MARIANGELA CERRINO IL SEGNO DEL DRAGO (1999)
I Il Drago! Abbiamo visto il Drago, la notte di Ognissanti! Il drago è il ...
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MARIANGELA CERRINO IL SEGNO DEL DRAGO (1999)
I Il Drago! Abbiamo visto il Drago, la notte di Ognissanti! Il drago è il segno che aspettavamo: ricordate l'apostolo Giovanni! 'Vidi un angelo discendere dal cielo, con in mano la chiave dell'abisso e un'enorme catena. Egli vinse il Drago e lo incatenò per mille anni. Ma, trascorsi mille anni, rilasciato dalla sua prigione il Drago, Satana, se ne andrà a sedurre le nazioni dei quattro angoli della Terra.' Guardatevi attorno, ora: la fine del Tempo è su di noi e le sette trombe dei sette angeli stanno per suonare!» «Quel vecchio sembra convinto di ciò che dice», mormorò qualcuno, in tono irriverente, all'orecchio di Amboise de Montsalvy. «Un giorno solo davanti al Signore è come mille anni e mille anni come un giorno solo», rispose quietamente Amboise, citando la seconda epistola di Pietro. Il mattino era freddissimo, e proprio il gelo teneva ancora lontana la neve dalle vie strette e tortuose della città, coronando di ghiaccio i tetti di paglia. L'odore intenso dei pasticci di sangue di maiale e degli stracotti rivelava tuttavia che il Natale non era lontano e che le locande si stavano dedicando a una cucina più ricca ed elaborata. La folla era attratta da quel vecchio monaco - si diceva venisse da Puy che minacciava giudizi e castighi dall'angolo della strada maestra, nel punto in cui sfociava nella piazza animata dai venditori della fiera dell'Avvento. Le matasse di lana colorata, le stoffe, i vini, il sale, la robbia per tingere
di rosso i tessuti, gli utensili di legno e di ferro erano offerti in abbondanza, nonostante la carestia e le lotte che per l'intero anno avevano flagellato la Borgogna, la Moriana e le terre circostanti. I mercanti erano dunque troppo intenti ai propri affari per dare ascolto al vecchio che inveiva contro di loro, agitando il pugno. «Abbiamo qualcosa da temere?» chiese l'uomo alle spalle di Amboise de Montsalvy. Questi si voltò a guardarlo. Sui venticinque anni, valutò. Era un giovane alto, dai capelli neri; il vago sorriso che aleggiava sulle sue labbra era freddo al pari di quel mattino e negli occhi, di un blu cupo, non c'era traccia d'allegria. Vestiva di nero e portava un mantello logoro. Da tempo Amboise de Montsalvy aveva imparato a giudicare gli uomini per l'aura che riuscivano a manifestare passando tra la folla, e questo giovane era ciò che prometteva di essere: un guerriero. E infatti la folla ciarliera, curiosa, attratta dalla fiera e spaventata dalle parole del monaco, gli lasciava spazio attorno, istintivamente timorosa. «Qualcosa da temere?» ripeté Amboise, soddisfatto dall'impressione che aveva raccolto. «Forse», concluse. «Mi hanno detto che ieri, prima della chiusura delle porte, sono arrivati soltanto due stranieri», ribatté il giovane, facendo un cenno con il capo verso il monaco che arringava la folla. «Uno è lui, ma non credo che abbia bisogno dei miei servigi.» Amboise annuì, misurato nei gesti com'era sua abitudine. Vicino a quel giovane si evidenziava la sua piccola statura, tuttavia non dava un'impressione di minore forza. I radi capelli erano di un biondiccio sbiadito e il viso appariva angoloso e asciutto, segnato da una fitta rete di piccole rughe. «Sono Amboise de Montsalvy», disse con un sorriso che tuttavia non illuminò gli occhi chiari. Poi aggiunse in un soffio: «Vieni». Il giovane lo seguì in silenzio lungo la strada maestra e fino alla locanda dove Amboise aveva preso alloggio: la Locanda del Drago. Non aveva notato quel nome, la sera precedente. Quando Amboise alzò lo sguardo verso l'insegna di legno dipinto di rosso che il vento faceva ondeggiare, il giovane lo imitò. «Forse è questo il Drago di quel monaco», disse poi. «Tu non credi ai segni?» lo interrogò Amboise. «Io credo a quello che vedono i miei occhi.» Il tono era fermo, ma non ostile.
«Già... E quanti occhi hai?» «Due.» «Così credi. Per questo ne hai soltanto due.» «Sei pazzo?» Amboise scrollò le spalle. «Non è per tenerti una lezione che ti ho chiamato, Colin Bois. Sediamoci. Là, vicino al camino.» Colin lo seguì, incuriosito. Amboise non dubitava che al di là della freddezza, necessaria al mestiere che esercitava, quel giovane avesse una mente acuta e non attendesse che di venire pungolato per metterla all'opera. Sedettero al tavolo accanto al camino. Era troppo presto perché la locanda fosse affollata e il padrone, abbastanza discreto, sapeva aspettare prima di avvicinarsi. Amboise ordinò vino caldo e speziato per entrambi. «Mi hanno detto che hai venti uomini ai tuoi ordini», disse quindi a Colin. «Li avevo. Ora sono una dozzina.» «Fedeli?» «Quanto basta, se la paga è buona», sorrise l'altro. Poi tacque, aspettando che il locandiere si allontanasse dopo aver lasciato le tazze fumanti. «So che hai combattuto a Langeais con la milizia di Fulk Nerra», osservò Amboise. «La paga era buona», rispose seccamente il giovane capitano, sulla difensiva. «Questo fatto ti disturba?» «No. Sono lontano da tempo da questi regni e non ho alcun interesse nelle lotte di potere tra un principe e l'altro, sebbene i principi mi onorino, considerandomi spesso un consigliere al di sopra delle parti. Ma tu considerami per quello che sono: un viaggiatore in cerca di una scorta.» «Questo è appunto ciò che si dice: che stai cercando una scorta. Questa città ha molti occhi e altrettanti orecchi», commentò Colin, distraendosi per un istante a inseguire le voci festose che giungevano dalla strada. Una serva portò loro un po' di pane di meliga da accompagnare al vino. «Che cosa devo pensare», aggiunse poi, «che sei arrivato senza scorta quando nessun viaggiatore percorre le strade se non ha uomini armati a proteggerlo?» «Avevo una scorta e l'ho perduta. Dunque me ne serve un'altra.» «Che cosa intendi con 'perduta'?» «Siamo stati attaccati dai predoni ad Annecy. Qualcuno è morto e qualcun altro è fuggito.» «Non era una buona scorta», commentò Colin con un mezzo sorriso.
«Già.» «E dove vuoi andare?» «Di là dalle montagne.» «Adesso?» esclamò il giovane, palesemente sorpreso. «Sì. Intendo lasciare Chambéry prima di Natale. Conosci la strada sull'Arc?» «No. Comunque nessuno passa le montagne d'inverno e io non conduco i miei uomini tra le fauci dei lupi!» «Nemmeno per una buona paga?» mormorò Amboise. Colin tacque per qualche istante poi chiese: «Quanti sono i viaggiatori?» Amboise apprezzò il fatto che il giovane capitano, sebbene implicitamente, ammettesse di non essere indifferente a un compenso ragguardevole. «Soltanto due: io stesso e una dama», rispose. «Una donna!» «Una dama», lo corresse l'altro. «Senza neanche una serva?» «L'unica che aveva è morta nell'attacco dei predoni, e non ne ha volute altre. Ma non ti preoccupare per lei. Non ci darà problemi.» «Le donne danno sempre problemi e io non sono abituato a fare da scorta a una dama.» «Lo so. Sei un mercenario. Ma hai fama di tener fede ai patti e di pretendere assoluta obbedienza dai tuoi uomini. Combattere la guerra di qualcun altro o scortare viaggiatori non fa molta differenza, dopotutto. Deciditi, ora.» «Quel monaco, là fuori, va dicendo che a Natale si compirà l'anno Mille e che il Tempo finirà; e ne ho sentiti altri in tutte le piazze e le strade, da quando a Ognissanti è apparsa quella strana cosa in cielo. Perché vuoi correre sulle montagne proprio per la fine del Tempo?» Intuendo la provocazione mascherata dal tono serio del giovane, Amboise sorrise. Sì, era vero: stavano per entrare nell'anno Mille, ed erano innumerevoli gli eventi meravigliosi che lui poteva raccontare e provare; eventi che magari sembravano opera del Maligno e che invece appartenevano a popoli lontani e misteriosi, oppure erano semplicemente il retaggio di antiche sapienze dimenticate. «Chissà...» mormorò allora. «Forse perché il Tempo potrebbe non finire. Dobbiamo vederlo, per crederci, non ti sembra?» «Io credo che tu non sia del tutto onesto con me. Nessuno passa le montagne in pieno inverno se non ha un buon motivo per farlo.»
«È vero», ammise Amboise, apprezzando la schiettezza di Colin. «Ti devo la verità, dal momento che dovrai impegnare la tua vita e quella dei tuoi uomini per me. Ho l'incarico di condurre Adelaisa di Borgogna dal marchese Olderico Manfredi, che l'attende per farne la propria moglie. Purtroppo queste nozze sono avversate da un nemico piuttosto potente, l'Arcivescovo di Milano Arnolfo da Azzago, il quale teme il congiungimento della Marca di Torino al Regno di Borgogna.» «Dunque non erano soltanto predoni quelli che ti hanno privato della scorta.» «È così.» «Quella dama è molto preziosa.» «Preziosissima.» Le voci nella strada erano cambiate; molti urlavano e, a tacitare la folla, piovevano ordini aspri. Il locandiere spalancò la porta, seguito dagli avventori incuriositi. Anche Amboise si appressò alla soglia; il mercenario invece gli si fermò alle spalle, rimanendo prudentemente all'interno per non farsi notare. Amboise notò quella precauzione e l'approvò. Un intero drappello di guardie del vescovo di Chambéry stava spingendo via la folla dalla strada per far passare un carretto trainato da un grosso cavallo. In piedi, sul carro, si scorgevano due prigionieri, un giovane e una fanciulla. Il primo era appena un ragazzo, e portava i capelli biondissimi a corona, come i monaci, ma senza tonsura; un mantello azzurro rivelava tuttavia che non era un monaco e che non doveva nemmeno essere uno del popolo. La fanciulla era poco più che una bambina, con i capelli altrettanto chiari, sciolti e lunghi fin oltre la vita. Eppure uomini e donne inveivano aspramente contro di loro e qualcuno addirittura strillava: «A morte!» Il predicatore, che si era ammutolito, agitò entrambi i pugni chiusi quando il carro gli passò davanti. «Chi sono?» mormorò Amboise. Il locandiere guardò la folla che si richiudeva, seguendo gli uomini del vescovo fin sulla piazza, e poi rispose in un sussurro: «Fino a ieri erano ospiti del nostro vescovo. Sono stranieri. Pagani». «Pagani?» ripeté Amboise, stupito. L'uomo si strinse nelle spalle. «Così dicono. Fanno cose strane e di certo attirano su di noi il giudizio di Dio. Non ci manca che questo, sulle nostre teste.» «Dove li portano?» «Da lì si va soltanto in chiesa.»
Amboise guardò Colin, che era rimasto impassibile, e chiese: «Vuoi accompagnarmi?» «In chiesa?» ribatté l'altro con scarso entusiasmo. «Ti disturba?» «Non più di tanto, però... Dobbiamo preoccuparci di quei due?» «Forse», rispose Amboise con un tremito lieve nella voce, come se non riuscisse a mascherare la collera. La grettezza dei potenti lo rendeva furioso quanto l'ignoranza nei miserabili. Tuttavia, se poteva scusare la seconda, era incapace di perdonare la prima. «Saremo di ritorno per il pranzo», annunciò infine al locandiere. «Avverti la dama che mi accompagna e dille di aspettarci senza uscire.» «Lo farò. La maggiore delle mie figlie le terrà compagnia.» I due uomini uscirono in silenzio. Il sole alto nel cielo ancora non intaccava il ghiaccio che coronava i tetti né arrivava a lambire quello che ricopriva il fango della strada e che scricchiolava sotto gli stivali. Il vento si era quietato: nell'aria si addensavano il fumo e la fuliggine. Anche il monaco aveva lasciato il suo angolo e, nella piazza, le guardie del vescovo si erano schierate per tenere lontana la folla dalla porta della chiesa. Era evidente che sia l'alto prelato sia la sua corte si trovavano già all'interno del tempio. Amboise e Colin si accostarono ai soldati, ma questi sbarrarono loro la strada. Sopraggiunse allora il capitano della guardia: Amboise lo conosceva, avendolo incontrato a Cluny più di una volta. «Per ordine del vescovo nessuno può entrare in chiesa durante questa funzione, signore di Montsalvy!» gridò l'uomo. Era massiccio, alto quanto Colin e più vecchio di almeno una decina d'anni. «Non intendiamo certo disattendere gli ordini del tuo vescovo, capitano. Ma forse puoi dirci quello che sta accadendo.» L'altro lo guardò, diffidando di quel tono cortese ma fermo. Poi fissò Colin per un istante e nel suo sguardo, notò Amboise, non c'era traccia di simpatia. «Non posso dirti nulla», replicò infine. «Allora lo chiederò a monsignor de Revard. Non appena avrà terminato, riferiscigli che Amboise de Montsalvy verrà a rendergli omaggio prima dell'ora nona.» Il capitano accettò l'ordine senza fiatare; Amboise gli girò le spalle e fece cenno a Colin di seguirlo. «Io non ti capisco», mormorò il mercenario. «Credevo che la cosa migliore per te e per la tua dama fosse passare inosservati. Quell'uomo invece
ti conosce e il vescovo non prenderà bene la tua intrusione nei suoi affari con quegli stranieri.» «Quell'uomo si chiama Alcourt ed è il capitano delle guardie del vescovo... Inoltre, a quanto ho visto, conosce anche te.» Colin annuì; il mezzo sorriso aveva assunto una piega feroce. «È vero. Siamo stati una volta compagni e una volta nemici in battaglia; di certo non siamo mai stati amici... Ma che cosa ti spinge a interessarti di quegli stranieri?» «Non conosco la fanciulla, ma so chi è il giovane.» «È soltanto un ragazzo.» «Non lasciarti ingannare dal suo aspetto; credo abbia i tuoi stessi anni. Tre anni fa il suo Re, il cristiano re Malcolm di Scozia, l'ha inviato all'abate Odilone di Cluny, il quale mi ha parlato di lui. È un giovane dotato di molti poteri: la gente della sua terra lo chiama un derwydd. E so che l'anno scorso è fuggito proprio da Chaffre de Revard, passando le montagne in pieno inverno.» «Be', a quanto pare è stato ripreso.» «Sì, in un luogo chiamato l'Orrido del Drago, dall'altra parte delle montagne e non lontano dalla città di Susa. Lo tradì la gente del posto, cui fu detto che quel ragazzo era uno spirito maligno.» «Vuoi servirti di lui?» «Può darsi.» Amboise non pretendeva di spiegare a quel giovane mercenario che cosa lo spingeva ad agire così, né perché fosse importante per lui tentare di soccorrere quello straniero; forse, rifletté, la sua inquietudine era causata da quella funzione così insolita, officiata dal vescovo in persona: non riusciva a trarne che nefasti presentimenti. Rientrati nella locanda, dopo aver rassicurato il padrone sul tranquillo proseguimento della fiera - e dunque sui guadagni che ne sarebbero derivati -, Colin e Amboise si accomodarono nella piccola stanza in cui era stato apparecchiato il tavolo per il loro pranzo. La dama era lì ad attenderli, soffocata di premure dalla figlia del locandiere, che sperava di essere presa al suo servizio. Nello scorgere i due uomini, però, la ragazzetta fuggì, spaventata, e la giovane donna alzò lo sguardo verso i nuovi arrivati. Aveva poco meno di vent'anni, e portava un abito pesante, di un rosa polvere. I capelli, inanellati in lunghi boccoli, avevano il colore rugginoso delle foglie d'autunno e spiccavano sulla pelle bianchissima, trattenuti da un nastro e da un velo attorno alla fronte e alla
nuca. Gli occhi erano dello stesso verde delle foglie nuove e parevano sorridere a Colin. Il giovane mercenario ebbe l'impressione di conoscere quella donna da sempre. «Vieni», lo esortò seccamente Amboise. «Siediti, capitano», lo invitò la giovane, indicandogli il posto di fronte al proprio. Poi aggiunse: «Amboise non ti ha detto che non dobbiamo farci notare?» «L'avrà anche detto, ma si comporta diversamente», ribatté Colin, irritato dall'appunto e dal tono lieve della voce. «Questa dama è Adelaisa di Borgogna», gli mormorò Amboise all'orecchio, e Colin ricordò all'improvviso che quella giovane era promessa a Olderico Manfredi e che lo scopo del loro viaggio erano proprio le sue nozze. «Che cosa avrebbe intenzione di fare il signore di Montsalvy, capitano?» insistette la giovane. «Non tocca a me parlare», borbottò Colin, notando che Adelaisa aveva lanciato ad Amboise un'occhiata colma di apprensione. «La tua prudenza rivela saggezza», commentò Amboise, e Colin si sentì garbatamente insultato. Gli occhi verdi di Adelaisa, impudicamente fissi nei suoi, risero del suo disagio. Colin Bois non aveva mai deluso le aspettative di una donna, sguattera di taverna o dama di castello che fosse, ma questa era diversa. E conquistarla sarebbe stato difficile quanto valicare le montagne nel cuore dell'inverno, e forse anche di più. «Pensi ancora che ti sarò d'impiccio, sulle montagne?» lo interrogò Adelaisa. «Lo penso più di prima. Sei troppo sottile, troppo bella e non hai vesti adatte.» «Non posso fare niente per le prime due cose, ma ti sorprenderò con la terza», ribatté la giovane. «E ti ringrazio dei complimenti che mi hai rivolto... Ammesso che fossero tali.» Fece cenno alla ragazzina, che si era rintanata in un angolo della stanza, di portare il tegame dello stracotto e riempì personalmente e con abbondanza il piatto del mercenario. Amboise attese il proprio turno. Sembrò a Colin che tra i due vi fosse un'intimità e una conoscenza molto più lunga di quanto le parole dell'uomo gli avevano lasciato intendere. «Quando partiamo?» chiese poi Adelaisa. «Questo vorrei saperlo anch'io», la assecondò Colin. «Non mancheremo la fine del Tempo», rispose Amboise.
Colin avvertì qualcosa di rabbioso e di profondamente irriverente in quelle poche parole, come se l'uomo possedesse altre verità che nessuno poteva o sapeva ascoltare, e sulle quali era costretto a tacere. Poi, nel silenzio che seguì, notò che gli occhi di Adelaisa si erano rabbuiati e comprese che, qualunque fosse il segreto che Amboise de Montsalvy custodiva, la sua dama ne era a conoscenza. I due uomini uscirono insieme dalla locanda: Colin doveva raggiungere i suoi uomini e impartire loro gli ordini, mentre Amboise era atteso dal vescovo. Il tempo, con la rapidità tipica dell'inverno, era mutato e sulla città gravava una coltre di nuvole basse che venivano da settentrione. Tuttavia faceva ancora troppo freddo perché potesse cadere la neve. Indifferente al gelo, il monaco di Puy, dall'angolo della strada, aveva ripreso a inveire sulla folla, predicendo morte e distruzione. «Che cosa devo fare se il vescovo di Chambéry non gradirà la tua visita e non ti farà tornare?» chiese Colin. «La dama ti dirà dove accompagnarla.» «Ti fidi di me», ribatté Colin, perplesso. «Non dovrei?» Nel tono di Amboise si avvertiva una certa impazienza. «Chi pagherà l'ingaggio?» «Non temere. Nel posto dove la dama ti dirà di accompagnarla, qualcuno ti pagherà», rispose il signore di Montsalvy con un vago sorriso. Colin gli sorrise di rimando e lo guardò allontanarsi lungo la strada. Il monaco di Puy parlava ancora di Draghi. II Doveva essere più di un'abitudine. Doveva essere una predestinazione. Amboise de Montsalvy ormai ne era quasi certo: aveva passato gran parte della propria vita unendo gli studi al compimento d'incarichi per questo o quel potente. A volte si era trattato di mediazioni ufficiali tra reami in guerra, altre volte di missioni riservate: talune pericolose, talune disperate, ben poche fallite. E sempre si era lasciato coinvolgere. E se questo gli aveva procurato la stima dei potenti, gli aveva procurato anche molti amici. E altrettanti nemici. Era stata opera sua l'ascesa al trono del duca di Francia Ugo Capeto, e sua l'appassionata difesa dell'amico Adalberone, vescovo di Reims, a Compiègne, che gli era valsa l'inimicizia di Seguin, vescovo di Sens. Lui
aveva convinto Ugo Capeto a intervenire con il suo esercito di seicento uomini, provocando lo scioglimento di quell'assemblea che non aveva altro scopo se non quello di sostenere gli ultimi carolingi di Lotario e di suo figlio Luigi V. E lui aveva impedito, con la sua mediazione, la ribellione di Arnolfo conte delle Fiandre e di Albert di Vermendois, che avevano finito per accettare il nuovo re. Suo, infine, il consiglio a Ugo di associare al trono il figlio Robert. Quando il re era morto, tre anni prima, non c'erano state guerre, o lotte, almeno per quel trono. Ma sempre, trattando con i potenti, Amboise non aveva dimenticato gli insegnamenti semplici ricevuti durante l'infanzia dal suo primo precettore, un monaco bretone di nome Irvél. Questi gli aveva insegnato che poteva inginocchiarsi davanti a un grande albero, perché era opera di Dio, ma che poteva non farlo davanti a un re, perché il suo potere non era opera di Dio. E di certo il potere di Chaffre de Revard, che aveva ricevuto carica e feudo in eredità dal padre, dipendeva ben poco dall'Altissimo. Aspettando di essere ricevuto dal vescovo, Amboise misurava a passi cadenzati l'anticamera delle sue stanze sotto lo sguardo vigile di due soldati di guardia. Era abituato alle attese, che considerava soltanto un meschino espediente per svilire gli ospiti, e non permetteva che la sua irritazione per quel tempo perso risultasse evidente. Così, quando finalmente gli fu concesso di entrare, Chaffre de Revard non la scorse sul suo viso. Alto e magro, di poco oltre la trentina, il vescovo di Chambéry lasciò che un sorriso lieve gli increspasse le labbra sottili. «Amboise de Montsalvy! Dubitavo della sobrietà di Alcourt, quando mi ha portato il tuo messaggio.» Chaffre de Revard tuttavia doveva ammettere che fra tutti gli uomini, l'ultimo che voleva accanto in quel momento era proprio Amboise de Montsalvy. Il potente, incorruttibile piccolo uomo del Nord che non si piegava di fronte a nessun re e non si arrendeva davanti agli ostacoli, per insormontabili che fossero. Gli porse l'anello da baciare, ma Amboise lo ignorò. «La tua superbia sarà la fonte di tutti i tuoi mali», mormorò il vescovo. «Ti saluto, Chaffre de Revard», ribatté quietamente Amboise. «E non dirmi che ignoravi il fatto che mi trovavo a Chambéry. Le tue spie sono tra le migliori e la tua guardia tra le più inesorabili.» «Mi attribuisci più potere di quanto ne abbia», disse Chaffre, guidandolo verso il camino e indicandogli un'ampia sedia, resa più comoda dall'imbottita di piume. La stanza aveva una pretesa di ricchezza; quattro arazzi co-
privano le pareti, trattenendo il freddo e gli spifferi, ma i colori si confondevano nell'ombra, anche perché ormai la luce, proveniente dall'alta finestra e filtrata dal prezioso onice traslucido, si era fatta grigia. Chaffre si sedette di fronte ad Amboise e ogni parvenza di sorriso scomparve dal suo volto scarno. «Che cosa ti porta qui, in una stagione così inclemente e in un tempo colmo di paura?» «Accompagno al suo sposo una fanciulla che mi è stata affidata. Ma tu sai anche questo.» Chaffre annuì. Il tono di Amboise de Montsalvy non gli piaceva. Si erano incontrati per la prima volta poco più di due anni prima a Cluny. Amboise de Montsalvy, di ritorno dalla corte di Ottone III a Ravenna, vi era stato condotto dalla sua amicizia per l'abate Odilone; Chaffre de Revard vi era stato chiamato per rispondere del saccheggio che i suoi soldati avevano compiuto nelle terre della piccola abbazia di Saint-Rémy sull'Arc, che faceva parte della sua diocesi. Amboise conosceva da anni il vecchio abate di Saint-Rémy, Ramberto, e si era assunto volentieri il compito di portare le sue ragioni dinanzi al collegio giudicante. Così Chaffre de Revard, che pure godeva di molti appoggi e di parenti illustri anche tra i membri dello stesso collegio, e che aveva dato per scontato di uscire indenne dall'irritante vicenda, si era trovato a dover affrontare un vero processo. E per colpa di Amboise de Montsalvy ne era uscito sconfitto. Aveva dovuto concedere all'abbazia varie esenzioni, e impegnarsi a tenere a bada i propri soldati, accettando con forzata umiltà il biasimo del collegio giudicante. «So della dama che ti accompagna», ammise quindi, conciliante. «Ma non mi ero interrogato su di lei. Hai trovato la scorta che cercavi?» «Alcourt ha visto Colin Bois al mio fianco. Non te l'ha riferito?» Chaffre accantonò l'argomento come se non avesse importanza. Forse Amboise de Montsalvy intendeva davvero andarsene al più presto... anche se aveva l'impressione che il piccolo uomo del Nord trattenesse a stento una specie di furore cui lui non era estraneo. «Darò a te e alla tua pupilla la mia benedizione.» «Mi è dovuta, dal momento che non ho potuto riceverla in chiesa.» «È questo che ti ha portato da me, allora? Capisco... Alcourt non sapeva che a te poteva concedere l'ingresso, perché sei tra i pochi laici che possono assistere a un rito di conversione.» «Si sono convertiti, dunque?» Chaffre chiuse la mano a pugno. Fu un gesto brusco, involontario, se-
gnato dall'intima tensione che lo attraversava. «No!» sibilò, alzandosi di scatto e volgendo le spalle all'ospite per nascondergli i suoi sentimenti. «E che cosa intendi fare di quei giovani?» chiese Amboise. «Sono pagani! Hanno osato celebrare i loro dei e compiere magie!» «Il ragazzo tuttavia è protetto dall'abate di Cluny, cui è stato affidato... E chi è la fanciulla?» «Sostiene di essere sua sorella... ma io temo che sia invece un demone, o una apparizione malefica.» «E allora?» Chaffre s'irrigidì: sebbene fosse in preda alla collera, aveva notato che Amboise era calmissimo e non aveva messo in dubbio la sua convinzione. Una simile condiscendenza non era consona alla natura di Montsalvy. «Non ho ancora deciso», rispose Chaffre, abbozzando un mezzo sorriso. «Dovunque però ci sono sant'uomini che ci ricordano come il castigo di Dio potrebbe scendere dal cielo a chiudere il nostro Tempo: lasciare dunque due pagani sotto questo tetto indurrebbe a credere che la Chiesa sia clemente con il peccato o che si sia perduta.» «Permettimi d'incontrarlo.» «Come?» La sorpresa era autentica. «Il venerabile abate di Cluny vorrà sapere perché il suo protetto ha abusato della tua pazienza. Gli aveva dato buone speranze di conversione... almeno questo è ciò che mi ha confidato lo stesso abate Odilone.» «Quel barbaro pagano non ti ascolterà!» «Può darsi. Ma il vescovo di Chambéry non si opporrà di certo all'estremo tentativo di condurre un'anima al suo gregge, vero?» Le parole erano state cortesi, ma Chaffre ne avvertì distintamente la minaccia sottesa; per un istante temette che l'altro non soltanto avesse capito, ma addirittura sapesse. D'altra parte, rifletté, il prestigio di cui godeva Amboise era tale da giustificare quella concessione davanti a qualsiasi autorità che gliene avesse chiesto il motivo. «Nessuno sarebbe più felice di me se accadesse», mormorò infine, piegando appena il capo. «Allora fammi parlare con quel giovane.» «Pregherò perché tu abbia successo.» Poi batté le mani e Alcourt entrò, aprendo la porta di slancio. Chaffre tuttavia lo frenò con un cenno, chiamando invece l'uomo alle sue spalle. «Ti accompagnerà il mio vicario, Odo di Chambéry», concluse. Odo era tarchiato e basso di statura, con i capelli grigi, le labbra promi-
nenti e gli occhi piccoli. Sebbene Amboise non lo conoscesse, l'uomo non gli rivolse neppure una parola di saluto e si avviò in silenzio, precedendolo. Lasciarono l'ala degli alloggi e uscirono in un piccolo cortile interno, stretto tra mura alte e merlate. Oltre a quella da cui erano venuti, soltanto un'altra robusta porta si apriva su quello spazio. Era già quasi buio e l'aria gelida era animata da minuscoli fiocchi di neve che ferivano il viso. Odo sollevò il cappuccio del pesante mantello mentre le guardie aprivano la porta. Amboise, apparentemente assorto nei propri pensieri, misurò con un'occhiata l'altezza delle mura, la larghezza dei merli e l'ubicazione del cortile rispetto all'intera costruzione. Il passaggio angusto che i due uomini imboccarono era rischiarato soltanto da alcune feritoie che portavano l'alito gelido dell'inverno. Una finestrella chiusa da sbarre illuminava invece il punto in cui il passaggio, aprendosi, rivelava un'altra porta e una stretta scala. Odo si fermò, girandosi, e fece cenno alla guardia di accendere una torcia. In quella luce improvvisa, i piccoli occhi scuri parvero tanto ostili quanto quelli del vescovo. «Aspetteremo qui», spiegò. Amboise annuì e superò la porta che la guardia aveva aperto. All'interno della cella, il buio formava una massa compatta, appena scalfita dal chiarore notturno che penetrava dalle alte feritoie. «Odilone di Cluny dice che parli la nostra lingua alla perfezione», disse Amboise, sebbene non scorgesse alcunché. «Sono Amboise de Montsalvy. Sono qui per aiutarti.» D'improvviso sentì lo sfrigolio del grasso nella tazza di pietra di una lucerna: una luce fioca rivelò la sagoma del giovane prigioniero. «Aiutarmi?» ripeté il ragazzo e Amboise si sentì disarmato dal suo sorriso freddo e triste. La fiammella della lucerna lo rendeva ancor più pallido e magro di quanto non fosse. Sfiorò con le dita la fiamma, che si inclinò, allungandosi. «Che cosa è accaduto con il vescovo?» chiese Amboise. Il giovane scosse il capo. Il suo atteggiamento non rivelava disagio né timore, ma Amboise comprese che, tra di loro, c'era una sorta di muro e che toccava a lui abbatterlo. Allora si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla; di rado si comportava con tanta familiarità. «Sono straniero e non sono cristiano», mormorò il ragazzo, senza sottrarsi al contatto. «Quanto ti costerà aiutarmi?» «Nessuno è straniero per un buon cristiano.»
Sul sorriso del prigioniero si dipinse un velo d'ironia. «E tu sei un buon cristiano?» «Forse.» «Il tuo vescovo vuole da me qualcosa che non posso dargli perché non appartiene agli uomini.» «Non è il mio vescovo e, per quanto lo conosco, ciò che vuole riguarda di certo il potere e la ricchezza.» «Io non ho né l'uno né l'altra.» I due si fissarono, in silenzio. Nel corso della sua vita, Amboise aveva conosciuto saggi, filosofi, asceti, ma anche uomini temerari, ribelli, esaltati: tutti, in un modo o nell'altro, gli avevano lasciato una traccia nella mente e nell'anima. Quel giovane, però, era diverso da chiunque avesse mai incontrato. In lui si fondevano una quiete profonda e una durezza sorprendente, unite a una malinconia che, velandogli lo sguardo, impediva di perdersi nel mare dei suoi occhi azzurri. Capiva perché Odilone di Cluny ne era rimasto affascinato. «Qual è il tuo nome?» gli chiese, distogliendo lo sguardo e ritraendo la mano. «Illait di Isley.» «Sei un nobile.» «Sono figlio di uno dei principi di re Malcolm. Almeno così dicono.» «Così dicono?» Ancora una volta, la risposta fu un lieve sorriso, che trasmise ad Amboise la sensazione che il giovane gli avesse letto nell'anima, liberandola, oltre che dalla collera, anche dalle paure. «La cerimonia di conversione è stata soltanto un pretesto per forzarti», mormorò. «Il vescovo si sta rendendo conto che non può avere quello che desidera.» «Quando ne sarà convinto ti ucciderà. Rifiutando la conversione gli dai modo di farlo in nome della Chiesa.» «Mi stai chiedendo perché non mi sono convertito?» «No. E tu sai che sto dicendo la verità.» Illait annuì. Amboise si trattenne dal chiedergli se sapeva che un'ammissione del genere poteva costargli la scomunica. «Quella fanciulla è davvero tua sorella?» «Sì. Ma re Malcolm è convinto che sia destinata a un buon matrimonio, per stabilire un'alleanza. Dopo la conversione, naturalmente.»
Amboise non ribatté. Dopo un istante di silenzio, si girò, avviandosi alla porta. Ma la voce del ragazzo lo fermò: «Hai detto al vescovo che venivi per convincermi. Che gli dirai ora?» «Leggi spesso nelle menti degli altri?» replicò l'altro senza scomporsi. «No», rispose Illait. Ma gli occhi azzurri fissavano Amboise. «Tenterò di prendere tempo, e anche tu dovrai farlo. Così potrò avvertire l'abate di Cluny: non credo che sappia quello che sta accadendo qui. Per il momento, non vedo altra soluzione.» «Ti farai un potente nemico», mormorò il giovane. Questa volta fu Amboise a sorridere. «Chaffre e io non siamo mai stati amici.» Bussò alla porta per farsi aprire e, non appena fuori, ignorò deliberatamente Odo e il suo sguardo ostile. Toccò invece ad Alcourt accompagnarlo fuori del palazzo; congedandosi, Amboise gli disse che sarebbe tornato l'indomani, per informare il vescovo sull'esito dell'incontro. Ormai era notte. Lo spolverio ghiacciato imbiancava i vicoli, scintillando alla luce delle torce agli angoli delle casupole. Ma faceva ancora troppo freddo per nevicare. Amboise tornò volentieri al caldo accogliente della locanda, al brusio sommesso degli avventori e al profumo invitante della cena già servita. Colin Bois lo aspettava nella stanzetta attigua a quella più grande, e sembrava prendere estremamente sul serio il compito di vegliare sulla dama. Sedevano infatti l'uno di fronte all'altra e, mentre Colin parlava, la giovane sorrideva, divertita. Entrambi non si accorsero subito di lui: Adelaisa fu la prima a sollevare lo sguardo, e il sorriso che ancora vi si specchiava fu velato per un istante dall'apprensione. «Quando partiamo?» domandò Colin, trattenendosi dal chiedere lumi sull'esito dell'incontro con il vescovo. «Presto, spero», rispose Amboise, sedendosi e lanciando un'occhiata allo stracotto fumante che il locandiere gli aveva portato. «Gli uomini sono pronti», lo informò Colin. «Bene. Dovrò mandarne uno a Cluny, con un messaggio per l'abate Odilone. Illait di Isley, il ragazzo che Chaffre tiene prigioniero, è un suo protetto.» Colin non replicò; per lui non faceva alcuna differenza come venivano impiegati gli uomini, una volta ingaggiati. Lo stracotto era buono e l'avanale più gradevole del solito nel bicchiere tiepido, ma all'improvviso Amboise si sentì stringere lo stomaco in una
morsa; lo colse una sensazione, quasi un presagio, che non riuscì a spiegare. In quel momento si sentì bussare alla porta ma, quando il locandiere andò ad aprirla, al di là c'era soltanto la notte. Qualcuno tra gli avventori si fece affrettatamente il segno della croce. «Il vento», commentò Colin con apparente noncuranza. Il tono però era teso, e Amboise non riuscì a sopire del tutto la sensazione d'allarme e di dolore che lo aveva afferrato. Si ritirò presto, dopo aver accompagnato Adelaisa nella stanzetta che l'oste era riuscito a ricavare per lei; per quella notte, i suoi figli avrebbero dormito sul pavimento della cucina. Gli uomini, invece, condividevano uno stanzone in cui una ventina di giacigli erano stati allineati l'uno accanto all'altro. Indagando con discrezione, Colin aveva appurato l'identità dei loro compagni: si trattava di mercanti giunti a Chambéry per la fiera, oltre a un paio di chierici di SaintRémy. Nessun pericolo, quindi. Stava ormai facendo giorno quando gli strepiti e le urla dalla strada costrinsero tutti ad alzarsi, insonnoliti e gelati, dai giacigli. III Li bruceranno! Stanotte hanno alzato la pira, in piazza, davanti alla chiesa!» strillò uno dei figli del locandiere, affacciandosi alla porta del dormitorio. «Era tempo!» borbottò qualcuno. Un altro scacciò il ragazzo tirandogli quello che aveva sottomano, ma i più presero a infilarsi rapidamente le giubbe per uscire a godersi lo spettacolo. Colin aspettò la reazione del signore di Montsalvy, ancora seduto sul suo giaciglio. «Non riesco a crederci», mormorò infine Amboise. «Sarebbe meglio andarcene non appena apriranno le porte», suggerì il giovane capitano. Amboise scosse il capo. Poi si alzò, s'infilò la giubba e prese il mantello. «No», disse. «Andiamo a vedere.» Colin si rassegnò a seguirlo. Lasciarono passare i loro compagni di stanza, che stavano uscendo in gran fretta per conquistarsi un buon punto d'osservazione, e scesero le scale. Oltre al padrone, già intento alle sue faccende, gli avventori rimasti nella locanda erano pochissimi. Adelaisa li aspettava accanto alla porta, avvolta nel mantello. Amboise
la guardò, ma non disse una sola parola per impedirle di accompagnarli. Non appena fuori, seguirono i ritardatari che si stavano dirigendo verso la piazza della chiesa; faceva un gran freddo, e i rintocchi della campana che chiamava a raccolta la gente sembravano ghiacciarsi nell'aria pulita, lasciando una specie di vibrazione che penetrava sotto la pelle. Quando arrivarono nella piazza già colma, la campana si ammutolì e la folla curiosa sembrò quietarsi per un istante. Davanti alla chiesa era stata alzata la pira; le fascine erano state accatastate con cura e impregnate di grasso alla base, ma un velo di ghiaccio scintillava su quelle alla sommità, dove si era fermato il nevischio della notte. «L'hanno preparata ieri sera; quando Chaffre mi ha ricevuto l'aveva già deciso!» mormorò Amboise e fece qualche passo verso la chiesa, ma Colin lo trattenne. «No», disse. «È meglio che non ci vedano.» Amboise annuì, ma non si curò di nascondere lo sgomento e il furore che lo stava invadendo. Anche Adelaisa gli afferrò un braccio per frenarlo. «Non possiamo fare nulla», mormorò, con un tono che fece quasi sussultare Colin. C'era infatti, in quel tono, una fermezza che gettava una nuova luce sulla dama gentile che, soltanto la sera prima, aveva riso con lui. Il portale della chiesa si aprì in quel momento: ne uscì una prima fila di guardie, seguite da giovani monaci salmodiami, e da Chaffre de Revard con i suoi prelati. Il vento si intrufolava irrispettoso tra le loro vesti preziose e le pellicce e li accompagnava l'odore acuto dell'incenso, che subito si sparse attorno, simile a una coperta pesante. La folla accolse con un urlo le guardie, nel momento in cui si fecero sulla soglia con la prigioniera. Tra gli uomini che la circondavano, la fanciulla sembrava ancora più minuta. Indossava una lunga tunica scura, che le lasciava le braccia nude, e aveva i capelli sciolti. Quando incespicò sull'ultimo gradino, e una guardia l'afferrò per sostenerla, la folla la schernì. «Chaffre è impazzito», commentò Amboise cercando con lo sguardo Illait di Isley. «Spesso i potenti nascono pazzi», gli rispose Colin, passando con naturalezza un braccio attorno alle spalle di Adelaisa per proteggerla dalla folla che spingeva per avanzare. La prigioniera sembrava incapace di comprendere ciò che le stava accadendo e parve ignorare anche Chaffre, che le si era parato davanti offrendole l'anello da baciare. Quell'estremo rifiuto indispettì la folla, che comin-
ciò a urlare «Al rogo!» con impeto ancora maggiore. Allora le guardie spinsero avanti la ragazza in malo modo, affrettandosi verso la pira. La campana riprese a suonare all'improvviso, sovrastata dalle grida e dalle preghiere dei monaci, che ancora non rinunciavano al tentativo di salvare quell'anima. La fanciulla venne issata sulla pira, e soltanto in quel momento sembrò rendersi conto del destino che l'attendeva. Cercò di divincolarsi, e le urla della folla aumentarono. Un monaco infine incendiò la base della pira in più punti. Subito si levò un gran fumo. La folla tacque, in attesa, ma dalla fanciulla non venne né un grido né una preghiera. Quel silenzio parve diffondersi sull'intera piazza, lasciando gli astanti senza voce. Poi, non appena le fiamme si levarono, facendosi largo tra il vento e il gelo, esplose un urlo di trionfo, che li liberò dalla paura e dal dispetto per quella mancata richiesta di misericordia, per quel pentimento che non si era compiuto. «Adesso hanno il sacrificio e lo spettacolo!» sibilò Amboise. «Sono felici e sono puri. E il Giudizio di Dio sarà clemente, se il Tempo finirà stanotte, o domani, o tra una settimana.» «È questo che diranno?» disse Colin con un sorriso amaro, distogliendo lo sguardo dai capelli della ragazza aggrediti dal fuoco. Da come giaceva sulle corde, e per sua fortuna o per clemenza divina, il fumo doveva averla soffocata. «Certamente è questo che ha detto Chaffre», ribatté Amboise. «E giuro che riuscirò a fargli pagare questo assassinio, prima o poi. Andiamocene.» Girandosi, scoprirono il monaco di Puy inginocchiato in un angolo e intento a pregare. I rintocchi della campana tornarono a levarsi, ma l'uomo non si distrasse. Lo ignorarono, affrettandosi a rientrare nella locanda; il padrone non si era lasciato attrarre dallo spettacolo, e stava preparando vino caldo e speziato per i molti che ne avrebbero avuto bisogno di lì a poco. Stupito nel vederli rientrare così in fretta, sollevò la testa dal calderone dove il vino stava borbottando. «È già finito?» esclamò. «No... Dimmi, però, non è inconsueta un'esecuzione nella settimana del Natale?» chiese Amboise, respingendo con un cenno il vino che l'altro gli aveva porto. «Non dove c'è una fiera! Considera quanta gente straniera è in città e può dunque assistervi! Altrimenti a che servirebbe un'esecuzione?»
«Ieri però non si sapeva nulla. Hanno alzato la pira questa notte.» «È vero. Ma con i pagani non si sa che cosa può succedere, e forse stavano chiamando i loro demoni contro di noi. Dovrebbero bruciare subito anche l'altro. Così la città sarebbe libera.» «E pura», aggiunse Colin. Il locandiere, che nutriva un certo timore nei confronti del giovane mercenario, si limitò a commentare: «Se il Tempo dovesse proprio finire nessuno di noi vorrebbe andare all'inferno, vero?» Amboise annuì distrattamente: fece cenno ad Adelaisa di rimanere accanto al fuoco e ordinò a Colin di precederlo nella stanza attigua. «Hai detto che i tuoi uomini sono pronti?» gli chiese poi in tono brusco. «Lo sono. Possiamo partire anche subito.» «Non voglio partire. Dobbiamo prima sottrarre Illait di Isley a Chaffre.» «Non è per questo che mi hai ingaggiato!» protestò Colin. «Portare via quel pagano al vescovo ci tirerà addosso tutti i suoi soldati!» «Mi è stato detto che non ti tiri indietro facilmente, nemmeno quando la situazione è disperata. E l'hai dimostrato a Langeais: non hai lasciato Fulk Nerra quando Ugo Capeto tardava a giungere con gli aiuti. È forse diverso, ora?» «Non sono disposto a gettar via la mia vita e quella dei miei uomini per un pagano», ribatté Colin. «Senza offesa, capitano, ma credo che quell'uomo, a modo suo, sia molto più devoto di te. Inoltre sono persuaso che tu non valuti un uomo in base al dio che egli venera.» Colin tacque, punto sul vivo. E da quel silenzio Amboise dedusse che, nonostante tutto, anche quel giovane mercenario credeva in Dio, sebbene non se ne rendesse conto oppure lo avesse dimenticato. «E come pensi di portarlo via? Anche tu sai fare magie?» riprese Colin. «No. Oggi il vescovo riceve i pellegrini, i penitenti e i mendicanti per la questua di Natale. È l'unico giorno dell'anno in cui il palazzo viene aperto. Tu e io entreremo con loro.» «E poi?» «Lasceremo la locanda prima dell'ora sesta, come se partissimo. In realtà, Adelaisa, insieme a due dei tuoi uomini più fidati, ci aspetterà di là dalle porte, presso la cappella di Ys. Gli altri tuoi uomini sorveglieranno il carro con il bagaglio della nostra dama, e si apposteranno nel vicolo dietro il palazzo del vescovo per l'ora nona.» «Intendi dunque mettere quel pagano nel carro al posto della ragazza?»
«Hai un'idea migliore?» «Tanto per cominciare quella dama non potrà essere scambiata per uno dei miei soldati!» «Su questo non ci scommetterei, capitano. Adelaisa cavalca come un uomo e tira altrettanto bene con l'arco del migliore dei tuoi mercenari. Adeguatamente vestita, passerà del tutto inosservata. Inoltre, come ti ho detto, oggi alle porte il flusso di pellegrini sarà pressoché ininterrotto.» «Come fai a sapere che quel pagano è ancora rinchiuso nella cella in cui l'hai visto?» «Questo non lo so. Posso soltanto sperarlo.» «E non sai nemmeno se è ancora vivo.» «È vero», convenne pacatamente Amboise. Colin rifletté per qualche istante, poi scosse la testa, rassegnato. «Vado a scegliere gli uomini», disse. «Bene. Quando sarai di ritorno saremo pronti. Dobbiamo evitare che il nostro buon locandiere si accorga di qualcosa.» «Sarà discreto. Altrimenti sarà un uomo morto», mormorò Colin andandosene ed evitando di guardare Adelaisa, ancora accanto al camino ad ascoltare il locandiere che le elencava le virtù della figlia con la speranza di convincerla a prenderla al proprio servizio. Sembrava strano, a Colin, che quella dama potesse trasformarsi in uno dei suoi soldati. Ma se Amboise l'aveva detto, doveva essere vero. Sebbene lo conoscesse da poco, aveva subito imparato ad apprezzare la lucidità e la determinazione di quel piccolo uomo del Nord. Per l'ora sesta, come convenuto, Adelaisa e due uomini di Colin, il suo secondo Bert La Salle e il giovane Aurac, erano fuori della città. Colin aveva avuto una fugace visione della giovane, in abiti maschili e con i capelli nascosti in uno stretto cappuccio scuro: dalla figura si sarebbe detto un ragazzo al suo primo ingaggio, anche perché cavalcava davvero come un uomo e molto probabilmente era altrettanto brava con le armi. Amboise non aveva mentito. Osservandolo farsi largo tra la folla dei questuanti, avvolto in un mantello ancor più logoro del proprio e con il cappuccio ben calato sugli occhi, Colin dubitava tuttavia della propria sanità di mente per essersi lasciato invischiare in quella folle impresa. Il palazzo del vescovo era presidiato dalle guardie e stracolmo di pellegrini e di straccioni, che si disperdevano alla ricerca di qualcosa da man-
giare nonostante i tentativi dei soldati per trattenerli e spingerli nel cortile, dove le serve distribuivano la zuppa di cavoli e fave. Chaffre de Revard sopportava con pazienza quella cerimonia che ancora non era riuscito ad abolire, e che sarebbe andata avanti fino al calar del buio. Per sua fortuna, il cielo gravido di nuvole avrebbe portato un tramonto precoce. La giornata sarebbe stata fin troppo pesante e ancora lo attendevano le cerimonie della sera, in chiesa: soltanto l'indomani avrebbe scoperto se la morte sul rogo della fanciulla era stata utile per modificare l'atteggiamento del suo prigioniero. Fino a quel momento, l'unica notizia buona gliel'aveva portata Alcourt: Amboise de Montsalvy e i suoi compagni avevano lasciato la locanda e si preparavano a uscire dalla città. Chaffre quindi poteva sperare di non rivederlo. «Di là!» mormorò Amboise trattenendo Colin e indicandogli il passaggio che aveva già percorso con la guida di Odo. Colin annuì. Sferrò un calcio alla caviglia dell'uomo che gli era vicino e con un'abile mossa del gomito gli fece cadere la tazza di zuppa che il poveretto stringeva come un tesoro. L'uomo urlò, scagliandosi contro quello che lo seguiva e incolpandolo della tragedia. In breve, una dozzina di miserabili presero ad accapigliarsi tra le risate delle guardie e lo stupore dei questuanti che premevano per vedere meglio la scena. In quella confusione, Amboise e Colin scivolarono nel piccolo cortile. Le guardie, tutte impegnate a sedare la zuffa, avevano lasciato incustodito il passaggio, che i due imboccarono correndo. Poi, mentre Amboise sollevava la sbarra di ferro che chiudeva la porta della cella di Illait, Colin verificò che in cima alla scala non ci fosse nessuno. Difatti era così: l'unica porta era chiusa e da quella che si affacciava sullo stretto camminamento alla sommità del muro merlato entrava soltanto un soffio di aria gelida. Rassicurato, Colin si riavviò verso la cella e vi entrò, guardingo; non c'era niente che detestava di più che trovarsi in uno spazio angusto con un porta che poteva chiuderglisi alle spalle. Amboise indicò il giaciglio e mormorò: «È vivo». Senza esitare, il mercenario prese il giovane e se lo caricò sulle spalle; nell'assestarselo addosso, tuttavia, si trovò le mani bagnate, e comprese che era sangue. Ma non c'era tempo neppure per capire dove e quanto fosse ferito. Amboise uscì, richiuse la porta e precedette Colin all'apertura sul cam-
minamento, sciogliendo nel frattempo la corda che si era arrotolato intorno alla vita. «Faccio io», mormorò Colin, appoggiando il prigioniero alla parete e prendendo la corda dalle mani di Amboise. Quell'attimo di tregua gli permise finalmente di osservare da vicino il pagano. Il suo sguardo si fermò prima sulla giubba, strappata sulle spalle e sul petto e dalla quale filtrava il sangue, poi sul viso dai lineamenti delicati e sugli occhi che adesso erano socchiusi, lasciando intravedere un lampo azzurro. Sembrava davvero molto giovane, ma il corpo rivelava una forza che poteva sopraffare guerrieri ben più robusti. Perché è questo che deve essere, pensò Colin, il cui istinto raramente si era rivelato ingannevole alla prova dei fatti. Nonostante ciò che dice Amboise de Montsalvy, questo giovane è un guerriero. Si riscosse e sgusciò fuori per legare la corda a uno dei merli. Poi fece un cenno ai suoi uomini, che erano in attesa sotto le mura, e il carro fu messo in posizione. Amboise aiutò il giovane capitano a sistemarsi il prigioniero sulla schiena. «Tieniti stretto!» lo ammonì Colin, avvertendo il ritegno del pagano ad avvinghiarsi al suo collo. Quindi scavalcò il bordo e si calò lungo la fune. Gli uomini erano pronti a ricevere il fardello e lo fecero sparire nel carro, mentre Colin aiutava Amboise a scendere. Quando anche quest'ultimo si fu infilato nel carro, Colin riprese la spada, il proprio mantello e la guida del gruppo. Adesso era compito di Amboise dare al giovane un aspetto tale da ingannare le guardie. Il giorno scivolava verso l'ora nona; le nuvole basse e buie nascondevano i dintorni boscosi della città. Alcuni commedianti stavano dando spettacolo attorno ai resti della pira, sulla piazza della chiesa, e l'eco degli schiamazzi arrivava fino a loro, confusa con il vociare della folla. Seguirono una strada secondaria che scendeva alla porta dell'Arc. La porta era affollata di contadini che entravano in città per assistere alle cerimonie in chiesa e anche da chi, avendo sentito parlare del rogo, veniva a vederne i resti. Colin salutò con un cenno il capo delle guardie. «Il signore di Montsalvy e la sua dama», spiegò, ma l'uomo, seccato dalla ressa alla porta, gettò appena uno sguardo all'interno del carro. Non riuscendo a tenere a freno la curiosità, anche Colin si girò a guardare: Amboise sedeva vicino all'apertura, bene in vista, mentre Illait stava sul
fondo, avvolto nel mantello di Adelaisa, con il cappuccio alzato e ben stretto attorno al viso. Nella penombra si intuivano soltanto il candore della pelle e un riflesso di biondo. «Andatevene!» tuonò il soldato. «Toglietemi questo carro dal passaggio!» Colin frenò la risposta che gli era salita alle labbra e fece cenno ai suoi di obbedire. La stessa guardia trattenne la gente per permettere al carro di passare. Erano fuori. La strada, abitualmente percorsa dai viaggiatori diretti al valico, era larga fino a tre metri - almeno in certi punti nei pressi di Chambéry - e a tratti presentava ancora l'antico lastricato romano. Uscendo dalla città piegava a sud, fino al borgo di Montmélian, poi saliva costeggiando l'Isère fino ad Aiguebelle e quindi si dipanava lungo la riva sinistra dell'impetuoso Arc, tra gole e montagne, toccando alcuni borghi prima del valico. La strada per la cappella di Ys, invece, era poco più di un sentiero, attraversando l'Isère all'antico ponte di Planaise. Da lì Amboise aveva intenzione di scendere direttamente sull'Arc e di costeggiarlo sulla riva destra. L'abbazia di SaintRémy poteva offrire rifugio per una notte, ma dovevano evitare il ben più grande borgo di Saint-Jean-de-Maurienne, il cui vescovo era un alleato di Chaffre de Revard. Altri piccoli villaggi, di proprietà delle due diocesi, si dipanavano lungo la strada fino a Bramans, l'ultimo borgo prima del valico. Se non incontravano ostacoli, e dopo aver abbandonato il carro, l'intero percorso avrebbe richiesto loro non più di cinque giorni. Nel crepuscolo precoce e ovattato dalla nebbia scura che scendeva dai monti, Chambéry sparì presto alla vista. Ed era appena scesa la notte quando arrivarono alla cappella: una costruzione diroccata nel fitto del bosco, sulle rovine di qualcosa di più antico che gli uomini avevano tentato di cancellare. Alte pietre piatte giacevano abbattute, coperte di muschio e segnate da profonde incisioni, e qualcuna spuntava al di sotto della cappella, come se fosse stata usata per farne le fondamenta. Non un alito di vento o un rumore toccavano il bosco; anche l'acqua del torrentello lì accanto, che più avanti si buttava nell'Isère, taceva. Nel pulviscolo ghiacciato che aveva cominciato a cadere fin da quando erano usciti da Chambéry, Amboise si affacciò al carro. Bert e Aurac avevano schermato con alcuni rami di pino l'entrata della cappella e nulla trapelava all'esterno della loro presenza. Il luogo sembrava assolutamente
deserto. «Sai che cosa si dice di questo posto?» chiese Colin smontando da cavallo, ma a voce così bassa che soltanto Amboise poté sentirlo. «Sì. Di questo come di tanti altri posti nelle nostre foreste. Ecco perché l'ho scelto.» «Già. Così se ci prendono in questo posto, con lui, saliremo tutti sullo stesso rogo.» «Zitto, capitano!» lo ammonì Amboise, poi aggiunse: «Mi occorre quella borsa. Portala dentro». Colin salì sul carro. «Scendi!» ordinò bruscamente a Illait, che era rimasto immobile. Il giovane gli obbedì senza pronunciare parola. Bert e Aurac, con Adelaisa, li aspettavano all'interno della cappella, dove non era rimasto quasi nulla, se non la pietra dell'altare spaccata in due, le mura e il tetto in parte crollato e coperto dai rami di pino. Avevano tuttavia acceso il fuoco nell'incavo tra due pietre con piccoli ramoscelli secchi e asciutti, che facevano poco fumo e non mandavano quasi odore; inoltre avevano sciolto del ghiaccio per ricavare un otre d'acqua e ammucchiato rami di pino e foglie secche negli angoli per ottenere alcuni giacigli. «Quel fuoco lo spegneremo non appena potremo farne a meno», annunciò Colin, entrando con la borsa voluta da Amboise. «Prima che si senta fin dalla strada. Voi due andate fuori, a guardia del sentiero.» Infine si rivolse a Illait e, indicandogli l'angolo più vicino al fuoco, gli disse: «E tu mettiti lì». Bert e Aurac obbedirono, ma il giovane non si mosse dalla soglia. «Sono un medico», intervenne allora Amboise, facendosi avanti, «e vedrò quello che potrò fare per le tue ferite. Questo è il capitano Colin Bois, al mio servizio con i suoi uomini. La dama è Adelaisa di Borgogna, in viaggio per Torino. Passeremo le montagne. Vuoi unirti a noi?» Il ragazzo sorrise appena. E a Colin all'improvviso non sembrò più tanto giovane, e nemmeno indifeso. «Hai detto al tuo capitano che conosci questo posto, e che per questo l'hai scelto. Ma lo conosci davvero?» chiese quindi, raggiungendo il fuoco. «È una strana domanda, per uno che è stato condannato a morte e che si trova libero senza merito», s'intromise Colin, ma il giovane non gli prestò attenzione. «Credo di conoscere molte cose», ammise Amboise. «O forse spesso m'illudo di conoscerle, perché la conoscenza è l'unica vera ambizione che
possiedo. Così sono certo che con te, qui, non può accaderci nulla. Se ci sono forze a dominare queste pietre, questi alberi e queste acque, ebbene sono le tue. E noi siamo sul margine della stessa onda.» Il giovane annuì impercettibilmente, lanciando uno sguardo alla ragazza accanto al fuoco. «Parli come un filici», mormorò poi. Amboise non nascose la soddisfazione per quel complimento e si rivolse a Colin, cogliendo nei suoi occhi un lampo di perplessità: era evidente che non aveva capito nulla di ciò che aveva detto il giovane. «Capitano, ti annuncio che Illait di Isley verrà con noi.» «Questo ti costerà più di quanto avevamo convenuto.» «Mi sembra ragionevole», concesse Amboise. «Allora lasceremo questo posto non appena farà giorno», ribatté Colin. «Anzi prima ancora, se sarà possibile.» Poi si girò e uscì, pronto a ricevere le lamentele dei suoi uomini, ai quali avrebbe potuto rispondere soltanto con il medesimo risentimento. Non erano stati ingaggiati per salvare la vita di un pagano. Ma gli uomini erano silenziosi; avevano scelto di rimanere insieme con i cavalli nelle rovine attigue alla cappella, e qualcuno si era già sistemato, tentando di ripararsi alla meglio dal freddo. Un che di impalpabile veniva dalle rocce, dall'aria, dalla terra stessa. Ma non aveva voce né disegnava ombre. Gli uomini erano tutti combattenti e veterani: non avevano mai paura, perché nessuno che avesse paura si metteva agli ordini di Colin Bois. E tuttavia adesso ne avevano. IV Illait di Isley ebbe un fremito quando Adelaisa gli passò sulle ferite un panno pulito, dopo aver lavato via il sangue rappreso. Le ferite erano state inferte con un bastone chiodato e sembravano profonde, tuttavia Amboise preferiva che fosse la ragazza a occuparsene e, dopo aver dato un'occhiata, si era fatto da parte. Il tocco fermo ma gentile di Adelaisa e soprattutto il suo silenzio, che era dettato dal rispetto e non dal disagio, potevano aiutare il giovane, ne era convinto. Voleva che Illait si sentisse libero e, nei limiti del possibile, al sicuro; non voleva spingerlo a parlare se ancora non si sentiva di farlo. Dovevano esserci ferite ben più antiche, invisibili, a bruciarlo dentro. Quando Adelaisa ebbe finito di ricucire la lacerazione più profonda, il
giovane le trattenne la mano. «L'arte della medicina non ti è estranea», commentò. «Amboise de Montsalvy è un grande medico, e a me piace starlo a osservare», mormorò la ragazza, lieta che il giovane fosse uscito dal suo silenzio. «Spero di non averti fatto troppo male.» Illait scosse il capo. «Facendo giustiziare tua sorella, Chaffre ha voluto dimostrarti il suo potere», intervenne Amboise, porgendogli una casacca nera e pesante, non dissimile da quella che portava Adelaisa. «Non dubitavo del suo potere, e quando ho saputo del rogo era già spento... Era tardi, qualunque cosa avessi potuto decidere.» «Già. Nessuna possibilità. Nessuna scelta.» Illait sollevò lo sguardo e lo fissò. «Tu ne offri?» chiese bruscamente. «Come vedi, questo luogo non ha porte. Nessuno ti fermerà, se decidi di andartene. Ma sarei lieto di averti al mio fianco, almeno sino alla fine del viaggio.» «Il tuo capitano non la pensa così.» «Imparerà. Ha soltanto bisogno di tempo.» «Che cosa vuoi in cambio?» «È questo che pensi? Che io voglia qualcosa?» «Da che mi trovo in queste terre, non ho mai incontrato nessuno che mi abbia offerto qualcosa senza chiedermi questo o quell'altro in cambio.» «Hai ragione», annuì tristemente Amboise. «Ti abbiamo dato davvero un bell'esempio di fratellanza e d'amor cristiano. Ma non giudicare tutti per ciò che hai ricevuto da qualcuno. Io non ti chiedo nulla, e Adelaisa nemmeno... A parte la tua lealtà, per il tempo che rimarrai con noi.» Il giovane sorrise. Ebbe l'impulso di allungare le mani verso la fiammella che stava morendo nel focolare improvvisato, ma poi si trattenne. Nell'oscurità incombente, Amboise riusciva a stento a scorgere il suo profilo e l'aura luminosa dei suoi capelli, e indovinava quello di Adelaisa, di fronte. Non sei del tutto sincero con me, avrebbe potuto dire il giovane, perché Amboise sapeva che, per qualche prodigiosa via, i suoi pensieri e quelli di Adelaisa dovevano essergli comprensibili. Invece Illait di Isley aprì la propria mano, a palma in su, quindi la richiuse, serrando l'aria gelata, e fu come se qualcosa vibrasse, lieve, a risvegliare le ombre. «Giuro per quello su cui giura la mia gente. Ti sarò leale. E se mancherò di parola con te, possano i cieli crollarmi addosso, possano i mari affogar-
mi, possa la terra sollevarsi e inghiottirmi. È questo che volevi sentirmi dire, Amboise de Montsalvy?» «Ne avevo sentito parlare... Ma non avrei mai pensato che il Giuramento degli Elementi potesse venirmi offerto.» «È un giuramento pagano», ribatté il giovane, e Amboise percepì la sua durezza, che però non era dettata dalla volontà di sfida né dal desiderio di metterlo alla prova: era piuttosto l'affermazione di un diritto che nessuno osava più chiedere. «Lo accetti?» «Lo terrò tra quanto ho di più caro.» «Sei un uomo notevole per il tempo cui sei destinato, Amboise de Montsalvy.» «Il mio tempo non è forse anche il tuo?» «Chissà. Anche il tempo è un'illusione. Chiedilo a queste pietre sacre al tuo Dio e a quelle più antiche e che sono state abbattute, sacre ai miei.» «Noi siamo carne e sangue. E la nostra vita è troppo breve per misurarsi con le pietre», ribatté Amboise. «Questo è l'errore. Noi siamo anche le pietre. Ecco perché gli uomini del tuo capitano, là fuori, hanno paura. Perché non sanno di far parte di ciò che le pietre raccontano.» «Un giorno ti chiederò di aiutarmi ad ascoltarle. Adesso, però, dobbiamo riposare. Non credo che Colin Bois ci concederà di aspettare l'alba.» «Sa bene che Chaffre de Revard non ti darà tregua... E quanto agli altri tuoi nemici, adesso saranno più forti perché sapranno dove cercarti.» «È vero. Comunque avere un nemico, averne due... Che cosa cambia?» Il giovane tacque. Amboise sospettava che avesse intuito l'altra verità, e questo incuriosiva l'uomo di scienza che era in lui; spesso pensava che sarebbe stata proprio la sua inestinguibile sete di conoscenza a perderlo, perché prima o poi lo avrebbe spinto ad aprire una porta che gli sarebbe stato impossibile richiudere. Quando era stato inviato da Ugo Capeto in Spagna, in soccorso del conte Borei di Barcellona assediato dai saraceni, aveva persino osato accettare l'ospitalità di Ibn Abi Amir, detto al-Mansur, alla sua corte di Cordova, e vi aveva passato un anno che ricordava come uno dei migliori della sua vita. Alla corte di al-Mansur aveva incontrato astronomi e alchimisti, e visto libri e carte nautiche tanto antiche da rivoluzionare quanto insegnato nelle abbazie d'Europa. Quella volta aveva rischiato molto più di una scomunica, e soltanto le rassicurazioni di pace di al-Mansur, che aveva potuto portare a Borei, lo avevano salvato.
La piena felicità di quei giorni in cui aveva potuto attingere a tanta conoscenza inaspettatamente tornò a colmarlo; si sentì all'improvviso bene. Si avvolse nel mantello, chiuse gli occhi, e sprofondò immediatamente in un sonno tranquillo, come se fosse stato sul migliore dei giacigli e persino davanti a un buon fuoco. Fuori, aveva preso a nevicare a larghe falde. Quando Colin Bois venne a svegliarli era ancora buio; tuttavia già si vedevano i profili degli alberi e delle rocce, quindi l'alba non doveva essere lontana. Gli uomini erano pronti, silenziosi e intabarrati nei mantelli, e in breve anche gli occupanti della cappella diroccata lo furono. Lasciarono il carro ben nascosto tra le rovine e coperto di rami di pino, prendendo soltanto i viveri e le armi e dividendone il peso tra tutti. Adelaisa di Borgogna non concesse nemmeno un'occhiata al suo bagaglio di sposa, scegliendo un abito pesante che arrotolò nella sacca appesa alla propria sella. Nemmeno Colin Bois fece commenti. «Non ci fermeremo fino a Saint-Rémy», disse semplicemente Amboise. Colin accettò l'ordine e, in silenzio, si mise alla testa del gruppo. La neve continuò a cadere fitta per una buona parte del mattino, ma il cielo si raggelò verso l'ora sesta e, per il gran freddo, anche la neve diventò ghiaccio sferzante nel vento teso. Il gruppo a cavallo, compatto e silenzioso, attraversò il villaggio di Arvillard e proseguì sul vecchio sentiero verso Saint-Rémy, incontrando a un certo punto i contadini diretti all'abbazia per il Natale. Colin li rassicurò sulle loro buone intenzioni e la gente di Arvillard si accodò, lieta di quell'inattesa protezione. «Un segno del buon Dio!» mormorò qualcuno, quando le figure incappucciate passarono loro accanto senza guardarli. La punta del vecchio campanile di pietra di Saint-Rémy comparve infine nel cielo livido; tutti i camini dell'abbazia fumavano e un gran fuoco era stato acceso davanti al portale d'ingresso, come segnale per i viaggiatori e, forse, da qualcuno che ricordava le vecchie tradizioni, per salutare il solstizio d'inverno e la rinascita della luce. «Rimanete nella foresteria», ordinò Amboise non appena ebbero superato il portale. «Soltanto Colin e io andremo a parlare all'abate.» Il cortile esterno dell'abbazia non era grande, e vi si affacciavano la foresteria - una rozza costruzione che era dormitorio e rifugio per i pellegrini e i viandanti -, la stalla e l'officina. Da un portale tra il dormitorio e l'officina
si accedeva alla parte interna: un cortile più vasto, affollato, su cui si aprivano il dormitorio dei monaci, la casa dell'abate, la chiesa, l'infermeria e il laboratorio. Ancora oltre c'erano gli orti e i frutteti, poi i campi di grano, che si congiungevano alla linea dei boschi sulle pendici dei monti. In quel momento, la neve nascondeva i confini tra una zona e l'altra. Seguendo Amboise dopo aver lasciato i cavalli agli uomini, Colin si girò a controllare Adelaisa e Illait di Isley, che stavano entrando nella foresteria. «Hai torto a preoccuparti per Adelaisa», lo riprese Amboise. «Ti assicuro che è in grado di badare a se stessa.» «E quanto mi devo preoccupare per quel pagano?» Amboise non rispose; era certo che, prima o poi, il livore del mercenario avrebbe finito per dissolversi. L'unica cosa importante era arrivare presto alle montagne. Li ricevette il monaco addetto al laboratorio, scusandosi perché i fratelli assegnati alla foresteria erano troppo occupati per prendersi degnamente cura di un visitatore di rango. Li introdusse nel parlatorio dell'abate, e poi rimase discretamente fuori della porta. La piccola stanza era quasi spoglia, a eccezione di una cassapanca, di un sedile e di alcune panche lungo i muri. Amboise non conosceva personalmente il nuovo abate di Saint-Rémy elevato alla carica proprio dal vescovo di Chambéry alla morte dell'anziano Ramberto, l'anno prima -, però ne aveva sentito parlare. Era di origini umili, un po' troppo giovane e sempre attento a non dire una parola di troppo e a non fare un gesto sbagliato. Quanto al resto... probabilmente erano tutte dicerie di rivali che non erano entrati nelle grazie di Chaffre de Revard. L'abate li accolse senza battere ciglio; il viso glabro e rotondo era perfettamente immobile, gli occhi attenti ma inespressivi. «Che cosa posso fare per te, mio signore, oltre a offrirti un riparo dal freddo e una preghiera nella chiesa?» «Null'altro, abate Périgord. Nelial Périgord, vero?» L'abate annuì, compunto. Ammesso che il fatto di essere conosciuto lo inorgoglisse, non lo diede a vedere. «Che cosa ti porta a viaggiare con un tempo così freddo?» chiese invece, sbirciando Colin, che si teneva nell'ombra. «Un pellegrinaggio», rispose Amboise con un sorriso. «Per un amico. Una specie di voto.»
Non era l'assoluta verità, ma neanche una vera bugia. Amboise pensò che l'abate avrebbe trovato interessante la sua capacità di non dire la verità senza tuttavia mentire. «È cosa lodevole, questa», mormorò l'abate. «Quando riparti?» «Non appena gli uomini che mi accompagnano saranno rifocillati, e i cavalli nutriti e riposati.» «Domattina, allora, perché tra poco sarà buio. Fa notte molto presto in questa stagione. Vieni da lontano?» «Quando la meta è ambita, il cammino della mente e del cuore parte sempre da lontano.» Per la prima volta, l'abate tradì una certa curiosità. «Sei solo? A parte la tua scorta, intendo.» «Sì. Viaggio solo», ammise Amboise. «Allora mi farai l'onore di sedere alla mia tavola, prima del Vespro.» «Ti ringrazio. Ma soltanto se non sarà d'intralcio ai tuoi molti compiti.» «Porta anche il giovane che ti accompagna», aggiunse l'abate, ignorando la sua riserva. Amboise sorrise e chinò il capo, prendendo congedo. Per quanto irruente, Colin sapeva quando era meglio tacere, ed era rimasto zitto, come se l'invito dell'abate non fosse diretto a lui. Il monaco che li aveva guidati li riaccompagnò fuori. Era già quasi buio, e i contadini si stavano dirigendo alla chiesa. Alcuni falò erano stati accesi agli angoli del cortile, e l'aria sapeva di resina di pino e di grasso d'oca fritto. «Credo che tu abbia interessato il nostro abate», mormorò Amboise con un vago sorriso, mentre ripassavano il portale tornando al primo cortile. Il portale esterno era già stato chiuso. «Peggio per lui», ribatté Colin. «È per questo che hai voluto che ti accompagnassi?» «Certo. Mai dimenticare gli interessi dell'ospite, Colin. Possono sempre rivelarsi utili.» «Questo non è un comportamento da vecchio saggio e onesto.» «Non sarà onesto ma certamente è saggio. E posso comprendere che ai tuoi occhi io appaia vecchio, capitano, ma ti assicuro che non lo sono.» Colin sorrise. Amboise era riuscito a smorzare il suo malumore. «Ci andrò da solo e gli porterò le tue scuse», aggiunse Amboise. «Tu devi rimanere con gli uomini: dobbiamo essere pronti ad andarcene in qualunque momento.»
«Con le porte chiuse? Non mi piace. Forse era meglio rimanere nella foresta.» «Ci rimarremo fin troppo a lungo non temere. Stai all'erta. Io vado da Adelaisa e dal nostro amico.» Colin lo guardò entrare nella foresteria, dove erano già state accese le candele. Poi, d'un tratto, gli giunse la risata sommessa di alcuni bambini e quel suono inatteso lo fece rabbrividire violentemente. Non aveva più sentito una risata infantile dai giorni della tregua di Dio, durante l'assedio di Langeais. Quindi era arrivata la morte, seguita dalla pioggia, una pioggia torrenziale che aveva portato via tutto: il sangue, i cadaveri e anche il ricordo di quelle risate. Con uno sforzo di volontà, Colin si strappò dalle immagini colme di dolore che gli si erano affacciate alla mente e si deterse il sudore che gli aveva imperlato la fronte. Poi entrò nella stalla, e i suoi uomini non si accorsero di nulla. Quando raggiunse gli altri nella foresteria, scoprì che Amboise era già andato a cena dall'abate. Due dei suoi uomini erano rimasti di guardia ai cavalli, ma gli altri stavano mangiando, e Adelaisa e Illait di Isley sedevano con loro, quasi nascosti, stretti allo stesso tavolo. Colin ordinò di fargli posto, e sedette di fronte ad Adelaisa, scrutandola. A parte qualche ricciolo che sfuggiva dal cappuccio, la giovane poteva davvero sembrare un ragazzo. La lunga casacca pesante nascondeva bene tutto quanto c'era da nascondere. Doveva tuttavia ricordarsi di non sorridere. Colin evitò di guardare il pagano e abbassò la testa sulla sua scodella. «Affamato?» mormorò Adelaisa, sfiorandogli le mani con la punta delle dita. «Che cosa penseranno di questo apprendista mercenario che fa le fusa al suo capitano?» mormorò Colin tra i denti. «Quello che penseranno del capitano, dal momento che l'ha preso con sé!» ribatté Adelaisa. Anche Illait di Isley sorrise a quella risposta. «Non credo che tu sia cresciuta in un convento», disse Colin. «Infatti non sono cresciuta in convento. Chi l'ha mai detto?» protestò Adelaisa. Colin scosse il capo, rifiutando di farsi distrarre dalla zuppa di avena e cipolle cui era stata aggiunta un po' di carne, e che era davvero buona. E poi lui era affamato. «E tu?» chiese all'improvviso a Illait. «Dove sei cresciuto?»
«In un villaggio, al margine di una foresta. Proprio come te», rispose il giovane. «Lo sai che cosa mi ha detto?» intervenne Bert, con voce tremante per la contentezza. «Ha detto che la mia donna mi ha dato finalmente un figlio maschio! È nato ieri, è grosso e bello!» «Sei bravo, Illait di Isley», commentò Colin, senza lasciarlo con lo sguardo. «Che altro sai fare? Sai cantare anche le storie?» «Quando occorre.» «Ed è per questo che il vescovo ti teneva prigioniero?» «Colin!» intervenne Adelaisa; appena un sussurro, ma gli occhi erano diventati severi e non c'era più traccia del divertimento malizioso di poco prima. «Non temere, mia signora», la rassicurò lui, alzandosi. «Adesso torno fuori e starò di guardia. Non mi fido di questo posto. Cerca di dormire, finché puoi.» Uscì senza aspettare risposta, ma con la segreta speranza di essere richiamato. Nessuna voce tuttavia si levò e, quando la porta si chiuse alle sue spalle, Colin si ritrovò solo nel cortile spazzato dal vento gelido e, sconsolato, si disse che, se ancora cedeva alle illusioni, allora aveva ancora molto da imparare dalla vita. Dopo aver trascorso qualche tempo insieme con i due uomini di guardia nella stalla, tornò fuori e vide Amboise nell'altro cortile. Lo raggiunse. «Che cosa c'è, Colin?» Amboise era quieto, ma attento. Il mercenario si strinse nelle spalle. «Nulla. Un presentimento, forse.» Amboise si guardò attorno, ma il cortile era buio; da uno squarcio tra le nuvole basse filtrava un quarto di luna crescente. «I presentimenti spesso mi hanno salvato la vita», aggiunse Colin, sentendo il bisogno di giustificarsi. «Ne sono convinto. Ma anche tu hai bisogno di dormire.» «Andrò nella stalla, quando me ne verrà voglia. L'abate?» «Si è dispiaciuto per la tua assenza. Ma ancora non sa chi siamo.» «Che cosa succede se scoprono che la tua dama sta nel ricovero degli uomini?» «Non lo scopriranno», fu la risposta di Amboise, che si allontanò a passo tranquillo. Colin non replicò, invidiando la fermezza di quell'uomo che sembrava non avere dubbi. Si rifugiò un paio di volte nella stalla, per scaldarsi, ma l'inquietudine
continuava a spingerlo fuori, alla ricerca di ombre. Il mattutino venne e passò. Aveva osservato i monaci entrare in chiesa per la funzione che spezza in due la notte, ma l'abate non era tra loro. Li aveva quindi visti uscire e tornare nel dormitorio, tranne due, che erano andati per i loro compiti nell'infermeria e in cucina. In quel momento, tornando verso il cortile esterno, vide due uomini scavalcare il basso muro di pietre che confinava con il frutteto. Da come si muovevano, e dal rumore di una spada che cozzava sulla pietra, Colin capì che erano soldati. Sgusciò immediatamente verso la foresteria, tenendosi al riparo dei muri, e vi entrò. Anche dentro era buio. Gli uomini e i ragazzi di Arvillard occupavano per intero il pavimento: erano stesi fin sotto i tavoli. Aurac, però, era di guardia; Colin lo chiamò con un fischio sommesso e poi lo raggiunse, cercando di intuire dov'era Adelaisa. Gli sembrò di scoprirla rannicchiata nel mantello accanto a Illait di Isley. Ma quella non era la cosa più importante e comunque non doveva esserlo per lui. Si chinò, posando una mano sulla spalla di Amboise, che si svegliò immediatamente. «Dobbiamo andare via subito», gli mormorò Colin. «Aspetto nella stalla.» Quindi si raddrizzò, immobilizzandosi per non calpestare un ragazzotto che dormiva lì accanto, e aspettando affinché si ristabilisse la quiete rumorosa di tanti uomini che dormivano in uno spazio chiuso. Gli venne da chiedersi che cosa poteva pensare la bella dama di Borgogna di quella compagnia così rozza. Il cortile gli parve ancora vuoto, ma la sensazione di allarme non si attenuava. Svegliò i due uomini nella stalla e vide che i cavalli erano pronti e tranquilli. Poco dopo arrivarono Bert e Aurac, seguiti da Adelaisa e Illait, poi da Amboise, e via via da tutti gli altri. In un batter d'occhio erano pronti e in sella. Colin lasciò le briglie del proprio cavallo ad Aurac e si rivolse ad Amboise. «Andrò ad aprire il portone», disse. «Non appena saremo fuori, via al galoppo per i boschi, verso sud, cercando di rimanere tutti assieme. Se ci sarà da battersi, noi ci fermeremo e voi andrete avanti.» Si mosse e, nel farlo, gli sembrò di cogliere alcuni rumori dal cortile grande, ma da quel punto non poteva vedere nulla. Si augurò che l'abate non gradisse essere svegliato tanto presto e che facesse aspettare i soldati.
Al portone si fermò. Sfilò la pesante sbarra che lo chiudeva, e rimase a guardare i cavalli che gli passavano davanti a uno a uno, accompagnati da una nuvola di vapore attorno alle froge. Il suono degli zoccoli rimbombava da un punto all'altro del cortile, sonoro come il battere di tamburi. Ma non era pensabile fasciarli su quel terreno gelato, soprattutto perché avrebbero dovuto galoppare. Per ultimo passò Aurac, che gli porse le briglie del suo cavallo. Colin balzò in sella. In quel momento la campana dell'abbazia prese a suonare a martello. V Via!» gridò Colin, incitando il cavallo. Attraversarono d'un balzo la strada, inseguiti dai rintocchi possenti della campana. Poi il terreno cominciò a salire e, in breve tempo, si ritrovarono tra gli alberi. Erano tutti assieme, ma l'oscurità era ancora così fitta che si vedevano a malapena. «Aspetteremo», mormorò Colin. «Tenete tranquilli i cavalli: l'aria è tersa e porta lontano i suoni. Finché dura il buio, non ci troveranno.» «Hanno le torce», osservò uno degli uomini. «Ne ho visto la luce, mentre fuggivamo. E forse hanno anche i cani!» «Non hanno cani», mormorò Illait. Il silenzio accolse la sua frase. Nessuno aveva pensato che potesse intromettersi. «E tu come lo sai?» ribatté Colin. «Non c'erano cani all'abbazia, e non ne avevano i soldati. Li avremmo sentiti abbaiare e li avremmo avuti addosso quando siamo usciti dal portone.» Colin tacque. «Va bene», intervenne Amboise. «Non appena uno di noi vedrà abbastanza per guidare gli altri, procederemo nel bosco, cercando di tenere la strada verso sud. Se riusciremo a perdere i soldati, passeremo l'Arc ad Amafrey e seguiremo la via alla sinistra del fiume. Tenete immobili i cavalli e non fiatate.» Una vaga luce giunse infine a disegnare le cime degli alberi. Un accenno di vento portò la traccia di una voce e un verso stridulo, strano, quasi il grido d'agonia di qualche preda. Poi un barbagianni sbatté le ali, ruotando il capo: un'ombra bianca nel folto di un abete. Un brivido sfiorò i rami e il terreno gelato, innervosendo i cavalli e passando sugli uomini come un
alito minaccioso. Quasi fosse un segnale, Illait spinse avanti il suo cavallo. «Seguitemi», disse. Adelaisa fu la prima a muoversi, fiduciosa, e via via tutti gli altri si accodarono, lasciando le redini sul collo degli animali. «Ci vedranno non appena sarà giorno!» borbottò uno degli uomini. «La montagna è tutta bianca, e noi siamo scuri!» «Zitto!» gli ordinò Colin. «Di' ancora una parola e ti passerà la voglia di chiacchierare.» Per qualche tempo ancora, mentre avanzavano, il buio rimase compatto; poi si fece più lieve e divenne grigiastro. Erano su una cengia e stavano seguendo un sentiero stretto ma non difficile, sull'orlo di un canalone. Guardando verso il basso, riuscivano a distinguere, nella macchia uniforme del bosco, il baluginare delle torce. Non potevano essere tutti soldati: di certo avevano coinvolto nella battuta anche gli uomini che in quel momento si trovavano nell'abbazia. «È una vera caccia!» commentò Bert. «Buon per loro se prenderanno qualche cinghiale», ribatté Colin, ma liberò la sua balestra dal fodero appeso alla sella e la tenne davanti a sé. Pochi, che lui sapesse, lo battevano nell'uso di quell'arma a due corde sovrapposte, che gli permetteva due tiri quasi simultanei. «Attenti. Adesso verrà la nebbia», li avvertì Illait dalla testa del gruppo, e Colin ebbe la sensazione che avesse visto il suo gesto difensivo. E la nebbia infatti giunse, improvvisa. In un istante si sfilò dai cespugli di alchechengi e dai cornioli, calò dai pini e dagli abeti e salì dal terreno gelato, avvolgendoli, fredda e impalpabile. Tutti afferrarono prontamente la coda del cavallo che li precedeva. In pochi istanti, non furono più in grado di vedere nemmeno oltre il muso del proprio animale. Ben presto, le voci degli inseguitori e il baluginio delle torce sparirono. Una sensazione d'irrealtà s'impadronì del gruppo, e Colin, già contrariato all'idea di essere in balia di qualcun altro, la avvertì con bruciante intensità. Chiunque, in quelle condizioni, doveva fermarsi e aspettare. Illait di Isley invece andava avanti, come se splendesse il sole. Poi la nebbia si fece bianca e luminosa, ma rimase spessa al pari di un muro. Era giorno. Illait li guidò attraverso la nebbia per tutto il mattino e riuscì a riportarli alle rive tumultuose dell'Arc. Era passata l'ora sesta quando si fermarono nel bosco, sovrastando l'antico ponte di pietra al di là del quale si scorge-
vano le poche case di Amafrey, raccolte attorno alla locanda che era anche, nella buona stagione, il punto di sosta per i viaggiatori sulla via del valico. Le rovine grigie di una cappella e qualche fienile si intravedevano sulla sinistra del villaggio, a ridosso del bosco che continuava oltre il fiume. Il giorno era scuro, ma nel fondovalle la nebbia era meno fitta. Qualche fiocco di neve, forse strappato alle alte quote, giungeva di tanto in tanto sull'ala del vento. Colin mandò Aurac e un altro dei suoi uomini a dare un'occhiata più da vicino al sentiero di fondovalle. I due tornarono poco dopo, con i cavalli sudati e fumanti per la corsa. «Stanno venendo», esclamò Aurac. «Sono molti... Una trentina per quello che abbiamo potuto vedere. Forse anche di più!» «Non ci scrolleremo di dosso Alcourt tanto facilmente, e non credo che tu voglia dare battaglia. Di certo non qui e non con uno svantaggio così forte», osservò Colin. «No», convenne Amboise. «E nemmeno credo che Alcourt possa tornare da Chaffre a mani vuote senza rimetterci la testa. Ma anche lui sa che non possiamo far altro se non seguire la strada per il valico e che avremo bisogno di riparo e di cibo caldo come tutti. Quindi ci verrà dietro.» «Non potrebbe credere che ci siamo persi nella nebbia?» esclamò Adelaisa, che aveva affrontato il freddo e le lunghe ore a cavallo con la stessa forza di un uomo, a dispetto dei timori di Colin. «Alcourt non tenterà di capire come siamo passati attraverso la nebbia», intervenne Colin. «E in effetti nemmeno noi potremmo spiegarglielo...» «Tuttavia c'è qualcosa che possiamo fare per coglierli di sorpresa», riprese Amboise, ignorando quel commento. «Ma esporrebbe a un gran rischio te e i tuoi uomini.» «È per questo che ci paghi», ribatté Colin, girando lo sguardo all'intorno con fare irritato. Ma quando i suoi occhi si posarono sul sorriso che Adelaisa gli stava rivolgendo, si quietò. Amboise, al quale non era sfuggito quel cambiamento, scosse impercettibilmente il capo: troppo spesso dimenticava quale effetto poteva avere il sorriso di una bella dama su uomini come il capitano. Quel sorriso non avrebbe smosso di un passo Illait di Isley dalle proprie convinzioni, ma avrebbe certamente spinto Colin Bois a tentare la conquista dell'inferno. Così gli spiegò il suo piano. Poco dopo attraversavano il ponte; le rive erano gelate, ma l'acqua era tumultuosa e il fragore della corrente copriva ogni altro suono, compreso
quello dei cavalli. Non appena passato il ponte, Amboise, Adelaisa e Illait si staccarono dal gruppo, deviando verso il fienile più lontano a ridosso del bosco. Colin e i suoi uomini proseguirono invece fino alla locanda. La costruzione era assai modesta, ma era di pietra e non di tronchi, e aveva un tetto spiovente di larghe pietre piatte coperte di muschio. Il nevischio insistente che aveva preso a cadere le stava rapidamente imbiancando e, al contempo, cancellava anche le tracce dei tre cavalli che avevano deviato verso il fienile. «Quell'uomo comanda davvero a chi decide il tempo, lassù», mormorò cupamente uno degli uomini mentre smontava da cavallo. Gli altri rimasero zitti, però era chiaro che condividevano la stessa idea, né Colin avrebbe saputo che cosa ribattere. Il locandiere si mostrò sorpreso di vederli. Non c'erano viaggiatori in quei giorni ad Amafrey, né l'imminenza del Natale toccava in qualche modo il villaggio in cui vivevano quattro famiglie di una decina di individui ciascuna. Nessuno di essi aveva i mezzi e la libertà di raggiungere l'abbazia di Saint-Rémy, cui appartenevano. Mentre gli uomini accudivano i cavalli, riparandoli nella vicina stalla, il locandiere preparò zuppa e salsicce. Era un uomo taciturno e prudente, sebbene gentile; aveva una moglie brutta, una cognata che le somigliava come una goccia d'acqua, un paio di fratelli e un bambino di una decina d'anni, che si accovacciò ai piedi dei forestieri per ascoltare i loro discorsi. Nella locanda c'erano soltanto un paio di grossi tavoli, alcune panche, e un largo camino di pietre. Una finestrella tagliata nella porta, e chiusa da un quadrato di tela di sacco ben tesa, era l'unica apertura, peraltro inutile. Finalmente la zuppa venne servita e, alla vista delle monete di Colin, l'uomo si decise a portare anche il pane di segala e le salsicce cotte sulla brace. Quel profumo doveva arrivare fino alla strada. «Dormiremo nella tua stalla, stanotte», lo avvertì Colin, quando l'uomo portò altro pane e altre salsicce. «Ti pagheremo anche per questo, non temere.» «So che siete cavalieri», mormorò il locandiere. Il mercenario lo sogguardò, ben sapendo che le uniche cose che importavano a quell'uomo erano l'incolumità sua e dei suoi familiari e un po' di guadagno. Era già un notevole impegno, riconobbe Colin. Forse per questo li aveva definiti «cavalieri». In quel momento la porta si spalancò e Alcourt entrò di slancio, seguito
dai suoi uomini, tutti bianchi di neve. Alzando il capo dalla scodella, Colin si ritrovò la punta della spada di Alcourt contro la gola. «Dove sono?» sbraitò Alcourt, mentre due soldati si precipitavano in cucina e altri salivano i pochi gradini che portavano al soppalco dove si trovavano le stanze. «In tutta quella nebbia potrebbero anche giacere in fondo a un burrone, per quello che ne so.» «Che stai cercando di dire?» «Che non sono qui.» La punta della spada premette sulla gola di Colin, mentre Alcourt lanciava sguardi interrogativi ai suoi soldati. Avendo avuto in risposta soltanto qualche scrollata di spalle, tornò a fissare il mercenario. «Così mi stai dicendo che Colin Bois ha tradito un ingaggio?» «Ero in buona fede. Dillo al tuo vescovo. Ero stato ingaggiato per la scorta a un signore e alla sua dama, e non voglio saperne di pagani e di fughe. Non sono stato io a tradire l'accordo.» Alcourt ghignò, rinfoderando la spada. Ma Colin lo conosceva abbastanza per aspettarsi il peggio proprio in quel momento. «Qui ci sono tutti i miei uomini: chiedilo a loro», aggiunse. «Perché ti sei fermato qui?» ribatté l'altro, ignorando il suo suggerimento e degnando appena di uno sguardo l'oste e la sua famiglia, radunata sulla porta della cucina. «Quando siamo riusciti a venir fuori da quella maledetta nebbia ci siamo trovati al ponte, e abbiamo visto questo villaggio. Siamo qui per mangiare e per scaldarci. Domani riprenderemo la strada per Chambéry. Dobbiamo cercarci un altro ingaggio. L'inverno è lungo.» Il tono di Colin era stato pacato e, per un istante, sembrò che Alcourt si lasciasse tentare dal profumo delle salsicce e dal calore del fuoco. Poi però, con un solo gesto del braccio, spazzò via scodelle e boccali. «Alzati, Colin!» ordinò. «C'è qualcuno a Saint-Rémy che vorrà sentirti ripetere questa storia.» Colin si mosse adagio, ordinando con un cenno ai suoi di fare altrettanto. «Non temere», mormorò Alcourt, mentre uno dei suoi uomini raccoglieva le spade. «Abbiamo già pensato ai cavalli nella stalla.» «Peccato, perché non saprai mai quanto erano buone queste salsicce», ribatté Colin, lanciando una moneta al bambino del locandiere. Alcourt sogghignò e lo spinse fuori brutalmente. Gli altri soldati li aspettavano, già a cavallo. In tutto, erano più di una trentina di uomini. Aurac
aveva visto giusto. «Com'è che tu non ti sei perso nella nebbia?» esclamò Colin, montando in sella e sistemandosi addosso con cura il mantello. «Perché io sono rimasto a valle, sulla strada lungo il fiume, ad aspettarvi. I bifolchi che erano all'abbazia... quelli sì, che si sono persi. Avanti, adesso!» Colin spronò il cavallo, e Alcourt gli si affiancò, mentre altri soldati lo circondavano. Anche i suoi uomini, più indietro, erano chiusi tra i soldati. La terra era diventata completamente bianca e la neve, intatta e pulita, si stendeva a perdita d'occhio. Dal bosco giunse l'ululato dei lupi e ombre scure sgusciarono verso il fienile che stava a ridosso degli alberi, non lontano dalle rovine della cappella. «Lupi!» borbottò con disgusto Alcourt. «Di questi tempi sono più numerosi degli uomini... Probabilmente quel fienile è uno dei loro covi... Bisognerebbe dargli fuoco!» «Possiamo tornare dal locandiere e dirglielo», ribatté Colin. «Sta' zitto, altrimenti ti appendo al primo albero sulla strada.» «Via, Alcourt! Siamo stati compagni d'armi.» «E non è stato un piacere», commentò l'altro, sollevando il cappuccio del proprio mantello. Colin indugiò con lo sguardo sulla rozza costruzione dal tetto di paglia, ma Alcourt non se ne avvide. Poi attraversarono il ponte e lanciarono i cavalli al galoppo per tornare a Saint-Rémy. «Sono andati. Hanno passato il ponte», annunciò Amboise, staccando l'occhio dall'interstizio fra i tronchi della parete. Avevano chiuso quelli più grossi con un po' di fieno, e Illait aveva quietato i cavalli, spaventati dai lupi che già avevano sentito la loro presenza. «Riuscirà a convincerli?» mormorò Adelaisa. «Colin mi sembra pieno di risorse», la rassicurò Amboise. «È meglio che mangiamo qualcosa, ora. Ci aspetta una notte lunga e fredda. Una bella notte di Natale.» Dalla sacca dei viveri appesa alla sella del suo cavallo prese la carne secca, il pane di segala e una fiasca di vino, che avrebbe gradito caldo, e con le bacche di ginepro per dargli aroma. Ma erano già fortunati ad avere cibo e riparo. «In quanto ai lupi, dovremo vigilare a turno», osservò. «Non devi temere i lupi», disse Illait, prendendo la sua parte di cibo.
Adelaisa sollevò il capo a guardarlo, sorpresa dalla sicurezza della sua affermazione e dalla sua voce, che per la prima volta aveva il tono del comando. «Sei davvero un derwydd?» chiese Amboise. «Mi sorprende che tu conosca questo termine», replicò il giovane. «Gli storici di Cesare parlano dei derwydd, raccontando delle sue conquiste», rispose Amboise. «Lo so, e lo fanno senza conoscerli. Adesso però non ne esistono più. Il loro Tempo si è consumato, e le porte dei sidhe sono sempre più strette. Io sono soltanto... uno che vede e sente certe cose e che ne sa molte altre», ribatté Illait, ma nel suo tono leggero si coglieva un'ombra di amarezza. «Credo che ti sottovaluti, e che potresti insegnarci davvero molto. Siamo diventati tanto ignoranti in questi ultimi secoli!» «L'ignoranza sarà la guida dell'uomo fino a quando il calderone del Tempo non sarà pieno.» «Questa è la notte di Natale. E se fosse già colmo? Se questa fosse l'ultima notte?» intervenne Adelaisa. «Avresti paura?» le chiese Illait in un sussurro. «No.» «No? Ti aspetta una vita di sposa: figli, doveri importanti... Davvero non provi rimpianto, all'idea di non viverla?» «Perché me lo chiedi?» «Perché il rimpianto è il peso che incatena l'anima. Soltanto se l'anima ne è libera può passare il confine tra i mondi.» «Se la fine del Tempo è ciò che Dio ha disposto, allora non temo alcunché. E per Dio intendo sia il mio sia il tuo, Illait di Isley.» «Il vescovo di Chambéry potrebbe bruciarti come eretica per quello che hai appena detto.» «Lo so», ribatté Adelaisa. Poi tacque, rivedendo le alte fiamme che divoravano la fanciulla bionda di cui non conosceva nemmeno il nome e avvertendo un senso di pena per aver fatto riemergere quel ricordo così doloroso per il giovane pagano. «Sono io il responsabile della sua educazione», intervenne Amboise. «E qualcuno brucerebbe volentieri anche me... ma questo è un pensiero che m'inorgoglisce.» «Ne hai ben motivo. Il cuore e la mente di una donna sono fatti per vedere ciò che non si vede e per sentire le voci che non si sentono, non per essere soffocati. Eppure è questo che faranno. Presto le metteranno a tace-
re, per paura e per orgoglio. E le donne non potranno più avere né cuore né mente... e nemmeno un'anima.» «Non è un bel futuro», mormorò Adelaisa. «No», convenne Illait. La penombra nel fienile era diventata compatta. Amboise divise il vino, poi si preparò un giaciglio nel fieno e si avvolse nel mantello. Ma non riusciva a prendere sonno: lo tormentava un dolore alla schiena, dovuto al freddo e all'umido. E forse agli anni, pensò, rifiutando tuttavia di ammettere che Colin Bois poteva aver ragione, e che più di quarant'anni potevano essere tanti in quel mondo così cupo, che in poco tempo - per le invasioni, le carestie, le pestilenze e le guerre - aveva dimezzato i suoi abitanti. Si augurò che Colin Bois potesse farcela, ma non si pentì di avergli proposto un piano così rischioso se la contropartita era la vita di Illait di Isley. Neppure Adelaisa riposava. Rimase per un poco a guardare da un interstizio la neve che cadeva poi si avvicinò a Illait e lo sfiorò per vedere se era sveglio. «Che cosa c'è?» le chiese lui. «Nulla. È notte, fuori», rispose Adelaisa. «Dovresti dormire.» «Sto pensando a Colin.» «Colin si sta innamorando di te. Lo sai, vero? Sei il primo evento bello della sua vita.» «Me ne dispiace», mormorò Adelaisa, sorpresa che Illait avesse toccato quell'argomento e parlasse con tanta comprensione del mercenario che gli aveva dimostrato soltanto ostilità. Abbassò lo sguardo, temendo che potesse vederla anche nel buio e leggere nei suoi occhi la verità che né lei né Amboise potevano rivelare. «Dispiace anche a lui», mormorò Illait. «Per la prima volta in vita sua non sa cosa fare.» «Non posso ricambiarlo.» «È per questo che sta tentando di buttar via la propria vita, anche se non lo sa.» «Puoi aiutarlo?» «Forse. Dipende da lui.» La ragazza tacque, riflettendo. Poi sussurrò: «Non hai detto una parola di tua sorella. Non so nemmeno il suo nome. Era così giovane!» «Si chiamava Ela: 'il cigno'.» «Anche il tuo nome ha un significato?»
«Sì. Illait vuol dire 'l'aquila'.» Adelaisa appoggiò le mani su quelle del giovane, perché potesse sentire che la sua pena era sincera e che il suo cuore non mentiva. «Amboise avrebbe salvato anche lei», disse infine. «Lo so. È un uomo notevole. Un buon Maestro.» «Grazie», disse lei, sfiorandogli le labbra con le dita. «Gli voglio molto bene.» Senza aggiungere altro, Adelaisa si avvolse nel proprio mantello e cercò di dormire. Molto più tardi si svegliò di soprassalto, in preda a un vago turbamento. Guardò i cavalli, ma vide che erano tranquilli; inoltre l'ombra immobile di Amboise e il suo respiro quieto rivelavano che l'uomo dormiva. Ma non c'era traccia di Illait. Lasciando da parte il mantello, Adelaisa raggiunse l'interstizio nella parete e guardò fuori. Aveva smesso di nevicare; le nuvole si erano aperte e la luna e il biancore della neve alta rischiaravano la notte come se fosse un crepuscolo. Girando lo sguardo verso il bosco, lo scoprì; stava seduto sulla neve, a capo scoperto e senza mantello. Un intero branco di lupi, almeno una decina, gli stava attorno, chi ritto sulle zampe, chi accovacciato, e quello che doveva essere il capo gli era proprio accanto, docile e attento, con il muso alto a fiutare il cielo. Illait di Isley gli teneva distrattamente una mano sul dorso, affondata nel folto mantello grigio chiaro. Anche lui, come il lupo, guardava le stelle. VI La lama gli aveva inciso la carne e il sangue gli colava nel collo. Alcourt gli teneva la spada contro la gola, premendo quel tanto che bastava per fargli capire che era pronto ad affondarla. Colin aveva anche la bocca piena di sangue: un colpo dell'antico compagno d'armi gli aveva spaccato un labbro. Era stato trascinato fuori della stalla dove Alcourt lo aveva preso a calci e il fabbro dell'abbazia era stato sul punto di spezzargli le ossa, e adesso era legato e in ginocchio sul gelido pavimento del parlatorio, illuminato dalle candele che Périgord aveva fatto accendere e che rendevano l'aria calda e pesante. Dalla vicina chiesa arrivava il salmodiare dei monaci. «Davvero una bella notte di Natale», mormorò Colin.
«Tu hai aiutato il signore di Montsalvy a far fuggire il prigioniero. Quindi sei l'unico responsabile di quello che ti sta accadendo, capitano», gli rispose Odo di Chambéry senza scomporsi. Colin non sapeva se il vicario del vescovo sarebbe stato capace di farlo uccidere subito, tuttavia non nutriva dubbi riguardo alla determinazione di Alcourt. L'abate Périgord, dal canto suo, assisteva alla scena in un silenzio prudente, anche se un velo di sudore gli copriva la fronte e le labbra. Ricordando le parole di Amboise, Colin si chiese quanto aiuto poteva aspettarsi da lui. «Ero stato ingaggiato come scorta», ripeté per l'ennesima volta. «E mi sono limitato a svolgere il mio compito. Come ti ho già detto, non conosco l'uomo che si è unito a noi. Non l'ho visto fare niente di strano e nemmeno l'ho sentito parlare, se è per questo.» «Una donna in abiti maschili ha dormito nel ricovero degli uomini nel recinto dell'abbazia», intervenne Périgord. «Questo è un fatto di cui tu eri a conoscenza.» «Io non discuto le decisioni di chi mi paga», ribatté Colin, e il pugno chiuso di Alcourt lo colpì di nuovo al viso. Benché fosse pronto a ricevere il colpo, nulla poté fare contro il dolore che sembrò riecheggiare a lungo nella sua testa. «Sono molto perplesso, capitano», continuò Odo. «Mi sembri un giovane di buonsenso, abile nel proprio mestiere... D'altra parte godi di una buona fama tra i mercenari. Dovrei pensare che tu sia stato tratto in inganno dall'abilità del signore di Montsalvy?» «Io ti ho detto la verità. Non posso cambiarla con qualcosa che non so e che comunque sarebbe falso. Li ho persi nella nebbia. Possono essere vivi e magari già lontani oppure sono morti da qualche parte sotto la neve.» «O sei sincero o sei pazzo», borbottò Odo. «È pazzo!» intervenne Alcourt. «Lo conosco e l'ho visto combattere.» «Ma questa non è una battaglia. Davvero sei disposto a farti giustiziare per qualcun altro?» «Se la tua offerta è buona posso prendermi l'impegno di andarli a cercare e di portarteli, anche se non sarà un bel lavoro.» «Sei davvero un pazzo e un temerario», esclamò Odo, divertito, trattenendo con un gesto Alcourt che già si apprestava a colpire di nuovo il mercenario. «Tu mi chiedi di ingaggiarti per andarli a cercare!» «Se sono ancora vivi e se li trovo, allora si fideranno di me. Non mi sarà difficile consegnarteli.»
«Soltanto il pagano è importante, e lui dovrà essere vivo. Del signore di Montsalvy mi basterà il cadavere e della dama non m'importa.» «Questo è un ingaggio?» Per tutta risposta, Odo sorrise minacciosamente. Poi fece cenno ad Alcourt di tirare via la spada e di liberare i polsi di Colin. «Se vieni a dirmi che non li hai trovati, non ti crederò», continuò il vicario del vescovo. «E, se li trovi morti, fosse pure in fondo a un burrone, voglio i loro corpi. Se mantieni il patto avrai l'ingaggio, se non lo mantieni ti farò impiccare... e non c'è luogo dove potrai nasconderti.» «Voglio tutti i miei uomini con me», ribatté Colin. «Certo. Lascerai Saint-Rémy non appena farà giorno, e ti verranno restituite le armi. Adesso ti consiglio di servirti dell'infermeria perché non hai un bell'aspetto.» Odo fece cenno alle due guardie che gli erano rimaste alle spalle e Colin si lasciò spingere verso la porta. Alcuni colpi gli avevano ammaccato le costole, ma forse non c'era niente di rotto. Inspirò l'aria gelida della notte come se fosse un balsamo. Lo sorpresero le luci delle torce dei servi e dei contadini: uniti in un corteo che sembrava un serpente ondeggiante e guidati dai monaci che cantavano i salmi, stavano compiendo il giro dell'intero perimetro esterno dell'abbazia. Doveva essere un rito antico, di cui forse nemmeno l'abate avrebbe saputo dirgli le origini e il significato. Poi Colin si voltò e scorse la porta aperta della chiesa: la luce che usciva era un irresistibile richiamo, una promessa di sicurezza e di conforto cui il serpente sembrava anelare e dove avrebbe finito per dirigersi, lasciandosi ingoiare e spegnere. E quell'idea lo turbò, sebbene non ne capisse il motivo. La neve non cadeva più e il vento aveva spazzato il cielo, riempiendolo di stelle. La luna e la neve rendevano la notte così chiara che Colin riusciva a distinguere ogni punto del cortile, anche il basso muro del frutteto da cui aveva visto entrare i soldati. Gli sembrò che fosse passato un secolo, da allora... invece era soltanto la notte precedente. L'abate Périgord lo raggiunse in infermeria, mentre il monaco che vi era addetto si affaccendava a tamponargli la ferita alla gola, dopo avergli sistemato uno straccio pieno di neve sulla guancia e sulle labbra che si stavano gonfiando. L'infermeria, ordinata e profumata di erbe e di unguenti, aveva un grande camino in cui ardeva un bel fuoco. Nella stanza accanto c'erano i letti che ospitavano i monaci troppo vecchi per seguire la vita della comunità.
In quel momento, vi si trovavano anche un paio di uomini di Arvillard, feritisi durante la battuta della notte precedente. Con un cenno, Périgord ordinò al monaco di continuare nella sua opera, e si sedette a guardare. «Sono così interessante?» esclamò Colin, mentre il monaco saggiava le sue costole per valutare l'estensione del danno. L'abate sorrise. «Non sei prudente, capitano. Questo può costarti caro.» «Mi è già costato caro», ribatté Colin, rimettendosi la casacca pesante prima che il monaco potesse spalmargli addosso un intruglio untuoso. «Digli che va bene così, abate, e che mi lasci in pace.» Il sorriso sulle labbra di Périgord non si spense. Soltanto in quel momento Colin si rese conto di quanto l'abate fosse giovane, né gli sfuggì l'occhiata di stizza che il monaco infermiere aveva lanciato al superiore. No, quell'abate imposto da Chaffre non godeva di grande popolarità. «Va bene, fratello», acconsentì Périgord. «Adesso porta il tuo buon vino medicinale e lascialo stare. Alcourt e il nostro fabbro non sono riusciti a far danni così gravi da risultare insopportabili a questo soldato.» Il monaco obbedì in silenzio, riponendo le fasce e gli unguenti, ma Colin tenne sulla guancia lo straccio con la neve che si stava sciogliendo. Per qualche tempo, i segni delle percosse sarebbero rimasti. «Perché pensi che un tradimento ti compensi dei tradimenti subiti?» gli chiese Périgord all'improvviso, mentre il monaco infermiere usciva per andare a prendere il vino. «Quali tradimenti?» ribatté Colin, sulla difensiva. «Stai per tradire gli amici, e tu stesso in passato sei stato certamente tradito, qualche volta. Succede a tutti. A tutti quelli che cercano di ottenere qualcosa dalla propria vita, intendo.» «Quelli non sono amici. Io non ho mai avuto amici. E i compagni che mi hanno tradito sono morti.» «Stai mentendo.» L'accusa era appena un soffio sulle labbra dell'abate, come se fosse stata un segreto da non divulgare. «No», rispose l'altro in tono pacato. «E non puoi dimostrare il contrario.» Il monaco infermiere tornò e Périgord si zittì. Sempre in silenzio lo osservò offrire la coppa di vino fumante e speziato al mercenario, e poi andarsene senza curarsi di chiedere il permesso. «Vedi? Anche in quel monaco c'è il germe del tradimento», commentò sconsolato.
«I tuoi monaci non ti hanno scelto, e non ti amano.» «E i tuoi uomini invece sì?» Una nota intensa vibrò nella voce dell'abate. Colin sorrise. «No. Tuttavia mi rispettano e, a quanto pare, tu non puoi dire altrettanto dei tuoi monaci. Ti ringrazio per le cure, abate. Forse un giorno ci rivedremo.» «Attento, capitano. Non prenderti gioco di Odo di Chambéry. È un uomo crudele. Un uomo che non dimentica.» «Lo terrò a mente», rispose, e si rimise il mantello ignorando la protesta delle sue costole per quel gesto deciso. Fuori lo aspettavano due soldati, che lo condussero nella stalla dov'erano stati rinchiusi i suoi uomini. Colin fu accolto da facce scure e tese, ma nessuno osò fare domande. Quale che fosse il destino in serbo per loro, lo avrebbero conosciuto soltanto l'indomani. La notte luminosa stava sfumando in un mattino grigio e rosa, gonfio di nuvole che premevano dal nord, quando Alcourt aprì la porta della stalla e ordinò a Colin e ai suoi uomini di prepararsi a partire. In silenzio, sferzato da un vento che alzava a ondate la neve farinosa, il gruppetto si avviò, scortato da una mezza dozzina di soldati. Giunti sul portone, Alcourt si fermò e, dopo aver lanciato un'occhiata maligna alla guancia tumefatta e alla tempia livida di Colin, scoprì i denti in un sorriso. «Qualcosa mi dice che ti impiccherò presto, Colin Bois», sibilò. «Qualcosa mi dice che ci lascerai la pelle, provandoci», ribatté l'altro, poi spronò il cavallo e si lasciò alle spalle l'abbazia, seguito dai suoi. Costeggiarono l'Arc seguendo la strada, segnata soltanto dalle tracce dei lupi, e tornarono al ponte di Amafrey. Il villaggio, chiuso nella sua paura, pareva immerso in un sonno profondo. Colin passò oltre, portando gli uomini ad accamparsi in una conca tra gli alberi, lontana dalla strada e protetta dal vento, dove la roccia bruna a tratti ancora affiorava dai cumuli di neve fresca. Gli uomini accesero il fuoco e improvvisarono un riparo, coprendolo poi con rami di pino. «Che cosa facciamo qui?» gli chiese Bert quando cominciarono a scendere le prime ombre. Era evidente che Colin, per quel giorno, non aveva intenzione di proseguire. «Aspettiamo», fu l'unica risposta che ottenne. «Ma gli uomini non sono contenti di stare all'aperto in notti come queste!»
«Che cos'hanno di diverso queste notti dalle altre?» Bert scosse il capo, come se riportare le minacce e le predizioni di cui tutti loro si erano riempiti gli orecchi a Chambéry gli sembrasse ridicolo. «E se fosse davvero la fine del Tempo?» azzardò infine. «Nessuno di noi è pronto per il giudizio di Dio!» «Non lo saremo mai, Bert. Né qui in mezzo ai boschi né al sicuro in una cappella. Di che cosa hanno paura gli uomini? Delle loro ombre?» «Di quel pagano. Di come ha fatto alzare la nebbia per nasconderci e di come ci ha guidati allora... Ma anche di come ci sta guidando adesso.» «Adesso?» «Come possiamo trovarli adesso, se non è lui a guidarti?» «Sto seguendo il piano di Montsalvy. So che voi lo ignorate: ma questo vi ha protetto dall'ira di Odo di Chambéry e di Alcourt. Dillo agli uomini: lo capiranno!» Sebbene incerto, Bert annuì. Colin lo conosceva da anni, tuttavia non gli aveva mai permesso di essergli vicino più di quanto richiedessero i suoi compiti di soldato valoroso e di guida abile e fidata. L'amicizia era un sentimento troppo rischioso per entrambi. «Noi abbiamo un ingaggio, Bert», riprese Colin, «ed è quello trattato a Chambéry con Amboise de Montsalvy. Di' anche questo agli uomini.» «Così tu non credi che il mondo possa veramente finire.» «Davvero hai tanta paura?» scherzò Colin. «Vorrei soltanto vedere mio figlio almeno una volta», ribatté Bert, e poi gli girò le spalle e andò a raggiungere i compagni che avevano catturato alcune lepri e stavano scaldando il vino. Colin si rese conto che l'uomo credeva davvero a quello che gli aveva detto Illait. «Be', potrebbe anche essere vero!» borbottò tra sé, ma il pensiero non lo mise di buonumore. Osservò per qualche istante gli uomini radunati intorno al fuoco: sembravano rinfrancati, ma lui non ebbe animo di unirsi a loro. Allora si sforzò di dormire, ma neppure il disagio di quel rifugio improvvisato, neppure il dolore che s'irradiava dalle costole, rendendogli difficile il respiro, riuscirono a scacciare il pensiero che, se il piano fosse andato in porto, l'indomani li avrebbe ritrovati... avrebbe rivisto Adelaisa. La notte gli parve lunghissima. Il mattino spuntò, grigio eppure meno freddo dei giorni precedenti; il vento, che aveva cambiato direzione, era umido e annunciava altra neve che di certo sarebbe stata abbondante. Era giorno fatto quando tolsero il
campo. Colin divise gli uomini in gruppi di tre, con l'ordine per ciascun gruppo di seguire un sentiero diverso e a diverse quote. Di lì a due giorni dovevano essere a Bramans, l'ultimo villaggio prima del valico. Se qualcuno mancava, non lo avrebbero atteso né cercato. Tenne con sé Bert e il giovane Aurac, che era un buon cacciatore, e attese finché gli altri tre gruppi non sparirono, ingoiati dal bosco. Spinsero quindi i cavalli per un sentiero di crinale, che lasciava la traccia parallela della strada molto più in basso, e si tennero su quella pista per tutto il giorno, finché ci fu abbastanza luce. Non era una pista facile, ma c'era più neve fresca che ghiaccio, e i cavalli riuscivano a mantenere la presa sul terreno. Cominciava a nevicare ed era già quasi buio quando riguadagnarono la strada; poco lontano si distinguevano le casupole del villaggio di Avrieux. L'Arc, in quel punto, scorreva infossato tra rocce alte e scoscese, e il fragore della corrente sovrastava ogni altro suono. Al di sotto della massiccia porta di tronchi della locanda filtrava una luce vivida. Colin entrò per primo, mentre Bert, alle sue spalle, stringeva l'impugnatura della spada e Aurac teneva pronti i cavalli. Ma l'interno era tranquillo. Il fuoco ardeva nel camino di pietra, e Adelaisa e Illait di Isley vi stavano accovacciati davanti, parlando sommessamente. Di che cosa, Colin non riuscì a immaginarlo. Amboise sedeva lì accanto e un giovane del posto, un morrons, gli stava indicando i pericoli di una traversata del Couloir in quella stagione e i rischi per scendere all'Ospizio sul lago. Era chiaro che stava disperatamente cercando un ingaggio, anche se stringeva in pugno le monete che il signore di Montsalvy gli aveva già dato per i suoi consigli. «Colin!» esclamò Adelaisa vedendolo. Lo raggiunse di slancio e sollevò una mano a sfiorargli il viso, dove i segni dei colpi erano diventati di un viola cupo. Colin le scoprì negli occhi un'ansia e un sollievo che lo sconcertarono, perché nessuno si era mai curato di lui e di quello che poteva accadergli. Le passò un braccio attorno alla vita, e se non ci fosse stato Amboise a guardare, l'avrebbe stretta con molta più forza, incurante di quello che poteva essergli permesso. «Non è niente», mentì, e poi la lasciò facendo cenno a Bert di tornare fuori a occuparsi dei cavalli con Aurac. Quindi raggiunse Amboise, cercando di ignorare Illait di Isley e, quando posò la spada sul tavolo, il giovane morrons si dileguò, intimorito. Colin
prese il suo posto e Adelaisa gli rimase accanto, in piedi, le mani appoggiate sulle spalle, e Colin non riuscì più a sentire altro che quel peso lieve. Amboise sorrise, guardandolo negli occhi. «È stato difficile?» chiese in tono pacato. Sembrava che, avendo previsto gli eventi, non avesse nemmeno preso in considerazione l'eventualità che potessero andare diversamente. «Non più di quanto pensavo», ammise Colin. «Ma non avremo più di due giorni di vantaggio. Né Alcourt né Odo si fidano.» «Due giorni ci basteranno. Domani saremo a Bramans e dopodomani affronteremo il Valico. Quel giovane mi ha detto che da molto tempo il passo più facile, attraverso il vallone di Savine, è chiuso da una frana. Dal Couloir, tuttavia, possiamo farcela.» Colin abbassò la voce. «E se lo lasciassimo qui?» suggerì. «È lui che vogliono! Se lo trovano, smetteranno di seguirci!» «È questo che pensi sia meglio, capitano?» Il tono di Amboise non si era alterato, e Colin, per un istante, ebbe la sensazione di aver finalmente fatto breccia in quel vecchio cocciuto. Ma la stretta delle mani di Adelaisa sulle sue spalle si accentuò, e lui non riuscì a ignorarla. «Non dico che dobbiamo consegnarlo a loro», aggiunse. «Lo abbiamo liberato, e tanto basta. Può scappare e nascondersi, ma non con noi!» «Se raccontassi per la seconda volta che non sai dov'è, non fingerebbero nemmeno più di crederti, Colin. E comunque no, non lo lasceremo.» Il mercenario tacque. Non gli importava molto che Illait lo avesse sentito, ma le mani di Adelaisa lo avevano lasciato e gli sembrò di aver perso qualcosa di prezioso. In quel momento entrarono Bert e Aurac che, sorpresi dal silenzio, esitarono. «Fatevi dare da mangiare. Domattina partiamo non appena fa giorno», ordinò Colin, brusco, mentre il locandiere portava anche a lui una scodella di zuppa di fave. L'uomo era piccolo e asciutto, e aveva l'aria dura di chi ha affrontato e vinto molte battaglie. Il giovane era suo figlio, e come molti ragazzi del luogo era diventato un morrons per necessità: trasportare carichi al di qua e al di là del valico, o guidare i mercanti e i pellegrini, dava buoni guadagni, che sfuggivano ai prelievi del vescovo di Saint-Jean-de-Maurienne, cui apparteneva il villaggio di Avrieux. «Ti serve un dottore?» gli chiese Amboise, dopo che il mercenario ebbe finito di mangiare. Il discorso su Illait sembrava dimenticato.
«No. L'abate Périgord mi ha ricolmato di premure.» «Potrebbe esserci alleato?» «Non ha potere. Tuttavia, dal momento che è stato il vescovo di Chambéry a nominarlo, potrebbe avere qualche influenza su di lui.» «Bravo, capitano», sorrise Amboise. «Quando ci servirà, vedremo quanta influenza potrai avere tu su Périgord.» Colin si trattenne dal maledirlo a fior di labbra e dal dirgli che cosa poteva farsene di quell'idea. «Pensi davvero quello che hai detto di Illait?» mormorò Adelaisa, che si era allontanata da lui, ma non aveva lasciato il tavolo. Colin incontrò i suoi occhi color di foglia, e gli sembrò di annegarvici. Non riuscì a rispondere e finse di non averla sentita. VII Colin Bois non aveva mai visto quel luogo. Ne era certo... anche se non c'era altro di cui potesse dirsi certo, al momento. Lo spiazzo era stretto e brullo, con qualche traccia di neve tra l'erba bruciata dal freddo e le foglie morte dell'autunno precedente. Di fronte a lui c'erano due alte pietre sormontate da una terza a formare una porta. Una stoffa pesante e preziosa impediva di vedere al di là, anche se in effetti tutt'attorno e anche dietro le pietre non si scorgeva che altra erba ingiallita, rami secchi e foglie morte. Colin si chiese dove fossero Amboise, Adelaisa, i suoi uomini e perché si trovasse lì. Non riusciva a ricordare di aver lasciato la locanda di Avrieux. Il profumo della terra bagnata e il rumore del ghiaccio che, da qualche parte, si scioglieva in acqua inducevano a pensare che l'inverno fosse appena iniziato o stesse già finendo, e questo lo incuriosiva. Si avvicinò alle pietre, sfiorando la tenda. Aveva un bel colore cupo, cangiante, e sottili fili d'oro nella trama componevano la figura di un drago. La scostò, e fece un passo al di là della soglia. Si ritrovò su un pendio: davanti a lui si stendevano vallate dolci e colline a perdita d'occhio; l'erba sotto i suoi piedi era erba di primavera, verde e folta, e brillava colma di rugiada sotto un sole di maggio; il cielo era azzurro intenso, sgombro di nuvole. Per un istante, Colin si guardò attorno, aspettando di trovarsi, da un momento all'altro, di nuovo nello spiazzo brullo. Ma non accadde nulla. Allora cominciò a scendere lungo il pendio. Intravedeva, da lì, le fronde
di un albero, l'unico in quel susseguirsi di vallate, e a mano a mano che scendeva l'albero diventava sempre più grande. I suoi rami si aprivano, formando un padiglione immenso di fiori rossi e bianchi, foglie verdi e gialle, ghiande brune e dorate. Non gli riusciva di vederne la sommità. Poco lontano, gorgogliava una sorgente, ma Colin non si volse per raggiungere l'acqua. Sotto l'albero, Illait di Isley lo stava aspettando. «Che cosa fai qui?» gli chiese bruscamente non appena gli fu accanto. «Io vengo qui molto spesso. Sei tu quello appena arrivato», rispose Illait. «Non ho scelto di venire.» «Non saresti venuto, se avessi potuto scegliere», disse Illait, sorridendo. «Siediti», lo invitò. «Non ho tempo da perdere.» «L'unica cosa che non puoi perdere qui è il Tempo.» Colin si chinò a sfiorare l'erba; era fresca, reale come lui, come il giorno luminoso e come quell'incredibile albero che lo sovrastava. «Questa è una magia», mormorò. «Questo è l'Albero del Mondo. Appartiene a tutte le età e a tutti i Tempi: ecco perché ha fiori, foglie e ghiande, tutti insieme. Lasciati avvolgere dalla sua potenza: sentirai scorrere la forza e l'armonia degli elementi. Tu stesso ne diventerai parte e le tue paure e i tuoi dolori si faranno lievi.» «Mi servirà a qualcosa?» «Ti servirà per essere vivo. Nel senso vero di questa parola.» «Sono vivo quando combatto e quando amo una bella donna che mi dà piacere!» «Certo, come tutti gli animali. Ma non senti l'erba crescere e le nuvole respirare e non capisci ciò che puoi chiudere nel tuo pugno e liberare con il tuo pensiero. Non sai ciò che sei né ciò che potresti essere.» «Cambierebbe qualcosa, saperlo?» «Cambierebbe i tuoi occhi, e il mondo ai tuoi occhi.» Colin sorrise. Suo malgrado sentiva di stare bene lì, e provò il desiderio di distendersi sull'erba, di guardare il cielo attraverso i rami e di seguire il bagliore delle ghiande d'oro nel sole. «Sono soltanto un mercenario», obiettò. «Non so chi fosse mio padre e mia madre non la ricordo. Da che sono al mondo, ho cercato soltanto di rimanere vivo. Non mi sono mai piegato. Non mi sono mai venduto. Ho combattuto, ho ucciso, ho fatto del male e mi è stato fatto del male. Però non conosco un altro modo di vivere nel mondo e nel tempo in cui vivo.»
«E non hai mai chiesto aiuto, né lo hai mai dato o avuto.» «Non si rimane vivi, con il cuore tenero!» «Eppure mi stai aiutando. Sei venuto a liberarmi, anche se non volevi farlo. Ti sei prestato al piano di Amboise, sebbene lo ritenessi una follia. Infine potevi tradirci, ma ti sei comportato diversamente.» Colin allontanò con un gesto di fastidio quelli che gli sembravano rimproveri. Eppure sapeva che Illait stava dicendo la verità. «Sto invecchiando. Divento debole...» mormorò. «L'amore non è una debolezza. Non averne paura.» «Non ho mai paura», stava per rispondere Colin, ma si trattenne, ricordando che non aveva saputo rispondere ad Adelaisa e che gli era sembrato di annegare nei suoi occhi verdi. «Come posso tornare indietro?» chiese invece. «Ripassando per la porta, proprio come sei arrivato. Sappi, però, che se guarderai nella sorgente, potrai vedere il tuo futuro.» «Non ho mai pensato di avere un futuro. Se sarò fortunato morirò in battaglia o tra le braccia di una serva in qualche locanda. Ma è anche possibile che mi taglino la gola in un vicolo buio o che m'impicchino.» «Potresti morire donando la tua vita per qualcuno che ami.» «E sarebbe diversa, la morte?» «Moriresti per amore.» Colin tacque. Gli pareva di sentire, nell'aria, una voce che ripeteva il suo nome, tuttavia non avrebbe saputo dire da dove proveniva quel suono. Alzò lo sguardo verso i rami del gigantesco albero: erano immobili. Allora si girò a scrutare il pendio. Gli sembrò che la strada per tornare indietro fosse lunghissima e che non sarebbe arrivato in tempo per... «Colin!» Adelaisa lo stava scuotendo. All'improvviso era sveglio. Nel sottoscala dove il locandiere gli aveva preparato un giaciglio, una candela gli svelò il profilo della giovane. Appoggiandosi su un gomito, il mercenario si sollevò e vide che dalla fessura sotto la porta entrava una striscia di luce. «È giorno, capitano», gli disse lei, sorridendo. «Dobbiamo partire.» Poi gli sfiorò la fronte, girandogli il viso per controllare i lividi. «Mi dispiace per quello che ti hanno fatto», mormorò. «Dov'è Illait?» chiese invece lui. Adelaisa non comprese il motivo di quella domanda brusca e rispose in un sussurro: «Qui».
Cercando d'ignorare il dolore alle costole Colin si alzò dal giaciglio. È stato soltanto un sogno, si ripeteva. Uno strano sogno, certo, ma niente di più. Lasciando la locanda, affiancò il proprio cavallo a quello di Amboise e lasciò che Illait andasse avanti con Aurac. Tuttavia, quando i loro occhi s'incontrarono per un fugace istante, Colin ebbe la certezza che Illait sapeva. Era stato seduto con lui sotto l'Albero del Mondo. Non appena fuori del villaggio lasciarono subito la strada, prendendo un sentiero che si arrampicava sulle pendici della montagna. Fino a quel momento gli occhi acuti del giovane morrons li avevano seguiti con attenzione. Il ragazzo, che stava andando a caccia, si era infatti fermato su una roccia coperta di muschio, sporgente sul fiume, e da lì era rimasto a osservarli. «Non mi piace», commentò Amboise. «Forse sarebbe stato meglio portarlo con noi.» «C'è sempre un modo per renderlo innocuo», sibilò Colin. «La povera gente ha già abbastanza disgrazie senza che ne aggiungiamo altre con le nostre mani», ribatté Amboise, scuotendo il capo. Colin non replicò, concentrandosi sul sentiero, che li costringeva a deviare spesso, per via dei mucchi di neve caduta nella notte e dei tronchi in rovina che sbarravano la strada. Si vedevano tracce di lupi, ma il bosco era tranquillo e le cornacchie sugli alberi spogli erano silenziose. Più in alto, la linea scura delle abetaie si era vestita di bianco e disegnava una lieve traccia nel cielo grigio. Il mattino si era fatto pieno quando Illait di Isley trattenne il cavallo e si lasciò raggiungere. Aurac, sorpreso, si era fermato a sua volta, appena più avanti. «Ci stanno seguendo», disse semplicemente Illait e attese. Colin liberò la balestra dai legacci e l'appoggiò sulle ginocchia. «Bene», commentò. Poi aggiunse, in tono di sfida: «Andiamo a prenderli. Tu e io». Illait assentì, e ad Amboise non rimase che quietare con un cenno Adelaisa, pronta a intervenire. «Andate avanti», ordinò Colin. «Vi raggiungeremo. Bert, tu rimani per ultimo, e stai attento.» Si fecero da parte per far passare gli altri cavalli, e Colin tenne fermo il proprio, evitando di incontrare lo sguardo di Adelaisa. Un momento dopo
erano soli. «Dove sono?» chiese Colin. Incomprensibilmente, un brivido lo attraversò. «Stanno seguendo il sentiero. Se saliamo, li aggireremo prendendoli alle spalle», rispose Illait. Nessuna porta tra le pietre da attraversare, nessuna stoffa preziosa, nessun drago d'oro... pensò Colin. Fece cenno a Illait di seguirlo, e spinse il cavallo su per la cengia. L'animale obbedì controvoglia, faticando a mantenere l'equilibrio. Qualche cornacchia s'involò, gracidando, e Colin si fermò subito in allarme. Ma non c'erano che il soffio lieve del vento e il tonfo di qualche piccolo blocco di neve che cadeva dai rami smossi. Proseguirono per qualche tempo e infine tornarono sul sentiero. Trattenendo il cavallo, Colin gettò uno sguardo interrogativo a Illait, che si portò un dito alle labbra, intimandogli il silenzio. Poi smontò, imitato dall'altro. Illait raggiunse il bordo della cengia e si acquattò nella neve. Colin guardò in basso. I due uomini si erano fermati e sembravano in attesa. Entrambi erano smontati dai cavalli e li tenevano per le briglie. Erano soldati di Alcourt. «Quel moccioso ci ha venduti!» sibilò Colin tra i denti, armando la balestra e mirando. I due caddero senza avere neppure il tempo di urlare, ma uno rotolò sul sentiero, trascinando con sé neve e rami secchi, e infine sbatté contro un albero, spaventando le cornacchie che vi stavano appollaiate e che volarono via, gracidando. «Maledizione!» mormorò Colin. Poi, colto da un presentimento, si girò di scatto e vide il terzo soldato, quello che i due stavano attendendo. L'uomo lo stava prendendo di mira con la balestra. Le corde della sua erano vuote, e la spada, che aveva lasciato per inginocchiarsi, giaceva nella neve poco più in là, del tutto inutile. Il dolore alle costole, che gli toglieva il respiro, gli impedì di scattare in avanti con sufficiente agilità per tentare di prenderla. Colin credette di essere già morto. In quel momento un ramo sulla testa del soldato si ruppe sotto il peso della neve. L'uomo si distrasse e Illait afferrò la spada di Colin. Bilanciandola come una lancia, la tirò e con un urlo il soldato cadde all'indietro, rimanendo inchiodato al terreno. «Il colpo di un guerriero!» esclamò Colin stupefatto. «E pensi che lo sia?» replicò Illait, calmo, trattenendosi dal fargli notare
che il vero prodigio non era stato il lancio, bensì il crollo di quel ramo in quel momento. «Non è stato certo un colpo di fortuna! Hai lanciato la spada sapendo esattamente come e dove colpire. E ti devo la vita.» «Allora siamo pari, non credi?» disse Illait, andando a riprendere la spada. Gli occhi azzurri sorridevano, e Colin risentì il calore e la sensazione di quieto appagamento che lo avevano pervaso nel sogno. Esitò a riprendere l'arma che Illait gli porgeva dopo aver pulito la lama. «Se così ti piace pensare», rispose infine, brusco, lasciando affiorare la rabbia per essersi lasciato sorprendere e lo stupore per l'intervento che gli aveva salvato la vita. «Torniamo dagli altri», suggerì Illait. «Non vedendo tornare i soldati, Alcourt capirà di esserci vicino.» «Già. Non si rimane vivi, con il cuore tenero», borbottò Colin, spingendo i cadaveri sotto i cespugli. Tolse le selle ai cavalli, e le nascose, poi li lasciò liberi. Con ogni probabilità, ci avrebbero pensato i lupi a non farli tornare da Alcourt. Illait montò in sella al proprio cavallo, ma Colin trattenne le briglie dell'animale. «Non mi hai detto come sei diventato un guerriero.» «Sono figlio di un principe e mio padre voleva farmi percorrere la strada delle armi, come si usa tra la nostra gente, dunque sono stato addestrato. Tuttavia, alla corte di re Malcolm, alcuni vecchi sapienti, sostenendo di aver riconosciuto in me i poteri dei derwydd, mi hanno spinto a coltivarli. Così sono rimasto come sospeso... Una cosa sola è certa: non ho mai avuto quello che hanno tutti i ragazzi. Giochi, amici...» Illait esitò, e Colin si sentì sfiorare da qualcosa che non c'era; una specie di soffio, di brezza tiepida. «... e amore», concluse Illait. «Proprio come te.» Colin assentì cupamente. Si sentiva vulnerabile proprio come lo era stato nel sogno, e quella sensazione lo sconcertava. Gli sembrava che l'altro sapesse tutto di lui, che avesse assistito a ogni istante della sua vita e potesse descrivere tutte le volte in cui Colin aveva provato la paura o la disperazione, oppure l'ebbrezza data dalla vittoria o dal vino, e persino quelle rare occasioni in cui aveva creduto di essere contento. In fondo, rifletté il mercenario, i miei ricordi sono soltanto quelli delle battaglie... e delle lunghe attese fatte di niente tra una battaglia e l'altra. «Come sei arrivato a Cluny?» chiese allora, cercando di cancellare dalla sua mente quelle considerazioni.
«Il mio re è cristiano. Nel suo palazzo i preti dettano legge e ai sapienti è stato impedito di continuare nei loro insegnamenti. Peccato. Sai, alcuni di quei preti erano a loro volta sapienti e all'inizio c'era amicizia tra loro e i vecchi. Era bello starli ad ascoltare quando parlavano del mondo e delle genti antiche. Ti stupiresti vedendo quanto sono simili, nella sostanza, tutte le religioni... Ho imparato molto anche da loro. Ma poi è successo qualcosa. I vecchi sono stati cacciati e il mio re ha acconsentito alla richiesta dei preti di farmi partire per Cluny.» «Potevi disobbedire.» «No. Era un ordine del mio re.» Colin tacque. Sebbene fosse un soldato, non riusciva a comprendere quell'obbedienza così cieca alla volontà di un altro uomo. «Tu romperesti un contratto?» chiese Illait, accorgendosi della perplessità di Colin. «No di certo: più di una volta infatti hai messo in gioco la tua vita per rispettarlo. Lo stesso è per me.» «Ma io scelgo di farlo! Tu invece obbedisci agli ordini di un uomo che ti ha venduto!» «Quell'uomo è il mio re ed è convinto di essere nel giusto. Io sono il pagano le cui conoscenze, nell'interesse della Chiesa, devono essere cancellate o perlomeno nascoste. Il re ha semplicemente tentato di salvarmi.» «E allora perché non hai dato a Chaffre de Revard quello che voleva?» «Perché c'è un abisso tra la conoscenza e l'avidità. Un abisso che nulla può colmare.» «Nulla, dici? Rimanere vivi non è forse abbastanza?» Illait lo guardò a lungo e infine scosse lentamente il capo. Colin non insistette. In silenzio, montò a cavallo e si avviò lungo il sentiero. Aveva ripreso a nevicare e stava già facendo buio quando raggiunsero gli altri alle porte di Bramans. Il villaggio, in apparenza meno povero di quelli che avevano incontrato lungo la strada, presentava una mezza dozzina di case di pietra, altre di tronchi e con i tetti di paglia, una chiesetta con un basso campanile di pietra - che serviva di certo anche da torre d'avvistamento - e parecchi recinti e stalle. Lì infatti venivano lasciati carri e cavalli, dal momento che l'attraversamento del Couloir era possibile soltanto a piedi e con i bagagli o le merci sulle spalle. «Ebbene?» chiese Amboise, non appena si affiancarono. «Erano in tre», rispose Colin, chiaramente intenzionato a non aggiunge-
re altro. «Alcourt li aspetterà di ritorno per domani. Senza dubbio ne avrà mandati altri su ciascuna delle tracce lasciate dai tuoi uomini... Tuttavia, se siamo fortunati, quando li avrà riuniti e sarà qui, noi avremo già passato il valico. Entriamo, ora, prima che faccia notte», ordinò Amboise. Per primo spinse il cavallo nell'unico varco che si apriva nell'antico muro di pietre a secco, ad altezza d'uomo, che circondava il villaggio. Individuarono subito la locanda: era una costruzione piuttosto grande, di pietra, circondata da un portico spiovente su cui si era pericolosamente accumulata la neve. L'aria aveva il sentore forte e gradevole della resina e la promessa di un buon fuoco e di una zuppa calda era quanto di meglio potevano chiedere in quel momento. Smontando davanti al portico, Colin lasciò il proprio cavallo per sollevare di peso Adelaisa dalla sella e posarla a terra. «Sono sempre il tuo giovane mercenario al primo ingaggio, capitano», gli sussurrò lei in un orecchio, liberandosi, mentre Bert e Aurac si prendevano cura dei cavalli. «Gli altri saranno già arrivati?» mormorò Bert, nervoso. Colin, turbato dal contatto con Adelaisa, non rispose. «Lo scopriremo dentro», intervenne Amboise, precedendoli. Il locandiere si era già fatto sulla porta; dal vano alle sue spalle giungeva il suono di diverse voci. «Benvenuti», mormorò l'uomo, circospetto, sbirciandoli per capire quale genere di viaggiatori fossero. Di solito, pellegrini e mercanti aspettavano la bella stagione; tuttavia, per qualche affare particolarmente importante, un mercante poteva anche dimenticare la prudenza e, allo stesso modo, un pellegrino, per qualche voto di considerevole gravità, poteva convincersi a saldare il proprio debito nelle condizioni peggiori. C'era anche chi, a pagamento, si sostituiva a un pellegrino, compiendo il viaggio in sua vece. Ma quelli, all'occhio esperto del locandiere, non avevano l'aspetto né di mercanti né di pellegrini, bensì di mercenari. I clienti peggiori in assoluto. «Puoi dare ospitalità a me e alla mia scorta, per questa notte?» chiese Amboise, intuendo le paure del locandiere. L'uomo non rispose... almeno finché Amboise non gli diede un paio di monete, mormorando: «Altrettante ne avrai domani». Il denaro spazzò via all'istante la paura e la prudenza nell'uomo, il quale, dopo un profondo inchino, si voltò verso la locanda, gridò alle serve di
darsi da fare e accompagnò personalmente i nuovi arrivati all'interno, facendoli accomodare sulla lunga panca che correva lungo uno dei cinque tavoli. Seduti a un altro c'erano tre dei mercenari di Colin; erano stati più rapidi di loro a percorrere la strada e quando li videro, obbedendo agli ordini, finsero di non conoscerli; a un altro ancora c'erano quattro uomini, intabarrati in casacche pesanti, scure, e con mantelli di lana tinta e trapuntata. La loro scorta, otto uomini in tutto, occupava l'ultimo tavolo, il più lontano dal camino. Adelaisa e Illait sedettero dando le spalle al fuoco, in modo che il loro viso rimanesse il più possibile nascosto. Dalla cucina bassa e fumosa che s'intravedeva di là da un arco di pietra viva, una serva stava cantando una nenia in una lingua incomprensibile, mentre un paio di bimbetti, seduti sotto l'arco, da cui penzolavano aglio e cipolle ma anche rami di vischio, pestavano fave per ricavarne farina. «Conosci il capitano di quella scorta?» mormorò Amboise a Colin, mentre l'oste si allontanava e una delle serve versava il vino. «No. E ne conosco molti. Ma quello non l'ho mai visto.» Amboise rifletté, in silenzio. Adelaisa scosse il capo, prigioniero del cappuccio che le nascondeva i capelli. «Come vorrei poterlo togliere!» mormorò, ma si zittì al cenno di Illait. L'oste stava tornando con un paiolo che conteneva pasticcio di lepre e cipolle. «Come sarà il tempo al valico, domani?» chiese Amboise. «Non sono certo che saremo ancora vivi, domani. Comunque, se lo saremo, la neve ci seppellirà!» ribatté cupamente l'uomo. «Perché temi di non essere vivo domani? Qualcosa ti minaccia o minaccia questo luogo?» replicò Amboise. «Tutto ci minaccia. Dicono che il Drago di Ognissanti abbia aperto la via alla fine del Tempo e ciò per colpa dei nostri peccati. Così i soldati del vescovo di Saint-Jean-de-Maurienne, cui apparteniamo, si sono presi i nostri giovani per impedire di celebrare le usanze, e noi siamo rimasti senza braccia. Però i giovani sono tornati per accendere i falò... e i soldati ci puniranno. Io mi chiamo Meritrieux e sono il capo di questo villaggio. Tra quei giovani si trovano anche i miei due figli e non voglio che rimangano servi del vescovo per tutta la vita oppure che venga tagliata loro la lingua per punizione!» «Ti posso capire...» rispose Amboise.
L'espressione del locandiere rivelava tutta la sua perplessità all'idea che quel forestiero avesse a cuore il destino del villaggio. «Comunque è meglio che vi fermiate qui», riprese. «Se nevica nessuno può passare il valico.» «Più aspettiamo, più colme si fanno le tue tasche», commentò Colin a bassa voce, servendosi del pasticcio. Stava morendo di fame. «Domani sarà una giornata di sole», disse Illait nel suo abituale tono pacato e sorrise. Adelaisa gli sorrise di rimando. Insieme alla certezza che l'indomani il cielo sarebbe stato il più azzurro che mai avevano visto, Colin ebbe l'impulso di gettarsi al collo del pagano e di strozzarlo lì, senza por tempo in mezzo. Invece abbassò la testa sulla scodella e rimase zitto. In quel momento entrarono Aurac e Bert, che si unirono a loro, in silenzio. D'un tratto, uno degli uomini dell'altro tavolo esclamò qualcosa a voce più alta; Amboise, che era stato attento, smise di mangiare. «Sono gli uomini di Azzago!» mormorò. Anche Adelaisa smise di mangiare e Colin tentò di rassicurarla, prendendole una mano e stringendola. «Finiamo di mangiare», ordinò Amboise. Quindi si rivolse a Colin: «Subito dopo uscirai con Illait e con Adelaisa, e i tuoi tre uomini dell'altro tavolo. Aurac e Bert rimarranno con me». «E poi?» chiese Colin, immaginando quello che Amboise stava per chiedergli. L'altro gli rivolse uno sguardo impenetrabile. «Passate la notte in una delle stalle e lasciate il borgo prima dell'alba per salire al valico. Io aspetterò qui il resto degli uomini; prima venderò i cavalli, poi vi seguiremo, facendo in modo che questi quattro e la loro scorta non ci diano fastidi.» «Non mi sembra una buona idea», mormorò Colin. «Se Adelaisa rimane qui, finiranno per accorgersi che è una donna e capiranno che è quella che stanno cercando. Allora non potremo fare più nulla.» «Ma anche Alcourt arriverà qui, e ti riconoscerà.» «Andrò via prima che arrivi. E credo che riuscirò a farmi un alleato in Meritrieux.» Volse lo sguardo su Illait. «Ho il tuo aiuto?» «Certo.» «No!» si oppose Adelaisa.
Ma Amboise non le rispose. VIII L'alba arrivò in un cielo pulito che si stava infuocando sul bordo frastagliato dell'oriente, di là dalle cime. Scostando appena la porta della stalla, Colin sbirciò la strada del villaggio: la neve, caduta in abbondanza per tutta la notte, aveva cancellato ogni traccia, livellando il villaggio e i suoi dintorni in un uniforme biancore. Soltanto i resti di un fantoccio di paglia, in parte bruciato, si alzavano nel mezzo della strada maestra; i brutti presagi del rituale incompiuto toccarono persino Colin, che decise di partire all'istante. I suoi uomini erano pronti, e lo era anche Illait. Ciascuno avrebbe portato sulle spalle, assicurato con alcune corde, l'involto delle proprie cose. Soltanto il pagano non aveva nulla. «Ti affido la mia balestra», disse Colin e, ponendogliela tra le braccia, non aspettò risposta. Poi si diresse verso Adelaisa e si fermò un istante a guardarla dormire. La giovane, avvolta nel mantello, con i capelli finalmente liberi dal cappuccio sparsi attorno al viso, pareva tranquilla. La pelle arrossata per il vento e il freddo degli ultimi giorni era l'unico segno evidente delle difficoltà che aveva incontrato. Le sfiorò una spalla. «Dobbiamo andare», disse, e le sorrise. Adelaisa liberò una mano dal mantello e cercò di scostarsi i capelli dagli occhi. «La salita non sarà facile», aggiunse. «Lo so», rispose lei. Sembrava che l'idea di ciò che poteva accaderle le risultasse del tutto indifferente. Poco dopo, sempre in silenzio, lasciarono la stalla; sul villaggio aleggiava ancora il buio e l'unico suono era quello che il vento strappava ai campanelli appesi alle porte per onorare le antiche usanze. I monti stavano prendendo forma dal buio, colorandosi prima di violetto e poi di rosa. Erano loro gli antichi guardiani, benché ormai senza voce. Colin, imitato dagli altri, prese uno dei bastoni che la gente del villaggio lasciava appoggiati al recinto per l'uso comune; sulla punta tonda erano stati infissi alcuni chiodi che avrebbero tenuto la presa sul ghiaccio. «Una bella arma!» esclamò uno degli uomini, soppesando il proprio. «Zitto!» gli ordinò Colin, e seguì Illait oltre il varco tra le mura, badando
di tenere Adelaisa accanto a sé. Il primo tratto di ascesa riuscì facile, sebbene faticoso; il sentiero era evidente e la neve fresca e alta, cedendo sotto il loro peso, impediva di scivolare. Più in alto, però, la neve si fece ghiacciata e ogni traccia del sentiero sparì. Poi il vento si quietò e, a velare l'azzurro sfolgorante, comparve uno strato leggero di nuvole bianche, foriere di un nuovo cambiamento. Procedevano in un canalone, aiutandosi con i bastoni; Illait li guidava come se la montagna per lui non avesse segreti; di tanto in tanto, però, si fermava, come se stesse ascoltando qualcosa. Forse sente il respiro delle nuvole, pensò Colin. Tuttavia non se ne stupì, perché quel luogo era pervaso da un potere che loro, da piccoli uomini quali erano, non avrebbero dovuto sfidare. Ancora oggi i vecchi sostengono che, prima di profanare la montagna, è necessario propiziarsela, rifletté. Avremmo dovuto farlo? Ma la voce bassa e cauta di Illait lo strappò ai suoi pensieri. «Ieri e stanotte si è posata una gran quantità di neve su quella ghiacciata che già c'era, e il sole oggi la rende instabile», li stava avvertendo. «Non fate rumore, non parlate. Siamo sul versante al sole, ora.» E si mosse a riprendere la guida. Il canalone che stavano seguendo ormai da tempo salì bruscamente, attorcigliandosi, e il passaggio che doveva essere agevole in estate adesso era impedito da un muro di neve più alto di loro. Portandosi un dito alle labbra, Illait raccomandò a tutti di mantenere il silenzio, poi scese di una decina di spanne, saggiando la consistenza di una cengia che girava attorno all'ostacolo, interrotta soltanto in un punto da una fenditura non molto larga; più sotto, si scorgeva un pendio corto e ripido, bordato da una corona di rocce aguzze. Di fronte e attorno, invece, c'erano soltanto vette bianche e rocce nere tese verso il cielo. Cautamente Illait passò oltre la fenditura, ancorò il proprio bastone e fece cenno a Colin di far scendere Adelaisa. La giovane era agile e leggera e passò attraverso la fenditura senza troppa fatica. Non appena fu certo che Adelaisa era al sicuro alle sue spalle, Illait fece cenno a Colin di scendere, ma quest'ultimo lasciò passare il primo dei suoi uomini. Il mercenario sapeva che quell'impavido guerriero temeva la montagna molto più di un intero esercito nemico. L'uomo, di corporatura massiccia, si calò con fatica sulla cengia e, una volta in basso, non osò staccarsi.
Allora, incurante degli ordini ricevuti, si volse a Illait e gridò: «Dammi la mano!» Nella montagna, qualcosa tremò. Una specie di vibrazione lenta e spaventosa si impossessò del suolo e un rombo sembrò nascere da lontano per poi crescere sotto i loro piedi. Illait afferrò Adelaisa e si buttò all'indietro. Colin invece si buttò disteso, afferrandosi al proprio bastone ancorato saldamente nella neve e nel ghiaccio. Un'onda di neve lo sommerse, lo inghiottì, passò oltre. Il giorno luminoso diventò una notte grigia; tutt'intorno a lui non ci fu altro che la spinta poderosa della mano della montagna che tentava di strapparlo al suo appiglio. Avvertì l'urlo dei suoi uomini: quello sulla cengia e quello degli altri due che, più indietro, non avevano avuto il tempo di ancorarsi. Poi la mano della montagna lo scrollò più forte, e il dolore alle costole si inasprì, diventando quasi insopportabile. In quel momento la montagna lo spazzò via, trascinandolo giù. Colin rotolò tentando di non irrigidirsi; il grosso della valanga era passato, e lui, di questo era certo, ne era al di sopra. Scivolò per tutto il pendio e poi la velocità stessa lo ribaltò dall'altra parte. Reagì con tutta la forza che gli rimaneva, avvinghiandosi a un pinnacolo di roccia, tempestato dai ciottoli e travolto dalla neve. Poi, d'improvviso, tornò il silenzio. Anche il tuono e tutti i suoi echi erano stati ingoiati dall'abisso. Colin tentò di aprire gli occhi, e la prima cosa che vide furono le sue mani sanguinanti. Stranamente, però, non sentiva dolore. Non ancora, almeno. Poi intravide due figure indistinte sulla cengia: erano probabilmente Adelaisa e Illait, ma non poteva sollevare oltre la testa per accertarsene. Non sapeva nemmeno per quanto avrebbe potuto resistere, appeso a quello spuntone di roccia. Illait ancorò il proprio bastone, si tolse il mantello e ne legò un lembo al bastone e quello opposto alla cintura. Quindi prese con sé il bastone di Adelaisa e cominciò a scendere il pendio con grande cautela. Adelaisa si aggrappò al bastone di Illait, per evitare che potesse liberarsi dall'ancoraggio e, piena di angoscia, osservò la lenta discesa del giovane pagano, già ardua e faticosa in se stessa e per di più limitata dalla lunghezza del mantello. Infine, comunque, Illait tese il bastone che stringeva in una mano, tenendo la parte con la punta e i chiodi verso di sé e lasciando a Colin l'estremità ricurva.
«Afferrati!» gli ordinò. Colin sollevò appena la testa. Non sentiva più le mani. Questo era il motivo per cui il dolore pareva assente. «Sono più pesante di te. Non puoi tirarmi su!» mormorò, senza neanche sapere se l'altro poteva sentirlo. «Afferrati!» ripeté Illait. «Afferrati!» lo incitò Adelaisa. La sommità ricurva del bastone gli stava a una spanna. Con determinazione, staccò una mano dalla roccia. Se mancava la nuova presa, sarebbe finito nell'abisso. Ma sentì il legno grezzo sotto le dita, e lo strinse con vigore. In quell'istante capì che Illait lo stava tenendo. Anche l'altra mano lasciò la roccia. Ormai Colin era aggrappato soltanto al bastone; a poco a poco, Illait lo issò. «Non ti muovere», ordinò Illait a Colin, una volta che questi fu sdraiato sul pendio. «Fammi riprendere fiato.» Colin obbedì, ansimando, con il viso nella neve. Tuttavia il peggio era passato. Piantando saldamente i piedi nella neve fresca e reggendosi al bastone, cominciò a risalire il corto pendio e, dopo un tempo che gli parve interminabile, arrivò ad afferrare prima la mano di Illait e poi il suo braccio. Allora Illait ritirò il bastone ed entrambi gli uomini riguadagnarono la cengia. Esausto, Colin sedette sul bordo. Aveva le mani coperte di sangue, e un braccio e una spalla gli facevano male, ma c'era del sangue anche sulle mani di Illait. Adelaisa si chinò sui due uomini con una sollecitudine che, a Colin, parve identica. «Non possiamo fermarci qui», disse la giovane, toccando il braccio di Colin per assicurarsi che non fosse rotto. «Puoi resistere per un poco?» «Non ho da scegliere», rispose lui con un lieve sorriso, e si voltò verso Illait, che era già in piedi e si stava sistemando il mantello e la balestra sulle spalle. «Ti devo la vita. Per la seconda volta.» «Ma tu hai lottato bene, per uno che pensa di non avere un futuro», gli rispose il giovane. Era stato lui stesso a dirlo, ma lo aveva detto nel sogno. Scosse il capo, senza sapere che cosa rispondergli, e si mise faticosamente in piedi. «Mi dispiace per i tuoi uomini», mormorò Adelaisa. Aveva il viso arrossato e, nonostante tutto, dimostrava una calma ammirevole. «Anche a me», rispose Colin, e si mosse a seguirli.
Aveva perduto il suo bastone, che in effetti lo aveva salvato, e Illait gli lasciò il proprio. Colin era troppo stanco per invidiare la sicurezza con cui l'altro ancora si muoveva sul sentiero inesistente. Passarono infine il valico e si avviarono lungo un sentiero, più evidente e quasi in piano, che piegava verso oriente. Il sole era quasi al tramonto quando si fermarono al riparo di un costone roccioso. C'era poca neve in quel punto e, in mezzo al bianco, spuntavano le macchie brune e rossastre delle rocce. Più in basso, già si intravedeva il pianoro battuto dal vento che appariva ai loro occhi come una landa desolata in cui le case di pietra dell'Ospizio dei Monaci, voluto secoli prima da Ludovico il Pio, e il piccolo lago, parevano confondersi con il candore della neve. Un certo sentore nell'aria tuttavia lasciava indovinare la presenza umana. Colin si accovacciò, appoggiandosi alla roccia alle proprie spalle; Adelaisa gli si inginocchiò davanti e gli prese entrambe le mani. «Quando saremo all'Ospizio, dovrai permettermi di occuparmi di te. Qui non ho niente per aiutarti. Le ferite alle mani non sono profonde, e il braccio non è rotto, ma hai bisogno di essere medicato e di stare al caldo.» «Sono le parole migliori che ho sentito da quando abbiamo lasciato Chambéry», rispose Colin, cingendole la vita con il braccio sano. La freccia arrivò in quel momento, infilandosi nella neve a un palmo dalla sua gamba. Non vogliono ucciderci. Siamo un bersaglio troppo facile e non potevano mancarci! pensò Colin, afferrando Adelaisa e tirandola sotto di lui, per proteggerla. Illait a sua volta saltò al riparo di una roccia e, imbracciata la balestra di Colin, tese entrambe le corde. Colin fremette, pensando che avrebbe voluto averla nelle proprie mani, senza ricordare che non avrebbe potuto far molto, in quel momento. Afferrò comunque la spada corta, che ancora portava alla cintura, e tenne giù Adelaisa. Gli uomini stavano balzando fuori dei loro nascondigli dietro le rocce, e li attaccavano da tutte le parti. Erano tanti. Troppi. Illait scaricò la balestra su due tra i più vicini; poi saltò fuori del riparo e la usò come una mazza, ma una mezza dozzina di uomini gli fu subito addosso e lo inchiodò al suolo. Colin sostenne l'urto dei primi due attaccanti, infilando la spada corta nel ventre del primo e abbattendo l'altro con un colpo dell'impugnatura in pieno volto, ma un terzo gli balzò addosso da dietro, lo colpì alla schiena costringendolo in ginocchio, quindi lo colpì
ancora al capo. Qualcuno allora gli strappò la spada dalle mani e subito dopo per lui non ci fu altro che il buio assoluto. «Lascialo stare!» urlò Adelaisa, balzando addosso al soldato, ma l'uomo la spinse via, mandandola a sbattere contro la roccia. Adelaisa scivolò nella neve. In un istante Alcourt le fu sopra, e l'afferrò per il mantello, rimettendola in piedi. «Non farmi dimenticare che sei una dama e che ho avuto l'ordine di non toccarti!» sibilò, strappandole il cappuccio che le tratteneva i capelli. Una ferita profonda sfigurava la metà destra della faccia dell'uomo; il dolore e la rabbia lo rendevano furioso. Era stato il primo colpo di Illait con la balestra usata come mazza a ridurlo in quel modo, ma il capitano delle guardie del vescovo di Chambéry era riuscito a trattenersi dall'ucciderlo subito. Si sarebbe vendicato in seguito, non c'era dubbio. Adelaisa girò lo sguardo a cercare il giovane: i soldati lo stavano rimettendo in piedi dopo avergli legato le mani a un pezzo di legno passato sotto le ascelle. Le spalle, il collo e la schiena erano così costretti in una posizione forzata e innaturale, che di certo gli riusciva piuttosto dolorosa. Adelaisa volse lo sguardo a Colin. «Non temere, non lo lasciamo qui», ghignò Alcourt. «Il vicario del vescovo ha posto un buon premio sulla sua testa, e lo riscuoterò molto presto. Muoviti, adesso!» La spinse malamente avanti, mentre i suoi uomini si raccoglievano. Erano una ventina, bene armati, ed era evidente che erano lì ad aspettarli da un pezzo. «Quando siete passati?» mormorò Adelaisa, stringendosi sulle spalle il mantello e sforzandosi d'ignorare le brutte condizioni dei due giovani prigionieri. «Ieri, e la neve della notte ha cancellato le nostre tracce. Ora sta' zitta e cammina!» Adelaisa tacque. In quel punto già non si vedeva più il sole, nascosto dalle cime. E in quel falso tramonto arrivarono all'Ospizio dei Monaci: tre case di pietra su un rialzo roccioso, al di là del quale la distesa ghiacciata del piccolo lago s'indovinava appena nel bianco tinto d'ombra. Dal camino della casa più grande, lunga, stretta e senza finestre, usciva del fumo. La seconda e la terza casa, più piccole, sembravano vuote; tutt'attorno c'era un basso muro di pietre, una vasca per la raccolta dell'acqua, alcune rocce e vari cumuli di neve. Il gruppo raggiunse la prima delle due case più piccole; Alcourt spalancò
la bassa porta d'ingresso e ordinò ai suoi uomini di buttare all'interno Colin, ancora privo di sensi. Quindi spinse Adelaisa contro il muro accanto alla soglia, mentre Illait venne fatto inginocchiare lì davanti. Alcourt gli girò attorno un paio di volte, minaccioso come un predatore. Illait, ancora legato al bastone, ne seguì i movimenti come poteva. Odo di Chambéry, chiuso in un mantello di pelliccia che lo faceva ancora più basso e massiccio, era uscito dalla casa più grande e si stava avvicinando a loro. Si fermò accanto ad Alcourt: guardò prima Adelaisa, poi Illait e infine sbirciò nella bassa apertura della casa. Nella luce incerta, il viso era duro. «Colin Bois è ancora vivo», lo informò Alcourt, seccamente. «Posso dire lo stesso di te?» ribatté Odo. Il capitano si limitò a un mezzo sorriso, ma non rispose, e non accennò neppure a pulirsi il viso dal sangue. Odo di Chambéry si avvicinò al prigioniero e con un cenno ordinò che gli venisse sollevato il capo. Uno dei soldati afferrò prontamente Illait per i capelli e gli tirò indietro la testa. «I tuoi dèi ti proteggono. A quanto vedo, non sei ferito», esclamò Odo con un punta di ironia. «Questo farà piacere al mio vescovo, se dovrò riportarti da lui.» «Se?» ripeté Illait. Odo, che si era chinato un poco per guardarlo da vicino, non batté ciglio. «Hai capito bene, pagano. Ho detto se», disse. Poi si sollevò e mosse appena un dito della mano: a quel comando, Alcourt affibbiò con forza un calcio nelle reni del prigioniero. Illait si piegò e si risollevò quasi subito. «Devo confessarti che c'è stato un momento in cui ho concesso un piccolo credito a Colin Bois. Molto piccolo, in effetti», ammise Odo. «Ho pensato che forse sarebbe stato abbastanza furbo e forse avido, o forse temerario, per riportarti da me e pretendere la ricompensa, sebbene Alcourt non lo credesse possibile. Quindi ho pensato che, mentre mandavo dietro a Colin Bois e ai suoi gli uomini del vescovo, sperando che mi portasse al vostro nascondiglio, voi eravate già sulla via del valico. Montsalvy guadagnava così un po' di tempo; poco, ma prezioso, sacrificando il suo capitano.» Odo s'interruppe, e Alcourt approfittò di quella pausa per colpire ancora il prigioniero, con forza e con rabbia. «Così siamo partiti subito da Saint-Rémy. Tenendoci sulla strada di fondovalle siamo stati più veloci e, arrivando a Bramans, abbiamo scoperto di essere avanti a voi, perché il signore di Montsalvy dopotutto non intendeva
sacrificare davvero né il suo capitano né i suoi uomini. Ma avevo soltanto venti soldati, e c'è aria di ribellione a Bramans; così ho preferito precedervi al di qua del valico, dove sareste stati piuttosto stanchi e meno cauti... Però non avevo immaginato che sareste stati soltanto in tre. Che cosa è accaduto ai soldati di Colin e dov'è adesso Amboise de Montsalvy?» Illait non rispose. Alcourt lo colpì in viso con una cinghia di cuoio. «Basta!» insorse Adelaisa, trattenuta da uno dei soldati. Odo si volse a lei, raggiungendola sulla soglia della casa. «Allora lo chiedo alla sua pupilla. Dov'è Amboise de Montsalvy?» «Forse è morto, cadendo in un burrone!» rispose Adelaisa. Odo le sfiorò il viso. «Non tentarmi, mia signora. Potrei dire ad Alcourt quello che lui e i suoi uomini possono fare di te. Aspettano soltanto il mio permesso.» «Sei davvero certo di essere al riparo dalla giustizia di Borgogna?» ribatté Adelaisa, furiosa. «Il tuo nobile fratello avrà abbastanza da fare alle sue frontiere. Le tue nozze con Olderico Manfredi non sono ben viste da molti, mia signora, e non porteranno pace in nessun luogo. Temo di doverti dare una delusione: hai nemici potenti, e nemmeno loro temono il re tuo fratello o il tuo sposo. Non arriverai da lui. Comunque, per precauzione, ho mandato alcuni uomini anche da questa parte a parlare di voi. Siete pagani e per colpa vostra verrà dal cielo il Castigo di Dio e la fine del Tempo se qualcuno vi darà aiuto o riparo. Così ti chiedo ancora: dov'è Amboise de Montsalvy?» Adelaisa tacque. Odo serrò le labbra, volgendosi ad Alcourt. «Procedi. Sta facendo notte», disse semplicemente. Alcourt annuì. Due dei suoi uomini trascinarono Illait verso una roccia non lontana, larga e piatta quasi come una tavola, e coperta di ghiaccio. Quindi gli strapparono gli abiti e lo distesero senza togliere il bastone che gli forzava le spalle, legandogli saldamente mani e piedi. Odo torreggiava su di lui. «Ora lo dirai a me, il tuo segreto. E con questo gelo non hai molto tempo per deciderti. Come vedi, io non sono paziente al pari di Chaffre de Revard e non ho le sue buone maniere.» Illait tacque. Odo gli girò le spalle, chiamando a sé Alcourt. «Riposati, capitano, e vedi di farti medicare dai monaci: la tua faccia mi provoca il vomito. Domani al più presto partiremo per tornare a Chambéry», gli annunciò. «E Colin Bois?» insistette Alcourt, ignorando il suo commento. Odo lo quietò con un cenno, fermandosi davanti ad Adelaisa, che uno
dei soldati stava inutilmente tentando di spingere all'interno della stanza dov'era stato gettato Colin. «Se Illait di Isley muore congelato non dirà il suo segreto né a te né al tuo vescovo!» esclamò la giovane. «È vero. Ma in questo caso porterò al vescovo il suo cadavere, e Chaffre de Revard sarà liberato dalla sua ossessione. Adesso entra, mia signora, e non abusare oltre della mia pazienza.» «Voglio del cibo, un fuoco, alcune coperte e qualcosa per medicare Colin Bois!» La voce di Adelaisa aveva il tono di chi è abituato al comando; Odo esitò soltanto per un istante, in parte compiaciuto da tanta fermezza, perché era la qualità che maggiormente rispettava, e in parte irritato, perché comunque qualcuno continuava a dargli ordini. «Ti manderò uno dei monaci», rispose seccamente. Adelaisa assentì e accettò di entrare. Prima, però, lanciò un ultimo sguardo al corpo immobile di Illait di Isley. Ma ormai era notte, e di lui vide soltanto la macchia dei capelli chiarissimi e della pelle nuda. IX All'inizio non ci fu che il profilo di Adelaisa sull'onda luminosa del fuoco nel misero camino di pietre. Un bellissimo profilo, coronato dall'aureola dei capelli lunghi e liberi. Colin pensò che forse era morto e che quello era il suo paradiso, e allora si distese, tentando di assaporare il benessere del momento. Un lusso che poteva concedersi di rado. Non aveva mai creduto davvero nel paradiso. O forse era semplicemente finito il Tempo, e lui non se n'era accorto? E se era così, per che cosa era stato premiato? Sentì il giaciglio di foglie secche, chiuse in un sacco, scricchiolare sotto di lui. Anche in paradiso non avevano altri giacigli se non quelli dei poveri? O forse c'erano paradisi diversi, e lui era in quello sbagliato? Poi tentò di muovere il capo, e sentì il dolore. Subito la mano lieve e tiepida si posò sulla sua fronte. «Non muoverti. Per stanotte, devi rimanere disteso e tranquillo.» «E dopo?» chiese Colin con una voce che sembrò strana persino a lui; aveva la bocca asciutta e le labbra gli facevano male, ma strinse la mano e poi il braccio, e infine piegò tutto quel grazioso corpo su di sé, assaporan-
done il calore. Forse dopotutto era in paradiso. Adelaisa assecondò quell'abbraccio, lasciando che Colin prendesse da lei la forza che gli serviva, poi si risollevò. Colin aprì di nuovo gli occhi. «Non volevo», mormorò, sentendosi sciocco per aver ceduto alla tentazione di amare quella bella dama che era promessa a un potente e che di certo non era stata creata per le voglie di un mercenario. «Non dire bugie. Il Tempo potrebbe finire stanotte, e ti presenteresti al Giudizio con una menzogna sulle labbra.» Colin sorrise del contrasto tra quelle parole di rimprovero e il tono lieve con cui erano state pronunciate. Adesso era del tutto sveglio. «Dove siamo?» le chiese, notando che ormai i capelli di Adelaisa erano liberi dal cappuccio e che quindi lei era stata riconosciuta. «In una delle celle dell'Ospizio, dove vengono accolti i viandanti. Ci sono pagliericci e un camino, e un monaco ha acceso il fuoco e ha portato cibo e coperte e anche bende e unguenti per le tue mani.» «Siamo prigionieri», concluse Colin. Non rammentava niente dopo l'attimo in cui, tra le rocce, erano stati assaliti. Adelaisa distolse il viso; Colin sentì il riflesso della pena che la tormentava, un dolore reso più forte dalla rabbia per l'impotenza in cui erano costretti; ebbe la certezza che qualcosa di irrimediabile fosse già accaduto. «Illait?» mormorò. «Odo di Chambéry l'ha fatto legare a una roccia, qui fuori, quasi nudo. Vuole che gli sveli il suo segreto.» «E non l'ha fatto?» Adelaisa scosse il capo: «Non lo farà». «Maledetto cocciuto!» mormorò Colin con rabbia, accennando ad alzarsi. «Non ti muovere!» gli ordinò Adelaisa. «Non c'è niente che puoi fare, ora.» «Questo mi sorprende! Mi sembravi abbastanza attaccata a lui da rischiare volentieri il mio collo per salvarlo!» «Non voglio perdervi entrambi, ed è soltanto questo che accadrebbe! Inoltre ho passato metà della notte a rimettere insieme i brandelli della tua carne, e non permetterò che il mio lavoro venga rovinato.» «Il tuo 'lavoro'! Ma chi credi di essere?» ribatté Colin, osservando per la prima volta come le mani, la spalla e il braccio fossero ben stretti in una fasciatura pulita.
«Quello che sono, sciocco. Un chirurgo», ribatté la giovane. «Non ho mai sentito che una donna possa essere medico... Tuttavia, se Amboise è stato il tuo maestro, non mi stupisco che tu lo sia.» «Hai un'alta opinione di lui.» «È giusto che sia così», mormorò Colin, e tornò a guardare la porta, di nuovo assalito dall'ira per ciò che stava accadendo e per il fatto che lui, come aveva detto Adelaisa, non poteva far nulla. Eppure non era la prima volta nella sua vita che doveva assistere impotente a un assassinio o a una strage. Durante il lungo assedio di Langeais, mentre combatteva con i suoi a fianco di Fulk Nerra, gli assedianti comandati da Odo di Blois avevano usato i bambini a mo' di scudi, per proteggersi dalle frecce dei difensori sugli spalti; lo stesso Colin aveva dato ordine di abbatterli per poter colpire gli uomini di Odo di Blois, e quell'attacco era stato respinto. Erano passati quattro anni, e Colin non riusciva ancora a guardare un bambino negli occhi. «Hai detto che è stato il vicario del vescovo... come può essere qui?» mormorò quindi, ricacciando la visione che si era formata nella sua mente. «Odo non ti ha creduto. E, mentre una parte dei suoi soldati seguiva i tuoi nei boschi, Alcourt e lui ci hanno preceduti sulla strada di fondovalle. Sono arrivati al valico prima di noi, e sono passati prima della grande nevicata, che ha cancellato le tracce e ha reso instabile la neve di fondo.» «Che cosa vuole fare adesso?» «Riportare il cadavere di Illait a Chaffre de Revard e affidare te ad Alcourt.» «E il signore di Montsalvy?» «Anche Odo vorrebbe sapere di lui.» Colin assentì; da come Adelaisa gli aveva esposto le intenzioni del vicario del vescovo era chiaro che non c'erano speranze; tuttavia non si avvertiva alcuna emozione nella voce della giovane, come se le emozioni fossero state assorbite per intero dalla violenza compiuta su Illait di Isley. No, rifletté Colin, Adelaisa di Borgogna non è donna da compiangersi. E questo, agli occhi del mercenario, era una qualità eccezionale. «Se tu non fossi promessa e se il tuo signore non fosse Olderico Manfredi, credo che ti chiederei di dividere il mio letto», mormorò. «Credi?» ripeté Adelaisa, ma era rivolta al camino, e Colin non ebbe modo di leggere sul suo viso se le sue parole l'avessero toccata. «Dio potrebbe essere clemente, e far finire il Tempo stanotte... oppure il Tempo potrebbe finire per noi domani, in virtù di un'unica parola di Odo...» osservò Colin, afferrandosi a una piccola speranza.
«Non dire altro, Colin Bois. Ogni parola sarebbe di troppo, se il Tempo non dovesse finire.» Colin sorrise amaramente. Per Illait di Isley il Tempo era finito davvero, e Colin pensò con improvvisa nostalgia al drago sulla stoffa preziosa e alla porta di pietra che portava all'Altro Mondo. Avrebbe ritrovato Illait in quel luogo incantato che sembrava ormai precluso agli uomini? E dove poteva cercarne la porta? Un movimento più brusco gli ricordò che doveva stare disteso per non sentire dolore, e un attimo dopo Adelaisa gli sistemò la coperta fin sotto il mento. «Non vedo proprio come puoi invitare una dama nel tuo letto, capitano, se nemmeno riesci a tirarti una coperta sul naso», gli mormorò, ma il tono era falsamente scherzoso. Colin cercò di trovare per lei una parola di speranza, ma non ci riuscì. La osservò avvolgersi in una coperta e distendersi davanti al fuoco e guardò desolato la forma di quel corpo che nemmeno la coperta riusciva a nascondere. Per la prima volta provò il desiderio di essere diverso, capace di formulare parole in grado di consolare, ma se ne pentì subito. Non riuscì tuttavia a dormire. Gli sembrava che la stanza si fosse colmata di facce e di voci, e che ognuna portasse la propria pena e il proprio fardello, ma anche un briciolo di speranza, quella che lui non aveva, minuscola come il fuoco che si andava consumando nel camino, eppure straordinariamente luminosa. Quando Colin sentì, all'esterno, le voci concitate e tese si era appena fatto giorno. Illait di Isley, là fuori, doveva essere morto. Sfiorò le spalle di Adelaisa. «Svegliati, mia signora. Sta venendo qualcuno.» Lei aprì gli occhi, e per un istante gli sorrise. «Stai bene?» gli chiese. «Sono come nuovo», la rassicurò lui, allontanandosi dal camino, per non offrire a chi stava venendo un solo bersaglio. La porta si spalancò con forza. Al di là tutto sembrava sparito, nascosto in un chiarore bianco latte. Nebbia. Tanto fitta che distinsero Alcourt e Odo di Chambéry alle sue spalle solo quando i due furono all'interno. La faccia di Alcourt era spaventosa a vedersi: la ferita che gli deturpava la metà destra del viso era infiammata e sembrava sul punto di aprirsi. Odo, avvolto nella pelliccia, era invece pallido come un cadavere. «Dov'è?» esclamò Alcourt, sguainando la spada e protendendola minac-
ciosa verso Adelaisa. «Chi?» ribatté la giovane senza battere ciglio. «Illait di Isley è sparito», intervenne il vicario del vescovo. «E vieni a cercarlo qui? Guardati attorno!» ribatté Colin. «Forse lo vedi? O credi che abbia il dono di farsi invisibile?» «Non sarai il primo a morire!» grugnì Alcourt. «Lei ti precederà!» E, con una mossa rapida, tentò di affondare la spada nel petto di Adelaisa. Ma Colin, che non aveva staccato lo sguardo dal braccio armato del soldato, ne anticipò il movimento e scaraventò Alcourt contro il bordo di pietre del camino. La spada schizzò via, prontamente raccolta da Adelaisa che la puntò alla gola di Odo, mentre i due uomini rotolavano via, avvinghiati in una lotta feroce. «Rimani dove sei!» intimò Adelaisa a Odo. L'uomo scosse il capo, ma obbedì. «Vuoi macchiarti di un sacrilegio?» mormorò. «Tu, una dama di Borgogna!» «Non vedo differenza fra la tua morte e la nostra, vicario. E so dove colpire per ucciderti.» L'uomo tacque, non dubitando di quelle sue parole. Anche se Adelaisa doveva tenere la pesante spada con entrambe le mani, lo faceva con naturalezza, dimostrando che era pronta a mettere in pratica la minaccia. Odo spostò lo sguardo sui due uomini che lottavano senza esclusione di colpi, avvinghiati come lupi. Le mani fasciate di Colin erano un palese svantaggio, compensato però dalla furia incontenibile con cui il mercenario vibrava ogni colpo. Rotolarono tra i giacigli, mandandoli all'aria; più volte Colin finì sotto l'altro, schiacciato contro le pietre del camino, ma riuscì sempre a riprendersi e, alla fine, sferrò un pugno sulla faccia ferita di Alcourt e questi stramazzò all'indietro, privo di sensi. Faticosamente, Colin si mise in ginocchio. Dalle bende filtrava il sangue, ma lui lo ignorò e prese la spada dalle mani di Adelaisa. «Adesso andiamo dai monaci», disse, ansimando. «Bada che se uno solo dei tuoi uomini tenta di fare qualcosa, ti uccido!» Odo sostenne il suo sguardo con fermezza. «Un mercenario non può dare la propria anima a chi lo paga. Hai commesso il primo errore della tua vita, e sarà anche l'ultimo, Colin Bois.» «Forse. Tuttavia, in questo momento, la mia vita è più lunga della tua, fosse soltanto di una spanna. Cammina!» Uscirono, e si trovarono immersi in una nebbia fittissima, densa come latte e gelata sulla pelle.
Odo tentò d'indovinare la direzione per l'edificio principale dell'Ospizio. Ma non era facile, e non lo era nemmeno rimanere in piedi, perché il suolo era ghiaccio vivo. All'improvviso, il vicario si fermò. Davanti a loro, nella nebbia, s'intravedeva una figura con un mantello scuro e i capelli chiarissimi. «Illait?» mormorò Adelaisa. Odo si fece il segno della croce e non si mosse, nemmeno quando la punta della spada di Colin lo pungolò. «Se è uno spettro, allora è qui per te. E sono contento di darti a lui!» esclamò il mercenario, e lo spinse in avanti, verso quell'ombra dai contorni fluttuanti. Odo gli andò a sbattere contro e scivolò in ginocchio. Colin gli appoggiò la punta della spada sul collo, ma tenne gli occhi fissi sulla figura. «Davvero ti sembro uno spettro, Colin Bois?» chiese Illait di Isley. C'era una traccia di stupore nella sua voce, come se non riuscisse a capire il motivo della loro meraviglia. «Dovresti essere morto, da quanto ha detto Adelaisa.» «Lo so.» Illait sorrise in quel suo modo venato di tristezza che lo faceva apparire più giovane di quanto non fosse. Colin ripensò alla notte, alla sua rabbia e a quella piccola speranza che, non per sua volontà, non si era spenta. Gli sembrò che in qualche modo Illait di Isley sapesse esattamente quello che aveva pensato, e patito, in quella lunghissima notte, e che gliene fosse grato. «Andiamo, Colin, andiamo dai monaci. Fa troppo freddo per rimanere qui fuori!» gridò una voce alle sue spalle. Era Amboise. Colin ebbe un sussulto, poi imprecò tra sé. Avrebbe dovuto immaginare che il piccolo uomo del Nord sarebbe rispuntato al momento giusto. Sollevò impercettibilmente la spada dal collo di Odo. «Non hai sentito? Alzati!» «Dove sono i miei uomini?» ribatté il vicario, mettendosi in piedi con fatica e tentando di spazzar via la neve dal mantello. «Non temere: sono ben custoditi ma stanno bene. Tranne due, che sono morti», gli rispose Amboise. Illait si fece da parte per farli passare, ma Odo evitò di guardarlo quando fu costretto a sfiorarlo. I monaci, soltanto tre nella cattiva stagione, non chiedevano di meglio che essere lasciati al di fuori della disputa; servirono quindi formaggio,
vino, noci e focacce di segala e poi li lasciarono nel refettorio, ritirandosi frettolosamente in cucina. Sfinito, Odo crollò su una delle panche. Colin lo imitò, sedendosi sulle pietre del camino e sforzandosi d'ignorare il dolore alle mani. «E i miei uomini?» chiese, rivolto ad Amboise. «Si sono comportati egregiamente, e darò loro un premio per questo. Ora si stanno prendendo cura dei soldati», rispose l'altro. Gli era stata sufficiente un'occhiata e un lieve cenno di Adelaisa per constatare che la giovane stava bene e che non le era accaduto nulla, ma non altrettanto poteva dire del mercenario. «Che ne è di Alcourt?» chiese. «È ancora vivo, e sta peggio di me», rispose Colin, e poi guardò Illait, ma questi rimase zitto. Amboise versò un po' di vino nella tazza di Odo e gliela mise davanti. «Dal tuo aspetto direi che ne hai bisogno», disse. Odo ignorò il vino. «Speri davvero di sfuggire al castigo, signore di Montsalvy?» chiese invece, aspro. «Sarai giustiziato. Ora i tuoi crimini non avranno più perdono!» «Prima sentirò il parere di Odilone di Cluny, e magari quello di Silvestro II, se ne sarò costretto.» «Tutti sanno che Gerberto d'Aurillac, prima di essere eletto papa, era un uomo di scienza e tuo amico!» «E tutti conoscono le simpatie dal vescovo di Chambéry per l'antipapa Giovanni XVI. Attento, vicario. Non trascinarmi su un terreno su cui tu saresti il perdente.» Odo tacque, riflettendo. «Dammi il pagano, e io ti lascerò libero di proseguire con la tua dama e la tua scorta, e nessuno saprà quello che è accaduto», gli propose. Era chiaro che ormai aveva riguadagnato la lucidità. «Allora dovrai uccidere Alcourt, per riuscirci», intervenne Colin, divertito. «Perché lui non starà zitto.» «I sentieri di montagna sono infidi per il ghiaccio e la neve abbondante. Possono accadere molte disgrazie...» mormorò Odo, soppesando quel suggerimento. «Zitto, vicario!» lo interruppe Amboise. «Non indurmi a credere che un burrone sarebbe il posto migliore per togliermi il fastidio della tua presenza!» «Che cosa vuoi fare di me?» ribatté Odo senza scomporsi. «Gli uomini di Colin ti riaccompagneranno a Bramans con tutti i soldati
che ti rimangono, compreso Alcourt. Devo confessarti, vicario, che ho fatto buon uso di ciò che hai sparso in quel villaggio. Non ho penato a convincere Meritrieux a prendersi cura di voi fino alla Candelora, e poi a consegnarvi al vescovo di Saint-Jean-de-Maurienne in cambio di una clemenza scritta e garantita dallo stesso vescovo di Chambéry per i giovani del luogo.» «Questa è un'altra infamia che sarai chiamato a pagare, Amboise de Montsalvy.» «Le mie spalle sono larghe. La sopporteranno. Buon ritorno, vicario.» Fece cenno a Bert di portarlo via e Odo, seppur riluttante, si mosse. Colin guardò affascinato il muro di nebbia bianca per l'istante in cui la porta rimase aperta. Dopo, erano soli. Amboise sedette al tavolo e si servì della colazione. «Finalmente!» esclamò. «È stata una notte lunga e molto fredda.» «Non è stata una bella notte per nessuno!» borbottò Colin. «Vuoi spiegarmi qualcosa, adesso?» «Quando voi tre siete andati nella stalla, a Bramans, Meritrieux si è confidato, e mi ha parlato dei cavalieri che, in nome del vescovo di Chambéry, erano passati il giorno prima e gli avevano ordinato di rifiutarci ospitalità. Erano stati brutali, lo avevano picchiato e avevano minacciato il rogo per tutta la gente del villaggio se ci aiutavano. Lui non era certo che fossimo noi, perché non aveva visto donne nel gruppo, ed era spaventato, ma anche furioso. Davvero furioso, dal momento che i giovani del villaggio si erano già ribellati al vescovo di Saint-Jean-de-Maurienne.» «Così tu ci hai fatto partire, pur sapendo che li avremmo trovati sulla nostra strada e che saremmo finiti nelle loro mani», constatò Colin. «È un rischio che ho dovuto correre. Mi sono fidato della tua abilità e di quella di Illait, dal momento che vi ho affidato Adelaisa, e non potevo prevedere che avreste perso tre uomini nella slavina. Se fossimo stati un unico gruppo ci avrebbero catturati tutti.» «Senza più speranza d'aiuto», mormorò Adelaisa. «Invece Alcourt e i suoi erano così soddisfatti di avervi presi che si sono rintanati in questa stanza per scaldarsi e mangiare senza neanche preoccuparsi di mettere un uomo di guardia. Noi vi seguivamo da vicino, anche se la slavina ci aveva fatto ritardare, e abbiamo visto quando siete stati catturati.» Amboise s'interruppe per bere un sorso di vino caldo. Ma nessuno dei suoi giovani ascoltatori aveva intenzione di fare commenti.
«Così abbiamo potuto liberare subito Illait», riprese, «e dal momento che né tu né Adelaisa eravate in immediato pericolo, abbiamo passato le ore più buie della notte in un rifugio di rocce, in riva al lago. All'alba abbiamo sorpreso gli uomini di Alcourt addormentati nei loro giacigli, ed è stato facile prenderli, anche se erano più del doppio di noi. In quel momento ci siamo accorti che Odo e Alcourt mancavano, e che dovevano aver scoperto la sparizione di Illait... Allora ci siamo precipitati, ma tu e Adelaisa avevate fatto già tutto da soli.» Colin grugnì un assenso tutt'altro che lusingato. Non aveva mai permesso a nessuno di usarlo come una pedina, e Amboise de Montsalvy non stava facendo altro da quando gli aveva proposto quel maledetto ingaggio! Con un sospiro a metà tra rabbia e rassegnazione, lasciò che Adelaisa gli prendesse le mani per cambiare la medicazione. Amboise, dopo essersi chinato a dare un'occhiata, approvò il trattamento. «E adesso?» esclamò quindi Colin. «Che cosa facciamo?» «Mentre i tuoi uomini porteranno Odo e gli altri a Bramans da Meritrieux, noi scenderemo all'abbazia di San Pietro della Novalesa. L'abate Gezone è un uomo colto e giusto, ed è un amico, anche se l'abbazia non è precisamente alleata di Olderico Manfredi. Potremo riposarci e riprendere le forze prima di scendere a valle, aspettando il loro ritorno.» «E che mi dici di quei quattro uomini di Azzago che hai lasciato a Bramans?» Amboise scosse il capo con aria innocente. «Ho mentito. Non erano uomini del vescovo di Milano, bensì mercanti frisoni provenienti da Asti e in viaggio per Lione. Volevano festeggiare il Natale però, dal momento che non sapevano se quel giorno sarebbe stato l'inizio dell'anno mille o la fine del mondo, avevano deciso di celebrarlo con una bevuta solenne. E ci sono riusciti, credimi.» A stento Colin trattenne il commento che gli era salito alle labbra. «Tuttavia i messaggeri di Odo ci precedono, e quello che hanno detto a Meritrieux lo diranno lungo tutta la strada da qui a Torino», intervenne Adelaisa. «Sì», ammise Amboise «Parlerò di questo con l'abate Gezone. Finite di mangiare, ora.» «Perché tanta fretta?» ribatté Colin. «Con una simile nebbia non andiamo da nessuna parte.» «La nebbia si alzerà, quando saremo pronti a partire», intervenne Illait. Colin ritirò una mano dal grembo di Adelaisa, che ancora non aveva fi-
nito di medicarlo, e la posò sul dorso del giovane che gli sedeva accanto. «Sei caldo», osservò Colin. «Quindi non sei uno spettro. Ma se come uomo di carne e sangue comandi a tuo piacere la nebbia, perché non hai sentito che Amboise ci stava ingannando?» «Perché il cuore degli uomini è molto più complesso del gioco dei venti...» mormorò Illait. «E poi perché non era un inganno.» Colin scosse il capo; se c'era una punta di divertimento nella voce del pagano, non era in grado di coglierla. Tuttavia la collera lo aveva lasciato e, pur non comprendendone la causa, anche il dolore. X Se non ti decidi ad alzarti e a raggiungere i tuoi soldati, vicario, sarò costretto a farti legare una corda attorno alle spalle e trascinarti. Non so quanto potrà essere conveniente per te sul ghiaccio del valico.» Odo alzò su Amboise uno sguardo gelido, e non si mosse. Tutti i suoi soldati erano allineati nello spiazzo battuto dal vento, con le mani legate dietro la schiena e pronti a muoversi. La nebbia si era alzata, rivelando un cielo azzurro appena striato da nuvole ancora lontane. Un monaco era venuto a portargli la colazione e Odo l'aveva consumata fino all'ultima briciola, non sapendo quando avrebbe mangiato di nuovo. Amboise aveva apprezzato quella concretezza. Odo ancora non capiva perché un uomo tanto colto, e che ovunque godeva di prestigio quanto Amboise de Montsalvy, non sapesse accettare la soluzione più ragionevole per tutti. «Potresti uccidermi», disse infine. Era un'alternativa sgradevole eppure logica. «Sono un medico, non un assassino; e per me la vita, qualunque vita, persino la tua, è molto importante. Puoi dire questo al tuo vescovo, quando ti chiederà perché sei vivo. E digli anche che il segreto di Illait di Isley non è un segreto, bensì un'eredità che non si accompagna alla sete di potere.» Con un lieve sorriso sulle labbra, Odo lo fissò. «Nemmeno per te, Amboise?» mormorò. «Hai fama di essere uno studioso, affascinato da tutto ciò che è oscuro... Il mio vescovo non crederà che il tuo aiuto a quel pagano sia disinteressato o dettato da chissà quale forza malvagia. Anche tu, proprio come tutti, vuoi conoscere che cosa risveglia il Drago.» «Il potere di comandare alla terra e al cielo e alle acque, di svegliare le forze segrete e profonde, di mutare la materia e di trasformare quello che è
in quello che non è?» Gli occhi di Odo si accesero di speranza. Forse, dopotutto, anche Amboise de Montsalvy aveva un prezzo... «Vedi, signore di Montsalvy?» esclamò. «Anche tu vuoi da lui quello che vuole Chaffre de Revard!» «No. Ma tu non puoi credermi. Il tuo limite infatti è non credere in ciò che non capisci.» «Allora dimostrami che davvero non t'importa di avere il suo potere! Uccidilo! Devi concordare con me che un uomo come lui, nel nostro tempo, è un grande pericolo. Noi ancora non abbiamo il pieno dominio di queste genti rozze che praticano gli antichi riti con i nuovi nomi; per un soffio potremmo perdere ciò che abbiamo accumulato. Senza di noi, però, anche quel poco che è rimasto sarebbe disperso e perduto. Pensaci, signore di Montsalvy. Se non possiamo avere quel potere antico al nostro servizio, allora dobbiamo nasconderlo e, se non possiamo nasconderlo, dobbiamo annientarlo.» «Sono quelli come te a renderci così poveri e tristi, e sono quelli come te che corrompono il mondo», commentò Amboise. «Però tu sei un uomo che ha fama di essere maestro nella logica, e non sei un illuso; tu sai che ho ragione. Dobbiamo rimanere i più forti: è nostro dovere distruggere quello che non possiamo asservire.» «Poco importa quanto può costare, vero?» «I re rimarranno re, i bifolchi rimarranno bifolchi, e tutti passeranno. Che ce ne importa? La vita di un uomo è troppo breve per misurarla con i tempi della terra e del cielo. Dubito dell'integrità della tua fede, Amboise de Montsalvy, e ti denuncerò come eretico per questo.» Amboise si limitò a un mezzo sorriso. «Sono certo che lo farai.» Odo scosse il capo. «Quel pagano ha detto al mio vescovo che non sapremo creare altro che veleni e che se non sveglieremo per tempo il Drago che dorme in ciascuno di noi, imparando a vedere e a sentire, soffocheremo la terra, l'acqua e l'aria. Il mio vescovo non ha gradito questa profezia; l'ha interpretata come un insulto, e l'ha fatto punire. In realtà aveva paura. Uccidi quel pagano, signore di Montsalvy. Forse così potrai ancora salvarti e Chaffre de Revard guarirà dalla sua pazzia.» «La sua pazzia è come la lebbra, e si chiama avidità. Non potrà guarire. Alzati e raggiungi i tuoi soldati. Non te lo chiederò un'altra volta.» L'uomo obbedì, rassegnato, ma uscì con passo fermo, e subito uno degli uomini di Colin venne a legargli le mani dietro la schiena. «Attento a dove metti i piedi», fu l'unico saluto di Amboise.
Odo non rispose e il mercenario lo spinse in mezzo agli altri prigionieri. I monaci furono contenti di liberarsi anche di loro, quando lasciarono l'ospizio poco dopo la partenza dei soldati, e dopo aver pagato sia l'ospitalità sia il tributo dovuto per il transito. L'ospizio infatti non apparteneva all'abbazia di San Pietro della Novalesa, ma era sorto su terre che facevano parte delle sue rendite e che Lodovico il Pio aveva estorto, due secoli prima. Da allora, ogni abate dell'abbazia si era fatto un punto d'onore nel tentare di riottenere quelle terre, non tanto per l'ospizio, quanto per l'effettivo controllo che esercitava sul valico, e i relativi tributi. I monaci dunque non avevano che scarsi e formali contatti con l'abbazia sottostante, e ignoravano ciò che accadeva nella valle cui il valico dava l'accesso. Amboise e gli altri non ebbero da loro nessun tipo di informazione, nemmeno sulla via da seguire. Tuttavia la mulattiera che scendeva dall'ospizio era più facile, e più ampia rispetto al sentiero dell'altro versante. Li portò prima alla Gran Croce, dove soltanto un paio di capanne indicavano la presenza di uomini, poi per i tornanti in discesa della Gran Scala e fino a un pianoro con due altari di pietra, su ognuno dei quali era alzata una croce, e infine a un villaggio dove una gran pietra ritta segnava il confine con il territorio novalicense. Da quel punto il sentiero si allargava ancora, ma la neve era alta e umida, e li rallentò, tanto che arrivarono alla chiesa di Santa Maria nel complesso abbaziale che era quasi il tramonto. Pennellate di cremisi colavano dal cielo ai monti, mentre un esercito di nuvole nere premeva dal passo e annunciava brutto tempo già per la notte. Il vento si era fatto più forte e l'abbazia, che sorgeva su un'altura abbarbicata alle pendici del monte, circondata da torrenti gelati, sembrava fin troppo esposta tra i boschi nudi e le macchie nere dei bossi rigogliosi che la circondavano. La chiesa di Santa Maria, un'antica cappella con la facciata a capanna, aveva come unico ornamento il portale arcuato, mentre l'abside era quadrata e con il tetto spiovente, ingigantito da cumuli di neve. Un ricovero piuttosto vicino alla chiesa si allungava costeggiando il sentiero e un basso muro di pietre. Oltre quel punto un'alta croce di pietre e calce spuntava dalla neve. Amboise mandò Aurac, l'unico che avevano tenuto con loro, ad avvertire l'abate al convento, più in alto rispetto a dove si trovavano, e si diresse deciso verso il ricovero. La porta, com'era d'uso, era appena accostata, e all'interno ardeva un buon fuoco sebbene non ci fosse nessuno a goderne.
Da quella prima stanza, dove c'erano un tavolo e alcune panche, si apriva un passaggio su cui si affacciavano diverse cellette, tutte buie. «A quanto pare conosci bene questo posto», commentò Colin, apprezzando il calore del fuoco e servendosi del formaggio e del pane di segala lasciato in un cesto sul tavolo. «Sono ospitali, da queste parti!» aggiunse poi, con la bocca piena. «Sì, lo sono. Chiunque può smarrire i sentieri che corrono tra i mondi e aver bisogno di aiuto.» «Che corrono tra i mondi?» esclamò Colin. «Questi sono gli usi della valle. Come nella notte di Ognissanti, quando viene imbandita la tavola, perché la porta tra i mondi è aperta e i morti della famiglia tornano per consumare la cena.» «Questo si faceva anche nel paese dove io sono nato, prima della carestia», rispose il mercenario. «Poi la gente non aveva più niente da mettere in tavola, nemmeno per i vivi.» «Adelaisa dovrà fermarsi qui, ma le porteranno altre provviste e altre coperte e accenderanno il fuoco anche nella cella dove sceglierà di dormire», aggiunse Amboise. «Perché soltanto Adelaisa?» esclamò l'altro, intento a seguire con lo sguardo Illait, che, indifferente al loro dialogo, se ne andava per la stanza, sfiorando le vecchie mura di pietra. «Perché io non posso oltrepassare quella croce là fuori», intervenne la giovane. «Nessuna donna può entrare nell'abbazia. È la regola da quando è stata fondata: le donne vengono ospitate in questo luogo e la chiesa di Santa Maria è l'unica in cui possono pregare.» «Vescovi, vicari e diaconi hanno mogli e concubine. Mi è capitato di rado di vederne uno che non godesse nel portarsele a letto e nel mostrarle in pubblico con i figli», borbottò Colin. «Qui è diverso. È una regola antica, e sempre rispettata.» «Si racconta», disse Adelaisa, «che la moglie di Carlo Magno fu così curiosa da tentare di raggiungere la chiesa di San Pietro, quella più in alto, di notte, mentre il suo re era ospite nell'abbazia. A quanto si dice, morì non appena toccata la soglia della chiesa, e sarebbe proprio lei a essere sepolta sotto quella croce che segna il punto da non oltrepassare.» «E tu ci credi?» mormorò Colin. «I vecchi raccontano storie che hanno sentito dai vecchi, i quali le hanno sentite dai loro vecchi. Chissà. Qualche volte ascoltiamo parole così antiche e così cambiate da non comprenderle più.»
«Non possiamo lasciare qui Adelaisa da sola», ribatté Colin, poco propenso a farsi intimorire. «La mia presenza potrebbe offendere l'abate», intervenne Illait. «Rimarrò qui anch'io, a meno che non sia lui a ordinarmi di salire al convento. La dama non sarà sola.» «Allora non eri del tutto perso!» commentò Colin. «Rimarrà qui anche Aurac. Potreste aver bisogno dei suoi servizi.» «Nessuna donna corre pericolo qui. Questo è un recinto sacro per tutti», spiegò Amboise, sorridendo dell'animosità del mercenario e della sua evidente gelosia. «Per i cristiani, forse», ribatté Colin. Illait lo ignorò, sedendo su una delle panche, con gli occhi chiusi e le braccia conserte. Di lì a poco tornò Aurac, seguito da due giovani monaci che portavano un cesto di provviste, coperte e abiti pesanti e asciutti. Si occuparono di accendere il fuoco nei bracieri delle celle e, quando Amboise ordinò a Colin di accompagnarlo, si disposero a guidarli. Colin obbedì a malincuore. Già cadeva qualche fiocco di neve, ed era notte fonda. Si sentivano i lupi, molto vicini, e Colin rimpianse di aver lasciato la balestra sul tavolo. Nonostante le mani fasciate, si sarebbe sentito più sicuro con la sua arma. Gezone li accolse a braccia aperte. Era un uomo alto e vigoroso, dell'età di Amboise, con una folta capigliatura grigia e occhi scuri, acuti e attenti; li ricevette nel parlatorio del convento e abbracciò Amboise come se fosse stato un fratello. «Ti aspettavo!» esclamò. «Troppi stanno parlando di te in questi giorni, amico mio...» Fece quindi cenno al giovane monaco che lo accompagnava di farsi avanti. Questi era appena un ragazzo, e aveva l'aria attenta di chi tenta di non farsi sfuggire nulla, sia pure correndo il rischio non indifferente di farsi notare. «Ti ricordi di Ingo? Era appena un fanciullo, quando l'hai visto l'ultima volta. Ora è diventato il Custode della Seconda Porta e il mio braccio destro. Un giorno riuscirà a scrivere la storia di questo luogo, di come lo abbiamo fatto risorgere dopo la devastazione dei saraceni. E chi è il giovane che ti accompagna?» «È il capitano Colin Bois. Un giovane di coraggio.» «Un mercenario», mormorò Gezone, e un'ombra, lieve come una nube
estiva davanti al sole, gli passò negli occhi. Suo malgrado, Colin abbassò i propri. «Un amico», lo corresse Amboise, e il suo tono non lasciava spazio ad altre domande. «Benvenuto», lo accolse allora Gezone. Colin abbassò il capo. Era la prima volta che qualcuno si faceva garante di lui e delle sue azioni, di quello che aveva fatto e di quello che avrebbe potuto fare. Quel fatto lo turbò profondamente. Si avviarono verso le stanze dell'abate, dove Ingo avrebbe servito loro la cena. Sebbene Gezone, di solito, mangiasse da solo, nella sua cella, aveva comunque una stanza attigua dove riceveva gli ospiti di riguardo, ed era lì che aveva fatto preparare non appena Aurac gli aveva portato la notizia del loro arrivo. Era un luogo sobrio, ma illuminato dalle candele, e con un buon fuoco nel camino. A parte il tavolo, due panche e un leggio che ospitava un libro aperto, non c'era altro. «Sei ferito, capitano?» chiese Gezone, non appena si furono accomodati. Colin si guardò le mani ancora fasciate. «Niente di grave», rispose. «Sono stato ben curato.» «Ah, lo credo. Il nostro Amboise ha fama di essere il più abile medico d'occidente, e molti re si chiedono perché non abbia mai ceduto alle loro offerte e continui a preferire i sentieri pericolosi che lo portano in giro per il mondo.» «Veramente sono stato curato da una dama», lo corresse Colin, e l'abate guardò Amboise di sottecchi, lasciando al giovane la sensazione che quella dama non gli fosse sconosciuta. «Non corre pericolo là dove l'abbiamo lasciata, non è vero?» aggiunse Colin. «Questo nostro giovane capitano prende molto a cuore il suo compito!» esclamò Gezone con un sorriso. «È assolutamente al sicuro. Il recinto dell'abbazia è sacro. Ci sono forze molto potenti, qui.» «Forze cristiane?» Gezone rimase in silenzio. Poi, mentre Ingo serviva la zuppa di fave, si raccolse in preghiera prima di mangiare. Amboise mantenne un atteggiamento raccolto e Colin cercò d'imitarlo. Non giungeva nella stanza alcun suono, se non a tratti il respiro del vento che si intrufolava da aperture invisibili. Sulla parete in cui presumibilmente ci doveva essere una finestra era stata sistemata una pesante tenda, di certo per trattenere il freddo. La tenda era di buon tessuto, scura, e la luce
guizzante del fuoco creava tra le sue pieghe la figura di un drago. Colin distolse lo sguardo. Doveva aver sognato. L'abate concluse la preghiera e, vedendolo ancora assorto, lo invitò a mangiare. «Le forze di questo luogo non sono cristiane. Non ancora, almeno, o non del tutto», gli rispose infine Gezone. «Questo luogo era già sacro quando il nostro amato fondatore Abbone lo scelse tre secoli fa», continuò. «Lo erano i boschi, le pietre, le acque, le montagne. Abbiamo dovuto lottare a lungo e ancora lottiamo per portare la nostra gente a dimenticare quei simboli e ad accettare quelli cristiani, ma tutta la valle è colma di queste forze e quando noi pensiamo di averle sbaragliate, o di averle messe a tacere, mutando il loro nome e facendole diventare cristiane, ecco che rispuntano. I Monti sono sacri alla luna e ne portano il nome; a primavera le acque ricevono omaggi di rami fioriti; le ragazze legano nastri colorati alle statue della Vergine e la tavola viene imbandita per i morti nella notte di Ognissanti. C'è una gran confusione nel cuore della gente... Nessuno in sincerità può dire se la propria preghiera è del tutto cristiana.» «Ma non si tratta del culto portato dai romani», intervenne Amboise. «No. Quello dei conquistatori romani si è soltanto adagiato su quello antico, senza nemmeno scalfirlo. I romani non sono mai stati realmente padroni di questi luoghi. Servivano loro per passare, ma niente di più. Tuttavia noi riusciremo a imporci, con il tempo. Già siamo riusciti a mutare il culto delle Tre Dee con quello delle Tre Marie, e ogni anno esorcizziamo con una processione fino alla sua cima il Roc Maol, la montagna sacra, la più alta della valle, per spegnerne il culto di cui gode presso la gente. Tuttavia a febbraio, con la Candelora, nella valle si festeggerà Imbole, e la notte di Natale ti saresti stupito nel vedere quante candele erano state accese sui rami degli alberi, per segnare una via di luce alla rinascita del sole...» «Non puoi cancellare come se fosse un segno sbagliato su una pergamena ciò che sta scritto nell'anima antica di una stirpe. Quell'anima è universale ed eterna. E non sarebbe giusto», ribatté Amboise. «Amico mio, chi siamo noi per interrogarci su ciò che è giusto e ciò che non lo è, quando è già stato deciso?» lo riprese l'abate. Amboise non rispose; non voleva lasciarsi trascinare da Gezone in una disquisizione teologica che, conoscendo le capacità oratorie dell'abate e la tendenza da parte sua a non darsi per vinto, si sarebbe protratta per l'intera notte.
Gezone, non nascondendo la sua sorpresa per il silenzio di Amboise, si rivolse quindi a Colin. «Ma sono soprattutto i giovani impetuosi che credono di aver perduto Dio, o di non averlo mai trovato, a essere in pericolo. Chi possiede una fede è forte, qualunque sia la sua fede; chi non ne ha è... perduto.» «Quanto hai detto suonerebbe sospetto a molti orecchi», lo ammonì Amboise. «Lo so, ma non ai tuoi. Mi piacerebbe molto parlare con quel giovane pagano che ti accompagna. Si dice che abbia grandi poteri.» «Che cosa e quanto si dice?» Gezone scosse il capo. «Sei in pericolo, amico mio, e così tutti quelli che ti accompagnano o che ti daranno asilo. Temo che, questa volta, tu stia rischiando più di quanto puoi permetterti. Uomini di Odo di Chambéry, in nome del vescovo Chaffre de Revard, hanno portato notizie di voi e ora saranno già oltre Susa. C'è una ricompensa per chi vi cattura o vi denuncia: la libertà e un fondo, per gli schiavi; la ricchezza e l'indulgenza, per gli uomini liberi. È tanto, per tutti, in questo tempo di paura e di carestia. E per chi vi aiuta c'è soltanto il rogo, senza processo. Nemmeno i morrons o i cacciatori di lupi o i predoni delle maresche a fondovalle oseranno farlo.» «Che mi dici degli inviati del vescovo di Milano?» «Si trovano a Susa, a stringere accordi con Bosone e con suo fratello Guido, in effetti non molto devoti al loro marchese Olderico. E, dopo l'agguato andato a vuoto ad Annecy, questa volta non vorranno correre rischi.» «Questo lo credo», mormorò Amboise. «Quanto rischia l'abbazia nell'ospitarci?» «Nulla, per il momento. Né Azzago né Chaffre hanno potere qui, e nemmeno il tuo Olderico. Ma a Ognissanti è stato scorto un drago che veniva dal cielo d'occidente; era così luminoso che tutta la notte ne era rischiarata... Questo è un segno terribile e avrà il suo peso.» «Ma il Tempo non è finito», ribatté Amboise. «Che ne sai, tu, di come vengono contati in cielo gli anni della Terra? Nemmeno noi li contiamo allo stesso modo del nostro vicino!» Amboise scosse il capo; quello era un altro argomento caro all'amico Gezone, che insisteva per uniformare fra le terre confinanti almeno la celebrazione dei grandi eventi quali il Natale, la Pasqua, la Pentecoste e l'inizio dell'anno. «Non vuoi vedere gli ultimi libri che ho ritrovato?» gli offrì Gezone, per
allentare il nervosismo che si era creato. «Uno è di Atteperto e lo credevamo perduto! Era stato nascosto a Susa per salvarlo dai saraceni: quel bifolco di Bosone neanche lo sapeva!» Gli occhi di Gezone adesso brillavano; nemmeno nell'augurarsi la scomparsa dell'antico culto avevano avuto tanto entusiasmo. Colin se ne stupì. Non aveva mai pensato che alcuni segni tracciati da uomini potessero svegliare la passione in un altro uomo. Ma si rassegnò a seguire Gezone e Amboise, quando Ingo fece loro strada verso la biblioteca, tenendo alto davanti a sé un candelabro. Il corridoio che conduceva alla biblioteca era stretto e gelido: era evidente che era stato costruito fortunosamente per unire i due edifici. Ma i due vecchi amici, che parlottavano fittamente tra loro, non sembravano dar peso alla temperatura rigida, tanta era la comunione di interessi e l'intesa che scorreva dall'uno all'altro. Arrivando davanti alla porta della biblioteca, dove lavorava per molte ore al giorno copiando i testi antichi, Ingo tuttavia si fermò, incerto. Ne veniva il suono di un'arpa e la musica aveva un ritmo vivace. Gezone e Amboise si guardarono. «Non temere, Ingo», disse quindi l'abate. «Apri.» Il giovane obbedì, esitando, e si fece da parte, tendendo soltanto il braccio con il candelabro per illuminare la soglia. Ma la stanza era già illuminata da alcune candele. Non era molto grande e appariva ingombra di tavoli da lavoro e di cassepanche dove i libri e i rotoli di pergamena erano riposti con cura. Era satura dell'odore degli inchiostri e di quello della polvere, nonché di un sentore particolare e indefinibile che tuttavia penetrava nel profondo dell'anima. Accanto al primo tavolo, in parte seduto e in parte appoggiato all'alta sedia dell'amanuense, c'era Illait di Isley. Aveva tra le braccia una piccola arpa, rozza di fattura e molto vecchia, ma con un buon suono, che le sue dita non faticavano a esaltare. All'ingresso dell'abate il giovane sollevò il capo e sorrise; gli occhi azzurri s'illuminarono. Amboise trattenne Colin, che si era fatto avanti, posandogli una mano sulla spalla; al suo sguardo interrogativo, scosse il capo ordinandogli di tacere. Gezone entrò per primo e Illait di Isley smise di suonare, ma la vibrazione dell'ultima nota restò sospesa nell'aria, intensa, toccando le fiammelle delle candele, che si venarono d'azzurro.
«Benvenuto», mormorò l'abate. «So che mi vuoi parlare», rispose il giovane. Gezone assentì appena, osservando come teneva l'arpa. Dovevano essere almeno dieci secoli che nessuno traeva musica da quello strumento. «Vedo che ti piace la nostra arpa», osservò quindi. «È un buono strumento.» «È molta antica. Fu trovata su uno dei tanti sentieri che portano alla cima del Monte Sacro, molto tempo fa, prima ancora delle scorrerie dei saraceni.» «Perdonami se ho osato prenderla. Era da tanto che non suonavo. Ne avevo voglia.» Gezone sorrise; il tono del giovane era stato gentile e sincero. «Hai bellissimi libri, qui», aggiunse Illait. «Tu leggi il greco?» si stupì Gezone. «Sì, certo. Perché volevi parlarmi?» Gezone scosse il capo. «Ho sempre desiderio di parlare con le persone colte, per apprendere le tante cose che non conosco.» «In ciò che hai detto una parte è verità e una parte è menzogna.» «No!» protestò Gezone. Illait sfiorò il libro aperto sul tavolo; proprio quello di cui Gezone aveva parlato ad Amboise e che li aveva condotti lì. «Con la stessa facilità, le parole possono essere sincere oppure colme di menzogna», mormorò il giovane. «È con le parole che ci imprigionano, costruendo mura tanto alte da toccare la luna. Così l'anima e la mente rimangono chiuse nell'involucro della carne e non vedono più l'Albero del Mondo, né sanno più leggere il tempo nelle pietre e nel vento, né possono parlare agli alberi e alle nuvole. Ogni uomo è solo, isolato e avvelenato dalla paura, e non può che riversare il proprio veleno, contaminando le pietre e il vento, gli alberi e le nuvole, fino a quando anche la madre Terra non ne morirà soffocata. È questo che fanno gli uomini e che faranno per altri mille anni, con le parole.» «Questa... profezia è tua?» Gezone era pallido e tuttavia ammirevolmente composto. «No. Sono gli stessi uomini a scriverla, già da molto tempo.» L'abate era profondamente turbato. «Sei un nemico, per la mia fede e per questo luogo», mormorò. «Anche la tua fede è luce e amore, e tutte le fedi non sono che diversi aspetti della medesima Armonia. Sono soltanto gli uomini a renderle di-
verse, per i loro interessi. Nel luogo da cui vengo, la fede antica e quella nuova si colmavano l'un l'altra con gioia, prima che qualche piccolo uomo egoista, da una parte e dall'altra, cominciasse a parlare di guadagni e di potere.» «Non posso darti ragione.» «Lo so.» «È meglio se noi ci ritiriamo, ora», lo avvertì Gezone. «Certo», rispose semplicemente Illait, chinando il capo. Gezone fece cenno agli altri di arretrare, senza girarsi, e lui stesso richiuse la porta. Poi, in silenzio e a passo spedito, Ingo li riportò nella stanza dove avevano cenato. La fiamma nel camino era ancora alta e Gezone vi si appressò, scosso. Amboise versò a lui e a Ingo una tazza di vino; fece cenno al ragazzo di bere e portò personalmente all'abate l'altra tazza. Gezone sollevò gli occhi verso di lui. «Pensi quello che anch'io sto pensando?» gli chiese. Amboise annuì. «Torno al ricovero», s'intromise Colin, prendendo il mantello dalla panca su cui lo aveva lasciato. «Non voglio lasciare solo Aurac a vegliare su Adelaisa.» «Credo che avrai una sorpresa, Colin, ma va' pure», disse Amboise. «Prendi una torcia, comunque.» Colin chinò appena il capo all'indirizzo dell'abate, che tuttavia non parve accorgersi di lui. Il monaco guardiano lo accompagnò per un breve tratto; nevicava a larghe falde, e anche il sentiero che i monaci di solito tenevano sgombro era ormai ricoperto. I bossi giganteschi che circondavano come un recinto l'area dell'abbazia avevano l'aspetto di enormi draghi bianchi addormentati. Colin ebbe un moto di stizza. Tutte le storie che stava ascoltando cominciavano a dargli alla testa; occuparsi di cose che un mercenario non era in grado di capire serviva soltanto a mettere a rischio la sua vita. Quei pensieri potevano andare bene per l'abate, che aveva il tempo per pensarli, ma non per lui, che doveva combattere e reagire con prontezza in ogni situazione. Spinse la porta del ricovero, lasciando la torcia nell'incavo tra le pietre a lato della soglia, e rimase immobile, incurante della neve che stava portando all'interno. Adelaisa doveva essere andata a dormire, e Aurac stesso stava dormendo
accanto alla porta, avvolto in una coperta. Invece, davanti al camino, Illait di Isley stava parlando con un ometto minuto, dalla pelle scura. Entrambi si girarono verso la porta spalancata, sorpresi. Illait aveva gli abiti e gli stivali perfettamente asciutti. XI Colin chiuse la porta dietro di sé, scrollandosi di dosso il mantello pieno di neve, ma non distolse gli occhi da Illait, quasi temesse di vederlo sparire. Senza dargli le spalle, raggiunse il passaggio: nel braciere della prima cella ardeva il fuoco, e Adelaisa stava dormendo nel giaciglio, avvolta nelle coperte. Pareva tranquilla e l'ombra di un sorriso le sfiorava le labbra. Rassicurato, Colin tornò nella stanza. «Che cosa c'è?» lo interrogò Illait con aria innocente. «Da quanto sei qui?» ribatté Colin. «Sono sempre stato qui. Chiedilo a lui!» E fece un cenno verso l'uomo scuro che adesso guardava entrambi con un sorriso perplesso sulle labbra sottili. «E chi diavolo è?» «Un servo dell'abbazia. Si chiama Munir, però loro lo chiamano Sarazin. È uno dei tanti bastardi lasciati dalle scorrerie dei saraceni.» «Ma io sono un buon cristiano!» lo interruppe l'uomo. «Mio padre era un pagano! Mia madre, però, aveva dodici anni quando sono nato, e non sapeva chi fosse mio padre, così mi hanno lasciato alla porta dell'abbazia. I monaci mi hanno cresciuto come un buon servo e un buon cristiano...» Colin lasciò correre lo sguardo dall'uno all'altro: tra il piccolo uomo scuro che portava scritto in volto il suo destino, e il giovane biondo che lo nascondeva tanto facilmente, in realtà non correva che il filo sottile dell'apparenza. I due gli sembrarono complici, alleati contro di lui. «Tu eri in biblioteca con me, con Amboise e con l'abate!» disse allora, puntando un dito contro Illait. «No. Io ero qui. Perché adesso non ti calmi e non ti siedi accanto al fuoco?» C'era una specie di allegria, di luce danzante negli occhi azzurri del giovane, e lo sconcerto di Colin si attenuò. Trascinò una panca a ridosso del fuoco e vi si sedette a cavalcioni, versandosi poi una tazza di avanale, il buon vino della valle.
«Come avrei potuto lasciare la nostra bella amica da sola?» aggiunse Illait e, senza dargli il tempo di rispondere, si volse all'uomo. «Munir mi stava dicendo che la sera di Ognissanti anche qui è stato visto il Drago, nel cielo d'occidente.» «Tutti l'hanno visto, e così io sapevo che saresti venuto! Anche la vecchia Petronilla, la vedova del borgo che sa raccontare tante cose, lo sapeva. L'anima del Drago sta per toccarci, così ha detto!» esclamò l'uomo. «Ma poi il buon padre mi ha fatto dire da uno dei monaci che non dovevo più parlarne né ascoltare quella vecchia.» «L'abate Gezone», spiegò Illait. «Munir lo chiama il 'buon padre'.» «L'abate ha sostenuto che gli uomini di Odo hanno offerto un buon premio per chi ci cattura», lo informò Colin. «Munir mi ha detto anche questo.» «Non sarà facile vedere il fondo di questa valle», borbottò il mercenario, assaporando finalmente il benessere del fuoco e del vino. «Ma io ti farò da guida!» si offrì Munir. «Il buon padre mi darà il permesso e io ti porterò dove nemmeno gli uomini delle maresche osano entrare: dove c'è il Drago che dorme!» Illait si strinse nelle spalle, quietando sul nascere la reazione del mercenario. «Devi essere paziente con lui, Colin», gli mormorò. «È un uomo semplice, cresciuto nella paura e nel rimorso per qualcosa che è stato commesso da altri; a lui si chiede soltanto espiazione. Il suo cuore è sincero. E poi conosco il posto di cui sta parlando... Amboise non te l'ha detto? Sono già fuggito una volta da Chambéry e sono stato ripreso proprio nell'Orrido del Drago.» «Un buon motivo per non tornarci!» «Non ci andremo, infatti, a meno che non sia davvero necessario. Ora va' a dormire, Munir. Domani saremo ancora qui.» L'uomo obbedì a malincuore, ma era evidente che non poteva farne a meno, perché obbedire era l'unica cosa che gli era stata insegnata. Si mise la coperta sulle spalle e se ne andò, chiudendo con cura la porta. «Dove dorme?» chiese Colin. «Nella cucina, con i cani, quando è fortunato», mormorò Illait. D'un tratto a Colin sembrò che i suoi occhi avessero perso quell'aria malinconica e divertita che ne mitigava la durezza e che il giovane fosse pronto a compiere chissà quale prodigio. Invece Illait si coprì il viso con entrambe le mani e rimase immobile, come se la stanchezza lo avesse sopraffatto. «È il momento di separarci»,
disse infine. «Se prendo un'altra strada, tu potrai portare Amboise e Adelaisa alla loro meta.» «Amboise non lo permetterebbe, e comunque è troppo tardi. Adesso voglio soltanto dormire.» «La conversazione dell'abate è stata tanto noiosa?» domandò Illait. «Dovresti saperlo, visto che c'eri!» sibilò Colin, stendendosi sulla panca e avvolgendosi in una coperta. S'impose di ignorare qualunque cosa avesse fatto Illait di Isley, fintanto che non passava la porta della cella in cui Adelaisa dormiva. Ma il giovane si limitò ad aggiungere un grosso ceppo nel camino e si distese a sua volta sull'altra panca. Un istante dopo, Colin dormiva. Si svegliò con la sensazione che fosse passato appena un soffio da quando si era addormentato, ma un gradevole calore lo avvolgeva e non avrebbe voluto lasciare quel benessere. Tuttavia qualcuno lo stava guardando. E lo faceva con l'intensità che soltanto i gatti mettono nel proprio sguardo, tanto che lo costrinse ad aprire gli occhi. L'ometto scuro che Illait aveva chiamato Munir gli stava accovacciato vicino, e Colin scoprì di trovarsi in una delle celle, in un giaciglio, avvolto nelle coperte e vicino a due bracieri in cui ardeva il fuoco. «Perdonami per averti svegliato!» biascicò l'ometto. «Che ci faccio qui?» chiese Colin. «È stato il signore dai capelli gialli a portarti qui non appena ti sei addormentato. La tua dama aveva detto che, per le tue ferite, dovevi stare comodo e al caldo.» «Non è la mia dama!» mormorò Colin, ma l'ometto sorrise indulgente e un po' imbarazzato, come se fosse costretto ad accettare una bugia. «Che vuoi da me?» borbottò il mercenario, seccato per essere stato messo a letto come un bambino proprio da Illait di Isley. «Devi seguirmi», rispose Munir. «Ci sono molti lupi sulle rive del Cenischia e il buon padre ha saputo che tu sei molto bravo con la balestra. Puoi aiutarci a uccidere il capobranco, che i cacciatori del borgo non riescono a prendere. Senza il capobranco, per un po' gli altri lupi non si spingeranno fino alle stalle.» «Chissà chi glielo ha detto, al tuo buon padre», bofonchiò Colin, alzandosi a malincuore e infilandosi la giubba pesante con un certo sforzo. Alcourt prima o poi dovrà pentirsi per quello che mi ha fatto! pensò, seguendo Munir nell'altra stanza. Era vuota.
«Sono andati tutti al torrente», spiegò Munir, stringendosi nelle spalle, come se fosse stata una sua colpa. Colin non gli diede retta; si allacciò il pugnale alla cintura, prese la balestra e uscì. Nonostante la gran quantità di neve caduta nella notte, il mattino era sereno, con appena qualche nuvola che si allontanava verso la valle; le cime dei monti incombenti e la bella piramide del Roc Maol svettavano sull'azzurro pallido del cielo. La vista poteva spaziare lontano, su tutta la lunga vallata, bruna di boschi fittissimi e spogli, bianca di neve e accesa dai riflessi delle maresche, brillanti al sole come specchi infranti. Al di là del punto in cui i monti si avvicinavano, chiudendo la valle, si stendeva la piana di Torino. Ma era lontanissima. Munir tese il braccio a indicare i tetti del borgo, più in alto rispetto all'abbazia, e il tratto di torrente tra l'abbazia e il borgo stesso. «Là!» gridò. «Sono laggiù!» Colin s'incamminò. Scorse alcuni monaci che gesticolavano sulla sponda del torrente e riconobbe Aurac, accovacciato nella neve, intento a studiare le tracce degli animali. Appena più in basso, Adelaisa e Illait stavano salendo verso la riva. Sull'altra sponda, su una cresta di ghiaccio, Colin distinse per un attimo l'ombra rapida di un lupo in corsa. Allungò il passo, affondando nella neve fin oltre il ginocchio, per raggiungere Adelaisa prima che arrivasse al torrente. Munir, ben più leggero e veloce, lo precedeva, saltellando come un folletto. Colin arrancò per l'ultimo tratto, finché non arrivò ad afferrare Adelaisa per un braccio. «Questa non è una cosa da donne!» disse, trattenendola. «E quali sono le cose da donne, capitano?» ribatté lei, liberandosi con uno strattone. Il giovane capitano comprese di aver sbagliato sia le parole sia il tono e cercò l'aiuto di Illait, che si era fermato a sua volta, girandosi a guardarli; ma il giovane era impassibile e sembrava determinato a non intervenire. «Vieni a caccia con me», lo invitò Colin, ignorando la domanda di Adelaisa. Non era un invito che faceva sovente o a chicchessia. Illait scosse il capo. «Non vado mai a caccia», rispose. «Non uccidere i lupi, Colin!» intervenne Adelaisa. «Che t'importa di qualche lupo che fa danno nelle stalle e alle greggi?» sbottò il giovane, meravigliato, non riuscendo a comprendere il motivo di quella richiesta. «Diglielo tu, Illait. Non lasciare che li uccida!» ripeté Adelaisa.
«Saranno uccisi comunque, se non da lui da qualche altro cacciatore. E nessuno può impedirlo», mormorò Illait, rassegnato. «E che cosa vorresti farci, con i lupi?» chiese Colin, incuriosito. Adelaisa non rispose. Aveva ancora in mente Illait, accovacciato nella neve e circondato dai lupi che gli stavano attorno, docili come cani. Quella comunione di gesti, quell'affinità, l'aveva meravigliata e commossa. Tuttavia non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con il signore di Montsalvy, e si era domandata se non fosse stato soltanto un sogno. Ma sapeva di non aver sognato. «Attento al capobranco», lo avvertì Illait. «Non vede dall'occhio destro, per una vecchia ferita. Se ti accosti da quella parte, potrai arrivargli vicino.» «Grazie.» Colin apprezzò il suggerimento, ma evitò di chiedere come facesse a saperlo. «E adesso riporta al sicuro la nostra dama!» A quel «nostra», Adelaisa non poté fare a meno di sorridere. «Perché non lo impedisci?» disse quindi la giovane a voce così bassa che soltanto Illait la sentì. «Pensavo fossi amico dei lupi!» «Credi possibile che un uomo sia amico degli animali selvatici?» «Non lo credevo, però ti ho visto, e devo dar fede ai miei occhi.» Il sorriso di Illait divenne triste. «Loro sono come me: il nostro destino è sparire. Dimentica quello che hai visto.» «No», mormorò Adelaisa. «Non chiedermi di farlo.» Illait la prese per mano e s'incamminarono per tornare al ricovero delle donne. Stavano bene insieme, e sembrava che avessero sempre qualcosa da dirsi, osservò Colin, guardandoli per un momento. Poi raggiunse Aurac e mandò via anche i monaci. Tra loro c'era il giovane Ingo, che obbedì a malincuore. Munir sembrava sparito. Il sole era già alto quando Colin riuscì ad abbattere il capobranco, avvicinandosi da destra, sottovento. Il lupo, enorme e quasi completamente nero, se ne stava accucciato su di una roccia e non lo vide, se non quando era ormai troppo tardi per spiccare il balzo e fuggire o girarsi e dare battaglia. La corta freccia lo prese al collo, dandogli una morte immediata, e a Colin sembrò giusto che gli fosse risparmiata la sofferenza dell'agonia. Il resto del branco si disperse più in alto, e Colin lasciò agli uomini del borgo e ad Aurac il compito di proseguire la battuta. Quando tornò al ricovero era passata da poco l'ora sesta e il cielo era di nuovo coperto; l'aria umida prometteva ancora neve.
Trovò Adelaisa imbronciata accanto al camino, con Munir che faceva le veci di un cane da compagnia, accoccolato davanti alla porta. L'abate Gezone aveva mandato a prendere Illait per mostrargli la biblioteca e un'arpa antica che certamente gli avrebbe fatto piacere suonare. Così la giovane donna era rimasta da sola, senz'altro da fare se non riposarsi. Colin non le disse che lui aveva già visto Illait di Isley nella biblioteca e che lo aveva sentito suonare proprio quell'arpa. Forse Amboise prima o poi avrebbe saputo spiegargli quello che era accaduto. «È affascinante starlo ad ascoltare!» mormorò Gezone all'orecchio di Amboise, non appena lo raggiunse in biblioteca. Illait di Isley stava osservando alcuni tra i rotoli più rari dell'intera raccolta, e apparentemente non prestava loro ascolto. «Anche Chaffre de Revard lo dice», commentò Amboise. «Non posso credere che l'abate di Cluny glielo abbia affidato così, senza cautele. Il suo potere è grande.» «E non è per gli uomini di questo tempo, tutti presi a inseguire la ricchezza e il dominio, e pieni di paure. Lo so.» «Che cosa vuoi fare di lui?» mormorò Gezone. «Aiutarlo a rimanere vivo, se posso. Il suo re l'ha venduto alla Chiesa, l'abate di Cluny ha cercato di convertirlo, Chaffre de Revard lo ha tenuto segregato, l'ha fatto torturare e ha bruciato sul rogo sua sorella. In questo mondo non c'è stato molto per Illait di Isley, fino a ora, e tuttavia lui ama ancora la vita: è questi che cercherò di offrirgli, se mai arriveremo alla fine del viaggio.» Gezone assentì tristemente. «Non è un'impresa facile quella che ti proponi; inoltre, se ne uscirai vivo, dovrai difenderti. Questa volta neanche la stima che i molti re e lo stesso papa Silvestro hanno nei tuoi confronti basterà a metterti al riparo dalle accuse che Chaffre de Revard muoverà contro di te. L'unica cosa che puoi fare per attenuare le conseguenze della tua azione è persuaderlo a convertirsi.» «Questa è proprio l'unica cosa che non farò mai, e tu lo sai!» «Ti accuseranno di non essere un buon cristiano.» «Sono un uomo libero. Non farò ad altri quello che non sopporterei venisse fatto a me.» Gezone scosse il capo. «Certe volte, e con tutta la mia buona volontà, Amboise, non ti capisco. Se tutti ragionassero come te, il mondo sarebbe ancora nelle tenebre più profonde.»
«Non vedo luce nemmeno in questo mondo, amico mio. Uomini potenti e astuti impongono la loro volontà su ciò che diciamo e pensiamo e ci indicano chi dobbiamo pregare. È di questo che ho davvero paura, Gezone.» «Non posso che rattristarmi. Da un lato, vorrei che questo giovane, le cui parole mi trasmettono una serenità profonda, rimanesse con noi ad arricchirci del suo sapere... Dall'altro, però, ne ho paura, perché quel sapere potrebbe cambiare la verità e la sicurezza su cui abbiamo forgiato la nostra esistenza. Noi non siamo più in grado di vedere quello che lui vede e dobbiamo perciò continuare a crescere con quello che noi vediamo, riponendo ogni speranza nella fede, anche se siamo stretti tra mura che si alzeranno fino alla luna.» «Ricordatene, quando sarai chiamato per dare il tuo giudizio su di me e su di lui; e perdonaci quando sarai punito per l'aiuto che ci hai dato.» «Non sarà per questo che avrò rimorso.» «Sei sempre stato un uomo onesto e coraggioso, Gezone.» «Non abbastanza, amico mio. A differenza di te, non sono e non mi sento un uomo libero. Anzi, avrei paura, se lo fossi.» Nella penombra della biblioteca, le uniche cose che si scorgevano del giovane erano la testa bionda e le belle mani dalle lunghe dita che sfioravano i segni tracciati sui rotoli di pergamena che Ingo gli apriva. Con la stessa facilità, le parole possono essere sincere oppure colme di menzogna. È con le parole che ci imprigionano, costruendo mura tanto alte da toccare la luna. Questo aveva detto Illait. Quando? pensò Gezone. O forse era stato un sogno e avevano semplicemente immaginato ciò che adesso vedevano... Ma questa sarebbe stata una scusa adeguata? Avrebbe potuto essere una giustificazione convincente? XII Era il terzo giorno quando gli uomini di Colin, guidati da Bert La Salle, si presentarono al ricovero poco prima che facesse notte, stanchi e sofferenti per il freddo. Colin ascoltò il racconto di Bert: avevano portato Odo di Chambéry e i suoi soldati a Bramans, affidandoli a Meritrieux, ed erano subito tornati indietro, accompagnati dalle minacce di Odo e dalla promessa della punizione divina. Alla fine, quando Bert tacque, Colin si rese conto di non ave-
re argomenti per tranquillizzare lui e i suoi uomini. Non poteva assicurare loro la fine dei pericoli né allontanare lo spettro del rogo, un destino che poteva toccare a tutti, magari addirittura il giorno seguente. Così gli uomini accolsero di buon grado un posto accanto al camino, le coperte e il cibo caldo, ma non riuscirono a vincere la loro inquietudine, che nulla aveva a che fare con la stanchezza. Altre volte erano stati esausti e affamati: Colin li conosceva bene. Ciò che tentavano di nascondere in quel momento era un'altra cosa e si chiamava paura. Non era ancora giorno quando Munir s'intrufolò nel ricovero, precedendo Amboise. Colin, immediatamente sveglio, li raggiunse presso il camino, dove Illait aveva appena aggiunto un altro ceppo. Munir e altri due monaci avevano provviste e cinghie per arrotolare coperte e mantelli, in modo da portarli sulla schiena. «Che cosa succede?» chiese Colin. «Un gruppo di uomini sta salendo da Susa», rispose Amboise, teso e cupo. «La gente del borgo ha visto le torce ed è venuta ad avvertirci. Sono pronti a difenderci, ma, facendolo, si metterebbero contro tutti e nemmeno Gezone potrebbe sostenerli, perché neanche lui può aiutare apertamente Illait. Dobbiamo andare via subito, prima che questo succeda.» «Vado a svegliare Adelaisa», disse Colin e, passando per andare alle celle, strattonò Bert. «Andiamo via subito. Chiama gli altri», gli ordinò. L'uomo si mosse, pronto. Munir, abile e veloce, stava dividendo le provviste e le avvolgeva nelle coperte, stringendo poi il tutto nelle cinghie, mentre gli uomini, mugugnando sottovoce, cominciavano a comprendere che cosa li attendeva. «Dividiamoci», propose Illait. «E facciamo in modo che si sappia. Seguiranno me.» «No! Noi abbiamo bisogno del tuo aiuto, e tu del nostro. Arriveremo al fondo di questa valle insieme», ribatté Amboise, ponendogli con forza tra le braccia il rotolo delle provviste. «E non voglio più sentirne parlare!» aggiunse, duro. Poi si girò verso Colin che stava tornando, seguito da Adelaisa. La giovane aveva nuovamente chiuso i capelli nello stretto cappuccio scuro. Prese il suo rotolo senza fiatare, ma accettò l'aiuto di Colin per sistemarlo sulle spalle. «Munir ci guiderà. Conosce ogni anfratto da qui al fondovalle», annunciò Amboise, non appena tutti furono pronti. «State a non più di un braccio di distanza l'uno dall'altro e non fiatate»,
aggiunse Colin, e uscirono. Munir li guidò per un tratto in salita che girava attorno al complesso abbaziale e si allontanava dal sentiero verso Susa; poi s'inabissarono in un bosco di roveri e di castagni, in cui era quasi ancora notte fonda. A mano a mano che scendevano, la neve si faceva pesante. L'alba si levò grigia, nebbiosa, accompagnata dal respiro dei lupi di cui stavano incrociando le piste. A un certo punto, Munir si fermò. Con un gesto del braccio, Colin ordinò a tutti di trovarsi un riparo e si accovacciò a sua volta dietro un masso. «Che cosa hai sentito?» mormorò. L'ometto scosse il capo. Nella luce incerta, i suoi occhi brillavano di nuovo come quelli di un gatto. «C'è qualcuno!» sussurrò. Dal silenzio giunse il rumore secco di un ramo spezzato e un fruscio di foglie smosse. Nient'altro. Munir avanzò adagio, carponi, e Colin fece cenno agli altri di rimanere immobili. La nebbia inghiottì l'ometto, come se l'avesse divorato. Colin aspettò ancora, con la balestra pronta, lo sguardo fisso sul nulla biancastro e gelido che li attanagliava. Finalmente, più simile a un sospiro che a un richiamo, arrivò il segnale di Munir. Il giovane capitano ordinò agli uomini di precederlo e li osservò passare, muovendosi soltanto quando anche Aurac, che veniva per ultimo, scivolò oltre. C'era qualcosa, in quel bosco fitto, che lo inquietava. Ma forse era semplicemente il riflesso di ciò che provavano i suoi uomini. Di nuovo la paura. Era quasi il tramonto quando si ritrovarono, stanchi e affamati, su un sentiero che correva ancora a una certa altezza; si erano lasciati alle spalle la cima del Roc Maol, ma la montagna su cui si trovavano faceva parte dello stesso massiccio. Entrambe le catene montuose, su un lato e sull'altro della valle, mostravano cime e valloni, dirupi e costoni rocciosi in un intrico che mutava a ogni cambio della luce. La nebbia era diventata una foschia fredda, però il terreno, soltanto chiazzato di neve, dimostrava che quello era il lato esposto a meridione. Munir e lo stesso Illait, a un certo punto del pomeriggio, avevano indicato agli altri la strada più in basso, tra le pendici dei monti e il piano. Era larga più di quattro braccia, e l'avevano costeggiata: con un ramo scendeva verso Susa, mentre con l'altro continuava verso levante, in direzione della lontana piana di Torino. L'avevano tuttavia evitata con cura, proseguendo per l'antica traccia tra i boschi.
Trovarono infine riparo sotto un tetto di roccia spiovente, circondato da grossi massi, in bilico gli uni sugli altri, e coperti dalla rete fitta dei rovi e dal muschio. Erano, quelli, luoghi piuttosto comuni lungo i sentieri, ripari frequentati da chissà quanto tempo, anche se la gente adesso sosteneva che vi accadevano cose terribili e che solo i pazzi o i temerari potevano passarvi la notte. Sul fondo del riparo, non abbastanza pronunciato per essere una vera caverna, scoprirono sabbia fine, resti di piccoli animali e la traccia di un fuoco acceso sempre nello stesso punto. «La tana di un orso», brontolò Bert, fiutando l'aria con fare dubbioso. «Gli orsi non accendono fuochi», gli fece osservare Colin. «È semplicemente il rifugio di quelli che come noi preferiscono usare i vecchi sentieri alti anziché la strada, e devono passarvi la notte», intervenne Amboise. «Schermiamo il fuoco, e accendiamolo.» Gli uomini si diedero da fare e ben presto un graticcio di rami strettamente intrecciati nascose l'ingresso dell'incavo. Dentro, sia pure senza avanzare spazio, trovarono posto tutti. Colin mandò due uomini sui lati del sentiero per il primo turno di guardia e permise agli altri di mangiare. Ognuno aveva il proprio rotolo con le provviste, ma Adelaisa sembrava davvero troppo stanca anche soltanto per consumare un po' di cibo: se ne stava rannicchiata sulla sabbia, avvolta nel mantello, con la testa appoggiata sulla spalla di Illait e gli occhi chiusi. Nemmeno il giovane sembrava propenso a svegliarla per poter mangiare a sua volta. «Deve mangiare», osservò Colin. «Abbiamo camminato tutto il giorno... Se non mangia, domani lei non potrà fare altrettanto, e neanche tu.» «Colin ha ragione», s'intromise Amboise. «Almeno per quanto riguarda Adelaisa. Svegliala.» Suo malgrado, Illait obbedì. La giovane socchiuse gli occhi, pronta a richiuderli se Illait non l'avesse costretta a sollevare un poco la testa. Senza dire una parola, Amboise le porse la sua parte di carne e di focaccia d'avena e Adelaisa la prese di buon grado. Dev'essere abituata a questo genere di cose, pensò Colin. Non ho mai visto una dama accettare senza un lamento tutto quello che lei sta accettando. E non ho mai visto nemmeno una devota dama cristiana stringersi così a un pagano... «Hai l'aria di uno che è geloso, capitano!» gli sussurrò all'orecchio Bert. Colin alzò lo sguardo di scatto e colse l'ombra di un sorriso negli occhi
di Illait: non poteva aver sentito la frase di Bert eppure... «Perché dovrei?» ribatté, ingoiando l'ultimo boccone. «Non lo so. Dimmelo tu, capitano», sogghignò Bert. «Vattene fuori, piuttosto, a vedere se quei due sono ancora svegli e se fanno quello per cui sono pagati.» Continuando a ridacchiare, Bert obbedì. Amboise ordinò che il fuoco fosse ridotto al minimo, poi invitò tutti a riposare. Con una certa fatica, Colin raggiunse Illait e si acquattò accanto ad Adelaisa, che stava ormai riprendendo sonno. Poi, come spinto da un impulso improvviso, chiese al pagano: «Che cosa mi dici di questo posto?» Illait scosse il capo. «In questo luogo ci sono soltanto paura, violenza e desiderio di morte. Quelli che si sono riparati qui non hanno mai avuto altro, nel cuore e nel destino.» «Non dovevo chiedertelo», mormorò Colin. «È la verità. Se guardi in faccia la verità, e la dici, non ti fa più paura», ribatté Illait. «Io non ho mai paura.» Colin sentì gli occhi azzurro vivo fissarsi nei suoi. «Non è vero», fu la risposta, ma le labbra del giovane non si erano mosse. Colin si guardò attorno, eppure nessuno poteva aver sentito quella che era stata soltanto una voce nella sua mente. «Dormiamo», ordinò quindi, non sapendo che altro dire. Illait appoggiò il capo alla roccia e chiuse gli occhi; Colin si sistemò a ridosso del graticcio di frasche, il più lontano possibile da Adelaisa. Era ancora buio quando svegliò Amboise. «Le sentinelle hanno sentito qualcuno. Andiamo via subito, prima che ci possano intrappolare in questo posto.» «Il Drago!» stava dicendo Munir, saltellando in preda all'eccitazione. «Non siamo lontani dal Drago. Io vi guiderò e là saremo al sicuro!» «No, non saremo al sicuro», li avvertì Illait. «Ma di certo soltanto i coraggiosi si spingono là dentro.» «Va bene... Un posto vale l'altro, ora, purché ce ne andiamo», ordinò Colin e, come sempre, gli uomini gli obbedirono subito. Seguendo Munir, abbandonarono il sentiero e salirono lungo le pendici boscose. Il terreno a tratti era roccioso e ancora ghiacciato, mentre pennellate di luce grigia che mutava in rosa s'intrufolavano nel cielo buio a portare l'alba. Camminarono spediti, cercando di non lasciare tracce e si fermarono
quando, ormai nella luce del giorno fatto, distinsero i tetti di paglia e le mura a secco di un villaggio. «È il borgo di Foresto!» sussurrò Munir all'orecchio di Colin. «Stanno costruendo una chiesa, laggiù, dove c'era un tempio in onore dei vecchi dèi.» Colin fece cenno agli altri di muoversi, ma Munir si tirò in disparte e lasciò che fosse Illait a portarli più avanti. Tutti si accodarono al giovane, silenziosi e attenti. S'inoltrarono in una macchia fitta di rovi e pruni; non c'era traccia di un passaggio, segno che davvero il luogo era evitato dalle genti del posto. Nella macchia, il terreno ricominciava a salire, roccioso, e all'improvviso non c'era più luce, come se per magia anche il giorno fosse tornato sui suoi passi. Si udiva anche un suono, una specie di lamento dai toni tanto acuti da sembrare umano, ma nessuno degli uomini si azzardò a commentare. La macchia di rovi si diradò all'improvviso, incontrando la roccia viva; ne erano fuori, e subito vennero afferrati dall'impeto del vento e dall'angoscia: si trovavano sul fondo di una spaccatura della montagna, una spaccatura tanto alta che la luce non toccava il suolo, e le pareti incombevano su di loro come una bocca pronta a richiudersi. Un torrente impetuoso scorreva nella spaccatura, alimentato da una cascata che da quel punto ancora non potevano vedere, ma il cui fragore era un tutt'uno con l'urlo del vento, modulato in grida e lamenti dalle alte pareti rocciose. Striature biancastre correvano orizzontalmente sulle pareti: strani segni che sembravano tracciare una storia troppo antica per essere compresa. E poi c'era qualcos'altro, qualcosa che gli uomini non potevano vedere o toccare e che tuttavia potevano sentire: era come se la montagna, e l'acqua e la stessa terra fossero creature vive, in agguato, e pronte a pretendere da loro un sacrificio. Si sentivano osservati e respinti. Poi Illait scese al torrente, e piegò un ginocchio a terra, sfiorando il suolo, la roccia e l'acqua con la palma della mano. Subito dopo, il vento sembrò quietarsi un poco; una specie di respiro sfiorò il gruppo di uomini e si disperse sulla forra alle loro spalle. «Un luogo singolare», commentò Amboise, restio a lasciarsi sorprendere. Nei suoi viaggi aveva incontrato molti luoghi in cui avvenivano cose strane soltanto perché erano gli uomini a non saperle comprendere. «E tuttavia molto bello», mormorò Adelaisa. «È l'Orrido del Drago», spiegò Illait, sollevandosi. «È così che lo chiamano i vecchi del posto, quando ne parlano.»
«Davvero c'era un drago?» chiese uno degli uomini. «C'era!» esclamò Munir. «E dicono anche che quelle strisce bianche sulle pareti sono le tracce del suo passaggio!» «Storie per farsi belli agli occhi degli imbecilli», tagliò corto Colin. «Cercatevi un posto asciutto. Nel frattempo, vedrò di scoprire chi ci sta seguendo. Bert, Aurac e altri due rimangano qui. Gli altri, con me.» Aurac per primo guadò il torrente; l'acqua era alta poco più di due palmi, e la riva opposta offriva più spazio e la possibilità di proseguire verso l'interno, dove forse potevano accamparsi. Lo seguirono, ma Munir, indeciso, rimase a guardare Colin e gli uomini che tornavano sui loro passi. «Vai con lui», gli ordinò Illait, che si era accorto dello sguardo dell'ometto. «E bada che ritrovi la strada.» Munir sorrise e corse dietro il gruppetto, sollevando spruzzi d'acqua e ventagli iridescenti di ghiaccio. «Ti sei fatto un seguace», osservò Amboise. «Per la prima volta ha trovato qualcuno nelle sue stesse condizioni... Tutto qui», mormorò. Seguirono Aurac per un breve tratto; s'intravedeva, da lì, il punto in cui la spaccatura si restringeva nella stretta finale: in quel luogo, dall'alto, precipitava la cascata. Posarono lì i loro fardelli, poi Bert e i due uomini tornarono sui loro passi per stare di guardia nel punto dove avevano guadato, e Aurac si mise a cercare trote tra il ghiaccio. «Dov'è Adelaisa?» domandò Amboise. «Si è allontanata lungo il torrente», rispose Illait, ma poi tacque, assorto, come se ascoltasse qualcosa nel vento. «Che cosa c'è?» chiese ancora Amboise, guardandosi intorno; si sforzava di rimanere insensibile a quel luogo, ma non ci riusciva del tutto. «Niente», rispose Illait. Ma non era la verità. Più avanti, lungo il torrente, Adelaisa aveva posato il rotolo di coperte e provviste sulle pietre e si era tolta il cappuccio, con l'intenzione di lavarsi il viso nell'acqua gelida. Ma il vento forte le scompigliò i capelli e la costrinse a girarsi per cercare tentoni il pettine e il nastro che aveva posato su un masso lì accanto. Fu allora che scoprì i piedi dell'uomo, le sue grosse mani aperte lungo i fianchi e il suo sorriso feroce. Di scatto, la giovane si alzò e, mentre l'uomo già allungava le mani per
afferrarla, gli sferrò un calcio al basso ventre. Ma un altro uomo le giunse alle spalle, l'afferrò e la trascinò contro la parete rocciosa, colpendola al viso e buttandola a terra. Stordita, eppure determinata a non soccombere, Adelaisa si dibatté violentemente e, approfittando di un attimo di distrazione del secondo aggressore, che si era messo a incitare il compagno, gli morse una mano. L'uomo urlò, colpendola di nuovo e strappandole i lacci che chiudevano la pesante casacca. Poi, con gesti brutali e decisi, le afferrò i seni e tentò di strapparle i calzoni da uomo, infilandole una mano tra le cosce. L'altro intanto li aveva raggiunti e, schiacciandola con tutto il proprio peso, le morse a sangue il petto esposto. Fu in quel momento che il primo aggressore le crollò addosso, fulminato dalla lama che gli aveva tagliato la gola. Adelaisa reagì immediatamente. Con la mano finalmente libera afferrò una pietra e colpì il secondo uomo alla fronte; un istante dopo, l'uomo crollò di lato, colpito alla nuca dal manico del coltello. Illait si piegò su Adelaisa, la prese per le braccia e la sollevò. Altri uomini si stavano calando dalle pareti, su entrambe le rive. Il primo che li raggiunse era molto più alto di Illait, massiccio, di mezza età, con una folta barba rossa che gli incorniciava il viso sfregiato. Stupito, li guardò per qualche istante, poi fissò i due uomini, il morto e quello privo di sensi, che giacevano ai loro piedi. «Ti batti bene, per essere una dama!» esclamò, mentre Adelaisa si richiudeva la casacca sul petto e sosteneva il suo sguardo senza battere ciglio; poi lo sfregiato guardò Illait e gli fece un mezzo giro attorno, che Illait assecondò, girandosi a sua volta, senza tuttavia lasciare Adelaisa. «Così tu saresti quello che porta il castigo di Dio sulle nostre teste», borbottò, perplesso. «A vederti non si direbbe... A ogni buon conto, getta a terra il coltello!» «E tu chi saresti?» ribatté Illait in tono duro, lanciando al contempo un'occhiata all'intorno e notando che alcuni uomini tenevano gli archi puntati contro di loro. Si rese conto che doveva obbedire e, senza aggiungere altro, lasciò scivolare il coltello ai propri piedi. «Uno che ti può vendere oppure fare a pezzi. Ci devo pensare», rispose l'altro con un sogghigno. Sferrò quindi un calcio all'uomo che stava riprendendo i sensi e, con un grugnito, gli intimò di alzarsi. Infine tornò a rivolgersi ai prigionieri: «Voi due! Camminate davanti a me, adesso!» Gli obbedirono, e gli uomini si mossero a loro volta. Uno raggiunse Illait
e gli legò le mani dietro la schiena, passandogli un cappio attorno al collo per poterlo controllare. Poi spinse bruscamente Adelaisa a precederli. Trovarono Amboise libero ma sorvegliato da due uomini; Bert e Aurac e uno dei due uomini di guardia al guado invece erano legati e la corda correva dall'uno all'altro, limitandone i movimenti. Il quarto uomo era morto: giaceva nell'acqua con una freccia nella schiena e le braccia aperte. L'uomo con la barba rossa si fermò davanti ad Amboise e, con un sorriso maligno, fece cenno ad Adelaisa di metterglisi a fianco. «Come vedi alla tua dama non è accaduto nulla... ancora», disse. «E il tuo giovane amico è vivo, anche se ha ucciso uno dei miei, e di questo dovrà ripagarmi. In quanto al tuo capitano e ai suoi uomini, avremo presto anche loro.» «Sei un bandito delle maresche, vero? Sai almeno su chi hai messo le mani?» replicò Amboise, come se potesse trattare alla pari con l'uomo che li aveva in pugno. «Sono Tramlan, e so chi è lui», rispose l'altro, indicando Illait. «Ma soprattutto so quanto valgono le vostre teste.» «Dunque sei uno che si vende ai potenti», disse Amboise con palese disprezzo. Tramlan rimase senza parole, pensando che forse quel piccolo uomo lo stava prendendo in giro. Nessun prigioniero poteva comportarsi in quel modo e sperare di sopravvivere. Non quando incontrava Tramlan. Fece cenno ai suoi di muoversi, e lasciò che spingessero senza tanti riguardi i prigionieri fuori dell'Orrido del Drago e lungo il sentiero che li avrebbe portati al suo rifugio. Colin si fermò ad aspettare Munir e, quando l'ometto lo raggiunse, mandò tre uomini lungo il sentiero che avevano appena percorso, tenendo con sé gli altri due. «Portaci in alto, in un punto dove si possa vedere tutto di questo posto», ordinò quindi a Munir. «In alto?» ripeté l'ometto. «Lassù, vuoi dire?» E tese un dito a indicare i fianchi rocciosi del monte; da quel punto si vedeva anche la cima del Roc Maol, che spuntava bianca e splendente su tutte le altre e sul cielo cupo, quasi nero. «Sta accadendo qualcosa. La Bianca Signora è adirata», osservò Munir, pensoso. «Non con noi, spero. Se davvero conosci qualche sentiero per salire,
muoviamoci», gli ordinò Colin, spingendolo bruscamente. Munir annaspò per tenersi in equilibrio. «Tu non sei gentile quanto il signore dai capelli gialli!» si lamentò, muovendosi. «Perché io non sono un signore, e nemmeno ho voglia di essere gentile. Sta' zitto e cammina!» Munir si strinse nelle spalle e s'insinuò rapido tra la macchia e le rocce; il primo tratto in salita, ripido e faticoso, li portò su una stretta costa innevata; un sentiero antico che, girando, li avvicinava alla paurosa spaccatura. Da quel punto, e molto più in basso, si scorgevano il villaggio e, poco oltre, lo scheletro di un campanile quadrato in costruzione e mucchi di pietre e di macerie dove prima c'era stato un tempio. «Chi possiede una fede è forte, qualunque sia la sua fede...» È questo che ha detto l'abate Gezone, pensò Colin. O quasi. Un movimento rapido sul margine sinistro del suo campo visivo lo costrinse a girarsi. Si fermò, attento. Ma tutto era immobile, bianco e grigio, paurosamente selvaggio, schiacciato dalla massa della Bianca Signora imbronciata e dal cielo nero. L'unico rumore nell'aria era il fragore della cascata. Di nuovo la sensazione di un movimento afferrò Colin; questa volta però non si lasciò distrarre, e rimase a fissare il punto che l'aveva attirato, appena più in alto, là dove un cumulo di grossi massi terminavano con una roccia piatta e lunga, tesa nel vuoto. «Lassù c'è qualcuno!» mormorò Colin. «Munir, vieni con me; voi due invece andate dall'altra parte. Prendiamolo in mezzo.» Gli uomini obbedirono. «Stammi dietro», ordinò quindi a Munir, e si mosse a sua volta. Il corpo gli volò addosso in quel momento, con uno slancio poderoso, da una roccia che stava almeno dieci piedi più in alto, e gli atterrò sulla schiena. L'aria gli sfuggì dai polmoni e il dolore lo sopraffece. Un attimo dopo, un braccio duro come una roccia gli stringeva la gola, togliendogli anche la poca aria che gli rimaneva. Munir strillò, mentre un altro uomo lo afferrava scaraventandolo a testa in giù nella neve. Poi il secondo aggressore giunse a dar manforte al compagno e sferrò un colpo in pieno stomaco a Colin, che si piegò in due; tuttavia la stretta alla gola si allentò un poco e l'aria tornò nei polmoni. «Tramlan lo vuole vivo», disse al compagno quello che lo aveva colpito. «Non ammazzarlo.»
L'uomo mugugnò qualcosa in risposta, mentre l'altro toglieva a Colin il pugnale e s'impossessava della cintura e della balestra. Una corda prese quindi il posto del braccio e, al contempo, le mani gli vennero legate dietro la schiena. La corda era di crine, con un nodo fatto ad arte che poteva risultare fatale se soltanto veniva tirato. Arrivò una voce dall'alto; una ventina di uomini stavano emergendo dagli anfratti e da dietro le rocce, spuntando come per magia, quasi che la montagna stessa li avesse generati. Anche gli uomini di Colin erano stati catturati. «Se stai attento a non inciampare, forse arriverai vivo al piano!» lo sfidò quello che l'aveva atterrato e che adesso teneva saldamente l'estremità della corda. «Tiratelo fuori prima che soffochi», ribatté Colin facendo un cenno verso Munir, che tentava di liberarsi dalla neve. «Quel bastardo può andarsene all'inferno.» «Sei tu a deciderlo?» lo schernì il mercenario, e la corda si tese a mordergli la carne e a togliergli l'aria. L'altro uomo sghignazzò, afferrò Munir per il fondo dei pantaloni e lo tirò via dalla neve. Munir era paonazzo e prese a tossire e a sputare. «Meglio per te se ti riesce di seguirci», lo avvertì l'uomo, sempre sogghignando. S'incamminarono seguendo il sentiero di cresta tra le rocce e la neve e superarono la fenditura dell'orrido nel punto in cui nasceva dal corpo della montagna. Appena oltre, tuttavia, cominciarono a scendere e in poco tempo erano al piano. Avevano aggirato la protuberanza del monte che si spaccava nell'orrido, e nel punto in cui sbucarono non si vedevano più villaggi né campanili in costruzione, ma soltanto una foresta compatta e continua. Penetrando tra gli alberi gli uomini, tuttavia, seguivano un sentiero fiancheggiato dal ghiaccio e da mucchi di neve che forse nascondevano un terreno acquitrinoso. E infatti avanzavano con estrema cautela. Sbucarono infine in una radura, un rialzo asciutto del terreno dove si trovavano quattro capanne di tronchi. Dalla cura nella costruzione delle capanne, dai focolari delimitati da pietre, dalla scorta di legna da ardere, dalle carcasse di un paio di caprioli e di un cinghiale che pendevano da un traliccio di rami, nonché dalle pelli di lupo appese ad asciugare a un altro, era chiaro che si trattava di un rifugio permanente. Non senza una punta di ammirazione per come quel luogo era stato ap-
prontato, Colin si guardò intorno e scorse Amboise, Adelaisa, Illait e il resto dei suoi uomini, sia quelli che aveva lasciato nell'Orrido, sia quelli che aveva mandato sul sentiero già percorso. Dovevano essere appena arrivati, perché la strada di pianura era più lunga di quella che loro avevano seguito sulla cresta. Anche Illait aveva le mani legate dietro la schiena, e lo stesso tipo di cappio attorno al collo, ma Amboise e Adelaisa erano liberi. La giovane stava davanti a Illait, quasi volesse proteggerlo, e il mantello non nascondeva gli strappi della casacca né l'incavo bianco dei seni, dove i legacci erano lacerati. Un livido bluastro le segnava una guancia e c'erano tracce rossastre sul collo. L'uomo dalla barba rossa si girò al loro arrivo, ma Colin era troppo furioso per prestargli attenzione. «Non sei riuscito a proteggerla!» gridò, rivolto a Illait. Quell'idea gli dava una tale rabbia che da sola divorava tutti gli altri pensieri. «Sta' calmo, Colin!» lo ammonì Amboise. «Così il nostro capitano ha messo gli occhi sulla bella dama scontrosa!» s'intromise Tramlan, facendo cenno al suo uomo di non tendere oltre la corda, dato che Colin neanche se ne accorgeva. Gli si parò quindi davanti, coprendogli la vista di Adelaisa, e lo scrutò. «Sei un giovane toro furioso, capitano, ma per ora senza motivo, perché i miei uomini non hanno fatto alla tua dama quello che avrebbero voluto. Il pagano ha sgozzato quello che stava per riuscirci, e per questo potrei appenderlo al primo albero e ricevere il premio e la benedizione della Chiesa. Sai chi sono?» «Sei uno dei tanti banditi delle maresche.» «Ah! Uno dei tanti! Sono Tramlan, il migliore. E il tuo padrone ha osato dirmi che mi vendo ai potenti!» Colin non rispose ma incontrò lo sguardo duro di Amboise. Tramlan allora afferrò la corda di crine e lo strattonò, costringendolo a prestargli attenzione. «Io non mi vendo, però nemmeno voglio farmi nemici gli spiriti delle acque e delle montagne toccando questo bastardo dai capelli gialli. La ragazza e il vecchio mi frutteranno un buon riscatto, perché sono nobili e le famiglie pagheranno per riaverli. Ma tu sei un uomo di guerra, uno come me, e potrai andartene libero... se rimarrai vivo.» «Che cosa intendi?» «Ti batterai a morte con il pagano. Se vincerai, ti darò la dama per una notte, e poi te ne andrai con i tuoi uomini. Nessuno ti torcerà un capello.» «E se perdo?»
«Questo è affar tuo, capitano. Ma conosco gli uomini e tu non sei uno che accetta le sconfitte. Ti batterai, e lo farai per vincere. Sei forte... e poi Dio è dalla tua parte.» Colin guardò Amboise, sfiorò con gli occhi Adelaisa e incontrò lo sguardo di Illait. Il giovane non aveva battuto ciglio, come se quello che stava accadendo non lo riguardasse. «Posso rifiutarmi», rispose infine. «Certo. Così v'impicco tutti e due, con buona pace degli spiriti, e i miei uomini mi pagheranno per avere a turno la ragazza. Tanto le famiglie le riprendono anche guaste, quando sono nobili.» Colin non ribatté. Il furore lo aveva abbandonato. Gli uomini delle maresche si disposero in cerchio, e Tramlan spinse avanti Illait, mentre a entrambi veniva tolta la corda attorno al collo e alle mani. L'alito freddo del vento passò nella foresta, sfiorando i pantani e intrufolandosi nella radura. Un sospiro lieve, quasi un gemito, corse tra gli uomini. Poi due spade vennero gettate ai piedi di Colin e di Illait, e un barlume di sole le accese all'improvviso di un barbaglio quasi accecante. XIII Illait allontanò la spada con il piede, senza guardarla. Colin accettò quella decisione e, a sua volta, ignorò la spada che gli era stata offerta. Non capiva il motivo della scelta di Illait, ma era certo che ci dovesse essere una ragione a determinarla e che non era quella che i predoni stavano immaginando. Sapeva che Illait di Isley era stato addestrato alle armi e ne aveva avuto le prove. «E allora, capitano?» urlò Tramlan, impaziente. «Che cosa aspetti? Dobbiamo venire ad aiutarti?» Colin finse di non sentirlo. Nello sguardo fermo di Illait non riusciva a leggere nulla, neppure il disappunto per quella lotta che condannava senza appello uno dei due. Ma l'idea di doversi battere per salvare Adelaisa lo travolse, e Colin si slanciò in avanti, dimenticando per un istante la prodigiosa agilità di Illait, che infatti gli sgusciò da sotto con un balzo e lo fece barcollare, strappando un mormorio di disappunto agli spettatori. Seppur frustrato da quel tentativo così maldestro, Colin riacquistò in fretta l'equilibrio. «Che cos'hai di speciale perché non ti possa spezzare il collo come agli altri?» sibilò, lanciandosi nuovamente contro Illait e riu-
scendo questa volta ad afferrarlo e a farlo cadere a terra. I due rotolarono avvinghiati avanti e indietro, tanto che il cerchio degli uomini fu costretto ad allargarsi. Colin colpì ripetutamente Illait, mentre questi, pur difendendosi bene, non attaccava né lo colpiva sulle costole, dove avrebbe avuto buon gioco. «Combatti!» gli ordinò, furioso. «Uno solo deve rimanere vivo!» Illait ebbe un guizzo, ma Colin lo abbrancò ed entrambi finirono tra l'erba gelata, mentre lo strato sottile di ghiaccio del pantano si frantumava sotto il loro peso. Infine, con un colpo di reni, Colin si rigirò e strinse le mani intorno al collo dell'altro. «Morire per amore, Colin. Ricordi?» gli mormorò Illait all'orecchio. E un attimo dopo, del tutto inaspettatamente, Colin si trovò tra le mani un corpo privo di vita. Gli occhi di Illait si chiusero, il capo ciondolò di lato e le mani ricaddero, inerti. Colin si sollevò, stupito, poggiandogli una mano sul petto. Ma non c'era più alcun battito. Qualcuno tra gli uomini acclamò la sua vittoria. Stordito e confuso, Colin si guardò attorno, rimettendosi lentamente in piedi. Amboise e Adelaisa lo avevano raggiunto, ma il mercenario non ebbe animo di guardare negli occhi la giovane e si volse quindi ad Amboise. «Non l'ho colpito così forte da ucciderlo. Devi credermi!» mormorò; Tramlan infatti stava sopraggiungendo e lui non voleva che lo sentisse. «Lo so, Colin», lo quietò Amboise. «Lo so.» Poi si chinò a sfiorare la fronte di Illait e, come aveva già fatto Colin, gli posò una mano sul petto immobile. Tramlan li raggiunse e, per un istante, fissò il corpo. «Non sapeva battersi», commentò seccamente. «Non è vero. Non voleva battersi!» ribatté Colin, furioso. Si sentiva svuotato e smarrito, e non gli era mai accaduto di provare quelle emozioni... E invece no, rifletté, una volta le aveva provate: a Langeais, quando aveva ordinato agli arcieri di tirare sui bambini che gli assedianti stavano usando come scudi. D'improvviso, gli parve di portare sulle spalle il peso di anni che non aveva, un peso che rischiava di schiacciarlo. Senza curarsi della sua rabbia, Tramlan afferrò Adelaisa e gliela spinse tra le braccia. «Te la sei meritata. Per una notte. E domani te ne andrai con i tuoi uomini. Questo buttalo nel pantano: le sabbie mobili gli faranno da tomba!» «No», si oppose Amboise e Tramlan, che non si era aspettato né il suo
intervento né il suo tono, si girò a guardarlo, stupito. «Perché no?» ribatté. «Perché quando la luna avrà toccato la sommità di quella montagna», Amboise indicò la punta più alta tra le montagne che chiudevano il versante opposto della valle, «lui tornerà a vivere.» «Sei pazzo, vecchio.» «Non sono pazzo. È lui che è un uomo speciale. E non ti costa niente aspettare per vedere se ho ragione.» «Sai come la gente di qui chiama quelle montagne?» mormorò Tramlan. «No.» «I Monti della Luna. E ci sono cose lassù che nessuno può raccontare!» «Ci porta addosso il castigo!» incalzò un altro. «Buttalo nelle sabbie!» «Zitti!» urlò l'uomo. «Hai paura di vederlo nuovamente vivo?» lo tentò Amboise. «Tu dici che è morto, adesso?» «Guarda tu stesso.» Tramlan raggiunse Illait di Isley e piegò un ginocchio a terra. Con circospezione, gli girò il capo da una parte e dall'altra; ascoltò il cuore, sollevò un braccio e lo lasciò ricadere. «Per me è morto», ammise, rialzandosi. «E di morti ne ho visti...» «Per questo ti credo», ribatté Amboise, volgendosi poi a Colin. «Portalo in una delle capanne, e prepara il fuoco. Ti dirò io quando accenderlo», gli ordinò. Colin era stupito non meno del predone, tuttavia obbedì, scostando appena Adelaisa, alla quale aveva passato un braccio attorno alla vita, e che sentiva rigida eppure ammirevolmente quieta. Uno dei predoni si mosse per aiutarlo, ma Colin lo respinse; Illait non era pesante e gli sembrava un'infamia lasciare che qualcuno lo toccasse, dal momento che era morto per mano sua e che era lui quello che doveva portarne le conseguenze. Illait gli aveva già salvato la vita per ben due volte e, arrendendosi, gliel'aveva salvata ancora. Morire per amore. Adesso Colin sapeva che cosa voleva dire. Entrò nella prima capanna e lo depose su uno dei giacigli di paglia e foglie secche. Sul pavimento di terra battuta un cerchio di pietre e un po' di cenere fredda segnavano il punto in cui abitualmente veniva acceso il fuoco; non c'era nient'altro, se non pelli di lupo a mo' di coperte sui giacigli.
Amboise, che lo aveva seguito con Tramlan, compose le braccia sul petto di Illait e gli pulì il viso dal terriccio, ponendo una cura particolare alle labbra e al naso. «Qualcuno può vegliarlo, se lo vuole», disse quindi, risollevandosi. «Lo veglierò io», esclamò Adelaisa, facendosi avanti. Tramlan non commentò quella sua manifesta inclinazione per il pagano. Con le labbra serrate e i pugni stretti, il predone era evidentemente combattuto tra la propria ragione, che gli suggeriva di allontanarsi da qualcosa che sapeva oscuro, e la necessità di mantenere il proprio prestigio tra gli uomini. Un capo era tale fintanto che dimostrava di valere più di tutti gli altri. E i suoi uomini senza Dio non lo avrebbero più accettato, se si mostrava debole o pauroso per qualcosa che lui stesso aveva provocato. Tuttavia trattenne Adelaisa, prendendola bruscamente per un braccio. «Ti ho data a quell'altro!» esclamò. «Posso aspettare», s'intromise Colin, liberandola, e permettendole di raggiungere il giaciglio. Tramlan assentì, cupo. «Quando la luna toccherà la punta più alta!» ripeté poi. «E tu come fai a saperlo, vecchio?» «Io so molte cose», ribatté Amboise con un sorriso gelido, e lo spinse fuori. Gli uomini del predone avevano acceso i fuochi davanti alle altre due capanne, ma sul campo era sceso un silenzio teso, sgomento, e nessuno scherzava o scommetteva sull'evento che avrebbe dovuto verificarsi. Tramlan fece cenno ad Amboise e a Colin di sedere presso uno dei fuochi; gli uomini di Colin erano già accanto all'altro, e soltanto Munir sgattaiolò a raggiungere la porta della prima capanna, accoccolandosi sulla soglia. Tutti lo videro, ma nessuno osò fermarlo o rimandarlo al proprio posto. «La veglia funebre per mio figlio non sarebbe più sentita di questa!» borbottò a un certo punto Tramlan, sconcertato. «Ti ho già detto che quello è un uomo speciale», gli rispose Amboise. Tramlan si strinse nelle spalle, lasciandoli al fuoco. Per la prima volta da quando erano stati catturati, Colin si trovò abbastanza vicino ad Amboise e lontano da altre orecchie per potergli parlare. «Non capisco quello che succede», mormorò. «Io non ho colpito per uccidere, ai miei occhi è morto e tu dici che tornerà vivo! Se non accade, Tramlan ci ucciderà tutti, se non altro per lo spavento che gli stiamo facendo prendere!»
«Illait non è morto: è in uno stato simile alla morte. Ho già visto fare una cosa del genere, alla corte di al-Mansur. Ho visto un uomo rimanere come morto per dieci giorni e tornare vivo in un istante. Mi venne anche dato il permesso di esaminarlo, però non trovai niente in lui che lo rendesse diverso dagli altri uomini. Mi spiegò tuttavia che è la mente a comandare il corpo e che, se la mente è istruita e forte, può portarsi in un altro luogo e ordinare al corpo di vivere una non vita, durante la quale cuore e respiro sono così lievi che sembrano inesistenti agli altri uomini.» «È questo che Illait sta facendo?» «Sì. Quando ci hanno presi, all'Orrido, Illait mi ha detto che, se fosse stato necessario, lui poteva ricorrere alla non vita, e allora io dovevo intervenire. E l'ho fatto.» «Come farà a svegliarsi?» «Quando la luna comincerà a salire, Adelaisa accenderà il fuoco e lo coprirà con le pelli. L'aumento della temperatura provocherà una reazione nel suo corpo, che un poco alla volta riprenderà tutte le sue funzioni.» «Anche Adelaisa sa di questa cosa?» «È la mia allieva, non dimenticarlo», disse Amboise con un sorriso stanco. «Già», mormorò Colin. Nella radura ormai era il crepuscolo; una luce rosso fuoco fuggiva dalle cime degli alberi. I monti alle loro spalle e quelli di fronte erano una massa di buio incombente, e soltanto le cime, nette, disegnavano un confine riconoscibile contro il cielo. Tutto, altrove, era già ombra. Colin non riusciva a liberarsi dall'angoscia. Per due volte andò da Illait, ma questi sembrava davvero morto, a dispetto delle spiegazioni di Amboise. La pelle era fredda, il viso cereo e le belle mani dalle lunghe dita poggiavano sul petto immobile. Era dunque possibile che qualcuno ingannasse la morte, si prendesse gioco di lei? Era forse quello il segreto che Chaffre de Revard voleva strappare a Illait? Adelaisa, che aveva acceso una lucerna e sedeva accanto al giaciglio, alzò gli occhi su di lui senza parlare. Occhi duri e freddi, con una traccia di paura, ma non di dolore. Nessun dolore. Soltanto lì, in quella capanna, mancava quello che serrava la radura in una morsa: la sensazione viva del dolore. Come se la foresta e l'acqua e le
rocce lo trasudassero, l'aria ne fosse colma e gli uomini ne fossero schiacciati. Né Tramlan né i suoi uomini avrebbero mai potuto dimenticare quella notte. E nemmeno io, pensò Colin. «Riposa. È ancora presto», gli suggerì Amboise quando tornò al fuoco per la seconda volta. «Domani potresti aver bisogno di tutte le tue forze.» «Ho paura a chiudere gli occhi e ad addormentarmi», rispose Colin, ed era sincero. «Questo ti fa onore, capitano», mormorò Amboise. «Ma provaci ugualmente.» Colin si avvolse nel mantello, appoggiandosi a un tronco, e chiuse gli occhi tentando d'ignorare le voci, i mormorii, i suoni del campo... e il dolore. Aveva in effetti sperato, senza ammetterlo, di ritrovare la porta tra le pietre, custodita dal Drago ricamato sulla stoffa preziosa. Era stato bene nel mondo cui quella porta dava l'accesso, ed era certo che sarebbe stato libero dal dolore se fosse riuscito a tornarci. Il suo sonno, però, rimase buio e pesante, almeno fino a quando Amboise non lo scosse. «Vieni», gli ordinò. Colin obbedì in silenzio. Tutti gli uomini e Tramlan stesso erano andati più volte a guardare Illait e adesso stavano attorno alla capanna. Un buon fuoco era stato acceso, e gli uomini vi stavano assiepati, perché la notte era fredda e straordinariamente limpida. La luna se ne stava sospesa sul picco più alto dei monti che portavano il suo nome, pronta a tuffarsi verso occidente, e la stella luminosa che le era compagna la seguiva palpitando. Anche nella capanna era stato acceso il fuoco. Il caldo aggredì Colin non appena vi mise piede: la fronte gli si imperlò di sudore. Minuscole gocce brillavano sul viso di Adelaisa e su quello di tutti i presenti. Anche Illait di Isley aveva la fronte bagnata. Amboise raggiunse il giaciglio e tirò via la pesante pelle. Illait mosse appena le dita di una mano e subito dopo quelle dell'altra. Amboise gli passò quindi un braccio attorno alle spalle e lo sollevò. Adelaisa fece lo stesso dall'altra parte. Un momento dopo, Illait di Isley era seduto sul giaciglio e aveva gli occhi aperti. Tramlan arretrò fino alla soglia. I suoi uomini, che premevano per vede-
re, si ritirarono precipitosamente al di là del fuoco. Colin non si mosse. Come aveva detto Amboise, Illait di Isley era vivo. Amboise lo aiutò a bere un sorso d'acqua, e poi a mettersi in piedi. Tramlan tese davanti a sé un braccio, temendo che volesse avvicinarglisi. «Sei uno spirito della notte?» chiese, dubbioso, tentando, nonostante tutto, di dimostrarsi più saldo dei suoi uomini. Illait gli porse una mano, aperta, con la palma all'insù. «Hai un coltello. Guarda tu stesso se ho del sangue nelle vene!» lo esortò. Tramlan esitò, ma poi gli sfiorò la carne con la lama; dal taglio affiorò il sangue rosso vivo. Riponendo l'arma alla cintura, il predone annuì. «Sta bene, sei un mago. Un grande mago! Che cosa vuoi per non toccare né me né la mia gente?» «Te lo diremo domani», intervenne Amboise. «Sì, domani, quando ci sarà il sole e tutti avremo dormito un poco.» «Chi mi dice che sarete ancora qui, con il sole di domani?» «Ci saremo. Tu ci hai attaccati e sei tu quello che deve pagare il debito.» Quell'idea non piaceva a Tramlan, tuttavia era la verità e quel piccolo uomo dagli occhi severi non gli consentiva d'ignorarla. Uscì dalla capanna e ordinò in malo modo ai suoi di spegnere i fuochi e di ritirarsi a dormire. Una volta che anche Munir fu uscito, Colin appoggiò il graticcio di paglia e canne sul vano della porta. Amboise si limitò a fare un cenno di approvazione al capitano, poi si rivolse a Illait, che era tornato a sedersi sul giaciglio. «Come ti senti?» «Stanco. Ma passerà», rispose, cercando di trarre profondi respiri. «L'avevi fatto altre volte?» «Sì. Prima con i miei maestri e poi l'ho ripetuto per i preti, su ordine di re Malcolm. Ah, l'ho fatto anche da ragazzo, per spaventare mia sorella. Però quella volta sono stato punito.» Illait sorrise, come se il ricordo gli avesse riportato un'onda piacevole di emozioni. Sollevò lo sguardo e incontrò quello di Colin che si sentì d'un tratto libero dall'angoscia. «Senza rancore?» mormorò Illait. «Se l'avessi saputo, non mi sarei dannato tanto!» ribatté Colin. «Se l'avessi saputo, ti saresti tradito», rispose Illait. «Hai avuto ragione a
batterti. La morte di entrambi non sarebbe servita.» «Che cosa vuoi chiedere a Tramlan?» domandò Colin, evitando quell'argomento. «Che ci guidi sul versante opposto della valle. Nessuno meglio di lui conosce le maresche e i passaggi per evitare le sabbie mobili e guadare il fiume. Da lì potremo raggiungere Avigliana, e chiedere la protezione del cugino di Olderico Manfredi per raggiungere Torino.» «Dovremmo fidarci di un predone?» «Tramlan ha avuto paura. E rispetta il potere che può toccare con mano. Sì, credo che, con una certa cautela, potremo fidarci di lui.» Colin annuì, coprendo in parte il fuoco; nella capanna faceva davvero troppo caldo. «Dormite», disse. «Rimango io di guardia.» Sedette accanto all'uscio, mentre gli altri si sistemavano sui giacigli. Tutto quello che ricevette fu una carezza di Adelaisa, sulla spalla, quando la giovane gli passò accanto. XIV Il vecchio aveva una corta barba bianca e occhi chiarissimi in un viso coperto di rughe. Nonostante il freddo, i piedi erano nudi nei calzari e indossava soltanto un saio di tela grezza. Era stato Tramlan ad appoggiargli sulle spalle un mantello, quando l'aveva fatto sedere al fuoco davanti alla capanna. «Siediti davanti a lui!» ordinò quindi a Illait, evitando però di guardarlo negli occhi. Il giovane obbedì. Un vento tagliente correva tra gli alberi fitti e i pantani. L'alba era stata serena, freddissima, ma il tempo si stava guastando, e un velario di nuvole andava progressivamente stendendosi da occidente a oriente. In quella luce traslucida, incerta, dove il sole compariva soltanto a tratti, le maresche sembravano animarsi di vita propria fatta di ombre e bagliori, fruscii e soffi, gemiti e silenzi improvvisi. Gli uomini di Tramlan erano attenti, eppure non avrebbero saputo dire se temevano di più i pericoli reali o le ombre destate dalle loro paure. «Questo monaco si chiama Antonino», esordì Tramlan. «È un eremita che da lungo tempo vive in una grotta sulla montagna dell'Orrido, dopo aver scacciato il serpente che la abitava. La gente sostiene che è un santo... tutti vanno da lui a farsi aggiustare le ossa quando si rompono. Se tu sei il male, lui ti sentirà!» concluse, puntando un dito contro Illait.
«Io non sono il male», mormorò il giovane. «Io sono il nulla.» «Chi ti ha dato il diritto di strapparlo al suo rifugio?» intervenne Amboise, prendendo a sua volta posto accanto al fuoco. Aveva intuito che gli uomini di Tramlan erano piombati nella grotta dell'eremita, costringendolo poi a seguirli. «Io sono il padrone delle maresche e quando mi va di fare una cosa la faccio!» ribatté Tramlan, alzando la voce perché i suoi uomini lo sentissero. Incontrò lo sguardo duro di Colin, rimasto sulla soglia della capanna a braccia conserte, e maledisse tra sé il momento in cui gli era venuta l'idea di farlo combattere con il pagano. «Parla, sant'uomo!» ordinò quindi, brusco. «Che mi dici di questo essere che stanotte era morto e adesso è vivo?» L'eremita scosse il capo e fissò Illait. «Il Nulla è triste, sulla bocca di un giovane», disse quindi, ignorando il predone. «Ho altra scelta?» disse Illait. Il vecchio gli tese la mani attraverso il fuoco che li separava, e Illait vi appoggiò le proprie. Il vento inclinò le fiamme nella direzione opposta. Gli uomini mormorarono sottovoce, commentando quello che sembrava loro un altro prodigio. «Lui non è il male, Tramlan», spiegò l'eremita con un vago sorriso. «Solo chi ha il male dentro può avere paura di lui. Come te, Tramlan.» «Io non ho paura di lui!» «Non mentire. Non a me.» Gli occhi duri dell'eremita trafissero per un attimo il predone, e poi tornarono su Illait. «Sento molta pena, in te», mormorò. «E molto, troppo dolore.» «Ho avuto soltanto quello.» «Non pensi che ti sarebbe facile trovare consolazione, se ti concedessi alla speranza? Sei un uomo di fede! Perché ti ostini a percorrere un sentiero che non porta in alcun luogo?» lo incalzò il vecchio. «Non vedo speranza in quello che mi è offerto, ma soltanto parole vuote e avidità. E anche tu non hai avuto altro, se hai dovuto cercare Dio in una grotta sulla montagna.» «Dio è in ogni uomo che incontriamo. E, se ciò si dimentica, il torto è nostro.» «Dio è in tutto ciò che incontriamo. È negli uomini e negli animali, nelle rocce e nell'erba, negli alberi e nelle nuvole. Niente ci appartiene e niente
possiamo distruggere senza compensazione, oppure ne porteremo il peso nel tempo a venire», replicò Illait. «Come possiamo essere uomini e non distruggere?» obiettò il vecchio. «Ogni gesto della nostra giornata è distruzione! Uccidiamo gli animali, deprediamo la terra, rubiamo l'acqua, non riconosciamo le nuvole...» «È questo il confine che ci separa», rispose Illait. Il vecchio ritirò le mani. «Il suo cuore non batteva e la sua pelle era fredda!» gridò un predone, più audace degli altri. «Tutti lo abbiamo visto e sentito!» «Bene. Così sarete in molti a poter testimoniare sulla Provvidenza, che ha impedito al vostro capo di aggiungere un altro delitto ai tanti che già gli legano l'anima. La giovane sta bene?» «Sì, certo», rispose Amboise. «Nessuno le ha fatto torto.» «Dio sia lodato per questo!» esclamò il vecchio. «Che cosa vuoi da me, ora, Tramlan?» «Nient'altro», fu la secca replica del predone. «Ti verrà dato da mangiare e, quando avrai riposato, i miei uomini ti riporteranno alla tua grotta.» Il vecchio annuì; Tramlan nascondeva davvero male la propria furia. «Intanto tu potrai accompagnarci sul versante opposto, a Sant'Agata», fece Amboise, rivolto al predone. «Sei il padrone delle maresche, dunque conosci di certo la via più rapida e sicura per attraversarle.» «Ci vuole tempo per arrivare a Sant'Agata! E poi chi ti dice che voglia farti da guida?» «Tu sei venuto sulla nostra strada e ci hai fatto torto, e questo è l'unico modo per emendarti. E ti impegni alla presenza di questo sant'uomo, di cui è evidente che hai rispetto.» Tramlan assentì controvoglia. Era vero: nutriva soggezione per l'eremita e in più temeva il pagano che, in qualche modo, si era preso gioco di lui. Se il far loro da guida era sufficiente a liberarlo da ogni debito, ebbene allora lo avrebbe fatto. «Il tempo di legare le provviste e partiamo», annunciò. «M'impegno a portarvi dall'altra parte e fino a Sant'Agata per la via più breve e sicura.» In quel momento, dalla foresta, giunsero un rumore di passi affrettati e un alto grido. Un istante dopo, la sentinella sbucò dal folto degli alberi. L'uomo era giovane, robusto e bene addestrato, ma doveva aver corso a lungo perché il respiro gli mancava. «Uomini a cavallo!» stava urlando. «Vengono dalla strada di Susa e stanno per arrivare a Foresto!»
«Così hai una rete di sentinelle anche ben lontano dal tuo campo», constatò Amboise. «È per questo che ci hai visti entrare nell'Orrido del Drago.» «Già. Tengo sentinelle da Susa fino a dove metto il campo, e sempre in coppia, in modo che uno dei due possa correre al punto successivo e via via fino a me. Ecco perché non riescono mai a catturarmi. Muoviamoci subito, piuttosto. Una dozzina di uomini con me, gli altri qui, a far legna, come se niente fosse. Ti riporteranno domani alla tua grotta, sant'uomo.» L'eremita si strinse nelle spalle. Intanto Colin aveva chiamato Adelaisa e raccolto i propri uomini, e in un baleno furono pronti a muoversi. Illait tuttavia aiutò il vecchio ad alzarsi per accompagnarlo al riparo della prima capanna e, mentre lo faceva, il sibilo del vento nel fitto delle maresche si trasformò in un lamento. Era un suono così lugubre e triste che gli uomini si fermarono guardandosi l'un l'altro. Il sole era del tutto sparito e la luce si era fatta grigia. Il vecchio strinse forte la mano di Illait. Entrambi sapevano. «La nostra anima beve alla stessa sorgente», mormorò il vecchio, in preda a una forte emozione. Per la prima volta, da molto tempo, aveva avuto chiarissima la visione di qualcosa che doveva ancora accadere. Altre volte, in gioventù, era stato toccato da quel Potere, ma poi lo aveva perduto e a lungo rimpianto. Quel giovane glielo aveva riportato con irresistibile forza, come se, con la sua semplice vicinanza, il sipario che fino a quel momento gli aveva chiuso gli occhi si fosse lacerato. Ed era così esaltante, per lui, quella forza ritrovata, che non gli importava che cosa aveva visto. «Come puoi non riconoscerlo?» esclamò quindi. «La forza è una, ed è grande, e la preghiera è la sua sola Via!» «Riconosco la sorgente e so che la forza è una e sempre la stessa, quale che siano i nomi con cui è riconosciuta. Tuttavia mi rifiuto di dimenticare la conoscenza e non posso ammettere che quello che so è falso perché non è più compreso. Né posso consegnare il Potere a chi lo renderebbe strumento dell'avidità e della malizia. Tu sei un sant'uomo eppure sei più simile a me di quanto: tu sia simile agli uomini potenti della tua Chiesa davanti ai quali ti inginocchi.» «Questo lo so, ma è certamente una mia colpa», replicò l'eremita. «Io ti benedico, Illait di Isley, se tu lo accetti. Con qualsiasi nome.» Illait piegò un ginocchio a terra e accettò il segno di croce che il vecchio gli tracciò sulla fronte; il vecchio sorrise e, con gli occhi pieni di lacrime,
si rivolse a Tramlan. «Attento ora, Tramlan!» minacciò. «Nessuno può uccidere un uomo che è stato benedetto senza incorrere nel castigo di Dio.» Il predone alzò le spalle, e tuttavia quella consapevolezza gli portò un improvviso disagio, del tutto insolito, per lui. Non aveva compreso ciò che i due si erano detti, però il vecchio era un sant'uomo, e doveva essere nel giusto. E aveva tracciato il segno della croce sulla fronte del pagano... Non era come se lo avesse battezzato? «Via, presto!» li incalzò. «Volete che gli uomini ci piombino addosso come se fossimo galline in un pollaio? E tu, vecchio, riguardati, e qualunque cosa ti chiedano tieni la bocca chiusa!» lo avvertì Tramlan, muovendosi seguito dai suoi. Illait aiutò l'eremita a sedersi e il vecchio annuì, pensoso, quando il giovane gli sfiorò la mano in un saluto senza parole. Poi Illait raggiunse Colin, che lo aveva aspettato. «Abbiamo qualche speranza?» mormorò il giovane capitano. Aveva troppa esperienza per non sapere quanto sarebbe stato difficile evitare lo scontro, se i loro inseguitori erano davvero decisi a prenderli. «Forse, con un po' di fede...» disse Illait, lanciando un'ultima occhiata triste all'eremita. Tutto il gruppo, Tramlan in testa, si stava già inabissando nel fitto del bosco. Il vecchio non si mosse dalla soglia. I sei uomini rimasti tirarono fuori le asce e presero a lavorare con lena sui tronchi che ancora dovevano essere fatti a pezzi, sistemandoli poi su una specie di slitta che li avrebbe trasportati fin sulla strada. La sentinella che era giunta ad avvisarli si era sciacquata la bocca con un mestolo d'acqua ed era corsa via. Il più giovane tra quelli rimasti, poco più che un adolescente, si occupò di sistemare sul fuoco il calderone per la zuppa. Così, per qualche tempo, nella radura non ci furono altri suoni che quello delle asce e il respiro del vento nelle maresche. Il primo cavallo irruppe alzando acqua e fango tutt'attorno, spezzando rami e arrancando sul terreno fradicio sino a che non giunse alla terra solida tra le capanne. Lo seguivano non meno di trenta armati, che piombarono sugli uomini con le spade pronte a colpire. Li comandava un uomo con metà faccia sfigurata da una ferita brutta a vedersi, infiammata dal freddo e
ancora aperta sulla guancia. Alcourt era furioso. Smontò di sella facendo roteare la spada, prima di rendersi conto che, in quel luogo indicatogli dalle guide di Bosone come uno dei rifugi del predone Tramlan, in realtà non c'erano che alcuni taglialegna. Allora sollevò la spada, appoggiando la lama piatta e pesante sulla propria spalla, e si guardò intorno con più calma. I boscaioli sembravano spaventati; non così il vecchio, che lo guardava come se lo conoscesse. Decise di ignorarlo e ordinò ai suoi uomini di condurgli quello che sembrava il taglialegna più anziano. «Tu!» tuonò. «Chi sei e chi è questa gente?» «Siamo tutti parenti, e il nostro villaggio è sulla via per Chianocchio... apparteniamo alla prevostura di Oulx», spiegò, in preda al panico, inciampando sulle parole. «Il ragazzo è mio fratello.» «E siete taglialegna.» «Per volontà di Dio è il nostro mestiere, ed era pure quello dei nostri padri. Facciamo anche il carbone di legna...» L'uomo aveva un'aria umile, ma il suo sguardo era vivo e fin troppo attento e duro. Alcourt lo studiò un momento, poi si girò verso una delle guide che Bosone di Susa gli aveva fornito. «Che ne dici?» chiese. «È possibile», rispose l'uomo, con tono prudente. «Conosco il villaggio di cui parla. Non sono uomini liberi.» «Ma un servo non guarda in quel modo», gli fece notare Alcourt. «Ci sono tracce?» chiese quindi, senza lasciare con lo sguardo il prigioniero. «Fa troppo freddo. Il terreno è gelato e la crosta sui pantani verso l'interno delle maresche è intatta. Sembra che non ci sia passato nessuno.» «Oppure chi è passato sapeva bene dove farlo.» «Può essere», ribatté la guida. «Io non posso dirlo.» Alcourt lo guardò con astio. Era evidente che i due uomini di Bosone svolgevano controvoglia quell'incarico; anzi probabilmente consideravano lui e i suoi uomini non meno pericolosi di Tramlan, cui pure spesso davano la caccia. Tornò a guardare il prigioniero. «Conosci Tramlan il predone?» gli chiese. «No.» «Non ti credo!» L'uomo tacque, stringendosi nelle spalle. Alcourt scosse il capo. Solo un povero di spirito o qualcuno che fingeva di esserlo poteva dimostrare tanta
indifferenza a un'accusa che era, al contempo, una condanna. «Legateli agli alberi», ordinò ai soldati. «Uno per ogni albero.» Gli uomini obbedirono. Nel frattempo, Alcourt raggiunse la capanna e si fermò davanti al vecchio. I suoi uomini non avevano trovato nulla che potesse smentire il taglialegna. Né armi né tracce. «E tu chi saresti?» chiese, minaccioso, costringendolo con la punta della spada ad alzare il viso per poterlo guardare in faccia. Incontrò due occhi chiarissimi, che gli ricordarono quelli del pagano cui stavano dando la caccia. «È un monaco di nome Antonino. Vive in una grotta, sulla montagna. È un eremita. Un sant'uomo», intervenne la guida, senza riuscire a nascondere l'apprensione per la sorte del vecchio. «Ma qui non siamo sulla montagna! Che cosa ci fa qui un eremita?» «Il ragazzo aveva male a una gamba», intervenne l'uomo che aveva già interrogato. «Il monaco l'ha curato. Adesso sta bene.» «Tu non hai la lingua, vecchio?» insistette Alcourt, pungolandogli la gola con la punta della spada. «Tu credi a quello che ti viene detto?» rispose il vecchio, senza animosità, sebbene Alcourt cogliesse nella sua voce una punta di scherno. «Puoi provarci. Se mi dici quello che voglio sapere.» «Tu vuoi la verità o la verità per te è ciò che vuoi sentire?» «Ti prendi gioco di me!» ribatté Alcourt, colpendolo al viso con la mano aperta. Il vecchio vacillò, ma non cadde. «Non dovevi colpirlo!» insorse la guida. «È un sant'uomo!» «Stai attento, o dovrò riportare a Bosone una guida senza lingua!» grugnì l'altro. Si diresse poi verso i prigionieri, tutti ormai saldamente legati, e si fermò davanti a quello che aveva già interrogato. «Tu sei il capo, qui.» L'uomo annuì, teso. Doveva ormai essergli chiaro quello che stava per accadere. «Cominceremo dal ragazzo. Tuo fratello, hai detto. Pensaci.» Fece un cenno, e uno dei soldati lanciò la propria spada. L'arma trapassò il ragazzo, conficcandolo all'albero cui era legato; si sentirono uno stridio e uno sbattere di ali, e un corvo volò via dai rami più alti. Il vecchio tracciò il segno della croce nell'aria, ma Alcourt lo ignorò, ordinando ai suoi uomini di continuare. Uno dopo l'altro, tutti vennero uccisi nello stesso modo, a eccezione di
quello che aveva sostenuto di essere il capo. «Hai visto?» gli sibilò Alcourt. «Faccio sempre quello che prometto. Se parli, ti prometto che avrai salva la vita. Sarai libero. E forse ti farò avere la taglia che c'è sulla testa di Tramlan il predone!» «Non... conosco... Tramlan.» «Perché gli sei fedele? Che cosa può darti più di quanto io ti posso dare ora?» L'uomo non fiatò. Alcourt gli sbatté la testa contro il tronco, quindi ordinò distrattamente ai suoi di procedere, e nemmeno si girò a guardare quando la grossa lama si conficcò nel petto dell'uomo. Si mosse per tornare al vecchio sulla soglia della capanna e, nel farlo, qualcosa parve toccarlo e un brivido di freddo lo colse. Lo stesso alito di vento poi s'impennò, facendo tremare la sommità degli alberi e infine ridiscese: in alcuni punti il ghiaccio sottile dei pantani si frantumò, come se una mano invisibile lo avesse percosso. Quel suono secco risuonò improvviso, ripetuto come un'eco, misterioso e inspiegabile. «Adesso rimani soltanto tu», disse Alcourt. «Non ucciderlo! Dobbiamo attraversare le maresche, e ci porterà male se gli accade qualcosa», intervenne l'altra guida. I suoi uomini e quelli di Bosone aspettavano, tesi, ciascuno tenendo saldamente il proprio cavallo. Gli animali non erano meno spaventati degli uomini da quell'onda silenziosa che aveva spezzato il ghiaccio. Alcourt sorrise, alzando la spada. «Allora, sant'uomo, vuoi dirmi la verità?» Non esisteva sentiero e nessuno che non fosse del posto e abituato da anni a seguirla, avrebbe trovato la striscia sempre mutevole di terreno asciutto che s'incuneava tra i pantani. Tutto era coperto di ghiaccio e di brina, gli alberi e l'aria erano grigi e bianchi e stava scendendo la nebbia. Gli uomini procedevano spediti, Tramlan in testa. Era un gruppo troppo numeroso per poter passare inascoltato nel gran silenzio gelato, rifletté il predone. Doveva però riconoscere che i suoi ospiti si comportavano bene... persino la ragazza, che non si era lamentata una sola volta né aveva chiesto di fermarsi o riposare. Qualcuno tra i suoi era stato meno resistente, quando aveva fatto quella traversata per la prima volta. Ormai erano prossimi al fiume, la Grande Acqua che scendeva dalle montagne: in quel luogo era ampio, con fondali mutevoli di sabbie mobili.
La gente lo chiamava ancora, come gli antichi, Doira. D'un tratto Illait si fermò, imitato da Colin. «Che cosa c'è?» chiese quest'ultimo, allarmato, imbracciando la balestra che si era fatto restituire da Tramlan. Illait era terreo, e i suoi occhi sembravano perduti oltre la nebbia e il grigio. «Morte», rispose in un sussurro. XV Sei uno stupido, capitano!» tuonò Odo di Chambéry, distogliendo lo sguardo dal vecchio con la testa fracassata che giaceva sulla soglia della capanna. «Hanno avuto quello che si meritavano!» borbottò Alcourt. «Ma i morti non parlano, capitano, e così noi non sapremo se Montsalvy e i suoi erano qui e, se c'erano, dove si sono diretti. Io odio viaggiare, e odio il freddo», aggiunse, lasciando intendere che qualcuno avrebbe finito per pagare per quel suo disagio. Alcourt non diede peso alla minaccia, ma brontolò tra sé: «Tanti uomini per nulla!» I suoi soldati avevano setacciato il campo e la zona circostante, ma senza trovare neppure una traccia. Eppure lui sapeva che Colin Bois era stato lì. Lo sentiva grazie a quell'istinto che li rendeva così simili, e questo lo rendeva ancora più furioso. Odo tornò al proprio cavallo. Non lo disturbava particolarmente la vista della giustizia sommaria di Alcourt; piuttosto c'era qualcosa nell'aria che permeava l'intera radura, qualcosa di oscuro, che gli si avvolgeva attorno come un mantello gelato e lo soffocava. Paura. Ed era la paura a serpeggiare tra gli uomini. Come aveva potuto non accorgersene prima? Soltanto Alcourt, nella sua rabbia, poteva essere al di là della paura. «Torniamo», ordinò. In quel momento, Guiscano di Susa irruppe dal sentiero, seguito dalla sua guardia. Il più giovane dei fratelli di Bosone di Susa, vassallo di Olderico Manfredi, aveva ricevuto l'incarico di aiutare Odo di Chambéry, che aveva appena stipulato un'alleanza con gli uomini del vescovo Azzago contro Amboise de Montsalvy. Una mossa in apparenza azzardata, che portava Bosone a sfidare direttamente il suo signore, ma in realtà assai meno pericolosa di quanto non sembrasse. Se la sfida si fosse risolta in un
successo, e gli alleati ne fossero usciti soddisfatti, Bosone avrebbe infatti avuto buone speranze di vedere rafforzata la propria signoria e di strappare la città e i suoi possedimenti nella valle alla Marca di Torino; se invece il piano fosse fallito, sarebbe stato Guiscano, e soltanto lui, a sopportarne le conseguenze, poiché era stato lui a portare in campo aperto sostegno ad Azzago e a Odo. Guiscano era il fratello cadetto: un bel giovane, ben proporzionato, con i capelli rossicci, gli occhi grigi e il naso aquilino caratteristico della sua famiglia. Aveva un temperamento irruente e ambizioso, i suoi uomini gli obbedivano facilmente e non mancava di coraggio. Ma era anche inesperto e ciò gli aveva impedito di capire quello che lo scaltro Odo aveva invece intuito fin dal primo istante, e cioè che Bosone era pronto, con la stessa facilità, a mostrargli gratitudine oppure a consegnarlo come capro espiatorio. La voce imperiosa di Guiscano si levò a sovrastare lo strepito dei cavalli che stavano sopraggiungendo. «Aspetta, vicario!» gridò il giovane, prima di smontare da cavallo e di guardarsi intorno, perplesso. «Che cosa c'è ancora?» replicò Odo. «Come puoi vedere, il mio capitano ha pensato che fosse meglio chiudere le bocche di questi miserabili una volta per tutte!» «Non dovevi uccidere quel vecchio», ribatté Guiscano. «Era un monaco, un eremita, ben conosciuto anche a Susa. Si diceva fosse un santo. Questo non piacerà a mio fratello.» «Il capitano gli porterà le sue scuse», rispose Odo. «Quando ne avrà il tempo, forse», commentò il giovane con un sorriso di trionfo. «I miei uomini hanno preso la sentinella che li ha avvertiti del nostro arrivo. Ma noi l'abbiamo convinto a parlare, prima di giustiziarlo. Montsalvy e gli altri erano qui.» «Allora stiamo perdendo tempo!» lo interruppe Alcourt. «Se sai dove sono diretti, muoviamoci.» «Calma, capitano! Posso capire il tuo zelo nel compiere il tuo dovere e il tuo desiderio di vendetta su chi ti ha sfregiato, tuttavia le maresche non si passano senza guida, e loro hanno la migliore: Tramlan in persona! Li sta portando a Sant'Agata, sul versante opposto della valle.» «È lontano?» s'informò Odo. «Un giorno a cavallo, sapendo dove passare. Ma loro sono a piedi. Dunque noi arriveremo prima di loro. Ho mandato a prendere un paio di uomi-
ni al borgo di Chianocchio, qui vicino, per farci da guida.» «Potremo fidarci?» «Hanno donne e bambini... se vogliono ritrovarli, sarà meglio per loro servirci bene. E poi temono la fine del Tempo, e non aiuteranno quelli che potrebbero farla cadere sulle loro teste.» «Non sulle nostre, Guiscano?» obiettò Odo. Il giovane lo fissò, incapace di comprendere se lo stesse mettendo alla prova o se quello fosse uno scherzo. «Io sono un buon cristiano, vicario», rispose infine. «Non lo metto in dubbio. Tuttavia Amboise de Montsalvy è astuto, intelligente, colto e, a modo suo, assai potente. Il capitano Colin Bois è audace e pochi gli tengono testa in battaglia... il nostro Alcourt lo può testimoniare. Quanto a Illait di Isley, il pagano, non sappiamo ancora quali e quante magie può compiere. Dobbiamo stare molto attenti.» «E... la dama? Le mie orecchie vorrebbero sentirti parlare della dama, o forse la tua veste ti impedisce di apprezzarla?» Odo ripensò alla punta della spada, ben salda nelle mani di Adelaisa di Borgogna, contro la propria gola. Non provava la minima simpatia per quella giovane che riusciva a farlo sentire un servo. «Quella dama è molto particolare», disse con un sorriso crudele, «ma è la sorella del re di Borgogna, e non deve essere toccata. E la mia veste non mi impedisce di apprezzarla, ammesso che ciò possa riguardarti.» «Bene! Lasceremo la bella dama agli uomini di Arnolfo; tu avrai il tuo pagano, il capitano Alcourt il suo nemico, e io mi terrò la testa di Tramlan, che porterò a Susa come dono di carnevale per farne il re dei folli.» «La cosa più importante, mio giovane amico, è impedire che Olderico Manfredi sappia ciò che sta accadendo in tempo utile per intervenire. E adesso muoviamoci.» «Ti avverto che non ce la faremo ad attraversare la valle prima che sia notte. Dobbiamo guadare il fiume e possiamo muoverci soltanto di giorno. Sarà necessario accamparci nelle maresche, e forse stanotte nevicherà», aggiunse il giovane, con malcelato divertimento. Poi si avviò, mettendosi in testa con la sua guardia, preceduta soltanto dalle due guide che reggevano una torcia. Affiancato da Alcourt e stringendosi nel mantello, Odo lo seguì, trattenendo a stento la risposta che la sfacciataggine del giovane gli aveva fatto salire alle labbra. La stanchezza e l'irritazione per quella caccia interminabile rischiarono, per un istante, di sopraffarlo. Era stata soltanto la lungimi-
ranza di Chaffre - che aveva mandato un drappello di cinquanta uomini sulle loro tracce senza neanche attendere i messaggi dell'abate di SaintRémy - a far sì che riuscissero a liberarsi della custodia di Meritrieux, a Bramans. Il villaggio, le cui rendite erano vitali per il vescovo di SaintJean-de-Maurienne, non era stato toccato, ma Alcourt stesso aveva tagliato la testa al locandiere e ai suoi figli, e quattro altri uomini erano stati impiccati. Poi avevano dovuto risalire al valico e scendere senza soste fino a Susa, non osando far nulla apertamente contro l'abbazia della Novalesa, giacché l'abate Gezone era uno dei potenti che Chaffre de Revard non poteva sfidare; così avevano dovuto agire d'astuzia per costringere Montsalvy a lasciare la protezione dell'abbazia... Incupito da quelle riflessioni e scosso dai brividi, Odo ebbe l'impressione di essere in viaggio da un intero secolo; se c'era una maledizione che il pagano doveva aver richiamato sulle loro teste, era certamente quella di un inverno perenne, con una terra fredda e ostile, che non avrebbe mai più conosciuto la primavera. Sì, i due servi che lo seguivano avrebbero montato per lui una tenda di pelli di lupo, tenendo acceso il fuoco per tutta la notte, ma ciò non sarebbe bastato a farlo sentire meno infelice. Invidiava Chaffre de Revard, all'asciutto nel suo palazzo, con le belle giovani che danzavano per lui e il fuoco nel camino... Se ne sarebbe ricordato, quando fosse giunto il momento di riscuotere la ricompensa. Placato da quel pensiero, Odo quasi si assopì, seguendo l'andatura tranquilla del cavallo. Cominciava a nevicare. Guadarono il fiume prima che facesse buio, seguendo le orme pesanti di Tramlan sullo spolverio di neve fresca che copriva il ghiaccio. Al centro, il fiume era troppo sottile per reggere il loro peso, tuttavia d'inverno non c'era molta acqua, e i punti di corrente potevano essere superati piuttosto agevolmente. Gli uomini di Tramlan tesero una corda da una parte all'altra di ogni passaggio più difficile e, con quel sostegno, tutti riuscirono ad attraversare il corso d'acqua senza danni. Non appena al di là il predone li portò su una lingua di terra asciutta, tra una fitta boscaglia di ontani e di rovi, dove s'innalzavano gli scheletri di un paio di ripari di canne e frasche. Gli uomini tagliarono rapidamente una buona quantità di rami dai rovi più bassi, rinforzandone la copertura e infittendola, e fecero lo stesso con le pareti laterali in modo che reggessero al vento.
Poi ciascuno si avvolse alla meglio nei propri mantelli; Tramlan ordinò i turni di guardia e Colin fece lo stesso con i propri uomini. Il predone si ritirò quindi in uno dei ripari, lamentandosi di tutto quello che gli capitava a tiro: della cattiva sorte che gli aveva fatto incontrare quei viaggiatori e dell'idea ancora peggiore che essi avrebbero potuto essere una fonte di guadagno. Infine anche Colin raggiunse Amboise, Illait e Adelaisa nel riparo. Munir stava rannicchiato con aria infelice tra Aurac e Bert, con le braccia strette attorno alle ginocchia, mentre Bert sgranocchiava un pezzo di pane di segala più duro della pietra e Aurac raccontava storie di antiche cacce ai draghi e ai pagani che ne erano i signori. «Risparmia il fiato, Aurac!» fu l'ordine secco di Colin, mentre questi raggiungeva il fondo del riparo. Adelaisa gli fece posto e Colin le si sedette accanto, grato di quella premura. Amboise e Illait gli stavano di fronte, ciascuno avvolto nel proprio mantello. Colin li imitò, tirandosi il suo fin sul capo. A tratti, portata dal vento, qualche spruzzata di nevischio penetrava nel riparo, ma la terra era abbastanza asciutta e nemmeno troppo gelata, almeno in quel punto. Colin chiuse gli occhi e rammentò il luminoso giorno di maggio che lo aveva accolto quando si era trovato davanti all'Albero del Mondo. E all'improvviso non c'erano più il freddo e il buio, lo scricchiolio sinistro dei rami nudi e il verso dei lupi, la stanchezza e la paura. C'era soltanto un benefico calore, una sensazione di pace e di pienezza. Quando si riscosse era buio fitto, e il capo di Adelaisa poggiava sulla sua spalla. La giovane era addormentata e così pure Amboise, rannicchiato come meglio poteva, data la sua schiena dolorante. Il giovane capitano passò un braccio attorno alle spalle di Adelaisa e la strinse a sé per scaldarla. Lei, senza svegliarsi, sorrise. Colin non si era mai sentito come in quel momento. Poi scoprì Illait, di fronte, che lo guardava. «Ma non dormi mai, tu?» borbottò. «Hai visto che non è difficile?» ribatté l'altro, ignorando il suo rimprovero. «Se davvero lo vuoi, la tua mente è libera.» «Ma io non ho fatto niente e non ho chiesto niente!» «È questo il punto», rispose Illait. «Ti sei affidato a quella parte di te che fino a ora non aveva potuto affiorare. È il tuo spirito, la tua anima profonda, la tua memoria antica. Non appena libera, ha trovato la via.» Colin scosse il capo; non dubitava più delle parole di Illait, ma ancora
doveva abituarsi a esse e soprattutto non voleva che lo confondessero. «Siamo al sicuro qui?» chiese. «Su questo sentiero non saremo mai al sicuro», mormorò Illait, e chiuse gli occhi, per evitare che Colin potesse vedere ciò che lui aveva visto e che la pena potesse in qualche modo strapparlo a quel benessere appena conosciuto. Era passata l'ora nona quando scorsero il campanile basso e quadrato di Sant'Agata e il villaggio, circondato da muretti a secco e lambito dalla strada che scendeva, sul versante a settentrione, da Susa verso la bassa valle. La neve si era mischiata alla pioggia; il terreno era fradicio e bruno, l'erba ingiallita affiorava dai mucchi di neve sporca. Le soglie delle capanne erano tutte chiuse e così anche le porte delle stalle. «C'è qualcosa che non mi piace!» disse Tramlan, fermandosi e facendo cenno a due dei suoi di andare avanti. «Conosco questo posto e la sua gente; non mi sono nemici. Ho persino alcuni parenti qui. Non ho mai preteso altro da loro che il pedaggio quando attraversavano il fiume!» «Zitto!» gli intimò Colin. «Lasciaci ascoltare!» «Ascoltare che cosa?» mormorò Aurac. «Il silenzio», intervenne Illait. «Né la foresta né un villaggio sono mai assolutamente silenziosi... Questi invece lo sono.» «Ecco quello che manca!» esclamò Tramlan. «È forse diventato un villaggio di spettri?» «Saliamo più in alto e aggiriamolo. Non passiamo sulla strada», ordinò Colin. «Che ne sai tu di dove si può passare?» ribatté Tramlan. «Il capitano ha ragione», approvò Amboise. «Possiamo aggirare Sant'Agata senza fermarci.» «No! Io devo mangiare, e anche i miei uomini e anche i tuoi, se vuoi il mio parere. Nessuno va molto lontano senza cibo e con questo freddo. Inoltre il nostro patto si chiude qui... Insomma, maledizione, voglio mangiare!» «Accomodati!» lo invitò Colin, facendosi da parte. Tramlan raccolse quella che gli sembrò una sfida e si mosse, ordinando ai suoi di seguirlo. Colin fece cenno agli altri di stare pronti e imbracciò la balestra. Per niente al mondo poteva distrarsi, non in quel momento. Eppure era distratto.
Adelaisa. Senza volerlo, il suo sguardo correva sempre verso di lei, cogliendo il modo in cui il vento le modellava addosso gli abiti maschili e il mantello, notando come le sollevava i riccioli attorno al viso e come lei li tratteneva, imprigionandoli nelle lunghe dita e rimirando il colore dei suoi occhi, che si illuminavano e sorridevano quando lo guardava. Il desiderio per Adelaisa lo stava divorando, simile a un dolore acuto e tuttavia sorprendentemente piacevole. Amboise imprecò e Colin tornò in sé, accorgendosi che una piccola folla urlante, brandendo pietre e bastoni, stava uscendo dal paese per farsi incontro a Tramlan. «Che cosa gli abbiamo fatto?» mormorò Aurac, mentre Munir cercava prudentemente riparo dietro di lui. «Qualunque cosa sia, ci stavano aspettando e sanno chi siamo!» constatò Amboise. «Via! Saliamo verso la montagna!» Alcuni uomini del predone furono raggiunti dalle pietre e presero a gridare. Uno, colpito alla fronte, cadde a faccia in giù nel fango, e Tramlan stesso lo tirò su, afferrandolo per la giubba. «Maledetti!» urlò. «Giuro che brucerò ogni casa e ogni uomo di questo villaggio!» «Vieni via!» gli intimò Colin. «O non ci saranno che le tue ossa, da bruciare.» Tutti ormai stavano correndo verso il pendio lungo il fianco della montagna, benché, dopo un giorno di digiuno e con una notte di freddo nelle ossa, le energie cominciassero a esaurirsi. La neve alta e fradicia e le asperità nascoste del terreno, poi, non agevolavano affatto la loro fuga. Illait comunque riusciva ancora a essere il più veloce e Adelaisa era l'unica a stargli al passo; il giovane la teneva per mano, eppure non la stava trascinando. «Sembra che quei due abbiano le ali ai piedi!» bofonchiò qualcuno, arrancando alle spalle di Colin, che si era attardato ad aspettare Amboise. In quel momento la campana della chiesa di Sant'Agata prese a suonare, sovrastando le urla della gente del villaggio, che aveva smesso d'inseguirli. Poi, d'un tratto, sbucarono gli uomini a cavallo, in parte dalla strada bassa che lambiva il paese, in parte dal lato opposto del paese stesso, sul limitare del pendio. Fu Illait a rendersi conto che li stavano circondando, e che sarebbero piombati addosso a lui e ad Adelaisa prima che agli altri. «Corri!» ordinò ad Adelaisa. Poi si fermò un istante e, quando fu sicuro
che gli uomini lo avessero visto, fuggì nella direzione opposta a quella della giovane. «No!» urlò Adelaisa, rendendosi conto dello stratagemma di Illait e fermandosi d'improvviso. Seppur da lontano, Colin riuscì a vedere l'intera scena: Illait che correva; Adelaisa immobile, con le braccia protese in avanti in un gesto disperato e i cavalieri lanciati all'inseguimento. Ma fu una visione fugace; un soldato che aveva appena ucciso con un fendente uno degli uomini di Tramlan, si catapultò infatti contro di lui, costringendolo a bloccare con la spada il colpo che stava per abbattersi sul suo capo. Poi, mentre Munir strillava e Amboise gli urlava qualcosa d'incomprensibile, Colin afferrò l'uomo in sella, disarcionandolo, e questi dovette lasciare la spada. Immediatamente un altro gli fu addosso; Colin se ne liberò e riuscì ad afferrare Munir, caduto poco oltre, e se lo tirò dietro per una ventina di passi. «Coraggio!» gli urlò, scaraventandolo nel folto di un cespuglio, senza che l'ometto potesse reagire. Nello stesso istante scorse Amboise. Si trovava più in alto rispetto a lui e si stava difendendo bene: il suo avversario era in ginocchio con un taglio alla gola e probabilmente non aveva avuto neppure il tempo di vedere l'arma, perché il signore di Montsalvy usava una spada corta e affilatissima. Poi finalmente distinse Adelaisa; un paio di cavalieri la inseguivano, ma lei stava ormai per raggiungere il bosco e non pareva affatto stanca. Non gli riuscì di vedere Illait. «Colin Bois!» si sentì chiamare. Girandosi con la spada alzata, si trovò davanti Alcourt che, trascinato dall'impeto del proprio cavallo, lo sorpassò. L'uomo trattenne con violenza l'animale, costringendolo a girare, e ripiombò su Colin, che tentò di disarcionarlo. La spada di Alcourt lo raggiunse di striscio alla spalla, senza ferirlo; nell'impatto, però, l'uomo in sella rischiò di cadere e, nel tentativo di mantenere l'equilibrio, colpì l'avversario con un calcio in pieno viso. Colin scivolò e cadde. Fu in quel momento che sentì Adelaisa gridare. Si rialzò con un balzo, ignorò Alcourt - lasciandolo a Bert, che era accorso in suo aiuto -, e si mise a correre in direzione della giovane: uno dei cavalieri l'aveva afferrata e la stava sollevando sulla sella. Qualcuno gli gridò un avvertimento, e Colin si girò in tempo per abbattere con un fendente il soldato che gli era piombato alle spalle; subito do-
po, però, cadde bocconi sotto la spinta di un altro, che gli strappò la spada dalle mani. Rotolarono avvinghiati nella neve, mentre l'uomo gli spingeva la testa nel fango alto un palmo stringendogli al contempo la gola con un braccio. Con i polmoni quasi vuoti e la bocca piena d'acqua, Colin riuscì tuttavia ad abbrancare un corto ramo nodoso e a spingerlo con forza all'indietro, nello stomaco del suo aggressore, costringendolo così ad allentare la presa. Poi, rivoltandosi nella neve, il giovane capitano sferrò un colpo con il gomito, prendendo il soldato in pieno viso. L'uomo urlò, accecato dal sangue, e Colin, afferrato il pugnale che portava alla cintura, gli tagliò la gola. Tutto il pendio ormai pullulava di uomini che si battevano; gli unici suoni erano le alte urla di dolore e il cozzare violento delle spade. E quando Colin riuscì a scrollarsi di dosso l'aggressore ormai morto e a rimettersi in piedi, di Adelaisa non c'era più traccia. XVI Repentina e inspiegabile, un'oscurità crepuscolare si distese sugli uomini, e la neve cominciò a cadere così fitta e con tale furia da avviluppare tutto in un violento turbinio gelido. Poi, come per un prodigio spaventoso, lo schiocco luminoso di un fulmine attraversò il cielo, e la terra sembrò scuotersi nel profondo al rombo del tuono. Quel temporale fuori stagione era un evento di cui nemmeno i vecchi, nelle loro storie, avevano mai parlato; un accadimento estraneo all'ordine naturale degli eventi e dunque foriero di qualcosa di orribile. Forse era davvero cominciata la fine del Tempo. Mentre gli uomini di Alcourt e quelli di Guiscano di Susa, confusi nella bufera di neve, giravano i cavalli, tuffandosi verso la strada di fondovalle, una voce si alzò: «Colin! Colin, stai bene?» Era Amboise, che arrancava verso di lui cercando di non inciampare nei morti, mentre Munir gli trotterellava dietro, reggendosi un braccio sanguinante. «Sono soltanto graffi», rispose il capitano. «Dobbiamo radunarci subito e trovare Adelaisa. L'ho sentita gridare e poi non l'ho più vista.» «L'ho sentita anch'io», ammise Amboise. «L'hanno portata via!» s'intromise Munir. «Dal cespuglio dove mi hai nascosto li ho visti passare. Uno la teneva di traverso sulla sella, davanti a sé, e l'altro cavaliere lo precedeva al galoppo.»
«Era ferita?» «Non lo so. Però non si muoveva.» Amboise scosse il capo. «Non sono così pazzi da uccidere la sorella del re di Borgogna. Per gli uomini di Arnolfo è importante che lei non arrivi da Olderico, ma, al di là di questo, Odo è libero di servirsene per fare pressione su di noi. Dobbiamo trovare Illait!» Poco lontano, si alzò un grido: era Tramlan, che richiamava i suoi. Si avviarono a raggiungerlo, scoprendo così alcuni uomini di Colin che reggevano Bert, apparentemente privo di vita. «Ci aspettavano, dannazione!» tuonò Tramlan non appena riconobbe Colin e Amboise. «Mi sono rimasti soltanto sette uomini e alcuni di loro sono feriti, ma quei maledetti hanno avuto quello che si meritavano e adesso anche il paese avrà la sua parte!» «Ma questa è la fine!» esclamò uno degli uomini. «Non avete visto il fulmine? L'avevano detto che sarebbe successo!» «Sì, l'avevano detto!» gli fece eco un altro, poi s'interruppe, impietrito, perché dal sipario della neve e del buio era comparso Illait di Isley. Era illeso. In quel momento il fulmine colpì il campanile della chiesa, e il tuono fu così poderoso da far tremare la terra. La frustata dell'aria smossa li investì: qualcuno cadde in ginocchio e, ricordando di essere stato battezzato, si fece il segno della croce. «Vedi, Tramlan?» disse Colin, indicando le fiamme che si stavano alzando rapidamente dalle strutture interne del campanile e da un fienile attiguo. «Ti ha risparmiato la fatica. La prossima volta stai attento a desiderare qualcosa.» «Muoviamoci», li riscosse Amboise. Si avviarono verso il paese, scoprendo sulla loro strada una gran quantità di cadaveri sui quali la neve si stava accumulando con straordinaria rapidità. Alcourt e i suoi alleati avevano pagato a caro prezzo l'imboscata. Gli abitanti di Sant'Agata, abbandonati a terra pietre e bastoni, si erano radunati davanti alla chiesa in fiamme e osservavano stupiti la neve che si mischiava al fuoco. Il silenzio che gravava sul paese vibrava di paura e di smarrimento. All'apparire del gruppo capeggiato da Colin e Amboise, la piccola folla si aprì: qualcuno si affrettò a pregare, qualcun altro borbottò, altri ancora fuggirono a nascondersi. Tuttavia nessuno si chinò a raccogliere i bastoni.
«Là!» ordinò Amboise, indicando il rifugio destinato ai viaggiatori di passaggio nella buona stagione. Era una piccola costruzione di tronchi e pietre, con una porta bassa e larga che gli uomini di Tramlan aprirono a calci. «Voglio fuoco nel camino, da mangiare e da bere, bende e acqua calda per i feriti e vino!» gridò il predone, alzando un pugno minaccioso. «E se sento qualcuno fiatare lo appendo ad arrostirsi alle rovine della sua chiesa!» «Perché dici queste cose, Tramlan?» ribatté un uomo che doveva essere il capo del villaggio. «Tu sei dei nostri, hai il nostro sangue! Perché ci hai portato addosso la maledizione? Il mondo finisce stanotte e noi saremo dannati per colpa tua!» «Tu parli di sangue?» Tramlan lo sollevò dal suolo prendendolo per la giubba. «Tu ci hai venduti, e io ti sgozzerò come una gallina prima che sia domani, per questo!» «Mettilo giù, Tramlan», intervenne Amboise. «Non avevano scelta. Li avrebbe sgozzati Alcourt.» Tramlan lasciò di scatto l'uomo, che barcollò per qualche istante prima di rientrare nell'abbraccio protettivo della sua gente. «Non portiamo nessuna maledizione, e il mondo non finirà stanotte!» intervenne Amboise, deciso. «Domattina sarete ancora tutti qui, con una chiesa da ricostruire e tanta neve da spalare. Adesso però abbiamo molti feriti di cui ci dobbiamo prendere cura, quindi portateci quello che Tramlan ha chiesto!» «Guiscano di Susa ha portato via il nostro prete», si lamentò un altro, facendosi coraggio. «E anche le nostre provviste, per dar da mangiare ai suoi soldati.» «Il fratello cadetto!» mormorò Amboise, entrando nel rifugio. «Avrei dovuto immaginarlo, per la quantità di uomini che ci siamo trovati addosso; e pensare che Gezone mi aveva avvertito delle mire di Bosone sulla signoria di Susa!» La stanza in cui si ritrovarono era lunga e stretta, con un po' di paglia sparsa sul suolo di terra battuta, un paio di panche e un focolare di pietre. Mentre Munir e Aurac accendevano il fuoco, gli altri portarono i feriti sulla paglia, coprendoli con ciò che avevano. Colin si appressò a Bert; l'uomo stava con gli occhi chiusi e una gran macchia di sangue sul petto gli aveva intriso anche la giubba pesante. Illait, che gli stava accanto, gli posò una mano sulla fronte e, a quel tocco, il viso contratto in una smorfia di
dolore si distese. «Mi dispiace, amico mio», disse Colin, chinandosi su Bert e posandogli una mano sulla spalla. L'altro sollevò appena le palpebre, annuendo per fargli capire che ancora poteva sentirlo. «Non dovevo lasciarti quel pazzo di Alcourt!» aggiunse Colin. Bert lo ignorò. Non aveva più importanza e lui non aveva più tempo. Guardò Illait. «Mio figlio?» mormorò. «Chiudi gli occhi e lo vedrai», sussurrò il giovane. L'altro obbedì. Le lunghe dita di Illait scivolarono sul viso di Bert e, quando si ritrassero, l'uomo era morto. Colin rimase un momento ancora chino, poi avvertì la mano di Amboise sulla spalla. «Mi dispiace», disse. «Ne moriranno altri due, prima che faccia giorno.» Colin annuì, sollevandosi. I suoi uomini si erano battuti bene, ed erano stati degni del buon ingaggio e del rispetto che l'appartenere alla sua compagnia aveva dato loro. Di questo poteva essere fiero. Fece un cenno ad Aurac e a un altro. «Qui di fianco c'è un fienile. Portatelo lì», ordinò, poi li seguì fin sulla soglia. Il riverbero dell'incendio, che tuttavia andava spegnendosi, dilagò dalla porta aperta. La bufera sembrava quietata, e ormai l'acqua era più abbondante della neve, ma i fulmini e i tuoni non cessavano. La gente si era riunita davanti alla chiesa e pregava come meglio sapeva, sotto la guida di un vecchio. Dalle rovine sfrigolanti si alzava ancora un denso fumo. Nella notte ormai fonda, gli uomini e le donne di Sant'Agata aspettavano la fine del mondo e la dannazione che si erano meritati. «Non era questo che avevamo pattuito!» brontolò Tramlan, mentre Amboise si prendeva cura della sua ferita. «Non ti lamentare», lo apostrofò Colin. «Puoi disporre del medico dei re!» «Un re e un pezzente sono fatti nello stesso modo. Che mi importa se lui è il medico dei re? Preferirei non essere ferito.» «Questo dovrebbe insegnarti a lasciare in pace i viaggiatori», replicò Amboise, tirando via dalla ferita la stoffa intrisa di sangue rappreso. Tramlan gli allontanò bruscamente la mano, ma un istante dopo si trovò
un corto e affilatissimo pugnale contro la gola. «Fallo un'altra volta e ti taglio il collo», lo ammonì Amboise. Poi girò il pugnale per aprire l'ultimo pezzo di tela e portare a nudo lo squarcio. Era profondo: aveva certamente leso i muscoli della spalla. Era soltanto la fibra del predone a farlo sembrare un graffio. «E io che pensavo fossi un vecchio innocuo!» borbottò Tramlan. «Nessuno di voi è innocuo. Avrei fatto meglio a seppellirvi tutti nelle maresche e non pensarci più!» «Era già troppo tardi», intervenne Colin. «Alcourt ti avrebbe trovato comunque, e non ti avrebbe creduto. Così ti avrebbe tagliato la testa. È la sua abitudine.» «Era lui con Guiscano di Susa, oggi?» «Già, e con molti più uomini di quando lo abbiamo lasciato. Che cosa sarà accaduto a Bramans?» si chiese Colin. «Si è liberato da solo oppure è stato liberato da qualcuno... Forse Chaffre ha mandato rinforzi», ipotizzò Amboise; si prendeva cura della ferita, tuttavia continuava a seguire con lo sguardo Illait di Isley, come se si aspettasse qualcosa. Come al solito, il giovane cercava di tenersi in disparte; a ogni buon conto i feriti non volevano farsi toccare da lui e soltanto Munir aveva accettato le sue cure. Tutti, persino gli uomini di Colin che ormai lo conoscevano, avevano paura di averlo vicino in quella notte così particolare. «C'è qualcuno fra i tuoi che sia un buon corridore, Tramlan?» chiese Amboise, mentre aspettava che il coltello dalla larga lama piatta si arroventasse. «Perché me lo chiedi? Il nostro patto ormai è chiuso e io sono libero.» «No, non lo sei. Hai combattuto al nostro fianco: sei segnato, Tramlan. Colin, vuoi tenerlo?» chiese poi e, non appena il giovane lo ebbe afferrato per le braccia, appoggiò il coltello rovente sulla ferita. Tramlan cacciò un urlo selvaggio, ma Amboise non si scompose. «Ecco, la ferita è pulita e non dovrebbe infettarsi. Domani potrai camminare: adesso però riposati. Ma prima rispondi alla domanda che ti ho fatto.» Tramlan imprecò sottovoce, liberandosi in malo modo dalla stretta di Colin. «Risson, il ragazzo, è veloce e ancora tutto intero. Che ne vuoi fare?» «Che mi dici di Aurac, Colin?» chiese Amboise senza rispondergli. «Anche lui è buon corridore.»
«Bene. Li faremo andare via subito. Devono raggiungere Avigliana e il castello di Arduino: lui penserà ad avvertire Olderico a Torino. Il tuo ragazzo saprà trovare la strada, Tramlan?» «Certo. Risson è un ragazzo sveglio ed è già stato una volta fino ai laghi. Se la caverà.» «Bene: preparerò un messaggio per Arduino e per suo padre Oddone. Se Odo si è spinto a rischiare così tanto, significa che non ha quasi più risorse oppure che ha un secondo fine: attirare Olderico in qualche trappola per ricompensare Guiscano dell'aiuto.» Il vecchio comparve sulla porta in quel momento; sembrò sulle prime che fosse quello che stava guidando la gente di Sant'Agata nella preghiera, tuttavia, quando si liberò dalla tela di sacco bagnata che aveva sulle spalle, avvicinandosi al fuoco, Tramlan, sorpreso, riconobbe l'eremita. «Posso sedermi al vostro fuoco?» chiese il vecchio con un sorriso. Gli uomini gli fecero posto, stupiti. «Come fai a essere qui?» esclamò Tramlan. Il vecchio scosse il capo, cercando e trovando gli occhi di Illait di Isley. «Ho camminato», rispose semplicemente. «È un peccato che il fulmine abbia colpito la chiesa», mormorò poi. «Era così antica! Una delle prime della valle.» «Le pietre ricordano, e con quelle pietre gli uomini ne costruiranno un'altra», gli rispose Illait, avvicinandosi a sua volta al fuoco. Per un momento, come già era accaduto nel rifugio del predone, i due si guardarono al di sopra della cresta luminosa e le fiamme si piegarono. «Sei venuto a parlar di chiese?» sbottò Tramlan. «Non vedi che strana notte è questa? Non hai visto i fulmini come se fosse estate mentre cadeva la neve?» «Sì. Ho visto i fulmini e la neve», rispose l'eremita, continuando a fissare Illait. «Che cosa posso fare per te?» chiese il giovane. Il fuoco tra loro si fece tanto basso da uscire dal focolare di pietre, strisciando sulla terra battuta tutt'attorno. Gli uomini arretrarono di scatto, impauriti, avvertendo la presenza di qualcosa che non riuscivano a comprendere. «Tu mi hai ridato la vista, mostrandomi il futuro. Era qualcosa che aspettavo da tanti... tantissimi anni! Ed è stato... come tornare a vivere... come abbracciare l'universo!» esclamò l'eremita, lasciando fluire l'emozione e la gioia che provava. «Così domani io ti mostrerò la strada, perché
dovrai essere tu a guidarli.» «Mi dispiace... non era un buon futuro.» «Tu puoi vedere, non disporre. Non dispiacerti per la volontà del Signore e non dimenticare la sorgente da cui tutto sgorga.» Il vecchio si alzò, si risistemò sulle spalle la tela di sacco che gli fungeva da mantello e uscì. Aurac gli corse dietro, ma si fermò appena oltre la porta. «È sparito!» esclamò. «Era lì un momento fa, e non c'è più!» Colin lo raggiunse. Ma sotto il nevischio misto ad acqua c'erano soltanto gli abitanti di Sant'Agata, ancora raccolti in preghiera. Tramlan si strinse addosso il mantello. All'improvviso tutti sentivano un gran freddo. «È una strana notte davvero, questa. Noi abbiamo visto l'eremita, ma lui non era veramente qui, e fra tutti ha scelto te!» disse il predone, lanciando un'occhiata ostile a Illait. «Questa dev'essere davvero la fine del Tempo.» «Ma noi siamo pronti, non è vero?» gli rispose Amboise. Il predone gli lanciò un'occhiata a mezzo tra la disperazione e il terrore, ma rimase in silenzio. Amboise affidò ad Aurac il breve messaggio che aveva scritto per Arduino e per suo padre su un pezzo di tela, e Colin accompagnò i due ragazzi fino ai muretti a secco che segnavano i confini del villaggio. Risson era poco più che un adolescente dai capelli rossicci, il naso grosso e le lunghe gambe magre. Sembrava piuttosto confuso e Colin, rendendosene conto, gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. «Sei armato, ragazzo?» gli chiese. «Ho il mio pugnale.» Colin annuì, poi si rivolse ad Aurac. «La nostra vita dipenderà da voi. Non perdetevi.» I due assentirono, sgusciando via nel buio. Lanciando un'occhiata distratta alla gente del villaggio, Colin tornò al rifugio. Illait lo aspettava sulla porta e la sua ombra, proiettata da una torcia appesa accanto all'uscio, si allungava, ondeggiando all'intorno. Colin fissò il giovane, perplesso. «Come può esserci il fulmine con la neve?» gli domandò. «Che cosa può avere in comune l'inverno con l'estate?» «Le forze che impregnano terra e cielo e uomini non conoscono stagioni, e il fulmine è la manifestazione di una di queste forze. Facile in estate e
rara d'inverno, e tuttavia naturale.» «È difficile credere che non sia opera di qualcuno.» «Di un mago?» sorrise Illait. «Sì, di un mago. Io ti ho pur visto far scendere la nebbia!» Illait abbassò lo sguardo. Quando assumeva quell'atteggiamento schivo, Colin non sapeva che cosa pensare, perché Illait di Isley sembrava assolutamente innocente. «E scommetto che sai anche far alzare il vento e cadere la pioggia», borbottò. «Sì, di solito mi riesce bene», rispose Illait. Il tono era stato lieve, ma lo sguardo che il giovane aveva alzato sull'altro era grave e misterioso. «Perché l'eremita è venuto qui?» insistette Colin. «Non era davvero lui, anche se tutti lo abbiamo visto e sentito. Era uno spettro? Voleva dirci qualcosa?» «Qualcosa che ci servirà domani, sì. Alcourt l'ha ucciso, ieri, con tutti quelli che Tramlan ha lasciato al campo.» Colin tacque, sopraffatto dalla forza che li avvolgeva. E, in quell'istante, lo sconcerto per gli eventi straordinari cui aveva assistito si fuse con quelle emozioni che aveva cercato di tenere a freno sino ad allora: il furore per la perdita di Adelaisa, la paura che le avessero fatto del male e l'amarezza per il destino che attendeva entrambi. Purché viva, pensò. È promessa a un altro e io posso, devo rinunciare a lei. Purché viva, e sia felice. «Non temere, è viva», gli mormorò Illait. «E avrebbe potuto salvarsi, se non si fosse fermata quando le ho ordinato di correre.» Il giovane capitano non gli rispose. D'un tratto si sentì esausto, svuotato. Si girò verso la gente, non sopportando oltre la litania disarmonica delle preghiere e dei lamenti. «Andatevene a dormire!» urlò. «Chiudetevi nelle vostre case e aspettate l'alba. Il mondo non finirà stanotte. Da domani la vostra nuova chiesa sarà consacrata a Sant'Antonino, e anche il paese cambierà nome.» La folla, sbalordita, si zittì ma rimase immobile, ondeggiando. «Questo è un ordine! Muovetevi!» aggiunse allora, portando la mano all'impugnatura della spada. «L'eremita sarà contento; anche se la gente non si ricorderà di lui, questo posto porterà ancora il suo nome tra mille anni», lo quietò Illait, osservando gli uomini e le donne che sciamavano lentamente verso le loro case e spingendo Colin a rientrare nel rifugio.
Avevano bisogno di riposo, come tutti, ma l'atmosfera che si respirava nella piccola stanza era tesa: ben pochi erano riusciti a prendere sonno o desideravano farlo. L'unico che dormiva era Amboise de Montsalvy. L'alba si levò, grigia, sporca e velata di pioggia; la neve era stata lavata via dall'acqua e sul declivio erano visibili i corpi dei morti del giorno prima. Le rovine della chiesa e del fienile erano scheletri nerastri, ma qualche gallina era tornata a razzolare tra le casupole, e dagli sfiatatoi usciva il fumo dei focolari. Sebbene nessuno lo dicesse apertamente, per timore o per una specie di pudore, il pensiero di tutti era uno solo: nemmeno quella notte terribile era stata l'ultima. Il Tempo non era finito. Il messaggero arrivò mentre Amboise stava assistendo i feriti. I due più gravi erano morti nella notte, gli altri - Tramlan compreso - sarebbero stati in grado di muoversi quel giorno stesso. Colin trascinò il messaggero fin davanti al rifugio e, quando Amboise ne uscì, seguito da Illait, allentò la stretta al collo del malcapitato. «Parla, e alla svelta!» fu il suo ordine brusco. «Il messaggio è per il signore di Montsalvy!» ribatté l'uomo, tentando di ritrovare una certa dignità. «Sono io Amboise de Montsalvy», intervenne Amboise. «Il mio signore, Odo di Chambéry, con il suo alleato Guiscano di Susa, tiene la tua dama nella casaforte della Chiusa, residenza provvisoria dell'abate Adverto di Lézat. Se la rivuoi, devi venirti a consegnare, disarmato e accompagnato soltanto da Illait di Isley. Tutti e tre sarete riportati a Chambéry e consegnati al vescovo Chaffre de Revard, che s'impegna ad affidarti con la tua dama all'abate di Cluny. La tua scorta e gli uomini che ti accompagnano sono liberi.» «È una buona offerta!» commentò Colin con un sorriso feroce. «Oppure?» chiese Amboise. «La tua dama verrà chiusa in un convento con un altro nome, e nessuno potrà ritrovarla; tu stesso e gli uomini che ti accompagnano sarete uccisi. Il villaggio sarà distrutto: gli uomini verranno giustiziati e le donne e i bambini venduti in luoghi lontani.» «Il vicario del vescovo di Chambéry non si è dimenticato di nulla!» esclamò Amboise. «Io ti riferisco quanto mi è stato detto, signore», replicò l'uomo. Amboise annuì, imperturbabile. «Puoi dire al tuo signore che fra quattro giorni Illait di Isley e io saremo alla Chiusa. Digli anche di trattare con
riguardo la dama. Se dovesse accaderle qualcosa, qualunque cosa, noi lo sapremo.» L'uomo chinò il capo in segno di assenso. Colin lo riafferrò e lo sbatté di peso sul cavallo, che poi incitò rumorosamente, tanto che l'animale partì schizzando fango da tutte le parti, spaventato. Allora Amboise si rivolse a Colin e a Illait. «Gli eserciti sono sempre stati fermati nella strettoia della valle. Costantino si è scontrato lì con Massenzio e i Longobardi hanno fortificato le strettoie, quelle che ancora chiamiamo Chiuse, per fermarvi prima Pipino e poi Carlo Magno. Ma nell'abbazia di Cluny ho visto una vecchia mappa, con il tracciato del sentiero seguito da re Carlo: un sentiero ad alta quota, che lo portò dietro le Chiuse, permettendogli di battere re Desiderio e suo figlio Adelchi, prendendoli alle spalle. Quel sentiero gli era stato indicato da uomini della valle che conservavano la memoria del Tempo. È quella la via di cui ha parlato l'eremita, Illait?» La risposta del giovane fu un lieve cenno del capo. Era quella, la via. XVII Non temere, mia signora. Non ti sarà fatto del male.» Adelaisa sollevò la testa e l'abate Adverto di Lézat poté finalmente scorgere il viso della fanciulla e lo splendore inquietante dei suoi occhi verdi. Le serve avevano fatto un buon lavoro. Dopo il bagno, i capelli di Adelaisa erano stati lavati e pettinati e la pelle del viso, maltrattata dal freddo, era stata addolcita con un unguento di rosa selvatica, malva e latte; infine le era stato trovato un abito adatto alla sua figura, di fine lana color foglia, con un bordo ricamato e una sopravveste più scura. Un sottile cerchio d'oro le tratteneva i capelli ma neanche il velo che le arrivava alle spalle riusciva a nasconderli. «Io credo, abate, che l'avermi sottratta con la forza a chi mi accompagnava per poi tenermi qui sia comunque un'azione riprovevole.» L'uomo scosse il capo, afflitto. Aveva passato la mezza età, e la sua figura era asciutta e solenne; non tentava di nascondere come l'evento che si trovava a fronteggiare era per lui fonte di grande pena. «Il nobile Guiscano ha detto di averti liberata... devo credere alla sua parola, se è vero che nella tua compagnia c'era il predone Tramlan, che è una sciagura per questa valle.»
«Ma c'è anche il signore di Montsalvy, cui mio fratello mi ha affidata, e che mi stava accompagnando dal mio sposo. Trattenendomi, tu fai torto a Olderico Manfredi, e questa terra è sua.» «Lo era. La tua compagnia mi pare comunque molto strana, mia signora. Mi hanno parlato di mercenari...» «La nostra scorta! Il capitano Bois e i suoi uomini, fedeli al signore di Montsalvy.» «... e di un pagano. Una presenza terribile e un grave pericolo in questi tempi così bui!» «Non c'è nessun pagano nella mia compagnia.» «Tu menti, signora.» Adelaisa non si scompose né si girò verso il nuovo arrivato, che Adverto invece accolse con un moto di fastidio. Odo di Chambéry non gli piaceva. «Se stai parlando del signore di Isley, figlio di un principe del cristiano re Malcolm di Scozia, posso dirti che l'ho visto con i miei occhi piegare un ginocchio a terra e accettare la benedizione dell'eremita Antonino, il monaco santo della montagna.» «Allora dobbiamo tutti gioire per quest'evento, e darne notizia! Paura e odio nei suoi confronti sono stati seminati come grano in tutta la valle», esclamò Adverto, ponendosi di fronte al suo ospite e impedendogli di avvicinarsi oltre ad Adelaisa. «Se è così, mi unisco alla gioia per la sua anima», ribatté Odo. «Tuttavia il capitano Alcourt, scoprendo il rifugio di questo predone, non ha fatto distinzioni e tutti quelli che vi si trovavano sono stati giustiziati. Così sei soltanto tu a sostenere questa conversione, sempre respinta con tenacia da quel pagano nonostante la pia opera del mio vescovo.» Adelaisa sostenne impassibile il suo sguardo. «Dubiti delle mie parole?» replicò. Suo malgrado, Odo impallidì. Come sempre, quella donna che si comportava come una regina riusciva a farlo sentire un servo. «Ne ho motivo», rispose con particolare durezza. «Ti ho visto con i miei occhi chiedere misericordia per lui e non credo ti sia indifferente; né lui né il capitano della tua scorta. Così, mia signora, dubito della sincerità delle tue parole e dell'integrità del tuo corpo, ben condiviso in amicizia da quei due, mi pare.» «Non portare oltre offesa a questa dama!» lo fermò Adverto. «Se ciò che dice è vero», continuò Odo con la stessa durezza, «non ci sono più motivi a trattenere il signore di Isley dal tornare con me a Chambéry, dal vescovo che lo aspetta come un fratello.»
«Il vescovo di Chambéry sarà certamente appagato dalla notizia della sua conversione. La sua vittoria e il suo merito saranno riconosciuti», rispose Adelaisa, notando però il lampo d'ira nello sguardo di Odo e trattenendo quindi il sorriso di scherno che le era salito alle labbra. «Amboise de Montsalvy li riconoscerà certamente venendo a riscattarti, mia signora. Non credi?» replicò il vicario. «E se non venisse?» «Il signore di Montsalvy non ti abbandonerà: ha dato la sua parola. Dunque verrà, portando il pagano convertito, come tu dici. Tuttavia, se non venisse, dovrò affidarti agli inviati del vescovo di Milano; sarai portata al convento di Breme. L'abate di quel luogo non nutre sentimenti di amicizia verso la stirpe di Arduino Glabrione, quindi anche verso il nipote di Glabrione, che regge la Marca di Torino e che dovrebbe diventare il tuo sposo. La tua permanenza in quel luogo, mia signora, sarà così lunga che tu stessa ti dimenticherai del mondo e di come è fatto.» «E che cosa verrà detto al re mio fratello?» «Che la strada che lui ti ha fatto compiere è irta di pericoli, ma il predone Tramlan è stato giustiziato per la tua morte e per quella del signore di Montsalvy. Questo verrà detto al re di Borgogna.» «Credi che basterà?» «Basterà di certo, per come la vedo io. Tra due giorni potrai partire, mia signora, o per tornare in Borgogna o per raggiungere il tuo destino a Breme. In entrambi i casi, sarò lieto di poterti dimenticare.» «Ma tu non potrai mai dimenticare questo viaggio, Odo di Chambéry», mormorò Adelaisa. I suoi occhi, nella luce fioca delle lucerne, brillavano con tale intensità e la sua voce era carica di un odio così profondo che Adverto alzò entrambe le mani a ordinare il silenzio. Quella giovane sembrava rendere ogni parola, anche la più innocente, un'orribile maledizione. «Non cadere nella trappola delle emozioni cattive, mia signora. Raccogliti in preghiera e aspetta con fede.» Adelaisa sorrise, chinando il capo. In quel luogo, Adverto era il suo unico alleato e non c'era ragione di non mostrarsi docile alle sue richieste fintanto che egli poteva in qualche modo frapporsi tra lei e Odo. Adverto apprezzò la sua remissività e si girò verso il vicario. «Esci, e ricorda che terrò io la chiave di questa porta e che né tu né alcuno dei tuoi potrete entrare qui senza di me.» Odo gli girò le spalle e si avviò senza rispondere. Dopo un istante, l'abate lo seguì, lasciando entrare una serva a portare la cena.
La ragazza era molto giovane, e non osò guardare Adelaisa, tuttavia apparecchiò con fare esperto il piccolo tavolo di fronte al camino. Nella stanza c'erano anche un letto e una cassapanca, nonché una stretta finestra sigillata con scorza d'albero. L'abate Adverto di Lézat le aveva detto che quella era una delle caseforti del borgo della Chiusa, un borgo antichissimo, e soltanto temporaneamente lui l'aveva eletta a dimora. In primavera, infatti, si sarebbe spostato nella casaforte di Sant'Ambrogio, il borgo limitrofo, rendendola casa abbaziale; poi, nell'estate, se quella era la volontà del Signore, avrebbe potuto abitare con i primi monaci sulla sommità del monte Pirchiriano, dove già esistevano alcune cappellette; quelle costruzioni risalivano ai longobardi, ma c'erano addirittura rovine pagane... il lavoro sarebbe stato lungo e difficile. Ma Ugo di Montboissier, che aveva ottenuto il monte e i borghi ai suoi piedi e il borgo di San Pietro sulle pendici, era ben determinato a farne una grande abbazia, e aveva chiamato lui quale primo abate ed edificatore. Un compito importante, un riconoscimento alla rigidità della sua disciplina e dei suoi costumi, anche se proprio la sua rigidità e la sua onestà lo avevano fatto allontanare da Lézat. La nuova abbazia nasceva sotto l'ala protettrice di Cluny e del papa, e Olderico Manfredi e il vescovo di Torino avevano concesso terreni e franchigie. Come poteva, ora, Adverto di Lézat permettere che una giovane venisse sottratta a forza al suo sposo, considerando che quel torto era tanto più grave in quanto lo sposo era proprio Olderico Manfredi? Adelaisa guardò distrattamente il vassoio con il pasticcio di lepre alle bacche di ginepro e la scodella con le mele macerate nel vino caldo. Una cosa soltanto poteva rasserenarla: tanto Amboise quanto Illait e Colin erano sopravvissuti alla battaglia di Sant'Agata. E, se chiudeva gli occhi, forse qualcosa di Illait di Isley la poteva toccare, e lei poteva a sua volta farsi sentire, perché il pensiero correva per vie misteriose. «Non essere così cupo, abate Adverto!» lo accolse Guiscano di Susa, non appena fece ritorno con Odo di Chambéry nella sala padronale, dove il tavolo era stato imbandito in onore dei visitatori e il fuoco ardeva nel grande camino di pietre. Adverto scosse il capo. L'eccessiva fiducia dei giovani e la loro leggerezza lo irritavano sempre; tuttavia, guardandosi intorno, poteva certamente comprendere il tono trionfante del giovane fratello di Bosone. Una dozzina di uomini presidiavano la sala; gli altri occupavano ogni
punto vitale della casaforte. In effetti, constatò Adverto, non erano loro gli ospiti, bensì era lui il prigioniero. «Quale tra i tuoi uomini si è macchiato del sangue di quel sant'uomo che viveva sulla montagna?» chiese, volgendosi a Odo di Chambéry e prendendo posto a tavola. Odo indicò Alcourt. «Lui è il mio capitano», disse. «E non aveva motivo di credere che in quel covo di predoni ci fossero estranei. Quindi l'ho assolto. Mi auguro che tu farai altrettanto.» «Io non sono il suo vescovo né il suo confessore», ribatté Adverto. «Dovrà accontentarsi della tua assoluzione, vicario.» «Questo non piacerà al mio vescovo», replicò Odo, ordinando con un cenno ad Alcourt di non intervenire. L'uomo obbedì, ma fissò a lungo e con durezza Adverto, fregandosi con la mano callosa la ferita sul lato destro del viso. «Credi che piacerà a Ugo di Montboissier quello che tu stai facendo qui in nome del tuo vescovo?» riprese Adverto. «Abate! Vicario!» intervenne Guiscano. «Credo invece che sia nata una nuova alleanza, che porterà i suoi frutti nel tempo. Noi, come signori di Susa, rispetteremo la sovranità dell'abbazia della Chiusa e avremo l'alleanza del vescovo di Milano per frenare da un lato la Borgogna e dall'altro la Marca di Torino. E avremo liberato la valle dal più temuto dei predoni.» Odo di Chambéry reagì con un freddo sorriso a quella versione dei fatti. Certo, il quadro delineato da Guiscano era esatto, però, nel tracciarlo, il giovane aveva palesato la sua ingenuità: ancora non sapeva che, anche di fronte agli alleati, certe cose dovevano essere taciute. «Mi rattrista vedere che i tuoi fratelli ti hanno affidato questa impresa, Guiscano», commentò Adverto. «Ti rattrista? Stai scherzando, abate? Oppure non mi ritieni all'altezza?» ribatté il giovane, risentito. «Né l'una né l'altra cosa... Rammento la buona ospitalità goduta a Susa nella casa di tuo fratello Bosone, perché proprio lì ho incontrato Ugo di Montboissier e ho ricevuto la sua offerta per questa carica. Se le aspettative di tuo fratello si compiranno, riceverai una piccola ricompensa, ma se falliranno, tu solo porterai il peso del complotto. Né Bosone né Guido sono qui, e nemmeno uno dei loro uomini è al tuo seguito. Pensaci, Guiscano.» Il giovane tacque, poi scosse il capo con forza, rifiutando di prendere in considerazione le parole dell'abate. «Non posso crederti! Io porterò la testa di Tramlan a Susa per il carnevale dei folli, come ho promesso. Non vedo
alcun complotto, in questo.» Adverto comprese che non avrebbe avuto senso replicare. Quel giovane si fidava ciecamente dei fratelli, e nulla gli avrebbe fatto cambiare idea. «Pensi davvero che il signore di Montsalvy accetterà le richieste?» chiese quindi Guiscano, eccitato, rivolgendosi ad Alcourt. «Lo farà, magari tentando qualche tranello che noi dovremo prevedere», intervenne Odo. «Non dobbiamo dimenticare il potere malefico che è al suo servizio, e che ha scatenato i fulmini su Sant'Agata come se fosse estate, pur accompagnandoli con una nevicata fittissima. Se non fosse stato per quella strana bufera li avremmo presi tutti, e non saremmo qui, ora. Quindi, abate Adverto, rivolgi le tue rimostranze al signore di Montsalvy, perché sua è la colpa di tutto. È lui che ha sottratto il pagano alla custodia del mio vescovo!» «Per quanto terrai le caseforti e tutto il borgo in pugno, capitano Alcourt?» chiese invece Adverto, ignorando Odo. «Fino a quando non li avremo presi!» rispose Alcourt. «Ma questa volta faremo a modo mio, e né il pagano né quel bastardo di Colin Bois riusciranno a liberarsi. E non m'importa se si sciuperanno strada facendo. Mi basta che rimangano vivi fino a Chambéry.» «Quella dama...» tentò Adverto. «Adelaisa di Borgogna è dalla loro parte, e non sarei sorpreso se fosse stata a letto con entrambi, magari nello stesso momento», ribatté Alcourt. «E questo per buona pace della tua coscienza, abate.» «Tuttavia è molto bella», intervenne Guiscano. «La voce della giovinezza», commentò Odo sorridendo. «Forse il nostro buon abate potrebbe... perdere la chiave», suggerì Alcourt a Guiscano, ridendo. «E stanotte proveremmo entrambi quale sapore hanno le sue cosce. Ti lascerei passare per primo!» Guiscano avvampò all'immagine che Alcourt gli aveva fatto balenare, e il mercenario sghignazzò del suo imbarazzo. «L'assaggerò, prima di lasciartela seppellire in un convento», promise Alcourt a Odo. «E farò in modo che Colin Bois si goda tutto lo spettacolo. E naturalmente ci sarà posto anche per te, vicario, e per te, Guiscano. Poi ci metteremo il pagano, e ci divertiremo anche con lui.» Adverto si alzò bruscamente. «Se sono prigioniero, ti chiedo di farmi accompagnare nella mia stanza!» disse a Odo. «Non intendo ascoltare oltre questi propositi.» «Sei signore nella tua casa, abate, ma, se lo desideri, ti farò scortare. E
attento alla chiave della stanza della dama!» Adverto uscì senza rispondere; Guiscano, confuso, non osò guardarlo. Alcourt invece continuò a ridere. Lo spettacolo che aveva dipinto con le parole gli aveva finalmente riportato il buonumore. Sì, avrebbe costretto Colin Bois a guardare. E poi gli avrebbe tagliato la testa. Il sentiero era ad alta quota e correva sul fianco delle montagne tra boschi di larici e castagni, scendendo a scavalcare valloni e inerpicandosi a bordare dorsali. La neve alta lo rendeva difficile e pressoché invisibile, ma non per Illait di Isley, che li guidava come se quella terra fosse la sua. Li portò fino al punto in cui il sentiero si biforcava, continuando ad alta quota da una parte e scendendo ai contrafforti sulla piana dall'altra. Era ormai quasi buio, e gli uomini, che lo avevano seguito senza fiatare per tutto quel giorno e per il giorno prima, erano stanchi e affamati; nessuno tuttavia osava protestare. Li sovrastava qualcosa che non avrebbero saputo spiegare, qualcosa di potente, che li faceva sentire parte di un evento compiuto che tuttavia non potevano vedere. E avevano paura. Sia Tramlan e i pochi uomini che gli erano rimasti, sia gli uomini di Colin Bois, che nemmeno più ricordavano di essere stati ingaggiati per fungere da scorta. «Qui sotto», spiegò Illait ad Amboise, «c'è il borgo della Chiusa; in una delle caseforti si trova Adelaisa.» Amboise assentì, senza dubitare di quanto il giovane asseriva con tanta sicurezza. Anche Amboise era stanco; quelli erano i momenti in cui cominciava a pensare che un solido tetto e un buon fuoco sarebbero stati più adatti ai suoi anni di quelle imprese così faticose per il corpo e per lo spirito. «Se tentiamo un attacco, nessuno di noi ne uscirà vivo. Non c'è modo di penetrare la Chiusa!» commentò Tramlan. «E ancora mi chiedo che cosa faccio qui...» «Stai raccogliendo ciò che hai seminato», lo interruppe Amboise. «Però, se ci aiuti, metterò una buona parola per te con Olderico Manfredi, e non sarai impiccato.» «Puoi mettere una buona parola per me all'inferno, se ti riesce. Perché è lì che finiremo tutti!» ribatté il predone. Come tutti gli altri si era lasciato scivolare a terra, al riparo di una ruga rocciosa nel fianco della montagna. Le rocce un poco li riparavano dal vento, non forte ma gelato, che aveva preso a soffiare poco prima del tra-
monto. Dalle nuvole lacerate si vedevano già le stelle. «Non abbiamo abbastanza uomini per un attacco. Tramlan ha ragione. E poi Alcourt avrà preso le sue precauzioni», intervenne Colin. «Andremo soltanto in due. Illait e io.» Tramlan si lasciò sfuggire una tonante risata. «Non mi piacciono le imprese senza almeno un piano di partenza», commentò Amboise, ignorando il predone. «Non sappiamo quello che troveremo, né come è fortificato il borgo, né quali sono le sue difese abituali. Però sappiamo che troveremo di certo tutti gli uomini di Odo e di Guiscano sopravvissuti a Sant'Agata. Dovremo improvvisare.» Colin si trattenne dall'aggiungere che la presenza di Illait sarebbe stata l'unico margine di vantaggio in cui poteva sperare e che in quel margine credeva come non aveva mai creduto a nient'altro in tutta la sua vita. Sapeva che avrebbero trovato Adelaisa. «Fai prima a tagliarti la gola qui, se proprio vuoi morire!» gli suggerì Tramlan. «In quanto a me e ai miei uomini, ci riposeremo un poco e, non appena farà giorno, torneremo indietro.» «Non posso impedirtelo», ammise Amboise. «Se farà giorno», borbottò il predone. «Dopo quello che ho visto, non mi stupirei se quello facesse durare la notte oltre il suo tempo e venisse davvero la fine.» «Attento. Qualcuno potrebbe ascoltarti», lo ammonì Illait. «Vi aspetterò qui con gli uomini», intervenne Amboise, dimenticando Tramlan. «Torneremo prima che faccia giorno», rispose Illait. «Per la via che sale si può giungere al borgo di San Pietro, appena sotto la cima del monte sul versante opposto, in un pianoro. Lì c'è anche un piccolo ospizio.» «Monaci di Cluny... ne ho sentito parlare», rifletté Amboise. «Ci daranno rifugio?» chiese il mercenario. «Certamente. E da lì tenteremo di scendere per raggiungere Avigliana. Non credo che Olderico e Arduino tarderanno.» «Buon per noi», mormorò Colin con un vago sorriso. Illait s'incamminò lungo il sentiero ripido e Colin lo seguì, muovendosi con cautela per non perdere l'equilibrio. Dentro di sé avvertiva, alternativamente, una specie di fredda determinazione e un gran furore. Entrambi erano propri del suo carattere, tuttavia non aveva mai sentito tanto assoluta
la prima, né tanto violento il secondo. Forse perché si trattava di Adelaisa. Eppure, se riuscivano nell'impresa, sarebbe giunto ben presto il momento di consegnarla al suo sposo. E non l'avrebbe rivista mai più. Oppure poteva lasciarci la vita, come aveva giustamente - e brutalmente - sostenuto Tramlan. La luna si stava scoprendo dal velario delle nubi. Era ancora piena e la sua luce sarebbe stata fin troppo vivida. Sono un mercenario, pensò Colin. Ho sempre accettato di morire per denaro. Se morirò per amore, sarà valsa la pena di vivere fino a questo momento. Illait ha ragione. Quello che mi ha detto in quel suo paradiso oltre la porta di pietra è vero, e io sono fortunato, perché ho fatto in tempo a scoprirlo. XVIII Il muro, immerso nel buio, pareva così alto da toccare la luna. Colin vi si appoggiò con le spalle, a riprendere fiato. Era ormai notte fonda. Illait lo riscosse. «Che cosa credi di fare?» mormorò Colin. «Salire», rispose semplicemente l'altro e si issò sulle spalle del mercenario. Non era affatto pesante e, dopo un momento, Colin non sentì più peso alcuno. Sconcertato, guardò verso l'alto, ma Illait era già in cima, pericolosamente visibile nella luce della luna. «Meglio di un gatto», borbottò Colin, chiedendosi come avrebbe fatto a salire a sua volta. Non riusciva a scorgere appigli o crepe nel muro. Illait riapparve sulla sommità del muro, e si sporse, calando verso di lui una lunga pertica che terminava a forcella. Colin l'afferrò, servendosene come sostegno, poi, mentre saliva, si accorse che nel muro c'erano varie crepe e se ne servì per arrampicarsi con maggiore facilità. Quando raggiunse Illait, questi ritirò la pertica e la lasciò in un punto nascosto. «Dove l'hai trovata?» mormorò Colin, guardandosi intorno per capire in quale punto del borgo si trovavano. «Qui sotto c'è un cortile con alcuni panni stesi. Le donne la usano per tener tesa la corda, in modo che i panni non tocchino terra.» «Come facevi a saperlo?» «Non lo sapevo, l'ho vista! La luna illumina quasi a giorno.» «Hai visto anche qualche sentinella?»
«Due, ma non su questo camminamento. Ci troviamo nella parte del borgo dove ci sono le case dei servi. Il camminamento non è tenuto bene; ci sono alcune pietre smosse e in un punto è interrotto.» «Forse perché pensano che nessuno possa venire dalla montagna.» «Nessuno l'ha più fatto dall'epoca di Carlo Magno, quando proprio qui è stata combattuta una battaglia terribile. Le pietre ne portano il segno.» «Devo ancora trovare un angolo di mondo in cui non si sia combattuto», borbottò Colin. I nomi di chi era stato re in un tempo che non era il suo non avevano per lui molto significato, ma certamente quel re Carlo era stato abile e fortunato, potendo sfruttare quella strada antica che lo aveva portato ad aggirare le Chiuse. «Chi erano quelli dall'altra parte?» mormorò. «I Longobardi di re Desiderio, come ha detto Amboise.» «Ah, non la gente del posto?» «No. La gente del posto non aveva molto... da dire al proposito. Proprio come ora.» Colin annuì, contando scrupolosamente i passi della sentinella di cui vedeva soltanto l'ombra sul muro a meridione. «Ti è venuta qualche idea?» chiese poi. «La sentinella compie quel tratto di camminamento in trecento passi.» Illait non rispose e Colin tacque, permettendogli di ascoltare il silenzio. In effetti, però, se stava davvero a sentire, anche lui era in grado di percepire qualcosa: un neonato che piangeva sommessamente in qualche casupola sotto di loro; una porta aperta e poi richiusa; il gorgoglio dell'acqua corrente in un fossato di spurgo e il fruscio del vento, che raspava sui panni stesi, irrigiditi dal gelo. Come se fossero impiccati, pensò Colin, fregandosi le mani arrossate e dolenti per il freddo. «Vieni», lo chiamò Illait, guidandolo a scendere nel cortiletto e da lì, saltando una staccionata, in uno stretto vicolo, il cui fango era coperto da un velo di ghiaccio. «La cappella», aggiunse. «È lì che andiamo.» «Adelaisa è lì?» Illait scosse il capo. In quell'istante, una ronda di cinque uomini, attenti e minacciosi, apparve poco lontano. Rapidamente Illait e Colin si nascosero in un angolo e la seguirono con lo sguardo finché non imboccò un altro vicolo, poi si mossero, infilando un passaggio più largo, che scendeva con una lieve pendenza nella piazzetta.
Lì sorgeva la cappella: un piccolo edificio di pietra, con il tetto a botte e un basso portale quadrato, irrobustito da grossi cardini e da nervature in ferro, che lo percorrevano disegnando la figura di un drago. Due torce, protette da un'intelaiatura a paravento, ardevano ai lati del portale, illuminando i tre alti gradini coperti di ghiaccio che davano accesso alla cappella. Colin percorse con la punta delle dita il disegno del drago, e suo malgrado sorrise. A Chambéry aveva detto ad Amboise di non credere nei segni, e invece... «È strano per una chiesa», mormorò. «No. Da qualche parte ci sarà la figura di san Michele; san Michele che uccide il drago.» «È questo che accade? Il drago viene ucciso?» «No. Dorme soltanto», rispose quietamente Illait. Poi allungò le mani aperte verso il battente, senza toccarlo. Colin si scostò di un passo, aspettandosi un qualche prodigio che non riusciva a immaginare, ma non accadde nulla. La ronda si stava avvicinando e Colin era già sul punto di afferrare Illait per trascinarlo via, quando la porta si aprì lentamente, rivelando la figura asciutta e solenne di un uomo di mezz'età, vestito da monaco, ma avvolto in un ampio mantello di lana bianca. «Dobbiamo entrare», disse Illait. In silenzio, l'uomo si fece da parte, lasciando a Colin il compito di richiudere il portale prima che la ronda sbucasse sulla piazzetta. Poi li fissò, perplesso, ma senza timore. Era solo nella cappella, tranne che per un monaco molto giovane, forse un oblato addetto al suo servizio, tanto stupito dal loro apparire da dimenticarsi di pregare. «Ho sentito il tuo richiamo, ed era tanto forte che non ho potuto fare a meno di venirti ad aprire!», esclamò l'uomo. «Chi sei?» «Sono Illait di Isley, e lui è il capitano Colin Bois. Siamo qui per la dama che è stata fatta prigioniera dagli uomini del vicario Odo di Chambéry.» «Così tu saresti il pagano che tutti cercano», mormorò l'uomo. «E tu, chi sei?» ribatté Illait. «Mi chiamo Adverto di Lézat, e sono il primo abate dell'abbazia che stiamo costruendo sulla cima del monte alle nostre spalle.» «Sulla cima del monte!» esclamò Illait, con singolare animosità. «Ma tu sai quanto è sacro questo monte?» «Per i tuoi dèi, forse?» ribatté l'altro, sulla difensiva.
«Per la Madre Terra, per lo spirito della vita, e dunque per tutti gli uomini! Guarda il profilo della montagna in un giorno di sole e la vedrai con i tuoi occhi: una donna senza età, con il ventre gravido e le braccia conserte. È lì da sempre, e sarà ancora lì tra mille anni.» Adverto scosse il capo. «Non dovrei ascoltarti. Tu parli bene e ogni tua parola apre spiragli da cui entra un universo di luce che fa crescere in chi ti ascolta la voglia di sapere. È questo il tuo incantesimo? È per questo che il vescovo di Chambéry sta compiendo tante e tali follie per riaverti?» «Il vescovo vuole soltanto il potere che compra gli uomini e si misura con l'oro. Ma quello non ha attrattive per te. Tuttavia ho imparato che ogni uomo ha il suo prezzo, e noi vogliamo la dama. Qual è il tuo prezzo, Adverto di Lézat?» «Io non ho prezzo, signore di Isley! Ma la dama sostiene che hai accettato la benedizione del santo della montagna... Se ciò fosse vero, sarebbe un battesimo, e da questo mi sentirei compensato. È vero?» «Lo è», s'intromise Colin. «Ne sono stato testimone.» Adverto annuì, percependo la forza che ora sembrava colmare tutta la cappella. «Ti porterò dalla dama e lo farò con gioia, prima che sia tardi per quella figliola e venga compiuto un altro delitto. Come avete fatto a entrare nel borgo? Guiscano e i suoi prepotenti alleati hanno posto sulla strada e sulle mura molti uomini, e le Chiuse non offrono passaggi, se non quelli selvaggi della montagna che solo i vecchi conoscono!» «Il respiro del Drago corre sui sentieri seguendo tracce profonde. La montagna è viva ed è facile ascoltarla, se si libera la mente dalle sue mura. Ma tu questo lo sai. Non è proprio per imprigionare il Drago che consacrerai l'abbazia sul monte a San Michele?» rispose Illait dolcemente. «Come fai a saperlo? La cappelletta dei Longobardi è già dedicata a san Michele, ma ancora nessuno, tranne Ugo di Montboissier, sa che anche la futura abbazia gli sarà consacrata.» «C'è il Drago sulla tua soglia», disse Illait. «Ed è lui che hai sentito quando sei venuto ad aprire la porta.» «San Michele uccide il Drago!» «No, lo imprigiona soltanto, perché nel Drago vivono le forze della terra, dell'aria e del fuoco; le forze troppo piccole per essere viste e troppo potenti per essere usate. Insieme possono mutare la materia e fermare il tempo o ingannarlo, facendo del futuro, del presente e del passato un piccolo punto immobile. Per questo il Drago è così temuto; dagli albori del
Tempo, quando gli uomini possedevano la conoscenza e l'arte di usarla...» Adverto alzò una mano a coprirgli le labbra. «Non dire altro, signore di Isley.» «Non temere. Nulla avviene senza la volontà della sorgente e la sorgente è una, per quanti nomi gli uomini possano darle. Per questo la benedizione dell'eremita della montagna mi è cara. Lui vedeva e sentiva quello che io vedo e sento, e tu lo hai definito santo.» Adverto avrebbe voluto parlare a lungo con quel giovane e al contempo temeva di rimanere vittima del suo incanto, perché gli sembrava di avere sfiorato uno scrigno colmo di tesori dal valore incalcolabile. In lui c'era troppo potere e gli uomini piccoli e ignoranti non avrebbero saputo farne uso. Troppo potere. Sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi chiari del giovane fissi su di lui e arrossì, vergognandosi. Aveva pensato che, per contenere quel potere, la Chiesa dovesse alzare mura altissime; se poi esse non fossero state sufficienti a nasconderlo, avrebbe dovuto prima negarlo e poi distruggerlo, non importa a quale costo, per il bene stesso degli uomini e per la loro salvezza. Mura alte, altissime... fino alla luna. Ma si sentì colpevole per quel pensiero, pur sapendo che non per sua malizia doveva seguire quella via; improvviso, lacerante, lo colse un dolore al petto e l'abate si posò le mani sul cuore, quasi volesse placarlo. «Stai male?» chiese Colin. Adverto scosse il capo. Illait di Isley era impassibile. «Venite», mormorò l'abate. Ordinò al giovane oblato di rimanere dov'era e di non fiatare, e quindi li guidò alla porticina che univa la cappella alla casaforte. Appena oltre c'era un corto passaggio a gomito, che finiva su una scala. Una lanterna ardeva sulla sommità, ma la luce era fioca. «Il vicario di Chambéry e Guiscano di Susa sono nella casa», li informò. «Con quanti uomini?» «Non lo so. Forse una ventina. Gli altri, con il capitano Alcourt, sono fuori, di ronda. Alcourt si aspetta qualcosa, tuttavia nemmeno lui ha saputo spiegare che cosa, quando Guiscano gliel'ha chiesto.» Colin sorrise, ma si trattenne dal rispondere. «Questo è il corpo principale della casa. Laggiù, nell'ultima stanza, c'è la vostra dama. Andate a prenderla. Vi aspetto qui.»
«No. Torna nella cappella e lascia accostata la porta, perché ripasseremo di lì per uscire», gli rispose Colin, prendendo la chiave dalle sue mani. «Se ci scoprono, tu potrai sostenere di non averci mai visto.» «Io non posso mentire.» «Per questa volta sì», ribatté Colin, allontanandosi poi lungo il passaggio. I muri, di larghe pietre squadrate, erano spogli e soltanto qualche lume di tanto in tanto apriva una chiazza di luce sull'impiantito sconnesso. Il silenzio era assoluto. Colin aprì dolcemente la porta, facendo scorrere il catenaccio dopo averlo aperto. Ma i cardini erano ben oliati, e non ci fu rumore. E se fosse una trappola? pensò Colin, tirando da parte Illait e passando per primo, con la mano sull'impugnatura della spada. Il camino era acceso ed era anche l'unica fonte di luce. Un ragazzina vi dormiva davanti, rannicchiata in terra. Adelaisa, vestita e avvolta in un mantello, si sollevò a sedere sul letto, pronta a lottare. Colin si portò un dito alle labbra e sgusciò dentro, mentre Illait rimaneva sulla soglia. «Vieni, mia signora», disse Colin, tendendole la mano. «Pensavi davvero che non avrei onorato il mio impegno?» «Ho pensato che ti saresti fatto uccidere pur di mantenerlo», ribatté Adelaisa. «Alcourt non ha mai creduto nella resa del signore di Montsalvy.» «E ha fatto bene», mormorò Colin, poi si rivolse a Illait: «Che ne facciamo della ragazza?» «Dorme», rispose l'altro. «E non ricorderà nulla.» Colin annuì, fece uscire Illait e Adelaisa e richiuse con cura la porta. Scivolarono indisturbati fino alla cappella; la porta era appena accostata, e Adverto di Lézat e l'oblato erano assorti in preghiera. Tutt'attorno regnava ancora una gran quiete. Gli occhi chiari dell'uomo si alzarono sulla dama senza nascondere il proprio sollievo. «Sono lieto per te, figliola», mormorò. «E anche per il tuo sposo Olderico, che, scegliendoti, è stato saggio e fortunato. Sarò lieto di benedire le vostre nozze.» Adelaisa abbassò lo sguardo, e Colin avvertì correre tra lei e Illait un sorriso lieve, subito trattenuto, una sorta di complicità nascosta che li imbarazzava. «Olderico non dimenticherà l'aiuto che mi hai dato», rispose Adelaisa. Chinò il capo alla benedizione di Adverto, poi raggiunse Illait.
«Tieni la chiave», disse Colin all'abate. «Spero che saprai mentire, quando ti chiederanno se stanotte l'hai data a qualcuno.» Adverto la chiuse nel pugno, ma non rispose; la cappella si era svuotata della forza viva che l'aveva trasformata, e adesso gli sembrava fredda e vuota come mai gli era accaduto di sentirla. L'oblato fingeva di pregare, con gli occhi bassi, spaventato. «Nella stanza c'era una serva...» rammentò Adverto. «E c'è ancora. Ma dorme e non potrà dir nulla. Penseranno che sia stata opera di un mago», spiegò Colin. «Questa notte ti sei fatto un amico potente, abate», aggiunse. Sulle prime, Adverto pensò a Olderico, ma poi fu preso dal sospetto e dal timore che il mercenario parlasse di qualcun altro. Tuttavia non c'era tempo per chiedere lumi. L'abate si affrettò a richiudere la porta e incitò il giovane monaco a continuare nelle preghiere. Non c'era altro che potesse fare per invocare la salvezza di tutti loro e al contempo per trattenere l'ombra del Drago. Non appena fuori, vennero accolti da un turbinio di vento e da una serie di voci, distorte dal vento stesso, che risuonavano ora da una parte ora dall'altra. Una delle voci era quella di Alcourt. «Presto!» li incitò Colin, spingendoli per il vicolo fangoso che avevano percorso all'andata, ma dovette fermarsi ad aiutare Adelaisa alla staccionata. La giovane donna era impacciata dal mantello e dal lungo vestito; Illait comunque si trovava già dall'altra parte, e la ricevette nelle braccia. Le voci si stavano dirigendo verso di loro. Colin saltò rapidamente e tutti e tre si nascosero al riparo di un cumulo di pietre. All'improvviso risuonò il verso di un gatto, cui ne rispose subito un altro, minaccioso al pari del primo. Un grosso gatto dal colore indefinibile schizzò quindi dal buio alle loro spalle infilandosi, seguito dal suo battagliero avversario, nel vicolo, e finendo tra gli uomini della ronda. Si levarono gli improperi di Alcourt e la risata di qualcuno dei suoi. «Chi credevi che fosse a far baccano?» lo sbeffeggiò il suo secondo. «Il tuo adorato Colin può arrivarci alle spalle e tagliarci la gola prima che lo sentiamo. Abbiamo combattuto al suo fianco e lo conosciamo, non lo dimenticare.» «Sta' zitto!» ordinò Alcourt. «E ammazza quei gatti!» «No di certo! È già abbastanza stupido star fuori con questo gelo soltan-
to perché tu vedi Colin ovunque; non andrò a rompermi il collo per ammazzare due gatti che in questo momento se la stanno spassando più di me.» «Torniamo dentro a scaldarci!» suggerì un altro. «Guiscano è ospitale, e c'era ancora molto vino quando siamo usciti.» «No», rispose duramente Alcourt. «Staremo fuori anche tutta la notte, se sarà necessario.» Poi la ronda scese verso la piazzetta su cui si apriva la cappella e il vento si portò via le voci. I tre si mossero, raggiungendo il camminamento e il punto da cui erano saliti. La pertica era ancora là dove Illait l'aveva lasciata e il camminamento sembrava deserto. Colin aspettò che le sentinelle, il cui passo si era mantenuto regolare, fossero all'estremità opposta; quindi scavalcò la sommità del muro, si lasciò penzolare e infine cadde. Atterrò rotolando, indenne, anche se la terra ai piedi del muro era gelata e dura. Illait aiutò Adelaisa a scavalcare, e poi la tenne per le braccia lasciandola scivolare lentamente. Nel momento in cui la lasciò, Colin era pronto a riceverla e le attutì l'impatto. Per un istante Adelaisa gli restò così stretta nelle braccia che Colin si sentì sfiorare il viso dalle sue labbra. «Forse questo è l'unico addio che possiamo permetterci», le mormorò. Ma Illait li aveva già raggiunti. «Che cosa pensate di fare? Aspettare qui che faccia giorno?» li esortò, spingendoli a raggiungere il monte. Un centinaio di passi separavano le mura dal dirupo da cui erano scesi; un breve tratto di erba ingiallita, sgombro di alberi e di cespugli, e illuminato a giorno dalla luna - che stava veleggiando verso occidente, luminosa ed enorme, e sembrava già sfiorare le creste buie dei monti - e dalla fitta rete di stelle che si era distesa sulla terra buia. Proprio nel mezzo di quel breve spazio aperto se ne stava acquattato un uomo, sfruttando un ingobbimento del terreno che non era una vera e propria buca. Soltanto un occhio attento poteva scoprirlo. Colin estrasse il pugnale, ma Illait gli tenne il braccio. «È Munir», mormorò. «Vado a prenderlo.» E gli fece cenno di continuare verso il monte con Adelaisa. «Quel pazzo!» sibilò Colin tra i denti all'indirizzo di Munir. Poi afferrò Adelaisa e si mise a correre verso la prima macchia d'ombra; un piccolo cumulo di rocce che non gli erano sembrate tanto lontane quando erano scesi.
Spinse Adelaisa al riparo e si acquattò a sua volta. Da lì poteva ancora vedere il tratto scoperto e le mura e gli sembrò pure di scorgere qualche sagoma sul camminamento. Il verso di un lupo arrivò in quel momento, lamentoso. Adelaisa al suo fianco trasalì, girando il viso verso quel richiamo; la mano cercò quella di Colin e la strinse. «Vieni via, maledizione!» mormorò il mercenario, rivolto a Illait, pur sapendo che il giovane non poteva sentirlo. In quel momento Illait si risollevò, sostenendo l'altro che sembrava camminare male, forse per il freddo che lo aveva intirizzito. Fu allora che la campanella della bassa torre quadrata della casaforte prese a suonare a martello. Fuochi subito lacerati dal vento si accesero lungo il camminamento e gli arcieri di Guiscano, sorprendentemente pronti, lasciarono partire la prima ondata di frecce sui due fuggitivi. «Amico mio», esclamò Colin. «Se sei un mago, cancella dal cielo quella maledetta luna!» Uno dei due uomini in fuga urlò, raggiunto da una freccia. XIX Illait guadagnò le rocce, tirandosi dietro l'ometto rantolante. La freccia lo aveva raggiunto alla schiena e, quando Colin lo afferrò, trascinandolo al riparo, a Munir sfuggì un urlo. «Che cosa ci facevi lì?» inveì Colin. «Sta morendo», mormorò Adelaisa. «E lo stesso succederà a noi, se rimaniamo qui!» esclamò il mercenario e, sollevando lo sguardo, incontrò quello di Illait, rabbuiato di pena. Dalla casaforte giungevano strepiti e brandelli di ordini. I fuggitivi avevano un certo margine di vantaggio prima che i soldati, uscendo dal portale, raggiungessero quel lato delle mura e trovassero una via da cui salire al monte. Ma era un margine troppo piccolo per fermarsi ad ascoltare le parole di un uomo che moriva. «Volevo aiutarti a liberare la tua dama», borbottò Munir, trattenendo Illait. «Lei è stata buona con me e tu non mi hai deriso.» «E così ci hai fatti scoprire!» ribatté il mercenario, furioso. «Non temere, Munir. Andrà tutto bene», mormorò dolcemente Illait, allontanando Colin. L'uomo tentò di prendere un respiro lungo, che gli uscì a fatica unito a un fiotto di sangue, e poi rimase immobile.
Colin afferrò Illait, costringendolo a rimettersi in piedi. «Vieni via!» gli ordinò. L'altro obbedì e si avviò, seguito da Adelaisa, ancora un po' impacciata dalle vesti. Colin, per ultimo, procedeva con cautela, voltandosi spesso a controllare i rumori alle sue spalle. All'improvviso però il vento si fece sostenuto e la notte si riempì di suoni: lo scricchiolio del ghiaccio, il fruscio delle foglie secche, il rotolare del pietrisco, l'incessante sussurro degli alberi spogli nei valloni boscosi e il respiro stesso del monte che, salendo dal profondo con un rumore sordo, ingigantiva come un tuono. Colin fu afferrato da un brivido. Quello stesso vento, in cielo, stava trascinando qualche nuvola a coprire la luna e sul sentiero scese un'oscurità mutevole. Allora, afferrandosi alle rocce per aiutarsi a salire, Colin sentì la montagna come una creatura viva sotto le sue dita; una sensazione che non aveva mai provato prima d'allora e che lo riempì di timore. Alle loro spalle altri uomini stavano salendo. E la montagna lo sapeva. La luna era tramontata nella sua corona di nuvole e una luce di fuoco incendiava l'oriente quando raggiunsero le sentinelle che Amboise aveva posto sul sentiero; il bivacco era in fermento, sia per l'attesa del loro ritorno sia perché Tramlan stava preparandosi a lasciarlo. «Non c'è più tempo», disse Amboise al predone non appena vide Illait, Adelaisa e Colin sbucare dal sentiero che avevano seguito. «Quanto abbiamo?» chiese quindi al mercenario, ma questi scosse il capo, accettando la fiasca che uno dei suoi gli porgeva. «Che cosa intendi?» s'intromise Tramlan, avanzando a fronteggiare Colin. «Intende dire quanto tempo ci rimane per salire questo sentiero fino in cima al monte», spiegò Illait. «Perché fino in cima? Ci sono soltanto rovine e una vecchia cappella, lassù.» «Ci sei mai stato?» chiese Illait. «No. Ma è un posto strano, quello, e non ho nessuna intenzione di andarci!» «Olderico e Arduino non tarderanno a venirci in aiuto. Si tratta di resistere per poco, forse per meno di un giorno, e potremo farlo soltanto se avremo un qualche riparo. Forse riusciremo addirittura a raggiungere il
borgo di San Pietro», disse Amboise. «Un giorno diventa eterno, quando sei morto», borbottò Tramlan, tuttavia ammise che Amboise aveva ragione e urlò ai suoi: «Muoviamoci!» Non avere altra scelta lo rendeva furioso e l'idea della battaglia non lo eccitava. Lui era un predone, non un mercenario, e preferiva gli agguati ai combattimenti. Il patto stretto con quel piccolo uomo si stava rivelando per quello che era: una trappola. «Dovevi impedire al saraceno di muoversi!» esclamò Colin, passando accanto ad Amboise per raggiungere Illait già in testa al gruppo, che si stava formando velocemente. «È per causa sua che ci hanno visto.» «Quando ci siamo accorti che mancava era già troppo tardi per riprenderlo. Chissà che cosa sperava di fare...» «Aiutarci», rispose Colin. Il tono era stato fin troppo aspro e Illait, più che a un reale disprezzo, lo attribuì alla stanchezza che impediva al giovane di controllarsi. «Non c'è stato allarme quando avete preso Adelaisa?» chiese Amboise, meravigliato. Forse davvero quei due giovani, insieme, potevano riuscire anche là dove un esercito avrebbe fallito. «No. Adverto di Lézat è dalla nostra parte e ci ha aiutati.» «Adverto di Lézat? Bene», commentò Amboise. «Adverto è legato a Ugo di Montboissier, che ha pur sempre molti meriti, con tutti i lasciti e i conventi che sta fondando. Ci sarà utile averlo come alleato.» «Alcourt ha davvero ucciso tutti gli uomini di Tramlan rimasti al campo, e anche il vecchio della montagna. Dunque quello che abbiamo visto a Sant'Agata era uno spettro. Hai sentito, Tramlan?» disse Colin, girandosi verso il predone che li seguiva. «Sì», bofonchiò l'uomo, ansimando per lo sforzo della salita. «E anche noi siamo già morti.» Colin mormorò qualcosa tra i denti, ma, nel vento teso, Amboise non riuscì più a distinguere le parole. In fila e rapidamente tutti si stavano muovendo nella luce rosso sangue dell'aurora, sfilando come ombre rigurgitate dalla montagna. Il sole era alto e il vento ancora forte quando superarono l'ultimo tratto ripido e videro che il sentiero si allargava. Più in alto, così abbarbicati alle rocce da sembrare parte integrante della montagna, sorgevano resti di mura antichissime, più antiche della memoria degli uomini del luogo, più antiche persino dei Romani, cui pure apparteneva una parte di quelle rovine.
Un velo di ghiaccio scintillava sulle pietre e brillava sciogliendosi dai rami e ricadendo in gocce, ma qui e là affioravano il terreno bruno, i sassi e i ciuffi d'erba ingiallita. Con un brivido, Colin si rese conto di aver già visto quel luogo: l'unico elemento che mancava era proprio la porta di pietra, oltre la quale gli era stato così facile sentirsi felice. Allontanò quel ricordo con prepotenza, rifiutandosi di pensare che Illait avesse voluto mostrargli qualcosa che era già stato scritto per lui. Da quel punto ancora non potevano scorgere le tre cappelle tagliate nella roccia della cima del monte, né i lavori per la nuova chiesa, che tentavano di creare spazio dove, in apparenza, non ce n'era. Illait si fermò all'improvviso, ascoltando, e Colin ebbe appena il tempo di sollevare il capo. Il vento sembrò trattenere il respiro. Ansante e furioso, Alcourt piombò loro davanti, più in alto sul sentiero che doveva aver guadagnato lateralmente, arrampicandosi, giacché aveva le mani e le ginocchia sanguinanti. «Sulla cima!» ordinò Colin. «Salite sulla cima!» Tirò via di peso Illait, spingendolo verso Amboise, e sguainò la spada, piantandosi saldamente davanti ad Alcourt per sbarrargli la strada. «Illuso!» lo derise l'uomo, sguainando a sua volta la spada, in apparenza indifferente ai tagli che gli ricoprivano le mani. «I miei sono già qui e Guiscano sta salendo da San Pietro. Ma al suo arrivo troverà soltanto un mucchio di carogne!» «Vedremo», ribatté Colin, spostandosi impercettibilmente a guadagnare il piccolo spiazzo da cui partiva il sentiero più ampio che portava alle rovine. Gli uomini di Alcourt, più una dozzina dei più audaci tra i soldati di Guiscano, stavano sopraggiungendo a loro volta dal sentiero, con le spade sguainate. Furono accolti dall'urlo di rabbia di Tramlan e dagli ordini di Amboise che stava improvvisando una difesa. «Lui è mio!» urlò Alcourt ai suoi. «E prendete vivi il pagano e la donna!» «Finiscila di urlare al vento, Alcourt. O non sai più fare altro?» lo derise Colin, spingendosi avanti. Alcourt parò il suo colpo e Colin lo incalzò, costringendolo ad arretrare, ma l'uomo reagì con una serie di fendenti e di finte che Colin assecondò, riuscendo a toccarlo per due volte: la prima al petto e la seconda, più profondamente, a un braccio.
Entrambe le volte Alcourt reagì con forza, costringendolo a sua volta sulla difensiva. «Quando porterò la tua testa a Chaffre de Revard e mi prenderò il premio, pagherò le sgualdrine di Chambéry perché ti sputino in faccia!» promise l'uomo. «Con la faccia che ti ritrovi non avrai una sgualdrina neanche a pagarla!» rise Colin. «Arrostirò il tuo amico a fuoco lento per quello che mi ha fatto!» promise Alcourt tra i denti, sfiorandogli la spalla con la grossa lama, ma senza riuscire a penetrare la spessa giubba. «E Chaffre arrostirà te subito dopo! Quell'uomo è prezioso. Noi non siamo nulla.» «Tu non sei nulla!» ribatté Alcourt e lo colpì con forza a una coscia. Ferito, Colin inciampò, ruzzolando da un masso all'altro, da un velo di ghiaccio a una macchia di erba ingiallita e fradicia; la spada gli sfuggì di mano, atterrando a un palmo da lui. Alcourt gli volò addosso con un urlo di trionfo, ma il mercenario, senza nemmeno tentare di rialzarsi, rotolò ad afferrare l'arma. L'altro tuttavia gli era già sopra e, nel momento in cui abbassò la spada, Colin si girò, sollevando la propria. Poi, tenendola saldamente con entrambe le mani, gliela infisse in pieno petto. Alcourt ammutolì, stravolto, riuscendo tuttavia a piantargli la spada nella spalla destra prima di lasciarla e di portarsi le mani alla ferita. Quindi rotolò via dalla piccola cengia erbosa e finì su un masso dove il ghiaccio si stava sciogliendo: l'acqua, colando, diventò rossa. Colin giacque immobile, ansimando pesantemente. Serrò gli occhi, cercando di contenere l'incredibile azzurro del cielo: tutta quella luce gli faceva male. Sentiva appena, come se venissero da molto lontano, le urla degli uomini, le grida di agonia, il fragore delle lame, le strida degli uccelli che fuggivano, atterriti. O erano gli spiriti che abitavano il monte e le rovine e che, sorpresi dal loro furore di esseri viventi, li maledivano per averli disturbati? Oppure erano gli strepiti della Madre Terra, disgustata di tutto quel sangue? A quei pensieri, suo malgrado, Colin sorrise. Non li avrebbe mai formulati se non avesse incontrato un piccolo uomo del Nord, accettando l'ingaggio che lui gli aveva offerto in un gelido mattino, a Chambéry, mentre un monaco parlava di draghi e del giudizio di Dio.
In realtà stava morendo, e non era più Colin Bois se rifiutava di ammetterlo... sebbene non sentisse dolore, almeno finché non tentava di muoversi. Strinse a pugno le mani, afferrandosi all'erba bagnata e sentendosi precipitare. Questa volta nessuno poteva salvarlo dall'abisso. Nemmeno Illait di Isley. Lungo quell'ultimo tratto di sentiero, e sullo spiazzo tra le rovine, si erano accesi innumerevoli duelli, ma Illait aveva portato Adelaisa e Amboise più in alto e adesso il giovane, con due degli uomini di Colin, si frapponeva tra loro e gli uomini che tentavano di salire, lottando tenacemente, senza arretrare, mentre qualcuno degli aggressori veniva abbattuto anche da Amboise, che si serviva della balestra di Colin. Tramlan stesso, per quanto ferito, saltò infine al fianco di Illait. «Se tu parli davvero con Dio, o con gli spettri, è il momento di farlo!» gli urlò. «Provaci anche tu», lo esortò Illait, abbattendo un altro soldato. «Vedrai che è facile!» Con un grido, Tramlan si slanciò sugli ultimi due aggressori, uccidendoli nello stesso momento in cui crollava a terra, morto. Si distese all'istante un silenzio assoluto, quindi il vento riprese la sua voce e prese a raschiare sulle armi, sulle armature di cuoio, sugli ornamenti dei morti, infilandosi ovunque e rivelando lo stillicidio del ghiaccio che si scioglieva in sangue. «Colin!» gridò Adelaisa, scoprendo la roccia e la macchia di erba fradicia in cui giaceva il giovane. Illait fece cenno ai due mercenari rimasti di seguirlo e corse verso di lui, imitato dalla fanciulla e da Amboise. Un momento dopo tutti gli erano accanto. Adelaisa gli sfiorò la fronte. «È vivo», mormorò, preferendo tuttavia non dare voce alla propria speranza. «Però, nel momento in cui toglieremo la spada, comincerà a perdere sangue in abbondanza», osservò Amboise tastando delicatamente la ferita. «Possiamo arginarlo!» esclamò Adelaisa. «Ho visto un vecchio faggio alle rovine, e il suo tronco è coperto dai funghi da esca.» «Polyporus fomentarius», approvò Amboise con un lieve sorriso. «Sì, andranno bene. Corri a prenderli... Mi servirà anche la tua camicia, per una buona benda.» Adelaisa incontrò lo sguardo di Illait, vide il suo cenno d'incoraggiamento, e corse via; Amboise si chinò su Colin per ascoltargli il cuore, liberando al contempo il petto dai legacci della giubba pesante.
«È forte, e la lama non dovrebbe aver toccato niente di vitale. Ma dobbiamo impedire l'emorragia», mormorò quasi tra sé. Illait sfiorò la fronte di Colin. «Puoi fare qualcosa per lui?» chiese Amboise. «Perché me lo chiedi? Sei tu il grande medico.» «E lui crede di aver concluso il suo compito e di non poter aspirare a nient'altro. Lo so», ammise Amboise, cogliendo il rimprovero nella voce di Illait. «Se puoi raggiungerlo, trattienilo con noi», aggiunse soltanto. «Non vuole farsi raggiungere», ribatté Illait, scostandosi. In quel momento, Adelaisa ritornò: aveva raccolto il fungo e si apprestava a stracciare un pezzo della sua camicia di lino fine e ad arrotolarla a mo' di benda; infine si sistemò accanto a Colin, pronta, dopo aver ordinato ai due mercenari di costruire una barella con alcuni rami. «Illait, stai pronto a sollevarlo e a passare la benda, non appena toglierò la lama», disse Amboise. Quindi si alzò e afferrò l'elsa della spada di Alcourt. Lentamente, attento a non inclinarla né da una parte né dall'altra, sfilò la lama, mentre Adelaisa applicava sulla ferita prima il fungo e poi la benda, e Illait passava quest'ultima attorno al torace, stringendola saldamente. Colin non aveva avuto coscienza della manovra. I suoi due uomini erano già lì, con la barella improvvisata. Anche loro erano feriti, ma leggermente. «Avete trovato qualcun altro vivo?» chiese Amboise. «Nessuno», borbottò il primo. «Tiratelo su adagio», ordinò Amboise, ignorando il tono avvilito dell'uomo. «Andiamo alla cappella o a qualunque cosa possa fare da rifugio lassù.» Gli uomini obbedirono. Adelaisa coprì Colin con il proprio mantello, mentre Illait andava a cercarne altri, e si mosse ad accompagnare gli uomini. Amboise invece si attardò a cercare la sacca in cui teneva i suoi strumenti; a metà strada per la cima gli si affiancò Illait, che aveva raccolto tre mantelli, qualche fiasca d'acqua e una bisaccia. Nessuno dei due parlò. Gli uomini avevano sistemato Colin nella prima delle quattro celle per i monaci già costruite, lateralmente alle tre cappelle ma più in basso. I lavori erano stati interrotti per l'arrivo della neve, tuttavia si scorgevano cumuli di materiale già pronto, pietre e legname, e attrezzi da falegname e da carpen-
tiere al riparo in una delle celle, unite tra loro da un tetto. Il pavimento era fatto di roccia e terriccio, e i due uomini accesero il fuoco, circondandolo con alcune pietre, poi si buttarono in un angolo, esausti. Amboise raggiunse Colin; la benda era intrisa di sangue, e tuttavia il fungo ne stava rallentando il flusso. «Se riusciamo a tenerla pulita quel tanto che basta, proviamo a cucire» disse ad Adelaisa. «Ma non c'è luce, qui!» protestò la giovane, disperata. Illait le posò accanto una dozzina di lucerne: tutte quelle che aveva raccolto in un rapido giro alle cappelle. Ognuna aveva ancora abbastanza grasso sul fondo per dare una buona fiammella. «Vivrà?» gli chiese Adelaisa in un soffio. «Se lo vuole, sì.» «Che cosa posso fare?» «Tu sai che cosa puoi fare», ribatté Illait. Adelaisa annuì. Si chinò su Colin, gli prese il capo tra le mani e lo baciò sulla bocca, tanto a lungo e profondamente che il giovane sembrò risponderle, mentre un fremito lieve lo percorreva. Quindi la giovane si staccò, pronta ad aiutare Amboise nel suo compito. La notte scese precoce. Il vento aveva trascinato un mare di nuvole; le cime dei monti erano scomparse nel buio che aveva avvolto anche quella cima, unito al gelo e a un gran silenzio. Gli uomini avevano schermato la porta della cella con uno dei mantelli, e Illait teneva alto il fuoco. I due uomini, Adelaisa e lo stesso Amboise dormivano, sfiniti. A Colin, quel silenzio e quel buio, rotto appena dal baluginare del fuoco, parvero irreali, e più irreale ancora era la sensazione di estraneità che avvertiva nei confronti di quel luogo ignoto. Volgendo il capo, scoprì l'ombra vaga di Illait che gli sedeva accanto, con le spalle appoggiate al muro. Gli sembrò che venisse da lui il benefico calore che gli impediva di aver freddo. Aveva molte cose importanti da dire, o almeno tali gli sembravano, ma gli riusciva difficile formulare anche una sola parola. Illait tuttavia si accorse del suo movimento, e si chinò su di lui. «Bentornato», gli sussurrò. Colin tentò di respirare a fondo, senza riuscirci. «Ho sognato... di Adelaisa.» «Lo so.»
«Sei stato tu a mandarla?» «Qualcuno doveva venirti a prendere.» Colin tentò di sorridere. «Dove siamo?» «In cima al monte.» «Alcourt ha detto che Guiscano e i suoi sarebbero saliti da San Pietro.» «Ha fatto buio molto presto. Non sono arrivati.» Colin tentò di schiarirsi la mente a di rimanere ancorato alla mano che lo sosteneva. «In quanti siamo qui?» chiese ancora. «In sei, contando te.» «Allora ci prenderanno. Domani, non appena farà giorno, ci prenderanno...» «No, amico mio.» «Come?» «Ricordi il Drago?» Colin assentì, troppo debole per parlare. Ricordava confusamente un drago d'oro su una stoffa preziosa e una porta che dava l'accesso a un luogo dov'era facile sentirsi felici. Illait sorrise. «Lo sveglieremo.» Colin non chiese come, o perché. Gli sembrava giusto, e semplice, se era Illait a prometterlo. Chiuse gli occhi e si lasciò scivolare oltre la porta. XX Scendi da cavallo, Guiscano!» ordinò Olderico Manfredi, trattenendo il proprio dall'avanzare oltre verso i prigionieri. I suoi armati, un centinaio di uomini, avevano raggiunto Guiscano e la sua schiera a metà della faticosa salita verso San Pietro, e la battaglia era stata breve. Guiscano si era arreso non appena aveva compreso che il suo signore non gli avrebbe dato scampo, risparmiando così la vita dei soldati e, sperava, anche la propria, ma Olderico si era rifiutato di ascoltarlo; erano quindi stati privati delle armi e riportati al piano come nemici. Il buio aveva già avvolto il borgo e le caseforti, ma il portone era spalancato e molte torce rischiaravano il cortile principale. Lo stesso Adverto di Lézat li aspettava nel cortile, incurante del vento gelato, con la piccola folla di servi e di contadini, impauriti per quello che stava accadendo e per
quello che temevano potesse accadere. Odo di Chambéry e gli inviati di Arnolfo di Azzago si trovavano alle spalle di Adverto, circondati dalla guardia di Arduino. Guiscano si decise a smontare da cavallo nel semicerchio di cavalieri nervosi e maldisposti che era venuto a formarsi e di cui lui era il punto centrale. Tenendo la propria spada di piatto, con entrambe le mani, andò a posarla davanti a Olderico, e poi s'inginocchiò nel fango, a capo chino. «Chiedo misericordia», disse infine. «Tu eri disposto a concederla?» tuonò Olderico. «Prima che ci raggiungessi, ho mandato dodici tra i miei migliori uomini, con una guida, a piedi, lungo un sentiero che l'uomo diceva salire da San Pietro, più breve rispetto a quello che i cavalli potevano percorrere uno alla volta e con molta fatica. Se ci sarà abbastanza luce, quegli uomini saranno in cima stanotte, oppure vi arriveranno domani non appena farà giorno; comunque prima di te, Olderico.» «E con quali ordini?» Guiscano non rispose. Olderico smontò a sua volta. La luce delle torce, ondeggiante a causa dal vento, lo faceva apparire più alto e massiccio di quanto non fosse; una corta barba bionda gli copriva il mento, nascondendo le labbra sottili. «Questi due», esclamò, indicando Aurac e Risson, ancora a cavallo, «sono stati più fedeli ai loro capitani rispetto a te, che pure sei il cadetto di una famiglia che già serviva il mio avo Arduino Glabrione! Guardali, Guiscano! Uno è un mercenario e l'altro è un predone. Tu che cosa sei?» Il giovane continuò a rimanere in silenzio. Manfredi ricacciò l'ira che lo stava invadendo, e si rivolse ad Adverto. «Ti sono grato, abate, per l'aiuto che a tuo rischio hai dato all'uomo che mi ha servito senza alcun obbligo, se non quello dell'amicizia. Il signore di Montsalvy è stato il mio maestro e per lui provo l'affetto e la devozione di un figlio. Se è morto per causa degli intrighi e delle congiure tessute da questi uomini, non ascolterò nessuna richiesta di clemenza per loro.» «Non chiederò clemenza per nessuno, se non per Guiscano. La sua giovinezza l'ha fatto cadere preda di parole e di disegni di cui nemmeno ha compreso la trama.» «Peggio per lui! Tu che mi dici, vicario del vescovo di Chambéry?» lo interpellò Olderico, ignorando il giovane ancora inginocchiato. «Dopotutto questo Alcourt è il tuo capitano. Sei disposto a rispondere delle sue azioni con la tua testa?»
«Davvero vuoi sentire qui quello che ho da dirti?» ribatté Odo. «Bada», lo ammonì Olderico. «Ogni parola sbagliata potrebbe costarti molto cara.» Odo abbozzò un sorriso. Non dubitava di poter essere messo a morte. Olderico Manfredi avrebbe fatto pervenire in seguito le sue scuse al vescovo di Chambéry, e Chaffre le avrebbe accettate. Non avrebbe potuto fare altro. «Il capitano Alcourt non ucciderà Illait di Isley, il pagano che appartiene al mio vescovo, né recherà alcuna offesa alla tua sposa», rispose quindi, conciliante. «Io ti chiedo di restituirmi la libertà e il mio prigioniero e di lasciarmi immediatamente partire per Chambéry.» «Illait di Isley non è più un pagano; è un nobile convertito e come tale non appartiene a nessuno, se non al suo re», intervenne Adverto. «Di questo, io stesso sono testimone.» «Di certo nessuno metterà mai in dubbio la tua parola, abate Adverto, né la mia, né quella di mio cugino Arduino e di tutti i miei cavalieri, che ti hanno sentito rendere questa testimonianza», commentò Olderico. «Mi auguro che questo giovane di cui ho già sentito tanto parlare sia ancora vivo, e che la gente smetta di considerarlo un nemico.» «Che il cielo accolga la tua speranza, Olderico», gli fece eco Adverto. «Il cielo invece ci schiaccerà per causa sua!» sibilò Odo. «Possiede il dono di incantare con la parola. Ha reso pazzo il mio vescovo e, a quanto vedo, ha ingannato anche il severo Adverto, allontanato da Lézat per la sua rigidità, ma che qui si è dimostrato più che condiscendente, permettendo a un pagano di entrare in un luogo consacrato e prestandogli ascolto!» «La mia rigidità, come tu la chiami, era diretta a colpire i costumi immorali e la simonia, di cui tu e il tuo vescovo siete proclamati esempi!» disse Adverto, furioso. «Saliremo alla cima del monte non appena ci sarà abbastanza luce», lo interruppe Olderico. «Prega, Odo di Chambéry, che il tuo capitano non abbia fatto onore alla sua furia e tu, Guiscano, che i tuoi uomini siano stati in qualche modo trattenuti, perché la vostra vita è legata a quello che troveremo lassù. Custoditeli con gli inviati di Azzago», ordinò ai suoi, e poi si rivolse ad Adverto. «Guiscano dovrà pagare anche per l'ospitalità che ti ha obbligato a concedergli e che non aveva il diritto di importi!» annunciò. «Sarei stato lieto di ospitarlo se fosse venuto in pace», ribatté l'abate, precedendolo all'interno della casaforte. «In quanto alla tua futura sposa...»
«È bellissima!» lo interruppe Manfredi. «Ha un temperamento da regina», continuò Adverto. «E ti sarà certamente di grande aiuto, nella difficile arte di governare.» Manfredi sorrise, ma scosse il capo. «Mi dispiace di aver chiesto al signore di Montsalvy di correre tanti rischi.» «Ciò che è accaduto è certamente dipeso da una volontà ben più forte e potente della sua e della tua, Olderico. Chiedendo al signore di Montsalvy di condurti la tua sposa, non potevi prevedere che il suo cammino si sarebbe intrecciato con quello di Illait di Isley. Forse era la via segnata dalla Provvidenza per la conversione di quel giovane, in modo che il suo potere, davvero grande, potesse venir custodito entro le mura sicure della Chiesa.» «Non lo rimanderò a Chambéry.» «Non era questo che intendevo», mormorò Adverto. Olderico Manfredi evitò di rispondere. Ancora una volta la sala dei banchetti venne preparata in tutta fretta, ma soltanto per ospitare una cena frugale e per offrire un po' di calore. Olderico si ritirò presto e venne sparsa della paglia sul pavimento della sala per ospitare il suo seguito e i suoi capitani. Adverto tuttavia andò nella cappella, scegliendo di vegliare in preghiera, e tentando ancora una volta di ricordare la natura, e la sensazione, della forza che l'aveva colmata. Ancora doveva capire come e perché aveva aperto la porta a Illait di Isley... Inoltre doveva trovare il modo per non farsi confondere, per mettersi al sicuro. Non poteva sottovalutare il pericolo che poteva venire dalla conoscenza. Il brivido afferrò la terra in quel momento. Dapprima lieve, come un sussulto; poi più forte, tanto che, nella struttura della costruzione, qualcosa scricchiolò. Subito dopo il movimento diventò un'onda; il lume che pendeva dal soffitto, appeso a una catenella, oscillò e le ombre sulle pareti di pietra diventarono strane e mostruose figure danzanti. Adverto si sollevò, incerto. Era forse una risposta? Un ammonimento? Una sfida? Grida di paura e strepiti venivano dalla casa e dal borgo, mentre un rumore di passi affrettati giunse prima dal piano superiore e poi dal passaggio. La porta che vi si affacciava si aprì in quel momento. «Vieni!» lo chiamò Arduino. «La sommità della montagna brucia!» Poi attraversò la cappella, spalancando la porta che dava all'esterno; ad Adverto parve addirittura che il drago disegnato dal ferro fosse a sua volta
in movimento, nella luce delle torce appese al muro. Un suono strano, un tuono che saliva dal profondo anziché scendere dal cielo, colmava il silenzio. La gente del borgo era corsa tutta lì; gli uomini, le donne e i bambini si stringevano gli uni agli altri, muti e impauriti. Ma c'erano anche gli uomini di Manfredi e lo stesso Olderico, con le mani sui fianchi, non meno stupefatto degli altri. Adverto sollevò lo sguardo verso la montagna che incombeva sul borgo come un gigante. Uno splendore vivo la coronava, come se vi ardesse un immenso rogo. In tutta quella luce, persino le stelle svanivano. Adverto sollevò le braccia, nascondendo la sua paura per sopire quella della gente; il tuono si affievolì. Per qualche istante si avvertì il rumore di qualche masso precario che rotolava giù dalle pendici. Poi più nulla. Si distese un silenzio assoluto. Incantato. Un silenzio che non appartiene a questo mondo, pensò Adverto. D'un tratto, si rese conto che tutti aspettavano le sue parole, guardando ora lui ora la montagna. «Stiamo assistendo a un miracolo!» gridò allora. «Quel luogo lassù da stanotte è due volte benedetto e questa è la sua consacrazione! Nessun vescovo potrà rendere questa montagna più sacra, nessuna parola potrà cambiare quello che è stato stabilito. San Michele terrà il Drago e custodirà il patto tra la terra e il cielo attraverso i secoli: fino a quando la terra non esalerà il suo ultimo respiro, l'abbazia che lassù stiamo costruendo sarà il sigillo al patto!» «Allora non è adesso la fine?» esclamò qualcuno, dando voce alla paura che impietriva la gente. «La fine?» Adverto contrastò la forte emozione che lo pervadeva. Non poteva dire a quella gente ciò che sentiva e che sapeva. Non avrebbe capito. Non poteva capire. Doveva sapere soltanto quello che era bene e ignorare quello che poteva confonderla, o sviarla dal sentiero largo e sicuro della fede. I pericoli erano già troppi, nel momento oscuro e pauroso in cui per grazia di Dio si trovavano a vivere. «Questo è l'inizio, non la fine!» tuonò quindi. «È la consacrazione della nostra impresa; non per caso Olderico Manfredi è tra noi proprio ora. Niente avviene per caso. Voci malvagie avevano parlato del giudizio di Dio e della fine del Tempo, invece davanti ai vostri occhi si è compiuto il prodigio e il nuovo millennio sarà luminoso come quel fuoco santo che ci
sovrasta!» Intonò una preghiera, e tutti s'inginocchiarono, incuranti del fango duro e gelato, che feriva come una lama. Il Drago questa notte è senza catene, pensò inginocchiandosi a sua volta. Quel pensiero lo atterrì e lo fece sentire inesorabilmente solo. La sommità della montagna bruciò per tutta la notte. Il tremito era stato improvviso, e aveva svegliato di soprassalto Adelaisa e gli uomini di Colin. Amboise li aveva quietati con un cenno, rassicurandoli. Illait non si trovava nel riparo e Colin era ancora incosciente. Dopo qualche tempo, Amboise aveva visto Illait rientrare, senza proferire parola. Il giovane era quieto e aveva l'aria stanca al pari di tutti loro. Si era avvolto nel mantello e aveva chiuso gli occhi, e Amboise aveva passato il resto della notte a interrogarsi sull'esistenza che aveva vissuto, più che su quella che gli rimaneva da vivere, e a prendersi cura di Colin, il cui respiro si faceva via via più debole. Poco prima dell'alba Illait uscì una seconda volta, ma Amboise svegliò Adelaisa soltanto quando il sole prese a filtrare dal mantello che avevano teso a schermare la porta. La giovane si protese immediatamente su Colin, spiandone le condizioni. La pelle era calda, il respiro corto e rapido. «Ha la febbre», commentò Amboise. «È un buon segno. Il suo corpo reagisce.» «Dov'è Illait?» mormorò Adelaisa, cercandolo con lo sguardo, mentre anche i due uomini si stavano svegliando. «Fuori», rispose Amboise. Uscì a sua volta ed esitò, investito dal vento gelato che soffiava a raffiche. Si avviluppò nel mantello, guardandosi attorno; il cielo era pulito, d'un azzurro cupo e, a oriente, il sole si era levato, sfolgorante. Intravide Illait più in alto, alle cappelle, e lo raggiunse; lo stretto sentiero era coperto di ghiaccio, e c'era ghiaccio vivo sulla roccia cui le costruzioni erano abbarbicate. Ai piedi di quella centrale, la più antica, Illait aveva inciso nel ghiaccio il disegno di un drago con le ali aperte. Amboise si fermò. Il giovane stava in piedi al di là della roccia e del disegno, a guardare il sole. «Che cosa è accaduto stanotte?» chiese. Finalmente Illait lo guardò. «Questa notte abbiamo svegliato il Drago.» «Abbiamo?» «Non si è mai soli, con il Drago. La terra, il cielo e le forze che scorrono
profonde in basso e in alto, nel grande e nel piccolo, sono il Drago. Con l'arrivo del sole, il Drago sparirà, ma l'acqua è assorbita dalla terra, così il Drago sarà sempre qui, pronto, per chi saprà risvegliarlo. Se mai gli uomini sapranno ricordare. Perché è questa la loro unica e vera tragedia: dimenticano.» Amboise vinse il desiderio di chinarsi a sfiorare quel disegno bello come un monile prezioso. Una forza immane era imprigionata in quelle linee perfette, che avevano valori e spazi segreti. Una forza che aveva fatto tremare la terra. «Va' via, Illait», disse invece. «Vattene prima che arrivi Guiscano con i suoi uomini. Da solo puoi farcela, e né io né Adelaisa corriamo pericoli con quel giovane. Olderico Manfredi non può essere lontano e puoi rimetterti a lui nel mio nome. Lui ti aiuterà.» Il giovane scosse il capo. «Olderico Manfredi è già arrivato. È lui che sta salendo per la via di San Pietro, non Guiscano. È strano, però.» «Che cosa è strano?» Negli occhi di Illait passò un guizzo di divertimento. «Nel suo cuore c'è ansia più per la tua sorte che per quella della sua sposa.» «Soltanto perché io sono stato il suo maestro per alcuni anni, quando era ragazzo, e lui ancora non conosce la nostra bella dama.» «Una verità taciuta non è una menzogna», commentò Illait sorridendo. In quel momento il Drago, raggiunto dal sole, scintillò come un diamante e si trasformò in oro splendente. Nello stesso istante, la prima goccia colò via da un angolo, filtrando nella terra bruna. «Vedi?» aggiunse Illait. «Questo è ciò che voleva Chaffre de Revard. Il segreto del potere imprigionato in un segno. L'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, l'acqua e il fuoco, la materia e il suo contrario, il Tutto e il Nulla.» Quindi gli girò le spalle e si mosse per tornare al rifugio. Olderico Manfredi, Arduino e i loro uomini raggiunsero la cima a mattino inoltrato, dopo aver raccolto lo spavento della gente di San Pietro. Gli uomini che Guiscano aveva mandato sul sentiero erano stati terrorizzati dal gran fuoco, ed erano tornati al borgo raccontando di massi che rotolavano a inseguirli; si erano consegnati con sollievo ai soldati di Olderico, purché li riaccompagnassero al piano, e avevano avvertito il signore della Marca di Torino delle cose terribili che certamente avrebbe trovato in cima, a patto che il fuoco avesse lasciato qualcosa da vedere.
Ma la cima era intatta, qui e là chiazzata dal bianco della neve e dalle macchie dell'erba ingiallita; le tre cappelle abbarbicate alla roccia erano indenni e così la costruzione iniziata prima dell'inverno per ospitare i monaci. Un magro fuoco di sterpi ardeva tra le pietre, davanti a una delle celle; più in basso, oltre le rovine, il sole rivelava impietoso i cadaveri della battaglia del giorno prima. I cavalieri si fermarono; gli uomini di Alcourt sul terreno erano tre volte più numerosi degli altri, e tuttavia avevano perduto. Olderico diede ordine ai suoi perché provvedessero a raccogliere i corpi e a riportarli alla Chiusa per una sepoltura cristiana; poi, con Arduino e i suoi capitani, raggiunse le celle in costruzione. Amboise de Montsalvy lo aspettava accanto al fuoco. Alle sue spalle, si scorgevano due soli superstiti e un giovane biondo e senz'armi che sembrava non chiedere di meglio che rimanere in disparte. Olderico smontò, raggiungendo Amboise e stringendolo in un abbraccio. «Non mi sarei perdonato se questa impresa ti fosse costata la vita!» esclamò. Quindi sfiorò con lo sguardo il giovane e subito dopo la soglia, su cui si era affacciata Adelaisa. Allora sorrise, inchinandosi appena. «Non dire altro», lo fermò Amboise. «Non occorre. Non con lui.» «È tanto potente?» sussurrò Olderico. «È un amico», lo corresse Amboise. «E ne hai un altro che sta lottando per rimanere vivo, e che dobbiamo portare al più presto al piano per poterlo curare.» «Dimmi soltanto come siete rimasti vivi con l'incendio spaventoso che abbiamo visto ardere per tutta la notte!» «Un incendio?» Amboise guardò Illait, che tuttavia rimase in silenzio. «L'abate Adverto ha detto che era un miracolo. Un fuoco santo che ha consacrato il monte e la nuova abbazia a San Michele.» «...e che ha fermato gli uomini di Guiscano pronti a completare il lavoro di Alcourt», s'intromise Arduino. Amboise assentì senza commentare. Poi, girandosi, scoprì che Illait e Adelaisa erano tornati dentro per preparare Colin al trasporto. «Una tiepida accoglienza, per una sposa che ha fatto tanta strada», mormorò con un sospiro. «Mi sarà concesso rimediare?» esclamò Olderico, troppo curioso per staccare lo sguardo dalla soglia oltre la quale erano spariti i due giovani. «Se non fossi stato mio allievo, dubiterei dell'onestà dei tuoi propositi», lo rimproverò Amboise. «Ma escogiterò qualcosa per permetterti di saldare
il tuo debito.» «Temo la tua inventiva, quando usi il termine 'escogitare'», ribatté Olderico, divertito. «Ma sono davvero sollevato nel vederti salvo. Non mi sarei perdonato la tua morte.» Amboise scosse il capo. «La mia morte sarebbe stata una ben piccola cosa, nell'immensità degli eventi.» Tacque. Non poteva dirgli, non avrebbe detto a nessuno, mai, quello che si era compiuto in quel luogo; la forza che aveva visto all'opera, e la via per giungervi: il segreto delle linee e degli spazi armonici chiusi in un disegno compiuto che ne era allo stesso tempo la chiave e il sigillo. La sua vita di studioso, la sua sete di conoscenza, potevano chiudersi lì, felicemente, perché aveva avuto il suo appagamento. Il suo trionfo. Illait di Isley lo aveva già ricompensato. E nessuna ricompensa avrebbe mai avuto l'eguale. «Sei stanco», osservò Olderico, comprensivo. «Sono felice», rispose Amboise scuotendo il capo, incurante del fatto che l'altro non potesse capirlo. Per un certo tempo, non avrebbe saputo dire quanto, Colin era stato al di là della porta di pietra, in una bella giornata assolata, forse ancora di giugno o già di settembre. Era difficile definire l'ora e la stagione, in quel luogo. Aveva ritrovato l'albero gigantesco, carico al contempo di fiori e di frutta, e si era addormentato, disteso nell'erba al di sotto dei rami, godendo di quella pace assoluta. Era venuta Adelaisa a svegliarlo. All'improvviso era stata al suo fianco, distesa su di lui, gli aveva preso il viso tra le mani e lo aveva baciato sulla bocca. Un bacio lunghissimo, che gli aveva portato nell'anima e in ogni fibra una voglia di vita, e di amore. Poi Adelaisa si era risollevata, tendendogli la mano, e Colin l'aveva afferrata; avevano corso nell'erba alta, giocato e fatto l'amore, gustando ogni attimo di quel luogo e di quel tempo. E sempre la mano di Adelaisa era stata nella sua. Seguendo quella mano, Colin Bois aveva riattraversato la porta di pietra. Soltanto in quel momento Adelaisa lo aveva lasciato. Si era svegliato in un luogo sconosciuto: una minuscola cella di pietra, riscaldata da un braciere che ardeva non lontano dal suo giaciglio, e illuminata da una finestrella da cui filtrava la luce del giorno.
Un monaco stava chino su un tavolo, intento a preparare qualche pozione in un mortaio, e nell'aria c'era un sentore di erbe secche e di unguenti. Non sono morto, fu la prima cosa che pensò. E poi pensò ad Adelaisa, e si sentì come se lo fosse. Ma da quel momento cominciò a migliorare rapidamente. Era a San Pietro, nell'ospizio che quattro monaci di Cluny custodivano per portare aiuto ai malati; Amboise aveva dovuto, seppur a malincuore, lasciarlo alle loro cure, perché non sarebbe arrivato vivo al piano. Ma i monaci si erano rivelati abili e caritatevoli e lo avevano accudito con ogni riguardo. Amboise inoltre gli aveva lasciato i suoi due uomini e anche Aurac e Risson, del quale Olderico e Arduino, per la sua giovane età e a mo' di compenso per la fedeltà dimostrata, avevano finto di dimenticare l'appartenenza alla banda di Tramlan. Febbraio era scivolato così nella quiete di quel ritiro, all'oscuro di ogni evento che poteva accadere al piano e dedicato soltanto al recupero delle forze. C'erano stati ancora giorni di neve, e poi era venuto il vento; marzo si rivelava precoce, con il suono della neve che si scioglieva in acqua, quando Illait di Isley, da solo, giunse a prenderlo. Colin si trovava nel cortile dell'ospizio, a godersi il sole. Quando Aurac vi accompagnò Illait, questi per un momento rimase a guardarlo, evidentemente soddisfatto del suo buon aspetto. «Stai bene», disse soltanto. «Ho avuto una buona compagnia», spiegò Colin, posando a terra il gattino bianco e rosso che stava coccolando e che gli si era affezionato in tutto quel tempo. «La migliore che potevi desiderare», ammise Illait, mentre il gattino immediatamente volgeva a lui la sua attenzione. Un momento dopo gli si era già arrampicato sulla spalla, cercando di appollaiarsi. «Tutti uguali, uomini e animali. Sempre pronti ad abbandonarti per qualcosa di meglio!» esclamò Colin con un mezzo sorriso. Sotto l'apparenza scherzosa, però, nutriva un profondo timore per quello che Illait poteva dirgli. In un certo senso, e non era nella sua natura, persino l'idea di lasciare quel rifugio sicuro lo infastidiva. Illait posò a terra il gattino. «Olderico Manfredi ti è molto grato», disse. «Sono tornati ieri da Torino e per prima cosa mi ha chiesto di venirti a prendere.»
«Sono tornati?» ripeté Colin. Non pronunciò il nome di Adelaisa. Le parole di Illait lasciavano intendere che il matrimonio fosse avvenuto; quindi lui non poteva più permettersi di pensare a lei. In alcun modo. «Sono tornati in visita ad Avigliana, certo. Olderico Manfredi e la sua sposa e il signore di Montsalvy», replicò Illait. «In loro onore, Arduino terrà un banchetto al castello, oggi e domani.» «Ne farò a meno.» «Non ci credo», disse Illait con un mezzo sorriso. «A meno che tu non voglia ritirarti qui a fare il monaco per tutta la vita.» Il tono del giovane era stato così serio che a Colin venne da ridere; s'immaginò confinato tra quelle mura di pietra a servire i poveri e si diede del pazzo per aver permesso all'altro di suggerirglielo. «Bene», commentò Illait. «Sono quasi riuscito a farti ridere.» «Devo essertene grato?» «A meno che tu non voglia ritirarti dal mondo come ti ho detto, sì.» Colin scosse il capo; sapeva di non poterla spuntare a parole con Illait di Isley. «Tu non eri con loro a Torino?» chiese quindi. «No. Sono ospite dell'abate Adverto.» «Prigioniero?» «Non proprio; posso muovermi nei limiti delle proprietà dell'abbazia, e Amboise de Montsalvy ha ottenuto per me una specie di... libertà, in cambio della promessa di recarmi a Cluny quanto prima. L'abate Adverto sulle prime era contrario, ma poi ha compreso che l'avere risposta ad alcune sue domande avrebbe messo in pericolo le sue convinzioni e, poiché è onesto, lo ha ammesso. Ora è ansioso di vedermi partire.» «Che mi dici di Odo di Chambéry?» «L'hanno riaccompagnato a Bramans. Guiscano è stato giudicato e messo al bando; i suoi fratelli hanno accettato il giudizio e pagato una buona ammenda a Olderico. Gli inviati del vescovo di Azzago sono stati portati a Torino e credo che verranno usati come ostaggi per qualche trattativa, almeno così ha detto Amboise.» «Ti ha detto niente di me?» «Ti sarà pagato l'ingaggio per tutti i tuoi uomini, così potrai darlo alle famiglie dei morti, se ne avevano... Ah, Amboise ti chiede di tenere con te il ragazzo, Risson.» «Tutto ciò ha l'aria di un congedo», borbottò Colin, rientrando nella cella per raccogliere le proprie cose. «Al contrario», replicò Illait, seguendolo. «Amboise ti chiede di diventa-
re la sua scorta permanente. Lui viaggia molto, e ha sempre bisogno di uomini fidati al suo fianco.» «Con la sua abitudine d'immischiarsi nei fatti altrui non me ne stupisco», commentò Colin, prendendo il mantello, la spada e la balestra. Al suo risveglio, l'aveva ritrovata accanto al giaciglio, e credeva di sapere chi era stato ad averne cura. «Amboise de Montsalvy è il miglior signore che puoi servire», lo incoraggiò Illait. «Dovresti accettare la sua offerta.» «Di certo non si rischia di morire di noia, al suo fianco. Hai visto... Adelaisa?» infine l'aveva chiesto, e gli sembrò di scoprire un guizzo di divertimento negli occhi di Illait per la sua resa. «Sì.» «È felice?» «Non sarebbe stato appropriato da parte mia chiederglielo, non ti sembra?» Colin scosse il capo; in qualche modo, Illait si stava prendendo gioco di lui, anche se non ne vedeva lo scopo. «Sono pronto», si rassegnò. Si congedò dai monaci che lo avevano curato, e che erano già stati ricompensati da Amboise; ordinò ai suoi di raggiungerlo al piano con comodo e montò sul cavallo che Illait gli aveva condotto, seguendolo. Alla Chiusa li aspettava la scorta di Olderico, una dozzina di soldati che li accompagnarono fino al castello di Avigliana traversando una terra fertile, serrata tra monti boscosi da un lato e monti aspri e nudi dall'altro. Torri di guardia si vedevano sui primi contrafforti e nella piana si scorgeva il luccichio dell'acqua. Il sole era ancora alto quando giunsero al borgo. Il castello, che si alzava per ben due piani oltre quello di terra, sorgeva sulla sommità di una collina cinta da due cerchia di mura e digradante sul borgo, con le case dai tetti di paglia e una chiesa, consacrata a Santa Maria, che la seconda cerchia giungeva a lambire. Una torre merlata, quadrangolare, dominava sul lato nord la scarpata che scendeva verso il borgo; una seconda torre a meridione, rotonda, era in costruzione. Da quel punto non potevano vedere i laghi, ma le collinette che vi scendevano erano qua e là macchiate di verde e su alcuni pruni si indovinava la lanugine bianca dei primi fiori. Attorno al castello, nel cortile e nel borgo, c'era aria di festa. Nastri era-
no appesi ovunque sulla via in salita che conduceva alla porta d'ingresso nelle mura, e nastri erano appesi ai rami più bassi degli alberi, a festeggiare l'imminente primavera e, più cristianamente, la Pasqua non lontana. Vennero subito accompagnati nella sala dei banchetti, dove Arduino e suo padre Oddone, fratello del padre di Olderico, stavano ricevendo gli ospiti. Colin esitò sulla soglia, sentendosi fuori posto; accadeva di rado che un capitano fosse ammesso come ospite in un convegno di nobili. Ma Illait lo pungolò. «Di che hai paura?» gli sussurrò, spingendolo a entrare. «Guarda che sono io lo straniero in questo luogo.» Ho paura di vederla, pensò Colin. Ma non lo disse. La scoprì all'improvviso, ancora accanto ad Amboise, forse per cortesia. Portava un abito color oro, finemente ricamato, e i capelli acconciati e chiusi in un velo, che tuttavia le lasciava libera la gola. Un cerchio d'oro e di granati le incorniciava la fronte, tenendo a bada i riccioli. Anche Adelaisa lo vide, ma abbassò lo sguardo. «Quello accanto al tavolo è Olderico Manfredi», gli mormorò Illait. Colin lo osservò; aveva intorno i nobili del luogo e alcune dame, e a una in particolare si rivolgeva spesso. Era una giovane minuta, bionda di capelli, che portava acconciati ai lati del viso e coperti da un velo lungo. Indossava un abito azzurro, ricamato, e una preziosa croce d'oro al collo. «Ancora non ha rinunciato alla sua favorita?» mormorò Colin. Non era sorpreso del fatto che la ostentasse in pubblico a così poco tempo dal matrimonio, bensì offeso, per l'insulto che in quel modo veniva portato ad Adelaisa. Come poteva tollerarlo Amboise de Montsalvy? La sua mano si posò sull'impugnatura della spada, ma ormai erano arrivati vicino ad Amboise e, fermandoglisi accanto, Illait gli trattenne la mano. «Quella dama bionda è Adelaisa di Borgogna, Colin. Sua moglie», gli sussurrò. Colin guardò la giovane che aveva sempre chiamato Adelaisa e che se ne stava accanto al signore di Montsalvy tenendo ostinatamente gli occhi bassi. Amboise sorrise. «Quella è la vera Adelaisa di Borgogna, Colin. La nostra dama è Artemisia, la mia allieva prediletta. Noi, Artemisia e io, dovevamo attirare gli
eventuali attacchi di chi voleva impedire queste nozze, mentre la vera Adelaisa viaggiava per la via del Montjovis. Ora le nozze sono avvenute, e il nostro impegno si è concluso.» «Tu l'hai sempre saputo!» mormorò Colin a Illait, sentendosi avvampare, mentre Artemisia finalmente alzava gli occhi, e Colin ritrovava lo splendore dell'erba ai piedi dell'albero del Mondo. «Sì, lui l'ha sempre saputo», disse Artemisia. «Ma lui è un mago.» «Artemisia è... un bellissimo nome», mormorò Colin. «Lo so», rispose la giovane, e trattenne il sorriso che le era salito alle labbra e che sarebbe sembrato sconveniente agli occhi di quelli che li stavano guardando. «Credo che adesso accetterai l'incarico», s'intromise Illait, che stava facendo del suo meglio per farsi ignorare dai nobili di Arduino e da quelli al seguito di Olderico che continuavano a fissarlo. «Mi sembra una buona offerta», convenne Colin. «Bentornato nella compagnia», lo accolse Amboise, poi li lasciò, sorridendo, per raggiungere Olderico. Per un istante, Colin non riuscì a vedere altro che Artemisia di fronte a lui. Poi si ricordò di Illait e si girò. «E tu?» chiese. Illait abbassò il capo. Un sorriso riportò sul suo volto l'ombra di malinconia che lo rendeva più giovane. «Non lo so», rispose. Era all'improvviso solo nella sala oscura e polverosa dove il sole di marzo, penetrando dalle strette finestre, disegnava per capriccio l'ombra di un drago sulle pietre dell'impiantito, catturando qui e là un baluginio d'oro o il riflesso di una stoffa preziosa. «Lui dorme, ma tu sei vivo», mormorò Colin, seguendo il suo sguardo e scoprendo l'ombra. «E una cosa ho imparato: che nessun muro è abbastanza alto per trattenerci, se non lo vogliamo.» Artemisia fece scivolare una mano in quella di Colin e l'altra in quella di Illait. «Non ci separeremo», promise, e un po' della sua determinazione raggiunse entrambi i giovani. Le mani si strinsero saldamente. L'ombra del Drago si allungò sull'impiantito e, a un soffio di vento, scivolò da una finestra, lasciandosi assorbire dalla terra di primavera. NOTA DELL'AUTRICE
Questa storia nasce, prima di tutto, dall'amore che ho sempre nutrito per la mia terra, la valle di Susa e Moriana al di qua, e al di là, del valico del Moncenisio; terra cui la famiglia di mia madre, con l'inconfondibile cognome Alp, diventato nel tempo Alpe, può rivendicare l'appartenenza da moltissime generazioni. Così questa storia, i suoi luoghi e i suoi cammini sono storia, luoghi e cammini visti e sentiti con l'anima e con il ricordo, più che con gli occhi o con la mente. Devo ammettere che il punto più affascinante è stato il balzo all'indietro nel tempo, per risentire gli odori e i sapori dell'alba dell'anno Mille: le voci del mercato nei giorni della fiera, il suono delle campane nell'aria gelata, il profumo delle bacche di ginepro e della resina di pino, i silenzi di un fondovalle ancora di foreste e acquitrini in contrapposizione con la valle di oggi, ferita dalla cicatrice bianca di una superstrada, minacciata dagli spettri della centrale nucleare appena al di là del confine e preda della prossima linea di treni ad alta velocità. Ma in questa valle, pur con tutte le incombenti minacce, resistono luoghi bellissimi, dove è facile trovare quello spirito che ho cercato di trattenere e comunicare nella storia raccontata: è uno spirito segreto, profondo e vivissimo. È quello che viene definito «l'alito del drago». È la Magia. In valle lo si può sentire anche ai giorni nostri, soltanto con un po' di pazienza: lo si sente nei venti di marzo, quelli che vengono detti «di caduta», caldi e feroci, che sciolgono la neve e fanno cantare le acque, liberandole dal ghiaccio; e lo si sente particolarmente quando il vento si scava il cammino nelle gole dei monti o nei valloni boscosi. È una esperienza unica e bellissima. È difficile poi trovare un luogo altrettanto colmo di magia della cima del monte Pirchiriano, dove sorge l'abbazia di San Michele della Chiusa, comunemente definita «Sacra», ed è altrettanto difficile sfuggire alla sensazione molto particolare che afferra scendendo nella cripta, che ne è il cuore, o dimenticare l'oscura relazione tra questo monte con la sua particolare fisionomia di donna, visibile facilmente proprio dalla superstrada scendendo in direzione di Torino, e quello in fronte, l'alieno monte Musiné, caro a tutti gli studiosi di esoterismo. Per nostra fortuna i monti che serrano la valle fino all'alta cima del Rocciamelone, più di tremilacinquecento metri (la Bianca Signora dei miei sogni di bambina e il Roc Maol dei Segusini e dei Belaci), non sono muta-
ti; è ancora possibile trovare coppelle e incisioni seguendo gli antichi sentieri; scoprire che l'Orrido del Drago esiste, nel comune di Foresto; immergersi nella misteriosa serenità dell'abbazia della Novalesa; salire a piedi senza bisogno di eccessivo allenamento l'antico sentiero fino al valico del Piccolo Moncenisio (usato all'incirca dall'VIII al XII secolo) e percorrere la Via dei Franchi, il cammino seguito da Carlo Magno per piombare alle spalle delle armate del re Desiderio. Ho cercato, amalgamando quanto ho appreso in storia, tradizioni e leggende fin da bambina a quanto ho studiato successivamente, di rendere fedelmente il momento della narrazione. Per farlo mi sono servita sia di personaggi inventati sia di personaggi storici, quali Adverto di Lézat, primo abate dell'abbazia di San Michele della Chiusa; Gezone, abate della Novalesa, il giovane monaco Ingo, autore di quelle Cronache della Novalesa che, con le Cronache dell'Anno Mille di Rodolfo il Glabro, sono state il testo fondamentale per le mie ricerche. Sono personaggi storici anche Bosone e Guido di Susa, Arnolfo da Azzago e Arduino V, figlio di Oddone, signore di Avigliana, da non confondere con Arduino d'Ivrea di cui peraltro era cugino, come Olderico Manfredi. Con Olderico Manfredi mi sono concessa una piccola libertà, supponendo per lui un matrimonio precedente a quello che lo avrebbe unito successivamente a Berta, figlia di Oberto II della Lunigiana, da cui sarebbe nata la famosa Adelaide, detta la Marchesa. D'altra parte Adelaide, primogenita di Olderico Manfredi, nasce nel 1020, quando già il padre è avanti negli anni (morirà nel 1034 o 1035); è quindi ragionevole supporre che Berta non fosse la prima moglie e che semplicemente non avesse avuto figli, o figli viventi, dai precedenti matrimoni. Berta regge le sorti del marchesato di Torino per qualche anno e, intorno al 1040-1041, le succede la figlia Adelaide, già vedova di Ermanno di Svevia. Qualche altro breve cenno sui luoghi: il castello di Avigliana, oggi splendido ammasso di rovine sulla sommità di una collinetta e costruito nel suo primo nucleo da Arduino Glabrione, era in espansione nell'anno Mille, con l'innalzamento della torre rotonda; nell'anno Mille il borgo di Sant'Agata, dopo l'incendio della propria chiesa, mutò davvero il nome in Sant'Antonino, nome che conserva tuttora; l'imponente sbarramento delle Chiuse è del tutto perduto ma resta il paese, La Chiusa, e lì, e nell'attiguo Sant'Ambrogio, è ancora possibile vedere qualche traccia delle caseforti e delle mura. Così, nella narrazione, La Chiusa intende il borgo, mentre Le
Chiuse l'intero sbarramento, costituito da mura, fossati, opere più o meno complesse a chiusura appunto del tratto più stretto della valle; la piccola e bellissima chiesetta del paese di Foresto, risalente all'anno Mille, poggia le proprie fondamenta sui resti di un tempio romano; i monti della valle sono ancora oggi dedicati alla luna (Punta Lunella, Monti della Luna) e ovunque, nei boschi e sui costoni, è possibile trovare tavole di roccia, spesso tese nel vuoto, o ritte a guardare qualche punto lontano. E qualcuna è ancora disposta a porta... Un ringraziamento ad Annamaria e ad Annarita: il 6 gennaio 1994, calpestando insieme l'invisibile pavimento della sala dei banchetti del castello di Arduino V di Avigliana, sotto la pioggia e nella nebbia di un giorno in cui nessuno poteva pensare di salire, a piedi, in cima a una collina, abbiamo scoperto il Drago. FINE