MARIANGELA CERRINO IL SEGRETO DELL'ALCHIMISTA (2000)
I La porta dell'abbazia di Saint-Germain di Auxerre si chiuse alle...
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MARIANGELA CERRINO IL SEGRETO DELL'ALCHIMISTA (2000)
I La porta dell'abbazia di Saint-Germain di Auxerre si chiuse alle sue spalle, e Valentin esitò. Il vasto spiazzo, chiuso tra gli alti bastioni dell'abbazia e le mura della città, era già deserto. Una fontana ottagonale ne segnava il centro: un mostro di pietra che colava acqua dai suoi tredici occhi. Ma ogni uomo di buonsenso e timorato di Dio sapeva che non doveva guardare quegli occhi, perché ciò che poteva vedervi non apparteneva a questo mondo. All'estremità opposta dello spiazzo iniziava la lunga scala, con i larghi gradini scavati nel terreno che conducevano alla porta di SaintAmatre, come sempre ben custodita. Il giorno era stato afoso e la notte si annunciava tempestosa: lampi solcavano il buio, ancora lontani e silenziosi. Una minaccia indefinibile si dipanava tra la terra e il cielo, lieve come un respiro. «L'Alito del Drago...» mormorò Valentin, riconoscendolo. Rabbrividì, perché quel disagio improvviso lo travolse come un malessere. Sentiva la potente onda d'energia percorrere il suolo caldo, quasi fosse una corrente segreta. «Vorrei averne una briciola per il mio crogiolo!» aggiunse, ma s'interruppe subito, attratto da un'ombra che gli pareva di aver scorto... Eppure lo spiazzo era vuoto. Si guardò intorno. Pensò che faceva davvero troppo caldo per essere appena oltre la Pentecoste, e che l'alito rovente avrebbe prosciugato la terra fino al suo cuore, bruciando anche per l'anno Mille la speranza del raccolto e della fine della carestia.
In quel momento una mano gli strinse una spalla. «Sei Valentin, il Maestro?» disse una voce in tono severo. Non minaccioso, questo no, però nemmeno troppo amichevole. L'altro valutò rapidamente quanto poteva convenirgli negare e tentare la fuga; ma la stretta era troppo forte, e lui troppo vecchio per liberarsene. «Sono il maestro Valentin, sì», ammise e rimase immobile ad aspettare l'esito di quella sua ammissione. L'altro allentò un poco la stretta, ma lo spinse verso la fontana. «Sento dalla tua forza che sei giovane», disse Valentin. «Chi sei? Che cosa vuoi da me? Io non ho ricchezze da darti; sono soltanto un Maestro e un alchimista, e nel mio crogiolo l'Opera non si è ancora compiuta!» «Zitto!» Obbedì a quell'ordine perentorio. Lo sconosciuto lo spinse contro il bordo della fontana e, per un momento, Valentin pensò che volesse annegarlo; forse non era che un sicario. L'acqua era buia; le torce che rischiaravano la porta di Saint-Amatre e quella dell'abbazia erano troppo lontane per illuminarla. Si afferrò saldamente al bordo di pietra, ancora caldo di sole, e trattenne il respiro. In quel momento scoprì un altro giovane; era uscito dall'ombra come se fosse fatto d'ombra egli stesso; Valentin colse soltanto il bagliore dei suoi capelli. E qualcosa d'impalpabile, un mutare repentino dell'aria, lo sfiorò. Il flusso dell'energia si è fermato... Anche la terra e il cielo non respirano, rifletté, ingobbendosi, quasi schiacciato dalla paura. Approfittando del palese stordimento del vecchio, l'aggressore disse: «Hai chiamato Amboise de Montsalvy. Perché?» «Perché ho bisogno di aiuto», rispose lui, allarmato. «Ma tu chi sei per chiedermelo?» L'altro ignorò la domanda e chiese invece all'ombra silenziosa: «È sincero?» «Mi pare di sì. Però è spaventato.» Inaspettatamente, l'aggressore lo lasciò. Sorpreso, Valentin si afferrò al bordo della fontana per non cadere. L'altro, premuroso, allungò una mano a sostenerlo. «Non temere», mormorò, in tono quieto, e un chiarore toccò l'acqua nella fontana. Per un istante, riuscì a scorgere la luminosità dei tredici getti d'acqua che dagli occhi di pietra cadevano nella vasca, il rosso di un riflesso e il movimento di un'ala bianca che s'involava. Poi ritornò il buio. «Amboise de Montsalvy ti aspetta al passaggio nascosto che porta dalle
mura in riva al fiume alla tua casa. Vieni.» Valentin si risollevò, cercando di dominare la paura. Soltanto due uomini al mondo, oltre a lui e al suo servo, conoscevano quel passaggio, e uno era Amboise de Montsalvy. «Amboise fa bene a essere prudente», disse. «Ma che cosa teme da me? Un inganno? Siamo stati come fratelli per anni!» «I tempi sono quelli che sono, maestro Valentin, e gli uomini cambiano. Non offenderti», rispose il giovane dai capelli chiari. L'altro lo condusse verso il punto in cui si dipartiva la stradina che correva tra le mura della città e il fiume. Macchie di vegetazione fittissima bordavano le rive dello Yonne, già povero d'acqua, e l'aria era gravida di miasmi. Valentin incespicava; se non fosse stato per la guida non avrebbe trovato, nel buio, il punto dove lasciare la strada per dirigersi alle mura; era tanto tempo che non si serviva di quel passaggio... D'altra parte, che poteva farsene di un passaggio segreto il vecchio maestro Valentin, alchimista e rispettato uomo libero di Auxerre? «Attento!» lo sostenne la guida, distogliendolo dalle sue considerazioni. L'ombra delle alte mura della città incombeva su di loro. Auxerre si vantava di avere mille anni, e di non essere mai stata conquistata. Nella cripta di Saint-Germain riposavano le spoglie di Clodoveo, fatto santo dalla Chiesa per aver convertito la sua gente, ed era quello, si diceva, a rendere Auxerre imprendibile. Le mura, poi, non avevano brecce, tranne quel passaggio... Ma erano soltanto in tre a saperlo... nell'opinione di Valentin, il servo non contava. L'alchimista si fermò, ansimando. Era troppo grasso, oltreché troppo vecchio, per ritornare sui passi della gioventù; tuttavia si chinò, infilandosi nel fitto dei bossi. Gli arbusti dal legno durissimo, vecchi di centinaia di anni, avevano formato una galleria naturale dalla volta compatta e sicura. Lì sotto, il suolo era nudo e pulito; e in quel punto ben nascosto, ai piedi delle mura, si apriva il varco. C'erano una decina di gradini e un passaggio di una ventina di passi; poi si sbucava nella cantina della sua casa, all'interno della città. «Amboise?» chiese, dubbioso, quando la figura gli si mosse incontro; vedeva ben poco di lui, se non che era rimasto il piccolo e asciutto uomo del Nord che ricordava. Quello che non si piegava a nessuno, nemmeno ai re. «Valentin!» esclamò l'altro, attirandolo in un rapido abbraccio silenzioso. «Precedici», gli ordinò poi.
Valentin obbedì, sentendosi goffo nei movimenti al confronto con l'amico. S'infilò nel passaggio, cercando di ricordarne tutti i gradini. «Restate chini!» avvertì. «La volta è bassa!» Sempre ansando, giunse al varco che immetteva nella sua cantina, chiuso da una porta di legno massiccio. Allora si fece da parte, lasciando che fosse il giovane che l'aveva catturato ad aprirla. Era pesante e non era stata aperta da molto tempo, ma il giovane ci riuscì, ed entrarono nella cantina, che custodiva qualche botte di vino e un po' di provviste. Un tramezzo di canne su cui erano appesi fasci di erbe a essiccare nascondeva completamente, dall'interno, la porta e l'imbocco del passaggio, che appariva come una semplice nicchia. L'alchimista trovò il lume e lo accese, facendo strada ai suoi ospiti per i pochi gradini che salivano al suo laboratorio. Era un lungo stanzone, con una stretta finestra che si apriva al livello del suolo. C'erano un tavolo, su cui ardeva una lucerna a più fiamme e che era ingombro di libri, rotoli e inchiostri; una panca e un inginocchiatoio per la preghiera, e ancora un tavolo con vasi, polveri, liquidi, ampolle e mortai, pinze e alambicchi per la distillazione. Sul lato opposto si trovava l'atanor, il fornello, ma il suo bagliore non era sufficiente a dar luce allo stanzone. L'alchimista posò il lume su un tavolo con un sospiro di sollievo e, rassicurato, si volse al vecchio amico. Amboise de Montsalvy non era cambiato, con quegli occhi duri e chiari; in lui ardeva ancora quell'intima fiamma che lo rendeva così forte e così diverso, e che l'aveva spinto ad andare per il mondo a raccogliere conoscenze e a sperimentare tentazioni. La stessa fiamma era stata presente anche in Gerberto di Aurillac, che era stato per breve tempo molto più di un maestro per entrambi. Mago e uomo di scienza, aveva avviato Valentin all'alchimia, e Amboise alla matematica. Per due volte, da arcivescovo, aveva subito la scomunica, e adesso era papa col nome di Silvestro II. Era lui, il terzo a conoscenza del passaggio sotto le mura di Auxerre. Quella fiamma così viva nei suoi due amici in Valentin non si era mai accesa, oppure si era estinta prima di ardere, e quella mancanza aveva segnato la sua vita. Lui non aveva mai lasciato Auxerre. «Hai conosciuto Colin Bois, il mio capitano?» stava dicendo Amboise. Valentin si riscosse, volgendosi al giovane alto, scuro di capelli e vestito di nero, che l'aveva bloccato davanti all'abbazia. «Sono quasi morto di paura per colpa sua!» ribatté. «Che cosa temevi da me, Amboise? Che male pensavi potessi farti?» «Perdonami, amico mio. Ma in questo momento devo temere di tutti
prima di fidarmi di qualcuno. Se sapevi che ero diretto a Cluny saprai anche il motivo della mia prudenza.» «Voci. Pettegolezzi. Paure... Ecco quello che so!» protestò Valentin. «Si dicono tante cose... e poi è consuetudine per te andare a Cluny. Perché questa volta dovrebbe essere diversa dalle altre?» «Perché questa volta sarò processato. Finalmente, penseranno in molti», spiegò Amboise. Il suo tono era serio, ma sorrideva. L'altro scosse il capo. «Un processo? Chi ha osato e perché? E qual è l'accusa?» «Te ne parlerò dopo. Ti ricordi di Artemisia?» Valentin annuì, guardando la giovane che aveva abbassato il cappuccio del mantello leggero e gli sorrideva. «La piccola dama di Montsalvy con gli occhi color dell'erba!» esclamò. «Ma eri una bambina, l'ultima volta che ti ho vista, mentre ora potresti essere una regina!» «Sono felice d'incontrarti ancora, maestro Valentin. Non ho dimenticato i giochi che inventavi per me con le tue polveri colorate», rispose Artemisia, volgendosi al laboratorio in ombra con la familiarità del ricordo. «Lui è Aurac, un giovane fidato. Un altro giovane, Risson, è rimasto con i cavalli che abbiamo lasciato al fiume. Entrambi sono la mia scorta permanente, agli ordini del capitano Colin, e sono abili e fidati», continuò Amboise, facendo un cenno verso il giovane che se ne stava discretamente in disparte. «Perché una simile segretezza? Tutte queste precauzioni!» esclamò Valentin. Amboise non gli aveva detto nulla dell'ultimo giovane, quello che l'aveva sorretto alla fontana e che se ne stava pure lui in disparte, come Aurac, e tuttavia in modo diverso, quasi cercasse di farsi dimenticare. Aveva una figura sottile che forse ingannava sulla sua forza, i capelli biondissimi, occhi di un freddo azzurro e un sorriso lieve agli angoli delle labbra. «Voci, pettegolezzi, paure...» Questo Valentin aveva appena detto ad Amboise de Montsalvy. Ma quel giovane alla fontana gli aveva letto dentro come se la sua mente non avesse barriere, e lui non aveva sentito dolore; anzi si era sentito rassicurato da quel tocco. «Chi hai portato nella mia casa, Amboise?» domandò, sedendo sulla panca e sentendosi all'improvviso senza più forze. «Un amico», ribatté seccamente l'altro. «E sei tu che ci hai chiamati.» «È vero, e forse non avrei dovuto, perché questo è uno strano tempo. La paura sta prendendo gli uomini, dopo la rassegnazione per la carestia e le
promesse della fine del tempo. Gli uomini credevano che, passato l'inverno, le cose sarebbero cambiate, e invece c'è stato un gran caldo anzitempo. La siccità è venuta con la primavera. I raccolti seccano prima di maturare e gli animali muoiono senza motivo. Forse ci aspettano ancora eventi terribili o cambiamenti...» «Tu sei un alchimista», lo interruppe Amboise. «Mutare è lo scopo della tua vita.» «È vero», sospirò Valentin. «Ma ciò non mi rende immune dalla paura. Ho sentito una forza potente toccarmi alla fontana. Credo che le forze della vita e quelle della morte saranno in bilico, e l'una non varrà più dell'altra.» Artemisia gli sedette accanto e gli prese una mano. «Rassicurati, maestro Valentin», lo consolò. «Che cosa ti accade?» «Si tratta di Agnes, mia nipote. Ti ricordi di lei, Amboise?» mormorò l'alchimista, tentando d'ignorare il giovane di cui non gli era stato detto il nome e che, ne era certo, era il responsabile della sua confessione. «Certo che mi ricordo di Agnes. Io stesso l'ho fatta nascere! E come potrei dimenticarmi di quei tempi? Tua nuora stava morendo per l'epidemia di febbri... Salvare la bambina è stata un'impresa», rispose Amboise, cogliendo la pena dell'amico. Ricordava Agnes come una bimbetta di cinque anni; tanti ne aveva l'ultima volta che l'aveva vista. Era chiarissima di capelli e di carnagione, minuta e graziosa, ma incapace di parlare. La malattia mortale della madre - una malattia che, a parte il nonno, si era portata via tutta la sua famiglia - l'aveva segnata irrimediabilmente. Valentin si alzò, incapace di trattenere oltre l'agitazione. «Dio mi è testimone che l'ho cresciuta come meglio ho potuto... Ma sto diventando vecchio, e non sono che un Maestro e un tintore della luna... come qui chiamano gli alchimisti. Un pazzo, per molti. Un sognatore, per qualcuno.» «Anche Gerberto di Aurillac è un alchimista, e nessuno lo definisce un pazzo né un sognatore!» disse Amboise, disturbato dalla stanchezza nella voce dell'amico. L'altro allontanò con un cenno la sua protesta. «Ma lui è il papa, amico mio; io sono soltanto un vecchio. Per quanto tempo avrei potuto proteggere Agnes dai pericoli di un mondo troppo cattivo per lei? Agnes era... innocente e semplice. Nessuna delle malizie delle donne la toccava.» «Perché 'era'?» chiese Artemisia. Valentin sospirò. «Nella primavera dello scorso anno, poco prima che compisse quattordici anni e con l'appoggio del vescovo di Auxerre, Hugo
di Chalon, Agnes è entrata come novizia nel monastero di SainteMadeleine, a Vézelay. Da allora non è passato mese che io non sia andato a trovarla, ogni volta portandole qualcosa, e trovandola tranquilla e contenta.» S'interruppe, scoprendo confortanti le immagini che gli erano venute alla mente; tanti piccoli ricordi che non aveva pensato di avere, fino a quel momento. Poi riprese: «Poco prima di Natale, tuttavia, mi è stato detto che non potevo più vederla; che Agnes stava bene, ma che io non potevo più vederla. Da allora, mi è sempre stata detta la stessa cosa». «Non è la regola del monastero?» chiese Amboise. «No. Le visite sono permesse alle altre novizie. Ho chiesto di parlare a Hugo, ma non mi ha ricevuto. È come se Agnes fosse sparita... o non fosse mai esistita.» Guardò il giovane di cui non sapeva il nome. «Nella notte di Ognissanti è passato un drago nel cielo, diretto a meridione; la terra ha trattenuto il respiro, e quella notte un alito ci ha toccati. Dicevano che sarebbe stata la fine del tempo perché stavano per compiersi i mille anni, e che avremmo pagato i nostri peccati. Ma Agnes era forse l'unico essere assolutamente puro e innocente di questi luoghi. Perché lei?» «Che cosa vuoi che faccia, Valentin?» chiese Amboise. «Come pensi che io ti possa aiutare?» «Tu direttamente non puoi, ma Artemisia sì! Mentre tu e i tuoi amici andate a Cluny, lei può ottenere ospitalità a Sainte-Madeleine. È consueto, per le fanciulle nobili che lo desiderano o che hanno bisogno di un temporaneo ritiro. Soltanto lei, dall'interno, può scoprire che cosa è accaduto ad Agnes!» Amboise scosse il capo. «Ma se davvero dovesse scoprire qualcosa sarebbe in pericolo, e noi non potremmo aiutarla.» L'alchimista tacque; quell'eventualità non gli era passata per la mente. «Ricordo Agnes», intervenne Artemisia, «e rammento l'ultima volta che l'ho vista, proprio in questa casa. Io avevo nove anni e lei soltanto cinque: mi sembrava piccolissima. Eppure mi prese la mano e mi condusse nel suo angolo segreto della cucina, per dividerlo con me. Lì aveva i suoi giochi, quelli che tu intagliavi nel legno e coloravi con le polveri, maestro Valentin. Non temere: io sono pronta ad andare nel monastero di SainteMadeleine.» Di fronte a quello slancio, l'uomo sorrise e annuì, grato. Poi rivolse una rapida occhiata al vecchio amico. «Non credere che io non voglia aiutarti», lo rassicurò Amboise. «Ma dammi questa notte di tempo per pensarci e trovare un modo per farlo.»
«Non c'è davvero niente che possiamo fare stanotte, quindi hai tutto il tempo che ti serve», borbottò Valentin. «Dovete perdonarmi!» esclamò poi. «Sono un pessimo ospite a tenervi qui senza offrirvi da bere e da mangiare. Venite. Ho un aiutante, Pognon, e una governante; ma entrambi questa sera non ci sono.» «Mi stupisce che il tuo aiutante abbia lasciato incustodito l'aludel, se stai portando a compimento l'Opera», disse Amboise. A disagio per quell'osservazione, Valentin si trattenne dal volgersi alla parte in ombra del laboratorio. «Io sono sempre puntuale...» mormorò. «Pognon non aveva modo d'immaginare che avrei tardato, e questa è la sua notte libera.» Fece loro cenno di seguirlo; un'altra decina di gradini portavano alla stanza del pianoterra che si affacciava sulla strada; la porta si apriva sul portico, dove ardeva un lume, ed era aperta. Il caldo li investì all'istante. Gli odori penetranti del rigagnolo di scolo al centro della strada erano coperti da un marcato, allarmante sentore di bruciato. «Qualcosa sta andando a fuoco!» osservò Colin Bois, uscendo sotto il portico. Quelli delle case sul lato opposto del vicolo erano bui; soltanto più avanti s'intravedeva l'insegna di un venditore di lane con un'altra lucerna. La via era deserta. «Saranno i falò che i giovani accendono davanti alla chiesa per far dispetto al vescovo», borbottò Valentin. «Lo fanno sempre, prima di San Giovanni.» «Non sono falò.» Era stato il giovane dai capelli chiarissimi, uscito a sua volta, che aveva parlato. Tutti si girarono verso di lui; un accenno di vento gli arrotolò il mantello intorno alle spalle. «La città sta bruciando, verso la porta di Sens», spiegò. «Sta scherzando?» mormorò Valentin rivolto ad Amboise, ma questi scosse il capo. «Chi sapeva di noi, oltre al monaco che ci ha portato il messaggio a Macon?» «Soltanto Pognon, il mio servo.» «È fidato?» «Certo! È con me da tanti anni e ormai è più di un servo: posso dire che è il mio allievo nell'Opera!» «E che mi dici del monaco?» «Un bravo giovane dell'abbazia, mandato a Macon per certi affari dei suoi superiori. Non da me e non apposta, è vero, però è stato bravo a tro-
varti.» «Molto bravo, davvero», commentò Amboise, incontrando lo sguardo duro del suo capitano, che, come d'abitudine, aveva diffidato del messaggero fin dall'inizio. «Così, nonostante la nostra prudenza, pensi che sappiano che ci troviamo qui, Colin?» «Quando abbiamo lasciato Macon, la direzione era quella giusta per Cluny, ma poi abbiamo proseguito verso nord. Che cosa possono pensare? Di certo non crederanno che sei in visita a un vecchio amico soltanto perché hai nostalgia di vederlo.» «Che vado a cercare la protezione del re Roberto, allora?» ribatté Amboise con un mezzo sorriso. «Devo presentarmi a Cluny il terzo giorno dopo San Giovanni, prima del vespro, e c'è ancora molto tempo.» «Non riesco a seguirvi!» s'intromise Valentin. «Come si stanano i lupi dal fitto di un bosco, quand'è estate, l'erba è secca e l'acqua è scarsa?» chiese il giovane capitano. «Incendiandolo», mormorò l'alchimista. «Appunto», rispose Colin Bois. Valentin si guardò intorno, incredulo: eppure Auxerre stava davvero bruciando. II «Il fuoco ha distrutto la locanda di Armail e la stalla, e sta prendendo le case sull'angolo della piazza delle Erbe!» urlò Pognon, raggiungendo il portico della casa del suo Maestro senza accorgersi che non era solo. Quando si avvide degli stranieri si fermò, ammutolendo. Era un uomo di mezza età, basso e tarchiato, con una corta zazzera scura; la veste, lunga fin sotto il ginocchio sui calzoni scuri, rivelava la sua condizione di aiutante più che di servo ed era impregnata di fumo. «Non temere, Pognon», lo rassicurò Valentin. «Questi sono gli amici che aspettavo.» L'uomo entrò sotto il portico, evitando prudentemente di guardarsi intorno. «La gente sta scappando dalla porta di Saint-Amatre, verso l'abbazia, perché la porta di Sens è bloccata dal fuoco», continuò. «Ci sono guardie alla porta di Saint-Amatre?» chiese bruscamente Colin Bois. L'uomo lo guardò, incerto. «Ci sono sempre guardie alla porta di SaintAmatre, ma tutti gli uomini del vescovo si trovano a lottare contro il fuoco.
Però il livello dei pozzi è basso e l'acqua è scarsa.» «Non fermeranno il fuoco, se non ci sarà presto una pioggia sostenuta», osservò Amboise, sfiorando con lo sguardo il giovane dai capelli biondissimi. A Valentin sembrò che un'intesa segreta corresse tra loro. Poi Amboise sollevò lo sguardo al cielo: anche da lì ormai si vedeva un bagliore rossastro. La campana di Saint-Amatre ora suonava a martello, ma il vicolo era ancora deserto. «Ci saranno feriti che hanno bisogno di aiuto», osservò. «Ci sono tanti feriti e anche più morti!» intervenne Pognon. «Ho visto con i miei occhi il tetto della locanda crollare; la paglia era tutta in fiamme, e tanta gente era ancora dentro. E sotto la tettoia della piazza delle Erbe è ammassato il fieno appena raccolto e già secco. Se le fiamme vi arrivano, raggiungeranno anche le case e le botteghe della Via Larga!» In quel momento qualche goccia di pioggia, pesante e sonora, prese a battere sul tetto del portico. Pognon guardò in alto, incredulo; nonostante i lampi lontani, fino a un momento prima c'erano state le stelle. «Andiamo, amico.» Amboise incoraggiò Valentin a muoversi. «Diamo almeno un medico vero a quella gente.» Si girò poi verso Colin. «Tu non muoverti. Restate tutti qui. E siate pronti ad andarvene per la via da cui siamo venuti.» «Sarebbe la cosa migliore da fare, anche per te», ribatté il giovane capitano, ma Artemisia gli posò una mano sul braccio, trattenendolo dal continuare. Le gocce rade erano diventate, con stupefacente rapidità, una pioggia violenta, e l'altro giovane si strinse nelle spalle e con un lieve sorriso rientrò in casa. Pognon gli si mise alle calcagna, sospettoso, perché il primo dovere di un allievo alchimista era quello di vigilare sull'Opera, e quello straniero gli faceva venire i brividi con la sua sola presenza. Proteggendosi alla meglio col mantello, Valentin s'incamminò per il vicolo, ma, prima di sbucare nella Via Larga, si fermò, riparandosi sotto un tetto spiovente. Amboise lo raggiunse. L'alchimista stava con le spalle al muro, ansando. «È lui, vero?» chiese, senza più nascondere il suo disagio. «Di chi parli?» La voce di Amboise era dura. Valentin non soltanto comprese che il vecchio amico non avrebbe scusato parole sbagliate, ma vide anche, d'un tratto, i cambiamenti che prima gli erano sfuggiti. Amboise era più aspro, come se la conoscenza a lungo inseguita si fosse portata
via l'illusione; ma la fiamma che lo bruciava non era meno ardente di quella che lo aveva sostenuto in gioventù, se mai era più perfetta, più affilata, come una lama, e altrettanto pericolosa. «Il giovane per cui vai sotto processo», rispose, soppesando ogni parola. «Il pagano che dicono capace di compiere prodigi. Qualcuno sostiene che è guidato da Satana.» «Ti sembra un diavolo?» chiese Amboise, in tono divertito, ma feroce. «Ha l'aspetto di un angelo. Ma anche l'aspetto può essere mutato dagli spiriti potenti. E potrebbe essere un Nephelim.» «Adverto di Lézat, Olderico Manfredi, signore della Marca di Torino, e suo cugino Arduino hanno reso testimonianza scritta della sua conversione. Io stesso, Artemisia e il mio capitano l'abbiamo visto accettare quello che è stato un battesimo a tutti gli effetti. Ciò dovrebbe togliere dalla sua testa almeno questa colpa.» «Colpa? Anche se è molto che non c'incontriamo, credo di conoscerti, amico mio, e sono certo che un simile linguaggio non ti appartiene. Per te nessuno è mai stato colpevole per ciò che pensa o per ciò in cui crede.» Amboise annuì, rintanandosi per sfuggire al diluvio d'acqua che stava trasformando il vicolo in un torrente. «È vero», ammise poi. «E questo è il motivo per cui finalmente riescono a processarmi.» «Non scherzare su queste cose!» «Odilone, abate di Cluny, è un uomo saggio e sarà un buon giudice. E non mancherà di ascoltare il parere del papa, in proposito.» «Hai interpellato Gerberto?» mormorò Valentin, meravigliato che potesse arrivare così in alto e tanto facilmente. «Gli ho fatto avere un resoconto delle attività del vescovo di Chambéry, che mi accusa, e la denuncia di quello che ha fatto a Illait di Isley, che è un nobile e un uomo libero e cristiano.» «Scommetto che sosterrai da solo la tua difesa.» «Nessuno potrebbe farlo meglio di me.» «Già. Spesso mi sono chiesto perché non hai seguito la carriera ecclesiastica come Gerberto.» «Se te lo sei chiesto, vuol dire che non mi conosci», ribatté Amboise. «Lo so: nessun padrone al tuo pensiero e nessuna imposizione a trattenerti. Questo è molto pericoloso, amico mio, perché tu non riconosci altra autorità se non quella della tua ragione. Pecchi di superbia e, un giorno o l'altro, la testa che non pieghi te la taglieranno.» «Forse», ammise l'altro. «Ma fino a quel giorno cercherò di farne buon
uso. Vieni... Sta spiovendo.» Valentin si mosse. «Perché hai risposto alla mia richiesta di aiuto invece di pensare alla tua difesa?» chiese poi. «Forse perché non avevo voglia di presentarmi a Cluny prima della scadenza che mi hanno dato. E poi perché Illait mi ha consigliato di darle ascolto.» «Quel giovane?» si stupì l'alchimista. «Neanche mi conosce!» «E tuttavia è stato proprio lui a suggerirmi di venire. Non accade spesso che s'intrometta, ma quando lo fa non è mai per caso.» «Forse neanche lui aveva voglia di andare troppo presto a Cluny!» borbottò Valentin, tentando di ricacciare la speranza che quel giovane potesse davvero fargli ritrovare la sua Agnes. «Forse», disse Amboise con un mezzo sorriso. Ormai si trovavano nella Via Larga. Una gran quantità di fumo colava dal cielo con la pioggia che si era ridotta a un'acquerugiola, e un velo di cenere si stava incollando ovunque, ma il fuoco era spento. Sotto la tettoia nella piazza delle Erbe, sul fieno, la gente stava raccogliendo i feriti e i morti, e molti ringraziavano ad alta voce la provvidenza per quella pioggia al momento giusto. Amboise si rimboccò le maniche, prese una delle lanterne cieche che illuminavano gli angoli della tettoia e la porse all'amico. «Fammi luce», gli ordinò. Già i monaci di Saint-Germain stavano portando soccorso e, sulle prime, ignorarono il suo intervento. Ben presto, tuttavia, Amboise lasciò indietro Valentin, dedicandosi ai feriti più gravi. I monaci, stupiti dalla sua competenza e dalla sua abilità, finirono per cedergli volentieri il passo, seguendolo attentamente quando spiegava che cosa dovevano fare. In breve tempo l'attività di soccorso sotto la tettoia fu ai suoi ordini; si stabilì una certa quiete e Amboise si preoccupò che i morti venissero portati altrove, raccomandando che venissero sepolti non appena avesse fatto giorno. «Chi è il tuo amico, maestro Valentin? E come mai dimostra tanta competenza e una così facile disposizione al comando?» L'alchimista sussultò, riconoscendo la voce dell'abate Ilderico alle proprie spalle; si girò, ringraziando che fosse così buio e che l'uomo non potesse vederlo in viso. «È un amico, abate», rispose. «Un caro, vecchio amico... Eravamo allievi assieme, molto tempo fa, dell'abbazia di SaintGermain. È qui per una breve visita. Non ci vedevamo da anni.»
«Un alchimista, quindi? Come te?» «Molto di più, mio signore. Molto di più. È un grande medico, ma anche un grande sapiente nelle arti del Quadrivio.» «E quando sarebbe giunto, questo tuo amico?» insistette l'abate. «Quando già la campana di Saint-Amatre suonava per l'allarme! In effetti, non abbiamo avuto il tempo di scambiarci neppure una parola», rispose Valentin, sbirciando le guardie del vescovo che stavano prendendo possesso della piazza. Tra l'abate Ilderico e il vescovo Hugo di Chalon non esisteva certo un legame d'amicizia; tuttavia da tempo i due uomini avevano stipulato un patto, definendo le regole per una tranquilla convivenza. Ilderico non aveva potere sulla città, Hugo non ne aveva sull'abbazia. Nessuno dei due poteva entrare nel territorio dell'altro senza un esplicito invito, cosa che invece l'abate, seguendo i suoi monaci, aveva appena fatto. Notando lo zelo degli uomini del vescovo nell'allontanare i curiosi e nel metterli al lavoro, per liberare la porta di Sens dalle macerie fumanti della locanda, l'abate si lasciò sfuggire un sorriso. «Incontrerò volentieri questo tuo amico, maestro Valentin, quando vorrai portarlo all'abbazia», disse infine. L'alchimista s'inchinò; l'invito era stato espresso in tono gentile ma fermo, e in effetti lui non aveva mai visto qualcuno sottrarsi a un ordine dell'abate. L'uomo gli girò le spalle, chiamando i suoi monaci perché si ritirassero prima di doversi confrontare con i soldati del vescovo. Soltanto allora Valentin tentò di scoprire dove fosse finito Amboise, ma non gli riuscì di trovarlo. «Così il fuoco è divampato sul tetto in più punti diversi e nello stesso momento?» mormorò Amboise, chino sull'uomo che era stato messo tra i morti e che invece aveva preso a lamentarsi, richiamando la sua attenzione. L'uomo annuì, inghiottendo l'acqua fresca che Amboise gli offriva. Era del tutto annerito, ma, dopo un rapido esame, il medico aveva scoperto che non aveva ustioni; era soltanto fumo, e doveva averne respirato una notevole quantità, che gli aveva fatto perdere in sensi e l'aveva quasi soffocato. «Sì!» ripeté l'uomo. «Io so contare: ho visto con i miei occhi un'ombra sul camminamento interno delle mura lanciare cinque torce sul tetto della locanda, che in quel punto si appoggia proprio al camminamento.» «Com'è che l'hai potuto vedere?» lo incalzò Amboise, ma in tono genti-
le, cosicché l'uomo non si spaventasse. «Io sono un servo della locanda di Armail. Ero andato al pozzo che si trova tra la locanda e la porta di Sens a prendere acqua. Quel pozzo dà acqua fresca anche nelle sere più calde, e da quel punto si vede bene il camminamento. C'erano vari lampi in lontananza e quell'uomo aveva le torce accese. Era facile vederlo.» «Ti è sembrato un servo, un soldato...» «Non un servo; questo no», rispose l'uomo, dopo aver riflettuto un momento. «Perché no?» «Non lo so, forse per come si muoveva. Poteva essere un soldato. Ci sono mercenari che si affittano con poco, di questi tempi.» «Armail aveva nemici?» «Come posso saperlo? Sono soltanto un servo! Però lui pagava la decima al vescovo e al duca, e dava regolarmente l'elemosina all'abbazia di Saint-Germain. Dunque non credo che potessero volere la sua rovina. E poi c'era sempre tanta gente nella sua locanda, perché era la migliore!» «Tanta gente, dici? Viaggiatori? Anche nobili?» «Sì, certo. Offriva i letti più puliti della città e il vino più buono.» «Sai se qualcuno è venuto a cercare qualche viaggiatore, prima dell'incendio? Qualcuno appena arrivato e proveniente da Macon?» «Nessuno mi ha chiesto nulla. Ma nella locanda c'erano altri servi e lo stesso padrone, e potrebbero aver chiesto a loro.» «Armail è morto. Se fossi in te, non mi farei vedere in giro per un po'. Hai qualcuno che ti può ospitare e di cui ti fidi?» «Ho un fratello che è monaco all'abbazia.» «Allora chiedigli rifugio, e non ripetere a nessuno quello che hai detto a me. Su, adesso! Accodati ai monaci che si stanno ritirando!» Lo aiutò a sollevarsi, sostenendolo. L'uomo aveva un aspetto spaventoso, con gli occhi che ardevano nel viso completamente nero, ma Amboise lo rassicurò. «Di' al monaco dell'infermeria che hai bisogno di bere molto latte e, quando ti chiederanno che cosa ti è accaduto, spiega che ricordi soltanto il fumo. Nient'altro.» L'uomo fece un cenno d'assenso e si avviò a fatica tra i cadaveri, che erano già più di trenta e continuavano ad aumentare, giacché gli uomini che stavano sgombrando la porta di Sens continuavano a portarne. E fu in quel momento che Amboise lo vide, appena in tempo per nascondersi dietro un'arcata, in una macchia di buio profondo. L'uomo era
basso e tarchiato, ed era accompagnato da due guardie del vescovo, che gli stavano facendo luce mentre si chinava a osservare i morti. Amboise non dimenticava mai un volto e una figura. «Odo di Chambéry!» sussurrò, scivolando nel buio e tornando sui suoi passi, verso la tettoia nella piazza delle Erbe. Trovò Valentin che lo stava cercando e lo afferrò per un braccio. «Qui abbiamo finito. Torniamo a casa», gli ordinò. «L'abate Ilderico ti ha notato e vorrebbe conoscerti.» «Non gliene mancherà l'occasione», rispose l'altro tra i denti, ma Valentin non riuscì a capire se diceva sul serio. La casa dell'alchimista era tranquilla; la devastazione e la paura che avevano colpito la parte settentrionale della vecchia Auxerre non avevano sfiorato quella orientale. «Molte di queste case sono vuote», spiegò tuttavia Valentin, quasi volendo scusare la desolazione del vicolo in cui abitava. «L'ultima epidemia si è portata via intere famiglie; così in realtà ci sono più case che gente, qui ad Auxerre.» «Non temere: la prima guerra porterà profughi dalle campagne e le case si riempiranno. Avete un vicino turbolento, Fulk Nerra, conte di Anjou, e non mi sembra che il re di Francia, il figlio di Ugo Capeto, lo sia di meno. Il vostro duca non ha eredi, così credo che non dovrete aspettare molto per ripopolare la città.» «E poi subire un assedio, perché Auxerre non è mai stata conquistata.» «Così dicono», ammise Amboise. L'altro lo precedette in casa, ma non aveva fatto che un passo all'interno quando si trovò afferrato per le spalle e con la lama di un pugnale contro la gola. «Lascialo, Aurac», ordinò Amboise, entrando a sua volta e chiudendo con cura la porta alle proprie spalle. Il giovane obbedì immediatamente, mentre qualcuno accendeva una lanterna al fondo della stanza. Valentin, tentando di rimanere in piedi, biascicò, spaventato: «Due volte nella stessa sera sono troppe!» «Non volevano farti del male», lo rassicurò Amboise. «Altrimenti saresti già morto.» «Questo non mi consola», borbottò l'alchimista. Amboise lo guidò al tavolo, dove Artemisia aveva acceso la lampada, e Valentin si lasciò cadere sulla panca con un sospiro. Pognon versò due tazze di vinello fresco; entrambi gli uomini ne avevano bisogno.
«Amboise, amico mio, non siamo più quelli di un tempo!» mormorò Valentin, consolandosi col vino, e pensando che l'umidità degli abiti che gli si erano asciugati addosso gli avrebbe fatto male. «È vero. Siamo più saggi, ma le nostre ossa ci fanno male. Dev'essere il prezzo fissato per la saggezza», scherzò Amboise, e poi alzò gli occhi su Illait e su Colin, che stavano scendendo dal piano superiore. «Non siete stati seguiti», annunciò il capitano. Amboise annuì. «Che cosa temi?» esclamò Valentin. «Qualcuno potrebbe impedirmi di raggiungere Cluny, perché non possa difendermi o non possa accusare.» Tenne per sé il fatto di aver riconosciuto Odo di Chambéry, ma evitò lo sguardo di Illait, temendo che potesse leggerglielo nella mente. «Comunque ho riflettuto e penso che Artemisia, se lo vuole, possa andare a Vézelay per tentare di sapere qualcosa di Agnes.» «Io sono pronta», disse la giovane. «Che cosa sappiamo di questo monastero?» s'informò Amboise. «È il più ricco e il meno severo dell'intero ducato. Credo ospiti una ventina di monache e una dozzina di novizie, senza contare le oblate e i servi, che tuttavia vivono al di fuori del recinto. A Vézelay c'è anche un monastero maschile, retto da un priore. Il suo monaco anziano, un certo padre Léon, è ben conosciuto per le sue prediche e il suo rigore. Mal sopportati, in effetti», ammise Valentin. «Entrambi i monasteri sono nella diocesi di Hugo di Chalon; il priore governa in sua vece ed è sempre il vescovo a nominare la badessa di Sainte-Madeleine. Inoltre ha lì una ventina di uomini, per la difesa del borgo. Li comanda Charraud di Auxerre. Un buon capitano, lo conosco bene. I suoi vecchi erano di questa strada e lui stesso è quasi prossimo al ritiro.» «E ci sono ancora le vigne tra la collina di Vézelay e Saint-Pére?» chiese Amboise. «Quelle che davano quel buon vino che ci piaceva tanto?» La faccia dell'alchimista si rischiarò al ricordo; era stato quello lo scopo dell'amico nel riportarglielo alla mente. «Sì, certo. Ma la gente è poca, e alcune vigne sono state abbandonate.» Amboise conosceva bene sia la strada che da Sens andava a Dijon, sia i luoghi dove si poteva sostare. L'antica Auxerre, Vézelay sulla sua collina, la bella Avallon, l'abbazia di Fontenay e un certo numero di villaggi fortificati ai bordi della foresta, perché la sua amicizia con Enrico di Borgogna era di vecchia data, e aveva goduto dell'ospitalità del duca nelle sue terre.
«Colin ti accompagnerà, con la scorta di Aurac e Risson», disse poi, allontanando i ricordi e rivolgendosi ad Artemisia. «Illait e io resteremo qui. Partirete all'alba. La strada è lunga, e soltanto se terrete un buon passo arriverete prima del tramonto.» «Aurac può andare subito da Risson servendosi del passaggio», suggerì prontamente il giovane capitano. «Così ci aspetterà all'uscita con i cavalli già pronti e il bagaglio di Artemisia.» «Sì, certo. Pensaci tu, Colin.» Artemisia si alzò, chinandosi su Valentin a sfiorargli le mani in un saluto silenzioso. «Approfitterò delle poche ore che restano per riposare in quella che era la stanza di Agnes. Non temere, maestro Valentin, la troverò: te lo prometto.» L'uomo annuì, con gli occhi umidi, ma evitò di sollevare lo sguardo su Illait e di formulare la domanda che gli gonfiava il cuore: C'è speranza che io la riveda? III I vigneti, pressati da una foresta scura e fittissima, accompagnavano la strada, in quel punto larga poco meno di tre braccia. Correvano tra i filari le macchie rosse dei papaveri, sbiaditi dalla calura e dalla polvere. Non si udivano suoni, nemmeno il brusio degli insetti. Il sole che declinava si era fatto color sangue, come un frutto troppo maturo in un cielo di latte. Colin fermò il cavallo alla curva della strada e Artemisia, che gli cavalcava accanto, lo imitò. Risson e Aurac, poco più indietro col cavallo che portava il bagaglio della giovane, si fermarono a loro volta, pronti, fidando nell'intuito del loro capitano nel prevedere l'imprevisto. Ma sulla strada che, oltre la curva, deviava per girare intorno all'altura di Vézelay non c'era nessuno. «Colin?» lo chiamò infine Artemisia, seguendo il suo sguardo intenso, che pareva ancorato al profilo rugoso delle mura di Vézelay. Si vedevano, da quel punto, le massicce costruzioni del monastero benedettino edificato dopo che i normanni avevano distrutto quello del vicino villaggio di SaintPére, e si scorgevano anche la chiesa di Sainte-Madeleine e il monastero femminile. Nella calura e nella luce le costruzioni apparivano come profonde ferite nere. Il giovane capitano scosse il capo. Forse Illait di Isley avrebbe saputo spiegare ciò che lui sentiva; era nel contempo avversione e attrazione sia
per il luogo sia per qualcosa da cui sapeva di dover stare in guardia, ma che non poteva fuggire. «Non mi piace», rispose infine. «Non dovresti andare là dentro.» «È un monastero, sai, non un luogo di dannazione.» Lui scosse il capo. Artemisia si sporse dalla sella e posò una mano sulla sua, stringendola forte. «Quando avevo otto anni, qualcuno suggerì ad Amboise che, per la mia educazione e la mia anima, era opportuno che andassi in monastero e ne uscissi soltanto se fosse stato convenuto per me un matrimonio onorevole. Amboise mi chiese molto seriamente che cosa ne pensassi, e ricordo di avergli risposto che, se lo avesse fatto, avrei trovato il modo di buttarmi nel pozzo, perché c'era un pozzo di cui non si vedeva il fondo nel luogo in cui eravamo. Ricordo che Amboise considerò molto seriamente la mia minaccia e alla fine mi disse che non si poteva chiudere il vento in un sacco per impedirgli di soffiare. A quel tempo non capii esattamente che cosa intendeva, ma adesso lo so. E gliene sono molto grata.» «Però adesso non doveva mandarti qui!» «Ho promesso.» «Solo per questo? Perché hai promesso a quel vecchio illuso di trovargli la nipote?» «Valentin può essere diventato un illuso. Ma ti assicuro che è una mente brillante e uno dei più grandi alchimisti d'Europa.» «Che ha perduto la strada.» «Ha perduto i sogni», ribatté Artemisia, ritirando la mano. «E poi non è soltanto perché gli voglio bene o perché ne volevo ad Agnes... C'è qualcosa oltre quelle mura. Un richiamo, una forza. Qualcosa che mi attira. Forse anche tu l'hai sentita, perché ti sei fermato.» «Hai ascoltato troppo a lungo il nostro amico stregone!» «Non chiamarlo così!» Colin sorrise. Di solito si serviva di quell'appellativo col preciso intento di farla indispettire, ma quella volta era diverso. Lui stesso si pentì all'istante di averlo usato. «Sono uno sciocco», ammise con un mezzo sorriso. «No: sei ancora geloso», ribatté Artemisia. «Sei stupidamente geloso. Voglio bene a tutti e due.» «Non nel modo che intendo io.» «Il modo che tu intendi, capitano, renderebbe tutto più difficile, e Amboise non lo approverebbe.» «Per il tuo onore?»
«Perché disturberebbe la nostra compagnia.» «È vero, sono geloso», ammise infine Colin. «Ma soltanto perché Illait riesce sempre a capirti e io non posso dire altrettanto.» Artemisia sorrise, spingendo avanti il cavallo. Lui si girò un momento, tentando di scorgere qualcosa, qualunque cosa, che potesse spiegare il presentimento di morte che lo attanagliava. Ma Aurac e Risson confermarono con un cenno l'assoluta quiete dei dintorni. Non c'era nessuno, tra il rosso dei papaveri e il sole che si stava tingendo di cremisi. Le case di pietra col tetto di paglia dei servi e dei contadini erano numerose, perché Vézelay era un punto di sosta importante sulla strada, e davano vita a due borghi; uno alto, intorno ai monasteri e dentro le mura che racchiudevano l'altura, e uno al di là della strada ai suoi piedi. Dopo un breve tratto coltivato a vigneti e segala, la foresta di Morvan si allargava fittissima, a perdita d'occhio, così che Vézelay sembrava in effetti un'isola abbandonata in un mare vastissimo e immobile. Varcarono le mura del monastero al vespro. La costruzione sorgeva più in basso, e più arretrata rispetto alla grande chiesa di Sainte-Madeleine, voluta da Carlo Magno; era circondata da un muro di pietre più alto sul lato del cortile e più basso via via che se ne allontanava, fiancheggiando un viottolo che saliva. L'edificio, in parte di pietra e in parte di legno, era però imponente, almeno per quello che videro della facciata, non appena un servo li fece entrare nel cortile. Alla monaca addetta alla porta consegnarono il messaggio di Amboise de Montsalvy e, grazie al prestigio di cui quel nome godeva, la badessa li ricevette con sorprendente rapidità nel parlatorio, mentre Aurac e Risson sostavano nel cortile con i cavalli. Colin era certo che i due giovani non avrebbero trascurato di osservare i particolari che potevano tornare utili nell'evenienza di una ritirata precipitosa, o peggio ancora di un intervento di forza. Il parlatorio era una stanza completamente vuota, con una finestra che si affacciava sul cortile da cui erano entrati e ben quattro porte, tutte chiuse, che conducevano all'interno dell'edificio. Nulla insomma rivelava quella ricchezza di cui Valentin aveva parlato. La donna che li attendeva era di una bellezza che non passava inosservata, nemmeno in quel luogo. Probabilmente era sulla trentina, ma il suo aspetto pareva sfidare il tempo. Era alta e sottile, con una carnagione bianchissima e i lineamenti del viso perfetti, illuminati da occhi grigi chiari
come l'acqua. Indossava un abito prezioso, scuro, e un ampio mantello leggero ornato ai bordi da ricami dorati. Un lungo velo nero, trattenuto da un filo di perle, le incorniciava il viso passando sotto la gola e nascondendole i capelli. Artemisia fece un inchino perfetto, mentre Colin chinò il capo in segno di omaggio, avvertendo tuttavia l'intensità dello sguardo della donna su di lui. «Il capitano Colin Bois, mio cugino», mentì spudoratamente Artemisia, rialzandosi a un cenno della badessa. Il suo tono deciso e tuttavia amabile sembrò impressionare favorevolmente la donna, che rivolse un altro sguardo al giovane. Ma, quando parlò, era come se lui non fosse presente. «Il signore di Montsalvy è ben conosciuto per la sua grande scienza e per la temerarietà delle sue convinzioni e dei suoi comportamenti; tuttavia mi compiaccio che la sua pupilla abbia scelto il mio monastero per un ritiro di riflessione. Stai forse preparandoti alle nozze?» «So che il mio tutore ha progetti per me in questa direzione.» Colin rimase impassibile, ma non poté non ammirare la facilità e la naturalezza con cui Artemisia sapeva mentire. Nella veste di promessa sposa, gli obblighi e le restrizioni di Artemisia all'interno del monastero sarebbero stati in numero minore rispetto a quelli prescritti per un ritiro di preghiera. La badessa annuì, apparentemente soddisfatta dalla risposta. «Il capitano tuo cugino potrà farti visita quando crede, senza doverlo chiedere in anticipo. Potrai incontrarlo qui, in parlatorio, ma non dovrà presentarsi o trattenersi oltre compieta. Adesso puoi dirgli di andarsene.» Artemisia s'inchinò nuovamente, e poi si rivolse al giovane capitano. Il viso era serio, eppure gli occhi conservavano una traccia del suo sorriso malizioso. «Puoi lasciarmi, cugino caro», disse, e le parole erano già una carezza per Colin, che s'inchinò e uscì senza ribattere. Il passaggio che conduceva al cortile era vuoto, e il cortile stesso appariva già deserto, toccato dalle prime ombre viola di un crepuscolo che prometteva di durare a lungo. Aurac e Risson avevano affidato a un servo il bagaglio di Artemisia, e sostavano accanto al portale che un altro servo aspettava di poter richiudere alle loro spalle. «Ci fermiamo nel Borgo Basso per la notte, capitano?» gli chiese Aurac. «I cavalli sono stanchi e l'idea di dover riattraversare quella interminabile foresta, di notte, non mi sorride granché.» «Hai paura, Aurac?» domandò Colin con un vago sorriso.
«No. Mi preoccupo per i cavalli», ribatté il giovane precipitosamente e rivelando così la sua inquietudine. Poi, scrollando le spalle in un gesto di rassegnazione, si mosse per primo. Eppure Colin indugiava. C'era qualcosa, in quel luogo. Artemisia aveva ragione. Qualcosa di molto forte, come un richiamo; qualcosa che lo sfiorò, passandogli accanto nell'aria calda e immobile. Ma non era che il volo di una colomba da un merlo del muro di cinta: l'ombra di un'ala bianca sul rosso sangue di una macchia di papaveri polverosi. Pognon avrebbe voluto impedirgli di entrare nel laboratorio, ma era bastato uno sguardo del giovane signore straniero per indurlo al silenzio e all'obbedienza. Il servo non avrebbe saputo spiegare come, o perché, era successo. Sapeva soltanto che, nel preciso istante in cui aveva fissato quegli occhi simili a pozze d'azzurro profondo, lui si era sentito senza volontà e senza forza. Certo, il maestro Valentin sarebbe stato furioso con lui, perché in quel momento il giovane straniero stava curiosando nel laboratorio, dove l'Opera maturava il suo cammino. Il Maestro mi caccerà, pensò Pognon tristemente. Non mi vorrà più come assistente... E tuttavia nemmeno quella consapevolezza riusciva a spingerlo a fare qualcosa. Non poteva entrare nel laboratorio per mandar via lo straniero, né allontanarsi dalla soglia. «Che c'è, Pognon?» esclamò Amboise de Montsalvy alle sue spalle. «Non lo so», mormorò il servo. La visita di Montsalvy non lo rassicurava. La giovane dama e il capitano erano andati via all'alba, e poi il Maestro era uscito per raggiungere l'abbazia di Saint-Germain, come ogni giorno, ordinandogli di lasciare riposare i due ospiti rimasti e di obbedire ai loro ordini, senza un briciolo di comprensione per le sue riserve nei loro riguardi. «Dov'è Valentin?» gli chiese l'altro, ignorando il suo disagio. «All'abbazia, per avere notizie dei feriti e per incontrare l'abate come ogni giorno. Così ha detto.» «Saggia decisione», commentò Amboise, passandogli oltre e scendendo nel laboratorio. «Il mio Maestro non avrà piacere di trovarvi interessati alla sua Opera!» insorse Pognon, facendosi forza e trotterellandogli dietro, ma restando pur sempre a una certa distanza, nell'ombra. «Che cosa temi, Pognon?» L'uomo lanciò un rapido sguardo al giovane straniero, fermo davanti al-
l'atanor. L'aludel, la parte alta dell'alambicco di cristallo di rocca, conteneva la materia prima, che dopo quaranta giorni da nera si era fatta bianca, e che si trovava in quel colore già da una luna. «Lui!» disse il servo in un soffio. «Ti ha fatto qualcosa?» «Qualcosa mi ha fatto di certo.» Amboise si limitò a sorridere e raggiunse il giovane all'atanor. Tutt'intorno al fornello, la cui alimentazione a legna per una temperatura costante era il principale impegno di Pognon nel laboratorio, c'erano vari specchi, disposti ad angolazioni particolari, e orientati verso l'unica finestra da cui entravano aria e luce. «Gli arabi usano gli specchi per raccogliere i flussi sottili del cosmo. Le forze che non si vedono e non si toccano, come le definiscono nei loro trattati. È stato Gerberto, che ha studiato a lungo a Cordoba, a servirsi per primo degli specchi. Valentin ha elaborato uno studio sulle angolazioni e i flussi», osservò Amboise, sfiorandoli con la punta delle dita. «E mi sembra che questa volta sia a buon punto, purché riesca a evitare un'esplosione.» «Valentin non concluderà la sua Opera», disse Illait. «Non può ottenere qualcosa in cui non crede.» «Non ci crede, dici? Forse non più... oppure non ci ha mai creduto?» chiese Amboise, rammentando i facili entusiasmi del compagno della giovinezza. Ma Valentin non aveva saputo osare ed era diventato, sopportando le delusioni della vita, un grasso e opaco Maestro prigioniero anzitutto di se stesso, prima ancora che dei luoghi e delle abitudini. Così la sua ultima speranza, vera o immaginata, era tutta lì, chiusa nell'aludel. «Tu non hai mai cercato la pietra filosofale, signore di Montsalvy?» domandò Illait. Amboise lo fissò, sorpreso. Raramente il giovane faceva domande così dirette. «Non come può cercarla un alchimista, no», mormorò in risposta. «Io cerco quello che sta oltre.» «L'Alito del Drago», suggerì Illait. «Dicono che l'Opera compiuta lasci un liquido rosso che brilla nel buio e che, solidificando, diventa pietra. Quella, sostengono, è la chiave della metamorfosi», riprese Amboise. «È il dominio sulla materia, ma è anche l'innalzamento del Maestro su un altro piano. Così la Trasmutazione non è soltanto negli elementi, ma è nell'uomo, nel suo tempo e nel suo spazio. E il Maestro è illuminato. Tutto ciò che può" dargli l'Opera compiuta è molto più che salute e ricchezza: è il divenire parte della Conoscenza.»
«E questa è la tua tentazione. Ma la tua mente non si piega alla via comune. Tu non vuoi apprendere. Tu vuoi essere.» Un sorriso divertito pareva danzare nell'azzurro degli occhi di Illait. Amboise accettò quello che sembrava un rimprovero senza ribattere. «Perché hai spaventato Pognon?» chiese poi, vedendo che l'allievo di Valentin si era ritirato sulla scala, e da lì li scrutava, guardingo. «È stata la sua paura a spaventarlo, non io. La paura può far molto, sai.» «Sì, ne sono convinto. Ma, se dovesse rendere testimonianza su di te, direbbe certamente che sei tu la causa del suo malessere. E stanotte ho visto Odo di Chambéry cercare tra i cadaveri dell'incendio, accompagnato dalle guardie del vescovo.» «Per questo hai lasciato partire Artemisia?» «Sì, anche se non l'ho fatto volentieri. Sarà più al sicuro in un monastero che al nostro fianco, finché durerà il processo.» «Artemisia non è al sicuro in quel luogo.» «Perché è un monastero? Perché dovrà correre rischi per sapere qualcosa di Agnes? Eppure sei stato proprio tu a consigliarmi di ascoltare l'appello di Valentin!» «L'appello del tuo amico è legato a un luogo buio dove c'è dolore. Qualcosa in cui ancora non riesco a guardare, ma che nemmeno posso ignorare.» «Qualcosa che Valentin potrebbe conoscere?» «Il tuo amico è sincero con noi; può darsi che altri non lo siano stati con lui.» Amboise annuì, volgendo le spalle all'Opera di Valentin. Forse era soltanto una sua sensazione, ma gli sembrava che il pugno di materia bianca chiusa nell'aludel avesse un piccolo movimento, come il respiro lieve e soddisfatto di un gatto addormentato al sole, da quando Illait la stava guardando. «Vieni», concluse, spingendo via il giovane. «Non rendiamo Pognon più infelice di quanto già si sente, e non diamo a Valentin il sospetto di voler disturbare la sua Opera.» Illait acconsentì di buon grado. Pognon si fece da parte per farli passare, muto e risentito. Tuttavia la governante aveva preparato una buona colazione, fiera di poter dimostrare che il suo padrone era ricco e che poteva permettersi ospiti anche in quel tempo di carestia. Amboise non conosceva la donna, da poco nella casa dell'amico; ben oltre la mezza età, piccola di statura e tozza nell'aspetto, li osservava senza curarsi di apparire insolente. Eppure sapeva tacere, non per mancanza di
curiosità bensì per prudenza. Servì loro pane di segala, marmellata d'uva e fichi e bocconcini di carne bianca cotta nel latte. Il tutto con un vino leggero e fresco. Avevano ormai finito quanto Valentin tornò dall'abbazia. Era stanco e accaldato, e la notte movimentata gli aveva lasciato un brutto aspetto. «È una fornace, là fuori!» borbottò, lasciandosi cadere sulla panca. «E ancora non hanno sepolto tutti i morti di stanotte.» «Ordina alla tua governante di non andare in giro a curiosare», gli consigliò Amboise, versandogli un boccale di vino. «Come stanno i feriti?» s'informò. «Con questo caldo le loro piaghe non hanno molte speranze, ma l'abate di Saint-Germain si è offerto di ricoverarli nell'infermeria dell'abbazia. È fresca e ha un buon movimento d'aria.» «L'abate ti ha chiesto ancora di me?» L'alchimista posò il boccale, dopo averlo vuotato, incurante della stanchezza che gli faceva tremare le mani. «Di te, e di lui», rispose. «Che cosa vuole?» insistette Amboise. «Perché dovrebbe volere qualcosa?» protestò l'alchimista, lasciando trasparire il disagio. «Gli uomini come il tuo abate non si espongono per niente: sono troppo potenti, e troppo astuti.» «Ilderico desidera compiacere Odilone di Cluny, e anche il papa, naturalmente. Dandoti assistenza, spera di aumentare il suo prestigio ai loro occhi. L'abate e il vescovo di Auxerre sono in guerra da sempre. Talvolta con le armi, molto più spesso con l'astuzia o con i cavilli del potere. Ilderico si sentirà più forte e più sicuro, col potere di Cluny e di Roma alle spalle.» «Questa città appartiene al duca di Borgogna. Ma lui non ha voce?» «Ne aveva una volta e comunque non molta. Ora il duca è vecchio e senza eredi, e Hugo di Chalon è ambizioso. La città in effetti è sua.» «Ma io chiederei molto a malincuore a Illait di Isley di cercare protezione da un abate per sfuggire a un vescovo», ribatté Amboise. Valentin abbozzò un sorriso, evitando di guardare il giovane. «A Cluny dovrai giurare che si è convertito. Perché ti crucci?» «Per via dei troppi mesi di prigionia e di torture in una cella del palazzo del vescovo di Chambéry, e del rogo che ha bruciato sua sorella. Ecco perché. Comunque io renderò volentieri omaggio al tuo abate.» «Ne sarà onorato», mormorò Valentin. Era troppo stanco per chiedersi
se davvero era stato saggio da parte sua riportare Amboise de Montsalvy tra le mura della città. Poi l'immagine di Agnes gli salì prepotente alla memoria; gli sembrò di vederla, col cestello delle more appena raccolte tra le braccia, le trecce sfatte per la corsa, l'allegria negli occhi innocenti e il sorriso sulle labbra senza malizia. Era lì, nell'angolo della cucina che era stato il suo rifugio favorito, e gli mostrava orgogliosa il frutto del suo raccolto, tanto che Valentin fece per alzarsi prima di accorgersi che stava immaginando ogni cosa. Un sogno. Qualcosa che gli toccò l'anima, portandogli una consolazione dolorosa, ma benefica. Ricadde sulla panca. «Lui vuole rubarti l'Opera!» esclamò Pognon, giungendo dal laboratorio e fermandosi alle spalle del padrone. Puntava il dito accusatore su Illait di Isley. Valentin deglutì a fatica e guardò il giovane che, con uno sguardo triste, fissava l'angolo della cucina. La fanciulla col cesto di more... C'è ancora, pensò. E anche lui la vede. O forse sono io a vederla per tramite suo. «Non dire sciocchezze!» ordinò a Pognon. «L'Opera non corre nessun pericolo. Vattene da qui, Pognon. Torna nel laboratorio, e restaci!» L'uomo si strinse nelle spalle, obbedendo; Amboise percepì il suo sguardo irato scorrere su tutti i presenti. Si erano fatti un altro nemico. IV Repentinamente, guardando la porta che si chiudeva alle spalle di Colin Bois, Artemisia si sentì afferrare dall'angoscia. Quando si girò verso la badessa, tuttavia, lasciò trasparire soltanto la stanchezza per il viaggio e il disagio per la calura della giornata. «Così ti appresti a diventare una moglie», osservò la donna, con un tono che non esprimeva né simpatia né ostilità. «Il signore di Montsalvy avrebbe dovuto accasarti da tempo... Da almeno quattro o cinque anni. Sbaglio?» C'era un sorriso, ora, sulle labbra della badessa. La fanciulla non riuscì a capire fino a che punto era soltanto curiosa. «Ho compiuto diciannove anni», si limitò a rispondere. «Spesso le giovani nobili alla tua età sono già alle seconde nozze.» «Allora mi considero fortunata per non aver dovuto subire un simile lutto», disse Artemisia. Si sentì percorrere dal suo sguardo attento e inconsueto, e il respiro le mancò per un istante. Come se qualcosa la stringesse
alla gola. O qualcuno cercasse d'intrufolarsi nei suoi pensieri, per rubarglieli. «Si dice che tu abbia seguito fin da bambina il tuo tutore, nel suo peregrinare da una terra all'altra», osservò la donna. «Questa ostinazione nel tenerti con sé è sorprendente, e incomprensibile. D'altra parte Amboise de Montsalvy è conosciuto per l'irragionevolezza di certe sue decisioni.» «Il mio tutore è anche il mio maestro. Ho imparato da lui l'arte della medicina.» «Arte del tutto impropria per una donna nel nostro tempo, non credi?» ribatté la badessa, sempre sorridendo. «Non pretendo di diventare medico in qualche corte; ma credo di poter fare qualcosa per le donne e i loro bambini.» «Per far nascere i bambini ci sono le levatrici, per non farli nascere le fattucchiere. Tu che cosa sei?» Artemisia sostenne fermamente lo sguardo della donna, che ora sembrava prendersi gioco di lei. «Né l'una né l'altra. Sono un medico. Posso curare e operare.» La badessa annuì e fece un cenno con la mano, come per alleggerire la tensione. «Il colore dei tuoi occhi è notevole, e raro. Occhi d'erba. Molto tempo fa, era un dono prezioso.» «Molto tempo fa?» «Nel tempo degli dei del tuo amico pagano.» «Non ho amici pagani, mia signora.» «Davvero? Eppure io ho sentito parlare di quel giovane. Vézelay, come scoprirai presto, non è fuori del mondo; la strada che da Sens porta a Dijon è percorsa da uomini di Chiesa degni di fede. E quel giovane, che l'abate Odilone di Cluny aveva ricevuto in custodia per curarne la conversione, è riuscito a far parlare molto di sé.» «Quel giovane ora è convertito, per grazia di Dio e per opera del mio tutore.» Gli occhi d'acqua ebbero un guizzo. Ad Artemisia, per quanto strana, parve un'ombra di allegria. «Naturalmente; ma non ci mancherà il tempo per parlarne. Ora puoi ritirarti. Isette ti mostrerà la tua cella per stanotte; domani ti verrà preparata una stanza adeguata al tuo rango, e verrai istruita sulle nostre regole.» Artemisia s'inchinò. La giovane che la badessa aveva chiamato Isette doveva essere stata per tutto il tempo ad attendere dietro una delle porte,
perché comparve immediatamente. Vestiva una semplice tunica di tela scura, e i capelli erano completamente raccolti in una cuffia troppo grande per lei. Teneva gli occhi bassi, e le mani nascoste dietro la schiena. La fanciulla la seguì, sentendosi addosso lo sguardo della badessa. Isette camminava spedita nel lungo passaggio, che sembrava portare al cuore del monastero, e che era a malapena rischiarato dalla fiammella di qualche candela di sego appesa al muro. C'era odore di muffa; il caldo esterno non toccava le spesse mura. A un certo punto svoltarono: il passaggio si apriva in un atrio, dal quale pochi gradini portavano a una galleria in basso e una corta rampa a una cappella più in alto. Isette aprì l'ultima porta del passaggio prima dell'atrio. Accese una candela ed entrò per prima. «Vieni, mia signora», la esortò tenendo alta la candela, e Artemisia la seguì all'interno. La cella era piccola, con una stretta finestra troppo in alto per essere raggiunta, e aveva soltanto un pagliericcio e uno sgabello. Isette assicurò la candela al sostegno appeso al muro e guardò timidamente i bagagli, che vi erano già stati portati. «La badessa mi ha dato il permesso di servirti», mormorò. «Posso rimanere ad aiutarti?» C'era entusiasmo nella voce della giovane, trattenuto più per prudenza che per paura. Artemisia accostò la porta e le fece cenno di aprire la prima borsa. «Puoi aiutarmi, certo. Prendi la scatola dei pettini.» La giovane obbedì con slancio; osservandola, Artemisia cercò di valutare quanto poteva ottenere da lei. Indubbiamente la badessa le aveva dato l'incarico di sorvegliarla, ma la giovane era troppo inesperta per resistere alle tentazioni. Aprendo la scatola dei pettini, dove venivano custoditi i nastri e anche un piccolo specchio, le mani le tremavano. Artemisia finse di non accorgersene. Si liberò del velo e dei nastri che le tenevano i capelli. «Puoi pettinarmi, se vuoi», le concesse, e Isette obbedì con entusiasmo. Per qualche minuto la lasciò fare; ma non aveva pratica di quel lavoro, e l'altra sapeva per esperienza che i suoi lunghi riccioli non erano facili da dominare. Tuttavia la giovane cercava davvero di farle buona impressione. «Domani, mia signora, avrai una stanza molto più bella, con un vero letto, e una grande sedia; avrai cuscini e anche un tappeto, e avrò cura che l'acqua nella tua brocca sia sempre fresca!» esclamò a un certo punto. «Da quella stanza potrai uscire nel giardino, e certamente sarai libera di andarci tutte le volte che ne avrai voglia.» «Tu non sei ancora monaca, vero, Isette?»
La ragazza s'interruppe col pettine a mezz'aria. «Sono stata oblata quando avevo cinque anni. Ricordo appena mio padre: era tornato da qualche battaglia, e la prima cosa che ha fatto è stata quella di prendere mia sorella e me e di portarci via, per togliersi due bocche inutili da sfamare. Mia sorella era più grande di me di qualche anno, e lui l'ha venduta a una taverna. Rammento ancora il disegno del gallo sulla porta, ma non il nome del paese. Io ero troppo piccola e l'oste non mi ha voluta. Così mio padre mi ha portato qui, regalandomi alle monache. Adesso ho quindici anni; quando ne avevo dieci mi hanno fatto pronunciare i voti di castità, e alla fine di quest'anno diventerò una vera monaca.» «Ed è... davvero quello che vuoi?» «Sono un'oblata. Anche se non prendessi i voti non potrei mai tornare nel mondo. Dovrei restare qui come conversa, quindi è meglio per me restarci come monaca. Ho la speranza di ottenere prima o poi un buon posto... forse in cucina.» «Non al servizio personale della badessa?» Isette tacque; Artemisia poteva comprendere la natura della sua riluttanza a parlare della donna. «T'invidio, mia signora», mormorò la ragazza, posando il pettine. «E non m'importa se, facendolo, commetto peccato. Tu sei bella e ricca, e tra poco andrai sposa.» «Credi che il matrimonio sia l'unica fonte di gioia per una donna?» «Ve ne sono altre?» esclamò Isette, sinceramente stupita. «L'amore, per esempio. E non sempre il matrimonio è l'amore. Può essere contratto per convenienza o per stabilire alleanze. E in questo caso il marito diventa soltanto un altro padrone.» «Che importa? Si tratta pur sempre di un uomo!» si stupì la giovane. Adesso è sincera, pensò Artemisia. Prese alcuni nastri azzurri dalla scatola e, girandosi, glieli porse. «Prendili. Puoi metterli sotto la cuffia. Non li vedrà nessuno.» La mano si tese ad afferrare il dono e a nasconderlo sotto la tunica. «Buonanotte, Isette», la congedò. «Ti aspetto domattina. Mi aiuterai a sistemarmi nella nuova stanza e chiederò alla badessa di lasciarti al mio servizio per tutto il tempo che resterò qui.» La giovane s'inchinò; gli occhi le brillavano per il dono ricevuto, per la promessa e per il balenare di una speranza che sembrava illuminarle il futuro. Un momento dopo Artemisia era sola. Un tuono riuscì a penetrare le spesse mura della cella, rotolando dalla fi-
nestrella; il crepuscolo era finito, e la calura portava nella notte lampi sterili. Riaprì la porta: il passaggio era vuoto. Azzardò qualche passo verso la galleria più in basso, ma anche tutte le porte che vi si affacciavano erano chiuse, e la luce dell'unica lucerna sbiadiva poco oltre lasciando una voragine di buio. Non si udiva nemmeno un suono. Come se da quel luogo, per una qualche magia, fosse preclusa la vita. Si sentì soffocare, all'improvviso. Era la stessa sensazione provata poco prima nel parlatorio, soltanto molto più forte. Lottò per ricacciare la paura. Artemisia ben di rado soccombeva alla suggestione tanto da restare impigliata nella paura, perché Amboise le aveva insegnato a valutare le circostanze, il luogo e l'evento prima di considerare le emozioni che potevano alterare il giudizio. Eppure aveva paura. Volse le spalle alla galleria e salì alla cappella. Qualcuno stava sopraggiungendo. Nell'aria immobile, un soffio la fece trasalire. In quel momento un tuono squassò il silenzio. Si sarebbe detto proprio al di sopra del monastero. Fece appena in tempo a inginocchiarsi e a fingere di essere assorta in preghiera. L'ombra alta e allampanata di una monaca comparve sulla soglia con una lucerna in mano. Vedendola in preghiera, rimase zitta, ma, quando finalmente Artemisia si mosse, l'accompagnò alla cella senza dire una parola, la fece entrare e poi fece scorrere il paletto che chiudeva la porta dall'esterno. Nella piccola cella non restava ad Artemisia che la luce della candela e il riverbero dei lampi, ma la finestra era davvero troppo piccola e troppo in alto per servire a qualcosa. Fitti cespugli di sambuco, già coperti di fiori bianchi, circondavano l'infermeria dell'abbazia di Saint-Germain. L'edificio era lontano dagli altri, all'interno delle mura, e il suo lato settentrionale si affacciava sul piccolo cimitero dei laici. Davanti aveva una bella fontana, con due larghe vasche in cui si specchiava, bianco, il cielo; nonostante l'ora mattutina, infatti, faceva già molto caldo. Per contro, l'interno dell'infermeria era abbastanza fresco, e ciò alleviava un poco le sofferenze dei feriti. Amboise, accompagnato da un monaco, li aveva osservati a uno a uno, intervenendo a drenare una piaga o ad alleviare il dolore somministrando dell'oppio; ma c'era ben poco che potesse fare laddove le piaghe erano infette o gli organi interni erano stati toccati.
Per tutto quel tempo, Colin era rimasto sulla soglia, aspettando vigile e paziente. Era tornato da Vézelay poco prima dell'alba e si era servito del passaggio per raggiungere con Aurac la casa di Valentin, lasciando Risson con i cavalli. Non aveva però riposato che un'ora, giacché Amboise l'aveva svegliato bruscamente, ordinandogli di scortarlo all'abbazia per incontrare Ilderico. Al capitano era sembrato teso e di pessimo umore. Amboise aveva chiesto a Valentin di non accompagnarlo, e l'alchimista aveva accettato di buon grado. Sarebbe rimasto a sorvegliare l'Opera, anche perché l'accusa di Pognon, pur respinta, gli aveva fatto germogliare nella mente una piccola ombra. Una cosa insignificante, eppure ormai incancellabile. E, cosa ancora peggiore, Valentin sapeva che non poteva nasconderla a Illait di Isley. «Non è un bello spettacolo», commentò Amboise, raggiungendo Colin e togliendosi l'ampio grembiule che aveva indossato sugli abiti. «Ne ho visti di peggiori», commentò l'altro, e lo seguì rassegnato alla fontana, dove Amboise si lavò con cura mani e braccia. Il monaco che lo aveva affiancato durante quel triste compito gli porse un telo per asciugarsi e poi aspettò, per condurli da Ilderico. Nel breve cammino dall'infermeria alla casa abbaziale, circondata a sua volta dai sambuchi e protetta dall'ombra di vecchi faggi, vennero nuovamente investiti dalla calura e quasi assordati dal frinire delle cicale. Passarono accanto a un sedile di pietra, sul quale un vecchio monaco pregava con gli occhi chiusi e parve non accorgersi di loro. Da quel punto era possibile vedere l'ala dell'abbazia che ospitava i numerosi studenti, giunti lì da ogni dove, e si sentiva l'eco delle loro voci durante quella che sembrava una lezione di latino piuttosto vivace e controversa. Colin non poté fare a meno di avvertire la diversità tra Saint-Germain e il monastero dove aveva lasciato Artemisia. Anzi più ci pensava e più la sensazione di angoscia avvertita in quel luogo lo disturbava. Lo aveva già rivelato ad Amboise, che però si era limitato ad annuire senza rispondergli. Ilderico li aspettava nella stanza dove esercitava le sue funzioni di amministratore dei molti beni dell'abbazia; un magnifico studio che si affacciava su un giardinetto ben tenuto. L'uomo, minuto e di un'età indefinibile, si mosse ad accogliere Amboise con deferenza e, ignorando Colin, che rimase sulla soglia, congedò subito il suo segretario. «Non accade spesso che un allievo tanto illustre ritorni alla scuola che l'ha forgiato!» esclamò, invitando con un gesto l'altro a sedersi. «Invero oggi è un giorno particolarmente felice.»
«Vengo dall'infermeria, e non potrei definire felice un giorno di cui almeno dieci cristiani non vedranno il tramonto, e non per loro colpa», ribatté Amboise. Come spesso gli accadeva quand'era particolarmente in collera, diceva esattamente quello che pensava, incurante del rango di chi aveva di fronte. E in collera lo era davvero. «Posso capire l'amarezza di un medico che non può salvare tutti i corpi che gli si affidano, ma posso dire al cristiano che quei poveretti sono nella grazia di Dio, e che niente può servire loro se non le preghiere», rispose pacatamente Ilderico. Gli acuti occhi chiari nel viso dalle linee affilate tradivano determinazione e una certa durezza; indubbiamente doveva essere duro e determinato per tener testa a Hugo di Chalon. «L'incendio non è stato un accidente.» «Questa è un'accusa molto grave.» «È vero. E non è mia abitudine accusare senza avere prove. Ma quella notte ho visto un uomo che non doveva essere là. Stava cercando tra i cadaveri, accompagnato dalle guardie del vescovo.» «Vuoi dire che l'incendio è stato deliberatamente appiccato alla locanda perché qualcuno credeva che tu fossi già lì?» «È quello che penso.» «Per impedirti di andare a Cluny a difenderti?» «No. Per impedirmi di accusare.» Ilderico tacque, consapevole della gravità delle parole dell'uomo che il caso, servendosi di Valentin, aveva riportato nella sua città dopo tanti anni. «La mia abbazia sarà un rifugio per te e per chi ti accompagna», lo rassicurò, augurandosi inoltre che il signore di Montsalvy, di cui aveva già sentito fin troppo parlare, si rivelasse più ragionevole di quanto dicevano. Anche perché desiderava chiedergli la ragione dei dolori al capo che avvertiva tanto spesso - anche in quel preciso momento - e magari ottenere un rimedio. «Soltanto per sfuggire a un estremo pericolo mi servirei del potere dell'abbazia; non credo di poter compromettere la difficile pace che mantieni col vescovo di Auxerre», rispose Amboise. «Hai detto bene: è una difficile pace. Ma l'abbazia è protetta da Cluny, che a sua volta riceve molte rendite dal duca di Borgogna; così il duca è un benemerito per Cluny. Anche Hugo di Chalon gode di rendite e, dal momento che anche lui è un buon amministratore, non desidera certamente perderle, cosa che accadrebbe se Cluny chiedesse al duca e ai suoi vassalli di revocarle per indegnità.»
«Una questione squisitamente finanziaria», disse seccamente l'altro. L'abate si meravigliò della durezza del tono, ma anche del fatto che quella semplice verità potesse irritare Amboise. «È un potere che ha mosso la storia nei tempi passati, e che la muoverà in quelli futuri», disse. «Ed è principalmente questo potere che viene insegnato ai giovani che vengono mandati qui per apprendere; su mille, ogni tanto, ne emerge uno, ma quell'uno facilmente diventerà un grande re.» «O un grande papa», opinò Amboise. «È vero. Ma devi convenire che Saint-Germain dev'essere un luogo speciale se ha ospitato Gerberto di Aurillac e Amboise de Montsalvy.» «E Valentin di Auxerre.» L'abate scosse il capo. «Era il nostro migliore Maestro nel Trivio e nel Quadrivio, ma il suo spirito non ha varcato la soglia della grandezza.» «Perché hai detto 'era'?» «Perché è diventato distratto, annoiato; spesso si perde a seguire i pensieri e si dimentica degli allievi. Hai fatto bene a dirgli di non venire, oggi. Forse un po' di riposo gli farà bene.» «È così da quando non ha più potuto vedere sua nipote?» «No, ma da quel momento è peggiorato. Devo confessare che anche a me era sembrata una buona idea per Agnes, perché il monastero di SainteMadeleine gode di grande prestigio, ed è ricco e sicuro: di certo il migliore monastero femminile di tutto il ducato. Però c'è una cosa: Valentin ieri mi ha detto che vi hai mandato la giovane di cui sei tutore. Avresti dovuto parlarmene prima. Ti avrei messo in guardia.» «In guardia?» ribatté Amboise, volgendosi a Colin e scambiando col giovane un'occhiata. «La badessa di quel monastero è una protetta di Hugo di Chalon. Il suo nome è Maude de Belley, ed è cugina per parte di madre di Chaffre de Revard, vescovo di Chambéry. L'uomo che ti ha portato in giudizio a Cluny.» «Valentin lo sa?» «Non credo. Ben pochi sono a conoscenza del nome della badessa di Sainte-Madeleine. Io stesso l'ho appreso per caso.» «C'è qualche buon motivo per questo riserbo? Il mio capitano l'ha incontrata e, sebbene sia tutt'altro che inesperto, ne è rimasto colpito.» Ilderico, con un vago sorriso di comprensione, lanciò un'occhiata a Colin. «Non me ne stupisco: Maude de Belley era sospettata di servire gli antichi dei. Il nobile cui era destinata in sposa morì in circostanze assai
strane; il giovane di cui era pubblicamente e vergognosamente l'amante venne condannato e decapitato per quella morte, sebbene molto probabilmente fosse innocente. Maude de Belley fu costretta a entrare nel monastero di Saint-Ugine ad Annecy. Poi il suo potente cugino, amico d'infanzia di Hugo di Chalon, ottenne per lei il permesso di entrare a Sainte-Madeleine. Dopo un paio di mesi la badessa in carica morì all'improvviso, e il vescovo nominò Maude al suo posto. Sono passati più o meno dieci anni, da allora.» «Ciò che mi hai detto potrebbe essere molto importante. Ti ringrazio», commentò Amboise e si accinse a prendere commiato. «Che intendi fare, ora?» «Mancare al giudizio di Cluny vorrebbe dire accettare le accuse di Chaffre de Revard. Quindi non c'è molto che io possa fare, nel frattempo.» «Ricorda che l'abbazia è pronta ad accoglierti col tuo seguito», insistette l'abate. «E nessun luogo è più sicuro di questo.» Non nominò il giovane di cui Valentin gli aveva parlato, sebbene il suo invito fosse motivato proprio dalla speranza d'incontrarlo in quell'occasione. Amboise si limitò ad annuire, ma era così scuro in volto che l'abate non trovò il coraggio di trattenerlo nemmeno per parlargli del proprio malanno. Amboise e Colin, quasi indifferenti al caldo opprimente, si avviarono spediti verso il portale che si apriva nelle mura che circondavano il vasto perimetro dell'abbazia. «Ciò che hai sentito di quella donna e ciò che ci ha riferito l'abate coincidono», osservò infine Amboise. «Alla presenza di quella donna ho sentito qualcosa che mi ha fatto gelare. I suoi occhi, specialmente. E poi quell'idea di morte che mi ha seguito ben oltre il cortile. Artemisia è in pericolo, là.» «Forse... Tuttavia deve sapere chi è la badessa. Parti adesso. Se non farai soste, potrai arrivare prima di compieta e avvertirla subito.» «Preferirei portarla via.» «Lascia che sia lei a decidere. Può darsi che abbia già scoperto qualcosa.» Colin annuì cupamente. Scesero in silenzio lungo la strada che costeggiava il fiume, sotto le mura di Auxerre. Poi Amboise sparì nella macchia dei bossi che nascondevano il passaggio e il giovane raggiunse la radura in riva allo Yonne dove Risson era accampato con i cavalli. Il luogo, ben protetto da noccioli e da carpini, era abbastanza fresco, eppure anche lì le foglie erano immobili; la frescura veniva soltanto camminando a ridosso
della riva, dove l'aria era smossa dall'acqua corrente. Risson balzò in piedi non appena lo vide; i cavalli stavano tranquillamente pascolando, tranne il suo e quello di Illait, che erano già sellati e pronti. Illait lo stava aspettando. «Se stai andando da Artemisia, come penso, ti accompagno», disse semplicemente il giovane. «Perché?» esclamò Colin, prendendogli le briglie dalle mani. «Perché qualcosa m'impedisce di vedere, e non sono molte le cose che riescono a farlo.» «Una donna col Potere può riuscirci?» «Con quale Potere?» «Forse il tuo, ma non usato nello stesso modo.» «Forse», ammise Illait. Entrambi cercavano di nascondere l'apprensione per Artemisia. «Che dirà Amboise?» azzardò Colin, mentre già spronavano i cavalli sulla strada per Vézelay. «Nulla. Valentin d'altra parte è stato molto contento quando me ne sono andato, e Pognon anche di più. Comunque è bene che io veda quella donna per sapere quanto è potente.» «Allora preparati», mormorò il capitano, e sentì un brivido, ripensando a quegli strani occhi che su di lui si erano posati solo per qualche istante. Ma Illait rimase in silenzio. V Rivederti tanto presto era quanto di meglio potessi sperare, Colin! La vita del monastero proprio non fa per me», gli sussurrò Artemisia in un orecchio, abbracciandolo col trasporto che poteva essere ammesso tra cugini. Poi guardò Illait, rimasto sulla soglia del parlatorio con aria curiosa ma innocente. «Perché l'hai portato qui?» chiese. «È lui che ha voluto venirci!» Artemisia si staccò da Colin, avvicinandosi a Illait. Le loro mani si sfiorarono. «C'è qualcosa di oscuro in questo posto», ammise lei, a voce così bassa che soltanto lui poté udirla. «Ho la sensazione di essere osservata e ascoltata in ogni momento; questo di solito mi mette a disagio o in allarme; invece qui mi fa paura. Molta paura.» «È per questo che sono venuto. La forza che genera una simile paura chiude questo luogo in una morsa. Nulla può entrare, ma nemmeno può
uscire. Non esistono in natura luoghi del genere», disse Illait. «Ma siamo qui soprattutto per dirti della badessa», lo interruppe Colin. «Abbiamo saputo soltanto stamattina che è una cugina per parte di madre di Chaffre de Revard. Il suo nome è Maude de Belley.» «Questa parentela potrebbe non voler dire nulla; e comunque non vedo una relazione col motivo che mi ha portata qui», osservò Artemisia, accorgendosi all'improvviso di poter respirare senza il senso di oppressione che l'affliggeva da quand'era entrata nel monastero. Illait le sorrise, complice. «Però quella donna ha un potere non comune. L'abate di Saint-Germain ha detto che è stata fatta entrare in monastero per evitarle l'accusa di praticare la magia degli antichi dei», continuò Colin. «Da parte mia sono disposto a crederlo; e Amboise ha voluto che venissi a metterti in guardia.» «Stare in guardia è quello che ho fatto da quando sono entrata qui dentro. Non ho nemmeno dormito!» protestò Artemisia. «Però ora stai bene», la interruppe Illait, passandole una mano sul viso senza toccarlo. La giovane chiuse gli occhi e, dopo un momento, si sentì tranquilla, riposata come dopo una notte di buon sonno. «Sì», ammise. «Qualunque cosa tu mi abbia fatto, ora sto bene. Ma che mi succederà quando ti allontanerai da me?» «Hai saputo qualcosa della nipote di Valentin?» la incalzò Colin, precedendo la risposta di Illait. «Ancora no. Le monache non hanno il permesso di parlarmi, però ho una giovane oblata al mio servizio e forse da lei saprò qualcosa. Devo essere prudente, tuttavia, per non spaventarla.» «Promettile quello che vuoi, ma fai in modo di uscire al più presto da questo posto!» «Queste non sono parole di Amboise», osservò Artemisia e, nello stesso momento, le parve che qualcuno l'afferrasse, tentando di spingerla oltre i margini di un cerchio di luce su cui si avventava il buio. Maude de Belley era apparsa sulla prima delle quattro soglie, e Artemisia vide il cerchio, la luce e il buio sul pavimento di larghe pietre piatte del parlatorio. Illait sollevò appena le mani, e il cerchio di luce si allargò, cacciando il buio fino all'orlo dell'abito della badessa. «Un altro cugino, mia cara?» osservò la donna, in tono duro e con un lampo negli occhi. «È Illait di Isley. Soltanto ieri mi hai chiesto di lui, ricordi?» rispose Ar-
temisia, prontamente. La donna sfiorò con lo sguardo Colin e, come già aveva fatto il giorno prima, lo dimenticò immediatamente. Ma, quando i suoi occhi color dell'acqua si posarono su Illait, non si spostarono più. «Perché hai voluto onorare il mio monastero con la tua presenza?» mormorò, senza avvicinarsi. «Perché tu che hai occhi per la luce hai scelto il buio?» Per un attimo la donna restò senza parole; quel giovane dal viso bello e dagli occhi profondi come pozze d'azzurro la teneva in pugno come nessuno aveva mai saputo fare. Si sentì trascinata via. Sentì sulla pelle il vento, aspro e asciutto, esaltante; sentì nelle vene una corrente di energia che mutava tutto il suo essere, e nel profondo dell'animo una forza che poteva strapparla a qualunque catena. Poi la campana della chiesa di Sainte-Madeleine suonò compieta, e Maude de Belley si sentì letteralmente scaraventata nel parlatorio, così bruscamente che vacillò, stordita. Per istintiva difesa si raccolse le vesti intorno al corpo: il mantello ricamato e il velo prezioso. Ma i fili di perle che le ornavano il capo e la gola si erano sciolti, e le perle correvano ovunque, senza suono, come spinte per dispetto lontano da lei. «Dobbiamo ritirarci!» ordinò. Ma gli occhi azzurri non la lasciavano e non sorridevano. In effetti, Maude non aveva mai visto occhi altrettanto duri. Riuscì a non abbassare i propri, però aveva raccolto l'avvertimento che proteggeva Artemisia de Montsalvy. Silenziosamente lanciò la sfida: poteva misurarsi con quel giovane. Voleva misurarsi con lui. Né Hugo di Chalon né il suo potente cugino, e nemmeno gli onesti parolai di Cluny avrebbero mai immaginato quanto fosse ancora viva l'antica religione. E se due della stessa stirpe s'incontravano... «Ti vedrò ancora, Illait di Isley», disse in un soffio. Era molto più di un commiato. Il giovane la ignorò. La badessa avrebbe dovuto offendersi a quella mancanza di riguardo; Maude de Belley l'accolse con una risata sommessa e voltò le spalle a Illait e agli altri due. «Dovete andare!» esclamò Artemisia, spingendoli verso la porta che dava sul cortile. «Sarebbe meglio se tu venissi via con noi adesso», disse Colin. «Puoi dire ad Amboise che terrò conto dell'avvertimento, ma che non intendo desistere fintanto che non avrò scoperto qualcosa. Via, ora.»
Illait la trattenne, sfiorandole la fronte. «Quando sentirai la paura salire, chiudi gli occhi e guarda formarsi il cerchio di luce tutt'intorno a te: nulla può intaccarlo. Nel cerchio, tu sei al sicuro.» Pochi istanti dopo un servo chiudeva frettolosamente la porta del cortile alle spalle di Colin e di Illait. Il crepuscolo si allargava su Vézelay come una cappa calda, violacea, densa di vapori. Girandosi verso la chiesa di Sainte-Madeleine, alta e buia sulla sommità della collina, Illait la vide trasformarsi in un immenso rogo. Sapeva che tutte le porte della chiesa erano chiuse, e che tutti i pellegrini all'interno stavano bruciando. Le loro urla riempivano l'aria unite all'agghiacciante frastuono dei grandi archi di legno e pietra della volta che crollavano. L'angoscia e il dolore di quella visione lo gelarono. «Che succede?» lo riscosse Colin, scuotendolo per una spalla. «Nulla, nel nostro tempo», mormorò Illait. «Nulla.» «Sei certo che la badessa non ti abbia toccato più profondamente di quanto credi?» «Maude de Belley non è così potente...» Illait s'impose d'ignorare la vista della chiesa che bruciava, e spronò il cavallo per seguire quello dell'amico. Sarebbe stato inutile rivelare al giovane capitano che squarci del futuro potevano irrompere nel presente dagli strappi nel tessuto del Tempo, mostrando eventi che dovevano ancora accadere. Colin non lo avrebbe compreso, ed era già abbastanza di cattivo umore; d'altra parte tutto quel luogo era incredibilmente saturo di forza. Non lontano, quasi a ridosso delle rovine del monastero di Saint-Pére, c'erano alcune sorgenti calde venerate al tempo degli antichi dei e poi coperte da vestigia romane. Lì, come ovunque intorno, persisteva la memoria; nelle stesse chiese di Vézelay, edificate sulle rovine di chiese primitive abbattute, la pietra imprigionava il segreto del Tempo, dov'era facile varcare la soglia. Dev'essere proprio quella ricchezza di memoria a rendere più fragile la resistenza di questo luogo e a esporlo in un simile modo, rifletté Illait. Già qualche fuoco si stava accendendo nel Borgo Basso, e si sentiva l'eco di una musica: qualche flauto stonato e persino dei tamburi. «Bene», osservò Colin. «Stanno facendo festa per la notte di San Giovanni; così troveremo da mangiare e magari anche da dormire. Dopo aver fatto per tre volte in due giorni e una notte la strada da Vézelay ad Auxerre mi posso ben concedere una cena come si deve e un letto adeguato. Inoltre i cavalli devono riposare. Vieni.»
Illait lo seguì in silenzio, ancora disturbato dall'energia, e più ancora dal buio, che gli celava il monastero. Era lì che Maude de Belley nascondeva il suo segreto. E lui, pur stando nel suo parlatorio, non aveva potuto vedere al di là delle quattro porte. La locanda del borgo era l'unico edificio di pietra sulla strada; da quel punto si apriva un sentiero che portava a capanne dalle pareti di fango e di legno e dai tetti di paglia. Altri piccoli sentieri si dipartivano ai lati delle capanne, inoltrandosi verso le vigne, gli orti e i recinti dei maiali. Poi la strada di Vézelay continuava verso Saint-Pére e, attraversando il Cure, andava verso Dijon, a oriente. Alle spalle del Borgo Basso e del poco terreno che era stato messo a coltura, e lungo tutta la strada sia prima sia dopo l'altura di Vézelay, si estendeva invece una boscaglia fittissima, che all'occhio sembrava impraticabile, né si poteva distinguere dove si sfoltiva unendosi alla foresta di Morvan. La festa dei fuochi aveva portato alla locanda del Borgo Basso donne, uomini e bambini, e soprattutto le ragazze e i ragazzi di tutto il circondario. Avrebbero saltato insieme i fuochi, quella notte, come accadeva da sempre e nonostante la proibizione della Chiesa. Un fantoccio di paglia era già pronto per essere arso poco prima dell'alba, e i bambini vi ballavano intorno, vestendolo di papaveri e di ghirlande di foglie. Le loro urla e il chiacchierio della gente mitigavano le stonature dei flauti e l'insistere del tamburo. Il vino d'uva e quello di mele si mescolavano a formare una bevanda dal gusto curioso, che ubriacava più in fretta. Il viso di Colin si distese. «Volete mangiare? Bere? O godere l'ospitalità dei nostri fuochi?» esclamò il locandiere accorrendo premuroso. Era già alticcio, ma aveva compreso benissimo, dai cavalli e dagli abiti, che quei due erano viaggiatori di riguardo. «Tutto quello che hai detto, nello stesso ordine», rispose il giovane capitano, sedendo a uno dei tavoli sotto il pergolato della locanda. Una pianta di vite si arrampicava a formarne il tetto, dando ombra durante il giorno ai tavoli e alle panche, e trattenendo di notte la luminosità delle lucerne a olio, una per ogni tavolo, che sfrigolavano. I due sedettero dando le spalle alla locanda, in modo da poter osservare i fuochi e i giovani che ballavano. «Bello spettacolo!» commentò Colin. «Mi ricorda che sono ancora vivo.» «Poco fa hai detto che volevi dormire; giustamente, dopo aver fatto tanta
strada», osservò Illait, canzonandolo. L'altro si trattenne dal rispondere soltanto per la comparsa del locandiere che portava un arrosto di maiale, focacce di segala e due boccali, che contenevano una mistura di vino e sidro. Venne pagato subito e si profuse in ringraziamenti, accompagnati da un inchino. «Pensi che i giovani del posto si offendano se uno straniero chiede a una ragazza di ballare?» lo interrogò Colin, prudente. «In tutte le altre occasioni lo farebbero di certo; ma non questa notte. Questa è una notte speciale», rispose l'uomo, ammiccando. «Lo terrò a mente», annuì Colin, con la bocca piena. Poi lasciò che il locandiere si allontanasse prima di fissare Illait e di dirgli: «Prova a pensare a ciò che vorresti fare...» «In questo momento vorrei far cessare questo strazio di musica. Io amo la musica, e quello che sto ascoltando è un insulto per le mie orecchie.» «Io sto parlando seriamente!» «E io non sono mai stato tanto serio: neanche immagini quanto si può fare con la vibrazione di un suono! Comunque non preoccuparti per me, e quando ti verrà chiesto di saltare il fuoco non starci a pensare e saltalo. È così che dev'essere.» Colin scosse il capo, trangugiando la mistura di vino e di sidro e assaporandone il gusto strano senza riuscire a decidere se migliorava il sidro o peggiorava il vino. «Quello che ho capito di quello che hai detto mi piace», commentò, seguendo con lo sguardo il corpo flessuoso di una ragazza alta e ben fatta che gli passò davanti, inchinandosi nella danza, con le sue compagne, ad altrettanti giovani. Aveva lunghi capelli scuri e la veste di tela lunga e dritta non nascondeva i fianchi ben modellati e il seno generoso. Come le sue compagne, portava sul capo una ghirlanda di papaveri. Il giovane vuotò un altro boccale, osservando di sfuggita che Illait non aveva ancora toccato il proprio. Poi la ragazza che stava danzando allargò il cerchio, che ormai ruotava intorno al fuoco più grande, fino ad arrivare al loro tavolo. Allora la giovane lasciò una delle compagne e tese la mano a Colin, che l'afferrò al volo, facendosi trascinare nel cerchio che ruotava sempre più veloce. Erano soltanto i giovani a partecipare a quel ballo. Tutti gli altri stavano intorno, battendo le mani, e anche quelli che erano ai tavoli segnavano il tempo con i boccali. Il cerchio si spezzò, ma lui tenne saldamente la mano della ragazza bruna nella sua. Poi le passò un braccio intorno alla vita e si lanciò, prendendo la rincorsa per saltare la cresta luminosa del fuoco. Altre coppie l'avevano
già fatto. La ragazza si mosse agilmente seguendo il suo tempo; insieme si sollevarono e ricaddero dall'altra parte, mentre gli spettatori continuavano a battere le mani seguendo il ritmo del tamburo. Continuarono a correre e la ragazza lo guidò, ansimando, per un bel pezzo. Alla fine ruzzolarono in un fosso asciutto, tra la menta selvatica e i papaveri. La ragazza si distese. Colin si sollevò su di lei, sfiorandole il viso con le labbra e trovando le sue già aperte. Lei gli avviluppò subito le braccia intorno al collo, e allora lui le aprì i lacci dell'abito e glielo fece scivolare oltre la vita. La pelle era calda come la cresta del fuoco, ma l'urgenza di entrambi li divorò troppo rapidamente per appagarli. Ristettero un poco nel fosso, avvinghiati, a riprendere fiato, poi Colin la trascinò in uri covone di fieno non distante, e lì si presero con più calma e molta più soddisfazione. Non si curarono nemmeno dell'incendio del fantoccio né dei canti né del ritmo del tamburo, che giungevano filtrati dalla lontananza. Né peraltro badarono alla notte, che scivolò via rapidamente. Alle prime luci dell'alba, lui si sollevò, liberandosi il viso dalle erbe secche e dai capelli della ragazza che stava dormendo appoggiata a lui. Erano state delle grida, voci rauche e irate, a destarlo. Immediatamente in guardia, il giovane raccattò i calzoni e la giubba e si vestì, poi svegliò la ragazza, tenendole la bocca coperta con una mano. «Vestiti», le ordinò, a bassa voce. «Ma resta giù.» La ragazza lo guardò con occhi che ancora ardevano, e obbedì. «Brava», le sorrise Colin. «Non avere paura.» Le accarezzò il viso per rassicurarla, ma scoprì che, nella foga della notte, avevano schiacciato i papaveri e che quindi le sue palme macchiate di rosso sembravano imbrattate di sangue. Allora le sorrise di nuovo, avvertendo che quello, per la ragazza, era un cattivo presagio. «Non temere», insistette. «E dimmi almeno come ti chiami.» «Brise», mormorò la giovane. «Va bene, Brise. Vediamo di toglierci da questo posto.» Sollevò il capo tra il fieno, tentando di scorgere qualcosa; in lontananza, ben oltre il fosso, distinse un manipolo di soldati che trascinavano un paio di ragazze urlanti e due giovani. Nella luce di un'alba che si annunciava rossa quanto un tramonto, tutte quelle ombre che si agitavano sembravano ancor meno reali di un sogno. Brise si sollevò l'abito sul petto e sulle spalle ancora nude e scosse il capo. «Aveva detto che avrebbe chiamato i soldati, e l'ha fatto!» esclamò.
«Chi?» «Padre Léon, del monastero di Vézelay. I soldati bastoneranno i giovani; poi chiuderanno le ragazze in una stalla e le prenderanno come donne di taverna. È già accaduto l'anno scorso.» «Anche a te?» Brise scosse la testa e i lunghi capelli scuri si agitarono. «Io sono scappata in tempo e non mi hanno presa.» «E nemmeno ti prenderanno quest'anno. Su, muoviamoci.» «Per di là!» gli indicò lei. «La boscaglia è così fitta che non c'è un sentiero, ma io so dove passare. Se riusciamo ad attraversarla io arriverò nell'orto dietro la mia casa, e tu sulla strada per Auxerre.» «Mi sta bene. Corri svelta, Brise?» «Non immagini quanto!» gridò lei, ridendo maliziosa. Voci e grida si levarono alla loro sinistra, ma più avanti, verso il villaggio. Gli alberi sembravano neri nella luce compatta che andava diffondendosi e non c'era neppure un alito di vento. Colin l'afferrò; balzarono insieme fuori del covone, attraversarono il fosso che aveva visto la loro prima unione frettolosa e raggiunsero il margine della boscaglia dopo una breve ma rapidissima corsa. In quel momento un soldato a cavallo piombò su di loro al galoppo. Colin, che teneva ancora saldamente la ragazza, la sollevò di peso, gettandola nell'intrico dei cespugli, e quasi nello stesso istante si girò, afferrando l'uomo e tirandolo giù da cavallo. Finirono avvinghiati nell'erba. Il soldato gli sferrò un colpo in pieno viso, tentando di liberarsi, ma il giovane rafforzò la presa e l'uomo finì a faccia in giù nell'erba col braccio dell'altro serrato intorno al collo e le ginocchia a schiacciargli i polmoni. «Pensavi di aver a che fare con un servo, bastardo!» sibilò Colin, colpendolo alla nuca. L'uomo rimase immobile, e il capitano si risollevò, allontanandolo con un calcio. Rotolando sul lieve pendio l'uomo finì lontano, quasi nel fosso. Il suo cavallo era fuggito. Il capitano riguadagnò di corsa la boscaglia; Brise lo aspettava, accovacciata in un cespuglio. «L'hai ucciso?» domandò la ragazza, che ormai era spaventata. «No. I suoi tornerebbero per cercare nel borgo il colpevole.» «Non hanno bisogno di scuse quando vengono a prendersi quello che vogliono!» ribatté Brise. «Dovevi ucciderlo. Sarebbe stato uno di meno.» Colin tacque; aveva passato tutta la sua vita a fare il mercenario e capiva il risentimento della ragazza. Forse pensando di averlo offeso, Brise gli
sfiorò il viso, tentando di togliere il terriccio e l'erba dalle guance. Allora lui si chinò a baciarle le labbra: sapevano di fieno. «Non pentirti, Brise», le mormorò. «Non lo farò», rise sommessamente la ragazza. S'infilarono tra il fitto dei noccioli e dei rovi, camminando chini. Una nebbia compatta come fumo si stava inaspettatamente alzando dalla terra e si stendeva a coprire ogni cosa fino ad altezza d'uomo; lingue di nebbia rosa penetravano nella boscaglia, avvinghiandosi ai rami. Le urla che venivano dal villaggio parevano riempire il cielo dell'alba. VI Soldati e monaci arrivarono insieme nel villaggio; questi ultimi in processione scendendo dal monastero del Borgo Alto, guidati da padre Léon; i soldati ridotti a un manipolo di scorta al loro capitano Charraud di Auxerre, perché il resto del drappello si era già disperso, in caccia ai giovani che avevano saltato il fuoco. Nella locanda restava soltanto una mezza dozzina di avventori addormentati sotto i tavoli o sulle panche; lo stesso oste sonnecchiava in un angolo, come i suonatori, vegliati da un paio di cani dall'aria pacifica. Tutti gli uomini erano ubriachi, tranne uno, che, accovacciato sotto il pergolato, traeva dal rozzo flauto un suono pulito e tagliente come un cristallo e nel contempo lieve come la prima luce del giorno. Quella melodia sembrava permeare l'aria di una vibrazione particolare, capace di frantumare le pietre e d'incantare le farfalle. Il capitano si girò verso padre Léon, che sembrava più pallido e duro del solito, non riuscendo a nascondere il furore per la disobbedienza senza pentimento. Charraud, che lo conosceva bene e da molto tempo - e lo temeva quand'era in quelle condizioni - si decise ad agire, avvicinandosi per primo all'uomo sotto il pergolato. «Questo non è del posto e non è un servo!» esclamò, disturbato dalla sensazione del tutto sconosciuta che quella musica suscitava in lui. Poi allungò un calcio a Illait, ordinando: «Alzati e smettila di suonare!» «Non ti piace la musica, capitano?» rispose lui, senza muoversi. «Sei un musico?» intervenne il monaco in tono severo. Aveva piccoli occhi neri e acuti, che non conoscevano il sorriso. «Qualche volta.» «Eri qui per suonare?» insistette padre Léon.
«No. Soltanto per una sosta.» «Dove sei diretto?» chiese Charraud. «Ad Auxerre.» La voce del giovane scivolò sul capitano con lo stesso effetto della sua musica. Il disagio lo afferrò di nuovo, sempre più inspiegabile. «Hai visto la festa dei fuochi?» lo incalzò il monaco, che avvertiva lo stesso disagio ed era molto più sospettoso del capitano. «Ho visto giovani che ballavano e altri che bevevano.» «La gente di questi luoghi contamina la festa di San Giovanni con i riti di feste pagane in cui i giovani saltano il fuoco per poi accoppiarsi nel buio, come animali! Ma saranno puniti per questo finché addirittura la memoria dei fuochi sarà cancellata!» sentenziò padre Léon. «E tu farai bene ad andartene da questo luogo, prima che sia giudicata una colpa anche soltanto l'aver assistito alla festa», concluse, allontanandosi dal pergolato per raggiungere gli altri monaci, raccolti in preghiera sui resti del fuoco pagano. Il capitano si chinò su Illait. «Tu sei giovane, e di certo sei bello agli occhi di una donna. Com'è che non ti sei fatto prendere per mano da una di quelle puttanelle, stanotte?» gli chiese. «Non si deve cedere alla tentazione.» Il viso di Charraud si aprì in un largo sorriso. «Non ti credo.» «Eppure vedi con i tuoi occhi che io sono qui da solo, e non sono nemmeno ubriaco.» Il capitano si risollevò, la sua attenzione attratta dai soldati che tornavano trascinando quattro ragazze e quattro giovani; le ragazze vennero spinte in un fienile, e la porta chiusa sulle loro grida. I giovani, invece, furono trascinati al pergolato, legati l'uno di fianco all'altro e denudati, mentre un paio di soldati preparavano i bastoni. «Vuoi goderti lo spettacolo? O preferisci aspettare che i miei soldati abbiano finito e prenderti quello che resta delle ragazze nel fienile?» Illait indicò i monaci, stretti in cerchio, i cappucci abbassati sul volto, per non vedere e non sentire nulla oltre alle loro stesse preghiere. «Credo che ascolterò il consiglio di quel buon monaco.» «Allora sei anche saggio, oltreché pio», osservò Charraud, lasciandogli il passo, e di nuovo sentì il disagio nel momento in cui il giovane si chinò su uno dei musici, posandogli in grembo il flauto preso in prestito. «Via, voi!» urlò quindi ai suoi uomini, per liberarsi di quella sensazione. «Ce ne sono ancora di nascosti! Tornate a cercare!»
«Si è levata la nebbia, capitano. Non vedi?» gridò un soldato. «È alta e fitta abbastanza per nascondere un uomo che corre. Non ne troviamo più, ormai!» «Cercate, maledizione! E se avete così fretta di entrare nel fienile, vi farò stare ultimi nella fila!» tuonò Charraud. Il locandiere, svegliato a ceffoni da due soldati, sembrava ormai sobrio e guardava con aria assente i giovani catturati. Loro sarebbero stati picchiati e lui, di lì a poco, avrebbe perso quel poco che era rimasto nella locanda, per mano dei soldati. Però era contento per quella nebbia provvidenziale, che avrebbe permesso agli altri di sfuggire al castigo. Lo straniero gli rivolse un vago sorriso e gli passò accanto, tenendo per le briglie il suo cavallo e quello dell'amico, che si era allontanato con Brise; neppure loro erano stati trovati, e anche di questo l'oste si rallegrò. «Strana questa nebbia, così fitta, col caldo asciutto degli ultimi giorni. Non c'era umidità stanotte», osservò, a bassa voce. «Provvidenziale», ammise il giovane, senza nemmeno girarsi, come se gli avesse letto nella mente. Illait si lasciò alle spalle il villaggio, il salmodiare dei monaci e le urla del capitano infuriato con i suoi soldati, prendendo la strada per Auxerre. Il sole si era definitivamente alzato e la nebbia si era fatta d'oro, compatta e protettrice. Sul ciglio della strada, ben lontano dal villaggio, lo aspettava Colin. «Bene arrivato», lo salutò, impaziente. «Stavo per venirti a cercare!» Illait gli cedette le briglie del cavallo. «Sarebbe stato un grave errore. Il capitano Charraud non ti sarebbe piaciuto, e padre Léon anche meno. La ragazza che era con te sta bene?» «Sì. L'ho seguita finché non è entrata in casa sua.» «Almeno ne valeva la pena?» chiese Illait, con la sua consueta aria innocente, non appena Colin montò in sella. «La valeva, sì!» esclamò il capitano. «E grazie per il consiglio di saltare il fuoco.» «Bene», mormorò Illait. All'improvviso sembrò a Colin che ci fossero cose che l'altro non gli aveva detto di quel fuoco; inoltre sulle sue mani, ancora macchiate dal rosso dei papaveri, era come se ci fosse del sangue. «Andiamocene da questo posto», disse allora, spronando il cavallo. C'erano eventi, e soprattutto sensazioni, che avrebbero fatto ridere Colin Bois il mercenario, soltanto un
anno prima. Gli stessi eventi e le stesse sensazioni penetravano profondamente nel Colin Bois di quel momento, lasciandolo spesso confuso. Ancora non sapeva dove e che cosa guardare, e tuttavia ogni cosa gli appariva diversa da quando aveva cominciato a vederla. Proprio come gli aveva spiegato Illait di Isley ai piedi dell'Albero del Mondo, nel luogo che non apparteneva alla realtà della veglia, ma nemmeno ai sogni e dove, prima o poi, sarebbe stato capace di ritornare. Tenendo un'andatura veloce, risalirono la strada verso Auxerre per un buon tratto. Il cielo si era fatto di nuovo lattiginoso, e la calura si era distesa sulla strada e sulla foresta che la racchiudeva. Tuttavia, da settentrione, stavano scendendo alcune nuvole. E poteva quasi essere scambiato per il rumore di un tuono quello che distolse Colin dalle sue riflessioni. Il giovane trattenne immediatamente il cavallo, girandosi verso Illait. «Cavalli al galoppo, e molti!» sibilò. In quel momento, la pattuglia d'avanguardia sbucò da una curva della strada; i soldati portavano le insegne del loro signore e galoppavano fianco a fianco. «Lasciate libero il passaggio! Via!» urlò quello che li comandava. Colin fece prontamente scartare il cavallo, spostandosi sul margine erboso del bosco e Illait lo imitò. Il grosso dei cavalieri, non meno di cinquanta uomini col loro signore e il suo seguito, passarono loro davanti a un'andatura sostenuta, avvolti da nuvole di polvere. «Hai appena visto il duca di Borgogna!» esclamò Colin al suo compagno, mentre ancora il gruppo sfilava. «Quello al suo fianco era Landrico di Nevers, uno dei suoi pochi alleati. Va sempre di fretta, il duca», aggiunse, in un tono aspro. «Lo conosci?» «L'ho visto qualche volta, quand'ero al servizio di Fulk Nerra, conte di Anjou. Non erano davvero amici, lui ed Enrico di Borgogna. Nerra è un diavolo, e al duca piace far mangiare la polvere a tutti quelli che incontra.» «La sua fretta gli servirà a poco: tra due estati da questa, sarà morto», replicò Illait. «E come fai a dirlo?» gli chiese l'altro, voltandosi a guardarlo. «Neanche l'hai visto in faccia!» «La morte gli sta appollaiata sulle spalle, e lui lo sa.» L'altro scosse il capo. «Questo non dirlo a nessuno. Quando accadrà potrebbero accusarti di esserne stato la causa.» «Non lo dirò a nessuno; tranne che a lui stesso, se me lo chiederà. Tutta-
via un uomo col suo stesso sangue non aspetta altro che la sua morte per prendersi il ducato.» «Già. Si tratta di suo nipote Roberto, re di Francia: le sue mire sul ducato non sono un segreto! E nemmeno quelle di Nerra, e del conte di Macon, Ottone Guglielmo. Io spero soltanto di non doverlo incontrare un'altra volta», ribatté Colin, spronando il cavallo e tornando sulla strada; Illait lo imitò in silenzio. La strada in quel punto si era fatta più scura, perché gli alberi da una parte e dall'altra si chiudevano, dando origine a una specie di galleria naturale. Però nemmeno lì c'era frescura; soltanto, a tratti, un soffio, simile a un respiro, che faceva fremere le foglie più alte. Era come se qualcosa d'invisibile, seguendoli, percorresse la loro stessa strada. Isette si pavoneggiava, camminando per la stanza con indosso l'abito color oro di Artemisia: la stoffa era un damasco prezioso e componeva arabeschi cangianti; dalla scollatura ornata di ricami scendeva un falso mantello, lungo fino ai piedi, e una cintura si appoggiava alla vita, lasciando i due lembi liberi di ricadere. Ma la ragazza era più piccola di Artemisia; inciampava quasi a ogni passo e le maniche le arrivavano fin sulla punta delle dita. Si fermò di botto, nel mezzo della stanza, ed era assolutamente sincera quando esclamò: «Perché si commette peccato desiderando abiti come questi?» «Per non incoraggiare la vanità e non cedere alla tentazione dell'apparenza», rispose Artemisia, sentendosi un po' colpevole. Non desiderava approfittare della disperata voglia di vita della ragazza. Isette guardò con disgusto il mucchietto dei suoi abiti: non aveva mai avuto altro che una tunica informe, di tela per l'estate, di lana ruvida per l'inverno. Sospirò, scivolando fuori dell'abito. «Anche la badessa porta abiti molto ricchi», osservò Artemisia, rovistando nel suo bagaglio per cercare qualcosa che potesse consolarla. «La badessa è ricca. E poi dicono che...» Isette s'interruppe e abbassò lo sguardo. L'altra tese l'orecchio, timorosa che qualcuno stesse sopraggiungendo. Ma il primo pomeriggio, caldissimo, era del tutto quieto. La porta della stanza che dava sul giardino era aperta e lasciava penetrare un ventaglio di luce verde e il ronzare delle api su una macchia di cedrina. Artemisia si voltò allora verso la ragazza, incoraggiandola con un sorriso a continuare. Isette si volse a malincuore a raccattare la propria tunica e mormorò: «Dicono che può fare magie e ottenere così quello che vuole».
«Guarda!» esclamò Artemisia, evitando d'insistere sull'argomento. «Questo abito potrebbe essere della tua misura.» Le porse l'abito di Agnes che aveva avuto cura di portare con sé, pensando che potesse servirle. Era un abito da fanciulla, una tunica che non segnava la vita, tuttavia la stoffa era pregiata, di un colore rosa acceso, e un bel ricamo bordava lo scollo, impreziosito da un cordoncino bianco. Isette se lo infilò; l'abito era della giusta lunghezza, sebbene un po' stretto perché Agnes era più sottile. La giovane girò un paio di volte su se stessa. «Questo abito non può essere tuo!» rise poi. «No, naturalmente. È di una fanciulla che mi è molto cara, e che è entrata qui l'anno scorso. Ha la tua stessa età.» «Stai parlando di Agnes, la nipote del maestro Valentin di Auxerre.» «Sì», rispose Artemisia con deliberata noncuranza. «Mi stupisco di non averla ancora incontrata.» Isette scosse il capo, togliendosi l'abito e indossando a malincuore la tunica. «Agnes era molto cara, e tutti le volevano bene. Era sempre pronta ad aiutare chiunque per qualsiasi cosa, ed era sempre allegra; anche se non poteva parlare, averla intorno costituiva una gioia. Persino la badessa si era affezionata a lei.» «Era? Che cosa vuoi dire, Isette?» La ragazza si strinse nelle spalle. «Poco prima di Natale l'hanno portata via; quand'è tornata, nessuna l'ha più vista.» «Dov'è rinchiusa? Chi provvede a lei?» «Si trova in una delle celle del passaggio inferiore: ricordi dove hai alloggiato la prima notte? Il passaggio si raggiunge da quell'androne, andando verso il basso. È la vecchia Rustena che pensa a lei; ma da Rustena non otterrai niente, nemmeno una parola.» «La badessa si era affezionata ad Agnes, hai detto?» «Sì. L'aveva chiamata un paio di volte, prima della sua partenza; Agnes ci aveva spiegato che voleva soltanto guardarla, osservare i suoi capelli e i suoi occhi e persino vedere quanto era alta. Poi l'aveva congedata permettendole di prendere alcuni dolci. Agnes era molto golosa.» Parlando, Isette aveva ripiegato con cura l'abito e, a quel punto, fece per restituirlo ad Artemisia. «Tienilo, Isette. È un regalo», replicò la ragazza, scuotendo il capo. «Ma appartiene ad Agnes!» «Conosco Agnes da quand'eravamo bambine. Sono certa che le farà piacere che lo abbia tu.»
«Tu vuoi che ti porti da lei. Non è vero, mia signora?» mormorò Isette. Era perspicace e, più di tutto, desiderava non perdere quel barlume di speranza che si era affacciato alla sua vita. «Vorrei vederla, sì. Anche soltanto per un momento, per sapere che sta bene e scambiarci un saluto. Puoi farlo, Isette? Puoi farlo stanotte?» La ragazza si morse un labbro e annuì lentamente. Da quando Artemisia era stata alloggiata in quella grande stanza sul giardino, e l'aveva richiesta al suo servizio, lei era stata autorizzata dalla badessa a dormire lì, in un angolo, per essere pronta a servire la forestiera. E da quella stanza era facile uscire. D'un tratto Artemisia sollevò il capo, in allarme, più per una sensazione che per un rumore; intimò a Isette di nascondere la veste, e la ragazza fu pronta a occultarla nel secchio vuoto dell'acqua. Un momento dopo, Maude de Belley comparve sulla porta: aveva preso un rametto dal cespuglio dell'artemisia nel giardino, e il profumo amaro delle foglioline verde-argento la circondava. Isette s'inchinò profondamente, afferrò il secchio e scappò via; la badessa la guardò con un vago sorriso. «Sei contenta dei suoi servizi, Artemisia de Montsalvy?» chiese poi in tono cortese. «L'ospitalità del mio monastero ti è gradita?» «Non potrei desiderare niente di più di ciò che mi offri», rispose prudentemente la giovane, rifugiandosi nel cerchio di luce che fino a un momento prima era stato facile mantenere vivo, ma che adesso tremava, aggredito dall'ombra. «Ne sono lieta. Stamani, poco prima dell'ora sesta, mi ha fatto visita padre Léon. Era piuttosto contrariato.» «Mi spiace. Però mi sfugge il motivo per cui me ne parli.» «Padre Léon è un monaco molto zelante nel combattere ciò che appartiene al passato. È... rigido, e tutto ciò che può sembrare piacevole, ai suoi occhi è peccato. Non conosce la misericordia, ma, per rendergli giustizia, bisogna dire che non la concede nemmeno a se stesso... Da anni sta cercando di sopprimere la festa dei fuochi di San Giovanni. Senza molto successo, devo dire. E quest'anno ne ha avuto meno del solito. Uno dei soldati del capitano Charraud è stato ferito da un giovane che, a quanto pare, è il tuo caro cugino, mentre padre Léon è rimasto turbato da Illait di Isley.» «Perché? Lui che ha fatto?» «Assolutamente nulla. Padre Léon l'ha trovato mentre suonava il flauto nella locanda, ma il signore di Isley se n'è andato subito, dimostrandosi
assai saggio. Nello stesso momento si è alzata la nebbia. I soldati non hanno più trovato nessuno e, allorché hanno aperto il fienile per prendersi le ragazze, hanno scoperto che la parete di fondo era crollata e il fienile era vuoto.» «E allora?» ribatté Artemisia, simulando una tranquillità che non aveva, ma trattenendosi dal chiedere di Colin e delle circostanze dello scontro col soldato. La badessa sorrise. «Padre Léon mi ha messo in guardia. Ma tu, Artemisia, dovresti parlami del tuo giovane amico. Parlami di quello che sa fare.» «Non so risponderti, mia signora. Non l'ho mai visto compiere magie, però ero presente quando ha accettato la benedizione del monaco eremita che l'ha battezzato.» «Amboise de Montsalvy ti ha istruita bene su che cosa dire.» «Ti ho semplicemente riferito quello che i miei occhi hanno visto.» «È vero! Tu sei un medico, non segui le fantasie», commentò la donna, ma il suo scherno non toccò Artemisia, che rimase in silenzio. «Tuttavia», continuò allora la badessa, «Illait di Isley ha lasciato su di te la traccia della sua protezione. Io la vedo. Se portassi questa testimonianza a Cluny non pensi che il giudizio potrebbe essere molto severo, sia per il tuo tutore sia per il tuo giovane amico?» «Tu non puoi portare una simile testimonianza, mia signora. Se puoi vedere la sua protezione, significa che sei proprio come lui.» «Brava...» mormorò Maude de Belley, con un sorriso. «Possiedi una mente razionale e forte; saresti la disperazione dei nostri teologi, che quasi nulla concedono alle donne.» «E tu, mia signora? Anche il tuo pensiero è forte.» «Il mio pensiero corre su una strada antica, e nessun teologo saprebbe riconoscerla, quindi non potrebbe che negarla. Riporta qui il tuo giovane amico, Artemisia. Voglio parlargli un'altra volta.» «Non so che dirti, mia signora. Dovrò aspettare mio cugino, o un suo inviato, per poterlo avvertire.» Maude sorrise, senza nemmeno fingere di credere a quella risposta. Volgendole le spalle per uscire, le lanciò il rametto di artemisia ai piedi, all'interno del cerchio. Le foglioline argentate sfrigolarono e, un istante dopo, il rametto era bruciato. «Forse questo ti aiuterà a farlo venire», disse la badessa, andandosene. Artemisia si chinò a prendere il rametto della piantina di cui lei portava il nome, ma esso le si sbriciolò tra le dita.
Illait poteva davvero sentirla? O avrebbe sentito un pericolo minacciare lei, e ciò lo avrebbe riportato al monastero? E Colin? Che cos'era veramente accaduto a Colin? Isette ricomparve in quel momento, col secchio pieno d'acqua. Aveva prudentemente nascosto l'abito, e poi atteso che la badessa lasciasse la stanza; forse aveva anche sentito quello che le due donne si erano dette. Tuttavia non ne fece parola e si limitò a riempire coscienziosamente le brocche con l'acqua fresca. «Vuoi bere, mia signora?» le chiese poi. Artemisia scosse il capo. «Mentre ero al pozzo ho visto grosse nuvole nere venire da settentrione. Forse pioverà, prima che faccia buio», disse Isette. E aggiunse, a voce più bassa: «C'è una cosa che non ti ho detto, mia signora. Ti ho parlato di Agnes, di Rustena che la custodisce e della cella; io ci sono già stata, più di una volta, perché volevo sapere che cosa le era accaduto... Ma non c'è modo di vedere all'interno, e Agnes non è in grado di parlare. Eppure l'ultima volta che ci sono stata l'ho sentita cantare». «Cantare?» esclamò Artemisia. «Ma che dici?» «Sì, mia signora. L'ho sentita cantare! Non era un sogno. E aveva una voce bellissima!» L'altra la zittì con un cenno. «Non parliamone più, ora. Quando farà buio, mi porterai a quella cella.» «Se dovessero scoprirci, io sarei punita duramente.» «Ti ricompenserò.» «Non voglio ricompense. Voglio che mi porti via, quando te ne andrai.» «È una condizione?» «Sì», mormorò Isette, deglutendo. «Ma, credimi, ti sarò fedele, e non te ne pentirai.» «Va bene. Ti porterò fuori, se mi sarai fedele. Ma non posso prometterti di tenerti con me; sottrarre un'oblata a un monastero è un grave crimine. Io potrei estinguerlo con un lascito mentre tu, se venissi ripresa, potresti essere punita con la morte.» «Lo so.» Artemisia annuì. Non poteva di certo biasimarla se voleva fuggire da quel luogo. Ma chissà perché le aveva raccontato la storia su Agnes che cantava... Si era forse trattato di un espediente per darsi importanza? Aveva forse immaginato tutto, magari sull'onda della paura? Forse. Il vento del temporale afferrò i cespugli del giardino, portando all'inter-
no foglie, rametti spezzati e polvere. All'improvviso, il cielo era tutto nero. VII «L'ho vista cambiare. Devi credermi, maestro Valentin. Era come... il cuore di un maiale quando lo apri e ancora non si è fermato. Pulsava. Ed era più bianca e più luminosa di quanto è ora!» «Zitto, Pognon, zitto! Perché dici queste cose?» lo rimproverò l'alchimista, senza staccare lo sguardo dal pugno di materia chiusa nell'aludel. «Perché lui la guardava proprio come tu stai facendo, però ora non accade nulla, mentre con lui era qualcosa di vivo...» «Hai ancora paura del nostro ospite, Pognon!» ribatté l'alchimista in tono più aspro di quanto avrebbe voluto. La fedeltà del suo servo gli era cara, ma non voleva lasciarsi influenzare dai suoi dubbi. «Da quando lui è qui, tu non sei più lo stesso, Maestro», insistette l'uomo. «La casa non è più la stessa, e nemmeno la nostra vita, e nemmeno la città.» «È vero», ammise l'altro con un mezzo sorriso. «Non ero mai stato per quasi due giorni lontano dall'abbazia e dai miei allievi.» «Di certo lui vuole portarti via l'Opera... o forse vuole farla diventare un mostro che ti divori.» «E perché non un drago?» Entrambi gli uomini si girarono alla voce di Amboise, sorpresi tanto dalla sua presenza che dal suo tono, che sembrava canzonarli. Non lo avevano sentito entrare nel laboratorio. «Perché il Drago?» domandò Valentin, contrariato, mentre Pognon scivolava via, cercando di farsi ignorare. «Dimmelo tu, Valentin. Sei tu l'alchimista», lo sfidò Amboise, raggiungendo a sua volta l'atanor. Il pugno di materia bianca chiusa nell'aludel era desolatamente inerte. «Non prenderti gioco di me, amico mio. Tu ne sai di alchimia quanto il migliore tra noi; anzi forse di più, dal momento che leggi l'arabo e che sei stato alla scuola di Cordoba come Gerberto! Sai benissimo che nel nostro linguaggio il Drago rappresenta l'unità fondamentale della materia che si chiude in se stessa, ma anche il suo processo di autogenerazione.» «Bravo. Continua.» «I simbolismi sono complessi. Che cosa vuoi? Che ti reciti la Tavola Smeraldina?»
«No. Non ho dimenticato le nottate su quel testo latino tradotto tanto ingenuamente dall'arabo...» lo quietò Amboise, lasciando trasparire un velato divertimento all'affanno dell'amico. «Ma che mi dici dell'Aquila e del Cigno?» «Dico che l'Aquila è il simbolo della sublimazione della materia, mentre il Cigno è l'Opera al Bianco. Perché?» «Ecco il punto in cui si trova la tua Opera. Nella lingua di Illait, il suo nome significa 'Aquila' mentre Ela, che era il nome della sorella, significa 'Cigno'. E il Drago...» «Il Drago?» lo incalzò Valentin, con gli occhi brillanti. Amboise scosse il capo. Per un istante gli era tornato alla mente il disegno tracciato nel ghiaccio da Illait stesso, sulla sommità di una montagna, soltanto pochi mesi prima. Le linee perfette avevano sigillato un potere che Amboise non aveva mai creduto di poter conoscere davvero. Eppure la terra aveva tremato e, per tutta la notte, la sommità di quella montagna era stata avvolta da fiamme che tuttavia l'avevano lasciata intatta. Lui portava con sé, scritta, la testimonianza di Adverto di Lézat sui prodigi di quella notte e sul fuoco che aveva coronato la cima del monte su cui stava nascendo l'abbazia dell'alverniate. Per tutti sarebbe stato un fuoco sacro, inviato dal Cielo a benedizione dell'impresa, ma il signore di Montsalvy sapeva quello che era accaduto. «Il Drago è il Potere, Valentin. È l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, la materia e il suo contrario: ciò che è e ciò che non è. Un disegno perfetto che non puoi vedere; una combinazione di suoni che non puoi sentire, una sequenza di numeri che non puoi calcolare. È l'eternità e l'assenza del Tempo.» «Quando ti ho chiesto chi avevi portato nella mia casa era questo che intendevo», mormorò l'alchimista, impallidendo. «Sapevi chi avrei portato, Valentin. Non mentire. Quando mi hai fatto avere il tuo messaggio, a Macon, avevi già sentito parlare di Illait di Isley e del mio processo a Cluny.» «Ti ho chiamato per Agnes. Non ti ho mentito!» «Lo so che non hai mentito, su questo. Ma adesso mi chiedo se ciò che desideri davvero è riavere tua nipote o vedere la tua Opera compiuta, in un modo o nell'altro.» «Sei impietoso», ribatté Valentin, sfuggendo allo sguardo dell'altro. «Sono stato tuo amico. Se non lo fossi ancora non sarei qui, e se non ti stimassi non parlerei. Ma tu sai meglio di me che cosa significa compiere
la Grande Opera. Nessun altro la può compiere al posto dell'alchimista, perché è sua la trasformazione e, al di là di quello che può avere dall'Opera compiuta, ciò che veramente conta è quello che muta in lui.» «Ma Illait di Isley...» «Illait non ha bisogno della Grande Opera. Lui è l'erede di una scuola antica che praticava armonie ormai dimenticate. Lui ha il Potere.» Valentin tacque; si sentiva stanco e pesante, come se quel poco tempo lontano dal suo lavoro all'abbazia fosse già un'eternità; quando Amboise era tornato dal colloquio con l'abate Ilderico, il giorno prima, riferendogli che l'abate stesso gli consigliava un po' di riposo, Valentin si era rallegrato, pensando di poter meglio accudire la sua Opera. Però, dopo un giorno soltanto, le cose già gli apparivano diverse, e gli sembrava di non avere più un posto dove stare. Amboise gli batté una mano sulla spalla, comprensivo. «Vieni, andiamo su. Colin e Illait saranno di ritorno prima del tramonto, e forse avranno qualche notizia di Agnes da Artemisia. E domani, comunque, io dovrò partire per Cluny.» «Come potrò aiutare Artemisia se ne avrà bisogno?» mormorò l'alchimista. «Ti lascerò Colin. Non mi servirà a Cluny, e di certo nessuno potrà vegliare su Artemisia meglio di lui. Ti puoi fidare.» «Lo spero; sono quasi morto di paura per causa sua», brontolò Valentin. Poi aggiunse, stizzito: «Chissà dov'è Pognon? Dovrebbe restare sempre qui a sorvegliare il calore del forno!» Amboise fece cenno a Risson, che per tutto il tempo era rimasto di guardia sulle scale, a rispettosa distanza. «Lo farà Risson, se vuoi, finché non torna il tuo allievo.» L'altro annuì di malumore, salendo prima la corta scala ed entrando poi nella cucina. Dal suo angolo, l'immagine un po' sbiadita di Agnes si volse ad accoglierlo con un sorriso, ma l'uomo distolse lo sguardo, imbarazzato, temendo che l'amico potesse chiedergliene conto. Perché quell'immagine continuava a rimanere lì, come se fosse impigliata in una rete invisibile? La consolazione che gli aveva dato in un primo momento si stava tramutando in una struggente malinconia e, sebbene non avesse fatto nulla di cui doveva rimproverarsi, lui si sentiva colpevole. «La magia di quel giovane ha già riportato Agnes in questa casa», mormorò. «Tu non la vedi, Amboise? Tu non sai che cosa significa?» «Non la vedo, amico mio.»
Valentin indicò l'angolo in cui viveva l'immagine della fanciulla... Ma nuvole di temporale si erano distese su Auxerre, oscurando la città come se fosse già il crepuscolo; dunque nella cucina era quasi buio, e nemmeno lui riusciva più a vederla. Amboise lo fece sedere, e gli versò un po' di vino. «Sono vecchio, amico mio», borbottò Valentin, sfiorando il boccale con le dita. «Conosco tutti i sassi della strada che da questa casa conduce all'abbazia; conosco le pietre delle mura della città e conosco le stelle che brillano dal rettangolo della finestra del mio laboratorio. Ma non conosco nient'altro. Ho costruito una gabbia in cui ho vissuto bene, pensando di essere soddisfatto e appagato. Adesso però queste mura hanno soltanto vuoto, dentro e fuori.» «Non è andare per il mondo che rende libero lo spirito. Rende liberi ciò che si costruisce con la mente, col cuore e con l'anima. Nient'altro. Né io né Gerberto siamo più liberi di te grazie ai luoghi in cui abbiamo vissuto.» Un primo tuono rotolò lungo la strada. Valentin si alzò per chiudere la porta, e scoprì Pognon sotto il portico. Ma la soddisfazione nel vederlo svanì all'istante: tutt'intorno non si scorgevano che soldati. «I soldati del vescovo!» sibilò, arretrando. La mano di Amboise si artigliò immediatamente al suo braccio. «Non ti muovere e non parlare», sussurrò, mentre riportava l'alchimista verso la panca. «Pensa alla tua Opera.» Alle spalle dei soldati, il signore di Montsalvy riconobbe la figura tozza di Odo di Chambéry, il mantello leggero che gli svolazzava intorno e il bagliore freddo della croce che gli riposava sul petto. «Che cos'hai fatto, Pognon?» esclamò l'alchimista allorché anche il suo servo entrò, seguendo i soldati. L'uomo non rispose, limitandosi a distogliere lo sguardo. «Dobbiamo condurti subito dal vescovo, Maestro, con tutti quelli che si trovano in questo momento nella tua casa, tranne il tuo servo Pognon e la tua serva», annunciò il capitano dei soldati, mentre due dei suoi uomini salivano al piano superiore e altri due sparivano verso il laboratorio. «Non toccate nulla, là sotto!» urlò Valentin, ritrovando all'improvviso l'energia per opporsi. «In questa casa ci sono soltanto due vecchi che ricordano la loro passata gioventù in comune, come studenti, in questa città. Null'altro, capitano», mentì Amboise, alzandosi lentamente, e contando sulla prontezza di riflessi di Risson. Il ragazzo forse aveva avuto il tempo di fuggire attraverso il
passaggio... e forse Pognon non aveva svelato anche quel segreto. I soldati scesi nel laboratorio stavano infatti risalendo a mani vuote, mentre quelli saliti al primo piano ne scendevano, spingendo davanti a loro la serva. Il capitano si volse a Valentin. «Nessun altro?» «No.» «Ciò è molto strano, Amboise de Montsalvy», intervenne Odo di Chambéry facendosi avanti. «Quando hai lasciato Macon, ti accompagnavano Artemisia de Montsalvy, il capitano Colin Bois, due dei suoi uomini e il signore di Isley.» «È vero, ma non avevano nulla da fare qui. D'altra parte, tu li conosci tutti molto bene e certamente, con la tua sorveglianza alle porte, non ti sarebbero sfuggiti.» «Sono certo che Hugo di Chalon troverà interessanti le tue chiacchiere», ribatté Odo con un sorriso. «Hugo di Chalon oserà opporsi a Cluny, impedendomi di raggiungerla?» «Puoi chiederglielo, se ti resterà fiato per farlo.» «Mi viene mossa qualche precisa accusa, capitano?» esclamò Amboise, ignorando il vicario del vescovo di Chambéry. «Sì. L'accusa di aver causato l'incendio della locanda di Armail», replicò Odo, incurante a sua volta del capitano. «E a quale scopo?» insistette Amboise. «Uno scopo lo troveremo, non temere», rispose Odo. «Tieni qui metà dei tuoi uomini, capitano. Sono certo che gli altri arriveranno, e dovrai prenderli vivi.» L'uomo obbedì rapidamente agli ordini ricevuti, mentre i soldati di scorta uscivano, disponendosi intorno a Valentin e ad Amboise. Il temporale aveva portato lungo la strada un vento basso e teso, che arruffava i ciuffi d'erba tra le pietre e s'ingolfava negli angoli. Le nuvole nere sembravano chiudere la città in una morsa; persino le facce degli uomini avevano un colore spettrale. Ma i cittadini di Auxerre, prudenti, non uscirono a veder passare il piccolo corteo, nemmeno quando percorse la Via Larga verso la piazza delle Erbe e il palazzo di Hugo di Chalon. Il temporale che si era abbattuto su Auxerre nelle prime ore del mattino si scatenò su Vézelay al vespro; le nuvole si distesero con straordinaria rapidità, e il vento che le accompagnava arruffò i covoni di fieno e disperse le ceneri dei fuochi intorno cui avevano ballato i giovani nella notte. La
pioggia, breve, seguì quasi subito, ma fu tanto violenta che scivolò sul terreno indurito senza penetrarlo. Accovacciata accanto alla porta della sua stanza, affacciata sul cortile, Artemisia aspettava il vero buio. Isette, che le aveva portato la cena, accendendo poi una lucerna sul tavolo, tentava di nascondere l'agitazione parlando meno del solito; quando non riuscì più a resistere, la raggiunse e le s'inginocchiò accanto, sbirciando a sua volta dall'uscio. «Che cosa vedi, mia signora?» la interrogò, curiosa. «Niente di più del solito giardino. Quietati, Isette, è ancora presto. Mangia la mia cena, se vuoi.» «Davvero vuoi che io mangi la tua cena, mia signora?» Artemisia annuì; la ragazza non si fece pregare e si servì del pane e della carne, due cibi che non comparivano mai sulla mensa delle oblate. Per darsi coraggio, bevve anche qualche sorso di vino. Quando Artemisia finalmente si decise, compieta era passata da un pezzo, e così anche l'ultima traccia del temporale, ma l'aria era rimasta umida, colma dei sentori strappati alla foresta. Le stelle tuttavia ancora non si vedevano, e il buio era fitto. Isette spense la lucerna e attraversò per prima il giardino, attenta a non bagnarsi i piedi e lasciare così impronte, come le era stato spiegato. Un muro divideva il giardino, che non aveva uscite, dal tratto incolto prima della cinta esterna. Ma Isette si diresse verso una porticina quasi sull'angolo, nascosta dai cespugli ed evidentemente in disuso, che si aprì facilmente, rivelando alcuni gradini. La ragazza si muoveva nell'ombra con sicurezza assoluta; nessuno sarebbe stato una guida migliore di lei, che conosceva ogni angolo, anche il più segreto, di quel complesso di edifici sorti sin dagli albori della cristianità a coprire l'altura di Vézelay. Così seguì senza esitazione un passaggio che sbucava nella galleria buia scorta in precedenza da Artemisia dall'androne della cappella, ma deviò quasi subito in un passaggio laterale, che conduceva a una cripta abbandonata. Da una porta sul fondo filtrava una lama di luce. Isette la indicò. «Ecco la cella dove hanno rinchiuso Agnes», disse in un soffio. «Noi ci troviamo dalla parte opposta alla galleria e alla porta di cui Rustena ha la chiave.» «Vuoi dire che non ti sei mai avvicinata alla cella dalla via consueta?» «No di certo! Rustena mi avrebbe visto!» Artemisia annuì. Doveva essere stata proprio Rustena la monaca che,
nella sua prima notte di permanenza nel monastero, l'aveva costretta a rifugiarsi nella cappella e l'aveva poi rinchiusa nella cella. Tentò anche di scorgere qualcosa della cripta non appena Isette scoprì la fiammella del lume che aveva avuto l'accortezza di portare con sé. La cripta era costruita con blocchi di pietre irregolari, e Artemisia indovinò un paio di pilastri, tozzi e coperti di muschio. Null'altro. Si avvicinò alla porta: era bassa e quadrata, molto vecchia, e pareva coperta di muschio come i pilastri; era chiusa da una spranga di ferro infissa nel muro; probabilmente non era stata aperta da decenni. Al di sotto filtrava la luce: una lama sottile in tutto quel buio. Un'angoscia incontrollabile l'afferrò all'improvviso; qualcosa che tentava di soffocarla, e non era soltanto pena per la creatura costretta a vivere in quella prigione. Agnes era tornata dopo Natale, aveva detto Isette. Ma da allora nessuno l'aveva vista. Mio Dio! pensò, lasciando affiorare quello che era stato soltanto un sospetto assurdo fino a un momento prima. In quell'istante sentì la voce. Era chiara e pulita, molto bella, e intonava un canto in una lingua incomprensibile. La spinta improvvisa schiacciò Artemisia col viso contro il muschio che rivestiva la porta, come se una mano poderosa e invisibile le premesse sulla schiena. Isette si lasciò sfuggire uno strillo, e il lume le cadde di mano. «Ferma! Non ti muovere!» le ordinò l'altra col fiato che le restava. «Che sta succedendo?» mormorò la ragazza; non vedeva nulla, se non il dilagare della luce dall'interstizio della porta. Artemisia non riuscì a rispondere. La forza che la schiacciava le consentiva a malapena di respirare. E all'improvviso le attraversò la mente il ricordo di quel mattino gelido nella piazza di Chambéry, quando era stato innalzato il rogo. Rivide i volti tesi di Amboise e di Colin, la gente eccitata in attesa dello spettacolo, i mantelli sbattuti dal vento sulle facce dei preti, il monaco di Puy che invocava la fine del Tempo e il castigo di Dio. E poi l'urlo della folla quando la giovane pagana era stata portata al rogo. Rivide la figura minuta, i capelli biondissimi... Le era stato chiesto per l'ultima volta di convertirsi, ma lei non aveva risposto. Né aveva urlato quando il fuoco era salito a divorarla. Non poteva urlare. Mani invisibili salirono ad afferrare Artemisia alla gola, scacciando dai suoi occhi quella visione. «Illait!» urlò lei con tutta la forza che le restava. «Ela, tua sorella, è qui! Agnes è morta al suo posto!»
La forza che la stava soffocando l'alzò di peso, scaraventandola poi a terra, lontana dalla porta. Artemisia non riuscì più a muoversi. La lama di luce al di sotto dell'uscio scomparve, anche se una debole luminosità stava inondando il passaggio che portava alla cripta. Isette si fece forza e la raggiunse. «Non mi toccare!» l'avvertì la giovane. Le forze che custodivano quel luogo potevano infatti volgersi anche contro di lei. «Che posso fare?» La voce di Isette era stridula per la paura. Una folata di vento s'infilò dal passaggio; il lume si riaccese e qualcosa di caldo sfiorò Artemisia, passandole accanto. Subito dopo, lei si sentì libera. «Non capisco...» disse Isette, passandole un braccio intorno alle spalle per aiutarla a rialzarsi. Artemisia si sentiva stordita, e ancora non riusciva a controllare del tutto il tremito. Soltanto ora, per contrasto col caldo che l'aveva toccata, sentiva di essere gelata. «Abbiamo sfidato un potere molto forte, ma siamo state aiutate», mormorò, tentando di rassicurare l'oblata. «Ma tu hai detto che Agnes è morta!» «È vero. La ragazza prigioniera oltre quella porta è Ela di Isley. Si assomigliano. Io stessa ho visto Ela di Isley a Chambéry... e qualche giorno dopo l'ho vista salire sul rogo, e non mi sono accorta della differenza. Ma nessuno era abbastanza vicino per accorgersene, tranne quelli che l'hanno condannata.» «Perché l'hanno condannata?» Artemisia scosse il capo. L'afferrò un brivido, come se la forza che l'aveva liberata stesse vacillando. «Dobbiamo andarcene subito!» esclamò, e Isette si mosse coraggiosamente a farle strada, tenendola per mano fino alla porticina da cui erano entrate. Il giardino era quieto. Soltanto un refolo sfiorava la cedrina odorosa. Isette chiuse con cura la porta della stanza non appena furono dentro. Sul tavolo, accanto alla lucerna accesa, c'era un rametto fresco di artemisia. «Sono certa di averla spenta prima di uscire...» disse Isette. Artemisia sfiorò la fiammella con le dita, trovando consolazione nel calore vivo di quella piccola luce. «Non temere per questo», la rassicurò, ma già la stanza le sembrava diversa e quell'intero luogo, che non aveva mai sentito amichevole, le si stava chiudendo addosso come un mantello troppo stretto. «Che cosa facciamo adesso?» chiese Isette. «Rustena ci avrà sentite e ci
denuncerà alla badessa.» «Maude de Belley dovrà pensare a difendersi», ribatté Artemisia. A patto che io possa dire a qualcuno quello che ho scoperto, pensò, ma non lo disse per non spaventare Isette. Non sapeva come interpretare il rametto di artemisia, lasciato così in evidenza. Forse era un modo di Illait per rassicurarla, ma lei conosceva ancora troppo poco il giovane, e non conosceva quasi nulla dei poteri di cui certamente non si vantava. Per quanto poteva continuare a proteggerla? E, con quello che aveva scoperto, quanto tempo le restava? VIII Il temporale investì Illait e Colin sulla strada da Vézelay ad Auxerre con brevi scrosci di pioggia violenta. I due non si fermarono. Quando ormai erano fradici, le nuvole, continuando veloci la loro corsa verso meridione, liberarono il cielo dalla pioggia lasciandolo senza colore e come premuto tra due orizzonti tempestosi. Era pomeriggio avanzato quando giunsero in prossimità delle mura di Auxerre. La pioggia, caduta sulla città al mattino, aveva disperso le ceneri dell'incendio della locanda di Armail alla Porta di Sens, e spezzato qualche ramo agli alberi lungo la strada, ma niente di più. La fitta vegetazione lungo lo Yonne appassiva nella calura. Tuttavia, un buon tratto prima di giungere al passaggio sotto le mura, Illait tirò le briglie del cavallo e costrinse l'amico a fare altrettanto. In allarme, il giovane capitano si girò a guardarlo, ma Illait sembrava distratto dai riflessi della pozzanghera che il suo cavallo aveva appena attraversato, frantumandone la superficie. «Che cosa c'è?» chiese il capitano, allarmato. Sapeva cogliere nell'aria la presenza di nemici in agguato; molto spesso, in passato, la sua vita e quella dei suoi uomini era stata affidata alla sua abilità nell'intuire il pericolo. Ma non riusciva a spiegarsi... «Amboise... Amboise è stato tradito», spiegò Illait. Poi tacque, schiacciato dall'onda di dolore che veniva da lontano e che l'aveva afferrato con violenza: un fuoco parve ardere nel palmo della sua mano, ma lui lo respinse, e il dolore cessò. Solo per un istante l'immagine di Maude de Belley passò davanti ai suoi occhi. Colin, che non si era accorto di nulla, si lasciò scivolare di sella. «E Au-
rac e Risson?» chiese. «È Risson quello che ci sta aspettando sul sentiero.» Il capitano prese la balestra a doppia corda, che portava appesa alla sella, e passò le briglie del proprio cavallo a Illait. Tese entrambe le corde dell'arma, poi la tenne appoggiata al fianco, pronta. Eppure la strada gli sembrava sgombra. Percorsero in quel modo poco meno di duecento passi. Poi Risson sbucò dai cespugli in cui si era nascosto e fece loro un cenno. Lo seguirono nel fitto della vegetazione lungo il fiume, fino ad Aurac, che teneva i cavalli pronti. «Che cosa è accaduto?» Colin interrogò Risson senza dargli il tempo di riprendere fiato. «I soldati di Hugo di Chalon sono venuti dal maestro Valentin stamattina. Io ero nel laboratorio: dovevo sorvegliare il forno, perché Pognon era sparito. Li ho sentiti arrivare e ho fatto in tempo a infilarmi nel passaggio.» «Hai abbandonato Amboise!» lo accusò Colin. Il ragazzo arrossì violentemente e non ribatté. «Ha fatto bene», intervenne Aurac. «Da solo, contro i soldati, si sarebbe soltanto fatto ammazzare. Invece è venuto ad avvertirmi e io ho potuto togliere il campo e nascondere i cavalli.» «Anche tu sei d'accordo con Aurac?» disse Colin, rivolto a Illait. «Certo», rispose il giovane. «E, dal momento che hai buonsenso, lo sei anche tu.» L'altro annuì, arruffando i capelli rossi del ragazzo. «Hai fatto bene», ammise. «Morto non ci serviresti, adesso. Quanti erano i soldati? Amboise potrebbe ancora essere lì?» «I soldati erano molti, ma non so se il signore di Montsalvy si trovi ancora in quella casa.» «Che cos'hai in mente?» s'intromise Aurac, che conosceva il suo capitano da parecchio tempo e paventava la sua temerarietà. «Se Risson è qui, allora vuol dire che non sanno del passaggio. E se lui è potuto uscire, noi possiamo entrare», dichiarò, sollevando lo sguardo su Illait per cercare il suo consenso. «Se Amboise è ancora in quella casa, possiamo liberarlo e allontanarci prima che se ne accorgano. Dobbiamo portarlo a Cluny a qualunque costo.» «Certo... Ma forse non si trova più lì, e il fatto che loro ce lo lascino credere potrebbe essere semplicemente un'esca per attirarci in un tranello. Tu hai conosciuto l'abate di Saint-Germain: puoi farti ricevere, scoprendo così
quello che sa dei fatti di stamattina e chiedendogli poi di mandare un messaggero personale a Cluny, sia per giustificare l'assenza di Amboise sia per denunciare Hugo di Chalon.» Colin rifletté, rammentando l'uomo dalla figura asciutta che lo aveva praticamente ignorato durante il colloquio con Amboise. «Ilderico mi riceverà soltanto se sarai tu a chiedere di essere ricevuto», ribatté, consapevole che non doveva essere facile per Illait di Isley entrare in un luogo come l'abbazia di Saint-Germain. Ma Illait si limitò a replicare, in tono pacato: «Hai ragione, e dobbiamo farlo subito». Il giovane capitano ordinò a Risson di rimanere nascosto con i cavalli e ad Aurac di accompagnarli; presero quindi il sentiero che costeggiava le mura e attesero alla porta dell'abbazia che la loro richiesta fosse portata a Ilderico. Nel grande cortile c'era ancora attività, e una decina di studenti stavano seguendo un monaco all'infermeria per far pratica sui feriti dell'incendio. Ma l'impressione di serenità che aveva piacevolmente colpito Colin il giorno prima era incrinata da qualcosa d'impalpabile, che correva per l'aria. Forse era la presenza di Illait, pensò lui, o forse si trattava della sua tensione... o magari era semplicemente fame: non aveva mangiato nulla dalla sera precedente... Il giovane monaco che giunse a prenderli per condurli dall'abate sapeva chi era Illait di Isley. Evitò infatti di alzare gli occhi, come se guardare quel giovane potesse costargli la dannazione eterna. Impacciato, li invitò a seguirlo, e poi attraversò in fretta il cortile, senza mai voltarsi. Ilderico li aspettava nella sala delle udienze e il locale, che si apriva direttamente sul cortile preceduto soltanto da un portico, era certamente il più grande di tutta l'abbazia dopo la chiesa, che si trovava lì accanto. Lo scranno dell'abate, con un alto schienale intagliato nel legno, dominava la parete di fondo. Le figure contenute nei riquadri illustravano passi dei Vangeli, ma la figura dominante, nel riquadro all'apice dello schienale, era un drago avvolto su se stesso, trafitto da san Michele. Sui due lati lunghi della stanza correvano due file di panche, destinate evidentemente ai monaci per le riunioni straordinarie o agli ospiti illustri, che non mancavano mai in occasione dei grandi eventi. Due bracieri, ai lati dello scranno, conferivano a quest'ultimo l'aria di un trono. L'abate si trovava poco oltre l'ingresso; due monaci anziani sedevano affiancati sulla panca più vicina. Evidentemente Ilderico non voleva correre il rischio d'incontrare Illait di
Isley senza testimoni. Colin osservò come l'uomo, che gli era sembrato cerimonioso e servizievole durante l'incontro con Amboise, appariva ora severo, sulla difensiva. «Temo che i motivi per cui ti rivedo così presto, capitano, non siano buoni», gli disse a mo' di saluto. Poi fissò Illait, che si trovava alle spalle di Colin, aspettando che il giovane gli rendesse omaggio, ma questi non si mosse. Ilderico non riuscì a nascondere il suo imbarazzo. «Puoi dirci che cos'è accaduto ad Amboise de Montsalvy?» chiese Colin, che non era disposto a perdere tempo prezioso. «So quello che sa la città: quello che si dice nelle strade e al mercato delle erbe e le voci che i miei monaci hanno raccolto da stamattina, quando i soldati del vescovo hanno preso possesso della casa del maestro Valentin. La guardia a tutte le porte è stata rinforzata, e anche la ronda per le strade. Nessuno può entrare o uscire dalla città senza essere fermato e riconosciuto.» «Amboise può ancora trovarsi in quella casa?» «Non ho modo di saperlo. Sembrerebbe di sì, stando alle voci, e con lui si troverebbe anche l'ospite del vescovo, Odo di Chambéry.» Colin si sforzò d'ignorare il nome di un uomo che aveva più di un motivo per volere morto. «Puoi fare qualcosa?» insistette. «Poiché il maestro Valentin lavora per l'abbazia, posso chiedere al vescovo la sua restituzione, sempre che non si sia macchiato di qualche colpa grave. Purtroppo non sono in grado di avanzare pretese su Amboise de Montsalvy.» «Manda un messaggio a Odilone di Cluny. Avvertilo di quello che sta accadendo», ordinò Illait. Colin lo guardò, stupito: da quando lo conosceva, non l'aveva mai sentito rivolgersi a qualcuno con quel tono. Ilderico, a disagio, distolse i suoi occhi da quelli azzurri del giovane ospite e rispose: «Farò come dici». «Subito», precisò Illait. «Scriverò io stesso una parte del messaggio per l'abate Odilone.» «Ti farò portare l'occorrente», acconsentì l'abate. Il giovane monaco che li aveva guidati era stato richiamato e si affrettò a portare un foglio di pergamena, l'inchiostro e un leggio che poteva essere usato come scrittoio. Illait sedette immediatamente su una panca, mettendosi al lavoro.
L'abate sbirciò il foglio da sopra la sua spalla. «Stai scrivendo in greco», mormorò, sorpreso. «Così Odilone di Cluny non avrà dubbi», ribatté Illait. «E pochi potranno leggerlo.» Ilderico fece un passo indietro; qualcosa nell'atteggiamento del giovane gli era decisamente ostile, o forse era lui a sentirlo tale, dato che il signore di Isley lo trattava come un suo pari. Eppure l'abate di Cluny riteneva importante quel giovane... o meglio riteneva importanti i suoi poteri. «Tu dovresti restare qui, signore di Isley», disse. «Qui sei al sicuro.» «Da che cosa?» chiese lui, freddamente. L'altro si scontrò col gelo dei suoi occhi. «Dall'incomprensione e dalle paure degli ignoranti e dall'avidità dei potenti, forse», rispose. Il giovane abbozzò un sorriso. Era il primo da quand'era entrato nell'abbazia. «Ti ringrazio, perché, tuo malgrado, in questo momento sei sincero», rispose con voce pacata. «Ma sono più al sicuro nel fitto di una foresta.» L'abate si sentì avvolto da un alito caldo che fece svanire la sua tensione, portandosi via in un istante il feroce dolore alla testa che lo attanagliava da giorni. Tentando di nascondere la sua sorpresa, si rivolse a Colin. «Hai avuto notizie della nipote del maestro Valentin?» gli chiese. «Non ancora. Ma adesso dobbiamo occuparci del signore di Montsalvy.» «Aggiungerò di mio pugno la richiesta a Odilone di Cluny d'intervenire subito, e di non considerare colpevole il signore di Montsalvy per la sua assenza. Ricorda, capitano: in qualunque momento potrai usare l'abbazia come rifugio.» Illait si alzò, porgendo il foglio all'abate. Mentre lo prendeva, Ilderico guardò i due monaci anziani, tentando di capire se anche loro provavano la sua stessa sensazione, e li scoprì cupi e ostili, come uccelli rapaci in attesa di dilaniarlo. Si meravigliò di quel pensiero, e poi comprese che li aveva visti non con i propri occhi, bensì attraverso gli occhi del giovane, che certamente si era preso gioco di lui con quell'inganno. Impallidì, ma ritrovò il controllo e terminò il messaggio senza più alzare lo sguardo e facendo appello alla dignità acquisita in anni di esperienza. Poi lo sigillò con l'impronta del suo anello. «Partirà non appena farà giorno», rassicurò i suoi ospiti, e non poté fare a meno di chiedersi quali e quanti meriti poteva avere ai loro occhi un uomo come Montsalvy per meritarsi tanta fedeltà. Amboise era pur sempre un individuo che amava
camminare sull'orlo dell'abisso, e a Cluny avrebbe dovuto rispondere a molte accuse. «Che cosa farai adesso, capitano?» chiese poi, alzandosi. «Perdonaci se non te lo diciamo, ma è più sicuro per te», rispose Colin, cercando di non sembrare troppo scortese. Ilderico chinò il capo. Illait era già sulla soglia, e l'abate, suo malgrado, ricambiò il sorriso di commiato che il giovane gli rivolse. Subito dopo scoprì di sentirsi davvero bene; era riposato come dopo una notte di buon sonno, e una serenità leggera, benefica, aveva preso il posto di tutti i suoi timori. Il vespro aveva svuotato il cortile, ed era già quasi buio. Colin e Illait raggiunsero Aurac, e la grande porta dell'abbazia venne chiusa per la notte alle loro spalle. Il vasto spiazzo tra l'abbazia e la porta di Saint-Amatre era deserto; ma la guardia del vescovo, più numerosa del solito, stava accendendo molti fuochi sui larghi gradini della scala e, raccogliendo i riflessi delle fiamme, ciascuno dei tredici occhi del mostro di pietra della fontana sembrava versare sangue. Quando s'infilarono nel passaggio che portava alla casa del maestro Valentin era già notte; nel cielo, altre nuvole promettevano nuovamente pioggia. Risson, con i cavalli, rimase al nascondiglio lungo il fiume; gli animali, però, erano nervosi, sebbene Illait li avesse carezzati in silenzio prima di andarsene. Il passaggio era completamente buio, tanto che Colin era costretto ad avanzare tentoni. «Lasciami passare per primo», gli suggerì Illait e l'altro obbedì, posandogli una mano sulla spalla e lasciandosi guidare; la facilità con cui il giovane si muoveva nel buio o lungo un sentiero sconosciuto ancora lo stupiva. «Ci siamo», disse poi, fermandosi. «Puoi sentire se c'è qualcuno?» «Ci sono paura e abbandono. Le pietre di questo luogo non dicono altro», rispose, ma il respiro gli mancò per un istante. Artemisia sta scendendo al cuore buio del monastero di Sainte-Madeleine, e mi sta portando là dove io non posso penetrare. «Che cosa c'è?» chiese Colin, avvertendo la sua difficoltà. Maude de Belley sta per darmi battaglia, pensò Illait. «Dobbiamo fare presto», disse invece. «Molto presto.» Il massiccio battente era aperto, come lo aveva lasciato Risson nella sua
fuga, ma il tramezzo di canne si trovava al suo posto e i fasci di erbe, appesi a essiccare, non erano stati toccati. Con cautela, Colin spostò il tramezzo di una spanna e si affacciò a sbirciare, ma la cantina sembrava vuota e buia; l'unico, vago chiarore giungeva da un lume, posto accanto ai gradini che portavano al laboratorio. Col lungo coltello in pugno, il giovane si diresse verso quel punto e si fermò sulla soglia: nell'angolo della preghiera scorse una figura china, coperta da un mantello. «Maestro Valentin?» chiamò allora, sommessamente, credendo di aver riconosciuto l'alchimista. La figura si girò. Era uno sconosciuto. Aprì la bocca per lanciare l'allarme, ma Colin lanciò il coltello e l'uomo si piegò all'istante, rantolando. Fu allora che qualcuno balzò fuori da dietro il mucchio della legna per il forno. Illait gli sbarrò il passo e lo riconobbe: Pognon. «Dov'è Amboise?» gli chiese. «Mi taglieranno la gola!» mormorò il servo, che era caduto in ginocchio e tremava, atterrito. «Te lo sei voluto», ribatté Illait freddamente. Pognon rimase piegato in due, incapace di parlare. Sapeva che il suo segreto gli era stato ormai strappato dalla mente. Illait non perse tempo con lui. «È una trappola! Vieni via, Colin!» gridò. Ed entrambi i giovani si rituffarono verso la cantina e nel passaggio. La prima cosa che i soldati del vescovo riuscirono a vedere non appena giunsero nel laboratorio fu una luminosità lieve e biancastra. Sulle prime, credettero che provenisse dal rettangolo buio della finestra, poi si accorsero che arrivava dall'aludel... dalla cosa pulsante che vi era custodita. Spaventati, si fermarono, guardandosi intorno: Pognon era ancora in ginocchio e singhiozzava, mentre l'uomo che gli era stato messo di guardia era morto. «Che cosa significa?» gridò il capitano, afferrando il servo per la veste e tirandolo in piedi. «Era qui!» urlò Pognon con voce stridula. «Era qui! Ha ucciso il tuo soldato e adesso è sparito come uno spirito della notte! Non vedi la materia nell'aludel? Non vedi come sente la sua presenza?» «Uno spirito della notte!» sbuffò il capitano con sarcasmo. Non nutriva simpatia per quell'individuo che aveva denunciato il suo padrone, né aveva mai dato retta alle storie che i vecchi raccontavano sui tanti poteri di certi uomini nei tempi antichi. Eppure il soldato era lì, morto, e certamente non era stato Pognon a ucciderlo.
«Solo gli spiriti passano attraverso i muri! Chiama il tuo vescovo, prima che sia tardi e che arrivi fin nel suo palazzo!» insistette il servo, piagnucolando. «Sta' zitto!» gli intimò il capitano, lasciandolo ricadere a terra. «Portatelo su, e due vadano di corsa ad avvertire il vescovo», aggiunse. I soldati trascinarono Pognon al piano superiore; il capitano invece rimase ancora qualche istante nel laboratorio, scrutando l'aludel, da cui però non giungeva più nessuna luce. Anche la cosa che esso conteneva appariva ormai inerte. Scosse la testa, perplesso, rinunciando ad attribuire un senso a quell'evento, e si chinò a tirar via il coltello che aveva ucciso il suo soldato. Gli sembrò strano che uno spirito capace di passare attraverso i muri dovesse servirsi di una lama per uccidere. E di un buon coltello, oltretutto, bilanciato per il lancio... un coltello che di certo apparteneva a un uomo d'arme. Si guardò intorno un'ultima volta e infine, per scrupolo, si avventurò fino ai gradini che portavano alla cantina. Nessuno. Allora tornò rapidamente sui suoi passi e uscì dal laboratorio. Di là dal tramezzo, Illait finalmente si mosse, guidando Colin verso l'uscita. Non appena raggiunsero Aurac, che li aveva attesi all'imbocco, si fermarono. «Amboise e Valentin sono prigionieri nel palazzo del vescovo», spiegò Illait. «Li hanno portati via subito, e Pognon non sa altro.» «È stato lui a denunciarci?» chiese Aurac. «Sì.» Colin trasse un profondo respiro, cercando di non farsi travolgere dall'ira che provava per quell'uomo spregevole. Poi si riscosse: «Andiamo via di qui. Pognon non esiterà di certo a rivelare l'esistenza di questo passaggio». Illait e Aurac lo seguirono in silenzio fino da Risson. Per un certo tratto condussero i cavalli, cui il ragazzo aveva fasciato gli zoccoli, lungo la strada che si allontanava da Auxerre; poi ripararono nel fitto della foresta. Già qualche goccia di pioggia cadeva sonora sul tetto che faggi, noccioli e querce intrecciavano sulla loro testa. Conducendo a mano gli animali, guadagnarono un riparo di fortuna in una macchia, dove il suolo era polveroso e asciutto. Un accenno di vento scivolava tra le fronde, confondendo i suoni. «Spero che abbiate qualcosa da mangiare, in quelle sacche», disse Colin, mentre legavano i cavalli, ancora nervosi. «Formaggio e focaccia d'orzo», rispose Aurac. «E del vino.»
«Andrà benissimo! Vuoi mangiare, Illait?» chiese Colin. Silenzio. «Illait?» ripeté il capitano, allarmato; ma era così buio che a stento intravedeva la sua ombra. «Sono qui», mormorò infine il giovane, ma la voce quasi non sembrava la sua, e conteneva a stento la sofferenza. «Che cosa ti succede?» domandò Colin, ma non ottenne risposta. «Risson, Aurac! Cercate un po' di legna e accendete il fuoco qui in mezzo», ordinò allora. «È un rischio, capitano», osservò Aurac. «Potrebbero scoprirci.» «Siamo nel fitto della foresta e tra poco si metterà a piovere: nessuno vedrà il nostro fuoco. Via, svelti!» Mentre Risson e Aurac si allontanavano, Colin raggiunse Illait e gli posò una mano sulla spalla; ma lo sentì trasalire, come se quel lieve contatto fosse già una fonte di dolore. «Che cosa ti succede?» chiese ancora, e ancora non ottenne risposta, se non un respiro affrettato. Quando le prime fiammelle si levarono dal fuoco che Risson aveva velocemente preparato, Colin vi trascinò Illait, aiutandolo a distendersi e coprendolo anche col proprio mantello. Il viso del giovane era pallidissimo e pesanti gocce di sudore scendevano lungo il collo. Persino i fini capelli biondi che gli spiovevano sulla fronte erano fradici. «È malato?» chiese Aurac. L'altro scosse il capo. Scorgeva sul viso del giovane il riflesso di un dolore che sembrava straziarlo profondamente e, se lo toccava, sentiva quel dolore persino attraverso le mani. «Forse ha le febbri», suggerì Risson. «Ho visto qualche volta uomini presi da attacchi come questi, quando vivevo nelle maresche.» «Non credo si tratti della stessa cosa», rifletté Colin ad alta voce. Qualunque cosa fosse, lui sentiva che quel male non rientrava nella misura degli uomini. Non posso aiutarti... pensò, addolorato e furioso. Era come se, pure insieme nello stesso tempo e nello stesso luogo, Illait e lui si trovassero sulle rive opposte di un mare sconfinato. Lo coprì con cura. Non potevano fare altro che aspettare. Illait si guardò intorno: si trovava in una cripta. Era un luogo così antico che l'anima profonda di ogni pietra urlava per farsi sentire, tentando di distrarlo. Un fuoco freddo avvolgeva l'abisso oscuro che lo circondava da ogni lato, come se nulla potesse esistere all'infuori di quel luogo chiuso in
un pugno di buio. «Non puoi venire qui! Nessuno può forzare questo confine!» gli urlò Maude dal cuore del buio. Era in un certo modo diversa dalla donna che aveva incontrato, ma lui non se ne stupì: quella era la Maude che doveva conoscere. La sua figura, alta e sottile, aveva contorni vaghi; l'abito era incolore e i lunghi capelli sciolti, scuri come l'ala di un corvo, riflettevano il baluginare del fuoco freddo. Non portava gioielli e le belle mani dalle lunghe dita stringevano soltanto un rametto di artemisia che brillava come argento. «Perché ti servi della tua giovane e presuntuosa amica? Perché non sei venuto da me?» lo interrogò aspramente lei. «Perché la sua mente è forte e la sua anima è sincera, e perché sa dare un nome alle paure anziché mascherarle o negarle. Pochi possono sostenere altrettanto. Lei mi ha portato dove volevo: a guardare nel luogo che tu nascondi.» «Io non ti avrei mentito!» «Come puoi dirlo? Tu menti a te stessa. Nel modo in cui usi il Potere procuri il male all'intero universo. La nostra forza è armonia; il male genera il caos, e nulla sopravvive al disordine. Nemmeno noi.» L'immagine di Maude tremò, come se fosse in procinto di sciogliersi nel buio, ma la donna controllò la collera, sapendo che l'avrebbe sconfitta. «Tu non puoi passare il buio proprio come la tua amica non può resistere alla mia forza», replicò. «Lei non vedrà oltre la porta, e nemmeno tu lo farai.» Parve accartocciarsi su se stessa e, dal vuoto lasciato dalla sua immagine, il buio si allargò come un ventaglio. Illait lo sentì ruotargli intorno; l'alito del fuoco freddo gli divorò la pelle, simile a un'onda che rischiava di abbatterlo. Sollevò le braccia a proteggersi il viso: il dolore poteva scaraventarlo via da quel luogo fuori del tempo e dello spazio per ricacciarlo nel presente. E, se fosse stato allontanato, non avrebbe avuto modo di ritentare, né poteva abbandonare Artemisia dopo essersi servito di lei. «Illait! Ela, tua sorella, è qui! Agnes è morta al suo posto!» L'urlo di Artemisia lo colpì dalla soglia della cella. Raccolse le forze per lacerare la barriera di fiamme buie e precipitò all'interno. La cella era grande, rischiarata soltanto da un fuoco che ardeva in un braciere. La giovane stava rannicchiata nel giaciglio; l'eco della sua voce e della melodia che aveva amato cantare fin da bambina ancora indugiava nell'aria. Indossava una tunica di lino; i capelli biondi, lunghi fin oltre la vita, erano trattenuti da nastri e il viso, privato da tempo del sole e
dell'aria, era bianchissimo. Non si accorse di nulla, e Illait si trattenne dall'avvicinarsi oltre; impedì a se stesso di lasciarsi toccare dall'affetto che aveva sempre nutrito per la sorella minore, ma anche dall'ira per quello che era stato fatto a entrambi. Qualunque emozione, infatti, avrebbe disgregato la sua difesa. Rimanere impassibile fu di gran lunga la cosa più difficile che avesse fatto in tutta la sua vita. Tuttavia il sipario di buio era sparito, le fiamme erano scomparse. Maude, sconfitta, non si trovava più lì. Lui si ritrovò nella cripta, tra le pietre che gli urlavano i loro segreti e che lui sentiva pesanti come macine. Allora si chinò su Artemisia, portandole il calore che Maude le aveva strappato, e riaccese il lume di Isette. Poi si ritirò, precedendo le due ragazze nella stanza sul giardino. Sfiorò il lume, accendendolo, e vi lasciò accanto un rametto fresco di artemisia, sperando che la giovane se ne sentisse rassicurata. Non poteva fare altro. Doveva arginare la sofferenza che Maude gli aveva causato e tornare nel proprio corpo prima che fosse troppo tardi anche per lui. IX Il palazzo del vescovo, affacciato sulla piazza delle Erbe a fianco della chiesa di Saint-Amatre, era di pietre squadrate, e un'ampia scala con una decina di alti gradini portava all'androne e al robusto portale di legno massiccio con nervature di ferro. Per costruirlo, erano stati utilizzati pietre e resti delle rovine romane, piuttosto abbondanti in città e nei dintorni; così l'androne ostentava quattro colonne, l'una diversa dall'altra, e si apriva su un cortile interno, lastricato, lungo e stretto, che dava l'accesso all'appartamento di Hugo di Chalon, alle stanze dove esercitava il governo e a quelle che ospitavano la sua numerosa corte. Nell'angolo a settentrione, tuttavia, sorgeva una torre tozza e quadrata, più vecchia dell'edificio principale, nelle cui fondamenta si aprivano le prigioni, e che aveva una stanza al primo piano e una al secondo, per i prigionieri di riguardo. Vi si accedeva dal cortile con una scala di legno che saliva fino al camminamento sulla sommità della torre, dal quale si godeva una bella vista della città. Nella stanza del secondo piano erano stati rinchiusi Amboise e Valentin; da quando vi erano stati condotti, il mattino del giorno prima, non avevano
avuto né acqua né cibo, ma nemmeno avevano dovuto subire interrogatori né qualcosa di peggio. Anzi erano stati completamente ignorati. «Non affliggerti, Valentin», lo ammonì Amboise, stufo dei borbottii e delle lamentele dell'amico. «Dopotutto Hugo di Chalon non oserà procedere contro di te, che dipendi dall'abbazia.» «Questo non mi consola granché. Tu sei qui per causa mia», borbottò Valentin, e si zittì all'ordine dell'amico. Qualcuno stava rumorosamente salendo le scale esterne. Soldati. Amboise fissò la porta. Nella stanza quadrata, grande quanto la torre, non c'erano che due sedie a spalliera alta, una panca e un po' di paglia sul pavimento di pietra, negli angoli. L'unica apertura era una stretta e lunga fessura nel muro accanto alla porta, da cui, se non altro, si poteva vedere la progressione della luce. La porta venne aperta. Due soldati del vescovo entrarono, portando alcune torce che assicurarono ai sostegni nel muro; altri due restarono accanto alla porta. Infine entrò Hugo di Chalon, seguito da Odo di Chambéry e, a un cenno di quest'ultimo, la porta fu richiusa dall'esterno. «Dovrei essere onorato d'incontrare un uomo di così vasta fama, signore di Montsalvy», lo salutò cortesemente il vescovo. «Ma temo che tu non sarai soddisfatto della tua giornata, quando ne vedrai il tramonto.» «Hai dimenticato di precisare se lo vedrò», ribatté Amboise, ignorando completamente Odo. «Può essere un ragionevole dubbio», gli concesse Hugo di Chalon, avvicinandosi. Aveva superato i trentacinque anni, e somigliava al padre, Lambert di Auxerre, di cui Amboise conservava un buon ricordo. Il viso era asciutto, ma i lineamenti erano regolari e gli occhi chiari. Gli si fermò di fronte; era alto, e la lunga veste preziosa lo avvolgeva dando l'idea di pesargli sulle spalle troppo strette. «Siediti», gli ordinò, e Amboise obbedì di buon grado, occupando una delle sedie. I soldati che avevano portato le torce gli si misero di fianco; il signore di Montsalvy sentì su di sé lo sguardo triste di Valentin. «Il vicario del vescovo di Chambéry ha mosso nei tuoi confronti gravi accuse, Amboise», spiegò Hugo, restando in piedi e appoggiandosi all'alto schienale della seconda sedia. «In effetti, noi siamo profondamente spaventati da quello che dice.» «Lo sarebbe anche lui, se si ascoltasse», disse Amboise. L'altro non sorrise. «Attento, signore di Montsalvy. Questo non è un gioco; qui non potrai usare né la tua dialettica né le tue dubbie conoscenze,
che hanno il puzzo sospetto degli incanti dei pagani.» «Di che mi accusi? Un vecchio amico, un compagno di gioventù, mi ha ospitato nella sua casa nell'attesa del giorno fissato per il processo, a Cluny. Nient'altro. E davvero io non vedo colpe, in questo.» «Nessuno ti ha visto entrare in città. Nessuno ha visto quelli che ti accompagnavano. Eppure, quando hai lasciato Macon, non eri solo. L'incendio alla locanda di Armail potrebbe essere opera tua, o provocato su tuo ordine, al fine di confondere Odo di Chambéry, che ti seguiva per accertarsi che non fuggissi verso nord, mancando così al giudizio cui ti ha chiamato il suo vescovo, Chaffre de Revard.» «Ma non sono io, quello che non vuole andare a Cluny: sei tu, che me lo impedisci, trattenendomi. E non sarei rimasto ad Auxerre dopo l'incendio, se la mia intenzione era quella di riparare a nord. E da chi, poi? Da Roberto, re di Francia?» «Perché non nelle tue terre in Armorica?» «E perdere così l'occasione di far punire Revard per le sue colpe?» Lo schiaffo, del tutto inatteso, arrivò da Odo. Alla reazione istintiva di Amboise, più di rabbia che di ribellione, i due soldati gli passarono una corda intorno al collo, ciascuno tenendone un capo. Tirando un poco, gli dimostrarono chiaramente che potevano, in qualsiasi momento, impedirgli di respirare. «Adesso dovrai stare molto attento alle tue risposte», lo ammonì Hugo di Chalon. «A me non importa che tu sia un grande studioso, dotato di una mente superiore, né che i tuoi amici potenti di Cluny si risentano se ti accadesse di essere punito non per loro decisione.» «So che non t'importa di me, però di certi amici potenti dovresti tenere conto. Qualcuno di loro ti ha pur messo nel seggio che occupi.» La corda si tese immediatamente. Amboise restò schiacciato contro l'alto schienale, i polmoni quasi vuoti d'aria. Controllando lo spasimo, riuscì a non muoversi; sapeva che, in quel caso, i soldati avrebbero stretto ancora di più. Gli sembrò che passasse un tempo lunghissimo e già una specie di nebbia grigia cominciava a offuscargli la vista quando, all'improvviso, la corda si allentò, lasciando passare un po' d'aria che, scendendo nei polmoni, parve scatenare un incendio. Allora si sforzò di non tossire e controllò le mani, ancora posate sui braccioli della sedia, libere. «Inoltre ieri sera, quand'era già buio, è accaduto un fatto strano nella casa del maestro Valentin: uno dei soldati di guardia è stato ucciso con un pugnale», riprese Hugo. «Il servo Pognon sostiene che è stato il pagano,
bramoso d'impadronirsi dell'Opera. Pare abbia la facoltà di passare attraverso i muri, e deve averlo fatto di certo, per comparire nel laboratorio, giacché c'erano soldati dentro e tutt'intorno alla casa. Che devo pensare? Quali forze non di questo mondo sono al tuo servizio, signore di Montsalvy?» «Se davvero avessi simili forze al mio servizio, allora tu dovresti essere il primo a temerle», lo sfidò Amboise, ben sapendo che non gliene sarebbe venuto nulla di buono. E infatti, a un semplice cenno di Hugo, la corda si tese immediatamente e molto più a lungo della prima volta. Le mani di Amboise si artigliarono sui braccioli; il grigio davanti agli occhi si fece nero, e poi si accese di mille punti luminosi. Quando i soldati rilasciarono la corda, il suo respiro era diventato un rantolo. «Posso rispondervi io», mormorò Valentin, alzandosi dalla panca, ma senza osare spostarsi dal suo angolo. Il vescovo e Odo si girarono. Hugo di Chalon gli fece cenno di avvicinarsi, ma Amboise non riuscì a mettere a fuoco il volto del suo vecchio amico nemmeno quando egli gli fu accanto. «Il mio servo è ignorante e la paura che lo fa parlare è dettata dall'egoismo», disse Valentin. «C'è un passaggio che, dalla cantina della mia casa, porta oltre le mura e sbuca nel fitto della macchia di bossi a ridosso delle mura stesse. La casa è molto vecchia, e quel passaggio di certo è anche più vecchio. Naturalmente il mio servo lo conosce; non ha voluto parlartene forse per timore o per rendere le sue accuse più credibili.» «Conoscere l'esistenza di questo passaggio ci sarebbe stato utile, maestro Valentin, se ci avessi onorato prima della tua confidenza», ribatté Hugo di Chalon. L'alchimista abbassò lo sguardo. «Mi dispiace. Il signore di Montsalvy è venuto perché sono stato io a chiamarlo. Volevo che mi aiutasse a scoprire ciò che è accaduto a mia nipote, Agnes. Artemisia de Montsalvy è entrata come ospite nel convento di Sainte-Madeleine per questo.» «Per spiare!» esclamò Hugo di Chalon. Scorgendo il lampo d'ira passato nello sguardo del vescovo e affiorato poi anche nella voce, Valentin ammutolì e scosse il capo, guardando tristemente Amboise che stava riprendendo conoscenza. «No, non per spiare!» gridò quindi. «Soltanto per vederla... per avere qualche rassicurazione su di lei. Per sapere se è felice...» «Dobbiamo avvertire subito la badessa di Sainte-Madeleine della presenza di quella spia!» intervenne Odo.
«Lo faremo», lo quietò Hugo di Chalon. «E dove sono gli altri? Dov'è Illait di Isley?» Valentin si strinse nelle spalle. «Non lo so. Sono andati via ieri l'altro.» Hugo si volse a guardare Amboise. L'uomo respirava ancora a fatica, ma ormai era di nuovo lucido e, a giudicare dallo sguardo, il suo furore stava crescendo. La corda gli aveva segnato il collo, lasciando un orribile livido. Il vescovo indicò ai soldati di legarlo alla sedia, poi tornò a rivolgersi all'alchimista. «Apprezziamo la tua collaborazione, maestro Valentin», disse. «Per riguardo alla tua persona e al tuo lavoro, siamo disposti a perdonare gli errori nella tua condotta. Prima che il tuo abate venga a reclamarti, costringendomi a un'udienza penosa per entrambi, ti lascerò andare: domani sarai libero.» «E Amboise?» «Credo ci siano valide prove per ritenerlo il mandante, e forse anche l'autore, dell'incendio che ha causato tanti morti tra i cittadini di Auxerre. E di quel delitto sono certo che renderà piena confessione.» Valentin tentò di aprire bocca, ma Odo di Chambéry lo afferrò per la bella veste ricamata e, strattonandolo come se fosse un mendicante molesto, sibilò: «Questa è una delle cose che devi dimenticare. L'altra, è tua nipote. Non dovrai mai più chiedere di lei! Se vuoi continuare a essere vivo e libero, chiuditi nel tuo laboratorio e concludi la tua Opera». E fece cenno a uno dei soldati di portarlo via. Valentin si girò due volte, impotente, a guardare l'amico. Poi si lasciò trascinare fuori. Allora Odo si rivolse ad Amboise. «I tuoi giovani amici hanno tentato di liberarti, e sono certo che lo faranno ancora quando sapranno dove cercarti. Dopotutto, è qualcosa cui sono abituati.» «Tu dovresti saperlo meglio di tutti, Odo», rispose Amboise; la voce gli usciva a stento, ma niente al mondo avrebbe potuto zittirlo. «Ammetto che avrei dovuto ascoltare i suggerimenti del mio capitano e scaraventarti in un burrone, invece di rimandarti a Revard.» «Attento! Questa è l'ammissione di un intento omicida, signore di Montsalvy», lo interruppe Hugo di Chalon. «Perché non ci parli invece di quel giovane e del suo potere e ammetti e confessi la tua colpa?» «Perché dovrei?» ribatté Amboise. «Perché noi abbiamo molto tempo, e il giorno è ancora tanto lungo», rispose Hugo di Chalon, gelido. La corda si strinse.
La prima cosa che Illait avvertì fu la pioggia, lieve e persistente; scivolava sulle foglie con un battere leggero, un suono che per lui aveva la grazia di una bella musica e la piacevole familiarità di una voce amica. Sulle prime, gli sembrò di trovarsi nella propria terra; tutto ciò che gli era accaduto dal momento in cui era stato costretto a lasciarla diventò così soltanto un sogno, uno di quei sogni amari e cattivi di certe notti senza luna. Poi avvertì il peso della mano di Colin Bois sulla spalla e percepì da quel contatto tutta la pena dell'amico. Le ultime scintille d'illusione si spensero. Si sentì stanco, anche se perfettamente lucido. «Illait?» ripeteva Colin, preoccupato. Lui colse l'odore di un magro fuoco di sterpi e tentò di aprire gli occhi. L'amico era chino su di lui. Una luce sbiadita penetrava fin lì, ma, fuori della foresta, doveva essere giorno. Fece per sollevarsi. «Hai un brutto aspetto», lo trattenne l'altro. «Che ti è accaduto?» Con un vago sorriso, Illait si accorse che l'amico si era tolto il mantello per coprire lui. «Eri gelato», gli spiegò Colin, aiutandolo a liberarsi della stoffa che lo avvolgeva. «In realtà stavo bruciando», mormorò Illait, accettando un po' d'acqua dalla scodella che Risson gli porgeva. «Ci siamo spaventati», intervenne Aurac. «Aurac ha ragione: non sapevamo che cosa fare. E ancora non ci hai detto che cosa ti è accaduto.» «Artemisia ha trovato Agnes e io ho trovato Maude de Belley», rispose semplicemente Illait; scorgeva la tensione sui volti dei compagni, che pure ormai avevano imparato a credergli, anche se spesso diceva cose difficili da capire e impossibili da spiegare. «Artemisia è riuscita a trovare Agnes?» ripeté Colin, ancora stupito. «Tu hai visto Chaffre de Revard bruciare mia sorella sul rogo, a Chambéry», lo interruppe l'altro. Colin annuì, aspettando il seguito. «Ebbene: in realtà, su quel rogo, c'era la nipote di Valentin. Quella che Artemisia ha trovato è Ela, mia sorella.» «Perché? Perché è accaduta una cosa del genere?» «Faceva certamente parte del piano del vescovo per costringermi a cedere: farmi credere di aver bruciato sul rogo mia sorella e, dopo qualche tempo, rivelarmi di poterla ancora salvare. Inoltre gli serviva per calmare
la città, in quel momento assai inquieta. Ma non poteva prevedere l'intervento di Amboise e la mia fuga. Così ha mandato mia sorella al posto dell'altra ragazza, consegnando Ela a chi poteva nasconderla tanto bene da impedirmi di sentirla.» «Non avevi dato a tua sorella la protezione che hai lasciato ad Artemisia?» «Certo, però siamo stati prigionieri troppo a lungo, e io sono stato torturato; inoltre le pozioni che mi facevano bere m'impedivano di pensare. Per molte lune, nella cella in cui Revard mi aveva chiuso, non ho sentito più nulla. Non ti ricordi quando mi hai portato fuori?» Colin annuì ancora; ricordava bene quei giorni di gelo a Chambéry, la sua inutile opposizione all'intenzione di Amboise di strappare il giovane al vescovo e le sue proteste nei confronti di un piano che gli era sembrato folle. «Ricordo bene», ammise. «Allora non ero ancora così pazzo.» La sua risposta riuscì a far sorridere Illait di Isley. «Vuoi mangiare?» gli chiese poi l'amico, ancora incerto sulle sue condizioni. «No. Dobbiamo andare subito a Vézelay. Artemisia ora è davvero in pericolo.» «Anche tua sorella, mi pare: dobbiamo portarle via entrambe. Ma tu potresti restare qui, per tentare di aiutare Amboise, e a Saint-Germain saresti comunque al sicuro. Credo che, quali che possano essere le sue motivazioni, Ilderico accetterebbe davvero di sostenere un assedio nella sua abbazia pur di non consegnarti a nessun altro. E quel posto ha davvero buone mura, alte e solide. Non è facile da espugnare.» «Non puoi portarle via senza di me», replicò Illait. «Sempre modesto», commentò Colin, aiutando l'amico a rimettersi in piedi. «Non puoi, ti ripeto. C'è Maude. E dovrò occuparmi di lei, mentre tu andrai con Artemisia nella cella di Ela. E credimi se ti dico che non sarà facile per nessuno di noi. Dovremo pensare a un buon piano.» «Lo sai che cosa tocca a chi porta via delle donne da un monastero? Si viene condannati a morte.» «Né l'una né l'altra sono monache né novizie né converse. Almeno quella condanna non ci dovrebbe toccare», ribatté Illait. «Non ci sperare», mormorò Colin, ma con un cenno ordinò a Risson e ad Aurac di spegnere il fuoco e di preparare i cavalli. «Era questo, dunque...» rifletté poi ad alta voce, raccogliendo il mantello e la balestra che si
era tenuto accanto. «Noi pensavamo che Odo di Chambéry ci seguisse per impedire ad Amboise di andare a Cluny. In realtà lui voleva impedirci di giungere ad Auxerre, d'incontrare Valentin; ecco perché ha fatto bruciare la locanda di Armail la sera in cui siamo arrivati, quando ancora credeva che fossimo entrati dalla porta come tutti e avessimo preso alloggio nella migliore locanda.» «In realtà il suo intento era di fermarci già a Macon, o lungo la strada per Auxerre, ma è sempre arrivato tardi», convenne Illait. «Quando ha fatto incendiare la locanda, non poteva sostenere di averci visti entrare in città, però era assolutamente certo che non potevamo essere da un'altra parte. Tutto questo costerà molto caro a Chaffre de Revard. Molti di coloro che sono riuniti a Cluny di certo l'avrebbero lodato per aver mandato al rogo una pagana decisa a non convertirsi, ma non potranno che condannarlo per aver bruciato al suo posto una novizia innocente, colpevole soltanto di somigliarle.» Colin sapeva bene che l'amico aveva ragione, e che era dunque ormai inutile da parte sua lasciarsi prendere dalla rabbia. «Com'è tua sorella?» chiese, montando in sella e girando il cavallo per tornare sulla strada. «Mi somiglia molto», rispose Illait, fissando lo sguardo su Aurac e Risson che, per precauzione, li avevano preceduti. «Ma tu l'hai vista a Chambéry, anche se non da vicino, e lo sai. E ha già compiuto sedici anni.» «Anche lei ha il Potere?» «No. Il suo spirito è libero. Però ha una mente acuta ed è d'indole allegra. E possiede una bellissima voce.» «Nessun difetto?» esclamò Colin, lieto che la voce dell'amico, parlando della sorella, avesse assunto un tono più lieve. «Non sa cucinare», confessò Illait. «Il suo sposo dovrà farlo al suo posto o dimostrarsi molto paziente.» «Oppure molto innamorato...» «Anche», convenne Illait, sorridendo. Avevano raggiunto la strada; il cielo era ancora senza colore, come il giorno prima, e la pioggia aveva lasciato un'umidità calda che evaporava in nebbia. Per due volte, nel corso del mattino, ripararono nel fitto oltre il bordo della strada sentendo gente provenire dalla direzione opposta, ma in entrambi i casi si trattava soltanto di pellegrini in cammino. Quando giunsero a Saint-Pére era quasi il tramonto; si fermarono a mangiare nella locanda che li aveva accolti soltanto due giorni prima, però
il locandiere finse di non conoscerli, e servì loro del pesce di fiume con pastelle d'avena, perché non gli era rimasto altro. Saggiamente scelse di non notare che, pur essendo in quattro, avevano cinque cavalli, e che l'animale senza cavaliere era sellato al pari degli altri. Soltanto nel portare il boccale del vino si chinò, con aria disinvolta, su Illait, dicendo: «Nel giorno che sapete, si è aperto un varco nella parete di fondo del fienile. Una trave marcia ha ceduto. Così le ragazze sono scappate e, quando i soldati hanno aperto la porta, quelle non erano più là». «Il capitano Charraud sarà rimasto deluso», rispose quietamente il giovane. «Il capitano non ha compreso, ma padre Léon sì. Stai attento, signore. Ti riconosceranno.» Illait annuì, ringraziandolo con lo sguardo. «Come hai fatto?» mormorò Colin, quando l'oste si fu allontanato. «Anche nella più imponente abbazia o nel più grande castello c'è un piccolo punto, uno solo, che sostiene l'intero peso della costruzione. Se tocchi quel punto, tutto il resto crolla.» «Ma tu non hai toccato quella trave.» «No. Però era davvero marcia.» «A volte ho il sospetto che tu ti prenda gioco di me», borbottò Colin, scuotendo il capo. Illait gli rivolse quel vago sorriso di rassegnazione che l'altro ormai conosceva bene: significava che non avrebbe avuto altre spiegazioni. Il capitano si guardò intorno: due mercanti occupavano un altro tavolo sotto il pergolato, ma sembrava che non badassero a loro. Mentre finivano il vino, un drappello di soldati passò a cavallo sulla strada, senza fermarsi. Nella calura immobile, la polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli arrivò fin sul loro tavolo e nelle ciotole. «Forse cercano noi», opinò Aurac. «Forse. Dipende dal tempo che impiegano per far parlare Amboise», opinò Colin. «Credo tuttavia che quel piccolo uomo del Nord sia disposto a farsi ammazzare piuttosto che dire qualsiasi cosa. Non ha buonsenso... Valentin, piuttosto, lui sì, che potrebbe parlare.» «Quindi dobbiamo supporre che ci stiano aspettando», concluse Aurac. «Ci aspettano comunque, con o senza i soldati da Auxerre. La badessa di Sainte-Madeleine non si può ingannare», ribatté Colin. L'estrema quiete di Illait e il suo silenzio adesso lo impensierivano. Ma avevano fatto un piano e, per quanto lui non ne fosse entusiasta, era ragionevole e lo avrebbero
seguito sino in fondo. Non avevano altra scelta. Imbruniva quando lasciarono la locanda; la strada tra Saint-Pére e Vézelay appariva deserta, e le campane della chiesa avevano suonato compieta. X Scavalcarono il basso muro di pietre che cingeva il monastero di SainteMadeleine dal lato a settentrione, nel punto in cui si affacciava sulla stretta striscia di terreno incolto che lo divideva da quello dei benedettini di Vézelay. Pur trovandosi sulla sommità della collina, non potevano vedere né il Borgo Basso né la strada che portava a Saint-Pére e nemmeno il fiume Cure, perché erano stretti tra il profilo rugoso dei due monasteri e della chiesa. Il muro che, coronando la sommità della collina, avrebbe dovuto proteggere i monaci e il Borgo Alto, in realtà era costituito dai resti di una vecchia difesa fatta di pietre a secco, crollata in più punti e con squarci ovunque vi fossero sentieri. Soltanto da lontano poteva dar l'idea di servire a qualcosa. Avevano comunque lasciato Risson al piano, con i cavalli, nascosto nel precario riparo di un capanno di frasche in rovina. La notte era molto calda, e i punti luminosi e pulsanti delle lucciole accendevano il buio e le macchie nere delle erbacce. Anche il poco terreno tra il muro a settentrione e il monastero era incolto, eppure un forte profumo di menta selvatica e di artemisia saturava l'aria immobile. La luna, un ultimo spicchio, era soffocata da una cortina di vapori rossi. Colin seguì Illait da vicino, e Aurac si accodò, guardando loro le spalle. Qualcosa, in quell'oscurità calda e palpabile, toglieva il respiro. Paura. Si stupì nel non averla avvertita prima: quella era la sensazione fisica della paura, che gelava la pelle e stringeva lo stomaco in una morsa. Illait s'infilò in una porticina quasi invisibile: da lì, una corta rampa immersa nel buio portava verso il basso. Colin gli appoggiò una mano sulla spalla, e Aurac fece lo stesso con lui, ma, quando Illait si fermò, il capitano fu pronto a fare altrettanto, mentre Aurac gli finì quasi addosso lasciandosi sfuggire un'imprecazione. Colin lo zittì. «Siamo nell'ala più vecchia del monastero, quella dei monaci che hanno costruito la prima chiesa al di sotto di quella di Sainte-Madeleine», sussur-
rò Illait. «Le monache non l'hanno mai abitata: era già in rovina quando Carlo Magno ha fondato il loro monastero. Da qui entreremo nel giardino su cui si apre la stanza di Artemisia, e tu potrai scendere nella cripta e nella cella di Ela.» «L'idea di dividerci mi sembra sempre meno saggia», ribatté Colin. Avrebbe preferito lottare con un intero esercito, piuttosto che restare tra quelle mura. Non aveva simpatia per i luoghi chiusi o con uscite difficili da raggiungere. «Io devo pensare a Maude», gli ricordò Illait. «Se ti trovano nella sue stanze vi bruceranno entrambi sullo stesso rogo. È una monaca, non lo dimenticare», insistette Colin. «Non lo è mai stata. La sua anima non appartiene a questo luogo.» «Questo non basterà, come difesa», borbottò il capitano, seguendolo sulla scala che ora portava verso l'alto. Illait dischiuse una porta; una traccia di luce scivolò all'interno, mitigata dai cespugli arruffati che la nascondevano. La luna. E il profumo forte dell'artemisia e della cedrina. Con cautela, uscirono nel giardino. Illait ormai non aveva più bisogno della voce delle pietre: aveva già percorso quella strada, anche se il suo corpo febbricitante era rimasto sulla riva dello Yonne. Li guidò alla porta della stanza di Artemisia e, dopo un istante, la giovane la dischiuse, obbedendo al suo ordine silenzioso. Scivolarono all'interno. Un lume ardeva sul tavolo, e la penombra era fitta, ma non tanto da impedire a Colin di scoprire Isette, impaurita, in un angolo. «Lei chi è?» chiese. «Verrà con noi. È lei che mi ha portata da Ela», spiegò Artemisia, che aveva fatto indossare alla giovane l'abito di Agnes e un mantello scuro. «Scommetto che è una novizia!» ribatté Colin. Non c'era animosità nelle sue parole, però a Isette salirono le lacrime agli occhi, più per la paura di essere abbandonata che per l'idea della terribile punizione che le sarebbe stata inflitta se fosse stata scoperta. «Zitto!» intervenne Illait. «Dobbiamo molto a Isette. E soprattutto le dobbiamo la libertà che le è stata tolta. Vuoi guidare i miei amici per la via che hai già mostrato ad Artemisia, Isette?» le chiese dolcemente. «Sì, se lo ordini», mormorò la ragazza, non osando alzare gli occhi; se il suo desiderio di lasciare quel luogo non fosse stato tanto forte, la paura le avrebbe impedito di muoversi. E tuttavia quel giovane parlava con un tono di voce che non la spaventava.
«Le stanze della badessa non sono lontane dal parlatorio», lo informò Artemisia, coprendosi a sua volta con un mantello scuro e prendendo alcuni abiti per Ela. Farsi riconoscere lungo la strada come provenienti da un monastero era l'ultima cosa che dovevano fare. «Le stanze di Maude sono l'unico punto di Vézelay che posso trovare senza difficoltà», commentò Illait. «L'hai vista, da ieri notte?» «No. E ha mancato tutte le funzioni nella cappella. Oggi non l'ha vista nessuno, ma Isette sostiene che è già accaduto altre volte che la badessa non uscisse dalle sue stanze per intere settimane», rispose Artemisia. «Eppure deve aver ricevuto un messaggio da Hugo di Chalon, perché abbiamo visto passare i soldati del vescovo quand'eravamo alla locanda», osservò Colin. «Quando la badessa riceve nelle sue stanze nessuno nel monastero può aver modo di saperlo, tranne forse Rustena, l'unica che può accedervi.» «È tempo di muoverci», li affrettò Illait. «Ti aspettiamo al muro, nel punto da dove siamo entrati», lo trattenne l'amico. «E non ce ne andremo senza di te. Ricordalo.» «Ci sono alcuni soldati nel cortile principale», li avvertì Illait, ignorando la sua esortazione. «Ma non potranno sentirvi.» «Sempre che la badessa non dia l'allarme», commentò Colin a denti stretti. «Spegnete la candela, ma portate il lume. È buio pesto, là sotto!» ordinò, aspettando che la candela fosse spenta prima di scivolare fuori. Isette passò per prima, guidandoli, e le quattro ombre scivolarono nel giardino tra l'artemisia e le lucciole senza fare rumore. Illait aspettò che fossero all'interno della porticina e poi uscì a sua volta, percorrendo l'ampio porticato che conduceva al corpo centrale dell'edificio, e infine entrò nell'edificio stesso, sostando ad ascoltare le vibrazioni dell'aria. Tuttavia il monastero, in ogni angolo, appariva come morto al mondo: lo era nel passaggio che portava al parlatorio e al cortile esterno, illuminato dalle candele di sego; lo era altresì nella cappella, nella buia cucina e nelle celle con le porte sbarrate, come avveniva in certe notti per ordine della badessa. Quella era una di quelle notti in cui nessuno, per nessun motivo, poteva trasgredire l'ordine della solitudine e del silenzio. Sui soldati, confinati nel cortile esterno, si propagava l'onda riflessa di quella tensione. Erano tutti veterani, e avevano sostenuto servizi ben più gravosi che una veglia a un gruppo di monache, eppure tutti avevano paura. Un'inspiegabile paura che attanagliava lo stomaco e gelava la pelle.
Le stanze della badessa occupavano il lato esposto a meridione e si affacciavano sul cortile esterno, ma erano schermate alla vista e ben protette da un alto muro, che creava un piccolo chiostro privato. Lo scorrere di un filo d'acqua sulla pietra rivelava la presenza di una fonte, in cui la luna, quand'era tanto alta da superare il muro, arrivava a specchiarsi. La porta del vestibolo che dava l'accesso alle stanze si aprì alla spinta leggera del piede di Illait di Isley, che sostò, in attesa. Ma il vestibolo era vuoto, e una buona luce rischiarava il vano che portava alla prima stanza. Un profumo acuto di foglie, fiori e radici secche riempiva l'aria, mischiato a quello intenso del miele. Quel profumo era così forte da trasformarsi, nel volgere di qualche istante, in una sensazione palpabile; Illait si sentì immerso in un mare d'oro vischioso che aveva la consistenza e l'odore del miele e che rischiò di soffocarlo in una stretta tanto dolce quanto sensuale. Si affacciò allora alla stanza, illuminata da una gran quantità di candele. In quel luogo Maude de Belley passava la maggior parte del suo tempo; la stanza era ricca di tappeti e aveva due cassepanche preziose, una grande sedia e un lungo tavolo, ingombro di rotoli di libri e di vasi con unguenti ed essenze. C'era ben poco di sacro o che si addicesse a una badessa, lì. La donna stava affacciata sulla soglia del piccolo chiostro chiuso. Indossava una tunica scura e il mantello bianco e prezioso di quando l'aveva vista la prima volta nel parlatorio, ma aveva i capelli liberi da veli e da ornamenti, e ciò la rendeva diversa: quel manto setoso e inquieto rivelava infatti la sua vera natura. Tutto ciò che in lei si era assoggettato a quella vita da reclusa veniva cancellato: sparivano persino la durezza distaccata e regale e la pretesa di essere quello che altri le avevano imposto di apparire. Girandosi, gli sorrise. «Stai correndo un grande rischio, signore di Isley», lo salutò. «Sai che cosa ti accadrà se ti scoprono in questo luogo?» «Lo immagino. Tuo cugino, il vescovo di Chambéry, mi ha fatto conoscere la fantasia dei vostri torturatori.» Maude allontanò l'immagine di Chaffre de Revard con un gesto della mano. «Mio cugino invidia il mio Potere da quand'eravamo bambini», spiegò. «Io posso fare quello che lui spesso nemmeno comprende; l'invidia l'ha reso pazzo, e così ha la sua giusta punizione.» «Questo giustifica ciò che ha compiuto?» «Lui è un Revard, ed è il vescovo di Chambéry. Non ha bisogno di giustificarsi. Si è preso tutto il potere che la sua misura di uomo gli permette. Ma è una misura molto piccola, e lui ha un termine di confronto. Era stra-
ordinariamente felice quand'è riuscito a rinchiudermi qui, con la scusa di salvarmi, e per un certo tempo si è persino dimenticato della mia esistenza. Poi sei arrivato tu ed è impazzito.» «Tu gli hai procurato l'innocente da bruciare sul rogo.» «Avresti preferito che, a bruciare, fosse stata tua sorella?» «Rispondi alla mia domanda.» Ostentando una pazienza che non era nel suo carattere, Maude rispose: «Fin dal primo momento che vi ha avuti prigionieri, mio cugino ha cercato una ragazza che somigliasse a tua sorella. Allora si è ricordato del mio monastero e io avevo la fanciulla ideale. Senza contare che la sua menomazione le avrebbe impedito di difendersi. Così tua sorella è viva, e nessuno le ha fatto del male; le mie pozioni l'hanno soltanto fatta sognare. Non ne sei contento?» «Dovrei esserlo?» «Non lo so... Non ti conosco. Puoi avvicinarti. Posso conoscerti meglio.» «Il male genera il caos e nemmeno noi possiamo sopravvivere al caos, Maude.» «Questo me l'hai già detto. È stato bello lottare con te. Che cosa vuoi fare, ora, Illait? Portare via tua sorella e quella tua sciocca amica che non cede alla paura perché sa riconoscerla?» «Non posso fare diversamente.» «Non vuoi fare diversamente! Potresti unirti a me. Il nostro Potere ha lo stesso alito. Non puoi nemmeno fingere che non sia così: tu sei costretto a riconoscere questa verità.» «La riconosco: il Potere è uno e sempre lo stesso. È l'uso che se ne fa a renderlo diverso e, nel contempo, rende diverso chi lo genera. Il buio che tu crei, Maude, porta buio alla tua anima, perché ciò che fai ritorna a te. Se colpisci con rabbia, è la rabbia che ti divora. Se fai del male, diventi il male.» Maude scosse il manto buio dei capelli, sfiorando i campanelli dorati appesi sulla soglia a segnare il più leggero soffio di vento. Ma anche il tintinnio restò sospeso nell'aria immobile, affogando nel miele. «Hai sentito parlare delle fonti di questi luoghi? Sì? Alcune sono specchi crudeli, e lasciano vedere il futuro; altre sono calde e di cattivo sapore, ma miracolose per i mali del corpo; altre ancora poi sono senza fondo, incantate: possono ampliare i pensieri, condurre alla magia del fare. La Chiesa ne ha già murate molte; altre sono sepolte nelle colline, come quella calda di
Saint-Pére... e una è qui, nel mio chiostro: il punto più sacro di tutta Vézelay, anche se nessuno lo conosce più. Per questo la prima chiesa è stata alzata proprio qui, al tempo della conversione di Clodoveo. Senti l'acqua scorrere, Illait di Isley? La pietra su cui cade porta un'incisione: due spirali unite, l'una che rincorrere l'altra o, se preferisci, un Drago che si morde la coda. Il simbolo della materia che si rigenera. Il simbolo del Potere. Qui, molto tempo fa, quelli come noi leggevano nell'acqua gli eventi futuri e nelle pietre quelli passati, e avevano la magia del fare.» «Vuoi sapere se io ancora la possiedo?» «Voglio sapere che cosa puoi darmi. Quando la luna è alta e per poco tempo si tuffa nella fonte, l'acqua diventa luminosa. In quel momento, io percepisco l'evento, ma la soglia resta chiusa; non posso lasciare il mio corpo, non posso essere l'acqua e così non posso raggiungere il Drago.» La donna gli tese la mano e Illait la prese, senza dubitare di essere abbastanza forte per resisterle, ma il miele diventò un'onda di desiderio così forte che anche il suo cuore affrettò i battiti. «Per riuscirci, dovresti dimenticare tutto ciò che conosci e ciò che sei, Maude», rispose tuttavia. «E ricominciare come se non avessi né memoria né colpe. Tuttavia nessun essere umano può rinascere in questo modo se non è toccato dalla Luce.» «Non mi credi capace di farlo?» «No.» Maude sorrise. Erano vicini, ormai; il corpo della donna premeva contro il suo. Le labbra di Maude s'impossessarono con avidità di quelle di Illait, lasciandolo senza respiro. Quando si staccarono, gli occhi della donna brillavano. Lei gli passò le braccia intorno al collo. «Mi stai tentando più di quanto io riesca a tentare te. Non è così, Illait di Isley?» «Non sei tentata da me, ma dal Potere. Come tuo cugino.» Maude rise sommessamente. «Non avvilirti. Hai un bel corpo e un bellissimo viso, anche se sembri così giovane e così... Come posso dire... Indifeso? No, non è il termine corretto. Tu non sei indifeso. Sei tagliente come una lama e duro come una roccia. Eppure preferisci trarre in inganno. Per conquistare le donne o per confondere i nemici?» «Non serve molto né per l'una né per l'altra cosa.» «Padre Léon è venuto ieri a mettermi in guardia su di te. Non dovevi immischiarti nella festa dei fuochi: ti sei scoperto per un pugno di bifolchi e qualche ragazzotta abituata a farsi trascinare nei cespugli. Non sei stato prudente. Padre Léon è un vecchio testardo e, come tutti quelli che credo-
no di essere nel giusto, è crudele.» «Anche Hugo di Chalon ti ha messo in guardia.» «Mandandomi i suoi soldati e il suo capitano Aloise, certo. Chi poteva pensare che quel lagnoso maestro Valentin avesse per amico Amboise de Montsalvy, e che chiedesse aiuto proprio a lui?» Parlando, Maude si era staccata da Illait, e, certa di essere ormai vittoriosa, si era avvicinata al tavolo. «Accetta il mio vino: assenzio, spezie e miele lo rendono molto, particolare, ma ti piacerà...» Ne riempì due coppe e lasciò scivolare nella prima una piccola perla nera che si sciolse all'istante. «Mi renderai mia sorella?» chiese Illait, che le dava le spalle. «Per questo possiamo trattare, non credi?» rispose Maude, pacata. Lo spicchio di luna arrivò in quel momento a tuffarsi nella fonte e, come per incanto, il piccolo chiostro si colmò di luce. La donna si girò per guardare, e l'onda della conoscenza la investì come quella di un mare in tempesta, perennemente alimentata dalle onde successive, troppo possente per essere arginata, compresa, posseduta. Milioni di voci sussurravano in quell'onda, ma le sue orecchie non riuscivano a trattenere nessun suono. Milioni di respiri la sfioravano, ma non poteva afferrarne neppure uno. Milioni di pensieri la toccavano, ma erano troppi e non poteva sentirli tutti nello stesso momento. Intuì vagamente quello che conteneva quell'insieme di essenze, e quell'intuizione la rese per un istante libera e felice. Sull'orlo della pazzia. Neanche si accorse che Illait di Isley aveva scambiato le coppe. Colin si fermò, lasciando che fosse Aurac a tenere alto il lume; non si vedeva granché della cripta, se non un paio di colonne di pietra coperte di muschio. La mano di Artemisia strinse forte la sua. «Qui Maude mi ha attaccata, l'altra volta. Credevo di soffocare», gli spiegò. «Ma ora non c'è nulla. Evidentemente il nostro amico ha trovato il modo per tenerla così occupata da indurla a dimenticarsi di noi», suggerì lui. «Quello che stai pensando è indegno di te, Colin Bois», ribatté Artemisia. «Non biasimarmi. Sono soltanto meravigliato, perché io stesso non avrei potuto fare di meglio», si giustificò il giovane, raggiungendo il battente coperto di muschio. Nessuna luce filtrava dall'interstizio tra il legno e le pietre. «Un giorno o l'altro dovrò metterti alla prova, per sapere se quello che
tanto vanti è vero!» mormorò Artemisia. Un po' della sua tensione, però, se n'era andata, ed era grata a Colin per quello. «Tieni il lume», le ordinò lui. «Aurac, aiutami con la sbarra.» Il giovane obbedì; Artemisia avvicinò il lume all'uscio perché Colin potesse esaminarlo. Al tatto era viscido, e sembrava straordinariamente solido. «La sbarra è stata infissa in un secondo tempo, e hanno scavato il legno per farla entrare. Qui, e qui», precisò lui, indicando le estremità. Il muschio aveva coperto gli incavi, ma le dita li ritrovarono. «Il legno è marcio, e la sbarra ha gioco. Se riusciamo a far girare verso l'alto una delle estremità, la porta sarà libera.» Scavò col coltello in modo da allargare l'incavo, poi, insieme con Aurac, afferrò la sbarra, spingendo vero l'alto. Al terzo tentativo cedette e l'intera porta girò sui cardini arrugginiti. Artemisia alzò il lume. L'aria della cella sapeva di muschio e d'incenso. La ragazza si sollevò dal giaciglio su cui era distesa e li guardò, spalancando gli occhi. Portava una tunica di lino tinta d'azzurro e i lunghi capelli chiarissimi le arrivavano alla vita. Sebbene fosse stata svegliata bruscamente, non c'era traccia di paura sul suo viso; soltanto una vigile attesa di quello che poteva accadere. Colin si fermò. Avrebbe potuto giurare di averla vista bruciare sul rogo, a Chambéry, in un mattino gelato. Allora aveva provato rabbia per quello che aveva considerato un assassinio. In quel momento la sua rabbia era anche più grande, perché scopriva nella ragazza una familiarità che lo stupiva e che gliela rendeva intima prima ancora di averle rivolto la parola. La ragazza aveva gli stessi occhi di Illait, e davvero gli somigliava moltissimo, nei tratti e nei colori; i due avevano persino lo stesso modo di sorridere, piegando appena le labbra; tuttavia le linee che erano dure in Illait, in lei s'ingentilivano. Si mosse per raggiungerla, ma Artemisia lo trattenne e si fece avanti al suo posto. «Ela di Isley?» chiese dolcemente. «Mi capisci?» La giovane annuì, incerta. Artemisia si avvicinò ancora, e lei non si ritrasse. «Siamo venuti a portarti via. Con noi c'è tuo fratello, Illait», le spiegò. «È... libero?» La voce era un soffio, il tono incredulo. La confusione e la paura cominciavano ad affiorare nello sguardo. «Sì. Ma dobbiamo sbrigarci», intervenne Colin, e la giovane lo fissò, stupita.
«Vieni», l'aiutò Artemisia. «Stai bene? Puoi camminare?» Ela si alzò. Artemisia le posò sulla tunica un abito più scuro, senza maniche, impreziosito da un ricamo dorato sui bordi, che nulla aveva di monacale. Poi la ricoprì con un mantello leggero, scuro. «Andiamo!» li affrettò Aurac, che era rimasto fuori della cella con Isette, e che sentiva l'intero monastero pesargli addosso. Ma la porta abitualmente usata era saldamente chiusa; se al di là vigilava la vecchia Rustena certamente non aveva modo di accorgersi di nulla, almeno finché Maude de Belley non se ne accorgeva a sua volta. Colin modellò col pagliericcio la forma di un corpo nel giaciglio, e poi ci mise sopra la coperta, mentre Artemisia guidava Ela nella cripta e Isette la osservava a bocca aperta. Poi il giovane risistemò la porta, riuscendo anche a riportare, almeno in parte, la sbarra di ferro nel suo alloggiamento. Ripercorsero con estrema attenzione la via che portava al muro. Lo spicchio di luna si era fatto cremisi. Colin pensò che non aveva mai visto una luna all'ultimo quarto dare tanta luce. Alcuni cani latravano in distanza. Ma la notte, là fuori, era ancora gloriosamente viva. Ela incespicò e fu costretta ad aggrapparsi ad Artemisia: l'aria aperta la stordiva. Colin non perse tempo e la sollevò tra le braccia; la giovane nascose la faccia sul suo petto per sfuggire alla vertigine. Guadagnarono così l'esigua striscia d'ombra del muro e vi cercarono protezione; Isette si teneva coraggiosamente incollata ad Aurac. «Raggiungi Risson», gli ordinò Colin. «E porta la ragazza con te.» «Quanto dobbiamo aspettarti, capitano?» «Non molto, spero. Vai!» Aurac si affrettò a scavalcare il muro, poi aiutò Isette, e subito sparirono alla vista. Colin non si era nemmeno azzardato a proporre ad Artemisia di fare altrettanto, e la giovane lo aveva apprezzato... eppure lui aveva abbassato lo sguardo sulla testa bionda che si nascondeva sul suo petto. Le mani della ragazza, a pugni chiusi, erano aggrappate alla sua giubba con una stretta infantile e fiduciosa. Lui le passò un braccio intorno alle spalle, per proteggerla dalle sensazioni che i lunghi mesi di quasi sepoltura nella cella le avevano strappato: il cielo sulla testa, l'aria sulla pelle, la libertà intorno. In quel momento Illait apparve sulla porticina, e subito li raggiunse. Colin gli sorrise, all'improvviso imbarazzato per Ela così stretta nelle sue braccia. Illait gli fece cenno di tacere, poi sfiorò il capo della sorella, e lei finalmente si decise a sollevarlo. «Non temere, Ela», mormorò Illait. «Ti affido a Colin. Lui penserà a te.
Colin, ti affido mia sorella da adesso in poi.» L'altro rabbrividì; il tono dell'amico era stato dolce, e tuttavia qualcosa nelle sue parole lo aveva colpito, come se qualcuno, in un tempo e in un luogo diverso ma non meno reale, avesse suggellato un'unione indissolubile. Non si era mai sentito così in tutta la sua vita. Poi quella sensazione passò. «Sei vivo e libero!» stava dicendo Ela, e la vita sembrava tornare anche nella sua voce. «Che mi dici di Maude?» azzardò Colin. «Forse dormirà ancora per qualche ora, ma io non perderei tempo», rispose Illait. «Quella donna può essere molto pericolosa», commentò Artemisia. «Lo sarà, e sarà furiosa.» «Sei sempre deciso a seguire il piano?» s'informò Colin. «Sono io quello che Maude vuole, e sono io quello che può raggiungere più facilmente. Le nostre menti si sono già incontrate; in un certo senso è come una via già aperta. Sarà me che cercherà, quindi dobbiamo separarci. Come abbiamo deciso, troverò il duca di Borgogna, e lo porterò ad Auxerre per aiutare Amboise.» «Non dimenticarti del suo cattivo carattere. Sarà già un miracolo se riuscirai a farti ascoltare!» lo esortò Colin. «Vedrai che avrà buoni motivi per ascoltarmi. Ci ritroveremo a SaintGermain.» Il giovane capitano annuì malvolentieri, ma non aveva argomenti per impedire a Illait di Isley di attuare quello che era sembrato a tutti un ragionevole piano. Senza dubbio preferiva non sentirsi sul collo il fiato di Maude de Belley quando si fosse svegliata. Passarono il muro in silenzio, scendendo al capanno in rovina. XI Avevano dovuto aspettare il passaggio di una ronda di soldati, che, a piedi e con alcune torce, percorrevano la strada; poi Illait li aveva lasciati, muovendosi per primo. Doveva raggiungere Saint-Pére; da lì, costeggiando la collinetta sui cui svettavano le rovine dell'antico monastero, avrebbe trovato la via che portava ad Avallon e quindi a Dijon. Doveva però evitare la strada, dunque condurre al passo il cavallo, restando sulla linea incerta tra i vigneti e la foresta.
La ronda era passata per la seconda volta, tornando sui propri passi. A Colin sembrava che il tempo fuggisse troppo rapidamente: dovevano lasciare al più presto quel rifugio precario. Sentì Ela, in sella dietro a lui, trasalire all'improvviso, come se avesse raccolto la sua inquietudine. Anche i cavalli si mossero. «Dobbiamo andare», gli sussurrò Artemisia, tenendo a bada il suo animale con polso fermo. Risson si sporse dal capanno per controllare che la strada fosse ancora vuota, ma si ritirò subito. «Altri uomini!» esclamò sommessamente. «Quanti?» chiese Colin. «Ne ho visti quattro.» «Artemisia, prendi Isette con te, così Aurac sarà più libero in caso di battaglia. Usciremo tutti nello stesso momento. Spronate i cavalli verso nord senza curarvi di altro. Stringiti forte, Ela.» La ragazza gli passò le braccia intorno alla vita, e gli si strinse contro. «Via!» ordinò Colin, balzando fuori per primo e muovendo verso la ronda: quattro soldati a piedi, come aveva detto Risson, ma padre Léon veniva subito dietro, seguito da due giovani monaci che portavano l'uno una croce e l'altro una torcia. I cavalli piombarono addosso ai soldati, che reagirono con prontezza, alzando le spade. Il cavallo di Risson s'impennò; con un fendente tra le spalle, Aurac abbatté il soldato che stava per colpire Artemisia. Colin atterrò con la balestra, usata come una mazza, i due soldati ancora in piedi. «Fermateli!» urlò padre Léon. «Fermateli!» «Togliti dalla strada!» gli ordinò Colin, e lo colpì con un calcio per allontanargli le mani, già tese nel tentativo di strappargli Ela dalla sella. Il monaco finì a terra; il capitano spinse il cavallo addosso al giovane con la torcia e gliela prese di mano, lanciandola nelle frasche secche del riparo. Ci fu uno sfrigolio, e in un attimo un'alta fiammata si levò al cielo. In quella luce riuscirono a distinguere due dei soldati a terra, feriti e forse morti, e gli altri due troppo storditi per opporre resistenza. «Via!» ordinò Colin, e passarono oltre, lasciandosi alle spalle i due giovani monaci allibiti e le urla d'allarme di padre Léon. Oltre la prima curva, una dozzina di soldati, in parte a cavallo e in parte a piedi, sbarravano completamente la strada per Auxerre. Ma quello era anche il punto in cui Colin aveva atteso Illait dopo la notte con Brise, e dove sbucava il passaggio nella fittissima boscaglia che, girando intorno al Borgo Basso, portava alla casa della ragazza.
«Seguitemi!» ordinò Colin. «E tenetevi bassi con la testa!» Fece deviare il cavallo, spingendolo al galoppo verso il muro di buio che sembrava non offrire nessun varco, e gli altri lo seguirono fiduciosi. Il giovane vi si tuffò, piegandosi sul collo dell'animale, e avvertì intensamente il calore del corpo di Ela, adagiata su di lui. Tentò di allontanare, o per lo meno di tenere a bada, l'emozione improvvisa che quell'intimità gli risvegliava. Il cavallo si mise al passo. L'oscurità era assoluta; gli strepiti di padre Léon, i bagliori dell'incendio e i soldati sparirono del tutto. Colin trattenne il cavallo e si lasciò scivolare a terra. Sembrava non esserci un passaggio nell'intrico dei rovi, dei pruni spinosi, dei noccioli e dei cespugli strettamente avvinghiati. Eppure il sentiero esisteva, e lui si sforzò di trovarlo più nella memoria che nella realtà, dato che non poteva vedere. Ci riuscì, ritrovandosi così all'improvviso nel passaggio aperto, nel corso dei secoli, dai coraggiosi come Brise. «Prendete la coda del cavallo che vi precede!» ordinò ai suoi compagni, e li guidò, conducendo per le briglie il proprio, su cui Ela stava distesa. Quando distinse la prima chiazza di luce lunare davanti a sé gli sembrò uno scherzo degli occhi; ma era davvero la luna, perché la boscaglia si andava diradando. Si scoprì a ridosso dell'orto e della capanna di pietre col tetto di paglia dove Brise viveva con la sua famiglia. «Aspettate qui», disse agli altri. Sgusciò fino alla porta, di semplici rami strettamente legati e coperti di frasche, e chiamò sommessamente il nome di Brise, quasi certo che avrebbe aperto il padre della ragazza, o qualche fratello più grande di lei, e tenendosi pronto ad agire di conseguenza. Invece fu la ragazza a dischiudere l'uscio. «Tu?» esclamò Brise, e gli tese la mano, tirandolo all'interno. Colin ristette contro l'uscio, piacevolmente stupito dell'accoglienza, ma al tempo stesso con una rapida occhiata non mancò di esaminare l'interno della capanna: aveva un'unica stanza, con al centro un focolare di pietre, e sul fondo tre nicchie che ospitavano altrettanti giacigli. Una panca e qualche sgabello occupavano il resto dello spazio. Una vecchia sedeva sul pavimento di terra battuta accanto al focolare, in cui occhieggiava qualche brace. Brise aveva un padre e una madre ancora giovani, e un paio di sorelle piccole, che facevano capolino da una delle nicchie, ma nessun fratello. «Chi stavi aspettando?» chiese lui, dubbioso. «Non lo so. Ma sono contenta che sia tu. La nonna dice che ha sentito
l'Alito del Drago correre sulla terra, e che quindi qualcosa doveva accadere. È stata lei a dirmi di aprire la porta, prima ancora che tu mi chiamassi!» «Così c'è ancora qualcuno capace di sentire il Drago...» mormorò Colin, pensando che avrebbe fatto piacere a Illait saperlo. La vecchia era un'ombra curva sui bagliori del fuoco morente, ma sollevò il capo, come se l'avesse sentito. «Mia nonna è molto vecchia», stava dicendo Brise. «E padre Léon, quando la vede, minaccia di bruciarla, perché dice che non è una vera battezzata. Così sta sempre nascosta in casa, per paura.» «Brise», la interruppe Colin. «Sono qui per chiederti ospitalità per la mia signora e le sue ancelle. Per poco tempo; forse non aspetteremo nemmeno che faccia giorno. Devo soltanto trovare una via sicura per portarle ad Auxerre al più presto.» «Questa capanna è certamente troppo povera per ospitare la tua signora», osservò Brise, avvilita, volgendosi al padre. «Invece andrà benissimo!» ribatté lui, che non aveva intenzione di perdere tempo. «Te lo dobbiamo», intervenne il padre di Brise, temendo che i dubbi potessero essere scambiati per un rifiuto. «Il tuo amico ha salvato le nostre ragazze dai soldati.» «Vado a prenderle, allora. Hai un luogo per nascondere quattro cavalli?» «La stalla è grande abbastanza. Ci penserò io.» Colin annuì. La vecchia alzò il capo a guardarlo: non aveva neanche più un dente, e gli occhi parevano due fessure nel viso raggrinzito, ma lo sguardo era intenso e vivo quanto i bagliori della brace. «Guarda la luna, figlio», gli disse. «Quando si veste di rosso all'ultimo quarto ci sarà sangue sulla terra e oscurità nel cielo. Molto presto.» «Non farci caso», intervenne Brise, scuotendo il capo. «È così vecchia che spesso dice cose che non capiamo.» «Non è l'unica», rifletté Colin, non potendo fare a meno di chiedersi se Illait si trovasse già abbastanza lontano e se Maude de Belley si fosse già svegliata. Temeva quella donna; la temeva davvero, molto più di quanto poteva temere un mercenario pronto a dargli battaglia, o un potente che avesse giurato di avere la sua testa. E sentiva, nel fondo della sua paura, un'enorme quantità di dolore, ancora muto, ancora oscuro. E forse era quello a spaventarlo. Uscì, facendo cenno al padre di Brise di aspettarlo. Nel tornare dai suoi compagni, tuttavia, alzò gli occhi al cielo: la luna stava per iniziare il suo
cammino verso occidente, ma era avvolta da vapori, come lembi di un velo stracciato del colore del sangue. Gli occhi di quella vecchia vedono attraverso il tetto, pensò. Poi si mise in ascolto del silenzio, e gli sembrò di cogliere in distanza voci e rumori. Così si affrettò a condurre Artemisia, Ela e Isette da Brise e, mentre il padre nascondeva i cavalli nella stalla, tornò da Aurac e da Risson. Si fermò soltanto una volta a guardare la capanna, chiedendosi se davvero sarebbe stata un buon rifugio; ma gli interstizi tra le pietre, le canne e le frasche erano ben chiusi, e nulla lasciava supporre che i suoi abitanti non stessero godendo del giusto riposo dopo una giornata di fatica. «Che cosa facciamo?» gli chiese Aurac. «Vediamo di scoprire dove sono quelli rimasti a guardia della strada, e troviamo un modo per passare», rispose Colin. «Di nuovo per la boscaglia? Non mi piace, là dentro: è come se qualcuno ti spiasse di continuo restandoti appeso alla schiena!» protestò Aurac. «Bada soltanto a non restare indietro: ti perderesti. Questo vale anche per te, Risson», lo ammonì Colin, quindi si tuffò nel bosco, correndo a tale velocità da lasciare i suoi compagni più giovani quasi senza fiato. Facendosi largo carponi in un passaggio battuto dai cinghiali, guadagnarono infine i margini della boscaglia in un punto ben lontano rispetto a quello da cui erano entrati; lì la strada curvava, poco prima di superare la collina di Saint-Pére e volgere decisamente verso oriente in direzione di Avallon; alcuni fuochi erano stati accesi per illuminarla e una dozzina di soldati la presidiavano; altrettanti, che venivano da Vézelay, si erano fermati a parlare al capitano che li comandava. Dovevano essere gli stessi uomini di Hugo di Chalon che prima si trovavano nel cortile del monastero di Sainte-Madeleine. «Quanto è estesa questa maledetta boscaglia?» stava chiedendo Aloise di Chalon. Era parente di Hugo, ma così alla lontana che in effetti il vescovo di Auxerre non si curava mai del vincolo di sangue che lo legava al soldato, se non quando aveva bisogno di far eseguire un ordine che richiedeva più della semplice fedeltà. Così Aloise prima aveva dovuto montare la guardia ad alcune monache, e adesso aveva addirittura a che fare con cose che, stando alle grida di padre Léon, nessun buon cristiano poteva nominare. «Da qui in lunghezza arriva fin oltre il Borgo Basso di Vézelay da una parte e quello di Saint-Pére dall'altra, ben oltre questa curva. In larghezza è più del doppio, ma nessuno sa esattamente dove finisce, lasciando il passo
alla foresta», rispose Charraud, il cui cattivo umore si sposava alla perfezione con quello di Aloise. «E perché non gli siete andati dietro, quando li avete visti entrare?» ribatté Aloise. «Lì dentro? E come trovarli? E come trovare un passaggio? Comunque non temere: ne ho mandati ben cinque, di uomini, anche se non ho molte speranze di rivederli.» «Charraud, mi sembra che tu prenda alla leggera il tuo compito. Sono state rapite due novizie dal monastero, con la complicità di una donna che ne era ospite! Dobbiamo prenderli tutti, e giustiziarli!» «Sarò felice di eseguire la tua sentenza, se tu andrai a stanarli», lo sfidò Charraud, scarsamente impressionato dalla veemenza dell'altro. «Chiama a raccolta gli uomini dei borghi! Consegna loro le torce necessarie, e ordina di battere la boscaglia!» «Non lo faranno. Nessuno ci entra, tantomeno di notte. Vivono strane cose, là dentro. Persino serpenti con le zampe di cane e la testa di gallo!» «Sciocchezze!» sbottò Aloise. «Per te che vieni da un altro luogo, forse», rispose Charraud, senza scomporsi. «Lo riferirò a padre Léon. Lui troverà gli argomenti per convincere quei bifolchi a obbedire, e tu spiegherai al vescovo perché non ci riesci.» «Stiamo perdendo tempo, qui!» esclamò uno dei cavalieri, arrivando da Vézelay e trattenendo il cavallo a ridosso dei due uomini. «Sono stati sentiti cavalli e voci, ed è persino stata vista una luce sulla strada oltre SaintPére, verso Avallon!» «Ah!» gridò Charraud. «Hanno percorso tutta la forra e sono usciti oltre il borgo di Saint-Pére!» «Via, andiamo!» ordinò Aloise. «Li prenderemo prima che faccia giorno! Manda un messaggero a padre Léon, e poi seguici.» Spronò il cavallo verso Saint-Pére, seguito da tutti i suoi e dal cavaliere che aveva portato la notizia dell'avvistamento. Nel silenzio che seguì, fu Colin il primo a parlare. «Bene», mormorò. «Illait sta facendo quello che aveva promesso. Andiamo a prendere le nostre dame prima che tornino indietro.» «E quei soldati nella forra?» chiese Aurac. «Niente esce dalla forra. L'ha detto il capitano, l'hai dimenticato?» rispose Colin, avviandosi.
«Era un sonno innaturale. Certamente l'opera di un mago, padre Léon. Qualcuno che nemmeno queste spesse mura hanno saputo tenere lontano.» La voce di Maude de Belley era ferma, il tono aspro. Era avvolta in un mantello bianco, il capo fasciato da un corto velo, e non aveva gioielli addosso. Tuttavia l'aria d'intensa sofferenza le induriva i lineamenti, e quello che aveva definito «sonno innaturale» sembrava una blanda scusa al vecchio monaco, che diffidava di tutte le donne, monache o no, e di Maude de Belley in particolare. «Sei certa di non aver ecceduto nelle tue pozioni?» la incalzò quindi. «E davvero non c'è stato nemmeno un segno a metterti in allarme?» «No. Non ho bevuto nulla né mangiato né avuto sospetti. Di certo vorrai perdonarmi... ma ancora mi sento confusa», ribatté Maude; il tono era stato di sottomissione, tuttavia non mitigava la fredda ostilità che il vecchio monaco si sentiva intorno. Persino il parlatorio, che pure gli era familiare, gli sembrava diverso; forse, pensò, era per via della sua insistenza a essere ricevuto prima delle lodi, o forse per quell'atto sacrilego che aveva violato il monastero. «Sei davvero certa di non doverti rimproverare negligenze nei tuoi doveri verso le due novizie che sono fuggite?» insistette. «Tu dovevi vigilare su di loro!» «Non ho nulla da rimproverarmi. Non potevo sospettare gli intenti di una dama di così buon nome come la pupilla del signore di Montsalvy.» «Il quale ha fama di eretico!» «Le voci del mondo non giungono fin qui, padre Léon, e tu lo sai bene.» Il vecchio tacque; Maude si sentiva disturbata dall'avversione del monaco e dal suo maldestro tentativo di contenerla. Tanta passione sprecata! pensò, e padre Léon colse sul suo viso l'ombra dell'ironia; qualcosa che non aveva posto nel suo universo. «Chi sono le due novizie fuggite?» la interrogò allora. «Un'oblata che ha vissuto sempre nel monastero e la nipote di un Maestro di Saint-Germain, un alchimista di nome Valentin. Lo stesso abate Ilderico aveva raccomandato la sua ammissione.» «È ben nota la leggerezza dei costumi di quell'abbazia, dove si coltiva la sapienza degli allievi, ma non la loro anima.» «E tuttavia è una delle migliori scuole, e il suo prestigio è grande anche nelle corti più lontane. Non parli forse per invidia, padre Léon?» «Il sapere è fonte perenne di male, e dovrebbe essere riservato a pochi illuminati da Dio!» esclamò il monaco, offeso per quell'insinuazione che
non poteva accettare da una donna. «Quali provvedimenti hai preso nel tuo monastero, ora?» «Nessuno sa dell'accaduto, tranne la monaca anziana cui erano affidate le novizie.» «Questo è bene. Ma devi scoprire da dove sono scappate, e far chiudere ogni via.» «Lo farò. Ma com'è possibile che le tue ronde e i soldati del capitano Charraud e quelli di Aloise di Chalon non li abbiano ancora trovati?» lo irrise Maude. «Li prenderemo. Sono stati segnalati sulla strada per Avallon, subito dopo Saint-Pére. E, quando li avremo presi, farò in modo che abbiano immediatamente e davanti a testimoni il giusto castigo.» «Puoi fare ciò che credi delle novizie», rispose quietamente Maude, sorprendendolo. «Sarà certamente un buon esempio. Ma la dama e coloro che la servono devono essere consegnati al vescovo di Auxerre.» «Non ho l'autorità per disporre di loro, ma pregherò perché il giudizio di Dio li raggiunga. Specialmente quel giovane incantatore, la cui stessa ombra è come la gramigna per i raccolti.» «Quel giovane più di tutti dovrà essere vivo!» replicò con durezza Maude, come se stesse impartendo un ordine a un servo. Padre Léon impallidì. «Per che cosa? Perché porti il male della sua corruzione tra noi?» Ma la voce gli tremò nello sforzo di trattenere la collera. Di rado, però, gli riusciva. Era uno dei motivi per cui gli erano stati preclusi monasteri ben più ricchi di quello di cui non era neanche l'abate, ma soltanto il monaco anziano. «Sei proprio certo di non essere mosso dall'invidia, padre Léon?» Il tono della donna era diventato gelido. Il vecchio si sentì percorrere da un dolore fisico intenso, che gli serrò lo stomaco e gli fece piegare le labbra in un gemito silenzioso. «Che cosa dovrei invidiare?» mormorò. «Il Potere.» «Il Potere è per i ricchi! Io sono povero e umile, e inseguo la verità. Ma non temere: mi ricorderò di conservare quel giovane per il vescovo di Auxerre.» «Questo ti porterà molto merito...» Maude abbassò il capo, nascondendo i suoi occhi allo sguardo di quel vecchio abile e sospettoso. «E di certo nemmeno tu sei insensibile ai vantaggi della gratitudine. Tienimi informata.»
Lo congedò, aspettando che fosse uscito per tornare nelle sue stanze. Rustena l'aspettava sulla soglia; Maude la incoraggiò con un vago sorriso. In effetti non era in collera con lei, anche se la monaca non lo sapeva. «Tu conoscevi bene la novizia affidata alla tua custodia, Rustena?» le chiese. «Certo. Era Agnes, la nipote del maestro Valentin di Auxerre.» «E ti aveva forse detto di essere scontenta?» «Non sarebbe stato possibile. Quella figliola era muta dalla nascita.» Maude sorrise. Sì, di quella vecchia poteva fidarsi. «Grazie, Rustena. Puoi andare ora.» L'anziana monaca si ritirò a capo chino. Finalmente sola, Maude si strappò il velo che la soffocava e uscì nel chiostro. Mancava poco all'alba; l'oscurità era meno densa eppure il chiostro, abbandonato dalla luna, era oscuro, e la sorgente niente più che uno specchio nero. Maude rabbrividì al ricordo del momento in cui Illait di Isley le aveva permesso di sentire l'universo. Era stato un istante, ma poteva essere l'eternità, perché in quel luogo non c'erano né tempo né spazio; non c'era nulla di ciò che valeva per gli uomini. Eppure lei sapeva di aver soltanto sfiorato qualcosa, di non averlo saputo cogliere. L'impatto era stato troppo forte e quella stessa forza l'aveva riconsegnata alla sua prigione. Ma era già troppo tardi. Si era convinta di aver conquistato Illait e aveva bevuto alla sua vittoria nella coppa scambiata. Illait di Isley si era preso gioco di lei, e le aveva dato con crudele perfezione la misura del suo limite. Non avrebbe mai superato da sola quel confine. Ora nient'altro contava: né la fuga di Ela né le conseguenze che sarebbero scaturite dal venire alla luce di quella verità, che in tanti si affannavano a nascondere. L'unico suo desiderio era per quel Potere. «Ti pentirai di non aver accettato la mia offerta, Illait di Isley!» mormorò. «La gente sarà così impaurita che né tu né i tuoi amici troverete riparo o aiuto. Non ci sarà neppure un posto dove potrete nascondervi e non resterà neppure una foglia sugli alberi per darvi riparo! Dovrai tornare da me, Illait di Isley. Dovrai tornare!» Prese una candela dalla stanza, e la tenne sull'acqua buia della sorgente, mormorando antiche parole che avevano il suono di una cantilena; un riflesso rosso investì l'acqua e vi sprofondò. Un brivido di vento afferrò il chiostro. Maude lasciò cadere la candela, e l'acqua diventò bianca come il latte prima di ritornare nera.
Una mano ghiacciata spinse da nord le nuvole della tempesta con tale rapidità che l'alba non fece in tempo a illuminare il cielo. Una falsa notte investì la terra, che si tinse di rosso cupo e di grigio da un orizzonte all'altro. Il vento prese a soffiare troppo forte perché si potesse resistergli, e gli alberi e i tetti di paglia delle capanne, i covoni del fieno e le vigne volarono via, strappati come fuscelli. Infine le nubi si aprirono, versando chicchi di grandine grossi come noci. La terra si coprì di uno strato di ghiaccio alto due palmi. XII La madre di Brise stava inginocchiata, e si era fatta più volte il segno della croce. Adesso era muta, lo sguardo impaurito, mentre la sua capanna si sgretolava sotto la furia del cielo. «È il castigo di Dio per quello che facciamo!» urlò, quando l'intera struttura della capanna tremò, afferrata da una raffica più forte delle altre. «Sta' zitta!» le ordinò la vecchia, autoritaria. Poi si volse intorno, e il suo sguardo sfiorò Ela e Colin per appuntarsi infine su Artemisia. «Vieni, giovane dama dagli occhi d'erba», la chiamò. «Vieni a vedere!» E si piegò sulle braci, soffiandovi sopra. Artemisia le s'inginocchiò accanto. L'indice della vecchia rimestava tra le braci e lei, in apparenza, non avvertiva dolore. Tra il nero e il rosso del fuoco morente correva un barbaglio vivo, luminoso, quasi bianco, che sembrava lottare con gli altri due per emergere, ma che non aveva più nulla cui attecchire. «Vedi?» borbottò la vecchia. «Ben presto ci saranno il rosso del sangue e il nero della morte, e il Drago non potrà fare nulla né per l'uno né per l'altra. È un tempo di paura e di dolore.» «Non darle retta, mia signora. È pazza», intervenne il padre di Brise. La vecchia si limitò a sorridere, mostrando la bocca senza denti, e indicò Ela scuotendo il capo, ma Artemisia le impose di tacere, alzando una mano. Quindi raggiunse Colin all'uscio. Non era in grado di comprendere quello che la vecchia intendeva, se non che il sangue e la morte di certo potevano trovarsi a ogni passo anche del loro cammino da lì ad Auxerre. Ma l'analogia con i colori della Grande Opera la disturbava; nel crogiolo alchemico del maestro Valentin si agitavano gli stessi colori del fuoco della vecchia, e l'Opera al Bianco era l'ultimo passo della mutazione, era il Cigno. Il suo fallimento segnava la distruzione dell'Opera.
«Andiamo via», mormorò a Colin con l'ansia dettata dalla convinzione che le parole della vecchia fossero da riferire anzitutto a loro. «Non aspettiamo oltre. Ho un brutto presentimento.» «Sì», rispose lui, che condivideva la sua inquietudine e che, lì nella capanna, si sentiva in trappola. Nel piano stabilito con Illait avrebbero già dovuto essere ben lontani, in direzione di Auxerre. Ma poi era arrivata quella tempesta improvvisa e terribile... Dischiuse l'uscio. Fuori tutto era bianco di grandine; pareva che, per un'improvvisa magia, la terra avesse cambiato stagione, e l'inverno fosse piombato sull'estate. «È inverno!» esclamò Brise impaurita. «È grandine», puntualizzò Artemisia. «Anche se non ne avevo mai vista così tanta.» «È la punizione del cielo! Moriremo di fame», disse la madre di Brise, ma nessuno le rispose. Era vero: senza il raccolto e senza provviste nemmeno i più forti potevano arrivare fino all'anno successivo. Non una sola foglia infatti era rimasta sugli alberi, non un solo campo di grano, di segale o di orzo si era salvato; e nemmeno gli orti a ridosso delle capanne e i vigneti, che erano diventati distese di scheletri nerastri. Urla e strepiti venivano dal borgo, e la campana di Sainte-Madeleine suonava a martello per chiamare i sopravvissuti a raccolta. Nell'aria gelida, senza traccia di pioggia, il cielo era nero e rosso, percorso da una striscia luminosa a oriente dove il sole tentava comunque di seguire il proprio cammino. «Prendiamo i cavalli e andiamo via», ordinò Colin. «Non ti fidare della gente dei borghi!» lo trattenne Brise. «La nonna vede sempre il giusto. Sta' attento!» Vista dal di fuori, la capanna era miracolosamente indenne paragonata alla distruzione che si era abbattuta sul resto del borgo, come se qualcosa l'avesse protetta. Il fienile, però, era crollato e le galline giacevano morte tra il ghiaccio; anche il porcile era stato schiacciato da due grossi alberi caduti, ma soltanto una parte della stalla era stata scoperchiata, e i cavalli erano salvi. Risson si diede da fare per calmarli, portandoli fuori. La boscaglia però era diventata impraticabile: un intrico di alberi e cespugli sradicati e ghiaccio. Dovettero ripiegare su uno dei sentieri tra il suo margine e il borgo e, più si avvicinavano, più diventavano forti le urla e gli strepiti della gente scampata alla tempesta. Passarono dietro la locanda, a un centinaio di passi: non aveva più il tetto, e il fienile in cui erano state
rinchiuse le ragazze era completamente distrutto. Come da Brise, anche lì c'era stata una strage di galline e di porci, alcuni addirittura sollevati sui rami degli alberi, come per opera di una mano maligna che avesse voluto divertirsi. In più punti, la spessa coltre di grandine era rossa di sangue, e c'erano corpi umani sotto le capanne crollate e i tronchi abbattuti. «Spronate al galoppo, non appena sulla strada!» ordinò Colin, e si mosse, mentre le braccia di Ela lo stringevano. Il suo cavallo guadagnò la strada per primo. La gente lo scorse quasi nello stesso momento, mentre il giovane monaco, cui nella notte aveva strappato la torcia, e che si trovava per caso proprio in quel punto, urlava per attrarre l'attenzione su di loro. Ma la gente era troppo lontana per raggiungerli, e il monaco cominciò così a scagliare nella loro direzione tutto quello che aveva a portata di mano. Ma invano. Raggiunsero la curva della strada e si trovarono davanti gli uomini scesi dal Borgo Alto, qualche soldato e i monaci che erano lì per ordine di padre Léon. «Non passeremo!» esclamò Aurac, tirando d'istinto le briglie. «Non fermarti!» gli urlò Colin. «Separiamoci. Ci ritroveremo a SaintGermain!» Piombarono sulla folla, che si aprì, sorpresa, e non si richiuse abbastanza in fretta. I più animosi tentarono di afferrarsi ai cavalli, senza riuscirci; tutti si misero a urlare, ma i fuggiaschi erano già oltre quando i soldati si buttarono all'inseguimento a piedi. Artemisia e Aurac proseguirono dritti per la strada che conduceva ad Auxerre; Risson, che portava Isette, s'infilò nella foresta sull'altro lato della strada; Colin imboccò il sentiero che portava ad Asquins. Subito gli inseguitori si divisero e, dopo qualche svolta, lui non sentiva più le loro urla. Si girò verso Ela. La ragazza aveva le guance arrossate, e gli occhi le brillavano. «Non avere paura», la rassicurò. «Non ho paura», gli rispose lei e sembrò sorridere, godendo di quell'abbraccio che riusciva a rendere intimo, come se si conoscessero da molto tempo. «Hai freddo?» le chiese quindi, attento a non lasciarsi distrarre. «No.» E ancora sorrideva. La strada per Asquins era soltanto un sentiero, sul quale un carro certamente passava a fatica. Era serrato dalla foresta, che la grandinata aveva reso ancora più impenetrabile; alberi schiantati giacevano ovunque, tanto
che Colin fu costretto a smontare e a condurre il cavallo per le briglie, cercando i punti dove poter passare. Uccelli e animali giacevano morti tra i rami e i tronchi, ma un improvviso rumore tra gli alberi più vicini lo indusse a fermarsi di botto, con la balestra pronta. La freccia sibilò nello stesso momento, raggiungendo il collo del cavallo. Il giovane capitano reagì all'istante, tirando giù Ela di sella prima che l'animale, impennandosi e poi ricadendo, potesse schiacciarla. Nello stesso momento lasciò partire la prima delle due corte frecce della sua balestra, non verso il punto da cui era partito l'attacco, ma più avanti, dove gli assalitori stavano correndo per sbarrargli il sentiero. Si levò un urlo di dolore. «Stai giù!» ordinò a Ela, accovacciata accanto al cavallo agonizzante. Ma intanto era tornato il silenzio, innaturale e assoluto. Come lui, anche i suoi avversari aspettavano. Colin si chinò sulla ragazza, liberando la bisaccia dalla sella e mettendosela in spalla. «Arretriamo tra gli alberi», le ordinò, e lei obbedì. Buon per me che questa piccola dama abbia la stessa rapidità di suo fratello, pensò lui. E anche più buonsenso di lui, perché mi ascolta. I due gli si lanciarono addosso in quel momento, balzando fuori del nascondiglio: avevano capito la sua intenzione di lasciare il sentiero e riparare nel fitto del bosco. Il primo gli finì addosso, trascinato dallo slancio e dal terreno viscido, e Colin lo colpì in faccia col corpo della balestra, arretrando un poco. L'altro lo affrontò con la spada. Lui non aveva più tempo per impugnare la propria; parò il fendente ancora con la balestra, deviando la lama quando già gli aveva aperto un lungo solco nel braccio. L'averlo colpito diede coraggio al suo avversario, che ritornò all'attacco. Il giovane capitano finse d'incespicare nel cavallo e l'altro urlò di gioia. Ela urlò di paura. Colin allora lasciò partire la seconda freccia della balestra. L'uomo la ricevette in pieno petto e, mentre cadeva, Colin gli strappò la spada e la piantò nel petto del primo uomo. Erano soldati; gli stessi forse mandati nella notte a cercarli nella boscaglia e che in qualche modo avevano finito per perdersi sul sentiero per Asquins. Ma il capitano aveva detto di averne mandati cinque, e lui ne aveva uccisi tre, contando quello colpito per primo. Se gli altri due non erano caduti vittime della tempesta, potevano essere ancora sulla strada. Si girò verso Ela, tendendole una mano. «Vieni. Ci terremo tra gli alberi; sarà più diffi-
cile camminare, ma potremo nasconderci.» «Sei ferito!» protestò la giovane, prendendogli la borsa da sella per liberargli il braccio dal peso. Colin scosse il capo. Era soltanto un graffio, ma perdeva sangue, e poteva diventare una traccia. «Ci fermeremo più avanti a fasciarlo», le promise; il presentimento che lo aveva afferrato alle parole della vecchia nella capanna lo rendeva nervoso, più di quanto sarebbe stato saggio in quella circostanza. Un vento gelato scivolò tra l'intrico dei rami; un barlume di sole penetrò fino a loro, illuminando la ragazza, e soltanto lei, per un istante. Istintivamente Ela sorrise, come se quello fosse un omaggio alla sua persona, o un portento, e Colin fece altrettanto; era bella, e per lui preziosa, perché Illait gliel'aveva affidata. La prese per mano, guidandola attraverso il folto. Minuscoli arcobaleni, sospesi tra la grandine che si scioglieva e la luce, li accompagnavano. Illait di Isley aveva aspettato la fine della tempesta al riparo di una roccia piatta. Solo all'apparenza quel rifugio poteva sembrare precario, e forse lo sarebbe stato per chiunque, tranne che per lui. I fulmini che avevano accompagnato la tempesta si erano abbattuti tutti nelle immediate vicinanze, ma nessuno aveva sfiorato la roccia, né lui o il suo cavallo. Aveva sentito la rabbia di Maude de Belley cercarlo; poteva capire l'ostinazione della donna nell'inseguirlo e nel volerlo fermare, ed era pronto a contrastarla nonché a farsi trovare per allontanarla dagli altri... Tuttavia non poteva perdonarle quello che aveva fatto alla terra e agli uomini, né le sofferenze che sarebbero venute all'una e agli altri. Così era altrettanto furioso. Sgusciò fuori del suo riparo e parlò al cavallo, quietandolo; poi s'inginocchiò e chiuse gli occhi, rimanendo assorto ad ascoltare le innumerevoli voci che percorrevano la foresta sconvolta. Erano voci di agonia e terrore: voci di animali e alberi, fino ai più minuscoli insetti e ai fili d'erba. Voci che nessuno sapeva più ascoltare, ma che erano vive e vibranti nell'aria gelata. Dolore. L'unico urlo della terra, dell'aria e dell'acqua era un urlo di dolore. Prese una manciata di grandine e la strinse nel pugno, con forza e con rabbia, lasciando che l'immagine di Maude de Belley vi annegasse dentro.
Maude trasalì, svegliandosi di soprassalto. Allo scoppiare della tempesta si era distesa sul letto, esausta, e aveva preso sonno, lasciando che quello che aveva scatenato compisse l'opera. Ora a svegliarla era stata una sensazione di freddo che l'aveva attraversata come una spada. Si sporse per richiamare con la campanella una delle monache addette al suo servizio, ma in quel momento tutte le porte della stanza si spalancarono e tutte le candele si spensero. Dal piccolo chiostro giunse un soffio d'aria freddissima. Maude si sollevò sul letto. Adesso sentiva la spada di ghiaccio che le attraversava il petto. La sentiva con tanta precisione che le sembrava di poterne toccare l'impugnatura: da quel punto le s'irradiava per tutto il corpo un gelo potente, che la immobilizzava. Con uno sforzo arrivò a toccare il cordone della campanella e a farla suonare, ma anche la mano ormai era di ghiaccio e il movimento delle dita era dolore puro. Quando la monaca la vide, urlò di spavento. Maude, detestandola profondamente per la sua ignoranza, le urlò: «Chiama Rustena! Lei sa che cosa fare!» La donna uscì di corsa, mentre Maude si sentiva annegare in una pozza di ghiaccio: la sorgente nel chiostro la stava ingoiando. Se soltanto chiudeva gli occhi e si lasciava scivolare, il sonno sarebbe stato assoluto, e il freddo eterno. «Non chiuderò gli occhi!» mormorò tra sé. «Non mi lascerò andare! Non ti libererai di me in questo modo, Illait di Isley!» Rustena era già lì. Una monaca aveva riacceso il fuoco e stava scaldando alcune coperte; un'altra aveva chiuso le porte e acceso le candele. Rustena, senza il minimo riguardo, fece ingoiare a Maude una pozione forte e amara. La badessa tentò di ribellarsi, ma il braccio della vecchia monaca era forte e lei fu costretta a berla per intero. Subito dopo l'avvolsero nelle coperte calde e le sistemarono tutt'intorno le pietre che avevano tolto dal fuoco; Maude tuttavia batteva i denti ed era coperta da un sudore gelato. Le monache si misero a pregare sommessamente, ma Rustena ordinò loro di andarsene. Maude vide indistintamente le ombre danzare sulla strana luce di quel mattino che sembrava un crepuscolo, e pensò che dovevano essere gli spiriti venuti a prenderla. Illait aprì il pugno dove la grandine era diventata bollente e si stava sciogliendo. Si sentiva esausto, e ancora furioso, ma ciò era un male, perché la collera ormai lo univa a Maude de Belley con un legame ben più
stretto di quanto la donna avesse sperato, e di quanto lo stesso Illait era stato disposto a permetterle. Inoltre quella collera lo indeboliva, perché aveva reagito con rabbia e doveva prepararsi a subire l'onda di ritorno della sua stessa forza, e la sofferenza che gliene sarebbe derivata. Avrebbe dovuto ricordarsene per tempo: nulla può essere mosso nell'armonia dell'universo senza una contropartita. Essersi lasciato trasportare non era degno di tutti gli insegnamenti che aveva ricevuto, e non era davvero stato saggio. Imprecò tra sé, rialzandosi. La lotta con Maude de Belley sarebbe stata lunga e dolorosa. Colin si fermò per permettere a Ela di riprendere fiato, e per riprenderlo lui stesso. Camminavano da un paio d'ore nella foresta devastata, attraversata dai bagliori di un sole che solo a tratti sfolgorava tra gli strappi delle nuvole nere in corsa verso meridione. La grandine, lì meno grossa e meno abbondante che a Vézelay, si scioglieva molto lentamente; l'aria era fredda come in un giorno di tardo autunno. Ela si lasciò cadere su una roccia coperta di muschio che affiorava dal terreno e per un momento restò raccolta, le ginocchia sollevate e il viso nascosto nelle mani. Le scostò i capelli dal viso. «Non ti senti bene?» azzardò. «Sono stordita... Dopo tanto tempo in quella cella senza poter fare nulla o vedere qualcuno che non fosse Rustena... Avevo dimenticato la sensazione dell'aria sulla pelle. E mi sembrava di non ricordare più il colore del cielo, il piacere di camminare. Perché l'hanno fatto? Ero viva, ed era come se fossi morta.» «E io continuo a dimenticarmi che dev'essere difficile per te persino sostenere la luce del giorno! Vuoi bere? Vuoi mangiare? Posso rimediare qualche bacca, se la grandine ne ha risparmiata qualcuna.» Lei sorrise, scuotendo il capo. «No. È soltanto l'effetto dell'aria. Dobbiamo pensare al tuo braccio, ora!» Colin la lasciò fare. La ferita era più profonda di quanto gli era sembrata in un primo momento, ma le mani della giovane erano fresche, seppure incerte. Non aveva l'abilità di Artemisia, però lavò la ferita e la fasciò con un striscia di lino presa dalla sua tunica, e quel lavoro riuscì in un certo modo a rassicurarla. «Dovremmo poterla cucire», mormorò tra sé, osservando la sua opera finita con aria dubbiosa. Poi incontrò lo sguardo di Colin. «A che cosa stai pensando?» gli chiese.
«A tuo fratello. E a quello che gli dirò nell'incontrarlo.» «Perché?» C'era una leggera malizia ora in Ela. La giovane aveva colto dal suo sguardo la natura dei suoi pensieri. Sentirsene avvolta riuscì a farla arrossire. «Perché essere messo alla prova così era proprio quello che potevo aspettarmi da lui. Non ho mai creduto di essere bravo a resistere alle tentazioni!» «Eppure devi esserlo, se Illait l'ha fatto.» «Naturalmente. Lui sa sempre tutto», ribatté Colin, alzandosi. «Se ti sei riposata abbastanza, possiamo riprendere.» «Sei invidioso?» «Di Illait? No di certo!» «Ne sono contenta», dichiarò lei, incamminandosi al suo fianco. Il giovane era profondamente consapevole della sua presenza, e avvertiva una sensazione che gli risultava difficile esprimere. Era come se lei fosse rimasta al suo fianco per lunghissimo tempo, e fossero già stati felici insieme; poi qualcosa li aveva separati, per farli ritrovare soltanto da poco. «Io sono un uomo di guerra, Ela. Da sempre. Ho combattuto molte battaglie per molti padroni, e qualche volta il modo di combattere è stato duro persino per me. Ma sono sopravvissuto, e mi sembrava la cosa più importante... fino a quando non ho incontrato Illait.» «Lo hai salvato. Artemisia mi ha detto che lo hai salvato!» «Forse. Di certo tuo fratello mi ha dato in cambio qualcosa che non avevo mai avuto prima.» «Che cosa?» «Lui la definisce consapevolezza. Sapere di essere vivo e sentirmi felice di esserlo.» «So quello che vuoi dire. Illait molto spesso è straordinario! Peccato che nessuno possa aiutarlo, quand'è lui ad averne bisogno.» «Bisogno di aiuto? Illait?» si meravigliò Colin. «L'ho visto spesso combattere con la paura e la solitudine. Siamo cresciuti insieme, però io ero soltanto una bambina che non poteva seguirlo dove lui invece riusciva ad andare. Così lui, che sa ascoltare tante voci, si è rassegnato a non essere ascoltato.» «Adesso non è più così! Sa di poter contare su di me e su Artemisia; e poi c'è Amboise, di cui può fidarsi. È un vecchio saggio e caparbio, e l'unica cosa che non tollera è sentirsi dire che è vecchio!» Lei rise sommessamente a quel tono vagamente scherzoso. Il primo af-
fanno per quella libertà improvvisa era passato; adesso cominciava davvero a guardarsi intorno. «Dove stiamo andando?» chiese. «All'abbazia di Saint-Germain di Auxerre.» «Tu sai che io non sono convertita...» La giovane aveva parlato in tono esitante, come se temesse che qualcuno fosse in grado di ascoltarla anche lì. «So anche che per questo una ragazza è stata bruciata al tuo posto a Chambéry, la settimana di Natale. L'ho visto.» «Possono farlo ancora.» «Non finché io sono vivo», le promise Colin, prendendole la mano. In lontananza, portate dal vento, venivano voci e grida di uomini in caccia. XIII Amboise aprì gli occhi a fatica. La luce che penetrava dalla lunga fenditura nel muro accanto alla porta era diventata una spada che lo feriva con la sua luminosità, e la sete lo tormentava. Il terzo giorno di prigionia. Non ricordava se, quando aveva perduto i sensi l'ultima volta, era ancora giorno o già notte; gli sembrava comunque che fosse passato molto tempo, e che più nessuno fosse entrato nella sua cella da allora. Sapeva anche, tuttavia, che tutte le sue impressioni potevano essere sbagliate, perché non aveva nulla su cui verificarle. E quel disorientamento era efficace quanto la tortura. La stanza, con le due sedie e la panca sul fondo, era esattamente come la ricordava. Ma lui si trovava in uno degli angoli, sulla paglia; una catena, con un'estremità infissa nel muro, gli serrava entrambi i polsi, dandogli una limitatissima possibilità di movimento. Non ricordava né quando né come fosse stato incatenato in quell'angolo. Esaminò con lucidità le proprie condizioni: essere un medico gli permetteva di valutare con ragionevole certezza quanto ancora poteva vivere, dato che faceva fatica a respirare e non beveva da molto tempo. In quel momento, la porta si aprì. Amboise fu pronto a richiudere gli occhi, fingendo di essere ancora privo di sensi, ma entrò soltanto Valentin, che corse presso l'amico e s'inginocchiò, sfiorandogli la tempia. «Grazie a Dio sei vivo!» mormorò. «Non ho intenzione di far loro il favore di morire», ribatté Amboise con un sorriso che si mutò subito in una smorfia di dolore, per via delle labbra
screpolate. «Come potrai perdonarmi, amico mio?» disse Valentin scuotendo il capo. «Non ho niente da perdonarti. Non è per tua colpa che sono qui.» «Ma sono stato io a chiamarti!» «E io ho accettato. E non dimenticare che è stato Illait a spingermi a farlo, e non mi è mai capitato di vedere quel giovane intromettersi nelle decisioni di qualcuno senza un buon motivo... Anche se probabilmente nemmeno lui sa che cosa lo ha chiamato qui.» «Non avrei dovuto parlare di Artemisia, del fatto che si trovava nel monastero di Sainte-Madeleine. Non mi perdonerei se dovesse accaderle qualcosa.» «Questo fai bene a dirlo, Valentin. Nemmeno io ti perdonerò se verrà fatto del male ad Artemisia perché tu hai parlato senza riflettere.» L'altro chinò il capo, scuotendolo stancamente. «Ho avuto paura. Temevo che ti uccidessero, e che mi facessero quello che stavano facendo a te. Tu mi conosci: sai quanto il dolore fisico mi spaventa.» «Già... Ma tu sai quanto mi è cara Artemisia. Io posso essere tradito o venduto, ma non posso accettare che lei lo sia.» Valentin lo guardò. «Hanno detto che potevo vederti prima di andarmene. Mi liberano.» «Ne sono felice.» «Che cosa posso fare per te, Amboise?» «Torna alla tua Opera e completala. Fallo per me, Valentin. Compi la Trasmutazione. Adesso me lo devi.» L'anziano alchimista aveva gli occhi umidi, ma la porta si aprì in quell'istante e l'uomo non osò più parlare. Due soldati entrarono per primi, facendogli cenno di andarsene; li seguiva Hugo di Chalon. Il vescovo di Auxerre ordinò a uno dei soldati di avvicinare una sedia al prigioniero, e quindi di seguire Valentin all'esterno. Un solo uomo restò così davanti alla porta. Hugo sedette, e Amboise si sollevò, appoggiandosi al muro con le spalle. La catena non gli permetteva altri movimenti. «Il tuo amico è libero», disse il vescovo in tono conciliante. «Suppongo che avrai i tuoi buoni motivi per rilasciarlo.» «Davvero non ti capisco, signore di Montsalvy... A che ti serve provocarmi quando sei in catene nel mio palazzo?» replicò Hugo. «Hai ragione. Ma dire la verità è un pessimo vizio che non mi sono mai tolto.»
«Sì, l'ho sentito dire. E mi chiedo com'è che i potenti ti considerino con tanto rispetto. Persino mio padre aveva molta stima di te.» «Se non lo capisci, allora vuol dire che non sei un vero potente. Peccato. Quand'eri bambino sembravi intuitivo e intelligente.» «Per questa volta non darò ascolto alla tua offesa, e ti permetterò di spiegarti.» «I potenti hanno una corte che li adula per convenienza o per paura; ma se qualcuno dice loro la verità, e agisce così senza essere spinto dall'interesse, allora è davvero d'aiuto. La verità dev'essere conosciuta per poter prendere le giuste decisioni; quelle che dopo possono anche essere nascoste.» Hugo di Chalon sorrise. «E la tua verità per me quale sarebbe, adesso?» chiese. «Sono parte in causa. E quello che tu vuoi sentirmi dire non è la verità.» Il vescovo si alzò. Era inquieto, e Amboise non credeva che quell'inquietudine fosse legata all'impegno di scoprire l'autore dell'incendio che tanti morti aveva provocato. No, quello che tormentava il vescovo sembrava toccarlo molto più da vicino. Attese, in silenzio. «Stamani all'alba una terribile tempesta si è scatenata sulla foresta di Morvan, colpendo Vézelay e tutti i luoghi intorno», riprese Hugo. «I pochi messaggeri arrivati fin qui dicono che l'inverno si è scambiato di posto con l'estate, e che tutto è stato distrutto: i raccolti, le vigne, i villaggi, il bestiame. Il ghiaccio ricopre la terra come una maledizione. Perché due ragazze sono state portate via dal monastero di Sainte-Madeleine.» Amboise lo guardò senza battere ciglio. «È stato compiuto un sacrilegio, e molte penitenze dovranno essere fatte per trovare misericordia agli occhi di Dio», continuò il vescovo. «Ma intanto la gente di quelle terre sa di dover morire di fame e non lascerà fuggire i peccatori.» «Perché lo dici a me?» «Perché sono stati la tua dama e i suoi amici a farlo! Delle due ragazze, una è un'oblata senza importanza e l'altra è la nipote del maestro Valentin. Quella per cui ti avrebbe mandato a chiamare.» «L'hai detto a lui?» lo interruppe Amboise. «No.» «Perché?» Hugo distolse lo sguardo, sfuggendo così agli acuti occhi chiari del suo prigioniero. «Non sei tu che devi fare domande, signore di Montsalvy»,
sibilò. «Però sei tu quello che dovrà rispondere a questa domanda, allorché verrà ripetuta.» «Ti cimenti anche nella divinazione, adesso? Questa è eresia.» Amboise chiuse gli occhi, riflettendo: prima Artemisia, Colin e Illait erano riusciti a portar via due ragazze dal monastero, e poi era accaduto un evento naturale tanto potente da cambiare addirittura la stagione. Di certo, viste le conseguenze, quell'evento non poteva essere opera di Illait... In ogni modo non poteva aspettarsi da Illait e da Colin un aiuto immediato, perché i due giovani dovevano già badare a salvarsi e a portare al sicuro Artemisia e le altre due ragazze. «Ho fatto partire altri uomini oltre a quelli che già avevo mandato», proseguì Hugo. «Così sarà un intero esercito a dare la caccia alle fuggiasche, alla tua dama e ai suoi amici. Non ci sarà scampo per loro, giacché non esisterà un solo luogo dove potranno rifugiarsi.» «Sei davvero tanto certo della gente di quelle terre?» «No, ma ho promesso a chi aiuterà a catturarli una ricompensa che nessuno può permettersi di perdere: cibo sufficiente per arrivare al nuovo raccolto del prossimo anno, e per l'intera famiglia o anche per l'intero villaggio, se è necessario.» «E se li cattureranno?» «Sarà la gente stessa a fare giustizia, e io non credo che si dimostrerà misericordiosa. Nemmeno tu lo saresti, con quello che hanno subito per causa loro. C'è qualcos'altro che vuoi chiedermi?» «Ti chiederei dell'acqua, se tu fossi un uomo misericordioso. Ma non lo sei.» Hugo rimase impassibile. Fu allora che Amboise comprese, all'improvviso, che cosa si nascondeva dietro la sua inquietudine. Hugo di Chalon aveva paura di qualcosa o di qualcuno. Forse della verità, pensò Amboise, guardandolo uscire. Valentin s'incamminò per la via maestra di Auxerre con la sensazione che tutti gli rivolgessero sguardi ostili. Tuttavia assaporò con avidità la libertà ritrovata: l'aria gli sembrava più fresca e pulita, e persino i miasmi della città e i vapori cattivi del gran caldo gli parevano meno pesanti. Il suo pensiero tuttavia non poteva staccarsi da Amboise de Montsalvy, da quello che lui aveva già patito e da quello che avrebbe patito in seguito per causa sua.
Decise di andare subito dall'abate di Saint-Germain, per supplicare il suo aiuto; poi si ricordò dell'ordine di Odo. Era certamente seguito e comunque sorvegliato; quindi, se voleva chiedere l'aiuto di Ilderico, doveva farlo nel modo più discreto possibile. Quando giunse alla sua casa il sole del tramonto si era già inabissato dietro le mura della città; stagnava nelle strade vuote una frescura umida e l'odore delle fogne a cielo aperto. La casa sembrava vuota; la sua governante stava rintanata in cucina, ma nemmeno si girò a guardarlo, come se avesse paura, e Valentin passò oltre. Non aveva voglia di parlare con lei e in più temeva di ritrovare nel solito angolo l'immagine di Agnes. Invece non c'era: l'angolo era buio. E a lui parve che qualcosa gli fosse stato strappato dall'anima. Nel laboratorio, Pognon stava vigilando sul forno, com'era suo compito, ma si girò quando Valentin apparve sulle scale. Il servo si era infilato una veste del proprio padrone, una delle più vecchie e modeste, in effetti, eppure quel gesto, agli occhi di Valentin, era più eloquente di qualsiasi confessione. L'alchimista intuì che c'era qualcun altro in cantina. «Soldati», spiegò Pognon. «Quattro, a guardia del passaggio.» «Vattene», replicò seccamente l'altro. Pognon scosse il capo, tornando a dargli le spalle e continuando il suo lavoro. «L'Opera è mia quanto tua, maestro Valentin! Inoltre non puoi cacciarmi, perché ti devo sorvegliare per ordine del vescovo. Devo riferirgli tutto quello che fai.» «Intendi riferirgli anche i miei pensieri?» Davanti alla perplessità di Pognon per quella domanda, l'alchimista scosse il capo, tentando di nascondere la collera. «Vai a mangiare. Io guarderò il forno», gli disse quindi. Il servo obbedì di malavoglia. Aveva vigilato ininterrottamente, giorno e notte, da quando Valentin era stato catturato, ma il Maestro, da vero ingrato qual era, non gliene dava merito. Si sentiva ricacciato nella sua condizione di servo, e non gli piaceva. Non voleva più essere un servo. L'alchimista aspettò che se ne fosse andato per avvicinarsi al crogiolo. Il pugno di materia bianca era come l'aveva lasciato; né più grande né più piccolo, né più bianco o più luminoso. «Ora non mi resti che tu», mormorò. «Per la vita e per la morte.» La collina di granito a forma triangolare sulla cui sommità sorgeva Aval-
lon si vedeva da qualunque punto della strada; appariva grigia contro il cielo nero, qua e là toccata dai bagliori del sole. Su quei dirupi boscosi sembrava essersi abbattuta la mano di un gigante furioso, che aveva divelto gli alberi neanche fossero fuscelli, ammucchiandoli sulla strada, nel fiume Cousin che gli scorreva ai piedi e sulle capanne del borgo sottostante da cui stavano ancora tirando fuori i morti. In quel punto la strada si era allagata per effetto dell'improvviso sbarramento del fiume, e l'acqua invadeva anche la foresta, riducendola a un pantano. Illait si tenne nel fitto, costeggiando i margini di quella specie di palude; riusciva comunque a vedere la strada, e la seguì. Vide anche quella che sembrava una processione: un corteo stava scendendo da Avallon, portando una reliquia. Il vento portava fino a lui il salmodiare dei partecipanti. Si lasciò infine alle spalle la collina col suo borgo, aggirandola; la strada che aveva continuato a seguire era ormai abbastanza vicina e la foresta appariva asciutta, seppure imbiancata come in un mattino d'inverno. Scoprì il primo corpo sotto un albero abbattuto e con le radici volte verso l'alto, tanta era stata la forza che l'aveva strappato al terreno. L'uomo aveva la testa fracassata: era evidente che era stato investito in pieno. Poco più avanti, a ridosso di una roccia, si trovava un secondo corpo. L'uomo aveva una gamba squarciata dalla coscia alla caviglia, però era vivo. Illait smontò da cavallo e lo raggiunse; l'uomo, di mezza età, aveva gli occhi chiusi e la faccia rigata di sangue, e stava mezzo affondato nella grandine. Vestiva una giubba di tela con le insegne del duca di Borgogna: di certo era uno scudiero. Non appena Illait si avvicinò, istintivamente tentò di ritrarsi. «Non ho una borsa né altro di valore!» esclamò. «Non temere. Non mi sono fermato per derubarti.» «Dio ti renda merito per la tua pietà, allora», ribatté l'uomo. Lacrime di dolore gli solcavano le guance, ma non ne aveva vergogna, e le asciugò con rabbia per poter osservare il suo soccorritore. «Devi essere un cavaliere», mormorò. «Stai forse cercando il duca?» «Sì, sto cercando il duca. Ma adesso quietati e lasciami vedere la tua ferita.» L'uomo scosse il capo, amareggiato. «Quell'albero ci è venuto addosso; quello là sotto è mio cognato. Mi hanno tirato fuori, lasciandomi poi qui, vicino a questa roccia, perché non potevano fare altro. Sembrava la fine del mondo, e dovevano trovare un riparo per il duca e il suo seguito.»
«Dove?» «C'è un villaggio, proseguendo lungo questa strada: Saint-Mesmin. Allora tu non sei di questi luoghi...» «No. Ma perché non tornare ad Avallon, che è così vicina?» «Non si poteva! I primi alberi caduti sono stati proprio quelli sulla strada, e l'acqua saliva ovunque. Si poteva soltanto andare avanti, con la grandine che feriva come se piovessero pietre!» Illait aveva portato a nudo la ferita: l'osso era spezzato e lo squarcio tanto profondo da metterlo in vista. «Questa grandine sarà una maledizione per molti, ma a te ha salvato la vita; il freddo ha fermato la perdita di sangue. Ora distenditi e stai quieto.» «Davvero vuoi aiutarmi, signore?» chiese l'altro, obbedendo all'invito. «Qual è il tuo nome?» chiese Illait. «Mi chiamo Norel. Da quando ero bambino servo la corte del duca, eppure mi hanno abbandonato senza pensarci!» «Non soffrire per questo. Spesso è così che vanno le cose tra gli uomini.» «Non sempre?» «Non sempre. Ora vado a cercare qualche ramo per immobilizzare la tua gamba nonché un po' di fango e di foglie per avvolgerla. Non pensare che me ne stia andando, Norel.» L'uomo annuì. Quel giovane parlava con un tono di voce che lo faceva sentire bene, e anche la sua paura di essere abbandonato ai cinghiali e ai lupi si era dissolta. Si fidava di lui dopo aver giurato per ore di non fidarsi più di nessuno. Illait legò il cavallo nei pressi della roccia e si mise alla ricerca di quanto gli serviva. Quando tornò, l'uomo si era quasi assopito. «Non dormire adesso, Norel!» lo richiamò. «Non lasciarti andare. Parlami del tuo duca. Dov'è diretto?» «Sta tornando a Dijon, al suo castello. Siamo stati a Sens, e poi ci siamo fermati ad Avallon, perché il duca doveva riposare.» «Il tuo duca è malato.» «Si stanca, specialmente stando a cavallo. Ma... che cosa stai facendo alla mia gamba?» «Le foglie fermeranno il sangue, e il fango d'argilla ti eviterà un'infiammazione.» «Sei un medico?» «No.»
«Un signore non si sarebbe fermato per fare quello che tu stai facendo. Devi essere un prete», mormorò l'uomo. «Forse... Una specie», concesse Illait, con un vago sorriso. «Chi viaggia col tuo duca, Norel?» «Il conte di Macon, Ottone Guglielmo, e Landrico, conte di Nevers, che è suo genero; e Alvalone di Chény, che non lo lascia mai. E poi i nobili di Dijon. Si dice che il duca abbia nominato come suo successore il conte di Macon, che è figlio di prime nozze di sua moglie, la duchessa Gerberga d'Ivrea, e che questo abbia provocato molto risentimento nel re di Francia, suo nipote. Ben tre messi sono arrivati a Dijon nell'ultimo mese, e a Sens il duca ha incontrato lo stesso re Roberto, che ha cercato di fargli cambiare idea, minacciando d'invadere il ducato.» «Sei bene informato.» «Nelle cucine e nei letti si ottengono molte notizie, mio signore. Mia figlia gode dei favori del più giovane dei figli del conte di Macon e io, come ti ho detto, servo il duca da più di trent'anni. I nobili parlano in presenza di uno scudiero come se questi non esistesse.» «Il tuo duca non si è fermato ad Auxerre, sebbene, venendo da Sens, si trovava sulla strada.» «È vero. Ma il duca non vuole immischiarsi nella disputa tra il vescovo di Auxerre e l'abate di Saint-Germain e, quando può, evita quella città: non gli dà altro che fastidi.» Illait annuì, completando il lavoro; la gamba dell'uomo era ben avvolta nel fango e nelle foglie, e stretta tra due pezzi di legno. «Adesso appoggiati a me», disse. «Cercherò di metterti in sella.» «Io peso molto, signore. Non credo che potrai sollevarmi.» «Non ti preoccupare. Spesso le apparenze non sono la verità.» L'uomo tacque, dubbioso, e si meravigliò della facilità con cui Illait riuscì a sollevarlo e a sistemarlo in sella al proprio cavallo. Non appena si ritrovò saldamente aggrappato al pomo della sella sorrise, dicendo: «Non avrei scommesso su di te per questo, signore. Evidentemente sei più forte di quanto sembri. Però hai l'aria di non sentirti troppo bene». «Hai l'occhio acuto, Norel... Adesso quietati, però, e risparmia le forze. Da che parte è il villaggio di Saint-Mesmin?» «Segui la strada. Lo troverai. Mi spiace che tu stia male, signore.» «Prima che questa giornata sia finita starò anche peggio», mormorò Illait, prendendo le briglie del cavallo e incitandolo a muoversi. Ma l'uomo non lo sentì.
XIV Chi sei? Chi porti con te?» urlò il soldato, in allarme, sbarrando la strada a Illait non appena questi sbucò nello spiazzo davanti al villaggio. «Porto un servo della casa del duca che ho trovato lungo la strada, ferito. E devo vedere il duca.» Il soldato sbirciò l'uomo accasciato sul collo del cavallo; lo riconobbe, però nel contempo notò la sella di pregio e gli abiti del nuovo arrivato: la corta tunica sulle brache scure, la ricca cintura, il mantello di fine lana di Reims. Un nobile. Il giovane aveva l'aria stanca, ma al suo sguardo imperioso era difficile disobbedire. «Seguimi», gli ordinò il soldato e fece cenno ad altri due di accompagnarli. Illait si mosse senza lasciare le briglie del cavallo e ignorando i due uomini alle sue spalle. Saint-Mesmin era più una casaforte che un villaggio fortificato; all'interno del recinto di tronchi che la cingeva c'erano soltanto quattro o cinque capanne, una macina per il grano spaccata dal nubifragio, una stalla e una locanda che aveva resistito alla furia degli elementi soltanto perché le robuste mura erano in pietra. Il tetto di paglia, ancorato con grosse reti, era ancora al suo posto; l'edificio appariva piuttosto grande e, in effetti, occupava per intero il centro di Saint-Mesmin. Aveva una forma a L: sul lato più lungo si apriva la locanda vera e propria, con una tettoia, e su quello più corto la cucina. La scorta del duca aveva letteralmente riempito ogni angolo all'interno del borgo e in special modo lo spazio tra la locanda e la cucina. Nel mezzo c'era un pozzo, e lì si erano accampati i soldati, tentando di farsi spazio tra i rami abbattuti degli alberi, il fogliame, gli uccelli morti e ogni altro oggetto portato lì dalla tempesta. I nobili si trovavano nella locanda, insieme col duca, e soltanto il suo fido vassallo Alvalone di Chény sostava sotto la tettoia a osservare la confusione che il loro arrivo aveva portato nel villaggio; a giudicare da ciò che vedeva, non era meno devastante della tempesta. Alvalone non era un uomo colto, però era un valoroso, e la sua nobiltà era di così recente acquisizione che non faceva fatica a trattare con i soldati e i bifolchi ed esserne immediatamente compreso. Fu quindi a lui che la sentinella condusse Illait, mentre i soldati seguivano con lo sguardo, curiosi, quel giovane che riportava un uomo già dato per morto.
Anche Alvalone non nascose del tutto la sorpresa, riconoscendo lo scudiero. L'uomo, alto e massiccio, rivolse lo sguardo attento a Illait, tentando di farsi un'idea di lui, ma senza riuscirci. Quella che, da lontano, gli era sembrata giovinezza, gli pareva ora la fredda quiete di un uomo da non sottovalutare. «Se è vero che ognuno di noi ha in serbo una dose di fortuna, Norel oggi deve aver esaurito la sua», commentò. «Hai un nome, straniero?» «Mi chiamo Illait di Isley.» Alvalone di Chény, perplesso, fece cenno ai soldati di liberare il cavallo del suo peso e di portare il ferito in una delle capanne. «Il duca ti sarà grato. Norel era un buon scudiero», commentò poi. «Devo parlare a Enrico di Borgogna.» «Ci stavi forse seguendo per questo?» Illait annuì; al vassallo sembrò che fosse stanco o che, per un'improvvisa sofferenza, gli occhi gli si rabbuiassero. In realtà Illait aveva scorto il duca di Borgogna sulla soglia della locanda, alle spalle di Alvalone. «Non ho voglia di ascoltarlo. Sono stanco», disse Enrico. «Dategli qualcosa da mangiare come ringraziamento per averci riportato il servo e poi cacciatelo», ordinò, ritornando subito all'interno della locanda. Alvalone allargò le braccia in un gesto d'impotenza. «Hai sentito?» chiese a Illait. «Va' in cucina, mangia e poi riprendi la tua strada.» L'altro, senza fiatare, accolse l'ordine con l'ombra di un sorriso e poi obbedì. Sconcertato per via di quello che provava e che non sapeva definire, il vassallo restò a guardare Illait mentre questi raggiungeva la cucina, vi entrava e poco dopo ne usciva con una scodella di zuppa. Dopodiché si sedette sul gradino di pietra per mangiare. I soldati gli avevano riportato il cavallo, ma il giovane non sembrava avere fretta. Un po' di sole faceva capolino tra le nuvole in corsa e illuminava proprio il punto che lui aveva scelto per sostare. Così, nell'affannata confusione del borgo, la sua quiete pareva al di sopra degli uomini e delle loro miserie. Alvalone scosse il capo, brontolando tra sé e decidendo di non perderlo di vista. In tutta fretta, l'oste e la sua gente avevano preparato la stanza perché il duca potesse riposare. Di solito quella stanza conteneva fino a una decina di giacigli, che in quel momento però erano ammucchiati tutti in un angolo, a parte quello centrale, il più grande, dove Enrico di Borgogna si era disteso. Aveva fatto oscurare il piccolo quadrato della finestrella e accen-
dere il fuoco nel focolare, perché le sue vesti dovevano asciugarsi; d'altronde lui aveva sempre freddo. Nonostante il fuoco e la pesante coperta, però, il freddo non pareva volersene andare. Si rigirò un paio di volte, tentando di trovare una buona posizione, e all'improvviso sobbalzò: a dispetto dei suoi ordini, qualcuno era entrato nella stanza. Forse un servo della locanda, giacché nessuno dei suoi uomini avrebbe osato disturbarlo. «Vattene!» ordinò, brusco. «O chiamo i soldati per farti battere!» Ma l'ombra non si spaventò alle sue parole; anzi si appressò al giaciglio, fermandosi così vicino che Enrico trasalì, riconoscendo la testa bionda e il profilo del giovane che aveva riportato il servo ferito. «Alvalone sta invecchiando, se tu sei potuto entrare in questa stanza nonostante la sua buona guardia!» esclamò il duca, stupito. «Il tuo fedele vassallo è innocente», ribatté l'ombra. «Tu, piuttosto: puoi dire altrettanto?» «Perché me lo chiedi?» fece Enrico, a disagio. «Davvero vuoi che ti risponda?» Il duca annuì, sopraffatto, accorgendosi che l'angoscia da lungo tempo covata stava emergendo all'improvviso, portata alla superficie proprio come la melma di uno stagno a causa di una corrente improvvisa. «Rispondimi», disse in un sussurro. «La tua malattia ti consuma. Tra due estati morirai.» «Mi resta così poco tempo?» «Il tempo potrà essere buono, se saprai venire a patti con la tua paura.» «Io non ho paura!» esclamò Enrico, alzandosi bruscamente. Strappò via il panno scuro che schermava la finestrella, e poi si girò, cercando il suo visitatore. Ma la stanza era vuota; le fiamme nel focolare languivano e la porta sembrava ben chiusa. Allora il duca si vestì in fretta e spalancò la porta, incurante della sorpresa dei suoi nobili, che stavano mangiando nella locanda. Uscì fin sotto la tettoia e si appoggiò ad Alvalone. «Perché lo hai fatto entrare?» mormorò, volendo evitare che altri potessero sentire il rimprovero. «Chi, mio signore?» replicò il vassallo, sostenendolo. «Quel giovane che voleva parlarmi!» «Quel giovane ha avuto la sua tazza di zuppa e se la sta mangiando. Ti giuro che non l'ho perso di vista e che non si è mai mosso!» esclamò l'uomo, indicandoglielo. Enrico socchiuse gli occhi: il giovane era davvero seduto là dove Alva-
lone indicava. Aveva accanto il cavallo e almeno una dozzina di soldati stavano tra lui e la tettoia. «Fallo venire da me. Devo parlargli», ordinò quindi. «Subito?» si azzardò a chiedere Alvalone di Chény, perplesso, aspettandosi uno scoppio d'ira che tuttavia non venne. «Subito», si limitò a rispondere il duca, e poi tornò nella sua stanza, ignorando le occhiate interrogative dei nobili. Quando Illait di Isley entrò, Enrico era seduto accanto al focolare, e stava ancora tentando di scaldarsi. Alzando lo sguardo, scoprì negli occhi del giovane lo stesso vago sorriso che aveva percepito nell'ombra. «Siediti», gli disse, brusco. «Quello che devi riferirmi pare sia davvero importante.» «Lo è. Conosci Amboise de Montsalvy?» «Certo che lo conosco!» «Permetterai che gli venga fatto torto nel tuo regno?» Il duca di Borgogna scosse il capo. «So dal vescovo di Langres, fratello della moglie del conte di Macon, che deve sottoporsi a un processo a Cluny.» «Il vescovo di Auxerre lo tiene prigioniero, e non potrà presentarsi.» «Hugo di Chalon avrà i suoi buoni motivi per rischiare tanto.» «E tu non vuoi saperli?» Enrico lo guardò con astio; quel giovane gli parlava come se fosse un suo pari, e nessuno si permetteva tanto. Nemmeno suo nipote Roberto, il re di Francia. «Perché dovrei?» ribatté. «Non mi piace la compagnia di Hugo. È un uomo ambizioso, convinto che tutti gli siano nemici, e più di tutti l'abate di Saint-Germain, che vorrebbe morto.» «Il tuo vescovo è complice di Chaffre de Revard, vescovo di Chambéry, in un grave crimine in cui è coinvolta anche la badessa di SainteMadeleine di Vézelay. Nella settimana di Natale, il vescovo di Chambéry ha condannato al rogo una fanciulla pagana. In realtà, ha fatto bruciare una novizia muta prelevata nel convento di Vézelay, e ha imprigionato la fanciulla al suo posto, in quello stesso convento.» «So chi sei, adesso!» lo interruppe il duca. «Tu sei il giovane per cui Amboise de Montsalvy viene processato! Il vescovo di Langres ha parlato di te.» «Hugo di Chalon ha imprigionato il signore di Montsalvy con una falsa accusa. Lui e i suoi complici sperano così di poter ancora nascondere il delitto di cui si sono macchiati», ribatté Illait, ignorando il commento del duca.
«E io che cosa dovrei fare, secondo te?» «Tornare ad Auxerre con me e costringere il vescovo a liberare il signore di Montsalvy, e poi accompagnarlo a Cluny per rendere testimonianza sui motivi del suo ritardo e sul delitto commesso, di cui avrai le prove.» «Tu sei pazzo!» esclamò Enrico, alzandosi bruscamente e allontanando lo sgabello con un calcio. «Non mi sembra di essere pazzo a chiederti di fare quello che dovresti, poiché queste terre sono tue, e tu sostieni di governarle.» «Sei sfrontato! Inoltre hai usato le tue arti magiche su di me, mentre dormivo!» «Non vuoi assumerti neanche la responsabilità dei tuoi sogni?» «Non era un sogno! Tu eri qui e mi hai detto...» Il duca s'interruppe, temendo di apparire ridicolo agli occhi di quel giovane che lo fissava, impassibile. «Mi hai detto che morirò tra due estati.» «E questo ti fa paura.» Enrico represse un brivido; anche nel sogno aveva parlato di paura. Se era stato un sogno... «Non ho eredi», mormorò. «Mio nipote, il re di Francia, vuole queste terre. Il conte di Anjou è pronto ai miei confini orientali; il re di Borgogna lo è altrettanto a meridione... e io sono vecchio, malato. Nessuno ama il conte di Macon, il quale, per di più, non ha altro titolo nella successione se non quello di essere il figlio di primo letto di mia moglie.» Si fermò, nella speranza di ottenere una rassicurazione, ma il giovane rimase in silenzio. «Con quale diritto ti trovi nella mia stanza ad ascoltare quello che io non direi nemmeno al più fidato dei miei consiglieri?» chiese allora, adirato. «Parlare delle tue paure ti aiuta a liberartene, negarle ti rende loro prigioniero. Allo stesso modo, fingere con te stesso di non essere malato non ti salva dalla tua malattia. Tuttavia, se impari ad accettarla e a viverle accanto, quando essa ti colpirà al cuore sarai tu ad aver vinto.» «Ciò può sembrare facile agli occhi di un giovane sano», borbottò Enrico. «Forse.» Il duca non replicò. Si sentiva disarmato dalla quiete di quel giovane estraneo, eppure gli dava fiducia. Scosse il capo, tentando di districare il groviglio di pensieri. Già l'eccezionale tempesta dell'alba aveva sconvolto il suo ritorno a Dijon... No, non avrebbe permesso che altri eventi lo ritardassero ulteriormente. «Mi dispiace per il signore di Montsalvy, ma io devo tornare a Dijon», decise. «E intendo partire subito. Non abbiamo al-
tro da dirci.» Illait di Isley chinò il capo. «Ti auguro buon viaggio», disse semplicemente, e se ne andò, lasciando in Enrico di Borgogna una vaga inquietudine, un senso di aspettativa per qualcosa che stava per accadergli e che non avrebbe potuto evitare. Chiamò dunque Alvalone, ordinandogli di provvedere per la partenza immediata, e, nell'attesa, si sforzò di mangiare qualche boccone. Quando lasciò Saint-Mesmin, alla testa dei suoi nobili e dei suoi soldati, scorse il giovane straniero davanti alla capanna in cui avevano ricoverato lo scudiero ferito, e se ne stupì, perché lui stesso, che conosceva Norel da sempre, non si era ricordato d'informarsi sulle sue condizioni. La stretta via che portava a Dijon attraversando la foresta era ridotta a un pantano, ingombra di rami spezzati e alberi abbattuti. I soldati della guardia dovevano spesso smontare da cavallo per aprire un passaggio, ma, a mano a mano che procedevano, gli effetti devastanti della tempesta si mitigavano; la strada restava un pantano, però almeno era sgombra da ostacoli, e persino l'aria sembrava meno fredda. Quando arrivarono al guado del Serein, videro che l'acqua era certamente più alta di quanto non fosse solitamente in estate, e la corrente più veloce, ma non tanto da impensierirli. La scorta di testa passò senza difficoltà e poi si attestò sull'altra riva, in attesa del duca e dei nobili. Enrico spinse il cavallo in acqua con l'impeto che gli era consueto. Nel mezzo del fiume, tuttavia, il cavallo scartò, finendo in un gorgo, e il duca finì disarcionato. Per evitare quello stesso punto, Alvalone si era allontanato, precedendolo; e allora il duca tese un braccio in cerca d'aiuto al conte di Sully, che in quel momento gli era più vicino. Ma l'uomo, che avrebbe potuto protendersi e aiutarlo, assecondò l'animale e si allontanò, lasciandosi afferrare dalla corrente. Alvalone urlò, cercando di tornare indietro e ordinando a Sully, a sua volta in difficoltà, di fare altrettanto. Il conte di Macon e suo figlio, ancora sulla riva, si spinsero immediatamente in acqua, ma ormai la corrente aveva afferrato Enrico, appesantito dagli abiti e dal mantello bagnati. Fu nel momento in cui già si vedeva perduto che un grosso ramo gli venne incontro, staccandosi dal fortunoso ancoraggio ad altri detriti e tagliando obliquamente il fiume. Il duca vi si avvinghiò, riprendendo il respiro. Alvalone finalmente lo raggiunse; con l'aiuto di altri, lo portò a riva, lo distese, lo coprì con mantelli asciutti e riuscì a fargli sputare l'acqua ingoiata. «Sto bene, sto bene!» esclamò Enrico a un certo punto. Poi si guardò in-
torno, chiedendosi chi, tra gli uomini che lo circondavano, aveva provato la stessa paura che era ben evidente sul viso di Alvalone. La paura di perdere il proprio duca. Non certo il conte di Sully. Ma quanti altri, nel suo seguito, potevano essere alleati dei suoi nemici senza che lui nemmeno lo sospettasse? «Torniamo indietro», disse, sostenendosi al robusto braccio del vassallo per mettersi seduto. «Come?» chiese l'uomo, stupito. «Sì. Richiama la guardia. Torniamo a Saint-Mesmin.» Alvalone obbedì, ed Enrico ignorò i nobili, che non sapevano spiegarsi il motivo di quella decisione improvvisa e che saggiamente si astenevano dal commentarla. Il giorno volgeva al tramonto quando varcarono nuovamente la porta del borgo di Saint-Mesmin, avvolto dal fumo azzurrognolo dei fuochi accesi e animato dai versi impazziti degli uccelli della foresta che cantavano al giorno che moriva. Enrico di Borgogna, tuttavia, non aveva occhi che per lo straniero seduto sotto la tettoia. «Che cosa fai ancora qui?» esclamò, smontando da cavallo. «Ti aspettavo», rispose Illait di Isley con un leggero sorriso. «Alcuni soldati stanno arrivando da Avallon con un monaco in testa!» l'interruppe un uomo della guardia del duca, attardatosi sulla porta del villaggio. Illait di Isley si alzò e, senza una parola, sparì all'interno della locanda. «Restate dove siete!» ordinò il duca ai suoi, e rimase lui stesso sotto la tettoia, lasciando il cavallo a un servo. Il drappello di soldati portava i colori di Hugo di Chalon e il monaco, un giovane assai minuto, quasi scompariva accanto ad Aloise di Chalon, che fermò i suoi con un cenno. Trovarsi circondato dalla guardia del duca di Borgogna gli suggeriva di tenere un comportamento prudente. «Comando gli uomini che il vescovo di Auxerre ha mandato al convento di SainteMadeleine», esordì. «Perché?» fu l'unica domanda, inaspettata, del duca di Borgogna. «Aveva motivo di temere qualcosa, ed era un motivo fondato, giacché alcuni senza Dio hanno fatto fuggire due novizie da quel monastero, la notte scorsa.» «E tu le cerchi nel seguito del duca di Borgogna?» La voce di Enrico era salita di tono. «Devo cercare in ogni borgo e in ogni tana!»
«Ma non qui, dove io intendo riposare e dove non ci sono novizie. Vattene, capitano, prima che ti faccia cacciare a pedate dai miei soldati!» Aloise non aveva davvero intenzione di mettere alla prova la pazienza di Enrico di Borgogna, e a qualunque costo voleva evitare di essere considerato responsabile di uno scontro tra le forze del vescovo e quelle del duca. Il giovane monaco, dal canto suo, non si azzardò ad aprire bocca. «Non ti disturberò oltre», disse quindi Aloise. Girò il cavallo e ordinò ai suoi di seguirlo, riprendendo la strada per Avallon. Enrico sorrise, compiaciuto, poi entrò a sua volta nella locanda. L'oste era sparito, probabilmente al sicuro in qualche nascondiglio, ma Illait di Isley era seduto a uno dei tavoli. Il duca si rammaricò di non poter cogliere l'espressione del suo viso nella penombra. «Sei tu uno di quei senza Dio di cui parlava il capitano?» gli chiese senza preamboli. «Sì.» Non riusciva a stupirsi della sicurezza di quel giovane, come non si era stupito della precisione con cui quel tronco, nel fiume, si era diretto verso di lui. Gli stavano accadendo strane cose, in quello strano giorno. «Domattina all'alba partiremo per Auxerre, e mi racconterai l'intera storia», disse, con un sospiro. «Vorrei poter riposare, questa notte.» «Se ti fidi di me, ti aiuterò a farlo.» «Mi fido», annuì il duca, e poi si rivolse ad Alvalone, che stava entrando: «Lui può venire nella mia stanza e restarci quanto vuole», gli disse, indicando il giovane. Quindi ordinò a un servo di portargli degli abiti asciutti e una buona cena e si allontanò. «Non so che cosa vede in te, straniero, ma questa è una cosa che non ha mai detto a nessuno», mormorò il vassallo, guardando l'uscio chiudersi. «Non temere: posso davvero aiutarlo a riposare. Tra i suoi nobili, però, qualcuno è pronto a tradirlo», lo avvisò Illait. «E tu dovrai vegliare su di lui e trovare altri uomini, altrettanto fidati, che lo facciano.» «Non è facile. Oggi Sully non lo ha aiutato, eppure poteva farlo. Lo avrebbe lasciato annegare e io mi trovavo così lontano... Un tronco provvidenziale lo ha sostenuto quando già stava affogando», spiegò Alvalone, guardandolo dubbioso, perché gli sembrava che il giovane fosse già a conoscenza dell'accaduto. Ma Illait rimase in silenzio. Più tardi, quando Enrico chiamò Illait, Alvalone, deciso a non abbandonare neppure per un istante la sorveglianza del duca, lo accompagnò nella stanza. L'uomo aveva mangiato poco, però non sembrava sofferente, sebbene in
lui fosse evidente la stanchezza. Illait gli sfiorò la fronte e gli coprì gli occhi con le mani per qualche istante. Subito Enrico si addormentò quietamente e, dopo qualche tempo, prese a russare. Alvalone si distese sul proprio mantello accanto al fuoco, e per un poco anche Illait rimase accanto ai due uomini, tentando di riposare. Quando si rialzò era notte fonda; il seguito del duca dormiva nella locanda, sistemato alla meglio sui giacigli o avvolto nei mantelli, sotto i tavoli e sulle panche. Un unico lume ardeva, appeso al soffitto. Senza svegliare nessuno, Illait uscì sotto la tettoia. Presso il pozzo e la porta chiusa del villaggio vigilavano a turno i soldati del duca, mentre la gente del luogo si era nascosta nelle capanne che l'uragano non aveva abbattuto. La notte era ventosa, ma nel cielo passavano molte nuvole, e solo a tratti si poteva afferrare il baluginio di qualche stella; il forte sentore della terra fradicia dopo tanta siccità riempiva i polmoni; la foresta era colma di rumori e di voci. Si sedette con le spalle appoggiate alle pietre fredde del muro della locanda. Non vedeva nulla e sentiva ben poco al di là di quello che poteva vedere con gli occhi e sentire con le orecchie. Il dolore che lo tormentava era fisico, e lo avvertiva nelle ossa, ma era peggio ciò che accompagnava la sua anima: una presenza prepotente e spietata, che tentava di trascinarlo in un pozzo senza fondo. Quella presenza aveva occhi d'acqua, capelli neri come l'ala del corvo, e una bocca ardente con labbra morbide e profumate di miele. E una sete inestinguibile. XV Due volte Artemisia e Aurac avevano dovuto abbandonare precipitosamente la strada che portava ad Auxerre, sentendo l'avvicinarsi di uomini, ora a piedi ora a cavallo, che la battevano, spingendosi anche all'interno della foresta. Erano poi rimasti nascosti a osservare la processione di contadini, alcuni dei quali feriti, che andavano verso Vézelay, e ancora avevano visto passare soldati e monaci. Il tempo che avevano perso era dunque molto, tuttavia ne erano stati ricompensati, perché Risson e Isette, ritrovando fortunosamente la strada, erano riusciti a raggiungerli. Il cavallo di Risson, però, zoppicava, ormai incapace di sopportare un doppio peso. Isette inoltre appariva disorientata dall'incalzare degli avvenimenti e Risson era più confuso di lei, perché non
gli era mai accaduto di doversi occupare di una ragazza. Ritrovando Artemisia, Isette le buttò le braccia al collo. «Perdonami, mia signora», mormorò, staccandosi. «Sono così contenta di vederti!» «Non temere», la rassicurò l'altra. «E resta tranquilla.» «È che... è tutto così grande qui fuori!» esclamò la ragazza, che avvertiva per la prima volta la mancanza della protezione delle solide mura del monastero. Artemisia divise tra i suoi compagni la focaccia d'orzo che aveva nella sua borsa da sella, e tutti si dissetarono con l'acqua di una sorgente nascosta nell'erba. Ormai il pomeriggio era inoltrato, e l'aria sembrava essersi riscaldata. «Dobbiamo rischiare di tornare sulla strada», disse infine. «Più passa il tempo e più sono numerosi quelli che ci cercano; se restiamo qui, finiranno per trovarci.» «E se incontriamo un'altra pattuglia, mia signora?» ipotizzò Aurac. «Non possiamo batterci né tentare la fuga un'altra volta.» «Lo so. Ma dobbiamo raggiungere Auxerre.» «Il capitano potrebbe ritrovarci, com'è successo a Risson», suggerì il giovane. «Colin è andato verso Asquins e probabilmente è già molto lontano», considerò Artemisia. «Nemmeno lui però conosce questi luoghi. Può contare soltanto sulla posizione del sole e andare verso nord.» «È vero: nessuno di noi li conosce, purtroppo. Ecco perché la strada resta la via più breve per Auxerre.» «Sarà meglio che Isette stia con me, mia signora», disse Aurac, prendendo i cavalli, mentre Risson studiava il proprio, scuotendo la testa. «Certo», acconsentì Artemisia, montando in sella e avviandosi. Il giovane sollevò Isette sul cavallo e la seguì, conducendo l'animale per le briglie. La strada pareva deserta. Barbagli di sole tra le nuvole affogavano nelle pozze melmose; le striature biancastre della grandine apparivano come tracce bizzarre tra gli alberi e i cespugli martoriati su un lato e sull'altro della strada. Per un momento tutti restarono tesi e attenti ad ascoltare i suoni della foresta e del vento, tentando di scoprire un qualunque segno d'allarme: voci di uomini, rumori di zoccoli, latrare di cani... Ma, nella foresta di Morvan, sembrava non esserci nessuno all'infuori di loro. «Il tuo cavallo può correre?» chiese Aurac a Risson, montando a sua volta in sella senza curarsi di Isette.
«Sì, per un poco almeno», rispose il ragazzo. Percorsero un certo tratto di strada a una buona andatura, senza incontrare nessuno, né uomini in caccia né vittime della tempesta. Poi, all'improvviso, un drappello di soldati sbucò dalla prima curva della strada, che in quel punto piegava verso nord, e si avvicinò al galoppo. Il primo impulso di Aurac e di Risson fu di girare i cavalli e tuffarsi nella foresta. Ma era troppo tardi. Li avevano già visti. «No!» li fermò Artemisia, trattenendo il cavallo. «Non muovetevi e non parlate!» disse, e si portò di qualche passo più avanti rispetto ai suoi compagni, quasi al centro della strada, tenendo ben salde le briglie. Il comandante del drappello ordinò ai suoi di fermarsi, e poi avanzò da solo verso la dama, senza nascondere la sorpresa. «Mi pare che la tua scorta sia troppo esigua, mia signora, per arrischiarti su una strada tanto lunga e pericolosa!» esordì. «Sono la cugina della badessa di Sainte-Madeleine e ho un suo messaggio per il vescovo di Auxerre, che devo raggiungere al più presto! Con quello che è accaduto, la mia ancella e io non abbiamo potuto avere altra scorta se non quella di due giovani fidati.» «Noi veniamo da Auxerre e siamo soldati di Hugo di Chalon. Ci troviamo qui proprio per battere la foresta e i villaggi. Il giovane che cerchiamo è molto chiaro di occhi e di capelli, e pare abbia strani poteri, tali che abbiamo l'ordine d'incatenarlo e di nasconderlo alla vista di chiunque, quando lo avremo trovato.» Artemisia sorrise, osservando l'intensità con cui il giovane capitano stava scrutando la «scorta»: ma Risson era rosso di capelli, e il biondiccio di Aurac era ben lontano dal colore di Illait di Isley. «Lo vedi forse qui, capitano?» gli chiese allora, lasciando trasparire un certo divertimento. «No, mia signora», ammise il giovane, grato che la dama avesse parlato a voce bassa e che i suoi soldati non li avessero sentiti. «Allora lasciami proseguire. È molto importante che io arrivi al più presto ad Auxerre, te lo assicuro.» «Posso darti quattro uomini per rinforzare la tua scorta, mia signora.» «E privarti di valide braccia per la caccia a quel giovane? No, capitano, non posso chiederti tanto. Ma puoi dare l'insegna del vescovo a uno dei miei uomini, così nessuno ci fermerà di nuovo e non perderemo altro tempo.» «Questo è giusto», riconobbe il giovane, facendo cenno a uno dei suoi di
cedere a Risson una delle aste con l'insegna di Hugo di Chalon. «Però non troverai riparo prima di notte. Il borgo di Yonne è ancora troppo lontano.» «L'insegna del vescovo e il suo nome mi proteggeranno. Ti ringrazio per la tua sollecitudine, capitano: non mancherò di ricordarti a Hugo di Chalon per questo. Ora prosegui per la tua strada.» «Il mio nome è Guy di Senlins», rispose l'uomo, chinando il capo, compiaciuto. Artemisia gli rivolse un caldo sorriso e, col suo piccolo seguito, si spostò sul bordo della strada. L'intero drappello, almeno una trentina di uomini, sfilò loro davanti. Soltanto quando il gruppo fu lontano, Aurac si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Ti giuro, mia signora, che darei del pazzo a chi mi raccontasse una cosa del genere», commentò. «Sono pochi gli uomini che possono guardare negli occhi una donna che ritengono superiore e nel contempo capire quello che sta dicendo loro.» «È questo che hai fatto a quel povero capitano, mia signora?» chiese Aurac, divertito. «Temo di sì», ammise Artemisia. «Via, adesso. Proseguiremo fino a quando ci sarà un barlume di luce, sosteremo ai margini della strada per la notte e riprenderemo non appena farà giorno.» «Saremo ad Auxerre a metà mattina, se non ci fermeranno più.» «Abbiamo l'insegna del vescovo, Aurac. Non dimenticarlo.» «Come potrei? Sei stata davvero abile, mia signora!» C'era sincera ammirazione nel tono di Aurac; come Artemisia, evitava d'interrogarsi sulla sorte di Colin, di Illait ed Ela. «Se Illait riuscirà a portare ad Auxerre il duca di Borgogna sarà fatta!» commentò quindi il giovane, spingendo a un passo sostenuto il cavallo. «Se riuscirà? Non abbiamo nemmeno considerato che possa fallire», mormorò Artemisia. Ma dovevano fare presto, perché la morsa si stava chiudendo. Imbruniva. Non erano abbastanza lontani da Asquins o da altri villaggi, perciò Colin si sentiva tutt'altro che tranquillo. Li circondava comunque una foresta tanto fitta che il resto del mondo vi sembrava escluso: era come se su di loro fosse sceso un incantesimo che, isolandoli, li rendeva anche invisibili. Almeno così si sentiva Colin Bois; all'erta, feroce come un lupo e nel contempo inebriato come un ragazzo alla sua prima conquista. La giovane che gli stava accanto era unica, diversa da tutte le altre; non
era paragonabile neppure ad Artemisia, verso la quale lui provava certamente affetto, ma un affetto generato dall'amicizia. Essere compagni al seguito di Amboise de Montsalvy escludeva infatti qualsiasi rapporto che non fosse quello alla pari. Qualcosa di magico invece lo colmava ogni volta che Ela, che gli camminava vicina, lo sfiorava con i capelli, o col corpo di cui avvertiva il calore attraverso l'abito. Era qualcosa di antico, che doveva essere appartenuto a entrambi, e che a entrambi stava ritornando ad appartenere. La giovane però era stanca, e non c'era più luce. La guidò lungo un torrentello, dove un tappeto di felci si spingeva fin nell'acqua e le giunchiglie s'infradiciavano, ostruendo la corrente. Un basso riparo di pietre, con una cupola tonda di frasche secche a copertura, sorgeva su un rialzo del terreno, una dozzina di spanne dall'acqua. «Se è stato costruito bene forse riusciremo anche ad accendere il fuoco, là dentro», le mormorò a un orecchio, indicandoglielo. «Hai freddo?» «Ho fame!» confessò Ela, e gli mise le braccia intorno al collo quando lui l'afferrò per la vita in modo da sollevarla sul rialzo. «Non ti lascerò morire di fame», ribatté lui, inerpicandosi a sua volta e facendole cenno di aspettare. Entrò per primo nel riparo. Era piccolo, e certamente serviva ai cacciatori per nascondersi e aspettare i cervi quando scendevano all'acqua. All'interno c'era un po' di erba secca e qualche pietra segnava il circolo dov'era già stato acceso del fuoco. Colin frugò tra l'erba, e trovò un paio di legacci per le trappole e una provvista di rami corti e ben tagliati, pronti per essere trasformati in frecce. «Vieni!» chiamò allora Ela. «È buio pesto qui, ma è pulito. Tornerò presto con la cena.» «È quasi notte. Che cosa si può catturare a quest'ora?» «Pesci. Ne ho visti nel torrente. E forse domani, all'alba, qualche lepre, perché la tempesta ha rovinato molte tane. Io non sono mai morto di fame, e non morirai nemmeno tu.» Ela rise sommessamente. «Lasciami l'acciarino. Se credi che si possa fare, accenderò un piccolo fuoco. Non mi piacciono i pesci crudi.» «Che sia molto piccolo, però», le raccomandò lui, porgendole l'acciarino. Di nuovo le loro mani si toccarono, e si strinsero, con la scusa di quel piccolo oggetto cui nessuno dei due in quel momento stava pensando. Poi Colin scese fino all'acqua, attento e silenzioso. La foresta appariva tranquilla. Il buio aveva spento il canto degli uccelli; un po' di vento s'impigliava tra le cime e nei vuoti lasciati dagli alberi abbattuti, ma non toccava
il suolo, e portava soltanto il profumo della menta selvatica. Si affrettò per mettere a profitto l'ultima traccia di luce; di certo sarebbe stato molto più facile con una bella torcia o un lume, ma, anche così, lui sapeva di essere veloce quanto bastava. Caricò le corde della balestra e la tenne abbassata lungo il fianco. Nell'acqua chiarissima del ruscello, allargata in quel punto dallo sbarramento dei cespugli schiantati, s'indovinavano le ombre lunghe delle tinche che aveva adocchiato poco prima. Il giovane restò immobile, scegliendo le sue prede, quindi lasciò partire le frecce, l'una dopo l'altra, e le raccolse subito con i due pesci che vi si contorcevano, trafitti. Li aprì col suo coltello, pulendoli, poi li riempì con due manciate di menta presa dal greto e tornò al rifugio. Restò sull'apertura, chinandosi a guardare: il fuoco aveva appena attecchito nel piccolo cerchio di pietre e soltanto qualche fiammella danzava, facendo sfrigolare i rami ben tagliati che non sarebbero più stati frecce. Dall'altra parte del fuoco, Ela stava inginocchiata, tutta intenta, il viso illuminato. Quando vide Colin si tirò un po' indietro, e gli sorrise. «Se devi saltare il fuoco non starci a pensare, capitano», lo incoraggiò. «Tuo fratello mi ha detto le stesse parole, pochi giorni fa. Ma sembra passato tanto tempo da allora», rispose Colin, turbato, scavalcando il fuoco e sedendosi. «Anche qui si celebra ancora la festa dei fuochi?» chiese Ela, sorpresa. «Sì, nonostante i castighi e le rappresaglie. Ma quest'anno a Vézelay la festa è stata impunita, grazie a Illait.» Lei scosse il capo, osservandolo sistemare le tinche tra le pietre, dove le fiamme le avrebbero cotte senza bruciarle. «Che cosa ti ha detto esattamente mio fratello?» mormorò. «'Quando ti verrà chiesto di saltare il fuoco non starci a pensare e saltalo. È così che dev'essere.' Ecco ciò che mi ha detto.» «E tu l'hai fatto?» «Di solito seguo i consigli di tuo fratello, specialmente quando mi sembrano giusti», rispose lui, e, d'improvviso, scoprì che Ela era troppo vicina. La giovane gli sfiorò le labbra con le dita. «Sei sempre così serio? Sei molto bello quando sorridi», osservò. «Era questo il fuoco che Illait intendeva?» esclamò Colin. «È questo che dev'essere?» «Non lo so... Io non ho la Vista. Però so quello che Illait ha fatto quando mi ha affidato a te. Ci ha sposati, Colin.»
Lui si tirò indietro. «Che cos'ha fatto?» chiese, sconcertato. «Ha pronunciato la formula delle nozze, quella riconosciuta dalla nostra gente. Ma tu sei cristiano, e per te non ha valore. Così non hai nessun obbligo.» «Ma ne ha per te, e ne ha per lui!» «A nessuno importa che cosa ha valore ai nostri occhi.» «A me importa. Io mi sarei dannato piuttosto che toccarti e tradire la sua fiducia!» «Allora non ti dispiace che Illait ci abbia sposati.» «Dispiacermi?» esclamò Colin. Ela sorrise. «Stai bruciando i pesci, capitano», gli fece osservare. Lui scosse il capo; le tinche erano l'ultimo dei suoi pensieri, ma le girò, servendosi del coltello. «Perché l'ha fatto?» disse poi. «Forse davvero pensava che non avrei saputo resistere alla tentazione?» «L'ha fatto per me», replicò Ela in tono così grave che Colin di nuovo si girò verso lei. Con dita ferme, nient'affatto incerte, che non tremavano, la giovane stava sciogliendo i lacci che le chiudevano l'abito alla scollatura. «Mi è stata negata la vita per molto tempo, e di nuovo potrebbe essermi negata, magari domani stesso, o tra qualche giorno. Potrei essere uccisa; potrei essere ripresa e condannata all'isolamento da cui tu mi hai liberata. Forse Illait l'ha visto. Io non lo so. Però accetto quello che ha stabilito per noi, perché io voglio la mia parte di vita, breve o lunga che sia, e anche tu la vuoi. Io riconosco questa unione, Colin; sarò la tua sposa, e ti sarò fedele.» Lui le trattenne le mani. Già i seni, piccoli e ben fatti, si scorgevano dall'abito aperto. «Anch'io riconosco questa unione, Ela, e ti sarò fedele. In questo mondo, e in qualunque altro mondo», mormorò, e l'attirò a sé, allontanando ogni altro pensiero che non fosse quello di onorarla, come una sposa attesa a lungo. Si era fatto giorno da poco e il monastero di Sainte-Madeleine era avvolto dalla quiete. Tutte le monache erano ancora raccolte nella cappella, dov'erano rimaste per tutta la notte, a pregare perché il sacrilegio compiuto dalle giovani fuggite non ricadesse su di loro com'era ricaduto sulla terra. L'alba successiva a quella della terribile tempesta vedeva Vézelay, i suoi borghi e le sue vigne distrutti; quello che era stato risparmiato dalla collera del cielo era stato devastato dalla furia degli uomini che cercavano i fuggiaschi. E, segno inconfondibile del peccato e della giusta punizione, u-
n'ampia striscia nera girava più volte intorno alla collina di Vézelay, simile a un cappio malefico. All'interno di quella striscia tutto appariva bruciato; era come se la tempesta, anziché di ghiaccio, fosse stata di sale puro, che aveva divorato e annerito ogni cosa, compreso il suolo. Davvero un innegabile suggello per un sacrilegio orribile. Padre Léon tremava soltanto a pensarci; entrando nel parlatorio del monastero ordinò ai soldati che lo accompagnavano di aspettare e ignorò Rustena, che tentava di sbarrargli la strada alle stanze della badessa. «Padre, stai violando un luogo che non ti è permesso!» strillava la vecchia monaca, correndogli dietro. «E di certo non sono il primo uomo a farlo!» ribatté il monaco, scrollandosela di dosso e affacciandosi alla soglia della stanza della badessa. Anzitutto vide il forziere e le sacche colme e già chiuse. Poi colse lo strano arredamento della stanza, che di certo non sembrava destinata a ospitare una badessa, colma com'era di candele, di strani profumi, di libri e di oggetti preziosi. Maude de Belley si girò lentamente. Indossava un abito nero e un manto dello stesso colore che le copriva anche il capo. I capelli erano prigionieri di un velo corto, chiaro, che li nascondeva completamente e, a differenza del solito, non portava gioielli. «Non stai osando più di quanto puoi permetterti, padre Léon?» esclamò, appuntando sul monaco uno sguardo gelido. «La terra porta i segni del sacrilegio. La punizione deve abbattersi sui colpevoli senza concedere loro misericordia.» «Abbiamo pregato per tutto il giorno, ieri, e per tutta la notte appena finita, per questo scopo.» «Abbiamo? Io vedo che ti stai preparando a una partenza... O forse i miei occhi m'ingannano?» Maude sorrise; un'ombra lieve sulle labbra, che diede al vecchio monaco una vaga sensazione di paura. «No, non t'ingannano», rispose la donna. «Poco dopo l'alba è giunto un messaggero dalla Moriana. Mio padre sta morendo e vuole vedermi: forse il conte di Belley si è pentito di avermi fatta rinchiudere in monastero e implora il mio perdono. Non posso negarglielo... Non credi, padre Léon?» «Non ho saputo di messaggeri!» disse il vecchio. «Eppure hai passato un giorno e una notte a battere la strada e la foresta! Hai con te soldati, monaci, servi... persino i miserabili che hanno perso tutto quello che avevano! Avresti dovuto accorgerti di chiunque attraver-
sasse queste terre, e non hai visto neanche un semplice messaggero!» «Ti stai prendendo gioco di me, Maude de Belley.» La donna scrollò le spalle, facendo cenno a Rustena di portar fuori le sacche e di sbrigarsi. «Non c'è piacere nel farlo, padre Léon. Tu non conosci il potere della parola.» Il vecchio arrossì; sapeva che cosa s'intendeva, nelle superstizioni antiche, con quella definizione. Maude comunque lo guardò come se davvero intendesse puntualizzare soltanto la sua incapacità di cogliere, e di tollerare, l'ironia. «Non li hai trovati. È questo che sei venuto a dirmi?» riprese Maude. «Sì.» «Stanotte è arrivato Guy di Senlins, con altri trenta uomini, da Auxerre. Prendili, così potrai ampliare le ricerche.» «Senlins è già ai miei ordini. Ma io voglio sapere da te dove posso trovare il pagano e i suoi amici.» Maude lo guardò, sorpresa; mai, prima di allora, il vecchio monaco le aveva parlato in tono così duro. Il suo sguardo, poi, non la lasciava neppure per un istante, né sembrava intimidito. «Perché mi chiedi questo?» lo interrogò la donna. «Perché io so chi sei. La tua presenza contamina questo luogo; ciò che è accaduto nel monastero e tutt'intorno è la prova che aspettavo. Posso mandarti sul rogo, Maude de Belley.» Un accenno di vento fece suonare i campanelli sulla soglia del piccolo chiostro, e padre Léon, suo malgrado, tremò. «E se fosse soltanto la tua fantasia? Il vescovo di Auxerre farà certamente fatica a crederti.» «Dimmi dove devo cercare: il punto esatto. E ti lascerò partire.» «Stai venendo a patti, padre Léon?» C'era stupore nella voce di Maude, ma si percepivano anche astio e disprezzo. Il vecchio monaco non abbassò lo sguardo e non si lasciò impressionare. «Se è necessario perché la punizione raggiunga gli empi, sì.» Maude sorrise, all'improvviso, e il suo cambiamento allarmò il vecchio più del disprezzo. «Vieni, allora», lo esortò lei. «Ti dirò quello che vuoi sapere! Ma bada: tu diventi mio complice, spingendomi a compiere per te un rito di magia!» «Ne porterò il peso e mi punirò per questo, più a lungo di quanto tu possa immaginare.» «Questo mi farà molto piacere», ribatté la donna, precedendolo nel pic-
colo chiostro chiuso. Ma padre Léon si fermò sulla soglia; la sorgente era buia e silenziosa e gli incuteva terrore. Lui sapeva che cos'era. «Una sorgente pagana in questo luogo sacro!» esclamò. «Attento! Il Potere scorre in questo luogo. Molto forte, molto vivo. Non lo provocare!» «Compi la tua magia, donna, e vattene!» ordinò il monaco. Maude credette che stesse per chiamare i soldati e cercò di placarlo con un cenno della mano. «Sei tu che hai chiesto di vedere. Non dimenticarlo», gli ricordò, piegandosi sull'acqua buia. Il vecchio le si avvicinò, circospetto e ostile. Per un lungo istante, Maude rimase immobile, con gli occhi chiusi; poteva sentire Illait di Isley con la ferocia e la rabbia del dolore che le aveva procurato, e sapeva che quella stessa rabbia e quello stesso dolore non lo avrebbero lasciato sinché non si fosse attenuata l'onda che li univa; così per tutta la notte aveva mantenuto forte e viva la corrente per rendergli più dolorosa l'agonia e radicarsi più a fondo nella sua mente e nel suo corpo. Tuttavia non lo poteva vedere. Non era così forte da riuscirci. Sfiorò l'acqua, cercando d'impressionare il vecchio monaco che si aspettava di vedere chissà quale malefico prodigio, e lasciò che vi si fondessero le ombre turbinose dei suoi pensieri. Ma l'acqua era nera per lui, perché il vecchio aveva paura ed era infatti la paura che si aspettava di trovare. A Maude, invece, quella stessa acqua appariva chiara e calmava il turbine dei suoi pensieri che, lo comprendeva in quel momento, le emozioni avevano ottenebrato. Fu così che comprese: per la seconda volta, Illait di Isley si era preso gioco di lei. Sia pure pagando con la propria sofferenza, l'aveva tenuta con sé, impedendole di vedere e di sentire gli altri, mentre le sarebbe stato facile trovarli quando ancora erano vicini. Trasse un respiro lungo e profondo. Non poteva più sentire Artemisia de Montsalvy. Si volse a Ela di Isley. Lei, sì, che poteva trovarla... era stata in suo potere per troppo tempo. Il legame che univa il prigioniero al suo carceriere ancora non si era spezzato. «Cercali ad Asquins», mormorò quindi, sfiorando di nuovo l'acqua. «Ieri sera ho mandato Aloise di Chalon e i suoi uomini ad Asquins!» obiettò padre Léon. «Ma ancora non li hanno trovati. Devi andarci tu. Segui la strada che dal villaggio sale verso nord, e poi il corso del torrente che incontrerai nella
foresta, fino a quando non vedrai quest'ultima aprirsi in radure dove l'erba è alta e pascolano i cervi. Cerca il rifugio di un cacciatore con alcune pietre intorno. Li troverai lì.» Padre Léon non comprese la quiete improvvisa nello sguardo di Maude, né il lampo che, per un momento, aveva fatto diventare scuri anche i suoi occhi. Fece un passo indietro, sentendosi contaminato. «Chi troverò ad Asquins?» chiese. «Il giovane capitano amico della dama di Montsalvy e una delle novizie. Una ragazza con lunghi capelli biondi e occhi azzurri.» «Anche il pagano è con loro?» «Certo», mentì Maude, sorridendo. «Sono loro che devi prendere, padre Léon, per riavere la tua pace.» Il vecchio annuì, arretrando nella stanza, senza nemmeno osare volgere la schiena alla donna che stava ancora sorridendo. «Non sentirti felice per avermi avuto al tuo fianco in quest'eresia!» l'ammonì il monaco. «Anche tu dovrai pagare. Verrà il tuo tempo.» «Vai alla tua caccia, padre Léon. Non fermarti fino a quando non sarà compiuta», ribatté Maude, rimanendo immobile finché l'uomo non scomparve. Quindi ordinò a Rustena di affrettarsi. L'avrebbe portata con sé, con due servi e sei soldati del vescovo di Auxerre come scorta, anche se nessun messaggero era giunto dalla Moriana, e nessuno avrebbe potuto dire quale sarebbe stata la sua vera destinazione. Rivolse uno sguardo distratto alla stanza che era stata la sua prigione per tutti quegli anni e si sentì travolgere dall'onda del rimpianto per quella soglia varcata, proprio lì, con Illait di Isley. «Tu non lo avrai, padre Léon», mormorò. «E non lo avrà la tua Chiesa. Io lo avrò!» Si coprì il viso con un velo e seguì Rustena nel carro chiuso che l'attendeva nel cortile. XVI «La tua venuta mi sembra intempestiva e pericolosa. Dovevi restare a Cluny. Tu hai chiesto il giudizio, e tu oggi dovresti essere là, a pretendere la condanna di Montsalvy, quando, dopo il vespro, sarà dichiarato assente!» urlò Hugo di Chalon al suo ospite, quando i suoi segretari si furono ritirati, lasciandoli soli nella stanza dove il vescovo di Auxerre amministrava i suoi beni. Chaffre de Revard lo quietò con un cenno della mano. Pallido e scavato
in volto, il vescovo di Chambéry sembrava stanco per il viaggio e sofferente per qualcosa di intimo, che sembrava consumarlo. Ma non era disposto a sopportare il risentimento dell'amico. «Lo avrei fatto, se le circostanze fossero state diverse!» ribatté. «Ma l'inviato dell'abate Ilderico ha portato a Odilone una lettera scritta in greco da Illait di Isley. Una lettera che l'abate non ha reso pubblica.» «E tu hai paura che gli sveli il nostro segreto? Se lo conosce solo ora che sua sorella è stata fatta fuggire dal monastero, come poteva conoscerlo quando Ilderico ha mandato il messaggero?» «Tu non sai chi è Illait di Isley!» replicò il vescovo di Chambéry, alzando la voce. «E non voglio saperlo! Guardati, Chaffre! Hai la febbre; le tue mani tremano e i tuoi occhi sembrano quelli di un invasato! Che cosa ti ha fatto quel giovane, per ridurti così?» Chaffre de Revard crollò a sedere su una panca. Scosse il capo, tergendosi il sudore dal viso. «Non lo so», ammise. «Tuttavia i vescovi riuniti a Cluny per il giudizio sono già favorevoli a Montsalvy, benché convinti del pericolo che lui rappresenta per la Chiesa; l'averlo imprigionato con un'accusa tanto stupida non prova che la sua innocenza!» «Questo puoi dirlo a Odo, il tuo vicario! Per impedirgli di scoprire lo scambio di quelle due giovani ha fatto incendiare la locanda, credendo che Montsalvy vi avesse preso alloggio; e quando non ha più saputo che cosa fare ha preteso che lo imprigionassi. Se dipendesse da me, lascerei immediatamente libero Amboise de Montsalvy, perché non basta tenere prigioniero un uomo del genere per renderlo innocuo. Lo si deve uccidere, ed essere certi di riuscirci al primo colpo.» «Perché non l'hai fatto?» sibilò Chaffre. «Una scusa qualsiasi ti sarebbe bastata.» «Devo anche uccidere per coprirti?» esclamò il vescovo di Auxerre, furente. «Non dimenticarti che dividi la mia colpa. Tu per primo mi hai parlato della giovane muta, nipote dell'alchimista, entrata nel monastero di mia cugina. E sapevi benissimo per quale scopo la cercavo!» Hugo di Chalon lo zittì. «Non so esattamente che cosa è accaduto a Vézelay. So che si è scatenata una tempesta spaventosa, che ci sono stati morti e feriti, e che la distruzione dei raccolti porterà la carestia... senza contare che lascerà le nostre botti prive per anni del migliore vino di Borgogna. Padre Léon del monastero di Vézelay si sta occupando della caccia, e io ho
dovuto mandare quasi tutti i miei uomini per ribadire la mia autorità su quella zona. Soldati, monaci, servi e villani stanno battendo il territorio a palmo a palmo, e io spero che lo zelo dei monaci e la paura dei bifolchi li spinga a una giustizia immediata, quando li troveranno, perché i morti non parlano, e soltanto così noi saremo al sicuro.» «Resta Montsalvy», obiettò Chaffre de Revard. «È vero. Resta Montsalvy...» ammise il vescovo di Auxerre. E tacque, aspettando il suggerimento dell'amico. Chaffre abbozzò un sorriso. Si conoscevano fin da ragazzi, e le rispettive famiglie vantavano una parentela acquisita per via di antichi matrimoni: il giovane Chaffre era stato mandato per un paio d'anni nella casa degli Chalon, com'era d'uso. La loro amicizia, fatta di complicità, non si era mai allentata; Hugo non aveva quindi esitato ad aiutare Revard, allorché questi si era deciso a nascondere una cugina inquietante come la bella Maude, entrata a Sainte-Madeleine a vent'anni e da lui stesso elevata a badessa a ventuno. Non si era interrogato sulle cause della morte della badessa precedente, come non si era soffermato sulla sorte della novizia che era stata scambiata. Soltanto in quel momento, e all'improvviso, si rendeva conto di quanto si fosse esposto per compiacere l'amico. «Voglio parlare con Montsalvy», insistette Chaffre, alzandosi dalla sedia. «Te lo sconsiglio: sei troppo eccitato. Quell'uomo riuscirebbe a farti ammettere ogni sorta di colpa.» «Non hai provveduto a renderlo più docile?» «I miei uomini hanno usato la corda. Ma ciò non l'ha reso più malleabile. Vieni, ti condurrò da lui, senza testimoni. Sappi però che, se l'inviato di Odilone di Cluny chiederà di vederlo, allora dovrò concederglielo. Sono già stato costretto ad acconsentire all'incontro con Valentin, l'alchimista. I miei soldati lo scorteranno a Saint-Germain prima del vespro.» «Questo è un facile modo per sfuggire alla tua custodia. Chi ti dice che uscirà da Saint-Germain, una volta entrato?» «Sono sicuro di Valentin», dichiarò Hugo. «E la ragione è assai semplice: lui è un alchimista. Nessun alchimista abbandona l'Opera. Lui tornerà al suo laboratorio perché non può farne a meno.» «Eppure piegarti alla richiesta dell'inviato di Cluny ti rende debole», ribatté Chaffre. «La città è tua. Non hai obblighi di servitù verso Cluny!» «Dimentichi il duca di Borgogna. È soltanto per il suo disinteresse che io ho tanto potere qui. Lui potrebbe costringermi a rendere conto delle mie
azioni, chiamandomi in giudizio a Cluny, proprio come Arnolfo di Reims fu costretto al processo a Saint-Basle da Ugo Capeto, nove anni or sono. Arnolfo fu condannato, allora, e probabilmente lo sarei anch'io. Montsalvy ha molti amici: non dimenticartene mai.» «Sì, ma ha altrettanti nemici! Bisogna trovare per lui una morte che appaia naturale, e che chiuda la faccenda. Se quel padre Léon e mia cugina faranno ciò che devono, allora ci libereranno di tutti gli altri; nessuno potrà dire una parola contro di noi, e Illait di Isley sarà così ben custodito che non se ne sentirà più parlare!» «Non ti permetterò di mettere a rischio la nostra stessa vita, Chaffre. Anche lui dovrà morire», sibilò Hugo. «Quando lo avremo, ne discuteremo», rispose Chaffre e si mosse per seguirlo, nonostante la stanchezza che, a tratti, gli faceva calare un velo sugli occhi. Forse il viaggio lo aveva davvero stancato oppure era stata la tensione degli ultimi giorni... O forse si trattava di qualcosa di più profondo, che, come una bestia maligna, gli rodeva le viscere. Spesso, svegliandosi di notte, fradicio e gelato, Chaffre de Revard pensava che il pagano potesse averlo maledetto, perché lo sguardo gelido dei suoi occhi azzurri lo perseguitava. Di certo, sotto tortura, Illait di Isley aveva pronunciato contro di lui una di quelle maledizioni pagane che nessuna benedizione poteva annullare! Hugo ordinò ai due soldati di scorta di aspettarli sulla scala. «Entra», gli disse quindi, facendosi da parte, e Chaffre si riscosse, chiedendosi se l'amico poteva davvero capire quello che lo tormentava. Obbedì, e Hugo lo seguì all'interno. Il soldato richiuse la porta dietro di loro. Amboise de Montsalvy era seduto in un angolo, sulla paglia, incatenato al muro. Chaffre respinse il capogiro che lo aveva aggredito e raggiunse il prigioniero, afferrandosi all'alto schienale di una delle sedie. Soltanto dopo qualche istante riuscì a mettere a fuoco il viso del suo avversario. Amboise de Montsalvy lo guardava con occhi attenti, duri, indagatori. A parte la vistosa traccia violacea intorno al collo non aveva altri segni né ferite evidenti. Soffriva per la sete, se non per la fame, ma ancora riusciva a nasconderlo. «Il tuo aspetto era migliore l'ultima volta che ti ho visto, signore di Montsalvy», esordì Chaffre, tentando di deriderlo. «Anche il tuo, Chaffre de Revard», ribatté Amboise. «Se fossi in te, non trascurerei il parere di un medico.» «Vuoi spaventarmi?» esclamò l'altro, già spaventato.
«Perché dovrei? Ti procuri da solo ogni tuo male.» «Basta!» intervenne Hugo di Chalon. «Come prigioniero non ti è concesso usare la tua arte di medico! Il vescovo di Chambéry ha voluto rendersi conto di persona dell'accusa che ti trattiene ad Auxerre, e questa è una dimostrazione di magnanimità da parte sua.» «No. È mosso dall'ignoranza e dalla paura. Doveva restarsene a Cluny, ed esigere la mia condanna per la mia assenza. Ma sono certo che tu, Hugo di Chalon, questo glielo hai già detto.» «Sono venuto con le migliori intenzioni, signore di Montsalvy, sebbene la tua assenza mi permettesse di chiedere la tua condanna, proprio come hai detto», lo interruppe Chaffre. «Quindi puoi renderti conto di quanto sono comprensivo e bendisposto. Sono qui per proporti un accordo. Vuoi ascoltarmi?» «Posso fare diversamente?» chiese Amboise, osservando con uguale attenzione la tensione di Chaffre e la paura di Hugo di Chalon. «Consegnami Illait di Isley e noi troveremo un altro colpevole per l'incendio della locanda. Sarai libero di andartene da Auxerre e io rinuncerò anche al giudizio a Cluny.» Amboise non rispose subito, come se stesse valutando quell'offerta che, almeno a giudicare dalla sorpresa sul suo volto, giungeva inattesa anche al vescovo di Auxerre. Ma Chaffre aveva parlato d'impulso, tentando di occultare la stessa cosa che spaventava Hugo di Chalon. «La tua magnanimità mi tenta, Chaffre», rispose infine. «Però c'è un punto che non hai considerato: io non rinuncio al giudizio a Cluny. Tu l'hai chiesto, ma io lo pretendo.» «Sei un pazzo!» insorse Chaffre. «A giudicarti dall'aspetto tu lo sei più di me. Io non ti consegnerei né Illait di Isley né l'ultimo dei miei servi, se sapessi dove trovare l'uno o l'altro. Posso soltanto consigliarti di venire con me a Cluny.» «Non uscirai vivo da qui», mormorò Chaffre, lasciando l'appoggio della sedia. Ma solo il braccio pronto dell'amico gli evitò di cadere a terra. Hugo di Chalon non si curò di avallare la minaccia. Portò fuori Chaffre de Revard e chiamò Odo perché ne avesse cura, poi ordinò al capitano della sua guardia di far chiudere tutte le porte della città e di restare in allarme. Gli erano tuttavia rimasti ben pochi uomini; gli altri li aveva mandati tutti nella foresta di Morvan, agli ordini di un vecchio monaco che agiva nel nome di Dio, convinto di essere nel giusto.
Valentin tentava d'ignorare i quattro soldati che lo accompagnavano, come ignorava i suoi concittadini che, incontrandolo, si voltavano dalla parte opposta per non correre il rischio di dovergli parlare. Si sentiva addosso l'accusa che nessuno osava pronunciare: tutto quello che era accaduto e stava ancora accadendo ad Auxerre era colpa sua, colpa della forza che lui aveva richiamato. Anche chi aveva sempre considerato gli alchimisti per quello che erano, cioè degli studiosi, ormai cominciava a pensare che il loro lavoro andasse al di là del consentito e che certamente non fosse nei limiti di ciò che poteva concedere la Chiesa. Valentin adesso sapeva che, se Hugo di Chalon lo avesse indicato come l'autore dell'incendio della locanda, i cittadini di Auxerre gli avrebbero creduto. Eppure, mentre percorreva la strada verso la porta di Saint-Amatre, Valentin si sentiva sereno; avvertiva che qualcosa stava andando a compimento, come se lui stesse collocando al suo posto l'ultimo tassello di un mosaico che riusciva a scorgere per la prima volta nella sua interezza. Aveva detto ad Amboise di conoscere ogni pietra e ogni ciuffo d'erba di quella strada, nella quale aveva giocato da bambino, sognato da ragazzo e che, da uomo, aveva percorso per tanti anni in tutte le stagioni. Si era rimproverato di non avere seguito le vie del mondo per restare ancorato a un porto sicuro... Ma adesso provava affetto per quella strada e quelle pietre, per ogni angolo, per il gatto grigio che lo aspettava sempre sul gradino dell'ultima casa prima della porta così da ricevere una carezza, per il modo in cui il sole s'infilava tra le feritoie delle mura, per il profumo del vento, diverso se soffiava dalla foresta o saliva dalle stradine. Non si fermò ad accarezzare il gatto: i soldati non glielo avrebbero permesso. Sentì tuttavia gli occhi d'oro della bestiola seguirlo, delusi, e si sentì in colpa, come se avesse tradito anche lui. A testa bassa, passò la porta di Saint-Amatre e percorse il lungo spiazzo aperto fino alla porta dell'abbazia. I soldati restarono fuori. Ilderico aveva mandato a riceverlo due dei suoi monaci, ma aveva avuto la premura, o la prudenza, di sceglierli tra quelli che non erano stati suoi allievi, e che si limitarono a un inchino, discreto e silenzioso. Con loro, Valentin raggiunse la sala delle udienze in cui tuttavia entrò da solo, restando poi sulla soglia, confuso. Nella stanza erano radunati i monaci anziani, consiglieri di Ilderico, oltre all'inviato dell'abate Odilone di Cluny, il venerabile Senals, ricco di anni e
grande studioso, ben conosciuto per l'acutezza dei suoi giudizi e la dichiarata stima per Amboise de Montsalvy, al quale però non risparmiava sferzanti richiami all'umiltà di pensiero, che a suo avviso gli mancava completamente. Nell'angolo opposto, avvolta in un mantello scuro e con i capelli nascosti da un velo trattenuto da un cerchio d'oro, Artemisia de Montsalvy appariva fiera come una regina, e altrettanto severa. Era sorprendente che tutti quei monaci, anziani e con un tale potere, la considerassero come se lo fosse, consentendole di essere presente all'incontro. «Vieni, maestro Valentin», lo invitò Ilderico, provando pena per lui. Valentin avanzò di qualche passo, poi posò un ginocchio a terra e restò così, chino, finché lo stesso abate non lo raggiunse e lo fece rialzare. Lo accompagnò quindi a una panca e gli tenne la mano. «Sei tra amici, maestro Valentin. Non temere», lo confortò, sentendolo tremare. «Ci conosci tutti da molto tempo; se ti abbiamo chiamato, è perché abbiamo bisogno di conoscere la verità. Soltanto così potremo aiutare Amboise de Montsalvy.» L'anziano alchimista sollevò lo sguardo su Artemisia, e si sentì trafiggere da una verità che non poteva più ignorare. «La mia piccola Agnes è morta, vero?» chiese in un soffio. «Artemisia de Montsalvy, alla quale avevi chiesto di cercarla nel monastero di Sainte-Madeleine, ha scoperto cose che tutti noi non avremmo mai voluto udire, maestro Valentin. La tua piccola Agnes, che io stesso ho benedetto nel momento della sua partenza dalla nostra città, è stata scambiata con un'altra fanciulla, la sorella di Illait di Isley, ed è stata bruciata al suo posto sul rogo di Chambéry dello scorso Natale.» «Chi ha potuto fare questo?» «È una lunga storia, Maestro. Questa dama ha liberato la giovane dalla sua prigionia nel monastero, ma, da quel momento, eventi terribili sono accaduti a Vézelay e tutt'intorno. Artemisia de Montsalvy ha già reso la sua testimonianza, scritta e giurata: sarà portata a Cluny per accusare Chaffre de Revard e i suoi complici, la badessa di Sainte-Madeleine e il vescovo di Auxerre.» «Questa giovane liberata... è qui ora?» mormorò Valentin, come se non avesse sentito che una parte di ciò che Ilderico gli aveva detto. Le parole della conversazione con Amboise gli danzavano vive nella mente... «... L'Aquila è il simbolo della sublimazione della materia, mentre il Cigno è l'Opera al Bianco...» «Ecco il punto in cui si trova la tua Opera. Nella lingua di Illait, il suo nome significa 'Aquila' mentre Ela, che era il nome
della sorella, significa 'Cigno.» «No, purtroppo», stava intanto dicendo Ilderico. «Sono stati inseguiti, in una terra già devastata da una tempesta di cui non si ricorda l'eguale a memoria d'uomo. Hanno dovuto dividersi per sfuggire agli inseguitori. Per grazia di Dio, Artemisia de Montsalvy e la sua scorta sono arrivate per prime, stamattina, e le guardie del vescovo non le hanno fermate. Ma di quella fanciulla, del capitano Colin che è con lei e dello stesso Illait di Isley non sappiamo nulla.» Valentin abbassò il capo. Aveva gli occhi lucidi, ma non gli importava di conservare la dignità di fronte a quei saggi con i quali un tempo aveva amato discorrere alla pari. «Odo di Chambéry mi ha ordinato di dimenticarmi di Amboise... e di non chiedere mai più nulla di mia nipote», spiegò. «Mi ha ordinato di chiudermi nel mio laboratorio e di concludere l'Opera. E di non fare null'altro. Mai più...» E riandò con la mente al momento in cui il vicario di Chaffre de Revard lo aveva inchiodato con quegli ordini. «Quindi l'accusa al signore di Montsalvy è falsa», intervenne Senals. «Non potrebbe essere più assurda!» Valentin quasi gridò. «Quando hai visto Amboise de Montsalvy per l'ultima volta?» «Ieri... quando mi hanno liberato. Dobbiamo fare presto, se vogliamo salvarlo.» «È chiaro che non possiamo ordinare nulla al vescovo di Auxerre», disse Senals. «Non ne abbiamo l'autorità. E non vedo in quale modo possiamo sottrargli il prigioniero.» «Soltanto un uomo ha più potere di Hugo di Chalon ad Auxerre: il duca di Borgogna», intervenne Artemisia, e tutti gli sguardi si rivolsero a lei, meravigliati più per il fatto che avesse parlato senza essere interpellata che per quanto aveva detto. Le sue parole, infatti, esprimevano una semplice verità. «È vero», ammise Senals. «Ma il duca si trova a Dijon, ed è ben noto che evita Auxerre come se fosse una città appestata. Enrico ha già i suoi guai, legati alla nomina del suo erede; di certo non si metterà contro Hugo di Chalon proprio in questo momento.» «Il duca di Borgogna sta giungendo ad Auxerre con il preciso intento di liberare Amboise de Montsalvy e rendere giustizia a lui, al maestro Valentin e a Illait di Isley, che più di tutti ha sofferto per colpa di Chaffre de Revard. Vi chiedo soltanto di aspettarlo», dichiarò Artemisia. «Come può essere?» esclamò Senals. «Come puoi dirlo con tanta sicu-
rezza?» «Colin Bois e Illait di Isley hanno incontrato il duca e il suo seguito sulla strada da Auxerre a Vézelay; quando ci siamo separati, all'uscita dal monastero, Illait di Isley ha preso la strada per Dijon, per raggiungerlo e chiedergli d'intervenire.» «Enrico di Borgogna non ha fama di ascoltare il primo arrivato e, anche se l'ha fatto, non è detto che gli abbia creduto... e che abbia accettato di venire!» proruppe Senals. Ilderico scosse il capo, fissando la giovane dama senza trovare, nei suoi occhi, neppure la traccia di un dubbio. «Le tue osservazioni sono giuste per chiunque, Senals, tranne che per quel giovane: io stesso, che l'ho incontrato proprio qui, ne sono rimasto fortemente colpito», osservò quindi. «Certamente l'abate Odilone, che l'ha conosciuto meglio di me, potrà spiegarti la natura di questa... Come la posso definire? Suggestione? Se, come dicono, il duca è malato, non credo vi si possa sottrarre.» «È dunque un guaritore, questo Illait di Isley?» «No. È un saggio che sa ascoltare molte voci», intervenne nuovamente Artemisia. Valentin sollevò il capo e sorrise al ricordo dell'immagine di Agnes che Illait aveva evocato per lui nell'angolo della cucina, dandogli tanta consolazione. «È vero. Standogli accanto ci si sente bene», confermò, guardando prima Ilderico, poi Senals, con gli occhi lucidi. «Che cosa devo fare?» «Restare qui, al sicuro. Aspetteremo il duca. Anch'io sono certo che non tarderà, se Illait di Isley è con lui», rispose l'abate. «Insieme con Enrico decideremo che cosa fare per liberare Amboise de Montsalvy.» «Io non posso restare qui: è per questo che Hugo di Chalon mi ha lasciato venire. Io devo continuare l'Opera.» Ilderico annuì gravemente; parlando dell'Opera, il tremito aveva lasciato l'alchimista e persino la paura se n'era andata dalla sua voce. «Soltanto l'Opera conta, adesso. È al Bianco; può bastare un nulla per la trasmutazione finale... un soffio, un batter d'ali», aggiunse Valentin, tentando di spiegare ai suoi ascoltatori quello che non poteva in realtà definire a parole. «Pregherò per la salvezza del mio amico Amboise e perché la giustizia divina raggiunga chi ha voluto il sacrificio di mia nipote», concluse, alzandosi. «Non avvilirti nel desiderio della vendetta», lo ammonì Senals. «Ricorda che soltanto un cuore puro può concludere l'Opera.» «Non dimenticherò la tua giusta osservazione, venerabile», disse Valen-
tin, inchinandosi. Poi sorrise ad Artemisia, s'inchinò ancora a Ilderico e uscì. I due monaci non lo avevano atteso e il vespro aveva svuotato il cortile. Un riflesso rossastro colava da occidente, dove il sole si stava inabissando in un velario nero e porpora frangiato d'oro. Il sicuro portale di Saint-Germain venne aperto per lasciarlo uscire, e subito richiuso alle sue spalle. I soldati lo aspettavano, e Valentin rivolse loro soltanto un vago sorriso, che i quattro ricambiarono scioccamente, senza capirlo. Passando accanto alla fontana, furtivamente gettò uno sguardo all'acqua: nello specchio immobile e completamente nero viveva un fremito bianco, sfiorato da un riflesso rosso. XVII Colin aprì gli occhi. Nel rifugio filtrava una debole luminosità. Un'allodola cantava lì accanto e la frescura gli aggrediva la pelle nuda. Però non erano state né l'una né l'altra a svegliarlo. Ela non si trovava più tra le sue braccia. La mancanza fisica del suo corpo lo afferrò con un dolore vivo, un'angoscia che per un istante gli fece mancare il fiato. Si sollevò immediatamente, s'infilò soltanto i calzoni e corse fuori del rifugio. Le prime luci dell'alba si stavano insinuando nel fitto degli alberi, e una nebbia lieve filava sul pelo dell'acqua, toccata dal riflesso bianco di un risucchio o di un mulinello nella corrente lieve. Quando la vide, immersa nell'acqua fino alla vita, l'angoscia si attenuò, ma non se ne andò del tutto, lasciandogli la consapevolezza del vuoto senza di lei. Si distese nell'erba, sul bordo del rialzo del terreno: Ela non l'aveva visto, né sentito, e si stava lavando. La sua tunica e la veste azzurra che Artemisia le aveva dato giacevano abbandonate sulla riva; i suoi gesti erano quieti, tanto che a occhi indiscreti poteva sembrare ella stessa una creatura della foresta, una di quelle misteriose presenze benefiche di cui parlavano le storie dei vecchi, raccontando di tempi in cui gli uomini ancora sapevano vedere e sentire al di là. Sembra un angolo di quel posto che Illait mi ha mostrato, dove cresce l'Albero del Mondo, pensò. Ela e io potremmo rimanere qui per l'eternità. Per un poco rimase a guardarla, assorto; sorrideva senza accorgersene. E non gli era mai accaduto prima di sorridere per una felicità così profonda. In quel momento, sentì il respiro: sembrava che qualcuno, passandogli accanto, lo avesse sfiorato, e fosse poi rimasto un istante, molto vicino, a
spiarlo. L'acqua del ruscello all'improvviso gli parve nera, e subito dopo rossa. Ela si volse e lo vide; non si era accorta di nulla. Con un sorriso, si decise a uscire dall'acqua. Colin la raggiunse con un balzo e l'accolse tra le braccia. «L'acqua dev'essere gelata», le mormorò. «Credo che questa sia una scusa», rispose Ela, lasciandosi stringere in quell'abbraccio. «Non possiamo fermarci», si rammaricò lui. «Vestiti. Dobbiamo andarcene da qui.» «E dobbiamo anche mangiare», disse Ela, allontanandosi di un soffio dalla sua pelle. «Sei di nuovo affamata?» scherzò Colin, trattenendola. Gli piaceva il modo con cui lo sfiorava con le dita sottili, e avrebbe voluto poter scacciare la sensazione provata al risveglio e quella ancora peggiore di un istante prima. «Sono affamata», ammise lei, staccandosi a malincuore per raccogliere gli abiti. Lasciarono il rifugio poco dopo; c'era la traccia di un sentiero che, dal torrente, risaliva verso l'interno, e Colin decise di seguirla perché andava comunque verso nord. La foresta era meno fitta in quel punto, ed era pulita, segno evidente che non si trovavano lontani da un villaggio, perché erano gli uomini a prendere alla foresta tutto ciò che serviva loro per vivere. Il giovane si fece ancora più prudente. All'improvviso, il tetto di paglia di una capanna, circondata da un grossolano recinto di rami, sbarrò loro il passo. Il sentiero che avevano seguito finiva lì. Si avvertivano l'odore di un fuoco acceso, e di pane che stava cuocendo, ma il forno non si scorgeva. Tenendosi tra gli alberi e i cespugli, costeggiarono il recinto: finiva su un sentiero largo due braccia, che Colin riconobbe come quello che da Vézelay portava ad Asquins, e che loro stessi avevano seguito finché non avevano incontrato i soldati. Poco oltre quel punto, il sentiero si allargava in uno spiazzo: da una parte e dall'altra sorgevano una dozzina di capanne, alcuni recinti con dei maiali, qualche legnaia. Appena oltre, il sentiero proseguiva fino alle rovine diroccate di una cappella senza tetto, e poi continuava decisamente verso nord. Asquins era tutta lì e lui, guardando meglio, vide che la tempesta aveva scoperchiato qualche capanna, abbattuto alcuni recinti e distrutto gli orti. Danni non troppo gravi, in fondo, rispetto a quelli subiti da altri villaggi.
Però non c'era nessuno in giro. Da una delle capanne giungevano soltanto il pianto di un bambino e la voce di una vecchia che tentava di quietarlo. Il giovane cercò qualche traccia del passaggio di uomini e soldati, ma il sentiero fangoso non permetteva di distinguere granché, da lontano. C'era un'unica cosa certa: nel forno del villaggio di Asquins, qualcuno stava cuocendo del pane. «Vieni. Giriamo intorno al villaggio fino alle rovine della cappella», ordinò a Ela, e i due tornarono nella foresta, tenendosi sul margine e non perdendo di vista i recinti e i tetti di paglia. Ma c'era davvero troppa quiete ad Asquins. Dov'erano gli uomini intenti a riparare i tetti crollati? E perché le donne non stavano negli orti, cercando di salvare il salvabile? Quella quiete poteva avere un unico significato: la gente era stata chiamata a una battuta. Nel villaggio non restavano che i vecchi e i bambini. Arrivarono a vedere le rovine della cappella e, da quel punto, scorsero anche il piccolo portico affacciato sull'ingresso volto a oriente, sul lato opposto allo spiazzo. Davanti al portico, zampillava una sorgente, nascosta dal muschio e sovrastata da una pietra alta e sottile, piantata saldamente nel terreno. «Questo posto sarebbe caro a tuo fratello», mormorò Colin. «E anche a me», replicò Ela sommessamente. Il giovane le strinse più forte la mano, cercando di farle capire che tutto ciò cui lei attribuiva un valore era ormai prezioso anche per lui e che nulla, nemmeno il rogo, lo avrebbe indotto a tradire quella devozione. «Aspettami qui e non ti muovere», le disse, lasciandole la bisaccia e la balestra carica. «Che cosa vuoi fare?» lo trattenne lei, allarmata. «Quand'ero bambino nessuno era più svelto di me nel rubare il pane appena sfornato. Ti ho ben detto che non sono mai morto di fame!» ribatté il giovane e si mosse, girando intorno alle rovine della cappella. Il forno, che serviva tutto il villaggio, si trovava nella prima capanna su quel lato dello spiazzo. Sotto una tettoia c'era la macina, da far ruotare a forza di braccia, e poco oltre il forno stesso, costruito con robuste pietre ben squadrate. Su un tavolo lì accanto erano stati messi alcuni pani già cotti. Le galline razzolavano intorno alla mola, raccogliendo i minuscoli resti della segala che era stata macinata. Il fornaio non era stato convocato per la battuta - forse perché troppo vecchio o troppo utile -, e in effetti Colin sospettava a chi fossero destinati tutti quei pani; di certo una cottura così abbondante era inconsueta per il piccolo villaggio, specialmente in tempo di carestia. L'uomo comparve per
un istante sulla porta della capanna, diede uno sguardo intorno e tornò all'interno, rassicurato dalla quiete. Colin si mosse subito dopo, rapido e silenzioso. S'infilò sotto la tettoia, attento a non disturbare le galline, passò davanti alla mola e raggiunse il tavolo, afferrando due pani e allargando gli altri, in modo che la loro mancanza non fosse evidente. Poi infilò i pani nella giubba e tornò sui suoi passi. Un momento dopo si trovava di nuovo accanto a Ela. «Profumi di buono», mormorò lei. «Andiamocene, adesso!» replicò il giovane, riprendendo la bisaccia e la balestra. I due si rituffarono nella foresta, girando intorno alla cappella in rovina a cercando di non perdere di vista il sentiero che proseguiva verso nord. Colin era sul chi vive. Da qualche parte, lì intorno, dovevano esserci gli uomini della battuta e forse anche qualche soldato; non poterli vedere, e quindi non poter prevedere una difesa, era la sua debolezza. Camminarono a lungo e in silenzio. A tratti, fra gli alberi, si scorgeva il luccicare di un rigagnolo; l'ora doveva essere oltre la sesta, a giudicare dal sole alto e dalla quantità di luce che riusciva a toccare la base degli alberi. C'erano poi alcuni punti in cui il rigagnolo si allargava in piccoli stagni, e lì la foresta si diradava in radure di erba alta. In altri punti lo stesso sentiero vi s'infilava per arrivare all'acqua, e allora i due dovevano arretrare nel folto, per non correre il rischio di essere visti da lontano. Alla terza deviazione di quel genere, Colin concesse a Ela una sosta; si fermarono a mangiare un pane, ma, mentre la giovane si sedette per riposare, lui rimase in piedi, mangiando con la balestra pronta e il braccio disteso lungo il fianco. E fu soltanto grazie alla sua prontezza che evitò di uccidere un ragazzo non appena questi sbucò dal bosco, con un coltello in una mano e un cesto di radici e di cipolle selvatiche nell'altra. Era assai alto e così magro che pareva quasi ripiegarsi su se stesso. Quando scorse i due, si fermò di botto, anche perché la balestra era puntata contro di lui e il dito di Colin pronto a scattare. Ela si alzò immediatamente. «Vieni avanti!» ordinò Colin al ragazzo, ma questi scosse il capo, lasciando cadere il cesto e il coltello, e non si mosse. «Non avere paura», aggiunse Ela. Il ragazzo sbatté le palpebre, come se l'avesse vista solo in quel momento.
«Sei di Asquins?» chiese il capitano. Di nuovo il ragazzo scosse il capo, aprendo la bocca e chiudendola senza emettere suono. Poi all'improvviso girò loro le spalle e corse via, schizzando nell'acqua a grandi falcate. «Non ucciderlo!» esclamò Ela, fermando Colin nell'istante in cui lui stava per far partire la freccia. Lo avrebbe preso facilmente, anche a quella distanza, ma obbedì e abbassò il braccio. «Perché no?» ribatté tuttavia. «È poco più di un bambino! Forse non era nemmeno in grado di sentirti, o di risponderti», mormorò lei. «Col cuore tenero non si resta vivi», borbottò Colin, rammentando uno dei suoi principi di vita prima dell'incontro con Illait di Isley. «Andiamocene subito», disse poi a Ela. «Forse davvero è un imbecille, ma noi non lo sappiamo.» Prese il coltello e diede un calcio alla cesta del ragazzo, scaraventandola in acqua; la corrente immediatamente se ne impadronì portandola via. Poi afferrò Ela e si addentrò nella foresta. «Così perderemo di vista la strada», osservò la giovane. «Finché possiamo vedere il sole, abbiamo la direzione», la rassicurò lui. In quel punto, la foresta si apriva a tratti in piccole radure di erba alta, segnate dal passaggio dei cinghiali e dei cervi e colme d'insetti ronzanti e di api. Colin avvertì l'odore nell'aria. Lo avvertì con la sensibilità della preda in trappola; il respiro del vento che sfiorava l'erba portava un odore di uomini. Trattenne Ela, ordinandole con un cenno di rannicchiarsi a terra. Quasi contemporaneamente gli arrivò il baluginio di una lama, forse un'ascia, a meno di venti passi da lui, tra l'erba. Afferrò il coltello che aveva preso al ragazzo, e lo lanciò verso quella luce; ci furono un tramestio e il tonfo di un corpo che cadeva, ma nessun grido. Un attimo dopo, due uomini si precipitarono, urlando, contro di lui. Uno brandiva soltanto un grosso bastone, e l'altro un'ascia da legna. Sebbene non fossero soldati, erano comunque forti e massicci e soprattutto animati dalla promessa della ricompensa. Parò l'attacco del primo, aprendogli la gola col coltello nel momento in cui il giovane, del tutto ignaro in fatto di lotta, gli piombava addosso; poi schivò l'ascia del secondo, rotolando via e afferrandogli subito dopo il polso della mano che reggeva l'arma. Avvinghiati, finirono nell'erba. Il capitano gli assestò un colpo in pieno petto col ginocchio e l'altro finì all'indie-
tro, con un urlo strozzato, perdendo l'ascia, che Colin prima afferrò e poi abbatté, di piatto, sull'avversario che cadde a terra, morto. Il giovane ordinò con un cenno a Ela di restare dov'era, e rimase egli stesso immobile. Nella radura persino il ronzare degli insetti si era zittito; piccole mosche nere già si ammassavano sul primo morto, ma il loro volo era silenzioso. Colin si guardò intorno. C'era ancora qualcuno. Tuttavia, per quanto si sforzasse, non riusciva a sentirlo né a vederlo. Poi avvertì un lieve rumore: un uomo si stava spostando con cautela, ma portava una giubba di cuoio rigido che, sfregando sul terreno, faceva rumore. Non era soltanto un uomo. Era un soldato. Nello stesso momento in cui Colin si girò, intuendo da quale punto sarebbe venuto l'attacco, la freccia lo colpì alla coscia destra. Era stata scoccata da una balestra e si conficcò con forza, facendogli perdere l'equilibrio. Lui assecondò la caduta, rotolando nell'erba ed evitando così la freccia della seconda corda, che passò alta sulla sua testa. Cadendo, però, la parte superiore della freccia sbatté contro il terreno, affondando nella carne. Il giovane riuscì a mettersi in piedi appena in tempo per sostenere l'urto del soldato, che adesso lo caricava con la spada. Finse di scivolare sotto la sua spinta, e si piegò, piantandogli il pugnale nello stomaco nel preciso istante in cui il soldato, con un urlo di trionfo, pensava di averlo ucciso. L'uomo scivolò a terra, con un'espressione d'incredulità sul viso, e rimase immobile, con la faccia nell'erba. Colin si tirò indietro; l'unico segno visibile della sua ferita era un piccolo alone di sangue scuro, ma gli procurava un dolore che pareva un fuoco vivo, attizzato a ogni minimo movimento. Spezzò la coda della freccia e prese una delle stringhe di cuoio che chiudevano la giubba del soldato per farne un laccio, che poi legò al di sopra della ferita. Tese quindi la mano a Ela, che l'aveva raggiunto con la sua balestra e la bisaccia; era pallida, ma non c'era traccia di paura nei suoi occhi, se non per lui. «Andiamo», le disse, prendendo la balestra. Per ben tre volte passarono accanto ad altri gruppi di uomini in caccia, però riuscirono a nascondersi mettendosi distesi ora tra le felci alte ora sotto le rocce coperte di muschio e infine in un canneto in riva all'acqua. Col passare del tempo, però, il dolore provocato dalla freccia si acuì, obbligando Colin a fermarsi spesso e dandogli un'andatura che gli faceva lasciare tracce evidenti. Ela lo sosteneva, ma, anche così, procedevano ormai troppo lentamente.
Il cerchio si stava chiudendo. Colin lo sapeva. I soldati che stavano guidando la caccia avevano fatto di Asquins il punto centrale, e da lì si erano allargati a raggiera; la loro unica speranza era di poter uscire dal cerchio prima che fosse chiuso... ma procedendo così lentamente era un'impresa impossibile. La foresta stava cedendo il passo alla boscaglia, le piccole radure erano sempre più frequenti, rigagnoli d'acqua correvano ovunque; c'erano pagliai, nelle radure, e rifugi di pietre cui gli uomini avevano aggiunto coperture di frasche o di rami secchi. Ripararono in uno di quelli, sul limitare di una radura rossa di papaveri che il tramonto vestiva d'ombra. C'erano alcune pietre piatte all'intorno, con i resti di un fuoco e ossa di piccoli animali; l'interno sembrava abbastanza ampio, il suolo era di terra battuta e di roccia, e un graticcio di frasche fungeva da porta. Ela lo riaccostò subito, non appena furono all'interno, mentre lui si stendeva a terra, cercando nell'immobilità un po' di sollievo al dolore. La ragazza gli s'inginocchiò accanto. Per qualche istante ci furono soltanto i loro respiri, affannati. «Dobbiamo accendere il fuoco e togliere la freccia», disse Ela, sfiorandogli una mano. «Toglieremo la freccia, ma niente fuoco. Non stanotte.» «Ma bisogna bruciare la ferita per fermare il sangue, quando la freccia sarà tolta!» obiettò lei. «Somigli molto a tuo fratello, lo sai? Anche lui dice le cose nello stesso modo e con lo stesso risultato: farti sentire in torto.» Riuscì a farla sorridere per un istante; poi le prese la mano, e se la portò al cuore. «Sono un vecchio guerriero e non morirò per così poco. Guarda come si fa, mia piccola signora...» Si mise seduto e prese il coltello, saggiandone la lama con la punta di un dito. Quindi lacerò i calzoni tutt'intorno alla ferita, aprì la carne, afferrò il moncone di freccia con entrambe le mani e lo tirò via. Ela gli tamponò la ferita con un pezzo della propria tunica; il laccio ben stretto al di sopra conteneva la perdita di sangue, ma non poteva fermarla del tutto. «Dobbiamo bruciarla», insistette lei. «No», replicò Colin, e l'attirò a sé. Ela rimase immobile, con le braccia intorno al collo di lui, senza parlare. E lui, ricacciando la paura e il dolore, l'abbracciò. «Sei una brava moglie», le mormorò in un orecchio. «Obbediente.»
Ma Ela non rispose. XVIII «L'abbazia di Saint-Germain è illuminata dalla tua presenza, duca», disse Ilderico, andando ad accogliere Enrico di Borgogna non appena questi fu smontato da cavallo nel vasto cortile centrale, in mezzo a due ali di monaci e di studenti tra i quali si andava diffondendo un vago allarme. «Non ti credo, abate», ribatté il duca di Borgogna, ignorando la piccola folla e la sorpresa di Ilderico. «Eppure fingerò di farlo.» Si rivolse alla scorta che l'aveva seguito all'interno dell'abbazia: il conte di Macon, il fido Alvalone, sei guardie e Illait di Isley, che smontò per ultimo, ma che lo stesso duca si degnò di aspettare per averlo al proprio fianco. L'abate comprese all'istante che cosa rivelava quel gesto: quel giovane godeva della protezione del duca, e tutti avrebbero fatto meglio a ricordarlo. «La giovane dama di Montsalvy aveva ragione», commentò quindi, considerando «l'abilità» di quello straniero di cui pure aveva già sperimentato la capacità di suggestione. «Conosco questa dama?» esclamò il duca. «È la pupilla di Amboise de Montsalvy: la sua allieva prediletta e, a quanto si dice, più capace. Una giovane donna in grado di parlare e leggere in molte lingue, e maestra nell'arte della medicina.» «Dio ci guardi da una dama di tanta cultura. Già le donne sono pericolose quando sono sciocche!» borbottò Enrico. «Se sono colte e intelligenti, poi, si mettono in mente di poter fare le cose degli uomini!» «È per merito suo che è stato portato alla luce un terribile delitto che tu devi conoscere, signore di Borgogna, e che è legato all'ingiusta accusa che trattiene prigioniero il signore di Montsalvy.» «Già lo conosco! Questo giovane possiede l'arte di raccontare oltreché quella di convincere», replicò il duca, facendo un cenno verso Illait. «E non possiamo perdere tempo, ora, col resto dei miei uomini accampati sullo Yonne poco oltre l'ultima curva! Chalon potrebbe pensare che io sia venuto ad assediarlo!» «E non è così?» chiese l'abate. «Con cinquanta uomini non si assedia una città come Auxerre.» «Hugo di Chalon non ne ha di più, in questo momento; li ha mandati tutti nella foresta di Morvan. Tu conosci la sua debolezza, ma lui non conosce la tua», obiettò Ilderico, facendo strada per la sala delle udienze e for-
zandosi a ignorare la crescente mancanza di discrezione dei monaci e degli studenti che parlottavano fittamente tra loro. D'altra parte la tensione era andata crescendo nell'abbazia; supposizioni e commenti correvano di bocca in bocca al punto che tutti non soltanto aspettavano il precipitare degli eventi, ma si preparavano anche ad affrontarli. Nella sala delle udienze tuttavia c'erano soltanto Senals e il giovane monaco addetto al suo servizio; il duca ordinò alle guardie di restare fuori e si accomodò nello scranno dell'abate, mentre Ilderico chiedeva al giovane monaco di far entrare Artemisia de Montsalvy, e di portare vino e acqua aromatica per gli ospiti. Illait non tentò di rimanere in disparte, pur dovendo arginare le emozioni che gli venivano dal luogo. Lì, dove gli abati di Saint-Germain esercitavano il loro potere da quando la primitiva abbazia era stata costruita secoli prima dalla regina Clotilde, lui si sentiva riconosciuto. E respinto. Il Drago trafitto, sullo schienale dello scranno dell'abate, era un sigillo che lo escludeva dall'assemblea. «Così tu saresti il giovane di cui tanto si parla», lo apostrofò Senals, che sedeva sulla panca più vicina allo scranno» «Spesso si parla per confondere», disse Illait. «Lo sai che Amboise de Montsalvy sta rischiando tutto ciò che possiede per causa tua?» lo sfidò il vecchio monaco, aspro. «Ciò che hai detto non è esatto. E, se conosci Amboise, non c'è bisogno che sia io a spiegarti perché non lo è», replicò Illait. Il suo tono era gelido, quasi ostile, incrinato da qualcosa che poteva sembrare dolore. «Amboise de Montsalvy sta rischiando tutto ciò che ha affinché i principi in cui crede non siano sopraffatti dall'ipocrisia e dalla falsità. Tu gli rimproveri troppa sapienza e poca umiltà; sai che è stato un delitto chiamarlo in giudizio, eppure una parte di te ritiene che quello sia il giusto castigo per la sua caparbia difesa della ragione che non si sottomette.» «Non avevi torto, abate», commentò il vecchio monaco, rivolgendosi a Ilderico. «Non si può fare a meno di ascoltarlo, e di certo ha la capacità di leggere nelle pieghe riposte della mente. Ma chi gli procura una simile abilità? Siamo al sicuro permettendogli di parlare qui, tra queste mura?» «Perché non ti chiedi quale diritto aveva Chaffre de Revard di portare in giudizio Montsalvy, visto che è lui ad aver commesso i delitti?» lo interruppe Enrico, poco disposto a farsi mettere in disparte dal vecchio monaco e soprattutto deciso a non farsi trascinare su un terreno pericoloso; l'arrivo di Artemisia tuttavia evitò al monaco di dover rispondere, e anche il duca
accolse la giovane con un sorriso di sollievo. «Ecco finalmente qualcosa di piacevole per gli occhi anche in un luogo come questo!» esclamò, facendole cenno di avanzare. Artemisia portava un abito verde, poco più scuro della sopravveste senza maniche; la ornava discretamente una collana, con una croce di granati, e un corto velo le nascondeva i capelli. S'inchinò con grazia, ma il suo sguardo si posò subito su Illait. Il duca sorrise dell'apprensione che aveva letto negli occhi della fanciulla. «Anche pensare di avere il sorriso di una giovane dama è mancanza di umiltà, in un vecchio!» commentò. «Perdonami, mio signore», rispose Artemisia. «Ero in pena per il signore di Isley, e ancora lo sono per sua sorella e il capitano Colin Bois... Avevo sperato che si fossero uniti a te per giungere ad Auxerre. Ma ero certa che saresti venuto, e te ne sono grata.» «Noi non abbiamo incontrato nessuno lungo la strada; soltanto straccioni in caccia e soldati che distruggevano quello che la tempesta aveva risparmiato», rispose Enrico. «E comunque, come dice il nostro venerabile monaco, è difficile non cedere ai suggerimenti del signore di Isley: sono qui e so quello che è accaduto, quello che Chaffre de Revard e i suoi complici hanno fatto a Illait di Isley, a sua sorella e alla nipote del maestro Valentin, l'alchimista, e so anche quello che sta ingiustamente accadendo ad Amboise de Montsalvy. Quello che ancora ignoro è come posso entrare ad Auxerre e togliere la città a Hugo di Chalon con cinquanta uomini.» «Da ieri l'altro, cioè da quando il maestro Valentin è stato qui, Hugo di Chalon ha fatto chiudere le porte della città. Nessuno entra, se non è riconosciuto», precisò Ilderico. «Io posso farti entrare ad Auxerre», intervenne Illait. «Ammesso che tu faccia esattamente quello che ti dirò.» «In quanto a umiltà, nemmeno tu ne sei ben provvisto!» disse Enrico, divertito. «E come pensi di riuscirci? Farai aprire le porte o cadere le mura con qualche magia?» «Attento, duca, non lasciarti trascinare!» lo ammonì Senals. «Ricorda in quale luogo ti trovi. Non accettare offerte che portano l'impronta degli dei pagani. Non renderti indegno agli occhi di Dio.» «Adesso che sono vecchio e che potrebbe restarmi soltanto un'altra estate dopo questa?» ribatté il duca. «Che cosa dici, mio signore?» intervenne Ilderico, allarmato. Enrico lo quietò con un cenno della mano, fissando Illait, che non si era
scomposto. In certi momenti, e quello era uno, gli sembrava strano che quel giovane potesse tenerli in pugno tanto facilmente. Eppure era così. E se davvero fossero stati tutti preda di una qualche magia? «Davvero puoi farmi entrare?» insistette tuttavia. «Sì.» «Che cosa ti occorre?» «Nulla. Soltanto che tu e i tuoi uomini siate pronti nel punto in cui vi dirò di aspettare.» «E mi assicuri che prenderemo Auxerre, che non è mai stata presa, e con soli cinquanta uomini?» «Sì.» Enrico trasse un sospiro che gli uscì tra i denti come un sibilo, poi annuì. Non era mai arretrato di fronte a un azzardo, e quella sarebbe stata la sua ultima battaglia; un ritorno alla lotta, una coppa di vita cui bere fino a saziarsi, a onta della sua stanchezza. Gli occhi gli brillarono. Sapeva che il giovane sentiva l'eccitazione che lo pervadeva all'idea di quella conquista, e gliene fu grato, come se gli avesse offerto un dono: l'occasione di essere ancora se stesso prima di morire. «Ti credo, Illait di Isley», dichiarò. «Il cristiano duca di Borgogna si affida così facilmente a chi gli promette una magia?» intervenne Senals. «E quando avrai preso la città, come potrai elevare il tuo ringraziamento a Dio? Con quale coraggio potrai pronunciare il Suo nome dopo esserti venduto agli dei pagani?» «Ritengo la guida di questo giovane una cosa buona, e le tue paure ingiustificate, perché anche lui pregherà con noi», rispose Enrico, tacitando il vecchio monaco con un cenno di fastidio. «Quando ci muoviamo?» chiese quindi a Illait. «Subito.» «E tu dove sarai?» «Al tuo fianco.» «Hai sentito, Alvalone?» esclamò il duca, lasciando lo scranno. «Muoviamoci!» Quando Illait passò accanto ad Artemisia, lei lo trattenne. «Stai male?» gli domandò in un sussurro. «È Maude. Ho reagito con la collera alla devastazione che lei ha causato alla terra e, facendolo, mi sono esposto al ritorno della mia stessa furia. Questo ci ha uniti più di quanto avrei voluto... Quella donna è forte e assai abile. Ma ora si sta allontanando. Ha lasciato Vézelay.» «È fuggita!» esclamò Artemisia.
Illait annuì. La giovane adesso vedeva chiaramente sul suo viso i segni della fatica e della lotta che aveva sostenuto da quando si erano separati. «Speravo tanto che Colin ed Ela si fossero uniti a voi!» mormorò. «E io speravo di trovarli già qui. Ma posso sentire davvero poco, oltre a Maude, e quel poco è deformato dalla sua presenza.» «Quando ci siamo separati, Colin ha preso la via per Asquins. Eravamo inseguiti. Ma tu hai detto al duca di poterlo far entrare in città... Come?» Illait sorrise, con quel sorriso lieve che lo faceva sembrare più giovane di quanto non fosse. «Nessun muro trattiene l'Alito del Drago», spiegò. «Ma se Maude è ancora con te...» «Dovrà ritirarsi prima di esserne annientata, e sono certo che lo farà. Aurac e Risson?» «Sono qui, con Isette. Siamo alloggiati nella foresteria. Hai bisogno di loro?» «Devono raggiungerci al passaggio che conduce alla casa del maestro Valentin.» «Vuoi servirti della sua Opera!» «Sì», ammise il giovane. «Ma non dirlo a nessuno.» Poi si allontanò, perché Alvalone era apparso sulla soglia e lo chiamava. Ilderico stava benedicendo il duca e la sua scorta; tutti avevano posato un ginocchio a terra e ascoltavano in silenzio la preghiera dell'abate. All'apparire di Illait, in piedi alle spalle del vassallo, che si era inginocchiato a sua volta, un mormorio lieve, più di paura trattenuta che di disappunto, scivolò sui presenti. Quel giovane che dicevano convertito e che aveva appena annunciato di saper compiere un prodigio non pregava con loro, dunque non era uno di loro. Artemisia, che si era affacciata alla soglia, colse quel dubbio e l'ostilità che sollevava. Si sfilò rapidamente dal collo la collana con la croce di granati e, raggiunto Illait, gliela mise. «Tu mi hai lasciato la tua protezione con Maude, io ti lascio la mia con questi uomini che non sanno vedere e per questo hanno paura», gli mormorò. «Accettala, ti prego. Con qualsiasi nome.» Illait sorrise, sfiorando i granati. Le pietre erano calde. «Grazie», mormorò di rimando, abbassando il capo. «Mi sarà sacra e preziosa.» Quando il giovane passò davanti a Ilderico, il sole trasse un bagliore dai granati. L'abate si lasciò sfuggire un sorriso. La preghiera era finita, e gli uomini stavano montando in sella; l'ostilità si era attenuata dinanzi a quel
simbolo evidente accettato con tanta serenità dal giovane. Tuttavia restavano i dubbi per quello che lui aveva promesso di fare. Il sole ormai correva verso l'ora nona, e si era alzata una brezza lieve che portava in alto la polvere smossa dai cavalli. Dalle mura l'avrebbero vista. L'abate si rivolse ad Artemisia con una vaga apprensione. «Sembra che tu possieda una grande influenza su quel giovane, mia signora. Forse tu sai come può far entrare il duca in Auxerre? Quali forze che dobbiamo temere saranno al nostro fianco in quest'impresa?» «Tutte quelle che nascono dalle nostre paure, abate. Soltanto dalle nostre paure», rispose la giovane. «E ora ti chiedo di congedarmi. Permettimi di tornare al mio alloggio.» Ilderico annuì, perplesso. Stava dimostrando la sua volontà di appoggiare le intenzioni di Odilone di Cluny, e certamente quelle di Gerberto di Aurillac, più di quanto il suo buonsenso gli suggeriva, eppure si rendeva conto di quanto fosse pericolosa, per la sua posizione, l'accoglienza concessa a Illait di Isley. Se aveva dei nemici, e di certo ne aveva - come tutti del resto -, essi potevano facilmente attaccarlo per quel suo gesto, sebbene Artemisia de Montsalvy avesse agito con prontezza e abilità al momento giusto. Senals, sulla soglia, osservava la scena con l'aria compiaciuta di un vecchio che ormai conosce bene la vanità degli affanni umani. «La dama ha ragione, abate. Gran parte della forza dei nostri nemici è la paura che abbiamo di loro», commentò. «Dobbiamo pregare, Senals», ribatté Ilderico, senza apprezzare quell'intervento. «Nell'aria non ci saranno soltanto le nostre preghiere devote. Non senti la forza che si sta alzando dalla terra? No? Io sono molto vecchio, ma tanto tempo fa potevo sentire queste cose... come un brivido sotto la pelle, o un'onda, che ti spazza, e ti lascia le ossa tremanti. È l'Alito del Drago. È così che lo chiamavano anticamente.» Senals alzò i piccoli occhi stanchi a guardare il sole, facendosi schermo con le mani. «L'Alito del Drago corre veloce. E, quando toccherà il sole, noi che cosa faremo?» «Che vuoi dire?» «Dovremo liberarci di colui che porta tra noi la forza di quella conoscenza che non è riservata agli uomini, e non cedere alle sue lusinghe.» «Attento, Senals. Dovresti prestare attenzione alle orecchie che possono ascoltarti.» «Io non ho detto niente. Forse tu hai dato voce alle tue paure?» replicò il
vecchio, voltandogli le spalle per rientrare. Di là dalle mura, Auxerre, arroccata in difesa, sembrava una città senza vita nel sole alto. «Maestro!» esclamò Pognon, scuotendolo per le spalle con un'arroganza che, in altri tempi, non si sarebbe permesso. «Guarda l'aludel!» Valentin aprì gli occhi. In realtà non stava dormendo; si era semplicemente lasciato andare al torpore e ai ricordi che gli affollavano la mente. L'intrusione del servo gli parve simile a quella di un insetto molesto, e tentò di scacciarlo agitando una mano. «Vieni a vedere!» gli ordinò Pognon, spingendolo bruscamente ad alzarsi. Di malavoglia, l'altro obbedì. «Che cosa c'è che non può aspettare?» chiese poi, stizzito. «La tua Opera, maestro Valentin!» ribatté Pognon trascinandolo fino all'atanor. Chiuso nell'aludel di cristallo di rocca, il pugno di materia bianca era diventato luminoso e aveva preso a pulsare lentamente. Nel suo interno si stavano formando gocce di colore rosso, che brillavano come stelle. Valentin si stropicciò gli occhi, temendo che fosse uno scherzo della vista. Quindi si chinò, per guardare prima di fronte poi di lato. No, non era la sua immaginazione: quel battito lento, simile a quello di un cuore, stava rendendo viva la materia. «È successo anche quando il pagano la guardava; ma non c'erano quelle macchie!» mormorò Pognon, con voce incrinata dalla paura. «Attento all'atanor», gli ordinò l'alchimista, ignorando il commento. «Il calore deve restare costante! Non deve esplodere adesso!» Si coprì il viso con le mani, tentando di raccogliersi in preghiera. Era un buon cristiano, e doveva farsi trovare pronto alla trasmutazione... La trasmutazione. Mio Dio, pensò. Si porterà via la mia vita. Ciò che è stato importante non lo sarà più; ciò che era nascosto diventerà conosciuto, ciò che era straordinario diventerà quotidiano, ciò che aveva limiti sarà infinito... Lasciò filtrare uno sguardo dalle mani congiunte davanti al viso: la materia stava diventando rosso vivo. Una specie di suono, un respiro o un soffio, sembrava venire non soltanto dall'aludel, ma anche da ogni angolo della stanza: dalle spesse mura, dalle pietre del pavimento, dall'aria stessa; un calore crescente si stava impossessando dell'ambiente. «Sta mutando!» urlò Pognon. «Sta mutando!»
E sembrava la sua vittoria, con la sua Opera. Fu in quel momento che Valentin sentì la risata; era un riso di bimba, allegro, e subito dopo udì il suo nome, ripetuto con infantile insistenza. Si girò a seguire quel richiamo, stupito, e la vide, sul gradino della scala che portava alla cucina, col suo cesto di frutta appena raccolta sotto il braccio. Era Agnes, ma non aveva più di sei anni, e la sua innocenza gli colmò il cuore: era forse quella la prima trasformazione? Tornare a quell'innocenza perfetta che era purezza, ma anche allegria? Tornare liberi da ogni peccato, perché semplicemente del peccato non si conosceva nemmeno l'esistenza? O forse era un inganno, per costringerlo a lasciare il suo posto, ad abbandonare l'Opera? Dev'essere un inganno... Agnes è muta fin dalla nascita. Non ho mai potuto sentire la sua voce. La bambina gli tese le mani, ma Valentin esitò. Quando infine si mosse, Pognon lo richiamò, gridando: «Che cosa fai? Dove vai proprio adesso?» «Non la vedi, Pognon? Non vedi nulla?» Il servo scosse il capo. «Ci siamo soltanto tu e io in questa casa, Maestro, e i quattro soldati di guardia al passaggio. Chi dovrei vedere?» La bambina era impaziente; nell'aludel ci fu un movimento deciso e poi un soffio lo investì: quasi il passaggio di un'ala bianca che lasciava di sé un bagliore, rosso come il sangue. Pognon cadde in ginocchio, ma Valentin avanzò verso la bambina e la sua mano tesa, arrivando a sfiorarle le piccole dita. «Prendimi!» lo esortò la piccola Agnes e, ridendo, risalì la scala. Valentin le corse dietro. Era già sulla sommità quando l'alito lo raggiunse. Gli sembrò che un sole sfolgorante lo avvolgesse, bruciandolo, e aprì la bocca per urlare; ma non gli uscì nessun suono, perché ogni suono era coperto dal fragore che veniva dall'aria stessa. Un istante dopo l'intera casa gli rovinava addosso; Valentin si sentì cadere. L'immenso sole che l'aveva sfiorato si era già spento, lasciandolo nel buio. XIX Il duca Enrico di Borgogna, il seguito e i soldati avevano atteso, trattenendo più il dubbio che l'impazienza; la fitta boscaglia sulla riva dello Yonne, dove Illait aveva detto loro di riparare, non poteva nasconderli ancora per molto alle sentinelle che di certo Hugo di Chalon aveva disposto
sulle mura. «È una follia», mormorò il conte di Macon all'orecchio del suo duca. Illait di Isley stava immobile, in sella al proprio cavallo, un po' avanzato rispetto a tutti loro, così che non potevano vederlo in volto. Indicando il giovane con un cenno del capo, Mâcon insistette: «Perché ci siamo fidati di lui?» «Ascoltate!» intervenne Alvalone. «Non c'è più nessun suono.» Era vero: all'improvviso il silenzio si era fatto assoluto. Non si sentivano battere d'ali né versi d'uccelli, né lo scorrere dell'acqua né la brezza... Neppure una delle innumerevoli voci del giorno. «Questa è magia», esclamò il vassallo, ma persino la sua voce sembrò diversa, in quel vuoto. Un sole abbagliante dilagò in quel momento al di sopra delle mura. Un fragore improvviso afferrò la terra, facendola tremare; un attimo dopo, quel tratto di mura e la casa che vi stava addossata crollarono, alzando una spessa nuvola di polvere. Qualcuno tra i soldati gridò per la sorpresa, e tutti tentarono di ripararsi gli occhi senza perdere il controllo dei cavalli spaventati. Qualcuno si segnò, farfugliando una preghiera. Illait di Isley, in apparenza imperturbabile, si spinse per primo in direzione del varco che si era aperto, ampio abbastanza per consentirgli di passare senza smontare da cavallo. Era una fortuna che nessuno degli uomini potesse vederlo in faccia. Nel momento in cui Maude lo aveva abbandonato, spezzando anche l'ultimo legame, aveva sentito la risata e la promessa della donna: non avrebbe rinunciato a lui, né al Potere, né alla vendetta... che già si stava compiendo. E Illait ne aveva avuto in quel preciso istante la coscienza nel corpo e nell'anima. Poi l'Alito del Drago aveva spazzato da lui ogni altro pensiero e, per un istante, anche la sua stessa esistenza era rimasta in bilico sul confine mutevole dei mondi, investita dall'onda dell'energia. Enrico di Borgogna reagì, alzando la spada e spronando il cavallo; tutti poi si mossero, trascinati dal suo esempio. Qualcuno sulle mura urlò. Ma, come aveva detto una volta Valentin, quella strada aveva perduto da tempo gran parte dei suoi abitanti, e quelli rimasti erano troppo terrorizzati dall'evento appena accaduto per muoversi. Così nessuno si parò loro davanti per fermarli; ma non indugiarono a guardare le rovine della casa, ancora nascoste dalla polvere. Un forte odore di bruciato si stava infatti diffondendo
rapidamente, anche se non c'era traccia di fuoco. Vedendoli passare, l'uomo della bottega con l'insegna della lana cadde in ginocchio, pregando, neanche si trovasse di fronte dei diavoli spuntati dall'inferno. Qualcun altro però stava coraggiosamente correndo in avanti, tentando di dare l'allarme, mentre porte e finestre venivano rapidamente sbarrate da mani invisibili. Dilagarono nella Via Larga, risalendo al galoppo verso la piazza delle Erbe e travolgendo quei pochi soldati che, richiamati dalle urla, accorrevano, lasciando le mura. Allorché sbucarono nella piazza si allargarono, assaltando la guardia che si stava disponendo a difesa del palazzo del vescovo. Non più di trenta uomini, con le spade sguainate, che i cavalieri del duca travolsero facilmente. Enrico di Borgogna, incurante di Alvalone che gli restava al fianco come se temesse di vederlo crollare da un momento all'altro, si sentiva invece incredibilmente bene, e assaporava l'eccitazione di quell'assalto. Si sentiva vivo, e gli sembrava che tutto avesse una nuova forza. Spinse quindi con slancio il cavallo a salire gli alti gradini verso il portale aperto del palazzo del vescovo e solo all'ultimo istante lo trattenne: Hugo di Chalon, seguito dai chierici e dal vicario, gli stava venendo incontro col bastone pastorale sollevato. «Con quale diritto entri nella città come un nemico, portando la morte?» esclamò il vescovo. «Perché tu non mi avresti aperto le porte per ascoltarmi da amico!» ribatté Enrico. «E se questa non è una resa, Hugo di Chalon, ti consiglio di fare in modo che lo diventi!» Alvalone, che era smontato da cavallo, fu tanto veloce da sorprendere il vescovo, che si trovò la punta della sua spada contro il petto. Il soldato non aspettava che un ordine del suo signore e non avrebbe avuto esitazioni a uccidere Hugo. «Perché vuoi dannare l'anima di questo tuo fedele, facendogli uccidere un vescovo?» gridò Hugo, ma la voce gli tremava. Enrico di Borgogna sorrise. «Troverò un altro vescovo per Auxerre, e lo farò assolvere. Non preoccuparti per questo, Hugo di Chalon. Pensa alla tua resa!» «Che cosa vuoi che faccia?» «Rendimi omaggio, intanto.» Il vescovo lasciò correre lo sguardo sui nobili del duca che gli si erano stretti intorno, a proteggergli le spalle, e lo fermò sul giovane dai capelli
chiarissimi e senza armi che pure, in quel manipolo di guerrieri, gli sembrò il più temibile. Pur non avendolo mai incontrato, comprese chi fosse e, nella sua composta freddezza, colse una condanna senza appello, che lo spaventò oltre misura. «Ti sei servito di un potere pagano per entrare in una città cristiana! Questo non ti sarà perdonato, Enrico di Borgogna!» «Non sta a te parlare di perdono, e io non ho più voglia di attendere!» Hugo di Chalon respirò a fondo, poi posò un ginocchio a terra, sostenendosi col pastorale; lentamente, tutto il suo seguito fece lo stesso. Si levò un gran fruscio di abiti preziosi, indossati più per monito che per vanto. «Mi onoro di consegnarti una città che è tua, che non aveva motivo per considerarti nemico e che ti avrebbe aperto le porte, se soltanto l'avessi chiesto», dichiarò il vescovo. «Sì, sì», ribatté Enrico, impaziente. «Più tardi ascolterò quello che hai da dire a tua difesa! Adesso libera immediatamente il signore di Montsalvy, e consegnami Chaffre de Revard e il suo vicario Odo di Chambéry.» «Come puoi chiedermi di violare il diritto d'asilo concesso agli ospiti?» lo apostrofò il vescovo. «Vuoi davvero condividere le colpe di quei due uomini? Io non ho fama di essere clemente», lo interruppe Enrico. Hugo di Chalon afferrò l'opportunità di salvezza che il duca inaspettatamente gli aveva offerto. Non voleva perdere la città, proprio come Enrico non voleva un altro vassallo ostile nelle sue terre. «Ho peccato di leggerezza, credendo a un amico che mi era più caro di un fratello, e questa certamente è una mia colpa», ammise. «Ora vedo che mi ha ingannato, approfittando del mio affetto nonché facendo leva sulla convinzione che nessun buon cristiano possa commettere delitti. Dunque vorrei considerarti un ospite amato, duca, e non un carceriere.» Aveva pronunciato ogni parola con calma, sostenendo con un atteggiamento di sincera contrizione lo sguardo ostile del duca. «Va bene. Alzati. Ne parleremo più tardi.» Hugo si risollevò lentamente, e non riuscì più a trattenersi dal rivolgersi a Illait. «Vedo che porti su di te un simbolo che ti rende degno di restare tra noi. So che non potresti indossarlo se non fossi davvero convertito, perché di certo ne saresti già stato distrutto; però non ascolterò accuse se non sarai in grado di provarle, e accetto la tua presenza soltanto per compiacere il duca.» «Chaffre de Revard dovrà confessare. Quale altra prova potrebbe occorrerci?» intervenne Enrico.
«Chaffre de Revard non ti servirà a nulla, perché non troverai senno nelle sue parole. Da quand'è arrivato, è in preda a un delirio che peggiora rapidamente, e da stanotte si rotola sul pavimento, sbavando come un animale rabbioso.» «Lo vedremo! Avanti, Alvalone: il nostro vescovo ci porterà dal signore di Montsalvy, ora, e farà in modo che i suoi servi ci facciano trovare Revard e il suo vicario pronti a seguirci», ordinò Enrico. Il vassallo afferrò Hugo per un braccio, spingendolo senza troppe cerimonie a fare strada. I chierici, in un agghiacciato silenzio, si spostarono di lato per farli passare. Anche nella piazza non si combatteva più. Quello che restava della guardia del vescovo aveva deposto le armi; la gente di Auxerre, attratta dalla campana di Saint-Amatre - che qualche volonteroso stava ancora suonando -, accorreva nella piazza, restando a distanza, incredula. Già la notizia della distruzione della casa dell'alchimista e dell'apertura del varco nelle mura, stava passando di bocca in bocca. Hugo di Chalon maledì tra sé il maestro Valentin e il suo fallimento, che aveva permesso al duca di Borgogna di entrare ad Auxerre. Si sentì male nel momento stesso in cui quel pensiero si formava nella sua mente, come se una mano implacabile gli togliesse per punizione il respiro. Ci si doveva sentire nello stesso modo col supplizio della corda, e forse qualcuno glielo stava facendo subire, servendosi di mani invisibili. Il pensiero di essere in balia di forze sconosciute lo terrorizzò. E all'improvviso comprese perché Chaffre de Revard era diventato pazzo: per la paura. Sarebbe stata quella anche la sua sorte? Li condusse alla torre e Alvalone lo spinse davanti a sé sulla scala, e poi all'interno, non appena la porta della prigione fu aperta. Amboise de Montsalvy giaceva sulla paglia, ancora incatenato al muro. Illait, che si era procurato un po' d'acqua dal pozzo nel cortile, lo raggiunse, avvicinandogli la ciotola alle labbra. Amboise aprì gli occhi; il suo corpo era certamente provato, ma non c'era traccia di debolezza nel suo sguardo e bevve l'acqua che gli portava sollievo alle labbra riarse e alla gola torturata. Bevve lentamente, con calma, controllando ogni sorso. Sapeva che, al di là della fredda quiete di Illait di Isley, c'era una sincera apprensione per lui, e tentò di rassicurarlo con un cenno del capo. Poi spostò lo sguardo sui nuovi arrivati. «Ti sono grato per essere qui, duca», disse con voce bassa e roca, ben lontana da quella che gli era abituale. «Tu l'hai fatto per me più di una volta, ricordi? E poi questo tuo giovane
amico non mi ha dato scampo», rispose il duca, chinandosi su di lui per rendersi conto delle sue condizioni. «Tuttavia, conoscendoti, credo proprio che averti prigioniero sia già stata per i tuoi nemici una bella punizione!» esclamò, un po' sollevato. «È vero», ammise Amboise, non senza un certo orgoglio, osservando distrattamente Illait che lo stava liberando. «Ti ringrazio», mormorò poi, allorché le catene scivolarono via. «È soltanto un favore reso», disse il giovane, aiutandolo a mettersi in piedi. «Artemisia? Colin?» chiese quindi Amboise. «Artemisia è al sicuro presso l'abate Ilderico, ma di Colin non sappiamo ancora nulla», rispose Illait. Amboise avverti nella sua voce una tensione che non gli conosceva. «Che cos'altro è accaduto che dovrei sapere?» esclamò allora. «La fanciulla che hai visto bruciare a Chambéry non era mia sorella, bensì la nipote del maestro Valentin, scambiata per ordine di Chaffre de Revard con l'aiuto di sua cugina Maude e di Hugo di Chalon.» «Non col mio aiuto!» insorse Hugo. Illait lo ignorò. «La nostra fuga da Sainte-Madeleine è stata difficile. Colin ha con sé mia sorella ma, come ti dicevo, ancora non l'abbiamo visto. La foresta di Morvan è battuta dai soldati, oltre che dalla gente del posto e dai monaci. Uno di loro, un certo padre Léon del monastero di Vézelay, è un temibile nemico.» «Conosco quel vecchio monaco», s'intromise Alvalone. «Ha l'abitudine di far bastonare i giovani che saltano i fuochi alla festa di San Giovanni.» Né Illait né Amboise rilevarono la sua interruzione. Amboise comprendeva, ora, il motivo della tensione nella voce del giovane, anche se gli sfuggiva la causa della sofferenza che sembrava aver patito. «Colin è tra i migliori, ma nemmeno lui può farcela contro una folla in caccia», osservò. «Hugo di Chalon deve richiamare i suoi, e ordinare a questo padre Léon di desistere.» «Richiamerò i miei soldati, ma quel vecchio monaco non mi obbedirà», disse il vescovo. «Non è uno che si ferma per paura, o che si fa comprare. In questo ti somiglia, signore di Montsalvy!» Amboise lo ignorò. Aiutato da Illait, si affrettò verso la scala; nel cortile erano già stati condotti i due ospiti del vescovo. Odo di Chambéry stava rigido, solido come sempre; era certo che l'aver soltanto obbedito agli ordini del suo signore e vescovo l'avrebbe giustifica-
to davanti agli uomini, poiché era quello l'unico giudizio a importargli davvero. Una simile certezza lo aiutava a mantenere una dignità che Enrico di Borgogna considerò presunzione fin dal primo istante. Chaffre de Revard invece giaceva rannicchiato nella barella usata per trasportarlo; era sporco e sudato, con la barba di una settimana a scurirgli le guance, ed era scosso da un tremito che gli impediva di controllare gambe e braccia, che sembravano così vivere di vita propria, incuranti dello sfinimento del corpo. Gli occhi aperti, ora fissi ora volti da una parte e dall'altra con estrema rapidità, davano al suo aspetto, che altrimenti sarebbe stato pietoso, l'impronta della rabbia che lo divorava. Amboise de Montsalvy si chinò a esaminarlo; Chaffre lo riconobbe, ma non riuscì ad articolare una sola parola comprensibile, e tutto quello che gli uscì dalle labbra gonfie fu un grido che sembrava un lamento. Poi gli occhi in movimento scoprirono Illait di Isley. E si fermarono, gelandosi, incapaci di lasciarlo. «Dobbiamo temere qualche contagio?» chiese Enrico, allarmato. «No», rispose Amboise, rialzandosi. «È divorato dalla sua furia, e sarà l'unica vittima di se stesso. Portiamolo a Saint-Germain, dove potrò fare qualcosa per calmarlo.» «Perché vuoi curarlo?» intervenne Odo. «Non ci sarà un luogo abbastanza nascosto dove potrà essere rinchiuso! Non vedi che è pazzo? Quando questo pagano era prigioniero a Chambéry, io ho cercato di avvertirlo, perché ogni volta che il mio vescovo scendeva nella sua cella ne usciva stravolto, e ogni volta io vedevo la sua ragione scivolare via senza poterlo impedire!» «Serba la tua lingua per quando verrai interrogato!» lo zittì Enrico, e poi ordinò ai suoi uomini di portare i due prigionieri all'abbazia, e a Hugo di Chalon di montare a cavallo e di accompagnarlo, lasciandogli intendere che l'unica alternativa al suo ordine era di seguirlo a piedi come un prigioniero. Suo malgrado, Hugo s'inchinò all'offerta e montò in sella al cavallo che Alvalone gli aveva portato, lasciando al suo vicario la custodia del palazzo in cui prudentemente Enrico di Borgogna aveva scelto di non rimanere. «Come avete potuto entrare ad Auxerre?» chiese Amboise, aspettando che Risson gli portasse un cavallo. «La casa dell'alchimista è crollata, e sono cadute le mura cui era addossata. È da lì che siamo entrati», gli rispose Aurac a bassa voce, non sapendo se poteva parlare liberamente di quell'evento.
«Allora la sua Opera è fallita!» rifletté Amboise, e si rivolse a Illait, intuendo quello che Aurac non aveva detto. «E Valentin?» gli chiese. «Mi dispiace. Ho cercato di farlo uscire, e se fosse stato pronto per la trasmutazione avrebbe capito e si sarebbe salvato. Ma non lo era.» «Andiamo da lui. Qualcuno informi il duca che lo raggiungeremo più tardi all'abbazia. Andiamo da Valentin, adesso!» Alvalone, che si era fermato ad aspettarli più per non perdere di vista Illait che per riguardo verso Amboise, s'intromise. «Non credo che tu sia in grado di sopportare un altro sforzo, signore di Montsalvy...» «Ci puoi accompagnare, se ne dubiti», lo invitò Amboise, e s'incamminò deciso, con Illait al fianco e Risson e Aurac subito dietro. Alvalone si arrese, scelse quattro dei suoi uomini e con quella scorta li seguì. Non lasciava volentieri il duca, ma nel breve tragitto tra la porta di Saint-Amatre e l'abbazia non poteva davvero accadergli nulla di male, col vescovo di Auxerre come ostaggio. La folla raccolta nella piazza delle Erbe si apri prontamente al loro passaggio; i più si rallegravano che lo scontro fosse durato così poco e non avesse portato danni alla città, ma molti si chiedevano chi e che cosa dovevano ancora temere, ora che le forze oscure si erano aperte una strada e sembravano avere di nuovo una voce. Qualcuno mormorava che, al momento del crollo della casa dell'alchimista, l'acqua dei pozzi si era illuminata; altri giuravano di avervi visto riflesso un sole sfolgorante, soffocato all'istante da un altro sole color zaffiro. Certamente qualcosa di terribile doveva ancora accadere: i pozzi e le fontane di Auxerre non avevano mai mentito. Illait percepiva distintamente quella paura sotto la quale vibrava un'ostilità che un nonnulla avrebbe potuto scatenare; sarebbe bastato il pianto di un bambino o lo strillo di una vecchia, o qualcuno che lo avesse indicato come causa di tutto ciò che era accaduto. E padre Léon ne avrebbe tratto profitto... Amboise era stato imprudente, come spesso gli accadeva quando seguiva il proprio impulso. Finalmente giunsero al vicolo su cui si affacciava la casa di Valentin. Restava ben poco del luogo di cui Amboise de Montsalvy aveva serbato per tanto tempo il ricordo. Le macerie erano annerite, come se un gran calore le avesse toccate senza arderle; al di là dello squarcio nelle mura si scorgevano la strada e la striscia di alberi in riva allo Yonne. E su quegli alberi non era rimasta neppure una foglia. «Un gran sole», mormorò il venditore di lana alle sue spalle. «Un gran
sole ha avvolto la casa. Io ero qui, al fondo del vicolo, e ho sentito un soffio rovente sulla pelle. Ho chiuso gli occhi. Ho sentito un respiro toccarmi. E, quando ho riaperto gli occhi, la casa era crollata e la luce sparita.» «Non è la prima volta che un alchimista fallisce la sua Opera facendosi crollare addosso la casa», lo quietò Amboise. «E non mi sembra che tu sia ferito.» «Valentin aveva fallito altre volte, ma non c'era mai stato quel sole né quel calore», replicò l'uomo, stringendosi nelle spalle. Alvalone, che aveva raggiunto per primo le rovine, li chiamò: l'alchimista era imprigionato da una trave, però era ancora vivo; probabilmente si trovava sotto il portico al momento del crollo. Amboise lo raggiunse, inginocchiandosi lì accanto. A prima vista tuttavia non c'era molto che potesse fare, se non cercare di alleviargli la sofferenza. «Stai calmo, amico mio», gli sussurrò, mentre tutti si mettevano al lavoro. «Ti libereremo e ti porteremo a Saint-Germain. Ti curerò.» Valentin socchiuse gli occhi, tentando di sorridere. «Dovresti fare un miracolo, e non credo di meritarlo», disse l'alchimista, e poi alzò lo sguardo su Illait, che era rimasto alle spalle di Amboise. «Ho sentito l'Alito del Drago... Perché quello era l'Alito del Drago, non è vero?» Il giovane annuì. Valentin si sentì smarrito, affogando nell'azzurro freddo dei suoi occhi. «Era una forza immane... L'ho sentita per un istante e mi è sembrato d'impazzire! Mi sembrava di poter stringere l'intero universo nel mio pugno... Ma c'era Agnes, che mi chiedeva di seguirla... Pognon aveva ragione. Tu hai portato alla distruzione la mia Opera.» «È questo che credi?» «Era tutto ciò che mi restava!» «E questo è il tuo errore, perché ti sei privato della speranza.» «Che cosa dovevo fare? Ho pregato tanto!... Che altro potevo fare?» «Tranquillo, ora. Non parlare», intervenne Amboise, facendo cenno a Illait di tacere. Finalmente Alvalone e i suoi quattro uomini riuscirono a spostare la trave in modo da poter liberare l'alchimista. Lo sollevarono tutti insieme per adagiarlo poi nella polvere bruciata della strada. «Procuratevi un'asse per trasportarlo. Ha la schiena spezzata», ordinò Amboise, ma restò seduto dov'era, troppo sfinito per muoversi. Illait si diresse oltre la casa, verso il pozzo rimasto intatto, a prendere un po' d'acqua per lui.
Amboise bevve avidamente, e poi rimase a guardare l'acqua sul fondo della tazza, assorto nei ricordi; proprio in quel luogo, la giovinezza aveva fatto credere a lui e ai suoi due compagni che non esistessero confini invalicabili. Stranamente, l'acqua nella tazza gli sembrò scura. «Se non avessimo risposto al suo messaggio, questo non sarebbe accaduto», mormorò. «È questo che stai cercando di vedere nell'acqua? Quello che sarebbe accaduto se non avessimo risposto?» lo interrogò Illait, e sembrava un rimprovero. Amboise scosse il capo, incerto su quello che il giovane forse stava per dirgli. Ma Illait aveva una ruga di dolore tra gli occhi, e restò in silenzio. XX Ancora era buio, ed Ela stava rannicchiata nelle braccia di Colin come se fossero un rifugio inespugnabile; quella fiducia faceva crescere in lui una forza che gli sembrava disperazione, perché non si era mai ingannato, cedendo alle illusioni e, tutte le volte in cui aveva affrontato la morte, era stato consapevole delle remote possibilità di salvezza su cui poteva contare. Ma in quel momento non era così. Ormai sapeva che quelle possibilità non esistevano neppure e, pur sapendolo, continuava a ragionare come se il giorno non dovesse sorgere, come se qualche miracolo potesse strapparli a quel luogo. Ela era ben sveglia, attenta a percepire la tensione nel corpo di lui e ogni suo piccolo movimento. «Che cosa c'è?» chiese infatti, senza muoversi. «Nulla. Stavo cercando d'immaginare com'eri prima che ti conoscessi. Illait ha parlato poco di te, e neppure noi abbiamo chiesto granché... Pensavamo che fossi morta. Com'era dove vivevi? Tu sei figlia di un principe.» La giovane riappoggiò il capo sul suo petto. Colin la sentì distendersi, rasserenata da quella domanda che l'allontanava dal presente. «È vero. Nostro padre è l'amico più intimo del re Malcolm, ed è il suo consigliere più fidato. Illait e io siamo gli unici figli della sua prima moglie, ma nostra madre aveva la Vista, e non era amata a corte, tanto che i preti, dopo anni di tentativi, riuscirono a farla bandire, convincendo nostro padre a sciogliere il matrimonio e a prendere una moglie cristiana. Io avevo quasi dieci anni, ma nessuno si accorgeva di me. Mio fratello invece stava sempre nel
posto sbagliato: con i vecchi saggi quando il re gli ordinava di stare con i preti, e con i preti quando lui gli diceva di stare con gli uomini d'arme. Nessuna punizione riusciva a piegarlo, e questo faceva infuriare tutti: il re, nostro padre, i saggi e i preti.» «Non è mai stato libero...» «Ti sbagli. Lui è sempre stato l'unico veramente libero, perché aveva il Potere. Per questo era sempre sorvegliato: in realtà avevano paura di lui.» «Illait non si occupava di te?» «Faceva nascere le farfalle dove io passavo, per farmi giocare; oppure si faceva beffe dei nobili del re e li spaventava per farmi divertire. Spesso suonava l'arpa e il flauto, mi raccontava storie bellissime, e m'insegnava a leggere. Però non lo vedevo spesso, e non per sua colpa. Solo quando ci hanno fatto partire per consegnarci ai preti di Cluny ho cominciato a vivere davvero con lui, e a conoscerlo.» «Perché vostro padre ha accettato di farvi partire?» «Perché il re ci ha venduti ai preti, vuoi dire?» «Sì», ammise Colin, sorpreso dalla durezza del tono. «Nostro padre dissentiva dal suo re per colpa di Illait. Lui voleva che suo figlio fosse un guerriero come tutti gli altri della famiglia, mentre il re voleva che diventasse un prete. Così, per ordine di nostro padre, lui si addestrò nelle armi e nel combattimento; non so se gli piaceva farlo, ma di certo non si affaticava. Durante una lezione, uno dei capitani del re lo sfidò, rinfacciandogli il suo scarso entusiasmo, e Illait accettò il duello. Quell'uomo grande e grosso era un guerriero esperto, uno dei campioni del re. La sua faccia era tutta una cicatrice. Quando la notizia della sfida si sparse, la gente accorse dai villaggi per vederla e nessuno accettò di sostenere mio fratello. Ma, quando il combattimento ebbe inizio, tutti si accorsero che Illait era troppo agile per quell'uomo, e inoltre indovinava in anticipo tutti i suoi colpi.» «Conosco il modo di battersi di tuo fratello», convenne Colin, ricordando la lotta cui erano stati costretti, e la facilità di Illait nello sfuggirgli. «Mio fratello infine atterrò il campione del re Malcolm, umiliandolo, perché non era mai stato battuto prima di allora. Nostro padre se ne fece vanto, e il re si arrabbiò; i preti dissero che Illait aveva usato la magia. Non era vero, e il re lo sapeva, però ci vendette ai preti in cambio dell'indulgenza per aver tollerato per tanto tempo dei pagani nella sua corte. Da quel momento siamo stati prigionieri.» «Tuo fratello mi disse che non avrebbe mai disobbedito al suo re.»
«È vero. Illait è fatto così.» Colin la strinse a sé, assaporando la gioia dell'averla tra le braccia. «Io non voglio sentire parlare di tuo fratello, adesso», la rimproverò, tentando di suonare scherzoso. «E io non ho davvero altro da dirti della mia vita. Ho passato gli ultimi tre anni come una prigioniera, ma, quando ne avevo tredici e sono stata costretta ad andarmene dalla mia terra, credevo in quello che mi avevano detto. Soltanto Illait non si faceva illusioni e fino all'ultimo ha cercato d'impedire che lo accompagnassi.» Colin, pur non riuscendo a vederla, comprese che stava sorridendo. «Vedi? Stiamo nuovamente parlando di Illait, mentre io voglio sapere di te, ora», mormorò Ela. «Mio fratello deve davvero stimarti molto... Non ha nemmeno chiesto il mio parere!» «Sarebbe stato diverso?» «No», la risposta della giovane arrivò come un soffio caldo sulla sua pelle. «No, davvero. Ma tu sei un capitano e hai combattuto tante battaglie in molti luoghi. Chissà quante donne hai avuto prima di me e con cui puoi confrontarmi!» «Sei gelosa?» «Un poco.» «Nessuna mi hai mai avuto per più di qualche giorno; quasi sempre soltanto per una notte. Non c'è posto per altro, nella vita di un mercenario.» «E adesso?» «Adesso non sono più un mercenario. Mi onoro di servire Amboise de Montsalvy, e ho una moglie che amerò sino alla fine dei miei giorni.» Ela gli coprì le labbra con la punta delle dita, ma non aggiunse altro. Colin si rese conto che poteva scorgere il chiarore dei suoi capelli; un accenno di luce stava aggredendo la notte. Si sollevò un poco. «L'alba non è lontana. Dobbiamo uscire.» «Non voglio», disse lei. «Il tetto del rifugio è di frasche e foglie secche. Se restiamo qui, ci troveranno e ci bruceranno vivi oppure ci costringeranno a uscire. Dobbiamo essere noi a muoverci. Tutt'intorno l'erba è alta e può nasconderci, e la radura non è molto estesa. Guadagneremo la foresta e, prima di notte, saremo ad Auxerre.» Ela non rispose. Colin sapeva che stava tentando di credergli proprio come lui stava tentando di essere convincente. «Quando ti ordinerò di correre e di non fer-
marti, mi dovrai obbedire», aggiunse. «Io non ti lascerò. Tu sei ferito e non puoi correre.» «Ancora non mi hai visto correre!» scherzò lui. Ela si sciolse dal suo abbraccio ma gli restò accanto, guardando ora lui ora l'uscio al di là del quale la notte ingrigiva con sorprendente rapidità. All'improvviso sembrò a Colin di cogliere il baluginio di una torcia subito spenta, o nascosta, ma in quel momento il vento fece scricchiolare la struttura del rifugio, e i suoni si confusero. «Prometti, Ela», insistette. La giovane fece un cenno d'assenso, ma Colin lo intuì soltanto. Caricò entrambe le corde della balestra con dita che si muovevano seguendo l'esperienza, e poi si azzardò a sollevarsi. La gamba ferita lo reggeva a stento. Aprì cautamente la cortina di frasche. La radura era sospesa in quella fase senza tempo fra la notte e il giorno, quando ancora non c'è una vera luce, eppure il buio non è più tale. Un venticello agitava l'erba alta e le macchie di papaveri, ma ancora nessun uccello cantava. Le stelle erano pallide sul bordo della radura, frangiato di alberi bui. Presa la mano di Ela: era calda. Uscirono, raggiungendo prima l'erba e poi la foresta. La spinse ad acquattarsi, e a muoversi restando china. Ela gli era davanti quando la torcia passò sulle loro teste, piombando a una decina di passi sulla destra. «Corri!» le ordinò Colin, raddrizzandosi e lasciando la balestra per la spada. La sollevò in tempo, arginando l'assalto degli uomini. Soldati. Già distingueva chiaramente le loro facce. Corri, Ela! pensò, mulinando la spada come se fosse un'ascia e sbaragliando i primi aggressori, quattro o cinque soldati che già pensavano di averlo in pugno. Neanche si accorse dei loro colpi; una lama gli toccò il fianco e l'altra il petto, aprendogli ferite lievi. Due soldati si accasciarono con la gola squarciata e gli altri tre con ferite mortali. Poi altri uomini ancora gli piombarono addosso, e uno lo colpì alle gambe col manico di una picca, facendolo cadere in ginocchio. Lo inchiodarono al suolo in attesa dell'ordine per finirlo, e Colin si trovò con la faccia affondata nell'erba umida di rugiada e la bocca e il naso pieni di sangue. In mente, non aveva che un pensiero: Ela. La giovane aveva continuato a correre, ma, nel momento in cui si rese conto di quello che stava accadendo, si fermò. Alcuni uomini stavano venendo verso di lei e, nella luce sempre più chiara, non apparivano più come ombre. Ela si girò a guardare la foresta, non lontana, e Colin, che stava combattendo. Quando lo vide soccombere, urlò. Subito dopo arretrò, in-
ciampando e finendo a terra. Gli uomini la circondarono, e uno le avvicinò una torcia: un gesto inutile, perché ormai era giorno fatto. Poi il cerchio degli uomini si aprì per far passare padre Léon e il capitano Aloise di Chalon che lo seguiva. «Portatela davanti al riparo!» ordinò seccamente il monaco, e le voltò le spalle, inquieto per quella somiglianza che sapeva di beffa. Forse Maude de Belley si era presa gioco di lui? O forse il pagano possedeva anche l'arte di mutare nell'aspetto? Tentò di quietarsi; raggiunse il prigioniero e gli uomini che lo tenevano, e fece loro cenno di metterlo in piedi. Due soldati afferrarono Colin e lo trascinarono fin sulle pietre davanti al rifugio. Colin riuscì così a vedere i soldati, i monaci e gli uomini che avevano dato loro la caccia. Erano tutti raccolti lì, e molti portavano gerle riempite di pietre. Devono averle prese nel letto del ruscello, pensò il giovane. Con lentezza, nella sua mente annebbiata, si fece strada la ragione di quella singolare provvista. «Ti stai sbagliando!» urlò al monaco. «La ragazza non è chi tu credi! Non è una novizia! Portaci ad Auxerre!» «Taci! Il tuo peccato non è meno grande del suo!» gli ordinò il monaco, e poi si volse a Ela, ora in piedi, sola, davanti al rifugio. Di nuovo la somiglianza col pagano lo sconvolse. Le si avvicinò e le girò intorno; Ela sentì i suoi occhi ostili percorrerla con incredibile astio. Poi padre Léon si rivolse nuovamente al prigioniero. «Che inganno è mai questo? Quale magia rende questa novizia così somigliante al pagano che sto cercando?» «Imbecille!» lo sbeffeggiò Colin; uno dei soldati che lo trattenevano lo colpì alla gamba ferita strappandogli un gemito. «Lasciatelo», ordinò il monaco, e il giovane cadde in ginocchio, col respiro strozzato, sulle prime senza mettere a fuoco nient'altro che Ela, a pochi passi di distanza. Poi si accorse che i soldati si erano ritirati e che non c'era più nessuno accanto a loro. Allora comprese. «Ora!» ordinò padre Léon, e Colin si girò con fatica verso quella voce, senza riuscire più a distinguere il volto dell'uomo. Il cielo si era fatto rosa; l'erba alta e i papaveri carichi di rugiada gli tremarono davanti agli occhi nel momento in cui qualcuno lanciò la prima pietra. Con uno sforzo, il giovane capitano balzò in piedi e afferrò Ela serrandola tra le braccia prima che la pietra potesse colpirla. E infatti colpì lui, tra le spalle, e subito dopo un'altra lo raggiunse alla testa. Avvertì il corpo di Ela stretto al suo e la luce che fuggiva. Un urlo scaturì dalla sua mente, un richiamo di dolore rivolto a chiunque potesse ascoltarlo.
Non sentì altro. Nemmeno i soldati che, considerandolo ormai morto, gli tolsero Ela dalle braccia. «È lei che ci ha causato il castigo! Per colpa sua noi moriremo di fame!» sbraitò un abitante di Vézelay. Poi lanciò la sua pietra con rabbia e gli altri lo imitarono, urlando insulti e maledizioni. Ela si rannicchiò, tentando di ripararsi il viso, ma la foga con cui gli uomini lanciavano le pietre la fece crollare a terra. «Basta!» ordinò infine padre Léon. Quando gli obbedirono, si avvicinò alla giovane per spiarne il respiro. Un soldato la girò con un piede, perché lui potesse vederla in viso. Era intatto, ma un filo di sangue le colava tra i capelli, e aveva le mani e il petto insanguinati. «È morta», osservò Aloise di Chalon, badando a non lasciare trasparire nessuna emozione, perché il capitano Charraud lo aveva messo in guardia sulla suscettibilità del vecchio monaco e sulla sua indole sospettosa. «È stato il colpo sul collo, qui dietro l'orecchio, a ucciderla», precisò. «E l'uomo?» insistette padre Léon. Il capitano si girò a guardare il corpo, ma non si chinò a toccarlo. Era coperto di sangue. «Anche lui», rispose senza esitazione. Il monaco annuì gravemente e guardò gli uomini, che si erano ammutoliti. La luce del giorno adesso si era fatta rossa e filtrava appena dallo schermo della foresta alle loro spalle, rendendoli ombre senza volto. Padre Léon si sentiva immensamente stanco, e la sua anima gli sembrava più pesante di tutte quelle pietre. Non era forse lui stesso altrettanto colpevole, perché aveva accettato la magia di Maude de Belley per raggiungere il suo scopo? E quella somiglianza non era forse un modo per ricordarglielo? «Quando avremo la nostra ricompensa?» urlò uno degli uomini di Vézelay, più audace o più disperato degli altri. Padre Léon guardò con astio quei miserabili che badavano soltanto alle necessità del corpo. Per loro, quella caccia durata tre notti e due giorni, senza soste, era soltanto un modo per sopravvivere alla carestia. «A Vézelay sarete ricompensati! Adesso incamminatevi per il ritorno e pregate per le vostre anime!» ordinò bruscamente. «Il capitano lascerà qui tre soldati a custodire i corpi dei peccatori e a seppellire i suoi morti. Altri due soldati andranno ad Asquins a procurarsi un carretto. Poi ci seguiranno, portando i corpi a Vézelay, dove resteranno esposti per tre giorni e tre notti prima di essere sepolti col buio in terra sconsacrata.» Qualcuno tra gli uomini che venivano da Asquins brontolò alla prospet-
tiva di dover raggiungere Vézelay per la ricompensa, ma tutti obbedirono. Aloise di Chalon scelse tra quelli con più esperienza i tre uomini che dovevano restare e i due che dovevano andare ad Asquins, e poi portò un cavallo al monaco. «Dopotutto li abbiamo presi», disse, pensando che il vecchio avesse bisogno di sentirsi rassicurato. «Quello che cercavo non è qui. Sono stato ingannato», ribatté padre Léon. «E pensare che l'ho sentito suonare e l'ho avuto accanto! Come ho potuto essere così cieco?» «Non incolparti ingiustamente», lo consolò il capitano. «In questa caccia io ho perduto più soldati che in una battaglia, perché quello che abbiamo preso si è battuto come un diavolo.» «E forse lo era», mormorò il monaco. «Ma noi non siamo vittoriosi, capitano. La lotta è appena cominciata... Dovrò far murare la sorgente nel chiostro della badessa di Sainte-Madeleine... nonché le sorgenti e i pozzi e le fontane cui la gente continua a chiedere visioni e cure. E tu dovrai dire al vescovo di fare lo stesso ad Auxerre!» «Gli porterò la tua richiesta», lo rassicurò Aloise, aiutandolo a montare a cavallo senza trattenere una certa impazienza. Dopotutto i fuggiaschi giustiziati erano soltanto due, e non era sicuro che Hugo di Chalon avrebbe apprezzato un risultato così misero, prestando dunque ascolto ai consigli del monaco. «Forse Charraud e Guy di Senlins hanno preso gli altri», opinò, ma era soltanto una speranza. Padre Léon scosse il capo. «Sono stato ingannato, ti ho detto. Non troveremo nessun altro.» Spronò il cavallo, e Aloise si rassegnò ad avviarsi. I suoi soldati, in parte a piedi e in parte a cavallo, si erano già messi in cammino, seguendo gli uomini dei villaggi. Dopo un poco la radura tornò quieta com'era stata prima del levarsi del sole; i tre soldati di guardia si erano sistemati a ridosso dei primi alberi, e non avevano fretta di scavare le fosse per i loro compagni caduti. Uno di loro aveva qualche provvista presa ad Asquins e tutti e tre erano affamati, così si misero a mangiare, godendo dell'inaspettato riposo. Nessuno si accorse del movimento lieve, quasi un brivido, nelle dita della mano destra di Colin. Le loro voci tuttavia penetrarono nella mente del giovane con straordinaria chiarezza. Ciascuno stava vantando all'altro le qualità di una ragazza di Asquins di cui avevano goduto i favori e che tutti e tre ben conoscevano. Le loro risate s'infittivano a mano a mano che i racconti venivano arricchiti di particolari.
Colin cancellò il senso delle parole dai suoi pensieri. Il cielo era azzurro e pulito e il sole stava riportando all'aria il calore dell'estate. Avvertì il ronzare di un'ape e il fruscio di qualche piccolo animale spaventato, tra l'erba e le macchie dei papaveri. Era lucido. Ed era ancora vivo. Girò appena il capo, e scoprì Ela a una decina di passi, riversa e col volto girato verso di lui. Una piccola pozza di sangue si allargava sotto di lei, tra i capelli. Il giovane chiuse gli occhi, sentendosi sprofondare. Non gli venne nessun pensiero, nessuna parola; soltanto un urlo silenzioso che non si formò sulle sue labbra, ma lo divorò dentro. Gli uomini si sentivano sicuri; erano tranquilli e non potevano vederlo, perché l'erba alta lo nascondeva ai loro occhi. Quella sicurezza sarebbe stata la loro condanna. Lentamente, mezzo palmo alla volta, Colin prese a strisciare verso i tre soldati. Aveva alla cintura il coltello che nessuno, credendolo morto, gli aveva ancora tolto. Lo fece scivolare in mano; poi si avventò come una furia contro le spalle del primo soldato e gli tagliò la gola. Con lo stesso movimento del braccio, la tagliò anche a quello che gli stava seduto vicino. Il terzo uomo, seduto di fronte, ammutolì e lo fissò stupito, con la bocca piena. Ma, prima che riuscisse ad alzarsi, il coltello gli si era già conficcato in fronte, rovesciandolo all'indietro. Colin barcollò, crollando in ginocchio e tentando di riprendere fiato. Aveva sangue sulla nuca e sul collo, sangue ovunque, ma la vita era salda in lui e non si lasciava toccare né dalla rabbia né dalla disperazione. Afferrò l'otre pieno d'acqua che i soldati avevano con loro e se lo rovesciò sulla testa. Poi, trascinando la gamba ferita, raggiunse Ela e la prese tra le braccia. Restò a lungo così, con la mente che a tratti si annebbiava e il furore che continuava a divorarlo. Si riscosse soltanto quando uno dei cavalli dei soldati si agitò, alzando il muso a fiutare l'aria. Il sole era alto. La calura pareva fondere i papaveri in un'unica macchia rossa e un nugolo di mosche si affannava sui cadaveri degli uomini. A fatica, Colin andò a prendere il cavallo più vicino, sollevò in sella il corpo di Ela e poi montò a sua volta. L'animale accennò un moto di fastidio, ma, quando il giovane lo spronò, gli obbedì. XXI
Indefinibile era la minaccia che correva tra la terra e il cielo. Eppure Valentin la sentiva distintamente, giacché la sofferenza aveva acuito la sua percezione. Era stato così anche la sera in cui Illait di Isley e Colin Bois lo avevano atteso alla fontana; l'acqua che sgorgava dai tredici occhi del mostro di pietra gli era sembrata rossa come il sangue, e vi aveva visto il riflesso di un'ala bianca. Ormai Valentin sapeva che non era stata un'illusione o un inganno. Lo specchio antico gli aveva parlato, e quello era un linguaggio che gli uomini avrebbero dovuto rammentare, chiudendolo nell'anima per non perdersi. Eppure nemmeno lui aveva saputo comprendere o, più semplicemente, era stato scosso dalla paura. Morirò con questo pensiero pagano nel cuore, e sarò punito, pensò, e accolse con distacco Amboise che si avvicinava, seguito da Illait di Isley. Il giovane monaco che lo aveva vegliato per tutta la notte si alzò, imbarazzato, e il signore di Montsalvy sedette sul bordo del giaciglio. Il suo sorriso era vago, soltanto una piega agli angoli delle labbra, e i suoi occhi sembravano duri e tristi. Valentin sapeva perché. «Senti anche tu questo respiro tra la terra e il cielo, Amboise? Lo senti?» mormorò l'alchimista. «È per qualcosa che deve ancora accadere! Anche quella sera... c'era la stessa sensazione nell'aria... Mi hanno detto che, nel momento dell'esplosione della mia Opera, in tutti i pozzi di Auxerre e nelle sue fontane si è riflesso un sole sfolgorante, subito divorato da un sole buio!» «Calmati, amico mio», disse Amboise, posandogli delicatamente una mano sul petto. «Il sole non si oscura per un incantesimo; tu lo sai quanto me. Insieme abbiamo studiato trattati di astronomia in cui le eclissi erano previste ben prima del nostro tempo.» «E ciò non è un bene. Non è degli uomini possedere i segreti del cielo e la forza della terra! Il sole si oscurerà, oggi, e gli uomini avranno meritato il male che ne verrà!» «Non riconosco Valentin l'alchimista in queste parole», mormorò Amboise, scuotendo il capo. L'altro si pentì di quello che aveva appena detto, cogliendo il dolore nella voce dell'amico, e spostò lo sguardo su Illait di Isley. Era l'unico movimento che ancora poteva compiere. «È stato commesso un terribile delitto...» «Chaffre de Revard e Odo di Chambéry pagheranno per la morte di Agnes», lo interruppe Amboise. «Hugo di Chalon si è impegnato a giustiziare Odo di Chambéry, e io vigilerò perché Chaffre de Revard non sfugga al castigo.»
«Tu hai già sofferto anche troppo, amico mio. E non era questo che volevo dire. Il tuo silenzioso compagno sa di che cosa sto parlando... Nemmeno noi, che siamo uomini di scienza, possiamo spiegare la grande luce che ha distrutto la mia Opera e aperto il varco nella mura di Auxerre... Io però sono stato sulla soglia di quel Potere e adesso ne ho paura.» «La tua Opera si è distrutta da sola. Il Potere non ha creato nulla che già non esistesse», intervenne Illait. «È questo che dirai per difenderti, quando ti accuseranno di aver aperto le mura di Auxerre con la magia?» ribatté Valentin. «Non mi difenderò, se è di questo che mi accuseranno.» «L'Opera era imperfetta, e tu hai avuto modo di accorgertene, vedendola. Sapevi dunque che sarebbe esplosa... Promettimi che dirai così.» Illait tacque. «Farò in modo che le cose vadano in questo modo», promise Amboise. Valentin riuscì a sorridere. Poi chiese: «E adesso spiegami perché ho fallito». «Perché non ci credevi», rispose semplicemente Illait. «Ma come puoi sapere quello in cui io credevo?» protestò l'alchimista. Lo sforzo gli fece mancare il respiro e per un poco ansimò, sorretto da Amboise. Sì, Illait di Isley stava dicendo la verità. Valentin seppe di aver commesso lo stesso errore per la seconda volta: pur conoscendo la verità, si rifiutava di ammetterla. «Perdonami», mormorò quindi. «Hai cercato di salvarmi mandandomi l'immagine di Agnes; io l'ho vista e ho sentito la sua voce... Eppure nemmeno a lei ho saputo credere.» «Se fossi stato pronto, lo avresti fatto senza stupirti né di vederla né di sentirla parlare... Allora non soltanto ti saresti salvato, ma avresti anche compiuto il primo passo di un lungo cammino.» «Io ho visto l'inizio della trasmutazione.» «E hai pensato soltanto a quello che il Potere poteva darti. Lo so. Quietati, ora. Parlare ruba il tempo che ti resta, ed è veramente poco.» «Che cosa importa? La sera in cui ti ho incontrato, ho visto il riflesso di un'ala bianca nel rosso dell'acqua della fontana, e le acque di Auxerre sono specchi incantati che non mentono. Io vedo i fili che la mia mente lega tra loro, adesso che tutto mi appare così chiaro, e che non posso rimediare a nulla di ciò che è stato. La mia piccola Agnes e tua sorella, il Cigno, come la mia Opera al Bianco... Quello che è accaduto al monastero di SainteMadeleine, il crimine di Revard e la complicità di Chalon; il caso, o la volontà del Cielo, che hanno intrecciato i nostri passi. Posso io, Valentin,
alchimista ad Auxerre, pregare per un miracolo che riporti indietro il tempo nel suo scorrere, e non faccia accadere gli eventi già accaduti?» Illait si chinò su di lui. Valentin si sentì afferrare da una forte emozione, che gli riempì gli occhi di lacrime. «No. Ma se vuoi posso aiutarti a crederlo.» La voce del giovane sembrò all'altro molto più dolce del solito; la mano posata sulla sua fronte sollevò il macigno che gli premeva sul cuore e gli rese più facile respirare. «Non voglio», disse infine Valentin. «È giusto che il peso della mia esistenza mi accompagni. Però... vorrei vedere Agnes. Ancora una volta.» «No, Maestro!» insorse il giovane monaco. «Evocare i morti in questo modo è peccato!» «Zitto!» lo ammonì Amboise. «Va' piuttosto a sentire che cosa sono queste voci dal cortile!» gli ordinò, e il giovane monaco si affrettò a obbedire, più offeso che mortificato, e poi tornò, affacciandosi sulla soglia. «Sono i soldati del capitano Guy di Senlins!» esclamò. «Scortano un carro. Forse accompagnano coloro che stai aspettando, signore di Montsalvy.» Amboise si alzò, toccando affettuosamente una spalla dell'amico. «Tornerò al più presto. Senti ancora dolore?» «Con quell'intruglio che mi hai fatto bere stanotte non sento più nulla, non temere.» Amboise si mosse, e Valentin lo seguì con lo sguardo; sulla soglia, Illait si girò e gli sorrise, facendo quindi cenno al giovane monaco di andarsene. Valentin si ritrovò solo. Trasse un respiro per contenere l'improvvisa paura per quell'abbandono, poi tentò di mettere a fuoco chi stava entrando. Sulle prime credette che fosse Artemisia, e si rallegrò che prendesse il posto del giovane monaco, il quale lo assisteva per obbedienza e non per carità. Poi la riconobbe. Era Agnes, e gli sorrideva, tendendogli ancora una volta la mano. L'uomo chiuse gli occhi e soffocò il dubbio sforzandosi di lasciare la ragione e di cedere all'istinto. Solo in quel momento capì che gli stava accadendo qualcosa, e seppe di poterla seguire. Amboise e Illait si avviarono con gli altri al portale dell'abbazia; Artemisia si unì a loro a mezza strada. Sul portale si erano fermati anche l'abate Ilderico, il venerabile Senals e il duca di Borgogna, che accompagnavano Hugo di Chalon e il suo prigioniero Odo di Chambéry fino al terreno neu-
trale della spiazzo, dove già aspettava la guardia personale del vescovo per scortarlo al suo palazzo. Era occorsa tutta la notte per definire una resa che mitigasse le colpe di Hugo di Chalon; infine il vescovo aveva accettato di ritirarsi ad Auxerre con l'impegno di giustiziare Odo di Chambéry entro tre giorni. Lasciava l'amico Revard nelle mani di Enrico di Borgogna e aveva sottoscritto l'appoggio al successore del duca, chiunque fosse, nonché il versamento di una tassa straordinaria per armare una guardia a protezione dei confini del ducato. Per quanto le condizioni fossero pesanti, Hugo di Chalon nascondeva bene il suo risentimento, né mostrò interesse per i suoi uomini e il loro capitano Guy di Senlins, che si erano fermati nello spiazzo, allargandosi poi intorno alla fontana. Erano stanchi, sporchi e affamati; non davano certo l'impressione di essere tornati vittoriosi. Tutt'altro che incoraggiato, Guy di Senlins raggiunse quindi il vescovo e posò un ginocchio a terra. A voce abbastanza alta, cosicché tutti coloro che stavano intorno potessero udire, narrò i fatti: sulla strada che da Asquins portava a Vézelay avevano incontrato Aloise di Chalon in compagnia di un monaco; quest'ultimo aveva sostenuto che era inutile proseguire la caccia, giacché non sarebbero stati in grado di trovare nessun altro, e loro si erano rallegrati dell'ordine che li riportava ad Auxerre. La caccia si era rivelata massacrante; la foresta di Morvan e i villaggi che avevano incontrato erano sconvolti dall'uragano; c'era ben poco da mangiare e dovevano temere anche le proprie ombre. Sulla via del ritorno, poi, avevano incontrato quell'uomo, e ne avrebbero fatto volentieri a meno, perché sembrava uscito dall'inferno. Al suo ordine di trovargli un carro e di scortarlo ad Auxerre avevano obbedito, più per riguardo a quella che sembrava una manifesta pazzia che per rispetto al suo coraggio nello sfidarli. Detto ciò, Guy di Senlins tacque, restando in attesa. Con palese fastidio, Hugo di Chalon gli ordinò di alzarsi e di farsi da parte. Sì, quell'infelice faccenda andava dimenticata al più presto. Ma gli occhi di tutti ormai erano posati sul carro fermo davanti al portale, sul giovane che lo conduceva, e sul corpo disteso all'interno. Il giovane era coperto di sangue; sembrava che, a tenerlo in vita, fosse qualcosa di più forte della semplice volontà umana; per contro, la fanciulla nel carro pareva addormentata, e soltanto alcune chiazze di sangue ormai disseccato lasciavano intuire la verità. Il carro, uno di quelli in uso tra i contadini per trasportare il fieno, aveva ancora il fondo coperto di erba, e
dunque sembrava quasi addobbato per quella sepoltura. Con estrema lentezza, Colin scese dal carro, appoggiandosi alla fiancata per tenersi in piedi. L'aria si era fatta color del piombo e la gente intorno soldati, nobili e monaci - gli ondeggiava davanti agli occhi come se fosse in procinto di sparire. Poi la piccola folla davanti al portale si aprì, e Illait gli andò incontro. Colin lo vide e si girò verso il carro per non dover sostenere lo sguardo dell'amico. Sulla strada del ritorno aveva pensato soltanto a quel momento, e adesso si sentiva come un pozzo prosciugato: non aveva più parole. Illait lo raggiunse; il suo viso era duro, senza traccia di emozione, le labbra serrate e gli occhi gelidi. Eppure, quando sollevò una mano e la posò sulla fronte di Ela, in quel gesto c'era un'estrema delicatezza. «Tu me l'hai affidata, ma io non ho saputo salvarla», mormorò Colin, abbassando il capo e, nella sua voce, la traccia del rimpianto feriva come una spada. «Non fartene una colpa, amico mio», rispose Illait, e pose l'altra mano sul suo capo chino offrendogli, con quel gesto, una comunione intima e inaspettata. Colin si sentì investito da un'emozione fortissima, che per un momento lo lasciò sconcertato e senza difese, e poi, quasi immediatamente, lo colmò con una nuova forza, come se la vita gli rifluisse nelle vene. La sua rabbia si attenuò e il dolore che lo stava schiantando diventò leggero. Guardò il bel viso di Ela, e Illait, che tanto le somigliava. «Non per colpa tua. Non per colpa tua», ripeté Illait, allontanando le mani dal suo capo e dalla fronte della sorella; i suoi occhi erano ancora duri e il dolore li faceva ardere nel profondo. Ma quella comunione aveva saldato radici che niente poteva spezzare; Colin non sapeva se era davvero quello che Illait desiderava, né se lo desiderava lui stesso, però di fatto quell'affinità esisteva, ben più forte di qualunque legame di sangue. «Ela ha detto che tu ci avevi sposati, e io l'ho amata», gli disse. «Per questo Ela sarà con te nelle ore più buie per darti consolazione e in quelle più liete per dividere la tua gioia. Non sarete mai davvero separati, perché l'amore apre la porta tra i mondi, e tu lo sai», gli rispose Illait. Colin accettò il conforto di quelle parole come avrebbe potuto accettare una brocca d'acqua fresca che lo rinfrancava. Solo in quel momento, i due si accorsero di Artemisia, che si era avvicinata in silenzio. L'aria intanto era diventata ancora più scura, perché in cielo stava accadendo qualcosa di terribile: un sole buio stava scivolando a coprire quello splendente, e il giorno moriva nell'ora più luminosa lasciando la terra av-
volta dal crepuscolo. Con l'oscurità, sulla terra si adagiava il terrore. I monaci avevano intonato una preghiera sommessa, e i soldati, le facce livide nell'insolita luce, guardavano in alto, in preda alla paura. La campana della chiesa di Saint-Amatre cominciò a suonare, accompagnata da un rumore che saliva dalle mura, simile al suono di uno sciame d'api in fuga: era la gente della città, che vedeva avverarsi in cielo ciò che aveva già visto compiersi nei propri pozzi. L'abate Ilderico si fece avanti, rivolgendosi a Illait di Isley con l'autorità che il momento richiedeva. «Potrai seppellire tua sorella nel recinto dell'abbazia, nel cimitero dei laici», offrì, e fece cenno a Colin di portare il carro all'interno, perché fosse tolto subito alla vista. Ma Illait posò sull'abate uno sguardo raggelante. «Per troppo tempo è stata innocente prigioniera di mura straniere. La seppellirò secondo i nostri usi e nel luogo che mi sembrerà giusto.» «Nella foresta? Non in terra consacrata?» intervenne Senals. «Come i pagani?» «Come si usa tra la mia gente», ribatté Illait, e il suo tono sfidava Senals e Ilderico insieme. Fino ad allora, il giovane aveva contrastato il dilagare della paura; in quel momento, tuttavia, lasciò che si riversasse sulla folla. E anche coloro che erano stati calmi e ragionevoli si sentirono presi dall'angoscia, e furono sopraffatti dalla certezza di aver commesso delitti imperdonabili. Un vento di morte, che sapeva di maledizioni antiche, fece tremare l'acqua della fontana sconvolgendo l'ordine dei getti d'acqua dai tredici occhi. E l'acqua era senza luce, nera come un abisso. «Uccidetelo!» urlò Odo di Chambéry, scrollandosi dalla custodia dei due soldati che aveva al fianco. «Non vedete che cosa sta accadendo? La colpa di tutto è sua! Lui ha reso pazzo il mio vescovo e farà lo stesso con voi! Già la paura vi morde e poi diventerà terrore... Vi divorerà lentamente, come quel sole nero lassù in cielo!» Le mani dei soldati si posarono sull'impugnatura delle spade. Tutti guardavano Illait, immobile, con le spalle al carro e con accanto Artemisia da un lato e Colin dall'altro. Ma Colin dava le spalle alla folla, per sostenersi al bordo del carro e, accanto al corpo di Ela, c'era la sua balestra, ancora carica, rimasta così fin dall'alba del giorno prima. Con rapida determinazione, il giovane capitano l'afferrò e, girandosi, lasciò partire la prima freccia, che raggiunse Odo in pieno petto. L'uomo si accasciò in ginocchio; un fiotto di sangue gli uscì
dalle labbra, mentre, annaspando, si afferrava a Hugo di Chalon, che lo respinse. Finì nella polvere e rimase con gli occhi spalancati. «Che l'inferno se lo prenda!» imprecò Colin. Tra sé e la folla aveva soltanto la propria balestra, con un'unica corda carica. Un mormorio di stupore, mutatosi ben presto in feroce risentimento si levò all'intorno. «Fermali!» Amboise ordinò a Enrico, a bassa voce, ma con un tono che non ammetteva esitazioni. Il duca comprese. «Nessuno si muova!» urlò, facendosi avanti e alzando le braccia a trattenere sia i suoi uomini sia quelli del vescovo. Si fermò davanti a Illait, ignorando volutamente il capitano e la minaccia della sua arma. «Liberaci dalla paura», ordinò. «La paura è il frutto dell'ignoranza e ciascuno ne ha a propria misura», replicò Illait seccamente. «Io non ho paura!» «Allora tu sei molto saggio, Enrico di Borgogna, o molto fortunato, e ti sarà facile mostrare a tutti questi uomini che cosa può fare un uomo che non ha paura.» Il duca esitò soltanto un istante e poi sorrise a fior di labbra, comprendendo il suggerimento. La forza e il prestigio di un potente venivano da momenti come quello. «Tu sei figlio del diavolo», mormorò, poi, voltandosi, alzò le braccia al cielo. «Che vi prende? Siete soldati e sembrate femmine, siete monaci e sembrate bambini!» li apostrofò. «Che i monaci tornino in chiesa a pregare, e i soldati alle loro faccende! E tu, Hugo di Chalon, rientra in città e mostra alla tua gente il corpo dell'autore dell'incendio!» «Dovremo riflettere su ciò che abbiamo visto!» ribatté il vescovo. «Abbiamo visto la giusta esecuzione di un uomo colpevole e già condannato! Tu, Illait di Isley, provvedi a dare sepoltura a tua sorella nel luogo che più ti aggrada, e accetta il nostro dolore per il tuo lutto. L'abate Ilderico disporrà perché si preghi per la sua anima.» Illait incrociò lo sguardo di Amboise. Il tono e le parole di Enrico di Borgogna avevano raggiunto lo scopo: gli uomini si stavano scuotendo. Alvalone stava già incitando i soldati del vescovo a muoversi. Con fermezza, Illait tolse la balestra dalle mani di Colin, porgendola ad Artemisia, poi salì a cassetta del carro. «Vieni con me?» disse, e Colin annuì in silenzio, accettando il suo braccio teso per salire a sua volta. Illait incitò il cavallo e i soldati si dispersero per lasciarli passare; Artemisia, tenendo la balestra tra le braccia come
avrebbe tenuto un bambino, si mosse per rientrare nel cortile dell'abbazia. Il suo gesto fu il segnale che spinse tutti a obbedire agli ordini di Enrico di Borgogna. In silenzio, il piccolo corteo di Hugo di Chalon raggiunse la porta di Saint-Amatre e rientrò in città. I soldati accesero qualche fuoco, silenziosi e impauriti da quella notte innaturale, e vi restarono intorno, cercando compenso nelle fiamme alla luce che se n'era andata dal cielo. Qualcuno parlava ancora di terribili castighi, che certamente li avrebbero colpiti, e altri si spingevano più lontano, a raccontare storie o a proporre rimedi che potevano far tornare il sole. I monaci si affrettarono verso la chiesa dell'abbazia, per riunirsi a pregare. La campana di Saint-Amatre ora taceva, e così ogni creatura dell'aria e della terra. «Il Signore ci protegga dalle forze che in questo giorno ci toccano», pregò Ilderico, muovendosi a precedere Senals, Amboise ed Enrico. «Perché saranno in molti a dire che abbiamo permesso ciò che non avremmo dovuto e che, a causa della nostra debolezza, il sole si è oscurato.» «Non dire eresie, Ilderico», lo ammonì il venerabile Senals, arrancando per tenere il passo del duca di Borgogna. «Signore di Montsalvy, questa abbazia ti ha concesso tutto l'aiuto che poteva darti», disse l'abate, fingendo di non aver sentito il rimprovero di Senals. «Di questo ne avrò buona memoria», rispose Amboise, aspettando il seguito. «Tuttavia, per la nostra pace e per la quiete delle nostre anime e dei nostri studi, sarà opportuno che il signore di Isley non vi resti a lungo. Ben presto saranno in molti a fare domande cui non saprò rispondere...» «Non temere, abate. Domani partiremo tutti per Cluny, e tu sarai liberato da ogni peso», intervenne Enrico. «Quindi anche tu verrai a Cluny, duca?» esclamò Senals. «E che cosa ti spinge a un viaggio così pesante? L'amore per la verità o quello per il Potere?» «Voglio rendere la mia testimonianza in favore del signore di Montsalvy, perché sia prosciolto una volta per tutte da ogni accusa. Voglio che al signore di Isley sia restituita la libertà che gli è dovuta. E voglio essere certo che possano giungere senza impedimenti, questa volta. Così scorterò anche te, venerabile Senals. E di questo dovresti essermi grato. Nessuno osa porsi sulla strada del duca di Borgogna e dei suoi soldati.»
«Te ne sono grato», ribatté Senals. «Di certo oggi hai guadagnato in prestigio agli occhi di tutti.» «Ma non ai tuoi», fu il commento del duca. Per tutta risposta, l'altro si limitò a un vago sorriso. Poi seguì Ilderico verso la chiesa. «Adesso che siamo soli, Enrico, posso dire di trovarti in miglior salute dell'ultima volta che ci siamo visti», gli confidò Amboise. «E io posso confessarti che il merito è di quel giovane straniero, perché mi ha detto che morirò tra due estati da questa e, nello stesso momento, mi ha spinto a sentirmi veramente vivo. Ma questo non lo dirò a nessun altro, e tu manterrai il segreto.» «Lo farò. Già lo ritengono responsabile di tutto quello che succede!» «E non lo è?» chiese Enrico. Amboise scosse il capo. Ma era ancora troppo stanco per spiegare al duca di Borgogna quello che non sarebbe stato comunque in grado di capire. «Che cos'hai deciso per Chaffre de Revard? Vuoi portarlo a Cluny?» chiese. «No. Lo rimanderò al re di Borgogna, ma per ora lo terrò nelle sicure celle del monastero di Saint-Denis a Dijon, dove la sua pazzia sarà ben custodita. Partirà all'alba, con una buona scorta.» «Bene. Spero di non sentirne parlare per molto tempo.» Enrico sorrise, fermandosi. «Illait di Isley resterà con te?» «Lo spero.» «Lui, il tuo indomabile capitano e la tua bella dama ti fanno molto potente, Amboise, perché ciascuno di loro ha grandi doti, ma insieme sono una vera forza», commentò. «Sarai ancora una volta assolto, a Cluny, ma sarai anche molto invidiato. Dovrai stare attento, perché l'invidia è un terribile nemico.» «Cercherò di stare attento», promise Amboise, ben sapendo che quelle osservazioni erano molto sagge. «Se avrò bisogno di te e dei tuoi consigli, verrai da me con i tuoi giovani fedeli?» «Quando ci chiamerai, verremo.» Enrico annuì. Quella promessa era tutto ciò che desiderava sentire da Amboise de Montsalvy. Eppure... «Tu sei davvero sicuro che il sole rispunti da quella cosa nera che l'ha ingoiato?» mormorò. «Assolutamente sicuro», lo rassicurò Amboise. «E tra non molto.» «Allora posso andarmene a riposare. Devo farlo, se domani voglio parti-
re non appena farà giorno. Mi giustificherai con l'abate se non lo raggiungo in chiesa a pregare perché il sole torni a scoprirsi?» «Il sole si scoprirà comunque, con o senza preghiere», ribatté Amboise. «Temevo che lo avresti detto», disse Enrico, volgendo lo sguardo al cielo. Il sole sembrava ora uno zaffiro ardente e le ombre sulla terra dal grigio volgevano al blu. La campana di Saint-Amatre salutò il ritorno del primo spicchio di sole; quella di Saint-Germain suonò per la morte del maestro Valentin, l'alchimista. Ormai era notte. La calura era di nuovo pesante; in lontananza, alcuni lampi rischiaravano fuggevolmente l'orizzonte, silenziosi. Al riparo delle mura dell'abbazia di Saint-Germain, i soldati di Enrico di Borgogna stavano intorno ai fuochi in attesa della partenza, fissata all'alba, ma non c'erano né voci né suoni e gli uomini dormivano, o vegliavano, in silenzio, perché temevano ancora le ombre e le minacce che la notte di un giorno tanto insolito poteva riservare. La porta di Saint-Amatre era aperta, ma la città si trovava raccolta in una veglia di preghiera, voluta da Hugo di Chalon. A tratti, come onde portate da un mare tranquillo, le voci salmodianti salivano dalle mura, giungendo fino al vasto spiazzo e all'abbazia. Alcuni fuochi erano accesi anche ai lati della porta. Illait e Colin avevano aspettato che facesse buio per avvicinarsi allo spiazzo. Non avevano parlato, per tutto il tempo in cui erano rimasti nel luogo che Illait aveva scelto per la sepoltura di Ela: un rialzo del terreno che si specchiava in una sorgente, a nord di Auxerre, nel fitto della foresta e ben lontano dalla strada che portava a Sens. Un luogo nascosto, che a Colin era sembrato degno della creatura che lo aveva incantato, lasciandosi osservare vestita d'acqua e di luce. Tremò al ricordo della percezione che, in quel momento, aveva avuto del dolore futuro. Ormai il dolore era diventato una voce sommessa, che accompagnava il suo sfinimento. Illait fermò il carro, quando arrivò alla fontana; Colin si lasciò scivolare a terra, chinandosi a bere un po' d'acqua. Risollevandosi, tentò di afferrare la sensazione che permeava la notte, l'aria e la terra. I tredici occhi del mostro di pietra sembravano vuoti e senza fondo, e l'acqua era buia. «È passato poco tempo da quando ci siamo fermati a questa fontana in attesa del maestro Valentin!» commentò, scuotendo il capo. «Davvero poco tempo!»
Illait liberò il cavallo dalle stanghe del carro e, tenendolo per le briglie, lo portò a Colin. «Tu sapevi quello che sarebbe accaduto?» mormorò lui, senza nemmeno girarsi. «Non questa volta. Non sempre posso vedere quello che voglio o quando lo voglio. E dopo dovevo impedire che Maude vi trovasse.» «Quella donna ci ha trovati. Forse è più potente di quanto pensi, perché quelli che ci cercavano sapevano bene dove eravamo. Forse è stato il suo modo di vendicarsi di te.» Illait annuì. Colin comprese che lo sapeva. «Ho sentito il compiersi della sua vendetta; l'ho sentita nel momento in cui è stata costretta suo malgrado a lasciarmi.» «Perché hai voluto fare di Ela mia moglie?» chiese Colin. «Io non l'avrei mai toccata, se lei non lo avesse detto...» «Perché avresti dovuto vivere con un rimpianto che ti avrebbe cambiato, e non in meglio.» «L'hai fatto per me, quindi.» «E per lei. Per quale motivo doveva rifiutarsi alla vita? Era pronta, ed è stata felice; e lo sarebbe stata al tuo fianco se fosse vissuta.» Colin sollevò lo sguardo. Un sorriso sfiorava il volto di Illait. «Grazie», mormorò. Illait gli porse le briglie del cavallo. «Vieni.» Il tono era ancora quieto, ma si era fatto più autoritario. «Devi farti medicare le ferite e riposare. Non puoi chiedere al tuo corpo più di quanto esso possa dare.» «C'è stato un momento in cui gli ho chiesto di morire.» Colin sorrise amaramente al ricordo. «Non accadrà più», promise. Prese le briglie e, con l'aiuto di Illait, s'issò faticosamente in sella. Solo in quel momento, girando le spalle alla fontana, colse nell'acqua l'involarsi di un'ala bianca; e un riflesso, rosso come il sangue o come i papaveri in fiore. NOTA DELL'AUTRICE Sebbene Il segreto dell'alchimista possa essere letto come romanzo a sé stante, mi sembra opportuno ricordare che Amboise de Montsalvy, Colin Bois, Illait di Isley e Artemisia de Montsalvy sono già stati al centro del Segno del Drago (apparso in questa stessa collana nel 1999), che si chiudeva allo sbocciare della primavera dell'anno Mille. Come il precedente,
anche questo romanzo è frutto dell'immaginazione, eppure legato e attento al contesto storico-geografico dell'epoca, che ho approfondito conducendo ricerche su vari testi quali, per esempio, le Cronache dell'Anno Mille di Rodolfo il Glabro; l'Atlas de la France autour de l'An Mil a cura di Michel Parisse e Jacqueline Leuridan e il prezioso studio su Hugues Capei Roi de France di Edmond Pognon. Per i lettori curiosi di scoprire quanto di storico, o tramandato come tale, ho «compreso» nel mio romanzo, voglio qui ricordare alcuni dei personaggi storici citati, iniziando da Enrico I il Grande, duca di Borgogna, fratello di Ugo Capeto Alla morte di Enrico (1002), suo nipote Roberto II (detto il Pio) invade effettivamente il ducato di Borgogna con l'aiuto di Riccardo II di Normandia, assediando - invano - anche la città di Auxerre e poi assaltando l'abbazia di Saint-Germain - conosciuta in tutta Europa per essere un grande centro di cultura dov'erano forgiati molti giovani destinati a esercitare il potere -, di cui era abate dal 989 Ilderico, morto nel 1011. Sono figure storiche l'abate Odilone di Cluny e il vescovo Hugo di Chalon, figlio di Lamberto d'Auxerre e nipote della regina Costanza di Arles (moglie di Roberto II il Pio) e, naturalmente, Gerberto d'Aurillac, cioè papa Silvestro II, controversa e affascinante figura di studioso e alchimista, spesso accusato di esercitare la magia. Sono figure storiche anche i componenti della corte del duca Enrico, quindi Landrico, conte di Nevers, il suo erede Ottone Guglielmo, conte di Macon, e persino il fido Alvalone, citato nel 1003 come cavaliere, con il figlio Bovone, e poi come signore laico di Chény, poco a nord di Auxerre. Per quanto riguarda i luoghi, ho cercato di illustrare com'erano - almeno in base alle descrizioni - nell'anno Mille; in mio soccorso è venuta la ricchezza della memoria storica, perché la zona considerata era al centro di un'area di notevole importanza, sia culturale sia architettonica. Nella bella città di Auxerre, ai giorni nostri, la cattedrale di Saint-Etienne ha incorporato tre chiese precedenti di cui la più antica è quella dedicata a SaintAmatre, da me citata; la città è ancora in parte circondata dalle mura che si affacciano, con le sue case, sulle rive dello Yonne. A Vézelay, infine, sulla cima della collina, nel IX secolo fu costruito un monastero benedettino, dopo che i normanni avevano saccheggiato e distrutto un convento più antico nella non lontana Saint-Pére. Accanto al monastero venne costruita anche la chiesa di Sainte-Madeleine, per ospitare le presunte reliquie della santa. Meta d'importanti pellegrinaggi nell'XI e nel XII secolo, fu anche un punto di sosta per i pellegrini diretti a Santiago de Compostela (lì s'incontrarono Riccardo Cuor di Leone e il re francese
Filippo Augusto nel 1190, prima di partire per la terza crociata). Il 22 luglio 1120, in occasione delle cerimonie in onore della santa, la navata della chiesa prese fuoco e più di mille pellegrini morirono, intrappolati all'interno dell'edificio. Ho voluto citare questo avvenimento come «premonizione» e mi sono presa la libertà di porre sulla cima della collina di Vézelay, oltre al monastero benedettino, anche un monastero femminile, situazione del resto piuttosto frequente nel periodo trattato. Le acque curative di tutta la zona erano ben note ai galli e ai romani, che le usarono come bagni termali; le fonti minerali e termali furono però coperte e nascoste nell'alto medioevo, per impedire il culto pagano dell'acqua, e riportate alla luce soltanto in epoca relativamente recente. Anche l'eclisse da me descritta ebbe effettivamente luogo, stando a Rodolfo il Glabro: accadde il 29 giugno dell'anno Mille, cinque giorni dopo San Giovanni: «[...] nel ventottesimo giorno della luna si ebbe una agghiacciante eclisse. Il sole color zaffiro stava nella zona superiore del cielo e aveva l'aspetto della luna il quarto giorno del nuovo ciclo [...]» Resta, infine, l'alchimia, la scienza segreta e affascinante che ha accompagnato l'evoluzione dell'uomo. A questo proposito Un brano tratto dal Mattino dei Maghi di Jacques Bergier mi sembra riassuma perfettamente quello che mi ha spinto a raccontare di alchimia e alchimisti: «[...] siete consapevole che nell'odierna scienza ufficiale il ruolo dell'osservatore va assumendo un'importanza crescente. La relatività, il principio dell'indeterminatezza mostrano in quale grado attualmente l'osservatore intervenga in tutti questi fenomeni. Il segreto dell'alchimista è questo: c'è un modo di manipolare la materia e l'energia così da produrre ciò che gli scienziati contemporanei chiamano un 'campo di forze'. Questo campo agisce sull'osservatore e lo pone in posizione privilegiata, a faccia a faccia con l'Universo. Da questa posizione egli ha accesso alle realtà che normalmente ci vengono nascoste dalle dimensioni del tempo e dello spazio, della materia e dell'energia. Questo è ciò che viene chiamato la 'Grande Opera'». FINE