JULIA NAVARRO IL SANGUE DEGLI INNOCENTI (La Sangre De Los Inocentes, 2007) A mia madre, Martina Elia Fernández, in memor...
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JULIA NAVARRO IL SANGUE DEGLI INNOCENTI (La Sangre De Los Inocentes, 2007) A mia madre, Martina Elia Fernández, in memoriam, con tutto l'amore. Grazie Ringraziamenti Dietro un libro ci sono molte persone oltre all'autore. Durante il lungo anno e mezzo nel quale ho scritto Il sangue degli innocenti, ho potuto contare sulla generosità, la pazienza e l'appoggio di Fermín e di Álex, e anche di alcuni amici carissimi che non hanno lesinato incoraggiamenti e mi sono stati molto vicini, come Fernando Escribano, Margarita Robles, Carmen Martínez Terrón, Dolores Travesedo e Lola Pedrosa, o i miei cugini Juan Manuel e Mercedes. Abraham Dar, con affetto e pazienza, mi ha guidato attraverso l'Israele di oggi e di ieri, quello dei pionieri nei primi kibbutz, raccomandandomi libri, procurandomi documentazioni e rispondendo a tutte le mie domande sulla situazione degli ebrei nella Francia di Vichy o nella Berlino dei primi mesi della Seconda guerra mondiale, e vi assicuro che sono state molte. E nemmeno posso dimenticare l'appoggio e la fiducia del mio editore David Trías, di Núria Tey e Riccardo Cavaliere; di Luciano de Cea insieme a tutta la sezione commerciale di Plaza y Janes; di Alicia Martí e Leticia Rodero, sempre con un sorriso; di Emilia Lope che mi ha aiutato a passare in bella copia il manoscritto, e naturalmente a Justyna Rzewuska, grazie alla quale i miei romanzi sono letti in più di ventisei paesi. La realtà è che non avrei spazio a sufficienza per mostrare la mia gratitudine a tutte le persone che lavorano a Plaza y Janés e fanno in modo che i miei romanzi arrivino nelle mani dei lettori. Con il mio cane Tifis, un pastore tedesco nobile e leale, ho fatto lunghe passeggiate utili a chiarirmi le idee su ciò che stavo scrivendo. Riconosco che senza la mia famiglia e i miei amici non sarei capace di fare niente, e tanto meno di scrivere un romanzo come quello che avete tra le mani. Prima parte
1 Languedoc, metà del XIII secolo Sono una spia e ho paura. Ho paura di Dio, perché nel suo nome ho fatto cose orribili. Ma non darò la colpa a Lui delle mie miserie, no, non lo farò perché la colpa non è sua, è soltanto mia e della mia signora. In realtà l'unica colpevole è lei, che si è sempre comportata come un essere onnipotente con chi di noi è stato al suo fianco. Nessuno ha mai osato contraddirla, neanche suo marito, il mio buon signore. Sto per morire, lo sento nel profondo del cuore. So che è giunta la mia ora, anche se il medico mi assicura che vivrò ancora a lungo poiché il male che mi affligge non è mortale. Ma lui studia soltanto il colore dell'iride dei miei occhi e della mia lingua, e mi salassa per togliermi i cattivi umori dal corpo, per quanto ciò non attenui il dolore costante alla bocca dello stomaco. Quello che mi consuma è un male dell'anima perché non so più chi sono né qual è il vero Dio. E per quanto io li serva entrambi, finisco per tradirli tutti e due. Scrivo per alleviare la mente, solo per questo, pur sapendo che se queste pagine cadranno nelle mani dei miei nemici, o perfino dei miei amici, avrò firmato la mia condanna a morte. Fa freddo e, forse perché ho il gelo nell'anima, pur avvolgendomi nella coperta non riesco a sentire un po' di tepore nelle ossa. Questa mattina, frate Pèire, portandomi una tazza di brodo caldo, ha tentato di incoraggiarmi annunciandomi l'arrivo del Natale. Dice che padre Ferrer mi farà visita più tardi, ma gli ho chiesto di scusarmi con l'inquisitore. Gli occhi di padre Ferrer mi danno le vertigini e la sua voce calma mi incute terrore. Negli incubi che mi assalgono, lui mi spedisce all'Inferno, ma anche laggiù continuo a sentire freddo. Ma sto divagando, a chi volete che importi se io sento freddo? I fratelli mi vedono scrivere ma non sospettano niente. È il mio lavoro: sono notaio dell'Inquisizione. Neppure gli altri miei fratelli sospettano qualcosa. Sanno che la mia signora mi ha chiesto di scrivere una cronaca di quanto accade in questo angolo di mondo. Vuole che un giorno gli uomini
conoscano l'iniquità di coloro che dicono di rappresentare Dio. Quando alzo lo sguardo verso il cielo appare Montségur avvolto nella nebbia, e la sua immagine sfumata mi riempie di angoscia. Immagino l'andirivieni della mia signora che impartisce ordini a destra e a manca. Anche se donna Maria è diventata Perfetta, comandare fa parte del suo carattere. Non oso pensare in quali guai ci avrebbe cacciato se fosse stata un uomo. Di tanto in tanto, attraverso la tela pesante della mia tenda, filtra la voce rotonda del siniscalco di Carcassonne. Hugues des Arcis non sembra di buon umore questa mattina, ma chi potrebbe esserlo? Fa freddo e la neve copre la vallata e le montagne. Gli uomini sono stanchi, siamo qui dallo scorso maggio, e temono che il signore Pèire Rotger de Mirapoix resista all'assedio per molti mesi ancora. Il signore De Mirapoix può contare sulla complicità degli abitanti del luogo che, in barba al siniscalco, sono capaci di entrare e uscire dalla fortezza portando provviste e notizie di parenti e amici. Ieri ho ricevuto una missiva della mia signora, donna Maria, che mi invitava a incontrarla con urgenza stanotte. Forse la mia inquietudine è dovuta alla necessità di eseguire quest'ordine. Uno dei contadini della zona, che rifornisce il siniscalco del formaggio prodotto dalle sue capre, è riuscito a intrufolarsi nella mia tenda per consegnarmi la lettera di donna Maria. Le sue istruzioni sono precise: sul far della sera devo abbandonare l'accampamento e camminare fino all'entrata della valle. Lì qualcuno mi guiderà attraverso i passaggi segreti che conducono a Montségur. Se Hugues des Arcis sapesse della loro esistenza mi pagherebbe molto bene l'informazione, o forse mi farebbe giustiziare per non averla rivelata a tempo debito. Il pomeriggio mi sembra eterno. Sento dei passi, chi sarà? «State bene, Julián? Frate Pèire mi ha fatto preoccupare dicendo che avete la febbre.» Il frate balzò in piedi e abbracciò l'uomo alto e robusto che era appena entrato nella sua tenda senza chiedere permesso. Era suo fratello. Per un istante si sentì meglio, come quando, da bambino, aveva accanto la figura imponente di Fernando, capace di stendere con un manrovescio chiunque gli si avvicinasse. Anche se in realtà era soprattutto il suo sguardo sereno e
pieno di fiducia a disarmare gli avversari e a far sentire al sicuro gli amici. «Fernando, voi qui? Che gioia! Quando siete arrivato?» «Siamo arrivati all'accampamento solo da poche ore.» «Siete arrivati?» «Sì, io e altri cinque cavalieri. Il vescovo di Albi, Durand de Belcaire, ha chiesto aiuto al gran maestro. Il nostro fratello Arthur Bonard è un abile ingegnere, proprio come il vescovo.» «I rinforzi che il vescovo ha inviato al nostro signore Hugues des Arcis sono arrivati da alcuni giorni. Ma non sapevo che avesse chiesto aiuto anche al Tempio. È un uomo di Dio al quale piace la guerra, ed è capace di immaginare ogni tipo di macchina o artefatto per distruggere il nemico.» «Immagino che avrà altre virtù...» rispose con un sorriso Fernando. «Oh, sì! Arringa i soldati quasi meglio del signore di Arcis.» «Be', niente male per essere un vescovo...» scherzò Fernando. «Ditemi, voi templari volete sterminare i bons homes? Ho sentito dire che non vi piace perseguitare i cristiani.» Fernando tardò a rispondere. Fece un lungo sospiro e poi gli disse a bassa voce: «Non fate caso alle dicerie.» «Questa non è una risposta. Forse non avete fiducia in me?» «Certo che ne ho! Siete mio fratello! Va bene, vi darò una risposta: noi cristiani abbiamo avversari potenti, troppo potenti per permetterci di sprecare energie combattendo tra di noi. Che danno possono fare i bons homes? Vivono come veri cristiani, dando testimonianza di povertà.» «Però rinnegano la croce. In essa non riconoscono Nostro Signore.» «Detestano la croce come simbolo della crocifissione. Ma io non sono un teologo, sono un semplice soldato.» «Ma anche un monaco.» «Adempio i miei obblighi nei riguardi di Dio come comanda la Santa Madre Chiesa, ma questo non significa che io non possa pensare. Non mi piace perseguitare i cristiani.» «Né a voi né al vostro Ordine» sottolineò Julián. «Perché, a voi forse piace vedere donne e bambini carbonizzati sul rogo?» La domanda di Fernando gli provocò la nausea. «Che Dio abbia misericordia di loro!» esclamò Julián facendosi il segno della croce. «La Chiesa assicura che sono sprofondati all'Inferno» affermò Fernando
in tono scherzoso. «Non affliggiamoci e prendiamo le cose come stanno. Né io né voi amiamo veder morire degli innocenti. In quanto al Tempio... siamo figli obbedienti della Chiesa, hanno richiesto la nostra presenza e siamo venuti. Ma da qui a dire che lo faremo ce ne passa...» «Dio sia lodato! Quindi siete qui ma è come se non ci foste?» «Più o meno.» «Fate attenzione, Fernando; tra di noi c'è padre Ferrer, che vede l'eresia anche nel silenzio.» «Padre Ferrer? Devo confessarvi che le notizie che ho avuto su di lui sono inquietanti. Come mai si trova qui?» «Dirige il nostro Ordine e ha giurato che farà giustizia mandando al rogo gli assassini dei nostri fratelli.» «Vi riferite ai domenicani assassinati ad Avignonet?» «Proprio così. Erano arrivati in quella città in cerca di eretici. Li accompagnavano otto scrivani che sono stati vittime di un complotto. Raimondo di Alfaro, l'amministratore del conte di Tolosa ad Avignonet, ha consentito la loro uccisione.» «Ma di questo non esistono prove» protestò Fernando. «Ne dubitate forse, signore?» disse una voce alle loro spalle. Julián e Fernando si voltarono, sorpresi. Padre Ferrer era appena entrato nella tenda e aveva ascoltato le ultime parole. Fernando non fece una piega malgrado lo sguardo carico di rimprovero con il quale lo esaminava l'inquisitore. «Voi siete...» «Padre Ferrer» rispose il domenicano. «E vi ho chiesto se avete dei dubbi riguardo alla complicità di Alfaro nell'uccisione dei miei due fratelli.» «Non ci sono prove che sia stato così.» «Prove?» ruggì padre Ferrer. «Sapete che Alfaro ha dato alloggio ai miei fratelli nella torre d'onore del castello, dove nessuno poteva prestare loro soccorso, lontano da qualsiasi sguardo. Sapete anche che sono stati assassinati in piena notte da un distaccamento di eretici arrivato proprio da qui, da Montségur, questo nido d'iniquità che Dio s'incaricherà di distruggere. La Chiesa non perdonerà questo affronto. Coloro che si fanno chiamare "Buoni Cristiani" altro non sono che un manipolo di assassini.» Julián li guardava atterrito, incapace di muoversi. Fernando considerò per un istante la situazione, quindi decise che sarebbe stato un errore entrare in conflitto con il domenicano. «Ignoro i dettagli dell'accaduto. Ma se mi dite che è stato così, prendo
per buona la vostra versione.» Padre Ferrer inchiodò lo sguardo su Julián, che pareva sul punto di svenire. «Frate Pèire ha insistito perché non venissi a trovarvi dicendo che avete bisogno di riposare, ma verrei meno ai miei doveri di pietà e carità se non mi preoccupassi per voi. Vedo però che avete visite, quindi verrò a trovarvi in un altro momento.» Padre Ferrer uscì con la stessa velocità con la quale li aveva sorpresi. «Suvvia, non vi spaventate, vi ho visto impallidire» rise Fernando. «È vostro fratello di fede.» «Voi... voi non lo conoscete» mormorò Julián. «Non vorrei essere al posto degli eretici. Temo che questo padre Ferrer manchi totalmente di compassione.» «Immagino sappiate che vostra madre si trova ancora a Montségur, insieme alla più giovane delle vostre sorelle.» Fernando annuì con espressione preoccupata. Evocare sua madre, donna Maria, gli produceva una violenta fitta al petto. Non l'aveva mai sentita vicina, pur amandola addirittura più del padre. Energica e inquieta, non aveva dispensato troppe carezze ai suoi figli, nonostante li amasse tutti e cercasse di proteggerli e assicurare loro un avvenire. «Io... l'ho vista in qualche occasione» confessò Julián. «Non mi sorprende. Il castello non è mai rimasto isolato. Sappiamo che alcuni dei suoi uomini salgono e scendono attraverso passaggi segreti che solo loro conoscono. Non molto tempo fa mia madre mi ha spedito una lettera.» «Vi ha scritto?» domandò Julián spaventato. «Soltanto la signora poteva avere il coraggio di fare una cosa del genere.» «Non vi preoccupate. Mia madre è intelligente e non ci ha messo in pericolo. Ho ricevuto la missiva attraverso un paggio della casa di mia sorella Marian. Sapete che suo marito, Bertran d'Amis, è al servizio del conte Raimondo, e pertanto Marian riceve notizie frequenti da mia madre. Ora che sono qui farò in modo di vederla, non so come... forse voi potreste aiutarmi.» «Non provateci neppure! Il mio signore, Hugues des Arcis, vi ucciderebbe, e il vescovo riserverebbe per voi la scomunica.» «Saprò trovare la maniera, mio buon Julián. Farò in modo che abbandoni Montségur o che almeno consenta di farlo a mia sorella Teresa, che ha appena superato l'infanzia. Presto o tardi il castello verrà conquistato e...
voi lo sapete quanto me: non ci sarà pietà per i catari. Cercherò di convincerla, lo debbo a mio padre, a nostro padre.» Julián chinò la testa mortificato. Lo dilaniava nel più profondo dell'anima sapersì un bastardo di don Juan de Aínsa. «Andiamo, Julián, non voglio vedervi abbattuto.» Il frate si mise a sedere e si servì una caraffa d'acqua che bevve avidamente, senza offrirla a Fernando. Questi attese in silenzio che suo fratello ritrovasse la serenità prima di continuare. «Avete incontrato don Juan?» chiese Julián con un filo di voce. «Molti mesi fa, di ritorno in questo paese, sono riuscito a fare una deviazione e passare per Aínsa a trovare nostro padre. Sono rimasto appena due giorni, ma sono stati sufficienti perché ci sincerassimo, reciprocamente, delle nostre condizioni. Continua ad amare mia madre esattamente come il giorno in cui la sposò ed è angosciato per la sua sorte. Mi ha raccomandato di salvare lei e mia sorella più piccola. Gli ho promesso che avrei fatto l'impossibile perché lasciasse Montségur, anche se entrambi sappiamo che mia madre non abbandonerà mai il castello, che affronterà la morte guardandola in faccia perché non teme nulla e nessuno, nemmeno Dio.» «Don Juan stava bene in salute?» «È assai malato, la gotta quasi gli impedisce di camminare, e soffre di palpitazioni al cuore. La maggiore delle mie sorelle si prende cura di lui con devozione. Donna Marta è rimasta vedova ed è tornata nella dimora di famiglia, chiedendo protezione a nostro padre.» «Donna Marta è sempre stata la sua figlia favorita.» «È la più grande e per un periodo di tempo sembrava destinata a rimanere figlia unica dal momento che mia madre non restava più incinta. A eccezione, è chiaro, degli altri figli avuti da nostro padre...» «Sì, dei suoi bastardi. Don Juan amava donna Maria ma non si è mai fatto riguardi quando si trattava di possedere altre ragazze.» «Vostra madre era molto bella.» «Sì, doveva esserlo, ma io non l'ho mai conosciuta.» I due uomini rimasero in silenzio, assorti ognuno nei propri pensieri. L'aria fredda e frate Pèire che si schiariva la voce li riportarono alla realtà. «Perdonatemi, don Fernando, ero venuto a verificare che frate Julián stesse bene; non so se avrà la forza necessaria per alzarsi e venire a cena con noi o se preferisce che gli sia servita qui...» «Se non è un problema, vorrei restare nella mia tenda» affermò Julián. «Mi sento molto debole, ho bisogno di una buona dormita.»
«Dirò al medico di tornare a controllarvi» disse frate Pèire. «No! Vi prego! Non sopporterei un altro salasso. Un po' di brodo e un pezzo di pane da intingere nel vino saranno la migliore delle medicine. Sono molto stanco, frate Pèire...» «Credo che abbia ragione» intervenne Fernando. «La cosa migliore che possiamo fare per il mio buon fratello è lasciarlo riposare. Non c'è nulla che non possa guarire un buon sonno.» «Voi, don Fernando, siete atteso per cenare con il mio signore, Hugues des Arcis, e il resto dei cavalieri.» «Tarderò solo un minuto, il tempo che impiegherete a portare il brodo, il vino e un po' di pane al buon Julián.» Con passo diligente frate Pèire uscì di nuovo dalla tenda, preoccupato per il pallore del fratello Julián. Sperava che Dio lo perdonasse, ma aveva l'impressione di aver visto la morte riflessa sul suo volto. «Mi spiace avervi causato malumore» disse Fernando quando furono rimasti nuovamente soli. «Non vi preoccupate.» «Mi preoccupo invece, perché vi apprezzo e, vi piaccia o no, siamo mezzi fratelli. Questo non dovrebbe affliggervi. Siete figlio di un nobile signore della città di Aínsa.» «E di una domestica della vostra casa.» «Di una giovane bella e affascinante che non ebbe altra scelta che quella di concedersi al suo signore. Non sono stato io a dettare queste regole che voi non condividete. Sapete bene quanto me che i signori hanno dei figli fuori dal matrimonio. Avete avuto fortuna, perché mia madre non ha mai abbandonato i figli bastardi, e nemmeno le loro madri. Ha cercato di dare a tutti una posizione e nel vostro caso si è impegnata particolarmente. Siete cresciuto nella nostra dimora familiare, avete imparato a montare a cavallo insieme a me e vi hanno insegnato a leggere e scrivere, mia madre ha perfino comprato il vostro incarico ecclesiastico...» «Ma sono pur sempre un bastardo.» «Siamo tutti uguali agli occhi di Dio. Il giorno del Giudizio non vi chiederanno dell'istante né delle circostanze della vostra nascita ma di ciò che avete fatto in questa vita.» Julián, atterrito, cominciò a tossire incessantemente mentre Fernando tentava invano di fargli bere dell'acqua. «Tranquillizzatevi e bevete! Ma si può sapere che cosa vi succede?» «Il giudizio di Dio... andrò all'Inferno, lo so.»
Il frate tremava e le lacrime gli scorrevano lungo le guance. L'angoscia e la paura trasformarono il notaio dell'Inquisizione in un bambino. «Ma Julián! Qual è la vostra colpa? Perché vi sentite così?» «Vostra madre. È lei la causa delle mie sofferenze.» «Tacete! Come osate dire una simile bestialità!» Le lacrime inondavano il volto del frate che, in preda a forti convulsioni, si lasciò cadere sull'austera branda dove dormiva. Fernando non sapeva cosa fare. Non sopportava di vedere in quello stato Julián, che aveva sempre amato e protetto e che preferiva al resto dei suoi fratelli. «È una fortuna che sia venuto con noi il cavaliere Armand. È un buon medico e in Oriente ha accresciuto le sue conoscenze. Gli chiederò di visitarvi e darvi una medicina per curare il male che vi affligge. Ora devo andarmene. Verrà a vedervi domani.» Fernando uscì dalla tenda confuso per la sofferenza di suo fratello. Più che il patimento fisico, lo preoccupava saperlo con l'anima lacerata. 2 Julián rimase un bel po' rattrappito sulla branda. Non si mosse neppure quando frate Pèire gli portò il brodo, il pane e il vino. Preferì far finta di dormire per non essere costretto ad affrontare un'altra conversazione riguardo al suo calamitoso stato di salute. Quando non sentì più i passi di frate Pèire si alzò per intingere il tozzo di pane nel vino aspro che a volte riusciva a risollevargli il morale. Bevve d'un sorso il brodo e si stese di nuovo in attesa che si spegnessero i rumori dell'accampamento per presentarsi all'appuntamento con donna Maria. Il contadino che gli aveva consegnato la missiva della signora l'avrebbe aspettato lontano dalle tende per condurlo attraverso i dirupi al luogo dove lei era solita fissare gli incontri. Non si rese conto dello scorrere del tempo fino a quando un rumore vicino alla sua tenda non lo ridestò. Si tirò su di scatto, cosciente di essersi addormentato. A stento riuscì a mettersi in piedi e versare una brocca d'acqua, che bevve con premura. Poi si sciacquò il viso e, indossati gli abiti spiegazzati, uscì con cautela dalla tenda. Aveva l'impressione che i battiti del suo cuore avrebbero potuto svegliare l'intero accampamento, che in quel momento era tranquillo, illuminato dal fuoco dei falò che tentavano di alleviare il freddo intenso di quella notte d'inverno. Si allontanò dalle tende con passo rapido e camminò fino al bosco, sicu-
ro che da un momento all'altro sarebbe comparso l'emissario di donna Maria. «Siete in ritardo» lo rimproverò il contadino che gli veniva incontro come uno spettro. Era un pastore di capre che conosceva bene i sentieri di montagna. «Non mi è stato possibile venire prima.» «Vi siete addormentato» replicò l'uomo, di malumore. «Non mi sono affatto addormentato, solo non posso uscire dall'accampamento quando mi pare.» «Ci sono alcuni che lo fanno.» «Davvero? Questa sì che è una sorpresa!» «Vi sorprende il fatto che tra soldati reclutati a forza ce ne siano alcuni che hanno dei parenti lassù?» Julián tacque. Dunque Fernando aveva ragione: c'erano persone che salivano e scendevano da Montségur come se niente fosse. «Dove mi aspetta la signora?» «Voi seguitemi. Il luogo non deve interessarvi.» Camminarono per circa un'ora tra i dirupi formati da blocchi calcarei che terminavano ai piedi della gran roccia dove, quasi sfidando l'occhio umano, si ergeva il castello di Montségur. Il contadino si fermò vicino ad alcuni alberi che si arrampicavano su uno dei dirupi. Julián aveva appena ripreso fiato quando si trovò faccia a faccia con donna Maria. «Julián, figlio mio, sono felice di vederti!» «Mia signora...» «Vieni qui, siediti al mio fianco, non abbiamo molto tempo e dobbiamo sfruttarlo al massimo. Voglio che mi racconti come vanno le cose laggiù. Le nostre spie dicono che Hugues des Arcis può contare su diecimila uomini. Spero che il conte di Tolosa non s'intimorisca davanti a quella forza e tenga fede ai propri impegni nei confronti di questa terra. Non si tratta solo di fede, ma di potere.» «Cosa volete dire, signora?» «Se Hugues des Arcis conquisterà Montségur, la libertà della nostra terra sarà finita. Il re vuole quelle terre perché senza di loro il suo regno non vale niente. Credi davvero che siano i catari la sua preoccupazione? No, figlio mio, non ti sbagliare, qui non si combatte per Dio ma per il potere. Vogliono il nostro paese per la Corona.» «Ma il papa vuole sradicare l'eresia!»
«Il papa sì, ma al re di Francia questo non importa nulla.» «Signora, come potete dire certe cose!» «Va bene, non ti stancherò con le mie idee, preferisco ascoltarti; o meglio, preferisco che tu risponda alle mie domande.» Per un'ora donna Maria interrogò Julián e non ci fu dettaglio riguardo le forze di Hugues des Arcis del quale non chiese. «E tu Julián? Sei ancora un credente?» «Non lo so neppure io! Sono confuso, signora, non so più chi è Dio.» «Come è possibile che tu dica questo? Non mi sarò sbagliata su di te? Ti ho sempre ritenuto intelligente, per questo ho voluto che studiassi e diventassi domenicano...» «Ma se l'unica cosa che mi chiedete è tradire i miei fratelli!» «Ciò che voglio è che tu serva il vero Dio, e non quel demonio che tu consideri Dio.» Julián si fece il segno della croce, spaventato. Donna Maria lo tormentava con le sue idee eretiche e seminava il dubbio in lui. Ancora ricordava il giorno in cui l'aveva chiamato per dirgli che aveva trovato il vero Dio e che a partire da quel momento anche lui avrebbe dovuto servirlo. Gli aveva spiegato che il mondo era stato creato da una divinità inferiore, un demonio che aveva incarcerato gli angeli autentici, e che questi angeli erano le anime umane che si sarebbero liberate soltanto con la morte. Il corpo, gli aveva detto, era una prigione, la peggiore delle galere. Dio non aveva nulla a che vedere con la terra oblivionis. Lui era l'artefice dello spirito, non della realtà materiale. Coesistevano due creazioni, la buona e la cattiva, la spirituale e la terrena. I Perfetti, aveva aggiunto, ci aiutano a trovare la strada per fuggire dalla prigione e fare in modo che la nostra anima incontri nel cielo quella parte del nostro spirito che ci farà tornare a essere un tutto unico. «Ho visto don Fernando.» «Mio figlio?» «Sì, vostro figlio.» «Sta bene?» «Sì, o almeno così pare. È arrivato oggi all'accampamento. Il vescovo di Albi ha chiesto ai templari di aiutarlo con alcuni dei loro macchinari, e un cavaliere di una delle commende vicine è un esperto ingegnere. Vostro figlio fa parte della comitiva.» «Sono felice che sia qui invece che in Oriente, questo mi consentirà di prendere commiato da lui.»
«Vuole vedervi.» «Anch'io. Ti farai carico di condurlo qui.» «Io? Comandate a uno dei vostri uomini...» «Dio mio, Julián, io non ho uomini da comandare!» «Ma, signora...» «Devi obbedire.» «Non ho mai smesso di farlo» annuì Julián, scuro in volto. «Stai scrivendo la storia che ti ho chiesto?» «Lo sto facendo con grave rischio per la mia vita.» «Non essere così legato a quella carne fatta dal demonio. Scrivi, Julián, scrivi; gli uomini devono sapere ciò che sta accadendo qui. Se la tua Chiesa, la Grande Meretrice, potesse, cancellerebbe per sempre la nostra esistenza. Solo se resta scritto che siamo esistiti, cosa abbiamo fatto e in cosa crediamo, la nostra storia non sarà dimenticata. La verità deve essere salvata attraverso la scrittura. Non possiamo permettere che cancellino anche la nostra memoria.» «Scrivo quanto mi avete detto e quanto succede qui. Ma devo avvertirvi, signora, che Montségur cadrà. Perfino vostro figlio ne è sicuro.» «E credi che non lo sia anch'io? Non sono affatto convinta che il conte di Tolosa sia capace di rompere l'assedio al quale lo hanno sottoposto. Raimondo vuole che resistiamo, ma ci ha lasciati qui abbandonati alle nostre sole forze e al nostro ingegno.» «Il conte ha giurato di perseguitare gli eretici...» «Il conte tenta di salvare se stesso e le sue terre. Noi eretici, come ci chiamate, siamo solo pedine su una scacchiera, le loro pedine. Non dimenticare che siamo nati in questa terra.» «Voi siete aragonese.» «In realtà solo mia madre era aragonese. Mio padre era di Carcassonne e io ho sempre sentito di appartenere a questo paese. In questa terra sono nata e ho vissuto i primi anni della mia vita e da qui sono partita per sposarmi con il buon don Juan, mio marito, che spero goda di buona salute.» «Oh, sì! Vostro figlio lo ha visto e mi ha riferito che è molto ben assistito dalla vostra figlia maggiore, donna Marta.» «La vita è stata generosa con entrambi. Lui ha Marta, e io ho Teresa. Dei miei due maschi, l'unico ancora vivo è Fernando.» Donna Maria rimase in silenzio, e per un istante evocò il ricordo del suo primo figlio maschio, morto anni addietro in un duello contro un altro cavaliere. Le restava Fernando, è vero, ma questi non le era mai appartenuto
del tutto. Forse la colpa era stata sua, visto che per molti anni aveva pianto il figlio maggiore disinteressandosi del più piccolo. Fernando aveva lasciato la casa della sua famiglia per entrare nel Tempio e combattere contro gli infedeli. Dubitava della fede di suo figlio e credeva che il suo ingresso nel Tempio fosse stato un segno di ribellione più che di devozione. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro, soprattutto adesso, che vedeva la morte così vicina. «Entro tre o quattro giorni voglio che tu ritorni. Ti darò una lettera per mio marito.» «Ma non potrò mai fargliela arrivare! Padre Ferrer ha occhi ovunque.» «Tu sei notaio dell'Inquisizione! Certo che puoi! Non devi lasciarti impressionare da quel frate maligno.» «È lui che ha scomunicato gran parte dei cavalieri del paese. Non esiterà a farlo anche con me.» «Fai quello che ti ho chiesto, Julián!» «Signora, devo restare ai piedi di Montségur fino a quando...» «Fino a quando non riuscirete a impadronirvi del castello e ucciderci tutti.» «Perché non fuggite? Vostra figlia Marian gode di una buona posizione alla corte di don Raimondo. Suo marito...» «Suo marito è pusillanime esattamente come Raimondo, e l'unica cosa che davvero lo preoccupa è riuscire a mantenere la testa sul collo.» «Ma donna Marian è credente...» «Sì, questo sì, almeno mia figlia non mi ha tradito. E adesso ascoltami e obbedisci. Ti darò una lettera per mio marito, non m'importa quando riuscirai a consegnarla, ma assicurati che la legga. Mi porterai qui anche Fernando. Quanto ai tuoi scritti, quando saranno terminati li consegnerai a Marian. Lei sopravviverà e saprà custodire la nostra storia fino a quando non arriverà il momento di riportarla alla luce.» «Può essere che quel giorno non arriverà mai» trovò il coraggio di dire Julián. «Non dire sciocchezze! Neppure il re di Francia sarà eterno. Marian ha dei figli e questi avranno figli a loro volta. L'importante è che la nostra storia resti per iscritto. Tutto ciò che non è scritto non esiste. Non possiamo lasciare la nostra sofferenza all'arbitrio del ricordo degli uomini. Dio mi illuminò quando ti portai in casa nostra e mi impegnai a farti imparare a leggere e scrivere.» «Donna Maria, non posso portare qui vostro figlio.»
«Fernando? Perché no?» «Saprà che sono un traditore e con una sola parola potrebbe mandarmi sul rogo.» «Fernando non farà una cosa simile. Ti vuole bene, Julián, ti considera suo fratello, e oltretutto è incapace di tradirci. Sarà divorato dai rimorsi per non poter confessare ciò che sa, ma osserverà il silenzio. Non denuncerà te, e neanche me. Sono sua madre.» «Ma... cosa devo dirgli?» «Digli parte della verità: che hai ricevuto un mio messaggio, che ci siamo visti e che, come mi hai annunciato il suo arrivo, io ti ho implorato di vederlo. Anzi no, non dirgli che ti ho implorato, non lo crederebbe. Digli solo che voglio incontrarlo. Voglio vedervi qui tutti e due nel giro di tre notti.» «Manderete qualcuno a prenderci?» «In che altro modo potreste giungere fin qui? Se non lo facessi, finireste in fondo a un precipizio. E adesso, vai e medita sul vero Dio e sul momento in cui abbandonerai questo guscio che ti avvolge.» Julián era sul punto di protestare, ma la sua signora era sparita senza che lui fosse riuscito a vedere che direzione aveva preso. Si sentì perduto e per un istante credette che fosse stato tutto un sogno e donna Maria un'apparizione, ma il colpo di tosse del contadino lo riportò alla realtà. «Sbrigatevi. Oggi la signora si è intrattenuta più del previsto, e abbiamo un bel po' di strada da fare prima che io possa lasciarvi all'accampamento.» 3 Si intuiva l'alba attraverso nuvole gonfie di pioggia quando arrivarono all'accampamento. Nell'oscurità della sua tenda era ancora viva la cenere del braciere. Stanco, Julián si accinse a dormire prima che lo sorprendesse il giorno. «Da dove venite?» La voce di don Fernando lo fece trasalire. «Santo Dio, mi avete spaventato!» «Sicuramente meno di quanto mi sono spaventato io nel venire qui e non trovarvi. Vi ho cercato per tutto l'accampamento senza che nessuno sapesse darmi notizie sul vostro conto.» «Siete impazzito! Cosa avete fatto?» «Andiamo, non vi spaventate e ditemi da dove venite?»
«No lo credereste mai.» «Mio caro fratello, la vita mi ha insegnato che l'incredibile fa parte della realtà.» «Appena siete andato via ho ricevuto un messaggio.» Fernando guardava Julián con curiosità e pena per la sofferenza che il suo viso sudato e stanco rifletteva. «E quel messaggio vi ha spinto ad abbandonare la vostra tenda in piena notte pur essendo malato come siete?» «Era di donna Maria» ammise Julián abbassando la voce. «Mia madre... in effetti, era prevedibile che presto o tardi si sarebbe messa in contatto con voi. È il primo messaggio che ricevete da lei?» «Santo Dio, Fernando, sembra che voi non diate importanza a quel che vi dico! Vostra madre è una Perfetta, una iniziata consacrata alla virtù, forse la donna più influente di Montségur.» «Non esagerate, anche se, conoscendola, sono sicuro che pochi osano disobbedirle. Bene, ditemi cosa c'era scritto nel messaggio.» «Mi chiedeva di abbandonare l'accampamento per incontrarla.» Fernando rise di gusto, sorpreso dall'audacia di sua madre. Poco dopo, dando una pacca affettuosa sulla spalla di Julián, si sedette al suo fianco disposto ad ascoltarlo. «Raccontatemi tutta la verità...» «La verità... Non so più qual sia la verità. La signora ha saputo della vostra presenza qui e mi ha invitato a portarvi al suo cospetto.» «Un po' alla volta, Julián. Era la prima volta che la vedevate? E come ha fatto a sapere della mia presenza nell'accampamento se sono arrivato soltanto da poche ore?» «Dovete sapere che Pèire Rotger de Mirapoix è uno dei capi militari della piazza, oltre ad avere il compito di assicurarsi che a Montségur non manchino generi alimentari. Il signore De Mirapoix è parente di Raimon de Perelha.» «Questo lo so già, non c'è bisogno che mi spieghiate chi abbiamo di fronte. Sono uomini decisi e coraggiosi.» «Come osate parlare così dei vostri nemici?» «Ma Julián, vi agitate per qualsiasi cosa! Perché mai non dovremmo riconoscere le virtù degli uomini contro i quali lottiamo? Hanno la loro causa, e noi la nostra.» «E Dio da che parte sta?» Fernando rimase a lungo in silenzio a pensare. Quindi piantò i suoi occhi
in quelli di Julián e si alzò a fatica, camminando a grandi passi per la tenda. «Basta con le chiacchiere! Siete voi che dovete rispondere alle mie domande.» Il frate chinò il capo rassegnato. Fernando lo conosceva bene. Gli sarebbe stato difficile ingannarlo, per quanto donna Maria gli avesse chiesto di non dirgli tutta la verità; ma anche così, decise di seguire le istruzioni della sua signora. «Vostra madre ha inviato qui un uomo che mi ha guidato attraverso le tenebre. Abbiamo camminato per molto tempo, non so quanto, forse due o tre ore. Sono sfinito. Una volta giunti a destinazione, donna Maria è spuntata tra le rocce affidandomi l'incarico di condurvi da lei fra tre giorni. Questo è tutto.» «Questo è tutto? Mi sembra assai poco trattandosi di mia madre» rispose con diffidenza Fernando. «Mi ha detto anche che vuole darmi una lettera per vostro padre e voi mi aiuterete a fargliela arrivare.» Fernando osservò Julián con aria pensierosa, domandandosi se suo fratello avrebbe conservato almeno un minimo di salute per il giorno dell'appuntamento con sua madre. Il volto del frate pareva la maschera di un morto. Armand, il suo compagno templare, doveva trovare il male che opprimeva suo fratello al più presto; altrimenti questi non avrebbe avuto ancora molto da vivere, pensò Fernando. «Adesso voglio che mi obbediate» disse a Julián. «Vi sdraierete e non vi alzerete dal letto fino a quando non sarò tornato, in tarda mattinata. Verrò con il mio compagno Armand; vi ho già detto che è un medico eccellente, lui allevierà il vostro male. Ah, naturalmente non dovete parlare con nessuno di quanto è accaduto. Vi farebbero impiccare.» Julián ebbe uno spasmo davanti all'avvertimento di Fernando, che uscì dalla tenda con aria preoccupata. 4 Il freddo dell'alba avvolgeva gli uomini dell'accampamento fatto piantare dal siniscalco di Carcassonne sul Col di Tremblement, un luogo strategico che chiudeva agli assediati la migliore via d'uscita verso la valle. Quella mattina Hugues des Arcis pareva di buon umore, malgrado il tempo inclemente. Cattolico convinto della bontà della sua causa, si ralle-
grava per l'appoggio incondizionato dell'arcivescovo di Narbonne, Pèire Amiel, e della presenza dei cavalieri templari, anche se di questi ultimi non si fidava del tutto. Lo tranquillizzava, però, il fatto che tra di loro si trovasse anche un grande ingegnere militare. Nella tenda del siniscalco un servitore versava ai presenti vino allungato con acqua. Bevevano per combattere il freddo. Hugues des Arcis si preparò a spiegare la situazione ai nuovi arrivati. «Non sono disposto a passare il resto della mia vita davanti a queste rocce. Sappiamo che la guarnigione di Montségur è stata aiutata dai contadini della regione, per i quali questa montagna non ha segreti. Posso contare su diecimila uomini, ma neanche con questa forza sono stato in grado di controllare tutti i sentieri che portano alla cima. Non siamo riusciti a ridurli alla fame e neppure alla sete, visto che da quando è finita l'estate non ha smesso di piovere. Prendere d'assalto la fortezza è impossibile, o almeno lo è stato fino a oggi; mentre a loro è sufficiente lanciare pietre per causarci un danno considerevole.» «Non è possibile arrampicarsi fino a quel nido d'aquila partendo da qualche zona che sia al riparo dai loro sguardi?» chiese Arthur, l'ingegnere templare. «Noi siamo qui, sul Col di Tremblement, ai piedi di questa maledetta roccia; l'ascesa che vedi di fronte conduce direttamente al castello. Disponendo il grosso delle nostre forze in questa posizione, l'unico risultato che abbiamo ottenuto è stato quello di impedire l'accesso diretto alla fortezza e controllare il villaggio vicino, dove gli assediati hanno parenti che, malgrado la nostra presenza, riescono ad approvvigionarli. Ho mandato i miei uomini a scalare questa roccia per cercare un accesso alla sommità della montagna, ma se anche vi arrivassimo e riuscissimo a far fuori le sentinelle, non avremmo raggiunto il nostro obiettivo: c'è ancora un dislivello di diversi metri che la separa dal castello. «Vi confesso, cavalieri, che i miei migliori uomini hanno dedicato il massimo impegno ad arrampicarsi su queste rocce ingannevoli, giacché non sono state poche le occasioni in cui abbiamo creduto di aver trovato un passaggio occulto che avrebbe potuto portarci alla cima e invece ci siamo trovati davanti angusti varchi che terminavano in un dirupo. Data la natura del terreno, non è neanche possibile utilizzare le nostre macchine da guerra, con le quali non riusciremmo a raggiungere neanche la più bassa delle loro difese. Quindi, ho preso una decisione che spero risulterà quella giusta. Domani arriverà qui un gruppo di guasconi per i quali le montagne
non hanno segreti. Pretendono una buona paga e l'avranno se, come spero, riusciranno ad aprire una breccia nelle loro difese, un sentiero che ci avvicini alla vetta.» «E cosa possono fare, i guasconi, che i vostri uomini non siano riusciti a ottenere?» chiese Fernando in tono offeso. «Me li hanno raccomandati assicurandomi che né Montségur né qualsiasi altra montagna ha segreti per loro. Procedono con passo sicuro dove altri inciampano e vedono nell'oscurità come se si trattasse del giorno. Dobbiamo fare questo tentativo, cavalieri» rispose il siniscalco. «Da che parte, come e quando i vostri guasconi tenteranno di avvicinarsi a Montségur?» insistette Fernando. «Saranno loro stessi a deciderlo» sentenziò Hugues des Arcis. Per tutta la settimana i cavalieri continuarono a parlare della situazione e di ciò che il siniscalco prevedeva nel caso in cui i guasconi avessero avuto successo. Il loro principale impegno consisteva nel riuscire ad avvicinare alcune delle macchine da guerra al castello, perché solo così avrebbero potuto sconfiggere gli assediati. A quel punto la parola sarebbe passata al cavaliere templare Arthur Bonard. Di quella riunione, la cosa che maggiormente sorprese Fernando fu il lampo di vendetta che brillava negli occhi di padre Ferrer, il principale inquisitore. Non c'era un briciolo di pietà nel suo sguardo e le sue parole sembravano dettate da un'intensa passione. Quell'uomo, si ripeteva tra sé e sé, era dominato dall'odio. Intorno a mezzogiorno fecero una sosta per fare onore al generoso pranzo preparato dall'arcivescovo di Narbonne, momento in cui Fernando chiese ad Armand de la Tour di accompagnarlo a visitare suo fratello. Julián dormiva sfinito; al suo fianco, il povero frate Pèire gli asciugava la fronte con un panno umido mentre pregava implorando Dio per la salute dell'illustre notaio dell'Inquisizione. Il frate ebbe un sussulto vedendo entrare i due cavalieri templari. «Perdonate l'irruzione, ma vorrei che il cavaliere Armand esaminasse il povero Julián e vedesse se esiste la possibilità di alleviare il suo dolore.» «Volesse il cielo! Ma deve sapere che il medico del siniscalco lo visita quasi tutti i giorni senza essere mai riuscito a mitigare il suo male, finora.» Armand de la Tour pregò il frate di lasciarli soli e questi, a denti stretti, obbedì. Non gli piacevano i templari, li considerava arroganti e misteriosi, e gli erano giunte all'orecchio alcune storie che mettevano in dubbio la santità di quei monaci soldati.
Il medico si avvicinò al letto e, senza alcun riguardo, scoprì Julián con gesto energico, spaventandolo a morte. Fernando lo tranquillizzò assicurandogli che si trovava in buone mani e lo invitò a rispondere a tutte le domande del medico. «Dove vi fa male?» volle sapere De la Tour. Julián indicò dal cuore fino al ventre. Confessò che a volte il dolore era così acuto che non riusciva né a stare in piedi né a camminare, e che in certe occasioni notava un formicolio alle braccia e alle gambe fino a sentirle rigide. Aveva la febbre, spiegò; e, come se non bastasse, anche il vomito. Armand de la Tour esaminò minuziosamente il malato. Gli fece tirare fuori la lingua, affondò le sue dita agili nello stomaco e nel ventre, gli fece piegare e allungare ripetutamente le estremità. Quindi arrivò il turno degli occhi e della nuca. Fernando assisteva in silenzio alle pratiche del suo compagno d'armi trattenendo il sorriso per il timore che vedeva riflesso sul volto di suo fratello. Dopo aver visitato Julián, il cavaliere Armand de la Tour si sedette al suo fianco e gli chiese di descrivere con ricchezza di dettagli tutto ciò che riguardava i suoi dolori. «Cosa vi preoccupa, frate Julián?» chiese improvvisamente il medico. Temendo che quel templare fosse in grado di leggergli nell'anima, Julián fu vittima di una forte convulsione. «Non è facile la vita in un accampamento militare» rispose tentando di distogliere l'attenzione di De la Tour. «Non più che in un qualsiasi altro posto, e a voi non manca nulla. Siete notaio dell'Inquisizione, attendete di esaminare da vicino le anime perdute degli eretici di Montségur.» Julián si fece il segno della croce e cadde nuovamente in preda ai tremori. Un'ondata di sudore freddo gli inondò la fronte. «Io credo che voi stiate soffrendo, frate Julián, e se mi diceste perché forse potrei aiutarvi.» «Soffrire? Be'... soffro per quelle anime perdute che presto andranno all'Inferno.» «Eppure voi siete un uomo esperto, sono anni che lavorate come notaio.» «È così grande la responsabilità... temo di sbagliare nei giudizi...» «Siete semplicemente un notaio, non tocca a voi giudicare.» «Non è così. In certe occasioni i fratelli richiedono il mio giudizio, per-
ché sanno che non mi sfugge neanche una parola degli accusati; e così, dalla mia comprensione delle loro parole a volte dipende la pena.» «Insisto nel dire che voi siete un uomo di esperienza.» «Lo sono, lo sono, non molto tempo fa ho partecipato a un conclave e, per evitare di commettere errori nel giudizio contro i sospetti e svolgere meglio il mio lavoro, ho compilato un glossario. Padre Ferrer ci ha guidato.» Julián si schiarì la voce e, fissando lo sguardo su Armand de la Tour, recitò come se si trattasse di una litania: «Sono "eretici" coloro che si ostinano nell'errore. Sono "credenti" coloro che hanno fede negli errori degli eretici e li fanno propri. I "sospettati di eresia" sono coloro che presenziano ai sermoni degli eretici e partecipano, anche per poco tempo, alle loro cerimonie. I "sospettati semplici" hanno fatto queste cose una sola volta. I "sospettati virulenti" molte volte. I "sospettati molto virulenti" hanno fatto queste cose con frequenza. I "favoreggiatori" sono coloro che conoscono degli eretici ma non li denunciano. Gli "occultatori" sono coloro che hanno impedito che si scoprissero degli eretici. I "recettori" sono coloro che hanno ricevuto almeno due volte gli eretici nei loro possedimenti. I "difensori" sono coloro che difendono scientemente gli eretici con il fine di impedire alla Chiesa di estirpare la depravazione eretica. I "fiancheggiatori" sono tutti quelli di cui sopra in grado maggiore o minore. I "recidivi" sono coloro che ricadono negli antichi errori eretici dopo avervi formalmente rinunciato.» «Bene, bene, è chiaro che sapete qual è la vostra funzione e come distinguere gli eretici. Con questo glossario è difficile sbagliarsi, no?» chiese il cavaliere in tono canzonatorio. «Non sempre è così... a volte... a volte è difficile capire se mentono o se sono semplicemente innocenti. Tra gli eretici c'è gente rozza che risponde in modo semplice alle domande, senza rendersi conto che con le proprie parole semina sospetti... ma a volte si tratta di innocenti che semplicemente non sanno dimostrarlo... Ma padre Ferrer...» «Quel domenicano...» Fernando non osò terminare la frase. «Da dove viene?» volle sapere il cavaliere De la Tour. «È catalano, di Perpignan, e si è fatto carico di tutta la faccenda dopo l'uccisione dei due fratelli ad Avignonet. È assai minuzioso, nulla sfugge al suo sguardo, legge nel cuore degli uomini e sa quando mentono» spiegò tremante e nervoso il frate. «E voi siete terrorizzato da lui» aggiunse Armand de la Tour.
«Ma se è mio fratello di fede!» protestò Julián. «Lui si prenderà cura degli eretici di Montségur.» «E voi siete preoccupato per la sorte che potrebbero avere?» «Se sono preoccupato? Sapete che la condanna può essere il rogo. Avete mai visto morire un uomo sul rogo? Gli eretici sfidano la Chiesa e molti rifiutano di chiedere perdono preferendo morire bruciati. Ho visto morire uomini e donne, anche ragazzi, che affrontavano il fuoco cantando, mentre l'odore della carne bruciata si spargeva nell'aria fino a rendere insopportabile il fetore dei nostri vestiti e di noi stessi. Quell'odore... A volte mi sveglio di soprassalto e sento l'odore di carne bruciata, vedo i volti di coloro che sono finiti in pasto alle fiamme per non aver saputo dire la parola giusta.» «Vi duole la coscienza» sentenziò il medico. «È un sollievo sapere che c'è ancora qualcuno che ha una coscienza.» «Ma cosa dite!» protestò spaventato il frate. «Vi assicuro che la mia coscienza non ha nulla a che vedere con il dolore che mi attraversa il ventre. Devo dedurre che non siete capace di diagnosticare il mio male?» «Calmatevi, mio buon frate. Avere coscienza è un dono, un dono doloroso, certo, ma pur sempre un dono.» «Non vi capisco!» «Fratello, non vi agitate» intervenne Fernando. «E voi, Armand, cosa state dicendo? Non riesco a capire dove volete arrivare.» «Vostro fratello soffre molto, questo è vero, e questa sofferenza è il suo male principale. Ma non credo risieda nel fegato, e neppure negli intestini o nella gola... Il suo male è nell'anima, e per questo esiste un solo rimedio.» Fernando ascoltava attentamente il cavaliere Armand, meditando su tutto quello che diceva, mentre Julián li osservava tremando come avrebbe fatto un bambino colto in fallo. «E allora, qual è questo rimedio?» chiese Fernando. «Vivere in accordo con la propria coscienza, non fare nulla di cui potersi vergognare, ascoltare la parola che Dio gli sussurra all'orecchio e alla quale lui si rifiuta di dar retta. Vostro fratello soffre per i bons homes... e lo fa perché non è sicuro che siano malvagi o, in ogni caso, che le loro credenze meritino tanta sofferenza. Mi sbaglio?» Julián piangeva come un bambino tra convulsioni e singhiozzi davanti allo sguardo comprensivo del fratello, che gli si avvicinò e lo abbracciò nel tentativo di dargli conforto.
«Allora, non deve prendere nessuna medicina?» insistette Fernando. «Sì, gli darò qualcosa per aiutarlo a prendere sonno. Ciò che non deve fare è sottomettersi ancora a quei salassi che lo stanno soltanto debilitando. Vi preparerò io stesso delle erbe che prenderete prima di andare a letto. Vi aiuteranno ad avere un sonno tranquillo e profondo. Per il resto, non credo che abbiate alcun male.» «Vi sbagliate» riuscì a lamentarsi Julián. «Sono malato.» «Sì, ma la vostra è una malattia dell'anima; solo quando starete bene con la vostra coscienza vi sentirete sollevato, fino ad allora l'unica cosa che potrò fare per voi è aiutarvi a dormire meglio. Parlerò con il medico del siniscalco per consigliargli di lasciar perdere i salassi ai quali vi sta sottoponendo.» Julián rabbrividì al pensiero che il templare informasse il medico del siniscalco del suo male dell'anima. Armand de la Tour non poté evitare un sentimento di compassione nel vedere la paura riflessa negli occhi del frate domenicano. Pensò che a Julián non si addicesse nessuna delle virtù di Domingo de Guzmán, il fondatore dell'Ordine che aveva fatto della sua vita un modello di sacrificio e ascetismo simile a quello dei bons homes che con tanto ardore avevano tentato di ricondurre nell'ovile della Chiesa. Il templare si chiese come mai Julián avesse seguito Domingo de Guzmán, se tutto in lui dimostrava la fragilità del suo spirito. «Non vi preoccupate, Julián. Nessuno saprà del vostro male. Non mentirò, ma neppure entrerò nei dettagli: chiederò il permesso di trattarvi con le mie erbe per vedere se riesco a darvi sollievo.» «Grazie, Armand» disse Fernando, stringendo con gratitudine la spalla del compagno. «E adesso, Julián, iniziate a eseguire le istruzioni che vi ha dato Armand. Quando vi sentirete meglio dovrete passeggiare, fare visita ai soldati; senza alcun dubbio saranno felici di vedere che un frate si preoccupa delle loro anime, e in questo modo riuscirete per un po' di tempo a dimenticare la vostra.» «E poi chiederemo a frate Pèire un catino con acqua tiepida e sapone; non vi farebbe male lavarvi un po'» intervenne il medico templare. Julián non fu capace di opporsi alle raccomandazioni del cavaliere e di suo fratello. Li guardò con gratitudine e, per la prima volta dopo molto tempo, si sentì confortato. La presenza di Fernando aveva momentaneamente dissolto la nebbia della solitudine che lo accompagnava da quando era entrato nell'ordine dei domenicani.
5 Fernando e Armand de la Tour lasciarono Julián assorto nelle sue tribolazioni e con passo deciso si diressero verso l'angolo dell'accampamento dove si trovavano i loro compagni templari. «Non dovete preoccuparvi per Julián» assicurò il medico. «Lo so. Dopo avervi ascoltato sono più tranquillo, anche se vedo che le malattie dell'anima sono devastanti quanto quelle del corpo.» «A volte sono peggiori, ma nel caso di Julián la vostra presenza servirà a fargli recuperare le forze che gli mancano. Con voi si sente sicuro.» «Mio fratello ha vissuto tra i tormenti da quando ha saputo di essere il figlio bastardo di mio padre.» «Non deve essere facile trovarsi in quella posizione, per quanto fosse grande la bontà dei vostri genitori, soprattutto la generosità di donna Maria, vostra madre...» «Immagino che sia impossibile comprenderlo del tutto per noi che siamo nati cavalieri. Vi ringrazio di aver visitato Julián e so di poter contare sulla vostra discrezione. Ora vorrei domandarvi qual è la vostra opinione rispetto alla situazione di Montségur.» «È questione di tempo.» «Cosa volete dire?» «Che nulla può resistere in eterno. E che, per quanto risulti difficile arrivare sulla cima, si può fare. Ci sarà un prezzo in vite umane, ma sia il siniscalco Hugues des Arcis che il re Luigi non saranno avari al momento di pagarlo.» Quindi ognuno si chiuse nei propri pensieri fino a quando non incrociarono i compagni, che in quel momento stavano pulendo le armi. «Sono contento che siate tornati» lo salutò Arthur Bonard. «Il siniscalco ha ordinato di unirci al suo stato maggiore.» Arthur Bonard era efficace nell'inventare strumenti di guerra almeno quanto era secco e diretto nel parlare. «E voi, cosa avete risposto?» volle sapere Fernando. «Non dobbiamo mancare di rispetto al siniscalco né al re Luigi, e nemmeno all'arcivescovo di Narbonne» rispose Bonard. «Questo vuol dire che restiamo» sentenziò Fernando. «Questo vuol dire che aspetteremo di vedere se questi fieri guasconi dei quali ci ha parlato il siniscalco sono davvero capaci di avvicinarsi alla fortezza. Sarà interessante conoscere il risultato di un tale impegno» rispose
l'ingegnere. «E noi cosa faremo nel frattempo?» domandò Fernando. «Aspetteremo, osserveremo, parleremo e poco altro. Sapete bene che il nostro Ordine non ama uccidere i cristiani, e le persone di Montségur lo sono; in errore, ma pur sempre cristiani. Temo per loro, visto che l'arcivescovo di Narbonne e padre Ferrer sono intenzionati a vendicare la morte di Étienne de Saint-Thibéry e Guilhèm Arnold. Come ben sapete, questi due inquisitori sono stati assassinati più di un anno fa ad Avignonet.» «È stata l'unica occasione in cui i bons homes hanno partecipato a un'azione criminale» notò uno dei templari. «Non lo hanno fatto direttamente» li giustificò Fernando. «Non siate ingenuo» s'intromise Armand de la Tour. «Forse credete che non uccidere un uomo direttamente con la spada o con le mani possa esimere dalla responsabilità per la sua morte? Gli uomini che uccisero gli inquisitori erano venuti da qui, da Montségur. Credete forse che i loro vescovi eretici Bertran Martí o Ramon Agulher non sapessero cosa sarebbe successo ad Avignonet? Non è un segreto che la notizia dell'omicidio degli inquisitori fu celebrata festosamente a Montségur e che in qualche chiesa suonarono perfino le campane. L'uccisione di Étienne de Saint-Thibéry e Guilhèm Arnold fu portata a termine da credenti, tra i quali Guilhèm de Lahille, Guilhèm de Balaguier e Bernat de Sent Martí...» «Ma, come fate a essere così informato su ciò che accadde quella notte ad Avignonet?» chiese Fernando, sempre più sorpreso. «So, o almeno credo di sapere, ma di questo non parleremo né con il siniscalco né con l'arcivescovo di Narbonne. Ma vedete che ci sono momenti nei quali tutti noi uomini pecchiamo per azione, omissione, o semplicemente perché gioiamo della sofferenza del nostro nemico. Forse non saremmo uomini se non lo facessimo.» Scese il silenzio tra i cavalieri. Il medico aveva esposto con crudezza come il male facesse parte della natura umana. «Bene, adesso sapete che resteremo qui per un po'» disse Arthur Bonard. «Il tempo necessario per non offendere né l'arcivescovo né il siniscalco. Se sarà possibile non prenderemo parte alla battaglia, ma credo non ci sia da preoccuparsi al riguardo. Gli uomini di Montségur non si esporranno e passerà ancora del tempo prima che il siniscalco Hugues des Arcis riesca a farli scendere da quella rocca infernale.» Improvvisamente, un paggio giunse di corsa alla tenda con un messaggio dell'arcivescovo di Narbonne. Li invitava a cena. I cavalieri risposero
che sarebbero stati puntuali; erano curiosi di vedere l'interno della sontuosa tenda dell'arcivescovo, che si diceva fosse meglio attrezzata di quella dello stesso siniscalco. Era questo il problema della Chiesa: i suoi sacerdoti non vivevano in accordo con il cammino di umiltà e povertà indicato da Cristo, per quanto lo spagnolo Domingo de Guzmán fosse l'esempio concreto del fatto che al suo interno ci fosse ancora chi non dimenticava il messaggio del Maestro. D'altro canto, però, lui e i suoi frati, sebbene dessero prova di ascetismo e privazioni, si mostravano impietosi con coloro che rifiutavano di tornare nel seno della Chiesa. 6 Il pastore si presentò alla tenda di Julián più tardi del convenuto. Fernando si mostrava inquieto. Temeva fosse accaduto qualcosa di inatteso che aveva impedito a sua madre di mandarli a prendere. La notte era scesa sull'accampamento; di quando in quando alla tenda di Julián giungevano le voci delle sentinelle che chiedevano la parola d'ordine, e la tosse secca dei soldati che si erano ammalati durante la lunga attesa, preparando l'assedio a Montségur. Julián se ne stava seduto sulla sua branda, stranamente quieto. Gli pulsavano con forza le vene sulle tempie; sintomo nel quale il medico templare avrebbe visto paura, sempre e soltanto paura, pensò. Quando il pastore scivolò attraverso l'apertura della tenda sussurrando il nome di Julián, i due uomini si affrettarono ad andargli incontro. «Perché avete tardato?» volle sapere Fernando. Il pastore lo guardò con fastidio prima di rispondere: «Vedo, signore, che siete soldato, quindi dovreste sapere che il siniscalco ha occhi ovunque e che quei diavoli di guasconi stanno studiando il terreno da due notti; sono dappertutto, e non vorrei essere proprio io a cadere nelle loro mani. Non potete immaginare cosa sarebbe capace di fare il siniscalco a un traditore. Certo, io non lo sono, sono soltanto un uomo di questa terra, un credente che serve il vero Dio.» «Basta con le chiacchiere» lo bloccò Fernando «conduceteci là dove ci aspettano.» Il cielo pareva un manto nero e a stento riuscivano a vedere quello che c'era un passo avanti a loro, ma il pastore li guidava con la sicurezza di chi conosce il terreno a occhi chiusi. Fernando ebbe l'impressione che la camminata attraverso vegetazione e
dirupi durasse un'eternità, e lo sorprese il fatto che Julián non emettesse neppure un lamento. Si rese conto che suo fratello aveva percorso quel sentiero in altre occasioni e che doveva aver visto con una certa frequenza sua madre. All'improvviso il pastore si bloccò facendo loro segno con la mano di fermarsi. I due fratelli obbedirono con una punta di inquietudine, temendo di essersi imbattuti in qualche pattuglia di guasconi. Ma non fu un guascone che improvvisamente si trovarono di fronte, bensì donna Maria, spuntata sorridente dalla vegetazione. «Finalmente, era ora!» li rimproverò la dama, avvolta in un mantello nero. «Madre!» La donna si avvicinò a Fernando e, prima di abbracciarlo, l'osservò con l'aria di chi aveva atteso a lungo quel momento. «Come sei cambiato! Sei diventato un uomo.» Poi lo abbracciò forte mentre sospirava trattenendo le lacrime. Fernando si lasciò stringere calorosamente da sua madre, inalando l'odore di lavanda di cui era intriso il mantello che l'avvolgeva. Era una Perfetta, ma sarebbe sempre rimasta una dama che neppure nelle circostanze più estreme avrebbe rinunciato al suo personale tocco di civetteria, fosse anche solo profumare la sua ruvida cappa. «Sedetevi, abbiamo molte cose da dirci e poco tempo. Come stai, Julián? Hai un aspetto migliore oggi, e tu, Fernando, figlio mio, raccontami cosa è stato di te in questi anni in cui non ci siamo visti. Julián mi ha detto che sei stato a trovare tuo padre. Come sta? Prego sempre per lui, e mi tranquillizza sapere che tua sorella Marta se ne prende cura; lei lo farà meglio di me, perché ha quella pazienza e quella dolcezza che io non possiedo.» Mentre la madre parlava, Fernando la osservava emozionato. Alcuni capelli bianchi avevano ingrigito la sua chioma nera. Il suo viso era smagrito, aveva perso peso, ma i suoi occhi brillavano ancora della stessa luce di un tempo; tutta la sua figura emanava l'energia di sempre. Era rimasta una donna alla quale era difficile disobbedire. Donna Maria teneva le mani del figlio tra le sue, e le accarezzava con quella tenerezza che molte volte sentiva di avergli negato. Fernando aveva un nodo in gola e, temendo di spezzare la magia di quel momento, non osava dire neanche una parola. «Signora, il siniscalco manderà un gruppo di guasconi per conquistare Montségur» annunciò Julián. «Dovreste partire prima che sia troppo tardi;
se non volete farlo per voi, fatelo almeno per la vostra figlia più piccola. Non è colpa di Teresa se voi professate una religione che conduce sul rogo.» «So perfettamente che da qualche giorno è arrivato un gruppo di guasconi. Il mio ammirato Hugues des Arcis sa che i suoi guasconi possono arrampicarsi su queste rocce e arrivare fino al castello. Il buon Pèire Rotger de Mirapoix lo ritiene impossibile, ma conosco bene il siniscalco. È un soldato testardo che non si arrenderà fino a quando non avrà distrutto Montségur.» «Allora, se lo sapete, perché volete proprio morire?» gridò Julián. «Lasciaci soli!» ordinò donna Maria. «Permettimi di parlare con mio figlio e di prendere congedo da lui, poiché sarà l'ultima volta che ci vedremo in questa vita.» Julián, abbattuto, si sedette su una roccia a pochi metri da loro. Donna Maria piantò i suoi occhi color miele in quelli neri di Fernando, tentando di leggere le emozioni e i sentimenti del figlio. «Ti voglio bene, te lo dico perché so che a volte ne hai dubitato. So di non essere stata la madre che ti aspettavi né quella che mi sarebbe piaciuto essere. Non cercherò di giustificarmi enumerando ragioni che non convincono neanche me. Sono un essere imperfetto; questo guscio che mi avvolge ha tentato di rovinare la mia anima, ma per fortuna presto me ne libererò.» «Madre!» «Taci e ascoltami, Fernando, non abbiamo tempo e sono molte le cose che ho da dirti. Qui c'è il tuo quasi fratello Julián, che è debole e impaurito; ho tentato di convincerlo molte volte ad abbracciare la vera fede, ma l'unica cosa che ho ottenuto è di farlo vivere dilaniato dai tormenti. Anche così, però, ho fiducia in lui, ha il tuo stesso sangue, il sangue degli Aínsa, e pertanto non ci tradirà mai. Da mesi, visto che sa leggere e scrivere, gli ho chiesto di non permettere che i nostri nipoti, poi i loro nipoti e pronipoti dimentichino quel che è accaduto qui. Voglio che egli scriva una cronaca nella quale racconti tutto, la malvagità della Grande Meretrice, il modo in cui non è riuscita a sopportare che noi cristiani vivessimo in accordo con l'insegnamento di Gesù, che condividessimo quanto possediamo con coloro che non hanno nulla, che aiutassimo coloro che hanno bisogno. Lei, la Grande Meretrice, vive avvolta in drappi e damaschi, circondata da servitù e ricchezze, lontano dai poveri e dagli infermi, servendo il Diavolo perché di esso fa parte.»
«Madre, state bestemmiando!» «Non è così, Fernando, e tu... tu, figlio mio, lo sai bene. Tu conosci l'avarizia della Chiesa, che noi chiamiamo la Grande Meretrice. Tu e quelli come te avete visto la sua iniquità; non ti chiedo di accettarlo così, su due piedi, ma ti conosco e pertanto so che sei buono, che sei disposto a morire per i deboli, a sacrificarti per i bisognosi, a dare la tua vita per Dio senza aspettarti nulla in cambio. Ascoltami: Julián scriverà questa cronaca, e racconterà che abbiamo avuto in donna Blanca di Castiglia una fanatica e potente avversaria; senza di lei la Francia non esisterebbe e Raimondo sarebbe ancora conte di Tolosa.» «Donna Blanca è stata generosa con i conti di Tolosa e di Foix; grazie alla sua mediazione il re non li ha castigati severamente come meritavano» riuscì a dire Fernando. «Non essere ingenuo! Donna Blanca è il miglior governante di Francia. Senza di lei, suo figlio non sarebbe nulla. Se Luigi si è mostrato misericordioso è stato solo perché sua madre gli ha detto di farlo. Donna Blanca non tollererà che questa terra impoverisca ulteriormente a causa della guerra, perché ben presto apparterrà integralmente alla Corona. Quando Montségur cadrà, il nostro paese sarà morto.» «Credete che Raimondo non accorrerà in aiuto di Montségur?» «No, non lo farà. Il conte ci abbandonerà al nostro destino. Come ben sai, tua sorella Marian vive alla corte di Raimondo, visto che suo marito, Bertran d'Amis, occupa una posizione di primo piano al suo fianco. Lei mi fa giungere notizie su ciò che possiamo aspettarci per Montségur. Nel concilio di Béziers tutta l'orda della Grande Meretrice ha preso la decisione di annientare Montségur. Qui si trovano gli uomini che hanno tolto la vita agli odiosi inquisitori Étienne de Saint-Thibéry e Guilhèm Arnold, e quindi Montségur è l'ultimo baluardo dei veri cristiani. Avranno pace solo quando il castello sarà distrutto dalle fiamme.» «E lo dite così?» «Io sono cristiana ma questo non vuol dire che sia stupida o che non capisca le regole dello scacchiere della politica. Ho conosciuto donna Blanca e ti assicuro che provo nei suoi riguardi una sincera ammirazione; io avrei fatto la stessa cosa se il destino mi avesse fatto trovare al suo posto.» «Eppure, dopo l'uccisione degli inquisitori ad Avignonet, la gente del paese ha preso di nuovo le armi...» fece notare timidamente Fernando, impressionato dalla lezione di politica che in quella strana circostanza sua madre gli impartiva.
«Una tempesta in un bicchiere d'acqua. La famiglia Saint-Gilles è finita. Raimondo lo sa e dunque non si scontrerà di nuovo con il re di Francia. La Corona e la Chiesa lo hanno sconfitto. In precedenza lo aveva già accettato Rotger Bernat de Foix, per questo aveva firmato la pace con i francesi. Senza di lui Raimondo non è nessuno e perciò ha dovuto seguire i suoi passi. Ma la Chiesa non perdona, quindi Montségur pagherà per gli inquisitori morti ad Avignonet. Se non lo facesse, le persone che vivono qui avrebbero la tentazione di continuare a sbudellare frati; per questo a Béziers hanno preso la decisione di distruggere Montségur.» «E poi?» chiese angosciato Fernando. «Poi i trovatori esalteranno il nostro sacrificio e la cronaca di Julián farà in modo che i nostri figli conoscano la verità e non dimentichino che del fanatismo e dell'intelligenza di una regina si è nutrita una monarchia che ha distrutto la libertà nel nostro paese.» «Andate a prendere Teresa, io vi farò uscire da qui» supplicò Fernando con aria disperata. «Tu sai bene che non lo farò, mi credi davvero capace di fuggire? Hai così poca stima di me?» «Teresa non è che una bambina, avreste il coraggio di condannare a morte mia sorella?» Donna Maria sospirò impaziente. Sentiva il dolore di Fernando, preoccupato della morte, incapace di vedere la verità, quella verità che lei aveva abbracciato con allegria sapendo che il corpo è l'incubo peggiore, il manto che bisogna abbandonare per trasformarsi in vera sostanza e incontrare, finalmente, Dio. «Fernando, figlio mio, nelle spighe c'è il grano e c'è il loglio. Il corpo non è altro che loglio. Teresa non morirà, ma...» Fernando la interruppe allontanando con rabbia le mani dalle quelle della madre, senza curarsi del dolore che si rifletteva nei suoi occhi. Entrambi soffrivano allo stesso modo: il figlio era condannato a non intendersi con la madre e la madre a non far comprendere la verità al figlio. «Madre, Teresa non merita di morire sul rogo; portatela da me o salirò io a prenderla, anche a costo di perdere la vita.» Donna Maria lo ascoltava sapendo che avrebbe dato seguito alle sue parole. Ma lei non voleva vedere Fernando morto; dentro di sé, malgrado il suo credo, desiderava che vivesse. Lui aveva una missione da compiere ed era ancora presto perché tornasse nella patria celeste. «Ti do la mia parola: farò in modo che Teresa lasci Montségur. Non la
forzerò, ma riuscirò a convincerla dicendole che tu hai voluto così.» «Vi chiedo di più, madre. Esigo che la obblighiate a lasciare questa montagna. Non vi perdonerò se mia sorella dovesse perdere la vita.» Si guardarono in silenzio incapaci di esprimere a voce alta il dolore, l'amore e l'ammirazione che provavano l'uno per l'altra. Donna Maria afferrò di nuovo le mani del figlio, se le portò al viso e le baciò. «Voglio morire e ritornare al mio essere celestiale, ma non riposerò tranquilla sapendo di partire con il tuo odio, pertanto farò l'impossibile per convincere Teresa. Ti do la mia parola, e tu sai quanto vale. Ti prego solo di non incolparmi se Teresa non dovesse accettare l'ordine che le darò.» «Voglio che la portiate via domani stesso; ordinate al pastore di guidarci di nuovo qui domani, al calar della sera.» «Questo non te lo posso promettere. Verrà a cercarvi quando non ci sarà pericolo, domani, dopodomani, lo saprete. Fino a quel momento, fidati di me.» «Ho la vostra parola?» annuì Fernando. «Sì, hai la parola di una Buona Cristiana.» «Mio padre... mio padre mi ha chiesto di mandare, attraverso di voi, i suoi saluti al signor De Perelha; sapete che, malgrado tutto, lo stima molto.» «Lo farò. È un uomo valoroso che sa di dover morire, come sua moglie Corba de Lantar e le sue care figlie.» «Mi ha chiesto di pregarlo affinché si prenda cura di voi, ma non so come potrò accontentarlo.» «Glielo dirò io stessa, anche se non ce n'è bisogno, dal momento che la famiglia Perelha mi onora del suo affetto e della sua amicizia. Non sono poche le occasioni in cui mi ha offerto la sua protezione per farmi tornare nelle terre di tuo padre ad Aínsa.» «Le vostre terre, signora» le ricordò Fernando. «Io non possiedo nulla e nulla voglio possedere. Così ho deciso già da tempo. Mi dispiace solo per il danno procurato a te e a tuo padre, per la mia incapacità di farvi abbracciare la vera fede.» «Cristo vi giudicherà, signora.» «Cristo?» «Nostro Signore, Dio.» «Figlio mio, quanto mi piacerebbe parlarti di Gesù! Ti dici cristiano eppure insozzi la tua anima con riti che nulla hanno a che vedere con il Maestro. Il giorno più felice della mia vita è stato quello in cui ho ricevuto il
consolament, il battesimo spirituale autentico, l'unico sacramento che consente la salvezza dell'anima. Quando il vescovo mi ha imposto le mani...» «Tacete, per favore! Non voglio sapere nulla della vostra eresia.» «Sono loro gli eretici, sono loro che hanno abbandonato la retta via. Ricorda che il Signore disse: "Giovanni battezzò con l'acqua ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo".» «Basta, madre, non abbiamo tempo per le discussioni teologiche!» Donna Maria restò in silenzio stringendo con fermezza le mani di suo figlio; poi, senza che lui se lo aspettasse, lo abbracciò e scoppiò a piangere. Fernando ne fu scosso. Non aveva mai visto sua madre versare una lacrima; anzi, nella loro casa di Aínsa aveva addirittura sentito dire che donna Maria non si era lasciata scappare un gemito neppure quando aveva messo al mondo i suoi figli. «Madre, perdona la mia rudezza» si scusò Fernando. «Perdona tu le mie lacrime, figlio mio, ma congedarmi da te è più difficile di quanto avessi mai immaginato. Devi sapere che ti ho amato molto, anche se non lo hai sentito. Perdonami se puoi...» «Non chiedetemi perdono, io vi voglio bene, signora. Ammiro la vostra fede e la vostra fermezza, invidio la vostra mancanza di dubbi...» «La vita non permette di tornare indietro» disse donna Maria asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, senza staccarsi dal figlio. «Cosa volete che faccia?» chiese Fernando. «La mia ultima volontà è che tu faccia sapere a tuo padre che l'ho sempre amato e che mi dispiace per tutte le pene che gli ho provocato. Non sono stata la moglie che lui si aspettava né quella che meritava, ma questo ormai non possiamo cambiarlo. Voglio solamente che un giorno i nostri figli sappiano quello che è successo qui: che siamo stati dei buoni cristiani decisi a vivere come il Maestro aveva detto, e che ci siamo ritrovati coinvolti in una lotta per il potere che altri desideravano. Il nostro peccato è stato quello di essere uno specchio nel quale la Chiesa non sopporta di guardarsi perché vede umiltà e purezza laddove in lei ci sono solo avarizia e corruzione. No, non preoccuparti, non voglio iniziare una discussione teologica, ma promettimi che avrai cura di Julián e gli farai scrivere la cronaca che gli ho affidato. Promettimi anche che, quando sarà terminata, la consegnerai a tua sorella Marian in modo che lei, attraverso i suoi figli, si incarichi di mantenere viva la memoria degli eventi di Montségur. Tu sei un monaco soldato. Marta è troppo legata alla Chiesa, Teresa... insomma, solo Marian può fare ciò che sto chiedendo; lei è una credente e lo è anche
suo marito. Lei è la più indicata per...» «Non dovete giustificarvi, madre, avete ragione. Vi do la mia parola che rispetterò le vostre ultime volontà.» Fernando strinse la madre tra le sue braccia e non riuscì a trattenere le lacrime. Fu grato alle ombre della notte che impedirono a Julián e al pastore di vederlo a tal punto in preda all'emozione. «Ti manderò Teresa appena possibile.» «So che lo farete.» Madre e figlio si abbracciarono nuovamente per l'ultima volta, prima che donna Maria sparisse come se si fosse trattato di un sogno. Fernando vide che anche Julián, appoggiato su una roccia, piangeva. Il pastore, poco distante, sembrava assorto ad ascoltare i rumori della notte. I tre uomini ripresero la via del ritorno senza scambiare neanche una parola. Fernando sentiva il peso dell'emozione dell'incontro con sua madre, e giurò a se stesso che non avrebbe partecipato alla presa di Montségur. Non sarebbe stato capace di stare tra le file di coloro che avrebbero dato la morte a donna Maria, per quanto lei insistesse che il corpo era solo loglio mentre l'anima era il grano. Lui sentiva che quel corpo energico era sua madre, e non avrebbe sopportato che qualcuno lo facesse soffrire. Il pastore li incitò a camminare più in fretta. L'incontro con donna Maria era stato più lungo del previsto e l'alba poteva sorprenderli prima di arrivare all'accampamento. Fernando e Julián si separarono, ognuno in direzione della propria tenda. Non avevano proferito parola durante il cammino. Avrebbero parlato solo quando entrambi avessero recuperato il controllo delle proprie emozioni. 7 Hugues des Arcis si fregava le mani per combattere il freddo del mattino. Il capo dei guasconi gli aveva mandato un messaggio chiedendo di essere ricevuto. Il siniscalco di Carcassonne aveva convocato immediatamente il suo stato maggiore, oltre all'arcivescovo di Narbonne e al vescovo di Albi, quest'ultimo più come soldato che come religioso. Anche i sei cavalieri templari furono invitati a partecipare alla riunione. «Ebbene, diteci, da quale parte salirete?» chiese il siniscalco di Carcassonne al capo dei guasconi, un uomo basso, di aspetto robusto, con mani grandi e occhi da predatore.
«Io e i miei uomini abbiamo esaminato il terreno. Non è facile quello che volete da noi.» «Se lo fosse, non sareste qui» rispose seccamente il siniscalco. «Guadagnerete molto se porterete a termine l'incarico, pertanto non c'è bisogno di perdere tempo discutendo sulla difficoltà del lavoro. Io voglio sapere come e quando agirete.» «Riteniamo possibile impadronirci del punto più alto, quello che chiamate Roc de la Tour. L'illustrissimo signor vescovo di Albi» il guascone lo indicò con il dito «ha bisogno di quel baluardo per piazzare le sue macchine da guerra, e lo avrà.» «E da quale parte salirete?» «Da est. È l'unico modo per raggiungere quella parte della rocca. Dal versante occidentale saremmo preda facile per quelli di Montségur.» Il siniscalco sapeva che quella era una parete ripida, che risultava impossibile da scalare per i suoi uomini più addestrati; ma se i guasconi assicuravano di potercela fare, non avrebbe dovuto far altro che aspettare e vedere se era proprio così. «Quando agirete?» «Questa notte» assicurò il guascone «ma dipende da qualcuno. Per questo ho chiesto di vedervi. Ho bisogno di una buona borsa di monete per una persona che ci guiderà attraverso i dirupi.» «Un traditore tra gli eretici!» esclamò entusiasta l'arcivescovo di Narbonne. «Voi lo chiamate traditore» rispose il montanaro «ma è soltanto un uomo che conosce bene la zona e a cui non importa quale Dio si preghi e come.» Restarono in silenzio, imbarazzati per le parole del capo dei montanari. «È un uomo che aspira a vivere meglio, solo questo» assicurò il guascone con durezza e un vago tono di sfida. «Comunque, la decisione tocca a voi. Gli abitanti di Montségur non immagineranno mai che ci avvicineremo da quel lato; è un bastione separato dal castello da molti metri, un suicidio, tranne per chi fin lì è capace di arrivare. E c'è un uomo che sa come farlo.» «Chi è?» volle sapere Hugues des Arcis. «Conducetelo subito qui.» «Come vi viene in mente di chiedermi una cosa simile! Questo è impossibile, non accetterebbe mai di parlare con voi. Non si fida» rise il guascone. «Tratta con me per ragioni familiari, ma non lo farebbe con i francesi per i quali non prova alcuna stima.»
Hugues de Arcis tossicchiò irritato per l'insolenza del montanaro. Avrebbe potuto obbligarlo a rivelare il nome del traditore se l'avesse sottoposto a tortura, ma in quel caso i guasconi si sarebbero rifiutati di partecipare a qualsiasi azione. Prese una decisione, anche se non la comunicò immediatamente. «Potete andare, vi farò chiamare.» Il guascone uscì dalla tenda sicuro che il siniscalco di Carcassonne, l'uomo che rappresentava il re, non avrebbe potuto fare altro che cedere alle sue richieste. Conosceva troppo bene la natura dei nobili per non sapere che il siniscalco gli avrebbe mandato un messaggero con una buona borsa di monete. Frate Pèire osservava Julián bere la pozione preparata dal medico templare. Il suo silenzio era un evidente rimprovero: il medico del siniscalco ne sapeva senza dubbio molto più di un templare che aveva passato la vita a combattere i saraceni al di là dei mari. Anche se, in effetti, doveva riconoscere che Julián ora passava le notti più tranquillo, senza quelle convulsioni che facevano temere per la sua vita. Il domenicano era ancora taciturno, certo, però si lamentava meno del dolore di stomaco, e sulle sue guance flaccide era ricomparso un po' di colore. Julián ruppe il silenzio chiedendo a frate Pèire notizie delle voci che correvano per l'accampamento e delle quali questi mostrava di essere sempre ben informato. «Poca cosa, tranne che i guasconi usciranno stanotte per tentare di avvicinarsi alla piattaforma della cresta orientale, quella che dà sulla parte posteriore del castello. A quanto pare tra gli eretici c'è un traditore disposto a condurli a un sentiero segreto.» «Un traditore? Non posso crederci...» mormorò il frate. «Sono peggio dei cani, e tra di loro ce n'è anche qualcuno avido» concluse frate Pèire. Julián preferì non contraddirlo, ma stentava a credere che tra quelli che sopravvivevano a Montségur aspettando la morte ci fossero dei traditori. Pensò a donna Maria e alla piccola Teresa e fu percorso da un brivido. «Di nuovo!» si lamentò frate Pèire. «Chiamerò il medico del siniscalco: vi stanno tornando le convulsioni, quelle erbe del templare non sono per nulla efficaci.» «Non vi muovete, fratello, mi sento molto meglio» supplicò Julián. «È
stato solo uno spasmo.» «Dovreste vedere il medico...» «Vi dico che sto bene. Non vi preoccupate. Ditemi cos'altro sapete...» «Poco altro... il signor Des Arcis si mostra impaziente, il re Luigi due giorni fa ha mandato un emissario per conoscere la situazione. Il siniscalco spera di potergli dare buone notizie, se davvero i guasconi manterranno la loro promessa.» «E chi è il traditore?» chiese Julián sentendo un'ondata di rossore scendergli dalla fronte al mento. «Nessuno lo sa. Solo il capo dei guasconi. Dicono sia un suo parente che si è sposato con una donna della zona e che conosce bene i meandri di queste montagne. In ogni caso riceverà una buona paga. Un paggio ha consegnato al guascone una borsa piena di denari.» Julián sbadigliò per far capire a frate Pèire che era stanco. Quindi si sedette sulla branda. «Volete che recitiamo il rosario?» propose il povero frate Pèire. «Vi ringrazio ma l'ho già recitato prima del vostro arrivo. Preferisco dire le orazioni da solo prima di addormentarmi.» «Allora vi lascio. Se avete bisogno di qualcosa...» «Vi ringrazio, fratello.» Frate Pèire era appena uscito dalla tenda quando entrò Fernando, facendo sussultare Julián. «Come vi sentite?» volle sapere Fernando. «Rattristato per la notizia che ho appena ricevuto da frate Pèire. Sapete che a Montségur c'è un traditore?» «No, non a Montségur. È qui, vicino a noi, un uomo del posto, a quanto sembra parente del capo dei montanari.» I due fratelli rimasero qualche secondo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. «E adesso cosa facciamo?» chiese Julián. «Fare? Noi? Non capisco, Julián...» «Vostra madre si trova lassù e...» «Mia madre ha fatto una scelta.» Di nuovo restarono in silenzio, pensando entrambi a donna Maria. «Non ho avuto più notizie del pastore» disse Julián. «Mia madre manterrà la sua parola e ci farà sapere come e dove andare a prendere mia sorella Teresa.» «E se non potesse...»
«Mia madre? Non la conoscete! Potrà. Anche se per riuscirci dovesse affrontare da sola l'esercito del siniscalco.» «Sì, so bene che ne è capace» ammise Julián. «Ero venuto a dirvi che non resterò qui ancora per molto. Appena avrò visto mia sorella me ne andrò; in realtà ce ne andremo tutti.» «Ve ne andrete con i vostri fratelli?» «Sì, abbiamo convinto il siniscalco che la nostra presenza qui non è necessaria, dal momento che già conta sull'ingegno del vescovo di Albi per le macchine da guerra. Oltretutto, c'è bisogno di noi nella nostra commenda. Presto torneremo in Oriente.» «I templari non amano combattere gli eretici» disse Julián. «Sono cristiani come noi, Julián, loro si fanno chiamare i Buoni Cristiani, e a volte penso abbiano ragione, forse lo sono davvero. Qual è il loro peccato? Vivere in povertà dando l'esempio, aiutare i bisognosi, curare i malati, prendersi cura degli orfani...» «Ma loro non credono a Nostro Signore...» protestò il frate. «Ci credono, solo che in modo diverso. Odiano la croce in quanto simbolo di sofferenza, dicono che Gesù non appartiene al mondo visibile, credono ci sia un Dio buono e un altro cattivo. In quale altra maniera si potrebbero giustificare tanta iniquità e tanta sofferenza? Come spiegare che, se tutto è opera di Dio, Lui ha creato anche il male o almeno lo permette? Cosa c'entra Dio con la morte di tanti innocenti? Il Demonio esiste e ha un potere immenso; noi chiamiamo il male in un modo, loro in un altro. Non è neanche una differenza così grande.» «Ma cosa dite! State commettendo un sacrilegio!» «Mio buon domenicano! A volte dimentico che appartenete all'ordine incaricato di combattere l'eresia e che siete un notaio dell'Inquisizione. Sarete voi a mandare al rogo la gente asserragliata a Montségur.» «Tacete! Non fatemi stare male, Fernando! Sapete quanto soffro per tutto questo! Il Diavolo mi tormenta l'anima.» «Non è il Diavolo a tormentarvi, ma la vostra coscienza, incapace di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Voi sapete come me che quelle persone non fanno male a nessuno, sono innocenti...» «Non lo sono! Si sono ribellati contro la nostra Santa Madre Chiesa.» «Si sono ribellati contro la corruzione della nostra Santa Madre Chiesa, contro i preti immorali, contro l'ostentazione dei vescovi...» «Vi accuseranno di eresia!» «Chi? Lo farete forse voi?»
«Io? Sapete che non farei mai una cosa simile, siete... siete mio mezzo fratello.» «Credo, Julián, che non lo fareste anche perché siete buono.» «Vi prego di non ripetere a nessuno ciò che mi avete appena detto» supplicò il frate. «Vi accuseranno di eresia.» «Non lo farò. Sono un monaco, non discuto, mi attengo a quanto dice la nostra Santa Madre Chiesa e lotto, rischio la mia vita contro i saraceni, ma a volte... a volte lascio andare i pensieri e, allora, dove prima c'era solo certezza trovo dubbi che non oso esprimere neanche al mio confessore. Ma a voi sì, Julián, pur sapendo che siete un domenicano, un guardiano della vera fede. Ora vorrei parlare con voi della cronaca che state scrivendo. Come la farete arrivare a mia sorella Marian?» «Non lo so. Vostra madre mi ha dato un incarico difficile, spero che sia Marian stessa a cercarmi.» «E con Teresa cosa faremo?» «Cosa faremo? Io sono un frate, non posso tenerla con me.» «E io sono un monaco soldato, neppure io posso portarla nella mia commenda... Potreste mandarla da mia sorella Marian alla corte del conte Raimondo?» «Starebbe meglio con vostro padre e vostra sorella Marta ad Aínsa...» «Sarà difficile per lei tornare ad Aínsa. Presto o tardi le grinfie dell'Inquisizione si chiuderanno su di lei. Le vostre grinfie, Julián... No, non guardatemi così. Ad Aínsa tutti sanno che Teresa è con mia madre a Montségur, e che entrambe sono eretiche. Non avranno pietà della povera bambina, quindi l'unico luogo dove può trovare protezione è con mia sorella Marian. Mio cognato Bertran d'Amis è un cavaliere scelto alla corte di Raimondo. Vi prego di mandarla laggiù.» «Ma come potrò farlo?» si lamentò Julián. «Dovete trovare una persona di vostra fiducia.» «No, non mi fido di nessuno. Faccio già abbastanza fatica a tenere nascosti i miei rapporti con gli eretici.» «Qualcosa mi verrà in mente. Resterò qui ancora due o tre giorni.» Fernando uscì dalla tenda lasciando Julián atterrito all'idea di doversi fare carico di Teresa. Il cavaliere non aveva altra scelta che scaricare su suo fratello quella responsabilità; per quanto lo sapesse debole, non dubitava della sua lealtà nei confronti della casa di Aínsa, della quale faceva parte visto che aveva il suo stesso padre. Con passo deciso il templare si diresse alla sua tenda e pregò, chiedendo
a Dio di non abbandonarlo. Julián, appoggiato in ginocchio sulla branda, stava implorando lo stesso favore all'Onnipotente. 8 La luna non apparve quella notte. L'accampamento era avvolto in uno strano silenzio, rotto soltanto dal rumore del vento gelato, che inquietava Hugues des Arcis mentre aspettava nella sua tenda notizie dell'incursione iniziata dai guasconi un'ora prima. Il siniscalco camminava avanti e indietro nervosamente, in attesa degli eventi. Pensava che Dio era dalla sua parte e che, chiamato a scegliere tra la vita degli eretici e quella dei suoi figli fedeli, non avrebbe avuto dubbi. Lui invece ne aveva: sapeva che il castello di Montségur sembrava inespugnabile e che il suo signore, Raimon de Perelha, e il comandante della guarnigione, Pèire Rotger de Mirapoix, avevano dimostrato coraggio e intelligenza durante i mesi dell'assedio. A Montségur vivevano più di quattrocento persone tra soldati, Perfetti, credenti, servitori e altre famiglie devote al signor De Perelha. Su alcune piattaforme sospese sul fianco della montagna si scorgevano minuscole case e capanne dove, stando a quel che la gente del luogo assicurava, la maggior parte dei Perfetti pregava e aiutava quanti avevano cercato rifugio nel castello. Il siniscalco pensava che, se Dio avesse dimostrato di essere dalla sua parte, ben presto Montségur avrebbe cessato di esistere e la contea di Tolosa non sarebbe più stata un problema per il buon re Luigi. Mentre il siniscalco aspettava, i guasconi iniziarono la marcia guidati da un uomo simile a loro. Veniva anche lui dalla Guascogna, per questo parlava la loro stessa lingua, e non si era mai sentito parte del paese che adesso si apprestava a tradire; con la borsa di denaro che avrebbe ricevuto in cambio sarebbe potuto tornare a casa, conducendo con sé i tre figli e la volubile moglie, per quanto questa avesse assicurato che niente e nessuno l'avrebbe portata via dalla sua terra. Questa volta non lo preoccupava la testardaggine di sua moglie; una volta caduta Montségur, trovandosi davanti agli occhi la borsa tintinnante inviata dal siniscalco, avrebbe lasciato da parte il suo orgoglio. Il freddo gelava le mani e rendeva difficoltosa l'ascesa. Í montanari osservavano un silenzio sepolcrale, sapendo che se fossero stati scoperti da-
gli uomini che proteggevano i baluardi vicini al castello la loro morte sarebbe stata sicura. Dovevano evitare anche il minimo sgretolamento di roccia, nonostante avessero la schiena piegata sotto il peso delle armi. A stento riuscivano a vedere dove mettere i piedi e temevano di cadere giù nel burrone. Ma la paga era buona e, tra l'altro, aiutare a sconfiggere gli eretici nascosti a Montségur, stando a ciò che avevano promesso gli uomini di Chiesa, li avrebbe resi meritevoli di una grande ricompensa in cielo, una volta morti. Non sapevano più da quanto tempo stavano salendo, ma avevano già le mani scorticate e un dolore acuto in ogni singolo muscolo del corpo. L'unica cosa che sapevano era ciò che li aspettava sul baluardo: un gruppo di temibili soldati da affrontare. Alla fine, Dio fu dalla loro parte, si dissero, perché sorpresero i rivali nel sonno e, prima che questi si rendessero conto di quel che stava accadendo, li lanciarono nel vuoto impadronendosi del baluardo. Il capo dei guasconi e il traditore si scambiarono una compiaciuta pacca sulla spalla. Era stato più facile del previsto. Adesso che assaporavano la vittoria, le mani non facevano più male, sebbene avessero lasciato la pelle sulle rocce, e non sentivano più neanche le fitte alla base della schiena; solo i più ingordi pensarono che forse avrebbero dovuto chiedere un prezzo più alto al siniscalco per quell'azione spettacolare. Alcuni uomini guidati dal traditore tornarono verso l'accampamento a dare la buona notizia. Hugues des Arcis stava bevendo un coppa di vino tiepido quando un soldato chiese permesso per annunciare l'arrivo dei montanari. Dopo aver ascoltato il loro racconto, bisbigliò un'orazione in silenzio, ringraziando Dio per essersi schierato dalla loro parte. La notizia corse veloce per tutto l'accampamento: i guasconi si erano impossessati della Roc de la Tour, a meno di cento metri dal castello; dalla sua altezza, riuscivano quasi a vedere i volti dei rifugiati di Montségur. Gli occupanti, orgogliosi della loro impresa, alcuni perfino sorpresi per ciò che erano stati capaci di fare, commentavano ridendo che se la notte non avesse nascosto i pericoli della scalata non avrebbero rischiato la vita in quel modo. Il siniscalco chiamò i suoi nobili a consiglio e inviò un messo alla corte del re per annunciare la buona nuova. Per la prima volta da quando era iniziato l'assedio non ebbe il minimo dubbio che presto, molto presto, Montségur sarebbe caduta.
Hugues des Arcis riconosceva che molti dei suoi uomini erano ormai stanchi di stare lì. Erano del paese e, per quanto prestare il servizio militare fosse un loro dovere verso la Corona, non erano particolarmente interessati a espugnare quel baluardo dove si rifugiavano i Buoni Cristiani. Molti di loro, quindi, aspettavano con impazienza che passasse il tempo del servizio che dovevano al re per abbandonare quell'esercito di cui non si sentivano parte. Molti avevano familiari a Montségur, alcuni erano perfino in contatto con loro. Non volevano tradire il re, ma neppure volevano tradire se stessi. Il colpo che avevano ricevuto poteva essere mortale. Raimon de Perelha e Pèire Rotger de Mirapoix non s'ingannavano: o il conte Raimondo mandava rinforzi oppure Montségur non avrebbe resistito. Durante i giorni che seguirono assistettero impotenti all'installazione delle macchine da guerra, le catapulte e i lancia sassi con le quali l'esercito del siniscalco avrebbe potuto castigare il barbacane del castello. Il vescovo di Albi, Durand de Belcaire, fu incaricato della supervisione e si dedicò ad arringare i suoi uomini spingendoli alla vittoria. Nel frattempo Fernando continuava a ritardare la partenza dei suoi compagni in attesa di ricevere notizie dalla madre, che arrivarono dopo quasi due settimane. Dormiva un sonno agitato quando una mano gli strinse la spalla. Saltò dal letto impaurito, coltello alla mano, pronto a tagliare la gola del suo aggressore... «Non vi spaventate Fernando, sono io...» «Julián, cosa fate qui? Potrebbero vedervi!» «Lo so, ma non abbiamo tempo. Seguitemi...» Fernando uscì dalla tenda con il timore che i suoi compagni d'armi si fossero svegliati. «Cosa succede? Perché vi siete arrischiato a venire qui in piena notte?» «Il pastore mi ha portato un messaggio di donna Maria.» «E Teresa?» «Ascoltate, nel giro di due notti alcuni Perfetti abbandoneranno la fortezza. A quanto pare cercano di mettere al sicuro i loro oggetti di valore. Vostra sorella sarà insieme a loro. Donna Maria vuole che andiate voi solo a prenderla e che facciate da scorta ai Perfetti. Se non accettate, vostra sorella resterà a Montségur; donna Maria assicura che non ha altro modo di farla uscire con un minimo di garanzie.» «Mi ha dato la sua parola!» protestò Fernando.
«E la manterrà a modo suo.» «È un ricatto.» «È il modo migliore che ha per obbligarvi a proteggere quei Perfetti e ciò che porteranno con loro.» «Non so se potrò farlo.» «Lo farete. Non c'è alternativa.» Quella notte era Julián a mostrarsi più risoluto del fratello. «Ma vi rendete conto che non posso sparire? I miei compagni si chiederanno dove vado... non posso ingannarli.» «Infatti, non dovete ingannarci.» Fernando e Julián si voltarono spaventati davanti alla voce che li aveva sorpresi. Arthur Bonard li osservava con sguardo serio. I fratelli arrossirono. «Ebbene, Fernando, immagino che direte a noi, vostri compagni, qual è il mistero.» Dalle ombre della notte sbucarono gli altri cavalieri. Fernando riuscì a leggere negli occhi di Armand de la Tour, il medico, un lampo di comprensione. Con un cenno li invitò a entrare nella tenda che dividevano, seguiti da Julián. Dopo aver preso posto, Fernando spiegò loro la situazione: sua madre, raccontò, era una Perfetta e temeva che anche la sua sorellina lo fosse, benché non ne fosse sicuro dal momento che aveva solo quattordici anni. Non nascose che aveva visto sua madre e nemmeno di averla pregata di salvare Teresa lasciandola partire. «Mia madre ha inviato un messaggio nel quale dice che devo essere io a prendere mia sorella. M'impone anche di scortare alcuni Perfetti che abbandoneranno Montségur con i beni più preziosi della comunità. Succederà tra due notti, ma Julián non sa ancora dove sarà l'appuntamento.» «E voi, fratello Julián, siete in trattativa con gli eretici?» Il frate tremò davanti alla domanda del templare. Arthur Bonard incuteva profondo rispetto, ma anche timore. Sapeva delle sue imprese in Terra Santa, ma soprattutto della sua fede e del suo ascetismo, che lo portava a rifiutare qualsivoglia onore. No, non avrebbe saputo mentire a quell'uomo, neanche per salvarsi la vita. «Accompagno il siniscalco da quando è iniziato l'assedio di Montségur in attesa di giudicare gli eretici» riuscì ad articolare Julián. «Lo so, appartenete all'Ordine di Domingo de Guzmán, è vostra la responsabilità di trovare gli eretici in mezzo al grano» addusse Bonard.
«Donna Maria ha saputo che ero qui e mi ha mandato a chiamare. Voleva notizie di casa sua, di don Juan, suo marito, e dei suoi figli, di Fernando e Marta. Anche a me ha ordinato di compiere una missione.» «Ha ordinato?» chiese Bonard. «Com'è possibile che donna Maria possa dare ordini a voi, un domenicano?» «Non la conoscete, lei è... non le si può negare nulla. Le obbedisco da quando ho l'uso della ragione e tutto quel che sono lo devo a lei. Le appartengo.» «Ma... si può sapere cosa state dicendo?» il cavaliere Bonard pareva scandalizzato. «No, non mi fraintendete. A donna Maria porto solo un gran rispetto, ma lei governa le vite di coloro che le stanno vicino e io sono uno di quelli.» «Sapete che potreste bruciare sul rogo per aver trattato con gli eretici?» chiese Bonard. «Lo so, e se voi mi denunciate non avranno pietà di me. Per la Chiesa sarebbe un duro colpo che uno dei suoi, un domenicano, membro dell'Inquisizione, intrattenesse rapporti con gli eretici e per giunta si prestasse ad aiutarli. Padre Ferrer accenderebbe personalmente la mia pira.» Il cavaliere Armand de la Tour fece un passo in avanti e, piantando i suoi occhi in quelli del compagno Bonard, sentenziò: «A quanto pare non avremo altra scelta che proteggervi, per proteggere noi stessi. Nessuno vorrà avere sulla coscienza la vostra morte sul rogo, né tanto meno quella di vostro fratello Fernando. Alla Chiesa non conviene che un notaio dell'Inquisizione abbia rapporti con gli eretici, né al Tempio che qualcuno dei suoi abbia una madre Perfetta.» «Proteggere?» chiese sconcertato Arthur Bonard. «Sì, proteggere. Non vi denunceremo. Del resto, non avevamo appena parlato del dolore che provoca questa lotta fratricida tra cristiani? Il Tempio cerca di mantenersi fuori da questo conflitto, così hanno deciso i nostri superiori, e fino a ora abbiamo evitato le occasioni per rimanere coinvolti in questa crociata contro coloro che si fanno chiamare Buoni Cristiani. Non permetterò che spediscano sul rogo il nostro fratello Fernando de Aínsa. E nemmeno mi sembra un delitto aiutare qualcuno a salvare la vita di una bambina innocente. Cosa volete che sappia lei di teologia? Sono monaco e sono soldato, ma sono anche medico e detesto che si distruggano vite umane. Non vi credo capace, Bonard, di consegnare un vostro fratello.» L'ingegnere abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi cercando dentro di sé
una risposta ai problemi che aveva davanti. «Non possiamo aiutare quegli eretici a scappare» disse. «Certo che possiamo» insistette Armand de la Tour. «È un tradimento» affermò Bonard. «Non lo so. Noi interverremo per salvare la vita di una bambina e la scorteremo, lei e i suoi accompagnatori, fino a un luogo sicuro. Nulla di più.» «Mi hanno dato la responsabilità di dirigere il nostro gruppo, e non faremo una cosa simile» ricordò Bonard guardando Armand e gli altri tre cavalieri che li accompagnavano. Uno di loro, un giovane cavaliere dell'età di Fernando, chiese il permesso di parlare. «Signore, io vorrei aiutare Fernando de Aínsa. Non vedo niente di male nel salvare sua sorella, né credo si tratti di un tradimento. Si può forse tradire il re aiutando una bambina a scappare dal rogo? Io non potrei più guardare in faccia Fernando sapendo di aver condannato sua sorella.» «Però non interverrete per salvare sua madre» disse Bonard. Il giovane non fece una piega e rispose immediatamente. «No, credo che non accadrà niente di simile. Donna Maria sa quel che fa. Voi siete preoccupato del tradimento... e io penso che questo non lo sia.» «Mi preoccupa coinvolgere il Tempio nella fuga di alcuni Perfetti di Montségur. Questo sì che è un reato! Lo sapete bene anche voi.» «Molto peggio sarebbe denunciare Fernando e farlo cadere nelle mani dell'Inquisizione. Sapete che molti dei nostri nemici vedrebbero in questo gesto un'opportunità per tentare di distruggerci» ribadì Armand de la Tour. «Abbiamo un'altra alternativa: partire immediatamente.» Le parole del cavaliere Bonard sembravano non ammettere replica. Ma né Fernando né Julián erano disposti a vacillare. «Signore, la mia vita è nelle vostre mani. Non vi chiedo di aiutarmi; so che quando tutto questo finirà subirò il castigo esemplare che merito, ma o mi denunciate e così avrete la possibilità di arrestarmi, oppure sappiate che io aiuterò mia sorella a scappare e scorterò quei Perfetti fino a un luogo sicuro. È l'ultima volontà di mia madre prima di morire, e io la rispetterò.» 9 Bertran Martí, l'anziano vescovo degli eretici, aveva disposto di riunire
tutto l'oro, l'argento, le pietre preziose e ogni oggetto di valore che si potesse trasportare. Da tempo a Montségur erano custodite tutte le offerte che i nobili facevano alla causa dei Buoni Cristiani. Con quell'oro costruivano case per accogliere gli orfani, curare i malati, soccorrere le vedove. L'anziano vescovo voleva metterlo in salvo, in mani sicure, per continuare l'opera dei bons homes. Due dei suoi diaconi, Matèu e Pèire Boinet, sarebbero stati incaricati di fuggire da Montségur e dal rogo, al quale tutti si sapevano prima o poi condannati. Insieme ai diaconi sarebbe andata la piccola Teresa de Aínsa. Sua madre, donna Maria, aveva ordinato che venisse salvata. Donna Maria aveva raccontato a Bertran Martí la conversazione con suo figlio e il desiderio di quest'ultimo di salvare Teresa. La dama sapeva che non sarebbe stato facile far accettare la missione al vescovo; da lì era nata la sua idea di costringere Fernando ad aiutare i due Perfetti a fuggire insieme a sua figlia. Quel baratto era la sua ultima possibilità se voleva mantenere la promessa fatta a Fernando. Sapeva che suo figlio non avrebbe compreso la sua esigenza, ma non aveva alternativa. Raimon de Perelha e Pèire Rotger de Mirapoix avevano aggiunto alle proprie preoccupazioni quella di far uscire senza pericolo i diaconi dal castello. Questa volta a tradire era uno dei crociati, ma si trattava davvero di un traditore? Quel soldato del paese, che serviva con le armi un re per il quale non professava alcuna simpatia, aveva sua sorella e i suoi nipoti all'interno di Montségur. L'uomo accettò di rischiare la vita per venire incontro alla preghiera di sua sorella e del signore De Mirapoix. Era un uomo di Camon, il feudo di Pèire Rotger de Mirapoix, il quale gli aveva promesso una buona ricompensa per non vedere i diaconi che scappavano. Stabilirono come notte della fuga quella in cui lui e i gli altri compagni di Camon sarebbero stati di guardia; c'era solo un passaggio attraverso il quale fuggire, impervio e tenebroso, l'unico che non contava su una forte vigilanza da parte dei crociati. Teresa piangeva abbracciata a donna Maria. Il vescovo Bertran Martí le aveva dato il consolament, assicurandole un posto in cielo. La piccola non voleva separarsi dalla madre né da coloro con i quali aveva condiviso tante sventure nei mesi dell'assedio. Odiava con tutto il cuore i crociati, che considerava soldati del Maligno, e supplicava sua madre affinché le consentis-
se di lasciare quel mondo maledetto insieme a lei. Donna Maria non sapeva come consolarla. «Ho dato la mia parola a Fernando e lui ha accettato di aiutarmi solo perché insieme ai diaconi ci sarai anche tu. Vuoi forse che tutto ciò che possediamo cada nelle mani dei crociati? Quell'oro e quell'argento serviranno a mantenere la nostra Chiesa, a salvare molti fratelli. Tu stessa li condannerai al rogo se non accetterai di metterti in salvo. La nostra fede ha bisogno di tempo per radicarsi in altri cuori. Se, dopo che Montségur sarà distrutta, non ci sarà nessuno a dare testimonianza della nostra fede, a cosa sarà servito il sacrificio? Tu hai questa missione, Teresa, devi vivere perché la fede dei Buoni Cristiani sopravviva. Il fratello Matèu ha inoltre la missione di recarsi alla corte del conte di Tolosa e spiegare la nostra situazione. Se c'è una sola possibilità di salvare Montségur dipende da te, figlia mia. «E dove mi porterà Fernando?» chiedeva la bambina singhiozzando. «Vi metterà in salvo. Poi tu andrai con Matèu alla corte di Raimondo, da tua sorella e suo marito.» Fernando attendeva impaziente tra la vegetazione del monte. Il pastore li aveva guidati fin lì appena era calata la notte. Aspettavano da parecchio tempo, immersi nel buio e nel silenzio più assoluti. Fernando sapeva che non lontano da lì c'erano i suoi compagni templari. Bonard aveva accolto la richiesta di Armand de la Tour, che aveva trovato la maniera di aiutarlo senza però compromettere il Tempio. Li avrebbero seguiti da vicino, avrebbero coperto loro le spalle, avrebbero cercato di proteggerli, ma non avrebbero partecipato direttamente. Una volta tornati alla commenda, Fernando sarebbe stato consegnato al maestro affinché questi decidesse il castigo più adeguato, anche se Bonard non si faceva illusioni: anche loro avrebbero subito le conseguenze della loro complicità, per quanto minima fosse stata. Il lieve scricchiolio di un ramo allarmò il pastore e mise sul chi vive Fernando. Esausti, con le mani sanguinanti e la stanchezza riflessa nel viso, apparvero due uomini seguiti da una figura avvolta in un mantello che avanzava incespicando. «Sono loro» annunciò il pastore. Fernando si avvicinò con due falcate agli uomini e li salutò con un gesto, quindi abbassò il mantello che copriva la testa e il volto di sua sorella. «Teresa!»
La bambina lo guardò con odio per un istante; ma immediatamente si sciolse in un torrente di lacrime. «Fatela tacere o ci scopriranno» ordinò il diacono Matèu. «Abbiamo incrociato alcuni soldati. Non è stato facile arrivare fin qui.» «Calmati, Teresa, avrai tempo per piangere» le disse Fernando, senza sapere bene come trattare la bambina che vedeva diventata ormai quasi una donna. Il pastore ordinò con un cenno di fare silenzio. Gli era parso di sentire un rumore. Erano tutti nervosi, la tensione era palpabile. «I cavalli sono qui vicino, a pochi passi, abbiamo coperto gli zoccoli per non fare rumore. Sapete montare?» chiese Fernando ai diaconi. «Ce la faremo» risposero. «In tal caso, muoviamoci...» Fernando apriva la fila, protetto dai suoi compagni. I Perfetti dovevano raggiungere una località delle montagne del Sebartés. Lì avrebbero lasciato nascosto il loro carico fino a quando non fosse giunto il momento di utilizzarlo. Cavalcarono senza sosta fin là; poi, nel bosco, i due diaconi fecero segno a Fernando di fermarsi ad aspettarli. Quindi, camminando, si persero tra la vegetazione. Fernando credette di sentire le voci di altri uomini, ma non si mosse da dove si trovava, come gli avevano chiesto. Quando i Perfetti tornarono, parlavano tra loro con una certa animazione; da quel che dicevano, Fernando intuì che dovevano aver incontrato qualcuno, ma nessuno degli uomini volle confermargli quell'impressione. Sembravano sollevati, sapendo che il loro carico era in buone mani. Cavalcarono eludendo i soldati. Fernando li guidava sicuro attraverso boschi e montagne, tentando di evitare villaggi e, soprattutto, uomini armati. Di notte restava di guardia vegliando il sonno dei fuggitivi, sapendo che lì vicino i suoi compagni erano all'erta nel caso in cui qualcuno avesse provato ad avvicinarsi. Corsero pericolo solo in un paio di occasioni, ma ne uscirono senza danni grazie alla perizia del templare. I due diaconi si sentivano sicuri sotto la protezione di Fernando. Chi avrebbe osato sfidare un soldato del Tempio? Teresa era sfinita; negli ultimi giorni aveva cavalcato senza sosta fino ad arrivare alla piana, dove in quel momento si trovava la corte del conte Raimondo. Fernando non volle accompagnarla fino al castello. Prese commiato da lei obbligandola a promettere che avrebbe obbedito a sua sorella maggiore e a suo marito.
Quindi si accomiatò dai Perfetti, dopo aver raccomandato loro sua sorella. «L'affido a voi. Mio cognato Bertran d'Amis saprà ricompensarvi.» «Non abbiamo bisogno di alcuna ricompensa» rispose Pèire Boinet senza nascondere la sua irritazione per le parole del templare. «Non volevo offendervi» si scusò Fernando. «In questa vita non ci aspettiamo nessuna ricompensa» insistette il Perfetto. «Vostra sorella ha ricevuto il consolament, ora dunque è anche nostri sorella.» Fernado abbracciò Teresa, poi montò in sella e spronò il cavallo con forza. Sapeva che i suoi compagni lo stavano aspettando. Teresa sarebbe vissuta e lui sarebbe andato incontro al suo castigo. Chiese a se stesso se lo meritava davvero. 10 La situazione a Montségur era peggiorata; il siniscalco assicurava che era solo questione di tempo, poi il signor De Perelha avrebbe dichiarato la resa. Sotto l'energica direzione del vescovo di Albi, le macchine da guerra non davano respiro ai difensori. I crociati erano a pochi metri dal castello e le catapulte avevano abbattuto buona parte del muro orientale. Julián scriveva, concentrato, la storia ordinata da donna Maria. Attraverso il pastore, la donna gli aveva mandato un messaggio dicendo che Teresa era al sicuro insieme a sua sorella alla corte del conte Raimondo. Ma da allora era trascorso parecchio tempo: Natale era passato, gennaio stava per finire e da parte di donna Maria non erano più arrivate notizie. Non aveva saputo più nulla neanche di Fernando. Sembrava fosse stato inghiottito dalla terra. In qualche occasione Julián era stato tentato di chiedere notizie alla commenda dei templari situata a pochi giorni di cavallo dall'accampamento, ma non aveva osato per non accrescere le difficoltà di Fernando e, cosa ancora peggiore, mettere in allarme i nemici di entrambi. Pertanto si era dedicato notte e giorno a scrivere quella cronaca su Montségur e gli eretici che un giorno avrebbe depositato nelle mani della sua sorellastra Marian. Nascondeva con cura i suoi scritti per evitare la tentazione di leggerli a coloro che visitavano la sua tenda. A volte credeva di sorprendere padre Ferrer che lo osservava con diffi-
denza. Avvertiva l'antipatia per lui del suo superiore, che, a quanto si diceva, era incapace di mostrare buoni sentimenti verso chiunque. Perfino frate Pèire sembrava spaventato dalla sua presenza. Un filo d'aria filtrò dall'apertura della porta della tenda mentre frate Pèire entrava. «Julián, come vi sentite oggi?» «Meglio, fratello, meglio.» «Quanto lavorate!» «Voglio essere pronto quando avrà inizio il processo agli eretici.» «Ma cosa state scrivendo con tanta cura?» «Metto in ordine delle sentenze di precedenti processi contro gli eretici, e le disposizioni approvate nei concili. Niente di importante ma mi aiuta a passare il tempo in questi giorni di pioggia nei quali neanche un pazzo avrebbe il coraggio di uscire.» «Avete ragione. Vi confesso che l'umidità mi sta causando male alle ossa. Ci sono giorni in cui il dolore è così forte da farmi pensare che non sarò più in grado di muovermi. Il medico del siniscalco mi ha fatto un salasso, ma il dolore non è diminuito.» «Il medico del siniscalco non capisce nulla.» «Ma Julián...» «È un macellaio la cui unica scienza consiste nel togliere sangue dalle vene, che si tratti di un mal di pancia oppure di un raffreddore.» Frate Pèire non rispose; ma nel suo silenzio c'era un'accettazione implicita delle parole di Julián. Quindi parlarono qualche minuto delle notizie che circolavano nell'accampamento, anche se non c'erano state novità di rilievo. Poco dopo che frate Pèire se ne fu andato, un servitore entrò annunciando che il pastore aveva chiesto il permesso di fargli visita. Dalla sua spalla pendeva una cesta di formaggi. «Sono venuto a portare il formaggio al siniscalco» salutò. Julián fu assalito dalle vertigini; pur aspettando con ansia notizie di donna Maria, allo stesso tempo le temeva. «Donna Maria vuole vedervi. Una notte di queste verrò a prendervi, non so quando. Ora le cose sono cambiate e andare e venire da Montségur è più difficile. Ma tenetevi pronto.» A partire da quel momento, Julián riprese a dormire inquieto, malgrado le erbe che gli aveva somministrato il medico templare riuscissero a conci-
liargli il sonno. Le sue notti si riempirono di incubi nei quali donna Maria compariva dandogli i più diversi ordini che mettevano in serio pericolo la sua vita. Si svegliava di soprassalto in un bagno di sudore, scosso da brividi gelati lungo la schiena. Perse nuovamente l'appetito. Frate Pèire lo credeva un santo, ritenendo che la sua magrezza fosse dovuta alla smania di sacrificio e alla rinuncia di tutto quanto era materiale, inclusa la buona tavola dell'accampamento. La notte in cui si presentò il pastore, Julián aveva appena bevuto l'infusione che gli permetteva di prendere sonno. «Datevi una mossa, oggi la notte non è molto chiara; dobbiamo approfittarne per muoverci quanto prima.» Julián lo seguì temendo di addormentarsi lungo la via, anche se in realtà la cosa che più temeva era cadere nelle mani dei crociati, ai quali non avrebbe potuto spiegare che aveva scalato quelle rocce insieme al pastore per dirigersi al castello maledetto. Ancora una volta perse la nozione del tempo; non avrebbe saputo dire quanto avesse camminato, ma aveva l'impressione che fosse molto più delle volte precedenti. Gli facevano male i piedi. Quando donna Maria apparve all'improvviso, come un fantasma, stentò a riconoscerla. Il viso della dama si era smagrito ancora di più a causa delle privazioni e aveva un cerchio violaceo intorno agli occhi, che ora parevano spenti. Donna Maria aveva perduto non solo l'esuberanza ma anche la vivacità di un tempo. Aveva un'aria estenuata. Lo abbracciò con affetto, come da molto tempo non faceva. «Vieni, siediti. Non abbiamo molto tempo» gli disse, invitandolo a dividere con lei una masso sporgente. «Mia signora, la vedo stanca.» «Lo sono. Le vostre catapulte non ci danno tregua. Quel demonio del vescovo e le sue macchine infernali... insomma, ormai manca poco, ma non è di guerra che voglio parlarti, bensì di mio figlio.» «Di Fernando? Signora, io... perdonatemi, ma non ho più avuto sue notizie.» «Lo immaginavo. Non hai avuto il coraggio di indagare.» «Signora, è difficile sapere cosa succede dietro le mura delle commende del Tempio, i cavalieri rispondono solo al papa.» «Però potresti avvicinarti con la scusa di far visita a Fernando.» «Sapete bene che i cavalieri templari non ricevono visite. È proibito, sono monaci, signora.»
«D'accordo, se non andrai tu, lo farò io.» «Voi? Ma non potete.» «Certo che posso. Sai, non sono solo le macchine di quel demonio del tuo vescovo a impedirmi di dormire; mi tormenta anche la sorte che può essere toccata a Fernando, mi sento responsabile di ciò che può essergli accaduto. Una cosa è sapere che può morire in combattimento lottando contro i saraceni e un'altra, ben diversa, è saperlo in una cella a marcire. Questo non potrei sopportarlo.» «C'era un cavaliere, Armand de la Tour, un medico che sembrava dimostrargli affetto...» «Allora, Julián, provate a mettervi in contatto con questo cavaliere. Che vi dia notizie di Fernando.» «Ma, signora, questo non è possibile!» «Dovrà esserlo» sentenziò donna Maria. «Entro due settimane ti manderò a prendere. Credo che almeno altre due settimane resisteremo» mormorò tra sé e sé. «Signora, non sapete cosa mi state chiedendo.» «Certo che lo so. Devo morire con la coscienza tranquilla, e non manca molto perché questo accada. Sarai tu stesso a giudicarmi e a mandarmi al rogo.» Julián chinò il capo, oppresso dalle parole premonitrici di donna Maria, e non riuscì a evitare le lacrime. «Andiamo, figliolo, non piangere, le cose stanno così... tu continui a servire la Chiesa, la quale altro non è che una Grande Meretrice, senza far caso alle mie raccomandazioni.» «Ma siete stata voi a volere che diventassi domenicano!» «Questo è accaduto prima di incontrare i bons homes.» «Signora, voi pretendete che gli altri credano nelle stesse cose in cui credete voi, e che smettano di credere quando voi smettete, e che vedano il giorno all'ora del crepuscolo e la notte al momento dell'alba...» «Basta, Julián! Non tormentarti, non pretendo di cambiare la tua fede, non ne ho tempo; oltretutto, a modo tuo, anche tu sei un eretico.» «Dio abbia pietà di me!» «Questo non lo so» scherzò donna Maria, senza che Julián riuscisse a cogliere la sfumatura scherzosa della sua voce. Il pastore si avvicinò ai due facendo un cenno alla dama. «È vero» disse donna Maria. «Il tempo è già passato e devi andartene. Ti manderò a prendere per avere notizie di Fernando.»
«Avete avuto altre notizie di Teresa?» chiese Julián con voce affannosa. «Ti ho già fatto sapere che Teresa sta bene. A fine gennaio è tornato Matèu, uno dei Perfetti che l'accompagnarono alla corte di Raimondo. Poi non abbiamo ricevuto altre notizie.» «Uno di quegli uomini è tornato?» «Certo, te l'ho già detto. Credevamo che sarebbe tornato con dei rinforzi, e invece ha portato solo due uomini armati. Pèire Rotger de Mirapoix pensa che bisognerebbe riprovarci.» «Chiedere di nuovo aiuto al conte?» «Mirapoix ha convinto Raimon de Perelha che era necessario mantenere viva la speranza tra gli uomini e perciò ha nuovamente chiesto al nostro vescovo, Bertran Martí, di mandare Matèu o un altro dei diaconi a parlare con Raimondo. Vedi bene che mi fido di te, al punto da svelarti i nostri più intimi segreti e l'angoscia della nostra situazione.» «Non vi auguro alcun male.» «Tu sei buono, Julián, solo che adesso ti trovi nel posto sbagliato. Ti è mancata la perspicacia necessaria per renderti conto dell'errore. Credi che diventare un Buon Cristiano sia un salto nel vuoto, ma in realtà lo sei più di quanto tu possa immaginare.» Julián si lamentò con frate Pèire del fatto che non gli fosse rimasto neanche un pizzico delle erbe del medico templare; senza quelle il mal di stomaco era tornato ad affliggerlo, come pure l'insonnia. Il buon frate tentò di convincerlo a sua volta che non poteva mandare nessuno alla commenda, con la strana richiesta di ottenere un po' d'erba per un domenicano. Oltretutto, padre Ferrer non lo avrebbe autorizzato. Per due giorni Julián rimase a letto lamentando un dolore insopportabile all'addome, si lasciò perfino salassare dal medico del siniscalco, ottenendo di aumentare il pallore della sua pelle già bianca. A denti stretti, padre Ferrer cedette alle richieste di frate Pèire e acconsentì a inviare un paggio al castello del Tempio situato ad Agen, la commenda templare di Armand de la Tour e del fratello di Julián. Il paggio fu ricompensato con un sacchetto di monete, con la promessa di riceverne un'altra se, oltre a portare le preziose erbe, avesse avuto notizie di Fernando. «È mio fratello» spiegò Julián. «Porgetegli i miei saluti, se è possibile; se non lo sarà, chiedete al cavalier De la Tour di trasmetterglieli alla prima occasione.»
Il paggio tornò solo un paio di settimane più tardi, ma Julián non ebbe le attese notizie. «Mi spiace di aver fallito nel mio incarico, non sono riuscito a vedere vostro fratello» disse. Julián impallidì temendo il peggio. «Ma non preoccupatevi, i cavalieri mi hanno dato un sacco pieno di quelle erbe che vi danno tanto sollievo.» «E mio fratello? Cosa sapete di lui?» «Poco. Un servitore dei cavalieri mi ha raccontato che alcuni di loro sono stati messi in prigione dopo essere tornati da un viaggio. A quanto pare avevano commesso un atto di disobbedienza. Credo che tra loro ci fosse anche suo fratello. Il servitore mi ha raccontato che le celle del castello non sono degne di accogliere neanche le bestie e che gli uomini perdono il senno all'interno di quei buchi dove non arriva neanche un filo di luce e dove per alimentarsi ricevono mezzo bicchiere d'acqua al giorno e mezza pagnotta di pane.» «Come sapete che mio fratello è tra di loro?» «È stato qui con altri quattro, non troppo tempo fa. I cavalieri castigati facevano parte di quel gruppo, quindi non c'è bisogno di sforzarsi molto per capire dove si trova. Mi avevate promesso una ricompensa se vi avessi dato notizie certe e queste lo sono» gli ricordò avidamente il paggio. Julián gli consegnò il sacchetto. Non sapeva se poteva credere alle sue parole, ma non aveva altra scelta che prenderle per buone. Tremava al pensiero del momento in cui avrebbe trasmesso le novità a donna Maria, ma, soprattutto, tremava al pensiero della sua reazione. 11 Corba de Lantar aiutava donna Maria a vestirsi. La moglie del signore di Montségur non aveva esitato davanti alla richiesta della sua amica. Donna Maria aveva bisogno di abiti da signora. Essendo una Perfetta possedeva soltanto un saio scuro e un mantello nero, ma in quello stato non poteva presentarsi al castello di Agen e affrontare il maestro della commenda dove si trovava Fernando. Raimon de Perelha aveva tentato di far desistere donna Maria dalla sua impresa, ma tutti i suoi argomenti si erano scontrati con la testardaggine della dama. Neanche il tentativo di pèire Rotger de Mirapoix aveva avuto miglior sorte.
«Può darsi che non ci rivedremo più» commentò Corba mentre aiutava l'amica a sistemare la cuffia. «Tornerò e affronterò la stessa sorte di tutti voi che siete qui, prima però devo tentare di salvare mio figlio.» «Lo so, e vi capisco, ma non dovreste sentirvi in colpa per la sorte di Fernando.» «Vedete, Corba, con questo mio figlio non ho mai fatto le cose come avrei dovuto. Ho sempre saputo che il suo ingresso nel Tempio è stato più un atto di ribellione che di vera e propria vocazione. Credo lo abbia fatto per punirmi. Non posso lanciarlo, abbandonarlo al destino di quei monaci soldati che mi sembrano così strani.» «È possibile che il maestro non vi riceva.» «Mi riceverà, non avrà altra scelta.» Donna Maria aveva rifiutato abiti costosi e si era fasciata in un semplice vestito blu scuro accompagnato da un mantello dello stesso colore impreziosito da inserti di pelliccia di coniglio. Si era raccolta i capelli e aveva tentato di dare un po' di colore alle sue guance. Non le fu facile lasciare il castello senza che i crociati la vedessero. Era il mese di febbraio, gli uomini del siniscalco potevano osservare dalle loro postazioni i volti scavati dei difensori. Pèire Rotger de Mirapoix dovette nuovamente cercare la complicità dei soldati crociati della sua regione, ai quali regalò due sacchetti di monete perché tenessero i loro compagni occupati mentre donna Maria scivolava tra le ombre della notte. La dama cavalcò scortata da un paggio fino al castello di Agen. Non volle fare soste. Voleva salvare suo figlio, ma anche tornare quanto prima a Montségur per avere la stessa sorte dei suoi fratelli. Il vescovo Bertran Martí l'aveva benedetta raccomandandola a Dio. Per come si stagliava sulla linea dell'orizzonte, il castello di Agen risultava imponente. Donna Maria indicò al paggio di fermarsi per consentirle di rinfrescarsi, pettinarsi e sistemarsi i vestiti per presentarsi al maestro templare come la dama che era. Il suo arrivo al castello provocò stupore. Si annunciò con alterigia: «Sono donna Maria, signora di Aínsa». Un servitore le chiese di aspettare in una stanza dove c'era soltanto una panca di pietra per sedersi. La dama però era troppo tesa per riposare, per cui continuò a camminare nervosamente avanti e indietro nell'attesa che
apparisse il maestro. Quando il servitore entrò, lesse nel suo volto che era portatore di brutte notizie. «Non vi può ricevere. Mi dispiace, signora.» «Il signor Yves de Avenaret non vuole ricevermi?» «Non può ricevervi, signora.» «Bene, ditegli allora che resterò qui fino a quando non potrà. Nel frattempo portatemi un po' d'acqua e qualcosa da mangiare. Non ho fretta.» Il servitore guardò spaventato la dama. Si sentiva indifeso davanti all'atteggiamento energico di donna Maria. «Ma non potete restare qui! È un castello del Tempio, la presenza delle donne non è prevista.» «Lo so. Infatti il mio desiderio è andarmene quanto prima, ma non lo farò fino a quando il signor De Avenaret non mi avrà ricevuta.» «Signora, non insistete!» supplicò il servitore. «Non insisto infatti. Voglio soltanto che facciate sapere al maestro che lo aspetterò qui, e che non me ne andrò fino a quando non avrò parlato con lui di una cosa che riguarda il Tempio, re Luigi e il papa, oltre a noi due.» Il servitore fu intimorito dai molti personaggi di rilievo citati dalla dama. Tardò un bel po' a tornare e trovò donna Maria come l'aveva lasciata, intenta a misurare la stanza a lunghe falcate. «Il maestro vi riceverà.» Donna Maria non rispose e lo seguì con passo lesto attraverso le gelide stanze del castello, dove incrociò alcuni cavalieri che la osservarono incuriositi con la coda dell'occhio. Yves de Avenaret era un uomo avanti con gli anni. Era estremamente magro e i suoi occhi infossati riflettevano uno spirito ascetico. Se ne stava in piedi, rigido, vicino a una poltrona con lo schienale alto. La stanza era spoglia: c'erano solo la poltrona e un tavolo con diversi rotoli di pergamena ancora da scrivere. Un camino di pietra incassato nel muro riscaldava la stanza. Il templare le piantò addosso i suoi occhi grigi senza che donna Maria abbassasse lo sguardo. Se quell'uomo credeva di poterla intimidire aveva decisamente sbagliato avversario. «Dite ciò che avete da dire, signora» le chiese con voce autoritaria il maestro senza invitarla a sedersi. «Sarò breve; sono gelosa del mio tempo almeno quanto voi lo siete del vostro. Avete incarcerato mio figlio Fernando de Aínsa. Voi sapete che
non ha commesso alcun reato, se non compiere le ultime volontà di sua madre che molto presto sarà mandata al rogo.» Il maestro non poté evitare di sorprendersi ascoltando donna Maria parlare con tanta crudezza del proprio destino. «Snaturato sarebbe il figlio che negasse un favore a sua madre alla vigilia della morte. Mio figlio voleva salvare la vita della più piccola delle sue sorelle e io ho accettato, anche se l'ho obbligato a scortarla insieme a due Perfetti, due diaconi della nostra Chiesa, fino a un luogo sicuro. Sì, ho fatto pressione su di lui: la vita di sua sorella in cambio di garanzie per la fuga di due uomini buoni con i nostri beni più pregiati, che permetteranno di continuare a diffondere la Parola di Dio. Questo è il suo peccato. Voi l'avete castigato con estrema durezza, non avete avuto misericordia di un giovane che non poteva disobbedire a sua madre. So che lo tenete nelle segrete di questo castello insieme ad altri quattro templari che si sono visti coinvolti senza volerlo in questi accadimenti. So che si sono opposti con veemenza, ma che alla fine hanno deciso di non lasciare solo Fernando per evitare lo scandalo che sarebbe esploso se i crociati lo avessero scoperto. Non serve molta immaginazione per capire che se avessero trovato Fernando, il Tempio si sarebbe visto coinvolto nella fuga di due uomini importanti della Chiesa dei Buoni Cristiani. Nessuno avrebbe potuto credere che un templare avesse agito senza il consenso del suo maestro. I suoi compagni hanno solo voluto fare in modo che alla situazione creata non si aggiungessero altre difficoltà, pertanto hanno seguito a una certa distanza Fernando senza intervenire direttamente in ciò che lui faceva, e cioè mettere semplicemente al sicuro sua sorella e i due diaconi. Ora voglio che voi facciate giustizia.» Yves de Avenaret guardava furibondo quella donna intrepida che gli parlava con serenità e alterigia come un capo che in battaglia non ammette replica. Si sentiva irritato con se stesso per averla ricevuta, ma allo stesso tempo, vedendola, si rendeva conto che donna Maria era capace di ottenere qualsiasi cosa si proponesse; per un attimo temette ciò che la dama sarebbe potuta arrivare a fare se non avesse soddisfatto le sue richieste. «Chiedete giustizia, signora? Cosa sapete voi della giustizia? Come vi permettete di presentarvi qui e di minacciarmi?» «Minacciarvi? Io vi avrei minacciato? Ditemi in quale delle mie parole avete trovato un'ombra di minaccia. No, signor De Avenaret, non vi ho minacciato. Non ancora.»
Il templare si mosse nervosamente, desideroso di concludere al più presto la conversazione con quella donna che, lo intuiva, avrebbe potuto creare diversi problemi. «Vostro figlio non ha tenuto fede ai suoi giuramenti. Quando si entra nel Tempio si abbandona la propria famiglia per sempre. Ha disobbedito e ci ha messi in pericolo; deve pagare per questo.» «Strane norme sono quelle di un gruppo di monaci che dicono di servire Dio e chiedono agli uomini di dimenticare le persone che amano, la madre che li ha messi al mondo, i loro fratelli... Come saranno capaci di fare qualcosa per gli altri se voltano le spalle ai propri cari? Non si può comandare la mente degli uomini, cancellarne il passato, per quanto abbiano assunto un nuovo impegno. Mio figlio ha dovuto obbedire, non aveva alternativa, ha agito come un fratello, non come un monaco.» «È strano ascoltare simili parole proprio da voi, un'eretica che ha abbandonato suo marito e i suoi figli.» Donna Maria si sentì toccata nel profondo, ma non arretrò e decise di continuare a lottare. «Non siete voi il mio giudice; neppure il vostro Dio lo sarà, pertanto non perdiamo tempo parlando di me. Vengo a dirvi che se non libererete mio figlio e i suoi compagni, re Luigi e il papa sapranno che alcuni cavalieri templari di questa commenda hanno aiutato due diaconi di Montségur a fuggire con un importante, enorme tesoro. Sapranno anche che, in seguito, avete fatto sparire i suddetti cavalieri affinché nessuno ne conoscesse le gesta. Il Tempio è forse divenuto il guardiano del tesoro dei Buoni Cristiani?» «Come osate dire simili oscenità? Sapete bene che noi non abbiamo nulla a che vedere con tutto questo!» «Si aprirà un processo nel quale dovrete dimostrare la vostra innocenza davanti al Tempio, al papa e al re. Gli uomini non credono mai all'evidenza, per cui nessuno prenderà per buona l'idea che Fernando abbia obbedito alla sua povera madre Perfetta per salvare sua sorella. Non confesso alcun segreto dicendovi che il Tempio ha molti nemici, alcuni decisamente potenti; con questa storia avranno di che divertirsi. E dov'è finito il nostro tesoro? Io potrei giurare che l'avete voi.» «Eretica!» gridò il maestro. «Eretica? Io credevo che l'eretico foste voi. Voglio che mio figlio esca immediatamente da quella cella dove lo tenete rinchiuso, e voglio anche che sia inviato in Terra Santa, lontano da qui, da voi e da me. La stessa co-
sa chiedo per gli altri cavalieri. Giurerete sulla vostra Bibbia che non rivelerete mai quel che è accaduto, né li perseguirete. Se non manterrete la vostra parola, ne renderete conto a Dio, il quale non sarà magnanimo con voi, figlio del Diavolo.» Yves de Avenaret tremava di rabbia. Se donna Maria fosse stata un uomo l'avrebbe trafitto con la sua spada; quella donna era il peggiore dei nemici, dura, implacabile, irriducibile. Se non avesse accettato, il Tempio si sarebbe visto coinvolto in uno scandalo e lui stesso sarebbe finito in cella condannato per tradimento, ma il sangue gli ribolliva al solo pensiero di dover accettare il ricatto di quell'eretica. Donna Maria attese in silenzio. Improvvisamente si sentì estenuata: non sapeva ancora se aveva vinto la partita oppure no, ma di certo avrebbe sepolto quel templare nel fango della storia se non avesse liberato suo figlio. Si sarebbe presentata personalmente alla corte di re Luigi, avrebbe chiesto di vedere il re e avrebbe inviato una missiva al papa. Si sarebbe accusata di essere una Buona Cristiana, un'eretica, come direbbero loro, ma a sua volta avrebbe accusato il Tempio di aver rubato il loro tesoro custodito a Montségur. Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere, oltre a essere condannata immediatamente al rogo, ma almeno avrebbe seminato una tale confusione che il Tempio non sarebbe uscito indenne dall'offensiva. Yves de Avenaret osservò con odio profondo quella donna che aveva provocato l'unica sconfitta della sua vita. «Vostro figlio sarà liberato. Avete la mia parola.» «Dapprima giurerete sulla vostra Bibbia, poi darete disposizioni affinché venga condotto alla mia presenza, darete a lui e ai suoi compagni cibo, acqua, cavalli e salvacondotti; quindi io mi allontanerò con loro da questo castello per sempre. Ah, e siccome non mi fido di voi, dal momento che potreste avere la tentazione di togliermi la vita prima che io sia divorata dalle fiamme, sappiate che altri Buoni Cristiani sono disposti a portare a termine quel che ho annunciato, se dovesse accadere qualcosa a me o a mio figlio.» «Siete un'eretica e come tale non comprendete il valore della parola di un cavaliere.» «Sono Maria de Aínsa, sono sposata con il più buono e valoroso dei cavalieri, e vi assicuro che non somiglia minimamente a voi.» Si misurarono di nuovo incrociando gli sguardi. Quello di Yves de Avenaret, carico d'ira; quello di Maria de Aínsa, pieno di risolutezza. La dama si avvicinò al tavolo e indicò la Bibbia che era già aperta.
«Giurate, signore, giurate!» Yves de Avenaret lo fece. Giurò con rabbia e con fermezza ciò che quella donna gli chiedeva. Giurò su Dio e sul suo onore. Poi uscì dalla stanza lasciando donna Maria ad aspettare impaziente. Tornò dopo un'ora, portando con sé Fernando che si appoggiava a un servitore per reggersi in piedi e si copriva gli occhi per ripararsi dalla luce che inondava la stanza. In trasparenza si vedevano le ossa, aveva i capelli arruffati e i vestiti sudici che lo coprivano emanavano un fetore insopportabile. «Madre, siete qui!» Donna Maria si avvicinò al figlio e non riuscì a trattenere le lacrime nel vederlo in un simile stato. «Così trattate i vostri fratelli!» gridò iraconda a Yves de Avenaret. «Mai come in questo giorno ho visto tanto da vicino il Diavolo.» Fernando si appoggiò al muro sconcertato per la scena e temendo che la madre facesse infuriare il maestro. Ma donna Maria recuperò il controllo e disse al templare con voce glaciale: «Disponete che aiutino mio figlio a ripulirsi, dategli vestiti e cibo. La stessa cosa farete con i suoi compagni. Quando saranno pronti fateli venire in questa stanza, perché da qui partiremo.» Una volta rimasta sola non riuscì più a reggere la stanchezza che la opprimeva e, senza pensarci due volte, si sedette sull'alta sedia del maestro. Senza rendersene conto cadde lentamente in un sonno profondo e non riprese conoscenza fino a quando nella stanza non rimbombarono i passi pesanti di alcuni uomini. Fernando e il resto dei compagni si reggevano ancora ai servitori del Tempio, ma avevano un aspetto più pulito, con i vestiti nuovi e i capelli umidi, appena lavati. Donna Maria ebbe il dubbio che non fossero in condizioni di montare a cavallo, ma era meglio non sfidare ulteriormente la sorte e lasciare il castello il prima possibile. «I cavalli sono pronti. Ci sono anche quattro muli, viveri e armi. I salvacondotti e le lettere di pagamento vi consentiranno di imbarcarvi per la Terra di Nostro Signore.» Donna Maria prese i salvacondotti e li mise da parte. Per un secondo incrociò lo sguardo del maestro e capì che quell'uomo, pur odiandola, avrebbe tenuto fede alla parola data.
Non si dissero altro. Donna Maria fece cenno ai cavalieri di mettersi in marcia. Questi non erano ancora riusciti a dire una parola e dentro di loro si chiedevano cosa stesse accadendo. Erano passati dall'oscurità e dal silenzio alla libertà; erano stati lavati e mandati, come se nulla fosse accaduto, a combattere i saraceni. E tutto ciò sembrava dovuto a quella donna smunta, dagli occhi penetranti e i gesti fermi, che tanto somigliava a Fernando. Lasciarono il castello guidati da due servitori che facevano parte della comitiva, oltre a cinque scudieri che sembravano sorpresi quanto loro dalla repentina missione. Ma nessuno fa domande al maestro, nessuno osa discutere i suoi ordini; semplicemente, si obbedisce. Si erano allontanati un bel po' dal castello quando donna Maria ordinò alla comitiva di fermarsi. Scese da cavallo e chiese ai cavalieri templari di riposare mentre parlava con suo figlio. Questa volta si sarebbero detti addio davvero per sempre. «Fernando, figlio mio, ti prego di perdonarmi per la sofferenza che ti ho causato.» «Non siete colpevole, madre» riuscì a dire il giovane. «Sapevo che sarei stato castigato e ho accettato di infrangere le regole, non mi avete obbligato.» «E invece l'ho fatto! Mi porto sulla coscienza ogni istante della sofferenza tua e dei tuoi compagni. Perdonami. Non potrò morire in pace senza il tuo perdono.» «Madre mia, non ho nulla da perdonarvi. Non so ancora come siete riuscita a tirarci fuori di prigione...» «Ci sono riuscita, e questo basta.» «Il maestro è un uomo duro ma giusto.» «Giusto? È giusto castigare un uomo senza fargli vedere la luce, tenendolo rinchiuso in mezzo agli animali, dargli appena mezza pagnotta di pane per tenerlo in vita? Davvero credi di aver meritato quest'inferno? No. Né tu né i tuoi compagni meritavate quella fine. Sareste morti con ignominia pur essendo innocenti. Il Demonio abita negli uomini che sono capaci di fare quello che hanno fatto a te.» «Madre, Dio mio, non dite questo.» «Temo gli uomini che non hanno dubbi.» «Neanche voi ne avete.» «Cosa pensi di sapere di me, figliolo! A volte è troppo tardi per tornare indietro, quando si è imboccata una strada.»
«Cosa farete, madre?» «Tornerò a Montségur. Tra un po' sarà l'ora di morire.» «Fuggite! Nessuno vi obbliga a tornare. Mio padre vi proteggerà.» «Gli farei solo del male se tornassi. No, non posso fargli questo. Non posso tornare, figlio mio. E non voglio.» «Quanto resisterà Montségur?» «Poco. Matèu è uscito in un paio di occasioni per cercare rinforzi. La prima è tornato con due uomini soltanto; adesso siamo in attesa del suo ritorno, ma non ci facciamo illusioni. Raimondo non verrà, ci abbandonerà al nostro destino; sa che se sfidasse nuovamente il re non sarebbe perdonato, preferisce salvare la propria vita e qualcuna delle sue terre. Diventa sempre più difficile entrare e uscire da Montségur, ciononostante Matèu ci ha mandato a dire che ci sono due signori, Bernat d'Alio e Amaut de So, disposti a pagare un capo di ribaldi aragonesi chiamato Corbario, perché venga con alcuni dei suoi uomini. Poi non abbiamo avuto altre notizie.» «Madre, cercate rifugio tra i Buoni Cristiani che ancora devono esserci in questa terra, ma non tornate al castello, vi prego.» «Figlio, non preoccuparti per me. Io ho già vissuto la mia vita, e l'unica cosa che mi dispiace è non aver saputo darti quello che meriti.» «Mi avete salvato la vita.» «Te lo dovevo.» «Solo per questo?» «E perché ti amo, Fernando, ti amo con tutto il mio cuore anche se non ho mai saputo dirtelo. Sono stata molto dura con coloro che mi stavano intorno, ma soprattutto mi dispiace non aver saputo avvicinarmi a te, figliolo. Di questo risponderò davanti a Dio.» Fernando le prese la mano tra le sue, poi l'abbracciò. Desiderava che in quell'abbraccio prolungato sua madre sentisse quanto lui l'amava. I cavalieri si avvicinarono con passo indeciso a madre e figlio. «Vogliamo ringraziarvi» disse Armand de la Tour, il medico templare. «Sono io che ringrazio voi e vi chiedo perdono per aver messo in pericolo le vostre vite.» «Siete stata molto coraggiosa, signora» affermò Arthur Bonard. «Ho obbedito alla mia coscienza, voglio morire in pace. E adesso andate. Mio figlio vi spiegherà tutto. Il vostro maestro mi ha giurato che non vi farà cercare e che nessuno saprà quel che è successo. Non fatene parola neanche voi. Conviene a tutti tenere segreto l'accaduto.» I cavalieri giurarono che mai sarebbe uscita una parola dalle loro bocche
e tentarono, vanamente, di convincerla a non tornare a Montségur. «Ognuno deve affrontare il proprio destino. Tutti abbiamo scelto il nostro modo di morire, e anch'io ho scelto il mio. Ora andate in pace, e che Dio vi protegga, cavalieri.» Madre e figlio si abbracciarono una volta ancora. Sulle guance di entrambi scorrevano le lacrime, ma nessuno tentava di dominarle. «Ti amo, Fernando. Vivi, vivi da quel cavaliere che sei, come l'ultimo signore di Aínsa.» Poi, senza volgere lo sguardo indietro, montò a cavallo e si diresse al galoppo verso Montségur. 12 Una brezza dolce annunciava la primavera quel 16 marzo del 1244. Julián mormorava un'orazione senza riuscire a evitare di battere i denti. La polvere lungo la strada indicava che da un momento all'altro avrebbero visto sbucare il corteo dei rifugiati di Montségur. I combattimenti delle ultime settimane erano stati intensi e tanto il signore del castello, Raimon de Perelha, quanto il suo comandante, Pèire Rotger de Mirapoix, alla fine avevano concluso che era inutile resistere ulteriormente. Questa volta il conte Raimondo avrebbe mantenuto il suo impegno di vassallaggio nei confronti di re Luigi; oltretutto, la nobiltà del paese non si sentiva capace di andare in soccorso di coloro che lottavano a Montségur: mancavano di un capo e la contea era ormai esausta. Il primo giorno di marzo, Pèire Rotger de Mirapoix era uscito a negoziare con i crociati. Tanta era la gioia del siniscalco Hugues des Arcis che, non si sa se per vera bontà o per il desiderio di farla finita quanto prima con un assedio che durava ormai da nove lunghi mesi, si mostrò magnanimo. Come altri frati domenicani, Julián fu testimone della capitolazione. Hugues des Arcis concesse agli assediati un termine di quindici giorni per abbandonare il castello, chiedendo in cambio alcuni ostaggi, tra cui Jordan, figlio del signore di Montségur, e Arnaut de Mirapoix, parente del comandante della guarnigione, oltre a Raimon Martí, fratello del vescovo dei Buoni Cristiani. Nell'accordo si stabilivano due categorie, quella dei Perfetti e quella di coloro che, pur avendoli aiutati, non avevano professato la fede dei bons homes, della Gleisa de Dio. Per i Buoni Cristiani la condanna era irrevoca-
bile: sarebbero morti sul rogo; ma quelli che avessero abiurato la loro fede avrebbero potuto aver salva la vita. I domenicani erano impazienti di cominciare i loro esaurienti interrogatori, dei quali Julián sarebbe stato notaio. Padre Ferrer, l'implacabile inquisitore, era ansioso di mandare al rogo quei disgraziati. Lui stesso si sarebbe incaricato di redigere gli atti di quanto era accaduto a Montségur. Durante quei pochi, ultimi giorni, donna Maria, come il resto dei Perfetti, consolava la povera gente che li aveva aiutati e aveva condiviso con loro la sofferenza dell'assedio. Molti di coloro che avevano difeso Montségur senza essere Buoni Cristiani decisero di chiedere al vescovo Bertran Martí il consolament per andare incontro alla stessa morte dei Perfetti. Così fecero Corba de Lantar e sua figlia Esclarmonde. A nulla servirono le suppliche del marito, il signore di Montségur. La dama sentì di dover compiere quel sacrificio come ultima testimonianza della sofferenza vissuta, come esempio per le generazioni future. Altri quattro cavalieri si unirono a lei, oltre a un mercante, uno scudiero, un balestriere, sei soldati... Bertran Martí chiedeva ai Perfetti, uno per uno, se desiderassero tirarsi indietro e, in tal modo, salvarsi dal rogo. L'anziano vescovo assicurava loro la sua comprensione, ma neanche uno volle abiurare la propria fede. I Perfetti distribuivano le loro esigue proprietà tra i vicini e gli amici, e approfittavano dell'ultima occasione per scrivere lettere ai loro parenti più prossimi. Le missive di donna Maria avevano due destinatari: la prima era indirizzata a suo marito, don Juan de Aínsa; l'altra a sua figlia Marian, dama alla corte del conte Raimondo. Per un momento pensò di scrivere a Julián, ma respinse la tentazione per timore di comprometterlo. Sapeva che il figlio di suo marito avrebbe tenuto fede alla parola data e avrebbe scritto la cronaca della caduta di Montségur. «Quanto fanatismo!» si lamentava la dama. I Buoni Cristiani non avevano fatto niente di male, se non vivere in povertà e aiutare i loro simili. Avrebbero pagato con il rogo la colpa di non essersi mantenuti dentro la stretta ortodossia della Chiesa, dalla quale non era molto quel che li separava. In lontananza vedeva alzarsi gli stendardi e le croci degli uomini del siniscalco. Donna Maria non riusciva a evitare un gesto di ripugnanza davanti alla visione di quelle tavole di legno a forma di croce che i seguaci di Roma adoravano.
Continuava a pregare Gesù, che aveva predicato il messaggio di Dio sulla terra. Eppure, non credeva fosse morto sulla croce per salvare gli uomini. Gesù non era di carne e ossa, non poteva patire alcun male perché era figlio di Dio. Percepiva come un'aberrazione anche la liturgia nella quale i sacerdoti ingannavano il popolo facendogli credere di trasformare il vino in sangue di Cristo e il pane nella sua carne. Che orrore, divorare Gesù! Si rendevano conto di che cosa tutto ciò implicava? San Giovanni lo aveva chiarito bene nel suo Vangelo: "Il mio regno non è di questo mondo". Oppure: "Non sono del mondo come neanche io sono". L'unico sacramento che permetteva di salvare l'anima era il consolament, il battesimo spirituale. È vero, Giovanni Battista battezzava con l'acqua, ma Gesù imponeva le mani recitando l'unica orazione che era gradita da Dio, il Padre Nostro. In quei giorni donna Maria si compiaceva nel vedere quanti dei suoi vicini avevano deciso di ricevere il consolament. Denunciava l'assurdità di gettare dell'acqua su un bambino e dire che è battezzato. Il battesimo, lo insegna bene il vescovo Bertran Martí, è possibile solo in età adulta: ricevere o meno lo Spirito Santo è una decisione individuale. La dama finì di scrivere, tentando di mettere ordine nei suoi pensieri che aveva lasciato vagare mentre l'enorme pira fatta di tronchi di legno ammucchiati dai crociati continuava a crescere. Non mancava molto prima che lei stessa bruciasse su quel rogo abbandonando il suo involucro, il corpo, e si liberasse per ritrovarsi con Dio. Il pastore la informò che padre Ferrer aspettava con ansia il giorno previsto per vederli ardere nel fuoco, ma prima li avrebbe interrogati lui stesso. Donna Maria sentì una fitta d'inquietudine. Il domenicano catalano era un demonio, un uomo crudele e incapace di provare compassione. Aveva acceso pire in tutto il paese e reso raffinata l'arte dell'interrogatorio, spulciando vecchi archivi per trovare qualche sentenza che potesse servirgli per mandare al rogo chiunque potesse salvarsi per mancanza apparente di prove. Julián lo temeva, ogni volta che parlavano di lui le sue pupille si dilatavano e un sudore freddo cominciava a corrergli giù dalla nuca. Di cosa sarebbe stato capace quell'uomo una volta che anche gli altri fossero scesi da Montségur? Confessò la sua angoscia a Bertran Martí in quegli ultimi momenti. Forse era stata troppo egoista nel pensare solo a vivere la propria fede, lasciando suo marito e i suoi figli abbandonati alla loro sorte.
Il vescovo la consolò, ma non riuscì a cancellare il dolore dalla sua anima. Fernando l'aveva perdonata, ma Juan, suo marito? E sua figlia Marta? E i suoi nipoti? Avrebbero capito la sua decisione di consumarsi sul rogo? Alla fine una Perfetta le si avvicinò per avvisarla che era giunta l'ora di lasciare il castello. Donna Maria cercò il sergente che le aveva promesso di consegnare le sue lettere. Gliele affidò come se si trattasse di un tesoro e lui, commosso, baciò la mano di quella dama che gli aveva infuso tanto coraggio nei momenti più amari dell'assedio. Raimon de Perelha diede l'ordine di iniziare la discesa; nel frattempo, donna Maria cercò con lo sguardo Pèire Rotger de Mirapoix, che stava dando ordini ai soldati per organizzare la resa. Sapeva che il signor De Perelha aveva preteso che il suo comandante si mettesse in salvo, che fuggisse; per questo gli aveva affidato una missione. Sapeva anche che due giorni prima, il vescovo Bertran Martí aveva deciso che due Perfetti avrebbero tentato di portare fuori il resto dell'oro e dell'argento ancora conservato a Montségur. Guidati da un montanaro, Amelh Aicart e Huc Petavi, insieme a Pèire Rotger de Mirapoix, si sarebbero calati dalle pareti di roccia; ma prima avrebbero atteso che la comitiva fosse giunta a destinazione e che fossero calate le ombre della sera. La loro missione consisteva nel raggiungere lo stesso bosco dove i Perfetti che avevano accompagnato Teresa, non molto tempo prima, avevano nascosto il grosso del tesoro. In quell'alba tiepida di primavera tutto invitava a vivere, ma buona parte di coloro che uscivano in corteo da Montségur sapeva di stare assaporando le ultime ore di vita. La tregua era finita. Ai piedi del castello si trovava il siniscalco Hugues des Arcis, accompagnato dal vescovo di Albi e dai domenicani Ferrer e Durand, oltre a Julián e Pèire. Alcune ore prima era stata alzata una palizzata capace di contenere duecento persone. I fasci di legna, resina e paglia attendevano, pronti per ardere. I Perfetti, scalzi, vestiti con abiti di tela spessa, camminavano a testa alta. Erano preceduti dalla povera gente con la quale avevano condiviso tanti mesi di sofferenza a Montségur. Gli inquisitori cercavano di fare in modo che gli eretici abiurassero la loro fede, ma questi parevano non ascoltarli. Padre Ferrer li incalzava affinché si pentissero e baciassero la croce. I Perfetti volgevano la testa altrove, alcuni addirittura sputavano sul pregiato simbolo del cristianesimo cattolico.
Gli occhi dell'inquisitore brillavano di gioia a ogni gesto di rifiuto. «È la miglior prova della malvagità degli eretici» proclamava. «Meritano di finire sul rogo!» Donna Maria cercava lo sguardo di Julián e, sorridendogli, tentava di infondere al frate la forza che in lui mancava. Padre Ferrer si avvicinò con passo premuroso alla dama invitandola a baciare la croce. Donna Maria rifiutò l'oggetto di legno volgendo il capo, ma l'inquisitore si dilettò collocando la croce a pochi centimetri dal suo viso. La signora di Aínsa non voleva sputare; sapeva bene che la croce era solo un pezzo di legno, che in nessun caso conteneva Gesù, ma qualcosa dentro di lei le impediva di sputarci sopra come facevano alcuni dei suoi amici. Julián seguiva angosciato la scena. Provava un desiderio terribile di spingere via padre Ferrer, di strappargli la croce e scaraventarla a terra per non continuare il martirio della sua signora. Ma il solo pensiero lo atterriva. Era sul punto di gridare, ma gli occhi di donna Maria lo invitarono alla calma. La dama, vicino al resto dei Perfetti, oltrepassò la palizzata. Gli eretici cominciarono a pregare guidati dall'anziano vescovo Bertran Martí, mentre i soldati li legavano ai pali che avevano avvolto di resina e paglia. A un cenno dell'inquisitore Ferrer, appiccarono il fuoco. Le fiamme scivolavano tra i piedi dei condannati che continuavano a pregare senza chiedere clemenza. Julián guardava i piedi di donna Maria e il bordo della sua tunica che cominciava a bruciare. Non poté evitare un grido secco e angosciato che, per sua fortuna, nessuno parve udire. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla signora di Aínsa, legata a quel palo, in tutta la sua dignità, coraggiosa sino alla fine. Le sue labbra mormoravano preghiere ma non chiedevano clemenza, mentre Julián sentiva gli occhi della donna piantarsi su di lui e dargli l'ultimo ordine: "Scrivi la tua cronaca, i posteri devono sapere perché siamo morti a Montségur". Il fuoco era così vivo che padre Ferrer e gli altri domenicani dovettero allontanarsi per poter contemplare, a distanza, il macabro spettacolo. La puzza di carne bruciata inondava la montagna e il caldo che irradiava dalle fiamme arroventava l'aria e le pietre. Nuvole nere si addensarono nel cielo che pochi minuti prima splendeva di un azzurro intenso. Gli occhi di padre Ferrer brillavano di entusiasmo. Era il momento culmine della sua carriera; provava un piacere profondo nel veder ardere di
fronte a lui l'ultima enclave di eretici del paese. Sapeva che c'erano ancora dei Perfetti sia nei paesi sia nei boschi, ma li avrebbe cercati fino a ridurli in fumo, come gli abitanti di Montségur. «Julián! Julián! Vi sentite bene?» La voce di frate Pèire lo riportò alla realtà. Julián riprese i sensi trovandosi a terra senza sapere quando fosse venuto meno. Davanti a lui, padre Ferrer lo guardava con disprezzo. «Talmente fragile è la vostra fede che perdete i sensi vedendo ardere gli eretici?» chiese l'inquisitore. «Sono stati il caldo e il forte odore» lo giustificò frate Pèire. «Io stesso ho avuto dei giramenti di testa.» «Cercate di riprendervi, perché dobbiamo cominciare quanto prima ad ascoltare le confessioni di quella gente.» «Oggi stesso?» chiese angosciato Julián. «Sì» rispose senza esitare padre Ferrer. «E sapete che non tollererò alcun cedimento in un notaio dell'Inquisizione.» 13 La notte era fresca, ma l'aria che tirava non bastava a cancellare la puzza di carne bruciata. I crociati sembravano essere caduti in un mutismo strano. Non avevano voglia di parlare tra loro, come se la fine dell'assedio e la resa di Montségur non fossero un sonoro trionfo bensì un velato fallimento. Alcuni uomini non erano riusciti a nascondere le lacrime. I detenuti, che aspettavano di essere interrogati da padre Ferrer, avevano familiari o amici angosciati per la loro sorte. Alcuni si erano avvicinati a frate Pèire per chiedere cosa ne sarebbe stato di coloro che erano prigionieri pur non essendo Perfetti. I due frati assicurarono che la Chiesa avrebbe compiuto il proprio dovere: avrebbe interrogato coloro che avevano vissuto all'interno di Montségur, ma non li avrebbe bruciati; a meno che padre Ferrer non avesse visto in loro anche una minima ombra di eresia. Gli interrogatori durarono diversi giorni e furono esaustivi. Pèire e Julián scrivevano a gran velocità le domande del loro superiore e le risposte titubanti degli accusati. In certe occasioni, padre Ferrer sottoponeva i prigionieri alla prova del fuoco: li metteva davanti a un crocifisso incitandoli a baciarlo e a recitare il Padre Nostro.
Padre Ferrer sapeva bene che nessuno dei bons homes o delle bonus donas sarebbe stato capace di adorare la croce, per cui gli bastava vedere un atteggiamento esitante per accanirsi fino a ottenere una confessione di eresia. Tutte le dichiarazioni dei difensori di Montségur erano trascritte in modo minuzioso dagli scrivani dell'Inquisizione e inviate in un luogo sicuro. Quando la sera Julián tornava alla tenda, continuava a scrivere febbrilmente l'orrore vissuto ogni giorno, la mancanza di misericordia di padre Ferrer. Julián vedeva nel suo superiore una mente malata e contorta, un fanatico che godeva del dolore altrui nel nome di Dio. Una notte il pastore entrò all'improvviso nella sua tenda mentre si apprestava a spegnere la candela per tentare di dormire. «Cosa fate voi qui?» domandò spaventato. «Vengo a ricordarvi la promessa che avete fatto a donna Maria. Avete pronta la cronaca?» «Non ancora. Mi resta ancora molto da raccontare.» «Forse dovreste aggiungere che due Perfetti sono riusciti a salvarsi, che il signor De Mirapoix li ha aiutati e che lui stesso si è salvato.» «Padre Ferrer lo ha fatto cercare dappertutto.» «Ma non lo troverà. Il signor De Perelha ha disposto che Peìre Rotger de Mirapoix viva. Chissà, forse sarà in grado di organizzare una qualche resistenza contro gli invasori.» Julián rimase in silenzio. Ciò che diceva il pastore era solo un sogno, un sogno impossibile; la Chiesa e il re di Francia avevano vinto la partita. Coloro che non lo accettavano avevano futuro solo come proscritti. «Cosa avevano di speciale quei due Perfetti perché venisse ordinata la loro fuga?» «A Montségur erano custoditi oro, argento e pietre preziose donate da cavalieri e dame credenti o che avevano deciso di abbandonare tutto per diventare Perfetti. Con quel tesoro manteniamo la Gleisa de Dio, la casa dove le Perfette accoglievano le vedove e gli orfani, aiutiamo i nostri fratelli bisognosi, a volte compriamo viveri, o addirittura armi per i nostri difensori... Il nostro vescovo non voleva che il tesoro cadesse nelle mani dei nostri carnefici. Confidava nel fatto che altri Perfetti avrebbero continuato a diffondere la parola di Dio, e per quello c'è bisogno di una borsa bella piena. I nostri fratelli hanno nascosto quell'oro in un posto sicuro. Quando arriverà il momento lo utilizzeranno come devono. Vi racconto tutto que-
sto perché così mi ha indicato la signora.» «Le volevate bene?» Il pastore abbassò lo sguardo e con la punta della scarpa grattò il terreno mentre cercava le parole che potessero rendere correttamente la sua devozione per donna Maria. «Si è presa cura di mia moglie durante la sua lunga malattia. Il medico aveva detto che le pustole che aveva erano contagiose, ma donna Maria non si è mai spaventata: la lavava e la puliva, poi spandeva sulle ferite una mistura di argilla ed erbe. Neppure io avevo il coraggio di avvicinarmi a lei, che Dio perdoni la mia vigliaccheria. È stata generosa anche con mia figlia, le ha dato una dote che le ha consentito di fare un buon matrimonio con un palafreniere del conte di Tolosa. E quanto a mio figlio, lo ha mandato a casa di donna Marian, dove suo marito lo ha preso a servizio.» «È stata sempre molto generosa.» «Fino all'ultimo istante. Ha ripartito tutto quello che aveva tra i nostri poveri. A voi... a voi voleva molto bene, parlava sempre di voi come "il buon Julián". Mi ha raccomandato di venire a trovarvi e dirvi tutto questo. Mi ha anche chiesto di pregarvi di essere meticoloso e far arrivare quanto prima la cronaca a donna Marian.» «Non saprei come farlo...» si lamentò Julián. «La porterò io stesso.» «Voi?» «Non resterò qui ancora per molto, giusto il tempo che vi servirà a terminare la vostra cronaca. Vi ho già detto che i miei figli sono sotto la protezione di donna Marian alla corte del conte Raimondo: spero di potermi guadagnare da vivere vicino a loro. Qui... qui non riesco a togliermi di dosso la puzza di carne bruciata, la carne dei Buoni Cristiani.» Stabilirono di rivedersi tre giorni dopo, anche se Julián non gli assicurò che sarebbe riuscito a finire il manoscritto. Non glielo disse ma, pur avendo nascosto molto bene la cronaca, temeva più che mai padre Ferrer. Avendo preso l'abitudine di presentarsi all'improvviso nella sua tenda, avrebbe potuto coglierlo in fallo. Julián avvertiva la diffidenza di padre Ferrer e questi sentiva la paura di Julián. 14 «Frate Julián, frate Julián!» gridò frate Pèire entrando come un fulmine
nella tenda. «Cosa succede, fratello?» chiese Julián che in quel momento si preparava a raggiungere il luogo degli interrogatori. «Padre Ferrer ha ordinato di arrestare il vostro amico, il pastore!» Julián sentì di nuovo la nausea di cui era vittima ogni volta che aveva paura, ma si fece forza e, senza sapere da dove, tirò fuori il coraggio e si avvicinò con passo rapido alla zona dove si trovava padre Ferrer. Il pastore aveva le mani legate dietro la schiena ed era stato frustato a dovere. «Che succede? Cosa ha fatto di male quest'uomo?» Padre Ferrer lo guardò incredulo. Considerava Julián un vigliacco incapace di interessarsi di nessuno se non di se stesso. «Conoscete quest'uomo?» gli chiese diffidente padre Ferrer. «Sì, lo conosco e lo conosce anche il siniscalco. In realtà lo conoscono tutti in questo accampamento, visto che per nove mesi ci ha approvvigionato di latte e formaggi.» «Allora ha ingannato tutti» affermò padre Ferrer. «Ingannato? In cosa?» «È un credente, un eretico.» «Impossibile!» affermò Julián guardando angosciato il capraio. «Una delle contadine lo ha segnalato. Assicura che entrava e usciva da Montségur portando messaggi e che spiava questo accampamento.» «E voi le avete creduto?» «Di quali altre prove avete bisogno per condannarlo al rogo?» «Prove? Sono esattamente le prove che non abbiamo. Una donna lo accusa, e allora? Quali elementi ha portato, oltre alla propria testimonianza?» «Basta e avanza» insistette padre Ferrer. «È una prova inconsistente. Chiunque porrebbe sparlare di un'altra persona per dispetto, per accontentare voi e avere salva la pelle.» «Difendete quest'uomo? Perché?» Il tono di voce alterato di padre Ferrer fece tremare Julián. Nei suoi occhi vedeva il sadico che era in lui. «È molto facile sapere se quest'uomo è un eretico» disse Julián togliendosi dal collo la croce che teneva appesa. Guardò negli occhi il pastore supplicandolo con lo sguardo di fare ciò che stava per chiedergli. Si avvicinò con passo deciso e gli tese la croce. «Baciatela, buon uomo, dissipate i dubbi del mio fratello.» Il pastore esitò solo un istante. Afferrò con forza la croce e, guardando
prima Julián e poi padre Ferrer, la baciò ripetutamente, si fece il segno della croce e cadde in ginocchio stringendola tra le mani, piangendo e mormorando un'orazione. «Avete visto? Quale altra prova volete? Quest'uomo è un buon cristiano» disse sottolineando le ultime parole. Padre Ferrer era rosso d'ira. Desiderava con tutte le sue forze colpire quel frate ficcanaso che fino a quel momento gli era parso un povero incapace. Da dove aveva tirato fuori il coraggio per difendere il pastore? «Lasciatelo andare, è innocente» supplicò Julián. «Nessuno crederà nella giustizia della Chiesa se non siamo capaci di separare il grano dal loglio.» Un gruppo di soldati si era accalcato intorno a loro. Osservavano la scena con ansia, molti di loro stanchi di veder morire familiari e amici per indicazione di quel frate che non conosceva compassione. Padre Ferrer si voltò senza dire una parola. Aveva la furia dipinta sul volto e Julián si domandò cosa sarebbe stato capace di fare. «Sparite» ordinò al pastore. «Immediatamente, senza perdere tempo, non portate niente con voi. Fuori dai piedi!» L'uomo si alzò e, con le lacrime gli occhi, abbandonò l'accampamento volgendosi indietro, temendo che padre Ferrer lo facesse fermare. Julián si sentiva esausto, ma per la prima volta dopo molto tempo, in pace con se stesso. Pensò ad Armand de la Tour, il medico templare la cui unica ricetta per curare i suoi mali era stata quella di agire in accordo con la propria coscienza. «Un giorno...» sussurrò. «Un giorno qualcuno vendicherà il sangue degli innocenti.» Seconda parte 1 Carcassonne, Francia, 5 maggio 1938 «Un giorno qualcuno vendicherà il sangue degli innocenti...» L'ultima frase lo commosse profondamente. L'aveva impressionato il racconto scritto su quel rotolo di pergamena che per più di sette secoli era rimasto nascosto in un castello sperduto nel sud della Francia. Chiuso nel suo ufficio, il proprietario del castello attendeva, impaziente, il suo giudizio esperto. A lui non piaceva il padrone di casa, e ancora meno
gli piacevano il suo avvocato e il grande ascendente che sembrava avere sul conte, ma in fondo non aveva importanza. Lui era lì in qualità di esperto medievalista dell'Università di Parigi, non per intrattenere relazioni sociali. Si sfregò gli occhi e guardò l'orologio. Era stato tutto il pomeriggio immerso nella lettura, e si cominciava a intuire il crepuscolo dietro le finestre che davano su un giardino molto curato. Aveva appena sbocconcellato i sandwich premurosamente allineati su un vassoio d'argento e non aveva toccato il caffè ormai freddo. Pur essendo sicuro che le pergamene fossero autentiche, aveva pensato di chiedere al conte di poterle portare in università: voleva consultare un gruppo di esperti in datazione di manoscritti. Uscì dalla sala in cerca del padrone di casa, ma non aveva ancora fatto tre passi che un domestico gli si avvicinò. «Desidera qualcosa, professore?» «Sì. Potrebbe chiamare il signor conte?» «Sissignore. La sta aspettando nel suo ufficio.» Étienne Marie de la Pallisière, ventiduesimo conte D'Amis, non si fece attendere. Accompagnato dal suo avvocato, il signor Saint-Martin, giunse velocemente, ansioso di ascoltare l'opinione dell'esperto. «Ebbene, professore?» chiese il conte senza ulteriori preamboli. «È un racconto straordinario, scritto da un uomo tormentato, dotato di grande sensibilità. A mio giudizio è autentico, ma vorrei portare le pergamene con me a Parigi e consultarmi con altri colleghi...» «Ci hanno detto che lei è il migliore» disse l'avvocato con tono acido. «Il migliore? La ringrazio, ma ci sono altri colleghi che hanno una reputazione accademica pari alla mia, forse anche superiore.» «Non mi piacciono gli uomini modesti» affermò D'Amis. «Le assicuro che non lo sono, ma non sono neanche un presuntuoso. Mi pare, signore, che in un momento come questo, in cui c'è, oserei dire, una certa morbosità sulla questione dei catari, gli scrupoli non siano mai troppi. Da quando nel secolo scorso quel personaggio chiamato Peyrat, apprendista storico, cominciò a mettere in giro storie inventate sui catari, sono molti i documenti falsi, le interpretazioni erronee e la pseudoletteratura che viene data per buona. Io sono uno storico, e pertanto non posso dare nulla per certo fino a quando non l'ho comprovato scientificamente.» «Sicché il signor Peyrat le pare un impostore!» esclamò infastidito l'avvocato del conte.
«Sì, signor Saint-Martin, quel pastore protestante mi pare un personaggio senza ritegno che ha fatto un danno rilevante alla storia, almeno a questa parte della storia di Francia. Attribuire ai catari elementi esoterici vuol dire ignorare la storia. Questo signor Peyrat pretendeva di vederli come precursori della Riforma.» «E lei non è d'accordo» mormorò il conte. «È una vera sciocchezza» affermò il professore. «Un po' come quel movimento politico che vorrebbe dare impulso a una Francia con diverse identità e diverse lingue. A mio giudizio, questo significherebbe fare un passo indietro nella storia. Non mi pare che si debba sacrificare lo Stato moderno per tornare al Medioevo. Dicano pure quello che vogliono questi quattro disinformati che giocano a fare gli storici e a volte inventano la storia che più gradiscono, ma il XIII secolo non è stato un'Arcadia.» Il conte D'Amis guardò con disprezzo il professore prima di affermare con voce impostata: «Noi apparteniamo a quel movimento politico che aspira a far sì che la Languedoc recuperi la sua storia, la sua lingua e la sua autonomia, che le sono state strappate con la forza delle armi.» Ferdinand Arnaud stava per scoppiare a ridere ma si contenne; aveva già valutato la possibilità che quegli uomini circospetti appartenessero al movimento di "illuminati" che alimentavano quell'invenzione: il Paese Cataro. «Bene, non siamo qui per discutere di politica» affermò l'avvocato «ma per conoscere la sua opinione come esperto, e visto che lei non si considera il migliore...» D'Amis fece cenno a Saint-Martin di non andare avanti. Il professore lo irritava ma glielo avevano raccomandato come la massima autorità in materia di medioevo francese, come l'uomo che meglio conosceva i catari o gli albigesi, e non voleva perderlo per quanto tutto indicasse che i rapporti non sarebbero stati facili. «Lei cosa propone, professore?» «Proporre? A cosa si riferisce?» «Voglio che queste pergamene siano autenticate; lo farà?» «Lo farò se mi permette di portarle con me a Parigi o se lei stesso me le porterà lì. Le ho già detto che credo siano autentiche, ma ho bisogno di esaminarle più a fondo. Quello che non capisco è... insomma... come mai fino a oggi non le ha fatte autenticare?» «Nell'archivio di famiglia ci sono parecchi documenti e pergamene, tutti classificati, ma questo... be', la storia di questa cronaca di frate Julián è
davvero speciale.» Gli occhi di Ferdinand brillarono di curiosità, ma il conte non sembrava disposto a dire neanche una parola in più sull'argomento. «Bene, gliele porterò io stesso. Mi dica a che ora posso consegnarle... diciamo... lunedì prossimo. Questo fine settimana abbiamo ospiti al castello e non potrò muovermi.» «Sarò nel mio ufficio dalle otto in poi, ho lezione alle nove e finisco a mezzogiorno; pertanto, se le va bene, possiamo vederci alle dodici, o nel pomeriggio a partire dalle tre, se preferisce.» «Alle tre va bene.» «Sarò felice di rivederla.» Ferdinand Arnaud si alzò e fece per andarsene. Se si fosse sbrigato avrebbe potuto ancora prendere l'ultimo treno per Parigi. E fu come se il conte gli avesse letto nel pensiero. «Il mio autista l'accompagnerà alla stazione, ma possiamo ancora bere un bicchiere prima che lei se ne vada.» Non gli diede la possibilità di rifiutare. Come se fosse stato in allerta dietro la porta, entrò il servitore con un vassoio sul quale aveva sistemato alcune ciotoline con gli aperitivi e una bottiglia di Chablis freddo. Il conte ne porse un bicchiere a Ferdinand che accettò rassegnato, anche se immediatamente fu felice di averlo fatto: lo Chablis era eccellente, senza dubbio il migliore che avesse mai bevuto in vita sua. «Crede che oggi esistano ancora i catari?» chiese improvvisamente l'avvocato sotto lo sguardo di rimprovero del conte. «No. Come potrebbero esistere? Ci sono solo molti ciarlatani che approfittano dell'ingenuità della gente. Mi dà enormemente fastidio quella moda della teosofia nei salotti di Parigi, e immagino ce ne siano anche qui. Non c'è nulla di esoterico nei catari; anzi, si staranno rivoltando nella tomba per la distorsione che viene fatta del loro pensiero da quei gruppi di occultisti e di esoterici così in voga.» Il conte e il suo avvocato si scambiarono uno sguardo di complicità. Ferdinand Arnaud non aveva peli sulla lingua e sembrava compiaciuto nel provocarli, come se sapesse che appartenevano entrambi a uno dei gruppi che tanto disprezzava. «Cosa pensa di Déodat Roche?» insistette l'avvocato. Il professore scoppiò in una risata fragorosa e spudorata che ai due uomini suonò come un'offesa. «Un mentecatto! E coloro che lo seguono lo sono ancora di più.»
«Immagino che avrà più o meno la stessa opinione dello scrittore Maurice Magret» affermò l'avvocato. «Bisogna riconoscergli un certo talento affabulatorio, ma le sue teorie non sono altro che favole per bambini. Ribadisco, signori, che non c'era nulla di esoterico nel movimento dei catari o Buoni Cristiani, come essi stessi si definivano. Non perdete tempo con le superstizioni, non lasciatevi ingannare.» «Cosa le fa ritenere che noi ci lasciamo ingannare?» chiese il conte D'Amis. «Il vostro interesse nei confronti dei nomi di cui mi avete appena parlato. Déodat Roche è un notaio che non sa nulla del Medioevo. La sua ossessione è costruire il Paese Cataro. Ma non si può manipolare la storia. La storia è quella che è. Quanto a Maurice Magret, vi ho già espresso la mia opinione: come scrittore ha del talento, ma riguardo ai catari le sue sono solo fantasticherie, non è un vero specialista, lascia viaggiare l'immaginazione, per quanto i suoi scritti abbiano successo e un mucchio di seguaci. «Stiamo vivendo un momento difficile, la crisi che sta devastando l'Europa porta molta gente a credere nell'esistenza di un passato in cui le cose erano migliori. È il momento in cui astrologi, spiritisti e imbroglioni sfruttano la paura altrui. La paura che attraversa l'Europa davanti all'incertezza del futuro. C'è gente disposta a credere l'incredibile perché lo trova più consolatorio che affrontare la realtà.» «Quindi lei ritiene che il contesto politico europeo abbia a che vedere con l'interesse di molta gente nei confronti dei catari?» insistette l'avvocato. «Sì, nei momenti di incertezza solitamente prolifera un certo oscurantismo.» «Nel mio caso, signore, devo dirle che l'interesse è una questione di famiglia. Come avrà notato il mio cognome è D'Amis.» «Non è complicato giungere a questa conclusione: dalle pergamene si evince che queste giunsero alla figlia di donna Maria, Marian, sposata al cavaliere Bertran d'Amis, del quale lei deve essere illustre discendente.» «Lo sono» affermò con orgoglio il conte. «Posso insistere nel domandarle perché la sua famiglia non ha reso pubblici questi documenti fino a oggi?» «Non li ho ancora resi pubblici, professore, e non sono neanche sicuro che lo farò. Ma risponderò alla sua domanda: queste pergamene fanno parte della mia eredità. Fino a tre mesi fa, quando è morto mio padre, non e-
rano nelle mie mani.» «Immagino che fosse a conoscenza della loro esistenza...» «Sì, naturalmente. Per secoli la mia famiglia le ha custodite in gran segreto. Il semplice fatto di possederle metteva in pericolo le loro vite innocenti. Fu mio nonno a decidere che fosse arrivato il momento di portarle alla luce. Lui riteneva che bisognasse donarle a qualche università, ma morì prima di farlo. Mio padre non era della stessa opinione e le conservò in attesa di... be', lui aveva i suoi progetti, ma prima voleva far autenticare i documenti.» «Perché? Perché dubitava di un documento di famiglia?» volle sapere Ferdinand. «Mio nonno non provava molto interesse per il passato familiare, e a quanto pare non parlò dei documenti a mio padre fino a poco prima di morire. Ora sono io a prendermi la responsabilità di farne l'uso più giusto.» «E quale sarebbe l'uso più giusto, conte?» incalzò il professor Arnaud con curiosità. Il conte D'Amis non rispose. Guardò l'orologio e di nuovo, come se potesse intuire attraverso le pareti i desideri del suo signore, spuntò il servitore. «È ora di accompagnare il professor Arnaud alla stazione.» «L'auto la sta aspettando davanti alla porta, signore» annunciò il domestico. «Bene, professore, ci vedremo il prossimo lunedì alle tre, nel suo ufficio» disse il conte salutandolo. L'avvocato chinò leggermente il capo in un gesto che al professore parve scimmiottare una riverenza. "Sono dei tipi strani" pensò Ferdinand Arnaud, ma non disse niente. I giornali non avrebbero potuto riportare notizie più allarmanti. Il 1938 volgeva al termine e stava diventando un vero incubo per l'economia europea. Come se non bastasse, in Germania quel pazzo di Hitler infiammava le masse con discorsi che ad Arnaud mettevano i brividi. Il professore, come tanti altri francesi, credeva che Hitler mentisse al presidente Daladier quando gli assicurava di non avere intenzioni belliche né espansionistiche. E i suoi compatrioti s'ingannavano a loro volta credendo di trovarsi al sicuro al di qua della linea Maginot. Si consolava pensando che il tempo avrebbe rimesso le cose al loro posto e i giovani si sarebbero resi conto che la paura del futuro non si può combattere con la repressione, o dando la
colpa agli stranieri. «Hai una brutta cera. E immagino sia il sonno a renderti maleducato. È la seconda volta che mi passi accanto senza salutarmi.» Ferdinand sorrise alla donna che gli stava parlando. Era appena entrato in sala professori senza accorgersi che Martine Dupont stava lì e fumava una sigaretta. Martine, anche lei professoressa di Storia Medievale, era una docente rigorosa e competente il cui unico problema era la bellezza, anche adesso che aveva superano i quaranta. Essere bella le aveva causato più di un problema. Aveva dovuto studiare più di tutti gli altri per dimostrare fino alla nausea che in lei il cervello era più importante del fisico. E aveva dovuto tenere al loro posto alcuni colleghi, mettendo bene in chiaro che lei non era una preda facile, anzi. Aveva fatto della sua solitudine un segno di identità; non le importava di nulla tranne che della carriera, alla quale dedicava tutta se stessa. Martine stimava particolarmente Ferdinand perché questi non aveva mai manifestato il minimo interesse nei suoi confronti, il che le dava un gran sollievo. «Scusami, hai ragione, ho sonno. Sono arrivato a casa tardissimo e gli anni pesano; da quando ho compiuto i cinquanta non sono più lo stesso. Mia moglie e mio figlio mi dicono che sono diventato un musone, ma la cosa peggiore è che se non dormo otto ore, non sono più io.» Martine sorrise comprensiva. «Non puoi immaginare dove sono stato» continuò Ferdinand. «Trattandosi si te, è impossibile indovinare.» «Una settimana fa mi ha chiamato un collega dell'Università di Tolosa, chiedendomi di andare in un castello vicino a Carcassonne per esaminare alcune pergamene di un suo amico. Me lo ha chiesto come favore personale, non ho potuto dire di no. E sono veramente felice di averlo fatto.» «Hai trovato un tesoro?» «Sì, credo di sì. Un documento meraviglioso: nientemeno che una cronaca scritta da un notaio dell'Inquisizione che faceva la spia per i catari.» Martine aggrottò le sopracciglia. Anche lei, come Ferdinand, non sopportava che tutto ciò che riguardava i catari stesse assumendo una patina di esoterismo e irrealtà. «È una storia bella, te lo assicuro. Una dama catara che chiede al figlio illegittimo di suo marito, un domenicano, di scrivere la storia della persecuzione di cui furono oggetto i bons homes, a beneficio dei posteri.»
«Ma che razza di stranezza mi stai raccontando!» protestò Martine. «Te la farò leggere. Detto così sembra un racconto di fantasia, ma non lo è. Voglio che tu dia uno sguardo a quelle pergamene e che mi dia un'opinione.» «Dove sono le pergamene?» «Il conte le porterà lunedì.» «Quindi stai trattando con un conte...» rise Martine. «Sì, il proprietario di quel tesoro è un conte. Un conte molto, molto strano; almeno quanto il suo avvocato. Io direi che sono due... be', insomma, mi hanno chiesto cosa pensavo di Roche e Magret...» «Dio mio, che orrore! Quei due sono spazzatura. Sei proprio sicuro che le pergamene siano autentiche?» «Lo sono, le vedrai. Dovrò convincerli a lasciarmele pubblicare, e non sarà facile.» «Perché?» «Se lunedì ci sei, ti presento il conte e capirai perché.» 2 Ferdinand Arnaud passò il fine settimana a cercare nei suoi libri qualcosa che potesse dargli una pista riguardo allo straordinario documento del conte D'Amis. Non trovò nulla, se non ciò che già sapeva: gli atti degli interrogatori della povera gente di Montségur si dovevano allo zelo di padre Ferrer. Ferdinand ne sapeva qualcosa in più: uno dei notai, uno degli scrivani, era stato un frate tormentato che ripartiva la sua fedeltà tra il Dio cattolico e il Dio dei catari. Non faceva fatica a immaginare frate Julián. Lo supponeva intelligente, visto che era riuscito a sopravvivere navigando tra due sponde pericolose, ed era convinto che in lui ci fosse qualcosa del cavaliere che non era potuto diventare per ragioni di nascita. Ma se frate Julián gli pareva un personaggio appassionante, pieno di contraddizioni e sfumature, donna Maria aveva tutta l'aria di una donna splendida. Dura, incorruttibile, battagliera. Ferdinand pensò che gli sarebbe piaciuto conoscere entrambi. Ciò che invece non aveva ben chiaro era cosa volesse fare il conte delle pergamene, anche se intuiva che potesse avere a che fare con qualcuna di quelle società segrete che invocavano il risorgere di un paese cataro inesistente.
Il lunedì alle tre in punto un usciere gli annunciò la visita del conte D'Amis. Aveva chiesto a Martine di fermarsi in ufficio con lui qualche minuto per presentarle il conte. La sua prima sorpresa fu vederlo arrivare con il suo avvocato, il signor Saint-Martin. I due uomini salutarono seccamente Martine e questa, a disagio, abbandonò immediatamente l'ufficio. «La professoressa Dupont è una delle migliori medievaliste di Francia» disse secco Ferdinand. «Se avessimo voluto avere a che fare con lei non saremmo qui» rispose in tono acido l'avvocato. Ferdinand li invitò a sedersi e spiegò loro i procedimenti che avrebbe seguito per autenticare le pergamene; quindi li informò che nel rettorato avrebbero ottenuto una ricevuta in cui l'università dichiarava di aver ricevuto le pergamene e assicurava l'assoluta riservatezza del loro trattamento nonché la loro perfetta conservazione. Saint-Martin studiò i termini dell'accordo prima di indicare a D'Amis che era tutto in ordine. «Adesso, signor conte, vorrei sapere cosa ha intenzione di fare con queste pergamene. Sono un gioiello e meritano di essere divulgate. È il miglior racconto di quello che è accaduto a Montségur. In diversi archivi esistono testimonianze raccolte dall'Inquisizione, ma il racconto di un avvenimento vissuto a cavallo tra entrambe le parti ha un valore straordinario. Non le nascondo che mi piacerebbe pubblicare un lavoro su queste pergamene. L'università si farebbe carico delle spese. Se lei accettasse, però, dovrei chiederle di lasciarmi consultare altri documenti di famiglia...» I due uomini si guardarono. Poi, come se avessero già provato quella scena, il conte prese la parola. «Mio caro professore, andiamo per gradi. Per me la cosa più urgente è che lei mi assicuri la loro autenticità; successivamente parleremo di quel che se ne potrà fare in futuro.» Ferdinand non insistette. Si rendeva conto che i due uomini avevano un piano dal quale non pensavano di discostarsi neanche di un millimetro. Avrebbe dovuto aspettare un'occasione migliore. «D'accordo. Faremo come dite voi. Ne parleremo più avanti.» «Quando mi darà una risposta?» chiese il conte. «Mi chiami fra tre o quattro giorni.» «Non potrebbe essere più preciso?» volle sapere l'avvocato. «Le assicuro che il mio interesse verso queste pergamene è massimo, ma
le autentiche hanno bisogno di un procedimento che non posso, non voglio e non devo trascurare.» «Per la Chiesa sarà un colpo fatale» sentenziò D'Amis. «Per la Chiesa? E perché mai? Questi documenti hanno un valore storico, ma non cambiano i fatti.» «Ma uno dei suoi uomini si è macchiato di tradimento» insistette il conte. «Uno dei suoi che si è visto coinvolto in un conflitto tremendamente umano, nient'altro; neanche questo cambia la storia. Le assicuro che alla Chiesa questi documenti non faranno alcun danno.» «Lei è cattolico?» gli chiese direttamente Saint-Martin. «Questa è una domanda personale alla quale non ho motivo di rispondere, signore. Le dico, però, che io sono uno storico e che se ho conquistato il rispetto dei miei colleghi è anche perché nel mio lavoro non interferiscono mai le mie convinzioni personali, quali che siano. Io faccio ricerche che riguardano il passato, non lo riscrivo in base a ciò che penso. Ma voglio dirle un'altra cosa: se lei ha qualche conflitto con la Chiesa, si cerchi un'altra arma. Queste pergamene la lasceranno indifferente. Hanno un valore storico, ripeto, non politico. Non cambiano la storia di una virgola.» «Aspetteremo la sua chiamata» disse D'Amis alzandosi. Ferdinand accompagnò il conte e il suo avvocato a sbrigare le pratiche per cedere la custodia temporanea dei documenti. Poi prese commiato da loro sulla porta dell'università. Quando rimase solo, Ferdinand pensò che quei tipi erano davvero strani. La loro pretesa di causare un conflitto con la Chiesa attraverso quelle pergamene era così ingenua da sfiorare la stupidità. Andò a cercare Martine in sala professori, e gli fu sufficiente entrare per avvertire una certa tensione. Martine stava discutendo in modo acceso con altri due professori. «È scoppiata la guerra?» chiese Ferdinand nel tentativo di stemperare la tensione. «Non fare lo spiritoso, con questa situazione è meglio non scherzare affatto» rispose il professor Cernay, un cinquantenne come Ferdinand. «Si può sapere cosa succede?» «Mi rifiuto di pensare che quel pazzo di Hitler possa contagiare la Francia con le sue idee xenofobe» rispose Martine. «E io le dico di non essere ingenua» aggiunse il professor Cernay. «Martine insiste nel voler idealizzare i valori repubblicani. Le risulta
impossibile ammettere che la stessa nazione che ha fatto la Rivoluzione sia capace di lasciarsi trasportare dai più bassi istinti, come se la Rivoluzione non avesse liberato anche gli istinti più bassi» si inserì il professor Jean Thierry. «È la distanza che abbellisce la storia e la ripulisce dall'orrore del momento, dalla miseria della quotidianità» insistette Cernay. «Oggi ho espulso dalla classe uno studente» spiegò Martine. «Siamo arrivati a un punto del programma che solitamente interessa molto gli alunni, lo sapete, il XIII secolo e la situazione in Languedoc, gli eretici... Insomma, dopo la spiegazione ho aperto un dibattito per stimolare gli studenti a esporre i loro dubbi e le loro domande, e un imbecille se ne esce dicendo che siamo alla vigilia di un'epoca nuova nella quale l'Occitania recupererà l'indipendenza perduta. Poi si è messo a parlare di un "uomo nuovo" che affiorerà nella società ideale, un "uomo puro", di "razza pura", e partendo da lì si è messo a divagare sui mali che affliggono l'Europa attuale, indicando gli ebrei come il cancro che divora i nostri paesi e che bisogna estirpare.» «Hai fatto bene a espellerlo dalla classe» affermò Ferdinand. «Sì, ed è proprio di questo che stavamo discutendo. Io resto dell'idea che si tratta di un idiota solitario, qualcuno che legge pseudoletteratura da quattro soldi sui catari. Un anno fa è stato pubblicato in Germania La corte di Lucifero: un viaggio tra i buoni spiriti d'Europa, che ha avuto un certo successo nel continente. È di un tale Otto Rahn, autore di Crociata contro il Graal: la tragedia del catarismo, un libro deprecabile, nel quale si inventa una razza nuova. I catari sarebbero esseri superiori, pagani, un gruppo di esoterici che custodiscono il Graal.» «Conosco quei libri, e hai perfettamente ragione nel definirli pseudoletteratura» confermò Ferdinand. «La nostra collega non vuole riconoscere che le idee esoteriche sono pericolose» s'intromise il professor Cernay. «Non danno luogo soltanto a pseudoletteratura. C'è chi sa manipolare quelle idee con tanta abilità da renderle possibili agganci per teorie razziste. Lo studente del quale ci ha parlato ne costituisce un chiaro esempio e, disgraziatamente, non un esempio isolato.» «Io ho parecchi alunni razzisti» notò il professor Thierry. «Nella mia classe ci sono già stati diversi scontri dialettici e alcune situazioni quasi violente. Tra i miei alunni ci sono ebrei che non sono affatto disposti a essere trattati come una razza inferiore e, ovviamente, si difendono dagli at-
tacchi, fino a ora verbali, di alcuni dei loro compagni.» «Dio mio, è incredibile che ci sia tanta gente senza cervello proprio qui, all'interno dell'università!» si lamentò Cernay. «Io propongo di convocare una riunione del corpo accademico per discutere di questo argomento» continuò Thierry «ma Martine crede che stiamo creando un caso per il comportamento di quattro o cinque idioti. Dice che se trattiamo la questione con questa solennità, altri alunni seguiranno quegli idioti per il semplice gusto di andare contro gli adulti.» Ferdinand si accese una sigaretta e restò pensieroso. Non aveva una risposta per il problema di cui si stavano occupando i suoi colleghi. Da una parte credeva che fosse meglio mettere fine quanto prima a quei comportamenti xenofobi che cominciavano a manifestarsi nell'università, ma dall'altra... probabilmente Martine aveva ragione, l'unica cosa che avrebbero ottenuto sarebbe stata che quei ragazzi, per spirito di ribellione, facessero diventare una moda quella che per adesso sembrava solo un'ideologia circoscritta e per nulla pericolosa. Esitò qualche secondo, anche se alla fine la sua mente logica ebbe il sopravvento. «Martine, credo che i nostri colleghi abbiano ragione. Dovremmo fare qualcosa; questa università non può restare paralizzata davanti al pericolo della xenofobia. Dobbiamo agire con intelligenza, tagliando alla radice qualunque manifestazione ripugnante come hai fatto tu oggi.» «Il guaio è che ci sono un paio di nostri colleghi che vedono con una certa simpatia alcune di queste idee...» protestò Martine. «Ma non sono medievalisti...» rise Ferdinand. «Pertanto potremmo organizzare qualche lezione gratuita per i nostri colleghi, in cui spiegare loro come si viveva nel Medioevo.» La discussione durò un bel po'. A loro si unirono altri professori, i quali si trovarono d'accordo sulla diagnosi che all'interno dell'università stessero cominciando a manifestarsi apertamente alcuni estremismi che parlavano di costruire una grande Europa con una razza superiore, esattamente come proponeva Hitler in Germania. Eppure, alla fine giunsero alla conclusione che in Francia, tranne che in pochi gruppi minoritari, queste idee pericolose non avrebbero avuto alcuna eco. La relazione del gruppo di esperti dell'università fu definitiva. Le pergamene erano autentiche, risalivano alla metà del XIII secolo. Per Ferdinand Arnaud non fu affatto una sorpresa, ma si sentì comunque soddisfatto. La storia di quel frate Julián lo aveva commosso più di quanto gli sa-
rebbe piaciuto ammettere ed era ansioso di poter scrivere un saggio accademico, una volta che avesse avuto tutti i documenti. Quello stravagante conte e il suo avvocato sembravano impegnati a dare alla cronaca un altro valore, diverso da quello storico. D'Amis gli aveva chiesto di recarsi al castello per stabilire il futuro delle pergamene. Ferdinand aveva poche speranze di convincerlo ad accettare che lui lavorasse alla cronaca di frate Julián, ma valeva la pena provare. «Posso venire con te?» gli chiese suo figlio David, un giovane di diciassette anni, un bravo studente e una persona tranquilla, come sua madre. «Mi piacerebbe, ma non so come la prenderebbe il conte; è un tipo molto strano» si scusò Ferdinand. «Stai così poco con tuo figlio» protestò Miriam, sua moglie. «Io ormai mi sono abituata a vederti entrare e uscire, ma David sente la tua mancanza.» Ferdinand sapeva che sua moglie aveva ragione, ma temeva di rendere i rapporti con il conte ancora più difficili presentandosi con David al castello. All'improvviso, guardandola, gli tornò in mente la conversazione avuta due giorni prima con i suoi colleghi circa la presa che la politica antisemita tedesca stava avendo in alcuni settori della società francese e si sentì mancare il fiato. Miriam era ebrea. Così come lui era un cattolico agnostico, lei era un'ebrea agnostica. Nessuno dei due era praticante, lei non frequentava la sinagoga e lui non andava in chiesa. Non avevano un atteggiamento belligerante contro la religione, ma neppure la rendevano parte della loro vita né di quella di loro figlio. Quando David nacque, i genitori di Miriam chiesero apertamente che fosse circonciso ed entrasse così nel mondo ebraico. Ferdinand accettò; i suoi genitori, agnostici come lui, dissero che per loro non faceva differenza. "Non si può imporre una religione" aveva detto suo padre. "Quando sarà adulto, David deciderà in cosa credere, se vorrà credere in qualcosa." I suoi genitori ritenevano che la religione, oltre a dividere gli uomini, fosse fonte di superstizione. Pertanto David formalmente era ebreo; anche se per la comunità ebraica lo sarebbe stato in ogni caso, visto che secondo la tradizione la condizione di ebreo la trasmette la madre. I nonni materni si erano incaricati di far compiere a David alcuni dei riti religiosi, ma lo avevano fatto con delicatezza, senza essere troppo esigenti. Così, a tredici anni aveva fatto il Bar Mitzvah, la cerimonia ebraica che sancisce l'ingresso nel mondo degli adulti. David non pareva rifiutare quella visita periodica alla sinagoga perché
amava compiacere i nonni materni, che lo adoravano. Miriam era la loro unica figlia e David il loro unico nipote. Miriam era turbata da diversi interrogativi: essere ebrei avrebbe potuto diventare un problema come in Germania? E lei avrebbe subito un qualche tipo di discriminazione per la sua appartenenza a un popolo la cui religione le risultava indifferente? Ferdinand, immerso nei suoi pensieri, non la stava ascoltando, ma all'improvviso si sorprese delle sue ultime parole. «... e allora David gli ha dato un cazzotto.» «Come dici?» «Ma non mi stavi ascoltando? Ti sto dicendo che tuo figlio è stato insultato e lo hanno chiamato "ebreo di merda", che ha sopportato per un po' ma alla fine si è girato e gli ha dato un cazzotto.» «A chi?» chiese con voce alterata, cercando lo sguardo di David che in quel momento lo osservava carico di aspettativa. «Ferdinand, il tuo problema è che non mi ascolti! Per questo non capisci quello che ti sto raccontando!» Ferdinand chinò il capo in cenno di assenso. Era vero, non le aveva prestato attenzione. Miriam era irritata e preoccupata più di quanto lui fosse stato capace di percepire. «Ricomincia daccapo, per favore. Ti ascolto.» «Non ti avevamo detto niente per non farti preoccupare, ma da un po' di tempo il figlio del signor Dubois, il macellaio, ha preso di mira David, lo chiama "cane ebreo" e si lamenta perché in Francia non c'è uno come Hitler. Finora David ha evitato lo scontro con lui, ma ieri il ragazzo lo stava aspettando sulla porta del liceo insieme ai suoi amici. Hanno cominciato a mettergli le mani addosso, e la cosa peggiore è che nessuno si è fatto avanti per aiutarlo, perfino i suoi amici sono spariti lasciandolo solo. Nostro figlio non è riuscito a sopportare l'umiliazione e ha tirato un pugno a quel mascalzone di Dubois; suo padre si è presentato qui, di buon'ora, per parlare con te.» Ferdinand guardò con orrore Miriam e David. Come era possibile che fosse accaduta una cosa del genere e lui non se ne fosse accorto? Cosa stava succedendo? Avevano ragione i suoi colleghi e lui, come Martine, non voleva vedere la gravità di quel che stava accadendo? Si avvicinò a suo figlio e lo abbracciò tentando di trasmettergli la sua protezione e il suo appoggio, ma David si fece ancora più teso. Non rifiutò l'abbraccio, ma si capiva che non era a suo agio.
«Mi dispiace, figliolo. Parlerò con il padre di quell'energumeno e ti prometto che non si ripeterà più.» «Ne sei proprio sicuro?» domandò David in tono di sfida. «E chi ti dice che suo padre ti starà ad ascoltare? Probabilmente non sai nemmeno cosa pensa di noi il signor Dubois. L'altro giorno ho accompagnato mamma a fare la spesa e quando siamo usciti dalla macelleria abbiamo sentito che diceva: "Non voglio quegli ebrei neanche come carne macinata".» Ferdinand ebbe un sussulto come se lo avessero colpito allo stomaco. Miriam lo guardava preoccupata. La sapeva una donna coraggiosa, incapace di arrendersi davanti a un commento grossolano o razzista, ma suo figlio... David avrebbe avuto la stessa forza di sua madre, o magari quella che lui stesso aveva? Il ragazzo era ferito nel profondo e lui non si era accorto di ciò che stava succedendo, neanche dentro casa sua. «Sarò io a chiedere spiegazioni al padre di quell'energumeno. Lo denuncerò se sarà necessario.» David si lasciò andare a una risata amara che sconcertò i suoi genitori. «Vuoi denunciarlo? A chi? Ma davvero non ti accorgi di quello che sta succedendo? Eppure a te... a te piace la politica.» «Sì, è così, ma non milito in nessun partito, non ho un buon rapporto con la disciplina» tentò di giustificarsi tra il serio e il faceto. «Ma i giornali li leggi, o non fai neanche quello?» il tono di David era da inquisitore. «Ferdinand, sono preoccupata» intervenne Miriam. «Due giorni fa è arrivata mia madre piangendo. Ha ricevuto una lettera da zia Sara, gliel'hanno portata degli amici fuggiti dalla Germania. Hanno assalito la loro fabbrica, e anche la libreria dei miei zii è stata distrutta alcune settimane fa. Un gruppo di camicie brune si è presentato di notte, ha divelto gli scaffali, hanno buttato i libri per strada e ne hanno fatto un falò. I miei zii sono stati picchiati. Lo zio Yitzhak ha un braccio rotto e riesce a stento a muovere il collo, mia zia è piena di lividi per i calci che ha ricevuto. Sono terrorizzati, non sanno cosa fare. Mio padre vuole che si trasferiscano qui immediatamente, ma loro non se la sentono, tutta la loro vita è in Germania, la zia è francese ma lo zio Yitzhak è tedesco, più tedesco di chiunque altro, e non riesce a concepire quello che sta accadendo.» Quelle parole gli gelarono l'anima. Sara, la dolce Sara, sorella del padre di Miriam, una donna allegra, sempre disposta ad aiutare il prossimo! Era bibliotecaria, proprio come il padre di Miriam. Aveva conosciuto Yitzhak durante un viaggio in Germania. Era entrata nella sua libreria, avevano
cominciato a chiacchierare e si era fermata per sempre a Berlino. Si era adattata bene alla sua nuova patria, e adesso quegli scellerati la picchiavano; ma perché? Il solo pensiero lo fece inorridire. «Devono venire quanto prima» disse con preoccupazione Ferdinand. «Li aiuteremo in tutti i modi. Di' pure che possono contare su di noi.» «Lo sanno già, ma sarò io ad andare in Germania.» «Tu? Sei impazzita? Perché ci vai?» «Voglio vedere cosa sta succedendo, aiutarli a prendere una decisione. Sono terrorizzati, non sono in grado neanche di pensare cos'è meglio per loro. Temono di veder sfumare tutta la loro vita. Hanno già perso la libreria e adesso hanno paura di perdere anche la casa. Ferdinand, è da molto tempo che i miei zii non possono uscire di casa senza portare cucita sul cappotto una stella di David che li indica come ebrei.» «Un'usanza medievale...» iniziò Ferdinand. «Sì, un'usanza medievale che non è mai stata abbandonata» affermò Miriam con tristezza. «Gli ebrei sono i colpevoli, sono "l'altro", qualcuno a cui poter rimproverare tutto ciò che va male. Abbiamo anche ucciso Cristo. L'abbiamo inchiodato sulla croce e...» «Taci, perdio! Che diavolo dici? Proprio tu!» «Sai una cosa, Ferdinand? Comincio a sentirmi ebrea.» L'affermazione di Miriam lo spiazzò. All'improvviso sua moglie lo guardava con un lampo d'ira come se lui avesse qualcosa a che fare con quello che stava accadendo in Germania o con i simpatizzanti di Hitler in Francia. Non seppe cosa rispondere, si sentiva oppresso da ciò che lei gli aveva raccontato. Sapeva benissimo quel che stava succedendo in Germania, lo avevano informato alcuni colleghi che erano stati lì di recente; un anno prima avevano addirittura organizzato una colletta all'interno dell'università per aiutare un paio di professori ebrei che si erano visti costretti a scappare da quel clima di orrore e di odio. Sì, non poteva dire che il racconto di Miriam fosse una novità per lui. Per quanto il governo del Fronte Popolare avesse insistito nel dire che una cosa del genere a loro, ai francesi, non poteva capitare. D'altro canto, così come suo padre gli aveva annunciato che in Spagna la Repubblica avrebbe perso la guerra, poteva capitare che il nazismo vincesse la battaglia in Francia. Suo padre diceva che lui era un catalano di Perpignan. Avevano parenti dall'altro lato della frontiera, in Spagna, repubblicani e socialisti come suo padre, e le notizie che inviavano erano sempre più allarmanti: zii morti al
fronte, cugini spariti nel fragore di qualche battaglia... Il fascismo sembrava destinato a imporsi dappertutto. Il mondo che conosceva gli stava crollando intorno mentre lui continuava a spiegare ai giovani la chiave per comprendere il Medioevo. Sapeva che le Leghe Fasciste francesi operavano in clandestinità, ma negli ultimi tempi non avevano più paura di mettere fuori la testa. Forse il signor Dubois e suo figlio appartenevano a qualcuna di quelle Leghe. Decise di accettare la richiesta di David e portarlo al castello del conte D'Amis. Non sapeva come l'avrebbe presa il conte, ma non gli importava. David gli chiedeva certezze, ne aveva bisogno, voleva sentirsi protetto da suo padre. Avrebbe continuato la discussione con Miriam al suo ritorno. L'idea di sua moglie di andare in Germania era una follia che non era disposto a permettere. 3 Durante il viaggio verso Carcassonne, Ferdinand raccontò al figlio la discussione avuta telefonicamente con il signor Dubois. Era risultato un fascista in piena regola, che lo aveva qualificato come poco patriottico per aver mischiato il suo sangue francese con il sangue impuro degli ebrei. Ferdinand aveva replicato con una sonora risata, dicendo che lo trovava davvero comico, ma questo non aveva fatto altro che accrescere ancora di più l'ira del macellaio. Riagganciando il telefono, però, gli era rimasto un retrogusto amaro in bocca. Sentiva un disprezzo infinito per Dubois, ma allo stesso tempo temeva che potesse essere pericoloso. Quando arrivarono alla stazione, l'auto del conte li aspettava per condurli al castello. D'Amis aveva insistito per invitare il professore a cena, così avrebbe conosciuto alcuni nobili tedeschi esperti in letteratura medievale. Il maggiordomo attendeva sulla porta del castello. Non fece una piega quando Ferdinand gli spiegò che era venuto in compagnia del figlio. «Mi spiace non aver potuto avvertire il conte, in ogni caso non credo che potremo fermarci molto.» Li accompagnò nel salone dove Ferdinand era stato il primo giorno in cui aveva visitato il castello per valutare la cronaca di frate Julián. Il conte non tardò molto a farsi vivo insieme a un bambino sui dieci anni e al suo inseparabile avvocato, Pierre de Saint-Martin. «Professore, mi hanno informato che è accompagnato da suo figlio. Per-
bacco, vedo che è già un ometto! In ogni caso, mio figlio Raymond gli mostrerà il castello. Naturalmente sarete miei ospiti questa notte, immagino che avrete portato con voi il necessario.» «Non vorrei disturbare, si è trattato di un imprevisto...» «Nessun disturbo. Manderò a prendere le vostre cose in macchina e più tardi vi mostreranno le vostre stanze. Ora, professore, ardo dal desiderio di commentare i risultati della sua ricerca.» Ferdinand guardò David allontanarsi al seguito del piccolo Raymond, un bambino biondo con immensi occhi verdi uguali a quelli del conte, e senza sapere perché sentì un'ondata d'inquietudine. Lo aveva sorpreso la freddezza del bambino, sembrava un militare in miniatura, la caricatura di qualcuno più grande di lui. «Allora, professore, ci racconti tutto!» gli intimò il conte. Fino a quel momento l'avvocato non aveva aperto bocca, si era limitato a salutare con un lieve cenno della testa. Per quasi un'ora Ferdinand parlò in modo esaustivo delle pergamene, del risultato delle prove di laboratorio, dell'opinione dei suoi colleghi e, soprattutto, dell'opportunità di rendere pubblico quel gioiello medievale, insistendo sulla possibilità di fare un lavoro completo, se gli avesse lasciato esaminare gli altri documenti di famiglia. «Questa cronaca di frate Julián può avere qualche relazione con altri scritti o documenti del suo archivio familiare. Varrebbe la pena provarci» concluse. Il conte ascoltava ansioso mentre il suo avvocato seguiva il discorso senza muovere un muscolo, come se niente di quel che diceva Ferdinand fosse di un qualche interesse per lui; in qualche occasione arrivò addirittura al punto di sbadigliare. «Bene, ora che ci ha confermato l'autenticità delle pergamene, penserò alla sua richiesta, professore, ma non mi chieda di darle una risposta immediata. Per lei questa cronaca ha solo un valore storico, per me... per me e la mia famiglia è qualcosa di più.» Ferdinand aveva tentato di vedere in D'Amis il discendente di quella donna Maria energica e piena di buon senso e di quel don Juan de Aínsa che, da buon cavaliere, era rimasto nella sua casa avita senza dire né chiedere nulla. Lo paragonò anche a quell'appassionato cavaliere templare, Fernando, o allo stesso frate Julián. Ma alla fine quei personaggi gli parevano molto più umani di quel conte borioso che non aveva nulla del vero nobile.
«La proposta dell'università è generosa» insistette Ferdinand. «Lo so, lo so, ma ne parleremo più tardi. Ora, se vuole scusarmi, devo occuparmi degli altri invitati. La cena sarà servita alle sette; riposi pure fino a quell'ora. Credo che suo figlio sia nelle stalle. Il mio ragazzo va matto per i cavalli e non resiste alla tentazione di condurre lì tutti i nostri ospiti: abbiamo alcuni esemplari davvero importanti.» «Ti stai annoiando molto?» chiese Ferdinand a David mentre gli faceva il nodo alla cravatta per scendere a cena. «Che razza di gente! Sono tutti così formali; anche il bambino, Raymond, dovresti vederlo, è davvero un tipo strano. Sai di cosa mi ha parlato? Dei catari, della malvagità della Chiesa cattolica... A quel povero bambino devono aver fatto il lavaggio del cervello.» «In effetti sono un po' strani» ammise Ferdinand. «Ma se non ti piacciono perché stiamo qui?» «Ci sono situazioni in cui non si può dire di no. Ti ho già spiegato che mi ha chiamato un professore di Tolosa che era stato mio insegnante, per chiedermi il favore di dare un'occhiata a certe pergamene che costituivano un documento unico. E a dire la verità sono contento di avere avuto la possibilità di leggere la cronaca di frate Julián, è un racconto commovente.» Un domestico li accompagnò in una stanza attigua alla sala da pranzo. Il conte e i suoi invitati, perfino il piccolo Raymond, indossavano lo smoking. «Noi siamo noi» sussurrò Ferdinand a suo figlio. «Il nostro mondo è quello dell'intelligenza.» «Non ti preoccupare, mi sentirei ridicolo dentro un affare del genere, guarda il bambino...» Il conte li presentò agli altri invitati, tre uomini e due donne, oltre all'avvocato. Ferdinand si rese conto che quel castello non aveva una dama, dal momento che nessuna delle donne che gli furono presentate era la padrona di casa. «Il barone Von Steiner, sua moglie, la baronessa Von Steiner, il conte e la contessa Von Trotta, e un suo collega dell'Università di Berlino, Henrich Marbung. Conosce già il cavalier Saint-Martin, come pure mio figlio Raymond...» Bevvero una coppa di champagne chiacchierando di cose banali. Fino alla prima portata Ferdinand non si rese conto di essere a cena con un gruppo di fascisti raffinati.
«Tutta la Germania è entusiasta di Rahn» affermò il professore dell'Università di Berlino «e non è un caso. Rahn è stato capace di vedere dove gli altri non vedono niente, solo pietre o parole.» «Si riferisce a Otto Rahn, l'autore di Crociata contro il Graal?» chiese Ferdinand. «Proprio lui. Un uomo illustre che ho l'onore di conoscere personalmente. Sono qui con l'incarico di trovare...» «Il Graal?» domandò Ferdinand divertito. «La sorprende, professore?» «Mi sorprende che un professore dell'Università di Berlino venga a cercare qualcosa che non esiste. Il Graal è un mito, un'invenzione utile solo come strumento letterario.» «Mi sta dicendo che lei nega la sua esistenza?» volle sapere il conte Von Trotta. «Naturalmente. Non nego che nel suo libro Rahn dimostri una certa immaginazione, visto che è stato capace di elaborare teorie suggestive, ma il testo è totalmente privo di valore storico, il che non deve sorprendere: l'autore è non uno storico, ma uno scrittore, che ha lasciato briglia sciolta alla propria fantasia in modo peraltro brillante.» «Ma come osa!» esclamò senza nascondere la propria ira il professor Marbung. «Lei deve sapere che Rahn si è servito delle fonti più illustri, conosce questa terra meglio di lei e tutte le sue teorie sono basate su fatti concreti; nessuna delle sue affermazioni è gratuita.» «Mi dispiace contraddirla, ma non è così. So che i suoi libri hanno avuto grande successo e che molte persone credono ciecamente nelle sue elucubrazioni, ma la Languedoc che descrive non è reale e le sue fantasiose ipotesi non sono scientificamente fondate, non hanno una sola base che le sostenga» insistette Ferdinand. «Lei è molto deciso nei giudizi» affermò il barone Von Steiner. «Sono deciso quando parlo di cose che conosco e rifiuto l'idea che si possa riscrivere la storia, per quanto essa possa uscire abbellita da questo tentativo. Quanto al proposito di Otto Rahn, che lui stesso confessa, di trovare un filo conduttore tra Montségur e il Montsalvat, il castello del suo caro Wolfram von Eschenbach, l'autore del Parsifal, si tratta di un esercizio bello ma inutile. Mi spiace non potervi assecondare con un'opinione diversa.» «Se ho chiesto l'aiuto del professor Arnaud per certificare l'autenticità della cronaca di frate Julián, è proprio perché può vantare il rispetto di tut-
to il mondo accademico» affermò il conte D'Amis. «Il professore non darebbe mai il suo nihil obstat a qualcosa di cui non fosse realmente certo. Per me, dunque, ha un valore incalcolabile il suo riconoscimento delle pergamene di famiglia.» «Magari potrebbe tentare di convincere il professore a collaborare con noi» suggerì la baronessa Von Steiner. «Collaborare? Non credo che il professore sia uno dei nostri» disse l'avvocato Saint-Martin «io credo che sarebbe più che altro un ostacolo...» «Non vi capisco, signori...» disse Ferdinand. «Noi facciamo parte di una... di una società culturale; vogliamo cercare la verità sul mistero cataro e, se possibile, trovare il Graal, per quanto lei non creda alla sua esistenza.» «Nessun accademico serio crede nel Graal» tagliò corto Ferdinand interrompendo il discorso del conte Von Steiner. «Lei crede solo in ciò che vede» sentenziò il conte. «Io sono un professore e le mie armi sono la scienza e la ragione.» «Lei crede in Dio, professore?» chiese la contessa Von Trotta. «È una domanda che mi è stata rivolta solo pochi giorni fa e che considero assolutamente impertinente. Ciò che io credo o non credo appartiene alla mia sfera privata e non ha nulla a che vedere con la mia attività scientifica.» «Ora però cerchiamo di non annoiare il professore» intervenne il conte D'Amis «non è un bel modo di avvicinarlo alla nostra causa... Brindiamo perché sia l'inizio di un'amicizia e una collaborazione feconde. A tutti noi interessa la verità, ci interessa solo la verità. Professor Arnaud, sarebbe disposto a unirsi alla squadra che sto formando per cercare la verità sul catarismo?» «Mi perdoni, conte, ma non c'è nessuna verità da cercare perché esistono già delle certezze. Come le ho detto più volte, considero repellenti certe false interpretazioni sui catari. Sono un esercizio assurdo al quale non parteciperò mai.» «Le sto chiedendo di dirigere la nostra squadra... Cercheremo dove lei ci dirà di cercare» insistette il conte. «Non c'è niente da cercare. Potremo trovare qualche atto isolato dell'Inquisizione o un documento prezioso come quello che la sua famiglia ha conservato, ma nulla di più. Il Graal non esiste.» «Lei sta affermando che non esiste il sacro calice?» chiese l'avvocato Saint-Martin.
«Sì. Davvero lei pensa che la coppa che Gesù riempì di vino per dividerlo con i suoi discepoli si sia conservata per duemila anni? Crede che qualcuno dei suoi discepoli l'abbia nascosta tra le pieghe del mantello pensando alla posterità?» «Lei non crede in niente!» esclamò la baronessa Von Steiner. «È evidente che il Graal non è una coppa, è... qualcosa di più, qualcosa che può guarire, che darà un potere illimitato a chi lo possederà.» «Signora, io non confondo la fede con la superstizione.» «E il tesoro dei catari, cosa crede che fosse?» chiese l'avvocato SaintMartin. «Oro, argento, monete, qualche oggetto di valore... Donazioni di dame e cavalieri alla Chiesa dei Buoni Cristiani, ma nient'altro. Non cercate talismani, non ne esistono.» «Anche così, ci piacerebbe contare su di lei» insistette il conte. «Mi dispiace, ma non sono disponibile.» Scese un silenzio imbarazzato. David guardò suo padre con ammirazione. Non lo aveva mai visto imporre la sua autorità accademica con tanta fermezza. Era emozionato per il suo coraggio nel non lasciarsi intimorire in quella situazione tesa e con quella strana gente. «Cosa pensa della situazione in Germania?» chiese la baronesse Von Steiner con l'intento di raddrizzare la brutta piega che la conversazione stava prendendo. «Mi preoccupa, e molto. Credo che Adolf Hitler finirà per diventare un incubo, non solo per la Germania, ma anche per il resto d'Europa.» «Non condivide le idee della nostra rivoluzione?» «La vostra rivoluzione? Mi scusi ma faccio fatica a vederla nei panni di una rivoluzionaria, signora.» «Per favore, non sia banale!» protestò lei, contrariata. «Hitler sta cambiando la Germania e cambierà il mondo. La Francia dovrà accettare la supremazia delle sue idee.» «Le assicuro, baronessa, che saremo in molti a fare l'impossibile perché le idee del suo leader non valichino la frontiera.» «Andiamo, andiamo! Non parliamo di politica» intervenne il conte D'Amis cercando di calmare la conversazione. «Siamo qui per parlare di storia, ed è per questo che voglio contare sull'apporto del professore. Vedrà, signor Arnaud, il professor Marbung, mio grande amico, ha esposto alle autorità accademiche della sua università la mia proposta di mettere insieme un gruppo di lavoro che porti alla luce tutta la verità sul paese ca-
taro, e a quanto pare l'idea è stata accolta con entusiasmo. Anch'io sono un fedele ammiratore di Otto Rahn e naturalmente mi piacerebbe che avesse una parte nel progetto.» Il piccolo Raymond era rimasto in silenzio, osservando affascinato gli uni e gli altri, quando di colpo irruppe nella conversazione con una domanda al professor Arnaud. «Le piacciono i nazisti?» Il conte piantò su suo figlio uno sguardo nel quale si leggeva una collera di ghiaccio. Raymond abbassò gli occhi, pieno di vergogna, e per un istante David ebbe la sensazione di avervi intravisto un lampo di paura. «No, figliolo, non mi piacciono i nazisti» rispose Ferdinand guardando il conte invece che il bambino. «Che sciocchezze ti vengono in mente, Raymond!» si inserì l'avvocato. Il maggiordomo entrò nella stanza da pranzo annunciando che il caffè sarebbe stato servito nel salone, il che costituì un vero sollievo per tutti i commensali. Mentre si dirigevano verso il salone Ferdinand si avvicinò a D'Amis. «Signore, credo sia meglio che mio figlio e io ce ne andiamo. Non voglio disturbare ulteriormente con la mia presenza, né lei né i suoi invitati. Se il suo autista potesse avvicinarci a Carcassonne, sono certo che troveremmo un hotel dove passare la notte.» «Per favore, professore! Per chi mi prende? Lei è mio ospite e ha tutto il diritto di manifestare le sue opinioni. Mi offenderei se andasse via. Domani il mio autista l'accompagnerà alla stazione, come previsto. E quanto al commento di mio figlio... spero non lo prenda sul serio, è un bambino, ascolta delle conversazioni e non ne comprende bene il significato. Non vorrei che si facesse un'idea sbagliata di noi...» Ferdinand non si azzardò a dire che si sentiva a disagio e temette di essere maleducato insistendo nel voler partire. Forse era stata la dichiarazione della baronessa Von Steiner, che si schierava a favore di Hitler, a dargli così fastidio. La conversazione si fece più distesa mentre bevevano caffè e cognac, anche se Ferdinand non riusciva a non essere teso. Il conte gli chiese di spiegare la portata delle pergamene ai suoi invitati e lui fece una descrizione appassionata della cronaca di frate Julián come se quest'ultimo fosse un amico. «Come ha fatto la sua famiglia a conservare queste pergamene?» volle sapere la baronessa Von Steiner.
«Non lo so; immagino che siano passate di padre in figlio, con l'impegno di mantenerle segrete fino a quando non fosse arrivato il momento» spiegò il conte. «Il momento di vendicare il sangue degli innocenti.» Le parole dell'avvocato Saint-Martin fecero calare il silenzio. David, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, guardò suo padre e, prima che questi avesse il tempo di fargli cenno di continuare a tacere, domandò: «Chi dovrà vendicare il sangue degli innocenti, e come?» «La miglior vendetta è restituire loro la voce» affermò l'avvocato. «Rivendicarli, difendere la Languedoc dall'occupazione francese.» «Ma voi siete francesi!» disse David. «Siamo occitani, costretti a essere francesi.» «Questa non è l'Arcadia...» sottolineò Ferdinand. «Lei conosce la storia...» lo sfidò Saint-Martin. «Proprio perché la conosco, so che la vita nel Medioevo non era invidiabile, neanche qui. Il paese cataro non esiste. È il risultato dell'immaginazione di alcuni scrittori e appassionati del XIX secolo che hanno sublimato la cultura dei trovatori, dando una visione stucchevolmente romantica di quel periodo della storia. È curioso. I poveri catari sono utili a tutti: agli anticlericali, agli esoterici, ai nazionalisti, ai liberali... Tutti li reinterpretano e credono di vedere in loro il seme delle proprie convinzioni. Non ho visto un periodo storico più manipolato e male interpretato di quello.» «Lei non è occitano» sottolineò l'avvocato. «Be', magari un po' lo sono anch'io. Mio padre è di Perpignan e mia madre di Tolosa, per cui c'è qualcosa che mi lega a questa terra, anche se, a dire il vero, per me non fa differenza dove sono io o dove sono gli altri. M'importa capire dove mi trovo bene e chi ho vicino, mi interessano la dignità umana, la giustizia, la pace. Il luogo di nascita è qualcosa che non si può scegliere.» «Lei dunque nega le radici?» chiese il conte Von Trotta. «Non ho necessità di riaffermare me stesso attraverso le radici. M'interessa ciò che riusciamo a essere come persone, non dove siamo nati. Nascere in un luogo può determinare il mondo delle emozioni intime, i sapori, gli odori, la musica, il paesaggio... ma non voglio, anzi non permetto, che qualcuna di queste cose mi determini come persona.» «Lei è comunista?» gli domandò il professor Marbung. Ferdinand esitò prima di rispondere a quella domanda con tono imperti-
nente, ma pensò che se non l'avesse fatto si sarebbe sentito un vigliacco, uno che per paura rinnega le proprie idee. «Sono un democratico. Non milito in nessun partito.» «Ah!» esclamò il professor Marbung. «In realtà, conte D'Amis, è difficile pensare a una collaborazione tra me e il professor Arnaud.» Il conte inchiodò il suo sguardo verde e freddo sul professore prima di rispondergli. «Signori, io cerco solo la sua competenza professionale.» L'avvocato Saint-Martin stava per intervenire, ma parve pentirsene prima. Non comprendeva il conte né la sua volontà di contare su Arnaud. «Conte...» tentò di protestare il professor Marbung. «Basta con le discussioni, signori. Voglio contare su entrambi per questo progetto. Pensate quello che vi pare. Ma mettete il vostro talento e il vostro sapere al servizio della storia.» «Credo, signore, che lei non mi abbia capito» disse Ferdinand in tono tagliente. «Non ho la minima intenzione di lavorare a qualsivoglia progetto che abbia a che vedere... con fantasie. Oltretutto, non sono disponibile. Il mio lavoro all'Università di Parigi mi occupa tutto il tempo. Se lei permette, mi piacerebbe lavorare sulla cronaca di frate Julián, farla conoscere, scriverne, pubblicarla... ma non voglio avere nulla a che fare con qualsiasi altro progetto.» «Ne parleremo, professor Arnaud... ne parleremo» annuì il conte. 4 La partenza del treno per Parigi era prevista per le cinque del pomeriggio. A Ferdinand pareva insopportabile passare altre ore al castello, ma il conte non sembrava disposto a lasciarlo andare via un minuto prima del tempo. Al mattino aveva tentato di lusingarlo con un'offerta che fu sul punto di far vacillare Arnaud. «Voglio che lei scriva una storia dei catari. Una nuova storia che indaghi, cerchi, faccia affidamento sulla cronaca del buon Julián; e se lei è ancora convinto che siano tutte fantasie, che aiuti ad allontanare i dubbi riguardo al Graal. Ma in ogni caso tenti, in quanto storico, di vedere quel che può esserci di vero. Parlerò con la sua università affinché la liberi per un anno. Naturalmente tutte le spese sarebbero a mio carico.» Ferdinand, soprattutto per non evitare di subire ulteriori pressioni, gli
aveva promesso che ci avrebbe pensato. Poi aveva cercato rifugio nella sua stanza. A eccezione dell'avvocato Saint-Martin e del professor Marbung, non aveva visto il resto degli invitati. Il piccolo Raymond propose a David di tornare a visitare le stalle. «Ieri hai chiesto dei nazisti. Perché?» «Non posso parlare di queste cose» rispose Raymond. «Perché?» «Tuo padre non ti picchia?» «No! Mai! Mi punisce, ma picchiarmi no... non mi ha mai picchiato. Perché? A te sì?» Raymond rimase in silenzio mentre tendeva la mano verso il dorso di una puledra di colore castano. «Devo imparare. Devo imparare ad assumermi le mie responsabilità. E merito di essere castigato quando non lo faccio.» «Dipende da come ti castigano» affermò David. «Ci sono persone, come noi, che sono... sono diverse; apparteniamo a una razza speciale, e... insomma... io... io sono una di queste persone, come mio padre, come Saint-Martin o gli amici di mio padre... Tu non lo so... non mi sembri così, e quanto a tuo padre...» «Io sono molto orgoglioso di mio padre, tra le altre cose perché è un democratico» affermò David con tono risentito, dimenticando che stava parlando a un bambino di dieci anni. «I democratici, i socialisti e i comunisti sono un cancro, come gli ebrei» assicurò Raymond. Se l'avessero colpito, David non si sarebbe sentito più ferito di così. Suo padre lo aveva avvertito di evitare qualsiasi discussione con quella gente, ma lui sentiva la necessità di sapere, di chiedere. Raymond era l'unico disposto a prestargli attenzione e aveva appena pronunciato la parola maledetta: ebreo. «Io sono ebreo» rispose David in tono di sfida «e non sono affatto un cancro.» Raymond rimase perplesso e, mordendosi il labbro, scappò via correndo. Temeva la reazione di suo padre per aver di nuovo parlato troppo, come se le cinghiate ricevute non fossero state abbastanza. La cinta del conte gli aveva scorticato la pelle e, a contatto con il pantalone, sentiva un bruciore continuo. Era sul punto di entrare nel castello quando incontrò il professor Marbung.
«Sono ebrei!» gridò il bambino. «Ebrei? Chi?» chiese allarmato il professore. «David e suo padre. Me lo ha detto lui» disse indicando la scuderia dove si ritagliava in lontananza la figura di David. Il professor Marbung e il bambino entrarono nel castello in cerca del conte D'Amis, che trovarono nel suo ufficio mentre conversava con l'avvocato Saint-Martin. «Conte! Suo figlio mi ha appena comunicato una terribile notizia!» Il tono del professor Marbung preoccupò i due uomini che scattarono immediatamente in piedi temendo una disgrazia. «Che succede? Raymond, cos'hai?» «Sono ebrei» affermò il bambino. «Me lo ha confessato David.» D'Amis strinse i pugni, tentando di controllare la sua contrarietà. «Questo non cambia le cose» sussurrò l'avvocato. «Mai e poi mai lavorerò con un ebreo! Non tollererò che uno schifoso ebreo conosca i nostri piani... Del resto mi sembrava sospetto il suo interesse per farci desistere dalla ricerca del Graal!» affermò furioso il professor Marbung. «Eppure... sarebbe un errore non contare sul professor Arnaud. Il suo vecchio professore dell'Università di Tolosa non mi ha detto che era ebreo...» spiegò il conte. «Suo figlio lo ha detto a Raymond...» insistette l'avvocato «quindi è evidente che non può esserci il minimo dubbio.» Nessuno vide che David era sulla porta e li osservava con occhi pieni di rabbia e di disprezzo. «Io sono ebreo, lui no.» Lo guardarono sconcertati, preoccupati per la presenza di quell'adolescente. Da quanto tempo era lì ad ascoltarli? «Giovane, non sia maleducato, non si ascolta dietro la porta» riuscì a dire il conte. «La porta è aperta e per andare nella mia stanza devo passarci davanti.» «In ogni caso, un gentiluomo non ascolta una conversazione che non lo riguarda. Ma visto che ormai lo ha fatto, ci faccia compagnia, la prego» ordinò il conte. David entrò con passo esitante. Gli sarebbe piaciuto uscire di corsa a cercare suo padre, ma non aveva osato contraddire il conte D'Amis. «Si sieda, giovanotto.» Tanto Raymond quanto l'avvocato Saint-Martin e il professor Marbung
attendevano impazienti la successiva reazione di D'Amis. «Bene, come lei certamente saprà, ci sono persone che hanno pregiudizi, alle quali non piacciono gli ebrei, che pensano siano colpevoli di alcune delle cose che accadono. A me interessa poco quel che pensano gli altri, mi interessa la storia, e voglio che suo padre lavori al mio progetto; che sia ebreo oppure no non fa la minima differenza.» David era sul punto di protestare e dargli del bugiardo, ma in realtà non aveva accuse da muovergli: era stato il professor Marbung a manifestare il suo disprezzo per gli ebrei, non lui. «Suo figlio pensa che noi ebrei siamo un cancro.» «Mio figlio ha dieci anni e ascolta conversazioni che non capisce, questo lo porta a essere... diciamo... a essere imprudente. Le chiedo scusa a nome suo.» Il giovane non seppe cosa dire. Fissò lo sguardo sul professor Marbung, sperando che questi gli desse una scusa per alzarsi e mostrare la sua ira. Ma il professore sembrava non essere interessato alla disputa e aveva lo sguardo perso nelle volute del suo sigaro. «Vado a cercare mio padre» fu tutto quello che a David venne in mente di dire. «Vada, vada pure, ma la prego di non opprimerlo con questi malintesi.» David girò su se stesso e si diresse verso le scale, smanioso d'incontrare suo padre in camera da letto. Gli avrebbe chiesto di andare via immediatamente, anche a piedi, se fosse stato necessario. «Ah, sei già tornato!» Ferdinand stava leggendo sdraiato sul letto. Il suo viso aveva un'aria annoiata. «Mi dispiace non poter ripartire prima. Temo che ci toccherà anche pranzare con questa gente.» «Hanno detto che gli ebrei sono un cancro» replicò David piuttosto alterato. Ferdinand si alzò preoccupato. Si rendeva conto che suo figlio non stava bene. «Ma cosa stai dicendo?» «È stato Raymond... quel bambino dice ad alta voce quello che suo padre e gli altri non hanno il coraggio di dire» assicurò David. «Democratico ed ebreo è il peggio che si possa essere, per loro. Poi li ho sentiti parlare. Il professor Marbung ha detto che se tu fossi ebreo non potrebbe lavorare con te, per questo non vuoi che cerchino il Graal.» «Ma che razza di follia è questa! Scendo immediatamente a parlare con
D'Amis. Possiamo anticipare la partenza. Cambieremo il biglietto direttamente alla stazione.» David parve calmarsi ma Ferdinand si rendeva conto che suo figlio soffriva. Improvvisamente si sentiva diverso e di conseguenza rifiutato. «Cosa c'è di male nell'essere ebreo? Perché c'è gente che ci odia?» «Gli ignoranti odiano ciò che non conoscono, oltretutto ricorda che nella storia dell'Europa ci sono stati momenti esecrabili: l'Inquisizione, i pogrom... L'ebreo è lo straniero, il diverso, qualcuno a cui dare la colpa di tutti i mali della società. Quella è la scusa che utilizzano tutti i potenti per distogliere l'attenzione dalle responsabilità che hanno verso le loro società. E considera pure che arricchirsi con i beni della comunità ebraica è un gran bell'affare, come pure il non pagare i debiti contratti con loro.» «Ma i nonni non sono ricchi, e neanche la zia Sara...» balbettò David. «No, non lo sono; non lo era nemmeno la maggioranza degli ebrei bruciati sul rogo. L'aspetto più perverso dei carnefici è quello di inculcare nelle loro vittime l'idea di essere colpevoli di qualcosa per cui devono pagare, così queste finiscono per chiedersi cos'abbiano fatto di male. No, non chiederti perché i nazisti tedeschi perseguitano la zia Sara, cos'hanno fatto i tuoi nonni o cos'hai fatto tu per essere odiato. Il solo fatto che tu te lo chieda è una mostruosità!» «Ma io continuo a non capire il perché di tanto odio. Non sai con quale disprezzo Raymond ha detto che gli ebrei sono un cancro, e il professor Marbung... Guarda, il professore mi sembra il peggiore di tutti!» Dei leggeri colpi alla porta interruppero la conversazione tra padre e figlio. Il maggiordomo trasmise loro la richiesta del conte di riunirsi nel salone appena fossero stati pronti. Ferdinand sospirò. Si sentiva in trappola tra il suo desiderio di poter disporre degli scritti di frate Julián e la necessità di andarsene. In quel castello si sentiva soffocare. Quando entrarono nel salone, il conte li aspettava insieme a Raymond e Saint-Martin. Malgrado la sicurezza che mostrava, Ferdinand notò un leggero tic nervoso nella maniera di aprire e chiudere il pugno della mano destra. Il volto di Raymond rifletteva dolore e paura, ma allo stesso tempo, dal modo in cui guardava David, si intuiva che gli rimproverava qualcosa. «Professore, prima ho parlato con suo figlio e mi sono scusato, adesso lo faccio con lei. Disgraziatamente Raymond si è comportato in un modo abominevole, facendo alcuni commenti del tutto fuori luogo. La prego di
voler scusare lui e anche me, per avervi offeso. Non c'è nulla di più lontano dalle mie intenzioni e, se mi permette la sincerità, anche dai miei interessi.» «Dovrebbero preoccuparla i commenti di suo figlio» rispose Ferdinand freddamente. «È stato punito per questo. E le assicuro che gli costerà caro dimenticare l'errore commesso.» «Non si tratta di avere commesso un errore nel dire certe cose; si tratta di ciò che significa pensarle, quelle cose» rispose Ferdinand. «Lei sa che i bambini ascoltano cose che non capiscono e si confondono al momento di...» «Di affermare che essere ebreo e democratico è peggiore di un cancro?» Il tono di voce di David rifletteva il suo dolore e la sua ira. Il conte guardò David, quindi fece cenno a suo figlio di togliersi la giacca e di tirare su la camicia. Raymond impallidì, poi arrossì, morto di vergogna. Quando Raymond rimase con la schiena scoperta, Ferdinand e David emisero un'esclamazione di orrore. Sulla schiena del bambino si vedevano i segni lasciati dalla cinghia del genitore. La pelle scarnificata e sanguinante non lasciava adito a dubbi: Raymond era stato scudisciato con accanimento. «Dio mio! Io...» riuscì a dire Ferdinand. «Spero sia sufficiente a darle soddisfazione per l'offesa di mio figlio» disse seccamente il conte. «Questo non era necessario! Odio il castigo fisico... Ma come ha potuto fare questo al bambino, a suo figlio?» Ferdinand non trovava le parole per esprimere l'orrore che producevano in lui i segni del maltrattamento. David si sentì morire, ritenendosi colpevole di quella tortura. Probabilmente, si disse, aveva dato troppo peso alla frase di Raymond, e in realtà non aveva tanta importanza quel che diceva un bambino di dieci anni. Non sapeva che cosa fare, ma sentiva un imperioso desiderio di chiedere perdono al bambino. «Mi dispiace» balbettò facendo un passo avanti verso il bimbo. «Io... io... mi dispiace.» «Quel che è fatto è fatto. Raymond imparerà dall'errore commesso. Ora, professore, vorrei sdebitarmi, e non mi viene in mente altro modo per farlo se non annunciarle che può disporre del manoscritto di frate Julián. Accetto l'offerta della sua università. Faccia uno studio esauriente, divulghi il
saggio che ne deriverà. Gli archivi di famiglia saranno aperti per lei, ma dovrà venire qui a consultarli. Non voglio che i nostri documenti vadano in giro.» Ferdinand rimase perplesso. Non si aspettava che il conte accettasse di separarsi dalla cronaca del suo antenato, e ancor meno che lo facesse senza condizioni. Anche lui provò un senso di rabbia e di vergogna contro se stesso. Non è che tra lui e David avessero esagerato? Erano forse ancora sconvolti per quanto accaduto con quei cialtroni dei Dubois, senza contare la disgrazia subita da zia Sara? Raymond aveva ancora la schiena scoperta, esponeva la sua umiliazione e il suo dolore, senza osare coprirsi prima che suo padre gli desse il consenso. Alla fine il conte lo autorizzò con un gesto a sistemarsi la camicia. «Non so cosa dire... tutto questo è... mi dispiace... mi dispiace per quello che è accaduto» balbettò Ferdinand. «Credo che non dovremmo mischiare le due cose.» «Per favore, accetti le mie scuse e la mia offerta. Il mio avvocato si occuperà di redigere un documento per il prestito della cronaca di frate Julián al fine di consentirle di studiarla, affidandone la custodia all'Università di Parigi. Devo recarmi nella capitale per affari alla fine della prossima settimana; le telefonerò per incontrare insieme il rettore dell'università.» Ferdinand si sentiva sconcertato e allo stesso tempo oppresso da tutti quegli eventi. In realtà provava vergogna per tutto ciò che stava capitando, ma anche per se stesso, per la sua ansia di avere a disposizione quei documenti, un'ansia che gli pareva togliere importanza a quello che era accaduto a Raymond. Accettò l'offerta del conte e lo ringraziò, evitando lo sguardo di David; avrebbero parlato più tardi, sul treno, di tutto quanto. Il pranzo trascorse in maniera più tranquilla rispetto alla cena della sera precedente. Gli invitati del conte sembravano desiderosi di compiacerlo; solo il professor Marbung manteneva una certa distanza, come pure l'avvocato Saint-Martin. Parlarono di tutto e di niente, di musica, di letteratura e di gastronomia. Il barone Von Steiner dimostrò di essere un esperto conoscitore di vini francesi e tenne una specie di conferenza a riguardo. Quando il conte li salutò sulla porta del castello, Ferdinand era in piena confusione. L'unica cosa che aveva chiara in testa era quella promessa: nel giro di una settimana avrebbe potuto disporre, per i suoi studi, dell'anelata cronaca di frate Julián.
Appena partiti Ferdinand e David, il conte e i suoi ospiti si riunirono nello studio; l'atmosfera era densa di preoccupazione. «Non capisco il suo atteggiamento, conte» ebbe l'ardire di rimproverarlo il professor Marbung «e neanche il suo impegno nel voler contare a tutti i costi sul professor Arnaud. Non abbiamo bisogno di lui.» «Si sbaglia, professore. Il nome del professor Arnaud ci aprirà archivi e porte che altrimenti ci sarebbero vietate. Abbiamo bisogno del suo prestigio per cercare ciò che vogliamo» spiegò D'Amis. «Il problema è non metterlo in allarme sulle nostre reali intenzioni, vale a dire, evitare gli errori che tutti abbiamo commesso durante la cena di ieri.» «La massima autorità mondiale sul catarismo è Otto Rahn» affermò il professor Marbung. «Seguendo i suoi passi troveremo il Graal.» «Seguire soltanto i suoi passi non basterà, professore. Qui siamo in Francia, e i francesi sono sciovinisti. Rahn non impressionerà gli archivisti che hanno in custodia documenti preziosi, ma il professor Arnaud sì. Lui sarà la nostra chiave, la nostra guida cieca, ci aprirà la strada senza sapere dove vogliamo arrivare.» «Riconosco che la sua mossa è stata geniale» disse il conte Von Trotta. «Alla fine se n'è andato prendendosi gli insulti e dovendoci pure ringraziare.» «Sì, adesso si sentirà in debito con me, con la mia magnanimità. Non collaborerà con noi per soldi, e se conoscesse le nostre intenzioni farebbe il possibile per fermarci.» «È un ignorante» mormorò il professor Marbung. «Se fosse capace di comprendere la profondità della Corte di Lucifero saprebbe che i catari non sono altro che i fedeli seguaci di una dottrina che si perde nella notte dei tempi. I catari non hanno nulla a che vedere con la Chiesa, né con la tradizione giudaico-cristiana. Solo Rahn è stato capace di vederlo... Il Dio di Roma, puah, ci sputo sopra.» «Chi crede nel Dio dei Papi? Pura intimidazione per i poveri» aggiunse il barone Von Steiner. «I cattolici sognano di avere ognuno la propria croce per poter imitare Cristo, e allora l'avranno» sentenziò l'avvocato Saint-Martin. «Che muoiano in croce!» «Signori, è evidente che le sciocchezze della religione non ci riguardano, siamo uomini di cultura. Ma non dobbiamo metterlo in piazza davanti a chiunque. Qui non siamo in Germania e il nostro comportamento può diventare sospetto. Pertanto cerchiamo di nascondere le nostre idee davanti
agli estranei. Abbiamo bisogno del professor Arnaud, per il momento, e l'importante è che abbia abboccato all'amo. Lei, professor Marbung, seguendo le indicazioni di Berlino, continuerà a lavorare come ha fatto fino a oggi. Sogno il giorno in cui la dea Ragione vendicherà il sangue versato nella Languedoc.» Ferdinand accettò a denti stretti di collaborare alle ricerche del conte. Questi non gli chiese di recarsi a Tolosa o a Carcassonne, né di arrampicarsi sui dirupi di Montségur; gli chiese solo di aprirgli le porte o di muovere i fili necessari per avere accesso a determinati archivi e per fare in modo che le autorità locali non ostacolassero gli scavi. Arnaud tranquillizzava la sua coscienza dicendosi che non c'era nulla di male ad aiutare un collega dell'Università di Berlino, per quanto poco gli piacesse, ma sentiva un'inquietudine in fondo all'anima che non gli permetteva di star bene con se stesso. Lo ripugnavano gli amici del conte, entusiasti di Otto Rahn e con idee filonaziste. In compenso riponeva grandi speranze nella pubblicazione della cronaca del frate che, per quanto non contenesse rivelazioni sostanziali sull'assedio di Montségur, aveva un altissimo valore storico come racconto in prima persona degli eventi e soprattutto come descrizione diretta dei protagonisti di quel dramma. «Ma allora esisti!» Ferdinand sorrise nel vedere Martine irrompere nel suo ufficio. Da qualche giorno non si incrociavano e gli era arrivata la voce che Martine si fosse nuovamente scontrata con un alunno per i suoi commenti razzisti. «Credo che tu stia diventando la custode del vero spirito della Repubblica» le rispose a mo' di saluto. «Ma senza molto successo. I fascisti crescono come funghi, o forse se ne stavano nascosti e adesso si fanno vedere... Ti hanno già raccontato?» «Sì, so che hai buttato fuori dalla classe un altro dei tuoi studenti per aver detto che gli ebrei sono solo delle merde.» «Il moccioso mi si è parato davanti e mi ha minacciata dicendo di stare attenta, perché chissà dove sarà lui e dove invece sarò io in un futuro prossimo!» «E tu per tutta risposta l'hai sbattuto fuori dalla classe annunciandogli che era sospeso nella tua materia.» «Sì, e non l'ha presa per niente bene. Il padre è venuto a parlare con il rettore per obbligarmi a ritrattare. Io non lo farò. O io o il ragazzo; se do-
vrò andarmene me ne andrò, ma di sicuro non cederò davanti a quel moccioso. Se si incrina la nostra autorità e ci lasciamo mettere i piedi in testa, sarà meglio chiudere l'università.» «Per quello che ne so, il corpo accademico ti appoggia, anche quelli ai quali non sei simpatica» scherzò Ferdinand. «Vincere questo braccio di ferro non è importante solo per me» si lamentò Martine. «Lo so.» «E tu che mi dici? Come ti va?» «Bene, anche se...» «Che succede?» «Mi preoccupano Miriam e David. Ti ho già raccontato dell'incidente che ha avuto mio figlio e quello della zia di mia moglie... Miriam insiste nel voler andare a Berlino e io... non mi fido, potrebbe essere pericoloso!» «Non credo che le accadrà nulla. Miriam è francese.» «Suo zio Yitzhak è tedesco, eppure gli hanno distrutto la libreria che aveva ereditato dai nonni. E tu hai espulso due alunni dalla classe in meno di due mesi.» «Sì, ho la sensazione che il nostro mondo stia per crollare» ammise Martine. «Non dobbiamo permetterlo, cara professoressa. Dobbiamo lottare.» «Abbiamo abbastanza coraggio per farlo? Sei sicuro che non ci freni la paura di immischiarci e di perdere i nostri privilegi?» «Senza dubbio siamo umani e non siamo obbligati ad avere la scorza degli eroi, ma questo non significa che ce ne staremo con le mani in mano. Tu non lo stai facendo, Martine.» «Non me lo posso permettere.» 5 Parigi, 20 aprile 1939 «Miriam, ti prego di ripensarci» supplicava Ferdinand. «No, ho deciso, vado a cercarli, voglio sapere cos'è accaduto, dove sono. Non crederai che possa lasciarlo fare a mio padre, vero? In ambasciata mi hanno detto che se non abbiamo loro notizie è perché forse sono andati in vacanza. Cinici! Ecco cosa sono, dei cinici.» David contemplava in silenzio l'ultima delle liti tra i suoi genitori, dive-
nute più frequenti nell'ultimo periodo. Entrambi avevano i nervi a fior di pelle. Suo padre constatava che l'università non era più il luogo dove un tempo aveva lavorato tanto bene. Da quando erano tornati dal castello del conte lo vedeva angosciato e, quando riceveva la chiamata di D'Amis o del professor Marbung che chiedevano di seguire qualche pratica, si irritava con facilità. In un paio di occasioni era tornato al castello, ma non gli aveva chiesto di accompagnarlo. E comunque lui non ci sarebbe voluto tornare, quella gente gli pareva sinistra. Ferdinand pareva rassegnato a trattare con il conte D'Amis pur di poter lavorare con la cronaca di frate Julián. Non aveva ancora terminato il saggio che avrebbe pubblicato con l'avallo dell'università; da quando aveva ripreso a fare lezione, dopo le vacanze estive, sembrava svogliato, non aveva più scritto un riga. E adesso stava litigando con sua moglie, insistendo perché non andasse a Berlino in cerca dei suoi zii. «Miriam, ho paura di quel che può succedere laggiù» insisteva. «Ho sempre pensato che il Patto di Monaco fosse tempo guadagnato da Hitler, sebbene il nostro presidente creda a tutto ciò che dice quel pessimo figuro...» «Ferdinand, io devo andare!» disse Miriam chiudendo di scatto la valigia. «Ascoltami bene, tutti abbiamo delle priorità nella vita. Ci hai detto che c'è qualcosa che ti ripugna in D'Amis, e dopo quello che è accaduto non mi sorprende. Eppure, continui ad avere rapporti con lui. Ti ho supplicato di restituirgli quel maledetto manoscritto e di non tornare mai più là dove hanno insultato nostro figlio chiamandolo ebreo. Bene, io ho le mie priorità, e quindi devo andare a vedere che cosa è successo ai miei zii. Nessuno me lo impedirà, Ferdinand, neanche tu.» «Adesso mi rinfacci anche il lavoro! Non sapevo che ti desse tanto fastidio!» «Il tuo lavoro? No, Ferdinand, non ti rinfaccio il tuo lavoro, ti rimprovero per la tua cecità, il tuo lasciarti utilizzare, manipolare. Tutto quello che mi hai raccontato di quel conte e dei suoi amici mi inquieta. Cosa c'entri tu con un gruppo di gente che cerca il Graal? Perché li aiuti?» «Io non li aiuto affatto! Non ho niente a che fare con quella ricerca.» «Di questo stai tentando di autoconvincerti! Ma non puoi ingannare te stesso fino a questo punto! Lo sai perché sei così irritato, perché non parli quasi mai, perché eviti ogni discorso sugli scritti di quel frate? Te lo dico io: perché sai che stai collaborando con qualcuno che non ti piace, con gente losca.»
«Ti ho spiegato che il conte ha frustato suo figlio per aver insultato il nostro! Ti pare poco come prova del suo atteggiamento e delle sue convinzioni?» «Mi sembra molto intelligente quel conte...» «Per favore, smettetela di discutere!» quasi li supplicò David. «Mamma se ne va... Saremo molto preoccupati, e non mi piace che se ne vada triste.» Miriam abbracciò suo figlio, commossa. Lo amava più della sua stessa vita. Non solo perché era suo figlio, ma anche per la sua sensibilità, per la sua capacità di mettersi nei panni degli altri e di provare compassione per coloro che soffrono. Da quando era tornato dal viaggio al castello D'Amis, David aveva chiesto ai suoi nonni di spiegargli cosa doveva fare per essere un buon ebreo. Ora andava spesso alla sinagoga e accompagnava i nonni a tutte le celebrazioni religiose; si era perfino appeso una minuscola stella di David al collo. Gli avevano sputato in faccia la parola "ebreo" e adesso aveva bisogno di sapere cosa si nascondeva dietro quel termine che era stato in grado di risvegliare tanto odio. Anche se diceva a se stesso che essere ebreo non lo faceva sentire diverso dal resto dei suoi amici, era ossessionato dalla ricerca della diversità. Ferdinand si era arreso alla supplica di David e si era avvicinato a madre e figlio per abbracciarli entrambi. «Mi dispiace, mi dispiace non essere capace di spiegare meglio la mia preoccupazione. Vi amo così tanto!» «Anche noi amiamo te, papà. Neanche io voglio che la mamma vada via, ma so che deve farlo, e preferisco che ci veda contenti.» Uscirono di casa tenendosi per mano e parlando di cose futili. Durante il tragitto verso la Gare de Lyon, Ferdinand nascose la sua angoscia concentrandosi nella guida, mentre David non smise un attimo di parlottare con sua madre. Il fischio del treno che annunciava la partenza spezzò il cuore a tutti e tre. David non riuscì a evitare che gli scappasse una lacrima, mentre Ferdinand si rimproverò di aver discusso con lei. «Abbi cura di te! Ti prego, abbi cura di te!» disse Ferdinand. «Mamma, torna presto!» supplicò a sua volta David. Lei, teneramente, li salutò mandando a entrambi un bacio dal treno che cominciava ad allontanarsi.
Ferdinand era concentrato nella lettura di alcune carte quando Martine entrò come un lampo nel suo ufficio. «Non lo sopporto più!» Rimase immobile a guardarla, incapace di proferire parola. Martine si rese conto della sorpresa riflessa negli occhi del suo amico. «Scusami, ma non sopporto più tutti quei fascisti. Quando sono arrivata in classe mi sono trovata seduto sulla cattedra un ragazzo che faceva l'esaltazione dell'essenza francese e sproloquiava sulle influenze straniere negative. L'idiota mi ha detto di essere membro della Gioventù Patriottica. Ho invitato il rettore ad aprire un procedimento disciplinare ed espellerlo dall'università. Ci sarà una riunione informale del corpo docente, per questo sono venuta a cercarti. Sapevo che ti avrei trovato qui rinchiuso, a lavorare senza accorgerti di niente.» Ferdinand si alzò come un automa. Ogni giorno succedevano incidenti di quel tipo e Martine sembrava essere diventata la Giovanna d'Arco della lotta contro il fascismo. La professoressa era particolarmente impegnata a non tollerare alcuna manifestazione contraria a quello che riteneva incarnasse lo spirito della Repubblica. «Mi dispiace non poter partecipare a questa riunione» si scusò Ferdinand. «Ho promesso a David che sarei andato a prenderlo al liceo.» Quando arrivò alla scuola, suo figlio se n'era già andato, il che gli provocò un senso di angoscia. Si diresse verso casa pregando di trovarlo lì. David ascoltava la radio nel salone in preda all'angoscia. «La mamma...» sussurrò. «Non sappiamo niente della mamma, lei si trova laggiù... Devi chiamare l'ambasciata...» Ferdinand si sedette vicino al figlio e ascoltò le notizie che il conduttore raccontava con voce grave. Il telefono li fece sobbalzare. David si precipitò a rispondere. «È il nonno Jean» disse mentre passava la cornetta al padre. «Papà, sì... lo so, noi stiamo bene. No, non sappiamo ancora niente di Miriam.» Ferdinand riusciva a stento a rispondere a suo padre, preoccupato com'era per la sorte della moglie. «No, di' alla mamma di stare tranquilla, non abbiamo bisogno di niente, vi chiamerò io. D'accordo, d'accordo, verremo a cena a casa vostra questa sera. Sì, alle sette, non ti preoccupare.» Quando riagganciò il telefono sentì un rivolo di sudore freddo corrergli dalla nuca sino in fondo alla schiena. David era ancora seduto vicino alla
radio come se aspettasse che da un momento all'altro il conduttore gii desse notizie di sua madre. «Che cosa facciamo, papà?» «Non lo so, figliolo. Paul Castres, un mio collega di università, ha un cognato che lavora al ministero degli Esteri. Può darsi che tramite lui si possa sapere qualcosa.» Il suo amico promise di chiamarlo appena fosse riuscito a parlare con il cognato, ma gli chiese di avere un po' di pazienza. «Lo sai, in questo momento anche per me può essere difficile mettermi in contatto con lui.» Passarono il resto della giornata a parlare al telefono e ricevere chiamate da familiari e amici, sempre in attesa di ricevere uno squillo da Paul Castres. «Lei ha promesso di chiamarci» sussurrava David. «Ce l'ha promesso.» Ferdinand non aveva risposte da dargli. Da quando era andata via, Miriam non li aveva chiamati, e al telefono dei suoi zii Yitzhak e Sara non rispondeva nessuno. In realtà erano preoccupati da diversi giorni per la mancanza di notizie. Padre e figlio si sentivano disorientati, non sapevano cosa fare o a chi rivolgersi per avere un consiglio che alleviasse la loro disperazione. «Non voglio andare a casa dei nonni fino a quando non avrà chiamato il tuo amico» disse David a suo padre. Si sentivano imprigionati in un incubo nel quale Miriam veniva ingoiata dalla terra senza che loro potessero far nulla per salvarla. Erano quasi le sei quando finalmente telefonò il professor Paul Castres. «Non posso dirti molto, solo che la nostra ambasciata a Berlino tenterà di fare qualcosa. Mio cognato mi ha chiesto l'indirizzo degli zii di tua moglie e il loro numero di telefono; qualcuno dell'ambasciata tenterà di mettersi in contatto con loro, ma devi capire che questo è un momento di grande confusione e che la posizione della Francia è assai compromessa... Mio cognato dice che Hitler ha fregato per bene il presidente Daladier nella Conferenza di Monaco.» A Ferdinand importava ben poco di quanto Hitler avesse ingannato il presidente francese. In quel momento la sua unica preoccupazione era la sorte di Miriam. Quando arrivarono a casa dei suoi genitori, vi trovò anche i suoi suoceri. Provò a confortarli comunicando che l'ambasciata di Francia a Berlino si sarebbe occupata di rintracciare Miriam. Non assaggiarono quasi niente nonostante l'insistenza di sua madre, che
cercava di convincerli "perché è nei momenti difficili che servono le forze"; come se il fatto di mangiare un filetto potesse infondere l'energia della quale avevano bisogno per trovare Miriam. Ma era soprattutto David che sembrava fuori combattimento. Non c'erano parole che servissero a dissipare la sua angoscia. Sia i nonni paterni che quelli materni fecero l'impossibile per farlo uscire dal suo mutismo, ma non ci fu nulla da fare. Voleva solo stare con suo padre e dividere con lui la totale assenza di speranza. Il giorno seguente David si rifiutò di andare a scuola e sopportò a stento la presenza delle due nonne, che avevano deciso di andare a casa loro per prendersi cura di entrambi per i giorni seguenti. Sbrigavano le faccende domestiche, ma soprattutto non li lasciavano mai soli, cosa che invece loro avrebbero preferito. Paul Castres incoraggiava il suo collega quando lo incontrava per i corridoi dell'università: suo cognato lo avrebbe aiutato, ne era sicuro. Quattro giorni dopo Paul lo avvicinò e gli disse che suo cognato li avrebbe ricevuti al Quai d'Orsay. Ferdinand e David si presentarono all'ora stabilita alle porte del ministero, dove li aspettava Castres per accompagnarli nell'ufficio di suo cognato. Attraversarono corridoi dove funzionari circospetti sembravano andare molto di fretta da qualche parte. Giunsero a una porta uguale alle altre e Paul bussò con le nocche; come risposta ricevettero un "avanti" secco e deciso. Il cognato di Paul era un uomo prossimo alla pensione, un funzionario che aveva passato tutta la vita in quel palazzo e lo conosceva meglio della propria casa. «Dunque, signor Arnaud, l'unica notizia che posso darle è che non ci sono notizie.» «Come? Cosa vuol dire?» chiese Ferdinand preoccupato. «Ho chiesto a un amico dell'ambasciata di fare un salto a casa dei suoi familiari appena ne avesse avuto la possibilità. Ormai da tempo lì non vive più nessuno. La libreria al piano terra... Be', credo che ormai non esista più... E quanto all'appartamento al primo piano, è disabitato ormai da tempo, stando a quello che gli hanno raccontato i vicini. Molto semplicemente, i suoi familiari se ne sono andati senza lasciare un recapito. Per quel che concerne invece sua moglie... nessuno l'ha vista lì. L'ambasciata ha fatto qualche indagine, molto discretamente, data la situazione, lei sa che non siamo in armonia con le autorità tedesche; ma abbiamo ancora qualche a-
mico, e al ministero degli Interni tedesco non hanno notizia di alcun incidente o fatto particolare nel quale sia coinvolta sua moglie. Forse sarebbe stato meglio poterle dire che era rimasta vittima di un incidente stradale o che si trovava ricoverata in qualche ospedale e che per questo non aveva potuto darvi sue notizie, ma disgraziatamente la realtà è che nessuno l'ha mai vista...» Ferdinand sentì come se gli avessero dato una botta in testa, mentre David non fu capace di trattenersi e scoppiò a piangere. «Cosa si può fare?» chiese Paul Castres al posto loro, visto che sia Ferdinand sia il figlio parevano incapaci di reagire. «Niente, non si può fare più niente. Ho chiesto all'ambasciata che di tanto in tanto e nei limiti del possibile qualcuno si avvicini alla casa dei suoi familiari per vedere se ritornano. In buona sostanza, ho detto loro che nei contatti con le autorità devono insistere su qualsiasi notizia possa avere rilevanza riguardo a sua moglie.» «Io vado a Berlino» affermò Ferdinand con sicurezza. «Non credo serva a molto, glielo sconsiglio. E comunque... mi piacerebbe parlare con lei un attimo a quattr'occhi. Paul, potresti uscire insieme al ragazzo? Non ci vorrà molto.» Quando rimasero soli, il funzionario guardò Ferdinand con un certo imbarazzo, come se non trovasse le parole per esprimersi. «Guardi... io... vede, signor Arnaud, vorrei che non la prendesse come un'offesa ma... non so, magari sua moglie...» «Non capisco cosa sta cercando di dirmi.» «Mi scusi se le faccio una domanda personale, ma i rapporti tra voi due erano buoni?» Ferdinand intuì quello che il cognato del suo amico non aveva il coraggio di dire. «Mi sta chiedendo se ritengo possibile che mia moglie mi abbia abbandonato?» «Be', certe cose possono accadere. Se non ci trovassimo nel pieno di una crisi bellica la situazione sarebbe meno drammatica... magari sua moglie sarà... se ne sarà andata con qualcuno...» «L'ho accompagnata io stesso alla stazione» rispose Ferdinand nervoso. «Sì, certo, lei può averla accompagnata al treno, ma questo non significa che su quel treno non potesse esserci qualcuno con cui sua moglie aveva deciso di andarsene.» «Nossignore, non è accaduto niente di tutto questo. Siamo una famiglia
felice, senza problemi, ci vogliamo bene, glielo assicuro» riuscì a dire mentre, a causa dell'umiliazione, sentiva una vampata di calore salirgli nell'esofago. «Bene, era una semplice possibilità... non volevo metterla in imbarazzo davanti a suo figlio.» «Molto gentile da parte sua» disse Ferdinand reprimendo la rabbia che cominciava a montare. «Non posso dirle altro. Se dovessimo avere notizie, non dubiti, ci metteremo in contatto con lei immediatamente. Ma la prego di non fare sciocchezze. Non tenti di andare a Berlino. Non in queste circostanze.» «Quando entreremo in guerra?» «A questa domanda non posso rispondere, ma sono pessimista, molto pessimista. In via ufficiosa le dirò quello che penso: Hitler cercherà di invadere la Francia. Quest'opinione non è condivisa da molti dei miei colleghi, e neanche dal nostro governo, ma il mio fiuto mi dice che succederà proprio questo. Vede, sono stato distaccato a Berlino un anno fa, e nulla di quello che sta accadendo adesso mi sorprende, anche se il nostro governo vuol farci credere che non se l'aspettava.» «Abbiamo la linea Maginot...» «Non abbiamo niente, signor Arnaud; bisogna essere molto ingenui per credere di essere davvero protetti da una linea immaginaria.» «Ma allora...» «Secondo me è solo questione di tempo prima che Hitler decida di invadere la Francia; ma, le ripeto, questa è solo la mia opinione, non quella del Quai d'Orsay. Non credo che dovremo aspettare molto prima di entrare in guerra con la Germania.» Il professor Arnaud prese commiato dal diplomatico stringendogli energicamente la mano con espressione grave e preoccupata. Presero la decisione loro due, senza discussioni. Erano d'accordo sul fatto che non potevano restare con le mani in mano e accettare passivamente la scomparsa di Miriam. Lo comunicarono al resto della famiglia. Ferdinand sarebbe andato a Berlino e avrebbe tentato di ritrovare sua moglie e i suoi zii, Yitzhak e Sara. I genitori di Miriam versarono lacrime di gratitudine. Neanche loro potevano accettare passivamente la scomparsa della figlia. David sarebbe rimasto con loro fino al ritorno del padre; il giovane avrebbe preferito aspet-
tare in casa sua, ma Ferdinand gli assicurò che solo sapendolo al sicuro sarebbe partito tranquillo. Chiese al professor Castres di parlare con suo cognato affinché potesse essere ricevuto all'ambasciata di Berlino. Stava correggendo esami nel suo ufficio quando ricevette la visita inaspettata del conte D'Amis. «Caro professore, mi perdoni se mi presento all'improvviso. Sono a Parigi per affari e ho pensato di fare una pausa e venire a trovarla. La disturbo?» Ferdinand non ebbe il coraggio di dirgli che in effetti lo disturbava, che stava lavorando con le ore contate per lasciare tutto a posto prima di partire per Berlino, e lo invitò a sedersi limitandosi a farlo senza troppo entusiasmo. «In realtà» continuò il conte mentre prendeva posto a sedere «volevo annunciarle che abbiamo ricevuto rinforzi. Si è unito a noi un gruppo di studenti tedeschi, alunni del professor Marbung. Si tratta di ragazzi entusiasti ed estremamente efficienti, e sono certo che la loro presenza ci sarà di grande aiuto.» «Sono contento per lei» rispose seccamente Ferdinand. «Stiamo studiando le steli discoidali...» «Sono monumenti funerari che non hanno nulla a che vedere con i catari. Lo sa, conte? Mi sorprende che un uomo intelligente come lei perda tempo a inseguire una fantasia. Non esiste nessun tesoro cataro; quell'oro e quell'argento, quelle monete che portarono fuori da Montségur servirono ad aiutare i Buoni Cristiani che vivevano nella semiclandestinità a causa dell'Inquisizione e per continuare le loro opere di carità.» «Sono io a essere sorpreso dalla sua volontà di fare a tutti i costi il bastían contrario. Lei è l'unico esperto in catarismo che nega l'esistenza del tesoro, l'unico che rifiuta l'esistenza del Graal, l'unico ad assicurare che gli strani disegni trovati nelle grotte vicine a Montségur sono semplici scarabocchi e non un codice segreto lasciato dai catari...» «Le assicuro che non sono l'unico. Posso presentarle almeno una dozzina di professori che le direbbero la stessa cosa, ma sarebbe inutile: lei non vuole ascoltare. In ogni caso, voglio ricordarle ciò che le ho già detto in altre occasioni: non condivido la sua teoria né quella dei suoi amici rispetto al catarismo. Con piacere chiederò che vi permettano di fare le vostre ricerche negli archivi storici, ma non voglio avere nessun altro tipo di collaborazione.»
«Abbiamo trovato altri disegni incisi in una grotta sconosciuta fino a questo momento È stata una combinazione, e mi piacerebbe che venisse a Montségur a dare un'occhiata. Potrebbe venire con me, vado via domani...» «Mi dispiace ma non posso: parto per Berlino» rispose Ferdinand, stanco dell'insistenza dell'aristocratico. «Per Berlino?» chiese sorpreso D'Amis. «Sì, per Berlino.» «Impegni accademici?» insistette il conte. «Questioni personali...» Ferdinand esitò qualche secondo, poi pensò che quel conte con amici influenti in Germania magari avrebbe potuto aiutarlo. «Vado a cercare mia moglie. È sparita.» «Sua moglie sparita? Dove? A Berlino?» Il tono di voce del conte rifletteva lo stupore per la confessione di Ferdinand. «Mia moglie è ebrea. Era andata a cercare i suoi zii, ebrei anche loro, dei quali non avevamo più notizie da tempo. Abbiamo saputo che un gruppo di selvaggi aveva distrutto la loro libreria, una delle più antiche e prestigiose di Berlino, e che loro erano stati picchiati a sangue. Poi non abbiamo saputo più niente. Li chiamavamo, ma al loro telefono non rispondeva nessuno. I miei suoceri si sono messi in contatto con degli amici tedeschi, ma nessuno ha saputo dirci qualcosa di loro. Erano spariti, pertanto Miriam ha deciso di andare a Berlino. Non voleva restare qui senza far niente, soffriva per quello che poteva essere accaduto ai suoi zii. È partita il 20 aprile e da allora non abbiamo più avuto sue notizie.» Il conte lo ascoltava in silenzio guardandolo fisso, come se tentasse di captare un senso occulto nelle sue parole. Ferdinand sperava che D'Amis si offrisse di aiutarlo, ma il silenzio sceso tra i due si stava facendo troppo lungo. «Parto per Berlino, quindi non potrò occuparmi dei suoi disegni, e guardi che avrei una maledettissima voglia di farlo» disse Ferdinand senza nascondere il suo fastidio e la sua delusione. «Cosa vuole?» chiese il conte con voce calma. «Lei conosce gente importante in Germania. Potrebbe aiutarmi.» Il conte rimase di nuovo in silenzio meditando sulla richiesta di Ferdinand. Poi si alzò e gli tese la mano per salutarlo. «Vedrò quello che posso fare. In quale hotel starà a Berlino?» «In realtà non lo so, andrò a casa degli zii di Miriam, e poi... be', immagino che un albergo lo troverò...»
«Va bene, mi scriva qui i nomi delle persone scomparse e quando arriva a Berlino mi chiami. Le dirò con chi può mettersi in contatto e se è possibile fare qualcosa. Ma guardi che non è il miglior momento per andare in Germania. Non credo che un francese sia bene accetto a Berlino.» Ferdinand scrisse in fretta i nomi di Sara e Yitzhak, insieme al loro indirizzo e al nome di sua moglie. Quando consegnò l'appunto al conte gli parve di cogliere nei suoi occhi un'aria di disprezzo. Non si diedero la mano né si dissero altro. Ferdinand rimase in piedi e guardò D'Amis uscire dal suo ufficio, senza sapere se quell'uomo che tanto disprezzava fosse davvero la sua unica e ultima speranza. 6 A Berlino non faceva freddo ma pioveva e l'umidità penetrava nei vestiti ed entrava nelle ossa. Il tassista che lo conduceva a casa degli zii di Miriam era entusiasta di Hitler, che considerava l'uomo della provvidenza per la Germania. Ferdinand taceva, non voleva discutere con quel tizio; in realtà non voleva discutere con nessuno. Voleva solo trovare Miriam. Quando la macchina si fermò davanti all'indirizzo esatto, il tassista si fece sospettoso. «Qui dovevano vivere degli ebrei...» disse guardando la casa con occhio esperto. «Come fa a saperlo?» chiese Ferdinand irritato. «Guardi come è ridotta la libreria di sotto. Di sicuro ha ricevuto la visita dei nostri valorosi giovani. I nostri figli sono la cosa migliore della Germania: coraggiosi, decisi. Sono l'avanguardia della nostra rivoluzione. Di sicuro avranno dato una bella lezione agli ebrei proprietari di quella libreria.» Ferdinand pagò la corsa sforzandosi di trattenersi dal tirargli un pugno. Non aveva mai picchiato nessuno; neanche da bambino gli piaceva litigare, ma quell'uomo era stato in grado di tirar fuori la sua parte peggiore. Si calmò aspettando che il taxi si perdesse nel traffico berlinese prima di avviarsi alla porta. La libreria era distrutta. Dentro non c'era nessuno, sembrava uno scheletro scarnificato. Non era rimasto un solo volume e gli scaffali dove prima i libri venivano esposti in perfetto ordine erano a terra, distrutti, insieme a una moltitudine di frammenti di vetro e resti di pagine strappate e calpestate.
Si diresse verso il fondo della stanza. Lì una porta conduceva a una piccola sala da cui partiva una scala che collegava la libreria con il primo piano, dove si trovava la casa di zia Sara e di suo marito: un appartamento piccolo e accogliente, composto da due camere, una sala, lo studio di zio Yitzhak, una cucina e il bagno. La porta era distrutta, i cardini divelti e sia il tavolo rotondo che le quattro sedie intorno avevano le gambe spezzate. Ferdinand si sentì invadere da un senso di desolazione. La casa era nello stesso stato della libreria: il letto rovesciato, il sofà sventrato a coltellate, piatti e tazze rotti e sparsi per la cucina... "Solo dei barbari possono essere capaci di una devastazione così gratuita" pensò. Vide una foto con la cornice rotta, calpestata insieme ad altre cornici e altre fotografie. Si chinò per raccoglierla. C'erano lui, Miriam, David e i suoi zii: era di cinque anni prima, la volta in cui erano andati a trovarli a Berlino. Tenne lo sguardo fisso sull'immagine di suo figlio. A quel tempo David aveva dodici anni e per lui il viaggio a Berlino era stato un vero e proprio evento. «Hanno distrutto tutto.» Si voltò di soprassalto e si trovò davanti una donna giovane, sui venticinque anni al massimo, di media statura, con i capelli castani e gli occhi azzurri. Né brutta né bella, era una ragazza dal volto anonimo, facile da dimenticare, che teneva un bambino piccolo tra le braccia. «Lei chi è?» chiese Ferdinand in tedesco. Fortunatamente aveva ancora una perfetta padronanza della lingua. «E lei?» «Io sono... sono il nipote di... be', a dire il vero mia moglie è la nipote di Sara, la moglie di Yitzhak Levi.» «Mi chiamo Inge Schmidt, aiutavo i suoi zii.» «Non lo sapevo... Cosa ci fa qui?» «Volevo buttare via un po' di questa roba. Sono venuta diverse volte prima, ma non mi ero mai decisa a farlo. Forse speravo che ricomparissero da un momento all'altro.» «In che cosa aiutava i miei zii?» «Ero con loro da appena un anno. Facevo un po' di tutto: lavoravo giù alla libreria, mi occupavo della posta, sistemavo e pulivo gli scaffali... Immagino che sappia che Sara soffriva di giramenti di testa, e Yitzhak di lombalgia, quindi avevano cercato qualcuno che desse loro una mano.» Ferdinand la guardò sorpreso; come mai quella giovane aveva trovato il coraggio di lavorare per una coppia di ebrei? Sapeva che Sara e Yitzhak,
come tanti altri, portavano cucita la stella di David sui cappotti ed erano segnalati come ebrei; far vedere che s'intrattenevano rapporti con loro voleva dire mettersi in cattiva luce. «Avevo bisogno di un lavoro che mi consentisse di stare con mio figlio» spiegò Inge. «Sono una ragazza madre, la mia famiglia non vuole saperne di me e il padre di mio figlio è sparito prima che il piccolo nascesse. Una cliente del negozio dei suoi zii mi ha procurato questo contatto e loro hanno accettato di farmi venire qui con Günter. I suoi zii erano molto buoni...» «Erano?» «Boh, non so cosa dire: sono, erano... Non so che fine abbiano fatto.» «Mi dica cosa sa di quello che è accaduto.» «Io non c'ero. Era un sabato sera. È arrivato un gruppo di camicie brune, hanno preso a sassate la vetrina e sono entrati nella libreria; hanno cominciato a tirar giù gli scaffali e fare a pezzi i libri, poi sono saliti in casa. I suoi zii erano spaventati, stavano lì abbracciati temendo che quello potesse essere l'ultimo giorno della loro vita. A quanto pare si sono accontentati di malmenarli, lasciandoli a terra sanguinanti.» «E nessuno ha fatto niente? Nessun vicino è arrivato a soccorrerli?» «Vede, il resto d'Europa fa finta di non capire quello che sta accadendo in Germania; neanche i tedeschi vogliono vederlo chiaramente, ed è proprio per questo che Hitler ha campo libero per fare quello che vuole.» «Non ha risposto alla mia domanda; perché nessuno ha fatto niente?» «Perché nessuno aiuterebbe degli ebrei. Vorrebbe dire mettersi in una situazione difficile, diventare persone sospette; quando si tratta di ebrei nessuno vede né sente.» «Chi ha dato l'allarme?» «Sara mi ha raccontato che quando l'incubo era finito e le camicie brune se n'erano andate, loro sono rimasti un bel po' stesi a terra. Non riuscivano a muoversi e il filo del telefono era stato strappato. Io vivo a due isolati da qui e per caso la domenica mattina incontrai la portinaia di questo edificio. Mi raccontò, ridendo, che i miei capi avevano avuto visite e che potevo considerarmi senza lavoro visto che non c'erano più libri da vendere. Mi precipitai qui di corsa con Günter in braccio e li trovai ancora stesi a terra: tremavano, doloranti per le ferite e le botte. Mi dissero di chiamare certi amici loro, una coppia di ebrei anziani; lui è medico anche se è in pensione. Vennero immediatamente qui, con altri amici. Tutti insieme riuscimmo a ridare al locale un aspetto decente, anche se non osammo mettere mano alla libreria, visto che questo avrebbe potuto provocare un ritorno delle
camicie brune. Credo che sua zia si sia messa in contatto con la sua famiglia in Francia; parlava di andarsene via, di scappare da qui.» Inge tacque mentre cercava un posto dove sistemare il bimbo. Rimise in piedi una sedia e lo fece sedere lì. «Non ti muovere, Günter» gli chiese mentre poggiava un sonoro bacio sulla guancia del piccolo. «Se vuole, l'aiuto a rimettere un po' in ordine qui...» «Magari, se non le dispiace...» Ferdinand non aveva ben chiaro se poteva servire a qualcosa quel tentativo di restituire a quel luogo distrutto l'aspetto di una casa, ma restare in attività lo aiutava a tranquillizzarsi mentre continuava ad ascoltare Inge che, con rapidità strabiliante, rimetteva in piedi i mobili, sbatteva i materassi, spazzava i resti dei piatti sparsi sul pavimento della cucina... Lui la seguiva ovunque andasse, facendo ciò che lei ordinava. «E poi? Cos'è accaduto?» «Per qualche giorno sembrava fosse tornata la normalità, quella strana normalità nella quale viviamo. Io venivo a trovarli tutti i giorni. Non potevo fare niente per la libreria ma in qualche modo potevo aiutarli, visto che non riuscivano a muoversi per le legnate. «Un venerdì li salutai. Insistettero perché prendessi il sabato libero, dissero che potevano cavarsela da soli. La verità è che aspettavano la visita di certi amici. Passai qui ugualmente la domenica per vedere come stavano e trovai la casa come lei l'ha vista. Loro non c'erano; scesi dalla portinaia a chiedere e lei mi disse che non sapeva niente. Provai a insistere per sapere se qualcuno era venuto a cercarli, se avevano deciso di andare a casa di qualche amico, ma mi assicurò che non sapeva niente. Salii a chiedere ai vicini del secondo e del terzo piano, a quelli del quarto, ma la risposta fu sempre la stessa: non avevano visto niente, non avevano sentito niente.» «Quando è successo tutto ciò?» «A metà marzo.» «E lei non si è messa in contatto con gli amici dei miei zii?» «La loro agenda era sparita, ma io conoscevo l'indirizzo del medico. Era sparito anche lui e la sua casa... la sua casa era distrutta come questa.» «Ma deve sapere qualcosa di altri amici, di altri indirizzi!» gridò Ferdinand. «Non si alteri. Non so dove vivono gli amici dei suoi zii, non vedo perché dovrei saperlo. Le ho già detto che ho cercato un'agenda, un quaderno, qualcosa dove potessero aver annotato indirizzi e numeri di telefono, ma
non ho trovato niente; magari lei sarà più fortunato.» Ferdinand temette improvvisamente che Inge si arrabbiasse e lo lasciasse lì, che sparisse l'unico legame con Sara e Yitzhak, la sua unica pista per ritrovare Miriam. «Mi scusi, mi dispiace aver gridato... è che mi sento... mi sento male... mia moglie è venuta qui ed è sparita anche lei.» «Sua moglie? Quando? Io non l'ho vista...» «È partita il 20 aprile da Parigi, mi ha promesso di chiamarmi appena arrivata ma non lo ha fatto. L'ambasciata ha tentato di trovarla, senza successo, e io... sono disperato. Miriam era venuta per portare Sara e Yitzhak a Parigi, per farli uscire da questo incubo. Ma ha ragione lei, nessuno vuol vedere nulla di quel che accade qui; ci scandalizziamo quando ci dicono che gli ebrei portano la stella di David cucita sul cappotto, ma non facciamo niente, ci diciamo che passerà, che questa situazione non può durare; che gli ebrei tedeschi sono soprattutto tedeschi...» «Guardi, fino a oggi non ho visto nessuno qui. Possiamo chiedere alla portinaia, ma le dico già da ora che è inutile; quella lì è nazista, potrebbe essere stata lei a denunciare i suoi zii a far girare la voce che volevano andarsene... non lo so.» «E il resto della gente che abita in questa casa?» «Gente anziana, impaurita. Nessuno ha il coraggio di mostrare compassione per gli ebrei, temono di creare equivoci, che qualcuno pensi che il loro sangue non è puro... insomma, tutte queste follie.» «E lei? Non ha paura?» «A me non accadrà niente. Mio padre è nazista, mia madre è nazista, i miei zii sono nazisti... Hanno agganci molto importanti. Io sono la pecora nera della famiglia, non mi accettano ma cercano di non danneggiarmi. Mio padre è poliziotto, mio zio è poliziotto... quindi...» «E il padre di suo figlio?» «Il padre di mio figlio era comunista ed ebreo. Non mi ha abbandonato, so che non mi ha abbandonato, semplicemente è sparito. La mia famiglia prova orrore nel sapere che uno dei loro discendenti, mio figlio, ha sangue ebreo, pertanto preferiscono non sapere niente di me, mi tengono lontana in modo che io, a mia volta, non li comprometta.» «Dove crede che si trovi il padre di suo figlio?» «Non lo so. Forse è morto, o forse è dovuto scappare all'improvviso... non lo so, mi sono messa in contatto con alcuni amici... non si fidano del tutto di me proprio a causa dei miei genitori e di mio zio. Come vede, sono
indesiderabile un po' per tutti.» Inge gli aveva raccontato la sua storia con semplicità, senza alterarsi, come se quanto le era accaduto non fosse per nulla straordinario. Lui rimase a studiarla, cercando di scoprire qualcosa dietro il suo anonimo aspetto da brava ragazza. «Di cosa vive?» «Pulisco le case di alcuni vicini. Mi pagano poco, diciamo pure che mi sfruttano perché sanno che non ho altra scelta. Non so a chi lasciare Günter.» «E sua madre?» «Per mia madre io sono una delusione: non sono nazista, non mi sono sposata ma ho avuto un figlio, frequento ebrei e comunisti... Non vuole neanche vedermi, ha paura che possa contagiarla.» «Mi dispiace» fu tutto quello che riuscì a dire Ferdinand. «Io ho parlato molto di me. Adesso parliamo di lei.» «Gliel'ho già detto: mia moglie è venuta a vedere cosa era successo ai suoi zii e non ne abbiamo saputo più nulla. Abbiamo un figlio, David, e può immaginare l'angoscia che sta vivendo.» Inge entrò nella piccola stanza da bagno con la scopa in mano per spazzare i frammenti di vetro sparsi sul pavimento. «Avrei dovuto mettere in ordine prima, ma ho poco tempo» si scusò. «Lasci stare, lo faccio io, anche se in realtà... be', immagino che sia comunque meglio rimettere un po' in ordine.» Lei stava finendo di spazzare quando Ferdinand si chinò verso il cestino dove aveva visto un oggetto tra i vetri. «Ma cosa fa?» esclamò Inge. «Questo... questo è di Miriam» rispose lui balbettando. Inge guardò l'oggetto che Ferdinand aveva raccolto: una matita per le labbra tutta consumata. Ferdinand la fissò, accarezzandola come se si trattasse di Miriam in carne e ossa. Era rimasto muto e inerme. Quella matita per le labbra gli aveva prodotto un senso di commozione. Uscì dal bagno seguito da Inge e si sedette su una sedia. «È sicuro che sia proprio di sua moglie? Anche Sara si dipingeva le labbra.» «So perfettamente com'era la matita per le labbra di Miriam. Ha usato sempre la stessa, da quando ci siamo conosciuti all'università non le ho mai visto usare un'altra marca o un altro colore...»
«Allora sua moglie è stata qui. Proviamo a vedere se c'è qualche altra traccia.» Per un'ora frugarono tra i resti dell'appartamento; quando infilarono le mani nella spazzatura, si tagliarono cercando tra i vetri rotti. Günter li osservava e di tanto in tanto piangeva per attirare l'attenzione di sua madre. Ferdinand fu tentato di dirle di andare via, di preoccuparsi di suo figlio, ma in realtà aveva paura di restare solo; Inge era l'unico legame con gli zii di Miriam e con la stessa Miriam, perciò, malgrado i singhiozzi del bimbo, la supplicò di aiutarlo ancora. Lei pareva leggergli nel pensiero. «È andata bene che oggi è sabato» disse Inge. «Altrimenti non avrei potuto fermarmi. Nel fine settimana nessuno mi chiede di andare a pulire, quindi posso restare qui a mettere a posto e vedere se troviamo qualcos'altro.» Tre ore dopo, l'appartamento offriva un aspetto più presentabile nonostante il sofà sventrato. Al tavolo del soggiorno mancavano due gambe, i materassi erano distrutti e il freddo filtrava dalle finestre prive di vetri. Ferdinand teneva custodita la matita per le labbra di Miriam come se fosse un tesoro. «Le propongo di venire a casa mia. La invito a mangiare qualcosa e a prendere un tè prima che se ne vada in albergo. Dove alloggia?» «Non lo so» rispose Ferdinand «veramente non ci ho ancora pensato. Magari potrebbe consigliarmi lei un posto che non sia lontano da qui.» Inge soppesò la situazione e parve esitare qualche secondo prima di parlare. «Se vuole posso affittarle io una stanza. In casa ho una camera libera, c'è anche il bagno e... insomma, non è di lusso ma credo possa starci comodo, ho anche il telefono. E non le nascondo che quei soldi mi sarebbero proprio utili.» Lui accettò la proposta. Non si sentiva in grado di stare da solo. Aveva bisogno di una presenza umana al suo fianco, di qualcuno che gli desse un po' di speranza. «Prima di andar via mi piacerebbe parlare con la portinaia» disse Ferdinand. «Scenderemo a cercarla.» Stavano per uscire quando si ritrovarono faccia a faccia con una signora robusta, i capelli tirati sulla nuca e raccolti in uno chignon. Ferdinand ebbe l'impressione che quella donna avesse dentro una cattiveria che le sprizzava da tutti i pori del viso.
«Di nuovo qui, lei...» rimproverò la portinaia a Inge. «Le ho già detto che non mi piace vederla gironzolare da queste parti. Qui non c'è niente che la riguardi. La polizia mi ha chiesto di avvisarla se veniva qualcuno, quindi sarò costretta a dire che lei ha un interesse malsano verso questa casa.» «È stata lei ad avvertire la polizia della visita della signora francese?» le chiese Ferdinand lasciando stupefatta quella grassona che fino ad allora non lo aveva neanche degnato di uno sguardo. «E lei chi è? Cosa le importa di quello che faccio io?» gridò. «Sono un parente dei signori Levi; e mia moglie è stata qui per...» «Un altro ebreo schifoso!» gridò lei. Con lo sguardo Inge pregò Ferdinand di calmarsi. «No, signora Bruning, lui non è ebreo, è un parente indiretto dei Levi e sua moglie era la nipote. A quanto pare è venuta qui a vedere che fine avevano fatto, lei deve averla vista di sicuro.» La portinaia fissò con odio Inge per un istante, prima di spintonarli entrambi verso l'uscita. «Qui non è venuto nessuno; fortunatamente non abbiamo più neanche uno sporco ebreo a contaminare questa casa. Sparite o chiamo la polizia.» Ferdinand schivò uno degli spintoni della portinaia e la affrontò di nuovo, faccia a faccia, girandosi verso di lei. «Mia moglie è stata qui» affermò. «Mi dica dove è andata, se le ha detto qualcosa...» «Se ne vada! Qui non è venuto nessuno.» «Dove sono Yitzhak e Sara?» chiese Ferdinand. «A lei non sfugge niente di quello che succede qui.» «Cosa vuole che ne sappia? Se ne sono andati, punto e basta. E spero che non tornino mai più, quegli sporchi ebrei!» «È impossibile che non abbiano salutato, che non abbiano detto dove andavano...» insistette Ferdinand. «Non lo hanno fatto. Da quella gente non ci si può aspettare nulla, non hanno né i nostri valori né la nostra educazione. Se ne sono andati e basta.» «Mia moglie le ha chiesto di loro quando è stata qui» affermò Ferdinand facendo uno sforzo per risultare gentile. La portinaia lo guardò con disprezzo, ma Ferdinand lesse nel suo sguardo qualcosa di più. La sua interpretazione fu che aveva visto Miriam ed era in possesso di un segreto che la faceva sentire superiore.
«Per favore» la pregò «mi dica cosa sa. Le darò tutto quello che ho.» «Sparisca, non so di cosa mi stia parlando; e quanto a darmi qualcosa... lei non può darmi proprio niente, non voglio niente dagli ebrei né dai loro amici.» Mentre Günter piangeva spaventato, Inge tirò Ferdinand per la manica del cappotto per convincerlo a seguirla, ma lui fece resistenza. «Signora, l'unica cosa che voglio è che mi dica dove sono gli zii di mia moglie, e se ha visto lei... per favore!» «Chiamo la polizia se non smette subito di infastidirmi.» «Lei può chiamare la polizia ma non può buttarmi fuori da qui; questa casa è dei miei parenti e se voglio io resto qui. Lei non può cacciarmi, vedremo cosa dicono le autorità. Parlerò con la mia ambasciata.» La donna rimase sorpresa. Quell'uomo che parlava tedesco con un forte accento francese osava sfidarla. Ebbe un attimo di esitazione ma tornò immediatamente a dominare la situazione. «Benissimo, chiami la sua ambasciata o chi le pare, vedremo cosa succederà quando ne parlerò alla polizia.» «Signora Bruning, mi pare che tutto questo sia inutile» intervenne Inge. «Io posso testimoniare che questo signore è un parente dei Levi, quindi lei non può impedirci di stare qui.» «Andate via!» gridò la donna spingendoli fuori dal portone e sbattendolo con forza. Quando si ritrovarono in strada, Ferdinand fece per tornare indietro, ma Inge gli chiese di fermarsi. «Ora starà chiamando le camicie brune, e se quelli vengono... è meglio che non ci trovino qui; torneremo in un altro momento.» «Ma io sono cittadino francese!» «Qui lei non è nessuno, nessuno di noi vale qualcosa; contano soltanto loro. Prima le daranno una bella lezione, poi la butteranno vicino a una discarica; nessuno avrà visto niente, nessuno saprà niente, diranno che si è ficcato in qualche brutto affare, che è un delinquente o la prima cosa che verrà loro in mente, e la sua ambasciata non farà assolutamente nulla. Non crederà mica che la Francia dichiarerà guerra alla Germania per lei?» Ferdinand rimase in silenzio stringendosi nel cappotto. Si sentiva più impotente che mai. «Miriam è stata in casa dei suoi zii» disse con un filo di voce. «Può darsi, ma loro non erano più lì.» «Se ha chiesto di loro a quella donna...»
«Se lo ha fatto, sappiamo già cos'è successo.» «Ma io sono sicuro che lei sia entrata in quella casa. Ho bisogno di parlare con i vicini; qualcuno dovrà pur sapere qualcosa...» Inge si fermò bruscamente e si piazzò di fronte a lui con espressione seria. «Io voglio aiutarla, ma con intelligenza. Lei non sa con chi ha a che fare.» «E lei invece lo sa?» «Sì, io lo so. Io vivo qui, ho visto migliaia di persone iscriversi a un'anagrafe speciale registrandosi come ebrei, cucirsi addosso una stella gialla sui vestiti per poter uscire di casa; io ho visto i loro negozi e le loro case devastate come quello di Yitzhak e Sara, e ho visto anche sparire compagni di università, comunisti come il padre di mio figlio; ho toccato con mano che la gente intorno a me non vede nulla. Glielo sto spiegando ma ho l'impressione che lei si rifiuti di credermi.» «Le credo, Inge» sussurrò Ferdinand «ma adesso so che Miriam è stata qui e devo fare qualcosa.» «Lo farà. Ma tornare adesso a casa di Yitzhak e Sara non servirebbe a niente. Ho la chiave del portone: possiamo tornare di notte o in un altro momento.» Inge spiegò alla portinaia del palazzo in cui viveva che Ferdinand era parente di suoi amici, che si trovava a Berlino per lavoro e che lei gli avrebbe affittato una stanza per tutto il tempo della sua permanenza. «È nazista anche lei?» le chiese l'uomo mentre salivano le scale. «Non come la signora Bruning, ma anche a lei piace molto Hitler. Dice che restituirà alla Germania la sua antica grandezza. A modo suo è gentile con me; è stata lei a parlare con i vicini dicendo che ero disponibile a fare le pulizie.» Entrarono nell'appartamento all'ultimo piano. Era una soffitta con il tetto spiovente, dove in certe zone si riusciva a stento a stare dritti in piedi. Dall'ingresso, piccolissimo, si accedeva a una sala e a due porte: una immetteva nella cucina, l'altra nel bagno. La sala, a sua volta, aveva altre due porte, ognuna delle quali conduceva a una piccola camera da letto. «Sono venuta a vivere qui quando il mio fidanzato è sparito; l'affitto non è molto alto, la padrona vive al primo piano e affitta questo sottotetto. Ce ne sono quattro in totale: di fianco c'è l'appartamento di una signora che comprava i libri dai suoi zii. È maestra, zitella, senza figli; è una brava persona che detesta quello che sta accadendo qui in Germania. Un'altra soffit-
ta la occupano un musicista e sua moglie, una coppia di anziani che fanno una gran fatica a salire le scale. Lui si guadagna da vivere suonando il piano in un ristorante. E nella quarta soffitta vive Hans. Non conosco il suo cognome, ma lo chiamano tutti Hans: è uno studente di medicina. Sono buoni vicini, noi siamo i poveri del palazzo. Ai piani bassi vive la gente benestante.» Ferdinand svuotò la piccola valigia che aveva portato con sé. Un vestito, un maglione, un paio di pantaloni, biancheria intima e un paio di camicie. La stanza era piccola, con una finestra ovale da cui si vedeva la strada. Un letto, un tavolino, un paio di sedie e un armadio la occupavano tutta senza lasciare neanche un buco libero. Comunque, era comoda, allegra e pulita. Lui si sentiva strano lì dentro, ma era sempre meglio che stare solo. Telefonò ai suoceri per raccontare cos'era successo e fu contento che David non fosse in casa. Temeva il momento in cui avrebbe dovuto dirgli che non sapeva ancora niente di sua madre. Spiegò a suo suocero che si sarebbe fermato a casa dell'impiegata di zio Yitzhak e zia Sara e che l'avrebbe aiutato a cercarli; infine lasciò il numero di telefono perché David, una volta tornato, potesse chiamarlo. Da loro volle sapere gli indirizzi e i numeri di telefono degli amici ebrei di Yitzhak e Sara, qualcuno che potesse dargli una pista su di loro, per piccola che fosse. 7 Inge non tardò a preparare un pasto leggero: una frittata con un po' di formaggio. Poi gli offrì un tè. Günter ebbe la sua pappa di farina e uovo sbattuto. Il bimbo mangiò senza fiatare e poi, stanco, si addormentò tra le braccia della madre. «Mi dispiace, non ho niente di meglio da offrirle, ma quel che ho mi basta appena per vivere» si scusò. «La frittata era buona e poi non ho proprio fame. Ma visto che devo restare qui, tenga» le consegnò un fascio di biglietti presi dal portafogli. «Oltre all'affitto dell'appartamento, che poi mi dirà quant'è, questo servirà a pagare le mie spese, il cibo, il telefono... insomma... Non voglio essere un peso per lei.» «Grazie...» disse lei prendendo il denaro. «Quanto all'affitto mi dia quello che ritiene giusto. Quello che lei deciderà mi andrà bene.» Stabilirono la cifra per una settimana di affitto della stanza. Ferdinand credeva che in quel lasso di tempo sarebbe riuscito a mettersi sulle tracce
di Miriam e dei suoi zii e, con un po' di fortuna, magari anche a trovarli e a riportarli con sé in Francia. Inge non volle contraddirlo. Lei però era sicura che le cose non sarebbero state così facili. Dopo aver mangiato, Ferdinand andò all'ambasciata di Francia ma non trovò il funzionario amico del cognato di Paul Castres. Gli chiesero di scrivere il suo nome su un foglietto e tornare il giorno successivo alle otto. Quando uscì dall'ambasciata fermò un taxi e gli diede uno degli indirizzi che gli aveva fornito suo suocero. Il tassista lo osservava attraverso lo specchietto retrovisore e Ferdinand cominciò a sentirsi a disagio. «Lei è francese» disse il tassista. «Sì, sono francese.» «Parla bene il tedesco, ma l'accento...» «È vero» ammise Ferdinand. «Sta andando in una zona dove vivono molti ebrei» disse il tassista, attento alla sua reazione. Ferdinand decise di non rispondere; cosa avrebbe potuto dire a quell'uomo che quasi sicuramente era un nazista? «Qui le cose non vanno bene per gli ebrei» insistette il tassista. «Sì, lo so» rispose svogliatamente. «A quanto pare è tutta colpa loro» disse il tassista in tono scherzoso. «Non lo sapevo.» «Bene, siamo arrivati, quella è la casa che cerca e quella macchina nera che vede parcheggiata lì è della polizia.» Ferdinand scese dal taxi e si diresse con passo rapido verso l'edificio. Suonò diverse volte il campanello, fino a quando una donna magra e nervosa aprì la porta guardandolo con terrore. «Vorrei vedere il professor Bauer» disse Ferdinand. «Lei chi è?» chiese la donna. «Guardi, a quanto pare gli zii di mia moglie, Sara e Yitzhak Levi, conoscono il professore, come pure i miei suoceri. Sono stati loro a darmi questo indirizzo. Tenga il mio biglietto da visita, sono professore all'Università di Parigi.» La donna lo esaminò con aria afflitta, esitando sul da farsi, poi decise di lasciarlo entrare. «Venga.» Lo accompagnò in una sala nella quale gli chiese di aspettare. Il professor Bauer non tardò molto ad arrivare. L'uomo, ormai avanti con
gli anni, conservava ancora una certa prestanza fisica: era alto, con le spalle larghe e brillanti occhi di un azzurro intenso. «Lei chi è?» «Mi chiamo Ferdinand Arnaud, mia moglie Miriam è la nipote di Yitzhak e Sara Levi. Sono spariti entrambi. Mia moglie è venuta a Berlino ed è sparita anche lei.» Gli occhi del professor Bauer si velarono di compassione per quell'uomo che si era presentato senza preavviso in casa sua. Vedeva che era disperato, ma anche deciso a rimanere lucido, per quanta fatica gli costasse. «Conosco Sara e Yitzhak e so per certo che sono spariti. Di sua moglie invece non ho notizie. Mi dispiace.» La donna entrò con un vassoio e un servizio da tè e lo sistemò diligentemente su un tavolino basso, quindi uscì senza dire nulla. «Mia moglie Lea era molto amica di Sara. In realtà è stata la prima amica che Sara ha avuto a Berlino.» «Mio suocero me l'ha raccontato» sussurrò Ferdinand. «Ho conosciuto i suoi suoceri qualche anno fa, poi li ho visti in un paio di occasioni quando erano venuti a trovare Yitzhak e Sara.» «Che cosa ne è stato di loro?» chiese Ferdinand, temendo tutte le peggiori risposte che avrebbe potuto dargli il professor Bauer. «Li hanno fatti sparire. Non sono i primi e non saranno gli ultimi. Un giorno succederà anche a noi.» «Ma com'è possibile?» «Siamo ebrei.» «Ma...» «Non ne sappiamo molto, signor Arnaud. Solo che alcuni ebrei vengono portati nei campi di lavoro. Non sappiamo con certezza neppure dove si trovano questi campi. Nessuno è tornato per raccontarlo.» «Ma perché? Non riesco a capirlo.» «Gliel'ho già detto: siamo ebrei, soltanto ebrei. Improvvisamente abbiamo smesso di essere tedeschi.» «E questo significa...» «Che ci spogliano dei nostri averi, che non abbiamo diritto di possedere nulla, che sopravviviamo più che vivere, che ci portano nei campi di lavoro per far funzionare le fabbriche di armi, che non possiamo girare per strada come cittadini normali, che abbiamo perso la nostra occupazione... Io ho perso la mia cattedra, signor Arnaud. Ho insegnato medicina per
quarant'anni, ma siccome sono ebreo pare che potrei contaminare i giovani tedeschi. Adesso vivo recluso in casa, anche se posso considerarmi fortunato: altri colleghi sono già spariti, li hanno fatti sparire.» «E lei come...» «Come mai sono ancora qui? Tra tanto male è ancora possibile incontrare del bene. Non tutti i tedeschi sono uguali, anche se la maggior parte preferisce guardare dall'altra parte e non sapere niente; fortunatamente c'è anche gente buona, gente che lotta contro l'ingiustizia anche a rischio del proprio benessere. Ho amici che tentano di proteggermi, professori come me, colleghi, pazienti ai quali ho salvato la vita come medico, che fanno l'impossibile per aiutarci a vivere, per non farci sparire come tanti altri ebrei. Ma so bene che non saremo un'eccezione, che è questione di tempo e poi verranno a prenderci. Un giorno spariremo, proprio come Yitzhak e Sara.» «Quello che sta dicendo è una follia! Non è possibile!» Il professor Bauer lo guardò con aria di commiserazione. Non voleva dare a quell'uomo false speranze, per quanto grande fosse la sua disperazione. «Sappiamo che le camicie brune hanno distrutto la libreria di Yitzhak e hanno fatto un falò con i libri. Li hanno picchiati e spaccato loro le ossa; un altro nostro amico, il dottor Haddas, era andato a soccorrerli dopo essere stato avvertito da una ragazza che lavorava per loro. Ma le camicie brune sono tornate qualche giorno dopo e Yitzhak e Sara sono spariti, come pure sono spariti il dottor Haddas e la sua famiglia. Crede che non abbiamo tentato di indagare per sapere dove si trovano? È come andare a sbattere contro un muro, nessuno sa niente.» «Mia moglie è arrivata a Berlino pochi giorni fa. So che è stata in casa dei suoi zii perché ho ritrovato questo...» Ferdinand gli mostrò la matita per le labbra che aveva avvolto in un fazzoletto. «L'ho trovata sul pavimento del bagno, tra gli oggetti distrutti... io credo che la portinaia sappia qualcosa, ma ci ha sbattuto fuori.» Il professore chiese a Ferdinand di calmarsi e di spiegargli minuziosamente tutto quello che era accaduto dal suo arrivo. Lo ascoltò in silenzio, sentendo l'angoscia profonda che ogni sua parola distillava. «La portinaia, i vicini... in molti casi sono i punti di riferimento dei gruppi di camicie brune. Si affrettano a denunciare che nei loro palazzi vivono degli ebrei... e poi, una notte, arrivano quei selvaggi e distruggono tutto. Può darsi che quella donna abbia visto sua moglie, ma nessuno la
obbligherà mai a confessarlo; lei si sente forte. In Germania non fa differenza un ebreo in più o un ebreo in meno.» «Posso sempre denunciarla.» «Cosa vuole denunciare? Dirà di aver trovato la matita per le labbra di sua moglie e di avere il sospetto che la portinaia possa averla vista. Nient'altro. Non s'illuda. Nessuno farà niente per lei.» «Ma chi l'ha fatta sparire?» chiese Ferdinand alzando la voce. «La polizia, le camicie brune, la Gestapo... il regime, signor Arnaud. Vada alla polizia, si faccia accompagnare da qualcuno della sua ambasciata, presenti pure una denuncia, ma nessuno farà niente perché non indagheranno su se stessi.» «Mia moglie però è francese.» «Non so cosa le sia accaduto, non lo so, ma da quello che mi ha raccontato non è difficile immaginare alcune delle cose che possono esserle successe. Forse ha avuto una discussione con la portinaia quando le ha chiesto di Yitzhak e Sara; forse quella nazista l'ha denunciata e i suoi amici della polizia o delle camicie brune si sono presentati ad arrestarla. Siamo in guerra, professore, la sua ambasciata presenterà tutte le richieste che saranno necessarie, ma se a qualcuno è scappata la mano con sua moglie... o se qualcuno ha deciso di punirla per il suo atteggiamento, se si è scontrata con loro... allora può essere successa qualsiasi cosa.» Ferdinand nascose il viso tra le mani e pianse. Non sopportava di sentire quelle parole. Quell'uomo non gli stava lasciando neanche un filo di speranza. Rifiutava di ammettere che nella Germania che lui aveva conosciuto, quella della ragione e dell'intelligenza, potesse accadere tutto questo. Stentava a riconoscere quel paese. «Mi sta dicendo che devo arrendermi e tornare in Francia?» domandò al medico con voce rotta. «Le sto semplicemente descrivendo la situazione. Mi perdoni.» «Sara e Yitzhak potrebbero essersi nascosti in casa di qualche amico?» Bauer esitò prima di dargli una risposta. «Professor Arnaud, se fossero nascosti lo sapremmo, ce l'avrebbero fatto sapere, glielo assicuro.» «Cosa posso fare? Cosa farebbe lei al mio posto?» «Gliel'ho già detto. Cercherei di trovarli, ma sapendo a cosa vado incontro.» In quel momento entrò Lea, la moglie del dottor Bauer. Era una donna minuta e nervosa che si tormentava le mani continuamente.
«Professor Arnaud, alcuni mesi fa sono spariti nostro figlio e sua moglie con i nostri due nipoti, il più grande di ventun anni, il piccolo di diciassette. Abbiamo fatto l'impossibile per sapere dove si trovano; gli amici che così generosamente ci aiutano hanno provato in tutti i modi, ma non siamo riusciti a sapere niente, solo che probabilmente sono in un campo di lavoro, nient'altro. Non abbiamo neanche la certezza che siano vivi... Per questo mio marito preferisce non ingannarla dicendole false parole di conforto.» La donna si mise a piangere asciugandosi le lacrime con un fazzoletto. Il professor Bauer si alzò e l'abbracciò. «Avanti cara, dài, non piangere.» «Mi dispiace» mormorò Ferdinand. «Mi dispiace...» «Non deve scusarsi, comprendiamo il suo dolore perché è il nostro, come quello di tanti altri della nostra comunità che un giorno hanno visto sparire genitori, figli, fratelli, nipoti. Tutti i giorni arrivano notizie di queste sparizioni. Sua moglie è francese, magari avrà più fortuna e riuscirà... Non voglio essere crudele con lei, ma proprio perché è francese sarà difficile che la restituiscano se l'hanno maltrattata... Se l'hanno spedita in un campo per errore, come potrebbero ammetterlo? Mi dispiace signor Arnaud, mi dispiace che sia toccato a me dirle questa verità. Io e mia moglie sappiamo quanto lei stia soffrendo...» Il professor Bauer gli consegnò una lista con gli indirizzi degli amici più intimi di Sara e Yitzhak, insistendo che fosse prudente perché era possibile che la polizia lo stesse seguendo. «Sicuramente la portinaia della casa di Yitzhak deve aver fatto sapere ai suoi amici che lei sta chiedendo informazioni su sua moglie e gli zii. Faccia attenzione. Per lei, e per noi.» «Per quel che riguarda Inge... insomma, sapete dirmi se Yitzhak e Sara si fidavano di lei? Si è offerta di affittarmi una stanza e io ho accettato, non so se sono stato troppo precipitoso...» «È una brava ragazza» assicurò Lea «È comunista come il suo fidanzato, solo che non sono riusciti a prenderla; o forse, come dice lei, è suo padre che, pur non parlandole, la protegge ed evita che finisca in galera.» «È comunista anche lei?» chiese Ferdinand sorpreso. «Sì, così mi ha raccontato Sara. Lei e il suo fidanzato erano nella stessa cellula e lui un bel giorno è sparito. Doveva distribuire dei volantini all'università; devono averlo fermato perché del ragazzo non si è saputo più nulla. Inge ha avuto un figlio da lui, e pare si sia un po' allontanata dai suoi
vecchi compagni, ma non lo so esattamente. Comunque credo che di lei si possa fidare.» «Grazie... non so come ringraziarvi per quello che avete fatto per me.» «Non abbiamo fatto niente, tranne toglierle le poche speranze che aveva.» «Per favore, saluti i suoi suoceri da parte nostra» gli chiese il professor Bauer. «Sono stati degli splendidi anfitrioni quando siamo stati a Parigi.» Uscendo, Ferdinand notò che all'angolo della strada c'era ancora la stessa macchina nera con due individui sinistri. Decise di camminare un po' per mettere in ordine le sue emozioni. Era sfinito, non solo perché non si era ancora riposato dopo il viaggio, ma anche per tutto quello che aveva vissuto nelle ultime ore. Si fermò davanti a un negozio che stava per chiudere. Comprò mele, caffè, tè, farina, biscotti, pasta, burro e prosciutto, sperando in quel modo di rendere la sua presenza meno onerosa per Inge. Dovette camminare più del previsto prima di trovare un taxi e, quando riuscì a prenderne uno, si sentì finalmente sollevato. Conosceva Berlino, ma non abbastanza da non perdersi. Inge aveva appena fatto il bagno a Günter e gli stava dando da mangiare. Il bambino aveva sonno e si addormentò appena sua madre lo posò sul letto. Ferdinand le raccontò la visita alla sua ambasciata e ai Bauer e tutto ciò che questi gli avevano detto, tranne il fatto che la credevano una militante comunista. Lei sembrava assorta, come se avesse la testa da un'altra parte. «Posso chiederle un favore?» Ferdinand la guardò sorpresa. Era lui quello che aveva bisogno di favori, ma le rispose di sì. «Ho bisogno di uscire un'ora, forse due. Günter è buonissimo e dorme d'un fiato tutta la notte, ma sarei più tranquilla sapendo che se ne prenderà cura lei. Le chiedo solo di lasciare la porta della sua stanza socchiusa, nel caso in cui dovesse svegliarsi a mettersi a piangere.» Ferdinand le disse che poteva contare su di lui, anche se scherzò dicendo che, data la stanchezza, avrebbe dormito come un sasso pure lui. La ragazza sorrise distratta e, una volta sparecchiata la tavola, lo salutò. «Non tornerò tardi. Grazie di nuovo, è molto gentile a occuparsi del bambino.» Dove andava? Intuì che si sarebbe riunita con i suoi compagni comunisti.
Ora che era solo decise di chiamare David. Suo figlio gli chiese angosciato se aveva trovato almeno qualche traccia della madre e lui fece un largo giro di parole per non togliergli la speranza. Poi parlò di nuovo con suo suocero, che gli chiese di continuare la ricerca di Miriam ribadendo di non preoccuparsi per David, perché loro se ne prendevano cura come di un tesoro. Quando finalmente Ferdinand si mise a letto sentì un desiderio profondo di piangere. Dov'era Miriam? L'avrebbe mai rivista o sarebbe sparita per sempre? Faticò ad addormentarsi; erano le due di notte quando guardò l'orologio per l'ultima volta. Inge non era tornata; era capitato qualcosa anche a lei? «Si svegli, o arriverà tardi.» Inge era sulla soglia e, pur essendo perfettamente vestita e pettinata, mostrava i segni della carenza di sonno. «Sono le sei e mezzo, vado a preparare il caffè e il pane tostato, vuol fare colazione?» Ferdinand annuì e si diresse verso il bagno dove, dopo la doccia, si diede da fare per radersi velocemente. Venti minuti dopo erano entrambi seduti a tavola a fare colazione. «Questo è un lusso» disse Inge. «Di solito non mi posso permettere di comprare il caffè, è troppo caro per le mie tasche.» Dopo colazione svegliò anche Günter, gli diede il latte con i biscotti e lo vestì in fretta. «Oggi ho tre appartamenti da pulire, quindi non ci vedremo fino a stasera. A meno che lei non voglia venire a pranzo. A mezzogiorno torno a casa per dare da mangiare a Günter e poi torno al lavoro.» «Non si preoccupi per me. Devo andare in ambasciata e voglio far visita a certi altri amici di Yitzhak e Sara, non ho altre piste da seguire.» Lei si morse il labbro. Stava per dire qualcosa, ma poi si trattenne. Subito dopo uscì con il bambino in braccio. 8 In ambasciata lo stavano aspettando. Il funzionario lo ascoltò con pazienza e cortesia fino a quando Ferdinand ebbe terminato il suo racconto. «Bene, come le avranno già detto, ci siamo mossi per trovare sua moglie. Io stesso mi sono recato presso il domicilio dei signori Levi, e natu-
ralmente l'atteggiamento della portinaia non è stato collaborativo. Non aspettava altro che ce ne andassimo e non mi ha fornito alcuna spiegazione tranne il fatto che gli zii di sua moglie non erano in casa. Abbiamo parlato con alcuni amici che ancora abbiamo all'interno della polizia e del ministero degli Esteri tedesco. Tutti hanno promesso di seguire il caso con il massimo impegno, ma fino a ora non sono stati in grado di fornirci ragioni convincenti dell'accaduto.» «Ma stanno facendo davvero qualcosa?» chiese Ferdinand senza nascondere la sua disperazione. «Ufficialmente valutano le nostre richieste, ci ascoltano e ci assicurano che faranno tutto quanto è nelle loro possibilità.» «E lei che cosa crede?» Il funzionario abbassò lo sguardo, cercò una sigaretta, ne offrì una a Ferdinand e poi rispose. Aveva avuto bisogno di quei secondi per valutare se poteva dare una risposta relativamente sincera a quell'uomo disperato. «Le mie opinioni personali non contano, signor Arnaud. Lei sa quello che sta accadendo. La Germania è in guerra; prima ci sono stati i Sudeti, poi... vedremo, ma credo che Hitler continuerà a far avanzare i suoi eserciti fino a piegare tutta l'Europa. In questo momento la posizione della Francia è molto delicata. Hitler si crede invincibile, non teme niente e nessuno, non c'è nazione che lui rispetti.» «Per favore, conosco perfettamente la situazione politica.» «Davvero la conosce? Bene, allora non le sarà molto difficile comprendere che per il ministero degli Esteri tedesco sua moglie è l'ultimo dei problemi. Mi dispiace dirglielo così.» «Mi sta dicendo che il ministero degli Esteri tedesco non si preoccupa della sparizione e della denuncia di una cittadina francese?» «No, non se ne preoccupa. Questa è la verità. Hanno preso nota, mi hanno fatto riempire diversi moduli e basta.» «E la polizia?» chiese Ferdinand come se non avesse ascoltato le ultime parole. «La polizia dice che la nostra unica certezza è che sua moglie ha preso un treno diretto a Berlino, ma questo non significa necessariamente che sia arrivata fin qui, potrebbe essere scesa in qualsiasi stazione... Nessuno l'ha vista, non abbiamo un solo testimone che affermi che sua moglie è arrivata a Berlino.» Ferdinand tirò fuori dalla tasca un fazzoletto nel quale aveva avvolto la matita per le labbra.
«L'ho trovata sul pavimento del bagno in casa dei suoi zii: è di Miriam.» L'uomo guardò l'oggetto senza toccarlo. «Bene, manderò una nota alla polizia e al ministero degli Esteri per metterli al corrente del ritrovamento; è soddisfatto?» «Sì, però voglio che faccia anche un'altra cosa. Chieda alla polizia se ha interrogato il controllore del treno. Deve averle chiesto il biglietto. Lui potrebbe dire se è scesa a Berlino.» «Ha una foto di sua moglie?» «Sì, ne ho portate diverse.» Tirò fuori dal portafogli quattro foto di Miriam. Il funzionario le guardò con curiosità. Le immagini erano di una donna matura, sui quarant'anni, alta, magra, capelli corti di un castano chiaro e occhi marroni. «Ora mi dica: che altro posso fare?» chiese disperato il professore. «Aspettare, soltanto aspettare. Se vuole può tornare a Parigi. Ci metteremo in contatto con lei appena ci saranno novità.» «Lei cosa farebbe se sua moglie fosse sparita in queste circostanze?» «Pregherei.» Ferdinand non si aspettava una risposta che potesse sorprenderlo tanto nel profondo dell'anima. «Cosa è successo a mia moglie?» chiese ormai senza forza. «Le assicuro che non lo so. Le do la mia parola che stiamo facendo tutto quanto è nelle nostre possibilità.» «Ma senza fiducia, senza speranza. Per voi è un lavoro di routine.» «Signor Arnaud, le assicuro che comprendo la sua angoscia, ma per quanto le sembri incredibile, è difficile fare più di quello che stiamo facendo. Hitler ha cambiato le regole, gliel'ho detto, disprezza tanto i suoi nemici quanto gli alleati e in Germania lui è la legge.» «Voglio che interroghino il controllore» insistette Ferdinand. «Lo chiederò.» Stabilirono di rivedersi qualche giorno più tardi. Non aveva altro da fare, pertanto si diresse lui stesso alla stazione. Passeggiò avanti e indietro nell'atrio fino a quando si decise ad avvicinarsi a uno sportello e chiedere del capo stazione. Quando riuscì a trovarlo, questi lo ascoltò impaziente come se si trattasse di un matto. Il treno da Parigi era già arrivato e il controllore stava riposando. Poteva ritentare un altro giorno e avrebbe avuto maggiore fortuna, anche se difficilmente quello si sarebbe ricordato di una passeggera in particolare. Per caso aveva qualcosa di speciale? Nel libro dei verbali in data
20 di aprile non era registrato nulla di rilevante. Lo salutò senza troppi complimenti e Ferdinand si sentì solo come mai aveva immaginato di potersi sentire. Decise che avrebbe continuato a far visita agli amici di Yitzhak e Sara spulciando la lista che gli aveva dato suo suocero. Il negozio dei Landauer non era lontano così s'incamminò a piedi. Il palazzo era signorile e i passanti in quella zona davano l'impressione di essere gente benestante. Cercava un negozio di antiquariato; suo suocero gli aveva detto che si trattava di uno dei migliori di Berlino. Probabilmente lo era stato, ma adesso era chiuso e con le vetrine rotte. Era evidente che il negozio dei Landauer aveva ricevuto la visita delle camicie brune. Entrò nel portone di fianco e chiese alla portinaia della famiglia Landauer. «Sono andati via» disse la donna. «Non credo che torneranno.» «E al negozio cos'è successo?» «Erano ebrei» rispose la donna come giustificazione. «Che io sappia erano tedeschi.» Ferdinand si sentiva dominato dall'ira. «Ebrei, erano ebrei» insistette la donna. «Dove li hanno portati?» «Portati? Io non ho detto che li hanno portati via, ho detto solo che se ne sono andati. E lei chi è? Un altro ebreo?» Ferdinand la fissò con rabbia; stava per dirle di no, che lui non era ebreo, ma fece esattamente il contrario. «Sì, anch'io sono ebreo, e adesso corra a denunciarmi ai suoi amici.» Uscì dal portone con passo rapido, almeno quanto il suo respiro. Ma davvero le portinaie di Berlino erano tutte uguali? Si chiese se quella donna, se tutti coloro che avevano trasformato gli ebrei nel capro espiatorio delle loro follie andavano a messa, se erano cristiani, se si rendevano conto che il cristianesimo era nato da Gesù, un ebreo. Non ebbe miglior sorte ai due indirizzi successivi. Nessuno seppe dargli notizie delle famiglie che stava cercando. Erano andati via, dicevano senza aggiungere altro. All'ultimo indirizzo aprì la porta una donna sui trent'anni, i capelli già bianchi e gli occhi che tradivano la paura. «Per favore, vorrei parlare con il signor Schneider.» «È mio padre, ma non c'è. Chi è lei?» Ferdinand gli spiegò brevemente chi era e perché si trovava lì; la donna lo invitò a entrare. «Yitzhak e Sara sono amici dei miei genitori, li conosco bene, abbiamo
festeggiato molti Shabbath con loro. Siamo andati a trovarli quando c'è stato quel "problema" con la libreria; poi loro sono spariti. Mio padre si è avvicinato diverse volte a casa loro, con estrema precauzione, lo sa anche lei che noi ebrei non siamo bene accolti da nessuna parte.» «Voi almeno siete ancora qui.» «Per quanto tempo? Lo vede lei stesso. Un giorno all'improvviso la gente sparisce, smette di esistere. Dicono che gli ebrei vengono portati nei campi di lavoro. Ma che ne fanno di anziani e bambini? Ho due figlie e sono riuscita a portarle fuori dalla Germania, è l'unica cosa di cui mi sento soddisfatta.» «Portarle fuori? Dove?» «Abbiamo dei parenti negli Stati Uniti, un mio fratello si è trasferito lì da qualche anno. Io... io lavoravo al ministero degli Esteri prima che mi mandassero via; lì dentro si sentivano tante cose, c'è molta brava gente, anche se spaventata come noi. Il mio capo era un brav'uomo, un giorno mi chiamò per dirmi che doveva licenziarmi, che io non ero una persona affidabile per i nuovi padroni della Germania, e mi diede un consiglio: "Vattene, fallo prima che sia troppo tardi, vattene con le tue figlie, io farò il possibile per aiutarti". Io non volevo lasciare qui i miei genitori, loro si rifiutavano di abbandonare la loro città, mi ripetevano che noi eravamo tedeschi. Ma decisi che se quell'uomo mi aveva parlato così doveva esserci un motivo molto serio, così mi misi in contatto con mio fratello e gli chiesi se poteva farsi carico delle bambine. Ringrazio Dio perché loro adesso vivono sicure a New York.» «Dove sono i suoi genitori ora?» «Sono andati a trovare degli amici, spero che non abbiano problemi. Quando esci di casa non sai mai se tornerai.» Non si trattenne ancora molto; sapeva che la donna non poteva scacciare nessuna delle ombre sulla scomparsa di Yitzhak e Sara, e ancor meno su quella di Miriam. Vagò per la città senza meta ed entrò in diversi negozi per comprare un po' di roba da mangiare che avrebbe portato a Inge. Quando lei lo vide arrivare carico di pacchetti lo rimproverò. «Non dovrebbe comprare tante cose; la ringrazio, ma non voglio che si senta obbligato, lei sta già pagando la sua stanza.» «Non volevo offenderla» si scusò. «No, non mi offende, al contrario, sono io a volere che lei non si senta obbligato ad aiutarmi. Io accetto la vita come viene. In realtà sono io che
ho scelto quello che mi sta succedendo.» Ferdinand si indignò sentendola parlare così. No, lei non aveva scelto di avere una famiglia di nazisti, né di nascere in un paese che rasentava la follia, né di avere un fidanzato scomparso, o di non poter avere altro lavoro che quello di pulire i pavimenti. Lei non aveva scelto quello che le stava capitando, in nessun modo aveva scelto di vivere quell'incubo. Cenarono quasi in silenzio, Günter dormiva già da un po'. Inge era stanca, e anche lui; l'aiutò a sparecchiare e poi le chiese il permesso di telefonare a suo figlio. La conversazione con David stava diventando difficile, ma non poteva ingannarlo né dargli false speranze. «Figliolo, io continuo a cercarla, faccio l'impossibile, ma se sapessi com'è diventato questo paese...» A David importava poco della situazione della Germania; l'unica cosa che voleva era ritrovare sua madre, non accettava che fosse scomparsa né che l'avesse abbandonato senza dire niente. Lui sapeva bene che per nulla al mondo l'avrebbe lasciato. Ferdinand dormì come un sasso tutta la notte, e si sorprese quando al mattino seguente Inge lo svegliò. «Devo andare al lavoro, le ho lasciato il caffè in cucina.» «Che ora è?» «Le otto. Ieri non mi ha detto che doveva alzarsi presto e così ho pensato che le avrebbe fatto bene dormire un po' di più.» Appena sentì la porta chiudersi saltò giù dal letto. Non aveva niente da fare. Aveva già fatto visita agli amici di Yitzhak e Sara che conosceva suo suocero e al funzionario dell'ambasciata doveva dare ancora un po' di tempo: non poteva presentarsi a chiedere notizie tutti i giorni. Improvvisamente pensò a D'Amis. Gli aveva chiesto aiuto e lui non si era pronunciato. Quando il conte rispose al telefono lo sentì di malumore e per tutta la conversazione fu secco e tagliente; alla fine, dopo molte insistenze, accettò di dargli il numero di telefono del barone Von Steiner affinché lo chiamasse a suo nome. Il barone fu sorpreso di ricevere la sua telefonata, ma accettò di riceverlo quello stesso pomeriggio alle tre, nel suo ufficio. Ferdinand tornò alla stazione. Neanche stavolta fu fortunato e non trovò il controllore del treno in arrivo da Parigi. Passeggiò per Berlino senza meta. Sapeva che non avrebbe ottenuto niente, ma decise di tornare a casa degli zii di Miriam. Fece quattro passi avanti e indietro sul marciapiede, fissando le vetrine
rotte della libreria, sulla cui porta avevano inchiodato delle assi di legno per impedire l'ingresso agli intrusi. Pareva una casa disabitata, anche se sapeva che non era così. Ebbe la sensazione che al secondo piano ci fosse qualcuno che lo osservava, ma non riuscì a vederlo. Tornò a casa di Inge proprio nel momento in cui lei stava dando da mangiare al figlio. «Vuole che le prepari qualcosa?» propose lei. «Non si preoccupi, non ho fame. Prenderò tè e biscotti.» «Deve mangiare, stare a digiuno non le servirà a niente. Si pensa male quando si ha lo stomaco vuoto.» «Non ne ho voglia, davvero, mangerò a cena. Alle tre devo vedere una persona, il barone Von Steiner.» «Von Steiner? Lo conosce?» «L'ho conosciuto poco più di un anno fa, nel sud della Francia, nel castello del conte D'Amis. Le ho già detto che sono medievalista e insegno all'Università di Parigi.» «È un uomo che ha ottimi agganci; se qualcuno può aiutarla, questo è il barone, avrebbe dovuto iniziare proprio da lui.» «Conosce personalmente Hitler?» «Immagino di sì; ha un sacco di soldi ed è uno di quelli che dicevano che la provvidenza ci ha portato Hitler per salvare la Germania.» «E lei come fa a sapere quello che dice?» «Perché leggo i giornali e ascolto la radio; immagino che lei faccia lo stesso.» Inge finì di dar da mangiare a Günter, poi lo lasciò seduto a terra circondato dai suoi giocattoli mentre lei si preparava di nuovo per uscire. «Oggi non lavoro, ma ieri mi sono rimasti dei panni da stirare per la mia padrona di casa; starò lì un paio d'ore. L'aspetto per cena?» «Se non le dispiace...» «Certo che no! Forse non siamo di grande compagnia l'una per l'altro perché entrambi abbiamo dei problemi, ma è sempre meglio che cenare da soli.» Mancavano cinque minuti alle tre quando premette il campanello dell'ufficio di Von Steiner, situato in un palazzo nel centro della città. Un uomo gli aprì la porta e lo invitò ad accomodarsi in una sala d'aspetto nella quale ogni dettaglio evidenziava non solo il gusto, ma anche la posizione economica del suo proprietario: i quadri, i tappeti, le poltrone di pelle, il tavolo di mogano...
Alle tre in punto lo accompagnò nello studio del barone. «Signor Arnaud, che sorpresa!» «Lo so, barone, e la ringrazio per avermi ricevuto.» «Mi dica, cosa fa qui a Berlino? È qualcosa che riguarda le sue ricerche su frate Julián?» rise il barone, divertito per la propria battuta. «No, barone. Riguarda mia moglie.» «Sua moglie?» Ferdinand spiegò di nuovo l'accaduto; a forza di farlo ormai aveva sfrondato il discorso fino a lasciare solo l'essenziale. Il barone lo ascoltò senza fare una piega. Alla fine incrociò le mani sulla scrivania e attese un istante prima di parlare. «Quello che mi ha raccontato è molto strano. Sinceramente stento a credere che qualcuno possa sparire così, a meno che...» «A meno che?» «A meno che non si tratti di una scomparsa volontaria, mi perdoni la franchezza.» Questa volta fu Ferdinand a esitare prima di rispondere. Era la terza volta che qualcuno suggeriva la sparizione volontaria di Miriam. Prima il funzionario del Quai d'Orsay, poi quello dell'ambasciata e adesso il barone. Si sentiva impotente e furiose davanti a quelle insinuazioni. Gli pareva sporco doversi giustificare davanti a degli sconosciuti. Ma arcora una volta lo fece, avvertendo l'impazienza del barone che, senza farsi notare, guardava l'orologio. Ferdinand concluse: «... non voglio farle perdere tempo, le chiedo soltanto aiuto; lei può fare in modo che la polizia prenda sul serio il caso, che indaghi, che interroghi il controllore. Quanto alla scomparsa degli zii di Miriam, con mia grande sorpresa devo dire che non è l'unica; a quanto pare gli ebrei tedeschi spariscono da un giorno all'altro, e nessuno sa più niente di loro, se non che vengono condotti nei campi di lavoro. Perché? Come possono sparire così? Cosa ne è dei loro affari, del loro impiego? Mi sembra terribile ciò che sta accadendo in questo paese.» Il barone diede un pugno sul tavolo senza nascondere la propria indignazione. «Come osa giudicarci? Gli ebrei... qui nessuno sparisce, ci sono solo molti delinquenti che finiscono nei campi di lavoro. Gli ebrei hanno ricevuto molto dalla Germania e adesso è ora che restituiscano un po' di quello che hanno ricevuto. In questo momento c'è un estremo bisogno di mano d'opera nelle fabbriche per affrontare le sfide lanciate dal Führer. I nostri
giovani si preparano a partire per il fronte, i migliori giovani di Germania sono pronti a morire per la loro patria e lei si preoccupa per quattro... per quattro ebrei che vengono mandati a lavorare. È una vergogna!» Ferdinand non seppe se tacere o tradire le proprie convinzioni. Fu un momento difficile, si sentì lacerato, ma alla fine decise che tradire se stesso sarebbe stato tradire Miriam e David. «Barone, non condivido la politica del suo Führer, e ancor meno il suo atteggiamento nei confronti degli ebrei. Gli zii di Miriam sono tedeschi, gli ebrei che vivono in Germania sono tedeschi. Ogni uomo deve essere libero di pregare il Dio che vuole indipendentemente dal suo patriottismo o dal suo luogo di nascita. Tra le migliori teste della Germania troverà molti ebrei, non si può scrivere la storia del suo paese senza di loro e lei lo sa. Ma non sono venuto a discutere, bensì a chiederle aiuto; è in grado di darmelo?» «Lasci alla mia segretaria i dati di sua moglie e dei suoi zii. La chiamerò. E adesso, signor Arnaud, ho molto da fare. Le ricordo che i rapporti tra i nostri paesi non sono dei migliori...» Si salutarono con un leggero e freddo cenno del capo. La segretaria lo accompagnò alla porta dopo aver annotato con rapidità le informazioni che le aveva dato il professore. Ferdinand guardò l'orologio. Era rimasto in quell'ufficio meno di venti minuti. Respirò a fondo, confortato dall'aria fredda e dalla pioggia che cominciava a cadere con forza. Ormai non restava che aspettare il funzionario dell'ambasciata o qualche altra pista che avrebbe potuto fornirgli il barone. L'attesa, per quanto corta, gli sarebbe sembrata infinita. Quando arrivò a casa, Inge stava preparando la cena e ascoltando la radio mentre Günter giocava seduto per terra. Sembrava contenta. «Come sta? Com'è andata con Von Steiner?» chiese. «Non troppo bene, ma spero che mi aiuti.» Le raccontò l'accaduto, compreso il suo sentimento di vergogna nel dover difendere il suo matrimonio davanti a degli sconosciuti. Poi le chiese il permesso di chiamare David. Parlò con il figlio e lo sentì ancora più angosciato. Subito dopo, la madre di Miriam prese la cornetta per dirgli che David quasi non mangiava più, che certi giorni si rifiutava di andare al liceo e che dormiva pochissimo. Ferdinand allora si fece passare di nuovo il figlio e cercò di convincerlo a essere forte. «Devi farcela, per te, per me e anche per lei. Tua madre non si lascerebbe andare così, ovunque si trovi, e dunque neanche noi possiamo farlo.»
«Ma dov'è? Dove credi che sia?» gridò David. La conversazione con il figlio lo depresse ulteriormente. Si sentiva inutile, perduto, non sapeva più che direzione prendere. Inge lo osservava in silenzio mentre apparecchiava la tavola. Lui si chiuse nella sua stanza, aveva bisogno di stare da solo. Un'ora più tardi Inge bussò delicatamente alla porta della camera da letto. «Günter si è addormentato, le va di cenare? Lo so che non c'è niente da festeggiare, ma ho preparato uno strudel con le mele che lei ha comprato. Spero che le piaccia; non sono una gran cuoca, ma adoro preparare i dolci.» Stavano cenando in silenzio quando il campanello li fece sobbalzare. Inge si alzò e andò ad aprire la porta. Lui la sentì parlare con un uomo, poi lei rientrò nella sala insieme a lui. Il giovane era alto e indossava un'uniforme militare. Teneva Inge per mano e lei al suo fianco aveva un'aria tranquilla. «Ferdinand, le presento mio fratello Gustav; è appena arrivato in licenza. È l'unico della famiglia con cui ho ancora rapporti. Di tanto in tanto mi fa urta sorpresa e viene a trovarmi.» Si strinsero la mano e il ragazzo si sedette con loro a cenare. Inge gli spiegò che lui era suo ospite e perché si trovava lì. Gustav ascoltava e faceva domande; interessato a quanto Ferdinand gli raccontava. «Mi dispiace per quello che le sta accadendo, anche se non mi sorprende. In Germania stanno succedendo tante cose...» Gustav diede a sua sorella notizie sul resto della famiglia. Sua madre si mostrava ogni giorno più fanatica: adorava Hitler e aveva sistemato la sua foto su un altarino come se si trattasse di un santo. Suo padre si lagnava delle molte ore di lavoro dovute alla necessità di "ripulire le strade da quelle scorie: ebrei, comunisti, omosessuali... tutti quelli che non sono nazisti". Sua sorella piccola, Ingrid, andava ancora a scuola e i suoi genitori la stavano trasformando in una perfetta nazista. Ferdinand volle sapere l'opinione del fratello di Inge su quello stava accadendo nel paese. «Io volevo diventare un soldato già prima che succedesse tutto questo, probabilmente perché sin da quando ero piccolo i miei genitori mi dicevano che la cosa migliore era avere un posto sicuro, un lavoro statale. Non mi piaceva l'idea di diventare poliziotto, detesto quello che fa mio padre, ed essere soldato mi sembrava più degno, ma adesso... so che dovrò com-
battere e non perché abbiamo un nemico, ma perché Hitler ha deciso di "salvare" il continente e per questo niente di meglio di una Germania che diriga l'Europa. Sono un soldato e obbedisco. Non faccio domande, però penso, certo che penso, e anche se non condivido le idee di Inge, non credo che per quelle idee lei debba morire, come pure non credo che gli ebrei siano la causa dei problemi della Germania. Ma, come le ho detto, io non decido, obbedisco.» Quando finirono di cenare, Ferdinand si offrì di sparecchiare mentre i due fratelli parlavano. Poi diede a entrambi la buonanotte, non voleva imporre la sua presenza. Notava che Inge era avida di notizie sulla sua famiglia. Si lasciò cadere sul letto e si mise a leggere mentre arrivava il sonno. Al mattino fece colazione con Inge e si offrì di restare con Günter visto che non aveva niente da fare. «E se la chiamano?» «Be', lei sta pulendo l'appartamento al piano di sotto, in quel caso le porterei immediatamente il bambino.» Lei accettò con entusiasmo, gli disse che così avrebbe potuto dedicarsi meglio al lavoro e finire prima; avere un po' di tempo per riposare le avrebbe fatto bene. Il lavoro era duro, aveva male alla schiena e anche alle ginocchia a forza di stare tante ore per terra a strofinare. «Perché non cerca di terminare gli studi?» chiese lui. «Io studiavo filologia, volevo diventare maestra, ma è un sogno che ormai ho seppellito, le ho già detto che accetto la vita così com'è. Non sarò maestra, sarò quello che sono adesso. Almeno riesco a mantenere mio figlio e a tirare avanti.» Ferdinand portò il bambino a prendere un po' d'aria. Günter era un bimbo delizioso; pur essendo tanto piccolo sembrava cosciente della necessità di comportarsi bene mentre sua madre lavorava, in modo che le permettessero di portarlo con sé. Al parco gli fece fare alcuni passi aggrappato alla sua mano. Sarebbe stata una sorpresa per Inge vedere quei progressi, dal momento che riteneva stesse cominciando a camminare con una certa lentezza. 9 I giorni cominciarono ad acquisire una loro routine. Al mattino Ferdinand usciva con Günter che, grazie ai rapidi progressi, ormai camminava
praticamente già da solo. Di pomeriggio era solito passare a casa dei Bauer o degli Schneider, per sapere se avevano notizie di Yitzhak e Sara. In un paio di occasioni era andato anche alla stazione per cercare, invano, di incontrare il controllore. Dieci giorni dopo il suo arrivo a Berlino ricevette la chiamata del funzionario dell'ambasciata che gli dava appuntamento per il giorno successivo, alle otto. Si presentò puntuale e nervoso, temendo di sentirsi dire che non avevano ancora notizie di Miriam. «Signor Arnaud, ho qui la relazione che mi ha inviato il ministero degli Esteri tedesco.» Gli consegnò un foglio dal contenuto desolante. Non risultava alcuna cittadina francese vittima di incidenti in Germania, né ricoverata in alcun ospedale e neppure risultavano incidenti in cui erano state coinvolte cittadine francesi. In questura e nei centri di detenzione non si avevano notizie di lei. Non risultava che la suddetta cittadina francese fosse mai arrivata a Berlino. Il ministero degli Esteri tedesco riteneva il caso chiuso. «Così velocemente?» chiese Ferdinand, deluso. «Sì, così velocemente. Ufficialmente non esiste alcun caso.» «E lei non può insistere?» pregò il funzionario. «Posso farlo, ma non si prenderanno la briga di fare niente. Non faranno altro che mandarmi un altro documento come questo.» «Lei crede che abbiano fatto qualcosa, che l'abbiano cercata?» «Signor Arnaud, quello che credo io non ha alcuna importanza. Loro dicono di averlo fatto e questo è il risultato. Quello che so è che non faranno nient'altro.» «E la polizia?» «Sa bene che non abbiamo alcun rapporto e che da loro non abbiamo avuto notizie. Comunque, questa mattina, prima che lei arrivasse, ho parlato con il nostro uomo e mi ha assicurato che non sapevano niente di sua moglie ed erano convinti che non fosse mai arrivata a Berlino.» «Hanno interrogato il controllore?» «A quanto pare l'hanno rintracciato e gli hanno mostrato le foto di sua moglie, ma lui non l'ha riconosciuta. L'ambasciatore mi ha detto di riferirle che continueremo a fare ogni sforzo alla nostra portata, ma non possiamo darle speranze o prometterle risultati. È come cercare un fantasma.» «Mia moglie però non è un fantasma. È arrivata a Berlino ed è stata a casa dei suoi zii.»
«Non ne dubito, signor Arnaud, ma deve comprendere che non possiamo fare niente più di quello che stiamo già facendo.» «Credo che le autorità tedesche non stiano facendo niente» sentenziò Ferdinand. «Quello che non capisco è perché.» L'uomo rimase in silenzio senza abbassare lo sguardo. Era un diplomatico, ma per quella domanda neanche lui aveva una risposta. Quando uscì dall'ambasciata, Ferdinand era un uomo sconfitto. Sapeva che non avrebbero fatto più niente, magari di quando in quando avrebbero spedito un rapporto conciso, senza novità, sul caso della signora Arnaud. Tornare a Parigi avrebbe significato considerare Miriam persa per sempre; non si sarebbe sentito in grado di affrontare l'angoscia di suo figlio e dei suoi suoceri, ma neanche la propria. Doveva andare avanti, soltanto non sapeva in quale direzione. Tornò a passeggiare senza meta per quella città che odiava ogni giorno di più e sentì le gocce di pioggia mescolarsi alle lacrime. «Dove sei Miriam? Dove sei?» sussurrò mentre piangeva. Alcune persone si voltavano a guardarlo e immaginavano quell'uomo prigioniero di un dolore che non era in grado di nascondere. Ma a Ferdinand poco importava degli altri. Si sentiva devastato dentro ed era troppo il dolore per preoccuparsi della gente che lo guardava con curiosità. Quando arrivò a casa di Inge era fradicio. Andò direttamente in camera da letto per evitare che lei lo vedesse in quello stato, ma la ragazza lo seguì preoccupata. «Mi scusi, non voglio disturbarla, ma ha avuto qualche notizia? È successo qualcosa?» Ferdinand la guardò stravolto, tra le lacrime, incapace di parlare. Lei, timidamente, si avvicinò per abbracciarlo e dargli un po' di conforto. Poi uscì dalla stanza per consentirgli di riprendersi. Pochi minuti dopo Ferdinand la raggiunse. «Questa mattina sono stato in ambasciata.» Inge aspettò che fosse lui a raccontare l'accaduto per non rendere ancora più profonde le ferite di quell'uomo. «Mia moglie è diventata un fantasma, ha smesso di esistere. Non mi resta che attendere notizie da Von Steiner, ammesso che si stia dando da fare.» «Lo farà, stia sicuro, in caso contrario non si sarebbe preso la briga di chiederle i dati di sua moglie e dei suoi zii. Può essere che lui ci riesca.» «Non lo so, Inge. Ma la cosa peggiore è che non ho la più pallida idea di
cos'altro potrei fare. So che lei è qui, ma dove? Ho pensato anche di mettere un annuncio sui giornali.» «Mi sembra una buona idea; può darsi che qualcuno l'abbia vista e le dia una traccia. Tentare non costa niente. Posso accompagnarla io nel pomeriggio. Oggi non lavoro.» Andarono a mettere l'annuncio sui giornali più importanti e offrirono una piccola ricompensa per chiunque fornisse informazioni su Miriam. Inge era convinta che avrebbe dato risultati e Ferdinand aveva bisogno di credere che forse sarebbe stato davvero così. Quella sera cenarono di nuovo in silenzio. Qualunque parola sarebbe stata di troppo. Il giorno seguente i giornali pubblicarono le foto di Miriam e Ferdinand rimase tutto il tempo in casa vicino al telefono, ma invano. Il secondo giorno arrivò una telefonata: la segretaria del barone gli dava appuntamento per quello stesso pomeriggio. Per la prima volta da quando era bambino, Ferdinand pregò con tutte le sue forze che quel pomeriggio gli dicessero dove si trovava Miriam, una risposta qualunque, purché provasse che non era diventata un fantasma. Von Steiner lo ricevette in piedi nel suo studio, quasi ad annunciare che il colloquio non sarebbe durato molto. «Signor Arnaud, data l'amicizia che mi lega al conte D'Amis e viste le sue richieste d'aiuto, ho indagato per tentare di sapere dove si trova sua moglie. Nel frattempo ho visto che lei si è rivolto ai giornali...» «Sono disperato, barone» ammise Ferdinand «darei qualsiasi cosa per ritrovarla.» «Bene, ho contattato alcune persone importanti e so che si sono scomodate per darmi una risposta soddisfacente, ma sono spiacente di doverle dire che la scomparsa di sua moglie è un vero e proprio enigma. È stato interrogato il controllore del treno, perfino altri impiegati, e nessuno la ricorda. L'hanno cercata in...» Ferdinand lo interruppe con gran sorpresa del barone. «... in ospedali, commissariati, carceri... e neanche una traccia. Come se la signora Arnaud non esistesse, o non avesse mai preso un treno diretto a Berlino.» L'espressione del barone rivelava l'imbarazzo che gli aveva prodotto l'interruzione di Ferdinand. Quell'uomo lo esasperava, come quando D'Amis glielo aveva presentato al castello. «Lei non vuole ammettere la verità, signor Arnaud.»
«E quale sarebbe la verità, barone?» «Che sua moglie è sparita volontariamente, che l'ha lasciata, signor Arnaud. Non tocca a me sapere perché, ma questa è l'unica cosa evidente.» «Si sbaglia, barone; mia moglie è arrivata a Berlino ed è stata a casa di suo zio. Ho trovato la sua matita per le labbra nel bagno di quella casa, una casa devastata dalle camicie brune; loro sono stati portati via perché erano ebrei, immagino in uno di quei campi di lavoro. E Miriam? Che fine le hanno fatto fare? Lei è francese, non è tedesca, non ha nulla a che vedere con voi.» Von Steiner rimase in silenzio ad ascoltarlo, impassibile, come se niente di quello che Ferdinand diceva lo toccasse. «Che fine fate fare alla gente, barone? Lei è nazista? È uno di quei degenerati? Non riesco a immaginarlo alleato di quella gentaglia.» «Comprendo la sua preoccupazione e il suo sconcerto, ma non posso fare nulla. Lei non vuole accettare la verità, pertanto, signor Arnaud...» «Me ne vado, barone. Non c'è bisogno che mi accompagni alla porta; sono soltanto il marito di un'ebrea scomparsa. A chi volete che importi, un'ebrea in più o un'ebrea in meno?» Questa volta le lacrime erano di rabbia. Uscì dallo studio del barone con la rabbia riflessa su ogni muscolo del viso. Fermò un taxi per tornare a casa. Avrebbe parlato con David e con i suoi suoceri e tutti insieme avrebbero deciso il da farsi. Tornato a casa trovò Inge che parlava con Deborah, la figlia degli Schneider, la donna dai capelli bianchi che aveva mandato i figli a New York, la signora triste che l'a va ricevuto impaurita. «Le chiedo scusa se mi sono presentata qui, ma abbiamo visto la foto di sua moglie negli annunci dei giornali e mio padre mi ha chiesto di passare a vedere come sta. Vogliamo che sappia che non è solo nella sua disperazione.» «Ogni volta che parlano di mia moglie, sento che stanno tentando di insozzarla con le loro parole.» «Non so come possiamo aiutarla» disse Deborah Schneider. «Ai miei genitori piacerebbe poter fare qualcosa e, per quello che potremo, conti pure su di noi.» «Grazie. Voi e i Bauer mi avete aiutato a non crollare, siete l'unico legame con gli zii di Miriam e, date le circostanze, anche con mia moglie. Il problema è che non so cosa fare...» «Deve andare via» affermò Deborah. «Qui non può restare in eterno e se
lei... be' sì, se sua moglie riuscirà a venire fuori dal posto dove si trova, stia sicuro che la cercherà.» «Ma dove si trova? Me lo dica lei.» «Non lo so. Forse ha avuto una discussione con la portinaia della casa dei suoi zii e quella ha avvisato le camicie brune. Oppure l'hanno portata via perché era ebrea anche se lei le ha detto di essere francese. Può essere che sia accaduto questo e che adesso non abbiano il coraggio di lasciarla andare perché lei potrebbe rivelare cose che nessuno sa.» «Ma se fosse così, vorrebbe dire che non la libereranno mai, che la terranno prigioniera per sempre...» «È l'unica cosa che mi viene in mente, che potrebbe essere accaduta...» «Allora devo continuare a cercarla» concluse Ferdinand. «Dove vengono portati gli ebrei che spariscono? Dove si trovano questi campi di lavoro?» «Nessuno è tornato indietro per raccontarlo» rispose lapidaria Deborah. «Solo i vertici del regime lo sanno.» «Stavo pensando che potremmo tornare dalla portinaia» propose Inge. «Potremmo tentare di corromperla... non sarà facile, perché è una fanatica, ma con quella gente non si sa mai... Potremmo provare a parlare con qualcuno dei vicini dei suoi zii; magari troveranno il coraggio di dirci qualcosa.» «Lo farò» disse Ferdinand. «Anzi, ci vado immediatamente.» Deborah Schneider accettò di prendersi cura di Günter, perché voleva che la loro visita a casa dei Levi fosse fruttuosa. Sentiva una profonda pena per quell'uomo che cercava con tanta disperazione sua moglie. E pregò, rendendo grazie a Dio per averla illuminata suggerendole di spedire i suoi figli negli Stati Uniti; lei poteva anche sparire come tanti altri ebrei, ma almeno i suoi figli sarebbero sopravvissuti. L'oscurità avvolgeva Berlino anche se non erano che le sette di sera. Il taxi si fermò davanti al portone della casa di Yitzhak e Sara. Il portone era chiuso, ma Inge aveva la chiave. Aveva deciso di far visita ai vicini prima di affrontare la portinaia. Salirono con passo deciso le scale fino al secondo piano dove c'erano due appartamenti. Bussarono insistentemente alla porta di destra, ma non ebbero risposta: in quella casa non c'era nessuno, oppure non volevano visite di estranei. Poi tentarono la sorte con la porta sulla sinistra, e quasi immediatamente apparve una donna. «Cosa desiderate?» chiese con diffidenza. «Buonasera signora, senta, io ero l'aiutante dei Levi, sicuramente mi ha visto qualche volta in libreria, e questo signore è il nipote, anzi, sua moglie
è la nipote dei Levi...» «Cosa volete che m'importi chi siete? Cosa volete?» rispose la donna in malo modo. «Volevamo sapere dove hanno portato Yitzhak e Sara. Magari lei può aver sentito qualcosa... e poi volevamo anche chiederle dell'incidente che si è verificato qui intorno alla metà di aprile quando la nipote dei Levi è arrivata a casa e ha trovato... lo sa, la devastazione che avevano subito la libreria e l'appartamento.» «Non so niente, non ho visto niente e non ho sentito niente.» La donna si preparava a chiudere la porta ma Ferdinand glielo impedì. «Signora, non le stiamo chiedendo di rivelare un segreto inconfessabile, vogliamo solo che ci dica dove crede abbiano portato i Levi e se ha visto mia moglie quando è stata qui.» «Non so di cosa mi stia parlando, mi lasci in pace o chiamo la polizia.» «La polizia? E perché? Perché abbiamo chiesto notizie di due anziani e della loro nipote? Questo è reato in Germania?» Ferdinand non riusciva a contenere la sua irritazione. La donna chiuse la porta bruscamente senza dar loro il tempo di reagire. Inge lo guardò e gli fece cenno di seguirla al terzo piano. Anche qui non ebbero miglior sorte rispetto al secondo piano. Dopo aver detto che non sapevano niente, gli inquilini richiusero immediatamente la porta come se il semplice fatto di parlare con degli estranei potesse provocare loro qualche problema. Così continuarono a salire piano dopo piano fino ad arrivare all'ultimo, dove c'erano tre porte. «Queste devono essere tre mansarde, come casa mia.» Furono sorpresi quando, bussando alla prima porta, si trovarono faccia a faccia con la portinaia. «Buonasera signora Bruning, possiamo entrare e parlare un attimo con lei?» chiese Inge con un sorriso. La portinaia, sconcertata almeno quanto loro, spalancò la porta e, prima che qualcuno riuscisse a dire qualcosa, si ritrovò Inge e Ferdinand già dentro casa. In fondo alla stanza, un uomo seduto con un giornale in mano ascoltava la radio. Non fu difficile dedurre che si trattava del marito della donna. «Vi avevo detto di non farvi più vedere da queste parti» disse lei con tono minaccioso. «Signora Bruning» cominciò Ferdinand «so che lei è una persona sensi-
bile e per questo sono tornato. Lei, che ha una famiglia, può comprendere la disperazione di qualcuno che non trova più sua moglie; immagini se una cosa del genere succedesse a lei, se suo marito sparisse all'improvviso, senza lasciare traccia...» La donna lo fissò esitando sulla risposta da dare. Il tono accorato di Ferdinand pareva averla convinta, ma solo per un istante perché subito tornò a guardarli con disprezzo. «E perché viene a fare domande a me?» gridò. «Se sua moglie ha deciso di lasciarla, cerchi altrove; lei saprà con che genere di donna è sposato!» Ferdinand alzò le mani per schiaffeggiarla ma Inge si frappose tra i due temendo le conseguenze. Il marito della portinaia si avvicinò sentendo le grida della moglie. «Ursula, che succede?» «Chiedono di quella gentaglia!» «Quale gentaglia?» «I Levi, questa è la tizia che li aiutava in libreria» disse indicando con il dito Inge «e questo è il marito della nipote. E vengono a chiedere proprio a me di quella gentaglia! Staranno insieme al Diavolo all'Inferno, e mi auguro che da laggiù non li lascino più uscire!» «Calmati, e vattene dentro che a questi ci penso io. Cosa volete da noi?» li aggredì l'uomo, tronfio come sua moglie e senza un solo capello in testa. Inge prese per il braccio Ferdinand e tentò di calmarlo. Quindi si rivolse all'energumeno e disse: «Signor Bruning, non vogliamo disturbarla, ci scusi se siamo arrivati in un brutto momento, ma guardi, se non fosse importante non ci saremmo permessi di importunarla.» Per qualche minuto gli parlò come se si trattasse di un bambino, in modo che l'uomo rispondesse alle domande che tanto facevano infuriare sua moglie. Lui li guardava con la freddezza impersonale di chi odia per propria impotenza. Forse per il tono di voce neutro e persuasivo di Inge o forse perché si sentiva importante davanti agli intrusi, sta di fatto che l'uomo ascoltò sino alla fine malgrado gli improperi che sua moglie lanciava dalla sala chiedendogli di cacciarli via a calci. «Se sua moglie è scomparsa, vada alla polizia; noi non sappiamo niente» disse con disprezzo guardando Ferdinand. «In quanto ai Levi, erano spazzatura umana, ebrei, e stanno dove devono stare.» «Dove?» chiese dolcemente Inge con il suo sorriso migliore.
«Non lo so. Ovunque possano fare qualcosa di utile per questo paese che hanno dissanguato con la loro avarizia. E se dovessero tornare saremo noi a buttarli fuori a calci.» «Ma questa è la loro casa, il negozio appartiene a loro» tentò di dire Ferdinand. «Se non ritornano smetterà di appartenere a loro e passerà a essere di qualche bravo tedesco. Abbiamo già sopportato troppo gli ebrei in questo paese. Il Führer sa bene cosa bisogna fare di loro. Sono un cancro.» Ferdinand stava per replicare, ma Inge gli strinse il braccio con forza; era il suo modo di chiedergli di lasciare che fosse lei a trattare con i Bruning. «Sa dove hanno portato la loro nipote? Sappiamo che è stata qui, abbiamo trovato alcune delle sue cose, non ci sono dubbi, quindi ci piacerebbe sapere...» Inge non riuscì a continuare la frase perché la portinaia, che nel frattempo si era piantata al centro dell'ingresso, li spinse fuori con rabbia. «Fuori di qui, schifosi amici degli ebrei! Fuori di qui!» Finirono nel ballatoio mentre la porta si chiudeva dietro gli improperi di Ursula Bruning e le grida del marito. Si sentivano esausti e in preda alla rabbia e alla frustrazione. Suonarono il campanello degli altri due appartamenti e nessuno rispose, ma si sentiva che qualcuno li stava osservando attraverso lo spioncino. Entrarono nell'appartamento dei Levi e di nuovo lo esaminarono da cima a fondo in cerca di qualche altra traccia. Non trovarono niente, ma si accorsero che qualcuno era stato lì dopo di loro. Alcune cose non erano come le avevano lasciate. Inge ipotizzò che la polizia fosse andata a cercare qualche indizio della presenza di Miriam su sollecitazione dell'ambasciata. Ma neanche questo servì a confortare Ferdinand. Lì, in quella casa, si perdevano le tracce di Miriam, lì era sfumata; ma lui ancora non sapeva cosa fosse successo esattamente. Deborah sembrò entusiasta di Günter. La trovarono per terra che giocava con il piccolo. La donna si intristì ascoltando il racconto di ciò che era accaduto e prima di andare via diede un consiglio a Ferdinand. «So che è molto duro quello che sto per dirle, ma lei deve tornare a Parigi. Torni da suo figlio, è l'unica cosa concreta che le resta da fare.» «Abbandonare Miriam? No, non posso farlo.»
10 I giorni successivi divennero un incubo. Non sapeva dove andare né cosa fare. Chiamò l'ambasciata un paio di volte e cortesemente gli dissero che non c'erano novità. Neanche tra gli amici di Sara e Yitzhak si produssero eventi di un qualche rilievo. Inge non gli diceva niente, in realtà parlavano molto poco. Lei lavorava tutto il giorno e quando si vedevano all'ora di cena era troppo stanca. In tre o quattro occasioni gli chiese nuovamente di prendersi cura di Günter mentre lei usciva di notte. Un giorno gli confessò che si riuniva con i suoi compagni del Partito comunista, dove l'avevano accettata di nuovo. Da parte sua, David insisteva perché lui restasse a Berlino e continuasse a cercare la madre. Dalle parole smozzicate dei suoceri gli sembrava di capire che neanche loro si rassegnavano a vederlo tornare senza Miriam. Il trascorrere del tempo cominciò a sembrargli insopportabile. Era a Berlino per sentirsi vicino a sua moglie, ma forse, soprattutto, per placare la sua coscienza. Si sentiva in colpa, sì, in colpa per averle permesso di intraprendere quel viaggio; in colpa per non essere stato capace di vedere quello che stava accadendo in Germania, pur non essendo un segreto che Hitler aveva messo in atto leggi razziali contro gli ebrei. Una mattina ricevette una chiamata del conte D'Amis. «Signor Arnaud, quando pensa di tornare in Francia?» gli chiese il conte senza ulteriori preamboli. Ferdinand gli disse che si sarebbe fermato fino a quando non avesse ritrovato Miriam e fu sorpreso dalla reazione brutale del conte. «Se non torna immediatamente e non finisce il lavoro sulla cronaca di frate Julián mi vedrò costretto a rompere l'accordo con lei e con la sua università. Sono stato paziente visti i suoi problemi personali, ma comprenderà che non posso e non voglio aspettare ulteriormente. Oltretutto, ho bisogno di lei qui al castello per orientare il mio gruppo di lavoro. Ho qui una ventina di persone che aspettano le sue indicazioni; le ricordo che questo faceva parte dell'accordo. Naturalmente ho già parlato con il rettore della sua università, le annuncio che riceverà una sua telefonata. Si decida in fretta, signor Arnaud, non aspetterò ancora molto.» Ferdinand non ebbe il tempo di protestare. Il conte non ascoltava altre ragioni che non fossero i suoi interessi. Come gli aveva annunciato, pochi minuti dopo ricevette una chiamata dall'università. Il coordinatore del di-
partimento di Storia si mostrò cordiale e amichevole. Naturalmente, tutti comprendevano il dramma che stava vivendo, poteva prendersi tutto il tempo che voleva, ma gli chiedevano di tornare a Parigi almeno un paio di giorni per sistemare alcune cose. Qualcuno doveva sostituirlo nelle lezioni, e anche riguardo al suo lavoro sugli scritti di frate Julián bisognava prendere delle decisioni. L'università si era impegnata a pubblicarlo e forse lui stesso avrebbe potuto consigliare qualcuno che fosse in grado di portare a termine il suo lavoro. Quelle due telefonate riportarono Ferdinand alla realtà. Prima della scomparsa di Miriam era un altro uomo: aveva una famiglia, un lavoro che lo appassionava, amici e colleghi, pubblicava studi sulla Francia medievale, teneva conferenze in tutta Europa... Ora anche lui era diventato un fantasma: la sua vita era lì, ma lui non c'era più. O tornava indietro o avrebbe dovuto dire addio a tutto quello che era stato. Doveva prendere una decisione che sarebbe risultata cruciale per tutto il resto della sua vita. Rimanere a Berlino significava separarsi da David e trovarsi un nuovo modo per guadagnarsi da vivere; i suoi risparmi non sarebbero durati all'infinito se avesse continuato a non lavorare. Un collega gli aveva suggerito di prendere l'aspettativa. «Credo che lei dovrebbe tornare a casa» gli consigliò Inge durante la cena. «Adesso è difficile riuscire a trovarla, magari più avanti. Potrebbe tornare di tanto in tanto.» «Non voglio abbandonarla.» «Se va e viene non l'abbandona, ma non abbandona neppure suo figlio. Non può distruggere tutto quello che avete fatto insieme. La vita non è bianca o nera, a volte bisogna trovare delle soluzioni intermedie per sopravvivere.» «Lei è come i camaleonti» la rimproverò. «Non per niente accetta di buon grado l'accordo che il suo amico Stalin firma con Hitler...» «Stalin sa che questo non è un momento da bianco o nero, e aspetta.» «E intanto i comunisti marciscono nelle carceri tedesche» le ricordò. «Sì, alcuni si sono perfino suicidati perché non riescono a capire, si sentono traditi. Ma la vita non è come uno la vuole, la vita è così com'è. I cinesi dicono che bisogna essere come i giunchi che si piegano quando il vento li sferza ma non si spezzano e restano in piedi.» «E lei è un giunco.» «Non ho altra scelta, non posso e non voglio smettere di credere in ciò in cui credo. Sono comunista, sì, e so che la ragione è dalla nostra parte, ma
aver ragione non basta, bisogna aspettare il momento e, nel frattempo, lasciarci piegare dal vento.» «E se il padre di suo figlio non dovesse tornare?» «Ho già considerato questa eventualità.» «Accetta il fatto che non lo rivedrà mai più?» «Sì, è l'ipotesi più probabile.» «E non le dispiace?» «Mi dispiace nel più profondo dell'anima, ma non è nelle mie possibilità fare più di quanto ho già fatto, di quello che faccio tutti i giorni tirando avanti e crescendo nostro figlio.» «I cristiani la chiamano rassegnazione...» «Non si confonda, accettare la realtà non è rassegnazione, è un modo di affrontarla. Non ho il potere di cambiare le cose. Hitler continuerà la sua politica razzista, continuerà a fare patti con Stalin e incarcerare i comunisti; i miei desideri o i miei lamenti non cambieranno niente.» «È molto giovane per esprimersi con questa durezza. Mi dispiace sentirla parlare così.» «Preferirebbe vedermi piangere con mio figlio che muore di fame? Preferirebbe vedermi agire come un'eroina da romanzo e correre il rischio di sparire? Davvero crede che sarebbe meglio?» «Non la giudico, Inge, perché non voglio essere giudicato.» «Se alla fine decidesse di tornare a Parigi, ma di tornare di tanto in tanto a Berlino per cercare Miriam, mi piacerebbe che continuasse ad affittare la mia stanza; quei soldi mi fanno comodo e lei è un ospite che non crea problemi. Magari una o due volte al mese... non so, ci pensi.» Ferdinand alla fine decise di seguire il consiglio di Inge. Malgrado la giovane non avesse ancora compiuto venticinque anni, sembrava trasudare esperienza e buon senso. Anche lei aveva visto sparire il padre di suo figlio e aspettava imperterrita. Sì, ma cosa aspettava? 11 Alla fine era successo. Germania e Francia erano in guerra, ma non si combatteva. I giornali francesi definivano la situazione una "guerra stupida". Alcuni ritenevano che l'ultimatum dato dal governo francese a Hitler per ritirarsi dalla Polonia fosse stato un gesto di facciata ma, che lo fosse o meno, i due paesi erano ufficialmente in guerra. In quelle condizioni, pensava Ferdinand, non avrebbe potuto prolungare molto il suo soggiorno a
Berlino. Tornare a vivere con David non fu facile. Il figlio gli rimproverava con i suoi silenzi di non essere stato capace di ritrovare sua madre. Lo sentiva gridare di notte in preda agli incubi che gli attanagliavano l'anima; a volte discutevano perché non studiava. Il ragazzo aveva perso completamente interesse per la vita. I suoi colleghi dell'università furono contenti di rivederlo e ascoltarono, preoccupati e circospetti, i suoi racconti sul governo di Hitler. Sì, era vero, spariva un mucchio di gente: ebrei, comunisti, zingari, tutti quelli che potevano disturbare il regime; e nessuno diceva niente, nessuno sembrava preoccuparsene. "Li portano nei campi di lavoro, tutto qui..." Inizialmente continuò ad andare a Berlino con una certa frequenza. Si fermava in casa di Inge e per tre o quattro giorni si dedicava a chiamare l'ambasciata e a far visita agli amici degli zii di Miriam, che a loro volta gli presentavano altri esiliati in patria. Poi se ne tornava a Parigi con l'animo gonfio di angoscia, dicendo a se stesso che quello di andare a Berlino ormai era soltanto un rito per placare la sua coscienza, un rito sterile e inefficace. Ma da quando Hitler aveva invaso la Polonia e la Francia era entrata ufficialmente in guerra, non era più potuto tornare. Alcuni mesi dopo, il 10 maggio 1940, quando la Francia cadde come un frutto maturo nelle mani del dittatore nazista insieme a Olanda e Belgio, Ferdinand fu uno dei suoi pochi connazionali a non sorprendersi. In meno di quattro settimane le truppe francesi già battevano in ritirata e Parigi si trovava senza difese davanti ai soldati del Terzo Reich. Le tesi del generale Maxime Weygand e del vicepresidente del governo, il maresciallo Pétain, finirono per imporsi nel gabinetto di crisi; si preferì negoziare il cessate il fuoco con la Germania piuttosto che continuare a combattere senza esito. Un pomeriggio in cui si trovava nel suo ufficio dell'università, Martine entrò a cercarlo. Voleva parlare con lui. «Me ne vado. Volevo salutarti prima che vengano a saperlo gli altri.» «Te ne vai? Perché?» «Non hai saputo niente?» «Cos'è successo?» «Quello che avevamo previsto: oggi, 22 giugno, il generale Huntziger e il maresciallo Keitel hanno firmato un armistizio a Compiègne. È finita.» «Cosa vuol dire è finita?» «Si dice che Pétain prenda il comando di tutto, che il primo ministro Re-
ynaud gli lasci campo libero, si dimette. Puoi immaginare cosa succederà.» «E dove vorresti andare?» «Non ti ho mai detto che sono ebrea?» Lui la guardò perplesso, senza sapere cosa dire. Non glielo aveva mai detto e dal cognome Dupont non aveva mai immaginato che lo fosse. «Mia madre lo è, mio padre no. Ma cambia poco, io lo sono. Cerca di capirmi, non mi ero mai accorta di esserlo. Mia madre è un'ebrea laica, non l'ho mai vista andare in sinagoga e mio padre, un cristiano anche lui laico, non entra mai in una chiesa, per questo ho vissuto abbastanza ai margini della religione, ma adesso...» «Tu sei francese, Martine» protestò lui. «Sì, ma una francese ebrea. Prima ero solo francese, anche se tu sai che neppure il nostro paese è esente dall'antisemitismo, proprio come il resto d'Europa. Non voglio andare in giro con una stella di Davide cucita sul cappotto, non potrei sopportarlo...» Ferdinand restò in silenzio senza sapere cosa dire. Martine gli prese la mano e la strinse con affetto. «Dove te ne andrai?» volle sapere lui. «In Palestina.» «Sei pazza? Cosa vai a fare laggiù?» «Non lo so ancora, per il momento andrò in un kibbutz. Due anni fa sono andati lì degli amici e mi dicono che è una gran bella avventura. Forse è arrivato il momento di apportare dei cambiamenti nella mia vita; ti farò sapere come me la cavo a piantare la lattuga.» «Ma perché non vai negli Stati Uniti? Lì puoi fare carriera, sei una professoressa di prestigio.» «Non è così facile; oltretutto credo che in questo momento il mio compito sia quello di andare laggiù: voglio sapere cosa significa essere ebrea, quali sensazioni avrò nel camminare in Terra Santa.» «Credi che sarai al sicuro lì?» «Non lo so. I miei amici mi raccontano che dormono con il fucile in mano; sai bene che nel '36 c'è stata una ribellione araba contro la presenza degli ebrei in Palestina. Malgrado gli inglesi, pare che la situazione non sia proprio liscia come l'olio. Per quanto ne so, loro fanno il possibile per impedire che arrivino altri ebrei, ma anche così continuano ad affluirne...» «Scusami se sono indiscreto, ma i tuoi amici che mestiere facevano prima di andarsene laggiù?»
«Jean era avvocato e Maria aveva una profumeria; erano miei vicini di casa e amici, credo che mi consiglino bene dicendomi di raggiungerli prima che questo non sia più possibile.» «Come riuscirai ad arrivare laggiù?» «Tu non ci crederai, ma mi aiuterà un sacerdote; è il fratello di una mia amica.» «Mi mancherai, Martine» gli confessò lui. «Anche tu mi mancherai, sei il migliore amico che ho qui dentro. Adesso vedrai che arriveranno tutti a chiederti se sapevi che sono ebrea.» La decisione di Martine ricordò a Ferdinand Deborah Schneider e la sua spiegazione del perché si era separata dai suoi figli mandandoli a New York. Disse a se stesso che forse avrebbe dovuto riflettere sul futuro di David. Per quanto gli risultasse incredibile ammetterlo, per le nuove autorità suo figlio era ebreo, soltanto un ebreo. Gli costò prendere la decisione, che sapeva avrebbe provocato un grande turbamento nella sua famiglia, ma era determinato a imporre la sua volontà. Prima parlò con suo figlio, poi convocò a casa i suoi genitori, i suoceri e il resto della famiglia. «So che quello che sto per dirvi vi sorprenderà, ma ho deciso di mandare David in Palestina.» I suoi suoceri lo guardavano attoniti, i suoi genitori non sapevano cosa dire; suo fratello maggiore si schiarì la voce imbarazzato mentre sua moglie si tormentava le mani nervosamente. «Io non me ne vado, papà» lo interruppe David. «Non andrò da nessuna parte fino a quando non sarà ricomparsa la mamma.» «Lo so che non vuoi andare via, ne abbiamo parlato. Mi dispiace, figliolo, la tua opinione in questo caso non conta; la cosa più importante è la tua vita e oggi qui non sei più al sicuro, non voglio...» Restarono in silenzio e tutti immaginarono il volto di Miriam. «Una mia amica parte tra pochi giorni. David andrà con lei. Voi avete ancora dei parenti laggiù?» chiese ai suoceri. «Sì, certo» rispose la madre di Miriam. «Ho due fratelli e diversi nipoti. La vita non è facile in quella zona...» «Lo so, ma almeno essere ebreo non è un marchio come qui.» «Questa è la Francia» lo interruppe suo fratello maggiore. «Sì, questa è la Francia. E cosa dovremmo dire della colta e squisita Germania, dove un ducetto qualsiasi è diventato il punto di riferimento di tutta la nazione? Ti ricordo che i nostri governanti sono marionette mosse
da Berlino. L'ho visto con i miei occhi. Non accetto l'idea che mio figlio sparisca un giorno in una strada di Parigi o che lo massacrino di botte all'uscita del liceo, o che magari sia costretto a portare una stella di Davide cucita sul cappotto. Miriam non lo avrebbe sopportato. Potete immaginare cosa rappresenti per me la sua assenza, ma almeno saprò che è vivo: è l'unica cosa che mi interessa.» «Ferdinand ha ragione» disse suo padre. «Qui siamo in Francia, figliolo, ma cosa è successo con i repubblicani spagnoli? Molti sono stati liberati, altri sono stati mandati nei campi di prigionia, i giornali li hanno definiti "rifiuti umani", "pericolosi invasori".» La madre di Ferdinand interruppe suo marito per ricordargli che avevano l'appoggio del "Populaire" e dell'"Œuvre", e che il cardinale Verdier aveva spezzato molte lance in loro favore. Addirittura, alcuni scrittori cattolici come Jacques Maritain o François Mauriac, li difendevano a spada tratta. Ma il nonno paterno di David insistette sul fatto che il nipote sarebbe stato meglio fuori dalla Francia. Ferdinand lo ringraziò per il sostegno. Sapeva che era indignato per l'atteggiamento del governo francese nei confronti dei rifugiati spagnoli, tra i quali aveva ritrovato qualche parente. Né lui né suo padre si fidavano della nuova Francia: erano entrambi stanchi di vedere gli uomini che si chiudevano gli occhi per non vedere. David supplicò suo padre affinché gli permettesse di restare, ma Ferdinand rimase fermo nella sua decisione, pur domandandosi in silenzio se tutto quello non fosse davvero una follia. «E tu che farai, papà?» «Io resterò qui, vicino a tua madre; l'aspetterò, e continuerò a studiare la cronaca di frate Julián. È una storia bella e tragica.» «Ma hai sempre detto che non ti piace andare al castello...» «No, figliolo, non mi piace quella gente e per fortuna non vado lì da molto tempo, non è fondamentale per il mio lavoro. Oltretutto, credo che anche il conte preferisca tenermi a una certa distanza. Dopo quello che è successo a tua madre... mi è difficile sopportare qualcuno che simpatizzi per i nazisti.» «Insomma, hai intenzione di rinchiuderti nel passato» disse David, cupo. «Mentre tu costruisci il futuro, io mi rifugerò nel passato; non è un brutto accordo, figlio mio. Subito dopo la tua partenza mi ritroverò con frate Julián.» 12
... Siamo privi di pietà, proprio noi che dovremmo dare l'esempio. Ma gli occhi di padre Ferrer scintillano d'ira e crede che solo il fuoco possa purificare ciò che gli eretici hanno toccato. Perciò ha ordinato di bruciare anche le ultime pietre di Montségur, per purificare il luogo contaminato dalla presenza degli eretici. "Solo il fuoco purificherà queste pietre" gridava padre Ferrer. Ormai ho perduto il conto dei giorni trascorsi da quando abbiamo lasciato Montségur, ho perso anche il conto delle dichiarazioni di eretici disposti a denunciare i propri figli, i propri genitori, i propri fratelli e i vicini per aver salva la vita. Dove sono i martiri di Montségur? Cosa è stato del loro esempio? Ora che nessun esercito verrà a salvarli, gli uomini e le donne un tempo eroici che si facevamo chiamare Buoni Cristiani non sono altro che questo, uomini e donne spaventati. Confesso che ormai non m'impressionano più come un tempo, quando li rispettavo e li ammiravo in segreto per la fermezza delle loro convinzioni. Ora so che sono uguali a me, hanno paura, e li disprezzo esattamente come disprezzo me stesso. Mentirei se dicessi che si sono arresi tutti. Non è così, ma sono una minoranza. Non voglio immaginare come avrebbe sofferto donna Maria se avesse visto tanti tradimenti. Sono stato a Carcassonne e a Limoux, a Bram e Lagrasse, e in ognuno di questi posti succede la stessa cosa. Quando arriviamo li troviamo lì ad aspettarci, già pronti a denunciare gli altri e salvare se stessi. E io, signore, sono ancora malato, senza più le erbe del cavaliere Armand che mi davano sollievo. Vi ho già spiegato nella mia precedente missiva che il compagno d'armi di don Fernando passava per un'eminenza nell'arte di curare e posso testimoniare che fino a ora le sue cure con me hanno avuto effetto. Forse è l'odore di carne bruciata che ottunde i miei sensi e mi chiude lo stomaco, o magari è l'odore della paura, la paura che trasudano quei disgraziati che confessano le loro colpe davanti a me. Prego Dio affinché questa lettera arrivi nelle vostre mani, perché tremo al solo pensiero che possa cadere in quelle dei miei amici. Padre Ferrer mi manderebbe a bruciare direttamente all'Inferno e neanche il buon frate Pèire perdonerebbe il mio tradimen-
to. Vi ho detto che ho perduto la nozione del tempo e così è, ma giacché sento che la malattia avanza, vorrei chiedervi una grazia. So di non meritarla, so che voi non mi avete mai guardato come un figlio, ma per quanto l'idea possa risultarvi sgradevole, la verità è che lo sono, per questo ho l'ardire di chiedervi di darmi sepoltura ad Aínsa. Sento che non vivrò ancora molto e presto chiederò il permesso di farvi visita. Voglio che la terra che mi coprirà sia quella che mi vide nascere; vi chiedo di seppellirmi come un Aìnsa, bastardo sì, ma pur sempre frutto del vostro sangue. Perdonate la digressione, ma la testa mi arde per la febbre, e il dolore si aggrappa alle mie viscere. Sogno l'acqua gelata delle nostre sorgenti e quelle mattine fredde in cui correvo fino al pagliaio a fare ciò che voi mi ordinavate. Sì, chiederò il permesso a padre Ferrer e Dio voglia che abbia pietà della mia malattia e mi permetta di venire a prendere commiato da voi e morire in pace. Sapete, don Juan, che i morti mi fanno visita a ogni ora del giorno e ascolto le loro preghiere fondersi con il mio cervello? Vedo i loro volti feriti, le loro dita contratte divorate dal fuoco che reclamano giustizia. Ma non sarò io a poterla fare, questo lo sapeva bene donna Maria. Da qui il suo impegno a lasciare scritta la cronaca di quel che accadde a Montségur, che è assai ben protetta in casa di donna Marian e di suo marito Bertran d'Amis. Un giorno, mio signore, qualcuno vendicherà il sangue degli innocenti che abbiamo versato in nome della croce, perché tanto sangue non può restare impunito. Dove oggi c'è tradimento un giorno ci saranno orgoglio e sete di vendetta. Sì, mio signore, un giorno vendicheremo con furia il sangue degli innocenti. Nel frattempo, vi prego mio signore, di accogliermi al vostro fianco per poter ben morire. Ferdinand continuò a leggere la lettera che aveva trovato negli archivi di una famiglia imparentata con gli Aìnsa. Non era stato facile trovare le tracce di frate Julián, avendo concentrato tutte le ricerche a Carcassonne e Tolosa; poi, una mattina si era svegliato sentendo nostalgia di Miriam e David e aveva avuto un'illuminazione: forse anche frate Julián aveva provato
la stessa cosa. Aveva tardato più del previsto a concludere l'opera, ma che importanza poteva avere quando tanta gente era morta in guerra? Per quanto il castello D'Amis fosse un'isola in mezzo alla desolazione dell'Europa, neppure il conte era riuscito a fare in modo che i gruppi scavassero sempre regolarmente tra le pietre di Montségur. Pochi giorni dopo avrebbe presentato il suo lavoro all'Università di Parigi e avrebbe incontrato il conte per spiegargli le peripezie di certi suoi antenati. Aveva dovuto recarsi alcune volte al castello per leggere degli incartamenti e cercare negli archivi di famiglia, ma aveva sempre fatto in modo di soggiornarci il meno possibile e di non avere contatti con il gruppo di tedeschi che facevano parte della squadra di ricercatori di D'Amis. Lo ripugnava incontrare quella gente, tanto che preferiva fare qualche chilometro in più e andare a dormire a Carcassonne pur di non passare la notte al castello. Neanche il conte nascondeva l'antipatia che provava per lui, ma continuava a non creargli problemi perché potesse indagare tranquillamente sulla cronaca di frate Julián. Quando gli era stato possibile, aveva viaggiato seguendo le indicazioni degli archivi dell'Inquisizione e le cronache medievali, in cerca delle tracce di quella famiglia che credeva di essere chiamata a custodire la memoria della resa di Montségur. Anche negli archivi familiari degli Aínsa aveva trovato alcuni tesori. La famiglia come tale ormai non esisteva più, tranne per il ramo francese dei D'Amis e alcuni parenti lontani, ma i loro archivi si trovavano in un museo locale. Oltre a Fernando d'Aínsa, suo fratello, qualcuno aveva mai amato frate Julián? Nell'archivio degli Aínsa non aveva trovato alcun documento che testimoniasse l'esistenza di quel figlio bastardo. Don Juan era morto un anno dopo frate Julián e le proprietà erano state affidate a donna Marta, la figlia vedova e con due bambini che aveva trovato protezione vicino a suo padre. Tra i documenti della famiglia, un altro dei gioielli erano le lettere spedite al padre da donna Marian, la moglie del cavaliere Bertran d'Amis, uomo di fiducia del conte di Tolosa. Caro padre, sento il vostro dolore, che è anche il mio, per la perdita di mia madre. So che mai avete compreso la sua decisione
di abbandonare il tetto familiare per dedicare la sua vita a Dio, servire i Buoni Cristiani e tutti coloro che hanno desiderato conoscere la verità. Ora che mia madre è morta, voglio dirvi che ogni qual volta sono stata con lei negli ultimi anni, non ha mai nascosto quanto le pesasse nell'animo la vostra assenza. Non ha mai amato nessuno quanto voi, neppure i suoi figli e i nipoti. Nella vita di mia madre ci sono stati due grandi amori: Dio e voi. Quanto alla vita alla corte del conte, essa è cambiata molto e vi confesso che ho paura. Mio marito è persona di fiducia del conte di Tolosa, ma Raimondo è un sopravvissuto che, come ben sapete, deve accontentare il re di Francia e il papa, i quali, pur avendolo perdonato, non si fidano di lui. Presso la sua corte ci sono ancora alcuni Buoni Cristiani e credenti come noi, ma ci ha chiesto discrezione. Alcuni giorni addietro, ha supplicato tra le lacrime uno dei suoi amici più cari affinché tornasse tra le braccia della Chiesa per non vedersi costretto a consegnarlo lui stesso all'Inquisizione. La realtà è che don Raimondo è aizzato dai "cani" del papa che indicano alcuni dei suoi amici come sospetti di eresia. Io non ho la forza di mia madre, e neanche mio marito, quindi ci siamo adattati alla nuova situazione, cerchiamo di essere discreti e accompagniamo il conte in tutte le messe e liturgie alle quali partecipa, pur piangendo internamente nel doverci inginocchiare davanti alla croce. Mio marito mi invita a non pensare, a vedere nella croce un pezzo di legno senza alcun valore, e dice che quelle riverenze che pure facciamo sono solo gesti senza significato. Ma ogni volta che faccio il segno della croce sento che sto tradendo mia madre e condannando la mia anima, perché il sangue degli innocenti reclama vendetta. Perdonatemi, padre, questa confessione, giacché voi siete un buon cattolico al quale la fede di mia madre e la mia tanto danno ha causato, ma vi considero generoso e buono, e conto sul vostro perdono così come perdonaste mia madre... Questa lettera di donna Marian era datata qualche mese dopo la sconfitta di Montségur. In una piega della pergamena aveva trovato due parole vergate a mano da don Juan de Aínsa: "Povera figlia". Due semplici parole che probabilmente indicavano il dolore di quell'uomo per le difficoltà che affrontava donna Marian, o che forse erano soltan-
to un lamento per la sua anima perduta. Nelle sue ricerche Ferdinand aveva trovato parecchie prove della fede di don Juan: generose donazioni durante la vita e consistenti lasciti nel testamento a conventi e chiese. Nell'archivio locale era custodita una relazione dei beni donati dagli Aínsa nel corso dei secoli ed era sorprendente verificare che alcuni erano stati donati dalla stessa donna Marian. Ferdinand non vedeva alcun mistero dietro la corrispondenza della figlia con suo padre. Lei, come il conte Raimondo, aveva scelto di sopravvivere. Mio molto amato e rispettato padre, vi scrivo in un momento di profondo dolore. Nostro signore don Raimondo si è visto obbligato a inviare sul rogo ottanta Buoni Cristiani di Agen, città situata nelle vicinanze della Garonna, dove i Perfetti vivono serenamente, malgrado il costante timore che i "cani" del papa arrivino per affondare gli incisivi nella loro carne. Don Raimondo non ha potuto esimersi dal condannare al rogo queste buone persone, pur con animo triste, e ha pianto la loro fine per diversi giorni, senza voler ingerire alimento né nascondere la propria tribolazione. Il povero conte è malato e si lamenta delle prove che esigono da lui il re e il papa. Io stessa l'ho visto disperarsi con le lacrime agli occhi per aver tradito i suoi sudditi, ma cosa poteva fare? Ieri ha riunito un gruppo di amici fedeli tra i quali c'era mio marito don Bertran. Li ha ringraziati perché in tutti questi anni noi non abbiamo mai causato problemi mettendo in mostra la nostra vera fede. Per fedeltà nei suoi confronti ci siamo mantenuti discreti, tradendo la Verità con i gesti, ma mai con il cuore. Ma il conte Raimondo, mio signore, teme per ciò che potrà accadere quando lui verrà a mancare e per questo, padre, voglio sollecitare la vostra protezione nel caso in cui fossimo costretti a lasciare Tolosa per un periodo; se voi non poteste accoglierci, ce ne andremmo a Genova o a Pavia, dove sappiamo che i nobili si mostrano benevoli con i Buoni Cristiani. Se ci accoglierete non vi causeremo alcun problema, dal momento che, come già sapete, fingiamo di essere figli della Chiesa, per cui assisteremo al culto insieme a voi, a mia sorella e ai miei due nipoti, che ardo dal desiderio di conoscere...
Nella successiva lettera, donna Marian annunciava a suo padre la morte del conte di Tolosa e lo avvertiva di essersi messa in marcia in direzione di Aínsa. Mio caro padre, il nostro buon conte Raimondo di Tolosa si è liberato del suo corpo e giace in Fontevrault, dove riposerà per sempre insieme a sua madre donna Juana, a suo zio Riccardo e ai suoi nonni don Enrique e donna Leonor. Vi immagino al corrente del fatto che il conte si fosse ammalato di febbre a Millau, anche se la sua salute era già malferma per le molte sofferenze patite. La sua eredità andrà a donna Juana e a suo marito Alfonso di Poitiers, ai quali Dio non ha ancora concesso figli. Mio marito don Bertran crede che sarò più al sicuro con voi, e fino a quando non si sarà chiarita la situazione, vi sarebbe grato se mi concedeste di venire a farvi visita insieme ai miei figli. Spero di non essere un peso e che la mia permanenza non si prolunghi nel tempo, visto che come sapete amo mio marito e la separazione mi intristisce... Forse il vero gioiello era la lettera inviata da donna Marian a frate Julián poco dopo la partenza dalla casa di suo padre, dove si rifugiò per alcuni mesi. Dal tono della missiva non era difficile dedurre che la dama e il frate avessero passato insieme molte notti a conversare. Donna Marian dovette arrivare ad Aínsa alla fine del 1249 o all'inizio del 1250, pochi mesi dopo la morte del conte di Tolosa, e in tal modo poté rivedere suo padre già malato. Mio buon frate, mi risulta strano chiamarvi così giacché i frati sono stati fonte costante di sventure nella mia vita e in quella dei miei, ma in questi mesi passati sotto il tetto familiare ho compreso perché mia madre riponeva in voi tanta fiducia. Per quanto possa scandalizzarvi, frate Julián, siete un buon cristiano, anche se vivete nell'errore credendo che Gesù sia rappresentato in quell'oggetto di tortura che è la croce. Ma questa missiva ha lo scopo non di prolungare le discussioni e le conversazioni che abbiamo già man-
tenuto, ma di ringraziarvi per la vostra bontà. Avete dato conforto a mio padre negli ultimi giorni e siete un aiuto per mia sorella Marta e per i miei due nipoti. Non credo che ci rivedremo; per questo voglio ripetervi che l'impegno da voi assunto con mia madre, donna Maria, andrà a buon fine. La vostra cronaca vedrà la luce un giorno e gli uomini sapranno quanto grande è stata l'iniquità sia del re che del papa. Sapete che i miei figli sono già depositari della verità di quanto accaduto durante quegli anni e loro, pur guardandosi bene dal professare apertamente la vera fede, sognano il giorno in cui potranno vendicare il sangue degli innocenti. Saranno loro o i loro figli, o i figli dei loro figli, ma un giorno la famiglia D'Amis vendicherà il sangue versato, perché solo allora gli innocenti potranno riposare in pace. 13 Spagna del Nord, 1946 Ferdinand custodiva come un tesoro le copie della corrispondenza di donna Marian che, in base a quanto aveva ricostruito, era tornata insieme al marito, divenuto leale vassallo di Alfonso di Poitiers, marito dell'unica figlia di Raimondo, donna Juana. Era evidente che la fede di donna Marian e don Bertran d'Amis non impediva loro di voler vivere; anche se i catari sognavano di lasciare questo mondo e staccarsi da quell'involucro maledetto che ritenevano fosse il corpo, nel caso di questi due nobili pesarono di più altri interessi, dal momento che morirono anziani. Ferdinand provò un senso di schifo. Quanto fanatismo! Quanto sangue versato nel nome di Dio! Ma Dio avrebbe potuto mai perdonare coloro che utilizzavano il suo nome per torturare e assassinare altri esseri umani? No, era impossibile. Per Lui non poteva avere importanza il modo in cui lo pregavano, o come lo immaginavano! D'un tratto si ricordò di David, il suo figlio adorato al quale avevano rubato l'innocenza e che era diventato un sionista convinto. Aveva compiuto venticinque anni e viveva ancora in Palestina. Non voleva tornare in Francia. "Sono ebreo" era solito dire. "Loro hanno fatto sì che mi sentissi diverso ed è proprio così che sono adesso: diverso." E chie-
deva: "Dov'erano allora quelli che adesso si scandalizzano per le cose accadute nei campi di sterminio? Se c'è qualcosa che noi ebrei abbiamo imparato è che possiamo contare solo su noi stessi, per questo dobbiamo avere una patria dalla quale nessuno possa mandarci via". David si sentiva ormai lontano da suo padre e dal loro passato comune: si era fermato al momento della scomparsa di sua madre e su quella scomparsa aveva costruito la ragione della propria esistenza. Alla fine della guerra Ferdinand gli aveva chiesto di accompagnarlo a Berlino per provare a cercare qualche traccia di Miriam, ma lui si era rifiutato. «Li odio, papà, li odio tanto che se camminassi per strada penserei che ognuno di loro potrebbe essere il colpevole della morte di mia madre, non lo sopporterei. Non posso andarci, ho soltanto voglia di ucciderli, loro e i loro amici, tutti quelli che con il silenzio hanno collaborato.» «Non tutti i tedeschi sono assassini, David, tra loro c'è gente che ha sofferto molto. I tuoi zii erano tedeschi.» «Hai ragione, papà, ma non posso evitare di provare quello che provo, quindi è meglio che non ti accompagni. Consentimi di essere ingiusto e arbitrario. Sono ebreo, me lo posso permettere dopo sei milioni di morti.» Ferdinand comprendeva la rabbia di suo figlio, che aveva perso la madre e i nonni perché ebrei. Ricordava benissimo il 17 luglio 1942, quando i suoi suoceri erano stati arrestati a Parigi con altre migliaia di ebrei. La maggior parte erano donne, bambini e anziani. Li avevano portati al Velodromo d'Inverno. Lui era venuto a saperlo da un amico dei suoceri che era andato a trovarlo all'università. «Li hanno portati via!» aveva gridato l'uomo facendo irruzione nel suo ufficio. Immediatamente Ferdinand era corso a casa e non li aveva trovati. In quel momento aveva ringraziato Dio per essere riuscito a far uscire David dalla Francia. Aveva cercato di salvarli con tutte le sue forze, ma non aveva ottenuto nulla. I genitori di Miriam, insieme al resto degli ebrei di Parigi, erano stati condotti al campo di Pithiviers e poi a quello di Drancy, prima di essere trasportati ad Auschwitz, da dove non sarebbero tornati. Tutto questo lo aveva saputo molto tempo dopo. In quei giorni, gli uomini del regime di Vichy si comportavano come i burocrati tedeschi; non sapevano niente, non dicevano niente, si limitavano ad agire. Dapprima
avevano promulgato uno Statuto per gli ebrei, quindi avevano creato un Commissariato generale per il problema degli ebrei e più tardi li avevano portati nei campi di sterminio. Aveva tardato a dirlo a David perché sapeva che non avrebbe sopportato un'altra perdita e, per un periodo, quando lui chiedeva dei nonni evitava di rispondere direttamente. Un giorno suo figlio si era limitato ad affermare: «Li hanno portati via, vero?». Ferdinand aveva sentito i singhiozzi di David attraverso il telefono, cercando di trattenersi perché lui non sentisse i suoi. Sì, David si poteva permettere di essere arbitrario dopo sei milioni di morti. Ora suo figlio lavorava in un kibbutz e diceva di star bene, addirittura di essere felice. Gli confessò di avere un sogno: fare parte della Haganah, un gruppo di difesa segreto che stavano organizzando un centinaio di ebrei civili in Palestina, disposti a lottare per fare di quel pezzo di terra la loro patria. Per il momento, però, si doveva accontentare di aiutare la difesa del suo kibbutz. In una delle prime lettere gli parlava di un nuovo amico. ... Sto imparando l'arabo, me lo insegna un palestinese che vive in una fattoria vicina al kibbutz. Il mio amico si chiama Hamza, abbiamo la stessa età. Io gli insegno il francese e a volte ce ne andiamo in giro insieme per i campi. Gli piace il calcio, e piace anche a me, lo sai. Yacob, il capo del kibbutz mi dice di stare in guardia da lui, ma io ho fiducia in Hamza, è una brava persona e l'unica cosa che vuole è quella che voglio anch'io: vivere in pace, avere un pezzo di terra che possa sentire suo. Questa terra è piccola, ma ci stiamo dentro tutti, io lo dico sempre al capo del kibbutz: dobbiamo poter vivere insieme. Hamza la pensa come me. L'altro giorno siamo andati insieme a caccia; a dire il vero non abbiamo preso niente ma ci siamo divertiti moltissimo. A casa sua mi accolgono come un amico, mi hanno invitato spesso a cenare con loro. Anche Hamza adesso viene al kibbutz, prima non aveva mai avuto il coraggio di entrare, e a volte mi aiuta nel lavoro dei campi. Non mi piace ma bisogna farlo. Sono veramente contento di avere un amico palestinese! Yacob crede che un giorno tra noi ci saranno problemi, ma io non sono d'accordo, pur sapendo che al-
cuni palestinesi temono la nostra presenza. Io dico ad Hamza che la vera sfida è riuscire a costruire un paese dove ci sia posto sia per noi sia per loro; in fondo siamo tutti figli di Abramo... Le lettere di David erano piene di entusiasmo. Almeno questo lo confortava. Suo figlio era rimasto una persona buona. Sarebbe andato a trovarlo, ma prima doveva tornare a Berlino e, ovviamente, terminare il lavoro su frate Julián. Ferdinand provò nuovamente un senso di nausea nel ricordarsi del conte D'Amis, di quella gente stravagante che aveva trivellato i dintorni di Montségur alla ricerca di un tesoro inesistente. Dentro di sé si prendeva gioco di tutti loro, una specie di vendetta per l'idiozia che questi mostravano. Provava disprezzo e schifo per il conte. Gli era costato molte lacrime portare avanti la ricerca, sapendo che D'Amis era un devoto del regime di Vichy. Un collega di Tolosa lo aveva messo in guardia dagli amici tedeschi del conte. "Cercano il Graal per Hitler." Ma questo lui lo sapeva già. Gli era sempre sembrata una tale sciocchezza che non gli aveva dato alcuna importanza; con il passare del tempo, però, si era accorto che, malgrado gli sforzi del nobile di agire con discrezione, si faceva sempre più evidente la sua fanatica ossessione per l'indipendenza della Languedoc. Se il conte appoggiava la Germania lo faceva con la speranza di vedere la sua terra separata dalla Francia e in grado di recuperare l'autonomia perduta con le guerre catare. Ferdinand sapeva che a Montségur si erano riuniti i seguaci di Otto Rahn e che facevano parte del gruppo di lavoro del conte, ma quest'ultimo era stato intelligente e aveva fatto in modo che il professore non avesse contatti con loro. Lui, del resto, non lo avrebbe accettato, anche se in certe occasioni ne aveva incrociato qualcuno, esausto, di ritorno dagli scavi di Montségur. La vita gli era diventata indifferente dopo la scomparsa di Miriam. Aveva mantenuto la speranza di riuscire a trovare, un giorno, una traccia valida per fare pressione sul conte e ottenere che mobilitasse i suoi amici tedeschi. Ma ciò non era accaduto. La guerra si era mostrata in tutta la sua crudezza, la Francia si era divisa in due e tutte le storie personali erano state messe da parte. Anche la sua. 14
Nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, Ferdinand andò in Germania senza David. Inge era sopravvissuta alle vicissitudini del conflitto e gli affittò di nuovo la stanza. Insieme ripresero a cercare Miriam, andando da un posto all'altro per entrare in possesso delle liste dei prigionieri dei campi di sterminio. In una di quelle liste trovò i Bauer, in un'altra Deborah Schneider, e li pianse con rabbia e dolore. Trovarono anche la data in cui Sara e Yitzhak erano arrivati a Dachau e quella in cui erano stati condotti nelle camere a gas. Ma di Miriam nessuna traccia. «Dovremo aspettare che si sappia la verità» gli disse Inge «che un giorno ci raccontino quanta gente è morta nei commissariati. Immagino che Miriam sia stata portata via dalle camicie brune e probabilmente sia stata picchiata a morte, oppure che l'abbiano uccisa le torture della Gestapo. Ma c'è bisogno di tempo prima che gli archivi vengano aperti. I tedeschi non riescono a sopportare se stessi e preferirebbero continuare a non sapere tutto quello che hanno fatto o hanno lasciato fare.» «E tu, Inge, cosa provi?» le chiese Ferdinand. Dopo alcuni istanti di silenzio, lei si morse le labbra e incrociò le braccia sul ventre, quindi rispose. «Provo un senso di schifo. Schifo di me stessa, del mio paese, della gente. Non sarà facile riconciliarci con noi stessi, la Germania sarà perseguitata in eterno da questo incubo.» «L'incubo eravate voi» rispose con durezza Ferdinand. «Hai ragione, e sai anche che io sono una di quelle che non vuole togliersi di dosso neanche un briciolo di responsabilità, neanche personale, per quello che è accaduto. Io ero qui, avrei potuto rischiare la vita come tanti altri e non l'ho fatto. La mia unica ossessione è stata vivere e aspettare che tutto questo finisse.» Nelle liste aveva trovato anche il nome del padre di suo figlio. La data del suo ingresso ad Auschwitz e quella della sua esecuzione. Sapeva che non l'avrebbe mai rivisto, che, ovunque fosse stato, non avrebbe più fatto ritorno. «E adesso, Inge?» «Spero di poter trovare un lavoro migliore.» Gli confessò anche che durante la guerra era arrivata a lavorare come prostituta per le truppe pur di dare da mangiare a Günter. «Quando non mi chiamavano per fare le pulizie non avevo altra scelta
che il marciapiede. Mi diedero l'indirizzo di un locale dove di solito andavano gli ufficiali tedeschi quando erano in licenza a Berlino. Ci sono andata, in più di un'occasione.» Lui sapeva che quello le aveva lasciato un segno indelebile, ma Inge non lo avrebbe mai detto, non sarebbe mai crollata davanti a nessuno. La sua unica ossessione era andare avanti. «Cosa hai intenzione di fare?» le chiese. «Mi piacerebbe terminare gli studi e diventare maestra; chissà, magari ci riesco. Günter ha sette anni, ormai non ha più tanto bisogno di me. Potrei studiare di sera e nel frattempo continuare con il lavoro di cui ti ho parlato.» Aveva trovato un impiego come telefonista in un hotel e, malgrado il salario esiguo, se la cavava. Inge era spartana, era abituata a sopravvivere, riusciva sempre a farcela. «Non hai mai pensato di andartene da un'altra parte?» «Dove? A fare cosa? No, non credo che sarebbe una buona idea, qui... insomma... qui so come sopravvivere, e in un altro posto sicuramente mi costerebbe di più. Non posso correre rischi per Günter; lui ha diritto a una vita migliore, e questo paese, malgrado quello che ti ho detto prima, ce la farà; può darsi addirittura che la Germania diventi una terra ricca di opportunità, è ancora tutto da fare.» «Sei sempre comunista?» le chiese Ferdinand con curiosità. «No, non sono più niente. Sono soltanto io.» In realtà era sempre stata così, ma la sua risposta lo impressionò. Inge non aveva ancora compiuto trent'anni e parlava come un'anziana sfiduciata. «E tu che cosa sei, Ferdinand?» gli aveva chiesto a sua volta. «Non so cosa risponderti, anche se noi europei dobbiamo essere molto grati ai tuoi amici russi oltre che agli americani. Entrambi hanno vinto la guerra e ci hanno liberati dall'inferno.» «Sì, dobbiamo molto alla Grande Madre Russia, te l'avevo detto un giorno che Stalin stava solo aspettando il suo momento.» «Però il patto Molotov-Ribbentrop è stato una pugnalata.» «È stato politica.» «La peggior politica, una pagina nera nella storia dei comunisti.» «Di tutti i comunisti?» «Sì, di tutti. Nel mio paese alcuni dirigenti comunisti adesso vogliono farci credere che Hitler avrebbe voluto la guerra con la Francia e che è sta-
ta la politica di Stalin a frenarlo per un periodo.» «In effetti è stato così.» «E cosa mi dici della "cessione" all'Unione Sovietica da parte di Hitler dei Paesi Baltici e dell'est della Polonia?» «Abbiamo appena detto che dobbiamo molto alla Russia.» «Ma io penso alla gente, ai soldati, alle madri, penso a persone in carne e ossa che si sono sacrificate.» «Se non ce l'aveva fatta Napoleone a sottomettere i russi, pensa un po' se poteva farcela Hitler...» disse lei abbozzando un sorriso. Un giorno Ferdinand chiese a Inge di accompagnarlo a casa degli zii di Miriam. Voleva vedere la portinaia, la signora Bruning. Forse ora gli avrebbe detto la verità. Inge tentò di dissuaderlo, sapendo che non sarebbe stato gradevole, ma accettò di andare con lui. La signora Bruning era sopravvissuta alla guerra ed era ancora più grassa rispetto a quando l'avevano vista l'ultima volta. Quando aprì la porta li riconobbe immediatamente e impallidì. «Voi... Cosa volete? Vi ho già detto che non so niente.» Ma entrambi notarono che la donna non aveva più la superbia e la forza di quando al balcone di casa sua sventolava la svastica. «Signora Bruning, da lei dipende quello che succederà» la minacciò Ferdinand bluffando. «Adesso siamo noi a fare le liste di collaboratori dei nazisti, di coloro che denunciavano la gente... Parli, e forse deciderò di darle una possibilità.» «Parli, signora Bruning, non ha altra scelta» la incalzò Inge. La donna si asciugò il sudore della fronte con il dorso della mano. Emanava un odore di paura. Esitò, non sapendo che cosa fare; poi li invitò a entrare. «Mio marito è morto» annunciò. «Sono rimasta vedova, con una figlia e due nipoti. Il marito di mia figlia è morto in Russia. Se voi mi denunciate... non so cosa sarà di noi.» Inge strinse il braccio Ferdinand per evitare che insultasse la donna. Quel lamento risultava impudico sulla bocca di una nazista. Ma l'unico modo di sapere la verità era non pressarla più del dovuto. «La ascoltiamo, signora Bruning» disse Inge in tono dolce. «Lei arrivò una mattina, si arrabbiò moltissimo quando vide la libreria. Io... le dissi di tacere, ma lei mi insultò, mi disse che eravamo dei selvaggi, mi chiese che razza di popolo era questo che butta i libri per strada, li bru-
cia e fa sparire due poveri anziani. Mi minacciò... ebbe il coraggio di minacciare proprio me. Le dissi che era una cagna ebrea e lei mi voltò le spalle ridendo dicendomi che era vero, che lei era ebrea e non si era mai sentita tanto orgogliosa di esserlo come in quel momento. Le ordinai di andarsene e lei continuò a ridere. Mi disse che io non ero nessuno, che non potevo cacciarla dalla casa dei suoi zii. L'avvertii che se non fosse andata via... Poi arrivarono loro. Il fratello di mio genero era un capo delle camicie brune e suo cognato lavorava nella Gestapo. Lei si parò di fronte a loro, disse che non dovevano osare metterle le mani addosso, che era una cittadina francese e avrebbe chiamato la sua ambasciata... Allora uno la colpì e lei gli morse la mano. Poi la colpirono di nuovo e se la portarono via.» Una lacrima corse lungo la guancia di Ferdinand. Aveva davanti agli occhi l'immagine di Miriam che affrontava quei selvaggi; lei, così razionale, così sicura del potere della ragione e della forza della legge, si era scontrata con quell'esercito del male. Inge gli strinse la mano tentando, invano, di confortarlo. «Signora Bruning, mi dica dove si trovava il quartier generale delle camicie brune, e in quale ufficio della Gestapo lavorava il cognato di suo genero» le chiese Inge con voce ferma. La portinaia annotò tutto su un foglio di carta mentre piangendo chiedeva pietà per lei e per i suoi nipoti. «Io vi ho aiutato... dite ai vostri amici che ne tengano conto... io vi ho aiutato» implorava tra i singhiozzi. «Non lo so cos'è successo dopo, non mi dissero più niente...» «Lei sa come sono morti Yitzhak e Sara Levi?» le buttò lì Inge con freddezza. «No... non so niente... Non sapevo neanche che fossero morti...» «In una camera a gas. Se lo immagina cosa vuol dire morire così? E sa perché sono morti?» continuò Inge. «No... no» gemette la portinaia. «Sono morti perché il male esiste; e lei ne fa parte. Credo che lei meriti una morte orribile, ma non tocca a me decidere. Lei risponderà per ciò che ha fatto, signora Bruning, la gente che è morta per colpa sua non le permetterà di avere pace. Non chiuda mai gli occhi, signora Bruning, perché saranno tutti lì.» La donna piangeva in preda a una crisi isterica, sentendosi circondata dai fantasmi. «Ora noi ce ne andiamo, ma verrà qualcuno a cercarla. Deve essere giu-
dicata e pagare per quello che ha fatto» sentenziò Inge, ben sapendo che alla donna non avrebbero fatto assolutamente niente. Teneva Ferdinand sotto braccio, come se si trattasse di un bambino da proteggere. Lo sentiva distrutto, inerme, alle prese con un dolore impossibile da sopportare. Quel momento era stato peggiore di tutti gli anni passati senza avere una sola notizia di Miriam. Finalmente era sul punto di ritrovarla e non riusciva a sopportarlo. Ora la sofferenza che lei aveva patito assumeva le tinte sordide della realtà. Miriam stava per abbandonare i panni del fantasma e acquisire sostanza umana. Per diversi giorni, accompagnato da un funzionario dell'ambasciata, girò in lungo e in largo per incontrare i nuovi amministratori della città, trattando ora con gli americani, ora con i russi. Stavano nascendo comitati ovunque, si tentava di ricostruire quel che era accaduto nella Germania della svastica, si indagava per cercare le persone scomparse e si compilavano le liste di quelle assassinate in massa nei campi di sterminio. Non fu facile convincerli a farsi ascoltare: il suo era un caso isolato, uno tra migliaia; ma ebbe la fortuna di trovare un funzionario americano, John Morrow, che ne rimase impressionato. Morrow era un professore di storia, un uomo che aveva deciso di arruolarsi per combattere i nazisti perché non concepiva un mondo dominato da quel pugno di assassini psicopatici. Era andato in guerra per convinzione morale e adesso si ritrovava a Berlino, nel quartier generale, per mettere un po' d'ordine nel caos di quella città. «Comprendo la sua angoscia, signor Arnaud; se mia moglie fossa svanita nel nulla, credo che sarei impazzito. Le farò una confidenza: anche mia moglie è ebrea. È di New York; i suoi nonni vennero dalla Polonia in cerca di un'opportunità. Provo una rabbia profonda quando vedo ciò che hanno fatto i nazisti. Hanno scritto la pagina peggiore della storia.» Fu così che John Morrow li aiutò, aprendo porte che erano ancora chiuse, fino a ritrovare gli archivi del commissariato di un quartiere berlinese dove il 21 aprile 1939 Miriam era stata condotta dopo il suo arresto. Una nota stringata accertava che la prigioniera era deceduta e il suo corpo era stato gettato in una fossa comune. Ferdinand pianse come un bambino mentre leggeva quel foglio ingiallito che un funzionario puntiglioso aveva custodito nell'archivio di un commissariato di quartiere. Lo lasciarono piangere senza tentare di consolarlo. Sapevano che nulla di quello che avrebbero potuto dire avrebbe avuto senso per lui.
Non c'era bisogno di molta immaginazione per sapere cos'era accaduto: probabilmente Miriam era stata picchiata al momento dell'arresto in casa dei suoi zii, e poi anche al commissariato. Le percosse ne avevano causato la morte. Tutto qui, semplice e crudele. Per due giorni Ferdinand girò per la città come uno zombie, incapace di parlare, mangiare o dormire. Inge e John Morrow fecero del loro meglio per non lasciarlo solo; temevano che potesse perdere la ragione, che non volesse tornare al mondo dei vivi, immerso com'era nella sua prolungata e silenziosa conversazione con Miriam. Inge prese la decisione di chiamare David e John riuscì a rintracciarlo nel suo kibbutz vicino ad Haifa. Ferdinand era accasciato sul letto con lo sguardo perso nel soffitto, la barba sfatta da giorni, quando Inge entrò nella stanza che olezzava di sudore misto a lacrime. «C'è tuo figlio al telefono, alzati.» Il professore parve non ascoltarla; poi volse la testa verso di lei, guardandola senza vederla. «C'è David al telefono, alzati» ripeté Inge. Ferdinand si tirò su con difficoltà, come se il corpo pesasse una tonnellata e le braccia e le gambe non rispondessero. Inge si avvicinò e gli tese la mano aiutandolo ad alzarsi per condurlo in sala. Ferdinand prese il telefono ma rimase muto. Allora Inge glielo tolse dalle mani e disse nella cornetta: «C'è tuo padre al telefono, parlagli». Per alcuni secondi Ferdinand rimase ancora rinchiuso nel silenzio, poi scoppiò a piangere. Inge uscì dalla sala e se ne andò in cucina, lasciandolo solo, sapendo che quella conversazione tra padre e figlio non doveva avere testimoni. Inge attese qualche tempo, poi rientrò nella sala, si sedette di fronte a lui e, prendendogli la mano, gli disse a bassa voce: «Lo so, ora sei distrutto, sei a pezzi, ma devi ricomporti, poco a poco, rimettere insieme i cocci; l'alternativa è morire, e io non credo che tu debba morire, Miriam non te lo perdonerebbe. Morto non le servi a niente, e invece da vivo puoi aiutare vostro figlio, la cosa che lei più di ogni altra voleva.» Lo accompagnò in bagno e aprì la doccia. «Sistemati un po', sei ridotto uno schifo.» Il giorno in cui lasciò Berlino, John Morrow andò all'aeroporto a salutarlo e gli consegnò una busta chiusa.
«Mi aveva chiesto di indagare sui genitori di Miriam e l'ho fatto. Come può immaginare, sono morti in un campo di sterminio. Qui c'è tutto il loro percorso: dal campo di Pithiviers li portarono a quello di Drancy e da lì ad Auschwitz. Mi dispiace. I tedeschi sono i principali colpevoli di quello che è successo, ma non sono i soli. Davvero i politici di Vichy non sapevano cosa significasse mandare i loro connazionali ad Auschwitz? Non ci posso credere... Sa, Ferdinand, credo che un giorno l'Europa dovrà fare un esame di coscienza, perché questa follia è frutto non solo dell'antisemitismo di un pazzo, ma di secoli di persecuzioni nei confronti degli ebrei, secoli nei quali sono stati presentati come gli assassini di Gesù Cristo. È curioso, dimenticano che Cristo era ebreo e che non volle essere altro che ebreo per quanto il suo messaggio fosse universale... Anche la sinistra dovrà fare un esame di coscienza, Ferdinand, per quanto la cosa li faccia inorridire, tutto questo è avvenuto per un calderone culturale che ribolliva da secoli. Lei è un professore universitario, come me, e noi abbiamo l'obbligo di alzare la voce e mettere i nostri simili davanti alle loro contraddizioni. Non ci sono scusanti per quello che è accaduto.» Sull'aereo Ferdinand aprì la busta e lesse quei fogli dove, sommariamente, veniva raccontata la tragedia dei genitori di Miriam. Non solo avrebbe dovuto raccontare a David quel che era capitato a sua madre, ma anche l'orrore patito dai nonni. Quattro giorni dopo era con suo figlio a Parigi. Piansero insieme fino a svuotarsi di lacrime; parlarono di Miriam, dei nonni, dei tempi andati e del futuro. «Grazie, papà, per avermi mandato in Israele. Mi hai salvato la vita, tu avevi capito cosa sarebbe successo... e pensare che io non volevo andarmene! Se fossi rimasto qui...» «Non pensarci. Sei partito, sei vivo e questa è la cosa importante. Devi vivere per te stesso, per tua madre, per i nonni. Sono sicuro che loro, mentre soffrivano ad Auschwitz, pensavano a te e si sentivano sollevati sapendoti in salvo.» David era cambiato. Ora era un giovane sicuro di sé, con un ideale per il quale lottare. «Sì, sono sionista papà, il sionismo non è altro che il ritorno alla patria, è quello che avremmo dovuto fare già da molti secoli; se l'avessimo fatto tutto ciò non sarebbe accaduto. Gli inglesi sono contro di noi, ma abbiamo creato dei gruppi di difesa. Non è che formiamo un vero e proprio esercito, papà, perché non abbiamo uniformi e solo poche armi, ma siamo disposti a
lottare per la nostra terra. Noi ebrei abbiamo bisogno di una patria. Altrimenti succederà di nuovo quello che è successo in Germania. Quante volte ci hanno espulso da quelli che credevamo i nostri paesi, dalle nostre case? Quanto pogrom ancora dovremo sopportare? No, ora basta, non permetteremo più che ci portino al mattatoio come bestie solo perché siamo ebrei, non ci sentiremo più cittadini di seconda classe. Combatterò, papà, devo farlo. Mamma lo avrebbe voluto. Me l'hai raccontato tu: ha affrontato quella strega della signora Bruning, per questo l'hanno picchiata e massacrata fino a ucciderla. Se lei fosse viva la penserebbe come me e ti incoraggerebbe a venire con noi in Palestina. Malgrado gli inglesi, continuano ad arrivare emigranti e pare si sia formato un comitato anglo-statunitense che sta studiando l'orribile Libro Bianco che gli inglesi imposero nel 1939 restringendo la migrazione degli ebrei in Palestina. Quei grandissimi maiali...» «David!» «Papà, adesso gli ebrei possono venire liberamente ed è quello che stanno facendo. Mi piacerebbe tanto che tu fossi lì con me...» «Hai ragione, David, devi lottare. Se io fossi lì però sarei un impostore; posso venire a trovarti, passare dei periodi con te, ma non mi sento capace di partecipare al tuo sogno di costruire uno Stato ebraico. Se tua madre vivesse... È il tuo sogno, David, e io ti appoggerò con tutto il cuore, qualunque cosa tu faccia, anche se non dovesse piacermi. Ti chiedo soltanto di non dimenticare alcune delle cose che tua madre e io ti abbiamo insegnato; non dimenticare che non importa che nome abbia Dio né in che maniera lo si preghi. Non diventare un fanatico, te lo chiedo per tua madre, perché lei non l'avrebbe mai fatto.» Suo figlio lo guardò per qualche istante con intensità, poi si mise a piangere. «Dio? Io non credo in Dio, papà, non credo in Dio perché gli avevo chiesto di riportarmi mia madre e non lo ha fatto. Se esistesse non avrebbe permesso che morissero sei milioni di innocenti nelle camere a gas. Credi che loro non lo pregassero chiedendogli pietà e compassione? Dov'era Dio? Non ha voluto evitare la morte degli innocenti? Non ha potuto? Perché ha permesso che uccidessero mia madre?» «Figliolo, non dare a Dio la colpa di ciò che ha fatto Hitler.» «Se Dio esiste, ha consentito una mattanza. Voi mi avete dato un'educazione laica, pertanto non parlatemi di Dio adesso. Io lotterò perché mai più nessuno possa ammazzare gli ebrei impunemente. Lotterò perché gli ebrei
abbiano una casa, perché non vengano più perseguitati. Io non contavo niente per Lui quando ne avevo bisogno e Lui ora ha smesso di contare per me, che altro potrebbe farci di male?» Ferdinand non ebbe risposte per le domande di suo figlio, non le aveva nemmeno per le sue; a dire il vero non sapeva neanche perché si preoccupasse di Dio. Forse per le molte ore di studio e di riflessione sui catari o sulla persecuzione degli eretici, sull'Inquisizione e tante altre atrocità commesse dagli uomini nel suo nome. Quando lui e David si dovettero nuovamente salutare si sentì lacerare l'anima. Suo figlio tornava a Eretz Israel, come lui chiamava la Palestina. L'unica cosa che lo legava ancora alla terra, alla sua stessa esistenza, era David, per cui avrebbe dovuto cercare il modo migliore per evitare che quel vincolo si spezzasse. Ora aspettava con ansia il momento in cui avrebbe incontrato di nuovo suo figlio, tra un mese o due, non appena avesse consegnato il lavoro su frate Julián e l'università lo avesse presentato come uno dei suoi documenti di ricerca sul passato. Anche il conte D'Amis attendeva con ansia il risultato di tanti anni di lavoro interrotto dalle vicissitudini della guerra. 15 Un mese dopo, quando era sul punto di partire per Israele per rivedere David, il direttore del dipartimento di Storia lo convocò con urgenza nel suo ufficio. Fu sorpreso di trovare il suo collega insieme a tre sacerdoti. «Ferdinand, questi signori sono padre Nevers della Nunziatura di Francia, padre Grillo della Segreteria di Stato del Vaticano, e il suo segretario Ignacio Aguirre.» «Molto piacere» disse tendendo la mano senza comprendere il motivo di quella presenza. «Le spiegheranno loro il motivo della visita e la richiesta che ci hanno fatto» gli comunicò il direttore del dipartimento. Padre Nevers e padre Grillo si scambiarono uno sguardo rapido con il quale decisero chi dei due avrebbe preso la parola per primo. Toccò al francese. «Professor Arnaud, andrò al sodo.» «Sì, gliene sarei grato...» rispose Ferdinand sempre più meravigliato. «Sappiamo che lei ha lavorato per il conte D'Amis.» «Mi dispiace contraddirla ma non è esattamente così» lo interruppe lui.
«Come il direttore del dipartimento sicuramente vi ha spiegato, ho portato a termine un'indagine su una cronaca scritta da un frate domenicano durante l'assedio di Montségur. Quella cronaca è arrivata nelle mie mani attraverso D'Amis, il quale voleva che l'autenticassi. A partire da quel momento il conte ha dato la sua autorizzazione all'università affinché io potessi lavorare su quel documento, mi ha consentito di iniziare un lavoro accademico il cui unico fine era quello di ampliare le nostre conoscenze sul significato della persecuzione del catarismo e, soprattutto, la configurazione della Francia come oggi la conosciamo. Questo è ciò che ho fatto, tra le altre cose, negli ultimi anni. Ho lavorato per l'università, non per un privato. Il risultato di questo lavoro è stato pubblicato sotto il simbolo dell'ateneo.» «Lei però è stato in contatto permanente con il conte D'Amis» affermò a sua volta padre Grillo in un eccellente francese. «Sì, certo, ho dovuto condurre ricerche nei suoi archivi familiari e così sono stato con una certa frequenza al castello D'Amis, una frequenza interrotta peraltro dagli eventi bellici.» «Questi signori conoscono già il suo lavoro pubblicato dall'università» si inserì il direttore del dipartimento «e la cosa mi ha piacevolmente sorpreso.» «Immagino vi dia fastidio che oggi si pubblichi uno studio sul significato di quella crociata, ma vi assicuro che il mio lavoro è puramente accademico, non ho alcuna intenzione di arrecare danni alla Chiesa per i suoi errori passati» affermò Ferdinand con un tono di voce nel quale s'intuiva un certo fastidio. «Signor Arnaud, non siamo venuti a dibattere quelle circostanze storiche, né il perché delle azioni della Chiesa; in questo momento è il presente che ci preoccupa, non quello che uno studio accademico possa dedurre su un fatto avvenuto nel XIII secolo» gli rispose padre Nevers. «Bene, allora ditemi cosa volete» li sollecitò Ferdinand. «In questi anni, malgrado la guerra, gruppi di... non so bene come chiamarli, diciamo studiosi, tedeschi e francesi, hanno scavato nella zona di Montségur, cercando... cercando un tesoro, e sappiamo che lei li ha diretti» affermò padre Nevers. «Ah, no! Questo proprio no! Io non ho diretto niente!» protestò Ferdinand. «Alcuni testimoni assicurano che invece lo ha fatto.» «Vi spiegherò esattamente quale è stato il mio ruolo, ma prima ditemi cosa succede, cosa volete da me...»
Padre Grillo si schiarì la voce. Ferdinand lo guardò fisso. Era un uomo di mezza età, con una folta chioma spruzzata di bianco e perfettamente pettinata, la carnagione scura e le mani lunghe e sottili. C'era qualcosa di aristocratico in lui. «Signor Arnaud, le diremo cosa succede» cominciò padre Grillo. «Dal alcuni mesi ci arrivano notizie del lavoro che un gruppo di filonazisti sta realizzando nei dintorni di Montségur. Dal 1939 stanno cercando il tesoro dei catari, un tesoro che alcuni credono sia il Graal.» Ferdinand esplose in una risata che sorprese i tre sacerdoti e il direttore del dipartimento, che lo guardò infastidito. «Per favore! Non crederete a simili fantasie! Signori, ho pubblicato dei libri su questo periodo della storia di Francia e sulla persecuzione dell'eresia. In alcuni capitoli ho parlato del tesoro, mettendo bene in chiaro che si trattava solo di un mucchio di monete e gioielli portati fuori da Montségur affinché i reduci facessero sopravvivere la Chiesa dei Buoni Cristiani. Non esiste alcun mistero riguardo quel tesoro, nessuno. Non c'è il Graal. Il Graal non esiste, non dovreste leggere libri esoterici né quelli di Otto Rahn, un nazista, peraltro abbastanza brillante. Io sono uno storico, non uno scrittore di favole, e non troverete nessuno dei miei scritti che avalli l'assurda teoria del Graal.» «Allora, qual è stato il suo rapporto con quei gruppi di lavoro?» chiese il direttore del dipartimento di Storia. «Lei lo sa benissimo» rispose con rabbia Ferdinand. «Gliel'ho spiegato in più di un'occasione. D'Amis, in effetti, aveva dei gruppi di ragazzi che scavavano nella zona; erano diretti da alcuni professori di università tedesche che, influenzati dalle storie di Rahn, erano sicuri di trovare il tesoro dei catari. Quei gruppi apparivano e sparivano; l'unica cosa che il conte mi chiese in qualche occasione fu di esaminare le carte delle loro conclusioni e dei loro lavori, io ho sempre risposto allo stesso modo: che erano conclusioni false, assurde, che lì non c'era alcun tesoro e che il Graal non esiste, anche se non mi hanno mai detto esplicitamente cosa stessero cercando. Era il piccolo prezzo che dovevo pagare perché ci fosse consentito di investigare nei suoi archivi. Sì, erano filonazisti come dite voi» guardò i sacerdoti. «In realtà non erano molto diversi da tanti francesi che hanno collaborato con la Germania. Se devo dire la verità, a loro non ho mai prestato molta attenzione. Non mi piacevano, come del resto non mi piace neanche il conte. Il mio unico obiettivo era fare delle ricerche, immergermi nella storia di frate Julián, Lì sta il mio lavoro; se l'avete letto non potete avere
dubbi al riguardo.» «Vorremmo che lei ci raccontasse tutto ciò che ricorda di quei gruppi, di ciò che realmente cercava il conte» insistette padre Nevers. «Gliel'ho già detto: cercavano il tesoro dei catari. Voi sapete che c'è stato un pittoresco scrittore, Napoleon Peyrat, pastore della Chiesa protestante, che scrisse La storia degli albigesi; in realtà ne riscrisse la storia con miti, leggende, racconti per bambini... insomma, bisogna riconoscere che era un buon narratore, come pure lo è stato Otto Rahn. Le favole di Peyrat fecero sì che tutto ciò che riguardava la Provenza diventasse di moda e che alcuni sostenessero stravaganti idee nazionaliste sulla Languedoc perduta. Altri personaggi, minori, esoterici e occultisti, hanno sviluppato altre storie sui catari e la Languedoc; un altro scrittore, Maurice Magret, ha contribuito molto a questa moda. Dedicava un capitolo allucinante ai catari nella sua opera I nuovi maghi. Prima della guerra, senza andare troppo lontano, aveva moltissimi seguaci lo stesso Otto Rahn.» «E questo cosa c'entra con il conte D'Amis?» insistette padre Grillo. «Il conte è il discendente di una Perfetta, una donna arsa viva a Montségur. La cronaca di frate Julián è stata conservata passandola di padre in figlio per generazioni. Se fosse caduta in mano all'Inquisizione, li avrebbero bruciati tutti, compreso lo stesso Julián, sebbene fosse domenicano. Pertanto quella cronaca è sempre stata circondata da un certo segreto; non volevano farla conoscere perché nessuno potesse indicarli come eretici. Vi ricordo che non molto tempo fa Pio X, che fu papa come voi ben sapete tra il 1903 e il 1914, incluse l'Inquisizione nella sua riorganizzazione della Curia, e la denominò Congregazione del Sant'Uffizio; insomma, ufficialmente non esisteva, ma in realtà esiste eccome. La memoria di Montségur e della persecuzione degli eretici è stata tramandata di generazione in generazione. Dalle mie conversazioni con il conte ho potuto dedurre che sogna l'indipendenza della Languedoc; credo che la sua simpatia verso la Germania fosse proporzionale al disprezzo che prova nei confronti della Francia per aver annesso, secondo le sue stesse parole, "la sua terra, la Languedoc". Come vedete, c'è gente che non prende atto della storia, per la quale non contano né il passare dei secoli né il succedersi degli eventi. Il conte sogna una Languedoc indipendente, e naturalmente prova pochissima simpatia per la Chiesa cattolica, ma questa è una deduzione mia. Non posso affermarlo con certezza, perché ha sempre cercato di essere discreto nell'esprimere opinioni politiche o religiose.» «Questo è tutto?» chiese padre Grillo.
«È tutto quello che so e che vi posso raccontare. Anche il mio esimio collega conosce D'Amis, e lo stesso potrei dire di altre persone di questa università. Pochissimo tempo fa abbiamo consegnato ufficialmente i risultati del mio lavoro. Io direi che non è rimasto particolarmente soddisfatto, che si aspettava qualcosa di più ma non ha detto niente. Se invece vuol sapere se continua a sostenere quei gruppi che si dedicano a perforare il sottosuolo della Languedoc in cerca del tesoro, la verità è che di questo non mi sono mai preoccupato.» «Signor Arnaud, corre voce che il conte D'Amis abbia trovato qualcosa di molto speciale» affermò padre Nevers. «E cosa sarebbe questo qualcosa di così speciale?» chiese Ferdinand incuriosito. «È proprio questo che non sappiamo e che vorremmo verificare» spiegò padre Grillo. «Vede, durante la guerra circolavano parecchie voci che dietro alcuni scavi di Montségur ci fosse addirittura Heinrich Himmler in persona, e che i suoi agenti fossero in contatto con alcuni dei gruppi del conte. Perfino... be', può sembrare uno sproposito, ma un'altra voce diceva che Alfred Rosenberg avesse sorvolato Montségur nel 1944, il 16 marzo, in occasione del settecentesimo anniversario della resa del castello. E poi c'è la parte peggiore di queste voci: la possibilità che abbiano trovato qualcosa che possa mettere in pericolo la Chiesa.» «Cos'è che vi preoccupa realmente? Se parliamo di nazisti posso credere qualsiasi cosa; dopo aver assassinato sei milioni di persone nelle camere a gas non mi sorprende certo che Rosenberg, il teorico del nazismo preferito da Hitler, abbia deciso di salire su un aereo per sorvolare Montségur o che un personaggio sinistro come Himmler abbia potuto interessarsi a queste storie esoteriche. No, niente di quello che potete raccontarmi su questa gente mi sorprenderebbe, ma credo che intorno a Montségur si dicano molte stupidaggini e che durante la guerra ci fosse gente interessata a diffondere queste e altre voci. Mi lasciano indifferente. La maggior parte dei lavori che si pubblicano su Montségur e il tesoro dei catari è costituita da semplici dicerie, per questo non credo che abbiano trovato niente che possa mettere in difficoltà la Chiesa, a meno che voi, signori, non abbiate un segreto inconfessabile che custodite chiuso a dieci mandate e che temete possa essere svelato. Quello che non riesco a capire è cosa c'entri un sacerdote con Montségur.» «Signor Arnaud, la Chiesa non ha segreti inconfessabili» rispose seccato padre Nevers.
«Per me non fa differenza; mi interesserebbe solo in qualità di storico, e attualmente forse neanche quello» rispose Ferdinand con assoluta freddezza. «Cosa crede che sia il Graal?» gli chiese con voce tranquilla padre Grillo, rimasto estraneo alla tensione tra padre Nevers e il professor Arnaud. «Non lo so, questo dovreste dirmelo voi» sentenziò Ferdinand. «Come comprenderete, non credo che la coppa nella quale bevve Gesù durante l'Ultima Cena si sia conservata per venti secoli. O pensate davvero che qualcuno degli apostoli, quella notte, pensando alla posterità, abbia deciso di custodirla? E perché non il piatto in cui avevano mangiato? È assurdo, e voi lo sapete. Il traffico delle reliquie non mi ha mai interessato. Capisco che ci siano milioni di persone in buona fede disposti a credere che il tale osso sia di un santo, o che un certo pezzo di legno sia parte della croce sulla quale Cristo fu crocifisso, o che la coppa dell'Ultima Cena sia stata conservata e sia arrivata fino ai giorni nostri, ma queste sono favole per bambini alle quali sono sicuro che neanche voi credete. La fede è un'altra cosa. Dio è un'altra cosa.» «Non la conoscevamo come teologo» ironizzò padre Grillo. «E io non vi considero idioti; se lo foste non sareste sopravvissuti duemila anni» affermò Ferdinand. «Bene, siamo arrivati a un punto di riconoscimento reciproco» ammise padre Grillo. «Adesso viene la seconda parte: potrebbe aiutarci a verificare cos'hanno trovato esattamente a Montségur?» «Non c'è niente da trovare, non c'è niente da verificare.» «Per la Chiesa è importante sapere cosa abbiamo di fronte» disse padre Nevers. «Di fronte non avete niente; forse solo una buffonata che non avrete difficoltà a smontare.» «Potrebbe andare a trovare il conte e cercare di verificarlo?» gli chiese direttamente padre Grillo. «Magari uno dei nostri potrebbe accompagnarla.» «I miei rapporti con il conte sono... diciamo... tesi, proprio perché mi sono tenuto lontano dai suoi gruppi di lavoro; e quanto a voi... insomma, si nota abbastanza che siete sacerdoti e non credo che il conte senta alcun desiderio di confessarsi. Al limite...» «Al limite?» chiese padre Grillo. «Non so. Lei...» rispose rivolgendosi al più giovane dei tre «non ha un'aria da prete, ma potrebbe passare per uno dei miei studenti.»
Ignacio Aguirre sobbalzò nel sentirsi addosso gli occhi di tutti e, a propria volta, chiese l'aiuto di padre Grillo con lo sguardo. «Ah, il giovane Aguirre! È un ragazzo capace, con ottime qualità che potrà sviluppare nella Segreteria di Stato, ma è solo un aiutante, un apprendista, ancora privo di formazione e di esperienza. Di fatto, lo tengo con me perché il suo superiore mi ha chiesto di farlo stare al mio fianco in questi mesi estivi, per fare esperienza, ma il suo futuro è ancora tutto da decidere. Non ha ancora concluso gli studi.» «Se lei mi accompagnasse al castello, il conte non tarderebbe neanche un attimo ad accorgersi che lei è qualcosa in più di un semplice studioso dell'epoca medievale. Si nota troppo che è un uomo di chiesa, e quanto a padre Nevers... Mi pare di ricordare di aver visto alcune sue foto sui giornali. Per questo mi è venuto in mente il ragazzo. In ogni caso posso andare da solo e tentare la fortuna, anche se vi ripeto che il conte non è esattamente soddisfatto del mio lavoro e non so come mi accoglierà.» Padre Grillo e padre Nevers si scambiarono nuovamente uno di quegli sguardi con i quali parevano intendersi senza bisogno di parole. «Manderemo con lei il giovane Aguirre, così comincerà a forgiarsi. Quando è disposto a partire?» volle sapere padre Grillo. «Domani, al massimo dopodomani. Tra dieci giorni ho un viaggio che mi aspetta, vado a trovare mio figlio in Israele, e le assicuro che non ci rinuncerò per niente al mondo.» «Non le chiediamo tanto, signor Arnaud. Sappiamo quello che avete sofferto lei e suo figlio. Le saremo grati se potesse scoprire qualcosa» rispose padre Nevers. «Credo che questo ragazzo» suggerì Ferdinand «dovrebbe leggere il mio libro su frate Julián e aggiornarsi un po' su tutto quello che riguarda i catari. Se per voi va bene, dopodomani partiremo per il castello. Chiamerò il conte per annunciargli la nostra visita, spero che non si rifiuti di ricevermi. Ah, è meglio che si vesta come un qualsiasi ragazzo universitario o difficilmente potrà passare per un mio studente.» 16 Durante il tragitto in treno, Ignacio Aguirre insistette per farsi spiegare la "vera" storia dei catari. «So che dovrei saperne di più, ma non è esattamente il mio forte» gli confessò.
Ferdinand gli riassunse quanto necessario. Poi, poco prima di arrivare alla stazione, tirò fuori una lettera di David che aveva trovato nella cassetta della posta prima di partire. Qualche giorno fa ho cenato a casa di Hamza. Sua madre ha preparato l'agnello alle erbe aromatiche. È il miglior agnello che abbia mai mangiato. Io ho portato il pane azzimo che facciamo nel kibbutz e un cesto della frutta del nostro orto. Hamza si è messo a ridere e mi ha detto che non avrei dovuto disturbarmi perché ci pensava già lui a farla sparire di tanto in tanto. Credono che vogliamo mandarli via dalla loro terra e mi hanno raccontato che i leader palestinesi li invitano a diffidare di noi. Il padre di Hamza crede che alla fine saremo costretti a scontrarci, ma io ho detto che sarà possibile evitarlo, dipende solo da noi. Ieri è venuto Hamza a cenare da me al kibbutz, lo hanno accolto bene; lui all'inizio si mostra sempre timido ma poi, quando prende confidenza, si sente a casa. Lo sorprende vedere che dividiamo tutto, che mangiamo tutti insieme, che nessuno possiede niente e che non ci sono categorie sociali. Qui un ingegnere vale come un contadino, facciamo tutti lo stesso lavoro. Lo colpisce anche il fatto che i bambini vivono insieme in una casa comune assistiti ogni giorno da due madri mentre le altre lavorano. Gli ho mostrato tutti gli angoli del kibbutz e lui mi ha confessato che a volte, quando noi siamo distratti, prende qualche mela dai nostri alberi. Ne abbiamo riso insieme, e si è sorpreso di non vedermi arrabbiato anche se gli ho raccomandato di non farsi scoprire. Poi, durante la cena, abbiamo parlato di quanto sarebbe stato bello se fosse stato possibile formare uno Stato ebraico-palestinese come aveva proposto nel 1937 la Società delle Nazioni. I leader arabi lo avevano bocciato e io gli dico che è stato un errore perché avremmo potuto formare uno Stato come la Svizzera. Ormai, però, indietro non si torna, ma rifiuto di credere che un giorno Hamza e io dovremo essere l'uno contro l'altro perché così decideranno i politici. Né io né lui siamo diversi pur venendo da mondi diversi. Hamza dice che riesco già a farmi capire un po' quando parlo arabo, ma in realtà lui ha imparato il francese più di quanto io abbia imparato la sua lingua. È molto sveglio; lo considero il mio miglior amico. Ti piacerà conoscerlo. Aspetto il tuo arrivo, ti accoglieran-
no a braccia aperte; so che ti sorprenderà la vita nel kibbutz, perché questo è socialismo allo stato puro. Ah, i genitori di Hamza hanno detto che ti inviteranno a cena... La lettera continuava raccontando altri aneddoti della vita quotidiana in quell'angolo di Israele. La vita di David non era esente da privazioni e difficoltà, ma era felice, o almeno così credeva Ferdinand dalle lettere che assai spesso riceveva. «Buone notizie?» chiese Ignacio. «È una lettera di mio figlio. Sì, sta bene.» «Vive molto lontano?» «In Palestina. David è ebreo. Sua madre era ebrea.» Lo disse con un tono di sfida nella voce che fece arrossire il sacerdote. «Sappiamo quanto ha sofferto» riuscì a dire quest'ultimo. «Avete indagato su di me?» chiese Ferdinand con curiosità. «Oh, no! Niente di tutto questo, ma quando hanno iniziato ad arrivare notizie su quello che accadeva a Montségur ed è venuto fuori il suo nome... be', immagino che la Nunziatura di Parigi abbia chiesto informazioni su di lei.» «Ho capito. Quindi, invece di leggere il mio lavoro su frate Julián avete preferito sapere che tipo di persona sono, giusto?» Il sacerdote non rispose direttamente alla domanda. Abbozzò un sorriso per guadagnare tempo. «Lei gode del riconoscimento della comunità universitaria. E il suo lavoro su frate Julián è molto interessante, è come vedere il frate in carne e ossa.» «Lui è un personaggio di carne e ossa. Un uomo come lei, come me, divorato dai dubbi. Voleva essere leale a Dio e alla sua famiglia, ma questo significava vivere da impostore.» «Lui ha tradito Dio ma è rimasto fedele alla sua famiglia, una famiglia che non lo aveva mai accettato del tutto.» «Lei crede davvero che abbia tradito Dio?» «Sì» rispose il sacerdote. «Io credo di no. Semplicemente tentò di conciliare due lealtà, ma non arrivò mai a dubitare di Dio.» «Non sapeva quale Dio servire.» «Ha sempre servito lo stesso Dio, perché Dio è uno solo, comunque lo si chiami, comunque lo si preghi, comunque lo si percepisca. E non ha mai
rinnegato la croce pur essendo disgustato da ciò che veniva fatto in suo nome. Non avrebbe fatto lo stesso anche lei?» Ignacio esitò e ripeté a se stesso la domanda. Come si sarebbe sentito lui? Sarebbe riuscito a sopportare il comportamento fanatico di coloro che riteneva fratelli? «Non è possibile giudicare gli uomini fuori dal contesto in cui hanno vissuto» rispose il sacerdote. «Non bisogna avvicinarsi alla storia con gli occhi di oggi.» «Adesso capisco perché, pur essendo così giovane, lei lavora nella Segreteria di Stato.» Il sacerdote si lasciò andare a una risata che sconcertò Ferdinand. «Ma io non lavoro lì! Gliel'ha già spiegato padre Grillo: mi tengono temporaneamente per l'estate perché il mio superiore, che è amico di padre Grillo, gli ha chiesto di farmi lavorare per cominciare a forgiarmi. Faccio un po' di tutto: tengo in ordine l'archivio, vado a prendere i caffè, trascrivo in bella copia le lettere, faccio traduzioni... In realtà padre Grillo mi ha portato perché il suo segretario è in ferie, credo abbia la madre malata e sia andato a trovarla. Così mi sono ritrovato questo regalo. Perché venire in Francia è stato un regalo.» «Lei parla abbastanza bene francese.» «Sono basco.» «E questo cosa c'entra?» «Ho una zia sposata con un francese di Biarritz e ho passato qualche estate con lei e con i miei cugini. Dicono che imparo le lingue con facilità; il mio direttore giura che se uno è capace di imparare il basco non può avere problemi con nessun'altra lingua.» «Non vorrei essere indiscreto ma, come mai un ragazzo come lei ha deciso di diventare sacerdote?» «Perché la mia vocazione è quella di servire Dio. I miei genitori mi avevano portato in seminario per farmi studiare e lei sa che quando non ci sono molti soldi in una famiglia andare in seminario è un modo per poterci riuscire; nel mio caso invece ho scoperto la vocazione. La mia terra è quella di sant'Ignazio, e un sacerdote gesuita lontano parente di mio padre mi ha aiutato; grazie a lui in questi ultimi anni ho potuto studiare a Roma.» «Lei è un giovane che ha un grande futuro davanti; magari finisce che mi diventa papa, anche se senza tonaca non sembra un prete ma un ragazzo normale...» «Sono gesuita, servirò dove mi manderanno, ma quanto a diventare papa
mi sembra difficile...» sfumò Ignacio in tono ironico. «Lei è credente?» «In realtà sono agnostico, ma ho un profondo rispetto per coloro che credono e per Dio.» «Pur essendo agnostico, lei parla di Dio come se esistesse.» «No, guardi, non ho certezze, soltanto rispetto. Anche i miei genitori sono agnostici; e in tutti questi anni non ho visto traccia di Dio da nessuna parte, pertanto mi sembra già un miracolo continuare a essere agnostico.» La conversazione stava assumendo tinte troppo personali. Mentre arrivavano alla stazione, Ferdinand decise di deviarla verso i catari e frate Julián. 17 Raymond li accolse sulla porta del castello. Il figlio del conte era diventato un ragazzo alto e robusto. Sul suo viso spiccavano intensi occhi verdi pieni di curiosità e, al tempo stesso, freddi. «Lei è il benvenuto, professore» salutò Ferdinand «e anche lei, signor...» «Aguirre...» disse Ferdinand. Il sacerdote era ancora un po' sconcertato dalla situazione. «Mio padre tornerà domani, ma quando l'ho chiamato per dirgli che aveva intenzione di farci visita, mi ha chiesto di riceverla personalmente e di mettermi a sua disposizione. Ho dato ordine di preparare la sua solita stanza e per lei, signor Aguirre, quella a fianco. Spero che starete comodi. Il pranzo verrà servito tra due ore; se avete bisogno di me per qualsiasi cosa, sarà un piacere aiutarvi.» «Ignacio è un eccellente studente, credo che arriverà a sapere sui catari molto più di me, e in questi ultimi mesi mi ha aiutato con il libro, pertanto ho ritenuto giusto mostrargli il luogo delle mie scoperte...» «Naturalmente professore. Farete un salto anche a Montségur?» «Mi piacerebbe. Ho spiegato a Ignacio che quando ci si avvicina a quella montagna si sente sempre qualcosa di speciale, ci si rende conto che la storia è rimasta impregnata in quella terra.» «È proprio così. Nessuno che si avvicini a Montségur può restare indifferente» rispose Raymond. Videro arrivare una jeep con due uomini; uno di loro giovane, l'altro dell'età di Arnaud. «I due signori che arrivano sono anche loro ospiti di mio padre, sono reduci da un'escursione» spiegò Raymond mentre i due uomini scendevano
dal fuoristrada consegnando la chiave a uno dei domestici. «Vi presento il professor Arnaud e il suo aiutante, il signor Aguirre. I signori Stresemann e Randall.» Si salutarono senza entusiasmo e iniziarono una conversazione banale sul tempo e la bellezza del luogo prima di salire nelle rispettive stanze. Non era passato molto tempo quando il maggiordomo bussò alla porta di Ferdinand e lo avvertì che Raymond li aspettava per accompagnarli ovunque volessero. Ferdinand e Ignacio raggiunsero il figlio del conte, desideroso di mostrare le sue doti di padrone di casa. «Dunque, anche lei ha una passione per la storia dei catari...» chiese ad Aguirre. «Sì, il professor Arnaud mi ha contagiato il suo entusiasmo» rispose il giovane sacerdote arrossendo per la domanda diretta ma, soprattutto, per aver dovuto mentire. «È già arrivato a conoscere bene la storia di frate Julián?» «Be'... sì... in effetti... è una storia appassionante. Quanta sofferenza!» Deciso a non intervenire, Ferdinand ascoltava i due giovani mentre facevano una passeggiata intorno al castello. Pensò che probabilmente Raymond avrebbe finito per commettere un'imprudenza, come gli era già capitato in quell'occasione con David. In lui si notava la rigida educazione ricevuta, insieme alla convinzione che un giorno, quando fosse diventato il conte D'Amis, avrebbe dovuto essere all'altezza della storia della sua famiglia o almeno di quello che suo padre si aspettava da lui. «Non ammetto l'intolleranza della Chiesa quando pretende di imporre a ferro e fuoco le sue credenze, incapace di rispettare quelle del prossimo. Come se fosse custode della verità. Prima che la Chiesa esistesse c'erano altre religioni, dunque perché mai la Chiesa cattolica dovrebbe avere il monopolio della verità?» esclamò Raymond. «Perché possiede la verità rivelata da Dio» rispose stringato Ignacio, dal momento che Ferdinand gli aveva fatto cenno di non discutere. «La verità rivelata? Questa è una favola per bambini...» sentenziò Raymond con convinzione. «Quanti concili è stato necessario celebrare per mettersi d'accordo su ciò che i cattolici devono credere? Non c'è nessuna verità rivelata, ma solo una potente macchina deputata a dominare gli incauti.» «E lei, in che cosa crede?» gli chiese Ignacio. «Io? Nella ragione, e nel diritto degli abitanti di questa terra a credere in
quel che vogliono. Sa perché la Chiesa dei Buoni Cristiani fu sul punto di sconfiggere la Chiesa cattolica? Semplicemente perché i suoi Perfetti vivevano come buoni cristiani dando esempio di umiltà e di povertà. Perciò la Chiesa cattolica ha avuto bisogno di eliminarli: non poteva sopportare il loro esempio. Nella mia famiglia ci sono stati dei Perfetti.» «Sì, donna Maria» disse Ignacio che faticava a contenersi e a non rispondere a Raymond come credeva si meritasse. «Donna Maria, sua figlia donna Marian, don Bertran, i suoi figli...» continuò Raymond. «Immagino che lei non sia cataro...» «No, no... le ho già detto che credo solo nella dea Ragione, ma essa appartiene ancora ai catari, anche se questi non si manifestano.» «Esistono ancora i catari?» domandò Ignacio sorpreso. «Naturalmente! Non si possono schiacciare le idee e neppure le credenze. Non c'è famiglia in Occitania che non discenda dai catari.» Ferdinand ascoltava Raymond con preoccupazione: gli sembrava di ravvisare nelle sue parole un certo fanatismo. Condivisero il pranzo con gli altri due ospiti del conte, i quali si presentarono come studiosi del catarismo. Ignacio restò in silenzio, ascoltò Ferdinand controbattere alcune delle teorie dei due studiosi, fino a che riuscì a sorprendere tutti lanciando una domanda nel vuoto: «E voi credete che esista il Graal?» Ferdinand lo guardò sbalordito e Raymond con una certa curiosità, mentre i signori Stresemann e Randall rimasero in silenzio. «Vi faccio questa domanda perché ho letto molto al riguardo. Alcuni storici credono che il tesoro dei catari fosse il Graal. Il mio professore non è di questa idea e ci ha insegnato che si tratta solo di una favola, però... mi perdoni professor Arnaud, ma io non ho ancora le sue certezze» spiegò Ignacio. Nessuno sembrava aver fretta di rispondere, compreso Ferdinand, il quale aveva captato con ammirazione la trappola che il giovane sacerdote aveva la pretesa di tendere. «La teoria del professor Arnaud è possibile, come pure quelle che affermano l'esistenza di un tesoro nascosto dai catari e che quel tesoro possa essere il Graal» iniziò il signor Randall. «Non bisogna escludere nulla a priori» aggiunse il signor Stresemann. «Sì, noi storici escludiamo le fantasie e le elucubrazioni e le lasciamo
agli scrittori di romanzi esoterici. Signori, la ricerca storica è una scienza che non possiamo lasciar contaminare dall'immaginazione traboccante di coloro che non sono scienziati» spiegò Ferdinand serissimo. «E quanto al mio caro studente... vedo che i miei insegnamenti non hanno avuto molta fortuna... e pensare che nella mia materia ha ottenuto voti eccellenti e spero che con il tempo possa diventare il mio assistente.» «E voi? Cosa credete possa essere il Graal?» chiese Ignacio fingendo un'innocenza che continuava a sorprendere Ferdinand. «Si suppone che sia la coppa nella quale Cristo bevve durante l'Ultima Cena...» «Ha letto l'opera di Wolfram von Eschenbach?» chiese il signor Stresemann. «Sì, è un'opera bellissima. In Parsifal il Graal è qualcosa di più, qualcosa che concede un potere illimitato a chi lo possiede.» «Esattamente!» annuì l'invitato che dall'accento pareva alsaziano. «Magari qualcuno lo trovasse!» esclamò con entusiasmo Ignacio. «C'è molta gente impegnata a cercarlo, ma nessuno può trovare ciò che non esiste» sentenziò Ferdinand, che pareva rimproverare il suo studente. «Può darsi che l'abbiano portato via i templari» insistette il sacerdote. «I presunti rapporti tra catari e templari sono falsi, ho spiegato anche questo in classe, e per quello che mi risulta è stato uno degli argomenti dell'esame finale.» «Come può essere così sicuro che i templari non proteggessero i catari?» chiese con aria seccata il signor Randall. «Non lo dico io, sono i fatti che lo dimostrano. Il Tempio aveva castelli e commende nella Languedoc e buoni rapporti con i signori di questa terra, ma ciò non significa che partecipasse alle loro battaglie. L'unica cosa certa è che i templari stavano lottando contro i musulmani anche in Spagna e non ritenevano che la loro missione fosse quella di fare la guerra ad altri cristiani, per quanto eretici fossero. Tra l'altro nessuno l'aveva chiesto.» «E non crede che i templari possano essersi impossessati del Santo Graal nascondendolo qui in Languedoc?» intervenne Raymond. «No, perché il Graal non esiste, e visto che non esiste difficilmente possono averlo portato qui.» «Ma professore, alcuni studi assicurano che i templari trovarono una camera nascosta, sotto il tempio di Salomone a Gerusalemme, nella quale erano custoditi segreti tanto importanti da poter ricattare la Chiesa, la quale temeva la loro divulgazione...» «Queste sono elucubrazioni esoteriche che non si basano su nessuna
prova. I templari divennero un problema per Filippo IV di Francia, quando volle unificare gli ordini militari, sottometterli al potere della Corona e, naturalmente, appropriarsi dei loro beni. Il re era in contrasto con papa Bonifacio VIII proprio perché questi non voleva che si appropriasse delle imposte sui beni della Chiesa per rimpinguare le casse prosciugate dalla guerra contro l'Inghilterra, così organizzò una campagna contro di lui. Il suo uomo di fiducia, il consigliere Guillaume de Nogaret, fu il braccio armato della politica del re contro il papa e i templari.» «Erano accusati di sputare sulla croce» ricordò Raymond abbozzando un sorriso «proprio come i catari che la rifiutavano.» «Fu un templare espulso dall'Ordine a diffondere per primo le accuse di blasfemia, sodomia, riti iniziatici segreti... Quest'uomo servì su un vassoio d'argento a Nogaret la scusa per consentire a Filippo di avviare il processo contro il Tempio... Nogaret convinse l'inquisitore di Francia, tra l'altro confessore del re, a iniziare l'indagine sul Tempio. A quell'epoca era già papa Clemente, che riprese l'inquisitore e protestò nei confronti del re accusandolo di essere andato in cerca di guai. Allora Filippo, attraverso Nogaret, lanciò una nuova campagna contro il papa, ma Clemente continuò a fargli resistenza. All'inizio, infatti, dobbiamo ricordare che i templari furono dichiarati innocenti dal papa. E anche in seguito, quando decise che si indagasse sui comportamenti dei cavalieri, volle che si indagasse individualmente, per non accusare l'Ordine nel suo complesso, visto che alcuni templari avevano ammesso le pratiche delle quali erano accusati, mentre altri ritrattarono aggiungendo di aver confessato solo sotto tortura...» «Ma sputavano davvero sulla croce oppure no?» lo interruppe il figlio del conte in tono tagliente. Ferdinand osservò lo sguardo divertito di Raymond che svelava la reale intenzione della domanda. Il giovane avrebbe accettato solo un "sì" o un "no", le spiegazioni e le sfumature non gli interessavano affatto. «Dopo essere stati torturati, alcuni templari confessarono crimini orrendi, ma a mio avviso, attenendomi ai documenti, vale a dire ai fatti, il Tempio non era un ordine esoterico, anche se alcuni romanzieri lo utilizzano come strumento letterario, presentando i templari come cavalieri misteriosi. La dissoluzione del Tempio fu il risultato di un braccio di ferro tra il re di Francia e il papa, per motivi che nulla avevano a che fare con quelli strettamente religiosi. Filippo, tra le altre cose, pretendeva che Clemente condannasse il suo predecessore Bonifacio VIII per eresia, cosa alla quale il nuovo papa si oppose, ma Clemente stesso, che non poteva sfidare su
tutti i campi il re, finì per cedere sui templari.» «Lei però non ha risposto alla mia domanda» insistette Raymond. «Sotto tortura anche noi finiremmo per confessare qualunque cosa ci chiedessero; le testimonianze ottenute sotto tortura non hanno il cento per cento di affidabilità. Per quanto molti si impegnino a presentare il Tempio come un ordine misterioso, la realtà è che non lo fu affatto; ebbe solo la sfortuna di avere come ultimo gran maestro Jacques de Molay, il quale non era un fulmine d'intelligenza e neanche un politico scaltro. Non dico che abbia avuto responsabilità dell'accaduto, ma sicuramente non era un uomo all'altezza di far fronte a circostanze difficili come quelle.» «Quindi lei nega che sputassero sulla croce?» affermò Raymond soddisfatto. «Sì, lo nego: tutte quelle storie stravaganti sul ritrovamento del Graal e di altri segreti che possono mettere in difficoltà la Chiesa sono favole. Per favore, non confondiamo i romanzi con la storia!» «Lei ha dichiarato guerra ai romanzieri» notò Ignacio. «Un romanzo che parla di storia può essere estremamente interessante, ma questo non significa che stia offrendo una versione reale dell'accaduto.» Terminato il pranzo Raymond si offrì di far loro da guida a Carcassonne. Il giorno seguente, di buon mattino, sarebbero partiti alla volta di Montségur. Ferdinand era attratto dalla capacità del gesuita di conquistarsi la fiducia di Raymond; lo faceva mettendo in discussione la verità storica per lasciare spazio alla fabulazione, che era il terreno in cui da anni erano impegnati a muoversi sia il conte che suo figlio. Ignacio si mostrò entusiasta di Carcassonne, e Ferdinand comprese che in questo era sincero. La sera non scese a cena con la scusa della stanchezza e di un forte mal di testa. Lo aveva prestabilito con Ignacio, visto che la sua presenza inibiva il figlio del conte, che invece pareva essere a suo agio con il sacerdote. La cena però fu una delusione. Né Raymond né gli altri invitati dissero cose sostanziali né tanto meno si lasciarono scappare indizi sul presunto ritrovamento del Graal; Ignacio da parte sua non osò fare domande al riguardo. Il mattino seguente si alzarono all'alba per andare a Montségur. Lì Raymond, lasciandosi trasportare dalla magia del contesto, in un momento in
cui Ferdinand si allontanò volontariamente da loro confessò a Ignacio ciò che stavano cercando. «Il professor Arnaud è uno scettico. Perciò il suo lavoro su frate Julián è privo di passione, per quanto tutti dicano che è splendido. In realtà mio padre si aspettava di più.» «Cosa si aspettava?» «Qualche pista sul tesoro...» «Ma come faceva frate Julián a sapere dove si trovava il tesoro?» «Donna Maria si fidava di lui; non bisogna dimenticare che fu Julián a fare da tramite con Fernando per scortare i due Perfetti che portavano il tesoro.» «È vero» ammise Ignacio. «E voi, che state scavando da tanto tempo, non lo avete ancora trovato?» Raymond decise di fidarsi di quel giovane che tanto gli andava a genio. «Non abbiamo trovato niente, questa è la verità. Niente che possa essere il Graal. Ci sono studiosi che credono che il Graal sia una pietra caduta dal cielo con poteri illimitati e che viene conservata in qualche angolo di questo territorio. Altri studiosi pensano che i templari l'abbiano portato in Scozia e sotterrato a Edimburgo. Mentre un professore che è stato qui recentemente sostiene un'altra teoria: pensa che probabilmente il Graal non sia un oggetto.» «E cosa sarebbe allora?» «Potrebbe essere una persona.» «Una persona?» «Tu credi che Gesù fosse celibe?» «Be', io credo a ciò che ci hanno insegnato...» «Documenti antichissimi testimoniano che si era sposato con Maria Maddalena e avevano avuto addirittura dei figli. Può darsi che... insomma, può darsi che il Graal siano i discendenti di Gesù.» Ignacio non sapeva se ridere o indignarsi, ma optò per non fare nessuna delle due cose per non insospettire quel giovane che, malgrado tutto, gli era simpatico. «E come sono arrivati fin qui i discendenti di Gesù?» «Magari con Maria Maddalena, o magari secoli più tardi. Può essere che i templari abbiano trovato quei documenti e li abbiano custoditi gelosamente.» «Questi sono quelli che il professor Arnaud chiamerebbe racconti esoterici, pseudoletteratura da quattro soldi.»
«In realtà il professor Arnaud non è mai stato interessato al ritrovamento del Graal; tutti i suoi sforzi li ha concentrati sulla cronaca di frate Julián. Quando mio padre gli chiedeva di venire al castello e ascoltare qualche altro professore, lui tirava fuori una scusa e, se per caso si trovava qui, contrastava sempre ogni teoria che non fosse conforme alla sua; neanche ascoltava quello che dicevano. Mio padre però era convinto fosse meglio contare su di lui per il suo prestigio, perché il suo nome avrebbe aperto le porte agli altri nostri esperti, ed era quello che gli interessava davvero.» «Allora non avete trovato niente?» chiese di nuovo Ignacio. «Niente; abbiamo tra le mani solo le teorie di cui ti ho detto prima, ma stiamo ancora cercando delle prove. Però ci siamo, è solo questione di tempo e le troveremo. Ti piacerebbe lavorare per noi?» chiese Raymond in preda all'entusiasmo. «Be'... in verità sarebbe molto interessante ma non credo di potere... Vedi, devo terminare i miei studi, non sono ancora sufficientemente preparato.» «Non essere modesto! Il professor Arnaud dice che sei il suo miglior studente.» «Sì, ma questo non significa che sappia già tutto. Comunque... sì, mi piacerebbe, mi piacerebbe sapere se trovate qualcosa, sarebbe appassionante...» «Se qualche volta vuoi venire senza il professor Arnaud, chiamami. Sarai il benvenuto e potrai unirti ai nostri gruppi di lavoro, anche se solo temporaneamente. Ora abbiamo gente che sta cercando a Edimburgo, perché non è affatto campata in aria neanche la teoria secondo cui furono i templari a nascondere laggiù il Graal.» «E se lo trovassi, cosa faresti?» «Sai bene cosa dice frate Julián nella sua cronaca: qualcuno deve vendicare il sangue degli innocenti, la nostra famiglia non può lasciare impuniti i crimini della Chiesa cattolica. Il nostro obiettivo è quello di distruggerla, fare in modo che paghi per il suo fanatismo e per aver eliminato la libertà in questa terra. È una responsabilità che ci assumiamo noi D'Amis di generazione in generazione, e mio padre di solito è uno che porta a termine le proprie vendette.» «Ma credi davvero che sia così facile distruggere la Chiesa?» «Sì, se riusciamo a entrare in possesso del Graal, qualunque cosa esso sia, ce la faremo. Lo dobbiamo alla Languedoc. Mi piacerebbe che venissi di tanto in tanto da queste parti, credo che andresti d'accordo con mio pa-
dre e di sicuro con tutte le tue conoscenze potresti contribuire alla nostra ricerca.» Ignacio gli sorrise mentre deglutiva cercando di mandare giù tutte le bestialità che aveva appena ascoltato. All'improvviso Raymond gli sembrava un pazzo, e ancor più suo padre, il conte D'Amis, che avrebbe conosciuto quella stessa sera. Quello che proprio non sapeva calibrare era se si trattasse di un gruppo di fanatici pericolosi o pacifici. Sorrise di nuovo, sentendosi addosso lo sguardo di Raymond. «Ti ritengo un gentiluomo, quindi ti chiedo di darmi la tua parola che non dirai nulla al professor Arnaud degli argomenti che abbiamo affrontato. So che gli devi lealtà come allievo, ma io mi sono confidato con te... sicuramente non avrei dovuto farlo, quindi mi sentirò tranquillo solo se mi darai la tua parola.» Raymond lo guardava serio, in attesa che lui gli desse la sua parola, e Ignacio si sentì meschino. Avrebbe dovuto confessarsi e chiedere perdono a Dio per ciò che era sul punto di fare. Si sentì sporco quando tese la mano a Raymond mentre gli assicurava: «Non preoccuparti, saprò mantenere il segreto». «Ah! E non dire niente neppure a mio padre... non mi perdonerebbe la mancanza di discrezione. Lui crede che io abbia troppa fiducia negli altri... insomma... spero di non essermi sbagliato sul tuo conto.» Li interruppe Ferdinand, che se n'era rimasto in disparte a fumare e camminare di qua e di là mostrando un inopinato interesse per le rovine. «Credo che dovremmo prepararci a tornare. Mi piacerebbe vedere tuo padre, Raymond» affermò il professore. «Sì, come vuole.» 18 Il conte D'Amis fu freddo e distante con Ferdinand, ma si mostrò ricettivo con Ignacio visto l'interesse che suo figlio pareva avere per quel ragazzo. Quella sera a stento parlarono degli scritti di frate Julián o dei catari. Il conte non era troppo loquace e i suoi invitati sembravano stanchi. Tutti si ritirarono nelle loro stanze appena terminata la cena. «È incredibile il danno che stanno facendo tutti questi romanzieri da strapazzo!» esclamò Ferdinand dopo aver ascoltato il racconto minuzioso che Ignacio gli aveva fatto della sua conversazione con Raymond.
«Di lei non si fidano troppo» osservò Ignacio. «La diffidenza è reciproca. Che razza di personaggi! La cosa incredibile è che gente seria e preparata possa credere a queste fandonie messe in circolazione da qualche poveraccio. Quindi secondo loro avremmo tra di noi i discendenti di Gesù! In un mondo nel quale non ci sono segreti, come del resto non ce n'erano neanche nel passato, adesso dovremmo credere che, attraverso i secoli, sono riusciti a mantenere nascosti i figli di Gesù e di Maria Maddalena. Ma un segreto del genere sarebbe stato impossibile da custodire!» «Questo, ma poi credono anche che il Graal possa essere nascosto a Edimburgo.» «Questi sarebbero capaci di perforare tutti i castelli del mondo alla ricerca di un oggetto magico che esiste solo nelle loro menti. Sono malati!» «Il loro obiettivo è distruggere la Chiesa cattolica. Raymond mi ha detto proprio così» spiegò Ignacio. Ferdinand cominciò a ridere. «Ma come possono essere così idioti! Distruggere la Chiesa!» «Veramente io non ci trovo niente da ridere» protestò Ignacio. Ferdinand divenne serio e inchiodò lo sguardo negli occhi preoccupati di Ignacio. «Pensa davvero che possano distruggere il messaggio di Gesù? Pensa che chi ha fede e crede in Dio smetterà di farlo se verrà fuori che era un uomo? Gesù era un ebreo, era un rabbi, e in quella società i rabbi erano sposati. Io non so se lui lo fosse o no, cambia poco, ma la cosa certa è che non ci sono arrivate prove serie al riguardo. Mi risulta difficile credere che, se davvero avesse avuto moglie e figli, questo sarebbe diventato un segreto conservato dagli apostoli. Era gente semplice, con una famiglia, per cui avere una moglie e dei figli era la cosa più normale del mondo. No, non credo che gli apostoli abbiano complottato per nascondere la moglie di Gesù. Con quale obiettivo? Loro non stavano inventando il cristianesimo, non potevano immaginare quello che Gesù aveva messo in moto, ciò che avrebbe rappresentato il suo messaggio nel corso dei secoli... In ogni caso, anche se Gesù fosse stato sposato, questo non distruggerebbe la Chiesa che, semmai, dovrebbe solo accettare di concedere ai sacerdoti la possibilità di sposarsi. E se un concilio decise che questo non era possibile, un altro concilio potrebbe determinare il contrario. Nient'altro. Sinceramente non credo che questo sarebbe un problema per nessun cristiano.» «E lei si dice agnostico!» esclamò Ignacio meravigliato dalla convinzio-
ne del professore sulla solidità della Chiesa. «Agnostico sì, ma stupido no. Posso capire le ragioni della Chiesa nel preferire il celibato dei propri sacerdoti, ma non mi pare che l'edificio possa tremare per l'ipotesi che Gesù fosse sposato; anche se, insisto, non c'è alcuna prova storica concreta che lo indichi, dunque... discorso chiuso.» «Loro stanno cercando proprio quella prova.» «Non la troveranno perché non esiste.» «Lei parla ex cathedra!» protestò Ignacio. «No, è il normale buon senso che mi fa parlare. Sono sicuro che Roma avrebbe un buon numero di risposte se apparisse una prova che porta in quella direzione. Ma non si preoccupi perché, a parte qualche speculazione pseudoletteraria, non ne troveranno neanche una.» «È curioso, lei utilizza la ragione per riaffermare la posizione della Chiesa.» «Complimenti per la conclusione! Sono uno storico e analizzo le cose attraverso una prospettiva. La famiglia D'Amis non butterà dalla finestra duemila anni di storia della Chiesa cattolica, per quanto i loro cervelli siano obnubilati dal ruolo di vendicatori che si sono attribuiti. Non si preoccupi, Ignacio, e abbia un po' più di fiducia nella sua Chiesa. La cosa importante è poter dire ai suoi superiori: "Missione compiuta". Lei è una spia perfetta.» Stavolta fu Ignacio a ridere di gusto. Non gli erano piaciuti quei due giorni passati a ingannare Raymond; per quanto avesse detto a se stesso che doveva fingere e mentire per proteggere un bene superiore, la coscienza gli rimordeva lo stesso. «Non mi è piaciuto per niente quello che ho fatto.» «Non ha fatto nulla di cui debba vergognarsi. A me non avrebbero raccontato niente; né il conte né tanto meno Raymond. È stata un'ottima idea quella di farla venire; tornerà indietro portando con sé un'informazione precisa, in modo che la sua Chiesa già sappia a cosa dovrà far fronte semmai dovessero trovare qualcosa di quello che cercano, evento alquanto improbabile.» «Spero che quel che abbiamo scoperto sia sufficiente...» «Lo è, certo che lo è. La cosa peggiore che possa capitare è non sapere cosa ci si trova di fronte, ma quando lo si sa è più facile organizzare la difesa. Vedrà che anche padre Grillo e padre Nevers la pensano così.» «Devo confessarle che Raymond un po' mi fa pena. È così giovane... ma l'ambiente in cui vive lo ha frastornato. Suo padre lo ha imbottito di un tale
fanatismo che lo vedo capace di qualunque cosa.» «Sì, è una vittima di suo padre. Quando l'ho conosciuto era ancora un bambino, e riceveva punizioni severe; suo padre lo picchiava quando non si comportava adeguatamente, quando secondo lui non era all'altezza. Gli stanno facendo il lavaggio del cervello da quando è nato e, per quello che ho visto, ha fatto sue le assurde ossessioni del padre. È un peccato, ma in questo caso davvero non possiamo fare niente né io né lei. Credo che il mio rapporto con i D'Amis sia giunto al termine, e la cosa mi provoca un gran sollievo.» «Per lei è stata molto importante la cronaca di frate Julián, vero?» «È bellissima. Quando l'ho letta mi ha dato un'emozione profonda ed è anche un documento storico importante: un domenicano, agli ordini del terribile padre Ferrer, che racconta in prima persona quello che succede nei due campi della contesa. Ma soprattutto è la storia di un conflitto umano esposto con crudezza. Mi sembrava importante farlo conoscere e fare in modo che altri storici lo avessero a disposizione per continuare a svelare quel periodo della storia di Francia.» «E della storia della Chiesa.» «Un giorno la Chiesa dovrà chiedere perdono per tutti gli errori commessi» fu la postilla di Ferdinand. Ignacio non rispose. Non poteva farlo, perché avrebbe dovuto ammettere che era scosso anche lui dalle uccisioni perpetrate nel nome di Dio. Ferdinand si sorprese nel trovare suo padre ad aspettarlo alla stazione. Non era mai andato a prenderlo al ritorno da un viaggio, quindi se era lì doveva essere accaduto qualcosa di grave. Scese dal treno velocemente. «Cos'è successo?» chiese senza ulteriori preamboli. «David... è in ospedale... l'hanno ferito in un'imboscata. È grave. Hanno chiamato stamattina, ti hanno cercato a casa e all'università, poi il rettore ha chiamato noi... Tua madre ti ha preparato la valigia e io ho fatto due biglietti per il treno e per la nave. Se non ti dispiace, voglio accompagnarti.» Ma Ferdinand già non lo ascoltava più. Aveva il volto contratto in una smorfia di dolore e sembrava che l'aria non gli arrivasse più ai polmoni. Era pallido, con gli occhi fuori dalle orbite, muto, incapace di emettere un qualsiasi suono. Nella tasca della giacca aveva l'ultima lettera di David, parole che trasudavano allegria, voglia di vivere e speranza. E all'improvviso quelle parole d'inchiostro erano divenute di sangue.
Ignacio non sapeva cosa fare né cosa dire, e allora lo afferrò per un braccio con forza e lo invitò a camminare. «Andiamo, faccia in fretta!» Camminarono in silenzio fino a quando Ferdinand non si riebbe dallo stato di choc. «È vivo?» mormorò. «Sì, è vivo. Ma è molto grave» rispose suo padre. «Si riprenderà...» affermò Ignacio. «Pregheremo e si riprenderà....» «Dio non c'è mai stato quando abbiamo avuto bisogno di lui» affermò Ferdinand con un filo di voce. «Ormai da tempo ha abbandonato sia me sia mio figlio.» Poi guardò suo padre con gli occhi arrossati. Voleva solo una risposta alla sua domanda. Cosa era accaduto a David? Cosa gli era successo? 19 Gerusalemme, alcune settimane prima «Hamza, devi deciderti.» Il tono dell'uomo non ammetteva dubbi e i suoi occhi neri parevano trapanare quelli del ragazzo. «Non ci hanno fatto niente di male, perché non possiamo discutere, arrivare a un accordo?» rispose Hamza con un tono di sfida nella voce malgrado la paura che gli incuteva l'uomo. «I sionisti stanno riuscendo a ottenere l'appoggio del mondo intero. Qualche anno fa volevano che formassimo uno Stato insieme, adesso vogliono dividere in due la nostra terra. Non possiamo accettarlo! O loro o noi!» gridò l'uomo. «Per favore, calmati... mio figlio è giovane e non capisce bene quello che sta succedendo» tentò di intercedere il padre di Hamza. «Vedi, Rashid, o tuo figlio è un traditore, e in questo caso risolverai tu stesso il problema, o è un vigliacco, e anche in questo caso dovrai risolverlo tu, oppure si unisce a noi dimostrando di essere un patriota.» «Non sono né vigliacco né traditore, Mahmud» protestò Hamza. «Cerco solo di pensare con la mia testa.» «Taci!» gli intimò suo padre, ben sapendo di cosa fosse capace Mahmud. Hamza chinò il capo cosciente che Mahmud non gli avrebbe lasciato via d'uscita e che disobbedirgli avrebbe potuto costare la vita a lui e alla sua
famiglia. Suo fratello Alì, di dieci anni, lo osservava con occhi impauriti, seduto di fianco al fratellino più piccolo. Le sue due sorelle erano in un'altra stanza insieme alla madre, quella era una conversazione da uomini. «Combatteremo casa per casa, orto per orto, insieme ai nostri fratelli di Siria, Giordania, Egitto, Iran... tutti i fratelli arabi ci appoggiano. Non possiamo farci togliere la terra dagli ebrei: li butteremo a mare» sentenziò Mahmud. «O fai parte dell'Esercito della salvezza, o del nostro gruppo, oppure morirai insieme a loro, Hamza, decidi tu.» «Lotterà con voi» sentenziò Rashid «e lo farò anch'io. Siamo palestinesi e buoni musulmani. Hai ragione, questa è la nostra terra, dobbiamo lottare per tenercela, gli ebrei sono traditori. Prima sono venuti a stabilirsi vicino a noi e adesso vogliono prendersi tutto. Li butteremo a mare.» Hamza guardò suo padre con stupore. Non lo riconosceva nelle parole che aveva appena pronunciato. Gli risuonavano ancora nelle orecchie i suoi discorsi di pace, la sua convinzione che lo scontro con gli ebrei avrebbe portato solo disgrazie. «Non dobbiamo pagare noi per quello che è successo in Europa. Hitler non ha fatto bene il suo lavoro» disse ridendo Mahmud. «Se vogliono che gli ebrei abbiano dei possedimenti, che regalino loro la California, la Selva Nera, o la Provenza, ma non tolgano la terra a noi; vogliono rubare la nostra terra per mettere a tacere la loro coscienza.» «Hai ragione, Mahmud» rispose Rashid. «Hai ragione, non vedo perché dovremmo cedere a loro le nostre terre e diventare ospiti in casa nostra. Combatteremo, siamo disposti a morire.» «Per adesso ci basta il tuo figlio maggiore. È di lui che abbiamo bisogno, ma non dubitare che ti chiederemo gli altri figli e anche la tua stessa vita, se sarà necessario» disse Mahmud in tono minaccioso. «Domani ti manderò a chiamare» disse ad Hamza andandosene. Quando Mahmud e i suoi uomini uscirono, Rashid si sedette vicino al tavolo sapendosi sconfitto. Sua moglie uscì dalla stanza insieme alle due bambine e gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla per dargli coraggio. «Hai agito bene Rashid, con intelligenza. Non possiamo fare diversamente» disse la donna. «Non possiamo o non vogliamo?» lo interruppe Hamza con rabbia. «Bisogna sapere quando non ci sono porte sulla parete. Chi non lo sa è
perduto.» «Quello che vedo io è che questa guerra l'hanno già decisa loro per tutti noi; non è stato neanche Mahmud. Credi che noi poveri contiamo qualcosa? Mahmud è solo uno dei molti idioti capaci soltanto di morire e far morire gli altri. Questa guerra la organizzano al Cairo, o a Damasco... Quello che so è che noi dobbiamo morire. Noi e quelli come noi» rispose Hamza. «Non lasciarti ingannare, figliolo, i tuoi amici ebrei si difenderanno e uccideranno, proprio come noi» affermò sua madre. «E se io non volessi combattere?» chiese Hamza sfidandola. «Hai due sorelle. Sono già state promesse in matrimonio. Saranno rifiutate. Ma, soprattutto, un giorno ci alzeremo e il nostro orto sarà stato distrutto. E un altro giorno costringeranno tuo padre a ucciderti perché in caso contrario ammazzeranno tutti noi. Non sono stata io a fare le leggi, Hamza, le accetto come sono, e tu devi fare lo stesso per non portare alla tua famiglia vergogna, disonore e miseria. Combatti, figlio mio, combatti.» La donna si avvicinò a suo figlio e gli accarezzò il volto guardandolo con pena. I dadi della sorte erano tratti. Le ordinavano di sacrificare il maggiore dei figli e lei non poteva impedirlo. «Hamza, non potrai più vedere David» gli disse suo padre con voce stanca. «Evita quel ragazzo ebreo. È la cosa migliore per te, e anche per lui.» «E cosa dovrei dirgli? Ciao David, sai, c'è gente che ha deciso che dobbiamo ammazzarci? Mi dispiace, non te la prendere, non c'è niente di personale; tu e io non siamo nessuno, non contiamo niente, il nostro dovere è ammazzarci quando ci dicono di farlo, e basta. Chi sparerà per primo, tu o io?» Hamza fece una parodia amara di quello che avrebbe detto a David. Suo padre, sua madre e i suoi fratelli lo guardavano addolorati. Lo vedevano soffrire, ma allo stesso tempo si sentivano incapaci di placare il suo dolore. Mahmud era passato dal dissodare zolle a dirigere uomini, ed era disposto a fare quanto gli chiedevano; aveva fiducia in se stesso e nella causa che avrebbe servito. «Hamza, la nostra vita dipende da te» aggiunse suo padre con tristezza. «Non posso obbligarti a combattere, ma se non lo farai...» «Lo farò, padre, lo farò» annuì Hamza con gli occhi inondati di lacrime, mentre usciva di casa in cerca delle ombre della notte. Camminò un bel po' senza meta. Conosceva come le sue tasche ogni palmo di quella campagna e malgrado il buio assoluto non aveva bisogno
di vedere. Era nato in quel fazzoletto di terra. Sua madre lo aveva messo al mondo in quella casa modesta circondata da alberi da frutto e un ruscello nel quale sguazzava quando era bambino. Era stato felice. Non aveva bisogno di nulla di più di ciò che già aveva: la sua famiglia, l'orto dove lavoravano, accompagnare suo padre a vendere frutta e verdura in città a dorso d'asino... Gli piacevano anche le cene nel cortile, quando i suoi zii venivano a trovarli e poteva giocare con i suoi cugini ad arrampicarsi sugli alberi e nascondersi tra gli arbusti. Ora il suo mondo andava in frantumi perché, improvvisamente, aveva dei nemici. Nemici che non aveva neanche potuto scegliere. Pensò a David. Cosa gli avrebbe detto? Non la verità: ci stiamo organizzando per buttarvi a mare. Avrebbe dovuto evitarlo, cercare di non incrociarlo, tenerlo a distanza... Ricordando la prima volta che si videro gli venne da sorridere. Lui spiava quelli del kibbutz attraverso la recinzione; in realtà stava dando un'occhiata a una ragazzina della sua età, con i capelli biondi come il grano e due splendidi occhi azzurri, con la quale c'era uno scambio di sguardi ogni volta che si incontravano e che gli provocava sentimenti contraddittori. Il suo non era un mondo di donne e queste non avevano mai attirato molto la sua attenzione, ma quella ragazzina sembrava così delicata, così irreale, che non gli faceva paura. Lei gli sorrideva e gli faceva ciao con la mano e lui sentiva il suo cuore accelerare. Gli sarebbe piaciuto saltare la recinzione e aiutarla a raccogliere le arance o ripulire la terra dalle erbacce. David stava facendo proprio questo la prima volta che l'aveva visto. Stava preparando la terra per la semina e sul suo viso si notava una smorfia di dolore: di tanto in tanto si portava la mano sui reni e se li sfregava con forza. Si notava che non aveva mai lavorato la terra. Ma nel kibbutz lavoravano tutti allo stesso modo, non importava da dove venissero né cosa facessero prima di arrivare lì: vivevano della terra, proprio come lui e la sua famiglia. David aveva sollevato lo sguardo e lo aveva visto. Si era alzato in piedi e si era incamminato verso la recinzione, sorridendogli. Per questo lui non era scappato via di corsa come faceva nelle altre occasioni, quando lo beccava Yacob, il capo del kibbutz, un uomo magro e adusto che pareva sempre di pessimo umore. Avevano cominciato a parlare in inglese, una lingua che entrambi smozzicavano, e pochi minuti dopo era come se si conoscessero da sempre. Da-
vid gli aveva confessato che si sentiva a pezzi e che aveva dolori per tutto il corpo; Hamza si era offerto di aiutarlo e, con grande sorpresa da parte sua, lui aveva accettato. Era stata la prima volta in cui era entrato nel kibbutz, ed aveva avuto la fortuna di vedere più da vicino la ragazza dei suoi sogni: era russa, si chiamava Tania, aveva quindici anni e a stento conosceva qualche parola di inglese. Da allora entrava e usciva dal kibbutz con familiarità, la stessa con la quale David andava a casa sua, dove era stato sempre ben accolto. Ora avrebbe dovuto dirgli che non sarebbe più tornato. Non avrebbe più oltrepassato la recinzione. Mahmud aveva detto che il giorno successivo lo avrebbe mandato a prelevare per cominciare l'addestramento militare. Non sapeva sparare, solo arare, ma avrebbe dovuto imparare a impugnare un'arma e a uccidere. Uccidere. La parola gli pareva terribile e irreale. Come sarebbe stato uccidere? Cosa avrebbe provato nel veder crollare un uomo davanti a sé? E se invece fosse stato lui a morire? Continuò a camminare senza meta, fino a sentirsi sfinito. Non sapeva per quanto tempo avesse girato, ma poco importava: temeva l'arrivo del mattino. «Non dovresti fidarti tanto di lui; un giorno dovremo scontrarci, è inevitabile» sentenziò Yacob rivolgendosi a David e al gruppo di giovani con i quali stava conversando dopo cena. «È mio amico e non combatterò mai contro di lui. Possiamo parlare e discutere delle differenze, non c'è motivo di uccidersi. Il nostro problema sono gli inglesi, non i palestinesi» argomentò David. «Il nostro problema è il mondo. Gli inglesi hanno già allentato la presa e permettono l'entrata di immigrati. Sappiamo che ben presto ci sarà una nuova risoluzione delle Nazioni Unite che proporrà la creazione di due Stati, ma gli arabi si rifiuteranno» spiegò Yacob con un accenno di impazienza. «Sei proprio sicuro che diranno di no? Guarda che se consultano i palestinesi può essere che avrete una sorpresa...» replicò David. «Tu sei ancora francese» gli rispose un uomo anziano che fumava la pipa. «Qui siamo in Oriente, qui non funzionano le regole delle democrazia. Nessuno andrà a consultare i palestinesi, saranno gli egiziani, i giordani, i siriani, i sauditi a decidere per loro. Si stanno organizzando già da un po'.
Abbiamo già avuto degli scontri, ci hanno attaccati, in altri kibbutz si sono verificate delle perdite per attacchi guerriglieri. Perché credi che pattugliamo la recinzione tutta la notte? Ci attaccheranno. Riceveranno l'ordine di farlo e lo faranno.» David stava per replicare, ma preferì tacere. Tutti rispettavano Saul, il tipo con la pipa, un uomo che era nato in Israele, come i suoi genitori, i suoi nonni e i padri e i nonni di questi. Tutta la sua famiglia era rimasta in quella terra sacra secolo dopo secolo, sopravvivendo a romani, arabi, crociati, tartari, turchi e anche al protettorato britannico. Saul faceva parte dell'Haganah, la forza creata per difendersi dagli inglesi e dagli attacchi degli arabi. Girava per il paese, da una parte all'altra, parlava arabo alla perfezione e poteva confondersi con qualsiasi palestinese. Saul era una leggenda perché aveva vissuto in uno dei primi kibbutz, a Tell Hay, ed era anche simbolo di coraggio e di bravura per tutti coloro che arrivavano a Eretz Israel, perché aveva resistito agli attacchi degli arabi del Nord e li aveva respinti. Erano poche le cose che sfuggivano al controllo di Saul, perché aveva amici dappertutto e, come diceva Yacob, fonti d'informazione anche all'Inferno. Continuarono a parlare ancora un po' di quello che sarebbe accaduto, cercando di capire se alla fine le Nazioni Unite avrebbero votato a favore della formazione di due Stati. Saul assicurò che i paesi arabi avrebbero respinto quella formula e che allora ci sarebbe stata una recrudescenza del conflitto con i palestinesi. «Possiamo contare solo su noi stessi, non dimenticarlo» ricordò Yacob. «Nessuno verrà ad aiutarci, quindi dovremo difenderci casa per casa, pietra per pietra.» Yacob distillava amarezza. Era tedesco, di Monaco, ed era arrivato in Israele nel 1920 su richiesta del padre, in quale aveva previsto l'avanzata dell'inflazione monetaria e il diffondersi dell'antisemitismo tra i tedeschi. Come altri giovani, Yacob si era lasciato alle spalle la sua famiglia, la sua casa, i suoi amici, la sua vita. Aveva partecipato alla fondazione della prima associazione operaia israeliana e poi aveva collaborato alla fondazione del kibbutz che ora dirigeva. I suoi genitori, come la maggior parte della sua famiglia, erano morti nelle camere a gas. Era l'unico sopravvissuto fra i suoi congiunti e aveva perduto il sorriso per sempre. Saul e Yacob annunciarono che dal giorno successivo tutti avrebbero
dedicato più tempo all'addestramento militare, sia i maschi sia le femmine. Non si trattava più di passeggiare intorno alla recinzione con un fucile da caccia sulle spalle. Oltretutto il loro kibbutz, come gli altri, si sarebbe dedicato alla produzione di armi leggere e munizioni. «E chi ci insegnerà a costruirle?» chiese ingenuamente Tania, la ragazza russa che tanto piaceva ad Hamza. «Verrà gente dell'Haganah, ce lo insegneranno loro. Abbiamo bisogno di più armi, dobbiamo essere preparati. Quelle che riceviamo dagli inglesi e dai polacchi non sono sufficienti. Nessuno ci regala nulla, per quanto la nostra gente faccia il possibile per ottenerle. Siamo male armati rispetto agli arabi, e dobbiamo essere in grado di difenderci. Dovete imparare a sparare con una pistola, con una mitraglietta... Anche a lottare a mani nude o con un coltello. A partire da domani dedicheremo alcune ore all'addestramento e alla costruzione di armi» annunciò Saul. «Allora, è inevitabile...» mormorò David. «Lo è, e prima te ne farai una ragione, meglio sarà per te e per tutti gli altri» replicò Yacob. «Prima eri disposto a lottare, dicevi che non potevamo lasciarci portare via la terra, che solo se avessimo avuto una casa non si sarebbe ripetuto quello che è accaduto a tua madre e ai tuoi zii. Non te lo ricordi? Perché esiti adesso?» «Certo che voglio lottare per questa terra! So che noi ebrei abbiamo bisogno di un nostro spazio, e che non possiamo continuare a ricevere prestiti da altri paesi che poi ci trattano come cittadini di seconda classe oppure ci ammazzano. Su questo non ho alcun dubbio, solo che... solo che io credo sia possibile vivere in pace con i palestinesi, che sia possibile arrivare a un accordo con loro, penso che i nostri diritti siano compatibili con i loro.» Il ragionamento appassionato di David fu ben accolto dal resto dei giovani. Saul si rese conto che, malgrado la durezza della vita nel kibbutz, malgrado i discorsi che li avvertivano dei pericoli, loro avevano fiducia, non solo nel futuro, ma anche nei loro simili, quali che fossero, e che erano stufi di avere dei nemici. «Domani verrai con me, David. Devo andare a trovare alcuni amici palestinesi. Sono capi delle loro rispettive comunità, la mia famiglia e le loro si conoscono da sempre. Sono amici, David, amici ai quali voglio bene e contro i quali dovrò combattere; e loro combatteranno contro di me. Verrai con me, saranno loro stessi a spiegarti cosa succederà, per quanto la cosa possa non piacerci.»
David non riuscì a prendere sonno quella notte. Si svegliò un paio di volte madido di sudore e assalito dallo stesso incubo: vedeva se stesso impegnato in un combattimento, sparava e poi sentiva un dolore intenso allo stomaco, e si svegliava in preda all'angoscia. Decise di mettersi a leggere, ma non riuscì a concentrarsi. Non aveva ancora finito il libro di suo padre su frate Julián. Non sapeva perché, forse provava repulsione, non tanto per quel frate che pareva così pusillanime, quanto per il suo discendente, quel conte che detestava con tutto il cuore. Dentro di sé pensava che tutte le sue disgrazie fossero cominciate nel castello del conte D'Amis. Tra l'altro, l'ossessione di suo padre per quella cronaca aveva contribuito ad allontanarli. Non glielo aveva mai detto, ma gli rimproverava il non voler riconoscere che razza di gentaglia fossero il conte e i suoi amici; lui non aveva il minimo dubbio che si trattasse di nazisti, o quantomeno simpatizzanti. Tanto più che suo padre riteneva che buona parte dei francesi non avesse alcun motivo di sentirsi orgogliosa di quello che era accaduto durante la Repubblica di Vichy. Tutti guardavano dall'altra parte: era il modo migliore di resistere, diceva suo padre. Ma non era vero. C'era stata gente che si era opposta, che aveva affrontato i nazisti e che era morta combattendo. Il suo nonno paterno gli aveva parlato dei repubblicani spagnoli, di quegli uomini che avevano organizzato la Resistenza, che non si erano arresi e avevano combattuto sino alla fine. Passò la mano sulla copertina del libro senza decidersi ad aprirlo. Voleva leggerlo prima che arrivasse suo padre per dargli la sua opinione, ma non era andato oltre pagina dieci. Sapeva che suo padre non lo avrebbe certo rimproverato per non averlo letto, ma se lo avesse fatto gli avrebbe dato una soddisfazione. Avrebbe riprovato il giorno dopo. In quel momento si sentiva troppo turbato dal discorso di Saul e di Yacob. Non voleva essere nemico dei palestinesi, pur sapendo che questi diffidavano dei coloni ebrei, perché era così che gli avevano detto Hamza e suo padre Rashid. "Il problema" si sosteneva "è che nessuno fa niente per metterci intorno a un tavolo e discutere, per decidere come dobbiamo vivere e organizzarci. Perché nessuno si decide a fare questo sforzo? Perché?" Se lo avessero lasciato fare a lui e Hamza, di sicuro avrebbero sistemato le cose senza problemi; avrebbero discusso, certo, ma sarebbero arrivati a un accordo. Probabilmente lui e Hamza avrebbero dovuto dedicarsi alla politica per far ragionare i loro rispettivi popoli. 20
Non era ancora sorto il sole quando dei colpi secchi alla porta svegliarono Hamza. Si sfregò gli occhi e guardò l'ora sulla sveglia. Fuori della stanza che divideva con i suoi fratelli si sentiva rumore. Sua madre e le sue sorelle erano già impegnate nei lavori di casa e suo padre stava per dare da mangiare agli animali prima di andare nei campi. Delle voci lo misero in allarme. Suo padre parlava con qualcuno a bassa voce; un attimo dopo apriva la porta della stanza. «Alzati figliolo, ti aspettano.» Hamza si lavò in fretta e si vestì ancor più velocemente. Sentiva i battiti del suo cuore e pensava che anche gli altri li avrebbero sentiti. Sua madre aveva messo sul tavolo una grossa tazza di latte di capra e gli fece cenno di berlo senza perdere tempo. Un uomo in piedi sulla soglia lo guardò con impazienza. «Non abbiamo tutto il giorno a disposizione. Dobbiamo andarcene prima che si sveglino gli ebrei. Meglio che non ci vedano.» Buttò giù appena un sorso di latte, si asciugò la bocca con il dorso della mano e disse all'uomo che era pronto. Uscirono di casa senza far rumore. Hamza sentì lo sguardo dei suoi genitori piantato nella schiena. Quel giorno cominciava una nuova vita e intuiva che sarebbe stata molto peggio di quella che si lasciava alle spalle. L'uomo disse di chiamarsi Mohamed e gli spiegò che sarebbero andati a piedi fino alla strada, dove aveva lasciato un camion. Aveva preferito non farlo arrivare davanti alla casa per non allertare quelli del kibbutz. Quindi sarebbero andati a prendere altri ragazzi prima di arrivare al luogo dove avrebbero insegnato loro a maneggiare le armi. Hamza conosceva uno dei ragazzi che andarono a prendere. Viveva in una casa vicina e veniva da una famiglia di contadini come la sua; ma lui, al contrario di Hamza, sembrava contento di quel cambiamento di vita. «Io voglio provare con questi» gli disse abbassando la voce. «Ma se non c'è azione a sufficienza poi me ne vado con gli altri. Ho un cugino che ha contatti importanti.» Un altro dei ragazzi che raccolsero era maestro in un villaggio vicino. Alto e magro, con lo sguardo brillante, pareva anche lui felice di essere stato reclutato. Gli altri sette erano tutti contadini come lui, anche loro sembravano contenti. Hamza cominciò a pensare che forse era lui quello sbagliato. Il camion scoppiettava lungo il sentiero non asfaltato. Mohamed aveva
preferito evitare la strada; se i britannici li avessero fermati, avrebbero dovuto dire che andavano a lavorare in una fattoria vicina. In realtà Mohamed li portava verso sud, vicino alla frontiera. Il camion si fermò vicino a una tenda di beduini. Mohamed disse di scendere ma di non allontanarsi. I ragazzi gli obbedirono e per qualche minuto non accadde nulla. Osservarono le donne beduine, con il volto coperto, che sembravano assorte nella contemplazione dei tegami nei quali preparavano da mangiare. Alcuni anziani stavano seduti davanti a una tenda a fumare e bere tè. Più in là, un gruppo di bambini correva e giocava. All'improvviso si videro circondati da una dozzina di uomini del deserto armati di fucile. Uno di loro, senza dubbio il capo, parlò a Mohamed. «Sei in ritardo.» «Non è facile depistare gli inglesi e gli ebrei. Sono dovunque e adesso si sentono sicuri perché i britannici fanno finta di non vedere, qualsiasi cosa facciano.» «Ci sono tutti?» chiese il capo guardando il gruppo dei ragazzi di Mohamed. «Dovrebbe arrivare un altro camion con alcuni altri; li accompagna mio zio, ma è partito dopo il nostro.» «Cominciamo appena possibile.» Con sorpresa di tutti, l'uomo che pareva un capo beduino, si scoprì il volto. «Sono il vostro istruttore» annunciò loro. «Il mio nome è Husayn. Sono un ufficiale della Legione Araba e vi insegnerò a usare le armi, a costruire bombe e a combattere. Resterete qui un paio di giorni, al massimo tre, quindi fate attenzione, così non perderete tempo e non lo farete perdere a me. Seguitemi.» I ragazzi lo seguirono in un luogo dove c'erano altri uomini vestiti alla maniera dei beduini. Husayn consegnò loro dei vestiti come quelli che indossavano i nomadi. «Così passerete inosservati» disse «e se viene qualcuno vi faremo passare per giovani di questa tribù.» Quindi li condusse in un luogo pieno di armi, tutte ordinate per terra. Nessuno aveva offerto loro né acqua né cibo; non parevano disposti a perdere neanche un secondo in cortesie, una cosa strana per gli uomini del deserto. Era passata soltanto un'ora quando arrivò un altro gruppo di giovani provenienti da altri villaggi che si unirono a loro. Anche questi erano stati vestiti come beduini.
Per diverse ore rimasero a familiarizzare con armi di vario tipo: impararono a montare e smontare pistole, i rudimenti per costruire una bomba o sparare con un fucile. Husayn fu implacabile. Non li lasciò riposare un solo secondo durante le lezioni. Quando cominciò a scendere la sera, un beduino a cavallo si avvicinò, scambiò qualche parola con lui e questi alzò la mano indicando a tutti di fermarsi. «Ora potrete bere e mangiare. Poi, vi consiglio di andare a dormire senza fare altro. Prima che spunti il sole sarò di nuovo qui e la giornata sarà lunga. Non avete ancora imparato abbastanza, con quello che sapete non sareste in grado neanche di sopravvivere.» Husayn salì su una jeep dove lo aspettavano tre uomini e sparì nelle ombre del crepuscolo. «Non sei niente male» disse Mohamed ad Hamza, mentre si avvicinavano a uno dei fuochi intorno al quale un gruppo di uomini mangiava carne d'agnello. Questi aprirono il cerchio invitandoli a condividere la cena con loro. Parlavano di guerra, quella che ci sarebbe stata contro gli ebrei. I fratelli di Giordania, Siria, Egitto, Arabia e di tanti altri paesi avevano promesso di aiutarli a conservare la terra sacra. Non avrebbero diviso niente con gli ebrei; perché avrebbero dovuto farlo? Mentre mangiava, Hamza ascoltava, ma preferiva non parlare. Non poteva discutere con tanti uomini convinti di una causa. Lo avrebbero considerato un traditore, non l'avrebbero compreso. Il fatto di parlare lì dei vantaggi di avere uno Stato proprio e di non essere più sotto la protezione degli inglesi o prima ancora degli ottomani avrebbe creato una frattura. Perché non potevano esserci due Stati o perfino uno Stato condiviso con gli ebrei? Per quel che ne sapeva, non ne avevano mai avuto uno, la sua terra non era mai stata uno Stato, essendo sempre stata sotto la protezione di qualcun altro, e adesso stava per respingere l'opportunità di averne uno perché i capi dicevano che non si sarebbero lasciati piegare. Eppure, Hamza pensava che fossero sempre stati piegati e che, proprio in quel modo, avrebbero potuto smettere di esserlo. Dormì come un sasso, avvolto in una coperta vicino alla cenere del fuoco. Era sfinito e pieno di emozioni a fior di pelle. Come aveva annunciato, Husayn si presentò alle quattro del mattino, quando era ancora notte fonda. Insieme a Mohamed non fece tanti complimenti al momento di svegliarli.
In meno di mezz'ora erano pronti e si stavano già allenando di nuovo. Dovevano smontare e rimontare le armi senza luce, avanzare strisciando per terra... Fino a metà mattinata, Husayn non diede loro un attimo di tregua. Poi, finalmente, annunciò: «Avete dieci minuti per riposarvi e bere. Non uno di più». Effettivamente, non ebbero neanche un secondo in regalo. Affamati e assetati, attesero che scendesse la sera per tornare all'accampamento dei beduini, dove questa volta Husayn si sedette con loro. «Qualcosa avete imparato» spiegò Husayn. «Quanto basta per uccidere ed evitare che qualcuno uccida voi. Se avrete fede e coraggio avrete salva la vita, ma se mostrerete la minima esitazione la perderete. Non lasciatevi mai commuovere dallo sguardo di un nemico, non importa che sia un soldato, una donna o un bambino. Sarete voi contro lui, la vostra vita o la sua: se esitate la perderete; come vedete, le regole alle quali attenervi sono molto semplici. Quando dovrete attaccare sparate per primi, senza pensare.» «Quando ci sarà la guerra?» chiese il ragazzo che faceva il maestro. «Non lo so, ma dobbiamo essere preparati. Gli ebrei vogliono prendersi la nostra terra, dobbiamo far loro capire che non ci riusciranno mai. Può essere che la guerra si eviti oppure no; i politici discutono alle Nazioni Unite per dare agli ebrei quella che loro chiamano "una casa". Gliela diano pure, basta che non sia la nostra. I nostri fratelli combattono anche con le armi della politica, dobbiamo aspettare, ma fino a quel momento la nostra missione è quella di rendere la vita difficile agli ebrei; non devono sentirsi sicuri, non devono poter coltivare la terra senza portare un fucile in spalla, non devono andare per strada senza paura di essere attaccati, le loro donne devono avere paura di camminare da sole per i campi, i loro figli non devono poter uscire dai recinti delle case o dai kibbutz. Dobbiamo attaccare, causare perdite tra le loro fila. La tattica è semplice. Arriviamo in un posto, li prendiamo di sorpresa, uccidiamo e ce ne andiamo. Non devono più dormire tranquilli, questa terra deve trasformarsi nella loro tomba se insistono nel voler restare. «Ognuno di voi farà parte di un gruppo guidato da un capo; sarà lui a stabilire gli obiettivi in accordo con noi. Voi dovete obbedire. Le vostre famiglie sanno che da questo momento ci saranno occasioni nelle quali dovrete partire, ma neanche a loro potrete dire dove andrete né cosa farete. Chi non obbedisce o chi ci tradirà verrà punito con la morte e anche la sua famiglia ne subirà le conseguenze.» Si sentì un mormorio di protesta. I giovani assicuravano di voler uccide-
re gli ebrei e gettarli a mare. Ma Husayn non pareva lasciarsi commuovere da quei proclami di fedeltà. Avrebbe avuto prova della loro tempra e della loro lealtà quando fosse arrivato il momento di uccidere davvero; cosa che avrebbero dovuto fare molto presto, perché quanto prima avessero ucciso, tanto prima si sarebbero sentiti parte del gruppo, vincolati alla causa. Il sangue versato era la migliore alleanza tra i combattenti. Mohamed li svegliò di nuovo all'alba, spronandoli a risalire in fretta sul camion. Tornavano a casa. I beduini li guardarono partire con indifferenza; fecero appena in tempo a salutare l'altro gruppo di giovani con i quali avevano diviso le giornate di addestramento. Hamza pensò che il peggio doveva ancora arrivare. 21 Saul aspettava David seduto in macchina con la portiera aperta e il motore acceso. «Sei in ritardo» gli disse senza nascondere un certo fastidio. «Mi dispiace, non pensavo parlasse sul serio quando diceva che sarei venuto con lei.» «Io parlo sempre sul serio, tutti noi parliamo sul serio. O credi che questo sia un gioco?» «Mi dispiace, le chiedo scusa.» Viaggiarono in silenzio per un bel po'. David osservava Saul: sembrava assorto nei suoi pensieri, come se fosse molto lontano da lì. Non osava fargli domande temendo una risposta brusca. Il fastidio dell'uomo gli pareva esagerato, in fondo il suo ritardo era stato di appena dieci minuti. «Apri il portadocumenti» gli ordinò all'improvviso Saul. «E tira fuori la pistola. Si trova dentro una borsa.» David obbedì. Fece per dargliela, ma Saul scosse la testa. «Non è per me, la mia la porto in tasca. È per te. La strada per Gerusalemme non è sicura. Due giorni fa hanno ammazzato quattro dei nostri.» «Ma io non so sparare bene!» protestò David, sentendo un'ondata di paura attraversargli il corpo. «Se ci sparano dovrai sparare anche tu: o ti difendi o ti lasci ammazzare, è molto semplice.» «Le ho già detto che non so sparare bene. Finora nel kibbutz non ho dovuto sparare a nessuno.»
«Sei stato fortunato, altri non hanno avuto la tua stessa sorte; hai visto in prima persona come, in qualche scaramuccia, alcuni tuoi compagni sono stati feriti. Il fatto che tu l'abbia scampata vuol dire solo che finora hai avuto fortuna.» Saul gli spiegò come maneggiare l'arma, pur insistendo sul fatto che quell'attrezzo non conteneva misteri. Poi, per un buon tratto rimasero di nuovo in silenzio e David notò Saul farsi teso. «Cosa sai di quel ragazzo palestinese di cui sei diventato molto amico?» gli chiese di colpo. «Di Hamza? È mio amico, mi sta insegnando l'arabo e io gli insegno il francese; per il momento ci capiamo con l'inglese, anche se lui lo parla meglio di me.» «Sì, qui abbiamo dovuto impararlo tutti per capirci con i britannici. Ma che altro sai di lui?» «Be', credo che lei ne sappia più di me, ho visto che parlava con Rashid, suo padre, in qualche occasione.» «Lo conosciamo da tempo, il suo orto confina con la nostra recinzione, abbiamo commerciato con lui e le porte del nostro kibbutz sono sempre state aperte. Rashid è una brava persona, suppongo che lo sia anche suo figlio, ma mi piacerebbe sapere di cosa parlate e cosa pensa di quello che sta accadendo.» «Pensiamo la stessa cosa. Crediamo che se ci lasciassero intendere direttamente, ebrei e palestinesi potrebbero arrivare a un accordo, ma purtroppo c'è gente impegnata ad avvelenare i rapporti. Hamza è d'accordo con me sul fatto che dovremmo creare uno Stato comune, una confederazione, ma se non è possibile, la cosa migliore sarebbe avere due Stati. Tutto, tranne combattere.» «Però combatterà. Ci penseranno i suoi capi. Mahmud è già stato a casa loro.» «Mahmud? Chi è?» «Uno dei capi della guerriglia. Dirige un gruppo che ha portato a termine assalti ai kibbutz nella nostra zona e ha teso imboscate lungo la strada. Mahmud sta reclutando gente tra i ragazzi delle fattorie e dei villaggi ed è stato a casa di Rashid. Per adesso si accontenterà di portare con sé Hamza.» «Ma questo è impossibile! Hamza non combatterà! È contro la guerra, lui non crede che i problemi si risolvano sparando. Lui ama la sua terra,
vuole vederla prosperare, ha dignità ma crede che si possa combattere senza uccidere.» «Queste sono solo parole e buone intenzioni. Poi bisogna affrontare la realtà e Hamza lo sa; non avrà altra scelta che fare ciò che gli verrà chiesto.» «E cosa gli chiederanno?» «Di ucciderci, e di buttarci a mare. È quello che dicono alcuni leader arabi. Sai, Amin Husayni, il gran muftì di Gerusalemme, era alleato dei nazisti, è stato sempre ben accolto da Hitler e disgraziatamente la sua influenza è stata ed è ancora determinante in questa terra.» «Non lo sapevo...» «Mi sembra giunto il momento di perdere l'innocenza...» David fece per protestare, ma Saul non gliene diede il tempo. «Tieniti forte!» Improvvisamente sterzò e si buttò nell'altra corsia, quasi senza dare tempo al ragazzo di avere paura. L'auto per qualche secondo sbandò e furono sul punto di ribaltarsi. Una macchina dietro di loro sfrecciò a tutta velocità e fece lo stesso: sterzò violentemente e passò nell'altra corsia. «Tieniti forte di nuovo!» Ancora una volta Saul realizzò quella manovra per tornare nella corsia sulla quale viaggiavano in precedenza. L'auto che li seguiva non aveva ancora finito di stabilizzarsi quando provò a fare lo stesso, ma questa volta sbandò e uscì fuori strada. «Ma... cos'è successo?» gridò David tremando di paura. «Ci venivano dietro già da un po', e questo era l'unico modo per sapere se era un caso o se ci stavano seguendo.» «Avremmo potuto ammazzarci!» «Sì, potevo sbagliare, nel qual caso ci saremmo schiantati, oppure avrebbero potuto spararci loro e farci fuori. Non avevo molte alternative. Si trattava di decidere cosa fosse meno peggio.» «Lei è pazzo!» gli gridò David. «Calmati! Non mi piacciono i ragazzini isterici. Non eri tu quello che diceva che gli ebrei non potevano più permettersi di farsi ammazzare? Non ti ho forse sentito dire che abbiamo bisogno di una casa, di una patria, di una terra nostra? E come credi che sarà possibile ottenerla?» gridò Saul. «Pensi che ce la regaleranno? No, nessuno lo farà, adesso provano orrore per quello che è accaduto, per i sei milioni di ebrei assassinati, ma dimenticheranno e, se nel frattempo non saremo diventati forti, ci uccideranno di
nuovo. Non hai imparato proprio niente in tutto questo tempo?» David si sentiva furioso e umiliato. La vita non era stata facile per lui da quando era arrivato in Israele. Aveva imparato cos'era la solitudine, si era spellato le mani lavorando nei campi, lavava i piatti, cambiava pannolini, riparava la recinzione, dava da mangiare agli animali... Si era lasciato alle spalle una vita confortevole e l'amore della sua famiglia; sapeva che suo padre gli aveva salvato la vita mandandolo lì, ma nello stesso tempo lui aveva pagato un prezzo terribile per conservarla. È vero, lui credeva che avrebbero dovuto lottare per conservare quel pezzo di terra, ma aveva sempre visto la lotta come qualcosa di astratto. All'improvviso gli dicevano che doveva imparare a uccidere e lui si rimproverava tutti quegli scrupoli, perché in realtà non molto tempo addietro sognava di entrare a far parte dell'Haganah. Era stata la sua amicizia con Hamza a cambiarlo. Più approfondivano le conversazioni, più aprivano i loro cuori, e più la sua ansia di lottare si era trasformata ed era stata sostituita dal desiderio di discutere, di trovare attraverso la parola una soluzione a quei problemi che sembravano insolubili. Erano davvero così stupidi lui e Hamza? Saul si sbagliava se pensava che non avesse imparato niente da quando era arrivato in Israele. Aveva imparato a diventare parte di una società che fino a poco tempo prima sentiva estranea. Aveva imparato che quella era la terra dalla quale un giorno erano partiti i suoi antenati e che l'unica possibilità di sopravvivere era tornarvi. Aveva imparato che nella Terra Promessa non pioveva la manna e che ogni frutto che essa dava era costato ore di lavoro e sudore. Aveva imparato cos'era la solitudine. Ma non disse nulla a Saul; sapeva che nulla di tutto questo lo avrebbe commosso, forse non avrebbe neanche capito. David ammirava Saul, ma non era come lui. «Dovremo lottare tutti. Non si tratta più di affrontare i britannici, ora si tratta di nuovo della sopravvivenza. O lottiamo per restare qui, per avere un pezzo di questa terra, per avere uno Stato, oppure ci aspetta di nuovo la diaspora, almeno fino a quando non decideranno di ricominciare a ucciderci. Mi dispiace.» Saul aveva pronunciato le ultime parole stancamente. Continuò a guidare in silenzio; fu David a parlare. «Come fa a sapere della visita di quel... Mahmud... a casa di Rashid e Hamza?» «Perché saperlo è il mio dovere. Io rispondo della sicurezza del kib-
butz.» «Significa che spia la famiglia di Rashid...» «Significa che la tua vita e quella degli altri nel kibbutz può dipendere dal fatto che io lo sappia o non lo sappia. Finora non abbiamo avuto troppi problemi, ti ho già detto che Rashid è un brav'uomo, ma dovrà obbedire; lo sa lui e lo so pure io.» «Non avete mai avuto fiducia in me per le questioni relative alla difesa del kibbutz.» «Non è vero. Tu hai pattugliato come gli altri e hai fatto la guardia; se ci avessero attaccato avresti dovuto difenderci.» «Perché non mi avete chiesto di unirmi all'Haganah?» «Ogni cosa a suo tempo.» «Ma alcuni dei miei amici sono stati scelti.» «Devi imparare ad accettare le decisioni. Se fino a ora non ti abbiamo chiesto di unirti all'Haganah è perché pensiamo che tu non sia ancora pronto.» «Perché? Non credete che potrei essere un buon soldato?» «Questo si impara; di fatto tutti imparerete a sparare, a utilizzare gli esplosivi e le armi di cui potremo disporre, che non sono molte. Ma far parte dell'Haganah richiede... be', lo imparerai strada facendo.» «Lei mi crede debole, senza coraggio?» «No, non lo credo. Sei un sopravvissuto, ed esserlo richiede coraggio.» «Siamo messi così male con le armi da doverle fabbricare?» chiese David, quasi volesse cambiare argomento. «Sai già che abbiamo alcune armi britanniche e polacche, ma fino a ora nessuno voleva venderci neanche una pistola. Per questo, dopo la guerra, abbiamo cominciato a mettere in piedi piccole fabbriche clandestine e a produrre piccole armi e munizioni. Ma ce ne servono molte di più. Per questo il nostro kibbutz disporrà di un laboratorio nel quale tutti dovremo lavorare.» Saul fermò bruscamente l'auto e lo invitò a scendere. In lontananza si scorgeva Gerusalemme che brillava sotto i tiepidi raggi del sole di mezzogiorno. Vista da lì pareva immersa in una calma assoluta. Rimasero qualche minuto in silenzio fino a quando il belato di una capra li riportò alla realtà. «Andiamo, non voglio arrivare troppo tardi.» «Non mi ha ancora detto dove andiamo.» «Lo vedrai.»
Guidò la macchina fino alla periferia della città, tagliando per un sentiero sterrato che li condusse a una staccionata dietro la quale sorgeva una casa in pietra dorata, a due piani, circondata di frutteti e di palme. Saul si fermò davanti alla staccionata e aspettò. Due palestinesi con la kefiah sulla testa e il fucile in spalla spuntarono all'improvviso, ma Saul non parve preoccuparsi. Gli uomini lo guardarono e uno di loro gli sorrise. Poi aprirono lo steccato per farlo passare. «Saul, che piacere vederti qui!» esclamò un bambino che veniva loro incontro. «Ciao Ibrahim! E non sai ancora cosa ti porto!» «Non dirmi che ti sei ricordato del mio compleanno?» «Naturalmente! Prendi, vai ad aprire il pacchetto e poi dimmi se ti piace.» Saul parlava arabo, e David si complimentò con se stesso nel verificare che le lezioni ricevute da Hamza gli consentivano di capire quello che dicevano. La sorpresa non lo abbandonò quando vide la familiarità del bambino palestinese con Saul e l'accoglienza che ricevettero in quella casa. Una donna giovane, di non più di trenta o trentacinque anni, comparve sulla porta. Vestiva all'occidentale, con una camicetta e un soprabito attillato che arrivava fin quasi alla caviglia; aveva i capelli nerissimi e così pure gli occhi. «Saul, che gioia! Vieni, sei in tempo per prendere un caffè, o se preferisci un tè.» Lui le prese entrambe le mani e le strinse a sé in segno di saluto e affetto, quindi le presentò David. «Ti presento David Arnaud. È francese e sta con noi da un po' di tempo.» «Vive nel kibbutz?» «Sì, sua madre è stata uccisa in Germania.» «Mi dispiace» sussurrò la donna mentre gli tendeva la mano e lo salutava con simpatia. «Non è facile credere a quello che hanno fatto...» David non sapeva cosa dire. Optò per abbozzare un sorriso e restare in silenzio. «Entra. Abdul è con amici, ma vorrà vederti immediatamente, l'ho già fatto avvertire.» Passarono nell'ingresso e David rimase sorpreso dalla sobrietà e dall'eleganza della casa. La donna sparì dietro una porta facendo loro segno di attendere. Un minuto dopo si aprì un'altra porta e un uomo alto, scuro e ve-
stito anche lui all'occidentale, con giacca e cravatta, aprì le braccia per abbracciare Saul. «Saul! Entra, amico mio, non ti aspettavo. Sono con alcuni amici, ed è una vera fortuna, perché così potremo parlare con te di quello che sta accadendo.» Saul gli presentò Abdul e David si rese conto di trovarsi davanti a un uomo speciale. Prima che Saul gli dicesse che era in grado di parlare e capire l'arabo, si era rivolto a lui in un elegante inglese, con l'accento tipico delle classi alte. Emanava potere. Entrarono in una sala con un grande tavolo al centro. Intorno, sofà bassi riempivano la stanza. Dieci uomini, alcuni bevendo caffè, altri tè, chiacchieravano animatamente. Li ricevettero con cordialità e immediatamente li fecero accomodare in mezzo a loro. Dopo alcuni minuti di conversazione banale dedicata alle formalità, Saul si rivolse ad Abdul e a tutti gli uomini presenti. «Siamo vicini a ottenere che le Nazioni Unite propongano la creazione di due Stati. Noi accetteremo, è un'opportunità per tutti, ma le notizie che abbiamo non sono buone: ogni giorno ci sono kibbutz attaccati, la strada per Gerusalemme è diventata una trappola e alcuni dei nostri sono stati mitragliati... Voi cosa potete dirmi, amici miei?» Gli uomini ascoltarono in silenzio, con espressione preoccupata; prima che Abdul parlasse, lo fece un uomo già anziano, con la testa coperta dalla kefiah. «Siamo divisi. Molti dei nostri non vi vogliono qui. Prima ne erano arrivati pochi ma adesso siete molti di più. I nostri temono che vi prenderete tutto, che saremo noi a pagare per quello che hanno fatto i tedeschi.» «E tu cosa pensi?» domandò Saul. «Non hanno mai lasciato vivere in pace questa terra, ma è la nostra terra, noi stavamo qui, però adesso non so cosa accadrà. Credo che potremmo vivere in pace, ma ci sono forze importanti che credono il contrario, vi preferiscono fuori di qui, non vogliono uno Stato ebraico sulla nostra terra. Cosa possiamo fare?» «Potreste dire che è possibile vivere insieme e in pace.» «Credi davvero che potremmo?» chiese l'anziano. «Noi vogliamo che sia così; abbiamo soltanto bisogno di una casa.» «Togliendoci la nostra?» «Non c'era libertà neanche prima che cominciassero ad arrivare gli ebrei.
Non siamo mai stati liberi, né noi né voi. La tua famiglia è sempre stata qui, e anche la mia, subendo gli inglesi, i turchi, i tartari e, in precedenza, gli arabi e i romani... Eppure crediamo che insieme potremmo vivere in pace.» «I nostri leader religiosi non la vedono così» rispose l'anziano. «Il vostro principale leader è un nazista e lo sapete bene; Amin Husayni era amico di Hitler e ha avvelenato molti di voi inoculandovi l'odio verso di noi. Ma è arrivato il momento di dire no ai pazzi.» «Non è così facile, Saul» intervenne Abdul. «Credi che non abbiamo tentato? Molti di noi hanno viaggiato per settimane da un luogo all'altro, per parlarne. Ma siamo divisi al nostro interno e noi che riteniamo possibile vivere insieme temiamo di essere additati come traditori. "Dobbiamo regalare la nostra terra?" Questa è la domanda che ci fanno. "E perché dovremmo farlo? Ci stanno invadendo, ci stanno mettendo all'angolo, si stanno prendendo tutto..." è quello che ci dicono.» «Tu sai, Abdul, che la terra che abbiamo o era nostra o l'abbiamo comprata. Non abbiamo rubato niente a nessuno e non vogliamo prenderci tutto. Avevamo solo bisogno di un pezzo di terra per avere una casa. Anche per voi è il momento di avere uno Stato, smettere di essere sudditi e dipendere dagli altri, per noi e per voi è arrivato il momento di prendere in mano le redini dei nostri popoli e fare qualcosa insieme.» «Non sarà possibile» intervenne di nuovo l'anziano. «Non lo sarà se vogliamo che non lo sia» affermò Saul. David li ascoltava in silenzio. Non riusciva a capire tutto quello che dicevano perché parlavano in fretta, ma era sufficiente a rendersi conto che Saul e quegli uomini erano amici, si conoscevano e si rispettavano, a conferma che se fosse dipeso da loro non ci sarebbero stati scontri. «E perché non uno Stato palestinese nel quale possiate vivere anche voi ebrei?» propose un uomo di mezza età, vestito all'occidentale, proprio come Abdul. «No, Hattem» rispose Saul «non vivremo in nessuno stato che non sia il nostro. Se governerai tu, io so che nessuno mi perseguiterà, ma se dovesse toccare a un altro? Noi ebrei abbiamo bisogno di una patria, e può essere soltanto quella di sempre. Da qui sono partiti molti dei miei, che adesso stanno tornando, mentre altri sono rimasti. Noi diciamo che è possibile vivere insieme, che dovete porre fine agli attacchi ai kibbutz, non c'è alcun motivo per scontrarci. Siamo ancora in tempo per evitare una guerra.» «Sei sicuro che le Nazioni Unite vi permetteranno di creare uno Stato?»
chiese Hattem. «È la soluzione più probabile. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia appoggiano la creazione dello Stato di Israele. Ha senso che voi vi opponiate? Questo ci porterà a una guerra e perderemo tutti, non potrete lasciare neanche un solo ebreo vivo, perché lotteremo tutti. Stavolta non ci lasceremo uccidere. No, non succederà mai più.» Discussero un bel po' senza mettersi d'accordo. Un domestico entrava di tanto in tanto con acqua fresca, tè, caffè e frutta. David si agitava sulla sedia, stanco dell'immobilità e di quella discussione, che a quanto vedeva non portava da nessuna parte. Gli invitati di Abdul se ne andarono solo due o tre ore più tardi, e allora rimasero da soli con il loro anfitrione. «Mi dispiace, Saul, ho perso» confessò Abdul alzando le mani in un gesto di impotenza. «Allora...» «Allora saremo su due sponde diverse, lotteremo e ci ammazzeremo e non serviranno a niente né la tua morte né la mia.» «Combatterai?» «Devo stare dove staranno i miei. Anche se sbagliano. E tu faresti lo stesso» «Sì Abdul, farei lo stesso anch'io. Pregherò perché non ci si trovi mai di fronte nella stessa battaglia.» «Pregherò anch'io, perché non mi perdonerei di doverti uccidere, fratello mio.» I due uomini sembravano commossi. David si era reso conto che tra loro l'affetto era profondo e sincero e si chiese cosa li unisse. Lo aveva giudicato con durezza credendolo incapace di comprendere la sua amicizia con Hamza; al contrario, Saul aveva vincoli di affetto solidi come la roccia con quell'uomo chiamato Abdul. «Restate a dormire in casa mia questa notte» li invitò. «Non possiamo, devo andare a trovare alcuni amici» rispose Saul. «Non avremo altre occasioni» si lamentò Abdul. «Le cercheremo. Credi che qualcuno possa distruggere la nostra amicizia? No, Abdul, se anche dovessimo ucciderci resteremmo amici e ti porterò sempre nel mio cuore. Ti devo la vita» ricordò Saul ridendo. «Sei sempre stato un imprudente!» rispose Abdul con un'altra risata. «Quando eravamo piccoli caddi in un canale» spiegò Saul a David che li guardava attonito. «Non sapevo ancora nuotare, e neanche lui, ma si buttò
in acqua per me e riuscì a tirarmi fuori. Non so come ci riuscì, perché io mi aggrappavo con forza al suo collo e Abdul si muoveva a scatti con le mani e con i piedi tentando di mantenere a galla tutti e due. Ma riuscì ad aggrapparsi a una pietra che emergeva e tirò fino a quando non riuscimmo a uscire. Credo di non aver mai bevuto tanta acqua in vita mia.» «Neanche io, amico mio, neanche io...» Abdul e Saul raccontarono per un po' altri aneddoti della loro infanzia. David li vedeva ridere e ricordare, ma i loro sorrisi erano carichi di nostalgia. Stava calando il sole quando si accomiatarono da Abdul e da sua moglie sulla soglia di casa. Era palpabile l'emozione che provavano entrambi e la tristezza della moglie di Abdul. Stavano salendo in auto quando Abdul li chiamò. «Saul, questa sarà sempre casa tua! Qui sarai al sicuro, qualunque cosa accada!» Saul scese dalla macchina, si diresse verso la casa e di nuovo i due uomini si fusero in un abbraccio. David rimase molto colpito nel vedere quei due guerrieri commossi perché avrebbero dovuto affrontarsi e combattersi. «Io vivevo in quella casa» gli disse Saul indicando una costruzione di pietra molto simile a quella di Abdul, situata a pochi metri da dove si trovavano. «E adesso non ci vive più nessuno?» «I miei genitori morirono e io iniziai a lavorare con i gruppi di ebrei che arrivarono a Eretz Israel. E anche se sai che non sto mai in un posto fisso, è il kibbutz il luogo dove passo più tempo.» Arrivarono di fronte a una staccionata identica a quella della casa di Abdul, solo più bassa, ma non uscì nessun uomo armato. Saul condusse l'auto fino alla porta di casa, dalla quale in quel momento usciva un uomo anziano vestito alla maniera tradizionale dei palestinesi, con la kefiah che gli copriva la testa. «Saul!» L'anziano abbracciò Saul ed entrambi entrarono in casa senza far caso a David che li seguiva con curiosità. Una donna palestinese con un vestito che la copriva dal collo ai piedi e i capelli coperti da una hijab spingeva suo marito per poter abbracciare anche lei Saul. «Quanto tempo senza passare a trovarci! Che ti è successo?» lo rimpro-
verò la donna. «Lavoro, lavoro molto» si scusò Saul «ma mi ricordo sempre di voi.» «Puoi stare tranquillo, ci prendiamo cura della tua casa come se fosse nostra» affermò l'anziano. «Lo so.» La donna corse a prendere acqua, tè, frutta e dolci, che dispose premurosamente su un vassoio. David notò che la casa aveva una struttura simile a quella di Abdul, perfino la sala con i sofà che circondavano il tavolo al centro. Si sedettero e Saul ascoltò le spiegazioni dell'uomo sull'ultimo raccolto, le novità tra i vicini e i dolori alle ossa dovuti all'età. «Ci sarà la guerra, Marwan.» «Lo so, Saul, lo so, ma noi resteremo qui, e così salverai la tua casa.» «Non voglio chiederti tanto.» «Non me lo hai chiesto, infatti, l'abbiamo deciso noi. Mia moglie è d'accordo e i miei figli... alcuni sì e altri no...» «Lo so, Marwan, siamo stati sempre amici, ma adesso...» «Adesso ci sarà la guerra, ma noi non combatteremo. Noi resteremo qui a prenderci cura della tua casa e, quando tutto terminerà, tornerai. Tutte le guerre finiscono, Saul, tutte.» Saul e Marwan parlarono di quello che c'era da fare in casa e nell'orto e, con grande sorpresa di David, Saul consegnò a Marwan una grossa somma di denaro. «Non ne abbiamo bisogno! Ho sempre ricevuto gli aiuti che ci hai mandato, ti faccio vedere i conti...» «Non ho bisogno di vederli. Questo denaro servirà nel caso in cui dovesse succedere qualcosa; è meglio tenere una riserva, non so quando potrò tornare.» «Ma è tanto!» «Spero sia sufficiente.» La donna insistette perché si fermassero a cena e passassero la notte lì. Saul esitò, poi si lasciò convincere, anche se disse loro che prima avevano delle faccende da sbrigare. «E adesso dove andiamo?» volle sapere David. «In un kibbutz qui vicino. Ho una riunione con alcuni ufficiali dell'Haganah. Mi aspettano per le sette.» «E io cosa farò?»
«Non ti farà male guardarti attorno...» «Già. Quei palestinesi che si prendono cura della sua casa... si nota che le vogliono bene...» «Li conosco da quando ero bambino. Metterei anche la mia vita nelle loro mani.» «Allora, perché mi rimprovera di essere amico di Hamza?» «Non ti ho rimproverato, ti ho solo avvertito di quello che succederà. Anche io sono amico di Abdul. Siamo cresciuti insieme, abbiamo avuto gli stessi maestri, la prima volta che ci siamo innamorati fu della stessa ragazza, una sua cugina; ma entrambi sappiamo che dovremo lottare l'uno contro l'altro. L'hai sentito dire anche da lui.» «Tutto questo mi sembra pazzesco. Da una parte abbiamo amici palestinesi, dall'altra loro ci attaccano, noi ci difendiamo, li ammazziamo, ci ammazzano...» «Sì, a volte anch'io faccio fatica a capirlo. Ma in fondo è molto semplice: questa è la nostra patria, sono arrivati i romani, l'hanno conquistata e a partire da allora non abbiamo mai smesso di subire invasioni. Molti ebrei se ne sono andati e nel corso dei secoli hanno vissuto in altri paesi, facendone parte, sentendo di appartenere a un'altra terra, ma sempre rimpiangendo questa. Non voglio farti una lezione di storia, parlandoti dei pogrom o dell'Inquisizione per arrivare fino all'Olocausto. Ora si tratta di recuperare la nostra patria; non deve più esserci al mondo un solo ebreo senza casa.» «Io mi sentivo francese, solo francese, fino a quando non è scomparsa mia madre. Non mi ero reso conto di cosa significasse essere ebreo. In realtà non mi sentivo affatto ebreo.» «Bene, adesso sai cosa significa.» «Siamo davvero così diversi da rendere impossibile ogni tipo di intesa?» Saul meditò qualche secondo prima di rispondere. In realtà non si sentiva diverso da Abdul, né da Marwan, né da tanti altri amici con i quali era cresciuto. «La differenza sta nel fatto che la maggior parte di voi ebrei che state arrivando qui viene dall'Occidente e il vostro modo di vedere le cose e organizzare la società è occidentale. In questo sta la diversità, l'abisso. Io sono nato qui, come tutta la mia famiglia, e la mia testa appartiene all'Oriente più che all'Occidente, per questo capisco le loro paure e i loro timori, per questo so che è inevitabile quello che sta per succedere.» «Però hai tentato di convincere Abdul.»
«Abdul è uno sceicco rispettato da molti altri sceicchi e il suo parere viene tenuto in grande considerazione. Io e lui non ci inganniamo, sappiamo il bene e il male che c'è dentro di noi, in quello che difendiamo e in quello che amiamo. La sua gente ha detto no, e lui starà dalla loro parte, per quanto sia convinto che stiano sbagliando. «Anche il vecchio re Abdulllah di Giordania era tra coloro che volevano trovare un'intesa con noi, e come vedi lo hanno ucciso. La vita e la morte in Oriente non hanno lo stesso valore che hanno da voi. Questo in Occidente non lo capisce nessuno. Neanche tu.» Arrivarono in un kibbutz al limite del deserto della Giudea. Era fortificato e si vedevano uomini armati camminare lungo il perimetro. Saul lasciò David insieme ad altri ragazzi mentre lui assisteva a una riunione di ufficiali dell'Haganah. Gli mostrarono il kibbutz, molto più grande del suo, e gli chiesero come se la cavavano quando venivano attaccati. Molti dei giovani che vivevano lì facevano parte dell'Haganah ed erano preoccupati per quello che, come sapevano, sarebbe accaduto presto. Un'ora dopo Saul gli venne incontro e tornarono verso Gerusalemme. «Tornare indietro a quest'ora è una sciocchezza, ma correremo il rischio. Marwan e sua moglie ci resterebbero male. E poi, chissà quando avrò di nuovo l'occasione di dormire in quella casa!» Quella notte David non riuscì a chiudere occhio; si domandava perché Saul l'avesse portato con sé. Era sicuro che doveva esserci una ragione: non era uomo da gesti vacui. 22 Mahmud li osservava mentre preparavano le armi. Aveva organizzato tre gruppi formati da quindici uomini ciascuno. Nessuno sapeva qual era il proprio obiettivo, l'unico ordine che avevano ricevuto era di essere pronti prima dell'alba. Hamza pensava a David. Non si erano quasi visti negli ultimi giorni. Lui lo aveva evitato, ma David aveva fatto lo stesso. Si erano salutati attraverso la recinzione dicendosi a gesti che si sarebbero visti più tardi, ma nessuno dei due aveva cercato l'altro. Forse David sospettava qualcosa? Hamza se lo chiedeva, ma poi, di colpo, scacciava quel pensiero. Cosa avrebbe potuto sapere? Nessuno poteva avergli detto che ora lui faceva parte di un gruppo di guerriglieri.
"Magari cominciamo a non essere più tanto amici perché non ci fidiamo l'uno dell'altro. Io ho un segreto e lui diffida di me, o magari ne ha un altro" pensò. «Bene, così mi piace, l'arma pulita, ben preparata» gli disse Mahmud interrompendo i suoi pensieri. «Questa notte dimostrerai quello che vali e cosa hai imparato.» Hamza non rispose e rimase accovacciato, aspirando il fumo della sigaretta. Ora fumava ininterrottamente, malgrado le lamentele della madre. Suo padre era più taciturno del solito e il suo carattere si era inasprito. Hamza si domandava perché Mahmud non volesse far sapere quale sarebbe stato l'obiettivo; più che per diffidenza, credeva che lo facesse per far pesare la sua autorità. Iniziò a impartire gli ordini verso le quattro del mattino. «Il gruppo di Ehsan distruggerà il villaggio; quello di Alì assalterà il magazzino, Hamza attaccherà il kibbutz che confina con l'orto di casa sua. Conosci bene il posto, ci sei stato molte volte. Entrerete senza farvi vedere e collocherete la carica di dinamite. Poi vi introdurrete nelle stanze e farete fuoco prima che loro abbiano il tempo di svegliarsi; alla fine, quando uscirete, farete esplodere la dinamite. Io vi accompagnerò. Ho scelto il vostro gruppo per combattere stanotte.» «In quel kibbutz vivono venti bambini...» disse Hamza con orrore «e potrebbero morire...» «Sì, può essere che muoiano tutti o solo alcuni, ma questo non ci interessa. Sono ebrei» rispose Mahmud ridendo a denti stretti; quindi aggiunse in tono minaccioso: «E comunque, se non hai coraggio, puoi anche non venire...». Mahmud gli puntava l'arma alla tempia. Hamza sapeva che non avrebbe esitato un attimo a sparare. Capiva che Mahmud voleva solo trovare una scusa per ammazzarlo e si rimproverò per il suo attaccamento alla vita. Ascoltò le istruzioni dominando la nausea che gli stava invadendo lo stomaco. Sentì la risata secca di Mahmud che godeva della sua angoscia. Quella era la prova alla quale lo sottoponeva per sapere se poteva fidarsi di lui. Se fosse stato capace di uccidere qualcuno che conosceva, sarebbe stato capace di uccidere chiunque. Era un'equazione semplice e terribile. Hamza diresse il gruppo strisciando tra gli arbusti per avvicinarsi alla recinzione. Conosceva bene i luoghi che gli abitanti del kibbutz pattugliavano. Tagliò la recinzione e, seguito dai compagni, si spinse all'interno quasi senza osare respirare. Sentì le voci degli uomini della pattuglia e gli sem-
brò di riconoscere quella di David. Pregò Allah che il suo amico non fosse di guardia quella notte. Se non lo era, avrebbe potuto salvarsi; in caso contrario, non sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Indicò agli uomini come disporsi. Aveva già mostrato dove collocare le cariche. Una nell'officina, un'altra nel silos, un'altra ancora nelle cucine, che a quell'ora sarebbero state vuote; nel recinto dov'erano custoditi i trattori, nella gabbia degli animali, nella rete telefonica... I suoi compagni si muovevano rapidi e sicuri tra le ombre della notte mentre lui e altri aspettavano il momento per uccidere gli uomini della pattuglia, irrompere nelle stanze e fare fuoco su quelli che dormivano. Sapeva dov'era la stanza di David e lì non sarebbe entrato. Né avrebbe permesso che lo facesse qualcun altro. Non tardarono molto a distribuire le cariche e, quando si raggrupparono, arrivò il segnale. Si dispiegarono a ventaglio e cominciarono ad aprire le porte a calci scaricando i mitra su coloro che in quel momento dormivano placidamente. In un minuto le urla graffiarono il silenzio della notte; i colpi di altre armi automatiche cominciarono a rispondere alle loro. I bambini piangevano, fino a quando una pallottola non provvedeva a interromperne il pianto. Fuori di sé, Hamza sparava senza pensare, correndo da un lato all'altro, seguito da Mahmud, che pareva godere del caos e della morte. Vide cadere alcuni dei suoi compagni sotto i colpi della gente del kibbutz, e fu sorpreso nel vedere Tania sparare urlando qualcosa. Allora si ricordò che gli ebrei non facevano distinzioni e che anche le donne ricevevano l'addestramento militare e maneggiavano le armi. Poi la vide cadere, con il viso devastato da una mitragliata. All'improvviso accadde ciò che temeva. Vide David con una pistola in mano che sparava a bruciapelo. Lo sorprese la mancanza di espressione sul viso del suo amico, la fermezza con cui agiva. L'incontro fu inevitabile. Mahmud lo incitava ad avanzare verso l'angolo del kibbutz difeso da David, fino a quando, improvvisamente, si trovarono faccia a faccia. David lo guardò con dolore ma senza sorpresa, come se si aspettasse quel momento. Hamza stava per dirgli di mettersi al riparo e abbassò la pistola. Non pensava di uccidere il suo amico, anche se rischiava che poi fosse Mahmud a uccidere lui. David invece non esitò e avanzò. Hamza sentì un dolore acuto nel ventre e udì Mahmud gridargli qualcosa senza capire cosa dicesse. Poi si portò la mano allo stomaco e si accorse di perdere sangue; guardò di
nuovo David e riuscì a cogliere l'angoscia riflessa nel volto del suo amico. Gli sorrise mentre buttava l'arma e crollava a terra. Mahmud saltò sul suo cadavere sparando una raffica di fucile contro l'uomo che aveva appena ucciso Hamza. Gli importava poco della morte del suo compagno, ma sentì un'ondata di soddisfazione quando vide cadere il giovane ebreo vicino al corpo di Hamza. Povero, stupido Hamza, aveva esitato, aveva abbassato l'arma, aveva perfino sorriso al suo assassino. Meritava di morire come un cane per la sua vigliaccheria! Diede ordine di ripiegare e, mentre uscivano dal kibbutz, sentì il boato della dinamite. Poteva essere soddisfatto, l'operazione aveva avuto successo: quel kibbutz era scomparso dalla faccia della terra. Era un miracolo che fosse ancora vivo. I colpi di Mahmud gli avevano massacrato un polmone, ridotto in pezzi la clavicola, perforato lo stomaco e spappolato una gamba. Per diversi giorni era andato e tornato dal mondo dei morti. I dottori che lo avevano in cura si sorpresero della resistenza del suo cuore e del fatto che non cessasse di lottare per la vita. L'attacco al kibbutz era stato una carneficina. Solo cinque bambini si erano salvati e su cento adulti erano sopravvissuti in trenta. Non poteva ancora parlare: una maschera di ossigeno lo aiutava a respirare e sentiva di non avere forze neanche per aprire gli occhi. Aveva creduto di vedere Martine, una volta che li aveva aperti, forse anche Saul, ma non ne era sicuro. Sentiva i medici dire che non lo avevano ancora strappato dalle grinfie della morte, che era presto per affermare se sarebbe sopravvissuto. Non gli importava. Preferiva dormire, perdersi tra le braccia dei farmaci che gli somministravano per alleviare i dolori. Quando recuperava la ragione, per tenue che fosse, vedeva Hamza sorridere, andare verso di lui con la pistola abbassata. Si era accorto perfettamente che il suo amico non aveva alcuna intenzione di sparargli, ma lui non aveva esitato lo stesso. Lo aveva visto cadere sorridendogli come se si trattasse di un gioco, come se avesse voluto dirgli qualcosa. Non poteva vivere con l'immagine di Hamza impressa negli occhi. In nessun momento della sua vita, una volta sveglio, avrebbe potuto smettere di vedere il volto sorridente di Hamza e la sua mano che abbassava la pistola. In quell'istante Hamza aveva dimostrato il suo coraggio e lui la sua vigliaccheria. Quell'istante lo avrebbe perseguitato come un incubo, e lui
non avrebbe accettato di diventare un fuggitivo. Meglio morire. Perché il suo cuore non si arrendeva? Perché si impegnava a battere? Se ne avesse avuto la forza, si sarebbe strappato tutti quei tubi che lo tenevano imprigionato a letto, che entravano e uscivano dal suo corpo unendolo a quelle macchine mostruose. Tanti sforzi per salvargli la vita, ma perché? Se l'avesse recuperata se la sarebbe tolta lui stesso. Era questo che voleva dire a tutti loro, ma quelli non lo ascoltavano perché non gli uscivano le parole. «David, figlio mio, mi senti?» Credette di sentire la voce di suo padre e tentò di aprire gli occhi, ma erano troppo pesanti. Non poteva essere. Era un altro sogno. Un altro incubo. «Dottore, crede che lui riesca a sentirmi?» «Non lo so. Non sono in grado di dirlo; è un miracolo che sia ancora vivo, ma non so quale potrà essere la sua evoluzione, se potrà ancora muoversi oppure no... È il suo cuore che si è rifiutato di morire, un cuore giovane e forte che non ha smesso di battere. È ancora in coma, non so per quanto tempo potrà continuare così...» La voce di suo padre che mormorava parole di incoraggiamento gli arrivava fino all'angolo più recondito del cervello in quel sogno dal quale pareva non potersi svegliare. Credeva anche di sentire la voce di suo nonno che lo incoraggiava ad aprire gli occhi e a lottare. «Non ti arrendere David, siamo qui, vivi, devi vivere.» A volte sentiva con maggiore chiarezza, altre volte il suono si perdeva nel buco nero della sua mente. «Mio figlio soffre, lo so» credette di sentire la voce di suo padre. «No, non soffre, è sotto sedativi, non si preoccupi, non pensa e non sente» rispondeva il medico. «Si sbaglia, lo vedo dall'espressione del suo viso. David soffre, soffre un dolore enorme e insopportabile... faccia qualcosa... non lo lasci patire.» «Le assicuro che non soffre, è totalmente sedato, è impossibile che senta qualcosa.» «Mio figlio sente, dottore... io lo so, ne sono sicuro.» Hamza gli sorrideva e lo tirava per la mano. Non era arrabbiato con lui. Voleva parlargli ma non gli uscivano le parole. Aveva bisogno di chiedergli perdono per averlo ucciso, ma il suo amico non voleva ascoltarlo, lo tirava solo per la mano, portandolo con sé verso l'eternità.
Ferdinand notò che la mano di suo figlio era diventata gelida. La strinse con forza e urlò subito per chiamare l'infermiera. Arrivarono altri due medici e altre infermiere, mentre lui si raccomandava a Dio chiedendogli di non tradirlo almeno questa volta. Non ricordava di aver più pregato dai tempi dell'infanzia, tranne quando cercava Miriam. Allora Dio non aveva avuto pietà di lui, adesso non poteva abbandonarlo di nuovo. Si aprì la porta della stanza nella quale suo figlio giaceva monitorato da due lunghissimi mesi. Le infermiere uscirono con l'espressione del viso contratta, come quella di chi ha appena patito una dolorosa sconfitta, lasciando che fossero i medici ad avvicinarsi a lui. Prima che dicessero qualcosa, Ferdinand capì quello che stava per ascoltare. Gridò. Un grido lacerante, colmo di un dolore insopportabile. Lo trattennero per evitare che si lanciasse con la testa contro il muro, lo obbligarono a sedersi, mentre un'infermiera gli scopriva il braccio per iniettargli un calmante, come se qualcosa potesse placare il dolore dell'anima. Lo seppellirono nel kibbutz, vicino al recinto che lo separava dall'orto di Rashid. Ferdinand vide quell'uomo che lo guardava attraverso gli alberi e riconobbe nei suoi occhi lo stesso dolore che provava lui. Suo figlio aveva ucciso il figlio dell'arabo che aveva di fronte e un altro uomo aveva ucciso il suo. Non avevano nulla da dirsi. Quando l'ultima palata di terra coprì la tomba, Ferdinand capì di aver perduto definitivamente tutto. La sua vita ormai era priva di senso. Suo padre lo tratteneva mettendogli un braccio sulla spalla e dall'altro lato Inge gli dava la mano. Era arrivata insieme a John Morrow. Come sempre, Inge era presente nei momenti più tragici della sua vita. Dietro di lei, Martine piangeva in silenzio. Miriam non aveva una tomba. Era scomparsa in una fossa comune a Berlino. Suo figlio ora restava per sempre in quell'angolo di mondo, in una patria che voleva per sé, dove si proclamava che solo lottando si sarebbe potuto evitare ciò che era successo a sua madre. Un uomo con una pipa vuota in mano gli si avvicinò. «Non ci sono parole per consolare un uomo che ha perduto un figlio, ma voglio che lei sappia che l'assassino di suo figlio è morto.» Poi si voltò e sparì. Ferdinand, immobile e senza sapere cosa fare e cosa
dire, sentì Martine che gli sussurrò una spiegazione. «Si chiama Saul, è un ufficiale dell'Haganah. Ieri sera ha vendicato la morte di David: ha cercato l'uomo che gli aveva sparato dopo aver verificato il suo nome. Si trattava di Mahmud, un dirigente della guerriglia. Saul lo ha ucciso e ha rischiato la vita per farlo. È andato da solo, lo ha sorpreso in casa mentre cenava con degli amici e li ha eliminati tutti.» «A cosa mi serve la sua morte?» chiese Ferdinand. «Occhio per occhio, dente per dente. Questa è la legge in Oriente. Se uccidono uno dei nostri, devono sapere che non potranno nascondersi, perché li troveremo e li uccideremo. Siamo soli, Ferdinand, molto soli; circondati ovunque da nemici, non possiamo permetterci il lusso della debolezza. Per Saul però non è stata solo una risposta doverosa; lui voleva bene a tuo figlio, sapeva cosa rappresentava Hamza per David e aveva sempre temuto il momento in cui si sarebbero ritrovati di fronte.» «È stato David a uccidere Hamza.» «Gli ha sparato. Gli avevano insegnato a difendersi. Non puoi immaginare l'inferno di quella notte, quindici bambini sono morti assassinati...» «Lo so, Martine, lo so. Non giudico nessuno, so soltanto che mio figlio è morto e che un altro giovane ha avuto lo stesso destino, né io né i suoi genitori potremo mai consolarci. A loro restano altri figli, ma a me non resta niente se non aspettare il momento della mia morte.» «Tu sei un grande storico...» «Sono un uomo perso nella propria storia.» 23 Ignacio stava pregando nella cappella quando un sacerdote gli si avvicinò per dirgli che lo stavano chiamando dal Vaticano. Si alzò nervoso, chiedendosi chi mai potesse telefonargli dal Vaticano di sabato. La voce di padre Grillo lo fece sobbalzare. Erano due mesi che aveva terminato il suo lavoro temporaneo presso la Segreteria di Stato ed era tornato ai suoi studi universitari. Quel tempo trascorso tra le mura del Vaticano lo aveva segnato, anche se la cosa che più aveva lasciato un segno in lui era stato quello strano viaggio in Francia. «Ti avevo promesso che ti avrei dato notizie del professor Arnaud. Ho appena ricevuto un telegramma da Gerusalemme. Suo figlio è morto, lo hanno seppellito qualche giorno fa e il professore sta tornando in Francia.»
«Dio mio, pover'uomo!» esclamò Ignacio. «Sì, il professor Arnaud è un uomo che Dio ha sottoposto a prove terribili... deve essere a pezzi.» «Aveva soltanto suo figlio» sussurrò Ignacio «pensavo che Dio si sarebbe mostrato misericordioso con lui, salvandogli la vita.» «Non è riuscito a uscire dal coma; se ha resistito tanto tempo è perché il suo cuore era giovane, ma i medici non hanno mai creduto che potesse sopravvivere.» «Ho pregato tanto per lui...» si lamentò il giovane sacerdote. «Tutti abbiamo pregato.» «Crede di potermi dare l'indirizzo e il numero di telefono del professor Arnaud?» «Te lo darò quando verrai da me. Potresti venire adesso nel mio ufficio?» «Adesso?» «Sì, ho parlato con il tuo superiore e non ha nulla in contrario a lasciarti libero, a meno che tu abbia qualche altro motivo che te lo impedisce.» «No, non ho niente di speciale da fare, arrivo.» «Ti aspetto.» La chiamata di padre Grillo lo sconcertò. Cosa potevano volere da lui di sabato pomeriggio alla Segreteria di Stato? Si erano rivisti in un paio di occasioni in cui padre Grillo aveva fatto visita alla casa dei gesuiti. Incontri affettuosi e brevi, appena il tempo di evocare l'esperienza vissuta in Francia. Ricordava il giorno del loro ritorno. Aveva ancora davanti agli occhi la scena in cui il professor Arnaud correva lungo il marciapiede e si perdeva tra la folla, seguito dal padre. Quel giorno lui era stato condotto alla Nunziatura dove lo aspettavano padre Grillo, padre Nevers e due uomini dei servizi di sicurezza francesi, ansiosi di sapere cosa avevano scoperto nel castello D'Amis. «È un gruppo strano. Si porrebbero qualificare come fanatici o pazzi; la verità è che sono inquietanti. Credono che troveranno il Graal e non fanno che chiedersi che cosa potrebbe essere.» Lo avevano ascoltato con grande serietà, preoccupati, senza interromperlo né fargli domande fino a quando non ebbe finito di descrivere ciò che aveva visto e ascoltato nel castello. «Raymond, il figlio del conte, è un povero ragazzino spaventato da suo
padre. Il conte mi è parso un tipo tenebroso. E quanto ai suoi ospiti... il signor Randall è un americano, con un aspetto da militare, parlava poco e ascoltava molto, e il signor Stresemann diceva di essere uno studioso dei catari ed è senza dubbio tedesco.» Uno degli uomini dei servizi segreti francesi aveva spiegato con chiarezza che il conte D'Amis era un uomo intelligente, al quale prima della guerra si attribuivano contatti con il regime di Hitler che non era mai stato possibile dimostrare. Il suo castello era rimasto sempre al riparo da sguardi indiscreti e quei gruppi di giovani che patrocinava per la ricerca di reperti archeologici sembravano innocenti come un mattino di primavera. Anche così, però, restava il sospetto che dietro le ricerche archeologiche ci fosse dell'altro. «Be', credo di avervi raccontato tutto: cercano il Graal. Credono sia un oggetto magico che conferisce poteri straordinari a chi lo possiede, o che possa trattarsi dei discendenti di Gesù e Maria Maddalena. Il professor Arnaud ride di queste teorie, e dice che si tratta di pseudoletteratura da strapazzo. Lui assicura che non troveranno il Graal perché il Graal non esiste.» Per i francesi la questione non era tanto che il conte D'Amis cercasse il Graal, quanto che mantenesse rapporti con alcune società segrete di nazisti; alcuni erano fuggiti dalla Germania, disperdendosi in lungo e in largo per il mondo, e non si poteva escludere che D'Amis desse rifugio a qualcuno di loro. «L'ultima cosa che possiamo permetterci è uno scandalo per avere dei nazisti rifugiati in Francia» aveva commentato con preoccupazione uno dei componenti del servizio di sicurezza. Per la Chiesa, invece, il problema ruotava intorno alle speculazioni sul Santo Graal. Padre Grillo aveva condiviso il giudizio del professor Arnaud: era sempre meglio sapere chi si aveva davanti per poter preparare la difesa. Gli avevano fatto i complimenti per le informazioni procurate. Padre Grillo aveva addirittura insinuato che in futuro avrebbe potuto diventare un buon diplomatico e arrivare a lavorare per la Segreteria di Stato in modo non provvisorio. E adesso, a mesi di distanza, arrivava la chiamata di padre Grillo che gli annunciava la morte del figlio del professor Arnaud e gli dava appuntamento in Vaticano. Andò dal direttore della sua casa e gli disse che usciva perché aveva appuntamento con padre Grillo.
«Sì, ho già parlato con lui. Credo che sia arrivata la tua occasione.» «La mia occasione?» «Non ti piaceva la diplomazia? Stai per finire gli studi e padre Grillo dice che sei stato un buon segretario. Te lo dirà lui, ma pare che il segretario abbia un problema serio al cuore e il medico gli abbia consigliato una vita tranquilla, cosa impensabile nella Segreteria di Stato. Ho la sensazione che voglia proporti di sostituirlo.» Ignacio non nascose la propria soddisfazione. Lavorare in Vaticano gli aveva regalato un'esperienza straordinaria, desiderava tornarci. Padre Grillo, nel suo ufficio, stava parlando al telefono in giapponese e fece cenno a Ignacio di aspettare la fine della conversazione. «Bene, sono contento che tu sia venuto.» «Sì, grazie, be'... sono felice che mi abbia chiamato.» «Anche se non sai perché ti ho fatto venire?» Ignacio chinò la testa tentando di nascondere il rossore che sentiva sulla fronte. «Te lo ha detto il tuo superiore?» disse padre Grillo ridendo. «Sì, qualcosa mi ha accennato...» «Se non hai altri programmi, mi piacerebbe proporti di lavorare con me. Quest'estate sei stato bravo, conosci già un po' il meccanismo della cosa, parli perfettamente l'inglese, il francese, lo spagnolo e l'italiano e credo tu sia quasi padrone dell'arabo, il che ci sarà molto utile.» «E il basco...» «Come dici?» «Che parlo anche basco.» «Be', in linea di principio non credo che parlare basco ti sarà molto utile qui, ma non si sa mai. Riuscirai a conciliare la fine dei tuoi studi con il lavoro qui?» «Credo di poterlo fare. Dormirò un po' meno di notte.» «Di questo non devi avere dubbi, non solo perché dovrai restare sveglio a studiare, ma anche perché qui non abbiamo orari.» «Quando vuole che inizi?» «Immediatamente.» Ignacio non batté ciglio. Il suo superiore aveva ragione: quella era la sua occasione e non poteva sprecarla. «Ho una montagna di lettere alle quali rispondere e un problema in una diocesi francese. Bisogna, tra le altre cose, preparare la visita che il presidente degli Stati Uniti farà al papa. Il segretario di Stato aveva bisogno
delle carte per ieri, invece siamo già a oggi...» Nessuno dei due pranzò, bevvero soltanto parecchi caffè molto carichi. Passarono quel che restava della mattina e buona parte del pomeriggio a lavorare. Ma non erano gli unici nella Segreteria di Stato; perfino il cardinale passò per l'ufficio a sbrigare alcune pratiche urgenti pur essendo sabato. Padre Grillo aveva ragione: in Vaticano non si riposava mai. Erano quasi le nove di sera quando padre Grillo considerò terminata la giornata di lavoro. «Visto che non ti ho permesso di pranzare, lascia almeno che ti inviti a cena. È il minimo che possa fare.» Lo portò in una trattoria di Trastevere poco frequentata dai turisti. «È tutto il giorno che hai voglia di chiedermi del professor Arnaud» lo incoraggiò padre Grillo. «Sì, mi piacerebbe sapere cos'è successo. Il professore mi aveva impressionato. Si considerava agnostico ma parlava di Dio come se fosse una presenza permanente nella sua vita. La morte di suo figlio deve essere stata terribile per lui. Le avevo già detto che mi piacerebbe scrivergli; non credo che gli importi molto di quello che potrò dirgli, ma sento di doverlo fare.» «Be', potrai dirglielo di persona, visto che tra poco andrai a Parigi.» «A Parigi? Veramente ho gli esami...» «Cercheremo di non farli coincidere con il tuo viaggio. Voglio che torni al castello D'Amis e prepari un rapporto per valutare la situazione. Ma non partirai prima di un paio di mesi, come minimo.» «Vuole sapere se hanno trovato qualcosa?» «Vogliamo sapere cosa stanno facendo, questo è tutto. È un gruppo inquietante. I nostri amici francesi ci chiedono collaborazione e, essendo interesse comune, cercheremo di vedere cosa possiamo fare.» «Non so se mi riceveranno...» «Non avevi detto che il figlio del conte, Raymond, ti aveva invitato a passare di là quando volevi?» «Sì, ma queste sono cose che si dicono al momento; non credo di essere risultato molto simpatico al conte.» «In ogni caso ci proveremo, ma non adesso. Ti dirò io quando.» Era nervoso. Il professor Arnaud si era mostrato molto sbrigativo al telefono. Aveva accettato di incontrarlo senza alcun entusiasmo. E adesso aveva paura di trovarselo di fronte. Il professore neanche si alzò per salutarlo; gli fece solo cenno di sedersi.
In pochi mesi Ferdinand Arnaud era diventato anziano. I capelli bianchi, gli occhi spenti, lo sguardo torvo, le mani con la pelle piena di macchie... Ignacio stentava a riconoscere in lui l'uomo che mesi addietro aveva accompagnato al castello D'Amis, pieno di vitalità e di speranza nel futuro, che contava i giorni prima di partire per Israele e rivedere suo figlio. «Professore, grazie per avermi ricevuto.» Lui non gli rispose. Rimase in silenzio, apatico, indifferente. Ignacio deglutì, non sapeva come affrontare quella situazione. Si rendeva conto che nulla di ciò che avrebbe potuto dire lo avrebbe interessato; non poteva né offrirgli conforto né riparare il danno che aveva subìto. «Mi dispiace molto per la morte di suo figlio.» Ferdinand continuava a non muoversi, muto, in attesa che il sacerdote terminasse di parlare e se ne andasse lasciandolo in pace. «Non voglio disturbarla ma... insomma, avevo bisogno di dirle quanto mi dispiace, sono mesi che prego per lei e per suo figlio.» L'espressione di Ferdinand era sempre la stessa, per la disperazione di Ignacio che, sconfitto, decise di andar via. «Va bene, me ne vado, non volevo disturbarla. Mi spiace di averla importunata con la mia presenza.» Non si era ancora alzato del tutto quando Ferdinand gli fece segno con la mano di rimettersi seduto. «Non ho niente da dire, né a lei né ad altri. Non sopporto che mi facciano le condoglianze, né che mi parlino di David. In realtà, l'unica cosa che spero è di morire al più presto. Se avessi coraggio, non sarei già più qui.» La confessione di Ferdinand mise definitivamente al tappeto Ignacio. Continuava a non trovare le parole per comunicare con lui, per rendergli manifesto che sentiva propria la sua sofferenza, che avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse stata in suo potere per aiutarlo. «Mi rallegra che le manchi questo coraggio e che lei sia ancora qui» riuscì a dire. «La sua morte non aggiusterebbe niente.» «Questo lo so, ma servirebbe almeno a smettere di soffrire. Lei non sa quanto possa essere insopportabile il dolore dell'anima.» No, non lo sapeva, e dunque non pensava di ingannarlo dicendo di sì. Non sapeva cosa volesse dire perdere la donna amata, cercarla disperatamente, per scoprire, anni dopo, che era stata assassinata. Non sapeva cosa fosse perdere un figlio e sentirsi dire che quel figlio aveva tolto la vita ad altri come lui. In realtà la sua vita era trascorsa senza nulla di rilevante e, pertanto, senza sofferenza. Non poteva dirgli che sapeva quanto lui stesse
soffrendo perché non lo poteva neanche lontanamente immaginare. Eppure, era sacerdote e supponeva che la sua missione fosse anche quella di consolare chi soffre. Ma tentare di farlo in quel momento sarebbe stata un'impostura. «Ho accettato di vederla perché me lo ha ordinato il rettore. Non ho intenzione di restare ancora molto tempo all'università, me ne andrò, ma nel frattempo devo mostrare un'apparenza di normalità.» «Dove andrà?» «Da nessuna parte, a casa mia, ad aspettare il momento del mio funerale.» «Lei non ha nessuna colpa.» «No, naturalmente no. Non creda che questo sia un modo di punire me stesso perché mi sento colpevole di qualcosa; semplicemente non ho voglia di vivere. Qui sono diventato un fastidio. Non sopporto più i miei studenti e loro non sopportano me. Non mi interessa se apprendono oppure no, se capiscono quello che dico oppure no. Non li vedo, davanti a me intuisco forme strane che si muovono e dicono frasi senza senso. È meglio che me ne vada ed è quello che farò appena terminati i corsi.» «Crede che sua moglie e suo figlio ne sarebbero contenti?» «Un giorno le dissi che ero agnostico; adesso ho le idee molto più chiare: non esiste niente, non esiste Dio. Quindi né mia moglie né mio figlio esistono se non nella mia testa. Non pensano, non sentono, non esistono; pertanto non possono essere né contenti né scontenti di quello che faccio. Per favore, si risparmi questo falso conforto da prete.» «Non era mia intenzione disturbarla, comprendo che lei non creda più in nulla, ma per me sua moglie e suo figlio esistono. Permetta anche a me di difendere le mie certezze.» «Come capirà, non ho voglia di discutere di credenze religiose; quello che lei crede mi lascia totalmente indifferente. Mi dica cosa vuole, perché ha voluto vedermi.» «Sentivo la necessità di farlo, di dirle quanto mi dispiace per quello che è accaduto. Sì, lo so che lei farà fatica a credere che a uno sconosciuto possa importare qualcosa di ciò che le è successo, e non perché io sia un sacerdote, ma perché m'importa in qualità di essere umano. Può darsi che lei sia la prima persona che ho visto soffrire veramente e che la sua sofferenza mi abbia fatto talmente male che non posso fare a meno di sentirmi coinvolto.» «È tutto qui ciò quello doveva dirmi? Il rettore mi ha detto che lei voleva
tornare al castello.» «Sì, è così, ma le assicuro che non ha nulla a che vedere con il mio desiderio di vederla.» «Perché vuole tornarci?» «Perché i servizi di sicurezza hanno rapporti sulle attività del conte che li rende inquieti, e perché la Chiesa vuole sapere se hanno fatto passi avanti nella ricerca.» «Non l'accompagnerò.» «Non gliel'ho chiesto.» «Meglio così.» «Neanche frate Julián significa più niente per lei?» «È stato un lavoro, niente di più.» «Ho sempre pensato che per lei fosse qualcosa di diverso.» «Lo è stato, ma questo appartiene al passato. Nel presente non mi interessa. Non so se lei se n'è reso conto, ma io sono morto.» 24 Questa volta il viaggio in treno gli era risultato pesante. Guardava davanti e vedeva il sedile vuoto. In meno di un anno la sua vita aveva subito molti cambiamenti. Aveva terminato gli studi con buoni voti, lavorava nella Segreteria di Stato, in un paio di occasioni era stato vicino al Santo Padre... La sua famiglia si sentiva orgogliosa di lui e se ne vantava con i vicini. Ogni giorno che passava lui si sentiva più sicuro della scelta di diventare sacerdote. Nulla riusciva a colmarlo più che servire Dio attraverso la Santa Chiesa. Sperava di essere all'altezza della missione che gli era stata affidata. Non sarebbe stato facile; non si sentiva a suo agio nel dover ingannare. Temeva che da un momento all'altro potessero scoprire l'imbroglio. Quando aveva telefonato a Raymond, questi era sembrato contento; ma appena aveva capito che stava andando a Carcassonne e che gli sarebbe piaciuto incontrarlo, il figlio del conte aveva avuto un attimo di esitazione. Gli aveva chiesto di aspettare, mentre chiedeva al padre se sarebbe stato possibile riceverlo. Infine, con gran sollievo di Ignacio, gli disse che lo avrebbero invitato a pranzo. Dunque, la sua permanenza al castello sarebbe stata breve, visto che l'invito comprendeva solo il pranzo. Come lo rivide, Ignacio ebbe l'impressione che Raymond fosse più alto della volta precedente. Sicuramente era ancora nell'età in cui poteva cre-
scere. Lo accolse sulla porta del castello con cordialità, ma con lo sguardo all'erta, come se la sua presenza non lo facesse sentire a proprio agio. «Sono contento di rivederla» gli disse stringendogli la mano «anche se la sua telefonata mi ha sorpreso.» «Spero di non averla disturbata. Dovevo venire a Carcassonne per consultare alcuni documenti negli archivi e ho pensato di passare a salutarla. Siete stati così cordiali con me quando sono venuto con il professor Arnaud...» «Ah, il professor Arnaud! Dicono sia uscito di senno.» Ignacio fu infastidito da quel commento e non riuscì a trattenersi. «L'hanno informata male; il professore sta ottimamente.» «Ci avevano detto che la morte del figlio lo aveva sconvolto.» «Be', è normale in questi casi. Immagini come si sentirebbe suo padre se accadesse qualcosa a lei... Ma il lavoro lo sta aiutando a superare questo brutto momento e a poco a poco sta tornando quello di sempre.» Raymond evitò ulteriori commenti, ma piantò lo sguardo su Ignacio e questi capì che non gli aveva creduto. S'incamminarono per i giardini del castello senza meta e senza sapere bene come rompere il gelo che entrambi avvertivano. «Come procede la ricerca?» chiese Ignacio direttamente. «La ricerca? A cosa si riferisce?» «Mi riferisco al Graal. Quando sono stato qui mi aveva detto che eravate sul punto di trovarlo.» «La pregherei di non fare parola di questo davanti a mio padre e ai suoi invitati. Sono stato indiscreto, ho parlato troppo, una cosa imperdonabile da parte mia.» «Non si preoccupi! Non dirò nulla davanti a suo padre. Se le ho fatto questa domanda è perché, volendo diventare uno storico, la missione di cui mi ha parlato mi pare la più straordinaria tra tutte quelle che si possono intraprendere.» «Lo è, ma sfortunatamente non ci siamo ancora riusciti. Serviranno tempo e molta pazienza, ma mio padre è sicuro che ce la faremo.» «Quel giorno, anche a rischio di essere maleducato, le chiederò di farmi vedere ciò che avrete trovato.» Raymond sorrise compiaciuto. Si sentiva importante davanti a quel giovane aspirante storico che sembrava supplicarlo di poter mettere le mani sulla torta. «Non posso prometterlo, non dipenderà da me, ma le assicuro che ci
proverò.» «A che punto siete?» «Cerchiamo documenti, abbiamo gente che sta indagando in Scozia, continuiamo a scavare... nulla di nuovo, ma lo troveremo, non ne dubiti, il Graal sarà nostro.» Il pranzo scivolò via quasi in silenzio. Il conte si mostrò brusco e distante, tanto da rischiare di risultare un pessimo anfitrione. Gli ospiti del conte erano un gruppo eterogeneo di ragazzi giovani dell'età di Raymond e uomini dell'età del conte. Nessuno fece allusioni ai motivi che li avevano condotti lì. Dopo pranzo sparirono tutti con le scuse più improbabili. Raymond invitò Ignacio a bere un caffè prima che l'auto lo portasse a Carcassonne. «Sa, mi sembra sempre più evidente che il Graal in realtà sia il sangue di Gesù. Se riusciremo a confermarlo, addio Chiesa. Sono patetici quei preti inginocchiati davanti alla croce, davanti a un oggetto di tortura. Sono malati. E la cosa peggiore è la quantità di stupidi che ci credono.» «È una teoria interessante» abbozzò Ignacio «ma difficile da provare.» «Sarebbe un danno enorme per la Chiesa se si diffondesse. Non è escluso che un giorno scriverò qualcosa sull'argomento. Vedremo la reazione.» «Scrivere? Ma che cosa?» «Un libro sui segreti di Montségur, un'antologia di leggende... magari anche un romanzo.» «Ma nessuna di queste cose sarebbe una dimostrazione di ciò che lei vuole provare.» «Lei sa bene che se si ripete qualcosa migliaia di volte...» «Questa è una frase di Goebbels.» «Non per questo possiamo dire che non sia vera.» «Quindi si tratta solo di fare danno alla Chiesa?» «Si tratta di molte cose, ma anche di questo. Devono pagare per quello che hanno fatto. Hanno versato il sangue di troppi innocenti, ricordi la cronaca di frate Julián.» Ignacio tornò a Roma insoddisfatto. Aveva fallito nell'intento di avvicinarsi al professor Arnaud e neppure le informazioni che aveva ricevuto al castello erano straordinarie. Padre Grillo non la pensava allo stesso modo. Credeva che Raymond gli avesse detto più di quanto avrebbe voluto. «Cominceranno a mettere in giro voci su Gesù e Maria Maddalena, e ci
sarà molta gente che avrà voglia di crederci. Te lo ha detto lo stesso Raymond: l'obiettivo è creare un danno alla Chiesa, troveranno chi scriverà uno o più libri, possono inondare le librerie di romanzi, falsi saggi... Cercheranno di entrare in polemica con noi. Dobbiamo essere preparati quando questo succederà e ponderare la risposta.» «La miglior risposta è non rispondere» propose Ignacio. «Non dire niente?» «Io la penso così. La Chiesa non deve rispondere a voci infondate né a teorie peregrine, può rispondere soltanto a fatti concreti.» «Trasmetterò la tua opinione al segretario di Stato.» «Non mi prenda in giro.» «Non ti sto prendendo in giro; quando mi riunirò con lui per discutere di questa storia, gli dirò come la pensi. Può essere che il tuo consiglio venga accettato.» Fino al mese successivo, padre Grillo non fece più parola della questione. Quando entrò nel suo ufficio, Ignacio vide sul suo volto serio il preambolo di una brutta notizia. «In primo luogo devo dirti che il segretario di Stato ha scelto te come responsabile della questione francese. D'ora in avanti ti incaricherai di farci arrivare notizie sui lavori del conte e dei suoi amici e starai attento a ogni pubblicazione sul Graal; non preoccuparti, disporrai di tutti i mezzi di cui avrai bisogno. Chi poteva immaginare che un frate domenicano dell'Inquisizione ci avrebbe dato tanto lavoro e tanti dolori di testa. Frate Julián è diventato un incubo.» «Quel povero frate non è certo responsabile del comportamento dei discendenti della sua famiglia.» «Quella cronaca... insomma, non voglio giudicare. È evidente che quel poveraccio aveva sofferto molto.» «Immagino che un giorno la Chiesa dovrà rivedere alcuni dei suoi comportamenti per poterli spiegare alla luce dell'attualità.» «Questo, Ignacio, non è un problema tuo né mio; è già abbastanza complicato dover stare attenti a quello che potrebbe fare la famiglia di frate Julián. Non separarti dalla sua cronaca, perché è la causa di tutto. Nel frattempo... ecco... devo darti una notizia; so che ti farà male.» Ignacio deglutì e abbozzò una preghiera sperando che non si riferisse alla sua famiglia e... «Il professor Arnaud è morto d'infarto. È stata una fine triste. A quanto
pare non lo vedevano da due giorni all'università e si sono preoccupati; si sono messi in contatto con la sua famiglia e... insomma, lo hanno trovato morto.» «No, non è morto; era già morto da tempo.» «Ignacio!» Ignacio uscì dall'ufficio con il libro del professore in mano. Sapeva che quel testo lo aveva unito per sempre a Ferdinand Arnaud. Due giorni dopo era alla Nunziatura di Parigi con padre Nevers e due poliziotti che erano venuti a interrogarlo. Spiegarono che non c'era nulla di strano nella morte del professor Arnaud e che l'autopsia aveva confermato l'infarto al miocardio. Padre Nevers però era nervoso. La situazione lo metteva a disagio. Perché il professor Arnaud aveva avuto l'infelice idea di lasciare in eredità a Ignacio Aguirre tutte le sue carte che si riferivano alla ricerca storica su frate Julián? La domanda se la faceva lui, ma se la formulava anche la polizia. Per questo avevano sollecitato alla Nunziatura un colloquio con il sacerdote spagnolo. Ferdinand Arnaud era morto di infarto, ma il giorno prima della sua morte aveva lasciato le sue cose perfettamente in ordine, tra queste una scatola di notevoli dimensioni con sopra un nome e un indirizzo: "Ignacio Aguirre, Segreteria di Stato, Città del Vaticano". Naturalmente la polizia aveva aperto la scatola e aveva trovato un'infinità di carte e quaderni che per loro non avevano alcun significato. Su quei quaderni, con calligrafia fitta, Ferdinand aveva scritto il libro su frate Julián, ma anche riflessioni personali sul conte e i suoi amici. Oltre alle carte, c'era una lettera chiusa e sigillata, sempre per Ignacio. Sul tavolo del suo studio avevano trovato anche una lettera indirizzata a una certa Inge Schmidt di Berlino, con la quale l'università si era messa in contatto. La polizia aveva voluto parlare anche con la signora. La lettera alla signora Schmidt non sembrava contenere nulla di rilevante, tranne l'indicazione dell'indirizzo e del telefono di un notaio di Parigi con il quale la donna avrebbe dovuto mettersi immediatamente in contatto. La ringraziava per averlo aiutato a restare in piedi nei momenti più difficili della sua vita e la invitava a cercare la felicità. «Ha nominato questa signora erede dei suoi beni materiali: l'appartamento di Rue Foucault dove viveva, l'auto e tutti i suoi risparmi. Un bel gruzzolo...» raccontava uno dei poliziotti.
Quanto alla lettera per il sacerdote, la polizia non sapeva se contenesse qualche chiave significativa; a detta loro non avevano voluto aprirla, per questo avevano insistito per vederlo. Ignacio ne dubitava, ma in effetti il sigillo sembrava intatto. «Vi assicuro che non sapevo che il professor Arnaud avesse deciso di lasciare proprio a me le sue carte più preziose» assicurò Ignacio. «Eravate molto amici?» chiese uno dei poliziotti. «Si conoscevano appena!» rispose padre Nevers, anche se la domanda non era stata rivolta a lui. «Era una persona molto speciale per me, più che un amico. Se invece mi chiede perché ha scelto di lasciarmi le sue carte, non lo so; può darsi che si fidasse di me, che sapesse...» «Che sapesse... cosa?» chiese il poliziotto. «Che potrei avere bisogno di quei documenti in futuro, che lì dentro possono trovarsi le chiavi di quello che potrà accadere.» «A cosa si riferisce? Cosa potrebbe succedere che abbia a che vedere con quella cronaca medievale?» intervenne un altro poliziotto, stanco di quella conversazione a suo parere inutile. «Vedete, non posso dirvi cose che non so. Posso dire solo che mi sento molto onorato che il professore mi abbia lasciato in eredità i suoi documenti.» «Ha preparato questa lettera il giorno prima di morire... Eppure, l'autopsia dice che è morto per cause naturali, di un infarto. Perciò non comprendiamo queste due lettere d'addio.» «Era già morto» affermò Ignacio, causando lo stupore dei due poliziotti e di padre Nevers. «Come dice?» chiese uno dei due agenti. «Che era già morto, aveva smesso di vivere anche se respirava ancora. Lui era morto il giorno stesso in cui aveva seppellito suo figlio David.» «Ma come puoi dire una cosa simile?» protestò padre Nevers. «È proprio così, si può essere morti in vita. Io non lo sapevo, l'ho saputo soltanto dopo, l'ultima volta che ho visto il professor Arnaud. Aspettava solo che il suo cuore si fermasse, ed era questione di giorni.» «Ma come fai a dire certe cose!» Ignacio non voleva fermarsi molto a Parigi, ma era curioso di conoscere quella signora Schmidt della quale non aveva mai sentito parlare. Per questo chiese ai poliziotti se lei si trovasse ancora in città.
«Sì, deve sistemare dei documenti per l'eredità. Alloggia all'hotel Senna, sulla Rive Gauche. È un hotel piccolo, modesto, dalle parti di SaintMichel.» Padre Nevers storse il naso sentendo che Ignacio aveva intenzione di far visita a quella sconosciuta, ma acconsentì ad accompagnarlo. «Perché vuoi conoscerla? Cosa t'importa sapere chi è? La vita del professor Arnaud non riguarda né te né noi.» «Lei ha ragione, padre, ma sento la necessità di conoscerla; lei potrebbe sapere il motivo per cui il professor Arnaud ha deciso di lasciarmi le sue carte.» «Hai la lettera del professor Arnaud; sicuramente conterrà il perché della sua decisione.» Ma Ignacio non si lasciò convincere. «Non si preoccupi per me. Tornerò con i miei mezzi.» «Ma non sa nemmeno se questa signora si trova davvero in albergo!» Ignacio non replicò; scese dall'auto e, sorridendo, lo salutò. «La chiamerò, padre, non me ne andrò senza salutarla.» Il portiere dell'albergo lo guardó con curiosità. Non era frequente vedere un prete in un posto così. E restò ancora più sorpreso quando chiese della signora Schmidt. «È fortunato, era uscita stamattina di buon'ora ma è appena rientrata, neanche cinque minuti fa. Si accomodi pure su quella sedia, l'avvertirò io.» Inge scese subito nella hall e si diresse verso Ignacio con l'inquietudine dipinta in viso. Cosa poteva volere un sacerdote da lei? «Buonasera, desidera?» Ignacio rimase sorpreso dall'aspetto di quella donna. Pensò che dovesse essere sulla trentina, ma le rughe intorno agli occhi e la smorfia delle labbra erano quelle di una persona molto navigata. «Mi scusi il disturbo, signora Schmidt, mi chiamo Ignacio Aguirre.» Il suo nome non le diceva nulla. Non aveva mai sentito parlare di lui. Le spiegò chi era e lei lo ascoltò senza dire una parola né mostrare particolare curiosità. «Conosceva da molto tempo il professor Arnaud?» si permise di chiedere a quella donna misteriosa. «Sì, ci conoscevamo da tempo.» Ignacio si spazientì, ma lei non pareva disposta a dargli nessuna informazione.
«Mi dispiace importunarla ma... mi piacerebbe sapere qualcosa in più del professor Arnaud; mi sono ritrovato un'eredità che non mi aspettavo e non so perché. Se ho voluto conoscerla è perché so che lei è la persona alla quale ha lasciato ciò che aveva. Per favore, potremmo andare da qualche parte a bere un caffè e parlare un po'?» Inge esitò qualche secondo; poi rivolse a Ignacio uno sguardo diretto e franco. «Se vuole, possiamo prendere un caffè e fare due chiacchiere, ma non credo di poter essere io a chiarire i suoi dubbi. Non mi ha mai parlato di lei, non aveva motivo di farlo.» Uscirono dall'hotel e camminarono fino a un bar con la terrazza protetta da una vetrata. Istintivamente Ignacio cercò un angolo appartato dove non potessero disturbarli. Inge ordinò un tè e lui un caffè, poi aspettarono che il cameriere li servisse per cominciare a parlare. «Non so perché il professor Arnaud abbia deciso di lasciarle le sue carte, mi dispiace, non ho questa risposta, e credo sia l'unica di cui lei ha bisogno.» «Quando è stata l'ultima volta che ha visto il professor Arnaud?» volle sapere Ignacio. «Al funerale di suo figlio, in Palestina. Ci siamo salutati in aeroporto; lui tornava a Parigi, io a Berlino. Era distrutto. Per lui la vita era finita nell'istante in cui avevano seppellito David.» «Io ero con lui quando gli diedero la notizia che suo figlio era stato ferito gravemente. L'avevo accompagnato al castello D'Amis; eravamo rimasti là solo due giorni e al ritorno c'era il padre del signor Arnaud alla stazione: lo aspettava per spiegargli l'accaduto.» «Immagino sia stato un momento terribile per lui. E quando lo ha rivisto?» «Poco tempo fa. Ero andato a Parigi per parlare con lui, visto che dovevo tornare al castello.» «E voleva che lui l'accompagnasse, giusto?» «Mi sarebbe piaciuto, sì, ma soprattutto ero andato a trovarlo perché sentivo il bisogno di dirgli che mi dispiaceva per suo figlio. Gli avevo mandato una lettera di condoglianze ma non avevo avuto risposta.» «Perché le importava tanto del professore?» Ignacio si era fatto quella stessa domanda molte volte e non aveva ancora trovato la risposta.
«Non lo so. Forse è stata la conversazione che avevamo avuto sul treno a proposito di Dio, della Chiesa... Mi aveva impressionato. Pensavo che per uno che si dichiarava agnostico dimostrava una fede invidiabile in Dio e nella Chiesa. Mi aveva sorpreso, e mi sarebbe piaciuto continuare quella conversazione.» «Aveva sofferto molto.» «Sì, conosco la storia di sua moglie. Lei la conosceva?» A quel punto Inge gli spiegò come si erano incontrati e il vincolo invisibile che si era stabilito tra di loro durante le ricerche della moglie. Gli raccontò che, insieme, avevano scoperto la fine degli zii di Miriam e che la signora Bruning, la portinaia della casa di Sara e Yitzhak, alla fine della guerra aveva confessato di essere stata lei a denunciarla e a farla portare via. «Mi scusi se le faccio una domanda molto personale, ma lei cosa faceva in quegli anni?» «Ero una giovane comunista, con un fidanzato comunista dal quale avevo avuto un figlio e due genitori nazisti che mi avevano rinnegata. Sara e Yitzhak mi hanno aiutata, mi hanno dato un lavoro, mi hanno trattata come un essere umano. Ma se invece vuol sapere che rapporti ho avuto con i nazisti, la risposta è che sono una sopravvissuta, non ho lanciato bombe al loro passaggio, non ne ho ucciso neanche uno: mi sono limitata a sopravvivere.» «No, non le stavo chiedendo questo, mi perdoni, non volevo riaprire le sue ferite.» «Non si preoccupi, non ho niente da rimproverare a me stessa.» Ignacio non aveva il coraggio di chiederle se lei e Ferdinand erano stati uniti anche da qualcosa in più della sfortuna, ma Inge se ne accorse lo stesso. «Se invece si sta chiedendo se in quegli anni c'è stato qualcosa tra di noi, la risposta è no. Non mi ha mai guardata come donna, né io ho guardato lui come uomo. Per quanto possa sembrarle strano, l'amicizia tra un uomo e una donna è possibile.» «No, non faccio fatica a crederlo.» «Nella situazione disperata che vivevamo nessuno di noi due aveva bisogno di amore, non di quel tipo di amore. Ma credo che arrivammo a essere più uniti di quanto saremmo stati se fossimo andati a letto insieme.» Lui arrossì, anche se nel modo di parlare di Inge non c'era il minimo accenno di provocazione.
«E adesso che sa qualcosa in più di me, perché pensa che mi abbia lasciato tutte le sue carte?» «Non lo so. In realtà non so niente di lei. Ferdinand era affascinato dalla cronaca di frate Julián, era importantissima per lui, ma allo stesso tempo sentiva una certa repulsione per il conte. Pur essendo un uomo molto potente non lo aiutò affatto quando ebbe bisogno di lui. In realtà D'Amis non lo aiutò perché non poteva dirgli che i suoi amici appartenevano al gruppo di assassini che aveva tolto la vita a sua moglie. Pertanto il conte e i suoi amici si mostrarono indifferenti alla disperazione di Ferdinand e lui non li perdonò mai. Non gli piacevano neanche le loro idee, l'ossessione per il Graal, o che ritenessero possibile l'indipendenza dell'Occitania. Probabilmente il conte sperava che i nazisti lo aiutassero a sganciare l'Occitania dalla Francia. Può darsi che questo lo inquietasse più di quello che lasciava intravedere; e forse aveva deciso di fidarsi di lei perché tenesse testa al conte, una volta arrivato il momento. Però, glielo ripeto, non mi ha mai parlato di lei.» «Dopo il ritorno da Israele non vi siete più parlati?» «Sì, l'ho chiamato un paio di volte. E gli ho scritto diverse lettere alle quali non ha risposto. Ma le assicuro che non mi ha detto niente di lei, mi dispiace. Del resto, perché avrebbe dovuto parlarmene? Il fatto che fossimo amici non significa che io sappia tutto di lui.» «Parla del professore come se fosse vivo.» «Per me lo è, lo sarà sempre.» «E adesso lei cosa farà?» «Quello che avrei sempre voluto e che lui mi aveva chiesto di fare: terminerò gli studi, poi insegnerò, voglio diventare maestra. Ferdinand è stato molto generoso con me, mi ha lasciato tutti i suoi risparmi e la sua casa. La venderò, me lo ha chiesto lui nella lettera. Riprenderò a studiare e manterrò mio figlio senza preoccupazioni. Lui mi chiede di essere felice, o almeno di provarci. In realtà, lui mi ha regalato la felicità; riprendere la carriera scolastica è la cosa che più desideravo, era il mio sogno nel cassetto.» «Cosa studiava?» «Filologia tedesca.» «Sono sicuro che avrà fortuna.» Inge si strinse nelle spalle. Non credeva nella fortuna, lei era solo una sopravvissuta. Ignacio si disse che non aveva niente in comune con quella donna: lei era solo di qualche anno più grande, ma probabilmente aveva già sofferto
più di quanto lui avrebbe potuto soffrire in tutta la vita. Sentiva che i loro destini si erano incrociati solo perché così aveva voluto il professor Arnaud. «Le darò il mio indirizzo di Roma, se un giorno dovesse capitare da quelle parti. Mi piacerebbe sapere dove trovarla nel caso in cui dovessi capitare a Berlino. Il professor Arnaud ci ha fatto diventare i suoi eredi...» «E pensa che questo possa unirla a me?» chiese lei con una sfumatura ironica nella voce. «Sì, credo che questo mi unisca a lei. Non so perché, ma lo penso o, per meglio dire, lo sento. Può darsi che qualche volta abbia bisogno di aiuto; se così fosse, si ricordi di me. Farò il possibile per darle una mano.» «Io non credo in Dio» affermò lei per tutta risposta. «Non le ho chiesto in cosa crede. Perché me lo dice?» Inge si alzò e gli tese la mano per accomiatarsi. «La vedo tormentato per la morte di Ferdinand e non dovrebbe esserlo. È morto perché per lui non aveva più senso vivere. Ora è in pace.» La vide uscire dal caffè camminando con passo deciso e pensò che quella donna non avrebbe mai avuto bisogno di lui, né di lui né di nessun altro. Lo aveva detto lei stessa: era una sopravvissuta. Ed era sopravvissuta al peggio. Telefonò a padre Nevers per salutarlo. «Fermati a cena.» «No, preferisco tornare a Roma. Ho molto lavoro e padre Grillo non può restare senza segretario; con un po' di fortuna prenderò l'ultimo volo.» In realtà aveva bisogno di stare da solo per leggere con calma la lettera del professor Arnaud. Ebbe fortuna e riuscì a farlo sull'aereo. Ruppe con una certa emozione la busta bianca che conteneva alcuni fogli scritti con calligrafia piccola e fitta, ma chiara. Il professor Arnaud gli diceva che tutti quei fogli, tutto quel lavoro su frate Julián ormai non avevano più senso per lui, però... ... forse un giorno ritroverà in loro qualcosa che l'aiuterà ad affrontare ciò che il conte potrebbe fare con le sue strampalate idee, anche se lei sa bene che a mio avviso non troverà niente perché non c'è niente da trovare. Gli affari dei vivi ormai m'importano
poco, giacché non mi sento più di questo mondo; ma lei è giovane e conserva intatta la sua fede nell'umanità, quindi può fare ancora qualcosa per i suoi simili: lotti per evitare che venga versato sangue innocente. Nel corso della storia è stato versato molto sangue soltanto perché alcuni uomini si credono Dio e non si fanno scrupolo di seminare la morte nel mondo; per costoro le persone sono soltanto carne con sembianze umane ma senza voce, senz'anima. Loro non li vedono, non li sentono, non importa che muoiano purché ciò sia funzionale ai loro interessi. Molto sangue è stato versato anche in nome di Dio, che contraddizione! Cosa penserà Dio di questi uomini che hanno utilizzato e utilizzano il suo nome per uccidere? Non crede che la Chiesa dovrebbe riflettere su questo? E fare qualcosa, certo; perché non comincia lei? Frate Julián gridava perché qualcuno un giorno vendicasse il sangue degli innocenti, ma credo sia più utile impedire che continui a essere versato. Per i morti la vendetta non serve a niente... Ignacio non riuscì a trattenere le lacrime. Quella lettera era qualcosa di più di un testamento: gli chiedeva di fare qualcosa, di dedicare la sua vita a evitare la morte degli innocenti. A Inge aveva chiesto di essere felice e a lui di dare un senso alla sua vocazione come sacerdote, un senso diverso da quello che lui stesso aveva immaginato. Avrebbe avuto la possibilità e la capacità di farlo? Quando arrivò a Roma era notte fonda. Era esausto, ma non aveva voglia di dormire. Aprì la scatola dove il professor Arnaud aveva sistemato con cura le sue carte e cominciò a viaggiare attraverso gli anni della vita di frate Julián. Volle vedere la mano di Dio nel fatto che il suo destino si ritrovasse unito a quello del frate domenicano che gridava vendetta nel nome degli innocenti. Terza parte 1 Atene, sabato, epoca attuale
L'uomo osservava distrattamente dal balcone della sua stanza come il tenue sole del mattino si rifletteva sul marmo bianco facendolo sembrare ancora più bianco e lucente. Non erano ancora le otto ma in piazza Sintagma il traffico era già all'acme. Limousine nere attendevano alla porta dell'Hotel Gran Bretagna per trasportare alcuni tra i banchieri, politici e imprenditori che alloggiavano nel vecchio albergo signorile; tutti partecipavano al Vertice per lo sviluppo che si teneva ad Atene. Per un attimo l'uomo pensò che lui, come alcune di quelle persone che muovevano i fili del mondo, preferiva il Gran Bretagna ad altri alberghi più moderni e sofisticati di Atene. E non solo perché era situato nel cuore della città, di fronte al Parlamento, ma perché il Gran Bretagna conservava ancora il glamour dei vecchi hotel europei. Guardò distrattamente l'orologio sapendo di avere ancora tempo prima dell'appuntamento con uno dei partecipanti al vertice in un palazzo appartato appena fuori città. In realtà, era in quel palazzo che si sarebbero prese le decisioni che avrebbero avuto ripercussioni sui cittadini del mondo intero nei mesi e anni successivi. Ma questo non lo sapevano nemmeno le centinaia di giornalisti arrivati per trasmettere informazioni sul Vertice per lo sviluppo e ancor meno i fiduciosi cittadini. Cercò il cellulare che aveva lasciato sul tavolino e digitò il numero di un altro telefonino; passò giusto un secondo prima che rispondessero alla sua chiamata. «Buongiorno, conte» disse all'uomo che lo ascoltava a centinaia di chilometri «volevo assicurarmi che i nostri affari continuassero ad andare per il verso giusto.» La conversazione fu breve, appena due minuti, e quando richiuse lo sportellino del cellulare sorrise soddisfatto. Tutto stava andando bene. Per un secondo lasciò volare la fantasia e vide il conte D'Amis seduto sulla poltrona di legno foderata di velluto verde, dietro il tavolo di rovere massiccio del suo studio, vestito di tutto punto e con i capelli pettinati alla perfezione. Era stata una scoperta, quel conte D'Amis. Una perla dispersa nell'oceano della vita, una perla che s'incastonava alla perfezione nel suo piano. Nel suo lavoro non poteva permettersi il minimo errore; si basava sulla fiducia che uomini potenti riponevano in lui, sapendolo capace di ottenere ciò che loro volevano. In definitiva: qualcun altro doveva sporcarsi le mani al posto loro per far sì che raggiungessero i propri obiettivi. E a lui non
importava avere le mani sporche: già da tempo era immune a ogni odore sgradevole. Lo pagavano troppo bene per potersi permettere degli scrupoli. Alcuni colpi discreti alla porta lo distrassero dai suoi ragionamenti. Una cameriera gli chiese, sollecita, dove poteva lasciare il vassoio con la colazione e i giornali. Buttò un'occhiata alla prima pagina dell'"Herald Tribune" mentre si sedeva per fare colazione. Il Vertice per lo sviluppo si contendeva i titoli di prima pagina con un recente attentato di matrice islamica in un cinema di Francoforte: cinquanta morti e quasi un centinaio di feriti. Si versò una tazza di tè e s'immerse nella lettura. Sorrise nel verificare l'ingenuità dei giornalisti che definivano il vertice "storico". In realtà, il vertice era la copertura perfetta per consentire a un gruppo di uomini potenti di riunirsi davanti agli occhi del mondo intero senza attirare l'attenzione. Una dozzina di banchieri, sei sette dirigenti di multinazionali, alcuni politici in pensione ma ancora molto influenti facevano parte di un ristretto club che non aveva nome, né ragione sociale, né sede, né numero di telefono. Erano uomini di potere, che muovevano i fili dell'economia mondiale attraverso investimenti e disinvestimenti, il cui unico obiettivo era il profitto e per i quali i paesi e i cittadini erano solo disegni in una grande mappa che ritenevano di poter muovere a piacimento. Questi uomini erano rispettati e rispettabili, figure di livello mondiale, inaccessibili per i comuni mortali. Erano uomini al di sopra di ogni sospetto, incapaci di sporcarsi le mani. Una volta letti i giornali accese il televisore e cercò un canale che trasmettesse in diretta la chiusura del vertice. Quando il conduttore annunciò l'ultimo discorso si alzò, spense l'apparecchio, si sistemò la cravatta davanti allo specchio e, prima di uscire dalla stanza, chiamò la reception per dire al portiere di fargli trovare pronta la sua macchina davanti alla porta dell'hotel. Pochi minuti dopo l'uomo era immerso nel traffico caotico di Atene, che non gli impedì di arrivare puntuale all'appuntamento. Oltre ad alcuni alberi centenari che lo rendevano inaccessibile agli sguardi dei curiosi, un cancello altissimo isolava il palazzo dalla strada. I padroni avevano conservato con cura lo stile neoclassico tanto usato in molti edifici a partire dalla metà del XIX secolo. Nessuno gli chiese dove andasse né chi stesse cercando. Dopo aver superato il cancello automatico e aver parcheggiato la macchina nella proprietà, un maggiordomo silenzioso, che a stento disse buongiorno, lo ac-
compagnò in una sala e gli chiese di attendere lì. Dalla finestra vide che cominciavano ad arrivare limousine nere dalle quali scendevano alcuni di quegli uomini i cui interessi segnavano la politica mondiale. «Buongiorno.» Si alzò per salutare l'uomo appena entrato nella sala: alto, i capelli brizzolati, un'età indefinita, elegante, l'inconfondibile accento della classe alta britannica e l'aspetto di chi è abituato a comandare senza subire repliche. Il padrone di quel palazzo non perse tempo in circonlocuzioni e andò dritto al sodo. «Bene, mi dica.» «Prima di venire ho parlato con il conte D'Amis: il piano sta seguendo il suo corso.» «È sicuro di non commettere un errore fidandosi di questo conte?» «Sono sicuro. Lui è il personaggio perfetto per portare avanti il nostro progetto. È un uomo squilibrato, ossessionato... sì, è proprio la persona giusta. Finora ha fatto quel che gli ho chiesto senza commettere errori.» «Per quando è prevista la realizzazione del piano?» «Mancano ancora alcuni dettagli, è possibile che tra un mese sia tutto pronto.» «Eviti ritardi.» «Perché tutto riesca bene, servono preparazione, tempo e denaro.» «Lo so, ma il tempo è un materiale sensibile e raro, del quale non disponiamo in questo momento. Ha seguito il vertice?» «Sì.» «Quante parole inutili sono state dette! In fin dei conti, quello che vuole l'opinione pubblica è sentirci dire che il mondo andrà meglio e che sarà possibile vivere tutti insieme e felici, come se bastasse schioccare le dita per trasformare in angioletti tutti gli esseri umani.» «I giornali dicono che è stato un successo.» «Sì, dicono questo, e lei sa cosa abbiamo deciso? Niente, assolutamente niente. Il comunicato congiunto è un lungo compendio di buone intenzioni. I paesi sviluppati approveranno i piani di sviluppo dei paesi in via di sviluppo. Si apriranno vie di dialogo tra paesi di diverse culture rispettando le idiosincrasie e le differenze di ognuna eccetera eccetera... Il nulla. Ora deve scusarmi, ma ho una lunga riunione con i signori che mi stanno aspettando, che senza dubbio sarà più produttiva. Devo comunicare loro qualcosa?» «No, le ho già detto che tutto segue il suo corso. Lei sa che non canto
mai vittoria prima del tempo, ma credo che il piano funzionerà, andrà a buon fine e avrà il successo che voi desiderate.» «Finora lei non ha mai fallito...» «No, non ho mai fallito, signore, e spero di poter continuare a eseguire i suoi ordini, come in tutti questi anni.» «Le fonti di energia non possono restare nelle mani di quegli ignoranti... è incredibile come alcuni non si rendano conto del pericolo che rappresentano. C'è un solo modo per eliminarli: fare in modo che il mondo si renda conto che è necessario lo scontro...» «Speriamo che il piano serva a questo.» «Servirà, è chiaro che servirà. I politici possono dire ciò che vogliono, ma è l'opinione pubblica, previamente sensibilizzata, che li forza ad andare in una direzione o nell'altra. Noi contribuiamo a fare in modo che l'opinione pubblica faccia le scelte giuste. Da quanto tempo non visita Londra?» «Ci sono stato quattro giorni fa, signore.» «Già, dimenticavo che lei è ovunque. Allora avrà visto che a Londra ormai c'è di tutto tranne che i londinesi. Ci sono quartieri che sembrano un'appendice del Pakistan... I musulmani si mostrano sempre più esigenti e il governo è sempre più debole, preoccupato di apparire come condottiero dei diritti umani: come se la gente gliene fosse grata! Vogliono distruggerci. Eliminare la nostra civiltà!» «Sì, questo è evidente.» «Lo è per chiunque non sia uno stupido. A proposito, le è stato difficile trovare questo posto?» «No, nessuna difficoltà.» «Questo palazzo appartiene alla famiglia di mia moglie; lei non ha mai voluto venderlo per ragioni sentimentali, e devo riconoscere che almeno in quest'occasione ci è stato utile. Bene, mi tratterrò ad Atene un paio di giorni prima di tornare a Londra; se c'è qualche novità, mi chiami.» «Lo farò.» «Sa una cosa? Devo dirle che siamo molto soddisfatti del suo lavoro... lei rende possibile ciò che sembra impossibile...» 2 Quello stesso sabato, nel castello D'Amis, sud della Francia «Signore, sono arrivati i giornali.»
Raymond de la Pallisière, ventitreesimo conte D'Amis, si alzò dalla poltrona dove stava controllando dei documenti, e prese dalla mano del maggiordomo i giornali che gli arrivavano puntuali ogni mattina. Una volta rimasto solo, tornò ad accomodarsi in poltrona di fianco a una finestra e vicino al camino che riscaldava la stanza. Sul tavolino che aveva davanti sistemò i dieci giornali che leggeva ogni giorno: cinque francesi e quattro tedeschi, oltre all'"Herald Tribune". Aveva ereditato quest'abitudine dal padre, che ogni mattina si faceva portare i giornali da Carcassonne e con loro si rinchiudeva nella lettura come se si trattasse di un lavoro. In realtà questo non era l'unico gesto del padre che riproduceva; quasi tutta la sua routine quotidiana era una copia di quella che era stata la vita del genitore. Da quando suo padre era morto, aveva apportato pochi cambiamenti nel castello; solo lo stretto necessario per continuare a garantire il massimo confort per sé e per i suoi invitati. Il personale di servizio invece era cambiato nel corso degli anni. Pensò al suo attuale maggiordomo, un uomo di mezza età, educato e puntiglioso, che anticipava sempre i suoi desideri. Era stato fortunato con lui, dopo aver dovuto licenziare il precedente che era un vero incapace. In realtà, il mondo era cambiato al punto che avere un maggiordomo era diventato quasi un'eccentricità che si permettevano soltanto i vecchi come lui, anche se i suoi amici e conoscenti elogiavano il suo aspetto dicendo che non dimostrava l'età che aveva. Si manteneva dritto, con lo sguardo verde brillante e i capelli biondi che, incanutiti, gli conferivano un aspetto imponente. Per primo leggeva sempre l'"Herald Tribune", la stessa cosa che un tempo faceva suo padre. La notizia dell'attentato di Francoforte occupava di nuovo la prima pagina. La polizia non aveva arrestato nessun sospetto, anche se l'esplosione era stata rivendicata da un gruppo islamico che stava tenendo in scacco i paesi dell'Unione Europea e che si auto denominava Circolo. I leader del Circolo minacciavano gli europei di non poter più vivere in pace e di fatto stavano mantenendo la parola. Attentati come quello del cinema di Francoforte si succedevano a intervalli regolari e solo di tanto in tanto la polizia riusciva a effettuare qualche arresto importante. Gli uomini del Circolo avevano molto chiaro il loro obiettivo: sconfiggere i "crociati" e riconquistare le terre che secondo loro appartenevano ai
musulmani: al-Andalus, cioè Andalusia e Portogallo, così come parte della Francia, i Balcani eccetera... E, naturalmente, cancellare gli ebrei da Israele. Quello era il programma al quale si dedicavano con un impegno e un fanatismo che nessuno sembrava in grado di fermare. Secondo l'"Herald Tribune" non erano stati trovati "reperti importanti" nell'appartamento in cui i membri del commando islamico si erano immolati per non cadere nelle mani della polizia; Raymond si chiese a cosa si riferissero quando parlavano di "reperti importanti", perché era ovvio che, importante o no, qualcosa avevano trovato. I giornali tedeschi offrivano, fondamentalmente, un'informazione precisa sull'attentato; parlavano della commozione della società tedesca, delle vittime del cinema, degli abitanti del condominio fatto saltare dai membri del commando per suicidarsi, dei danni che avevano causato. Raymond si sentì inquieto senza sapere perché; si alzò per versarsi un bicchiere di calvados anche se la giornata era appena cominciata; non erano ancora le undici, ma il calvados era diventato la sua miglior compagnia e sia nei momenti felici che in quelli di tensione gli risultava ormai indispensabile. Se ne versò parecchio in un bicchiere e poi decise di fare una telefonata. Non la fece dal telefono fisso posato sul tavolo dello studio, ma aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori un cellulare; compose un numero e attese fino a quando dall'altra parte sentì la voce dell'uomo che cercava. «Buongiorno, volevo avere notizie di quello che è successo a Francoforte...» La risposta dell'uomo parve tranquillizzarlo. Poi, senza dire una parola, spense il telefono e lo ripose accuratamente nel cassetto. Guardò l'orologio; aveva solo pochi minuti prima che arrivassero i membri del consiglio di amministrazione di Memoria Catara, la fondazione che presiedeva dopo la morte di suo padre. Molti dei membri erano figli dei fondatori dell'Associazione per la memoria dei catari, ideata da suo padre per dare una parvenza di rispettabilità alla sua ricerca del Graal e del tesoro dei catari. Raymond pensò allo sforzo e al denaro che suo padre e i suoi amici avevano investito in quella ricerca fallita, anche se, alla fine, forse qualcosa avevano ottenuto. La Languedoc era rinata; ovunque c'erano cartelli che informavano i turisti che stavano entrando nel paese cataro, con il logo disegnato come marchio turistico a forma di disco. Ovunque la parola "cataro" era una costante: nei caffè, nei ristoranti, nei negozi di souvenir... Al-
cuni degli uomini che facevano parte del consiglio di Memoria Catara erano ricchi commercianti il cui impegno nei confronti del passato era forte quanto il suo. Erano gli eredi di un paese che era stato loro sottratto con la forza delle armi e che adesso invece governavano con le proprie, di armi, attraverso le moderne leggi del commercio. Del consiglio, oltre agli occitani, continuavano a far parte i figli dei cavalieri tedeschi amici di suo padre, sconfitti con le armi nella seconda guerra mondiale, anche se alcuni erano riusciti a sopravvivere proprio grazie alla generosità e all'impegno della famiglia D'Amis. Alcuni avevano cambiato cognome e nazionalità, altri erano riusciti a passare inosservati nel loro paese. Ma come accadeva all'epoca di suo padre, tutti erano uniti dalla stessa fede, quella di sapersi uomini superiori e pertanto diversi. Continuavano a cercare, è vero, perché tutti loro sapevano che il tesoro dei catari esisteva e non venivano meno all'impegno di trovarlo. La sua era più di una fondazione, come a suo tempo era stata più di un'associazione quella creata da suo padre. Era un "ordine", un ordine di cavalieri impegnati nella ricerca del segreto dei catari. E tutti erano soddisfatti nel vedere che ogni anno arrivavano giovani da ogni parte del mondo, sedotti dall'eco della vecchia eresia. Il paese cataro era sopravvissuto ai suoi distruttori e la sua vecchia fede era ancora annidata nel cuore delle persone. Il maggiordomo bussò delicatamente alla porta prima di entrare. «Signore, i suoi ospiti sono già arrivati.» Quel giorno si teneva un consiglio importante, un consiglio al quale non partecipavano tutti i membri della fondazione, ma solo quelli dell'Ordine Cataro, la fratellanza fondata da suo padre. Un ordine segreto, formato da cinque uomini con i quali divideva un sogno: la vendetta. Raymond si diresse verso il salone dove lo attendevano i membri della fratellanza. Il saluto consistette in un lieve cenno del capo, poi li invitò a prendere posto. «Signori, ho buone notizie: il nostro piano sta avanzando. Non posso ancora darvi una data precisa, ma prima di un mese avremo la nostra vendetta.» Bilbao Quello stesso giorno e a quella stessa ora, lontano da lì, Ignacio Aguirre passeggiava senza meta pensando alla conversazione che aveva appena
avuto con Ovidio Sagardía, il suo discepolo prediletto. Il vento soffiava con forza portando con sé un odore lontano di mare. L'anziano sacerdote disse a se stesso che non aveva più la pazienza di un tempo nell'affrontare i problemi dei giovani sacerdoti. Adesso che si era ritirato nella sua città natale, Bilbao, aveva contatti telefonici unicamente con il Vaticano, e solo quando qualche cardinale o vescovo aveva bisogno di informazioni a proposito di avvenimenti del passato al quale aveva preso parte. Aveva fatto molta strada da quando, quasi per caso, era arrivato come sacerdote meritorio alla Segreteria di Stato e da lì era passato al terzo piano, dove si seguiva minuto per minuto quanto accadeva nel mondo, analizzando le informazioni che, depurate e riassunte in sintetici rapporti, successivamente inviava alla cupola del potere della Chiesa, vale a dire agli uffici dei cardinali e del papa stesso. In realtà la sua carriera, se così si poteva chiamare, si doveva a quel viaggio in Francia di molti anni addietro come segretario di padre Grillo, l'uomo che lo aveva aiutato a diventare, passo dopo passo, quello che era arrivato a essere. Ricordava nitidamente tutto ciò che aveva vissuto in quei giorni, il viaggio al castello del conte D'Amis; il suo breve ma profondo rapporto con il professor Ferdinand Arnaud; la sua preoccupazione, riflesso di quella dei suoi superiori, per ciò che pareva essere una rinascita catara; la cronaca di frate Julián e quelle carte che gli aveva lasciato in eredità il professore, convinto che un giorno avrebbero potuto aiutarlo. Durante quel viaggio aveva cominciato a cimentarsi con ciò che in seguito sarebbe stato il resto della sua vita ecclesiastica. Aveva vissuto con intensità, sentendosi un privilegiato per la possibilità di servire Dio dove i suoi superiori ritenevano ce ne fosse più bisogno; per questo si sentiva irritato con Ovidio Sagardía, anche lui un gesuita, che aveva aiutato a sistemarsi nel complesso mondo vaticano perché credeva in lui, nella sua fede, nella sua intelligenza speculativa, nella sua capacità di lavoro, nelle sue doti diplomatiche, nella sua solidità sacerdotale, e che all'improvviso... sì, all'improvviso aveva ceduto: era disposto a rinunciare a tutto perché voleva diventare parroco in un paesino qualsiasi. Avevano avuto diverse dispute telefoniche, ma alla fine l'angoscia di Ovidio era tanta che Ignacio aveva accettato di aiutarlo. L'accordo al quale erano arrivati consisteva nell'accoglierlo per un periodo nella casa di Bilbao, per poi decidere, una volta che il sacerdote avesse ritrovato se stesso,
dove potesse servire meglio la Chiesa, perché di questo si trattava: di servire Dio e gli altri. Sì, a questo Ignacio aveva dedicato la sua vita. In realtà, la sua carriera sacerdotale l'aveva determinata il professor Arnaud quando gli aveva raccomandato di evitare lo spargimento di sangue innocente. La vita di Arnaud era stata segnata a sua volta da quella cronaca di frate Julián che aveva finito per diventare un'ossessione. Ma il frate domenicano invocava la vendetta per il sangue degli innocenti, mentre il professor Arnaud lo aveva messo davanti a una sfida differente: evitare spargimenti di sangue. Poco prima di parlare con Ovidio aveva sentito il segretario di Stato e questi gli aveva detto che, malgrado la decisione del sacerdote di abbandonare a breve il suo lavoro, lo aveva convocato per una riunione per discutere dell'attentato di Francoforte. In Vaticano erano preoccupati per questo attentato rivendicato dal Circolo, la rete di fanatici islamici che con i loro attentati stavano riuscendo a tenere in scacco tutti i servizi di intelligence dell'Occidente. «Come evitare che si continui a spargere sangue innocente?» aveva chiesto il cardinale a Ignacio Aguirre, senza che questi sapesse dargli una risposta. 3 Città del Vaticano Ovidio Sagardía non prestava attenzione a ciò che quell'uomo gli diceva. In realtà, si lamentava del suo destino domandandosi: "Sono davvero una spia? In che altro modo potrebbe chiamarsi quello che faccio? Lo so, eppure mi fa male essere trattato come tale. Mi chiedo come ho fatto ad arrivare fin qui, in quale momento la mia vita si è complicata?". «Qualche obiezione?» «Mi scusi, eminenza, stavo pensando a ciò che questi signori hanno appena raccontato» rispose il sacerdote in modo meccanico. La voce rotonda del cardinale lo aveva riportato alla realtà. Faceva caldo in quella stanza, o forse era lo scoramento dentro di lui. Gli pesavano gli sguardi del cardinale e dei due uomini che lo accompagnavano. Anche loro erano spie, solo che lui serviva l'Onnipotente e loro i rispettivi governi. «Bene, padre, abbia la bontà di dirci cosa ne pensa» lo incoraggiò il cardinale. «Avrei bisogno di più informazioni. In realtà, quello che ci avete raccon-
tato può essere tutto o niente. L'unica cosa della quale sembrate sicuri è che l'attentato sia stato commesso dal Circolo.» «Non abbiamo ulteriori informazioni» assicurò in tono stanco l'uomo dai capelli argentei. «Magari riuscissimo a trovarne! Per questo le abbiamo chiesto aiuto. Comunque, in effetti, il Circolo ha rivendicato la mattanza in quel cinema di Francoforte.» Il cardinale non rispose e anche lui decise di tacere. Sapeva cosa pensava il suo superiore: che non avevano alcun debito nei confronti di quelle persone. Lo vedeva in imbarazzo davanti a quei due uomini che aveva dovuto ricevere vista l'assenza del direttore del dipartimento di Analisi della politica estera, il vescovo Pelizzoli. Ma c'erano state pressioni dall'alto sulla Segreteria di Stato riguardo all'urgenza della situazione e il cardinale aveva acconsentito a riceverli. «È un rompicapo» affermò l'uomo più giovane come se parlasse tra sé e sé. Per qualche secondo Ovidio li osservò, tentando di calibrare che tipo di uomini e di spie fossero. Il più anziano, quello con i capelli argentei, rispondeva al nome di Lorenzo Panetta. Si mostrava sicuro di sé, per nulla impressionato dalla magnificenza di quell'ufficio il cui soffitto era stato dipinto da Raffaello. Era un alto responsabile della sicurezza dello Stato, un'ex spia salita nella scala gerarchica fino a diventare un politico. Il più giovane, invece, non poteva avere più di trentacinque anni, nonostante l'aspetto militare pareva oppresso non solo dal luogo, ma anche dai fatti che lo avevano portato fin dentro a quell'ufficio del Vaticano. Lo avevano presentato come Matthew Lucas, veniva dagli Stati Uniti e rappresentava l'elemento di collegamento tra un'agenzia di spionaggio del suo paese e l'organismo che coordinava la lotta contro il terrorismo nell'Unione Europea. Ovidio decise di uscire dal letargo nel quale era caduto e tornare a essere quello che gli altri si aspettavano fosse. Alzò le spalle e fissò lo sguardo sulle carte che gli avevano consegnato, leggendole, stavolta sì, con molta attenzione. «Quando avete detto che sono venuti fuori questi documenti?» chiese senza rivolgersi a nessuno dei due uomini in particolare. «Sono parte dei resti trovati nell'appartamento in cui si sono suicidati gli uomini del Circolo» rispose quello con i capelli argentei. «In realtà non sono documenti, ma frammenti dai quali il laboratorio è riuscito a ricostruire alcune frasi. È accaduto quattro giorni fa.»
«E perché vi hanno allarmato tanto?» I due uomini si guardarono prima che il più anziano rispondesse. «Non c'è molto da aggiungere a quello che vi abbiamo raccontato. La Brigata antiterrorismo dell'Interpol da mesi seguiva Milan Karakoz. Traffica armi ma anche informazioni. È uno dei trafficanti che rifornisce di armi il Circolo. Gestisce anche un gruppo di killer. Una perla.» «E non credete che la vostra "perla" dovrebbe avere esperienza sufficiente per commettere simili errori ed evitare che il suo nome finisca in uno scritto in mano ai terroristi?» «Sicuramente Karakoz non sa che il suo nome è comparso su un pezzetto di carta tra i resti di un appartamento di Francoforte» affermò l'uomo dai capelli argentei. «Come può vedere nel rapporto» si inserì Matthew Lucas «un gruppo di terroristi islamici stava per essere arrestato dalla polizia tedesca; riteniamo siano gli stessi che due giorni prima avevano fatto saltare in aria un cinema nel centro di Francoforte dove erano morte più di trenta persone, tra le quali cinque bambini. E lei sa come reagisce questa gente: preferisce morire piuttosto che finire in galera. Si sono fatti esplodere quando la polizia ha intimato loro di uscire dall'appartamento dove si erano rifugiati. Prima però hanno bruciato un buon numero di documenti, dei quali sono rimasti solo minuscoli pezzetti che sono stati esaminati in laboratorio. È stato possibile recuperare qualche parola da quei foglietti: "Karakoz", con il quale presumiamo abbiano contatti, sicuramente forniva loro le armi. Gli altri nomi erano "Sepolcro", "croce di Roma", "Venerdì", "Saint-Pons", che non sappiamo se sia il nome di una località o di una persona, "Lotario", e il frammento di una pagina di un libro che non abbiamo idea a cosa si riferisca: "Il nostro cielo è aperto solo a coloro che non sono creature...". Il resto del testo è bruciato, eccetto un altro frammento: "sangue". Non sappiamo come continua.» «Ha dimenticato l'ultima parola: "santo"» aggiunse Lorenzo Panetta. «Comunque la trova nel rapporto; c'è anche un frammento di carta nel quale c'è scritto "scorrerà il sangue nel cuore del santo..." e poi di nuovo la parola "croce".» «Sì, tutto questo lo avete già spiegato ed è qui nel rapporto, ma non capisco cosa c'entri il Vaticano con tutto questo. Mi dispiace.» Ovidio vide lo sguardo del cardinale puntato su di lui e capì che, appena i due uomini fossero andati via, lo avrebbe rimproverato. In effetti ne aveva tutte le ragioni. Non provava il minimo interesse per quello che stavano
raccontando, e l'unica cosa che desiderava era chiedere che affidassero il lavoro a qualcun altro, che non contassero su di lui. «Padre Ovidio, questi signori non sarebbero qui se non ritenessero che tutto questo fosse importante. A mio avviso lo è. È nostro dovere aiutare i nostri amici a risolvere questo enigma. Ed è ciò che faremo.» L'intervento del cardinale non lasciava adito a dubbi e il sacerdote chinò la testa sentendosi sconfitto. «Il lavoro dovrà essere congiunto» suggerì Matthew Lucas. «Lo sarà, signor Lucas» affermò il cardinale. «Il Vaticano collaborerà con il Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea, non potrebbe essere altrimenti. Padre Sagardía si metterà in contatto con voi appena sarà riuscito a esaminare tutte le informazioni che ci avete consegnato. Vi assicuro che prenderemo molto sul serio questa faccenda.» I due uomini si guardarono, coscienti che il cardinale aveva dato per conclusa l'udienza. La porta dell'ufficio si aprì ed entrò un sacerdote. «Il mio segretario vi accompagnerà.» Il commiato fu breve e i due uomini lasciarono l'ufficio preoccupati per l'apatia mostrata da padre Ovidio. Quando la porta si chiuse esplose la tempesta. «E allora? Si può sapere che succede?» chiese il cardinale senza nascondere la sua contrarietà. «Mi perdoni, eminenza, ma credo che niente di quello che ci hanno raccontato sia motivo di allarme.» «Quindi lei crede che Panetta, il maggior esperto nella lotta antiterrorismo che abbiamo in Italia, uno che lavora gomito a gomito con altre agenzie di paesi alleati del Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea, e con la Nato, sia venuto qui a spaventarci come se fossimo bambini dell'asilo. E pensa che il signor Lucas, specialista in movimenti terroristi islamici, che appartiene all'Agenzia antiterrorismo e di sicurezza americana, sia uno che semina allarmismo? Per favore, Ovidio! Cosa le succede?» Ovidio Sagardía fu tentato di chinare nuovamente il capo e non rispondere alla domanda diretta del cardinale. Ma sapeva che questi non si sarebbe accontentato e che avrebbe insistito fino a sentirsi dire la verità. «Eminenza, lei sa bene cosa mi succede: voglio abbandonare tutto questo, ho bisogno di ritrovare me stesso, ma soprattutto, di ritrovare Dio.» I due uomini restarono in silenzio guardandosi fisso negli occhi, leggendo ognuno nello sguardo dell'altro.
«Lei sa che tra qualche giorno me ne andrò, che sono riuscito a farmi assegnare a una parrocchia. È quello che voglio, essere un parroco di quartiere, aiutare la gente, sentirmi utile, vivere in accordo con il Vangelo...» Tacque davanti al gesto del cardinale. Si sentiva perduto perché sapeva che niente di quello che poteva dire avrebbe scalfito la determinazione ferrea di quel principe della Chiesa. «Mi dispiace, Ovidio, ma la sua parrocchia dovrà attendere almeno fino al ritorno di monsignor Pelizzoli. Prima di chiamarla, mi sono consultato con lui e ritiene che lei sia la persona adatta per farsi carico di questo lavoro. Si fida di lei più di quanto lei si fidi di se stesso. È un sacerdote, un gesuita, un soldato di Dio ed è dedito alla Chiesa. L'obbligo di un sacerdote è servire dove la Chiesa gli chiede di farlo; non si tratta di ciò che vogliamo ma di ciò che dobbiamo, del nostro dovere. Lei ha un talento straordinario per l'analisi, e anche per indagare, per fondersi con il paesaggio. Sono doni che Dio le ha dato e che non le appartengono. Finora li ha messi al servizio della Chiesa: non abbandoni, Ovidio. Non lo faccia proprio adesso.» «Io voglio solo essere un sacerdote.» «Lo è, lei è un sacerdote in prima linea, sul campo di battaglia. Un gesuita che sa di non poter fare quello che vuole ma quello che deve, e che adesso vuole fuggire.» «Lei sa che io non fuggo!» gridò il sacerdote. «Ha una crisi! Lo so!» rispose gridando a sua volta il cardinale. «Crede di essere l'unico sacerdote che ha una crisi e si chiede cosa sta facendo della sua vita?» «Io non metto in discussione il sacerdozio, ma ciò che faccio, ciò che ho fatto fino a questo momento. Non credo di aver vissuto come disse Nostro Signore Gesù Cristo.» Il cardinale capì di aver perso e che se in quell'istante avesse tentato di piegare l'uomo, avrebbe perduto per sempre il sacerdote. «Va bene, chi potrebbe occuparsi di questo caso?» «Forse Domenico. Tra l'altro è un esperto di Islam e, se tutto questo ha a che vedere con un gruppo islamico, lui è il più adatto.» «Dirò al Santo Padre che lei se ne va; sicuramente vorrà vederla, lei sa quanto l'apprezza.» «Grazie.» «Grazie? Non mi ringrazi, non mi ha lasciato altra scelta.» «Perché crede che il prete si sia mostrato così reticente? Ci ha trattato
come se fossimo dei pazzi che si erano presentati in Vaticano a raccontare una storia di Ufo.» «Sì, è stato davvero sgradevole» rispose Lorenzo Panetta. «Ma credo che dovrà fare quel che gli verrà ordinato.» «Certo che il Vaticano è impressionante» disse Matthew Lucas. «Non avrei mai immaginato di poterlo vedere dall'interno, e mi riferisco a qualcosa di più della basilica e dei musei. Anche il cardinale mi ha impressionato.» «È un personaggio importante nella nomenclatura della Curia; anche se non si occupa direttamente dell'intelligence vaticana, si può dire che ogni informazione passa dal suo ufficio.» «Intelligence vaticana?» «Comandante, ma in che scuola si è formato? Non sa che il Vaticano vanta uno dei migliori servizi di informazione del mondo? Nessuno sfugge alle sue orecchie, ma sono estremamente gelosi delle informazioni che ottengono. Se decidono di aiutarci, le cose per noi saranno molto più facili.» «Lei si è impegnato molto per far sì che ci aiutino. Perché? Solo perché su un pezzo di carta c'è scritto "Santo" e sull'altro "croce di Roma"?» «Quello sarebbe già un motivo sufficiente, ma in realtà ho l'impressione che ci sia molto più di ciò che siamo capaci di immaginare e di vedere, e che abbiamo bisogno dell'aiuto di quei preti.» «Lei è l'unico a crederlo. A Bruxelles non tutti erano d'accordo sulla necessità di coinvolgere il Vaticano in questa storia.» «Vuole che le dica una cosa? C'è una differenza enorme tra i politici e gli analisti che non sono mai usciti dal loro ufficio e quelli come me che come scuola hanno avuto la strada.» «Scuola?» «Mi sono fatto per strada, correndo dietro ai delinquenti. Le assicuro che so bene quando un caso nasconde molto più di quello che si vede.» «Ma ormai da molto tempo lei è un alto funzionario.» «Sì, ma guardi le mie mani e guardi le sue.» «Perché?» «Le sue sono quelle di un impiegato, le mie... va bene, non importa. Ho un'intuizione, ma in ogni caso non abbiamo niente da perdere nel farci aiutare dai cervelli del Vaticano.» «Personalmente mi fido più dell'aiuto che potrebbero offrirci dei veri esperti. Arriverà in tempo per la riunione?» «Domani pomeriggio sarò a Bruxelles per partecipare a quella maledetta
riunione. Spero che la polizia tedesca ci mandi qualche informazione in più e che i suoi amici della CIA non se la tirino troppo e ci facciano sapere se hanno qualcosa riguardo a quegli stupidi nei loro archivi.» «Riguardo a chi?» «Agli attentatori suicidi, Matthew.» «Io non credo che fossero tanto stupidi, lo prova il fatto che sono riusciti a far saltare un cinema nel centro di Francoforte, con le bombe fornite dall'immancabile Karakoz, che ultimamente appare in tutte le salse.» «I terroristi pagano bene e in contanti, per questo ci troviamo Karakoz sempre tra i piedi. A lui interessa solo il denaro. È un essere ripugnante.» Lorenzo Panetta parcheggiò l'auto all'interno del terminal A dell'aeroporto di Fiumicino. Matthew Lucas scese dall'auto con in mano una valigetta. I due uomini si salutarono con un "ci vediamo domani". Il giorno dopo si sarebbero rivisti alla "riunione di crisi" convocata dal direttore del Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea. Lorenzo Panetta era il vicedirettore del suddetto organismo e uno dei suoi più brillanti analisti. 4 A Mohamed Amir girava la testa. Aveva paura, ma anche fame e sete. Non sapeva se la polizia tedesca gli stava alle calcagna o se lo consideravano morto insieme al resto dei fratelli che si erano immolati con il nome di Allah sulle labbra. I cristiani avrebbero detto che si era salvato per miracolo. In realtà, era stato proprio così. Temendo che la polizia potesse assaltare la casa, suo cugino Yusuf gli aveva chiesto di andare in bagno e bruciare tutte le carte. Stava facendo proprio questo quando aveva sentito la voce di un poliziotto che intimava di uscire con le braccia in alto e Yusuf che gli ordinava di sparire; non ricordava come aveva fatto, ma era riuscito ad aprire la finestra del bagno, era saltato sul davanzale e da lì, scivolando lungo un grosso tubo, era riuscito ad arrivare sul cornicione del piano inferiore. Sapeva che in uno degli appartamenti viveva una coppia che a quell'ora doveva essere al lavoro, anche se in realtà la polizia aveva dato ordine di evacuare lo stabile e probabilmente non avrebbe trovato un'anima in nessuno degli appartamenti. Aveva avuto fortuna: aveva spinto la finestra e questa si era aperta immediatamente. Non era stato difficile scivolare all'interno dell'appartamento, pur temendo che dentro potesse esserci la polizia. Invece non c'era
nessuno, allora aveva cercato un posto dove nascondersi. Un attimo dopo aveva sentito l'esplosione: le urla e il fumo avevano riempito l'edificio. Yusuf e i fratelli avevano preferito immolarsi piuttosto che cadere nelle mani della polizia. Erano dei martiri dei quali la gente del Circolo sarebbe andata orgogliosa. Per un attimo si era sentito confuso e aveva avuto paura, temendo che da un momento all'altro i poliziotti potessero beccarlo, e invece miracolosamente non era accaduto nulla. Sapeva che a metà pomeriggio sarebbero rientrati i proprietari dell'appartamento, ammesso che la polizia non pensasse di avvisare prima tutti i vicini dell'esplosione. Se a quel punto la polizia non se ne fosse ancora andata, lui si sarebbe trovato in pericolo, ma mancavano ancora diverse ore, e doveva solo aspettare in silenzio. Il nascondiglio scelto gli ricordava i giochi dell'infanzia. Si era infilato sotto il letto matrimoniale, e i rumori e le grida dall'esterno gli arrivavano fin là. Come li avevano trovati? Chi li aveva traditi? Di chi poteva fidarsi per uscire dall'appartamento? Sperava che tutte le carte fossero bruciate e che quindi fossero state cancellate tutte le piste che portavano ad altri fratelli, soprattutto a quelli che contribuivano alla loro sacra causa, Allah li protegga! Suo cugino Yusuf era il capo della cellula e in quel momento di certo sedeva già vicino ad Allah godendosi il Paradiso. Sorrise immaginando Yusuf attorniato dalle belle uri. Era morto da martire e i suoi genitori sarebbero stati orgogliosi di lui. Sarebbe andato a trovarli appena possibile, se fosse uscito vivo da quell'appartamento. Le ore si facevano interminabili, ma non osava muoversi da sotto il letto. Lì, giungevano attenuati il rumore delle sirene, le grida, gli ordini... Erano le sei quando sentì il rumore delle porta. Uscì da sotto il letto strisciando. Sentì la voce della signora Heinke, che sembrava parlare al cellulare. Stava raccontando a qualcuno l'accaduto, anche se diceva che per fortuna avevano già portato via i resti dei corpi dei terroristi dall'appartamento al piano di sopra e che in quel momento nel palazzo sembrava essere tornata la calma. Si lamentava perché nessuno l'aveva avvertita per tempo dell'accaduto, avrebbe potuto restare senza casa, e raccontava con ogni genere di dettagli che a quell'ora i vicini stavano rientrando e giù in strada c'erano due auto della polizia che montavano la guardia. Suo marito, spiegava all'interlocutore, era in viaggio e non sarebbe rientrato fino al pomeriggio del giorno successivo, quindi la presenza della polizia che con-
trollava la zona la faceva stare più tranquilla. Mohamed pensò che aveva avuto fortuna. Non gli sarebbe stato difficile ridurre all'impotenza quella donna, una signora di mezza età, magra e spaventata. Doveva solo trovare il momento opportuno per non darle il tempo di gridare. La signora Heinke si trattenne in sala e poi in cucina; passò parecchio tempo prima che si dirigesse verso la stanza da letto dove, al momento di entrare, una mano forte le tappò la bocca. Cadde a terra priva di sensi per effetto di un colpo alla tempia. Quando riprese i sensi aveva gli occhi bendati e un fazzoletto infilato in bocca per impedirle di emettere il minimo suono. Suo marito la trovò ventiquattr'ore dopo in stato di choc; la polizia non fu in grado di farsi raccontare nulla del suo aggressore. In realtà il signor Heinke aveva incrociato sul portone Mohamed, ma, non avendo prestato attenzione al giovane, neanche lui fu in grado di fornire elementi. La conclusione della polizia fu che uno dei membri del commando era riuscito a scappare e, dopo essersi nascosto in casa degli Heinke, era sceso tranquillamente per strada. L'appartamento dei suicidi era situato in un quartiere popolare, Sachsenhausen, sulla sponda meridionale del fiume Meno. Una zona pittoresca, con le stradine acciottolate e un buon numero di sidrerie. Fuggendo dal luogo dell'esplosione, Mohamed si era incamminato verso il quartiere a luci rosse, al centro di Francoforte, vicino alla stazione ferroviaria, una zona che i cittadini perbene cercavano di evitare, dove era facile rifornirsi delle droghe più moderne. Mohamed si era fermato davanti a un negozio di elettrodomestici, non perché gli interessasse la merce esposta sugli scaffali, ma per vedere nel riflesso dei vetri se qualcuno lo seguiva. Non voleva attirare l'attenzione, ma era esausto. Doveva prendere una decisione, pur sapendo il rischio che avrebbe corso lui e che avrebbe fatto correre anche ad altri fratelli. Non aveva molte alternative: doveva uscire da Francoforte e aveva bisogno di aiuto, quindi avrebbe cercato di seguire alla lettera le raccomandazioni di Yusuf e si sarebbe accertato che nessuno lo seguisse prima di arrivare a casa del cognato di suo cugino. Quando fu sicuro che nessuno gli facesse caso, attraversò la strada, entrò con passo rapido nel portone e salì gli scalini tre alla volta fino al secondo piano. Esitò qualche secondo: non sapeva a quale porta bussare, e alla fine premette il campanello di quella di mezzo.
Tardarono ad aprire, ma Mohamed aveva l'impressione che qualcuno fosse dietro lo spioncino da un po' e lo stesse esaminando. Non capì da dove fosse spuntata, ma all'improvviso sentì la fredda lama di un coltello sui reni. «Cosa vuoi?» L'uomo gli parlava in arabo, e la cosa, malgrado la paura che lo attanagliava, lo fece sentire più tranquillo. «Cerco Hasan» disse a bassa voce senza azzardarsi a fare il minimo movimento, con lo sguardo inchiodato sulla porta che restava chiusa. «Chi sei?» «Mohamed, il cugino di Yusuf. Conosco Hasan, lui ti può dire chi sono.» «Cosa sei venuto a fare?» «Ho bisogno di aiuto.» «Perché?» «Questo lo dirò a lui.» Di colpo la porta si aprì e l'uomo che aveva alle spalle lo spinse dentro. Per qualche secondo Mohamed perse l'orientamento perché intorno a lui tutto era al buio; poi sentì che due mani lo afferravano e lo spingevano di nuovo, con tanta forza da scaraventarlo a terra. «Alzati!» Si sentì sollevato nel riconoscere la voce di Hasan e goffamente si rimise in piedi. Qualcuno accese la luce e vide che si trovava al centro di una sala dove, oltre ad Hasan, lo osservavano sei uomini. Uno di loro teneva un enorme coltello in mano e immaginò che si trattasse di quello che lo aveva interrogato sulla soglia. Mohamed aspettò che Hasan gli parlasse. Aveva un rispetto reverenziale verso quell'uomo, il più saggio che avesse mai conosciuto. Se aveva avuto la possibilità di studiare in una madrasa in Pakistan lo doveva a lui. Lì aveva dato un senso alla sua vita, decidendo di abbandonare per sempre la sua pretesa di diventare un occidentale. Per anni aveva sognato di potersi fondere con Granada, la sua città, ma non c'era riuscito. Lui era diverso. Diverso da quegli stupidi suoi compagni di classe. Era diverso perché i suoi tratti somatici lo tradivano. "Moro" lo chiamavano con disprezzo alcuni spagnoli, altri lo trattavano con deferenza, ma altro non era se non la cortesia con la quale si distingue qualcuno che è diverso. Pensava che gli unici a essere davvero fuori luogo fossero quelli che si burlavano di lui.
Aveva studiato nella scuola pubblica e poi, grazie a due borse di studio, aveva frequentato prima un istituto superiore e poi l'università. Con un'altra borsa di studio Erasmus era andato a finire in Germania, a Francoforte, dove vivevano i suoi zii e suo cugino Yusuf; era stato lui a presentargli Hasan, l'imam che li illuminava e dava loro speranza. Yusuf era sposato con la sorella piccola di Hasan, e da lei aveva avuto due figli. La moglie di Yusuf non era particolarmente bella, né tanto meno giovane, ma a suo cugino poco importava: per lui era un onore imparentarsi con l'imam della loro comunità così chiusa. Fu Hasan che gli insegnò a non provare più disprezzo per se stesso e a riversare quello stesso disprezzo sugli infedeli. Fu sempre lui a fargli aprire gli occhi sul Corano, a tirarlo fuori da una vita senza senso, nella quale l'unica costante erano l'alcol e le donne. Le donne... quelle compagne di studio per le quali il sesso aveva più o meno lo stesso peso di soffiarsi il naso. Quando terminò il suo corso di turismo, andò con Yusuf in Pakistan. Fu lì che si impegnò a far parte di quell'esercito silenzioso che questa volta avrebbe davvero eliminato i cristiani e la loro decadente civiltà. Così decadente da non rendersi conto che loro sfruttavano le risorse di quelle corrotte democrazie per infiltrarsi, in attesa del giorno in cui avrebbero strappato il cuore a tutti quanti loro. «Hai commesso un'imprudenza venendo qui. La polizia tedesca ti cerca, l'Interpol ti cerca; in realtà ti cercano tutte le maledette agenzie di sicurezza d'Europa.» «Yusuf mi aveva detto di venire qui se mi fossi trovato in difficoltà.» «Yusuf!» sussurrò l'imam. «A quest'ora è insieme ad Allah a godersi il Paradiso. Come mai tu non sei con lui?» «Sono riuscito a scappare. Sono saltato da una finestra e mi sono infilato nell'appartamento di sotto. Lì non mi ha cercato nessuno.» «Perché sei ancora vivo?» insistette l'imam. «Yusuf mi aveva ordinato di bruciare i documenti, e stavo facendo proprio questo quando c'è stata l'irruzione della polizia. In quel momento mio cugino e i fratelli martiri hanno azionato l'esplosivo che portavano attaccato al corpo e... sono saltati in aria.» «E tu perché non lo hai fatto?» «Io non ho avuto il tempo di collocare la carica, stavo bruciando i documenti e... insomma, ho agito d'istinto e sono fuggito.» «Sei fuggito» affermò Hasan con durezza «e adesso che cosa vuoi?»
«Che tu mi aiuti a scappare.» «Dove vuoi andare?» «Dove credi che debba andare?» chiese Mohamed con umiltà, chinando la testa. «Dovresti essere in Paradiso, quello sarebbe stato il tuo posto; qui ormai sei diventato un problema.» Mohamed non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo da terra e attese il giudizio dell'imam. Hasan passeggiava da un lato all'altro della stanza mentre Mohamed e gli uomini aspettavano in silenzio la sentenza. «Dal momento che vivi, ti farai carico della moglie di Yusuf; ha due figli e ha bisogno di un uomo che se ne prenda cura. Poi ve ne andrete ad alAndalus. Laggiù vi potrete nascondere. Tuo padre vive ancora lì?» «Sì... i miei genitori sono a Granada e anche i miei fratelli...» «Bene, tornerai dai tuoi insieme a tua moglie e ai tuoi figli.» Sapeva di non poter replicare all'imam, malgrado l'ondata di ripugnanza che sentiva alla bocca dello stomaco. Prendere in sposa la moglie di suo cugino, più che un dovere nei confronti di Yusuf, gli sembrava un castigo divino. Fatima, la sorella di Hasan, era troppo grossa per i gusti di Mohamed e aveva compiuto quarant'anni, mentre lui ne aveva appena trenta... Si sentì depresso, ma immediatamente scacciò quel pensiero che non doveva sfiorare la moglie di un martire. Per lui sarebbe stato un onore prenderla in sposa, proprio come ordinava l'imam. Tra l'altro significava imparentarsi con Hasan, e quello sì che era un privilegio. «Adesso cosa devo fare?» chiese con un certo turbamento. «Te ne andrai a casa di un fratello. Lì sarai al sicuro fino a quando ti avremo preparato i documenti e il modo per uscire da qui per tornare in Spagna. Prima sposerai Fatima. E adesso raccontaci tutti i dettagli dell'accaduto. La vostra azione ha rappresentato un duro colpo per i tedeschi. Sono spaventati, almeno quanto gli americani e gli inglesi. Sanno che non possono più dormire tranquilli, che noi siamo dappertutto. Non ci vedono perché non possono vederci, il sistema non consente loro di farlo.» 5 Padre Domenico osservava con la coda dell'occhio Ovidio Sagardía discutere con monsignor Pelizzoli.
Il vescovo tentava di convincere il sacerdote a rimandare il suo atteso progetto di tornare in Spagna, in una parrocchia di Bilbao, come coadiutore di un altro sacerdote, gesuita anche lui, che stava per andare in pensione. «Cosa credi che significhi "scorrerà il sangue nel cuore del santo..."?» chiese di malumore il vescovo a padre Ovidio. «Non lo so, non ci ho pensato. Mi dispiace, ma non ci sono con la testa» confessò Sagardía. «Però qui tu hai degli obblighi!» affermò con tono severo monsignor Pelizzoli. «Andiamo, Ovidio, ti stai comportando come un bambino! Dov'è finito il sacerdote? Rinvia il tuo viaggio! Siamo preoccupati! Il Santo Padre è inquieto per tutta questa situazione, crede... crede che ci sia qualcosa di oscuro che ci avvolge, una minaccia. Sai bene che la Chiesa vive momenti d'inquietudine, che abbiamo troppi nemici; abbiamo bisogno di restare uniti e, soprattutto, che le nostre migliori teste non se ne vadano, che ci aiutino a pensare e ad affrontare i problemi.» «Non c'è niente di ciò che io posso fare che non possano fare Domenico e il resto della squadra» insistette con ostinazione Sagardía. «Ovidio, non mi piace doverti dire questo ma... Ho parlato con i tuoi superiori, con il preposito della Compagnia di Gesù, e gli ho spiegato che abbiamo bisogno di te e...» «Santo Cielo! Ma che modo è questo? Sono soltanto un sacerdote. Non sono nessuno, nessuno!» «Sei un uomo intelligente, una delle migliori teste che abbiamo. Un analista straordinario, uno che in altre occasioni ha già dimostrato di saper trovare un ago in un pagliaio; adesso siamo di fronte a un pagliaio immenso, non sappiamo neppure da dove cominciare, non troviamo un senso a tutto questo. Non lo troviamo noi, né gli esperti nella lotta antiterrorismo dell'Interpol, né quelli del Centro dell'Unione Europea. Stiamo andando avanti alla cieca, tutti. Ti chiedo solo di pensarci, di analizzare questa informazione.» Stava per dire di no, ma fu interrotto da un colpo secco alla porta, preludio dell'apparizione del segretario del vescovo. Il segretario si avvicinò a monsignor Pelizzoli senza prestare attenzione ai due sacerdoti. Entrambi uscirono dalla stanza senza prendersi la briga di dare spiegazioni ai loro interlocutori. «Non ti capisco, Ovidio» gli disse padre Domenico appena rimasero soli «sembri un bambino viziato, il tuo atteggiamento non si addice a ciò che sei stato.»
«E cosa sono stato, Domenico? Dimmelo tu, cosa sono stato. Dico messa da solo, non ho avuto l'opportunità di essere un pastore, un vero pastore che aiuta i propri simili. Ti sembra davvero così strano che io voglia fare una sosta in questo cammino e abbia voglia di esercitare il ministero al quale mi sono consacrato?» «Hai servito bene la Chiesa, sei stato capace di illuminarci quando brancolavamo nel buio, e hai protetto Sua Santità...» Ovidio lo interruppe con gesto stanco. «Protetto? Dici che ho saputo proteggere il papa? Non mi perdonerò mai il fatto che sia stato sul punto di perdere la vita proprio perché io non ho fatto bene il mio lavoro. Io mi sentivo superiore per il solo fatto di essere stato destinato a coordinare il servizio di sicurezza del Santo Padre e ho peccato di superbia. Non sono riuscito a evitare che Alì Agca attentasse alla sua vita. Ho ancora degli incubi di tanto in tanto, vedo il papa cadere morto davanti a me.» «Il Santo Padre non te lo ha mai rimproverato, ti ha sempre onorato del suo affetto, e in Vaticano tutti continuato ad avere fiducia in te.» «È così» confermò il vescovo Pelizzoli, il quale era entrato di nuovo nella stanza senza che nessuno dei due sacerdoti si fosse accorto della sua presenza. «Ovidio, ti aspettano nella segreteria di Sua Santità. Adesso!» Quando il sacerdote abbandonò la stanza, monsignor Pelizzoli sospirò. Apprezzava sinceramente quel gesuita che aveva conosciuto anni addietro. Padre Aguirre lo aveva raccomandato per farlo lavorare nel riservato dipartimento che la stampa sensazionalista definiva "i servizi segreti de! Vaticano". In realtà, lui e i suoi collaboratori si dedicavano a raccogliere e analizzare informazioni da ogni parte del mondo per aiutare la Segreteria di Stato, e di riflesso il Santo Padre, a prendere decisioni terrene e a comprendere il perché delle molte cose che accadevano ogni giorno fuori dalle mura vaticane. Non facevano nulla di straordinario in quel dipartimento di Analisi, anche se a volte proprio Ovidio scherzava dicendo che appartenevano ai "servizi segreti di Dio". Gli sarebbe piaciuto essere convinto come lo era padre Aguirre che quel dipartimento fosse realmente utile, se non altro perché in alcune occasioni, e senza che arrivasse all'orecchio dell'opinione pubblica, avevano realizzato lavori di mediazione in conflitti che parevano insolubili. Si trattava, secondo il vecchio gesuita, di "cercare di evitare che si versasse sangue innocente".
Il vescovo Pelizzoli era sempre stato colpito dall'importanza che per padre Aguirre rivestiva la cronaca di un tal frate Julián, ma doveva confessare che non gli aveva mai prodotto l'emozione che pareva produrre in lui. "Questa cronaca mi ha cambiato la vita" era solito dire padre Aguirre. Lui non riusciva a comprenderlo appieno, per quanto rispettasse quel vecchio gesuita che aveva dedicato la vita a mediare conflitti. Il vescovo congedò padre Domenico e rimase solo, pensieroso, a leggere ripetutamente quelle frasi incoerenti che si erano salvate dal fuoco. Pensò che nulla è casuale e che se alcuni pezzi di carta si erano salvati dal fuoco era perché così aveva voluto la Divina Provvidenza. Ma perché? I servizi segreti italiani, e soprattutto l'Interpol e il neonato Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea, dedicato quasi esclusivamente al terrorismo islamico, credevano che il Vaticano potesse far luce sulla vicenda, proprio per via di alcune delle parole risparmiate dal fuoco. Ma dov'era il filo conduttore? Da due giorni tentavano di svelare il mistero e non vedevano la luce; sapevano che c'era bisogno della mente speculativa di Ovidio, dell'immaginazione traboccante di quel gesuita capace di creare elucubrazioni insolite che poi, generalmente, risultavano indovinate. C'era solo bisogno di attendere che il sacerdote tornasse dalle stanze private del Santo Padre; non gli venne in mente nulla di meglio che pregare chiedendo a Dio di avere la meglio sulla testardaggine del gesuita basco. «Non è poi così difficile.» Tutti gli sguardi si fissarono sulla donna che aveva appena pronunciato quella frase rotonda. «Non è tanto difficile?» chiese tra l'irritato e il curioso Lorenzo Panetta, vicedirettore del Centro di coordinamento antiterrorismo. «Be', non voglio dire che sia facile, ma non mi pare impossibile. Quantomeno abbiamo una pista. Lasciatemi qualche secondo per vedere se sono nel giusto...» Matthew Lucas nascose un sorriso. Da una settimana stavano lì a spremersi le meningi una dozzina tra i migliori analisti europei e americani e di colpo Mireille Béziers, una delle ultime arrivate, "la raccomandata", nipote di un generale francese che faceva parte del quartier generale della Nato, assicurava che l'enigma di quelle parole sparse ritrovate tra i fogli bruciati non era poi così difficile. Neppure in Vaticano padre Domenico era arrivato a una conclusione, e non sarebbe stata certo quella ragazza a dargli una lezione.
Mireille Béziers lavorava da tre anni nel centro, ruotando in diverse sezioni, e da due giorni era stata assegnata al dipartimento di Analisi. A quanto pare, la ragazza aveva fatto le sue belle pressioni affinché la lasciassero entrare nel sancta sanctorum del centro ed era riuscita nel suo intento. Avrà avuto una trentina d'anni e un buon curriculum accademico. Era laureata in storia e parlava perfettamente l'arabo, ragione per la quale il suo importante zio era riuscito a imbucarla nel centro. Suo padre era un diplomatico, e la ragazza aveva vissuto i suoi primi anni di vita in Siria; da lì era passata in Libano, Israele, Yemen, Tunisia... Fino a quando era tornata in Francia per portare avanti i suoi studi universitari. Suo zio diceva che lei non solo parlava arabo alla perfezione, ma conosceva talmente bene quel mondo che "pensava" in arabo. Il capo, Hans Wein, e il vicedirettore Lorenzo Panetta l'avevano accettata a denti stretti. Non avevano bisogno di altri analisti, dicevano, e ancor meno di una trentenne senza esperienza. La loro resistenza fu inutile; alla fine l'avevano trasferita dalla sua ultima destinazione, l'archivio, al dipartimento di Analisi, ed era ancora lì. «E allora?» insistette Lorenzo Panetta. «Ha trovato la pietra filosofale?» Tutti si scambiarono sorrisi complici per l'ironia del vicedirettore, ma Mireille non parve rendersene conto. Guardava con serietà la trascrizione delle parole ritrovate a Francoforte: "Karakoz", "Sepolcro", "croce di Roma", "Venerdì", "Saint-Pons"... «Saint-Pons potrebbe essere... Saint-Pons-de-Thomières?» azzardò la giovane. «Cosa glielo fa pensare?» volle sapere Lorenzo Panetta. «Se si va su internet e si fa una ricerca, quasi tutti i riferimenti sono a Saint-Pons-de-Thomières. Magari è una sciocchezza, però ci sono nomi che presi da soli non dicono niente, ma messi in relazione tra loro... Non so, magari visto che io sono nata a Montpellier....» «Sa, signorina Béziers, non è facile capirla.» La voce di ghiaccio di Hans Wein fece tacere i mormorii di tutto il personale del dipartimento. Wein era un buon capo, ma rigoroso e metodico, che nessuno aveva mai visto ridere. Non era un uomo che dimostrava di avere pregiudizi, la prova stava nel fatto che era arrivato a integrare nel dipartimento un gruppo eterodosso di collaboratori provenienti da buona parte dei paesi dell'Unione Europea e con specialità diverse; tra loro c'erano avvocati, informatici, sto-
rici, sociologi, antropologi, matematici eccetera. Lui cercava i migliori per il dipartimento di Analisi e, questo sì, non si fidava delle intuizioni e delle sensazioni: esigeva che chi lavorava con lui pensasse e agisse con logica. «Insomma, voglio dire che ci sono molte probabilità che Saint-Pons sia questa località del sud-est francese, un luogo molto bello peraltro. Con Lotario invece la questione è più complicata. C'è un personaggio del Don Chisciotte... un certo Lotario pretendente di una giovane, Camilla. Abbiamo anche altri Lotario, erano tutti re del Sacro Romano Impero intorno all'anno 800. I Lotari combatterono altri re della loro epoca. Si disputarono l'eredità carolingia...» «Davvero impressionante!» la interruppe Matthew Lucas con ironia. Ma Mireille fece finta di niente e continuò a parlare con entusiasmo. «Un altro Lotario importante fu Lotario di Segni, più conosciuto come papa Innocenzo III. Poi... c'è un'opera di Händel che si chiama così, Lotario, che i musicologi definiscono come la più strana tra le molte composizioni di questo musicista geniale.» Scese un silenzio denso. Hans Wein piantò i suoi occhi azzurri d'acciaio negli occhi di Mireille fino a farla arrossire. Lorenzo Panetta si schiarì la voce nervosamente e la maggior parte dei membri della squadra parvero impegnatissimi con i rispettivi computer e non sollevarono mai lo sguardo. Tutti meno Matthew Lucas che si alzò in piedi e applaudì. «Brava! Molto fantasiosa! Ma lei se lo ricorda che stiamo indagando su un gruppo islamico? Gli uomini che si sono suicidati a Francoforte lo hanno fatto al grido di "Allah è grande"!» «Lo so...» si difese lei «ma questi nomi...» «Mireille, di solito queste cose sono più complicate.» Laura White, la donna che aveva appena parlato, era l'assistente di Hans Wein. Il direttore del centro non faceva un passo senza di lei e, pur essendo poco avvezzo agli elogi, non nascondeva di essere felice nel poterla annoverare nella sua squadra. «Lei non ha fatto altro che una ricerca su internet» affermò con tono risentito Matthew Lucas «e ci sta leggendo quello che ha trovato in rete come se fosse una scoperta. Cosa crede che stessimo facendo prima che arrivasse lei?» «Sì, certo ma... era un modo per cominciare» si difese Mireille. Hans Wein si voltò e si diresse verso il suo ufficio. Aveva l'irritazione dipinta in volto, preambolo della tempesta che si avvicinava per il dipartimento.
Lorenzo Panetta e Laura White lo seguirono in ufficio. Lorenzo pensava che era stato un errore coinvolgere Mireille nel caso di Francoforte; avrebbero dovuto assegnarle un altro incarico. E purtroppo l'errore apparteneva a lui, perché era stato proprio lui a dirle di unirsi al gruppo che si occupava degli attentatori suicidi di Francoforte. Una volta all'interno dell'ufficio, Hans Wein fu libero di sfogarsi. «Quella è una cretina! Voglio che se ne vada immediatamente! Subito. Immediatamente! Chiama l'ufficio del personale e falla mandare in qualsiasi altro ufficio. Se necessario parlerò con il commissario degli Affari Interni dell'Unione, con il presidente della Commissione Europea, con chiunque possa essermi utile! Perdio! La mettano a lavorare dovunque, ma non nel mio dipartimento.» «Sì, dobbiamo fare qualcosa, la ragazza è ancora molto acerba per poter lavorare qui, anche se è con noi già da parecchio tempo e quantomeno si tratta di una persona fidata» disse Lorenzo. «Anche mia moglie è una persona fidata eppure non lavora qui!» gridò Hans. «Andiamo, calmati! Gridando non otterremo niente. Parlerò con l'ufficio del personale, ma prima dobbiamo consigliare a lei di chiedere il trasferimento. Non possiamo provocare una crisi per colpa di quella ragazza. Lo sai come sono i politici: si devono favori tra di loro, e quello che l'ha piazzata qui nel centro probabilmente deve un favore a qualcuno della Nato, della Commissione Europea o vai a sapere di chi. D'altra parte, è vero che la chiamano "la raccomandata", ma è vero pure che in questa istituzione la maggior parte della gente è entrata grazie a un qualche tipo di spinta, e la ragazza ha un buon curriculum. Non ha lavorato male dove è stata.» «Non fare l'avvocato del diavolo» gli ribatté il suo capo. «Non credo ci si debba preoccupare più del necessario» intervenne Laura «è evidente che Mireille è priva di esperienza, e forse un po' ingenua, ma non è stupida. Ma se non vi piace, la cosa migliore è sollecitarne il trasferimento.» Incurante dei cartelli VIETATO FUMARE presenti in tutto il palazzo, Hans si accese una sigaretta. Doveva fumare, altrimenti sarebbe andato a licenziare personalmente la Béziers. Lorenzo ne approfittò per accendersi a sua volta una sigaretta. Ne aveva bisogno anche lui, e si lamentò di dover fumare di nascosto in quel palazzo, come faceva almeno la metà delle persone che lavoravano lì dentro. Fumare ormai era diventato quasi un reato; tutto per preservare la salute,
anche se la sua opinione era che la moda del politicamente corretto si stesse trasformando in una dittatura. Le diatribe con Mireille, come pure quelle sigarette fumate clandestinamente nell'ufficio del capo, erano una valvola di sfogo; entrambi sapevano bene che sarebbe stato difficile togliersi quella ragazza di torno. Laura aprì una finestra per disperdere il fumo tra la foschia del mattino. Anche lei fumava, ma meno del suo capo. «Indaghi con discrezione per vedere quali sono i posti liberi dove potremmo sistemare la signorina Béziers» le chiese Hans. «Sarà fatto» rispose lei uscendo dall'ufficio. «Laura è una persona di grande valore» disse Lorenzo. «Sì, è una fortuna lavorare con lei. Oltretutto non è ambiziosa e ama questo lavoro» rispose Hans. «Perché dici che non è ambiziosa?» «Perché una laureata in scienze politiche che parla quattro lingue potrebbe scegliersi un altro posto qualsiasi che non sia quello di mia assistente, e se me lo chiedesse, moralmente mi vedrei obbligato ad appoggiarla.» «Sì, hai ragione, è una fortuna poter contare su Laura.» 6 Il pilota annunciò che nel giro di dieci minuti sarebbero atterrati all'aeroporto di Sondica. Ovidio sistemò accuratamente nella borsa i documenti che lo avevano tenuto assorto durante il volo verso Bilbao. Il segretario del papa gli aveva chiesto di dare una mano a risolvere il mistero che pareva annidarsi in quelle frasi scampate al fuoco di Francoforte. Non importava da dove lavorasse; per pensare non c'era bisogno di stare in Vaticano. Gli chiedeva solo di pensare, di dedicare una parte del tempo a districare il senso di quei fogli di carta bruciacchiati. Nulla gli impediva di farlo dalla sua nuova destinazione, da quella parrocchia in un quartiere nuovo che si era sviluppato vicino a Bilbao. Lì lo attendeva padre Aguirre, di gran lunga la persona più importante della sua vita, l'uomo che aveva scoperto in lui la vocazione sacerdotale e lo aveva aiutato a essere qualcuno, a fare carriera in Vaticano. Chiuse gli occhi per tentare di ricordare meglio i tratti di quel sacerdote ormai anziano che un giorno, come stava facendo lui adesso, aveva lasciato il Vaticano per tornare nella propria terra a predicare tra la sua gente. Lui era diventato gesuita per merito di padre Aguirre, era andato a Roma
per stare vicino a colui che considerava il suo padre spirituale e si era messo nelle sue mani permettendogli di dirigere la sua vita sacerdotale, indirizzandola prima verso la diplomazia vaticana e poi... poi verso quel terzo piano del Vaticano, dove erano sistemati uffici sui quali la stampa era solita fantasticare. In realtà si dedicavano all'analisi di quanto succedeva nel mondo, e coordinavano la sicurezza del papa e della Chiesa. Padre Aguirre ormai aveva compiuto ottantaquattro anni, anche se ne mostrava qualcuno in meno. Alto, magro, dritto malgrado i reumatismi che gli provocavano un dolore permanente alla schiena, con gli occhi azzurri e i capelli nivei, l'anziano gesuita aspettava impaziente il suo discepolo. I due uomini si abbracciarono con emozione. Il maestro e l'allievo si rivedevano nella loro terra, tanti anni dopo, e avevano molto da raccontarsi. Ignacio aveva sempre temuto che Ovidio avrebbe finito per prendere quella decisione, ma non pensava così presto; era il momento in cui aveva preso la decisione che intrigava e allo stesso tempo preoccupava quel vecchio gesuita avvezzo alle anime tormentate. «Andiamo, ti accompagno a casa. Vogliamo che ti senta a tuo agio, qui viviamo modestamente, ma spero ti piaccia la stanza che ti abbiamo preparato. Mikel ha una gran voglia di conoscerti. È un buon sacerdote, ma è uno dei pochi gesuiti che non ha avuto la voglia di andarsene altrove; crede che ci sia ancora molto da fare qui. Ha lavorato alla Naval fino a quando hanno chiuso i cantieri e adesso insegna religione in una scuola. E ha l'artrosi anche lui, proprio come me.» «Mi troverò bene, ne sono sicuro. E poi... insomma, voglio ringraziarla per l'accoglienza, per avermi aiutato ad avere il permesso di venire. So che non è stato facile.» «Il Santo Padre ti stima e lui è innanzitutto un pastore che vuole il meglio per i suoi; non credere che mi sia costato tanto far capire loro che dovevano lasciarti venire, anche se sai che non sono d'accordo con la tua decisione. Ricordati però che hai preso l'impegno di finire un lavoro e devi farlo.» «Lo farò. È una storia molto strana, e fa venire in mente... insomma, a dire il vero non avevo letto le carte fino a quando non sono salito sull'aereo che mi portava qui. Né il giorno in cui me le avevano consegnate, né durante le conversazioni con i miei superiori mi ero accorto di quanto fossero strani quei documenti. Spero lei possa aiutarmi...» «Io non devo vederle. È un segreto vaticano, e tu sei vincolato al silenzio.»
«Andiamo! Anche lei ha i miei stessi vincoli. Fa parte della famiglia...» «Ne facevo parte, anche se ci sono luoghi dai quali uno non se ne va mai del tutto.» Attraversarono Bilbao fino ad arrivare al quartiere Begoña, dove i gruppi di palazzi nuovi sorgevano uno vicino all'altro con una certa armonia. Ovidio pensò che i quartieri operai non erano più quei posti tristi della sua infanzia e ne fu contento. Lui era nato vicino al fiume, in un palazzo dove tutte le famiglie erano povere come la sua. Nella sua memoria predominava il grigio: il grigio della facciata della casa, il grigio plumbeo del cielo di Bilbao, il grigio del grembiule di sua madre, delle gonne delle sue sorelle, del ferro della fabbrica. Il mondo della sua infanzia era privo di colore, o forse tutti i colori che riusciva a ricordare impallidivano davanti all'esplosione cromatica che era l'Italia intera, e più ancora il Vaticano, dove i grandi maestri avevano dipinto ogni angolo guadagnandosi l'immortalità. Si rese conto che lì tutto gli pareva piccolo, perfino le montagne che spuntavano dietro i blocchi di cemento. "Piccolo e per giunta insipido" pensò, ma se ne pentì immediatamente. E non perché quella fosse la città nella quale era nato, ma perché se avesse cominciato subito a pensare che quello che lo circondava non aveva mistero, avrebbe tradito coloro che avevano fiducia in lui e anche se stesso. Aveva bisogno di ritrovare l'umiltà perduta durante quegli anni passati a girare il mondo per vegliare sulla sicurezza del Santo Padre e che lo avevano portato a sedersi a tavola con i potenti, a trattare con coloro che tirano i fili della politica, dell'economia e quindi del mondo. Aveva pranzato e cenato in troppi palazzi, avuto tavoli riservati in troppi ristoranti di lusso. Aveva dormito in letti soffici e aveva sempre avuto una macchina ad aspettarlo e un assistente, ovunque si trovasse. Sì, aveva servito la Chiesa, ma ora aveva bisogno di servire coloro che avevano più bisogno della Chiesa, coloro che avevano perduto la fede o a fatica la conservavano. Lui rendeva grazie a Dio per non aver smesso di credere, per non avere alcun dubbio nel cuore. Il complesso in cui si trovava la casa aveva quattro altezze diverse e la sua architettura funzionale indicava che lì viveva gente modesta. Padre Mikel li aspettava davanti al portone, inquieto per l'arrivo del nuovo inquilino. Un "romano" che, pensava, non avrebbe resistito a lungo tra di loro, lontano dalla magnificenza del Vaticano.
Mikel Ezquerra stava per andare in pensione. Aveva compiuto sessantacinque anni ed era parroco di quel quartiere oltre a insegnare in una scuola vicina. Per lui era stata un'esperienza a volte dura dover dividere la casa con padre Aguirre. Ora diceva a se stesso che non avrebbe saputo stare senza di lui, ma all'inizio diffidava di quel "romano" che aveva avuto incarichi importanti nella Curia e di cui si diceva che fosse l'orecchio del Vaticano. Ma padre Aguirre si era impegnato a vivere in una casa di quartiere insieme ad altri gesuiti e non avevano avuto altra scelta che accettarlo. Lui con reticenza, padre Santiago con soddisfazione. Ma padre Santiago era un tipo particolare. Durante il giorno lavorava in una fabbrica di cemento, di notte componeva musica e leggeva i classici in lingua originale. Per padre Santiago il greco antico, l'aramaico, l'arabo o il latino non avevano segreti. Per natura era allegro e buontempone, e pur non essendo basco ma andaluso, si era adattato bene a quella che era la terra di sant'Ignazio. La casa era modesta ma spaziosa. Un appartamento con quattro stanze, una sala da pranzo, un piccolo bagno e un balcone. Le stanze erano minuscole, c'era appena lo spazio per un letto, un tavolo, una sedia e l'armadio incassato nella parete. Ma tutto era pulito e c'era odore di spigo e di lavanda. «È venuta Itziar a dare una mano» spiegò padre Mikel «lo sai quanto è servizievole. Si è presentata dicendo che voleva dare alla casa un aspetto decente perché il nuovo prete non si spaventasse e se ne andasse via subito.» «Itziar è la responsabile della Caritas in parrocchia; è una donna molto buona e molto sveglia, una cuoca straordinaria» aggiunse padre Aguirre. Padre Santiago non era ancora arrivato; stando a quel che spiegò padre Mikel, non rientrava mai prima delle sette perché lavorava in fabbrica. Ovidio disfò la valigia cosciente della mancanza di spazio. Si chiese dove avrebbe messo i suoi libri quando fossero arrivati da Roma. Si rendeva conto di quanto gli sarebbero stati inutili lì tutti i vestiti che aveva in valigia, tonache e clergyman, alcune paia di scarpe, camicie... Nulla di quello che aveva gli sarebbe servito in quel quartiere dove gli uomini lavoravano nelle fabbriche vicine e le donne si prendevano cura della famiglia e della casa. Si sarebbe adattato a vivere lì? Lo aveva desiderato fortemente e non aveva ascoltato coloro che gli chiedevano di riflettere. Era arrivato a idealizzare il cambiamento che ora si faceva realtà. «Umiltà» disse tra sé. «Ho
bisogno di essere umile.» Pranzarono tutti e tre insieme, parlando di tutto e di niente. Padre Mikel gli chiese com'era la vita in Vaticano, spiegandogli che a padre Aguirre non piaceva raccontare niente dei lunghi anni che aveva passato a Roma. Com'era il papa? Chi erano i cardinali con più potere? Conoscevano il problema basco? Ovidio rispose con diplomazia all'infinità di domande di padre Ezquerra davanti allo sguardo divertito di padre Aguirre fino a quando, poco prima delle tre, Mikel non prese commiato dai due amici per andare a far lezione a scuola. «Mi dispiace dovervi lasciare, ma ho lezione fino alle cinque e mezzo; poi vado direttamente in Chiesa perché devo officiare un funerale alle sei. Se non sei troppo stanco, passa più tardi in chiesa; non è lontano da qui. Alle sette c'è una riunione con la Caritas e alle otto la messa.» «Ci verrò» assicurò Ovidio. «Non vedo l'ora di cominciare.» «Domani potresti dire messa alle sette, così Ignacio non dovrà alzarsi presto.» «A me piace alzarmi presto!» protestò padre Aguirre. «Sì, però dovresti riguardarti un po' di più. Magari a te darà retta» disse rivolgendosi a Ovidio. «Il medico gli ha detto che deve stare attento e riposare, ma lui fa sempre di testa sua. A proposito, dovrai abituarti perché non c'è giorno che non rilegga qualcosa della cronaca di quel frate eretico.» «Frate Julián» rispose Ovidio con un sorriso. «Sì, frate Julián, tutti abbiamo letto quel libro. A dire il vero è interessante, ma Ignacio ne è proprio ossessionato.» Quando rimasero soli, padre Aguirre tirò fuori una bottiglia di orujo e ne versò appena un dito in un bicchiere e un po' di più nell'altro. «Dobbiamo festeggiare il tuo ritorno a casa, anche se ti costerà. No, non sarà facile; è costato tanto anche a me, ci sono stati dei momenti nei quali ero sul punto di tornare indietro perché qui mi sentivo soffocare. Tra l'altro, la superbia mi colpiva quotidianamente quando leggevo i giornali o vedevo la televisione, sapendo che dietro la notizia c'era sempre molto più di quello che si vedeva, di quello che si sapeva; in quei momenti mi sembrava incredibile essere fuori dal gioco. Ci sono voluti anni per riuscire a dominare la mia superbia e sentirmi finalmente in pace con me stesso.» La confessione di padre Aguirre lo stupì. L'anziano gesuita era ancora capace di leggere nella sua anima e intuiva la confusione che si stava agitando dentro di lui da quando era arrivato.
«Ce la farò» rispose sorridendo «in fin dei conti è stata una mia scelta.» «Ma perché? Perché proprio adesso?» «Per noia, perché ho l'impressione di aver perso la strada. Ho scelto di essere sacerdote per servire gli altri e sento di non averlo fatto; se il messaggio di Cristo ha un senso è quello di vivere come Lui, aiutando coloro che hanno veramente bisogno. Io invece cos'ho fatto?» «In pratica mi rimproveri di averti fatto arrivare al terzo piano...» «No, non dica così! La ringrazio per tutte le opportunità che mi ha dato, per tutto l'aiuto, non mi consideri un ingrato. Mi dispiacerebbe essere frainteso...» «Non preoccuparti. Ti capisco, Ovidio, non immagini quanto ti capisco, ma voglio sapere il perché.» «L'attentato contro il papa mi ha fatto soffrire moltissimo; non ho mai smesso di sentirmi in colpa.» «Il papa non ti ha mai considerato colpevole dell'accaduto.» «Il papa era benevolo con gli errori di tutti. Non mi ha mai rivolto il minimo rimprovero e, avvertendo la mia angoscia, non sono state poche le occasioni in cui ha tentato di tranquillizzarmi e di darmi conforto, eppure anche così... È stato come rendermi conto di essere totalmente immerso nel mondo terreno, ho capito che niente di quello che facevo riguardava la dimensione spirituale degli uomini. Non avevo quasi tempo per riflettere, per pensare a Dio, appartenevo al suo servizio di intelligence, ma senza un minuto per sentirmi in comunione con Lui, per pregare davvero e non in modo meccanico come facevo ormai da tempo. È vero, lei ha ragione, tutto questo per me sarà duro, ma farà bene al mio spirito.» «Pregheremo perché sia così.» Più tardi si diressero in chiesa per incontrare padre Santiago e padre Mikel. Il primo era riunito con un gruppo di giovani della Caritas, mentre il secondo stava finendo di officiare il funerale. Padre Mikel gli presentò alcuni fedeli e padre Santiago lo accolse con una stretta di mano vigorosa e una pacca sulla spalla, poi lo invitò a partecipare a una riunione con i giovani e lo mise al corrente delle attività che portava avanti con loro. «Lei è basco?» volle sapere una ragazza. «Sì, ma sono andato via da molto tempo» rispose Ovidio. «E cosa pensa di quello che sta succedendo qui?» chiese un giovane alto dall'aspetto nervoso. «Perché, cosa sta succedendo qui, secondo te?»
«Succede che non ci lasciano liberi» rispose il ragazzo in tono alterato. «Basta!» li interruppe padre Santiago. «Ora siamo qui per vedere come possiamo aiutare i più bisognosi del quartiere, e quanto al fatto che non ci lascino liberi...» «Lei è un prete in gamba ma è andaluso, quindi non può capire» lo interruppe un'altra ragazzina appena adolescente. «Tu credi che siccome sono andaluso non sono in grado di comprendere quel che accade qui? Per il momento, quello che sta succedendo è che c'è un gruppo di immigrati rumeni che se la passa malissimo, che sopravvive nelle baracche e non manda a scuola i bambini, e per questo oggi siamo qui, per vedere come possiamo aiutarli.» «Andiamo, lasciateci parlare con il prete nuovo!» chiese un altro ragazzo. «Il prete nuovo è d'accordo con padre Santiago» rispose Ovidio «e lasciami dire che non credo che gli uomini siano diversi e tanto meno che possano o non possano capire i problemi a seconda del loro luogo di nascita. Sì, io sono basco, ma non fa differenza; mi interessano gli esseri umani, non il loro certificato di nascita, e ancor meno considero importante il mio.» I giovani rimasero a guardarlo in silenzio, chiedendosi se avrebbero apprezzato oppure no quel sacerdote al quale poco importava di essere basco, o che almeno così diceva. «E allora? Qualcuno è riuscito a parlare con il capo di quel clan di zingari rumeni, come vi avevo chiesto?» «Sì, ci sono andato ieri. Be', è un tipo molto strano. Mi ha detto che resteranno qui fino a quando ne avranno voglia, che i loro bambini non andranno in nessuna scuola, che non sono cattolici e che l'unica cosa che vogliono è un lavoro» spiegò uno dei giovani. «Ci sono stata anch'io, a parlare con le donne. Dicono che non ci lasceranno mai i loro bambini, che ci penseranno da sole a insegnare loro tutto ciò che c'è da sapere, ma che sono disposte ad accettare tutto quello che vorremo dare loro. Mi hanno chiesto vestiti e giocattoli» aggiunse una delle ragazze. «Il consigliere ce l'ha con il sindaco, perché dice che bisogna fare qualcosa in fretta, prima che le loro baracche diventino un insediamento stabile» disse una delle ragazze. «E noi, cosa credete che possiamo e dobbiamo fare?» chiese padre Santiago. Quella domanda diede origine a una conversazione nella quale o-
gnuno apportò idee e proposte fino a quando non venne stilato un piano più semplice. Ovidio ascoltava in silenzio, osservando quei giovani e padre Santiago, verso il quale aveva provato una simpatia immediata. Quando terminò la riunione, i sacerdoti si diressero a casa, discutendo dei fatti del giorno e presentando a Ovidio alcuni vicini che incrociavano lungo la strada. Dopo cena, con grande stupore di Ovidio padre Santiago propose di recitare il rosario. Improvvisamente si rese conto che ormai da molti anni non lo faceva e rimproverò se stesso per la sua immaginazione che volava mentre ripeteva l'Ave Maria. Era fin troppo chiaro: doveva ritrovare lo spirito del sacerdozio. Alle undici padre Mikel disse che era ora di andare a letto. Ovidio si sentiva stanco e perplesso per le tante emozioni vissute. 7 Mohamed guardó Fatima senza sapere cosa dirle e poi guardò i due bambini che attendevano impazienti che lui rompesse il silenzio sceso tra loro. Quella era la sua famiglia, gli aveva detto Hasan, e lui si era impegnato a onorare Fatima e ad avere cura dei bambini come fossero figli suoi. La donna, con gli occhi bassi, si chiedeva quale destino avrebbe avuto vicino a quell'uomo più giovane, nel cui sguardo leggeva solo repulsione. Lei sapeva bene di non essere attraente, nessun angolo del suo corpo sarebbe piaciuto a quell'uomo che l'avevano costretta a sposare. Si chiese se l'avrebbe maltrattata o se avrebbe fatto come il suo precedente marito, che si limitava a giacere con lei quando cedeva alle tentazioni dell'alcol. Questo era successo solo alcune volte, ma per il resto del tempo non l'aveva mai sfiorata, cosa della quale lei gli era grata dal momento che non trovava alcuna soddisfazione in quegli incontri intimi, malgrado le avessero consentito di concepire due figli che amava follemente. I bambini, di cinque e sei anni, sembravano spaventati davanti a quell'uomo che lo zio Hasan aveva ordinato di chiamare padre e di trattarlo come tale. Non capivano perché loro padre se ne fosse andato in Paradiso e li avesse abbandonati, lasciandoli lì, davanti a quell'altro padre strano del quale avevano paura.
«Domani andremo a Granada a casa dei miei genitori. Lì saremo al sicuro.» Né Fatima né i suoi figli risposero. Sapevano di appartenere a quell'uomo e di doverlo seguire ovunque. Malgrado ciò, la donna sentì una punta di inquietudine per quello che il destino avrebbe potuto riservarle. Lì, a Francoforte, lei era qualcuno, era la sorella di Hasan, un uomo molto rispettato, ma a Granada... avrebbe finito per dipendere da sua suocera, e così pure i suoi figli, e questa era la cosa che più temeva: la sorte che avrebbero avuto i piccoli. Mohamed non lo sapeva, ma lei difficilmente avrebbe potuto dargli altri figli, visto che aveva cominciato ad avere i sintomi della menopausa. Suo marito si sarebbe accontentato dei figli di suo cugino? «Adesso riposate, il viaggio non sarà facile.» Mohamed Amir uscì dalla stanza e sospirò. Fatima era sgradevole, e lui doveva allontanare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto andare a letto con lei. Dormisse pure con i suoi figli; nel frattempo lui avrebbe cercato il coraggio necessario per dormire nel suo stesso letto una volta arrivati a Granada. Hasan gli aveva assicurato che la polizia non sapeva chi fosse il membro del commando che era riuscito a fuggire. Cercavano un uomo senza volto, senza nome, quindi aveva un'opportunità per uscire dalla Germania e arrivare in Spagna. Avrebbe viaggiato usando il suo passaporto, accompagnato da Fatima e dai figli. A Granada, poi, avrebbe dovuto unirsi a una delle cellule "dormienti" e portarle istruzioni. Mohamed continuava ad avere mal di stomaco, non solo per l'inquietudine che gli causava il futuro, ma anche per una frase enigmatica che il suo ammirato Hasan si era lasciato sfuggire tra una raccomandazione e l'altra: «Metti ordine in casa tua, altrimenti saremo costretti a farlo noi». A cosa si riferiva? Non poteva essere Fatima, visto che si erano appena sposati, e fino al giorno prima era stata sotto la protezione di Hasan. I bambini erano troppo piccoli per avere qualcosa a che fare con quell'avvertimento che suonava più come una minaccia. E i suoi genitori erano buoni musulmani. Ma allora a cosa si riferiva Hasan? Quella notte fu assalito dall'incubo che lo perseguitava dal giorno dell'esplosione di Francoforte. Sentiva che anche lui stava saltando per aria, sentiva di essere morto; dopo la morte però non lo aspettavano le belle uri ma solo del nero, un immenso spazio nero nel quale girava fino alla nausea come una palla. Quando si alzò trovò Fatima che stava chiudendo una borsa nella quale
aveva disposto le provviste per il viaggio. Le valigie erano chiuse, allineate vicino alla porta d'ingresso, e la colazione già servita in tavola. I bambini erano seduti, in silenzio, temendo di disturbare quell'uomo che dovevano chiamare padre. «Partiremo tra mezz'ora» disse tanto per dire qualcosa. La donna annuì con lo sguardo e sistemò una busta piena di panini. Aveva sentito Hasan dire al suo nuovo marito che non sarebbero partiti prima delle otto, che avrebbero dovuto intraprendere il viaggio quando le strade erano piene di gente ed era più facile passare inosservati agli occhi attenti della polizia. Avrebbero viaggiato su una Volkswagen Golf, una di quelle che tanti lavoratori tedeschi e tanti emigranti possedevano. Un'auto anonima che non attirava l'attenzione. Quando Mohamed uscì dal bagno, Fatima si stava sistemando il fazzoletto che le era scivolato lungo i capelli mentre si dedicava alle varie faccende. Portava una djellaba bianca sotto la quale indossava un paio di pantaloni e una camicia di lana pesante, oltre a un paio di stivali da pioggia imbottiti. I bambini erano infagottati nei loro giacconi azzurri e calzavano anche loro scarpe resistenti alla pioggia. Mohamed li guardò cercando di convincersi che quella era la sua famiglia e che aveva giurato ad Hasan di proteggerla. Sospirò, preoccupato per la responsabilità che si era assunto. «Andiamo.» Aprì la porta e, senza guardare indietro, scese le scale seguito da Fatima e i suoi figli. Sentì che quel momento segnava una svolta nella sua vita. Mireille cercò con lo sguardo un posto dove sedersi. I colleghi d'ufficio l'avevano invitata a unirsi a loro per pranzare nella caffetteria del centro. Sapeva che la chiamavano "la raccomandata", come se qualcuno di loro fosse arrivato lì solo per le proprie capacità personali. Mostravano di non apprezzarla affatto, ma in realtà neanche lei provava la minima simpatia per loro. Non le avrebbero reso la vita facile; e, come se non bastasse, lei era stata troppo precipitosa nel parlare quella mattina. Non aveva misurato i tempi. A ogni modo sapeva che se prima dicevano solo che era stata raccomandata, ora avrebbero aggiunto anche che era matta o quantomeno eccentrica. Vide un posto libero all'angolo di un tavolo e si sedette senza far caso a chi aveva intorno. Non aveva fame, era depressa; aveva fatto una figura ri-
dicola davanti a se stessa e davanti ai colleghi, doveva trovare il modo di riabilitarsi ai loro occhi. «Posso sedermi?» Lorenzo Panetta era in piedi con una tazza di caffè in mano. Le sorrideva, e questo la sorprese. «Sì, prego, si sieda.» «La stavo cercando.» «Per dirmi che sono licenziata?» «Andiamo, Mireille!» «Ho fatto una figuraccia, lo so, mi dispiace. Capisco che vogliate disfarvi di me. Immagino lei sia venuto a suggerirmi di chiedere il trasferimento.» «Sa, credo che lei abbia un problema: non pensa alle cose che dice, le butta fuori così come le vengono in mente e questo è un errore, un grave errore, soprattutto se pretende di lavorare nel campo dell'intelligence.» «Ha ragione, è il mio principale difetto; non sono capace di mordermi la lingua e questo mi ha provocato parecchi fastidi. Però non credo di sbagliarmi. Non è venuto a chiedermi di andar via?» Lorenzo piantò gli occhi su Mireille, tentando di andare in profondità, oltre quello che vedeva. Lei sostenne il suo sguardo e lui, per la prima volta, si rese conto che la ragazza era più attraente di quello che poteva sembrare a prima vista. Mireille si proteggeva dietro un abbigliamento anonimo per passare inosservata, ma aveva due brillanti occhi neri, come pure i capelli. Era magra, troppo per i gusti di Panetta, ma aveva stile, lo stile inconfondibile delle donne che appartengono a una classe sociale che non ha mai dovuto preoccuparsi di quanto costa un filone di pane o una bistecca. «Voglio solo parlare con lei di quello che è accaduto stamattina.» «Non penserà anche lei che sono pazza?» «In realtà credo che potrebbe anche esserlo, però, vede, sono un vecchio poliziotto che non ha mai trascurato una pista, per stravagante che potesse essere.» Mireille lo guardò sorpresa. Quello non l'aveva previsto. Come era possibile che il vicedirettore del centro si prendesse la briga di parlare con lei dopo quello che era successo in ufficio? Sospirò prima di domandargli: «E quando ha deciso di darmi un'opportunità?» «Non so se le darò un'opportunità. Voglio solo che mi spieghi se è arrivata a qualche conclusione dopo il suo giro in rete.»
«Cosa dice il capo?» «Hans? Questo dovrà chiederlo a lui.» «Non gli sono simpatica. In realtà sto sullo stomaco a tutto il dipartimento.» «Si sta lamentando?» «Me lo lasci fare, mi sento uno schifo!» «Andiamo, Mireille, voglio solo sapere se è arrivata a qualche conclusione.» «Non ancora, però... be', non mi pare impossibile trovare un senso a quelle parole sparse.» «Me lo dica, allora, secondo lei quale potrebbe essere questo senso.» «Se avrà l'impressione che quello che dico non sia poi così assurdo, convincerà Hans Wein a darmi un'altra possibilità?» «Dovrà chiedergliela di persona. All'interno del dipartimento ci sono regole non scritte alle quali tutti devono attenersi. Non si gioca ognuno per conto proprio e, soprattutto, prima di emettere dei giudizi trancianti, ci si pensa due volte.» «Ma questo finisce per farvi sfuggire alcune possibilità! Gli affari dell'intelligence, come li chiama lei, dovrebbero lasciare via libera alla formulazione di ipotesi, di combinazioni molteplici per quanto folli possano sembrare, alla volontà di pensare insieme...» «Le regole, Mireille; bisogna attenersi alle regole.» «Lei si è sempre attenuto alle regole?» «Come crede sia riuscito ad arrivare fin qui? Sono stato poliziotto per molti anni, ho lavorato per strada, ma anche la strada ha le sue regole, attraverso le quali bisogna sapersi muovere; è questo il segreto per sopravvivere ai burocrati. È il miglior consiglio che le posso dare...» Mireille sorrise con gratitudine e cominciò a spiegargli il perché delle sue stravaganti deduzioni. «Vede, io sono di Montpellier, e quindi ho pensato che Saint-Pons potesse essere quello stesso Saint-Pons-de-Thomières che si trova nella mia regione; per questo ho fatto una ricerca su internet, per sapere se c'erano molti altri paesi con quel nome. E devo dirle che non è così.» Lorenzo inarcò un sopracciglio e fu sul punto di alzarsi pensando che la conversazione fosse una perdita di tempo, ma c'era qualcosa in quella donna che lo lasciava totalmente sconcertato. Non era affatto stupida, di questo era assolutamente sicuro. «Continui.»
«Be', magari poteva esserci un qualche rapporto tra Saint-Pons-deThomières e Lotario.» «Ah, sì?» «Vedendo insieme quei due nomi, Lotario e Saint-Pons...» «Insieme? Se non ricordo male quei nomi sono stati trovati separati, in due frammenti di carta bruciata, e non facevano neanche parte dello stesso foglio.» Mireille sostenne il suo sguardo e sentì un brivido. Si rendeva conto che il gentilissimo Lorenzo Panetta era un uomo estremamente sagace, un uomo con cui non si poteva giocare. «Saint-Pons si trova nel sud della Francia» insistette lei. «Quale Saint-Pons?» «Saint-Pons-de-Thomières.» Il gesto della mano di Lorenzo la interruppe. Mireille gli rivolse uno sguardo carico di attesa. «Bene, mi dica, che rapporto possono avere quelle parole con dei terroristi islamici che decidono di farsi esplodere nel centro di Francoforte quando la polizia li sta per arrestare?» «Be', in realtà nessuno. Io, semplicemente, mi sono limitata a dire che quelle parole avevano un senso.» «Se fossero state ritrovate tutte insieme, su uno stesso foglio, forse, ma... neanche questo. Lei però, essendo di Montpellier...» disse con ironia «ha trovato un senso a Saint-Pons.» «Ha ragione. Sono stata un po' stupida. Mi dispiace. Mi sono lasciata trascinare dall'entusiasmo. Mi dispiace davvero.» Perché si arrendeva così presto? Sperava che lei si difendesse. Ma, all'improvviso, sembrava accettare il fatto che tutto ciò che aveva detto fosse una solenne cretinata. Lo sconcertava il comportamento della ragazza. C'era qualcosa in lei che non riusciva a cogliere fino in fondo. «Non deve rimproverarsi niente, è positiva questa volontà di cercare risposte anche in quello che apparentemente può risultare assurdo. Significa che lei non è di quelle che si arrendono.» «È davvero così terribile essere entrata nel centro grazie a una raccomandazione?» La domanda diretta di Mireille lo colse alla sprovvista. Era evidente che lei stava veramente soffrendo per l'avversione manifesta dei suoi colleghi. «No, non è terribile, ma lei sa bene che dà sempre fastidio sapere che qualcuno ha trovato la porta aperta quando tu hai dovuto salire molti piani
di scale a piedi per arrivare. A lei hanno snellito le pratiche.» «Sì, ma ho un buon curriculum accademico, parlo perfettamente l'arabo, conosco i paesi arabi perché ho vissuto lì. Nessuno mi ha regalato i miei titoli universitari.» «Dovrà guadagnarsi il rispetto se vuole essere considerata come le altre, e per questo... insomma, la cosa migliore da fare è essere discreta, non attirare l'attenzione, mostrarsi umile e con tanta voglia di imparare dai più anziani.» «Posso anche portarvi il caffè» rispose Mireille senza riuscire a reprimere un tono adirato nella voce. «Sì, può fare anche questo. Ma anche così non è detto che ci riesca. Può solo provare.» «Non so se ne vale la pena.» «Questo può deciderlo solo lei. Bene, sono contento di aver fatto quattro chiacchiere, e se non mi sbaglio è ora che tutti e due torniamo al lavoro.» Uscirono dalla caffetteria uno accanto all'altro in silenzio, immersi nei propri pensieri, ognuno sezionando la conversazione appena conclusa. Entrambi cercavano una crepa, una contraddizione, qualcosa di speciale in ciò che avevano appena ascoltato dall'altro. Quando entrarono insieme nella sala di Analisi, gli altri li guardarono con sorpresa, ma nessuno disse nulla. «Bene, al lavoro. Credo che si troverà meglio con il gruppo della signora Villasante. È un lavoro più speculativo.» Mireille restò in silenzio senza sapere cosa dire. Andrea Villasante non era una persona facile, aveva un brutto carattere ed era esigente con i membri della sua squadra. Ovviamente, era la favorita del capo. Hans Wein considerava Andrea Villasante la quintessenza della persona perfetta per lavorare nel dipartimento, non solo per la sua capacità professionale, che indubbiamente aveva, o perché fosse una rinomata psicologa, ma anche per il suo carattere. Andrea non sorrideva praticamente mai, passava ore intere rinchiusa a lavorare, non lasciava spazio né per la confidenza né per lo scherzo. Bel tiro gli aveva appena giocato Panetta! Andrea occupava un angolo di un'enorme sala, vicino ad altre cinque persone che lavoravano direttamente sotto la sua direzione. Con passo deciso, si diresse verso Lorenzo e Mireille. «Volevi parlare con me?» chiese seccamente a Lorenzo. «Mireille Béziers passa a lavorare alle tue dirette dipendenze. Ti sarà utile: parla arabo e ha vissuto molti anni nei paesi arabi, quindi conosce
bene quel mondo e può aiutarti a scoprire il perché di tanto fanatismo.» «D'accordo. Si sieda lì, vicino alla finestra, c'è un tavolo libero» indicò a Mireille quasi senza guardarla. Senza osare ribattere, Mireille seguì Andrea con gesto desolato. La spagnola non avrebbe perso tempo in elucubrazioni e l'avrebbe messa in mezzo alla strada al minimo intoppo. Contando, tra l'altro, sulla piena benedizione del capo. Sentì un pizzico di invidia per Andrea. Era arrivata lì per meriti propri, nessuno le aveva regalato niente. Era la maggior esperta d'Europa, e sicuramente del mondo in psicologia terrorista. Aveva studiato e analizzato i membri delle Brigate Rosse, dell'IRA, dell'ETA, talebani, tutsi, hutu, serbi, croati e bosniaci partecipi di mattanze e pulizie etniche nella ex Iugoslavia, passando mesi, addirittura anni, a far loro visita in carcere, guadagnandosi la fiducia di alcuni e l'indifferenza di altri. Aveva perfino subito qualche aggressione. Ma Andrea non aveva mai allentato il suo impegno per tentare di sezionare le menti assassine, per capire perché un essere umano è capace di trasformarsi in una belva nei confronti dei suoi simili. Quando Andrea aveva terminato la facoltà di psicologia aveva fatto di tutto per lavorare come funzionaria nelle prigioni spagnole e lì aveva cominciato a trattare con i terroristi dell'ETA. Non si era sposata, non aveva figli, e a cinquant'anni sembrava non avere altro scopo che quello di dedicare tutte le sue forze e le sue energie allo stesso obiettivo: penetrare la mente dei terroristi, di qualsiasi ideologia o religione essi fossero. Mireille seguì Andrea fino al tavolo che avrebbe occupato a partire da quel momento. Pensò che il suo capo non era brutta, ma nemmeno abbastanza attraente da dare fastidio alle altre donne, da distrarre gli uomini e guadagnarsi le antipatie delle une e degli altri. Era di statura media, aveva i capelli castani corti, gli occhi dello stesso colore, non aveva né un chilo di più né uno di meno, e vestiva sempre con degli impeccabili tailleurs con la giacca scura. «Si sieda, le spiegherò come lavoriamo in questa sezione. Poi, qualsiasi dubbio dovesse avere, potrà rivolgersi a Diana Parker.» Mireille si sentì obbediente e ben disposta a non attirare l'attenzione, soprattutto a sproposito. Se lo avesse fatto, sarebbe finita definitivamente fuori gioco e questa era l'ultima cosa che voleva. Mentre Andrea le spiegava in cosa consisteva il suo lavoro, non riuscì a evitare lo sguardo di Matthew Lucas. Dai suoi occhi traspariva con chia-
rezza tutta l'antipatia che nutriva per lei; Mireille si chiese perché, anche se dovette immediatamente constatare che il sentimento era reciproco. Neanche a lei piaceva Matthew. Provava una diffidenza profonda verso gli arroganti funzionari americani, fossero della CIA o di qualunque altra istituzione. Si comportavano come se sulle loro spalle ricadesse la responsabilità di salvare il mondo e gli europei fossero tutte persone ingenue e di sinistra, condizionati dalle loro opinioni pubbliche, che anteponevano sempre la libertà alla sicurezza. Sospirò rassegnata. Le era costato molto arrivare fin lì e non poteva buttare via tutto per motivi personali. «Dài, non è poi così terribile lavorare nella nostra squadra.» Diana la riportò alla realtà. Mireille le sorrise. Aveva più o meno la sua stessa età e sembrava simpatica; o almeno si era sempre mostrata gentile con lei. Sapeva che era laureata in antropologia e che anche lei parlava arabo. Mireille si disse che forse poteva riuscire a diventare amica di quell'inglese dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri, anche se era il braccio destro di Andrea Villasante. 8 Il viaggio fu lungo e pesante. Da Francoforte arrivarono a Strasburgo, quindi attraversarono la Francia e varcarono i Pirenei da Perpignan prima di seguire la costiera fino a Granada. In totale avevano impiegato quattro giorni, ma a loro erano sembrati molto di più per la costante paura e tensione di venire fermati, per un qualsiasi controllo su una qualsiasi strada, e arrestati. Ma gli infedeli non sembravano sospettare di una famiglia; i bambini piccoli erano stati di grande aiuto per allontanare la diffidenza dagli sguardi della gente. Mohamed aveva paura, eppure si sentì felice al momento di entrare nella provincia di Granada, con il suo odore di zagara, limoni e lavanda. Erano i profumi della sua infanzia. Conservava ancora nella memoria ogni angolo della sua città, perché era sua, più sua che di quegli infedeli che osavano macchiarla con la loro presenza. Un giorno avrebbero espulso tutti gli infedeli e il suolo sacro dei suoi antenati sarebbe tornato ai legittimi proprietari. In realtà, la riconquista era iniziata con cautela, ma indietro non si tornava. Erano sempre di più le persone che volgevano gli occhi alla vera fede e acclamavano Allah come loro unico Dio. La comunità musulmana si
estendeva per ogni angolo, davanti agli occhi degli spagnoli che, per il loro desiderio di tolleranza e per non essere accusati di perseguitare altre razze o religioni, si lasciavano conquistare senza opporre resistenza. Sentì il battito accelerare quando arrivarono ai piedi dell'Albacín. Nel quartiere della sua infanzia viveva un'importante comunità musulmana e il suo aspetto non era diverso da quello delle città dall'altro lato dello stretto. Si rallegrò nel vedere le donne con il fazzoletto che copriva loro i capelli, molte erano vestite alla maniera tradizionale, con la galabeja che le copriva dalla testa ai piedi. Alla zagara si univa l'odore del cuoio degli artigiani che avevano aperto le loro botteghe arrampicate sulle strade strette e accidentate. Case bianche con i tetti scuri, circondate da aranci e cipressi. In plaza Larga, l'Arco de las Pesas ricordava i vecchi splendori moreschi, così come la fonte dell'antica moschea nella plaza de San Salvador. Arrivato a casa dei genitori si sentì in salvo. Niente di male poteva capitargli lì, dove era stato felice malgrado le difficoltà di suo padre per tirare avanti. Ma ce l'aveva fatta con l'aiuto di sua madre. Lui lavorava in un cantiere, lei come domestica a ore nelle case borghesi della città. Allora l'Albacín era un quartiere dove non c'era la mano degli infedeli, dove vivevano solo quelli che non potevano vivere da nessun'altra parte. Negli ultimi anni, la comunità musulmana era cresciuta e aveva recuperato, allo stesso ritmo, quella parte della città che secoli addietro brillava di luce propria. Lasciò l'auto a qualche metro dalla casa di suo padre e chiese a Fatima e ai suoi figli di aspettarlo; voleva prima verificare se la sua famiglia era in casa. Bussò alla porta con le nocche, dapprima delicatamente, poi con forza, e immediatamente sentì la voce canterina di sua madre. «Arrivo! Arrivo!» Quando la donna aprì la porta le scappò un urlo di gioia e di angoscia contemporaneamente. «Figlio mio! Mohamed! Allah, hai ascoltato le mie preghiere! Figlio mio, sei qui!» Lo strinse con forza e Mohamed affondò la testa nel collo di sua madre annusando la delicata colonia al limone con la quale era solita profumarsi. «Madre, tranquilla, sto bene! E mio padre?» «Credevamo... credevamo che fosse successa una disgrazia... Tuo padre è appena uscito, adesso lavora di notte, come guardiano in un cantiere.
Ormai è troppo vecchio per salire sulle impalcature. Ma entra, figlio mio, entra. Che gioia!» «E mia sorella?» Sua madre lo sciolse dall'abbraccio e lasciò cadere le braccia lungo il corpo, come se d'improvviso le forze l'avessero abbandonata. «Tua sorella sta bene, non tarderà ad arrivare.» Mohamed ricordò che Hasan lo aveva avvertito riguardo alla sua famiglia. Si trattava dunque di sua sorella? Ma perché? Decise che lo avrebbe chiesto più tardi a sua madre, ora doveva presentarle Fatima e i bambini. «Madre, mi sono sposato; ho una moglie e due figli.» «Quando ti sei sposato? Tuo padre non sarà contento che tu l'abbia fatto senza il suo permesso.» «Mia moglie è la sorella piccola di Hasan. Fatima era sposata con Yusuf e lui... insomma, è morto da martire. Hasan mi ha fatto l'onore di accettarmi nella sua famiglia dandomi in sposa sua sorella. Ha due figli che adesso sono anche miei figli e saranno i tuoi nipoti. Ti prenderai cura di Fatima e di loro...» Sua madre lo guardò negli occhi e si accorse di quanto suo figlio fosse cambiato. La differenza, se ne rese conto subito, era che aveva perduto l'innocenza. Non era più il giovane idealista che credeva in un futuro migliore. Nei suoi occhi si riflettevano angoscia e paura, ma anche determinazione. «Tua moglie sarà mia figlia e i suoi figli saranno i miei nipoti, e spero che presto arrivino anche i tuoi per rallegrare la mia vecchiaia. Dove sono?» «Mi aspettano in macchina, l'ho lasciata nella piazzetta. Ora vado a prenderli.» Fatima si domandava come l'avrebbe accolta sua suocera. Confidava nel fatto che essere sorella di Hasan le sarebbe servito per essere trattata con rispetto e deferenza come facevano i membri della comunità di Francoforte, ma non ne era del tutto certa. La suocera l'abbracciò, baciò con affetto i bambini e invitò tutti a entrare. «Sarete stanchi per il viaggio e sicuramente avrete fame. Aspettiamo che arrivi Laila e poi ceneremo tutti insieme. Nel frattempo, vi farò vedere dove vi sistemerete. Tu e Mohamed potete occupare la sua vecchia camera e i bambini la stanzetta a fianco.» «Mentre voi vi sistemate andrò a trovare mio padre; dove si trova il can-
tiere?» disse Mohamed. «No, è meglio aspettare domani. A tuo padre non piace essere disturbato durante il lavoro, a meno che non sia per un caso di estrema necessità.» Mohamed non protestò. Sapeva che sua madre aveva ragione. Suo padre poteva arrabbiarsi se qualcuno si fosse presentato all'improvviso sul suo posto di lavoro. Era un uomo discreto e preciso, che cercava di passare inosservato. Scaricò i bagagli e raccomandò ancora una volta ai bambini di comportarsi bene. «Mio padre» disse loro «è un uomo giusto ma non esita a usare la cinta se è necessario. Non gli piacciono le urla e non vuole che si corra per casa. Non macchiate niente, e parlate solo quando siete interrogati.» I piccoli annuirono spaventati. Notavano il nervosismo della loro madre davanti a quella di Mohamed, il loro nuovo padre. Ai loro occhi anche Granada era una città strana, diversa da Francoforte dove erano nati. Un'ora dopo, quando ormai era buio, si aprì la porta d'ingresso e si sentirono dei passi rapidi sulle mattonelle di argilla cotta. Laila entrò nella sala principale e lanciò un urlo di felicità buttando le braccia al collo di suo fratello. «Tu qui? Che gioia! Oggi è un grande giorno! Perché non hai avvertito che saresti arrivato?» Mohamed ascoltò sorridendo il vociare di sua sorella e sentì un'ondata di affetto nei suoi confronti. Amava moltissimo Laila; sua sorella aveva solo tre anni più di lui: era stata la sua confidente quando erano piccoli e gli aveva coperto le spalle in tutte le marachelle per evitare che suo padre utilizzasse la cinta con lui. Era piccola, ribelle e coraggiosa, sempre pronta ad aiutare i più deboli, compresi i cani e i gatti che trovava in giro per l'Albacín e che finivano per trovare sistemazione nel cortile posteriore, facendo disperare sua madre e arrabbiare suo padre. Laila era gracile, come sua madre, con due grandi occhi scuri, i capelli neri e la pelle bianchissima. Non era una bellezza, ma aveva tanta forza e determinazione nello sguardo che era difficile non cedere ai suoi desideri. Mohamed fu sorpreso nel vederla con i capelli scoperti, vestita con una gonna e un maglione come una qualunque ragazza occidentale, ma non disse niente; era troppo contento per iniziare una discussione con sua sorella, in fin dei conti era a casa, dove nessuno poteva vederla. Sua madre servì la cena in sala e per un bel po' parlarono di banalità. Mohamed voleva avere notizie del lavoro di suo padre, dei suoi vecchi a-
mici, dei cambiamenti di Granada, della situazione politica in Spagna. Stava assaporando uno dei dolci preparati da sua madre quando chiese a sua sorella come andavano gli studi. «Ho finito diritto, sono avvocato.» «Be', non mi sorprende, ti è sempre piaciuto difendere gli altri» rispose Mohamed. «Compreso te» replicò Laila. «Sì, è vero, sei sempre stata una brava sorella» riconobbe con affetto Mohamed. «Stai lavorando?» «Sì, all'università, nel dipartimento di Diritto internazionale. Sono una delle aiutanti del titolare di cattedra. Non mi pagano molto, ma è quanto basta per essere indipendente. Collaboro anche con uno studio che hanno messo su alcuni amici della facoltà dopo la laurea.» «Insomma, sei diventata avvocato!» esclamò Mohamed con orgoglio. «Sì, sono avvocato» affermò Laila sorridendo a suo fratello. «Ho visto che non porti lo hijab.» «Non lo metto, anche se in qualche occasione ho pensato di farlo in modo che certe donne si sentano più tranquille; non tanto loro, quanto le loro famiglie. Può darsi che così non siano tanto diffidenti e mi diano la possibilità di continuare a insegnare.» «Insegnare? Che cosa?» Il nervosismo di sua madre lo allarmò, come pure il lampo di sfida che intravide negli occhi della sorella. «Insegno il Corano. Preghiamo, parliamo del vero significato del Corano. Ho aperto una piccola madrasa per donne. Be', in realtà sarebbe per tutti, ma per adesso vengono solo alcune donne. I musulmani anche oggi sono troppo maschilisti per accettare che una donna diriga le preghiere e insegni il Sacro Corano.» Mohamed scattò in piedi rosso d'ira e scaricò un pugno sul tavolo facendo cadere a terra la caraffa con l'acqua. «Non puoi fare questo! È una profanazione!» Laila lo guardava senza battere ciglio, senza far caso alla reazione violenta del fratello. «Ah, sì? E chi lo dice? Dove sta scritto che non posso insegnare e dirigere le preghiere? Dimmi in quale pagina del Corano si proibisce.» Mohamed la guardò desolato. Aveva studiato a fondo il Libro Sacro quando, grazie ad Hasan, ebbe la possibilità di andare in Pakistan a prepararsi da buon credente per diventare un soldato di Allah. Sua sorella si
macchiava di blasfemia assumendo un ruolo che era vietato alle donne. «Tu sei una donna.» «Lo so. Sono una donna e sono orgogliosa di esserlo, non c'è nulla di empio nell'essere una donna. Sono una donna e Allah mi ha fatto intelligente come molti uomini, forse di più. Sono credente, da anni studio il Corano. So che posso insegnare e dirigere le preghiere di altri credenti. So che non c'è nulla di male nell'essere donne, non sono superiore a te ma neanche inferiore.» «Tu sei pazza!» gridò Mohamed davanti allo sguardo intimorito di sua madre e sua moglie. «Lo dice anche papà» rispose Laila senza alzare la voce «ma io credo che siate voi a sbagliarvi. O l'Islam si adatta al XXI secolo, oppure avremo fallito.» «Fallito? Chi avrà fallito?» «Noi, noi credenti. Non possiamo continuare a guardare al passato; il mondo cambia ogni secondo e indietro non si torna. Altre religioni, sia pure a denti stretti, hanno dovuto accettarlo. L'importante è lo spirito, non la lettera. Io credo che ci sia un Dio, la vita senza Dio non avrebbe senso e gli esseri umani, sin dalla notte dei tempi, hanno intuito Dio e lo hanno interpretato a modo loro; lo hanno perfino manipolato in funzione dei loro interessi terreni. L'importante non è solo che Maometto abbia assicurato che gli sia apparso l'arcangelo Gabriele, l'importante è che abbia saputo unire gli arabi e canalizzare la nostra spiritualità insegnandoci che c'è un solo Dio, allontanandoci dagli idoli importati da altre latitudini. Lui ha interpretato Dio a modo suo, come i cristiani interpretano il loro Dio a modo loro, o gli ebrei fanno altrettanto. Interpretiamo Dio secondo la nostra cultura, l'ambiente in cui siamo nati, quello in cui siamo cresciuti, ma Dio è lo stesso, ed è per questo che è una mostruosità uccidere in nome di Dio.» Le ultime parole di Laila furono per Mohamed come una pugnalata. Sua sorella lo condannava. Come osava! Suo padre diceva spesso che quella ragazzina gli avrebbe causato dei problemi e aveva ragione. Laila era diventata un mostro che bestemmiava. «Basta, Laila!» sua madre interruppe la discussione tra i due fratelli. «Vai nella tua stanza e riposa, avrai tempo per parlare con tuo fratello di... di tutto questo.» «Ma come hai potuto consentire a mia sorella di diventare una donna perduta?» gridò Mohamed. «Come ti permetti di insultarmi? Non vedi più in là del tuo naso. Sei un
poveraccio, incapace di pensare con la tua testa. Cos'è che ti fa tanta paura? Ti fa paura la verità?» «La verità! Quale verità? La tua verità? Stai calpestando i sacri insegnamenti del nostro Profeta! Con quale coraggio?» «Perfino in Iran esiste una scuola femminile, a Qom, e la dirige una donna, una mutchtahida.» «State zitti tutti e due!» intervenne di nuovo sua madre. «Che opinione si farà Fatima? Penserà che siamo tutti matti...» «Penserà soltanto che mia sorella bestemmia e i miei genitori glielo permettono» si lamentò Mohamed. Fatima chinò il capo, impaurita, senza avere il coraggio di intervenire. Era scandalizzata per il comportamento di Laila, ma allo stesso tempo provava ammirazione per lei. Le pareva coraggiosa, e non solo. Sperava che Allah la perdonasse, ma quello che aveva detto le era piaciuto; se avesse potuto andare ad ascoltarla in quella madrasa... Ma no, non lo avrebbe fatto, Mohamed non glielo avrebbe mai permesso. «A Francoforte mi avevano avvertito. Ora capisco perché.» «A Francoforte?» La voce tremante di sua madre fece comprendere a Mohamed di aver espresso un pensiero ad alta voce. Sì, a Francoforte Hasan l'aveva avvertito che esisteva un problema nella sua famiglia e lo aveva invitato a intervenire prima che lo facesse la comunità. «Però, non sapevo di essere così famosa» ironizzò Laila. «Parlerò di tutto questo con nostro padre. Ma voglio che tu sappia che non si può continuare così. Non solo fai danno a te stessa, ma lo fai anche alla nostra famiglia.» «Non hai nessun diritto su di me, nessun potere. Sono un essere libero, libero, Mohamed, cerca di capirlo.» «Libera! Che cosa significa che sei libera? Devi obbedienza a nostro padre e a me che sono tuo fratello! Il tuo onore è il nostro onore.» «Il mio onore, come tu dici, è mio e pertanto intrasferibile. I figli non pagano per gli errori dei padri né i padri per quelli dei figli. Nel diritto ogni individuo è unico responsabile delle proprie azioni. E quanto all'obbedienza... mi dispiace deluderti, ma non devo obbedienza né a te né ad altri. Rispetto nostro padre, rispetto il suo modo di vivere, la sua cultura, le sue tradizioni, ma questo non implica che debba farle mie nella loro totalità. Voglio bene ai nostri genitori come voglio bene a te, ma sono maggiorenne e cerco di vivere in accordo con la mia coscienza.»
«Che Allah ci protegga da una simile follia! Come è potuto accadere tutto ciò? Che disgrazia per la famiglia!» Laila si alzò in piedi e rivolse a suo fratello uno sguardo di pena. Stava per accarezzargli i capelli ma si trattenne. Sapeva che lui avrebbe respinto il suo gesto affettuoso. «Sai, Mohamed? Sono io a essere dispiaciuta nel vederti cambiato tanto. Pensavo... be'... pensavo che saresti stato diverso, che avessi imparato qualcosa, non solo durante la tua infanzia qui, ma anche a Francoforte, anche se quando mi hanno detto che eri andato in Pakistan a studiare in una madrasa ho avuto paura. Ho pregato perché non ti perdessi e per non perderti: povera ingenua! Ho continuato a sperare che non ti avessero lavato il cervello. Ora vedo quello che hanno fatto di te e, credimi, mi sento profondamente infelice in questo momento.» «Laila, lascia perdere, vai a riposare» insistette sua madre. «No, non è ora di andare a dormire. Oggi è venerdì, ero d'accordo con alcune amiche per uscire. Non tornerò tardi.» Mohamed guardò sua sorella e subito dopo sua madre senza sapere cosa dire. Era estenuato dalla discussione. Si sentiva devastato dentro. Il rossore gli copriva il viso e il collo. Il suo orologio segnava le undici di sera e sua sorella si preparava per uscire, o almeno questo gli era sembrato di capire. Era possibile che fosse davvero così e che sua madre non avesse fatto alcuna obiezione? Lei parve leggergli il pensiero e alzò la mano in un gesto che sembrava chiedergli calma. «Tua sorella esce quando vuole. Non è mai rientrata troppo tardi, è una ragazza giudiziosa e prudente.» «Mia sorella esce da sola di notte? Ti sembra il comportamento di una donna decente? E tu glielo permetti? E mio padre? Cosa dice mio padre? Come è possibile che mio padre accetti questa situazione? Dovrebbe ucciderla...» «Stai zitto! Come osi dire una cosa simile? È tua sorella!» «È una donna perduta!» «Taci! Come è possibile che tu non capisca? Dove credi che viviamo? Qui siamo in Spagna, o l'hai dimenticato? E tu vieni da Francoforte. O lì le donne sono diverse? Questo non è il nostro villaggio in Marocco, lo sai bene; qui le donne hanno i loro diritti, e perfino lì cominciano ad averne. Tua sorella... ha ragione in alcune delle cose che dice. Il mondo è cambiato...»
«Madre! Anche tu sei impazzita?» Mohamed diede un altro pugno sul tavolo e i bambini scoppiarono a piangere. Erano rimasti in silenzio, temendo di farsi notare, ma per loro la tensione era diventata insopportabile e non riuscirono a trattenersi. Fatima cercò di tranquillizzarli, atterrita dalla reazione che avrebbe potuto avere suo marito. Ma Mohamed si limitò a ordinarle di portare a letto i piccoli. Fatima si alzò rapidamente e con i bambini per mano uscì in fretta dalla sala temendo che suo marito cambiasse idea e potesse scaricare la sua furia sulla sua schiena. Non sarebbe stato il primo uomo a sfogare la propria frustrazione picchiando la moglie e i figli. Nella sala rimasero faccia a faccia Mohamed e sua madre. La donna sosteneva lo sguardo furibondo del figlio sapendo che questi non avrebbe mai osato mancarle di rispetto. «Lasciami solo.» «Lo farò quando avrò finito di sparecchiare. Dovresti riposare e chiarirti le idee. Sono una donna ignorante, ma mi accorgo che ti hanno cambiato, non so se in Pakistan o a Francoforte, non so chi né perché. Ma leggo nei tuoi occhi la sventura.» «Taci, madre, e lasciami in pace!» La donna non insistette. Uscì dalla sala e tornò un minuto dopo con un grande vassoio sul quale cominciò a sistemare con cura piatti e coperti. Mohamed era come assente, immerso nei suoi pensieri, ma la madre leggeva sul suo volto sofferenza e confusione. Improvvisamente intuì che l'arrivo di Mohamed avrebbe portato con sé una grande disgrazia e non poté fare a meno di rabbrividire. 9 Laila scendeva con passo rapido per le stradine dell'Albacín. Aveva appuntamento in un piccolo pub nel centro di Granada con due colleghe dello studio. Il pub Generalife era il punto d'incontro di buona parte dei giovani della città; lì eri sicuro di incontrare amici e conoscenti, soprattutto nel fine settimana. Quando entrò, la sua amica Paula le fece un cenno per indicarle dove erano sedute. «Sei in ritardo» la rimproverò l'amica. «Hai ragione, ma è appena arrivato mio fratello. Era così tanto che non stavamo insieme! Lo sai che vive in Germania.»
«Non lo vedo da un'eternità. È ancora tanto bello?» chiese la sua amica Carmen. «Sì, come sempre» rispose Laila svogliatamente. «Era bellissimo e rimorchiava un sacco» insistette Carmen. «Adesso si è sposato e ha due figli.» «Si è sposato! E quando?» volle sapere Paula. «Da poco.» «E i bambini?» domandò curiosa Carmen. «Sono del primo matrimonio di sua moglie.» «Si è inguaiato alla grande!» esclamò Carmen. «Perché?» Laila avrebbe voluto mettere fine alla conversazione, ma non voleva essere scortese con le sue due migliori amiche. «Be'... perché tuo fratello era più giovane di noi di due o tre anni, quindi deve andare per la trentina, ed essere padre di due figli è una brutta cosa. Ha finito gli studi?» «Sì, ha studiato turismo e se n'è andato in Germania per imparare bene il tedesco. Lì abbiamo dei parenti... Ma voi avete già cenato?» «Sì, abbiamo ordinato degli spiedini» rispose Paula. «Ah, guarda che mi ha chiamato Alberto per dirmi che passerà qui con Javier; stanno per arrivare.» Laila chiese un'acqua tonica e prese distrattamente una sigaretta dal pacchetto che Paula teneva sul tavolo. «Hai ripreso a fumare?» le chiese quest'ultima. «No, è che... insomma, sono un po' nervosa; e comunque non ho smesso del tutto di fumare, di tanto in tanto ne accendo ancora una.» Carmen cominciò a raccontarle i dettagli della riunione avuta nel pomeriggio con un nuovo cliente che era in corso di separazione matrimoniale. Con gran sollievo di Laila, quella conversazione le distrasse tutte e tre; preferiva dimenticare lo scontro con suo fratello almeno per un po'. Paula e Carmen non erano solo le sue migliori amiche, ma l'avevano anche fatta entrare nello studio che loro avevano messo in piedi insieme a Javier. Si erano conosciute in facoltà. Loro venivano da un collegio di suore mentre Laila aveva studiato in una scuola pubblica, dove all'inizio tutti la guardavano come una bestia rara. Dimostrare di essere intelligente e ottenere i migliori voti di tutta la classe, oltre a essere una buona amica, sempre pronta ad aiutare gli altri, aveva facilitato la sua integrazione, ma non era stato semplice riuscire a farsi trattare come una di loro. Soprattutto perché suo padre non voleva che lei fa-
cesse ginnastica come le altre ragazzine e la obbligava ad andare a scuola con lo hijab. Poi, un giorno, Laila si era ribellata. Non aveva detto nulla a suo padre, per non offenderlo, ma quando era lontana un centinaio di metri da casa si toglieva il fazzoletto; aveva anche convinto sua madre a comprarle una tuta uguale a quella che portavano tutte le altre ragazze. Sua madre gliel'aveva comprata ed entrambe avevano giurato di custodire il segreto perché suo padre se ne sarebbe vergognato. Laila sentiva un profondo malessere nell'ingannare suo padre e temeva la reazione che avrebbe potuto avere se si fosse accorto che sua madre l'aveva aiutata; non perché potesse maltrattare sua moglie, cosa della quale era incapace, ma per il profondo dolore che avrebbe causato in lui la menzogna. Pertanto, appena compiuti diciotto anni, poco prima di entrare alla facoltà di diritto, Laila aveva detto a suo padre che voleva parlargli. Seduta di fronte a lui gli aveva spiegato che non avrebbe più messo lo hijab, che si sentiva spagnola, che non sapeva sentirsi in altro modo e che appena ne avesse avuto l'opportunità avrebbe optato per quella nazionalità. Suo padre si era messo a gridare e a lamentarsi per la disgrazia di avere una figlia come lei. Aveva anche minacciato di mandarla in Marocco e sposarla con un uomo che le togliesse dalla testa quelle idee assurde. Suo fratello aveva assistito a quella discussione un po' impaurito e un po' turbato; dentro di sé la pensava come suo padre, ma adorava sua sorella e non riusciva ad accettare che la rispedissero in Marocco. In realtà, a quel tempo, Mohamed non aveva molto chiaro cosa fosse bene e cosa invece fosse male. Aveva frequentato la stessa scuola di Laila, usciva con gente della sua età e non gli sarebbe mai venuto in mente di trattare le ragazze in maniera diversa dai suoi amici, anche perché loro stesse non lo avrebbero consentito. Oltretutto, la direttrice della scuola non permetteva nessuna manifestazione maschilista. Donna Piedad era femminista e avrebbe stroncato di netto ogni accenno di discriminazione. In realtà, fu donna Piedad a convincere sua madre a mandare Laila al liceo, e poi l'aiutò anche a ottenere una borsa di studio che le consentisse di andare all'università. Mohamed provava un deferente rispetto per la direttrice della scuola, che con la sua sola presenza era capace di far tacere tutti i bambini della classe, senza dover mai alzare la voce; una donna che emanava autorità. Alla fine, Laila aveva ottenuto ciò che voleva. Non nascondeva più a suo padre che usciva di casa senza fazzoletto. A denti stretti, suo padre aveva accettato la nuova situazione. Laila cercava di vestirsi in modo discreto,
con gonne sempre sotto al ginocchio. Non indossava magliette attillate come le altre ragazze della sua età e nemmeno scollature, ma tranne che per questi dettagli si vestiva esattamente come le altre. Sapeva di aver vinto una battaglia importante con suo padre, ma non voleva che lui si sentisse totalmente sconfitto; né tanto meno che la vergogna gli facesse abbassare lo sguardo quando la incontrava. Alberto e Javier entrarono nel pub, e Paula alzò la mano per farsi notare. Alberto aveva un negozio di materiale informatico proprio all'angolo della strada dove si trovava lo studio. Javier invece era loro socio e si occupava di diritto commerciale. Era anche cugino e compagno di corso di Carmen che, con le due amiche, si occupava di diritto di famiglia. «Avete cenato?» chiese Javier. «Sì, abbiamo preso degli spiedini» rispose Carmen. «Io e Alberto abbiamo una fame da lupi, ma se voi avete già cenato mangiamo un boccone qui e poi andiamo da qualche parte. Cosa ti succede, Laila?» La domanda di Javier la fece sussultare. Non riusciva a smettere di pensare alla discussione avuta con suo fratello, ed era talmente assorta da non sentire quasi le voci degli amici accanto a lei. «È strana» notò Paula «e invece dovrebbe essere contenta perché suo fratello è appena arrivato a Granada. Dài, forza! Su con la vita!» «Guarda che non è niente, sono solo un po' stanca.» «La verità è che ti stanchi tantissimo facendo dottrina a quelle donne...» protestò Paula. «Avanti, lasciatela stare» intervenne Carmen «avrà diritto anche lei ad avere una giornata storta. A voi non capita mai?» «Come va la tua scuola?» volle sapere Alberto. «Bene. Vengono sempre più donne, siamo già quindici. Niente male. Spero di aumentare il numero, anche se quando ho iniziato mi sarei accontentata di molto meno.» «Oggi ho rivisto quel brutto ceffo» spiegò Carmen. «Quello che insulta le tue allieve quando escono dallo studio. Non te l'ho detto, ma ho minacciato di chiamare la polizia e se n'è andato. Pensa che razza di cretino!» Laila si morse il labbro. Paula e Carmen non solo contavano su di lei come avvocato, ma le avevano anche ceduto una sala che lei aveva trasformato in una madrasa. Lì si riuniva con altre donne musulmane a parlare del Corano; pregavano e studiavano, e Laila le aiutava come poteva, conoscendo le loro difficoltà familiari. Alcune erano molto giovani e viveva-
no un pesante conflitto con i genitori, difendendo frammenti di libertà. Non volevano portare il fazzoletto, volevano uscire con ragazzi e ragazze come gli altri loro coetanei, avevano imparato a scuola che tutti gli esseri umani erano uguali e che la costituzione spagnola garantiva che nessuno poteva essere discriminato per ragioni di sesso o di religione. Avevano vissuto la schizofrenia di essere una persona a scuola e un'altra nel recinto familiare, e cercavano disperatamente un equilibrio tra due mondi che, ineluttabilmente, sembravano destinati al contrasto. Nell'ultimo mese avevano trovato la sgradita sorpresa di un giovane musulmano che faceva la guardia in strada, di fronte al portone dello studio, e le insultava, invitandole a tornarsene a casa. Javier e Alberto gli avevano chiesto spiegazioni, ma lui li aveva minacciati, dicendo che avrebbero pagato a carissimo prezzo il fatto di stare insieme a quelle donne. Fino ad allora, però, la situazione non era andata oltre. «Dovremo chiamare davvero la polizia» disse Javier. «Quel tipo può essere uno squilibrato.» «Sì, bisogna esserlo davvero per perseguitare un gruppo di ragazze che si riuniscono a pregare» aggiunse Alberto. «È un fanatico. Quello che non so è fin dove è disposto ad arrivare.» Per un istante calò il silenzio e tutti guardarono Laila, che aveva detto esattamente quello che loro pensavano ma non osavano esprimere per timore di offenderla. «La cosa migliore è sporgere denuncia» insistette Javier «e così vedremo chi è e cosa succede.» «Io lo so chi è» affermò Laila. «Sai chi è? E perché non ce l'hai detto?» volle sapere Carmen. «Non so come si chiama, ma l'ho visto in giro per l'Albacín. Frequenta un gruppo di ragazzi che... mi sembrano tutti fanatici.» «Allora dobbiamo fare attenzione» disse Paula preoccupata. «Non vorrei che uno di questi giorni riuscisse davvero a spaventarci.» «La cosa migliore sarebbe che io trovassi un altro posto dove riunirmi con le mie alunne. Così smetteranno di darvi fastidio.» «Ma che sciocchezza!» intervenne Javier. «No, non è una sciocchezza. Siete stati molto generosi con me, ma non voglio che abbiate problemi per colpa mia. Questo non ha nulla a che vedere con voi, quindi mi cercherò un appartamento economico per organizzare la madrasa.»
«Non se ne parla nemmeno!» disse Paula. «Non ti lasceremo sola; se è un fanatico lo faremo arrestare, tu non stai facendo nulla di male. È lui che vuole intimorirvi.» «Credo che dovresti parlarne con qualcuno per scoprire se quel pazzo è pericoloso o se sta facendo solo scena» argomentò Alberto. «Mio padre conosce il delegato del governo. Forse potrebbe chiedergli cosa si fa in questi casi» affermò Paula. «Va bene, scordiamoci quel cretino e andiamo a bere qualcosa, visto che abbiamo lavorato tutta la settimana.» Tutti gli altri seguirono il consiglio di Javier e accantonarono il problema. Pur essendo preoccupata, Laila decise di accompagnare i suoi amici per dimenticare la discussione con il fratello. 10 Darwish aprì la porta con gesto stanco. Lavorava tutta la notte come custode di un cantiere; alla sua età era sempre meglio che salire su un'impalcatura, ma anche così era sfinito. Si diresse in cucina sicuro di trovare sua moglie intenta a preparare la colazione. Laila di sicuro stava dormendo perché era sabato e non lavorava; anche lui aveva davanti due giorni di riposo. Quando entrò in cucina, sua moglie era affaccendata a preparare il caffè e non si accorse della sua presenza. «Ciao, moglie!» La donna si voltò nervosamente, e nel suo sguardo Darwish lesse la paura. «Che succede?» domandò allarmato. «Niente, niente, è arrivato Mohamed. Ora sta dormendo con sua moglie e i suoi figli, ma se vuoi vado a chiamarlo...» «Mio figlio? Ma... quando?» «È arrivato ieri pomeriggio e... ti racconterà lui, si è sposato con la sorella di Hasan, la moglie di Yusuf...» «Cosa dici, moglie? Spiegami bene, non ti capisco.» «Yusuf è morto... a quanto pare, be'... nostro figlio ti racconterà. Lui si è sposato con la moglie di Yusuf e adesso abbiamo due nipoti.» Darwish rimase a guardare la moglie, sorpreso dal suo nervosismo e dalla sua mancanza di allegria davanti all'arrivo del figlio. Parlava di lui come se si trattasse di un estraneo.
«Che cosa ti succede, moglie?» «Niente? Cosa vuoi che mi succeda?» «Sono stanco, ho sonno, arrivo a casa, mi annunci che è arrivato nostro figlio e me lo dici come se si trattasse di una disgrazia. Perché? Ti dispiace proprio tanto che si sia sposato? È vero, avrebbe dovuto chiedermi il permesso, ma se ha sposato la sorella di Hasan... per noi si tratta di un onore, e comunque Mohamed ci spiegherà perché lo ha fatto senza avvisare.» «Sì, certo. Hai fame?» «Un po'. Ma preferisco riposare. Prenderò un bicchiere di latte con qualcosa di dolce e andrò a dormire, ma chiamami quando si sveglia mio figlio. E Laila?» «Dorme.» «Ha già visto suo fratello?» «Ieri sera.» «Non mi dici nient'altro?» Darwish si stava irritando per l'atteggiamento di sua moglie. Non capiva perché fosse così turbata, né il nervosismo rivelato dai suoi movimenti e quello sguardo perso. Era una buona moglie ed era stata una madre eccellente, totalmente votata alla cura dei figli. Anche lei aveva lavorato duro, pulendo gli appartamenti delle famiglie borghesi della città, cosa che indubbiamente aveva contribuito a mantenere la casa e a far sì che i suoi figli potessero studiare. Si sedette e sospirò. Avrebbe aspettato di parlare con Mohamed e di conoscere la sua sposa. Era troppo stanco per far caso allo stato d'animo di sua moglie. Non si svegliò fino alle due del pomeriggio. Faticava ad aprire gli occhi per la stanchezza, ma sua moglie lo invitava ad alzarsi, ricordandogli che c'era Mohamed a casa. «Dammi qualche minuto per lavarmi. Dov'è mio figlio?» «Sono tutti in sala ed è già ora di mangiare.» «Perché non mi hai avvisato prima?» «Mohamed mi ha chiesto di farti riposare.» «E Laila?» «È uscita stamattina, starà per arrivare.» «Bene, mangeremo tutti insieme. Spero che ti sia data da fare: sono due anni che non vediamo nostro figlio.» «Ho preparato il cuscus d'agnello, che piace a tutti.» Quando Darwish entrò in sala ebbe appena il tempo di guardare il figlio,
perché questi lo abbracciò immediatamente. Fatima li osservava in piedi in un angolo, vicino ai suoi figli. Darwish diede loro il benvenuto in famiglia e salutò i bambini tentando di abituarsi all'idea che fossero i suoi nipoti e che da quel momento avrebbe dovuto trattarli come tali. Chiese notizie di Laila e sua moglie, nervosa, gli fece segno che non era ancora rientrata. «La aspetteremo, non tarderà. Il sabato mangiamo sempre insieme: è uno dei pochi giorni in cui tua sorella non lavora.» «Di mia sorella dovremo parlare» sentenziò Mohamed davanti allo sguardo preoccupato di sua madre. «Di Laila? E perché?» chiese Darwish intuendo la risposta. «Non porta lo hijab, e, stando a quello che lei stessa mi ha raccontato, ha aperto una scuola dove insegna il Corano. Mi vergogno di lei.» «Ti vergogni? Tua sorella non fa niente di cui tu ti debba vergognare» rispose Darwish. «È impetuosa, però è una buona credente e non ha mai abbandonato la retta via del Corano... Ma di Laila parleremo più tardi; adesso, figlio mio, raccontami di te, di tua moglie e dei bambini, e dammi notizie di Francoforte. Devi sapere, Fatima, che consideriamo tuo fratello Hasan la nostra guida ed è un onore che tu abbia unito le nostre due famiglie.» Mohamed le ordinò di andare con i bambini in cucina ad aiutare sua madre, per rimanere solo con il padre. Quando i due uomini sedettero faccia a faccia, Mohamed raccontò minuziosamente a suo padre i dettagli degli accadimenti di Francoforte. Ogni parola che ascoltò fu per Darwish una pugnalata al cuore. Una cosa era partecipare alle idee del Circolo, proteggere i suoi membri, sognare che un giorno la religione islamica sarebbe stata l'unica e che i cristiani non avrebbero avuto altro rimedio che convertirsi, come di fatto stava già accadendo a Granada, dove erano sempre di più gli spagnoli apostati che diventavano musulmani... Tutt'altra cosa era che suo figlio fosse diventato un mujaheddin disposto a uccidere e a morire e, cosa ancor più sorprendente, che avesse partecipato all'attentato al cinema di Francoforte, dove erano morte trenta persone, e che ci fosse stato anche lui in quell'appartamento di Francoforte dove il gruppo di mujaheddin aveva dovuto sacrificarsi offrendosi al martirio perché la polizia non li arrestasse. Sapeva che Yusuf era morto lì, ma non immaginava ci fosse anche suo figlio con lui. Solo Mohamed si era salvato, perché doveva distruggere dei documenti
che assicurava di aver fatto in mille pezzi e poi bruciato. Darwish guardava il figlio con incredulità, sapendo che lui stava aspettando la sua approvazione, e si sentiva lacerato. Suo figlio aveva partecipato alla mattanza nel cinema e lui aveva visto in televisione le immagini dei corpi fatti a pezzi, compresi quelli di alcuni bambini. Si disse che in Iraq morivano bambini tutti i giorni e che in Palestina non passava settimana senza che l'esercito israeliano sparasse su qualche innocente. Si disse che erano in guerra e in guerra si uccide e si muore, e che l'unica cosa da non fare è provare pietà perché la pietà rende deboli. Malgrado questa riflessione, però, provava un violento senso di nausea mentre guardava Mohamed che era diventato un uomo diverso. Forse, però, suo figlio era diventato solo ciò che lui aveva voluto che fosse; altrimenti perché gli avrebbe permesso di andare a Francoforte sotto la protezione di Hasan e persino in Pakistan? Lui sapeva che se Mohamed avesse iniziato quel viaggio non sarebbe mai più stato lo stesso, eppure adesso che si trovava di fronte al fatto compiuto sentiva in bocca un sapore amaro. «Perché avete scelto un cinema? C'erano donne e bambini...» osò dire timidamente. «Lì c'erano solo dei nemici e per questo sono morti. O credi che quelle donne non fossero contente quando ci vedevano cadere in Iraq o in Palestina? I loro figli erano futuri combattenti; se fossero cresciuti, avrebbero lottato contro di noi. Padre, spero che le tue convinzioni non vacillino...» «Figlio!» «Non vedere donne e bambini. Cerca di vedere quello che sono: nemici di retroguardia che bisogna eliminare Non è difficile uccidere quando sai perché lo stai facendo.» «E tu? Perché lo fai?» Laila era già da qualche minuto sulla soglia e aveva ascoltato buona parte delle spiegazioni di suo fratello senza che lui e suo padre si fossero accorti della sua presenza. Il racconto di Mohamed le aveva tirato fuori le lacrime dal più profondo dell'anima. Non riusciva a riconoscere suo fratello nell'assassino che vedeva seduto nella sala di casa a discutere con suo padre. «Laila!» gridò Darwish di soprassalto. «Esci da qui! Questa è una conversazione da uomini.» «Da uomini? Quello che Mohamed ha raccontato è orribile! Come hai potuto farlo? Come hai potuto...» gridò Laila con gli occhi annegati di pianto.
«Fuori di qui!» le ordinò suo fratello furioso. «Esci prima che ti prenda a schiaffi, disgraziata. E copriti la testa se non vuoi che te la copra io.» «Provaci! Devi soltanto provarci!» Sua madre e Fatima entrarono in sala spaventate dalle urla, e Laila si rifugiò piangendo tra le braccia della madre. «È un assassino! Ha ucciso tutta quella povera gente nel cinema di Francoforte. Oh, Misericordioso! Come hai potuto permetterlo?» Fatima chinò il capo un po' per la vergogna e un po' per il timore. Lei sapeva che Mohamed aveva partecipato alla mattanza di Francoforte, come pure Yusuf, il suo primo marito, ma la cosa li aveva resi degli eroi ai suoi occhi, perché la sua visione della realtà era la stessa del fratello Hasan e della comunità. Eppure le lacrime di Laila la commuovevano e la facevano dubitare. Laila abbandonò la sala e piangendo si rinchiuse nella sua stanza, mentre la madre insisteva perché aprisse la porta. Darwish e Mohamed non si mossero dalla sala, e Fatima tornò a rifugiarsi in cucina con i due piccoli, temendo quello che poteva accadere. I due uomini mangiarono da soli e rimasero a parlare fino al pomeriggio inoltrato, poi Darwish si avvicinò alla camera di Laila e le ordinò di uscire immediatamente. Quando Laila aprì la porta a stento si distinguevano gli occhi, gonfi di pianto. «Lavati la faccia e vieni in sala; dobbiamo parlare» le ordinò suo padre. Lentamente si incamminò verso il bagno dove si sfregò la faccia con l'acqua fredda tentando di soffocare le nuove lacrime che le scorrevano sulle guance. Quando finalmente si presentò in sala dove l'aspettavano suo padre e suo fratello, si sentiva piccola e sfinita. «Ora tu mi ascolterai e obbedirai, perché in caso contrario potresti attirare delle disgrazie sulla nostra famiglia» le disse suo padre a mo' di preambolo, ma Laila neanche rispose, chinando la testa. «Siamo in guerra, Laila, per quanto tu non voglia vederla così. È arrivato il momento di difenderci, di saldare tutti gli affronti, tutte le umiliazioni alle quali i cristiani ci hanno sottomessi negli ultimi secoli. Ci hanno messo all'angolo, spogliato e depredato fino a tentare di ridurci a nulla, e molti dei nostri dirigenti si sono lasciati corrompere dall'Occidente. Ma Allah vuole che questa situazione finisca e per questo ha ispirato alcuni uomini santi affinché guidino una nuova comunità di credenti, dove i puri di cuore dovranno sacrificarsi per fare in modo che la bandiera dell'Islam torni a sventolare in ogni angolo
del mondo.» «Uccidendo degli innocenti?» si azzardò a domandare con un filo di voce. «Ma è possibile che tu non capisca?» esclamò furioso suo padre. «No, non lo capisco. Non capisco il fanatismo. Non capisco perché musulmani e cristiani non possano vivere insieme. Non capisco perché gli esseri umani si impegnino a trasformare le differenze in una barriera invalicabile. Non lo capisco perché non credo che Allah sia diverso dal Dio cristiano o al Dio degli ebrei...» Laila non poté continuare il discorso perché suo fratello si alzò con straordinaria rapidità e la colpì tanto forte da farla quasi cadere. «Blasfema!» gridò Mohamed tenendo il pugno alzato sopra il volto della sorella. Darwish si frappose per evitare che Mohamed la colpisse di nuovo. Si sentiva impotente davanti alla situazione. Sua moglie entrò in sala gridando anche lei nel vedere la figlia con un occhio nero e il labbro spaccato e sanguinante a causa del colpo di Mohamed. «Che Allah abbia misericordia di noi! Cosa abbiamo fatto di male?» gridava la madre, impaurita, abbracciando Laila. «Voi avete la colpa di tutto questo!» gridò Mohamed ai genitori. «Non avreste mai dovuto permetterle di arrivare a questo punto. Tu, madre, hai ingannato mio padre nascondendo le mancanze di Laila, tu sei responsabile!» La donna chinò il capo, impaurita. Non riconosceva suo figlio in quel giovane carico di rabbia che gridava minaccioso, ma non ebbe il coraggio di rispondergli, non tentò neanche di difendersi, sapendo che se avesse detto anche una sola parola avrebbe potuto farlo infuriare ancora di più. Non sapeva nemmeno come avrebbe reagito suo marito. Fino ad allora era stato un buon uomo che non aveva mai picchiato né lei né Laila, ma ora vedeva nei suoi occhi un lampo strano che non sapeva come interpretare. Abbracciata a Laila e contenendo le lacrime, si disse che l'unica cosa da fare era tentare di proteggere sua figlia con il proprio corpo se Mohamed avesse insistito nel volerla picchiare. I secondi scorrevano eterni finché, finalmente, suo marito parlò. «Portala via, e fai in modo che non esca dalla sua stanza fino a quando non lo dirò io. Laila deve obbedire. Mohamed ha ragione.» A stento riuscì a rimettere sua figlia in piedi e trascinarla fuori dalla sala.
Fatima, che se ne era stata immobile sulla soglia della cucina, le andò subito incontro per aiutarla a portare Laila. Insieme la sdraiarono sul letto e con lo sguardo si dissero ciò che dovevano fare. Fatima rimase insieme alla giovane mentre la madre usciva dalla stanza in cerca della valigetta dei medicinali. Laila riusciva a malapena a parlare. Le facevano male la testa e l'occhio, aveva la vista annebbiata e il labbro gonfio per il pugno. Con gesti attenti sua madre le pulì le ferite mentre Fatima le teneva ferma la testa, poi le diede un analgesico. «Credi che dovrebbe vederla un medico?» chiese sottovoce a Fatima. «No, no, si riprenderà. Se venisse un medico potrebbe... insomma, potrebbe denunciarci e questo sarebbe terribile per tutti. Non preoccuparti, Laila si riprenderà.» La donna la guardò e annuì. Fatima stava proteggendo Mohamed; in realtà stava proteggendo tutti loro, ma, pur sapendo che sua nuora aveva ragione, sentì un pizzico di rimorso per non avere il coraggio di fare quello che riteneva giusto, ovvero chiamare un medico a visitare sua figlia. «Dovremmo darle qualcosa per farla dormire» propose Fatima. «Domani starà meglio.» «Non so... forse dovremmo aspettare... Tu pensa agli uomini e ai tuoi figli, io resto qui con lei.» Fatima uscì dalla stanza cercando di non far rumore perché né suo marito né suo suocero le facessero caso. Aveva paura, paura di Mohamed, paura di ciò che stava succedendo in quella casa. I bambini erano in cucina e giocavano in silenzio. La madre li aveva avvertiti che non dovevano disturbare e ancor meno far arrabbiare il loro nuovo padre che, istintivamente, i piccoli temevano. Così, seduti per terra, giocavano con le automobiline di plastica senza fare rumore. Mohamed e Darwish stavano ancora parlando in sala e, malgrado la porta chiusa, di tanto in tanto Fatima sentiva la voce stridente di suo marito. Accarezzò la testa dei piccoli e sussurrò loro di comportarsi bene e andare a letto presto per non disturbare gli adulti. I bambini non osarono protestare e lei vide chiaramente nei loro occhi quanto fossero tristi e spaventati. Ma Fatima non si lasciò commuovere più di un secondo dal visino triste dei suoi figli. Le cose stavano così e non si poteva fare nulla. Laila le era simpatica, ma la sua testardaggine rischiava di provocare una disgrazia. Le donne dovevano obbedire agli uomini e accettare che pensassero e decidessero per loro. Non sapeva cosa pretendesse Laila, ma in ogni caso, si
disse, sua cognata si sbagliava. Mohamed e suo padre discutevano dell'accaduto. «Questa è casa mia e sono io che decido quello che si deve fare. Se tua sorella merita un castigo è responsabilità mia castigarla, pertanto...» «Padre!» lo interruppe Mohamed. «Tu non sei capace di tenerla al suo posto. È una vergogna che vada in giro senza velo, e guarda come si veste, non si distingue dalle cristiane. Mi sorprende che non abbia un pizzico di umiltà e osi addirittura tenere testa a noi uomini. Bisogna mettere fine a questa situazione. Non deve tornare in quello studio dove lavora, e bisogna obbligarla a non scandalizzare il Circolo, riunendosi con buone musulmane alle quali riempie la testa di fantasie. Laila che insegna il Corano! Una follia! Bisogna impedirglielo se non vogliamo che i nostri fratelli ci giudichino empi. Hasan mi ha avvertito: o siamo in grado di mettere fine a questa situazione oppure lo farà la comunità. Che razza di uomini siamo se non riusciamo a farci obbedire dalle donne della nostra casa?» «Domani parlerò con lei, ma tu intanto lasciala stare» sentenziò suo padre. «Ma se non riuscirai a farla ragionare, allora lo farò io.» Squillò il telefono e Mohamed alzò la cornetta con gesto deciso. «Chi è?» chiese. Rimase in ascolto un secondo mentre l'ira gli arrossava di nuovo il viso. «No, Laila non c'è, e non provi a chiamarla mai più. Non le permetto di parlare con mia sorella.» Suo padre lo guardò aspettando che gli dicesse chi era, ma Mohamed diede un pugno sul tavolo e di nuovo si mise a gridare. «Un uomo chiedeva di Laila! Quell'essere indecente ha il coraggio di chiamare a casa nostra. Come avete potuto consentire una cosa simile?» «Mohamed, qui siamo in Spagna; figlio mio, renditi conto, non è facile proibirle tutto. Laila deve lavorare, tratta con le persone. Hai vissuto qui e in Germania, sai che le donne e gli uomini lavorano insieme e sai che questo succede anche in Marocco nelle città; l'importante è il modo in cui si comportano, e ti assicuro che tua sorella non ha mai fatto niente di cui dobbiamo vergognarci, è una brava ragazza, una buona credente...» «Ma come puoi difenderla? Non ti rendi conto di cosa significa quello che fa Laila? Che senso ha la nostra lotta se le nostre donne si comportano come volgari prostitute?» «Figlio, per vincere questa guerra dobbiamo essere cauti e non attirare l'attenzione. Non possiamo rinchiudere Laila, deve continuare a lavora-
re...» «D'ora in avanti si comporterà in maniera differente, e non uscirà senza fazzoletto. Non glielo permetterò.» Padre e figlio si guardarono sfiniti. Stavano parlando da molte ore e lo scontro con Laila aveva lasciato tracce in entrambi. Era ora che ognuno restasse solo con se stesso a meditare. «Perché non porti tua moglie a vedere Granada? Non è ancora tardi; tua madre vi può lasciare la cena preparata e occuparsi dei bambini...» «Sì, mi farà bene uscire un po'.» Mohamed lasciò suo padre nella sala e andò a cercare Fatima, anche se avrebbe preferito uscire senza di lei. Non che la donna lo disturbasse, visto che cercava di farsi notare il meno possibile, ma la sentiva comunque come un peso. Pensò che non avevano ancora diviso il letto e che non poteva più rinviare questo momento, la sua famiglia e quella di Fatima speravano che avessero dei figli. Sentì un pizzico di ripugnanza alla bocca dello stomaco; sua moglie non gli piaceva fisicamente e non sapeva come sarebbe riuscito a possederla. Il pensiero lo fece ulteriormente infuriare ed ebbe la tentazione di entrare in cucina e picchiarla, ma si trattenne: lei era la sorella di Hasan e lui avrebbe potuto sentirsi offeso se l'avesse fatto. «Moglie, andiamo.» Fatima non osò neanche fiatare e, scambiando uno sguardo con i suoi figli, comunicò loro con gli occhi di evitare domande mentre lei si aggiustava la galabeja e seguiva suo marito verso la porta. Sperava che sua suocera si prendesse cura dei piccoli. Avrebbe voluto chiederglielo, ma sapeva che non doveva; Mohamed non avrebbe tollerato il minimo ritardo, per cui uscì di casa con aria mansueta camminando un passo indietro a suo marito senza osare dirgli niente. A quell'ora Granada profumava di zagare e Mohamed cominciò a sentirsi più tranquillo riscoprendo gli angoli della sua infanzia avvolti dall'aroma inconfondibile di quei fiori minuscoli che apparivano solo di notte per ubriacare i sensi. Scesero le strade ripide dell'Albacín fino a giungere sulla riva del fiume, dove a quell'ora gruppi di giovani si riunivano nei bar. Mohamed sospirò ricordando gli anni vissuti a Granada, quando lui stesso frequentava quei bar con i suoi amici. Pensò di raccontarlo a Fatima, ma la sentiva troppo estranea per renderla partecipe dei suoi ricordi e delle sue emozioni, quindi tornò a perdersi nei propri pensieri mentre assaporava con gli occhi ognuno degli angoli riscoperti.
All'improvviso si ricordò che lì vicino c'era un pub dove era solito trovarsi con gli amici, e prese quella direzione rammaricandosi per la compagnia di Fatima. Quel pub non era un posto dove si poteva portare una moglie. Al Palacio Rojo erano soliti riunirsi gli spacciatori della zona prima di mettersi in giro a smerciare la droga. Lui era stato uno di loro prima di trasferirsi in Germania. A sedici anni aveva cominciato a darsi da fare con l'hashish ed era soddisfatto del denaro messo insieme con quell'attività. Era diventato spacciatore perché Alì, il suo migliore amico, glielo aveva proposto; lui avrebbe portato l'hashish dal Marocco e Mohamed e i suoi amici lo avrebbero venduto ricavando delle buone commissioni. Aveva accettato l'affare senza pensarci ed era divenuto, oltre che distributore, anche consumatore. Quando aspirava il fumo nero dell'hashish sentiva i sensi affinarsi e gli pareva di essere padrone del mondo. Il bello era che diventare spacciatore gli aveva aperto porte che altrimenti sarebbero rimaste vietate: quelle di tutti i signorini che vivevano nelle zone residenziali della città e che si rivolgevano a lui supplicandolo perché vendesse loro un po' di quella merda. A volte lo invitavano perfino alle loro feste. Si era divertito alla grande con quelle ragazze così carine che accettavano le sue carezze in cambio dell'erba. Decise di entrare al Palacio Rojo per vedere se trovava qualcuno dei suoi vecchi colleghi e comprare un panetto di hashish. Era quello di cui aveva bisogno per potersi portare a letto Fatima, si disse, convinto che nessuno se ne sarebbe accorto. Sapeva che se fosse arrivato alle orecchie di Hasan che aveva ricominciato a fumare, sarebbe stato espulso dal Circolo. Hasan lo aveva avvertito prima di spedirlo in Pakistan e accettarlo tra i suoi uomini: niente droghe, vietato comportarsi come quei cristiani corrotti capaci di uccidere la madre per una dose. Ma Hasan era lontano e lui doveva consumare il matrimonio con Fatima: solo dopo una buona canna si sarebbe sentito in grado di affrontare la situazione. «Resta qui un momento, vado a vedere se c'è un amico.» «Qui, da sola?» trovò il coraggio di chiedere Fatima. «Moglie, non ti accadrà niente! È solo un momento.» Spinse la porta e sorrise vedendo che nulla era cambiato al Palacio Rojo; neanche Paco, che era ancora dietro il bancone. «Guarda chi c'è!» esclamò Paco vedendolo. «Dove sei finito? Sei sparito da anni! Avevi detto di avere non so quale borsa di studio e poi non ti sei più fatto vedere.»
«Ciao Paco. Come va?» «Come sempre, niente di nuovo. Be', qualche tuo collega voleva fare il furbo ed è finito in galera.» «È da tanto che non so più niente di loro... che fine hanno fatto Alì e Pedro?» «Alì è sparito esattamente come te e Pedro è nel carcere di Cordoba. L'hanno preso con un carico di pasticche che sarebbe stato in grado di rifornire mezza Spagna.» «E di Alì non sai niente?» «So quello che si dice. Qualcuno dice che è tornato in Marocco, qualche altro che lo ha beccato la polizia e adesso è in galera a scontare la pena. Altri dicono che è diventato un fanatico e sta mettendo bombe in Iraq. Chi ci capisce è bravo... Oddio, lui era un po' fuori di testa. E tu invece, cosa mi racconti?» «Niente di speciale. Ho finito i miei studi in Germania e sono tornato a trovare i miei genitori. Ah, mi sono sposato!» «Bel casino! Ma come ti è venuto in mente di sposarti?» «Be', non mi pare sia una cosa così strana... Comunque, conosci qualcuno che vende roba buona?» «Vuoi dire che neanche il matrimonio ti ha allontanato da quella merda? Be', prova dal tipo del tavolo in fondo, che è "moro" come te. Quello vende di tutto.» Mohamed non sapeva se andare dall'uomo che Paco gli aveva indicato. Temeva che potesse riconoscerlo e far arrivare la cosa alle orecchie di Hasan, ma decise di correre il rischio: senza fumare un po' di hashish non sarebbe riuscito a portarsi a letto Fatima. In un paio di minuti comprò un panetto di hashish e uscì dal locale assicurando a Paco che sarebbe tornato presto, anche se in realtà non aveva alcuna intenzione di farlo. «Andiamo. Mangeremo qualcosa prima di tornare a casa.» Fatima lo guardò sorpresa. Non si aspettava che suo marito la invitasse a mangiare fuori; era cosciente del senso di repulsione che suscitava in lui. Camminarono l'uno vicino all'altra senza dire una parola fino a un piccolo bar dal quale si vedeva l'Alhambra. Mohamed la condusse a un tavolo in fondo e lui si diresse al bancone. Poco dopo un cameriere si avvicinò con un vassoio sul quale portava due Coca-Cola, un piatto di formaggio e due razioni di tortilla di patate. Mangiarono senza guardarsi, ma alla fine Mohamed la sorprese chie-
dendole di Laila. «Cosa pensi di mia sorella?» Fatima si sentì infuocare in viso mentre cercava le parole giuste per rispondere. «È una brava ragazza, e adesso che tu sei qui, sono sicura che si comporterà meglio» disse temendo di contrariare il marito. «I miei genitori sono stati troppo condiscendenti con mia sorella, non hanno saputo indirizzarla e adesso... mi vergogno di lei.» «Non devi. Lei... in fondo è una brava ragazza.» «È una stupida! Per fortuna ora ci sono qua io per rimetterla a posto.» Non disse altro. Con un gesto chiese il conto e dopo aver pagato si alzò seguito da Fatima. Di nuovo in silenzio camminarono fino all'Albacín. Trovarono la casa al buio. Si diressero verso la loro stanza e trovarono i bambini che dormivano pacificamente sopra un materasso sistemato sul pavimento. «Portali nella stanza di fianco. Non dovrebbero stare qui.» Fatima ebbe un sussulto nell'ascoltare l'ordine di suo marito, sapendo cosa nascondeva. Non disse nulla: svegliò i piccoli e trascinò il materasso fino all'altra stanza, accarezzò loro i capelli e li invitò a riaddormentarsi. Poi, sospirando, tornò in camera da letto, dove trovò Mohamed che fumava l'hashish. Non disse nulla, si sedette sul letto e aspettò gli ordini di suo marito, pregando in silenzio perché ciò che stava per accadere non fosse troppo insopportabile. 11 Ovidio era impegnato a rileggere i documenti che gli aveva consegnato il vescovo Pelizzoli. Aveva scritto su una serie di fogli ognuna delle parole salvate dall'incendio e le teneva disposte sul tavolo come fosse un puzzle. «Certo che sei proprio impegnato!» disse padre Mikel guardandolo con la coda dell'occhio mentre si accendeva una sigaretta. «La verità è che mi sono impantanato» confessò Ovidio «e non vado né avanti né indietro.» «Dovresti dire a quelli di Roma di liberarti da questo lavoro, perché così non riuscirai a concentrarti sulla parrocchia. Scusami se te lo dico, ma ti vedo più preso da quelle carte che dai nostri fedeli. Quale che sia il compito che ti hanno assegnato a Roma, è difficile conciliarlo con i problemi di qui.»
«Hai ragione, ma non ho altra scelta che portare a termine ciò che mi hanno chiesto» si scusò Ovidio. «E tu, Ignacio, potresti anche smettere di leggere la cronaca di quel frate e dare una mano a questo ragazzo. Ormai quel libro devi saperlo a memoria...» Padre Aguirre, che pareva assorto nella lettura del racconto di frate Julián, sedeva su una poltrona vicino al balcone, ma in realtà non si era perso una sola parola della conversazione. Lasciò il libro e si alzò, avvicinandosi a Ovidio. «Sai, Mikel? Ovidio non ha altra scelta che studiare queste carte perché così ha disposto il Santo Padre in persona» disse padre Aguirre in tono stanco. «Il papa in persona!» esclamò padre Mikel. «Be', se lo ha chiesto il papa... ma dovrà esserci qualcun altro che sia in grado di fare il lavoro di Ovidio, perché se va avanti così non riuscirà a concentrarsi sulle questioni della parrocchia» continuò borbottando padre Mikel. «E chi siamo noi per giudicare le ragioni del papa? Noi serviamo la Chiesa là dove essa ci chiede di servirla, e senza battere ciglio» rispose padre Aguirre. «Va bene, io non dico niente. Solo mi dispiace vedere il ragazzo tutto il giorno preoccupato per quelle carte. Dovresti dargli una mano, tu di quelle cose ne sai parecchio.» «Di quali cose?» domandò padre Aguirre. «Di cosa credi stia parlando? Di segreti! L'altro giorno ho sentito Ovidio dire qualcosa a proposito della mattanza di Francoforte, non so cos'abbia a che vedere con la Chiesa. E tu... insomma... se ne parla molto, si dice anche che da quando sei arrivato ti sei dato da fare perché la gente qui smettesse di ammazzarsi.» «E dire che sembravi uno che non si accorge di niente!» esclamò ridendo padre Aguirre. «In realtà, che io sappia, quello è un impegno che abbiamo tutti, no?» «Chiaro!» rispose padre Mikel, ridendo anche lui. «Se posso darvi una mano... magari posso essere utile a qualcosa.» «No, non puoi» rispose rapidamente Ignacio. «Sa, padre? A volte penso che tutti questi segreti non siano giustificati. Cosa c'è di male nel fatto che Mikel e Santiago sappiano a cosa sto lavorando? Io mi fido di loro come...» «Come mai ti sei fidato di qualcuno negli ultimi trent'anni...» terminò la
frase padre Aguirre. «Sì, in effetti.» «Ma devi rispettare le regole, è l'unica maniera di evitare problemi. E nel nostro lavoro la regola d'oro è la discrezione.» «Sì, ma...» «Ovidio, io metterei la mia vita nelle mani di Mikel o di Santiago, ma ci sono fatti che a loro non potrei confidare; non perché non mi fidi, ma perché è meglio per loro.» «A Roma quello che lei dice ha senso, ma qui... mi dispiace, padre, ma qui non ne vedo il motivo.» «Va bene, saprai tu come comportarti. Io ti ricordo solo le regole alle quali dobbiamo sottostare.» «No, non raccontarmi niente» intervenne padre Ezquerra. «Se Ignacio dice che non devi farlo non lo fare, ma almeno consentigli di aiutarti perché anche lui è sempre stato in mezzo ai segreti. Io intanto vado a cercare Santiago che sta con i ragazzi del coro, così magari voi cercate di approfittare al massimo del vostro tempo.» Mikel andò nella sua stanza a prendere il cappotto e il basco e poi salutò i suoi compagni con un secco "Agur". «Che uomo!» commentò ridendo padre Aguirre. «Ha un carattere...» «È un pezzo di pane...» rispose Ovidio. «Lo è, lo è. Ti ho già detto che gli affiderei la mia vita.» «Ma non gli mostrerebbe queste carte, vero?» «È curioso che tu metta in discussione uno dei fondamenti del nostro mestiere.» «È che qui le cose sono diverse. Roma è molto lontana e anche gli intrighi vaticani. Credo che tutto sia più semplice di come lo vediamo quando siamo immersi in quella voragine. Sa una cosa? Io non solo metterei la mia vita nelle mani di padre Mikel e di padre Santiago, ma gli affiderei anche questi documenti.» «Non devi farlo, Ovidio, per il tuo e per il loro bene. Non farlo non ha nulla a che vedere con la mancanza di fiducia.» «Lei però una mano potrebbe darmela davvero...» «No, non dovrei farlo, ma lo farò. Ti sei impantanato e non capisco perché.» «Può essere che la lontananza mi impedisca di pensare come facevo laggiù. Qui tutto è differente.» «Va bene, raccontami tutto e vedrò se posso aiutarti oppure no.»
Ovidio riordinò le carte sul tavolo e cominciò a raccontare il suo incontro con Lorenzo Panetta e Matthew Lucas; poi gli spiegò minuziosamente quello che sapeva sul caso della mattanza di Francoforte. Padre Aguirre lo ascoltava senza muovere un muscolo; di tanto in tanto chiudeva gli occhi come se avesse bisogno di astrarsi del tutto per comprendere quello che gli stava raccontando Ovidio. Quando questi terminò la sua esposizione, riprese a distribuire sul tavolo i fogli sui quali erano scritte le parole trovate sui frammenti recuperati nell'appartamento di Francoforte dove i terroristi si erano fatti esplodere. Ovidio rimase sorpreso dalla smorfia di amarezza e di dolore che sembrava essersi disegnata sul volto dell'anziano sacerdote. «Cosa pensa di quello che le ho raccontato?» Padre Aguirre lo guardò fisso e, con un sospiro di dispiacere, gli rispose: «Cercherò di darti una mano, anche se non dovrei.» «Ma... perché?» volle sapere Ovidio, guardando preoccupato il volto cupo del vecchio gesuita. «Se avessi un figlio mi piacerebbe che fosse come te. Forse per questo, inconsciamente, ti tratto come tale» rispose padre Aguirre. «Grazie, lei per me è molto più di un padre» riuscì a dire, emozionato, Ovidio. «Ci sono domande alle quali non ti risponderò, perché non posso, non devo e non voglio. Però tenterò di aiutarti.» «Grazie.» «Bene, cominciamo. Dimmi a quali conclusioni sei arrivato.» «Questo è il problema, che non sono arrivato a nessuna conclusione. Brancolo nel buio. Quelle parole sembrano non avere alcuna relazione tra di loro: "Karakoz", "Sepolcro", "croce di Roma", "Venerdì", "Saint-Pons", "Lotario", "croce", "santo"... Le frasi, fuori dal loro contesto, sono assurde: "il nostro cielo è aperto solo a coloro che non sono creature", "sangue", "scorrerà il sangue nel cuore del santo"... Non riesco a ricavarne il significato, ma in loro mi sembra di leggere un tono minaccioso, non so perché.» Padre Aguirre si concentrò sulla lettura degli schemi tracciati da Ovidio mentre questi continuava a parlare più con se stesso che con il sacerdote. «Non riesco a immaginare che tipo di carte e di documenti fossero quelli che contenevano simili parole, ma sono sicuro che non abbiano nulla a che vedere con il Corano. Alcune sono parole scritte a mano, e non dalla stessa mano. In alcune coincide il tratto, in altre è evidente che sono state scritte da una persona o da persone diverse. Ho pensato di chiedere un esame cal-
ligrafico; non che ci possa rivelare nulla di trascendentale, ma qualcosa sui suoi autori dovrebbe indicare. L'unica cosa chiara è "Karakoz", che si riferisce a un trafficante di armi.» «Di dov'è?» volle sapere padre Aguirre. «Serbo bosniaco. Un personaggio losco che ha combattuto nella ex Iugoslavia e che adesso si dedica al traffico d'armi. I rapporti dei servizi segreti assicurano che Karakoz è in grado di trovare qualsiasi tipo di arma gli venga richiesta, è solo questione di prezzo. Secondo l'Interpol, negli ultimi anni è stato uno dei fornitori dei gruppi islamici e, senza dubbio, è stato lui a vendere gli esplosivi per la strage di Francoforte.» «Quindi l'unica pista solida che hai è Karakoz. Lo hanno interrogato?» «A quanto pare non vogliono; preferiscono tenerlo sotto controllo per vedere se fa qualche mossa che conduca a una pista concreta. Ma non è facile: si muove come un'anguilla, appare e scompare senza lasciare traccia.» «Karakoz è uno degli estremi del filo.» «Cosa vuole dire?» «Immagina che il caso sia una corda. A un estremo c'è Karakoz, e se tiriamo arriveremo al capo dell'altro estremo. Le possibilità sono due: o aspetti che l'Interpol e il Centro di coordinamento antiterrorismo ti raccontino via via quello che riescono a scoprire riguardo al soggetto in questione, oppure cerchi d scoprirlo con i tuoi mezzi, e indubbiamente ti sarà più facile.» «Immagino che l'unica cosa da fare sia pensare a cosa possono significare quelle parole.» «Un nuovo attentato, è evidente; quello che non sappiamo è dove, come e quando.» Ovidio Sagardía restò a guardare, sorpreso, padre Aguirre. La sua affermazione era stata come una mazzata. Il vecchio gesuita lo guardava senza riuscire a nascondere un sorriso. «Ma, figliolo, è così evidente! Se non fossi così preso dai tuoi problemi personali l'avresti visto, come hanno fatto Panetta e Lucas. Non occorre lavorare in una centrale di intelligence per capire che c'è un piano ben preciso di una o più persone decise a provocare uno scontro tra l'Occidente e il mondo islamico. La cosa peggiore è che il fanatismo islamico trova alleati in certi settori ai quali può fare comodo una nuova "guerra fredda", solo che questa è diversa e si pretende che sia la religione la causa scatenante. Sai una cosa? Non riesco a credere che tu sia così ingenuo, e ti dirò di più: mi deludi.»
Ovidio deglutì, avrebbe voluto sprofondare per la vergogna. Aveva passato metà della sua vita a lavorare per il dipartimento di Analisi della politica estera, e all'improvviso si stava comportando con un novellino, peggio ancora, come un incapace. Padre Aguirre aveva ragione. «Mi dispiace. La verità è che sono stato per molto tempo chiuso in me stesso. Sono mesi che non penso ad altro che a me stesso...» «E questo ti ha fatto diventare uno sprovveduto?» lo rimproverò con una punta di fastidio padre Aguirre. «No, spero proprio di no.» «Sono sicuro che dopo l'11 settembre, monsignor Pelizzoli deve avervi messo tutti a lavorare a quello che stava succedendo, e che sta succedendo ancora, all'interno del mondo islamico. Non ha forse rinsaldato i legami vaticani con alcuni dei nostri analisti? Non ha fatto sì che oggi il problema islamico sia la priorità assoluta? Non c'è bisogno che tu mi risponda. Conosco benissimo Luigi Pelizzoli ed è tutto meno che un incapace, è una delle menti più brillanti al servizio della Chiesa. Immagino che anche lui si stia dedicando a questi conflitti. E tu stai veramente male. Sei un gesuita. Capisco la crisi che hai attraversato, capisco che vorresti lasciare il Vaticano, ma non ammetto che tu possa non ragionare, che le preoccupazioni personali siano diventate il tuo unico problema. Adesso, visto che sei qui, dimmi esattamente cosa ti ha chiesto di fare Pelizzoli.» «Pensare, cercare un filo conduttore tra quelle frasi; forse, come dice lei, credo voglia sapere se dietro si nasconde una minaccia, anche se in nessun momento il vescovo, né quei due agenti dell'intelligence hanno mai detto niente al riguardo.» «Non c'è bisogno di indicare una cosa già evidente. Secondo me quello che ti hanno chiesto non puoi farlo tu da solo da qui. Hai bisogno di mezzi, di un aiuto, una buona banca-dati, di sapere cosa stanno scoprendo l'Interpol, il Centro di coordinamento antiterrorismo europeo, la CIA... insomma, non puoi far niente stando rinchiuso in questo appartamento nella periferia di Bilbao.» «È la condizione che ho posto e che hanno accettato.» «Meglio essere onesto con te stesso e con la Chiesa. Io ti dico che questo lavoro non puoi farlo qui, da solo. Dovrai andare a Bruxelles, riunirti con gli uomini del Centro di coordinamento, incontrare quelli dell'Interpol, restare in contatto con il nostro dipartimento in Vaticano, e se proprio vuoi saperla tutta, dovresti cercare di scoprire qualcosa per conto tuo su quel maledetto Karakoz, ovunque si nasconda. Le informazioni si trovano per
strada.» «Il nostro obiettivo è quello di analizzare le informazioni» si difese Ovidio. «Certo, ma nessuno ce le regala, dobbiamo cercarle. Il nostro dipartimento di Analisi della politica estera conta su dati migliori rispetto a quelli di molti governi. Sai perché? Perché noi siamo ovunque, in ogni strada, in ogni angolo del pianeta. Ma queste cose tu le sai perfettamente, e allora cerca di non seccarmi comportandoti come se non sapessi come va fatto questo lavoro.» «Mi sorprende sentirla parlare in questo modo» si lamentò Ovidio. «Lo faccio per provocarti. Chiederò perdono al Signore.» «È tutto così semplice?» «Chiedo perdono anche a te.» «Lei è incredibile!» «Non sono la meraviglia che tu credi. Sono un uomo, un vecchio sacerdote gesuita. Non idealizzarmi, accettami come sono.» Restarono in silenzio guardandosi negli occhi. Ovidio era sorpreso dalla durezza del ragionamento di padre Aguirre, ma non s'ingannava. Sapeva che il vecchio sacerdote aveva ragione. «Immagino che potrò conciliare i due interessi, quello della Chiesa e il mio» affermò con un pizzico di cinismo. «Questo lo vedrai tu.» «Non tornerò in Vaticano. Resterò a Bilbao, lavorerò da qui, anche se dovrò correre da un posto all'altro. Mi piace quello che sto facendo; in realtà non ricordavo più come si tratta con la gente normale, non conoscevo i problemi della gente reale. Qui sto ritrovando il vero senso del sacerdozio.» «Nessuno meglio di te sa ciò che puoi fare. Ma se continuerai a occuparti del caso, ti consiglio di prenderlo sul serio e non come una specie di inventario, perché da te può dipendere la salvezza di molte vite umane. Bene, allora, cosa ti suggeriscono alcune di quelle parole?» «Lotario... ci sono diversi Lotario importanti nella storia, ma in linea di principio il nostro Lotario dovrebbe essere un contemporaneo. Quanto a Saint-Pons, risulta essere un paesino nel sud della Francia; questo potrebbe significare che lì c'è una cellula islamica, o che si tratta del luogo scelto per l'attentato. Immagino che gli uomini del Centro di coordinamento antiterrorismo di Bruxelles lo stiano verificando.» «Niente male...»
«Grazie per l'incoraggiamento, ma in realtà tra le mani non ho nulla. Penso che quelle parole debbano significare qualcosa, ma non hanno senso in mano a dei terroristi islamici.» «Non trascurare nessuna pista, per stravagante che possa sembrarti. In ogni caso, mi tranquillizza vedere che fino a ora non hai perso tempo come hai cercato di farmi credere.» «Poi c'è quella frase: "scorrerà il sangue nel cuore del santo...". Una frase misteriosa che non dice niente, e che stento a mettere in relazione con il gruppo di fanatici di Francoforte.» «Non hai altra scelta che tirare la corda, e l'unica pista solida è Karakoz. Insisto nel dire che dovresti parlare con quei due signori che sono venuti a trovarvi in Vaticano e farti dire tutto quello che hanno scoperto fino a oggi sul personaggio in questione. Mi pare che non ci siano molte altre possibilità. Prima hai detto che si muove come un'anguilla, ma ce l'avrà un domicilio da qualche parte.» «Secondo questo dossier, Karakoz passa dei periodi a Belgrado, ma anche in Montenegro, a volte è stato visto perfino in alcune delle repubbliche dell'ex Unione Sovietica, è uno dei fornitori della guerriglia cecena; è sbarcato spesso all'aeroporto di Beirut, nello Yemen, a Damasco, ma anche a Parigi, a Londra, ad Amsterdam... Il rapporto lo descrive come un tipo discreto, che non si comporta come un gangster. Non è solito frequentare locali notturni e non si fa mai vedere con donne. Beve vodka e fuma sigari. A quanto pare è tutto quello che si sa di lui. Il problema è sapere se il gruppo di Francoforte ha stabilito direttamente contatti con Karakoz o se il gruppo in questione aveva altri capi più in alto e sono stati loro a incaricarsi di comprare le armi e gli esplosivi da Karakoz...» «Immagino che di questo debbano già avere un'idea al Centro di coordinamento. Quindi...» «Quindi non mi resta che andare a Bruxelles» rispose Ovidio scoppiando a ridere. «Fai un po' tu...» «Non ho altra scelta se voglio evitare che lei mi consideri uno stupido.» «Effettivamente...» rispose ridendo padre Aguirre. «Mi avete messo in mezzo...» «Sì, più o meno. Ma se Luigi Pelizzoli ha insistito per farti lavorare a questo caso è perché crede che tu possa essere più utile degli altri, quindi sei obbligato a farlo.» «Quante volte le hanno chiesto aiuto da quando ha lasciato il Vaticano?»
«La mia vita non è la tua, le mie circostanze non hanno nulla a che vedere con le tue; è meglio che tu non perda tempo con questi paragoni. Ma voglio che ti sia chiara una cosa: io ho servito la Chiesa laddove me l'hanno chiesto, dove i miei superiori hanno ritenuto che dovessi farlo, e continuerò a fare così...» «Però l'hanno lasciata venire qui...» Padre Aguirre non rispose e tornò a sprofondare tra le carte sparse sul tavolo. «La verità è che questo caso è una vera sfida per l'intelligenza; senza dubbio è il caso della tua vita, quello nel quale darai l'esatta misura di quello che sei.» «Addirittura. Me la sta mettendo giù difficile...» «Non sono io che la metto giù difficile. Questa è una storia diabolica, te lo assicuro.» I due sacerdoti si guardarono; Ovidio ebbe l'impressione che ci fosse un doppio senso nelle parole di padre Aguirre, ma non ebbe il coraggio di dirglielo. «Chiamerò monsignor Pelizzoli e gli chiederò il permesso di andare a Bruxelles. Immagino che un paio di settimane basteranno.» «Non immaginare niente. Hai un lavoro da fare: fallo, ma senza lasciarti condizionare né dal tempo né da altro. Ora però... devo dirti che questa conversazione mi ha stancato. In realtà è la tua resistenza a stancarmi. Forse dovresti chiamare il vescovo e dirgli che rinunci a tutto; forse questa sarebbe la cosa più onesta.» Padre Aguirre si alzò e uscì dalla sala lasciando Ovidio perplesso e di malumore. Sperava che l'anziano sacerdote fosse dalla sua parte, che comprendesse la sua poca voglia di occuparsi dell'attentato di Francoforte che gli sembrava così lontano dalla sua nuova vita in Spagna. E invece, il suo maestro lo spronava a dedicarsi al cento per cento a quel maledetto caso e questo atteggiamento provocava in lui una profonda delusione. A dire la verità, però, pensò Ovidio, lui per primo era sorpreso da se stesso, dalla sua ostinazione quasi infantile, ma si giustificò dicendo che aveva diritto a essere un semplice sacerdote e a non dover vedere oltre i semplici problemi dei fedeli. Sentì di nuovo la lacerazione interiore che lo aveva mortificato negli ultimi mesi. Udì il rumore della porta che si chiudeva. Padre Aguirre se n'era andato lasciandolo solo a prendere una decisione. Afferrò il telefono e compose il numero di monsignor Pelizzoli, il quale
rispose al secondo squillo. Per mezz'ora spiegò al suo vecchio superiore gli scarsi progressi che aveva fatto e poi gli chiese se ritenesse conveniente un suo viaggio a Bruxelles e forse anche a Belgrado. Era possibile che alla Nunziatura qualcuno avesse informazioni rilevanti su Karakoz. Lui sapeva per esperienza quante notizie si potevano trovare alla Nunziatura sugli argomenti più disparati. «Abbiamo chiesto discretamente ai nostri fratelli di Belgrado di dirci se sanno qualcosa di interessante su questo Karakoz. In realtà, non ci hanno detto molto più di quello che già sanno a Bruxelles, ma se ritieni conveniente andare, fallo. Li chiamerò per dire di accoglierti e fornirti tutto l'aiuto possibile. Quanto al tuo viaggio a Bruxelles, ovviamente non ho niente in contrario. Sei tu che gestisci questo caso.» «Be'... non esattamente...» protestò Ovidio. «Siamo certi che sarai capace di trovare una pista che ci illumini. Siamo preoccupati per ciò che possono significare quelle parole, quelle frasi enigmatiche.» «Non ho cambiato opinione rispetto a quello che penso di dover fare.» «Né noi ti abbiamo chiesto nulla di più» rispose il vescovo con durezza. «Farò tutto il possibile.» «Ci contiamo.» «Nel nostro ufficio sono arrivati a qualche conclusione?» «A nessuna davvero solida, ma sarebbe utile che scambiassi qualche opinione con i fratelli che stanno lavorando a questo caso. È meglio remare tutti nella stessa direzione. Potresti venire in Vaticano prima di andare a Bruxelles e a Belgrado.» Ovidio era sul punto di rifiutare, ma non ne fu capace. Tra l'altro sapeva che il vescovo aveva ragione. O si calava nel caso o era meglio lasciarlo, ma non poteva continuare a evitare le proprie responsabilità. «Lo farò.» «Come ti va a Bilbao?» «Mi sento molto bene. Qui riesco a stare in pace con me stesso.» «Sono contento che sia così. E padre Aguirre?» «È appena uscito. Sta benissimo. Energico e buono come sempre.» «Lo immagino. Ti sta aiutando?» «Fa un po' di resistenza» confessò Ovidio. «È un suo atteggiamento tipico; vorrà metterti davanti alle tue responsabilità. Ascoltalo. Lui... ha molta esperienza e sa vedere più in là di quanto gli altri riescono a vedere. Sicuramente ha già un'idea abbastanza precisa
in merito a questo caso.» «Se è così, non me l'ha ancora detto.» «E non lo farà, a meno che non sia strettamente necessario.» «Non capisco...» «Figliolo, come pensi di poter capire padre Aguirre! È mio amico oltre che mio maestro e non sono mai riuscito a capire qualcosa di lui... nemmeno a conoscerlo davvero» confessò il vescovo con grande sorpresa di Ovidio. «Comunque, mettiti in movimento e vieni a trovarmi quando arrivi in Vaticano. Parlerò con i tuoi superiori, con il generale del tuo Ordine affinché ti permettano di fare una pausa nel cammino che hai iniziato a percorrere come sacerdote a Bilbao.» Ovidio tornò a concentrarsi sulle carte che aveva davanti; sembrava così assurdo trovare delle connessioni tra quelle parole apparentemente senza collegamento e arrivare a una conclusione logica. Quanto alle frasi, doveva cercare anche lì dei contesti in cui collocarle e il lavoro non si annunciava facile. Era già buio quando tornarono i suoi tre compagni di appartamento. Padre Ezquerra stava discutendo con padre Santiago, mentre padre Aguirre li invitava a mettere fine alla discussione. «È che Santiago non capisce niente!» protestava Mikel. «Sei tu che vedi la realtà attraverso una lente deformante» si difendeva padre Santiago. «Non hai capito bene il problema!» «Certo che ho capito! Solo che non condivido né la tua diagnosi né la soluzione.» Entrarono in sala borbottando. Padre Aguirre chiedeva a entrambi di smettere di discutere. «Che vi succede?» volle sapere Ovidio. «È lui. Ritiene che quello che accade qui sia colpa nostra» rispose padre Mikel. «Quello che accade dove?» «Nei Paesi Baschi. Tu sei di qui e sai come vanno le cose, ma Santiago le vede con gli occhi di uno di Granada e...» Padre Santiago, di natura mite, saltò dalla sedia e si diresse con rabbia verso padre Mikel. «Quindi solo voi baschi potete parlare e capire i baschi, allora solo i cinesi capiscono i cinesi, i francesi capiscono i francesi... Che razza di stupidaggine! Sei ambiguo con i ragazzi e fai male. Stai piantando in loro il
seme della perdizione.» «Questo è veramente troppo! Io non sono ambiguo e lo sai bene, solo che preferisco ascoltarli e convincerli, non condannarli di primo acchito.» «Il male va condannato a prescindere, non ci sono sfumature possibili» replicò padre Santiago. «Possiamo cenare?» La domanda di padre Aguirre fece sì che entrambi mettessero da parte la discussione. Ovidio tolse di mezzo le sue carte, mentre padre Mikel preparava la tavola e padre Santiago, seguito da padre Aguirre, entrava in cucina per riscaldare la cena che aveva lasciato pronta quella santa donna di Itziar. Tutti si concentrarono sulla zuppa di pesce e le sardine fritte, in silenzio. Finita la cena, padre Aguirre li invitò a recitare il rosario per meditare, così disse, e liberare lo spirito dalle tensioni del giorno, oltre che per tentare di avvicinarsi a Dio. Una volta conclusa la preghiera, padre Aguirre propose di bere un bicchiere di pacharán prima di andare a dormire. «Però! Festeggiamo qualcosa?» chiese ironicamente padre Ezquerra. «No, ma credo che faccia bene a tutti sorseggiare un liquorino mentre chiacchieriamo un po' prima di andare a letto» rispose padre Aguirre. «A me sembra un'idea stupenda» aggiunse Santiago. «Sono anni che non assaggio il pacharán» confessò Ovidio. «Certo che te ne sei perse di cose, in Vaticano» disse Mikel mentre si preparava a servire quattro minuscoli bicchieri di pacharán. I quattro sacerdoti sorbirono il liquore di prugne, ognuno immerso nei propri pensieri, fino a quando Mikel li riportò alla realtà. «Domani dobbiamo riunirci con quei ragazzi. Hanno bisogno di risposte.» «La risposta è chiara: non c'è giustificazione per chi si comporta in modo barbaro e intimorisce i propri compagni. Non possiamo giustificarli» disse Santiago con tono risentito. «Non so di cosa state parlando. Lo stesso argomento di prima?» volle sapere Ovidio. Padre Santiago batté sul tempo il suo collega Mikel e diede lui la risposta. «Sì. Te lo spiego in due parole. Oggi è venuta a trovarci una ragazza dell'istituto, spaventata perché un gruppo di ragazzi del liceo sta minacciando suo fratello perché non si unisce a loro nella lotta di strada. Lo chiamano vigliacco, spagnolo, cane, eccetera. Ieri hanno lanciato una bot-
tiglia molotov sul balcone di casa sua, e per fortuna in quel momento non c'era nessuno. Ma oggi nel cortile lo hanno circondato e picchiato. Nessuno ha mosso un dito, nessuno ha visto niente. Solo sua sorella ha tentato di aiutarlo e quelle bestie le hanno fatto un occhio nero. Lei teme che la cosa non si fermi qui; teme per la vita di suo fratello ed è venuta a chiederci aiuto, perché conosciamo quei barbari e ritiene che, parlandoci, potremmo avere una speranza di convincerli a smetterla. Io credo che, oltre a parlarci, dovremmo dire loro che se torcono ancora un capello a quel ragazzo, se lanciano un'altra bottiglia molotov in casa sua, li porteremo per le orecchie davanti alla polizia. Per questo io e Mikel abbiamo discusso. Lui non è d'accordo con quest'ultima ipotesi.» Ignacio osservava Ovidio curioso di sentire quello che avrebbe detto. Il sacerdote, assorto com'era nelle sue questioni personali, non riusciva a entrare fino in fondo nei problemi reali della comunità che voleva servire. Sul viso di Ovidio si rifletteva la confusione e anche il malessere per ciò che aveva appena sentito da padre Santiago. «Non si può rimanere neutrali davanti alla violenza» riuscì a dire. «Ma non possiamo denunciarli! Se lo facciamo, non si fideranno più di noi!» protestò Mikel. «E se guardiamo dall'altra parte, neanche quella ragazza, suo fratello e molti altri come loro avranno più fiducia in noi» affermò con calma padre Santiago. «Le cose non sono così semplici, almeno qui. Questo popolo ha sofferto molto» disse Mikel. «E questo gli dà diritto di provocare altra sofferenza?» chiese Ovidio. «Andiamo! Tu sei partito da Bilbao molto tempo fa, ma non puoi aver dimenticato quello che abbiamo passato qui!» insistette Mikel. «Non sto dicendo di non fare niente, è chiaro che qualcosa possiamo fare. Ma non quello che dice Santiago.» «Quei ragazzi devono imparare a distinguere il bene dal male. Non possiamo essere loro complici; non possiamo legittimarli a fare qualsiasi cosa perché vogliono l'indipendenza dei Paesi Baschi.» «A me sembrano dei vigliacchi» sentenziò Ignacio. «Bisogna essere solo dei vigliacchi per mettersi in cinque e massacrare di botte un compagno e dare un cazzotto alla sorella. Sono vigliacchi loro, ma lo sono anche tutti quelli che hanno guardato dall'altra parte. Non possiamo restare impassibili davanti al male.» Padre Mikel non riuscì a nascondere un gesto di sconforto, ma non si
diede per vinto. «È chiaro che dobbiamo agire. Domani andrò a parlare con il direttore dell'istituto. Voglio parlare anche con i professori e andare nella classe di quei ragazzi; dobbiamo parlare con loro uno a uno e avvertirli che le loro azioni non possono restare impunite. Ma se perdiamo la loro fiducia sarà ancora peggio. Non hanno troppi punti di riferimento per quel che riguarda il bene o il male. Uno di loro ha il padre in prigione, l'altro un fratello, bisogna mettersi nei loro panni» ribadì. «Perché il padre è in prigione?» chiese Ovidio. «Per un attentato. Faceva parte del commando autore di un attentato contro una pattuglia della Guardia Civil; morirono tre agenti.» «Cioè è in carcere per avere ucciso» sentenziò Ovidio senza un minimo di compassione nel tono della voce. «Ha ucciso perché crede che questo paese non sia libero, perché crede che sia l'unico modo per far sì che vengano riconosciuti ai Paesi Baschi i propri diritti» sfumò immediatamente Mikel. «Ti sto solo spiegando come si percepiscono le cose da qui.» «E per conquistare la libertà spezzano le vite di altri uomini...» cominciò a dire Ovidio. «Di altri che rappresentano l'oppressione» si affrettò a rispondere Mikel. «E dove fissiamo il limite?» chiese Ovidio con durezza. «Il limite? Non ti capisco» rispose Mikel con la voce alterata. «Sì, dimmelo tu, in quali circostanze possiamo giustificare che si possa uccidere, torturare, picchiare a sangue chi non la pensa come noi? Diciamo pure che quelli che vivono qui hanno ragione. E in Irlanda? E non possiamo mica dimenticare i ceceni, né i palestinesi, perfino Bin Laden ha le sue buone ragioni per dichiarare la jihad, e...» «Non giocare con le parole, Ovidio!» disse con rabbia padre Mikel. «Giocare? No, sei tu che prendi in giro te stesso. Sono basco almeno quanto te, e quando ero piccolo sentivo gli adulti parlare di una patria nuova che sarebbe stata una specie di Arcadia. Ma l'Arcadia non esiste, esistiamo solo noi uomini e siamo tutti uguali, non importa dove siamo nati o dove viviamo. Uomini con tutte le miserie e le grandezze che albergano in ogni essere umano. Quando perdi tua madre il dolore è lo stesso, che tu sia nato qui o in Cina; quando qualcuno ti umilia, il dolore dell'umiliazione ti si inchioda nell'anima, che tu sia basco o scozzese. Se non guadagni abbastanza per mantenere la tua famiglia, la disperazione è uguale qui o a Sebastopoli.»
«Sei stato tanto tempo fuori che...» «Sono stato tanto tempo fuori che ho imparato che la terra non è niente senza gli uomini, che l'unica cosa importante sono gli esseri umani.» Padre Aguirre e padre Santiago ascoltavano in silenzio il duello tra Ovidio e Mikel. Entrambi difendevano con passione le loro posizioni. «Io sono contro la violenza, Ovidio, te lo assicuro. Dico solo che dobbiamo tenere sempre presente dove esercitiamo il nostro ministero, comprendere i sentimenti della gente. Altrimenti non potremo fare nulla per loro.» «Allora, comprendi anche il dolore del ragazzo che è stato picchiato e di sua sorella che per difenderlo si è procurata un occhio nero. Che razza di patria nuova pensi si possa costruire sui cadaveri della gente che la pensa come loro? Sai una cosa? Mi piacerebbe accompagnarti all'istituto a incontrare quei ragazzi.» «E allora vieni; così magari vedrai le cose diversamente.» «Ci proverò. Ma non credo sia possibile; domani parto.» «Dove vai?» volle sapere Mikel. «Be', sapete che sto terminando un lavoro che avevo cominciato prima di venire qui e che si sta rivelando più complicato di quel che pensassi. Devo andare a Roma e a Bruxelles, penso che non starò fuori più di una settimana. Mi dispiace, perché la cosa che più desidero è vivere quotidianamente questa nuova vita, ma ho la responsabilità di completare quello che già stavo facendo.» Non gli chiesero altro. Continuarono a parlare di banalità fino a quando Ignacio propose di andare a riposare. 12 Lorenzo Panetta andò a prendere Ovidio Sagardía all'aeroporto. Pioveva forte su Bruxelles e il vento rendeva ancora più sgradevole la mattinata. Ovidio gli aveva telefonato da Roma proponendogli di incontrarsi per uno scambio di impressioni. L'esperto poliziotto aveva accettato immediatamente, ansioso di ascoltare quel sacerdote che, secondo tutti i rapporti, era la "stella" dell'intelligence vaticana, anche se a quanto pareva aveva deciso di ritirarsi. Il Centro di coordinamento antiterrorismo era situato in un edificio vicino alla sede della NATO nel quale lavoravano centinaia di persone. Collaboravano in modo permanente con gli ufficiali delle agenzie di
intelligence europee e di altri paesi. Matthew Lucas era uno di loro. Ovidio fu colpito dalla gran quantità di mezzi su cui poteva contare il centro e che gli venivano mostrati orgogliosamente dal capo, Hans Wein, e dallo stesso Lorenzo Panetta. Quando finalmente si riunirono nell'ufficio di Hans Wein, li raggiunsero anche Matthew Lucas e Andrea Villasante. «Ci dica. Siete arrivati a qualche conclusione su questa vicenda?» gli chiese Hans Wein senza giri di parole. «No, francamente no. Ho esaminato le parole trovate tra i resti delle carte, ho provato a comporle in vari modi e ho richiesto un esame grafologico, anche se immagino che voi avrete fatto la stessa cosa. È evidente che alcune di quelle parole sono state scritte da mani diverse. Non ho trovato una relazione possibile tra loro, e continuo a interrogarmi singolarmente su ognuna delle parole e delle frasi trovate. Né insieme né separate sembrano avere senso.» «Neanche noi abbiamo fatto molti progressi» spiegò Hans Wein. «Siamo bloccati allo stesso punto. L'unica speranza è che Karakoz ci conduca a qualcuno dei capi del commando, anche se sarà difficile. Quella gente funziona in modo indipendente, non si conoscono gli uni con gli altri, hanno autonomia per decidere dove e quando agire.» «Ma c'è una testa pensante» affermò Lorenzo Panetta «di questo sono sicuro.» «In verità io non lo sono poi tanto» noto Andrea. «La loro sicurezza si basa proprio sul fatto di non appartenere a un'organizzazione articolata.» «Mi dispiace, Andrea, ma in questo dissento da te. Credo ci siano una o due teste da qualche parte. Non dico che non ci siano cellule in grado di agire in maniera indipendente, ma i grandi attentati hanno una motivazione specifica, non sono frutto del caso.» «Bene, in qualcosa dovremo pur dissentire» rispose lei sorridendo. «Secondo me, i terroristi di Francoforte non avevano intenzione di diventare dei martiri. Avevano altri piani, probabilmente futuri attentati. Il problema è che se ha ragione Andrea e questi gruppi sono indipendenti gli uni dagli altri, allora si sono portati all'altro mondo anche i loro piani, quali che fossero. Se, al contrario, ha ragione Lorenzo, allora un altro gruppo può aver raccolto il testimone e tenterà di portare avanti i loro progetti, dei quali abbiamo soltanto parole scollegate che non sappiamo a cosa corrispondano.» Ascoltarono attentamente la dissertazione di Hans Wein, coscienti delle
difficoltà che prospettava. «Domani vado a Belgrado» li informò Ovidio. «Anche se voi avete informazioni precise su Karakoz, che spero vorrete mostrarmi, tenterò di ottenerne altre in loco.» Matthew Lucas lo guardò con la coda dell'occhio, incuriosito da quell'affermazione. Cosa poteva ottenere un sacerdote che non avessero già ottenuto i servizi di informazione dei paesi occidentali, oltre ai satelliti e alle antenne di ascolto telefonico? Ovidio si rese conto dello sguardo diffidente dell'americano. «Sa una cosa, signor Lucas? Sicuramente lei ha ragione di pensare quello che sta pensando, ma c'è sempre un dettaglio disperso che noi preti possiamo recuperare. Forse quel dettaglio può essere importante. O forse no. Questo si vedrà.» «Per favore, non mi creda così reticente!» si scusò Matthew Lucas, preoccupato per aver fatto trasparire le proprie sensazioni davanti a quel gesuita. «Bene, e adesso mi piacerebbe sapere cosa potete dirmi di questo caso.» Lorenzo Panetta scambiò uno sguardo rapido con Hans Wein e questi, con gesto quasi impercettibile, gli indicò di riassumere lui la situazione. «Continuiamo a tenere Karakoz sotto controllo, giorno e notte; curiosamente sono tre settimane che non si muove da Belgrado. Se non sapessimo chi è veramente, potremmo crederlo un semplice commerciante e un normalissimo padre di famiglia. È estremamente attento nelle conversazioni telefoniche, parla di transazioni commerciali senza specificare il tipo di merce né fornire dati di un qualche rilievo. Dopo i fatti di Francoforte è diventato ancora più cauto, come se sospettasse di essere controllato. In ogni caso non lo perderemo di vista, perché in qualche modo si dovrà muovere. Non può condurre i suoi affari criminali seduto in poltrona nei suoi uffici di Belgrado o di Podgorica. Quell'uomo gira per tutte le ex repubbliche sovietiche senza problema. Karakoz è la nostra carta migliore per arrivare a qualche capo del Circolo. «Quanto alle parole, neanche noi siamo riusciti a trovare un senso. È impossibile sapere in che contesto si trovavano, se in una lettera, in un rapporto, in un dépliant turistico... e quindi rischiamo di lavorare nella direzione opposta se ci lasciamo ossessionare da quelle parole. Comunque non scartiamo l'ipotesi di continuare ad analizzarle.» «Avete informazioni sulla possibilità che stiano preparando qualche nuovo attentato?» chiese direttamente Ovidio.
«Il Circolo ha dichiarato guerra all'Occidente, pertanto possono sorprenderci in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo; ma rispondendo alla sua domanda, non abbiamo nessuna informazione precisa. È come se dopo Francoforte avessero deciso di aspettare che allentiamo le nostre misure di sicurezza. Noi, l'Interpol e altre agenzie, stiamo attingendo alle nostre fonti abituali, ma per adesso non abbiamo trovato niente di interessante. I cattivi devono essersi rifugiati nelle loro tane in attesa del prossimo colpo.» «Immagino che manderete qualcuno a Saint-Pons...» «Sì, da alcuni giorni ci sono delle persone che stanno osservando la situazione, parlando con gli uni e con gli altri, ma Saint-Pons-de-Thomières è un paesino tranquillo, neanche il numero degli immigrati è di un certo rilievo; è difficile capire dove cercare.» «Quindi state andando alla cieca» sentenziò Ovidio. «Sfortunatamente sì. Per questo non l'abbiamo scoraggiata per quel che riguarda il suo viaggio nella ex Iugoslavia; è difficile che le raccontino qualcosa che noi non sappiamo, ma non si sa mai.» «Credo che farò anche un giro a Saint-Pons.» «Veda lei, l'importante è che sappiamo cosa sta facendo.» La notte si andava impossessando di Bruxelles. La donna camminava con passo agile senza guardare indietro. Era stanca per l'intensa giornata di lavoro e ansiosa di arrivare a casa per poter riposare. Quando entrò nell'edificio che ospitava il suo piccolo appartamento, il portiere le consegnò una busta che avevano portato quella stessa sera per lei. Diede uno sguardo rapido al mittente, ringraziò il portiere e si affrettò verso l'ascensore. Una volta in casa, senza nemmeno togliersi il cappotto, aprì la busta che conteneva una scheda per il cellulare. La inserì al posto della sua. Poi andò in cucina a bere un bicchiere d'acqua, guardò l'orologio, s'infilò tuta e scarpe da ginnastica, guardò di nuovo l'orologio e decise di aspettare qualche minuto. Il portiere doveva essere sul punto di andarsene e lei preferiva uscire senza che lui la vedesse. Non avrebbe avuto molta importanza se l'avesse vista, ma così si sentiva più sicura. Seduta sul sofà, senza muoversi, chiuse gli occhi e lasciò vagare l'immaginazione lungo sentieri inaspettati che terminavano sempre allo stesso modo: lei insieme a lui, su quella spiaggia, o in quel caffè, o nell'appartamento sulla Costa del Sol... Lei e lui che ridevano, lei e lui che discutevano fino a notte fonda di un futuro migliore, lei e lui che sognavano, lei e lui che si amavano disperatamente.
Come fu trascorso il tempo sufficiente per non correre rischi, scese di nuovo in strada. Si allontanò da casa facendo jogging, e quando fu lontana qualche isolato tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose un numero. Per qualche secondo temette che non avrebbe risposto nessuno, poi le arrivò nitidamente la voce di lui. Senza rallentare il passo cominciò a parlare. «Non ci sono novità, non sanno, neanche una traccia, solo l'esplosivo venduto dal tuo amico. Perciò lo tengono sotto controllo notte e giorno, credono che tirando quel filo arriveranno a sbrogliare la matassa.» All'altro capo della linea qualcuno le fece una domanda alla quale rispose. La conversazione non durò più di due minuti, tempo sufficiente per dargli tutte le informazioni di cui aveva bisogno. Poi ripose il cellulare in tasca e tornò a casa. Lì, tirò fuori la scheda e la spezzò in due metà che gettò nel water. Temeva che un giorno si sarebbe otturato, ma era sempre meglio che buttare la scheda in un cestino. Bruxelles era una città piena di spie. Spie di tutti i paesi, di tutte le agenzie, che diffidavano le une delle altre, che controllavano gli amici e i nemici. Aveva sonno; il giorno dopo la sveglia avrebbe suonato alle sei e mezzo del mattino, per cui decise di farsi una doccia e mettersi subito a letto. Stava per sdraiarsi quando il telefono la fece sussultare. Lo prese, preoccupata, parlò un paio di minuti e quando riagganciò sospirò sfinita. Quella notte avrebbe dormito meno del previsto. Dieci minuti dopo uscì di nuovo dal suo appartamento. Matthew Lucas entrò al ristorante con Ovidio Sagardía. Hans Wein lo aveva incaricato di invitare a cena il sacerdote e questi aveva accettato di buon grado. Lucas si considerava ateo, ma sentiva una strana attrazione per la Chiesa cattolica, per quella macchina che era stata capace di sopravvivere duemila anni. La sua visita in Vaticano lo aveva impressionato, e Sagardía non era un sacerdote come gli altri: era un analista dell'intelligence al servizio della Chiesa, per quanto quel dipartimento vaticano fosse eufemisticamente denominato dipartimento di Analisi della politica estera. Il cameriere indicò loro un tavolo vuoto in fondo al ristorante. Con sorpresa di entrambi, al tavolo di fianco trovarono Mireille Béziers. «Accidenti! Questa sì che è una combinazione!» disse la giovane. «Buonasera» rispose seccamente Matthew Lucas. Ovidio Sagardía la sa-
lutò con un cenno della testa. Non gli avevano presentato quella ragazza, anche se l'aveva vista all'interno del centro. Mireille non fece neanche il gesto di presentare l'uomo con il quale stava cenando e loro non lo salutarono neppure. Si notava che Matthew Lucas era in imbarazzo, almeno quanto Mireille, ma sarebbe stata una scortesia chiedere di cambiare tavolo. Mentre esaminavano il menù, sia Matthew sia il sacerdote osservavano con la coda dell'occhio Mireille e il suo accompagnatore, un uomo scuro, di bell'aspetto, dai tratti inconfondibili: era maghrebino, marocchino o algerino. Non era difficile capire che l'uomo aveva una certa posizione sociale: si vedeva dall'aspetto, soprattutto dalle mani sottili e curate, dai vestiti che indossava, perfino dai modi. Mireille e l'uomo parlavano in arabo e sembravano a loro agio insieme. Ovidio Sagardía e Matthew Lucas chiacchierarono di cose senza importanza; il sacerdote si era accorto dell'antipatia dell'americano nei confronti di quella ragazza e se ne domandava la ragione. L'accompagnatore di Mireille chiese il conto e consegnò una carta di credito American Express Oro. Una volta firmata la ricevuta, lasciò una buona mancia sul tavolo. Lei salutò il sacerdote e Matthew con un gesto della mano; il suo accompagnatore neanche li guardò. «Mi scusi se sono indiscreto, ma chi è quella giovane? Mi sembra di averla vista al centro» chiese Ovidio a Matthew. «Si chiama Mireille Béziers. Suo zio è un militare importante all'interno della NATO e ha sistemato sua nipote al centro.» «Vedo che non le sta molto simpatica.» «Non mi piacciono i raccomandati.» «Be', qualche pregio dovrà pur averlo...» rispose ridendo Ovidio. «Io non riesco proprio a vederlo. Piuttosto, non so chi possa essere quell'uomo.» «Non vedo perché dovrebbe saperlo.» «È un maghrebino.» «Sì.» «Il nostro dipartimento si dedica a indagare sul terrorismo islamico.» «E questo cosa c'entra?» «Mi sembra strano vedere qualcuno del centro con un maghrebino.» «Lei non ne conosce neanche uno?» Matthew si rese conto che il sacerdote lo stava fraintendendo e si infuriò con se stesso per aver dato adito a quella confusione.
«Sì, qualcuno.» «E allora? Diffida di tutti quelli che non sono occidentali?» «Mio padre è un ebreo del New Jersey e mia madre appartiene alla Chiesa episcopaliana. Le assicuro che non ho pregiudizi né razziali né religiosi.» «Uno dei problemi degli esseri umani, di tutti senza eccezione, è la diffidenza verso chi è diverso. Non lo comprendiamo e ci sentiamo a disagio, ne abbiamo paura.» «Le assicuro che non è il mio caso, ma questo mestiere rende un po' paranoici e si finisce per diffidare di tutti. Stiamo portando avanti una battaglia contro un nemico invisibile.» «Lo so, ma non si vince trattando come delinquenti tutti coloro che non sono come noi.» Matthew arrossì, ma allo stesso tempo provò una certa irritazione nei confronti del sacerdote che lo trattava come un ragazzino. «Come ha vissuto la contraddizione di avere un padre ebreo e una madre episcopaliana?» gli chiese di getto Ovidio. «In realtà non ho vissuto alcuna contraddizione. Mio padre non andava mai in sinagoga e mia madre non andava mai in chiesa. Abbiamo vissuto senza religione. Quando ho compiuto sedici anni, i miei genitori hanno mandato me e mia sorella a Gerusalemme a casa di certi zii; lì ho capito cosa significa essere ebreo ventiquattr'ore al giorno. Sono rimasto in Israele più tempo di quello che i miei genitori avevano previsto, dai sedici ai diciotto anni, e mi sono innamorato perdutamente di una beduina israeliana.» «Una beduina israeliana?» «Sì, lei sa che in Israele ci sono palestinesi e arabi con la cittadinanza israeliana. I genitori di Saira sono beduini, anche se di tanto in tanto si stabilivano a Gerusalemme e lavoravano nella fattoria dei miei zii. Be', chiamarla fattoria è un po' esagerato: erano tremila metri di terra dove coltivavano qualcosa.» «Non deve sentirsi obbligato a raccontarmi la sua vita, Matthew, non la stavo giudicando.» «Sì, certo... credo di essermi espresso male quando mi sono riferito all'uomo che accompagnava la signorina Béziers e voglio dirle che non sono contro gli arabi, né contro i musulmani. Ma mi lasci spiegare la storia di Saira. È stato il mio grande amore dai sedici ai diciotto anni; ero pronto a sposarla, cosa che non piaceva affatto a suo padre e preoccupava anche
mio zio. Dovetti ritornare nel New Jersey per andare all'università, ma Saira e io giurammo che avremmo aspettato tutto il tempo necessario e che alla fine ce l'avremmo fatta e ci saremmo sposati.» «E invece cosa è successo?» «Lo può immaginare. Sono entrato ad Harvard, poi sono stato nell'esercito, e quando sono tornato a Gerusalemme Saira era felicemente sposata e aveva due figli meravigliosi. Fine della storia.» «Storia con la quale vuole dimostrarmi di non avere pregiudizi. Le ho già detto che non ce n'era bisogno. Però si lasci dire che invece qualche pregiudizio ce l'ha. Rispetto a quella ragazza, Mireille. Non le piace, la irrita e pensa talmente male di lei da sospettare chissà cosa solo per averla vista cenare con un uomo di aspetto maghrebino.» Matthew Lucas chinò la testa imbarazzato. Il prete gli aveva appena mollato un manrovescio, ma se l'era cercato. Si sentì uno stupido per essersi giustificato davanti al sacerdote raccontandogli la storia di Saira. Ovidio si rese conto dello stato d'animo di Matthew e decise di toglierlo dall'imbarazzo; lo fece cambiando radicalmente argomento e chiedendogli cosa pensasse dell'attentato di Francoforte. Parlarono un bel po', fino a quando gli sguardi irritati del cameriere fecero intendere che era arrivato il momento di alzarsi e dare per conclusa la cena. Il giorno seguente il sacerdote avrebbe dovuto partire per Belgrado, ma alla fine aveva deciso di cambiare programma. Sarebbe tornato a Roma, in Vaticano, e una volta lì avrebbe deciso se valeva la pena o meno andare a Belgrado, dal momento che, se fosse andato, non avrebbe potuto farlo con la sua vera identità. 13 Milan Karakoz uscì dal suo ufficio circondato dalla decina di guardie del corpo alle quali ogni giorno affidava la sua vita. Aveva combattuto gomito a gomito con quegli uomini uccidendo più gente di quanta riusciva a ricordare. Avrebbero dato la vita per lui, come lui l'avrebbe data per loro; erano uniti per sempre dal sangue che avevano versato. «A casa» ordinò all'autista che mise in moto immediatamente la lussuosa Mercedes blindata. Karakoz si accese una sigaretta e rimase in silenzio. Vicino a lui, Dusan, il suo luogotenente, leggeva un messaggio che qualcuno gli aveva appena
mandato sul cellulare. «Dobbiamo muoverci» disse chiudendo lo sportellino del telefono. «Lo sai che adesso non è il caso, ci sarebbero addosso come iene. Ci controllano a tutte le ore, leggono perfino i tuoi messaggi proprio mentre li leggi tu.» «Immagino che non sarà facile decifrare: "Tua nonna vuole vederti, gli manchi molto".» «Non è molto originale.» «No, ma non è facile neanche incontrare mia nonna. Forse potrei andarci io...» «No! Ti conoscono almeno quanto me, sarebbe una stupidaggine se andassi tu. Dovremo mandare qualcuno che non desti sospetti.» «A chi hai pensato?» «A Borislav.» «Diamine, questa sì che è una sorpresa!» «Per te non dovrebbe esserlo.» «Non credo sia ancora pronto.» «Per quello che voglio io lo è. Si tratta di andare a Londra, nel luogo stabilito, raccogliere le informazioni e tornare.» «Con quale copertura?» «La più semplice: va a trovare la sorella che vive lì in esilio.» «Ti fidi troppo di Borislav.» «Nessuno può ricollegarlo a me.» «Non lo sappiamo.» «Sì, questo lo sappiamo, non lo collegano ancora a noi. Pensa tu a organizzare tutto. Dagli istruzioni semplici. Non lo spaventare.» «Non sarà facile per lui trovare una scusa e prendere un permesso dall'ospedale.» «La scusa è semplice: sua sorella vuole vederlo, non stanno insieme dalla fine di quella maledetta guerra. Lei lo ha invitato a Londra e lui non vuole e non può rifiutare l'invito. Sai una cosa? Non ho mai voluto che quel giovane si avvicinasse a noi proprio per utilizzarlo in un momento come questo. Nessuno sospetterà di lui.» «D'accordo. Quando vuoi che parta?» «Appena sarà tutto organizzato, ma dagli il tempo di avvisare l'ospedale. Una fuga precipitosa desterebbe solo dei sospetti. Prepara la lettera d'invito di sua sorella in modo che possa farla vedere.» «Lui non vede l'ora di lavorare con te.»
«Questo è un ottimo modo di cominciare. Abbiamo bisogno di informazioni di prima mano.» L'auto si fermò davanti a un palazzo che evidentemente era stato da poco ristrutturato. C'erano due uomini di fianco al portone, e a ogni angolo della strada guardaspalle attentissimi all'arrivo del capo. Karakoz scese seguito da Dusan. La sua casa occupava tutti i tre piani del palazzo. Al piano terra, oltre a uno studio, un'anticamera e una zona bagno, aveva disposto le stanze delle guardie del corpo. Ai due piani superiori viveva la famiglia Karakoz: sua madre, un'anziana che aveva già superato gli ottant'anni; una zia vedova, anche lei dell'età della madre; sua moglie e i quattro figli. La moglie di Karakoz uscì ad accoglierli un po' alterata. «Milan, devo parlarti. Mi è successa una cosa strana al mercato.» Karakoz e Dusan, entrambi preoccupati, seguirono la donna che saliva le scale diretta in cucina, dove in quel momento la madre e la zia del marito stavano cucinando. «Questa mattina sono andata al mercato; tranquillo, mi ha accompagnato Branko, come sempre. C'era molta gente, come capita tutti i giovedì; quando ce ne stavano andando, una donna mi ha urtato, non chiedermi com'era perché quasi non ho avuto tempo di vederla. Lei si è scusata e ha continuato a camminare, ma quando sono arrivata a casa ho aperto la cesta della spesa e ho trovato questa busta. Deve essere stata quella donna a metterla nella cesta. Non l'ho aperta.» Dusan allungò la mano ed esaminò la busta con cura prima di darla a Karakoz. La busta era di grandezza normale e dentro si intravedevano dei fogli. Karakoz la aprì e sorrise. «Non è niente, non ti preoccupare, è solo un amico che ha trovato un modo piuttosto ingegnoso per mettersi in contatto con me.» Sua moglie gli ricambiò il sorriso e passò a discutere dell'aumento del costo della vita e dei suoi sforzi per riuscire a risparmiare. Karakoz l'ascoltò per un paio di minuti, poi fece qualche apprezzamento sui piatti che sua madre e sua zia stavano preparando, le baciò e uscì dalla cucina. Una volta nel suo studio al piano terra, cominciò a leggere la lettera con attenzione. Dusan aspettava che il suo capo terminasse, osservando dalla finestra la strada controllata dai guardaspalle. Quando Karakoz finì di leggere, tese i fogli a Dusan perché questi li leggesse a sua volta.
«Non sanno niente» affermò Dusan. «No, non sanno niente, quindi per adesso i nostri amici possono stare tranquilli e anche noi. È incredibile questa storia delle parole che hanno recuperato tra i resti delle carte bruciate; non bisogna abbassare la guardia, anche se difficilmente riusciranno a trame qualche conclusione.» «Immagino che i nostri amici cambieranno alcuni dei loro piani» rifletté Dusan. «Questi non sono più fatti nostri, ma bisogna ammettere che questa volta sono stati più bravi di noi nel raccogliere informazioni. Bene, vedremo con che cosa riusciremo a sorprenderli.» «Non c'è più bisogno di mandare Borislav a Londra?» «No, non c'è bisogno, possiamo rimandare quel viaggio a un altro momento; adesso dobbiamo pensare agli affari, non possiamo certo rimanere con le mani in mano.» «Nella lettera però ci ricordano che quelli del Centro antiterrorismo di Bruxelles controllano tutte le nostre comunicazioni e che ci sono un mucchio di satelliti che girano sopra le nostre teste. Quindi cerchiamo di essere comunque cauti.» «Dusan, lascia che sia io a decidere quello che si può o non si può fare. Noi andremo in Cecenia. Abbiamo degli affari da curare. Prepara tutto.» Karakoz diede le spalle al suo luogotenente e si mise a cercare distrattamente delle carte nel suo archivio. Dusan uscì dalla stanza senza aggiungere una parola. Sapeva che con il suo capo non si discuteva. Una volta rimasto solo, Karakoz si sedette dietro la scrivania e accese il computer. Diffidava di quell'attrezzo e non conservava mai le informazioni nella memoria del disco fisso, ma nemmeno si poteva sottrarre ai mezzi del XXI secolo. Rimase a lavorare per un po', ma senza riuscire a concentrarsi. Lo preoccupava che fossero riusciti ad avvicinare sua moglie con tanta facilità, anche se chi lo aveva fatto evidentemente lavorava per il Circolo; comunque doveva aumentare le misure di sicurezza intorno alla sua famiglia. Karakoz disse tra sé e sé che doveva cominciare a essere più cauto, la sua simpatia personale per il Circolo poteva creargli dei problemi, e lui era un uomo d'affari. Malgrado ciò, desiderava ardentemente che il Circolo infliggesse il maggior danno possibile ai cristiani, che se lo meritavano per la loro prepotenza, anche perché questo avrebbe significato affari, grosse vendite, dagli esplosivi alle armi di diverso calibro. Per adesso l'importante era non ritardare il viaggio in Cecenia. A pensar-
ci bene, però, avrebbe potuto affidare quel lavoro a Dusan e concentrarsi sulla richiesta appena ricevuta dal Circolo attraverso la lettera recapitata a sua moglie al mercato. In quel momento non disponeva di tante armi, ma non sarebbe stato un problema procurarle. Nelle ex repubbliche sovietiche si poteva comprare di tutto, perfino un'ogiva nucleare. Inquieto, si mise a camminare avanti e indietro nello studio, fermandosi di tanto in tanto vicino alla finestra per osservare la strada. Le ferite della città si stavano cicatrizzando; la comunità internazionale era impegnata a cancellare le tracce della guerra, la popolazione tornava a sorridere e vivere con calma. Pensò a Sarajevo. Prima della guerra aveva vissuto lì per un lungo periodo, ma adesso che era diventata la capitale della Bosnia c'era tornato a vendere armi con un'identità falsa. Non era sorprendente vedere molte donne con il velo, perfino molte ragazze giovani, anche se gli abitanti di Sarajevo sapevano di essersi salvati non grazie alle brigate dei fratelli musulmani che erano andate a combattere, ma perché l'Occidente, l'Unione Europea e gli Stati Uniti avevano impedito che fosse portata a termine la pulizia etnica organizzata da serbi e croati. Se l'Occidente non fosse intervenuto, tutti quei musulmani sarebbero stati sterminati, ma a lui importava ben poco; adesso molti di loro erano tra i suoi migliori clienti. Non eliminarli era stato provvidenziale. Comunque Karakoz pensava che i serbi non dovessero niente ai cristiani; lui, almeno, non si sentiva in debito con loro. Avevano lasciato che li calpestassero, non importava che morissero i serbi, perché tutto il loro interesse si concentrava nell'evitare la morte dei bosniaci. Ma questo ormai era passato, si disse; adesso lui era un uomo d'affari e il suo affare era la morte degli altri, poco importava chi fosse a morire e perché. Ora aveva un cliente molto speciale, che non discuteva mai sul prezzo quando gli presentava il conto, sia per le armi sia per i killer. Anche se quest'ultimo incarico stava risultando più difficile di quello che poteva immaginare. Tornò a sedersi dietro la scrivania. Aveva qualche problema allo stomaco e forse era a causa della lettera che gli aveva consegnato sua moglie. Il Circolo lo avvisava che il suo nome era comparso tra le carte ritrovate a Francoforte. Quegli idioti non avevano fatto bene il loro lavoro. Come potevano non essersi assicurati che non restasse traccia dei documenti bruciati? L'Interpol gli stava alle calcagna da anni e da qualche mese anche il Centro antiterrorismo europeo gli aveva messo gli occhi addosso. Sì, do-
veva fare attenzione ma non poteva restarsene immobile; se non altro perché i suoi uomini avrebbero perso il rispetto per lui se avessero visto che aveva paura. Monsignor Pelizzoli non fu affatto sorpreso dal ritorno di Ovidio in Vaticano. Quando aveva ricevuto la sua telefonata dall'aeroporto di Fiumicino aveva pensato che il sacerdote avesse deciso di affrontare seriamente la sfida e tentare di risolvere il caso. Il fatto che gli chiedesse il permesso di rimanere qualche giorno a Roma a lavorare nel suo vecchio ufficio, però, data la crisi che stava attraversando, lasciava intuire che ci fosse anche dell'altro. Quando il sacerdote entrò nel suo ufficio lo accolse come se si fossero visti il giorno precedente. Ovidio gli raccontò i dettagli del suo viaggio a Bruxelles e la decisione di non partire per Belgrado. «Non ha senso presentarmi a Belgrado a prendere informazioni su Karakoz. Se ci vado, devo farlo clandestinamente. Altrimenti l'unica cosa che otterrò sarà perdere tempo.» «Clandestinamente? Spiegati meglio» gli chiese sorpreso il vescovo. «Sì, forse potrei trovare qualche informazione su Karakoz se riuscissi a passare inosservato e rimanere un po' di tempo a Belgrado; ma anche così, non so cosa potrei ottenere di davvero interessante. L'Interpol e il centro hanno mezzi adeguati per seguire i movimenti di questo personaggio; di fatto sanno quando si muove e dove va, ed è per questo che ho scartato l'idea iniziale di andare a Belgrado.» Il vescovo non rimase sorpreso dal ragionamento di Ovidio Sagardía. In fin dei conti era un gesuita, e i gesuiti erano stati le avanguardie della Chiesa nei luoghi più remoti; tra l'altro, molti avevano vissuto vite clandestine nel loro slancio di propagare e difendere il Vangelo. Pensò al gesuita Miguel Agustín che negli anni Venti del secolo passato era vissuto nel Messico anticlericale dell'epoca sotto diverse sembianze: mendicante, spazzino, meccanico... Un altro gesuita, Edmund Campion, aveva predicato clandestinamente nell'Inghilterra della Riforma più o meno nel 1580. «Bene, allora cosa proponi?» chiese il vescovo interrompendo il filo dei suoi pensieri. «Credo che dovrò restare qui per qualche giorno: a Bilbao non dispongo dei mezzi necessari per cercare i perché di questo caso.» «Decidi tu, Ovidio. Fai ciò che ritieni necessario. Hai avvisato padre Aguirre?»
«Non ancora. Sono arrivato direttamente dall'aeroporto.» «Bene, ma non dimenticare di farlo. Dove alloggerai?» «Non lo so ancora.» «Potresti stare qui...» «Ci penserò più tardi. Ora vorrei fare delle ricerche nei nostri archivi e nel nostro centro di documentazione... non mi pare che quelle parole salvate dalle fiamme corrispondano al modo di pensare degli islamici, ma immagino che padre Domenico lo sappia meglio di me» «Cosa stai pensando?» «Che in tutto questo c'è qualcosa di strano, qualcosa che finora non siamo riusciti a vedere ma che è proprio sotto i nostri occhi.» «Cosa credi che sia?» «Non lo so! Ma quelle frasi... ho riletto il Corano, ho cercato alcuni testi di pensatori arabi, e non è il loro stile, né il loro modo di esprimersi.» «Però al Centro antiterrorismo non hanno il minimo dubbio che l'attentato di Francoforte sia opera del Circolo. Il signor Panetta e il signor Lucas lo hanno detto molto chiaramente, e poi il Circolo ha pure rivendicato l'attentato. Come fa sempre.» «Non ho dubbi che sia stato il Circolo ma... non so, ho la sensazione che ci sia di più, molto di più. Per questo le ho chiesto il permesso di fermarmi qualche tempo, spero poco, perché, anche se lei non mi crederà, mi manca la vita che ho iniziato a Bilbao. E i miei compagni sono straordinari.» «Fai quello che ritieni più opportuno per portare avanti l'incarico che ti abbiamo affidato, figliolo. Non ti porre limiti né scadenze, non lasciarti angosciare dal tempo.» «Spero di non dover restare troppi giorni.» «Bene, chiamerò Domenico.» «Grazie.» «Hai ancora le tue perplessità rispetto a Domenico?» «Assolutamente no. Lei sa che lo stimo, anche se abbiamo modi diversi di lavorare.» «Sì, in effetti siete diversi. Un gesuita e un domenicano... ma siete entrambi efficaci nel servire la Chiesa.» Ovidio Sagardía aveva avuto bisogno di tempo e pazienza per intendersi con Domenico Gabrielli, un uomo cauto e diffidente ma anche meticoloso e ossessivo nel lavoro. A suo giudizio, Domenico mancava di immaginazione e, ovviamente, Domenico pensava che Ovidio ne avesse fin troppa. «Monsignore, posso occupare il mio vecchio ufficio?»
«Temo di no. Abbiamo rimodellato la sezione, ma dirò di trovarti un posto dove lavorare per tutto il tempo che resterai qui.» «Grazie» rispose Ovidio con freddezza e con un certo disagio. In realtà lo infastidiva che il suo ufficio avesse smesso di essere suo. «Non te la prendere per l'ufficio...» «No, assolutamente.» «Andiamo, non pensare di ingannarmi! Ma tu hai deciso di andartene e noi dobbiamo andare avanti.» «Lo capisco monsignore, lo capisco.» «Sono contento che sia così. E adesso, a lavorare!» Il vescovo mandò a chiamare Domenico. Sapeva che non sarebbe stato un incontro facile, dato che il domenicano non comprendeva il comportamento di Ovidio né tantomeno riusciva a intuire la sua crisi. Domenico riteneva che in un sacerdote non fossero ammesse esitazioni, perché non c'era nulla di più sublime che servire la Chiesa; si sentiva un privilegiato per questo, ringraziava Dio tutti i giorni per averlo illuminato e averlo fatto diventare sacerdote. Si sentiva un privilegiato anche perché svolgeva la sua funzione in Vaticano, in quel terzo piano dove si analizzava ciò che succedeva nel mondo e gli effetti che quegli avvenimenti potevano avere sulla Chiesa. Per un'ora il vescovo moderò l'incontro tra Ovidio e Domenico; quindi chiese loro di unire gli sforzi perché la posta in gioco era molto alta. Quando rimasero soli, Ovidio intuì dallo sguardo di Domenico che questi non aveva ancora ben capito perché fosse tornato. In realtà non lo sapeva bene neanche lui; ultimamente si lasciava trascinare troppo dagli impulsi, anche se l'influenza di padre Aguirre era stata determinante. Il suo maestro lo aveva messo davanti a una realtà che lui tentava di evitare, e di quella realtà faceva parte la necessità di risolvere la questione pendente che riguardava un attentato di terroristi islamici a Francoforte. 14 Il giovane camminava con passo rapido per una di quelle stradine irte che conducono al cuore dell'Albacín. Alto, muscoloso, con i capelli ricci e gli occhi neri come il carbone, cercava di passare inosservato temendo che qualcuno lo riconoscesse. Per questo aveva scelto la sera per avvicinarsi all'appartamento della famiglia Amir. Sperava che Mohamed fosse in casa,
mentre a quell'ora Darwish stava sicuramente lavorando al cantiere. Temeva il capo famiglia perché ricordava come in passato gli avesse rimproverato i comportamenti suoi e di Mohamed. Darwish aveva fatto di tutto per rompere la loro amicizia; persino mandare suo figlio a Francoforte. Alì aveva saputo del ritorno di Mohamed da un amico che continuava a frequentare il Palacio Rojo e che aveva sentito Paco raccontare che era tornato "il moro tedesco". Naturalmente era rimasto sorpreso quando Omar gli aveva mandato un messaggio dicendogli che voleva vedere il suo vecchio amico con urgenza. Incontrare Omar non era facile; era un grande onore perché si trattava del massimo rappresentante del Circolo in Spagna e non parlava mai con semplici mujaheddin come lui. Doveva a Omar il cambiamento del proprio destino, esattamente come tanti altri che aveva riscattato dalla miseria morale nella quale vivevano. Lui aveva dato un senso alle loro vite, ricordando loro l'esistenza di Allah onnipotente e le parole di Maometto, il suo profeta. Il mondo poteva cambiare, ma i musulmani dovevano unirsi come un solo uomo, in una sola comunità, per affrontare il nemico cristiano, debole e sconcertato. Così Alì aveva smesso di spacciare ed era diventato un guerriero disposto a uccidere e a morire. In principio Omar gli aveva affidato un paio di missioni senza importanza: doveva fare da postino per diverse cellule del gruppo. Poi, un giorno, gli aveva chiesto fin dove era disposto ad arrivare; la sua risposta doveva averlo lasciato soddisfatto, visto che lo aveva spedito in Marocco a collaborare con altri fratelli con i quali poi aveva fatto saltare in aria un hotel di Tangeri frequentato da stranieri. L'operazione si era rivelata un successo. Morirono quindici turisti: otto spagnoli, due americani, tre britannici e una coppia di francesi appena sposati. La polizia non era riuscita a trovarli, e non c'era da sorprendersi visto che Omar aveva pensato anche ai minimi dettagli. Adesso Omar gli chiedeva di uscire alla luce del sole e di riunirsi con il suo vecchio compagno Mohamed Amir. Giunto davanti alla porta di casa guardò a destra e a sinistra per vedere se qualcuno lo stesse osservando, quindi suonò il campanello; dopo qualche istante sentì dei passi e la porta si aprì. Mohamed rimase fermo a fissare il giovane il cui volto sfumava nella penombra e non tardò più di un secondo a riconoscere il suo vecchio amico.
«Alì!» I due si fusero in un abbraccio emozionato. Avevano condiviso tante cose da quando le loro famiglie erano emigrate dal Marocco per cercare lavoro in Spagna. Erano andati a scuola insieme e insieme avevano sognato quello che avrebbero fatto da grandi. Insieme si erano accesi la prima sigaretta di nascosto, insieme avevano cominciato a trafficare hashish e a fumarlo di nascosto dai loro genitori. La casa di Alì si trovava due isolati più avanti, ma era vuota da quasi tre anni perché i suoi genitori erano tornati al loro paese natale dopo anni di lavoro e di risparmi. Suo padre aveva aperto una bottega di barbiere dove lavorava felice, aiutato dai figli più piccoli. Le sue sorelle avevano ricevuto offerte di matrimonio vantaggiose, pur avendo soltanto diciassette e quindici anni, e avevano già messo su famiglia. «Entra, entra... Ho chiesto di te, ma non mi hanno saputo dire che fine avevi fatto... Come hai saputo che ero qui?» «Attraverso Paco; anzi, attraverso un amico che continua a frequentare il suo locale. Mi hanno detto che ti sei sposato... non ci posso credere!» «Sì, ho sposato la sorella di Hasan al-Jari. Era la prima moglie di mio cugino Yusuf.» «So che è morto da eroe.» «Proprio così. Per me è stato un grande onore che Hasan mi abbia dato in sposa sua sorella. Adesso ho due figli. Ma vieni, entra, dirò a mia madre e a Fatima di prepararci qualcosa per cena. Dobbiamo parlare.» «Sì, Mohamed. Sono venuto proprio per questo.» Si accomodarono in sala e parlarono dell'infanzia mentre le donne servivano la cena. Quando finirono di cenare e restarono soli, Alì cominciò a spiegare a Mohamed il motivo della sua visita. «Omar mi ha raccontato la storia di Francoforte. Ti faccio i miei complimenti, sono contento che tu sia ancora vivo.» «Non mi sarebbe importato nulla di morire» assicurò Mohamed con aria da spaccone. «Lo so. Neanche a me importa di morire.» «Ma... Omar... lo conosci? Sai chi è?» «Sì, sono membro del Circolo. Omar mi ha salvato.» «Com'è successo?» «Sono stato in carcere. Mi avevano beccato in un'operazione antidroga. C'erano altri carcerati musulmani. Uno di loro ci parlava del senso della vita e della morte, di come non dovevamo buttare via il tempo quando era in
corso una battaglia che poteva essere definitiva tra musulmani e cristiani.» «Perché era lì quell'uomo?» «Lo accusavano di aver nascosto in casa sua un membro della nostra organizzazione, il suo nome appariva nell'agenda di altri mujaheddin detenuti in altre parti del mondo. Cani maledetti! Ma ringrazio Allah per averlo conosciuto. Lui mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto vedere la luce, e adesso so qual è il senso della vita.» Alì gli spiegò che quell'uomo gli aveva dato un indirizzo di Granada dove, quando uscì dal carcere, lo avevano accolto e aiutato a diventare un guerriero di Allah. Poi non gli risparmiò neanche un dettaglio dell'attentato di Tangeri. I due giovani sentirono rinascere, più solido che mai, il vecchio legame d'amicizia. Il destino li aveva resi simili. «Davvero potrò conoscere Omar? Hasan mi ha detto di non provare a mettermi in contatto con lui a meno che non fosse lui a chiamarmi. Mi ha avvertito che questo sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento, perché c'era da terminare un'operazione che era stata vanificata dalla morte di Yusuf e dei fratelli di Francoforte.» «Lui vuole vederti. Hasan gli ha fatto sapere che saresti venuto e gli ha detto quello che si aspetta da te. Non dirgli che ti ho avvisato, ma credo che Omar abbia una missione per te ed è possibile che partecipi anch'io, ma non so di cosa si tratti.» «Una missione?» Il tono di voce di Mohamed era lievemente allarmato. Non si era ancora ripreso dallo stress dell'attentato di Francoforte. «Sì, credo di sì. Ma sarà Omar a dirtelo. Devi andare a trovarlo.» «Quando?» «Tra un paio di giorni verrò a prenderti. Dovrai essere pronto.» «A che ora? Dove andremo?» «Non lo so ancora. Omar si muove continuamente, non sta mai nello stesso posto.» «Immagino che avrà una copertura.» «Ovvio! È proprietario di un'agenzia di viaggi. Gira non solo nella provincia, ma per l'Andalusia intera. Omar è in contatto permanente con Hasan ed è la nostra guida, tutti noi gli obbediamo.» «Lo so. Ho sentito parlare di lui in Germania, anche se non immaginavo che un giorno l'avrei conosciuto.» «Invece lo farai e... be', questo per me è più difficile dirtelo... Omar è preoccupato per tua sorella Laila.» «Come può un uomo come Omar preoccuparsi per una donna insignifi-
cante come Laila?» «Tua sorella non si attiene alle regole, non si comporta... scusa se te lo dico, amico, ma non si comporta come una buona musulmana. Sobilla le donne della nostra comunità, si riunisce con loro per parlare del Corano, dirige le preghiere... Tu sai che questo è proibito. E poi sembra una cristiana, si veste come loro, frequenta luoghi dove una buona musulmana non dovrebbe andare.» «Mia sorella è molto giovane ed è piena di buona volontà.» «Tua sorella sta dando scandalo, deve rinunciare a ciò che sta facendo, deve farlo. Mohamed, so quanto le vuoi bene, per questo ti avviso: se non riesci a convincerla ad abbandonare le sue attività, Omar dovrà prendere una decisione che sarà triste per tutti. Parla con tuo padre, è il capo famiglia, lui saprà come agire, anche se molti dei nostri uomini lo credono responsabile del comportamento sbagliato di Laila.» «Risolveremo il problema in casa» replicò Mohamed. «Meglio che sia davvero così perché altrimenti... non credo che Laila avrà molte possibilità di portare avanti quello che sta facendo.» Parlarono ancora un po' dei vecchi tempi, della loro infanzia e dell'adolescenza nelle strade semivuote dell'Albacín. Conservavano intatto l'affetto reciproco, anche se non erano più liberi di aiutarsi come avevano fatto tempo addietro. Si stavano salutando sulla porta quando videro arrivare Laila. «Alì! Che sorpresa!» «Ciao, Laila.» «Era tanto che non ti vedevamo da queste parti; credevo fossi andato via da Granada.» «In effetti è stato così.» «Sono felice di vederti. Stai già andando via?» «Sì, sono venuto solo a rivedere Mohamed.» La salutò fugacemente e con passo rapido si perse nella penombra dell'Albacín. Laila entrò in casa seguita da suo fratello. Non si parlavano dal giorno in cui lui l'aveva colpita. In realtà la presenza di Mohamed aveva messo fine alla tranquillità della casa. Suo padre sembrava avere un timore reverenziale nei confronti del figlio e lo sguardo di sua madre a volte veniva attraversato da un lampo di paura. Quanto a Fatima, si muoveva come un'ombra per la casa mentre i suoi figli erano quasi paralizzati. Non si comportavano come tutti i bambini: non correvano, non gridavano, non cantavano.
«Andiamo in sala da pranzo, devo parlarti.» Le mani di suo fratello la spinsero verso la sala; si sentì montare la rabbia, ma riuscì a contenersi perché se avesse protestato sarebbe stato peggio. «Sono stato paziente con te, ti ho dato la possibilità di correggerti, ma tu insisti in questo atteggiamento e ciò vuol dire che dovrò prendere misure che non ti piaceranno.» «Mi stai minacciando, Mohamed?» chiese Laila in un sussurro. «Ti sto avvertendo, ti sto dando un'ultima possibilità. Non causare la tua disgrazia e quella della nostra famiglia.» Nel tono della voce di Mohamed c'era, oltre alla rabbia, anche una sfumatura di angoscia che Laila percepì con sorpresa. «Te l'ho detto quel giorno e te lo ripeto adesso: sono cittadina spagnola, maggiorenne, e non hai nessun potere su di me! Non puoi farmi niente, Mohamed. Rispettami come io rispetto te. Non faccio nulla di cui debba vergognarmi né che possa causare vergogna alla nostra famiglia.» «Insisti nel riunirti con quelle donne, dirigere le preghiere, interpretare il Corano. Tutto questo deve finire.» «Non faccio niente di male. Mi piacerebbe che domani mi accompagnassi a casa di una persona molto speciale, un uomo santo; lui potrà dirti che sono una buona musulmana. Dopo averlo ascoltato probabilmente non penserai più le stesse cose. Sai, Mohamed? Non mi lascerò piegare dal fanatismo, neanche dal tuo. Per favore, accompagnami domani.» Mohamed guardò sua sorella fisso negli occhi, pensando se colpirla di nuovo. Si sentiva impotente davanti alla testardaggine di Laila ed era sicuro che lei avrebbe causato una brutta disgrazia alla loro famiglia. Nonostante questo, però, era curioso di sapere dove voleva portarlo. Non le rispose e uscì dalla stanza per non avere la tentazione di picchiarla. Laila tirò un sospiro di sollievo perché aveva visto chiaramente la violenza nello sguardo di Mohamed. Andò in camera sua sapendo che quella notte si era salvata per un pelo dalle percosse di suo fratello. 15 Attraverso le imposte Carmen e Paula osservavano il giovane che, fermo sul marciapiede di fronte al portone, controllava la gente che usciva dallo studio. Laila era in riunione con il gruppo sempre più numeroso di donne entusiaste, che andavano ad ascoltare la sua interpretazione del Corano.
Intuivano che quell'uomo avrebbe creato dei problemi e, anche se non osavano dirlo ad alta voce, temevano che potesse succedere qualcosa a Laila. «Ma quello non è Mohamed?» chiese Paula indicando l'altro lato della strada dove era appena sbucato il fratello di Laila. «Gli somiglia, però non saprei. È da tanto che non lo vedo...» rispose Carmen. Le amiche si guardarono senza dire una parola quando videro il giovane del marciapiede di fronte e il ragazzo che somigliava al fratello di Laila scambiarsi un'occhiata come se si conoscessero. Poi quest'ultimo entrò nel portone e un paio di minuti dopo suonarono alla porta. «Dev'essere lui» esclamò Carmen. «Vado ad aprire.» Mohamed si mostrò circospetto con le due amiche di sua sorella. Rispose a monosillabi alle domande delle due avvocatesse mentre aspettava nell'ufficio di una di loro che Laila arrivasse. Le guardava imbarazzato e si sentiva uno stupido a essersi lasciato trasportare dall'impulso di presentarsi nello studio dove lavorava sua sorella per dirle che era disposto ad accompagnarla a conoscere quel presunto uomo santo. Erano passati solo pochi minuti quando sentì voci di donne che parlavano in arabo. Gli sarebbe piaciuto poter ascoltare con più attenzione, ma Paula e Carmen non smettevano di fargli domande e di elogiare Laila. «È un avvocato fantastico» commentò Paula. «La maggior parte delle donne che vengono in studio vuole che sia lei a occuparsi dei loro casi. Laila ha vinto parecchie cause e le clienti si passano la voce e se la raccomandano l'una con l'altra.» «Oggi ci hanno notificato la sentenza di un'altra causa vinta da tua sorella» spiegò Carmen. «Una storia terribile di violenza domestica. Il marito picchiava la moglie davanti agli occhi dei figli; quei poveri ragazzini hanno sofferto in modo indicibile vedendo la mamma piangere disperata per i colpi subiti. Lui negava tutto, ma tua sorella, con la pazienza di una formichina, è riuscita a dimostrare che quella casa era un inferno.» Finalmente la porta dell'ufficio di Carmen si aprì e spuntò sua sorella. Laila lo guardò sorpresa, senza sapere cosa fare né cosa dire. Mohamed si alzò dalla poltrona e tentò di sorridere, più per dovere che per reale voglia di farlo. «Sono venuto a cercarti. Ieri mi hai parlato di una persona che vorresti farmi conoscere, ma non so se adesso hai tempo.»
«Sì, certo... ho appena terminato la riunione con le donne e non ho altri appuntamenti. Avrei lavorato un po' prima di andare a casa, ma posso continuare domani.» «Allora andiamo» rispose Mohamed con una certa rudezza. I due fratelli salutarono Carmen e Paula e uscirono in silenzio, entrambi in imbarazzo. Mohamed cercò con lo sguardo il giovane maghrebino, ma non c'era più. Senza sapere perché, si sentì sollevato. «Chi è quest'uomo santo?» volle sapere Mohamed. «In realtà lo conosci, anche se probabilmente non ti ricordi di lui.» «Chi è?» insistette Mohamed. «Jalil al-Basari.» «Non lo conosco.» «Viene da Fez, anche se vive già da qualche anno a Granada. Qualche volta, quando eravamo piccoli, nostro padre lo aveva invitato a casa. Veniva di tanto in tanto a trovare sua figlia che è sposata con uno spagnolo. Quando è rimasto vedovo ha lasciato Fez ed è venuto a vivere in casa della figlia.» «E tu vuoi che io conosca una persona così?» «Sono bravissime persone. Jalil è un maestro, insegnava in una madrasa. È un alim rispettato in Marocco e anche qui. Parla di pace, di comprensione tra gli uomini, predica il rispetto tra tutti gli esseri umani e difende i diritti delle donne.» «Non credo valga la pena portarmi a conoscere questo Jalil. Se questo è il suo pensiero, non è uno dei nostri.» «Non giudicarlo prima di conoscerlo. Fidati di me; vedrai che ascoltarlo darà conforto al tuo cuore e crederai ancora di più nel Misericordioso.» «Dove vive quest'uomo?» «Qui vicino, in centro.» «E perché non vive nell'Albacín?» «Ti ho già detto che vive in casa di sua figlia. Lei lavora in una scuola pubblica dove ci sono molti bambini del nostro paese; insegna loro a parlare spagnolo e comincia a introdurli ai costumi di questo paese, cerca di tendere un ponte tra i due mondi. È una donna molto gentile ed è sempre di buon umore.» «E suo marito cosa fa?» «Ha un negozio dove vende caffè, tè e spezie; è un uomo buono e rispettoso con sua moglie. Ha tre figli piccoli, vedrai...» Mohamed seguì Laila fino a un edificio dove riconobbe il negozio di cui
avevano appena parlato, un locale spazioso pieno di luce dove su diverse file di scaffali erano esposti vari tipi di caffè, tè, marmellate, miele e spezie. Laila entrò nel negozio e salutò allegramente Carlos, il genero di Jalil. L'uomo strinse la mano di Mohamed e chiese a entrambi di passare nel retrobottega, dove in quel momento c'era sua moglie, Salima, che preparava un tè per suo padre, il buon Jalil. Salima abbracciò con affetto Laila e osservò con curiosità Mohamed. «Lui è mio fratello, ve ne avevo parlato. Avevo voglia di farvelo conoscere.» Gli occhi di Jalil erano persi nel nulla, ma mosse la testa in direzione di Laila. Jalil era cieco. Mohamed fu impressionato dall'aspetto elegante dell'anziano, che vestiva un'impeccabile djellaba di lana leggera, bianchissima come il colore dei suoi capelli. Fu colpito anche dalle dita lunghe delle sue mani e dal suo sorriso serafico. «Quindi tu sei Mohamed» affermò Jalil. «Laila ci ha parlato molto di te Mohamed rimase in silenzio, affascinato da quell'anziano elegante e allo stesso tempo modesto. «È un onore conoscerla» riuscì a dire. L'anziano sorrise. Avvertiva il turbamento che il giovane provava in quel momento. «Vieni, siediti al mio fianco. Prendete una tazza di tè con noi. Salima, figlia mia, per favore, servi il tè ai nostri amici. Che lavoro fai, Mohamed?» chiese Jalil sapendo che il giovane non si aspettava una domanda così diretta. «Adesso sono in vacanza, ma ho studiato turismo e ho lavorato in Germania.» «Pensi di fermarti a lungo?» «Dipende... può darsi che debba partire, però in realtà non lo so ancora.» «Capisco...» disse l'anziano mentre si concentrava sulla sua tazza di tè. Laila notava l'imbarazzo di suo fratello, ma decise di non fare nulla per toglierlo d'impaccio. Lo sapeva frenato davanti a Jalil e sorpreso nel vedere Salima vestita come un'occidentale, con i pantaloni e senza un fazzoletto che le coprisse i capelli. «Domani verrà a cercarti una donna da parte mia» disse Salima rivolgendosi a Laila. «È la madre di due bambine della scuola; sono riuscita a convincerla che non può continuare a sopportare in silenzio i maltrattamenti di suo marito.»
Salima guardò con la coda dell'occhio Mohamed che si muoveva nervosamente sulla sedia. Ma decise di continuare il suo discorso. «È una ragazza giovane, non ha neanche trent'anni. Non c'è giorno in cui non si presenti con qualche colpo sul viso, ma ieri, oltre ad avere un occhio nero, è arrivata con un braccio rotto. Le bambine sono terrorizzate perché assistono alle violenze del padre. Temo che un giorno la cosa possa degenerare. Vedi un po' se riesci ad aiutarla.» «Sai bene che dipende tutto da lei, dalla sua volontà di presentare una denuncia per maltrattamenti. Con la denuncia sarà possibile procurarle un domicilio provvisorio insieme ad altre donne maltrattate, mentre si sistema la sua situazione legale. Io non posso fare niente per lei se lei non vuole.» «Lo so, lo so... ma ti prego di ascoltarla. Non è facile per nessuna donna fare questo passo, denunciare il marito è sempre una cosa terribile. Mi dispiace tanto vederla soffrire e sapere che l'aspetta quell'inferno fino alla morte...» «Farò il possibile.» Jalil e Mohamed ascoltavano la conversazione delle donne, in silenzio. Mohamed era irritato perché l'anziano non interveniva a riprendere Salima e Laila per ciò che si proponevano di fare. «E tu cosa pensi del fatto che il marito maltratti la propria moglie?» chiese in maniera inattesa Jalil. «Credo che nessuno abbia diritto di intromettersi nei fatti privati di una coppia e ancor meno di consigliare a una moglie di denunciare il proprio marito. Il Corano dice come bisogna castigare la moglie quando questa commette una mancanza. Naturalmente il castigo deve essere proporzionato alla mancanza commessa. Non mi piacerebbe affatto che mia sorella intervenisse in una questione privata di una buona famiglia musulmana.» «Ma chi ti ha detto che sto parlando di una coppia musulmana?» replicò Salima. «Per tua informazione, i due sono entrambi spagnoli, di Granada, e sono cristiani.» «Credo comunque che nessuno debba intromettersi nei fatti loro. Se lui la picchia, ci sarà un motivo.» «E a te sembra giusto?» volle sapere Jalil. «Naturalmente. Vogliamo forse mettere in discussione il Libro Sacro?» «Ti ho chiesto se consideri giusto maltrattare un altro essere umano quale che sia la causa» insistette l'anziano. «È scritto nel Corano...» «Per favore, Mohamed, lascia in pace il Corano! Gli uomini non hanno
mai smesso di compiere orrori in nome del Corano o della Bibbia! Troppo spesso si cerca nei testi sacri la scusa per giustificare l'ingiustificabile.» Jalil al-Basari parlava con energia e con calore, e pareva perfino abbozzare un sorriso divertito che irritò particolarmente Mohamed. «Mia sorella mi aveva detto che era un uomo santo, un alim rispettato, e invece mi trovo davanti un anziano che osa mettere in dubbio il Sacro Corano.» «Tu credi che io stia mettendo in discussione il Sacro Corano? Dimmi cosa te lo fa pensare.» «Non sono venuto a casa sua per discutere. La ringrazio per l'ospitalità, ma adesso dobbiamo andare» affermò Mohamed guardando la sorella. «Da cosa fuggi, Mohamed?» chiese di nuovo l'anziano Jalil. «Fuggire? Io non fuggo da niente!» Nel tono della voce di Mohamed vibrò una nota quasi isterica, di paura. «Allora finisci il tuo tè e non aver fretta di scappare dalla conversazione con un anziano.» Mohamed chinò la testa rassegnato. Quell'uomo lo sconcertava: sotto la sua inoffensiva apparenza di anziano si nascondeva un lupo astuto disposto ad azzannarlo alla prima distrazione. «Lasciamo da parte il Corano e parliamo del bene e del male. Io credo che nessun essere umano abbia diritto di umiliare, torturare, fare qualsiasi tipo di violenza, quale che sia, a un altro essere umano. Disgraziatamente sono molte le occasioni in cui noi esseri umani ci comportiamo come autentici animali nei confronti dei nostri simili, soltanto perché non la pensano come noi, perché non condividono il nostro stesso credo e pregano in modo differente oppure non pregano, perché vogliono vivere in un modo differente da quello in cui noi riteniamo giusto vivere... Insomma, sono molte le cose che ci irritano e ci separano dagli altri, eppure nessuna di queste può davvero giustificare il male che commettiamo. «Facciamo l'ipotesi che tu uccida perché pretendi di castigare un'offesa ricevuta da parte dei tuoi nemici, o maltratti tua moglie perché non è stata diligente, oppure menti per non sentirti umiliato davanti alla tua comunità. Ognuna di queste cose è intrinsecamente male. La questione sta nel dominare il male che è dentro di noi, combatterlo, per tutta la vita, facendo in modo che non siano i demoni a dirigere i nostri atti, ma noi a piegare loro. «No, Mohamed, non è giustificabile che un uomo maltratti sua moglie, o suo figlio, ma neanche un cane o un fiore. Credi che Allah sia contento di te se prendi a bastonate tua moglie? Per prima cosa proverà compassione
per la sua sofferenza e solo poi si occuperà della tua ira.» Jalil al-Basari rimase in silenzio e finì la sua tazza di tè. Salima osservava con la coda dell'occhio Mohamed e Laila e lesse negli occhi della sua amica la disperazione che aveva dentro. «Stanno per arrivare alcuni amici per la preghiera del pomeriggio. Vi fermate con noi?» chiese Salima per rompere il silenzio che era calato tra di loro. «Ho da fare» si scusò Mohamed. «Va bene, io resterò ancora un po'» affermò Laila. «No! Tu vieni via con me.» «No, io resto qui ancora un po'; mi piace ascoltare Jalil, c'è sempre molto da imparare.» «Non ti preoccupare. Se si fa tardi, io e mio marito accompagneremo Laila a casa.» «Mia sorella deve venire con me adesso.» «No, io resto qui.» Mohamed aveva ancora il viso in fiamme. L'ira gli rodeva dentro ma non voleva lasciarsi andare davanti a quegli estranei. «Devi obbedire, Laila. È meglio se torniamo insieme, se farai tardi dovremo aspettarti per cena.» La scusa risultò ridicola anche a lui, ma non gli era venuto in mente nulla di meglio. Una cosa comunque era certa: Laila avrebbe conosciuto i rigori della sua cinghia per averlo messo in quella situazione. Una volta arrivati a casa l'avrebbe colpita e la sua coscienza, si disse, non avrebbe avuto il minimo rimorso. «Mi piacerebbe che restaste entrambi» intervenne Jalil. «Credo che ti sentirai a tuo agio pregando e parlando con noi. Non ti farà male.» «Ma... Va bene» dovette cedere Mohamed, non trovando nuove scuse. «Allora è deciso, restate qui; i nostri amici stanno per arrivare.» Erano passati solo pochi minuti quando Carlos, il marito di Salima, entrò nel retrobottega per avvisare che erano arrivati i fedeli. Con estrema cura, Salima e Laila aiutarono Jalil a mettersi in piedi e attraverso una scala interna salirono all'appartamento dove abitavano. Mohamed fu sorpreso nel vedere che sua sorella conosceva tutti coloro che formavano quel gruppo di fedeli e fu scandalizzato dalla naturalezza con cui si trattavano uomini e donne, a suo giudizio senza pudore e senza ritegno. Avrebbe avuto voglia di rimproverare alcune donne perché non portavano i capelli coperti dal velo e vestivano più come cristiane che co-
me musulmane, ma decise di tacere perché in mezzo a quel gruppo si sentiva perso. Si sistemarono sui cuscini disposti a terra intorno a Jalil che sedeva su una sedia bassa. Alla destra di Jalil le donne, alla sinistra gli uomini. «Che ne dite se oggi facciamo una riflessione sulla violenza?» chiese Jalil. Il mormorio di assenso fece sorridere l'anziano. «Prima che arrivaste, stavamo parlando del diritto del marito di castigare fisicamente la propria moglie. Il nostro amico Mohamed crede che a noi uomini il Sacro Corano abbia concesso il diritto di farlo.» Un uomo che doveva avere più o meno l'età di Jalil alzò la mano. «Senza dubbio il nostro amico Mohamed conosce bene il Corano. Per esempio nella sura 4, versetto 34, si dice: "Gli uomini sono superiori alle donne, a causa delle qualità attraverso cui Dio ha elevato i maschi al di sopra delle femmine, e perché gli uomini concedono i loro beni in dote alle donne. Le donne virtuose sono obbedienti e sottomesse: conservano accuratamente, durante l'assenza dei loro mariti, ciò che Dio ha ordinato di mantenere intatto. Riprenderete quelle di cui temete la disobbedienza, le confinerete in letti separati, le colpirete, ma appena esse obbediranno, smetterete di infligger loro il castigo. Dio è elevato e grande".» Mohamed guardò con gratitudine quell'uomo che aveva appena recitato a memoria un versetto del Corano che non lasciava adito a dubbi riguardo alla facoltà dell'uomo di castigare la moglie. Provò un senso di sollievo nel verificare che in quello strano gruppo non tutti si comportavano come infedeli. «I credenti cristiani e i credenti ebrei da tempo si sono allontanati dal senso letterale della Bibbia; la considerano un Libro Sacro ispirato da Dio, ma dicono che quando Dio ispirò il Libro, lo fece tenendo conto del mondo com'era allora. Per questo fanno loro lo spirito del Libro, non la lettera; non perché non siano buoni credenti, ma perché ritengono che Dio abbia voluto un mondo che cambia giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. La cosa più importante non è sapere se il profeta Elia è salito davvero al cielo su un carro di fuoco. La cosa più importante è la fede in Dio.» Questo intervento di Carlos, il marito di Salima, lasciò Mohamed annichilito. Era un infedele. «Vuol dire che non dobbiamo seguire gli insegnamenti del Sacro Corano?» gli chiese.
«Voglio dire che è lo spirito del Sacro Corano a doverci guidare. Possiamo leggere la sura 49, versetto 16: "Pensate di insegnare a Dio qual è la vostra religione? Lui sa tutto ciò che esiste in cielo e in terra. Lui conosce tutto". E più avanti: "Dio conosce i segreti dei cieli e della terra, di tutte le vostre azioni".» Tutti i presenti ascoltavano attentamente, senza replicare, coscienti del fatto che quel pomeriggio c'era un protagonista nuovo: Mohamed. Jalil non li poteva vedere, ma sembrava sapere dove si trovasse ognuno dei presenti; quindi, rivolgendosi a Mohamed, gli disse: «Dio è misericordioso. Nella sura 53, versetto 32, si dice: "Per coloro che evitano i grandi crimini e le brutture, ma incorrono in piccole mancanze, Dio ha grande indulgenza. Ben vi conosceva già quando vi formava dalla terra; Egli vi conosce sin da quando non siete altro che un embrione nel ventre di vostra madre. Non tentate di giustificarvi, quindi. Lui conosce meglio di ogni altro chi lo teme".» «Mi sento confortato quando ascolto il Sacro Corano» disse un giovane pieno di entusiasmo. «Pur sapendo che Dio vede tutto e sa tutto, penso alla sua misericordia e spero nel suo perdono per tutti gli errori che ho commesso.» «Sì, ma non si tratta solo di fare quel che non si deve» puntualizzò Jalil «e poi aspettare la misericordia di Dio. Lui si aspetta di più da noi.» Il giovane chinò la testa mortificato per essersi lasciato trasportare dall'entusiasmo, pur essendo convinto che la misericordia di Dio sarebbe bastata a perdonare qualsiasi cosa egli avesse fatto nella vita. Mohamed si schiarì la voce prima di decidersi a parlare. Quegli anziani conoscevano meglio di lui il Sacro Corano, ma durante il periodo passato in Pakistan, nella madrasa dove lo aveva mandato Hasan, aveva dedicato molte ore allo studio del testo sacro, abbastanza da sapere che Jalil e il suo amico sceglievano quelle citazioni e le interpretavano in modo poco ortodosso. Decise di rischiare e fare sfoggio delle sue conoscenze del Corano. «"Abbiamo preparato un braciere ardente per gli infedeli che non hanno creduto in Dio e nel suo apostolo"» recitò socchiudendo gli occhi. «"Il regno dei cieli e della terra appartiene a Dio; Egli perdona chi vuole e applica il castigo divino a chi vuole. Egli è indulgente e misericordioso."» «Tu stesso lo hai appena ricordato: "Egli è indulgente e misericordioso"» gli rispose Jalil. «Nella sura 4, versetto 44, si dice: "Dio non reca danno a nessuno, neanche un danno del peso di un atomo; una buona azione paga doppio e concederà una ricompensa generosa". Così è Dio, così ce
lo descrive il Sacro Corano. L'Onnipotente può castigare come e quando vuole noi, gli infedeli e tutti gli esseri della terra, ma il Corano non smette mai di ricordarci l'indulgenza e la misericordia di Dio verso di noi, poveri peccatori. Mi fa piacere che tu conosca bene il Corano, Mohamed; ora l'importante è interpretarlo bene, riuscire a sentire l'indulgenza e la misericordia di Dio nei confronti degli uomini.» «Quindi alla fine lei riassume il Sacro Corano nell'indulgenza e nella misericordia di Dio?» chiese in tono di sfida Mohamed. Jalil rimase in silenzio appena un secondo, quindi gli piantò addosso i suoi occhi vuoti. «Essere indulgenti e misericordiosi con i nostri simili è un'impresa titanica per noi poveri mortali. Quante volte ci irritiamo e maltrattiamo con parole e opere i nostri cari! Lo facciamo perché non siamo capaci di essere indulgenti e ancor meno misericordiosi. Guarda bene in fondo al tuo cuore e chiediti quante volte sei stato misericordioso con gli altri. Sicuramente la risposta non ti piacerà. Non piace neanche a me quando mi faccio questa domanda.» «"Tutti coloro che hanno compiuto una cattiva azione hanno agito iniquamente contro la propria anima; ma poi, se imploreranno il perdono di Dio, lo troveranno indulgente e misericordioso"» recitò a voce alta un altro anziano. La notte aveva coperto la città quando Jalil diede per terminata la riunione. Mohamed si sorprese nel vedere che erano quasi le dieci. Sua madre e Fatima dovevano essere preoccupate. Aveva detto loro che andava a cercare Laila quasi cinque ore prima. Sua sorella salutò con affetto quel gruppo eterogeneo e Mohamed si rese conto che tutti la apprezzavano. Uscirono dalla casa in silenzio e in silenzio camminarono verso l'Albacín. Mohamed provava sentimenti contrastanti. Da una parte si era sentito a proprio agio tra quella gente, dall'altra pensava che fossero un gruppo di ingenui impegnati a vedere il perdono in ogni riga del Corano. Ignoravano tutto quello che non concordava con il loro desiderio di indulgenza e misericordia. Quando arrivarono a casa, trovarono loro madre e Fatima in sala che li aspettavano con aria preoccupata. La madre si diresse con passo rapido verso Laila e sospirò di sollievo nel vedere che non aveva segni di violenza, poi sorrise a suo figlio e invitò entrambi a mettersi a tavola.
Laila si scusò dicendo che era stanca e che il giorno seguente doveva alzarsi presto perché aveva la prima lezione alle otto. Mohamed non fece caso a sua sorella e si sedette in sala, dove Fatima aveva già servito la cena. Mangiò in silenzio, solo, mentre sua moglie lo serviva tenendo la testa bassa. Osservandola con la coda dell'occhio, si accorse di continuare a non trovarla per nulla attraente; se era andato a letto con lei in un paio di occasioni l'aveva fatto esclusivamente per impedirle di lamentarsi con i suoi parenti perché suo marito non l'aveva ancora posseduta. Hasan non gli avrebbe perdonato quell'affronto. La djellaba nascondeva le forme di Fatima, ma lui sapeva che il corpo di sua moglie non era attraente e che i capelli, coperti dallo hijab, erano ruvidi e opachi. Avrebbe dovuto di nuovo andare a letto con lei, per quello teneva in un cassetto una tabacchiera piena di hashish. Solo con la testa avvolta dalla nebbia si sentiva capace di farlo. Sperava che Fatima rimanesse incinta al più presto, così per molto tempo avrebbe avuto una scusa per starle lontano; fino a quel momento, però, non intuiva in lei alcun sintomo di gravidanza. Stava finendo di mangiare una melagrana quando sua madre entrò in sala e si sedette di fronte a lui. «Oggi pomeriggio è venuto Alì e ha chiesto di te.» «E cos'ha detto?» «Che tornerà domani. Figlio mio, non mi piace quel tuo amico.» «Per quel che ne so sei amica di sua madre, o almeno lo eri quando andavate a scuola.» «Disgraziatamente sua madre non vive più qui. Ma non è la sua famiglia che mi interessa. Mi interessi tu e non voglio che ti metta nei guai. Se vai con Alì finirai male.» «Perché?» «Gira con persone pericolose, quelli non sono come noi.» «Perché? Come siamo noi?» «Tu sei cambiato. Non so cosa ti abbiano fatto a Francoforte e in Pakistan, ma non sei più lo stesso.» «Sono un uomo, madre.» «Sì, un uomo che temo possa farsi manovrare come un ragazzino.» «Manovrare?» Il tono di voce di Mohamed si era alzato e nel suo sguardo si rifletteva un'ira trattenuta. «Sono un uomo, madre. Un uomo con una
famiglia e il desiderio di fare di questo mondo un posto migliore, dove noi musulmani non saremo più cittadini di serie B, ma verremo trattati con rispetto. Dobbiamo castigare gli infedeli ed è quello che faremo. Dio ci ricompenserà per questo.» «E chi ha detto che si debba castigare qualcuno? Perché non possiamo vivere in pace gli uni con gli altri? La terra è di tutti e c'è spazio per tutti. Lasciamo che ognuno preghi Dio come gli hanno insegnato a fare da bambino.» «Madre, come puoi parlare così?» «Perché sono vecchia e ho visto troppa sofferenza intorno a me.» «Nessuno ti farà del male; fidati di me.» «Non temo per me stessa, ma per te. Allontanati da Alì.» «Cosa ti preoccupa di Alì?» «Frequenta i peggiori soggetti della nostra gente, uomini che distillano odio. Lo manipolano come una marionetta, e proveranno a fare la stessa cosa con te. Ti diranno che sei un mujaheddin, che devi compiere una missione sacra, ma sarà una bugia, vorranno solo che tu vada a morire per loro.» «Qualsiasi madre si sentirebbe orgogliosa se suo figlio diventasse un martire.» «Io, Mohamed, mi accontento di saperti vivo. Non chiedo altro.» «Non parli come una buona musulmana! Non ti rendi conto di quello che succede nel mondo?» «Sì, mi rendo conto che ci sono uomini impegnati a distruggere altri uomini, ma poi non sono loro a mettersi in prima fila durante la battaglia, mandano a morire voi, i nostri figli. Vi ubriacano di parole che riempiono il cuore, ma ti giuro che non so per cosa vi mandino a morire.» Mohamed balzò in piedi e uscì infuriato dalla sala. Non voleva discutere con sua madre. Cosa ne sapeva lei! Era una donna ignorante che a fatica aveva imparato a leggere e scrivere. Niente di ciò che avrebbe potuto dire aveva valore perché lei non comprendeva cosa le accadeva intorno. Era una povera donna, niente di più. 16 Il mattino dopo, mentre usciva di casa, Laila trovò Alì fuori dalla porta che stava per suonare il campanello. «Buongiorno.»
«C'è tuo fratello?» «Sì, ma non si è ancora alzato. Aspetta che chiamo mia madre.» Laila tornò dentro con passo rapido e andò da sua madre in cucina. «C'è Alì alla porta. È venuto a cercare Mohamed.» «A quest'ora?» «Sì, avvertilo.» «Non mi piace quel tipo...» «Neanche a me, madre, ma non possiamo farci niente. Mio fratello è un uomo ed è lui che deve decidere del suo destino.» «Non è ancora un uomo; è un bambino» le rispose guardandola con preoccupazione, poi uscì dalla cucina per avvisare suo figlio. L'angoscia le attanagliava la bocca dello stomaco. Alì aspettava Mohamed in sala. Era nervoso per il ritardo del suo amico. Le istruzioni di Omar erano precise e non ammettevano perdite di tempo. Quando finalmente sbucò Mohamed, gli intimò di seguirlo senza altre spiegazioni. «Mi hai fatto aspettare» lo rimproverò. «Stavo dormendo, ma ho fatto in fretta, sono stato appena un minuto sotto la doccia e non ho neppure preso un caffè.» Scesero con passo rapido per gli angusti vicoli dell'Albacín; malgrado l'insistenza di Mohamed perché Alì gli dicesse dove erano diretti, questi aveva rispettato la consegna del silenzio. Arrivati nel centro di Granada, Alì lo condusse lungo le rive del fiume, continuando a guardarsi le spalle. «Ma si può sapere cosa guardi?» gli chiese Mohamed, irritato. Non ebbe risposta perché proprio in quel momento un fuoristrada si fermò vicino a loro. Alì spinse dentro il suo amico. Al volante c'era un uomo di mezza età, con i capelli neri e i baffi curati, che neanche li salutò. Neppure Alì disse niente, e Mohamed decise di fare lo stesso. Si lasciarono alle spalle la città dirigendosi verso l'autostrada che collegava Granada alla costa. L'uomo aveva una guida rapida ed esperta. Dopo circa due ore si fermarono di fronte al cancello di una tenuta; questo si aprì e la jeep proseguì su un sentiero di terra alla fine del quale sorgeva un immenso chalet dall'architettura moderna. Due uomini si avvicinarono alla macchina aspettando che scendessero. Uno di loro abbracciò Alì con affetto; poi li condusse all'interno della casa. La sala era grande, con al centro un tavolo basso intorno al quale si trovavano disposti tre divani e diverse sedie.
«Aspettate qui» disse l'uomo. Alì e Mohamed rimasero in piedi, senza osare sedersi. «Questa è la casa di Omar?» chiese Mohamed con un filo di voce. «Esatto, è casa mia.» Mohamed ebbe un sussulto. Non aveva visto entrare l'uomo che gli aveva appena risposto e non sapeva neppure come avesse fatto a sentirlo. «Sei il benvenuto, Mohamed, che Allah sia con te.» «Grazie» rispose lui turbato. «Sei in ritardo, Alì» disse poi Omar con tono di rimprovero. Alì non tentò di giustificarsi ma abbassò gli occhi umiliato. «Va bene, immagino che non vi sia stato possibile arrivare prima. Non fa niente, sedetevi, non ho molto tempo.» I due giovani obbedirono a quell'uomo di età indefinita: poteva avere quarant'anni come pure cinquanta. Alto, il portamento elegante, i capelli scuri con qualche filo bianco e gli occhi più neri della notte. Si notava che era abituato a comandare senza essere mai contraddetto da nessuno. Una donna ormai anziana, con djellaba e hijab sui capelli, entrò in sala portando su un vassoio tre tazze di tè e un piatto di dolci. Omar attese che l'anziana abbandonasse di nuovo la stanza per riprendere a parlare. «Voglio che facciate parte della missione che darà il colpo di grazia agli infedeli. Dopo, ci chiederanno clemenza e il potere del mondo sarà per sempre nelle mani dei credenti. Tuo cugino Yusuf avrebbe voluto farsi carico personalmente della missione. Te ne aveva parlato?» «No» affermò Mohamed. «Yusuf era molto riservato; ma io sapevo che aveva qualcosa per le mani. Passava le giornate a studiare carte, a volte lo chiamavano per telefono e lui evitava di farci ascoltare le conversazioni. Partiva senza dire dove andava... ma non ha mai detto niente, né a me né al resto del commando.» «Yusuf godeva della mia totale fiducia e di quella di Hasan. Adesso sarete voi a portare avanti la missione. Non sarà facile, e se vi arresteranno dovrete sacrificare la vita pur di non parlare; gli uomini che parteciperanno insieme a voi si sono già impegnati a farlo.» Alì e Mohamed giurarono a Omar che erano disposti a offrire la loro vita e non avrebbero avuto gioia più grande che quella di ritrovarsi con Allah in Paradiso. «Se cadrete nelle mani degli infedeli sarà meglio che vi togliate la vita;
altrimenti ve la toglieremo noi e in quel caso non ci sarebbe onore né per voi né per le vostre famiglie. Dovrete portare sempre con voi una pastiglia.» «Una pastiglia?» chiese sorpreso Mohamed. «Sì, una pastiglia. L'estremo rimedio, nel caso in cui non siate riusciti a morire combattendo da eroi.» «A Francoforte avevamo delle cinture cariche di esplosivo per farci saltare in aria nel caso in cui la polizia avesse tentato di fermarci. È quello che Yusuf e gli altri compagni hanno fatto e che avrei dovuto fare anch'io se mio cugino non mi avesse ordinato di andare a distruggere dei documenti.» «Non devi giustificarti per non essere morto a Francoforte. Allah aveva disposto che tu dovessi vivere. Può darsi che morirai nella prossima missione, o magari no. Le cinture esplosive sono una possibilità che teniamo sempre in considerazione, ma questa è una missione speciale. Ci saranno momenti in cui agirete allo scoperto, momenti pericolosi nei quali non potrete indossare le cinture di esplosivo. So che morire con una pastiglia può sembrare poco eroico, ma non possiamo correre rischi inutili.» Alì e Mohamed annuirono senza nascondere la loro delusione. I valorosi non muoiono con una pastiglia, pensavano, ma non potevano contraddire Omar. «Ora vi spiegherò i dettagli della missione. Ascoltatemi.» Per due lunghe ore Omar spiegò cosa ci si aspettava da loro. Alì e Mohamed ascoltarono estasiati. «Li colpiremo dove farà davvero male: in tre dei loro santuari maggiormente venerati. Si tratta di distruggere la più sacra delle reliquie dei cristiani: la croce dove dicono che Gesù venne crocefisso. Ne esistono centinaia di frammenti. Noi distruggeremo il santuario dove si trova il frammento più grande di quel pezzo di legno, a Santo Toribio, in Cantabria. Santo Toribio è uno dei luoghi in cui i cristiani celebrano l'Anno Santo. Altrove solo Gerusalemme, Roma, Santiago di Compostela e Caravaca possono vantare questo privilegio. E noi abbiamo la fortuna che questo sia l'Anno Santo, per cui ci saranno migliaia di pellegrini che verranno da tutto il mondo per adorare quel pezzo di legno. Poi distruggeremo anche la reliquia che si trova nella basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma e il Santo Sepolcro di Gerusalemme. «Non potranno far finta di niente davanti a questo affronto; i giornali, le radio, le televisioni, quando daranno la notizia, risveglieranno la coscienza
addormentata dei cristiani; anche di quelli che si dicono laici, agnostici o atei. La loro tragedia è che non sapranno cosa fare, e non faranno niente. Lanceranno appelli alla calma, al dialogo tra musulmani e cristiani, diranno che gli attentati sono opera di pazzi fanatici, ma l'importante è che chineranno la testa e non ci sfideranno perché hanno paura di noi. Molta paura.» Gli occhi di Omar brillavano di vera emozione. Assaporava in anticipo il momento in cui le reliquie sarebbero state fatte a pezzi. Bevve un sorso d'acqua prima di continuare. «Molti secoli fa, ci decimarono brandendo la croce come stendardo, e adesso noi distruggeremo parte di quella croce. Dopo, l'Europa sarà nostra; è solo questione di tempo.» No, non potevano fallire. Se tutto fosse andato bene, l'Occidente sarebbe rimasto ferito a morte, sarebbe caduto come un frutto maturo. Mohamed sorrideva dentro di sé, orgoglioso di succedere al suo ammirato cugino Yusuf alla testa del commando che avrebbe dovuto realizzare la missione. «Tu guiderai l'azione, ma sarà Salim al-Bashir a coordinarne i dettagli, a organizzare il gruppo, le infrastrutture, le vie di fuga... Dovrai chiedere a lui i mezzi di cui avrai bisogno. Sarete un corpo solo. Lui sarà la mente e voi le braccia. E poi abbiamo un vantaggio: possiamo venire informati di quello che i cristiani scoprono su di noi.» «Come?» chiese Alì con curiosità. «Questo, amico mio, non te lo posso dire né me lo devi chiedere.» «Ma non sarà pericoloso che lo stesso commando porti a termine tre attentati?» «Questa è una questione che concerne Salim al-Bashir.» «Quando lo conosceremo?» volle sapere Mohamed. «Presto. Verrà in Spagna, non appena avrà finito di mettere a punto alcuni dettagli della missione. Sarà lui a contattare voi; dovrete essere disposti a partire immediatamente. Quanto alle vostre famiglie, sappiate che sono anche le nostre famiglie e che le proteggeremo se dovesse accadervi qualcosa. A proposito, Mohamed, so che hai qualche problema con tua sorella...» Mohamed chinò il capo impaurito. Si era dimenticato di Laila, entusiasta com'era di assumere buona parte delle responsabilità della missione. Ora non aveva altro rimedio che affrontare il problema. «Mia sorella è molto giovane. È piena di buone intenzioni; ma non preoccuparti, risolverò io il
problema.» «So che per te è stato un gran dispiacere ritrovare tua sorella fuori dai binari, ma devi capire che non possiamo fare eccezioni. O si comporta correttamente o, in caso contrario, troveremo noi una soluzione che sarà di esempio ad altre donne.» «Lei è spagnola...» balbettò Mohamed. «Anch'io» rispose seccamente Omar. «Ma per noi non esiste altra legge che quella del Sacro Corano. Non ti chiederò di punirla se non ti senti capace di farlo, ma se non lo fai tu... Non so, può essere che mi stia sbagliando sul tuo conto... forse tu non sei l'uomo adatto per la missione più importante che il Circolo porterà a termine. Per questa missione ho bisogno di uomini che siano leali solo nei nostri confronti e di nessun altro.» «Non avrai bisogno di intervenire, sistemerò tutto io» assicurò Mohamed. «Spero sia davvero così. Ora, cominciate a lavorare. Vi presenterò Hakim, farà parte anche lui del commando. Ha esperienza, come Salim, in questo tipo di azioni. Hakim ha combattuto in Bosnia ed è stato alcuni mesi in Iraq. In precedenza aveva partecipato all'attentato che aveva fatto esplodere l'autobus a Parigi e aveva fatto parte del commando che aveva piazzato la bomba al consolato danese di Vienna. È un esperto di esplosivi. Ha avuto ottimi maestri in Afghanistan. È un tipo freddo, con i nervi d'acciaio. Il suo unico problema è che non parla ancora bene l'inglese. In questo tu sei in vantaggio rispetto a tutti gli altri, Mohamed: so che il tuo tedesco è quasi perfetto e che mastichi l'inglese. Alì parla solo arabo e spagnolo, ma sarà sufficiente.» «E Salim?» «Salim è straordinario. È professore in una prestigiosa università del Regno Unito, è cittadino britannico. In realtà è nato a Londra, ma è di origine siriana. È un uomo al di sopra di ogni sospetto. I suoi articoli sui giornali più prestigiosi invitano alla moderazione e difendono la possibilità di convivenza tra le diverse comunità. Lo adorano tutti; i suoi colleghi dell'università, i mezzi d'informazione, i governi europei. È un uomo impeccabile nel cui passato non c'è altro che lo studio.» «Allora non ha mai partecipato a un'azione?» chiese Mohamed. «Al contrario! Ha partecipato a tutte quelle che hanno avuto successo perché è stato lui a prepararle minuziosamente. Vi ho già detto che Salim è la testa pensante, tenetelo ben presente. Voi siete abituati ad agire, lui a pensare.»
«Non siamo pochi viste le dimensioni della missione?» osò dire timidamente Alì. «Non sarete soli. Ci saranno altri membri del Circolo ad aiutarvi ogni volta che ne avrete bisogno, ma non dimenticate che la chiave per il successo di questa operazione è il silenzio, non deve filtrare niente. Per questo è meglio che non ci sia molta gente coinvolta. In principio siete più che sufficienti. Salini al-Bashir ha studiato ogni dettaglio, è lui che ha deciso. È lui che tiene i contatti con coloro che in questo momento ci sono utili.» «Io conosco Hakim» affermò Alì. «Lo so. Vi ha dato una mano nell'azione di Tangeri.» «È una brava persona.» «È efficace» rispose Omar. «Questa è l'unica cosa che conta.» «So che è un buon figlio, sempre preoccupato per suo padre e i suoi fratelli. Sua moglie è morta durante il primo parto e lui non si è più sposato» insistette Alì malgrado Omar avesse aggrottato le sopracciglia. «La sua vita privata non ci riguarda. Hakim ha il mio sostegno e la mia fiducia. So che è l'uomo giusto per questa missione ed è l'unica cosa che importa.» «Ah, dimenticavo! Mohamed, prima ti ho parlato di tua sorella e non ho menzionato Jalil. So che lei ti ha portato a conoscerlo, che hai partecipato a una delle sue riunioni. Stai lontano da Jalil, non è dei nostri; è un vecchio ingenuo che crede che il mondo si aggiusti con le preghiere e con la buona volontà.» Mohamed si sentiva nudo davanti a quell'uomo. Com'era possibile che sapesse già della sua visita a casa di Jalil? All'improvviso gli venne in mente il ragazzo fermo davanti all'edificio dove si trovava lo studio di Laila e fu colto da un attacco di panico: era di certo una spia di Omar. Nulla sfuggiva all'uomo che ora aveva di fronte, e in quel momento capì che Laila era davvero in pericolo. «Quel Jalil mi sembra un buon uomo. Non credo che faccia male a nessuno» rispose con timore. «È un problema. Si impegna a predicare la pace dimenticando che il nostro nemico è forte e che dobbiamo sconfiggerlo, che solo allora potremo parlare di pace ed essere magnanimi.» «Non credo che Jalil costituisca un pericolo per nessuno» osò replicare Mohamed. «Non lo è perché non permetteremo che lo sia, quindi non lo frequentare. Non è a casa sua che devi pregare. A Granada troverai moschee dove
farlo e imam disposti a guidare il tuo spirito e aiutarti a seguire il cammino che hai scelto.» Omar lo guardò fisso e Mohamed comprese che non gli stava dando un consiglio, ma un ordine. Improvvisamente una bambina fece irruzione nella stanza, inseguita dall'anziana che aveva servito loro il caffè. «Papà! Papà! È vero che mi lascerai andare alla gita con i bambini della scuola? La mamma dice di no, ma io ci voglio andare, per favore, questa volta ci voglio andare!» «Rania! Che modi sono questi?» Malgrado il tono arrabbiato di Omar, Mohamed riuscì a vedere in quell'uomo implacabile uno sguardo più dolce. Se la bimba si era permessa di interrompere il padre era perché sapeva che lui non l'avrebbe punita. La bambina non aveva più di dieci anni e portava i capelli coperti dallo hijab. Indossava l'uniforme della scuola e una gonna grigia che le arrivava quasi ai piedi. «Mi dispiace, papà, mi dispiace.» Rania chinò la testa come se fosse pentita per aver disturbato suo padre, ma subito dopo sollevò il mento e, sorridendo, gli chiese: «Me lo dai il permesso? È un'escursione nella capitale, andremo a visitare l'Alhambra.» «Ma tu conosci già l'Alhambra» rispose Omar. «Sì, ma non ci sono mai stata con le mie amiche, ci divertiremo un sacco.» «Ne riparleremo. Adesso torna da tua madre.» La bimba non insistette e uscì seguita dall'anziana, che continuava a rimproverarla per il suo comportamento. «È la mia figlia più piccola. Vi prego di scusarla.» Né Alì né Mohamed ebbero il coraggio di dire qualcosa. Avevano assistito alla scena in silenzio e si chiedevano se alla fine Omar avrebbe permesso a Rania di andare in gita oppure no. «Il brutto di vivere qui è che dobbiamo lottare continuamente contro l'influenza delle abitudini cristiane, che fanno perdere la testa alle nostre mogli e alle nostre figlie. Un giorno saranno i cristiani a vivere secondo le nostre norme, ma in questo momento... Va bene, andiamo avanti. Di cosa stavamo parlando? Ah, sì! Di Jalil.» «Non ti preoccupare. Lo eviterò» annuì Mohamed. «Così deve essere. Bene, allora, vi è tutto chiaro? Se è così, per voi è
giunto il momento di vedere Hakim.» «È qui?» domandò Alì. «No, non è qui. Ma vi porteranno da lui. Vive in un paese di montagna, un paese che è completamente nelle nostre mani; un po' alla volta abbiamo comprato tutte le case e non è rimasto più neanche un cristiano. Hakim vi aspetta per pranzo.» Omar si alzò e prese commiato dai due uomini. Mohamed non sapeva perché, ma all'improvviso lo notò preoccupato. Forse l'irruzione della bambina lo aveva disturbato più di quanto aveva dato a vedere. Si abbracciarono e baciarono sulla porta di casa dove il fuoristrada li aspettava per portarli da Hakim. Dopo quasi un'ora di strada, Mohamed si rese conto che sarebbero arrivati dopo pranzo. Aveva fame, ma non disse nulla ad Alì, assorto in silenzio a contemplare il paesaggio. Neanche l'autista diceva niente, e comprese che da lui ci si aspettava soprattutto che tenesse la bocca chiusa. L'auto lasciò la strada principale e imboccò un sentiero non asfaltato alla fine del quale, in lontananza, si scorgeva una montagna sulle cui falde era disseminato un gruppo di case bianche come la calce. Ci misero quasi un'altra mezz'ora ad arrivare e, come giunsero a destinazione, Mohamed fu sorpreso di trovarsi improvvisamente davanti una piccola serra. Il paese era piccolo, non aveva più di cinquanta case, e tutt'intorno era pieno di orti dai quali giungeva un odore intenso di frutta e di zagare. Nel centro del paese, all'ombra di alcune piante di fico, c'era una cisterna di notevoli dimensioni. In giro non si vedeva nessuno, ma essendo le tre del pomeriggio la cosa non doveva sorprendere. L'autista si fermò davanti a una casa poco fuori dal paese. Mentre aspettavano che qualcuno aprisse, Mohamed notò che sul retro c'era un orto che comunicava con la casa. Aprì un uomo di media statura e dal portamento atletico. La barba gli copriva buona parte del volto sul quale spiccavano un naso ricurvo e due occhi scuri. «Benvenuti, entrate, vi stavo aspettando.» L'uomo li guidò attraverso la casa in penombra fino a una sala comunicante con il porticato che si apriva verso l'orto. Di fronte al portico una piccola fontana emetteva getti d'acqua che davano un'immediata sensazione di frescura. «Sedetevi, vi porteranno qualcosa da mangiare.» Alì e Mohamed obbedirono e si accomodarono sul sofà, mentre Hakim
si sedeva di fianco a loro su una poltrona. Entrò un giovane vestito con una lunga djellaba. Aveva la barba come Hakim, e Mohamed credette di intravedere una certa somiglianza tra i due. «Mio fratello Ahmed» disse Akim presentandolo. Ahmed aveva un vassoio con una brocca d'acqua. Lo posò sul tavolo e uscì senza dire niente. «È mio fratello minore. Ha studiato all'Università di Granada, e credo conosca tua sorella.» Mohamed, a disagio, si mosse sul sofà; non gli piaceva che gli ricordassero Laila, per cui non rispose e concentrò la sua attenzione sul bicchiere d'acqua che stava per bere. «Ahmed ha trovato il vero cammino come gli altri giovani. Prima non voleva ascoltare le nostre ragioni, era sicuro che i cristiani lo considerassero uguale a loro. Difendeva con veemenza i suoi amici di Granada, gli piaceva andare all'università, amava il suo ambiente di libertà, fino a quando non ha compreso che non sarebbe mai stato uno di loro, ma soltanto uno dei tanti "mori", come ci chiamano in senso dispregiativo.» Una donna, anche lei vestita con djellaba e hijab, entrò in sala seguita da Ahmed. Portavano due vassoi con piatti d'insalata, formaggio, humus, datteri e arance. Non dissero neanche una parola: uscirono dalla stanza rapidamente come erano entrati. «È mia sorella maggiore, vedova come me, si occupa della casa. Ha due figli piccoli che vivono qui anche loro.» Alì e Mohamed ascoltavano in silenzio le spiegazioni di Hakim sulla sua situazione familiare. Hakim li invitò a mangiare e nel frattempo chiacchierarono di temi senza importanza. Fino a che la sorella di Hakim servì il caffè, lui non cominciò a parlare dell'operazione. «Omar vi ha spiegato nei dettagli in cosa consiste la missione?» «Sì» risposero all'unisono Alì e Mohamed. «E siete pronti? È meglio che ci pensiate bene perché non sarà facile. È possibile che qualcuno di noi perda la vita nell'impresa...» «Se muoio, spero di trovarmi in Paradiso con Allah» assicurò con decisione Alì. «Che importa morire? L'importante è la missione» aggiunse Mohamed pieno di entusiasmo. «Morire è un onore, ma morti non serviremo a niente; l'importante è portare a termine la missione. Dunque, cercate di vivere almeno fino all'ulti-
mo giorno, quel che accadrà poi non mi interessa. Vi preparerete a fondo, verrete qui tutti i giorni. Vi voglio in buona forma e dovrete anche imparare a maneggiare con disinvoltura gli esplosivi. Vi assicuro che non è facile. «Il piano è questo: alle otto in punto arriverete a casa mia per l'allenamento; un po' alla volta perfezioneremo anche i particolari, studieremo a fondo i luoghi. Santo Toribio, la basilica della Santa Croce di Gerusalemme, la chiesa del Santo Sepolcro. Questi ultimi due attentati, almeno in principio, saranno condotti da altri fratelli, ma dobbiamo essere preparati nel caso in cui questo onore dovesse toccare a noi. Con la croce ci hanno combattuto, è il loro simbolo; bene, noi lo distruggeremo per sempre. Speriamo che Salim al-Bashir ci comunichi che è arrivato il momento.» «La gente del paese non si sorprenderà per la nostra presenza?» volle sapere Alì. «Il paese è nostro e tutti quelli che ci vivono appartengono al Circolo. La presenza delle donne e dei bambini dà al paese una parvenza di normalità. Le autorità non s'insospettiscono, paghiamo regolarmente le tasse e qui non ci sono liti né problemi. Lavoriamo e preghiamo nella nostra moschea, siamo cittadini esemplari. In qualche occasione la televisione ha fatto dei servizi su quest'oasi, come esempio dell'integrazione dei musulmani in Spagna. «Tu, Mohamed, dirai alla tua famiglia che hai trovato lavoro qui. Abbiamo una cooperativa che commercializza i prodotti dei nostri campi; puoi dire che ci darai una mano con la contabilità. Tu, Alì, non devi dare spiegazioni a nessuno, i tuoi genitori sono in Marocco e tuo fratello è uno dei nostri.» «Io ho fiducia nella mia famiglia» si intromise Mohamed. «Tuo padre è un buon uomo e tua madre una donna esemplare, ma non appartengono al Circolo» replicò Hakim. «Mio padre sa... insomma, sa quello che è successo a Francoforte.» «Allora sa anche troppo. Non devi dirgli niente di questa missione. Tua moglie è la sorella di Hasan, lei sa che non deve fare domande e non ne farà. Quanto a tua sorella... ti avranno già detto che non ci fidiamo di lei.» «Laila non fa niente di male...» la difese Mohamed. «Non è una buona musulmana. Crede di poter interpretare il Corano a sua convenienza e si appoggia al vecchio Jalil per giustificarsi. No, Mohamed, non ci fidiamo di Laila. In ogni caso nel Circolo nessuno sa quello che fa l'altro e tutti siamo obbligati al silenzio.» Mohamed non volle ribattere ad Hakim; si rendeva conto di non avere
argomenti per farlo. Era scesa la sera quando Alì e Mohamed si lasciarono alle spalle il paese di Hakim. Fecero in silenzio anche il viaggio di ritorno. Nessuno dei due osava fare commenti davanti all'autista che li trasportava a Granada sul fuoristrada. 17 Salim al-Bashir assaporò il vino che brillava come il rubino attraverso il delicato cristallo del bicchiere. «Eccellente» disse all'uomo che, seduto di fronte a lui, lo guardava divertito. «Lo so, è uno Château Pétrus dell'82, un'annata eccellente.» «Sì. Davvero eccellente.» Un cameriere ritirò i piatti e presentò i dolci, la specialità della casa. Salim si lasciò tentare da una mousse al cioccolato, mentre il suo accompagnatore chiese un caffè e un bicchiere di calvados. «E adesso, parliamo di affari.» Salim al-Bashir piantò i suoi occhi in quelli dell'uomo. Gli era simpatico, in realtà pensava che, malgrado le apparenti differenze, loro due avessero molte cose in comune. Il suo interlocutore era più anziano di lui; aveva un'età indefinita, poteva avere sessanta o settant'anni. Era alto, di corporatura forte, con i capelli bianchi e uno sguardo verde acciaio, nel quale si intuiva, oltre alla determinazione, anche la durezza. Si notava, pensò, che Raymond de la Pallisière era un aristocratico. «Non si preoccupi, le cose vanno bene. Oggi mi hanno comunicato che la squadra è già pronta. Si tratta di uomini con esperienza.» «Come a Francoforte?» Salim lo guardò fisso prima di rispondere, ma decise di non farlo. «Sono uomini preparati e soprattutto leali alla causa.» «A quale causa?» chiese ridendo l'uomo anziano. «Come a quale causa? Loro obbediscono e credono che cambieranno il mondo. Proprio come lei e me.» «Lei crede di poter cambiare il mondo?» «In realtà lo stiamo già facendo. Non li vede i suoi leader sbavare dietro di noi, preoccupati di non offenderci? Sono stupidi, profondamente stupidi, li disprezzo. L'Occidente è condannato dalla sua stupidità.»
«L'Occidente è condannato perché ha perduto la prospettiva, perché vuole estirpare le proprie radici, perché non ha valori, perché impera il "si salvi chi può"... La caduta del Muro è stata l'inizio della fine dell'Occidente.» «Sa una cosa? Non la capisco. A volte pare le dispiaccia che... Va bene, siamo d'accordo sulla sostanza. Tra l'altro, lei vuole umiliare i suoi almeno quanto noi, giusto?» «Sì, li voglio umiliare... restituire occhio per occhio e dente per dente, nient'altro.» «Le pare poco?» «Mi pare sufficiente. Ma parliamo di affari: nessuno sospetta di lei?» «E di lei?» «Perché dovrebbero farlo? Sono un rispettabile membro della mia comunità, un uomo al di sopra di ogni sospetto.» «Anch'io; oltretutto sono musulmano, e questo li porta ad andarci cauti; temono di offendermi, di essere accusati di razzismo o di cose ancor peggiori.» «E i suoi alunni?» «I miei alunni mi vogliono bene; anche loro tentano di essere politicamente corretti. Piuttosto, un giorno mi dirà come ha fatto a trovarmi.» «Ha intenzione di ripetermi la stessa domanda ogni volta che ci vedremo?» «Dalla mia sicurezza dipendono molti dei miei fratelli, e se lei è stato capace di arrivare fino a me, altre persone meno piacevoli di lei potrebbero farlo.» «Lei è un uomo pubblico, un professore che si muove, gira da un paese all'altro per parlare delle Crociate dal punto di vista degli arabi. Non è difficile arrivare fino a lei.» «Non è difficile arrivare al professore, ma a me, a quello che sono nella realtà, non è affatto facile.» «Con me il suo segreto è al sicuro.» «Ne sono convinto, in caso contrario...» «Di cosa ha bisogno?» «Ho portato una lista con l'elenco dettagliato. Soprattutto denaro, avremo bisogno di una quantità importante di denaro. Un milione di euro.» «È impazzito, Salim? Le abbiamo già anticipato una cifra importante.» «No, non sono impazzito, conte; ciò che io e lei vogliamo è difficile e rischioso. Costerà organizzarlo e portarlo a termine, ma oltretutto devo anche considerare l'ipotesi che possano ammazzare qualcuno dei miei uomi-
ni, e le loro famiglie avranno bisogno di aiuto.» «Questa storia interessa entrambi, e lei sa già come la pensano i miei soci...» «Noi mettiamo le nostre vite, e le assicuro che valgono più di un milione di euro.» «Ci divideremo a metà le spese, Salim, così deve essere. I miei soci non sono stupidi; non si lasci incantare dalla sua stessa pubblicità, Salim, non commetta l'errore di sottovalutarci.» Salim al-Bashir sostenne lo sguardo verde del conte D'Amis e comprese che questi non avrebbe fatto neanche un passo indietro, quindi accettò. «Va bene, faremo come dice lei.» «Quando il piano sarà perfettamente organizzato voglio che mi chiami. Dobbiamo coordinarci, prima che facciate qualsiasi cosa voglio conoscere i dettagli ed essere sicuro che tutto andrà bene.» «Dovrebbe imparare a fidarsi. Io mi fido di lei perché la conosco» disse Salim aspettando di vedere la reazione dell'uomo. «Ne è sicuro? Lei è fortunato, perché neanche io so bene chi sono. Comunque, ora mettiamo fine a questa stupenda serata. Domani dovrò alzarmi presto. Lei si ferma a Parigi?» «Sì, devo vedere una persona insostituibile per l'operazione; resterò fino al fine settimana. Lunedì devo essere a Londra, ho la prima lezione alle nove e nel pomeriggio terrò una conferenza nella sede di una ONG che sostiene il dialogo tra Oriente e Occidente.» «Allora, vada a riposare. Vuole che l'accompagni?» «No, preferisco fare due passi; non fa freddo e mi piace girare Parigi a piedi.» Salim chiese il conto e il maître glielo consegnò immediatamente, anche se non fu il professore a pagare, per fortuna sua. Il conto all'Apicus era sempre piuttosto salato, ma valeva la pena pagare qualsiasi cifra per quella testina d'agnello in salsa piccante, nella quale risaltava il sapore dei capperi e delle cipolline. I due uomini si salutarono davanti alla porta del ristorante con una stretta di mano. Un'auto nera attendeva il conte Raymond de la Pallisière, che immediatamente si allontanò nella notte di Parigi. Salim camminò lungo l'avenue de Villiers. Aveva una stanza prenotata al Lutetia, sul boulevard Raspail, in piena Rive Gauche. Lei di sicuro era già arrivata. Mentre passeggiava non riusciva a smettere di pensare all'uomo con il
quale aveva cenato: il conte D'Amis era un nobile in là con gli anni, freddo e severo. Li aveva presentati un altro professore, durante un congresso sul medioevo a Parigi. Il suo collega gli aveva chiesto di accompagnarlo a cena con un aristocratico interessato alla storia medievale e lui aveva accettato; non poteva rifiutare di cenare alla Tour d'Argent. Avevano scoperto interessi in comune, ma solo dopo molti incontri il conte aveva deciso di confidarsi e proporgli il piano che adesso era in moto. D'Amis non gli aveva mai voluto rivelare come e perché aveva saputo che dietro la sua apparenza di rispettabile professore c'era uno dei dirigenti del Circolo in Europa. Non si trattava tanto di curiosità; Salim era più che altro preoccupato che ci fosse una breccia nella sua sicurezza e in quella dell'organizzazione. Raymond d'Amis, per la verità, gli garantiva che il suo segreto era al sicuro, che a lui non importava se facevano saltare in aria tutte le capitali d'Europa, perché ne odiava i governanti, pusillanimi e deboli. Avevano sprecato l'opportunità di dominare il mondo e ora erano responsabili della sua decadenza. Dovevano risolvere i loro problemi da soli; a lui, diceva, ormai non importava, era vecchio e più vicino alla morte che alla vita. Salim credeva ormai di conoscerlo bene, ma a volte c'era qualcosa che gli sfuggiva. Non riusciva a capire fino in fondo l'espressione da uomo tormentato che a volte assumeva lo sguardo del suo amico francese. Forse era a causa di quella figlia ribelle che non conosceva. La futura contessa D'Amis viveva negli Stati Uniti, ignorando suo padre. Il bar del Lutetia era pieno di gente; pur avendo voglia di bere un bicchiere, si diresse alla reception per chiedere la chiave della sua camera. «C'è un messaggio per lei, professor Al-Bashir.» Il portiere gli consegnò una busta chiusa che Salim neanche guardò. Lo ringraziò e si diresse verso l'ascensore. Salì nella sua stanza e lì aprì la busta. Dentro c'era soltanto un numero: "507". Sospirò. Uscì di nuovo dalla stanza, si fermò due porte dopo la sua e bussò delicatamente. La porta si socchiuse e la figura avvolta in una vestaglia di seta grigia gli sollevò il morale. «Entra, sono stata fortunata. Ho chiesto se potevano darmi una stanza a questo piano dicendo che l'ultima volta ero stata in una stanza stupenda e il tizio della reception è stato molto gentile.» «Non devi farti notare» protestò Salim. «Credi che mi notino solo perché dico che mi piacerebbe avere una stan-
za al quinto piano?» «Sai bene che devi cercare di essere trasparente, nessuno deve accorgersi di te; è un errore chiedere la stanza a un determinato piano.» «Cosa importa? Così siamo ancora più vicini.» La donna si strinse al corpo di Salim ma questi l'allontanò con delicatezza. «Non mi offri da bere?» le chiese. «Naturalmente! Preferisci champagne o whisky?» «Siamo in Francia, quindi brinderemo con lo champagne. Signora mia, avevo voglia di vederla» le disse con tono scherzoso. «Non mi sorprende» rispose lei continuando lo scherzo. Salim la guardò fisso senza sapere se chiederle subito che novità aveva dal Centro di coordinamento antiterrorismo, ma pensò che così facendo le avrebbe creato una certa inquietudine. Decise di aspettare il giorno successivo. 18 Raymond d'Amis si trovava nel suo appartamento all'Ile-de-France. Camminava avanti e indietro nello studio ripensando alla cena con Salim. Doveva ammettere che si trattava di un uomo intelligente e minuzioso, ma l'eccesso di fiducia in se stesso rischiava di mandare all'aria l'operazione. Il maggiordomo entrò nello studio per chiedere se avesse bisogno di lui o se invece poteva ritirarsi. «Vada pure a dormire, io resterò un po' a leggere.» «Sì, signor conte. Buonanotte.» Quando rimase solo, Raymond finì il bicchiere di calvados e cercò sull'agenda un numero di telefono. Prese dal cassetto una busta dove custodiva diverse schede SIM e ne inserì una nel suo cellulare. Sospirò. Non gli piaceva l'uomo con il quale stava per parlare, sapeva che aveva interessi diversi dai suoi, ma sapeva anche che senza di lui la vendetta sarebbe stata impossibile. Lui lo aveva cercato, gli aveva proposto un piano per portare a termine la sua vendetta, gli aveva fornito il nome di Salim e il modo per trovarlo. In realtà, quel tipo lo stava manovrando da mesi, muovendo fili invisibili per portare a termine un piano dal quale lui, Raymond voleva solo la vendetta. «Buonasera, Facilitatore.» L'uomo non rispose, disse solo una frase.
Dopo aver riagganciato, il conte s'infilò la giacca e quasi in punta di piedi si diresse verso la porta: non voleva svegliare il maggiordomo. Uscì per strada e iniziò a camminare lungo la riva del fiume. Non gli piaceva farlo di notte, ma era quello che gli aveva indicato il suo interlocutore. Una macchina si fermò al suo fianco. Si aprì una portiera e una voce lo invitò a entrare. «Buonasera, conte.» «Buonasera.» «Soddisfatto della cena con Salim al-Bashir?» «Sì, come sempre.» Mentre l'auto girava per Parigi, il conte snocciolava davanti a quell'uomo, che chiamava Facilitatore, i dettagli della conversazione con Salim. Rispose a tutte le domande e ascoltò tutti gli ordini che gli vennero dati. «Adesso daremo inizio alla seconda parte del piano. Nel giro di qualche giorno si metterà in contatto con lei una donna serba chiamata Ylena. Ha ragioni personali per odiare i musulmani.» «Come farà a mettersi in contatto con me?» «Prenda una stanza in un hotel, decida lei se è meglio qui a Parigi, a Tolosa, in Costa Azzurra o dove preferisce. La ragazza alloggerà nello stesso hotel e verrà nella sua stanza. Nessuno vi vedrà insieme, potrete parlare lontano da occhi e orecchie indiscrete. Ylena sarà il capo dell'altro commando. Lei, conte, avrà con sé le istruzioni. Dovrà solo consegnarle e fare in modo che Ylena le capisca. È stato Karakoz a procurarci il contatto. Non è stato facile trovare un gruppo disposto a fare quello che vogliamo. Lei sa come la penso: soltanto il denaro non è sufficiente perché le cose riescano bene; bisogna avere altre motivazioni, come quelle che ha lei o come quelle di Ylena. Naturalmente Salim non deve sapere dell'esistenza di Ylena e viceversa. Entrambi sono soltanto tessere di un puzzle.» «Proprio come me» sussurrò Raymond d'Amis. «Tutti siamo parti del puzzle. Lei però ha un motivo diverso da quello di Ylena e da quello di Salim.» «E lei?» «Io facilito gli affari. Non è difficile da capire. Rappresento un club molto esclusivo di persone che pensano al futuro e che, per costruire quel futuro prospero, devono muovere alcune pedine, provocare alcuni scontri, togliere di mezzo alcuni nemici... è per il bene del mondo, anche se per raggiungere il bene a volte bisogna fare un po' di male. Con quello che accadrà ci guadagneremo tutti, anche se al principio ci sarà caos e confusione;
ma le cose nuove nascono dalle ceneri.» «E lei fa in modo che i desideri dei signori di questo club esclusivo vengano esauditi.» «Faccio affari in loro nome. Cerco persone come lei, gente che ha un motivo per fare determinate cose e le aiuto a farle. Lei sogna di distruggere la croce; bene, lo farà. Salim vuole colpire l'Occidente nel punto che ritiene più doloroso, e anche lui avrà il suo tornaconto. Per motivi diversi volete la stessa cosa. La mia missione è trovarvi e farvi lavorare insieme. È semplice: le cose sono più facili se la gente ha una motivazione, soprattutto quando si tratta di uccidere. Non mi piacciono i professionisti del delitto, uccidono senza motivo, solo per denaro, pertanto non sono disposti a sacrificarsi. Lei invece sarebbe disposto a morire per realizzare il suo desiderio, vedere distrutta la croce, e Salim lo stesso: è questo che vi rende speciali.» «È questo che ci rende manipolabili da lei.» «La metta pure così, se preferisce. L'importante è il piano, e le garantisco che è perfetto. I frammenti della sua odiata croce custoditi in Spagna, a Roma e a Gerusalemme, finiranno polverizzati, non riusciranno più a trovarne neanche una scheggia. Immediatamente dopo che questo sarà successo, entrerà in azione Ylena a Istanbul, facendo esplodere il padiglione del Topkapi dove sono custodite le reliquie del Profeta: la spada di Maometto, i peli della sua barba, il mantello... salterà tutto per aria. Immagini un po' cosa succederà! I musulmani di tutto il mondo grideranno vendetta e nella stessa Istanbul si scateneranno gli attacchi contro la comunità cristiana... Sì, riusciremo a ottenere lo scontro tra cristiani e musulmani. Prima distruggeremo alcune reliquie cristiane, poi quelle del Profeta... Nessuno potrà più mettere freno all'odio tra le due comunità, per quanto i politici occidentali si impegneranno nell'impresa. Inviteranno alla calma, ma non li ascolterà nessuno. Lei ricorda il caso delle caricature di Maometto pubblicate su quel giornale danese, lo "Jyllands-Posten"? Ci furono manifestazioni, morti e feriti per quell'affronto, quindi immagini un po' cosa succederà quando milioni di musulmani sapranno che qualcuno ha fatto esplodere le reliquie più preziose del loro Profeta.» «Sì, ma non creda che la reazione dell'Occidente sarà la stessa. Ai cristiani non importerà granché, si lamenteranno e basta. Ormai in Europa nessuno crede a niente, a volte penso che la maggior vendetta sia proprio questa: i miei contemporanei stanno rinnegando la croce senza che nessuno glielo chieda.»
«Non sia ingenuo, non potranno lasciare indifferenti gli attentati in Spagna, a Roma e in Israele, oltretutto commessi da fondamentalisti islamici.» «Speriamo che il piano di Salim al-Bashir non fallisca.» «Il piano non fallirà ma, amico mio, faremo in modo che si sappia chi c'era dietro gli attentati: il Circolo diventerà onnipresente.» «C'è la possibilità che Ylena venga arrestata?» «No, se porterà a termine la missione non sopravviverà. E se la prenderanno prima, dovrà suicidarsi.» «E se non lo facesse?» «Lei è cosciente di quello che le accadrebbe se la prendessero viva. Preferirà morire piuttosto che passare il resto della sua vita in una prigione turca, soprattutto dopo aver tentato di distruggere le reliquie di Maometto.» «Potrebbe denunciarci.» «Denunciare chi?» «Me.» «Impossibile. Nessuno l'avrà mai vista con lei e, per quante ricerche potranno fare, il massimo che troveranno è che siete stati, insieme ad altre centinaia di persone, ospiti dello stesso hotel. Per questo le consiglio di cercare un albergo grande, dove entri ed esca molta gente. Forse la cosa migliore è incontrarla qui a Parigi, oppure in Costa Azzurra...» «Karakoz conosce Ylena?» «Non deve parlare di Karakoz in presenza della ragazza. Comunque sì, la conosce e sa che desidera soltanto vendicarsi. È riuscito a entrare in contatto con lei attraverso dei suoi amici. Ha fatto in modo di verificare fin dove sarebbe stata capace di arrivare. Karakoz ha organizzato tutto a distanza. Sono mesi che la ragazza aspetta questo momento. Sarà accompagnata da due fratelli e un cugino.» «Come è possibile che Karakoz abbia contatti con la gente del Circolo, essendo serbo?» «Karakoz è serbo bosniaco e ha contatti ovunque» disse il Facilitatore. «Si muove per la ex Iugoslavia come se fosse casa sua, e anche per i paesi arabi. Nessuno gli fa domande perché paga bene, per questo ha buoni informatori; e poi i prodotti che vende sono di prima qualità, garantiti. Nel mercato delle armi Karakoz è il migliore, per questo fanno tutti la fila al suo supermercato.» «Karakoz è al corrente dell'esistenza di tutti noi e lei si fida...» «Amico mio, Karakoz è un uomo d'affari, e sa che la discrezione e il si-
lenzio sono alla base della sua prosperità. Lui vende armi a tutti, non gli importa chi sarà ucciso.» «Dovrò comprare direttamente da Karakoz le armi per Ylena?» «Sì. Lei ha già il telefono dell'uomo di Karakoz a Parigi; lo chiamano "lo Slavo". Ma non dimentichi che Salim non deve sapere dell'esistenza di Ylena, né Ylena di quella di Salim. È meglio che ogni commando agisca in modo separato e che nessuno possa metterli in relazione. Se Salim sapesse quel che ci proponiamo, tenterebbe di impedirlo; lei sa che sotto la sua apparenza si nasconde un fanatico. Per lui, le reliquie di Maometto sono sacre.» «Sì, è un fanatico che adora il buon vino...» «Tutti abbiamo delle contraddizioni... In quanto a Ylena, non sa ancora qual è l'obiettivo; sarà lei a darle i dettagli, a consegnarle il denaro, a dirle dove ritirare le armi. Una volta pagato lo Slavo, lei consegnerà i documenti falsi per Ylena e il resto del commando, e farà in modo che le armi vengano recapitate direttamente a Istanbul. Nei prossimi giorni le farò sapere con precisione il piano per Ylena, l'hotel dove dovrà alloggiare a Istanbul, come arrivarci, come accedere al Topkapi... insomma, tutti i dettagli.» «Mi chiamerà lei?» «Sì, tra un paio di giorni.» «I catari erano contrari alla violenza» gli rispose il conte con tono adirato «ma a volte è l'unica alternativa.» «Non mi interessa minimamente quello che lei crede, a chi rivolge le sue preghiere Salim o a chi si affiderà Ylena. Voi ucciderete in nome di Dio. Bene, il vostro comportamento è molto prosaico, ma a me e ai miei rappresentati non interessa. Il nostro obiettivo è un altro: bisogna scuotere il mondo, bisogna ridefinire le frontiere, bisogna mettere in funzione le fabbriche.» «E lei dirige l'orchestra...» «Proprio così. La lascio qui, vicino a casa.» Raymond scese dall'auto, schifato. Non gli era mai piaciuto quell'uomo. Malgrado i vestiti di taglio impeccabile, c'era in lui un fondo di volgarità che il suo tono di voce tradiva. Eppure aveva bisogno di lui. Camminando verso casa ripensò a come quell'uomo era entrato nella sua vita. Si era presentato senza preavviso al castello. Aveva detto di conoscere vecchi amici di suo padre, patrioti tedeschi che avevano dovuto nascondersi dopo la seconda guerra mondiale. Non si era perso in chiacchiere e gli aveva mostrato un'edizione di lusso
della cronaca di frate Julián. «Lei vendicherà il sangue degli innocenti, visto che suo padre è morto senza poterlo fare.» Il conte lo aveva ascoltato in estasi mentre esponeva il piano. Un piano semplice, per il quale c'era solo bisogno di denaro e di credere in quella causa, e lui aveva entrambi gli ingredienti. Da quel giorno era passato quasi un anno; da allora l'uomo aveva cominciato a organizzare tutto il dispositivo, con precisione e pazienza, facendo in modo che tutti coloro che dovevano intervenire finissero per incontrarsi, e che il punto d'incontro fosse lui, Raymond, conte D'Amis, la cui vita era stata dedicata sin dalla nascita alla sacra causa dei catari. Lui non aveva avuto il coraggio di essere come i perfetti, ma almeno era un credente, come lo erano stati molti dei suoi antenati. Era l'ultimo della sua stirpe, pur avendo una figlia, Catherine. L'aveva educata sua moglie e lui non la conosceva, per cui difficilmente avrebbe potuto capirlo. Nemmeno sua moglie lo aveva fatto. Nancy era statunitense. Quando si erano conosciuti lei viveva con i suoi genitori sulla costa francese. Il padre di Nancy era poeta e pittore e sua madre mercante di quadri. Lei era figlia unica, viziata fino alla nausea, senza alcun obiettivo nella vita. Raymond non avrebbe mai dovuto sposarsi con lei, ma si era innamorato. Suo padre lo aveva avvertito che stava per commettere un errore, che quella ragazza non era come loro. Aveva ragione. Ma lui aveva aspettato che suo padre morisse e poi si era sposato lo stesso. Forse era troppo anziano per il matrimonio, aveva quasi quarant'anni. Di certo aveva commesso il suo primo grande errore. Lei lo abbandonò appena un anno dopo le nozze, quando lui si confidò e le spiegò la missione sacra alla quale si era dedicato. Nancy era montata in collera e aveva preteso che lui tenesse fuori dalla sua vita tutti quegli amici, quei giovani che come lui avevano una causa, patrioti di un mondo distinto, uomini superiori. Se ne era andata dal castello quando era già incinta, dicendogli che era pazzo e che non lo denunciava solo per la creatura che portava in grembo, ma lo minacciò di raccontare tutto se si fosse avvicinato a lei o avesse reclamato il figlio che stava per nascere. Lui mantenne la parola, lei pure: non si videro mai più; seppe che lei aveva avuto una figlia, Catherine, e tutti i mesi le faceva arrivare attraverso il suo avvocato una somma di denaro per mantenerla. Sapeva che madre e
figlia vivevano nel Village di New York, dove Nancy aveva aperto una piccola galleria d'arte. Lui l'aveva supplicata attraverso il suo avvocato di fargli conoscere la figlia, ma non c'era stato niente da fare; Nancy l'aveva addirittura chiamato per minacciarlo. L'ultima notizia di lei che aveva avuto era che stava molto male. 19 Ovidio era a Roma da diversi giorni e aveva la sensazione di non essere mai andato via da quella città. Non occupava più lo stesso posto in ufficio e tutti sapevano che lavorava in via provvisoria, eppure, lui era tornato a immergersi nel lavoro come se non dovesse mai più andar via. «È come cercare un ago in un pagliaio.» Ovidio alzò lo sguardo dal computer all'arrivo di Domenico, con cui divideva il peso e la responsabilità dell'indagine. «Sì, lo so. Neanche io riesco a dare un senso a queste parole, possono significare tante cose... Hai parlato con Bruxelles?» «Un attimo fa mi ha chiamato Lorenzo Panetta, pare che Karakoz si sia mosso; mi manderà il rapporto per e-mail, immagino che lo avremo qui da un momento all'altro.» «Si è mosso? Che significa?» volle sapere Ovidio. «Vuol dire che è stato in Cecenia; poi lo hanno visto in Svizzera e in Lussemburgo.» «Ma questo personaggio va da una parte all'altra senza problemi!» «Finché non ci sarà un ordine di cattura... In realtà sono anni che gli stanno dietro, ma non lo hanno mai arrestato; preferiscono sapere con chi tratta, a chi vende, chi gli fornisce le armi. Karakoz però è estremamente cauto e, stando a quel che dice Panetta, le sue conversazioni telefoniche sono insignificanti, come quelle del suo luogotenente, un tale Dusan. A quanto pare lavora attraverso messaggeri, dà ordini e riceve richieste attraverso i suoi seguaci sparsi in tutto il mondo: i clienti gli fanno sapere quello che vogliono comprare e lui glielo recapita. Nella maggior parte dei casi non vede i veri compratori. Per lui fa lo stesso. E se qualcuno vuole vederlo di persona è lui che stabilisce dove, anche se il suo posto preferito è Belgrado. Lì si sente sicuro e protetto, è la sua città, appare e scompare come vuole; a quanto sembra, in effetti, è impossibile non perderne le tracce.» «Karakoz continua a essere l'unico elemento solido che abbiamo, l'e-
stremo della corda....» «Sì, il problema è che evidentemente ci sbagliamo al momento di tirare la corda, oppure lo facciamo troppo in fretta. Di certo, Lorenzo Panetta mi ha detto che arriva stasera a Roma: viene a passare qui il fine settimana e gli piacerebbe vederci. Mi sono permesso di invitarlo a cena a casa mia. Naturalmente conto sulla tua presenza, credo che staremo più comodi e parleremo con maggior tranquillità. Che ne dici?» Ovidio accettò immediatamente, sorpreso dall'atteggiamento di Domenico, che trovava cambiato; adesso si mostrava meno remissivo e soprattutto meno diffidente nei suoi confronti. Quello che non sapeva era perché; ma probabilmente era stata anche colpa sua se non si era inteso con il domenicano. Lorenzo Panetta si era visto obbligato ad accettare l'invito del sacerdote. Nella sua qualità di vicedirettore del centro di coordinamento antiterrorismo europeo era il responsabile per i rapporti di lavoro con il Vaticano. Era stanco. La sua intenzione era quella di passare un fine settimana lontano dalle tensioni di Bruxelles, e invece avrebbe dovuto allungare la giornata di lavoro di un'altra ora, perché la cena non era altro che questo: lavoro. Era curioso di sapere com'era la casa di quel sacerdote, situata all'interno delle mura della Città del Vaticano. La immaginava sobria, con mobili pesanti, piena di quadri di vergini e santi. Gli aprì la porta lo stesso Domenico e la prima sorpresa fu vederlo vestito con un paio di jeans e una camicia a quadri. «Se mi avesse detto che la cena sarebbe stata informale, le garantisco che sarei venuto senza cravatta, anche se in realtà arrivo direttamente dall'aeroporto.» Domenico Gabrielli rise soddisfatto per aver sorpreso quel poliziotto, che aveva fama di essere uno dei migliori investigatori europei. «Entri. Ovidio non è ancora arrivato, ma non tarderà.» «Ovidio?» «Padre Sagardía, ma non c'è bisogno di tutti questi riguardi, non le pare? Mi chiami pure Domenico, credo che saremo più comodi senza tutti questi formalismi.» La seconda sorpresa fu l'arredamento della casa. In realtà, quasi non c'erano mobili e le pareti sembravano nude. Il salone era funzionale e moderno. Il divano, il tavolo e le sedie sembravano comprate in un negozio di ar-
redamento minimalista. La terza sorpresa furono i fiori: aveva sistemato in giro vasi minuscoli e trasparenti con una margherita, solo una, anche perché non avrebbero potuto contenerne altre. Ovidio non tardò e neanche lui riuscì a nascondere la sorpresa nel vedere la casa di Domenico. Questi risultò essere, tra l'altro, un ottimo cuoco. La pasta era deliziosa e le scaloppine al limone ricevettero i complimenti convinti di entrambi gli invitati. «Mi dispiace non aver avuto tempo di preparare un buon dolce» si scusò con falsa modestia Domenico, mentre sistemava sul tavolo un vassoio con delle fette di ananas. «Non mi dica che sa preparare anche i dolci?» domandò Panetta. «Non sono proprio la mia specialità, ma quando ho tempo sono capace di fare una discreta torta alla pesca.» Solo dopo aver bevuto il caffè e un bicchiere di grappa i tre uomini entrarono nel tema. «Bene, avete letto l'e-mail che vi ho mandato stamattina, e non c'è molto da aggiungere. Abbiamo intercettato la telefonata di un noto delinquente conosciuto come lo Slavo, un tipo dei bassifondi parigini. È serbo, come Karakoz, ma è arrivato a Parigi anni prima che iniziasse la guerra, ha lavorato come guardaspalle e come gorilla in club di dubbia fama e un bel giorno ha fatto il salto ed è approdato ai grandi affari con l'aiuto di Karakoz. Ha perfino un ufficio che si dedica all'import-export.» «Ma, esattamente, di cosa hanno parlato Karakoz e quest'uomo?» volle sapere Domenico. «C'è scritto nel rapporto. Lo Slavo ha chiamato Karakoz per dirgli che il "Vecchio" si era messo in contatto con lui, che aveva un'altra richiesta ma questa volta da consegnare in Serbia, e che avrebbe pagato in contanti. Lui stesso sarebbe andato a ritirare i soldi. Karakoz gli ha ordinato di controllare la ragazza che sarebbe andata a trovare il Vecchio. Questo è tutto. «Comunque abbiamo degli uomini che seguono lo Slavo notte e giorno, e lo stesso fanno con Karakoz.» «Noi non abbiamo fatto molti passi avanti. Be', in realtà non ne abbiamo fatto neanche uno» riconobbe Ovidio. «Come sapete, sospettiamo che il commando suicida di Francoforte avesse un'altra missione e che probabilmente stesse preparando un nuovo attentato, ma non sappiamo quando né dove... è snervante, quelle parole
salvate dai documenti bruciati non hanno senso. Alcune provengono dalle pagine di un libro e, se fosse così, perché mai avrebbero dovuto bruciare un libro? «Ma quello che mi preoccupa realmente è che Karakoz sia diventato molto cauto perché sospetta che ne stiamo seguendo le mosse.» «Come dice?» chiese Domenico, sorpreso. «È sempre stato prudente, perché sa di essere un personaggio fin troppo conosciuto da tutte le agenzie di sicurezza, per cui cerca di non attirare l'attenzione; ma dopo i fatti di Francoforte è diventato molto sospettoso, le sue conversazioni sono ancora più anodine di quanto fossero prima. È evidente che ha rafforzato le sue misure di sicurezza.» Ovidio e Domenico restarono in silenzio, soppesando le parole di Lorenzo. In realtà non aveva detto loro ciò che realmente pensava e temeva: che ci fosse un infiltrato da qualche parte e che Karakoz fosse stato avvertito della stretta sorveglianza sotto la quale era tenuto. Panetta aveva valutato la possibilità di dirlo, e aveva deciso che fosse meglio di no; non ne aveva ancora parlato neanche con Hans Wein, anche se pensava di farlo il lunedì successivo in ufficio. Wein era lontano da Bruxelles da qualche giorno, e non aveva voluto esprimergli i suoi sospetti per telefono né tanto meno attraverso la posta elettronica. «E perché crede che Karakoz ritenga di essere seguito con più impegno rispetto a prima?» chiese Ovidio con aria sospettosa. «Non ho detto questo. Solo che Karakoz è diventato più diffidente dopo l'attentato di Francoforte. Le armi e l'esplosivo utilizzati dal commando li aveva venduti lui.» «Lei è ancora convinto che la Chiesa possa aiutarvi?» volle sapere Ovidio. «Vede, non è normale trovare delle carte nelle quali si parli di santi, della croce di Roma... Pertanto è evidente che, se c'è un attentato, non bisogna scartare che la Chiesa possa essere un obiettivo.» «Ma non è nella logica del fanatismo islamico. Ai paesi arabi non interessa che un'istituzione come la Chiesa venga colpita. Sinceramente, non credo che la Chiesa sia un obiettivo.» «Ha ragione, non è nella logica di quella gente, a loro non conviene ma, anche così, non scarti a priori questa possibilità» rispose Lorenzo. «In ufficio ne abbiamo discusso, e sinceramente è un'ipotesi che scartiamo. Sarebbe un errore strategico di tale grandezza che neanche i più fanatici potrebbero commetterlo. Oltretutto, signor Panetta, le ricordo che
quelle sono parole slegate, parole che sono state ritrovate tra i resti di carte bruciate, non sappiamo a cosa corrispondano. È molto rischioso azzardare che la Chiesa possa essere oggetto di un attentato islamico» insistette Domenico. «Lavoro da molti anni in questo settore, e le assicuro che per quanto uno si impegni a seguire la logica dei terroristi, è difficile riuscirci: hanno una loro logica particolare. A volte siamo certi che non faranno questo o quest'altro perché la cosa li danneggerebbe davanti all'opinione pubblica, e invece lo fanno. Mi creda, i terroristi saranno sempre capaci di sorprenderci. O forse qualcuno immaginava che sarebbero stati capaci di far saltare le Torri Gemelle? O di mettere le bombe sui treni a Madrid quando la Spagna si era sempre spesa per appoggiare la causa araba ed era stato il paese con il maggior numero di persone scese in strada a manifestare contro la guerra in Iraq? Quando compiono i loro attentati cerchiamo di capire il perché, elaboriamo teorie al riguardo. Ma loro sono sempre un passo avanti, siamo noi a dover cercare la logica di quello che hanno fatto loro.» «Anche così, io escluderei questa possibilità» insistette Domenico. «Non ci sono forse stati degli attentati contro le sinagoghe?» gli ricordò Panetta «Sì, ci sono stati...» mormorò Ovidio. «Bene, allora per prudenza non scartiamo nulla. Adesso ci concentreremo sullo Slavo, vedremo cosa viene fuori da questa pista, chi è quel Vecchio di cui parla e se c'è davvero, ma dobbiamo aspettare che faccia qualche movimento. Vi terrò informati.» Lorenzo Panetta salutò i due sacerdoti dopo aver ringraziato il domenicano per la cena. Non avrebbe mai pensato di venire invitato a cena dentro il recinto vaticano e ancor meno di trovare due sacerdoti che, a prima vista, basandosi sull'aspetto, nessuno avrebbe giudicato tali. «Bevi un'altra grappa prima di andare» disse Domenico a Ovidio mentre si riempiva il minuscolo bicchiere di liquido trasparente. «Credi davvero che quei pazzi del Circolo non siano capaci di fare un attentato contro la Chiesa?» «Non ne avrebbero alcun beneficio. Noi abbiamo condannato l'invasione dell'Iraq e abbiamo chiesto costantemente a Israele di rispettare i diritti del popolo palestinese, il papa mantiene un dialogo aperto con imam e ulema... che senso avrebbe alienarsi la volontà della Chiesa? Non faranno nulla contro di noi. Non per ragioni morali, ma solo per convenienza.» Domenico parlava con una tale fermezza e decisione che Ovidio non si
sentì capace di ribattere alle sue parole. La serata era andata molto meglio di quanto avesse sperato e non aveva voglia di rovinarla con una di quelle discussioni nelle quali solitamente si infilavano e che li lasciava sfiniti e di pessimo umore. A mezzanotte salutò il domenicano; era stanco e aveva bisogno di pensare, di ritrovare se stesso. 20 Per Salim al-Bashir il fine settimana a Parigi era stato fruttuoso. Il suo incontro con quella donna non solo era stato gradevole dal punto di vista personale, ma lo aveva anche tranquillizzato: il Centro di coordinamento antiterrorismo non sapeva nulla, né di lui né del Circolo. Si muovevano alla cieca, anche se seguivano i passi di Karakoz, convinti che attraverso di lui sarebbero arrivati all'altro capo della corda, come dicevano loro. Il Circolo comunque aveva già avvisato Karakoz e questi aveva subito adottato le misure necessarie per proteggersi e tutelare i propri interessi. I clienti si fidavano di Karakoz perché era abile e intelligente e, soprattutto, perché non aveva altro interesse che il denaro. Non li aveva mai delusi. D'altro canto loro avevano sempre pagato senza discutere sul prezzo, perché Karakoz non ammetteva mercanteggiamenti. Di tutto ciò che la donna gli aveva raccontato, l'unica cosa che lo preoccupava era stata una frase che aveva buttato lì: «Sai una cosa?» aveva detto. «L'altro giorno ho trovato Panetta che controllava tutte le pratiche del personale del dipartimento, non so cosa cercasse. Probabilmente non si fida di qualcuno.» Il professore non aveva voluto allarmarla visto che lei non aveva dato importanza alla cosa, ma ne era rimasto scosso. Era difficile che il centro smascherasse il Circolo, ma non era impossibile che finissero per avere il sospetto di qualche infiltrazione e arrivassero a lei. Questo supponeva un rischio che lui non si poteva permettere, pertanto era arrivato il momento di disfarsi della donna. Stava ripensando ai tre attentati che avrebbero perpetrato. Trasferire uomini che sarebbero stati ricercati dalle polizie di mezzo mondo poteva risultare molto complicato, anche se ormai era sempre più facile muoversi attraverso l'Europa; erano milioni i fratelli che adesso vivevano tra quegli stupidi occidentali pieni di buone intenzioni, poveri ingenui che credevano nei loro proclami di pace e di alleanza tra le civiltà.
In ogni caso, dovevano agire quanto prima; il Centro di coordinamento antiterrorismo non sapeva ancora niente e questo per loro era un bel vantaggio. La donna gli aveva promesso di chiamarlo se ci fossero state novità. Sapeva che lo avrebbe fatto, in realtà avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto. All'improvviso un'idea gli attraversò la mente e lo fece sorridere: poteva utilizzarla come bomba umana contro uno degli obiettivi. Era un bel modo di terminare la loro relazione e di risolvere il problema. Non sarebbe stata la prima donna occidentale disposta a morire in nome dell'Islam. Aveva appena trovato la soluzione a due questioni importanti, la più soddisfacente di tutte le altre possibili. Per il momento si sarebbe riunito con il commando di Granada. Omar aveva fatto in modo che in città si celebrasse un seminario sulle tre religioni monoteiste e lui era invitato a partecipare. La sua presenza in manifestazioni di quel tipo era continua, pertanto la sua visita a Granada non avrebbe sorpreso nessuno. In quel momento avrebbe già preso una decisione definitiva. Stando a quel che Omar aveva detto, Mohamed, Alì e Hakim si trovavano già nel nord della Spagna, a Santo Toribio, mischiati alle centinaia di pellegrini che in quei giorni visitavano il santuario per celebrare il giubileo dell'Anno Santo. Quanto all'attentato di Roma... sì, gli piaceva l'idea di trasformare la sua amante in una bomba umana. La immaginava con i capelli coperti dallo hijab mentre gridava di immolarsi nel nome di Allah. Rise dentro di sé, compiaciuto per quella macabra idea; in fin dei conti lei era perdutamente innamorata di lui. Il suono del telefono lo fece sobbalzare. Un secondo dopo rise di nuovo, questa volta senza ritegno: il dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Harvard lo invitava a tenere una conferenza sulla possibile alleanza tra occidentali e musulmani. Accettò con entusiasmo. La retribuzione sarebbe stata eccellente e poi avrebbe accresciuto il suo prestigio accademico. Sarebbe andata ad ascoltarlo la futura classe dirigente mondiale che si stava formando ad Harvard... A loro avrebbe raccontato ciò che volevano sentirsi dire, dal momento che non erano capaci di intendere altro. Gli americani e gli europei delle élite intellettuali detestavano pensare che non fosse possibile appianare le divergenze parlando, facendo concessioni; non volevano problemi ed erano disposti a qualsiasi sacrificio pur di evitarli. Erano come bambini.
Raymond accarezzava il libro su frate Julián come se avesse bisogno di riceverne la forza per ciò che si preparava a fare. Poi lo lasciò sul tavolo e uscì dalla suite guardando istintivamente l'orologio: le due del pomeriggio. Sperava che non ci fosse molta gente lungo il corridoio in quel momento: temeva che una cameriera o qualche altro ospite potesse vederlo mentre si dirigeva verso un'altra stanza. Aveva scelto il Crillon per il suo incontro con Ylena. Per giustificare il suo soggiorno in un albergo, aveva dato ordine di pitturare e ridecorare i bagni del suo appartamento a Parigi. Il Facilitatore gli ripeteva sempre che non bisognava lasciare fili sciolti. Non era stato facile scegliere l'hotel, ma alla fine aveva deciso che non avrebbe sacrificato la propria comodità per un incontro furtivo. Proprio quella mattina il Facilitatore gli aveva telefonato per comunicargli un semplice numero, quello della stanza di Ylena. L'aspetto della donna lo sorprese. Troppo alta, troppo bionda, con gli occhi troppo azzurri, in realtà troppo appariscente per una missione nella quale c'era bisogno di essere quasi trasparenti, di non avere occhi addosso. Doveva avere al massimo venticinque anni e aveva già la rabbia riflessa negli occhi. «Ha già le istruzioni per me?» gli chiese appena si salutarono. «Una parte. Le dispiace se entro e mi siedo?» La vedeva tesa, a disagio, aveva voglia di sbrigarsi al più presto. «È meglio che si rilassi, qui nessuno ci può vedere né sentire, e gli affari che dobbiamo trattare non ammettono fretta.» La ragazza gli indicò una sedia e si sedette di fronte a lui. Li separava un tavolo rotondo. «Tra qualche giorno le consegnerò quattro biglietti aerei, per lei e i suoi compagni, ma ho bisogno delle foto per farvi preparare i passaporti falsi.» «Le ho portate, ma c'è un cambiamento di programma: verranno mio fratello, mia cugina e mio cugino.» «Perché questo cambiamento?» chiese Raymond allarmato. «Perché mia cugina ha subito il mio stesso trattamento» rispose guardandolo con ira. «E l'altro suo fratello?» «Resterà a casa a prendersi cura di mia madre. Eravamo sette fratelli ma siamo rimasti solo in tre. Li hanno ammazzati in guerra, come mio padre. Qualcuno deve sopravvivere, abbiamo deciso così.» «E sua cugina, quanti anni ha?»
«È più grande di me.» «Le ho chiesto quanti anni ha.» «Quaranta. Ha perso suo marito e sua figlia piccola» Ylena sospirò impaziente. «Non mi ha ancora spiegato la missione.» «Cosa le hanno detto?» «Che finalmente potrò vendicarmi delle brigate musulmane. Nessuno si è interessato a quello che hanno fatto a noi serbi. Nessuno, nessuno...» «La sua vendetta però non colpirà direttamente quegli uomini.» «Lo so, ma voglio che gente come loro pianga come ho pianto io.» «Non è facile ma ci riusciremo. Si tratta di infliggere un colpo ai musulmani dal quale non riusciranno a riprendersi: la distruzione delle reliquie di Maometto.» «Reliquie? I musulmani hanno delle reliquie?» chiese Ylena con incredulità. «Sì. Nel Palazzo dei sultani di Istanbul, più noto come Topkapi. Un sultano fece costruire un padiglione, che viene chiamato del Sacro manto: lì viene custodito il mantello di Maometto, la sua impronta, le spade, alcuni peli della sua barba. Conservano anche il suo stendardo di lana nera. Così come i cristiani combattevano i musulmani portando la croce dove era morto Gesù, nei momenti di difficoltà i turchi portavano in processione lo stendardo del Profeta per le vie di Istanbul.» «E come le distruggeremo?» domandò Ylena. «Con una bomba, è ovvio. Suo fratello e i suoi cugini dovrebbero andare a Istanbul come semplici turisti, in quanto a lei... è difficile che riesca a passare inosservata; è meglio che arrivi solo quando sarà giunto il momento dell'attentato, ma cerchi di vestirsi in maniera discreta e di non fare nulla che attiri l'attenzione. Non andate tutti e quattro insieme al Topkapi, è meglio farlo separatamente; ma lei non vada da sola, attirerebbe l'attenzione.» «Di che nazionalità sarà il mio passaporto?» «Bosniaco. Passerete per bosniaci di Sarajevo, è la cosa migliore.» «Sono serbo-bosniaca e conosco bene Sarajevo.» «La chiave sta nel variare alcune cose ma non tutte. Se lei si facesse passare per inglese o svedese, sicuramente non avrebbe problemi per il suo aspetto, ma al momento di parlare si noterebbe che non lo è. È bosniaca ed è in vacanza, molto semplicemente.» «E la bomba?» «La bomba la porterà in una sedia a rotelle. Si farà passare per invalida. Sarà l'unico modo per beffare le misure di sicurezza, ma deve sapere che
difficilmente ne uscirà viva.» «Dove collocheremo il resto dell'esplosivo?» «Sempre all'interno della sedia. Mi hanno detto che i suoi amici saranno in grado di farlo, che suo fratello e suo cugino hanno combattuto in guerra.» «È così.» «Bene, nasconderete l'esplosivo nella sedia, sotto il sedile, in un bracciolo, dove vi sarà più facile. Dovrete collocarlo direttamente a Istanbul. Sarebbe assurdo correre il rischio di attraversare delle frontiere con una sedia a rotelle carica di esplosivo.» «Riceveremo anche le armi a Istanbul?» «Sì, come l'esplosivo. La sedia sarà spinta da suo fratello o da sua cugina, è indifferente. Lei è una turista invalida, una vittima della guerra, dei bombardamenti. Non può camminare e quindi è costretta su una sedia da invalida. Ma insisto sul fatto che deve nascondere bene il suo aspetto. Così è difficile non notarla, e invece deve passare per una bosniaca insignificante. Potrebbe scurirsi i capelli o coprirli con lo hijab....» «Avevo già portato le foto per i passaporti...» si lamentò Ylena. «È una questione di sicurezza; mi creda se le dico che una ragazza come lei attira l'attenzione molto più di quello che possa immaginare.» «D'accordo, lo farò. Mi tingerò i capelli.» «La roba che indosserà dovrà essere banale, per nulla vistosa. Le gambe devono essere nascoste da una coperta, si ricordi che lei passerà per invalida. Pensandoci bene, in effetti è meglio che ci sia un'altra donna nel commando; non è molto credibile che una musulmana viaggi da sola con tre uomini. Ma lo stesso... essendo un particolare che non era stato previsto, dovrò parlarne.» «Con chi?» «Questo non è un problema suo. Non crederà che un'operazione di questo calibro la possa organizzare una sola persona?» «No, questo lo so.» «Le ho già detto che mi pare meglio che ci sia un'altra donna. Mi dia le foto.» Ylena gli consegnò una busta dove teneva le foto per i passaporti. Raymond osservò con attenzione i volti dei familiari di Ylena, i suoi cugini e suo fratello. La donna aveva un volto aggraziato, ma neanche lontanamente paragonabile alla bellezza di Ylena; gli uomini sarebbero passati inosservati.
«Quando mi consegnerà i passaporti e il denaro?» «Prima discuteremo questi cambiamenti; poi ci rivedremo. Ma ho bisogno di avere una nuova foto sua. Potrà tingersi i capelli oggi stesso, farsi la foto e consegnarmela stanotte o al più tardi domattina.» «Sì. Lo farò da me. Comprerò una tintura e nel giro di un paio d'ore avrò cambiato il colore dei capelli.» «Potrebbe andare da un parrucchiere.» «Lei stesso ha detto di non attirare l'attenzione.» «Ha ragione, ma si comperi un cappello, qualcosa che le nasconda i capelli quando chiederà il conto e lascerà l'hotel...» «Qui siamo a Parigi. Chi vuole che si sorprenda se una donna si cambia il colore dei capelli?» «È strano che una persona con il suo colore di capelli se li tinga. Ogni donna farebbe l'impossibile per averlo. Insomma, non mi pare che sia il caso di perdere tempo a parlare dei suoi capelli. Agisca di conseguenza, a ogni modo le darò il denaro necessario per queste piccole spese.» Ylena accettò i duecento euro che le diede Raymond. Poi aprì la porta della stanza per controllare che non ci fosse nessuno nel corridoio e gli fece un gesto per invitarlo a uscire. Lui non si sentì al sicuro fino a quando non rientrò nella sua suite e si servì un calvados. Aveva qualche ora davanti prima di incontrare nuovamente Ylena, e decise di andare a controllare lo stato dei lavori nel suo appartamento; ovviamente solo dopo aver chiamato il Facilitatore per comunicargli i cambiamenti del piano. 21 Hans Wein ascoltava con preoccupazione Lorenzo Panetta. Se i sospetti di Panetta avessero trovato conferma, il prestigio del centro avrebbe subito un colpo durissimo e sarebbe stata messa in discussione la sua efficacia davanti alle altre agenzie di intelligence. «A mio avviso» argomentava Lorenzo «dovremmo indagare di nuovo su tutti i membri del centro compresi noi. Non può restare il minimo dubbio. Preferisco che mi dicano che ho sbagliato e che vedo fantasmi dove ci sono soltanto muri.» «Ma diffidi di qualcuno in particolare?» gli chiese direttamente il suo capo. «No, sinceramente no. Ho chiesto alla sicurezza i rapporti su tutti i
membri del dipartimento e non ho trovato nulla che destasse il minimo sospetto nel curriculum delle persone che lavorano qui. Ma questo non significa niente, tranne che io posso sbagliarmi. Mi auguro che sia così!» «Hai verificato anche la pratica relativa a Mireille Béziers?» «Naturalmente, e non ho trovato nulla di straordinario. Non lasciamoci trascinare dai pregiudizi: so che Matthew è rimasto sorpreso nel vederla cenare con un giovane di aspetto maghrebino, ma questo non significa niente. Mireille è vissuta in diversi paesi arabi, e poi non possiamo cedere alla paranoia e vedere un terrorista dietro ogni musulmano. Se la ragazza avesse avuto qualcosa da nascondere, non sarebbe andata a cena nel ristorante più affollato di Bruxelles.» «A volte il modo migliore di nascondere le cose è quello di tenerle bene in vista» gli replicò Hans. «Lo so, ma con tutta sincerità non credo che Mireille lavori per il Circolo.» «Tu stesso hai detto che ognuno di noi deve passare nuovamente attraverso il filtro della sicurezza» protestò Hans. «Naturalmente. E Mireille non farà eccezione.» «Ho l'impressione che quella ragazza ti sia simpatica.» «Credo sia intelligente e decisa. Ha un unico problema: è troppo impetuosa.» «Nel tipo di affari che trattiamo noi, l'eccesso di impeto può essere una catastrofe. In ogni caso, ho già chiesto all'ufficio del personale di cercarle un posto da un'altra parte; entro un ragionevole lasso di tempo firmerò il suo trasferimento.» «Perché entro un ragionevole lasso di tempo e non immediatamente?» «Perché non voglio problemi con suo zio, che chiamerebbe mezza Commissione Europea per protestare contro il trattamento ricevuto dalla sua cara nipotina. Immagino che entro una o due settimane la trasferiranno.» Lorenzo rise. Hans Wein era un tipo trasparente, faceva fatica a nascondere i propri sentimenti per quanto si mostrasse sempre misurato in tutte le sue manifestazioni. «A mio giudizio dovresti chiedere dei controlli di sicurezza immediati.» «Dirò a Laura di avviare le pratiche.» «No, neanche Laura deve saperlo.» «Per favore, Lorenzo! Mi fido di Laura tanto quanto mi fido di te!» «Non devi fidarti di nessuno, neanche di me, fino a quando la Sicurezza
non ti dirà che puoi farlo. Anch'io mi fido di Laura, ma i controlli di sicurezza devono essere fatti senza che nessuno sappia che li si sta facendo, quindi non dovrai dirlo neanche a lei.» «D'accordo, faremo come dici tu.» Lorenzo stava per tornare al suo tavolo quando Matthew irruppe precipitosamente nell'ufficio e gli fece segno di avvicinarsi. «Che succede, Matthew?» «C'è il capo?» «Sì, certo.» «Abbiamo intercettato un paio di telefonate dello Slavo con un cellulare; una era con Dusan, il luogotenente di Karakoz. Siamo riusciti ad avere il numero. Naturalmente si tratta di una di quelle schede che si comprano in qualsiasi negozio di telefonia, comunque ne stiamo seguendo le tracce.» «Andiamo a parlarne con Hans!» rispose Lorenzo. «È la prima buona notizia che abbiamo dopo l'attentato di Francoforte.» Matthew raccontò in poche parole al direttore e al vicedirettore del centro tutto ciò che riguardava la telefonata. Lo Slavo aveva ricevuto prima la chiamata di un uomo. La voce, spiegava Matthew, sembrava appartenere a una persona anziana; la conversazione era stata breve: "La ragazza è venuta, ho le foto; parte del materiale richiesto mi serve a destinazione. Le manderò la lista e le foto. Ci sono stati alcuni cambiamenti. Deve essere tutto pronto tra due settimane". Lo Slavo aveva protestato per i tempi ristretti, dicendo che avrebbe fatto il possibile ma che non garantiva niente. La chiamata era stata effettuata all'interno della cinta urbana di Parigi, ma non avevano potuto distinguere la zona. Quanto alla conversazione con Dusan, lo Slavo si era lamentato del poco tempo del quale avrebbe disposto per l'incarico e delle difficoltà per una "maledetta sedia". «Cosa avrà voluto dire con "la maledetta sedia"?» chiese Hans ad alta voce. «Qualunque cosa sia» disse Matthew «questo significa che Karakoz ha un'altra consegna da fare attraverso il suo uomo a Parigi. Quello che non sappiamo è a chi e per che cosa. Il laboratorio conferma che la voce dell'uomo appartiene a un francese di età avanzata: è una voce colta, non quella di un gorilla dei bassifondi.» Laura White, l'assistente di Hans, bussò delicatamente alla porta prima di entrare.
«Capo, la cerca il commissario della sezione Interni. Glielo passo?» «Sì, certo, me lo passi.» Laura guardò con curiosità i tre uomini, vedendo la tensione riflessa nei loro volti, ma evitò di fare domande. Se c'era una cosa che Hans non sopportava era la curiosità, la mancanza di discrezione. Matthew e Lorenzo uscirono dall'ufficio per permettere ad Hans di parlare tranquillamente. «Possiamo trovarci davanti a qualcosa d'importante o a un bel niente» disse Matthew. Lorenzo gli fece un cenno per ricordargli di non fare commenti, e la cosa non sfuggì allo sguardo perspicace di Laura. Quando entrarono di nuovo nell'ufficio di Wem, Lorenzo si vide costretto di malavoglia a spiegare a Matthew il motivo del suo gesto. «Può darsi che sia solo la sensazione di un vecchio poliziotto, in fondo è ciò che sono, ma dopo Francoforte Karakoz è diventato molto cauto, molto più di quanto fosse abitualmente, come se sapesse che lo seguiamo passo dopo passo.» «In realtà» rispose l'americano «è normale che sia diffidente. È dentro fino al collo in tutta la merda del mondo e sa che ci sono un mucchio di servizi di sicurezza che avrebbero una gran voglia di beccarlo, giusto?» «Sì, ma... guardi, glielo dico chiaramente: è possibile che tra di noi ci sia un infiltrato» spiegò Lorenzo. «Cosa? Ma è impossibile!» protestò Matthew. «Qui siamo tutti sottoposti a controlli periodici di sicurezza.» «Sì, e ho preteso che ci sottopongano a un controllo ulteriore; l'unica cosa che possiamo fare è essere più prudenti. Fino a quando la Sicurezza non avrà terminato il suo lavoro, tutte le novità sul caso non dovranno uscire da questo ufficio» replicò tagliente Hans. «Stavo per chiedere alla dottoressa Villasante di ascoltare la registrazione per darci un'opinione sulla voce di quello sconosciuto» disse Matthew. «Dovremo aspettare prima di farlo. Non cambia niente se Andrea ascolta questa registrazione ora o fra tre giorni. In ogni caso non possiamo fare nulla. Dobbiamo continuare ad aspettare che lo Slavo, Karakoz e i loro amici, chiunque essi siano, si muovano di nuovo; e per fare in modo che ciò accada, la cosa migliore è restare fermi. Staremo all'erta ma niente di più, e a lei, Matthew, chiedo discrezione. Non vorrei che il centro diventasse lo zimbello di tutte le altre agenzie.» «Non si preoccupi, sono capace di tenere un segreto» replicò Matthew
con ironia «ma mi permetta di dirle che non condivido questa sensazione. Non riesco proprio a immaginare qualcuno di noi che faccia filtrare informazioni, a meno che...» «Sta pensando a Mireille?» saltò su Lorenzo. «Non sia ingiusto con lei!» «Non lo sono, ma forse involontariamente può aver fatto qualche commento con uno dei suoi amici arabi che a loro volta possono avere altri amici. Insomma... Mireille Béziers mi sembra l'unico punto debole di questo ufficio.» «Non voglio fare il suo avvocato difensore, non ne ho motivo» protestò Lorenzo «ma non sopporto i pregiudizi. A ogni modo le indagini riguarderanno anche lei e comunque le dico che il suo trasferimento avverrà entro breve tempo. Così può stare tranquillo.» «Questa sì che mi sembra una buona notizia. Quella ragazza è un corpo estraneo nell'ufficio.» «Sì, non è molto popolare tra i nostri colleghi. È strano, non capisco fino in fondo perché riesca a irritare tutti in questo modo» disse Lorenzo rivolto più a se stesso che ai suoi interlocutori. «Eppure lei si fida di quella donna» rispose Matthew. «Sì, credo che abbia voglia di lavorare, che sia intelligente e ricca di immaginazione, e se le dessero la possibilità potrebbe essere perfino efficace.» «Una delle sue sensazioni?» ironizzò Matthew. «Sì, la sensazione di un vecchio cane di strada.» Nei pochi minuti liberi di cui disponevano a mezzogiorno, si ritrovarono nella caffetteria del centro. Andrea invitò Mireille a sedersi con alcune delle donne del dipartimento. Non solo c'era Diana Parker, il braccio destro del capo, ma anche Laura White, la sua assistente. Mireille accettò rassegnata. Andrea Villasante era una donna rude, non l'aveva mai vista sorridere, ma doveva riconoscere che stava tentando di integrarla nella squadra per quanto le costasse nascondere la poca simpatia che provava nei suoi confronti «C'è qualche movimento strano» commentò Laura. «Di che si tratta?» le chiese bruscamente Andrea. «Non lo so, ma ho visto il capo e Panetta preoccupati e molto più cauti del solito» azzardò Laura. «Non so cos'abbiano per le mani ma di certo non vogliono farlo sapere a nessuno.»
«Magari sono solo tue supposizioni... Qui finiamo per diventare tutti paranoici, arrivando a studiare i gesti di chi abbiamo di fronte» analizzò Diana. «Non mi pare sia un gran tema di conversazione sapere se il capo è preoccupato per qualcosa o se c'è qualcosa che ci sta nascondendo» tagliò corto Andrea. «Qui ognuno di noi deve fare il suo dovere, punto e basta.» Laura arrossì cosciente di aver fatto una gaffe, proprio lei che considerava la discrezione la sua migliore qualità. «Non mi fraintendere, Andrea, dicevo così, tanto per dire una banalità...» si difese. «Niente di quello che si dice qui è banale, e tanto meno qualcosa che si riferisce al direttore e al vicedirettore dell'organismo. Non mi piacciono le speculazioni e i commenti.» Tacquero tutte, coscienti del malumore di Andrea. La cosa peggiore che potesse capitare era che lei raccontasse ad Hans Wein l'indiscrezione di Laura, e l'unico modo di non esacerbare l'animo di Andrea era non protestare e non dire niente. Matthew Lucas si avvicinò con una tazza di caffè in mano. «Posso sedermi?» chiese accomodandosi prima di ricevere risposta. Mireille non riuscì a evitare un gesto di fastidio. L'americano stava facendo l'impossibile perché la sbattessero fuori dal dipartimento e le sue critiche avevano trovato terreno fertile nell'animo del capo. Ritenne quindi che non rientrasse tra i doveri per i quali era pagata quello di dividere mezz'ora di riposo con lui, quindi si alzò in piedi per andarsene. Oltretutto aveva qualcosa da fare. «Io vado a fumare una sigaretta fuori» salutò. La videro uscire come se avesse avuto fretta. Nemmeno Matthew aveva nascosto il fastidio che gli provocava la vicinanza di Mireille. «È una brava collega» affermò Diana Parker inchiodando su Matthew i suoi occhi azzurri. «Anche se a te non piace.» «Non deve piacere a me; l'unica cosa richiesta a chi lavora qui è l'efficacia, nient'altro» rispose Matthew. «Non mi piace che si parli delle persone del dipartimento, né bene né male» tagliò di nuovo corto Andrea mentre si alzava, lasciando il gruppo che non aveva ancora finito il caffè. «Oggi ha proprio la luna di traverso!» si lamentò Laura. «Da qualche giorno è preoccupata» ammise Diana. «Da lunedì, quando è rientrata dal fine settimana... però è una persona stupenda, credimi.»
Nessuno rispose. Finirono in fretta il caffè e tornarono in ufficio. Lorenzo aspettava impaziente Matthew. «Dove si era cacciato?» si lamentò il vicedirettore del centro. «Ero a bere un caffè... è successo qualcosa?» chiese Matthew sorpreso. «Venga nel mio ufficio.» Le donne osservarono con la coda dell'occhio Panetta e Lucas. Era evidente che stava succedendo qualcosa che i capi non volevano far sapere al resto del dipartimento. Matthew attese che fosse Lorenzo a rivelare l'accaduto. L'italiano, contravvenendo a ogni norma, si accese una sigaretta malgrado lo sguardo di rimprovero di Matthew. «Non mi guardi come se fossi un delinquente» lo riprese Panetta mentre apriva la finestra perché l'ufficio si ventilasse. «È il colmo che uno non possa neanche fumarsi una sigaretta in pace.» «Lei sa che fa male alla salute, e non solo alla sua, perché costringe tutti gli altri a diventare fumatori passivi. È una questione di diritti: i suoi e quelli degli altri.» Lorenzo guardò Matthew con aria seccata, quindi spense la sigaretta che aveva appena acceso e sospirò rassegnato. «I nostri agenti hanno seguito due uomini dello Slavo. E lo sa dove sono stati quei due angioletti? All'hotel Crillon, uno degli alberghi più lussuosi di Parigi e probabilmente del mondo.» «E cosa ci facevano?» «Niente, a quanto pare. Sono rimasti seduti vicino alla reception, hanno bevuto un paio di bicchieri al bar, hanno passeggiato con discrezione e sono ancora lì, o almeno lo erano fino a un paio d'ore fa.» «E perché abbiamo seguito quegli uomini?» «Perché sappiamo che sono tra i più fidati dello Slavo. È strano... mi piacerebbe sapere cosa ci fanno al Crillon...» «Stanno seguendo o proteggendo qualcuno che alloggia lì» dedusse Matthew. «Sì, deve essere una delle due cose. Oppure lo Slavo andrà al Crillon a incontrare qualcuno e loro devono verificare che abbia campo libero.» «Non si sono accorti che li seguivamo?» «No, per adesso no; stiamo lavorando con una buona squadra, abbiamo più di trenta persone che si dedicano allo Slavo.» «Immagino che quei due banditi non passeranno inosservati in un hotel come quello» disse Matthew con una certa preoccupazione.
«Be', non è che vadano in giro con la camicia sbottonata o mettano in mostra i bicipiti. Cercano di non dare nell'occhio.» «E adesso?» «Adesso aspettiamo. Possiamo trovarci in presenza di una pista. Le chiamate intercettate, quei due uomini al Crillon... vedremo se ci stiamo avvicinando a Karakoz oppure no.» «E al Circolo, che è il nostro principale obiettivo.» «Per arrivare al Circolo dobbiamo tirare la corda di Karakoz. Può darsi che sia l'unica breccia nelle misure di sicurezza di quei fanatici.» 22 Erano circa le nove quando Raymond bussò di nuovo alla porta della stanza di Ylena. Questa volta aveva incrociato una cameriera all'uscita della suite, ma la donna non gli aveva prestato attenzione. Lui si era infilato nell'ascensore e aveva premuto il pulsante del terzo piano, dove si trovava la stanza di Ylena. Quando le porte si erano aperte, però, si era trovato di fronte una coppia che aspettava l'ascensore, per cui aveva preferito scendere nella hall. Da lì si era diretto al bar e aveva ordinato un calvados. Non gli piaceva bere in pubblico da solo, ma non voleva che qualcuno lo vedesse al terzo piano. Ylena avrebbe aspettato. Finito il bicchiere era uscito dall'hotel senza meta, malgrado l'insistenza del portiere per chiamare il suo autista. Aveva camminato per quasi un'ora prima di rientrare. La seconda volta aveva avuto fortuna ed era salito in ascensore da solo; persino in corridoio non aveva incontrato nessuno. Lei aprì immediatamente la porta. «La stavo aspettando» lo rimproverò con impazienza. «Non sono potuto venire prima» rispose mentre esaminava la trasformazione della donna. I capelli di Ylena ora erano biondo scuro e, invece di caderle sulla schiena, le arrivavano a malapena all'altezza delle orecchie. Il taglio non avrebbe potuto essere più disastroso; si notava fin troppo che era stato opera sua. Ma il risultato era quello che contava, e adesso Ylena era meno appariscente, più banale, malgrado quegli immensi occhi azzurri che continuavano a irradiare un'ira a stento contenuta. «Qui ci sono le foto. Problemi per i cambiamenti?» «No, nessun problema. Va bene sua cugina invece di suo fratello.»
«Quando mi consegnerà i passaporti e il denaro?» «Nel giro di pochi giorni, tre o quattro al massimo.» «E le armi e l'esplosivo?» «Gliel'ho detto prima. Li riceverete direttamente a Istanbul.» «Cosa devo fare fino a quando mi consegnerete i passaporti?» «Deve tornare con i suoi. La chiameremo quando tutto sarà pronto.» «Non rischio di attirare l'attenzione con tutti questi viaggi?» «È un rischio che dobbiamo correre, e comunque potrebbe attirarla anche rimanendo qui senza far niente. In ogni caso, queste sono le istruzioni e lei deve rispettarle senza fiatare. In questa operazione è di vitale importanza non avere idee proprie.» «Cosa intende dire?» «Che tutto è stato studiato nei minimi dettagli e non dobbiamo introdurre nessuna novità che non sia strettamente necessaria. Si metteranno in contatto con lei, le daranno istruzioni sul viaggio e sul luogo dell'incontro; fino ad allora, pensi a studiare insieme ai suoi familiari il programma dell'operazione.» Raymond le consegnò una busta marrone. Una busta normale, che non dava nell'occhio. «Dentro c'è una mappa di Istanbul, un libro con i principali monumenti e luoghi di interesse turistico, oltre a un foglio con gli orari di apertura del Topkapi, Santa Sofia, le moschee... Abbiamo inserito anche gli itinerari per andare da una parte all'altra della città in autobus. Come può vedere, tutto molto innocente, ma dovete studiarlo a fondo. Nel libro troverete una storia dettagliata del Topkapi e quello che si può visitare; naturalmente ci sono notizie del padiglione in cui si trovano le reliquie del Profeta. E ci sono due foto di come sono disposte le vetrine. È ovvio che suo fratello e suo cugino devono cominciare a pensare a dove sistemare l'esplosivo all'interno della sedia. E un'altra cosa: lei è sempre disposta a morire?» Ylena lo guardò quasi annoiata, come se a quella domanda avesse risposto migliaia di volte prima di allora. «Credevo di averglielo già spiegato. Non ne dubiti, la risposta è sì. La stessa che ho dato all'uomo che mi ha messo in contatto con lei.» Poi, con gran sorpresa di Raymond, si sedette e lo invitò a fare lo stesso. E così, faccia a faccia, Ylena gli spiegò perché non le importava di morire. «Avevo dodici anni quando arrivò al mio paese un distaccamento di musulmani. Fui una delle prime a essere violentate. Mi trovavo a casa di mia zia, alla periferia del paese. Quando li vedemmo uscii di corsa per avvisare
che stavano arrivando i musulmani, ma loro mi catturarono prima; uno dei camion frenò di botto vicino a me e scesero diversi uomini. Quello che comandava mi squadrò dalla testa ai piedi e io tremai di paura perché con lo sguardo mi aveva spogliata. Mi spinse sul ciglio della strada e mi scaraventò a terra; poi si aprì la patta e si buttò su di me. Al principio non reagii, ero atterrita. Poi sentii un dolore acuto tra le gambe e allora cercai di difendermi, cominciai a scalciare, a gridare, gli graffiai la faccia. Lui mi picchiava, non so neanche quanti schiaffi e pugni mi diede, ci fu un momento in cui facevo fatica a vedere perché sulla faccia mi colava sangue dappertutto. Mi violentò con rabbia, e poi mi diede un calcio nel ventre. Ma dopo di lui mi violentarono gli altri uomini del camion, credo fossero venti o venticinque, non lo so. Persi conoscenza diverse volte; loro mi gettavano dell'acqua in faccia per farmi svegliare, in modo che sapessi cosa mi stavano facendo. Mi dolevano le viscere, come se mi avessero bruciata dentro.» Raymond l'ascoltava affascinato. Il tono della voce di Ylena era stanco, sembrava stesse raccontando una storia banale. La cosa che più lo sorprendeva era la rigidità del volto, che non cambiava mai espressione. «Mi trovarono il giorno dopo. Non riuscivo a parlare, né a camminare. Ero incosciente, in coma, più morta che viva. Il sangue aveva formato una crosta che mi avvolgeva. Mi portarono in ospedale e lì riuscirono a rimettermi in vita. Dovettero operarmi e svuotarmi. Quelle bestie mi avevano devastato l'utero, le ovaie e... e come se non bastasse, mi avevano mutilata. Sì, dopo quello che mi avevano fatto mi mutilarono per evitare che un giorno, qualora fossi riuscita a riprendermi, potessi avere il desiderio di avere un uomo vicino. E la cosa peggiore fu che di questo non importò niente a nessuno. La mattanza che portarono a termine nel mio villaggio, gli stupri... non se ne parlò in nessun notiziario, noi eravamo serbobosniaci, e in quella guerra ci toccava il ruolo dei cattivi. Quando i nostri uomini devastavano i villaggi e violentavano le loro donne diventava una notizia internazionale, ma se erano le serbe a essere violentate, poco importava, il mondo intero protestava per i bosniaci e per nessun altro. Loro avevano organizzato bene la propaganda e contavano sull'aiuto di quelle brigate musulmane che avevano volontari da ogni paese islamico. Sembravano loro le uniche vittime. Noi eravamo cristiani, ma ai cristiani del resto del mondo non importava quello i musulmani ci facevano, li difendevano, protestavano per ciò che loro dovevano subire. Neanche la potente Chiesa di Roma ha fatto nulla di efficace... Le ho già detto che ho perso quasi tutta
la mia famiglia per mano di quei mercenari e io... io sono solo quel che resta di una donna senza futuro, senza niente da offrire, perché non posso più offrire neanche me stessa. Non ho paura di morire. Mi hanno già uccisa quel giorno, cosa vuole che m'importi di saltare in aria a Istanbul insieme a tutte quelle reliquie. Almeno in questo modo restituisco una piccola parte del male che ci hanno fatto. «Non mi chieda mai più se sono pronta a morire, non lo faccia. Ora lei sa che sono già morta.» Raymond si alzò dalla sedia senza mostrare alcuna emozione. In realtà non provava pietà per quella donna. Era solo uno degli strumenti della sua vendetta. Per lui cristiani e musulmani erano la stessa cosa. La distruzione delle reliquie di Maometto e della croce e il grande scontro che ne sarebbe seguito erano solo il prezzo che doveva pagare al Facilitatore per ottenere ciò che davvero voleva: vedere Roma umiliata e vendicare gli innocenti che avevano bagnato con il loro sangue la terra di Occitania. «Non abbandoni l'hotel fino a domani. Prenda un taxi per andare alla stazione. Ci metteremo in contatto con lei.» Quando arrivò alla suite si versò un bicchiere di calvados, poi cercò il cellulare nel quale infilò una scheda nuova. «Buonasera.» Il Facilitatore gli rispose all'altro capo della linea. Era soddisfatto per il funzionamento del piano. Raymond de la Pallisière, ventitreesimo conte D'Amis, aveva appena ricevuto l'ordine di non muoversi da Parigi fino a quando lui non lo avesse chiamato. Uno dei poliziotti francesi della squadra aggregata al Centro di coordinamento antiterrorismo si accorse dello sguardo che i due uomini dello Slavo rivolsero alla donna che in quel momento stava pagando il conto dell'hotel. Erano le undici di mattina, e la hall era piena di gente, ospiti che volevano pagare il conto e nuovi clienti che arrivavano. Da quasi un'ora il poliziotto faceva finta di leggere il giornale e bere caffè, esattamente la stessa cosa che sembrava fare uno degli uomini dello Slavo mentre l'altro stava vicino alla porta d'ingresso, in un punto da dove poteva vedere chiunque entrasse o uscisse dall'hotel. Lo sguardo dell'uomo dello Slavo si posò per qualche istante su Ylena, ma immediatamente si concentrò di nuovo sul giornale. Il poliziotto osservò la donna e pensò che era attraente, anche se, tranne i grandi occhi az-
zurri, non trovò in lei niente di speciale. La donna pareva fuori luogo in quell'hotel. Non portava gioielli, non vestiva in modo particolarmente elegante: un paio di pantaloni, una maglietta di seta, un fazzoletto attorno al collo e una borsa appesa alla spalla, tutto assolutamente nero e senza la minima traccia di una di quelle griffe proibitive per un comune mortale come lui. Pensò che probabilmente la ragazza aveva passato la notte con qualcuno, ma scartò immediatamente l'idea vedendola pagare in contanti. Neppure questo era normale. "Chi paga in contanti, al giorno d'oggi, in un hotel come il Crillon?" si disse. Magari si sbagliava ed era una semplice turista ma, per sicurezza, preferì comunicare la cosa attraverso la ricetrasmittente nascosta nel risvolto della giacca. «Può darsi che non sia niente di importante, ma sta per uscire una donna alta circa un metro e ottanta, capelli biondo scuro e occhi azzurri. È vestita di nero, e il tipo l'ha guardata. Non so, ma non mi dà l'impressione di essere una cliente abituale dell'hotel.» «È carina?» gli rispose scherzando uno dei suoi colleghi che aspettava fuori. «Magari vuol dire solo che il soggetto ha un certo fiuto e la pollastrella gli è piaciuta...» continuò. «Può darsi, ma state attenti alla reazione dell'altro soggetto.» Ylena uscì dall'hotel portando, oltre a una borsa a mano, una piccola valigia nera. Un inserviente l'accompagnò alla porta e si offrì di portarle il bagaglio. Il portiere le propose di prendere un taxi e lei accettò immediatamente. Due minuti dopo si stava già perdendo nel traffico di Parigi. L'uomo dello Slavo che controllava la porta non si mosse e non le rivolse neanche uno sguardo. Il suo compagno all'interno dell'hotel lo aveva appena chiamato al cellulare. «Non guardare, qui dentro c'è uno della concorrenza. Me ne sono appena accorto.» Un minuto più tardi il poliziotto rimasto all'interno dell'hotel sentì la voce del suo collega. «Falso allarme. Abbiamo visto uscire la ragazza; niente male, ma il tipo non l'ha neanche guardata, né l'ha seguita.» «Perché non la fate seguire da uno dei nostri?» «Amico, poi mi spiegherai perché. Ti ho detto che non l'ha neanche guardata e ti assicuro che abbiamo setacciato la zona; da queste parti non ci sono altri uomini dello Slavo. Non farci perdere tempo e non perderlo neanche tu. Piuttosto, fai in modo che non ti sfugga il tuo uomo perché
quello sì che sarebbe un problema.» Il poliziotto annuì controvoglia. Qualcosa gli diceva che l'uomo dello Slavo aveva guardato in modo particolare quella donna, e non per il suo aspetto. Decise comunque di obbedire. Se il tizio l'avesse seminato, sarebbe stato lui ad avere dei problemi. 23 «Qui visse Beato di Liébana nell'VIII secolo. Tutti voi conoscerete senza dubbio il suo Commentario all'Apocalisse di San Giovanni. Beato fu un monaco assai singolare che arrivò perfino a polemizzare con l'allora metropolita di Spagna e arcivescovo di Toledo, che difendeva la dottrina adozionista. La cosa importante, però, sono i testi che scrisse, i quali già all'epoca raggiunsero un'ampia diffusione e furono illustrati con magnifiche miniature. Beato compose anche un inno nel quale, per la prima volta, si difendeva la predicazione di Santiago del Mayor in Spagna; quell'inno fu realmente premonitore perché quasi immediatamente avvenne il ritrovamento della tomba dell'Apostolo di Compostela, e...» «Allora perché questo monastero si chiama di Santo Toribio invece di essere dedicato a Beato?» chiese una donna interrompendo le spiegazioni della guida, che le rivolse uno sguardo di fastidio poiché non era la prima volta che si intrometteva. «Stavo appunto per spiegarvelo. Questo monastero venne fondato all'epoca dei visigoti. Allora si chiamava San Martino di Tours. La tradizione ci ha tramandato due storie: una si riferisce al vescovo di Palencia, Toribio, che nel VI secolo girava per queste terre cercando di convertire i pagani; l'altra si riferisce al fatto che santo Toribio di Astorga, famoso per aver combattuto l'eresia priscilliana e aver compiuto il pellegrinaggio in Terra Santa nel V secolo, arrivò qui portando con sé numerose reliquie; è possibile che tra quelle ci fosse anche un pezzetto della croce di Cristo. Nell'XI secolo i monaci dell'abbazia seguivano la regola di san Benedetto e tra i tesori del monastero c'era il corpo di santo Toribio e...» «E potremo vedere il frammento della croce di Cristo?» La donna interruppe nuovamente la guida con evidente disappunto di quest'ultimo. «Naturalmente. Voi celebrate il vostro giubileo proprio perché qui si trova il frammento più grande della croce. Ci sono indizi secondo i quali sin dai tempi più remoti al monastero accorrevano persone da ogni parte del mondo per adorare la croce e pregare santo Toribio, che ha fama di a-
ver compiuto molti miracoli. Quando entreremo nel monastero potrete apprezzare il suo sepolcro sotto un'effigie policroma al centro della chiesa. Fu papa Giulio II che nel 1512 promulgò la bolla con la quale si stabiliva una settimana di giubileo per coloro che arrivavano al monastero negli anni in cui la festività di santo Toribio cadeva di domenica. Il monastero si trova anche sul percorso del cosiddetto "Cammino francese", che porta i pellegrini fino a Compostela. Ah, una curiosità: sappiamo che, almeno dal XVI secolo, accorrevano molte famiglie con persone malate di mente, perché la tradizione assicurava che il Lignum Crucis era capace di curare gli indemoniati, e...» «Ma allora, il giubileo si può celebrare solo per una settimana?» chiese alla guida un altro dei pellegrini. «No, no, stavo per spiegare proprio questo. Papa Paolo VI ampliò il giubileo settimanale a tutti i giorni dell'anno che vanno dalla festività di santo Toribio fino all'anno successivo. Di modo che il vescovo apre la Porta del Perdono e, a partire da quel momento, tutti i pellegrini che arrivano nel corso dell'anno santo potranno ottenere l'indulgenza plenaria e la remissione dei peccati. È quello che otterrete voi una volta arrivati: potrete confessarvi, ascoltare la messa e fare la comunione. Non so se sapete che soltanto Gerusalemme, Roma, Compostela e Caravaca, nella provincia di Murcia, hanno questo stesso privilegio.» «Ma questo monastero di che secolo è?» volle sapere un altro dei pellegrini. «La costruzione della chiesa attuale fu iniziata a metà del XII secolo, è in stile gotico monastico con influenze cistercensi. Ma esistono ancora resti dell'antica costruzione romanica. Nel XII secolo furono effettuati lavori di ampliamento del monastero e di quell'epoca è il meraviglioso chiostro che potrete ammirare. È anche interessante sapere che la cappella dove è custodito il Lignum Crucis è barocca ed è stata costruita con l'apporto di indigeni, gli emigranti che fecero fortuna in America. Lo vedrete: è spettacolare, per la sua bellezza e allo stesso tempo per la sobrietà. Il frammento della croce è conservato in una custodia d'argento dorato realizzata da maestri orafi del 1778.» Alì e Mohamed ascoltavano attenti le spiegazioni della guida. Il pullman turistico si era appena lasciato alle spalle il paese di Potes e si arrampicava sul pendio che portava al monastero. «Adesso vedrete il monte Viorna, alle pendici del quale si trova Santo Toribio. Avevo peraltro dimenticato di spiegarvi che queste valli erano di-
ventate un rifugio sicuro per i cristiani che fuggivano dall'occupazione araba.» Avevano viaggiato in treno da Granada a Madrid e da lì a Santander. Si erano iscritti all'escursione come normali turisti. Avevano cercato di non dare nell'occhio, vestendosi all'occidentale. Indossavano jeans, camicie pulite e stirate, scarpe da ginnastica, e avevano i capelli in ordine. Ovviamente molti dei pellegrini li avevano guardati con curiosità e diffidenza: «Sono mori» avevano sentito sussurrare alle loro spalle «cosa volete che gliene freghi a quella gente lì di Santo Toribio». Loro avevano cercato di essere gentili con tutti i membri dell'escursione, aiutando le signore più anziane a salire e scendere dall'autobus, offrendosi di andare a comprare l'acqua quando si fermavano a fare una sosta. Una donna non era riuscita a reprimere la curiosità e aveva domandato a entrambi come mai andavano a Santo Toribio. «Andate a celebrare il giubileo?» aveva chiesto con sospetto. «No, signora. Però stiamo viaggiando per la Cantabria, e non potevamo fare a meno di conoscere il santuario. Deve sapere che per i musulmani Gesù è stato un grande profeta. Sono stati gli ebrei a crocifiggerlo...» aveva ricordato Alì; la risposta doveva aver soddisfatto la donna, dato che da quel momento aveva cominciato a sorridere loro affettuosamente. «Ci sta piacendo talmente tanto la Cantabria che non escludiamo di tornarci con le nostre famiglie» aveva aggiunto Mohamed. Il luogo dove sorgeva il monastero di Santo Toribio sembrò anche a loro spettacolare. Sulle pendici della montagna, tra gli alberi e il verde della natura, le pietre brillavano sotto il tenue sole del mezzogiorno. Quando scesero dall'autobus, la guida indicò la Porta del Perdono. Rimasero sorpresi dall'assenza di guardie, poliziotti e di qualsiasi corpo di sicurezza a protezione del monastero. Camminarono intorno a Santo Toribio, salirono sulle rocce per contemplarlo da un'altra prospettiva e poi ridiscesero. Nessuno sembrava far caso ai loro movimenti. Entrarono e uscirono dalla chiesa varie volte, osservarono con cura la cappella del Lignum Crucis, dove i pellegrini si affollavano pregando a bassa voce. Cominciò la messa e i fedeli in raccoglimento seguirono le parole del sacerdote con devozione, convinti che i loro peccati sarebbero stati cancellati con un colpo di spugna una volta attraversata la Porta del Perdono, dopo essersi confessati e comunicati. Niente impediva di avvicinarsi alla cappella del Lignum Crucis, protetta da una grata; al contrario, chiunque poteva prostrarsi davanti ai gradini che
conducevano al piccolo recinto dove era esposta la reliquia... Chiunque avrebbe potuto far esplodere e ridurre in pezzi quella cappella se aveva deciso di immolarsi, cosa alla quale sia Alì che Mohamed erano disposti. Li aspettava Allah nel Paradiso e il loro Paradiso era più gratificante del cielo dei cristiani. Contarono mentalmente i passi che separavano la Porta del Perdono dalla cappella, studiarono gli altri accessi e comprarono diversi libri sull'argomento nel piccolo negozio del monastero. Adesso sapevano che quella missione era non soltanto fattibile, ma che non presentava il minimo problema. In quell'angolo remoto della Cantabria, in quel luogo all'ombra del Picos de Europa, nessuno pareva temere nulla; né i monaci, né le autorità locali immaginavano che qualcuno fosse capace di danneggiare quel luogo e ancor meno di ridurre in mille pezzi il Lignum Crucis. Salim era stato un genio a scegliere Santo Toribio. Come era possibile che i cristiani fossero così stupidi da lasciare senza protezione il monastero dove dicevano di custodire il frammento più grande della croce sulla quale era stato crocefisso il profeta Isa? Eliminare il Lignum Crucis era un gioco da ragazzi; chiunque poteva farlo. Non c'era neanche bisogno di coraggio; solo una buona carica di dinamite e quel monastero sarebbe volato in cielo. Mohamed concluse che i cristiani sarebbero stati gli unici colpevoli della distruzione della croce per non averla protetta come era necessario. Quando finì la messa, si comportarono come gli altri pellegrini: fecero foto del monastero, della cappella, del Lignun Crucis, della tomba di santo Toribio, dei luoghi circostanti... decine di foto che sarebbero state utili per fissare meglio il loro obiettivo. Erano ansiosi di ritornare per raccontare tutto a Omar, ma soprattutto per conoscere Salim, che pochi giorni dopo sarebbe arrivato a Granada e aveva promesso di incontrarli. Lo avrebbero tranquillizzato: il Lignum Crucis avrebbe smesso di esistere. Alì e Mohamed si chiesero di cosa sarebbero stati capaci i pellegrini con i quali avevano diviso la giornata, una volta che tutto fosse accaduto, e scoppiarono a ridere. Si sarebbero lamentati e basta, non avrebbero fatto nulla. Ecco di cosa sarebbero stati capaci i cristiani. L'Occidente non voleva problemi e il modo migliore per non averli era guardare dall'altra parte. Quella era la grande forza del Circolo. 24 Raymond dormiva quando il cellulare squillò. La voce concitata del suo
avvocato lo fece sobbalzare. Al principio non capiva cosa gli stesse dicendo, poi, mentre il suo uomo di fiducia gli ripeteva la notizia, rimase letteralmente senza parole. «Sua moglie è morta ieri. Mi hanno comunicato che da molto tempo era ricoverata in una clinica di Cleveland, lottava contro un tumore al pancreas. Mi spiace di averla svegliata per darle questa notizia, ma l'ho saputo solo un attimo fa; ero in viaggio e l'avvocato di sua moglie non era riuscito a rintracciarmi. Vista la gravità della notizia, ho ritenuto di non aspettare fino a domani... Ha istruzioni da darmi?» Raymond non sapeva cosa dire. Guardò l'orologio: erano le due di notte. Che istruzioni avrebbe potuto dargli? Non poteva presentarsi a Cleveland. In qualità di cosa? Era il padre di una figlia che non conosceva, che non aveva mai voluto saperne di lui. Se fosse andato laggiù, avrebbe rischiato di essere sbattuto fuori... no... in realtà non sapeva cosa dire. «Conte, mi sente? Ha capito quello che le ho detto?» «Sì, sì... ho sentito; in realtà non ho alcuna istruzione da darle... forse potrebbe parlare con mia figlia e dirle che sono a sua disposizione per tutto ciò di cui dovesse aver bisogno... sì, forse è questa la cosa migliore; la chiami e parli con lei. Mi avvisi senza problemi se ci sono novità.» Si alzò dal letto e indossò la vestaglia di seta che aveva lasciato su una sedia. Poi andò in sala, aprì il mobile bar e tirò fuori la bottiglia di calvados. Malgrado l'ora aveva bisogno di un bicchiere per mettere bene a fuoco la cosa. Era rimasto vedovo di una donna che non vedeva da quasi trent'anni, eppure la notizia era stata un duro colpo; Nancy faceva parte dei suoi sogni più reconditi e del momento più pieno della sua vita, quando si era sentito innamorato per la prima e ultima volta. Per un attimo ebbe l'impulso di chiamare Catherine, ma si trattenne; se sua figlia aveva la metà del carattere della madre avrebbe riattaccato il telefono e si sarebbe rifiutata di parlargli. Ormai era una donna, e anni addietro aveva lasciato ben chiaro al suo avvocato che non aveva il minimo desiderio di conoscere suo padre né di mantenere alcun rapporto con lui; non appena era diventata maggiorenne, Catherine aveva deciso di non dover più dipendere da nessuno, meno ancora da suo padre, per cui lo aveva sollecitato a interrompere gli invii mensili di denaro. L'avvocato non era riuscito a convincerla del contrario. Da quel momento Catherine aveva rifiutato di avere qualsiasi rapporto con lui. Nancy, da parte sua, non aveva neanche voluto parlare con l'avvocato. Madre e figlia avevano tagliato il filo sottile che le univa a lui.
Raymond bevve d'un sorso il bicchiere di calvados e se ne versò un altro. Non sapeva cosa fare. Forse doveva andare a New York e aspettare che sua figlia tornasse da Cleveland. Forse in queste circostanze Catherine avrebbe accettato la sua compagnia. Invece di tornare a letto rimase in piedi ad attendere la chiamata del suo avvocato, che arrivò solo un'ora più tardi. «Conte, sono riuscito a parlare con l'avvocato di sua figlia; mi dispiace, ma ha detto molto chiaramente che non vuol sapere niente di lei. Mi ha raccomandato di dirle che sarà meglio non provare neanche a contattarla. Mi spiace doverle dare queste brutte notizie.» «Non si preoccupi, in realtà... be', non mi sta dicendo niente di nuovo, anche se... Quando è previsto il funerale di Nancy?» «Domani mattina il suo corpo verrà cremato a Cleveland. Lì hanno vissuto gli ultimi tre anni cercando di curare la sua malattia. L'avvocato di sua figlia non mi ha dato molti dettagli, però mi è sembrato di capire che lei tornerà molto presto a New York dove, come sa, ha tenuto aperta la galleria d'arte.» Sì, lo sapeva bene. Per anni aveva dato ordine di comprare quadri da quella galleria; era un modo per assicurarsi che Nancy e sua figlia avessero denaro sufficiente per vivere. Molte di quelle opere le aveva regalate mentre altre erano rimaste, ancora imballate, nelle cantine del castello. Non gli piaceva l'arte moderna. Raymond sospirò e si sentì sconfitto; ciononostante c'era qualcosa in lui che si ribellava. Per la prima volta nella sua vita non sopportava la possibilità di non fare niente. L'orologio segnava le tre e mezzo. Il giorno seguente avrebbe dovuto incontrare lo Slavo e finire di compilare l'ordinazione per l'attentato di Istanbul. L'incontro sarebbe stato uguale a quello avuto con Ylena: l'uomo avrebbe prenotato una stanza al Crillon e lì, lontano da occhi indiscreti, avrebbero parlato del piano, oltre a stabilire l'ammontare economico dell'operazione e le modalità di pagamento. Lo Slavo gli aveva già comunicato che il suo capo Karakoz preferiva essere pagato in contanti, o al limite con un accredito bancario in Svizzera o in Lussemburgo, dove aveva domicili fiscali a nome di avvocati che pagava generosamente. Sapeva che era la scelta sbagliata, ma alla fine la prese lo stesso: sarebbe andato a New York e avrebbe annullato il suo incontro con lo Slavo. Il Facilitatore avrebbe dovuto capire che non si rimane vedovi tutti i giorni e che quella per lui era l'occasione di avvicinarsi a Catherine, per quanto lei
facesse resistenza. Cercò il cellulare e chiamò il numero di casa dello Slavo. La voce dell'uomo sembrava provenire dall'oltretomba; era pastosa, con la rabbia di chi è stato svegliato da un sonno profondo. «Domani non potremo vederci» affermò Raymond senza ulteriori preamboli. «Ma chi diavolo è lei? Cosa sta dicendo?» gridò lo Slavo. «Avremmo dovuto vederci domani al Crillon, ma non potrò esserci. Devo partire per New York, la chiamerò al mio ritorno.» «Cosa sta dicendo? È impossibile! Dobbiamo vederci domani se vuole che l'operazione proceda senza intoppi. A che gioco sta giocando? Senta, non è questo il momento di abbandonare la nave.» Lo Slavo era più infuriato per essere stato svegliato che per il cambiamento di programma. «Devo partire, gliel'ho già detto, è morta mia moglie» si scusò Raymond, con tono addolorato. «Il mio capo non sarà per niente contento...» «Quello che pensa il suo capo mi lascia del tutto indifferente. Anche lui ha una moglie, e sono certo che comprenderà la mia situazione.» «Quando tornerà?» «Non lo so, fra tre o quattro giorni al massimo; lei intanto continui a lavorare a quanto era già previsto. In realtà con me deve sistemare soltanto dei dettagli.» «Con lei dobbiamo sistemare il pagamento» precisò lo Slavo «e questo non mi sembra un dettaglio di scarsa importanza.» «Può tranquillamente aspettare qualche giorno; in realtà passerà del tempo prima che lei mi consegni la merce, quindi non ci sarà nessun ritardo.» «Noi ci facciamo pagare in anticipo.» «Avrà tutto, fino all'ultimo dollaro.» «Sarà così, non dubiti. Altrimenti farà bene a dire addio al suo castello e a tutto ciò che tanto la diverte.» «Non si permetta di minacciarmi.» «Già, dimenticavo che sto parlando con un conte! Vada a cagare, e sappia che l'operazione resterà bloccata fino a quando lei non avrà fatto la sua parte. Noi non lavoriamo gratis e non facciamo credito, né a lei né ad altri!» «La chiamerò al mio ritorno.» Raymond chiuse la comunicazione; si sentiva sfinito dopo la discussione
con quell'uomo. Subito dopo compose un altro numero, quello del castello D'Amis. Il maggiordomo non tardò ad alzare la cornetta, dal momento che aveva il telefono sul comodino di fianco al letto. «Castello D'Amis.» «Buonanotte, o forse è meglio dire buongiorno, Edward?» «Buonanotte, signore. Cosa succede?» chiese allarmato. «Niente, niente, Edward, non ti preoccupare, dovrò semplicemente partire a causa di un imprevisto. Vado a New York con il primo aereo sul quale troverò posto. Starò fuori qualche giorno, non so quanti, quattro, cinque, al massimo una settimana. Pensa tu a tutto.» «Naturalmente, signor conte. Dove posso rintracciarla nel caso in cui avessi bisogno di comunicare con lei?» volle sapere l'efficiente maggiordomo. «Alloggerò al Plaza, come sempre, ma puoi trovarmi sul cellulare; è la cosa migliore, comunque mi farò vivo io, non preoccuparti. Nei giorni in cui starò fuori non dovrebbe succedere niente. Solo tra due settimane avremo degli invitati al castello per cui, in linea di principio, non devi preoccuparti di nulla.» «Sono a sua disposizione, come sempre, signor conte.» «Bene, mi farò vivo io, Edward.» «Buon riposo, signore.» «Grazie, buonanotte.» Quando riagganciò il telefono si disse che almeno rispetto a Edward poteva stare tranquillo. Il maggiordomo se la cavava bene quando doveva dirigere il castello in sua assenza. Si versò un altro bicchiere di calvados, prese il telefono che si trovava vicino al mobile bar e chiese alla reception dell'hotel di prenotargli un biglietto di prima classe sul primo volo per New York. Quindi decise di chiamare il Facilitatore e cercò di nuovo il cellulare; in quel preciso istante si rese conto di aver utilizzato il telefono più a lungo di quanto gli era consentito se voleva evitare che le chiamate fossero intercettate. Aveva parlato più del dovuto con lo Slavo e poi aveva chiamato il castello. Sentì un sudore freddo scendere lungo la schiena. Che cosa aveva fatto? Era improbabile che qualcuno lo seguisse o che sospettassero di lui, ma il Facilitatore si era sempre mostrato molto rigido rispetto alla necessità di adottare misure di sicurezza estreme e lui aveva violato alcune tra quelle più elementari.
L'impatto della notizia della morte di Nancy sommato ai bicchieri di calvados gli aveva confuso la testa più di quanto fosse disposto ad ammettere. Tentò di tranquillizzarsi dicendo a se stesso che dalla conversazione con lo Slavo non potevano nascere sospetti; e quanto a quella con il suo maggiordomo, non aveva la minima rilevanza. No, non voleva comportarsi come un paranoico; aveva infranto alcune misure di sicurezza, ma nessuna così grave da mettere in pericolo la sua vendetta. Doveva soltanto cambiare la scheda al cellulare, cosa che faceva dopo ogni chiamata al Facilitatore, e non chiamarlo quella stessa notte, ma il giorno seguente dall'aeroporto, per annunciargli che stava andando a New York. Dieci minuti più tardi lo chiamarono dalla reception del Crillon confermargli che aveva un posto prenotato per il giorno seguente sul volo delle dodici. Si sentì euforico per il semplice fatto di sapere che le cose erano già in movimento e chiese la sveglia per le otto. Aveva ancora tempo di fare un pisolino e tentare di smaltire i fumi dell'alcol. Lorenzo Panetta entrò senza bussare nell'ufficio di Hans Wein. Il direttore del centro di coordinamento antiterrorismo non poté fare a meno di guardarlo con un'aria di rimprovero per l'interruzione. «L'abbiamo beccato!» «Lo so, ho appena parlato con Parigi, tra un attimo ci manderanno un'email.» «Ho parlato anch'io con loro, ho già la trascrizione della conversazione tra il conte e lo Slavo. È incredibile, ma hanno parlato abbastanza da poter localizzare la chiamata.» «Quello che non riesco a capire è dove diavolo ci porterà tutto questo» disse Wein. «Karakoz ha molti clienti e scopriamo che tra questi, oltre al Circolo, c'è anche un conte francese, il che ci porta su una pista che non è quella che stavamo cercando.» «Ma dobbiamo seguirla lo stesso» replicò Panetta. «Noi stiamo cercando i collegamenti tra Karakoz e il Circolo per essere in grado, partendo da lì, di fare qualcosa contro quel gruppo di fanatici. Non stiamo seguendo nessun conte, per quanto abbia rapporti con un uomo di Karakoz. Devo consultare i miei superiori prima di continuare su questa strada.» «Perdio, Wein, è la prima cosa concreta che abbiamo dopo molto tem-
po!» «Non abbiamo niente! Soltanto una conversazione tra un aristocratico e un trafficante di armi, ma che io sappia nessuno dei due appartiene al Circolo, e noi non siamo autorizzati a indagare su quel cittadino francese.» «Tu sai bene che nel corso di qualsiasi indagine capita di incrociare altri delinquenti e altri reati, a volte collegati con quello che si cerca e a volte no, ma si tratta pur sempre di delinquenti.» «Le intercettazioni sono state autorizzate per arrivare al Circolo attraverso Karakoz. So che attenersi strettamente alle regole a volte causa ritardi, ma non faremo niente per cui non siamo stati espressamente autorizzati.» «Non sto proponendo il contrario, Hans, semplicemente credo che non si debba scartare questa nuova pista per quanto in apparenza ci allontani dal Circolo. Chiedi tutti i permessi necessari, ma fai in modo che si riesca a tirare questo filo. Se non conduce da nessuna parte lo lasceremo perdere e se ne occuperà la polizia di Parigi, ma almeno proviamoci.» La testa di Matthew Lucas spuntò dalla porta dell'ufficio di Wein mentre chiedeva il permesso di entrare. «Entri Matthew, immagino che l'abbiano già informata» gli disse il direttore del centro. «Sì, è stupendo. Incredibile!» «Dobbiamo essere prudenti» replicò Wein. «Sì, certo, ma è una pista importante» insistette Lucas. «Che non sappiamo se conduce lì dove vogliamo andare o se invece porta completamente fuori dal nostro raggio di competenza. Siamo un centro di coordinamento contro il terrorismo, non la polizia, e temo davvero che questa conversazione del conte con lo Slavo non abbia niente a che vedere con ciò che cerchiamo.» Matthew Lucas rimase in silenzio mentre cercava con lo sguardo l'appoggio di Lorenzo Panetta, che sembrava distratto. «Va bene, ma immagino che in ogni caso seguiremo quella pista» ribadì l'americano. «Lo faremo se ci daranno il permesso. Devo informare i nostri superiori. Soltanto dopo vi dirò quello che potremo e quello che non potremo fare.» Uscendo dall'ufficio di Wein, Lorenzo fece un cenno a Matthew perché lo seguisse nella sua stanza. «Cosa dicono i tuoi capi dall'America? In fondo sei qui "in prestito"...» gli chiese Lorenzo. «Be', immagino che non chiederanno il permesso per andare avanti con
le intercettazioni. Per quello che ne so, anche i francesi sono ben disposti a continuare. Sono i primi a essere sorpresi per aver trovato un rispettabile aristocratico che parlava con un delinquente della peggior risma.» «Mi terrai informato?» gli chiese Lorenzo. «Naturalmente, ma spero che Wein ottenga il permesso dai suoi superiori. Sarebbe assurdo non seguire quella pista e vedere dove conduce. Comunque, mi manderanno un dossier su questo conte.» «L'ho richiesto anch'io, immagino che sia già arrivato sul mio computer.» «Allora gli uomini dello Slavo che stavano di guardia al Crillon erano lì per il conte...» disse Matthew. «Così pare. Eppure, tutte le indicazioni lasciano pensare che il Circolo stia preparando un nuovo attentato e sappiamo che le armi le comprano da Karakoz. O hanno cambiato negozio, oppure...» «No so, neanche io riesco a spiegarmi cosa possa spingere un aristocratico francese a discutere con un trafficante di armi. Oltretutto, il conte ha chiamato lo Slavo sul suo numero privato, e dalla conversazione si deduce che hanno tra le mani qualcosa di grosso. Credo che dovremo controllarli, non perderli di vista.» «Be', a quest'ora è in volo per New York e là ti assicuro che né noi né i francesi lo perderemo di vista giorno e notte. Quanto ai telefoni del castello, li metteranno sotto controllo e lo stesso faremo anche noi. A proposito, avete già ricevuto il rapporti di sicurezza sulle persone che lavorano in questo dipartimento?» «No, ancora no. Stanno indagando di nuovo su di noi e verificando tutti i dati; ci vorranno ancora un paio di giorni prima che ci dicano qualcosa.» «Credi che la dottoressa Villasante potrebbe ascoltare la registrazione dello Slavo e del conte?» «Sì, sarebbe interessante conoscere l'opinione di Andrea, ma dobbiamo aspettare che Hans consulti i suoi capi; fino ad allora possiamo solo aspettare.» «Nel mio caso cercherò di fare qualcosa di più. Chiederò al nostro laboratorio di studiare questa registrazione e comparare la voce del conte con l'altra registrazione che abbiamo dello Slavo. Ricordi che aveva parlato con un uomo dalla voce anziana e che si riferiva a una sedia? Magari è lo stesso...» «Diamine! Avrei dovuto pensarci!»
25 Salim al-Bashir sorrideva soddisfatto davanti agli applausi degli intervenuti alla sua conferenza. Si era accattivato il pubblico dicendo ciò che la gente voleva ascoltare: che la convivenza pacifica tra musulmani, cristiani ed ebrei era possibile che l'Islam era una religione di pace e che non bisognava confondere coloro che professavano questa religione con quei pochi che mettevano bombe o sequestravano aerei; che era intollerabile vedere i giornali occidentali definire "terroristi islamici" gli autori di questi atti. Un discorso perfetto: "Vi risulta che quando un cristiano uccide qualcuno i giornalisti lo definiscano 'assassino cristiano'? No, non lo fanno, lo definiscono semplicemente assassino, ma in Occidente ci sono pregiudizi nei confronti dell'Islam. Sì, per quanto molti stentino a riconoscerlo è così; per questo ci offendono quando, per spiegare che qualcuno ha commesso un atto di violenza, si aggiunge la religione del soggetto ogni volta che questi è musulmano. Ai giornalisti chiedo di riflettere su questo". Aveva anche rivendicato il rispetto "per la nostra cultura e per le nostre norme, che non vogliamo imporre a nessuno. E allora mi chiedo, perché avete paura che le nostre mogli e le nostre figlie scelgano di indossare un hijab? Chi offendiamo non mangiando carne di maiale e chiedendo che le scuole siano rispettose con i nostri figli e non li obblighino a mangiare ciò che va contro la nostra religione? La convivenza è possibile a partire dal rispetto, il rispetto della diversità, perché se non si rispetta la diversità, i nostri figli finiranno per sentire di non appartenere a nessuna cultura, e cresceranno confusi, carichi di rabbia e umiliati per dover nascondere quello che sono. I poteri pubblici devono aiutare a creare le condizioni perché la comunità musulmana possa vivere in pace, in accordo con i propri costumi e con la propria cultura, metterci in grado di educare i nostri figli come buoni musulmani. Insieme potremo combattere la violenza, ma il segreto è uno solo: il rispetto e la tolleranza, perché, disgraziatamente, l'Occidente si dice tollerante, ma lo è solo con se stesso, non con gli altri. Ognuno deve essere libero di pregare il suo Dio come più gli piace, e non deve essere perseguitato per questo come lo sono i musulmani". Cercò lo sguardo di Omar, il capo del Circolo in Spagna, che si faceva passare per uomo d'affari, un operatore turistico e uno dei capi più rispettati della comunità musulmana della penisola. Si scambiarono un'occhiata carica di ironia: erano presenti illustri esponenti della politica e della cultura, ed erano tutti lì ad applaudire lui, il capo delle operazioni terroristiche
del Circolo. Lui, che era considerato un rispettabile professore. Era facilissimo trattare con gli occidentali; a loro bisognava soltanto dire di non preoccuparsi di nulla, che non c'era alcun bisogno di cambiare la loro vita, che potevano rimanere immersi nella loro cultura edonista senza preoccuparsi di quello che accadeva intorno a loro, che potevano continuare a pensare solo a loro stessi. Gli occidentali non volevano problemi, ed erano disposti a credere a chiunque dicesse che non ce n'erano. Era proprio questo che Salim spiegava: che dovevano lasciarli fare, che se li avessero lasciati tranquilli non sarebbe successo niente... e nel frattempo loro avrebbero continuato a estendersi a macchia d'olio fino a quando le cattedrali di tutta Europa sarebbero state trasformate in moschee. In fin dei conti era un destino più dignitoso di quello che gli infedeli riservavano ad alcune delle loro chiese, che venivano trasformate in ristoranti o addirittura in discoteche come già avveniva in Inghilterra... Meritavano di perdere tutto perché non avevano rispetto di se stessi, perché non credevano in niente, neanche nel loro Dio. Dio, dicevano i guru della cultura occidentale, era roba del passato, roba da fanatici, da gente che non aveva spostato le lancette dell'orologio sull'ora della Storia, e invitavano a vivere e divertirsi, a consumare e basta. Per questo li avrebbero sconfitti. Era facile battere una società che non credeva in nulla. Dopo aver salutato quella parte del pubblico che lo aveva attorniato non appena era sceso dal palco da cui aveva tenuto la conferenza, Salim alBashir si diresse verso una saletta attigua; lì un nutrito gruppo di giornalisti gli ripropose le stesse domande che gli facevano tutti i giornalisti in ogni parte del mondo. Tutti volevano sapere cosa pensava del Circolo. Gli chiedevano anche dell'ultimo attentato perpetrato a Francoforte, e dei comunicati con i quali l'organizzazione rivendicava al-Andalus. Le domande sulla situazione in medio Oriente, sul dramma del popolo palestinese, sulle conseguenze della guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq furono la logica conclusione. Soltanto un'ora dopo riuscì ad abbandonare la sala, accompagnato da Omar e da altri fratelli del Circolo che passavano per essere dei pacifici uomini d'affari. Omar si mise alla guida di un fuoristrada e Salim gli si sedette a fianco, ma non si rivolsero la parola fino a quando non uscirono da Granada e furono sicuri di non essere osservati. «Hai avuto un grande successo» si complimentò Omar.
«Grazie. Te l'avevo detto; il segreto è dire sempre ciò che loro vogliono sentire.» «La stampa ti elogerà. Ho sentito dei giornalisti commentare in modo molto positivo il tuo intervento.» «Sì, immagino che lo faranno; fino a oggi è stato sempre così.» «Andiamo a casa mia, lì ceneremo con alcuni dei nostri uomini. Vedrai Alì e Mohamed, che sono in attesa delle tue istruzioni.» «Sì, il piano è semplice. Gli attentati devono avvenire tutti nello stesso giorno e alla stessa ora: saranno più efficaci.» «Tu sei il capo delle operazioni, ma io credo che i cristiani si spaventerebbero maggiormente se gli attentati avvenissero in più giorni consecutivi; quando non si sono ancora ripresi da un colpo, dobbiamo sferrarne subito un altro.» «Vedi, Omar, se questa idea è stata scartata è proprio perché una volta che si verifica un attentato, tutti i servizi antiterrorismo vengono messi in stato di allerta. E se fino al giorno prima erano rilassati e consideravano il loro lavoro soltanto una routine, dal momento dell'attentato si moltiplicano le misure di sicurezza in aeroporti, stazioni ferroviarie e tutti i luoghi ritenuti obiettivi sensibili. Riempiono le strade di poliziotti e di soldati, mettono sotto torchio i loro confidenti e chiunque abbia l'aspetto di un arabo diventa automaticamente un sospetto; no, qualcuno dei nostri potrebbe essere fermato a un controllo, è meglio colpire nei tre posti allo stesso tempo.» Senza distogliere lo sguardo dalla strada, Omar annuì alle spiegazioni del capo operativo del Circolo. «Piuttosto, chi era quella ragazza seduta in prima fila, che quando sono iniziate le domande voleva sapere un sacco di cose? Era maghrebina ma non portava lo hijab per coprire i capelli.» «Si chiama Laila Amir; è la sorella di Mohamed, ti ho già parlato di lei. Quella donna ci sta creando parecchi problemi.» «Mi ha messo in difficoltà quando mi ha chiesto se non pensavo che il Profeta si fosse sbagliato nell'affermare che le donne devono essere subordinate all'uomo, e che era giusto frustare le adultere e lapidarle...» «Sei stato bravo a metterla a tacere dicendole che il tema della conferenza era politico e non teologico, ma che con grande piacere avresti potuto discutere di quei temi in un'altra occasione.» «Sì, ma avrebbe potuto rovinarmi la conferenza. Fortunatamente il pubblico era dalla mia parte e ha visto in lei una provocatrice. Devi fare qualcosa per quella donna, e subito.»
«Ho dato un ultimatum a Mohamed.» «Se non è stato capace di risolvere la situazione con sua sorella, come possiamo fidarci di lui?» «Hasan me l'ha raccomandato. È sicuro che sia l'uomo adatto e che una volta giunto il momento accetterà di offrire la sua vita per il successo della missione.» «Non importa che muoia o no, quello che importa è che sia capace di uccidere.» «Lo è, di questo non devi preoccuparti, ma devi capire che non è facile uccidere una sorella.» «Sono le nostre regole. Non sarà né la prima né l'ultima donna che muore per aver causato disonore alla propria famiglia.» «Sarebbe un errore farlo ora. Laila è molto conosciuta a Granada, è diventata il simbolo di quello che può essere una musulmana integrata ed emancipata. Se la trovassero morta, si metterebbe in moto un'indagine che in questo momento non ci conviene. Ti ho già detto che lavora in uno studio con altri avvocati, i quali pretenderebbero l'apertura di un'inchiesta.» «Va bene, ma risolvi questa situazione appena possibile.» La casa di Omar era sorvegliata con discrezione da uomini del Circolo che si facevano passare per domestici, contadini, giardinieri e perfino portieri. Il capo dell'organizzazione in Spagna sapeva che non poteva permettersi il minimo errore e che la sicurezza del suo ospite era di primaria importanza. Salim salutò la famiglia di Omar prima di sedersi a tavola per presiedere la cena alla quale partecipavano solo gli uomini. Alcuni, che avevano assistito alla conferenza, gli dedicarono grandi elogi; altri invece si limitavano a guardarlo con ammirazione, felici dell'opportunità di averlo così vicino. Salim al-Bashir era un mito per tutti i combattenti del Circolo. Con loro Salim non parlò dell'operazione che era già avviata, anche se tutti volevano sapere quando il Circolo avrebbe colpito di nuovo i cristiani. A tutti loro, lui ricordava che se il Circolo era divenuto una fortezza quasi inespugnabile era perché nessuno sapeva più di quello che era strettamente necessario. Alì e Mohamed, come lo stesso Hakim, lo ascoltavano in silenzio, sentendosi importanti per essere stati scelti per la missione seguente ed erano tra i pochi a conoscerne il piano. Alla fine della cena, mentre gli uomini
prendevano commiato da Salim, Omar fece cenno a loro tre di restare. Nello studio di Omar, con le finestre chiuse e due uomini a proteggere la porta, Salim al-Bashir spiegò loro i dettagli degli attentati. «Tu, Mohamed, ti occuperai di Santo Toribio, qui in Spagna. Ho letto la tua relazione; mi fa piacere sapere che tu e Alì avete ispezionato a fondo la zona, ma devo ammettere che il vostro eccesso di fiducia mi preoccupa.» «Abbiamo detto la verità. Non c'è nessuna misura di sicurezza, o almeno non c'era quando noi abbiamo visitato il monastero. Avremo bisogno di una forte carica di esplosivo per far saltare il cancello che protegge la cappella e la stessa cappella nella quale viene conservato il frammento della croce. Quando siamo stati lì, la guida ci ha detto che a volte vengono celebrate messe solenni in occasione delle quali viene addirittura esposta per far sì che tutti i pellegrini possano vederla, ma non ci farei troppo conto. Meglio tenere presente la difficoltà causata dal cancello, e considerare che l'esplosivo deve essere in grado di distruggerlo.» «Avrete l'esplosivo, anche se in base alla descrizione che avete fatto sarà difficile per voi lasciare la carica e scappare.» Alì e Mohamed rimasero in silenzio temendo ciò che Salim avrebbe potuto dire dopo. «Se lasciate una borsa abbandonata tra i pellegrini e proprio davanti alla cappella, per quanto ci siano centinaia di persone riunite per vedere quel pezzo di legno, qualcuno potrebbe accorgersene. Senza contare che, come misura di sicurezza, potrebbero non far entrare nel monastero con gli zaini... No, non possiamo correre il rischio, potremmo fallire.» «Possiamo tentare» balbettò Alì. Salim aveva visto disegnarsi una smorfia di angoscia sul viso di Mohamed e il nervosismo di Alì era evidente. «Sai perché le nostre operazioni hanno successo? Te lo dico io: perché noi non corriamo rischi; noi non facciamo tentativi, noi andiamo a colpo sicuro. Non importa quale sacrificio sia necessario. Mi pregio di saper scegliere gli uomini per le nostre missioni, guidato dal consiglio di uomini saggi come Hasan e Omar. Devo pensare che si siano sbagliati nell'indicarvi come veri mujaheddin?» I due giovani chinarono il capo mortificati. Se non avessero eseguito gli ordini di Salim sarebbero stati considerati dei vigliacchi, probabilmente traditori, e avrebbero perso la fiducia dei loro capi, cosa che poteva portarli alla morte. In qualsiasi caso il loro destino era già scritto. «Se non siete gli uomini che noi crediamo, è meglio se andate via ades-
so. Vi assicuro che il Circolo ha uomini valorosi che desiderano essere al vostro posto.» Salim rimase in silenzio mentre Omar guardava i due giovani con ira; sembrava sul punto di picchiarli. A prendere la parola fu Hakim, l'ormai veterano combattente del Circolo, l'uomo che si era temprato negli attentati in Marocco e che adesso era il capo del paese di Caños Blancos. «Lo faremo, non temere, sono settimane che stiamo preparando l'attentato. Sapremo portare a compimento tutto ciò che ci si aspetta da noi.» «No, Hakim. Tu mi servi altrove. Vi ho già detto che gli attentati saranno tutti nello stesso giorno e, possibilmente, alla stessa ora. Alì e Mohamed opereranno a Santo Toribio, altre persone che non avete bisogno di sapere chi siano attaccheranno la basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma. Tu invece, Hakim, dovrai eliminare le reliquie conservate nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme. È la parte più difficile dell'operazione, quella dove i rischi saranno maggiori. Lì non possiamo commettere errori. Voglio che tu vada il prima possibile a Gerusalemme; ho portato un dossier con tutta la documentazione necessaria. Laggiù ti aspettano i fratelli del Circolo che ti aiuteranno nel compito. Avremmo potuto chiedere ai fedayin palestinesi di aiutarci e fare questo lavoro in nostro nome, ma questo è un compito che spetta a noi, la missione deve portare il nostro timbro, soltanto il nostro. Avrai a disposizione armi, esplosivo e tutto l'aiuto di cui avrai bisogno, ma dovrai farlo tu. È la parte più rischiosa della missione. Gli ebrei non si fidano come gli spagnoli o gli italiani, loro hanno occhi dappertutto. Gli ebrei non possono permettersi che la comunità internazionale li accusi di non essere capaci di proteggere le reliquie cristiane. Questo riaccenderebbe la polemica sulla trasformazione di Gerusalemme in città internazionale, argomento che loro rifiutano con decisione. Distruggendo le reliquie custodite nella chiesa del Santo Sepolcro, faremo sì che qualcuno dei nostri amici giornalisti occidentali presenti l'esplosione come la seconda uccisione di Gesù per mano degli ebrei. Gli europei sopportano talmente poco che gli ebrei saranno felicissimi di poterli criticare una volta di più. E non perché siano davvero interessati alla cosa, visto che non credono in nulla, ma semplicemente per poter accusare i sionisti. Non serve che ti dica cosa mi aspetto da te, Hakim.» «Non devi chiedermi niente. Farò quello che devo fare.» La decisione di Hakim fece sì che Alì e Mohamed provassero una mortificazione ancora maggiore. Avevano conosciuto bene Hakim visto il molto tempo che passavano a Caños Blancos. Gli erano devoti per la sua integrità
e il suo coraggio, e lo consideravano un capo giusto, la cui autorità non era messa in discussione da nessuno nel paese. «Tuo fratello può sostituirti come capo di Caños Blancos.» «È un onore sapere che confidi ancora nella mia famiglia per la guida del paese.» Salim al-Bashir piantò il suo sguardo su Alì e Mohamed in attesa che i due giovani dicessero qualcosa. Fu Mohamed a parlare per primo. «Non resterà nulla di Santo Toribio» assicurò «puoi fidarti di noi.» «Lo faremo» aggiunse Alì cercando di imprimere fermezza alla sua voce. «Bene, vi procurerò l'esplosivo. Non voglio che Omar lo compri dai fornitori abituali; ve lo invierò tra qualche giorno. Omar, la tua agenzia ha già previsto di organizzare un viaggio per i pellegrini andalusi che vogliono celebrare il giubileo a Santo Toribio?» «Aspetto solo che tu mi indichi la data. Ho bisogno di tempo per la pubblicità e gli annunci nelle parrocchie che offriranno viaggi a Santo Toribio in occasione del giubileo. Ho un paio di pullman già pronti allo scopo.» «Alì e Mohamed viaggeranno su uno di questi pullman. Si faranno passare per normali pellegrini, come hanno fatto quando sono andati a sondare il terreno. È più sicuro che gli esplosivi viaggino insieme a loro in un pullman carico di pellegrini, che passerà inosservato. A proposito di esplosivi, la cosa migliore è utilizzare uno dei tuoi pullman della linea di Parigi.» «Sai bene che ne ho solo uno che fa il viaggio a Parigi una volta a settimana.» «Non ne servono altri.» «Potremmo approfittare del viaggio di un gruppo di pensionati che andrà a passare otto giorni a Parigi; l'autista sarà uno dei nostri e al ritorno potrà caricare la merce.» «Bene, ora metteremo a punto questi dettagli. La cosa importante è che Alì e Mohamed sappiano quello che devono fare, quello che ci aspettiamo da loro. Hakim, tu sai come devi sistemarti le cariche di esplosivo intorno al corpo; insegnalo anche a loro prima di andare via.» «Quando dovrò essere a Gerusalemme? Mi piacerebbe sistemare le mie cose prima della missione.» «Avrai tempo, ma non dovrai tardare più di dieci o al massimo quindici giorni.» «Sarà sufficiente.» Salim fece un gesto a Omar che questi interpretò come la richiesta di
mandare via i tre giovani; quindi si alzò in piedi, annunciò che la riunione era finita e che presto avrebbero ricevuto le istruzioni per intraprendere la missione. Hakim, Alì e Mohamed uscirono dalla stanza in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. «Credi che lo faranno?» chiese Salim a Omar una volta rimasi soli. «Sì, non ti preoccupare.» «Non ho il minimo dubbio su Hakim, ma Alì e Mohamed... non so, non vedo in loro una fede sufficiente.» «Non è facile decidere di morire. Sono giovani e pensavano di avere una lunga vita davanti. Chiamerò Francoforte e parlerò con Hasan; in fin dei conti Mohamed è suo genero, non sarà male ricordargli i suoi obblighi nei nostri confronti.» «Va bene, fallo, e adesso dimmi, quando partiranno quei vecchi per Parigi?» «Tra quattro giorni.» «Allora, amico mio, sarà tutto pronto perché al ritorno possano trasportare l'esplosivo. Devo riconoscere che la tua agenzia di viaggi è un'eccellente copertura. Possiamo trasportare quello che ci pare per mezzo mondo senza che la polizia sospetti di niente. Del resto, chi potrebbe sospettare di un pullman di anziani che va a passare una settimana a Parigi?» «Non ci hai detto chi si occuperà di Roma» chiese Omar con curiosità. Salim rise mentre si alzava in piedi. «Sarà una sorpresa perfino per te. Ma ti piacerà, vedrai come ti piacerà la sorpresa. E adesso, amico mio, vorrei riposare. C'è ancora molto lavoro da fare, domani devo essere a Roma.» Omar accompagnò Salim nella stanza che avevano preparato apposta per il suo riposo. Le finestre erano socchiuse e l'odore di zagare sembrava impregnare tutto. «Che fortuna avete voi che vivete a Granada!» gli disse Salini prima di chiudere la porta. Alle dodici del giorno successivo, Salim telefonò a uno dei suoi luogotenenti dall'aeroporto di Granada per chiedergli di mettersi in contatto con Karakoz. Doveva avere il materiale pronto nel giro di una settimana, neanche un giorno in più. Quindi attese impaziente che partisse il suo volo per Roma con scalo a Madrid. Lei lo stava già aspettando in albergo. Era stata molto contenta quando lui l'aveva chiamata per proporle di passare il fine
settimana a Roma. Guardò l'orologio e pensò che aveva ancora tempo per telefonare al conte; in fondo era pur sempre quello che pagava una parte dell'operazione. Il cellulare del conte non rispose per cui decise di chiamare al castello. Sapeva che non si trattava di un'imprudenza: i suoi rapporti con il conte erano pubblici, erano uniti dalla passione per la storia. Raymond era andato ad ascoltarlo a molte conferenze, e non avevano mai nascosto i loro incontri nei migliori ristoranti parigini. «Castello D'Amis.» Sorrise nell'ascoltare la voce acuta del maggiordomo. «Buonasera, Edward, sono il professor Al-Bashir. Il conte è al castello? Vorrei parlargli.» «Mi dispiace, professore, ma il conte è partito, tornerà tra qualche giorno.» Salim rimase in silenzio per qualche secondo. Raymond non gli aveva detto che sarebbe partito e questo lo inquietò. «Partito? Peccato. Avevo una certa urgenza di parlare con lui e al cellulare non risponde!» «Può darsi che il signore lo tenga spento per la differenza di fuso orario.» «Ah! E posso chiederle dove si trova?» Stavolta fu Edward a restare qualche secondo in silenzio, non sapendo se poteva dare o meno quell'informazione, ma decise di farlo visto che il professore era un amico molto stimato dal conte. «Si trova a New York, il signor conte ha avuto una disgrazia: è morta sua moglie.» «Mi dispiace molto. Sa dirmi quando tornerà?» «No, signore. Anche se ha detto che non sarebbe stato fuori molto. È possibile che, all'arrivo del conte, la contessa fosse già stata sepolta. È successo tutto molto in fretta.» «Certo, capisco. Va bene, insisterò sul cellulare, ma se dovesse sentirlo gli faccia sapere che ho urgenza di parlare con lui; e naturalmente gli esprima le mie condoglianze.» «Naturalmente, lo farò.» Salim chiuse la comunicazione, contrariato. Sperava che la morte della contessa, alla quale peraltro Raymond non aveva mai fatto riferimento, non ritardasse i piani che erano già avviati. Sicuramente il conte non era un sentimentale che aveva bisogno di sfogare il dolore interrompendo le proprie attività; in caso contrario l'operazione sarebbe stata compromessa e
questo non era disposto a tollerarlo. Pensò che quella tra lui e il conte D'Amis era una strana associazione. In realtà continuava a chiedersi come fosse riuscito a scovarlo, ma in ogni caso avevano un nemico comune: la croce. Raymond lo aveva cercato perché facesse ciò che lui non si sentiva capace di fare: castigare i cattolici. E lo avrebbero fatto, certo che lo avrebbero fatto, anche se per motivi diversi. Oltretutto, il conte pagava tutta l'operazione anche se pensava di accollarsene solo una parte. Aveva già sborsato quantità importanti di denaro per metterla in moto; Salim era molto divertito all'idea che il conte avrebbe finanziato un'operazione del Circolo. La voce metallica degli altoparlanti annunciò il suo volo. Salim si disse che avrebbe goduto di uno splendido fine settimana con quella donna che gli era così leale. 26 Il venerdì a mezzogiorno centinaia di impiegati del Centro di coordinamento antiterrorismo di Bruxelles lasciavano di fretta l'edificio, ansiosi di cominciare il fine settimana. Andrea Villasante entrò nell'ufficio di Hans Wein. «Ha bisogno di me in questo fine settimana?» gli chiese. «No, Andrea. Si riposi. Resto ancora un po' a lavorare, ma poi spero proprio di potermi rilassare anch'io.» «Se non le dispiace vorrei andar via un po' in anticipo.» «Vada pure, tra l'altro è quasi ora di uscire.» «Sì, però...» «Non deve darmi spiegazioni!» la interruppe Hans Wein. «Lei lavora senza fare mai caso all'orario, quindi non deve certo scusarsi se per una volta esce mezz'ora prima. Si goda il fine settimana, ci vediamo lunedì.» Appena uscita dall'ufficio di Wein, Andrea si diresse verso la scrivania dov'era seduta Laura White. «Questo sabato non posso venire a giocare a squash, mi dispiace. Dovrai cercarti un'altra compagna.» «Non ti preoccupare, Andrea. Proprio adesso stavo per dirti che neanch'io posso giocare e che dovremo rinviare alla prossima settimana.» «Ma guarda un po' come sono occupate queste due signore!» disse con ironia Diana Parker, la vice di Andrea. «Be', sempre meno occupate di te, che non hai mai tempo per venire a
giocare a squash con noi» rispose Laura. «Non sono occupata. Solo che non mi piace frequentare il vostro club; è come essere in ufficio. Preferisco stare a casa, magari se vi fa piacere posso invitarvi a cena. Mentre voi fate esercizio io mi dedico a cucinare; ognuno si rilassa come meglio crede.» Mireille le ascoltava senza dire una parola. Si domandava se anche lei sarebbe diventata una zitellona solitaria senz'altro orizzonte che il lavoro e magari, di tanto in tanto, una relazione sporadica con qualche funzionario come lei. Il solo pensiero la depresse. No, non voleva finire come Laura White o Andrea Villasante, né come Diana Parker, tutte e tre dedite anima e corpo al lavoro e senza tempo per avere una vita privata. O almeno questo era ciò che sembrava, visto che non avevano altro argomento di conversazione che non fosse il lavoro; perfino Diana, che era molto più gentile di Andrea e Laura, pareva ossessionata dalla sua professione. Incrociò le dita affinché nessuno le chiedesse di fermarsi a lavorare proprio quel fine settimana, anche se era difficile dal momento che non contavano quasi per nulla su di lei. Lorenzo Panetta stava per entrare nell'ufficio di Wein, quando vide Laura mettere gli occhiali in borsa e sgomberare il suo tavolo di lavoro. «Stai andando via?» «Non ancora, ma spero di riposare questo fine settimana.» «Fai bene, hai un'aria un po' stanca.» Panetta entrò nell'ufficio di Wein, che aveva appena riagganciato il telefono. «Mi hanno chiamato da Parigi» disse Wein. «E allora?» chiese Lorenzo con impazienza. «Avevi ragione, abbiamo fatto bene a tenere sotto controllo telefonico il castello D'Amis, anche se avevo ragione anch'io nel voler chiedere l'autorizzazione ai nostri superiori; in caso contrario avremmo potuto entrare in conflitto.» «Sì, immagino di sì. Ma dimmi cos'è successo.» «Non immagini di chi è amico il conte.» «No, però se il conte ha rapporti con lo Slavo può essere amico di chiunque.» «Tra un attimo mi passeranno il rapporto e la trascrizione della conversazione. Ti dice qualcosa il nome di Salim al-Bashir?» «No, non mi dice niente... Dovrebbe dirmi qualcosa?» «Neanche io sapevo chi fosse, ma me l'hanno appena spiegato. È uno
stimato professore di storia che vive in Inghilterra. Ha pubblicato diversi libri sulle Crociate, e a quanto pare gode di grande prestigio internazionale. È consultato perfino da esponenti politici per trattare le questione dei rapporti tra musulmani e occidentali.» «Ed è amico del conte?» «Sì, a quanto pare.» I due uomini si guardarono, in attesa di vedere chi sarebbe stato il primo a esprimere un pensiero politicamente scorretto. Panetta volle essere lui, dal momento che conosceva bene Hans Wein e il suo timore di essere frainteso. «Quindi abbiamo un conte francese che tratta con un trafficante di armi ed è allo stesso tempo amico di un professore il cui nome è al-Bashir. Interessante, no? Soprattutto perché sono due uomini "puliti", al di sopra di ogni sospetto.» «Hai qualche novità riguardo al conte?» volle sapere a sua volta Hans Wein. «Sì, un paio d'ore fa mi hanno inviato la sua biografia completa. Che razza di personaggio! Degno erede di suo padre. Ecco, qui ci sono le carte, è tutto molto strano. Presiede una fondazione che si chiama Memoria Catara, e suo padre era filonazista. A quanto pare cercava il Graal con l'aiuto di alcuni personaggi della Germania di Hitler e durante l'occupazione il suo castello fu visitato da alcuni gerarchi. Per la ricerca del Graal fece affidamento su professori tedeschi e gruppi di giovani nazisti. Perfino la Chiesa arrivò a preoccuparsi. Qui c'è tutto» disse indicandogli le carte «dovresti leggerlo, è interessante.» «Quelli di Parigi stanno facendo le cose per bene» affermò Hans Wein. «Anche gli americani. Matthew Lucas mi ha appena passato un rapporto su tutto quello che ha fatto il conte dal momento del suo arrivo a New York; tra l'altro, i loro laboratori hanno confermato che nella prima registrazione era il conte che parlava con lo Slavo di quella misteriosa sedia.» «Penso che ti chiederò di restare a lavorare con me in questo fine settimana» cominciò a dire Wein. «Sì, anch'io credo che dovremo fermarci.» «A chi chiediamo di fermarsi con noi?» «A nessuno.» «Ma, perché? Per favore, Lorenzo, non c'è nessuna fuga di notizie! I responsabili della Sicurezza hanno confermato che tutto il personale è pulito.»
«Lo so, e ne sono contento, però... Un paio di segretarie saranno sufficienti; credo che ce la potremo sbrigare senza chiedere alla gente di fermarsi.» «Non sono d'accordo... potresti chiederlo almeno a Laura. Andrea mi ha detto che oggi voleva andare via prima, ma potremmo dire a Diana di aiutarci.» «Per favore, Hans! Non è necessario che tutto il dipartimento stia di guardia. Credo che possiamo cavarcela da soli.» «Va bene, faremo come dici tu, ma è l'ultima volta che facciamo a meno del personale del dipartimento.» «Hans, sono sicuro che l'infiltrato faccia parte del nostro nucleo. Non voglio dire che lo sia volontariamente, ma il mio istinto...» «Il tuo istinto! Lorenzo, noi lavoriamo sui fatti, non sulle sensazioni. Va bene, dài, lasciami le carte e chiedi a Matthew se può venire dopo pranzo.» Laura White bussò alla porta prima di entrare. L'accompagnava Andrea Villasante. «Che succede?» chiese direttamente la spagnola. «Vi vedo andare da una parte all'altra. C'è qualche novità?» «No!» dissero i due uomini all'unisono. «Non c'è nessuna novità» si affrettò a ribadire Panetta. «Andrea, si goda il suo fine settimana» aggiunse Hans Wein. «D'accordo, ero venuta a dirle che sto andando via. Ci vediamo lunedì.» La videro uscire e si chiesero con curiosità dove mai avrebbe passato il fine settimana. Andrea era una donna estremamente discreta, della quale non si conoscevano relazioni a Bruxelles, era sempre dedita al lavoro. Lorenzo pensò che in realtà quella donna sobria ed efficace era un enigma. Laura White osservava Hans Wein e Lorenzo Panetta, cercando di scrutare nel pensiero dei due uomini. «Non siete obbligati a dirmelo, ma mi sembra di intuire che sta succedendo qualcosa.» «Andiamo, Laura, non essere sospettosa!» disse Lorenzo. «Stiamo controllando dei documenti, ordinaria amministrazione.» «Quindi non avete bisogno neanche di me...» «Hai un piano stupendo per questo fine settimana?» le chiese Lorenzo con un sorriso. «Veramente sì, in questo fine settimana ho tutta l'intenzione di essere felice.» «E allora vai tranquilla. Non ti preoccupare.»
Laura aspettava che fosse Hans Wein a dare per conclusa la sua giornata lavorativa. «Vada pure e si riposi» le raccomandò il suo superiore. Laura non era ancora uscita dall'ufficio quando Diana Parker, l'aiutante di Andrea Villasante, si affacciò alla porta. «Vado via un po' prima. Vi crea problemi?» «No, assolutamente» rispose Hans Wein. «In realtà mancano solo dieci minuti all'inizio del fine settimana.» «Non avete bisogno di me, vero?» «No, non si preoccupi, non c'è alcun motivo per restare a lavorare più del dovuto» affermò Wein. «Se ne va anche Mireille... la ragazza non ha il coraggio di entrare, ma mi sono offerta di parlare anche a nome suo. Non credo che vorrete farla rimanere...» disse Diana con un sorriso ironico. «Naturalmente, anche la signorina Béziers può andare» rispose Wein. «D'accordo, allora noi andiamo. Buon fine settimana.» Quando uscì Diana Parker, Laura li osservò di nuovo con diffidenza, intuendo che i due uomini avevano qualcosa per le mani. «Avete il mio numero di cellulare... ma vi avverto: risponderò al telefono solo nel caso di una terza guerra mondiale.» Hans Wein rimase in silenzio, pensieroso, quando Laura uscì dall'ufficio. Anche Lorenzo pareva assente. «È strano, a quanto pare tutte le donne del dipartimento hanno programmi appassionanti per il fine settimana. Nel caso di Diana non mi sorprende, in quello di Laura neanche, ma Andrea...» mormorò Lorenzo più per se stesso che per avere una risposta da Hans Wein. «Be', non è affar nostro quello che fanno e non è neanche tanto strano che la signora Villasante abbia qualcosa da fare nel fine settimana. Magari se ne va a Madrid a trovare la sua famiglia.» «È possibile però... va bene, vado nel mio ufficio.» «Ah! Aspetta, non te ne andare, mi sta arrivando sul computer la trascrizione della conversazione di questo Salim al-Bashir con il maggiordomo del castello...» I due uomini studiarono per un bel po' i dossier sugli ultimi accadimenti ed entrambi osservarono un silenzio cauto riguardo alle loro più intime convinzioni. Avevano tirato il filo di Karakoz e stavano trovando personaggi insospettabili. Hans Wein giunse alla conclusione che Lorenzo dovesse mettersi in con-
tatto immediatamente con il Vaticano. In passato, la Chiesa si era occupata delle attività esoteriche di un conte D'Amis; forse avevano informazioni che avrebbero potuto aiutarli o, in ogni caso, completare quanto già sapevano di quella famiglia aristocratica. Lorenzo Panetta andò nel suo ufficio per chiamare da lì il dipartimento di Analisi del Vaticano, anche se erano passate le tre e non credeva che avrebbe trovato qualcuno a quell'ora. Fu una piacevole sorpresa quando gli rispose padre Ovidio. Gli spiegò brevemente le ultime informazioni ottenute, promettendogli di mandargli subito un'e-mail più precisa. Padre Ovidio gli assicurò che avrebbe parlato al più presto con il vescovo Pelizzoli e che si sarebbero messi in contatto con lui se avessero trovato nei loro archivi qualcosa di relativo al conte D'Amis. «Qualcosa avete di sicuro, perché secondo gli inquirenti francesi, nei loro archivi risulta che il Vaticano sollecitò informazioni e una collaborazione discreta.» «Appena avrò parlato con il vescovo la chiamerò, ma mi dica una cosa: cosa c'entra tutto questo con l'attentato di Francoforte?» «Non lo so; in realtà è possibile che non abbia niente a che vedere, ma è l'unica pista al momento. Abbiamo tirato il filo di Karakoz e questo è ciò che abbiamo trovato.» «Un conte che presiede una fondazione sui catari...» mormorò Ovidio. «Be', in realtà i catari sono diventati una specie di attrazione turistica per la regione, non è poi così strano.» «La chiamerò appena sarò riuscito a parlare con il vescovo.» Ovidio rimase pensieroso senza sapere bene cosa fare. Doveva chiamare monsignor Pelizzoli, ma a quell'ora il vescovo stava pranzando all'ambasciata di Spagna e non sapeva se disturbarlo subito o aspettare che tornasse. Mentre prendeva la decisione, chiamò il cellulare di Domenico, che era uscito da una mezz'ora per andare a pranzo. «Sei molto lontano?» chiese al domenicano. «Non sono ancora uscito dal Vaticano, perché?» «Ho novità dai nostri amici di Bruxelles, e sono decisamente strane.» «Sono lì in meno di cinque minuti.» Monsignor Pelizzoli leggeva con attenzione il rapporto che Ovidio gli aveva sistemato nella cartella portadocumenti. Era appena rientrato dal
pranzo con l'ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede e aveva trovato Ovidio e Domenico preoccupati e tesi per il rapporto inviato dal Centro di coordinamento antiterrorismo. Quando finì di leggere sospirò e alzò il telefono. «Mi passi padre Aguirre» chiese al suo segretario. Dieci minuti dopo sentì all'altro capo del telefono la voce energica di Ignacio Aguirre. Non perse tempo con le formalità. «Ignacio, devi venire immediatamente. Indagando sull'attentato di Francoforte, il Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea si è imbattuto in Raymond de la Pallisière, il conte D'Amis.» Ci fu un silenzio dall'altra parte della linea. Monsignor Pelizzoli sapeva che la notizia aveva attirato l'attenzione del suo vecchio maestro. Di colpo, Ignacio Aguirre si ritrovava davanti un passato che sapeva non sarebbe mai stato del tutto sepolto. «Non è che il conte abbia qualcosa a che vedere con l'attentato, è che stavamo seguendo le piste di un trafficante di armi che aveva il telefono sotto controllo e... insomma, è complicato da spiegare per telefono. Posso chiederti di venire quanto prima? Sì, Ovidio sta ancora lavorando a questo caso... Grazie, il mio segretario si incaricherà di farti trovare un biglietto elettronico in aeroporto. Ti manderò un'auto a Fiumicino. Ceneremo insieme stasera, anche se temo che ci toccherà mangiare in ufficio.» Dopo aver dato istruzioni al suo segretario, gli chiese di chiamare padre Ovidio e padre Domenico. I due sacerdoti entrarono in ufficio con aria preoccupato. Il vescovo non usò giri di parole. «Padre Ignacio Aguirre arriva a Roma questa sera e assumerà la guida del caso; voi due lavorerete ai suoi ordini.» Lo stupore si disegnò sul volto dei sacerdoti. Fu Ovidio a trovare il coraggio di chiedere perché. «Perché padre Aguirre conosce il conte D'Amis da moltissimi anni. La Chiesa era molto preoccupata a suo tempo per le attività del padre dell'attuale conte. Cercava il Graal e il tesoro dei catari. Insomma, era un'epoca difficile, dopo la seconda guerra mondiale. Pare che lo stesso Himmler fosse coinvolto in quella vicenda. Sulle questioni relative ai catari non esiste un esperto come padre Aguirre, ma soprattutto nessuno sa quello che sa lui di quella famiglia, l'ha conosciuta personalmente. «Ora chiamo immediatamente Lorenzo Panetta a Bruxelles. Credo che potremo aiutarli, anche se non so bene come.»
Quando Lorenzo Panetta entrò nell'ufficio di Hans Wein, questi si rese conto che stava succedendo qualcosa di importante. «Hans, non ci crederai, ma in Vaticano hanno informazioni sul conte D'Amis, e anche parecchie. C'è un vecchio gesuita che addirittura lo conosce e che è stato in diverse occasioni nel suo castello. Il vescovo Pelizzoli mi ha detto che il conte è un fanatico, e che appena arriva questo gesuita, padre Aguirre, ci chiameranno. Hanno addirittura proposto di mandare questo sacerdote a Bruxelles, se dovessimo considerarlo conveniente.» «Quando potrai parlare con questo gesuita?» «A quanto pare vive in Spagna, a Bilbao, ma si è già messo in viaggio per Roma. Credo che stasera potremo parlare con lui.» «Se le cose che ti racconta sono importanti, fallo venire qui.» «Sì, certo. Diamine come si sta complicando questa storia!» «Tranquillo, Lorenzo, forse non abbiamo in mano niente. I rapporti descrivono quel tale Salim al-Bashir come la quintessenza del buon cittadino; ha pure la nazionalità britannica.» «Ho letto un bel po' di dichiarazioni di questo professore e i testi delle sue conferenze e sai cos'è che mi ha colpito? Che non ha mai condannato un attentato. Si dice dispiaciuto per la mancanza di ponti che favoriscano la comprensione tra musulmani e occidentali e per la mancanza di sensibilità dell'Occidente nei confronti dei musulmani; chiede che vengano tesi questi ponti per evitare altre disgrazie, e tante altre frasi magniloquenti, ma mai una parola di dispiacere per gli attentati del Circolo. Sempre e soltanto parole che spiegano perché succedono eventi di questi genere. Non mi piace questo Salim al-Bashir. Non so perché, ma non mi piace» «Sarà meglio che tu non lo dica a voce alta, perché è considerato un uomo chiave nei rapporti tra europei e musulmani, e viene ritenuto un moderato.» «Ho chiesto a Roma di seguirlo con molta discrezione mentre si trova da loro; in seguito lo chiederemo a Londra...» «Sospendi immediatamente quella richiesta! Non possiamo farlo, non ha fatto niente, non è sospettato di nulla. Una cosa è il conte D'Amis, che tratta con lo Slavo, e altra cosa è un professore specializzato in storia delle Crociate che chiama un conte che presiede una fondazione sui catari.» «Ma...» «Lorenzo, non possiamo fare indagini su tutti i cittadini che hanno rapporti con il conte! O quantomeno non possiamo farlo se non siamo sicuri che ci sia qualcosa in più.»
«Qui c'è qualcosa in più di quel che sembra.» «Può essere, non dico che non sia così, ma non voglio che ci accusino di avere pregiudizi. Prima devo parlare con i colleghi britannici, voglio che siano loro a decidere.» «E cosa aspetti a farlo?» chiese Lorenzo contenendo a stento la sua irritazione. «Aspetto che qualcuno riesca a trovarli. È venerdì pomeriggio e sono fuori per il fine settimana.» «Stupendo! I cattivi sono in giro ma purtroppo nel fine settimana noi smettiamo di preoccuparci di loro.» Uscì dall'ufficio, infuriato, e quasi si scontrò con Matthew Lucas che arrivava in quel momento. «Ho notizie del conte e di sua figlia. La ragazza ha proprio un bel caratterino! Ho le foto di entrambi, separatamente, è ovvio, perché lei ha rifiutato di vederlo; ho anche una copia delle trascrizioni delle loro conversazioni negli Stati Uniti.» Tornarono nell'ufficio di Wein. Lorenzo non poteva evitare di sentire una certa rabbia per l'eccesso di scrupolo del suo capo. Lui non aveva mai violato la legge per perseguire i delinquenti, però aveva rischiato al momento di prendere qualche decisione, esattamente quello che Hans rifiutava di fare. Per agire aveva bisogno dei permessi scritti e con tanto di timbro; in caso contrario, preferiva restare con le mani in mano, il che a volte significava perdere del tempo prezioso. Matthew fece un riassunto del rapporto che contemporaneamente consegnò a entrambi. «Il conte D'Amis non è riuscito a vedere sua figlia. Lei è una donna sui trent'anni vissuta all'ombra della madre, una gallerista molto nota a New York.» «Questo già lo sappiamo, dicci cos'ha fatto a New York» lo interruppe Panetta con impazienza. «È rimasto la maggior parte del tempo in albergo dove ha incontrato in tre occasioni il suo avvocato, il quale è socio di uno degli studi più prestigiosi e più cari della città. Malgrado tutto, però, non è riuscito a convincerla ad accettare di vedere suo padre. Questa Catherine si è mostrata inflessibile. Nel rapporto troverete la trascrizione di una conversazione tra la ragazza e l'avvocato, nella quale lei dice che suo padre è "un porco nazista" e che il solo pensare a lui gli fa venire la nausea.» «Con chi altro ha parlato il conte?» chiese Hans Wein.
«Con nessuno, solo con il suo avvocato; ha chiamato un paio di volte al castello, ma questo già lo sapete perché dovreste avere le trascrizioni.» «Sì, conversazioni normali, ordinaria amministrazione, per sapere chi lo aveva cercato, niente di più» rispose Wein. «In questi istanti il conte sta preparando i bagagli, ha prenotato un volo a metà mattina per Parigi. Ritorna sconfitto. Nel rapporto c'è il numero del volo.» «Bene, avviseremo Parigi affinché lo seguano una volta arrivato in aeroporto, vedremo se finalmente s'incontra con lo Slavo...» assicurò Hans Wein con un certo entusiasmo. «Immagino che abbiate già chiesto al centro di Roma di seguire questo Salim al-Bashir» volle sapere Matthew. «Ho appena revocato la richiesta» rispose Panetta senza nascondere il proprio risentimento. «Il nostro capo non autorizza nessun pedinamento.» «E perché?» chiese Matthew. «Perché Salim al-Bashir è un cittadino inappuntabile che non possiamo mettere sotto vigilanza per il semplice fatto di aver telefonato al conte D'Amis. Vi ricordo che negli ultimi giorni il conte ha ricevuto telefonate da un bel po' di persone: un notaio di Carcassonne, il direttore di un giornale locale, il suo banchiere di Parigi, un illustre imprenditore occitano... insomma, gente normale. Non possiamo diventare paranoici trasformando in potenziali sospetti tutti coloro che si trovano a trattare con il conte. Salim al-Bashir è uno storico specialista delle Crociate e il conte presiede una fondazione che si chiama Memoria Catara. Sappiamo peraltro che assiste a convegni e relazioni sulle Crociate, soprattutto quella che riguarda i catari; immaginate se dovessimo metterci a indagare su tutti i professori ed esperti che abbiano avuto o abbiano ancora contatti con il conte per questi motivi...» «Io ritengo che indagare su questo Bashir non sarebbe male...» protestò Matthew. «Mi dispiace Matthew, credo che lei abbia qualche pregiudizio. Se fosse un americano, mi chiederebbe lo stesso di farlo?» lo provocò Hans Wein. Matthew Lucas si sentì offeso dalle parole del direttore del Centro di coordinamento antiterrorismo. «Mi auguro che lei non si stia sbagliando, Wein; se succede qualcosa la responsabilità sarà sua. E comunque, se lei ritiene che il mio lavoro sia offuscato dai pregiudizi può sempre chiedere di sostituirmi immediatamente nel mio ruolo di contatto con questo centro.»
«Andiamo, non esagerare!» tagliò corto Lorenzo Panetta. «Devi sapere che non sei solo in questo tipo di valutazioni! Anch'io ritengo che si debba seguire Salim al-Bashir, e che sia un errore non farlo.» Hans Wein guardò entrambi. Lo preoccupava l'atteggiamento di Panetta e Lucas, anche se era sicuro di agire correttamente, nel rispetto delle norme. «Non volevo offenderla, Matthew... comunque, la cosa migliore è localizzare una volta per tutte i contatti del MI6 e che siano i britannici a decidere. In fin dei conti, Salim al-Bashir è suddito di Sua Maestà. Ma prima parlerò con i nostri superiori. Non voglio sorprese né lamentele se qualcosa dovesse andar male. al-Bashir, a quanto pare, è un personaggio molto influente e verrebbe fuori uno scandalo se si sapesse che lo abbiamo sorvegliato. Ma fino a quando non avremo tutti i permessi non faremo niente, e con i contatti dell'MI6 voglio parlarci io, per cui restate in attesa dei miei ordini.» Matthew Lucas e Lorenzo Panetta uscirono di pessimo umore dall'ufficio del direttore del centro. I due uomini sentivano che si stava perdendo del tempo prezioso e che Salim al-Bashir poteva essere una pista in grado di condurli dove nessuno dei due osava immaginare. «Sai cosa penso che bisognerebbe fare?» chiese Matthew. «Attenzione a farsi venire idee politicamente scorrette!» rispose l'italiano. «Dovremmo infiltrare qualcuno nel castello. Non so, magari potremmo corrompere il maggiordomo o qualcuno dei domestici.» «Per quello che so, i nostri colleghi di Parigi stanno tentando di ottenere informazioni di prima mano, ma il conte deve pagare molto bene i suoi; nessuno vuole parlare e, curiosamente, anche gli abitanti della zona si mostrano assai poco collaborativi. Per loro il conte è una specie di dio. I D'Amis hanno sempre protetto gli abitanti del posto e questi non vedono per quale motivo dovrebbero rompere il patto di lealtà con loro.» «Fa lo stesso, dovremmo provarci» insistette Matthew. «Va bene, lasciami pensare come si potrebbe fare.» «Davvero hai chiesto a Roma di non seguire più questo Al-Bashir?» «Sì, davvero.» «È un peccato...» «Certo che è un peccato...» 27
Salim al-Bashir si trovava tra le braccia della sua amante. La donna era arrivata a Roma qualche ora prima di lui e si era sistemata nell'hotel che lui le aveva indicato, il Bernini Bristol, un edificio in centro che senza dubbio aveva conosciuto tempi migliori. Come in altre occasioni, avevano prenotato camere separate. Salim si mostrava molto rigido nelle misure di sicurezza; non entravano né uscivano mai insieme dagli hotel dove s'incontravano, pranzavano e cenavano sempre in ristoranti piccoli e sconosciuti nei quali difficilmente qualcuno avrebbe potuto riconoscerli. «Spero che mi dirai perché tutta questa fretta di farmi venire a Roma...» lo interrogò lei accarezzandogli la fronte. «Avevo voglia di vederti.» La donna sorrise soddisfatta per la risposta. Amava Salim più di chiunque al mondo, la sua vita aveva acquistato un senso da quando stavano insieme; prima di conoscerlo era diventata una zitellona solitaria che si sentiva sempre più fuori luogo a lavorare al centro, dove tutti gli sforzi erano rivolti a combattere il terrorismo islamico. Anche se tentavano di nasconderlo, quelli del centro diffidavano dei musulmani. Per loro erano tutti terroristi potenziali. Poco importava quel che accadeva in Palestina, la miseria in Pakistan o il modo in cui gli occidentali umiliavano i paesi islamici facendo vedere di essere superiori. Sì, meritavano proprio di essere puniti. Salim aveva ragione. Lui le propose di andare a fare una passeggiata e mangiare un boccone e lei accettò volentieri, le bastava stare insieme a lui. Prima uscì dall'hotel e camminò verso Piazza di Spagna come Salim le aveva indicato; dieci minuti più tardi arrivò lui e insieme si diressero all'Antica Enoteca in via della Croce. Ordinarono due bicchieri di vino bianco e un piatto di prosciutto e formaggio; era troppo tardi per uno spuntino e troppo presto per cenare. «Come vanno le cose al centro?» le chiese Salim accarezzandole la mano. «Come sempre, non ci sono molte novità. Sono ancora ossessionati da Karakoz, credono che tirando quel filo arriveranno al Circolo.» «E hanno scoperto qualcosa di nuovo?» «No, in realtà no. Ti ho già detto che hanno messo i suoi telefoni sotto controllo e che hanno trovato anche i numeri di alcuni dei suoi uomini, ma senza risultato.»
«E dell'attentato di Francoforte, cosa dicono?» «Sono ossessionati dalla necessità di trovare un senso ad alcune delle parole rinvenute su quei fogli, ma finora gli sforzi sono stati vani. Ti ho già raccontato a Parigi che hanno chiesto aiuto al Vaticano, ma anche i preti sono sconcertati.» «Non sono rimasti sorpresi nel sapere che andavi fuori per il fine settimana?» «Credo che lo faranno tutti. Lo sai che i funzionari fuggono da Bruxelles appena arriva il weekend.» «Meglio così. Non voglio crearti problemi.» «Non m'importerebbe» rispose lei guardandolo con passione. «A me invece sì; ho bisogno di te.» «È la prima volta che mi dici una cosa del genere...» «Ancora non sai che ti amo?» le sorrise lui. «Immagino di sì...» «Andiamo a fare una passeggiata, è una serata stupenda e voglio portarti in un posto molto speciale.» Camminarono per un bel tratto, senza che lui le dicesse dov'erano diretti. Le stringeva la mano e la baciava ogni volta che lei glielo chiedeva. All'improvviso lui si fermò davanti alla porta di una chiesa. «Vieni, entriamo» la invitò tirandola a sé. «In una chiesa? Sei pazzo! Cosa dobbiamo fare qui dentro?» «Sai come si chiama questa basilica?» continuò a parlare Salim senza prestare attenzione allo stupore che si disegnava sul volto di lei. «È una basilica?» «Sì, la basilica della Santa Croce di Gerusalemme. La fece costruire l'imperatore Costantino perché sua madre santa Elena vi custodisse le reliquie che aveva portato da Gerusalemme.» «Veramente non sembra così antica...» «Infatti, è stata rimodernata nel corso del tempo; nel Medioevo e poi nel XVIII secolo. Tra le colonne antiche, vedrai anche che ci sono intercalati alcuni pilastri barocchi.» «Come mai sei così informato su questa basilica?» chiese lei sorpresa. Sorridendo, Salim le prese la mano e la tirò all'interno della chiesa. La donna gli sussurrò che, effettivamente, era impressionante, mentre lui si comportava come se quel posto gli appartenesse. «Dove sono le reliquie?» volle sapere lei. «Ora andremo a vederle; sono in una cappella costruita nel 1930. Si
scende per quella scala, alla sinistra del coro.» Scesero le scale in silenzio mentre Salim le indicava i tesori che vi erano conservati. «Sono tre frammenti della croce di Gesù, quelle lì sono due spine della sua corona, e quello è un pezzo della spugna; e lì c'è l'asse trasversale della croce...» Lei rise sottovoce stringendogli la mano per tirarlo fuori da quello stato di astrazione. «Sei incredibile! Non crederai mica che tutte queste cose siano autentiche? Come possono essere le spine della corona?» «Taci e guarda. Lì si trova uno dei denari che Giuda ricevette per tradire Gesù, e quello è il dito di san Tommaso che toccò la piaga del profeta Isa. Addirittura, sotto il pavimento hanno messo della terra del Golgota.» «Assurdo! Questa è una favola per bambini stupidi. Nessuna persona sana di mente può credere che qualcuna di queste cose sia autentica. Non dovrò mica raccontarti io cosa è stato il commercio delle reliquie attraverso i secoli? E noi siamo venuti a piedi fin qui per vedere questo? Non ti capisco! Non penserai che m'interessino le reliquie, lo sai che sono atea.» «Non parlare così!» gli intimò Salim poggiandole un dito sulle labbra. «Be', non è che sia atea» si scusò lei «ma ormai da anni ho abbandonato la religione.» Salirono di nuovo nella basilica. Lei non ebbe il coraggio di rompere il silenzio che Salim aveva stabilito tra di loro. Quando uscirono dalla chiesa iniziava a calare la sera. La donna cominciò a preoccuparsi: il viso di Salim era visibilmente contratto, lui rispondeva solo a monosillabi alle sue richieste e le aveva lasciato la mano. Camminarono diretti verso il centro della città mentre lei cominciava ad avvertire una sensazione di panico. Non sapeva cosa stesse succedendo, quale fosse la causa del malumore di Salim, ma doveva ammettere che la visita a quella basilica li aveva separati, anche se non capiva bene perché. Quando arrivarono nei pressi dell'hotel, Salim le chiese di entrare per prima. «Vengo subito in camera tua» disse lei. «No, se non ti dispiace mi piacerebbe restare da solo. Ci vediamo domani.» «Perché?» gridò lei. «Che succede? Cos'ho fatto di male? Dimmelo.» «Andiamo, calmati, e soprattutto non gridare, non attirare l'attenzione.
Ho bisogno di stare da solo. Tutto qui.» «E per questo mi hai fatto venire a Roma? Dimmi cos'hai, ti prego!» «Devi avere rispetto, non puoi impormi la tua presenza. Voglio stare da solo, ti ho già detto che domani ne parleremo.» Lei lo prese per il braccio ma lui si liberò con un movimento brusco e si diresse verso l'hotel, lasciandola in mezzo alla strada con gli occhi pieni di lacrime. Salim salì in camera sicuro che lei non gli avrebbe obbedito e che al più presto si sarebbe presentata pregandolo di lasciarla entrare. La conosceva come le sue tasche e sapeva che dipendeva da lui, che avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto; ma chiederle di suicidarsi era una cosa che andava fatta con un certo tatto e aveva bisogno di essere preparata. Due ore dopo sentì dei timidi colpi alla porta; andò ad aprire già sapendo che era lei. Aveva gli occhi arrossati e il suo viso rifletteva un'angoscia infinita. Sembrava smarrita, fragile, disarmata. Lui non disse niente, si limitò a lasciare la porta aperta, guardandola con indifferenza. «Fammi entrare, per favore» lo supplicò. «Perché non accetti il fatto che ora non voglia stare con te?» mormorò lui. Lei cominciò a piangere coprendosi il volto con le mani. «Vuoi che ci vedano tutti? È questo che vuoi?» le chiese lui arrabbiato. «Per favore, fammi entrare, ho bisogno di capire...» Salim tornò indietro lasciandola sulla soglia, ma senza chiudere la porta. Come un cane bastonato, la donna entrò, chiuse delicatamente la porta e lo seguì all'interno della camera. «Per ciò che hai di più caro, dimmi cosa ho fatto per disturbarti tanto!» Salim si sedette sul bordo del letto e la guardò con freddezza, facendole gelare ancora di più l'anima. «Ti prego, Salim...» la donna si era messa in ginocchio davanti a lui e cercava di abbracciargli le ginocchia, ma lui la respinse. Lei scoppiò a piangere in modo convulso e lui non si mosse; restò a osservarne la disperazione, sapendo che ormai era vinta, e ogni secondo che passava diventava più piccola e priva di volontà. Continuò a umiliarla e a mostrarle disprezzo per due ore, ma neppure allora ebbe pietà di lei. «Vuoi sapere cosa succede? Bene, te lo dirò.»
La donna gli rivolse uno sguardo di gratitudine. Lo amava senza limiti, sapeva che non avrebbe potuto vivere senza di lui. «Tu non credi a nulla, sei come tutte le altre donne che vanno a letto con il primo che capita perché inseguono solo il piacere.» «No, no! Lo sai che ti amo» gemette lei. «No, tu no mi ami. Sei un'infedele, non credi a niente, non rispetti niente. Oggi mi sono reso conto che non c'è posto per te nella mia vita. Se non rispetti le credenze del tuo popolo, come potresti rispettare le mie e rispettare me? L'Islam è la cosa più importante, la più sacra della mia vita. Bene, è arrivato il momento di mettere fine a questa relazione.» «No!» Il grido della donna fu lancinante. Tentò di nuovo di abbracciarlo, ma lui si scansò lasciandola stesa per terra, annullata come un animale ferito. «Farò tutto quello che mi chiederai ma, per favore, non mi lasciare! Farò quello che vuoi! Crederò in quello che credi tu! Chiedimi quello che vuoi, ma non mi lasciare!» Lui, dentro di sé, sorrise. La disprezzava, disprezzava quella donna buttata ai suoi piedi, che lo supplicava di fare di lei ciò che voleva. Era una puttana, una prostituta qualsiasi, come tutte le occidentali che aveva conosciuto, poco importava che fossero sposate oppure no. «Voglio una donna da rispettare, voglio che con il suo comportamento generi rispetto. Voglio una buona musulmana al mio fianco, una sposa leale e fedele, che mi obbedisca, che sia disposta ai più grandi sacrifici per me. Voglio una donna che tu non sei e non potrai mai essere.» «Sarò come vuoi tu! Giuro che ti obbedirò, farò tutto quello che mi chiederai, tutto! Non posso perderti, non posso...» gemette. «Tra pochi giorni mi avrai dimenticato e sarai già nel letto di un altro.» «No, no! Io amo te! Sei l'unico uomo che ho amato! Per favore! Per favore...» Salim la lasciò piangere e supplicare ancora per un bel po', fino a quando la voce della donna non cominciò a spegnersi e i suoi occhi divennero due fessure rosse nel volto gonfio. «Alzati in piedi.» Lei però non rispose e non si mosse da terra, dove era rimasta seduta, cingendosi le ginocchia con le braccia come se volesse proteggersi dalla imminente sventura. «Obbedisci!» le ordinò con voce aspra. La donna tentò di rimettersi in piedi ma ormai era quasi priva di forze.
Era esausta e si sentiva più morta che viva. «Non ti credo, però...» la guardò con la coda dell'occhio per capire l'effetto di queste ultime parole e vide un lampo animarle gli occhi. «Se vuoi stare con me devi cambiare, devi essere disposta a sacrificare tutto. Tutto vuol dire proprio tutto.» «Lo farò» balbettò lei. «Sei sicura che sarai capace di cambiare?» «Farei qualsiasi cosa pur di stare con te.» «Voglio che diventi una credente, che tu sia una buona musulmana.» La donna non si sorprese quando sentì la sua richiesta, e l'accettò subito con sottomissione, proprio come lui sapeva che avrebbe fatto. «Sarò una buona musulmana, mi convertirò. Io amo soltanto te.» «Se sei disposta... allora, può essere che...» «Per favore, Salim, non mi lasciare, sai bene che farò tutto quello che vuoi!» «Voglio al mio fianco una buona musulmana, una donna coraggiosa che condivida la mia fede e la mia lotta. Voglio una donna che creda come me che l'Occidente debba arrendersi all'Islam costi quel che costi. Voglio una donna che mi aiuti a raggiungere questo obiettivo.» «Ti aiuterò; crederò in quello che tu credi.» Salim sentì di nuovo un'ondata di disprezzo nei suoi confronti. Com'era possibile privarla così facilmente della sua volontà? Quella donna era un burattino che cominciava a fargli addirittura schifo. «Se dici la verità staremo insieme, in caso contrario...» «Dico la verità e tu lo sai» affermò lei con voce appena percettibile. L'aiutò a rimettersi in piedi e l'accompagnò in bagno. «Lavati la faccia. Chiamerò il servizio in camera per farti portare un'infusione di tiglio: ti farà bene.» Quando uscì dal bagno la cameriera aveva già portato l'infusione, che bevve sotto lo sguardo attento di Salim. La donna si sentiva uno straccio, si vergognava di aver dimostrato in modo disperato la sua dipendenza da lui. Leggeva negli occhi di Salim quanto la disprezzava e si rese conto di non aver ancora capito perché la sua vita avesse preso quella piega inaspettata. Salim era stato sempre gentile e attento, l'aveva coccolata facendola sentire una principessa medievale... e all'improvviso... all'improvviso sembrava un'altra persona, un uomo che le faceva paura. Eppure, malgrado tutto,
pensò che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di restare con lui, anche se avesse dovuto mettersi lo hijab, rinunciare alla sua vita professionale, rinchiudersi per tutto il resto della vita e dedicarsi a lui. Qualsiasi cosa tranne perderlo. «Hai fame?» gli chiese Salim. «No, non ho fame.» «Io invece sì. Vado a mangiare qualcosa; vai nella tua stanza, ti chiamerò quando torno.» Stava per ribattere qualcosa, ma gli occhi di Salim brillavano minacciosi, per cui chinò la testa e finì di bere la tisana. Una volta nella sua stanza si lasciò cadere sul letto, disposta ad aspettare che lui la chiamasse. Sul letto c'era ancora la sua camicia nuova, piuttosto provocante; pensò con quanta aspettativa aveva comprato quella camicia di seta costosissima, quanto aveva sperato che Salim la trovasse attraente. Ora quella camicia era diventata un oggetto inutile, non avrebbe più potuto indossarla davanti a lui; in realtà doveva ancora capire bene cosa voleva da lei. Aspettò impaziente con lo sguardo fisso sull'orologio mentre i secondi diventavano eterni. Salim la chiamò solo tre ore più tardi, quando lei ormai non ci sperava più. Le ordinò di salire in camera sua; lei si alzò dal letto, andò in bagno e rimase terrorizzata dall'immagine che lo specchio le rimandava. Aveva il volto gonfio e arrossato. In un solo pomeriggio sembrava diventata vecchia. No, lo specchio non mostrava una donna attraente e allegra, come credeva di essere stata, ma una donna sconfitta. Con gesti rapidi si mise sul viso un leggero strato di trucco e passò lentamente le ciglia con un po' di mascara. Non osò mettere il rossetto come faceva sempre perché non sapeva come avrebbe reagito Salim, il nuovo Salim. Poi indossò una camicia pulita e si preparò a incontrare l'uomo che amava più della propria vita. Salim aprì la porta e la invitò a entrare, con una smorfia che sembrava un sorriso, e alla quale lei rispose con gratitudine. «Hai riflettuto?» le chiese Salim. La donna non seppe cosa rispondere. Temeva che qualsiasi cosa dicesse lo avrebbe fatto arrabbiare, e pertanto riuscì appena a sussurrare un "sì". «Ne sono felice. Spero tu capisca che la donna che sta con me non può essere una volgare meretrice. Quello che mi aspetto da te è che sappia comportarti con decoro, come se fossi una buona musulmana.»
«Lo farò; farò quello che mi chiederai. Non ti deluderò.» «Lo spero... in caso contrario...» Lei tremò vedendo affiorare l'ira sul suo volto. «Sai che farò qualsiasi cosa vorrai» gli ripeté. «In questo caso, è arrivato il momento di fare tua la mia lotta, di comprendere perché faccio le cose che sto facendo, di condividere le mie sofferenze e i miei sogni, di sacrificarti come lo faccio io. Sei disposta?» «Sì.» «Anche se dovesse costarti la vita?» La donna sentì un brivido alla domanda di Salim, che sapeva non essere retorica. Ma non le costò fatica rispondere, perché disse a se stessa che senza di lui comunque non sarebbe stata capace di vivere. «La mia vita è tua, Salim, ormai dovresti saperlo. Finora ho fatto quanto mi ha chiesto: ho tradito i miei capi, ho ingannato i miei amici, e sono disposta a fare molto di più, tutto quello che mi chiederai.» «Sdraiati e riposa» le ordinò Salim mentre cominciava a togliersi i vestiti per andare a letto. 28 Entrando nell'ufficio del vescovo Pelizzoli, a Ignacio Aguirre non sfuggì lo sguardo di rimprovero di Ovidio. Oltre a una borsa stracolma, Ignacio teneva in mano la sua vecchia copia del libro di Ferdinand Arnaud. «Sai, Ignacio?» gli disse il vescovo Pelizzoli. «Ho la sensazione che si stia chiudendo un cerchio.» «Sì, così pare. Il professor Arnaud era convinto che un giorno avremmo dovuto affrontare la famiglia D'Amis.» «Il professor Arnaud?» chiese con curiosità padre Domenico che, proprio come Ovidio Sagardía, non riusciva a capire di cosa stessero parlando il vescovo e il vecchio gesuita. «Il professor Arnaud era uno storico, specializzato nel periodo della storia di Francia in cui si diffuse l'eresia catara. Il padre dell'attuale conte D'Amis chiese al professor Arnaud di autenticare gli antichi scritti di frate Julián. Il professore lavorò alla loro edizione critica ed ebbe un rapporto professionale con il conte che lo portò a essere testimone dell'andirivieni di alcuni personaggi tedeschi filonazisti, prima e durante la guerra. Il conte non si fidò mai di lui né lui del conte, ma anche così il professore vide e
sentì molte cose dentro quel castello.» «Non posso credere che l'opera di frate Julián abbia qualcosa a che vedere con l'attentato di Francoforte!» esclamò Ovidio. «Sicuramente no, ma l'unica cosa certa è che tirando il filo di Karakoz siamo arrivati al conte D'Amis, che è un personaggio quantomeno strano» affermò il vescovo. «E questo professor Arnaud dove si trova?» volle sapere padre Domenico. «Morto. È morto di dolore.» «Di dolore?» La curiosità di Domenico cresceva. «Aveva sofferto più di quanto fosse in grado di sopportare. Aveva perso sua moglie nella Germania nazista, assassinata. Era ebrea. Il suo unico figlio, David, era morto in Israele poco dopo la fine della guerra in uno scontro con un gruppo arabo. Quel giorno è morto anche il professore.» «Lo stesso giorno di suo figlio!» esclamò compunto Ovidio. «Fisicamente gli è sopravvissuto per qualche tempo. Ma il giorno in cui seppellirono suo figlio, era morto anche il professore.» I due sacerdoti si resero conto che quel professore aveva segnato per sempre Ignacio Aguirre e adesso il passato tornava a farsi presente nella vita del gesuita attraverso Raymond d'Amis. Padre Aguirre si sedette davanti al vescovo Pelizzoli e cominciò a leggere la documentazione che aveva preparato. Il vescovo e i due sacerdoti osservarono il massimo silenzio aspettando che dicesse qualcosa. Quasi un'ora dopo, quando finì di leggere, Ignacio alzò la testa e parlò rivolgendosi al vescovo. «Luigi, può darsi che io sia più utile a Bruxelles.» «Lo credi davvero?» «Sì, dovrei stare insieme al resto della squadra che conduce le indagini.» «Chiameremo il direttore del Centro di coordinamento antiterrorismo. È meglio che tu parli con lui prima di decidere. Da parte mia, non ho nulla in contrario, fai quello che ritieni necessario. Il segretario di Stato mi ha dato ordine di offrire la massima collaborazione.» Un minuto dopo, Ignacio Aguirre stava già parlando con Hans Wein. Il vecchio gesuita ascoltò le ultime novità e si offrì di partire immediatamente per Bruxelles. Poteva prendere il primo aereo del giorno successivo. Wein accettò l'offerta. Padre Aguirre rivolse uno sguardo stanco e profondo al vescovo Pelizzoli.
«Allora?» chiese il vescovo. «Qual è la tua prima conclusione?» «Luigi, non scartare la possibilità che D'Amis sia capace di mischiarsi con qualche gruppo criminale pur di fare danno alla Chiesa. Può essere che quelle parole dei fogli bruciati a Francoforte abbiamo un significato più chiaro, adesso che sappiamo che c'è di mezzo il conte.» «Cosa vuoi dire?» chiese il vescovo, spaventato. «Secondo me, è possibile che il commando di Francoforte stesse preparando un altro attentato. Stando a ciò che mi avete detto, quelle parole appartengono a fogli differenti. Comunque, essendoci D'Amis di mezzo, per me adesso assumono un altro significato.» «Ma non esiste alcun indizio del fatto che il conte sia coinvolto nei fatti di Francoforte! In realtà, sappiamo soltanto che ha rapporti con Karakoz» affermò il vescovo, preoccupato. «E cosa può volere un aristocratico francese da un trafficante di armi? Si dice che questo Karakoz non soltanto venda armi, ma affitti anche mercenari per ogni genere di lavoro. Sappiamo inoltre che Karakoz vende armi al Circolo, cioè che esiste un nesso, per tenue che possa sembrare, tra D'Amis e i terroristi del Circolo.» Il vescovo guardò sorpreso Ignacio Aguirre. Anche se il vecchio gesuita era stato il suo maestro e tutto quel che sapeva lo aveva imparato da lui, continuava a essere sorpreso dalla sua agilità mentale, dalla sua capacità illimitata di mettere in relazione elementi apparentemente contraddittori, di cercare coerenza all'interno del caos. Non osava pensare che Aguirre potesse avere ragione, ma se avesse avuto torto al momento di trovare la soluzione del caso, sarebbe stata la prima volta. «Quanto a quelle parole che hanno salvato dal fuoco... Sono parole in libertà, lo so, ma per esempio il nome "Lotario" adesso può avere un senso.» «Perché?» chiese Ovidio. «Per il conte D'Amis può averlo. Lotario dei Conti fu eletto papa con il nome di Innocenzo III e fu lui a iniziare la crociata contro gli albigesi.» «Ma non c'è nessuna prova che quella parola si riferisca a Innocenzo III» protestò Domenico. «No, non ci sono prove, ma "sangue"... non credi possa essere il sangue degli innocenti? Frate Julián annuncia nella sua cronaca che un giorno verrà vendicato il sangue degli innocenti.» «Frate Julián! Santo cielo, padre, lei è ossessionato da quella cronaca!» esclamò irritato Ovidio. «Non crederà che abbia qualcosa a che vedere con l'attentato di Francoforte?»
«Non lo so, ma non capisco perché scartiate così rapidamente questa eventualità. Io conosco Raymond de la Pallisière. È stato educato all'odio.» «"Scorrerà il sangue nel cuore del santo..."» mormorò padre Domenico. «Questo può significare che ci sarà un attentato in qualche posto. Poi abbiamo la parola "croce"... e se qualcosa odiavano i catari, era la croce» continuò padre Aguirre. «Ma i catari non esistono più, padre» affermò Domenico. «Certo, non ci sono più i catari, ma questo lo sappiamo noi. Raymond de la Pallisière si crede custode di quell'eresia ed è convinto che tocchi a lui vendicare il sangue versato. Non so se sei mai stato in Occitania, ma se ci sei stato avrai visto che i catari sono diventati un'attrazione turistica. Ci sono state comunità hippy che vivevano in quella zona, ed erano assolutamente convinti che il loro modo di vita fosse simile a quello dei catari. Ci sono stati gruppi esoterici, arrivati lì per misurare presunte vibrazioni cosmiche nei castelli della regione. Ci sono state perfino alcune sette che hanno invitato i loro seguaci al suicidio per raggiungere lo stato perfetto e poter così arrivare a Dio. Sono stati scritti libri per sostenere la tesi secondo la quale l'eredità catara altro non è che quella dei discendenti di Gesù, per non parlare del fatto che non sono mai cessati gli scavi che andavano alla ricerca del tesoro di Montségur... E ancora oggi in quella parte di Francia puoi sentire molta gente parlare di un passato glorioso di trovatori e dame, spazzato via dal re di Francia e dalla Chiesa. Perfino il più umile degli abitanti si crede discendente di qualche cavaliere o trovatore. I catari non esistono, ma c'è chi s'impegna a definirsi loro discendente o discepolo... Raymond de la Pallisière è discendente di una famiglia nella quale ci furono dei Perfetti. Suo padre ha cercato il tesoro dei catari aiutato dai nazisti, convinti che il tesoro fosse costituito da un oggetto che avrebbe dato il potere assoluto a chi lo avesse posseduto. Il professor Arnaud rideva di loro e non volle mai prestare eccessiva attenzione alle riflessioni che ascoltava nel castello, anche se ebbe la felice intuizione di trascrivere su alcuni fogli sparsi quello che ascoltava. Il vecchio conte D'Amis ha educato suo figlio Raymond con un unico obiettivo: recuperare il tesoro dei catari e, forse, anche vendicare il sangue degli innocenti. Raymond è vissuto in un ambiente oppressivo, dove tutto ruotava intorno a questa follia. Quando lo conobbi era un giovane che sentiva il bisogno di essere qualcuno, di riaffermarsi di fronte al proprio genitore. Secondo gli appunti del professor Arnaud, sembra che suo padre avesse costituito una società segreta per proteggere l'eredità dei catari e cer-
care il loro tesoro. A quanto pare si trattava di un'associazione culturale alla quale, in principio, lo avevano invitato a partecipare; ma quando il conte si accorse che l'interesse del professor Arnaud per i catari era soltanto accademico, tentarono di tenerlo all'oscuro delle loro attività.» «Lei parla del sangue degli innocenti...» disse padre Domenico. «Sì, fu versato molto sangue. E non credere che io voglia giudicare la Chiesa, che è formata da uomini il cui operata va letto alla luce di ogni singolo momento storico. Questo non giustifica gli errori, ma li spiega. Credi che qualcuno debba morire perché ritiene che esistano un Dio del bene e un Dio del male? I catari credevano che il mondo fosse opera del Dio del male.» «Mi scusi padre, ma la sua ossessione per la cronaca di frate Julián la porta a mischiare elementi eterogenei. Non so perché il conte D'Amis stia trattando con gli uomini di Karakoz, ma da qui a ritenere che potrebbe preparare un attentato... secondo me, la prego di non prenderla come una mancanza di rispetto, ma è proprio una sciocchezza.» Ovidio Sagardía deglutì dopo aver espresso sinceramente la sua opinione. Non si sentiva a proprio agio nel doversi scontrare con l'uomo che più ammirava e al quale doveva tutta la sua carriera ecclesiastica, ma per la prima volta vedeva padre Aguirre come un anziano incapace di analizzare con rigore e freddezza ciò che stava accadendo. Il solo fatto di essersi imbattuti in Raymond d'Amis lo aveva portato a teorizzare un attentato organizzato a metà tra il conte e il Circolo. A Bruxelles lo avrebbero preso per un vecchio eccentrico o anche qualcosa di peggio. «Capisco che tu non condivida i miei sospetti e fai bene a dirlo ad alta voce, ma temo di aver ragione, Ovidio, per quanto possa sembrarti stravagante ciò che ti ho detto. Conosco Raymond de la Pallisière e so di cosa è capace.» «Lo conosce? Lei ha detto di averlo visto in un paio di occasioni e questo è accaduto quanto tempo fa? Sessant'anni?» rispose Ovidio in tono di sfida. «Tu non immagini in che ambiente sia cresciuto quell'uomo, non sai che tipo fosse suo padre... e poi ho le carte del professor Arnaud; sono appunti in libertà, riflessioni a margine di ciò che ascoltava e vedeva al castello... no, non mi sto sbagliando.» Per la prima volta il discepolo si sentiva superiore al maestro, e fu per questo che Ovidio replicò nuovamente a padre Aguirre. «Il Circolo non si fiderebbe mai di qualcuno che non sia musulmano. Se
è difficile arrivare a loro è proprio perché non si fidano di nessuno. Oltretutto, perché dovrebbero aver bisogno di quel conte? Fino a oggi hanno fatto gli attentati da soli e, disgraziatamente, hanno avuto successo, quindi, perché allearsi con un estraneo?» «Non ho risposte a tutte le domande, ho solo una teoria che credo sia quella giusta, per quanto strana possa sembrarti.» «Tutto qui? Il Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea si sta spremendo le meningi da settimane per trovare una pista solida e adesso arriva lei e... insomma, arriva lei e assicura che il caso è risolto, che il conte D'Amis è complice del Circolo» le parole di Ovidio erano cariche d'indignazione. «Sì, proprio così, e sai perché si sono alleati? Per attentare contro la Chiesa» affermò padre Aguirre sostenendo lo sguardo di sfida di Ovidio. «Ma, che razza di idea!» esclamò padre Domenico. «Va bene, non perdiamo tempo in discussioni» intervenne il vescovo. «Il nostro ruolo è quello di aiutare il Centro di coordinamento antiterrorismo di Bruxelles con le informazioni delle quali disponiamo. Anch'io sono sorpreso dall'ipotesi di padre Aguirre; non posso credere che al Circolo interessi uno scontro con la Chiesa, però...» Il vecchio gesuita li guardò senza che il suo sguardo rivelasse contrarietà. «Luigi, tu mi hai chiesto di venire e io sono qui; mi dispiace che le mie conclusioni non ti piacciano.» «No, non è questo. Non si tratta di quello che può piacere a me ma di quello che può essere reale... Sinceramente, Ignacio, non riesco a seguire il tuo pensiero e arrivare alle tue conclusioni. A me non sembra così chiaro» ammise il vescovo. «Va bene, non siete obbligati a darmi retta, può darsi che io mi sbagli; in ogni caso lasciami esporre le mie conclusioni a Bruxelles. Sicuramente penseranno come voi che sono un vecchio che vive fuori dalla realtà, ossessionato dal passato. Spero davvero che abbiate ragione! Da Bruxelles rientrerò direttamente a Bilbao.» «È tardi, è meglio andare a riposare. Non sappiamo cosa ci aspetta domani. E adesso mi piacerebbe andare a cena con padre Aguirre, visto che domani deve ripartire» concluse il vescovo. 29
Lorenzo Panetta teneva in mano una tazza di caffè che beveva a piccoli sorsi, cercando di fare il punto sugli ultimi avvenimenti. «Speriamo che questo gesuita che conosce il conte D'Amis ci dica qualcosa di realmente interessante.» Hans Wein si sfregava gli occhi mentre ascoltava Lorenzo Panetta e, proprio come Matthew Lucas, faceva l'impossibile per non sbadigliare. Non riposavano da ventiquattr'ore, alle prese con le informazioni che continuavano ad arrivare al centro. «È padre Ovidio?» volle sapere Matthew. «No, non è padre Ovidio quello che deve venire, si tratta di un altro spagnolo, un gesuita che a quanto pare ha diretto per molti anni il dipartimento di Analisi del Vaticano.» «E conosce il conte D'Amis...» mormorò Matthew. «Sì, così pare, vedremo cosa ci racconta quando arriva. Viene direttamente qui al centro. La Nunziatura ha mandato una macchina ad aspettarlo in aeroporto. Intanto, nell'ultima e-mail che ci hanno mandato da Parigi, dicono che il conte è al Crillon da quando è atterrato, e per il momento non ha parlato con nessuno» spiegò Lorenzo. Dei colpi secchi alla porta allarmarono i tre uomini. Hans Wein con un gesto istintivo si sistemò la cravatta, mentre Panetta e Lucas fissarono gli occhi sulla porta senza muovere un muscolo. Un secondo dopo che Hans Wein aveva detto "Avanti", entrò, dritto e con passo fermo, un anziano dall'aspetto distinto. «Sono padre Aguirre» si presentó in un inglese corretto. «Entri, venga. La stavamo aspettando» disse Wein e si alzò per stringere la mano al sacerdote e invitarlo a sedersi. «Lorenzo Panetta, vicedirettore del centro, e Matthew Lucas, il nostro uomo di raccordo con l'Agenzia Antiterrorismo degli Stati Uniti» disse Wein indicando i due uomini che lo accompagnavano. «Un caffè?» propose Lorenzo Panetta. «Se fosse possibile gliene sarei grato» rispose Ignacio Aguirre. «Naturalmente; è domenica ma l'ufficio funziona lo stesso, anche se a mezzo servizio.» Lorenzo uscì dall'ufficio e chiese a una segretaria di fare il possibile per portare un caffè bevibile al sacerdote. Ignacio Aguirre non si perse in giri di parole e, come aveva già fatto nella riunione con il vescovo Pelizzoli, espose senza reticenze la sua teoria. «Signori, io credo sia possibile un'alleanza tra il conte D'Amis e il Circo-
lo per infliggere un danno alla Chiesa. Credo che sarà proprio la Chiesa l'obiettivo del prossimo attentato del Circolo.» I tre specialisti in antiterrorismo si guardarono allibiti. L'affermazione del sacerdote li aveva colpiti. «Su cosa basa questa affermazione?» chiese il direttore del centro. «Conosco Raymond d'Amis, è stato educato all'odio verso la Chiesa. Si considera il custode dell'eredità dei catari.» «Non discuto la possibilità che il conte D'Amis, per una qualsiasi ragione, voglia infliggere un danno alla Chiesa, ma converrà con me che sia quantomeno improbabile che il Circolo possa condividere le motivazioni del Conte» disse Matthew Lucas. «Questo è ciò che bisogna verificare: se il Circolo ha qualche rapporto con il conte o stanno semplicemente comprando armi e informazioni dallo stesso uomo, Karakoz. A Roma mi hanno detto che è stata intercettata una conversazione del conte con un professore britannico di origine siriana, non è così?» «Sì, Salim al-Bashir; per quanto ne sappiamo un personaggio al di sopra di ogni sospetto. È un professore di grande prestigio che passa per essere un islamista moderato, con amicizie importanti. Abbiamo da poco ricevuto un rapporto dai britannici, e non hanno trovato alcun motivo per sospettare di Al-Bashir; ma c'è di più: il governo di Sua Maestà è solito consultarlo quando sorgono conflitti con la comunità musulmana» spiegò Hans Wein guardando con la coda dell'occhio Lorenzo e Matthew. «Certamente, però... io non scarterei nulla a priori» rispose padre Aguirre. «Mi perdoni, ma il rapporto dei nostri colleghi britannici non lascia adito a dubbi» affermò con un certo fastidio Hans Wein. «Lei ha più esperienza, ma se fossi io a dover cercare la testa o le teste del Circolo non lo farei nelle periferie delle città. Lì troverà soltanto carne da macello.» Lorenzo Panetta e Matthew Lucas osservavano con sorpresa e una certa ammirazione l'anziano gesuita confrontarsi in punta di fioretto con il loro direttore. «Non ritiene sufficiente il rapporto dell'intelligence britannica?» chiese Lorenzo. «Per favore, non mi fraintenda. Ho solo suggerito di non scartare così rapidamente la pista Salim al-Bashir.» «Il professor Al-Bashir non costituisce una pista.» Il tono di Wein tradi-
va la sua irritazione. «Guardi, non posso certo essere io a dirle come orientare il suo lavoro. Mi limiterò a spiegarle quello che so su Raymond de la Pallisière.» I tre uomini ascoltarono in silenzio, senza mai interrompere il racconto di padre Aguirre, che non dimenticò il minimo dettaglio sul suo strano rapporto con i D'Amis. Poi, dopo aver terminato, aprì una vecchia borsa di pelle nera e tirò fuori dei libri che consegnò a ognuno di loro. «Qui è contenuta la cronaca di frate Julián; se riuscite a trovare un po' di tempo per leggerla forse vi aiuterà a comprendere meglio il conte. Oltre a essere una splendida opera, che in ogni caso merita di essere letta, è una vera lezione sull'orrore che provoca il fanatismo, di qualunque segno esso sia.» «In questo caso, fanatismo cattolico» mormorò Matthew Lucas. «Proprio così, signor Lucas, e come sacerdote non mi sento affatto orgoglioso di quella pagina della nostra storia. Ho sempre pensato che se c'è qualcosa che l'Onnipotente non perdonerà agli uomini, è quella di uccidere nel suo nome. Non si può imporre la fede con la forza del sangue versato. Alla fede bisogna arrivare attraverso la ragione.» «Lei ritiene possibile conciliare fede e ragione?» chiese Lorenzo senza nascondere interesse ma anche scetticismo. «Le assicuro che quella è la strada, la strada migliore per arrivare a Dio.» «Va bene, ma adesso non abbiamo tempo per discutere di teologia» li interruppe Hans Wein. «Ciò che lei ci ha raccontato costituisce un'informazione complementare ma assai utile per sapere chi abbiamo di fronte.» Per un'altra ora il sacerdote spiegò ai tre uomini tutto quello che c'era ancora da sapere su Raymond de la Pallisière e suo padre, il precedente conte D'Amis. Parlò delle carte del professor Arnaud, che ormai conosceva quasi a memoria, e di ciò che in Vaticano nel tempo avevano archiviato riguardo al neo-catarismo, che sembrava particolarmente florido nell'Occitania attuale. Hans Wein, Lorenzo Panetta e Matthew Lucas, lo ascoltarono senza interromperlo tentando di ravvisare qualche pista concreta nelle parole del sacerdote, ma per quanto il racconto sembrasse appassionante, non riuscivano a trovare un solo motivo per cui il Circolo avrebbe dovuto allearsi con un aristocratico per commettere un attentato. Il gesuita vedeva riflesso lo scetticismo sul volto dei tre uomini, ma anche così non desisteva. Il suo dovere era quello di dire loro ciò che pensa-
va; poi sarebbe stata di quegli uomini la responsabilità di decidere se erano soltanto idee di un vecchio pazzo o se avevano una parvenza di realtà. «Consentitemi una domanda: avete qualche informatore al castello?» «Le persone che lavorano al castello sono totalmente leali al conte e stiamo trovando grandi difficoltà per ottenere informazioni dall'interno» gli rispose Lorenzo Panetta. «Sarebbe di vitale importanza riuscire a sapere cosa sta succedendo nel castello D'Amis.» «Ci stiamo provando, anche se per il momento con scarso successo» ammise Panetta. «Le siamo molto grati per le informazioni che ci ha dato» manifestò Hans Wein. «Pensa di fermarsi a Bruxelles?» «Solo se voi credete che potrò esservi utile.» Hans Wein non sapeva cosa rispondere. In realtà, la storia che aveva ascoltato gli pareva troppo fantasiosa. Ma lui era un alto funzionario, un politico, come amava rimproverarlo Panetta, non poteva dimenticare chi aveva di fronte: quel sacerdote rappresentava il Vaticano e gli aveva appena assicurato che il prossimo attentato del Circolo sarebbe stato contro la Chiesa, non poteva liquidarlo così, su due piedi. «Ci piacerebbe contare sulla sua collaborazione. Dobbiamo analizzare le informazioni che ci ha dato e discutere delle sue ipotesi con i nostri colleghi francesi che sono sul terreno e seguono il conte D'Amis e l'uomo di Karakoz. Ora, se permette, mi piacerebbe invitarla a pranzo e continuare a parlare di quello che ci ha appena raccontato.» «Sono a sua disposizione.» Alle sette in punto del mattino, stanco e con un paio di occhiaie profonde, Hans Wein iniziava la prima riunione del lunedì con Lorenzo Panetta. Dopo il pranzo con padre Aguirre era tornato in ufficio e vi era rimasto fino a notte fonda in attesa degli eventi. Alla fine aveva deciso di andare a riposare, come avevano fatto anche Lucas e Panetta; la settimana che stava per cominciare prometteva di essere decisamente complicata. Adesso, infatti, erano già lì, a leggere i primi messaggi di posta elettronica spediti dai loro delegati a Parigi. Il resto della squadra cominciò ad arrivare non prima delle otto. La prima fu Laura White, l'assistente di Wein. Lorenzo notò la tensione sul volto della donna. Anche lei aveva occhiaie profonde, ed era più pallida del solito, non si era neanche truccata. Non
aveva un bell'aspetto. Lorenzo pensò che probabilmente stava male. «Come è andato il fine settimana?» domandò malgrado lo sguardo di rimprovero di Hans Wein, il quale considerava un'intromissione interessarsi alle faccende private di chiunque lavorasse con lui. «Bene, grazie. Avete bisogno di me?» «No, grazie, Laura, stiamo sbrigando l'ordinaria amministrazione» rispose Wein. Laura uscì senza dire nulla. «Ha un'aria strana» commentò Lorenzo. «Non so dove lo vedi, a me sembra la stessa di sempre» tagliò corto Wein. Il rapporto dei francesi spiegava che il conte era andato al castello D'Amis, ma per il momento non si era messo in contatto con lo Slavo. Non si era neanche preso la briga di richiamare le numerose persone che lo avevano cercato al telefono durante la sua assenza, compreso il professor Salim al-Bashir. Aveva solo tentato di parlare con sua figlia. L'aveva chiamata nel suo appartamento di New York ma lei non aveva risposto. Poi aveva telefonato all'avvocato di lei, che stancamente gli aveva spiegato come la signorina De la Pallisière non gli avrebbe parlato, esattamente come aveva ripetuto negli ultimi tre giorni. Oltretutto, la sua cliente era partita e non sapeva quando sarebbe tornata. «La figlia si mostra irriducibile» sentenziò Lorenzo. «Credo proprio che non parlerà con suo padre.» Avevano ricevuto anche il rapporto sugli ultimi movimenti di Karakoz e, stando a quel che pareva, il trafficante era sparito in una delle ex repubbliche sovietiche, dove era andato per rifornirsi di armi. Matthew Lucas non si fece vedere fino alle dieci. «Buongiorno, poi magari mi spiegherete cosa diavolo è successo alle donne del centro» disse a mo' di saluto. Hans Wein lo guardò con fastidio; quello era il tipo di commenti che detestava. Lorenzo invece gli sorrise con curiosità. «Laura a stento mi ha salutato, ho incrociato Andrea Villasante e ha un umore da cani; perfino Diana Parker, l'aiutante di Andrea, ha evitato di dirmi buongiorno e sembra arrabbiata. Non dico niente di Mireille Béziers perché la signorina neanche saluta, ma neppure lei ha una bella faccia. Le occhiaie le arrivano... insomma, per quello che vedo le signore non hanno passato un buon fine settimana.» «Hai novità?» gli chiese Hans Wein, ancora infastidito dalle parole
dell'americano. «Nessuna.» «Neanche noi» disse Panetta. «Immagino che dovremo aspettare.» «Credo che dovremmo insistere per riuscire a entrare nel castello. Dobbiamo soltanto trovare qualcuno che stabilisca un prezzo darci informazioni» affermò Matthew. «Sono d'accordo con te; anche il sacerdote ieri ci ha dato lo stesso suggerimento, ma quelli di Parigi insistono nel dire che non c'è verso» fu la risposta di Lorenzo. «E se infiltrassimo qualcuno?» insistette Matthew. «Per favore, cerchiamo di essere seri!» li interruppe Hans Wein. In quel momento entrò in ufficio Laura White. «È appena arrivato dall'ufficio del personale» disse, porgendo un foglio ad Hans Wein. «Perfetto! Una volta tanto pare che questa gente faccia le cose per bene. È arrivato il trasferimento della signorina Béziers!» Hans Wein non nascondeva la soddisfazione che quella notizia gli causava. «Vuoi che le dica di passare da te?» chiese Laura. «No, preferisco che sia Lorenzo a spiegarle che è stata destinata al dipartimento Rapporti Istituzionali. Lì starà meglio; in fondo è la figlia di un diplomatico.» Lorenzo Panetta guardò il suo capo e sì sentì montare il nervoso. Non toccava a lui allontanare Mireille, ma Hans Wein era fatto così. Mireille era seduta e stava parlando al telefono quando Lorenzo si avvicinò al suo tavolo. Notò che Matthew Lucas aveva ragione. La ragazza aveva una brutta cera, i suoi capelli neri sempre lucidi sembravano spenti, senza vita. Fu curioso di vedere se davvero l'osservazione di Matthew su Andrea Villasante e Diana Parker rispondeva al vero e rimase sbalordito quando vide la faccia di Andrea. Non solo sembrava contrariata, ma i suoi gesti denotavano una stanchezza profonda, sembrava assente. Neanche Diana Parker aveva un aspetto migliore e si chiese cosa diavolo avessero fatto durante il fine settimana per essere ridotte in quello stato. «Mireille, mi piacerebbe parlare con te. Andiamo a prendere un caffè?» Mireille annuì, si alzò senza protestare e lo seguì come se non provasse alcun interesse per quello che avrebbe potuto dirle. A quell'ora del mattino, nel bar non c'era molta gente, ma Lorenzo scelse comunque un angolo dove poter parlare con tranquillità. Ordinarono due caffè e Lorenzo si rese conto che Mireille era distratta,
lontana. «C'è qualcosa che la preoccupa?» «No. Perché?» «Non so, mi sembrava.» «Non si preoccupi per me e mi dica a cosa devo l'onore di essere invitata per un caffè dal vicedirettore del centro.» A Lorenzo non sfuggì l'amarezza che stillavano le parole della giovane e si chiese cosa mai poteva esserle successo. Decise di evitare giri di parole. «Mireille, lei è stata trasferita al dipartimento Rapporti Istituzionali.» «Ah, sì? Bene. Così siamo tutti contenti, giusto?» Lorenzo rimase colpito dal fatto che Mireille non sembrasse sorpresa, ma soprattutto che accettasse senza battere ciglio di venire spedita in un dipartimento dove una donna come lei difficilmente avrebbe avuto un ruolo confacente alle sue capacità. «Essere un funzionario ha vantaggi e inconvenienti, e spesso capita di essere trasferiti.» «Per favore, non si disturbi a darmi spiegazioni assurde! Hans Wein non mi sopporta, e si è disfatto di me. Punto. Grazie per il caffè.» Mireille si alzò, ma Lorenzo, senza sapere bene perché, le chiese di non andarsene. «Deve dirmi qualche altra cosa?» «Sa? Non la riconosco...» «In realtà non mi conosce affatto.» «Ha ragione, non la conosco, eppure credevo che lei non fosse una che si piange addosso. La credevo più resistente.» «Cosa si aspettava? Che la ringraziassi per avermi fatto fuori? So di essere una buona analista, sono capace di lavorare bene e non solo in un ufficio, ma nessuno si è preso la briga di verificarlo. Perché mai avrebbero dovuto farlo? Voi formate un gruppo compatto, ben amalgamato, e io sono stata accolta come un'intrusa.» «Si sieda, per favore.» Lei esitò qualche secondo, poi si accomodò guardandolo fisso in attesa di quel che aveva da dirle. Anche Lorenzo Panetta esitava, ma i suoi dubbi non avevano nulla a che vedere con quello che Mireille poteva immaginare. Chiacchierarono per un'ora intera. Al principio fu Lorenzo a parlare e lei ad ascoltare, poi toccò a lei prendere la parola. Quando tornarono in ufficio Panetta non riusciva a nascondere la propria preoccupazione, e Mireille, se
possibile, sembrava ancora più tesa di quanto fosse prima di chiacchierare con lui. «Devi andare a pranzo con il sacerdote» gli annunciò Hans Wein senza chiedergli nulla di Mireille «porta con te anche Matthew, e raccontategli tutto quello che c'è di nuovo. Che in realtà è pari a zero.» Lorenzo annuì distratto e cercò con lo sguardo Matthew Lucas, che era impegnato in una conversazione con Andrea Villasante. «Matthew, mi piacerebbe parlare con te.» «Certo, eccomi. Che succede?» Lorenzo lì per lì non rispose. 30 Raymond de la Pallisière si era rifugiato nel silenzio e nell'apatia e il suo fedele maggiordomo Edward era diventato il guardiano del suo stato d'animo, impedendo a chiunque di disturbarlo. Il conte era tornato da un paio di giorni e passava ore intere seduto nella biblioteca immerso nei propri pensieri. I suoi soci e amici della fondazione Memoria Catara avevano tentato inutilmente di vederlo, ma non aveva risposto né a loro né ad altre chiamate. Ma quando sentì il suono del cellulare che teneva nella tasca della giacca, il conte non ebbe altra scelta che dominare il proprio istinto e rispondere. «Sì...» «Il materiale è pronto. Immagino che il luogo della consegna sia quello già stabilito e che questa volta non ci saranno ulteriori dilazioni.» La voce dello Slavo fu come una scossa che lo obbligava a tornare alla realtà. «Sì, deve essere tutto come previsto.» «E allora muoviamoci; lei sa che per realizzare la consegna deve inviare la parte concordata.» «Eravamo rimasti d'accordo che il pagamento sarebbe avvenuto una volta visto il materiale.» «Il materiale è di prima qualità e il rischio di consegnarlo a destinazione è molto alto, quindi preferiremmo essere pagati in anticipo.» «Avete già ricevuto un acconto sostanzioso.» «Adesso vogliamo tutta la cifra.» «No, non riceverete l'intera cifra finché il materiale non sarà a destinazione. Ve ne manderò una parte, ma non tutto.»
«E i documenti?» «Fra tre o quattro giorni sarò a Parigi. La chiamerò.» «Bene, ma ormai è ora di chiudere questo affare; noi abbiamo fatto la nostra parte.» «Questo lo vedremo alla consegna.» Pensò di chiamare Ylena, ma decise che lo avrebbe fatto il giorno dopo una volta arrivato a Parigi. Ylena era certamente in attesa di una sua chiamata. Doveva anche mettersi in contatto con il Facilitatore, ma non dallo stesso numero dal quale parlava con lo Slavo; avrebbe dovuto inserire un'altra scheda e cambiare zona. Non poteva commettere errori. Sapeva che il Facilitatore non avrebbe esitato a farlo uccidere. Decise che, come nel caso di Ylena, avrebbe chiamato anche lui dal Crillon. Aveva ancora il cellulare in mano quando il maggiordomo entrò nella biblioteca con aria preoccupata. «Mi scusi se la disturbo, signore, ma c'è il suo avvocato di New York al telefono. Gli ho detto che era in riunione, nel caso in cui lei non voglia parlargli.» A Raymond tremarono le mani e sentì un sudore freddo lungo la schiena. Se il suo avvocato lo chiamava non poteva che essere una brutta notizia. Anche se ormai il peggio era passato; non avrebbe mai dimenticato l'umiliazione alla quale l'aveva sottoposto sua figlia rifiutandosi di vederlo, mandandogli a dire che provava nausea nel sapere di avere un padre nazista e insistendo sul fatto che non gli avrebbe mai rivolto la parola. Fece cenno a Edward di lasciarlo solo, quindi, schiarendosi la voce, si diresse verso il suo studio per poter parlare senza testimoni. Tardò qualche secondo a sollevare la cornetta, temendo quello che avrebbe potuto sentire. «Buonasera, mister Smith.» «Buongiorno, anzi, mi scusi, buonasera conte. Ho notizie di sua figlia.» Raymond sentì un altro brivido. Tutto ciò che riguardava Catherine lo faceva stare con i nervi tesi come corde di violino. «Mi ha appena chiamato l'avvocato di sua figlia per informarmi che la signorina verrà in Francia per un paio di giorni. Mi sta ascoltando?» chiese l'avvocato. «Certo.» «Bene, a quanto pare sua figlia vuole conoscere i luoghi in cui è vissuta sua madre; una specie di viaggio sentimentale. Ha deciso di includere nel suo itinerario anche il castello... Vuole sapere se può passare, anche se il
suo avvocato mi ha messo bene in chiaro che la visita non significa una riconciliazione, sarà soltanto una visita.» «Mia figlia può venire quando vuole, il castello è casa sua, un giorno sarà suo. Ha detto se accetterà di vedermi?» «Be', l'avvocato mi ha assicurato di sì, pare sia disposta a incontrarla, ma ha insistito nel dire che nulla è cambiato riguardo all'opinione che la ragazza ha di lei.» «Quando arriverà in Francia?» «A quanto pare atterrerà a Parigi dopodomani; non so se verrà direttamente al castello o se inizierà il suo periplo sentimentale da qualche altro luogo, questo non l'ha detto.» «Comunichi all'avvocato che mia figlia può visitare il castello quando vuole.» «Bene, lo farò... speriamo che vada tutto bene...» «Buonasera, mister Smith.» L'avvocato chiuse la comunicazione e guardò nervosamente l'uomo che lo osservava seduto di fronte a lui e che non si era perso neanche una sola delle parole pronunciate. Raymond non sapeva cosa provare. Cercava dentro di sé un po' di allegria ma non riusciva a trovarla. Temeva Catherine, temeva l'incontro con sua figlia, anche se lì, nel castello, si sentiva al sicuro. Era ansioso di vederla, perché Catherine era solo un sogno. Non sapeva come fosse il suo viso, quale il colore dei suoi occhi o dei suoi capelli. Somigliava a sua moglie o a lui? Lo preoccupava che arrivasse in quel momento, proprio quando l'operazione era entrata nella fase finale. Lui doveva andare a Parigi e incontrare di nuovo Ylena. Doveva anche chiamare il Facilitatore, quel misterioso uomo che muoveva i fili della sua vita e di quelle di tanti altri come se fossero marionette. In fondo però, anche lui si serviva del Facilitatore, grazie a lui poteva consumare la vendetta che suo padre non aveva portato a termine. Sì, sarebbe stato lui, il ventitreesimo conte D'Amis, a vendicare il sangue degli innocenti versando altro sangue, quello dei loro carnefici, anche se a distanza di molti secoli. La Chiesa non aveva mai chiesto perdono per la sua maledetta crociata contro i catari. Cercò il numero di telefono di Al-Bashir. Dovevano vedersi, decidere la data in cui avrebbero fatto scorrere il sangue della cristianità. Salim al-Bashir in quel momento si trovava a Londra e stava cenando con un gruppo di intellettuali che dissertavano sull'alleanza tra le civiltà.
La conversazione fu breve e in apparenza insignificante. Stabilirono di vedersi a Parigi durante il fine settimana, avrebbero pranzato insieme all'Ambroise, in place des Vosges, dove il fois gras di anatra al pepe grigio era diventato uno dei piatti preferiti di Salim. Hans Wein leggeva il rapporto con le ultime conversazioni del conte D'Amis e, pur non mostrandosi eccitato come sembravano Lorenzo Panetta e Matthew Lucas, non poteva non riconoscere che il caso sembrava complicarsi. Padre Aguirre era rimasto a Bruxelles e insisteva con la sua teoria secondo la quale il conte D'Amis e il Circolo si erano uniti per colpire la Chiesa. A Wein era sembrato di notare che le parole del gesuita a poco a poco stessero facendo presa nell'animo del suo vice, Panetta, e di Lucas. Anche così, però, lui non riusciva a credere a una simile alleanza; il Circolo non aveva bisogno di un conte francese per mettere una bomba, disgraziatamente lo stava dimostrando con troppa frequenza. «Adesso ti deciderai a chiedere di mettere sotto controllo i telefoni di Salim al-Bashir?» insistette Lorenzo. «I nostri amici britannici sono in possesso di queste informazioni e ritengono che sarebbe uno scandalo se si indagasse su quest'uomo. È amico di tre ministri del loro governo, è stato addirittura ricevuto da membri della famiglia reale che hanno voluto conoscere la sua opinione sulla situazione e le richieste dei musulmani nel Regno Unito. I britannici non vogliono neanche sentir parlare dell'ipotesi di seguire Al-Bashir.» «Be', si sbagliano. Come possono rifiutarsi?» si lamentò Lorenzo Panetta. «Non danno alcuna importanza alla sua amicizia con il conte?» «Dicono che non per questo Al-Bashir deve essere al corrente dei rapporti del conte con lo Slavo, e vogliono sapere se abbiamo intenzione di mettere i telefoni sotto controllo a tutti i conoscenti del conte. No, non possiamo farlo senza l'autorizzazione dei britannici.» «I quali, curiosamente, sono diventati tutto d'un tratto così ligi e rispettosi della forma...» «Non vogliono problemi con i musulmani, ne hanno già abbastanza.» Laura White annunciò l'arrivo di padre Aguirre. Lorenzo era sorpreso dal cambiamento che si era verificato in Laura negli ultimi giorni. Pareva nervosa. E anche Andrea Villasante non attraversava il suo miglior momento. La spagnola discuteva con tutti e aveva perduto quell'aplomb per cui era tanto ammirata. Si chiese cosa stesse succedendo a quelle due don-
ne. Lo colpiva anche il fatto che si fosse creata una certa distanza tra l'una e l'altra. Prima le vedeva mettersi d'accordo per giocare a squash o andare a vedere una mostra; ora evitavano di incrociarsi e perfino di rivolgersi la parola. Il saluto di padre Aguirre li riportò alla realtà. Il sacerdote pensava di aver trovato una pista in una delle frasi ritrovate nelle carte di Francoforte. Hans Wein non faceva troppo affidamento sulle scoperte del sacerdote, soprattutto sulle sue ipotesi che addirittura lo spaventavano. Ignacio Aguirre si rendeva conto delle reticenze del direttore del Centro, ma faceva finta di niente. Era troppo angosciato da quello che poteva succedere, per preoccuparsi se qualcuno feriva il suo orgoglio prendendolo per un vecchio matto. «Credo che una di queste frasi corrisponda a un testo di Otto Rahn» affermò il sacerdote. «Quale?» chiese con curiosità Lorenzo Panetta. «"Il nostro cielo è aperto solo a coloro che non sono creature..." Quel che segue è: "... di una razza inferiore, o bastardi, o schiavi. È aperto agli ariani. Il loro nome significa che sono nobili".» Sia Wein che Panetta lo guardavano meravigliati. Ma Ignacio Aguirre continuò a parlare senza fermarsi. «In realtà questa frase è la continuazione di un paragrafo precedente. "Non ci serve il Dio di Roma, abbiamo già il nostro."» «Questa frase è di Otto Rahn?» «Pare di sì» rispose padre Aguirre. «Sono riuscito a trovare questi testi grazie alle note del professor Arnaud.» «E che senso avrebbero questi testi di Otto Rahn in mano al commando islamico che ha compiuto l'attentato di Francoforte?» chiese di malumore Hans Wein. «Non lo so. Può essere che stando in contatto con il conte D'Amis questi li abbia imbottiti di pseudoletteratura sui catari, o può darsi che qualche membro del commando sentisse un particolare interesse per questa eresia proprio perché dietro c'era il conte.» «Questo è pazzesco!» esclamò Wein furibondo. «Lei pretende di convincerci che dietro il Circolo c'è il conte D'Amis!» «No, io non pretendo questo. Il Circolo è formato da integralisti islamici che hanno dichiarato guerra all'Occidente. Quello che dico io è che può esserci una confluenza di interessi tra il conte e il Circolo, in questo caso per colpire la Chiesa. Un'altra delle frasi è ugualmente significativa: "Ciò che
è imperfetto non può provenire..." e la continuazione è "da ciò che è perfetto", è una frase di Rahn tratta dal libro Crociata contro il Graal, analizzata da professor Arnaud, perché spiega l'essenza del pensiero cataro. Capisco la sua difficoltà ad accettare la mia tesi, ma le chiedo solo di non scartarla. Temo di avere ragione. C'è una relazione chiara ed evidente tra Raymond de la Pallisière e il Circolo, ed è possibile che questo professor Salim al-Bashir non sia innocente come dice lei.» «Mi perdoni, padre, ma a volte credo che questa cronaca di frate Julián e il suo rapporto con il professor Arnaud siano diventati per lei vere e proprie ossessioni. Le assicuro che tutti noi abbiamo letto quella cronaca, che indubbiamente è commovente, ma faccio fatica a credere che quelle cose dette da un frate più di sette secoli or sono possano scatenare oggi un attacco terroristico contro la Chiesa.» «Capisco le sue reticenze, signor Wein, ma io ho il dovere di dirle ciò che penso, ciò che ritengo possa succedere. Per me è evidente che ci sarà un attacco contro la Chiesa. Disgraziatamente non trovo il senso di altre parole: "croce di Roma", "scorrerà il sangue nel cuore del santo...", di nuovo "croce". Ma su una cosa non deve avere il minimo dubbio: dietro queste parole è nascosto il luogo dove verrà effettuato l'attentato. E quanto alla cronaca di frate Julián, non posso negare che abbia determinato la mia vita molto più di quanto avrei potuto immaginare la prima vota che ho tenuto quel libro tra le mani, ma vi assicuro che nei miei molti anni di servizio alla Chiesa non ho mai ingannato me stesso né gli altri per far prevalere a tutti i costi le mie ipotesi.» «Bene, continueremo a indagare; non metteremo da parte le sue raccomandazioni» assicurò controvoglia Hans Wein. «Credo che la mia presenza sia diventata motivo di imbarazzo» disse senza mezzi termini Ignacio Aguirre «e lo comprendo; voi siete preparati affinché le cose siano come debbono essere, dovete cercare di pensare con la logica dei terroristi, ma vi assicuro che essi riusciranno sempre a sorprendervi. Apparentemente non ha senso che tra le parole di un commando islamico appaiano frasi di Otto Rahn. E quanto ai catari... capisco che sia difficile credere che un aristocratico francese voglia vendicarsi della Chiesa sette secoli dopo la caduta di Montségur, ma è così. L'attuale conte D'Amis è stato educato alla vendetta; per lui i catari non appartengono al passato, ma fanno parte integrante del suo presente; ne sono convinto.» «Però manca un anello...» assicurò Lorenzo Panetta. «Sì, almeno in apparenza» ammise il gesuita «e qui possiamo solo fare
congetture. Voi sapete meglio di me che ci sono interessi che stanno al di sopra dei governi e delle istituzioni. Chissà se questo è l'anello mancante.» «Non capisco dove vuole arrivare.» «Lo capisce benissimo, ma è una risposta che non le piace. Chiediamoci allora perché è stato deciso di far fuori lo Scià e dare impulso a un regime religioso in Iran, perché Bin Laden è stato un uomo di fiducia dell'Occidente... perché succedono certe cose nel mondo che disgraziatamente non sono frutto del caso, ma dei calcoli interessati di certa gente. Voglio dire che, anche se potrà sembrarle stravagante che il conte D'Amis e il Circolo si uniscano per colpire la Chiesa, stia sicuro che lo faranno. Io me ne torno a Roma; voglio esporre davanti ai miei superiori le conclusioni alle quali sono arrivato. La Chiesa deve essere preparata ad affrontare quello che sta per arrivarle addosso; ora si tratta solo di scoprire dove ci colpiranno e, signori miei, scoprirlo dovrebbe essere compito vostro!» La conversazione con padre Aguirre lasciò di malumore Hans Wein e pensieroso Lorenzo Panetta, il quale non osava dire davanti al suo capo che a suo giudizio il sacerdote aveva ragione. Panetta aveva già capito che con Wein sarebbe stato difficile fare passi avanti. Nei suoi confronti nutriva affetto e rispetto, ma il suo capo era troppo ligio ai regolamenti per potersi permettere anche solo di pensare a qualcosa che non fosse esplicitamente previsto nel manuale delle istruzioni. Lorenzo invece temeva che la profezia di padre Aguirre sarebbe diventata realtà e un gruppo di fanatici avrebbe attentato contro la Chiesa: ma dove, quando, perché? Confidava nella possibilità di raccogliere informazioni all'interno del castello, anche se fino a quel momento erano falliti tutti i tentativi di spingere al tradimento qualcuno della cerchia del conte. Ma lui era disposto a giocare una carta della quale non aveva ancora detto niente ad Hans Wein. Doveva parlare con Matthew Lucas. Si fidava dell'americano, lo sapeva sufficientemente anticonformista da giocarsi la carriera se fosse stato necessario. Matthew era destinato ad avere sempre problemi per la sua incapacità di essere politicamente corretto. Hakim passeggiava per Gerusalemme con un certo timore. Said, il suo contatto, lo accompagnava ovunque; era un commerciante della città vecchia, con un negozio di souvenir vicino alla Porta di Damasco, e gli assicurava di aver sentito parlare di Caños Blancos, il paesino che sembrava ap-
peso alle falde della Alpujarra di Granada e del quale lui era stato responsabile prima di essere destinato a quella missione. Omar, il capo dei gruppi del Circolo in Spagna, aveva fiducia in lui, come pure Salim al-Bashir, e gli aveva chiesto il sacrificio della vita sapendo che non li avrebbe delusi... Suo fratello si sarebbe preso cura di Caños Blancos; era preparato per essere capo e custode di quel rifugio sicuro del Circolo in Spagna. Piuttosto lo preoccupavano Alì e Mohamed. Era arrivato a conoscerli bene nel periodo in cui erano stati insieme a preparare la loro parte nella missione. I due giovani sprizzavano buona volontà, però mancavano di fede, non credevano abbastanza nella necessità del sacrificio. Aveva visto l'angoscia nei loro occhi quando aveva ricordato a entrambi che dovevano morire perché la missione si rivelasse un successo. Mohamed Amir gli aveva assicurato che ardeva dal desiderio di diventare un martire come suo cugino Yusuf, ma in realtà voleva vivere. Yusuf era stato una figura importante nel Circolo, era un intellettuale, un uomo che aveva studiato all'università, inquieto e curioso, non faceva altro che leggere. Salim diceva che la morte di Yusuf era stata come perdere la sua mano destra. Ma Yusuf si era impegnato a partecipare all'attentato di Francoforte perché quella era la sua città e credeva che nessuno meglio di lui avrebbe potuto garantire il successo della missione. Ad Hakim, invece, Caños Blancos sembrava la cosa più simile al Paradiso Terrestre. Amava Granada, quella terra che un giorno, ne era certo, sarebbe tornata a far parte della umma musulmana. Arrivare a Gerusalemme era stato più facile di quello che prevedeva. Si era aggregato a un gruppo di pellegrini di Granada che aveva scelto l'agenzia di Omar per organizzare un viaggio in Terra Santa. Aveva tentato di confondersi con loro, di essere uno tra i tanti, e ci era riuscito. Una coppia di età avanzata sembrava averlo preso in simpatia e, in aeroporto, gli occhi attenti della polizia israeliana non avevano potuto captare altro che la sua appartenenza a quel gruppo di turisti. Avere un passaporto spagnolo gli era stato di grande aiuto, per quanto il suo aspetto non lasciasse adito a dubbi; i funzionari israeliani dell'Immigrazione lo avevano interrogato sui motivi della sua visita, e lui credeva di averli sconcertati quando si era presentato come il sindaco di un piccolo paese nella zona di Granada, che stava viaggiando con un gruppo di amici e conoscenti. Said gli assicurava che non dovevano abbassare la guardia, potevano a-
vere ordinato di seguirli. Naturalmente lui, a sua volta, aveva montato una controsorveglianza per scoprire se gli uomini della sicurezza israeliana si erano insospettiti più del previsto di quel turista, ma fino ad allora non avevano avuto la percezione di essere seguiti. Ciononostante, per non destare sospetti, da tre giorni stava visitando la città come un semplice turista in mezzo a tutto il resto dei pellegrini. Sapeva di non poter fallire. Salim al-Bashir gli aveva affidato la parte più difficile del piano. Era lì nella capitale sacra, insozzata dalla presenza degli ebrei, e sarebbe stato suo l'onore di distruggere le reliquie custodite nella chiesa del Santo Sepolcro. Aveva visitato la chiesa cercando di passare per un normale turista. Naturalmente, i religiosi ortodossi che sorvegliavano la chiesa non sembrarono insospettiti dalla sua presenza; forse lo avevano preso per un arabo cristiano. Era passato anche per Betlemme includendo nel suo itinerario la basilica della Natività, e aveva addirittura chiesto a Said di fargli visitare le tombe dei patriarchi. Said gli aveva chiesto di quanta gente avesse bisogno per portare a termine il piano ed era rimasto sorpreso dalla sua risposta: nessuno, preferiva farlo da solo. Avrebbe portato una cintura carica di esplosivo che avrebbe azionato nel momento stesso in cui si fosse avvicinato al luogo dove custodivano il pezzo di legno che dicevano essere parte della croce dove era morto Gesù. Non c'era bisogno che morissero altre persone con lui; perché sacrificare altre vite? Oltretutto, fino a quel momento, il Circolo era invisibile per il Mossad e per lo Shin Bet, e così dove continuare a essere. Le organizzazioni palestinesi a volte subivano infiltrazioni dall'odiato nemico, ma il Circolo rimaneva chiuso a doppia mandata agli occhi degli ebrei. Hakim pensava alla vicinanza dell'Aldilà. Diceva a se stesso che presto sarebbe stato in Paradiso e sentiva un certo timore per il momento del passaggio tra la vita e la morte. Era certo dell'esistenza di Allah; per Lui avrebbe sacrificato la vita, per Lui da tanti anni lottava, si nascondeva, distruggeva i nemici e quindi non aveva alcun dubbio. Eppure, anche così, di notte si svegliava con un sapore acido in bocca e un dolore allo stomaco. Infatti una cosa era partecipare a una missione sapendo di poter anche morire e un'altra, molto diversa, conoscere la data certa di quello che sarà l'ultimo giorno della propria vita. Sarebbe stato un martire e il Circolo avrebbe reso onore alla sua famiglia; questo gli dava la forza per andare avanti. Prima di volare a Gerusalemme, Omar gli aveva affidato un'altra mis-
sione: parlare con il padre di Mohamed Amir e ordinargli di risolvere il problema di sua figlia. Laila aveva offeso Salim al-Bashir mostrandosi impertinente nel corso della conferenza che Salim aveva tenuto a Granada. La superbia di Laila era senza limiti e alcuni fratelli erano andati da Omar a lamentarsi dell'influenza della ragazza sulle loro mogli, figlie e sorelle. Bisognava mettere a tacere quella meretrice e farlo era un obbligo della sua famiglia. Non lo avrebbero chiesto a Mohamed, visto che in quei giorni lui e Alì avevano la missione di far saltare in aria il monastero di Santo Toribio; Omar, tra l'altro, dubitava che Mohamed avesse la forza sufficiente per togliere la vita alla sorella. Pertanto Hakim aveva parlato con il padre di Laila e Mohamed senza lasciarsi commuovere dalle proteste dell'uomo. Doveva lavare l'onore della sua famiglia, era una vergogna per la comunità che sua figlia si esibisse in modo così volgare. Per Laila c'era un'unica soluzione: la morte. Aveva ordinato all'uomo di fare il suo dovere e dare la morte alla ragazza senza dire niente a suo figlio. Non doveva distrarre Mohamed dalla sua missione; in fin dei conti, lui era il capo famiglia, anche se si diceva che sua moglie lo dominasse e proteggesse con zelo la figlia. Said lo distolse dai suoi pensieri con un leggero colpo di gomito. «È possibile che ci stiano seguendo. Ho visto tre volte lo stesso uomo dietro di noi.» «Chi?» «Fermiamoci a prendere un tè e te lo indico.» Mentre bevevano l'infusione profumata di spezie, Said fece un cenno indicandogli l'uomo del quale sospettava. Sembrava un turista inoffensivo; non aveva più di trent'anni e portava uno zaino sulle spalle, un orecchino all'orecchio, jeans strappati sulle ginocchia e scarpe da ginnastica. Più tardi gli uomini di Said gli avrebbero detto qualcosa su quel giovane, ma nel frattempo loro decisero di interrompere la passeggiata e dirigersi verso lo Sheraton, l'hotel dove Hakim alloggiava con il resto dei pellegrini di Granada. Hakim era stanco e pensò che ormai aveva già visto tutto quello che gli serviva. Ora bisognava solo aspettare che Salim al-Bashir fissasse la data della missione. Non sapeva se avrebbe dovuto tornare a Granada o portarla a termine immediatamente. Quanto agli esplosivi, non c'era problema, gli uomini del Circolo avevano un buon arsenale; se c'era qualcosa che abbondava in Medio Oriente, erano le armi per uccidere.
31 L'addetto alla reception del Crillon si mostrò felice di rivedere il conte D'Amis, al quale immediatamente offrì la suite che aveva occupato la volta precedente. Il conte gli lasciò una mancia generosa e, seguito dal fattorino che gli portava la valigia, si diresse verso l'ascensore. Una volta sistemato, scese di nuovo nella hall e subito dopo uscì dall'hotel perdendosi nel viavai della città. Camminò in direzione del Louvre senza una meta fissa; sarebbe entrato in un bar e da lì avrebbe chiamato il Facilitatore. Non doveva occupare la linea per più di tre minuti, quello era il tempo limite per evitare che localizzassero la chiamata. Entrò in un bar e ordinò un tè, cercando con lo sguardo il telefono che si trovava in un angolo in fondo al locale. Temeva che il Facilitatore lo rimproverasse per la sua repentina assenza, ma era disposto a lottare per mantenere almeno una certa autonomia. Il suo interlocutore rispose al primo squillo. «È già tornato? Bene, so che pranzerà con il nostro amico. È giunta l'ora, non dovete ritardare ulteriormente. Abbiamo bisogno di un revulsivo per i prossimi giorni.» Raymond si sentì sollevato per non aver subito alcun rimprovero. «E la ragazza?» «Si metterà in contatto con lei domani. Per quel momento lei dovrà già avere in mano la documentazione. Stabilisca la data con Salim. È importante agire in maniera coordinata.» «Lo Slavo chiede più soldi.» «Quella gente è insaziabile!» «Cosa devo fare?» «I soldi non sono un problema, ma non bisogna neppure buttarli via. Se l'operazione sarà un successo, i miei capi non mi chiederanno neanche quanto abbiamo speso; in caso contrario, dovrò rispondere di ogni centesimo... ma lei faccia quel che ritiene giusto, non possiamo mandare al diavolo l'operazione all'ultimo momento per l'ingordigia di Karakoz.» «La vedrò?» «Quando vuole. Ora però faccia quel che deve fare.» Avrebbe dovuto aspettare che Ylena si mettesse in contatto con lui; probabilmente la giovane avrebbe alloggiato di nuovo in albergo come la pri-
ma volta. La tranquillità del Facilitatore l'aveva sorpreso: sembrava non essersi preoccupato affatto per la sua assenza. Raymond dedusse che molto probabilmente aveva informazioni precise circa ogni suo movimento, e questo gli provocò una certa ansia. Decise d'incamminarsi verso place Vendôme e curiosare tra i negozi della zona; poteva entrare al Ritz e chiamare lo Slavo dal bar, ma pensò che forse era meglio aspettare che fosse lui a contattarlo. Lo Slavo sapeva come trovarlo. Alcuni uomini erano di guardia al Crillon per informarlo del suo arrivo. Aveva bisogno dei documenti per Ylena e il suo commando. Tra questi c'erano due carte di credito false, anche se gli ordini del Facilitatore erano chiarissimi: non lasciare tracce, e una carta di credito, per falsa che fosse, era pur sempre una traccia. Avrebbe dovuto anche andare in banca e prelevare dei soldi da consegnare alla ragazza. Da quando era uscito dall'hotel, sei uomini e due donne seguivano il conte D'Amis senza che questi se ne fosse accorto. Lavoravano tutti per il Centro di coordinamento antiterrorismo e contavano sulla collaborazione della Sûreté francese. L'ordine era di pedinarlo giorno e notte cercando di non farlo insospettire. L'essenziale era sapere chi incontrava, con chi parlava e, soprattutto, che genere di affari aveva con lo Slavo. Lorenzo Panetta aveva chiesto ad Hans Wein il permesso di trasferirsi a Parigi per coordinare in loco le operazioni; il suo capo aveva accettato a denti stretti, ma ricordandogli che era un alto funzionario, non un poliziotto. Anche se Wein aveva insistito per fargli dimenticare quell'ipotesi, Panetta credeva che l'incontro con il conte D'Amis avrebbe potuto dargli qualche elemento. Aldilà delle raccomandazioni del suo capo, Lorenzo aveva già il suo piano d'azione. Era certo di trovarsi vicino al Circolo più di quanto fossero mai stati. Matthew Lucas la pensava come lui. Anche l'americano si era spostato a Parigi, gli sarebbe stato di grande aiuto. Era riuscito a mettere due dei suoi uomini a un tavolo dell'Ambroise, dopo essersi assicurato che sarebbero stati seduti vicino al tavolo prenotato dal conte D'Amis. Come al solito non c'era un tavolo libero alla Tour d'Argent, ma a lui bastò dire il proprio nome perché gliene dessero immediatamente uno. Mentre si dirigeva all'Ambroise aveva ricevuto una chiamata di Salim che gli proponeva di cambiare ristorante.
Mezz'ora prima, l'amante di Bashir gli aveva raccontato per telefono che Lorenzo Panetta si era spostato a Parigi e che, sebbene Panetta stesso e il direttore Hans Wein mantenessero un rigoroso silenzio sull'andamento delle indagini, sembravano non fidarsi di nessuno, neanche di lei. Era riuscita a sentire Panetta dire che "il loro uomo era a Parigi". Gli assicurò che avrebbe fatto l'impossibile per saperne di più e che, naturalmente, era certa che non sapessero nulla e che brancolassero ancora nel buio per quanto riguardava il Circolo, impegnati com'erano a tirare il filo di Karakoz. Salim, però, decise che era meglio cambiare i luoghi degli appuntamenti, compreso quello con il conte. Quando Raymond entrò nel ristorante, Salim al-Bashir lo stava aspettando al tavolo che lui aveva prenotato poco prima. I due uomini si strinsero la mano e decisero di ordinare il pranzo prima di parlare. «A cosa si deve il cambio di ristorante? Credevo che l'Ambroise fosse uno dei suoi favoriti.» «È meglio essere prudenti» rispose Salim. «Teme che qualcuno sospetti di noi?» «Sono convinto che non esista servizio di intelligence al mondo che sia a conoscenza di ciò che stiamo preparando. Ma di tanto in tanto è meglio cambiare qualcosa, non si sa mai.» «Mio caro amico, vorrei sapere se i suoi uomini sono pronti» chiese Raymond dando per buona la spiegazione di Salim. «Lo sono. Tra dieci giorni saremo in piena Settimana Santa. I cristiani non commemorano la morte di Cristo il Venerdì Santo?» «Sì.» «Quel giorno noi distruggeremo i resti della loro croce, di quella croce che lei tanto odia.» Raymond guardò l'uomo con ammirazione. Non aveva affatto pensato che stava per cominciare la Settimana Santa perché la sua vita non era mai stata scandita dalle celebrazioni cristiane. Nel castello non si era mai festeggiato il Natale e ancor meno avevano mai fatto caso alla Settimana Santa. «Ottima scelta. Però mi tolga una curiosità: cosa diranno i suoi capi a proposito di questo attentato? Non molto tempo addietro un gruppo di ulema ha incontrato il papa per parlare della necessità di approfondire il dialogo tra le religioni monoteiste.» «È proprio così, ma noi siamo in guerra, in guerra contro gli infedeli che
non vogliono convertirsi alla vera fede. Gli infedeli devono sapere che non hanno alternativa: convertirsi o morire. I cristiani hanno assassinato migliaia di musulmani in nome della croce.» «Questo accadde durante le Crociate...» disse ridendo Raymond. «No, hanno continuato a ucciderci, a invaderci, a disprezzarci. Le Crociate, amico mio, non sono finite; l'unica differenza è che adesso i cristiani non arrivano a cavallo ma in aerei carichi di bombe che distruggono i nostri paesi. Alcuni dei nostri ulema parlano di pace, sono uomini buoni, ingenui; ma tra di noi ci sono anche traditori che si sono occidentalizzati, che hanno dimenticato chi sono e qual è la vera fede. Anche loro moriranno.» Salim al-Bashir vuotò il bicchiere di Borgogna mentre Raymond lo osservava pensando che quel professore fosse la perfetta immagine dell'emigrante integrato. Nessuno avrebbe potuto dire che quell'uomo con un impeccabile vestito comprato nell'elegante ed esclusiva strada londinese di Savile Row non fosse una fotocopia perfetta del più squisito gentleman britannico. Se un giorno la rivoluzione islamica avesse trionfato, difficilmente Salim al-Bashir si sarebbe adattato all'austerità che lui stesso predicava. Avrebbe rinunciato ad annaffiare i suoi pasti con il vino di Borgogna? «E adesso, amico mio, dobbiamo parlare di soldi» disse Al-Bashir con tono compunto. «Credo che abbia già ricevuto tutto ciò che avevamo stabilito.» «No, le ho già detto durante il nostro ultimo incontro che non era sufficiente. I miei uomini moriranno, lasceranno le loro famiglie e la famiglia è molto importante per noi. Le madri, le mogli, i figli, i fratelli dei nostri martiri non dovranno aggiungere la miseria al dolore per la perdita dei loro cari.» «Riceverà quel che ha chiesto se le cose andranno bene.» «No, lei me lo darà prima di portare a termine l'operazione.» «L'operazione è a carico di entrambi: eravamo d'accordo così, Salim.» «Noi non abbiamo bisogno di lei, è lei che ha bisogno di noi.» Raymond non rispose. Al-Bashir aveva ragione. Lui da solo non avrebbe mai potuto realizzare la sua vendetta. Era stato il Facilitatore a pensare alla maniera migliore di sfruttare entrambi, lui e Al-Bashir. Il Circolo aveva ricevuto una buona iniezione di denaro, una parte del quale sicuramente era finita in uno dei conti extra segreti di Al-Bashir o di uomini come lui. Pensò a se stesso, ai sogni in cui aveva già assaporato la dolcezza della vendetta. Sì, gli avrebbe dato il denaro; in fin dei conti il grosso dell'operazione
era a carico di quegli uomini misteriosi rappresentati dal Facilitatore. Il Circolo agiva dove e quando voleva, Al-Bashir aveva ragione. Era lui ad aver bisogno di loro, lui e il Facilitatore, il quale non vedeva l'ora di leggere a titoli cubitali sui giornali che il Circolo aveva attentato contro la Chiesa e che come risposta un gruppo ultracattolico aveva distrutto le reliquie di Maometto nel Topkapi. Il Facilitatore era stato molto chiaro: gli uomini che lui rappresentava avevano bisogno di uno scontro violento tra musulmani e occidentali, e nulla avrebbe potuto provocarne uno più violento se non distruggere le reliquie più preziose delle due religioni. «Riceverà quanto mi ha chiesto» concesse Raymond. Salim al-Bashir sorrise. Era sicuro che l'aristocratico avrebbe sborsato la cifra che gli aveva richiesto. Era nelle loro mani. «Conte, tra dieci giorni avrà portato a termine la sua vendetta.» «Lo spero.» «Noi non commettiamo errori, per questo siamo disposti a morire.» Lorenzo Panetta e la squadra del Centro di coordinamento antiterrorismo erano stati sorpresi dal cambio di ristorante. Il massimo che riuscirono a ottenere per i loro uomini fu un tavolo alla Tour d'Argent, ma lontano dal conte D'Amis e da Al-Bashir. Non avendo avuto neppure il tempo di sistemare i microfoni per ascoltare la conversazione tra i due uomini, riuscirono solo a osservare come il conte e Salim al-Bashir mangiassero amichevolmente; le conversazioni degli altri commensali ai tavoli circostanti, il rumore dell'andirivieni dei camerieri, il fatto di non essere abbastanza vicini e il tono basso con cui i due parlavano impedirono loro di sentire cosa stessero dicendo. Purtroppo, quindi, gli uomini della squadra non portarono informazioni interessanti a Lorenzo Panetta, che attendeva impaziente nella sede parigina del centro. Raymond tornò in albergo appena concluso il pranzo. Non si accorse di essere seguito, né si rese conto che nella hall dell'albergo c'erano due uomini dello Slavo a osservarlo. Era entrato nella sua suite neanche da cinque minuti quando sentì dei colpi secchi alla porta. Aprì immediatamente e si trovò davanti un uomo alto, con i capelli biondo scuro e gli occhi color acciaio; malgrado indossasse un vestito elegante, qualcosa nel suo aspetto diceva che quell'uomo non era un gran signore. L'uomo entrò prima che Raymond lo invitasse a farlo. «Le ho portato la roba che aveva chiesto.» Aprì una valigetta dalla quale
estrasse una grossa busta, che depositò sul tavolo. Raymond la aprì; dentro c'erano i passaporti falsi per Ylena e i suoi parenti, la carta di credito e gli altri documenti di identità. «Sono autentici» assicurò l'uomo. Raymond non gli rispose, ma si assicurò che ci fosse tutto quello che aveva chiesto. «La sedia è pronta.» «Dove si trova?» «A Istanbul, naturalmente. Dovranno passare a prenderla a questo indirizzo, insieme alla videocamera e al resto del materiale.» «Dove avete sistemato l'esplosivo?» chiese Raymond senza nascondere la curiosità che provava. «Questo, amico, lo diranno a Istanbul alla sua gente; io sono solo un fattorino.» L'uomo si lasciò andare a una risata mostrando una fila di denti ingialliti. Raymond lo guardò con disprezzo. Quell'uomo era solo un bandito, uno dei tanti che lavoravano per Karakoz e lo Slavo. Si notava che era del sud della Francia, un uomo dedito al commercio della morte. «Può darsi che abbia bisogno di parlare con il suo capo.» «Sa come trovarlo, ma non le venga in mente di chiamarlo a casa, quel telefono non è sicuro, non commetta altri errori. Quanto al denaro...» «Lo riceveranno tramite il solito canale.» «Il prezzo è cresciuto, lo sa; la sua richiesta è risultata più complicata di quel che ci aspettassimo.» «Prima verificheremo il resto della merce, poi parleremo di questo ritocco sul prezzo; ora, se mi permette, aspetto visite.» «La ragazza? Non è a Parigi.» «Lei come lo sa?» «Ci occupiamo della sua sicurezza a Parigi, facciamo in modo che lei non commetta errori. Fino a domani non potrà mettersi in contatto con lei. È bella, ma i capelli scuri non le stanno granché.» «Devo fare una telefonata. Buonasera.» Rimasto solo, tirò un sospiro di sollievo. Lo ripugnava dover trattare con i delinquenti. Cercò la bottiglia di calvados e se ne versò una razione generosa. Dieci giorni, si disse. Ancora dieci giorni e sarebbe stata consumata la sua vendetta; questo gli aveva assicurato Al-Bashir. Dopo pranzo Salim al-Bashir aveva deciso di rilassarsi un po' facendo una passeggiata per Parigi. Quella città gli piaceva più di ogni altra e pen-
sava a come sarebbe cambiata quando, un giorno, sarebbe diventata totalmente musulmana. Passeggiare lo aiutava a mettere in ordine le idee, e in quel momento aveva bisogno di sistemare anche gli ultimi dettagli dei tre attentati. Confidava soprattutto in Hakim. Sapeva che lui si sarebbe sacrificato senza battere ciglio. Un attentato nel centro della città vecchia di Gerusalemme, nella chiesa del Santo Sepolcro, avrebbe scosso il mondo intero. Il Circolo era riuscito a essere impenetrabile, e questo in Israele era una vera impresa. La chiave era l'indipendenza al momento di agire, il fatto che ogni commando fosse autonomo. Avrebbero potuto contare sull'aiuto di altre organizzazioni che operavano nei territori occupati, ma quelli del Circolo preferivano contare solo sulle loro forze. Hakim si sarebbe immolato davanti agli occhi di centinaia di turisti, provocando la morte di molti di loro e distruggendo il luogo in cui i cristiani conservavano i resti della croce. Non lo preoccupava neanche l'esplosione della basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma. Pensò alla donna con la quale aveva avuto rapporti intimi negli ultimi anni, che per lui aveva guardato e ascoltato all'interno del Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea. Era sicuro che presto o tardi l'avrebbero scoperta, visto che lei stessa aveva ammesso che nelle ultime settimane l'indagine sull'attentato di Francoforte era stata secretata per tutti i membri del centro. Hans Wein, il direttore, e Lorenzo Panetta, il vicedirettore, contavano sul personale ma senza condividere le informazioni ricevute. Era sicura che non avessero fatto passi avanti, ma l'ermetismo di Wein era il segnale che sospettassero di avere un infiltrato. Non aveva ancora deciso se chiederle direttamente di immolarsi o ingannarla, anche se quest'ultima soluzione sarebbe stata difficile; per garantire il successo dell'operazione, infatti, la cosa più sicura era portarla a termine con una cintura carica di esplosivo. Doveva pensare a cosa dirle e come, anche se non c'erano dubbi cha la donna avrebbe fatto di tutto per lui. Forse, per non spaventarla, la cosa migliore sarebbe stata consegnarle una borsa carica di esplosivo e chiederle di collocarlo nella cappella dove si conservano le reliquie. Naturalmente, prima che lei potesse depositare la borsa e uscire, lui avrebbe azionato il detonatore e l'avrebbe fatta saltare insieme ai tre frammenti della Vera Croce, una delle assi, le spine della corona e tutte le altre reliquie custodite lì.
Quanto a Mohamed Amir e al suo amico Alì, Omar gli aveva assicurato che erano pronti e che potevano fidarsi di loro. Sarebbero morti se questo fosse stato necessario. Era inevitabile, pensò Al-Bashir, che morissero entrambi. Era il modo migliore per non lasciare tracce. Senza dubbio, tra i tre luoghi da attentare, il monastero di Santo Toribio, nascosto tra i monti della Cantabria, era il più semplice. Era privo di qualsiasi protezione, come se i monaci che custodivano il Lignun Crucis pensassero che niente e nessuno sarebbe stato capace di attaccare il loro cenobio. Assaporò in anticipo lo scalpore che i tre attentati avrebbero prodotto nel mondo. Dopo le esplosioni, l'Occidente non avrebbe più potuto fare finta di niente e i suoi ingenui dirigenti avrebbero dovuto guardare in faccia la realtà, accettare che fosse in atto una guerra che loro stavano perdendo. D'altro canto anche i paesi fratelli avrebbero dovuto ammettere che non si poteva più tornare indietro, e i più tiepidi, quelli che facevano ricchi affari in nome dell'alleanza tra le civiltà, a partire da quel momento avrebbero dovuto abbandonare i traffici con i loro amichetti dell'Occidente. Sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale e l'avrebbero vinta i musulmani. Gli eletti da Dio. 32 Ignacio Aguirre aspettava di essere ricevuto da Lorenzo Panetta. Era arrivato a Parigi da un'ora. A Roma era rimasto il tempo necessario per incontrare a quattr'occhi il vescovo Pelizzoli. La conversazione era stata lunga. Le parole del vecchio gesuita avevano accresciuto ulteriormente la preoccupazione di Pelizzoli e delle autorità vaticane sull'eventualità che si verificasse un attentato contro la Chiesa. Né padre Ovidio Sagardía né padre Domenico Gabrielli erano stati invitati a partecipare alle consultazioni tra padre Aguirre, il vescovo e altri responsabili del governo della Chiesa. Ma Ovidio aveva cercato l'occasione di restare per qualche minuto da solo con quel sacerdote che per lui era stato più di un padre. Aveva parlato con padre Aguirre prima che questi partisse per Parigi. «Padre, vorrei parlarle un minuto...» gli aveva chiesto Ovidio con umiltà.
Il sacerdote aveva accettato, ma senza entusiasmo. Al momento, l'ultima delle sue preoccupazioni era quello che poteva capitare a Ovidio, il quale, anche se gli costava accettarlo, lo aveva deluso. «Dimmi» gli aveva risposto seccamente. «Voglio chiederle scusa. So di averla delusa, di aver mancato quando non potevo né dovevo farlo. Lei sperava che sarei stato all'altezza di circostanze come questa, per questo mi ha preparato in tutti questi anni e mi ha procurato opportunità di ogni genere. So di aver peccato di ingratitudine e di aver anteposto i miei problemi personali al mio dovere nei confronti della Chiesa. Mi dispiace, vorrei ottenere il suo perdono.» Padre Aguirre si era sentito confortato dall'atteggiamento di Ovidio e commosso dal suo rammarico. Aveva profuso molto impegno per fare di quel giovane un uomo utile alla Chiesa, ma forse non aveva considerato che Ovidio era solo un essere umano come lui. «Non devi chiedermi perdono. Però mi fa piacere che te ne sia reso conto. Ora devo andare, parleremo in un altro momento.» «Non avrò pace se non saprò che lei mi ha perdonato...» «Ovidio, non ho nulla da perdonarti, la cosa importate è che ti sia reso conto di dover servire la Chiesa là dove essa ha bisogno di te. Vai in pace, figliolo, e fai quello che puoi per dare una mano in questi momenti difficili.» «Padre... davvero gli scritti di frate Julián hanno scatenato tutto questo?» «Dio mio, non dire così! Non diamo la colpa a quel povero frate.» «Ma lui reclamava vendetta... nella sua cronaca chiede che qualcuno vendichi il sangue degli innocenti...» «Cerchiamo di non perdere il senno anche noi. Frate Julián ha sofferto perché la sua coscienza si ribellava all'idea che Dio venisse imposto attraverso lo spargimento di sangue. Per favore, Ovidio, mettiti nei panni di quel bravo frate, ma soprattutto non dimenticare che si tratta di una storia del XIII secolo. A frate Julián rimordeva la coscienza, sentiva che quello spargimento di sangue non poteva restare impunito. Comunque vedo che stai cominciando a prendere sul serio quella cronaca...» «Mi perdoni, padre, avevo sempre pensato che... insomma, mi pareva un'eccentricità, un'ossessione, il suo interesse per quella cronaca. Non avevo mai sospettato che un giorno sarebbe diventata una pista per un fatto terribile come questo.» «Ne riparleremo con calma al mio ritorno. Ora devo andare.»
«Sta lasciando Roma?» «Vado a Parigi.» «A Parigi?» «Sì. Monsignor Pelizzoli vi darà tutte le informazioni necessarie. Sarà lui a decidere cosa dovrete sapere riguardo allo stato attuale delle cose.» Ignacio ripensava a Ovidio mentre seguiva il funzionario che lo guidava verso l'ufficio dove Panetta aveva installato il suo quartier generale a Parigi. Non fu sorpreso di trovare lì anche Matthew Lucas, che sembrava intendersi bene con Panetta. «Sono felice di vederla qui, padre» gli disse a mo' di saluto Lorenzo. «Hans Wein mi aveva avvertito del suo arrivo.» «Come può immaginare, siamo molto preoccupati; non so se potrò esservi di qualche utilità... in ogni caso ho ottenuto il permesso di restare con voi e seguire da vicino le operazioni.» «Ci saranno molto utili i suoi consigli e la sua esperienza» gli assicurò Panetta. «E adesso, padre, mi piacerebbe parlare con lei, e non so se farlo nel segreto della confessione, perché quello che sto per dirle non deve saperlo nessuno...» Raymond non aveva fame né voglia di uscire. Decise di restare a riposare nella suite del Crillon. Già da un po' stava provando a leggere senza riuscire a concentrarsi, così decise di accendere la televisione. Il telefono lo fece sobbalzare, e ancor più le parole del receptionist dell'hotel. «Signor conte, mi scusi se la disturbo, ma c'è una signora che dice di essere sua figlia che vorrebbe parlare con lei.» Raymond rimase ammutolito, non sapeva cosa dire. Tardò qualche secondo a reagire. Non poteva essere vero che Catherine fosse lì e ancor meno che volesse parlare con lui. «Credo di non aver capito bene» riuscì a dire. «Sua figlia è qui e ci ha chiesto di avvisarla. Vuole che la faccia salire nella suite o preferisce che aspetti qui?» Il fatto che Catherine in quel preciso istante fosse così vicina a lui lo paralizzava. «Signor conte...» il receptionist gli sollecitava una risposta. «Chieda a mia figlia se preferisce salire qui o aspettarmi nella hall.» Un secondo dopo il receptionist gli annunciò che un fattorino avrebbe accompagnato sua figlia nella suite.
Raymond aveva paura. Si accorse che un sudore freddo gli correva giù per la schiena. Temeva Catherine, di lei sapeva solo quanto lo odiava. Aveva sognato di conoscerla, di abbracciarla, ma sapendo che si trattava di un sogno che non si sarebbe mai realizzato; sua figlia si era sempre rifiutata di incontrarlo e aveva reso pubblico, attraverso il suo avvocato, il suo disprezzo verso di lui. Non era trascorsa neppure una settimana dall'ultima volta in cui gli aveva ribadito il proprio odio, e adesso, in neanche due giorni, sembrava aver cambiato idea. Prima venendo in Francia, per quanto fosse un viaggio sentimentale alla ricerca delle orme del passato della madre, poi chiedendo di visitare il castello, e adesso presentandosi senza preavviso al Crillon. I colpi alla porta annunciarono l'arrivo di Catherine. Raymond si avvicinò con passo esitante ad aprire e rimase immobile quando vide di fronte a lui quella donna dal viso spigoloso, i capelli castani con riflessi mogano e due immensi occhi neri. Il fattorino li osservò con curiosità aspettando la mancia dal conte. Catherine entrò senza dire una parola; sembrava sicura di se stessa, e nel suo sguardo non si rifletteva alcuna emozione. «Sicché, tu sei mio padre» gli disse guardandolo fisso negli occhi. «Sì» sussurrò Raymond. «Sei diverso da come ti avevo immaginato.» Lui non rispose. Aveva la bocca secca; si sentiva in una situazione di inferiorità davanti a quella donna che faceva vagare lo sguardo per il salone. Neppure lei era come lui l'aveva immaginata; non somigliava a Nancy se non per la sicurezza che emanava. «Come mi avevi immaginato?» volle sapere lui. «Con l'aspetto di un mostro, anche se mia madre diceva che da giovane eri molto bello, e probabilmente per questo si era innamorata di te e ti aveva sposato.» «Un mostro...» sussurrò in tono lamentoso. «Per me è esattamente quello che sei» rispose Catherine senza esitare. «Cosa vuoi?» le chiese lui con un filo di voce. «Voglio visitare i luoghi dove sono vissuti mia madre e i miei nonni. Voglio sapere come è stata la loro vita qui. Mi piacerebbe anche...» Catherine si morse il labbro prima di continuare a parlare, come se volesse soppesare l'effetto di quello che stava per dire. «Insomma, mi piacerebbe capire come abbia potuto innamorarsi di te.» «Eri molto legata a tua madre...»
«Lei era tutto per me. Quando ti ha lasciato si è dedicata totalmente a me, ha fatto l'impossibile perché non sentissi la mancanza di un padre. Non mi ha mai delusa; tutto quello che sono lo devo a lei.» «Mi sarebbe piaciuto conoscerti prima» mormorò Raymond «ma tua madre non me lo ha mai permesso, e poi, quando sei cresciuta, neppure tu hai voluto sapere niente di me.» «No, non ho voluto. E perché avrei dovuto? Rappresenti tutto ciò che io e mia madre abbiamo odiato.» «E adesso perché hai voluto vedermi? Non era necessario. Saresti potuta andare al castello senza che io fossi presente.» Catherine rimase qualche istante in silenzio distogliendo lo sguardo. Raymond la osservava affascinato. Gli pareva incredibile che quella donna fosse sua figlia. Eppure lo era; era lì e lo disprezzava come aveva sempre fatto da quando aveva l'uso della ragione. «Non lo so. Non so perché ho voluto vederti, non so bene perché sono qui» confessò nuovamente lei senza abbassare lo sguardo. «Hai fame?» le chiese lui all'improvviso. «Fame? No... non saprei...» «In che albergo sei, qui a Parigi?» «Al Maurice.» «Ti va di andare a cena?» «A cena?» «Sì, possiamo continuare a parlare mentre ceniamo.» Raymond la vide esitare; neanche lui sapeva perché le avesse fatto quella proposta. Erano le otto e mezzo e lui, tra l'altro, non aveva fame; ma aveva bisogno di uscire, di prendere aria, di trovarsi su un terreno più neutrale. «D'accordo» disse lei «ma non ho voglia di andarmi a cambiare.» Raymond la guardò con attenzione, rendendosi conto solo allora di come fosse vestita: jeans, una maglia di cachemire, stivali e un giaccone che aveva lasciato all'ingresso. Con un simile abbigliamento non avrebbe potuto portarla in molti ristoranti, almeno non quelli che frequentava lui. «È la prima volta che vieni a Parigi?» le chiese. «No, ci sono stata in altre occasioni. Un viaggio di studio, poi altre volte per lavoro.» «Bene, allora hai già un'idea dei posti che ti possono piacere.» «Possiamo andare a La Coupole? Si trova a Montparnasse...» «D'accordo, andiamo lì; è un posto che piace molto agli americani.»
«E a te no?» «Non ci sono mai stato.» Catherine lo guardò come se gli sembrasse impossibile che un francese non avesse pranzato o cenato lì almeno una volta nella sua vita. Durante la cena lei gli fece molte domande sul castello e lui si interessò dei suoi studi d'arte e di quello che pensava di fare nel futuro. Catherine però si mostrò schiva nelle risposte. «Non so cosa farò della mia vita. Mi sento molto sola. Perdere mia madre è stata la cosa più terribile che potesse capitarmi. Ho bisogno di tempo per riprendermi.» Raymond cominciava a credere che sarebbe stato possibile, se avesse agito con cautela, stabilire un rapporto con sua figlia. La vedeva persa, fragile, esausta per la lunga malattia di sua madre, devastata dalla sua morte. «Parlami di tua madre» le chiese. A quella richiesta Catherine si mise in guardia e i suoi occhi neri brillarono d'ira. «Non ho niente da raccontare di mia madre. Soprattutto a te.» «Io l'amavo, l'ho sempre amata» rispose Raymond. «Se l'avessi amata non l'avresti abbandonata per correre dietro alle tue pazzie.» «Le mie pazzie? Quali sono le mie pazzie?» «Sei un nazista, un pazzo che vaneggia di una razza superiore, e, quel che è peggio, ti credi erede dei catari.» «Io sono erede di una vecchia famiglia nella quale alcuni membri morirono sul rogo per gli interessi di un re e per il fanatismo di un papa. Se conosci un po' di storia non dovresti darmi del pazzo.» «La conosco. Mia madre mi ha raccontato tutta questa storia assurda.» «Assurda? La storia della nostra famiglia... sì, Catherine, è anche la tua famiglia... non è una storia assurda. La nostra famiglia ha lottato per mantenere l'indipendenza della sua terra e non passare sotto la Corona di Francia. Ci fu un accordo tra il re e il papa, a entrambi conveniva distruggere la Languedoc, e...» «Per favore, non parlarmi di re e di papi! Siamo nel XXI secolo! Ma, soprattutto, come puoi essere nazista? Come puoi credere che ci siano uomini migliori di altri?» «Esistono uomini migliori di altri, questo è evidente.» «Siamo tutti uguali!» disse Catherine alzando il tono della voce. «No, non lo siamo affatto. Io non sono uguale al cameriere che ci sta
servendo la cena. Io sono il conte D'Amis, mentre lui forse non conosce neanche il nome dei suoi nonni. Neppure tu sei uguale al cameriere. Per quanto ti senta americana, un giorno sarai la contessa D'Amis e, che ti piaccia o no, erediterai molto più di un castello e delle terre, erediterai una storia. Ma se anche tu non fossi la futura contessa D'Amis, non saresti certo come il cameriere. Hai studiato in una buona università, sei stata curata sin da piccola, non ti è mancato niente.» «Sono stata cameriera anch'io. Per anni ho lavorato nella caffetteria dell'università. Ho servito bibite e hot dog. Ricordo quei due anni come i più divertenti della mia vita. Cosa c'è di male a essere cameriere? In America non importa che lavoro faccia una persona; essere stato cameriere, distributore di giornali, spazzino o qualsiasi altra cosa è motivo di orgoglio. Ma davvero ti senti superiore?» La giovane scoppiò a ridere e Raymond si sentì ferito; ferito ma soprattutto risentito nei confronti della sua defunta moglie per aver fatto di quella figlia una donna volgare, capace di sentirsi uguale a quel ragazzo con accento della periferia parigina, che stava servendo al loro tavolo. «Cosa ti ha raccontato tua madre di me?» volle sapere Raymond. «La verità. Mia madre non mentiva mai. Mi ha spiegato che tuo padre era un pazzo che a sua volta ha fatto di te un pazzo.» «Non sono pazzo, Catherine, voglio solo il meglio per la mia terra e per i miei. Sono erede di una tradizione e ho delle responsabilità per il presente e per il futuro, proprio perché sono erede di un passato. Forse lo capirai quando sarai la contessa D'Amis.» «Non ho alcuna intenzione di diventare contessa» assicurò Catherine. «Poco importa quello che vuoi, lo sarai quando morirò io. Questo non lo puoi cambiare. Sai, da anni mi tormenta l'idea che forse questa nostra famiglia finirà con te; che tanti secoli di impegno svaniranno perché tu sei diventata così.» «E come sarei diventata?» replicò lei piccata. «Non era difficile immaginare come ti stava educando tua madre. Per anni l'ho supplicata che ti lasciasse venire al castello a conoscere quella che sarebbe stata la tua eredità, ma lei si è sempre rifiutata. E poi il tuo atteggiamento quando sei diventata maggiorenne e hai rifiutato qualsiasi cosa ti legasse a me...» «Non mi serviva niente di quello che tu potevi darmi. Mia madre bastava e avanzava per mantenere tutte e due. Quando ero piccola ha accettato il denaro che le mandavi perché riteneva che non dovessi privarmi di niente
a causa tua, ma in realtà i tuoi soldi non ci servivano.» Raymond sospirò. Quella ragazza lo sfiniva. Così diretta, disinibita, sicura di sé; così diversa da come l'aveva sognata. L'accompagnò all'hotel Maurice senza osare chiederle quando si sarebbero rivisti. «Dimmi una cosa, come facevi a sapere che ero al Crillon?» «Il mio avvocato si è messo in contatto con il tuo, e a quanto pare lui lo ha informato che eri a Parigi.» Si salutarono senza neppure darsi la mano. Raymond sentiva una forte oppressione al petto: temeva che quella sarebbe stata la prima e ultima volta in cui avrebbe visto sua figlia. 33 Omar aveva dato appuntamento a Mohamed e ad Alì nel paesino di Caños Blancos. Lungo la strada per Caños Blancos i due ragazzi avevano scherzato nervosamente, coscienti che Omar avrebbe comunicato loro la data e i dettagli finali dell'attentato. Entrambi sapevano che si stavano godendo l'ultimo viaggio della loro vita. Mohamed temeva pure che Omar gli parlasse nuovamente di Laila. Sua sorella sembrava essere divenuta un incubo per la comunità musulmana e tutti consideravano lui responsabile per non essere stato capace di farla stare al suo posto. Ma qual era il suo posto, si chiedeva. Era difficile per una donna non lasciarsi contagiare dal modo di vivere di altre donne come lei. Suo padre era debole e sua madre la proteggeva lasciandola fare, accettando di scontrarsi con suo marito e con lui stesso. Mohamed era tormentato dal ricordo di quel giorno, quando, senza volerlo, aveva picchiato sua madre. Era successo la sera in cui aveva sentito sua sorella dire che andava a cena a casa di un amico, il giovane avvocato con il quale, insieme ad altre amiche, divideva lo studio. Gli era parso vergognoso che lei andasse a cena a casa di un uomo, per di più da sola; bastava poco per immaginare cosa poteva succedere dopo cena. Sua sorella si era vestita con dei jeans neri e una camicetta di seta, e si era truccata. Lui le aveva ordinato di non uscire, ma lei si era rifiutata di obbedire; allora, quando stava per picchiarla, sua madre si era messa in mezzo tra i due e aveva ricevuto il colpo destinato alla figlia.
Sua madre lo aveva chiamato "pazzo" e aveva maledetto di avere un figlio come lui. Da quel giorno quasi non gli rivolgeva la parola; di solito la sentiva ripetere a suo padre che quel figlio avrebbe portato disgrazie. Suo padre la rimproverava senza molta convinzione e le chiedeva di provare a convincere Laila a non provocare le ire del fratello. Ma sua madre replicava che Laila era buona e prudente, e che sarebbe stata il bastone della sua vecchiaia, mentre Mohamed le causava solo sofferenza. Suo padre tentava di mantenere un difficile equilibrio tra la pretesa del figlio di piegare Laila e il desiderio della giovane di continuare a essere e agire come aveva fatto fino all'arrivo di suo fratello. Mohamed sapeva che fino a quel momento Laila non aveva consentito a nessun ragazzo di superare certi limiti, ma credeva nell'uguaglianza tra uomini e donne e si ribellava all'ipotesi di essere sottomessa a qualsiasi uomo! Lui aveva chiesto a suo padre di mandarla in Marocco e farla sposare con le buone o con le cattive, ma il padre aveva ammesso di non avere il potere per farlo. Laila era cittadina spagnola per decisione propria e neanche lui, che era suo padre, poteva obbligarla a prendere marito contro la sua volontà. Quando arrivarono a Caños Blancos, Alì cominciò a ridere. «Che stupidi! Cercano il Circolo dappertutto e non si sono accorti che questo paese appartiene a loro; tutto, perfino le pietre.» «Meglio così» rispose Mohamed. «Questo è un buon rifugio.» «La cosa più divertente è che vengono qui i giornalisti della televisione a mostrare come si vive in un paese tutto musulmano nei pressi di Granada in pieno XXI secolo e chiedono alla gente cosa pensano del Circolo. Patetici! Hanno una paura terribile! Non sanno più cosa fare per non disturbarci e avere la nostra approvazione.» «Sì, qui le cose vanno così, poi però ammazzano i nostri fratelli in Iraq, in Palestina, in Afghanistan» rispose Mohamed. Il fratello di Hakim aprì loro la porta di casa e li condusse immediatamente nella sala dove li aspettava Omar, che li salutò abbracciandoli. «Bene, Salim al-Bashir mi ha trasmesso le ultime istruzioni. L'attentato avverrà Venerdì Santo, il giorno in cui Gesù fu crocefisso. Un'idea geniale.» «Proprio così» affermò Alì con entusiasmo. «Distruggeremo i resti della croce proprio nell'anniversario della crocifissione. Sarà un evento mondiale» continuò Omar «immagino che siate pronti.»
«Lo siamo» risposero Alì e Mohamed all'unisono. Omar consegnò a ognuno una borsa e di nuovo li abbracciò. «I nostri fratelli del Circolo apprezzano il sacrificio che state per compiere. I vostri nomi verranno ricordati nel tempo. In ogni borsa c'è mezzo milione di euro.» Alì e Mohamed li guardarono sorpresi. Perché tanto denaro se inevitabilmente sarebbero morti? «Il denaro non può compensare la perdita di una vita, ma può aiutare le vostre famiglie che non potranno più contare sul vostro aiuto. Ve li consegno in contanti perché è meglio così. Se tuo padre, Mohamed, ricevesse un bonifico di mezzo milione di euro le autorità si insospettirebbero immediatamente, e lo stesso succederebbe alla tua famiglia, Alì.» «Ma... non è necessario... mio padre si guadagna da vivere bene» rispose Mohamed. «Tuo padre perderà due figli e ha bisogno di garantirsi la vecchiaia. E poi, stai dimenticando la tua sposa? Hai moglie e due bambini. Che ne sarà di loro quando non ci sarai più? Quanto alla tua famiglia, Alì, questo denaro li aiuterà nella loro attività in Marocco.» A Mohamed non era sfuggita l'affermazione di Omar secondo cui suo padre avrebbe perso due figli. «Grazie» disse Alì. «La mia famiglia ve ne sarà grata eternamente.» «Non devi ringraziarmi, il Circolo non abbandona mai i suoi uomini. E adesso ripassiamo il piano; vediamo come andrete a Santo Toribio e dove nasconderete l'esplosivo.» Il piano di Omar era semplice; in realtà ne avevano già parlato in altre occasioni. Avrebbero partecipato a un'escursione insieme ad altri pellegrini. La fortuna era dalla loro parte perché un gruppo di catechisti dell'età di Alì e Mohamed, ogni giovedì, andava a celebrare il giubileo a santo Toribio. Naturalmente, l'autobus era della compagnia di Omar, e l'autista un fratello del Circolo. Le cinture esplosive avrebbero viaggiato all'interno di borse adeguatamente preparate. Sarebbero partiti il giovedì di buon mattino e avrebbero dormito in un hotel di Potes insieme al resto dei pellegrini. La mattina del Venerdì Santo sarebbero usciti a mezzogiorno, ora prevista per l'inizio delle funzioni; Alì e Mohamed sarebbero passati inosservati nel gruppo di giovani. In quel momento avrebbero fatto saltare il monastero con tutte le persone che c'erano dentro e, cosa più importante, la piccola cappella dove in un reliquiario d'argento ricoperto d'oro i monaci custodivano gelosamente il più grande tra i frammenti del Lignum Crucis che la
cristianità conservava. Omar sorrideva soddisfatto. Nel suo sguardo non c'era neanche un'ombra di dubbio sul fatto che l'attentato sarebbe andato a buon fine. «Sapete già che Salim al-Bashir è preoccupato soprattutto per il vostro incarico. Io ho fiducia in voi. Il vostro successo sarà totale.» «E Hakim?» chiese Mohamed. «È ancora a Gerusalemme» rispose Omar. «Anche lui ha ricevuto le sue istruzioni. Suo fratello lo sostituirà come responsabile di Caños Blancos. È onorato di prendere il posto di un eroe come Hakim. Se oggi sono qui è perché sono venuto a consegnare anche a lui lo stesso aiuto che voi avete appena ricevuto.» Il fratello di Hakim entrò nella piccola sala seguito da un giovane che avevano visto in altre occasioni all'interno della casa. Il giovane depositò un vassoio con bicchieri fumanti di tè aromatico e dolci di mandorle e miele. Omar fece onore ai piatti, mentre Alì e Mohamed a stento riuscivano a nascondere il loro nervosismo. Mohamed sperava si presentasse l'occasione di restare solo con Omar per domandargli di Laila, ma siccome il caso pareva non essergli propizio, dovette chiedergli davanti a tutti se era possibile rimanere qualche minuto da soli. Il fratello di Hakim invitò Alì a fare due passi per consentire a Omar e Mohamed di parlare. «Cosa vuoi?» chiese Omar, di malumore. «Prima hai detto che i miei genitori perderanno due figli...» «Infatti, è così.» «Laila...» «Laila deve morire; tuo padre avrebbe dovuto risolvere il problema, ma non lo ha fatto. Non possiamo permettere che tua sorella porti avanti le sue attività. Il suo esempio sta recando danno alle nostre donne, soprattutto alle più giovani. Ti avevo chiesto di risolvere il problema.» «Sì, però poi mi avevi detto di non fare niente.» «È vero. Tu non devi metterti in pericolo. Sei destinato a una missione che darà gloria all'Islam» sorrise compiaciuto Omar. «Chi... chi lo farà?» osò domandare Mohamed. «L'onore della famiglia deve essere lavato in famiglia. Lo farà uno dei tuoi cugini; arriverà tra un paio di giorni dal Marocco.» La notizia fece rabbrividire Mohamed. Suo padre aveva annunciato che
suo fratello gli aveva chiesto di aiutare il più grande dei suoi due figli a trovare lavoro a Granada; ovviamente, avrebbe alloggiato da loro. Suo padre non sapeva che il nipote sarebbe venuto per uccidere sua figlia. Mohamed si sentiva impotente, divorato dalla rabbia. Rabbia verso Laila, che amava, e che per la sua testardaggine era condannata a morire. «È meglio così» continuò Omar «ma tu non preoccuparti. Ci occuperemo noi di tuo cugino. Sappiamo essere generosi, anche se questo non è un caso che avremmo dovuto risolvere noi. Ora non pensarci più. Sei un buon credente, presto sarai in Paradiso insieme ad Allah. Non sarai mica dispiaciuto per tua sorella?» Mohamed avrebbe tanto voluto avere il coraggio di dirgli di sì, che gli dispiaceva che Laila dovesse morire, che l'amava, che era sua sorella; invece abbassò lo sguardo verso il pavimento e non rispose alla domanda. «Quando succederà?» volle sapere e a Omar non sfuggì il tono teso della sua voce. «Questo lo deciderà tuo cugino. Toccherà a lui scegliere il momento giusto.» «Non voglio che soffra» chiese Mohamed. «Immagino che tuo cugino saprà come farlo senza che lei soffra più del necessario» rispose Omar con indifferenza. Né Mohamed né Alì parlarono molto durante il viaggio di ritorno a Granada. Alì pensava a cosa fare negli ultimi giorni della sua vita, mentre Mohamed non riusciva a togliersi dalla testa la sentenza di morte emessa nei confronti di Laila. 34 Raymond si svegliò presto. In realtà, quasi non aveva dormito pensando a Catherine. Temeva che lei, una volta saziata la propria curiosità, non volesse più rivederlo, mentre lui, adesso che l'aveva conosciuta, non poteva più rinunciare ad averla vicino. Era vecchio e fin dall'infanzia la solitudine era stata la sua compagna; desiderava con tutto se stesso poter dividere gli ultimi anni della sua vita con qualcuno che riempisse i suoi giorni di allegria. Non sapeva se Catherine sarebbe stata capace di renderlo felice, ma era sua figlia e il solo fatto di averla al castello sarebbe stata una benedizione. Pensò di chiamarla al Maurice e invitarla a pranzo ma, temendo la sua reazione, non ne ebbe il coraggio. E poi doveva aspettare la visita di Yle-
na, che poteva arrivare da un momento all'altro. Telefonò al suo fedele maggiordomo e gli chiese di preparare la stanza migliore e di sistemare fiori ovunque. Se Catherine fosse passata di là, voleva che si sentisse a casa, che si innamorasse di quel posto in cui avevano vissuto generazioni di D'Amis. Non aveva ancora terminato la conversazione con il maggiordomo quando sentì il campanello. Aprì pensando che fosse Ylena, e rimase lì, senza sapere bene cosa fare, quando si trovò davanti Catherine. «Hai già fatto colazione?» fu il suo saluto. «Sì, ho fatto colazione prestissimo» rispose Raymond senza sapere quale atteggiamento adottare davanti a quella figlia decisa a sorprenderlo. «Va bene, possiamo prendere un altro caffè, se ti va. Mi fai entrare o disturbo?» chiese lei, ancora ferma sulla soglia. «Entra pure. Scusami... non ti aspettavo» confessò Raymond. «Neanch'io pensavo di vederti, né oggi né per il resto della mia vita. E invece, eccomi qua.» Raymond la invitò a sedersi mentre chiedeva i caffè al servizio in camera. «Che impegni hai oggi?» chiese Catherine. «Oggi? Be'... vediamo... devo incontrare una persona. E dopo questo incontro è possibile che torni al castello. Sono un po' stanco; ormai ho una certa età e non ho ancora recuperato le forze dal viaggio negli Stati Uniti.» «Avresti dovuto risparmiartelo. Avevo chiesto al mio avvocato di contattare il tuo per dirti di non provare neanche a venire.» «Lo so, ma ho pensato che fosse mio dovere stare con te in un momento simile.» «Come hai potuto credere che avrei accettato di stare con te mentre seppellivo mia madre? Devi essere veramente pazzo se hai pensato una cosa del genere. Tu sei l'ultima persona che mia madre avrebbe voluto vedere al suo funerale.» «Ho fatto quello che mi sembrava corretto. Non era facile neanche per me venire fin lì per tentare di vederti. Sono stati giorni pesanti e di grande sofferenza» le confessò. «Sofferenza? È incredibile che sia proprio tu a parlare di sofferenza! Ero io quella che soffriva, che soffre per la perdita di mia madre, tu invece... Se l'avessi amata avresti rinunciato alle tue follie, avresti rotto con quel pazzo di tuo padre, avresti tentato di costruire una vita tua insieme a lei; e invece
l'hai sacrificata, come hai sacrificato me.» Il tono freddo e tagliente di Catherine fece ammutolire Raymond. Temeva di dire qualcos'altro che la disturbasse e che a quel punto si alzasse e lo lasciasse solo. «Forse non è stata una buona idea venire qui» disse lei alzandosi e dirigendosi verso la porta, dando pienamente corpo ai timori di suo padre. «No, per favore, non andare via!» Raymond si era alzato e si era piazzato davanti a lei con un atteggiamento di supplica. «Catherine, io... insomma, credo che dovremmo darci una possibilità, che tu dovresti darmi una possibilità. Non so... parliamo, conosciamoci, poi, se alla fine resterai dell'idea che sono un mostro... voglio dire... non hai niente da perdere.» «Non lo so, ho l'impressione che questo sia un tradimento nei confronti di mia madre.» «Un tradimento? E perché?» «A lei non piacerebbe vedermi qui con te, questo lo so di certo.» «Per favore, Catherine, giudicami dopo avermi conosciuto! Ma fallo tu, ragionando con la tua testa. Permettimi di deluderti direttamente.» «Sì, immagino che lo farai.» Dei colpi secchi alla porta interruppero la loro conversazione. Raymond fu preso dal terrore che fosse Ylena. Andò ad aprire la porta ed effettivamente si trovò davanti lei. «Buongiorno» disse mentre entrava nella suite senza aspettare che lui la invitasse a venire avanti, ma si bloccò di colpo quando vide una donna seduta in poltrona con una tazza di caffè in mano che la guardava con curiosità. Si voltò verso Raymond e lo interrogò con gli occhi sulla presenza di quella sconosciuta. «Se non ti dispiace possiamo vederci dopo. Ora ho da lavorare» chiese Raymond a sua figlia. «Va bene, ci vediamo» rispose Catherine di malumore. «Ti passo a prendere in albergo tra un'ora?» «No.» Raymond temette che Catherine se ne andasse per non tornare, per cui decise di correre un rischio che il Facilitatore non gli avrebbe perdonato se ne fosse venuto a conoscenza. «Perché non mi aspetti qui mentre io parlo con questa signora nello studio?»
«Va bene» accettò Catherine controvoglia. Raymond indicò a Ylena di seguirlo nel piccolo studio vicino alla sala, e benedisse l'ampio spazio di cui disponeva in quella suite del Crillon. Quando chiuse la porta e si sentì in salvo dallo sguardo inquisitore di sua figlia, dovette affrontare quello perplesso di Ylena. «Chi è?» chiese la donna. «È mia figlia, non si preoccupi.» «Nessuno deve vedermi con lei.» «Non sapevo quando sarebbe venuta: si è presentata senza preavviso.» Ylena lo guardò preoccupata. Quell'imprevisto la sconcertava. Non le era piaciuta la figlia di Raymond; si era sentita squadrata dalla testa ai piedi da quella ragazza. Raymond le consegnò una borsa con i documenti e il denaro, che lei controllò minuziosamente. «Hanno promesso dei soldi per le nostre famiglie.» «Qui ce n'è una parte; il resto lo riceverete tra un paio di giorni, è già tutto sistemato. Cerchi la sedia, le armi e gli esplosivi all'indirizzo che troverà nella busta. Lì vi consegneranno tutto il materiale, che è già stato preparato. I suoi accompagnatori sono pronti?» «Sì, sono pronti.» «Bene, allora non c'è molto altro da dire. Buona fortuna.» «Fortuna? Lei sa bene che sto per morire.» «Lo so, ma morirà compiendo una vendetta; sarà una morte dolcissima.» Ylena non rispose. Un leggero rumore la mise in allerta e la spinse a guardare verso la porta che separava lo studio dalla sala dove era rimasta Catherine. Raymond vide il suo gesto e tentò di tranquillizzarla. «Non si preoccupi, non ci sente nessuno.» «È sicuro?» «Assolutamente.» Quando tornarono nel salone Catherine stava parlando al cellulare; sembrava immersa in una conversazione con un'amica. Raymond fu sollevato nel vederla così. Ylena neanche la guardò. «Chi era quella ragazza?» chiese Catherine appena Ylena fu uscita. «Non sapevo che fossi curiosa...» rispose lui aggirando la risposta. «E infatti non lo sono, solo che... insomma, non so molto di te, e mi ha sorpreso vedere una ragazza così... speciale a quest'ora del mattino.» «Speciale? Cos'ha di speciale?» «Il suo aspetto. È molto bella anche se non ha gusto nel vestire.»
«Per soddisfare la tua curiosità ti dirò che lavora nello studio del mio avvocato e che mi ha portato dei documenti che dovevo firmare. Contenta?» «Be', in realtà non è che m'interessi molto. Mi dispiace per la domanda indiscreta» si scusò lei. «Io torno al castello. Vuoi venire con me?» «Al castello? Adesso?» «Sì, con la firma di quei documenti non ho più niente da fare a Parigi, quindi me ne torno a casa. Tu volevi vedere il castello, giusto?» «Sì, però... insomma, non so se posso venire adesso.» «Sarai la benvenuta in qualsiasi momento.» «Quindi te ne vai?» «Sì, a meno che tu non voglia che resti qui con te.» «No, non ho bisogno di te.» «E allora torno al castello, ho degli impegni da rispettare.» Catherine si alzò e prese il cappotto; Raymond la guardò triste e intimorito. Non riusciva a capirla. Da quando era uscita dal Crillon, due uomini dello Slavo seguivano Ylena senza che questa se ne accorgesse. Avevano ordine di non perderla di vista e, soprattutto, di verificare che non fosse seguita da nessuno. Uno degli uomini sembrava a disagio, e di tanto in tanto continuava a guardarsi indietro. «Cosa c'è?» gli chiese il collega. «Non so, ma ho l'impressione che ci stiano seguendo. C'era una donna strana nella hall dell'albergo.» «Non dire sciocchezze! Sono stato attento a tutti quelli che sono entrati e usciti e non ho visto nessun tipo sospetto.» «Forse hai ragione tu.» «Questo lavoro finisce per renderci paranoici.» «Comunque sarà meglio non sbagliare, altrimenti il capo ci taglia a fette.» Dieci agenti del Centro di coordinamento antiterrorismo seguivano i passi dei due uomini dello Slavo e di quella donna alta e magra che attraversava a passo svelto place de la Concorde, diretta verso l'altra sponda del fiume, dove si trovava l'Assemblea Nazionale. Erano in contatto permanente con Lorenzo Panetta, che aveva intimato loro di non perdere di vista né la donna né i due delinquenti. Un'altra squadra del centro si era messa
in movimento per dare man forte agli agenti che erano già in strada. Panetta e Lucas erano fermamente intenzionati a scoprire cosa nascondesse il conte D'Amis; erano sempre più convinti che padre Aguirre avesse ragione e che quel conte, come diceva il gesuita, avrebbe tentato di perpetrare la sua vendetta contro la Chiesa, anche se entrambi temevano che seguendo Raymond de la Pallisière avrebbero rischiato di perdere le tracce del Circolo. Forse Hans Wein aveva ragione: i cattivi frequentano gli stessi supermercati di armi, quindi era tranquillamente possibile che Karakoz stesse servendo il Circolo e il conte allo stesso tempo, ma Panetta aveva deciso di lasciarsi guidare dal suo intuito e Matthew Lucas lo assecondava. Sperava di non essere sul punto di commettere il primo errore della sua carriera. «Abbiamo saputo qualcosa dalla sua fonte?» chiese il sacerdote a Panetta. «Per adesso ci racconta solo cose vaghe, senza importanza, ma spero che molto presto possa esserci di grande utilità.» «Quella persona sta correndo un grosso rischio; se il conte scopre che lo stanno spiando è capace di fare qualsiasi cosa» disse il gesuita con aria preoccupata. «Non si preoccupi; chi fa questo mestiere sa quali rischi può correre» intervenne Matthew Lucas. «Lo stesso, mi preoccupa l'idea che ci sia qualcuno nella tana del lupo» insistette il sacerdote. «È un rischio che devo correre» affermò Panetta. «È di vitale importanza sapere quali passi sta facendo il conte e questo lo possiamo sapere solo se qualcuno ce lo racconta dall'interno.» «Se il suo capo lo viene a sapere, cosa farà?» chiese il sacerdote. «Il mio capo sa quasi tutto; sa che stiamo ottenendo informazioni dall'ambiente del conte, anche se non gli ho precisato come e chi ce le fornisce. Quando tutto questo sarà finito, glielo dirò io stesso, gli spiegherò tutto quello che ho fatto, ma per adesso è meglio che nessuno sappia più del necessario. Lei è un sacerdote e sa tenere il segreto, quanto a Matthew... be', credo che malgrado tutto capisca perché l'ho fatto.» Padre Aguirre si accese una Gauloises, aveva ripreso a fumare. Si rimproverava per la propria debolezza, ma si consolava dicendosi che una volta finito quell'incubo e tornato al suo ritiro di Bilbao non avrebbe mai più acceso una sigaretta. Anche Panetta fumava, ed entrambi si vergognavano un po' davanti agli sguardi di riprovazione del giovane Matthew. Quella mattina Lorenzo ave-
va già fumato mezzo pacchetto di Gauloises e si sentiva la gola secca e acida. Seduto davanti a una serie di monitor attraverso i quali seguivano il tragitto di quella strana ragazza per le vie di Parigi, il vecchio sacerdote approfittava dei momenti di silenzio per pregare. «Sa una cosa, padre? Si stenta a credere che in pieno XXI secolo un uomo arrivi a voler attentare contro la Chiesa per una cosa accaduta nel XIII secolo, per quanto quel frate Julián avesse lasciato l'incarico di vendicare il sangue dei catari.» Ignacio Aguirre soppesò le parole di Matthew Lucas prima di rispondergli. In realtà, da anni rispondeva alla stessa domanda, e ancora di più da quando il vescovo Pelizzoli lo aveva fatto chiamare a Roma. E più rispondeva alla domanda, più si accorgeva delle errate interpretazioni alle quali dava luogo la cronaca di frate Julián. «Frate Julián non voleva che scorresse altro sangue, e non chiedeva in alcun modo vendetta per la crociata contro i catari. Niente di più lontano dal suo pensiero.» «Padre, credo di aver letto almeno mezza dozzina di volte quella cronaca e la frase finale è assolutamente chiara: "Un giorno qualcuno vendicherà il sangue degli innocenti".» «Questo è ciò che frate Julián temeva; che davanti a tanto spargimento di sangue qualcuno avrebbe creduto che l'unica risposta fosse la vendetta. Frate Julián era un uomo con problemi di coscienza, un prete che non condivideva ciò che stava facendo la Chiesa, ma che si sentiva incapace di tradirla.» «In realtà, però, l'ha tradita» puntualizzò Matthew. «No, non lo fece. Tentò di conciliare entrambe le lealtà, e io credo che in qualche modo ci riuscì. Lui non prese le distanze in nessun momento dalla Chiesa, non divenne cataro, anche se tentò di aiutare a non morire quelle persone che avevano una visione diversa del cristianesimo. Fu leale nei confronti di donna Maria, le fu grato per ciò che aveva fatto per lui, e volle essere all'altezza di quello che riteneva il suo dovere nei confronti della casa degli Aínsa, per quanto l'essere figlio bastardo gli dolesse nel profondo dell'anima. Proteggendo donna Maria tenne fede a un impegno di lealtà con suo padre, anche se questi non gli aveva mai chiesto di farlo. «Il male di frate Julián fu la coscienza: vivere la contraddizione di essere leale a due cause così diverse. Era un uomo perbene, un uomo che detestava la violenza, e anche un uomo la cui ragione andò a urtare contro il fana-
tismo senza misericordia di padre Ferrer. Non può isolare l'ultima frase dal resto della sua vita; oltretutto questa è anche l'interpretazione del professor Arnaud, che in definitiva è stato colui che ci ha lasciato in eredità lo studio su frate Julián: il suo timore è che un giorno qualcuno voglia vendicare tante morti e per questo verrà versato altro sangue.» «Il professore dà un'interpretazione assai benevola e interessata della cronaca di quel frate.» «No, Matthew, non è così. Se oltre alla cronaca ha letto tutte le annotazioni del professor Arnaud che l'accompagnano, vedrà che ho ragione. E le assicuro che Ferdinand Arnaud non era un uomo religioso e neppure credente.» «Lei è arrivato a conoscerlo molto bene» constatò Lorenzo Panetta intervenendo nella conversazione. «Ci siamo visti solo due volte, ma sono state due occasioni molto particolari e, per quanto possa sembrare difficile, a volte si conosce più un uomo con il quale hai trattato per un'ora soltanto di qualcuno che vedi tutti i giorni.» Dopo aver vagato un po', Ylena s'infilò nella metropolitana e prese una linea che fermava vicino alla Gare de Lyon. Gli agenti che la seguivano la videro avvicinarsi alla biglietteria e comprare un biglietto pagandolo in contanti. Uno di loro, mostrando un tesserino della polizia all'impiegato della stazione, riuscì a sapere che la donna sarebbe salita sull'Orient Express e che sarebbe andata a Istanbul. Gli agenti informarono nervosamente Panetta e questi diede l'ordine di far salire sul treno almeno due di loro che non dovevano perderla di vista neanche per un attimo. Che comprassero il biglietto direttamente dal controllore, che inventassero quello che volevano per giustificare la propria presenza sul treno: non avrebbe accettato scuse se quella misteriosa giovane fosse sfuggita al loro controllo. «Va a Istanbul» spiegò a Matthew a padre Aguirre, che ascoltava in silenzio gli ordini di Panetta. «Chiamerò immediatamente la mia agenzia; abbiamo degli uomini lì» assicurò Lucas. «Lo faccia. Io intanto chiamerò Hans. Anche se abbiamo già degli uomini, sarà meglio dirottare laggiù una squadra, in questi casi gli occhi non sono mai troppi.» Stava chiamando Hans Wein per comunicargli le ultime novità, quando
uno degli agenti appostato al Crillon lo chiamò per annunciargli che il conte stava lasciando l'hotel. Panetta non esitò neanche un attimo per ordinargli di seguirlo. «Immagino che non incontrerà la ragazza, ma bisogna stargli dietro ovunque vada.» Padre Aguirre si accese una sigaretta e aspirò il fumo assassino che gli bruciava la gola. Lorenzo Panetta lo imitò. Matthew Lucas uscì dalla stanza protestando sottovoce. Quando sentì la voce del suo amante, la donna ebbe un sussulto, anche se a quel numero di cellulare poteva chiamarla soltanto lui. Ma Salim non l'aveva mai cercata durante l'orario di lavoro e questo particolare la mise in allarme. «Sei occupata?» «Sì» mormorò lei arrossendo. «Dobbiamo vederci.» «Quando?» «Adesso.» «Adesso? Dove sei? Non so se posso...» «Quanto ti manca per la pausa pranzo?» «Quindici minuti, ma di solito mi fermo qui alla caffetteria del centro; non abbiamo molto tempo, mezz'ora al massimo. Non possiamo vederci più tardi a casa mia?» «A casa tua no: sarà sotto controllo.» «Allora...» «Che programmi hai per stasera?» «Niente, andrò a casa.» «Cerca di fare quello che fai di solito. Preparati per andare a correre: fai ancora jogging, vero?» «Sì.» «Benissimo, allora vai a correre. Potresti andare ai giardini della place du Petit Sablon, quelli piccoli vicino a casa tua. Ci vediamo lì.» La donna provò un gran sollievo quando sentì il clic che indicava l'interruzione della chiamata. Si guardò intorno per vedere se qualcuno la guardava, ma nessuno sembrava farle caso. Gli impiegati del centro parevano non preoccuparsi dei fatti degli altri, ma lei sapeva per esperienza personale che alla fine tutti sapevano tutto della vita dei colleghi. E lei era una persona particolarmente esposta, che ora più che mai aveva bisogno di diven-
tare invisibile. Non mangiò quasi niente, ma nessuno fece commenti sulla sua mancanza di appetito. Cercò di non sembrare in ansia prima di andarsene, e quando arrivò l'ora prese la borsa e lasciò l'ufficio. Si impose di guidare piano per arrivare a casa. Una volta lì, si cambiò con calma cercando la tuta più appropriata. Non che avesse molte speranze di fare colpo su di lui, ma almeno ci avrebbe provato. Quindi si ritoccò il trucco, si mise una tuta che pensava le stesse bene e uscì come tante altre sere a correre nei pressi della sua casa, che si trovava nell'elegante e discreto quartiere di Sablon, vicinissimo alla place Royale e al Museo di Arte Antica. In quell'edificio vivevano due alti funzionari della NATO e, come sapeva bene, era sempre sotto controllo. In realtà Bruxelles era una città sorvegliata giorno e notte, dove i servizi di spionaggio di tutto il mondo non si perdevano mai di vista. Passò davanti alle statue dei conti di Egmont e di Horn, vittime secoli addietro della corona spagnola, e corse intorno al cancello del parco, un cancello di ferro lavorato, decorato con colonne in stile gotico. Il parco era piccolo ma molto verde e a quell'ora c'era poca gente. Lasciò vagare lo sguardo e quasi subito lo vide camminare distrattamente come chi non ha fretta e si sta godendo una passeggiata. Tentò di comportarsi con naturalezza mentre si dirigeva verso di lui. «Stai correndo un grandissimo rischio a venire qui» gli disse. «Sì, immagino di sì, ma avevo bisogno di vederti.» «È successo qualcosa?» chiese allarmata. «Voglio che io e te ci sposiamo.» Lei sentì il sangue salirle alla testa. La richiesta di matrimonio di Salim la sconcertava. Come poteva aver intenzione di sposarla dopo quello che era successo a Roma? L'aveva disprezzata fino a farla sentire meno di una nullità e adesso, all'improvviso, le chiedeva di sposarlo? «Ma... perché?» ebbe l'ardire di chiedere. «Non lo sai perché? Perché ti amo. Sono davvero dispiaciuto per quello che è successo. Voglio che tu cambi, che sia come me, ma desidero che tu lo faccia perché mi ami quanto io amo te.» Nel tono gelido di Salim non c'era un pizzico di romanticismo, ma lei credette che stesse facendo un grande sforzo per mostrarsi pentito. «Io ti amo, Salim; certo che voglio sposarti.» «Allora lo faremo quanto prima.» «Sei pazzo, sai che non possiamo! Avresti tutto il centro che indaga su
di te, e io non ti sarei di nessun aiuto.» «Per adesso sono ancora un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Voglio che ci sposiamo, ho già preparato tutto. Lo faremo a Roma tra una settimana.» «A Roma?» dal suo tono trasparì una nota di dolore. A Roma aveva vissuto il peggior giorno della sua vita, aveva creduto di averlo perso, si era sentita umiliata, disprezzata. «Sì, a Roma. Voglio rimediare a quanto è successo. Non ti abbraccio perché non so se qualcuno può vederci, ma devi essere sicura del mio amore.» La donna tirò un sospiro di sollievo. Non era più riuscita a prendere sonno da quando era tornata da Roma, da quel fine settimana fatidico, e adesso lui le chiedeva di diventare sua moglie, una cosa che non aveva osato neanche sognare! «Ti amo, Salim, ti amo più della mia stessa vita e non avrei mai creduto che un giorno sarei diventata tua moglie. Cambierò il mio modo di essere, diventerò una buona musulmana, ti seguirò dovunque vorrai. Non posso stare senza di te.» «Allora mi hai perdonato?» disse lui guardandola intensamente. «Puoi fare di me ciò che vuoi, Salim.» «Bene, allora organizzati. Dev'essere tutto pronto tra una settimana a Roma. E chiedi qualche giorno per la nostra luna di miele.» «Devo annunciare che mi sposo?» «Non c'è bisogno. Lo farai al ritorno. Decideremo insieme cosa fare dopo. Ora dobbiamo pensare solo al matrimonio.» «Salim, non voglio tornare in quell'hotel» supplicò lei. «Non ci torneremo. Ti va bene l'Excelsior?» «Tutti, ma non...» «Taci, non pensarci più. Ti ripagherò, ti prometto che ti ripagherò di tutto. E adesso vai, corri, pensa a noi due. Mi dispiace non poterti abbracciare.» La donna si mise a correre senza meta, dopo aver attraversato rue de la Régence diretta verso la place du Grand Sablon, dove in quel momento si stava illuminando la facciata di Notre Dame du Sablon, una chiesa goticofiamminga che era uno degli orgogli della città. Quando tornò nel suo appartamento era esausta e si chiese perché non si sentiva felice. Voleva sposare Salim, sapeva che il suo destino era unito a quell'uomo, ma la sua richiesta di matrimonio l'aveva incupita. Questo non
metteva in dubbio neanche per un attimo la sua volontà di sposarlo, lo avrebbe fatto, certo, come avrebbe fatto qualsiasi cosa lui le avesse chiesto. In realtà ormai non apparteneva più a se stessa, lo sapeva da quella sera a Roma, quando lui l'aveva fatta sentire poco meno di un burattino. Da allora non era più riuscita a recuperare l'autostima; per questo non riusciva a sentirsi felice pur sapendo che lui l'amava. 35 Sua madre aveva cucinato il cuscus d'agnello con l'aiuto della silenziosa Fatima. Suo padre aveva chiesto a Laila di non uscire di casa quel sabato e di dare il benvenuto, insieme al resto della famiglia, a suo cugino. Mohamed aveva temuto che la sorella rifiutasse, ma lei sembrava aver accettato di buon grado di partecipare a quella cena familiare. Mustafà arrivò a metà pomeriggio con una piccola valigia come unico bagaglio, anche se assicurava di voler cercare fortuna in Spagna. «Qui le cose non sono facili» gli assicurò Mohamed «sono sempre più fiscali con i documenti; e sono anche razzisti, preferiscono i sudamericani perché sono cristiani come loro.» Il padre di Mohamed assicurò a Mustafà che avrebbero fatto l'impossibile per aiutarlo e che poteva fermarsi a vivere con loro per tutto il tempo che sarebbe stato necessario. «Sei il figlio di mio fratello, sangue del mio stesso sangue, e questa è casa tua. Non possiamo permetterci lussi, ma qualche comodità non ce la facciamo mancare.» Mustafà li intrattenne raccontando le ultime novità che erano accadute in famiglia: matrimoni, decessi, lavori... mescolava tutto mentre faceva onore al cuscus servito dalla moglie di suo zio. «E tu, Laila? Mangi sempre insieme agli uomini?» chiese improvvisamente a sua cugina. «Perché, ti offende vedermi seduta a mangiare a tavola in casa mia?» «No, ma... vedo che tua madre ci serve come fanno le buone musulmane e che tua cognata l'aiuta, ma loro non sono sedute insieme a noi.» «Qui siamo in Spagna, Mustafà» rispose Laila «e io sono spagnola. Ho preso la nazionalità da molti anni. Qui non c'è differenza tra uomini e donne, tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri. Non mi crea problemi aiutare a servire la cena; lo faccio con piacere, ma non condivido che mia
madre non possa sedersi con noi e che non possa farlo neanche Fatima. Cosa c'è di male nel mangiare insieme? Non crederai che Allah si dispiaccia se lo facciamo?» «La tradizione è legge e le nostre leggi vanno rispettate. Per quanto tu abbia cambiato nazionalità, resti sempre quella che sei: Laila, la figlia dei tuoi genitori, marocchina e musulmana; o forse hai ripudiato la nostra fede?» «Sono credente e ogni giorno che passa sento che Allah mi dà più forza per vivere e per portare avanti quello che faccio.» «E credi che rompere con la tradizione sia la cosa giusta da fare?» «Dobbiamo entrare nel XXI secolo, Mustafà. L'orologio della storia non si ferma. L'hanno fatto i cristiani, lo hanno fatto gli ebrei e noi non possiamo restare ancora indietro. Dimmi una cosa, Mustafà: se tu avessi un cancro andresti in un ospedale? Ti faresti operare? Accetteresti di ricevere un trattamento sanitario all'altezza del secolo in cui viviamo? O preferiresti farti applicare un impiastro e farti curare con un decotto di erbe?» «Non capisco cosa vuoi dire» rispose Mustafà contrariato. «Che se avessi una malattia grave ti cureresti con i rimedi di questo secolo, non accetteresti di morire solo perché nel passato si curava con salassi e impiastri. Dobbiamo adattare le nostre abitudini al mondo attuale, e questo non ha nulla a che vedere con la fede o la pietà. Io sono credente, Mustafà, ma se mi ammalo vado dal medico, se voglio fare un viaggio lo faccio in aereo o in treno, in pullman, oppure in nave come hai fatto tu; non monto in groppa a un asino per andare da un paese all'altro. Se voglio informarmi su quello che succede in Marocco accendo la televisione, non aspetto che un parente mi scriva per dirmi quello che succede laggiù. Per avere notizie della famiglia utilizzo il telefono, proprio come te. E non affido i miei cibi al fresco della notte, ma li conservo in frigorifero. Il mondo è cambiato, Mustafà, l'orologio della storia non si è fermato, e noi dobbiamo adattare le nostre abitudini, le nostre norme, al mondo in cui viviamo; dobbiamo leggere i testi antichi con un altro occhio, senza perdere di vista il messaggio essenziale, e il messaggio essenziale è che Allah esiste e non dobbiamo dimenticare che è il Misericordioso.» Erano rimasti ad ascoltarla in silenzio. Sua madre abbozzando un sorriso di orgoglio; Fatima, con ammirazione; suo padre, con affetto; Mohamed, con sorpresa; e perfino Mustafà, visto il tempo che impiegò a reagire, sembrava impressionato da Laila. «Stai giocando con le parole. Chi sei tu per interpretare la legge? Sei
forse più saggia dei nostri imam e dei nostri ulema, che hanno dedicato tutta la vita allo studio del Corano? Cerchi solo delle scuse per giustificare il tuo comportamento. Solo questo.» «Il mio comportamento? Cosa sai tu del mio comportamento? A cosa ti riferisci?» «Mi ha sorpreso vederti senza hijab... seduta qui con gli uomini; e quanto alle cose che dici... fai in modo che non ti senta nessuno, perché saresti motivo di scandalo nella nostra comunità.» «Solo chi lo vuole si scandalizza, ed è in loro che si annida il male, non nelle mie parole. Io dico solo che la fede non è incompatibile con la democrazia, con la libertà e con il rispetto delle credenze degli altri. C'è una frase di Martin Luther King che mi ha sempre colpito, e dice così: "Siamo stati capaci di volare come gli uccelli, di nuotare come i pesci, ma non siamo capaci di vivere come fratelli". Bene, io credo che questo sia possibile, dipende da noi, basta non essere così superbi da credere di avere sempre tutta la ragione, è sufficiente non volerci imporre sugli altri, non voler condannare e combattere coloro che pensano o sentono in maniera diversa. Lasciamo che ognuno preghi il suo Dio, diamoci regole e leggi che tutti siano in grado di rispettare, che rendano possibile una convivenza pacifica e rispettosa e riconoscano i diritti sacri che abbiamo in quanto persone.» «Basta!» gridò Mohamed, più emozionato di quello che poteva permettersi. Le parole di sua sorella arrivavano nel più profondo della sua anima e provava una rabbia infinita verso di lei, per la sua capacità di creargli dei dubbi. Per un attimo Mohamed si era lasciato coinvolgere dai ragionamenti di Laila; pensava che non sarebbe servito a niente il suo gesto di immolarsi, che il mondo non sarebbe stato migliore dopo che loro avrebbero distrutto i resti di quella croce sulla quale era morto il profeta Isa. Laila aveva fatto vibrare la sua coscienza, ma lui non poteva più tornare indietro. «Calmati, Mohamed» chiese suo padre «e tu, Laila, taci una buona volta e non metterci in cattiva luce davanti al figlio di mio fratello. Mustafà parla in base a una tradizione che tutti dobbiamo rispettare. E adesso dovremmo ritirarci, Mustafà sarà stanco e vostra madre e Fatima devono potersi sedere a riposare e mangiare un boccone.» Mustafà annuì e ringraziò mentre Mohamed lo guidava nella piccola stanza che fino a quel momento aveva ospitato i figli di Fatima. Finché Mustafà fosse rimasto da loro, i bambini avrebbero condiviso la stanza con
Fatima e Mohamed, e questo sarebbe stato un sollievo, perché in quel modo avrebbe avuto un'altra scusa per non toccarla. Non era rimasta incinta malgrado tutti i tentativi e lui provava ogni giorno più repulsione per il corpo flaccido di sua moglie, per i suoi occhi indifferenti che lo lasciavano fare per di più senza emettere un suono. Quando la possedeva lei era lontana almeno quanto lo era lui. «Moglie, appena finisci vai a letto, hai un'aria stanca» ordinò Darwish uscendo dalla sala. La donna annuì senza rispondere. Non appena restarono sole, fece un cenno a Laila e a Fatima perché la seguissero in cucina. «Laila, devi fare attenzione. Non mi piace quello che ha detto tuo cugino Mustafà.» «Madre, non devi preoccuparti, lui non può farmi niente.» «Sì, può farlo» mormorò Fatima. Laila e sua madre le rivolsero uno sguardo carico di attesa. Fatima si morse il labbro senza decidersi a parlare. Aveva imparato ad apprezzare sua suocera, che non aveva mai alzato le mani su di lei e si mostrava gentile e affettuosa con i suoi figli. Quanto a Laila... l'ammirava, le sarebbe piaciuto avere il coraggio di essere come lei. Prima di conoscerla aveva sempre pensato che il suo dovere fosse quello di essere sottomessa agli uomini, ma adesso... non più. Certo, non aveva il coraggio di ribellarsi contro Mohamed, né contro il venerabile imam Hasan al-Jari, del quale aveva l'onore di essere sorella; ma il fatto che non fosse capace di farlo non escludeva che Laila avesse ragione nel dire certe cose. «Cosa vuoi dire, Fatima?» le chiese Laila più incuriosita che preoccupata. «Sono i nostri costumi... lo sai... possono lavare l'onore della famiglia... possono ucciderci se macchiamo l'onore della famiglia... e tuo cugino... non so... perdonami, ma non mi piace.» Laila scoppiò a ridere e si avvicinò a Fatima per abbracciarla. Provava compassione per sua cognata, per quella donna poco aggraziata, che si nascondeva sotto la djellaba scura e con un hijab che le copriva sempre i capelli. «Fatima, qui siamo in Spagna, qui certe cose non succedono; nessuno mi ucciderà, e poi io non ho macchiato l'onore della famiglia.» Sua madre invece era impallidita, di fronte alle parole della nuora. Era rimasta sorpresa dall'insistenza del fratello di suo marito perché accogliesse suo figlio Mustafà ed era rimasta ancor più inquieta vedendo come que-
sti aveva subito cercato lo scontro con Laila. «Di solito però l'onore della famiglia devono lavarlo i familiari diretti, il padre, il marito, il fratello....» disse la donna guardando Fatima. «Ci sono occasioni nelle quali, se è necessario, viene incaricato un altro membro della famiglia. Può succedere che ci siano padri che non si sentono capaci di uccidere la propria figlia, e... insomma, io credo che malgrado tutto Mohamed voglia bene a Laila. A volte ho temuto che lui... ma no... non credo che sarebbe capace di ucciderla.» La madre di Laila emise un gemito di dolore mentre sua cognata la guardava con stupore. Fatima stava parlando della vita di sua figlia come se questa non le appartenesse, come se vivere o morire dipendesse dalla volontà della sua famiglia. «Fatima, sono anni che lotto contro le cose che stai dicendo. Non possiamo dare per scontato che un'adultera venga lapidata, che a un ladro venga tagliata la mano, che una donna venga assassinata per lavare non so quale strano concetto di onore o che una bambina venga data in moglie a uno sconosciuto.» «Stai attenta, Laila, non essere troppo fiduciosa!» le disse Fatima con voce di supplica. «E stai attenta a Mustafà, evitalo. Non ti lasceremo sola, neanche di notte dovrai stare sola. Chiudi bene a chiave la porta e non fidarti di tuo cugino.» Fatima si spaventò quando sua suocera le si avvicinò, le prese la mano e, stringendola con forza, le chiese di guardarla negli occhi. «Che cosa sai, Fatima? Devi dircelo!» le ordinò. «Non so niente, ve lo assicuro. Se sapessi qualcosa ve lo direi, non dubitate. Non voglio che... non voglio che succeda qualcosa a Laila, ma ho paura.» Le tre donne rimasero in silenzio, intimorite, e per la prima volta anche Laila ebbe paura. Mohamed aiutò suo cugino a sistemare i pochi vestiti che aveva in valigia. «Tua madre non avrebbe dovuto permettere a tua sorella di diventare una cristiana» fu il rimprovero di Mustafà a Mohamed. «Laila è così come la vedi e non è colpa di mia madre. Qui le cose non funzionano come nel villaggio in cui vivi tu, qui è obbligatorio che le bambine vadano a scuola e, disgraziatamente, qualcuno mette loro un sacco di idee in testa. I miei genitori ci hanno educato a dovere.» «Tu sei un buon musulmano; di te devono sentirsi orgogliosi, ma tua so-
rella... sta provocando il disonore alla nostra famiglia.» «Mia sorella non ha fatto nulla di riprovevole» la difese Mohamed. «Andiamo, sai bene che non è così! Quello che ha detto stasera è blasfemo. Immagino che tu abbia dell'affetto per lei, ma non dovrebbe importarti di quello che le accadrà; prima risolviamo il problema, meglio è. Avresti dovuto farlo tu, ma mi hanno detto che... ora sei un uomo importante, che non devi avere problemi con la legge. Per questo c'è la famiglia. Tuo padre è un debole, lo è sempre stato, me lo ha spiegato mio padre. È un peccato, perché è il maggiore, anche se di fatto è a mio padre che la famiglia si rivolge per avere giustizia.» «Mio padre non è affatto debole» protestò Mohamed sentendosi umiliato. «Tua sorella dovrebbe già essere morta. Tu non puoi farlo, e va bene. Ma lui?» «Tu saresti capace di uccidere tua figlia? Be', immagino che non sia in grado di rispondere a questa domanda visto che sei giovane e non hai figli.» «Ho tre sorelle alle quali non esiterei a tagliare la gola se si comportassero come Laila. Ma questo non succederà perché mia madre le ha educate bene e sono tutte e tre sposate.» «Credevo che le tue sorelle fossero più giovani di te.» «Infatti è così. La più grande ha diciotto anni, la seconda ne ha sedici e quella più piccola quattordici. Mio padre ha organizzato i loro matrimoni quando erano ancora bambine e loro hanno accettato quel destino, come deve essere. Perché non avete fatto sposare Laila? Mia madre dice che se l'aveste mandata in Marocco ve l'avrebbe restituita sposata. Mia madre non capisce il comportamento di tua madre.» «Va bene. Ora però pensa a riposare.» Mohamed non voleva continuare la discussione con suo cugino. Non tollerava quello che faceva Laila, ma non sopportava neppure i rimproveri di Mustafà contro sua sorella e i suoi genitori. «Non mi fermerò molto tempo, forse appena una settimana» lo avvertì suo cugino. «Non avere fretta, perché magari...» Mohamed restò in silenzio, mentre Mustafà aspettava che terminasse la frase. Mohamed, però, uscì dalla stanza senza dire altro. 36
Raymond de la Pallisière presiedeva la riunione settimanale della fondazione Memoria Catara rispondendo alle domande preoccupate dei suoi numerosi aderenti. Quegli uomini condividevano il suo odio per la Chiesa e si erano affidati a lui per portare avanti un piano in grado di infliggere un brutto colpo a Roma; nessuno sapeva, né voleva sapere, però, in cosa consistesse questo colpo, anche se erano ansiosi di conoscere quando si sarebbe verificato. Restarono tutti in silenzio quando Edward, il leale maggiordomo del conte, entrò con passo svelto nella biblioteca dove si celebrava la riunione. Edward si avvicinò al conte D'Amis e gli mormorò qualcosa all'orecchio che lo fece emozionare visibilmente davanti agli occhi stupiti dei presenti. «Signori, vogliate scusarmi per qualche minuto, tornerò tra un attimo.» Raymond abbandonò la biblioteca seguito da Edward. Il maggiordomo non si era ancora ripreso dallo stupore del momento in cui un domestico lo aveva avvisato che era appena arrivata una signorina, la quale stava aspettando nell'ingresso e diceva di essere la figlia del conte. Edward era accorso immediatamente e si era trovato davanti una donna giovane dallo sguardo impertinente, con un paio di valigie Louis Vuitton che gli chiedeva di avvertire suo padre. Il conte era arrivato il giorno prima; non gli aveva detto che aspettava qualcuno, e ancor meno quella sua figlia che, per quel che ne sapeva, viveva negli Stati Uniti e con la quale il conte non aveva rapporti. Catherine era in piedi e sembrava di cattivo umore. Raymond le si avvicinò interrogandola con lo sguardo. «Sei la benvenuta al castello.» «Grazie.» «Edward, accompagni mia figlia Catherine nella stanza verde; mandi una domestica per aiutarla con le valigie e per qualsiasi altra cosa.» «Non penso di fermarmi molto...» «Puoi restare quanto vuoi; adesso, se permetti, ho una riunione con dei signori membri del comitato della mia fondazione. Il castello è a tua disposizione. Spero di non metterci molto.» «Non voglio essere un fastidio.» «Non lo sei. Ma adesso, se vuoi scusarmi...» Raymond tornò sui suoi passi sentendosi sconcertato e insieme soddisfatto per l'arrivo di sua figlia. Avrebbe dovuto abituarsi al carattere imprevedibile di Catherine, che in questo sì somigliava alla sua defunta mo-
glie. Catherine seguì Edward per le scale fino al primo piano, dove il discreto maggiordomo aprì una porta che introduceva in un stanza tappezzata di seta color verde pallido. «Le manderò immediatamente una domestica che l'aiuterà a disfare i bagagli.» «Non c'è bisogno. Sono capace di farlo da sola.» «Gliela manderò comunque, nel caso avesse bisogno di qualcosa...» «Non ho bisogno di niente. Grazie.» Quando Edward uscì dalla stanza, Catherine tirò un sospiro di sollievo guardandosi intorno. Il letto a baldacchino le parve immenso e le piacque anche il secretaire appoggiato al muro e le due piccole poltrone foderate di un verde più intenso rispetto a quello delle pareti. Vide due porte e, curiosa, le aprì: una immetteva in un bagno, l'altra in uno spogliatoio. Impiegò non più di dieci minuti per disfare i bagagli. Era ansiosa di conoscere il castello. Quando uscì dalla stanza trovò Edward a pochi metri dalla porta. «La signorina ha bisogno di qualcosa?» «Sì, vorrei visitare il castello; le dispiacerebbe mostrarmelo?» Il maggiordomo sorrise soddisfatto per la richiesta e si preparò a trasformarsi in guida per quella ragazza che un giorno sarebbe stata la padrona. «Bene, signori. Non mi resta che annunciarvi che nel giro di pochi giorni risarciremo le nostre famiglie della sofferenza che si sono viste infliggere in passato. Accadrà Venerdì Santo; non posso dirvi altro né tanto meno a voi converrebbe saperlo.» Un signore avanti con gli anni e con un marcato accento occitano chiese la parola. «Voglio complimentarmi a nome di tutti noi per il lavoro che sta svolgendo. La famiglia D'Amis è stata la luce che ha mantenuto accesa la memoria di quanto accaduto nella nostra terra e che ci ha impedito di dimenticare i nostri martiri. Lei, così come suo padre, ha dimostrato una generosità senza limiti.» Di seguito parlò un uomo di mezza età. «Comprendiamo che lei non possa darci informazioni precise, ma non sarebbe possibile conoscere almeno la portata di quello che sta per accade-
re?» Raymond li guardò per qualche secondo prima di rispondere. No, non avrebbe detto una parola di più. Il Facilitatore aveva continuato a insistere sulla necessità della discrezione. Gli ripeteva che nessuno doveva sapere più di ciò che era strettamente necessario. Neppure le corporazioni che il Facilitatore rappresentava sapevano cosa sarebbe accaduto e quando. Volevano risultati, e quelli il Facilitatore li garantiva; e allo stesso modo garantiva agli uomini come lui che era arrivato il giorno della vendetta. «Per la vostra stessa sicurezza, oltre che per la mia e per il successo dell'operazione, è meglio che non sappiate niente. Vi dico solo di stare in campana il Venerdì Santo, il giorno in cui i cristiani piangono la crocifissione... Non posso dirvi altro, signori.» In quel momento si aprì la porta e tutti i partecipanti rivolsero lo sguardo verso la figura di donna che si disegnava nell'ombra della soglia, mentre la voce di Edward protestava. «Signorina, le ho detto che in biblioteca non si può entrare.» Ma Catherine si piazzò in mezzo a quella grande stanza sorridendo ai presenti e senza guardare suo padre. «Vi chiedo scusa! Mi dispiace avervi interrotto...» Raymond guardò sua figlia e lei vide nei suoi occhi verdi scintillare l'ira. «Signori, vi presento mia figlia. Catherine, questi signori sono i membri del comitato della fondazione Memoria Catara.» Tutti i presenti si alzarono all'istante per salutare la figlia del conte D'Amis. Tutti sapevano della sua esistenza. Qualcuno aveva addirittura conosciuto Nancy, la capricciosa moglie di Raymond de la Pallisière. Catherine li salutò sorridente e rinnovò a tutti le sue scuse per aver fatto irruzione in quel modo. «Purtroppo sono appena arrivata e devo confessare che questo posto mi entusiasma. Non ho potuto resistere alla tentazione di entrare quando Edward mi ha detto che qui c'era la biblioteca con i ritratti dei nostri antenati... tutto questo è assolutamente nuovo per me...» Tutti la trovarono incantevole e si complimentarono con Raymond; gli dissero addirittura che era ora che quel luogo fosse addolcito da una mano femminile. Non ci fu bisogno di dare per conclusa la riunione, di fatto già lo era, e Raymond chiese a Edward di servire qualcosa di fresco da bere ai suoi invitati. Data l'ora, le sette e mezzo, la maggioranza optò per un bicchiere di jerez.
Catherine fece conversazione un po' con tutti, interessandosi alle abitudini della regione e mostrandosi avida nell'apprendere. Raymond lasciò che l'ira si dissipasse e lasciasse spazio all'orgoglio di averla come figlia. Mezz'ora dopo quei signori si accomiatarono augurando a Catherine un felice soggiorno al castello e invitandola a far loro visita in compagnia di suo padre. Un uomo anziano, molto più del conte, si avvicinò a quest'ultimo e lo abbracciò, poi baciò la mano a Catherine. «Oggi è un giorno felice, non solo per le buone notizie che suo padre ci ha dato, ma anche perché abbiamo avuto la fortuna di conoscerla. Mio caro amico, noi ci sentiamo il Venerdì Santo.» Raymond fu tentato di rimproverare Catherine per aver interrotto la riunione, ma decise di non farlo; si sentiva troppo orgoglioso di aver presentato a quegli uomini colei che sarebbe stata la sua erede. «Parli benissimo il francese» disse il conte «dove l'hai imparato?» «Mia madre ha voluto che lo studiassi» rispose Catherine. «Ho avuto una professoressa canadese, madame Picard. Era molto brava.» «A giudicare dal tuo accento, lo era sicuramente.» Hakim beveva lentamente il tè aromatico offerto da Said, il capo del Circolo a Gerusalemme. I due uomini discutevano i dettagli dell'attentato. «Il tuo visto è valido per un mese, dunque non devi preoccuparti. Quanto ai pellegrini con i quali sei arrivato, oggi stanno visitando il Sinai» affermò Said. «Credi che gli ebrei non si accorgeranno di niente? Loro controllano tutto...» «Non sono infallibili. Non sanno combattere nell'ombra. Guarda quello che è accaduto in Libano, non sono stati capaci di sconfiggere Hezbollah. Sono preparati per lottare contro gli eserciti, per lanciare bombe atomiche, ma non per combattere nell'ombra.» «Ma il Mossad...» «È un mito! E noi ne siamo la prova: non sanno niente del Circolo. Avanti, stai tranquillo!» «Non dobbiamo fidarci troppo.» «Non ci fidiamo, infatti. Abbiamo uomini che ci seguono dappertutto per sapere se il Mossad o lo Shin Bet ci controllano e non hanno rilevato niente. Sei protetto ventiquattr'ore su ventiquattro, amico mio.» «Non sono preoccupato per la mia vita, ma per la buona riuscita dell'o-
perazione.» «Vivrai fino a quel giorno e il mondo intero sarà sbalordito davanti alla tua impresa. Avrai la benedizione dei nostri fratelli.» «Non devono benedire me, ma gli uomini che ci sanno guidare.» «E adesso, amico mio, ripassiamo il piano. È una fortuna che il nostro fratello Omar gestisca un'agenzia di viaggi. I suoi ordini sono chiari: la mattina di venerdì ti unirai al gruppo di pellegrini con i quali sei arrivato, per recarti alle funzioni della chiesa del Santo Sepolcro. Nessuno ti noterà; ci saranno centinaia di pellegrini da tutto il mondo e le guide sanno organizzare bene le visite dei gruppi. Indosserai la cintura esplosiva.» «E i controlli?» «Credi che un gruppo di pellegrini possa interessare i soldati israeliani? Neanche vi guarderanno. Devi soltanto arrivare fino al punto dove si custodiscono le reliquie e lì... da lì andrai direttamente in Paradiso. Manovrare la cintura è facile, devi solo tirare un anello.» «Ma la reliquia sarà ben protetta, credi che l'esplosione riuscirà a distruggerla?» «Non resterà nulla; è un peccato che tu non possa vederlo. A proposito, Omar mi ha incaricato di dirti che in questi ultimi giorni dovrai unirti a una delle escursioni del gruppo con il quale sei arrivato. Quando torneranno dall'escursione sul Sinai attraverseranno la frontiera con la Giordania per andare a Petra; dovrai andare con loro.» «Bene. Ma prima voglio tornare alla chiesa del Santo Sepolcro, voglio fare di nuovo la strada che dovrò percorrere.» «No, meglio non andare. Non conviene, qualcuno potrebbe notarti. Ci siamo già andati tre volte, ormai conosci il percorso a memoria.» «Devo andarci un'altra volta...» «No, Hakim. Non dobbiamo sfidare la sorte.» «Sai, mi manca tanto il mio paese...» «Il tuo paese?» «Caños Blancos... non sono mai stato tanto felice come laggiù. Se lo vedi dalla strada pensi che le case siano sospese sulle rocce. In primavera profuma di zagare e di frutta e il cielo è di un colore azzurro intenso, per tutto il giorno si sente il suono dell'acqua che cade nelle fontane. Credo che sia la cosa che più somiglia al Paradiso.» Catherine aveva voluto guidare e lui aveva accettato controvoglia; si sentiva più sicuro con l'autista che aveva al suo servizio da molti anni.
Raymond era sorpreso dal cambiamento che sembrava aver subito Catherine. Non che sua figlia si mostrasse affettuosa con lui, ma era meno burbera e sulla difensiva rispetto all'inizio e c'erano perfino dei momenti in cui la vedeva rilassata e sorridente. Lui le aveva mostrato ogni angolo del castello e avevano visitato i dintorni, ma la gran visita era prevista per quella mattina: si stavano dirigendo verso Montségur. Sua figlia continuava a fargli domande sulla fondazione Memoria Catara, sembrava rapita da un repentino interesse per il passato; si disse perfino entusiasta della cronaca di frate Julián, dopo essere stata tanto reticente quando lui le aveva chiesto di leggerla dicendole che era necessario farlo per comprendere la storia familiare. Ma in quel momento Raymond pensava al Facilitatore. Lo aveva chiamato un paio di volte senza ottenere risposta e questo lo inquietava. Aveva telefonato anche allo Slavo per assicurarsi che Ylena avesse ricevuto il materiale come gli avevano assicurato, ma neanche quella telefonata era andata a buon fine: il telefono dello Slavo non rispondeva. «Non mi stai ascoltando, ti vedo distratto...» «Scusa, cosa mi stavi dicendo?» «Ti stavo chiedendo di quel professore che aveva scritto la storia di frate Julián.» «Il professor Arnaud? Be', mio padre lo contattò perché era uno dei migliori medievalisti di Francia. Sfortunatamente, il rapporto con il professore non fu facile. Era sposato con un'ebrea che un giorno sparì e questo lo mandò fuori di senno.» «Sparì? E perché?» «Non lo so. Credo che un giorno partì e non tornò più a casa. Lui non accettò mai questo abbandono. Divenne un uomo difficile. Mio padre voleva che lavorasse insieme a un gruppo di ricercatori e studiosi, non solo francesi, ma lui non faceva che creare ostacoli. L'unica cosa che gli interessava era la cronaca.» «E cos'altro avrebbe dovuto interessargli?» «Catherine, ti ho già spiegato che i catari custodivano un segreto, un segreto che non è ancora stato svelato: il Graal.» «Per favore, queste sono soltanto favole!» rispose lei irritata. «Questo lo credi tu, ma in qualche luogo esiste un oggetto con una forza straordinaria e chi lo possiede... insomma, chi lo possiede può diventare l'uomo più potente del mondo.»
Catherine rise, ma lui non se la prese. Sapeva che era inutile convincere sua figlia dell'esistenza di un simile oggetto. Rifiutava anche l'idea che esistesse un tesoro dei catari. «Tu stesso hai detto che il professor Arnaud era un grande medievalista, e nelle sue note a margine degli scritti di frate Julián lui esclude l'esistenza del tesoro nascosto. Il professor Arnaud mette bene in chiaro che il tesoro altro non è che il denaro e i gioielli che i credenti donavano alla loro Chiesa, e che successivamente utilizzarono per le loro necessità.» «Ci sono testi che assicurano il contrario. Il professor Arnaud era un uomo di grande prestigio, ma non è l'unico ad aver studiato la storia dei catari.» «Però tuo padre aveva cercato lui.» «Tuo nonno aveva bisogno di qualcuno la cui autorità fosse rispettata da tutti per autenticare le pergamene della cronaca.» Faceva freddo e Raymond sentì un brivido quando scesero dall'auto. Catherine sembrava entusiasta della visita e fu sorpresa nel trovare ai piedi di quella roccia un gruppo di turisti che ascoltava con attenzione le spiegazioni di una guida. «Montségur significa "monte sicuro" e in effetti riuscì a resistere più di quanto il re di Francia e il papa si aspettassero» diceva la guida. «Vieni?» chiese Catherine a suo padre che camminava lentamente e non sembrava troppo entusiasta dell'idea di salire fino alla sommità di quel posto che conosceva come il palmo della sua mano. «Ti accompagnerò solo per una parte del percorso.» A Raymond piaceva vedere Catherine andare da un lato all'altro, emozionarsi nel Campo dei Bruciati, farsi una foto vicino alla stele in ricordo di quei poveretti. Cadeva una pioggia sottile quando, due ore dopo, Catherine diede per conclusa la visita. «Ho sentito la guida dire che questo non è il vero castello dei catari, che nel XIV secolo venne costruita la nuova fortezza.» «Ci sono i resti di quello antico, lavorato proprio nella pietra della montagna: la base e una parte delle mura.» «Non riesco a smettere di pensare alla tua antenata, donna Maria.» «La nostra antenata, Catherine.» «Tu capisci bene che tutto questo lo sento molto lontano da me, dal mio mondo. Però quella donna Maria aveva un carattere eccezionale.» «Credo che tu lo abbia ereditato» rispose Raymond con un sorriso.
«Perché dici questo? Non sono credente e non sono neanche una fanatica come la tua antenata.» «Però mi sembra che tu abbia lo stesso caratteraccio di donna Maria. Il povero frate Julián ne era terrorizzato, e tutta la famiglia girava intorno a quella donna santa.» «Sì, perfino il templare... poveraccio, diventare cavaliere templare per dispetto nei confronti di sua madre...» «Fernando era un cavaliere valoroso. E quanto a fare il contrario di ciò che si aspettano i genitori, è una storia vecchia come il mondo; anche tu ti diverti a contraddirmi.» «Questo sì, non la pensiamo allo stesso modo su nessun argomento, ma con mia madre era diverso. Bastava guardarci negli occhi per sapere cosa pensavamo.» Raymond parve sobbalzare quando sentì la suoneria del cellulare. A Catherine sembrava strano che suo padre tenesse sempre tre cellulari a portata di mano, ma non era riuscita a farsi dire perché. «Sì...» All'altro capo del telefono Raymond sentì la voce dello Slavo. Catherine si allontanò di un paio di passi per lasciarlo parlare con una certa intimità, ma non abbastanza da non ascoltare la conversazione. «La ragazza arriverà a Istanbul senza ulteriori difficoltà. Voglio che mi chiami una volta che sarà arrivata a destinazione insieme al resto del gruppo...» «È chiaro che riceverà il denaro pattuito, ma prima voglio essere sicuro che sia arrivata senza problemi. I suoi uomini devono garantire la sicurezza della ragazza fino a Venerdì Santo ed evitare qualsiasi incidente... Naturalmente mi assicurerò che la ragazza stia bene... Le ho già detto che riceverete il resto dei soldi nei prossimi giorni, lasci stare il suo capo e non si permetta di minacciarmi, è una cosa che non tollero... Si limiti a fare ciò che le ho detto, lei non deve sapere più di quello che già sa, dovete solo proteggerla fino a Venerdì Santo; quel giorno, quando lei uscirà dall'hotel insieme al resto della squadra, potrete lasciarla, il suo lavoro sarà terminato. L'unica cosa che mi preoccupa è che Ylena entri in possesso di tutto il materiale...» Malgrado il conte avesse abbassato la voce, c'erano momenti in cui sembrava alterato, e per questo a Catherine giungevano frammenti della conversazione; quando Raymond chiuse la telefonata, lei si era accesa una sigaretta e sembrava pensierosa.
«Scusami, ma gli affari mi inseguono fin qui sulla montagna sacra.» «Problemi?» volle sapere lei. «Nessuno. Niente di speciale, solo che la gente non lavora in modo efficace e bisogna ripetere le cose mille volte perché se le facciano entrare in testa. Torniamo al nostro castello?» «Sì, ma intanto voglio ringraziarti per avermi portato qui; è stata una bella esperienza.» Tornando verso il castello D'Amis, Catherine guidava con lo sguardo fisso sulla strada e pareva distratta. Neanche suo padre aveva molta voglia di parlare, ma per la seconda volta lo squillo del cellulare lo costrinse a farlo. «Salim, amico mio, sono felice di sentirla... È già a Roma? Sono contento che vada tutto bene... E come procede l'operazione?... Bene, bene, la sento di umore eccellente... e gli altri amici?... Benissimo, spero che vada tutto secondo le previsioni e che non ci siano errori... Immagino che lei controllerà tutte e tre le squadre... sì, non posso parlare troppo, sono in macchina... La seconda parte del denaro la riceverà prima del Venerdì Santo... Sì, lo so che mancano quattro giorni, ma non si preoccupi, quelle famiglie non verranno abbandonate... Spero di risentirla venerdì prossimo e, se tutto andrà bene, amico mio, ci vedremo a Parigi per festeggiare.» «Vedo che i tuoi affari non ti lasciano neanche un minuto libero» disse Catherine quando il padre chiuse il cellulare. «Proprio così. Meno male che l'invenzione del cellulare ci permette di non dover restare tutto il giorno in ufficio.» «Ma davvero non ci sono problemi?» «Perché me lo chiedi?» «Non so, forse per il tono della tua voce. Non ho potuto evitare di ascoltare la conversazione...» disse lei. «No, non c'è nessun problema, ma le operazioni finanziarie mi preoccupano sempre, almeno fino a quando non sono andate a buon fine, soprattutto se non dipendono da me.» «Posso fare qualcosa per aiutarti?» L'offerta di Catherine lo sorprese. Osservò sua figlia che non distoglieva gli occhi dalla strada, e sentì un desiderio enorme di confidarsi con lei, ma non lo fece. Catherine era come Nancy, e sua moglie lo aveva abbandonato quando era venuta a sapere ciò che pretendeva la famiglia D'Amis; soprattutto le aveva fatto orrore sapere che cercavano il Graal e che credevano di appartenere a una razza superiore. Era sicuro che Catherine avrebbe reagi-
to come Nancy e lui non avrebbe sopportato di perdere sua figlia adesso che l'aveva conosciuta. «Non preoccuparti, non ho bisogno di aiuto. Se ne avessi bisogno non esiterei a chiedertelo, anche se non so se sei esperta di operazioni finanziarie.» «Puoi fidarti di me» rispose lei con tono di sfida. «Fidarmi? Gli affari non hanno nulla a che vedere con la fiducia.» «Io invece credo di sì... ma non fa niente; in fin dei conti sono un'estranea e non posso pretendere che mi racconti tutto ciò che fai, di cosa vivi, di che ti occupi.» «Sono il conte D'Amis, amministro il patrimonio ereditato dai miei antenati: terre, valori finanziari, investimenti... Cerco di non correre rischi, anche se a volte è inevitabile, e quando succede mi inquieto.» «E adesso è capitato...» «Sì, adesso è capitato; ti ho già detto che mi preoccupo quando le cose non dipendono direttamente da quello che faccio io, perché la responsabilità è di altri.» «E questo Salim?» «È un mio amico con il quale faccio affari, affari... delicati, difficili, che neanche da lui dipendono direttamente; entrambi dobbiamo fidarci di quello che faranno gli altri.» «Di dov'è Salim? Sembra un nome arabo, no?» «È britannico, ma di origine siriana. Un vero signore; lo conoscerai e sono certo che ti piacerà.» «Verrà al castello?» «Non lo so, ma perché me lo chiedi?» «Perché non mi fermerò molto.» «Quando pensi di andartene?» chiese Raymond sentendo una forte oppressione al petto e temendo la risposta. «Non lo so, ma non voglio neppure diventare un'ospite ingombrante.» «Catherine, il castello è casa tua, un giorno sarà tuo; non sei un'ospite, te l'ho già detto.» «Sai, ci sono dei momenti in cui non so più cosa pensare di me stessa. Conoscerti, vivere al castello, visitare i luoghi dove è vissuta mia madre... mi sento confusa.» «Non giudicarmi troppo in fretta. Dammi tempo e dallo anche a te stessa per sapere se vale la pena avermi come padre.» Il castello era immerso nel silenzio della notte quando arrivarono. Solo
Edward aspettava il conte ancora in piedi, per sapere se aveva bisogno di qualcosa, ma Raymond e Catherine erano sfiniti, volevano solo ritirarsi nelle rispettive stanze e riposare. 37 Da giorni non dormivano in un letto vero. Panetta, Lucas e padre Aguirre non si muovevano dalla delegazione del Centro di coordinamento antiterrorismo. In quel momento Panetta stava mettendo al corrente Hans Wein dell'ultimo rapporto inviato da Sarajevo dai colleghi di Matthew Lucas dell'Agenzia antiterrorismo statunitense. «Te l'ho appena mandato per e-mail, ma volevo che sapessi che il caso si complica. La ragazza si chiama Ylena Milojevic ed è serbo-bosniaca. Durante la guerra è stata violentata e i responsabili dello stupro l'hanno quasi uccisa. Era una pattuglia delle brigate musulmane. Non si può dire che la ragazza sia stata fortunata: in guerra ha perso il padre e un fratello. E adesso viene la sorpresa più grossa: gli uomini di Karakoz la seguono ovunque, ma lei sembra esserne all'oscuro. Un paio di giorni fa ha raggiunto un indirizzo di Istanbul insieme con un fratello e una cugina, ne è uscita con dei pacchi che hanno caricato su un furgoncino. Ma non è ancora finita: l'hanno appena vista su una sedia a rotelle, vestita in modo particolare, con un hijab che le copriva i capelli. Si sono incontrati con un altro cugino che, a quanto pare, li aspettava lì. Gli americani si stanno rivelando molto utili, ma dovresti parlare con i turchi. È evidente che quella donna pensa di combinare qualcosa in città. Il fatto che una serba si vesta come una credente musulmana...» Hans Wein ascoltava con preoccupazione Lorenzo Panetta. Quel caso si stava complicando enormemente e la cosa peggiore era che la storia pareva non avere alcun senso. Seguendo la pista di Karakoz si erano imbattuti in quell'aristocratico francese che aveva rapporti con lo Slavo, l'uomo di Karakoz a Parigi, e a partire da lì erano arrivati a quella donna misteriosa. Ma ancor più misteriosa era l'ultima conversazione tra il conte D'Amis e l'illustre professor Salim al-Bashir. Per quanto facesse fatica a credere che AlBashir potesse essere qualcosa in più di quel che appariva, temeva che il suo vice, Panetta, avesse ragione, perché l'ultima conversazione tra il conte e il professore era indubbiamente strana. A quali "operazioni" si riferiva e perché doveva mandargli dei soldi? E quali erano le famiglie che non sarebbero state abbandonate?
Panetta insisteva sulla necessità di seguire Salim al-Bashir notte e giorno, ma lui non si decideva ancora a fare questo passo, anche se era sempre più incline a parlarne con i britannici. «D'accordo, parlerò con i turchi, immagino che non avranno problemi a collaborare. A proposito, qui hanno detto di salutarti un po' tutti; sappi però che comincia a diventare difficile tenere i nostri fuori dal gioco. Laura White si sente offesa perché dice che è una mancanza di fiducia e Andrea Villasante ieri si è piazzata nel mio ufficio per dirmi che se non ci fidiamo di lei è pronta a presentare le dimissioni e chiedere il trasferimento in un altro dipartimento. Considera un'offesa personale il fatto di essere stata esclusa dal caso Francoforte. Non credi che stiamo esagerando con tutta questa riservatezza? Gli uomini della Sicurezza non hanno trovato nessuna fuga di notizie, hanno ripetuto le indagini su tutto il personale. E direi che questo è diventato un angolo di pace da quando se n'è andata Mireille Béziers; quella ragazza ci rendeva tutti nervosi. Fortunatamente non l'ho più incontrata neanche in ascensore.» «Perché non ti dimentichi una buona volta di Mireille, Hans?» rispose Panetta seccato. «Sì, hai ragione, mi sono già liberato di lei, anche se l'altro giorno mi hanno detto che suo zio, il generale, era furioso con il nostro dipartimento per averla fatta fuori. Spero che gli passi l'arrabbiatura. Il fatto di essere un generale della NATO non è un motivo sufficiente per costringerci a sopportare sua nipote.» «Sai una cosa, Hans? Credo che in fondo tu non sia affatto contento di aver mandato via Mireille. È stata una decisione ingiusta e tu lo sai.» «Certo che in te ha trovato un ottimo difensore...» «Io ho sempre creduto che Mireille Béziers potesse esserci utile, che fosse una persona di valore. Comunque, se non ti dispiace, parliamo di quello che sta succedendo.» Lorenzo Panetta chiese ostinatamente al suo capo di mantenere il caso al massimo livello di riservatezza, ricordandogli che da quando della faccenda si occupavano soltanto loro avevano fatto parecchi passi avanti. «Hans, so che per te è difficile non raccontare a Laura quello che stiamo facendo, è la tua assistente e lavora con te da anni; anch'io ho un'ottima opinione di lei, ma credimi, è meglio così. Dammi ascolto almeno in questo, è l'unica cosa che ti chiedo, e quanto ad Andrea... immagino che sia furiosa, ma devi sopportare la pressione. Mi assumerò io la responsabilità di averla tenuta fuori. Quando questa storia sarà finita chiederò scusa a tutto
il dipartimento e può darsi che quello sarà anche il momento giusto per dire addio.» «Cosa mi vuoi dire?» chiese preoccupato Hans Wein. «Ne parleremo, ma sono stanco di vivere a Bruxelles; ho voglia di tornare a Roma. Non so se te l'ho detto, ma mio figlio maggiore sta per rendermi nonno.» «Auguri, ma non sono d'accordo e devi sapere che farò l'impossibile per trattenerti. Ah, fai i complimenti ai nostri uomini di Parigi: stanno facendo un lavoro eccellente. Intanto qui se ne vanno tutti in ferie per la Settimana Santa. Andrea ha deciso di prendersi tutta la settimana, immagino per sottolineare il suo disagio, e ha detto a Diana Parker che non ha senso che resti qui di guardia. Laura se ne va domani. Vantaggi di vivere a Bruxelles, in un paese cattolico come il Belgio.» Padre Aguirre stava disegnando su un foglio di carta dei grossi quadrati con i nomi di coloro che apparivano nell'indagine: Karakoz, lo Slavo, Raymond de la Pallisière, Salim al-Bashir, Ylena Milojevic. Il vecchio gesuita aveva ben chiaro che tutti erano collegati da uno stesso obiettivo: attentare contro la Chiesa, sebbene Ylena sembrasse una pedina difficile da collocare. «Cosa diavolo vorrà fare a Istanbul?» si chiese ad alta voce Matthew Lucas. «Non lo so, ma niente di buono» rispose il gesuita. «È evidente che quella donna odia i musulmani per tutto ciò che le hanno fatto, eppure si è vestita come una credente musulmana. Anche sua cugina si è messa un hijab, e suo fratello e suo cugino si sono lasciati crescere la barba e hanno comprato dei vestiti nei bazar dei bosniaci.» «Questo non collima con la sua teoria, padre» disse a sua volta Matthew Lucas. «Non abbiamo trovato l'anello di congiunzione, ma sono sicuro che da qualche parte deve esserci. Non so cosa vada a fare Ylena Milojevic a Istanbul, ma sono sicuro che sarà un danno per la Chiesa» insistette padre Aguirre. «Va bene, aspetteremo. Non la perderemo di vista» assicurò Panetta. «Sappiamo che il momento cruciale sarà il Venerdì Santo: non soltanto "venerdì" è una delle parole che abbiamo trovato a Francoforte, ma è anche una data speciale per i cattolici. Il giorno in cui Gesù fu crocefisso. Il conte ha ricordato allo Slavo che Ylena agirà il Venerdì Santo, e più tardi,
nella sua conversazione con Salim al-Bashir, ha parlato di nuovo del Venerdì Santo, di tre operazioni previste per quel giorno... è evidente che stanno preparando un colpo contro la Chiesa. Quella data non è stata scelta in modo casuale, a maggior ragione se c'è di mezzo Raymond de la Pallisière. Lui odia la croce e tutto quanto essa significa... nelle carte di Francoforte compariva la parola "croce", e poi "scorrerà il sangue nel cuore del santo...", "sangue".» «È proprio questo che non capisco!» si lamentò Matthew Lucas. «Perché tra le carte di un commando islamico si parla della croce, di santi e della croce di Roma... Ci sto diventando matto ma non riesco a trovare il nesso con quella ragazza che ora si trova a Istanbul.» «L'anello mancante è Karakoz» affermò Lorenzo Panetta. «Oltre a Karakoz e al conte D'Amis c'è un altro anello che dobbiamo trovare» spiegò padre Aguirre. «La domanda è se queste operazioni delle quali il conte parlava con Salim al-Bashir abbiano una qualche relazione con quella ragazza o siano indipendenti. Prego perché si riesca a evitare una tragedia. Ho parlato di buon'ora con il vescovo Pelizzoli, gli ho chiesto di mettersi in contatto con il vostro capo. Capisco che il signor Wein non voglia essere accusato di avere pregiudizi, ma deve assolutamente far seguire Salim al-Bashir.» «Sarà difficile convincerlo che Salim al-Bashir appartiene al Circolo» affermò Matthew Lucas. «Posso sbagliarmi, ma... in realtà credo proprio che sia così. Credo anche che Raymond de la Palissiére sia entrato in contatto con questa organizzazione per portare a termine la sua vendetta contro la Chiesa; e per quanto voi siate sicuri che il gruppo terroristico non abbia bisogno del conte, non potete negare che se lui pagasse queste operazioni il Circolo non disprezzerebbe quel denaro. Voi stessi assicurate che i commando agiscono in maniera indipendente e molti si autofinanziano. Per me è chiaro che uno o più gruppi islamici stanno per compiere un attentato contro la Chiesa e che probabilmente il finanziamento di questo attentato è opera del conte D'Amis.» «Mi chiedo come sia stato possibile per il conte entrare in contatto con loro» mormorò Lorenzo Panetta. «Questo è un altro dei punti deboli della sua teoria» disse Matthew Lucas a padre Aguirre, facendo sua l'affermazione di Panetta. «Mi tranquillizza sapere che metterete in stato di allerta le autorità turche, perché è ovvio che ci sarà un attentato a Istanbul e che il giorno scelto
è il Venerdì Santo. Non ho dubbi nemmeno sul fatto che ci sarà un secondo attentato a Roma, che sarà impossibile da evitare se i miei superiori in Vaticano non riusciranno a convincere il signor Wein a far seguire il professor Al-Bashir. Quanto agli altri... speriamo che Dio ci illumini!» «Non so se Dio ci illuminerà, ma spero che almeno la fonte che siamo riusciti a infiltrare al castello sia capace di fare un po' di luce» affermò Panetta. «Se il conte arrivasse a sospettare che una persona del suo entourage lo sta spiando... non so, signor Panetta, ma a volte rabbrividisco all'idea di quello che potrebbe accadere.» «Non è stato facile riuscire a contare su una persona lì dentro, anche se devo riconoscere che finora non ci ha detto nulla che non sapessimo attraverso l'intercettazione dei telefoni del conte.» «Ma quella persona corre un grave pericolo» ribadì il sacerdote. «Ha scelto di correre quel rischio, e riceverà una ricompensa per questo» spiegò Matthew Lucas. «Andiamo, Matthew, non essere così severo. Lei sa che entrare nella tana del lupo è pericoloso e che si può rischiare la vita. Quanto al fatto di ricevere una ricompensa... l'importante è mantenere il segreto sulla nostra fonte, proprio per la sua sicurezza» replicò Lorenzo Panetta. Istanbul L'hotel scelto per il suo soggiorno era l'Etap Istanbul Oteli, lungo la Mesturiyet Caddesi. Il cugino di Ylena aveva prenotato due camere; una la dividevano i due uomini, l'altra le due donne. Tutti e quattro erano nervosi e impazienti, ma anche convinti che nulla e nessuno avrebbe impedito loro di portare a termine la vendetta. Non si erano accorti che due uomini li seguivano da vicino, e che quei due erano seguiti a loro volta da altri due. Hans Wein aveva parlato con il capo dello spionaggio turco avvisandolo della presenza di quel gruppo sospetto che sembrava avere rapporti con Karakoz. Riuniti in una delle stanze, i quattro ripassavano il piano. «Saliremo al Topkapi per consentirti di familiarizzare con il luogo» disse il cugino di Ylena. «Non so se è una buona idea correre questo rischio. È meglio andarci direttamente venerdì, rispettando alla lettera le istruzioni. Non ti preoccupare, ho memorizzato tutto, fino all'ultimo dettaglio. I due giorni che ho passato qui sono stati sufficienti per sapere come dovremo agire.»
«Ha ragione» intervenne sua cugina «è rischioso salire con la sedia, e se invece andassimo senza, qualche guardia potrebbe riconoscerla e allora sarà difficile spiegare che Ylena è diventata paralitica in un paio di giorni...» «Ylena, tu sei sicura di quello che stai per fare?» La voce di suo fratello rivelava una certa tristezza. «Certo che lo sono! Non me ne frega niente di morire, so che procureremo ai musulmani un danno infinito distruggendo le loro sacre reliquie. Vale la pena morire per questo.» «A volte temo che sia tutto un inganno... non capisco che cosa abbia in mente quell'uomo che hai incontrato a Parigi. Noi abbiamo un motivo per fare tutto questo, ma lui?» «Avrà anche lui i suoi motivi, ma a me non interessano. Ci hanno detto che poteva aiutarci e così è stato. Del resto, per quanto tempo abbiamo sognato di poter restituire il danno che ci hanno provocato? Questa è la nostra occasione. Quell'uomo ci ha dato i soldi, ha fatto in modo che ci fornissero le armi e il materiale di cui abbiamo bisogno; a me non interessa perché vuole che siano distrutte le reliquie di Maometto, la cosa importante è perché vogliamo distruggerle noi.» Il colonnello Halman, capo del controspionaggio turco, si rese conto che gli tremavano le gambe. L'intenzione di quel gruppo di giovani era distruggere le reliquie del Profeta custodite nel Topkapi. Aveva collocato dei microfoni nelle due stanze occupate dai ragazzi. Il Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea li aveva avvisati della presenza a Istanbul di un gruppo che sembrava intenzionato a commettere un atto terroristico e le informazioni erano risultate vere e dettagliate. Prima li avevano informati dell'arrivo di uno dei giovani, poi delle due donne e dell'altro ragazzo. Lui si era sistemato nello stesso hotel insieme ad alcuni dei suoi uomini migliori, nelle stanze vicine a quelle occupate dagli uomini del commando. «Vado in caserma» disse a uno dei suoi uomini «il capo deve sapere cosa stanno preparando questi pazzi. Bisognerà parlare con Bruxelles.» «Dovremmo arrestarli subito» gli rispose uno degli agenti. «No, l'ordine è di non fare niente, di aspettare e vedere se si mettono in contatto con altri terroristi.» Un'ora dopo, Hans Wein riceveva una trascrizione della conversazione tra Ylena Milojevic, suo fratello e i suoi cugini. Il direttore del Centro non poté evitare di sentire un brivido e telefonò immediatamente a Lorenzo
Panetta. «Ti mando sulla linea riservata una trascrizione della conversazioni di questa Ylena. Credo che dovresti andare a Istanbul. Non ci crederai, ma vogliono far saltare in aria le reliquie di Maometto.» «Cosa?» domandò sbalordito Panetta. «A quanto pare nell'antico palazzo dei sultani c'è un padiglione dove sono custodite le reliquie di Maometto, credo che abbiano dai peli della barba, alle spade, una lettera scritta su pelle e, cosa più rilevante, pare ci sia anche il suo mantello. La ragazza vuole ridurle in pezzi anche sacrificando la propria vita.» «Dio santo! Questo scatenerebbe una reazione incontrollabile da parte degli estremisti islamici. Non voglio neanche pensare a quello che sarebbero capaci di fare!» «Puoi immaginarlo benissimo. Siamo stati fortunati e... devo riconoscere che è merito tuo e del tuo impegno nel voler seguire quel vecchio conte francese. Ora almeno sappiamo in quale affare si è infilato Karakoz.» «No, non lo sappiamo ancora. Sappiamo solo una parte, ma non abbiamo la minima idea di quello che succederà a Roma. Ti ricordo che il conte, parlando con Salim, ha fatto riferimento a tre operazioni... Per Favore, Hans, parla con i britannici e poi chiedi agli italiani di seguire Al-Bashir!» Hans Wein rimase in silenzio per alcuni secondi che a Lorenzo parvero eterni. «Lo farò, ma saranno loro a decidere. Non posso correre il rischio di far pedinare un illustre professore che è pure consigliere del governo. Mi dispiace, ma non possiamo farlo senza il premesso dei britannici.» «E allora non perdere altro tempo! Sono sicuro che Al-Bashir non è quello che sembra!» «Sì, questa è la teoria di padre Aguirre, ma non lasciarti condizionare da lui, cerca di restare lucido, anche se immagino che sarà lì con te. Il Vaticano continua a fare pressioni per ricevere informazioni ogni ora. Quel gesuita è convinto che ci sarà un grande attentato contro la Chiesa, e guarda caso l'unica certezza che abbiamo è che stanno preparando un attentato contro l'Islam.» «Hans, padre Aguirre ha ragione. Ci aveva detto che Ylena stava andando a Istanbul per commettere un attentato e così è. Credo tu non sia in grado di prenderti la responsabilità di restare con le mani in mano, perché se Salim al-Bashir farà succedere qualcosa di grosso a Roma... be', la responsabilità sarà soltanto tua.»
«Mi stai dicendo che non condividi il mio modo di dirigere le operazioni?» «Ti sto dicendo che per una volta devi smetterla di agire come un politico timoroso di commettere un errore che rischia di mandargli a puttane la carriera!» «Parlerò con i britannici. Tu intanto mettiti in contatto con il responsabile turco di questa operazione, è un tale colonnello Halman» rispose Hans Wein evidentemente innervosito. Lorenzo Panetta riagganciò il telefono e accese una sigaretta prima di spiegare a Matthew Lucas e padre Aguirre quello che gli aveva raccontato Hans Wein. «Aveva ragione lei, padre: la ragazza si trova a Istanbul per commettere un attentato. A quanto pare vuole distruggere le reliquie di Maometto che si trovano custodite in un palazzo...» «Il Topkapi» precisò con gesto preoccupato il gesuita. «E se ci riesce... il mondo intero salterà per aria. Gli islamici radicali risponderanno attaccando le chiese, faranno scorrere sangue innocente. Dio mio, chi ha progettato una follia del genere vuol provocare uno scontro tra cristiani e musulmani!» «Potrebbe scoppiare una guerra» affermò Matthew. «Dopo questa scintilla sarà impossibile spegnere l'incendio.» «Maledetto conte!» L'espressione di Panetta era carica d'ira. «È la sua vendetta contro la Chiesa» sussurrò padre Aguirre. «Hans vuole che io vada a Istanbul, ma credo sia meglio restare qui...» «Io invece credo che la mia agenzia non sia obbligata a seguire gli ordini di Hans Wein, quindi adesso chiamo il mio superiore per dirgli che i nostri uomini a Roma non devono perdere di vista Salim al-Bashir.» «Matthew, questo non potete farlo senza di noi; non mi sembra il momento migliore per provocare un conflitto tra servizi di intelligence. Le ricordo che questa è un'indagine del nostro Centro e che ci stiamo comportando lealmente nei confronti della vostra agenzia passandovi ogni informazione. Vi sono grato per l'aiuto supplementare che ci state dando, ma ti chiedo caldamente di non fare un passo senza avvertire Hans Wein.» «Sei tu quello che sta agendo a sua insaputa» disse Matthew in tono di sfida. «Sì, è vero, e mi sto giocando la carriera. Ma solo quella. Se invece i vostri uomini si muovessero autonomamente all'interno dell'operazione, na-
scerebbe una crisi di fiducia tra l'intelligence europea e quella americana, e queste sono fratture molto difficili da sanare.» «Eppure, il giovane Matthew ha ragione» intervenne padre Aguirre. «Il suo capo, il signor Wein, sta tenendo un atteggiamento molto ostinato.» «Hans Wein è un eccellente professionista che non vuole commettere errori né eludere le regole, ed è così che deve agire» lo difese Lorenzo. Un minuto dopo stava chiamando il colonnello Halman del controspionaggio turco. Questi gli assicurò che teneva sotto controllo il commando e che poteva arrestarli in qualsiasi momento. Panetta gli chiese di non farlo, di aspettare fino all'ultimo minuto dell'ultimo giorno. «Se li arresta adesso metterà in allarme quelli che li manipolano e noi temiamo fortemente che ci siano altri attentati in arrivo. Quindi non li arresti, è necessario che si sentano sicuri. Cosa si sa dei due uomini di Karakoz?» Il turco gli spiegò che avevano preso alloggio nello stesso hotel e sembravano gli angeli custodi dei quattro giovani; fino a quel momento pareva non si fossero accorti di essere a loro volta controllati. «Faccia attenzione, sono professionisti, non si fidi troppo. Possono esserci altri uomini che li tengono d'occhio.» Il colonnello Halman gli assicurò che i suoi agenti sapevano benissimo quello che avevano tra le mani e gli chiese se dovevano arrestare anche gli uomini di Karakoz. «Sì, li arresti, ma solo quando glielo dirò io.» 38 Raymond de la Pallisière osservò soddisfatto il gruppo di turisti, più numeroso che in altre occasioni, visto l'approssimarsi della Settimana Santa. Da anni apriva le porte del castello un giorno alla settimana. Scuole, associazioni della terza età, turisti di passaggio per la regione erano soliti partecipare a quelle visite guidate all'interno di uno dei castelli più antichi e meglio conservati d'Occitania. Quella pratica, tra l'altro, gli consentiva di risparmiare sulle imposte, dal momento che il castello era considerato monumento nazionale. Catherine, al suo fianco, osservava lo sguardo soddisfatto del padre davanti all'espressione sbalordita dei visitatori.
«Ti senti molto orgoglioso del castello, vero?» «Mi sento orgoglioso di essere me stesso, di rappresentare una delle famiglie più illustri d'Occitania. Sì, mi sento orgoglioso di quello che siamo stati e spero di sentirmi orgoglioso anche di quello che saremo. Tu, Catherine, sei l'erede di tutto questo e spero che un giorno arriverai ad amare questo castello e questa terra come la amo io.» Lei gli strinse il braccio in segno di affetto, sembrava commossa dalla passione con la quale il conte aveva pronunciato quelle parole, ma lui non parve rendersi conto del gesto perché improvvisamente si irrigidì. Catherine diresse lo sguardo verso il punto che suo padre fissava ma, mentre lui sembrava aver visto un fantasma, lei non vide nulla di speciale in quel gruppo di turisti. «Che succede?» gli chiese, intrigata. Prima che lui le rispondesse vide dirigersi verso di loro un uomo di mezza età, con un sorriso ironico disegnato sulle labbra. «Il conte D'Amis?» chiese l'uomo. «Sì...» fu la risposta titubante di Raymond de la Pallisière. «Felice di conoscerla, anche se in realtà ci hanno già presentati: qualche mese fa durante una conferenza sulle Crociate, ricorda? Sono amico del professor Beauvoir...» Dall'espressione del viso di suo padre Catherine pensò che non sapesse chi fosse quel professor Beauvoir. «Ah, certo! Molto piacere, quando l'ho vista mi è sembrato... mi è sembrato che il suo fosse un viso conosciuto... Le piace il castello?» «È davvero imponente.» «Dal momento che lei è amico del professor Beauvoir, spero che accetterà di bere un tè in mia compagnia. Mi piacerebbe sapere come sta il professore.» «Grazie mille, accetto con piacere.» «Mi segua, per favore...» disse il conte avviandosi verso la biblioteca. Catherine si sentì esclusa. Suo padre non considerava nemmeno la sua presenza, e quell'uomo pareva averlo reso nervoso, anche se tentava di non darlo a vedere. «Chiamerò Edward per farvi portare un tè» disse lei, attirando l'attenzione su di sé. Suo padre si fermò di colpo mentre quell'uomo la guardava con curiosità. «Non c'è bisogno, lo farò io... le presento mia figlia Catherine. Sta pas-
sando qualche giorno con me al castello.» Catherine rimase sorpresa nel sentirlo dare quella spiegazione a quell'apparente sconosciuto che la guardava da capo a piedi squadrandola. «Sua figlia? Molto lieto, signorina.» «È un piacere, signor...» «Brown.» «Sono lieta che le piaccia il castello, signor Brown.» «Catherine, se non ti dispiace mi piacerebbe parlare un po' con il signor Brown di... del nostro amico Beauvoir. Non ti dispiace, vero? Ci vediamo all'ora di pranzo.» Catherine annuì e sparì in mezzo al gruppo di turisti che ascoltava le spiegazioni della guida circa un arazzo del XVII secolo raffigurante una scena di caccia. Raymond e il signor Brown continuarono a camminare diretti verso la biblioteca; il fedele Edward, che sembrava avere un istinto speciale per sapere quando c'era bisogno di lui, si materializzò all'improvviso. «Edward, arrivi a proposito! Potresti servirci del tè in biblioteca? O preferisce il caffè, signor Brown?» «Caffè, grazie, caffè americano; il vostro caffè è troppo forte.» «Certamente» rispose Edward, sparendo veloce come era arrivato. Arrivati in biblioteca e chiusa la porta alle loro spalle, i due uomini si guardarono. Negli occhi di Raymond era riflessa la preoccupazione, negli occhi del signor Brown soltanto ironia. «A quanto vedo devo averle fatto prendere un bello spavento. Mi dispiace, ma volevo parlare con lei e in questi ultimi giorni ho la sensazione che i telefoni non siano sicuri.» «Ho provato a chiamarla, Facilitatore.» «Lo so, lo so, ma vede, gli uomini che rappresento hanno interessi molto diversi e questo mi obbliga a spostarmi continuamente da un posto all'altro. Devo dirle che ha una bellissima figlia; non sapevo che fosse qui, pensavo vivesse negli Stati Uniti » «Sua madre è morta e lei è venuta a visitare la Francia.» «Le notizie che avevo a riguardo dicevano che sua moglie e sua figlia non avevano rapporti con lei...» «È così, ma come le ho detto mia moglie è morta e Catherine è venuta in Francia per conoscere i luoghi dove sua madre aveva visto in gioventù; non è che le cose si siano sistemate tra di noi, ma almeno ci parliamo.» «Commovente.»
«Cosa succede, Facilitatore?» «La smetta di chiamarmi Facilitatore. Qui può chiamarmi signor Brown.» «Neanche questo è il suo nome.» «Davvero? A me piace. E comunque passiamo ai fatti nostri. Mancano due giorni a Venerdì Santo: è tutto a posto?» «Sì. I gruppi faranno ciò che è stato stabilito. Quanto a Istanbul, la ragazza è già arrivata. Gli uomini dello Slavo la sorvegliano notte e giorno. Non ho il minimo dubbio che salterà in aria insieme a quelle reliquie.» Dei leggeri colpi alla porta furono sufficienti a far tacere i due uomini. Una domestica entrò con un vassoio che sistemò su un tavolino, quindi, dopo essersi assicurata che il conte non avesse più bisogno di lei, uscì. Raymond non disse niente, ma gli sembrò strano che non fosse stato Edward a servirli; dov'era finito il maggiordomo? «Al Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea c'è grande fermento» assicurò l'uomo che si faceva chiamare Brown «ma per quel che ne so, Hans Wein, il suo direttore, ha preteso il segreto assoluto sul caso Francoforte, e neanche i suoi più stretti collaboratori conoscono gli ultimi dettagli dell'indagine. La cosa mi inquieta.» «Perché? È impossibile che possano metterci in relazione con Francoforte.» «Sì, è difficile che possano farlo, ma non sottovaluti mai l'intelligenza altrui. Può sempre capitare di lasciare una finestra aperta.» «Non ci sono finestre aperte. Mi auguro che non voglia farsi prendere dal nervosismo proprio adesso.» «Io non sono nervoso. Dovrebbe esserlo lei, se qualcosa andasse male...» «Andrà tutto bene. Non resterà neanche una scheggia dei resti della croce custodita a Santo Toribio; e quanto al Santo Sepolcro... anche in quel caso non ho alcun dubbio. Il vantaggio di contare su gruppi di estremisti islamici è che sono disposti a morire, quindi il successo dell'operazione è assicurato.» «E Roma?» «La basilica della Santa Croce di Gerusalemme salterà in mille pezzi. I cristiani subiranno la perdita delle loro reliquie, gli odiati resti della croce...» sospirò il conte. «A dire il vero perderanno molto di più che quei pezzi di legno: nella basilica romana sono custodite anche due spine della corona di Cristo, un chiodo, una parte del cartello con la scritta INRI, il di-
to di san Tommaso che toccò le piaghe di Cristo... Superstizioni, tutte superstizioni.» «Gli attentati sono previsti alla stessa ora?» «No, ogni commando deciderà autonomamente il momento più opportuno. Quello che conta è il successo dell'operazione. Oltretutto, l'effetto sarà maggiore se prima salteranno in aria Santo Toribio o il Santo Sepolcro e poi la basilica di Roma. Venerdì sarà un giorno di lutto per la cristianità.» «Anche per l'Islam.» «Sì, anche per loro. Lei avrà quello che desidera: vedere cristiani e musulmani trascinati in una guerra; e io assaporerò la mia vendetta: vedrò distrutti i resti della croce che tanto significa per il Vaticano e che tanto male ha fatto in passato. Quanti omicidi sono stati commessi sotto il segno della croce!» «Bene, spero che lei abbia ragione. Le persone che io rappresento non tollerano errori.» «Le ripeto che non ce ne saranno. La chiamerò venerdì.» «No, conte, non lo faccia. Questa è l'ultima volta che ci vediamo e parliamo. I nostri affari finiscono qui, o comunque, stanno per terminare. Lei avrà raggiunto il suo scopo, il suo piccolo proposito di vendicarsi per cose accadute otto secoli fa.» «E lei il suo, di provocare uno scontro tra religioni.» «Ah, la religione! In realtà non interessa né a me né ai signori che rappresento; per noi si tratta soltanto di affari. Se la gente è così stupida da uccidersi in nome di Allah o di Dio non è affar nostro; è solo la scusa di cui abbiamo bisogno per spingere i governi nella direzione che ci conviene. Nient'altro.» «Allora, non ci rivedremo più?» «No. Se sono qui è perché volevo assicurarmi che tutto procedesse bene, che non ci fossero imprevisti dell'ultima ora.» «Non ce ne sono, stia tranquillo.» «Bene, allora io vado.» «Vuole fermarsi a pranzo?» «Non sarebbe prudente, sua figlia potrebbe insospettirsi.» «Insospettirsi? E di cosa dovrebbe sospettare?» «Credo che quella ragazza sia più perspicace di quanto lei immagina.» «Ah, sì? E come fa a saperlo?» «Dal modo in cui le brillano gli occhi.» Raymond de la Pallisière non rispose. Alzandosi per accomiatarsi dal
Facilitatore pensò che sarebbe stato un sollievo non dover più trattare con lui. In quell'uomo c'era una punta di volgarità che gli aveva sempre creato repulsione. Uscirono dalla biblioteca e si diressero verso il cortile del castello. Un colpo secco li mise in allarme. La porta della biblioteca si era chiusa rumorosamente, come se qualcuno fosse uscito di fretta. Il Facilitatore guardò Raymond e questi sostenne il suo sguardo. «Deve essere stato il vento a chiudere la porta.» «Il vento? Per quel che ho potuto vedere le finestre erano tutte chiuse.» «Non sia paranoico. Non c'era nessuno: la biblioteca ha solo una porta.» «Immagino che lei conosca la sua casa. Spero che vada tutto bene... in caso contrario non vedrà più me, ma le assicuro che i miei rappresentati hanno contatti con gente che lei preferirebbe non conoscere.» «Non le consento di minacciarmi! Lei è ospite in casa mia, come si permette!» «Non è una minaccia, conte, è solo un avvertimento.» Raymond rimase distratto per tutto il tempo del pranzo, e neppure Catherine sembrava avere molta voglia di parlare. Verso la fine lei annunciò che sarebbe ripartita. «Quando l'hai deciso?» volle sapere lui. «Te l'avevo detto che non mi sarei fermata molto.» «Dove andrai?» «Vorrei visitare la Costa Azzurra e poi forse andrò in Italia.» «Non andartene, per favore, resta ancora un po'» la supplicò il conte. Catherine pareva commossa dall'angoscia che mostrava suo padre davanti al timore di perderla. «Sai bene che la mia intenzione non è mai stata quella di restare. La mia vita è a New York, non posso abbandonare la galleria; mia madre ha lavorato duro per far diventare importante la sua attività.» «Allora permettimi di accompagnarti.» «Accompagnarmi? A New York?» «Ovunque andrai. Sono vecchio, ho soltanto te e tra qualche giorno... diciamo che quello che ha dato un senso a tutta la mia vita cesserà di darglielo.» «E cos'è che ha dato un senso alla tua vita?» «Vendicare il sangue degli innocenti.» Catherine rabbrividì, ricordava quelle parole di frate Julián. Guardò Ra-
ymond provando pena per lui. Lo avevano educato con quella ossessione, rendendolo custode di quelle parole con l'unico scopo di portarle a compimento. Eppure lei non credeva che frate Julián chiedesse vendetta; al contrario, temeva che qualcuno potesse vendicare il sangue versato, versandone a sua volta molto di più. «Sei pazzo.» «No, non sono pazzo. Tu sai che non lo sono.» «Non posso restare.» «Resta almeno qualche giorno ancora; due o tre, fino al termine della Settimana Santa.» «Perché?» «È l'unica cosa che ti chiedo.» «D'accordo» acconsentì lei sentendo una punta di inquietudine. Edward ascoltava la conversazione tra padre e figlia mentre ordinava di portare via i piatti da tavola. Il maggiordomo pareva afflitto, proprio come lo era il conte. Catherine incrociò il suo sguardo e negli occhi di entrambi brillò un lampo di sfida. 39 Il viso di Panetta rifletteva una tensione enorme, la stessa che rifletteva il volto di padre Aguirre e del commissario Moretti. Due giorni prima, il mercoledì sera, l'informatore di Panetta nel castello D'Amis gli aveva telefonato annunciandogli che il Venerdì Santo ci sarebbero stati tre attentati: uno nel nord della Spagna, in Cantabria, nel monastero di Santo Toribio, un altro nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme e il terzo a Roma. L'informatore gli aveva confessato che era stato impossibile verificare il luogo esatto che i terroristi avrebbero attaccato nella capitale italiana. Aveva corso un gran rischio a spiare le conversazioni del conte con un misterioso visitatore che sembrava avere un grande ascendente su di lui. Dall'accento pareva inglese, rispondeva al nome di signor Brown, diceva di rappresentare altri uomini e ne parlava come di persone che avrebbero tratto un importante guadagno dallo scontro tra Islam e Occidente. Panetta chiese al suo interlocutore di trovare una scusa qualsiasi per abbandonare il castello, ma gli fu risposto che questo era impossibile perché il conte si sarebbe insospettito. Poi riagganciò il telefono senza che Panetta sapesse perché, ricacciandolo in uno stato di ansia che faticava a dominare. Da quel mercoledì sera Hans Wein, aveva dispiegato tutti i mezzi a sua
disposizione per cercare i gruppi del Circolo con l'aiuto della polizia italiana, spagnola e israeliana. Avevano solo due giorni per tentare di fermarli. Inoltre, quella stessa sera Panetta decise di spostarsi a Roma, il luogo più vulnerabile dell'operazione poiché non sapevano dove i terroristi si proponessero di colpire. Padre Aguirre partì con lui. Prima di raggiungere l'aeroporto, Panetta aveva parlato personalmente con Arturo García, il delegato del Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea a Madrid, uno spagnolo temprato nella lotta contro l'ETA. Panetta gli parlò di Salim al-Bashir e lo spagnolo gli assicurò che avrebbe cercato qualche traccia del personaggio. Non era ancora uscito per raggiungere l'aeroporto quando ricevette la telefonata del poliziotto spagnolo. «Il suo professore è stato poco tempo fa in Spagna, a Granada, ha partecipato a una conferenza sull'alleanza tra le civiltà. A quanto pare Al-Bashir è stato invitato da un imprenditore di Granada di origine marocchina, tale Omar. Quest'ultimo è proprietario di alcune agenzie di viaggi e di una compagnia di pullman. Passa per un moderato e gode di buona considerazione da parte delle autorità del mio paese.» «Fa parte del Circolo! Ne sono sicuro!» rispose Panetta. «Forse ha ragione lei o forse no; in ogni caso abbiamo chiesto l'autorizzazione alla magistratura per mettere i suoi telefoni sotto controllo e seguirne i movimenti. Non c'è molto tempo, ma spero che seguirlo possa darci qualche risultato. Le forze di sicurezza sono già in stato di allerta e stanno studiando un piano di protezione per Santo Toribio. Il caso vuole che questo sia l'Anno Santo e che i pellegrini arrivino quotidianamente al monastero da ogni angolo di Spagna e d'Europa.» «Non ha forse detto che Omar è proprietario di agenzie di viaggi?» «Sì, esatto, e sto aspettando che mi comunichino se ha organizzato qualche escursione a Santo Toribio. Appena so qualcosa l'avverto.» «Sto partendo per Roma, mi chiami alla delegazione del Centro di laggiù.» «A quest'ora?» «I nostri colleghi francesi hanno messo un aereo a nostra disposizione.» «Questa sì che è cooperazione! Benissimo, la terrò informato.» Hans Wein si era incaricato di parlare con gli israeliani e Matthew Lucas era partito con un aereo privato alla volta di Gerusalemme per spiegare loro tutti i dettagli dell'indagine.
Ma quell'angosciante sera di mercoledì, Hans Wein aveva ripetuto a Panetta che i britannici continuavano a negare l'autorizzazione per controllare Salim al-Bashir ovunque egli si trovasse. «Hanno ripetuto che Al-Bashir è un intoccabile e che se noi lo disturbiamo e la cosa finisce sui giornali, verrà fuori un bello scandalo» spiegò Wein. «Ma non ti rendi conto che lui è il cervello di tutta l'operazione! Salim al-Bashir si trova a Roma, è lui che ha organizzato tutti gli attentati, per quanto sia il conte D'Amis a finanziarli, e sappiamo che ci sarà un attentato anche a Roma; per favore, devi fare qualcosa!» Ma Wein si era mostrato inflessibile; senza il permesso dei britannici non lo avrebbe fatto. «Gli israeliani si sono già messi al lavoro, ma per il momento procedono alla cieca.» «Non sappiamo altro oltre a quello che ti ho già detto; l'attentato avverrà al Santo Sepolcro.» «Sì, è quello che ho detto anche a loro. Matthew Lucas provvederà a fornire tutte le informazioni di cui disponiamo quando arriverà a Gerusalemme, anche se ho già inviato un memorandum. Sono ancora sbalorditi per la storia del conte e dei catari...» «Almeno loro sanno qual è il luogo prescelto. Spero che riescano a evitare che quei selvaggi del Circolo compiano una carneficina.» «Circonderanno la chiesa del Santo Sepolcro, anche se mi hanno assicurato che non la chiuderanno perché vogliono prendere i terroristi. Anche loro, come noi, hanno pochissime informazioni sul Circolo. I gruppi di azione sono come fantasmi... insomma, spero che riescano a evitare una catastrofe. Ho parlato anche con il ministro degli Interni spagnolo.» «Io ho appena fatto lo stesso con il nostro delegato.» «Il ministro è sorpreso dalla scelta del Circolo di attaccare la Spagna, non riesce a capire, anche perché il suo governo è tra i maggiori promotori dell'alleanza tra civiltà.» «Immagino che con o senza l'alleanza prenderanno sul serio la questione» replicò Panetta. «Tra l'altro ti ho già detto che ho appena parlato con il nostro uomo a Madrid e anche lui mi ha confermato che le forze di sicurezza sono in stato di massima allerta e che controlleranno tutta la zona dove si trova il monastero di Santo Toribio.» «Per quanto ne so, lì dentro è conservato il frammento più grande della croce» rispose Hans Wein.
«Sì, ma si tratta di un luogo completamente isolato...» «Immagino che per loro questo renderà le cose più facili.» «Il problema è che venerdì ci saranno migliaia di pellegrini, sia a Gerusalemme che a Santo Toribio... Spero che riusciremo a fermare quei pazzi.» «Sai, Lorenzo, continuo a chiedermi chi diavolo possa essere quel signor Brown di cui ha parlato il tuo informatore» s'interrogò Hans Wein con preoccupazione. «Anch'io continuo a pensarci. E chissà chi sono quelli per cui lavora. Perché cercano lo scontro frontale tra l'Islam e l'Occidente?» rispose Panetta. «Affari?» «Questa è la teoria di padre Aguirre. Lui dice sempre che nel mondo ci sono molte più cose di quelle che si vedono. Non so, sono confuso almeno quanto te.» Dietro sollecitazione di padre Aguirre, la diplomazia vaticana si era messa in contatto con il governo di Londra, ma agli Esteri aveva risposto solo con belle parole. Sarebbero stati gli esperti in materia di antiterrorismo a valutare la situazione e ovviamente avrebbero agito di conseguenza, qualora lo avessero ritenuto necessario. Anche Matthew Lucas, prima di partire per Gerusalemme, aveva avuto un colloquio con i suoi superiori convincendoli a parlare con i britannici, ma questi non erano stati sensibili agli argomenti sfoderati. Il realtà, il governo di Sua Maestà temeva di vedersi piovere addosso delle critiche per le sue ultime decisioni di politica rispetto agli immigrati musulmani. Sulla scia degli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, si era aperta una breccia nel tessuto sociale. La diffidenza verso i musulmani cresceva, ma allo stesso tempo i giornali e gli intellettuali criticavano il governo incolpandolo delle esplosioni di xenofobia. Non c'era giorno in cui il primo ministro non fosse costretto a fare colazione con qualche commento o qualche articolo che gli riservava critiche feroci sull'argomento. Per questo aveva costituito un "comitato di saggi" che lo consigliava direttamente in merito al problema degli immigrati islamici, e il presidente di questo comitato era proprio Salim al-Bashir, il quale era stato ricevuto perfino dalla regina, che gentilmente lo aveva invitato a prendere un tè. Salim al-Bashir era un uomo le cui opinioni erano richieste dai network televisivi, le sue riflessioni apparivano sul "Times". La sua influenza non
era circoscritta solo al Regno Unito, ma si estendeva a mezza Europa, motivo per cui agli Esteri non erano disposti a fare passi falsi solo perché il Centro antiterrorismo di Bruxelles assicurava che avesse rapporti con un conte sulle cui attività si stava indagando. Le elezioni erano dietro l'angolo e l'ultima cosa di cui c'era bisogno era uno scandalo o un'accusa di razzismo; per questo il Centro non poteva permettersi il lusso di sbagliare rispetto a Salim al-Bashir. Tra l'altro, i servizi di intelligence britannici dubitavano dell'efficacia del centro, una creazione dei politici che aveva cominciato a funzionare da non più di un paio d'anni e che, secondo loro, fino a quel momento aveva fatto vedere più volontà che risultati. 40 Roma, Venerdì Santo, mattina molto presto Lorenzo Panetta aveva perso il conto delle sigarette fumate. «Può darsi che riusciremo a fermare l'attentato di Santo Toribio e quello di Gerusalemme, ma non abbiamo idea di dove sarà l'attacco a Roma, e l'unica pista è Al-Bashir» disse senza aspettarsi una risposta. Padre Aguirre sembrava più vecchio. Gli occhi erano ridotti a due fessure a causa della stanchezza e le mani a volte avevano un leggero tremore, impercettibile per chiunque ma non per un segugio come Panetta. La preoccupazione di padre Aguirre era solo un pallido riflesso di quella che pervadeva le alte sfere del Vaticano. La Santa Sede non dubitava delle conclusioni del gesuita: la Chiesa stava per essere attaccata per colpa di un vecchio che voleva vendicare la morte dei suoi antenati catari e di un gruppo islamico disposto a seminare la paura e il caos nel cuore della cristianità. Erano state rafforzate tutte le misure di sicurezza intorno al Vaticano, ma per quanto avessero tentato di convincere il Santo Padre a sospendere la sua presenza negli atti liturgici di quel Venerdì Santo, lui si era rifiutato: avrebbe corso anche lui gli stessi rischi di tutti gli altri fedeli. Ovidio Sagardía, insieme a Domenico Gabrielli e al vescovo Pelizzoli, tentava di coordinare la sicurezza intorno al papa. Se gli fosse successo qualcosa... non volevano neanche pensare a quella eventualità. Ovidio si diceva che non se lo sarebbe mai perdonato. Si rimproverava la sua cecità, e chiedeva a Dio di illuminarlo. Dove, quando, in che momento il Circolo
avrebbe colpito? Neanche il suo vecchio maestro padre Aguirre sembrava capace di trovare il filo giusto da tirare, per evitare la catastrofe. «Non tormentarti, il Santo Padre è ben protetto» gli assicuro padre Domenico interrompendo i suoi pensieri. «Mi chiedo perché sono stato così ostinato. Padre Aguirre aveva ragione, e invece a me sembrava impossibile che qualcuno potesse organizzare un attentato in nome di una cosa accaduta nel XIII secolo. Quel conte è un demonio.» «In fondo è un pover'uomo. Come lo è quella gente del Circolo, che si lascia convincere dai propri capi a immolarsi» rispose Domenico. «Quanta irrazionalità!» «Andiamo, il vescovo ci aspetta nel suo ufficio.» Gerusalemme, Venerdì Santo, sette del mattino Hakim non aveva chiuso occhio tutta la notte. Voleva essere ben sveglio durante quelle che sarebbero state le ultime ore della sua vita. Aveva rifiutato tutte le proposte ricevute da Said, il capo del Circolo in Israele. Aveva scartato l'idea di passare l'ultima notte con una prostituta, che gli avrebbe lasciato una sensazione di schifo e di vuoto, e neppure si era lasciato convincere a farsi servire una cena speciale; l'unica cosa che davvero desiderava era restare da solo e, malgrado le proteste di Said, così fece. Passò la notte seduto a guardare fuori dalla finestra, a godersi il cielo che, con il trascorrere delle ore, passò dal grigio al nero, di nuovo a un grigio con qualche chiazza bianca e poi al rosso dell'alba, fino a quando l'azzurro non tornò a impadronirsi del firmamento. Aveva pensato alla sua povera moglie, l'unica donna che avesse amato. Ricordava ancora la prima volta che l'aveva vista, quando lui aveva dodici anni e lei soltanto sette. I genitori avevano combinato il suo matrimonio con quella bambina che gli aveva fatto una linguaccia e gli aveva detto che era brutto. Non si erano rivisti fino a quando lui non aveva compiuto diciassette anni. Era il giorno dei loro sponsali. Lui era rimasto senza parole quando l'aveva vista; gli era parsa la più bella di tutte le donne. Lei dapprincipio aveva accettato con rassegnazione il suo destino, ma poi lo aveva amato con la stessa passione che dimostrava lui. Gli anni vissuti insieme a lei erano stati i più felici della sua vita, e i loro
due figli erano il suo orgoglio. Gli dispiaceva non aver potuto dire addio ai bambini, ma era meglio così. Da quando era morta sua moglie e lui si era dedicato anima e corpo al Circolo, i piccoli vivevano con i suoi genitori a Tangeri. A loro non mancava niente, erano due bambini felici. Sarebbero stati orgogliosi del loro papà quando avrebbero saputo che era morto con il nome di Allah sulle labbra e per la gloria dell'Islam. Durante la notte aveva pensato anche al Paradiso promesso a coloro che morivano lottando contro gli infedeli, e che desiderava condividere con sua moglie. Sì, pensò, lei sarebbe stata lì, e sarebbero rimasti per sempre insieme, non aveva alcun bisogno di una corte di uri. Said entrò nella stanza appena le campane di una delle molte chiese di Gerusalemme cominciarono a battere le otto. Portava un vassoio con caffè, un piatto di dolci e uno zaino che teneva sulle spalle. «Accidenti, sei già sveglio! A che ora ti sei alzato?» chiese vedendo che Hakim era già vestito e rasato. «Non ho dormito, non avevo sonno.» «Già...» Said notò sul volto di Hakim i segni della veglia, e si sorprese di vederlo tranquillo, come se quel giorno non avesse un appuntamento con la morte. «Mi hai portato la cintura?» «Sì, è nello zaino. Fai attenzione quando la tiri fuori.» Hakim aprì lo zaino ed estrasse la cintura carica di esplosivo. Nello zaino c'era anche il detonatore che doveva sistemare per fare esplodere la carica al momento giusto. Osservò la cintura prima di poggiarla con cura sul letto. «Prima fai colazione, così ti chiarisci le idee» gli consigliò Said. «Sì, effettivamente ho fame.» «Un uomo non deve morire con lo stomaco vuoto» rise Said. «Non so gli altri, ma io non lo farò. A che ora ci muoviamo?» «La guida ha dato appuntamento al tuo gruppo alle undici; andrete a piedi fino al Santo Sepolcro per assistere alla funzione delle dodici. Ricordati di quello che abbiamo detto: devi confonderti tra i pellegrini. In realtà sembri proprio uno spagnolo; avendo vissuto tanto tempo in mezzo a loro, sembra che si siano appianate anche le differenze somatiche. Cerca di parlare con gli altri pellegrini, unisciti a quel paio di anziane che chiacchierano sempre, fatti vedere insieme a loro. Poi saprai scegliere tu il momento più opportuno per premere il detonatore, ma se dovessi trovarti in difficoltà, non esitare, non importa se non sei ancora arrivato proprio davanti al
posto dove sono custodite le reliquie.» «Ma l'obiettivo è...» Hakim non poté continuare la frase perché Said lo interruppe. «L'obiettivo conta fino a un certo punto. Il mondo sarà sconvolto lo stesso se salterà in aria la chiesa o se riusciamo a commettere un attentato nel cuore di Gerusalemme. Tutte le pietre della città sono sante, quindi poco importa quello che verrà distrutto. Non mettere in pericolo l'operazione se non dovessi riuscire ad arrivare fino al luogo accordato. Capito?» «Non ti preoccupare. I cristiani piangeranno.» «Sì, devono piangere per aver aiutato i cani ebrei a portarci via la nostra terra. È arrivato il momento di restituire loro l'umiliazione.» Roma, Venerdì Santo, otto del mattino Il mattino a Roma era nuvoloso. Salim al-Bashir sembrava di ottimo umore, tanto da far scivolare la mano sul corpo della sua amante che, stesa a faccia in giù, sembrava addormentata. Ma non lo era. La donna non aveva chiuso occhio tutta la notte temendo che spuntasse il nuovo giorno. Quando era arrivata a Roma non poteva immaginare quello che Salim avrebbe preteso da lei. In molte occasioni gli aveva assicurato che la sua vita senza di lui non avrebbe avuto senso e che avrebbe fatto qualsiasi cosa le avesse chiesto. Di fatto, erano anni che tradiva il suo paese, i suoi capi, i suoi amici. Il suo lavoro nel Centro di Bruxelles aveva un solo obiettivo: essere utile a Salim. Non era stata scoperta e aveva avuto un bel po' di fortuna. Ora lui le chiedeva un atto di coraggio. «Non ti succederà niente, te lo assicuro, ma devi aiutarmi.» Il piano, le spiegò Salim, era semplice. Si trattava di collocare uno zaino pieno di esplosivo nella basilica della Santa Croce di Gerusalemme, dove erano custodite alcune reliquie di Cristo. Soprattutto, aveva insistito il suo amante, bisognava distruggere i tre frammenti della croce. Quando lei aveva chiesto perché volesse distruggere quelle reliquie, lui aveva assicurato che si trattava di far capire ai cristiani che non potevano continuare a massacrare la Terra Santa e ad aiutare gli ebrei a esserne i padroni. «Sono soltanto oggetti, nulla più. L'hai detto tu stessa. Sono favole per bambini. Chi potrebbe credere davvero che le due spine o il pezzo di spugna siano autentici? che il denaro conservato lì faccia parte delle monete ricevute da Giuda per tradire Gesù? Andiamo, non diciamo sciocchezze! Le chiese europee sono piene di false reliquie. E quanto a quei tre pezzi
della croce sono falsi anche loro. Se si mettessero insieme tutti quelli che ci sono, sparsi per il mondo, verrebbero fuori non una, ma parecchie croci.» Lei aveva ricevuto un'educazione cristiana. È vero, non andava in chiesa da molti anni, la religione non occupava un posto nella sua vita e lei si professava atea, eppure in quel momento sentiva addosso il peso dell'educazione ricevuta. E poi aveva paura. Salim la intimoriva, e cominciava a dubitare dei suoi sentimenti. «Adesso la mia pigrona si alza, perché oggi è un gran giorno. È ancora presto, sono le otto, ma ti propongo di fare una ricca colazione prima di uscire.» Lei si voltò lentamente, sfregandosi gli occhi come se si fosse appena svegliata e lo guardò tentando di sorridere. Lui l'abbracciò con forza e la baciò dicendole quanto l'amava, ma a lei quelle parole suonavano vuote. Non aveva il coraggio di sciogliersi dal suo abbraccio, temendone la reazione. Rimase tranquilla fino a che lui la spronò ad alzarsi. «Farò portare la colazione in camera.» Sentì un gran sollievo quando lui si staccò dal suo abbraccio e sotto la doccia cercò di pensare a come evitare di fare ciò che le aveva chiesto. Se avesse rifiutato non l'avrebbe più rivisto, e non era pronta ad affrontare una simile eventualità; se invece lo avesse fatto avrebbe tradito se stessa e quello era l'ultimo tradimento che le restava da commettere. Salim sembrava di umore eccellente. L'accarezzava, la baciava e le stringeva la mano guardandola negli occhi con aria complice. «Aspettami qui, non ci metterò molto. E preparati. Oggi voglio che tu sia più bella che mai.» «Come vuoi.» Salim uscì dalla stanza chiudendo la porta delicatamente. Sapeva che un fratello del Circolo lo stava aspettando in un bar vicino all'hotel. Gli avrebbe consegnato una borsa da donna carica di esplosivo. Ma sarebbe stato lui a occuparsi della detonazione; non era sicuro che lei avesse il coraggio necessario per farlo. L'avrebbe accompagnata fino alla basilica, poi si sarebbe ritirato a una certa distanza e cinque minuti dopo avrebbe premuto il pulsante che avrebbe fatto saltare in aria la sua amante insieme alle reliquie. Il mondo intero sarebbe rimasto a bocca aperta. Entrò nel bar e, seduto a un tavolino, riconobbe il capo del Circolo a Roma. Bishara, di origine giordana, passava per un affermato uomo di affari, sposato con una napoletana.
I due uomini si abbracciarono con affetto. «Non pensavo che saresti venuto tu» disse Salim. «Amico mio, oggi è un grande giorno, e ciò che stai per fare è troppo importante per metterlo nelle mani di qualcun altro. Lei è pronta a morire?» «Non lo sa, crede di dover soltanto lasciare la borsa nella cappella delle reliquie e poi uscire. È meglio così, non la credo forte abbastanza da sacrificare la sua vita.» «È un'infedele.» «Lo è, però finora ci è stata utile. In ogni caso, deve morire; credo che al Centro antiterrorismo di Bruxelles sospettino di avere un infiltrato. È solo questione di tempo prima che arrivino a lei.» «Per te sarà una grande perdita...» «No, amico mio, sarà una liberazione. È una donna invadente, incapace di comprendermi. Tutto quello che ha fatto lo ha fatto per me, non perché si sia resa conto dell'importanza della nostra lotta. Credo che mi sposerò molto presto, forse andrò a Francoforte e chiederò al nostro caro imam Hasan di darmi in moglie sua sorella Fatima. Per me sarebbe un grande onore fare parte della sua famiglia.» «Credevo che Fatima, dopo il martirio di suo marito Yusuf, si fosse risposata.» «Sì, Hasan l'ha concessa a Mohamed Amir, il cugino di Yusuf. Ma Mohamed morirà oggi stesso.» Bishar aggrottò le ciglia, poi sfoderò un ampio sorriso, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi. «E così sarà uno dei nostri martiri... Sei un grande uomo, Salim e quello di farsi carico della sua vedova è un grande gesto.» «E adesso, amico mio, dimmi se è tutto pronto come ti avevo chiesto.» «Sì, ho montato il dispositivo seguendo le tue istruzioni, non avrai alcun problema. Da dove azionerai il detonatore?» «Ho noleggiato una macchina.» «Buona idea. Poi tornerai in albergo?» «No, andrò direttamente in aeroporto, torno a Londra.» «Sì, è la cosa migliore.» Si salutarono con affetto, sicuri che qualche ora più tardi i telegiornali di tutto il mondo avrebbero aperto le loro edizioni non solo con l'attentato di Roma, ma anche con quelli di Gerusalemme e Santo Toribio. Il mondo intero avrebbe tremato di paura davanti al Circolo e i governi occidentali non
avrebbero avuto altro rimedio che piegarsi. Salim decise di tornare a piedi all'hotel; aveva bisogno di stare un po' da solo e riflettere su quello che stava per succedere. 41 Granada, Venerdì Santo, mattina presto Gli incubi si erano impadroniti del sonno di Laila. Si svegliò di soprassalto madida di sudore freddo. Guardò l'orologio: non era ancora giorno, ma ormai sarebbe stato impossibile prendere sonno. Si alzò e cercò i vestiti nell'armadio. Avrebbe fatto una doccia, preparato la colazione per tutta la famiglia e poi sarebbe andata a fare jogging per rilassarsi un po'. Pensò a Mohamed. Suo fratello se n'era andato da due giorni senza dire dove; aveva salutato con grande umiltà i suoi genitori ed era stato addirittura gentile con lei. «Abbi cura di te» le aveva raccomandato, mentre l'abbracciava come se non dovessero più rivedersi. Sua cognata Fatima le aveva assicurato che non sapeva dove fosse andato suo marito, Mohamed non le spiegava mai quello che faceva né dove era diretto. Fatima però le aveva confessato che anche lei era rimasta sorpresa da quei saluti. «Non voglio spaventarti, però... mi ricorda quello che fece il mio primo marito, Yusuf, quando se ne andò per... insomma, lo sai, faceva parte di un commando...» Laila non riusciva a smettere di pensare alla parole di Fatima. Forse i radicali lo avevano di nuovo messo in mezzo, reclutandolo per partecipare a qualche attentato. Non aveva il coraggio di parlare con sua madre di quell'angoscia, ma credeva che suo fratello fosse in pericolo. Quando Alì era venuto a prendere Mohamed, prima di andar via questi aveva voluto parlare da solo con suo cugino Mustafà I due uomini si erano chiusi nella stanza di Mustafà e quando ne erano usciti il viso di suo cugino era rosso d'ira e quello di Mohamed carico d'angoscia. Lei detestava suo cugino Mustafà con tutto il cuore, dal momento in cui era arrivato in casa loro non aveva fatto altro che disprezzarla apertamente. Umiliava sua madre rimproverandola perché permetteva a sua figlia di comportarsi come una spagnola qualsiasi. E perfino suo padre, a volte, sembrava scoraggiato dopo i discorsi interminabili di Mustafà su come do-
vesse comportarsi una buona musulmana. «Meno male che se ne va» pensò Laila mentre preparava il caffè. Mustafà aveva annunciato che pensava di ripartire quello stesso venerdì, visto che non aveva trovato un lavoro adatto a lui. Si erano sentiti tutti sollevati dalla prospettiva della sua partenza, anche se avevano evitato di manifestarlo. Potes, Cantabria, Venerdì Santo, sei del mattino Mohamed si svegliò di malumore. Alì russava e questo gli impediva di dormire. Erano due notti che non chiudeva occhio e la mancanza di sonno lo rendeva irascibile. Si alzò e guardò dalla finestra, il cielo sembrava schiarirsi. «Alzati, Alì, sono le sei. Alle nove dovremo scendere a fare colazione.» Alì si girò nel letto senza dargli retta. Mohamed gli tirò il suo cuscino e lui non poté fare altro che aprire gli occhi e biascicare. «Sei impazzito? Perché vuoi alzarti adesso se è ancora notte. Non dobbiamo andare a Santo Toribio prima delle dodici, lasciami dormire un altro po'.» «Non possiamo separarci dal gruppo.» «La guida ha detto che saremmo partiti dall'hotel, che saremmo stati liberi fino alle undici e mezzo, e solo dopo quell'ora ci saremmo mossi da qui. E adesso dove vai? Io non ho nessuna voglia di fare il turista.» «Tra qualche ora saremo morti» sentenziò Mohamed. «Lo so, per questo preferisco dormire e non pensare. Abbiamo già parlato stanotte fino a tardi. Ormai abbiamo preso un impegno e non possiamo tornare indietro.» «Io non voglio morire.» «Neanche io, ma se non saltiamo in aria ci fanno saltare loro. Credi che quelli del Circolo ci consentirebbero di restare vivi se dovessimo tradirli? E poi non ci sono né traditori né vigliacchi tra di noi. Ci siamo offerti volontari per questo attentato.» «Io non mi sono presentato volontario, sei stato tu a presentarmi a Omar.» «Il sopravvissuto di Francoforte! Che razza di eroe sei! Ti ricordo che ti hanno spedito qui da Francoforte per metterti agli ordini di Omar proprio perché avresti dovuto essere già morto.» «Hasan mi ha affidato sua sorella perché la prendessi in moglie...»
«Hasan si è tolto dalle scatole Fatima, adesso lei dipenderà dalla tua famiglia e non le mancherà niente, il Circolo è generoso con i martiri, lo sai bene.» «Non m'importa un accidente di Fatima! Io voglio soltanto vivere!» «Taci! Vuoi che ci senta tutto l'albergo? Sei pazzo?» Mohamed si sedette sul bordo del letto con i pugni chiusi nel tentativo di controllarsi. «A te non importa di morire?» «So per che cosa morirò.» «Io ti ho chiesto se davvero non t'importa morire.» «No, non m'importa. Andrò in Paradiso, la mia famiglia onorerà la mia memoria, la loro vita, in cambio della mia, sarà migliore. I miei genitori avranno una vecchiaia tranquilla. A loro ho creato soltanto problemi; quando sapranno che sono stato capace di diventare un martire, finalmente si sentiranno orgogliosi di me. Loro saranno importanti e i vicini li rispetteranno. La mia morte porta solo vantaggi, Mohamed, proprio come la tua.» «I miei genitori non hanno bisogno di soldi, e non cercano riconoscimento da parte degli altri. Non credo che mia madre sarà felice di sapermi martire.» «Tua madre si è... diciamo che si è molto europeizzata.» «Non ti permettere di dire una sola parola su mia madre perché ti ammazzo!» «Non ho detto niente di male su tua madre! Per favore, Mohamed, controllati o l'unica cosa che otterrai sarà di farci scoprire!» «Come puoi essere così tranquillo sapendo che stai per morire?» «Ma perché hai tanta paura della morte? Io sono credente, ho lottato per essere un buon credente e so che dall'altro lato mi aspetta Allah.» «Non hai mai pensato che potrebbe non esserci nulla?» «Cosa vuoi dire?» «Che nessuno è tornato dalla morte per raccontarci cosa c'è dopo.» «Blasfemo! Stai zitto, non ti voglio sentire! Vattene e lasciami tranquillo, ho bisogno di riposare.» Mohamed s'infilò sotto la doccia. Quando uscì dal bagno lo irritò vedere Alì che russava. Indossò un paio di jeans e un maglione di lana e uscì dalla stanza. Sarebbe andato a passeggiare per Potes. Quel paese circondato dalle montagne gli sembrava un posto pieno di fascino. La notte precedente aveva comprato una bottiglia di grappa per
sorseggiarla in camera con Alì, ma questi aveva rifiutato di bere alcolici. Alì era diventato un musulmano rigorosamente osservante; in lui non restavano tracce del delinquente che era stato. Per strada non c'era nessuno, l'odore del pane appena sfornato arrivava da una panetteria non ancora aperta. Il suo pensiero corse a Laila. Sua sorella a quell'ora stava dormendo. Sapeva che proprio quella mattina Mustafà l'avrebbe assassinata. Fu tentato di chiamare suo padre e dirgli quello che suo cugino stava per fare, poi scappare lui stesso. Ma dove avrebbe potuto andare? Alì aveva ragione: quelli del Circolo lo avrebbero trovato e non si sarebbero limitati a ucciderlo... di sicuro lo avrebbero torturato fino a fargli esalare l'ultimo respiro. Sapeva che non c'era possibilità di fare marcia indietro. Quando tornò in albergo fu sorpreso di vedere due uomini della Guardia Civil parlare con l'addetto alla reception. Fece in modo di non guardarli e salì per le scale fino al primo piano, dove si trovava la sua stanza. «Alì, svegliati, di sotto c'è la Guardia Civil.» Il suo amico si mise piedi con un balzo, stavolta completamente sveglio. «Ti hanno chiesto qualcosa? Che stavano facendo?» «Non lo so, parlavano con il tipo della reception.» Alì guardò fuori dalla finestra ma non vide nulla di sospetto. «È normale, in tutti i paesi c'è la Guardia Civil; non è detto che sia successo qualcosa. A ogni modo mi vesto, non si sa mai. Chi altro c'era nella hall dell'albergo?» «Nessuno, è ancora presto.» «Cerchiamo di calmarci. Nessuno sa perché siamo qui e le cinture esplosive sono nel pullman; l'autista ha il compito di custodirle fino a quando non gliele chiederemo. Nel Circolo non ci sono traditori, quindi nessuno ci ha denunciato. Non è successo niente, stiamo tranquilli...» «Se lo dici tu...» «Sì, lo dico io. Dobbiamo solo aspettare.» Granada «Laila, ti dispiacerebbe aiutarmi?» Laila si spaventò. Non aveva sentito Mustafà entrare in cucina. Suo cugino le sorrideva con falsa cortesia. «Cosa vuoi?» «Potresti aiutarmi a ripiegare le camicie?»
«Tua madre non ti ha insegnato come si fa? Male. Avrebbe dovuto farlo.» Mustafà strinse i pugni e le mascelle, ma non si mosse. Laila notò che stava facendo uno sforzo per evitare la lite e ne fu sorpresa. «Ti ho solo chiesto di aiutarmi, non credo sia un'offesa.» La cugina decise di aiutarlo. Prima faceva la valigia e prima se ne sarebbe andato, piantandola di ossessionarla con la sua presenza. «È presto. A che ora parte il tuo pullman per Algeciras?» «Alle nove, ma io preferisco sempre muovermi per tempo.» Uscirono dalla cucina e si diressero verso la piccola stanza occupata da Mustafà, vicino a quella dove Fatima dormiva con i due figli. I vestiti di Mustafà erano sul letto e la valigia era aperta. Laila si avvicinò al letto, prese una delle camicie e cominciò a piegarla. Quando sentì la porta chiudersi si voltò di scatto e fu sul punto di gridare, ma non ne ebbe il tempo. Mustafà le tappò la bocca con una mano mentre con l'altra le piantava un enorme coltello in gola. Laila sentì un dolore acuto, insopportabile, e si rese conto che la vita le stava sfuggendo. Poi il nero della morte s'impadronì di lei. Il rumore nella stanza accanto svegliò Fatima. Restò in silenzio cercando di ascoltare qualche altro suono, ma non sentì niente tranne i passi di Mustafà. Cosa stava facendo a quell'ora? Guardò i suoi figli e si tranquillizzò vedendo che dormivano placidamente. Quindi si alzò, indossò una vestaglia e, con circospezione, cercando di non fare rumore, uscì nel corridoio. La porta della stanza di Mustafà era chiusa, quella di Laila aperta. Si diresse verso la camera di sua cognata con apprensione. Non c'era nessuno. Andò in cucina, dove trovò del caffè appena fatto e una tazza peina per metà. Cercò Laila per tutta la casa tentando di non far rumore e non svegliare i suoi suoceri, ma fu Mustafà a venirle incontro. «Cosa fai?» le chiese sottovoce ma con tono infastidito. «Sto cercando Laila.» «È uscita. Credo sia andata a correre.» Fatima si tranquillizzò. Era normale che Laila si alzasse presto e andasse a fare jogging, anche se forse a quell'ora era davvero troppo presto. «Hai bisogno di qualcosa?» chiese a Mustafà. «No, non ho bisogno di niente, ma ho mal di testa, credo che tornerò a letto.» «A che ora parte il tuo pullman?» «Penso che ne prenderò uno che parte più tardi. Ci sono un sacco di tra-
ghetti; se non m'imbarco sul primo, prenderò quello successivo. Adesso vado a dormire. Non mi sento bene.» «Posso prenderti un'aspirina o prepararti un tè» propose Fatima. «No, non voglio niente e, se non ti crea problemi, cerca di fare in modo che nessuno mi disturbi fino a quando non mi sveglierò.» «D'accordo.» Fatima tornò nella sua stanza con addosso una profonda inquietudine. C'era qualcosa nel comportamento di Mustafà che la spingeva a non fidarsi, e ricordò la raccomandazione di Mohamed affinché si prendesse cura di sua sorella. Si sedette sul bordo del letto senza sapere cosa fare, poi si vestì in fretta e andò in cucina ad aspettare Laila. Non sarebbe stata tranquilla fino a quando non l'avesse vista rientrare. Madrid, Venerdì Santo, alba Arturo García, capo della delegazione del Centro di coordinamento antiterrorismo a Madrid, telefonò a Lorenzo Panetta. «È possibile che abbiamo trovato qualcosa. Ho già parlato con gli israeliani e con gli americani. Vede, qualche giorno fa è partito da Granada un gruppo di pellegrini diretti in Giordania e in Terra Santa. L'escursione è stata organizzata da una parrocchia di Granada che si è affidata all'agenzia di viaggi di Omar, l'uomo che ha organizzato la conferenza di Salim alBashir a Granada. Non abbiamo ancora la lista completa dei pellegrini, ma spero di averla stamattina stessa. In ogni caso gli israeliani hanno già i dati e immagino che rintracceranno il gruppo immediatamente. Omar ha mandato un paio di pullman di pellegrini anche a Santo Toribio. Per quel che ne sappiamo, i pellegrini sono alloggiati a Potes, un paesino a due chilometri dal monastero, dove prevedono di salire per assistere alle funzioni. Abbiamo uomini ovunque, stanno facendo tutti i controlli. Abbiamo parlato con i monaci e hanno già messo al riparo il Lignum Crucis. In realtà due dei monaci, scortati dalla Guardia Civil, hanno appena lasciato il monastero portando via le reliquie più importanti. Il dubbio, semmai, è se sia meglio chiudere l'accesso a Santo Toribio per evitare l'arrivo dei terroristi o permettere che continuino ad arrivare i pellegrini per il giubileo e pregare di essere capaci di scovare quei delinquenti.» «Alla fine cosa farete?» chiese Panetta. «Questa è una decisione politica, non è facile scegliere... lei immagina
cosa succederebbe se l'opinione pubblica si accorgesse che abbiamo usato i nostri fedeli come specchietti per le allodole?» «Ma in caso contrario i terroristi potrebbero scappare.» «Sì, è una decisione difficile da prendere. La chiamerò da lì.» «Va anche lei a Santo Toribio?» «In realtà sto già andando; un elicottero della Guardia Civil è pronto al decollo. Tra un'ora sarò lì.» Quando finì di parlare con il poliziotto spagnolo, Panetta telefonò a Matthew Lucas. «Lo so, Lorenzo. Abbiamo l'informazione completa, questo Omar offre copertura ai terroristi del Circolo attraverso la sua agenzia di viaggi. Gli spagnoli hanno fatto un buon lavoro. Peccato sia un po' tardi.» «Andiamo, Matthew. Non essere ingiusto! Quella è gente difficile da trovare. Da quanto tempo noi ci stiamo provando inutilmente?» «Hai ragione. Purtroppo mi manda fuori di testa questa corsa contro il tempo. Gli israeliani hanno deciso che i pellegrini continueranno a confluire verso il Santo Sepolcro. Puoi immaginare cosa deve essere Gerusalemme durante la Settimana Santa, con gente da tutto il mondo che arriva lì a pregare. Per quello che mi risulta, hanno già parlato con le autorità ecclesiastiche che si occupano del Santo Sepolcro e c'è stato un piccolo problema, perché qui gli ortodossi e i cattolici sono responsabili allo stesso modo. È impossibile portare fuori le reliquie, il luogo in sé è la reliquia. L'idea è quella di impedire che entrino i pellegrini dicendo loro che la chiesa è già piena. La cosa non li meraviglierà, sono abituati a fare anche sei ore di coda per entrare. Hanno sistemato controlli e sbarramenti con la scusa di favorire un afflusso ordinato; immagino che la fila diventerà immensa. Nel frattempo, i soldati e i servizi di intelligence cercheranno tra i pellegrini. Speriamo che i terroristi siano nel gruppo dell'escursione di Omar!» «Avete già saputo in quale hotel alloggiano?» «La polizia ci sta lavorando, non credo che impiegheranno molto a saperlo.» «Speriamo vada tutto bene.» «E voi?» «Niente. Non sappiamo da dove cominciare. Potrebbe essere la basilica di San Pietro, o qualsiasi altra chiesa di Roma. Brancoliamo nel buio.» «Non hanno più chiamato dal castello? Non si sa niente?» «No, non hanno più chiamato e ho paura di quello che potrebbe succedere alla nostra fonte se il conte scopre che lo stiamo spiando.»
«Mi dispiace, veramente.» «Ti credo, Matthew, ti credo. Chiamami se c'è qualche novità.» «Lo farò. Ho parlato anche con Hans Wein; ha i nervi a fior di pelle.» «Siamo un po' tutti in quelle condizioni.» «Non capisco perché nessuno voglia fare qualcosa riguardo a Salim alBashir.» «Neppure io, anche se grazie agli spagnoli siamo riusciti ad avere una pista importante: quell'amico di Al-Bashir, tale Omar, può essere uno dei capi del Circolo.» «Ti chiamerò. Porta i miei saluti a padre Aguirre, immagino che sarà disperato.» «Come tutti noi. Gli unici fortunati sono i turchi. Tengono sotto controllo il commando, sanno dove, come e quando pensano di agire. Devono soltanto arrestarli.» 42 Istanbul, Venerdì Santo, otto del mattino Ylena terminò di sistemarsi lo hijab sui capelli. Lo indossava anche sua cugina; suo fratello e suo cugino erano pronti. Avevano fatto colazione in camera. In realtà non erano usciti quasi mai dall'hotel; cercavano di non attirare troppo l'attenzione. «Sei pronta?» chiese suo fratello. «Sì, pronta.» «Se vuoi...» «Taci» gli ordinò lei. «L'unica cosa che voglio è vendicarmi. Ti assicuro che nel momento in cui premerò il pulsante del detonatore sarò felice. Voi siete pronti?» «Pronti.» «Tu cerca di vivere, la mia morte è già più che sufficiente. Mi dispiacerebbe se tu finissi i tuoi giorni in un carcere turco.» «Sai bene che non ci prenderanno vivi.» «È l'unica cosa che mi preoccupa. Questi maiali sono capaci di tutto.» La conversazione tra Ylena e suo fratello arrivava nitidamente al colonnello Halman. Per un momento ebbe voglia di fare irruzione nella stanza attigua e chiedere chi era il maiale, se era lui che non aveva mai ucciso nessuno a sangue freddo oppure loro che pretendevano di causare una car-
neficina. Perché non c'era dubbio che, se fossero riusciti a mettere in atto il loro proposito, sarebbero morti molti innocenti. Erano centinaia i turisti di tutto il mondo che visitavano ogni giorno il Topkapi, senza contare le scuole che portavano i loro alunni a visitare l'antico palazzo dei sultani. Il militare turco decise di telefonare a Panetta e annunciargli che stava per arrestare il commando. Non aveva senso lasciarli andare avanti, visto che non si erano messi in contatto con nessuno e nessuno aveva contattato loro. Nemmeno i due uomini dello Slavo che sorvegliavano la ragazza avevano incontrato qualcuno. Lorenzo Panetta ascoltò le spiegazioni del colonnello, ma gli chiese di non arrestarli ancora. «Li lasci arrivare fino al Topkapi; può essere che lì ci sia ad aspettarli qualche altro membro del commando. Non credo che questo comporti un rischio troppo elevato.» «Io invece credo che il rischio sia eccessivo. In questi due giorni non hanno mai citato il luogo dove è nascosto l'esplosivo e può darsi che, se s'innervosiscono o intuiscono qualcosa, decidano di farsi esplodere, non importa dove. Non possiamo correre questo rischio.» «Andiamo, colonnello! È evidente che l'esplosivo è nascosto nella sedia a rotelle, quella ragazza cammina senza alcun problema e se non si sono accorti finora che li tenete sotto controllo, non vedo perché dovrebbero preoccuparsi proprio adesso. La prego, permetta al gruppo di arrivare fino al Topkapi... li lasci arrivare fino al padiglione dove sono custodite le reliquie di Maometto, è possibile che ci sia qualche contatto che li sta aspettando lì.» «È impazzito! Come fa a pensare che io possa lasciarli arrivare al padiglione delle nostre reliquie? Per nulla al mondo potrei consentire a quei maiali di avvicinarsi agli oggetti che appartennero al Profeta.» «Si tratta solo di calcolare bene i tempi; so che non è facile, ma non è neanche impossibile.» «No, non posso farlo. Li lascerò arrivare al Topkapi, ma prima che possano dirigersi al padiglione dove conserviamo le reliquie di Maometto li arresterò e preghi che non succeda niente. Stiamo offrendo tutta la collaborazione possibile, ma il prezzo non può essere quello di consentire una mattanza.» «Diamine, non le sto chiedendo di permettere una mattanza, ma solo di verificare se ci sono altri complici!» «Decideròio il momento dell'arresto» insistette il colonnello Halman.
«Naturalmente, è lei che si trova sul terreno delle operazioni.» Quando Panetta chiuse la conversazione, spinse via il portacenere con un gesto nervoso. «È un tipo suscettibile questo Halman!» «Si sta accollando una grande responsabilità» rispose il commissario Moretti, delegato del Centro antiterrorismo a Roma, che aveva assistito alla conversazione telefonica. «Tutti noi ci stiamo assumendo delle grandi responsabilità. Ma dobbiamo cercare di sfruttare ogni spiraglio; dobbiamo sapere se la ragazza si mette in contatto con qualcuno.» «Se non lo ha fatto finora, è improbabile che lo faccia all'ultimo momento. Non vorrei essere nei panni di Halman: se non li ferma in tempo sarà responsabile di una catastrofe.» «Ha ragione. Oltretutto, noi dobbiamo evitare che ne accada una qui e non sappiamo da dove cominciare.» Uscirono dalla stanza e s'incamminarono verso l'ascensore dove una coppia aspettava di scendere nella hall. Ylena non prestò loro molta attenzione. Sua cugina spingeva la sedia mentre suo fratello e suo cugino l'affiancavano. Suo cugino andò a prendere la monovolume che avevano noleggiato e, aiutato dal portiere dell'albergo, sistemò Ylena in macchina. Impiegarono più di mezz'ora per arrivare; quella mattina il traffico di Istanbul era particolarmente intenso a causa dei molti turisti provenienti da ogni parte. Arrivarono in auto fino in cima alla collina, spiegando che avevano a bordo un'invalida alle guardie che tentavano di regolare il traffico. Cercarono un posto dove parcheggiare vicino ai pullman che cominciavano a far scendere il loro carico di turisti. «Sei nervosa?» domandò la cugina a Ylena. «No. Sono felice.» Attesero il loro turno rispettando la fila mentre suo fratello acquistò i biglietti per entrare al Topkapi. «Per fortuna pare non ci sia molta gente» disse il giovane. «In fondo non c'è niente di particolarmente attraente» disse Ylena. «Non t'impressiona?» replicò sua cugina sorridendo. «No, il posto è bello perché si vede il mare, ma come palazzo... non lo so, in realtà sono solo dei padiglioni.»
«Dai quali si dominava buona parte del mondo.» Un gruppo di turisti italiani ascoltava le spiegazioni della guida mentre aspettava il proprio turno per entrare nel palazzo. «Vi ho già detto che il Topkapi è stato costruito da Mehmet, però ogni sultano aggiungeva dei padiglioni nuovi. Il Topkapi ha subito quattro incendi, e dell'epoca di Mehmet restano l'edificio del Tesoro, il padiglione delle Ceramiche e le mura interne ed esterne. Il palazzo ha tre aree, il palazzo interno, il palazzo esterno e l'harem. Il primo cortile, quello dove stanno parcheggiando i pullman, è stato il quartier generale dei giannizzeri.» Le guardie che controllavano l'accesso al Topkapi non prestarono loro particolare attenzione; riuscirono persino ad accedere al recinto senza passare per il metal detector, mentre alcuni funzionari molto gentili discutevano con le guide dei gruppi per organizzare le visite all'interno del recinto. Le guide si lamentavano perché veniva imposto un itinerario invece di lasciare ognuno libero di organizzare la visita, come avevano sempre fatto. «Si fidano molto» affermò il cugino di Ylena una volta che ebbero passato il primo controllo. «Non vedo perché dovrebbero diffidare di noi; siamo dei semplici turisti» rispose il fratello di Ylena. Non trovarono ostacoli neppure per attraversare il secondo portico, quello di Bab-u Selam, detto anche porta dei Saluti, costruita da Solimano il Magnifico. «Andiamo direttamente al padiglione delle Reliquie» ordinò Ylena a sua cugina, che continuava a spingere la sedia. «No, non essere impaziente, facciamo prima un giro, come se fossimo davvero dei turisti» suggerì la cugina. «Guarda, possiamo iniziare dall'harem.» Ylena annuì controvoglia. Sentiva la necessità imperiosa di raggiungere il suo obiettivo: infliggere una ferita all'Islam e non vedeva il motivo di ritardare ulteriormente la vendetta. Entrarono nell'harem e, come il resto dei visitatori, osservarono curiosi quelle pareti che avevano delimitato i locali riservati alle mogli dei sultani e dei loro figli. I turisti italiani che avevano incontrato all'ingresso uscivano dall'harem facendo battute pesanti sulle odalische mentre immortalavano il posto con le loro macchine fotografiche digitali. Un altro gruppo di turisti, questi ultimi turchi, e in maggioranza uomini, entrò nell'harem. Ylena era infastidi-
ta dagli sguardi di commiserazione che le venivano rivolti. "Se sapeste cosa sto per fare, avreste paura di me invece di compatirmi..." pensava. «Perché non usciamo?» chiese con impazienza. Sua cugina spinse la sedia verso l'uscita mentre il fratello le raccomandava di non perdere la calma. «Non t'innervosire.» «Non sono nervosa, voglio solo farla finita con questa storia.» «Sembra che tu abbia fretta di morire» la rimproverò il cugino. «Hai ragione, ho proprio fretta di morire.» Passarono sotto la porta della Felicità, attraverso la quale un tempo poteva passare solo il sultano, e si trovarono vicino alla sala delle Petizioni del gran visir. «Qui veniva gente da ogni parte del mondo a sollecitare favori al gran visir, che studiava le richieste e poi decideva se trasmetterle o meno al sultano» disse il fratello di Ylena. «Cosa vuoi che m'importi di quello che facevano!» Il tono irritato di Ylena li preoccupò. «Andiamo, non te la prendere! Sei stata tu a ripeterci che dobbiamo essere cauti e fare le cose per bene. E poi... insomma, non è detto che morirai solo tu; è molto probabile che moriremo anche noi. Lasciaci godere questi ultimi momenti» disse suo fratello. «Elogiando i sultani!» «Respirando, Ylena. Solo respirando» rispose suo cugino. Un gruppo di turisti turchi, con la guida in testa, arrivò vicino a loro. La guida spiegava ogni angolo di quel luogo. «E adesso, alla vostra destra, vedrete un altro padiglione, si tratta della Tesoreria, è l'antica residenza di Mehmet il conquistatore; qui sono custoditi alcuni dei regali che il sultano ricevette. E alla sinistra di questo patio... sì proprio lì» disse indicando un'altra porta «ci sono le sale dove vengono custodite le sacre reliquie. A partire dal 1517 cominciarono a giungere oggetti che erano appartenuti al profeta Maometto e che fino a quel momento si trovavano alla Mecca e al Cairo. Potrete vedere dalle spade fino ai peli della barba di Maometto, uno dei suoi denti, lo stendardo, il Sacro Manto... Queste reliquie sono sempre state custodite lontano dagli occhi degli abitanti della città, a parte lo stendardo che fu portato in alcune processioni. Nel padiglione in cui si trovano le reliquie, ci sono lettori che recitano il Corano giorno e notte. Seguitemi, ora abbiamo la fortuna di po-
terle contemplare. Per i musulmani queste reliquie sono importanti quanto possono esserlo per i cattolici la Sacra Sindone di Torino e i resti della Santa Croce, che si trovano in cattedrali, chiese e basiliche di mezza Europa.» Ylena guardò sua cugina e questa comprese che non doveva più esitare, e pur sentendo un nodo allo stomaco spinse la sedia verso l'entrata del padiglione delle Reliquie. All'improvviso, senza che sapessero da dove fossero sbucati, i quattro giovani si trovarono circondati da un gruppo di poliziotti e di soldati armati. Ylena si guardò intorno e si rese conto che i turisti turchi erano agenti in borghese, e che nello spiazzo non c'era più nessuno tranne loro. Il colonnello Halman si fece strada tra i suoi uomini approfittando dello sconcerto dei quattro giovani. «Arrendetevi!» ordinò, parlando in inglese. «L'avventura è finita, tenete le mani in alto!» Il fratello e il cugino di Ylena la guardarono e lessero nei suoi occhi ira e determinazione mentre abbozzava un sorriso e mormorava un lieve "addio". Un istante dopo avvenne l'esplosione. Attraverso il fumo si sentivano grida e gemiti. Le sirene dell'ambulanza irruppero nel recinto. Quando il fumo si disperse, lo spiazzo offrì uno spettacolo dantesco. Ovunque resti di corpi mutilati, quelli degli attentatori ma anche degli agenti che si trovavano più vicini a loro. La confusione regnava sovrana. Tra le grida si sentiva la voce ferma del colonnello Halman che tentava di mantenere il controllo della situazione pur essendo ferito. «Non hanno raggiunto le reliquie, ma è crollata una parte del muro del padiglione!» gridava un poliziotto. Nel recinto cominciarono ad arrivare camion dell'esercito: a bordo avevano un gran numero di soldati che presero posizione all'interno del Topkapi e favorirono lo sgombero dei turisti. Questi ultimi erano stati condotti dalle guide verso il quarto patio, dopo aver ricevuto istruzioni precise di non fermarsi né nel primo né nel secondo cortile. Tutti sentirono l'esplosione, ma senza sapere da dove provenisse, e improvvisamente videro arrivare gruppi di soldati che li obbligarono a evacuare la zona. In pochi minuti i visitatori, allarmati per la confusione, vennero allontanati. Quando nel Topkapi rimasero solo i soldati, la polizia e i servizi di assi-
stenza medica, il colonnello Halman telefonò ai suoi capi per informarli dell'esito dell'operazione e subito dopo chiamò Lorenzo Panetta. «Sono morti i quattro terroristi e dieci dei miei uomini. Ci sono anche venti feriti, alcuni dei quali versano in gravi condizioni.» «Mi dispiace. Come è successo?» «La posta in palio era molto alta, abbiamo corso un rischio enorme. Volevamo impedire ai turisti di entrare nel Topkapi, ma pensavamo che i terroristi si sarebbero insospettiti se non avessero trovato un clima di normalità. Quindi abbiamo permesso l'ingresso solo ad alcuni gruppi, con il contagocce, indirizzandoli verso altre zone del palazzo sufficientemente lontane dal pericolo. Non è stato facile, le guide ci hanno lanciato ogni tipo di improperi, non capivano perché non potevano organizzare le visite al Topkapi come avevano sempre fatto. Deve credermi se le dico che ho pregato che nessun turista si allontanasse dal proprio gruppo. I terroristi, senza saperlo, sono stati circondati in ogni momento da un gruppo di poliziotti o di soldati vestiti in borghese come normali visitatori. Nessuno si è messo in contatto con i terroristi; ho fatto quello che lei mi ha chiesto anche se era rischioso, ho atteso fino all'ultimo istante per vedere se gli attentatori incontravano qualcuno, se avevano altri complici. Abbiamo tentato di arrestarli proprio nel momento in cui stavano entrando nel padiglione delle Reliquie. La ragazza deve aver attivato la carica dell'esplosivo e... il resto può immaginarlo da solo. Sarà difficile identificare i cadaveri.» «E le reliquie del Profeta?» chiese preoccupato Panetta. «Intatte. Non hanno subito alcun danno. Allah sia lodato per averle protette.» «E per aver evitato uno spargimento di sangue maggiore. Immagini, colonnello, cosa sarebbe successo se fossero riusciti a distruggere quelle reliquie?» «Sì, sarebbe stato un bagno di sangue.» «Mi dispiace per i suoi uomini.» «Provi a pensare come mi sento io, davanti alla prospettiva di dover avvertire le loro famiglie.» «Siete in grado di mantenere segrete per qualche ora le informazioni sull'accaduto?» «Lei mi sta chiedendo l'impossibile! Qui c'era gente, troppa gente perché sia possibile mantenere segreto l'attentato. Turisti, guide, funzionari, soldati, poliziotti... No, non siamo in grado di mantenere il segreto per molto tempo.»
«Cosa avete intenzione di dire?» «Voi cosa suggerite?» «Mi lasci parlare con il capo del Centro di coordinamento antiterrorismo a Bruxelles; la richiamo immediatamente.» «I miei hanno già parlato con il suo capo.» «Mi dia cinque minuti.» Lorenzo si accese una sigaretta e aspirò con forza il fumo. Poi raccontò brevemente a padre Aguirre e al commissario Moretti quanto gli aveva spiegato il colonnello Halman. «Hanno avuto un grande coraggio! Hanno corso un rischio enorme! Questo colonnello Halman dev'essere un fuoriclasse» esclamò il commissario Moretti. «Sì, ha corso davvero un rischio enorme, senza contare che organizzare un'operazione così era difficilissimo. Se fosse morto un solo turista, noi e il governo turco avremmo passato un brutto quarto d'ora. Ci avrebbero accusato di aver messo in pericolo la vita di innocenti.» «È quello che abbiamo fatto» affermò Moretti. «Era una scelta ben meditata: pensavamo che in questo modo avremmo salvato molte altre vite umane; ma in questo momento non riesco a sentirmi orgoglioso di una simile decisione.» Hans Wein era turbato e sollevato allo stesso tempo. «Almeno a Istanbul le cose non sono andate male» disse a Panetta. «Sono morti dieci uomini oltre ai quattro terroristi, e ci sono pure numerosi feriti, ma tutto sommato non è andata male; considerando quel che poteva succedere...» «Se quei pazzi avessero distrutto le reliquie di Maometto ora ci sarebbero molti più morti. E ti immagini la reazione dei fondamentalisti?» «Dobbiamo dire grazie ai turchi per il loro sacrificio» disse Panetta. «Voi nel frattempo avete fatto qualche passo avanti?» «No, brancoliamo ancora nel buio, e tra un'ora il papa dirigerà le funzioni liturgiche del Venerdì Santo. Non c'è un solo angolo del Vaticano che non sia sotto protezione.» «Ma in realtà non sappiamo neanche se attaccheranno il Vaticano...» rispose Hans Wein. «No, non lo sappiamo, ma bisogna proteggere il papa. Abbiamo notizie degli israeliani?» «Ho parlato con loro un minuto fa e anche con Lucas. Hanno localizzato il gruppo di turisti giunti in Israele con l'agenzia di viaggi di Omar. Anche
gli israeliani li lasceranno avvicinare al Santo Sepolcro. Questa storia è una follia...» si lamentò Wein. «Non ho mai pregato tanto in vita mia» confessò Panetta. «I turchi vogliono sapere cosa fare per il comunicato ufficiale. Secondo me è meglio dire la verità» affermò Wein. «Sì, è sempre meglio dire la verità, ma non è necessario farlo adesso. Altrimenti metteremo in allarme il resto dei gruppi che stanno per attaccare.» «D'accordo. Cosa devo riferire ai turchi?» «Possono dire che c'è stata un'esplosione, non si sa se dolosa, e che sono morte diverse persone.» «Non è molto convincente. Rischia di sembrare troppo strano il fatto che siano morti solo soldati e poliziotti.» «Se diciamo che li avevamo seguiti, allora sapranno che abbiamo altre informazioni.» «Io continuo a non trovare il nesso tra quella Ylena e il Circolo» si lamentò Wein. «Ma dev'esserci un nesso. Può darsi che neanche loro lo sappiano, ma c'è.» «Va bene, allora cosa proponi?» «Di dire il meno possibile. Puoi sempre mettere mano al repertorio delle frasi fatte: "Sono in corso le indagini, al momento non scartiamo nessuna ipotesi. Vi terremo informati..."» «Va bene. Informazioni di basso profilo finché è possibile.» «Almeno per qualche ora. Sappiamo che gli attentati sono previsti per oggi, dobbiamo tentare di guadagnare tempo.» «D'accordo.» Lorenzo Panetta sapeva che Hans Wein avrebbe parlato con il governo turco e telefonò a sua volta al colonnello Halman. «Colonnello, dica il meno possibile, trovi lei il modo più convincente. Dica che state indagando, che nelle prossime ore fornirete altre informazioni eccetera...» «Sì, conosco questa musica...» «Ci sono altri gruppi pronti ad agire, riteniamo di averne già localizzati due... quanto al terzo, sappiamo che agirà a Roma, ma non sappiamo né dove né quando. Abbiamo bisogno di tempo, non possiamo metterli in allarme.» «Farò il possibile.» «Grazie.»
43 Gerusalemme, Venerdì Santo Hakim si era unito al gruppo dei pellegrini andalusi con i quali era arrivato in Israele. La via crucis lungo le antiche strade di Gerusalemme era iniziata da dieci minuti. Lui biascicava qualche parola tra i denti come se stesse recitando il rosario, cercando di passare inosservato da chiunque lo guardasse. Mentre mormorava le orazioni, guardava a destra e a sinistra, tentando di valutare se c'erano più soldati del solito a pattugliare le strade della città vecchia. In effetti era proprio così, ma Hakim pensò dipendesse dalla grande quantità di turisti che in quei giorni visitavano Israele. Non aveva paura. Nessuno sembrava notarlo. Si sentiva invisibile camminando insieme agli altri. Proprio come il suo gruppo, molte altre centinaia di pellegrini pregavano al passo con le stazioni, in quei luoghi dove Cristo aveva camminato portando la croce. Sorrise dentro di sé quando pensò alla croce. I cristiani non si sarebbero mai ripresi dal colpo che stavano per ricevere. L'esplosione del Santo Sepolcro, la distruzione di Santo Toribio, dove era custodito il frammento più grande tra quelli esistenti, e quella della basilica della Santa Croce di Gerusalemme a Roma... No, quei pusillanimi dei politici non avrebbero potuto guardare dall'altra parte per evitare il confronto, non avrebbero avuto altra scelta che accettare l'idea di essere in guerra. Fino ad allora gli europei avevano rifiutato di ammetterlo, ma dopo quello che stava per accadere non avrebbero più potuto ignorare la realtà. Il Circolo avrebbe distrutto l'Occidente; stava per arrivare il giorno in cui la bandiera verde con la mezza luna avrebbe sventolato su tutte le capitali europee e le chiese sarebbero state trasformate in moschee. Perso dietro i suoi pensieri non si accorse che erano ormai vicini al Santo Sepolcro. Lì sembrava ci fossero più controlli rispetto alle precedenti occasioni, la gente protestava perché era perquisita dalla testa ai piedi e doveva mostrare tutto quello che portava dentro borse e zaini. «Pare che il soggetto si stia rendendo conto della situazione» disse un agente della sicurezza attraverso il microfono nascosto nel risvolto della giacca. Nella sala operativa dove i servizi di intelligence e la polizia israeliana
lavoravano da giorni per evitare l'attentato, Matthew Lucas cercava di tenere i nervi sotto controllo. Non faceva altro che chiedere perché non lo arrestassero ancora. «Se si accorge di essere circondato è capace di suicidarsi in mezzo alla folla e ci sarà una carneficina» gli rispose il colonnello Kaffman, capo del Mossad. Matthew sembrava l'unico a preoccuparsi, ma in realtà tutti gli uomini che si trovavano in quella sala avevano i volti sfigurati dalla tensione e dall'angoscia che la situazione provocava in ognuno di loro. Il colonnello che dirigeva le operazioni diede un ordine all'agente che aveva appena parlato. «Adesso.» Matthew Lucas lo interrogò con lo sguardo. Cosa aveva voluto dire con "adesso"? Si lamentò sottovoce dell'atteggiamento degli israeliani: passavano per essere i migliori alleati degli Stati Uniti, invece sembravano non fidarsi di nessuno. Gli avevano consentito di assistere come spettatore, ma senza considerarlo minimamente. Mancavano cinquecento metri per arrivare alla porta del Santo Sepolcro. Hakim e il resto del gruppo dovettero fermarsi. I controlli stavano causando una lunga coda. Hakim si rese conto che difficilmente sarebbe riuscito a entrare in chiesa. Said gli aveva detto che gli ebrei erano soliti adottare misure di sicurezza, ma cercavano di non disturbare i turisti. Guardò indietro per vedere se gli restava ancora una via di fuga, ma comprese che retrocedere in mezzo a quella calca che spingeva per arrivare al Santo Sepolcro sarebbe stato impossibile. Si pentì immediatamente di aver pensato alla fuga. Se non poteva raggiungere l'interno del Santo Sepolcro, almeno avrebbe distrutto l'entrata della chiesa; appena fosse stato abbastanza vicino, appena i soldati si fossero preparati a perquisire il suo gruppo, lui avrebbe fatto esplodere la carica. Molti di quei pellegrini sarebbero morti. Si sentì desolato quando si rese conto che non avrebbe potuto raggiungere l'obiettivo fissato. Omar sarebbe rimasto profondamente deluso e Salim al-Bashir avrebbe pensato che avevano sbagliato a scegliere lui per un simile incarico. Era tutta colpa di quei maledetti ebrei se non poteva portare a termine la missione, pensò Hakim mentre guardava con disprezzo la gente intorno a lui che non smetteva di pregare. All'improvviso si sentì preso per le braccia.
«Non ti muovere» gli dissero in perfetto spagnolo. Poi si sentì trascinato via, mentre i pellegrini del suo gruppo inscenavano una protesta vedendo che lo conducevano fuori a forza. «L'abbiamo preso» disse l'agente attraverso il microfono, mentre trascinavano Hakim fuori dalla calca, diretti verso la Porta di Damasco. Nella sala operativa tutti tirarono un sospiro di sollievo. Non era passato molto tempo da quando avevano localizzato il gruppo dei turisti, e Hakim era stato identificato appena un'ora prima. Era un miracolo. Hakim non poteva muoversi e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Lacrime di frustrazione, d'ira e di dolore. Superarono la Porta di Damasco, dove a quell'ora centinaia di persone entravano e uscivano dalla città tre volte santa. Proprio in quel punto li aspettava un'auto sulla quale lo caricarono, con due agenti da ogni lato, oltre a quello che guidava e un altro che prese posto sul sedile anteriore e che lo teneva sotto tiro con una pistola. «Bel lavoro» disse quello con la pistola ai due uomini che avevano arrestato Hakim, e subito dopo ordinò di mettergli le manette. Fu un attimo, soltanto un attimo quello in cui Hakim ebbe una delle mani libere, ma non esitò. Azionò il detonatore che aveva nella cintura. L'auto esplose, saltò in aria portando con sé le vite dei suoi occupanti e di quelli delle auto intorno. Il caos s'impadronì della zona, pur essendo giunte immediatamente le auto della polizia e le ambulanze. Nella sala operativa ci fu un momento di confusione, anche se il colonnello Kaffman s'impose immediatamente dando ordini un po' a tutti, mentre chiedeva che gli agenti che si trovavano nei dintorni della Porta di Damasco lo informassero senza perdere tempo. Matthew Lucas riuscì a sentire la voce rotta di un agente che riversava informazioni dal luogo degli eventi: «La macchina è saltata in aria. Ci sono morti e feriti: è orribile... Probabilmente indossava una cintura esplosiva ed è riuscito ad attivarla. Non lo sappiamo ancora con certezza, il laboratorio ce lo confermerà. Credo che ci siano anche dei turisti fra le vittime, oltre ai nostri uomini e ad alcuni palestinesi...» «Sembrava che avessimo fatto la cosa più difficile, trovare quell'uomo e arrestarlo, e non siamo stati capaci di evitare quello che forse sarebbe stato più semplice» si lamentò il colonnello Kaffman. Matthew Lucas aveva un nodo alla gola, ma chiese ugualmente il per-
messo di avvicinarsi al luogo dell'esplosione. «Venga con me» gli disse il colonnello «altrimenti non la lasceranno avvicinare.» Mentre si dirigevano alla Porta di Damasco telefonò al suo capo e subito dopo a Lorenzo Panetta. «Non è stato possibile evitare l'orrore. C'è stata un'esplosione con dei morti» gli disse. «Dio mio! Cosa è successo?» «Fino a questa mattina non avevamo ancora identificato i pellegrini che erano arrivati con l'escursione organizzata da Omar. A quanto pare il soggetto in questione si chiamava Hakim e aveva passaporto spagnolo. Il mio capo ha parlato con il Centro antiterrorismo di Madrid e il commissario García lo ha sentito per dirgli che questo Hakim aveva la nazionalità spagnola, ma era di origine marocchina. Sembra che fosse il sindaco di un paesino nella zona di Granada, chiamato Caños Blancos. Un uomo al di sopra di ogni sospetto. Le autorità spagnole lo ritenevano un moderato, e in paese lo consideravano addirittura un esempio.» «Sì, il commissario García ha parlato anche con me» disse Panetta. «Hakim non si trovava in albergo insieme al resto dei pellegrini con i quali era giunto in Israele e non partecipava a tutte le escursioni degli altri. Non sappiamo chi fosse il suo contatto, né dove dormisse, lo abbiamo localizzato soltanto quando si è unito al suo gruppo, ma è arrivato da solo all'hotel dove si trovavano gli altri e da lì si sono diretti tutti verso il Santo Sepolcro.» «Va bene, ma spiegami cos'è successo!» «L'hanno fermato nei pressi del Santo Sepolcro, sono riusciti a portarlo via dalla folla degli altri pellegrini ma, a quanto pare, è riuscito ad attivare il detonatore che portava addosso e a farsi esplodere; insieme a lui sono saltati in aria poliziotti e agenti israeliani, turisti, palestinesi... non sappiamo ancora quanta gente sia morta. Io sto andando sul posto.» «E la chiesa?» «La chiesa del Santo Sepolcro non ha subito danni; in realtà l'esplosione è avvenuta fuori dalle mura.» Lorenzo Panetta ringraziò Dio in silenzio. Era addolorato per i morti, ma le vittime sarebbero state molte di più se non lo avessero bloccato in tempo. Il colonnello Kaffman chiese a Matthew Lucas di passargli il telefono. «Signor Panetta, sono il colonnello Kaffman. Le assicuro che abbiamo
fatto l'impossibile. Avevamo i minuti contati, e malgrado quello che è accaduto possiamo ritenerci fortunati. Purtroppo non sappiamo niente dei contatti del nostro uomo qui in Israele, e le posso assicurare che per noi sarebbe stato di vitale importanza, visto che per noi il Circolo è l'unica organizzazione terrorista invisibile. Se ci aveste avvisato prima, forse avremmo potuto fare di più.» «Le assicuro, colonnello, che mi sarebbe piaciuto poterle dire qualcosa prima, ma abbiamo lavorato su semplici ipotesi; appena abbiamo avuto tra le mani qualcosa di concreto vi abbiamo avvertiti immediatamente.» «Troppo tardi, signor Panetta, troppo tardi. Disgraziatamente sono morti molti innocenti.» «Tutti i morti sono innocenti, colonnello.» «No, signor Panetta, non tutti.» 44 Sud della Francia, castello D'Amis, Venerdì Santo Edward era rimasto sorpreso nel vedere il conte seduto davanti al televisore quando, come ogni mattina, era andato a svegliarlo con il vassoio della colazione. Il conte era già vestito e sembrava inquieto anche se non aveva detto nulla che potesse far giungere Edward a questa conclusione. Era al suo servizio da molti anni, ormai il maggiordomo riusciva a leggere nel viso del conte. In qualsiasi altro momento avrebbe detto qualcosa per tentare di scoprire attraverso la risposta quale fosse la sua preoccupazione, ma Edward aveva ritenuto che in quel periodo il signore avesse già troppi problemi. Raymond de la Pallisière si era chiuso nel suo ufficio. Aveva detto a Edward che non voleva essere disturbato da nessuno, neanche da sua figlia, ma il maggiordomo sapeva che quell'ordine non avrebbe neanche sfiorato Catherine. La figlia del conte era una donna testarda, che non si atteneva alle regole. Provava una certa simpatia per lei poiché, dal momento del suo arrivo, il castello era sembrato rivivere. Ma preferiva non ingannare se stesso: quando Catherine fosse diventata la contessa D'Amis lo avrebbe certamente licenziato. Erano quasi le undici quando la ragazza si presentò davanti allo studio di suo padre e, senza far caso agli avvertimenti di Edward, spinse la porta ed
entrò. «Che succede?» chiese a suo padre a mo' di saluto, stupita nel vederlo seduto davanti al televisore e con una radio incollata all'orecchio. Il conte fece un gesto di fastidio per l'irruzione di sua figlia, ma la invitò a sedersi. «Sto ascoltando i notiziari.» «C'è qualcosa di interessante?» «Perché, tu non vedi mai la televisione?» «Vedo la CNN, le reti europee danno pochissime informazioni sugli Stati Uniti, se non per dire che George Bush è un povero diavolo impegnatissimo a fare del male.» «C'è stata un'esplosione a Istanbul e, a quanto pare, una anche a Gerusalemme.» «Ah, sì? E che genere di esplosioni?» «Non ci sono ancora dettagli, dicono che a Istanbul l'esplosione potrebbe essere stata causata da una fuga di gas. Non lo so. Quanto a Gerusalemme...» «Sarà stato sicuramente qualche terrorista che ha deciso di immolarsi. Da quelle parti succede sempre così, no?» lo interruppe Catherine senza dare troppa importanza a quello che diceva suo padre. «La cosa ti lascia indifferente?» le chiese il conte. «Non è che mi lasci indifferente, è che il mondo in cui viviamo è così; ormai siamo immuni all'orrore. Siamo capaci di guardare i notiziari mentre mangiamo, nulla colpisce più la nostra vita quotidiana. Quante volte hai visto le immagini di un attentato con morti e feriti e hai tranquillamente continuato a fare quello che avevi in programma?» «Una riflessione molto cinica, Catherine.» «Una riflessione che rispecchia fedelmente la vita. Piuttosto, dimmi cosa ti preoccupa.» «Nulla, nulla di speciale.» Lo squillo del cellulare fece sussultare Raymond. Guardò il display: NUMERO PRIVATO. Temeva fosse il Facilitatore. Le cose non stavano andando come previsto. «Catherine, ti dispiacerebbe lasciarmi solo qualche minuto?» Lei si alzò offesa senza dire una parola. «Pronto...» Il tono di voce di Raymond era carico di tensione. «Che sta succedendo?» chiese il Facilitatore. «Non lo so. Ho cercato di mettermi in contatto con lo Slavo per sapere
cosa è accaduto a Istanbul, ma pare che sia sparito. Non risponde a nessuno dei suoi telefoni.» «I notiziari non parlano delle reliquie.» «Lo so. Sto guardando la CNN, e gli speaker ipotizzano una fuga di gas.» «Ne so poco più di lei. Il governo turco ha deciso di secretare le informazioni per qualche ora su richiesta del Centro di coordinamento antiterrorismo dell'Unione Europea. Ci sono stati dieci morti, tutti soldati, oltre a una ragazza e le persone che l'accompagnavano. Il padiglione delle Reliquie non ha quasi subito danni.» Raymond non gli chiese come facesse a saperlo. Gli uomini rappresentati dal Facilitatore avevano accesso a tutti i governi del mondo, e per loro non era difficile ottenere informazioni di prima mano. «Quelli che rappresento sono molto arrabbiati» disse il Facilitatore. «Lei aveva garantito la riuscita dell'operazione.» «Non so cosa sia successo.» «Ha parlato con il suo amico Al-Bashir? A Gerusalemme un terrorista si è fatto esplodere vicino alla Porta di Damasco.» «Lo so, ho appena visto la CNN.» «La Porta di Damasco è lontana dal Santo Sepolcro.» «So anche questo.» «Quindi nemmeno Hakim ha portato a termine il suo compito.» «Mancano ancora Santo Toribio e Roma» disse Raymond. «E allora? Non cambia niente. Quello che volevamo non era il suicidio di qualche terrorista, ma provocare uno scontro tra i paesi islamici produttori di petrolio e l'Occidente. «Ylena avrebbe dovuto distruggere le reliquie di Maometto, era quello l'obiettivo; il fatto che lei sia morta non cambia nulla. A chi vuole che importi un terrorista morto in più? E lo stesso vale per quel disgraziato di Gerusalemme. Si è fatto esplodere ammazzando un po' di passanti. E allora? Questi sono attentati comuni, senza importanza. Temo, caro conte, che qualcuno abbia lasciato una finestra aperta da qualche parte.» «Cosa vuole dire?» Nella voce di Raymond vibrava una nota d'insicurezza. «L'avevo avvertita. Quelli che rappresento non ammettono errori.» «Le operazioni erano ben organizzate, le ripeto che non so cosa sia successo.» «Cerchi di parlare con lo Slavo. A quest'ora dovrebbe avere un'idea di
quello che non ha funzionato a Istanbul.» «Ci proverò di nuovo.» «Cerchi di controllare le finestre e di verificare se ce n'era qualcuna chiusa male. E chiami il suo amico Al-Bashir; anche lui mi deve delle spiegazioni su questo fallimento.» Il Facilitatore chiuse la comunicazione senza dargli tempo di replicare. Raymond compose immediatamente il numero dello Slavo, ma di nuovo questi non rispose. Chiamò Salim, ma trovò la segreteria telefonica che invitava a lasciare un messaggio. Quando riattaccò era divorato dall'ansia. Santo Toribio, Potes, Venerdì Santo Arturo García stava spiegando agli agenti della Policia Nacional e della Guardia Civil quello che sapeva riguardo ai due giovani che, al piano superiore, aspettavano il momento di farsi esplodere insieme al frammento della croce custodito a Santo Toribio. Il delegato del Centro antiterrorismo in Spagna si era recato in Cantabria, cosciente della gravità della situazione. Nella sua conversazione con il ministro degli Interni, questi si era mostrato deciso: non voleva correre alcun rischio e poco gli importava che gli attentatori potessero mettersi in contatto con altri terroristi in zona. L'unica cosa da fare era evitare l'attentato, quindi bisognava arrestarli immediatamente, impedendo loro di avvicinarsi a Santo Toribio. Una poliziotta si era vestita da cameriera. Sulla carta il piano era molto semplice: la donna avrebbe bussato alla porta portando con sé un carrello di asciugamani e lenzuola pulite; quando gli avessero aperto sarebbe entrata, e dietro di lei tutto il resto degli effettivi. Non sapevano come avrebbero reagito i terroristi, ma era prevedibile che avrebbero tentato di suicidarsi e per questo l'operazione risultava piuttosto rischiosa, soprattutto per gli agenti che avrebbero fatto irruzione nella stanza. Il direttore dell'hotel, malgrado il nervosismo, aveva obbedito a tutti gli ordini della polizia. Un po' alla volta avevano evacuato l'albergo, bussavano a ogni stanza e chiedevano agli ospiti di recarsi alla reception per un problema importante; una volta lì, quindi venivano condotti verso l'uscita posteriore per essere portati fuori e allontanati. Arturo García era sorpreso dalla fortuna che avevano avuto fino a quel momento. In qualsiasi istante avrebbero potuto scendere i terroristi e accorgersi di quello che stava accadendo.
Avevano lavorato con i minuti contati, sapendo che ogni istante era prezioso, e il commissario García non si era sentito tranquillo fino a quando non aveva localizzato i due pullman dell'agenzia viaggi di Omar. Chi stava per commettere un attentato a Santo Toribio doveva essere per forza nascosto in quel gruppo di pellegrini. Due anziane spaventate gli avevano parlato di "quei due giovani così simpatici, con l'aspetto da mori, che però sono buoni cristiani e sono venuti per il giubileo". Mohamed si aggirava per la stanza prendendosela con Alì, che si stava ancora vestendo. «Sbrigati!» «Perché? Sono le undici, manca ancora un'ora.» «Se non ti sbrighi io me ne vado.» «Fai come ti pare.» Ma Mohamed si sedette sul letto e lasciò vagare lo sguardo attraverso la finestra. «Questo paese è veramente tranquillo. Guarda, malgrado l'ora non c'è ancora nessuno per strada.» «Stai calmo. La fretta non porta da nessuna parte.» Mohamed cercò il suo cellulare e compose il numero di casa sua. Lo tormentava sapere che suo cugino Mustafà avrebbe assassinato Laila. Sentì la voce malinconica di suo padre e capì che Laila era già morta. «Mohamed, figlio mio, dove sei finito? Devi venire immediatamente, è successa una cosa terribile.» Mentre suo padre gli parlava, sentiva in sottofondo il pianto di sua madre e di Fatima. «Non posso venire, ho un lavoro importante da fare.» «Figlio, tua sorella... Mustafà ha ucciso Laila... dice di averlo fatto per il nostro bene... Per favore, figlio mio, torna a casa!» Mohamed sentì che gli mancava l'aria. Alì lo osservava in silenzio, con riprovazione. «Non posso venire, padre, vi voglio bene, dillo a mia madre... io e lei... ultimamente non ci siamo intesi, so di averla fatta soffrire.» «Ma figlio, che cosa dici? Cosa mi vuoi dire? Per favore, Mohamed!» Mustafà tolse il telefono di mano a Darwish. «Non avresti dovuto chiamare» disse al cugino con voce imperiosa. «Cosa le hai fatto?» gridò Mohamed. «Quello che tu non hai avuto il coraggio di fare. Dovresti dirmi grazie,
caro il mio uomo importante. E visto che hai chiamato, di' ai tuoi genitori che la smettano di piagnucolare. Io devo andarmene, non possono chiamare la polizia fino a quando non sarò al sicuro. Devi convincerli o altrimenti dovrò...» «Stai zitto! Non ti azzardare a toccarli.» «Fai quello che ti sto dicendo.» Sentì nuovamente la voce rotta di suo padre. Quanto odiava Mustafà! «Figlio mio... perché?» «Padre, fate quello che vi dice, altrimenti vi farà del male.» «Fatima l'ha trovata sgozzata nella sua stanza... è orribile. Tua sorella... Che Allah sia misericordioso con lei! Povera figlia mia! Tua madre è uscita di senno, non ci permette di avvicinarci a Laila, ha abbracciato il suo corpo e... È terribile, figlio mio, è terribile!» Mohamed piangeva sconsolato e Alì gli strappò il telefono dalle mani. «Signor Amir, faccia quello che le ha chiesto Mohamed, è la cosa migliore per tutti. Si affidi alla saggezza di coloro che dirigono la nostra comunità.» Quindi restituì il telefono a Mohamed e questi chiese di parlare con sua moglie Fatima. «Cerca di farli ragionare, impedisci a mia madre di chiamare la polizia. Mustafà deve scappare e tu lo sai.» «Non era necessario ucciderla» disse Fatima. «Cosa ne sai tu, stupida donna? Come ti permetti di giudicare quello che i nostri capi decidono? Chiedilo a tuo fratello perché Laila doveva morire, chiediglielo. È stato lui che lo ha deciso» gridò Mohamed. Alì gli tolse il telefono e chiuse la comunicazione. Poi l'obbligò a bere un bicchiere d'acqua. «Non avresti dovuto chiamare. Lo sapevi che sarebbe andata così.» Due colpi decisi alla porta misero in allerta i due giovani. Mohamed si asciugò le lacrime con il dorso della mano e Alì si avvicinò alla porta chiedendo chi era. «Sono la cameriera, devo portar via gli asciugamani sporchi.» «Un po' di pazienza, usciamo tra qualche minuto» disse Alì. «Va bene, ma se intanto riuscite a passarmi gli asciugamani mi fate un favore.» Alì aprì la porta e si trovò di fronte una donna di mezza età che gli sorrideva con garbo. «Mi dispiace disturbarvi, posso prendere gli asciugamani in bagno?»
La cameriera spinse la porta senza attendere risposta e Alì si scansò per lasciarla passare. Mohamed guardava fuori dalla finestra per evitare che la donna lo vedesse piangere. Un rumore lo mise in allarme e quando si voltò nella stanza c'erano già gli uomini in borghese della Guardia Civil che li tenevano sotto tiro con i loro fucili, mentre uno di loro aveva buttato a terra Alì e gli teneva le mani dietro la schiena e gli metteva le manette. Mohamed non oppose resistenza. Avevano già recuperato le cinture esplosive dal pullman, ma non le avevano ancora indossate, per cui non aveva neanche la possibilità di suicidarsi. In realtà, sentì un gran sollievo e si lasciò ammanettare. Neanche quel giorno sarebbe morto, Allah non voleva il suo sacrificio. Si era salvato la vita a Francoforte e adesso se la salvava di nuovo. Giurò a se stesso che mai più l'avrebbe messa in pericolo. Uscirono dall'albergo circondati da poliziotti e agenti della Guardia Civil. Un uomo avanti con gli anni, in abiti borghesi, lo guardò con curiosità prima di chiedere a una delle guardie se avevano perquisito la camera e trovato gli esplosivi. «Sì, questi angioletti avevano due cinture pronte per farli esplodere. Le tenevano in una borsa dentro l'armadio; dovevano solo attivarle.» «Bravi. Ottimo lavoro.» «Può dirlo forte, commissario. Questi disgraziati avrebbero potuto uccidere un bel po' di innocenti.» «Portateli in caserma. Li interrogheremo prima di trasferirli a Madrid.» «Ai suoi ordini, commissario.» Arturo García tirò un sospiro di sollievo mentre telefonava al ministro degli Interni per esporgli il risultato dell'operazione. Poi chiamò Hans Wein a Bruxelles e, per ultimo, Lorenzo Panetta. «Se ce l'abbiamo fatta è soprattutto grazie al suo informatore. Gli faccia i complimenti da parte mia, senza le sue dritte sarebbe stato impossibile bloccare questi delinquenti e seguire le tracce di questo Omar.» «Cosa farete a Omar?» volle sapere Panetta. «Niente.» «Niente?» «Sapete bene anche voi come funzionano certe cose. Adesso sappiamo che Omar appartiene al Circolo, dunque è meglio dargli corda e vedere cosa fa» sentenziò Arturo García. «Le chiederei di interrogare il prima possibile i detenuti; magari potranno dirci qualcosa sull'attentato di Roma.» «Non si preoccupi, è esattamente quello che farò. Spero ci dicano qual-
cosa di interessante, ma soprattutto che attraverso di loro si possano tirare le fila del Circolo. Cercherò di chiamarla quanto prima.» 45 Padre Aguirre pareva assorto e da un bel po' non diceva una parola. Lorenzo lo osservava preoccupato; il volto del vecchio sacerdote aveva il colore della cera, e non era difficile leggere nei suoi occhi l'enorme sofferenza che aveva dentro. «Resta soltanto Roma. Fortunatamente siamo riusciti a far abortire il tentativo a Santo Toribio, me l'ha appena comunicato il nostro delegato in Spagna» informò Panetta. Il commissario Moretti gli passò il telefono per farlo parlare con Hans Wein. «Hans, lo so, ho appena parlato con García; almeno gli spagnoli hanno evitato l'attentato e hanno salvato il loro pezzetto di croce. In realtà, finora nessuna reliquia ha subito danni, né il frammento del Lignum Crucis di Gerusalemme né le reliquie di Maometto.» Panetta ascoltò le indicazioni di Hans Wien. Il suo capo era angosciato quanto lui e temeva che da un istante all'altro il Circolo realizzasse l'attentato a Roma. «Dio mio! Come ho fatto a non capirlo prima, sono stato uno stupido!» esclamò all'improvviso padre Aguirre. «Si calmi, padre...» disse il commissario Moretti tentando di tranquillizzare il sacerdote, che era scattato in piedi con gli occhi fuori dalle orbite. «So qual è l'obiettivo dell'attentato!» assicurò il sacerdote. Panetta, Moretti e il resto dei poliziotti rimasero in attesa guardando padre Aguirre che sembrava impazzito. «Lo so, certo che lo so! Dio mio, come ho fatto a non capirlo prima!» Lorenzo Panetta e il commissario Moretti lo convinsero a sedersi. «Raymond de la Pallisière odia la croce, il simbolo detestato dai catari, la sua ossessione è distruggere la croce. Hanno tentato di farlo con il frammento del Lignum Crucis conservato a Gerusalemme, con quello di Santo Toribio, il più grande tra quelli conservati e, per logica, cercheranno di distruggere anche i tre frammenti della croce conservati a Roma. L'attentato avverrà nella basilica della Santa Croce di Gerusalemme. In quella basilica c'è una cappella, la cosiddetta cappella delle reliquie, dove sono conservati tre frammenti della croce di Cristo, oltre a due spine della coro-
na e un pezzo di spugna... sì, l'attentato sarà lì, ne sono sicuro!» «È una spiegazione logica!» esclamò Panetta. «Non c'è tempo da perdere!» disse Moretti. Salim al-Bashir appallottolò il foglietto che teneva in mano. La rabbia gli aveva trasfigurato il viso. Quella stupida avrebbe pagato a caro prezzo ciò che aveva appena fatto! Come aveva potuto credere che gli avrebbe obbedito? Diede un pugno contro il muro e sentì un dolore acuto alle nocche scorticate. Fino a un'ora prima si sentiva l'uomo più felice del mondo, ma adesso... Passò al setaccio la stanza cancellando ogni traccia della presenza della donna. Si era sempre mostrato molto cauto quando si incontravano negli alberghi; prenotavano stanze separate e cercavano di non farsi vedere da nessuno mentre si spostavano da una camera all'altra. Non entravano né uscivano mai insieme dagli hotel. Lui aveva imposto quelle drastiche misure di sicurezza per evitare che li collegassero. La notte precedente l'aveva invitata a dormire con lui nella sua stanza, e lei si era presentata con una piccola borsa in cui teneva la camicia da notte e il necessaire. Quella mattina, quando lui era uscito per incontrare il capo del Circolo a Roma, l'aveva lasciata che si stava preparando. Al ritorno, Salim non si era sorpreso di non trovarla. Aveva pensato che fosse tornata nella sua stanza a cambiarsi d'abito, e che sarebbe tornata da un momento all'altro. L'aveva chiamata sul cellulare ma lei non aveva risposto, e allora aveva pensato che fosse in bagno o che magari avesse deciso di scendere al bar a prendere un caffè. Ma erano passate quasi due ore e di lei ancora non c'era traccia. Salim allora aveva capito che la donna era fuggita. Aveva cercato per tutta la stanza qualche indizio della fuga, e aveva trovato nella tasca della giacca appesa nell'armadio quel biglietto che ora aveva appallottolato. Caro Salim, ho preso la decisione più difficile della mia vita: separarmi da te per sempre. Avevi ragione tu, non sono la donna di cui hai bisogno. Non sono degna di te né della tua causa. In tutti questi anni ho fatto tutto ciò che mi hai chiesto e ti confesso di non avere rimorsi. Se mi avessi chiesto la vita te l'avrei data con piacere, ma adesso non posso fare ciò che mi chiedi; non sono capace di distruggere i frammenti della croce né le altre reliquie conservate in quella basilica, per quanto tu dica che sono false.
Non sono mai stata una buona cristiana: ormai da anni ho perduto la fede e non vado in chiesa, ma non posso distruggere tutto ciò sulla cui base sono stata educata. No, non sono capace di distruggere quei tre frammenti della croce; sarebbe come distruggere la mia essenza come persona, la mia anima. Immagino che riderai sentendomi parlare di anima, e in realtà neanche io ricordavo di averne una. Ma poco importa. Non voglio neanche rischiare di provocare morti e feriti, senza parlare del fatto che molto difficilmente ne uscirei io stessa illesa. Conosco i danni che può fare una bomba. Siamo sinceri, Salim, non mi pare che il tuo piano sia inoffensivo come me l'hai presentato e, peggio ancora, ho scoperto che non posso fidarmi di te come ho fatto in passato. Se eseguissi i tuoi desideri non potrei sopportare di vivere il resto della vita con questo peso sulla coscienza. Come vedi, io che ho fatto di tutto, che ho tradito me stessa e i miei amici, non sono capace di commettere quest'ultima impresa, la più facile secondo te. Me ne vado, Salim, e credo che questa separazione sia la cosa migliore per entrambi. Non ti farò mai del male, ti giuro che proverò a dimenticarti per poter io stessa dimenticare tutto quello che ho fatto. Non so se potrai perdonarmi, ma spero che questo sia possibile. In fondo, tu sei un uomo di fede. Ti amo Salim si chiese dove fosse in quel momento. La cosa più probabile era che avesse lasciato l'hotel e fosse tornata a Bruxelles. Forse era ancora in aeroporto. Telefonó al capo del Circolo a Roma. «Amico mio, la cagna è scappata. L'operazione è cancellata.» «Salirci, qualcosa sta andando male. Hai visto la televisione?» «No, che succede?» «Un uomo si è suicidato a Gerusalemme alla Porta di Damasco. Ci sono stati parecchi morti.» «Alla Porta di Damasco?» «Sì.» «Ma...» «Lo so, è successo qualcosa. C'è stata anche una strana esplosione a I-
stanbul. A quanto pare ci sono stati morti e diversi feriti.» «E in Spagna?» «Non si sa ancora niente.» «Ti chiamo appena arrivo a Londra. Tu intanto cerca di sapere cos'è capitato. È possibile che qualcuno abbia tradito.» «Stai attento, amico mio.» Salim finì di chiudere la valigia e lasciò la stanza, non prima di dare un'ultima occhiata per controllare che non gli fosse sfuggito qualcosa. Pagò il conto alla reception e chiese che gli portassero l'auto che aveva lasciato in garage. In aeroporto controllò la lista dei voli per Bruxelles; quello successivo partiva tre ore dopo e il precedente era decollato dieci minuti prima del suo arrivo. Cercò un telefono pubblico e fece una chiamata. Diede l'indirizzo della donna a Bruxelles e un ordine: eliminarla. Era diventata un pericolo per lui. Oggi diceva di amarlo, ma domani? Era disposto a morire piuttosto che farsi prendere vivo, perché con lui poteva cadere tutta la rete del Circolo in Europa. Maledisse quella donna per averlo messo in pericolo. Ovidio Sagardía aveva lo sguardo fisso sulla croce che pendeva dal petto del papa. In quel momento la vibrazione del cellulare lo avvertì della chiamata. Era padre Aguirre. Si appartò dietro una colonna per rispondere, ma senza perdere di vista la figura del papa, che al centro della basilica di San Pietro continuava le celebrazioni liturgiche del Venerdì Santo. «L'attentato è contro la croce, e la croce si trova...» Fu Ovidio a completare la frase: «...nella basilica della Santa Croce di Gerusalemme. Dio mio, era evidente!». «Sì, figliolo, lo era, ma la confusione e la paura non ci lasciava vedere ciò che avevamo davanti. Raymond d'Amis vuole distruggere la croce, quindi la sua logica non può che portarlo a distruggere i resti della croce.» «E adesso? Che succederà?» chiese Ovidio con un sussurro. «Il signor Panetta e il commissario Moretti hanno già adottato delle misure per proteggere la basilica della Santa Croce, si sono recati sul posto anche loro.» «Ho saputo di Istanbul e Gerusalemme» disse Ovidio. «Ci sono stati molti morti, molto sangue versato. Mi sento colpevole per
non essere stato capace di evitarlo.» «Ma, padre, grazie a lei il Centro antiterrorismo ha preso sul serio la pista del conte D'Amis!» «Sono diventato troppo vecchio e non penso più con la velocità di un tempo.» «Appena terminata la funzione verrò a trovarla.» «No, non muoverti. Sto uscendo per venire in Vaticano.» Castello D'Amis, sud della Francia Raymond de la Pallisière piangeva di rabbia. Aveva appena parlato con Salim al-Bashir e ormai non c'erano più dubbi: l'operazione era fallita. I frammenti della croce erano rimasti intatti a Roma, Gerusalemme e Santo Toribio. Decine di persone erano morte e a Gerusalemme e Istanbul si contavano un centinaio di feriti, eppure non erano riusciti nel loro proposito. Il capo del Circolo sospettava che quella di Istanbul non fosse una semplice fuga di gas e Raymond sapeva che, se avesse scoperto che aveva organizzato un attentato contro le reliquie del Profeta, lo avrebbe fatto uccidere. Quanto al commando inviato a Santo Toribio, intuiva fosse accaduto qualcosa. La televisione e la radio non avevano detto niente su quell'angolo remoto di Spagna, ma era evidente che qualcosa fosse andato storto, dal momento che Santo Toribio era ancora in piedi. Al-Bashir non aveva voluto chiamare Omar, preferiva aspettare che lo facesse lui. In effetti, se non lo aveva fatto era perché lo avevano arrestato o perché era accaduto qualcosa di realmente grave. «Non so che cosa non sia andato per il verso giusto ma le prometto che lo scoprirò» aveva detto Al-Bashir. «Ho speso una montagna di denaro» l'aveva rimproverato Raymond. «Lo so.» «Lei deve darmi una spiegazione, questa storia non può finire così.» «Avrà le sue spiegazioni quando avrò scoperto cosa è accaduto. Fino a quel momento dovrà accontentarsi di aspettare.» «Voglio risultati!» «Lei è pazzo! Ora l'unica cosa da fare è starcene tranquilli, o pretende che ci arrestino tutti? Mi auguro che stia chiamando da un telefono sicuro...» «Sto utilizzando una scheda del cellulare nuova.»
«Dobbiamo fare attenzione, può darsi che qualcuno ci abbia tradito; i miei uomini sono preparati...» Nella testa di Raymond rimbalzavano le parole di Salim al-Bashir: "Può darsi che qualcuno ci abbia tradito...". Ma chi? Nessuno conosceva i dettagli del piano. Anche i membri del consiglio di Memoria Catara, che lo avevano chiamato per tutta la mattina, allarmati per quello che vedevano in televisione. Suonò uno dei suoi cellulari e lui rispose immediatamente. La voce profonda del Facilitatore gli fece paura. «Conte, dov'è sua figlia?» Raymond fu colto di sorpresa dalla domanda. «Perché vuole sapere dov'è Catherine?» «È una ragazza speciale, ha il dono dell'ubiquità.» «Cosa vuol dire?» «Che si trova da tre settimane in California in casa di un'amica, una pittrice di un certo successo. Sua figlia si sta riprendendo dalla depressione causata dalla morte di sua madre. Ma, siccome è una ragazza speciale, allo stesso tempo è anche lì con lei, e sta visitando i luoghi dove ha vissuto la madre.» «Cosa sta dicendo?» Raymond si sentì mancare il respiro. «Le avevo detto di stare attento alle finestre. Ha messo tutti noi in pericolo, lei è uno stupido. È soltanto sua la responsabilità di questo fiasco. Al suo amico Al-Bashir non piacerà sapere di aver perduto degli uomini coraggiosi per un disguido, perché lei si comporta come un povero vecchio sentimentale. Nel Circolo non perdonano certi errori. E lei, conte, ha commesso il peggiore di tutti.» «Parlerò immediatamente con Catherine...» «Non sia ridicolo. Cosa le dirà? Crede che le racconterà per chi lavora? Bisogna sapere quando è arrivata la fine della storia, conte, e per lei la storia è finita. Buonasera.» Il conte D'Amis si servì un bicchiere di calvados e lo bevve d'un sorso. Poi si sedette qualche secondo per mettere in ordine le idee. Non aveva scelta. No. Si alzò e andò a sedersi alla scrivania del suo studio, suonò il campanello per chiamare Edward. Trascorsero appena un paio di minuti prima che il maggiordomo bussasse alla porta. «Edward, avverta mia figlia che ho bisogno di parlarle.» La vide entrare sorridente, spensierata. No, non somigliava a Nancy e
neanche a lui, ma era allegra e bella e i giorni passati insieme erano stati un regalo. «Volevi vedermi? Ero nella mia stanza a rileggere la cronaca di frate Julián. Alla fine è diventata un'ossessione quasi come era successo a te» gli disse sedendosi di fronte a lui. Il conte sorrise, poi aprì il primo cassetto della scrivania e tirò fuori un revolver. Catherine lo guardò sbalordita prendere la mira, ma non ebbe il tempo di difendersi. Le sparò alla testa a bruciapelo. La ragazza cadde a terra con il volto coperto di sangue. Raymond la vide crollare mentre le lacrime gli velavano gli occhi. Poi si infilò il revolver in bocca e fece fuoco. Allarmato dagli spari, Edward entrò nello studio e il suo urlo lacerante si sentì per tutto il castello. 46 Hans Wein ascoltava in silenzio Lorenzo Panetta. Il direttore del Centro antiterrorismo a stento riusciva a contenere l'indignazione. Wein aveva convocato tutta la squadra per analizzare l'accaduto e l'ultima cosa che si aspettava di sentire era la rivelazione di Panetta. Il vicedirettore del centro era visibilmente scosso. La sera del Venerdì Santo aveva avuto una crisi d'ansia che inizialmente aveva confuso con un infarto. Aveva passato tutto il venerdì in attesa che da un momento all'altro il Circolo portasse a compimento un attentato a Roma. E invece non era accaduto. La polizia aveva perquisito la basilica della Santa Croce di Gerusalemme da cima a fondo, senza trovare nulla di sospetto. Padre Aguirre insisteva nel dire che, se mai ci fosse stato un attentato, sarebbe stato lì. Panetta aveva continuato a chiedersi cosa fosse successo, perché mai il Circolo avesse desistito. Forse il fallimento dell'attentato di Santo Toribio li aveva spinti a nascondersi di nuovo nelle loro tane. Ma il peggio era arrivato quando aveva ricevuto la chiamata del delegato del Centro antiterrorismo di Parigi, che annunciava il suicidio del conte D'Amis e dell'omicidio di sua figlia. Panetta aveva lanciato un grido profondo che aveva spaventato quelli che gli stavano intorno. Aveva cominciato a sudare, il polso aveva accelerato e che l'aria aveva smesso di arrivargli ai polmoni. Lo avevano portato al Policlinico Gemelli e lì, dopo averlo controllato dalla testa ai piedi e avergli fatto una serie di esami, il
medico di turno gli aveva diagnosticato una crisi d'ansia provocata dallo stress. Ma lui sapeva bene cosa stava succedendo: il dolore della sua coscienza era insopportabile. Era responsabile di una morte: quella della giovane Mireille Béziers. Lunedì di buon mattino aveva preso l'aereo per Bruxelles, malgrado Hans Wein gli avesse intimato di restare a Roma a riposare. Panetta sapeva di dovere delle spiegazioni al suo capo, perché altrimenti non sarebbe mai stato possibile archiviare quel caso. E adesso era lì, nella sede del Centro antiterrorismo a Bruxelles, alle prese con la confessione più difficile della sua vita davanti a un attonito e iracondo Hans Wein. «Ho chiesto a Mireille di infiltrarsi al castello. Lei ha esitato un po', ma poi mi ha detto di sì. Sapevo che voleva dimostrare il suo valore perché si sentiva trattata ingiustamente qui al dipartimento e anche perché, malgrado i rischi, era intelligente e capace. Avevo pensato che avrebbe potuto prendere il posto della figlia del conte. Lui non la conosceva, non l'aveva mai vista in vita sua. Matthew Lucas ha ottenuto informazioni esaustive su Catherine de la Pallisière e Mireille si è imbevuta di quelle informazioni fino a essere capace di farsi passare per la figlia del conte. Ha avuto successo, è riuscita a ingannarlo. Grazie a lei abbiamo saputo degli attentati e di dove sarebbero avvenuti: a Gerusalemme, a Santo Toribio, a Istanbul, a Roma. Ha rischiato la sua vita per salvare quella di gente innocente, per impedire che Raymond e il Circolo versassero sangue innocente. Non ho mai pensato che potessero scoprirla... Io... mi dispiace, sono responsabile della sua morte, lo so.» «Infatti, lo sei. Non avevi diritto di organizzare un'operazione con degli infiltrati senza il mio permesso e tenermela nascosta per tutto questo tempo, facendomi credere che la tua fonte fosse un domestico del castello. L'hai messa in pericolo ed è stata uccisa. Sì, sei responsabile di quello che è successo!» «Senza Mireille non saremmo riusciti a evitare gli attentati» affermò Panetta. «È stata lei a chiamarmi per avvertirmi dei luoghi scelti dal conte per le esplosioni. Non saremmo mai riusciti a fare niente senza le sue informazioni. È stata l'ultima volta che ho parlato con lei, poi non si è più messa in contatto con me. Mireille ha salvato molte vite.» «È possibile.» «Andiamo, Wein, io posso anche essere un miserabile per aver messo a repentaglio la vita di Mireille, ma cerca di non esserlo anche tu sminuendo il suo sacrificio!»
In quel momento entrò in ufficio Matthew Lucas con gli occhi arrossati dalla stanchezza. Non dormiva da tre giorni. La notizia della morte di Mireille lo aveva toccato. «Anche lei mi ha ingannato, Matthew» lo rimproverò Hans Wein. «Sì. Nonostante Mireille non mi fosse mai piaciuta, ho ritenuto che l'idea di Lorenzo di infiltrarla fosse una possibilità che non dovevamo sprecare, ma ero certo che lei si sarebbe opposto. Comunque, può chiedere alla mia agenzia di sollevarmi dall'incarico qui al Centro antiterrorismo; è giusto così, lo capisco, si è spezzato il rapporto di fiducia tra lei e me» affermò con un certo aplomb Matthew Lucas. «Lo farò. Stia pur certo che lo farò. Quanto a te, Lorenzo... credo sia una buona idea quella di tornare a Roma adesso che stai per diventare nonno. Non ho più fiducia in te.» «Lo capisco, Hans. Non te ne faccio una colpa.» «No, non puoi davvero rimproverarmelo. E adesso facciamo un punto della situazione. A proposito, dove diavolo sono Laura White e Andrea Villasante? Ho chiesto che fossero presenti a questa riunione...» Diana Parker, l'assistente di Andrea Villasante, entrò in quel momento nell'ufficio con espressione sconvolta. I tre uomini rimasero a guardarla, con il fiato sospeso, senza sapere cosa pensare. «È orribile! Orribile!» diceva Diana singhiozzando. «Si può sapere cosa succede?» esclamò Hans Wein. «Vuol farmi il favore di parlare?» Entrò anche una segretaria e dietro di lei quasi tutti i membri dell'ufficio. Erano anche loro sconvolti. Poi finalmente Diana Parker fu in grado di parlare. «Sono morte! Dio mio, che orrore!» Due minuti più tardi, un ispettore della polizia di Bruxelles chiedeva il permesso di parlare con Hans Wein. «I corpi della signora Laura White e della signora Andrea Villasante sono stati rinvenuti questa mattina da una donna che stava portando a spasso il cane. La donna che li ha trovati stava passeggiando nel parco quando l'animale ha cominciato a tirare e praticamente l'ha trascinata fino al punto in cui si trovavano i cadaveri. Il medico legale dice che la morte risale circa alle otto di ieri sera. Sono state trovate due borse con gli effetti personali delle donne; a quanto pare erano state a giocare a squash.» La commozione fu generale. Improvvisamente, intorno a loro non vedevano altro che morte. Non solo Mireille, ora anche Laura e Andrea aveva-
no perso la vita, ma perché? «Come sono morte?» chiese Hans Wein, tentando di non perdere la compostezza, pur essendo profondamente toccato. «Sgozzate. Entrambe con la gola tagliata. Mi dispiace» disse l'ispettore della polizia belga. «Dio mio!» esclamò Panetta. «Può darsi che abbiano tentato di difendersi, perfino che una di loro abbia tentato di fuggire, ma l'assassino... l'assassino ha agito da vero professionista.» «Un professionista di cosa?» chiese nervosamente Hans Wein. «Uno che agisce in questo modo non è certo un borseggiatore» rispose infastidito l'ispettore. Diana raccontò che Andrea l'aveva chiamata per chiederle di unirsi a lei e Laura per giocare a squash e poi cenare insieme, ma che aveva detto di no, perché era già d'accordo con un'altra amica con cui sarebbe andata al cinema. «Se fossi andata con loro sarei morta!» gridò impaurita. «Avete fermato qualcuno?» chiese Panetta vivamente impressionato. «Non ancora. Mi piacerebbe sapere se avete qualche idea, se pensate che qualcuno potesse avere un motivo per assassinarle; no so, qualcosa che sia in relazione con la loro vita personale o con il loro lavoro...» L'ispettore lasciò la domanda sospesa nell'aria. «Non potrebbe essere un delinquente comune che ha tentato di derubarle?» chiese a sua volta Matthew Lucas. «No, no, signore, i portafogli erano nella borsa e pure le carte di credito. La cosa più sorprendente è che non hanno trovato nessuna impronta, niente che possa darci una traccia dell'assassino o degli assassini. Ditemi, qualcuno poteva avere interesse a ucciderle?» Hans Wein si irrigidì, in imbarazzo davanti alla domanda. «No, ispettore, erano due funzionarie esemplari, persone di assoluta fiducia e di grande responsabilità.» «Mi spiace dover fare queste domande, ma dietro ogni omicidio c'è un movente ed è mio dovere trovarlo e cercare di arrestare l'assassino.» «Lo capisco, ispettore, faccia pure il suo lavoro. Ma la prego di comprendere il nostro stupore e il nostro dolore, erano persone alle quali tutti noi volevamo molto bene. Laura White era la mia assistente personale; e quanto ad Andrea Villasante, senza di lei questo dipartimento non avrebbe potuto funzionare.»
«Ma cosa sta succedendo?» chiese ad alta voce Hans Wein una volta uscito l'ispettore. «Tutto questo è pazzesco.» Dopo essersi tranquillizzata, Diana Parker riuscì a dare qualche altro dettaglio della sua ultima conversazione con Andrea Villasante. «Andrea era andata in vacanza e pure Laura, ma a quanto pare entrambe erano tornate prima del tempo. Andrea mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata di Laura, che avevano bisogno di scaricare un po' di adrenalina, che sarebbero andate a fare una partita e se volevo potevo unirmi a loro...» «Hans, una di loro era l'informatrice...» affermò Panetta. «L'informatrice di chi? Di cosa stai parlando?» «Ti avevo detto che credevo ci fosse una fuga di notizie, che non era normale che Karakoz fosse diventato così prudente. In realtà, fino a quando Mireille si è infiltrata nel castello ci siamo mossi alla cieca. È stata lei a confermarci l'alleanza del conte con il Circolo. O Laura o Andrea lavorava sia per Karakoz sia per il Circolo.» «Tu devi essere impazzito! Sai bene che la Sicurezza ha ripetuto le proprie indagini su tutto il personale del dipartimento! Ma oltretutto conoscevo bene entrambe, erano donne eccezionali, dedite al loro lavoro, incapaci di un gesto simile.» «Una delle due faceva filtrare le informazioni» insistette Panetta. «E perché le hanno uccise?» «Non lo so, forse la persona che riceveva le informazioni temeva di essere scoperta, o perché aveva smesso di fidarsi di lei, o per qualche altra causa. A Roma non è stato commesso l'attentato che ci aveva annunciato Mireille, e gli spagnoli hanno in mano due terroristi del Circolo che prima o poi diranno qualcosa.» «Magari Mireille Béziers si è sbagliata e non era mai stato previsto un attentato a Roma. Quanto ai due terroristi detenuti in Spagna, sono due poveri disgraziati, carne da macello; uno era un ladruncolo che è stato indottrinato in carcere e l'altro è uno studente universitario, figlio di una famiglia ben integrata di Granada. Questo tale Mohamed Amir è sposato con la sorella di un influente imam di Francoforte. Sua sorella è stata assassinata il Venerdì Santo, a quanto pare è stato un delitto d'onore. La ragazza si era occidentalizzata, era femminista e fronteggiava gli islamisti radicali. L'ha assassinata un cugino per lavare l'onore della famiglia. No, quei due non diranno molto più di quello che hanno già raccontato. Ho parato con l'ispettore Arturo García e non pensa che potranno fare rivelazioni importan-
ti.» «Ho parlato anch'io con l'ispettore. Per gli spagnoli non c'è dubbio che i due terroristi appartengano al Circolo, come quel tale Hakim che si è fatto esplodere a Gerusalemme. E hanno un grosso problema con quel paesino, Caños Blancos, dove Hakim era sindaco. È possibile che sia una base del Circolo, ma devono andarci piano per evitare che i giornali li accusino di xenofobia» ribadì Matthew Lucas. «Hans, mi permetto di insistere: dovresti prendere in considerazione quello che ti ho detto.» «Non ti permetterò di infangare il nome di Laura e Andrea!» «Tu vuoi soltanto evitare che questo dipartimento sia messo in quarantena per motivi di sicurezza!» affermò Panetta. «La tua è soltanto teoria. Ti ordino di rispettare almeno i morti. Non macchiare il buon nome di due donne innocenti. Per me è fin troppo chiaro quel che è accaduto: sono state assassinate da un delinquente, forse nel tentativo di derubarle, devono aver fatto resistenza, e il delinquente non ha potuto portare a termine la sua opera perché in quel momento è arrivato qualcuno, deve essere andata così... Ma comunque non ho intenzione di gettare merda sulla loro memoria né su questo dipartimento.» «Anch'io le apprezzavo, Hans, e mi piacerebbe sapere quale delle due lo ha fatto e perché!» 47 Padre Aguirre officiava il funerale di Mireille Béziers. Lorenzo Panetta gli aveva chiesto di tornare a Bruxelles per la cerimonia. Il giorno prima era stato celebrato un altro funerale, quello di Andrea Villasante e Laura White, prima che i feretri con i loro resti fossero inviati nei rispettivi paesi, Spagna e Inghilterra. Ma Mireille Béziers stava ricevendo un funerale di particolare solennità. La ragazza era figlia di un ambasciatore e nipote di un generale della NATO; la rete di amici della sua famiglia arrivava fino alle più alte sfere. Il vecchio gesuita era arrivato accompagnato dal giovane sacerdote Ovidio Sagardía. Le donne del dipartimento piangevano e anche gli uomini riuscivano a stento a trattenere le lacrime, Tutti provavano un senso di colpa nei confronti di Mireille Béziers. Un'eroina, diceva padre Aguirre, una donna che non aveva esitato a mettere in pericolo la propria vita per evitare che fosse
versato sangue innocente. Una donna coraggiosa, generosa, una gran donna. Hans Wein ascoltava con gli occhi fissi sul pavimento le parole di padre Aguirre. Mireille era morta in servizio, mentre Laura White e Andrea Villasante erano state assassinate non si sapeva da chi, anche se la versione ufficiale era che si fosse trattato di un delinquente comune che aveva tentato di rapinarle mentre tornavano a casa dopo una partita di squash. Hans Wein riceveva le condoglianze per la morte di quelle tre donne che avevano lavorato nel suo dipartimento, e ringraziava per i complimenti che gli venivano rivolti per aver avuto alle sue dipendenze quell'intrepida ragazza che era ormai diventata un'eroina; ma gli sguardi di Lorenzo Panetta lo facevano sentire un miserabile. Certo, era dispiaciuto per la perdita di Laura e Andrea, mentre per Mireille Béziers... la verità era che non l'aveva mai sopportata. Attese che tutti i presenti fossero andati via. Voleva parlare con Lorenzo Panetta, ma questi era entrato sacrestia in cerca di padre Aguirre e di Ovidio Sagardía. Lì lo trovò insieme a Matthew. «Volevo salutarti. So che parti domani» riuscì a dire Wein. «Sì, me ne vado; ti ho lasciato un memorandum con tutte le conclusioni del caso. Spero ti sia di qualche utilità» replicò Panetta. «L'ho già letto, grazie.» «L'hai già letto?» «Sì... be', fatico a condividere alcune delle cose che dici.» Padre Aguirre, Ovidio e Matthew li osservavano imbarazzati, in silenzio. I due sacerdoti si erano già cambiati e indossavano il consueto abito dei gesuiti. «Io sono d'accordo con le tesi di Lorenzo» intervenne Matthew. «Sì, lo immaginavo.» «Hans, i dati sono inconfutabili: il conte D'Amis voleva vendicarsi della Chiesa, distruggendo la cosa più preziosa per i cristiani, i resti del Lignum Crucis.» «E che mi dici dell'attentato di Istanbul? Che io sappia, gli islamici non hanno fatto niente di male ai catari.» «Certo, abbiamo delle lacune, mancano alcuni anelli della catena. Non sappiamo ancora chi è il signor Brown. È possibile che sia lui l'anello mancante, il collegamento tra l'attentato di Istanbul e quelli di Santo Toribio e Gerusalemme. Ne ho discusso con padre Aguirre; lui ritiene che
qualcuno dirigesse le mosse di Raymond, qualcuno che voleva provocare uno scontro tra l'Islam e la Chiesa, anzi con tutto l'Occidente. In realtà, anche Mireille me lo disse quando mi parlò del signor Brown.» «Con quale scopo?» chiese Hans Wein guardando padre Aguirre. «Signor Wein, purtroppo c'è gente che trae beneficio da questi scontri. Gente per cui il mondo e gli esseri umani sono solo un'opportunità di fare affari. Se fossero state distrutte le reliquie del Profeta, gli estremisti islamici sarebbero scesi in piazza e avrebbero provocato un bagno di sangue in tutto il mondo. La distruzione dei frammenti della croce conservati a Santo Toribio, a Gerusalemme e nella basilica della Santa Croce, avrebbe fatto indignare molta gente. Qualcuno stava cercando di accendere la scintilla; volevano provocare una guerra di religione e sono stati sul punto di riuscirci. Immagino che qualcuno avrebbe trasformato questo scontro in un affare.» «Hans, tu stesso hai ventilato questa possibilità, hai detto che dietro tutto questo poteva esserci una questione di affari» asserì Lorenzo Panetta. «Il conte D'Amis si è alleato con il Circolo per raggiungere il suo obiettivo, ha finanziato le operazioni, ha ottenuto le armi attraverso Karakoz, ha manipolato quella povera ragazza, Ylena. E devi accettare anche il fatto che abbiamo avuto una fuga di notizie.» «Sì, ormai lo stai dicendo da mesi» ammise Hans Wein. «E questo qualcuno non poteva che essere una tra Laura White e Andrea Villasante.» «Questo non lo crederò mai!» gridò Wein. «Perché crede che le abbiano uccise?» chiese Matthew Lucas. «Me lo dica lei, Matthew» rispose Hans Wein in tono di sfida. «Volevano uccidere solo una delle due, ma le hanno trovate insieme e chi ha fatto il lavoro non poteva lasciare testimoni.» «E perché avrebbero dovuto uccidere la loro fonte?» «Forse perché chi riceveva le informazioni aveva paura di venire scoperto» rispose Lorenzo. «Sicuramente aveva saputo attraverso l'informatrice che avevamo imposto la massima riservatezza sul caso Francoforte. O può darsi che l'informatrice stessa si fosse stancata. Non lo so.» «Wein, non dovrebbe rinunciare all'idea di indagare su Salim al-Bashir» gli raccomandò Matthew. «Quel tipo non è pulito.» «Finora non ci sono prove; neanche una.» «Anch'io, come Matthew, credo che Salim al-Bashir sia uno dei capi del Circolo. Tocca a te provarlo» disse Panetta.
«Sai bene che i britannici non vogliono neanche sentir parlare di un'indagine su Salim al-Bashir.» «Va bene, vuol dire che tu e loro sarete responsabili della vostra ostinazione» fu la risposta di Lorenzo. «Come sai bene, il commissario García dice che i due terroristi arrestati a Santo Toribio negano di conoscere Salim al-Bashir e assicurano che l'attentato contro il monastero è stato idea loro e di nessun altro.» «Sì, posso immaginare quello che dicono, ma spero che il commissario García sia capace, con il tempo, di ottenere altre informazioni, non solo da quei due terroristi, ma anche da Omar, che evidentemente è uno dei capi dell'organizzazione.» «Ti terrò informato» disse Hans Wein tendendo la mano a Lorenzo Panetta. «So bene che non lo farai, ma non fa niente. Sto chiudendo la porta su una fase della mia vita.» «Buona fortuna.» «Grazie, anch'io ti faccio i migliori auguri.» Hans Wein stava per uscire dalla sacrestia quando una coppia si apprestava a entrare. Riconobbe immediatamente i genitori di Mireille Béziers. La madre, vestita rigorosamente di nero; sul viso mostrava ancora le tracce del pianto. Il padre, alto e magro, sopportava con dignità il dolore per la perdita di sua figlia. «Volevamo ringraziarla, padre Aguirre, per le parole che ha detto su mia figlia» disse la madre di Mireille. «Non dovete ringraziarmi. Mi dispiace di non essere capace di darvi il conforto di cui avete bisogno» rispose il gesuita. La madre di Mireille si piantò davanti ad Hans Wein e Lorenzo Panetta. I due uomini abbassarono lo sguardo. «Ora che non ci sente nessuno e non abbiamo più un ruolo da recitare, voglio dirvi una cosa. Voi siete due miserabili, avete mandato a morire mia figlia. Lei, signor Wein, disprezzava Mireille perché rappresentava tutto ciò che lei non era mai stato. Cosa le dava fastidio? Che non fosse stata costretta a farsi spazio nelle periferie urbane come lei? Nessuno ha regalato niente a Mireille. Era intelligente e aveva sempre avuto ottimi voti a scuola e all'università. Aveva imparato a parlare correttamente diverse lingue e tentava di fare anche l'impossibile per tendere ponti tra Oriente e Occidente. I suoi migliori amici erano musulmani, per questo ripudiava la violenza dei fanatici, per questo voleva combatterli, diceva che insozzavano l'Islam.
Ma lei l'ha perseguitata fin dal primo momento in cui è arrivata nel suo dipartimento, l'ha trattata come un'appestata, le ha messo addosso l'etichetta della raccomandata e si è permesso di disprezzarla. L'ha umiliata, lei che non è nessuno, lei non è niente. So come è arrivato al posto che oggi occupa, signor Wein; ha piegato la schiena davanti ai potenti, si è mostrato sempre politicamente corretto, temendo che qualcuno si accorgesse di che razza di impostore è lei!» «Per favore, signora, non faccia del male a se stessa!» disse padre Aguirre impressionato dalle parole di quella donna che ormai non tratteneva più le lacrime. «No, non ho alcuna intenzione di tacere. Voglio che sappiate quanto vi disprezzo. Lei, signor Panetta, ha manipolato mia figlia, si è approfittato della sua situazione, della sua voglia di dimostrare che aveva le capacità sufficienti per occupare il posto che occupava. Non si è preoccupato del fatto che non avesse esperienza come agente sul campo, non le importava. L'ha manipolata in modo vile, convincendola che se avesse fatto bene quel lavoro sarebbe tornata al dipartimento come un'eroina e nessuno l'avrebbe più messa in discussione. Che ci avrebbe pensato lei. L'ha ingannata!» La donna piantò lo sguardo su Matthew Lucas, che sembrava essere diventato più piccolo mentre l'ascoltava. «E quanto a lei... non è migliore di loro. La detestava, vero? Mireille mi ha raccontato la sua faccia sorpresa quando vi siete incontrati per caso in un ristorante. Credo che lei sia rimasto impressionato per averla vista insieme a un giovane di aspetto maghrebino. Questo l'ha resa sospetta ai suoi occhi, perché lei è incapace di rispettare quelli che non sono come lei. Il giovane che era al tavolo con Mireille era una persona molto importante per lei, sicuramente si sarebbero sposati se non fosse successo quello che sappiamo. È francese, è nato a Montpellier da genitori algerini. Ahmed è un informatico, un ottimo informatico. Anche lui non ha avuto regali da nessuno. Ha dovuto dimostrare quanto vale a questa società xenofoba e piena di pregiudizi. Ma lei cosa ha pensato di mia figlia vedendola con un giovane dai tratti maghrebini? Posso immaginarlo.» Matthew provò vergogna e chinò la testa. Non disse niente; sapeva che se anche si fosse giustificato, quella madre non l'avrebbe mai perdonato. «Voi l'avete uccisa; e spero che la vostra coscienza, ammesso che ne abbiate una, non vi permetta di vivere in pace per il resto dei vostri giorni. Mia figlia era innocente. Voi avete versato il suo sangue innocente.» Il padre di Mireille prese sotto braccio la moglie e la trascinò fuori dalla
sacrestia tentando allo stesso tempo di asciugarle le lacrime. «Andiamo, cara, non piangere, quella è gente incapace di provare sentimenti!» Hans Wein respirò profondamente. Era pallido, senza forze; passato un minuto che ai presenti sembrò eterno, reagì uscendo dalla sacrestia. Il vecchio gesuita lesse il dolore e la disperazione negli occhi di Panetta e di Matthew Lucas. «È stato versato molto sangue, ma voi avete evitato che ne fosse versato molto di più» disse loro. «No, padre. La madre di Mireille ha ragione; tutto ciò che ha detto è vero. E non mi consola pensare che poteva andare peggio. Mireille è morta, come pure i poliziotti e i soldati di Istanbul, come la gente comune che transitava dalle parti della Porta di Damasco a Gerusalemme... Sono morti molti innocenti. Il suo conte voleva vendicare quegli innocenti morti sul rogo dell'Inquisizione e ha finito per causare una carneficina. A me continua a sembrare assurdo che qualcuno voglia vendicarsi di cose accadute otto secoli prima!» «Anche Raymond d'Amis a suo modo è stato una vittima. Ha vissuto con l'ossessione della cronaca di frate Julián, credendo che avrebbe fatto onore alla sua famiglia, ai suoi antenati, se avesse portato a termine una vendetta che altri non avevano potuto consumare. Non sapremo mai del tutto quello che è realmente accaduto.» «Quello che so, padre, è che una ragazza di trent'anni, piena di vita e di speranze, è morta, e che io ne sono colpevole. È l'unica cosa che so, e so anche che quella maledetta cronaca ha provocato molti danni.» «No, Lorenzo, non diamo la colpa a frate Julián. Quel povero frate visse tormentato dalla violenza che aveva intorno e che lui ripudiava. Lui non ha mai invocato la vendetta.» «Ma così lo hanno interpretato i D'Amis» insistette Lorenzo. «No, così lo ha interpretato il padre di Raymond e per questo ha inculcato a suo figlio un odio furibondo verso la Chiesa. Raymond era debole, un povero ragazzo ossessionato dalla vendetta che riteneva invocata da frate Julián. Non fu capace di leggere nell'anima del frate, non fu capace di vedere che questi aborriva la violenza e riteneva che nessuna causa potesse giustificare lo spargimento di sangue. Quando io conobbi Raymond, era un adolescente impaurito, desideroso di compiacere suo padre, di essere all'altezza di ciò che lui pretendeva. Anche Raymond è stato una vittima.» Lorenzo salutò i due sacerdoti e uscì senza aspettare Matthew Lucas. In
quell'istante cominciava una nuova fase della sua vita, una vita che era stata segnata anche dalla testimonianza di quel frate vissuto nel Medioevo. Erano passati sei mesi da quel Venerdì Santo. Lorenzo Panetta camminava con passo lento verso la tomba che il custode gli aveva indicato. Teneva in mano un volume elegantemente rilegato: il libro del professor Arnaud su frate Julián. Erano sei mesi che non si separava da quel libro, nel tentativo di trovare messaggi segreti nascosti in ognuna delle sue pagine. Ma invano. Era stato padre Aguirre a consigliargli di affrontare quella tomba che adesso stava cercando nel cimitero di Montpellier. Il gesuita lo aveva chiamato con regolarità, obbligandolo a tirare fuori tutto il dolore e i sensi di colpa che aveva dentro. Ma padre Aguirre non si era soltanto preso cura dell'anima dolente di Panetta. Prima di tornare nel suo ritiro di Bilbao, era stato a Montpellier a parlare con i genitori di Mireille, per tentare di alleviare il loro dolore spiegando nel dettaglio tutto quello che era successo. Aveva parlato loro della cronaca di frate Julián, del professor Arnaud, di Raymond... Aveva passato ore intere ad ascoltare le parole di angoscia della madre di Mireille, cercando a sua volta parole di speranza. Padre Aguirre aveva detto a Lorenzo che doveva intraprendere quel viaggio se voleva ritrovare se stesso. Per questo ora era lì. L'odore di fiori appassiti e il silenzio del cimitero lo impressionarono. Fu tentato di tornare indietro, ma le parole di padre Aguirre risuonavano nella sua testa, e allora riprese ad avanzare. Una semplice lapide di marmo copriva la terra dove riposava Mireille Béziers. Sentì gli occhi velarsi di lacrime; fece uno sforzo per trattenerle e non lasciarsi travolgere dall'emozione. Tentò di pregare ma non gli uscivano le parole. Era lì perché aveva bisogno di stare da solo con se stesso davanti alla tomba di Mireille. Ma soprattutto aveva bisogno di chiederle perdono. Si sedette in un angolo della lapide e solo allora si rese conto che c'era una scritta: MIREILLE BÉZIERS CHE DONÒ LA SUA VITA PER EVITARE CHE FOSSE VERSATO IL SANGUE DEGLI INNOCENTI Non riuscì a trattenere le lacrime per quella ragazza che ormai giaceva
per l'eternità e pianse, come non aveva mai fatto, per tutto quel sangue innocente versato. FINE