JACK KETCHUM IN VIAGGIO CON L'ASSASSINO (Joyride, 1995) SOLANGE: Quando gli schiavi si amano non è amore. CLAIRE: No, ma...
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JACK KETCHUM IN VIAGGIO CON L'ASSASSINO (Joyride, 1995) SOLANGE: Quando gli schiavi si amano non è amore. CLAIRE: No, ma è altrettanto serio. Jean Genet, Le cameriere «Poco dopo il giudice si alzò e si avviò verso una qualche oscura missione e trascorso un po' di tempo qualcuno chiese allo spretato se fosse vero che una volta vi erano state due lune in cielo e lo spretato lanciò un'occhiata verso la falsa luna sopra di loro e disse che poteva benissimo essere stato così. Ma certamente l'Onnipotente, preoccupato per la proliferazione di lunatici su questa terra, deve essersi umettato il pollice e, sporgendosi dall'abisso, deve averla pizzicata facendola sgonfiare con un sibilo. E se fosse riuscito a trovare un altro modo per permettere agli uccelli di correggere la propria traiettoria nell'oscurità, avrebbe fatto lo stesso anche con questa.» Cormac McCarthy, Blood Meridian Prologo Era da poco estate. Rule guidava sulla 89 Nord in direzione di Waterbury. La prova che fosse estate era il suo parabrezza. Zanzare, mosche, api, moscerini, effimere, lepidotteri... i loro corpi lasciavano una sottile massa bianca costellata di parti più compatte, di ali e mandibole e antenne, di cestelle e occhi composti. È incredibile, pensò. In questo mondo non puoi nemmeno muoverti senza fare del male a qualcosa. A ogni passo. La distruzione di qualcosa. L'autostrada dinanzi a lui era la traiettoria di un proiettile. Rule guidava all'interno del rivestimento. Il parabrezza ne era l'ogiva. Lanciato a tutta velocità attraverso l'aria viva dell'estate. GIOVEDÌ
1 Ancora pioggia. Pioggia ogni giorno questa settimana. L'aria nella camera era così gonfia di umidità che sentiva le mani appiccicose, il corpo appiccicoso, le lenzuola bagnate come se avesse fatto l'amore con lei, a lungo e con passione, mentre in effetti non l'aveva nemmeno toccata. «Dobbiamo parlare», disse Lee. «Carole?» Lei scrollò la testa. «Non ora.» Rimase a osservarla sdraiata e con gli occhi rivolti al soffitto, avvolta strettamente nelle lenzuola, le lunghe braccia nude incrociate sul petto. I gatti, sul pavimento dalla parte di Carole, schizzarono improvvisamente fuori della stanza, inseguendosi, scomparendo nel corridoio rivestito di scuri pannelli, scendendo rumorosamente le scale, gli unghioli che sfioravano appena il legno tirato perfettamente a lucido. Udì uno di loro colpire una balaustra e continuare a correre. Poi un mobile di sotto. In altri momenti avevano riso sentendoli sbattere qua e là, mentre giocavano. Ma come aveva detto lei... Non ora. Nella bocca di Carole scorse una tensione che la faceva apparire prematuramente invecchiata, gli dava un'idea di come sarebbe stata con dieci anni di più. «Dobbiamo parlarne», insisté. «Sai che dobbiamo farlo.» Lei cominciò a piangere. Le lacrime sgorgarono così improvvise che sembrava fossero in attesa di tenderle un agguato. «Ci dev'essere un altro modo», mormorò Carole. «Non posso fare una cosa del genere.» «Quale altro modo? Dimmelo tu. Dimmi se c'è qualcosa che non abbiamo già tentato.» I singhiozzi erano come esplosioni soffocate. Facevano tremare il letto. Si allungò verso di lei e l'abbracciò. Sapeva che tenerla stretta non sarebbe servito a molto. Erano giunti a un punto in cui nessuno dei soliti gesti sembrava più funzionare, nemmeno quelli essenziali, un punto in cui tutto il loro piacere risultava avvelenato e sconvolti i loro tentativi di accostarsi l'un l'altro. Mio Dio, pensò. Guarda cosa è riuscito a fare l'uomo. Non avrebbe mai pensato fosse possibile. Che ora dovesse sforzarsi di provare determinate sensazioni per lei mentre un tempo era stato tutto così semplice. Ma continuò a tenerla stretta.
L'abbraccio la raggiunse appena. Quasi non lo sentì. Dentro di lei un fermento di immagini contrastanti. L'uomo Lee che le giaceva accanto a lei non ne faceva parte. Erano tutte immagini di lei e Howard. Howard e lei. Insieme davanti al mare, a Rockport, la sua promessa di proteggerla fatta davanti a un immenso, piatto muro di acqua e cielo. Poi il letto. Questo letto. Le braccia e le gambe di lei legate a questo letto. Howard che le si toglieva di dosso dicendo, non ti preoccupare, non ti ammazzerò, ti sto togliendo il bavaglio. Non ti ammazzerò per questa volta. Il loro primo Natale dopo il matrimonio. Chiudi gli occhi. Avanti. Continua a tenerli chiusi. Adesso aprili. E Beastie non era che una micina... così piccola che sta nel palmo della mono... che sbirciava Impaurita dal bordo rosso fuoco della calza, e Carole sapeva che questo era qualcosa di duraturo, che lei era felice. Howard in mezzo al prato alle quattro del mattino. Farneticante. Poi ammanettato, furioso dentro l'auto della polizia. Il poliziotto Rule che umetta il mozzicone di matita, fìssa il suo volto gonfio e pieno di lividi, prende appunti. Mentre sciano insieme a Mount Haggarty e Carole si sente così insicura, la sua prima volta, l'attenzione di Howard per lei, totale, assoluta. Ginocchia piegate, va bene? Usa le racchette. Non si era mai sentita tanto tranquilla in tutta la sua vita. Il rumore e la sensazione di una lama che scivola sulla sua pelle. Non ti muovere. Se non ti muovi, non ti taglio. Howard privo di conoscenza, ubriaco. Che urina nel letto. E Carole che si sveglia sentendo l'umidità diffondersi tutta intorno, che per prima cosa cambia le lenzuola la mattina dopo così, quando lui uscirà dalla doccia, sembrerà che non sia mai successo e lui non si sentirà imbarazzato, e nemmeno lei. La punta del coltello che scende lungo la sua pancia fino ai peli pubici. Potrei rasarti. Sorride. Le braccia intorno a lei la strinsero contro un corpo che non era quello di Howard, più snello e più minuto di quello di Howard e che non odorava né di bourbon né di gin né di Ralph Lauren Polo Crest né di urina ancora calda.
«Posso farlo io», disse Lee. «Tu devi solo farlo arrivare là.» Il viso e il collo di lei erano bagnati di lacrime. Evidentemente aveva smesso di piangere. «Ti fidi di me, vero?» chiese Lee. Lei lo fissò annuendo. Ma in realtà non si fidava di nessuno. Non veramente. Per un attimo il silenzio sembrò percuotere l'aria sopra di lei con ali invisibili, le sentì allontanarsi lentamente attraverso l'afa serale. Un'evanescenza. Un volo di anime. Non si era mai sentita così sola. SABATO 2 Vi erano momenti in cui Susan pensava chi è questo extraterrestre accanto a me? Ora per esempio. Erano quasi giunti in cima alla parete meno ripida dello Smuggler's Notch, nei pressi del laghetto, il sentiero circondato da aceri, ma si sentiva anche il profumo dei pini e degli abeti che si ergevano sui dirupi. Era una meravigliosa e limpida giornata di luglio, una delle prime giornate veramente belle della stagione, con tutta la pioggia che avevano avuto fino ad allora. Loro due, insieme. E Wayne era accigliato. Quasi non le parlava. Quella maledetta staccionata, pensò lei. È ancora la staccionata. Scommettiamo? Era convinta che non ci fosse nessun altro a Barstow che ne avesse una simile. Paletti bianchi di legno di betulla alti più di tre metri e piantati così fitti tutto intorno a quel suo penoso mezzo acro di terra a forma di fetta di formaggio che, in una giornata di sole, riusciva a malapena a penetrarvi un raggio di luce. Stando in mezzo al prato alle dieci del mattino uno poteva figurarsi di venire masticato da un'immaginaria fila di denti. Denti alti più di tre metri. E tutto per tenere alla larga il cane del vicino. Almeno così diceva Wayne. All'inizio lei aveva riso, dicendo perché mai hai bisogno di una cosa del genere? ma aveva comunque dovuto ammettere che lui aveva fatto un buon lavoro. Molto preciso e, in un certo qual modo, perfino ammirevole.
Anche se non riusciva ancora a comprenderne la necessità. Anche se sembrava davvero un Fort Apache in miniatura, che faceva quasi sembrare minuscola la casa, vecchia e squadrata, che aveva ereditato da sua madre. L'unico problema era che i ragazzi del vicinato ne facevano meta delle loro scorribande, staccando le assi e rubandole mentre lui lavorava di notte. Ne aveva già dovute sostituire tre o quattro. O erano cinque? Wayne sospettava dei giovani Leigh che abitavano due porte più avanti. Ma non aveva prove. E ultimamente sembrava che trascorresse metà del tempo a rimuginarci sopra. Mentre qui c'era una giornata come questa! Il sentiero girava intorno al pendio della montagna. Si apriva in una radura. Erba fitta e corta, spazzata dal vento, e terreno sassoso e sterile. In fondo al precipizio, attraverso un bosco di pioppi (legnadimerda la chiamava Wayne perché non riscaldava) si poteva vedere il punto da dove erano partiti. Da lì erano dieci minuti di camminio, anche se la parete verticale lo faceva sembrare molto più vicino. «Riposiamoci un po', okay?» esclamò Susan. «Perché? Siamo quasi arrivati.» «Solo per un po'.» Ora che si erano fermati riusciva a sentire l'aria fresca. Aveva la camicetta fradicia sulla schiena e si sentiva bagnata lungo la cintura dei jeans. Quella brezza leggera e continua le procurava una sensazione piacevolissima. «Okay», borbottò lui. Buon Dio, grazie tante, pensò. Wayne si tolse lo zaino dalle spalle e lo gettò a terra. Pazienza se aveva probabilmente schiacciato i panini. Poi si sedette su un masso di granito, tirando distrattamente calci al terriccio davanti a lui. Uno si sarebbe aspettato che facesse almeno qualche sforzo, pensò lei. Dato che lui lavorava di notte al Black Locust Tavern e lei lavorava di giorno al Mountain Lodge, ultimamente non riuscivano quasi più a vedersi, a parte i fine settimana, e il tempo era stato brutto durante quasi tutti i weekend di giugno. Anche il 4 luglio aveva piovuto. Possibile che non avesse mai sentito la frase (com'era?) cogli l'attimo? A volte pensava seriamente alla possibilità di sposare Wayne, se mai fosse arrivato a chiederglielo. Il loro rapporto era ancora abbastanza agli inizi per una cosa del genere, ma talvolta non le sembrava un'idea malvagia. Perlomeno se ne sarebbe andata da Woolcott.
Ci pensava. Ma poi rifletteva su quanto lui a volte riuscisse a essere cupo, su quanto potesse essere irraggiungibile e noioso. Davvero non sapeva. Probabilmente, pensò, avrebbe dovuto vendere la casa dopo la morte di sua madre e trasferirsi da un'altra parte. Adesso sembrava che tutti i vicini lo irritassero. Forse vi erano troppi ricordi in quel posto. Troppi visi familiari. Troppi ragazzi con i quali era cresciuto e che, come lui, sembravano bloccati in quel luogo. Si erano conosciuti nel bar dove lui lavorava. Erano appena passati tre giorni dal funerale di sua madre, le aveva raccontato. Lei si era stupita che fosse già tornato al lavoro. Le tornò in mente quando in seguito lo aveva aiutato a controllare tutto ciò che vi era nella casa, l'incredibile intensità degli oggetti quotidiani presenti in una vita che la morte ha spezzato. Le tendine appena lavate in attesa di essere appese. L'assegno della previdenza sociale usato come segnalibro per il romanzo di Agatha Christie che stava leggendo (era quasi alla fine del libro). L'aragosta ripiena nel freezer, avvolta in carta stagnola, in attesa di una qualche occasione speciale. A detta di Wayne, era il suo cibo preferito. In qualche modo le era sembrato così ingiusto il fatto che questa donna, che non aveva mai conosciuto, non sarebbe mai riuscita ad appendere quelle tendine, a incassare l'assegno né a terminare il romanzo o ad assaporare quell'aragosta, tanto che aveva dovuto lasciare che Wayne continuasse da solo per un po', mentre lei usciva in giardino e si abbandonava al pianto. Aveva riflettuto sul fatto che la vita non era che un tempo determinato e che ognuno di noi rappresentava l'unica unità di misura. Come se la gente non fosse altro che un gruppo di orologi puntati su orari diversi, ognuno dei quali andava fatalmente scaricandosi. E questo le sembrava così triste, così malinconico. Deve essere deprimente per lui, pensò. Vivere là tutto solo. Dev'esserlo per forza. Sono passati soltanto quattro mesi. Non si può da un giorno all'altro gettare nella spazzatura venticinque anni di ricordi. Ecco perché è ancora così, pensò. Così cupo. Questo, e anche forse il ritiro della patente. Poverino, non poteva nemmeno più guidare. Gli stava costando una fortuna in taxi. Pensò, non l'ho mai visto piangere. Nemmeno una volta.
Comunque non gli avrebbe permesso di metterla di cattivo umore. Non oggi. Non con questa giornata meravigliosa. Non con quest'aria fresca e trasparente e il sole caldo e la brezza leggera. Lei sapeva come fargli tornare il buonumore. Anche se solo per poco. Erano completamente soli lassù, non c'era nessuno intorno. Ed era anche una giornata perfetta per una cosa del genere. Una piccola avventura poteva portare molto, molto lontano. «Ehi Wayne!» lo chiamò. Lui alzò lo sguardo, privo di espressione. Lei gli sorrise lo stesso. Tirò fuori la camicetta dai jeans e sentì la brezza fresca che le scivolava sullo stomaco mentre cominciava a sbottonarsi. Si mise a ridacchiare per via della brezza che le faceva il solletico. Abbassò la cerniera dei jeans e si avvicinò. Era stato il rapporto peggiore che avessero mai avuto. L'aveva fatta sdraiare per terra. L'aveva fatta spogliare. Le aveva fatto spalancare le gambe e l'aveva penetrata facendole davvero male, aveva la camicetta sotto la schiena ma non era servito a molto, dall'espressione sul suo volto, lui si rendeva conto che in parte era eccitata e in parte infelice per via di tutti i ciottoli e i sassi aguzzi che spuntavano dall'erba andandosi a conficcare nella carne chiara del suo sedere, allora lui si era mosso con più forza, caricando tutto il proprio peso su di lei a ogni colpo. Voleva che si facesse male, che sanguinasse un po', voleva che sanguinassero le spalle, e la schiena. Voleva che il suo sedere sanguinasse. Voleva... ... qualsiasi cosa che lo liberasse dalla tensione che partiva dai muscoli della schiena, gli risaliva lungo il collo e gli rombava come un treno merci nel cervello, sembrava che scaraventasse fuori materia cerebrale, quasi fosse stata ghiaia, attraverso le sue orecchie, il naso, gli occhi... Gesù! Era stato il peggiore. Ogni stramaledetta volta era sempre il peggiore. Ma questo era il peggiore. Una cosa da morire. Non importava il dolore. Vi erano tante cose a cui pensare e il dolore era soltanto una, irrilevante. Lui, nella sua vastità, dentro di lei, la sensazione di pienezza, il gusto del suo sudore sulle proprie labbra e i capelli scuri che, come onde, gli sfiora-
vano gli avambracci, la sua asciutta bellezza ora in tensione e sotto sforzo e l'odore di lui e ciò di cui parlavano a volte quando parlavano delle speranze di lui e dei suoi sogni per il futuro perché non era un gran che come barista, se ne rendeva conto, non ci sapeva fare con la gente e voleva comprare un locale tutto suo, e anche i propri sogni quando lui le avrebbe permesso di parlarne, bambini e una famiglia e una casa da qualche parte che non fosse la casa di sua madre, ma da qualche parte a Barstow non Woolcott, una vita con un futuro. C'erano tante cose a cui pensare. Per questo non le importava il dolore. All'inizio almeno. Sentì la mano afferrarle il seno e cominciò a lasciarsi trasportare dalle vibrazioni che nascevano dentro il suo corpo via via che la mano saliva lentamente verso il suo collo e cominciava a stringere, le dita serrate, forti, che le toglievano il fiato, un po', poi molto, tanto che la fece rantolare; e lei venne! Venne sotto di lui così improvvisamente e in modo così inaspettato che rimase allibita, mentre le dita di lui affondavano sempre di più e adesso le era impossibile respirare, impossibile (mio Dio, che cosa sta facendo?) l'orgasmo cessato all'istante così come era giunto e lei invasa da una sorta di meraviglia improvvisa e strana mentre lo fissava, perché il volto così concentrato su di lei era anche distaccato come quello di uno studente modello che seziona una rana in laboratorio, e si sentì presa da un gelido terrore. Wayne? Wayne? La morte come possibilità reale e inattesa, una cometa che attraversa fulminea il suo cielo all'improvviso scuro come la notte. Lottava aggrappandosi alle dita troppo affondate nella carne perché lei potesse riuscire ad afferrarle saldamente e lo fissava in volto supplicandolo con gli occhi, conscia della propria lingua sporgente gli occhi fuori delle orbite il sangue che risaliva attraverso le guance. Si contorceva sotto di lui e scalciava e tirava disperatamente, inutilmente, le braccia di Wayne, i sassi che le graffiavano la schiena, lo tempestava di pugni, cercando di gridare ma riuscendo soltanto a emettere un gorgoglio strozzato come di qualcosa sott'acqua finché le dita serrate sembrarono ricevere un qualche messaggio lontano, una specie di avvertimento dal cervello, e lui la lasciò andare. E lei riuscì quasi a respirare nuovamente attraverso la gola e i polmoni scossi per il rifluire della vita mentre Wayne gemendo le crollava addosso. Si staccò da lei. Rimase a terra ansante mentre Susan rantolava in cerca
d'aria. Ritrovarsi accanto a lui fu come giacere vicino a un serpente infido e velenoso. Si mise carponi e cominciò ad allontanarsi precipitosamente. «Bastardo! Maledetto bastardo!» «Io...» Non c'era modo di sapere quando le lacrime fossero cominciate a sgorgare ma ora all'improvviso le era quasi impossibile riuscire a vedere. Si pulì il naso con il dorso della mano cercando a tentoni la camicetta, le mutande, i jeans. «Bastardo!» Nell'infilarsi i jeans inciampò e quasi cadde, ancora stordita e singhiozzante, troppo movimento e troppo presto dopo... ciò che era accaduto... e lui se ne stava seduto lì a osservarla. Assolutamente immobile. Non cercava nemmeno di raccogliere i propri vestiti. Se ne stava seduto con l'aria intontita. Sembrava quasi... mio Dio! Sembrava quasi innocente! «Sei un bastardo! Mi hai quasi ucciso! Era questa la tua idea di divertimento? Sei pazzo?» «Susan, io...» «Che cosa? Sei dispiaciuto? È questo che stai per dirmi? Che sei dispiaciuto?» Scrollò la testa. «Gesù! E pensare che io... Gesù, sono io la pazza!» «Susan mi vuoi ascoltare un attimo, okay? Non so che cosa...» «NO, bastardo! Non ho intenzione di ascoltarti! Se appena ti avvicini giuro che ti uccido. Hai capito? CHE TU SIA STRAMALEDETTO!» Non riusciva a smettere di singhiozzare. Il petto ansante che tentava di inspirare enormi e profonde boccate d'aria. Ancora così senza alcun controllo di sé che le faceva male. Wayne allungò la mano per raccogliere i propri vestiti. Lei si asciugò gli occhi e rimase a osservarlo. Non scorse alcun segno di rimorso. Nessuna preoccupazione per lei. Non gliene importa! pensò. Mio Dio. Davvero non gliene importa nulla! E questa volta le lacrime furono anche più disperate di prima perché sgorgavano da un punto più profondo. Non erano causate dalla paura o dal dolore o perfino dalla rabbia che ancora sentiva, ma dalla perdita di lui, dalla perdita della propria idea di lui e di loro due insieme. Quell'idea era stata per lei più importante di quanto non avesse immaginato. «Io ti amavo», singhiozzò. «Non posso crederci. Non posso credere che
tu saresti stato pronto a fare... questo a me. Io penso che tu abbia bisogno di un aiuto o qualcosa del genere, Wayne. Penso che tu sia... una persona molto disturbata.» Allacciò la camicetta e la infilò nei pantaloni. Si voltò. I suoi passi lungo il sentiero di sassi e terriccio le risonavano stranamente forti nelle orecchie mentre si avviava barcollando giù per la montagna diretta a casa. Questa volta ci era andato davvero vicino. Ma alla fine, non aveva osato. Dio! Come avrebbe voluto. Sembrava che ogni cellula e ogni terminazione nervosa del suo corpo glielo imponessero. L'energia del proprio corpo era meravigliosa, il trattenersi era stato un brutale dolore fisico. E ora si sentiva svuotato, quasi fosse stato colpito da un possente orgasmo. In realtà il suo era stato debole, breve, insoddisfacente. Nulla, lo sapeva bene, in confronto a quello che sarebbe stato se avesse ceduto all'impulso. Se l'avesse uccisa. Si chiese, forse per la millesima volta da quando era diventato adulto, perché non aveva osato. Era così vicino. Si allacciò le Reebok, poi si alzò sistemandosi lo zaino sulla spalla. Si sentiva depresso. Gli avrebbe fatto bene passeggiare un po'. C'era un posto nei pressi del laghetto che pensava sarebbe andato bene. Aveva i panini. Gesù! Come si era arrabbiata! Ripensandoci, era quasi comico. Gli veniva quasi da ridere. Per tutto ciò che lei non sapeva. Per tutto ciò che nessuno di loro sapeva e che nessuno riusciva a vedere. E cioè che erano talmente tanti quelli che chiedevano di morire. Uomini, donne, bambini. Maschi e femmine, non aveva importanza. La loro età non aveva importanza. I giovani Leigh che continuavano a distruggergli la staccionata di notte. Roberts, il ciccione della porta accanto con il suo stramaledetto cane. La metà, no, quasi tutti, dei suoi clienti abituali al Black Locust Tavern. Murdoch con il suo puzzolente barbecue in giardino, ogni estate. Quella strana vecchia che lo salutava dalla sua bicicletta a tre ruote e il cui nome non conosceva ma che sembrava conoscesse lui o volesse conoscerlo, probabilmente un'amica di sua madre che tentava di fare la buona vicina di casa. Idioti. Era da ridere vederli trascorrere la propria vita preoccupandosi così poco. Non sapendo nulla della vita, davvero; che la vita non ha niente
a che vedere con l'amore e la casa, la famiglia e gli amici, che la vita è fatta di segretezza, pianificazione e cervello, cervello fegato e volontà. Questo e, logico, la solitudine. Tutti loro erano convinti di essere davvero importanti per qualcuno. E che di conseguenza anche le loro miserabili piccole vite dovessero essere importanti. Mentre non era affatto così. Non poteva esserlo. Mai. Teneva un blocco per appunti sul quale annotava gli insulti. «Roberts: cacca di cane nell'angolo a sinistra del giardino, 3/1/93; aveva raccolto i pezzi più grossi, lasciandone un po' schiacciata sull'erba. FARGLIELA PAGARE.» Oppure «Loden: ha ordinato scotch con acqua, poi mi ha detto no, con soda, 25/2/93. FARGLIELA PAGARE.» Così non si sarebbe dimenticato chi e quando. Si chiese perché non l'aveva fatto. Averla uccisa. Si sentì un po' vigliacco. Certo, vi erano state delle morti per causa sua, ma erano ormai anni che non osava più, non con quelli che venivano chiamati animali superiori, e anche allora si era trattato soltanto di gatti. E di un malconcio cane randagio. Ma anche così era stato meraviglioso. Certo non il dopo. Non esattamente. Aveva dovuto seppellirli in giardino. Sempre con la preoccupazione che sua madre potesse vedere o sospettare qualcosa. Mentre qui, adesso... Qui avrebbe potuto semplicemente trascinarla in mezzo ai cespugli e lasciarla così. Nel modo in cui Dio lascia i Suoi morti. L'uccello che va a sbattere contro i fili della luce. Il vecchio procione troppo malconcio per pescare o per cercare tra i rifiuti. Il debole e il nato morto e chi ha freddo e fame. Il modo in cui i morti erano sempre stati abbandonati senza essere di alcuna utilità (no, non inutili, perché bisognava pensare al suolo e a come i cadaveri lo arricchivano) fin da quando è iniziata la vita. Il modo di Dio. Non vi era nessuno che avrebbe sentito la mancanza di Susan almeno non per alcuni giorni e forse non per molto tempo. I suoi genitori si erano trasferiti nella Carolina del Sud e non era mai stata una famiglia molto unita.
Almeno quello avevano in comune lui e Susan. Nessuno avrebbe sentito la loro mancanza. Si accese una Carnei. A Susan non piaceva che lui fumasse. Ora non aveva più tanta importanza. Da tre mesi metà del Black Locust Tavern era riservata ai non fumatori. Un'area separata, più piccola dell'altra, era stata lasciata a chi aveva il vizio. E tutto perché il gestore, Peters, non aveva avuto abbastanza palle per opporsi a quattro yuppie e a qualche vecchietta rompiscatole. Peters era stato segnato nel blocco, naturalmente. FARGLIELA PAGARE. Si arrampicò fino a una sporgenza della roccia e lanciò un'occhiata oltre il bordo. A volte soffriva di vertigini, ma era sicuro che questo fosse il sistema per vincerle. Insistere nel lanciare occhiate verso il basso. Il sentiero di sotto era nascosto da un tozzo bosco di pini piegati dal vento che sputavano dalla roccia, tronchi contorti come raccordi a gomito di condotti fognari per adattarsi alla necessità di crescere contemporaneamente sia in orizzontale sia in verticale. I pini non riuscivano a fare gran che né in un senso né nell'altro. Apparivano piccoli, stremati e sciatti. Si allontanò. Il laghetto non era lontano. La notte precedente aveva sognato che lui e sua madre erano giunti a una casa che nessuno dei due conosceva ma che da quel momento in poi sarebbe stata la dimora della donna e lui l'aveva abbandonata lì, vecchia e storpia, cosa che non era mai stata, l'aveva lasciata tremante in mezzo a un enorme cortile, con l'aria confusa, spaventata e arrabbiata. Nel cortile vi erano dei gatti e lei odiava i gatti. Si era allontanto con l'auto ridendo. Il sogno era molto vivido. Molto reale. Si chiese se Susan avrebbe più scopato con lui. Era possibile. Ma non molto probabile. Peccato. Era piuttosto brava a scopare e sul suo blocco vi erano meno annotazioni su di lei che sulla maggior parte delle persone. Decise di lasciar trascorrere più o meno una settimana e poi vedere se riusciva a parlarle. Se riusciva a parlarle allora probabilmente l'avrebbe convinta a ricominciare a scopare con lui perché anche se non era il massimo era pur sempre qualcosa. Stava pensando di prendere uno dei panini dallo zaino, di togliere la carta e cominciare a mangiarlo mentre camminava lungo il sentiero perché gli era venuta una gran fame con tutto questo stress, quando sentì delle voci (grida) giungere dal basso. Tornò nuovamente verso la sporgenza e sbirciò
attraverso gli alberi. Scorse del movimento giù in basso, si spostò in un punto più aperto e li vide chiaramente tutti e tre che, formando un circolo stretto, si muovevano avanti e indietro, in dentro e in fuori, come in una goffa danza in mezzo alla boscaglia, appena fuori del sentiero. Sentì un fremito. Qualcosa che correva obliquamente lungo la sua spina dorsale. Vide ciò che stavano facendo e dimenticò tutto su Susan e sul suo blocco per appunti e il sogno di sua madre e il panino. All'improvviso si rese conto che la sua vita era cambiata per sempre e vi si abbandonò lasciandosi trasportare. Rimase a osservare. Fra il primo e il secondo colpo del Battitore di Louisville, Howard Gardner ebbe il tempo di valutare un certo numero di fatti, pensare a un determinato numero di cose, nessuna delle quali troppo profonde ma perlopiù importanti. Puttanella non ce la farai ad ammazzarmi, fu il primo pensiero e probabilmente il più significativo. Perché questo lo fece infuriare e la rabbia rafforzò il suo spirito combattivo. Errore! Io ammazzerò te, fu il secondo pensiero più importante semplicemente perché era un tipo molto ostinato. La sua preoccupazione più immediata era l'uomo con la mazza da baseball. Non la donna. Per il momento la donna era soltanto una distrazione. E questo non andava affatto bene perché Howard non aveva bisogno di distrazioni. Spostati e schiva, pensò. Avanti. Puoi ammazzare questo tizio. Accidenti, stai sanguinando! Sentiva il sangue scorrergli lungo il lato del viso. Cazzo! Ammazza quel bastardo. Ne hai la possibilità e il fisico. Ammazzerò quella piccola puttana. Avrebbe dovuto saperlo fin dall'inizio. C'era qualcosa di sbagliato in tutta la storia. Perché diavolo avrebbe dovuto desiderare di trovarsi sola con lui dopo tutto questo tempo, e addirittura sola nel bosco. Per che cosa? Per amore dei tempi andati? Perché ogni tanto salivano fino a qui e facevano un picnic? Quei giorni erano passati ormai da tempo e da allora lei gli aveva portato via la casa, la macchina e metà del suo lavoro e gli aveva perfino scatenato dietro la polizia di Barstow, era riuscita a farlo diffidare quella piccola puttana così non poteva nemmeno avvicinarsi a lei, la sua ex moglie! Ma non c'era stato modo di
trattenerlo allora, proprio per niente, e non era possibile trattenerlo adesso. Ma quello stordimento non andava affatto bene. Quel Lee si era piazzato dietro di lui. Non lo aveva mai visto prima. Carole si era semplicemente fermata ad ammirare il paesaggio e all'improvviso barn! luci che scoppiettavano nella sua testa, ma Lee aveva calcolato male la distanza. Lo aveva colpito con la parte centrale della mazza invece che con l'estremità più massiccia e così il bastone gli era scivolato lungo l'orecchio e il lato della testa andando a colpire la clavicola. La clavicola sembrava rotta. Ma Howard era ancora in piedi. Perdio era in piedi! Finse un sinistro e sferrò un destro, con un attacco improvviso, tempestando di pugni l'avversario, proprio come in Marina. Con il destro colpì uno stomaco sorprendentemente sodo mentre la mazza gli rotolò dalla spalla ormai del tutto innocua. Il tizio cadde all'indietro in mezzo ai cespugli e Carole emise un grido strozzato alle sue spalle. Uno di quegli strilli da donna terrorizzata. Puttana. Mi hai preso per il culo e poi ti sei fatta scopare e adesso vuoi liberarti di me. Non è così? Qual è il problema? Sono una scocciatura troppo grossa per te? Si voltò verso di lei forse per (sarebbe davvero possibile) scaraventarla giù dalla montagna; poteva farlo benissimo, erano così vicini all'orlo del precipizio, e si stava chiedendo se una volta sistemata l'altra questione avrebbe avuto voglia di farlo perché la decisione stava soltanto a lui, era sempre stato lui a decidere qualunque cosa volesse fare con lei, avanzava nella sua direzione pensando: al diavolo con tutta questa storia, al diavolo con il continuare a correrle dietro e a litigare e a sprecare tempo con lei, cercando di renderle la vita impossibile, sarebbe più facile semplicemente porre fine alla sua piccola e odiosa vita qui e ora, stava pensando a tutte queste cose quando il tizio si rialzò dai cespugli e ricominciò a colpirlo. Aveva davvero fatto una cazzata girandosi verso di lei. Andandole dietro. E questa volta il tizio andò proprio bene. Molto meglio. La testa di Howard si spaccò e adesso cominciò a sanguinare davvero tanto che, per riuscire a vedere, dovette asciugarsi dagli occhi il sangue che gli scorreva copioso lungo la fronte, e a quel punto si rese conto di essere in ginocchio. Non ricordava di essere caduto. Ma c'era qualcosa di strano. Qualcosa di sbagliato. Che diavolo stava
succedendo? Ormai il tizio avrebbe dovuto colpirlo di nuovo. Certo. Era proprio questo. Che diavolo era successo al tizio? Aveva esitato. Idiota. La vista gli si schiarì abbastanza per vedere un paio di gambe proprio di fronte a lui, le afferrò, tirandole verso di lui e tenendole strette, poi si alzò e Lee cadde, mentre continuava a colpirlo con la mazza picchiandolo in mezzo alla schiena e sul fianco, calava il bastone con tanta veemenza che Howard sentì l'osso iliaco che si spezzava. Non era come la ferita sulla testa. Al diavolo, quella ferita non gli faceva quasi male. Ora sì che il dolore era insopportabile. Ma nel frattempo si era portato sull'avversario e aveva cominciato a tempestare di pugni l'ovale sfocato che sapeva essere il viso dell'amante di Carole, e vide che all'improvviso diventava completamente rosso, rosso del sangue del suo avversario o del proprio, non sapeva dirlo con certezza, e non gliene importava molto perché lo stava colpendo, sentiva i denti conficcarglisi nel pugno e poi qualcosa di morbido che probabilmente era l'occhio e lui urlava, Howard urlava perché sentiva diminuire il proprio dolore nella gioia cieca e assoluta dell'omicidio quando percepì, non vide, che lei si era lentamente avvicinata a loro e che era ferma sopra di loro e percepì, non vide, che sollevava il masso. Sentì l'odore del terriccio fresco che si staccava dalla pietra. Aveva lo stesso odore del sangue, ma più intenso. Più denso. E per un momento sentì una specie di contatto indefinito, una pressione dall'alto, enorme e improvvisa, che gli colpiva con un rumore secco la testa e il collo, mentre Lee scivolava di lato, la terra e l'erba come forme vaghe. E poi non sentì più nulla. *** Wayne si era sdraiato bocconi sulle rocce. Niente vertigini adesso. No. Non riusciva a credere ai propri occhi. Loro avevano osato! Sentì quasi voglia di gridare, di urlare dalla gioia. Mio Dio! All'inizio non era certo di ciò che stava vedendo, non gli era sembrato niente più che
una normale lite, magari per via della donna. Uno degli uomini aveva una mazza da baseball ma lui aveva visto di peggio di notte nei parcheggi dei bar con cric e catene e quindi era stato solo alla fine, quando la donna aveva sollevato il masso e aveva colpito l'uomo più alto e più grosso che Wayne si era reso conto di ciò che stava accadendo. Un assassinio. Avrebbe voluto chiamarli. Ehi ragazzi! Ehi! Fatemi partecipare! Avrebbe voluto raggiungerli. Osservare la cosa da vicino. Accidenti, magari dargli una mano. Chi diavolo era quella gente? Da dove diavolo saltavano fuori? Non ricordava di essere mai stato così eccitato. Per niente altro! Sentiva il cuore che gli batteva all'impazzata e le orecchie che gli martellavano. Avevano osato! Maledizione! Avrebbe voluto raggiungerli. Ma invece fece la cosa più giusta, almeno ritenne che fosse la cosa più giusta, rimase a osservare in silenzio l'uomo che si asciugava il sangue dalla faccia (sanguinava dalla bocca) poi si piegava per sollevare il masso. Era grosso e piatto e da sotto la testa dell'uomo appariva come se qualcuno l'avesse sformata e pitturata di rosso. L'uomo lanciò il masso lungo la montagna poi tornò verso la donna che se ne stava in piedi, le mani tremanti, e che gli aveva detto qualcosa e poi aveva guardato da una parte e dall'altra del sentiero. Non aveva bisogno di preoccuparsi. A parte Wayne erano completamente soli e lo sarebbero stati per un bel po'. Lui aveva un'ottima visuale della stradina e sapeva che era vuota. Sembrava che solo in quel momento si stesse rendendo conto che loro, che lei, avevano appena ammazzato qualcuno. Non erano soltanto le sue mani, da lassù riusciva a vedere che tutto il corpo della donna era scosso da tremiti. Notò che era un corpo molto ben fatto. I jeans stretti e la maglietta non lasciavano dubbi. Non sapeva che cosa fosse più interessante, quel corpo o quello che le aveva appena visto fare. L'uomo appariva più calmo. La circondò con le braccia e la tenne stretta per un momento. Wayne riusciva a sentire i singhiozzi soffocati. Poco dopo l'uomo si staccò da lei e tornò verso il cadavere, lo afferrò per i polsi e cominciò a trascinarlo. La testa ciondolava di lato e lasciava una scia di sangue sul sentiero. Le costose scarpe da corsa del morto, grattando il terreno, formavano un proprio tracciato. E Wayne si chiese come diavolo pensavano di farla franca.
Sarebbe stato difficile ripulire tutto quel macello. Le ferite sulla testa sanguinano molto. Questa di sicuro. E anche il poliziotto più deficiente avrebbe probabilmente controllato il pendio al di sopra del punto in cui era finito il cadavere. Vide poi che l'uomo prendeva tra i cespugli accanto al sentiero un piccolo zaino da escursionista, e dopo aver rivoltato il cadavere, gli fece scivolare le braccia attraverso le cinghie, rivoltandolo poi nuovamente per legarglielo sul petto. Un incidente di montagna, pensò Wayne. Certo, può essere. Ma c'era ancora il problema delle tracce di sangue. Fu soltanto quando il corpo scomparve oltre il dirupo e lui sentì dapprima un lungo silenzio, poi un tonfo lontano che si rese conto che queste persone erano più furbe di quanto avesse pensato e che forse sapevano anche quello che stavano facendo, e che in realtà avevano scelto il posto con molta cura. In fondo alla scarpata c'era un torrente che doveva essere in piena con tutta la pioggia che era caduta. Da dove si trovava non riusciva a vederlo ma, risalendo, lui e Susan gli erano passati accanto. Il corpo sarebbe stato trascinato via. Niente male, pensò. Proprio niente male. Se fossero stati fortunati avrebbe potuto piovere ancora un po' stanotte o domani mattina ripulendo completamente le rocce. Si chiese se avevano controllato le previsioni del tempo. Scommetteva di sì. Sorrise. Stare a osservarli era il maggior divertimento che gli fosse capitato da anni. Anche adesso, mentre si preparavano per andare via. Anche mentre l'uomo con la punta del piede ricopriva di terriccio le tracce sul sentiero e si toglieva la camicia insanguinata, la rivoltava e la bagnava con l'acqua del thermos, la usava per togliersi il sangue dal viso e dalle mani e la infilava in un secondo zaino, più grande, che aveva nascosto in mezzo alla boscaglia insieme con quello piccolo; poi estrasse una camicia pulita e la indossò. La donna era rimasta seduta su un masso, lo osservava, appariva svuotata, come se le gambe non fossero in grado di sostenerla. L'uomo tolse dallo zaino un rotolo di pellicola di plastica con il quale avvolse la mazza che ripose insieme con il thermos, dopodiché chiuse le cerniere. Si sistemò lo zaino sulle spalle e a quel punto erano pronti. E fu allora che accadde la cosa più interessante.
L'uomo si voltò sollevando lo sguardo verso la montagna. E Wayne lo conosceva. L'uomo era un cliente del Black Locust Tavern. Lo frequentava saltuariamente. Uno che beveva scotch, gli sembrava. Non sapeva come si chiamava. Vide che la donna si alzava in piedi, evidentemente ce l'avrebbe fatta ad andarsene con le sue gambe, e i due si allontanarono scendendo lungo il sentiero. Una normale coppia di escursionisti a passeggio in una bella giornata di sole. Se qualcuno li avesse incrociati e avesse notato che la donna appariva un po' tremante... be', non era certo una salita facile. L'intero episodio, pensò Wayne, compreso l'omicidio, era durato probabilmente meno di dieci minuti. Dieci minuti per uccidere una persona. Era incredibile. Attese fin quando non li vide sparire dalla propria vista, poi cominciò a scendere. Vi erano schizzi di sangue sulle rocce nel punto in cui lo avevano ucciso, goccioline fra i cespugli e una piccola pozzanghera che macchiava l'erba. Ne strappò un po' con le mani. Il sangue era mezzo essiccato e appiccicoso, color ruggine. L'erba gli rimase attaccata sui palmi delle mani. Lui se ne liberò sparpagliandola tutta intorno e tolse tutto il terriccio fino a che non ne rimase alcuna traccia, poi si strofinò le mani con altra terra. Avevano fatto un lavoro veramente pessimo sul sentiero, pertanto decise di portarlo a termine sfregando il terreno con le sue Reebok e con un bastoncino ben appuntito. Strofinò del terriccio sulle superfici rocciose. Non poteva fare niente per gli schizzi sui cespugli ma perlomeno aveva fatto in modo che quel punto attirasse meno l'attenzione. Adesso bisognava proprio cercare qualcosa per notarlo. Non ci si poteva capitare per caso. Gli ci volle un po' prima di trovare il corpo. In effetti era già pomeriggio avanzato quando alla fine lo vide galleggiare avanti e indietro bloccato da un mulinello d'acqua che girava dolcemente tra alcuni massi tondeggianti di granito a meno di cinquecento metri da dove lo avevano ucciso. Non si avvicinò immediatamente ma attese fin quando non fu certo che nessuno stava scendendo o risalendo il corso del torrente o veniva dalla montagna. A quell'ora era decisamente poco probabile ma non voleva cor-
rere rischi. Rimase in attesa fin quando non fu certo che tutto ciò che sentiva era il gorgoglio dell'acqua e gli uccelli e i suoni della foresta, poi cominciò ad avanzare in mezzo alla corrente. Il corpo galleggiava bocconi. I pantaloni, la giacca e la camicia erano fradici d'acqua e adesso apparivano troppo grandi per lui. Lo zaino gli galleggiava quasi sul collo e si era messo di traverso, un po' a sinistra. Wayne afferrò un polso pallido e viscido e trascinò il cadavere fino a uno dei massi così che soltanto le gambe continuavano a penzolare nell'acqua. La gamba destra si era distorta durante la caduta. Adesso il ginocchio spuntava quasi completamente dalla parte posteriore. Esaminò la ferita sulla testa, in parte ripulita dall'acqua ma ancora rossa e luccicante. Sembrava una bistecca o un pezzo d'arrosto avvolto in una pellicola di plastica trasparente e lasciato troppo a lungo a scongelarsi sul ripiano di cucina, un rosso cupo di carne deteriorata in mezzo a una pozza di sangue diluito dall'acqua. Toccò il margine della ferita, tastò i filamenti di materia cerebrale morbida e densa che la corrente aveva spinto lungo il lato della ferita, vide piccoli frammenti d'osso che spuntavano come la conchiglia spezzata di un mollusco che si incassa nel suo tenero e squisito mantello. Toccò i duri bordi frastagliati del cranio spezzato, ornati da serica carne e ruvide ciocche di capelli scuri e opachi. Tolse un rametto che si era impigliato. Rivoltò il corpo. Erano gli occhi che voleva vedere. Il corpo era appesantito dall'acqua e difficile da spostare ma lui riuscì a farlo appoggiare su una spalla, poi cominciò a tirare e alla fine le gambe si rivoltarono pesantemente con un tonfo nell'acqua, seguite dal busto e dalla testa. Gli occhi non erano come se li era aspettati. Si immaginava di scorgere choc. Perfino meraviglia. Un romantico ultimo sguardo nell'infinito. Un'espressione di stupore e sorpresa come scrivevano nei libri. Come si vedeva al cinema. Lo sguardo di qualcuno che ha potuto vedere con chiarezza la propria condizione mortale. Poi l'ha superata. Ma gli occhi erano semichiusi. Sottili opache fessure ricoperte da un velo grigio. Come se il tizio fosse ubriaco e, dormendo, stesse smaltendo la sbornia. Niente di interessante. Rivoltò il corpo lasciandolo poi scivolare nuovamente nel torrente. Gli diede una spinta con il piede così che, sfuggito al mulinello, il cadavere tornò in mezzo alla corrente e cominciò a scendere a valle. Rimase a os-
servarlo mentre si allontanava. Aveva fatto lo stesso con le barchette di legno tanto tempo fa. Pensò che aveva imparato qualcosa. Era l'uccidere in sé, non la morte, che importava. Non era il risultato dell'omicidio, niente più che carne e vuoto a ben guardare, anche se la persona uccisa non era più lì e questo era senz'altro qualcosa. Ma era l'atto in sé, il momento del prendere e del perdere. Quello era roba di classe. Quello era importante. Si chiese come ci si doveva sentire. Non un cane, non un gatto. Ma un uomo. Magari uno di questi giorni glielo chiedo. L'ora era ormai pericolosamente vicina al crepuscolo. Il torrente si era fatto di un nero metallico. Il cielo era grigio, come se davvero intendesse ancora piovere quella notte. Decise che era meglio andarsene di lì. Si sapeva che ogni anno c'era gente che si perdeva su quella montagna. Questa volta sarebbe toccato all'altro tizio. DOMENICA 3 La mattina successiva sognò di avere chiuso inavvertitamente nel forno i due gatti. Li aveva visti entrare ma se ne era semplicemente dimenticata e aveva acceso il forno, aveva chiuso lo sportello ed era uscita dalla cucina. Solo quando aveva sentito miagolii terrorizzati e spaventosi rumori di sibili e graffi si era ricordata ed era accorsa dalla camera. Aperto il forno, aveva scorto Beastie, coperta del sangue di Vinni, il pelo nero brillante, che scrollava Vinni per il collo, aprendo con le zampe anteriori la ferita che andava dall'orecchio alla spalla; poi aveva fulminato con lo sguardo Carole come se volesse dire, sei stata tu a farlo. Tu ci hai fatto impazzire. Hai visto cosa hai fatto? Vinni era morta, la sua testolina che penzolava, la lingua più lunga di quanto l'avesse mai avuta in vita che sporgeva attraverso i denti insanguinati. Si risvegliò quella domenica mattina piangendo e dolorante, e la prima cosa che fece fu di guardare fuori della finestra, oltre la spalla di Lee. Aveva piovuto la notte, come avevano sperato. Sul lungo prato digradante l'erba era umida e verde e vi erano alcune pozzanghere sulla veranda di pietra.
Pensò che dovevano considerarsi fortunati. Lei non si sentiva fortunata. Si sentiva spaventata. Lee stava ancora dormendo, il lenzuolo avvolto sotto di lui. Carole guardò l'orologio. Le lancette indicavano le otto e un quarto. Tre ore e mezzo di sonno. Ambedue avevano bevuto parecchio la sera precedente, più di quanto fossero abituati a fare. Tutti e due si erano sentiti l'adrenalina scorrere nelle vene fino al mattino. Pensò che era la paura a fare questo effetto. Il letto puzzava di sudore e sfinimento. Lei lo guardò. Sembrava un perfetto sconosciuto. Uno sconosciuto che conosceva ormai da più di due anni. Non voleva svegliarlo. Aveva bisogno di trascorrere un po' di tempo da sola prima di poter affrontare chiunque. Anche lui. Forse molto tempo. Si alzò, indossò una vestaglia e si avviò verso la cucina. Nel bricco vi era del caffè avanzato dalla sera precedente. Ne versò un po' e mise la tazza nel microonde regolando il timer a settanta secondi. Le gatte le giravano intorno strofinandosi contro le sue caviglie, lei le diede da mangiare e, dopo aver tirato la linguetta di una scatoletta di Friskies, svuotò il contenuto in due piattini e le osservò mentre si lanciavano sul cibo con il loro solito atteggiamento di allegra fame disperata. Appoggiò la schiena contro il mobile basso della cucina e rimase a osservarle. Beastie era tutta nera a parte una pennellata di bianco sul petto. Vinni era una splendida soriana grigia e bianca. Howard le aveva prese entrambe al Rifugio dei gatti abbandonati a un anno di distanza l'una dall'altra. Era stata la cosa più carina che avesse mai fatto per lei. Era successo diversi anni prima. Beastie aveva adesso sei anni e Vinnie cinque. Ed ecco che ricominciava a tremare. La sera precedente le era sembrato che non sarebbe mai riuscita a smettere, tutto il corpo era scosso da tremiti che giungevano a ondate. Riusciva a fermarsi per un momento solo bevendo un bicchiere ma la sera precedente anche il bere aveva avuto qualcosa di strano. L'effetto dello scotch spariva in un attimo, lasciandola perfettamente sobria a ricordare ciò che avevano fatto, e lei si ritrovava subito al punto di prima. Ricominciava a tremare. Aveva avuto paura di Howard quando lui era vivo. Aveva paura di lui anche adesso che era morto.
Che cosa era cambiato? Aveva pensato che, una volta scomparso lui, finalmente se ne sarebbe andata anche quella sensazione di vivere momenti, decisamente troppo frequenti, di disperazione. Quella sensazione di possesso. Dopotutto era stato lui a crearla. Lui l'aveva messa lì. Ma non era andata così. Proprio per niente. La sensazione si era svegliata con lei quella mattina. Adesso era in cucina con lei mentre preparava il caffè. Devi dare tempo al tempo, era questo che diceva Lee e probabilmente aveva ragione. Ma era anche possibile che l'unica cosa che fossero riusciti a fare era di rendere una situazione orribile peggiore di quanto avessero immaginato. In nome del cielo che cosa gli era passato per la testa? Che cosa gli aveva fatto pensare di poter uccidere un uomo e riuscire a migliorare una situazione? Anche qualcuno crudele e... implacabile come Howard. Anche se fossero riusciti a farla franca. Il che, nonostante tutti i loro piani e le loro precauzioni, lei non riusciva a fare a meno di considerare molto improbabile. Vi era il tenente Rule tanto per cominciare. Rule o qualcuno come lui. E la sua fino a quel momento mai provata capacità di trasformarsi in un'abile bugiarda. Erano dei pazzi. Il timer scattò nel microonde. Si mise a sorseggiare il caffè. O era stantio o era la sua bocca a esserlo. Probabilmente tutti e due. Portò la tazza in soggiorno, si sedette sul divano e la tenne stretta fra le mani, sentendone il calore. Quel tepore l'aiutava a smettere di tremare. Si appoggiò allo schienale fissando il vuoto e bevendo il caffè fino a quando non sentì la mente completamente vuota, fino a quando non percepì che non era rimasto nulla dentro di lei, solo l'esteriorità. Un divano morbido, una tazza tiepida e gli uccelli del mattino sul prato al di là dei vetri. Voleva fare la doccia da sola, senza Lee. Era una cosa in qualche modo necessaria. Non era colpa di Lee. Non pensava che lo fosse. Lui aveva solo reagito davanti al dolore di lei. Sebbene l'idea di ucciderlo, ammesso che si potesse onorare quel gesto con il termine idea, nato come era in una notte di furia cieca dopo ciò che,
alla fine, Howard aveva ritenuto opportuno farle, le parole vere e proprie erano state pronunciate da Lee. Dobbiamo ucciderlo. Non se ne andrà mai. Lo sai bene. Deve morire. Lei non si era mai opposta. Non dopo di allora. A quel punto il comportamento di Howard l'aveva convinta. Ma adesso avvertiva la necessità di aggrapparsi alla mattina senza Lee nello stesso modo in cui stava stringendo quella tazza di caffè, per ritrovarsi sola con la mattina, per abituarsi alla pura e semplice realtà della mattina e ascoltare il rumore familiare della doccia che copriva qualsiasi altro suono, con l'acqua che le martellava il corpo il più calda possibile e insaponarsi fino a quando non fosse stata più pulita di quanto chiunque avrebbe mai potuto o desiderato, o insaponarsi più volte il corpo proprio come aveva sentito la necessità di fare il giorno prima, ma non le era stato possibile perché appena scesi dalla montagna prima di tutto si erano dovuti fermare alla stazione di servizio di Jim Clarke per fare il pieno della BMW e restare un po' di tempo a chiacchierare con Jim in modo che lui si ricordasse di loro, e poi arrivare in tempo per la cena prenotata al Foxfire alle sette. Dovevano farsi vedere in pubblico in un orario il più possibile vicino a quello della morte di Howard. E così, quando la sera precedente era riuscita a farsi la doccia, erano già le nove. A quel punto la sua agitazione era tale che riusciva a malapena a tollerare il getto d'acqua sulle terminazioni nervose, quasi non soppotava il tocco dell'asciugamano e, dopo quello, la sensazione del pigiama di seta contro la pelle. Falla adesso, pensò. Prima che si svegli e desideri compagnia. Prima che senta il bisogno di parlare ancora. Si lasciò scivolare dalle spalle la vestaglia che cadde sul pavimento di marmo del bagno e rimase a fissarsi nuda nello specchio. La sua carne le appariva sempre la stessa. Era incredibile. Come se non le fosse accaduto nulla di straordinario. Sarebbe stato molto più logico trovare una nuova cicatrice accanto alla vecchia. Trovare dei segni. Allungò il braccio e girò la manopola dell'acqua, ed entrò sotto il getto bollente. ***
«Io proporrei di andare al cinema», suggerì Lee. «Che cosa?» «Davvero. Dobbiamo distrarre la mente. Aspettare che passi. Essere pazienti. Nessuno ci contatterà per oggi.» Ebbe un attimo di esitazione. «A meno che...» «A meno che non lo trovino.» «Esattamente. E non penso che lo faranno. Tu che dici?» Lei scrollò le spalle. La sua intendeva essere una domanda puramente retorica e tuttavia aveva anche un significato sottinteso. Rassicurami. Dopo aver fatto la doccia, Carole si era spazzolata i denti fino ad avere le gengive gonfie, ma il caffè continuava a essere nauseante e con un sapore quasi di gesso. «Senti», riprese lui. «È a domani che dobbiamo pensare. Quando non si presenterà in ufficio come ha sempre fatto il lunedì mattina. Prima o poi la polizia verrà qui a farci delle domande e questo potrebbe avvenire già, diciamo, domani pomeriggio. Dobbiamo essere pronti a questa evenienza Carole. Sia fisicamente sia mentalmente. Quindi cosa dovremmo fare qui tutto il giorno, continuare a bere?» Lei lo fissò dall'altra parte del tavolo con uno sguardo assente. «E allora proponi di andare al cinema?» «Perché no?» «Riusciresti a concentrarti sul film?» Lui sorrise brevemente. «Ci potrei provare.» «O Gesù.» A Lee non piaceva come si stavano mettendo le cose. Prima di tutto lei non aveva un bell'aspetto. Colpa della sbronza che si era presa la sera precedente e della mancanza di sonno. Il tono della sua voce a volte era depresso altre volte irritato, almeno a lui sembrava così, anche se probabilmente il suo orecchio era più pronto di quello della maggior parte della gente a cogliere queste sfumature. Ma se il giorno dopo si fosse comportata ancora come oggi e la polizia avesse voluto farle delle domande non si poteva mai sapere che cosa sarebbe accaduto, se qualcuno avesse cominciato a sospettare di qualcosa, e questo non sarebbe certo andato a vantaggio della loro... situazione. Non sapeva esattamente che cosa si era aspettato da lei. Ma sicuramente l'aveva immaginata più forte. Più determinata. Più pronta ad accettare ciò che avevano fatto e il motivo per cui era stato necessario farlo.
Un maggiore sollievo. Non appariva affatto più serena. Anzi, a volte sembrava che avesse perso il suo migliore amico. Il che non si poteva proprio dire di Howard. Ma forse era troppo presto. Il sollievo sarebbe arrivato in seguito. Quando la morte di Howard fosse stata ufficialmente considerata un incidente e loro avessero riacquistato la tranquillità. La morte di Howard doveva essere considerata un incidente. Voleva con tutte le proprie forze che fosse così. Terminò il caffè e si alzò in piedi, stringendosi l'asciugamano intorno alla vita. «Vado a vestirmi», disse. «Pensaci. Se ti venissero idee migliori sarò ben lieto di ascoltarle. Davvero.» In bagno, si avvicinò allo specchio per controllare i danni. L'occhio era un po' gonfio ma grazie al cielo non sarebbe diventato nero. Il labbro era tagliato, ma non profondamente, poteva essere benissimo colpa di un raffreddore o delle labbra screpolate. I danni peggiori non si vedevano. Si era staccato con un morso l'interno della guancia sinistra nel punto in cui Howard lo aveva colpito e l'incisivo superiore sinistro e i due denti davanti non erano molto saldi nelle gengive, e facevano un male cane. Dal pomeriggio precedente non aveva fatto che ingoiare aspirine. Ne prese due anche adesso bevendo dal lavabo di marmo tagliato a mano. Maledizione. Non mi piace affatto questa storia, pensò. Che cosa diavolo mi ha portato a cacciarmi in questo guaio? Era stata Carole naturalmente. Quello che era e il punto in cui erano giunti insieme. Un punto davvero molto strano. Loro due. Una coppia di romantici falliti che chiedevano alla propria vita di restituire loro qualcosa finito nelle fogne tanto tempo fa, che desideravano qualcosa di cui avevano sentito la mancanza per molto, molto tempo. Stavano cercando di aiutarsi a vicenda a ottenerla. Era di questo che si trattava, giusto? L'omicidio di Howard? Non era ancora riuscito a pronunciare quella parola a voce alta. Era ancora convinto che ne sarebbe valsa la pena. Se non si facevano scoprire. E se lei non si rimetteva subito in sesto potevano benissimo essere sco-
perti. Una cosa era certa: la polizia per prima cosa puntava l'attenzione sulla moglie o sul marito, e indagava a fondo se appena vi era qualche vago sospetto che si fosse trattato di omicidio. Poteva solo sperare che, se e quando questo fosse accaduto, Carole sarebbe stata all'altezza della situazione, oppure che la polizia ritenesse la morte di Howard causata da un incidente di montagna, così come la scoperta del cadavere faceva immediatamente supporre, e avessero lasciato cadere la cosa. Howard era un escursionista, uno sciatore, andava a caccia di conigli ed era un patito di vela. Tutte attività in cui, con maggiore o minore frequenza, gli incidenti sono piuttosto numerosi. Ma se non ci avessero creduto? Allora Carole avrebbe dovuto sapere come comportarsi. E in qualche modo era lui che doveva prepararla a questo. Lasciò cadere l'asciugamano sul letto di ottone a quattro colonne e si avvicinò al cassettone in cerca di calzini e biancheria e all'armadio per prendere un paio di pantaloni e una camicia. Verso il fondo vi erano alcune camicie che non gli appartenevano. Quando Howard se ne era andato (cacciato via, per la verità: lei aveva semplicemente cambiato la serratura) tutto era avvenuto così in fretta che, a mesi di distanza dal divorzio, in casa vi erano ancora molti suoi capi di abbigliamento. In effetti vi erano oggetti personali di Howard dappertutto, sparsi per tutta la casa. Era stato facile trovare qualcosa di suo con cui riempire lo zaino. Una volta sistemata la faccenda tutta quella roba doveva sparire. Si vestì. Adesso si sentiva più calmo. Non come lei. L'apice della propria ansietà l'aveva superato nel momento in cui si era ritrovato con quella maledetta mazza in mano sollevata al di sopra della testa di Howard, dopo che il secondo colpo lo aveva fatto cadere a terra, e lui si era reso conto che a qu<el punto doveva ucciderlo, che non poteva più tornare indietro, perché ormai c'erano dentro fino al collo. Aveva esitato, sentendosi all'improvviso debole come un gattino, le gambe che gli tremavano, il Battitore di Louisville non era più il vendicatore forte come Sansone, ma all'improvviso era come se gli fossero arrivate addosso cinque tonnellate che lo avevano schiacciato. Grazie al cielo era intervenuta Carole. Howard si era rivelato più forte di quanto aveva il diritto di essere un uomo d'affari che possedeva in una località sciistica un complesso alber-
ghiero composto da ottanta appartamenti e ottantaquattro camere.Era quasi riuscito a mandare tutto all'aria. E dove sarebbero finiti loro due? In galera. Se c'era una cosa di cui Howard abbondava erano gli avvocati. Si infilò le nuove scarpe da corsa che aveva acquistato una settimana prima esattamente per questa occasione, per questa mattina, e le allacciò. Le vecchie erano ormai cenere nella caldaia insieme con la mazza da baseball e con i vestiti del giorno precedente, sia i suoi sia quelli di Carole. La prima cosa che doveva fare quella mattina era pulire tutto accuratamente, infilare le ceneri in un sacco e buttarle nel Little River. Ma poi avrebbero avuto davanti a sé un'intera lunghissima giornata. E poi un'altra. E un'altra ancora. Non aveva affatto scherzato a proposito del film. Avevano bisogno di qualcosa che li distraesse. Carole non era in condizioni di andare a trovare qualcuno e nemmeno lui per dire la verità, e quello non era il luogo ideale per starsene seduti tutto il giorno. Prima o poi avrebbero finito per darsi sui nervi a vicenda, non sarebbero riusciti a sopportare la compagnia reciproca. La loro esclusiva compagnia. Per gli stessi motivi, anche una gita in auto in mezzo alla campagna era fuori discussione. No. Sarebbero andati al cinema. Sarebbero rimasti seduti nell'oscurità per un paio d'ore lasciando che si riversassero su di loro i sogni, o magari anche gli incubi, di qualcun altro. Avrebbero poi cenato in un ristorante e infine sarebbero tornati a casa, a letto. Magari avrebbero dormito. E aspettato. Sperava che una volta finito tutto sarebbero tornati ad avere una vita sessuale. Che adesso non c'era. Da giovedì si erano a malapena toccati. Era la prima volta che succedeva. Ed era ingiusto, davvero, perché in questo momento avevano bisogno più che mai di stare vicini. E oltre al semplice fatto di avere lei, averla per sé e intorno a sé tutto il tempo, guardarla e stare con lei e toccarla ed essere sincero, vivere anche secondo il suo stile di vita, avere la libertà, il denaro e il tempo di fare insieme tutto quello che volevano, lui desiderava anche fare del sesso. Ne aveva bisogno. Faceva parte di ciò che lo aveva portato lì. Adesso lo sapeva. Prima non se ne era reso conto. Si chiese se provava rancore verso di lei per questo. Per quel potere che
aveva su di lui. Era una sensazione sconcertante. Come essere di nuovo un ragazzo che non riesce a controllare i propri ormoni impazziti. Nessun'altra era mai riuscita a farlo sentire così o a far durare questa sensazione così a lungo. Non come vi era riuscita Carole. Lei stava ancora seduta in cucina, come lui l'aveva lasciata, davanti alla tazza di caffè ormai vuota, quando le passò davanti per scendere nel seminterrato. Per mettere in un sacco quanto era rimasto da sabato. Di Carole si sarebbe occupato dopo. Avrebbe trovato un modo per aiutarla. L'avrebbe preparata, l'avrebbe rassicurata. Doveva farlo. Ma prima le cose più importanti. 4 Era una serata fiacca e Wayne li notò immediatamente appena entrarono nel ristorante. Da quel momento gli fu difficile badare ai clienti. E comunque non aveva importanza perché ce n'erano pochi. Era eccitato quasi quanto lo era stato quel giorno in montagna. Stava osservando due persone che avevano ucciso qualcuno e che se ne andavano in giro tranquillamente come se non fosse accaduto nulla, se ne stavano seduti nel loro angolino a meno di dieci metri di distanza da lui e ordinavano dal menu come tutti gli altri, come la vecchia coppia dietro di loro, come la famigliola di quattro persone e come i tre yuppie, probabilmente dei bancari, seduti dall'altra parte della sala. Fenomenale! Erano giunti poco prima delle nove e Lacy, la nuova ragazza, si era avvicinata al loro tavolo per prendere le ordinazioni, molto carina e ordinata nella sua divisa composta da gonna in stile tirolese, camicetta con le maniche a sbuffo e bretelle. Avevano ordinato da bere due volte ciascuno, Bloody Mary per lei e Dewar con ghiaccio per lui. Gli sembrò che la donna avesse un'aria un po' stralunata, tesa, ma era molto elegante, indossava una camicetta di seta rossa e una gonna scura, nera o blu, orecchini d'argento pendenti e braccialetti d'argento ai polsi. Aveva i capelli scuri, lunghi e lucenti. Cenarono in silenzio, scambiandosi solo qualche parola di tanto in tanto. Quello che lo colpì incredibilmente fu che nessuno l'avrebbe mai potuto
immaginare. Sembravano proprio come tutti gli altri. Gente normale. Forse più belli della maggior parte delle altre coppie ma a parte questo... Non riusciva quasi a prestare attenzione a Ensminger e a Thompson che bevevano una birra dopo l'altra, badando che i loro bicchieri fossero sempre pieni. Stavano discutendo di musica degli anni Cinquanta o qualcosa del genere e, di tanto in tanto, cercavano di coinvolgere anche lui, ma che cosa ne sapeva di musica degli anni Cinquanta e che cosa gliene importava? Preferiva piuttosto le tre casalinghe sedute in fondo al bar che sorseggiavano lentamente i loro liquori lamentandosi dei propri familiari. Gli avrebbero lasciato una mancia ridicola. Ma almeno lo lasciavano in pace. Cominciò a lucidare i bicchieri, un'attività mentalmente di tutto riposo, in modo da poter tenere d'occhio quei due. Non notò nulla che potesse richiamare la benché minima attenzione su di loro. Erano invisibili. Si preparò un tè ghiacciato con limone e si mise a sorseggiarlo con una cannuccia. Erano circa le dieci e venti quando terminarono di cenare e ordinarono il caffè, e Wayne cominciava a innervosirsi. Maledizione! Se solo ci fosse stato un modo per uscire da dietro quel bancone, forse sarebbe riuscito a seguirli. A scoprire chi erano e dove vivevano. Dovette trattenersi dal rispondere in malo modo a Ensminger quando questi gli ordinò un'altra birra. Non che quell'idiota se ne sarebbe comunque accorto. Era già quasi completamente ubriaco. Sperava che andasse a impastarsi con quella sua maledetta Honda Civic contro un albero. Si sentiva uno schiavo in quel posto! Nessuna delle cameriere poteva sostituirlo. E nessun altro barista era in servizio quella sera. Era da solo. Non era giusto. Essere così vicino. Al mistero. A conoscerli. A scoprire come ci si sentiva. Ormai sapeva che alla fine avrebbe dovuto parlare con loro. La sua vita, la sua felicità e il suo equilibrio mentale dipendevano da questo. Erano due notti di seguito che non pensava letteralmente ad altro. C'era una cosa che lui aveva bisogno da loro. Non sapeva esattamente di che cosa si trattasse, ma era qualcosa. Una sensazione che faceva continuamente
capolino mentre dormiva, mentre sognava a occhi aperti. Era qualcosa che andava e veniva. Era ovunque. Certo, probabilmente vi sarebbero state altre occasioni. Altre opportunità. Sarebbero tornati o almeno sarebbe tornato l'uomo, dato che ci era venuto in passato non vi era motivo di credere che non tornasse in futuro. Ma potevano volerci delle settimane, dei mesi! Sentì qualcosa che gli stringeva la gola. Qualcosa che voleva essere detto. Qualcosa che voleva essere fatto. Spinse la birra sotto il naso di Ensminger, prese dalle mani dell'uomo una banconota da cinque dollari e si avvicinò alla cassa, afferrando dal cassetto il resto di un dollaro e mezzo, sbattendolo poi sul bancone. Poi con lo sguardo tornò al tavolo. Sorrise. Perché Lacy era in piedi di fronte a loro. Gentile e sorridente stava accettando la carta di credito dell'uomo. La sua Visa o la Mastercharge. Il che stava a significare che non aveva bisogno di seguirli. Perché la carta avrebbe avuto un nome. E la carta sarebbe arrivata a lui. Alla cassa. E il nome sulla carta di credito sarebbe stato sull'elenco telefonico. Doveva esserci. «Posso offrirvene una?» propose a Ensminger e a Thompson. Loro lo fissarono. Wayne che offre? Conosceva quell'occhiata. Anche i loro nomi sarebbero finiti sul suo blocco. FARGLIELA PAGARE. Non importava. Continuava a sentirsi di buonumore. Pensò anche che, comunque, l'importo delle sue mance non ne sarebbe rimasto intaccato. Versò le birre anche se Ensminger non aveva ancora terminato quella che gli aveva appena servito e sorridendo, chi se ne fregava di come lo consideravano quei due? rimase in attesa di Lacy. LUNEDÌ 5 IL tenente Joseph Rule si tolse un pelo immaginario dai pantaloni e fissò il suo terapeuta seduto dall'altra parte della stanza. Come sempre Marty
stava arrivando al punto della questione. Una volta o l'altra, pensò, potrei stenderti con un pugno. Sei peggio di un serpente. «Che cosa mi ha detto lei?» chiese. Marty non aveva l'aria del terapeuta. In realtà aveva il fisico di un torello nero e se Rule avesse davvero deciso di prenderlo a pugni, prima di provarci avrebbe dovuto far aumentare il massimale della propria assicurazione sanitaria. «In sostanza mi ha detto di andarmene. Di non telefonare così presto, di non andarla a trovare almeno per un po'. Che aveva bisogno di vivere la sua vita.» Marty inarcò le sopracciglia e annuì. Le sopracciglia e il cenno del capo erano facili da interpretare. Be', probabilmente ne ha bisogno, ti pare? «Le ho risposto che capivo. Che probabilmente anch'io avrei dovuto vivere la mia vita.» «Tu hai detto questo?» «Sì.» «E ne eri convinto?» Rimase un po' a pensarci. Tre mesi prima, quando per la prima volta lui e Ann si erano separati, aveva pensato che sarebbe impazzito. Durante il giorno riusciva a svolgere il proprio lavoro normalmente, ma poi tutto quello che desiderava era tornare a casa e mettersi a bere. Cosa che faceva quasi tutte le sere. Continuava a telefonarle, dal Vermont alla California, ogni sera, quando era soltanto alla seconda o alla terza vodka ed era abbastanza sobrio per non straparlare. Pensava che lei avrebbe percepito il suo dolore e che forse c'era ancora qualche speranza per loro due, che alla fine lui sarebbe riuscito a risolvere il suo problema, la sua riluttanza a impegnarsi a tempo pieno nei confronti di lui e in quelli di sua figlia Chrissie, e finalmente, il mese scorso, lei gli aveva proposto di andarla a trovare. Lui aveva giusto alcuni giorni di vacanza. Colse al volo l'occasione. Fu una vacanza stupenda. Ci vollero soltanto due giorni prima che tutti i problemi si ripresentassero. «Sì, penso che ne fossi convinto. Penso di essere riuscito finalmente a capire, la vita d'inferno che le facevo fare, sei anni con me che continuavo ad andare e venire, due giorni con lei e cinque giorni lontano, restavo per
tre giorni e me ne andavo per quattro. Se n'è andata fino in California per allontanarsi da tutto questo. Mi raccontava cose come, Chrissie e io continuiamo a dirci quando Joe verrà qui faremo questo, faremo quello. Andremo a Disneyland. Continuavano a rimandare i loro progetti perché a loro piace fare le cose con me ma il punto è che non le fanno. Perché io non sono là. Sono qui.» «Sì, ma non capisco. Che cosa c'entra con il fatto che devi vivere la tua vita?» «Forse questa volta ho capito il suo punto di vista. Io non cambierò. Sto solo impedendo a loro di cambiare. Mentre loro probabilmente ne hanno bisogno. Ritengo di avere semplicemente accettato la realtà dei fatti. Chi sono io. Che cosa sono. Sono un fallito. E questo è quanto.» «Tu non sei un fallito.» «Davvero? E allora che cosa sto facendo seduto qui a pagarti settanta dollari l'ora?» «Mi paghi per non permettere che ti facciano diventare un fallito.» «Permettere a chi?» «A te. A Joe Rule.» Marty si mosse nella sua costosa poltrona di pelle nera e incominciò ad alzarsi, segno che la loro ora era giunta al termine. Proprio sopra la testa di Rule vi era un orologio appeso alla parete e lui aveva spesso cercato di cogliere il momento in cui gli occhi del terapeuta lanciavano uno sguardo verso l'alto, ma non vi era mai riuscito. Bisognava avere una specie di talento anche per una cosa del genere. «Ehi, finalmente siamo riusciti a concluderne una. Un'intera seduta. Che ne dici?» Il cicalino si mise a suonare nella tasca della sua giacca. Lo spense con un colpetto e scoppiò a ridere. «Quasi.» Marty scrollò le spalle. «Mi rimane soltanto da darti l'assegno. Noi abbiamo finito.» Rule cercò l'assegno nel portafogli. «Ecco qua. A beneficio di quella casetta a Vineyard.» «Ho già una casa a Vineyard.» «Non la prendi più in affitto?» «È già da un anno.» «Accidenti. Che bel poliziotto. Non so un accidenti di te.» «Infatti non devi.»
«Ti dispiace se uso il telefono?» «Mi sono mai opposto?» Rule compose il numero. Al suo reparto parlò prima con Rita e poi con Covitski. «Che succede?» «Dove sei?» «Non importa dove sono. Che succede?» «Okay, benissimo. Fai pure lo stronzo. Tu ti sei occupato di un tizio di nome Howard Gardner. Uno che rifiuta di rispettare una diffida. Tu e la sua ex vi siete incontrati alcune volte, giusto?» «Giusto.» «Vedi, se sapessi dove ti trovi potrei chiederti di fare un salto da quelle parti e fare quattro chiacchiere con lei. Cioè, se non ti trovi nel Jersey o nel Connecticut o qualcosa del genere. Se sei da quelle parti. Non voglio che sia una scocciatura per te.» «Basta così, Covitski. Qual è il problema?» «La segretaria del, come si chiama... Inn di Green Gables, il complesso turistico che possiede, dice che oggi non si è presentato in ufficio e non ha telefonato per avvertire. Secondo lei è una cosa molto insolita per quel tizio. Ha tentato tutto il giorno di telefonargli nell'appartamento e in macchina. Niente. Quindi pensavo...» «Pensavi che potevi passarmi questa patata bollente mentre vai fuori a pranzo. E comunque, perché se la prendono tanto? Da quanto manca... quattro ore? Cristo, conosco quel tizio. È ricco, viziato e pronto a scoparsi qualsiasi cosa che non cammini a quattro zampe. Lascia perdere la moglie. Controlla piuttosto le cameriere del bar. Aspetta un attimo.» Si voltò verso Marty. Coprì il ricevitore con la mano. «C'è qualcuno che aspetta fuori?» Marty si era riseduto. Aveva acceso una Marlboro. Questa era una cosa di quell'uomo che Rule apprezzava. Non fumava mai durante le sedute, ma sempre prima e dopo. Quando si entrava nella stanza si sentiva l'odore di fumo. Se la cosa vi dava fastidio potevate scegliervi un altro terapeuta. E questo era quanto. Marty annuì. «Sì. Ma fai pure con comodo.» Rule sapeva benissimo che quella era una stronzata. Più che per chiunque altro, per Marty il tempo era denaro. «Va bene», disse Rule riprendendo la conversazione. «Faccio un salto. Ma mi devi un favore, capito?»
«Certo Joe.» Riagganciò. «Grazie Marty. Ti chiamo appena so come si mette il resto della settimana, okay?» «Perfetto.» Si alzò e aprì la porta. «Come sta venendo la casa delle bambole?» Nel suo tempo libero, se così lo si poteva chiamare, Rule stava costruendo per Chrissie una casa per le bambole che montava nel proprio garage. Era ormai più di un anno che vi si dedicava, quindi molto prima che loro due se ne fossero andate dal Vermont. Non trovava un motivo per smettere ora che lui e Ann si erano lasciati. Non era stata un'idea di Chrissie. Anche se davvero non sapeva come avrebbe fatto a impacchettare la casetta e a spedirgliela. Pesava un'esagerazione. «La parte esterna è finita. Sto tappezzando le pareti e sistemando i listelli di legno.» In realtà, per completare la casa mancavano ancora due camere da letto e un corridoio al secondo piano. Ma per qualche ragione non si sentiva di dirlo a Marty. «Ti telefonerò», ripeté. *** Normalmente il tragitto fino a Barstow lungo la strada 100 North era di una decina di minuti. Ma dato che finalmente avevano avuto una giornata serena e calda vi erano in giro i turisti estivi che facevano esattamente quello che facevano i turisti, cercavano mobili e oggetti antichi nei negozi di antiquariato, ammiravano il paesaggio, si dirigevano verso le località di villeggiatura lungo il Monte Haggerty. Davanti a lui avanzavano senza fretta targhe di New York, della Florida e del Massachusetts. Nulla in confronto alla stagione sciistica o anche al periodo autunnale, e tuttavia lo faceva rallentare un po'. Ebbe tempo di ammirare la montagna che gli indiani Abnaki avevano chiamato Mose-de-be-Wadso, Testa come un alce, avvolta da cumuli. Rule non aveva mai visto un alce da quelle parti. Pensò che non ci perdeva davvero molto. Secondo lui l'alce era, insieme con il formichierc, uno degli animali più brutti mai vissuti sulla faccia della terra e quella montagna era molto più bella di una testa d'alce. Attraversò senza fermarsi le luci intermittenti del centro e, giunto davan-
ti alla drogheria di Snow, svoltò a destra e cominciò a salire. All'inizio la strada non sembrava un gran che, ma era un'impressione sbagliata. Vivere lassù significava avere come minimo una proprietà di duecentocinquantamila dollari, e questo nonostante i maledetti repubblicani e l'economia che mandava in crisi l'edilizia. A mano a mano che si saliva le ville diventavano sempre più grandi, gli appezzamenti di terreno più estesi. La villa dei Gardner si trovava a circa tre quarti della salita. Il che stava a significare che Carole Gardner possedeva circa due milioni e mezzo di dollari e qualche spicciolo solo di proprietà immobiliare. Generalmente Rule non provava molta simpatia per le persone così ricche ma nel caso di Carole Gardner aveva già fatto un'eccezione. La donna aveva sposato il Re delle Proprietà Immobiliari venuto dall'Inferno. Non vi era altra definizione possibile. Quell'uomo era arrogante, ubriacone e violento. Gli piacevano i coltelli, le pistole e le perversioni sessuali. Spesso, tutte insieme. Howard Gardner si considerava un aristocratico. Rule lo ricordava molto bene. Aveva avuto il piacere di notificargli una ingiunzione, e in seguito, una mattina presto, di portarlo via con la forza dal prato della villa, completamente ubriaco. E qualche tempo dopo fu lui ad arrestarlo. A quanto aveva saputo, non soltanto dalla moglie di Howard ma anche da persone che li conoscevano entrambi, il matrimonio era stato perlopiù un vero e proprio regno del terrore. Carole era la socia in affari di Howard, possedeva metà del complesso turistico ed aveva presumibilmente una situazione finanziaria molto solida mentre Howard si occupava di gestire il personale e manteneva le relazioni politiche e sociali. Probabilmente, per un certo periodo di tempo, dovevano aver lavorato molto bene insieme. Un giorno si erano accorti di essere diventati ricchi. Era stata lei ad acquistare la grande villa sulla Stirrup Iron Road. Howard aveva cominciato a bere e a tradirla, come se il suo idolo fosse stato Teddy Kennedy. Lei se ne lamentò con lui. Una volta. Lui la mandò all'ospedale con una costola rotta. Questo fu l'inizio. Rule non comprendeva fino in fondo la sindrome della moglie maltrattata, ma sapeva riconoscerne i sintomi. Quando Carole trovò per la prima volta il coraggio di parlare di Howard con qualcuno della polizia, la prima
persona con cui fu messa in contatto fu l'agente Joyce Clarke, e poi parlò con Rule. Quello che lui vide fu una donna di successo e intelligente talmente demoralizzata che non riusciva a parlare con loro se non sussurrando. Tutti e due le consigliarono di denunciarlo. Glielo suggerirono caldamente. Lei rispose che ci avrebbe pensato. Tornò a casa. Quella notte lui la legò al letto, a faccia in giù, la violentò, poi prese a colpirla con la cintura e la fibbia fino a farle perdere tanto sangue dalla schiena, dalle gambe e dal sedere che la mattina dopo lei fu costretta a gettare via le lenzuola. Lui, completamente ubriaco, si era addormentato su di lei. La mattina successiva l'aveva slegata ed era andato in ufficio. Ma mentre lui lavorava anche lei era impegnata. Qualcosa di quest'ultima violenza, qualcosa del fatto che lui si era addormentato addosso a lei, che aveva dovuto restare tutta la notte in mezzo al proprio sangue, le aveva finalmente fatto prendere una decisione. Aveva cambiato le serrature, presentato una denuncia nella quale si chiedeva che suo marito venisse diffidato dall'avvicinarsi a lei e si era rivolta a un avvocato. Rule ricordava di essere stato lui a notificare la diffida. Gardner era a Hunger Mountain, seduto al bar e chiacchierava con George Hammond e Bob Walker, due consiglieri municipali di Barstow appena eletti; gli stava raccontando una storia avvenuta a West Guilford dove un rapinatore di banca cieco aveva tirato fuori il proprio bastone e aveva chiesto al cassiere se per cortesia lo poteva accompagnare alla porta, perché era nervoso e cieco e non ricordava esattamente da che parte fosse l'uscita. Il cassiere si era rifiutato e aveva chiamato la polizia mentre il tizio continuava a sbattere contro le pareti cercando la porta per andarsene. Rule conosceva già la storia. Sapeva anche chi aveva effettuato l'arresto. Gardner e i consiglieri ritenevano che fosse una storia divertente, e su questo lui era d'accordo. Ma ora che era Howard a raccontarla, gli era apparsa crudele. «E lei conosce la storia di quel costruttore di immobili convinto di essere uno stallone?» gli chiese. Sembrava che Gardner avesse ingoiato qualcosa di ancora vivo che si contorceva. «No», rispose. «Com'è?» «È stato incastrato dal tribunale», rispose Rule. E gli porse l'ingiunzione.
La cosa sarebbe dovuta finire lì, ma così non fu. Dopo il divorzio Gardner si comportò esattamente come prima. Peggio. Si erano accordati perché lui rilevasse la quota di Carole del Green Gables e lei si era messa con un uomo di nome Lee Edwards, un tempo manager di Howard all'Inn e successivamente, dopo avere incontrato Carole, manager del Woodchip Pines. Era un gradino più in basso, ma al diavolo. Lei aveva denaro per tutti e due. Il problema era che Howard non intendeva lasciarla in pace. Si comportava come se fosse convinto che lei sarebbe tornata indietro, Edwards o non Edwards. Aveva perfino mantenuto una polizza di assicurazione a suo favore per un quarto di milione di dollari. Secondo Rule quel tizio era completamente pazzo. Doveva essere talmente presuntuoso e sicuro di sé che probabilmente un giorno sarebbe diventato presidente... Si fermò lungo il viale d'accesso circolare e spense il motore. La sua vecchia Chrysler diede un colpo di tosse e poi obbedì. Rimase seduto in silenzio per un momento, la BMW bianca di Carole era parcheggiata davanti a lui come fosse stata il cugino sdegnoso di qualcuno. La villa si ergeva in cima a un'altura verdeggiante ben curata, con circa tre acri di terreno boschivo che scendevano dalla parte opposta lungo il pendio della collina. Era entrato in quella casa un paio di volte. L'interno era luminoso ed elegante anche se un po' troppo moderno per i suoi gusti e un po' troppo vasto. Quattro camere, due piani. Lungo e largo. Nei bagni lavabi in marmo italiano importato con sottile rubinetteria dorata. In cucina un frigorifero da ristorante. Un letto circolare con quattro colonne massicce di ottone e mogano. Una sauna e una vasca per idromassaggio. Ricordava quando, una notte d'inverno alle quattro del mattino, aveva portato via con la forza Howard dal prato, la sua voce che si sentiva per interi isolati attraverso l'aria limpida e frizzante e le strade vuote. Un momento la chiamava puttana e subito dopo le urlava che sarebbe tornata da lui strisciando. Agitava una bottiglia da un litro di Glenlivet nella quale non erano rimaste che due dita di liquore. «Avanti Howard», gli aveva detto Rule, afferrandolo per un braccio. Sotto la giacca fatta a mano e sgualcita aveva trovato un braccio inaspettatamente muscoloso. «A lei piace», aveva sorriso. «È stata lei a chiamarvi? È stata lei a chiamare la polizia? Ehi, ma questo è soltanto un gioco per lei.»
«Certo», aveva risposto Rule ammanettandolo. Howard era apparso sorpreso. Poi aveva annuito. «Sai una cosa?» aveva detto. «Sei molto efficiente. Mi piaci. Vuoi un lavoro?» Ricordava che lei era rimasta in piedi davanti alla porta, una donna bellissima, stravolta e distrutta. Edwards era proprio dietro di lei, tenendola per le spalle come se temesse di vederla crollare. Lei non crollò. Ma le persecuzioni non erano ancora finite. Riesaminò mentalmente tutta la pratica relativa a Howard. Li aveva infastiditi telefonando ogni notte per due mesi di seguito e chiamando a tutte le ore del mattino. Minacce. Oscenità. Le solite cose. Solo che Howard aveva una predisposizione particolare per questo tipo di cose. Ti taglierò a strisce, le aveva detto, dalla figa alle labbra. Poi ti squarterò e ti scoperò il fegato. Che elemento. Lei aveva cambiato numero di telefono. Due volte. Howard era sempre riuscito a scoprirlo. Alla fine avevano applicato all'apparecchio un dispositivo per rintracciare le chiamate. Non ne ricevettero più. Quando, dopo due settimane lo tolsero, le telefonate ricominciarono. Rule non sapeva come facesse, ma Howard era sempre a conoscenza di tutto. Dovette pagare una multa per ubriachezza molesta e per aver violato la diffida in occasione dell'episodio del prato e quella fu l'ultima volta in cui il sistema giudiziario ebbe la possibilità di vederlo. Ma non Rule. A metà marzo aveva ricevuto una telefonata nella quale gli si comunicava che Carole Gardner si trovava alla stazione di polizia per presentare una denuncia nei confronti di suo marito, poteva per favore fare un salto lì? La trovò nell'ufficio di Joyce. Era quasi isterica. Quel giorno, verso l'ora di pranzo, Howard era penetrato in casa attraverso una finestra aperta che dava sul patio. Quando lei era uscita dal locale lavanderia, le aveva puntato alla testa una Colt e, dopo averla portata sul divano, l'aveva violentata, presa a pugni e infine le aveva avvolto il filo di una lampada a stelo intorno al collo, facendole credere per un po' che aveva intenzione di strangolarla. Lei aveva detto che si era precipitata alla stazione di polizia perché temeva che, se Edwards fosse tornato dall'ufficio e lei avesse dovuto raccontargli ciò che era avvenuto, poteva essere abbastanza folle da andare ad ammazzarlo. Howard non era l'unico che possedeva un'arma. In camera
sua, nel primo cassetto in alto, vi era una Magnum calibro 357. Rule si avviò verso gli uffici di Howard con il mandato di arresto che gli bruciava in tasca. L'uomo se ne stava seduto alla sua scrivania insieme con Bill Clinton e Harold McDermott, due azionisti della Gables, Inc., la sua società. I due giurarono che Howard era stato con loro tutto il tempo e che erano andati in macchina fino a Wolfeboro, nel New Hampshire, per dare un'occhiata al Mountolive Inn in vista di un possibile acquisto per la loro società e aggiunsero poi che sarebbero stati anche pronti a firmare una dichiarazione in tal senso. I due azionisti avevano un'aria così sicura di sé e compiaciuta da risultare esasperanti. Come se per loro fosse normale stuprare una donna se questa era la propria ex moglie. A Rule non sfuggì il fatto che, guarda caso, ambedue erano divorziati. Ma non poteva fare nulla. Infine, proprio il mese precedente, aveva ricevuto una telefonata da Carole. Una chiamata piuttosto strana. Ancora una volta gli era sembrata piuttosto sconvolta, riusciva a malapena a capire ciò che diceva. Aveva tentato di calmarla, ma poi aveva dovuto metterla in attesa per un attimo mentre Hamsun, il suo capo, esaminava alcuni particolari relativi al verbale di arresto di un sospettato di effrazione che era stato fermato la sera precedente. Quando finalmente poté riprendere la conversazione, lei si limitò a dire che le dispiaceva di averlo importunato, che non si trattava di nulla di grave; e quando lui aveva insistito, gli aveva detto di avere avuto paura che Howard stesse per fare qualcosa, non che fosse accaduto realmente nulla, ma temeva che ci fosse questa possibilità. Dato che gli era sembrata più tranquilla lui non aveva potuto fare altro che lasciare perdere. Aveva sentito Edwards in sottofondo dirle qualcosa, ma non era riuscito ad afferrare le sue parole. E questa era stata l'ultima volta che si era occupato di lei. Salì i gradini di pietra che conducevano alla veranda e suonò al campanello. Poi rimase in attesa. Quando lei si presentò alla porta la sua prima impressione fu che da quelle parti fossero quasi le cinque del pomeriggio e che lei avesse appena terminato di prepararsi. La camicia e i jeans non avevano una piega, come se li avesse appena indossati. I capelli apparivano spazzolati da poco e il trucco appena rifatto. Roba da ricchi, pensò. Probabilmente quel giorno si era già cambiata sei
volte. Lei gli sorrise e aprì la porta. A parte l'aria un po' stanca per il resto le apparve assolutamente normale. «Tenente Rule. Joe. Entri la prego.» Che sciocchezza, pensò. Howard era scomparso forse da otto, nove ore. Non c'è proprio niente di strano. Lei gli fece strada nell'ingresso fino al salotto. Il locale appariva pulito e in ordine. «Che cosa posso fare per lei? Ho appena preparato del caffè. Ne vuole?» Si voltò. Per quanto poteva vedere il sorriso era assolutamente normale. «No, grazie. Non voglio trattenerla. Mi stavo solo chiedendo se aveva sentito Howard ultimamente.» Lei si sedette sul divano con un sospiro. Anche Rule si accomodò. «No, grazie al cielo.» «Niente? Nessuna telefonata?» Lei scrollò la testa. «Penso che finalmente abbia deciso di rinunciare a me. Ci crede? Io pensavo che non l'avrebbe mai fatto.» «Anch'io stavo cominciando a pensarla come lei. Congratulazioni. Quand'è stata l'ultima volta che l'ha sentito?» Si fermò un attimo a pensarci. «Se non sbaglio è stato... la sera in cui le ho telefonato. A metà del mese scorso.» «E da allora più niente?» «Niente. No.» «È un po' che glielo voglio chiedere, che cosa era successo? Dalla voce mi era sembrata abbastanza sconvolta.» Scrollò le spalle e poi di nuovo la testa. «Era soltanto un'altra telefonata. Ma questa volta era... anche peggiore.» «In che senso?» «Minacciosa. Sa cosa voglio dire. Che lui mi avrebbe fatto questo, che mi avrebbe fatto quello. Non ricordo esattamente che cosa mi aveva detto. Forse l'ho rimosso. O forse si è confuso con... tutte le altre. Comunque mi aveva messo in agitazione. Per questo le avevo telefonato. Ma poi ho pensato, mio Dio, è soltanto una telefonata. Ne hai ricevute a decine. Ormai dovresti esserti abituata.» Poi rimase un attimo in silenzio a osservarlo. «È solo venuto per informarsi come vanno le cose, Joe?» «Non esattamente. Ha telefonato la segretaria di suo marito, di Howard. Oggi non si è presentato in ufficio. Lei non riesce a trovarlo da nessuna
parte.» «E allora?» Esattamente la reazione che aveva avuto lui. Sospirò. «Sa come vanno queste cose. Howard è ricco e ha molti impegni. Se sparisce, gli altri se ne accorgono subito. Se si fosse trattato del giardiniere che gli tosa l'erba nessuno ci avrebbe pensato due volte. Ma nel suo caso, la gente si preoccupa.» Lei lo guardò di nuovo e Rule si rese conto che le implicazioni di quanto aveva detto cominciavano lentamente a farsi largo nella mente di Carole. Ma tutto ciò che vi lesse fu normale curiosità. «Intende dire che potrebbe trattarsi di omicidio? «No. Non proprio. Non a questo punto. Per il momento si tratta soltanto di una persona scomparsa. Lee lavora ancora al Pines?» «Sì.» «È possibile che lui abbia sentito Howard?» «Immagino che me ne avrebbe parlato.» «Probabilmente. Le viene in mente qualche posto dove Howard potrebbe essere andato per uno o due giorni?» «Oh Dio. In molti posti. Ha una barca a vela ormeggiata a Waterbury. Ha una sorella a Lexington, nel Massachusetts, si chiama June Rusch. E poi lui viaggia molto alla ricerca di nuovi immobili da acquistare. Ma penso che in questo caso la sua segretaria ne sarebbe al corrente, non le pare?» «Immagino di sì. Sì.» «Magari ha una ragazza. Forse è proprio per questo che ultimamente non ne ho saputo più nulla. È possibile?» «Certo che è possibile. Ha qualche candidata?» Lei scoppiò a ridere. «Chiunque lavori per lui, abbia meno di trent'anni e sia abbastanza sciocca da trovarlo affascinante. E intendo proprio sciocca, non stupida. Mi creda, so bene qual è la differenza.» Lui sorrise alzandosi dalla poltrona. «Quando torna Lee mi faccia telefonare. In caso l'abbia sentito. E se a lei viene in mente qualcosa, o qualcuno, me lo faccia sapere, okay?» «Senz'altro.» Lo accompagnò alla porta. «Pensa che potrebbe essere... come si dice? finito male?» Lui la guardò. «L'alcol», spiegò lei. «Può essere.»
«In quel caso potrebbe trovarsi ovunque. In qualche bar. In un vicolo.» Rule sorrise. La donna non sembrava particolarmente angosciata di fronte a una simile prospettiva. Poi si rese conto del perché sia l'una sia l'altra possibilità (una ragazza stabile o una sbronza fatale) le sarebbe andata perfettamente a genio. In ambedue i casi ne avrebbe tratto dei vantaggi. Come minimo si sarebbe liberata di quell'uomo, almeno per un po'. «Oggigiorno non vi sono troppi vicoli scuri a Barstow», commentò lui. Carole arrossì. «Non deve essere successo per forza a Barstow.» «No, certo. In realtà, è altamente improbabile considerando la posizione di Howard. Troppe possibilità di ritrovarsi in una situazione imbarazzante. Se aveva in mente qualcosa di particolare, probabilmente sarà andato a farlo fuori città. La ringrazio comunque. Mi terrò in contatto con lei.» «Okay», rispose. «Buona fortuna.» Mentre Carole apriva la porta, Rule vide un rapidissimo tremore attraversarle la mano, avanti e indietro come il volo improvviso di un passero. Si avviò giù per le scale. No, pensò. Non può essere. Davanti ai poliziotti la gente si innervosisce. Ma poi pensò, certo che può essere. Tanto per cominciare c'è il denaro dell'assicurazione. Si chiese se Howard aveva continuato a rinnovare la polizza. Doveva controllare. Quella donna gli piaceva. Non voleva pensare a lei in quel modo ma doveva. È sempre possibile. 6 «È stato già qui? Oh Gesù.» «Vuole che gli telefoni.» «Perché?» «Nel caso gli avessi parlato ultimamente e non me lo avessi voluto dire.» Lee era fermo in mezzo all'ingresso, a una certa distanza da lei. Come se ne avesse paura. Come se Rule potesse averla contaminata in qualche modo. Non che lei cercasse baci e abbracci in questo momento. Ciò che desiderava era un'altra vodka. Si diresse verso il buffet. «Stai bevendo troppo», le fece notare Lee.
Carole lasciò cadere alcuni cubetti di ghiaccio nel bicchiere. «Prima parla con lui. Poi deciderai quanto è troppo. Per te. Non per me.» «È stato scortese?» «Proprio per niente. Mi ha detto che si trattava solo di un caso di persona scomparsa, che l'unico motivo per cui era venuto a parlarmi era che, forse, avevamo ricevuto qualche telefonata di recente. Che potevamo averlo sentito.» «E tu come?...» Lei si voltò di scatto. «Mi sono comportata benissimo, Lee. Ho sorpreso anche me stessa. È probabile che in questo momento io sia la migliore piccola bugiarda di Barstow, okay? Sei soddisfatto?» Lui rimase a osservarla mentre si versava la Stoli. Teneva stretta la bottiglia come se questa avesse le gambe e potesse scapparle via. Poi, con un gesto brusco, la rimise a posto. «Per l'amor di Dio fai questa telefonata», esclamò Carole. «Credimi, non hai nulla di cui preoccuparti. Non ti farà un interrogatorio. Perlomeno non oggi.» «Carole...» Il tono con cui l'aveva chiamata ebbe l'effetto di farla calmare immediatamente. Lei sapeva bene perché si stava comportando così. Nell'ora trascorsa dopo la visita di Rule era come se si fosse avvolta in un enorme bozzolo protettivo, in modo che qualunque cosa la toccasse non riusciva a entrare in contatto con lei (né il divano né la bottiglia e neppure la tiepida aria estiva che la circondava) e questo era esattamente quello che lei aveva voluto, come lei aveva bisogno che fosse. Ma ciò che era cresciuto all'interno del bozzolo era molto sgradevole. Appoggiò il bicchiere e si avvicinò a lui. Lo circondò con le braccia. «Mi dispiace.» Lui l'abbracciò. «Non ti preoccupare. Sapevamo che tutto questo non sarebbe stato certo una passeggiata, giusto?» «Sì, è vero.» «Gli telefonerò.» Poi indicò la bottiglia. «Ma penso che prima ne prenderò una anch'io. Al diavolo. Sono un ipocrita. Prenditela pure con me.» La baciò. Era il loro primo vero bacio da diversi giorni. Ma anche adesso lei sentiva la necessità di staccarsi da quell'abbraccio. E sapeva anche che lui se ne sarebbe accorto. Lee la lasciò andare.
«Versamene una, per favore», le disse. «Voglio darmi una rinfrescata. Poi mi dirai tutto quello che gli hai detto. Tutta la conversazione. Dopodiché telefonerò.» Carole annuì. Lui si piegò verso di lei e la baciò nuovamente. «Ce la faremo, okay? Non pagheremo per quello che quel figlio di puttana ti ha fatto.» Carole sorrise. Non era un gran che ma si rese comunque conto che era il primo sorriso da quando lui era entrato dalla porta. Per un attimo le fu quasi possibile credergli. La Volvo rossa del '93 era l'oggetto a cui teneva di più. L'aveva comprata d'impulso, in contanti, per farsi un regalo dopo la morte di sua madre. Wayne se ne stava seduto dietro il volante fissando l'enorme villa sulla collina e pensò che la Volvo si adattava perfettamente con l'ambiente circostante. 'Fanculo le BMW. Stava correndo un rischio ma ne valeva la pena. Il rischio consisteva nel fatto che appena un mese prima era stato arrestato di sabato sera, mentre tornava a casa da un bar sulla Stagecoach Road, a Morrisville. Lo avevano fatto scendere dall'auto, camminare dritto davanti a sé a passo di marcia, poi chiudere gli occhi, stendere le braccia e toccarsi il naso, e infine ripetere l'alfabeto e lui era così furioso per essere stato fermato che dimenticò quel cazzo di alfabeto! Davvero! Lo aveva dimenticato! Arrivato alla lettera P aveva saltato completamente Q-R-S-TU ed era passato direttamente alla V-W-X-Y-Z. Si era sbagliato per ben due volte! Lo avevano quindi ammanettato spingendolo poi nell'auto della polizia e lui fece tutto il tragitto in silenzio, fuori di sé dalla rabbia. Una volta arrivati gli chiesero di soffiare nell'Intoxilyzer. L'apparecchio segnò 0,165. Piuttosto alto. Gli portarono via l'orologio, la patente, le sigarette, il portafogli e la cintura e lo fecero entrare in una cella di calcestruzzo verniciata di bianco, con il fondo che si intravedeva sotto la pittura come vene in un occhio iniettato di sangue. Lì dentro c'erano altri sei tizi, due dei quali erano veri delinquenti, lo si capiva subito. Indossavano già la divisa arancione della prigione. Li avevano portati lì dalle celle situate al piano inferiore. Avevano tagliato la corda mentre si trovavano in libertà provvisoria per un'accusa di rapina a mano armata; erano tizi grandi e grossi, continuavano a camminare avanti e indietro in cella insieme con lui! e ad altri quattro ragazzi anche loro ar-
restati per una stupida guida in stato di ebbrezza. Lo tennero dentro tutta la notte, stava male, aveva freddo e fame, non c'era nemmeno un orologio per vedere quanto mancasse all'alba, quasi tutto il tempo in quella piccola cella in cui vi erano soltanto due file di panche di legno e un water di metallo proprio in mezzo alla stanza. Meno male che non aveva avuto bisogno di pisciare o di cagare, non con tutta quella gente che guardava, non con quei due criminali. Uno degli ubriachi era pazzo. Continuava a rotolarsi avanti e indietro sulla panca urlando: «Cella! Adesso ci sei dentro!» e rideva, e tutto quello che Wayne voleva era ammazzarlo di calci e rannicchiarsi contro la parete fredda e sparire. E dopo, vendicarsi. Nel suo blocco vi erano appunti sull'agente Gustavson che lo aveva arrestato, sull'ubriaco pazzo, sui due criminali in cella, sul giudice (che era grasso e per di più donna) sul pubblico ministero che si chiamava Barker e anche sul proprio avvocato, gli era costato quasi mille dollari, che aveva continuato a scherzare con il pubblico ministero come se fossero vecchi amici che giocavano a golf insieme, e probabilmente era proprio così, mentre Wayne si sentiva condannare a sei mesi di libertà vigilata, con un contributo alle spese di quaranta dollari al mese e a condizione che partecipasse a un programma di sette settimane sul bere-e-la-guida che si svolgeva ogni sabato, porca miseria, il suo cazzo di giorno libero, e che gli costava altri duecento dollari, più la multa di 468 dollari. Prima che tutta la storia finisse avrebbe facilmente raggiunto i duemila dollari e sprecato un sacco di tempo. Per questo si era segnato molti nomi. Certo stava rischiando ma non poteva essere così sfortunato da farsi beccare solo perché, per una volta, guidava senza patente. E non riusciva proprio a resistere all'idea di andare a dare un'occhiata. Come avrebbe potuto? Oltretutto, doveva conoscere il posto, sapere quanta gente ci viveva, se avevano bambini o cani o altro. Quel genere di cose. Non notò nulla che indicasse la presenza di bambini. Solo due auto nell'ampio viale d'ingresso di forma circolare. E niente cani. Non c'erano che loro due. Erano completamente soli. Si accese una sigaretta e si appoggiò allo schienale restando a osservare la casa per un po'. Presto il sole sarebbe tramontato e voleva andarsene da
lì prima che facesse buio. Non aveva senso comportarsi in modo sospetto. E comunque quella sera doveva lavorare. Vide la donna passare davanti alla finestra sporgente. Sono completamente soli, pensò. O almeno loro ne erano convinti. MARTEDÌ 7 Le mani dell'uomo erano blu e bianche, le dita come grasse salsicce grigie che galleggiavano nell'acqua bassa, e Billy Whitsin riusciva a vedere la gamba contorta sotto il corpo appoggiata sui ciottoli arrotondati della riva, il piede completamente distorto era rivolto verso l'alto formando un angolo impossibile, a meno che non si fosse trattato di una bambola di pezza o di un pupazzo fatto con gli scovolini come quelli che costruiscono i bambini a scuola, e in più c'era qualcosa di sbagliato nella testa. La forma era sbagliata. Era difficile vedere la testa. Giaceva in una pozza di acqua fangosa ed era stata attaccata dai gamberi, sei o sette (i gusci marrone che mandavano bagliori nel sole mattutino). Billy non ne aveva mai visti tanti, tutti in una volta e in un solo posto. Belli grossi. Una scena incredibile. Una cosa vedeva e cioè che non vi erano occhi. In uno dei buchi dove avrebbe dovuto esserci un occhio vi era invece un filo lungo e sottile, quasi trasparente, che ondeggiava nell'acqua come una scia di muco. Billy era un ottimo osservatore. E in più era un buon cittadino. Non per niente lo avevano nominato Eagle Scout. Anche se sua madre continuava a preoccuparsi perché, a sentir lei, lo stavano facendo diventare un piccolo nazista. Lui non era un piccolo nazista. Lui semplicemente rispettava l'ordine. Suo padre lo sapeva. Suo padre stava dalla sua parte. Era stato lui che, per i suoi tredici anni, gli aveva regalato la fiocina a due denti per rane che aveva con sé e un fucile calibro 22. Billy era un buon osservatore e un buon cittadino e sapeva che doveva guardare con attenzione in modo da poter descrivere alla polizia ciò che aveva visto, ma non doveva toccare nulla perché loro volevano poter esaminare il cadavere esattamente come era stato trovato. Si accovacciò accanto all'uomo.
La puzza non gli dava fastidio. Aveva già sentito l'odore prima e tutte le cose morte puzzavano nello stesso modo. A meno che non si trattasse di una puzzola. Lo zaino di nylon blu si era sfilato da una spalla dell'uomo e dondolava in un punto dove la corrente era più forte, ma le cinghie sul petto gli si erano arrotolate intorno al collo e quindi non c'era pericolo che lo zaino venisse trascinato via. L'uomo indossava un paio di Reebok bianche, tutte infangate, pantaloni blu scuro forse neri, una giacca blu scuro e una camicia a quadri bianchi e blu che gli tirava sui bottoni perché il cadavere era ormai terribilmente gonfio. Billy intravide una pallida striscia di pancia. La patta dei pantaloni era aperta, la cerniera abbassata per tre quarti. Si chiese se i gamberi fossero penetrati anche lì dentro. O fossero risaliti lungo le gambe dei pantaloni. Non ne sarebbe rimasto sorpreso. Peccato che non potesse vederlo bene in volto in modo da poter descrivere i lineamenti dell'uomo alle autorità, perché lui sapeva che glielo avrebbero chiesto, ma a meno che non gli avesse sollevato la testa dall'acqua fangosa non vi era proprio nulla che potesse fare. Sapeva che non doveva toccare né la testa né nessun'altra parte del corpo, quindi non lo avrebbe fatto. Punto e basta. L'uomo era un bianco, caucasico, e aveva i capelli scuri. Era tutto quello che avrebbe potuto riferire. Quello, e il fatto che non aveva occhi. Prese mentalmente nota del punto esatto in cui si trovava il cadavere, il grosso macigno in mezzo al torrente, un po' più a valle, il gruppo di alti pini sulla sinistra e sulla destra le sottili betulle. In quel tratto il torrente era più stretto e l'acqua correva più rapida. Posò a terra la fiocina per rane ed estrasse la bussola. L'indice a salsiccia della mano destra dell'uomo indicava verso est, dall'altra parte del torrente. Se lui avesse camminato verso ovest per un paio di chilometri sarebbe sbucato sulla River Road. Quella era la via più rapida ed efficiente. Estrasse dalla tasca il coltello da scout, raccolse la sua fiocina e cominciò a fare delle tacche negli alberi. Lo aveva già fatto dozzine di volte. Non era difficile. A metà strada, mentre avanzava in mezzo al bosco, si ritrovò a canticchiare la musica della serie Tartarughe ninja alla riscossa. Avanzava a passo di marcia, adeguando la canzone al proprio ritmo. Si ritrovò anche a
sorridere. Era molto tempo che non pensava a quello stupido spettacolo e a quella musica. Da quando era bambino. Incise con forza la corteccia bianca come carne di una betulla e proseguì. 8 Wayne sognò un massacro. Nel suo sogno si ritrovava in cima a una collina e osservava dall'alto una pianura completamente bruciata. Alcuni incendi continuavano ad ardere in lontananza. Per quanto il suo sguardo spaziasse su quell'immensa distesa non vedeva altro che saccheggi, morte e agonia. L'esercito dei morti era tornato per prendere i vivi. Vedeva uomini fatti a pezzi con le accette, pugnalati, impiccati, crocefissi, decapitati. Intrappolati nelle reti venivano lasciati annegare in un fetido lago dalle acque che ribollivano. Altri venivano inchiodati per il cranio ad alberi rinsecchiti. L'esercito dei morti era enorme, la sua superiorità nei confronti di quello dei vivi era di mille a uno, e questi fuggivano presi dal panico come mandrie di animali. I vivi si calpestavano l'un l'altro. La resistenza era inutile, la fuga impossibile. Un uomo molto ricco cercava debolmente di opporsi a un cadavere ambulante che si stava impadronendo di tutte le sue fortune. I morti erano ovunque. Tagliavano gole con vecchi coltelli arrugginiti, trascinavano corpi ammucchiandoli in enormi cataste come legna da ardere. Vide un neonato che urlava tra le braccia della madre morta da tempo e che veniva divorato da uno scheletrico cane affamato. E si svegliò. Le lenzuola erano grigie e bagnate. Fuori della finestra, il sole era alto. Il ricordo molto vivido del sogno gli rimase a lungo nella mente. Eccitato, lui cercò di trattenerlo, lo portò con sé in bagno, lo assaporò mentre faceva la doccia e se ne stava seduto sul vaso e mentre si lavava i denti. Oggi, pensò. Niente distrazioni o cazzate varie. I morti assediavano un'alta torre piena di donne piangenti che chiamavano aiuto, le braccia in aria. Inutile pregare. Sotto di loro tutti i cani erano terribilmente affamati.
9 Rule se ne stava seduto dietro la scrivania, le spalle incurvate. Per il momento la stazione di polizia era tranquilla. Hamsun si trovava nel suo ufficio, Covitski era al telefono due scrivanie più in là e Warner e Tobias dall'altra parte della stanza stavano stendendo il verbale di arresto di un ragazzo. Per il resto Rule era completamente solo. Era scoppiato un incendio in una casa di Sky Hill Road e la maggior parte dei ragazzi erano andati a dare una mano per regolare il traffico e tenere a bada i curiosi. Aveva Marty in linea. Almeno per una volta non la sua segreteria telefonica. «Stai chiamando dall'ufficio?» «Sì.» «Buon Dio, Joe. Mi sento onorato.» «Non ce n'è bisogno.» Però era vero. In altre circostanze avrebbe usato un telefono a gettoni oppure avrebbe chiamato da casa, dopo il lavoro. Marty era un segreto. E Rule voleva che tale rimanesse. Le uniche volte in cui i poliziotti andavano da uno strizzacervelli era quando avevano sparato a qualcuno o qualcuno aveva sparato a un loro collega. Ma in quei casi si trattava di un ordine del dipartimento. E anche così ci si andava di malavoglia e si faceva in modo di uscirne il più presto possibile. Per questo i suoi colleghi non avrebbero capito. Per la maggior parte di loro era impensabile che un tizio sentisse la necessità di parlare con qualcuno a settanta dollari l'ora. E per di più parlare di una donna. Non poteva basimarli. Naturalmente in alcune occasioni parlava anche del proprio lavoro. E anche questo non avrebbero capito. Il dipartimento era un ambiente molto chiuso. Ciò che vi accadeva doveva restare fra quelle quattro mura. Non era ammissibile che qualcuno andasse in giro a parlare del proprio lavoro con degli estranei. «Ti va bene giovedì?» «Giovedì sono libero alle tre e alle sei e mezzo.» «Diciamo alle tre.» «Telefonami se c'è qualche cambiamento.» «Ti chiamo sempre. Tu me lo ripeti ogni volta e io ogni volta ti chiamo. Non mi rompere.» «Non dici sul serio.»
«Marty, non mi provocare.» Si guardò intorno. «Sai una cosa?» sussurrò. «L'ho sognata. Non accade spesso.» «La notte scorsa?» «Sì.» «E?» «Non ricordo molto.» «Che cosa ricordi?» «Lei era a letto. Dormiva. Non volevo svegliarla. Me ne sono andato in punta di piedi.» «In punta di piedi? Tu?» «Esatto.» «Come un...» «Proprio così, Marty. Come un ladro nella notte.» Rule era contento di sentire che Marty trovava divertente la sua storia. «È difficile immaginarselo.» «Io ci sono riuscito.» «Però tu non sei un ladro.» «Dipende dal punto di vista.» «Immagino che tu abbia ragione. Quindi può darsi che non ti sia ancora passata.» «Perché?» «Il senso di colpa. Sembra che nel sogno tu provassi un senso di colpa. Il fatto che te ne andassi in punta di piedi. Se ti lasci una cosa alle spalle, se non ci pensi più, il senso di colpa generalmente scompare.» «Davvero?» «In genere sì.» «Giovedì alle tre, Marty.» «Telefonami se succede qualcosa.» Aveva una chiamata sulla linea due. «Rule.» Era Hamsun. Quel tizio se ne stava nel suo ufficetto a qualche metro di distanza, Rule lo vedeva attraverso il vetro, ma, visto che gli mancavano solo otto mesi al pensionamento, piuttosto che spostare il suo grasso sedere dalla poltrona preferiva telefonargli. «Qualunque cosa tu stia facendo, lasciala perdere. Vai subito a River Road, all'incrocio con Maple, un po' oltre. Pare che abbiamo trovato il tuo uomo.»
«Quale uomo?» Hansum sospirò. Come se Rule fosse stato lo scemo del villaggio. Come se avesse dovuto capirlo da solo. Come se non stesse lavorando contemporaneamente a cinque casi diversi. «Howard Gardner. Abbiamo scoperto che è annegato. Un ragazzo l'ha trovato da quelle parti, un paio di chilometri all'interno del bosco.» «Non è un caso mio, George. Ho fatto un favore a Covitski.» «E allora continua a farglielo. Tu e la moglie vi conoscete. Giusto?» Rule sospirò. «A est o a ovest?» «Che cosa?» «All'interno del bosco verso est o verso ovest? A est si scende passando attraverso il Notch.» «Mah... non so. Forse a est. Non ne sono certo. Scoprilo quando arrivi lì, va bene?» «Va bene.» Scribacchiò sul suo calendario da tavolo, nella giornata di giovedì, Marty - ore 15.00, poi si infilò un blocco per appunti nella tasca della giacca e si avviò verso la sua auto. Si chiese se Marty avesse ragione. Se davvero lui aveva rinunciato ad Ann o se lo aveva soltanto pensato. Si chiese anche chi avrebbe dato la bella notizia alla Gardner. O se lei ed Edwards lo sapessero già. Howard. Annegato. Chi l'avrebbe mai immaginato. Ma tutto era possibile. 10 Carole giunse alla conclusione che Ed Mason fosse un uomo molto simpatico ma con una mente leggermente poco adatta agli affari, almeno da quanto appariva dai suoi libri contabili. E sembrava anche disponibile ad accettare nuove proposte. Quindi lei avrebbe avuto abbastanza spazio per insegnargli una migliore impostazione del lavoro. Anche se investire nella sua locanda da dieci camere non l'avrebbe resa esattamente ricca, probabilmente si sarebbe rivelata una collaborazione piacevole e discretamente remunerativa. La sua BMW affrontò la salita senza alcuno sforzo, come sempre. Il vecchio signor Hennaker se ne stava davanti alla sua villa bianca dalle im-
poste nere e innaffiava il prato. Quando vide l'automobile di Carole, le fece un cenno con la mano al quale lei rispose. Tutto normale da queste parti. Visto? Per oggi non ho ancora ammazzato nessuno. Niente male! Si sentiva un po' eccitata. Incontrare Mason e trattare con lui le aveva fatto bene. Avevano visitato insieme la sala da pranzo e il bar arredati con mobili antichi, di buona qualità, stile vecchia America, così come il salotto con il grande caminetto in pietra e l'ingresso. Poi aveva visitato le camere al piano di sopra. Per i suoi gusti queste erano un po' troppo in stile Laura Ashley ma erano semplici e avevano un loro fascino. Avevano poi discusso del progetto di rinnovo e ampliamento del ristorante e del bar. Attualmente, l'incasso per l'affitto delle camere era all'incirca pari a quello dell'attività del ristorante e del bar. Lui non avrebbe avuto alcun problema a raddoppiare l'attività di ristorazione. Si era accaparrato uno dei migliori cuochi di Barstow. Ogni sera erano costretti a rifiutare dei clienti. Dopo avere esaminato i libri contabili, Carole aveva dichiarato che una sua partecipazione era decisamente possibile. Le aveva fatto bene occupare la mente con qualcosa. Per un po' era riuscita a dimenticare la questione di Howard. Si era accorta che la vita normale poteva anzi essere piacevole ed eccitante. E ora stava tornando a casa. Sentì l'impulso di cambiare subito direzione. Per andare... dove? Vide la Volvo rossa parcheggiata quattro case più in là, di fronte alla villa dei Nichols. Pensò che era abbastanza strano perché l'auto dei Nichols, una splendida, nuovissima Infiniti J30 blu cobalto, non era parcheggiata nel viale d'accesso. Ospiti, pensò. Fermò l'auto nel proprio vialetto e spense il motore. «La signora Gardner?» Era uscito dal nulla. L'uomo avanzava verso l'auto, con calma, passeggiando lungo il vialetto. Dov'era stato fino a quel momento? E da dove era sbucato? Dalle siepi? Cercava forse il contatore del gas?
Il contatore era in casa. In quella zona erano tutti all'interno. Aveva con sé un blocco per appunti. Teneva in mano una matita e sorrideva. Era un giovane magro e ben vestito, pantaloni larghi marrone chiaro, camicia di cotone e mocassini in camoscio. «Sì?» Allungò la mano. «Wayne Lock, signora Gardner.» Lei gliela strinse. Era umida e appiccicosa. L'uomo consultò il suo blocco. «Ci vorrà soltanto un minuto. Ho solo qualche domanda da farle...» «Mi scusi. Lei con chi lavora?» L'uomo sorrise guardandosi intorno. Come se Carole avesse detto una battuta di spirito. Si infilò la matita dietro l'orecchio. «Lavoro da solo, signora Gardner», rispose. «Mi sembra evidente. Sono completamente solo.» Infilò la mano nella tasca posteriore. E all'improvviso comparve una pistola. Stringeva in mano una piccola automatica. Al contrario della Magnum, questa era senza tamburo. Carole adesso ne sentiva l'odore, olio e metallo. La teneva puntata contro di lei da sotto il blocco. Era stato quell'odore a farle brutalmente prendere atto della realtà. Se non l'avesse percepito non avrebbe mai creduto a una simile possibilità. Sarebbe stata solo una pistola giocattolo in una splendida giornata di sole. «Sono solo», ripeté. «Proprio come lei.» Il sorriso andava e veniva. Come se non riuscisse a decidersi se doveva sorridere o no in quel momento. «La prego. Che cosa?...» Proprio così. Stava già cominciando a pregare. La prego. «Che cosa voglio? Come le ho già detto, ho delle domande da farle.» Lanciò una rapida occhiata a destra e a sinistra. «Senta, penso che dovremmo entrare. È una buona idea, le pare? Avanti, entriamo tutti e due.» Dov 'era Lee ? Perché era sola? Come avrebbe potuto entrare con lui? «Io non...» «Non glielo sto chiedendo, signora Gardner. Le sto dicendo che dovremmo entrare in casa. Mi ha capito?» Il volto dell'uomo era senza espressione, imperscrutabile. Teneva la pistola ben salda.
La mano di Carole si era fatta umida, appiccicaticcia, e ora anche le chiavi emanavano lo stesso odore di metallo. Affondavano nel palmo della sua mano. Se ne era completamente dimenticata. Si voltò verso la porta, dando le spalle all'uomo. Non avrebbe voluto farlo perché era come se continuasse a vedere la pistola puntata contro di lei, ma non aveva altra scelta. La chiave non entrava. Aveva forse preso quella sbagliata? No, naturalmente no. Finalmente entrò nella fessura. Carole aprì la porta e si voltò a guardare l'uomo. «Prima le signore», la invitò a entrare lui. Ma lei non riusciva proprio a decidersi. Quell'uomo le stava chiedendo troppo. Lei non riusciva proprio a oltrepassare lo stipite della porta come se lui fosse stato una persona qualsiasi che lei faceva entrare in casa sua, un ospite che aveva invitato. «Non ho alcuna intenzione di farle del male, se è questo che teme. Cioè, non sono uno stupratore, un pervertito o qualcosa del genere. Voglio essere suo amico. Chiacchierare un po'. Entri pure. Davvero, non mordo.» «Ma lei... lei ha una pistola.» Scoppiò a ridere. «È perché ancora lei non mi conosce e sono convinto che non sia esattamente il tipo che fa entrare degli sconosciuti a casa sua. O sbaglio? In questo modo sarà costretta a parlarmi. Quando mi conoscerà meglio, potremo fare a meno della pistola. Entri.» Lei non si sentiva assolutamente rassicurata. «Entri.» Entrò. Lui la seguì e chiuse silenziosamente la porta alle sue spalle. A chiave. Poi si guardò intomo. «Che meraviglia», esclamò. «Ha una casa bellissima. Lei è una persona davvero fortunata, Carole.» Si avviò verso il salotto. «Prima di tutto sediamoci. Poi vorrei che lei facesse qualcosa per me, d'accordo?» Carole occupò la poltrona accanto al caminetto, l'uomo invece si sedette sul divano, la pistola appoggiata sul bracciolo, sempre più o meno puntata contro di lei. Posò il blocco per appunti e fece rotolare la matita sulla spessa lastra di vetro del tavolino. Sembrava completamente a suo agio, del tutto padrone di sé. Lui era padrone di sé. Era un maschio. Aveva una pistola.
Il mondo era pieno di uomini così. Pensò alla Magnum nascosta nel cassetto al piano di sopra. Ma in pratica quel cassetto era a migliaia di chilometri di distanza. Era proprio su un altro pianeta. «Che cosa vuole che io faccia?» chiese. La sua voce aveva un tono rauco, strano per lei. L'uomo incrociò le gambe. Assolutamente a proprio agio. «Vorrei che lei chiamasse il signor Edwards in ufficio. Gli dica che è successo qualcosa e che ha bisogno che torni subito a casa.» «Come fa a sapere del... signor Edwards?» «Non importa come lo so. O chi conosco o che cosa so. Il punto è che deve chiamarlo.» «Ma lui non può semplicemente prendere e andarsene.» Lui sorrise. «Certo che può. E lo farà, lei lo sa che lo farà. E sa anche perché lo farà. Per favore, Carole. Niente giochini. Niente stupidaggini. Niente finzioni. Ti va bene se ti chiamo Carole, vero? E il signor Edwards è Lee. Carole e Lee. E tu puoi chiamarmi Wayne.» «Che cosa vuole da... dal... signor Edwards?» Lui corrugò le sopracciglia. «Fai un sacco di domande, Carole. Sai che cos'è questa?» Indicò la pistola. «È una Smith and Wesson calibro 38 a canna mozza. Tieni delle pistole in casa?» «No.» Lui sorrise. «Ma certo che sì. Una casa così grande e così bella? Guarda tutte le cose di valore che ci sono. Probabilmente è di sopra, giusto? Più tardi andremo a dare un'occhiata. «Ma adesso voglio che tu faccia questa telefonata a Lee. Va benissimo se hai un tono di voce un po' agitato. Tu sembri davvero sconvolta. Così arriverà ancora più in fretta. Sconvolta va benissimo. Dov'è il telefono?» Lei indicò con lo sguardo il tavolo accanto al divano. «Okay, benissimo. Chiamalo.» Carole si alzò. La stanza girava vorticosamente. Le sembrava di avere le gambe di cartone. Dovette sedersi nuovamente. Aveva bisogno di andare in bagno, all'improvviso si rese conto di averne un'assoluta necessità. Sentiva che probabilmente avrebbe vomitato. «Calmati», esclamò l'uomo. «Capisco che sia una situazione stressante. Fai un bel respiro. Un bel respiro lungo e profondo. Bene. Perfetto. E a-
desso un altro. Brava, molto bene. Adesso puoi provare di nuovo.» Carole si alzò. «Oh, a proposito», aggiunse l'uomo. «Niente numeri della polizia, okay? Non sono uno stupido.» Le gambe le tremavano ancora ma riuscì comunque a stare in piedi. Si avvicinò al telefono e compose il numero. Probabilmente doveva aver fatto quello sbagliato perché la voce all'altro capo del filo era quella di una bambina di circa sei o sette anni e, santo cielo, non vi erano bambine nell'ufficio di Lee, quindi riagganciò. «Qual è il problema?» «Ho fatto il numero sbagliato», rispose Carole. Lui sembrò trovare la cosa molto divertente. «Gesù, Carole! Sei davvero una frana! Calmati. Su, prova di nuovo.» «Posso... le dispiace se vado in bagno?» «Dopo la telefonata.» Scoppiò nuovamente a ridere. «Aggiungerà un tocco di urgenza.» Lei compose nuovamente il numero. Questa volta quello giusto. La segretaria la mise un attimo in attesa e poi sentì Lee dall'altra parte del filo e gli disse di tornare subito a casa, per favore Lee, per favore vieni immediatamente. Ancora una volta stava supplicando. Mentre quel Wayne la fissava seduto dall'altra parte della stanza, dandosi dei colpetti sul ginocchio con la canna della calibro 38. Sentì Lee che le domandava che cosa diavolo stava succedendo e perché stava piangendo. Non sapeva di piangere. Non se n'era nemmeno accorta. Fai presto, lo supplicò. Riagganciò, poi si voltò verso l'uomo seduto sul divano. Probabilmente doveva avere dieci anni in meno di lei. Snello. Asciutto. Senza la pistola l'uomo avrebbe potuto avere una sua certa bellezza, ma la pistola le ricordava Howard, la pistola aveva l'oscuro potere di deformare quell'uomo facendolo apparire brutto. «Che cosa... che cosa facciamo adesso?» gli chiese. Lui scrollò le spalle. Poi sorrise. Il suo era un sorriso stranamente amichevole. «Dobbiamo andare in bagno.» 11
«Tu», esclamò Lee. Lo riconobbe immediatamente. Era abbastanza fisionomista. Oltretutto, tra i baristi, era uno che si faceva notare. Versava dosi striminzite, usava troppo ghiaccio e non offriva mai un bicchiere, per quanto a lungo uno rimanesse seduto al bar. Ma mai e poi mai se lo sarebbe potuto immaginare in quella casa. Era come incontrare un divo del cinema in un paesino del New Jersey. Era proprio fuori posto. «Che succede? Che cosa ci fai qui?» L'uomo si limitò a sorridere, poi lanciò un'occhiata a Carole e bevve un sorso di scotch dal bicchiere che teneva in mano. Una dose tutt'altro che scarsa. «Il signor Lock e io abbiamo fatto due chiacchiere», spiegò Carole. Lee la guardò. Era da quel giorno sul Notch che non aveva un aspetto così teso, così sconvolto. «Sa tutto, Lee.» Non poteva aver sentito bene. Nessuno sapeva. Nemmeno la polizia. Non avevano parlato con nessuno. Era impossibile. «Ti dispiace ripetere?» «Sa tutto...» Si accorse che Carole stava cercando con tutte le forze di mantenere il controllo. Teneva le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto. Il suo volto aveva nuovamente quell'espressione distrutta. In quel momento non stava bevendo. Al diavolo. Lui sì. Appoggiò la valigetta sul pavimento e si avvicinò al bar. Mancava la bottiglia di Glenfiddich. Il tizio stava bevendo proprio del Glenfiddich con ghiaccio. Il che la diceva lunga su che tipo di persona fosse. Lee lo prese liscio. Era come se il colpo lo avesse raggiunto in quel momento facendogli all'improvviso tremare le mani e le spalle. «Le dispiacerebbe darmi una spiegazione?» domandò rivolto all'uomo, non a Carole. «L'ho visto», spiegò lui. «Vi ho osservato. La mazza da baseball. Il masso. La pulizia. Tutto. Ero proprio sopra le vostre teste. Su una sporgenza di roccia. Poi sono sceso fino al torrente. Per la verità, quando sono arrivato lì si era già spostato un bel po'. L'ho spinto proprio in mezzo alla corrente. Ho pensato che così vi avrei dato una mano.» Il whisky bruciava appena in gola. L'uomo si stava divertendo, era leg-
germente piegato in avanti e sorrideva. «E allora che cosa vuoi? Denaro? Quanto?» L'uomo si limitò a fissarlo. Sembrava divertito. «Compagnia, Lee», spiegò infine. «Tutto ciò che desidero è compagnia.» Lee stava pensando alla pistola nel cassetto. Stava pensando a come uccidere quell'uomo. «Non capisco», disse. «Carole dice che era suo marito quello che avete ucciso e che se lo meritava, che non c'era altra scelta. Che avete provato con la polizia, avete cercato di convincerlo con il denaro. Le credo. Non vedo perché non dovrei. Conosco moltissima gente che merita di morire. Moltissima, credetemi. Ma adesso non me ne importa più nulla di loro.» Si piegò ulteriormente in avanti, negli occhi un'espressione determinata. La pistola nera stretta in grembo. «Vedi Lee, ciò che io desidero sapere da voi, quello che voglio che mi diciate è come ci si sente. Desidero che tu me lo dica. Ho continuato a... chiedermelo.» Sorrise di nuovo. Lee cercò di vedere oltre quel sorriso e quello che vide lo spaventò. Il denaro, il ricatto erano cose che poteva comprendere. Così andava il mondo. Era una questione di affari. Ma questa storia era completamente folle. Cosa si provava? Erano in compagnia di un individuo molto, molto malato. «Chissà?» disse l'uomo. «Potrei avere voglia di provare.» Lee continuò a fissarlo senza rispondere. E l'uomo pensò che l'altro non avesse capito. «Ad ammazzare qualcuno», spiegò. Il bicchiere di Lee era ormai vuoto. Lo appoggiò sul buffet. Lanciò un'occhiata a Carole. Dalla sua espressione si rese conto che stavano pensando tutti e due alla stessa cosa. Inspirò profondamente. Avanti, pensò. Dillo. Meglio sapere di che morte dobbiamo morire. «Stai parlando di noi?» domandò. Lock scoppiò a ridere. Come se si fosse trattato di qualcosa di molto divertente. «Oh mio Dio no! Mai! Mi avete completamente frainteso. Io voglio conoscervi. Io vi rispetto. Per quello che avete fatto ci vuole un fegato incredibile, davvero incredibile! Io vi ammiro moltissimo. Voglio dire, guardate
come l'avete studiata bene. Anche lasciando perdere quel po' di aiuto da parte mia. Cioè, voi siete probabilmente le ultime due persone che vorrei uccidere. Giuro!» L'uomo abbassò lo sguardo. Beast gli stava strofinando il muso contro la gamba dei pantaloni. «Salve gattino!» Allungò la mano e cominciò a grattarle l'orecchio. Non sapeva niente di gatti. Probabilmente non gli piacevano nemmeno. La grattò con troppa forza. Beast gli lanciò un'occhiataccia e si allontanò. Si rilassò sul divano. Bevve un sorso di whisky. «Sentite, cominciamo dall'inizio. Voi mi raccontate tutto, cioè, tutto di voi, e io vi racconterò tutto di me. Ci capiremo immediatamente. Vedrete. L'unica cosa, andiamo nella mia auto, okay? Facciamo una passeggiata tutti e tre. Sarà una serata molto piacevole. Ceniamo da qualche parte, facciamo una passeggiata. E guidi tu, Lee. Vedi? Ti affido addirittura la mia Volvo. Forza, ci divertiremo.» Si alzò in piedi, la pistola in posizione neutra accanto a lui. Lee trovò la parola che aveva cercato fino a quel momento per descrivere l'uomo. Era allegro. Spietatamente allegro. «Andiamo», esclamò l'uomo. «Vi offro qualcosa da bere. Sono certo che ne avete bisogno.» E scoppiò a ridere. «Vi devo aver spaventato a morte! Vero, Carole?» Carole lanciò un'occhiata verso Lee. Lui le rispose con un cenno affermativo del capo. Lei si alzò. «Vado a prendere la giacca», mormorò. E si mosse verso le scale. «È lì che si trova la pistola, ho capito», esclamò Lock. «Al piano di sopra.» Carole si fermò voltandosi verso di lui. «Quale pistola?» Lui le rivolse una specie di ghigno. «Ma dai. So che ne hai una da qualche parte. È di sopra, vero? Va bene, portala giù. Più ce n'è, meglio è!» «Che cos'è? Una Colt? Una Magnum?» domandò rivolgendosi a Lee. Poi tornò a guardare Carole. «Sentite ragazzi», disse. «Noi tre diventeremo amici. Lo so che adesso non mi credete, ma cambierete idea. Vi prometto solennemente una cosa. Non vi farò alcun male a meno che non siate voi a costringermi. «Lee è a meno di due metri di distanza da me. Io sono un ottimo tiratore e scommetto che tu non hai una grande mira, Carole. Quindi vai di sopra e
portala giù. Mi fido di te. Vai pure.» Lee rimase a osservarla mentre saliva le scale. C'era qualcosa di tristemente familiare nella sua bella schiena incurvata. Sembrava che fosse stata picchiata ancora una volta, che sentisse i colpi di mani pesanti sulla sua carne morbida. Non avrebbe tentato di fare nulla. Non adesso. Al suo posto, anche lui avrebbe fatto lo stesso. Si avviarono verso la macchina. Lock aveva la giacca di Carole avvolta attorno alla Magnum e teneva l'arma puntata contro la schiena di Lee. La calibro 38 era finita nella tasca posteriore di Lock. Finché non mi conoscerete meglio, aveva ripetuto. E si era scusato. Era rimasto a lungo ad ammirare la Magnum. Niente in contrario se se la portavano dietro? Lee l'aveva trovata una buona idea. Una pistola in più significava una possibilità in più. Anche se, fino a quel momento, il tizio era riuscito a tenere tutto perfettamente sotto controllo. Ma non poteva durare per sempre. Prima o poi avrebbe commesso un errore. E loro ne avrebbero approfittato per impossessarsi di una delle pistole e l'avrebbero bloccato. Era certo che, trovandosi in difficoltà, Lock sarebbe crollato. E poi che cosa? pensò. Non potevano certo consegnarlo alla polizia. Lock sapeva. E Lee non aveva dubbi sul fatto che, a quel punto, l'uomo avrebbe raccontato a tutti esattamente che cosa sapeva. L'unica soluzione, naturalmente, era quella di ucciderlo. E il più presto possibile, prima che chiunque potesse collegare lui e Carole a quell'uomo. Fintante che, per quanto ne sapessero gli altri, loro non si erano mai conosciuti. Sarebbe stato capace di farlo? Ne era quasi certo. L'unico problema era come. Non era come con Howard. Questa volta non avrebbe esitato. Quell'uomo era una lucertola strisciata da sotto un masso. Prenditi tutto il tempo necessario, pensò. Fai funzionare il cervello. E quando intravedi una possibilità, agisci. «Hai parcheggiato piuttosto lontano», commentò. Wayne sorrise. «Non volevo far nascere sospetti.»
Bene. Molto bene. Non voleva far nascere sospetti. Avevano già percorso quattro isolati, da casa loro fino alla villa dei Nichols i margini della strada erano completamente vuoti e dovevano compiere tutto questo tragitto per salire su un'auto che avrebbe potuto benissimo essere parcheggiata di fronte al loro viale d'accesso. Non voleva far nascere sospetti. Buon segno. Il ragazzo non è poi così bene organizzato. Ha alcuni punti deboli. Forse avrebbe potuto sfruttarli. «Ho dimenticato di dare da mangiare ai gatti», si ricordò Carole. «Non ti preoccupare», la rassicurò Lock. «Non staremo via tanto. Guidi tu, Lee. Okay?» Lee non aveva mai conosciuto nessuno che passasse tanto rapidamente e con tanta insistenza al tu. Sembrava fosse importante per lui. Lee si accomodò al posto di guida con una Carole molto silenziosa accanto a lui che sembrava riuscire a respirare a malapena. Lock (errore, Wayne) salì sul sedile posteriore. «Allora. Dove andiamo, Wayne?» domandò. Vide attraverso lo specchietto retrovisore il sorriso dell'uomo illuminarsi. «Tu comincia a guidare, Lee», rispose. «Comincia a guidare.» 12 Rule bussò alla porta. Di nuovo al numero 2211. Due volte in due giorni rappresentava il suo record personale di visite a quella casa ma aveva la sensazione che presto l'avrebbe battuto. La BMW e la Porsche di Edwards erano parcheggiate lungo il viale d'accesso. In casa non c'era nessuno. Strappò un foglietto dal suo blocco e scrisse IMPORTANTE, PER FAVORE TELEFONARE, aggiungendo poi il proprio nome e numero di telefono e infilando il foglietto tra la porta e il telaio. I vetri colorati delle finestre laterali gli ricordarono la casa per le bambole (lui aveva utilizzato della spessa plastica trasparente) e la casa per le bambole gli riportò alla mente Chrissie e Ann in California. Che ore erano da quelle parti, le tre? Ann doveva essere ancora in banca,
di fronte al computer, e Chrissie probabilmente era appena uscita da scuola e stava andando a casa della nonna, o forse frequentava qualche corso pomeridiano. Un tempo avrebbe saputo quale. Non era una cosa molto importante, ma gli dispiaceva non saperlo. Piantala, pensò. Sei ossessivo. Scese le scale. Sbirciò attraverso i finestrini della Porsche e della BMW. Non vi era molto da vedere. L'interno della Porsche era più ordinato di quello della BMW, e questo lo sorprese un po'. Solo un giornale piegato sul cruscotto, mentre nell'auto di Carole vi erano pacchetti vuoti di sigarette, un foglietto per appunti accartocciato, qualcosa che somigliava a un mentino schiacciato, una moneta da un quarto di dollaro sul pavimento e un sacchetto di carta marrone piegato sul sedile accanto a quello del guidatore. Entrambe le auto erano chiuse a chiave. Scavalcò le siepi e raggiunse la finestra sporgente che si apriva sulla facciata della villa, cercando di sbirciare all'interno. Riuscì a vedere due bicchieri appoggiati sul buffet del salotto, un avvallamento nel divano dove qualcuno doveva essersi seduto di recente e una valigetta di cuoio marrone posata proprio in mezzo alla stanza. Un posto insolito per lasciare una valigetta ma, a parte questo, tutto appariva assolutamente normale. In uno dei biccheri il ghiaccio si stava ancora sciogliendo. Li aveva mancati per poco. Stava cominciando a fare buio. Le indagini su al Notch dovevano essere quasi terminate. Covitski, giunto sul posto un'ora dopo Rule, aveva preso in mano la situazione. Presto sarebbe tornato in ufficio. Probabilmente non valeva la pena aspettare che tornassero. Si chiese di chi fosse l'auto con cui si erano allontanati. Chi stesse tenendo loro compagnia. La relazione del medico legale sulla morte di Howard non sarebbe arrivata sulla sua scrivania prima dell'indomani mattina. Aveva chiesto che gli venisse consegnata con urgenza. Ed era possibile che riuscisse a ottenerla davvero in fretta perché a questo punto era impossibile stabilire se si trattava di morte accidentale o di omicidio, e in quella contea le morti avvenute in circostanze poco chiare non abbondavano di certo. L'ufficio del medico legale avrebbe mostrato per questo caso lo stesso interesse di un patito di informatica che scopre uno strano virus nel proprio computer. Una sfida, qualcosa di insolito.
Rule propendeva per l'ipotesi di semplice morte accidentale. Carole Gardner aveva abbastanza problemi. Anche se fosse saltato fuori che Howard era stato ucciso dal proprio maestro di sci per aver girato a destra invece che a sinistra, le indagini per l'omicidio sarebbero inevitabilmente cominciate da lei. L'avrebbero tartassata. Dovevano farlo. Il che significava che doveva farlo anche lui. Si rese conto che, in qualche modo, si trattava di una questione personale. Che, soldi a parte, Carole gli ricordava Ann. Pensava che si somigliassero anche un po'. Probabilmente ecco perché quel giorno aveva pensato tanto ad Ann. O era almeno in parte per questo motivo. Avevano alcuni punti in comune. Anche il marito di Ann, il padre di Chrissie, era stato un ubriacone. E un violento. Certo, non era mai giunto ai livelli di Howard. Ma questo si poteva dire per la maggior parte delle persone. Nel caso di Ann, si era trattato di maltrattamenti psicologici. Secondo lui, Ann non aveva l'intelligenza per riuscire a combinare niente di buono e Chrissie era stata soltanto un incidente di percorso trasformatasi, sempre secondo lui, in una mocciosa prepotente e piagnucolona. Quando era ubriaco picchiava. Picchiava sodo. Era successo una o due volte. Poi una sera aveva fatto volare la figlia attraverso la cucina, mandandola a sbattere con la testa contro la porta del frigorifero. Ann aveva fatto i bagagli e non ne aveva più voluto sapere. Quanto a pura crudeltà Howard Gardner era dotato di una fantasia tale da far apparire il marito di Ann come un poveraccio, tuttavia i due avevano abbastanza punti in comune per far sì che Rule si sentisse solidale con Carole. Per questo desiderava con tutto il cuore che la caduta di Gardner fosse dovuta soltanto all'errore fatale di un tizio con abbastanza alcol in corpo da alimentare un Concorde. E nient'altro. O la relazione del medico legale confermava quell'ipotesi oppure ne sosteneva un'altra. Fino a quel momento non c'era molto da fare se non tornare indietro, aspettare l'arrivo di Covitski e, possibilmente, la telefonata di Carole. In passato non aveva mai mancato di richiamare. E lui non aveva alcun motivo di sospettare che questa volta si sarebbe comportata diversamente se non fosse stato per le due auto parcheggiate tutte sole lungo il viale d'accesso e per una valigetta abbandonata proprio in mezzo al salotto. E per il fatto che questa volta Howard era morto. Continuava a pensarci. E continuò a rimuginarci sopra fino a quando
non giunse alla stazione di polizia. Howard era morto e si poteva benissimo dire che avesse inseguito la morte per lungo tempo e in molti modi, e al 2211 non c'era nessuno. Che cosa hai fatto, Carole? pensò. Che cosa diavolo hai fatto. 13 Prima che lei riuscisse ad ascoltare veramente ciò che l'uomo diceva si trovavano già sull'Interstate 89 diretti a Montpelier, e comunque riuscì a recepire le parole solo molto lentamente, raccontava qualcosa di sua madre e dei vicini e di una vecchia casa a Sycamore e di due vecchi a Waterbury che, aveva letto sul giornale, si erano affrontati con fucili a pallini perché uno di loro aveva sparato al gatto dell'altro e adesso erano tutti e due in ospedale in condizioni gravissime. E così via. Fino a quel momento o lei non era riuscita a concentrarsi o lo aveva semplicemente cancellato dalla propria mente. Non sapeva esattamente quale delle due. Riusciva soltanto a sentire se stessa parlare silenziosamente all'interno della propria testa. Si diceva che erano nei guai fino al collo. Che ormai non vi era nulla da fare. Che non vi era altra alternativa che andare da Rule e raccontargli tutto. Era l'unico modo per liberarsi di quell'uomo. Era bastato quel breve tempo, all'incirca un'ora, da quando avanzando lungo il vialetto era entrato nella sua vita, per farle considerare con sollievo l'idea di confessare tutto a Rule. Essere arrestata le sembrava decisamente preferibile alla sua compagnia. E al fatto che sapesse. Si sentiva sporca per via di quello che lui sapeva. Così sudicia che voleva piangere. Ascoltava la voce dentro la propria testa e le sembrava monotona, piatta e ragionevole come una condanna. Era opprimente, snervante. Come se anche il suo sangue si muovesse più lentamente, raggrumandosi dentro di lei. Quell'uomo era stato qualcosa di inevitabile. Non era forse giusto che qualcuno avesse scoperto tutto? Quella era giustizia. Avevano ucciso un uomo. Non importa se Howard era stato crudele. Quella era solo la sua opinio-
ne di lui. La voce interna le diceva che era un'opinione formatasi per esperienza diretta, ma che importava? Che diritto aveva? Era stata educata a distinguere in maniera precisa il bene dal male. E l'aveva imparato nel modo più difficile. A volte pensava che, da bambina, aveva dovuto sforzarsi per imparare. Questa consapevolezza era come un contratto. Ti legava al resto della razza umana. Era qualcosa in cui credeva. Aveva infranto quel contratto. In qualche modo ora meritava la presenza di quell'uomo. Giustizia. Colpa. Depressione. Si tenevano tutte e tre per mano e facevano un girotondo dentro di lei. Divennero una sola cosa e quasi una sola parola. Una grossa forma nera che si trasformava al suo interno finché non sentì altro che peso, densità e oscurità. Girotondo. Il riferimento non era forse alla Morte Nera? Alla peste. Sudicia. Che venga, pensò. Bene, lasciamo che sia. Non opporrò resistenza. Facciamola finita. Le sembrava quasi di udire lungo le strade i carri per i condannati alla ghigliottina. Se li meritava. «Accelera! Presto! Superala!» La voce la scosse dai suoi pensieri. Sentì l'auto balzare in avanti quando Lee premette sull'acceleratore. Alle sue spalle, Wayne batteva i pugni sul sedile, eccitato. Lee appariva confuso, come se non stesse capendo nulla. Carole lanciò uno sguardo oltre il finestrino del guidatore. Stavano raggiungendo una giardinetta Ford blu che poi superarono sulla destra. Alla guida vi era una donna, il profilo grigio e confuso nel crepuscolo. Wayne abbassò il finestrino. La stavano sorpassando guadagnando graduatamente terreno. «Suonale.» «Che cosa?» «Ti ho detto di suonarle. Usa il clacson!» Lee diede due brevi colpi con il pugno. La donna lanciò un'occhiata verso di loro. Carole ne ricevette un'impressione sia di giovinezza sia di vecchiaia, forse era una giovane madre. Ne aveva l'aria. Maglietta larga. Ca-
pelli raccolti in una coda di cavallo. Alla guida di una giardinetta. Carole si voltò e vide Wayne che si sporgeva dal finestrino e faceva un cenno alla donna, indicando la ruota posteriore destra. Ecco di che cosa si trattava. C'era qualcosa che non andava con lo pneumatico. La donna lo vide, comprese, gli lanciò un sorriso preoccupato e annuì. Poi rallentò, sterzò lievemente e accostò dietro di loro. «Fermati.» Lee corrugò la fronte. «Perché? Per quale motivo?» «Lo pneumatico. Avrà bisogno di aiuto per cambiarlo.» Carole aveva visto la giardinetta fermarsi lungo lo stretto margine della strada. Si fermarono. «Andiamo», esclamò Wayne. La donna stava aprendo la portiera per scendere dall'auto. La Magnum era puntata contro il sedile del guidatore. Lee aprì la portiera e mise un piede a terra. «Hai intenzione di portarla con te, Wayne?» domandò. Wayne scoppiò a ridere. Appoggiò la pistola sul sedile accanto a sé. «Ricordatevi che ho l'altra», fece notare. «Okay?» E si diede un colpetto sulla tasca posteriore. La donna stava girando intorno all'auto, a guardare le ruote posteriori, prima una e poi l'altra. Le auto la superavano sfrecciando. Alcune avevano già acceso i fari. Si stava facendo buio. La donna sollevò lo sguardo verso di loro, perplessa. Era bionda, un po' sovrappeso ma carina. «Non vedo...» Carole si ritrovò a sbirciare attraverso il finestrino posteriore dell'auto della donna. Non sapeva che cosa stava cercando. Forse un seggiolino per bambini. Non ce n'erano. Niente che facesse pensare a un bambino nemmeno nel portabagagli. Una ruota di scorta. Una trapunta a quadri. Nient'altro. Si sentì sollevata. Non sapeva perché. Non subito almeno. Non aveva impiegato più di qualche secondo per controllare l'interno dell'auto, ma rialzando lo sguardo vide che Wayne si trovava un paio di passi davanti a loro, eppure solo un secondo prima era ancora dietro, era
stato talmente rapido nei movimenti che Lee si era ritrovato a barcollare all'indietro. Carole quasi gli inciampò addosso. Sul volto di Lee un'espressione sconvolta. Terrorizzata. E la pistola, puntata, sparò. Si chiamava Deanna Morris. Lavorava come archivista e dattilografa in un ufficio legale di Barstow e si stava prendendo quello che lei definiva un «giorno di riposo mentale» dopo sei estenuanti giorni e sere trascorsi a preparare una relazione su un caso di abusi a danno di un minore, Il popolo contro l'Asilo Infantile di Sunnybrook, a suo parere un caso veramente odioso perché era certa che quelli di Sunnybrook fossero colpevoli, e anche lei era incinta di cinque mesi di suo marito Carl e la sua incipiente maternità le faceva apparire ancora più ripugnante la difesa dei proprietari dell'asilo, ma doveva pur lavorare. Sapeva che almeno per un po' di tempo quello sarebbe stato il suo ultimo «giorno di riposo mentale». La maternità le avrebbe probabilmente fatto consumare i giorni di malattia che ancora le restavano e forse anche qualcuno in più. Stava andando a prendere Carl al cantiere perché il finestrino della Chevy, quello accanto al guidatore, si era ancora spostato e avevano dovuto portare l'auto in officina. Dovevano cenare insieme. Probabilmente un ristorante italiano. Le rate della casa erano sopportabili. E anche quelle delle due auto. Lei e Carl stavano proprio bene ora che i tempi duri erano passati e che, grazie al cielo, lavoravano tutti e due. Il loro bambino (l'ecografia aveva rivelato che sarebbe stato un maschio) avrebbe avuto una vita serena e confortevole, almeno nell'immediato futuro. Era alta un metro e sessanta. L'uomo con la pistola era molto più alto di lei, forse più di un metro e settantacinque. Il primo proiettile entrò quindi dall'alto e, dopo aver colpito il deltoide, attraversò i muscoli pettorali fino allo sterno, frantumandolo, e uscì attraverso le costole della schiena. Udì contemporaneamente il proprio urlo e la detonazione. L'uomo le aveva sparato una seconda volta. Istintivamente aveva alzato la mano sinistra come per difendersi da lui e si era voltata di spalle. L'impatto del primo proiettile l'aveva fatta girare ulteriormente così che, quando l'uomo sparò la seconda volta, lei si presentava di schiena, un po' incurvata, le dita ancora allargate all'indietro come
un lanciatore del disco o un giocatore di bowling alla fine dell'oscillazione. Il colpo le staccò quasi completamente l'indice sinistro prima di entrarle nella schiena a destra della colonna vertebrale, facendole schizzare le reni sull'asfalto davanti a lei. Sembrava che una lattina di cibo per cani fosse semplicemente esplosa dal suo corpo. Cadde in ginocchio, un po' di lato, appoggiandosi sul palmo della mano destra. Rimase in quella posizione, leggermente inclinata sulla destra, tentando di respirare. Non sentiva dolore, solo incredulità, orrore per la cosa terrificante che aveva visto fare a quell'uomo, e sebbene non fosse in grado di esprimerlo con parole, provò anche un'intensa e struggente delusione. Era come un'analisi finale alla ricerca di qualche significato che si concludeva con la constatazione di uno spreco privo di senso. Era sempre stata una persona obiettiva, e di questo ne era andata orgogliosa, quindi mentre cadeva si rese perfettamente conto che la sua vita, solo qualche secondo prima ancora così piena di progetti sia quotidiani sia più importanti, ora era improvvisamente entrata nel regno dell'inutilità e del ridicolo. Una calza bucata con l'alluce che spuntava. Un tubo per innaffiare il giardino rimasto intasato tutta l'estate. Una pentola senza manici. Ecco cos'era lei. Ecco ciò che l'aveva resa quella pistola. Una beffa. *** «Yuhu!» Wayne continuava a saltare lungo il margine della strada come una scimmia impazzita, come un maledetto ricevitore che ha appena segnato la meta determinante per la vittoria. «Cristo! Avete visto?» Il corpo della donna crollò pesantemente di lato. Lee sentiva l'odore dell'urina, delle feci, e della polvere da sparo. Le macchine passavano sfrecciando. Percepiva il tiepido spostamento d'aria causato dal loro passaggio. Una sembrò rallentare, poi proseguì. «Forza. Torniamo in macchina.» La pistola era puntata verso di lui. Poi si spostò su Carole. Tornò nuovamente su di lui. «Salite in macchina!» Gli obbedirono. Non c'era modo di arrivare alla Magnum. Wayne era
troppo vicino. Agiva con perfetto sincronismo. Aprì la portiera posteriore, un piede dentro l'auto, e la calibro 38 puntata contro la schiena di Lee fino a quando anche lui non ebbe aperto la propria portiera. Poi scivolò all'interno. Adesso teneva in mano ambedue le armi, la Magnum contro l'orecchio di Lee e la 38 puntata verso Carole. «Guida!» Lee attese il momento più opportuno, poi si immise nel traffico. Guardò nello specchietto retrovisore. Alle loro spalle l'auto della donna si allontanò. Da dietro la giardinetta spuntava un braccio pallido puntato verso l'autostrada. Il luccichio di un braccialetto illuminato dai fari di un'auto in arrivo. Perché non si era fermato nessuno? Perché nemmeno adesso si fermavano? «Accendi i fari.» Sentiva Carole singhiozzare accanto a lui, il pugno stretto che premeva contro la bocca. Vi erano milioni di cose da dire e nessuna che valesse la pena di essere detta. Proseguirono in silenzio. Il silenzio aveva un suo monotono ronzio. Guidava e tremava e si aggrappava al volante. Aveva sistemato lo specchietto retrovisore in modo da inquadrare Wayne. Gli sembrava che fosse importante riuscire a vederlo. L'uomo aveva un'espressione lontana. Gli occhi che scintillavano e si muovevano a scatti nelle orbite. Per il resto il viso era completamente immobile. Si rese conto che l'uomo si stava abbandonando a qualcosa e intuì che cosa stesse facendo Wayne in quel momento: stava rivivendo mentalmente tutta la scena. Era certo qualcosa che sentiva il desiderio di fare. Naturalmente era così. Anche Lee aveva rivissuto la morte di Howard ormai diverse volte. La differenza era che lui non aveva avuto scelta. La scena dell'omicidio gli si era presentata spontaneamente, senza che lui la cercasse. Immagini distorte in cui era lui a tenere il masso, non Carole. Anche in quel momento le rivedeva. Stava guidando molto male. Se ne rendeva conto. Era come se all'improvviso il volante non rispondesse più bene. La corsia gli appariva indistinta. Le auto che lo superavano cercavano di tenersi lontano da lui. «Dovremmo... dovrei uscire dall'autostrada», mormorò.
«Cosa?» «Mi sembra di non andare molto bene. Voglio dire, come guido. Dovremmo andare da qualche parte. Fermarci. Almeno per un po'. Dammi un minuto per... riprendermi.» Wayne sorrise. «Hai ragione. E stato davvero fantastico, vero?» Scoppiò a ridere di nuovo dando manate sul sedile. Non teneva più in mano la calibro 38. L'aveva posata sul sedile accanto a lui o se l'era infilata in tasca. «Okay. Va bene. Esci alla prossima. Ti piace il McDonald's? Magari riusciamo a trovare un McDonald's. Potremmo farci un hamburger. Mi dispiace, vi avevo promesso di andare a bere qualcosa insieme. Ci penseremo più tardi. Okay?» Lui e Carole si scambiarono un'occhiata. «Che c'è?» domandò Wayne. «Qualche problema?» «No. Nessun problema.» «Non ci posso credere. Non riesco a credere di averlo realmente fatto. Gesù! Anche voi vi sentite in quel modo?» «In quale modo?» «Come se fosse tutto diverso. Come se, d'ora in poi, cambiasse tutto quanto.» «Non so. Forse.» Si stavano avvicinando all'uscita, WILLIAMSTOWN, diceva il cartello. Non immaginava che fossero così lontani. «Allora, che cosa avete provato? A guardarmi voglio dire.» «Cosa abbiamo provato?» Lee imboccò la rampa. Rallentò. Vide che Carole si voltava, gli occhi asciutti, infuriati puntati contro l'uomo. «È stato disgustoso», urlò. «È stato rivoltante, brutto figlio di puttana. Maledetto bastardo!» Poi si inginocchiò sul proprio sedile, sporgendosi in avanti mentre cercava di colpirlo con i pugni; Wayne con una mano si difendeva senza alcuna difficoltà e con l'altra teneva ben stretta la Magnum e Lee pensò Gesù potrebbe partire un colpo dentro l'auto e che cosa diavolo sta facendo Carole? Wayne rideva. I pugni erano assolutamente innocui e lei lo sapeva, decise allora di portarsi sul sedile posteriore, cercando di scavalcare lo schienale, urlava, era furiosa, continuava a gridargli bastardo bastardo bastardo.
Rallentò nel punto in cui la rampa faceva una curva, ma nonostante questo l'auto sbandò poi, una volta ritornato sul rettilineo, poté allungare il braccio. La sua mano riuscì ad afferrare il colletto della camicia e cominciò a tirare. «Carole! Per l'amordidio!» L'uomo continuava a ridere, a gridare, si stava divertendo come un matto, parava i pugni con la mano sinistra aperta e con la canna della pistola, mentre Lee la tirava con forza. Probabilmente non era bene in equilibrio perché la testa di Carole andò quasi a sbattere contro il parabrezza. La mano destra colpì lo specchietto retrovisore e la schiena sbatté con tanta violenza contro il cruscotto che lo sportello del vano portaoggetti si aprì di scatto colpendola di taglio mentre scivolava sul fondo. Si era fatta male. Glielo si leggeva in viso. Dannazione. Ma un proiettile le avrebbe fatto molto più male. Lee aveva rallentato fino a essere quasi fermo. Fortunatamente non vi erano auto dietro di lui. «Tutto bene?» Lei annuì. Ma non lo guardò. Carole tornò a sedersi e rimase a fissare il vuoto. Lui regolò nuovamente lo specchietto. Wayne la guardava con aria compiaciuta, gli occhi che sembravano volerle penetrare la nuca. Meglio se non li vede, pensò Lee. Potrebbe infuriarsi di nuovo. Aveva proprio una bella compagnia di pazzi furiosi in quell'auto. Lanciò un'occhiata verso la strada davanti a sé, poi tornò a fissare Wayne. Sembrava che, nell'istante in cui lui aveva distolto lo sguardo, Wayne si fosse rilassato. «Ti capisco, Carole», disse. La voce controllata, calma. «Ti ho spaventata. Mi dispiace. Ti prometto... che non succederà più.» Si sporse verso di lei. Per un terribile momento sembrò quasi che stesse per affondare il viso nei suoi lunghi capelli neri. «Da adesso in poi», aggiunse, «non ci saranno più sorprese. Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa faremo, ti avvertirò per tempo. Okay?» A Lee sembrò che Carole non lo stesse nemmeno ascoltando. Non disse nulla. Continuò a fissare attraverso il parabrezza la strada che correva da-
vanti a lei. Ma Lee aveva ascoltato. E aveva capito molto bene il significato nascosto delle parole di Wayne. Era una serata calda e umida ma sentì che le dita sul volante gli diventavano improvvisamente gelide. Ce ne sarebbero stati altri. Era questo che stava dicendo. Questo era il significato nascosto. La donna non sarebbe stata l'ultima. Wayne aveva appena cominciato. 14 Erano ormai trascorsi quattro giorni e Susan si dispiaceva per lui. Al lavoro di tanto in tanto aveva pensato a Wayne, dandosi della stupida dopo ciò che le aveva fatto ma poi ricordando anche alcune delle cose che altre volte le aveva detto e le dispiaceva per lui, si sentiva un po' colpevole. Per esempio di quando suo padre, ormai morto da quindici anni, lo chiudeva all'interno del camioncino mentre lui passava il tempo, magari tutto il giorno, a bere nei bar della zona. Di come si fosse liberato del primo e unico cane di Wayne portandolo dal veterinario. «È un cane che ammazza gli uccelli e quindi deve morire», gli aveva detto. Il padre di Wayne aveva la mania degli uccelli, sistemava beccatoi dappertutto, e il cane aveva staccato alcune penne di uno storno. Wayne non aveva avuto vita facile con suo padre. Secondo lui, sua madre era praticamente una santa. Ma suo padre era tutta un'altra cosa. Non che lei lo scusasse. Non esattamente. Ma pensava che sarebbe stato giusto dargli la possibilità di spiegarsi. Cosa che non gli aveva lasciato fare quel giorno. Era troppo spaventata e furiosa. Sapeva che ad alcune persone piaceva fare ciò che Wayne aveva fatto a lei. Lo facevano sempre. C'era anche un nome per quel genere di azione. Dicevano che se non riuscivi a respirare a volte l'orgasmo era migliore, più forte. Il suo era stato piuttosto intenso. Finché era durato. Finché non aveva avuto paura di lui. Sentiva ancora la sensazione delle mani intorno alla gola. Non riusciva a dimenticarla. Eppure...
Non gli aveva dato la possibilità di spiegarsi. Forse aveva voluto fare un esperimento. Lei avrebbe sempre potuto mettere in chiaro che non era quella la sua idea di divertimento. Poteva almeno dargli la possibilità di parlarne. Ma le era ancora difficile chiamarlo. Era difficile sapere che cosa doveva fare. Seduta sul divano del suo appartamento, osservava la luce del lampione in strada che continuava ad accendersi e spegnersi. Evidentemente la lampadina stava per fulminarsi. Era una pazzia anche solo pensare di telefonargli. Perché magari non aveva voluto fare un esperimento. C'era anche quella possibilità. Però aveva anche vissuto momenti molto belli con lui. Tanti. Nella vita Susan non aveva avuto molti ragazzi, anzi veramente pochi, e nessuno di loro sapeva essere premuroso quanto il Wayne dei momenti migliori. Chi mai si sarebbe presentato allo studio del dentista, preoccupato che lei avesse una brutta reazione alla novocaina, per offrirle un passaggio? E chi le avrebbe mandato dei fiori per il giorno della mamma anche se lei non era madre di nessuno, grazie al cielo, dicendo che era «un investimento per il suo futuro»? Lei aveva riso e aveva risposto che in un certo qual modo era sì una mamma, si stava già occupando di lui, e Wayne non l'aveva presa male, era scoppiato a ridere. Ma c'era un fondo di verità. In quella storia della madre. Forse era proprio per questo che voleva telefonargli. Lei non era esattamente una bellezza. Da ragazzina era stata grassa e si potevano ancora notare tracce di quella tendenza, soprattutto intorno al sedere e alle cosce. Aveva il naso un po' troppo lungo. Il mento sfuggente. Certo, sapeva come attrarre un uomo in caso di necessità, ne aveva avuto le prove, non era quello il problema. Ma aveva scoperto che adesso non ne sentiva più tanto il desiderio. Probabilmente vi era qualcosa in Wayne che risvegliava il suo lato materno. Qualcosa che lei non percepiva negli altri ragazzi. Un bisogno di aiuto. Una solitudine. Quasi una fame di rapporti umani. Compose il suo numero. Provò altre quattro volte, pensando che non esisteva al mondo niente di più malinconico di un telefono che continua a squillare a vuoto. C'era sempre il bar più tardi. Avrebbe potuto telefonargli là, se avesse voluto.
Si chiese se avrebbe voluto. Si chiese anche se lui non avesse già trovato qualcun'altra. Qualcuno per sostituirla. Erano trascorsi solo quattro giorni ma non era da escludere. Wayne poteva risultare simpatico ed era anche attraente, nonostante non sapesse vestirsi. Perlomeno questa era la sua opinione. E se aveva già un'altra, avrebbe lasciato perdere, avrebbe accettato la cosa, o avrebbe lottato per riconquistarlo? Non lo sapeva. Forse più tardi lo avrebbe chiamato al bar. Pensò a Wayne tutto solo. Che sentiva la sua mancanza ma era maledettamente troppo orgoglioso o imbarazzato per telefonarle. Pensò a lui insieme con un'altra donna. Difficile dire quale fosse la cosa peggiore. Magari lo avrebbe chiamato. Aveva tutto il tempo che voleva per pensarci. Forse poteva tentare. Forse valeva la pena tentare. Non sapeva proprio. 15 Covitski riagganciò il ricevitore e scrollò la testa con aria stanca. Si alzò. Fu un'operazione lenta per via del suo peso. «Non ci crederai», commentò rivolto a Rule. «C'è stata una sparatoria sulla I-89. Una donna su una giardinetta. Finirà mai questa giornata di merda?» Rule lo guardò. «Stai andando a vedere?» «Già. Come se non avessi nient' altro da fare.» Rule sapeva bene di che cosa stava parlando. Era stata una giornata molto lunga per entrambi. Covitski era rimasto al torrente per il caso Gardner fino alle sei. Ma non avevano scoperto niente e quindi l'indomani avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo. Inoltre Covitski doveva occuparsi di più di una mezza dozzina di casi e ora anche di questo. Come tutti gli altri, anche loro in quei giorni erano a corto di personale, pieni di lavoro come tante scatolette di carne. «Covitski, hai tutta la mia comprensione. Penso che mi manchino un paio di casi per arrivare a una dozzina tonda.» Diede un'occhiata ad alcune pagine del caso Wourmouth. «Questo per esempio. Io adoro questo caso. Chi diavolo poteva immaginare che una semplice lite domestica si sarebbe trasformata in questa massa di carte?»
Covitski scoppiò a ridere. «Succede. Quando a litigare sono il marito, la moglie, l'amante di lui, due cugini e un nonno ottantenne e ubriacone.» «Hai ragione. Comunque, buona fortuna. Chi è la vittima?» Covitski consultò il proprio blocco. «Morris, nome di battesimo Deanna. Sposata. Nome del marito Carl. Colpita da due o forse tre pallottole. Bionda, circa trent'anni. Guidava una giardinetta Ford blu del '91.» «Qualche indizio?» «No. Nessuno.» «Già. Be', di nuovo buona fortuna.» «Mmm.» «Era appena uscito dalla porta quando il telefono squillò. La linea di Covitski. Ma Rule rispose lo stesso. Era ancora concentrato sul caso Wourmouth, ma poi sentì ciò che stava dicendo l'uomo all'altro capo del filo. La sua voce era spaventata e nervosa e Rule comprese immediatamente la situazione. Quell'uomo avrebbe voluto riagganciare. Ma non aveva ancora il coraggio di farlo. Presto lo avrebbe trovato. Il che stava a significare che Rule doveva lavorarselo con molta attenzione. L'uomo pensava di avere assistito a un omicidio. O più precisamente, l'omicidio doveva essere stato appena compiuto. Con molta calma, usando un tono di voce gentile e rassicurante, Rule riuscì a farsi dare il nome e l'indirizzo dell'uomo, il luogo dove si era verificato il fatto, una descrizione di ciò che aveva visto, l'ora e diversi altri particolari. Una volta calmatosi, l'uomo al telefono si rivelò dotato di ottima memoria. Aveva anche preso parzialmente nota, GO qualcosa, della targa di una Volvo rossa del '93 parcheggiata lungo l'autostrada. Aveva anche visto un uomo snello, capelli scuri, camicia bianca, struttura media, poco più di trent'anni, salire sul sedile posteriore della Volvo. Alla guida dell'auto vi era un uomo leggermente più anziano e, accanto a lui, una donna dai capelli scuri. Capelli lunghi. Era snella e attraente. I capelli del guidatore erano piuttosto radi. Rule prese nota di tutto anche se le telefonate venivano regolarmente registrate. Ringraziò l'uomo e gli chiese di fargli pervenire una dichiarazione scritta l'indomani mattina. Poi pensò, bene. Che cosa abbiamo?
Covitski aveva un indizio. E questo era certo. E forse l'aveva anche lui. Non che c'entrasse davvero. Anzi, apparentemente non aveva nulla a che fare ma, quando l'uomo gli aveva descritto la coppia, l'uomo e la donna, seduti sul sedile anteriore, lui aveva avuto una strana sensazione. Si alzò e andò a versarsi una tazza di caffè nero, denso e disgustoso nella tazza di Disneyland, ricordo del Magic Kingdom, della calda California, e poi chiamò Covitski. 16 «Io sarei pronto per un altro», esclamò Wayne. «Ci state anche voi questa volta?» Come se stesse parlando di un secondo bicchiere di gin. «Tutto ciò che voglio è andarmene da qui, Wayne», rispose Lee. «È quello che vogliamo tutti e due. E tu lo sai bene.» «Perché? Sentite, ne facciamo un altro e poi vi lascio da qualche parte. Me ne andrò. Lo giuro.» Se ne stavano seduti nel parcheggio di McDonald's e Carole li ascoltava, non riusciva a credere che potessero conversare tranquillamente di una cosa del genere, con Wayne che parlava tra un boccone e l'altro di hamburger. L'odore all'interno dell'auto era disgustoso. Unto, cipolle. Carne. Teneva il finestrino abbassato ma non tirava un alito di vento. L'aria della sera era immobile. La notte era sazia. Le auto passavano accanto a loro dirigendosi verso lo sportello del drive in. Wayne succhiava rumorosamente da una cannuccia. tè freddo al limone. Avrebbe potuto richiamare l'attenzione di qualcuno. Qualcuno che passava da quelle parti. Avrebbe potuto scendere con un balzo dall'auto e mettersi a correre. Le avrebbe sparato. Avrebbe sparato prima ancora che lei mettesse il piede fuori della portiera. Prima ancora che lei avesse terminato di urlare. A lui non sarebbe importato affatto. Voleva piangere. Voleva una pistola. Continuava a rivedere nei più piccoli dettagli la morte di quella donna, così come era avvenuta. I fiotti di sangue che sgorgavano dall'indice. Gli occhi che si chiudevano con uno sguardo di traverso (per non vedere il male). La donna in ginocchio, che si dissanguava sull'asfalto. Che perdeva l'e-
quilibrio. Che crollava. A terra. Accartocciata. Un involucro pieno di morte. Mio Dio quella povera donna così giovane. «E allora perché non ci lasci adesso?» stava dicendo Lee. Come se da quell'uomo ci si potesse aspettare una reazione ragionevole. «Lasciaci qui. Poi tu vai a fare... qualsiasi cosa tu voglia fare.» Wayne lo guardò scrollando la testa come se Lee fosse stato il fratello scemo di qualcuno. «Compagnia», spiegò masticando un boccone di hamburger. «Ricordi, Lee? Compagnia. Ricordi cosa ho detto? È bello stare con qualcuno che sa come ti senti. È la cosa migliore del mondo.» Scoppiò a ridere. «Be', quasi la migliore.» «Noi non abbiamo la benché minima idea di come tu ti senta, Wayne.» «Certo che sì.» Sembrava quasi timido. Vi era qualcosa di grottescamente innocente in lui. Come se davvero si fosse trattato di un ragazzino colto a commettere un peccato di cui non ha nemmeno compreso il significato. Non desiderare la donna d'altri spiegato a un bambino di tre anni. Mamma! Cosa vuole dire desiderare? Cosa vuol dire altri? Cosa vuol dire donna? Solo che lui non era un bambino e la parola in questione era molto semplice. La parola era omicidio. Carole pensò a Howard. Quasi le sembrava di sentire ancora il peso del masso alto sopra la propria testa. Semplice? Lo era davvero? Sì, pensò. A guardare bene le cose, sia per lei sia per Wayne era qualcosa di semplice. Lei sapeva ciò che aveva fatto. E anche Wayne lo sapeva. Il problema era che lui non provava altro che eccitazione, come un ragazzo che si trovasse a essere il protagonista del proprio film. Non sente nulla. Non ha la benché minima cognizione di ciò che fa. Ascolta cosa dice. «Cioè», stava dicendo. «So che non è lo stesso per tutti. Per ciascuno è diverso. Vedi Lee, non voglio dire che tu sappia esattamente come mi sento. Non è neanche necessario. Ma mi piace l'idea che voi due siate testimoni, capite quello che voglio dire? Nel vero senso della parola. Rendere testimonianza, capite? Una cosa così. E, al diavolo, non potrei avere testi-
moni migliori. Vedete, voi ci siete passati. Almeno fino a un certo punto sapete che cosa provo.» Carole non riuscì più a controllarsi. Basta, pensò. «No», sibilò. «Non lo sappiamo. Che cosa provi Wayne?» Il tono della sua voce era gelido e cattivo esattamente come aveva voluto che fosse. Ma lui sembrò non notarlo. «È incredibile», commentò. «So che sei ancora arrabbiata con me e non ti biasimo perché, diciamocelo, ti ho proprio spaventato. Ma entrambi sappiamo di cosa sto parlando anche se non lo ammetterai mai, perché l'hai provato anche tu, ti ho vista con quel masso e devi aver provato la stessa cosa. Ecco, stavi facendo esattamente quello che dovevi fare. Era tutto giusto. Dovevi liberarti di Howard. Ti sembrava giusto liberarti di Howard perché era un figlio di puttana, e allo stesso tempo era la cosa più importante che tu avessi mai fatto in vita tua. Non ho ragione? Cioè, a che cosa puoi paragonarlo? A una sciata? Al sesso? A una vacanza in Europa?» Scoppiò a ridere. «È ridicolo! Non può essere paragonato a nient' altro.» Rimase un attimo in silenzio. «Penso si tratti di un segreto», riprese poi. «Secondo me è un segreto molto importante che ci tengono nascosto. Non vogliono che ne veniamo a conoscenza a meno che non ci sia una guerra o qualcos'altro allora in quel caso, certo, vogliono che tu lo sappia perché così ti metterai ad ammazzare la gente e continuerai a farlo divertendoti come un matto. Ma a parte questo caso, non ti dicono niente. È il loro segreto. Di come ci si senta bene. Capito?» Non aveva senso discutere con lui. Non aveva senso parlare. Wayne riusciva a sfinirla. Carole osservava le auto che si fermavano davanti allo sportello. Ragazzi innamorati. Famiglie. Amici. Per favore un hamburger, una coca cola e patatine fritte, grandi. Tutto così terribilmente normale. Fuori di quell'auto vi era un mondo fatto di normalità. O, chi poteva dirlo? forse questa era la normalità, forse per tutta l'America circolavano auto piene di pazzi furiosi. Che belva feroce... In ogni auto conversazioni come questa. Ripensò ai pugni di Howard. Anche lui era riuscito a sfinirla. Lei sapeva che ci si poteva abituare a tutto. Dopodiché, diventava normale. Si chiese se la segretaria di Lee non fosse rimasta perplessa vedendo che lui non tornava in ufficio, che non aveva telefonato.
Lo sperava davvero. Si era fatto buio. Gli alti lampioni del parcheggio diffondevano la luce ambrata attraverso una leggera foschia. Sembrava un tramonto sul day after della terza guerra mondiale. Un cielo nucleare. Al di là del parcheggio, vedeva i fari delle auto sfrecciare lungo l'autostrada immersa nel buio. Doveva assolutamente raggiungere un telefono. Chiamare Rule. Qualcuno. Sarebbe stato bello poter confessare. Sarebbe stato normale. Sentì che accartocciava l'involucro dell'hamburger e lo infilava nel sacchetto. «Ti prego. Lasciaci andare», implorò. «Lasciaci tornare indietro.» Anche se si sentiva svuotata, valeva sempre la pena di tentare. Lui rimase in silenzio, a lungo. Sembrò quasi che ci pensasse sopra. «No», rispose infine. «Non voglio. Devi cercare di vedere la cosa dal mio punto di vista, Carole. Mi dispiace. Ancora uno. È molto importante per me. Poi, vedremo.» «Non puoi fare una cosa del genere, Wayne. Hai ammazzato una donna innocente.» Scoppiò a ridere. «Certo che posso. Guarda noi tre. Vedi, è proprio questo che non ti dicono mai. Tutti possono. Ognuno di noi può. «Questo è un paese libero.» *** Erano tornati sulla 89 Sud. Wayne voleva che attraversassero il confine della contea del New Hampshire per entrare in quella di Hanover. Che cosa c'è nell'Hanover? aveva chiesto Lee. «Dartmouth», aveva risposto Wayne scrollando le spalle, come se questo spiegasse qualcosa. E Lee aveva pensato: sì, Dartmouth. Una città universitaria, piena di poliziotti. Forse non era una cattiva idea. «So quello che stai pensando», disse Wayne. Lee era realmente in grado di sentirlo sorridere alle sue spalle. Stava cominciando a percepire quell'uomo. «Pensi che una volta arrivati là potresti lanciare la macchina contro un albero, o qualcosa del genere, richiamare l'attenzione su di noi. Non ho ragione?» Sarà stato anche pazzo ma non era scemo. Anche se quello che Lee aveva avuto in mente era più che altro di andare a strisciare un'auto parcheg-
giata nel centro della città. «Ma prova a pensare, Lee. Pensa. Ricordi ciò che ho detto? Circa il fatto che voi eravate le ultime persone al mondo a cui avrei voluto fare del male?» Rise. «È proprio vero. Voi siete le ultime due persone. Capito?» I cambiamenti di umore si susseguivano in lui nel giro di pochi secondi. La sua voce si fece intensa e seria. «Lo considererei un tradimento. Tu no? Io sparerei, Lee. E non smetterei di sparare. Vi svuoterei addosso questo cazzo di pistola e non ci penserei due volte.» Poi tornò a ridere. «Gente, che cosa ho da perdere?» Infatti, che cosa. Lee credeva di sapere che cosa significava perdere fino a quando aveva conosciuto Wayne. Ma Wayne agiva a un livello totalmente diverso. Lee era nato subito dopo la guerra, a quasi un anno di distanza dalla bomba su Hiroshima. La madre era morta di cancro alle ossa quando lui aveva sei anni. Ricordava solo una donna dal volto cinereo che, temendo di rompersi qualche altro osso, si voltava appena nel letto per alleviare il dolore provocato dalle piaghe da decubito. In seguito suo padre aveva fatto del suo meglio. Era diventato adulto, come si suol dire, verso la fine degli anni Sessanta. Frequentava la scuola a Boston quando i figli dei fiori invasero le strade di Beacon Hill e per tre mesi quell'estate, l'estate del 1967, l'Estate dell'Amore, lo stesso folle ottimismo sembrò diffondersi come una benedizione fra tutti coloro che abitavano là, come una specie di permanente stato di allucinazione dell'anima che entrava nel sangue indipendentemente dal fatto che si assumesse LSD o no. Erano giovani. Sarebbero riusciti a cambiare il mondo con la sola forza del loro stile. Nuovi apostoli dalle magliette stinte che rivelavano la Parola ai più anziani, ormai senza fede e stanchi di vivere. E naturalmente la parola era Amore. Finita l'estate, Lee si dedicò per due anni all'insegnamento in una scuola superiore, trasmettendo ai propri allievi, ogni volta che gli era possibile, gli stessi ideali semplici e per lui ovvi che aveva abbracciato nel periodo trascorso a Hill. Come tanti altri, anche lui impiegò molto tempo prima di rendersi conto che la rabbia, la manipolazione e l'avidità si erano già impadroniti di quegli ideali e li avevano talmente trasformati da renderli irriconoscibili. Era avvenuto tutto molto in fretta. L'amore era diventato collera, collera
per le sparatorie alla Kent State, per la morte di Martin Luther King. Esaltarsi significava solo droghe pesanti e distruzione. La pace combatteva con la guerra, ci si doveva far picchiare con un manganello durante le Marce per la Pace solo perché un ventenne foruncoloso a capo della manifestazione, che diceva di dormire con Il capitale e che si consumava leggendo le poesie di Mao, aveva deciso che sarebbe stato un atto politicamente molto astuto lanciare una bomba incendiaria contro un'auto della polizia e ottenere, per reazione, qualche testa rotta giusto in tempo per il notiziario della sera. Se non sbagliava era stato Roger Corman a dichiarare in quegli anni che se avesse in qualche modo potuto infilare la parola perdenti nel titolo di ciascuno dei suoi film, avrebbero tutti guadagnato milioni di dollari. Aveva visto bene. Da allora in poi furono tutti dei perdenti, degli idealisti falliti che avevano visto la luce quell'estate e che poi avevano visto quella stessa luce trasformarsi in nulla. Aveva cominciato a drogarsi. Era il suo modo di dimenticare. Successivamente era passato ai liquori. Assistette suo padre quando morì. E alla fine si disse, al diavolo. Ora nelle strade marciavano i sostenitori del Diritto-alla-Vita che dicevano al mondo intero esattamente che cosa fare del proprio corpo e delle proprie anime. Al diavolo. Entrò nel campo immobiliare. Ovvero l'arte di vendere troppa terra per un importo troppo alto a gente che alla fine chiederà di vendere la stessa terra per un importo ancora più elevato a persone che comunque non se lo potranno permettere. Era entrato in quel giro. E in seguito, in quello di Carole. Non poteva più cambiare il mondo, almeno non poteva più migliorarlo, ma poteva sempre cambiare la vita di qualcuno, e lui si era accontentato di questo. Anche quello che avevano fatto, quello che si erano sentiti costretti a fare, irrazionalmente e al di là di qualsiasi speranza di riuscita, ora se ne rendeva conto, anche con gli incubi e i ricordi che probabilmente si sarebbe portato dietro per sempre, non ripudiava la decisione presa. Wayne, rilassato sul sedile posteriore dell'auto, aveva esclamato, che cosa ho da perdere? Lee si pose la stessa domanda. Per lui la risposta era facile. Questa era la differenza fra loro due. Vita. Libertà. Senza dimenticare la maledetta Ricerca della Felicità. Aveva già ucciso un uomo per tenersi strette queste cose e lei. Non se ne
pentiva. Anche se adesso, in un modo o nell'altro, sarebbero stati scoperti, aveva tentato. Non aveva funzionato. E allora? Non si doveva arrendere. Continuava a desiderare che in qualche modo funzionasse. Continuava a insistere perché non si sa mai. Non doveva lasciar perdere. Ammetteva che con gli anni era diventato piuttosto freddo, si teneva sempre un po' a distanza. Amava Carole, per il massimo di cui era capace di amare. Di questo era certo. Non era una questione di denaro o di lusso. Il problema era che nel tempo aveva scoperto, grazie a un considerevole numero di amanti, che ci si poteva distruggere con la passione allo stesso modo che con la droga, l'ottimismo o qualsiasi altra cosa. Poteva accadere. E una volta accaduto era per sempre. Per questo motivo, anche quando nella propria vita compariva qualcosa di indiscutibilmente buono, si tendeva a mantenere una specie di riserva. Si cercava di ricavarne comunque tutto ciò che poteva dare, come fosse stata una miniera. Questo senz'altro. Ma si tentava anche di mantenere una certa distanza. Perché, con il tempo, le miniere tendono a crollare e in questi casi è molto meglio trovarsi seduti in cima piuttosto che all'interno. Allora rispondi alla domanda, pensò. Che cos'hai da perdere? Tutto ciò che è rimasto. Ecco che cosa. E non era certo niente. Il cartello inidicava HANOVER DARTMOUTH UNIVERSITÀ e lui si immise sulla 91. Erano ormai vicini alla città. Avrebbe cercato di trovare un modo per liberarsi di Wayne. Si sarebbe impegnato con tutte le proprie forze. Ma non aveva intenzione di morire per questo. Per l'omicidio di Howard si poteva ricorrere all'infermità mentale e, se l'avvocato era abbastanza in gamba, si poteva anche essere creduti. Ma con un proiettile non ci si poteva appellare a nulla. La donna era caduta a poco più di un metro da lui. Le aveva visto la fede al dito. Se Wayne era veramente furbo e attento e se davvero voleva stare con loro, Lee non si sarebbe opposto. Erano le pistole a decidere. E quello che decidevano le pistole era sempre giusto. Così andava il mondo. L'eroe in lui era morto da molto tempo.
Riposi in pace. Tommy Brown avanzava lungo la Allen Street, diretto al Balloon, dove tenevano piante in vaso davanti alla vetrina e dove costava troppo bere qualcosa, odiava quel posto, ma non aveva alcuna intenzione di bere birra in quel locale, doveva solo restituire quelle tre interessantissime copie di Taboo a Greg McCallum che lavava i piatti nel retro. I numeri quattro e cinque e Taboo Especial. Aveva letto ciascuna rivista almeno un paio di volte e quella che gli era piaciuta di più era stato il numero quattro. Ma anche gli altri numeri erano molto interessanti. Faceva caldo. Troppo caldo per affrettarsi. Se la prese comoda. Le ginocchia nodose che spuntavano dai buchi nei jeans. Gli occhiali dalla montatura in metallo riparati con nastro isolante. Le tre enormi riviste di fumetti che ondeggiavano avanti e indietro in fondo al braccio. Se avesse saputo che il tizio della Volvo lo aveva scambiato per uno studente per via degli occhiali e dei libri, probabilmente avrebbe trovato la cosa molto divertente. Tommy odiava cordialmente gli studenti (sembrava che avessero tanto denaro da non sapere come spenderlo, facevano salire il prezzo di una birra molto più di quanto fosse ragionevole e rendevano quasi nulla la disponibilità di ragazze libere). Stava quasi per svoltare, pensando che forse avrebbe potuto convincere Greg a staccarsi per qualche giorno dalla sua collezione di Cry for dawn, quando l'auto rallentò accanto a lui e un uomo si sporse dal finestrino, e Tommy pensò che avevano bisogno di un'indicazione stradale. Si fermò, era quasi sempre pronto ad aiutare chi chiedeva informazioni, anche se si trattava di uno studente. Era molto bravo in questo. Aveva un perfetto senso dell'orientamento e conosceva il nome di tutte le strade in un'area di diversi chilometri. Vide la pistola solo per un attimo, uno scintillio metallico sotto la luce del lampione, prima che il proiettile della 357 Magnum esplodesse attraverso la lente destra degli occhiali, polverizzandola, liquefacendo l'occhio, trapassandogli il cervello e, dopo essere uscito dalla parte posteriore della testa come un treno deragliato, attraversò a tutta velocità il parcheggio alle sue spalle. Cadde a terra, e le riviste caddero con lui e si ruppe proprio la rilegatura del numero quattro di Taboo. La sua preferita. Se lo avesse saputo, questo lo avrebbe sconvolto. Rispettava ì libri più di quanto rispettasse gran parte della gente che co-
nosceva e stava sempre molto attento agli oggetti che gli venivano prestati. «Sei pazzo! Sei un maledetto pazzo! Fammi scendere di qui!» «Nessuno dei due si muova!» Wayne le teneva la pistola premuta con forza sotto la nuca e lei stava tentando di scappare, ma non riusciva a trovare sul pannello il maledetto bottone per aprire la portiera e la canna della pistola, il metallo duro della pistola, le si conficcava nella carne. Salta! Salta! «Rimani dove cazzo sei, Carole! Rimani dove sei!» «Carole! Per favore! Ehi. Non...» Lee stava cercando di guidare, cercando di portare l'auto oltre l'angolo della strada, di fare ciò che Wayne gli aveva detto, tentava di restare calmo e di calmare anche lei perché non c'era nulla che potevano fare, soprattutto nulla che potevano fare adesso, lei lo sapeva, non c'era nessuno intorno, neanche un poliziotto in vista e lei lo sapeva ma doveva anche uscire di lì quella era pura follia. Doveva andarsene! Poi la mano di Wayne l'afferrò per i capelli facendole male, tirandole indietro la testa, la pistola premuta con forza contro la sua guancia. «Guida! Guida, maledizione!» Carole sentiva ancora il rumore, un suono pesante e piatto, le rimbombava in testa tanto che riusciva a malapena a sentire le parole di Wayne e anche la propria voce, era come il cupo rombo di un tuono all'interno di un'auto minuscola che all'improvviso le sembrò ancora più piccola di quanto non fosse stata un secondo prima, l'auto riempita dal peso fisico di quel suono che li schiacciava contro gli angoli come la mano di un'invisibile divinità maligna che li teneva separati e riempiva gli spazi con il dolore e lo choc. Sentiva l'odore della polvere, densa, pesante, pungente, che usciva dalla canna della pistola. Un profumo di morte che entrava rapido e sicuro dentro di lei attraverso il naso attraverso la bocca attraverso gli occhi facendo sgorgare lacrime, continuava a entrare. «Svolta qui. Torniamo sulla 91. Avanti!» Il ragazzo era solo un ragazzo. Solo un bambino. A chi sarebbe importato? A chi sarebbe dispiaciuto? Chi l'avrebbe saputo? «Torniamo di nuovo sulla 89 Nord.» «Di nuovo?» Lee ora appariva confuso oltre che scosso.
«Sì. Indietro.» «Non...» «Non ti preoccupare. Continua a guidare. Stai calmo, Lee e guida. Stai andando benissimo.» Staccò la canna della pistola dal collo di Carole. Poi si rilassò. Il traffico non era molto intenso. Nessuna sirena ululava nella notte. Nessuna luce lampeggiante. Nessun inseguimento. Niente punizione. E niente penitenza. Era come se non fosse mai accaduto. Il ragazzo era lì. E poi non c'era più. Non erano mai nemmeno stati in quella città. Carole pensò che stava diventando pazza, che era così che si impazziva. Per molto tempo nessuno parlò. Per quanto tempo? Un'ora? Non lo sapeva. Era certa che fosse trascorsa un'ora. Forse di più. Le fischiavano ancora le orecchie, sentiva ancora una pressione sui timpani. Poteva ancora avvertire una lieve puzza di polvere da sparo. Si chiese se la pistola le avesse danneggiato l'udito per sempre. Arrivò quasi a sperarlo. Fari. La strada davanti a loro. Nient'altro. Erano tornati sulla I-89. Qui il traffico era più intenso e Lee procedeva lentamente. Le auto li sorpassavano. Auto piene di sconosciuti. Le sembrava quasi di percepire il suo allontanarsi con la mente, il suo sognare dietro di lei, sul sedile posteriore. Un sogno a occhi aperti, non stava dormendo. Non erano tanto fortunati. Stava rivedendo le sequenze di quella serata come un film in un videoregistratore. Avanti. Rallenta. Stop. Lo odiava. Non aveva mai odiato nessuno prima di allora. Non che lei ricordasse. Nemmeno suo padre. E avrebbe avuto ottime ragioni per farlo. Non aveva odiato nemmeno Howard, sebbene Dio sa quanta rabbia avesse provato. Ma nella maggior parte dei casi aveva avuto paura di Howard, paura di come lui la faceva sentire. Inerme. Persa. Intrappolata. Come se si trovasse su una buia rampa di scale che non conduceva da nessuna parte ma che continuava a salire all'infinito, alla fine, stanca, cadeva in ginocchio e cominciava a ruzzolare senza mai smettere, e senza mai arrivare da nessuna parte.
Ecco perché era morto. Perché non voleva andarsene. E anche quello che lui le faceva sentire non se ne andava mai. Ma quest'uomo. Quest'uomo lei lo odiava. Aveva scoperto che l'odio era qualcosa di fisico, era azione, non soltanto qualcosa di astratto. Le sembrava che non vi fosse nulla di passivo in quel sentimento. Ci voleva energia, concentrazione. Se ne stava seduta lì e modellava il proprio odio come un pezzo d'argilla, dandogli la forma di qualcosa di duro, reale e riconoscibile, poi lo reimpastava in qualcosa di morbido in modo che lui non l'avrebbe mai potuto vedere né conoscere, e poi di nuovo lo riportava in vita con contorni precisi. Come i fari delle auto che si allontanavano, i loro guidatori che non vedevano, non sapevano. Era mascherata. Velata. Non aveva un luogo dove portare il proprio odio e quindi se lo teneva stretto e aspettava. «Questa uscita», indicò Wayne. In cima alla rampa sorgeva un Comfort Inn. Nuovo e bene illuminato. «Qui», ordinò. «Qui?» «Esatto. Oltrepassa il bar, lo vedi? Poi entra nel parcheggio sul retro.» Vi erano soltanto tre auto parcheggiate davanti alle due file di camere che si affacciavano sul retro del motel. In quel periodo dell'anno i clienti erano piuttosto scarsi. Anche nel parcheggio davanti al bar e al ristorante Carole non aveva visto più di una mezza dozzina di auto. «Parcheggia dove vuoi.» Lee accostò e fermò l'auto. «Dammi le chiavi», ordinò Wayne. Lee gliele consegnò. Voltandosi, Carole notò che ancora una volta Wayne stava utilizzando la sua giacca per nascondervi la Magnum. «Un attimo di riposo», esclamò sorridendo. Scesero e Wayne indicò loro di avvicinarsi alla parte posteriore dell'auto. Teneva la pistola puntata contro Lee mentre apriva il portabagagli, estraendone una valigetta marrone in finta pelle. Poi lo chiuse e infilò la mano in tasca. Sorridendo di nuovo, ne estrasse un altro mazzo di chiavi. La targhetta indicava COMFORT INN. «Ci avevi già pensato?» «Prevedere sempre tutto, Lee. Ecco qua. È al piano di sopra.»
Si infilò in tasca le chiavi dell'auto, prese la valigetta e si fece precedere sulle scale, attento a rimanere piuttosto indietro. Faceva bene a stare attento. L'impulso di dargli un calcio o anche solo di buttarglisi addosso e spingerlo con tutte le forze, di vederlo cadere e sanguinare, era come un gusto di liquirizia nella bocca di Carole. «Alla vostra destra. Numero 233.» Aprì la porta. Entrarono. Due letti matrimoniali, un televisore, una scrivania e un cassettone. Un bagno con una porta in fondo. Un lavabo sormontato da uno specchio e uno spogliatoio. Le solite cose. «Accomodatevi, ragazzi.» Si sedettero uno accanto all'altro sul letto più vicino allo spogliatoio. L'aria della stanza odorava di muffa. Che bello un letto. Che meraviglia. Carole si rese conto di essere molto stanca. Avrebbe potuto addormentarsi immediatamente su quel letto. Rannicchiarsi con il suo odio e dormire. Avrebbe potuto dormire per ore. Wayne tirò le tende a quadri. Accese la lampada centrale. Appoggiò sull'altro letto la valigetta e l'aprì davanti a loro, voltata in modo che vedessero ciò che conteneva. Tutta la sonnolenza scomparve all'improvviso. Si dileguò all'istante. Carole fu colpita dal bagliore metallico di un paio di manette appoggiate in cima agli indumenti gettati alla rinfusa, vide le pinze, il coltello da cucina, il martello, il grosso rotolo di filo di ferro. Vide l'espressione del suo volto che ora non appariva più sorridente né divertito ma molto serio, e la pistola sollevata, puntata contro di loro. «Che cosa vuoi?» mormorò. È ovvio, diceva l'espressione di Wayne. «Voglio di più», rispose. 17 A volte Rule pensava che la sua vita si fosse ridotta solo a lavoro, birra e televisione, con la visita settimanale a Marty e qualche pausa per mangiare come unico diversivo. Di tanto in tanto riusciva a scuotersi dall'apatia e andava a vedere la casa di bambole nel garage. Ma da quando se n'erano andate sembrava che quel lavoro avesse perso gran parte del suo interesse. O forse era solo riluttante all'idea di vederla finita. Quale che fosse la ra-
gione, la sua opera languiva. Quella sera se ne stava seduto con in mano la seconda Amstel e stava guardando Furia cieca con Rutger Hauer. Hauer era privo della vista ma in contatto con la Forza, o qualunque cosa fosse, e in quel momento stava attraversando un campo di grano. Grazie a un unico colpo sferrato con la spada che teneva nascosta nel bastone, aveva appena finito di ammazzare uno dei cattivi, che stavano inseguendo il figlio del suo amico. E ora stava giocando al gatto con il topo con l'altro. Rule aveva visto il film già due volte ma era una storia talmente avvincente che si mise comodo e aprì la lattina di birra, mentre Hauer, protettore dell'innocenza, usciva dalle alte e ondeggianti spighe di grano. Era cieco ma riusciva a vedere tutto. Squillò il telefono. «Sei fuori servizio, Covitski. E anch'io. Che cosa siamo, fidanzati o qualcosa del genere, che mi telefoni?» «Sei molto testo, Rule. Sai cosa significa testo? Che hai troppo testosterone. Ti rende aggressivo. Con l'età stai diventando aggressivo. Ti stanno crescendo dei peluzzi bianchi nelle orecchie. Adesso devi prendere un paio di pinzette e strapparti quei peluzzi bianchi. Quello che sto per dirti ti interesserà.» «Ne sei certo?» «Ha telefonato lo studio del medico legale.» «Non è possibile. Hanno già finito?» «No. Non fino a domani. Il fatto è che hanno qualcosa. Volevano farcelo sapere immediatamente, magari per darci qualcosa a cui pensare per un po'.» «Che cos'hanno?» «Impronte di denti.» «Impronte di denti?» «Esatto. Indovina dove.» «Gesù, Covitski. Sul culo. Sulla giugulare. Sul lobo dell'orecchio. Come diavolo faccio a saperlo?» «Sulle nocche.» Rule rimase un attimo in silenzio aspettando che la notizia gli si imprimesse bene in mente. «Recenti?» «Mmm mmm. Impronte di due incisivi superiori centrali e uno laterale sull'indice e sul medio della mano destra. Il nostro caro Howard aveva dato
a qualcuno un panino pieno di nocche prima di lasciarci le penne. Ora dobbiamo solo trovare qualche dente.» «Nessuna telefonata dalla moglie?» «Non che io sappia. Mi pare di capire che secondo te dovremmo cercare il convivente. Edwards. Anch'io sono di quell'idea.» «Dobbiamo sapere se qualcuno l'ha sentita.» «Telefono in ufficio e poi ti richiamo.» «Fai presto. Se non ha telefonato, vorrei fare nuovamente un salto a casa sua.» «Ti va di avere compagnia?» «Certo.» Rimase vagamente sorpreso. Covitski aveva moglie e un figlio. Ma chi poteva dirlo, forse anche lui si sentiva solo. «Dammi cinque minuti», lo salutò Covitski. Decise di lasciare perdere il resto della seconda birra. Cercò nell'agenda e compose il numero di telefono di Carole Gardner. Il film stava arrivando alla scena in cui Hauer taglia di netto le sopracciglia del cattivone. «Faccio anche circoncisioni», gli spiega. Probabilmente Rule avrebbe perso quella parte. Ma la cosa buona di un film in televisione è che, al contrario di quanto accade nella vita, si hanno sempre moltissime possibilità di mettersi in pari con ciò che si è perso. A casa Gardner non rispondeva nessuno. Si sedette, continuò a guardare il film e rimase in attesa accanto al telefono. Quattro minuti dopo squillò di nuovo. E nel giro di tre minuti la casa era abbandonata, vuota, buia e Rule era al lavoro, a fare gli straordinari, praticamente l'unica cosa di particolare che gli accadeva in quei giorni, anche la televisione taceva. Nell'etere, Hauer stava vendicando qualcosa, ma non c'era nessuno ad ascoltarlo. 18 Wayne non mancava certo di fantasia. Questo bisognava riconoscerglielo. Lee considerava fantasia il fatto di ritrovarsi seduto sul pavimento, sotto il lavabo del bagno, da solo, in posizione scomoda, imbavagliato con dei tamponi di garza fermati da nastro adesivo, i piedi incrociati all'indietro e legati alle cosce in modo che non potesse allungare le gambe e cominciare a dare calci contro la parete, i polsi ammanettati alle tubature.
Wayne non si era nemmeno premurato di staccare il telefono fra i due letti. Perché preoccuparsi? Lee non poteva scappare da nessuna parte. E non sarebbe riuscito nemmeno a fare molto baccano là sotto, anche se stava facendo del suo meglio, sbattendo le manette contro i tubi metallici e il lavabo. Cercava di gridare attraverso i tamponi di garza bagnati di saliva, ma ne uscivano soltanto rochi gemiti soffocati. Non era un gran che. Tutto questo gli faceva inoltre sprecare una grande quantità di energie. Picchiava per un po' poi doveva fermarsi. Rimaneva in ascolto, sperando che le pareti fossero sottili. Ma non lo erano. Oppure nella stanza accanto non c'era nessuno. Riprendeva fiato e cominciava di nuovo. Era tutto quello che poteva fare. Da dove si trovava riusciva a vedere la 357 Magnum posata sul cassettone, a meno di tre metri di distanza da lui. Sembrava una beffa. Aveva paura. Quell'uomo era pazzo ma sapeva il fatto suo. Proprio come quelle manette. Ogni volta che picchiava contro le tubature o contro il lavabo, penetravano ancora più a fondo nella carne. Wayne aveva dato appena un'occhiata alle manette e aveva capito benissimo ciò che Lee avrebbe tentato di fare. Il problema era, gliene importava qualcosa? O aveva contato anche su questo, sul fatto che Lee, tentando di farsi sentire, avrebbe solo peggiorato le cose? Dove erano finiti? Che cosa doveva fare con Carole? Con Carole da sola. Non aveva modo di saperlo, almeno fino a quando Wayne non avesse deciso di dirglielo. Oppure se lui fosse riuscito a liberarsi in qualche modo. Picchiava. Gemeva. Cercò di staccare quelle maledette tubature dalla parete ma senza risultato, non aveva nulla su cui fare leva. Si mise a picchiare la testa contro la vaschetta del lavabo. Una serie di tonfi sordi. Subito dopo, un gran mal di testa. Al diavolo. Continuò a picchiare. Furioso. Gesù! Che faccia di bronzo! pensò Carole. Si erano seduti a un tavolino del bar del motel, proprio davanti a loro una giovane coppia beveva cocktail; irlandese, pensò lei, la ragazza pallida
e dall'aspetto delicato, l'uomo aveva gli occhi del bevitore, il viso rubicondo. In un angolo, due uomini più anziani, capelli bianchi, bicchieri di birra davanti a sé. Al bar, una mezza dozzina di giovani e due donne. Il barista giovane, magro. Una cameriera bionda, di mezza età, che sembrava non poterne più di quel lavoro, ma che cercava comunque di sorridere, l'andatura lenta e pesante. In quel momento avrebbe potuto gridare, richiamare la loro attenzione. Poteva buttarsi a terra. Aiuto! Ha una pistola! Poteva scappare da lui. Sempre che avessero reagito abbastanza in fretta. Sempre che avessero voluto aiutarla. Sempre che Wayne non l'avesse uccisa prima che qualcuno riuscisse a portargli via la pistola, se volevano portargli via la pistola, se avessero tentato. Era comunque una possibilità. Tu per prima. Ti ammazzo per prima, l'aveva avvertita nel parcheggio. Purtroppo lei gli credeva. Aveva avuto modo di vedere che diceva la verità. Aveva davvero un'ottima mira. Guarda il rischio che si permette di correre, pensava Carole. Perché? È così pazzo? Vuole essere preso? Aveva letto di persone del genere, gente che commetteva dei crimini e poi sembrava che sfidasse la polizia a catturarli, che sembrava divertirsi a questo gioco tanto quanto a commettere il crimine in sé. Come Jack lo Squartatore che inviava un rene a Scotland Yard. O Bonnie e Clyde che spedivano fotografie ai federali e poesie ai giornali. Pazzi egomaniaci. Non siete capaci di prendermi. Era questo? Era questo il motivo per cui stavano seduti lì? La stava forse sfidando a gridare, a cercare di fuggire? Per un attimo fu tentata di stare al suo gioco. Si guardò intorno. Chi sarebbe intervenuto? Non poteva fare affidamento su di loro. Non poteva contare sul fatto che a qualcuno importasse abbastanza o che, comunque, fosse sufficientemente rapido. In quel momento si rese conto che l'uomo e la donna seduti al tavolo di
fronte al loro stavano per lasciarsi. Non sapeva perché, ma questo la colpì molto. La situazione appariva chiara dall'espressione sul volto della giovane donna, dal modo in cui lei guardava l'uomo (era tutto molto evidente) un'espressione appassionata mista a tristezza e nostalgia, una delusione mentre lo osservava cercando di guardarlo negli occhi, ma lui teneva la testa voltata, lei lo osservava attentamente e lui non lo sapeva, o probabilmente non gliene importava, fra di loro un terribile silenzio, il volto della donna teso, pallido, insignificante e all'improvviso attraente mentre si sporgeva verso di lui cercando di dirgli qualcosa di allegro, cercando di farlo sorridere. Lo sguardo di lui dapprima intenso. Arrabbiato. Poi apatico, di nuovo lo sguardo sfuggente, per dimostrarle che di qualunque cosa si trattasse, non aveva alcuna importanza. Non era soltanto una lite. Era finita. Carole notò che non portavano anelli. Allora avevano avuto una relazione. Impossibile sapere da quanto durava. Ora per lui era finita, non per lei. Se ne stava seduta in quel bar, amandolo oltre ogni ragionevolezza e speranza. Carole ne scorgeva la tristezza nella bocca, la tenerezza negli occhi. Era una sofferenza starli a guardare. Ma non riusciva quasi a distogliere lo sguardo. «Raccontami tutto», chiese Wayne. Sorseggiava tè freddo da una cannuccia, una fetta di limone che galleggiava. Raramente bevo alcolici, le aveva detto. Con orgoglio. Come se lo scotch doppio nel bicchiere di lei lo avesse profondamente deluso. Wayne con la giacca avvolta sulle ginocchia. Sotto, la pistola stretta in pugno. Un uomo con una pistola. Ancora un altro. «Scusami. Che cosa hai detto?» «Vorrei saperne di più. Per esempio, che cosa aveva fatto Howard perché in voi due scattasse la molla, se così si può dire? Quello che vi ha spinto a ucciderlo. Cioè, deve essere accaduto qualcosa.» E le sorrideva. «Non sono affari tuoi, Wayne.» «Certo che lo sono. Siamo nella stessa barca, ricordi?» «Howard è affare mio. Nostro. Mio e di Lee. Non tuo.» Il sorriso scomparve. Scrollò la testa, la fronte corrugata.
«Senti Carole, faresti meglio ad accontentarmi.» «Perché mai dovrei?» «Mi vengono in mente mille ragioni. Per esempio, un uomo nella stanza 233. Ci metterei un secondo a tagliargli la gola, giusto? Glu-glu. C'è qualcosa che perde sotto il lavabo.» «Vaffanculo, Wayne.» Ma era nelle sue mani, e lei lo sapeva. In questo non vi era nulla di nuovo. Era stato così da quando Wayne le era venuto incontro sul vialetto. Cristo! Doveva proprio fare una cosa del genere? Con lui? Il solo pensiero la disgustava. Aveva immaginato che probabilmente, un giorno o l'altro, avrebbe dovuto raccontare tutto alla polizia. La notte in cui era accaduto, stava per parlarne con Rule. E spesso aveva desiderato di avere un amico, che non fosse Lee, abbastanza caro e intimo per potergli raccontare tutto, ogni particolare, per quanto sgradevole fosse. Ma Howard era riuscito a isolarla completamente. Non aveva più amici. Solo soci d'affari, conoscenze e ombre del passato che se ne erano andate da una parte o dall'altra del paese. Da tempo non parlava più con sua sorella. Avevano troppi ricordi. Non c'era nessuno. Fino a quel momento. Fino a quella parodia. Il loro nuovo amichetto. Mai e poi mai gli avrebbe raccontato tutto. Solo quel tanto che bastava a zittirlo. Ma non tutto. «Mi legava», mormorò. «Mi violentava. E mi tagliava.» «Con un coltello.» «Sì, con un coltello.» «Nient'altro?» Lei lo fissò. Maledetto zombi. È incredibile. Esistevano davvero. Camminavano, parlavano, si lavavano i denti e andavano in bagno esattamente come tutti gli altri. «Era abbastanza, Wayne. Credimi.» «Dove ti tagliava?» «Che differenza fa?» «La differenza è che io voglio sapere. Dove ti legava, al letto?» «Sì, al letto.» «A faccia in su o a faccia in giù?» «A faccia in su, maledizione!»
«E poi ti violentava.» «Sì.» L'ascoltava attentamente. «Cosa diceva?» «Diceva?» «Sì. Che cosa ti diceva?» «Diceva che mi avrebbe lasciato vivere. Qualcosa del genere. Che se avesse voluto avrebbe potuto usare il coltello, ma che non lo avrebbe fatto.» «E poi lo faceva.» «Che cosa? Sì. Lo faceva.» «Ti mentiva.» Rivedeva tutto, risentiva ogni parola. Non ti preoccupare, non ti ammazzo, ti sto togliendo il bavaglio. Questa volta non ti ammazzo. Mentre la punta del coltello scivolava lentamente, graffiandole la pelle. Scendeva fino all'ombelico, glielo punzecchiava, poi continuava fino ai peli del pube. La lama che scivolava avanti e indietro. Risata. Potrei raderti. Il coltello che ricominciava a scorrere verso l'alto... Riprovava lo stesso orrore, e insieme una profonda umiliazione che le faceva torcere le budella. Adesso come allora, voleva piangere. Adesso come allora non piangeva. «Sì, Wayne. Mentiva», rispose. Aveva un tono di voce calmo e controllato. Bisognava conoscerla molto meglio di Wayne per sapere che cosa stesse provando. Lee l'avrebbe capito. «Quando ti violentava. Usava... qualcosa?» Carole stava quasi per scoppiare a ridere. Wayne era davvero un buffone! «Che cosa? Un preservativo? Howard?» «No. Io volevo dire, usava qualcosa...» Si sentì avvampare dall'ira. «Di che cosa stai parlando, Wayne?» sibilò. «Una maledetta bottiglia di coca cola? Il pugno? O magari un criceto? Usava il cazzo, Wayne. Maledetto stronzo pervertito!» Lui si sporse in avanti. «Attenta, Carole», l'ammonì. «Ho qui il mio libro nero», spiegò dandosi un colpetto sul taschino. «Finora ti ho lasciato fare perché so di averti spaventato parecchio. Ma non tirare troppo la corda. Ricordalo. Io stavo solo facendo una domanda. Lui ti violentava. Tu eri a faccia in su e lui usava il cazzo. Poi ti tagliava. Dove?»
«Tu non hai bisogno di saperlo, Wayne. Tu vuoi saperlo.» «È qui che ti sbagli. Io ho davvero bisogno di saperlo. Devo sapere tutto.» «Perché?» «Per poter prendere la decisione migliore.» «Riguardo a che cosa?» «Riguardo... tutto.» «Tutto che cosa, Wayne?» «Su cosa fare con te perdio!» Ecco. Finalmente. L'aveva detto. Ora era tutto chiaro. Fino a quel momento Wayne non aveva fatto altro che pensarci. «Cosa c'è che non va, Carole? Tu mi capisci, no? Non sei una stupida.» «No, Wayne. Non lo sono.» «Quindi capisci che devo decidere. Sta a te aiutarmi a decidere. Raccontami tutto. Ormai che ti importa? È finita da un pezzo. Il passato è passato.» Howard e Wayne. In fondo quei due erano così simili che Carole si sentì invadere da un'ondata di nausea per il solo fatto di dover stare davanti a lui. Il passato è passato. È finita da un pezzo. Ehi! Perché non dimentichi tutta questa storia, stronza? Sentiva ancora Howard che, quella sera, in mezzo al prato, urlava qualcosa di simile. Che diavolo ti succede? Ma il passato non era neanche vagamente passato. Non quando comprendeva la vergogna e il dolore che ancora oggi provava. Non quando sentiva ancora la lama del coltello, non la punta questa volta, la lama, che scivolava sul seno fino al capezzolo indurito dalla paura, sentiva che passando sopra la punta piatta del capezzolo gli tagliava una striscia di pelle, poi continuava, la pressione che aumentava e una sottile linea rossa appariva nel solco che divideva i seni, mentre il piacere di Howard sbocciava dentro di lei, se lo sentiva oscenamente grosso fra le gambe, poi un sobbalzo, uno zampillo, mentre la lama passava al seno destro, all'altro capezzolo, incidendo più a fondo, dividendo in due il morbido rilievo di carne, e mentre lei gridava e gridava nella notte immobile e solitaria. Wayne e Howard. Howard e Wayne. «Potrei costringerti a spogliarti. Potrei riportarti nel motel e importi di farmi vedere. E invece, ti sto solo facendo delle domande.» Quanto amavano il potere. Come si sentivano soddisfatti. «Sì, potresti benissimo Wayne. Ma non riusciresti a vedere niente»,
mentì Carole. Si accese una sigaretta. «Mi ha tagliato praticamente ovunque, se proprio lo vuoi sapere. Spalle, pancia, seni, cosce. Incisioni piccolissime. Niente di serio. Sono completamente guarite. Ma erano abbastanza, non ti pare?» Buttò fuori il fumo. «A Howard ci è voluto molto tempo per farmele.» Almeno quello era vero. Wayne la stava studiando, annuiva. Probabilmente le avrebbe creduto. «Sì», disse alla fine. «È abbastanza.» Poi si mise a ridere. «Comunque abbastanza per me.» E diede di nuovo un colpetto al suo libriccino. Ho qui tutti i nomi. Tutti gli insulti. «Ma è davvero abbastanza per te?» Wayne rimase ancora in silenzio a osservarla. Poi bevve un sorso di tè e scrollò le spalle. «Certo. Certo che è abbastanza. Anzi, penso che sia moltissimo», sorrise. «Non ti preoccupare. Non ti costringerò a spogliarti. Penso proprio che sarebbe tremendamente umiliante per te.» Avrebbe voluto ridergli in faccia. Quel piccolo stronzo faceva anche il santarellino. La parola umiliazione, la vera umiliazione, non faceva neanche parte del suo vocabolario. Per lei era stato un nemico di così vecchia data che un tempo era quasi diventato suo amico. «Okay. Mi hai raccontato tutto», aggiunse Wayne. «Sono soddisfatto. Ma adesso voglio che tu faccia qualcosa per me.» Si guardò intorno. «Sai, ho sognato di starmene seduto qui, in questo modo, fin dalla prima sera che ti ho visto insieme con Lee nel ristorante. Noi che chiacchieravamo così come stiamo facendo adesso. Con il nostro piccolo segreto.» Carole bevve un sorso di scotch. Per il momento si sentiva fuori pericolo. Non doveva fargli vedere nulla. «Che cosa?» gli chiese. «Scusa?» «Hai detto di volermi chiedere di fare qualcosa per te. Che cosa?» «Ah, giusto. Mi ero distratto. Sai una cosa? Sei davvero bellissima.» Lei non fece commenti. «Vedi quei due?» chiese Wayne. Fece un cenno del capo in direzione della coppia di fronte a loro. La donna irlandese e il suo uomo. I due se ne stavano ancora in silenzio. Ora la donna teneva gli occhi bassi, fissava le mani posate in grembo. Continuava ad aprire leggermente e a
richiudere le dita. Quanto dolore, pensò Carole. L'uomo ancora seduto da una parte, il capo voltato, le gambe incrociate, fumava una sigaretta con indifferenza. La loro separazione era per lui un fatto del tutto insignificante. «Che cosa c'entrano loro?» «Voglio che ti avvicini al loro tavolo. Chiedi una sigaretta o qualcosa del genere. Fai in modo che comincino a chiacchierare con te. Devi riuscire a portarli al nostro tavolo.» Con la cannuccia piegata cominciò a succhiare rumorosamente il ghiaccio e ciò che restava del tè. Gli occhi avevano ricominciato a muoversi rapidamente da una parte e dall'altra. Così che lei vide, prima ancora di udire le parole, ciò che Wayne aveva in mente. «No», esclamò. Doveva bloccarlo immediatamente. Tracciare un limite. Fermare quella sensazione di gelo che all'improvviso le aveva afferrato lo stomaco. Non loro. Mai. Non questa povera ragazza così triste e sola. Piuttosto mi ammazzo. Ma era come se lui non l'avesse neppure sentita. E Carole si rese conto che non era affatto fuori pericolo. Non lo era mai stata, nemmeno per un attimo. Non era servito a nulla raccontargli ciò che aveva voluto sentire. Solo una piccola prova di obbedienza. E di paura. Bravo cagnolino. La voce di Wayne era fredda e cupa. «Li voglio», ordinò. «E tu li farai venire qui. Finisci il tuo scotch. Finisci la sigaretta. «E vai da loro.» 19 La visita era illegale, puramente informativa. Sperava che Covitski fosse stato attento a non mettere in disordine al pianterreno. Doveva sembrare che nessuno fosse stato lì. Comunque fino a quel momento non avevano trovato molto. Nell'armadietto dei medicinali un flacone di tranquillanti. Nei cassetti e nell'armadio indumenti maschili, di due taglie diverse (dovevano essere di Lee e di Howard). Ci stava mettendo un bel po' a liberarsi dei vestiti del marito. E allora?
Aprì il cassetto del comodino. Questo sì che era interessante. Scese al pianterreno. Covitski se ne stava piantato in mezzo al salotto. «Cosa c'è di sbagliato qui dentro?» chiese. Rule esaminò la stanza. «Il portablocco», esclamò. «Esatto.» Si avvicinò. Il portablocco stonava sul ripiano di cristallo del tavolo. Era l'unico oggetto posato su un ripiano. Fermati con una clip vi erano tre fogli gialli a righe, non usati e, in cima, una matita gialla. Rule si mise a esaminare la matita. Anche Covitski la stava guardando. «Ti sembra che uno dei due sia il tipo di persona che mastica il fondo delle matite?» gli chiese Covitski. «No. In realtà non riesco neanche a vedermeli con il portablocco. Forse lei potrebbe usarlo, per annotare dati sulle case in vendita, o le misure di un terreno, cose del genere. Okay. Ma ci sarebbero solo tre fogli di carta? Solo tre? Lei userebbe un blocco intero, o almeno ci sarebbero le pagine avanzate. Oltretutto, non c'è scritto nulla.» «Magari è dell'uomo. Di Edwards.» «Stessa cosa. E in più, l'avrebbe tenuto nella valigetta, ti pare?» La borsa stava ancora in mezzo alla stanza. Apparteneva sicuramente a un uomo. Era spessa, gonfia, molto usata. Una donna avrebbe scelto qualcosa di più leggero, di più stretto. E probabilmente l'avrebbe tenuta meglio. A quanto sembrava, nessuno l'aveva toccata da quando lui l'aveva scorta dalla finestra. «Ci deve essere un terzo individuo», concluse Covitski. «Un sicario?» «Potrebbe essere.» Era possibile. Si chiese se Lee e Carole fossero così stupidi o così disperati da coinvolgere qualcun altro nel loro omicidio. Sempre che avessero commesso un omicidio. Ma poi si disse che gente più furba di loro aveva commesso errori anche più stupidi. Ventun anni prima c'era stato il Watergate. «Immagino che tu non abbia trovato una 357 Magnum.» Covitski sembrò sorpreso. Poi scrollò la testa. «Accidenti, no.» «Di sopra c'è una scatola di proiettili in un cassetto, ne manca circa una dozzina. Ma l'arma non c'è.» «Hai perquisito bene la stanza?»
Rule annuì. «Non ho trovato nulla quaggiù. Ho guardato dappertutto. E comunque, probabilmente la terrebbe al piano di sopra, insieme con le cartucce.» «È probabile. Sai una cosa?» aggiunse poi Rule, «continuo a pensare all'autostrada. Alla tua sparatoria. La Volvo rossa. Alla descrizione che ha fatto quel tizio dell'uomo e della donna.» «Scherzi? Pensi che siano impazziti o che cosa? Che se ne vadano in autostrada a sparare alla gente? Posso pensare che l'abbiano fatto con Howard ma...» Scrollò di nuovo la testa. «E comunque la donna è stata uccisa con una calibro 38 non una Magnum. Sei davvero convinto che vi sia un collegamento?» «Non so che cosa pensare. Hai trovato niente in cucina?» «Niente.» «Lei prendeva dei tranquillanti. Il flacone è vuoto a metà. La data sull'etichetta risale a meno di una settimana fa, doveva prenderne parecchi. Potrebbe stare a significare che aveva dei problemi.» «A meno che non ne prendesse anche Edwards.» «È possibile.» In mezzo alla stanza due gatti, uno nero e uno soriano, se ne stavano seduti a circa un metro di distanza l'uno dall'altro, guardando una volta Rule e una volta Covitski. Li studiavano. Tipo, cosa sono questi tizi, amici o nemici? Quello nero si chiamava Beastie. Aveva dimenticato il nome della soriana. Sospirò. «Ti dirò, la cosa che mi lascia perplesso, che mi fa pensare alla Volvo, è la presenza delle due macchine parcheggiate qui fuori. Questo e il portablocco. Per me stanno a indicare che hanno avuto delle visite. Se non sono a casa, deve esserci da qualche parte una terza auto. «Farò un controllo con i radiotaxi. Ma è poco probabile che abbiano avuto nello stesso giorno problemi con tutte e due le auto. Secondo me scopriremo che nessun autista è venuto a prendere qualcuno a questo indirizzo. Non oggi. «Quindi stiamo cercando una terza auto. Probabilmente con tre persone a bordo. Perché non la Volvo allora? Scusa, quante volte è successo in questa città che siano stati commessi due omicidi in meno di una settimana?» Covitski scrollò le spalle. «Mai.» L'ultima morte violenta, ammesso che si potesse definire così, che Rule aveva visto, risaliva a più di tre mesi prima. Un uomo si era ingoiato la
protesi. Era un turista del New Jersey la cui moglie aveva sbagliato a leggere sulla cartina e gli aveva indicato una svolta sbagliata. L'uomo era stato colto da una tale crisi di nervi che si era risucchiato la dentiera. Avevano pensato che fosse morto di infarto, fino a quando non gli avevano fatto l'autopsia. «Penso che dovremmo andare a vedere a che punto è il computer con l'identificazione della targa. E dovremmo anche controllare se vi sono pistole registrate a nome Gardner o Edwards.» «Accidenti, Joe. Sono quasi le dieci. Mae mi ammazza.» «Ti lascio a casa. Non c'è problema.» Si diressero verso la porta. «Avrà dato da mangiare ai gatti?» «Cosa?» «In cucina. I gatti avevano cibo e acqua?» «Non so.» Rule ritornò sui suoi passi, seguito da Covitski. In fondo a una ciotola bianca vi era un dito d'acqua. I piatti del cibo erano vuoti. Come la maggior parte dei gatti, anche quelli riuscivano a sporcare dappertutto quando mangiavano. I resti del loro ultimo pasto erano sparsi sul pavimento. Il cibo appariva vecchio e incrostato. Probabilmente risaliva alla mattina. Sul ripiano vi erano alcune scatolette di Friskies con apertura a strappo. Ne aprì una. «Pensavo che, ufficialmente, non dovevamo essere stati qui», esclamò Covitski. «I gatti non lo diranno a nessuno.» Adesso gli si strofinavano contro le caviglie. La soriana si appoggiava con il posteriore e quella nera strofinava il lato del muso, in corrispondenza delle ghiandole odorifere. Versò il contenuto della scatoletta nei due piattini. I gatti vi affondarono il muso. «Avrebbe dovuto dargli da mangiare», commentò. «Le auto, il portablocco, i gatti. C'è qualcosa che non va.» Si avviarono nuovente verso la porta. «Vuoi ancora che ti lasci a casa?» domandò Rule. «No. Al diavolo», rispose Covitski. «Magari domani sarò ancora vivo. Magari Mae non mi ammazzerà con un'accetta. Ho letto da qualche parte che le donne trovano molto sexy gli uomini dediti alla loro professione.» Rule scoppiò a ridere. «Non saprei proprio.»
«In questo caso, immagino che Albert Schweitzer ne deve avere avute parecchie, ti pare?» «Immagino di sì.» Covitski uscì dal bagno degli uomini asciugandosi le mani con un asciugamano di carta. Rule era al computer. «L'abbiamo trovato», esclamò. Sporgendosi in avanti, Covitski cominciò a leggere a voce alta mentre Rule, blocco e matita in mano, prendeva appunti. «Volvo rossa del '93, patente dello stato del Vermont numero GO2333J6, registrata a nome di Wayne Philip Lock, 4183 Gastonboro Road, Barstow. Buon Dio, senti questa! Gli hanno ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza!» «Telefona al quartier generale. Chiedi che comunichino a tutte le stazioni di polizia dello stato i dati relativi a un ricercato, probabilmente armato e pericoloso. Dagli il numero di pratica del ritiro della patente. È a bordo di un'auto che può avere da uno a tre occupanti. Forniscigli anche la descrizione di Lee Edwards e di Carole Gardner. Nel frattempo ti batto una richiesta di informazioni su pistole registrate a nome Edwards, Gardner e questo tizio. Okay?» «Okay.» Ora si sentiva molto caricato. Era questo che gli faceva amare il proprio lavoro quando non lo odiava. Era per questo che faceva gli straordinari e portava i vestiti in tintoria e si radeva ogni mattina ed era forse anche per questo che Ann se ne era andata. Probabilmente in ogni pezzo di carne c'è qualcosa che marcisce, pensò. Lanciò un'occhiata a Covitski. «Scommetti che c'è qualcuno qui che possiede una calibro 38?» gli disse. Non fu l'unico a esserne convinto. Alle 22.45 una signora di nome Pamela Donelly, elegante, ambiziosa e molto piacevole da guardare, che lavorava come assistente del procuratore distrettuale ed era di turno quella sera, stava preparando un mandato di perquisizione, avendo ritenuto l'identificazione dell'auto e della calibro 38 una sufficiente causa probabile. Nel frattempo Rule e Covitski si stavano dirigendo verso l'abitazione di Wayne Lock sulla Gastonboro Road. Guidava Covitski e Rule, seduto accanto a lui, guardava attentamente la
strada, nel caso avessero incrociato la Volvo, anche se sapeva che vi erano pochissime probabilità che Lock si trovasse ancora in zona. Ma a volte capita un colpo di fortuna. La strada era stretta, serpeggiante e quasi vuota data l'ora. Lock viveva nella parte vecchia della città, ai confini con Woolcott, le case addossate le une alle altre, costruite perlopiù dopo la seconda guerra mondiale e in economia, così che almeno la metà, assestandosi, aveva iniziato a pendere, qualche centimetro da una parte, qualche centimetro dall'altra, assumendo un vago aspetto da ubriachi che i rari alberi rachitici lungo la strada non contribuivano certamente a migliorare. Era un quartiere brutto, squallido, circondato da montagne, dolci colline e splendidi terreni coltivati. Era un insulto al paesaggio, uno sputo nell'occhio del turista. Non vi era nulla di gradevole o interessante. Fino a quando non si arrivava a Fort Ticonderoga. La staccionata iniziava lungo il marciapiede sconnesso, formava un angolo asimmetrico su ambedue i lati del vialetto d'accesso e del giardino dei vicini, poi passava davanti al prato come un esercito invasore di pali di betulla bianca che infilzavano un'erba misera e sottile. Le cifre 4183 sembravano essere state impresse a fuoco con un saldatore nel legno di betulla della porta basculante e poi colorate con lucido per scarpe. Guardando i pali, Rule ebbe l'impressione che fossero alti almeno tre metri. Di fronte, sul lato sinistro, ne mancava uno. Un vuoto nell'armatura di legno di Lock. A parte questo, la costruzione appariva inespugnabile. Naturalmente era soltanto un'illusione, bastava aprire la porta basculante e... ... sperare che non fosse in agguato dall'altra parte con la sua calibro 38. Non lo era. Attraversarono il vialetto e, giunti davanti alla porta, bussarono. L'interno della casa era buio, le persiane chiuse. Rule bussò nuovamente. Nulla. Il vialetto d'accesso era vuoto. Niente Volvo. Da qualche parte un cane stava abbaiando. Il mandato di perquisizione non sarebbe arrivato prima di due ore. Per il momento erano bloccati. «Che cosa vuoi fare?» domandò Covitski. «Andiamo a fare quattro chiacchiere con i vicini. Vediamo se qualcuno oggi ha parlato con lui, o magari l'ha visto uscire in macchina. Forse qualcuno è al corrente di dove stava andando.»
Non fu difficile trovare la casa con il cane, era l'abitazione accanto, bastava superare qualche siepe, e il cane continuava ad abbaiare. Il proprietario era un omone alto più di un metro e ottanta, non rasato, sulla sessantina, con un'enorme pancia che straripava fuori dei pantaloni sporchi, di un color marrone, e dalla sottile maglietta bianca. Se ne stava piantato in mezzo alla sconnessa veranda di legno, i pollici infilati nelle bretelle rosse. Accanto a lui, il cane al guinzaglio continuava ad andare avanti e indietro con aria rabbiosa. Rule fu contento di vedere che era al guinzaglio. Il cane sembrava un incrocio tra un mastino e un rinoceronte, e non aveva l'aria di essere troppo contento di vederli. «Cercate Lock?» domandò l'uomo. «Esatto», rispose Rule. Aprì il portafogli e mostrò il proprio distintivo. Lui non gli diede nemmeno un'occhiata. Il suo viso si aprì in un enorme sorriso bavoso. Non era una vista molto gradevole. «State cercando proprio Wayne Lock?» domandò nuovamente. «Sì, signore. Proprio lui.» Il sorriso si allargò ulteriormente. Scoppiò a ridere scrollando la testa e pizzicandosi le bretelle. «Figliolo», esclamò, «in questo caso il vecchio Happy e io la invitiamo volentieri a entrare.» 20 Lock era furibondo. Lee se ne rese conto nel momento stesso in cui entrò nella stanza, spingendo Carole, e si avvicinò a grandi passi, strappandogli il nastro adesivo dalla bocca. Lee sputò i tamponi di cotone. Carole si era seduta sul letto, rigida, le mani strette in grembo e fissava Wayne che continuava ad andare avanti e indietro dalla porta al lavabo, picchiandovi sopra con un pugno, poi si voltava e dava un calcio al cassettone, e tornava di nuovo verso Lee. Lanciava occhiate di fuoco all'immagine di Carole riflessa nello specchio, ma mai a lei direttamente, solo attraverso lo specchio. E a parte il fatto di avergli tolto il nastro adesivo, non sembrava prendere Lee in alcuna considerazione. Percepiva il sudore acido dell'uomo. Rivelava qualcosa.
«Ti avevo chiesto una sola cosa, Carole! Una piccolissima cosa. Un favore da niente, ma no. Oh no! «Cos'è? Sei troppo morale per me, Carole? Per aiutarmi? Sei forse meglio di me? «Pensi davvero di essere meglio di me? «Non so che diavolo fare con te. Non so che fare! Ti ho dato tutta la fottuta libertà che volevi. Hai fatto quel cazzo che hai voluto. Perché mi piacevi. Perché volevo aiutarti. Ma ti dico una cosa tesoro, adesso tu sei in cima alla mia lista nera! Sei proprio la prima della lista! «Maledetta puttana!» Lee vedeva le parole arrivarle come colpi al petto. Non poteva fare molto per deviarli. Ma poi vide Wayne voltarsi e dirigersi verso di lei, guardandola direttamente ora, la mano che cercava la pistola nella tasca posteriore, e a quel punto comprese che doveva tentare. «Wayne.» Gentilmente. Vai piano. «Wayne. Qual è il problema? Forse ti posso aiutare.» Si voltò di scatto. Poi si avvicinò come furia e tirò un calcio alle tubature, appena al di sotto delle mani di Lee. «La tua puttana! Il problema è la tua puttana!» «Di qualunque cosa si tratti, Wayne, ne possiamo parlare.» «Davvero? Parla con questo!» Vide arrivare il calcio ed ebbe tempo di spostare la testa, ma non a sufficienza. Percepì odore di fango e di cuoio, poi sentì un colpo secco dietro il collo che lo mandò a sbattere con la fronte contro il tubo. Sollevò lo sguardo e vide il volto di Wayne, le labbra strette e piegate all'ingiù, aveva un'aria quasi comica, l'imitazione di un bambino imbronciato, se non fosse stato per l'espressione degli occhi, folle e sconvolta dall'ira, e per il piede che si stava alzando di nuovo. Si lanciò di lato. Il piede sbatté contro il lavabo con un tonfo sordo. «Maledetto stronzo!» Ma in quel momento Carole era scattata in piedi e stava urlando lascialo in pace e avanzava verso di loro (no, si avvicinava alla Magnum sul cassettone!) ma Wayne, il piede all'indietro nuovamente pronto a colpire, la vide nello specchio, si raddrizzò, si voltò, fece un passo verso di lei che andò dritta incontro al colpo, proprio verso il pugno. La colpì allo stomaco. Carole si piegò, crollando poi in ginocchio.
E qualcuno stava picchiando contro la parete. «Ehi voi! La vogliamo smettere, perdio!» Wayne rialzò la testa e a Lee venne in mente un animale che all'improvviso fiuta del fumo nell'aria, un incendio lontano. Wayne si era immobilizzato. Teso, muto, sembrava annusare l'aria, pronto alla fuga. Negli occhi folli un'improvvisa scintilla d'astuzia. La decisione improvvisa. Lo scatto della mano verso la pistola sul cassettone. «Non fiatate!» sibilò. «Tu, togliti. Torna sul letto. Giuro che la uso. Non ci metto niente, hai capito bene? Non ci metto niente.» Carole si rialzò a fatica, le mani strette sulla pancia. Spingendo la pistola contro il viso di Lee, Wayne si frugò nella tasca, estrasse una chiave e gliela porse. «Ecco qui. Solo il polso sinistro. E non fare stronzate.» Lee afferrò la chiave e riuscì in qualche modo a infilarla nella serratura. La manetta si aprì con uno scatto, penzolando dal tubo. Si massaggiò i segni rossi. La pelle era lacerata e bruciava terribilmente. «Slegati.» Si diede da fare con i nodi. Prima i piedi, poi le gambe, sentì il sangue che riprendeva a scorrere facendogliele pulsare. «Okay. Tirati su.» Si rialzò. Le ginocchia gli tremavano, la gamba destra era ancora mezza addormentata dopo essere stata legata all'indietro così a lungo. Dovette minare e questo lo fece sentire terribilmente demoralizzato. A questo era giunto. Se la faceva letteralmente addosso per paura di Wayne. Cristo! «Anche tu.» Carole si alzò in piedi. «Okay, adesso fuori della porta», ordinò. «Ce ne andiamo.» Spinse con forza la pistola contro la schiena di Lee e lui gemette per il dolore. Era stata una brutalità voluta, Carole doveva sapere che la pistola era puntata contro di loro. Aprì la porta. Spense la luce alle loro spalle, afferrò la valigetta sul letto e insieme uscirono nella tiepida aria notturna. Attraversato il pianerottolo di cemento, scarsamente illuminato, Wayne li spinse davanti a sé giù per le scale. La Volvo era proprio davanti a loro. «Dietro», ordinò. Mentre raggiungevano la parte posteriore dell'auto, Lee esaminò attentamente le finestre del motel, le porte. Erano tutte chiuse. Le finestre ave-
vano le tendine tirate. Nessuno sbirciò fuori. Il parcheggio era silenzioso. Wayne appoggiò a terra la valigetta e aprì il portabagagli. «Entra», disse a Lee, «prima tu.» «Wayne... Gesù, Wayne... la gente... muore chiusa là dentro!» Sentì un tremolio nella propria voce. Lo odiava ma non poteva farci nulla, doveva urinare di nuovo. Sentiva in bocca un gusto di bile. Ecco di che cosa sa la paura, pensò. Di bile. Wayne stava sorridendo. «Guarda più attentamente, Lee. Ho già provveduto.» Sulla porta posteriore dell'auto, appena sopra il logo, vi erano due piccoli buchi. «Dio sa se adoro quest'auto», esclamò Wayne. «Mi è dispiaciuto davvero doverli fare. Ma bisogna pensare a tutto ed essere pronti per qualsiasi evenienza, e poi ho usato il trapano così sono venuti abbastanza bene, non credi? Cioè, non si vedono quasi. Però dopo dovrò fare qualcosa per la ruggine. «In realtà pensavo di metterci qualcun altro. Ma ora credo proprio che tocchi a voi.» Sollevò la pistola. «Quindi o entri o ti ammazzo, Lee. Personalmente non me ne frega un cazzo di cosa fai.» Lee salì, spostando il peso verso il fondo, piegando le gambe al di sopra del cric per fare spazio a Carole, poi attese che salisse anche lei. Era come se li stessero seppellendo vivi in una specie di fossa comune, soltanto loro due. In una fossa che puzzava di grasso e di metallo e di benzina, e poi all'improvviso il profumo di lei, odore di donna. Quasi un'eco, appena percepibile. Profumo di fiori. 21 Susan fermò l'auto davanti alla casa di Wayne, dall'altra parte della strada, e quando vide un'auto parcheggiata di fronte, pensò, chi può essere? In tre ore aveva telefonato al bar tre volte e lui non era ancora arrivato. Mikey, il direttore, le aveva detto chiaramente che non c'era bisogno di telefonare una quarta volta. Se Wayne fosse arrivato a quell'ora, se ne sarebbe potuto benissimo tornare a casa. Lei lo aveva chiamato una mezza dozzina di volte anche a casa ma non
aveva risposto nessuno. Era preoccupata. Wayne era un ragazzo responsabile. Puntuale. Aveva cercato di spiegarlo a Mikey; se non fosse accaduto qualcosa di veramente grave lui avrebbe perlomeno telefonato, ma a Mikey non interessava affatto. Le aveva risposto che comunque, come barista, era un pezzo di merda, e questo non era giusto, e che lui lo aveva già sostituito con uno che lavorava part time e che desiderava lavorare a tempo pieno, e questo era tutto. Le aveva anche suggerito di rivolgersi alla polizia se era tanto preoccupata. Lei non aveva chiamato la polizia, non era un familiare, dopotutto. E nemmeno sposata con lui o qualcosa del genere. Ma aveva deciso di fare un salto. E adesso c'era quella strana auto davanti alla casa e... ... due tizi che erano usciti dalla villetta dei Roberts e stavano venendo verso di lei. Si affrettò a chiudere il finestrino dell'auto. Il più alto dei due si piegò in avanti, la fissò attraverso il finestrino e le sorrise. Lei non si sentì affatto rassicurata. Almeno fino a quando lui non aprì il portafogli e le mostrò il distintivo. Ma a quel punto lei si sentiva rassicurata e spaventata allo stesso tempo. Abbassò il finestrino. «S... sì?» L'uomo continuava a sorriderle. «Sono il tenente Rule e questo è il tenente Covitski. Posso chiederle di mostrarmi un documento, per favore?» Lei cercò il portafogli nella borsa e gli consegnò la patente. L'uomo la sollevò di traverso per poterla leggere sotto il chiaro di luna, il lampione era spento di nuovo, e quello di fronte a casa sua lo sarebbe stato presto, poi gliela restituì. «Conosce l'uomo che vive a questo indirizzo? Wayne Lock? È una sua amica, signorina Olsen?» Si sentì arrossire. Distolse lo sguardo. «Io... si potrebbe dire che ero la sua ragazza.» «Non più?» «Abbiamo avuto una specie di lite.» «Una lite?» «Una discussione.» «Ha avuto modo di vederlo durante la giornata?» Scrollò la testa. «Non lo vedo da sabato.»
«Gli ha parlato?» «No.» «Non lo sente da sabato?» «No.» Lui la fissò. Sembrava la studiasse. Per qualche ragione, il modo in cui quell'uomo la guardava la faceva sentire colpevole. Ma non aveva fatto nulla. «Allora, come mai è venuta qui?» domandò. Il tono della sua voce non era scortese, pensò Susan. Solo curioso. «Ero preoccupata per lui. Lavora di notte. Fa il barista al Black Locust Tavern. E stasera non è andato a lavorare né ha telefonato e questo non è da Wayne.» «Capisco. Allora ha fatto un salto a vedere.» «Sì.» «Ha idea di dove possa essere?» «Buon Dio, non lo so.» Pensò che non conosceva davvero alcun posto in particolare. E qualsiasi luogo era possibile. Voleva realmente aiutare quell'uomo. Voleva chiedergli che cosa fosse accaduto e perché stessero cercando Wayne, ma non riusciva a trovare il coraggio. Non sapeva perché ma proprio non ce la faceva. E fu come se lui le avesse letto il pensiero. «Desidereremmo parlare con lei di alcune cose, Susan. Va bene? E sono certo che anche lei avrà delle domande. Ma per adesso vorrei che lei pensasse attentamente. È molto, molto importante. Le viene in mente un posto dove potrebbe essere andato? Se si trovasse nei guai o magari se avesse qualche problema?» «Problema?» «Infatti.» Rimase un attimo a pensarci. Non c'era proprio alcun posto. Se avesse avuto un problema sarebbe andato da lei. Anche dopo... quello che era accaduto. «So che è tardi», proseguì l'uomo, «ma non potrebbe essere andato a trovare sua madre?» «Sua madre?» «Sì.» «Che intende dire? Sua madre è morta.» Per un attimo l'uomo rimase in silenzio a guardarla. Susan pensò che aveva occhi molto belli, davvero molto belli per un poliziotto e, in qualche
modo, tristi. Come di un uomo solo. «A sentire il vicino della villetta accanto», le spiegò l'uomo, «la madre di Wayne si trova a poche centinaia di metri da qui, in una casa di riposo, la Sweetwood Retirement Home sulla Barstow Road. Ci ha detto che si trova lì da tre anni. Immagino che Wayne non glielo avesse detto. Mi dispiace.» E in quel momento lei comprese per quale motivo quegli occhi erano tristi. E per chi. 22 L'infermiera non era affatto contenta. Doveva aver superato da poco la trentina, non era sposata (non portava la fede) e Rule avrebbe tanto voluto fare qualcosa per renderla più felice, ma non era possibile. Davvero un peccato pensò mentre osservava le sue belle gambe lunghe che si facevano strada lungo il corridoio dai pannelli di quercia dopo aver oltrepassato i paesaggi dipinti sulle pareti e le sedie, rigide e severe, allineate fuori delle stanze. Veramente un peccato. La camera di Dorothy Lock era l'ultima in fondo sulla destra, aveva spiegato. Da dove si trovavano era possibile ammirare quella che l'infermiera aveva chiamato la biblioteca. A Rule era più che altro sembrata l'ingresso di un albergo di media qualità, altri pannelli di quercia, altri vivaci paesaggi alle pareti, lussuose poltrone e divani imbottiti in finta pelle e soltanto una manciata di libri sugli scaffali. Perlopiù edizioni economiche. Naturalmente, a quell'ora la biblioteca era vuota. L'infermiera aveva insistito sul fatto che da loro le luci venivano spente alle dieci in punto. E adesso erano già le undici e mezzo. Aprì la porta e accese la luce centrale. La camera aveva alle pareti una tappezzeria a vivaci disegni floreali. Vi era una poltrona imbottita, un modesto cassettone sormontato da uno specchio, una scrivania con una sedia da ufficio, un televisore collocato in alto sulla parete opposta al letto; vi era inoltre una finestrella con una zanzariera, un telefono a disco fissato alla parete, il bagno e un piccolo armadio. Il cassettone e il ripiano della scrivania erano vuoti. Niente libri. Niente fotografìe. Neanche una bottiglia di profumo. Nulla. Rule ebbe la sensazione che la camera non fosse abitata. Qualunque cosa
quella donna possedesse, qualsiasi oggetto che potesse fornire un'indicazione sulla sua personalità o sulla sua identità doveva essere stato nascosto. Se ne stava rivolta verso la finestra, un corpo minuto rannicchiato sul letto e coperto da un lenzuolo. L'infermiera le si avvicinò, toccandola lievemente sulla spalla, poi si ritirò in fretta. Come se avesse toccato una stufa bollente o qualcosa attraversato dalla corrente. «Signora Lock.» Rule si rese conto che l'infermiera non era infastidita soltanto perché erano giunti a quell'ora. Si trattava di questa particolare paziente o residente o come si chiamano. C'era qualcosa in quella donna che la disturbava. Qualcosa di lei la spaventava. Cominciò a comprenderne la ragione. L'anziana donna si voltò con un movimento così repentino da far sobbalzare. Perfettamente sveglia, i suoi occhi celeste chiaro lanciarono un'occhiata che comprendeva sia Rule sia Covitski. Rule ebbe la sensazione di venire ingoiato. L'infermiera arretrò di un passo. La donna la ignorò completamente e si mise a sedere, le gambe che ciondolavano dal letto sottili e nude, attraversate da un reticolato di lunghe vene azzurre, la pelle secca e screpolata come il letto di un torrente asciutto. Aveva labbra sottili che allungò in un sorriso astuto mostrandosi sorprendentemente lieta di vederli. «Siete della polizia», affermò. Aveva una voce bassa. Molto più giovane del resto del corpo. I pochi capelli lunghi e grigi si erano gonfiati nel sonno. «Sì, signora», confermò Rule. «Mi chiamo Rule e questo è il tenente Covitski. Ci ha detto la signorina...» «Maitland», completò l'infermiera. «... la signorina Maitland che lei ha ricevuto una telefonata stasera. Ci chiedevamo se non l'avesse chiamata Wayne, suo figlio.» «Mio figlio?» «Scusate», intervenne l'infermiera. «Se non avete più bisogno di me...» Si stava già avviando verso la porta. A Rule sembrò quasi una fuga. Lasciò una traccia di profumo vivace in quella stanza che odorava di donna vecchia e di stantio.
«Va benissimo. Grazie», rispose Rule. Si chiuse la porta alle spalle. La donna lo stava osservando. «Che cosa c'entra mio figlio?» «Abbiamo bisogno di fargli alcune domande, signora.» Strinse gli occhi. Rule notò che il contorno degli occhi era segnato da rughe profonde che scendevano fino alle guance incavate. La bocca, per contro, era quasi liscia e le poche rughe erano tutt'altro che profonde. Come se l'espressione abituale di quella bocca fosse il non avere alcun espressione. Sentì Covitski che si muoveva a disagio accanto a lui. «Mio figlio», mormorò. La sua voce bassa riempì completamente la camera, rimase sospesa come se la stanza fosse totalmente priva di mobili, e di vita. Lo fissava dritto negli occhi. Dovette imporsi di non distogliere lo sguardo. «Volete sapere se mi ha telefonato.» «Sì.» «Oggi.» «Esatto.» Si chinò leggermente in avanti. «Mio figlio è un piccolo vigliacco di merda», spiegò. «Lo sapevate?» La voce era vuota e piatta come il ripiano del cassettone. Nonostante la durezza delle parole, Rule non percepì alcun odio. Nessuna emozione. Solo la constatazione di un fatto. Suo figlio era un piccolo vigliacco di merda. Fine della storia. Voleva uscire. Aveva bisogno di aria fresca. L'infermiera aveva ragione. Era meglio lasciarla dormire. «Sapete di che cosa soffro?» domandò la donna. «Di svenimenti. Proprio così. Possono capitare una volta alla settimana, come due volte al giorno. È la pressione del sangue. Per il resto la mia salute è perfetta. Soffro di svenimenti. Ed è stato questo che ha consentito a mio figlio Wayne di ottenere la mia custodia e di farmi rinchiudere in questo posto e così tutto il giorno sono costretta a sentire l'odore della merda dei moribondi. Mio figlio non può lasciarmi nella casa in cui ho vissuto per trentacinque anni e occuparsi di me, dice lui, deve andare al lavoro e ha paura a lasciarmi da sola, dice lui. Agente Rule, lei sa di che cosa puzza la merda dei moribon-
di? Non credo proprio che lei lo sappia.» Rule lanciò un'occhiata a Covitski. Capì che non era l'unico a voler uscire di lì. Covitski non avrebbe avuto un'espressione più sconvolta se a parlargli in quel modo fosse stata sua madre. C'era del veleno in quella camera ed era letale. Fuoriusciva silenziosamente dalle pareti vuote e dall'armadio. Gocciolava dal letto. Apparteneva a lei. Ciò che lei possedeva era veleno. Riempiva la stanza vuota. «Cipolle vecchie», spiegò la donna. «La merda dei moribondi puzza di vecchie cipolle marce. C'è merda nei corridoi anche mentre stiamo parlando. Lo sapevate questo? C'è della merda nel lavabo. Sono costretti a mettergli i pannolini, ma non serve. La svuotano nei lavabi, nei gabinetti. La portano attraverso i corridoi. No, il mio caro bambino non mi ha chiamato stasera. La telefonata che ho ricevuto era di un vecchio ammiratore. Che adesso è morto. Ne ho molti che sono morti.» Veleno. Follia. Wayne aveva dovuto vivere con tutto questo. Covitski gli toccò la manica. Aveva ragione. Lì non avrebbero saputo niente di più di quanto non avessero già sentito. Che era molto. Non giustificava Lock ma spiegava molte cose. «Se si trovasse nei guai, dove potrebbe andare?» domandò. A quel punto si trattava di una domanda formale, ma non si poteva mai sapere. «Non ho idea», rispose. «E quando è stata l'ultima volta che lo ha visto?» La donna sorrise. Il letto cominciò a tremare. Rule si rese conto che lei stava ridendo. Una risata muta, spaventosa. Si interruppe. Il suo viso assunse un'espressione sognante. «Quando gliel'ho preso in bocca», rispose. Era persa nei suoi ricordi. «Tre anni fa. Luglio o forse agosto. Una giornata molto calda. L'ho fatto venire. Lo faccio sempre. Gliel'ho preso in bocca e l'ho ingoiato. Gliel'ho succhiato fino in fondo.» E rideva. La risata di una ragazza astuta e depravata. E, buon Dio, lui le credette.
23 Lui era un'ape. Il mondo era il suo fiore. Stava impollinando il mondo, trasportando con sé i semi di vita nell'ampio cerchio del suo volo, lasciandoli cadere a terra dove si sarebbero intorpiditi, decomposti e alla fine spaccati, e la loro fioritura sarebbe stata l'agitazione dei vermi, la nascita delle mosche, l'eterna catena della vita. Dalla Route 89 Sud alla 2 Nord alla 93 Sud fino a Saint Johnsbury, attraverso le White Mountains, di nuovo nel New Hampshire, e poi attraverso la foresta nazionale, un'autostrada scura e vuota, solo un'auto sulla strada, gli alberi lontani. Sentiva Carole e Lee che venivano sballottati nel portabagagli ogni volta che le strade si facevano più sconnesse. Avrebbero potuto morire lì dentro, oppure no. Come tutti gli altri, anche loro volevano soltanto fargli del male. Ma non lo avrebbe permesso. Il suo libriccino era pieno dei torti che gli avevano fatto. Se lo sentiva premere contro il petto, pesante, massiccio. Oltrepassò Compton e Blair e Livermore Falls fino alla 3A e Plymouth, dirigendosi verso sud nel cuore della notte attraverso la città universitaria semibuia, ancora un'altra maledetta città universitaria, passando due volte davanti al Trolley Car Restaurant e ripassandoci di nuovo, nessuno per strada tranne un vecchio ubriacone malfermo sulle gambe. Non era abbastanza. Non andava abbastanza bene. Continuava a guidare. Verso nord sulla Route 3 (continuare a correre) una lunga strada ripida che scendeva poi dolcemente verso un'ampia valle per poi salire di nuovo, una casa isolata, luci alle finestre, foresta tutt'intorno, poi a sinistra fino all'Avery's General Store, buio, deserto a quell'ora e proseguire imboccando la serpeggiante strada di montagna che conduceva a Ellsworth, passando davanti alla Cappella di San Giovanni delle Montagne, candida al chiaro di luna, antica e minuscola come uno scheletro, affacciata sul fianco della collina, Reverendo Roger Pecke Cleveland, Pastore. Su per una stradina non asfaltata. Questa non conduce da nessuna parte. Inversione, sollevando terra (la sentiva nella bocca, in mezzo ai denti). Come va là dietro? Stavano facendo dei bei salti adesso. Tornare indietro sulla strada oltrepassando un piccolo cimitero di campagna, uno specchio d'acqua dimora di castori, oltre il ponte, di nuovo sulla 3A, di nuovo verso Plymouth e l'università.
Era a circa un paio di chilometri dall'abitato quando li vide nella valle, fermi lungo la strada. E lui era giovane. E lei era carina. Accostò. Tutto intorno terreni coltivati. Più a valle un'estensione di terra. Un fienile e un silos. Deserti. Allungò la mano verso il sedile posteriore. Cercò nella valigetta aperta. Questo lo compensava di tante cose. Della noia. Dei lunghissimi giorni in cui era e tuttavia... non era. La slealtà della gente intorno a lui. Le trappole che gli avevano teso prima suo padre, e in seguito anche sua madre. Questo era ciò per cui era nato. Per cui esisteva. La notte lo avvolgeva in un fastoso destino e il suo manto era morbido e caldo. «Bisogno di una mano?» domandò. La ragazza era in piedi accanto al giovane, una mano sottile, dalle piccole vene azzurre, appoggiata sul fianco e l'altra posata sul tetto dell'auto. Sollevò lo sguardo e gli sorrise mentre lui usciva dall'auto sbattendo la portiera. La ragazza indossava un paio di jeans tagliati sopra le ginocchia e una camicia bianca decisamente troppo grande per lei, con le maniche rimboccate. La ragazza era fiduciosa. Il ragazzo lanciò un'occhiata al di sopra della spalla. Era impegnato a svitare bulloni con una chiave. Anche il ragazzo sorrise. «Grazie, ma non c'è problema», rispose. Lo aveva già fatto prima di allora. Ormai era un esperto. Non c'è problema. «Non è esatto», disse Wayne, tirando fuori la pistola. Lynn Naylor aveva sempre considerato la propria fortuna come qualcosa di molto discutibile. Una volta, aveva dieci anni, stava guidando la bicicletta di suo cugino lungo il vialetto dei vicini di casa. La stradina era stata appena asfaltata, appariva liscia e invitante. La bicicletta era decisamente troppo piccola per lei. Per la verità, solo da poco le avevano tolto le rotelle. E non aveva i freni. Ci si fermava con i piedi. Le gambe di Lynn erano così lunghe che le risultava difficile far leva nel modo giusto. Per questo non riuscì a fermarsi quando, sul retro della casa, il vialetto si
trasformò all'improvviso in una ripida discesa. Non aveva un punto d'appoggio. Trascinò i piedi nudi lungo l'asfalto fresco fino a farsi sanguinare le dita, ma non servì a molto. In fondo al pendio vi era un masso tondeggiante alto quasi tre metri che terminava con una punta frastagliata, per un'altezza totale di più di sette metri. Lei tentò di dirigersi verso uno spazio molto stretto, un piccolo sentiero, che si apriva fra il masso e il folto boschetto di pini che lo circondava. Quando giunse in fondo la bicicletta correva ormai a una velocità troppo alta perché lei potesse tenerla sotto controllo. Andò a sbattere contro il bordo del masso a quasi cinquanta chilometri l'ora, almeno così le disse la polizia. La bicicletta di suo cugino era completamente distrutta. Al momento dell'impatto aveva istintivamente portato in avanti un braccio. E questo le aveva salvato la vita. Il braccio si era spezzato (ricordava ancora il colpo secco) ma l'aveva anche fatta volare oltre il masso, invece di andarvi a sbattere con la testa. Se la cavò con diciotto punti nella schiena, le dieci dita dei piedi piene di cicatrici, una lieve commozione cerebrale e un braccio rotto. Da una parte pensava di essere stata alquanto fortunata. Dall'altra bisognava considerare il vialetto in sé e l'attrattiva che questo aveva esercitato su di lei quel giorno. Poi bisognava considerare la discesa ripida e improvvisa. La bicicletta troppo piccola. E il masso. Non era stata poi così fortunata. Un anno fa lei e Ben avevano completamente distrutto la Ford. Era una giornata d'estate molto calda e stavano guidando su una strada resa scivolosa dalla pioggia quando un'altra auto, una Pontiac, nel superarli slittò con le ruote posteriori di mezzo metro, quanto bastava per far sì che la parte posteriore della Pontiac andasse a sbattere contro il loro paraurti anteriore sinistro, mandandoli a finire in un terrapieno. Ricordava soltanto di essersi trovata dentro l'auto, seduta sul tetto, mentre Ben stava uscendo dall'altra parte per venire a tirarla fuori. Ne erano usciti senza un graffio. Ma come nell'altro incidente, anche questa volta la sua fortuna poteva essere considerata molto dubbia. C'era il fatto che era riuscita a sopravvivere ma anche che aveva avuto un incidente, e secondo lei le due cose si annullavano a vicenda. La moneta, lanciata in aria, era incredibilmente e per due volte caduta sul bordo. Non che questo dimostrasse nulla a parte che, contro ogni aspettativa, lei era ancora viva.
*** Ben Stillman sapeva di essere fortunato. Non vi erano dubbi. La dimostrazione era semplice. Era all'università, aveva un lavoro, aveva un futuro e aveva Lynn. Non necessariamente in quell'ordine. Era stato difficile per lui riuscire ad andare all'università perché non se lo poteva permettere. Suo padre era di Paterson, nel New Jersey, un muratore fedele al sindacato, e quando il sindacato diceva ci dispiace, non puoi lavorare, suo padre non lavorava. Il che accadeva spesso. Ma fin dall'età di quindici anni Ben aveva sempre svolto qualche lavoretto. Aveva risparmiato e studiato. Sua madre era un'impiegata e anche lei lo aveva aiutato. Ma perlopiù ce la stava facendo da solo. Aveva fatto in modo di ottenere ottimi voti alle scuole superiori e adesso era riuscito a ottenere una borsa di studio come studente lavoratore presso la Plymouth State, e aveva intenzione di frequentare per due anni un master in economia presso un'università anche migliore di questa. Non sarebbe diventato un servo dei sindacati. Non aveva intenzione di svolgere lavori manuali quando glielo permettevano, oppure restare tutto il giorno a bere davanti alla televisione quando non poteva lavorare. Non sarebbe rimasto a poltrire. Lui avrebbe avuto molti soldi. E poi vi era Lynn. A Paterson una ragazza come Lynn non l'avrebbe nemmeno guardato. Non era nemmeno certo che esistessero ragazze come lei a Paterson. Era sveglia, divertente, colta (quasi sempre scuole private). Un solo anno in una scuola pubblica «per abituarsi». Era la ragazza più adorabile che avesse mai incontrato e probabilmente un giorno sarebbe stata ricca di suo. Apparteneva a un'antica famiglia bostoniana. Alle scuole superiori era stata un po' pigra negli studi ma adesso non più, non dopo che aveva conosciuto lui, avrebbe frequentato un master anche lei e stavano cercando di entrare nella stessa università: Stamford, Wharton, Harvad, le migliori in assoluto. A letto era calda e sensibile. Cuore e cervello. Controllata e imprevedibile. Non vi era nulla che Ben desiderasse che già non aveva o che non avrebbe avuto in futuro. Voleva figli. Vacanze. Divertimento.
Loro due insieme potevano fare qualsiasi cosa. Potevano perfino cambiare una ruota. Quindi non aveva proprio bisogno dell'aiuto di quel tizio ma pensò che era gentile da parte sua offrire un aiuto. Era quello il genere di cose che apprezzava nel New Hampshire. La gente era davvero disponibile. Peccato che non si potevano fare molti soldi da quelle parti. Per questo era necessario spostarsi nelle grandi città. New York o L.A. o Washington. Ma certo un giorno avrebbe potuto ritirarsi da quelle parti. Le case non costavano quasi nulla e le tasse erano fra le più basse del paese. La cosa lo lasciò molto sorpreso. E cioè che si vedeva nel futuro tanto giovane quanto lo era in quel momento. Così quando quel tizio attraversò comunque la strada lui non ci badò. Continuò a svitare i bulloni, e non vide la pistola né il grosso martello a granchio che teneva in mano, fino a quando il martello lo colpì prima una volta e poi una seconda, e sentì Lynn che urlava nel vuoto caldo e muto della notte che sembrava gocciolargli sulla fronte, sulle guance e negli occhi. Oscurandogli la vista. *** Con il piede spinse il corpo del ragazzo sotto l'auto. La pendenza della strada gli rese più semplice l'operazione. Il ragazzo rotolò. «Sai usare un cric?» domandò. La ragazza annuì, fissando la pistola, non lui. Gli piaceva il modo in cui piangeva. Niente singhiozzi. Nessun suono. Solo un flusso continuo di lacrime. «Abbassa l'auto. Poi butta tutto nel portabagagli. Hai capito?» La ragazza cominciò a lavorare. Due auto parcheggiate a pochi metri di distanza l'una dall'altra sui lati opposti della strada, abbondantemente al di là del margine. Nessuno le avrebbe notate. Con l'auto abbassata nessuno avrebbe visto il ragazzo. Il che significava che aveva un po' di tempo. Lei sollevò lo sguardo verso la luna. Gli alberi apparivano neri e grigi e bianchi come vermi. L'uomo di fronte a lei era nero. Una silhouette. Sentiva l'odore della terra umida sotto il suo corpo, della corteccia dell'albero che veniva logorata, l'odore metallico
e pungente del filo di ferro attorcigliato. Era sdraiata sulla schiena. Sotto di lei vecchie e soffici foglie. Come cuscino muschio e licheni grumosi. L'uomo aveva fatto passare il filo metallico attorno al tronco sottile della betulla e poi glielo aveva avvolto attorno ai polsi, torcendo il filo con una pinza. Sentiva in bocca il gusto salmastro del muco e delle lacrime. Non riusciva a smettere di tremare. Era come una scossa elettrica. Una specie di ronzio basso e continuo. «Penso che ti lascerò vivere», le disse. Si inginocchiò accanto a lei e le tolse i sandali uno alla volta, posandoli poi con molta cura a terra, accanto a lui. La pistola era sempre in una mano e il martello nell'altra. «Però penso che ti scoperò», proseguì. «Capisci, vero?» Non riusciva a vedere gli occhi. Ma la voce era quasi gentile. Lei annuì. «Sollevati.» Sollevò i fianchi. L'uomo abbassò la cerniera dei suoi jeans e glieli tolse. Li piegò e li posò accanto ai sandali. «Sollevati ancora.» All'improvviso l'uomo si era trasformato in un tremolio di lacrime. Ma fece quello che le aveva detto. Le foglie, la terra, erano fredde e umide. Piegò le mutandine e le posò accanto ai jeans. Sandali e vestiti in una linea regolare proprio dietro di lui. Le sbottonò la camicetta cominciando dal bottone in alto e scendendo lentamente, e solo quando ebbe terminato la scoprì. «Meravigliosa», sussurrò. Si sdraiò su di lei, nero, cancellando la luna e il cielo. Sentì la canna fredda della pistola sulle labbra, che le apriva la bocca. «Per favore», cercò di dire. Ne uscì un «Perff.» La canna rimase ferma, premuta contro i suoi denti. Sentì il gelo del metallo, della pinza, che si muoveva in cerchio sulla carne del suo seno poi cominciava a formare una spirale verso l'interno, portandola lentamente a un orrore muto. Sentì la pinza che si apriva e afferrava il piccolo rilievo di carne. Poi si chiudeva. Stringeva lievemente. Fredda, seghettata. Terribile. Poi cominciava a stringere, sollevava. Il suo corpo si inarcò. «Potrei usarle su di te», disse l'uomo.
Era come se stesse recitando qualcosa che aveva imparato a memoria. Come se l'avesse sentito da qualche parte e le parole non fossero le sue. Scoppiò a ridere. La morsa si allentò. «Ma non lo farò», disse. Lei ricadde sulle foglie. Wayne non sapeva. Non capiva. Aveva già fatto. E subito dopo lei era bagnata di lui, bagnata fra le gambe, i seni scivolosi per il sudore. Che odorava di lui. Gocce cadute dalla sua fronte scivolavano sulle guance della ragazza. Si allontanò, lasciandosi cadere accanto alla fila di abiti, poi si alzò e si allacciò il bottone dei pantaloni. Le aveva fatto male. Lui aveva usato le unghie, i denti. Si sentiva dolere dappertutto. «Bisogna cambiare», spiegò lui. «Bisogna cambiare ogni volta.» Respirava a fatica. Non era forte. Questo lei lo aveva capito. Non senza la pistola. Le braccia e le gambe erano sottili e ossute. Non aveva una grande resistenza. Pensò a Ben e allontanò quel pensiero. Lo allontanò il più possibile. Si stava infilando la camicia nei pantaloni, e la guardava dall'alto. «Il proprio MO, voglio dire. Sai che cosa vuol dire? Modus operandi. Il modo in cui fai le cose. Se non lo cambi, ti scoprono.» Si rese conto che stava parlando della sua morte. «Ecco perché ho usato il martello. Furbo, no? Prima si sono messi a cercare una calibro 38, poi una 357 e adesso un martello. Tre assassinii diversi, giusto?» No, pensò lei. Quattro. Quando lui si sdraiò di nuovo, Lynn notò che era ancora senza fiato. Teneva in mano un altro pezzo di filo, questa volta più corto. Glielo avvolse intorno al collo, tenendo ben fermi i capi. Lei non lottò. Vi era un unico modo per riuscire a sopravvivere. Non ve ne era mai stato un altro. La moneta doveva fermarsi sul bordo, né testa né croce, «Tu mi faresti prendere», spiegò lui. «Chiameresti la polizia. Lo so che mi odi. So che odi quello che ti ho fatto.» La penetrò di nuovo attraverso la patta aperta. Lynn si irrigidì quando sentì il filo stringersi intorno al collo, la mano sinistra dell'uomo che tremava per lo sforzo, e sentì il proprio sangue sci-
volare lungo il collo e fermarsi nell'incavo delle scapole. La notte si illuminò di lampi gialli, poi si oscurò. Smise di respirare. La testa cadde all'indietro contro il muschio, il corpo contro le foglie umide e fredde. Da qualche parte, lontanissimo da lei, un uomo si alzò e si girò per tornare verso la strada. 24 Stavano di nuovo viaggiando e le era tornata la nausea, mista all'odore di benzina e di gas di scarico e a un movimento cieco, oscuro e vertiginoso. E alla paura. Si stava abituando a quella sensazione di malessere. La nausea come stato permanente, i conati di vomito che assalgono una donna incinta. Come i postumi di una sbornia. Nausea. Debolezza. Le braccia di Lee intorno a lei non erano sufficienti, non bastavano a portarla oltre se stessa, fuori di se stessa, o a farla sentire più vicina a lui. E Carole si chiedeva se fossero mai stati veramente vicini, l'uomo con cui aveva dormito, insieme al quale aveva ucciso e che aveva intenzione di sposare, se fossero riusciti a sopravvivere e sposarsi. Un tempo le era sembrato di sì. E poi non più. Ma dovevano essere stati vicini. Altrimenti era tutto... ogni cosa era... ... senza senso. E di nuovo fu invasa dalla paura. Non di Wayne questa volta, ma dell'assoluta inutilità. Che tutto questo non li avesse condotti a nulla. O che non li potesse condurre a nient'altro. Fin da quando era bambina le era parso che la sua vita incombesse su di lei come una sorta di maledizione. Si rese conto che il vuoto, la mancanza, potevano essere terrificanti. Tanto quanto una minaccia fisica. Si chiese se questa fosse la sensazione di chi non aveva una casa, di chi viveva sulla strada e alla deriva, senza amici, senza speranze, solo. Se fosse quello che provavano gli ostaggi. Un prigioniero politico trattenuto lontano dalla sua casa e dai suoi familiari. In quel momento si sentiva senza fissa dimora, chiusa in una prigione che lei stessa aveva preparato durante tutta la sua vita. Era iniziato tanto tempo fa, quando lei e sua sorella erano soltanto delle bambine. E le braccia di Lee non servivano.
Come aveva potuto pensare il contrario? Le braccia di un uomo. Soltanto quello. Era una sciocca. Ricordava quando si erano conosciuti al club di Howard. Il ricordo come una visione. Avevano davvero sentito qualcosa l'uno per l'altro? Tutti e due? O lei aveva semplicemente mandato un messaggio e lui l'aveva ricevuto? Aiuto. Sono vulnerabile. Odio questa situazione. Portami via di qui e sarò la donna più disponibile che tu possa desiderare di incontrare. Naturalmente lui non era membro del club. Si trovava lì su invito di Howard, il suo nuovo capo. Teoricamente lui avrebbe dovuto perdere diciotto buche a golf. Invece lo aveva battuto clamorosamente. Forse era già stanco di Howard. Era possibile. La gente non resisteva a lungo. Tre settimane più tardi si erano di nuovo incontrati nel parcheggio del Food Emporium e lui le aveva chiesto se avesse già pranzato. Indossava jeans e maglietta (era giovedì, il suo giorno libero). Non somigliava in alcun modo né a Howard né alle persone che lavoravano per lui; alle due del pomeriggio erano già a letto insieme nell'appartamento di Lee, alle quattro lei gli aveva raccontato tutto. Sentiva il suo respiro sui capelli. Le cosce di Lee contro il suo sedere, le sue gambe contro quelle di lei. Perché non serviva? Si sentì abbandonata. O per l'amor del cielo smettila di compiangerti, pensò. Pensavi di sapere quali fossero i rischi. Non li conoscevi. E allora? Non significa nulla. Adesso il problema è Wayne, non Lee, non Howard. Pensa. Concentrati. Puoi farcela. Era come se l'avesse detto a voce alta. «Dobbiamo fare qualcosa», mormorò Lee. «Quando apre il portabagagli. Dobbiamo fare in modo che ti aiuti a uscire. Sei piena di crampi. Cioè, anche se non lo sei, devi far finta, hai capito cosa voglio dire?» Parlava con voce stridula, il respiro debole. Sembrava stesse male. «Ma che cosa...» «Qui c'è il cric. Forse posso... usarlo. Dovrai riuscire a distrarlo. Inciampa. Qualcosa. Non so. Fagli perdere l'equilibrio. Dammi abbastanza tempo per... arrivare a quel figlio di puttana.» Lei annuì. «Stai bene?» «Abbastanza», rispose lui.
Per un po' rimasero in silenzio. «Pensi che l'abbia uccisa?» domandò Carole. «La ragazza?» «Sì.» «Non ho sentito nulla.» «Penso che... l'abbia portata via. Tu cerca di darmi un attimo di tempo quando lui non sta guardando. Va bene?» «Va bene. Lee?» «Dimmi.» «Perché non ce ne siamo andati?» «Andati?» «Perché non ci siamo semplicemente allontanati da Howard. Via da Barstow. Perché lo abbiamo ammazzato?» «Penso...» L'auto sobbalzò. Il cric le si conficcò nel fianco. «Penso che fossimo come pazzi», le rispose. «Penso che lui ci abbia fatto impazzire. Almeno per me, partire, andarsene via non sarebbe stato sufficiente. Dopo quello che ti aveva fatto... volevo vederlo morto. Penso... penso che forse sono stato io a convincerti. Mi dispiace.» «Non sei stato tu a convincermi, Lee.» Sentì le sue braccia stringerla di più. Sta tentando, pensò. Sta perfino cercando di addossarsi tutta la colpa. Tenta di essere forte. Lui non si sentiva affatto forte, e nemmeno lei. C'era qualcosa là dentro che li faceva star male. I buchi per l'aria non funzionavano. Non erano sufficienti. Carole pensò al cric. Se Lee sarebbe stato in grado di usarlo. Questo era il momento, pensò, in cui loro avrebbero dovuto dire qualcosa. Avrebbero dovuto confermare i propri sentimenti. Avrebbero dovuto dire ti amo e comunque ne è valsa la pena. Lui allentò l'abbraccio. Proseguirono il viaggio in silenzio. MERCOLEDÌ MATTINA 25 La ragazza, Susan Olsen, aveva voluto sapere come fosse la madre di Wayne. Rule non riusciva proprio a trovare le parole.
Adesso la ragazza era fuori in macchina con il tenente Neal, che aveva consegnato il mandato di perquisizione. Si stava facendo raccontare di nuovo tutta la storia. Ma non avrebbe ottenuto gran che. La ragazza non sapeva molto. Lock l'aveva tenuta all'oscuro su molte cose. Come per esempio questo armadio. Rule era convinto che lei non ne sapesse nulla. Lock aveva un hobby. Gli piaceva fare dei collage. Le pareti del grande armadio a muro ne erano completamente tappezzate. La maggior parte misurava sessanta per novanta ed era composta da fotografie incollate su cartone. Per prepararli, Wayne aveva smembrato i libri ammassati sul pavimento. Ve ne erano moltissimi. La tortura nella storia, Assassini e sicari in tre volumi, Torture e tormenti dei martiri cristiani. Uno dei suoi preferiti sembrava essere un libro in inglese intitolato Delitti dell'orrore. Aveva ritagliato le immagini dei suoi eroi. Manson, Bundy, il dottar Crippen, Capone, Ed Gein, Albert Fish, il Vampiro di Düsseldorf, Lucky Luciano. Aveva foto del cane morto di Jane Mansfield, di Bugsy Siegal colpito alla testa, del cadavere nudo di Paul Bern in camera di Jean Harlow, e due foto, scattate da angolazioni diverse, del cadavere di Elizabeth Short, la Dalia Nera, che giaceva nudo in mezzo a un prato, perfettamente tagliato in due all'altezza della vita, dissanguato e con il busto mutilato; il tutto era stato ritagliato dai numeri uno e due di Hollywood Babylon di Kenneth Anger. Possedeva un libro intitolato La violenza nella nostra epoca, con foto in bianco e nero della polizia e istantanee pubblicate sui giornali, che si divideva in capitoli dedicati all'abuso su minori, l'omicidio, lo stupro, il suicidio, il genocidio, le esecuzioni, gli assassinii, il terrorismo, i disordini razziali, la guerra e la rivoluzione. Di questo libro non ne erano rimaste che poche pagine. La maggior parte era stata incollata alle pareti. Bambini morti (legati, picchiati, bruciati, strangolati). Colpi sparati in pieno viso. Autoimmolazioni. Pugnalate. Torture. Castrazioni. Cumuli di cadaveri a Belsen, Nordhausen, Weimar. Decapitazioni cinesi. Linciaggi del KKK. I corpi impiccati e calpestati di Mussolini e della sua amante. I cadaveri di Cuidad Trujillo, di Nhu e Diem. Un cadavere carbonizzato che sembra risorgere dalla terra dopo l'esplosione di Hiroshima.
Poi vi erano le Polaroid. Istantanee a colori disseminate tra le foto in bianco e nero dei libri. Alcune sembravano essere state scattate dalla finestra della sua camera e inquadravano la strada sottostante (Rule aveva notato le tendine di pizzo in primo piano). Ve ne erano altre molto mosse, come se fossero state scattate in fretta, di nascosto. All'insaputa del soggetto. Bambini. Vecchie. Uomini e donne. Come fotografo, non aveva pregiudizi. Ne riconobbe solo un paio. Uno era l'uomo che abitava accanto, Roberts, mentre portava a spasso il cane in strada. L'altra era Susan Olsen. In questo caso lei aveva posato per la foto. Si trovava nel parcheggio di un concessionario, di auto accanto a una scintillante Volvo rossa. Stava appoggiata alla macchina, indossava un paio di jeans e una maglietta scollata senza maniche e sorrideva alla macchina fotografica. La sua foto era stata incollata accanto alla Dalia. Non c'era bisogno di essere un genio per afferrare il significato dell'accostamento. Rule aveva davanti a sé la lista nera, ma a colori, delle future vittime. Si chiese che cosa gli avesse fatto Susan. Probabilmente avrebbe dovuto chiederlo a lei. Sullo scaffale dei libri vi era una scatola aperta di puntine, un paio di mollette da bucato in legno e una scatola di fazzoletti di carta, mezza vuota, e uno specchio rotondo con supporto. Anche questi oggetti lasciavano un'impressione molto precisa. Fino a quel momento non aveva trovato nell'armadio o nel resto della casa nient'altro che potesse suscitare interesse. Ormai l'avevano perquisita quasi tutta. Era pulita. Perfino ordinata. Tanto da far pensare che ci vivesse ancora una donna. Un'idea maschilista, ma pazienza. Scese le scale e raggiunse in soggiorno la coppia di agenti in divisa Mutt-e-Jeff. «Dov'è il tenente Covitski?» Il più alto indicò la cucina. «Nel seminterrato», rispose. Anche la cucina era in ordine. Neanche un piatto nel lavandino. La spugnetta sembrava non essere mai stata usata.
In quel momento Covitski stava salendo dal seminterrato. Sorrideva. «Di sotto c'è un freezer. Sai che cosa c'è dentro?» «Vuoi dire che cosa? Non chi?» Covitski scoppiò a ridere. «Spinaci, asparagi e broccoli. Tutto qui. Nient'altro. Deve avere trenta scatole per ciascun tipo.» «Gli piacciono le verdure.» «E non ama variare.» «Dai un'occhiata nell'armadio della camera», suggerì Rule. «È piuttosto interessante.» «Ma niente pistola, vero?» domandò Covitski. «Niente pistola.» «Se l'è portata dietro. Non troveremo niente qui.» «Credo proprio di no. Ascolta, voglio parlare ancora con la ragazza. Non mi aspetto molto, ma voglio tentare. Poi, a meno che non mi racconti qualcosa di sorprendente, penso che dovremmo andarcene a casa a dormire un po'. Lasciamo a Neal e ai due agenti il compito di interrogare i vicini e di piantonare la casa. Lui è riposato. Io mi sento piuttosto fuso. Un paio d'ore sul divano farebbero miracoli. Cosa ne dici?» «Dico buon Dio, certo. Fantastico.» Erano al lavoro da sedici, quasi diciassette ore e avevano fatto tutto ciò che potevano. Era decisamente arrivato il momento di prendersi una pausa. «Comunque, dai un'occhiata all'armadio», ripeté Rule. Covitski sorrise. «Per conoscere meglio il nostro pollo, eh?» esclamò. «Questo faremmo proprio meglio a cercare di conoscerlo», rispose, poi uscì dalla casa e si avviò verso l'auto della polizia dove, seduta sul sedile posteriore, c'era la ragazza che appariva agitata e confusa, Jack Neal le stava accanto e fissava un taccuino praticamente vuoto. Decise che, se lei glielo avesse chiesto, lui le avrebbe raccontato ciò che avevano trovato in casa. Come qualsiasi vittima, aveva il diritto di sapere. Per un attimo pensò ad Ann, in California, poi aprì la portiera opposta a quella di Neal e si accomodò accanto a lei. La ragazza in mezzo a loro profumava di lacrime recenti e di colonia leggera, e iniziò a raccontare per l'ennesima volta tutta la sua storia, la vuota litania della vita di una donna accanto a un uomo che aveva appeso una sua foto alla parete, circondandola di morte, e che lei aveva creduto di amare. 26
Riuscì a voltarsi sul fianco e a mettersi in ginocchio. La foresta ondeggiava. Sentiva dolore e punture dappertutto. Usando le unghie, cominciò a districare il filo di ferro stretto intorno al polso. Il sangue lo rendeva appiccicoso. Il polso era gonfio e il filo era penetrato in profondità. Liberato un polso, ripeté la stessa operazione con l'altro fin quando vide il filo cadere a terra, mandando bagliori umidi al chiaro di luna, e arrotolarsi intorno all'albero di betulla. Sollevò quindi le mani verso il collo e, usando la massima delicatezza, staccò il pezzo di filo che ancora lo stringeva. Il sangue ricominciò immediatamente a scorrere. Lo sentiva in bocca. Non aveva modo di sapere quanto danno le avesse procurato quell'uomo. Sentiva il sangue scenderle lungo la clavicola. Scoprì che, anche se dolorosamente, riusciva a deglutire. Non cercò di rialzarsi in piedi. Era ancora troppo debole per questo. Raccolse i propri vestiti, si appoggiò contro l'albero, infilò sandali, mutande e pantaloncini, poi fece scivolare le braccia nelle maniche della camicia. Riposò. Poi abbottonò la camicia. Si alzò lentamente, puntellandosi contro l'albero fino a quando non sentì che le gambe erano abbastanza forti per sostenerla, poi si avviò in mezzo alla foresta. Ancora una volta sarebbe sopravvissuta. La sua fortuna, qualunque fosse, non l'aveva abbandonata. E prima che la rabbia avesse di nuovo il sopravvento, si chiese perché il saperlo le sembrasse così orribile. Ma poi questa sensazione si annullò nel calore del proprio corpo ancora vivo, nella sua assoluta determinazione a fermarlo, ad annientarlo, a fargliela pagare. Avrebbe fatto tutto ciò che le era possibile per riuscire a fargliela pagare. Avanzò barcollando in mezzo alla foresta sotto il chiaro di luna che illuminava la strada vuota davanti a lei, e intanto riviveva ogni momento, ogni parola, dal momento in cui l'uomo si era fermato dall'altra parte della strada e aveva iniziato ciò che lei, non lui, avrebbe portato a termine. Non le venne neppure in mente che per fare ciò ci volesse del coraggio. Abbracciò l'immagine dell'uomo come fosse stata quella di un amante, e ricordò. 27
Nessuno aveva mai considerato Wayne una persona mentalmente serena. Non lo era mai stato. Il suo cervello era sempre impegnato a escogitare, analizzare, catalogare, progettare e riprogettare, a prescindere da ciò che stava succedendo, da ciò che stava facendo o da chi era con lui, sia che avesse l'influenza o l'emicrania sia che soffrisse di insonnia. Rimuginava tutto il giorno. Esaminava minuziosamente ogni cosa, anche mentre sognava. Era come se la sua mente funzionasse su una frequenza a parte, indipendente da tutto ciò che costituiva la sua persona e che non era cervello. Indipendentemente dalla sua persona fisica. Era raro riuscire a trovarlo all'interno delle sue esperienze. Ma ora, mentre guidava lungo l'autostrada a due corsie Governorqualcosa, completamente deserta, in direzione del lago Winnipesaukee e di Wolfeboro, Wayne sentì una sorta di pace. Forse la sua mente e il suo corpo erano riusciti a trovare un collegamento che fino a quel momento non avevano mai avuto. Forse erano finalmente entrati in sintonia. E forse il suo pene era riuscito, dopo tanto tempo, a mettersi in contatto con il suo cervello. Viaggiava lungo il litorale, completamente soddisfatto. Continuare a correre. 28 «Buon Dio, Rule, che succede? Alle due e mezzo del mattino? Torna a dormire!» «Non ci sono neanche andato a dormire. Ho rovinato tutto.» «Che cosa?» Rule sentì l'analista sospirare all'altro capo del filo, poi il letto che cigolava, il fiammifero che si accendeva e il fumo che veniva profondamente inspirato. «Marty, ho rovinato tutto. Con Ann.» Tre birre ed era già alticcio. Lui stesso si rendeva conto di essere patetico. Sei un poliziotto, pensava. Gesù, smettila di lamentarti. Non poteva farne a meno. «Non so come faccio a saperlo, ma lo so», spiegò. «Ho rovinato tutto. Ho pensato che dovevo dirtelo.» «E non potevi aspettare fino alla nostra seduta?» «È la natura del mio lavoro, Marty. Potrebbe non esserci un'altra seduta.
Non si può mai dire. Volevo che tu avessi qualcosa per cui ricordarmi. Un chiarimento interiore. Nel caso mi succedesse qualcosa.» «Stronzate, Rule.» «Non è detto. C'è in giro un criminale armato.» «I criminali armati sono il tuo pane, Rule. A te piace il tuo lavoro. Che cosa c'è di tanto speciale in questo?» «Credo abbia coinvolto qualcun altro. Qualcuno che mi ricorda Ann in molti modi, ogni maledetta volta che torno a pensarci.» «Quindi c'è qualcosa di personale.» «In un certo qual modo. Sì.» «E non ci dovrebbe essere mai nulla di personale. Potrebbe essere pericoloso.» «Infatti.» «Per questo vuoi un mio consiglio.» «Non ne sono sicuro. Non è per questo che ti ho telefonato.» «Volevi dirmi qualcosa a proposito di Ann.» «Esatto.» «Allora dilla. Io non mi preoccuperei per il resto. Al momento opportuno saprai come rimanerne distaccato. Sopravviverai.» Rule lasciò perdere quell'argomento e tornò al motivo per cui aveva telefonato. «Immagino di avere rovinato tutto Marty. Sarei potuto andare con lei. Oppure avrei potuto fare in modo che lei restasse. Ciò che voglio dire è che avrei potuto influenzare gli avvenimenti. Invece ho lasciato andare tutto alla deriva, poi l'ho abbandonata a se stessa, l'ho lasciata da sola. Ho gettato via tutta la nostra storia. Dopo sette anni, ho lasciato completamente sole lei e Chrissie perché, per qualche motivo, io dovevo essere solo per sentirmi davvero sicuro e se loro non mi odiano per questo, be' dovrebbero proprio farlo. Lei potrebbe essere la cosa migliore che mi sia capitata nella vita, Marty.» «Potrebbe esserlo. Ma a me sembra che anche Ann abbia avuto qualcosa da dire a questo riguardo, vero?» «Certo. Lei ha detto che mi voleva. Solo non nello stesso modo demenziale. E lo stesso modo era l'unico modo che io potevo offrirle. A quel tempo.» «E adesso?» «Adesso non ne sono poi così sicuro.» Marty sospirò. «Ascolta Rule, vai a inseguire il tuo delinquente. Se non
sbaglio sei nel mezzo di un'operazione, giusto? Allora vai e portala a termine. Poi ne riparleremo e vediamo se qualcosa è cambiato, okay?» «Okay. Va bene.» «E una cosa Rule.» «Sì?» «Se vuoi la mia opinione, penso che tu abbia ancora paura di perderla. Ma questo vuol dire essere ostinati, Rule. Perché, ne abbiamo già parlato, tu l'hai già persa. Devi accettarlo. Lei lo ha fatto.» Non sapeva cosa rispondere. Si sentì sciogliere nel letto come se per lui fosse un sollievo, uno strano tipo di sollievo, sentirsi dire quelle parole da Marty, ma allo stesso tempo era come ricevere un colpo del destino. «Un'altra cosa Rule?» «Sì?» «Quando vorrò qualcosa per cui ricordarti, te la chiederò io stesso. Va bene?» «Va bene.» «Okay. Buonanotte, tenente.» «Buonanotte, Marty.» Uscì di casa e si avviò verso il garage. Accese una sigaretta nell'oscurità e rimase per un po' a fissare la casa di bambole. Se si fosse impegnato, nel giro di due o tre fine settimana avrebbe potuto finirla, impacchettarla e spedirla. Si chiese se aveva davvero intenzione di farlo. Terminò la sigaretta e ne accese un'altra. La casa di bambole stava proprio bene lì. Dieci minuti più tardi il telefono squillò. Neanche per un attimo pensò che fosse Marty che lo richiamava. 29 Alle tre e quindici Covitski stava sognando un corpo. Non quello di sua moglie Mae che dormiva accanto a lui, che era piuttosto abbondante. No. Sognava il corpo del reato. Qualcuno aveva fatto irruzione in una casa molto simile a quella di Gardner e aveva rubato i seguenti oggetti: cento dollari in monete da un quarto impacchettate, impossibili da rintracciare, scarpe da donna per un valore di mille dollari, bistecche dal freezer al pianterreno, anch'esse impossibili da rintracciare, apparecchiature fotografiche e computer per cinquemila dolla-
ri, molto difficili da ritrovare se il ladro conosceva il proprio mestiere, e un pappagallo. Accidenti, non sarebbero mai riusciti a trovare neanche una parte del malloppo! E poi stava passeggiando davanti all'Emporium Tattaratà (che non esiste) ed era passato soltanto qualche secondo, l'indagine più rapida di tutta la storia del mondo, quando vede il pappagallo in vetrina. Apre la porta e sente il pappagallo che sta fischiettando. Riconosce subito la musica. Il proprietario del pappagallo, delle scarpe, delle bistecche, delle apparecchiature elettroniche e dei quarti di dollaro gli aveva spiegato che il pappagallo cantava esattamente questa canzone. E soltanto questa canzone. La sigla del The Andy Griffith Show. Da-da-DAT-DAA-da-dadat-DAA-da-da-dat... Esegue immediatamente l'arresto. È un momento da ricordare. Un momento di purezza assoluta, di felicità e, sì, è anche il momento di festeggiare! Poi squilla il telefono. Non in sogno ma nella vita reale, ahimè. Mae si gira nel letto. «Porca miseria», borbotta. Si aggiusta i bigodini sul lato dove adesso sta dormendo e prima che Covitski riesca a portare all'orecchio il ricevitore è nuovamente sprofondata nel sonno. Che Dio la benedica. «Pronto.» È Rule. «Si torna al lavoro, Covitski.» «Oh Gesù...» «Abbiamo la testimone di un omicidio. E Lock ha passato i confini dello stato.» «È uscito dallo stato?» «Esatto.» «Come facciamo a saperlo?» «Una ragazza e il suo fidanzato lo hanno incontrato appena fuori di Plymouth un po' prima di mezzanotte, forse le undici e mezzo. Li ha minacciati con la pistola, ma poi ha usato un martello per ammazzare il ragazzo. Lei l'ha violentata e l'ha lasciata convinto che fosse morta. Dall'ufficio del procuratore distrettuale di Plymouth dicono che non smette più di parlare, ha raccontato abbastanza per farlo condannare una dozzina di volte, è pazzo furioso e violento come pochi.
«C'è una cosa che non mi piace, la ragazza dice che era solo. Non c'erano passeggeri.» «Né Gardner né Edwards.» «Esatto. Ma ascolta, c'è dell'altro. Qualche ora prima sono passati da Hanover. Hanno ammazzato un ragazzo. Proprio in centro. L'arma, una 357 Magnum...» «Allora c'è una Magnum! Sta cercando di confonderci con le armi, con diversi modus operandi.» «Proprio così.» «Hanno identificato l'auto?» «Non l'ha vista nessuno. Ma puoi scommetterci che si tratta del nostro uomo. Ascolta, sto uscendo adesso. Quanto ci metti a raggiungermi?» «Posso arrivare in dieci, quindici minuti.» «Proviamo a fare dieci, okay?» «Puoi contarci.» Si infilò i pantaloni sui vecchi short. Al diavolo. Altri due morti, pensò. Una povera ragazza stuprata. E i due passeggeri, un uomo e una donna, scomparsi. Brutta storia. Davvero. E tuttavia, gli sembrava quasi di sentire il pappagallo. 30 Wayne accese la luce in alto. Estrasse il suo blocco. Cominciò a leggere i nomi. 31 Lepke comunicò via radio alla propria stazione di polizia di avere appena oltrepassato i confini dello stato di New Hampshire, nei pressi di Bradford, e comunicò il numero di targa. Aveva ricevuto istruzioni precise seguire, non arrestare. Ripetiamo. Non arrestare. A lui stava benissimo. Avrebbero mandato una squadra. Perfetto. Lui apparteneva alla stradale. Nessuno gli aveva detto che nel suo lavoro bisognava fare anche l'eroe.
Si chiese se il tizio della Volvo stesse tornando a Barstow. Non si poteva mai dire con questi pazzi. E a giudicare dai messaggi ricevuti, questo doveva essere proprio completamente fuori di testa. Sparatorie dall'auto, stupro. Servizio completo insomma. Stava inseguendo un criminale. Un vero criminale. Era eccitante. Il traffico era scarso e si mantenne a distanza. Era certo di non essere stato individuato, ma lui aveva la luce rossa sul tetto dell'auto e quello della Volvo non era certo cieco. Da dietro si stava avvicinando un'auto, avanzava lentamente sulla sinistra, ne vedeva i fari sullo specchietto retrovisore. Forse poteva fare in modo che quest'auto si mettesse fra lui e la Volvo. Lui si sarebbe fatto notare meno. Rallentò. Il «civile» era alla guida di una Mazda blu nuova di zecca. Lepke gli lanciò un'occhiata. Era un uomo sulla cinquantina che procedeva lentamente come succede quando si sorpassa un'auto della polizia, segnalò correttamente e rientrò nella propria corsia. Molto bene. Procedettero così per un po' di tempo. Poi la Mazda cominciò ad agitarsi. Il guidatore non aveva tutti i torti, non si poteva certo dire che la Volvo fosse lanciata a tutta velocità, anzi rimaneva abbondantemente sotto il limite. La Mazda accese la freccia e si spostò sulla corsia di sorpasso. Lepke rimase a osservare il guidatore che avanzava fino ad affiancare la Volvo, molto lentamente, sempre consapevole dell'auto della polizia dietro di lui. Stai attento, pensò, ancora un paio di chilometri, un'altra collinetta e vedrai che la Mazda si lancerà a più di centodieci all'ora. Come se Lepke non lo sapesse. Come se tutti i poliziotti fossero cretini. Ma lui avrebbe potuto accelerare sulla collina e riprendere la Mazda in tre minuti netti. Nella sua mente vedeva già la scena, continuava a pensare a quello che avrebbe fatto quando all'improvviso udì davanti a lui il boato di un cannone, Gesù! e vide un bagliore metallico fuori del finestrino della Volvo, dalla parte del guidatore, e dalla Mazda partì un'esplosione di vetro e di qualcos'altro, qualcosa di scuro e umido. Poi accaddero contemporaneamente tre cose. La Mazda iniziò a sbandare verso il guardrail di metallo che separava le carreggiate opposte, decelerando rapidamente ma avanzando comunque a una velocità di circa settanta chilometri all'ora. Il guidatore era appoggiato
sul clacson. O qualcosa comunque lo era. E la Volvo aveva accelerato rapidamente. Il suo indicatore segnalava novanta, novantacinque, centocinque. E Lepke si chiese se il tizio non lo avesse individuato fin dall'inizio. Allungò la mano verso il microfono per segnalare l'emergenza e, allo stesso tempo, premette sull'acceleratore, adesso non aveva altra scelta se non quella di inseguire quel pazzo furioso, ma in quel momento la Mazda andò a sbattere contro il guardrail. Il che mandò tutto all'aria. Perché con grande stridore e scintille nell'aria, la Mazda strisciò contro il guardrail per un paio di metri poi, con un testacoda, cominciò a tornare indietro lungo la propria carreggiata, come un manzo appeso a un gancio, a una velocità di circa cinquanta chilometri l'ora, e questo proprio mentre Lepke stava per sorpassarla, e in quel momento non riuscì a capire cosa fosse meglio, se inchiodare o no, era ormai così veloce che continuò ad avanzare, accelerando, inseguendo quel figlio di puttana, pregando che la sua velocità fosse quella giusta, udì la radio che chiamava la sua auto rispondi, rispondi proprio mentre la Mazda si conficcava nella sua portiera schiantandosi contro di lui. Le gambe furono colpite per prime, poi le costole e successivamente sentì l'avambraccio che cozzava contro il volante, il tutto in rapida successione, anche lo sterzo si spezzava e lui cominciava a girare su se stesso con la Mazda, in una specie di valzer di metallo accartocciato, roteando a trecentosessanta gradi mentre le fiamme cominciavano a lambire il suo corpo immobilizzato, bruciandogli gli abiti, carbonizzando il suo corpo, diventando il suo corpo, i capelli carbonizzati, gli occhi che già cominciavano a friggere mentre lui urlava, si contorceva, urlava e fissava oltre il parabrezza frantumato, e vide l'ultima cosa che avrebbe mai potuto vedere. L'autostrada vuota. La collina. La Volvo scomparsa. 32 C'era grande attività nell'ufficio, come Rule non aveva mai visto ed erano le quattro del mattino. Hamsun, tornato in ufficio dopo aver dormito quanto Rule cioè per niente, era nel suo cubicolo con la porta spalancata e parlava al telefono con la stradale. Vi erano poliziotti che ricevevano informazioni per telefono e altri che stendevano verbali, le macchine da scrivere in piena attività come
se fossero stati in un ufficio di dattilografe. In qualche modo la stampa era venuta a conoscenza della storia e le redazioni dei giornali telefonavano perfino da New York. I telefoni squillavano come se si stesse svolgendo un telethon. Wayne-Aid. Quando entrò Covitski, lui aveva appena smesso di parlare con Bradford. «Sei pronto?» domandò. «Ha ucciso un poliziotto.» «Ha fatto che cosa?» «Ha ucciso un poliziotto.» Rule gli spiegò in breve ciò che era accaduto. «Vieni a vedere», lo invitò. Si alzò e si avvicinò alla cartina appesa alla parete. «Il nostro uomo è piuttosto strano. Prima lo abbiamo individuato qui sulla 89 diretto a Montpelier. Poi ha attraversato il confine ed è entrato nella contea di Hanover; e qui ha ammazzato un ragazzo con la Magnum. Poi ha percorso un bel tratto ed è arrivato a Plymouth. Violenta una ragazza e uccide uno studente e alla fine è qui. Di nuovo oltre il confine, dalle parti di Bradford.» «Sta facendo un cerchio.» «A quanto pare. Di certo non è diretto in Messico.» «Come ci siamo organizzati?» «Abbiamo sistemato delle auto davanti a casa sua, davanti a quella dei Gardner, di Susan Olsen e davanti alla casa di riposo della madre, anche se non ci sono molte probabilità che vada lì. Abbiamo diramato un bollettino a tutte le pattuglie e l'intera costa orientale, dal distretto di Columbia fino al Canada, è stata allertata. «Una Volvo rossa, buon Dio. Quel figlio di puttana non ha neanche il buonsenso di cambiare auto. «E ci sono dentro anche i federali. Dal momento in cui ha attraversato il confine con la Gardner ed Edwards, oltre a tutto il resto si è resto colpevole anche di rapimento. È una questione di tempo. Lo prenderemo.» «E adesso che cosa facciamo?» «Facciamo quello che fanno gli altri. Rispondiamo al telefono. Aspettiamo. I federali arriveranno fra circa», controllò l'orologio, «venti minuti. Ci spremiamo le meningi. Una meraviglia. Vuoi un po' di caffè?» «Sto pensando a Edwards e alla Gardner. Non mi piace per niente.» «Neanche a me. Soprattutto considerando i cinque morti, se non ce ne sono altri.»
Squillò il telefono. Covitski si sedette e sollevò il ricevitore. «Nero», esclamò. «Che cosa?» «Il caffè. Fammelo nero.» 33 Li vide nel momento stesso in cui svoltò nella strada. Sembrava un'auto qualunque, ma lui sapeva chi vi era dentro. Praticamente li fiutava. Spense i fari e rallentò fino a fermarsi. Parcheggiò la Volvo a circa mezzo isolato di distanza. Allungò la mano verso il sedile posteriore, trovò ciò di cui aveva bisogno, poi scese, chiudendo silenziosamente la portiera. In quel momento udì qualcuno che picchiava contro la porta del bagagliaio. Questo stava a significare che erano ancora vivi. Ne era lieto. Li voleva vivi. I suoi testimoni. In strada, il lampione si era rotto una settimana prima e nessuno era ancora venuto a ripararlo. Era davvero un problema vivere in quella parte della città. Ma naturalmente adesso veniva tutto a suo vantaggio. Pensò che la città stessa era diventata una specie di giocattolo nelle sue mani. Era solo giusto. La città apparteneva a lui. Si mantenne vicino alle siepi. In quella casa vivevano un bambino e una bambina. Gemelli. Dovevano avere circa sette anni. Dalla parte opposta della strada c'erano due donne, zitelle. Continuò ad avanzare. Si fermò davanti alla villetta dei Crocker. La moglie si chiamava Rebecca, il marito Lance. Che diavolo di nome era Lance? Tenevano la casa in perfetto ordine, questo bisognava ammetterlo. Il prato era perfettamente tosato. Ogni sabato vedeva il marito che tagliava l'erba. Ma anche loro erano nel suo libretto, per via del nome. Un nome che lo offendeva. L'auto era proprio di fronte a lui, parcheggiata davanti alla villetta di Ed Schorr. Ed era un tipo a posto. Lavorava all'ufficio postale. Ogni volta che andava a comprare francobolli o cose del genere, Ed si dimostrava molto efficiente e cordiale. Ma aveva una moglie che era una puttana. Indossava abiti troppo stretti, si truccava pesantemente e quando le sorridevi, lei non rispondeva al sorriso. Come se fosse chissà chi. E non la moglie di un
qualsiasi impiegato delle poste. I due poliziotti erano seduti in auto con i finestrini abbassati, poveri idioti. Certo, faceva caldo. Ma loro rendevano tutto più facile. E lui sapeva esattamente come avrebbe agito. Si avvicinò. Treat e Burkeman erano ancora riposati. Erano abituati a fare il turno di notte e si trovavano lì da appena un'ora e mezzo. Treat, al volante, teneva ancora in mano una tazza di caffè piena per metà. Burkeman aveva terminato la sua e aveva anche fatto fuori una merendina dolce e una confezione doppia di Twinkies. A Burkeman piaceva tutta quella robaccia, il che probabilmente spiegava il motivo per cui, a trentatré anni, avesse ancora problemi di pelle. I brufoli gli spuntavano come funghi durante la notte. Teneva il viso scrupolosamente pulito, ma non serviva a nulla. I brufoli lo amavano. Che fare. Stavano parlando di Willie Bly, un poliziotto che, tre sere prima, se l'era presa con un gruppo di adolescenti, dopo essere stato seduto tutto il giorno da Logan a bere whisky. Aveva cominciato a inveire contro i ragazzi, insultandoli in tutti i modi solo perché se ne stavano fuori a fumare qualche sigaretta e, quando lui era uscito dal bar, li aveva visti appoggiati sulla sua Chevy vecchia di dieci anni. Bly adorava la sua Chevy e odiava gli adolescenti. Probabilmente perché ne aveva tre a casa. I ragazzi si erano lamentati con i propri genitori e i genitori si erano rivolti al superiore di Bly, che adesso era stato sospeso per una settimana. Probabilmente, anche il fatto che una delle ragazze fosse figlia di un consigliere comunale c'entrava in qualche modo. A Burkeman non era sembrato giusto. Ma secondo Treat, prima o poi Bly doveva imparare a tenere il becco chiuso (Burkeman ricordava quando Bly aveva chiamato Hamsun, un capitano perdio, quel culone senza cazzotto). E questo, davanti a mezza squadra? Burkeman lo ricordava, e ci risero sopra, mentre Treat continuava a sorseggiare il suo caffè tiepido, quando l'uomo apparve dal nulla, si affacciò al finestrino di Burkeman, sorridendo, e lo pugnalò alla gola con un coltello da cucina la cui lama, lunga venti centimetri e di acciaio inossidabile, penetrò talmente in profondità che Treat si ritrovò a fissare sei centrimetri di acciaio insanguinato che uscivano dal collo del suo compagno e mentre
lasciava cadere la tazza di caffè e cercava la pistola, l'uomo sollevò l'altra mano e gli sparò in fronte. Nonostante tutto, Burkeman era ancora vivo e si vide cadere in grembo un pezzette di tubo per innaffiare di gomma verde, che l'uomo aveva usato come silenziatore, anche se molto rozzo, e Burkeman in quel momento aveva pensato Gesù, sono fottuto, sono davvero fottuto, e poi, fissando allibito il pezzo di tubo, e questo che diavolo è?, ma intanto Treat dopo aver sbattuto contro la portiera era rimbalzato andando ad accasciarsi contro la spalla di Brukeman, mentre il forellino al centro della fronte continuava a stillare sangue. Ebbe appena il tempo di rendersi conto di tutto ciò, le mani che si alzavano lentamente verso il collo, quando l'uomo afferrò il manico del coltello e tirò verso di sé. Burkeman sentì la trachea che si squarciava e, quando l'uomo diede un altro strattone, vide il sangue sprizzare tutto intorno. Ben gli sta, pensò Wayne, per avere fatto la guardia in modo così stupido. 34 Carole udì la chiave che veniva inserita nella serratura e sentì che Lee le stringeva delicatamente la mano. Un istante prima che il portabagagli si aprisse, Carole tornò a essere nuovamente bambina, rannicchiata contro la sorella maggiore Alex, nell'oscurità. La porta della loro camera stava per aprirsi. Da un momento all'altro sarebbe entrato loro padre. Il padre era insegnante di matematica in una scuola superiore (in seguito, quando Carole era ormai un'adolescente, lui sarebbe diventato preside); era un uomo alto e magro con gli occhiali e i capelli scuri e ondulati. Somigliava un po' al papà di Dennis nel fumetto Dennis the Menace. Almeno fino a quando non diventò preside e i suoi capelli si fecero prima grigi e poi bianchi. Il padre, in pigiama, entrava nella loro camera e sussurrava qualcosa a una di loro, ad Alex o a Carole, e la prescelta scendeva dal letto e cominciava a seguirlo lungo il corridoio buio, oltre la camera dove dormiva la madre e fino alla stanza degli ospiti, che in realtà non era una stanza degli ospiti ma la camera dove il loro padre trascorreva la maggior parte delle
notti, lui scostava le coperte e lei saliva nel letto. Le lenzuola odoravano del padre che, fermo sull'uscio, restava a osservarla fino a quando si addormentava o fingeva di dormire, poi andava a sdraiarsi accanto a lei. Qualche minuto dopo iniziava a toccarla, dapprima con esitazione, poi penetrando più a fondo con le dita, e Carole o Alex cercavano con tutte le loro forze di non piangere. Va tutto bene, diceva. Il papà ti ama e ti amerà sempre. Sei una brava bambina. Adesso sì che sei una brava bambina. L'attimo prima che il portabagagli si aprisse sulla realtà della strada, sua sorella le strinse la mano per l'ultima volta. E poi vi fu Wayne che sorrideva. Le sue mani erano macchiate e lucide. Nella destra teneva la piccola calibro 38. La valigetta era posata a terra, accanto a lui, lungo il cordolo. «Aiutami», mormorò lei. «Ho bisogno della tua mano.» Era vero. Non stava mentendo. Non poteva uscire di lì senza un aiuto. Le girava la testa. Soprattutto dopo quella ventata d'aria fresca. Sentiva le ossa sottili e fragili. Allungò il braccio in cerca della mano. «Aiutami.» Lo vide esitare per un momento. Poi l'afferrò. Carole riuscì a raddrizzare leggermente la gamba destra e a farla scivolare oltre il bordo del vano, servendosi della presa per tenersi in equilibrio e per non cadere addosso a Lee. Wayne la tirò verso di sé e lei sentì il piede che toccava l'asfalto, poi il suo corpo che si distendeva, che scivolava fuori del vano verso di lui, la gamba che strisciava dolorosamente contro il paraurti, quasi storcendo la caviglia nel momento in cui vi si appoggiò con tutto il peso. Lui tirò con maggior forza e i polmoni di Carole si riempirono di aria fresca e tiepida mentre il piede rimaneva impigliato nel bordo, la punta della scarpa impigliata, e la sua mano libera che si portava repentinamente in avanti, verso di lui, verso la spalla della mano che impugnava l'arma, tentando di aggrapparvisi, cadendo verso di lui, ubriaca di aria fresca, afferrandosi alla sua camicia e tenendola stretta e non lo faceva apposta, stava davvero cadendo, non era ciò che avevano progettato. Per ironia della sorte, era tutto reale. Lo sentì imprecare. E invece di sostenerla, lui si spostò di lato e indie-
treggiò, lasciando la presa della mano mentre le dita di Carole, incapaci di tenersi aggrappate alla camicia, scivolarono inutilmente sul petto di Wayne. Carole sentì la mano che impugnava la pistola circondarle la vita e, dopo averle fatto fare un mezzo giro, si sentì scagliare lontana da lui, verso la strada e verso il cordolo giallo, poi lo sentì urlare e seppe che Lee alla fine aveva fatto qualcosa, doveva avere usato il cric. Ma in quel momento il cordolo si avvicinò rapidamente. E la colpì come una pietra. Lee un po' cercò di colpirlo con il cric e poi glielo lanciò addosso. Lo prese proprio sull'anca, con uno schianto di osso e rumore di metallo che cadeva a terra. Aveva visto Carole che veniva scagliata contro il cordolo e Wayne che barcollava per l'impatto e per lo slancio, ferito, quasi sul punto di cadere, mentre lui si ritrovava fuori dell'auto con le gambe che sembravano quelle di un vecchio e si lanciava su Wayne tentando di strappargli la pistola. L'arma gli venne incontro. Sentì l'osso dello zigomo frantumarsi. Lee cadde, riuscendo a malapena ad aggrapparsi al bordo del portabagagli. Pensava, oh no, oh Gesù Carole, abbiamo sbagliato tutto. Non sentiva nemmeno il male. Non era neanche preoccupato per lei. Soltanto abbiamo sbagliato tutto. Si voltò. E si ritrovò a fissare dentro la canna corta e rotonda della pistola automatica. «Stronzi», gridò Wayne. «Guarda che avete combinato.» Lee guardò. Carole giaceva in mezzo alla cunetta della strada. Vi erano foglie e rametti, un pacchetto vuoto di caramelle, o di sigarette, e le sue gambe avevano qualcosa di sbagliato. Larghe, senza alcuna dignità, senza bellezza, la gonna sollevata fino alla vita, l'angolazione, tutto gli appariva sbagliato. Oh mio Dio, pensò. Anche le braccia non erano nella posizione giusta. Uno sollevato sopra la testa, la mano posata sul cordolo come se stesse cercando di raggiungere l'erba più oltre, l'altra lungo il fianco, con il palmo all'insù, le dita piegate. I lunghi capelli che le coprivano il volto come se la sua immagine fosse stata immortalata in una foto (donna sorpresa alle spalle da un forte vento).
«Davvero un bel lavoro», commentò Wayne. «Vaffanculo.» Faaancuuu. La mascella aveva urtato contro i muscoli della guancia e lo zigomo frantumato urlava di dolore. Sembrò che a Wayne in quel momento non importasse di venire insultato. «Alzati», sospirò. «Vai a vedere se è viva o morta o che cosa.» Lee si avvicinò e si inginocchiò malfermo accanto a lei. Sotto i raggi della luna la parte superiore della testa di Carole appariva nera. Riusciva a vedere lo zampillo, ininterrotto e denso, di sangue. Le provò le pulsazioni sul collo. Grazie a Dio. «Un medico», esclamò. «Ha bisogno di un medico.» «Non di un carro funebre?» sorrise Wayne. «Sei fortunato. Prendila in braccio.» «Non bisognerebbe spostarla.» «Prendila in braccio maledetto stronzo traditore o ti ammazzo qui stesso e poi lei potrà alzarsi da sola e andarsi a cercare il medico fa quello che ti ho detto!» Lui non voleva toccarla (per quanto ne sapevano poteva avere il collo rotto), non voleva toccarla e tantomeno prenderla in braccio ma non si poteva discutere davanti a una pistola e per quanto brutta fosse la situazione erano tutti e due ancora vivi. Le sollevò la testa e gliela piegò delicatamente in modo che appoggiasse contro il suo petto, le passò un braccio sotto le gambe e l'altro sotto la schiena, poi si rialzò. Le sue gambe riuscivano a malapena a sopportare il peso. Una volta in piedi si voltò verso Wayne. Sentiva l'umido che gli si spandeva sulla camicia. «Dove?...» domandò. «A casa», rispose Wayne. Afferrò la valigetta e gli fece un cenno con la pistola. «Andiamo a casa, Lee. O almeno, questo vale per me. Tu? Non so dove tu stia andando. Davvero non lo so. Vorrei proprio saperlo.» 35 «Una volta ha cercato di strangolarmi», mormorò Susan. «Quando è accaduto?»
Okay. Finalmente ci siamo, pensò. Ora sapremo perché l'ha lasciato. Per tutto il resto la ragazza si era dimostrata disponibile a collaborare. Solo su questo argomento era apparsa evasiva. Anche dopo aver saputo perché cercavano Wayne. Ma adesso se ne stava seduta davanti alla sua scrivania, beveva una tazza di caffè e aveva sul volto un'espressione molto decisa e Rule sapeva che stava cercando di trovare il coraggio di rivelare ciò che, fino a quel momento, aveva taciuto. Non le fece pressioni. Attese. «Proprio sabato scorso», spiegò la ragazza. «Stavamo... facendo l'amore.» Brava, continua, pensò lui. «E lui ha cercato di strangolarla?» «Stavamo facendo l'amore e lui era... e tutto era perfettamente normale. Poi all'improvviso lui ha cominciato a strangolarmi.» «E questo dove è successo? A casa sua o a casa di Wayne?» Lei scrollò la testa. «Né l'una né l'altra. Eravamo in montagna. Al Notch.» «Al Notch?» «Stavamo facendo una passeggiata. Ci eravamo portati dei panini. Dovevamo andare fino al laghetto. Ma io ero un po' stanca e ci siamo fermati e non c'era nessuno intorno... così noi... così io... abbiamo cominciato a fare l'amore.» Non riusciva a crederci. Avrebbe voluto dire tu pensavi che eravate soli lassù, ma rimase in silenzio. Aveva già un'idea ben precisa di che cosa avrebbe detto la ragazza subito dopo. «Susan, quando lui le ha fatto questo... dopo che lui le ha fatto questo lei che cosa ha fatto?» «Mi sono arrabbiata. Sono andata su tutte le furie. L'ho mollato lì.» «Lei se n'è andata?» Susan annuì. «È tornata indietro?» «Esatto.» «E lui che cosa ha fatto allora?» «Non lo so. Da quel giorno non gli ho più parlato. Immagino sia rimasto lassù. Cioè, non ha cercato di seguirmi o cose del genere. Perché?» Wayne era rimasto da quelle parti. Li aveva visti. Non era un complice. Li aveva visti mentre assassinavano Howard e poi era riuscito in qualche
modo ad arrivare fino a loro. Quello era un maledetto colpo di fortuna. Ma ora tutto combaciava. «Mi scusi Susan, le dispiace se chiamo il tenente Covitski perché senta anche lui la sua storia? So che è dura per lei ma...» «Non m'importa. Il momento più duro è stato questo. Capisce quello che voglio dire?» Lui capiva. E avrebbe potuto darle un bacio. Andò a chiamare Covitski. 36 «Sistemala qui», ordinò Wayne. E indicò il divano. «No, aspetta un attimo. Vieni qui. Cammina, avanti.» Spinse la Magnum contro le reni di Lee e gli fece attraversare prima il salotto poi un piccolo corridoio che conduceva alla cucina. Aprì un cassetto e ne estrasse una manciata di tovaglioli bianchi. «Okay, torniamo indietro», disse. In salotto, piegò due tovaglioli a metà e li sistemò su un cuscino del divano. Lee l'adagiò. La parte destra della sua camicia era inzuppata di sangue dalla spalla fino alla vita. «Prendi», ordinò, porgendogli un tovagliolo. «Fasciale la testa.» Carole sbatté lievemente le palpebre. Lui piegò il tovagliolo come aveva fatto Wayne, glielo posò sulla testa, coprendo la ferita e glielo legò sotto il mento. Il sangue cominciò a filtrare attraverso la stoffa. «Non è sufficiente», fece notare. «Abbiamo bisogno di un medico.» «Tieni.» Wayne gli porse un altro tovagliolo. Era sempre qualcosa. Lee lo legò sopra al primo. Poi premette delicatamente con la mano, cercando di fermare il sangue e continuando a pensare emorragia cerebrale (a che punto un colpo diventa mortale? Maledizione, non ho idea di cosa sto facendo qui). «Visto, va meglio.» «Non va meglio. Gesù! Potrebbe morire, Wayne!» Sembrò prendere in considerazione questa possibilità. «Lee, ti ho mai detto che un tempo ho fatto il paramedico?» «Stronzate.» «No, è vero. L'ho fatto per circa un anno. Poi mi sono annoiato.» «Annoiato, Wayne?»
Sembrò rendersi conto che la scelta delle parole era sbagliata, che occorreva un bello sforzo per trovare una concatenazione logica. Lee si sentì avvampare dalla rabbia. Avrebbe voluto prendere quell'uomo e farlo a pezzi. Pensava di poter fare quello che voleva, quel bastardo. Farla sempre franca! «Non discutere con me, Lee. Se ti ho detto che ero un paramedico, vuol dire che lo ero. Io mi occuperò di lei. Non abbiamo bisogno di nessuno stramaledetto medico. Adesso toglile i vestiti. Le daremo un'occhiata.» «Che cosa?» «La visitiamo.» «Vaffanculo.» «Le hai sentito il polso? No. E le hai ascoltato il battito cardiaco? No. Vedi? Non sai niente! Anzi, togliti di lì. Ci penso io.» «Non se ne parla neanche.» «Se ne parla sì, Lee.» Sollevò la Magnum. Lee si alzò in piedi. Non ne poteva più di lui. Era stufo marcio di quell'uomo. «Usa quell'aggeggio e sveglierai tutto il vicinato in un raggio di chilometri. Tempo qualche minuto, e ti ritroverai qui la polizia.» Wayne infilò la mano nella tasca posteriore. «Allora userò questa.» Appoggiò la Magnum sul tavolinetto accanto a lui e puntò la calibro 38, poi infilò la mano in tasca e ne estrasse quello che sembrava un pezzo di tubo in gomma verde, nero e spaccato a un'estremità, e lo infilò sulla canna della pistola. «E questo la renderà più silenziosa.» «Pensavo che ci volessi vivi, Wayne.» «È vero. Poi voi due avete rovinato tutto. Ve la siete presa con me. Io pensavo che potessimo diventare amici, ma fin dall'inizio voi avete cercato di farmi del male e di procurarmi dei guai.» «Noi volevamo fare del male a te?» «Proprio così.» Continua a farlo parlare, pensò Lee. Adesso non aveva più la Magnum. E non era lontana. Avvicinati. Avanzò di un passo. «Io penso che le cose siano andate proprio al contrario, Wayne.»
«Non me ne frega un cazzo di quello che pensi tu, Lee.» «Credevo che dovessimo essere i tuoi testimoni. Testimoni di che cosa, Wayne?» «Miei, stronzi. Miei! Non capisci proprio niente?» «Perché? Cosa sei, una specie di fenomeno naturale? Come il tempo?» «Sì! Sì esattamente! Come il tempo, Lee! Come una maledetta tempesta! Io sono la tempesta! Sono quello che spazza via tutto, che abbatte le case con dentro tutti voi merdosi! Che vi porta via tutto quello che avete comprese le vostre maledette, stupide vite! Hai capito? Hai capito adesso?» Quello che si fa con una tempesta è aspettare che si plachi. Posso essere più furbo di questo figlio di puttana, pensò Lee. Posso manovrarlo. E posso sopravvivere. Controllati. «Hai capito?» «Sì. Penso proprio di sì, Wayne», rispose. Usa il suo nome. Avanzò di un passo, sollevando la mano davanti a sé, tenendola bassa, senza ombra di minaccia. A palmo in su. «Ascolta, Wayne. Non voglio farti arrabbiare. Non voglio farti alcun male. Ci hai frainteso. Ma prova a immaginare. Che cosa avresti fatto se fossi stato al nostro posto. Non avresti cercato di liberarti? Avevi promesso di lasciarci andare, ma non lo hai fatto. Ci hai infilato nel bagagliaio di un'auto, Wayne. Dopo una cosa del genere, al mio posto non avresti cercato di liberarti?» «Forse sì.» «Vedi?» Wayne continuava a fissarlo. Lee non riusciva a leggere niente nel suo volto, né in un senso né nell'altro. Sospirò. «Ascolta, potrei... ti seccherebbe se mi fumassi una sigaretta Wayne? Io le ho finite. Ne hai una? Gesù, non so proprio cosa pensare di tutta questa storia. So soltanto che vorrei proprio fumarmi una sigaretta.» «Non cercare di fregarmi, Lee.» «Non cercherei mai di fregarti, Wayne. Ti sto solo chiedendo una sigaretta. Nient'altro.» «E di lei cosa ne facciamo?» Fece un cenno del capo in direzione di Carole. «Fai quello che vuoi, Wayne. Forza. Toglile i vestiti. Hai detto di essere un paramedico, e se lo dici può darsi che sia vero. Onestamente non me ne
importa più nulla. Non ce la faccio più. Sono esausto.» Un passo. Questa volta di lato. Senza fargli pressione. Non fargli pressione. Di lato ma un po' più avanti. La Magnum mandava bagliori sotto la luce di una lampada da tavolo di fronte a lui. Un portacenere di ceramica, vuoto, proprio lì accanto. Sigarette e portaceneri. «E per la sigaretta?» Wayne strinse gli occhi. Le labbra si sollevarono agli angoli in quello che probabilmente doveva essere un sorriso. «Ma che cazzo di sigaretta Lee. Tu non vuoi la sigaretta. Tu vuoi la pistola. Vuoi la pistola? Vai a prenderla.» «Non voglio la pistola.» «Certo che la vuoi. Adesso ti comporterai da eroe.» «No.» «E invece sì.» «Non è quello che avevo in mente, Wayne.» «E che cosa avevi in mente?» «Una sigaretta.» «Una sigaretta.» «Esatto.» «Sei un bugiardo, Lee. Torniamo da dove siamo partiti. Tu spogli la puttana e io le do un'occhiata.» Non è così che deve andare, pensò Lee. Come faceva Wayne a leggergli sempre il pensiero? Non era la prima volta che succedeva. Era come se la sua mente seguisse un qualche procedimento segreto. Gli leggeva il pensiero, continuamente. Era terrificante. «Non voglio spogliarla, Wayne.» «Perché no?» «Non potrei avere soltanto una sigaretta?» «Mi stai dicendo di no, Lee?» «Senti. Io non... sì. Credo proprio di sì. In questo caso sì. Ti sto dicendo di no, Wayne.» «Perché?» «Perché? Oh Cristo santo!» Lo stava perdendo. Sapeva di non dover perdere il controllo ma quest'uomo riusciva a fargli saltare i nervi, anche quelli che non sapeva di avere. In qualche modo era per lui fondamentale che gli abiti di Carole restas-
sero esattamente come e dove erano. Per quale motivo? Cosa importava? Wayne avrebbe comunque fatto quello che voleva, a meno che lui non fosse riuscito a impossessarsi della pistola, e per fare questo aveva bisogno di mantenere il controllo. «Credo di sapere quello che stai cercando di fare, Lee, stai cercando di riportare tutto alla normalità e di essere nuovamente mio amico, stai cercando di tranquillizzarmi. Una sigaretta tra amici, e cose del genere. «Ma è troppo tardi, Lee. Ormai siamo andati oltre. «La tua puttana sta per morire. Ti rendi conto di questo?» Concentrati, pensò. Ci deve essere un modo. Non permettergli di incastrarti. Dimentica Carole. Devi farlo. Adesso siamo solo noi due. Così dev'essere. «Io me ne starò qui seduto e la guarderò morire.» Il suo volto assunse un'espressione sognante. «Dovrebbe essere piuttosto interessante. Lei sarà completamente nuda. E io starò a osservarla. Il suo respiro si farà sempre più leggero. I suoi seni andranno su e giù. Su e giù. «E poi... si fermeranno. «Diventeranno freddi. Diventeranno bianchi. Blu e bianchi. Il sangue scorrerà via... «Allora. Vuoi stare qui con me? «Vuoi guardare? «Vuoi ancora che siamo amici, Lee?» Era impossibile. Sentì dentro di sé un impeto crescente, qualcosa che girava come una turbina. Energia elettrica, fragore di acqua. Vi era solo un modo per diminuire quella pressione interna ed era sparargli e vederlo morire. Si tuffò verso il tavolino. Sentì la pistola sparare, il crepitio di qualcosa che attraversava lo spazio fra lui e Wayne e gli si conficcava nel petto, facendolo cadere. Allungò la mano verso la gamba del tavolino e la tirò fino a quando questo non cadde, mandando in frantumi la lampada, facendo scoppiare la lampadina e lanciando schegge di vetro sui piedi di Wayne, mentre la Magnum rimbalzò una volta sul tappeto e la sua impugnatura, strisciando, fece roteare l'arma verso di lui. Si lanciò verso la pistola e l'afferrò con le dita ghiacciate proprio mentre l'arma di Wayne sparava una seconda volta e Lee sentì che il proiettile gli
si conficcava nel petto a meno di due centimetri di distanza dal primo, immediatamente al di sopra, come se lui fosse stato una sagoma di cartone in una sala di tiro. Sentì le dita che si intorpidivano, la pesante impugnatura che gli sfuggiva, il torpore che si diffondeva attraverso il petto e il braccio, partendo dalla spalla, e si voltò, cercando di afferrare l'arma con la sinistra, ma era troppo lontana. Cadde all'indietro e vide Wayne che faceva fuoco per l'ultima volta, percepì l'incredibile precisione dei colpi che avevano formato uno stretto triangolo e abbassò lo sguardo su di sé, il proprio sangue mescolato con quello di Carole che si allargava sul petto. Pensò guarda che cosa ho combinato. Pensò adesso non ti farai visitare da nessun medico, oh Gesù, sorpreso che, mentre stava per morire, il suo pensiero fosse per lei e non per se stesso e rattristato nel comprendere, così tardi, che era capace di tanta generosità. Guarda, pensò. Guarda che cosa ti ho fatto. Guarda. 37 Le avvolse un altro tovagliolo intorno alla testa. Non voleva macchiare il divano. Afferrò con il pollice e l'indice il bottone superiore del vestito e lo fece scivolare lentamente fuori dell'asola. Poi passò a quello successivo. E a quello successivo. Se la prese con calma. Aprì l'abito. Il sottile reggiseno color lavanda chiaro si allacciava sul davanti. Fece scattare il gancio. «Mi hai mentito», mormorò. Lei gli aveva detto di non avere cicatrici, e invece ne aveva. In particolare, una sottile linea bianca che partiva dal centro del petto, attraversava il seno destro e il capezzolo e spariva dall'altra parte, oltre la curva del seno. Le tolse le scarpe e le posò accanto a Lee, che giaceva a terra, contro il divano. Le mutandine erano in tinta con il reggiseno. Leggere e ornate di pizzo. Le fece scivolare giù dai fianchi, le piegò una volta e le sistemò accanto alle scarpe. Era quasi l'alba. La pelle di Carole sembrava scintillare nella pallida luce. Praticamente
non aveva il segno dell'abbronzatura. Osservando la sua carne, si poteva pensare che fosse già morta. Dal respiro leggero, Wayne sapeva che non era vero. Ma l'idea lo stuzzicava. Pensò che anche con i tovaglioli e il sangue raggrumato sul volto, Carole era davvero molto bella. Così bella la morta. Così vulnerabile. Si slacciò la cintura. Abbassò la cerniera dei pantaloni e se li tolse. Scopare la morta e agonizzare. Si allungò su di lei. La sua pelle era così tiepida. Rovinava l'illusione. Era una bella pelle, morbida. Liscia come quella di Susan anche se Carole aveva probabilmente dieci anni di più. Ma lui, dopo tutta quella perdita di sangue, si era aspettato di trovarla gelata. O almeno un po' più fresca. Qualcosa di più simile a una morta. Non riusciva a eccitarsi. Non era abbastanza duro. La cosa lo sorprese. Quella puttana sulla strada di Plymouth, pensò. È stata colpa sua. Lo aveva prosciugato. Diede un morso alla cicatrice per farselo indurire. Il corpo di Carole non si era mai mosso. Da quel punto di vista era come se fosse davvero morta. Con questo pensiero finalmente il suo pene cominciò a sollevarsi. Cercò di penetrarla ma era troppo asciutta, lui si leccò quindi il palmo della mano fino a quando non divenne scivoloso di saliva e si strofinò, poi tentò di nuovo. Non funzionava. Maledizione! Era colpa di Carole. Era lei che gli stava facendo questo. Non la puttana di Plymouth. Maledetta Carole. Maledetta Carole che ancora una volta gli rompeva i coglioni. Andiamo via. No no. Non puoi fare questo. Io non lo farò. Puttana! Morse la cicatrice con più forza fino a quando non sentì in bocca il gusto del sangue ma questo non migliorò in alcun modo la situazione del suo pene, quella stronza se ne stava lì sdraiata senza fare nulla per lui, nulla, non c'era eccitazione, nessun brivido, nessun piacere in lei. Non era per niente divertente.
Lui non era stupido. Sapeva che stava cercando di sconfiggerlo così come aveva fatto al bar, quando si era rifiutata di andare da quella coppia seduta al tavolo accanto al loro, ma poi gliel'aveva fatta vedere, aveva ammazzato sei o sette persone sì, erano sette contando anche Lee e poteva benissimo fargliela vedere ancora. Gliel'avrebbe fatta vedere a tutti. «Vaffanculo», gridò. «Andate 'affanculo tutti quanti!» Si rialzò e, in piedi davanti a lei, cominciò a prenderla a schiaffi con forza. Il sangue di Carole schizzò sul divano, un velo rosso sul cinz sbiadito. Lei non emise un solo gemito. Era frustrante rendersi conto che, dopo tutto questo tempo, lei ignorasse totalmente la sua presenza. Si era divertito moltissimo a spaventarli, lei e Lee. Divertito da morire. Quasi sentiva la loro mancanza. Oh Cristo! Guarda che macello sta facendo! Spinse indietro il tavolino, la sollevò dal divano e la buttò a terra. Sarebbe stato più facile pulire il pavimento che il divano una volta finito tutto. Stronza, pensò. Lasciala lì e che muoia senza fare troppo casino. Non c'era bisogno che stesse a guardare. Sarebbe stato divertente ma lo aspettavano cose più importanti. Lei non era nulla. Lee non era nulla. Ve ne erano altri. Non aveva nemmeno bisogno di consultare il suo libretto. Aveva tutto in testa. Da sempre. Il libro serviva solo come promemoria. FARGLIELA PAGARE. Si rimise i pantaloni e allacciò la cintura. Prese la calibro 38 dal tavolino e controllò quanti colpi fossero rimasti, pochi, allora aprì la valigetta e prese un caricatore nuovo che inserì nella pistola, poi se ne infilò altri sei nelle tasche. Peccato che non avesse proiettili di scorta per la Magnum ma li aveva usati con parsimonia e, secondo lui, ne erano rimasti ancora sei. Si guardò nello specchio del salotto. Sto arrivando amici e vicini. Mister Disastro. L'uomo che vive per spazzarvi via. L'uomo che vi ama, da morire. È tempo di rivincita. Divertiamoci da pazzi. Tutti quanti.
Sto arrivando. Scoppiò a ridere poi si fermò. Aprì la porta e uscì nell'alba, rimase un attimo fermo nella tiepida brezza mattutina profumata di rugiada che già evaporava nell'erba, si guardò intorno, soffermò lo sguardo sulla propria casa, sulle mura di betulla del proprio castello, poi si avviò verso la strada. 38 «Burkeman e Treat», disse Rule. «È passata la mezz'ora e non hanno ancora fatto la telefonata di controllo, e non riusciamo a contattarli via radio.» Era in piedi di fronte a Covitski, appoggiato alla scrivania, e Covitski non sapeva se era per mancanza di sonno o altro che Rule aveva gli occhi così rossi, erano terribili. «Sta succedendo qualcosa. Abbiamo ricevuto l'ordine di inviare tutte le auto alla casa dei Gardner. Andiamo.» Covitski era già in piedi. Fuori, videro Susan Olsen che aspettava il taxi. Le avevano offerto un passaggio, ma lei aveva rifiutato. Adesso era troppo tardi. Ogni auto disponibile poteva essere quella che arrivava per prima. Anche lei li aveva notati. Covitski la salutò con un rigido cenno del capo, ma lei non rispose. Somigliava un po' a sua nipote, pensò, la figlia maggiore di suo fratello. L'aveva notato subito. Non molto, ma un po'. Lo stesso colorito e la stessa espressione triste negli occhi. Non sapeva proprio da dove avesse preso quell'espressione sua nipote, ma l'aveva sempre avuta. Quando uscirono dal vialetto, Covitski la guardò di nuovo, ma lei era voltata dall'altra parte. Lontano da loro. 39 Era presto. In strada non c'era nessuno. Passando davanti alla casa dei Roberts, per un attimo considerò l'idea di entrarvi. Sentì il cane che abbaiava. Proseguì oltre la villetta di Ed Schorr davanti alla quale era parcheggiata l'auto con i due poliziotti morti, sarebbe rimasta lì per un bel po' di tempo, oltrepassò poi la casa dei Cracker ed era quasi giunto davanti alla villetta
dove vivevano i due gemelli (non conosceva il loro nome né quello dei loro genitori perché erano relativamente nuovi del quartiere) quando vide una delle due zitelle con un sacco della spazzatura dall'altra parte della strada. Evidentemente si alzava presto. Puntò la Magnum e fece fuoco. La donna cadde, uno squarcio rosso nel grembiule, e il rumore era stato così forte che probabilmente avrebbe svegliato tutto il vicinato, ben presto la gente si sarebbe chiusa in casa, quindi lui doveva affrettarsi. Attraversò la veranda della villetta in cui vivevano i gemelli, aprì la porta e vide il ragazzino in pigiama che gli veniva incontro dal salotto strofinandosi gli occhi assonnati, lui gli sparò dritto alla testa con la calibro 38. Attraversato il corridoio entrò in una delle camere. L'uomo e la donna erano stati svegliati di soprassalto e stavano scendendo dal letto. Vedendo la pistola, la donna si coprì il viso con le mani e quindi lui le sparò nello stomaco. L'uomo invece si rannicchiò, cercando di nascondersi dietro il letto. Lui lo raggiunse e gli sparò una volta in una gamba e una volta nell'altra. L'uomo cominciò a contorcersi e a urlare, allora lo colpì al petto, poi ritornò sui suoi passi attraversando il corridoio e il salotto e uscì dalla casa. Sentì la ragazzina, l'altra gemella, che urlava mamma mamma da qualche parte dietro di lui. L'altra zitella era sul prato inginocchiata accanto al corpo della sorella. Piangeva e la scrollava come se stesse cercando di svegliarla. Non voleva usare la Magnum. Gli erano rimasti pochi proiettili. Decise di spararle alle spalle con la 38, poi attraversò la strada e le si avvicinò e, anche se era certo che fosse morta, per non sbagliare le sparò alla testa. Proseguì di buon passo lungo quel lato della strada, dall'altra parte rispetto a casa sua, ripassò davanti alla casa dei Cracker, degli Schorr, dei Roberts, superò la propria casa e quella dei Murdoch e, sempre mantenendosi sull'altro marciapiede, raggiunse la villetta nella quale vivevano i giovani Leigh, quelli che gli avevano rubato i pali della staccionata. Risalì in veranda e cercò di aprire la porta ma dato che era chiusa a chiave, usò la Magnum. L'arma fece un buco di almeno cinque centimetri di diametro disintegrando completamente la serratura. Il boato spazzò la strada come un vento freddo. Gli erano rimasti quattro colpi. Aprì la porta ed entrò. Rimase in ascolto. La casa era silenziosa. Udì dei rumori al piano di sopra, qualcosa che si muoveva, salì. Il rumore proveni-
va da un armadio in una delle camere, entrò e sparò attraverso il pannello, poi aprì l'anta. Il maggiore dei due ragazzi gli crollò ai piedi, indossava soltanto un paio di slip. Era ancora vivo. Wayne fece un passo indietro, prese accuratamente la mira e sparò. Sentì qualcuno che correva in corridoio e che entrava nella camera accanto. Uscì di corsa dalla stanza e vide che Leigh, il padre, e il figlio minore avevano aperto la finestra della camera. Il ragazzo aveva già raggiunto il tetto spiovente e cercava un modo per scendere, mentre il padre era ancora a cavalcioni della finestra. Wayne aspettò fino a quando l'uomo non ebbe ambedue le gambe oltre il davanzale, poi gli sparò alla schiena e lo vide ruzzolare oltre il tetto, e crollare sul marciapiede sottostante. Il ragazzino, voltandosi verso di lui, cominciò a urlare mentre a quattro zampe tentava di restare aggrappato al tetto. Wayne lo lasciò dov'era e scese al pianterreno. La donna era in cucina, al telefono, e lui sapeva che stava cercando di chiamare la polizia. Le sparò in viso e lei crollò sul tagliere, lui riagganciò. Uscì nuovamente in strada. Non sapeva quanti proiettili gli fossero rimasti nel caricatore, quindi lo estrasse, lo gettò in terra e ne inserì un altro. Attraversò la strada. Vide che stava arrivando un'auto, si fermò e rimase ad aspettarla sul marciapiede, sotto un albero, fino a quando non la vide passargli silenziosamente davanti, allora si voltò e la puntò con la Magnum. Quando fece fuoco, vide il finestrino posteriore andare in frantumi e il vetro che esplodeva dal parabrezza, uno schizzo di sangue che macchiava ciò che ne era rimasto, l'auto sbandò finendo oltre il cordolo e andando a sbattere contro un albero dall'altra parte della strada, di fronte alla casa di Bobby Dimmit, un ragazzo che conosceva da sempre, fin da piccolo. Non sapeva assolutamente se la persona al volante fosse un uomo o una donna. Nella Magnum erano rimasti solo tre colpi. Imboccò i gradini che portavano alla villetta dei Roberts. Il cane continuava ad abbaiare. Wayne sbirciò dalla finestra ma non lo vide. Tentò di aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Sparò con la Magnum. Tentò nuovamente di aprire, ma contro qualsiasi previsione la serratura aveva resistito oppure ve ne erano altre che lui non riusciva a individuare. Sparò un po' più in alto, poi tentò di nuovo. Niente. Nella Magnum restava soltanto un colpo. Decise di lasciare perdere. Roberts era un ficcanaso. Quando si fosse sentito al sicuro, Roberts avrebbe sicuramente sollevato la testa per guar-
dare attraverso una delle finestre e a quel punto lui avrebbe potuto usare la 38. Sentiva ancora il piccolo Leigh che, sul tetto, continuava a piangere e a urlare. Si avviò verso la casa degli Schorr. In lontananza si udivano delle sirene. Doveva fare in fretta. Conosceva bene questa casa. Da bambino ci aveva giocato con comesichiama che si era poi trasferito nel Delaware o qualcosa del genere e sapeva che la porta posteriore era praticamente di carta. Si portò sul retro, sempre tenendo d'occhio la finestra dei Roberts, poi oltrepassò la botola inclinata, e chiusa con un lucchetto, che conduceva alla cantina degli Schorr, calpestò un tubo per innaffiare, e si avvicinò alla porta. Aprì la zanzariera. Non perse nemmeno tempo a controllare se la porta fosse chiusa. Si limitò a darle un calcio, dopodiché entrò in cucina e vide Schorr accanto a un cassetto aperto, con un coltello in mano. A lui di Schorr non importava e si irritò nel trovarlo lì. All'ufficio postale era sempre molto efficiente e cordiale. Ma era così irritato per il fatto che quell'uomo tentasse di fermarlo, dato che in realtà era la moglie che lui cercava, che gli sparò nella gamba destra con la 38 e poi gli si avvicinò, gli puntò l'arma contro la tempia e sparò di nuovo, sporcandosi i pantaloni e le scarpe con schizzi di materia cerebrale e sangue, poi lo lasciò dov'era e proseguì. La donna era in salotto, nascosta dietro il divano. Ohmiodiotipregono gridò come fosse un'unica parola. Quando Wayne fece fuoco la prima volta, lei si mosse, tentando di scappare, così invece di colpirla al petto il proiettile le si conficcò in gola e lui non aveva mai visto tanto sangue in vita sua, con la donna che cercava di fermarlo con le mani scivolose. Le sparò al cuore. Il sangue che usciva a fiotti dal collo cominciò a rifluire. Adesso le sirene erano decisamente più vicine e sembrava ne stessero arrivando molte, doveva proprio affrettarsi, quindi scavalcò il corpo di Schorr e uscì dalla porta posteriore, fece di corsa il giro della casa dei Roberts, dove il cane continuava ad abbaiare come se sentisse l'odore di sangue nell'aria e stesse davvero impazzendo, e giunto di fronte a casa sua attraversò il cancello di paletti. Sentì le auto della polizia, che giungevano sia da destra sia da sinistra, fermarsi davanti alla sua casa con grande stridore di pneumatici, le sirene
che continuavano a ululare, e, dopo essersi chiuso alle spalle la porta e avere messo tutti i chiavistelli, con un colpo fece uscire il caricatore della 38 e infilò la mano in tasca per cercarne un altro. Era a casa. Fra amici. Nella sua fortezza. Quello era il giorno più bello della sua vita. 40 Le auto della polizia e le ambulanze si erano ammassate lungo la strada come mosche sulla merda, parcheggiate lungo tutta la strada, e Rule era al megafono. Lock era davanti alla finestra del pianterreno, o nelle vicinanze, attento a non farsi vedere. «Non mi piace... quella cosa che tiene in mano!» gridò. «Non voglio che la usi più. Se vuoi parlare con me usa il telefono!» Okay. Ci siamo, pensò. Si voltò verso Covitski. «I tiratori sono pronti?» Covitski annuì. «Tengono sotto tiro le porte e le finestre.» Si avvicinò alla sua auto. «Fammi avere una linea e mettimi in comunicazione con Lock.» Ci volle soltanto qualche minuto, poi udì il telefono che squillava. Al secondo squillo Lock alzò il ricevitore. «Pronto.» «Pronto Wayne.» «Parla Wayne. Qual è il cognome della persona con la quale vuole parlare?» «Lock.» «Okay. Lei chi è e che cosa vuole?» «Mi chiamo Rule. Sono qui fuori. Come vanno lì le cose, Wayne?» «Bene.» «Sei solo?» «Ci sono qui con me una certa signora Gardner e un certo signor Edwards.» «E come stanno?» «Stanno morendo. Sono morti. Non lo so.» «Moribondi o morti?» «Ho detto che non lo so.»
«È piuttosto importante, Wayne.» «Ho detto che non lo so.» «Okay. Hai bisogno di qualcosa? Possiamo fare qualcosa per te?» «No.» «E loro? Il signor Edwards o la signora Gardner, voglio dire? Avranno bisogno di un medico, giusto?» «Stanno benissimo.» «Ma tu hai detto che sono feriti.» «Stanno benissimo. Niente medico.» «Hai avuto un bel da fare la notte scorsa.» «Lo so.» «Perché non esci, lasci le pistole dentro, vieni fuori e ne parliamo. Scommetto che hai molte cose da dire, Wayne, e ti dirò una cosa, mi interesserebbe davvero sentirle.» «Oh, certo.» «Davvero. Nessuno ti farà del male. Ti do la mia parola. Parleremo e basta. Tutto qui.» «Mi ripete il suo nome?» «Rule.» «Non credo di conoscerla.» «No infatti. Credo che non ci siamo mai incontrati.» «Lei è della polizia.» «Esatto. Sono un tenente della polizia di Barstow.» «Il tenente Rule.» «Esatto.» Vi fu un momento di silenzio. «Senta», riprese Wayne. «In questo momento sono piuttosto occupato. Credo che dovremo rimandare la conversazione, okay? Arrivederci.» Riagganciò. Occupato con che cosa, si chiese Rule. Se Carole Gardner ed Edwards erano già morti. «Allora?» Covitski lo aveva raggiunto e si sporgeva dentro l'auto. «Non vuole dire se sono vivi o morti, ma sono con lui e immagino che, come minimo, siano feriti. Quel tizio parla come se stessi cercando di vendergli un abbonamento a Case e giardini. Nessuna emozione.» «Nessuna cosa?» «Emozione. La sua voce. È piatta. Completamente piatta.»
«Non è spaventato.» «No. Per niente.» «Ha detto cosa vuole?» Rule scrollò le spalle. «Non vuole nulla.» Covitski rimase pensieroso. «Proverai di nuovo a parlargli?» «Certo. Però diamogli qualche minuto. Non voglio fargli pressione.» Lanciò un'occhiata dietro di sé. A qualche villetta di distanza, da una finestra, stavano tirando su un ragazzo aggrappato al bordo di un tetto. Un isolato più in là, una coppia di poliziotti accompagnava Roberts e il cane verso un'auto della polizia. L'animale sembrava stordito da tutto quel movimento. Almeno in quel momento non abbaiava. Rule prese la sigaretta che Covitski stava fumando e con quella si accese la sua. «È strano a pensarci», commentò, mentre restituiva il mozzicone. «Che cosa?» «Se Howard Gardner avesse lasciato in pace la moglie noi non ci troveremmo qui.» Covitski gli lanciò un'occhiata. Come se, secondo lui, Rule avesse qualcosa che non funzionava nella testa. «Ci saremmo trovati qui, Joe», rispose. «Prima o poi, ci saremmo trovati qui.» 41 «Vogliono che esca», disse Wayne. «Voi cosa ne pensate?» Non risposero. Non era giusto. Era stato solo tutta la vita, aveva sempre dovuto prendere delle decisioni senza l'aiuto di nessuno ed eccoci da capo, stava solo chiedendo un consiglio ed era esattamente come quando viveva con sua madre; loro erano lì, ma era come se non ci fossero. «Che cosa ne pensate, maledizione!» gridò. Non gli dissero neanche una parola. Stava annotando sul suo libretto la loro reazione, o meglio la loro mancanza di reazione e stava segnando la data esatta, quando squillò il telefono. Wayne terminò di scrivere. FARGLIELA PAGARE. Poi si alzò e sollevò il ricevitore.
42 Doveva andare in bagno. Si rese conto di essere scalza, i piedi appoggiati sul tappeto, e sentì le gambe pesanti mentre le muoveva, ed era bagnata, aveva qualcosa di umido sulla testa e sentiva l'umido sul viso e lungo tutto il corpo. Lei doveva andare in bagno e lui era al telefono, parlava, la schiena rivolta verso di lei, le appariva come una sagoma confusa contro la parete bianca che roteò stranamente mentre si rialzava, e, barcollando, attraversava il corridoio, puntellandosi su ambedue le pareti per mantenere l'equilibrio, e si sentiva stordita, ubriaca, voleva ridere e intanto si chiedeva quando aveva bevuto? e poi si era ritrovata in cucina, non nel bagno, non c'era nessun bagno lì al diavolo era nella stanza sbagliata ma vedeva la porta davanti a sé e qualcosa le diceva che probabilmente doveva assolutamente non aprirla. Girò il pomello ma la porta non si aprì. Era bloccata. Era chiusa. Questo era il problema. La porìa era chiusa. Ed eccola, ecco la chiusura di sicurezza. Di ottone, a forma di ancora. La girò. Era ancora bloccata. Sul pomello vi era un fermaporte a forma di bottone che bisognava girare, bottone bottone chi ha il bottone girò il bottoncino poi tentò di nuovo di aprire e la porta si spalancò e lei quasi cadde sui gradini, una morsa allo stomaco, lo stordimento trasformato in nausea nel momento in cui la tiepida brezza mattutina la colpì in viso e il sole l'accecò, uno schiaffo caldo sul volto, e Carole vide davanti a sé l'erba rasata come un mare ondeggiante e confuso e, più oltre, la rada fila di siepi, e qualcuno tra le siepi, un uomo, disse oh mio Dio. Anche l'uomo appariva confuso ma, mentre usciva da dietro le siepi, Carole vide il fucile che teneva in mano e comprese subito di che cosa si trattava, metallo grigio e bianco che scintillava sotto il sole e il fucile era molto chiaro, il fucile le diceva scappa. SCAPPA! Inciampò sul terzo gradino ma riuscì comunque a restare in piedi e, sbandando, cominciò a correre lungo il muro della casa, i piedi nudi sull'erba umida di rugiada, la brezza sul corpo, aveva il vestito aperto l'uomo
l'aveva vista, cercò di tenerlo chiuso con una mono mentre l'altra batteva contro le siepi perché, non sapeva come, era andata a sbattervi contro e sembrava che volessero percuoterla per questo lei le respingeva. Via. Andate via. Correva. L'uomo con il fucile non l'avrebbe raggiunta. Lei non glielo avrebbe permesso. L'uomo non sarebbe riuscito a prenderla. Oh no. Non un'altra volta. Vide sulla strada davanti a sé una fila di auto, si mise a correre verso di loro ma l'uomo era sempre più vicino oh mio Dio era ormai vicinissimo e lei cominciò a urlare in preda al panico. Urlò ancora quando sentì le dita dell'uomo afferrarle il braccio, perdendo poi la presa. Adesso Carole era completamente bagnata, l'umido le scorreva su tutto il corpo e il vestito era aperto ma a lei non importava, continuava a gridare e cadde contro la siepe con le mani che graffiavano la dura staccionata al di là della siepe, ma proprio in quel momento le dita si protesero e l'afferrarono tenendola per un braccio. Dita dure e callose di un 'enorme mano crudele che era la mano di un uomo. Era riuscito a sopraffarla. L'uomo con il fucile. Era riuscito a sopraffarla. Ancora e ancora come la scena di un film ripetuta all'infinito. Di nuovo e di nuovo. Poi il mondo esplose. 43 La porta si aprì, Wayne comparve sull'uscio e, contemporaneamente al boato della Magnum, Rule vide il poliziotto, che era riuscito a raggiungere Carole Gardner, rimbalzare all'indietro contro la staccionata e cadere a terra, la spalla che macchiava il bianco legno di betulla come fosse stato il fango di una pozzanghera. Si nascose dietro il tetto dell'auto e, mentre i tiratori aprivano il fuoco, Rule si rese conto che Wayne stava urlando qualcosa. Aveva la bocca aperta e le labbra si muovevano; se ne stava a gambe larghe nel vano della porta e sparava con la sua 38, sobbalzando per l'impatto dei proiettili, ma continuando a restare in piedi. Rule vide Carole cadere in ginocchio e poi crollare sull'erba. E pensò, è stata colpita! Gesù! Chi è stato, noi o lui? Dopo tutto quello che era successo. Dopo una notte che mai avrebbe pensato di vivere. Sentì una stretta allo stomaco. Sempre tenendosi basso, fece il giro dell'auto, poi iniziò a correre.
Sapeva che sarebbe stato così. Niente dolore. Non sentiva altro che l'impatto dei proiettili che lo colpivano, una pioggia di minuscole meteore, di corpi celesti che si schiacciavano contro di lui, si riversavano nel suo corpo, mentre lui saliva verso l'alto abbandonando la pesante luce mattutina per immergersi nel più leggero cielo notturno. Sapeva di essere stato gentile con loro. Con tutte quelle persone che dovevano a lui la loro ascesa. Non era stata sua intenzione essere gentile. Non era quello che aveva avuto in mente. Era davvero buffo che fosse tanto piacevole. Ma non gli importava. In fondo li perdonava tutti. Tutti gli insetti che lo avevano punto. Che Dio vi benedica. Poi gridò tutto il suo amore per Carole Gardner. «Ti amo ti amo ti amo!» Continuò a gridare anche se dubitava che lei riuscisse a sentirlo al di sopra degli spari. Era sincero. Era sincero anche quando puntò l'arma contro di lei e fece fuoco attraverso la tempesta di api, la violenta grandinata, per consegnarle il suo dono, mentre i proiettili, minuscole comete, crivellavano il suo corpo. Lei gli aveva mostrato la via. E mentre l'uomo le si avvicinava, lui sparò di nuovo, questa volta contro di lui, contro l'uomo, e quando gli vide puntare il fucile capì immediatamente quanto sarebbe stato preciso quel colpo, stabilì la traiettoria del proiettile ancora prima che uscisse dalla canna. Sapeva che sarebbe stato un tiro perfetto, veramente notevole, che lo avrebbe inchiodato alla porta, proprio in mezzo agli occhi come una farfalla su un foglio di carta. Amava anche quell'uomo. Sono nato per amare, pensò. Proprio in questo modo. Il suo ultimo pensiero prima che il proiettile lo colpisse proprio come previsto e Wayne trovasse la sua pace. La strada risonava di echi. Dall'odore sembrava un Quattro Luglio. Il proiettile gli aveva attraversato il muscolo del braccio appena sotto la spalla ed era uscito dalla parte opposta. Non era in grado di sollevarla. Non tentò neppure. Rimase inginocchiato in attesa di Covitski e dei paramedici.
Le tastò il polso. Mentre la guardava, e osservava il punto in cui i tovaglioli erano scivolati mostrando la ferita dai morbidi contorni, all'improvviso si rese conto che non somigliava affatto ad Ann. Non era la ferita o il sangue che la facevano apparire diversa. Non si erano mai somigliate. Si chiese come e perché lo avesse pensato. È stata un'impressione dovuta alla situazione, pensò. Una somiglianza che dipendeva unicamente dalla situazione. Donne maltrattate. Mariti alcolisti. Aveva mai considerato la cosa in modo diverso? All'improvviso questa eventualità lo fece sentire a disagio. Non riusciva a sentire le pulsazioni. Era per questo che voleva piangere? «Rule. Riesci a stare in piedi? Forza. Ti aiuto ad alzarti. Lascia che ci pensino i ragazzi, Joe. Forza.» Covitski lo teneva per il braccio. Rule sollevò lo sguardo e si rese conto di essere circondato dai paramedici. Avevano preparato la barella ed erano pronti per adagiarvici Carole, ma lui glielo impediva. Si era aggrappato al suo polso come se ne andasse della sua vita. Non riusciva a sentire le pulsazioni. Le lasciò il braccio. «Mi dispiace», mormorò. E in quel momento non sapeva proprio a chi si stava rivolgendo, se a Covitski o ai paramedici o a Carole Gardner. GIOVEDÌ 44 «Che ore sono?» domandò. Rule guardò l'orologio. «Quasi mezzogiorno. Bentornata fra noi.» Non sembrava mezzogiorno. Il mezzogiorno uno se lo immagina caldo mentre in quella stanza faceva freddo. L'aria condizionata era troppo forte. Ma era naturale. Si trovava in ospedale. All'improvviso la stanza sembrò oscurarsi. Un'ombra che passava. Si passò la lingua sulle labbra aride e screpolate. «Che giorno è?» «Giovedì. È rimasta svenuta per più di ventiquattro ore. Ha avuto una
commozione cerebrale. Le ha sparato un colpo nella coscia destra. E uno nel fianco. Le hanno tolto i proiettili e fra poco starà benissimo.» «Che cosa... che cosa è successo?» domandò. «L'abbiamo preso. È tutto finito.» «Da quanto tempo lei?...» «Solo da un paio d'ore. Ho dovuto aspettare che mi sistemassero questo.» Sorrise e sollevò il braccio, e Carole vide la benda e l'ingessatura. «In realtà, mi hanno appena lasciato andare.» «E... Lee...» Lui la guardò e Carole si rese conto di averlo sempre saputo. Forse perché non lo aveva trovato seduto accanto al suo letto, vicino a Rule. O forse, più probabilmente, per via della sensazione con cui si era svegliata, che si era scagliata su di lei come un'ultima violenza prima che si svegliasse, quella sensazione di perdita che aveva provato, quel sentire troppo tardi che era legata a lui, troppo profondamente e troppo tardi, era rimasta in qualche modo allibita dal fatto che anche questo legame le era stato tolto, e anche prima di poterne comprendere interamente la profondità, e ora lui non c'era più. Non era stato un partner perfetto. Folle come lei e certamente in errore come lei. Si erano scavati una profonda fossa nera ma era la loro fossa e l'avevano scavata per i loro motivi. Lui era stato il suo amante. Il suo amico. Il tocco delle sue mani. Il suo odore. I facili silenzi. Erano amici. «Mi dispiace», mormorò Rule. E gli dispiaceva davvero. Non era la solita frase. Non si trattava di una formalità. Carole vide che era sincero. Pensò che probabilmente era un uomo molto buono. E lei gli aveva sempre mentito. Pensò che lui avrebbe compreso le sue lacrime. «Voglio che lei sappia qualcosa», la prevenne Rule. La sua voce era dolce e gentile. «Voglio che lei mi ascolti. «Quest'uomo, Lock, ce l'aveva a morte con lei. Ha ammazzato suo marito. «Non sappiamo perché e non importa. Lock era pazzo. «Abbiamo stabilito che si trovava sul luogo del delitto. «Poi l'ha rapita insieme con Lee. «Voglio lei sappia che non viene considerata in alcun modo complice in tutti questi delitti. Nessuno l'accusa di nulla. Né le famiglie delle vittime, né la polizia. Ha capito bene? Quando uscirà di qui sarà libera come l'aria.
Dovrà rilasciare una dichiarazione, una dichiarazione molto dettagliata, ma dopo di questo sarà completamente libera. Ha capito, Carole?» Ebbe un attimo di esitazione. Se non fosse stato Rule che, seduto davanti a lei, le diceva questo, se fosse stato chiunque altro lei non l'avrebbe creduto possibile. Lo fissò e annuì. Lui prese un fazzoletto di carta dal comodino e glielo porse. «Perché», mormorò lei. «Perché sta?...» Lui la interruppe. «Diciamo perché credo che lei sia sempre stata una vittima. No, mi correggo. Non lo credo, lo so. Lo sappiamo tutti e due. Dovrebbe sempre cercare di ricordarlo. Una vittima commetterà i gesti più folli pur di riuscire a smettere di essere tale, e magari anche lei li ha commessi. Ma questo non la rende folle e non la rende una criminale. «Quindi non chieda il perché. Quando uscirà di qui vada avanti. Cerchi di continuare a vivere. Sia libera.» Distolse lo sguardo. Vi era un'espressione di dolore nei suoi occhi. Lei riuscì a coglierla proprio un attimo prima che lui voltasse il capo. Era convinta che non c'entrava il braccio ferito. Rimasero in silenzio per un po' di tempo. Come se fosse accaduto qualcosa di strano tra loro. «Ho un appuntamento», disse infine Rule. Si alzò lentamente dalla poltroncina. «Tornerò a trovarla domani, va bene? Faremo due chiacchiere. Ha bisogno di qualcosa? Qualcosa che posso farle avere?» «Grazie. Per il momento niente», rispose Carole. Si voltò e si avviò verso la porta. «Oh buon Dio!» esclamò lei. «I gatti. Beast e Vinni.» Lui scoppiò a ridere. «Vinni. Ecco come si chiama. Ricordavo il nome dell'altro. Volevo dirglielo. Spero non le dispiaccia. Io li ho come... adottati. Ho detto al mio collega di portarmeli a casa. Solo per questo periodo.» Carole scoprì che riusciva a sorridere. Era quasi sorprendente. «Le sono grata», mormorò. «Grazie. Grazie di tutto.» Lui annuì. E per un attimo gli vide ancora negli occhi quell'espressione mentre si voltava e usciva dalla stanza. Tanto dolore. È dappertutto, pensò. Anche in quest'uomo così gentile. Si abbandonò alla morbidezza dei cuscini. La stanza era immobile e si-
lenziosa. Forse avrebbe dormito. Avrebbe tentato di dormire. Le avrebbe fatto bene. Le venne in mente che avrebbe potuto sognare Lee. Lee, e non Howard né Wayne né qualsiasi altro uomo che le aveva fatto del male. Era convinta che adesso non li avrebbe sognati. Ma lui sì, forse. Pensò che sarebbe stato terribile svegliarsi sapendo di avere sognato Lee, ma forse era un modo per ringraziarlo e ricordare. Era davvero strano, per la prima volta da quando era bambina desiderava ricordare. Il letto era soffice e lei si rannicchiò. 45 «E così, hai salvato la fanciulla», ironizzò Marty. «Per favore. Non cominciare», ribatté Rule. «Be', l'hai fatto, no? E hai preso il cattivo?» «Sì, l'ho preso.» «Vedi? Sono felice di sentirlo.» «Ti dirò una cosa, me ne stavo in ospedale seduto a guardarla mentre era priva di conoscenza e sai una cosa? Mi sono reso conto di un fatto. «Per tutto questo tempo sono stato convinto che Carole mi ricordasse Ann, certo per via della loro situazione ma anche per l'aspetto, ed era questo che mi disturbava, era questo il motivo per cui mi sentivo così a disagio e perché continuavo a pensare ad Ann. Ma non era vero. Non era Carole Gardner che mi ricordava Ann. «Era Wayne che mi ricordava me stesso. Che cosa ne pensi?» Marty non fece alcun commento. Si appoggiò pesantemente allo schienale della poltrona. «Io e Wayne», proseguì Rule. «Capisci che cosa voglio dire? È per quello che noi facciamo. Roviniamo tutto. E non per il fatto di esistere. Non perché viviamo la nostra vita. Questo lo fanno tutti. Non se ne può fare a meno. «Ma per quello che siamo.» «Aspetta un momento Joe. Questa è una conclusione un po' tirata per i capelli. Tu non sei un assassino.» «No, naturalmente. Però distruggo le cose. La fiducia. La speranza. I legami. Le vite in un certo qual modo, o almeno parti di vita. E questo per
via di chi sono e di che cosa sono. «Io e Wayne.» Marty rimase un po' a fissarlo, pensieroso. «C'è una differenza», concluse poi. «Certo. Io non vado in giro ad ammazzare gente sull'autostrada.» «Non voglio dire questo. Quello che voglio dire è che uno come Wayne non mette nulla in ciò che fa. Lui prende soltanto. Tu? Tu invece fai del tuo meglio per pareggiare i conti, magari dando anche un colpetto alla bilancia per farla pendere verso ciò che è positivo. Ciò che è onesto. Fai il tuo lavoro. Fai quello che puoi. «Hai salvato la fanciulla.» «E pensi che sia sufficiente? Io no. Non ci riesco.» «Ascoltami. Non è un'impresa da poco riuscire a vivere in questo mondo. Niente è mai sufficiente. Il punto è che non bisogna rinunciare. Che bisogna fare quello che si può. Santo cielo, tu non hai distrutto la vita di Ann o quella di Chrissie. Sicuramente le hai modificate. E magari non proprio per il meglio perché le cose non sono andate nel modo migliore. «Ma pensaci un attimo, loro hanno avuto la possibilità di conoscere una brava persona. E questo non è poco.» Scoppiò a ridere. «Non ce ne sono molti di noi in giro, lo sai? Tu non sei ancora morto. E nemmeno lei. La vita di ognuno trova sempre il modo di arricchirsi, se non viene interrotta.» «Quello che non strozza, ingrassa, è così?» «Sì, qualcosa del genere.» «Tu sei convinto di essere uno veramente in gamba, vero Marty?» «Sì. Ne sono convinto, Joe.» Si appoggiò allo schienale e si accese una sigaretta. Stava infrangendo la regola che si era imposto sul fumo durante le sedute. Evidentemente la considerava un'occasione speciale. «E tu no?» chiese Marty. *** Tornato a casa, diede da mangiare ai gatti e li chiamò per nome poi, quando ebbero finito, li accarezzò e li seguì in soggiorno e cominciò a grattarli dietro le orecchie, mentre fissava il telefono. Tornò in cucina, lavò i piatti nel lavandino e intanto guardava verso il corridoio, verso il telefono e pensava all'ora in California. Tanto per cambiare, lasciò il televisore spento e la casa rimase silenziosa.
Si sedette nel soggiorno con una birra in mano e i gatti, strofinandosi contro di lui, gli chiesero nuovamente di essere coccolati, e lui li accontentò. Poi cominciarono a correre per la casa e a giocare. Rimase a osservarli. I gatti non avevano più bisogno di lui. Potevano contare l'uno sull'altro. Lui era libero di fare ciò che voleva. Si alzò e si avvicinò al telefono, sollevò il ricevitore lo tenne per un momento in mano poi riagganciò. Non adesso, pensò. Accese la luce esterna e si avviò verso il garage nella frizzante aria serale. La casa di bambole era bianca con le persiane nere. Fino a quel momento aveva fatto davvero un buon lavoro e la casetta lo accoglieva meglio di quanto non avesse fatto la sua, gatti a parte. Si inginocchiò per controllare i lavori che restavano da fare: tagliare qui e costruire là, fare questo, modellare quest'altro, terminare quest'altro ancora, fare ciò che poteva. FINE