano stati così presenti nelle ultime ventiquattr'ore, forse perché l'attrazione che Laura McCaffrey esercitava su di lui era ancora più forte di quanto fosse disposto ad ammettere e quindi la sua perdita sarebbe stata ben più devastante di quanto potesse anche solo immaginare: quale che fosse il motivo dello sgretolamento del suo autocontrollo, si sentiva di minuto in minuto sempre più frenetico. Wexlersh. Mannello. Perché improvvisamente gli facevano tanta paura? Nessuno dei due gli era mai stato simpatico, certo. Originariamente erano agenti della buoncostume, e si diceva che fossero tra i più corrotti della divisione; questo era probabilmente il motivo per cui Ross Mondale li aveva fatti trasferire sotto il suo comando a East Valley: voleva che i suoi collaboratori più stretti fossero uomini che facevano quanto gli si diceva, che non discutessero ordini discutibili, la cui fedeltà rimanesse salda finché lui provvedeva a loro. Dan sapeva che erano tirapiedi di Mondale, opportunisti con scarso rispetto per il loro lavoro o per concetti quali il dovere e la fiducia pubblica, ma erano comunque poliziotti, poliziotti scadenti, pessimi poliziotti, ma non sicari come Ned Rink. Sicuramente non costituivano una minaccia per Laura o Melanie. Eppure... Qualcosa stava andando male. Malissimo. Non avrebbe saputo spiegare l'intensità di questo timore improvviso, non avrebbe saputo giustificarlo concretamente, ma nel corso degli anni aveva imparato a fidarsi dei suoi istinti, e in quel momento era terrorizzato. Nella cabina, mentre si frugava ansiosamente in tasca in cerca di monete, le trovava e formava il numero della California Paladin, il suo fiato appannò la superficie interna delle pareti di vetro, mentre la pioggia rigava
l'esterno. Le luci argentate di una stazione di servizio vicina scintillavano tra le gocce sui vetri diffondendosi nella condensa opaca. Questa luminescenza soffusa, combinata con le armonie del temporale, gli procurava l'innaturale sensazione di essere racchiuso in una capsula e gettato alla deriva fuori dal flusso del tempo e dello spazio. Mentre formava le ultime due cifre del numero della Paladin, gli venne di pensare che la porta della cabina si fosse chiusa per sempre dietro di lui, che non sarebbe più riuscito a uscirne e non avrebbe mai più visto o sentito o toccato un altro essere umano, rimanendo eternamente rinchiuso in questa prigione rettangolare ai confini della realtà, incapace di mettere in guardia o aiutare Laura e Melanie, incapace di avvertire Earl del pericolo, incapace di salvare persino se stesso. Talvolta aveva degli incubi in cui si trovava totalmente impotente, paralizzato, mentre una creatura dai contorni indefiniti ma mostruosa torturava e ammazzava davanti ai suoi occhi persone che lui amava; ma questa era la prima volta che un incubo simile tentava di aggredirlo da sveglio. Finì di comporre il numero e dopo qualche istante sentì il segnale della chiamata. Dopo due squilli che gli parvero durare in eterno, Lonnie Beamer rispose: «California Paladin» e Dan emise quasi un rantolo di sollievo. «Lonnie, sono di nuovo io, Dan Haldane.» «Tenente, è tornato in sé?» «Quelle cose che ho detto... erano solo a beneficio di uno che ascoltava dietro di me.» «Quando ha riappeso me lo sono immaginato.» «Ascolta, appeno rimetto giù, adesso, devi chiamare Earl e dirgli che c'è qualcosa che puzza in questa balla della protezione della polizia.» «Ma che cosa sta dicendo?» «Digli che quelli che si presentano alla porta potrebbero non essere poliziotti, digli di non aprire.» «Ma che cosa dice? Certo che sono poliziotti.» «Lonnie, sta per succedere qualcosa di brutto. Non so esattamente che cosa e perché...» «Ma io lo so che ho parlato con Ross Mondale. Ho riconosciuto la voce, ma lo ho ugualmente richiamato nel suo ufficio per essere certo di chi fosse prima di dirgli dove Earl teneva le McCaffrey.» «D'accordo», ribattè Dan con impazienza, «anche se sono veramente Wexlersh e Manuello, di' a Earl che la cosa puzza. Digli che se li lascia entrare si ritrova nella merda. Digli che l'ho detto io.» «Cristo, non posso dirgli di mettersi a sparare su due poliziotti.»
«Non ce n'è bisogno. Avvertilo soltanto di non farli entrare. Digli che io sto arrivando, e di tener duro finché non sono lì io. Ora, quale diavolo è l'indirizzo di quella casa di sicurezza?» «È un appartamento», rispose Lonnie. Gli diede un indirizzo di Westwood, a sud di Wilshire. «Senta, crede davvero che siano in pericolo?» «Chiama Earl!» concluse Dan. Sbatté giù il ricevitore, spalancò la porta appannata della cabina e corse alla macchina. 28 «In arresto?» ripetè Earl, guardando perplesso Wexlersh e Manuello. Non meno sorpresa e sconcertata di Earl era Laura. Era seduta, con Melanie, sul divano su cui il detective le aveva fatte sistemare appena entrati nella stanza. Si sentiva terribilmente vulnerabile, senza sapersene spiegare il motivo, visto che erano solo poliziotti che dicevano di essere lì per aiutarla. Aveva visto i loro documenti, e sembrava che a Earl non fossero nuovi (anche se pareva che non li conoscesse bene). Ma, benché apparentemente fossero quel che dicevano di essere, si sentiva piena di dubbi, avvertiva che nella faccenda c'era qualcosa di strano, di molto strano. Quei due, poi, non le piacevano. Manuello aveva occhi cattivi, un sorrisetto di superiorità. Si muoveva con un'aria di autorità, come pronto ad aggredire chiunque volesse metterlo in dubbio. Wexlersh, con quella pelle giallastra e quegli occhi grigi, le faceva venire i brividi. «Che cosa succede?» chiese. «Il signor Benton lavora per me. Mi sono rivolta io alla sua agenzia.» E poi le venne un'idea folle. «Dio mio, non crederete che siamo qui contro la nostra volontà?» Ignorandola, il detective Manuello si rivolse a Earl Benton. «Ha un'arma?» «Certo, ma ho il porto d'armi», rispose Earl. «Dia a me.» «Il porto d'armi?» «La pistola.» Wexlersh estrasse il suo revolver. «Stia bene attento a come la porge.» «Cristo, pensate che sia pericoloso?» «Lei stia ben attento», ripetè freddamente Wexlersh. Earl diede la pistola a Manuello. «Ma perché dovrei sparare a un poliziotto?» Manuello là infilò nella cinghia dei calzoni.
Squillò il telefono. Laura fece per alzarsi, ma Manuello la prevenne. «Lo lasci suonare.» «Ma...» «Lo lasci suonare!» ripeté seccamente Manuello. Il telefono squillò ancora. Sotto lo sguardo di Laura, il viso di Earl si faceva sempre più preoccupato. Il telefono squillò, con un suono che pareva paralizzare tutti. «State a sentire», disse Earl, «state facendo un grosso errore.» Il telefono squillò. Dan aveva applicato il segnalatore luminoso al tetto dell'auto e aveva azionato la sirena. Ubbidiente, il traffico gli lasciava via libera. Filava verso Westwood a forte velocità, badando pòco all'incolumità propria e a quella degli altri automobilisti. Se qualcuno aveva corrotto Ross Mondale - ed era un'eventualità tutt'altro che impensabile - perché consegnasse Melanie, il capitano non avrebbe avuto la minima difficoltà a persuadere Wexlersh e Manuello a partecipare al piano. Sarebbe stato facile per loro arrivare all'alloggio di sicurezza, farsi aprire mostrando i documenti della polizia e prendere la bambina. Probabilmente sarebbero stati costretti a uccidere Laura ed Earl per coprire il tradimento, ma, più ci pensava, più Dan si convinceva che non avrebbero avuto alcuno scrupolo a farlo. E non correvano neppure un gran rischio perché avrebbero sempre potuto dire che i cadaveri li avevano trovati arrivando sul posto, e che la bambina era già scomparsa quando loro erano giunti lì. Arrivò a un punto dove la strada, che passava sotto un ponte, era rimasta completamente allagata. In mezzo all'avvallamento c'era una macchina bloccata con l'acqua che arrivava fino a metà degli sportelli; diversi altri veicoli erano fermi sul margine di quel torrente. Un carro attrezzi della stradale era appena arrivato e tre operai in tuta arancione fosforescente stavano sistemando una pompa e delle transenne per deviare il traffico. Per più di un minuto Dan rimase preso nell'ingorgo, nonostante il lampeggiatore sul tetto. Mentre era lì seduto, furibondo, imprecando, bloccato da una macchina davanti e da un camion dietro, la pioggia continuava a battere il suo ritmo monotono sul tetto e sul cofano. Ogni goccia segnava il battito di un prezioso secondo buttato via, del tempo che scorreva, di minuti irrecuperabili
che si riversavano lungo i canaletti di scolo. Il telefono squillò dieci volte e ogni squillo aumentava la tensione nella stanza. Earl sapeva che c'era qualcosa che non andava, ma non riusciva a immaginare che cosa. Aveva già incontrato in altre occasioni Wexlersh e Manuello e aveva sentito delle storie su di loro, per cui sapeva che non erano due degli uomini più svegli sul libro paga del comune, e che ci si poteva aspettare degli errori da loro. E questo era sicuramente un errore. Lonnie Beamer aveva detto che sarebbero arrivati per mettere Laura e Melanie sotto la protezione della polizia, ma non aveva parlato affatto di un mandato di arresto per Earl, mandato che non poteva esserci perché Earl non aveva fatto nulla di illegale. Da quello che sapeva dei due, era possibilissimo che avessero frainteso, che avessero fatto confusione, che ora volessero arrestarlo. Ma perché non volevano che si rispondesse al telefono? La chiamata poteva essere - probabilmente lo era - per loro. Non riusciva proprio a capire. Il telefono finalmente smise di squillare, e per un momento il silenzio parve assoluto. Ma dopo qualche istante Earl riprese coscienza del rumore della pioggia che batteva sul tetto e sul cortile. Wexlersh si rivolse al suo partner. «Mettigli le manette.» «Come diavolo sarebbe a dire?» esclamò Earl. «Non mi avete ancora detto per che cosa mi arrestate.» Mentre Manuello tirava fuori da una tasca della giacca un paio di manette di plastica, Wexlersh disse: «Le leggeremo le accuse quando saremo alla stazione di polizia». Sembravano entrambi nervosi, ansiosi di farla finita. Perché avevano tanta fretta? Dan uscì da Wilshire Boulevard, si immise su Westwood Boulevard, diretto a sud. Attraversò una pozzanghera profonda, sollevando due ali d'acqua. Si sforzava di vedere attraverso il parabrezza bagnato, mentre l'asfalto nero di pioggia sembrava oscillare sotto i riflessi scintillanti dei lampioni e delle insegne al neon. Gli occhi, già stanchi e irritati, gli bruciavano sempre di più. La testa gli pulsava, ma c'era anche un'altra fitta di dolore, una fitta interiore che scaturiva da non voluti pensieri di fallimento, da allarmanti premonizioni di morte e di disperazione.
Con le manette in mano, Manuello si avvicinò a Earl. «Si giri, unisca le mani dietro la schiena.» Earl esitò. Guardò Laura e Melanie. Guardò Wexlersh, che impugnava la Police Special Smith & Wesson. Quei due erano poliziotti, ma Earl improvvisamente non fu più certo di aver fatto bene a obbedire e a consegnare la pistola; in ogni caso era maledettamente sicuro che l'idea di essere ammanettato non gli andava. «Fa resistenza all'arresto?» chiese Manuello. «Ma sì, Benton, Cristo», aggiunse Wexlersh, «si rende conto che se resiste si gioca la licenza?» Riluttante, Earl si girò e mise le mani dietro la schiena. «Non mi leggete i miei diritti?» «C'è tempo in macchina per questo», rispose Manuello mentre infilava le manette ai polsi di Earl. Wexlersh si rivolse a Laura e Melanie. «Sarà meglio che mettiate il soprabito.» «E il mio impermeabile?» chiese Earl. «Avreste dovuto farmelo mettere prima di ammanettarmi.» «Ne farà a meno», replicò Wexlersh. «Là fuori piove.» «Non si scioglierà mica», ridacchiò Manuello. Il telefono riprese a squillare. Come prima, gli agenti lo ignorarono. La sirena perse la voce. Dan azionò la levetta con il piede, l'accese e la spense più volte, ma la sirena rifiutò di rimettersi in azione. Gli rimanevano solo il lampeggiatore rosso di emergenza e il clacson per farsi strada fra il traffico rallentato dalla pioggia. Sarebbe arrivato troppo tardi. Di nuovo. Come con Cindy Lakey. Troppo tardi. Spostandosi da una corsia all'altra, entrando e uscendo pericolosamente dalle file di auto, pigiando sul clacson, gli cresceva dentro la certezza che erano morti, tutti morti, che aveva perso un amico, e la bambina innocente che aveva sperato di proteggere, e la donna che aveva avuto su di lui un impatto così forte. Tutti morti. Laura prese il soprabito di Melanie e vestì prima lei, un'operazione lenta perché la bambina non collaborava.
«Ma che cos'è», domandò Manuello, «ritardata o che cosa?» Stupita e furiosa, Laura esclamò: «Non riesco a credere che abbia detto una cosa del genere». «Be', non si comporta da normale», osservò Manuello. «Ah, no?» disse Laura sprezzante. «Cristo. È una bambina molto malata. E lei, agente, che scusa ha?» Mentre Laura metteva il soprabito a Melanie, Earl fu fatto sedere sul divano. Le braccia legate dietro lo costrinsero a rimanere sul bordo. Quando Laura ebbe finito di abbottonare l'impermeabile della figlia, prese il suo, ma Wexlersh la fermò. «Lasci perdere. Si metta seduta lì sul divano vicino a Benton.» «Ma...» «Seduta!» ripetè Wexlersh, indicando il divano con la pistola. I suoi occhi grigio ghiaccio erano indecifrabili. O forse era Laura a non voler decifrare quanto era evidentissimo. Guardò il detective Manuello. Sogghignava. Quando si volse verso Earl per ricevere un'indicazione, Laura lo vide più a disagio che mai. «Seduta», ripetè ancora Wexlersh, ma questa volta senza sottolineare la parola, quasi bisbigliando, ma con un effetto di maggiore violenza. Laura sentì una fitta allo stomaco e l'onda di nausea della paura la sommerse. Quando Laura si sedette, Wexlersh andò da Melanie, la prese per mano e la allontanò dal divano mettendola fra sé e Manuello. «No», mormorò Laura, ma i due agenti la ignorarono. Manuello guardò Wexlersh. «Adesso?» «Adesso», annuì Wexlersh. Manuello estrasse da sotto la giacca una pistola. Non era quella che aveva tolto a Earl e Laura pensò che non doveva essere neppure l'arma di servizio del detective, perché era quasi certa che i poliziotti di solito (sempre?) usavano rivoltelle, non pistole automatiche. Quindi Manuello prese dalla tasca un tubo di metallo brunito e cominciò ad avvitarlo alla canna della pistola, e lei capì che era un silenziatore e seppe che qualcosa andava male, terribilmente male. «Che cosa diavolo state facendo?» chiese Earl. Né Wexlersh né Manuello gli risposero. «Cristo!» esclamò Earl incredulo e improvvisamente terrorizzato. «Niente grida!» intimò Wexlersh. «Silenzio!»
Earl si alzò a fatica dal divano, lottando inutilmente per liberarsi dalle manette. Wexlersh gli piombò addosso e lo colpì con il revolver, una volta sulla spalla, una sul lato della faccia. Earl ricadde all'indietro sul divano. Manuello non aveva allineato bene le filettature del silenziatore della pistola e dovette svitarlo di nuovo e riprovare. Senza allontanarsi da Earl, Wexlersh lanciò un'occhiata al suo partner. «Ti sbrighi?» «Ci provo, ci provo», rispose Manuello, lottando con l'ostinato accessorio della pistola. «Volete ucciderci», farfugliò Earl con le labbra sanguinanti. Queste parole non sorpresero Laura. Capì che aveva saputo quel che sarebbe successo, anche se solo inconsciamente, fin da quando i due erano entrati nella stanza. Manuello aveva di nuovo sbagliato a inserire il silenziatore. «Questo affare è una merda.» «Se lo metti bene funziona», replicò Wexlersh. Laura capì che non volevano usare i revolver di servizio perché non si potesse risalire a loro. Senza silenziatore, poi, i vicini avrebbero sentito gli spari e, affacciandosi, avrebbero potuto vederli allontanarsi con Melanie. Melanie. Era accanto a Manuello e piagnucolava con gli occhi chiusi e la testa china. Sapeva quello che stava per accadere nella stanza, che sua madre stava per morire, o gemeva per qualcosa d'altro, qualcosa nel suo mondo segreto? In un tono di incredulità, ma soprattutto di rabbia, Earl esclamò: «Siete poliziotti, perdio, e volete ucciderci!» «Zitto, e stai seduto!» gli rispose Wexlersh. Lo sguardo di Laura si era posato su un pesante posacenere di vetro appoggiato sul tavolino. Se fosse riuscita a prenderlo, a scagliarlo contro Wexlersh colpendolo alla testa, avrebbe potuto fargli perdere i sensi o almeno cadere la pistola; poi della pistola poteva impadronirsene lei prima che reagissero. Ma aveva bisogno di una diversione. Cercava disperatamente di farsi venire in mente qualcosa per distrarre Wexlersh quando Earl decise evidentemente che non avevano niente da perdere facendo resistenza; distrasse entrambi gli agenti esattamente al momento giusto. Mentre Manuello continuava a trafficare febbrilmente con il silenziatore che non voleva inserirsi, Earl guardò Wexlersh e disse: «Non importa
quello che facciamo, non importa quanto gridiamo forte, voi non userete le vostre pistole, né la mia». Poi, urlando con quanto fiato aveva in gola, si slanciò contro Wexlersh a testa bassa. Wexlersh arretrò barcollando di due passi mentre Earl lo colpiva allo stomaco. Ma non cadde. Il calcio della pistola fece crollare al suolo la guardia del corpo, mettendo fine all'attacco. Laura afferrò il posacenere nel momento in cui Wexlersh colpiva Earl, ma Manuello la vide e lanciò un grido di avvertimento mentre lei scagliava l'oggetto. L'agente scansò il posacenere che si schiantò contro il muro. Wexlersh puntò la sua rivoltella di ordinanza in faccia a Laura; sembrava la bocca di un cannone. «Starami a sentire, troia, se non ti metti immediatamente seduta e tieni chiusa quella boccaccia, le cose andranno molto peggio di come devono.» Melanie ora guaiva sommessamente, sempre più smarrita. La testa era ancora china, gli occhi chiusi, ma la bocca era aperta e ciondolante. Girandosi sulla schiena e tirandosi su contro il divano, Earl guardò Wexlersh con il sangue che gli scorreva dalla ferita al capo. «Sì? Davvero? Come potrebbero andare peggio di quello che già contate di farci?» Wexlersh sorrise. «Possiamo imbavagliarvi e torturarvi per un po'. Torturare questa puttana.» Laura rabbrividì e distolse lo sguardo da quegli occhi grigi. Sembrava che nella stanza facesse freddo, più freddo di prima. «È una bella fica», intervenne Manuello. «Già, potremmo farcela», aggiunse Wexlersh. «Fotterci anche la ragazzina», disse Manuello. «Già», annuì Wexlersh, sempre sorridendo. «Proprio. Potremmo farci la ragazzina.» «Anche se è ritardata», commentò Manuello, poi imprecò contro la pistola e il silenziatore che non volevano andare a posto. «Allora», riprese Wexlersh, «se non ve ne state seduti e zitti, vi imbavagliamo e ci scopiamo la bambina davanti a voi e poi, in ogni modo, vi ammazziamo.» Boccheggiando, semisoffocata dal vomito che le saliva alla gola, Laura si accasciò sul divano. Anche Earl taceva. «Bene», disse Wexlersh, massaggiandosi lo stomaco, dove Earl l'aveva colpito. «Molto meglio.» Il gemito di Melanie si era fatto più alto ed era punteggiato da qualche
parola - «aprire... porta... aprire... no» - e da profondi sospiri spezzati. «Zitta, piccola», disse Wexlersh, colpendola con uno schiaffo leggero sulla faccia. Il piagnucolio si fece più fioco, ma non cessò. La stanza era decisamente fredda e la temperatura si stava abbassando sempre di più. Laura ricordò il freddo improvviso nella cucina subito prima che la radio si accendesse, e anche subito prima che si spalancasse la porta ed entrasse dal buio quel turbine. «Ma non ce l'hanno il riscaldamento in questo dannato posto?» chiese Wexlersh. «Ecco!» esclamò Manuello avvitando finalmente il silenziatore alla canna della pistola. Più freddo. Ora che il suo partner era pronto, Wexlersh rimise il revolver nella fondina, afferrò Melanie per un braccio e arretrò con lei verso la porta dell'appartamento. Più freddo. Laura si sentiva elettrizzata, carica di tensione e di attesa. Stava per succedere qualcosa. Qualcosa di strano. Manuello si avvicinò a Earl, che lo guardò con disprezzo e terrore. La temperatura della stanza era bassissima, e dietro Wexlersh e Melanie la porta dell'appartamento si aprì con uno schianto... Ma non era nulla di soprannaturale. Era Dan Haldane. Si scaraventò dentro, colse immediatamente la situazione e piantò il revolver nella schiena di Wexlersh prima che l'agente fosse riuscito a girarsi verso la porta. Manuello ruotò su se stesso, ma Haldane gli intimò: «Butta la pistola! Buttala, bastardo, o ti ammazzo!» Manuello esitò, probabilmente non perché temesse che il suo partner venisse ucciso, ma perché era chiaro che il corpo di Wexlersh avrebbe bloccato il proiettile destinato a Dan, e di tempo per spararne un secondo, prima che Dan lo stendesse, non ne avrebbe avuto. Lanciò un'occhiata anche a Melanie, come calcolando le probabilità che aveva di farcela balzandole addosso, ma quando Dan gli urlò di nuovo: «Buttala via!» Manuello finalmente cedette e lasciò cadere a terra la pistola con il silenziatore. «Ha la pistola di Earl», lo avvertì Laura. «E anche il suo revolver di ordinanza», aggiunse Earl. Una alla volta, Manuello si liberò delle due armi e indietreggiò fino al
muro, seguendo le indicazioni di Dan. Laura si fece avanti a raccogliere le tre armi mentre Dan toglieva la pistola di servizio a Wexlersh. «Com'è che fa così freddo qua dentro?» chiese Dan. Ma non aveva ancora terminato la domanda che l'aria tornò tiepida repentinamente come si era raffreddata. Stava per succedere qualcosa, pensò Laura. Qualcosa come quello che era accaduto nella cucina. Ma questa volta non si sarebbe trattato solo di un avvertimento. No, questa volta sarebbe stato peggio. Questa volta «Quello» si era quasi mostrato. Dan la guardava in modo strano, come se sapesse che lei aveva la risposta. Ma Laura non poteva parlare, non sapeva come formulare la risposta con parole che per lui avessero un senso. Sapeva solo che se «Quello» fosse venuto la strage lì dentro sarebbe stata ben peggiore dei piani dei due agenti corrotti. Se «Quello» fosse venuto, sarebbero forse finiti tutti loro come i corpi pestati, straziati, maciullati nella casa di Studio City? 29 Al pronto soccorso del Centro Medico dell'UCLA, Earl fu ammesso immediatamente per le prime cure alle ferite al cranio e alle labbra. Laura e Melanie attesero nella sala adiacente mentre Dan si recava al telefono più vicino. Compose il numero della East Valley Division e si fece passare Ross Mondale. «Lavori fino a tardi, eh, Ross?» «Haldane?» «Non sapevo che fossi così zelante.» «Che cosa vuoi, Haldane?» «Per esempio, vorrei la pace nel mondo.» «Senti, non sono in vena di...» «Ma credo che mi accontenterò della soluzione di questo caso.» «Haldane, qui ho da fare e...» «Tra poco avrai da fare ancora di più, perché dovrai passare un bel po' di tempo a pensare a degli alibi.» «Di che cosa stai parlando?» «Wexlersh e Manuello.» Silenzio dall'altra parte della linea.
«Perché li hai mandati a Westwood, Ross?» «Avevo deciso di dare la protezione della polizia alle McCaffrey.» «Con la carenza di personale che c'è?» «Be', considerando l'omicidio di Scaldone e l'estrema violenza di quei crimini, mi sembrava prudente...» «Ma stai zitto, figlio di puttana.» «Che cosa?» «So che dovevano uccidere Earl e Laura...» «Che cosa stai dicendo?» «... e rapire Melanie...» «Hai bevuto, Haldane?» «... e poi, dopo, rientrare e riferire che Earl e Laura erano già morti quando loro erano arrivati.» «Secondo te dovrei capirci qualcosa in quello che stai dicendo?» «La tua perplessità sembra quasi autentica.» «Sono accuse gravi, Haldane.» «A chi ti sei venduto, Ross?» «Haldane, ti avviso...» «E che cosa ti hanno dato per comprarti? Questa è la domanda grossa. Ascolta, ascolta, aspetta un attimo, facciamo qualche ipotesi, d'accordo? Non ti saresti venduto solo per denaro. Tu non metteresti a repentaglio tutta la carriera solo per denaro. A meno che non fossero un paio di milioni e nessuno pagherebbe tanto per un lavoretto del genere. Venticinquemila dollari, al massimo. Forse quindici. Più probabile. Ora, che Wexlersh e Manuello lo abbiano fatto per una somma del genere, lo posso credere, ma non ci avrebbero neppure provato senza la tua approvazione, senza la garanzia della tua protezione. Allora dico che loro hanno preso i soldi e tu qualcos'altro. Che cosa potrebbe essere questo qualcos'altro, Ross? Tu ti venderesti per il potere, forse per una promozione molto importante, per la garanzia del posto di capo e forse anche la presentazione a sindaco. Per cui chi ti ha comprato è qualcuno che controlla la macchina politica. Ci sto andando vicino, Ross? Hai dato Laura e Melanie McCaffrey in cambio di questo genere di promesse?» Mondale rimase in silenzio. «È così, Ross?» «Mi sembri peggio che ubriaco, Dan. Che droga hai preso?» «È così, Ross?» «Dove sei, Dan?»
Dan ignorò la domanda. «Mannello e Wexlersh in questo momento sono nell'appartamento di Westwood, legati e imbavagliati, uno sul cesso e l'altro nella vasca. Li avrei mandati tutt'e due giù per lo scarico se ci fossero entrati.» «Perdio, sei davvero drogato!» «Sta' buono, Ross. La Paladin sta mandando un paio di uomini a fare da baby sitter ai tuoi ragazzi, e ho già chiamato un reporter del Times e un altro del Journal. Ho chiamato anche la polizia, ho detto chi ero, ho detto che c'era stato un tentato omicidio, e ora stanno arrivando gli agenti in divisa. Sarà un bel circo equestre.» «La signora McCaffrey farà una dichiarazione accusando Wexlersh e Manuello di tentato omicidio?» «Cominci a preoccuparti, Ross?» «Sono miei agenti», disse Mondale. «Sono sotto la mia responsabilità. Se hanno fatto davvero quello che dici tu, voglio essere assolutamente certo che verranno incriminati e condannati. Non voglio mele marce nel mio cesto. Io non sono il tipo da coprire i miei uomini in nome di un malinteso senso di fratellanza tra poliziotti.» «Che cosa ti succede, Ross? Credi che ti stia registrando? Credi che ci sia qualcuno in ascolto? Bene, non c'è nessuno, non c'è nessun nastro, puoi lasciar perdere le sceneggiate.» «Non ti capisco, Dan. Non capisco perché sospetti che io sia coinvolto.» Come attore faceva pena; la sua insincerità era evidentissima. «E poi non hai risposto alla mia domanda: la signora McCaffrey farà una dichiarazione accusando Wexlersh e Manuello di tentato omicidio, sì o no?» «Non questa sera. Ho portato Laura e Melanie via di lì e le tengo con me, ben nascoste, per il momento. So che la cosa ti delude. Sarebbero un bersaglio più facile se se ne andassero in giro, no? Ma non intendo dire a nessuno dove sono. Non le farò incontrare con nessun poliziotto di nessuna divisione, né per fare denunce né per identificare Wexlersh e Manuello. Ora non mi fido più di nessuno.» «Dan, non stai parlando da poliziotto responsabile. Per l'amor di Dio, non puoi assumerti personalmente la responsabilità per loro.» «Sta' a guardare e vedrai che posso.» «Se hanno bisogno di protezione, dovrai organizzargliela tramite il dipartimento, e proprio questo mi pareva di star facendo quando ho mandato lì Wexlersh e Manuello. Non puoi gestire questo caso tutto da solo. Dio santo, non sono tue parenti, sai. Non puoi prenderti la responsabilità di lo-
ro come se fosse un tuo diritto legale.» «Se anche loro lo vogliono, posso farlo. Non sono mie parenti - hai ragione - ma ugualmente ho qualcosa di personale in gioco.» «Di che parli?» «L'hai detto tu stesso al Segno del Pentagramma stanotte. Questo per me non è un caso ordinario. È per questo che ci sto attaccato così forte. Sono attratto da Laura. La bambina mi fa pena. Quello che sento per loro è più forte di qualsiasi cosa abbia mai sentito per altre vittime.» «Sarebbe un motivo sufficiente per dissociarti dal caso. Non sei più un obiettivo rappresentante della legge.» «Vaffanculo.» «Questo spiega preché sei così ostile, isterico, ossessionato da tutte quelle teorie paranoiche di complotti.» «Non è paranoia. È la realtà, e tu lo sai.» «Adesso capisco. Sei a pezzi.» «Ti avverto, Ross: sta' alla larga. Per questo mi sono preso la briga di telefonarti. Solo due parole: sta' alla larga. Questa donna e questa bambina, come hai detto tu stesso questa sera al Segno del Pentagramma, sono importanti per me.» Mondale sospirò. Dan continuò: «Chiunque cerca di far loro del male, te lo giuro, lo distruggo». Silenzio. «Ross, potrai riuscire a far star zitti Wexlersh e Manuello. Potrai perfino trovare un modo per far cadere le accuse e insabbiare tutta la faccenda. Ma se continui a cercare di arrivare alle McCaffrey, lo trovo io un modo per spaccarti il culo. Te lo giuro, Ross.» Alla fine Mondale parlò, ma come se non avesse udito gli avvertimenti di Dan. «Bene, se non permetti alla signora McCaffrey di fare la denuncia, Wexlersh e Manuello non potranno essere arrestati.» «Oh, sì. La denuncia può farla Earl Benton. È stato pestato con la pistola. Da Wexlersh. Earl è in un ospedale, a farsi rappezzare...» «Quale ospedale?» «Ross, siamo seri.» «Un bastardo. Sono stufo di te. Stufo di te e delle tue minacce, stufo di tenerti sospeso sulla testa come una dannata spada.» «Ottimo. Togliti dai piedi, Ross. Togliti da sotto a quella spada.» Mondale tacque di nuovo.
Dan riprese: «Comunque, anche se riuscirai a insabbiare la denuncia di Earl di aggressione e tentato omicidio, anche se riuscirai a convincere il capo che tu, Wexlersh e Manuello non eravate coinvolti in un complotto per rapire la bambina e uccidere la madre, la stampa continuerà a sospettare che c'è qualcosa in ballo e loro non si fideranno più di te. Ti ritroverai giornalisti che annusano in giro per tutto il resto della tua carriera, aspettando che metti un piede in fallo». Silenzio. «Stai sentendo quello che dico, Ross?» Silenzio. «Se ti va bene riuscirai a conservare i gradi di capitano, ma sulla lista del sindaco per il posto di capo non ci sarai. Non più. Ora bada, Ross, questo è un avvertimento. Per questo ti ho chiamato. Ascolta. Ascolta bene. Se continui a star dietro alle McCaffrey sarai completamente rovinato. Ci penserò io. Mia garanzia personale. Già adesso sei mezzo rovinato, ma, se continui a starle dietro, non rimarrai neppure capitano. Quello che ha organizzato questa cosa potrà essere potente e influente, ma non riuscirà a salvarti il culo se tenti ancora di toccare le McCaffrey. Non riuscirà a salvarti da me. È chiaro il quadro?» Silenzio. Ma ormai era un silenzio pieno di emozione, e l'emozione che irradiava era l'odio. Dan proseguì: «Ho ancora da preoccuparmi dell'FBI e ho da preoccuparmi di quelli che stavano finanziando Dylan McCaffrey e Willy Hoffritz, ma che mi venga un colpo se ho voglia di continuare a preoccuparmi anche di te, Ross. Questa sera stessa tu lasci il tuo posto nella squadra speciale che si occupa del caso e lo cedi a qualcun altro, finché non hai sistemato la nube di sospetto che si è alzata su Wexlersh e Manuello. Non te lo sto suggerendo, Ross, te lo sto ordinando». «Pezzo di merda.» «Se non dici quello che voglio sentire, Ross, io riattacco, e quando riattacco per te è troppo tardi per cambiare idea.» Silenzio. «Bene... ti saluto, Ross.» «Aspetta.» «Spiacente, devo andare.» «Va bene, va bene. Accetto, come hai detto tu.» «Più esplicitamente.» «Esco dal caso.»
«Molto saggio.» «Mi prendo una settimana di malattia.» «Ah, non ti senti bene?» «Io ne esco, mi tiro fuori, ma voglio una cosa da te.» «Sentiamo.» «Né Benton né tu né le McCaffrey devono denunciare Wexlersh e Manuello.» «Sei matto. L'unico modo che abbiamo per tenerti buono è incriminare quei due vermi di tentato omicidio.» «Okay. Allora Benton fa la sua denuncia, poi dopo un paio di'giorni, quando a tuo parere le McCaffrey sono al sicuro, la ritira.» «Ci farebbe la figura dell'idiota.» «No. No. Può dire che qualcun altro l'ha picchiato e il colpo alla testa l'ha fatto confondere. Dopo un paio di giorni, può dire che la testa gli si è schiarita e ha ricordato che cos'è successo veramente. Che anzi Wexlersh e Manuello gli hanno salvato il culo.» «Non sei in condizione di pretendere niente, Ross.» «Maledizione, se non mi dai una via d'uscita, un barlume di salvezza, non ho alcun motivo per fare come dici tu.» «Può darsi. Ma, visto che stiamo contrattando, allora voglio anche un'altra cosa. Voglio il nome dell'uomo che ti ha dato l'incarico.» «No.» «Chi vuole la bambina, Ross? Dimmelo e facciamo un patto.» «No.» «Chi ti ha convinto a usare Wexlersh e Manuello in questo modo.» «Impossibile. Se te lo dico, sono veramente finito. Finito come quei cadaveri a Studio City, o peggio. Io ti do le McCaffrey e tu dopo qualche giorno mi dai Wexlersh e Manuello. Il patto è questo.» «Dimmi almeno se è lo stesso che finanziava il lavoro in quella sala grigia.» «Credo di sì.» «È del governo?» «Forse.» «Puoi fare di più.» «Davvero non lo so. È il tipo di persona che potrebbe fare da tramite per il governo, o magari essere lui stesso il finanziatore.» «È ricco?» «Non ti dico il nome e non ti do neppure particolari che ti permettano di
arrivarci. Firmerei la mia condanna a morte.» Dan riflette un momento, poi: «Dice nulla di quello che stavano cercando di fare nella stanza grigia?» «No.» «Questo tizio, questo che ti ha contattato, questo che ha finanziato quelle ricerche pazzesche, è lui il mandante degli omicidi, Ross?» Silenzio. «È lui, Ross? Avanti, non aver paura di parlare. Hai già detto troppo. Non ti chiedo il nome, ma a questo devi rispondere. È lui il responsabile della morte di Scaldone e di quei cadaveri a Studio City?» «No, no. Tutto il contrario. È terrorizzato dal fatto di poter essere il prossimo bersaglio.» «Allora, di chi ha paura?» «Non credo che sia un chi.» «Come?» «È una cosa pazzesca... ma, da come parla questa gente, sono così terrorizzati che sembra che sia Dracula quello che hanno alle calcagna. Voglio dire, da quello che ho sentito, mi sono fatto l'idea che non è una persona quello di cui hanno paura. È una cosa. C'è una cosa che sta uccidendo tutti quelli che sono implicati con la stanza grigia. Lo so che sembra una stronzata, ma è questa la sensazione che ho avuto. Allora, maledizione, lo facciamo il patto o no? Io mi ritiro dal caso, ti lascio le McCaffrey e tu mi lasci Wexlersh e Manuello. Siamo d'accordo?» Dan finse di pensarci. Poi: «Okay». «Affare fatto?» «Sì.» Mondale fece una risata nervosa. «Ti rendi conto di che cosa significa, Haldane?» «Che cosa significa?» «Se fai un patto del genere, lasci cadere un'accusa di tentato omicidio, allora vuol dire che sei lercio come tutti gli altri.» «Non come te. Potrei vivere in una fogna per un mese, mangiando quello che mi galleggia attorno, non sarei lercio nemmeno la metà di quanto lo sei tu, Ross.» Riappese. Una minaccia era eliminata. Nessuno avrebbe usato un distintivo della polizia per avvicinarsi a Melanie. Nemici ce n'erano ancora, ma almeno una parte era eliminata. E il bello era che non aveva ceduto niente in cambio della ritirata di Ross Mondale, non si era sporcato le mani nemmeno un po', perché non
intendeva mantenere la sua parte dell'accordo. Non avrebbe mai chiesto a Earl di ritirare le accuse contro Wexlersh e Manuello. Anzi, quando il caso fosse finalmente scoppiato, quando Laura e Melanie fossero potute ricomparire in pubblico senza pericolo, avrebbe fatto lui in modo che testimoniassero anche loro contro i due agenti, e avrebbe aggiunto anche la sua testimonianza. Manuello e Wexlersh erano finiti, e di conseguenza era finito anche Ross Mondale. 30 A mezzanotte e venti, Earl Benton fu dimesso dall'ospedale. Laura rimase scioccata dal suo aspetto malconcio benché gli avessero pulito il viso dal sangue. Il colpo alla testa aveva richiesto sette punti; ora la zona era coperta con una fascia. Le labbra erano gonfie e violacee, la bocca distorta. Un occhio era nero. Sembrava uscito da un corpo a corpo con un autocarro. La sua comparsa colpì Melanie. Lo sguardo della bambina si schiarì. Sembrò riemergere dal suo stato di trance per studiarlo meglio, come un pesce che affiora alla superficie di un lago per esaminare una curiosa creatura sulla riva. «Ahhh», mormorò, con voce triste. Pareva volesse dirgli qualcosa, e così Earl si chinò verso di lei. Lei gli toccò il viso segnato con una mano, e il suo sguardo si mosse lentamente dal mento contuso alle labbra spaccate, all'occhio nero, sino alla fasciatura alla testa, e mentre lo studiava si mordeva con aria afflitta il labbro inferiore. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Cercò di parlare, ma non venne fuori alcun suono. «Che cosa c'è, Melanie?» domandò Earl. Laura si chinò accanto a sua figlia, la cinse con un braccio. «Che cosa stai cercando di dirgli, amore? Pensa una parola per volta. Fa' con calma. Puoi farcela. Puoi farcela, piccola.» Dan, il medico che aveva curato Earl e una giovane infermiera assistevano assorti, in attesa. Gli occhi pieni di lacrime della bambina continuavano a spostarsi sul viso di Earl, da una ferita all'altra; infine balbettò: «Per m-m-me». «Sì», disse Laura. «Proprio così, piccola. Earl ha lottato per te. Ha rischiato la vita per te.» «Per me», ripetè Melanie con stupore, come se essere amata e protetta fosse un'esperienza totalmente nuova e stupefacente per lei. Emozionata da questa crepa nell'armatura autistica di Melanie, sperando
di allargarla, Laura riprese: «Stiamo tutti lottando per te, piccola. Vogliamo aiutarti. Ti aiuteremo, se tu ce lo permetti». «Per me», ripeté ancora Melanie, ma non aggiunse altro. Nonostante gli inviti di Laura ed Earl, non parlò più. Le lacrime le si asciugarono, abbassò la mano dal volto ferito di Earl e quello sguardo assente ritornò nei suoi occhi. Chinò la testa, stanca. Laura rimase delusa, ma non disperò. Almeno, la bambina aveva la volontà di ritornare dal suo mondo buio, e se c'era quella volontà prima o poi ce l'avrebbe fatta. Il medico suggerì che Earl rimanesse in osservazione, ma nonostante il pestaggio lui rifiutò. Voleva tornare subito alla casa di sicurezza e fare la sua denuncia alla polizia. All'ospedale erano arrivati tutti con l'auto di Dan, ma lui ora non voleva ritornare alla casa perché non aveva alcuna intenzione di portare Laura e Melanie nelle vicinanze di altri poliziotti; chiamarono un taxi per Earl. «Voi andate pure», li invitò Earl. «Non c'è bisogno che aspettiate con me.» «No, è meglio che aspettiamo», disse Dan, «perché comunque abbiamo delle cose di cui parlare.» Si raggrupparono attorno a Melanie, schermandola. Si trovavano sulla soglia dell'ingresso principale del centro medico, da dove potevano vedere la notte battuta dalla pioggia e il punto dove si sarebbe fermato il taxi. Metà delle luci al neon dell'atrio erano spente, poiché era passato da tempo l'orario delle visite, e l'altra metà mandava una sgradevole luce fredda nella vasta sala. L'aria aveva un vago odore di disinfettante. L'atrio era deserto, tranne che per loro quattro. «Vuoi che la Paladin mandi qualcuno a sostituirmi?» chiese Earl. «No», rispose Dan. «Sapevo che avresti risposto così.» «La Paladin va benissimo», riprese Dan, «e non ho mai avuto motivi per dubitare della loro integrità...» «Ma, in queste circostanze, non ti fidi più di nessuno alla Paladin, come non ti fidi più di nessuno alla polizia», lo interruppe Earl. «Di nessuno tranne che di te», intervenne Laura. «Sappiamo che possiamo fidarci di te, Earl. Senza di te, Melanie e io probabilmente saremmo morte.» «Non ho fatto niente di eroico», si schernì Earl. «Sono stato uno stupido. Ho aperto la porta a Manuello.»
«Ma non potevi sapere...» «Ma ho aperto la porta», ribadì Earl con un'espressione di disgusto. Laura poteva vedere bene perché Dan Haldane ed Earl erano amici. Avevano in comune la devozione al lavoro, un forte senso del dovere, la tendenza a essere fin troppo autocritici. Qualità rare in un mondo che sembrava dare ogni giorno più valore al cinismo, all'egoismo, all'autoindulgenza. Dan si rivolse a Earl. «Conto di trovare un motel, prendere una stanza e rimanere lì con Laura e Melanie per il resto della notte. Meglio non portarle da me.» «E domani?» chiese Earl. «Ci sono alcune persone che voglio vedere...» «Posso darti una mano?» «Se te la senti quando ti svegli domani mattina.» «Me la sentirò», assicurò Earl. «C'è una donna di nome Mary Katherine O'Hara, a Burbank. È la segretaria di un'organizzazione chiamata Freedom Now.» Diede a Earl l'indirizzo e gli spiegò le informazioni che voleva da Mary O'Hara. Poi: «Ho anche bisogno di sapere qualcosa su una società chiamata John Wilkes Enterprises. Chi sono i suoi dirigenti? Gli azionisti maggioritari?» «È una società californiana?» chiese Earl. «Credo proprio di sì. Posso precisartelo domani. Potremmo rivederci tutti a pranzo, diciamo all'una, per cercare di tirar fuori qualcosa dalle informazioni raccolte.» «Sì, a quell'ora dovrei avere quello che ti serve», confermò Earl. Suggerì un locale in Van Nuys perché, disse, era un posto dove non aveva mai visto nessuno della Paladin. Il taxi era arrivato. Earl abbassò lo sguardo su Melanie. «Allora, principessa, mi concedi un sorriso prima che io vada?» La bambina lo guardò, ma Laura vide che i suoi occhi erano ancora strani, lontani. «Bada bene», l'avvertì Earl, «ho intenzione di starti fra i piedi e infastidirti finché non ti deciderai a farmi un sorriso.» Melanie continuò a fissarlo. Earl si rivolse a Laura. «Tieni duro. Andrà tutto bene.» Laura annuì. «E grazie di...» «Di niente», la interruppe Earl. «Io gli ho aperto la porta. Devo riparare. Aspetta che abbia riparato prima di cominciare a ringraziarmi.» Si avviò
verso la porta dell'atrio, poi si girò verso Dan. «A proposito, che diavolo hai combinato alla fronte?» «Oh. Una vecchietta... mi ha colpito con il bastone.» «Davvero?» lo canzonò Earl. «L'ho aiutata ad attraversare la strada.» «E perché ti ha colpito?» «Non voleva attraversarla.» Earl sorrise, spinse la porta e raggiunse di corsa, sotto la pioggia, il taxi. Laura abbottonò il soprabito di Melanie. Lei e Dan presero la bambina in mezzo e si diressero in fretta verso l'auto. L'aria era fredda. La pioggia era gelida. Il buio sembrava respirare, un respiro malevolo. Là fuori, da qualche parte, «Quello» aspettava. Lo stile dell'arredamento nella camera del motel era quello di tutte le camere di motel del paese, ma almeno il posto era pulito. C'erano perfino una caffettiera e delle bustine di Hills Brothers e Mocha Mix, e Dan fece il caffè mentre Laura metteva a letto Melanie, che si addormentò immediatamente. Un tavolino e due sedie stavano accanto all'unica finestra della stanza, e Dan portò lì il caffè. Lui e Laura si sedettero quasi al buio, con un'unica lampadina accesa sopra la porta, le tendine semiaperte su un tratto del parcheggio battuto dalla pioggia, dove la luce azzurrognola dei lampioni disegnava strani motivi sui vetri, le cromature delle auto e sull'asfalto bagnato. Mentre Dan ascoltava con crescente stupore e inquietudine, lei finì di raccontargli la storia che aveva iniziato in macchina - la radio che levitava e sembrava trasmettere un avvertimento, il turbine pieno di fiori che aveva fatto irruzione dalla porta della cucina - ed era evidente che lei stessa aveva difficoltà a dar credito a questi eventi apparentemente soprannaturali pur avendovi assistito con i propri occhi. «Come te lo spieghi?» le chiese lui alla fine del racconto. «Speravo che potessi spiegarmelo tu.» Lui le raccontò di Joseph Scaldone ucciso in una stanza dove tutte le porte e le finestre erano chiuse dall'interno. «Considerando questa cosa impossibile in aggiunta a quello che mi hai appena raccontato di casa tua, mi sembra che non possiamo fare a meno di accettare l'idea che qui c'è qualcosa - un potere, una forza - che va al di là dell'esperienza umana. Ma
che cosa diavolo è?» «Vedi, ci ho pensato per tutta la sera e mi sembra che la cosa che possedeva la radio e che ha portato quei fiori nella cucina non è la stessa cosa che sta uccidendo. A conti fatti, per paurosa che fosse, la presenza nella mia cucina sostanzialmente non era minacciosa e, come ti ho detto, sembrava che ci mettesse in guardia.» «E così abbiamo spiriti buoni e spiriti cattivi», commentò Dan. «Credo che potremo chiamarli così.» «Fantasmi buoni e cattivi.» «Non credo ai fantasmi», disse lei. «Nemmeno io. Ma, in un modo o nell'altro, a quanto sembra tuo marito e Hoffritz sono entrati in contatto, e hanno liberato entità occulte, alcune delle quali sono letali e altre almeno tanto benevole da mettere in guardia contro le prime. E finché non mi verrà in mente qualcosa di meglio, be', a quanto sembra 'fantasmi' è il termine più adatto.» Rimasero in silenzio per un po'. Finirono il caffè. Ora la pioggia scrosciava. In fondo alla stanza, Melanie mormorò nel sonno, si agitò sotto le coperte, poi riprese a dormire tranquilla. Infine Laura riprese: «Fantasmi. È una cosa pazzesca». «Una follia.» Dan accese il lume sul tavolino. Da una tasca della giacca, estrasse il tabulato della lista degli indirizzi del Segno del Pentagramma. Lo aprì e glielo mise davanti. «A parte tuo marito, Hoffritz, Ernest Cooper e Ned Rink, c'è nessuno di questi nomi che ti sia familiare?» Dopo dieci minuti di attento esame lei indicò quattro nomi che conosceva. «Questo», disse. «Edwin Koliknikov. È professore di psicologia all'USC. Riceve spesso finanziamenti dal Pentagono per ricerche e ha aiutato Dylan a prendere contatto con il ministero della Difesa. Koliknikov è un comportamentista, specializzato in psicologia infantile.» Dan immaginò che si trattasse dell'«Eddie» che si trovava in casa di Regine a Hollywood e che, a quell'ora, l'aveva portata a Las Vegas. Lei proseguì. «Howard Renseveer. Rappresenta una certa fondazione con un mucchio di quattrini da spendere. Non so bene quale sia, ma sono certa che ha sostenuto alcune delle ricerche di Hoffritz e ha parlato più volte con Dylan di un finanziamento per il suo lavoro. Non lo conosco bene, ma l'ho sempre trovato molto sgradevole, un uomo presuntuoso e ar-
rogante.» Dan era sicuro che questo fosse l'«Howard» menzionato da Regine. «Anche questo», disse Laura, indicando un altro nome sull'elenco. «Sheldon Tolbeck. Gli amici lo chiamano Shelby. È un pezzo grosso, della psicologia e della neurologia, che ha compiuto delle ricerche molto importanti su varie forme di comportamento dissociato.» «Come quello di Melanie.» «Sì.» «Ho ragione di credere che questi tre uomini fossero tutti coinvolti con tuo marito e Hoffritz nelle ricerche in corso in quella stanza grigia.» «Di Koliknikov e Renseveer potrei crederci, ma di Sheldon Tolbeck no. La sua reputazione è impeccabile.» Guardò ancora la lista. «Eccone un altro. Albert Uhlander. È uno scrittore, autore di strani...» «Lo so. Quella scatola che ho portato dall'auto è piena di libri suoi.» «Lui e Dylan avevano una fitta corrispondenza.» «Su che cosa?» «Vari aspetti dell'occulto. Non saprei con precisione.» Altri nomi familiari non ne trovò, ma aveva identificato tutti i membri della cospirazione tranne l'uomo alto, distinto, con i capelli bianchi che Regine conosceva come «papà». Dan aveva il sospetto che «papà» fosse qualcosa di più di un sadico pervertito, che fosse qualcosa di più di un ennesimo membro del gruppo di ricerca di Dylan McCaffrey, che fosse la chiave di tutto, la figura centrale dietro il complotto. «Io credo», riprese Dan, «che questi uomini - Koliknikov, Renseveer, Tolbeck e Uhlander - moriranno tutti. Qualcosa sta uccidendo metodicamente chiunque sia coinvolto nel progetto di quella stanza grigia, quel qualcosa che abbiamo chiamato 'fantasma' in mancanza di un termine migliore. Qualcosa che loro, proprio loro, hanno scatenato e non possono più controllare. Se ho ragione, a questi quattro non resta più molto tempo.» «Allora dovremo avvertirli...» «Avvertirli? Sono i responsabili dello stato di Melanie.» «Eppure, per quanto vorrei vederli puniti...» «In ogni modo, credo che sappiano già che qualcosa è sulle loro tracce. Eddie Koliknikov è partito questa sera. Anche gli altri, probabilmente, stanno fuggendo, se non l'hanno già fatto.» Lei rimase per un momento in silenzio, poi: «E la cosa che gli dà la caccia, una volta raggiunti loro, cercherà anche Melanie». «Immagino di sì, se possiamo credere al messaggio arrivato dalla radio.»
«Possiamo crederci», annuì lei mestamente. Melanie riprese a mormorare e il mormorio si trasformò rapidamente in gemiti di paura. Mentre la bambina si agitava sotto le coperte, Laura si alzò e fece un passo verso il letto, ma si bloccò all'improvviso e si guardò attorno con un'espressione sgomenta. «Che cosa c'è?» chiese Dan. «L'aria», rispose lei. Lui lo sentì subito. L'aria si stava raffreddando. 31 L'aereo atterrò a Las Vegas prima di mezzanotte e Regine ed Eddie andarono direttamente al Desert Inn, dove avevano prenotato una camera. Per l'una si erano registrati e avevano disfatto le valigie. Regine era già stata due volte a Las Vegas con Eddie. Si erano sempre registrati sotto il nome di lei, che quindi non aveva mai potuto sapere quale fosse il cognome dell'uomo. Una cosa che aveva imparato, però, era che qualcosa in Las Vegas funzionava come stimolante per Eddie; forse le luci e l'eccitazione, forse la vista, l'odore, il rumore del denaro, quale che fosse il motivo, il suo appetito sessuale era assai più forte a Las Vegas che a Los Angeles. Perciò, quando si furono sistemati nella loro camera al Desert Inn, si aspettava che le saltasse subito addosso, ma quella sera lui non era interessato. Era stato agitatissimo fin da quando, qualche ora prima, era comparso a casa sua; si era un po' rilassato quando l'aereo aveva decollato da Los Angeles, ma quello stato di relativa calma era durato poco. In quel momento sembrava quasi frenetico. Regine sapeva che stava fuggendo da qualcuno, da chi aveva ucciso gli altri. Ma la profondità e la tenacia della sua paura la sorpresero. Per come lo conosceva lei, lui era sempre freddo, distaccato, superiore. Non pensava che fosse soggetto alle emozioni più forti come la gioia e il terrore. Se Eddie aveva paura, allora la minaccia doveva essere qualcosa di maledettamente speciale, di veramente orrendo. Ma non aveva importanza. Lei non aveva paura. Anche se qualcuno avesse saputo che Eddie era andato a nascondersi a Las Vegas, anche se qualcuno fosse arrivato fino lì, anche se fosse stata anche lei in pericolo
perché era con lui, non avrebbe avuto paura. Era stata liberata da ogni paura. L'aveva liberata Willy. Eddie, però, non era stato liberato, e aveva tanta paura che non volle neppure dormire. Preferì andare di sotto, al casinò, a giocare per un po', ma - e questo era insolito - volle che lei lo accompagnasse. Non voleva essere solo tra estranei, neppure in un luogo affollato come un casinò. Indirettamente, le stava chiedendo un sostegno, morale ed emotivo, qualcosa che né lui né nessun altro dei suoi amici aveva mai desiderato da lei, qualcosa che lei d'altra parte non era in grado di fornire, almeno da quando Willy l'aveva cambiata. Anzi, Regine poteva sentirsi in rapporto con Eddie solo quando lui la usava, solo quando era dominante e aggressivo, ed era disgustata e inorridita dalla sua espressione di debolezza, di bisogno. Ciononostante, all'una e un quarto scese nella sala da gioco con lui. Lui desiderava la sua compagnia, e lei offriva sempre quanto le si chiedeva. Il casinò era relativamente pieno, ma entro mezz'ora sarebbe stato gremito, dopo la fine dello spettacolo di mezzanotte. Al momento, c'erano centinaia di persone davanti alle slot machines lampeggianti e ai tavoli semiellittici da black-jack o attorno ai tavoli dei dadi: ogni genere di persone, ogni genere di abbigliamento, dall'abito da sera ai jeans. Seguendo Eddie che si muoveva irrequieto nella sala fra il pubblico variegato dei giocatori, passando da un tavolo all'altro, ma senza puntare a nessun gioco, Regine sentì che reagiva all'animazione di Las Vegas in un modo insolito per lei. Il polso accelerato, un'improvvisa scarica di adrenalina, uno strano crepitio elettrico di eccitazione che le faceva formicolare la pelle: tutto la spingeva a credere che stesse per accadere qualcosa di grosso. Non sapeva che cosa sarebbe stato, ma era certa che qualcosa stava per succedere. Lo sentiva. Forse avrebbe fatto una vincita clamorosa. Forse era questo che intendeva la gente quando diceva di «sentire» la fortuna. Lei, fino ad allora, non aveva mai sentito la fortuna. Non aveva mai avuto fortuna. Forse non l'avrebbe avuta nemmeno quella notte, ma sentiva che qualcosa stava per accadere. Qualcosa di grosso. E ben presto. La temperatura nella stanza del motel si era abbassata. Benché apparentemente ancora addormentata, Melanie si agitò scalciando sotto le coperte. Annaspò e gemette sommessamente mormorando: «La... porta... la porta...» La bambina sembrava presentire l'arrivo di qualcosa. «... tenetela chiusa!»
L'aria si fece ancora più fredda. A bassa voce ma con ansia: «Non... non... non lasciatelo uscire!» La piccola si agitava, annaspava, rabbrividiva violentemente, ma non si svegliava. Schiacciata da una sensazione di assoluta impotenza, Laura si guardò attorno nella stanza, chiedendosi quale oggetto inanimato, come la radio nella cucina, potesse improvvisamente prendere vita. O qualcosa si sarebbe precipitato dentro dalla porta? Dan Haldane aveva estratto il revolver. Laura si girò, aspettandosi che la finestra esplodesse, che la porta si schiantasse in mille pezzi, che le sedie o il televisore fossero presi improvvisamente da una maligna vitalità. Dan si mosse verso la porta, come prevedendo qualcosa da quella parte. Ma poi, improvvisamente come era iniziata, la cosa cessò. L'aria tornò tiepida. Melanie smise di lamentarsi e di annaspare, smise di parlare. Rimase immobile, totalmente inerte nel letto, con un respiro insolitamente lento e profondo. «Che cos'è successo?» chiese Dan. «Non lo so», rispose Laura. La temperatura nella stanza era tornata normale. «È finita?» chiese ancora Dan. «Non lo so.» Melanie era di un pallore mortale. Poiché l'abito che indossava le lasciava le spalle scoperte, Regine avvertì il mutamento nell'aria prima di Eddie. Si erano fermati davanti a un tavolo di dadi, a guardare il gioco, ed Eddie stava decidendo se fare una puntata. C'era gente assiepata da tutte le parti e nel casinò faceva caldo, così caldo che Regine desiderò qualcosa con cui sventolarsi. Poi, d'un tratto, l'atmosfera cambiò. Regine rabbrividì e vide che aveva la pelle d'oca sulle braccia. Per un attimo pensò che fosse una reazione dell'aria condizionata al calore eccessivo, ma poi si rese conto che la temperatura era scesa troppo e troppo rapidamente. Altre due donne al tavolo notarono il cambiamento e poi se ne accorse anche Eddie; l'effetto su di lui fu stupefacente. Diede le spalle al tavolo dei dadi, stringendosi fra le braccia, tremando, con un'espressione di orrore. La sua pelle si era fatta bianca come l'alabastro, gli occhi erano vitrei. Guardò freneticamente a destra e a sinistra, poi si fece largo tra la folla che si era
formata attorno al tavolo, allontanandosi da Regine, con movimenti rigidi, disperati. «Eddie?» lo chiamò lei. Lui non si volse. «Eddie!» Ora il freddo era pungente, almeno nelle immediate vicinanze dei tavoli dei dadi, e la gente commentava questo improvviso e inesplicabile calo di temperatura. Regine si fece largo tra la folla seguendo Eddie. Lui aveva raggiunto una zona vuota nel corridoio principale fra i tavoli. Girava su se stesso, con le braccia alzate, come aspettandosi un attacco. Ma non c'era alcun aggressore e Regine si chiese se gli fosse saltata una rotella. Mentre continuava ad avanzare verso di lui, si accorse che una guardia di sicurezza aveva notato lo strano comportamento di Eddie e si stava avvicinando. Chiamò di nuovo Eddie ma lui, anche se l'aveva sentita, non ebbe modo di rispondere, perché in quel momento ricevette un colpo così forte che barcollò da un lato, urtò contro un gruppo di persone che veniva dai tavoli del blackjack e cadde in ginocchio. Ma chi lo aveva colpito? In quel breve momento si era trovato nel centro di una zona libera, fra due fiumi di persone. Nessuno gli si era avvicinato a più di due o tre metri. Ma era stato colpito; impossibile negarlo; aveva i capelli scarmigliati e il viso coperto di sangue. Dio, quanto sangue. Si mise a urlare. Il chiasso del casinò - le grida di gioia dei vincitori, le litanie dei croupier, il fruscio delle carte mescolate, il picchiettare dei dadi, il ticchettio della ruota della fortuna, il rotolio della pallina della roulette, le risate, i gemiti di rabbia alla carta perdente, lo scampanellare delle slot machine che pagavano, la musica del complessino che suonava nella sala - fu tutto ridotto al silenzio quando Eddie cominciò a urlare. Le sue grida penetravano nelle ossa come gli ululati di una creatura in un incubo. Da sole, sarebbero bastate a richiamare l'attenzione di tutti, ma sembrava che invisibili amplificatori le diffondessero, le replicassero, ne raddoppiassero e triplicassero il volume. Era come se una presenza invisibile e mostruosa lo schernisse ripetendo le sue urla a un livello ancora più isterico. Ogni conversazione cessò e poi ogni gioco e perfino l'orchestra smise di suonare, e l'unico suono, oltre alle torturate articolazioni di orrore e terrore di Eddie, fu il tintinnio di una slot machine in un angolo lontano della vasta sala.
La gente si tirò indietro, lasciando a Eddie ancora più spazio e anche Regine si fermò quando lo ebbe visto meglio. L'orecchio destro gli pendeva lacerato, grondante sangue. Tutto quel lato del suo viso era scorticato e sanguinante. Sembrava che qualcuno l'avesse colpito con una mazza, qualcuno straordinariamente forte e infuriato, ma non aveva perso i sensi. Sputò sangue e un paio di denti spezzati, fece per alzarsi e fu colpito di nuovo, così forte che l'urlo gli si troncò in gola. Fu sollevato da terra e scaraventato fra un gruppo che lo guardava da uno dei tavoli dei dadi. La gente si disperse e quel breve silenzio innaturale fu spezzato dalle loro grida, e perfino la guardia di sicurezza si arrestò, paralizzata dallo sconcerto e dalla paura. Eddie crollò in un ammasso sanguinolento, ma, dopo un attimo, schizzò di nuovo in piedi. Fu fatto schizzare in piedi, anzi, come un fantoccio manovrato da un misterioso burattinaio. Fece alcuni passi saltellanti allontanandosi dal tavolo dei dadi, si contorse, ruotò, incespicò, barcollò di fianco, saltò, si scosse, come se dei fulmini potentissimi stessero colpendo l'invisibile manovratore là in alto, passando quindi attraverso i fili in questo burattino insanguinato, scrollandolo spasmodicamente. Regine si tirò indietro quando Eddie le passò accanto. Agitava le braccia come se i fili di comando si fossero aggrovigliati, con l'occhio destro chiuso e contuso, il sinistro in frenetica ricerca del suo infuriato, immateriale aggressore. Si abbattè contro gli sgabelli vuoti di un tavolo da blackjack, rovesciandone uno, e il croupier, che lo stava fissando paralizzato dallo stupore, sgusciò via. Eddie si abbrancò al tavolo cercando di resistere alla forza sconosciuta che lo trascinava. Ma quella era molto più potente di lui e lo sollevò dal pavimento. Rimase sospeso sopra il tavolo, scalciando e divincolandosi nel vuoto, mentre la folla lo osservava attonita e impotente. Improvvisamente Eddie fu scagliato giù, sul piano del tavolo da blackjack, facendo schizzare in giro carte, fiches e bicchieri semivuoti abbandonati dai giocatori che un attimo prima si erano allontanati fuggendo da lui. Fu ripreso e scaraventato di nuovo sul tavolo, questa volta con tanta forza che il tavolo si schiantò sotto di lui, con tanta forza che la spina dorsale gli si spezzò. Ma la tortura non era finita. Fu tirato in piedi ancora una volta e gettato a capofitto lungo il corridoio fra i tavoli dei dadi e quelli del blackjack, verso la foresta di luccicanti slot machine. I suoi abiti erano a brandelli e insanguinati. Non era più cosciente, forse era morto; certo niente di più di un
sacco afflosciato di ossa rotte e carne lacerata, animato in modo soprannaturale. Sulla curiosità morbosa della folla ebbe il sopravvento il terrore; uomini e donne cominciarono a fuggire, a spinte e gomitate, qualcuno diretto alle porte anteriori, altri verso il teatro o il bar o verso le scale, dovunque purché lontano da quell'incubo di sangue e di morte. Stordita, presa da un'oscura eccitazione, indefinibile, ma non per questo meno potente, Regine seguiva Eddie nel suo macabro pellegrinaggio verso le file di slot machine. Si teneva a cinque metri di distanza, e avvertì la presenza delle guardie di sicurezza del casinò che la seguivano. Una di loro disse: «Signora, si fermi. Si fermi dov'è!» Lei si girò a guardare i tre robusti uomini in uniforme. Impugnavano le pistole. Erano tutti e tre pallidi e sbigottiti. «Si tolga di lì», le intimò uno di loro, mentre un altro le puntava contro un revolver. Si rese conto che dovevano crederla in qualche modo responsabile delle cose incredibili che erano accadute a Eddie. Ma che cosa credevano, esattamente? Che lei fosse dotata di poteri psichici e che ora fosse preda di una crisi di mania omicida? Si fermò come le avevano detto, ma si girò di nuovo verso Eddie, che ora era a soli tre metri dalle slot machine. Le venti macchine immediatamente di fronte a Eddie, un'intera fila, si attivarono come per magia. Venti sedie di cilindri si misero a ruotare contemporaneamente; nelle finestrelle una confusa processione di ciliegie, campane, limoni e altri simboli si muoveva così rapida da fonderli tutti insieme in informi fasce di colore. I cilindri girarono per qualche secondo, poi si fermarono tutti simultaneamente e, in ogni finestrella di ogni macchina, comparve il disegno del limone. Eddie si scagliò in avanti, abbassando la testa, o meglio, la cosa invisibile gliel'abbassò, e piombò in una lucida slot machine, centrandola con il cranio con una violenza da spaccare le ossa. Crollò a terra, ma fu rialzato all'istante, trascinato all'indietro, poi gettato in avanti una seconda volta, fino a sbattere di nuovo brutalmente sulla macchina. Crollò. Fu raccolto. Tirato indietro. Scagliato in avanti. Questa volta colpì la macchina con tanta forza da spaccarne la finestra di plexiglas e da scardinarla dal pavimento. Il corpo cadde a terra e rimase immobile. L'aria continuò a essere gelida per un momento.
Regine si abbracciò. Aveva la sensazione che qualcosa la osservasse. Poi l'aria tornò tiepida e Regine sentì che la cosa, quella cosa, era andata via. Guardò Eddie. Era in uno stato irriconoscibile. Nel suo cuore Regine provò una briciola di pietà per lui, ma soprattutto stava pensando a come doveva essere stata la sua morte, a come doveva essere stato vivere quegli ultimi brutali minuti di sofferenza di intensità inimmaginabile, di sofferenza totale, di sofferenza atroce e dolcemente appagante. Melanie aveva riposato tranquilla per qualche minuto, tanto da convincere Laura che il peggio era passato e da far mettere via il revoler a Dan Haldane. Ma, proprio mentre tornavano al tavolino accanto alla finestra, la bambina riprese ad agitarsi e a gemere e la stanza si fece di nuovo fredda. Il cuore di Laura si mise a galoppare. Ritornarono accanto al letto. I lineamenti di Melanie erano distorti in maniera grottesca - non dal dolore, sembrava, ma dall'orrore. In quel momento, non sembrava neppure una bambina. Sembrava... non esattamente vecchia, ma avvizzita, in possesso di una qualche orribile conoscenza al di là dei suoi anni, una conoscenza che dava ansia e angoscia, una conoscenza di cose oscure che era meglio lasciare ignote. «Quello» era in arrivo o era già presente. Laura avvertì una forza malevola calare su di loro. I peli sottili sulle braccia e lungo la nuca le si rizzarono, e non fu solo il freddo a farla rabbrividire. «Quello.» Laura si guardò in giro disperatamente. Ma non si vedeva nessuna creatura demoniaca, nessuna forma infernale. Fatti vedere, maledetto, pensò irata. Chiunque tu sia, qualunque cosa tu sia, qualunque sia la tua provenienza, dacci qualcosa da fissare, qualcosa da colpire. Ma quello rimaneva al di fuori della portata dei suoi sensi, e l'unica cosa che la creatura mostrava di sé era il gelo di cui si ammantava. La temperatura dell'aria scendeva a velocità incredibile, finché fu visibile il vapore bianco del loro alito, finché le finestre e lo specchio si appannarono, finché l'umidità condensata si cristallizzò in brina, poi in ghiaccio. Ma dopo non più di trenta o quaranta secondi l'aria riprese calore, e la bambina smise di gemere, e ancora una volta il nemico invisibile scomparve senza farle del male. Melanie spalancò gli occhi, ma sembrava stesse fissando ancora qualco-
sa in un sogno. «Li prenderà.» Dan Haldane si chinò su di lei. «Che cosa, Melanie?» «Quello. Li prenderà», ripetè la bambina, non a lui, ma a se stessa. «Che cos'è questa dannata cosa?» chiese Dan. «Li prenderà», ripetè ancora lei, e rabbrividì. «Sta' calma, tesoro», disse Laura. «E poi», riprese Melanie, «prenderà anche me.» «No», mormorò Laura. «Baderemo noi a te, Mellie. Te lo giuro.» «Verrà... da... dentro... e mi mangerà... mi mangerà tutta...» «No», ripetè Laura. «No.» «Da dentro?» disse Dan. «Da dentro che cosa?» «Mi mangerà tutta», mormorò ancora la bambina desolatamente. «Da dove viene?» insistè Dan. La bambina emise un lungo guaito tremolante che sembrava più un sospiro di rassegnazione che un'espressione di paura. «C'era qualcosa qui un momento fa, Melanie?» riprese Dan. «La cosa che ti fa tanta paura... era in questa stanza?» «Vuole me», disse la bambina. «Se vuole te, perché non ti ha preso quando era qui?» La bambina non lo udiva. Con voce bassa, roca, mormorò: «La porta...» «Quale porta?» «La porta di dicembre.» «Che cosa significa, Melanie.» «La porta...» Chiuse gli occhi e il suo respirò mutò; dormiva. Guardando Dan, al di là del letto, Laura disse: «Vuole prima gli altri, le persone coinvolte negli esperimenti in quella stanza grigia». «Eddie Koliknikov, Howard Renseveer, Sheldon Tolbeck, Albert Uhlander, e forse altri che non conosciamo ancora.» «Sì. Appena saranno tutti morti, allora quello... Quello verrà a prendere Melanie. È questo quello che ha detto ieri sera, a casa, dopo che la radio era stata... posseduta.» «Ma lei come fa a saperlo?» Laura si strinse nelle spalle. Rimasero a fissare la bambina assopita. Dan fu il primo a interrompere il silenzio. «Dobbiamo spezzare questo stato di trance, così che possa dirci quello che sa, quello che dobbiamo sapere anche noi.» «Ci ho provato. Con la tecnica della regressione ipnotica. Ma non ha a-
vuto un gran successo.» «Puoi provare di nuovo?» Laura annuì. «Domani mattina, quando avrà riposato un poco.» «Non dovremmo perdere tempo...» «Ha bisogno di riposare.» «Va bene», annuì lui, riluttante. Laura sapeva che cosa stava pensando Dan: se dobbiamo aspettare fino a domani mattina, speriamo che non sia troppo tardi. " 32 Laura dormì con Melanie in uno dei due spaziosi letti, mentre Dan si sdraiò su quello più vicino alla porta. Si era tolto solo la giacca: era pronto a entrare subito in azione. Con una lampada accesa - dopo gli eventi della giornata appena passata non si fidavano di rimanere al buio - Dan ascoltava il loro respiro profondo e regolare. Non riusciva a dormire. Pensava al corpo orrendamente maciullato di Scaldone, a tutti quei morti nella casa di Studio City, a Regine Savannah Hoffritz, viva di corpo e di mente, ma con l'anima assassinata. E come sempre, quando pensava troppo a lungo all'omicidio nelle sue innumerevoli forme, i suoi pensieri lo portarono inesorabilmente al fratello e alla sorella morti. Non li aveva mai conosciuti. Non da vivi. Erano già morti quando lui ne aveva appreso i nomi e si era messo alla loro ricerca. Quanto al suo nome, né Dan né Haldane erano quelli veri. Pete e Elsie lo avevano adottato quando aveva meno di un mese. I suoi veri genitori si chiamavano Loretta e Frank Detwiler, due dell'Oklahoma che erano andati in California in cerca di fortuna, ma non l'avevano trovata. Invece, durante la terza gravidanza di Loretta, Frank era rimasto ucciso in un incidente stradale e Loretta, che stava avendo una gestazione molto difficile, era morta due giorni dopo aver dato alla luce Dan. Il nome che gli aveva dato era James. James Detwiler. Ma non essendoci parenti che si prendessero cura dei tre bambini Detwiler erano stati separati e dati in adozione. Peter ed Elsie Haldane non avevano mai nascosto a Dan il fatto che non fossero loro i veri genitori; dei quali essi stessi ignoravano tutto - come volevano le leggi del tempo sull'adozione - tranne il fatto che erano entrambi morti. Con il passare del tempo crebbe in Dan il desiderio di sapere qual-
cosa di più della sua famiglia d'origine. Quando fu maggiorenne, dopo una lunga battaglia burocratica, Dan riuscì a venire a conoscenza del proprio nome vero, di quello dei suoi genitori naturali e del fatto sorprendente che aveva un fratello e una sorella. Il fratello, Delmar, aveva quattro anni quando Loretta Detwiler era morta e la sorella, Carrie, sei. Quando la nuova ricerca - a cui si dedicò con impegno ancora maggiore, con l'ansia di poter abbracciare i suoi consanguinei - ebbe termine, Dan desiderò mille volte non averla mai iniziata. Risalendo negli anni trovò per primo Delmar, suo fratello. O meglio: trovò la tomba di Delmar. Sopra, non c'era scritto né Delmar né Detwiler ma Rudy Kessman. Era il nome che gli avevano dato i suoi genitori adottivi. Delmar, che aveva quattro anni alla morte della madre, aveva trovato subito una sistemazione presso una giovane coppia - Perry e Janette Kessman - di Fullerton, in California. Ma l'agenzia che si era occupata dell'adozione non aveva svolto delle indagini abbastanza approfondite e non aveva scoperto la passione del signor Kessman per le esperienze nuove, pericolose e, talvolta, perfino illegali. Il suo entusiasmo per la velocità - era un appassionato di moto - per i culti più stravaganti e per le droghe di ogni tipo, avrebbero potuto costituire un segnale d'allarme, ma nessuno previde il tragico epilogo. Una notte, allucinato, in uno stato di paranoia schizofrenica provocato dalle droghe, o forse per fare un'offerta cruenta a qualche nuovo dio, Perry Kessman aveva tolto la vita alla moglie, al figlio adottivo e infine a se stesso. Rudy Kessman - Delmar Detwiler - aveva sette anni quando era stato ucciso. Aveva vissuto meno da Kessman che da Detwiler. Ora, sdraiato sul letto del motel con la luce fioca che schiariva appena l'oscurità e avvolgeva in onde misteriose ogni oggetto familiare, Dan non aveva neppure da chiudere gli occhi per vedere il cimitero nel quale aveva, infine, trovato suo fratello. Ricordava perfettamente quella mite giornata di ottobre: la dolcezza della brezza, l'ombra delle betulle e dei lauri, il verde dell'erba, le pietre di granito tutte uguali. Ma soprattutto ricordava quel che aveva sentito quando era caduto in ginocchio e aveva posato una mano sulla targhetta di rame che segnava il luogo dove riposava il fratello sconosciuto: un sentimento penetrante, lacerante, di perdita, un sentimento che gli toglieva il respiro. Benché fossero passati tanti anni, benché da tempo si fosse rassegnato a
non poter mai più conoscere il fratello, Dan sentì improvvisamente la bocca farsi secca e un nodo serrargli la gola. Avrebbe potuto piangere silenziosamente, come aveva fatto tante altre notti quando la memoria aveva compiuto lo stesso tragitto, ed era così stanco che le lacrime quella notte sarebbero arrivate con facilità, ma Melanie mormorò e mandò un piccolo verso di paura nel sonno e quel verso lo fece scattare immediatamente fuori dal letto. La bambina si agitava sotto le coperte, ma non come prima, non con la stessa vitalità; gemeva di terrore, ma sommessamente, non tanto forte da svegliare la madre. Melanie si dibatteva come respingendo un aggressore, ma sembrava che le forze non le fossero sufficienti a resistere. Dan si domandò quale mostro da incubo la insidiasse. A un tratto nella stanza fece freddo, e lui capì che forse il mostro non la stava insidiando in un incubo, ma nella realtà. Tornò in fretta al suo letto e prese la pistola appoggiata sul comodino. L'aria era gelida, sempre più gelida. I due uomini sedevano a un tavolo vicino al finestrone, giocando a carte, bevendo scotch e latte e fingendo di non essere altro che due che se la spassavano. Il vento notturno fischiava nelle grondaie della capanna. Fuori la giornata era fredda e ventosa, una tipica giornata di febbraio in montagna, ma quella notte non sarebbe nevicato. La luna spiccava sul cielo punteggiato di stelle, gettando una luminosità perlacea sui pini e gli abeti ammantati di neve e sul pascolo montano imbiancato. Le strade affollate e le vivide luci di Los Angeles erano lontanissime. Sheldon Tolbeck era fuggito da Los Angeles con Howard Renseveer, nella speranza disperata che la lontananza potesse garantirgli la sicurezza. Non avevano detto a nessuno dove erano diretti, nella speranza altrettanto disperata che la cosa omicida non sarebbe stata in grado di seguirli in un posto che non conosceva. Nel pomeriggio del giorno prima si erano diretti a nord e poi a nordest, nelle Sierras, fino a uno chalet presso Mammoth, dove si erano sistemati poche ore prima. Il posto era del fratello di Howard, ma lui non l'aveva mai usato e difficilmente si sarebbe potuto pensare di trovarlo lì. Ci troverà comunque, pensò Tolbeck angosciato. In qualche modo ci stanerà. Non espresse il suo pensiero perché non voleva provocare le ire dell'a-
mico. Howard, con ancora qualcosa di infantile a quarant'anni, era un tipo espansivo, convinto, fino a poco prima, che sarebbe vissuto in eterno. Howard faceva jogging; Howard badava a non consumare troppi grassi o zucchero raffinato; Howard faceva meditazione per mezz'ora al giorno; Howard si aspettava sempre il meglio dalla vita e la vita solitamente lo accontentava. E Howard era ottimista sulle loro probabilità. Era - o diceva di essere - assolutamente convinto che la creatura che temevano non era in grado di arrivare fin lì e non avrebbe potuto seguirli se loro avessero fatto attenzione a coprire le tracce. Ma Tolbeck non poté fare a meno di notare che Howard guardava con ansia la finestra ogni volta che una raffica di vento alzava una protesta più alta nelle grondaie, che sobbalzava quando i tronchi nel caminetto scoppiettavano. Comunque, il fatto stesso che fossero svegli a quell'ora di notte era sufficiente a smentire il presunto ottimismo di Howard. Tolbeck si stava versando altro scotch e latte e Howard Renseveer stava mischiando le carte quando la stanza si fece fredda. Guardarono entrambi il camino, ma le fiamme erano ancora alte. Né una porta né una finestra si erano aperte e in un attimo fu spaventosamente chiaro che il gelo che sentivano non era solo uno spiffero vagante, perché l'aria si faceva sempre più fredda. Era arrivato. Un avvento miracoloso, malevolo. Un momento prima non c'era e ora era in mezzo a loro, demoniaco e letale coagulo di energia psichica. Tolbeck si alzò. Howard Renseveer balzò su così di scatto che rovesciò lo scotch e il latte, poi la sedia, e lasciò cadere il mazzo di carte. L'interno della capanna era diventato una ghiacciaia, benché il fuoco continuasse ad ardere indisturbato. Il tappeto rotondo che stava sul pavimento fra i due divani si sollevò in aria e rimase sospeso, rigido, a un paio di metri di altezza. Si mise a ruotare su se stesso, sempre più veloce, come un gigantesco disco su un piatto invisibile. Con febbrili pensieri di fuga che gli parvero insensati già mentre gli si presentavano alla mente, Tolbeck arretrò verso la porta posteriore della capanna. Renseveer rimase accanto alla tavola, pietrificato dalla vista del tappeto ruotante, incapace di muoversi. Di botto, il tappeto ricadde in un mucchio senza vita. Uno dei divani fu
scagliato attraverso la stanza con tale forza che abbattè un tavolino con su una lampada, si spaccò due gambe e fracassò un portariviste, facendo disperdere i giornali sul pavimento, come uccelli incapaci di prendere il volo. Tolbeck era passato dal soggiorno della baita alla cucina, che faceva in realtà parte dell'unico locale che costituiva il pianterreno della costruzione, e aveva quasi raggiunto la porta posteriore. Cominciava a pensare che forse ce l'avrebbe fatta. Non osando dare le spalle all'invisibile ma innegabile entità presente nella zona del soggiorno, tese un braccio dietro di sé, tastando l'aria con la mano in cerca della maniglia. Attorno a Renseveer, le carte da gioco cadute si risollevarono da terra mosse da una forza magica e minacciosa. Gli turbinarono attorno come foglie prese in un mulinello d'aria, urtandosi e stropicciandosi rumorosamente nella loro danza vorticosa. Qualcosa nel rumore fece venire in mente a Tolbeck dei piccoli coltelli che si affilano. Nel momento in cui quest'immagine inquietante lo raggiunse, vide che Howard Renseveer, che agitava freneticamente le braccia contro quella tempesta di rettangoli plastificati, sanguinava da tutt'e due le mani ed era pieno di piccole ferite su tutta la testa e il viso. Annaspando alla cieca dietro di sé, Tolbeck trovò la maniglia. Non girava. Era bloccata. Avrebbe potuto voltarsi, trovare il pulsante di scatto che la liberava e lanciarsi fuori della baita in un attimo, ma era come ipnotizzato dallo spettacolo che si svolgeva nel soggiorno. La paura lo rendeva frenetico ma al tempo stesso lo paralizzava, lo riempiva del desiderio di fuggire di lì ma contemporaneamente gli intorpidiva la mente e le gambe. Le carte crollarono a terra come prima aveva fatto il tappeto. Le mani di Renseveer sembravano due guanti rossi. Le carte non avevano ancora finito di cadere che il parafuoco fu scaraventato lontano dal camino, e un ceppo in fiamme eruppe dal focolare, attraversò come un lampo la stanza e si abbattè su Renseveer, troppo stordito per tentare di scansarlo. Quando il ceppo colpì Renseveer al ventre, si dissolse parzialmente in cenere e carbone sbriciolato, ma la parte non consumata, la parte interna del legno, era dura e frastagliata, una rozza lancia particolarmente sadica che gli bucò lo stomaco con una pugnalata brutale, non solo troncando vasi sanguigni e lacerando organi nella sua corsa, ma anche portando il fuoco in profondità dentro di lui. Quella visione grottesca e raggelante bastò a curare la paralisi che aveva bloccato Tolbeck davanti alla porta per lunghi, preziosi secondi. Trovò la
serratura, girò la maniglia, spalancò la porta, e uscì nella notte, nel vento e nel buio, correndo a perdifiato. Nella camera del motel, la temperatura dell'aria era risalita con la stessa velocità con cui era calata. L'atmosfera era di nuovo tiepida. Dan Haldane si chiese che cosa fosse successo - o quasi successo - che cosa significava il mutamento di temperatura? Era stata forse lì qualche occulta presenza, per pochi secondi? E, se sì, perché era venuta se non per aggredire Melanie? Che cosa l'aveva spinta ad andarsene? Melanie, che sembrava aver avvertito l'allontanamento della minaccia, se ne stava ferma e tranquilla sotto le coperte. Accanto al letto, Dan Haldane studiò la gracile bambina e per la prima volta si rese conto che crescendo sarebbe stata bella come sua madre. Il pensiero gli fece spostare lo sguardo su Laura, profondamente addormentata accanto alla figlia. Nel sonno, il suo viso gli ricordava il volto di una Madonna rinascimentale. Sentì l'impulso di passarle le dita fra i capelli sparsi sul cuscino, che sembravano filati dalla luce rosso dorata di un tramonto autunnale. Ritornò al suo letto. Si distese supino, guardando il soffitto. Pensò a Cindy Lakey. Morta per mano dell'uomo di sua madre, impazzito per la gelosia. Pensò a suo fratello Delmar. Morto per mano del padre adottivo, drogato, allucinato. Pensò, naturalmente, anche a sua sorella. Era un'inevitabile catena di ricordi, la stessa di tutte le notti in cui gli riusciva difficile addormentarsi: Cindy Lakey, Delmar, Carrie. Dan era riuscito finalmente a ritrovare la sorella da cui era stato separato quando lui aveva un mese e lei sei anni. Quando l'aveva rintracciata, anche lei, come Delmar, era in un cimitero. La sistemazione di Carrie presso genitori adottivi era stata molto difficile. Seienne quando era morta la madre, l'esperienza le aveva provocato gravi danni emotivi e psicologici. Continuava a passare dall'orfanotrofio a una nuova famiglia e viceversa; in seguito cominciò a fuggire dalle case che la ospitavano. A diciassette anni aveva ormai imparato a sfuggire a quelli che la cercavano e a mantenersi da sola: come miglior modo di mantenersi scelse la prostituzione, o meglio, fu la prostituzione a scegliere lei, dato che lei di possibilità di scelta ne aveva avute ben poche. Era ventottenne, una squillo di lusso, quando la sua breve vita infelice ebbe fine. Uno dei suoi clienti chiedeva qualcosa di più stravagante di
quanto lei fosse disposta a fornire, e la discussione degenerò. Fu uccisa cinque settimane prima che Dan la localizzasse, e quando lui le fece visita lei era da un mese sotto terra. In parte, Dan si sentiva responsabile della morte di Carrie. Avrebbe dovuto impegnarsi di più a rintracciarla. Avrebbe dovuto trovarla prima, in tempo per salvarla. Ma al tempo stesso sapeva anche che non meritava queste accuse. Anche se l'avesse localizzata prima, niente di quanto avrebbe potuto dirle o fare l'avrebbe convinta a rinunciare alla sua vita di prostituta; niente l'avrebbe tenuta lontano dall'appuntamento con quel cliente omicida. Il senso di colpa che lo attanagliava non era giustificato; era, piuttosto, un'ennesima manifestazione del suo complesso di Atlante: la tendenza a prendersi il ' mondo sulle spalle. Delmar, Carrie, Cindy Lakey. Se non fosse riuscito a salvare le McCaffrey, i loro nomi si sarebbero aggiunti a questo elenco, allungando la processione notturna dei ricordi indesiderati. E allora la vita gli sarebbe stata insopportabile. Sapeva di essere solo un poliziotto, solo un uomo come tanti altri, non Atlante, non un cavaliere dall'armatura luccicante, ma dentro di sé, nel profondo, una parte di lui voleva essere quel cavaliere; ed era quella parte - il sognatore, il nobile folle a rendere vivibile la vita. Se quella parte di lui si fosse spenta, non sapeva immaginare come sarebbe andato avanti. Perciò doveva proteggere Laura e Melanie come se appartenessero a lui. Se le avesse lasciate morire, sarebbe morto anche lui, almeno emotivamente e psicologicamente. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... la progressione continuò il suo percorso circolare finché Dan si addormentò con il respiro regolare di Melanie e di Laura sullo sfondo, come il lieve sussurro di un mare lontano. Sheldon Tolbeck corse nella notte, sul prato bianco, fra la neve che in qualche punto gli arrivava al ginocchio. Fuggiva dalla baita nel freddo e nel biancore congelato della luna, sollevando spruzzi di neve e nuvole dal vapore condensato del suo respiro. Dalla capanna giungevano le urla di Renseveer, nitidissime nell'aria tagliente, rimbalzando sulle pareti di qualche valle lontana. Le urla alimentavano la paura di Tolbeck, che correva come se avesse alle calcagna i cani dell'inferno. Aveva gli stivali ma era senza giacca e sulle prime il freddo penetrante era stato doloroso. Ma poi, continuando nella corsa pazza verso l'estremità
del pascolo, il vento si era trasformato in mille aghi, mille aghi che iniettavano ciascuno una dose di potente anestetico. A cinquanta o sessanta metri dalla capanna, faccia e mani avevano quasi perso la sensibilità. L'aria tagliente penetrava nella camicia di flanella e nei jeans e a cento metri tutto il corpo sembrava sotto l'effetto della novocaina. Sapeva che questa misericordiosa mancanza di sensibilità non sarebbe durata più di un paio di minuti; ben presto il dolore sarebbe ritornato, e il granchio del freddo avrebbe ripreso a muoversi lungo le sue ossa scavandogli il midollo con le sue gelide pinze. Senza saper bene dove andasse, spinto non dalla ragione ma dal terrore, si gettò contro un mucchio di neve accumulato al limite del prato e si ritrovò nel bosco. Sopra di lui incombevano massicci pini e abeti di ogni genere, e la luce fosforescente della luna raggiungeva il fondo della foresta solo attraverso pochi varchi sparsi tra gli alberi fitti e giganteschi. Tolbeck avanzava barcollando, con le braccia tese. Urtava contro i tronchi. Inciampava sulle rocce e le radici scoperte. Cadeva, si rialzava, proseguiva. I suoi occhi si stavano abituando all'oscurità ma lentamente, e benché riuscisse a vedere ben poco di quanto aveva davanti, si muoveva a passo veloce, quasi di corsa. Ora che le urla di Renseveer erano cessate, la preda era lui. Inciampò e cadde dolorosamente sulle ginocchia. Si rialzò. Riprese ad avanzare. Si impigliò graffiandosi in un cespuglio gelato. Riprese ad avanzare. Finì contro il ramo basso di un pino che gli lacerò il cuoio capelluto e il sangue che gli colò lungo il viso parve bollente sulla pelle semicongelata. Continuò ad avanzare. Si trovò in un ampio, basso letto asciutto di torrente con il fondo cosparso di sassi e qualche cespuglio divelto e secco portato lì dall'acqua delle ultime piogge prima che l'autunno lasciasse il posto all'inverno. C'era del ghiaccio, un po' di neve dove gli alberi lasciavano abbastanza spazio da permetterle di depositarsi a terra, ma perlopiù l'avanzata era più agevole che all'esterno dell'alveo, e continuò a salire per qualche centinaio di metri finché quella strada si restrinse verso il ciglio della cresta. Si arrampicò su un tratto scosceso, in una zona dove gli alberi si diradavano, aggrappandosi alle radici, ai cespugli, ai massi sporgenti che in parte erano incrostati di neve gelata e in parte ripuliti dal vento. Le sue mani erano così fredde e intirizzite che non si accorgeva dei tagli e dei graffi. Infine, sulla cima, lo sfinimento totale fu più forte del panico e crollò a terra incapace di fare un altro passo. Qui, dove gli alberi erano più radi, c'era di nuovo il vento, e la luna, e la
neve. Dopo un momento in cui tentò invano di riprendere fiato, Tolbeck si trascinò al riparo di uno spuntone di granito e rimase lì inerte, scrutando lungo la parete del burrone. L'unico rumore era il vento che fischiava tra i rami dei sempreverdi e mormorava lungo il filo roccioso della cresta. Questo, ovviamente, non voleva dire che l'essere non gli stesse alle calcagna. Forse era già lì, forse gli veniva addosso dagli alberi, ma non avrebbe fatto alcun rumore avvicinandosi. Nulla si muoveva tranne, di tanto in tanto, qualche mulinello di neve lungo la cresta e i rami degli alberi mossi dal vento. Ma, già mentre scrutava nel buio sotto di sé, Tolbeck sapeva che cercare di scorgere il suo nemico era inutile e stupido, perché, se gli stava venendo addosso, lui non l'avrebbe visto. Non aveva sostanza, solo potenza. Non aveva forma, solo forza. Non aveva un corpo, solo coscienza, volontà e un'implacabile sete di vendetta e di sangue. Non lo avrebbe individuato finché non l'avesse avuto addosso. Se lo avesse trovato, lui non avrebbe potuto far nulla per difendersi. Ma lui non era un rinunciatario, mai lo era stato e mai lo sarebbe stato, e questo lo rendeva incapace di accettare la sua situazione di totale impotenza. Stringendosi le braccia al corpo e tremando, schiacciato contro la formazione granitica che lo proteggeva, Tolbeck fissava lo sguardo nella foresta sotto di sé, si sforzava di cogliere il minimo suono non prodotto dal vento, e continuava a dirsi, e a ripetersi, che non sarebbe arrivato, non lo avrebbe trovato, non lo avrebbe fatto a brani. L'immobilità significava minor calore corporeo e nel giro di un paio di minuti il freddo aveva immerso in profondità gli artigli nella sua carne. Era preso da un tremito incontrollabile, i denti gli battevano e si accorse che non era in grado di stendere completamente le dita delle sue mani senza guanti. Sentiva la sua pelle non solo fredda ma arida, e le labbra gli si stavano spaccando, sanguinando. Il suo stato di avvilimento era così totale che non riuscì a trattenere le lacrime, che si raccolsero, subito ghiacciandosi, fra i peli dei baffi e della barba. Desiderò con tutto il cuore non aver mai conosciuto Dylan McCaffrey e Willy Hoffritz, desiderò non aver mai visto quella stanza grigia, non aver mai visto la bambina a cui avevano insegnato a trovare la porta di dicembre. Chi avrebbe immaginato che gli esperimenti potessero prendere la mano fino a quel punto, che si potesse scatenare una cosa come quella? In basso, qualcosa si mosse.
Tolbeck annaspò e l'improvvisa immissione di aria gelida gli graffiò la gola dandogli una fitta ai polmoni. Qualcosa scricchiolò, fece un tonfo, un rumore secco. Un cervo, pensò lui. Ce ne sono, di cervi, in queste montagne. Ma non era un cervo. Rimase lì in ginocchio, rannicchiato contro le rocce, sperando di essere ancora in grado di nascondersi, ma sapeva che si stava illudendo. Un altro rumore secco, dal basso. Più forte, più vicino. Un piccolo oggetto duro colpì il petto di Tolbeck, facendolo sobbalzare, poi ricadde sul terreno gelato. Lo vide allontanarsi rotolando, fermandosi nella luce della luna. Un sasso. Da sotto, quella cosa, quello spirito maligno psicotico, gli aveva gettato un sasso. Silenzio. Stava giocando con lui. Ci fu ancora quel rumore, e fu colpito di nuovo più volte, non forte, ma più forte della prima volta. Vide un'altra piccola pietra ricadere a terra davanti a lui. Era un sassolino biancastro grosso come una biglia. Una mira infallibile. Tolbeck avrebbe voluto scappare. Non aveva forza. Si guardò freneticamente a destra e a sinistra. Anche se avesse avuto sufficiente forza per correre, non c'era dove andare. Alzò gli occhi verso il cielo notturno: le stelle erano nitide e fredde. Non aveva mai visto un cielo così ostile. Si accorse che stava pregando. Il Padre Nostro. Non pregava da vent'anni. Improvvisamente l'acciottolio si fece molto più forte, un torrente in salita di ciottoli, decine, centinaia di piccole pietre, un ticchettio che cresceva fino a diventare una grandinata sull'asfalto di un parcheggio. D'un tratto un rovescio di pietre spuntò dal margine della cresta, salendo dal buio, un'ondata di missili intravisti alla luce della luna, che si abbatteva su Tolbeck, rimbalzandogli sulla testa, tempestandogli la faccia, le braccia, le mani, tutto il corpo. Nessuno di quei ciottoli viaggiava veloce come un proiettile, nemmeno alla metà di una velocità tale da essere letale, ma tutti quanti erano dolorosi. E ora non era come se quei sassi gli venissero scagliati, ma come se sul-
la costa la legge di gravita fosse stata sospesa, almeno per le pietre piccole, che ora salivano in un vero e proprio fiume, Gesù, a centinaia, e lui era proprio nel mezzo della corrente. Tirò su le ginocchia. Abbassò la testa e la coprì con le braccia, cercando di rannicchiarsi ancora di più nella nicchia di granito dove aveva sperato di nascondersi, ma le pietre lo trovavano sempre. Di tanto in tanto lo raggiungeva un sasso meno piccolo degli altri. Anzi, piuttosto grosso. Quei colpi erano più forti di un pugno e ogni volta lanciava un grido di dolore. Sanguinava, era coperto di lividi. Pensò che uno dei sassi gli avesse spezzato il polso sinistro. La musica, quel canto mortale di sola percussione, era cambiata: c'era ancora la grandinata dei sassolini, ma ora si sentivano anche i tonfi più pesanti delle pietre più grosse. Sarebbe stato lapidato da qualcosa che non poteva vedere, e ormai non pregava più ma urlava. Però, anche al di sopra delle sue urla, poteva sentire il rumore lontano e terribile dei macigni che rotolavano inesorabili verso la cima della cresta. L'intero costone in basso sembrava si stesse divincolando dal suolo lanciandosi a ondate verso l'alto, in un divorzio cataclismatico dalla crosta terrestre, come se il giudizio divino avesse imposto al pianeta di disperdere la propria sostanza e la realizzazione di quest'ordine avesse inizio lì. Sentì il terreno tremare, sentì una serie di scuotimenti trasmessi attraverso il grezzo granito sotto di lui, e ogni impatto sul terreno di ciascun macigno in arrivo generava l'energia equivalente a quella dell'esplosione di una granata. Adesso urlava a pieni polmoni, ma non riusciva a sentirsi al di sopra del boato della valanga ignara della gravita. I massi affiorarono come in un'esplosione sulla cresta, piovendogli intorno con una forza da spaccare i timpani. Le schegge dei sassi spaccati lo tempestarono graffiandolo, facendolo sanguinare ancora, ma non rimase schiacciato come si era aspettato. Due, tre, mezza dozzina, dieci massi piombarono attorno a lui, accumulandosi, ma a colpirlo furono solo i frammenti di pietre scagliati a ogni violento impatto. Le rocce rimasero immobili. Lui attese, senza fiato per il terrore. Gradualmente, avvertì di nuovo il freddo. E il vento. Tastando attorno a sé, scoprì che i sassi si erano ammucchiati tutt'attorno e sopra di lui, formando una tomba rudimentale. Erano troppo pesanti per poterli spostare. Il tumulo era pieno di spiragli, a centinaia, alcuni dei quali
lasciavano penetrare la luce della luna. Il vento soffiava da altre aperture, ma non c'era nessun buco sufficientemente largo da permettere a Tolbeck di fuggire. In sostanza, anche se l'aria poteva raggiungerlo, era stato sepolto vivo. Per un momento il terrore gli crebbe dentro, ma poi pensò a quanto era accaduto a McCaffrey, a Hoffritz e ad alcuni degli altri, e questo modo di morire gli parve quasi una grazia. Il freddo era di nuovo acutissimo, ma quella sensazione di un roditore con denti di ghiaccio che gli mordeva le viscere e le ossa sarebbe passata, e in fretta. Ancora pochi minuti e sarebbe tornato insensibile e questa volta l'intorpidimento sarebbe durato a lungo. Il sangue cominciava già a ritirarsi verso l'interno, ad allontanarsi dalla pelle congelata, nel tentativo disperato di proteggere gli organi vitali. Anche l'afflusso di sangue al cervello si sarebbe ridotto, a un livello minimo, e gli sarebbe venuto sonno. Si sarebbe addormentato senza svegliarsi più. Non male. Non male, visto quello che era stato fatto a Ernie Cooper e agli altri. Si rilassò, rassegnato alla morte, temendola ma disposto ad affrontarla ora che sapeva che non sarebbe stata troppo dolorosa. A parte il vento, la notte d'inverno era silenziosa. Con una sensazione di grande stanchezza, Tolbeck si raggomitolò nella sua tomba e chiuse gli occhi. Qualcosa gli afferrò il naso, lo strinse e lo torse con tanta forza che gli salirono le lacrime agli occhi. Sbattè le palpebre, agitò le braccia, colpì il vuoto. Qualcosa gli artigliò l'orecchio. Qualcosa di invisibile. «No», scongiurò lui. Qualcosa gli schiacciò forte l'occhio destro e il dolore fu così straziante che capì di essere stato accecato. La cosa si era insinuata fra le fessure e lo aveva raggiunto nella sua tomba improvvisata di pietre gelide. La sua morte, allora, non sarebbe stata facile. Durante la notte, Laura si svegliò e, per un momento, non capì dove si trovasse. Una lampada fioca creava strane ombre. Vide un letto accanto al suo. Sopra, Dan Haldane dormiva, tutto vestito. Il motel. Si stavano nascondendo, nascondendo nella camera di un motel. Ancora stordita si girò verso Melanie, e capì immediatamente che cosa l'avesse svegliata. La temperatura dell'aria stava calando e Melanie si agi-
tava debolmente sotto le coperte, singhiozzando piano, mormorando per la paura. Nella stanza, ora c'era una presenza, qualcosa di più che umano, di meno che umano, ma di indiscutibilmente alieno, di invisibile ma di innegabile. Nel suo torpore, semiaddormentata, Laura avvertiva quella presenza più acutamente di quando per due volte si era introdotta nella sua cucina o di quando, poco prima, si era presentata in quella stessa stanza. Appena emersa dal sonno, era ancora in buona parte guidata dal subcosciente, molto più aperto a queste percezioni fantastiche di quanto lo fosse la sua mente conscia, che, a paragone, era solida, conservatrice e dubbiosa come l'apostolo Tommaso. Non poteva dire assolutamente che cosa fosse, ma la sentiva nell'aria, muoversi per la camera e incombere sopra Melanie. Improvvisamente Laura fu certa che sua figlia stava per essere picchiata a morte, davanti ai suoi occhi. Presa dal panico, fece per alzarsi, tremando, ogni esalazione di fiato trasformata istantaneamente in vapore bianco. Ma, mentre scostava le coperte, l'aria tornò tiepida e sua figlia si acquietò. Laura esitò, guardando la bambina, lanciando occhiate in giro per la stanza, ma il pericolo, se pericolo c'era stato, sembrava passato. Neppure lei avvertiva più quella presenza maligna. Dov'era andata? Perché era venuta e andata in pochi secondi? Si reinfilò sotto le coperte e rimase sdraiata rivolta verso Melanie. La bambina era pallidissima, magra, fragile. La sto perdendo, pensò Laura. No! La raggiungerà prima o poi, la ucciderà come ha ucciso gli altri, e io non sarò in grado di muovere un dito perché non capirò neppure da dove viene o perché la vuole o che cosa è. Ma non era nella sua natura arrendersi facilmente e gradatamente si convinse che la ragione governava il mondo e che tutte le cose, per quanto misteriose, si potessero comunque esaminare e comprendere se solo si applicava l'intelletto e la logica al problema. Al mattino avrebbe usato di nuovo l'ipnosi con Melanie e questa volta avrebbe spinto la bambina più forte che nel primo tentativo. C'era il pericolo che Melanie andasse completamente in pezzi se fosse stata costretta a richiamare ricordi traumatici senza essere pronta ad affrontarli, ma era un rischio che si doveva correre se si voleva salvare la vita della piccola. Che cos'era la porta di dicembre? Che cosa c'era dall'altra parte? E che
cos'era l'essere mostruoso che l'aveva attraversata? Continuò a porsi queste domande innumerevoli volte, finché non cominciarono a girarle nella testa come un'interminabile cantilena, cullandola verso il buio del sonno. Quando giunse l'alba, Laura era profondamente addormentata e sognava. Nel sogno si trovava di fronte a un'enorme porta di ferro e sopra la porta c'era un orologio che avanzava verso la mezzanotte. Mancavano solo pochi secondi al momento in cui le lancette si sarebbero puntate verso l'alto (tic), momento in cui la porta si sarebbe aperta (tic), e qualcosa assetato di sangue sarebbe piombato su di lei (tic), ma lei non riusciva a trovare nulla con cui sbarrare la porta e non poteva allontanarsene, poteva solo aspettare (tic), e allora sentì degli artigli acuminati che grattavano dall'altra parte della porta, e un suono molle e umidiccio. Tic. Il tempo stava scadendo. PARTE QUARTA Quello Giovedì ore 8.30 — 17.00 33 Laura era seduta al tavolino accanto alla finestra. Davanti a lei, dall'altra parte del tavolo, sedeva Melanie. La bambina era in stato ipnotico; Laura l'aveva riportata indietro nel tempo. In tutti i sensi, tranne che fisicamente, era di nuovo nella casa di Studio City. Fuori, la giornata era grigia e senza sole, ma non pioveva. La nebbia notturna non si era sollevata. Al di là del parcheggio del motel, il traffico sulla strada si intravedeva solo a tratti fra i banchi di foschia grigia. Laura lanciò un'occhiata a Dan Haldane, seduto sul bordo di uno dei letti, che annuì. Si rivolse nuovamente a Melanie. «Dove sei, tesoro?» La bambina rabbrividì. «Nella prigione», disse a bassa voce. «È così che chiami la stanza grigia?» «La prigione.» «Guardati in giro.» Con gli occhi chiusi, in trance, Melanie girò lentamente la testa a sinistra, poi a destra, come studiando quell'altro luogo nel quale si trovava.
«Che cosa vedi?» chiese Laura. «La sedia.» «Quella con i fili elettrici?» «Sì.» «Ti fanno mai sedere su quella sedia?» La piccola ebbe un brivido. «Sta' calma, rilassati. Ora nessuno può farti del male, Melanie.» La bambina si tranquillizzò. Finora, la seduta aveva avuto molto più successo di quella del giorno precedente. Questa volta Melanie rispondeva direttamente, apertamente. Per la prima volta da quando si erano riunite, Laura sapeva con sicurezza che sua figlia la ascoltava, le rispondeva; questo sviluppo la emozionava. «Ti fanno mai sedere su quella sedia?» ripetè Laura. Con gli occhi ancora chiusi, la piccola strinse i pugni, si morse il labbro. «Melanie?» «Li odio.» «Ti fanno sedere sulla sedia?» «Li odio!» «Ti fanno sedere sulla sedia?» Le lacrime sgorgarono dagli occhi della bambina, benché lei cercasse di trattenerle. «S-sì. Mi fanno... sedere... fa male... fa tanto male.» «E ti collegano a quella macchina che c'è vicino?» «Sì.» «Perché?» «Per insegnarmi», rispose la bambina con un sussurro. «Insegnarti che cosa?» Lei ebbe un sussulto e lanciò un grido. «Fa male! Brucia!» «Ora non sei sulla sedia, Melanie. Ci stai solo vicino. Non puoi sentire la scossa. Non brucia. Ora stai bene. Mi senti?» L'espressione di dolore sul viso della piccola si dissolse. Laura aveva il cuore stretto dall'angoscia, ma doveva andare avanti con la seduta, per quanto dolorosa potesse essere per Melanie, perché dall'altra parte di questo dolore, al di là di questi ricordi da incubo, c'erano risposte, spiegazioni, verità. «Quando ti fanno sedere sulla sedia, quando ti fanno male, che cosa vogliono insegnarti, Melanie? Che cosa dovresti imparare?» «Controllo.» «Controllo di che cosa?»
«Dei miei pensieri.» «Che cosa vogliono che pensi?» «Il vuoto.» «Che intendi dire?» «Il niente.» «Vogliono che tu tenga la mente sgombra. È così?» «E non vogliono che io senta.» «Sentire che cosa?» «Niente.» Laura guardò Dan. Aveva la fronte aggrottata e appariva perplesso quanto lei. Tornò a rivolgersi a Melanie. «Che cos'altro vedi nella stanza grigia?» «La cisterna.» «Ti fanno entrare nella cisterna?» «Nuda.» Quella sola parola trasmetteva un'emozione potentissima; più che la semplice vergogna o paura, un intenso senso di impotenza e vulnerabilità che diede una fitta al cuore di Laura. Avrebbe voluto mettere fine subito alla seduta, girare attorno al tavolo e abbracciare la figlia, tenerla stretta a sé. Ma, se volevano conservare qualche speranza di salvare Melanie, dovevano sapere a che cosa era stata sottoposta e perché, e questo, al momento, era il modo migliore per scoprire quanto dovevano sapere. «Tesoro, voglio che tu salga quegli scalini ed entri nella cisterna.» La bambina mandò un lamento e scosse la testa con violenza, ma non aprì gli occhi, non si liberò dallo stato di trance in cui l'aveva condotta sua madre. «Sali i gradini.» «No.» «Fa' quello che ti dico.» «No.» «Sali.» «Ti prego...» La bambina era spaventosamente pallida. All'attaccatura dei capelli erano comparse delle goccioline di sudore. I cerchi scuri attorno agli occhi sembrarono farsi più neri e più larghi sotto lo sguardo di Laura; era per lei una difficoltà straziante costringere la bambina a rivivere la sua tortura. Difficile, ma indispensabile. «Sali i gradini, Melanie.»
Un'espressione angosciata distorse i lineamenti della bambina. Laura sentì Dan Haldane che cambiava posizione, a disagio, sul letto dov'era seduto, ma non lo guardò. Non poteva distogliere lo sguardo da sua figlia. «Apri lo sportello della cisterna, Melanie.» «Ho... ho paura.» «Non aver paura. Questa volta non sarai sola. Ci sarò io con te. Non permetterò che accada niente di male.» «Ho paura», ripetè Melanie, e quelle due parole suonarono a Laura come un'accusa: finora, mamma, non hai mai saputo proteggermi, perché dovrei credere che potresti farlo adesso? «Apri lo sportello, Melanie.» «È qui dentro», disse la bambina tremando. «Che cosa è qui dentro?» «L'uscita.» «L'uscita da che cosa?» «L'uscita da tutto.» «Non capisco.» «L'uscita... da me.» «Che cosa significa?» «L'uscita da me», ripetè la bambina, profondamente turbata. Laura capì che non ne sapeva ancora abbastanza per dare un senso a questa svolta presa dall'interrogatorio. Se avesse insistito in questo senso, le risposte della piccola non avrebbero potuto che apparirle sempre più surreali. Prima di ogni altra cosa, doveva far entrare Melanie nella cisterna e scoprire che cosa accadeva là dentro. «Lo sportello è davanti a te, tesoro, lo vedi?» La bambina non rispose. «Lo vedi?» Riluttante: «Sì». «Aprilo, Melanie. Non esitare più. Aprilo subito.» Con una protesta inarticolata che riusciva a esprimere con poche sillabe senza senso tutta la paura, lo strazio e l'odio, la bambina alzò le mani e afferrò una porta invisibile, ma per lei realissima. Tirò e quando l'ebbe aperta si mise a tremare stringendosi fra le braccia come davanti a una folata di freddo. «L'ho... l'ho... aperta.» «È questa la porta, Melanie?» «È lo sportello. La cisterna.»
«Ma è anche la porta di dicembre?» «No.» «Che cosa è la porta di dicembre?» «L'uscita.» «L'uscita per dove?» «Fuori... fuori dal... dalla cisterna.» Sconcertata, Laura fece un respiro profondo. «Per adesso non pensiamoci. Ora, voglio che tu entri nella cisterna.» Melanie scoppiò a piangere. «Va' dentro.» «Ho... ho paura.» «Non temere.» «Potrei...» «Che cosa?» «Se vado dentro... potrei...» «Che cosa potresti?» «Fare qualcosa», concluse la bambina cupamente. «Che cosa potresti fare?» «Qualcosa...» «Dimmi.» «Terribile», mormorò Melanie con voce così bassa che si udì appena. Laura non era sicura di aver capito. «Credi che ti possa accadere qualcosa di terribile?» Ancora più sommessamente: «No». «Bene, allora...» «Sì.» «Che cosa è?» «No... sì...» «Tesoro?» Silenzio. L'espressione sul viso della bambina non era più solo di paura. Un'altra emozione si era impadronita dei suoi lineamenti, forse la disperazione. «Va bene», riprese Laura. «Non aver paura. Sta' calma. Rilassati. Sono qui io, con te. Devi entrare nella cisterna. Devi entrare, ma non ti capiterà niente.» La tensione si spezzò in Melanie, che si accasciò nella sedia, ma il suo viso rimase torvo. Gli occhi le si erano infossati in maniera incredibile; sembrava che nel giro di pochi minuti sarebbero rimaste due orbite vuote. Era così pallida che sembrava una maschera di gesso, con le labbra esangui
come la pelle. C'era in lei una fragilità che la faceva sembrare non fatta di carne, sangue e ossa, ma come costruita con il più impalpabile dei tessuti, la più lieve delle polveri, come se potesse dissolversi e disperdersi se qualcuno parlava troppo forte o sventolava una mano verso di lei. «Forse per oggi siamo andati abbastanza in là», azzardò Dan Haldane. «No», rispose Laura. «Dobbiamo farlo. È il modo più rapido per scoprire che cosa sta succedendo. Sono in grado di guidarla attraverso i ricordi, per quanto terribili possano essere. Ho già fatto questo genere di cose. Ne sono capace.» Ma mentre guardava al di là del tavolino la figlia pallidissima e smunta, Laura si sentì presa da una sensazione che dovette respingere, ricacciare giù come un conato di vomito. Le parve che Melanie fosse già morta. Accasciata sulla sedia, con gli occhi chiusi, la bambina appariva senza vita; il suo viso era quello di un cadavere già freddo, i lineamenti contratti nell'ultima, dolorosa smorfia dell'agonia. Riportarla in quella stanza grigia, costringerla a parlare della sedia su cui le avevano praticato gli elettroshock, forzarla a salire nella camera di privazione sensoriale, tutto questo sembrava aver prosciugato la vita della bambina. Se i ricordi potevano essere dei vampiri, questi lo erano certamente, e le succhiavano tutto il sangue e la vitalità. «Melanie?» «Mmmm?» «Dove sei adesso?» «Galleggio.» «Nella cisterna?» «Galleggio.» «Che cosa senti?» «Acqua. Ma...» «Ma?» «Ma anche questa sta svanendo...» «Che cos'altro senti?» «Niente.» «Che cosa vedi?» «Il buio.» «Che cosa odi?» «Il mio... cuore... che batte, batte... Ma... sta svanendo...» «Che cosa vogliono che tu faccia?» La bambina rimase in silenzio.
«Melanie?» Silenzio. Con un'ansia improvvisa, Laura la chiamò: «Melanie, non allontanarti da me. Rimani con me!» La bambina si mosse e fece un breve sospiro, e fu come se tornasse dalla riva buia del fiume che scorre scuro fra questo mondo e l'altro. «Mmmm.» «Sei con me?» «Sì», rispose la bambina, ma così piano che la parola era poco più che l'ombra del pensiero. «Sei nella cisterna», disse Laura. «È come sempre, là dentro, solo che questa volta ci sono io con te: una cima di sicurezza, una mano da stringere. Capisci? Ora galleggi. Non avverti niente, non vedi niente, non senti niente, ma perché sei qui?» «Per imparare a lasciar andare.» «Lasciar andare che cosa?» «Tutto. Me.» «Vogliono che tu impari a lasciarti andare? Che cosa significa, esattamente?» «Scivolar via.» «Via dove?» «Lontano... lontano... lontano...» Laura sospirò avvilita e tentò un approccio differente. «A che cosa stai pensando?» Un tono più freddo e tormentato si impadronì della voce della bambina. «La porta...» «La porta di dicembre?» «Sì.» «Che cosa è la porta di dicembre?» «Non fatela aprire! Tenetela chiusa!» gridò la bambina. «È chiusa, amore.» «No, no, no! Sta per aprirsi! La odio! Oh, vi prego, vi prego, aiutatemi, Gesù, mamma, aiutami, papà, aiutami, non farlo, ti prego, aiutami, odio quando si apre, la odio!» Ora Melanie urlava, i muscoli del collo erano tesi, le vene alle tempie erano gonfie e pulsavano, ma nonostante l'agitazione non riprese colore; anzi, sembrava ancora più pallida. La bambina era terrorizzata da quel che c'era oltre la porta e il terrore si trasmise a Laura. Sentiva un formicolio alla nuca e lungo la spina dorsale.
Dan osservava con grande ammirazione Laura che cercava di calmare e tranquillizzare la bambina spaventata. La seduta gli aveva teso i nervi tanto che si sentiva sul punto di andare in pezzi come un meccanismo a orologeria autodistruttivo. Aveva le mani madide di sudore. Se le asciugò sui pantaloni. Laura riprese a parlare con Melanie. «Bene, ora dimmi della porta di dicembre. Che cos'è, Melanie? Spiegamelo.» Con un sussurro, la bambina disse: «È come la finestra su ieri». «Non capisco. Spiegami.» «È come... le scale... che vanno solo di lato... né su né giù...» Laura guardò Dan che si strinse nelle spalle. «Dimmi qualcosa di più», invitò Laura fissando la piccola. Con la voce che saliva e scendeva in un ritmo inquietante, mai troppo forte, spesso troppo sommessa, Melanie disse: «È come... il gatto... il gatto affamato che mangia se stesso. Muore di fame. Non ha niente da mangiare. Allora... comincia a mordersi la punta della coda. Comincia a mangiarsi la coda... sempre più su... sempre più su e più veloce... finché la coda è finita. Poi... si mangia le zampe di dietro, e poi la pancia... continua a mangiare, a inghiottirsi... finché si è mangiato fino all'ultima briciola... finché si è mangiato perfino i denti... e allora ecco che... scompare. Vedi come scompare? Come può scomparire? Come possono i denti mangiare se stessi? Non deve rimanere almeno un dente? Ma no. Nemmeno un dente». Con una voce che esprimeva lo stesso sconcerto, Laura chiese: «È questo quello a cui vogliono farti pensare quando sei nella cisterna?» «Certi giorni sì. Altri giorni mi dicono di pensare alla finestra su ieri, nient'altro che alla finestra su ieri, per ore e ore e ore... soltanto concentrarmi su quella finestra... vederla... crederci... ma quella che funziona meglio è la porta.» «Di dicembre.» «Sì.» «Parlamene, tesoro.» «È estate... luglio... caldo e afoso. Ho tanto caldo... darei qualsiasi cosa per... un po' d'aria fresca. Apro la porta della casa... e al di là della porta c'è una fredda giornata d'inverno. Cade la neve. Guardo dalle finestre sui due lati della porta... e dalle finestre vedo che è luglio... e so che è luglio... così caldo... dappertutto è luglio... tranne che da questa porta... dall'altra parte di questa porta... questa porta di dicembre. E poi...»
«Poi?» la incalzò Laura. «Esco... dalla...» «Esci dalla porta?» chiese Laura. Melanie spalancò gli occhi e schizzò via dalla sedia, e tra lo stupore di Dan cominciò a percuotersi quanto più forte poteva. Con i piccoli pugni si tempestava il petto, i fianchi, le gambe, continuando a gridare: «No, no, no, no!» «Fermala!» esclamò Laura. Dan si era già alzato dal letto, era già accanto alla bambina. Le afferrò le mani, ma lei si divincolò con una facilità che lo sorprese. Non poteva essere così forte. «Odio!» urlò Melanie, e si colpì al viso. Dan cercò di nuovo di afferrarla, ma lei lo scansò. «Odio!» Si agguantò delle ciocche di capelli e cercò di strapparle. «Melanie, tesoro, fermati!» Dan serrò la bambina per i polsi e la tenne stretta. Gli sembrava di stringere solo ossa e temette di farle del male. Ma, se l'avesse lasciata, se ne sarebbe fatto lei stessa. «Odio!» strillò, spruzzando saliva. Laura si accostò con cautela. Melanie si lasciò i capelli e cercò di artigliare Dan e liberarsi. Lui la tenne stretta e riuscì finalmente a bloccarle le braccia lungo i fianchi, ma lei si mise a scalciare. «Odio, odio, odio!» Laura prese il viso della bambina fra le mani, tenendolo con forza, cercando di costringerla a prestarle attenzione. «Amore, che cosa è? Che cosa odi tanto?» «Odio!» «Che cosa odi tanto?» «Passare dalla porta.» «Odi passare dalla porta?» «E loro.» «Chi sono?» «Li odio! Li odio! Mi fanno... pensare alla porta, e mi fanno credere alla porta, e poi mi fanno... passare dalla porta, e io li odio!» «Odi il tuo papa?» «Sì!» «Perché ti fa passare dalla porta di dicembre?»
«Odio!» gemette la bambina con furia e angoscia. «Che cosa succede quando esci dalla porta di dicembre?» chiese Dan. In trance, la bambina non poteva sentire alcuna voce tranne la sua e quella della madre; Laura ripetè la domanda: «Che cosa succede quando esci dalla porta di dicembre?» La piccola ebbe un conato di vomito. Non aveva ancora fatto colazione, e non aveva niente da vomitare, ma i conati erano così violenti che spaventarono Dan. Stringendola, sentiva gli spasmi che ne scuotevano tutto il corpo. Laura continuava a tenere il viso della bambina, ma ora non più con forza: la tratteneva, ma l'accarezzava anche, spianando i solchi del suo viso torturato. Infine Melanie smise di dibattersi, si lasciò andare e Dan la affidò alle braccia di sua madre. La bambina si lasciò abbracciare e, con una voce smarrita che raggelò il cuore di Dan, disse: «Li odio... tutti... papà... gli altri...» «Lo so», cercò di rassicurarla Laura. «Mi fanno male... mi fanno tanto male... li odio...» «Lo so.» «Ma... ma più di tutto...» Laura si sedette a terra e si sistemò la figlia in grembo. «Più di tutto? Che cosa odi più di tutto, Melanie?» «Me», rispose la piccola. «No, no.» «Sì», insistè la bambina. «Me. Odio me... odio me.» «Perché, amore?» «Perché... per quello che faccio», singhiozzò Melanie. «Che cosa fai?» «Passo... passo per la porta...» «E che cosa succede?» «Io... passo... per... la porta...» «E che cosa fai dall'altra parte, che cosa vedi, che cosa trovi là fuori?» chiese Laura. La bambina non rispose. «Piccola?» Nessuna risposta. «Parlami, Melanie.» Niente.
Dan si chinò all'altezza del viso della bambina. Da quando l'avevano trovata nuda, a vagare per le strade, due notti prima, i suoi occhi erano sempre stati sfocati e assenti, ma ora erano più vuoti e lontani che mai. Non sembravano neppure più occhi. Guardandovi dentro, Dan pensò che erano due finestre ovali su un immenso vuoto, un vuoto deserto quanto le gelide regioni dello spazio al centro dell'universo. Seduta sul pavimento al centro della camera del motel, stringendo a sé la figlia, Laura piangeva ma senza emettere alcun suono. Cullava la bambina e le lacrime le sgorgavano dagli occhi scorrendole lungo le guance, in silenzio assoluto. Scosso dall'aspetto del suo viso, Dan desiderò prenderla fra le braccia e cullarla così come lei faceva con Melanie, ma non riuscì a far altro che posarle una mano sulla spalla. Dopo un po', quando le lacrime di Laura cominciarono ad asciugarsi, Dan riprese a parlare. «Melanie dice di odiarsi per quel che ha fatto. Che cosa pensi che intenda dire? Che cos'ha fatto?» «Niente», rispose Laura. «Evidentemente lei pensa di sì.» «È una sindrome comune in casi del genere. In quasi tutti i casi di violenza sui bambini.» Nonostante la voce bassa e uniforme, Dan vi individuò, appena sotto la superficie, un senso di grande tensione e paura. Stava facendo evidentemente un grosso sforzo per controllare lo sconvolgimento emotivo scatenato dallo stato di Melanie. «C'è implicata tanta vergogna», continuò Laura. «Non puoi immaginare quanta. La sensazione di vergogna in loro è soverchiante, non solo nei casi di violenza sessuale, ma in ogni genere di violenza. Spesso, un bambino che ha subito violenza non solo se ne vergogna, ma si sente in colpa, come se ne fosse responsabile. Sono bambini confusi, sconvolti dall'esperienza. Non sanno che cosa sentire, sanno soltanto che quello che hanno subito era male, e con una logica tortuosa arrivano a incolpare se stessi anziché gli adulti responsabili. Dopotutto, sono abituati all'idea che gli adulti ne sanno più dei bambini, sono più saggi, hanno sempre ragione. Non puoi credere quanto spesso non si rendano conto che loro sono le vittime e che non hanno niente di cui vergognarsi. Perdono ogni senso di autostima. Finiscono per odiarsi perché si ritengono responsabili di cose che non hanno fatto e non hanno potuto impedire. E, quando si odiano oltre un certo limite, si isolano, sempre di più, e per il medico è sempre più difficile riportarli indietro.»
Ormai Melanie sembrava totalmente priva di sensi. Giaceva inerte, silenziosa, quasi senza vita fra le braccia della madre. «E così tu pensi che quando dice di odiarsi perché ha fatto cose terribili, in realtà si sta soltanto incolpando di quanto è stato fatto a lei.» «Su questo non c'è dubbio», rispose Laura con decisione. «Ora è chiaro che il suo senso di colpa e di odio verso se stessa devono essere ancora più intensi che in tanti casi. Lei, non dimentichiamolo, è stata maltrattata, torturata, per quasi sei anni. E si è trattato di un maltrattamento psicologico estremamente intenso, ben più distruttivo di quello che sopportano in genere le piccole vittime della violenza.» Dan comprendeva perfettamente tutto quanto Laura aveva spiegato ed era certo che ci fosse molta verità. Ma un paio di minuti prima, mentre ascoltava Melanie, gli si era affacciata alla mente una mostruosa possibilità, e ora non riusciva a liberarsi dell'idea. Un sospetto sconvolgente gli si era radicato dentro. Un sospetto quasi insensato. La cosa che lui sospettava sembrava impossibile, ridicola, eppure... Credeva di sapere che cosa fosse «Quello». E non era nulla di quanto avesse immaginato prima. Era qualcosa di molto peggio di tutte le creature da incubo che aveva finora preso in considerazione. Guardò la bambina con un misto di commiserazione, pietà, soggezione e fredda, dura paura. Dopo che Laura ebbe fatto riemergere Melanie dal suo profondo stato ipnotico, le condizioni della bambina non cambiarono. Tanto in trance quanto fuori, il suo isolamento dal mondo era praticamente completo, e fu impossibile raccogliere da lei altre informazioni. Laura sembrava distrutta fisicamente dalla pena; Dan riusciva a capirla benissimo. Portarono la bambina su uno dei letti disfatti, dove rimase sdraiata in stato catatonico, muovendosi solo per portare alla bocca il pollice della sinistra per succhiarlo. Laura chiamò il suo ospedale per accertarsi che non ci fossero emergenze e telefonò alla segretaria del suo studio per sentire se tutti i suoi pazienti privati erano stati sistemati con altri psicologi finché lei era via. Poi, non avendo ancora fatto la doccia, avvertì: «Sarò pronta fra mezz'ora o tre quarti d'ora», e si chiuse in bagno. Dan si sedette al tavolino per esaminare i libri di Uhlander che aveva
preso la sera prima a casa di Ned Rink. Erano sette volumi, tutti sull'occulto: Il fantasma moderno; Poltergeists: dodici casi inquietanti; Voodoo oggi; La vita dei medium; Nostradamus; Proiezione astrale e I poteri misteriosi dentro di noi. Uno era stato pubblicato dalla Random House, uno da Harper & Row, e gli altri cinque, scoprì con sorpresa, dalla John Wilkes Press, sicuramente un'azienda controllata dalla John Wilkes Enterprises, la stessa società proprietaria della casa dove viveva Regine Savannah Hoffritz. La sua prima reazione davanti a quei libri dalle copertine vivaci fu che si trattasse di robaccia destinata agli stessi fedelissimi lettori di Fate, che credevano a tutto quanto raccontava quella rivista, gli stessi che si iscrivevano ai circoli di ufologia e credevano che Dio fosse un astronauta o un ometto azzurro alto mezzo metro con gli occhi grandi come fanali. Ma dovette ricordarsi che quello che stavano vivendo probabilmente non era meno inverosimile delle storie assurde che Fate propinava ai suoi lettori. Se la sua teoria aveva un fondo di verità, non poteva più permettersi di guardare con sprezzante superiorità i seguaci dell'occulto. Vivi e impara. Trovò l'indirizzo dell'editore sulla pagina del copyright. L'ufficio era in Doheny, a Beverly Hills. Ne prese nota, per poterlo confrontare con l'indirizzo della sede della John Wilkes Enterprises, una delle cose che avrebbe controllato in mattinata Earl Benton. Quindi cominciò a sfogliare i sette volumi, leggendone le dediche e i ringraziamenti, nella speranza di imbattersi in qualche nome familiare che avrebbe consolidato il collegamento fra Uhlander e il complotto McCaffrey-Hoffritz, o magari identificare altri cospiratori fino ad allora ignoti, ma non trovò nulla che gli paresse di qualche utilità. Riguardò tutti i libri e ne scelse uno da esaminare in maniera più approfondita. Era il volume che, a prima vista, sembrava quello che più probabilmente poteva confermare la spaventosa ipotesi che gli era venuta in mente durante la seduta ipnotica con Melanie. Quando Laura ebbe finito di fare la doccia e di fare il bagno a Melanie, e si disse pronta a iniziare la giornata, Dan aveva già letto una trentina di pagine, pagine in cui aveva effettivamente trovato cose che davano un certo corpo alle sue peggiori paure. La nebbia si stava diradando; il mistero si stava dissolvendo. Gli sembrava di essere sull'orlo di una spiegazione che avrebbe dato senso agli eventi degli ultimi due giorni: la stanza grigia, i corpi orrendamente martoriati, il fatto che gli uomini in quella casa di Studio City non fossero riusci-
ti a far niente per difendersi, la miracolosa fuga di Melanie da quel mattatoio, la morte di Scaldone in una stanza chiusa - tutti fenomeni da poltergeist. Era una follia. Eppure... Aveva una sua logica. E lo terrorizzava. Avrebbe voluto confidare le sue idee a Laura, sentire il punto di vista di uno psicologo, ma quello che le avrebbe spiegato era così atroce, così orribile e così disperante che preferiva pensarci prima a fondo; voleva essere ben sicuro delle sue deduzioni, molto ben sicuro, prima di affrontare l'argomento. Se i suoi sospetti erano fondati, Laura avrebbe avuto bisogno di tutta la forza fisica, mentale ed emotiva di cui poteva disporre, per sostenere il colpo. Uscirono dal motel e salirono in macchina.. Laura sedeva dietro con Melanie perché voleva continuare a stringere, accarezzare e confortare la bambina, e il terminale del computer fra i due sedili anteriori lasciava spazio a una sola persona accanto al guidatore. Dan rinunciò a passare da casa a cambiarsi. Ora che gli sembrava di essere vicino alla soluzione, non gli importava più dell'aspetto dei suoi abiti. Aveva fretta di parlare con Howard Renseveer, Sheldon Tolbeck e gli altri che avevano partecipato alla cospirazione. Voleva metterli a confronto con le idee che gli erano venute durante l'ultima ora, vedere come reagivano. Prima di uscire dal parcheggio, si girò a guardare Melanie. La bambina se ne stava inerte appoggiata alla madre. I suoi occhi erano aperti, ma assenti. Ho ragione, piccola? si domandò. «Quello» è ciò che penso io? Si era quasi aspettato che lei udisse le sue domande inespresse e volgesse gli occhi su di lui, ma non fu così. Spero di aver torto, pensò. Perché se a uccidere tutta questa gente è stato «Quello» e se quando avrà finito con gli altri verrà a cercare te, allora non ci sarà posto dove potrai nasconderti, vero, tesoro? Nessun posto al mondo per una cosa come quella. Rabbrividì. Mise in moto e si allontanò dal motel. La nebbia della notte prima resisteva. Cominciò a piovere. A ogni goccia che si schiacciava sul parabrezza, l'impatto freddo e umido sembrava trasmettersi al vetro, agli abiti di Dan, alla sua carne e alle sue ossa, alla sua
anima. 34 Quella mattina Dan e Laura non riuscirono a concludere niente di importante, e non per mancanza di impegno. La ripresa della pioggia era un ostacolo perché aveva rallentato il traffico in tutta la città. Il tempo era cattivo, ma il problema vero era che i topi che avrebbero potuto dare alcune risposte stavano tutti abbandonando la nave: non riuscirono a rintracciare né Renseveer né Tolbeck, né al lavoro né a casa, e Dan perse una quantità di tempo tentando di trovarli prima di concludere che entrambi avevano lasciato la città per destinazione ignota. All'una si incontrarono con Earl Benton al locale di Van Nuys concordato la sera prima. Per fortuna il colpo alla testa infertogli da Wexlersh non aveva avuto grosse conseguenze e la sua mattina era stata notevolmente più produttiva di quella di Dan e Laura. I quattro si sedettero a un tavolo in fondo al ristorante, il più lontano possibile dal juke-box che stava suonando musica country. Erano accanto a un finestrone al di là del quale il mondo appariva offuscato dal velo di pioggia sul vetro. Il locale aveva un buon odore di patatine fritte, hamburger sfrigolanti, zuppa di fagioli, bacon e caffè. La cameriera era simpatica ed efficiente, e quando ebbe raccolto le loro ordinazioni e si fu allontanata Earl raccontò a Dan e Laura quanto aveva scoperto. Per prima cosa aveva chiamato Mary Katherine O'Hara, la segretaria di Freedom Now, e aveva fissato un appuntamento per le dieci. «La signora O'Hara ha più di sessant'anni», spiegò Earl, «e li porta benissimo. È molto bella ancora adesso, per cui quando era giovane doveva essere uno schianto. Faceva l'agente immobiliare - ora è in pensione - e, se non ricca, direi che è decisamente agiata. La casa è arredata con grande gusto, piena di splendidi pezzi art déco.» «È stata riluttante a parlare di Freedom Now?» chiese Dan. «Al contrario. Era ansiosa di parlarne. Sai, i dati che hai trovato nel computer della polizia non sono aggiornati. Lei non ne fa più parte. Si è dimessa per esasperazione alcuni mesi fa.» «Sì?» «È una donna molto impegnata, legata a una dozzina di organizzazioni diverse, e quando Ernest Cooper la invitò a svolgere un ruolo di primo piano in un comitato di azione politica libertario da lui fondato, lei ne fu
felice. Il problema è che Cooper evidentemente voleva il suo nome per dare una certa legittimità alla sua organizzazione, e credeva di poterla manipolare. Ma manipolare Mary O'Hara deve essere facile quanto giocare a football con un porcospino vivo senza pungersi.» Laura rise e la cosa sorprese e rallegrò Dan. Negli ultimi due giorni erano state così rare le occasioni di vederla ridere, che aveva dimenticato quanto profondamente potesse toccarlo una sua manifestazione di allegria. «Insomma, un tipo duro», commentò Laura. «E intelligente», aggiunse Earl. «Mi fa pensare a te.» «A me? Io, dura?» «Più di quanto pensi», intervenne Dan con la stessa ammirazione che evidentemente sentiva Earl. Fuori, tuonò. Spinta da una folata di vento, la pioggia picchiò con più forza sulla finestra. Earl riprese: «La signora O'Hara è rimasta nell'organizzazione per quasi un anno ma, come già altri autentici libertari prima di lei, ha finito per uscirne perché si è accorta che il comitato non svolgeva i suoi compiti istituzionali. Raccoglieva molto denaro, ma non sosteneva una vasta gamma di candidati o programmi libertari. Anzi, gran parte dei fondi andava a un progetto di ricerca diretto da Dylan McCaffrey». «La stanza grigia», disse Dan. Earl annuì. «Ma che cosa c'era di libertario in quel progetto?» domandò Laura. «Probabilmente niente», rispose Earl. «L'etichetta era solo una comoda copertura. Almeno, questo è quanto aveva concluso alla fine Mary O'Hara.» «Copertura per che cosa?» «Non lo so.» La cameriera ritornò con tre tazze di caffè e una Pepsi. «Il pranzo sarà pronto fra un paio di minuti», annunciò. Guardò il viso malconcio di Earl e la benda sulla testa, diede un'occhiata al livido e all'abrasione sulla fronte di Dan e domandò: «Che cosa vi è capitato, un incidente stradale?» «Caduto su per le scale», rispose Dan. «Su per le scale?» ripetè lei. «Quattro rampe», confermò Earl. «Ah, mi state prendendo in giro.» I due le sorrisero e lei si allontanò verso un altro tavolo. Mentre Laura scartava la cannuccia, la metteva nella Pepsi e cercava di
far bere Melanie, Dan si rivolse a Earl. «La signora O'Hara non sembra il tipo da limitarsi a uscire da una situazione del genere. Mi sarei aspettato che scrivesse alla commissione elettorale federale per far chiudere quel comitato.» «E infatti ha scritto», annuì Earl. «Due volte.» «E allora?» «Nessuna risposta.» Dan si agitò, a disagio. «Vuoi dire che chi c'è dietro Freedom Now ha una mano nella commissione elettorale?» «Diciamo che a quanto pare ha un'influenza.» «Il che vuol dire che questo è un progetto segreto governativo», riprese Dan. «Non necessariamente.» «Ma solo il governo può riuscire a insabbiare un'inchiesta della commissione elettorale e neppure per il governo la cosa è semplice.» «Un po' di pazienza», disse Earl, sollevando la tazza del caffè. «Tu sai qualcosa.» «Io so sempre qualcosa», rispose Earl sorridendo, facendo una pausa per sorseggiare il caffè. Dan vide che Melanie aveva bevuto un po' di Pepsi, ma non senza difficoltà. Laura aveva già usato completamente uno dei tovagliolini per asciugare la bibita che era colata sul mento della bambina. «Innanzitutto, facciamo un passo indietro a vedere dove Freedom Now prende i suoi soldi. La signora O'Hara era solo la segretaria ma, quando cominciò a sospettare che c'era qualcosa di marcio, all'insaputa di Cooper e Hoffritz fece un controllo dei registri del tesoriere. Per il novantanove per cento i fondi del comitato arrivavano come finanziamenti di altri tre comitati di azione politica: Onestà in Politica, Cittadini per un Governo Illuminato e il Gruppo Ventunesimo Secolo. In più, quando approfondì l'esame di questi gruppi, scoprì che Cooper e Hoffritz comparivano in tutti e tre, e che tutti e tre quei gruppi erano finanziati principalmente non da contributi di comuni cittadini, ma da altre due organizzazioni, due enti di beneficenza.» «Enti di beneficenza? Sono autorizzati a occuparsi di politica?» Earl annuì. «Sì, se il loro statuto prevede il sostegno di 'programmi di servizio pubblico e di miglioramento governativo' .» «Da dove prendevano i soldi queste istituzioni?» «Sapevo che me l'avresti chiesto. La signora O'Hara non è andata in là
con le sue indagini, ma io ho chiamato la Paladin da casa sua e l'ho incaricata di fare delle ricerche. Entrambe le fondazioni sono finanziate da un'altra organizzazione di beneficenza, più grande.» «Dio mio», esclamò Laura, «sembrano le scatole cinesi!» «Riepiloghiamo», disse Dan. «Questo più grande ente di beneficenza finanziava i due più piccoli, e i due più piccoli finanziavano tre comitati di azione politica - Onestà in Politica, Cittadini per un Governo Illuminato e il Gruppo Ventunesimo Secolo - e questi poi contribuivano al finanziamento di Freedom Now, il quale a sua volta non faceva altro, con questi soldi, che sostenere il lavoro di Dylan McCaffrey a Studio City.» «Insomma», commentò Earl, «si trattava di un elaborato sistema di lavaggio del denaro per mantenere i finanziatori originari ben separati da Dylan McCaffrey nell'eventualità che qualcosa non fosse andato per il verso giusto e le autorità scoprissero che lui stava effettuando una serie di esperimenti intollerabili sulla figlia.» La giovane cameriera arrivò con il pranzo, e loro si scambiarono generici commenti sul tempo mentre lei deponeva il cibo sulla tavola. Quando se ne fu andata, nessuno toccò il proprio piatto. Dan si rivolse a Earl. «Qual è il nome dell'organizzazione di beneficenza al centro di questa scatola cinese?» «Tieniti forte: la Boothe Foundation.» «Gesù!» «La stessa che finanzia orfanotrofi e gruppi di assistenza per i bambini e programmi di sostegno per gli anziani?» chiese Laura. «Proprio quella», confermò Earl. Dan stava frugando nelle tasche della giacca. Estrasse lo stampato del computer con la lista degli indirizzi dei clienti del Segno del Pentagramma. La sfogliò fino alla terza pagina e la mostrò agli altri due: Palmer Boothe, erede della fortuna Boothe, attuale capo della famiglia Boothe, proprietario del Los Angeles Journal, uno dei personaggi più eminenti della città, la forza motrice della Boothe Foundation. «L'ho trovato la notte scorsa nell'ufficio di Scaldone, nel retro di quel negozio assurdo che gestiva, mi era sembrato strano che un uomo d'affari concreto come Boothe fosse interessato all'occulto. Certo, anche le teste più solide hanno qualche volta dei punti deboli; tutti noi abbiamo le nostre debolezze, le nostre follie. Ma, considerando la reputazione di Boothe, la sua immagine brillante... diamine, non mi sarebbe mai venuto in mente che potesse essere coinvolto in una cosa del genere.»
«Il diavolo ha avvocati nei posti più inattesi», commentò Earl. Mentre dal juke-box giungeva la voce di Bruce Springsteen, Dan guardò fuori, verso la pioggia battente. «Due giorni fa non credevo neppure nel diavolo.» «E adesso?» «E adesso...» Laura stava tagliando il cheeseburger di Melanie in bocconcini. La bambina aveva lo sguardo fisso sul mutevole disegno della pioggia contro il vetro, o su qualcosa distante anni luce. In un punto lontano del ristorante, uno sguattero o una cameriera lasciarono cadere dei piatti e il fracasso fu seguito da uno scoppio di risate. «Comunque», riprese Earl, «ricordi quelle due lettere scritte da Mary O'Hara alla commissione elettorale federale? Bene, non c'è molto da stupirsi perché non ebbero seguito. Palmer Boothe finanzia entrambi i partiti politici, sempre un po' di più quello al momento al potere, ma tutt'e due in modo cospicuo. Alcuni anni fa, quando cominciarono a essere di moda i comitati di azione politica, Boothe evidentemente capì che potevano essergli utili per iniziative come il finanziamento indiretto della ricerca di Dylan McCaffrey e procurò di inserire uno o due dei suoi uomini nella commissione che controlla quei comitati.» Laura finì di tagliare il cheeseburger e disse: «Senti, non ne so molto della commissione elettorale federale, ma mi sembra difficile che i suoi membri non siano di nomina politica». «Non lo sono», rispose Earl. «Non direttamente. Ma la gente che dirige la burocrazia, che a sua volta dirige la commissione elettorale, questa è di nomina politica. In questo modo, se vuoi inserirvi qualcuno, se lo vuoi proprio, e se sei sufficientemente ricco e determinato, puoi farlo agendo indirettamente. Naturalmente non riuscirai mai a corrompere del tutto la commissione, a farle fare delle cose palesemente illecite, perché tutti e due i partiti politici stanno bene attenti agli abusi. Ma se le tue intenzioni sono più modeste - impedire, per esempio, che la commissione metta troppo il naso in un paio di comitati di azione politica che tu hai fondato per scopi non proprio legittimi - allora nessuno se ne accorgerà o ci baderà troppo. E se sei pieno di risorse come Palmer Boothe non usi notori farabutti; fai in modo che siano uomini di buona reputazione, appartenenti a una delle istituzioni di beneficenza più importanti del paese, a offrire i loro servigi alla commissione elettorale federale, e tutti saranno ben lieti di vedere dei personaggi così per bene, così ben intenzionati, offrirsi a collaborare con il
governo.» Dan sospirò. «E così è Palmer Boothe, non il governo, a finanziare le ricerche di McCaffrey, il che vuol dire che non era il caso di preoccuparsi che l'FBI volesse far sparire di nuovo Melanie.» «Di questo non sono così sicuro», lo interruppe Earl. «È vero che non era il governo a sborsare i fondi, ma ora che hanno visto il posto e hanno avuto la possibilità di dare un'occhiata alle carte che vi teneva McCaffrey potrebbe venirgli l'idea che quello che stava facendo possa avere applicazioni belliche, e potrebbero aver voglia di esaminare Melanie e lavorare con lei, senza intralci.» «Dovranno passare sul mio cadavere», mormorò Laura. «E così possiamo di nuovo contare solo su noi stessi», disse Dan. Earl annuì. «E poi Boothe a quanto pare è riuscito ad arrivare a Ross Mondale, a usare il dipartimento di polizia contro di noi.» «Non tutto il dipartimento», corresse Dan. «Solo qualche mela marcia.» «Certo, ma chi ci dice che non ha amici anche nell'FBI? E poi mentre potremmo riuscire a recuperare Melanie se fosse il governo a prendercela, se fosse Boothe a metterle le mani addosso avremmo scarsissime speranze di ritrovarla mai più.» Per un paio di minuti rimasero in silenzio. Mangiarono e Laura cercò di imboccare Melanie, ma con scarso successo. Al juke-box c'era di nuovo Bruce Springsteen che cantava qualcosa a proposito del fatto che tutto muore ma certe cose ritornano e, bimba, così è. Nella situazione in cui si trovavano, c'era qualcosa di decisamente inquietante, di sinistro, nei versi di Springsteen. Dan guardava la pioggia riflettendo su come queste nuove informazioni su Boothe potevano essere utili. Ormai sapevano che il nemico era potente, ma non onnipotente come avevano temuto. Questo tirava un po' su di morale. Meglio avere a che fare con un megalomane straricco - un solo nemico, per quanto pazzo e influente - che dover affrontare una burocrazia monolitica determinata a seguire il suo corso, per folle che potesse essere. Il nemico era sempre un gigante, ma un gigante che poteva essere abbattuto se solo si trovava la fionda adatta, la pietra dalla forma perfetta. E ora Dan conosceva l'identità di «papà», il distinto pervertito dai capelli bianchi che andava a far visita regolarmente a Regine Savannah Hoffritz in quella casa di Hollywood Hills di cui non riusciva a decidere se lo stile fosse Tudor o spagnolo.
«Che cosa hai scoperto della John Wilkes Enterprises?» chiese a Earl. Nell'attimo in cui formulò la domanda, vide quello che avrebbe dovuto già vedere, e in parte rispose lui stesso. «Non esiste nessun John Wilkes. È solo il nome di una ditta, vero? John Wilkes Boothe. L'uomo che assassinò Lincoln, anche se quello, mi sembra, si chiamava Booth, senza la e finale. E quindi anche questa è una società di Palmer Boothe, che l'ha chiamata John Wilkes Enterprises per - che cosa? - per scherzo?» Earl annuì. «Sembra anche a me uno scherzo, ma dovrai chiederlo direttamente a lui se vuoi una spiegazione completa. Comunque, la Paladin ha controllato questa mattina la società. Non c'è niente di oscuro o di segreto: Boothe compare come unico azionista. Usa la John Wilkes Enterprises per gestire una serie di piccole imprese che non rientrano in nessuna delle sue altre corporazioni; e da una o due di queste imprese non ricava neppure profitti.» «La John Wilkes Press», disse Dan. Earl sollevò le sopracciglia. «Già, questa è una. Pubblicano solo libri che hanno a che fare con l'occultismo, una casa editrice che qualche anno va in pareggio, qualche altro ci rimette un po' di soldi. La John Wilkes possiede anche un piccolo teatro nella zona di Westwood, una catena di tre negozi che vendono cioccolata artigianale, una concessione della Burger King e diverse altre cose.» «Compresa la casa dove Boothe tiene la sua amante», aggiunse Laura. «Non credo proprio che la consideri la sua amante», commentò Dan con evidente disgusto. «Piuttosto come il suo cagnolino, un grazioso animaletto con un repertorio di giochetti molto speciali.» Finirono di pranzare. La pioggia batteva sui vetri. Melanie rimaneva silenziosa, con gli occhi assenti, sperduti. «E adesso?» domandò infine Laura. «Adesso vado a trovare Palmer Boothe», rispose Dan, «se non ha abbandonato la nave come tutti gli altri topi.» 35 Prima di pagare il conto e di lasciare il ristorante, si decise che Earl avrebbe accompagnato Laura e Melanie al cinema. Avevano bisogno di un posto dove nascondersi per qualche ora, finché Dan fosse riuscito a parlare con Palmer Boothe, di persona o al telefono, e cercare rifugio e anonimità
in un altro motel sembrava, al momento, troppo deprimente. Né all'FBI né alla polizia né agli scagnozzi di Boothe sarebbe venuto in mente di cercarli in un cinema, e i rischi che qualcuno li individuasse per caso nel buio della sala erano praticamente inesistenti. Inoltre, Laura pensava che il film giusto potesse avere un valore terapeutico per Melanie: quelle immagini così grandi, i colori innaturali e il sonoro imponente di un film a volte conquistavano l'attenzione di un bambino autistico quando nient'altro ci riusciva. Di fronte al ristorante c'erano dei distributori automatici di giornali e Dan uscì sotto la pioggia a comprare una copia del Journal per la pagina degli spettacoli. L'ironia di usare la pubblicazione di Palmer Boothe allo scopo di trovare un posto dove nascondersi da lui non sfuggì a nessuno di loro. Scelsero l'ultimo film di Steven Spielberg e un cinema di Westwood. Era una multisala, che programmava un secondo film adatto per Melanie, così che dopo la pellicola di Spielberg potevano passare lì, se necessario, anche il resto del pomeriggio e l'inizio della sera. Il programma era di rimanere nella sala finché Dan non avesse trovato Boothe o non avesse rinunciato a cercarlo, ritornando da loro. Quando uscirono per salire sulla macchina di Earl, Dan entrò con loro per un momento. Mentre la pioggia cadeva da un cielo grigio che sembrava sciogliersi sopra di loro, Dan disse a Laura: «C'è una cosa che devi fare. Quando siete al cinema, voglio che tu tenga d'occhio Melanie ancora più attentamente. Qualunque cosa accada, non lasciarla addormentare. Se chiude gli occhi per più di un attimo scuotila, pizzicala, fa' qualunque cosa ma tienila sveglia». Laura si accigliò. «Perché?» Dan non rispose alla domanda, ma continuò: «E anche se rimane sveglia, ma ti sembra che cada in uno stato catatonico ancora più profondo, fa' il possibile per farla riemergere. Parlale, toccala, pretendi la sua attenzione. Lo so che quello che ti chiedo non è facile, ma fai tutto il possibile». «Tu sai qualcosa, vero?» intervenne Earl. «Forse.» «Sai che cosa accadeva in quella stanza grigia.» «Non lo so. Ho qualche... vago sospetto.» «Che cosa?» Laura si sporse in avanti dal sedile posteriore con un'ansia disperata di capire che cosa stesse accadendo. «Che cosa sospetti? Perché è così importante che stia sveglia?» «Ci vorrebbe troppo tempo per spiegarlo, adesso», mentì lui. Non era sicuro di sapere effettivamente come stavano le cose, e non voleva crearle
apprensioni inutili. «Senti, devo sbrigarmi, scoprire se Boothe è ancora in città. Tu fai di tutto per tenere Melanie sveglia.» «Quando dorme è profondamente catatonica», azzardò Laura, «è più vulnerabile, vero? Forse... forse 'Quello' sente quando sta dormendo e ricompare. Voglio dire, stanotte, nel motel, mentre era addormentata, la camera si è gelata e qualcosa è venuto, no? E ieri sera, in casa, quando la radio è... ha preso vita... e quando la ventata di fiori è entrata nella cucina, lei aveva gli occhi chiusi ed era, non addormentata, ma in uno stato catatonico più profondo del solito. Ti ricordi, Earl? Aveva gli occhi chiusi e sembrava non rendersi conto di quanto le accadeva attorno. E forse 'Quello' doveva sapere quando lei era meno all'erta, ed è venuto allora perché era più vulnerabile. È per questo? È per questo che devo tenerla sveglia?» «Sì», mentì Dan. «In parte. Ora devo proprio andare, Laura.» Avrebbe voluto toccarle il viso. Avrebbe voluto baciarle le labbra e salutarla facendole sentire un calore più forte di quello che aveva il diritto di esprimere. Guardò invece Earl. «Prenditi cura di loro.» «Come se fossero mie», rispose Earl. Dan uscì dall'auto, sbattè lo sportello e corse sotto la pioggia verso la berlina che aveva lasciato dall'altra parte del ristorante. Quando fu in macchina, mentre metteva in moto e azionava i tergicristallo, vide che Earl era già uscito dal parcheggio e si era immesso sulla strada lucida di pioggia fra il traffico lento. Si chiese se li avrebbe mai più visti. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... L'odiosa catena di fallimenti gli attraversò la mente per l'ennesima volta. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... Laura... Melanie... No. Questa volta non avrebbe fallito. Anzi, lui era forse l'unico poliziotto in città, l'unica persona nel raggio di mille chilometri a essere sufficientemente affascinato dal delitto e dagli assassini, sufficientemente versato nel loro aberrante comportamento e nella loro psicologia contorta, da aver trovato la strada per arrivare al cuore di questo caso incredibile; lui era, forse, l'unico ad avere la possibilità di risolverlo. Lui di delitti ne sapeva più di quanto ne avrebbe mai saputo quasi chiunque altro, perché vi aveva riflettuto più di chiunque conoscesse, e perché il delitto aveva svolto un ruolo così importante nella sua vita, non solo professionale, ma anche privata. Questo fascino che provava e la sua esperienza nell'argomento lo avevano convinto da tempo che la capacità di
uccidere esisteva in chiunque, e non si sorprendeva quando la ritrovava anche nei più insospettabili; pertanto, ora non era sorpreso dai sospetti che nelle ultime ore si erano fatti ancor più concreti, mentre Laura ed Earl ne sarebbero stati non solo stupiti, ma probabilmente devastati. Delmar, Carrie, Cindy Lakey. La catena dei fallimenti terminava qui. Si allontanò dal ristorante e, benché si sforzasse con impegno a sostenere il proprio senso di sicurezza, si sentiva ugualmente cupo, cupo quanto la grigia giornata di pioggia nella quale si muoveva. Il film di Spielberg era uscito qualche settimana prima di Natale, ma ancora adesso, a distanza di quasi tre mesi, richiamava tanta gente da riempire la vasta sala in un pomeriggio di un giorno lavorativo. In quel momento, cinque minuti prima dell'inizio dello spettacolo, il pubblico mormorava e rideva e si agitava sulle sedie in allegra attesa. Laura, Melanie ed Earl andarono a sedersi sul lato destro della sala, verso la metà del corridoio. Melanie, fra Laura ed Earl, fissava il gigantesco schermo bianco priva di espressione, immobile, muta, con le mani abbandonate in grembo, ma se non altro sembrava sveglia. Anche se sarebbe stato più difficile controllare la bambina al buio, Laura desiderò che le luci si spegnessero e il film avesse inizio, perché alla luce si sentiva vulnerabile, nuda e osservata in mezzo a tutti quegli sconosciuti. Sapeva che era sciocco preoccuparsi: quel posto era sicuro. Se c'era un posto al mondo dove poteva sentirsi al sicuro, questo era un comune cinematografo in un pomeriggio di pioggia. Eppure, aveva ormai concluso da qualche tempo che di posti sicuri non ne esistevano più. Avendo stabilito che la sorpresa era il miglior approccio da adottare con Palmer Boothe, Dan si diresse direttamente dal ristorante alla sede del Journal in Wilshire Boulevard. Non sapeva se si trovasse ancora in città e men che meno se si trovasse ancora in ufficio, ma quello era il posto migliore da cui partire. Parcheggiò nel garage sotterraneo dell'edificio e salì con l'ascensore al diciottesimo piano, dove tutti i dirigenti dell'impero delle comunicazioni del Journal - che comprendeva altri diciannove giornali, due riviste, tre radio e due televisioni - avevano i loro uffici. L'ascensore si aprì su un salone lussuosamente arredato con un tappeto alto e soffice e due Rothko alle
pareti. Inevitabilmente impressionato dalla consapevolezza che quei due pezzi incorniciati con semplicità rappresentavano probabilmente quattro o cinque milioni di dollari, Dan non riuscì a entrare facilmente come aveva previsto nel ruolo di Minaccioso Detective della Omicidi. Usò comunque il suo distintivo e tutta la sua autorità per passare oltre le guardie armate e una receptionist freddamente cortese e supremamente efficiente. Un educato giovanotto che poteva essere un segretario esecutivo o un giovane dirigente o una guardia del corpo addestrata a uccidere - o tutt'e tre le cose arrivò richiamato dalla receptionist e accompagnò Dan per un lungo corridoio così silenzioso che avrebbe potuto trovarsi nello spazio interstellare anziché nel centro di una grande città. Sbucarono in un'altra sala d'attesa, una sorta di squisita camera di decompressione davanti allo studio privatissimo del grande comandante dell'astronave in persona, Palmer Boothe. Il giovanotto presentò Dan alla signora Hudspeth, la segretaria personale di Boothe, e scomparve. La signora Hudspeth era una piacente ed elegante donna di mezza età dai modi molto pratici e sbrigativi. «Oh, tenente», gli disse, «sono molto spiacente, ma il signor Boothe non è qui. Non vi siete incontrati per pochi minuti. Aveva un appuntamento. È stata una giornata terribilmente intensa per lui, ma d'altronde lo sono quasi tutte, sa.» La notizia che Boothe continuasse a occuparsi del suo lavoro come sempre lasciò sconcertato Dan. Se la sua teoria era giusta, se aveva identificato realmente «Quello», Palmer Boothe doveva avere una paura disperata, doveva essere scappato, o forse essersi barricato nei sotterranei di qualche castello fortificato, preferibilmente in Jugoslavia o nelle Alpi svizzere o in qualche altro angolo del mondo lontano e inaccessibile. Se Boothe partecipava a riunioni e prendeva decisioni d'affari come il solito, ciò doveva significare che non era impaurito, e se non era impaurito ciò doveva a sua volta significare che la teoria di Dan sulla stanza grigia era sbagliata. Si rivolse alla signora Hudspeth. «Devo parlare assolutamente con il signor Boothe. È una questione urgente. Una questione di vita o di morte.» «Sì, certo, anche lui è estremamente ansioso di parlare con lei», rispose lei. «Sono sicura che questo era chiaro dal suo messaggio.» Dan sbattè perplesso le palpebre. «Quale messaggio?» «Ma non è per questo che lei è qui? Non ha ricevuto il messaggio che le ha lasciato al distretto?» «La East Valley Division?»
«Sì, ha telefonato questa mattina come prima cosa, ansioso di fissare un incontro con lei. Ma lei non era ancora arrivato. L'abbiamo cercata a casa, senza successo.» «Oggi non sono passato per East Valley», spiegò lui. «Non ho avuto nessun messaggio. Sono qui perché devo parlare con il signor Boothe prima possibile.» «Oh, so bene che ci tiene anche lui a incontrarla. Anzi, ho una copia del suo programma della giornata, punto per punto: mi ha chiesto di mostrargliela se fosse venuto. Di stabilire lei un contatto nel momento che le risulta più comodo.» Ah, bene. Così andava meglio. Boothe, dunque, era disperato, così disperato da sperare che Dan si potesse corrompere o accettasse di agire da intermediario fra lui e quella cosa che stava dando la caccia alla gente della stanza grigia. Non stava fuggendo, non si nascondeva perché sapeva benissimo che non sarebbe servito a nulla. Stava conducendo i suoi affari normalmente perché l'alternativa - starsene a fissare un muro in attesa dell'arrivo di «Quello» - era semplicemente impensabile. La signora Hudspeth andò alla scrivania, aprì una cartella e ne estrasse un foglio. Lo esaminò per un momento, poi disse: «Ho paura che non le riuscirà di raggiungerlo dov'è adesso, e dopo sarà in movimento per un pezzo, per cui temo che al più presto potrà vederlo alle quattro». «Fra più di un'ora e un quarto. È sicura che prima non sia possibile?» «Guardi lei stesso», rispose lei, porgendogli il foglio del programma. Aveva ragione. Se avesse cercato di inseguire per la città la limousine di Boothe, avrebbe sicuramente continuato a perderlo; l'editore era un uomo pieno di impegni. Ma alle quattro doveva essere a casa; così diceva il foglio. «Dove abita?» La signora Hudspeth diede l'indirizzo a Dan, che se lo annotò. Era un posto a Bel Air. Quando, finito di scrivere, chiuse il taccuino e alzò lo sguardo, si accorse che la donna lo stava osservando attentamente. C'era una sorta di avida curiosità nei suoi occhi; sentiva chiaramente che stava succedendo qualcosa di straordinario, ma per una volta Boothe non l'aveva messa a parte delle sue cose, e le occorreva tutto il suo autocontrollo per impedirsi di cercare di estorcere a Dan altre informazioni. In più, ora era evidentemente in preda all'ansia, un'emozione che fino a quel momento era riuscita a nascondere, ma che ora emergeva, come il corpo rigonfio di un annegato che sale a
galla, verso la superficie di un'acqua scura. Il giovane funzionario - o l'equivalente umano di un cane da combattimento, o qualsiasi cosa fosse - tornò per riaccompagnare Dan alla reception. La guardia armata era ancora di sentinella accanto agli ascensori. La splendida ma gelida receptionist batteva i tasti di un computer, provocando un ticchettio sommesso che, nell'acustica ovattata della sala, faceva venire in mente a Dan il rumore di cubetti di ghiaccio agitati in un bicchiere. Il film, con gran sollievo di Laura, era iniziato da dieci minuti, ormai. Finalmente, loro tre erano anonimi quanto tutti gli altri spettatori, sprofondati nelle poltrone dagli alti schienali. Melanie guardava davanti a sé con la stessa espressione che aveva quando lo schermo era bianco. Il riverbero della proiezione illuminava il suo viso e i riflessi distorti delle immagini del film si muovevano sui suoi lineamenti, dandole qualche momento di colorito artificiale, ma perlopiù quella strana luce la faceva apparire ancora più pallida di quanto fosse. Almeno è sveglia, pensò Laura. E poi si chiese che cosa sapesse Dan Haldane. Più di quanto le aveva detto, questo era certo. Dall'altra parte di Melanie, Earl Benton infilò una mano all'interno della giacca e Laura capì che si stava accertando che il revolver fosse nella fondina e che potesse estrarlo senza intralci. Da quando era iniziato il film aveva controllato almeno due volte, e lei era certa che lo avrebbe fatto ancora entro qualche minuto. Era una sorta di tic nervoso, e per un uomo che non era il tipo da tic nervosi rappresentava un'indicazione della profondità della sua ansia. Ma, ovviamente, se «Quello» fosse arrivato lì nella sala del cinema, pronto infine a prendere Melanie, il revolver non sarebbe stato di alcun aiuto, indipendentemente dalla rapidità con cui Earl fosse riuscito a estrarlo. Con un'ora e un quarto da far passare prima di incontrarsi con Palmer Boothe a Bel Air, Dan decise di passare dalla stazione di polizia di Westwood, dove la sera prima era stata presentata la denuncia contro Wexlersh e Manuello. I due detective erano stati fermati solo sulla dichiarazione giurata di Earl Benton, e Dan voleva aggiungere, con la sua testimonianza, un altro peso contro la porta della loro cella. Aveva lasciato intendere a Ross Mondale che non avrebbe accusato Wexlersh e Manuello di aggressione e tentato omicidio, e gli aveva assicurato che Earl avrebbe riti-
rato la sua denuncia entro un paio di giorni, una volta che le McCaffrey fossero state al sicuro, ma aveva mentito. Se non fosse riuscito a ottenere nient'altro in questo caso, se avesse mancato di salvare Melanie e Laura, almeno avrebbe visto Wexlersh e Manuello dietro le sbarre, e Ross Mondale rovinato. Al distretto, l'agente incaricato del caso, un certo Herman Dorft, fu lieto di vedere Dan. L'unica cosa che Dorft avrebbe desiderato più della denuncia di Dan era quella di Laura McCaffrey, e si mostrò deluso apprendendo che la signora McCaffrey nell'immediato futuro non era raggiungibile. Portò Dan in una saletta da interrogatori con una scrivania d'angolo, una macchina per scrivere, un tavolo e cinque sedie, e gli chiese se preferiva un dattilografo o un registratore. «La routine mi è così familiare», rispose Dan, «che preferisco battere io stesso la dichiarazione. Userei quella macchina se posso avere della carta.» Dorft annuì, e dopo un paio di minuti Dan era solo con la macchina per scrivere, con la luce fredda del neon, e il rumore della pioggia sul tetto e con l'odore pesante e aspro del fumo delle sigarette che aveva lasciato una sottile patina giallastra sulle pareti dall'ultima volta che la stanza era stata imbiancata. Venti minuti dopo aveva finito di preparare la denuncia e stava per andare a cercare un funzionario di polizia, alla cui presenza avrebbe firmato quanto aveva scritto, quando si aprì la porta ed entrò Michael Seames, l'agente dell'FBI. «Salve», esclamò con una voce ancora più forte e giovanile del suo strano viso da ragazzo. «La cercavo.» «Buona giornata per andare a caccia, vero?» commentò Dan alzandosi. «Dove sono la signora McCaffrey e Melanie?» chiese Seames. «Si fa fatica a credere che solo pochi anni fa ci preoccupavamo tanto della siccità. Ora gli inverni si fanno ogni anno più piovosi.» «Due detective accusati di tentato omicidio, violazioni dei diritti civili da parte della polizia, svariate potenziali infrazioni della sicurezza nazionale: a questo punto il Bureau ha tutti i motivi per intervenire nel caso, Haldane.» «Io, personalmente, mi sto costruendo un'arca», riprese Dan, raccogliendo il foglio e dirigendosi verso la porta. Seames non si spostò. «E siamo intervenuti. Qui non siamo più soltanto degli osservatori. In questi omicidi abbiamo esercitato il diritto della giurisdizione federale.» «Buon per voi», rispose Dan.
«Lei, inutile dirlo, ha l'obbligo di collaborare con noi.» «Dev'essere divertente», commentò Dan, desiderando che Seames si togliesse dai piedi. «Dove sono la signora McCaffrey e Melanie?» «Forse al cinema?» rispose Dan. «Maledizione, Haldane...» «Be', con una giornata come questa certamente non saranno andate sulla spiaggia o a fare un pic nic a Griffith Park. Molto più probabile al cinema.» «Lei sta ostacolando...» «No, è lei che sta ostacolando», osservò Dan. «Lei mi impedisce di passare.» Lo spinse via, uscendo dalla stanza. L'agente dell'FBI lo seguì lungo il corridoio fino alla sala operativa, dove Dan individuò un funzionario addetto alle autentificazioni. «Haldane, non può proteggerle da solo. Se insiste a voler gestire la cosa in questo modo, finiranno con l'essere rapite o uccise, e la colpa sarà sua.» Dan firmò la sua dichiarazione davanti al funzionario. «Forse. Forse verranno uccise. Ma, se le lascio a voi, saranno uccise sicuramente.» Seames lo guardò a bocca aperta. «Sta insinuando che io, che l'FBI, che il governo ucciderebbe la bambina? Magari perché fa parte di un progetto di ricerca sovietico? O forse perché fa parte di uno dei nostri progetti e sa troppe cose e ora vogliamo chiuderle la bocca prima che la cosa raggiunga il pubblico? È questo che pensa?» «L'idea mi aveva attraversato la mente.» In preda a un'autentica furia oltraggiata, o a una sua ottima imitazione, Seames seguì Dan dal funzionario a un'altra scrivania dove sedeva Herman Dorft. «È impazzito, Haldane?» chiese Seames. «Noi siamo il governo, Cristo. Il governo degli Stati Uniti! Non siamo mica in Unione Sovietica, dove il governo bussa ogni notte a un paio di centinaia di porte e un paio di centinaia di persone spariscono. Questo non è l'Iran o il Nicaragua o il Salvador. Non siamo killer. Siamo qui per proteggere il pubblico. Noi non ammazziamo la gente.» Dan consegnò la sua denuncia a Dorft. «D'accordo, il governo, l'istituzione del governo in questo Paese, non uccide la gente, se non, forse, con le tasse e la burocrazia. Ma il governo è composto di persone, di individui, e la sua agenzia è composta di individui e non venga a dirmi che alcuni di quegli individui non sarebbero capaci di assassinare le McCaffrey in cam-
bio di denaro, o per motivi politici, per malinteso idealismo, o per mille altre ragioni. Non venga a dirmi che nella sua agenzia sono tutti così santi che un pensiero omicida non ha mai sfiorato la mente di nessuno.» Dorft li fissava, interdetto, mentre Seames scuoteva con violenza la testa. «Gli agenti dell'FBI sono...» «Devoti, professionali e in generale capacissimi nel loro lavoro», terminò Dan. «Ma anche il migliore di noi ha la potenzialità di uccidere, signor Seames. Anche quelli che appaiono come i più affidabili, o i più gentili. Mi creda, io lo so. So tutto sull'omicidio, sugli assassini fra noi, sull'assassino dentro di noi. Più di quanto vorrei saperne. Ci sono madri che uccidono i figli. Mariti che si ubriacano e uccidono le mogli, e a volte non hanno bisogno neppure di ubriacarsi. L'estate scorsa, proprio qui a Los Angeles, nella più calda giornata di luglio, un comune rappresentante di commercio ha ammazzato il vicino dopo una lite su una falciatrice prestata. Siamo una specie contorta, Seames. Siamo ben intenzionati, vogliamo fare il bene di tutti, e ci proviamo, Dio sa se ci proviamo, ma c'è dentro di noi questa zona di ombra, questa macchia, e ci tocca combatterla ogni minuto, combattere perché la macchia non si allarghi, non abbia la meglio su di noi; combattiamo, sì, ma qualche volta perdiamo. Ammazziamo per gelosia, avidità, invidia, orgoglio, vendetta. Gli idealisti uccidono. I fanatici religiosi si uccidono a vicenda nel nome di Dio. Casalinghe, preti, uomini d'affari, stagnini, pacifisti, poeti, medici, avvocati, nonne, punk, adolescenti, siamo tutti potenzialmente in grado di uccidere. Dato il momento giusto, il giusto stato d'animo e il movente. E quelli che bisogna temere sono soprattutto coloro che si professano uomini di pace, quelli che dicono di essere assolutamente non violenti e inoffensivi, perché o mentono aspettando il momento di fregarti, oppure sono pericolosamente ingenui, e non sanno nulla delle cose importanti su se stessi. Ora, vede, due persone a cui tengo - le due persone a cui tengo di più al mondo, a quanto pare - sono in pericolo di vita, e io non affiderò la loro custodia a nessuno oltre che a me. Spiacente, niente da fare. E chiunque tenti di ostacolarmi, chi cerchi di impedirmi di proteggere le McCaffrey, rischia almeno di trovarsi con il culo spinto a calci su fino alle scapole - almeno. E chiunque tenti di far loro del male, di toccarle solo con un dito, be', perdio, lo faccio fuori, più che sicuro; su questo non ho dubbi perché non mi faccio illusioni sulla mia capacità di ammazzare.» Tremando, si girò e si diresse verso la porta che dava sul parcheggio della stazione di polizia. Si accorse che sulla sala era caduto il silenzio e che
tutti lo guardavano; si rese conto che aveva parlato non solo con rabbia e con passione ma anche con quanta voce aveva in gola. Si sentiva febbricitante, aveva il viso coperto di sudore. Tutti si scostavano per lasciarlo passare. Aveva raggiunto la porta e stava per aprirla quando Michael Seames, ripresosi dall'impatto di quello sfogo, lo raggiunse. «Un momento, Haldane, Cristo santo, non può funzionare così. Non possiamo lasciarle fare il Cavaliere Solitario. Rifletta! Ci sono state otto persone morte in due giorni, è un caso troppo maledettamente grosso per...» Dan si bloccò prima di aprire la porta, si girò di scatto verso Seames e lo interruppe. «Otto? Ha detto così? Otto morti?» Dylan McCaffrey, Willy Hoffritz, Cooper, Rink e Scaldone. Erano cinque. Non otto. Solo cinque. «Che cos'è successo da ieri sera? Chi altro è stato colpito dopo Joseph Scaldone?» «Non lo sa?» «Chi altro?» «Edwin Koliknikov.» «Ma era andato via. È scappato, è andato a Las Vegas.» Seames era furioso. «Lei sapeva di Koliknikov? Sapeva che era associato a Hoffritz, alla faccenda della stanza grigia?» «Sì.» «Noi non lo sapevamo finché non l'hanno ammazzato, Cristo! Lei sta sottraendo informazioni a un'indagine di polizia, Haldane!» «Che cosa è accaduto a Koliknikov?» Seames lo mise al corrente di quanto era successo a Las Vegas. «Era come un poltergeist», ripetè l'agente. «Qualcosa di invisibile. Un potere ignoto, inimmaginabile, che è entrato in quel casinò e ha ammazzato di botte Koliknikov davanti a centinaia di testimoni! Ora non c'è più alcun dubbio che Hoffritz e Dylan McCaffrey stessero lavorando a qualcosa di importante, e siamo maledettamente determinati a sapere di che cosa si trattasse.» «Avete i suoi documenti, i registri e gli archivi della casa di Studio City...» «Li avevamo», precisò Seames. «Ma quello che è entrato nel casinò e ha ammazzato Koliknikov è anche entrato nell'archivio delle prove di questo caso e ha dato fuoco a tutte le carte di McCaffrey.» «Che cosa? Quando è successo?» «Questa notte. Una fottuta combustione spontanea», disse Seames. Era
chiaro ormai che era fuori di sé: un agente federale non urla parole del genere in pubblico. «Aveva detto otto», gli ricordò Dan. «Otto morti. Chi altro, oltre Koliknikov?» «Howard Renseveer è stato trovato morto nel suo chalet in montagna questa mattina, su a Mammoth. Immagino che lei sappia anche di Renseveer.» «No», mentì Dan, temendo che la verità avrebbe fatto talmente infuriare Seames da spingerlo a dichiararlo in arresto. «Harold Renseveer?» «Howard», lo corresse Seames, ma il suo tono sarcastico indicava che era quasi convinto che Dan conoscesse benissimo quel nome. «Un altro associato con Willy Hoffritz e Dylan McCaffrey. Evidentemente si nascondeva lassù. Quelli che l'hanno rinvenuto si sono trovati davanti a un macello. E con Renseveer c'era un altro. Sheldon Tolbeck.» «Tolbeck? Chi è?» «Un altro psicologo coinvolto con Hoffritz e McCaffrey. Sembra che Tolbeck fosse nella baita quando questa cosa, questo potere, qualsiasi cosa esso sia, si è presentato e si è messo a sprangare Renseveer. Tolbeck è fuggito nei boschi. Non è stato ancora trovato. Probabilmente non lo sarà mai, e se sì, be', il meglio che possiamo sperare per lui è che sia morto congelato.» Brutta cosa. Terribile. La peggiore. Dan sapeva che il tempo stava passando, ma non immaginava che precipitasse in quel modo, come un'alluvione da una diga crollata. Pensava che rimanessero da liquidare almeno cinque dei cospiratori della stanza grigia prima che «Quello» rivolgesse la sua attenzione a Melanie. Aveva sperato che quelle esecuzioni richiedessero ancora un paio di giorni e che lui, prima che l'ultimo della combriccola fosse stato eliminato, avrebbe avuto confermati i suoi sospetti e trovato un modo per mettere fine al massacro in tempo per salvare Melanie. Ma improvvisamente le sue probabilità erano calate enormemente. Da quello che ne sapeva, erano rimasti solo in due: Albert Uhlander, lo scrittore, e Palmer Boothe. Solo questi due stavano tra la bambina e la morte, e in quello stesso momento l'editore o lo scrittore, o entrambi, potevano trovarsi nella morsa spietata del loro invisibile, ma orribilmente potente avversario. Si girò, aprì di scatto la porta e si precipitò nel parcheggio. Mentre sguazzava nelle pozzanghere, riempiendosi di acqua le scarpe, sentì Seames che gli gridava dietro, ma non si fermò né rispose. Quando raggiunse
l'auto, fradicio di pioggia e tremante, guardò indietro e vide Seames sulla porta della stazione di polizia. Da quella distanza la faccia dell'agente sembrava essere invecchiata negli ultimi minuti; ora era più in armonia con i suoi capelli grigi. Uscendo dal parcheggio nella strada, Dan fu sorpreso del fatto che Seames lo lasciasse andare. Data la situazione, sarebbe stato giustificato se lo avesse trattenuto in arresto; anzi, non averlo fatto era una mancanza piuttosto grave. Ora era più importante che mai parlare presto con Boothe, al più presto. Se la vita di Melanie già prima era appesa a un filo, ora quel filo si stava assottigliando, e il tempo consumava come un rasoio implacabile quel fragile legame. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... No. Questa volta no. Avrebbe salvato quella donna, quella bambina. Non avrebbe fallito di nuovo. Attraversò Westwood, raggiunse Wilshire, svoltò a sinistra diretto verso Westwood Boulevard, che lo avrebbe portato a Sunset e a Bel Air. Sarebbe arrivato da Boothe con un certo anticipo, ma non era escluso che fosse in anticipo anche Boothe. Superò tre isolati prima che gli venisse in mente che Seames poteva aver fatto impiantare una microspia nell'auto mentre lui preparava la denuncia contro Wexlersh e Manuello. Per questo non l'aveva trattenuto. Seames aveva capito che il modo più rapido per trovare Laura e Melanie McCaffrey era farsi portare da loro da Dan. Al semaforo rosso, Dan controllò attentamente nello specchietto retrovisore. Il traffico era intenso e scoprire qualcuno che lo pedinasse sarebbe stato complesso, gli avrebbe fatto perdere del tempo quando di tempo da perdere ce n'era pochissimo. E poi, se qualcuno lo seguiva, non era detto che fosse a distanza visibile: se gli avevano messo una microspia, se lo controllavano elettronicamente, potevano essere lontani degli isolati, seguirlo su uno schermo. Doveva seminarli. Non stava ancora andando dalle McCaffrey, ma non voleva che lo seguissero neppure da Boothe. Un codazzo di agenti dell'FBI non avrebbe incoraggiato particolarmente Boothe a parlare. E poi, se Boothe avesse detto tutto quello che sapeva, Dan non voleva che ci fosse nessuno a senti-
re, perché se Melanie, per miracolo, fosse sopravvissuta, quelle informazioni si sarebbero potute usare contro di lei. E allora non avrebbe avuto più la minima possibilità di trovare la strada per uscire dal suo autismo, di tornare mai più a condurre una vita normale. Già adesso per lei c'erano poche speranze, appena un barlume. Per ora, compito di Dan era custodire quella scintilla di speranza e cercare di trasformarla in fiamma. Il semaforo passò al verde. Dan esitò un attimo, senza sapere bene da che parte andare, quale iniziativa prendere per liberarsi di chi lo pedinava. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... Guardò l'ora. Il cuore gli batteva forte. Il ticchettio dell'orologio, il battito del suo cuore e il tamburellare della pioggia sull'auto si fondevano tutti insieme in un'unica voce di metronomo, come se tutto il mondo fosse una bomba a orologeria pronta a esplodere. 36 Gli occhi di Melanie si muovevano con l'azione sullo schermo. Non emetteva alcun suono, non si muoveva di un millimetro sulla poltrona, ma i suoi occhi si spostavano, e questo sembrava un buon segno. Era una delle poche volte, negli ultimi due giorni, che Laura vedeva la bambina guardare realmente qualcosa di questo mondo. Da quasi un'ora, ormai, il movimento dei suoi occhi indicava che stava seguendo l'azione del film, e questa era certamente la prima volta che si concentrava per un tempo apprezzabile su un evento esterno. Che seguisse la trama o fosse semplicemente affascinata dalle vivide immagini non contava. La cosa importante era che la musica, i colori, le scene, avevano fatto quanto nient'altro aveva potuto, avevano cominciato a tirar fuori la bambina dal suo esilio psicologico. Laura sapeva bene che non ci sarebbe stata nessuna ripresa miracolosa, nessun abbandono spontaneo dell'autismo semplicemente grazie a un film. Ma era un inizio, per quanto piccolo. Nel frattempo, l'interesse di Melanie per il film facilitava a Laura il compito di controllarla e mantenerla sveglia. La piccola non mostrava nessun segno di sonnolenza, nessun segno di scivolare in uno stato catatonico più profondo. Dan si mosse su e giù per Westwood, passando da una strada all'altra.
Ogni volta che arrivava a uno stop o a un semaforo rosso, fermava la macchina, saltava giù ed esaminava freneticamente una parte limitata della carrozzeria in cerca della piccola trasmittente che sicuramente doveva essere stata applicata al veicolo. Avrebbe potuto parcheggiare e perquisire metodicamente l'auto, dal muso alla coda, ma così gli agenti che gli erano alle calcagna lo avrebbero raggiunto e avrebbero visto quello che stava facendo. Se si fossero accorti che sospettava di essere controllato, non gli avrebbero dato l'opportunità di eliminare la microspia e di far perdere le sue tracce; molto probabilmente lo avrebbero arrestato e riportato da Michael Seames. Al semaforo, quindi, uscì sotto la pioggia battente e controllò freneticamente sotto il parafango anteriore sinistro, nel pozzetto della ruota, attorno al copertone, cercando a tentoni quella che doveva essere una scatoletta elettronica, applicata magneticamente, delle dimensioni di un pacchetto di sigarette; alla fermata successiva fece lo stesso con la ruota posteriore sinistra, e ai due semafori seguenti scese di corsa dall'auto ed esplorò le altre due. Sapeva che gli altri automobilisti lo osservavano, ma dato il suo zigzagare fra strade scelte a caso, nessuno di loro gli stava dietro per più di due fermate, e quindi nessuno aveva il tempo di cominciare a pensare che il suo comportamento era sospetto e non semplicemente strano o eccentrico. Infine, a un segnale di stop su un incrocio in un quartiere residenziale a due isolati a est di Hilgarde e a sud di Sunset Boulevard, quando era l'unico automobilista sulla strada, con la pioggia che gli incollava i capelli al cranio e si insinuava nel colletto della giacca, trovò quello che stava cercando sotto il paraurti anteriore. Lo strappò, lo gettò fra i cespugli di un giardino di una casa, saltò al volante, richiuse lo sportello e ripartì a tutto gas. Per i successivi due isolati continuò a tener d'occhio il retrovisore, temendo che chi lo seguiva fosse arrivato abbastanza vicino da vedergli buttar via la trasmittente e ora lo stesse seguendo a vista. Ma non vide nessuno. Aveva i pantaloni e le scarpe completamente inzuppati, e l'acqua gli era penetrata abbondante anche lungo il collo. Fu preso dai brividi. Alzò al massimo il riscaldamento dell'auto, ma l'attrezzatura del veicolo di servizio non era un gran che. Non smise di tremare finché non fu arrivato sino alle alture di Bel Air, aggirandosi per la rete intricata di strade private, ed ebbe trovato l'abitazione di Boothe. Al di là dei pini che fiancheggiavano la strada, Dan vide un muro di mattoni del colore del sangue secco, alto più di due metri e sormontato da
nere punte di ferro. Il muro si estendeva per una lunghezza tale che sembrava circondare la proprietà di un istituto - un college, un ospedale o un monastero - anziché quella di una residenza privata. Ma a un certo punto giunse a un vialetto d'accesso, dove il muro si incurvava dai due lati sino a un formidabile cancello di ferro. Una guardia, con gli stivali di gomma e un giaccone impermeabile con il cappuccio, uscì da una costruzione seminascosta dietro il muro di cinta. Si avvicinò all'auto, domandò in che cosa potesse essere utile, controllò i documenti di Dan e lo informò del fatto che era atteso. «Segua il viale principale, tenente, e parcheggi nella spianata davanti alla casa.» Il parco di Boothe sembrava coprire una superficie di tre o quattro ettari, e doveva essere una delle più grandi tenute di Bel Air. Il viale partiva in salita per poi svoltare sulla sinistra, in mezzo a un parco curatissimo. La casa, che sorgeva sul punto in cui il viale curvava su se stesso formando uno spiazzo, era il posto in cui avrebbe vissuto il Padreterno in persona, se avesse avuto denaro a sufficienza. Sembrava uno di quei castelli aristocratici inglesi, un'immensa quantità di mattoni con pietre angolari e modanature in granito, tre piani in altezza, un tetto mansardato di ardesia nera, a spiovente, con numerose ali semivisibili e altre invisibili che si dipartivano dalla costruzione centrale e una dozzina di gradini che conducevano, attraverso un portico, a un'antica porta d'ingresso che era costata la vita probabilmente almeno a una grossa quercia o a due più giovani. Parcheggiò accanto a una fontana di marmo nel centro dello spiazzo circolare formato dal viale. Al momento non gettava acqua, ma sembrava lo sfondo per una scena d'amore fra Cary Grant e Audrey Hepburn in uno di quei vecchi film di intrigo e passione ambientati in Europa. Salì i gradini e uno dei battenti della porta si aprì prima ancora che lui avesse cercato il campanello. La guardia all'ingresso doveva aver annunciato il suo arrivo. Il salone d'entrata era così vasto che Dan pensò che avrebbe potuto viverci comodamente anche se un giorno si fosse sposato e avesse avuto due figli. Un maggiordomo con accento inglese gli prese l'impermeabile. «Il signor Boothe la sta aspettando in biblioteca», gli annunciò. Dan guardò l'orologio e vide che erano le quattro meno cinque. Con il tempo perduto a cercare la microspia, dopotutto non era riuscito ad arrivare con molto anticipo. Fu preso di nuovo dalla sensazione del tempo che scorreva via.
Il maggiordomo lo condusse attraverso una serie di enormi sale silenziose, ciascuna arredata in maniera più elaborata ed elegante della precedente, camminando su antichi tappeti persiani e cinesi, sotto soffitti di legno intagliato che sembravano importati da castelli europei, attraverso porte scolpite, accanto a dipinti di molti maestri della scuola impressionista (con nessun motivo per credere che uno solo dei pezzi fosse una stampa o un'imitazione). Il lusso e la bellezza della casa erano imponenti e di grande effetto, ma, sorprendentemente, non fu quella la principale impressione che Dan ricevette mentre attraversava quelle sale principesche. Piuttosto, cosa strana, la successione di stanze sontuose gli provocava un disagio crescente, la sensazione della presenza di forze potenti e sinistre appena assopite, ma pronte a risvegliarsi, dietro le pareti e sotto i pavimenti, una percezione pseudopsichica di un gigantesco e oscuro macchinario che arrancava malevolo in qualche luogo al di fuori della portata dei suoi sensi. Nonostante il gusto raffinato e i mezzi apparentemente illimitati con cui la casa era stata costruita e arredata, nonostante i suoi spazi sconfinati - o forse, in parte, proprio per le sue dimensioni sovrumane - il senso dominante era di oppressione. Dan, inoltre, non poté fare a meno di domandarsi cupamente come potesse Palmer Boothe possedere la raffinatezza e il gusto per apprezzare una casa come quella ed essere al tempo stesso capace di condannare una bambina agli orrori della stanza grigia. Una personalità così ambigua doveva sconfinare nella schizofrenia. Il dottor Jekyll e Mr Hyde. Il grande editore e liberale e filantropo che, di notte, si aggira per le strade con uno stiletto celato in un innocente bastone da passeggio. Il maggiordomo aprì una delle pesanti porte della biblioteca ed entrò, annunciando Dan; Dan lo seguì con qualcosa di più di un po' di trepidazione. Il maggiordomo si ritirò immediatamente, chiudendo la porta dietro di sé. I pannelli di quercia del soffitto scendevano lungo le pareti fino a un'altezza di tre metri, agli scaffali, anch'essi di quercia, pieni zeppi di libri, alcuni raggiungibili solo con l'aiuto di una scala da biblioteca. In fondo alla sala alcuni finestroni occupavano l'unica parete non dedicata completamente ai libri, offrendo la vista di rigogliosi giardini, attraverso le pesanti tende verdi chiuse solo a metà. Tappeti cinesi decoravano il pavimento di quercia lucidissimo, e gruppi di poltrone imbottite circondavano alcuni tavolini sparsi per il salone. C'era anche una scrivania grande quasi quanto
un letto, su cui spiccava una lampada Tiffany dai colori così ricchi e dalla composizione così squisita che sembrava fatta non di semplice vetro ma di gemme preziose. Aggirando la scrivania, accanto ai raggi rossi, gialli, verdi, azzurri filtrati dalla lampada, Palmer Boothe andò ad accogliere il suo ospite. Boothe, alto un metro e ottanta, spalle e torace larghi e vita sottile, tra i cinquantacinque e i sessant'anni, aveva il fisico e il portamento di un uomo molto più giovane. Il suo viso era troppo sottile e i lineamenti troppo allungati perché lo si potesse dire bello, ma l'aria ascetica nelle sue labbra sottili, il naso affilato e una traccia di nobiltà nel suo mento e nella linea della mascella gli conferivano un aspetto decisamente aristocratico. Avvicinandosi, Boothe gli tese la mano. «Tenente Haldane, sono lietissimo che le sia stato possibile venire.» Prima ancora di rendersi conto di quello che stava facendo, Dan si accorse che stava stringendo la mano di Boothe, benché la sola idea di toccare quel rettile maligno avrebbe dovuto fargli repulsione. Di sicuro, grazie all'impalpabile capacità manipolativa del miliardario, Dan non era riuscito a iniziare l'incontro come avrebbe voluto, dando di sé l'impressione del rude poliziotto, pronto a spaccare il culo a chiunque. Dan colse un movimento in un angolo in ombra del salone e girandosi vide un uomo alto, magro, con una faccia da rapace, che si alzava da una poltrona con un bicchiere di whisky in mano. Pur essendo lontano più di sei metri, i suoi occhi insolitamente brillanti e intensi trasmettevano tutta l'essenza della sua personalità: intelligenza, una curiosità singolarmente forte, aggressività e appena un pizzico di follia. Boothe stava per fare le presentazioni, ma Dan lo precedette: «Albert Uhlander, lo scrittore». Uhlander evidentemente sapeva di non possedere gli eccezionali poteri manipolatori di Boothe, perché non sorrise e non accennò a tendere la mano. Che si trovassero su due campi opposti, con due ideologie ostili, sembrava a Uhlander evidente quanto lo era per Dan. «Beve qualcosa?» chiese Boothe con una cortesia che cominciava a essere esasperante. «Scotch? Bourbon? Magari uno sherry secco?» «Cristo, non abbiamo tempo di metterci seduti a bere», rispose Dan. «Voi due siete ancora vivi quasi per caso e lo sapete, e l'unico motivo per cui voglio cercare di salvarvi la vita è che così potrò avere il grande piacere di mettervi tutt'e due, bastardi, in galera, per un tempo quasi infinito.» Ecco. Così andava meglio.
«Benissimo», disse Boothe freddamente, e tornò alla sua scrivania. Si accomodò nella poltrona di pelle verde e rimase quasi interamente in ombra, tranne il viso, su cui pioveva la luce verde, gialla e azzurra della lampada Tiffany. Uhlander si avvicinò a un finestrone e si fermò lì, dandole le spalle. Da fuori, la luce già grigia per il temporale e il precoce crepuscolo invernale riusciva a fatica a penetrare la fitta vegetazione del giardino sino alla finestra della biblioteca. Di Uhlander spiccava solo la silhouette, mentre il viso rimaneva immerso nell'ombra che ne celava l'espressione. Dan si avvicinò alla scrivania, nel cerchio della luce ingioiellata e guardò Boothe, che aveva preso un bicchiere di whisky. «Perché un uomo con la sua posizione e reputazione deve finire coinvolto con uno come Willy Hoffritz?» «Era brillante. Un genio nel suo campo. Ho sempre cercato la compagnia delle persone più intelligenti», rispose Boothe. «Prima di tutto, perché sono le più interessanti. Poi, le loro idee e il loro entusiasmo sono spesso di grande utilità pratica nell'una o nell'altra delle mie attività.» «E inoltre Hoffritz poteva metterle a disposizione una giovane donna completamente passiva, totalmente sottomessa, in grado di sopportare qualsiasi umiliazione volesse infliggerle. Vero, papà?» Finalmente nella sicurezza di Boothe apparve una crepa. Per un attimo nei suoi occhi comparve l'odio, i muscoli della sua mascella si tesero di rabbia. Ma fu solo una crepa quasi impercettibile, che si richiuse in una frazione di secondo. Il suo viso si ricompose e riprese a sorseggiare il whisky. «Tutti gli uomini hanno delle debolezze, tenente. Da questo punto di vista, io sono un uomo come tutti gli altri.» C'era qualcosa nei suoi occhi, nella sua espressione, nel suo tono di voce, che smentiva ogni apparente ammissione di debolezza. Sembrava piuttosto che stesse compiendo un atto di magnanimità dichiarandosi uguale agli altri uomini. Era fin troppo chiaro che non credeva che vi fosse nulla di male, o anche di lievemente sospetto dal punto di vista morale, nel suo comportamento con Regine, e quell'ammissione non era un atto di contrizione o di umiltà, ma di arrogante condiscendenza. Dan passò a un altro punto di attacco. «Hoffritz sarà stato un genio, ma era contorto, bacato. Applicava le sue conoscenze e il suo talento non a legittime ricerche sulle modificazioni del comportamento, ma sullo sviluppo di nuove tecniche di lavaggio del cervello. Persone che l'hanno conosciuto
mi hanno detto che era un sostenitore del totalitarismo, un fascista, un elitista della peggior specie. Come quadra questo con il suo tanto strombazzato liberalismo?» Boothe alzò su Dan uno sguardo misto di pietà, disprezzo e divertimento. Come parlando a un bambino, disse: «Tenente, chiunque ritenga che i problemi della società possano essere risolti tramite un processo politico è un elitario. E cioè quasi tutti. Non importa che lei sia di destra, un conservatore, un moderato, un liberale o di estrema sinistra; identificandosi con una qualsiasi etichetta politica, lei è un elitario perché è convinto che i problemi potrebbero essere risolti se solo il gruppo giusto di persone detenesse il potere. Per questo l'elitarismo di Willy Hoffritz non mi dava alcun problema. Si dà il caso che io ritenga che le masse hanno bisogno di essere guidate, controllate...» «Sottoposte al lavaggio del cervello.» «Sì, lavaggio del cervello, ma per il loro bene. Con il crescere della popolazione mondiale, a mano a mano che la tecnologia porta a una più ampia diffusione di informazioni e di idee, le vecchie istituzioni come la famiglia e la chiesa cominciano a cedere, e si presentano nuove vie, sempre più pericolose, con cui gli scontenti esprimono la loro infelicità e alienazione. Pertanto dobbiamo trovare dei sistemi per eliminare lo scontento, per controllare il pensiero e l'azione, se vogliamo avere una società stabile, un mondo stabile.» «Credo di capire perché ha usato comitati di azione politica libertari come facciata per finanziare McCaffrey e Hoffritz.» Boothe sollevò un sopracciglio. «Sa anche questo?» «So parecchio di più di questo.» Boothe sospirò. «I libertari sono sognatori irrecuperabili. Vogliono ridurre il governo al minimo e praticamente eliminare la politica. Mi sembrava divertente lavorare a finalità esattamente opposte utilizzando la copertura della crociata libertaria.» Albert Uhlander stava ancora fermo con le spalle alla finestra, silhouette silenziosa, attenta ma indecifrabile, che si muoveva solo per portare la sagoma nera di un bicchiere di whisky alle labbra invisibili. «E così lei sosteneva Hoffritz, McCaffrey, Koliknikov, Tolbeck e Dio sa quanti altri 'geni' contorti», riprese Dan. «E ora, mentre cercava con tanto impegno un mezzo per controllare le masse, lei il controllo l'ha perso. Uno di questi esperimenti le è sfuggito di mano, e sta distruggendo in rapida successione tutti quelli che vi erano coinvolti. Presto arriverà a distruggere
anche lei.» «Sono certo che lei troverà questa ironica svolta degli avvenimenti enormemente soddisfacente. Ma non credo che lei sappia tanto quanto crede di sapere, e quando avrà sentito l'intera storia, quando saprà che cosa sta accadendo, credo che sarà ansioso come noi di mettere fine alle uccisioni, di far cessare il terrore che è uscito dalla stanza grigia. Lei ha giurato di proteggere e difendere vite umane, e ormai la conosco abbastanza per sapere che lei prende il suo giuramento sul serio, perfino con solennità. Anche se le vite che dovrà proteggere sono la mia e quella di Albert, e anche se lei ci disprezza, farà tutto quanto è necessario per aiutarci, una volta conosciuta l'intera storia.» Dan scosse la testa. «Voi altri non avete che disprezzo per l'onore e l'integrità della gente comune come me, ma a quell'onore fate appello per salvarvi il culo.» «Su quello e su determinati incentivi», intervenne Uhlander dalla sua zona d'ombra. «Quali incentivi?» chiese Dan. Boothe lo studiò attentamente per un attimo. Poi: «Sì, direi che non farà male chiarire prima gli incentivi. Albert, vorresti portarli qui, per favore?» Uhlander tornò alla poltrona dove prima era seduto, appoggiò il bicchiere su un tavolino e prese una valigetta che Dan non aveva notato. La portò alla scrivania di Boothe, ve la depose, l'aprì. La valigia era piena di denaro, banconote da cinquanta e cento dollari in mazzette divise ordinatamente. «Mezzo milione di dollari in contanti», annunciò Boothe a bassa voce. «Ma è solo una parte di quello che le offro. Al Journal c'è un posto vacante. Capo del servizio di sicurezza. Lo stipendio è più del doppio della sua retribuzione attuale.» Dan ignorò il denaro. «Lei fa tanto sfoggio di freddezza, ma questo dimostra quanto in realtà sia disperato. Questa è una mossa dettata dal panico. Se è vero che mi conosce dovrebbe sapere che un'offerta del genere sortirà quasi certamente l'effetto opposto.» «Sì», rispose Boothe, «se volessimo farle fare qualcosa di ingiusto per guadagnare questi soldi. Ma conto di dimostrarle che quello che vogliamo da lei è la cosa giusta, la cosa migliore, l'unica che un uomo di coscienza possa fare in queste circostanze. Sono convinto che quando avrà saputo che cosa sta avvenendo, lei farà la cosa giusta, e noi non vogliamo altro. Davvero. Vedrà che il denaro non glielo stiamo offrendo per alleviare il suo senso di colpa, ma... be', come un premio per una buona azione.» Sor-
rise. «Volete la bambina», disse Dan. «No», replicò Uhlander con gli occhi che gli brillavano, il viso più da falco che mai in quell'inquietante miscela di ombra e luce colorata. «Vogliamo la sua morte.» «E in fretta», aggiunse Boothe. «Avete offerto altrettanto a Ross Mondale? A Wexlersh e Manuello?» domandò Dan. «Santo cielo, no!» esclamò Boothe. «Ma ora lei è l'unico a sapere dove trovare Melanie McCaffrey.» Osservavano entrambi Dan con un'espressione di famelica attesa. Lui rispose: «Evidentemente, siete ancora più depravati di quanto pensassi. Pensate che uccidere una bambina innocente possa definirsi una cosa giusta, una buona azione?» «La parola chiave è 'innocente'», disse Boothe. «Quando saprà che cosa avveniva in quella stanza grigia, quando capirà che cosa sta uccidendo tutta quella gente...» «Probabilmente lo so già che cosa li sta uccidendo», lo interruppe Dan. «È Melanie, vero?» Lo fissarono sorpresi. Non per quel che aveva detto, ma per quel che sapeva. «Ho letto un po' del suo libro, quello sulla proiezione astrale», disse rivolto a Uhlander. «Con quello e altre cose ho cominciato a mettere i pezzi insieme.» Aveva sperato di aver torto, aveva temuto di scoprire che i suoi peggiori sospetti fossero esatti, e ora non c'era modo di sfuggire alla verità. Una disperazione fredda, reale e quasi palpabile come la pioggia che si vedeva dai vetri, lo sommerse. «Li ha uccisi tutti lei», dichiarò Uhlander. «Sei uomini finora. E ci ucciderà tutti se ne avrà la possibilità.» «Non sei», lo corresse Dan. «Otto.» Il film di Spielberg era finito. Earl aveva comprato i biglietti per la proiezione successiva nella stessa multisala. Lui e Laura, con Melanie fra di loro, si erano sistemati nella nuova sala. Laura aveva osservato la figlia attentamente per tutta la durata del primo film, ma la bambina non aveva mostrato segni di addormentarsi o di sprofondare nella catatonia. I suoi occhi avevano continuato a seguire l'azione
sullo schermo sino alla fine della storia, e una volta era parso che un sorriso toccasse lievemente, lievissimamente, le sue labbra. Già questa minima attenzione che aveva prestato al film e il modesto coinvolgimento che aveva mostrato erano un miglioramento nelle sue condizioni che dava a Laura più speranze di quante ne avesse nutrite negli ultimi due giorni, pur essendo tutt'altro che ottimista sulle prospettive di ripresa totale. E poi c'era sempre «Quello» con cui dovevano combattere. Guardò l'ora. Due minuti all'orario di inizio. Earl esaminava il pubblico con aria disinvolta; sembrava molto meno teso che all'inizio del primo film. Stavolta infilò una volta soltanto la mano all'interno della giacca per controllare la pistola prima che le luci in sala si abbassassero e il grande schermo si illuminasse. Melanie, sprofondata nella sua poltrona, sembrava più stanca. Ma i suoi occhi erano ben aperti e puntati sullo schermo. Laura sospirò. Avevano superato quasi l'intero pomeriggio senza incidenti. Chissà, forse adesso sarebbe andato tutto bene. «Otto?» esclamò Uhlander. «Ha detto che ne ha uccisi otto?» «Sei», ribadì Boothe. «Finora solo sei.» «Lei sa di Koliknikov a Las Vegas?» chiese Dan. «Sì», rispose Boothe. «Lui era il sesto.» «Sa di Renseveer e Tolbeck su a Mammoth?» «Quando?» chiese Uhlander. «Dio mio, quando li ha presi?» «Questa notte.» I due si scambiarono uno sguardo e Dan avvertì una scarica nella corrente di paura che passava tra loro. Uhlander riprese: «Li sta liquidando secondo un certo ordine, secondo la quantità di tempo che passavano in quella stanza grigia, secondo l'entità del malessere che le provocavano. Palmer e io eravamo lì molto meno di tutti gli altri». Dan fu tentato di avanzare un commento sarcastico sulla scelta del termine «malessere» fatta da Uhlander. Adesso capiva perché erano apparsi così tranquilli quando lui era arrivato lì, così sicuri che ci sarebbe stato tutto il tempo di bere qualcosa e di procedere con cautela; avevano calcolato che loro sarebbero stati gli ultimi, dei dieci cospiratori, a essere uccisi, e finché pensavano che Howard Renseveer e Sheldon Tolbeck erano ancora vivi in loro c'era stata paura ma
non ancora panico. Al di là dei finestroni, anche la fioca luce grigia del temporale stava svanendo. Dentro la biblioteca, le ombre si ingigantivano, agitandosi come creature viventi. Il riverbero della lampada Tiffany sembrava farsi più vivo mentre le altre fonti di illuminazione sbiadivano. Le chiazze di luce multicolore che proiettava, combinandosi con le ombre, facevano sembrare più piccolo il salone, dando all'ambiente un che di magico, di fantastico, come un carrozzone di zingari, una tenda da circo. «Ma se Howard e Shelby sono morti», riprese Boothe, «allora i prossimi siamo noi e... lei... potrebbe arrivare da un momento all'altro.» «Esattamente», confermò Dan. «Per questo non abbiamo tempo né per drink né per intrallazzi. Voglio sapere esattamente che cosa succedeva in quella stanza grigia e perché.» «Ma non c'è tempo per raccontare tutto», protestò Boothe. «Deve fermarla! Lei, tenente, evidentemente sa che stavamo incoraggiando esperienze extracorporee nella bambina, e che lei...» «Qualcosa ne so, su altro ho dei sospetti, ma il più non lo capisco ancora. E voglio sapere tutto, ogni dettaglio, prima di decidere che cosa fare.» «Ho bisogno di un altro drink», disse Boothe con il tremito nella voce. Si alzò e si diresse al bar in un angolo della stanza. Uhlander si lasciò cadere nella poltrona lasciata da Boothe. Guardò Dan. «Glielo dirò io.» Dan avvicinò un'altra poltrona. Accanto al mobile bar, Boothe era così nervoso che gli caddero un paio di cubetti di ghiaccio e quando si versò il bourbon il collo della bottiglia tintinnò contro l'orlo del bicchiere per un momento, prima che riuscisse a controllare il tremito della mano. Laura continuava a scrutare il viso di Melanie. La bambina era sprofondata ancora di più nella poltrona. Il film, cominciato da soli dieci minuti, non era coinvolgente come quello di Spielberg. Finora gli occhi di Melanie erano rimasti aperti e sembravano seguire l'azione, ma Laura si chiese quanto sarebbe durato. Mentre Palmer Boothe passeggiava su e giù bevendo bourbon con una mancanza di autocontrollo insolita in lui, Albert Uhlander sedeva con la
testa incassata fra le spalle strette, spiegando il progetto della stanza grigia. Dylan McCaffrey, benché laureato in psicologia, aveva nutrito per tutta la vita un profondo interesse per i vari aspetti dell'occulto. Aveva letto qualcuno dei primi libri di Uhlander e aveva tenuto una lunga corrispondenza con lui, corrispondenza che aveva finito con il concentrarsi sull'argomento dell'EEC, le esperienze extracorporee, note anche con il nome di proiezioni astrali. Il fenomeno della proiezione astrale era basato sulla teoria che in ogni persona esistessero due entità: un corpo fisico fatto di carne e uno astrale, o etereo, chiamato talvolta psicogeist. In altre parole, ogni persona avrebbe una natura duplice, che comprende un doppio in grado di funzionare separatamente dal corpo fisico, rendendo possibile trovarsi simultaneamente in due luoghi. Normalmente il doppio, il corpo astrale, risiede nel corpo fisico e lo anima. Ma in circostanze molto particolari (e sempre al momento della morte) il corpo astrale lascia quello fisico. «Alcuni medium», spiegò Uhlander, «sostengono di essere in grado di provocare volontariamente esperienze extracorporee, ma è molto probabile che mentano. Esistono, però, molte storie affascinanti raccontate da persone degne di fede, che avrebbero sognato di uscire dal proprio corpo durante il sonno; raccontano di aver viaggiato in condizione di invisibilità, spesso in luoghi dove i loro cari stanno morendo o rischiano la vita. Dieci anni fa, per esempio, una donna dell'Oregon ebbe un'esperienza del genere mentre dormiva: uscì dal suo corpo, volò sopra i tetti delle case, e giunse in un punto della campagna dove, lungo una strada secondaria, giaceva ribaltata l'automobile di suo fratello. Lui era incastrato fra i rottami e stava morendo dissanguato. Nel suo stato astrale lei non poté aiutarlo, perché il corpo astrale spesso non ha forza, ma solo sensazioni, non ha alcun potere oltre alla capacità di osservare. Ma ritornò al suo corpo fisico che dormiva, si svegliò, chiamò la polizia, indicò il luogo dell'incidente e salvò la vita del fratello.» «Solitamente», intervenne Boothe, «il corpo astrale non è neppure visibile. È interamente spirituale.» «Anche se si riportano episodi di visibilità e perfino di materializzazione fisica», precisò Uhlander. «Nel 1810, mentre Lord Byron, il poeta, si trovava a Patrasso, privo di sensi per una febbre fortissima, diversi suoi amici lo videro a Londra. Affermarono di averlo incontrato per la strada, di averlo interpellato senza ricevere risposta; fu perfino visto aggiungere il suo nome su un registro di persone che si informavano sulla salute del re. Byron trovò strana questa cosa, ma non capì mai di aver vissuto un'EEC di
rara intensità, per poi dimenticarsene una volta uscito dal suo stato febbrile. Comunque, ogni serio occultista tenta prima o poi di provocare un'EEC... di solito senza successo.» Boothe era già ritornato al bar per versarsi altro bourbon, Dan disse: «Non si sbronzi. Ubriacarsi non serve a niente, può solo complicare le cose». «Non mi sono mai ubriacato in vita mia», rispose gelido Boothe. «Io non sfuggo ai problemi, tenente. Li risolvo.» Riprese a camminare su e giù, ma non si attaccò al bicchiere con la voracità di prima. «Dylan», proseguì Uhlander, «non solo credeva nella proiezione astrale, ma riteneva di sapere perché è così difficile provocare un'EEC.» Dylan, spiegò Uhlander, era sicuro che la gente nascesse con la capacità di uscire e rientrare nel proprio corpo a volontà: tutta la gente, chiunque. Ma era altrettanto certo che la natura limitatrice di ogni società umana, con tutte le sue restrizioni e definizioni di ciò che è possibile e impossibile, producesse sui bambini un lavaggio del cervello così precocemente che lo sviluppo del loro potenziale di proiezione astrale, come di tanti altri poteri psichici, non si realizzava mai. Dylan credeva che un bambino avrebbe potuto scoprire e sviluppare quel potenziale se fosse stato allevato in isolamento culturale, se gli si fosse permesso di imparare solo quelle cose che acuivano la consapevolezza dell'universo psichico e se fosse stato sottoposto a lunghe e frequenti sedute in una camera di privazione sensoriale fin dalla più tenera età, per dirigere la mente verso l'interno, sui suoi talenti nascosti. «L'isolamento», lo interruppe Boothe, «era un modo di purificare la concentrazione della bambina, un modo di escludere tutte le distrazioni della vita quotidiana perché focalizzasse la mente più intensamente su questioni psichiche.» «Quando la signora McCaffrey decise di divorziare», riprese Uhlander, «Dylan vide l'opportunità di allevare Melanie secondo le sue teorie, e la portò via con questa intenzione.» «E lei lo ha sostenuto», disse Dan a Boothe. «Complice di un rapimento, corresponsabile di violenza a una bambina.» L'uomo si avvicinò alla poltrona di Dan, guardandolo dall'alto con un'espressione di aperto disprezzo. «Era necessario. Un'opportunità da non perdere. Ci pensi! Se si dimostrava possibile la proiezione astrale, se si riusciva a insegnare alla bambina a lasciare quando voleva il suo corpo, allora forse era possibile sviluppare un sistema per insegnarlo anche agli adulti,
ad adulti selezionati. Immagini che cosa potrebbe significare se un gruppo scelto, un'elite intellettuale, possedesse la capacità di entrare inosservato in qualsiasi stanza del mondo, per quanto ben custodita, ascoltare qualsiasi conversazione per quanto segreta. Nessun governo, nessun concorrente, nessuno al mondo potrebbe nasconderei i suoi piani, le sue intenzioni. Senza che nessuno sapesse che cosa stavamo facendo, o come, avremmo potuto infine orchestrare l'evoluzione di un singolo governo mondiale privo di un'opposizione efficace, e anzi privo di qualsiasi opposizione. Come potrebbe esserci un'opposizione se noi fossimo in grado di partecipare alle riunioni in cui elaborano le loro strategie, di conoscere i loro nomi, le loro intenzioni, le loro organizzazioni segrete?» Boothe aveva l'affanno, in parte forse per effetto del whisky, ma soprattutto per i sogni di potere che lo riempivano di un'eccitazione megalomane. «Il mondo sarebbe nostro», concluse. Lui e Uhlander sorrisero e per un istante parve avessero dimenticato che risultati avesse avuto il loro piano e in quali guai si trovassero adesso. «Siete due pazzi», mormorò Dan. «Lungimiranti», replicò Uhlander. «Dementi», ribadì Dan. «Visionari», disse Boothe. Volse le spalle a Dan e riprese a passeggiare su e giù. Al ricordo del motivo per cui erano lì, il sorriso di Uhlander si spense. Continuò la spiegazione richiesta da Dan. Dylan McCaffrey aveva vissuto in quella casa di Studio City per ventiquattr'ore al giorno, sette giorni la settimana, un anno dopo l'altro, rimanendo vicino a Melanie, trasformandosi in un recluso quasi quanto lei, vedendo solo pochi amici che condividevano i suoi insoliti interessi per la scienza e l'occulto, e che per un verso o per l'altro erano tutti al soldo di Palmer Boothe. McCaffrey diventava sempre più ossessionato dal suo progetto, e il regime che aveva ideato per Melanie si faceva sempre più duro, più esigente, meno comprensivo per le carenze, le debolezze e le limitazioni umane della bambina. La stanza grigia, che fu dipinta, insonorizzata e arredata in modo da ridurre al minimo le distrazioni, divenne l'intero universo di Melanie e il centro del mondo di suo padre. I pochi privilegiati al corrente dell'esperimento erano tutti convinti di essere coinvolti in un nobile tentativo di trasformare la razza umana e conservavano il segreto della tortura di Melanie come se stessero proteggendo qualcosa di magnifico e sacro.
«E poi», continuò Uhlander, «due sere fa Melanie finalmente ce la fece. Durante la sua più lunga seduta nella camera di privazione sensoriale, dopo dieci giorni che galleggiava in quel bozzolo, realizzò quanto Dylan credeva che avrebbe potuto realizzare.» Dalla penombra, Boothe intervenne. «La bambina si impadronì di tutto il proprio potenziale fisico. Separò il corpo astrale dal corpo fisico e sorse da quella cisterna.» «Ma quello che avvenne poi nessuno di noi l'aveva previsto», riprese Uhlander. «Come una furia, uccise il padre, Willy Hoffritz ed Ernie Cooper, che si trovava lì per caso.» «Ma come?» chiese Dan. «Mi avete detto che il corpo astrale solitamente ha il potere di osservare, ma non può eseguire alcun atto fisico. E, anche se non fosse così, questa volta, be', Cristo, è solo una fragile bambinetta. Quella gente è stata picchiata a morte. Picchiata selvaggiamente.» Boothe si era spostato nell'ombra ancora più fitta lungo una parete di libri, e vi era scomparso. La sua voce incorporea disse: «Il talento per la proiezione astrale non è stato l'unico potere psichico che ha imparato a usare quella notte. Evidentemente ha scoperto come far percorrere al suo corpo astrale grandi distanze...» «A Las Vegas, alle montagne sopra Mammoth», lo interruppe Uhlander. «... e come muovere gli oggetti senza toccarli. Telecinesi», riprese Boothe. Fece una pausa, e nel buio il bicchiere di whisky tintinnò contro i suoi denti. Il rumore che fece inghiottendo fu innaturalmente forte. «La sua forza è psichica, la forza della mente, che è virtualmente illimitata. È più forte di dieci uomini, cento, mille. Si è disfatta con facilità di suo padre, di Hoffritz, di Cooper, e ora sta dando la caccia a noi, uno per uno, e si direbbe in grado di sentire dove ci troviamo, per quanto possiamo cercare di nasconderci.» Melanie sospirò. Laura si sporse a guardarla alla luce riflessa dallo schermo. Le palpebre della bambina si stavano facendo pesanti. Preoccupata, Laura le mise una mano sulla spalla e la scosse delicatamente, poi più forte. Melanie sbattè gli occhi. «Guarda il film, tesoro. Guarda il film.» Gli occhi della bambina si rimisero a fuoco riprendendo contatto con l'azione che si svolgeva sullo schermo.
Boothe era uscito dall'ombra. Uhlander era proteso in avanti sulla poltrona. Sembravano entrambi aspettare che Dan dicesse qualcosa, che assicurasse che li avrebbe aiutati, che avrebbe ucciso la bambina e posto fine al massacro. Ma lui non disse niente perché voleva lasciarli sudare ancora un po'. E poi le sue emozioni erano in un tale scompiglio che per il momento aveva paura di quanto avrebbe potuto dire. La potenzialità omicida, Dan lo sapeva, era universale nell'uomo come l'amore. In qualcuno era forse sepolta più profondamente che in altri. Scoprirla in Melanie McCaffrey non lo sorprendeva più di quanto fosse stato sorpreso dalla volontà di uccidere delle decine di assassini che negli anni aveva mandato in prigione, ma questa volta la scoperta lo lasciava sgomento, nauseato e profondamente depresso. Anzi, le pulsioni omicide di Melanie erano molto più comprensibili che in tanti altri. Imprigionata, torturata fisicamente e psicologicamente, privata di amore, conforto e comprensione, trattata più come un animale da laboratorio che come un essere umano, costretta a sopportare lunghi anni di pena mentale emotiva e fisica, era comprensibile che avesse sviluppato una furia e un odio sovrumani che potevano scaricarsi solo nella vendetta più violenta, brutale, sanguinosa. Forse la sua rabbia, il suo odio - e la necessità di alleviare quelle pressioni interne - erano altrettanto responsabili della sua condizione psichica quanto gli esercizi e i condizionamenti a cui l'aveva sottoposta il padre. Ora dava la caccia ai suoi aguzzini, fragile bambinetta di nove anni, ma un killer letale ed efficiente quanto Jack lo Squartatore o un membro della Famiglia Manson. Ma non era totalmente perduta. Questo era un pensiero a cui aggrapparsi. C'era, evidentemente, una parte di lei che era scossa e inorridita da quanto aveva fatto. In fondo, era stato proprio l'orrore per la propria sete di sangue a farle cercare rifugio nel suo stato catatonico, a farla ritirare in quel luogo buio dove poteva nascondere al mondo la terribile verità degli omicidi. E non solo al mondo, anche a se stessa. Finché era in possesso di una coscienza, non era arrivata al fondo del baratro: forse la sua mente si poteva ancora salvare. Era stata lei a prendere possesso della radio nella cucina. Non poteva scaricarsi del peso del rimorso e del disgusto di sé che la teneva schiacciata nel suo mondo semiautistico, non poteva sopportare l'idea di parlare di quanto aveva fatto o poteva fare, ma era riuscita a mandare avvertimenti
attraverso la radio. Avvertimenti e richieste di aiuto. Era questo ciò che quei messaggi della radio cercavano di comunicare: «Aiutatemi, fermatemi». Questo era stato il messaggio: «Aiutatemi, fermatemi». E il turbine di vento pieno di fiori era stato... che cos'era stato? Niente di minaccioso, era chiaro. Lo era sembrato a Laura ed Earl, ma solo perché non avevano capito. No, quei fiori erano stati probabilmente una patetica, disperata espressione dell'amore di Melanie per sua madre. L'amore per sua madre. Era in quell'amore che la bambina poteva trovare la salvezza. Irritato dal silenzio di Dan, Boothe riprese a parlare. «Quando lei ci riuscì, quando finalmente poté liberarsi di ogni costrizione della carne, quando scoprì i suoi grandi poteri e vide come usarli, sarebbe dovuta esserci grata. Quella piccola vipera sarebbe dovuta essere grata a suo padre e a tutti noi che l'abbiamo aiutata a diventare qualcosa di più di una semplice bambina, qualcosa di più di un semplice essere umano.» «E invece», gemette Uhlander con infantile autocommiserazione, «quella piccola vipera maligna si è scagliata contro di noi.» «Così», intervenne Dan, «ordinaste a Ned Rink di ucciderla.» «Non avevamo scelta», rispose Boothe. «Lei aveva un valore incalcolabile, e avremmo voluto studiarla, comprenderla. Ma sapevamo che ci dava la caccia, e ricatturarla per studiarla era un rischio che non potevamo correre.» «Noi non avremmo voluto ucciderla», aggiunse Uhlander. «Dopotutto l'abbiamo creata noi; l'abbiamo fatta diventare noi quello che è. Ma dovevamo cercare di eliminarla. Era un atto di autoconservazione. Di autodifesa. Era diventata un mostro.» Dan fissò Uhlander, poi Boothe, ed ebbe la sensazione di guardare, attraverso le sbarre di una gabbia, uno zoo. Anzi, doveva essere uno zoo alieno, su un pianeta lontano, tanto impossibile gli sembrava che questo mondo potesse aver prodotto creature del genere. «Non era Melanie il mostro. Lo eravate voi. Lo siete voi.» Si alzò, troppo teso e infuriato per rimanere seduto, e rimase in piedi con i pugni lungo i fianchi. «Che cosa diavolo vi aspettavate che accadesse? Pensavate che avrebbe detto: 'Oh, grazie mille, e adesso che cosa posso fare per voi, che desiderio posso realizzare, quale impresa posso compiere?' Pensavate che sarebbe stata il genio della lampada, ossequiosa e pronta ad accontentare quelli che le avevano permesso di uscire strofinando la lampada?» Si accorse che stava gridando. Cercò di abbassare la voce, ma non ci riuscì. «Cristo, voi altri
l'avete imprigionata per sei anni! Torturata! Credete che normalmente i prigionieri siano grati ai loro secondini, ai loro torturatori?» «Non erano torture!» protestò Boothe. «Era... educazione. Guida. Evoluzione scientificamente incoraggiata!» «Le stavamo mostrando La Via», aggiunse Uhlander. Melanie mormorò qualcosa. Laura la udì appena, al di sopra della musica del film. Avvicinò il viso alla bambina. «Che cosa c'è, tesoro?» «La porta...» mormorò Melanie. Alla luce sfarfallante dello schermo, Laura vide che gli occhi della bambina si stavano chiudendo di nuovo. «La porta...» Al di là dei finestroni, la notte era scesa su Bel Air. Boothe si era avvicinato al bar per versarsi altro bourbon. Anche Uhlander si era alzato. Era in piedi dietro la scrivania con lo sguardo basso sul ventaglio di colori proiettato dalla lampada Tiffany. «Che cos'è questa... 'porta di dicembre'?» domandò Dan. «Questa porta che si apre su una stagione diversa da quella di tutte le altre porte e finestre della casa? Nel suo libro ho letto qualcosa in proposito. Lei dice che si tratta di un'immagine paradossale usata come chiave per la mente, ma non mi è stato possibile finire il capitolo, e comunque non ero sicuro di aver afferrato il concetto.» Uhlander rispose senza alzare gli occhi. «Nel tentativo di portare Melanie a considerare possibile qualsiasi cosa, ad aprirsi a concetti fantastici come la proiezione astrale, le affidavamo concetti appositamente formulati su cui concentrarsi durante le sessioni nella camera di privazione sensoriale. Questi concetti riguardavano tutti situazioni impossibili... paradossi accuratamente costruiti. Come la porta di dicembre di cui ha letto. Secondo la mia teoria, questi esercizi che sforzano la mente sono ottimi per chi desidera sviluppare il proprio potenziale psichico; è un modo di esercitarsi a esplorare l'impensabile, un modo di riformulare la propria visione del mondo per includervi quanto prima si riteneva impossibile.» «Albert», intervenne Boothe dal bar, «è una mente brillante, un genio. Ha passato anni a sviluppare una sintesi tra scienza e occulto. Ha trovato punti di intersezione fra le due discipline. Ha tanto da insegnarci, tanto da offrire. Per questo non deve morire. Per questo lei non deve permettere che
quella piccola vipera ci uccida, tenente. Abbiamo ancora tanto da dare al mondo.» Uhlander riprese la sua spiegazione. «Visualizzando cose impossibili, lavorando duramente per far sì che ognuno di quei concetti paradossali appaia possibile, reale e familiare, si può giungere a liberare i propri poteri psichici dalla gabbia mentale nei quali li si è rinchiusi insieme con il proprio scetticismo socialmente acquisito, culturalmente imposto. È preferibile che la visualizzazione abbia luogo durante la meditazione profonda o dopo essere stati ipnotizzati per poter concentrare al massimo la mente. Questa teoria non è mai stata dimostrata perché gli scienziati non sono autorizzati a sottoporre un essere umano ai passi, lenti e talvolta dolorosi, necessari per dare una nuova forma alla psiche.» «È un peccato che non foste in giro per la Germania quando erano al potere i nazisti», commentò Dan con amaro sarcasmo. «Sono sicuro che vi avrebbero fornito centinaia di soggetti umani per un esperimento tanto interessante.» Come se non avesse sentito l'insulto, Uhlander continuò: «Ma infine con Melanie, sottoposta com'era ad anni di intensa e prolungata concentrazione attraverso l'uso di farmaci, e poi quelle sedute sempre più prolungate a galleggiare nella camera di privazione sensoriale... be', quello era l'approccio ideale, e il risultato è stato infine raggiunto». C'erano altri concetti destinati a esercitare una forzatura sulla mente, spiegò l'occultista, oltre quello della porta di dicembre. Talvolta le dicevano di concentrarsi su una scala che procedeva solo lateralmente. «Immagini», disse Uhlander, «di trovarsi su una sconfinata, immensa scalinata vittoriana con un corrimano elaboratamente scolpito. Improvvisamente si rende conto che non sta né salendo né scendendo. Che sta procedendo su una scala che porta solo di lato, che non ha né inizio né fine.» Tra gli altri concetti c'era quello del gatto che mangia se stesso a cominciare dalla coda, la storia che Melanie aveva raccontato, sotto ipnosi, quella mattina nella stanza del motel; e poi c'era quello della finestra di ieri. «Si trova davanti a una finestra della sua camera da letto, una finestra che dà sul prato. Non vede il prato di oggi, ma come era ieri, quando si trovava là fuori a prendere il sole. Si vede lì, sdraiato su un asciugamano da spiaggia. È una scena che non può vedere dalle altre finestre della stanza. Questa non è una finestra comune, è una finestra che affaccia su ieri. E se esce da quella finestra entrerà nel giorno trascorso, trovandosi accanto al se stesso che prendeva il sole?»
Boothe si staccò dal bar, fermandosi nella penombra al margine della luce della lampada. «Una volta che il soggetto è in grado di credere a uno di questi paradossi, allora deve non solo credervi, ma materialmente entrarvi. Per esempio, se per lei avesse funzionato un concetto come quello della 'finestra di ieri', a un certo punto sarebbe stata spinta a uscire sul giorno precedente e la dislocazione che comporta entrare a far parte dell'impossibile avrebbe messo in moto una proiezione astrale. Questa, comunque, era la teoria.» «Pazzia», ripetè Dan. «Non direi», rispose Uhlander, alzando finalmente lo sguardo dalla lampada. «Ha funzionato. È stata la porta di dicembre quella che la bambina ha visualizzato con maggiore facilità, e appena l'ha varcata si è trovata in contatto con le sue capacità psichiche, e ha imparato a controllarle.» Contrariamente a quanto avevano pensato Dan e Laura, la bambina non aveva paura di quello che poteva arrivare attraverso la porta da una qualche dimensione soprannaturale. Quello che la terrorizzava, invece, era il fatto che, una volta aperta quella porta, l'avrebbe attraversata e avrebbe ucciso ancora. Si era trovata lacerata fra due desideri opposti e potenti: l'impulso di uccidere fino all'ultimo i suoi torturatori e il disperato bisogno di smettere di uccidere. Gesù. Boothe si accostò alla scrivania e mise la mano sulle banconote che riempivano la valigia aperta. Fissò diritto negli occhi Dan. «Allora?» Dan non gli rispose e si rivolse a Uhlander. «Quando lei entra in questo stato psichico, quando usa quei poteri, si verifica un mutamento nell'aria attorno a lei, un mutamento che si può avvertire?» Gli occhi da falco di Uhlander brillarono di una nuova intensità. «Che genere di mutamento?» «Un inspiegabile gelo improvviso.» «Potrebbe darsi», rispose Uhlander. «Forse è il segno di un rapido accumulo di energie occulte. Un fenomeno del genere, per esempio, è associato con i poltergeist. Lei era presente quando è accaduto?» «Sì. Credo che avvenga ogni volta che lei lascia il suo corpo, o vi ritorna.» Improvvisamente l'aria nel cinema si fece fredda. Laura aveva appena distolto lo sguardo da Melanie, non più di due o tre secondi prima, e gli occhi della bambina erano ben aperti. Ora erano chiu-
si, le palpebre si erano appena abbassate, ma già «Quello» stava arrivando. Doveva essersene stato in attesa, in agguato, pronto ad approfittare del primo momento di vulnerabilità della piccola. Laura afferrò Melanie e la scosse, ma i suoi occhi non si aprirono. «Melanie? Melanie, svegliati!» L'aria si fece più fredda. «Melanie!» Più fredda. Presa dal panico, Laura cominciò a pizzicare il viso della figlia. «Svegliati, svegliati!» Due file più indietro, qualcuno disse: «Ehi... silenzio, per favore!» Più fredda. Boothe non aveva tolto la mano dal denaro. «Lei sa dov'è. Deve ucciderla. È l'unica cosa giusta da fare.» «È solo una bambina», ribattè Dan. «Ha già ucciso otto uomini», disse Boothe. «Uomini?» rise amaramente Dan. «Degli uomini avrebbero potuto farle quello che le avete fatto voi? Torturarla con la corrente elettrica? Dove le mettevate gli elettrodi? Sul collo? Sulle braccia? Sulla schiena? Ai genitali? Sì, scommetto di sì. Ai genitali. Il massimo effetto. È lì che puntano sempre i torturatori. Massimo effetto. Uomini? Otto uomini, ha detto? Cristo. Per me esiste un limite inferiore, una linea di fondo di spietatezza al di sotto della quale non ci si può più definire uomini.» «Otto uomini», ripeté Boothe rifiutandosi di considerare quanto aveva detto Dan. «La bambina è un mostro, un mostro psicopatico.» «È profondamente disturbata. Non può essere ritenuta responsabile delle sue azioni», disse Dan, e non avrebbe mai immaginato che avrebbe goduto tanto alla vista di un essere umano che si contorceva sotto il crescente orrore e la disperazione, come stava accadendo a quei bastardi, ora che capivano sino in fondo che la loro ultima speranza di salvezza era stata una falsa speranza. «Lei è un poliziotto», esclamò Boothe con rabbia, facendo trapelare la disperazione che lo stava invadendo. «Lei ha il dovere di impedire la violenza ogni volta che le sia possibile.» «Sparare a una bambina di nove anni significa commettere violenza, non impedirla.» «Ma se non la uccide, sarà lei a uccidere noi», insisté Boothe. «Due
morti invece di uno. La uccida, e il totale netto sarà una vita salvata.» «Bilancio netto di una vita a mio credito, eh? Accidenti, che modo interessante di metterla», considerò Dan. «Sa, signor Boothe, scommetto che quando sarà arrivato all'inferno il diavolo la nominerà contabile di anime.» Con una furia improvvisa che gli trasformò il volto in una maschera grottesca di odio e di rabbia impotente, l'uomo scagliò il suo bicchiere di whisky verso la testa di Dan. Dan lo scansò, e il bicchiere toccò terra molto lontano da lui, frantumandosi. «Stronzo fottuto figlio di puttana», ringhiò Boothe. «Dio mio, che linguaggio!» esclamò Dan. «Che i suoi amici del Rotary Club non la sentano mai parlare così. Ne rimarrebbero sconvolti.» Boothe gli diede le spalle, volgendosi verso l'oscurità dove i libri attendevano in silenzio sui loro scaffali. Tremava di rabbia, ma non aprì bocca. Dan aveva saputo tutto quanto c'era da sapere. Poteva anche andarsene. Laura non riusciva a svegliare Melanie. Stava disturbando sempre di più il pubblico del cinema, suscitava reazioni seccate in altri spettatori, ma non riusciva a farsi rispondere dalla bambina neppure con un mormorio o un battito di ciglia. Earl si era alzato e aveva messo la mano sulla pistola dentro la giacca. Laura si guardava attorno freneticamente, in attesa del primo segno dell'apparizione, della prima esplosione della forza occulta. Ma il gelo improvvisamente scomparve e l'aria tornò tiepida senza che si fosse scatenata alcuna violenza soprannaturale. Gli occhi di Uhlander erano tornati sul mosaico di vetro colorato dal quale filtrava la sola luce del salone. Pur fissando la scena disegnata dal paralume, sembrava non vederla; il suo sguardo sfocato ricordava l'inquietante distacco di Melanie. In quella luce, probabilmente stava vedendo il suo futuro, benché il suo futuro fosse solo tenebra. Con una voce sottile e tremante, disse: «Tenente, mi ascolti, la prego, non occorre che lei sia d'accordo con quanto abbiamo fatto, non le chiediamo di avere pietà di noi...» «Pietà? Lei crede che sarebbe una manifestazione appropriata di pietà far saltare il cervello a una bambina di nove anni?» Tremando, Palmer Boothe si girò di scatto verso di lui: «Non salverebbe solo le nostre vite. Perdio, non lo capisce? Sta per scatenarsi. È assetata di
sangue, e non è affatto probabile che si fermi con noi. È furibonda. L'ha detto lei stesso. Ha detto che noi l'abbiamo spinta alla pazzia e che lei non è responsabile di quello che ha fatto. Va bene! Non è responsabile, ma ha perso il controllo, e probabilmente sta diventando sempre più potente, ogni ora che passa impara qualcosa di più sulle sue capacità psichiche, e se qualcuno non la ferma in tempo forse nessuno riuscirà mai più a fermarla. Non si tratta solo di Albert e di me. Quanti altri moriranno?» «Nessun altro», rispose Dan. «Che cosa?» «Ucciderà voi due, gli ultimi due cospiratori della stanza grigia, e poi... poi si ucciderà.» Quando ebbe formulato la frase, l'idea lo colpì con violenza. Una fitta improvvisa gli squarciò il petto all'immagine di Melanie che si toglieva la vita disperata per quanto aveva fatto. «Si ucciderà?» ripetè Boothe. «Come le è venuta un'idea del genere?» chiese Uhlander. In poche frasi succinte raccontò loro della seduta ipnotica di Laura con la bambina, delle cose strane che aveva detto la piccola a proposito della propria vulnerabilità. «Quando diceva che 'Quello' avrebbe preso lei appena uccisi tutti gli altri, non avevamo idea di che cosa potesse essere quella creatura. Uno spirito, un demone, sembrava impossibile che una cosa del genere esistesse davvero, ma avevamo avuto le prove che qualcosa di ignoto andava in giro libero per il mondo. Ora sappiamo che non era né uno spirito né un demone e sappiamo che, be', una volta eliminati voi due, conta di togliersi la vita, di rivolgere contro di sé i suoi poteri psichici. Come vedete, le uniche vite che sono in sospeso sono le vostre e la sua, e temo che l'unica che ho una minima possibilità di salvare sia la sua.» Boothe, la cui moralità era ammirevole più o meno quanto quella di Hitler o di Stalin, lui che aveva assoldato torturatori e assassini rimanendo con la coscienza pulita, lui che avrebbe chiaramente commesso qualsiasi delitto personalmente, a mani nude, se quello fosse stato l'unico modo di salvare la pelle, questo rettile totalmente marcio e corruttore, era sbalordito dal fatto che Dan, un uomo di legge, non solo intendesse lasciarli morire, ma sembrasse accogliere con piacere l'idea che ben presto avrebbero lasciato questo mondo. «Ma... ma... se ci uccide, e lei avrebbe potuto fermarla e non lo fa, sarà non meno di lei responsabile della nostra morte.» Dan lo fissò a lungo, poi annuì. «Sì, ma la cosa non mi sconvolge. Ho sempre saputo che in questo sono come tutti gli altri. Ho sempre saputo
che, nelle circostanze adatte, anch'io ho la capacità di ammazzare a sangue freddo.» Si girò. Si allontanò da loro, dirigendosi verso la porta della biblioteca. Quando fu a metà strada, Uhlander domandò: «Quanto tempo crede che abbiamo?» Dan si girò di nuovo verso di loro. «Stamattina, quando ho letto una parte del suo libro, ho pensato di aver capito almeno in parte quello che stava succedendo; e così, quando le ho lasciate, ho avvertito Laura di tener sveglia Melanie. Non volevo che vi raggiungesse prima che avessimo la possibilità di parlare. Ma questa sera non intendo impedire a Melanie di andarsene a letto. E quando andrà a letto e si addormenterà...» Rimasero tutti in silenzio per un istante. L'unico rumore era la voce lontana della pioggia. «Quindi abbiamo qualche ora», riprese Boothe, un uomo ormai completamente diverso da quello che aveva accolto Dan nella biblioteca poco prima, un uomo molto più debole, molto meno imponente. «Solo qualche ora...» Ma la previsione era stata anche troppo ottimistica: mentre la voce di Palmer Boothe svaniva in un silenzio fatto di terrore e di autocommiserazione, la temperatura nel salone scese improvvisamente di dieci gradi. Laura non era riuscita a tenere sveglia Melanie. «No!» esclamò Uhlander. I libri schizzarono da uno degli scaffali più alti piovendo su Boothe e Uhlander. I due uomini cacciarono un urlo riparandosi la testa con le braccia. Una pesante poltrona si sollevò da terra, rimanendo sospesa nell'aria a un'altezza di due o tre metri, cominciò a ruotare, e attraversò con un volo tutta la biblioteca finendo contro il finestrone. Il fracasso dei vetri in frantumi fu seguito dallo schianto della poltrona che rimbalzava piombando a terra. Melanie era arrivata. La sua metà eterea. Il corpo astrale, lo psicogeist. Dan pensò di cercare di parlarle, di ragionare con lei adesso, prima che uccidesse ancora, ma sapeva che non c'era alcuna speranza di raggiungerla, non più di quanta ne avesse avuta la madre in quelle sedute di ipnosi. Non poteva salvare Boothe e Uhlander, e in realtà non aveva alcun desiderio di farlo. L'unica vita che forse ora era in grado di salvare era quella di Melanie, poiché aveva escogitato qualcosa - un piano, un trucco - che avrebbe
potuto impedirle di rivolgere contro se stessa i suoi poteri psichici. Era un piano traballante, con scarse probabilità di riuscita, ma per poterci almeno provare lui doveva trovarsi con il corpo della bambina, con il suo io fisico, quando il corpo astrale vi avesse fatto ritorno. E quindi doveva ritornare a Westwood, al cinema, prima che lei avesse finito qui, e non c'era tempo da perdere in improbabili tentativi di dissuaderla dal distruggere Boothe e Uhlander. Mani invisibili spazzarono un altro scaffale di libri e i volumi piovvero pesantemente lungo tutta la sala. Boothe urlava. Il bar esplose come se vi fosse scoppiata dentro una bomba, e nell'aria si diffuse improvvisamente un odore di whisky. Uhlander chiedeva pietà. Dan vide la lampada Tiffany sollevarsi nel vuoto, galleggiare come un palloncino. Prima che la lampada avesse teso tutto il cavo, Dan si riebbe, si ricordò della sua fretta, e si girò. Fece di corsa gli ultimi passi fino in fondo alla biblioteca. Mentre apriva la porta, dietro di lui la luce si spense e la sala piombò nel buio. Uscì chiudendosi la porta alle spalle e rifece di corsa la strada per cui l'aveva accompagnato il maggiordomo. In una sala dalle pareti color pesca lo incontrò che si precipitava in direzione opposta richiamato dalle urla spaventose provenienti dalla biblioteca. «Chiami la polizia!» gli disse. Era certo che Melanie non avrebbe fatto del male a nessuno tranne che a quelli che erano stati nella stanza grigia o erano strettamente legati alla cospirazione contro di lei. Ciononostante, mentre il maggiordomo si arrestava confuso, Dan aggiunse: «Non entri nella biblioteca. Chiami la polizia. Per l'amor di Dio, non entri lì da solo!» Il cinema buio non sembrava più un rifugio sicuro a Laura. Si sentiva sull'orlo di una crisi di claustrofobia. Le file di poltrone improvvisamente le parevano opprimenti. L'oscurità era minacciosa. Perché, in nome di Dio, avevano cercato rifugio in un luogo così buio? «Quello» probabilmente amava l'oscurità, si sentiva a casa sua dove c'era poca luce. Che cosa sarebbe accaduto se l'aria si fosse raffreddata di nuovo e la cosa fosse ritornata? Perché sarebbe ritornata. Di questo era sicura. Ben presto.
L'enorme cancello di ferro cominciò ad aprirsi lentamente quando Dan si trovava a metà del lungo viale. Di norma, probabilmente il maggiordomo avrebbe avvertito il corpo di guardia all'ingresso, e la guardia avrebbe aperto il cancello già mentre l'ospite usciva con l'auto dal parcheggio semicircolare davanti alla casa. Ma in quel momento il maggiordomo era occupato a chiamare la polizia, terrorizzato dalle urla agghiaccianti e dal fracasso proveniente dalla biblioteca, per cui la guardia aveva attivato il comando elettrico del cancello solo quando aveva visto i fari scendere verso di lui a grande velocità nel buio e nella pioggia. Aveva applicato il lampeggiatore d'emergenza sul tetto e scendeva a tutta velocità. Schiacciando l'acceleratore a tavoletta sperò che il guardiano aprisse il cancello in tempo per evitare una brutta collisione. Sarebbe potuto scendere dall'altura della casa a una velocità più ragionevole, ma anche i secondi erano importanti. Se pure il corpo astrale della bambina avesse impiegato ancora un po' di tempo per farla finita con Boothe e Uhlander, molto probabilmente sarebbe ritornato a quel cinema di Westwood ben prima di Dan; lo spirito sicuramente non viaggiava lento come un'automobile, ma si muoveva da un luogo all'altro in un batter d'occhio. E poi temeva che al maggiordomo venisse in mente che Dan avesse fatto qualcosa per provocare quelle urla nella biblioteca. Se gli veniva questo sospetto, c'era il rischio che telefonasse all'ingresso ordinando alla guardia di richiudere il cancello e bloccando la fuga di Dan; in quel caso preziosi minuti sarebbero andati perduti. A trenta metri dal cancello, che continuava ad aprirsi, sollevò finalmente il piede dall'acceleratore e toccò il freno. L'auto cominciò a slittare, ma lui la tenne sulla strada mantenendo la direzione. Sentì uno scatto secco e un leggero sobbalzo quando il paraurti posteriore strisciò contro uno dei portali ancora in movimento. Appena fuori, si immise sulla strada senza rallentare, slittando ma mantenendo il controllo dell'auto. Con il lampeggiatore in azione, spinse la macchina al limite, scendendo a precipizio dalle alture di Bel Air, da una strada tortuosa alla seguente, mettendo a repentaglio la sua vita e la vita di quelli che incrociava. I suoi pensieri risalirono nel tempo: Delmar, Carrie, Cindy Lakey... Non più. Melanie era un'omicida, sì, ma non meritava di morire per quello che aveva fatto. Non era in sé quando li aveva uccisi. E poi mai come in questa
circostanza uccidere per autodifesa era stato un atto giustificabile. Se non li avesse eliminati, fino all'ultimo, l'avrebbero prima o poi raggiunta, se non per vendicarsi, per proseguire gli esperimenti con lei. Se non li avesse soppressi tutti e dieci, la tortura sarebbe continuata. Doveva farle capire quel concetto. Pensava di conoscere un modo per riuscirci. Dio, ti prego, fa' che funzioni. Westwood non era lontana. Con il lampeggiatore, e senza badare al rischio per la propria vita, poteva raggiungere il cinema in molto meno di cinque minuti. Delmar, Carrie, Cindy Lakey... Melanie... No. La temperatura dell'aria precipitò. Melanie mandò un gemito. Laura saltò su dalla poltrona, senza avere idea di che cosa fare, sapendo solo che non poteva starsene seduta mentre «Quello» si avvicinava. L'aria si raffreddava rapidamente. Anzi, sembrava ancora più fredda di quanto lo era stata nella cucina la sera prima o nella camera del motel, in occasione delle altre visite di «Quello». Dalla fila di dietro, qualcuno chiese a Laura di sedersi, e diverse teste si girarono a guardarla. Ma dopo un attimo l'attenzione di tutti fu catturata dal gelo incredibilmente improvviso che era sceso sul cinema. La temperatura era glaciale. Anche Earl si era alzato in piedi e questa volta aveva estratto il revolver. Melanie emise un penoso gridolino, ma non aprì gli occhi. Laura l'afferrò, la scosse. «Bambina, svegliati! Svegliati!» La sala cominciava a risuonare di commenti ed esclamazioni, provocate non tanto da Laura e Melanie quanto dal fatto che ora gli spettatori battevano i denti. Ma improvvisamente, per un attimo, il pubblico tacque, sconvolto: con un rumore lacerante lo schermo si squarciò, dalla cima al fondo. Una linea nera frastagliata apparve nel centro delle immagini proiettate, e le figure sullo schermo cominciarono a mostrare facce e corpi contorti mentre la superficie argentea sulla quale prendevano vita si accartocciava, si gonfiava, si afflosciava. Melanie si agitò sulla poltrona e cominciò a menare colpi in aria, colpi che raggiungevano Laura, la quale continuava a scuoterla nel tentativo di
svegliarla. Lo schermo non aveva ancora finito di lacerarsi, facendo ammutolire il pubblico, che le pesanti tende che lo fiancheggiavano si sfilarono dai loro binari sul soffitto. Sventolarono nell'aria per un momento come grandi ali, come se il diavolo in persona si fosse levato nella sala spiegando le sue appendici da pipistrello; quindi ricaddero con un sonoro fruscio in due grossi mucchi di stoffa senza vita. Questo, per il pubblico, era troppo. Incredula e in preda alla paura, la gente cominciò ad alzarsi dalle poltrone. Dopo aver preso una ventina di pugni sulle braccia e uno o due sul viso, Laura riuscì ad afferrare i polsi di Melanie e a tenerla ferma. Guardò, al di sopra della spalla, verso la parte anteriore della sala. Il proiezionista non era ancora intervenuto sul suo macchinario, per cui la luce continuava a rimbalzare dallo schermo rovinato, e una luce fioca veniva dalle lampade di emergenza lungo le pareti. Un'illuminazione sufficiente perché tutti vedessero quello che accadde subito dopo. Le poltrone vuote della prima fila cominciarono a sradicarsi dal pavimento a cui erano avvitate; furono scagliate con violenza nell'aria, all'indietro, verso lo schermo, incastrandovisi come palle di cannone. La gente cominciò a gridare, e qualcuno si mise a correre verso le uscite in fondo alla sala; si sentì un urlo: «Terremoto!» Un terremoto, ovviamente, non spiegava quello che era successo, ed era improbabile che qualcuno credesse a quella spiegazione, ma quella parola, tanto temuta nella California meridionale, si aggiunse al panico. Altre poltrone, nella seconda fila, eruppero dal pavimento con un rumore terrificante di bulloni divelti, metallo lacerato e cemento crepato. Era, pensò Laura, come se una gigantesca belva invisibile fosse entrata nel cinema e si facesse strada verso di loro, distruggendo tutto quanto trovava sul suo cammino. «Andiamo via di qui», gridò Earl, benché sapesse quanto lei che scappare da quella cosa, qualunque cosa fosse, non era possibile. Melanie aveva smesso di dibattersi. Adesso era immobile e inerte, come un mucchio di stracci appallottolati, così inerte che poteva essere morta. Il proiezionista spense la macchina e accese le luci in sala. Tutti, tranne Laura, Melanie ed Earl, si erano riversati verso il fondo del cinema e metà del pubblico era già uscito nell'atrio. Con il cuore che le batteva all'impazzata, Laura prese in braccio Melanie e si avviò incespicando fuori della fila, nel corridoio, con Earl che la se-
guiva. Ora a saltare in aria erano le poltrone della quarta fila, schiantandosi fragorosamente contro lo schermo demolito. Ma il rumore più spaventoso, una vera serie di cannonate, veniva dalle uscite di emergenza poste ai lati dello schermo. Si aprivano e si richiudevano, si aprivano e si richiudevano, gettate avanti e indietro con una forza tremenda. Guardandole, Laura non vide delle porte ma delle bocche minacciose, fameliche, ed ebbe la certezza che se fosse stata tanto folle da cercare di scappare da quelle uscite, si sarebbe trovata non nel parcheggio del cinema, ma nella gola di una bestia incredibilmente feroce, pur sapendo che era un'idea pazzesca, Gesù, folle, il segno che il panico le stava facendo perdere la ragione. Se non avesse avuto già esperienza di un fenomeno analogo, sia pure più in piccolo, nella sua cucina, sapeva che la scena che aveva davanti l'avrebbe fatta precipitare nella follia. Che cos'era? Che cos'era «Quello»? E perché mai voleva Melanie? Dan lo sapeva. Almeno in parte lo sapeva. Ma quello che sapeva lui non aveva importanza, perché ora non avrebbe potuto aiutarle. Sembrava che speranze di rivederlo non ce ne fossero. Considerando che era sull'orlo di una crisi isterica e già sovraccaricata emotivamente, l'idea di non rivedere mai più Haldane la colpì più duramente di quanto sembrasse possibile. Non aveva ancora raggiunto il corridoio centrale che le ginocchia cominciarono a cedere sotto il peso combinato di Melanie e del terrore. Earl, messo via il revolver, tolse la bambina dalle braccia di Laura. Presso le porte che davano sull'atrio erano rimaste solo poche persone, che premevano per uscire. Qualcuno guardava indietro, a occhi sbarrati, verso quel caos inesplicabile. Laura ed Earl fecero solo alcuni passi sul tappeto che ricopriva quella via di fuga, quando le poltrone smisero di saltare in aria dietro di loro, cominciando, invece, a staccarsi dalle file davanti. Dopo un breve, goffo balletto aereo, le poltrone fracassate ripiombavano in mezzo al corridoio, bloccandolo. Non si voleva permettere a Melanie di uscire. Stringendo la bambina fra le braccia Earl si girò, guardandosi attorno, incerto sulla prossima mossa. Poi qualcosa lo spinse e lui barcollò all'indietro e qualcosa gli strappò Melanie dalle braccia. La bambina rotolò lungo il corridoio fino a urtare, fermandosi, contro il fianco di una fila di poltrone.
Gridando, Laura si precipitò sulla figlia, la rovesciò sulla schiena e le mise una mano sul collo. Il battito c'era. «Laura!» Lei alzò lo sguardo quando sentì il suo nome, e con un'enorme ondata di sollievo vide Dan Haldane, che era appena entrato facendosi largo tra gli ultimi spettatori ancora in sala. Correva verso di loro lungo il corridoio centrale. Saltò la barricata di poltrone accumulata dal nemico invisibile, e mentre si avvicinava gridò: «Così! Prendila in braccio, proteggila». Raggiunse Laura e si inginocchiò accanto a lei. «Mettiti fra lei e 'Quello' perché non credo che a te farà del male.» «Perché?» chiese lei. «Ti spiegherò dopo», rispose lui. Si rivolse a Earl, che si stava rialzando. «Tutto bene?» «Sì», rispose lui. «Solo qualche livido.» Dan si alzò. Laura rimase sul pavimento del corridoio, fra pop corn e bicchieri di carta accartocciati e altri rifiuti, abbracciando Melanie, cercando di avvolgere completamente la bambina. Si accorse che la sala era silenziosa, che la bestia invisibile non era più scatenata. Ma l'aria era fredda, fredda da gelare il sangue. «Quello» era ancora lì. Dan ruotò lentamente, aspettando che qualcosa accadesse. Visto che il silenzio continuava, disse: «Non puoi ucciderti se non uccidi anche tua madre. Lei non te lo lascerà fare se non la uccidi prima». Guardandolo, Laura chiese: «Con chi stai parlando?» Ma poi lanciò un grido e si strinse più forte a Melanie. «Qualcosa mi sta tirando! Dan, qualcosa sta cercando di strapparmi da lei!» «Resisti», disse lui. Lei si aggrappò a Melanie, e per un momento sembrò un'epilettica, che si dimenava in preda a una crisi. Ma l'attaccò cessò e lei smise di dibattersi. «Andato?» chiese Dan. Lei alzò gli occhi, spaventata e sgomenta. «Sì.» Dan parlò rivolto all'aria, poiché avvertiva che il corpo astrale era lì, da qualche parte nel cinema. «Non si farà spingere via per lasciarti libera di farti a pezzi. Lei ti ama. Se sarà necessario, morirà per proteggerti.» Dall'altra parte della sala, tre poltrone furono strappate da terra e gettate
in aria, dove continuarono a ruotare e a scontrarsi per mezzo minuto prima di ricadere a terra. «Puoi pensarla come vuoi», continuò Dan rivolto allo psicogeist, «ma non meriti di morire. Quello che hai fatto è stato orribile, ma niente di più di quanto hai dovuto fare.» Silenzio. Tutto immobile. «Tua madre ti ama. Vuole che tu viva. È per questo che ti sta stringendo con tutta la sua forza.» Un gemito straziato di Laura gli fece capire che finalmente aveva intuito tutta l'orribile verità. Sul davanti della sala, le tende ammucchiate si mossero e si sollevarono di un po', in un tentativo poco convinto di aprirsi come prima in minacciose forme di ali, ma dopo qualche secondo ricaddero in un cumulo informe. Earl si era alzato. Si fece vicino a Dan. Guardando nella sala, chiese: «Era la bambina stessa?» Dan annuì. Piangendo, Laura si stringeva a sua figlia. L'aria era ancora gelida. Qualcosa toccò Dan con invisibili mani di ghiaccio e lo spinse all'indietro, ma non molto forte. «Tu non puoi ucciderti perché noi non te lo permetteremo», riprese lui, sempre parlando all'invisibile corpo astrale. «Melanie, noi ti amiamo. Tu non hai mai avuto un'occasione, e noi vogliamo dartela.» Silenzio. Earl fece per dire qualcosa, ma in quel momento, a diverse file di distanza, lo psicogeist attraversò con furia tutta una fila di poltrone, abbattendone gli schienali durante la corsa, e le tende cadute questa volta si alzarono, e le porte delle uscite di sicurezza ricominciarono ad aprirsi e chiudersi con violenza, e alcune mattonelle antiacustiche del soffitto presero a piovere, e si sentì un freddo lamento che doveva essere una voce astrale, poiché proveniva da un punto nello spazio e riempiva la sala a un volume tale che Earl e Dan dovettero tapparsi le orecchie. Dan abbassò lo sguardo e vide che Laura aveva sul viso un'espressione di dolore, ma non lasciava Melanie per coprirsi le orecchie con le mani. Manteneva la presa, stringendo forte la piccola, resistendo. Il suono raggiunse un livello insostenibile, e per un momento Dan pensò di aver sbagliato a giudicare la bambina, pensò che stava per far crollare il
tetto seppellendo tutti per uccidere se stessa. Ma d'un tratto la voce assordante cessò, le tende ricaddero inanimate al suolo, le porte smisero di sbattere. Un'ultima mattonella cadde dal soffitto, colpì il corridoio lontano da loro, rimbalzò e rimase immobile. Di nuovo tutto fermo. Di nuovo silenzio. Per quasi un minuto rimasero in attesa e poi l'aria si fece di nuovo tiepida. In fondo alla sala un uomo, forse il direttore, esclamò: «Che diavolo è successo qua dentro?» Accanto al direttore, una maschera, che evidentemente aveva assistito all'inizio della distruzione, cercava, senza riuscirci, di spiegare. Dan notò un movimento su nella cabina di proiezione e vide un uomo che sbirciava da una delle finestrelle. Sembrava stupefatto. Laura finalmente allentò la stretta su Melanie, mentre Dan ed Earl le si accovacciavano accanto. Gli occhi della bambina erano aperti, ma non guardavano nessuno di loro. Lo sguardo era sfocato. Eppure, non era lo stesso sguardo ossessionato che aveva prima. Non coglieva ancora nulla di questo mondo, ma aveva cessato di vedere l'altro luogo, quello in cui prima cercava rifugio. Era adesso su quella linea di confine tra quella fantasia e questa realtà, fra il buio introverso e il mondo di luce nel quale avrebbe vissuto la sua vita. «Se l'impulso suicida è finito, e io credo di sì, allora il peggio è passato», disse Dan. «Sono sicuro che, con il tempo, ne uscirà completamente. Ma occorrerà una quantità infinita di pazienza e di amore.» «Ne ho a sufficienza, dell'una e dell'altra», replicò la donna. «Ti aiuteremo noi», disse Earl. «Sì», aggiunse Dan. «Ti aiuteremo noi.» Ci sarebbero voluti anni di terapia per Melanie, e c'era il rischio che rimanesse autistica. Ma lui aveva la sensazione che la porta di dicembre l'avesse chiusa per sempre, che non l'avrebbe mai più riaperta. E se era chiusa, se lei fosse riuscita a dimenticarsi come si apriva, forse avrebbe finito per dimenticare il dolore, la violenza e la morte che aveva visto al di là di quella porta. Dimenticare era il punto di partenza per guarire. Dan capì che in questo c'era una lezione che poteva essere utile anche a lui. La lezione del dimenticare. Aveva bisogno di dimenticare il dolore dei suoi propri fallimenti. Delmar, Carrie, Cindy Lakey. Gli si presentò alla
mente l'idea, disperata e infantile, che se lui fosse riuscito a lasciarsi finalmente alle spalle quei neri ricordi, se avesse chiuso la sua porta, forse anche la bambina avrebbe potuto chiudere la sua, come se la sua guarigione potesse essere incoraggiata dalla determinazione di Dan di dare le spalle alla morte. Decise di fare un patto con Dio: Ascolta, Signore, ti prometto di lasciarmi dietro il passato, di non soffermarmi più tanto su pensieri di sangue, di morte, di assassinio, di dedicare più tempo alla vita, ad apprezzare le bellezze della vita che Tu mi hai dato, di essere più grato per quello che mi hai dato e in cambio, Dio, non ti chiedo altro, ti prego, che Melanie ne esca completamente, ti prego. Affare fatto? Stringendo e cullando la figlia, Laura lo guardò. «Hai un'aria così intensa... Che cosa c'è? A che cosa stai pensando?» Anche impolverata, sporca di sangue e scarmigliata, era bellissima. «Dimenticare è il punto di partenza per guarire», rispose lui. «A questo stavi pensando?» «Sì.» «Questo è tutto?» «È abbastanza», disse lui. «È abbastanza.» FINE