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K. J. PARKER IL PALAZZO DELLE PROVE (The Proof House, 2000) Per GoE (Il gigante più basso del mondo) E l'indispensabile Jan Fergus CAPITOLO PRIMO È consuetudine morire prima; ma nel tuo caso faremo un'eccezione. Bardas Loredan si trovava nella nuova diramazione quando la galleria principale crollò. Sentì lo stridio del legno sotto pressione, una serie di crepitii e schianti, uno schianto secco che gli fece perdere l'equilibrio, facendolo cadere nell'argilla, e poi più nulla. Rimase immobile a terra e ascoltò. Anche la diramazione poteva crollare, ma non era detto che ciò avvenisse immediatamente. Tutto dipendeva dall'arco che si trovava nel punto di unione con la galleria. Se era crollato, il carico del tetto della diramazione non aveva ormai più alcun sostegno, se non la forza dell'abitudine e i puntelli che fiancheggiavano le pareti; avrebbe potuto cedere improvvisamente, oppure pensarci un po' su, calcolando lentamente e dolorosamente le sollecitazioni e le forze come uno scolaro ritardato, per giungere alla conclusione che non aveva alcun motivo per resistere. Se così avveniva, il primo segno sarebbe stato un terribile lamento del legno e una manciata di terra che cadeva mentre le tavole del tetto si piegavano sotto il peso e allargavano le crepe che si erano formate. Naturalmente si trattava di una questione accademica: con la galleria bloccata dietro di lui e un solido muro di argilla davanti, in ogni caso non sarebbe potuto andare da nessuna parte. Bardas era praticamente sepolto... a meno che qualcuno non fosse riuscito a scavare attraverso ciò che ormai ostruiva la galleria, poi a ripuntellarla, a portare via il materiale di sterro e a trovare l'ingresso della diramazione prima che l'aria si esaurisse. È consuetudine morire prima; ma nel tuo caso abbiamo fatto un'eccezione. Per la prima volta in tutti quei mesi si rese conto dell'oscurità. Dopo tre anni passati nelle trincee d'approccio, lo sterminato dedalo di gallerie scavate dagli assedianti e dagli assediati sotto le mura della città di Ap' Escatoy, Bardas poteva ormai trascorrere senza rendersene conto intere settimane senza vedere una luce; era solo in momenti di autentico terrore come
quello che la necessità istintiva di vedere ricompariva. Vuoi la luce? Decisamente difficile. Aveva le mani piene di argilla sgretolata; poteva sentirla contro la sua guancia, fredda e immobile, e questo lo disgustava. Che cosa curiosa: aveva passato tre anni nelle miniere e riusciva ancora a provare sensazioni così forti. Avrebbe giurato di avere superato questo genere di cose. Be', non c'era modo di tornare indietro. Ipoteticamente aveva aria sufficiente per gran parte di un turno, e viste le circostanze questo rappresentava una benedizione. Uomini che avevano perso da tempo la capacità di aver paura di qualcosa erano ancora terrorizzati dalla morte per asfissia in seguito a un crollo. Non c'era modo di tornare indietro, e rimanere immobile era da stupidi. L'unica possibilità a cui riuscì a pensare fu quella di andare avanti, nella vana speranza che la trincea del nemico, nella quale avevano cercato di entrare, fosse abbastanza vicina da poterla raggiungere (da solo e senza aiuto) prima che l'aria si esaurisse. In altre parole, la scelta era: scava o rimani fermo. Dopo aver riflettuto un momento, Loredan decise di scavare. Se non altro quell'azione avrebbe aiutato a esaurire l'aria più rapidamente e quindi a farla finita. Non c'era voluto molto tempo perché i genieri del Grande Re si rendessero conto che lo strato di argilla pesante che giaceva sotto Ap' Escatoy era più esteso di quanto potessero affrontare con strumenti e tecniche normali. Si erano scoraggiati e avevano spuntato le vanghe contro lo strato di argilla per circa tre mesi; poi era arrivato un uomo anziano con il treno dei rifornimenti, che aveva detto loro cosa avrebbero dovuto cercare di fare. Aveva spiegato che prima della guerra era stato uno scalciatore, cioè uno specialista nell'aprire gallerie attraverso i letti di argilla. Aveva trascorso trent'anni ad aiutare a scavare le fogne di Ap' Mese (saccheggiata e rasa al suolo in sei giorni dall'esercito del Grande Re durante il primo anno di guerra) e sapeva tutto ciò che valeva la pena di sapere su come fare buchi nel terreno. Per scavare nell'argilla, disse, occorreva un sostegno di legno solido e robusto, simile al pilastro di un cancello, con un ripiano fissato a circa quindici centimetri dalla base. Si fissa questo sostegno (croce nel linguaggio tecnico) diagonalmente all'indietro tra il tetto e il pavimento della galleria, con la base a trenta centimetri dalla parete di argilla; poi ci si rannicchia poggiando il sedere sul ripiano, si appiattisce la schiena contro il sostegno, e si utilizzano i piedi e le gambe per inserire la vanga nell'argilla a forza di calci. Una volta che la lama è entrata, un rapido scatto delle ginoc-
chia verso l'alto dovrebbe staccare un pezzo di argilla solida; lo si toglie e lo si getta via in modo che i pulitori, dietro, lo portino via con una zappa ad asta lunga fino al carrello per il materiale di sterro, che è un piccolo veicolo su ruote con funi e pulegge alle due estremità che trasporta rapidamente l'argilla nella galleria principale, dove viene caricato su uno dei carretti che per tutto il giorno avanzano lentamente verso l'elevatore e tornano poi indietro. Dietro gli scalciatori e i pulitori ci sono i falegnami, cioè i carpentieri che tagliano e sistemano le tavole che fiancheggiano il pavimento, le pareti e il tetto della trincea. Con l'eccezione del taglio delle tavole, tutto il loro lavoro dev'essere fatto nella più completa oscurità, perché anche una lanterna potrebbe essere sufficiente a incendiare le sacche di vapori esplosivi che sono comuni nelle miniere. Bardas Loredan era troppo alto per essere un buon scalciatore. Le ginocchia gli arrivavano quasi al mento quando portava indietro le gambe per colpire contro la barra a croce della vanga. Era un lavoro per uomini bassi e tarchiati, costruiti come barili, non per ex spadaccini alti e snelli. Sfortunatamente quel lavoro adesso doveva farlo lui, o non l'avrebbe fatto nessuno. Stabilizzò la vanga, premendo leggermente la punta della grossa lama a forma di foglia contro la parete di fronte a lui, e batté forte, in modo che l'impatto scosse le sue ossa dalle caviglie fino al collo. Naturalmente lo scalciatore non dovrebbe lavorare da solo; il compito ingrato di tirar via i pezzi di argilla compatta quando i suoi stivali li allontanano ricade sul pulitore e sulla sua zappa. Ma il pulitore assegnato a Loredan giaceva nella galleria sotto qualche tonnellata di materiale crollato e quindi era dispensato dal servizio, persino nell'esercito del Grande Re; il che significava che dopo tre o quattro sputi Loredan dovette liberarsi dalla croce, mettersi in avanti sulle ginocchia e gettare via il materiale di sterro dietro di sé con i piedi, come un coniglio che scava nella zolla di terra che contiene un fiore. Rinuncia, Bardas, lascia stare. Smettila di scavare come una talpa e soffoca con dignità. Era una situazione davvero ridicola. Era un pulcino che cercava disperatamente di rompere con il becco un guscio duro come il marmo. Era il principe degli spilorci, il barone dei taccagni (ogni uomo si scava la propria fossa: perché sprecare denaro con le tariffe esorbitanti dei becchini quando si può fare da sé?). Era il verme più piccolo mai esistito nella mela più grande. Era un uomo morto, che ancora scalciava. Improvvisamente la sensazione cambiò. Invece di colpire un blocco morbido, un po' come la mannaia di un macellaio in una carcassa tignosa,
gli sembrò di battere contro qualcosa di resistente, come l'argilla compatta della parete di una galleria. Adesso alle caviglie e agli stinchi si sentiva scuotere più di prima. Si trattava di una sensazione diversa, e qualsiasi cosa di diverso rappresentava una speranza. Piegò le ginocchia fino a sentirle sfiorare gli angoli della bocca e diede un calcio. Qualcosa stava per cedere, invece di rimanere immobile. Non preoccupandosi di pulire continuò a dare calci, quasi impedito dal materiale di sterro ma troppo preoccupato per fare il lavoro con accuratezza (è tipico di te, Bardas; questo atteggiamento un giorno determinerà la tua morte) finché una spinta fortissima dei calcagni mandò la vanga in avanti nel nulla, e Bardas venne sbalzato dolorosamente in avanti sulla base della colonna vertebrale. Sono passato, per gli dèi. Ho trovato quella dannatissima trincea. Decisamente utile. Non c'era luce, naturalmente, ma il cambiamento nell'aria era evidentissimo. Si sentiva l'aroma del coriandolo; la galleria in cui era finito puzzava di questa spezia. Con cautela infilò il piede sinistro nella breccia che aveva aperto con la vanga, finché sentì una tavola contro la suola dello stivale. Non poté fare a meno di sorridere; e se avesse tolto quella tavola con un calcio, e il tetto gli fosse caduto addosso? Morire in quel modo... gli sarebbero venute le lacrime agli occhi per il gran ridere. C'era odore di coriandolo, perché i panettieri del nemico aromatizzavano il pane con il coriandolo, mentre il pane del Grande Re era fatto con aglio, sale e rosmarino. Nell'aria umida delle miniere si poteva sentire la puzza del coriandolo o dell'aglio nel fiato di un uomo a cinquanta metri di distanza; era l'unico modo per sapere chi si trovava lì e se era un amico o un nemico. Il coriandolo e le salsicce al pepe per gli ufficiali odoravano di morte e di pericolo. Il rosmarino e l'aglio rappresentavano la casa, la salvezza o il cambio di turno che avanzava lungo la diramazione. Loredan appoggiò lo stivale piatto contro la tavola ed esercitò una pressione lenta e costante, finché sentì i chiodi uscire dalle assicelle. Era passato, ma si trovava nel coriandolo: un dannato problema dopo l'altro. Strisciando sul sedere e controllando la strada con i calcagni, avanzò lentamente attraverso la breccia nella parete fino a raggiungere le tavole del pavimento. Fece davvero un gran fracasso, ma forse non avrebbe avuto importanza. Non gli era venuto in mente prima di chiedersi perché la galleria fosse crollata: le gallerie crollano, può succedere. Ma a volte avviene perché il nemico le erode, scavando una diramazione proprio al di sotto e ricavando una camera chiamata camouflet, in cui vengono ammassati barili e vasi di sego grasso e rancido, che costituiscono una sostanza altamente
infiammabile. Quando il fuoco brucia essicca il tetto del camouflet, l'argilla si restringe e improvvisamente nel pavimento della galleria si crea un buco in cui l'intera galleria cerca di riversarsi, come l'acqua che defluisce da un lavandino. La galleria crolla: lavoro fatto. Be'... se il nemico, coriandolo, sta scavando una propria diramazione, è poco probabile che vada avanti e indietro nella sua galleria originaria. In questo caso un uomo, aglio, potrebbe scivolare attraverso una breccia nella parete e passare inosservato per un po' di tempo prima che qualche canaglia si imbatta in lui e gli tagli la gola. «Gli dèi lo sanno.» (Arrivano delle voci, coriandolo; sono due uomini che vanno di fretta, con le ginocchia e i palmi che battono sulle assi del pavimento.) «Forse siamo talmente vicini alla loro galleria che la nostra parete sta sprofondando nella loro apertura. Nel qual caso ci troveremo quei maledetti addosso se non la puntelleremo rapidamente.» Bardas Loredan annuì: quello era un uomo che conosceva le miniere, del tipo che vorresti nel tuo turno, solo che si trattava di un nemico. Erano in due, e continuavano ad avanzare; si chiese come mai non sentissero il suo odore, ma poi si ricordò che, tra una cosa e l'altra, il suo turno non mangiava da due giorni. Niente pane, niente aglio, nessun odore che potesse rivelare la sua presenza. Se smetti di mangiare vivrai in eterno. «È una seccatura, qualsiasi cosa sia» disse la voce dell'altro uomo. Bardas cercò a tastoni il pugnale che teneva nello stivale; se il primo uomo davvero non percepiva il suo odore, sarebbe riuscito sicuramente a ucciderlo. Ma il secondo avrebbe ucciso Bardas. Sacrifica un cavallo per prendere una torre: ma non è divertente se il cavallo sei tu. Al diavolo: è dovere di ogni soldato cercare e distruggere il nemico. Quindi facciamolo. Lasciò che la prima voce lo oltrepassasse e quando la seconda quasi lo superò, allungò con cautela la mano sinistra, sperando di trovare un mento o una mascella. Naturalmente in questo era decisamente bravo. Sfiorò con la punta delle dita la barba di un uomo, abbastanza a lungo da avere una buona presa. Prima che l'uomo avesse la possibilità di emettere un gemito, Bardas lo colpì nella cavità triangolare alla giuntura tra il collo e la clavicola, dove la morte arriva più veloce e più silenziosa. Nelle miniere andavano di moda i coltelli a lama corta (coltelli corti, uomini bassi, vanghe corte, vite brevi; non c'è niente per gli alti e i lunghi nelle miniere). Affondò il coltello con un movimento talmente fluido che c'era un'ottima possibilità che l'altro uomo non se ne fosse accorto. Tuttavia... «Grazie» mormorò Bardas mentre girava il coltello per libera-
re la lama. Era una regola ferrea delle miniere ringraziare l'uomo che moriva al tuo posto, quando uno dei due doveva necessariamente morire. Parlando a voce alta aveva rivelato chiaramente la sua presenza ma era ancora in vantaggio. L'uomo che si trovava davanti a lui, coriandolo, non aveva speranza di potersi girare nel pozzo stretto della galleria, il che significava che poteva solo rimanere fermo e scalciare all'indietro con i talloni come un mulo, oppure strisciare rapidamente su mani e piedi come un neonato che si affretta sotto un tavolo, nella speranza di trovare una diramazione in cui infilarsi prima che il nemico si rendesse conto che era sparito. Allora la situazione si sarebbe invertita, naturalmente: ma non sarebbe stato divertente, quindi era meglio non lasciare che accadesse. Con un debole borbottio di repulsione Bardas Loredan avanzò carponi sul corpo dell'uomo, coriandolo, che aveva appena ucciso, sentendo i palmi delle mani e le ginocchia infilarsi nella morbida carne del ventre e delle guance del morto. Fiutò come una moffetta per individuare la sua preda, udì il raschiare di una suola di legno su una pietra - vicino ma non abbastanza - e balzò in avanti, con le mani tese, spingendosi con le gambe come un coniglio, finché capì che il suo viso si trovava a pochi centimetri dai talloni dell'altro uomo. Il balzo che fece fu più simile a quello di un rospo che a quello di un felino; atterrò pesantemente, finendo con i gomiti sulle scapole dell'uomo. Dopo poco lo ringraziò. E adesso? Naturalmente non aveva la minima idea di dove fosse. Nelle sue gallerie poteva trovare abbastanza facilmente la direzione: aveva in mente un'immagine dell'intero labirinto di gallerie, pozzi e diramazioni, che non aveva mai visto nella realtà, ma che conosceva benissimo lo stesso. Non doveva nemmeno contare i movimenti delle ginocchia mentre strisciava in avanti per sapere dove si trovavano le entrate delle diramazioni, né dove una diramazione terminava e cominciava la galleria. Sapeva semplicemente dove si trovava, come un giocoliere con gli occhi chiusi. Ma in quelle miniere, coriandolo, non aveva la minima idea. L'oscurità era davvero tale per lui, e percepiva la bassezza del tetto e quanto fosse stretto lo spazio tra le pareti, come se fosse il suo primo giorno fuori dalla luce. Occorreva usare il buon senso. Se quella era una galleria (era troppo ampia e alta per essere una diramazione), vi erano ottime possibilità che andasse dal fronte della miniera al pozzo di sollevamento... il che portava a formulare due domande: qual è la direzione giusta e in quale direzione Bardas voleva andare? Evitare il nemico era decisamente la priorità, ma
non se ciò significava inoltrarsi ancora di più in un territorio decisamente ostile. Per quel che sapeva l'unica interfaccia tra le sue gallerie, aglio, e quelle del nemico era il buco in cui si era infilato, perciò non poteva tornare indietro. Procedere in avanti - in qualsiasi direzione - l'avrebbe portato, prima o poi, a imbattersi in un accampamento o in un turno di lavoro del nemico, e nemmeno lui poteva ucciderli tutti. È consuetudine morire prima... Se solo fosse riuscito ad avvertire aria fresca, avrebbe saputo a quale estremità si trovava il pozzo di sollevamento; ma non ci riusciva, e sentiva solo uno stagnante sapore di coriandolo e il fetore del sangue dell'uomo morto sui suoi vestiti e sulle sue mani. Se non faceva qualcosa in fretta, la paura si sarebbe impadronita di lui e si sarebbe paralizzato... si era imbattuto in precedenza in uomini, coriandolo, che si trovavano in quello stato, accovacciati contro una parete con le mani sulle orecchie, incapaci di muoversi. A sinistra, allora; sarebbe andato a sinistra, perché se fosse stato ancora nelle sue gallerie sarebbe andato a destra per arrivare al pozzo di sollevamento. Era una logica completamente priva di fondamento, ma non sentì nessuno obiettare. Non sapeva con esattezza perché voleva andare verso l'elevatore. Anche se fosse stato in grado di insinuarsi in uno dei cestini per il materiale di sterro e poi di farsi issare fuori dalle miniere senza che nessuno lo notasse, una volta raggiunta la superficie si sarebbe trovato all'interno della città nemica... un uomo sporco e insanguinato marinato nelle spezie e nelle erbe sbagliate. Ma se voleva andare dall'altra parte, verso il fronte della miniera... dove si trovava questo fronte? Presumibilmente al termine della diramazione dove avevano creato il camouflet. In effetti avrebbe girato in cerchio, ma poteva esserci la possibilità di passare dall'altra parte se la diramazione, coriandolo, correva parallela alla galleria, aglio, in un qualsiasi punto. Anche se questo stratagemma avesse funzionato, c'era naturalmente il rischio che Bardas si ritrovasse nella sua galleria originaria in un punto successivo al crollo, dove sarebbe rimasto intrappolato proprio come nella diramazione. C'era un solo modo per scoprirlo: sarebbe andato a destra, e avrebbe visto cosa accadeva. «È uno di quei momenti, vero?» disse una voce accanto a lui. Sapeva perfettamente che quella voce non era realmente lì. Non era lì da anni. «Dimmelo tu» rispose Bardas, con tono tanto basso da sembrare un sussurro. «Dovresti essere tu l'esperto.» «Così continuano a dirmi» rispose mestamente la voce. «Ho sempre so-
stenuto di essere come un uomo che ha appena acquistato una macchina nuova: so come usarla ma non ho la minima idea di come funziona.» «Be'» rispose distrattamente Loredan, «in ogni caso ne sai più di me.» La voce sospirò. Non era una voce reale... era una fantasticheria, come gli amici immaginari che si inventano i bambini. «Penso che sia uno di quei momenti» ripeté. «Si tratta di una scelta decisa, una cuspide... è questa la parola giusta? Ho parlato di cuspidi per trent'anni e non so cosa sia una cuspide in realtà... è una cuspide nel flusso, un incrocio. Apparentemente il Principio non può funzionare senza di esse.» «D'accordo» mormorò Loredan rannicchiandosi in un punto stretto dove un pannello laterale era stato tolto «è una cuspide. Fai quello che devi fare. E se per te fa lo stesso, io continuerò a fare quello che sto facendo.» «Sei sempre stato scettico» disse la voce. «Non posso biasimarti. Io stesso ho problemi a credere a gran parte del Principio, e ho scritto il libro.» Loredan sospirò. «Eri decisamente meno irritante quando eri reale» disse. «Mi dispiace.» Tutti sentono voci immaginarie dopo un po'. Alcune persone le sentono provenire da nani o gnomi... creature gentili che avvertono di sacche di vapori e crolli. Altri le sentono pronunciare da familiari e amici morti, mentre gli uomini cattivi sentono le voci di persone che hanno ucciso, stuprato o mutilato. Alcuni danno loro ciotole di latte e pane, come fanno i bambini con i ricci. Altri cantano per coprire queste voci, o urlano loro di andarsene finché non lo fanno; altri ancora parlano con loro per ore, trovando che aiuta a passare il tempo. Tutti sanno che non si trovano realmente lì... ma nelle miniere, dove è sempre buio e tutti, veri o no, non sono altro che voci senza corpo, le persone imparano a non essere così categoriche su cosa sia reale. Comunque, Bardas Loredan sentì la voce di Alexius, l'ex Patriarca di Perimadeia, che aveva conosciuto per un breve periodo anni prima e che probabilmente era morto. Ma non lì, naturalmente, dove i vivi sono sepolti e i morti vivono con pane e latte, come gli invalidi. «Se fossi in te» disse Alexius «andrei a sinistra.» «Stavo proprio per andarci» rispose Bardas. «Oh, bene così, allora.» Andò a sinistra. La galleria si restringeva, le assi del pavimento erano più irregolari e non erano state ancora lucidate dal passaggio di mani guantate e da ginocchia ricoperte. Faceva molto caldo, il che suggeriva la presenza di vapori.
«Non che sappia qualcosa» disse Alexius. «Bene. Ho già abbastanza contro cui lottare.» «Ma a meno che non mi sbagli di grosso» continuò il Patriarca «c'è qualcuno davanti a te, a circa settanta metri... mi dispiace non poter essere più preciso, ma naturalmente non riesco a vedere un accidente. Credo che si sia fermato e che stia sistemando qualcosa: una tavola che si è staccata, probabilmente.» «D'accordo, grazie. Da che parte è girato?» «Non ne ho idea, temo.» «Non c'è da preoccuparsi. Anche lui è una cuspide?» «Questo non posso dirlo. Potrebbe essere una cuspide, così come potrebbe essere semplicemente un avvenimento fortuito.» «D'accordo.» Rallentò, spostando con attenzione il peso in avanti a ogni passo che faceva con le ginocchia, in modo da non fare alcun rumore. Naturalmente puzzava di sangue e probabilmente anche di sudore. L'uomo odorava di pepe e coriandolo. «Ecco, ci sei. Adesso stai attento.» Bardas non rispose, non così vicino. Dove sei, adesso che potrei aver bisogno di qualcuno con cui parlare? Poté sentire il respiro dell'uomo, e il lieve crepitio delle coperture di pelle che aveva sulle ginocchia mentre lavorava. «Ti dà le spalle.» Lo so. Adesso per favore vattene, ho da fare. Si avvicinò (ormai non si trovava a più di un metro) e allungò una mano verso la parte superiore dello stivale alla ricerca dell'impugnatura del coltello. A volte la lama faceva un debolissimo sibilo mentre strofinava il tessuto dei suoi pantaloni lunghi fino al ginocchio. Fortunatamente stavolta non lo fece. Poco dopo Bardas ringraziò l'uomo... «Perché fai così?» chiese confuso Alexius. «Ti dico la verità, trovo la cosa piuttosto macabra.» «Davvero?» Loredan scrollò le spalle (un gesto inutile nell'oscurità, dove nemmeno le persone che erano lì potevano vederlo). «Personalmente credo che sia una bella tradizione.» «Una bella tradizione» ripeté Alexius. «Come raccogliere le more o appendere mazzi di primule sulla porta durante la Festa di Primavera.» «Sì» disse Loredan fermamente. «Come mettere i piattini di latte per quelli come te.»
«Per favore, non darti disturbo per me. Se c'è una cosa che non sopporto è il pane inzuppato nel latte acido.» «Be', non vorrai mica che sprechiamo il cibo buono, vero?» Si arrampicò sopra l'uomo morto; ancora non aveva scoperto alcun indizio su cosa stesse facendo lì, silenzioso e meticoloso, ma non era importante. Ormai non doveva mancare molto per arrivare alla fronte della miniera. «Allora come fai» aveva chiesto una volta «se sei frutto della fantasia a continuare a dirmi cose che non so, per esempio che davanti a me c'è un nemico o ci sono delle sacche di vapori? E hai anche ragione quasi sempre.» Alexius aveva riflettuto per un momento. «È possibile» aveva detto «che tu stia inconsciamente raccogliendo indizi talmente sottili che la tua mente non può notarli normalmente... piccoli rumori che non sai di aver sentito, un debolissimo odore, questo genere di cose... così mi inventi dal nulla per creare il modo di farti arrivare l'informazione.» «Penso che sia possibile» aveva acconsentito Bardas. «Ma non sarebbe più facile ammettere che esisti?» «Forse» aveva risposto Alexius. «Ma solo perché una cosa è più probabile non significa che sia necessariamente vera.» A volte aveva cercato di immaginare tutto nella sua mente: dove si trovava realmente, rispetto alla città, all'accampamento del Grande Re, al fiume e all'estuario. Ancora credeva in loro, anche se a volte la sua fede veniva messa a dura prova. Forse sarebbe stato di aiuto lasciare loro una ciotola occasionale di latte. Sentiva scavare: erano quattro, forse cinque rumori distinti. Sentiva l'odore del coriandolo, del sudore, dell'acciaio, dell'argilla appena tagliata, una debolissima traccia di vapori... non abbastanza da rappresentare un pericolo; vestiti di cuoio bagnati e urina, e il sangue sulle sue mani e sulle sue ginocchia. Per qualche motivo aveva delle difficoltà a dare una stima esatta della portata... poteva dipendere dal fatto che era vicino alla fronte della galleria, dove la parete anteriore solida di argilla assorbiva il rumore, o forse il soffitto era più alto del solito, e creava così una leggera eco. Cinque uomini scavavano, quindi doveva esserci un pulitore per ognuno di loro, e almeno due falegnami... ma non riusciva a sentire le zappe dei pulitori né gli strumenti dei carpentieri, il che implicava che avevano appena cominciato a lavorare, e se era così, ben presto un uomo sarebbe arrivato nella galleria con la corda per tirare il carrello che doveva portare via il
materiale di sterro. Bardas ascoltò, ma Alexius non era lì (tipico: ma tutti sapevano che non si poteva fare affidamento sulle voci). Cercando di non preoccuparsi tastò le pareti laterali con cautela alla ricerca di una diramazione, di un piccolo slargo per sostare, di un punto dove la galleria si allargasse abbastanza da permettergli di infilarvisi per togliersi di mezzo e lasciar passare l'uomo con la corda... o se non fosse riuscito in questo a trovare almeno un posto dove potersi girare e tornare indietro. Nel peggiore dei casi avrebbe dovuto strisciare all'indietro, ma considerava questa l'ultima disperata risorsa, dato che c'era sempre il rischio di incontrare qualcuno, coriandolo, che arrivava dall'altra parte. Per sua fortuna c'era uno slargo, nel punto in cui avevano dovuto tagliare una roccia quando avevano costruito la galleria. I carpentieri non si erano preoccupati di ricoprire con le tavole ciò che era rimasto della roccia, e i tagliatori l'avevano divisa così profondamente con il loro fuoco e il loro aceto che c'era una fessura abbastanza ampia perché Bardas vi si potesse infilare, se non stava troppo a sottilizzare sulla comodità di respirare. Non dovette aspettare a lungo: sentì la corda che veniva trascinata dall'uomo, e dopo poco ne sentì l'odore. Lasciò che l'uomo lo superasse di poco e poi lo ringraziò; se qualcuno fosse arrivato nella galleria si sarebbe imbattuto rumorosamente in quel corpo, e questo sarebbe stato sufficiente per dare l'allarme. Era una cosa amichevole da fare, e nelle miniere bisogna prendere gli amici dove li trovi. Quattro uomini scavavano, e c'erano anche due pulitori e un carpentiere: poteva sentire le zappe e una sega, ovviamente a manico corto; si trattava di uomini che non erano ravvicinati e senza esperienza sufficiente. Era un problema comune, per aglio e coriandolo. Il carpentiere si trovava più indietro di tutti: avrebbe avvertito involontariamente i suoi amici che qualcosa non andava quando il rumore della sua sega avesse cessato prima del tempo, ma i pulitori non si sarebbero potuti girare... li avrebbe uccisi con relativa facilità. Il problema sarebbe stato rappresentato dagli scalciatori, che avrebbero usato le loro croci per girarsi. Si era dimenticato del carrello per il materiale di sterro: se ne ricordò quando vi mise una mano sopra (aveva seguito la corda, quindi non aveva scuse). Fu faticoso scavalcarlo, e ci riuscì molto lentamente, e per un momento fu tentato di sdraiarsi su di esso e di tirarsi con la corda verso la fronte della miniera; ma il rumore delle ruote sarebbe stato di aiuto ai nemici, non a lui, mentre se avesse lasciato il carrello dov'era, avrebbe costituito un'altra sentinella per Bardas.
Estrasse il coltello usando solo l'indice e il pollice. Era l'unico oggetto che considerava veramente suo, anche se non l'aveva mai visto. Cercò con la punta delle dita le piccole scanalature che aveva intagliato nell'impugnatura di legno per sapere se lo stava tenendo per il verso giusto, e chiuse la mano intorno a essa. C'erano tre uomini da uccidere, e poi altri quattro. Solo allora avrebbe avuto il luogo tutto per sé. Naturalmente nelle miniere ogni vantaggio costituisce anche un rischio: qualsiasi cosa che può essere di aiuto può essere pericolosa. Le spesse imbottiture di feltro che indossava sulle ginocchia e le suole dei suoi stivali smorzavano il rumore dei suoi movimenti quasi totalmente, mentre il carpentiere sentiva il pavimento di terra dura, ma gli toglievano quasi completamente il senso del tatto; non riusciva a sentire dove il terreno cambiava, dove le tavole terminavano e cominciava l'argilla di sterro. Individuò il primo pulitore alla fine dell'asta della sua zappa; mentre l'uomo arretrava, l'asta colpì Loredan in pieno petto. L'uomo capì che c'era qualcosa che non andava, ma non ebbe il tempo di fare nulla. La tecnica era sempre la stessa: metteva la mano sinistra sulla bocca del soggetto, per evitare che facesse rumore e per tirargli indietro la testa, esponendo così la cavità in cui la gola incontra la clavicola: quello era il punto più sicuro per uccidere rapidamente. Bardas terminò e ringraziò silenziosamente, e poi portò il cadavere con cautela all'indietro e lo mise a terra come se fosse un abito appena stirato. Il secondo pulitore si rese conto che era successo qualcosa, ma solo perché notò il silenzio al posto del rumore di una zappa che trascinava l'argilla; ciò avvenne solo un attimo prima che Loredan lo trovasse. Fu un tempo sufficiente perché l'uomo gettasse la zappa e cercasse di prendere il suo coltello, e quasi per caso portò la lama su un lato della mano sinistra di Loredan, tagliandone un pezzetto. L'uomo morì prima di avere la possibilità di capire il significato della sensazione di leggera resistenza che aveva incontrato, e Loredan afferrò il coltello prima che cadesse a terra e mettesse così in allarme gli altri. «Moaz? Moaz, bastardo, perché ti sei fermato?» Era uno degli scalciatori, che urlava nervosamente mentre agitava un lato della croce. Che seccatura pensò Loredan; questo fatto renderà difficile trovarlo. Tuttavia nemmeno lui mi troverà tanto facilmente, e io ho il vantaggio. Spostò il coltello nella mano sinistra, quella che stava sanguinando. Una goccia di sangue cadde sul collo dell'uomo quando Bardas allungò una mano verso la sua bocca e il suo mento, e ciò poteva significare un rapido
e istintivo ritrarsi, una presa mancata, un errore che non poteva essere corretto in seguito (come erano soliti dire i proprietari delle bancarelle del mercato di Perimadeia, prima che la città cadesse e venissero tutti uccisi.) Era uno svantaggio: non aveva la stessa sensibilità come nella mano destra, e questo fatto costituiva un'altra variabile da considerare nel calcolo... come se non fosse già abbastanza complicato. «C'è un bastardo quaggiù» disse una voce. «Moaz? Levka? Dite qualcosa, per l'amor degli dèi.» Loredan si accigliò. La voce costituiva un vantaggio, perché gli forniva l'esatta posizione del nemico, ma se si fosse diretto verso di essa sarebbe passato in svantaggio, perché l'uomo si aspettava che arrivasse di fronte. Se avesse cercato di aggirarlo, però, c'era una buona possibilità di imbattersi in una delle altre croci, oppure di finire contro una pila di materiale di sterro che l'avrebbe ostacolato. Se voleva che la voce costituisse un aiuto per lui, avrebbe dovuto tentare un approccio diverso. «Aiuto» disse. Silenzio. Poi «Moaz? Sei tu?» Loredan emise un gemito, che fu quasi un capolavoro. «Rimani lì» disse la voce, «sto arrivando. L'hai preso?» La voce gli arrivò, piuttosto forte. Sentì la mano aperta sul suo volto, fece i calcoli necessari e colpì verso l'alto. Non c'era alcun dubbio: era davvero portato per questo genere di cose. «Grazie» disse, e poi ruotò di lato fino a trovarsi proprio contro la parete. «Cosa diavolo sta succedendo laggiù?» chiese un'altra voce. «Moaz? Yan? Oh, al diavolo, qualcuno cerchi una luce.» «Aspetta» disse un terzo «Ho la scatola con l'acciarino.» Loredan sentì un debole stridore, prodotto dal coperchio di una scatola che veniva aperta. Non era affatto un buon segno. «Aspetta» urlò; poi cercò di calcolare al meglio e saltò, spingendosi via dalla parete con le gambe come se fosse un nuotatore. Aveva calcolato bene: la sua mano destra allungata sfiorò un orecchio. Dove c'è un orecchio di solito c'è una gola, e anche in questo caso fu così. Aveva fatto un buon calcolo ma una pessima mossa, sebbene vi fosse stato costretto dalle circostanze. Mentre estraeva il pugnale sentì un colpo in diagonale sulla schiena, sufficiente a togliergli il fiato, e un dolore acuto sul lato sinistro della clavicola, dove un coltello lo ferì. Rapidamente afferrò la mano che teneva il coltello; ipotizzando che l'uomo fosse destrorso,
ciò gli forniva un'ottima posizione. Seguì verso l'alto... e furono cinque i nemici tolti di mezzo. Il sesto morì cercando di oltrepassarlo nello stretto collo della galleria. Il settimo morì guardando dal lato sbagliato, avendo perso traccia dei movimenti di Bardas senza rendersene conto. Lavoro finito. Lavoro finito, e nient'altro da fare. Quando cercò di dare dei calci contro la fronte della galleria scoprì tristemente che era solida; anche se la galleria principale (aglio) correva davvero parallela a quella trincea, la parete divisoria tra le due era apparentemente troppo spessa per romperla. Si appoggiò alla croce e lasciò che le spalle si afflosciassero, chiedendosi come avrebbe potuto spiegare agli uomini che aveva appena ucciso che era stato solo tempo sprecato. «Va bene così» dissero i morti (con gli occhi chiusi era in grado di vederli per la prima volta). «Non potevi saperlo.» «È un bene che vediate la cosa in questo modo» rispose Loredan. «Stavi facendo del tuo meglio. Alla fine è questo tutto ciò che un uomo può fare. Non puoi essere biasimato per questo.» Gli stavano sorridendo. «Stavo solo cercando di rimanere vivo» spiegò. «Tutto qui.» «Ti capiamo» dissero. «Avremmo fatto lo stesso se ci fossimo trovati al tuo posto.» Loredan li scacciò, sapendo perfettamente che non erano reali, ma non voleva dirlo ad alta voce per paura di ferire i loro sentimenti. Non appena aveva visto i loro volti, aveva capito che erano solo immaginari... una proiezione dei suoi pensieri. Qualunque cosa si vedeva con i propri occhi nelle miniere non esisteva, per definizione. «Compreso me?» «Compreso te, Alexius. Ma tu sei abbastanza vecchio e brutto per poterti dire queste cose.» «Oh, be'... non ti disturberò più, allora. Grazie per il pane e il latte.» «Prego. E non mi disturbi. Sono lieto di avere compagnia.» Alexius sorrise. «Sai, questo fatto mi ricorda uno dei miei insegnanti, quando ero un giovane studente. Era solito andare in giro tutto il giorno parlando con se stesso, e una volta gli altri mi sfidarono a chiedergli il perché... così glielo chiesi. Perché parla con se stesso? domandai. Perché è l'unico modo per fare una conversazione sensata da queste parti rispose. Ho sempre pensato che fosse un'ottima risposta.»
Loredan scosse la testa. «Arguzia di studioso» disse. «A volte mi chiedo se è questo che voi accademici fate tutto il giorno: stare in agguato cercando di attirarvi l'un l'altro con l'inganno in imboscate verbali preparate con attenzione. È uno strano modo di comportarsi per degli uomini maturi, se vuoi il mio parere.» Alexius annuì. «È strano quasi quanto l'avanzare carponi in gallerie strette e buie» rispose. «Ma non così strano.» «Alexius.» «Mmm?» Loredan aprì gli occhi. «C'è un modo per uscire di qui? Oppure stavolta per me è finita?» Non riusciva più a vedere Alexius, ma la voce era chiara e distinta. «Non mettertici anche tu» lo rimproverò. «Ho trascorso la mia vita a spiegare questo concetto: sono uno scienziato, non un indovino.» «Sai» disse Loredan «non sembri affatto l'Alexius che conoscevo. Sembri più giovane.» «Una delle cose belle di non essere reale è che posso avere l'età che voglio. Ho deciso di essere un quarantasettenne. A quarantasette anni è stato il momento in cui mi sono divertito di più.» Loredan annuì. «Ho sempre creduto alla teoria che siamo tutti nati con una determinata età ottimale, quella che siamo davvero destinati ad avere, e una volta raggiunta ci blocchiamo lì, nelle nostre menti, dove conta. Personalmente sono sempre stato un venticinquenne. Ero bravo ad avere venticinque anni.» Alexius sospirò. «È una bella fortuna aver scoperto la tua vera età quando avevi ancora tempo sufficiente per godertela» disse. «Se fosse stata quarantasette anni saresti stato proprio sfortunato, perché temo che non ci arriverai mai.» «Ah» disse Loredan. «Ne ho quarantaquattro.» «No, sono quarantasei... hai perso il conto.» «Davvero?» Loredan scrollò le spalle. «Immagino di essere rimasto quaggiù per troppo tempo. E adesso penso che ci rimarrò per sempre.» «Fa risparmiare ai tuoi amici il costo di doverti seppellire.» «Vero. Speravo di non venire sepolto prima di morire.» «In effetti è consuetudine morire prima. Tuttavia nel tuo caso sembra che abbiano fatto un'eccezione.» «Penso di voler dormire, adesso» disse Loredan, sbadigliando. «Non ho dormito bene ultimamente.»
«Come desideri.» Chiuse di nuovo gli occhi. C'è forse modo migliore di morire per un uomo pensò se non nella pace e nella tranquillità, circondato da tutti i suoi amici? Erano tutti lì, venuti a salutarlo mentre se ne andava (oppure a dargli il benvenuto, a seconda di come si giudicava la cosa); file e file di persone, che riempivano le panche della galleria pubblica, e che arrivavano fino alle estremità del pavimento stesso dell'aula del tribunale, mentre Bardas Loredan sceglieva una spada dalla borsa che la sua assistente gli porgeva. Non dovette alzare lo sguardo per sapere chi sarebbe stato il suo avversario. «Gorgas» disse annuendo rigidamente. «Ciao» rispose suo fratello. «È passato molto tempo.» «Più di tre anni» annuì Loredan. «Però non sei cambiato.» «È gentile dirlo da parte tua, ma penso proprio di essere cambiato. È tutto questo buon cibo ricco di amido che mangio nel Mesoge. Avevo dimenticato quanto mi piacesse.» Gorgas sollevò la sua spada: una lunga e sottile Habresche di grande valore. Bardas scoprì di aver scelto la Guelan, la sua spada preferita nelle cause giudiziarie, che aveva spezzato alcuni anni prima in quello stesso tribunale. Era troppo vecchia e rara: un oggetto da collezione, anche se non valeva quanto una Habresche di ultima generazione. «Sei sicuro che dobbiamo farlo?» chiese Gorgas tristemente. «Sono certo che se solo ci sedessimo insieme e discutessimo a fondo la questione...» Bardas fece un ampio sorriso. «Hai paura, vero?» «Certo.» Gorgas annuì serio. «Sono veramente terrorizzato di poterti fare del male. Quasi quasi getterei questa ridicola spada e lascerei che mi uccidessi. Ma tu non lo faresti, vero?» «Uccidere un uomo disarmato che si inginocchia ai miei piedi? Normalmente no. Ma nel tuo caso farò un'eccezione.» Le lame delle loro spade si incrociarono: Gorgas fece un affondo e Bardas parò il colpo, in alto a destra, di dritto. «Sapevo che l'avresti parato con estrema facilità» disse Gorgas. «Se avessi pensato che non saresti stato in grado di affrontarlo, non avrei mai tirato quel colpo.» «Non mi trattare con sufficienza, Gorgas» lo ammonì Bardas. «Sono molto più bravo di te nel tirare di scherma.» «Certo che lo sei, Bardas. Ho la massima fiducia nella tua abilità. Non staremmo combattendo, se non l'avessi.» Bardas replicò, ruotando il polso per fare un affondo, ma Gorgas ebbe
tutto il tempo di parare. La velocità della sua mano non era mai stata così buona. «Mi sono esercitato» disse. «È evidente» rispose Bardas. Osservò la lama arrivare verso di lui quando Gorgas affondò in risposta, capì la finta e compensò, tirando la parata ampia per coprire l'intera zona dei suoi possibili colpi. Una volta fatta la parata, indietreggiò con il piede destro per modificare l'angolazione e con un guizzo fece un affondo breve e potente contro il volto del fratello. Gorgas riuscì a parare appena in tempo, e la punta acuminata come un ago della Guelan fece un piccolo e sottile taglio proprio sopra l'orecchio di Gorgas. «È stato un colpo veramente di classe» disse Gorgas. «Tiri bene oggi. A proposito, te l'ho detto che Niessa è morta? Mia figlia, voglio dire, non la nostra Niessa.» «Non l'ho mai conosciuta» rispose Bardas. «Conobbi solo suo fratello.» «È stata la polmonite» disse Gorgas. «Aveva solo nove anni, povero piccolo diavoletto.» «Non ti ha mai detto nessuno che è da maleducati parlare mentre si tira di scherma?» Gorgas eseguì in tempo una cavazione e tirò un colpo di dritto a lato della testa di Bardas. Questi fece un salto all'indietro da fermo per togliersi di mezzo. «Rilassati» disse Gorgas «tutto questo non è reale, te lo stai immaginando.» «Non è una giustificazione per comportarsi da villani. Se devi combattere nella mia immaginazione, dovrai osservare le regole della casa.» «Sei sempre stato una peste nell'inventare regole man mano che andavi avanti» disse Gorgas con un sospiro. Aveva via libera per un contrattacco all'inguine: se l'avesse indirizzato, Bardas avrebbe avuto seri problemi a fermarlo. Ma si frenò, dando a suo fratello il tempo necessario per sistemare la guardia. «È proprio come quando eravamo piccoli» continuò Gorgas. «Non appena ti rendevi conto che stavi perdendo, improvvisamente tiravi fuori una nuova regola.» «Non è vero» protestò Bardas. «Posso essermi comportato in modo malvagio, ma non ho mai imbrogliato. Era più una seccatura che altro... non valeva proprio la pena cercare di imbrogliarti. Alla minima cosa correvi da nostro padre singhiozzando Non è giusto, non è giusto. E lui prendeva sempre le tue difese contro di me.» «Lo pensi davvero? Mi sembrava che fosse esattamente il contrario.»
Gorgas affondò. Fu un colpo breve, rapido, opportunista, tirato en passant mentre si riprendeva dall'ultima parata. Bardas non poteva fare assolutamente nulla per fermarlo. Sentì... ... Sentì una leggera vibrazione correre attraverso la croce, e aprì subito gli occhi. Stava arrivando qualcuno lungo la galleria, e avanzava rapidamente. Dannazione, pensò. Per quanto pensi di essere pronto, non è qualcosa per cui potresti essere preparato. Andò alla ricerca del coltello in cima allo stivale, ma non lo trovò. Sorrise... aveva passato tre anni nelle miniere e non aveva mai perso un coltello prima. Si trattava di una coincidenza? Chiuse gli occhi e si concentrò. Quali fossero quegli uomini, stavano avanzando rapidamente lungo la galleria, camminando mani e piedi come se stessero facendo un bizzarro nuovo tipo di corsa. Pensò che se stavano risalendo la galleria semplicemente per ucciderlo, si comportavano in modo decisamente maldestro. Non si facevano cariche di cavalleria nelle miniere: se il lavoro viene fatto bene, la prima cosa di cui si accorge un uomo colpito a morte sono le parole di ringraziamento del suo assassino. Ma allora... se non stavano arrivando per lui, perché venivano da quella parte? Se fossero stati gli uomini del cambio di turno non avrebbero corso così velocemente. Forse allora non si stavano affrettando verso di lui, ma cercavano di allontanarsi in fretta da qualcos'altro... da una squadra d'incursione, oppure da un crollo imminente. Comunque fosse, stavano venendo verso di lui, e se l'avessero trovato l'avrebbero ucciso. Cercò a tastoni il più vicino dei suoi sette amici morti, trovò il coltello dell'uomo e lo prese. In circostanze normali derubare un morto era considerata un'offesa, ma in quel caso era sicuro che avrebbero fatto un'eccezione. «Attenzione!» urlò qualcuno... era Alexius oppure uno dei sette uomini morti, non riuscì a capire quale... proprio mentre l'intera galleria sussultava, come se fosse stata lasciata cadere. La polvere gli riempì il naso e la bocca, mentre un secondo sussulto lo fece finire in ginocchio, e un terzo gli fece crollare il tetto addosso. È un camouflet disse qualcuno. È un enorme camouflet. Abbiamo scavato sotto la loro galleria, urr?! «Meraviglioso» disse Bardas a voce alta, e la terra che cadeva riempì lo spazio come una clessidra. CAPITOLO SECONDO
Aglio. «... È un eroe di guerra famoso e dannatamente autentico. Abbiamo tirato fuori questo stupido, scavando come per un tartufo. Pensavamo che fosse uno di loro finché qualcuno non ha notato gli stivali.» Bardas Loredan aprì gli occhi, e la luce lo colpì. Li chiuse di nuovo, ma non abbastanza in fretta. Il dolore e la paura lo fecero gridare. «Sta rinvenendo, guardate» disse una voce che proveniva dalla luce. Era incredibile che degli esseri viventi potessero sopravvivere in quel bagliore cocente e straziante... non poteva essere vero: doveva trattarsi di un'allucinazione. «È assolutamente e maledettamente sorprendente. Non doveva affatto sopravvivere in quella situazione, ma piuttosto restare ucciso all'istante.» Queste parole dimostrano che non sai nulla: non puoi uccidere un uomo che è morto e sepolto. Cercò di muoversi, ma il suo corpo era tutto un dolore. La luce si stava facendo strada tra le palpebre dandogli una fortissima sensazione di bruciore. «Sergente? Sergente mi riesce a sentire?» Quella voce era vagamente familiare, il che era strano. Come si chiamavano quei buffi animaletti simili a lucertole che vivevano nel fuoco? Salamandre. Come diavolo faceva a conoscere una salamandra, e perché lo chiamava Sergente? «È normale» disse un'altra voce. «Gli è appena caduta una città sulla testa, non è certo sorprendente che si senta un po' stordito.» Anche quella voce sembrava familiare... erano due salamandre. Alexius? Alexius sei tu? Smettila di giocare a fare lo stupido e allontana quella maledettissima luce. «Sergente? Ecco, guardate, si sta riprendendo. Chi diavolo è Alexius?» Chi siete? Non vi vedo, quindi dovete essere reali. Vi ho appena ucciso nella galleria? «Santi dèi» disse ancora un'altra salamandra «è completamente fuori di testa. È matto come un barile pieno di furetti.» «Come ho detto gli è appena caduta Ap' Escatoy sulla testa, cosa vi aspettate? In un paio di giorni si sarà completamente ristabilito.» Non c'era modo di evitarlo: avrebbe dovuto aprire gli occhi prima o poi. La luce filtrava comunque sotto le palpebre, e gli arrivava al cervello. Sono morto e mi sono trasformato anch'io in una salamandra, Alexius? Avresti dovuto avvertirmi. Aprì gli occhi. «Chi diavolo siete?» chiese battendo le palpebre.
Inizialmente riuscì solo a intravedere una forma: un grosso ovale marrone che lo guardava dall'alto. Dev'essere così che gli umani appaiono a una carpa in un laghetto. Non c'è da stupirsi se poi gli stupidi pesci nuotano via. «Sergente?» disse l'ovale. «Sono io, Malicho, il caporalmaggiore Malicho, si ricorda?» Loredan scosse la testa: sentì un forte dolore. «Non essere ridicolo» disse. «Non gli assomigli per niente.» «Sono proprio io, Sergente. Dollus, digli che sono io.» Sulla superficie della pozza con le salamandre apparve un altro ovale. «Ragiona, Malicho: non ti ha mai visto prima. Non ha mai visto nessuno di noi, se è per questo. E noi non l'abbiamo mai visto prima d'ora, se ci pensi.» «Allora come facciamo a sapere che è davvero lui?» chiese qualcun altro. «Forse è proprio uno di loro. Ehi, non guardatemi in quel modo, sto solo dicendo che è possibile.» «È lui» disse con fermezza la salamandra di nome Malicho. «Riconoscerei quella voce ovunque. Sergente, si svegli. Va tutto bene, siamo noi: siamo il settimo turno... o meglio quello che ne rimane. Lei starà bene. L'abbiamo tirata fuori scavando dopo che il camouflet è esploso. La guerra è finita: abbiamo vinto.» Lo sforzo per tenere gli occhi aperti era insopportabile; Bardas poteva sentire i muscoli lacerarsi come un tessuto. «Abbiamo vinto?» «Esatto. Abbiamo fatto crollare il bastione, il cancello è caduto e abbiamo preso d'assalto la città. Abbiamo vinto.» «Oh.» Ma di che guerra si tratta? Non ricordo nulla di una guerra. «Ottima cosa» disse. «Ben fatto.» «Non ha la minima idea di cosa stai dicendo» disse una salamandra. «Andiamo, Malicho, lasciamo che il povero stupido si riposi.» Il legato riuscì a riconoscere la cannella, e naturalmente i chiodi di garofano; una traccia di zenzero, olio di violette e un leggerissimo profumo di gelsomino. L'ingrediente speciale però gli sfuggiva, e la cosa lo rendeva furioso. «La famiglia» stava dicendo il colonnello «è piuttosto nota, a quanto sembra. Aveva una sorella che dirigeva la banca a Scona...» «Scona.» Il legato poggiò con cautela la tazzina d'argento. «Penso di aver sentito quel nome da qualche parte. Non c'era una guerra in quel luo-
go?» «Una guerra su scala molto piccola» rispose il colonnello. «Ma ha creato un certo interesse sugli scambi tra le valute. Ha anche un fratello che è una specie di signorotto della guerra in un luogo chiamato Mesoge. E naturalmente il nostro uomo è stato al comando dell'ultima difesa di Perimadeia.» «Davvero.» Era caprifoglio? No, era un dolce sapore diverso... non era così asciutto. «Viene da una famiglia piuttosto illustre, allora.» «Veramente no» rispose sorridendo il colonnello. «Il padre possedeva una fattoria da qualche parte... tutto qui. È un uomo degno di nota, per essere un forestiero. Dovremmo fare qualcosa per lui... all'esercito piacerebbe.» Il legato piegò leggermente la testa. «Dovrò pensarci su» disse. «La linea che divide la ricompensa del merito e l'incoraggiamento del culto della personalità è estremamente sottile in questi casi. Nelle questioni politiche» Miele... era miele aromatizzato con qualcosa... non c'è da stupirsi se mi sfuggiva. «... nelle questioni politiche» ripeté «al giorno d'oggi preferiamo porre l'accento sullo sforzo di squadra e sui risultati raggiunti dal gruppo; e da quello che ho capito, sarebbe decisamente appropriato in questo caso.» Il colonnello annuì. «Certo» disse. «In un certo senso, è precisamente quello che dovremmo fare. Ma il Sergente Loredan è già diventato una specie di leggenda per l'esercito. Se non gli diamo un riconoscimento ufficiale, potrebbe essere controproducente farlo per l'unità nel suo insieme. I soldati sono molto leali tra loro: è questo che dà loro forza, naturalmente.» «Davvero.» Il legato non si accigliò, ma non gli piacque molto quello che aveva sentito. Tuttavia, si trattava di una questione minore. «Be'» disse sollevando nuovamente la tazzina, «penso che non faremo male a dare a quest'uomo il suo momento di gloria. Suggerisco una corona d'alloro e un posto di prestigio nel trionfo, se ne è all'altezza. E poi una promozione.» Il colonnello approvò la giustezza del suggerimento. Una promozione significava un trasferimento, che avrebbe portato Loredan lontano dai soldati che ormai l'avevano scelto come oggetto di lealtà. «Gli daremo anche la cittadinanza?» chiese. «O forse no. Esistono dei precedenti, naturalmente.» «Dovrò rimettere la questione all'ufficio provinciale» disse il legato. «Un precedente non è una regola, e nemmeno un uso del servizio. Solo perché riconosciamo che qualcosa è avvenuto una volta non significa necessariamente che debba accadere di nuovo.» Il colonnello non disse nulla, ma lasciò che la questione rimanesse so-
spesa. Il legato aveva i suoi capi politici, ma lui aveva un esercito da motivare. E dopo tutto aveva appena preso Ap' Escatoy. «Mi scusi» disse improvvisamente il legato «ma devo proprio saperlo. È miele?» Il colonnello sorrise. «Lei è estremamente perspicace» rispose. «Sì, è proprio miele; è piuttosto raro... una specialità di questa regione. O meglio non è di qui, lo importano dal nord, ma questo è l'unico mercato noto per questa particolare varietà. Dipende dall'erica.» «Dall'erica» ripeté il legato, come se il colonnello avesse improvvisamente cominciato a parlare di mostri marini. «Le api si nutrono d'erica» spiegò il colonnello «ed è questo che dà al miele quel gusto particolare. Da solo non è nulla di speciale, ma adeguatamente miscelato l'effetto è piuttosto gustoso, non crede?» Miele all'erica rifletté il legato cosa verrà dopo? Valeva quasi una concessione sulla questione della cittadinanza... ma l'ufficio provinciale non era così decadente. O almeno non ancora. «Le dirò quello che farò» disse «riguardo al vostro sergente. Gli concederò la cittadinanza in prova, condizionata alla durata del servizio. Direi che questa soluzione raggiunge il giusto equilibrio tra il riconoscimento e l'incentivo, non crede?» Il colonnello sorrise. «Eccellente» approvò. «Sono sicuro che questa decisione farà faville per il morale dell'esercito.» Sollevò la brocca d'argento e d'oro e riempì la tazzina del legato. «Ho sempre trovato molto importante assicurare che la vittoria non sfugga di mano.» I mercanti dell'Isola reagirono alla notizia della caduta di Ap' Escatoy, dopo tre anni di assedio e di logoramento, con la rapidità e la risolutezza che erano le loro caratteristiche. Alzarono immediatamente il prezzo dell'uva passa (di un quarto al bushel), dello zafferano (di sei quarti all'oncia), dell'indaco, della cannella e del carbonato di piombo. Come risultato, i mercati si stabilizzarono prima che andassero in caduta libera, e il tasso base di concessione dei crediti della Banca di Shastel a fine giornata chiuse in rialzo. Furono più le persone che guadagnarono che quelle che persero denaro, e alla fine si poté dire con sicurezza che non era stato provocato alcun danno permanente. «Tuttavia» disse Venart Auzeil, «non ho alcun problema ad ammettere di essermi preoccupato per un po'. Siamo stati sicuramente esposti al pericolo. Immagino che dovremmo tutti essere soddisfatti che le cose non siano andate decisamente peggio.»
«Andranno peggio» mormorò Eseutz Mesatges mentre si asciugava le labbra con il polso. Il nuovo abbigliamento in voga delle signore mercanti (più o meno quello dell'anno precedente all'abbigliamento da Principessa Guerriera, ma con meno oro e più pelle) le stava molto bene, ma non prevedeva un posto dove tenere un fazzoletto. «Non vi è alcuna ragione di credere che si fermeranno lì. A meno che qualcuno non li faccia fermare» aggiunse la donna con fermezza. «Costituiscono una maledetta seccatura, e dev'essere fatto qualcosa al riguardo. E non so perché sghignazzi, Hido. Se l'Esercito Imperiale decide di risalire la costa, invece di scendere come tutti pensano, non riuscirai a dare via quelle concessioni sul pepe di cui sentiamo sempre tanto parlare.» Venart si accigliò. «Non è però probabile, vero? Perché sicuramente l'obiettivo è di rendere sicura la frontiera occidentale. Se si dirigono a nord invece che a sud, la estenderanno ma non la consolideranno.» «Dèi, Ven, sei così dannatamente ingenuo» disse con impazienza Eseutz. «Rendere sicura la frontiera un cavolo: questo è crudo espansionismo vecchia maniera, come chiunque con un po' di cervello si sarebbe accorto tre anni fa. No, avremmo dovuto fermarli ad Ap' Escatoy; dannazione, avremmo dovuto fermarli ancora prima, ad Ap' Ecy o addirittura prima che attraversassero il confine. Più lontano vanno, più difficile sarà fermarli, e questo è un semplice dato di fatto.» Hido Glaia sbadigliò e prese un'altra manciata di olive. «Se solo ascoltassi le mie parole» disse «ti accorgeresti che sono d'accordo con te. Penso che siano peggio della peste e che costituiscano un serio pericolo... e grazie agli dèi noi viviamo su un'isola. Il buffo è che tu pensi che possiamo fare qualcosa al riguardo.» Aprì la bocca e ne tirò fuori un nocciolo d'oliva. «Verosimilmente noi, e Shastel, e l'allegra banda di tagliagole di Gorgas Loredan nel Mesoge, e la gente del Re Temrai... se qualcuno dovrebbe preoccuparsi sono loro; se io fossi l'ufficio provinciale saprei cosa ci sarebbe in cima alla mia lista: se ci unissimo, tirassimo fuori le unghie, giungessimo dietro Ap' Seny e dicessimo loro che non andranno oltre...» Scrollò le ampie spalle. «Be', potrebbe andare bene o male, a seconda di quali altri aiuti l'ufficio provinciale può disporre al momento (e questo non lo sappiamo, anche se dovremmo, ed è uno scandalo che sia così). Ma affrontiamo la realtà: ciò non accadrà. No, la cosa migliore da fare per noi è di cominciare a sondare il terreno con i provinciali riguardo ai patti di non aggressione e alle tariffe, e possibilmente anche agli status di trasportatori preferiti. Non sono dei selvaggi, sapete. Se riuscissimo a imparare ad ama-
re gli abitanti delle pianure, potremmo anche andare d'accordo con quei bastardi.» La sorella di Venart, Vetriz, che era rimasta sdraiata sul divano fingendosi annoiata, si sollevò e si mise diritta. «Non puoi dire sul serio, Hido» parlò. «Noi mischiarci con gli abitanti delle pianure? Dopo quello che hanno fatto alla Città?» Hido sogghignò. «Commerciamo con loro... voi commerciate con loro... persino la Banca di Shastel fa affari con loro, e gli dèi sanno che se c'è qualcuno che ha il diritto di nutrire rancore verso di loro è proprio quella banca.» Hido si sporse in avanti e si grattò il collo di un piede. «Dov'è Athli, a proposito? Pensavo di trovarla qui.» Eseutz si accigliò. «Oh, è da qualche parte, impegnata a fare la donna di successo. Non lo so; dirige quell'ufficio come se fosse la proprietaria di quella dannatissima banca.» «Eseutz ha cercato di ottenere un prestito per prendere le opzioni sulle spezie» spiegò Hido «e Athli le ha opposto un secco rifiuto, che gli dèi la benedicano. Avrei potuto dirtelo io se me l'avessi chiesto» continuò, facendo a Eseutz un caldo sorriso paterno. «Athli può anche vestire e parlare come un'isolana, e avere un naso per gli affari migliore della maggior parte di noi che siamo nati e cresciuti qui, ma quando si tratta di prestare denaro, è una perimadeiana fino al midollo.» Eseutz tirò su con il naso e allungò una mano sul tavolo per prendere la caraffa di vino. «È tutta colpa tua che l'hai portata qui» disse Vetriz. «Be', al diavolo tutto. Puoi dirle che ho ottenuto il mio prestito, e solo all'uno per cento sul capitale di base.» «Hai dovuto dare la tua nave in garanzia» sottolineò Hido. «Decisamente meglio che sia capitato a te che a me. Personalmente penso che Athli ti stesse facendo un favore. Chi diavolo vorrà pagare i tuoi prezzi per il pepe e la cannella una volta che l'ufficio provinciale comincerà a svendere quei prodotti sul mercato a metà del prezzo che tu stai pagando adesso per comprarli?» Eseutz ringhiò e poggiò con forza la brocca sul tavolo. «Se questa è la tua indole» disse «faresti bene a memorizzare i nomi dei Grandi Re sanguinari adesso, in modo da poterli ripetere a memoria per impressionare il provinciale quando arriverà qui con una guarnigione.» Hido chinò la testa. «Potrebbe essere una precauzione sensata» disse. «Se dovremo fare affari con quelle persone, come sembra sempre più probabile, potrebbe essere una buona mossa imparare come adulare i loro uf-
ficiali.» Quando la serata finì e i loro ospiti andarono a casa, Vetriz si tolse le scarpe e si versò il vino rimasto. «Non riesco a capire quei due» disse. «Ci fanno o ci sono?» Suo fratello scrollò le spalle. «Tutte e due le cose» rispose. «Il che è strano, te lo garantisco. Voglio dire, è evidente quello che lui vede in lei, ma non viceversa... non in un milione di anni.» Vetriz sollevò un sopracciglio. «È buffo» disse «io avrei detto il contrario. Oh, be', immagino che significhi che dopo tutto sono fatti l'uno per l'altra. Nel qual caso non posso fare a meno di chiedermi perché passano tanto tempo a cercare di screditarsi a vicenda negli affari.» Venart sbadigliò. «È il loro modo di esprimere affetto» disse. «Ma quello che lei diceva riguardo l'Impero ha un senso, sai, in un certo modo. Bada bene, ha senso anche quello che ha detto Hido. Questa situazione di Ap' Escatoy ha davvero fatto capire tutta la situazione.» «Se lo dici tu» rispose Vetriz, alzandosi lentamente. «Andrò a letto mentre riesco ancora a camminare.» «D'accordo.» Venart esitò per un attimo, e poi continuò: «Quando mi trovavo alle Nails oggi pomeriggio, ho sentito una cosa su Ap' Escatoy.» «Mmm? Dimmela domani mattina.» Venart scosse la testa. «Veramente» disse «avrei dovuto farne menzione prima, anche se naturalmente è solo una voce, e non ho la minima idea da dove venga e se abbia un fondamento. Aspettavo di sapere se anche Hido o Eseutz l'avevano sentita, ma a quanto pare non è così.» Vetriz sbadigliò. «Oh, per l'amore del cielo, Ven» disse. «Smettila di girarci intorno e dimmi di cosa si tratta.» «D'accordo.» Venart distolse lo sguardo. «Il fatto è che qualcuno stava parlando della fine dell'assedio, e di come era avvenuto, e ha detto che l'uomo che aveva aperto una breccia nelle miniere e aveva fatto cadere la parete si chiamava Bardas Loredan.» Vetriz non si voltò. «Davvero?» chiese. «Interessante.» «Pensavo che tu dovessi saperlo» disse Venart. «Be', ecco qui. Come ho detto, non esiste alcuna conferma, ma si tratta solo di una voce.» «Certo» rispose Vetriz. «Be', vado a letto. Buonanotte.» Dopo quella semplice informazione fu inevitabile che i suoi sogni tornassero alle miniere - ormai ne conosceva ogni centimetro, tanto che al solo pensarle le facevano male le ginocchia e i palmi delle mani - all'oscurità, all'aria viziata e all'odore dell'argilla e delle erbe aromatiche. Ancora
una volta lei avanzava, senza vedere nulla, verso la fonte del rumore, un'indecifrabile confusione di acciaio e voci; ma questa volta sperò di riuscire a distinguere una voce tra le altre, ma era assolutamente impossibile. Forse ciò che aveva saputo spiegava perché doveva ancora tornare lì dentro, ma nient'altro aveva senso. Era solo un sogno nel quale lei avanzava carponi lungo gallerie oscure, con il tetto che a volte crollava su di lei e altre no. Forse aveva avuto ragione la prima volta, e si trattava davvero di un castigo divino per aver mangiato del gorgonzola prima di andare a dormire. Ma stavolta Vetriz urlò il nome di lui: anche se non era affatto sicura se gli volesse dire di essere giunta da lui per aiutarlo oppure se gli stesse chiedendo di essere salvata lei stessa. Andò serpeggiando tutta la notte, batté i piedi e avanzò carponi attraverso le gallerie e le diramazioni del suo sogno, a volte dovette oltrepassare e avanzare su uomini che erano morti da molto tempo, a volte su quelli che conosceva da sempre, a volte su persone che vedeva per la prima volta; ma il centro del rumore non si avvicinava mai e le voci rimanevano confuse. Si svegliò che sudava, con le lenzuola attorcigliate intorno a sé e il cuscino sul pavimento, dove l'aveva gettato dopo averlo ringraziato per la pazienza dimostrata. Quando Temrai aprì gli occhi, la luce lo atterrì. Scosse la testa come un cane bagnato, come se cercasse di scacciare quel sogno dalla mente. Accanto a lui Tilden borbottò e si girò, tirando le coperte via dai piedi. Riusciva a dormire qualunque cosa accadesse: persino nonostante l'urlo soffocato con cui lui si era svegliato. Se Tilden faceva sogni strani e angosciosi, riguardavano pietanze rovinate dalla eccessiva cottura, oppure tappezzerie a lungo aspettate e che, alla fine, non si armonizzavano affatto con i divani. Il pensiero lo fece sorridere, nonostante il suo malessere. Sospirò e si sedette, spostando con attenzione il suo peso per non disturbarla. Di fatto la luce non era altro che una lieve macchia di chiaro di luna che trapelava attraverso il foro di uscita del fumo: incredibile che gli fosse sembrata così insopportabilmente luminosa un momento prima. Metodicamente, come un testimone coscienzioso che si trova di fronte al magistrato, ricordò il sogno. Si trovava nell'oscurità, in una caverna o in una galleria sotto terra; avanzava faticosamente a tentoni, cercando di allontanarsi da qualcosa o da qualcuno: dal tetto che crollava oppure da un uomo con un coltello, ma nella maggioranza dei casi da tutte e due le cose
insieme. Quando il suo inseguitore l'ebbe raggiunto, e sentì una mano prendergli i capelli e tirargli la testa indietro per esporre la gola alla lama tagliente, sentì una voce che lo ringraziava, e un'altra che diceva che l'uomo morto era il Sergente Bardas Loredan, saccheggiatore di città, abbattitore di mura, responsabile della morte di migliaia... ... Cosa che era completamente sbagliata, naturalmente. Lui, re Temrai il Grande, era il saccheggiatore delle città e l'assassino di migliaia di persone; lui era quello che aveva abbattuto le mura di Perimadeia, dopo aver ucciso con il fuoco migliaia e centinaia di migliaia di persone intrappolate nella città dopo il suo ingresso. Il saggio e costoso dottore di Shastel che aveva mandato a chiamare, quando i sogni che aveva cominciato a fare dopo la caduta della Città l'avevano reso gravemente malato, gli aveva detto che si trattava di una cosa assolutamente naturale, e che di certo non sorprendeva che nei suoi sogni prendesse il posto di una delle persone che aveva ucciso bruciandola; in qualche modo il saggio e costoso dottore aveva detto che era assolutamente normale per lui, come bere molto latte e fare ginnastica regolarmente. Si chiedeva come dovesse comportarsi di fronte a quella nuova situazione: le caverne, l'uomo con il coltello che era Bardas Loredan, il saccheggiatore delle città. Poteva capire alcune cose da solo: il suo senso di colpa e il suo contrasto con se stesso l'avevano fatto identificare con l'uomo più crudele e demolitore che avesse mai incontrato, in modo che nella sua mente lui era diventato Loredan... lo svilimento definitivo. Non c'era bisogno di spendere una grossa somma di denaro perché gli venisse detto questo. Sbadigliò. Non vi era alcuna possibilità di tornare a dormire; ciò che voleva davvero era un po' di compagnia. Con delicatezza scivolò fuori dal letto, cercando con gli alluci le morbide scarpe di feltro, infilò il mantello e uscì dalla tenda. Chi poteva essere sveglio a quell'ora della notte? Be', le sentinelle, (altrimenti sarebbero stati tutti nei guai), l'ufficiale di servizio e il suo amico... c'era uno specifico termine militare per indicarlo, ma Temrai non aveva la minima idea di quale fosse; il lavoro consisteva nel rimanere alzato tutta la notte a giocare a dama con l'ufficiale di servizio per impedire che si addormentasse. Ben presto i fornai si sarebbero alzati e messi al lavoro, cominciando a fare il pane per la nuova giornata. Da qualche parte nell'accampamento c'era sicuramente qualche gruppo di sciocchi giovani che erano rimasti alzati tutta la notte a bere, e anche qualche soldato che non riusciva a dormire per il pensiero della possibile morte nella battaglia del
giorno seguente. Molto probabilmente non era l'unico uomo tra i ventimila nell'accampamento che era stato buttato fuori dal letto da un brutto sogno. Una breve camminata attraverso le strade dell'accampamento gli avrebbe permesso di trovare qualcuno con cui parlare. Sbadigliò di nuovo. Era una notte calda, che odorava di pioggia. Con sua sorpresa si rese conto che aveva fame. Di fatto, non aveva bisogno di un compagno o di qualcuno su cui riversare i suoi problemi. Ciò che davvero gli serviva erano un paio di frittelle di farina bianca ricoperte di crema acida e di miele, preferibilmente con una manciata di ribes e della noce moscata. Per un re al quale spontaneamente era stato attribuito l'epiteto di "Grande" da una nazione che gli era devotamente fedele, non era una richiesta eccessiva. Temrai aveva anche il vantaggio di una conoscenza approfondita in materia. Sapeva che le frittelle migliori al mondo erano quelle di Dondai, il costruttore di frecce, un vecchio arzillo e sdentato che trascorreva la vita a togliere penne, attentamente selezionate, dalle ali di oche sempre più risentite, che formavano la riserva supplementare di impennaggio per le frecce. Faceva solo questo. Qualcun altro catalogava le penne del lato sinistro e del lato destro; qualcun altro ancora le divideva lungo la parte interna, spuntandole per dare loro forma e le consegnava ai lavoratori che le univano alle aste delle frecce con sottili fili di tendine avanzate. Quando non spennava le oche, però, Dondai faceva delle frittelle straordinarie; ed essendo troppo vecchio per necessitare di molte ore di sonno, c'era un'ottima possibilità che in quel momento fosse sveglio. La tenda di Dondai non era certo difficile da trovare, anche nel cuore della notte: bastava seguire il puzzo e il rumore delle oche. All'entrata del recinto degli animali c'era un piccolo fuoco accanto al quale sedeva un uomo, che aveva tra le mani grosse ed esperte un'oca furiosa che si dibatteva. L'uomo dava la schiena a Temrai, e fu solo quando l'uomo si girò, dopo aver ricevuto un colpetto su una spalla, che Temrai si rese conto che non era colui che stava cercando. «Mi scusi» disse. «Cercavo Dondai.» L'uomo lo guardò, leggermente accigliato. «Dondai il costruttore di frecce» ripeté Temrai. «Sta dormendo?» «Può ben dirlo» rispose l'uomo. «È morto tre giorni fa.» «Oh.» Per qualche motivo Temrai ne fu esageratamente scioccato. Certo, mangiava le frittelle di farina bianca di Dondai da quando era bambino, ma l'anziano aveva significato solo questo per lui: una mano salda con una
terrina di terracotta e una piatta padella di ferro. «Mi dispiace davvero.» L'uomo scrollò le spalle. «Aveva ottantaquattro anni» rispose. «Quando diventano così vecchie, le persone tendono a morire. Non è una cosa ingiusta. Sono suo nipote, Dassascai. Lei era un suo amico?» «Un conoscente» rispose Temrai. «Non si trova da molto nell'esercito, vero?» «Non sono nell'esercito» rispose Dassascai. «Fino a poco tempo fa possedevo una bancarella nel mercato di Ap' Escatoy, e vendevo pesce. Ho vissuto lì la maggior parte della mia vita.» «Davvero?» disse Temrai. «Questi ultimi anni devono essere stati terribili.» Dassascai scosse la testa. «Non proprio» disse. «Era un porto, come ricorderà, e l'ufficio provinciale non poteva rinunciare a nessuna nave. Non è mai mancato nulla e le persone spendevano il loro denaro: era buona, per essere una guerra.» Temrai annuì lentamente. «Allora cosa le è successo?» chiese. «Ho sentito dire che poche persone ne sono uscite vive.» «È esatto» disse Dassascai. «Fortunatamente non mi trovavo là quando la città è stata conquistata; ero venuto qui a trovare mio zio, come un buon nipote deve fare, e dopo sono andato sull'Isola a comprare del merluzzo salato. Di fatto, me ne andai due giorni prima della tragedia, quindi sono davvero un ragazzo fortunato. Se non fosse che» aggiunse con un sorriso amaro «non porto mai mia moglie e mio figlio con me nei viaggi d'affari. Inoltre c'è la questione della proprietà accumulata nel corso di una vita, anche se non se ne dovrebbe parlare con la famiglia. Ma la verità è che io so cosa mi manca di più.» Temrai si sedette per terra, dall'altra parte del fuoco. «Allora cosa farà? Seguirà le orme di suo zio?» «Strappando penne alle oche vive per il resto della mia vita? Assolutamente no.» Dassascai si alzò in piedi, con un'oca a testa in giù che si dibatteva furiosamente in una mano e un mazzetto di penne nell'altra. «Tanto per cominciare, le oche mi fanno starnutire. E poi puzzano. Sto facendo questo lavoro adesso perché se non lavoro non mangio. Ma arriverà qualcos'altro, e quando ciò avverrà, me ne andrò.» «Lo trovo giusto» disse Temrai. «Ha idea in cosa potrebbe consistere questo qualcos'altro in arrivo? Nel mio lavoro a volte mi imbatto in buone opportunità che necessitano di persone in gamba: potrei tenere gli occhi aperti per lei.»
Dassascai lo guardò tra le fiamme. «E qual è il suo campo di lavoro?» «Per lo più l'amministrazione» rispose Temrai. «E partecipo alle riunioni dirigenziali... cose di questo genere.» «Lei è un uomo di potere e influenza» rispose Dassascai. «Be', farò bene a dirle in cosa riesco meglio. Posso comprare e vendere, sono abituato a viaggiare, posso mercanteggiare e di solito faccio buoni affari. Mia madre era solita dire che ho una faccia onesta. Tutto qui.» Temrai sorrise. «Probabilmente sarebbe stato un buon perimadeiano» disse. «O un isolano. A proposito, per quale motivo si trovava ad Ap' Escatoy?» Dassascai si chinò improvvisamente e si alzò di nuovo, bloccando al petto un'altra oca che si dibatteva. «Non ne sono sicuro» disse sedendosi. «Quando ero bambino litigavo con mio padre per varie cose. Si arrabbiò, così io me ne andai e cominciai a camminare. Qualche tempo dopo mi trovai ad Ap' Escatoy, nascosto dietro una fila di barili con un cestino pieno di astici rubati. Subito dopo li vendetti e ne comprai degli altri alla banchina. Dopo questo episodio, per un po', la mia vita fu piacevolmente noiosa. Preferisco la vita noiosa.» Temrai si strofinò la punta del naso. «Davvero?» disse. «Lei non la pensa così, evidentemente.» «È difficile che mi annoi» rispose Temrai. «Mi interessa quasi tutto. Per esempio trovo che iniziare un commercio di pesce dal nulla sia davvero molto interessante.» Dassascai scosse la testa. «Non ne sia così sicuro» disse. «Si sta in piedi dietro una bancarella del mercato tutto il giorno, chiedendosi come diavolo potrà vendere tutto il pesce prima che cominci a puzzare, se nessuno si ferma mai a comprare qualcosa. Si fa questo per la maggior parte della giornata, persino quando si finisce la merce. I piedi ti fanno male. Guardi i pesci morti che ti guardano a loro volta. Dieci anni dopo ti preoccupi del denaro che tua moglie spende in tappeti, e cerchi di capire, con esattezza, quanto i tuoi aiutanti ti rubano senza che risulti dai conti. Cinque anni più tardi...» sollevò la testa e sorrise «... qualche bastardo scava una trincea d'approccio alle mura della tua città e tu sei costretto a trovarti un altro lavoro, finendo a spennare oche. I momenti noiosi sono stati i migliori, non c'è alcun dubbio.» Temrai si alzò in piedi. «Penso che lei abbia ragione» disse. «Se sento parlare di qualche lavoro davvero noioso, glielo farò sapere.» «Grazie» rispose Dassascai. «Mi piacerebbe.»
Quando tornò alla sua tenda, Temrai trovò Bossocai l'ingegnere e Albocai il capitano delle riserve che lo aspettavano, seduti su piccoli sgabelli pieghevoli subito fuori dall'entrata. «Scusate» disse «è molto che aspettate?» «No, pochissimo» rispose Albocai, che era un pessimo bugiardo. «Ho appena parlato con una spia davvero interessante» continuò Temrai, scostando il telo e facendoli entrare nella tenda. «Tenete la voce bassa, a proposito: mia moglie dorme ancora.» «Come fa a sapere che è una spia?» chiese Bossocai. Temrai fece un largo sorriso. «Se avesse avuto SPIA scritto in fronte non sarebbe stato più evidente» rispose. «Era un uomo piacevole. Conoscevo suo zio da anni.» Albocai si accigliò. «Be'» disse «faremo meglio ad arrestarlo. Come si chiama?» «Non ce n'è bisogno» rispose Temrai. «Non abbiamo segreti che valga la pena di rubare. Di fatto» continuò con un sorriso che gli altri non riuscirono a capire «fare la spia nel nostro accampamento dev'essere il lavoro più noioso del mondo, quindi va bene così. Non sono sicuro per conto di chi stia facendo la spia, ma la mia ipotesi è che sia stato inviato dall'ufficio provinciale. È interessante, non pensate?» «Penso che tu ti stia sbagliando, oppure che stai prendendo la cosa alla leggera» disse Albocai. «Sei sicuro che sia una spia?» Temrai annuì. «Quando una persona si fa passare per il nipote di un uomo che conosco da quando sono nato e che non ha mai avuto fratelli né sorelle, per non parlare di un nipote, e sa perfettamente chi sono ma finge di non conoscermi e poi, in modo piuttosto diretto, mi chiede di assoldarlo come spia... traggo le logiche conclusioni. Questo mi ricorda una cosa... Albocai, voglio che tu scopra cosa è accaduto a un uomo chiamato Dondai...» «Quello che strappava le penne alle oche? È morto.» «Ah, va bene. Scopri qualcosa in più al riguardo, d'accordo? Se è stato assassinato puoi sbarazzarti della spia con la mia benedizione, e la prossima volta che la vedrò mi aspetto che sia ridotta in pezzi. In ogni caso, basta con questo argomento. Cosa posso fare per voi?» «Be'» disse l'ingegnere, e si lanciò in una spiegazione tecnica sulle impostazioni della corda del motore a torsione: un argomento che Temrai conosceva meglio di chiunque altro nell'esercito; dopo aver ottenuto la risposta desiderata, Albocai lo assillò affinché preparasse l'ordine di batta-
glia per la fanteria leggera. Quando se ne furono andati entrambi, Temrai guardò il letto e sbadigliò; aveva sonno, ma era ormai troppo tardi per andare a dormire. Prese la faretra, si sedette sullo stira-abiti e cominciò ad affilare le punte delle frecce su una striscia di pelle. Nel frattempo, al recinto per le oche, Dassascai la spia staccava le penne e ripensava al primo approccio che aveva avuto con l'uomo che era stato incaricato di uccidere. «Attento» disse il ragazzo. «Fai attenzione o...» Troppo tardi. Gannadius inciampò su un ramo caduto e finì in avanti nel fango; un fango spesso che si trovava sotto uno strato sottile di foglie. Sentì le gambe affondare, fino alle ginocchia, e capì che non sarebbe stato in grado di liberarle, ma tentò lo stesso. Riuscì solo a tirar fuori un piede dallo stivale. La sensazione del fango era disgustosa. (Solo un minuto pensò.) «Resisti» disse il ragazzo dietro di lui. «Non dibatterti, o peggiorerai la situazione.» Il ragazzo lo afferrò sotto le braccia e sollevò. Gannadius angolò l'altro piede in modo da non perdere anche l'altro stivale. (Oh al diavolo... mi ricordo tutto questo. E non penso che mi piacerà...) «Eccoti in salvo» disse il ragazzo. Finalmente riuscì a girare la testa: davanti a sé c'era un giovane, di non più di diciotto anni, altissimo e con le spalle molto larghe, con un viso grosso e stupido, ciuffi di capelli bianchi e biondi che stavano già cominciando a diradarsi, un piccolo naso piatto e dei pallidi occhi blu. «Dovresti proprio guardare dove metti i piedi» disse. «Forza, è tempo di andarcene da qui.» Gannadius aprì la bocca, ma la voce non uscì. Si chinò e tirò lo stivale fino a sfilarlo. Era pieno di fango e di acqua. Il ragazzo aveva cominciato ad avanzare attraverso il sottobosco (una densa foresta ricoperta di rovi e con il terreno imbevuto d'acqua; sì, si tratta decisamente dello stesso posto) e dovette affrettarsi per mantenere il passo. Seguendo i movimenti del ragazzo e camminando dove questi passando aveva creato un sentiero, Gannadius riuscì a farsi strada tra l'intrico della vegetazione. «Questa situazione non mi piace, zio Theudas» disse il ragazzo; un attimo dopo apparvero degli uomini dall'intrico di rovi e felci e, avanzando a fatica e sguazzando nel fango, si laceravano i mantelli e i pantaloni con le spine. Sarebbe stato uno spettacolo estremamente buffo e divertente, se non fosse per il fatto che, nonostante le difficoltà incontrate, quegli uomini
volevano chiaramente uccidere Gannadius e il ragazzo e, a differenza di loro due, indossavano armature e avevano armi. «Dannazione» disse il nipote piegandosi sotto un'alabarda fatta sibilare con forza. Si drizzò, tolse l'alabarda all'uomo e lo colpì in volto con l'impugnatura dell'asta. Un altro assalitore avanzava a fatica verso di lui, con gli stivali talmente appesantiti dal fango che procedeva ondeggiando. Teneva in mano una grossa ascia, ma quando la roteò la testa finì tra i rovi, e prima che potesse liberarla Theudas lo colpì allo stomaco con l'alabarda appena catturata; il suo avversario barcollò, lasciò andare l'ascia e agitò freneticamente le braccia per restare in equilibrio... poi cadde all'indietro, con i piedi completamente bloccati, proprio come era accaduto a Gannadius, e rimase disteso sulla schiena, inerme nel fango scivoloso, a morire. «Andiamo» disse il ragazzo chinandosi all'indietro e, afferrando il polso di Gannadius mentre parava un colpo di una roncola con l'alabarda, tenuta saldamente con una mano vicino all'incavo. «Dannazione, se non fossi mio zio ti lascerei indietro.» (E questo è tutto ciò che riesco a ricordare. Dannazione) «Arrivo, arrivo» ansimò Gannadius. «Aspettami, per l'amor del cielo.» «Oh, per...» Theudas allungò una mano sulla testa di Gannadius per schiacciare il cranio di qualcuno con l'alabarda. «Sto cominciando davvero a rimpiangere di non essere rimasto a casa.» Rimanevano quattro soldati: indugiavano e indietreggiavano (inspiegabilmente). «Non rimanere fermo lì» disse irritato il nipote «continua a camminare. Io cercherò di trattenerli.» Sì, ma dove vado? Mi sono perso. Gannadius trascinò le gambe fuori dal fango appiccicaticcio e si precipitò in avanti con la testa bassa. Dietro di lui sentì il clangore delle armi d'acciaio. È perfettamente inutile fuggire dai soldati per annegare nella palude. Prese in considerazione l'idea di guardare indietro, ma decise di non farlo: probabilmente si sarebbe scoraggiato. Non molto tempo dopo inciampò e atterrò con la faccia nel fango. Rimase immobile, troppo esausto persino per cercare di alzarsi. «Zio.» Evidentemente quel tono di voce era caratteristico della famiglia: gli ricordava sua madre che lo usava per i sermoni del tipo pensavo-diaverti-detto-di-sgranare-quei-fagioli. «Zio, non sei per niente di aiuto. Alzati, per l'amore degli dèi.» «Non posso. Sono bloccato.» «D'accordo.» Gannadius sentì una mano afferrargli un polso, e poi una forza assai potente cercare di staccargli un braccio dal corpo, e quasi riu-
scirci. Fortunatamente il fango cedette prima dei suoi muscoli e dei suoi tendini, e un'altra mano lo tirò in piedi con uno strattone. «Stai bene?» «Sto bene» rispose Gannadius. «Mi dispiace.» «Andiamo. Cerca di stare al passo.» Gannadius rifletté amaramente che quello significava dare l'addio all'idea di forzare il blocco... dare l'addio al tentativo di scivolare inosservati attraverso la linea, nella notte e nella nebbia, quando i nemici meno se lo aspettavano. In teoria l'idea andava bene, ma l'ammiraglio imperiale non era del tutto sciocco. Se tiene le navi ravvicinate nelle notti buie e nebbiose è per il motivo che, se qualcuno abbastanza stupido tentasse di farsi strada tra gli scogli sommersi degli stretti, sarebbe andato sicuramente in cerca di guai. «Ci seguono ancora?» «Non ne ho idea» rispose il ragazzo. «Se lo fanno sono degli stupidi. Guarda dove metti i piedi, è piuttosto scivoloso.» Ed eccolo lì, un uomo della sua età, che procedeva tra enormi difficoltà in un territorio paludoso nemico, con metà dell'esercito provinciale alle costole per cercare di ucciderlo. Chiunque con un po' di cervello sarebbe rimasto sull'Isola, e se necessario avrebbe trovato un lavoro e si sarebbe sistemato, in attesa che Shastel e l'ufficio provinciale risolvessero le loro divergenze e smettessero di giocare ai soldati su tutto il litorale orientale. «Ci fermeremo qui» disse Theudas junior «per darti la possibilità di riprendere fiato.» «Grazie» rispose Gannadius riconoscente. «Sei certo che siamo al sicuro?» «Come diavolo faccio a saperlo? Non sono mai stato qui in tutta la mia vita.» Gannadius poggiò la schiena contro il tronco di un albero e si lasciò scivolare. «Lo so. Ma sembri trovarti a tuo agio nel fare questo genere di cose.» Il ragazzo scrollò le spalle. «Non proprio» disse. «Improvviso man mano che vado avanti.» «Bene. E io che pensavo che fossero tutte cose che avevi imparato da Bardas Loredan.» «Assolutamente no.» Il ragazzo sorrise. «Una volta abbiamo avuto dei problemi con alcuni soldati, ma ci siamo limitati a nasconderci finché non se ne sono andati.» Guardò l'alabarda che teneva in mano, e poi la mise giù. «Non lo so, forse ho preso da mio padre... mi hai detto che è un pira-
ta.» «Lo era» disse Gannadius «adesso non lo è più. Ora è il rispettabile capitano di un mercantile.» «Ci crederò quando lo vedrò» rispose il ragazzo. «Circostanza che mi ricorda una cosa... non penso che la Direttrice Zeuxis rimarrà soddisfatta quando le diremo che abbiamo affondato una delle sue navi.» Gannadius non poté fare a meno di sorridere, immaginando la scena. «Non era molto grande» rispose. «E inoltre Athli possiede ormai tante di quelle carcasse che non credo ne sentirà la mancanza. E non siamo stati noi a far schiantare quel maledetto affare sulle rocce, ma è stato il suo cosiddetto capitano. Io considero noi le vittime di tutta questa situazione.» Il ragazzo annuì, rassicurato almeno in apparenza. «Allora» disse «ora che facciamo?» Gannadius si accigliò. «Pensavo che fossi tu quello nato per fare il capo.» «Sì, ma il mago sei tu. Fai apparire d'incanto un tappeto magico e portaci via da qui.» «Se solo potessi. Non funziona in questo modo.» «Non funziona affatto, se vuoi il mio parere.» «Sei autorizzato ad avere la tua opinione» disse stancamente Gannadius. «Ma no, hai ragione. Non posso far apparire tappeti magici né sbaragliare i nemici con una palla di fuoco oppure trasformarli in salamandre. È davvero un peccato, ma così stanno le cose.» Il ragazzo scrollò le spalle. «D'accordo, allora» disse «cammineremo. Non possiamo essere troppo lontani da Ap' Amodi.» «A dire il vero» disse Gannadius «Ap' Amodi si trova in direzione opposta. Non sono un mago, ma so leggere una mappa. Noi siamo diretti verso Ap' Escatoy, e suggerisco rispettosamente di non andarci.» «Ap' Escatoy» ripeté il ragazzo. «Non è dove...?» «Esattamente. Come ho detto, non è un luogo dove è saggio andare.» Il ragazzo si strofinò il mento con una mano sporca di fango. «E se Bardas si trovasse davvero lì? Si prenderebbe cura di noi... so che lo farebbe. Staremmo bene.» Gannadius sospirò. «Non ci conterei troppo se fossi in te. Anche se fossimo in grado di arrivare a lui prima di venire catturati, oppure anche se riuscissimo a fargli arrivare un messaggio, non c'è ragione di credere che sarà in grado di fare qualcosa per noi. Non c'è ragione di credere che sia un ufficiale o qualcosa del genere.»
Il ragazzo gli lanciò uno sguardo ribelle. «Bardas non permetterebbe che ci accadesse nulla» disse. «Se sapesse che ci troviamo nei guai.» «Forse no. Ma esistono comunque moltissimi modi in cui potremmo morire senza che lui lo venisse mai a sapere. Io dico di trovare il modo di tornare indietro e dirigerci lungo la costa, verso Ap' Amodi. Non troppo in alto, bada bene, oppure ci ritroveremo a Perimadeia.» Il ragazzo annuì. «E tu sai la strada, vero?» Gannadius scosse la testa. «Ho una vaga immagine della mappa che ho guardato, tutto qui. Non chiedermi nemmeno la distanza. Potrebbe trovarsi a un giorno o a tre settimane.» «Oh.» Il ragazzo improvvisamente sembrò molto giovane e spaventato, circostanza che Gannadius trovò estremamente sconcertante. «E non ci puoi fare niente? Voglio dire, con i tuoi... poteri?» Gannadius sorrise. «Non posso farci nulla, mi dispiace.» «Non servono a molto, vero?» «No, proprio no.» Il ragazzo si alzò. «Bene» disse. «Se ci stessero inseguendo, ormai ci avrebbero raggiunti. In quale direzione andiamo? In termini generali» aggiunse. Gannadius rifletté per un momento. «In termini generali» disse «direi di procedere verso nord-est, che dovrebbe essere laggiù. A meno che non ci sia una montagna o un fiume o qualcosa a ostacolarci. La cartografia non è una scienza esatta a Shastel.» Il ragazzo studiò per un momento il sottobosco, e poi diede un colpo potente ai fitti rovi con l'alabarda. «Oh, bene» disse mentre rilasciava di nuovo la lama. «Immagino che sia meglio cominciare.» Colpì di nuovo, poi rinunciò. «Torniamo da dove siamo venuti, e vediamo se riusciamo a trovare il sentiero che stavamo seguendo.» «D'accordo» disse Gannadius. «E se incontriamo altri soldati?» «Allora siamo fregati» rispose il ragazzo. «Ma non c'è alcun modo per passare attraverso questa vegetazione. Ci vorrebbero venti uomini e una settimana solo per arrivare fino a quell'albero alto laggiù.» Gannadius sospirò e lo seguì. Alexius pensò dove diavolo sei quando ho bisogno di te? Non riesci a trovarmi, e a dirmi cosa fare? Ma ovviamente la cosa non funzionava in quel modo, come lui sapeva benissimo. Poteva formulare varie ipotesi sul perché, tre anni prima, aveva visto quella breve battaglia, piuttosto grottesca, nella zona paludosa in una specie di visione a caso indotta dal Principio. Il fatto era che il Principio non era uno strumen-
to, cioè qualcosa che si poteva utilizzare. Era un qualcosa che accadeva, come la sfortuna o la pioggia. Arrancò in avanti, poggiando i piedi nelle orme profonde del ragazzo. Sono troppo vecchio per queste cose. E a questo ritmo è assai improbabile che invecchierò ancora. «Il sentiero dovrebbe essere qui da qualche parte.» La voce del ragazzo lo distolse dai suoi pensieri. «Dobbiamo averlo mancato.» «È molto probabile» rispose triste Gannadius. «Sta diventando troppo buio. Direi di fermarci e aspettare domani mattina.» «D'accordo.» Il ragazzo si gettò a terra nel punto in cui si trovava, facendo cadere l'alabarda nel fango. «Ho fame» disse. «Bel problema. Se vuoi, puoi andare a vedere se riesci a uccidere qualcosa. Se c'è qualcosa da uccidere in questa orribile palude, eccetto i soldati, cosa di cui dubito fortemente.» Il ragazzo scosse la testa. «Non ho visto il minimo segno di animali» rispose. «Allora dovremo fare a meno di mangiare, e cercare di non pensarci.» «D'accordo.» Qualche minuto dopo il ragazzo dormiva profondamente. Gannadius chiuse gli occhi, ma non servì a nulla per lungo tempo. Quando alla fine cadde addormentato, fece di nuovo quel sogno, ma stavolta fu peggiore. Gannadius? Si trovava nel sogno: bruciava canne e legni abbattuti che sollevavano una nuvola di scintille mentre si schiantavano a terra, tra il fumo e le urla confuse. «Alexius?» chiese. «Cosa ci fai qui?» Eccolo lì, in piedi di fronte a lui. Non lo so. Non venivo qui da molto tempo. Tu dove ti trovi? «Speravo che potessi dirmelo tu. Cosa riesci a vedere?» Be', questo rispose Alexius. La Caduta di Perimadeia. Cosa volevi che vedessi? Gannadius si accigliò. «Mio nipote e io ci siamo persi in una palude da qualche parte tra Ap' Escatoy e Ap' Amodi. Speravo che potessi dirmi cosa fare.» Mi dispiace. Alexius scrollò le spalle. Hai detto Ap' Escatoy? È curioso. È dove continuo ad andare ultimamente. «È affascinante. Non vedo l'ora di leggere la tua monografia sull'argomento. Puoi fare uno sforzo e vedere se riesci a scoprire dove ci troviamo? Ci sarebbe davvero di grande aiuto.» Vorrei davvero potervi aiutare, ma tu sai come vanno queste cose. Tanto
per sapere, cosa ci fai in una palude nei territori contesi? L'ultima volta che avevo avuto tue notizie avevi un bel lavoro comodo a Shastel. Intorno a lui Perimadeia continuava a bruciare. Gannadius cercò di non guardare. «Spero di averlo ancora» disse «ma se non torno presto mi daranno per morto e lo daranno a qualcun altro. Sono andato sull'Isola per andare a trovare mio nipote.» Tuo nipote... oh sì, ricordo. Il ragazzo che Bardas Loredan salvò dalla Città e portò con sé a Scona. Anche questa è una circostanza curiosa. «Decisamente» disse Gannadius con una leggera impazienza. «L'idea era che Athli Zeuxis... te la ricordi?» Naturalmente: l'impiegata di Bardas. È una mercante sull'Isola adesso, vero? «Esatto. In ogni caso, portò il ragazzo con sé sull'Isola quando Bardas passò un brutto momento qualche anno fa, più o meno nel periodo in cui lei ottenne la concessione dell'Isola per la Banca di Shastel. Be', ha avuto grande successo nel lavoro, tanto da aver bisogno di aprire a Shastel un ufficio corrispondente al quartier generale; e aveva pensato che sarebbe stata una buona idea se il giovane Theudas...» Tuo nipote. «Esatto. Prende il nome da me, di fatto...» Il tuo vero nome era Theudas? «Sì. Theudas Morosin.» Santi dèi! Ci conosciamo da moltissimi anni e non l'ho mai saputo. Scusami, per favore continua. «Athli ha pensato che fosse una buona idea» continuò Gannadius pazientemente «se il giovane Theudas avesse trascorso un po' di tempo a Shastel con il suo agente di lì, per avviare l'ufficio, imparare il commercio e per passare più tempo con me, poiché in pratica sono il suo unico parente vivo... a parte suo padre, ovviamente, che è scomparso di nuovo e non è mai stato un vero padre per il ragazzo.» Sembra una splendida idea. Cos'è andato storto? Gannadius sospirò. «È stata la mia solita fortuna» disse. «Più o meno un giorno dopo che avevamo lasciato l'Isola, Shastel ha iniziato una lite con l'ufficio provinciale riguardo a un'isoletta sperduta da qualche parte... è tutto in relazione alla questione di Ap' Escatoy; ovviamente Shastel si è spaventata a morte per le conseguenze di tale atto... e adesso la flotta provinciale sta bloccando gli Stretti di Escati. Se avessimo avuto un po' di buon senso saremmo tornati indietro e avremmo fatto il giro largo, non
hanno ancora chiuso quella strada, per quel che ne so, oppure saremmo potuti rimanere fermi ad Ap' Amodi finché le acque non si fossero calmate. Ma no, dovevamo fare i furbi e forzare il blocco. E invece ci siamo schiantati sulle rocce, e poi ci siamo imbattuti in una pattuglia, ed eccoci qui: in una palude.» Capisco. Davvero una bella sfortuna. Vorrei tanto potervi aiutare. «Lo vorrei anch'io» disse Gannadius. «Ma non puoi e basta. In ogni caso, come ti vanno le cose? Tutto bene?» Alexius (non era lui, naturalmente: non nel senso comprensibile, anche se si trovava lì) scrollò le spalle sottili. Non c'è malaccio. Un lanciere morente barcollò verso di lui, che si fece da un lato per lasciarlo passare. Non dormo per niente bene, però. Faccio brutti sogni, sai com'è. «Anche tu? Fai questo sogno?» Non ultimamente: di fatto, non dall'ultima volta che ti ho visto qui. No, immagino di aver sognato l'assedio di Ap' Escatoy. La connessione Loredan, presuppongo, anche se non riesco a ricordare di averlo visto. Ricordo solo una serie di gallerie buie decisamente spiacevoli, con il tetto che crolla e persone che combattono nell'oscurità. Adesso l'assedio è finito, e forse smetteranno. «Speriamo» disse Gannadius cercando di sembrare comprensivo. «Sono lieto di dire che io non ho...» «Zio?» Gannadius aprì gli occhi. «Cosa? Oh, sei tu.» Il ragazzo lo guardò. «Stavi parlando a qualcuno» disse. «Davvero?» Gannadius assunse un'aria indifferente. «Probabilmente stavo sognando. Mmm, cosa stavo dicendo?» Il ragazzo sorrise. «Non ne ho la minima idea» rispose. «Stavi mormorando, credo in un'altra lingua. Lo fai spesso? Parlare nel sonno, intendo.» Gannadius si accigliò. «Non ne ho idea» disse. «Sai, anche se lo faccio, dormo e non mi accorgo di farlo.» CAPITOLO TERZO «Allora sei tu, vero?» chiese l'impiegato guardando di traverso lungo il suo naso. «L'eroe.» Sul cornicione della finestra c'era uno scorpione: una femmina, con i piccoli appena nati aggrappati alla sua schiena. Bardas ne contò nove. L'animale fece rapidamente qualche passo, si fermò e rimase immobile, con le
tenaglie alzate. L'impiegato non lo notò o non se ne preoccupò. «Sono io» disse Bardas. «O almeno sono Bardas Loredan, e sono stato definito in modi ben peggiori.» L'impiegato sollevò un sopracciglio. «Ma bene. Hai anche senso dell'umorismo. Andrai d'accordissimo con il prefetto, che ha un enorme senso dell'umorismo. Almeno» aggiunse «fa delle battute. È più un creatore di battute che un consumatore, se capisci quello che voglio dire.» Bardas annuì. «Grazie.» L'impiegato fece un piccolo gesto di diniego con le dita lunghe ed eleganti. «Abbiamo saputo tutto di te. Naturalmente sei un uomo interessante.» Cercò di schiacciare una mosca senza guardarla: e ci riuscì. «Il prefetto colleziona uomini interessanti. È uno studioso della natura umana.» «È una cosa interessante da studiare» disse Bardas. «Così mi hanno detto.» Lo scorpione riprese ad avanzare, ma l'impiegato l'intravide con la coda dell'occhio, prese un righello di ebano dalla scrivania pieghevole davanti a sé, si piegò e lo schiacciò forte con la parte piatta, riducendo l'animale e i nove piccoli a un ammasso appiccicaticcio e compatto. «È tutto a posto» continuò l'impiegato togliendo i resti dal cornicione «non sono affatto pericolosi come le persone sostengono. Certo, se pungono ci sono ottime possibilità che una persona si gonfi per un giorno, e che la parte colpita faccia terribilmente male. Ma è rarissimo che qualcuno muoia.» «Buono a sapersi» disse Bardas. L'impiegato pulì il righello contro un arazzo da parete e lo mise di nuovo sulla scrivania. «Quindi eri un avvocato-spadaccino. Ne ho sentito parlare. Eri solito uccidere le persone per derimere le vertenze giudiziarie.» «Esatto» disse Bardas. «Una circostanza decisamente notevole. Be', immagino che ci sia molto da dire, per affrontare questo genere di cose. È un metodo più rapido del nostro, probabilmente più giusto, e sicuramente meno doloroso e duro per i partecipanti. Però non è certo la maniera con cui io sceglierei di guadagnarmi da vivere.» «Ha avuto i suoi momenti» rispose Bardas. «Era sicuramente meglio che scavare miniere, immagino.» «La maggior parte delle cose lo sono.» «Ti credo.» L'impiegato estrasse un coltello corto e sottile e cominciò a fare la punta a una penna. «Scoprirai che il prefetto è un uomo piuttosto giusto; è molto imparziale, per essere un ufficiale dell'esercito. Se ti com-
porterai lealmente con lui, lui farà altrettanto con te.» «Lo terrò bene a mente» disse Bardas. Attraverso la finestra arrivò l'odore di un fiore forte e dolce... una pianta del pepe, probabilmente; Bardas aveva notato che le pareti della prefettura ne erano coperte. C'era anche un persistente odore di profumo, proveniente dai bastoncini che bruciavano in quei luoghi per nascondere gli altri odori forti e dolci. Un uccello gracchiava dal parapetto sopra la finestra. «Naturalmente la maggioranza degli ufficiali anziani...» L'impiegato non finì la frase, perché la porta si aprì ed entrò un uomo in uniforme (con dei gambali marrone scuro, gorgiera di acciaio, spallacci simili a quelli di un manichino, decorazioni e alamari) entrò e avanzò senza guardare nessuno dei due uomini. «Ti vedrà adesso» disse l'impiegato, e rivolse la sua attenzione alle carte che si trovavano sulla scrivania. Bardas si alzò e camminò nell'ufficio. Il prefetto era un uomo grosso, persino per lo standard dei Figli del Cielo; più scuro della maggior parte di coloro che Loredan aveva visto ad Ap' Escatoy, il che suggeriva che l'uomo proveniva dalle province interne, e che era un uomo importante. Era calvo e aveva la barba corta e curata. Gli mancava la falange superiore del mignolo sinistro. «Bardas Loredan» disse. Bardas annuì. «Si sieda, prego.» Il prefetto lo esaminò per un momento, e poi annuì verso la sedia vuota. «Presumibilmente ha un certificato da parte del suo ufficiale comandante di Ap' Escatoy.» Bardas estrasse il piccolo cilindro di ottone da una manica e glielo porse. Il prefetto tolse con cautela i cappuccetti e tirò fuori il rotolo di carta con la punta del dito mutilato. «La prego, abbia pazienza» disse mentre lo srotolava, e quando lo lesse lo fece con molta concentrazione. «La sua è una carriera affascinante» disse infine. «Era il secondo al comando dell'esercito di Maxen.» Bardas annuì. «È veramente una circostanza notevole» disse il prefetto. «E poi i suoi anni come avvocato-spadaccino... un'occupazione decisamente affascinante... seguiti dal suo breve servizio come colonnello-generale di Perimadeia.» Alzò lo sguardo. «Ho letto alcuni scritti al riguardo, naturalmente. Un'ottima difesa, date le circostanze. E l'assalto finale è stato reso possibile unicamente dal tradimento, quindi non è stata certo colpa sua.»
«Grazie» disse Bardas. «E dopo di ciò» continuò il prefetto «ha avuto un ruolo un po' in ombra nella guerra tra l'Ordine di Shastel e Scona; be', non entreremo nei dettagli, visto che si è trattato di una sequenza di eventi davvero insolita, a detta di tutti.» Smise per un attimo di parlare, ma Bardas non disse nulla, così il prefetto continuò: «In seguito si è arruolato da privato nell'ufficio provinciale e ha trascorso... vediamo... tre anni, più o meno una settimana, nelle trincee di Ap' Escatoy: una missione di lavoro davvero illustre.» Guardò di nuovo Bardas, senza alcuna espressione rivelatrice del suo pensiero. «Si tratta in gran parte di situazioni da leggenda» disse. «Non sembrava così al tempo» disse Bardas. Il prefetto rifletté per un attimo e poi rise. «No, certamente. Vediamo... cos'altro abbiamo qui? Ah sì, suo fratello Gorgas; lo stesso Gorgas Loredan che organizzò il colpo di stato militare nel Mesoge. È chiaro che fare il soldato è una caratteristica della vostra famiglia. Si tratta di un'altra carriera di rilievo, senza alcun dubbio. E suo fratello è molto astuto, dal punto di vista strategico. L'importanza del Mesoge come teatro potenziale di scontro è stata decisamente sottovalutata, a mio parere.» Bardas rifletté per qualche attimo. «Questo è ciò che lei pensa di Gorgas» disse. «Ma è mia sorella l'intelligente di famiglia.» Il prefetto sorrise di nuovo. «Lo pensa davvero? Creare un'azienda florida e poi perderla così rapidamente, in seguito a una serie di vicende piuttosto stupide? Be', naturalmente non posso dire di conoscere tutti i fatti.» Smise per un attimo di parlare, e poi continuò. «Tutto sommato è un curriculum notevole per un sergente del genio. Confesso che sono curioso di sapere come un uomo del suo talento e della sua esperienza sia arrivato a entrare nell'ufficio provinciale. Avrei pensato che avrebbe trovato qualcosa di più interessante.» «Be', sa come vanno le cose» disse Bardas. «Le guerre sembrano inseguirmi, ogni volta che mi stabilisco in un luogo. Così stavolta ho pensato di andare io a cercarne una, prima che fosse lei a trovare me.» Il prefetto lo guardò come se non avesse capito. «È una prospettiva interessante. In ogni caso il suo servizio durante l'assedio di Ap' Escatoy merita sicuramente una ricompensa tangibile, e l'ufficio provinciale conosce quanto sia importante prendersi cura di coloro che vi appartengono. Dovrebbe essere possibile trovare un incarico che costituisca una ricompensa per lei e che permetta di sfruttare meglio il suo talento rispetto al lavoro nelle miniere.» Guardò di nuovo il foglio di carta che aveva di fronte a sé.
«Vedo che ha esperienza pratica nel settore manifatturiero» disse. «Costruivo archi» rispose Bardas. «Era bravo a farlo?» «Piuttosto» disse Bardas. «Molto dipende da riuscire a ottenere i materiali giusti.» Il prefetto si accigliò e poi annuì. «Giusto. Il nostro ufficio degli approvvigionamenti è particolarmente attento ad assicurarsi che tutte le nostre specifiche vengano correttamente rispettate. E naturalmente» continuò «siamo altrettanto fiscali quando si tratta del controllo della qualità. È per questo che il palazzo delle prove rappresenta una parte tanto importante della procedura manifatturiera.» «Il palazzo delle prove» ripeté Bardas. «Mi dispiace, ma non so cos'è.» Per qualche motivo quell'affermazione sembrò divertire il prefetto. «Non c'è motivo per cui debba saperlo» disse. «È un dipartimento alquanto specializzato. Essenzialmente il palazzo delle prove è il luogo in cui testiamo le armature che forniamo ai nostri soldati. È una sottodivisione dell'armeria di distretto di Ap' Calick, anche se testiamo i campioni provenienti dalle province di tutto l'Impero occidentale.» Il prefetto tamburellò con le dita sulla scrivania, con un ritmo rapido e regolare. «C'è un posto libero da vice ispettore ad Ap' Calick. È l'equivalente in grado di sergente maggiore, quindi rappresenterebbe una promozione significativa; ovviamente non si tratta di un posto di combattimento, ma ritengo che dopo essere stato così a lungo in prima linea il cambiamento potrebbe esserle gradito. Soprattutto, la combinazione delle dimostrate capacità amministrative e dell'esperienza di combattimento che rivela il suo curriculum, fanno di lei una scelta assolutamente logica per questo compito. Ammesso» aggiunse il prefetto con un sorriso «che incontri la sua approvazione.» Bardas alzò lo sguardo. «Oh, sicuramente» disse. «Qualsiasi occupazione che escluda l'uccisione di persone in gallerie buie per me andrà benissimo. Grazie.» Il prefetto lo guardò, con la testa leggermente piegata da un lato, e con l'aria di un uomo che rinunciava con riluttanza a risolvere un problema. «È un piacere per me» disse. «Se vuole ripassare domani, dopo mezzogiorno, il mio impiegato dovrebbe avere pronti il suo certificato e i documenti di viaggio. Può utilizzare il corriere postale per arrivare sul luogo... non che vi sia urgenza, ma può trattarsi di un viaggio disagevole con i mezzi convenzionali.» Il prefetto si alzò in piedi, indicando che il colloquio era terminato. Bardas fece la stessa cosa. «Buona fortuna, Sergente Loredan.
Sono sicuro che lei svolgerà un lavoro eccellente ad Ap' Calick.» «Farò del mio meglio» rispose Bardas. Aprì la porta e poi esitò. «Mi scusi» disse «solo una rapida domanda. Come si svolge il lavoro di prova delle armature?» Il prefetto allargò le braccia. «Proprio non lo so» rispose. «Immagino simulando il genere di sforzo e di danno al quale, probabilmente, si troveranno sottoposte in un combattimento vero.» Bardas annuì. «Si colpiscono con le spade» disse. «Deve trattarsi di una cosa del genere. Dovrebbe essere divertente. Grazie.» Chiuse la porta dietro di sé prima che il prefetto potesse aggiungere altro. Naturalmente Bardas sapeva tutto del corriere postale. Tutti nell'Impero vi si erano imbattuti e, di solito, mentre cercavano di togliersi precipitosamente dalla sua strada. I cavalli della posta, come tutti sapevano, non si fermavano di fronte a niente: avevano esplicitamente il permesso di calpestare chiunque non riuscisse a togliersi dalla loro strada sufficientemente in fretta, e gli addetti alle consegne sembravano deliziarsi nel cogliere ogni opportunità per esercitare questo privilegio. «Tre soste al giorno per cambiare i cavalli» gli disse in tono allegro il capo corriere «e altre due di notte; portiamo il cibo e l'acqua con noi, e se vuoi pisciare, lo fai a lato della carrozza. È questo tutto ciò che porti?» Bardas annuì. «Solo lo zaino» disse. «Nessuna armatura?» «Sono un geniere» spiegò Bardas. «Non ci prendiamo la briga di indossarla nelle miniere.» Il corriere scrollò le spalle e diede agli uomini della scorta il segnale di montare. «Giusto» disse. «Una volta tanto c'è un po' di spazio in carrozza: non c'è molto traffico sulla linea oggi. Puoi sedere a cassetta con me, oppure stenderti sul retro se riesci a trovare posto: la scelta è tua.» Bardas salì, poggiandosi sulla barra orizzontale della ruota anteriore come aveva visto fare al corriere. «Andrò davanti, per cominciare» disse «mi darà l'opportunità di ammirare il panorama.» Il corriere rise. «Sei il benvenuto. Spero che ti piacciano le rocce, perché vedrai solo queste finché non passeremo Tollambec.» La carrozza era una magnifica opera d'ingegno: ampia e bassa davanti, con enormi ruote dietro ricoperte di uno spesso strato di ferro e pulegge di molle d'acciaio grandi come aste di balestre. «Le curve sono una delizia» gli disse il corriere. «È quasi impossibile ribaltarsi, a meno che non ci si
provi con ogni sforzo. È anche costruita per durare a lungo» aggiunse dando una pacca con il lato della mano carnosa a lato della cassetta. «Be', devono esserlo, visto il carico di lavoro che svolgono. Ci chiamano il flusso di sangue dell'Impero.» Bardas annuì. Sul retro vide giare di vino con bizzarri disegni sui sigilli, balle di tessuti diversi dall'aspetto costoso, alcuni mobili vagamente riconoscibili sotto il telo in cui erano avvolti, un barile di frecce costruite da civili e tre o quattro ceste di legno sigillate. «Rifornimenti essenziali e cose del genere» disse. «È evidente la necessità di un sistema come questo.» Una volta lasciato l'accampamento, il corriere frustò i cavalli portandoli al galoppo, circostanza che rese ben presto la carrozza troppo rumorosa e disagevole per fare qualsiasi cosa di diverso dal rimanere seduti immobili e in silenzio. Il panorama era, come promesso, un sistema interminabile di pareti rocciose. Ogni tanto la carrozza sfrecciava oltre gruppi di uomini e muli che si trovavano dove passava; allontanavano lo sguardo e cercavano di appiattirsi contro le rocce mentre la carrozza passava, come genieri nelle miniere. «Tu sei l'eroe, vero?» urlò il corriere. «Suppongo di sì.» «Cosa? Non riesco a sentirti.» «Sì» gridò Bardas. «Suppongo di sì.» «Bene. A ognuno il suo, immagino» gridò il corriere e le rocce fecero rimbalzare la sua voce avanti e indietro come bambini che fanno rimbalzare una palla. «Non sarebbe adatto a me, tutto quello strisciare nel buio.» «Nemmeno a me.» «Cosa?» «Ho detto che non era adatto nemmeno a me» urlò Bardas. «Non è certo questa la mia idea del divertimento.» Il corriere fece una smorfia. «Non dovresti dire questo» ruggì. «Sei un dannato eroe.» Bardas non ebbe l'energia per rispondere a tono. «Penso che mi stenderò sul retro» urlò. «Accomodati.» Fu un lavoro delicato quello di spostarsi dalla cassetta e strisciare attraverso il carico fino a trovare una nicchia della grandezza di un uomo in cui potersi infilare. Sorprendentemente, nonostante il rumore e i sobbalzi della carrozza, non passò molto tempo che si addormentò. Quando si svegliò il corriere era in piedi davanti a lui e sorrideva. «Sve-
gliati» disse. «È il primo cambio. Sgranchirei le gambe se fossi in te... la prossima tappa è molto in là.» Bardas borbottò e cercò di alzarsi in piedi, ma la cosa si dimostrò più difficile di quanto si aspettasse. Quando ebbe ritrovato abbastanza sensibilità nelle gambe per scendere dalla carrozza, i guardiani della diligenza avevano già tolto le briglie ai vecchi cavalli e le avevano messe a quelli che li sostituivano, con i mantelli maltinti, e le criniere e le code tagliate corte. Ognuno era marchiato con il simbolo dell'ufficio provinciale e un numero di serie, abbastanza grande da poter essere leggibile a una certa distanza. Il corriere si stava bagnando la testa e le spalle con l'acqua di un secchio di pelle. «Vuoi rinfrescarti?» urlò. «Toglie un po' di polvere.» Bardas guardò verso il basso; non aveva notato quanto fosse impolverato e sporco. «D'accordo» rispose; allora il corriere immerse il secchio in una botte piena d'acqua e glielo passò. L'acqua era leggermente torbida per la presenza di un po' di sedimento. «È ora di andare» gli disse il corriere, e si girò per urlare un messaggio a uno degli uomini della scorta; Bardas non capì cosa stesse dicendo. I guardiani della diligenza avevano finito il cambio dei cavalli e stavano strisciando sotto la carrozza per spalmare sulle assi del grasso, preso da grosse vaschette di argilla, e per controllare le coppiglie. «Farai meglio a salire» continuò il corriere. «Partiremo appena avranno finito, che tu sia a bordo o no.» Bardas salì a cassetta. Si era appena messo in posizione quando la carrozza si mosse. Come il corriere aveva detto, il tratto successivo sembrò durare in eterno. Le strade imperiali erano famose per essere dritte e piane; gli ingegneri dell'ufficio provinciale tagliavano una solida e alta collina solo per provare di poterlo fare. Bardas osservò il carico accatastato accanto a lui: giare di datteri, fichi e ciliegie conservate nel miele, poggiapiedi e cappelliere, portalibri (molti) e tubi di ottone che contenevano dipinti di seta arrotolati; sembrava uno sforzo davvero grande quello di tagliare il centro di una montagna in modo che un prefetto potesse avere acini freschi e l'ultima antologia di versi di circostanza; ma l'Impero poteva fare questo genere di cose, quindi perché non farle? Tanto più che non si trattava certo di colline particolarmente belle a vedersi. Alla terza tappa della giornata la carrozza prese a bordo un altro passeggero. «Spostati» disse la donna. Bardas la guardò e si spostò.
«Ho portato da mangiare» continuò la donna, cercando in un enorme cestino di vimini che entrava giusto nella fessura tra le scatole accatastate e legate con le corde. «Ho fatto questi percorsi troppe volte per avvelenarmi con le razioni del governo.» Tirò fuori dal cestino, come un ratto che esce da un buco nel muro, un pacchetto piccolo e piatto fatto di foglie di vite. Tra le pieghe filtrava del miele. «Naturalmente occorre avere uno stomaco come una cloaca per non vomitare su una carrozza della posta» continuò la donna. «Tutti questi sobbalzi e queste sbandate sono terribili per uno stomaco pieno: è decisamente peggio che trovarsi su una nave, te lo assicuro.» La donna era piccola, con i capelli grigi e gli occhi scuri, imbacuccata in uno spesso mantello di lana con un alto colletto di pelliccia, fissato al collo con una spilla dall'aspetto minaccioso. Bardas, che per il caldo era rimasto in camicia, non poté fare a meno di fissarla: non sudava affatto. «Tu pensi che indosso indumenti troppo pesanti» disse senza alzare lo sguardo, mentre le sue dita piccole e piegate afferravano il laccio del pacchetto. «Aspetta di aver trascorso un paio di notti sulla strada, e desidererai di aver portato qualcosa di più pesante di quello che hai indosso. Sei dell'esercito?» Bardas annuì. «Lo pensavo. Be', non ci vuole una mente analitica per capirlo... per quale altro motivo si troverebbe... be', uno come te su una carrozza del governo? Non che la cosa mi dia fastidio. È solo che non c'è spazio per questo genere di atteggiamenti adesso, se siamo veramente un unico Impero e cose di questo genere. Oserei dire che tra vent'anni, più o meno, nessuno ci penserà più. Ed è giusto così, se vuoi il mio parere. È come questa credenza dei Figli e delle Figlie del Cielo: noi non ci crediamo più, neanche tu (o se lo fai sei molto più ingenuo di quanto pensassi), quindi in realtà, dov'è lo scopo? Le persone sono persone, tutto qui.» Tolse le foglie di vite per mostrare una grossa fetta di torta, del miele liquido che gocciava e delle briciole di nocciole. «Non esiste un modo educato per mangiare questa roba» disse «quindi al diavolo. Ecco qua.» Aprì la bocca più che poté, ci infilò un quarto della torta e cominciò a masticare. «Non male» continuò, non appena ne ebbe ingoiata a sufficienza per poter parlare «anche se sono io a dirlo. A dire il vero questa torta era per mio figlio che si trova a Daic, ma non gli mancherà mai ciò che non aspetta di ricevere. Non parli molto, vero?» «Preferisco ascoltare» rispose Bardas. «È un atteggiamento molto sensato» disse la donna. «Abbiamo una bocca e due orecchie, come era solita dirci mia madre quando eravamo bam-
bini. Dove stai andando?» «A Sammyra. A quanto sembra cambio carrozza lì per Ap' Calick.» La donna stava masticando. «Ap' Calick» disse. «Ero solita passare di lì quando ero più giovane. Il direttore del mattonificio del governo era un ottimo cliente. Vendevo profumo» aggiunse per spiegare. «Sono stata vent'anni in quel commercio, quando i miei figli erano piccoli; seguii le orme di mio padre quando avevo diciassette anni, e comperai entrambe le quote dei miei fratelli quando ne ebbi venti. Spero che mia figlia più piccola seguirà le mie orme a tempo debito: è molto brava dal lato della produzione, ma non le piace viaggiare. Per me invece è proprio il contrario, così lavoriamo bene insieme. Mio figlio odia il fatto che io stia sempre in viaggio, naturalmente; credo pensi che sia disdicevole per lui, ma a chi diavolo importa? Tuttavia, non nego che avere un figlio nella commissione per le strade rappresenta un grande aiuto. Tanto per cominciare, posso scroccare un passaggio sul corriere postale ogni volta che mi serve, e questo è davvero un grande vantaggio. Non sono sicura che sarei ugualmente entusiasta della strada se dovessi procedere a dorso di mulo. Sei mai stato a Sammyra?» Bardas scosse la testa. «La conosco solo di nome.» La donna tirò su con il naso. «In realtà non è molto di più; è decaduta da quando hanno perso il commercio dell'indaco. Se hai tempo vale la pena visitare le terme, ma non mi preoccuperei troppo del mercato. Puoi trovare esattamente le stesse cose a Tollambec a metà prezzo.» Bardas annuì. «Lo terrò a mente» disse. «La cosa migliore di Tollambec» continuò la donna «è lo stufato di pesce. Solo il cielo sa come fa a piacere il pesce ai suoi abitanti, visto che vivono così lontano dal mare, ma io preferisco mangiare del pesce salato alla Tollambec piuttosto che pesce fresco, e non mi importa cosa pensano gli altri. Mangiate molto pesce nel luogo da dove vieni?» «Vivevo a Perimadeia» rispose Bardas. «Perimadeia» ripeté la donna. «Quindi c'erano molti merluzzi e sgombri, tonni e naturalmente anguille...» Bardas scrollò le spalle. «Non lo so, mi dispiace. Lo chiamavano semplicemente pesce. Era grigio e si mangiava con una fetta di pane.» La donna sospirò. «Per mio figlio è la stessa cosa» disse. «Non riconoscerebbe il buon cibo nemmeno se lo mordesse. È proprio un peccato... voglio dire, una parte così lunga della vita è dedicata a mangiare e bere. Se non si prova interesse in queste due cose è proprio uno spreco.»
«Immagino di sì.» Proprio come la donna aveva detto, non appena diventò buio, cominciò a fare freddo. Fortunatamente c'era una pelle di bue avvolta in un angolo della carrozza, e Loredan vi si infilò sotto. Gli uomini della scorta si fermarono e accesero delle lanterne, e poi continuarono a un ritmo di poco inferiore a quello che avevano tenuto durante il giorno. «Uno dei vantaggi di una strada diritta e piana» disse la donna «è che non importa se non si riesce a vedere dove si va.» Le razioni del governo, che la donna aveva criticato, consistevano in un lungo, grosso e piatto pezzo di pane d'orzo, aromatizzato con aglio e finocchio, in un pezzo di formaggio duro e in una cipolla. «Dicono che si può riconoscere una persona che è stata sulla carrozza postale a diversi metri di distanza» commentò la donna «solo dall'odore. Devi ammetterlo: è una combinazione piuttosto sgradevole.» Bardas sorrise, anche se naturalmente lei non poté vederlo. «Mi piace l'odore dell'aglio» disse. «Davvero? E... be', a ciascuno il suo, immagino. Bada bene, nel mio lavoro si vive e si muore in base al senso dell'odorato.» «Dev'essere strano» disse Bardas. «Lo è. Trovo interessante che la maggior parte delle persone lo dia per scontato. È decisamente il più pigro dei cinque sensi, anche se un piccolo addestramento può benissimo ovviare questa carenza. A proposito, mi chiamo Iasbar.» «Bardas Loredan.» «Loredan, Loredan... ho sentito questo nome. Non esiste una banca che si chiama così nel... dalle tue parti?» «Credo di sì.» «Questo spiega tutto. Hanno nomi nel luogo da dove provieni?» «È una cosa piuttosto comune» rispose Bardas. «Da dove vieni tu ne hanno tutti solo uno?» La donna rise. «È un po' più complicato di così» disse. «Vediamo... se io fossi un uomo mi chiamerei Iasbar Hulyan Ap' Daic: Iasbar per me, Hulyan per mio padre, Ap' Daic per il luogo di nascita di mia madre. Dato che sono una donna, mi chiamo semplicemente Iasbar Ap' Cander: l'idea è la stessa, ma Ap' Cander perché è il luogo di nascita di mio marito. Se non mi fossi sposata, sarei ancora Hulyan Iasbar Ap' Escatoy, che è il luogo in cui sono nata. Non ti preoccupare se sembra una cosa confusa» aggiunse, «i forestieri impiegano una vita per abituarsi alle sfumature.»
«Sei nata ad Ap' Escatoy?» chiese Bardas. «Sì, quando mio padre gestiva ancora un negozio lì. Per molto tempo ho avuto l'intenzione di tornarvi, ma ormai è troppo tardi. È un luogo strano in cui crescere.» «Davvero?» chiese Bardas. «Sì. Mangiavano una zuppa incredibilmente densa fatta di lenticchie e crema acida; eravamo soliti andare al mercato con uno di quegli enormi contenitori ricurvi pieno per un quarto; poi ci mettevamo seduti sui gradini della sala del mercato e bevevamo la zuppa mentre era ancora calda. Aveva qualcosa di particolare... un ingrediente speciale, ma non sono mai stata in grado di capire quale fosse. Naturalmente se solo avessi pensato di chiederlo a mia madre adesso saprei cos'era, ma non mi è mai passato per la mente. Be', è così che succede a quell'età, non credi?» Bardas si addormentò mentre la donna parlava. Quando si svegliò lei non c'era più e la carrozza si stava allontanando dopo l'ultima tappa della giornata. La donna gli aveva lasciato metà fetta della torta appiccicaticcia, ancora avvolta nella foglia di vite; ma i sobbalzi del trasporto l'avevano fatta cadere per terra, ed era coperta di polvere. «Temrai?» Si svegliò di colpo e aprì gli occhi. «Cosa c'è?» «Stavi sognando.» «Lo so.» Si sedette. «Mi hai svegliato solo per dirmi che stavo sognando?» Sua moglie lo guardò. «Ti stavi agitando e mugolando.» Temrai sbadigliò. «È ora che mi alzi» disse. «Kurrai e gli altri arriveranno presto e mi sento sempre un idiota a infilarmi in quell'affare quando mi guardano.» Tilden ridacchiò. «È davvero un'impresa da vedere» disse. «Non so perché ti prendi la briga di farlo, in verità.» «È per evitare di venire ucciso» rispose Temrai accigliato. «Non indosso l'armatura per divertimento, sai.» Fece dondolare le gambe giù dal letto e saltò sul pavimento della tenda andando verso il punto in cui si trovava l'armatura. «Gli uomini non si prendevano la briga di usarla» sottolineò Tilden «non prima che arrivassimo qui. In ogni caso non si preoccupavano di indossare tutto quell'armamentario.» Temrai sospirò. Detestava quella roba in gioventù: rendeva i suoi movi-
menti lenti e goffi, e questo lo faceva sentire stupido. Era convinto di compiere più errori in quel periodo proprio perché era coperto da tutto quel metallo. «Non so per te» disse indossando in fretta la maglia imbottita che formava il primo strato della protezione «ma qualunque cosa aumenti le mie possibilità di non venire ucciso va bene per me. Adesso, mi aiuti oppure devo fare tutto da solo?» «D'accordo» disse Tilden. «Sai, troverei più facile essere seria se questi affari non avessero dei nomi così stupidi.» Temrai sorrise. «Su questo sono d'accordo con te. Ancora non sono nemmeno sicuro di sapere il nome di tutte le varie parti. Secondo l'uomo che me le ha vendute, quest'affare è un besegew, ma tutti lo chiamano gorgiera. C'è differenza, mi chiedo? E in caso, qual è?» «Immagino che un besegew sia più costoso» disse Tilden «E perché non chiamarlo collo? In realtà è questo che è, solo è fatto di metallo. Ecco, stai fermo. Proprio non capisco perché non possono mettere delle fibbie più grandi su queste cinghie.» Il besegew, o gorgiera, rendeva piuttosto difficile respirare. «Non farebbero un soldo di danno» osservò Tilden «a mettere delle stringhe più lunghe.» Temrai avrebbe potuto sottolineare che se non fosse stato stretto sarebbe stato inutile indossarlo, ma decise di non farlo. Alla fine sarebbe stato in grado di togliersi quell'aggeggio di dosso. Kurrai, il capo degli ufficiali, e i suoi giovani uomini dal volto riposato arrivarono proprio mentre Temrai si stava infilando gli stivali («Ma non devi chiamarli così, sono uosa»). Kurrai indossava la sua armatura come se non avesse mai portato altro: il che, rifletté Temrai, poteva essere vero. «Sono ancora là» disse Kurrai. «Per quel che possiamo dire non si sono mossi affatto.» Temrai si accigliò. «Penso ancora che è troppo bello per essere vero» disse. Kurrai scrollò le spalle. «Immagino che siano semplicemente stupidi» rispose. «Onestamente, se si tratta di un astuto espediente, non riesco assolutamente a capire quale sia. Si trovano al centro di una pianura senza copertura, e senza un luogo dove poter nascondere un paio di squadroni di cavalleria pesante o altro che ci possa disturbare nell'azione. Per quel che posso vedere, sono lì seduti ad aspettare che andiamo a prenderli.» Si sedette su una sedia, che scricchiolò paurosamente. «Probabilmente sei soltanto troppo prudente.» Temrai scrollò le spalle. «Forse» disse. «Ho cercato di immaginare cosa
farei se fossi nei loro panni, e ammetto che non sono riuscito a trovare un comportamento più intelligente. Bada bene, spero di non trovarmi mai in quella situazione, tanto per cominciare.» «Loro credono nel coraggio individuale» disse Kurrai, grattandosi il naso «e nella giustezza della loro causa. Li massacreremo, vedrai.» Temrai fece un debole sorriso. In qualche modo trovava difficile eccitarsi all'idea di massacrare una piccola banda di persone che, fino a pochi anni prima, era stata parte della federazione delle pianure come lui. Erano stati accanto a lui quando aveva raso al suolo Perimadeia; l'avevano aiutato a costruire i motori a torsione, avevano perso molti amici e familiari quando Bardas Loredan aveva riversato su di loro del liquido bollente dalle mura. Ancora non capiva appieno perché avessero scelto di rivoltarsi contro di lui. Per quel che ne sapeva, avevano ragione riguardo al motivo, e lui aveva torto. Le cose erano cambiate una volta bruciata la città e stabilitisi sui confortevoli pascoli di fronte alle rovine; così era colpa sua, tutto considerato. In qualche modo ciò rendeva piuttosto spiacevole la prospettiva di una facile vittoria. Anche la parte riguardante la giusta causa gli dava un po' fastidio: lui aveva ottenuto una grande e illustre vittoria qualche anno prima, e allora aveva creduto che fosse per una giusta causa. Poi si era chiesto se esisteva una cosa del genere, e se così era, se si era a conoscenza che aveva prevalso. «Non diventiamo presuntuosi» disse alzandosi in piedi e sentendo il peso dell'armatura sulle spalle. «Le parole peggiori che un generale può pronunciare sono Come diavolo è successo?» Kurrai sorrise obbedientemente. «Non lo so. Come si fa a vincere le battaglie se si è esageratamente prudenti o presuntuosi?» «Non si fa, di solito» rispose Temrai. «Il più delle volte dipende da chi perde prima.» Caro zio aveva scritto. Le ci era voluto molto tempo e un grande sforzo per afferrare la penna tra i monconi delle dita, e lo scritto sembrava l'esercizio scolastico di un bambino. Caro zio. Il pensiero la fece sorridere. Scriveva a suo zio soprattutto per dare fastidio a sua madre, che voleva che lei non avesse niente a che fare con i suoi zii: non con i tre arrivati di recente al potere nel luogo in cui lei non era mai stata, ma che persino sua madre a volte distrattamente definiva come casa, e sicuramente non con l'altro suo zio, quello che lei era ancora determinata a uccidere un giorno, quando le si fosse presentata l'occasione.
Rimaneva il fatto che più di tutti si era sentita a casa quando viveva con lo zio Gorgas a Scona, in quel breve periodo di tempo prima che tutto inevitabilmente fosse distrutto, con un piccolo aiuto indiretto anche da parte sua. Caro zio. Guardò fuori dalla piccola e stretta finestra verso il mare. Stava diventando più difficile trovare dei messaggeri per portare le sue lettere, a causa dell'atteggiamento di sua madre, delle varie guerre e del ristagno generale del commercio tra l'Impero e le sue vittime potenziali. Finché era vissuto l'uomo dei tartufi era stato il corriere più affidabile, ma presumibilmente era uno delle non-si-sa-quante migliaia di morti nella caduta di Ap' Escatoy, quando l'altro suo zio, quello cattivo, aveva scavato sotto le mura come una talpa e le aveva fatte crollare su di sé. Nessuno sembrava voler prendere il posto di quell'uomo nel trasporto dei tartufi tra il Mesoge e Ap' Bermidan: i grandi signori dell'ufficio provinciale acquistavano i tartufi altrove ormai, a un prezzo più basso, e migliori per grandezza e freschezza. E senza l'affare dei tartufi, perché diavolo qualcuno doveva andare avanti e indietro dal Mesoge? Caro zio, non è successo molto qui dall'ultima volta che ti ho scritto. Davvero valeva la pena di sopportare tutti quei disagi per scrivere quelle cose? La ragazza ci pensò e decise che sì, ne valeva la pena, non fosse altro per quello sguardo astioso che sua madre le rivolgeva ogni volta che sospettava che avesse inviato una lettera (Cosa diavolo ci può essere in quelle lettere? La piccola cagna deve spiarmi, e gli invia i miei segreti; ma quali possono essere? Non mi ero resa conto di avere dei segreti che lui volesse sapere, ma evidentemente li ho, altrimenti non gli scriverebbe...). E inoltre non aveva davvero altro da fare. Molti anni prima, quando era una bambina, un vecchio amico di famiglia (dell'altra sua famiglia, non di questa; questa famiglia non aveva amici) le aveva raccontato storie di bellissime principesse che venivano rinchiuse nelle torri dalle loro matrigne malvagie. Inevitabilmente, come la notte segue il giorno, c'era sempre un bellissimo e giovane eroe che si faceva strada con l'inganno o con la forza nella torre e salvava la principessa; era così che andavano le cose, e questo spiegava perché le principesse rimanevano tranquille e serene, sapendo che prima o poi sarebbe arrivato un principe e tutto sarebbe finito come doveva finire. Quando era una bambina, aveva pensato che sarebbe stato bello essere una di quelle principesse, nella torre (nessuno la guardava con durezza e le ordinava di tenere tutto in ordine) e con la rassicurante consapevolezza che il principe che le era de-
stinato probabilmente stava per giungere. Quei racconti erano morti lo stesso giorno in cui il suo cattivo zio aveva ucciso l'altro suo zio, il fratello di suo padre, l'uomo al quale lei era stata promessa in matrimonio sin da piccola, quando ascoltava i racconti delle fate. La ragazza in seguito non aveva più pensato a quelle storie, finché non si era ritrovata in quella torre... una torre che dava sul mare blu scuro di Ap' Bermidan. Naturalmente lei non era una principessa: sua madre era solo una commerciante, anche se molto ricca (o almeno lei supponeva che lo fosse, perché non aveva modo di saperlo, rinchiusa lì come una sepolta viva). La situazione però era piuttosto simile e le faceva venire in mente quei racconti, e il suo desiderio era diventato orribilmente vero. Forse era per questo che era così importante scrivere a suo zio: se c'era qualcuno che l'avrebbe potuta salvare era lui, con ogni probabilità; e, poiché la ragazza era realista, non esitava a scrivergli. Riflettendo sulla questione, riteneva che il motivo principale era di dare fastidio a sua madre: tutto il resto era incidentale. Anche definire un principe suo zio Gorgas costituiva decisamente un allargamento del concetto. Certo, rispondeva all'idea generale sotto alcuni punti di vista: governava la nazione in cui viveva (anche se tecnicamente questa circostanza faceva di lui un re, non un principe); ma c'erano molte altre parole cattive per descrivere ciò che suo zio Gorgas era. O ciò che era per tutti gli altri... per le persone normali. Sentì dei passi per le scale e imprecò sottovoce. Con la mano invalida era terribilmente difficile togliere di mezzo lo scritto in tempo: sarebbe bastata una svista per rovesciare la boccetta d'inchiostro, lasciando una macchia rivelatrice sul pavimento, oppure per far cadere una penna a terra... c'erano moltissimi modi in cui Iseutz poteva commettere un errore e farsi scoprire, fornendo infine a sua madre la scusa che cercava per stringere la catena; non avrebbe più potuto ricevere visite, né mercanti e commercianti avrebbero più avuto il permesso di andare a trovarla... il che avrebbe significato niente più carta, penne e inchiostro, e niente più libri. Era appena riuscita a togliere la carta di mezzo mettendola sotto il letto quando qualcuno bussò alla porta. «Un momento» urlò la ragazza. Be', in ogni caso non era sua madre, visto che non bussava mai prima di entrare in una stanza. «Va bene, avanti.» Ma era solo il portiere: il grosso uomo dall'aspetto assonnato che si trovava tra lei e il resto del mondo, quando non le puliva le scarpe o le cucinava la minestra. Era abbastanza innocuo, e troppo stupido per riconoscere
una bottiglietta d'inchiostro o un temperino, se ne vedeva uno. «Cosa c'è?» chiese la ragazza. «C'è un uomo che vuole vederla» rispose il portiere, e dietro le sue spalle Iseutz vide uno di Loro, i Figli del Cielo, avvolto in uno stravagante mantello da viaggio blu scuro con una spilla dorata che evidenziava il suo rango, se ci si intendeva di queste cose. «Va bene» disse. Il portiere si spostò di lato e il visitatore entrò. Era anziano, alto e magro, come la maggior parte di Loro, con i capelli brizzolati attaccati alla testa come pezzetti di ragnatela. Si guardò intorno senza dire nulla, e poi si sedette senza che gli venisse permesso di farlo. «Iseutz Loredan?» chiese. La ragazza annuì. «E lei è?» «Il Colonnello Abrain. Ho un mandato da parte del prefetto di Ap' Escatoy.» L'uomo non sembrò avere alcuna fretta di mostrarlo, e Iseutz non si preoccupò di chiedere di vederlo. «Viene da molto lontano, allora. Cosa vuole il prefetto da me?» domandò. Il visitatore la guardò di nuovo, come se la ragazza fosse un problema matematico o un complicato diagramma algebrico. «Lei ha uno zio» disse «Bardas Loredan. Ha ripetutamente minacciato di ucciderlo. Il prefetto vorrebbe saperne di più su di lui.» La ragazza si accigliò. «Immagino che non mi dirà il perché» disse. «Glielo dirò, se vuole» rispose l'uomo. «Penso che lei abbia saputo della caduta di Ap' Escatoy e del ruolo che suo zio ha giocato in essa.» «Naturalmente. Tutti lo sanno.» Iseutz rifletté un attimo. «Vediamo» disse. «Lo zio Bardas adesso è un eroe di guerra, e voi non volete che io lo uccida. Fuochino?» La ragazza osservò l'uomo mentre cercava di capire l'espressione che non gli era familiare. «Il prefetto non la vede come una minaccia, se è questo che intende» rispose. «E anche se è vero che il sergente Loredan si è distinto...» «Sergente Loredan.» L'uomo sembrò seccato. «È l'attuale rango nell'ufficio provinciale» disse. «Immagino che lei sia solita pensare a suo zio come colonnello Loredan. Be', nell'ufficio provinciale il grado viene guadagnato, non conferito automaticamente in base all'ultimo impiego di un individuo.» «Mi sembra una cosa ragionevole» approvò Iseutz. «Allora, cosa volete
sapere sul sergente Loredan?» L'uomo si mosse sulla sedia in un modo che rivelò che aveva una gamba malandata: poteva trattarsi di artite o di un'onorevole ferita di guerra. «Il prefetto vorrebbe sapere quanti più particolari possibili sul rapporto tra suo zio Bardas Loredan e il barbaro Re di Perimadeia, Temrai. Sa che il loro reciproco antagonismo risale a prima della Caduta della Città. È anche interessato ad avere notizie sul servizio di Bardas Loredan con il Generale Maxen; sembra probabile che la sua esperienza nel combattere le tribù delle pianure potrebbe essere d'aiuto all'Impero nel caso di una guerra tra loro e noi.» Iseutz scrollò le spalle ossute. «Perché chiedere a me?» disse. «Se pensate che io e mio zio abbiamo trascorso lunghe e intime serate a chiacchierare accanto a un fuoco nelle quali lui mi raccontava della sua vita interessante... avete sbagliato famiglia. Non sapevo nemmeno che fosse mio zio finché non mi ha fatto questo.» Sollevò la mano storpia; il Figlio del Cielo la guardò e aggrottò le sopracciglia. «Sì, so che ha combattuto contro le tribù quando faceva parte dell'esercito di Maxen; Maxen fece delle cose terribili, ed è per questo che Temrai ci odiava tanto. E sono portata a pensare che zio Bardas probabilmente sappia meglio di chiunque altro come annientare le tribù. Ma lei questo lo sapeva già prima di venire qui.» Il Figlio del Cielo annuì. «E non ha altro da offrire come chiarimento o dato supplementare?» «Mi dispiace.» Il piccolo e preciso gesto delle mani dell'uomo suggerì che la giustificava. «Capisco che lei sia in pessimi rapporti con suo zio Bardas» disse. «Ma so che il suo rapporto con suo zio Gorgas va decisamente meglio. Lei gli scrive regolarmente.» «Sì. Come fa a saperlo?» L'uomo indicò la mano della ragazza inclinando leggermente la testa. «Scrivere le è evidentemente difficile, ma lei compie comunque questo sforzo. Chiaramente è piuttosto legata a suo zio Gorgas.» Iseutz sorrise. La maggior parte delle persone guardavano da un'altra parte quando lei sorrideva, ma non il Colonnello Abrain. «In un certo senso» disse la ragazza. «Io rappresento l'unico familiare che ha, dato che mia madre l'ha tradito e zio Bardas ha ucciso suo figlio. Oh, ha altri due fratelli nel Mesoge, naturalmente... mi stavo dimenticando di loro. Sono molto facili da dimenticare.» «Mi parli di lui» disse il Colonnello Abrain.
Iseutz scosse la testa. «Non penso che lo farò. A meno che lei non mi dica perché è interessato a lui.» «Trovo tutta la sua famiglia affascinante» rispose imperturbabile il Figlio del Cielo. «Sono uno studioso della natura umana.» «Davvero.» «È una vera e propria passione tra la mia gente.» Mise le dita a campanile. «Più esattamente, suo zio ci ha avvicinati con lo scopo di formare un'alleanza contro Re Temrai. Ovviamente desideriamo parlare con quanti gli sono più vicini, prima di prendere una decisione sulla sua proposta.» Iseutz rifletté un momento. «Be'» disse «non penso che ciò che posso dire di lui possa nuocergli. Facciamo così: lei mi rivela quello che già sa, e io colmerò le lacune.» Il colonnello accennò un sorriso. «Come desidera. Sappiamo che da giovane ha fatto prostituire sua sorella e poi ha ucciso suo padre e suo cognato quando hanno scoperto ciò che aveva fatto. Ha anche cercato di uccidere la sorella, ma non c'è riuscito. Nella stessa circostanza ha ucciso suo padre; è così?» Iseutz annuì. «E esatto. Sapete davvero molte cose, voi.» «Andiamo orgogliosi della nostra attenzione per i dettagli. Dopo aver commesso questi omicidi, è fuggito dal Mesoge e ha trascorso parecchio tempo come pirata e mercenario, finché sua sorella, sua madre, creò la Banca di Scona; lui la raggiunse e lavorò per lei come capo delle forze di sicurezza della Banca; in questa veste, ci è sembrato di capire, ha aperto i cancelli di Perimadeia alle forze di Re Temrai, permettendo che la città venisse catturata e rasa al suolo. Tre anni fa scoppiò la tensione tra la Banca e l'Ordine di Shastel; Gorgas Loredan condusse una difesa eccezionale, considerata la disparità delle forze e degli armamenti tra gli eserciti dell'Ordine e della Banca, ma nonostante due importanti vittorie in battaglie campali, l'Ordine prevalse e Scona venne conquistata. Suo zio abbandonò l'isola immediatamente prima della sua caduta, portando con sé i resti dell'esercito di Scona; veleggiò direttamente fino al Mesoge e assunse il potere in quella zona. Dopo qualche contrasto iniziale, il suo regime è diventato apparentemente stabile, anche se ora è piuttosto difficile ottenere informazioni attendibili dal Mesoge.» Aprì le mani e poggiò i palmi sulle ginocchia. «Questo riassunto è in linea di massima esatto?» «Sono impressionata» disse Iseutz. «Siete davvero bravi in questo, non c'è dubbio. Be', non ha però detto che il motivo per cui abbandonò la lotta e lasciò che Shastel marciasse su Scona è stato che alla vigilia dello scon-
tro con il loro terzo esercito, aveva già annientato gli altri due, come sa, zio Bardas uccise il figlio di zio Gorgas e mia madre se la svignò abbandonandolo; non vide perciò alcun motivo per prolungare l'agonia.» Il colonnello annuì. «Grazie. Cos'altro può dirmi su di lui?» Iseutz rifletté a lungo. «Immagino che si possa dire che è un'inquietante miscela di idealismo e pragmatismo. L'idealismo è costituito dal concetto di famiglia, che possiede nel suo intimo: è convinto che la famiglia sia la cosa più importante. Non penso che sia effettivamente così... intendo dire che penso che forse si illude quando dice queste cose, ma è ciò che sinceramente crede, penso.» Smise di parlare per un momento, e premette le labbra sul dorso della mano. «Il pragmatismo costituisce l'altro lato della medaglia. La sua filosofia è che ciò che è fatto è fatto, e che è inutile piangere sul latte versato... e che occorre ottenere il meglio dalla situazione in cui ci si trova e non lasciare che il passato ostacoli il futuro.» Fece un ampio sorriso. «Credo che si possa dire che porta questa particolare filosofia fino agli estremi. Ma lui è una persona piuttosto estrema.» Il Figlio del Cielo si stirò un po' sulla sedia: forse aveva un crampo. «Perché ritiene che abbia assunto il potere nel Mesoge?» «Per vari motivi, probabilmente.» Iseutz sospirò. «Ha visto una buona opportunità e l'ha colta. Il Mesoge era la sua casa: non c'era altro modo di tornarvi dopo ciò che aveva fatto, se non alla testa di un esercito, così vi ha portato un esercito. E penso che se qualcuno gli chiedesse perché l'ha fatto, direbbe che è per il bene della sua gente. E probabilmente ci crede anche, nel suo intimo. Questa è un'altra qualità che possiede: riesce a credere a quasi tutto, se deve crederlo.» «Perché dovrebbe combattere le tribù? Li ha aiutati a distruggere Perimadeia.» «Ah.» Iseutz annuì. «Questa è un'ottima domanda, ma se lei avesse prestato attenzione avrebbe già capito da solo qual è la risposta. Tradire la Città è stata una delle cose che hanno provocato l'odio di Bardas verso di lui... così ritiene che se combatte contro gli uomini delle pianure e uccide Temrai, questo fatto lo farà riconciliare con Bardas. Allo stesso tempo la circostanza farà piacere a voi, e se ha veramente l'intenzione di essere re del Mesoge avrà bisogno di amici... come voi, per esempio. Ma le questioni politiche sono solo accessorie. Bardas è il motivo principale. Bardas motiva la maggior parte delle azioni di Gorgas, quando non si trova a eseguire gli ordini di mia madre.» Il Colonnello Abrain si accigliò. «Si spieghi meglio» disse.
«Sono le due persone che ha ferito di più» rispose Iseutz. «Be', a dire il vero sono tre: mia madre, Bardas e me... in quest'ordine. Così sta cercando di riconciliarsi con noi da tempo: ha reso possibile che mia madre giocasse a fare il Dio Onnipotente a Scona, ucciderà Temrai per Bardas e... be', si occuperà di me in seguito.» Sbadigliò e si stirò come un gatto. «Se lei è uno studioso della natura umana, mio zio Gorgas è davvero un oggetto da collezione. È un uomo malvagio che trascorre la vita cercando di fare il bene della sua famiglia, oppure è un brav'uomo che ha fatto una sola azione veramente malvagia... o entrambe le cose. Come ho detto, sente il debito maggiore nei confronti di mia madre, perché è lei che ha ferito di più (a parte coloro che ha ucciso, naturalmente, ma questi sono morti, e quindi non può aiutarli). Ma Bardas è la persona a cui tiene davvero.» «Anche se Bardas ha ucciso suo figlio?» Iseutz scrollò le spalle. «Zio Gorgas ha un'infinita capacità di perdonare. Caratteristica che va contro l'ipotesi dell'uomo malvagio, proprio come il fatto di avere tradito e distrutto intere città va contro la teoria che sia un brav'uomo. Noi Loredan siamo un nucleo familiare complicato. Rappresentiamo più guai di quanto sia il nostro valore.» Il Figlio del Cielo si alzò, lentamente a causa della sua gamba malridotta. «Grazie» disse. «È stata di grande aiuto.» «Oh, di nulla.» Iseutz rimase dove si trovava. «Ma mi faccia un favore, se può. Cerchi un modo per rendere la vita difficile a mia madre: norme sulle valute, dogane, licenze d'importazione, qualcosa del genere. Odia questo tipo di cose.» «Mi dispiace» disse in tono austero il colonnello. «L'ufficio provinciale non funziona in questo modo.» «Davvero? Allora se lo dimentichi. Addio.» Quando se ne fu andato, Iseutz si sedette a terra, con la schiena contro il muro e le braccia strette intorno alle ginocchia, pensando al sogno ricorrente che faceva, in cui il Patriarca Alexius le diceva che, se voleva, poteva prendere un coltello affilato e tagliare via da lei la metà Loredan, lasciando solo la metà Hedin. Invariabilmente si svegliava subito prima di cominciare a tagliare. Non era mai riuscita a capire se si trattasse o meno di un incubo. «Chi era quello?» Iseutz alzò lo sguardo. «L'acchiappatopi» rispose. «L'ho mandato a chiamare. Questo luogo è pieno di ratti.» «Era dell'ufficio provinciale» disse. «Cosa voleva?»
«Se rispondi da sola alle tue domande, che bisogno hai di me?» Niessa Loredan camminò verso il punto in cui sua figlia sedeva e le diede un calcio nelle costole, sufficientemente forte da toglierle il fiato. «Chi era» chiese di nuovo «e cosa voleva?» Iseutz alzò lo sguardo. «Voleva sapere se ti piacciono i funghi» rispose. «Ho detto di sì.» Niessa le diede un altro calcio, piuttosto forte, e tirò via il piede prima che Iseutz potesse afferrarlo. «Non ho tempo da perdere con te adesso» disse. «Manderò Morz a portare via i tuoi libri e la lampada, e non pensare che avrai qualcosa da mangiare.» «Bene. Sono stufa della minestra.» Niessa si chinò. «Iseutz, non essere irritante. Cosa voleva?» Iseutz sospirò. «Voleva notizie su zio Bardas e zio Gorgas. Gli ho detto solo le cose che già sapeva. Non so nulla di più.» «Bene.» Niessa si drizzò in piedi. «Gli hai detto quello che voleva, dunque? Dobbiamo cooperare con queste persone: dipendiamo dalla loro benevolenza.» «Gli ho detto tutto quello che so.» Niessa annuì. «E non sei stata scortese o difficile? Be', certo che lo sei stata. Ma non l'hai attaccato o cose del genere?» «Madre!» disse Iseutz furiosa. «Per l'amore del cielo. Mi fai sembrare quasi una pazza. Cosa pensi che abbia fatto... che l'abbia inseguito per la stanza a quattro zampe per mordergli le caviglie?» Niessa camminò verso la porta e la aprì. «Dobbiamo cooperare» ripeté. «Le cose non sono state facili da quando ci siamo trasferite qui; ho dovuto lavorare molto duramente. Non permetterò che tu rovini tutto. Ci siamo capite?» «Perfettamente.» Di nuovo quello sguardo di traverso... è paura... è preoccupata. Adoro quando è preoccupata. «Iseutz» disse Niessa «un giorno tutto ciò per cui ho lavorato, tutto ciò che ho costruito, sarà tuo. Sei mia figlia... l'unica famiglia che mi rimane. Perché devi sempre cercare di rovinare le cose?» Iseutz rise. «Morirai e mi lascerai tutti i tuoi soldi? Poco probabile. Se pensassi che sei mortale, ti avrei staccato la gola a morsi durante la notte.» Niessa chiuse gli occhi e poi li aprì di nuovo. «Dici cose di questo genere e poi ti chiedi perché ti tengo qui. So che scherzi, e che stai solo cercando di sorprendermi. Avresti dovuto smettere da quando avevi dieci anni.»
CAPITOLO QUARTO Non c'era nulla di sbagliato in Sammyra che un terremoto non avrebbe messo a posto, eccetto il fetore. Alla carrozza postale si era rotta una ruota scendendo dalle montagne, e quindi era arrivata in ritardo: così la coincidenza per Ap' Calick era già partita da molto tempo. Ce ne sarebbe stata un'altra nel tardo pomeriggio. Fino ad allora Bardas era libero di vagare nella città e assorbirne l'atmosfera unica. «Grazie» disse. «Non posso rimanere qui ad aspettare?» La responsabile dell'edificio della posta lo fissò. «No.» «Oh.» Bardas guardò su e giù per la strada. «Posso avere un po' d'acqua per favore?» «C'è un pozzo proprio lungo la strada» rispose la donna. «Là sulla sinistra, vicino al mulino bruciato.» Bardas si accigliò. «Senza offesa» disse «ma l'acqua qui è potabile?» «Be', noi la beviamo.» «Grazie» disse Bardas «ma vedrò se riesco a trovare del latte o qualcos'altro.» Sammyra era piena di locande e taverne. C'erano le locande dei quartieri residenziali, tagliate nella roccia della Collina della Cittadella oppure ricavate ampliando caverne naturali; la maggior parte di questi esercizi recava sulla porta un'insegna che diceva "Non è permesso l'accesso a commercianti di bestiame, venditori ambulanti e soldati", e c'era una coppia di uomini robusti vicino alla porta d'entrata per spiegare il messaggio a commercianti di bestiame, venditori ambulanti e soldati che non sapessero leggere. C'erano le taverne nella parte mediana della città, con tendoni che davano ombra a gruppi di anziani seduti su cuscini appoggiati per terra, con la scura porta d'entrata dietro di loro. C'erano i locali del centro dove si bisbocciava, disposti a cerchio al margine della fiera dei cavalli, con un'apertura di lato nella quale veniva inserito il denaro e dalla quale fuoriuscivano piccole caraffe di terracotta. Bardas scelse a caso uno dei tendoni al centro della città; fungeva anche da arrotino e ambulatorio medico e sul retro c'era una donna anziana seduta, che cantava con gli occhi chiusi, anche se Bardas non conosceva la poesia e la musica di Sammyra a sufficienza per giudicare se la donna costituiva un'attrattiva o un fastidio. La canzone parlava di aquile, avvoltoi e del ritorno della primavera, e gran parte di essa sembrava essere sussurrata. A Bardas non importava granché. Si sedette nell'angolo opposto; gli anziani smisero di fare ciò che stavano
facendo e si girarono a guardarlo, poi si voltarono di nuovo. Un uomo basso e calvo con una lunga barba apparve improvvisamente dietro la sua spalla sinistra e gli chiese cosa volesse bere. «Non lo so» rispose Bardas. «Cosa avete?» L'uomo anziano aggrottò la fronte. «Echin» disse, come se rispondesse a una domanda sul colore del cielo. «Ne vuole un po' oppure no?» Bardas annuì. «Va bene. Quanto?» «Non lo chieda a me» disse l'uomo. «Può prenderne una tazza, una fiaschetta o una caraffa. Scelga lei.» «Scusi, intendevo dire quanto costa.» «Cosa? Oh. Una caraffa costa mezzo quarto.» «Prendo una caraffa, allora.» L'uomo anziano se ne andò e tornò un attimo dopo, schivando la pioggia di scintille che provenivano dalla ruota dell'arrotino e la macchia di sangue lasciata dall'ultimo paziente del dottore. «Ecco» disse porgendo a Bardas una caraffa e una piccola tazza di legno. Bardas gli diede il denaro, riempì a metà la tazza e l'annusò. Ormai era troppo assetato perché gli importasse. L'echin risultò essere bollente, acquoso, dolce e nero; un'infusione di erbe in acqua bollita, aromatizzata con miele, cannella e un po' di noce moscata e utilizzata per diluire dello spirito quasi puro che sarebbe stato senza dubbio fatale se bevuto puro. Era pericolosamente indicato per la sete. Bardas sorseggiò una tazza di quella roba e aspettò che la testa smettesse di girargli. La donna anziana smise di cantare. Nessuno si mosse o disse nulla. La donna ricominciò. Sembrava la stessa canzone, ma Bardas non poté esserne sicuro. Poco dopo fece la sua comparsa un nutrito gruppo di uomini, che si sedettero in cerchio al centro del tendone. Erano rumorosi e allegri, e andavano dai diciassette anni ai sessanta circa; non erano Figli del Cielo ma non erano troppo dissimili da loro: erano sbarbati e avevano capelli lunghissimi intrecciati in codini elaborati. Indossavano camicie bianche molto sottili che arrivavano al ginocchio e avevano i piedi nudi. Probabilmente, pensò Bardas, erano commercianti di bestiame: quasi a livello dei venditori ambulanti e dei soldati, a giudicare dagli avvisi nei quartieri residenziali, anche se nessuno di loro sembrava avere nessun tipo di arma. Bevevano il loro echin con parsimonia da un'enorme caraffa d'ottone che si trovava al centro del cerchio, senza prestare attenzione al canto dell'anziana donna e Bardas li considerò piuttosto innocui. Qualche tempo dopo (il tempo passava lentamente in quel luogo, ma a
ritmo costante) entrò un gruppo composto da cinque soldati. Nemmeno loro erano Figli del Cielo; era difficile dire da dove provenissero, ma indossavano i gambali grigio chiaro sbiaditi fino a diventare avana, sotto l'armatura standard della fanteria, stivali, cinture lucidate a fondo e piccoli cappelli di lana a tre punte che costituivano l'imbottitura degli elmetti da fanteria. Quattro di loro indossavano le loro spade; il quinto, che era il caporalmaggiore di quel plotone, aveva un falcione con la punta squadrata infilato sotto la cintura. Camminarono dritti nel cerchio dei commercianti di bestiame, che si tolsero di mezzo, e andarono nella stanza sul retro. L'anziana donna smise di cantare, aprì gli occhi e si allontanò rapidamente zoppicando. Vicino a Bardas c'era un anziano che aveva la bocca aperta, e per terra vicino a lui c'era una piccolissima tazza di echin che stava diventando fredda. Bardas si chinò. «Guai?» chiese. L'anziano scrollò le spalle. «Soldati» rispose. «Ah.» All'interno qualcosa venne rotto, seguito dal suono di risate. I commercianti di bestiame alzarono lo sguardo e poi continuarono la loro conversazione. Un paio di clienti si alzarono e se ne andarono. I soldati uscirono, tenendo in mano grosse caraffe di qualcosa di diverso dall'echin, e si misero a osservare i commercianti di bestiame. La conversazione nel cerchio si fermò ancora una volta. L'anziano a cui Bardas aveva parlato se ne andò proprio mentre l'uomo che aveva portato a Bardas da bere apparve con un'espressione tragica sul volto. Tutto sembrava suggerire che per un po' sarebbe stato meglio lasciare la taverna. Bardas sarebbe anche andato via, ma non aveva finito di bere. Così dice il Profeta: non iniziare risse nei bar. Non interferire nelle risse di altri nei bar. La religione sotto molti aspetti piaceva a Bardas, e lui aveva sempre conservato la fede. Quando la rissa ebbe inizio, fece quello che di solito faceva in occasioni del genere: rimase immobile e osservò attentamente con la coda dell'occhio, preoccupandosi di non incontrare lo sguardo di nessuno dei litiganti. Presa unicamente come intrattenimento, una rissa aveva i suoi pregi: i commercianti di bestiame avevano il numero dalla loro parte, mentre i soldati avevano le armi, e un'attitudine ben più solida riguardo a ciò che costituiva un grado legittimo di forza. Quando uno dei commercianti finì a terra e non si alzò più, la rissa cessò; al posto di un gruppo confuso in azione, si videro una quindicina di uomini in piedi, immobili e che sembravano molto imbarazzati. Per un po' nessuno par-
lò, ma poi il caporalmaggiore (che era stato proprio lui a uccidere) si guardò intorno e disse. «Cosa?» Uno dei soldati stava guardando Bardas: aveva sul colletto di color avana quattro mostrine di bronzo ossidate, a indicare un sergente maggiore. A dire il vero non era nemmeno il soprabito di Bardas: l'aveva trovato nelle miniere (quasi nuovo, di proprietà di qualcuno disattento). Ma tutti sembravano aver notato le piccole mostrine di metallo. Bardas si chiese cosa trovassero di così interessante. Il piccolo uomo che aveva portato il vino si mise in piedi accanto a lui. «Be'?» disse. «Cosa farà al riguardo?» Bardas alzò lo sguardo. «Io?» «Sì, lei. Lei è un sergente. Cosa farà al riguardo?» Ma certo, ha ragione. Me ne ero completamente dimenticato. «Non lo so ancora» rispose. «Cosa suggerisce?» L'uomo lo guardò come se fosse pazzo. «Di arrestarli, naturalmente. Arrestarli e mandarli dal prefetto. Hanno appena ucciso una persona.» Così dice il Profeta: quando ti viene chiesto di arrestare cinque uomini armati dopo una rissa in un bar, vattene subito. «D'accordo» disse Bardas alzandosi lentamente in piedi. Guardò i soldati per un attimo senza dire nulla, e poi diresse la sua attenzione al caporalmaggiore. «Nomi.» I soldati dissero i loro nomi, che lui non capì: erano troppo lunghi, stranieri e complicati. «Unità.» Il Caporalmaggiore rispose che erano il reggimento Tal dei Tali di fanteria, della compagnia così e cosà, del plotone così e cosà. «D'accordo» disse Bardas. «Chi è il vostro ufficiale comandante?» Il caporalmaggiore gli lanciò uno sguardo triste e disperato, e poi urlò e gli si avvicinò, con il falcione sollevato. In men che non si dica Bardas lo prese per un gomito con la mano sinistra e portò con la mano destra il suo coltello alla base della gola del caporalmaggiore. Non si ricordava se il coltello gli era finito in mano, oppure se lo aveva nella cintura; ma dopo tre anni trascorsi nelle miniere, il suo coltello era come le mani e i piedi: non era un qualcosa che ci si doveva ricordare di avere. Osservò il caporalmaggiore morire, e poi lasciò che il suo corpo cadesse a terra. Nessuno si mosse. Sammyra era un ottimo posto per le persone che avevano una tendenza a rimanere immobili. «Ve lo chiedo di nuovo» disse Bardas. «Chi è il vostro ufficiale comandante?» Uno dei soldati disse un nome, che Bardas non capì «Tu» disse al pa-
drone della locanda «corri alla prefettura e fai venire la guardia. Voi altri, sparite.» Un attimo dopo si trovò solo con i quattro soldati sopravvissuti e i due uomini morti. Era facile distinguerli: i soldati erano quelli ancora in piedi. Dopo quello che sembrò un tempo lunghissimo arrivò la guardia, guidata da un inconfondibile Figlio del Cielo che indossava un elmetto dorato con in cima una penna altissima. «Una rissa da bar?» chiese. Bardas annuì. «E questo...» disse pungolando con la punta del piede il caporalmaggiore morto «... questo l'ha colpita?» «Esatto» rispose Bardas. Il comandante delle guardie sospirò. Il suo colletto evidenziava che era un sergente comune, così Bardas lo superava in grado. «Be', allora» riprese. «Qual è il suo nome?» «Bardas Loredan.» Il comandante si rabbuiò. «So chi è lei. Lei è l'eroe, vero?» Gannadius? Gannadius fece una smorfia. «Non adesso» disse. Gannadius? Sei molto debole, quasi non riesco... «Oh, per l'amor del cielo.» Gannadius aprì gli occhi. Alexius si trovava in piedi sopra di lui e sembrava preoccupato. «Senza offesa» disse «ma ti dispiacerebbe andartene per un po'? Sto morendo, e odierei perdermi qualcosa dell'avvenimento.» Cosa? Oh. Oh sì, stai morendo, vero? Mio caro, sono così dispiaciuto. Com'è successo? Gannadius scrollò le spalle. «Oh, sono piccolezze, davvero. Penso che sia iniziato tutto con una febbre e poi sono peggiorato.» Smise di parlare per un attimo. «Sto morendo?» chiese. «Davvero?» Alexius sembrò pensoso. Be', non sono un dottore o cose del genere, ma... «Sto morendo.» Sì. «Oh.» Gannadius cercò di rilassarsi. «Come fai a dirlo? Be'... fidati e basta.» Gannadius cercò di chiudere nuovamente gli occhi, ma la cosa non sembrò fare alcuna differenza. Aspettò. Non sembrò accadere nulla. «Allora» disse «cosa succede dopo? Hai qualche indizio?» Senza offesa, Gannadius, ma non posso saperlo. Se ti può consolare, si
tratta di una cosa perfettamente naturale. Riuscì a vedere Alexius cercare nella sua mente un'analogia valida ma non troppo allarmante. È come un parto fu, evidentemente, la cosa migliore che trovò. «Davvero?» non riuscì a trattenersi dal dire. «Mi sembra che ci sia almeno una grande differenza.» Sai cosa voglio dire. Fa male? «Prima sì» disse Gannadius. «Moltissimo, ma adesso non troppo. In realtà non fa male per niente.» Capisco. «Questo è un male, vero?» Al contrario, è un bene. Voglio dire... non vorresti che ti facesse male, no? «Non è questo che...» Gannadius sospirò. «Allora adesso che succede? Hai qualche idea di cosa devo fare? Devo fare qualcosa oppure devo solo restare qui a giacere e aspettare?» Dimmelo tu. «Giusto. E poi tu potrai scrivere un bel saggio sull'argomento, che vincerà un premio, per la prossima grande conferenza alla quale andrai. Scusa» aggiunse Gannadius «è stato meschino dire questo da parte mia.» Ti capisco perfettamente. Nella tua posizione... «Non penso che mi piacerà, Alexius» lo interruppe Gannadius. «Di fatto, se per te è lo stesso, penso che vorrei smettere adesso e fare un altro tentativo in un altro momento. Ho la sensazione che se provo a farlo adesso rovinerò tutto, e dato che è una cosa che si fa soltanto una volta...» Ah. Ma come facciamo a saperlo? Gannadius si accigliò. «Oh, per l'amor di dio» disse. «Non è davvero questo il momento per discussioni dottrinali.» Scusa. Cercavo solo di essere positivo. «Be', non è di aiuto. Alexius, non puoi fare nulla?» Io... Cosa avevi in mente? «Non lo so» rispose subito Gannadius. «Sei tu il maledetto mago, quindi pensa tu a qualcosa.» Non funziona così. Lo sai bene quanto me. «Sì, ma...» In qualche modo non aveva la forza di arrabbiarsi; non aveva nemmeno la forza di essere spaventato com'era giusto che fosse. Non essere in grado di sentirsi spaventato... questo sì che era spaventoso. «Stavo per dire» continuò «che tu sei il Patriarca di Perimadeia, e dev'esserci qualcosa che sai che noi non sappiamo... un segreto speciale che è permes-
so conoscere solo ai Patriarchi. Ma non è vero, giusto?» Temo di no. «Lo sapevo, davvero. È solo che quando stai... be', come sto io adesso, preferisci seguire la speranza invece della logica, nel caso servisse. Senza rancore, vecchio amico.» Grazie. Come ti senti? «Strano» ammise Gannadius. «Non è minimamente come pensavo sarebbe stato.» Oh? In che senso? Gannadius rifletté un momento. «Non lo so» disse. «Mi aspettavo... be', del teatro, immagino. Persino del melodramma. Roba mistica: luci brillanti, foschie turbinanti, figure nell'ombra drappeggiate in un bianco scintillante. Mi aspettavo tutto questo oppure il dolore e la paura. Ma non è proprio così...» I suoi occhi si aprirono. Stavolta si aprirono davvero. «È tutto a posto.» Una donna era in piedi sopra di lui. «È tutto a posto.» «Alexius?» Gannadius cercò di muovere la testa per guardare in giro, ma non ci riuscì. Non sapeva se quello fosse un bene o un male. Era riuscito a muoversi piuttosto liberamente in precedenza. «Si sta riprendendo» stava dicendo la donna a qualcuno che Gannadius non riusciva a vedere. «Qualunque cosa fosse quella roba, ha funzionato.» «È tutto a posto, allora» disse la voce di un uomo dietro le spalle della donna. «Di solito una dose come quella ucciderebbe. Sono felice che abbia funzionato.» La donna sembrava preoccupata. «Intendi dire che non l'avevi mai provata prima?» «Come ho detto, di solito è un veleno mortale» disse l'uomo che non si vedeva. «Sono anni che volevo provarlo, ma questa è stata la prima occasione che si è presentata in cui la cosa aveva davvero importanza... voglio dire, parlando con sincerità, che era già morto, quindi perché diavolo non provare?» Gannadius capì cosa c'era di strano in quella donna. Be', non di strano... di inaspettato. Era una donna delle pianure: occhi, colore della pelle, struttura ossea. Sentì un'ondata istintiva di panico... Aiuto! Sono nelle mani del nemico! La donna lo vide tremare e cercare di muoversi, e sorrise. «È tutto a posto» disse. «Lei starà bene.» Così continui a ripetere «...» disse, e poi si rese conto che aveva dimenticato il resto.
La donna aveva il viso rotondo, ed era quasi cinquantenne, tozza, con i capelli grigi corti, luminosi occhi neri e un prominente doppio mento. «Lei è stato molto male» continuò «ma il dottore le ha dato qualcosa che la rimetterà in sesto... aspetti e vedrà.» Gannadius si seccò nel sentire quelle parole: un maledetto dottore mi ha usato per provare i suoi nuovi rimedi mortali voleva dire. È un pagliaccio pericoloso, a cui non dovrebbe essere permesso di avvicinarsi a un paziente. «Grazie» gracchiò. «Dove...?» La donna sorrise. «Questa è Blancharber. Ne ha mai sentito parlare?» Gannadius rifletté un momento. «No.» «Ah. Be', è un piccolo villaggio a circa mezza giornata di cammino verso l'interno da Ap' Amodi.» Pronunciò il nome come se fosse un'unica parola, non due. «È circa equidistante da Ap' Amodi e dalla vecchia Città.» «Dove...?» «Perimadeia. Lei è nel paese di Re Temrai. Adesso è al sicuro.» Eseutz Mesatges, libera commerciante dell'Isola, a sua sorella nel commercio Athli Zeuxis; saluti. Questo posto è orribile, e le persone sono disgustose. D'altra parte hanno sicuramente moltissime penne. Ed è qui che entri in gioco tu. Mi trovo nella posizione di rifornire, franco a bordo della Market Forces, sessantasette barili di volume standard di penne bianche d'ala d'oca di prima scelta, tutte selezionate tramite la polarità dell'ala - per essere precisi trentacinque barili di ala destra e trentadue di ala sinistra - adatte per venire applicate a tutte le frecce militari di tipo standard, al prezzo ridicolmente basso di dodici quarti (della Città) al barile... be', quasi. C'è solo un piccolissimo e banale dettaglio tra me e questa fantastica opportunità. Sono in rovina come un vaso fatto cadere a terra. Ma non lo sarei, amata sorella in commercio, se tu mi fornissi una lettera di credito da parte della tua banca per la cifra irrisoria di 268 quarti (della Città); in questo caso io avrei le mie penne, tu avresti la tua solita quota di un terzo, queste persone avrebbero un incentivo per dare inizio a un accordo regolare e continuativo, e tutti sarebbero contenti. Tranne le oche, naturalmente: ma non penso che avessero in mente di andare da qualche parte. Allora: se la Squirrel arriva nei tempi previsti, dovresti leggere questa lettera il sei... e quindi avrai tutto il tempo per scarabocchiare le parole magiche e inviare la lettera al proprietario della King of Beasts, che so ar-
riverà qui il diciassette (quindi presumibilmente non lascerà l'Isola fino all'otto, come minimo). Ammesso che tu faccia ciò che devi fare con la dovuta diligenza, posso concludere l'affare il venti, o anche prima, e tornare a casa con la Market Forces, e le penne, per la Commemorazione dei Caduti. Semplicissimo. Be', tutto qui; ma c'è ancora molto spazio su questo foglio di carta di alta qualità, così farò bene a riempirlo. Vediamo... cosa vorresti sapere? Certo, sei stata qui, lo ricordo... sei venuta con il tuo amico spadaccino, prima del colpo di stato, vero? Immagino che non fosse meglio allora... probabilmente era peggio. Di' quello che ti pare del regime militare e del Macellaio Gorgas, ma danno l'impressione di essere bravi per gli affari. Se fabbricheranno o coltiveranno qualcosa che vale la pena vendere (tranne, naturalmente, quelle magnifiche penne per le quali avrai una quota indiretta), qui si aprirebbero ottime opportunità nel campo delle importazioni ed esportazioni, dato che non esiste in pratica nessuna concorrenza: non esistono speculatori commerciali, né cartelli di produttori, né monopoli aristocratici o reali, e persino la tariffa del governo è solo del due e mezzo per cento. Suppongo che derivi dal fatto che c'è un governo guidato da dilettanti. Questa cosa mi fa pensare, però. Perché Gorgas Loredan si è assunto l'onere di assumere il controllo di questo luogo se non ne ricaverà nulla, adesso che lo ha? Dopo tutto è un'azione così estrema, rubare una nazione alla gente che ci vive. Di solito, naturalmente, è piuttosto ovvio... qualcuno vuole il minerale di ferro, oppure un porto nei mari caldi, oppure dei letti di vimini, oppure gli alberi che crescono nelle piantagioni di zafferano, oppure vuole impedire che qualcun altro abbia tutto ciò, oppure solamente per essere in grado di tirare una bella linea diritta sulla mappa, oppure per possedere la serie completa delle isole. E quando non si tratta di qualcosa di così ovvio, puoi scommettere che si tratta di una fonte stabile di reddito: imposte di capitolazione, tasse di vendita, tasse d'importazione, tasse di pedaggio, tasse sulle spezie, tasse sui matrimoni e tasse su ogni terza giovenca, gabelli, balzelli, decime e via dicendo. C'è sempre un motivo... tranne che in questo caso, e mi dà un fastidio terribile cercare di capire qual è. Tanto per cominciare un tipo freddo e calcolatore come Gorgas Loredan non fa niente senza una ragione. Cos'ha in mente, Athli? Tu conosci questo genere di cose. Mi riveleresti il segreto? In ogni caso: 268 quarti della Città sulla King of Beasts e l'affare delle
penne sarà concluso. È il miglior investimento che farai quest'anno. Tua in amicizia e negli equi rapporti d'affari ESEUTZ «Per riassumere...» stava dicendo. Alexius smise di parlare e batté le palpebre, come se fosse appena emerso nella luce dopo aver trascorso molto tempo nella più totale oscurità. Oh no, non di nuovo, pensò. L'età avanzata... era solo l'età avanzata; la tendenza a svegliarsi, com'era accaduto, per scoprire che si trovava nel mezzo di una frase o di un'azione ma non riusciva a ricordare come fosse arrivato lì o cosa avesse detto. Era un handicap terribile per un docente quello di trovarsi improvvisamente in piedi di fronte a un migliaio di giovani volti ossequiosamente silenziosi, senza il minimo indizio su cosa stava dicendo o cosa avrebbe detto dopo. (Prima di ciò si era trovato in un sogno... un sogno a occhi aperti riguardante una galleria lunga e scura piena di strani rumori e odori, dove le persone si uccidevano a vicenda usando il tatto e l'istinto. Non sapeva perché doveva continuare ad andare lì, e nessuna congettura avrebbe facilitato il fatto di smettere.) «Per riassumere» disse «se comprendiamo veramente la natura del Principio, non possiamo non riuscire ad avere i nostri dubbi sull'esistenza della morte. Diventa una cosa nebulosa e quasi mitica, alla quale eravamo soliti credere quando eravamo molto giovani e suggestionabili, quando credevamo ancora ai dragoni e alla Fata della Rimembranza. Se capiamo veramente il Principio, e il modo in cui il suo operare influenza sia il mondo intorno a noi sia la nostra percezione del mondo, siamo portati all'inevitabile conclusione che la morte come ci è stato insegnato a capirla è semplicemente impossibile. Non può accadere. Va contro tutte le regole della natura. Se scegliamo, nonostante tutte le prove scientifiche, di insistere a credere... be', deve trattarsi di una questione di fede e coscienza, che non ha posto nella discussione scientifica. Ma se ci limitiamo alle cose che sono suscettibili di prova, e cos'è la scienza, cosa sono davvero l'apprendimento, la comprensione e la conoscenza se non cose che possono essere messe alla prova?, se ci limitiamo alle cose che hanno superato la prova e non sono state giudicate inadeguate, dobbiamo mettere da parte quest'idea della morte come qualcosa che non è provata e non è in grado di essere provata, con l'assoluta probabilità che non esista nemmeno una cosa simile. Il Principio, d'altra parte...»
(Come sta? Posso parlargli?) «Il Principio» continuò Alexius «è dimostrato, senza ombra di dubbio. Il Principio, di fatto, è la prova; è il processo stesso per il quale mettiamo alla prova le cose che non conosciamo già, quando desideriamo arrivare alla verità. E, se qualcosa di ciò che ho detto oggi ha lasciato un'impressione su di voi, se anche solo cominciate a capire...» (Puoi provare. Ma non penso che otterrai cose sensate da lui. Forse più tardi; migliora nel pomeriggio.) Alexius aprì gli occhi. «Athli?» disse. Athli gli sorrise. «Salve, Alexius. Come ti senti oggi?» «Bene.» Lentamente e dolorosamente Alexius si mise seduto. «Stavo sognando.» «Era un bel sogno?» Scosse la testa. «Proprio no» rispose. «Più che altro era un incubo. Era quello in cui mi trovo in una sala affollata di una conferenza e ho dimenticato il discorso.» Sorrise. «Il buon dottor Ereq vorrebbe che credessi che dipende dal fatto che insisto a mangiare formaggio, nonostante i suoi terribili avvertimenti. Sono incline a cercare una spiegazione più metafisica» continuò. «Ma solo per essere in grado di continuare a mangiare formaggio.» Abbassò la voce. «È l'unico cibo in questo luogo che non bolliscono fino a ridurlo a una pappa.» Athli si accigliò. «Non penso che si possa bollire il formaggio perché si scioglierebbe.» Il Dottor Ereq lanciò al suo paziente uno sguardo feroce e se ne andò, sussurrando alcune parole all'orecchio di Athli. Quando la porta si chiuse dietro di lui, Alexius chiese: «Di cosa avete parlato?» «Devo chiamarlo se ti mostri turbato e cominci a dire cose insensate. Oh, e non ti devo sovraffaticare.» Alexius scrollò le spalle. «È un po' difficile se devo rinunciare a mangiare formaggio e a non dire cose insensate. Faccio entrambe le cose da quando sono bambino, e adesso sono troppo vecchio per cambiare.» Athli si rannicchiò sul bordo del letto. All'esterno la pioggia batteva contro le imposte. «Però non sei troppo vecchio per andare alla ricerca di complimenti, vero? Sappiamo entrambi che dire cose insensate non è una tua colpa. Parlare sì, ma in genere dici cose sensate, almeno quando ci sono io. Non ti piace il Dottor Ereq, vero?» «No» ammise Alexius. «E questo è sbagliato da parte mia, lo so; è una persona eccellente, meravigliosamente bravo nel suo lavoro, e quando pen-
so a quanto tutto questo ti deve costare...» «Oh, non cominciare» disse Athli. «E inoltre segno tutte le spese nei conti, così davvero non mi sta costando nulla.» Alexius sembrò incuriosito. «Spese?» «Oh, sì. Sei impiegato dalla Banca come consulente tecnico... non te l'avevo detto? Be', lo sei. Sei un valido membro della squadra.» «Davvero?» Alexius sollevò un sopracciglio. «E sono bravo nel mio lavoro?» «Ho conosciuto di peggio. Seriamente, però» continuò Athli accigliandosi un po' «non dovresti scherzare con i dottori. Non hanno il senso dell'umorismo come le persone normali, e penseranno che sei uscito di senno. Il Dottor Ereq è già convinto di questo.» «Oh, lui.» Alexius fece una smorfia, come un bambino. «Ho cercato di spiegargli il Principio e il fatto di essere in grado di parlare con persone che non si trovano necessariamente qui. Non mi stava ascoltando, naturalmente; aveva deciso che ero fuori di testa non appena avevo menzionato l'argomento. Si sarebbe portati a pensare che un uomo di Shastel si sarebbe comportato meglio.» Athli fece un largo sorriso. «Detto tra noi» disse la donna «non penso affatto che sia di Shastel. Oh, dice di aver studiato lì, ma ho chiesto e nessuno si ricorda di lui. Viene dalle colonie di Shastel, questo sì; penso che sia una terza o una quarta generazione di Colleon. A dire il vero, ciò lo renderebbe un dottore migliore, anche se sembra un po' villano. Le scuole mediche di Colleon insegnano molte delle cose dell'Impero.» «Oh, bene» disse Alexius. Cercò di allungarsi, ma ebbe un crampo improvviso che lo fece sussultare. «In ogni caso, basta parlare di lui. Come stai tu? Come vanno gli affari?» «Potrebbe andare peggio.» «Capisco. Questo potrebbe andare peggio significa che gli affari vanno malissimo oppure che fai soldi a palate?» «Tutte e due le cose» rispose Athli. «Le cose sono terribilmente immobili, ma le speculazioni in atto stanno andando bene.» «Del tipo?» Athli rifletté per un attimo. «Be'» disse «la Squirrel è attesa da un momento all'altro dal Mesoge con mirtilli e miele; questo coincide perfettamente con il fatto che alcune persone di Molain si sono assicurate un grosso ordine dai Bathary...» «Da chi?»
«Dai Bathary. Fanno uniformi per l'esercito di Shastel, i cui soldati (come sicuramente saprai) indossano pastrani blu scuri.» Alexius annuì. «Che sono tinti con succo di mirtillo. Capisco. Molto intelligente.» «È un caso fortuito» rispose Athli. «E il miele viene venduto a un buon prezzo, adesso che non ne arriva dall'Impero. Per una volta penso che Venart Auzeil possa essersi imbattuto in una buona e solida iniziativa commerciale.» Athli si accigliò. «Con un po' di aiuto da parte di Gorgas Loredan» aggiunse. «Nessuno aveva sentito parlare del Mesoge fino a tre anni fa, e adesso eccoci a cercare di rifornirci lì di due prodotti tra i più importanti. Vorrei solo poter credere che è un luogo sicuro per fare affari.» Alexius rimase in silenzio per un po'. «Ancora una volta i ragazzi Loredan» disse. «Tendono a saltar fuori dappertutto, non trovi?» Athli lo guardò. «Vuoi sapere se ci sono notizie di Bardas, vero?» «Sì.» «Bene.» Mise le mani sulle ginocchia e guardò la finestra chiusa con le imposte. «Stamattina mi sono imbattuta in Lien Mogre; suo fratello fa parte della delegazione del commercio di Shastel che è appena tornata dall'ultimo giro di consultazioni con l'ufficio provinciale...» «Vuoi dire che è una spia? La questione sembra promettente.» Athli annuì. «Sì» disse «ma non una buona spia. È questo il guaio; le persone di Shastel sono pessime spie, perché rendono terribilmente evidenti le loro intenzioni. Ma so per certo che vengono loro dette una grande quantità di cose di poca importanza per farle felici, quindi c'è una buona possibilità che possa trattarsi di un'informazione attendibile. In ogni caso, mi ha detto che Bardas è stato assegnato a un lavoro amministrativo bello e tranquillo in qualche zona all'interno; direttore della produzione in una fabbrica, gli sembrava di ricordare.» Sorrise. «Be', non si può essere più prosaici di così, vero?» «Dipende» rispose Alexius. «Ci sono fabbriche e fabbriche.» «Sì, ma è lo stesso.» Athli si alzò in piedi e attraversò la stanza fino alla finestra. «So che hai una teoria sui Loredan e sul Principio, e che tutto è collegato; ma non vedo proprio come stare seduto dietro a una scrivania a fare verifiche e a far quadrare i libri contabili potrà deviare il corso della storia.» Sospirò. «E se gli evita di far danni, penso che sia un bene, per tutti noi.» Un intenso scroscio di pioggia scosse le imposte, facendo tremare il fermo della finestra. «Sei arrabbiata con lui, vero?» chiese Alexius. «Mi
dirai mai il perché?» «Non sono affatto arrabbiata» rispose Athli dandogli la schiena. «Ormai non penso a lui nemmeno un attimo nel corso della giornata. Sono soddisfatta di poter dire che ho fatto progressi da quando ero l'impiegata di uno spadaccino: ho fatto qualcosa di valido nella mia vita e senza ferire nessuno o causare scompiglio. Credo che sia qualcosa di cui poter andare orgogliosi, non pensi?» Alexius si mise di nuovo a giacere e chiuse gli occhi. «Certo. Quando penso a tutte le persone che hai aiutato e di cui ti sei presa cura da quando sei arrivata qui... me, Gannadius, suo nipote, Venart e Vetriz...» «Oh, va bene così» disse con calma Athli. «Sono sicuro di sì» continuò Alexius «ma non eri obbligata a farlo e l'hai fatto. È quasi come se ti fossi accollata il compito... be', di mettere ordine dopo il passaggio di Bardas, immagino che si possa dire. Ci sono tante persone che sono state lasciate indietro nella sua scia, ed eccoti qui, a cercare di restituire loro una parvenza di vita normale. La trovo una cosa interessante.» «Davvero?» Athli continuò a guardare le imposte. «Be', è un modo assai buffo di guardare le cose.» «È il mio lavoro» rispose Alexius leggermente divertito. La notte successiva alla rissa nel bar, mentre veniva sballottato tra le casse da imballaggio e i barili nel retro di un'altra carrozza postale, Bardas ricordò per la prima volta le miniere. Cominciò come un sogno, ma ne uscì il più velocemente possibile, spalancando a forza gli occhi e sperando di vedere la luce. Non ce n'era; c'era un mucchio di bagagli legati con corde tra lui e le lanterne del corriere, ed era una notte scura. Poté sentire il rumore della carrozza che avanzava faticosamente lungo la strada piena di solchi. Poteva sentire odore di rosmarino... Rosmarino? C'era qualcosa che non andava. Allungò una mano per sentire lo spazio aperto, ma scivolò dentro un'apertura tra due grandi scatole, e non riuscì a sentire altro che una ruvida parete di legno su ciascun lato (sono già stato qui, allora) e un ostacolo contro i piedi. Diede un calcio e udì qualcosa scheggiarsi e incrinarsi. Certo, sapeva che non si trovava più nelle miniere, ma questo non l'aiutò molto; aveva conosciuto ogni genere di cose mentre si trovava laggiù, e pochissime erano state vere. Diede un altro calcio, e il mondo si riempì di un profumo di rose.
Il movimento però era sbagliato. Le miniere non andavano su e giù battendo contro la colonna vertebrale (meraviglioso: sono riuscito a trovare un posto peggiore delle miniere) e l'odore era diverso e c'era troppa aria. Si trovava su un carro oppure una nave. Alexius? No: non nelle miniere, in ogni caso. Si trovava su una carrozza, sulla strada da Sammyra ad Ap' Calick; si stava dirigendo al palazzo delle prove di Ap' Calick, dove avrebbe imparato come distruggere le armature... armature complete senza nessuno dentro. Andava tutto bene; non si trovava più nelle miniere (ma una volta che si e stati nelle miniere, si è sempre nelle miniere). Si sarebbe trovato bene. Si trovava in pieno territorio dei Figli del Cielo. Era in salvo. È consuetudine morire prima, ma nel tuo caso abbiamo fatto un'eccezione. Sentendosi un po' sciocco per l'attacco di panico, fece forza con le braccia contro i lati della carrozza e si spinse fino a sedersi, con la schiena contro un barile alto. Il profumo di rose era terribilmente forte: aveva messo un piede su qualcosa di fragile e aveva rotto qualcosa che conteneva essenza di rose. Il mattino dopo avrebbe potuto trovarsi in una situazione imbarazzante alla prima fermata. Si chinò in avanti e annusò; le sue gambe puzzavano di quella roba, come se fosse morto e l'avessero imbalsamato... (È per questo che usavano quella roba, si ricordò. Forte essenza di rose... era così potente che riusciva a mascherare persino il puzzo di un corpo che era in ritardo di una settimana per il suo funerale. Ricordò il fetore a Sammyra, quando avevano portato il cadavere del caporalmaggiore al campo mortuario. Usavano molta essenza di rose lì: il servizio di sepoltura avveniva una volta a settimana, e se si mancava occorreva aspettare il successivo.) ... e rosmarino; lo usavano per aromatizzare e conservare la carne. Erano molto intelligenti in questo, i Figli del Cielo: potevano mantenere dolci per secoli le cose senza più vita, con erbe, spezie, profumi ed essenze. Potevano fare in modo che la carne putrida avesse un sapore migliore di quella fresca; avevano appeso carcasse e aspettato che in esse si formassero i vermi, per poter ottenere quel sapore perfetto. C'era vita dopo la morte nell'Impero... per così dire. Pensando a queste cose si addormentò. Il corriere lo svegliò con un colpetto della punta dello stivale. Era pieno giorno. «Melbec» disse, come se significasse qualcosa. «Può sgranchirsi le gambe se vuole.»
Bardas si alzò in piedi: sentì formicolare entrambe le gambe. Si sedette di nuovo. Cambio di cavalli a Melbec; un altro ad Ap' Reac, dove la scorta li lasciò. Ap' Reac era ormai troppo piccola per essere un'Ap'; un tempo come il corriere gli disse quando si fermarono lì, era stata una città "grande due volte Perimadeia", ma questo prima che l'Impero si estendesse tanto. Quando la frontiera raggiunse Ap' Reac ci fu una grande guerra e un lungo e terribile assedio. Ap' Reac non esistette più. Queste parole spinsero Bardas a fare una domanda che non gli era venuta in mente prima: quanti anni era vecchio l'Impero, e dove aveva avuto inizio? Il corriere lo guardò come se fosse un ingenuo. «L'Impero ha centomila anni ed è iniziato nel Regno dei Cieli.» «Ah» disse Bardas. «Grazie.» Da Ap' Reac a Seshan (ovunque si trovasse) la strada saliva su una ripida montagna e scendeva in un canyon profondo, con rocce su ogni lato. Sembrava proprio come se la terra fosse stata aperta; la strada seguiva il letto di un fiume scomparso da lungo tempo, che aveva tagliato il canyon e poi si era asciugato. Ripensando ancora alle miniere mentre la carrozza traballava sotto l'ombra delle rocce, Bardas non poté fare a meno di ricordare le gallerie e le strade principali della città sotterranea sotto Ap' Escatoy. Quella città, con la sua rete complessa di strade e vicoli faticosamente scavati, ormai era sparita; rovinata e perduta, come Ap' Rreac oppure Perimadeia, tranne che nel suo ricordo, dove era ancora vivida, e più reale di quel luogo assurdo e per nulla convincente in cui si trovava, e che puzzava di rosmarino e rose ed era inondato di luce. È proprio il luogo ideale per un'imboscata rifletté Bardas. È davvero una fortuna che ci troviamo in pieno territorio dell'Impero; altrimenti in questo posto si diventerebbe nervosi. Nel cielo il sole era alto e caldo. Sotto il riparo delle rocce era scuro e fresco. La strada sembrava allungarsi all'infinito. Quasi non c'era vento a portare via l'odore di rosa. In un certo senso, era come trovarsi nelle miniere. In un certo senso, tutto sarebbe sempre stato come se si trovasse lì. La carrozza si era fermata. Bardas si sollevò e scrutò da sopra i bagagli. «Questa è Melrun?» domandò. «No.» Si trovavano nel burrone. La strada davanti era libera. «Allora perché ci siamo fermati?» chiese Bardas.
«C'è qualcosa che non va» rispose il corriere, alzandosi a cassetta. «Non capisco» disse Bardas. «Cosa c'è che non va?» Il corriere si accigliò. «Non ne sono sicuro» disse; in quel momento una freccia lo colpì proprio sotto un orecchio. Cadde di lato, da cassetta, e si abbatté sul terreno con un forte tonfo. Oh, per l'amor del cielo. Bardas si lasciò cadere, atterrando goffamente tra le casse di imballaggio. Il cuore dell'Impero; attaccato nel cuore del territorio dei Figli del Cielo, dove (come tutti sapevano) si poteva lasciare incustodito di notte un carro pieno di diamanti nella piazza del mercato ed essere sicuri che nessuno li avrebbe rubati. Chiunque fosse l'arciere che non riusciva a vedere, era di certo un tipo cauto e metodico, soddisfatto di aspettare finché non era sicuro di avere via libera prima di tradire la sua posizione. Bardas trovò quel grado di professionalità molto irritante; era rannicchiato in una posizione terribilmente disagevole, dalla quale non osava muoversi per paura di farsi scoprire e prendersi una freccia nel collo. È ridicolo pensò. Di certo non alzo un dito per evitare che il corriere postale dell'Impero venga depredato; possono avere tutto il carico, e sono i benvenuti a prenderlo, se solo potessi muovere i miei piedi. Il pensiero di morire, per causa di una freccia o per la sete, oppure bruciato dal calore terribile del sole, per il bene di dodici ceste di essenza di rose e per la posta imperiale era quasi un insulto. Non accadde nulla. Cercò di pensare attentamente alla situazione. Quando doveva passare la prossima carrozza? Doveva sapere a che intervalli passavano per quella strada. Qualcuno glielo aveva detto, ma non riusciva a ricordarlo. Presumibilmente l'uomo che si trovava in alto sulle rocce sapeva l'orario degli arrivi e delle partenze, perché non sembrava il tipo che trascurava cose importanti come quella. Doveva avere tempo a sufficienza per scaricare la carrozza e portare via la roba che voleva, e questo avrebbe richiesto tempo (a meno che non avesse in mente di guidare la carrozza alla fine del burrone, ma avrebbe dovuto sollevarla dai lati con delle corde). Quanti amici e parenti aveva con lui? La cosa ancora più importante (e incomprensibile) di tutte era: sapevano che lui era lì, oppure si trattava di una lunga operazione di procedura del tipo aspetta-e-vedi per derubare il corriere postale? Proprio quando fu certo di non poter più sopportare i crampi nelle gambe, sentì il rumore di qualcuno che si affrettava scendendo sulle rocce che franavano. Non osò alzare lo sguardo, naturalmente, e quindi non riuscì a vedere cosa stava accadendo, ma almeno qualcosa stava accadendo. Non
aveva armi, naturalmente, tranne un piccolo coltello corto infilato a lato dello stivale, come nelle miniere. Ti sei trovato in guai peggiori di questo. Davvero? Nominane tre. «D'accordo.» Era la voce di un uomo affannato. «Voi due cominciate a scaricare. Gylus, tieni i cavalli. Azes, dov'è quel maledetto di tuo fratello con quei ganci?» «Non lo so» rispose la voce di un bambino, con quell'eterno piagnucolio del fratello minore. «Non essere insolente. Gylus, dammi il tuo coltello. Bassa, per l'amor del cielo stai attenta con quello, è fragile.» Evidentemente si trattava di un affare di famiglia. Le famiglie che saccheggiano insieme mettono radici insieme. «Non è giusto» disse un'altra voce di bambino. «Hai detto che era il mio turno di avere gli stivali.» «Hai già un paio di stivali. Perché per una volta non puoi fare come ti viene detto?» ... Ed eccolo lì, in piedi sopra ai bagagli, con la schiena rivolta a Bardas, a dirigere i suoi chiassosi lavoratori. Bardas riuscì a vedere solo una schiena e una testa calva, con pochi ciuffi di capelli grigi, e un soprabito militare malridotto con un buco dall'aspetto sospettoso, scrupolosamente rammendato, in mezzo alle spalle. Vai via pensò Bardas, ma l'uomo non sembrava avere fretta. «Bassa! Bassa! Mettilo giù, o ti taglierai e poi tua madre se la prenderà con me. Oh, per...» Mi ha visto. L'uomo rimase sbalordito per un po', e poi cercò a tentoni l'impugnatura della scimitarra da cavalleria che pendeva dalla sua spalla su una cintura eccessivamente lunga. Dannazione pensò Bardas; le sue gambe avevano troppi crampi per fare movimenti improvvisi e vigorosi, altrimenti sarebbe scappato via; ma quell'opzione non era possibile. L'uomo aveva trovato l'impugnatura della sua spada (aveva un viso rotondo e rugoso; un tempo conosceva un uomo che gli assomigliava: aveva una bancarella di vendita di candele nel quartiere di Chandler) e stava cercando di sguainarla, ostacolato dalla lunga cintura e da un terrore estremo. Il coltello finì in mano a Bardas (eccoci di nuovo), e il pomo trovò il suo posto nel suo palmo, con il pollice che premeva al centro dell'impugnatura, sentiva la piccola scanalatura che segnava il punto esatto, e la punta delle dita che poggiavano leggere sui gavigliani; metti il braccio dietro l'orecchio, alza il polso all'indietro e drizzalo mentre spingi il braccio avanti, per tenere il coltello dritto mentre lo lanci, così che il
peso dell'impugnatura lo guida e gli dà potenza... bisogna fare queste cose d'istinto, se ci rifletti manchi il bersaglio, oppure il coltello colpisce di lato. Deve trattarsi di una particolare attitudine oppure è impossibile farlo (a lui era venuto sempre naturale nelle miniere, gettare il coltello contro un rumore nel buio, sapendo dove poterlo trovare dopo). Un bel colpo solido; non da dieci, ma vicino al nove, che tagliò il pomo d'adamo e recise la trachea, così che non vi fu aria disponibile per imprecare o per dire le ultime parole famose o le altre che stava per dire; la sua bocca si aprì e si chiuse e non ne uscì nulla; poi i piedi gli cedettero e l'uomo si schiantò su una cesta (inevitabilmente contrassegnata con fragile) che si aprì di colpo, inzuppando Bardas di profumo di rose raccolte all'alba. Un attimo dopo uno stivale dell'uomo morto gli oltrepassò un orecchio. «Papà?» Non c'era tempo per fare nulla; Bardas si allungò goffamente sul cadavere con la mano sinistra ed estrasse la spada da cavalleria (orribile e mal bilanciata, con il pomello che sfrega il polso, e bisogna essere un abilissimo contorsionista per infilzare con efficacia), e poi fece leva sulla mano sinistra per alzarsi in piedi... il piede sinistro era ancora insensibile, e il destro gli formicolava... che motivo stupido per finire ucciso... «Papà!» Dalla giovane voce traspariva il panico. «Bassa, cos'è successo a papà?» «Aspetta.» Una testa sbucò sul riparo formato dai bagagli: una bambina di circa nove anni, dal viso grasso e tondo (evidentemente una caratteristica di famiglia). «Papà?» La bambina lo guardò, e poi vide il cadavere che giaceva a faccia in giù in quel che rimaneva della cesta. «Gylus! Ha ucciso...» Il coltello apparve di nuovo nella sua mano, ma un po' troppo in ritardo; la testa si piegò di nuovo prima che potesse lanciarlo. Vorrei non essere qui pensò, mentre cercava di trascinarsi lungo il bordo della cesta su cui si trovava; ma le sue ginocchia ancora non funzionavano bene, per cui perse l'equilibrio e cadde, battendo con forza una tempia contro un angolo di legno. Ahi, fa male notò, cercando di far funzionare il ginocchio in modo da alzarsi. Qualcuno stava imprecando contro di lui: sollevò lo sguardo e vide un ragazzo, di dodici o tredici anni, che poggiava maldestramente un arco rozzo sul bordo del riparo costituito dalla cesta. Riusciva a vedergli solo gli occhi, la fronte e il ciuffo di scarmigliati capelli rossi sopra il bordo della lama della freccia. Istinto pensò, mentre il suo polso colpiva; e poi, dato che l'istinto la faceva da padrone, disse «Grazie» a voce alta,
mentre la testa finiva all'indietro e spariva, portando il coltello con sé. Sentì la bambina urlare mentre lui spostava la scimitarra nella mano destra. Se prende l'arco ancora non sono fuori da questa situazione pensò facendo una smorfia di dolore mentre metteva il peso sul piede sinistro. Andiamo, gambe, non è questo il momento dei formicolii. Forse erano solo questo: padre, figlio e figlia; o forse rannicchiata tra le rocce c'era il resto di quella famiglia maledettamente numerosa: fratelli, sorelle, zii, zie, nipoti, quindici gradi diversi di cugini, nonni e nonne e un cestino con il pranzo per il picnic. Vorrei davvero trovarmi da un'altra parte; ma mi accontenterei di avere indietro il mio coltello. Azes. C'era un altro bambino di nome Azes; era uh nome da ragazzo, probabilmente. Cosa avrebbe fatto un bravo bambino in quelle circostanze? Avrebbe preso la sorellina e se ne sarebbe andato al diavolo fuori dai piedi? È questo che farei io (solo che non è quello che ho fatto) oppure avrebbe dato la caccia al mostro, al distruttore della sua famiglia, della sua casa e della sua vita? Spero di no. Lo spero davvero... Nelle miniere si sapeva quando qualcuno era alle spalle. Quando il ragazzo saltò giù, Bardas si stava già girando, cercando di tenersi in equilibrio in modo da poter usare i piedi. Sarebbe stato bello potersi fare da un lato, togliendosi di mezzo con un salto mentre portava la spada in alto con una parata universale di rovescio... è questo che avrebbe fatto se non avesse barcollato in un ambiente stretto tra ceste di profumi e biscotti sul retro di una carrozza, con i piedi dolenti e il sole negli occhi quando alzava lo sguardo. Vide una macchia e colpì più forte che poté, facendo affidamento sull'istinto (di nuovo) e sul tempismo di base. Il sangue del ragazzo lo colpì in pieno volto, dimostrando che aveva centrato la giugulare. Era stato un colpo da dieci, e per di più con una errata posizione dei piedi. Un ottimo dieci: aveva quasi reciso la testa al ragazzo. Spero che tu fossi Azes pensò voltandosi di nuovo. Odierei veramente il fatto che ve ne fossero degli altri di voi. C'era ancora l'arco, con una freccia incoccata, da qualche parte sopra la sua testa in cima al bagaglio. Era proprio una fortuna che Azes fosse pesante come un mattone, e avesse cercato di saltargli addosso da dietro con una piccola accetta da taglialegna quando c'era in giro un ottimo arco; l'intelligenza non sembrava essere prerogativa di quella famiglia, altrimenti non avrebbero scelto quel metodo per guadagnarsi da vivere. Ne ho avuto abbastanza. Usciamo da qui. Un'apertura dove le ceste legate con le corde si erano spostate costituiva un punto d'appoggio suffi-
ciente per permettergli di arrampicarsi in cima al bagaglio, superare l'arco e il cadavere del ragazzo con il coltello tra gli occhi, e scendere fino a cassetta. Se ci fosse stato tra le rocce un cugino di terzo grado con un altro arco Bardas si sarebbe trovato nei guai; ma non c'era, così tutto andò bene. Afferrò le redini e la frusta, cercando di ricordarsi come si guidano le carrozze: non può essere molto diverso da un carro di fieno, anche se non ne porto uno da quando avevo... oh, l'età di Gylus. Nessuno gli sparò né cercò di tagliargli la gola da dietro, né gli fece rotolare delle rocce addosso, quindi tutto andò per il meglio. «Tu non sei il solito corriere» disse l'uomo alla stazione di Melrun mentre allungava una mano per prendere le redini. «Il corriere è morto» spiegò Bardas. «Qualcuno ha cercato di rapinare la carrozza.» L'uomo sembrò scioccato. «Stai scherzando.» «È così. Salta su e conta i corpi se non mi credi.» «Li hai neutralizzati?» chiese l'uomo. «Da solo?» Bardas scosse la testa. «È tutto a posto» disse «io sono un eroe. E inoltre, la maggior parte degli assalitori erano solo bambini.» CAPITOLO QUINTO La battaglia in realtà era finita. Era stata breve, impari e piuttosto cruenta, in gran parte a causa della fiera riluttanza dei ribelli a smettere di combattere, anche quando era ormai evidente che avevano perso. Battersi fino all'ultima goccia di sangue va benissimo in teoria, ma quando si sta vincendo rappresenta soltanto uno sforzo. La condotta della battaglia da parte di Temrai era stata esemplare secondo le regole: le scaramucce iniziali avevano attirato la forza principale ribelle fuori posizione e nella zona stabilita, era poi intervenuta la cavalleria con manovre impeccabili di accerchiamento e tutto si era concluso con l'inseguimento ideato ed eseguito alla perfezione e lo sterminio dei nemici sopravvissuti. Era un peccato, sottolineò in seguito il Generale Kurrai, che una battaglia così magistrale dovesse venire sprecata per un gruppetto di malcontenti e perdenti che in ogni caso non avrebbero mai avuto nessuna possibilità di vittoria. Qualche salva di frecce e una semplice carica avrebbe risolto la questione nel giro di pochi minuti, e la cavalleria avrebbe potuto semplicemente liberarsi di loro mentre fuggivano. Sarebbe stata una condotta semplice, efficiente e non ci sarebbe stata quell'imbarazzante
questione alla fine... Alla fine, quando la manovra di accerchiamento degli arcieri a cavallo e dei lancieri era stata completata ed era iniziato lo sterminio, uno dei capibanda nemici aveva intravisto lo stendardo della guardia del corpo di Temrai e aveva impegnato le poche forze che gli restavano in un attacco suicida contro quella parte della linea. Inutile a dirsi, soltanto un gruppetto di ribelli riuscì davvero a superare il muro eretto a difesa del re, arrivando al bordo esterno del cordone della guardia, e quasi tutti finirono infilzati sulle picche e sulle alabarde delle guardie. Così non più di quattro uomini di un'intera doppia compagnia arrivarono tanto vicini da poter colpire Temrai stesso; e di questi quattro, soltanto un uomo riuscì davvero ad assestare un colpo contro la persona del re. Se avesse colpito un po' più a sinistra, tutto quello sforzo sarebbe stato completamente giustificato. Chiunque fosse, quell'unico uomo doveva essere davvero furioso. Quando riuscì a intrufolarsi oltre l'anello interno delle guardie, aveva già subito colpi sufficienti a fermare un essere normale: due affondi con le picche gli perforarono lo stomaco, un colpo obliquo attraverso la tempia destra che sparse sangue ovunque, come tendono a fare le ferite profonde alla testa, un taglio sulla spalla sinistra che gli fece perdere l'uso di quel braccio. Ma era ancora in piedi ed era in grado di usare la mano destra; e il colpo che inferse con la scimitarra, qualche secondo prima che qualcuno gli spaccasse la testa da dietro, colpì la nuca di Temrai proprio sul bordo della gorgiera, dove il lembo del metallo era stato piegato e rivoltato. Il colpo mandò Temrai per terra, e l'impatto fu tale da comprimergli la trachea e impedirgli di respirare abbastanza a lungo da fargli credere che ormai per lui era la fine. Cadde di colpo in ginocchio, e la sua testa si trovò proprio lungo la traiettoria di un colpo inferto da un'altra guardia, che lo colpì attraverso la parte frontale del suo elmo, che risuonò come il colpo del martello di un fabbro. Cadde finendo in un angolo strano, che non lasciava speranza che fosse ancora vivo, in un groviglio di gambe e caviglie, e giacque rannicchiato tossendo a lungo, finché una coppia di uomini della guardia scoprirono dov'era caduto e lo rimisero a forza in piedi prima che qualcun altro potesse schiacciarlo. Quando fu di nuovo in piedi e respirò normalmente, la parte più importante della battaglia era già terminata, lasciando soltanto lo sterminio. Alcuni uomini della guardia portarono Temrai alla calma e alla tranquillità delle tende, dove un armiere dovette tagliare le strisce della gorgiera ammaccata e distorta prima che il re potesse toglierla. Un medico esaminò il
brutto livido gonfio, lo tamponò con amamelide e rassicurò Temrai che non era stato fatto alcun danno permanente. «È stata proprio una fortuna che indossassi quell'affare» disse Tilden. Teneva in mano la gorgiera contorta e la osservava pensosa. «Se non fosse stato per quel pezzettino rialzato intorno al bordo, saresti morto. Immagino che quel piccolo rialzo si trovi lì proprio per quel motivo.» Il Generale Kurrai scosse la testa. «A dire il vero no. È lì solo per impedire che il bordo strofini contro il collo e provochi dei tagli.» «Oh» rispose Tilden. «Be', in questo caso si è trattato decisamente di una bella fortuna.» Poggiò la gorgiera con un certo tremore, come se fosse coperta di sangue. «È proprio necessario che tu faccia questo?» chiese. «Andare in tutte le battaglie, intendo. Non puoi rimanere indietro e lasciare che qualcun altro comandi la carica? Dopo tutto sei il Re, e solo il cielo sa cosa accadrebbe se venissi ucciso. E non sei nemmeno un guerriero possente o un tiratore scelto.» «Grazie» disse in tono severo Temrai. «Lo terrò a mente.» Tilden si accigliò. «Be', non lo sei» ripeté. «E non guardarmi in quel modo. Sai che ho ragione da vendere.» «Certo che ne hai» rispose Temrai con un sorrisetto triste. «Potresti anche sottolineare che ogni volta che mi metto nei guai in battaglia significa che altre persone devono rischiare la loro vita per proteggermi, il che costituisce un comportamento pericolosamente irresponsabile sotto tutti i punti di vista. Sfortunatamente non posso fare nulla al riguardo.» «Davvero?» Tilden si alzò in piedi tenendo con le braccia la pesante coperta di lana che stava rammendando. «Sono terribilmente spiacente, ti avevo scambiato per il Re. È stato un errore.» Temrai sospirò. «Sì, sono il Re» disse «ed è per questo che non ho altra scelta. Gli uomini devono vedermi lì con loro, a combattere accanto a loro, a condividere gli stessi pericoli...» «Ma tu non lo fai» sottolineò Tilden, tenendo la coperta sotto il mento mentre la tendeva per piegarla. «Tu sei circondato da guardie del corpo. Sei rivestito da capo a piedi con una costosa armatura d'importazione. E poi cosa ti fa credere che tutti abbiano gli occhi incollati su di te per tutto il tempo? Se io fossi un soldato osserverei il mio nemico, non scruterei dietro le spalle per riuscire a distinguere la testa del Re in mezzo alla folla. Non immagino nemmeno per un momento che qualcuno venga anche solo sfiorato da questo pensiero.» «Non è questo il...»
«E in ogni caso» continuò Tilden «se io fossi un soldato non vorrei che il mio Re e comandante in capo fosse bloccato in prima linea, dove potrebbe facilmente restare ucciso e dove non riesce a vedere lo svolgimento della battaglia. Vorrei che si trovasse in cima a una collina, da dove sarebbe in grado di vedere tutto il campo e dare i suoi ordini all'esercito.» «D'accordo» disse Temrai. «Ho capito il tuo punto di vista. Non è un modo molto sensato di fare le cose. Ma è il modo in cui io faccio le cose, e non posso smettere adesso senza inviare a tutti un messaggio sbagliato. Pensi che mi diverta a essere il bersaglio di ogni pazzo suicida dell'esercito nemico che vuole essere un eroe e terminare la guerra con un sol colpo?» Tilden arcuò un sopracciglio mentre lo guardava. «Solo perché la cosa non ti piace non significa necessariamente che devi farla» disse. «Senti, se sei così preoccupato del giudizio della gente, perché non fai in modo che uno dei generali faccia un appello pubblico rivolto a te, di fronte all'intero esercito in modo che tutti possano sentire, e ti implori di non correre rischi che non sono necessari? Poi potresti dire che è veramente gentile da parte di tutti preoccuparsi di te, ma che senti che quello è il tuo dovere, e stupidaggini del genere; così tutti direbbero: no, il generale ha ragione, dovresti prenderti cura di te stesso in modo migliore. Saresti fuori dai pasticci e faresti ciò che la tua gente vuole. È semplice.» È semplice rifletté Temrai mentre giaceva sveglio a letto quella notte. È semplice; la verità è che sono talmente terrorizzato in questo periodo che debbo fare uno sforzo enorme per non fuggire appena poso gli occhi sul nemico. Dall'epoca... be', dall'epoca in cui ho raso al suolo Perimadeia, quando mi sono trovato dal lato sbagliato della spada di Bardas Loredan. Chiuse gli occhi e vide di nuovo quell'immagine: il Colonnello Bardas Loredan che lo fissava lungo la lama di una spada, con gli occhi riflessi sul metallo lucidato. Ormai era passato molto tempo, e l'ultima notizia che aveva sentito era che il Colonnello Loredan era un sergente dell'esercito dell'ufficio provinciale, e si dirigeva a una scrivania per un incarico amministrativo in un luogo lontano dell'Impero. È fuori dalla mia vita per sempre cercò di ripetere a se stesso, ma sapeva che stava sprecando il tempo. Ho raso al suolo Perimadeia solo perché ero terrorizzato da un uomo, e lui e ancora lì, e io sono qui, ad aspettare che venga a prendermi. Temrai non poté fare a meno di sorridere a quel pensiero; c'erano delle ribellioni nel suo regno, l'Impero premeva ai confini del suo territorio... queste erano le minacce per le quali valeva la pena perdere il sonno, e lui era talmente preoccupato dal fantasma di Bardas Loredan che aveva a malapena il tem-
po o l'energia per spaventarsi di altro. La questione più stupida, in tutto questo, è che ho vinto: ho distrutto la città più grande del mondo ma sono troppo preoccupato per chiudere gli occhi. Non penso proprio che lui resti sveglio ossessionato da me... «Gannadius» sussurrò il ragazzo, con voce sufficientemente alta da poter essere sentita nella vallata vicina. «Sei sveglio?» Gannadius ruotò e aprì gli occhi. «No» disse. Il ragazzo lo fissò. «Come ti senti?» «Malissimo» rispose Gannadius. «E tu?» Sembra seccato pensò Gannadius. Credo proprio che lo sarei anch'io se avessi la sua età. La superficialità mi irritava davvero quando ero giovane. Il cipiglio del ragazzo aumentò. «Ti rendi conto, vero?» disse. «Queste persone sono delle pianure... sono il nemico. Ci voleva solo la nostra fortuna a essere salvati da loro.» Sussultò e fece una smorfia, come se una vespa l'avesse appena punto. «Cosa faremo adesso?» Gannadius ruotò gli occhi. «Parlando a puro titolo personale» rispose «rimarrò qui a giacere finché non mi sentirò meglio. Tu puoi fare quello che vuoi.» «Gannadius!» «Mi dispiace, Theudas.» Gannadius si sollevò goffamente su un gomito. «Ma il fatto è che non possiamo fare molto. Non sono in grado di alzarmi da questo letto. Tu puoi provare ad andare a casa se vuoi, da solo, ma non chiedermi come fare perché non ne ho la minima idea. Inoltre» aggiunse «mi piace qui. Alcune donne gentili mi portano cibo e mi chiedono se mi sento meglio, e non devo fare nessun tipo di lavoro.» Theudas Morosin si voltò bruscamente; era stato educato troppo bene per essere scortese con le persone più anziane e migliori di lui. Dove aveva imparato le buone maniere? si chiese Gannadius; probabilmente non da Bardas Loredan, quindi presumibilmente da Athli Zeuxis sull'Isola. «D'accordo» disse Theudas «se questo è il tuo atteggiamento. Spero solo che troverai tutto ancora divertentissimo quando capiranno chi siamo e infilzeranno le nostre teste su dei pali in mezzo all'accampamento.» Gannadius sospirò. «Giusto. Allora, esattamente chi siamo? Quali sono queste terribili identità segrete che dobbiamo nascondere loro a ogni costo?» Theudas sussultò. «Siamo Perimadeiani» sibilò. «Oppure te lo sei di-
menticato?» Gannadius scosse la testa. «Puoi esserlo tu» disse «non io. Io sono un cittadino della Repubblica Marittima Unita, alla quale ci si riferisce più comunemente come Isola, proprio come te. E l'ultima volta che ne ho sentito parlare, le relazioni tra l'Isola e Re Temrai non potevano andare meglio. È questa la cosa meravigliosa dell'appartenere a un paese neutrale: le persone non ti uccidono solo a causa del luogo in cui vivi.» Theudas aprì la bocca e poi la chiuse di nuovo; Gannadius poté quasi vedere il pensiero attraversargli la mente, come fosse un grosso stormo di corvi che si dirigeva verso casa per appollaiarsi. «A dire il vero» disse «non è esatto. Tu sei un cittadino di Shastel, giusto? Non che abbia importanza in questo caso» aggiunse. «Sbagliato. Sono diventato cittadino dell'Isola nel momento in cui ho cominciato a possedere delle proprietà in essa. Finché avrò un saldo attivo nella banca di Athli sarò un cittadino genuino d'oro massiccio. Inoltre non penserai che a della spazzatura straniera come me venga permesso di unirsi all'Ordine immediatamente, vero?» Theudas scrollò le spalle. «In ogni caso» disse «non è questo il punto. E sì, suppongo che tu abbia ragione. Ho avuto un attacco di panico, mi dispiace. È solo» aggiunse facendo una smorfia come se si fosse appena bruciato «io odio queste persone. Penso che nulla potrà mai cambiare questo fatto, non dopo ciò che ho visto quando ero un bambino. Tu non c'eri Gannadius, tu non hai visto...» «Vero» rispose fermamente Gannadius «e per questo sono grato. E non ti sto dicendo di non odiarle; ma finché saremo loro ospiti, fallo in silenzio. D'accordo? In questo modo avremo forse la possibilità di venir messi su una nave e mandati a casa.» Theudas ciondolò la testa. «Mi dispiace» disse. «E lo so... non sono fatto per stare da solo.» Sollevò la testa e sorrise. «È davvero una fortuna che tu debba prenderti cura di me.» «Funziona in entrambi i sensi» rispose Gannadius stendendosi di nuovo e chiudendo gli occhi. «Non so quanto sarei arrivato lontano dopo il naufragio senza di te: probabilmente si sarebbe potuta misurare la distanza con un pezzetto di stringa molto corto.» Espirò per rilassarsi. «Se vuoi renderti utile» continuò «vai a cercare quella gentile dottoressa, e vedi se puoi fare in modo che invii un messaggio alla costa, per scoprire se è attesa una delle nostre navi e, in caso affermativo, per quando. Cerca di essere gentile, capito? Non chiamarla assassina imbevuta di sangue o cose del genere;
conosci la prassi.» «Sì, zio.» Quando il ragazzo se ne andò, Gannadius chiuse gli occhi e cercò di dormire. Invece si trovò di nuovo nella parte strana dello scenario, quella in cui i guerrieri della pianura salivano attraverso la finestra della sua stanza, segnando il davanzale con il sangue. «Cosa diavolo stai facendo lì?» chiese il guerriero. «Non lo so» rispose Gannadius. «Non voglio essere qui.» «Difficile.» Stava stringendo le sue ampie spalle contro l'intelaiatura della finestra, per cercare di toglierla a forza dal muro in modo da passare attraverso di essa. Sembrava forte a sufficienza per poterlo fare. «Il tuo posto è qui» aggiunse con un ampio sorriso. «No, non lo è.» «Mi permetto di dissentire. Ti saresti dovuto trovare qui. E adesso, eccoti qui. Meglio tardi che mai.» Gannadius cercò di scendere dal letto, ma le gambe non gli funzionavano. «Non sono realmente qui» protestò. «Questo è solo un sogno.» «Lo vedremo presto» disse il guerriero e grugnì per lo sforzo. Si sentì il rumore del legno che si spaccava. «Per come vedo le cose io, è qui che sei, e dove sarai sempre. Parlando correttamente.» Allungando una mano dietro di sé, Gannadius si aggrappò alla spalliera e cercò di tirarsi su. «Ti sto inducendo a dire questo» disse «perché mi sento colpevole. Tu non esisti nemmeno.» «Bada a come parli» rispose il soldato. «Io esisto eccome. Dammi un minuto e te lo proverò.» Con uno sforzo estremo Gannadius si mise a sedere e cercò di far dondolare le gambe fuori dal letto, ma erano completamente insensibili. «E inoltre» continuò il soldato «ti sto dicendo la verità, non credi? Eccoti qui, di nuovo sul suolo di Perimadeia, dov'è il tuo posto. La verità è che non sei mai veramente andato via. E lo sai.» «Vattene. Non credo in te.» Il soldato rise. «È una tua prerogativa» disse, «ma ti sbagli, e non puoi illuderti. Conosci fin troppo bene la situazione. Sull'Ombra e la Sostanza di Agrianes, libro terzo, capitolo sesto, sezioni da quattro a sette; lo conosco solo perché si trova proprio qui nella tua mente perché tutti lo possano vedere.» Spinse con forza e il sostegno centrale dell'intelaiatura della finestra cedette. «Nel libro in questione Agrianes afferma che ogni volta che si verifica una seria dicotomia tra la realtà percepita e il corso degli eventi
che meglio favoriscono il funzionamento del Principio, l'ultima interpretazione dev'essere preferita in assenza di prove positive del contrario. In altre parole: prove. Prova che non sei qui e potrei lasciarti andare. Altrimenti...» «D'accordo» sussurrò Gannadius. «Che tipo di prova ti serve?» «Prova...» ripeté il soldato; e divenne la dottoressa Felden, la graziosa signora che aveva appena mandato Theudas a cercare. Aveva un'espressione preoccupata. «Sta bene?» disse. Gannadius la guardò negli occhi. «Dove sono?» chiese. «Non piove mai» disse tristemente il corriere, tenendo goffamente un sacco sulla testa con una mano e le redini con l'altra. «Be', una o due volte l'anno, e poi piove davvero, se capisce cosa intendo. Non così.» Bardas, che non aveva nessun sacco, si tirò su il bavero intorno al collo. «Direi che questa è proprio pioggia.» Il corriere scosse la testa. «Assolutamente no» disse. «Be', si, ovviamente è pioggia, ma non del tipo che scende qui quando piove davvero. Viene giù a dirotto, e prima che ci sia il tempo di accorgersene, la carrozza è piena d'acqua. Non si riesce a vedere a dieci metri di distanza. Questa è solo... be', pioggia normale, come avevamo a Colleon.» Bardas tremò. La pioggia normale gli stava scendendo lungo la fronte e negli occhi. «Be'» commentò «questa è pioggia come quella che avevamo nel Mesoge; per circa un terzo dell'anno, per tutta la primavera e per qualche periodo a fine autunno. Un tempo dannatamente ottimo per restarsene al chiuso.» «Siamo arrivati» disse il corriere. «Ap' Calick. Dov'è diretto, ricorda?» «Cosa? Oh sì, mi scusi.» Bardas tolse la pioggia dagli occhi battendo le ciglia, ma riuscì a vedere solo una forma vaga e indistinta per la pioggia: un grosso e quadrato edificio grigio nella vallata sotto la collina che avevano appena sorpassato. «Quindi quella è Ap' Calick?» chiese, senza un vero motivo. «Quella?» Il corriere rise. «Dèi, no. Ap' Calick vera e propria si trova a un'altra mezza giornata di strada. Questa è l'armeria di Ap' Calick. È piuttosto diverso.» «Ah.» Bardas lasciò il colletto il tempo necessario per passarsi un polsino fradicio sugli occhi. Non c'era molta differenza, all'apparenza: si trattava di un grande edificio grigio, mal illuminato e perfettamente quadrato. «Va bene qui, allora» disse.
«È un posto maledettamente triste» continuò il corriere. «Un mio amico un tempo era stato assegnato qui; mi ha detto che non c'è niente. Niente da fare... una piccola e miserabile mensa dove annacquano gli alcolici. Non ci sono donne, tranne quei terribili esemplari che fanno le cotte di maglia, che hanno le mani come le raspe di un maniscalco, e che parlano in maniera volgare...» Ebbe un tremito e rovesciò la pioggia fuori da una piega del sacco e sopra un ginocchio di Bardas. «E la polvere» continuò «è il vero killer. Dopo aver trascorso un mese là dentro si sputa tanta graniglia da lucidare una corazza pettorale. Nessuna meraviglia che muoiano tutti.» «Ma non mi dica» rispose Bardas. «Questo accade se non si diventa matti prima per il rumore» continuò il corriere. «Tre turni al giorno e clac, clac, clac tutto il maledetto tempo. Se si è davvero fortunati, si diventa sordi. Il calore è un altro killer. Voglio dire che è tipico dell'ufficio provinciale: costruire la fucina più grande dell'occidente in mezzo a un maledettissimo deserto. Alcuni individui diventano matti perché bevono la salamoia.» «La cosa?» «La salamoia» ripeté il corriere. «Acqua salata per temprare. Si ha talmente sete là dentro in una giornata calda che si beve l'acqua salata delle vasche per temprare, si impazzisce e si muore. Ogni anno ne muoiono così tre o quattro. Sanno che bevendola moriranno, ma non gli importa.» Bardas decise che era il momento di cambiare argomento. «Non lo sapevo» disse. «Che si tempra nell'acqua salata.» Il corriere scosse la testa. «Si tempra in vari tipi di sostanze» specificò «a seconda di ciò che si fabbrica. Usano acqua salata, olio, strutto, acqua semplice e piombo fuso per alcune cose; oppure li usano per la ricottura? Non riesco a ricordare. Il mio amico non ne parlava molto. Si deprimeva anche solo al pensiero di quel luogo.» «È così?» disse Bardas. Poche centinaia di metri più avanti Bardas poté sentire il rumore. Era proprio come il corriere aveva detto: il picchiare di innumerevoli martelli, tutti fuori sincronia, come gocce di pioggia enormi su un tetto d'ardesia. «È peggio all'interno» lo informò il corriere. «Vede, ci sono delle grandi stanze, e il rumore rimbalza sulle pareti e sul soffitto. Si riesce sempre a distinguere un uomo che ha lavorato in uno di quei luoghi: non parla, ma urla.» Bardas scrollò le spalle. «Non mi dà affatto fastidio il rumore» disse. «Nel luogo in cui mi trovavo prima c'era sempre troppo silenzio per i miei
gusti.» Il corriere rimase zitto per un po'. Poi continuò: «Un'altra cosa che accade è che perdono l'uso della mano sinistra... quella con cui si tiene l'oggetto che si lavora, giusto? Tutte quelle scosse e quegli urti costanti uccidono i nervi. Si arriva al punto di non poter tenere nulla in mano. Quando ciò accade mandano via il lavoratore nelle fortezze del deserto: sarebbe più gentile da parte loro dargli una martellata in testa, sul serio.» Il corriere lo fece scendere davanti al cancello (ce n'era solo uno: con alte porte doppie di quercia costellate di chiodi, abbastanza robuste da poter essere le porte di una città), girò la carrozza e svanì nella pioggia. Bardas batté alla porta con il pugno e aspettò, finché sentì l'acqua piovana scendere l'interno dei suoi stivali. «Nome.» Si era aperto un pannello nella porta mentre lui guardava da un'altra parte. «Sì, tu. Il tuo nome.» «Bardas Loredan. Lei dovrebbe essere...» Si aprì uno spioncino nella porta principale. «L'aiutante la sta aspettando» disse una voce da sotto un cappuccio fradicio. «Attraversi il cortile, poi la terza scala a destra, quarto piano, a sinistra in cima alle scale e poi a destra, sesta a sinistra, e poi quarta porta sulla sinistra. Chieda, se si perde.» Il cappuccio si infilò rapidamente in una nicchia nella casa del guardiano e Bardas, che non era dell'umore giusto per restare fermo, procedette attraverso il cortile, che normalmente doveva essere asciutto, ma che al momento era composto da uno spesso fango grigio della consistenza della malta, che si attaccò ai suoi stivali mentre lo attraversava. Nel passare notò una serie di enormi intelaiature di legno, a coppie, unite da aste incrociate; potevano essere varie cose: parti che componevano una macchina d'assedio o telai per la linea di produzione. Non c'era nessuno in giro, e tutte le finestre che davano sul cortile avevano le imposte chiuse. L'edificio dall'altra parte del cortile costituiva un timido tentativo di costruire una torre: era quadrato, alto dieci piani e con una decina di scale che si aprivano sul cortile. Su ciascuno dei due lati c'erano delle gallerie, finestre con le imposte chiuse e nessuna porta, come le gallerie che correvano lungo gli altri tre lati; due piani, o altrimenti un solo piano dal soffitto molto alto e una soffitta. Bardas ne contò tre da destra e cominciò a salire la stretta scala a chiocciola. Era buio e il pavimento era scivoloso sotto i suoi piedi (non riusciva a vedere come la pioggia riuscisse a entrare); le scale erano molto ripide e non c'era nessun corrimano per mantenere l'e-
quilibrio: non era certo il genere di scale sulle quali si vorrebbe incontrare qualcuno, a meno che non si volesse assaporare l'esperienza di camminare all'indietro fino al pavimento sottostante. C'era una certa similitudine con le miniere che non gli sfuggì (tranne per il fatto che, naturalmente, nelle miniere l'unico modo in cui non si poteva morire era quello di cadere all'indietro da una rampa di scale). Sinistra, destra, sesta sulla sinistra, quarta porta sulla sinistra; si scoprì a mormorare sottovoce una frase magica, come l'eroe di una fiaba usa per oltrepassare i guardiani del regno dei morti. Si rimproverò per avere quei pensieri pessimisti: Non essere così stupido rifletté probabilmente scoprirai che è tutto molto divertente una volta che ti sarai sistemato. Nel corridoio c'erano delle luci: provenivano da piccole lampade a olio che tremolavano timidamente in profonde alcove nei muri e fornivano luce quasi sufficiente per vedere dove si camminava. Era più affidabile, pensò Bardas, usare il metodo dei genieri, che era quello di chiudere gli occhi e di trovare la svolta aspettando di sentire una corrente d'aria sfiorare il volto. Questa è solo una delle molte cose utili che ho imparato da quando sono entrato nell'esercito rifletté, abbassandosi giusto in tempo per evitare la bassa cornice invisibile di una porta. Trovare la quarta porta sulla sinistra fu un problema: le porte erano solo tre. Bussò alla terza e aspettò. Proprio quando era arrivato alla conclusione di aver sbagliato completamente strada, la porta si aprì e Bardas si trovò di fronte un uomo altissimo dal volto rotondo e dalle spalle larghe, che era un Figlio del Cielo con dei ciuffetti di capelli bianchi su ciascun lato della testa calva e un pizzetto proprio sotto la piega del labbro inferiore. «Sergente Loredan» disse l'uomo. «Entri. Sono Asman Ila.» Il nome gli era completamente sconosciuto, ma a Bardas questo non importò. Seguì l'uomo in una stanza stretta e buia, non più larga del corridoio che aveva appena lasciato. La poca luce che c'era proveniva da quattro piccole lampade a olio che si trovavano su una sottile cornice di ferro che era quasi alla stessa altezza della sua spalla; c'era una finestra all'estremità più lontana della stanza, ma le imposte erano chiuse, ed era sprangata dall'interno. Tre delle pareti erano nude; sulla quarta, sopra una scrivania di tavole, era appeso un bellissimo arazzo, che probabilmente era di Colleon, e che avrebbe tolto il fiato se ci fosse stata luce sufficiente a vederne i colori. «Viene dal bottino di guerra di Chorazen» spiegò l'uomo (Bardas non aveva mai sentito parlare di Chorazen prima). «Mio nonno comandava il
sesto battaglione. Ma poiché la luce del sole lo scolorisce, tengo le imposte chiuse.» «Ah» disse Bardas cercando di dimostrare che la spiegazione era stata esauriente. «A rapporto per prendere servizio» aggiunse. Asman Ila indicò con un gesto delicato un piccolo sgabello a tre gambe, che si piegò in modo preoccupante quando Bardas vi si sedette sopra; una gamba era decisamente più corta delle altre. «Questo viene da Ap' Seudel» continuò Asman Ila «prima dell'incendio. È stato il primo posto dove sono stato assegnato. È di palissandro locale, con un affascinante intarsio. Benvenuto ad Ap' Calick.» «Grazie» disse Bardas. Asman Ila si sedette... la sua sedia sembrò persino più scomoda dello sgabello, ma Bardas non seppe se proveniva da qualche parte. «Così» disse «lei è l'eroe di Ap' Escatoy. È stata un'impresa davvero notevole, a detta di tutti.» «Grazie.» «Una città affascinante» continuò Asman Ila. «Vi ho passato del tempo... circa trent'anni fa. Non dimenticherò mai i mobili meravigliosi di avorio intagliato negli appartamenti di stato del viceré: decisamente particolari, per nulla simili a quelli di qualsiasi altro luogo al mondo, anche se spesso cercano di imitarli a Ilvan. Sono piuttosto facili da riconoscere, però: si può quasi palparne l'ineleganza appena si entra in una stanza. Un mio cugino dell'ufficio provinciale mi ha promesso uno degli schermi trittici da pubblico della sala principale di ricevimento; sarebbe troppo sperare di avere la coppia, naturalmente.» Mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità, Bardas riuscì a distinguere i profili di sedie, casse, ceste per libri, leggii, sgabelli e molti altri piccoli oggetti portatili; erano ammucchiati uno sull'altro contro le pareti, coperti da anonimi teli grigi. «I miei compiti» lo incitò speranzoso Bardas, ma Asman Ila sembrava essersi dimenticato che si trovava lì. «Quasi tutto ciò che si trova in questa stanza» disse alla fine «proviene da città conquistate e località che io o i miei antenati abbiamo catturato in guerra. Alcuni oggetti credo che siano unici: il portalampada, per esempio. Credo che sia l'unico pezzo di ferro lavorato di Cnerian che ancora esista. La città non esiste più, ma parte della sua eredità continua a vivere, qui con me. Adesso, passiamo ai suoi compiti. È tutto molto semplice.» In lontananza Bardas poteva ancora sentire il rumore dei martelli, debole ma quanto bastava per risultare fastidioso. «Mi vergogno ad ammetterlo»
disse Bardas «ma ho solo un'idea molto vaga di ciò che fate qui. Non so se è possibile...» Asman Ila non lo ascoltava; guardava la porta. «In generale» disse «lei è qui per supervisionare, ed è in questo che la sua ampia esperienza nel commercio si dimostrerà davvero utile; naturalmente io non so battere un chiodo o infilarlo dritto e, inutile a dirsi, loro se ne approfittano. I furti dai magazzini sono il nostro maggiore problema, seguiti dalle fluttuazioni nella richiesta di ciò che produciamo. Ci sono dei momenti in cui mi chiedo se l'ufficio provinciale conosce almeno il significato del termine "rifornimento per gradi."» Bardas si mosse sulla sedia traballante che sembrava essere stata costruita per un uomo molto più piccolo, forse persino un bambino. Si chiese se avrebbe avuto senso dire che non sapeva assolutamente nulla del lavoro in un'armeria, ma concluse che non ne avrebbe avuto. «Ma» continuò il Figlio del Cielo «ci arrangiamo. Siamo fortunati ad avere moltissimi commercianti abilissimi qui ad Ap' Calick; questo significa che possediamo flessibilità. L'alloggio che ha è adeguato ai suoi bisogni? Se ha problemi o domande, chieda pure a me, o al capitano delle operazioni. Dopo tutto è inutile stare a disagio quando non è necessario.» Bardas, che non sapeva nemmeno dov'era il suo alloggio, annuì in segno di apprezzamento. «Grazie» disse e pensò a cosa potesse dire perché l'aiutante lo lasciasse andare via. Lo sgabello stava cominciando a fargli davvero male, e aveva la sensazione che con un movimento improvviso l'avrebbe probabilmente rotto. «Dal punto di vista tecnico» continuò Asman Ila, soffocando attentamente uno sbadiglio «può sempre consultare il caporeparto, Maj. Non posso dire che sia del tutto affidabile, anche se non è peggiore della maggior parte delle persone che si trovano qui dentro, ma sembra sapere ciò che fa. Ha riparato una serie di candelieri per me: erano di Riciden e mancavano degli ornamenti e la base, che si era rotta. Quasi non si vede la differenza, se non sotto una forte luce. Mio nonno li prese dalla biblioteca di Coil, quindi non sorprende davvero che fossero danneggiati.» Una forte luce rifletté Bardas. Non c'è pericolo di trovarla qui. «Grazie» disse. «È tutto?» Asman Ila sedette perfettamente immobile per qualche momento, fissando qualcosa sopra e alla sinistra della testa di Bardas. «E si ricordi» disse improvvisamente «la mia porta è sempre aperta. È molto meglio affrontare un problema quando si presenta che cercare di nasconderlo finché la situa-
zione peggiora. Dopo tutto» aggiunse «siamo tutti dalla stessa parte, le pare?» «Maj» urlò Bardas per la terza volta. L'uomo scosse la testa. «Non l'ho mai sentito nominare» rispose urlando. «Perché non chiede al caporeparto?» Bardas scrollò le spalle, sorrise e se ne andò. Devo trovare il modo per affrontare questo rumore pensò mentre si faceva strada tra i banchi, facendo del suo meglio per rimanere fuori dalla portata delle macchine e dei martelli. In ogni caso, costituisce un cambiamento dopo le miniere. Alla fine trovò il caporeparto (che si chiamava Haj, non Maj); era accovacciato in una piccola nicchia nella parete della galleria, e dormiva sodo. Haj si rivelò essere un uomo basso e tozzo sui sessant'anni, con le avambraccia lunghe e ossute e le mani più grandi che Bardas avesse mai visto. Aveva la spalla destra più alta della sinistra, e i capelli erano ispidi e bianchi. «Bardas Loredan» ripeté Haj. «L'eroe. Bene, mi segua.» Haj si mosse rapidamente, a piccoli e rapidi passi; si abbassò e si fece strada attraverso l'officina affollata senza, almeno in apparenza, guardare dove andava, lasciando dietro di sé Loredan, che era più cauto, così che per due volte Haj dovette fermarsi per aspettare che lo raggiungesse. Come tutti coloro che Bardas aveva visto nell'officina Haj indossava un lungo grembiule di pelle che andava dal mento fino a poco sopra le caviglie; indossava grossi stivali militari con un rivestimento d'acciaio sulle punte, e la tasca del grembiule era piena di piccoli attrezzi e di qualche straccio. «Viene o no?» «Mi scusi» disse Bardas. «Da questa parte» indicò Haj; e un attimo dopo sparì. Bardas rimase immobile per qualche secondo, cercando di capire dove fosse andato; poi vide un'arcata piccola e bassa nel muro della galleria, quasi invisibile nella luce soffusa. Dovette piegarsi quasi a metà per passarvi sotto. L'arcata portava a un passaggio breve e molto stretto che terminava con un'altra scala a chiocciola ripida che intimoriva, e che saliva a spirale per quattro giri e terminava su una passerella di tavole, in alto sopra il pavimento dell'officina. Non c'era corrimano. Ma pensa un po' rifletté Bardas guardando in basso. Probabilmente ho avuto paura dell'altezza per tutta la vita e non me ne sono mai reso conto fino a questo istante. Fissò gli occhi sulla porta al termine della passerella, che portava nella parete posteriore
della galleria. A meno che Haj non fosse morto cadendo o non si fosse trasformato in un uccello, si doveva trovare da qualche parte dietro quella porta. Bardas inalò profondamente e a lungo e continuò, con le mani serrate dietro la schiena, preoccupandosi di non guardare i suoi piedi. Oltre la porta c'era un altro stretto corridoio, che girava a destra e poi si allungava nell'oscurità. Su di esso si aprivano delle porte a intervalli regolari: una di esse era aperta, e Bardas vi entrò. «Eccola» disse la voce di Haj nell'oscurità. «Be', ecco qui. È una bella stanza.» Bardas si fece strada lungo il muro con le mani finché qualcosa lo bloccò. Allungò una mano e sentì del legno ruvido: delle tavole piatte e una barra. Sollevò la barra, che scivolò dalla sua mano e cadde a terra, e poi cercò a tentoni finché trovò una maniglia e la tirò. La stanza si inondò di luce quando l'imposta venne aperta, rivelando quella che sembrava la cella di una prigione. C'era uno scaffale che sporgeva da una parete, con un'unica coperta piegata e un unico cuscino ingiallito; un'altra mensola si trovava sotto la finestra, e su di essa c'erano una caraffa di terracotta marrone e una ciotola bianca di stagno scolpita. Tutto lì. «Grazie» disse Bardas. Haj tirò su con il naso. «Non le piace, si capisce benissimo.» «No, no» rettificò Bardas «va bene. O perlomeno ho vissuto in posti peggiori.» «Davvero?» disse Haj. «La maggior parte di noi dorme sul tetto, oppure sotto i banchi nell'officina durante la stagione piovosa.» Si guardò intorno, come a sfidare Bardas a criticare ulteriormente. «Qualcuno le ha detto cosa deve fare?» chiese. «Non proprio» rispose Bardas. «L'aiutante ha detto qualcosa riguardo una supervisione, ma...» Haj Sorrise. «Non dia troppo peso a quello che dice lui. È il caporeparto di questo posto, ed è così che dev'essere, naturalmente.» «Capisco» disse Bardas. «E io cosa sono? Un caporeparto?» Haj scosse la testa. «Lei non ha un vero e proprio lavoro» spiegò. «Ogni tanto fanno così: ci mandano persone per le quali non riescono a trovare un altro posto. Questo fatto non provoca danni, di solito, finché si tengono fuori da tutto. In sostanza, faccia quello che diavolo le pare, e non interferisca: tutto qui. Vediamo... la paga è l'ultimo giorno del mese; deve dare due quarti per le tasse sull'equipaggiamento e l'uniforme, tre quarti per l'associazione sulle ferite e la sepoltura, due quarti di ritenute, e il resto è
suo da spendere, ma se ha del buon senso lo terrà al sicuro sul retro del magazzino, come fanno gli altri. A lume di naso questa è una buona regola: non lasciare niente in giro a meno che non ti importa se ti sarà rubata. Ci sono molte persone che hanno le mani lunghe qui... e non c'è nient'altro da fare. D'accordo... si mangia in mensa un'ora dopo ogni turno; ha il diritto di usare la mensa ufficiali nel seminterrato della torre, ma è piuttosto costosa: un quarto al giorno escluso vino e birra. Altrimenti può unirsi a noi nella nostra mensa: chieda a una persona qualunque e le indicherà dov'è.» Bardas annuì. «Grazie» disse. «Quali ritenute?» «Le ritenute» ripeté Haj. «Due quarti al mese. Non sa cosa sono?» «Mi dispiace. Non le avevamo tra i genieri, o almeno non le chiamavamo così.» Haj sospirò. «Le ritenute sono ciò che viene detratto dalla paga di ciascuno per la sua smobilitazione. Sa» aggiunse «quando si lascia l'esercito. È per la vecchiaia e cose del genere; viene restituito ciò che si è versato, più le gratifiche, meno le tasse, multe, imposte, esenzioni e cose del genere. Non avevate queste cose nelle miniere?» «No» disse Bardas. «Immagino perché la possibilità che qualcuno di noi diventasse vecchio era troppo esigua per giustificare il lavoro in più.» «Come dice lei» rispose Haj. «Be', qui le ha. Adesso, c'è qualcos'altro che devo dirle? Non penso. Se non capisce qualcosa lo chieda a qualcuno, d'accordo?» «Va bene» disse Bardas. «Grazie.» Haj annuì. «Bene. Adesso devo tornare giù, prima che tutto il reparto si fermi.» Quando se ne fu andato, Bardas si sedette per un po' sul letto a fissare la parete di fronte e ad ascoltare il rumore dei martelli. Proprio quello che ci vuole rifletté allegro; nessun problema nel rimanere fuori dai guai… Mi piacerà qui. Questi pensieri non sortirono l'effetto desiderato. Sopra a ogni altra cosa, poteva sentire il picchiare dei martelli; quando si mise le mani sulle orecchie, li sentì altrettanto chiaramente. È molto meglio delle miniere ragionò. E non c'è nessuno che cerca di uccidermi; e questo deve già valere qualcosa. Dopo aver trascorso un'ora da solo nel suo alloggio, Bardas si fece con cautela strada di nuovo lungo i corridoi, sulla passerella e lungo le scale nella galleria. Rimase in piedi per un po', lasciando che il rumore lo avvol-
gesse, e cercando di assaporarlo invece di soffocarlo. Poi si diresse verso il banco di lavoro più vicino, dove un uomo stava tagliando delle forme da un foglio di acciaio con delle forbici da lavoro molto pesanti. «Sono Bardas Loredan» urlò. «Sono il nuovo...» Pensò freneticamente a un incarico che poteva sembrare reale. «Il nuovo vice ispettore. Mi dica esattamente cosa sta facendo.» L'uomo lo guardò come se fosse matto. «Sto tagliando.» rispose. «Cosa le sembra che faccio?» Bardas si accigliò. «Non è questo l'atteggiamento che voglio vedere qui dentro» disse. «Descriva il suo metodo di lavoro.» L'uomo scrollò le spalle. «Mi portano le piastre dalla sezione di progettazione» spiegò «con gli schemi segnati con una linea blu. Le taglio e le metto in questo contenitore. Quando è pieno, viene qualcuno e lo porta laggiù.» Indicò l'estremità lontana dell'officina con un cenno del capo. «Tutto qui» concluse. Bardas si morse un labbro. «D'accordo» disse. «Adesso mi faccia vedere come ne fa una.» «Perché?» «Voglio vedere se la fa nel modo giusto.» «Si accomodi.» L'uomo sollevò un'altra lamina, la poggiò a faccia in giù sul banco e la girò. Afferrando la lamina con una mano e la lunga leva delle forbici con l'altra, infilò la lamina nelle ganasce per tagliarla e abbassò il manico. Il taglio sembrò richiedere meno sforzo di quanto Bardas avesse immaginato; sembrava proprio come tagliare un vestito, solo che una ganascia delle forbici era bloccata con dei bulloni al banco. Per fare le curve, l'uomo si spostò a un altro arnese montato dall'altra parte; questo aveva lo stesso manico lungo, ma invece della lama superiore delle forbici c'era uno strumento circolare per tagliare con delle dentelle intorno al bordo della lama. «Va bene fin qui?» chiese l'uomo. «Abbastanza» borbottò Bardas. «Continui.» L'uomo sogghignò. «Allora non vuole vedere la terza fase?» «Cosa? Oh sì, perché no?» L'uomo prese i pezzi tagliati e li inserì in un'enorme morsa fissata al banco, allineando con attenzione il bordo lungo la ganascia in modo che il margine, lasciato leggermente irregolare dalle forbici, fuoriuscisse; poi prese un grosso e ampio scalpello da uno scaffale accanto alla morsa, lo poggiò a livello sopra la ganascia principale, proprio al bordo e ad angolo
retto rispetto alla lamina, e cominciò a colpire con forza la parte posteriore dello scalpello con un enorme maglio di legno quadrato. Il bordo irregolare venne tolto, lasciando un margine perfettamente liscio. «Be'?» disse. «Ne faccia un'altra.» L'uomo ne fece un'altra; e un'altra e poi altre due. «Ecco, questo è un contenitore pieno. Ho passato l'esame?» Bardas si comportò nel modo più indifferente possibile. «D'accordo» disse. «Cos'altro fa?» «Come ha detto?» «Cos'altro fa?» ripeté Bardas. «Altre procedure o stadi nell'operazione.» Di nuovo l'uomo lo guardò come se dicesse delle cose senza senso. «È tutto qui» ripeté. «Taglio i fiancali. Perché, dovrei fare anche qualcos'altro? Nessuno l'ha mai detto.» Bardas prese il contenitore. «Continui» disse e si diresse verso la zona che l'uomo aveva indicato. Nell'angolo estremo un uomo stava inserendo dei pezzetti di metallo che sembravano simili a quelli nel contenitore in un grosso aggeggio che di base era costituito da tre lunghi e spessi rulli che giacevano orizzontalmente in un'enorme cornice di ferro battuto. Un rullo ruotava quando l'uomo girava una maniglia; questo portava la piastra di acciaio sotto gli altri due rulli (i cui livelli e impostazioni potevano essere regolati girando le grosse viti di fissaggio che si trovavano a ciascuna estremità) e la inseriva dall'altra parte; a quel punto era stata trasformata da una striscia dritta in una forma poco profonda e curva... cioè la forma di una delle piccole piastre che costituiscono l'assemblaggio di un'armatura per le spalle; che, presumibilmente, era ciò che il termine "fiancali" significava. Dopo aver ruotato ogni pezzo lo sollevava fino a un pezzo curvo di legno che era su un banco, con l'idea evidentemente di sistemarlo comodamente contro il legno, e lo aggiungeva così alla pila di pezzi completati; se non era esatto tornava sotto i rulli, e l'uomo armeggiava con le viti di fissaggio finché usciva sufficientemente piegato da potersi adattare allo schema di legno. Facendo un profondo respiro, Bardas camminò fino a quell'uomo, mise il contenitore di pezzi di acciaio sul banco più vicino e ripeté la routine del vice ispettore. Quell'uomo sembrò meno scettico dell'altro (o forse gli importava ancor meno); continuò il suo lavoro come se Bardas non fosse lì, finché il contenitore fu pieno. «Bene» disse Bardas. «Adesso queste piastre dove vanno?»
L'uomo non disse nulla, ma fece cenno con la testa in direzione dell'estremità occidentale della galleria. Poggiando il contenitore contro il petto (non era una cosa da poco: quaranta sezioni curvate circa, ammucchiate insieme con cura in semicentri concentrici, come la pelle squamosa a sezione incrociata di un pezzo di salmone troppo cotto) Bardas camminò incerto attraverso l'officina, sperando ancora una volta di riconoscere qualcuno che lavorasse con qualcosa di simile prima di rendersi completamente ridicolo. Fortunatamente lo stadio successivo del processo fu facile da individuare; un uomo con un martello e un piccolo punteruolo infilava chiodi in una partita di sezioni identica a quelle che lui stava trasportando. «Facile come bere un bicchier d'acqua» spiegò l'individuo, che fu ben felice di spiegare ogni aspetto del suo lavoro al vice ispettore. «Si cercano i segni dove i ragazzi della progettazione hanno indicato dove devono andare i buchi; poi si prende il lavoro nella mano sinistra, così, e lo si preme contro il banco così; poi si prende il punteruolo nella mano sinistra e il martello nella destra e...» (clink fece il martello) «... ecco fatto. È semplice, vero?» Bardas annuì. «Sì» disse, perché in effetti lo era. «Un'altra cosa: non soltanto è semplice, ma è anche dannatamente noioso.» «Cosa?» L'uomo lo guardò. «Sa per quanto tempo avrei dovuto fare questo lavoro? Due settimane, finché non fosse arrivato il nuovo uomo e allora sarei stato spostato alla spianatura, come ero stato addestrato. E sa da quanto sono qui ormai? Sei anni. Sei anni, dannazione, a fare questo lavoro dannatamente semplice semplice ancora e ancora e ancora...» L'uomo fece un profondo respiro. «Senta» disse «lei è il vice ispettore: veda se può mettere una buona parola per me, d'accordo? Voglio dire... il tipo che faceva il suo lavoro prima di lei mi aveva promesso che l'avrebbe fatto, ma sono passati due anni ed è successo forse qualcosa? Col cavolo; e se resto qui ancora per molto...» «D'accordo» disse rapidamente Bardas. «Vedrò cosa posso fare.» «Lo farà?» Il volto dell'uomo si illuminò di gioia, e poi si rabbuiò per il sospetto. «Se se ne ricorderà, intende dire; se se ne ricorderà e si prenderà il disturbo di farlo. Be', posso solo dire che ho già sentito queste parole e tutto ciò che posso dire su questo è che non smetterò di parlare...» «Vedrò cosa posso fare» ripeté Bardas indietreggiando di un passo. «Lasci fare...»
«Non ha nemmeno chiesto come mi chiamo» urlò l'uomo dietro di lui, furioso, ma Bardas era ormai abbastanza lontano per non essere costretto a girarsi; poteva far finta di non aver sentito. Si allontanò rapidamente, come se sapesse dov'era diretto, finché inciampò su un grosso blocco di legno e dovette aggrapparsi a un banco di lavoro per evitare di cadere. «Attento» disse l'uomo dietro il banco. «Avrei potuto schiacciarmi il pollice, per colpa sua.» Bardas alzò lo sguardo. L'uomo stava tenendo in una mano un pezzo di acciaio e nell'altra un martello. Non sembrava un martello comune: invece di una testa d'acciaio aveva un rotolo di pelle grezza avvolto strettamente e infilato a forza in un pesante tubo di ferro, messo ad angolo retto rispetto all'impugnatura. «Mi dispiace» rispose Bardas. «È il mio primo giorno qui.» L'uomo scrollò le spalle. «D'accordo» disse. «Ma guardi dove va la prossima volta.» Sul banco davanti a lui c'era un altro blocco di legno, forse un po' più grosso di quello con cui Bardas si era appena escoriato lo stinco. Al centro del blocco - Bardas riconobbe che era di quercia - c'era un buco quadrato, nel quale era infilato un palo di ferro con in cima una palla sempre di ferro leggermente più piccola della testa di un bambino. Il pezzo di metallo che l'uomo teneva in mano sulla palla era quasi triangolare e sembrava un disco poco profondo; era un pannello per un elmetto conico a quattro pezzi, del tipo vecchio stile che veniva ancora fornito ad alcune unità di cavalleria ausiliaria. L'uomo notò che Bardas lo fissava. «Vuole qualcosa?» chiese. «Sono il nuovo vice ispettore» rispose Bardas. «Mi dica quello che sta facendo.» «La spianatura» rispose l'uomo. «Sa cosa vuol dire spianatura?» «Me lo dica lei. Con parole sue» aggiunse Bardas. «D'accordo.» L'uomo fece un largo sorriso. «Vi mandano qui e non avete la minima idea di cosa si fa, vero? Però non me ne importa un fico secco. Allora... la spianatura avviene quando usiamo il martello sull'esterno dell'articolo quasi finito per togliere tutti i bozzi e le ammaccature, e renderlo così liscio per i lucidatori. Tutta la forma attuale, vede, è fatta dall'interno; così per finirla, passiamo su di essa con delicatezza dall'esterno, non abbastanza da modificare il metallo, ma solo per conferirgli un bell'aspetto. Non le direi questo se lei fosse un vero ispettore, altrimenti sarei senza lavoro. Vuole vedere come faccio?» Bardas annuì e l'uomo continuò a fare ciò che stava facendo, angolando
il lavoro sulla palla e levigando i segni con una serie di ondulazioni, e persino piccoli colpi, e lasciando che il martello cadesse a causa del suo stesso peso e rimbalzasse sulla superficie del metallo. «Il trucco è di non colpire con forza» spiegò. «La forza non porta a nulla: bisogna lasciare che il maglio cada e che il peso faccia tutto il lavoro. È per questo che lo tengo così?, intrappolato tra il medio e la base del pollice, guardi.» Alzò la mano destra per dimostrarlo. «Tenga, vuole provare?» Bardas esitò. «D'accordo» disse e sollevò la mano per prendere il martello. «Va bene così?» L'uomo scosse la testa. «Lo sta tenendo troppo stretto. Non deve fare così, perché non sta cercando di strangolare quel maledetto affare, ma vuole solo tenerlo abbastanza fermo da poterne mantenere il controllo... ecco, ci sta arrivando. È piuttosto facile una volta che si sa come fare, ma non ci si arriverà mai solo con l'intuito.» «È strano» disse Bardas. «Non avrei mai immaginato che molti colpetti dati piano con un po' di pelle arrotolata potessero dare forma a un pezzo di metallo.» L'uomo rise. «È proprio questo il punto. Un'infinità di piccoli colpi leggeri con un maglio di pelle rendono l'oggetto così duro e compatto che un maledettissimo e grande colpo a due mani, con un'ascia da sei libbre, rimbalza.» Sollevò l'oggetto dalla palla di acciaio e ci passò un dito sopra. «È un po' come la vita, in verità» continuò. «Più ti viene gettato fango in faccia, più diventi duro da uccidere.» CAPITOLO SESTO No, no gli avevano detto - erano piuttosto scioccati - non devi chiamarla guerra civile, era una ribellione. Sarebbe stata una guerra civile solo se avessero vinto loro. Non era il genere di vittoria sulla quale Temrai voleva soffermarsi più di quanto fosse necessario; ma adesso che tutto era finito era quasi d'obbligo, dal punto di vista diplomatico, per i suoi vicini dell'ufficio provinciale, esprimere la loro soddisfazione per la vittoria del migliore. Sarebbe bastata una semplice lettera, oppure un messaggero che recava parole scritte a grandi lettere su una pergamena; non era davvero necessario inviare una delegazione proconsolare al completo (anche se, chiaramente parlando, come spiegò con attenzione il Vice Proconsole Arshad, poiché la missione
era nei confronti di uno stato sovrano amico, riconosciuto come non allineato, da parte di un direttorio provinciale in opposizione a un governatore provinciale, essendo una provincia direttamente governata e quindi in teoria sotto la diretta supervisione del cancelliere dell'Impero, per mezzo dei delegati debitamente designati, il protocollo richiedeva una presenza personale da parte del diplomatico di grado superiore; una presenza minore, fece capire Arshad, avrebbe costituito un insulto, o come minimo una prova di maleducazione e di ignoranza). «Capisco» rispose ipocritamente Temrai. «Be', è molto gentile da parte sua aver fatto tutta questa strada; ma come può vedere sono ancora tutto intero, e così anche i miei ufficiali superiori e ministri; in realtà non ci è stato fatto alcun male.» Smise di parlare, incapace di pensare a qualcos'altro da dire. Di tutte le persone che aveva incontrato nel corso della sua esistenza estremamente movimentata, il Vice Proconsole Arshad era la più inumana. La luce sembrava scomparire dai suoi occhi come acqua assorbita dalla sabbia e, quando parlava, le sue parole sembravano venire da molto lontano. Temrai si sentì obbligato a continuare a parlare, nello sforzo di colmare le loro differenze naturali. «Certo» continuò Temrai «è stata una circostanza terribile; abbiamo combattuto contro persone che pensavamo fossero nostri amici... be', più che amici: familiari. Ancora non sono sicuro del motivo, a essere sincero. È accaduto e basta. Un attimo prima eravamo tutti dalla stessa parte e volevamo le stesse cose, anche se non eravamo del tutto d'accordo su come ottenerle. Subito dopo non ci siamo più parlati, loro hanno lasciato l'accampamento e sono andati via con i loro cavalli, pecore e capre. Be', del resto se non volevano più stare qui potevano farlo: dipendeva da loro. Ma poi hanno cominciato a causare guai... nulla di terribile, ma erano sempre azioni moleste e dannose. Non permettevano ad alcuni dei nostri di abbeverare gli animali a un fiume che decisero fosse di loro proprietà; e altre sciocchezze del genere, specialmente perché se i nostri compagni avessero risalito il fiume per un paio di miglia, avrebbero bevuto esattamente la stessa acqua (anche se con qualche minuto di anticipo) e tutti sarebbero stati felici.» «Ma, malauguratamente, non è andata così; prima si è creata una situazione di stallo, poi c'è stato un tafferuglio, visto che tale episodio non si può definire diversamente, ma è rimasto ucciso un uomo, così sono stato coinvolto anch'io; e ancora mi chiedo se avessi potuto affrontare la circostanza diversamente, e se forse avrei potuto trovare un modo per non farne una questione grave. Invece ho insistito che l'uomo che aveva sferrato il
colpo venisse inviato qui per rispondere di ciò che aveva fatto; loro hanno rifiutato, e così io ho inviato delle persone a prenderlo. Ci sono stati altri tafferugli...» Scosse la testa. «Non doveva succedere, gli dèi lo sanno, ma è accaduto; e adesso eccoci qui, a guardare in retrospettiva la nostra prima guerra civile. Immagino che, in un certo senso, questo sia un segno di quanto siamo arrivati lontano. Intendo dire che sono cose come queste che caratterizzano una nazione.» Temrai si morse un labbro; non riusciva a credere di aver detto lui certe cose. Ma il Vice Proconsole Arshad era seduto lì, e gli tirava fuori le parole come un bambino che succhia un uovo. Probabilmente era venuto per questo. Nonostante ciò, non riusciva a vedere l'utilità di quell'esercizio. Era come aprire deliberatamente una vena. «Una sequenza di eventi davvero sfortunati» disse alla fine Arshad, spostando la testa leggermente in avanti, anche se il resto del corpo rimase immobile. Aveva una brutta cicatrice che gli andava dall'angolo dell'occhio sinistro fino al lobo dell'orecchio, e Temrai si sforzò di non fissarla. «Speriamo che avendo affrontato il problema in modo così rapido e con tale decisione, lei abbia effettivamente prevenuto qualsiasi ulteriore opposizione a un programma davvero ben accetto e positivo di riforme sociali. Come ha detto, se le vostre azioni faranno sì che una cosa del genere non accada più in futuro, lei ha il diritto di provare una notevole soddisfazione.» «Grazie» rispose Temrai, anche se non era del tutto sicuro del motivo per cui stava ringraziando quell'uomo così speciale. Quello che voleva davvero, naturalmente, era che il Figlio del Cielo e il suo seguito dai volti seri se ne andassero e non tornassero mai più. Forse i diplomatici avevano un modo speciale per dire una cosa del genere senza offendere o dare inizio a una guerra; ma se esisteva, nessuno gliene aveva rivelato il segreto. «Personalmente ne ho avuto abbastanza di guerre e di combattimenti. Intendo dire che anche se si è davvero bravi in qualcosa non ne consegue necessariamente che ci piaccia farla. È decisamente così per me combattere una guerra... be', questo vale non solo per me, ma per tutti noi. Direi che come nazione abbiamo dimostrato tutto quello che c'era da dimostrare, e adesso è ora di andare avanti.» Il Vice Proconsole Arshad lo guardò in silenzio, come se stesse per decidere se dargli un colpo in testa o mandarlo via e lasciare che maturasse un altro po'. «Spero che queste aspirazioni si dimostrino possibili» disse. «Per il momento vorrei ricordarle un estratto dal trattato più rispettato dalla mia gente sull'arte della guerra. In poche parole dice che cercare di fare la pace senza una vittoria totale è come cercare di fare una minestra senza
le cipolle: non è possibile.» Non sorrise, ma se fosse stato più umano ci sarebbe stato lo spazio per un sorriso. «Ha molto lavoro da fare; ho abusato già a lungo dei suo tempo. Posso concludere dicendo che l'Impero è felice di avere finalmente lei come vicino.» Dopo che Arshad se ne fu andato - nonostante Temrai l'avesse visto partire, ebbe quasi l'irrazionale sensazione che potesse ancora trovarsi lì in agguato da qualche parte - fece un lungo respiro di sollievo e chiese: «Qualcuno potrebbe dirmi di cosa si è trattato?» Poscai, il tesoriere appena designato (il suo predecessore era stato dall'altra parte durante la guerra civile, e non era sopravvissuto), sorrise mestamente. «Benvenuto in politica» disse. «Dicono che diventa più facile man mano che si va avanti, ma ho i miei dubbi. Penso invece che le cose vadano sempre peggio, finché entrambe le parti decidono di lasciar perdere di combattere, come gli esseri umani sono destinati a fare.» Temrai scosse la testa. «Perché mai dovrebbero iniziare una guerra contro di noi? Non abbiamo fatto loro alcun male. E non posso credere che abbiamo qualcosa che vogliono. Pensi davvero che ci attaccheranno, Poscai? Forse non ho ascoltato con attenzione, ma penso di non aver sentito nulla che possa sembrare come una minaccia. Nulla di così diretto» aggiunse. Il Generale Hebbekai tolse il cuscino dalla sedia sulla quale si era seduto Arshad. Lo poggiò accanto ai piedi di Temrai e ci si sedette sopra. «Oh, ha fatto delle minacce. Se l'ufficio provinciale ti dice che gli piacciono le scarpe che porti, è una minaccia: ti uccideranno e ti prenderanno le scarpe. Anche se dicono che è una bella giornata pur essendo in questo periodo dell'anno, si tratta di una minaccia. Se non dicono assolutamente nulla, ma si limitano a sedersi e a sorriderti, questa è davvero una brutta minaccia. Certo non puoi credere che un uomo come quello faccia tutta quella strada solo per prendere in prestito un paio di forbici.» Temrai scrollò le spalle. «Non saprei» disse. «E nemmeno tu. Affrontiamo la situazione, Hebbekai: non sappiamo nulla di quelle persone, o almeno non ancora.» Poscai scosse la testa. «Parla per te» disse. «Ecco come stanno i fatti. Tanto per cominciare Arshad e i suoi amici dell'ufficio provinciale - è una sola provincia, ricordate, e non è assolutamente la più grande dell'Impero possiedono un esercito regolare di almeno centoventimila uomini, tutti ottimamente addestrati e ben equipaggiati, per non parlare del fatto che sono ben pagati. Gli eserciti non si tengono per decorazione: se ne possie-
dono uno di quel genere il motivo è che lo useranno. Non possono fare altrimenti.» «Non ti seguo» disse Temrai. «No?» Poscai si accigliò. «D'accordo, allora la mia idea è questa. Tu possiedi centoventimila tra i migliori combattenti al mondo, e annunci che non hai più bisogno di loro. Ecco, hanno fatto il loro lavoro, e ora sono liberi di andarsene. Cosa fanno? Ricordati che si tratta di soldati professionisti. Dopo sei mesi avrai bisogno di un altro quarto di milione di uomini solo per liberarti di loro, per ucciderli o per scacciarli dalla tua terra. No, una volta che sì ha un esercito come quello, non si ha scelta. Bisogna continuare. E adesso» concluse tristemente «hanno raggiunto noi.» «Poscai ha ragione» disse Hebbekai. «Adesso in linea di massima abbiamo due scelte: combattere contro di loro oppure fare le valige e toglierci dalla loro strada.» Scosse la testa. «Mi dispiace» continuò «pensavo che avessi già capito da solo come stanno le cose. È per questo che abbiamo appena combattuto una guerra civile.» Temrai alzò lo sguardo. «Dici sul serio?» «Pensavo che fosse ovvio. Volevano fare le valige e andarsene, dopo quello che era accaduto ad Ap' Escatoy, e seguire i vecchi metodi di vita... e questo significava tornare alle pianure, il più lontano possibile da quelle persone. Tu ti sei schierato contro: è stata una decisione tua. Così abbiamo avuto una guerra civile. Non è forse vero? Poscai? Jasacai? Diteglielo voi, perché vedo che non mi crede.» Temrai alzò una mano. «State cercando di dirmi che ho appena combattuto una guerra civile e nessuno mi ha detto il perché?» «Pensavamo che lo sapessi» disse il cancelliere Jasacai. «Dopo tutto è ovvio.» Temrai scivolò di nuovo nella sedia e lasciò che il mento gli cadesse sul petto. «Non per me» rispose. «D'accordo» continuò «voglio che mi promettiate una cosa. La prossima volta che faremo una guerra, qualcuno per favore mi dirà il perché?» Un altro diplomatico dell'Impero, non altrettanto importante ma comunque molto competente, con quasi vent'anni d'esperienza, sbarcò da un mercantile civile a Tornoys, il porto libero attraverso il quale passava la maggior parte del traffico con il Mesoge, un luogo prima sempre trascurato che era diventato improvvisamente importante. Si chiamava Poliorcis, e anche se non era un Figlio del Cielo (era originario della provincia Maraspia, che
si trova proprio dall'altra parte dell'Impero) solo il suo aspetto era sufficiente a farlo spiccare tra la folla anonima del molo di Tornoys. Gli abitanti del Mesoge e i commercianti che facevano affari con loro erano generalmente bassi, quadrati e funzionali, come se qualcuno avesse fatto uno sforzo consapevole per ottenerne il maggior numero possibile da una quantità limitata di materiale grezzo. Per contrasto i Maraspiani amavano lo sperpero che rasentava lo spreco deliberato. Mentre i portatori scaricavano le merci, fra cui vari barili e balle di oggetti vari e anche di poco conto che costituivano il suo corredo di commerciante tessile itinerante, Poliorcis passò un po' di tempo a osservare una scena poco interessante ma istruttiva che si svolgeva sulla porta d'entrata di uno stabilimento per forniture navali alla fine del molo. Una persona normale non avrebbe notato la scena; probabilmente l'avrebbe vista con la coda dell'occhio e l'avrebbe giudicata troppo usuale perché valesse la pena di osservarla meglio. Per questo motivo l'ufficio provinciale aveva l'abitudine di mandare dei perfetti stranieri quando voleva ottenere un'osservazione discreta. L'uomo anziano era ubriaco, su questo non c'era dubbio. Se fosse molesto o meno dipendeva da come si giudicava la cosa nei vari luoghi, e per Poliorcis quello era un posto in cui cantare e agitare le braccia con esuberanza ma in modo non apertamente intimidatorio sarebbe stato considerato nella peggiore delle ipotesi una seccatura, e nella migliore folklore. Dato che l'anziano era piuttosto vecchio, non rappresentava una minaccia per nessuno tranne che per se stesso, e non sarebbe stato un cantante così pessimo se solo si fosse preso la briga di imparare non soltanto le prime cinque parole di tutte le canzoni del suo limitato repertorio; perciò Poliorcis era incline a considerare l'episodio come folklore. A casa naturalmente sarebbe stato giudicato diverso... il folklore era popolare come la spazzatura che viene gettata da una finestra del quinto piano, ed era considerato con altrettanta severità da parte delle autorità. Ma in un ambiente come quello non ci si sarebbe aspettata nessuna reazione a parte la tendenza dei passanti ad attraversare la strada. Invece un soldato che usciva da una taverna si fermò, allungò una mano e afferrò l'anziano per il bavero della vecchia camicia facendogli battere la testa contro la cornice della porta; poi lo lasciò andare e lo osservò mentre crollava a terra e lasciava una macchia di sangue sul legno. Almeno quattro persone avevano visto l'incidente oltre Poliorcis, ma nessuna di loro voltò la testa o mostrò di aver notato qualcosa; se ciò dipendesse dalla frequenza di episodi simili o per linea di con-
dotta, il forestiero non poteva giudicare. L'anziano giaceva immobile; il soldato andò per la sua strada. Era stato un lavoro pulito, quasi un esercizio che faceva spesso nel cortile delle esercitazioni. Avendo osservato la scena e avendola memorizzata, Poliorcis continuò la strada per andare alla permuta del legname, dove sperava di apprendere qualche altra caratteristica più significativa dell'ambiente. Tuttavia aveva fatto appena qualche passo quando qualcuno gli batté sulla spalla, e Poliorcis si fermò e si voltò. «Sembra essersi perso» disse l'uomo che l'aveva fermato. Era grosso, dall'aspetto comune, calvo e con degli occhi grigi che sembravano amichevoli; a parte l'altezza aveva il tipico aspetto dell'abitante del Mesoge. «Cerca qualcuno?» Poliorcis rifletté un attimo. «A dire il vero sì» rispose. «L'ha trovato.» L'uomo indossava una maglia marrone di lana imbottita, sbiadita dal grigio originario e sfilacciata sulle spalle; soltanto qualcuno che aveva lunga esperienza di viaggi e che era un osservatore di professione, come Poliorcis, l'avrebbe riconosciuta come parte dell'abbigliamento standard dell'esercito di Scona, ideata per essere indossata sotto la pesante cotta di maglia che l'esercito aveva adottato nei giorni di abbondanza, quando potevano permettersi le cose migliori; non era ingombrante né calda, come la giacca di pelle o il piccolo usbergo che l'ufficio provinciale specificava dovesse andare insieme al più leggero usbergo con le maniche corte, oppure bizzarra e poco pratica, come i gambali di lino imbottiti prodotti dalle fabbriche di stato perimadeiane; chiunque aveva progettato la maglia di Scona aveva riflettuto molto, e aveva fatto bene il suo lavoro. «Sono Gorgas Loredan» continuò l'uomo. «Se lei è chi immagino, è venuto da molto lontano per vedermi.» Poliorcis chinò la testa in segno di assenso. «Viaggiare è uno dei grandi piaceri del mio commercio» rispose. «Di questi tempi non mi accade spesso di poter dire di essere giunto in un luogo mai visto prima. Si potrebbe dire che collezioni luoghi.» Gorgas Loredan sorrise. «È il vostro passatempo nazionale. Andiamo in quella taverna e beviamo qualcosa.» La taverna era grande e frequentata; era composta da un locale principale con un tetto alto, e affollata di gruppi di tre o quattro uomini che chiacchieravano amabilmente: la maggior parte erano fattori venuti al mercato, e c'era anche qualche mercante, mercanti di frumento e un gruppetto di soldati (ai quali era stato lasciato un certo spazio da parte degli altri clien-
ti). Sul retro c'era una scala che portava a una galleria che correva intorno a tre lati dell'edificio; c'erano sedie e tavoli, ma soltanto un paio erano occupati. Gorgas si sedette con la schiena rivolta alla balaustra e spinse in fuori l'altra sedia con il piede perché Poliorcis ci si sedesse. «Mi scusi il melodramma» disse Gorgas. «Non credo assolutamente che qualcuno stia seguendo noi due, ma non si sa mai.» Poliorcis annuì. «A dire il vero penso che lei sia molto assennato. Non so che tipo di servizio segreto abbiano...» Gorgas si morse un labbro. «Meglio di quello che si penserebbe, in verità» rispose. «Non credo che siano in grado di inviare agenti segreti o cose simili, ma sembrano avere l'abilità di fare le domande giuste quando parlano con i visitatori stranieri: commercianti, marinai, persone che incontrano sulla loro strada. Mi scusi, non penso di aver capito il suo nome.» «Euben Poliorcis.» Mise una mano nella cartella ed estrasse un rotolo piccolo e spiegazzato di pergamena che avrebbe potuto facilmente essere una lettera di credito oppure una polizza di carico. «Immagino che conosca i sigilli dell'Impero» disse. «Non bene come vorrei» rispose Gorgas sorridendo. «Tanto per cominciare vorrei davvero essere capace come voi di sollevare il sigillo da una lettera senza romperlo e poi rimetterlo a posto. Mi sembra di capire che usate solo un pezzetto di comune filo sottile, scaldato su una fiamma e inserito attraverso la cera.» Con l'unghia del mignolo sinistro Gorgas tolse il sigillo come se fosse una crosta, e lo gettò via. «Allora, vediamo cosa abbiamo qui. Sì, sembra tutto in ordine. Voi avete una scrittura meravigliosa. E a questo proposito la prego, la prossima volta che verrà qui, di portarmi una decina di fogli di quella carta di lino che fanno ad Ap' Oezen. Da queste parti non si riesce a trovarla a nessun prezzo.» Poliorcis fece un debole sorriso. «Certo» disse «mi farò un appunto in merito. Adesso, se ricordo bene, era lei che voleva parlare con noi.» Gorgas scrollò le spalle. «Qualcuno doveva fare la prima mossa. Ma è piuttosto semplice, non crede? I nostri interessi coincidono con i vostri: facciamo affari insieme.» Tre uomini apparvero in cima alle scale, videro Gorgas e si ritirarono velocemente. «È interessante che lei veda le cose così» disse Poliorcis. «Personalmente non riesco a vedere il suo interesse in questa questione. La prego, non prenda la domanda in modo sbagliato, ma cosa le ha fatto di male Re Temrai?» Gorgas scrollò le spalle. «Oh, non ho niente contro quell'uomo; l'ho in-
contrato una volta e mi è sembrato una persona abbastanza piacevole. Ma il punto non è questo. Sono più preoccupato di quello che voi state pianificando a lungo termine. Per come vedo io le cose, c'è un buco che aspetta di essere riempito. Io voglio la mia parte. Il mio aiuto potrebbe farvi comodo. Si tratta di una semplice relazione commerciale. Siamo diretti l'uno verso l'altro, e andremo d'accordo.» Poliorcis si appoggiò all'indietro sulla sedia, mettendo della distanza tra lui e Gorgas. «Mi consenta» disse. «Guardando la situazione da un certo punto di vista, lei sta cercando di persuadere l'Impero a compiere un attacco non provocato contro uno stato sovrano. Vorrei sapere perché.» «Avete bisogno di essere persuasi?» rise Gorgas. «Non penso. Con Ap' Escatoy tolta di mezzo, è piuttosto ovvio che continuerete ad avanzare fino a raggiungere il mare del nord. Tolga Temrai dall'equazione, e come appare la situazione? Eccovi lì, proprio contro la costa, a respirare sul collo di Shastel; l'Isola non è né qui né lì: non vi daranno fastidio, anche se immagino che potrete usare la loro flotta. Dopo di ciò, prima o poi avanzerete verso occidente, e ben presto diventeremo vicini. Preferirei decisamente che fossimo in buoni rapporti quando arriverà il momento. Così» continuò poggiandosi in avanti sul tavolo «eccomi qui a incontrarla. Ha senso, non crede?» Poliorcis sorrise piacevolmente. «Direi che lei possiede una visione piuttosto individuale di quelle che sono le nostre aspirazioni. Ma» continuò «ipotizziamo per ora che la sua interpretazione sia esatta. Immaginiamo che abbiamo ambizioni territoriali sulla penisola; perché avremmo bisogno di lei? Non abbiamo risorse sufficienti, uomini e materiali, per fare il lavoro senza diventare vostri debitori?» Gorgas rise. «Certo. Non c'è dubbio in proposito. Ma non è questo il vostro modo di agire. Non fate mai un lavoro da soli se potete trovare qualcun altro che lo fa per voi. Sono i vostri principi, e non c'è nulla di sbagliato in questo. Con un esercito coinvolto significa che non dovete allontanare molte unità dalle guarnigioni in altre parti dell'Impero. Certo, avete molte risorse, ma questo non significa che non siano disperse. E conosciamo entrambi la nostra storia: se indebolite la guarnigione in una qualsiasi delle province orientali, andate in cerca di guai. Guardate cos'è successo a Goappa, proprio di recente, quando avete spostato la settima legione. Ci siete andati piuttosto vicini, vero?» «Abbastanza.» Il sorriso di Poliorcis non mutò. «Com'è ben informato; immagino che derivi dal gestire una banca. Ma penso che saremmo in gra-
do di organizzare un corpo di spedizione sufficiente senza fare di nuovo un errore come quello. Anche noi abbiamo letto i rapporti, sa.» «Naturalmente.» Gorgas fece un piccolo gesto con le mani. «Ma perché avere tutti quei fastidi? La forza degli uomini delle pianure è stata sempre negli arcieri. Per combatterli dovete uguagliarli con i vostri. La maggior parte dei vostri arcieri sono nelle zone orientali. Non serve a nulla mandare centomila fanti pesanti contro Temrai: riportereste una sanguinosa e sonora sconfitta. No, ciò che vi serve sono arcieri affidabili e di esperienza... ed è questo che ho da offrirvi.» Poliorcis non rispose subito: sedette con le mani incrociate in grembo. «D'accordo» disse infine «immaginiamo che lei abbia ragione. Immaginiamo che sia nostra intenzione attaccare Temrai, e che chiediamo il vostro aiuto. Se si tratta di una proposta d'affari, come lei mi assicura, cosa ne ricava? Soltanto soldi? Oppure ha qualcos'altro in mente?» Una mosca si posò sul tavolo, sfiorando con le zampe una macchia appiccicosa di birra. Gorgas la prese con le dita prima che potesse volare via e la uccise. «Dipende» disse. «Sicuramente il denaro c'entra.» «Il che implica che lei vuole anche qualcos'altro. Cosa? Territori? Vuole un pezzo della terra di Temrai?» Gorgas scosse la testa. «Santi dèi, no. A che mi servirebbe? Tanto per cominciare, non ho uomini né navi necessari per precipitarmi avanti e indietro per proteggere i miei interessi. Inoltre questa circostanza ci renderebbe vicini ancor prima di quanto vorrei, scusi la franchezza.» «D'accordo.» Poliorcis annuì. «Non vuole terre... cosa rimane? Per come la penso io, ci sono solo tre cose per cui vale la pena di combattere: soldi, terre e persone. È questo che vuole? Schiavi che lavorano per aiutarla a espandere l'economia qui nel Mesoge?» Gorgas si accigliò. «Certo che no» disse. «A parte ogni altra considerazione, costituirebbero più guai di quanto valga la pena. No, non voglio nulla del genere.» «Allora mi arrendo» disse Poliorcis. «Mi dica cos'è che vuole.» «Come ho detto» rispose Gorgas «voglio amicizia. L'inizio di un lungo e tranquillo rapporto, mutualmente vantaggioso tra l'ufficio provinciale occidentale e la repubblica del Mesoge. Cosa c'è di strano in questo?» «Capisco» disse Poliorcis. «Lei è pronto ad aiutarci a sconfiggere gli uomini delle pianure per avere un credito verso di noi. Ho ragione?» «Direi che queste parole descrivono bene la situazione.» Poliorcis si strofinò il mento. «A dire il vero, capisco che questo costi-
tuirebbe un vantaggio enorme per lei. Non sono sicuro che sarebbe utile per noi, però. Vede, abbiamo la noiosa abitudine di rispettare i trattati. Se fossimo davvero ben decisi a fare conquiste, come lei sembra incline a credere, non ci scaveremmo la fossa con le nostre stesse mani? Parlando da un punto di vista ipotetico, naturalmente.» «Sta a voi» disse con calma Gorgas. «Noi abbiamo un detto: non prenderti gioco di un burlone. Sto facendo questa offerta in buona fede, e sappiamo benissimo entrambi il perché. Adesso può anche dirmi cosa posso fare con la mia offerta e io dovrò accettare la decisione. Ma non dev'essere una cosa forzata. Posso avere qualità e difetti, ma sicuramente sono realista.» Sorrise. «È questo che rende piacevole fare affari con me.» «Così ho sentito dire» rispose Poliorcis. «Be', penso che in questo momento non possiamo andare oltre; devo tornare dai miei superiori dell'ufficio provinciale, fare il mio rapporto e lasciare che decidano.» Si alzò. «Sono qui essenzialmente per scoprire qualcosa in più su lei e la sua gente, così da poter dare a coloro che prendono le decisioni dati più precisi su cui basarsi. E penso di aver ottenuto abbastanza dal nostro incontro; con il suo permesso mi piacerebbe dare un'occhiata in giro prima di andarmene. La prego di indicarmi liberamente la direzione che ritiene che dovrei prendere. Per esempio sarei interessato a vedere quegli arcieri di cui mi ha parlato. Abbiamo anche noi un detto: prova sempre i beni prima di comprarli. Prima di poter stendere un valido rapporto, ho bisogno di qualcosa di più concreto di quello che ho sentito da lei e di quello che ho visto finora qui a Tornoys. Sono sicuro che lei capisce il mio punto di vista.» «Assolutamente sì» disse Gorgas. «La prego, proceda. Di fatto, se ne ha il tempo, sarei felice di farle da guida per una giornata... per farle vedere l'accampamento della guarnigione principale e altre cose. Oppure se preferisce di no, voglio dire, se desidera vedere le cose da solo.» Poliorcis sorrise amabilmente. «Una visita guidata della repubblica con lei come guida» disse. «Quale modo migliore potrebbe esserci per scoprire come stanno veramente le cose?» Il terzo giorno come vicedirettore del palazzo delle prove Bardas riuscì a trovare il posto. Era alla fine della galleria più lunga, giù per un'altra delle scale ripidissime che sembravano essere una specialità del luogo, lungo un corridoio scuro e stretto, giù per un'altra scala, lungo un altro corridoio, giù per un'altra scala; arrivato lì, Bardas capì di essere di nuovo sottoterra, dov'era il
suo posto... (È consuetudine morire prima; ma nel tuo caso abbiamo fatto un'eccezione.) ... lungo un altro corridoio, settimo a sinistra, terzo a destra, giù per un'altra scala; ecco sei arrivato, non puoi sbagliare. Rimase in piedi fuori dalla massiccia porta di quercia sentendosi come un impiegato al suo primo giorno di lavoro presso l'ufficio contabilità di un grande mercante (sensazione sciocca, perché lui era al comando di quel luogo. O così gli avevano detto tra le rovine di Ap' Escatoy, sottoterra dove le regole sono leggermente diverse). Spinse la porta con una mano cercando di aprirla, poi spinse più forte, e poi poggiò anche la spalla; cedette di qualche centimetro: circostanza che lo incoraggiò a continuare a spingere. «Si blocca» disse una voce mentre entrava in una stanza fredda e con una vasta eco. «Ma la teniamo chiusa per via del rumore. Chi è lei?» Almeno c'era una certa luce, che arrivava da una fila di lampade a olio poggiate su una mensola sopra la porta. La corrente fece tremare le tenui fiammelle, facendo ballare la luce. «Mi chiamo Loredan» rispose Bardas cercando di vedere con chi stava parlando. «Sono stato assegnato qui.» «L'eroe» disse la voce. «Entra e chiudi la porta.» Bardas appoggiò la schiena contro la porta e riuscì a chiuderla; poi si guardò intorno. La stanza era piena di grossi blocchi di pietra in fila, e le pareti formavano un arco alto. Al centro c'era una pila di armature: corazze, elmetti, cannoni di avambracci, gorgiere, spallacci, cubitiere, cosciali, uosa, guanti di ferro, tutti distrutti e rovinati, ritorti, ammaccati e schiacciati, bucati e storti. La voce sembrò giungere da dietro la pila; e quando Bardas guardò in quella direzione, vide un piccolo uomo anziano, un figlio del Cielo, e un ragazzo enorme di circa diciott'anni. Entrambi erano nudi fino alla vita; l'anziano era tutto ossa e spigoli che premevano contro la pelle, mentre il ragazzo era tutto muscoli e grasso. In mezzo a loro c'era un'incudine sulla quale era poggiato un elmetto. L'anziano la stava tenendo con un paio di pinze lunghissime. Il ragazzo aveva in mano un enorme martello. «Be'» disse l'anziano «ci hai trovati. Prendi un elmetto e siediti.» L'aria nella stanza era fredda, ma entrambi gli uomini sudavano. I capelli rossi lunghi del ragazzo erano appiccicati sulla fronte, come se fosse stato immerso nel sego come una candela. L'anziano non aveva capelli, e il su-
dore riluceva sul cranio a forma di uovo. Bardas guardò intorno, vide una pila di elmetti, ne prese uno e ci si sedette sopra. «Io sono Anax» disse l'anziano. «Questo è Bollo.» Sorrise, rivelando dei grandi denti. «Benvenuto al palazzo delle prove.» «Grazie» disse Bardas. Anax annuì educatamente (Bollo non sembrava ancora aver notato Loredan). «Non ti dispiace se continuiamo, vero?» disse... la sua voce era aggraziata, colta, da Figlio del Cielo. «Dobbiamo portare a termine e approvare molti pezzi oggi, come puoi vedere.» «Vi prego, continuate» disse Bardas; improvvisamente Bollo sollevò il martello, lo passò sopra la testa e lo portò giù con forza sulla cima dell'elmetto. Il clangore fece sobbalzare Bardas. Poi l'elmetto ruotò via dall'incudine e tintinnò sul pavimento di pietra. «Non va bene» disse Anax tristemente. «Hai sentito le armoniche? Spazzatura.» Si chinò in avanti, raccolse l'elmetto e lo mise di nuovo sull'incudine. C'era una leggera ammaccatura sulla parte sinistra della corona. «Dal rumore si capisce tutto» continuò Anax. «Ascolta. È questo il rumore che dovrebbe fare.» Si chinò di nuovo... chinarsi sembrava dargli molto fastidio... e si alzò con un altro elmetto, che a Bardas sembrò identico al primo. Anax lo prese con le pinze e Bollo lo colpì. «Hai sentito?» disse Anax. «È un suono completamente diverso. Questo è un buon elmetto. Be', ha delle buone giunture. I chiodi sono robaccia.» Bardas guardò l'elmetto buono: anch'esso aveva una leggera ammaccatura sulla corona. «Mi dispiace» disse «ma non vedo...» «Davvero?» Anax annuì e Bollo colpì di nuovo. Il rumore diede fastidio alle orecchie di Bardas. «Una quinta più alta; è un suono più limpido e più puro. E un po' piatto, naturalmente, a causa dei pessimi chiodi. Ecco, è più facile riconoscerlo su una corazza.» Borbottò stavolta mentre si chinava; si alzò con una mezza corazza di un grigio smorto che poggiò in cima all'incudine, dopo aver spazzato via i due elmetti ammaccati, gettandoli a terra con il dorso della mano. «Ascolta la nota alta. Dovresti sentirla piuttosto chiaramente.» Bollo cambiò leggermente la presa sul manico del martello, e poi diede alla mezza corazza cinque colpi fortissimi, due su ogni lato e uno sulla cresta che correva lungo il centro. A Bardas sembrò un rumore terribile di ferraglia. «Capisco» disse. «Sì, è piuttosto diverso.» L'anziano rise. «Ti ho ingannato. Anche questa è robaccia. Ma la cosa
non importa a nessuno: io le provo e rifiuto la partita, ma loro le danno comunque, con un piccolo bollino all'interno: PF. Sta per Prova Fallita. È meraviglioso, vero?» Bardas tossì. «Vi sto facendo perdere tempo» disse. «Voi continuate, e io osserverò per un po'.» Anax rise di nuovo. «Non ti preoccupare. Mi ci sono voluti quindici anni prima di cominciare a sentire la differenza. Fino a quel momento mi limitavo a colpire i pezzi finché non si rompevano, e non ho mai saputo quello che stavo facendo. Adesso, invece, posso dirlo immediatamente. Ma continuiamo comunque a colpire, perché è il nostro lavoro.» Accanto all'incudine c'era un paio di guanti di ferro di colore grigio smorto, pieni di macchie di ruggine. Bollo li distrusse entrambi con sette colpi, spaccando i chiodi e appiattendo i rigonfiamenti, mentre il rumore risuonava da parete a parete. «Bene» disse Anax, facendo un segno su una tacca con un coltellino sottile. «Passali. Poi fai gli spallacci.» Bardas non sapeva cosa fosse uno spallaccio; seppe poi che era una protezione per le spalle, tondeggiante in cima per adattarsi alla spalla, articolata in cinque parti per permettere al braccio di muoversi liberamente. Il martello di Bollo non sembrò avere molto effetto su di esso, ma Anax non sembrò impressionato. «Fallita» disse. «Il suono è sordo. Ci sono dei difetti nel metallo, è questo che lo produce; pezzetti di carbone, graniglia e rame... tutta robaccia. Deriva dal fatto di dover usare ciò che riusciamo a ottenere. Lo so» aggiunse con gli occhi che improvvisamente si illuminarono. «Bollo, prendi l'Uomo di Ferro. Facciamo vedere al nostro ospite qualcosa di più divertente.» Bollo lasciò cadere il martello a terra con un tonfo, e poi si allontanò con aria dinoccolata dietro una pila di armature distrutte. Tornò trascinando un pesante carrello di ferro sul quale si trovava una figura umana a grandezza naturale fatta di ferro. Era rossa per la ruggine; Bardas riuscì a sentirne l'odore da dov'era seduto. «A rigore» disse Anax «dovremmo usare sempre l'Uomo di Ferro; ma dopo centoventi anni di colpi sta diventando un po' fragile. Vero, ragazzo?» Diede una pacca sulla coscia della figura. «Vedi? Non ha la mano sinistra. Si è staccata. E non si salda. Ha ricevuto troppi colpi, e tutto è diventato duro, incrudito diciamo noi, e questo è un concetto molto importante, e quando diventa duro è fragile, e quando diventa fragile... è finito. Bene Bollo, stavolta useremo un'ascia numero quattro... facciamo vedere al signore come si fa.» Bollo borbottò, si asciugò la fronte con l'avambraccio grosso come una
gamba - non c'era rimasto sopra un pelo, notò Bardas - e si chinò, frugando in una lunga scatola di metallo. Nel frattempo Anax stava applicando dei pezzi di armatura alla figura di acciaio, stringendo attentamente le fibbie e regolando la tensione delle varie cinghie. «Dev'essere come nella realtà, prima di cominciare» disse Anax «altrimenti non avrà significato.» La figura di ferro era ormai sparita sotto l'acciaio grigio, e non si vedeva più un centimetro di ruggine; al suo posto si trovava quello che Bardas avrebbe giurato essere un uomo con un'armatura completa. «Bene» urlò Anax spazzando via la ruggine dalle mani. «Stai indietro» disse a Bardas. «A volte i frammenti volano per la stanza. Naturalmente dipende molto da chi colpisce e da chi viene colpito. Adesso procedi lentamente, Bollo: non è una gara. Si tratta di lavoro, ricorda, non di divertimento.» Quanto duramente avrebbe colpito se fosse stato per divertimento? si chiese Bardas e si sistemò appena in tempo, mentre Bollo passava l'ascia sopra la spalla come un sacco, e poi la lasciava andare mentre piegava le ginocchia, gettando tutto il peso del corpo nel colpo. Bardas si aspettava un enorme clangore, ma il rumore fu diverso, più simile a un suono acuto e sordo, mentre la forza del colpo veniva trasmessa attraverso la sottile pelle della copertura d'acciaio del ginocchio nel ferro solido dietro di esso; era un suono musicale e pulsante, breve e secco... il suono della forza estrema che veniva applicata e che tornava indietro... Bardas sentì il ritorno, e vide la testa dell'ascia rimbalzare, visto che tutta la forza non aveva dove penetrare. Il punto dell'armatura in cui la lama dell'ascia aveva colpito era profondamente segnato, ma la pelle d'acciaio era intatta. «Questo non va» disse Anax. «Tieni a mente quel suono. D'accordo, Bollo.» Il colpo successivo finì sul gomito sinistro; e il suono fu un po' diverso, mentre il danno fu evidente ed esteso, dato che l'acciaio venne incavato e schiacciato. Anax sembrò soddisfatto. «Bene» disse. «È arrotondata bene, proprio come dovrebbe essere. Be', pensaci. Se vieni colpito molto forte, dove vuoi che finisca la forza del colpo: nell'acciaio o in te? È questo che fa una buona armatura: assorbe il colpo. Una cattiva armatura lo trasmette. È molto semplice.» Una buona armatura assorbe il colpo, Bardas ripeté a mente, una cattiva armatura lo trasmette. «Così è questo che fate qui?» Anax fece un sorriso larghissimo. «Lo so» disse «è un modo maledettamente buffo di guadagnarsi da vivere. Prendiamo: sei chiaramente un uomo intelligente, hai viaggiato, sei stato in guerra direi... be', certo che ci sei
stato, sei un eroe, dimenticavo. Guarda questo» e indicò uno dei pezzi di armatura rotta «... e poi guarda questo.» Ne indicò un'altra, ugualmente distrutta. «Vedi, sono entrambe rotte, per cui immagini che abbiano entrambe fallito la prova. Sbagliato. È una filosofia, vedi» continuò asciugandosi il naso sull'interno del polso. «Tutto fallisce, vedi: non esiste nulla, nessun pezzo di armatura al mondo che possa resistere a Bollo e al suo enorme martello. È come fallisce che ha importanza. Ed è questo che non riesco a far capire» aggiunse con un piccolo barlume d'ira negli occhi pallidi. «Perché a meno che tu non sia me, o qualcun altro che ha distrutto e fatto a pezzi questa roba giorno dopo giorno, per tutta la vita, non puoi nemmeno capire che esiste un buon modo per venire fatto a pezzi e uno pessimo. I tuoi generali e i superiori dell'ufficio provinciale dicono vogliamo uno schema che non fallisca punto e basta. E io dico d'accordo; posso dire loro come farlo, dare le specifiche, gli spessori, gli angoli, il trattamento al calore e tutto il resto, ma non se lo potrebbero permettere e nessuno potrebbe mai indossare armature di quel genere. Vogliono armature pratiche, e devono vedersela con Bollo e l'ascia numero quattro. E le demolirà sempre.» Bardas annuì, cercando di dare l'impressione di aver capito qualcosa. «E lei dice che tutto dipende dal suono che produce?» disse, ma l'anziano sembrò spazientirsi. «Questo è soltanto uno dei test» rispose. «Un criterio per un test. Credimi, non ci limitiamo a picchiare sui vari pezzi con martelli e asce. Lanciamo contro di essi con archi e balestre, li schiacciamo tra rulli, c'è il test di foratura, quello delle forbici, quello sulla tensione, quello di rottura, quello di flessione... non hai idea di quanti siano i modi diversi per provare un pezzo, se qualcuno ci desse un pezzo che arrivasse fino a lì. E quello che sto cercando di dire è che fallisce sempre: se non fallisse, sarebbe un test piuttosto inutile. Qui abbiamo a che fare con situazioni estreme, Signor Eroe; altrimenti sarebbe inutile.» Anax improvvisamente si interruppe; fissò qualcosa. «Cosa c'è?» chiese Bardas. «Ci sono chiodi di rame rotti» rispose Anax, come se attirasse l'attenzione di Bardas verso una crepa che si apriva nel cielo. «Guarda qui.» Indicò con un dito lungo e fragile. «Qui, i chiodi in quella ginocchiera. Sono spezzati.» Bardas guardò. «D'accordo» disse. «Cosa significa?» Anax sospirò. «È la funzione dei chiodi di rame: quando li si sottopone a
uno sforzo che non sono in grado di sostenere, si allungano... guarda, come questo.» Toccò con l'alluce un guanto di ferro abbandonato. «È questo che devono fare. Adesso guarda questi qui, sulla ginocchiera. Hanno le teste spezzate. Quindi questa partita non è buona, anche se nessuno vorrà accettare questa considerazione. Significherebbe scartarli tutti... probabilmente centomila chiodi; se lo faremo, un impiegato in un ufficio del reparto Approvvigionamenti dovrà risponderne. Ma non vuole farlo, e nessuno mi crede davvero, quindi non ci faranno caso. Ti dico una cosa: se questo non fosse il mio lavoro, non lo farei più.» Bollo, che era rimasto in piedi con l'ascia sulla spalla, sembrò aver perso la pazienza; piuttosto inaspettatamente la fece girare e la portò giù su una spalla dell'Uomo di Ferro. «È un rumore sordo» disse Bardas. «Non va bene?» «Va malissimo» rispose tristemente Anax. «Ma decideranno di mettere una doppia imbottitura all'interno degli spallacci, e così non sembrerà tanto male; almeno chi indosserà questa roba non finirà con una clavicola spezzata. Ma sarà sbagliato. E io lo saprò.» «Immagino di sì» commentò in tono piatto Bardas. «Be', naturalmente» disse Anax. «Io lo so sempre.» Theudas Morosin aveva trovato una nave; aveva cioè parlato con un commerciante di mandorle all'ingrosso, che aveva parlato con il capitano di un'altra nave una settimana prima, e che aveva menzionato per caso il fatto che una volta trovato un compratore per il suo carico di corrimani d'ebano di Colleon (non aveva idea di come fosse arrivato ad avere una stiva piena di sezioni di ebano di settantacinque centimetri per costruire corrimani, ipotizzando che si avesse un tornio e un mercato per le balaustre d'ebano; il prezzo era stato uno dei motivi dell'acquisto, ma ve n'erano stati altri) avrebbe usato i proventi per comprare una partita di settecento sacchi di penne d'oca che gli erano state promesse da un uomo che conosceva ad Ap' Helidon; l'accordo era che sarebbe dovuto andare a Perimadeia (quella che un tempo era stata Perimadeia) per prenderli. «Anche se» (aveva detto, apparentemente) «potrebbe non essere un buon affare, perché chi può dire quanto è grande un sacco?» L'uomo con cui Theudas aveva parlato, aveva poi chiesto all'altro uomo se avesse detto anche quanto erano grandi i sacchi, e l'uomo aveva risposto di no, ma che non poteva essere importante, perché a meno che non dicesse sacchi intendendo sacchetti, a quel prezzo settecento sacchi rappresentavano in ogni caso moltissime penne.
«Capisco» rispose Gannadius quando suo nipote finì di spiegare tutto questo. «E tu speri che quando quell'uomo, quello che sta comprando le piume, verrà a prendere il suo carico, ci porterà con sé.» «Sì» disse Theudas. «E poi saremo di nuovo a casa. Be', cosa ne pensi?» Gannadius ponderò la risposta. «Dipende. Se sono sacchetti, forse non gli importerà. Se sono sacchi grandi, potrebbe non esserci posto per noi sul battello. E non hai anche detto che dipende tutto dal fatto di trovare un compratore per un carico di bacchette di ebano per le guide delle scale?» «Per le balaustre» lo corresse Theudas. «Oh, andiamo. Pensavo che saresti stato contento.» Gannadius si grattò il naso. «Sto solo cercando di dirti di non sperarci troppo, tutto qui. E non hai detto che quest'uomo viene da Ap' Helidon? Non ricordo di averti sentito dire che avrebbe portato le penne sull'Isola quando, e se, le avesse ottenute. Non voglio davvero andare ad Ap' Helidon, se non ti dispiace. Se si trova dove penso che sia, fa parte dell'Impero. Ci troveremmo peggio di come stiamo qui.» «No, non sarebbe così.» Theudas incrociò le braccia e allontanò lo sguardo. «Qualunque posto sarebbe migliore di questo. Qui è il nulla.» Fuori dalla tenda, da qualche parte, un uomo stava cantando, mentre una coppia di altri uomini lo accompagnavano con un piffero e uno strano strumento. Le parole non sembravano avere molto senso... Le cavallette siedono su una vite di peperone Le cavallette siedono su una vite di peperone Le cavallette siedono su una vite di peperone E arriva un pollo che dice «Tu sei mia» ... ma la musica era veloce e allegra, e gli uomini sembravano divertirsi a farla; c'erano rumori peggiori, sia fuori che dentro la testa di Gannadius. «Ci sarà una nave» disse saggiamente «prima o poi. Dobbiamo solo essere pazienti, tutto qui. Quello che non dobbiamo assolutamente fare è muoverci avventatamente lungo il litorale occidentale solo per fare qualcosa. Tanto per cominciare potrei morire, e come lo spiegherai ad Athli?» Queste parole resero Theudas ancora più furioso. «Non vedo cosa c'entri questo. E cos'è questa storia della morte imminente? Non sei nemmeno malato, sei solo pigro.» Gannadius sorrise. «Quella bella dottoressa non sarebbe d'accordo con te. Dice che devo ancora riposare molto, dopo quello che ho passato.»
«Davvero? E cosa sarebbe mai, con esattezza? Non mi sembra di ricordare nulla di così terribile. C'ero anch'io, e non sono disteso sulla schiena a lamentarmi tutto il tempo.» «D'accordo» rispose Gannadius ridendo. «D'accordo. Se il tuo uomo dalle penne d'oca fa la sua comparsa, e se andrà dalla nostra parte e sarà d'accordo nel prenderci con lui e ci sarà posto sulla sua nave, andremo. Sarà un viaggio comodo, seduti su tutte quelle penne.» Theudas si alzò in piedi. «Vado a fare una passeggiata» disse «prima che perda la pazienza.» Era una giornata luminosa fuori dalla tenda; così luminosa e calda che nessuno si muoveva. Invece alcune persone giacevano nell'ombra che riuscivano a trovare. I tre uomini che avevano fatto quel terribile rumore avevano smesso, grazie agli dèi; stavano ora oziando all'ombra di una grossa intelaiatura di legno alla quale stavano lavorando, e si passavano di mano in mano una grossa caraffa con una bevanda, mangiando noci da una ciotola. «Il tuo amico» gridò uno di loro mentre Theudas li superava camminando. «Come sta?» Theudas si fermò. «Oh, sta bene» rispose imbarazzato. «Bene.» L'uomo lo stava chiamando con un cenno: sarebbe stato difficile rifiutare. Odiali in silenzio, aveva detto Gannadius. Theudas si avvicinò e si sedette accanto a loro. «È vero ciò che dicono?» chiese l'uomo. Theudas si irrigidì leggermente. «Non lo so. Cosa dicono?» L'uomo rise e porse la caraffa a Theudas. «Che è un mago» disse. «È uno dei maghi di Shastel. Be', è vero?» Theudas annuì. «Anche se non sono proprio dei maghi» spiegò. «A dire il vero non esistono i maghi. Sono studiosi.» «Comunque tu voglia definirli.» L'uomo sembrò considerare la distinzione insignificante. «Allora dev'essere vero quello che ho sentito» continuò. «I maghi di Shastel ci aiuteranno a vincere la guerra.» Theudas si accigliò. «Quale guerra?» «La guerra contro l'Impero» disse l'uomo. «Re Temrai e i maghi di Shastel stanno stringendo un'alleanza, così quando l'Impero attaccherà uno di noi l'altro si unirà. Era ora» continuò. «Voglio dire: il divertimento è il divertimento, ma è davvero il momento che qualcuno prenda le cose sul serio.» Il cipiglio di Theudas crebbe. «Non sapevo che ci sarebbe stata una guerra» disse.
«Certo che ci sarà» intervenne uno degli altri uomini, quello che aveva suonato il piffero. «Perché hanno conquistato alla fine Ap' Escatoy. Adesso stanno venendo contro di noi.» «O contro Shastel» lo interruppe il terzo uomo. «O Shastel» convenne il pifferaio. «Ed è per questo che dobbiamo stringere un'alleanza con i maghi. Nessun altro ci aiuterà, dopo tutto. Non rimane nessuno.» Theudas porse la caraffa al pifferaio, sperando che nessuno notasse che non aveva nemmeno assaggiato il suo contenuto; sidro, sospettò, e lui aveva sempre odiato il sidro, da quando era bambino. Non avevano bevuto altro a Perimadeia, e adesso gli uomini delle pianure si erano dati a bere anche questo. «Cosa state costruendo?» chiese, sperando di cambiare argomento. Gli uomini si guardarono l'un l'altro. «Oh, andiamo» disse uno di loro «non fa alcuna differenza. Inoltre chiunque abbia occhi per vedere può guardare e capirlo da sé. È un trabocco» continuò. «Come quelli che facemmo quando conquistammo la Città. E lo stesso progetto, di fatto; be', hanno funzionato bene all'epoca, quindi speriamo che funzioneranno altrettanto bene contro l'Impero.» «Un trabocco» ripeté Theudas. Ricordava il giorno in cui i trabocchi avevano fatto la loro apparizione; il giorno in cui gli uomini delle pianure erano apparsi sotto le mura, dall'altra parte dello stretto canale, con le chiatte di pezzi di legno già pronti, e ricordava anche tutto il rumore e il trambusto fatto nell'assemblare le macchine d'assedio. Nessuno aveva saputo cosa pensare di quei macchinari: se fossero uno scherzo o una minaccia o entrambe le cose. «E questo a causa di Ap' Escatoy» aggiunse. L'uomo che aveva suonato lo strumento simile a una chitarra annuì. «A causa di quel Loredan bastardo» disse. «Pensa a lungo termine, quel bastardo.» «Loredan? Intende dire Bardas Loredan?» Il chitarrista annuì. «Ha pianificato l'intera faccenda, e tutti lo sanno. È andato via dopo la Caduta, si è unito all'Impero, ha conquistato Ap' Escatoy a loro vantaggio in modo che dopo venissero contro di noi. È a lui che dovremmo stare attenti. Dèi, deve odiarci davvero moltissimo.» Ci fu una pausa imbarazzata. Poi l'uomo che aveva cantato disse: «Be', è piuttosto giusto. È la sua città che abbiamo raso al suolo... certo che vuole rendere la pariglia.» «Ma l'abbiamo rasa al suolo a causa di quello che lui ci aveva fatto» ri-
spose il pifferaio. «Lui e suo zio Maxen. È per questo che Temrai è stato costretto a farlo. E adesso viene di nuovo contro di noi, solo che stavolta ha l'Impero con lui. Non sarà tranquillo finché non ci avrà uccisi tutti, vedrete.» Theudas guardò in terra. Era un pensiero irrazionale, ma aveva la sensazione che se avessero visto il suo volto, avrebbero saputo. Inoltre provava un terribile e doloroso senso di colpa... le cose che dicevano di Bardas lo facevano sembrare l'angelo della morte o qualcosa del genere, e lui non lo era: era solamente un uomo calmo e solitario che voleva tenersi fuori dai guai... ma i guai avrebbero continuato a seguirlo, come un cane che annusa i pantaloni di un venditore di salsicce. Ma lui sapeva che l'ultima cosa che Bardas voleva era di rendere la pariglia, e che nulla di tutto ciò era colpa sua. «Devo andare» disse alzandosi in piedi. «Grazie per la bevuta.» «Non ti preoccupare» disse l'uomo con il banjo. «E calmati: non ci ha ancora presi. E non ci prenderà... puoi contarci.» «Lo so» disse Theudas e andò via. CAPITOLO SETTIMO «Be'» disse Loredan «è piuttosto silenzioso. Cosa ne pensa?» Poliorcis rifletté per un momento. «È bello» commentò. «È molto verde.» «Verde» ripeté Gorgas. «Sa, non avevo mai pensato al Mesoge da questo punto di vista. Sì, è sicuramente verde.» La pioggia stava diminuendo; era proprio come una doccia d'estate... più o meno un evento quotidiano in quel periodo dell'anno nel Mesoge. La pioggia cadeva copiosa dalle gronde del vecchio fienile dove si erano riparati; era un tipico edificio del Mesoge, quasi completamente abbandonato, che probabilmente si trovava in quelle condizioni da cento anni, e che forse anche tra altri cento anni si sarebbe trovato più o meno nelle stesse condizioni. Un piccolo rivolo di acqua fangosa gocciolò attraverso la porta d'entrata aperta e scivolò sul pavimento formando una chiazza d'umidità nell'angolo più remoto. Persino all'interno le pareti erano verdi per il muschio. «Allora» continuò Gorgas «tutto qui. Il mio lavoro a Scona era finito, avevo fatto del mio meglio, solo che le cose non erano andate come avevo pensato, ed era inutile finire a pezzi. Così sono venuto a casa.»
Poliorcis annuì. «Con un esercito» disse. «E ha conquistato il potere. E si è insediato come... mi scusi, non vorrei sembrare scortese, ma è difficile dare una giusta definizione. Re non è esatto, e signore della guerra ha connotazioni spiacevoli. Dittatore militare, forse...» Gorgas sorrise. «Principe» disse. «È così che mi piace considerarmi in ogni caso. Principe del Mesoge. Lei ha ragione, la zona non è abbastanza grande per essere un regno. Ho pensato all'appellativo di duca, ma ciò implica l'essere subordinato a qualcuno.» Sbadigliò, e poi mangiò un altro pezzo di formaggio. «Così immagino che io faccia del Mesoge un principato. Mi sembra adatto a me, in termini di grandezza: è più grande di una contea, ma più piccolo di una nazione; cosa ne pensa?» «Come vuole lei» rispose Poliorcis. Anche il barile sul quale era rimasto seduto tutto quel tempo era bagnato (tutto era bagnato in quel... quel principato). «Sarò sincero con lei: quello che non sono riuscito a capire è perché abbia incontrato così poca resistenza. La prego, non prenda questa affermazione nel modo sbagliato...» Gorgas fece un cenno di diniego con la mano, per evitare le sottigliezze del linguaggio diplomatico. «Nessun problema» disse con la bocca piena. «Grazie; ma per un... oh cielo, ancora questioni di vocaboli... per un mercenario come lei, farsi largo a forza, con poche centinaia di soldati, e prendere il potere in una nazione che non ha mai avuto nel passato un governante o un governo... deve ammettere che ce n'è abbastanza per destare la curiosità della gente. Ma adesso che ho visto di persona...» Gorgas annuì. «Apatia» disse. «O potrei chiamarla essere fatalisti, o demoralizzati (solo che questo suggerirebbe che c'è stato un tempo in cui tutti erano molto attivi, e non c'è stato, per quanto ne so); non ha alcuna importanza, in un modo o nell'altro. Vede» continuò rompendo una striscia di carne secca con le dita «tutta questa zona, da quando venne costituita... l'intera nazione venne formata da grossi feudi di ricche famiglie della Città: perimadeiani, latifondisti sempre assenti, naturalmente... e i poveri contadini che coltivavano la terra e vivevano qui... noi eravamo solo affittuari, o braccianti agricoli; non c'era la tradizione di avere proprietà terriere. Immagino che i fattori della Città costituissero il governo, e dettassero legge in ogni situazione; non che ci dessero molta noia, perché li vedevamo soltanto una volta l'anno. A parte questo, siamo andati avanti.» «Decisamente» disse Poliorcis. «E il genere di cose che i governi fanno: tribunali, per esempio, giustizia...» Gorgas rise.
«Non ce n'erano, e non ce n'era bisogno. Avrà notato che non ci sono né città né villaggi, ma solo fattorie. E in ogni fattoria c'è una famiglia. Se c'è qualche decisione giuridica da prendere, lo fa il fattore, così come fa tutto il resto.» «Capisco.» Un ratto corse veloce sul pavimento, si fermò, guardò Poliorcis con aria critica, come se fosse un quadro appeso leggermente storto, e scomparve dietro un barile. «E le dispute tra vicini? Le faide, presumibilmente, e i battibecchi insignificanti, lunghi e continui.» «Quel genere di cose» disse Gorgas «di solito sono piuttosto innocue; e se non lo sono, be', non sono affari degli altri. Inoltre per lo più non c'era né tempo né energia.» Poliorcis scosse la testa. «Così, l'unica domanda che rimane è: perché qualcuno vorrebbe un posto come questo?» «È la mia casa» rispose Gorgas. «E quando la Città è caduta, si è formato un vuoto; non esistevano più latifondisti... nulla aveva più forma. Alle persone piace sapere dove si trovano. È una delle cose che rende la vita possibile.» Poliorcis non se la sentì di rispondere a quell'affermazione. «Penso che abbiamo visto abbastanza» disse. «E la pioggia è diminuita. Torniamo a Tornoys?» «Pensavo che potremmo andare alla mia fattoria» rispose Gorgas. «È piuttosto vicina. Possiamo restare là stanotte e tornare a Tornoys domattina.» «Molto bene» disse Poliorcis. «C'è qualcosa da vedere lì?» Gorgas scosse la testa. «È solo una fattoria» rispose. «I miei fratelli se ne occupano quando io sono via. Sono sempre stati lì.» C'era qualcosa che Poliorcis non riusciva a focalizzare, ma non vide motivo di farne un problema. Dopo mezz'ora di cavalcata, dal fienile arrivarono a un ponte, o meglio a ciò che ne rimaneva. Mancava il centro delle tre campate. «Dannazione» disse Gorgas. «Dovremo tornare indietro fino al guado.» Si accigliò. «Queste cose sono una seccatura. Qualcuno aveva bisogno di blocchi di muratura, e così ha rotto il ponte. Dovrò mandare qualcuno a sistemarlo.» Al guado c'era una forca, con un impiccato. Gorgas non commentò, e Poliorcis non si sentì di fare domande. Il corpo sembrava trovarsi lì da un paio di settimane. «Una cosa che dovrò fare quando avrò il tempo» disse Gorgas mentre
passavano il guado «è di far pavimentare queste strade. È inutile aspettarsi che la gente lo faccia per proprio conto; accade solo che litighino con i vicini per stabilire chi sia il responsabile. Immagino che nell'Impero abbiate costruttori di strade esperti... persone che fanno solo quello. Sarei interessato ad assumerne alcuni.» A un'ora di distanza dal guado, la strada finì in mezzo a un campo d'orzo. Non era rimasto granché del campo: la pioggia si era abbattuta sugli appezzamenti distruggendo l'orzo, e i piccioni e i corvi erano arrivati e avevano calpestato tutto. Gorgas sospirò e cavalcò nella parte centrale, fino a giungere a un'alta siepe di rovi. C'era un cancello, ma era bloccato dai rovi vecchi di trent'anni. «Mi sembrava che fosse passato un bel po' di tempo da quando venni l'ultima volta da questa parte» disse Gorgas. «Adesso capisce cosa intendo per strade come si deve.» Saltò giù da cavallo e cominciò a tagliare la siepe con la spada; ma i rovi erano troppo elastici. «Mi dispiace per questa situazione» disse. «Dovremo tornare indietro al sentiero e girare intorno passando per l'aia. E già che ci siamo, gliene dirò quattro per questo cancello.» Poliorcis sospirò. «Come vuole» disse. «Penso che stia ricominciando a piovere.» Era ormai buio quando arrivarono a quella che Poliorcis pensò essere la fattoria; era troppo scuro per vedere qualcosa, tranne il profilo di un tetto e una macchia confusa di rami contro il cielo. Sentì gli zoccoli del suo cavallo picchiettare su un lastricato, e Gorgas urlare; un sottile filo di luce fuoriuscì quando una porta si aprì: era una luce gialla molto tenue, quella che proviene dal lardo spesso e da stoppini spuntati per risparmiare. Sicuramente il luogo aveva l'odore di una fattoria. Quando scese da cavallo sentì i piedi sguazzare in una pozzanghera. Si asciugò la pioggia dagli occhi con un polsino fradicio e seguì Gorgas in direzione della luce. «Non c'è niente di grandioso» disse allegro Gorgas «ma è casa mia. Entri, si asciugherà presto.» Gorgas aveva ragione: non c'era proprio niente di grandioso. Lo scintillio della lampada di sego era troppo soffuso per permettere a Poliorcis di vedere su cosa stava camminando; sembravano vecchi giunchi imbevuti, e l'odore non era certo gradevole. Nella grande stanza in cui venne condotto c'era un grande tavolo di assi e coperto da piatti di legno e di peltro, ciascuno dei quali conteneva qualche pezzetto di crosta o di buccia. Accanto a esso erano seduti due uomini, ognuno con una grossa coppa di corno da-
vanti a sé. Non sembravano aver notato la presenza di Poliorcis. «Questi sono i miei fratelli» annunciò Gorgas. «Clefas a sinistra e Zonaras a destra.» I due uomini non si mossero, a parte un piccolo movimento della testa per guardare prima lui e poi di nuovo l'un l'altro. «Li deve scusare» continuò Gorgas «credo che siano stanchi dopo una dura giornata. È un periodo dell'anno piuttosto impegnato: stiamo tagliando le canne lungo il fiume e preparando il formaggio per il sidro.» Ancora nessuna reazione da parte di Clefas e Zonaras. Poliorcis si sedette su uno sgabello a tre piedi e poggiò i gomiti su un angolo libero del tavolo. Gorgas salì in piedi su una sedia, per prendere qualcosa dai puntoni. «Come sta andando con le canne?» chiese. «Male» rispose Zonaras. «È troppo bagnato. Lasceremo passare una settimana, per vedere se il fiume si abbassa, anche se con tutta questa pioggia non ci conterei.» L'affare che Gorgas prese dai puntoni si rivelò essere una sacca a rete che conteneva un grosso formaggio rotondo coperto di gesso. «Clefas, c'è del pane fresco?» «No» rispose Clefas. «Oh. Be', non importa. C'è del sidro nella caraffa?» «No.» Gorgas sospirò. «Ne prendo dell'altro dalla cantina» disse afferrando la caraffa. «Ci vorrà un attimo.» Sembrò sparire per un tempo lunghissimo, durante il quale nessuno dei fratelli si mosse minimamente. Quando tornò teneva sotto un braccio un filone di pane dall'aspetto duro e la caraffa con il sidro in mano. «Il fuoco avrebbe bisogno di un altro ceppo» disse, ma nessuno sembrò preoccuparsene. Faceva freddo, oltre che essere umido. Gorgas tagliò il filone di pane con il coltello. «In ogni caso» disse «lei voleva vedere il Mesoge: questa è la casa più tipica che può trovare. Ecco.» Porse un piatto con del pane e del formaggio in esso. «Le prendo una tazza, così potrà bere del sidro.» «No, davvero» protestò Poliorcis, ma era troppo tardi. Non c'era abbastanza luce per vedere il sidro, ma riuscì a scorgere una pagliuzza che galleggiava in superficie. «Può dormire nella mia stanza» continuò Gorgas. «Io mi sistemerò con Zonaras.» Zonaras borbottò. «Bene.» Gorgas si sedette e spezzò il pane, che inzuppò nella sua tazza. «Questa è casa» disse. «Prendere o lasciare. Personalmente non penso si
possa battere la semplice ospitalità alla vecchia maniera del Mesoge.» Poliorcis si ricordò di essere un diplomatico, e non disse nulla; dato che aveva decisamente fame, riuscì persino a sbocconcellare un angolo del formaggio, che era molto forte e piuttosto disgustoso. Gorgas chiese se era rimasta della pancetta, ma non ce n'era. «Il tetto dove teniamo le trappole dev'essere controllato» disse Clefas. «Adesso non avremo il tempo per farlo, finché non avremo raccolto il fieno. Se non riusciremo a prendere le canne, dovremo comprarle. Se qualcuno le avrà.» «Bene» disse Gorgas. «Dobbiamo mettere all'aperto le mele» continuò Clefas. «L'umidità sta entrando... altrimenti le perderemo tutte. Io non ho tempo» aggiunse. «Non guardare me» rispose Zonaras. «Cosa pensi che abbia fatto tutta la settimana... che me ne sia stato con le mani in mano?» Gorgas sospirò. «Manderò degli uomini» disse. «Dite loro quello che dev'essere fatto, e provvederanno.» «Abbiamo bisogno di qualcuno che scacci i corvi dall'orzo piantato» disse Clefas. «Ne ho contati centoquattro nel campo l'altro giorno. Se la situazione peggiorerà non varrà la pena di mietere.» «Non è niente di speciale, in ogni caso» sottolineò Zonaras. «È troppo bagnato. Abbiamo bisogno di dieci giorni di sole prima che sia pronto. Avremmo dovuto piantarci i fagioli come avevo detto io.» «Avevamo i fagioli l'anno scorso» rispose Clefas. «E abbiamo dovuto piantarli nei cinque acri in cima per ridare forza al terreno. Potremmo anche piantarli di nuovo, visto come stanno andando le cose.» Poliorcis fece di tutto per non ridere; ma Gorgas Loredan, autoconsacratosi Principe del Mesoge, annuiva giudiziosamente e aveva un aspetto serio; sta interpretando il ruolo di un fattore si rese conto Poliorcis ma non ha capito bene come sì fa; cerca di pensare a sé in vari ruoli - fattore, principe, diplomatico, soldato professionista - ma non riesce quasi mai ad arrivare sotto la superficie. Mi chiedo chi sia realmente. Penso che se lo chieda anche lui. La stanza di Gorgas (la stanza principale, così gli era stato detto, dove il padre era solito dormire dopo la morte della madre), si rivelò essere una piccola soffitta, sopra una serie di gradini che erano più simili a quelli di una scala a pioli. C'erano un letto, un materasso imbottito di canne molto vecchie, nessun cuscino e una coperta d'annata che era stata rivoltata con cura all'epoca in cui Poliorcis aveva appena cominciato a radersi (cioè
prima che la madre di Gorgas morisse, a meno che non fosse opera di Niessa Loredan, prima di interessarsi alla finanza internazionale). Poliorcis si tolse gli stivali, si mise sul letto e serrò tra le dita lo stoppino della lampada per spegnerlo. Sentì qualcosa battere sul tetto... non era la pioggia, perché non gocciava nulla nei contenitori riempiti a metà e messi nei punti strategici della stanza per raccogliere le gocce. Erano gatti? Scoiattoli che uscivano durante la notte? Poteva trattarsi di conigli: le gronde della casa arrivavano fino alla parte bassa della collina. Qualunque cosa fosse, faceva rumore sufficiente a tenere Poliorcis sveglio, anche se era terribilmente stanco. Un'alleanza tra l'Impero e questi buffoni: era ridicolo pensare che l'avesse presa in considerazione. Al massimo Gorgas aveva... quanti, mille uomini? Probabilmente non così tanti, e quanti tra essi sarebbe stato in grado di togliere, essendo realistici, dal lavoro di obbligare con le minacce e i colpi a stare in riga i suoi compagni contadini? Fu una triste riflessione sulla sua credulità; aveva perso tempo lì, e quasi tutto ciò che aveva scoperto era inutile. Aveva al massimo potuto dare uno sguardo in quella curiosa tribù, i Loredan, che erano in qualche modo riusciti a essere coinvolti così profondamente in questioni che erano abbastanza significative da avere effetti sul codice di comportamento imperiale. Mentre si rigirava nel letto, cercando di trovare un pezzo di materasso livellato abbastanza grande da accogliere la schiena, Poliorcis rifletté su quello strano fenomeno, cercando di dargli un senso. Niessa Loredan per esempio: ormai non era più importante, ma per un po' di tempo era stata abbastanza pericolosa da destabilizzare la Banca di Shastel, e il piccolo e insignificante esercito che aveva pagato e che Gorgas aveva addestrato, aveva ucciso qualche migliaio di alabardieri dell'Ordine. Ormai era fuori dal gioco e così, ne era certo, era anche Gorgas: quel particolare piccolo gruppo di banditi che aveva messo insieme avrebbe tenuto il Mesoge sottosviluppato e senza importanza per gli anni a venire... mantenendolo in caldo, per così dire, nel caso in cui per l'ufficio provinciale risultasse conveniente guardare da quella parte. Questa circostanza in se stessa era improbabile: Tornoys poteva essere una base utile per uno squadrone di galere, se l'Impero avesse mai costruito una vera flotta, in opposizione al disordine e alla disorganizzazione costituita dalle navi noleggiate e catturate che veniva definito, nei libri mastri dei rifornimenti, Marina Imperiale, ma Gorgas realisticamente non controllava Tornoys; se avesse cercato di farsi strada lì, probabilmente sarebbe stata la sua rovina.
Il che lasciava Bardas Loredan, un tempo colonnello, adesso sergente: l'eroe di Ap' Escatoy, l'ultimo difensore di Perimadeia, l'angelo della morte per gli uomini delle pianure. Poliorcis aggrottò la fronte nel buio, cercando di ricordare quel poco che capiva di teoria di base della casualità. Alla fine rinunciò: era un diplomatico, e l'Impero aveva numerosi metafisici di professione senza avere bisogno dei suoi suggerimenti. Ma persino lui, basandosi sui rari ricordi di un corso di due settimane alla fondazione dell'accademia militare di Ap' Sammas, poteva dire che in quella zona c'era molto da lavorare prima di poter fare piani a lungo termine; e i dati che stava raccogliendo probabilmente si sarebbero rivelati importanti in seguito. Il pensiero lo confortò; il suo insegnante di divisione usava dire: il primo e più essenziale stadio nel fare un lavoro utile è di scoprire quale lavoro un individuo dovrebbe fare. Be', adesso lui lo sapeva. Era lì per studiare la patologia di Bardas Loredan. Così tutto andava bene. Alla fine cadde addormentato; e se fece dei brutti sogni dormendo in quel letto e in quella casa, fu principalmente a causa del formaggio. Vetriz Auzeil seduto davanti alla sua casa, osservava un ragazzino giù per la strada. Aveva raccolto un mucchio di piccole pietre e le lanciava contro un ammasso di vecchi e trascurati arbusti ornamentali che crescevano nel cortile anteriore della casa. Quella casa era disabitata da anni: era ancora vuota solo perché Venart, che dio lo benedicesse, stava cercando di comprarla (muovendosi in un modo subdolo e controproducente, utilizzando intermediari fantasma che in apparenza diminuivano le offerte l'uno dell'altro e si ritiravano subito prima che venisse concluso un accordo: gli stava costando una fortuna, ma questa situazione lo faceva sentire furbo, che era la cosa principale); tuttavia Vetriz aveva la sensazione che i ragazzini che lanciavano pietre erano una cosa disdicevole, e che come (gli dèi l'aiutassero) adulta, era investita dell'autorità di dirgli di smettere... solo che non riusciva assolutamente a capire a che cosa stava gettando i sassi, con una cura e una decisione così grandi. Alla fine la sua curiosità raggiunse livelli di tortura, così scese i gradini e glielo chiese. «Ai ragni» rispose il ragazzino. «Ragni?» «Esatto.» Il ragazzo indicò qualcosa e, proprio all'interno del groviglio di cespugli, c'era una vera e propria città di ragnatele, la maggior parte con un grosso ragno marrone al centro: pendevano così immobili e depressi
che ricordarono a Vetriz dei proprietari delle bancarelle al mercato in un giorno tranquillo, avviliti in attesa dell'apparizione di qualche eventuale cliente. «Hai avuto fortuna?» chiese Vetriz. Detestava i ragni. Quando era bambina la sua era stata un'avversione del tutto passiva, ma adesso che era adulta, era diventata attiva. «Finora ne ho presi quattro» rispose fiero il bambino. «Contano solo quelli che uccidi; se cadono e scappano non vale.» Quelle parole corrispondevano più o meno a un invito (persino a una sfida), di cui Vetriz aveva bisogno; selezionò un sasso dal deposito delle munizioni, calcolò al meglio l'elevazione e il vento e lanciò... (Come i trabocchi a Perimadeia, in un certo senso.) «Mancato» disse il bambino, esprimendo perfettamente solo tramite il tono di voce lo sdegno eterno del maschio di fronte all'incapacità del genere femminile alla guerra missilistica. «Tocca a me.» Prese un sasso, lo guardò rigirandolo tra le dita, guardò il ragno che aveva scelto e lanciò. «Mancato» disse Vetriz. «Non ho mai detto che era facile» rispose accigliato il bambino. Stavolta Vetriz cercò di usare un approccio più scientifico. Immaginò la traiettoria del sasso e il decadimento del suo arco mentre la sua massa superava la spinta iniziale del lancio. Con l'immagine chiara in mente, come se fosse stata incisa sul retro delle sue palpebre, mandò indietro il braccio e scagliò... «Non dovremmo farlo, in ogni caso» disse stizzita. «È un'azione crudele. Quei ragni non ci hanno mai fatto del male.» «Sono velenosi. Se ti mordono, ti gonfi, diventi nero e muori.» «Davvero?» disse Vetriz. «Non l'ho mai sentito dire.» «È vero» le assicurò il ragazzino. «Me l'ha detto un mio amico.» «Oh, be', allora» disse Vetriz prendendo di soppiatto un altro sasso. «In questo caso immagino che sia nostro dovere... ecco» aggiunse. «Colpito in pieno.» «Non conta» disse il ragazzino. «Non era nemmeno il tuo turno.» Vetriz sorrise. «E tu sei solo un dannato perdente» replicò. «Adesso smettila, prima che lo dica a tua madre.» Il ragazzino la guardò con ira selvaggia, accusandola con lo sguardo di tradimento; poi diede un calcio alla pila di sassi e se ne andò via con aria dinoccolata. Vetriz, inspiegabilmente deliziata dalla sua prodezza, tornò al suo gradino, per ricontrollare il libro mastro delle merci disponibili. Stava
cercando di capire un ghirigoro a doppio cerchio (Venart era un idiota riguardo alle abbreviazioni di moda, e tendeva a dimenticarne il significato il giorno dopo averle usate) quando un'ombra cadde sulla pagina. La ragazza alzò lo sguardo. «Vetriz Auzeil?» Lei annuì e allontanò rapidamente lo sguardo, cercando di non fissare quell'uomo. Ma era difficile... troppo difficile per lei. Dopo tutto non aveva mai visto prima un Figlio del Cielo. «Sto cercando suo fratello Venart» disse l'uomo. «È a casa?» Vetriz scosse la testa. «Mi dispiace» rispose «è fuori per un viaggio d'affari. Posso aiutarla io?» L'uomo sorrise, come se l'offerta fosse venuta da un bambino di sei anni. «Grazie, no. Si tratta di affari.» Era risaputo tra gli amici che si poteva trattare con sufficienza Vetriz Auzeil solo una volta. «Allora è me che deve vedere» rispose con un dolce sorriso. «La prego, entri. Posso dedicarle un quarto d'ora.» L'uomo la guardò e la seguì. Lei lo condusse nell'ufficio contabile, vuoto a quell'ora del giorno, perché gli impiegati erano nei magazzini a calcolare le merci disponibili, oppure alla taverna. «La prego di scusare questa confusione» disse indicando le scrivanie ordinatissime. «Allora, cosa posso fare per lei?» La ragazza si sedette dietro la scrivania di Venart, quella che aveva fatto costruire in legno e che era parte di un lotto di merci varie come bottino di guerra di Perimadeia, comprato di nascosto; era enorme, decorata e terribilmente volgare, e Venart la odiava. «Prego, si sieda» disse Vetriz, ben sapendo che lo sgabello dall'altra parte era talmente basso che si doveva mettere un cuscino anche solo per vedere oltre la scrivania. Circostanza piuttosto sconcertante, il Figlio del Cielo non sembrò avere quel problema; erano tutti così maledettamente alti? si chiese. «Grazie.» Osservò l'uomo cercare di mettersi comodo: era impossibile su quello sgabello. «Mi chiamo Moisin Shel e rappresento l'ufficio provinciale. Siamo interessati a noleggiare parecchie navi.» Vetriz annuì, come se quelle cose accadessero tutti i giorni. «Capisco» disse. «E che tipo di navi, quante e per quanto tempo?» Moisin Shel la guardò sollevando un sopracciglio. «Voi possedete una nave chiamata Squirrel» disse. «Sappiamo che è una nave a vele quadre e ad alberi gemelli in grado di sostenere sei nodi con il vento favorevole, e che siete soliti navigare di bolina stretta con il vento di traverso su rotte costiere. Dovrebbe essere adatta ai nostri scopi, se la capacità è adeguata.
Ho ragione a pensare che la stazza della Squirrel sia almeno di centotrenta tonnellate?» «Certo» rispose Vetriz, non avendo la minima idea di che cosa l'uomo stesse parlando. «Che tipo di carico avete in mente?» Moisin Shel non sembrò averla sentita. «Prima di andare avanti, vorrei risolvere alcune questioni importanti: mi scuso se sembra pignoleria, ma dobbiamo essere sicuri che la nave sia conforme alle specifiche del servizio provinciale prima di concludere un contratto di noleggio. È in grado di rispondere a queste domande, o devo aspettare che torni suo fratello?» «Nessun problema» rispose fermamente Vetriz. «Chieda pure.» «Molto bene.» L'uomo mise le dita a campanile. «Sa se il corso dei torelli è mortasato alla chiglia a L?» Vetriz riuscì a rimanere seria in volto. «La Squirrel è un mercantile funzionante, Signor Shel, non uno yacht da crociera. Le posso assicurare che non deve avere preoccupazioni a questo proposito.» Il Figlio del Cielo annuì di nuovo. «E probabilmente la ruota di prora e il telaio di poppa sono immorsati alla chiglia» continuò. «Come ho detto, mi dispiace doverla importunare con questi dettagli, ma abbiamo avuto esperienze piuttosto spiacevoli in passato quando abbiamo avuto a che fare con proprietari di navi civili.» «Io...» Vetriz fece un respiro profondo. «Su due piedi» disse «non riesco a ricordarlo. Immagino che lo siano. Dopo tutto mio padre traghettava balle di tessuto da Colleon a Scona con la Squirrel quando lei stava imparando a camminare; se è rimasta intera così a lungo, molto probabilmente non è tenuta insieme da carta incerata e colla. Tuttavia» aggiunse rapidamente, mentre il Figlio del Cielo inspirava forte «posso avere conferma di questo non appena la nave ritorna; oppure può farlo lei, se lo preferisce. Suggerisco di procedere la trattativa sul presupposto che la nave incontri i vostri requisiti. Per cosa ha detto che la volete?» L'angolo del labbro di Moisin Shel si contrasse leggermente. «Non l'ho detto» rispose. «Credo che sarebbe meglio fare come lei ha suggerito, così ispezionerò la nave io stesso quando rientrerà. Può darmi un'idea di quando potrebbe essere?» «È difficile a dire» rispose Vetriz. Aveva deciso che il Signor Shel non le piaceva molto. «Tra una settimana, forse due. Dipende da molte cose, vede...» «Certamente.» Moisin Shel si alzò. «Rimarrò qui per altre tre settimane almeno; se e quando la Squirrel rientrerà, la contatterò di nuovo. La rin-
grazio molto per il suo tempo.» «Mmm.» Anche Vetriz balzò in piedi. «Se vuole dirmi dove alloggia, in modo che quando la nave arriverà...» «Va bene così» disse Shel. «Lo verrò a sapere. E tornerò allora. Buona giornata.» Quando se ne fu andato, Vetriz si allungò sulla sedia del fratello e imprecò... una cosa che non faceva spesso. Sapeva che come mercante e figlia naturale dell'Isola avrebbe dovuto sentirsi eccitata al pensiero di un buon affare come quello (almeno lei pensava che sarebbe stato un buon affare; anche se l'argomento soldi non era saltato fuori); ma c'era qualcosa in Moisin Shel che la infastidiva. Venart, ne era sicura, non avrebbe affrontato la questione in modo migliore... oh, avrebbe sorriso e adulato come un idiota, ma lei era sicura che suo fratello non avrebbe riconosciuto un corso dei torelli nemmeno se gli fosse arrivato sul naso. Be', se quello sciocco fosse tornato, avrebbe avuto il piacere di chiudere l'affare, e sarebbe stato il benvenuto. La ragazza scosse la testa, lasciando l'ufficio contabile e andando in una stanzetta che era stato l'ufficio di suo padre. Lì, se ricordava bene, quindici anni prima c'era un piccolo e sporco libro intitolato Vesano sulla costruzione delle navi; poteva non avere al momento idea di cosa fosse un corso dei torelli, ma per gli dèi avrebbe saputo tutto su quei dannati affari per quando Vetriz fosse ritornato a casa; così avrebbe potuto dirgli, come si può spiegare a un bambino... sai, Ven, il corso dei torelli. Pensavo che tutti lo conoscessero. Trovò il libro, che si rivelò decisamente noioso. Ma almeno per il ritorno di Venart a casa (il giorno dopo, circostanza abbastanza strana) lei sarebbe stata in grado di dire - le lunghe assi su ciascun lato della chiglia - come se l'avesse saputo prima di cominciare a mangiare alimenti solidi. «Oh» rispose Venart. «Allora perché non chiamarle così, invece di usare quel nome stupido e bizzarro? E cosa mi dici di "mortasati alla chiglia a L"? No, non dirmelo, non voglio sapere. Se devo davvero scoprirlo posso guardare nel vecchio libro di Papà, come hai fatto tu.» Vetriz si accigliò «In ogni caso» disse. «Cosa ne pensi?» Lo sguardo seccato di Venart si mutò in un sorrisetto. «Avremo del denaro per una vecchia gomena. Del buon denaro per una vecchia gomena: se pagano un quarto a tonnellata alla settimana, sarà come aver scoperto una miniera d'argento sotto il pavimento della cucina.» Le sopracciglia di Vetriz si sollevarono improvvisamente. «Santo cielo»
disse «sembra una quantità enorme. Lo è?» «La Squirrel è duecentoquindici tonnellate» rispose gongolante Venart «per cui è facile fare il calcolo. E puoi dimenticarti di tutta quella robaccia sulle specifiche. Stanno noleggiando qualsiasi cosa possa galleggiare, compresi i barili rovesciati. Perché diavolo pensi che sia tornato in tutta fretta?» Era così (spiegò) dappertutto, da Ap' Imatoy a Colleon: l'ufficio provinciale si stava preparando a prendere l'iniziativa contro Re Temrai, e la forza di invasione principale sarebbe stata trasportata intorno a Hook e attraverso gli Stretti di Scona fino a Perimadeia per mare, evitando così una marcia lunga e pericolosa via terra e togliendo a Temrai la possibilità di interrompere l'attacco con una tattica mordi e fuggi. Una delle conseguenze sarebbe stata quella che avrebbero appianato alla meglio le loro divergenze con Shastel, le cui acque avrebbero dovuto attraversare... era una circostanza seccante, dato che adesso Venart era bloccato con un carico di farina di grano di Nagya troppo costosa che aveva comprato unicamente supponendo che ai commercianti di candele di Shastel non sarebbe stato permesso di portare quella merce fino a Berlya, ma era indubbiamente un vantaggio per gli affari a medio e lungo termine. «Getteremo quella merce nelle acque del porto se non potrò sbolognarla sul mercato» aggiunse. «Dopo tutto, con quello che avremo dagli imperiali il costo di qualche sacco di farina non è importante. Anche se credo che potrei offrirla ai birrai sul Molo Sud: usano quella roba e...» «L'Impero attaccherà Perimadeia?» lo interruppe Vetriz. «E da quando?» Venart fece un largo sorriso e si versò ancora da bere, servendosi anche un secondo cucchiaio di miele a titolo di festeggiamento. «Dovresti seguire queste cose se vuoi davvero essere un commerciante» disse con un tono insopportabile. «Pensaci, d'accordo? È tutto in relazione con Ap' Escatoy, come chiunque con un po' di sale in zucca avrebbe dovuto capire anni fa. Grazie al nostro amico Bardas, che dio lo benedica, l'Impero alla fine è riuscito a fare quello che aveva cercato di fare da quando eravamo ragazzini: arrivare sulla costa occidentale. Adesso sono qui... be', il cielo è il limite. Ironico» continuò. «Anche se Bardas e gli abitanti della Città fossero riusciti a respingere Temrai e i suoi, adesso si troverebbero ad affrontare un'invasione su larga scala da parte dell'Impero... una conclusione scontata, ovviamente.» Vetriz si accigliò. «Ma» disse «se la Città non fosse caduta, Bardas non
si sarebbe trovato ad Ap' Escatoy per loro.» «Oh, be'.» Venart scrollò le spalle. «Non fa differenza: se non fosse stato lui, sarebbe stato qualcun altro. È sempre soltanto una questione di tempo. Voglio dire che nessuno batte l'Impero, e questo è un dato di fatto nella vita.» Bevve metà tazza e si allungò all'indietro nella sedia. «E adesso Temrai assaggerà la sua stessa medicina. Non posso dire di avere il cuore straziato per questo; è un piccolo bruto assetato di sangue, a detta di tutti. Tuttavia non si può fare a meno di sentirsi un po' dispiaciuti per chiunque abbia l'Impero alle costole. Immagino che dev'essere un po' come sapere che si ha una malattia inguaribile.» «Non dire così.» affermò Vetriz tremando leggermente. «È una cosa piuttosto orrida, a pensarci. Voglio dire... tutte quelle persone. E adesso stai dicendo che è stato tutto inutile.» «Immagino che si può vedere la cosa in questo modo» rispose Venart. «Oppure si potrebbe dire che erano tutti destinati a finire uccisi prima o poi, quindi ha importanza se avviene da parte degli uomini delle pianure o dell'Impero? Non si può discutere con la geografia: se si è abbastanza sciocchi da vivere su un promontorio strategicamente vitale, con l'Impero che spinge per irrompere a cento miglia a sud, si vuole proprio essere ciechi se si immagina di vivere in pace e tranquillità. Sono grato che viviamo su una piccola roccia in mezzo al mare.» Vetriz alzò lo sguardo. «Davvero?» disse. «Be', certo.» Venart sbadigliò. «L'Impero non ha una flotta: per questo cerca di noleggiare le navi. Qualsiasi cosa accada non verranno mai a darci fastidio. Quindi va bene così.» «Oh» disse Vetriz, e cambiò argomento. Alexius? urlò Bardas, ma lui non sembrò aver sentito. Bardas aveva avuto il suo solito sogno, quello sulle miniere; e poi improvvisamente, per un motivo che non riusciva a capire, quando la parete era crollata si era ritrovato in piedi in fondo alla sala conferenza principale nell'Accademia della Città di Perimadeia (un luogo in cui non aveva mai messo piede, in tutti gli anni che aveva vissuto lì; ma sapeva esattamente dove si trovava, e che lui era davvero lì). Sul podio poteva vedere il suo vecchio amico, il Patriarca Alexius, che indossando i suoi vestiti accademici migliori, stava tenendo una conferenza di fronte a un'immensa folla di studenti. «Il caso in questione» stava dicendo Alexius «è la caduta di Ap' Escatoy,
un episodio che indubbiamente vi è familiare. Ricorderete che in quei giorni l'Impero non era ancora penetrato nel mare occidentale, e tanto meno aveva attraversato gli stretti del nord; è difficile da immaginare, lo so, ma vale comunque la pena, dato che è vitale per poter chiaramente affermare che il mondo come lo conosciamo oggi è stato modellato dalle azioni di un uomo, in un momento cruciale della storia.» Bardas si accigliò, cercando di capire. Sapeva senza ombra di dubbio che quello non era un sogno. Si trovava nell'Accademia (che ormai era costituita da macerie distrutte dal fuoco e coperte di convolvolo); ma era un momento del futuro, e lì c'era Alexius, che non era morto nonostante le sue supposizioni contrarie. «Un solo uomo» continuò Alexius. «Un uomo piuttosto normale, giudicandolo obiettivamente; sicuramente abbastanza normale per i suoi contemporanei. Un uomo che non è mai stato più felice di quando potava siepi e scavava fossati nella fattoria di suo padre nel Mesoge, oppure costruiva archi a Scona, oppure si occupava della spianatura delle corazze con altri operai nell'armeria di Ap' Calick; di certo non era un uomo del destino, si sarebbe pensato. Ma considerate un fatto: se Bardas Loredan non fosse accidentalmente finito nella galleria principale del nemico sotto Ap' Escatoy e non avesse abbattuto le mura della città, cosa sarebbe accaduto? Immaginiamo che l'assedio si fosse trascinato per un altro anno, o forse addirittura per due; poi una rivolta in una provincia lontana o un cambio nell'amministrazione all'ufficio finanziario centrale, oppure un alterco politico tra le varie fazioni a corte, qualsiasi cosa, avesse determinato l'abbandono dell'assedio. Così Ap' Escatoy non sarebbe caduta... e il mondo sarebbe completamente diverso. Un solo uomo e il diverso svolgimento di un momento nel tempo. Questo, signori, è il Principio. In quel momento, nel buio delle miniere, ed erano buie, ve lo posso assicurare, tutto è cambiato. Tutto è stato abbattuto, e reso più piccolo... così piccolo da stare comodamente in un piccolo e stretto sperone, dove a stento un uomo vi potesse strisciare dentro... per poi allargarsi di nuovo, come si allargano le onde nell'acqua. Questa è l'azione del Principio per voi: un effetto che abolisce tutte le dimensioni, un luogo in cui tutti i luoghi si incontrano, un forellino delle dimensioni di uno spillo alla fine e al principio, in cui tutto entra e dal quale tutto esce...» Bardas scoprì che non riusciva più a sentire: era come se le sue orecchie fossero ostruite da cera. Poteva vedere Alexius che parlava ancora, ma non riusciva a capire le parole. Quando si alzò per urlare Parla a voce alta, non
riusciamo a sentire da qui dietro batté la testa contro il tetto basso dello sperone, proprio mentre le pareti cominciarono a piegarsi e a chiudersi su di lui, come una tazza di latta che venisse accartocciata dalle ruote di un carro. «Sergente Loredan?» La sua testa si alzò. «Mi dispiace» disse. «Ero a miglia di distanza.» «Come stavo dicendo» continuò l'aiutante, lanciandogli uno sguardo severo «la situazione in quella parte del mondo si sta deteriorando a un ritmo costante. Gli interessi imperiali sono direttamente minacciati. Non possiamo più garantire la sicurezza dei nostri cittadini. Conseguentemente, il comando centrale sta disponendo dei piani di contingenza nel caso in cui un intervento militare divenga inevitabile.» «Capisco» disse Bardas, non avendo la minima idea di che cosa l'aiutante stesse parlando. «Questo è... inquietante.» «Decisamente.» L'aiutante incrociò le braccia sulla scrivania e si chinò leggermente in avanti. «Come può ben capire, un'esperienza diretta di tali persone sarà di grande valore nel pianificare la nostra risposta, sia nel tempo che nella tattica. Dato che lei ha combattuto numerose guerre contro di loro...» Dèi. Attaccheranno Temrai. «Capisco» ripeté. L'aiutante annuì. «Al momento» continuò «le è stato ordinato di rimanere pronto, in attesa di ordini dettagliati dello staff anziano; tuttavia sono quasi sicuro che, come la situazione si svilupperà, lei verrà Rassegnato a un ruolo più attivo nella guerra. Potrebbe esserci» aggiunse in tono allettante «un'altra promozione, a seconda della natura del compito che sarà chiamato a svolgere.» Una promozione. Uau. «Nel frattempo?» chiese Bardas. «Come ho detto, al momento deve aspettare ordini e tenersi pronto. Sarebbe il caso che lei concludesse le cose in sospeso che ha qui, e facesse i preparativi per passare le consegne al suo sostituto.» Bardas si alzò in piedi. «Naturalmente» disse. «Provvederò subito.» Mi lascia perplesso il fatto che non mi abbiano buttato fuori dall'esercito rifletté mentre camminava lungo gli interminabili corridoi. Sono irrispettoso, insubordinato e spesso negligente; ah, ma ho conquistato Ap' Escatoy per loro. E adesso riconquisterò Perimadeia. Si fermò. «Così riconquisterai Perimadeia, vero?» disse l'uomo. Bardas non riuscì a vederlo chiaramente: era un punto scuro nel corridoio, a metà strada tra
due portalampade, e non riuscì a vederne il viso; ma poté sentire l'odore del coriandolo. Si rese conto che aveva smesso di respirare. Forse per istinto. «Vogliono che lo faccia» rispose. «Faccio quello che mi viene detto. Se farò un buon lavoro, mi daranno la cittadinanza.» «Ti daranno la cittadinanza» ripeté l'uomo. «Non sarebbe bello? Immagina: tu, Bardas Loredan, un cittadino; non esiste società civilizzata al mondo che ti vorrebbe come cittadino.» Bardas si accigliò. «Mi scusi» disse «ma come lo sa?» «Ci siamo incontrati. Di fatto, siamo già stati qui prima... qui o da queste parti. Non cambi argomento. Conquisterà Perimadeia. Perché non sono sorpreso? Le piace il suo lavoro, vero?» Bardas rifletté per un momento. «No» disse. «Be', dipende. Ho fatto molte cose diverse nella mia vita. Alcune erano peggiori di altre.» «Tipo?» «Le miniere» rispose Bardas. «Non mi sono piaciute affatto. E prestare servizio con Maxen: è stata una cosa davvero triste, per la maggior parte del tempo.» «Comprensibile» disse l'uomo. Non si era mosso, né l'aveva fatto Bardas. «E cosa mi dice del fatto di essere stato al comando della difesa di Perimadeia? È stata una cosa bella o brutta?» «Non mi è piaciuta. Sapevo di essere l'uomo sbagliato per quel lavoro. Ho fatto del mio meglio, ma qualcun altro avrebbe potuto salvare la città. E l'esperienza in sé è stata piuttosto infelice.» «Capisco. E cosa mi dice della sua carriera di spadaccino? È stata eccitante? Assaporava la sfida? Si sentiva bene ogni volta che vinceva?» «Mi sentivo sollevato» disse Bardas. «E contento di essere ancora vivo. Ma l'ho fatto perché ero abbastanza bravo da potermi guadagnare da vivere in quel modo. Avevo bisogno di soldi per mandarli a casa ai miei fratelli.» «Che li hanno sperperati, naturalmente» commentò l'uomo «quindi è stata una vera perdita di tempo. Be', rimane soltanto fare il fattore, insegnare a tirare di spada, costruire archi e quello che sta facendo adesso. Come si sente riguardo a queste attività? Più felice, immagino.» «Sì» disse Bardas. «Fare il fattore è una vita dura, ma è quello che sono nato per fare. Insegnare a tirare di scherma era meglio che fare lo spadaccino, e i soldi erano più che sufficienti; avrei potuto continuare felicemente a farlo. Lo stesso posso dire per quanto riguarda la costruzione degli archi: per condurre quel tipo di vita non c'è bisogno di molto denaro, e mi piace
lavorare con le mani. Lo stesso vale per questo posto, immagino, se solo riuscissi a trovare qualcosa da poter davvero fare qui dentro. Tuttavia nessuno cerca di uccidermi, quindi mi trovo in una posizione di vantaggio.» L'uomo rise. «Che persona semplice che è, nel suo intimo» disse. «Nella vita voleva davvero solo una dura giornata di lavoro e una giusta paga; e invece ha sterminato tribù, difeso e distrutto città, ucciso uomini a centinaia. Mi dica: in tutti i combattimenti alla morte in cui si è trovato, in tutti i confronti o-tu-o-io, non pensa al motivo per cui gli avversari sono tutti morti e lei è ancora vivo? È merito solo della sua maggiore abilità e della velocità della mano? Sarei curioso di sentire cosa ne pensa.» «Preferisco non pensarci» rispose Bardas. «Senza offesa, ma sono forse affari suoi?» «No» rispose l'uomo. «È solo che sono curioso, come la maggior parte delle persone. Volevo solo sapere com'era lei davvero. È facile, quando si legge o si sente parlare di una notevole figura storica, immaginare che era completamente diversa da noi, e che ha vissuto seguendo regole completamente diverse. Parlando con lei così, da soli, mi rendo conto che non è affatto così. Adesso è tutto chiaro: nella maggior parte dei casi, lei non aveva la minima idea di cosa stava facendo... tutto qui. Ma non l'avrei mai capito se fossi rimasto ancorato a ciò che dicono i libri o a quello che nonno ci diceva quando eravamo bambini. Be', penso che ciò sia tutto. Addio.» «Aspetti» disse Bardas; ma stava parlando a una mezza ombra. «Oh, e un'ultima cosa» disse la voce dall'oscurità dove si erano trovati l'uomo e l'odore di coriandolo. «Grazie.» «Prego» rispose Bardas; poi cadde a terra. Quando riaprì gli occhi di nuovo la luce era terribilmente luminosa, e varie teste lo scrutavano. «Molto probabilmente è stato il calore» stava dicendo un Figlio del Cielo. «Ci mettono del tempo ad abituarsi. Lui viene da una nazione fredda e umida.» «Oppure può essere un effetto residuo dell'essere stato sepolto vivo» disse qualcun altro che intravide con la coda dell'occhio. «In casi di forte commozione cerebrale possono anche passare delle settimane prima che i sintomi si manifestino. Questo spiegherebbe le allucinazioni.» «Questo verrebbe causato anche da un colpo di calore» rispose il Figlio del Cielo. «Di fatto, sentire voci immaginarie e parlare con persone che
non sono presenti sono due sintomi indicativi più di un colpo di calore che di un trauma cranico, anche se ammetto che sono comuni a entrambe le condizioni.» «Penso che sia sveglio» disse un'altra voce. «Sergente Loredan, riesce a sentirci?» Bardas aprì la bocca: aveva la lingua e la gola immobili e secche, come la pelle che diventa bagnata e si asciuga senza venire oliata. «Penso di sì» disse. «Siete reali?» Il Figlio del Cielo sembrò offeso dalla domanda, ma l'uomo che gli aveva parlato sorrise: «Sì, siamo reali; abbastanza reali per i suoi scopi, in ogni caso. Ricorda cosa le è accaduto?» «Sono caduto» rispose Bardas. «Trauma cranico» mormorò l'uomo che aveva la teoria del sepolto vivo. «Notate la leggera afasia e la evidente perdita di memoria.» «Lo sappiamo» disse l'uomo che gli stava parlando, lentamente e gentilmente, come a un uomo morente o a uno sciocco. «È caduto e ha battuto la testa: nulla di serio. Ma prima, cos'è accaduto?» Bardas rifletté un momento. «Stavo parlando con qualcuno» disse. Quest'affermazione sembrò soddisfare l'uomo che gli stava parlando, perché accennò un sorriso. «Aha» disse. «E si ricorda con chi?» «Con il mio ufficiale superiore» sussurrò Bardas. «Mi stava dicendo che avrei potuto avere una promozione.» A quanto sembrava, quella era la risposta sbagliata. «Intendevo dopo» disse l'uomo. «Dopo il colloquio con l'aiutante, ma prima che cadesse. Stava parlando con qualcuno?» Bardas cercò di scuotere la testa, che però non si volle muovere, e così parlò. «No» rispose. «Ne è sicuro?» «Sì. Almeno» aggiunse «per quel che posso ricordare.» «Sta nascondendo qualcosa» mormorò il Figlio del Cielo. «Evasività e leggera paranoia: si tratta evidentemente di un colpo di calore.» L'uomo che gli aveva parlato insistette di nuovo. «Siamo dottori» disse «e siamo qui per aiutarla. È sicuro che non stava parlando con nessuno?» «Sicurissimo» disse Bardas; poi, quando il volto dell'uomo si corrugò e si trasformò in un cipiglio di delusione, aggiunse: «Certo, ho immaginato di parlare con qualcuno, ma so che non era vero. Si trattava di un'allucinazione o qualcosa del genere.» L'uomo sembrò più seccato che mai. «Davvero? E come può esserne co-
sì sicuro?» «È facile.» A Bardas la testa cominciò a fare molto male. «Prima ha cercato di farmi credere che era qualcuno che avevo ucciso nelle miniere; poi voleva farmi credere di essere uno studente di storia che veniva da centinaia di anni nel futuro. Inoltre sapeva troppe cose di me: devo essermelo immaginato.» «Capisco» disse l'uomo che caldeggiava l'ipotesi del trauma cranico. «E parla spesso con persone immaginarie?» «Sì» rispose Bardas; e i dottori svanirono. Quando aprì di nuovo gli occhi, si trovava ancora nello stesso luogo, ma da solo; e adesso era scuro, e poteva sentire l'odore di cipolle, rosmarino, sangue, maggiorana e urina. Per un po' tutto fu silenzio come una tomba; poi udì un uomo gemere a qualche metro di distanza. Si trovava in un ospedale, pensò. La mente vagava ancora nei vari luoghi, anche se il dolore adesso era diverso. L'assaporò per un po', cercando di giudicarlo in base ai sintomi e all'intensità (se il trauma cranico rappresentava il termine medico per un colpo in testa, era pronto a scegliere il trauma cranico; era stato colpito in testa molte volte, ed era proprio così che si sentiva... come se avesse ricevuto un colpo in testa). Bardas? «Shhh» sussurrò. «Sveglierai le persone.» Scusa. «Va bene. Come stai, a proposito?» Non mi posso lamentare rispose Alexius. Bardas chiuse gli occhi: poteva vedere Alexius molto chiaramente nel buio dietro le sue palpebre. Cosa ti sei fatto? «Non lo so» ammise Bardas. «Stavo camminando lungo un corridoio nell'edificio dell'armeria, e adesso sono qui. Può essere stato un colpo di calore, oppure un trauma cranico.» Un trauma cranico? «Un colpo in testa. Non che recentemente io abbia ricevuto colpi in testa, ma a quanto sembra, può volerci un po' di tempo perché i sintomi si mostrino. In ogni caso, eccomi qui: è tutto quello che so.» Che sfortuna disse Alexius con comprensione. Spero che ti sentirai presto meglio. «Grazie.» Il dolore improvvisamente si acuì, e poi diminuì di nuovo. «Volevi qualcosa, o sei venuto solo per fare due chiacchiere? È solo che, non vorrei sembrare sgarbato, ma...»
Naturalmente. Mi stavo solo chiedendo dov'eri, tutto qui. Quando ho saputo di Ap' Escatoy mi sono preoccupato: finire sepolto vivo, è davvero terribile. Bardas sorrise. «Non ricordo molto di quel fatto» rispose. «Mi sono consumato come una candela, e poi mi hanno trascinato fuori e sono rinvenuto in un ospedale da campo. E tu? Cosa fai in questo periodo?» Da non credere: insegno di nuovo. È quasi come ai vecchi tempi. Ma finora prendo le cose con un po' più di stabilità, così non sembra farmi male. Ed è bello fare qualcosa di utile, invece di starsene con le mani in mano. «Sono contento per te» rispose Bardas. «Dov'è che insegni?» «Delira» disse ad alta voce un uomo che Bardas non vedeva. «È un effetto abbastanza comune nei casi di trauma cranico. Cosa suggerite?» Bardas aprì gli occhi. C'era una luce, simile al debole rosso subito prima del sorgere del sole, quando la terra è ancora fredda. Un uomo alto, un Figlio del Cielo, era in piedi sopra di lui. Un po' più in là c'era un gruppo di giovani uomini, che ascoltavano attentamente. «Riposo» disse uno di loro. «E tutto ciò che si può fare, non è così?» «Ottima risposta» disse il Figlio del Cielo «ma penso che possiamo fare di meglio. Qualcuno ha idee?» Uno dei giovani si schiarì la gola. «Un sedativo» suggerì con cautela. «Succo di papavero, per tenere il paziente calmo e lasciarlo dormire mentre guarisce. E un infuso di corteccia di salice per il dolore.» «Ma non entrambi insieme» rimproverò il Figlio del Cielo. «Altrimenti potrebbe dormire tanto da non svegliarsi mai più. Inoltre, se dorme, non avrà bisogno di nulla per il dolore. Molto bene. D'accordo, andiamo avanti.» «Dottore.» Uno degli studenti aveva notato che Bardas era sveglio, e fece un cenno con la testa nella sua direzione. Il dottore guardò indietro. «È sveglio» disse «splendido. Dobbiamo fare in fretta perché ho paura di sovraffaticarlo. Come si sente oggi?» «Malissimo» borbottò Bardas. «Dove sono?» Ma il dottore era chino su di lui e gli premeva il cranio con i polpastrelli delle dita. «Fa male?» chiese. «E questo?» «Ahi» rispose con sicurezza Bardas. «Come pensavo» disse il dottore. «Il cranio è diventato morbido e ci sono parecchie ammaccature e protuberanze che bisogna togliere.» Si girò e guardò uno degli studenti. «Il martello da spianatura numero uno» disse «e
il palo con la testa ovale, se non le dispiace.» Prima che Bardas potesse muoversi od obiettare, il dottore gli aveva aperto a forza la bocca e ci aveva spinto dentro qualcosa; Bardas riconobbe uno dei pali che si infilavano nella fessura in cima all'incudine dell'armaiolo, usati per colpire quando si modellavano i pezzi dall'esterno. Poi il dottore prese il martello dallo studente - aveva due lati piatti, uno quadrato e uno rotondo - e cominciò a colpire piano la testa di Bardas con colpetti veloci e uniformi. «Lo scopo di quest'azione» spiegò «che chiamiamo spianatura, è di levigare il lavoro finito. Inoltre ha altre due importanti funzioni: comprimere il metallo e chiudere i pori di superficie, impartendo quindi all'esterno un livello di indurimento, paragonabile a quello impartito all'interno dall'atto di torsione a cupola o sollevamento. È importante non esagerare nel processo di spianatura, per paura che il metallo venga battuto fino a diventare troppo sottile o reso troppo duro: in altre parole, diventa friabile. Se in questo frangente la friabilità viene causata da uno zelo eccessivo, il pezzo dovrebbe venire cotto nuovamente nel fuoco e lavorato di nuovo, sia all'esterno che all'interno.» Bardas voleva urlare, ma la sua bocca era riempita dal palo con la testa ovale; la sua testa vibrò e rimbombò per gli innumerevoli e rapidi colpi, ciascuno dei quali gli pizzicava il cranio tra il palo all'interno e il martello all'esterno. Cercò di chiudere gli occhi, ma i chiodi intorno ai quali le sezioni d'acciaio delle sue palpebre rientravano erano leggermente distorte, e le palpebre non si chiudevano più correttamente... Aprì gli occhi. Era seduto diritto come un palo sul letto nella sua stanzetta in cima alla galleria sul retro, con la bocca aperta in un urlo. «Calmati» disse una voce ai piedi del letto. «Stavi facendo un brutto sogno o qualcosa del genere?» Bardas chiuse la bocca... sentì che la mascella dovette ruotare intorno a due spilli d'acciaio induriti, come la visiera di un elmetto; ma era completamente assurdo. «Mi dispiace» disse. «Va tutto bene.» L'uomo ai piedi del letto era l'anziano Figlio del Cielo, Anax, che lavorava nel palazzo delle prove. Subito dietro le sue spalle, inevitabilmente, c'era l'enorme Bollo, il suo assistente. «Anche se ammetto che mi hai allarmato da morire, urlando in quel modo. In ogni caso, come ti senti?» Bardas tremò e si allungò attentamente di nuovo sul materasso. Gli faceva male la testa.
«Mi scusi se le sembra strana questa domanda, ma siete reali?» Anax sorrise. «Hai problemi a vedere la differenza, vero? So come ci si sente. Sì, siamo reali; o almeno reali quanto si può essere qui. È questo luogo, però, non è vero?» Bardas rifletté per un momento. «Cosa mi è successo?» chiese. «L'ultima cosa che ricordo è che stavo camminando lungo un corridoio...» «E sei svenuto, a quanto sembra» disse Anax con un sorriso. «Quando ti hanno trovato eri privo di sensi, e non sono riusciti a farti rinvenire. Hanno cercato di pungolarti, dandoti degli schiaffi in faccia e persino svuotandoti addosso una caraffa d'acqua. Poi ci hanno chiamato. Immagino che abbiano pensato che noi fossimo responsabili. In ogni caso, ti abbiamo portato quassù... o almeno l'ha fatto Bollo.» «Sei pesante» disse Bollo. «Specialmente salendo le scale.» «Capisco» rispose Bardas. «Quanto tempo sono rimasto svenuto?» Anax pensò per un momento. «Vediamo» disse. «Una mezza giornata, la notte scorsa e stamattina; ventiquattr'ore più o meno, con circa un'ora di scarto. Non lo so» continuò «non è normale svenire alla tua età. Questo genere di cose accade agli anziani e alle ragazze che non mangiano come dovrebbero.» «Forse è stato un colpo di calore» suggerì Bardas. «O un trauma cranico.» «Un cosa cranico?» «Un trauma. Un colpo in testa.» «Oh. E chi ti ha dato un colpo in testa?» Bardas scrollò le spalle. «Nessuno, per quel che so. Ma potrebbe essere una reazione ritardata a ciò che mi è accaduto nelle miniere.» «No.» Anax scosse la testa. «Quello è accaduto settimane fa. In ogni caso sembri stare bene adesso, ed è la cosa più importante. Ti dico cosa faremo: tu rimani a letto un giorno o comunque finché non sei sicuro di stare bene; io manderò Bollo o uno dei ragazzi della fonderia a darti un'occhiata ogni tanto... per assicurarmi che non sei morto o che non sei andato fuori di testa. Rimarrei io stesso, ma abbiamo molto lavoro da fare, e non abbiamo fatto molti progressi rimanendo seduti qui a guardarti dormire.» Quando se ne furono andati, Bardas cercò con tutte le forze di rimanere sveglio. Riuscì a farlo per un'ora; poi si svegliò in preda al panico vedendo Bollo, in piedi accanto a lui, che teneva in mano una scodella di Porridge e un cucchiaio di legno.
CAPITOLO OTTAVO Una volta che il fuoco è stato acceso disse il rapporto dev'essere tenuto vivo per mantenere il livello necessario di calore. Approssimativamente sono necessari ventiquattro carichi di carbone di legna per produrre otto tonnellate di ghisa. Athli chiuse gli occhi e poi li aprì di nuovo. Era tardi e voleva andare a dormire; ma il rapporto era rimasto sul suo tavolo da due giorni, e non avrebbe avuto tempo di leggerlo l'indomani: incontri tutto il giorno e poi i conti da verificare. Trovò di nuovo il segno e cercò di concentrarsi. Nel corso della raffinazione della ghisa in un lingotto di piastra si perde una tonnellata su otto. Con cinquecento piastre si fanno venti corazze, secondo gli standard imperiali, con spallacci. Con quattrocento si fanno quaranta corazze, senza spallacci. Con milleseicento si fanno venti armature complete da cavalleria, secondo gli standard imperiali... Quattro operai producono tremilasettecento piastre a settimana, quindi un lavoratore ne farà un quarto a settimana, o centocinquanta al giorno, usando una fornace a carbone; se il combustibile è legno o carbone di legna, la produzione con molte probabilità non supererà il centinaio al giorno. Athli sbadigliò. A una prima occhiata era sembrata una proporzione ragionevole; le guerre scoppiavano in ogni dove, l'Impero era sul punto di muoversi, i suoi vicini erano in preda ad attacchi di panico, generali e responsabili degli approvvigionamenti che cercavano ovunque di migliorare l'equipaggiamento... perciò quale miglior investimento di una fabbrica di armature, sull'Isola oppure a Colleon, dove la forza lavoro costava meno ed era conveniente consegnare i materiali grezzi? Ma lei era cauta, e lo diventava ogni giorno sempre più, e così aveva chiesto al bibliotecario del Palazzo dei Mercanti Speculatori, che le doveva un favore, di trovarle qualche documento sulla gestione di un'armeria; il bibliotecario aveva trovato un vecchio rapporto del direttore dell'armeria della città di Perimadeia, compilato trent'anni prima o forse più, che il bibliotecario aveva copiato e inviato ad Athli avvolto in seta e legato con un enorme nastro blu. Era stato molto gentile da parte sua, anche se non gli sarebbe servito a niente; ma il meno che potesse fare era leggerlo, dopo che si era affannato tanto a trovarlo. Cercò di concentrarsi, ma i suoi occhi scivolavano lungo la pagina come un puledro che cerca di attraversare un fiume ghiacciato. Era un argomento arido; be', per forza, cosa si aspettava, un racconto amoroso? Concentrati
disse a se stessa: questo è il pezzo che serve. Se un uomo può fare centocinquanta piastre al giorno, e se con cinquecento piastre si producono venti corazze (con spallacci, qualunque cosa fossero) usando il carbone, non il carbone di legna; ventiquattro carichi di carbone di legna fanno otto tonnellate, delle quali una viene perduta; ma quanto carbone di legna si ottiene in un carico? Si accigliò e regolò di nuovo la calcolatrice. Che coincidenza pensò: a quanto sembrava Bardas era stato assegnato all'armeria di Ap' Calick. Ehi, perché non vado ad Ap' Calick e non gli chiedo di spiegarmi tutte queste cose, invece di uccidermi cercando di capirle da un libro? Ma che bella idea... no, grazie. Nemmeno se sa cos'è uno spallaccio, o se è una buona cosa o no indossarlo con una corazza. A chi poteva rivolgersi... a chi altri poteva rivolgersi che molto probabilmente avrebbe saputo cos'era uno spallaccio? Sull'Isola le armature arrivavano in barili pieni di paglia e chiusi con il sigillo della fabbrica, e rimanevano lì finché non venivano scaricate al molo dei clienti e venivano pagate. Nessuno sapeva o a nessuno importava quale fosse il contenuto dei barili. Gli Isolani sapevano molte cose - avevano una biblioteca, dopo tutto - ma non erano interessati a informazioni tecniche militari. Vi erano ottime possibilità che riuscisse a trovare dieci persone che potevano dirle quanto valeva uno spallaccio, venti che sapevano per caso che c'era una partita di spallacci della qualità migliore, ordine cancellato, virtualmente a prezzo di costo; quaranta che chiedevano a gran voce spallacci per far fronte a un ordine, in contanti sull'unghia, ma la merce non è mai nei paraggi quando la vuoi. Mostra loro uno spallaccio e probabilmente cercheranno di cuocerci sopra un uovo. Athli fece il calcolo e scrisse il risultato sulla tavoletta di cera accanto alla calcolatrice. Dati buoni, reali, insignificanti. Armature pensò. Ci sarebbe stata davvero una guerra? Tutti sembravano pensarlo... ci stavano facendo affidamento, organizzandosi in anticipo, accumulando certe merci e liberandosi di altre: Maupas sta comprando punte di freccia e sta vendendo pennelli, perché nessuno vorrà comprare pennelli con una guerra in corso; Ren sta comprando i pennelli di Maupas, perché il prezzo è buono e quando la guerra sarà finita la richiesta tornerà a salire; ma per pagare i pennelli, deve vendere duecentomila chiodi di rame che ha acquistato a basso prezzo ad Aguill molti anni fa... ma va bene così, perché si usano i chiodi per fare le armature, e ben presto le persone chiederanno a gran voce i chiodi a causa della guerra; quindi non farebbe meglio a tenersi i chiodi e a lasciar perdere i pennelli? Era uno strano modo di guardare a una guerra, riflettendo soprattutto sulle cose che erano necessa-
rie per farla... tutte le frecce che sarebbero state scoccate, le armature che sarebbero state colpite e distrutte, tutte le centinaia di migliaia di paia di scarpe e i chilometri di cinghie di pelle, tutte le fibbie delle cinture, le pietre abrasive, le assi per le ruote dei carri, i chiodi, le impugnature dei picconi, le coperture dei rotoli di pergamena, i ceppi, le tavole, le penne, gli spilli delle assi, e le bottiglie d'acqua. Si potrebbero anche eliminare tutte le persone, e la guerra sarebbe ancora una cosa enorme, una vasta collezione di beni, un rifornimento e una richiesta infiniti di materiali, che vengono tutti introdotti nella bocca della guerra... un enorme trasferimento di beni. E perché? Perché la guerra è inevitabile. Strano che ci sia bisogno di chiedere. Come per Perimadeia. La guerra era stata inevitabile come, probabilmente, la caduta di Ap' Escatoy, causata da un certo Bardas Loredan. Un enorme dispiegamento di forze: ma le cose erano più facili da affrontare, perché adesso quelle cose erano il suo lavoro. Se sapessi cos'è uno spallaccio tutto diventerebbe improvvisamente chiaro, e capirei davvero? Può darsi. E forse no. Una volta che il fuoco è stato acceso, dev'essere tenuto vivo per mantenere il livello necessario di calore. Fece una smorfia... questo l'aveva già letto. Perché quelle persone non potevano fare qualcosa che lei già conosceva, come i tappeti? La porta dell'ufficio contabilità si aprì, e Sabel Votz, la sua principale impiegata, entrò visibilmente agitata correndo. «Ci sono visitatori» disse, come se stesse annunciando la fine del mondo. «Vengono dall'ufficio provinciale. Sono di sotto, nell'atrio.» Se Athli avesse seguito i suggerimenti che le venivano dal tono di voce dell'impiegata, sarebbe stata indecisa se mandare a prendere vino e torte o barricare le porte. Fortunatamente ormai era abituata a Sabel. «Davvero» disse. «Be', era ora. Falli salire, poi aspetta due minuti e porta dentro un vassoio.» Sabel la guardò con aria di disapprovazione. «D'accordo» rispose. «E niente interruzioni?» «Esattamente.» Sabel se ne andò e Athli si guardò intorno istintivamente per assicurarsi che tutto fosse in ordine. Era un istinto stupido: non era una casalinga sulla quale era improvvisamente piombata la suocera, ma era l'agente dell'Isola per l'Ordine di Shastel, e quindi una persona importante. All'ultimo momento intravide un paio di scarpe, che giacevano sotto a un tavolo dove le aveva gettate la notte precedente. Fece appena in tempo a
raccoglierle e a nasconderle dietro un cuscino prima che la porta si aprisse, e Sabel introducesse due Figli del Cielo e un impiegato alto, sottile e pallido, che pareva fosse stato messo al sole ad asciugare e poi dimenticato lì. Quei due Figli del Cielo erano eccessivamente educati (si chiamavano Iqueval e Fesal, ed entrambi erano tenenti comandanti della Marina Imperiale; questa fu una sorpresa per Athli, che non sapeva che l'Impero avesse una Marina). Persino seduti sembravano sovrastarla, allo stesso modo in cui le torri del Palazzo del Commercio guardavano in basso su tutte le case della strada. Avevano entrambi i capelli bianchi e corti ciuffi di barba sulla punta del mento; ma Attili riusciva a distinguerli perché i bottoni sul colletto di Iqueval erano di corno laccati di nero, mentre quelli di Fesal erano placcati in argento. «Sì» disse quando spiegarono lo scopo della loro visita «ho due navi, e sarei contentissima di...» Fesal si schiarì la gola. «Sfortunatamente» disse «non è più così. Adesso lei ha una sola nave. Mi dispiace doverle dire che la Fencer si è arenata su una scogliera mentre, a quanto sembra, cercava di scivolare oltre il blocco imperiale. Si è spezzata prima che fosse possibile fare un'operazione di salvataggio, ed è affondata. Spero sinceramente che fosse assicurata.» Il Figlio del Cielo sorrise con l'intenzione di confortarla, e poi aggiunse. «Se la cosa può essere d'aiuto, posso fornirle un certificato di naufragio per provare la perdita, nel caso in cui il suo assicuratore facesse delle difficoltà. Dopo tutto, la conoscenza è una cosa, e la prova è un'altra.» «Grazie» disse Athli. «Sapete per caso se ci sono stati sopravvissuti?» «Sfortunatamente non abbiamo informazioni né in un senso né nell'altro» rispose Iqueval «a parte un rapporto da parte di una delle nostre pattuglie che era nelle vicinanze che ha incontrato forestieri non autorizzati in una zona proibita subito dopo l'accaduto. Uno dei nostri uomini è rimasto ucciso nello scontro, credo. Gli intrusi sono fuggiti verso nord, in direzione di Perimadeia.» Athli annuì. «Grazie per avermelo fatto sapere» disse. Si sentì leggermente stordita e le girava la testa, come se avesse un terribile raffreddore; era anche abbastanza disorientata da rendere fastidioso il colloquio. «Be', allora ho una nave. Immagino che sappiate tutto anche su questa.» «Decisamente» confermò Iqueval. «La Arrow: sessanta piedi, duecento tonnellate, doppio albero e nave a vele quadre, al comando del Capitano Dondas Mosten, che è un perimadeiano; attualmente è ancorata qui, ed è in procinto di partire dopodomani per Shastel con un carico di beni di lusso
assortiti, libri e mobili. Vorremmo noleggiare la sua nave, a un quarto a tonnellata a settimana, più salari, provviste e danni.» Athli rifletté un momento. «A partire da quando?» «Non è stato ancora deciso» disse Fesal. «La nostra intenzione è di cominciare il noleggio, a costo pieno tranne i salari e le provviste, un po' prima di quando realmente cominceremo il nostro lavoro; questo è necessario per assicurarci che tutte le navi che noleggiamo siano disponibili quando ne avremo bisogno.» «Capisco» disse Athli. «E quale sarebbe questo lavoro?» Fesal sorrise a denti stretti. «È un segreto, temo.» «Oh.» Athli lo guardò negli occhi, ma non vide nulla. «Sono solo preoccupata nel caso in cui prevedesse un elemento di rischio. A essere sincera, non voglio essere coinvolta in affari che possano nuocere alla mia nave mandandola a fondo, soprattutto adesso che è l'unica che possiedo. Ho interessi commerciali separati dalla Banca, capite, e ho bisogno che la mia nave...» «In caso di danni» disse con fermezza Fesal «o di completa perdita daremo un pieno indennizzo, in base al valore di mercato della nave alla data del noleggio, e questo valore verrà stabilito da un perito indipendente del luogo. Questo sarà uno dei termini del noleggio. Quindi non deve davvero preoccuparsi.» Athli si accigliò. «E riguardo ai mancati guadagni?» chiese. «Tra la perdita della nave provocata da voi e l'acquisto da parte mia di un'altra, intendo. Anche questi sono inclusi?» Fesal rimase chiaramente impressionato. «Credo che possiamo arrivare a un accordo in merito a questo» concesse. «Per esempio potremmo fare un'assicurazione per coprire perdite di questo tipo, a suo nome, naturalmente. Ma siamo sicuri che è altamente improbabile che avvengano danni seri alla nave.» «Credo che vada bene» rispose Athli. «Non penso che vogliate commentare le voci che girano, e cioè che state noleggiando una flotta per trasportare il vostro esercito in guerra contro gli uomini delle pianure, vero?» «Ci sono voci di questo genere?» disse Iqueval. Athli sorrise. «Oh, ci sono sempre delle voci» rispose. «Ma alcune sono più credibili di altre. Tuttavia, si tratta di un'ottima somma di denaro... be', questo lo sapete: sono sicura che siete del tutto aggiornati sulle tariffe di noleggio. Non mi direte nemmeno per quanto tempo questo vostro lavoro dovrebbe durare, vero?»
«Proprio così» disse Fesal «non glielo possiamo dire. Ovviamente questa informazione è riservata.» Fece un gesto conciliante con le mani lunghe e belle. «Inutile dire che fare un accordo aperto di questo tipo è insolito e, allo stesso tempo, potenzialmente sconveniente. Crediamo che il livello di pagamento che offriamo rappresenti una compensazione più che adeguata. Alla fine la scelta è sua.» «Oh, sicuramente» disse Athli. «Be', immagino che sarei un'idiota a rifiutare un'offerta come questa. Riguardo al pagamento, però... sarà in anticipo o posticipato? Mi dispiace di sembrare pignola, ma...» «Non è necessario scusarsi per volere un solido controllo delle basi essenziali della sua professione» rispose Fesal. «Anticipato per il primo mese, e posticipato in seguito. Crediamo che rappresenti un compromesso ragionevole. È accettabile?» «Metodo di pagamento?» «Tramite lettera di credito» disse Iqueval «emessa dall'ufficio provinciale, riscattabile dovunque voglia. Nel suo caso, immagino, a Shastel; potrà quindi scriverla direttamente a se stessa qui.» Sorrise. «Non sarei sorpreso se parecchi suoi compatrioti scegliessero di far registrare i loro pagamenti a Shastel, e questo dovrebbe rappresentare un'ottima possibilità per gli affari. Lei può interessarsi degli accordi, anche se naturalmente non sta a me dirle come gestire la sua concessione. Tuttavia, con la scomparsa della Banca Loredan, non esistono molte banche al di fuori dell'Impero tra cui le persone possono scegliere.» E una soltanto all'interno dell'Impero. Athli non rispose. Invece disse: «L'accordo va bene. E sì, sarò lieta di fornire servizi di scambio per chiunque altro voglia usare noi, anche se per l'ammontare di denaro di cui stiamo parlando sarà davvero difficile. Probabilmente sarò costretta a dividere una parte del credito con altre persone qui sull'Isola.» Fesal si alzò in piedi. «Sarà impegnata» disse. «Be', grazie per il suo tempo. La ricontatteremo quando saremo pronti a partire. È stato un piacere fare affari con lei.» «Anche per me.» Quando se ne furono andati, Athli trascorse qualche minuto con la calcolatrice e le tavolette, prima facendo i conti e poi ricontrollandoli tre volte per assicurarsi di non compiere errori elementari che facessero sembrare la somma che avrebbe dovuto ricevere più grande di quanto doveva essere. Ma ogni volta il risultato fu lo stesso: erano davvero molti soldi. Quindi attaccheranno Temrai. Doveva essere compiaciuta, anzi deliziata
che il mostro che aveva distrutto la sua casa e trucidato la sua gente adesso fosse solo a pochi mesi dalla sconfitta e dalla morte. L'uomo buono ama i suoi amici e odia i suoi nemici: non era forse questo che le era stato insegnato da bambina? La sfortuna del mio nemico è la mia fortuna... dannazione, se fossero andati da lei a chiedere il noleggio della sua nave, franco di ogni spesa, per una guerra santa contro gli uomini delle pianure, sarebbe stato abbastanza semplice: sì avrebbe detto con la mia benedizione. Ma in questo modo, c'era la vendetta più un profitto sostanziale... non era sicura che il mondo funzionasse così. Non che non le facesse comodo un buon profitto; non però se la sua povera Fencer si trovava in fondo al mare, e Gannadius e suo nipote con lei. Anche se erano ancora vivi, dispersi in qualche parte tra l'Impero e Temrai, c'era una grossa probabilità che non li avrebbe visti mai più. Trovò difficile, quasi impossibile, provare qualcosa al riguardo; non perché non volesse, ma semplicemente perché non poteva. Quando Perimadeia era caduta e lei era arrivata in quel luogo, aveva cominciato a costruirsi un'armatura... un'ottima armatura contro questo genere di cose: aveva un elmetto di affari, una mezza corazza di amici, spallacci (qualunque cosa fossero) di proprietà, successo e prosperità. Quando aveva Preso Bardas Loredan a bordo della Fencer perché visitasse i suoi fratelli nel Mesoge ed era tornata con la sua spada e il suo apprendista ma senza di lui, aveva messo i chiodi e spianato la parte esterna, rendendo l'armatura sufficientemente buona da superare qualsiasi prova; la morte di un vecchio amico e del ragazzo che Loredan le aveva affidato per prendersene cura erano colpi che aveva accusato ma senza sentirli profondamente. È questo il merito di una buona armatura: i colpi rimbalzano dai contorni angolati o perdono la loro energia contro le tensioni interne del metallo, che sono molto più potenti di qualsiasi forza venga applicata dall'esterno. Per essere considerata una buona armatura, per essere a prova di colpi, deve avere le sue tensioni interne, quelle del metallo che cerca invano di spingere verso l'esterno, in modo che la pressione verso l'interno venga incontrata, forza contro forza, e respinta. Lei possedeva quelle tensioni interne; adesso era uno dei momenti di prova e guardate, la sua armatura aveva deviato i colpi con facilità. La prospettiva di guadagnare denaro, fare affari e avere l'opportunità di trovare altri clienti e aumentare la sua ricchezza avevano quasi tolto forza all'attacco. Va tutto bene, dunque. Per quanto riguardava la sua nave, la sua povera piccola nave, il Figlio del Cielo aveva ragione: era assicurata, talmente
bene che era una meraviglia che fosse riuscita a fluttuare sotto il peso di tutto quel denaro. Una volta che gli assicuratori avessero smesso di agitarsi (era solo questione di tempo) avrebbe ricavato un ottimo compenso dalla perdita della Fencer. Be', certo. È per questo che esistono le assicurazioni... per parare il colpo. E se non avesse pensato di poterla perdere un giorno, probabilmente non l'avrebbe chiamata Fencer. Essendo una persona ordinata e metodica (per pratica se non per natura) appuntò il suo incontro con i Figli del Cielo, lo inserì al posto giusto e tornò a leggere il rapporto che era, naturalmente, tutto sulle armature. Riuscì ad arrivare alla fine della settima sezione prima che i suoi occhi si riempissero di lacrime, rendendole impossibile continuare a leggere. «Davvero?» Temrai smise di fare quello che stava facendo e alzò lo sguardo. «Perimadeiani? Non pensavo che ne fossero rimasti.» «Qualcuno qua e là» rispose il messaggero. Si chiamava Leuscai, e Temrai lo conosceva da anni, anche se lo frequentava saltuariamente. Non aveva idea di come Leuscai fosse finito a fare commissioni per gli ingegneri che costruivano le macchine d'assedio sul confine meridionale; probabilmente la spiegazione più semplice era che non aveva voluto essere coinvolto. Lo stesso problema Temrai l'aveva riscontrato con molti suoi coetanei: anche se non avrebbero mai preso in considerazione la possibilità di sostenere la ribellione, o di unirsi ai ribelli, non erano comunque contenti della direzione nella quale Temrai sembrava guidare i clan, e manifestavano quel disagio partecipando il meno possibile. Era una situazione profondamente irritante, a dire poco. Ma Temrai non poteva prendersi la briga di sollevare la questione con un vecchio amico come Leuscai: probabilmente sarebbe finita con una lite, un'arrabbiatura e la fine di un'amicizia, e gli amici che gli erano rimasti erano già pochi. «Oh, bene» disse Temrai. «Allora, come ti sembra?» «Non intenzionale» rispose Leuscai. «Cioè non ti insulterò pensando che la tua intenzione era che quell'affare avesse questo aspetto.» «È così pessimo?» Temrai sospirò. «Sto diventando maldestro con l'età, è questa la verità. Non molto tempo fa ero in grado di guadagnarmi da vivere forgiando il metallo.» «A Perimadeia» sottolineò Leuscai «dove presumibilmente gli standard non erano molto alti. D'accordo, toglimi quest'ansia: cosa dovrebbe essere?»
Temrai fece un largo sorriso. «C'è un termine tecnico per definirla» disse «che in questo momento mi sfugge. Ma in realtà è una copertura per le ginocchia. O piuttosto non lo è.» «A meno che non si abbiano delle ginocchia veramente insolite» convenne Leuscai. «Ma è una fortuna che tu me l'abbia detto, altrimenti non l'avrei mai capito. A me sembra un pezzo di cintura di pelle che finge di essere una frittella.» «Sì, d'accordo.» Temrai lasciò cadere dalla sua mano l'oggetto incriminato. «È frustrante, davvero» disse. «Quando ero nella Città, ho letto come costruire quest'affare, e la cosa sembrava semplicissima. Prendi un pezzo di pelle spessa, la immergi nella c'era d'api bollente liquida, le dai forma ed ecco fatto: un'armatura a poco prezzo, forte e leggera, fatta di un materiale che abbiamo in abbondanza. Non lo so» continuò sedendosi sul ceppo che aveva usato per battere quell'affare cercando di dargli forma. «Era così facile per me costruire gli oggetti, e adesso sembro aver perso l'abilità. In ogni caso, dimmi qualcosa in più riguardo a questi sbandati. Hai qualche idea di chi siano?» Leuscai sorrise. «Intendi dire se sono spie? Be', è possibile. Da quello che siamo riusciti a sapere finora uno di loro era un mago, o meglio, l'assistente di un mago, e hanno entrambi a che fare con l'Isola e con l'Ordine di Shastel.» «Davvero?» Temrai sembrò colpito. «Maghi e diplomatici... siamo onorati.» «Ma c'è di più» continuò Leuscai, mentre il sorriso svaniva rapidamente dal suo volto. «Il ragazzo ha trascorso parecchi anni a Scona. Era l'apprendista di Bardas Loredan.» Temrai rimase seduto immobile per un momento. «Davvero?» disse. «Allora credo di averlo conosciuto: è stato un incontro breve ma memorabile. Come fai a sapere tutto questo?» Leuscai prese un ciocco e ci si sedette sopra accanto a lui. «Per puro caso. Ti ricordi Dondai, quell'anziano che faceva le frittelle?» Temrai annuì. «È morto da poco» disse. «A quanto sembra. E suo nipote, l'hai mai conosciuto? Si chiama Dassascai. Non sa nulla di frittelle, ma è sorprendentemente ben informato sull'attività commerciale dell'Isola. Dice che ha contatti da quando era in affari ad Ap' Escatoy, anche se, se vuoi il mio parere, la cosa non quadra. In ogni caso, per qualche ragione, questo Dassascai...» «È una spia.»
«Davvero? Be', questo spiega perché ficcanasava intorno al nostro recinto, dove stiamo tirando su i trabocchi. Questo Dassascai ha visto per caso i nostri due ospiti, li ha riconosciuti (così dice) ed è andato a dirlo al comandante dell'accampamento.» «Goscai.» «Esatto. È un brav'uomo, ma si preoccupa facilmente; e come puoi immaginare si è sentito malissimo per questo fatto. Prima ha pensato di farli impiccare all'istante; poi ha ritenuto che sarebbe stato meglio di no, per timore di dare inizio così a una guerra, e li voleva mettere in catene; poi gli è venuto in mente che potevano essere nostre spie (non so com'è arrivato a questa ipotesi), e alla fine è entrato in un tale stato di agitazione da non sapere cosa fare, così abbiamo dedotto che la cosa migliore sarebbe stata quella di chiedere a te. Non ci aveva pensato, ma non appena gliel'abbiamo suggerito è rimasto contentissimo. Ed eccomi qui.» Temrai si strofinò la fronte con la mano. «Hai idea di come sono arrivati qui?» chiese. «O hanno semplicemente fatto la loro comparsa, dicendo Salve, siamo spie, vi dispiace se diamo un'occhiata in giro?» «Decisamente no.» Leuscai rise. «Anche se in quel caso io avrei detto Prego, accomodatevi. Secondo la mia opinione, un valido lavoro di spionaggio da parte dell'ufficio provinciale potrebbe esserci utile.» «Con molta probabilità» rispose Temrai «ma non entriamo in merito a questo, adesso.» Fece un respiro profondo e poi mandò fuori l'aria. «Come sono arrivati qui? Hai qualche idea in proposito?» «Alcuni dei nostri li hanno trovati nella palude» rispose Leuscai «quando sono andati a caccia di anatre. Erano piuttosto malridotti, a quanto sembra. Il mago non è un giovincello di primo pelo. Se sono spie, hanno davvero passato un mucchio di guai per sembrare moribondi. Hanno detto che stavano tornando a Shastel dall'Isola, ma la loro nave si è arenata per l'intervento della guardia costiera imperiale, così cercavano di sfuggire alle pattuglie a piedi. È una cosa abbastanza plausibile, ritengo.» «D'accordo» disse Temrai sollevando un maglio e poggiandolo di nuovo. «Mandali qui; darò loro un'occhiata, li spaventerò educatamente per un paio di giorni e li manderò per la loro strada. Se sono davvero spie, offrirò loro una visita guidata: questo li confonderà talmente che non sapranno cosa pensare.» Guardò intorno a sé la confusione lasciata dal suo esperimento nella costruzione delle armature. «Per caso conosci qualcuno che può costruirla?» chiese. «Io ho fallito, ma non può essere così difficile. Mi infastidisce davvero sapere che ho scoperto qualcosa ma non riesco a farla
funzionare.» Leuscai scrollò le spalle. «Non posso aiutarti in questo, terno. Naturalmente potresti sempre scrivere una lettera a Bardas Loredan. presso il servizio di armeria di stato imperiale. Sono sicuro che sarebbe lieto di aiutarti.» Temrai si accigliò e poi rise. «Sai» disse «una volta mi ha urtato in una strada a Perimadeia. Era ubriaco ed evidentemente non aveva la minima idea di chi fossi. Ovunque io vada sembra esserci sempre lui: e non riesco a capire assolutamente perché. Voglio dire, perché dovrebbe esserci questa orribile connessione tra di noi? Lui è il figlio di un fattore del Mesoge; dovrebbe zappare rape nel fango, non stare in agguato nell'ombra, aspettando di saltarmi addosso. Mi chiedo cosa diavolo possa aver legato le nostre vite in questo modo.» «Sembri quasi esserne innamorato» disse Leuscai. «Amanti stregati dalle stelle, come in un vecchio racconto.» «La pensi così? In questo caso ritengo che sia giunto davvero il momento di ottenere il divorzio.» Quando il messaggero lo trovò, Gorgas Loredan era alla fattoria, ad aiutare i suoi fratelli ad aggiustare il pavimento del lungo granaio. «È una dannata minaccia» aveva detto Zonaras incidentalmente, quando Gorgas gli aveva chiesto perché non lo utilizzava più. «Le tavole sono marcite: ci si potrebbe rompere una gamba.» «Capisco» aveva risposto Gorgas. «Allora lo abbandonerai, vero? Lascerai che vada in pezzi?» «Non abbiamo il tempo di aggiustarlo» aveva detto Clefas. «È un grosso lavoro, e noi siamo solo in due.» Gorgas aveva fatto un largo sorriso nel sentire quelle parole. «Non più» aveva detto. E così eccolo lì, coperto di fango e di pessimo umore, a cavalcioni di un albero di castagne appena abbattuto con un martello in mano e il sangue che gli colava dalle nocche nel punto in cui le aveva scorticate mentre spostava a mano il tronco. «Chi sei?» chiese. «Mi manda il sergente Mossay» rispose il messaggero sulla difensiva. «C'è una lettera per lei da parte dell'ufficio provinciale.» Porse il piccolo cilindro d'ottone a distanza di un braccio. «Il corriere è arrivato a Tornoys la notte scorsa.»
«Sta aspettando una risposta?» chiese Gorgas asciugandosi la mano sulla maglia. «No» rispose il messaggero. «Ha detto che non si aspettano alcuna risposta.» Gorgas si accigliò e prese il cilindro, togliendo il coperchio attentamente sistemato con i pollici. Avevano cominciato con l'abbattere l'albero: era l'ultimo del gruppo di castagni che il nonno aveva piantato dopo la nascita di loro padre. Non era stato un albero facile da abbattere. Il vento l'aveva distorto, così quando avevano cercato di segarlo il tronco aveva usurato la lama della sega finché alla fine si era spezzata (era vecchia e arrugginita, come tutti gli altri arnesi in quel luogo). Allora avevano preso le asce, si erano procurati le vesciche alle mani, Clefas aveva distolto lo sguardo dal taglio e come risultato aveva fatto saltare la testa dalla sua ascia; a quel punto avevano preso l'altra sega, che era ancora più vecchia e arrugginita. Ma Gorgas aveva fatto legare l'albero con una corda, e avevano usato un blocco e degli attrezzi per tenderla, aprendo il taglio per permettere alla lama di muoversi liberamente. Quando lo avevano tagliato per tre quarti, si erano resi conto che se avessero continuato lungo la linea che stavano seguendo, l'albero sarebbe caduto sul tetto del vecchio porcile e l'avrebbe demolito. Naturalmente il vecchio porcile non veniva usato da anni se non come magazzino per oggetti vari; ma Gorgas aveva fatto spostare i fratelli e aveva fatto legare l'albero con un'altra corda e in un altro modo per poter tagliare un cuneo e modificare la direzione della caduta. Alla fine avevano finito di tagliare e l'albero era caduto: non proprio come Gorgas avrebbe voluto, ma quasi evitò il porcile, portando via solo qualche tegola d'ardesia con un ramo isolato. Ci era voluto tutto il resto del giorno per spuntare il tronco e portare via i rami tagliati nella legnaia (che era troppo umida per immagazzinare legna adesso che metà del tetto non esisteva più); ora, infine, stavano dividendo il tronco per fare le tavole di cui avevano bisogno per il pavimento del fienile. «Bastardo» disse Gorgas accigliandosi e accartocciando la lettera con il pugno. «Sapete cos'ha fatto quel bastardo di Poliorcis? Ha fatto in modo che rifiutassero l'alleanza.» Il messaggero fece un passo indietro, cercando di defilarsi. Clefas e Zonaras rimasero immobili, apparentemente per nulla preoccupati. «Non c'è nessun vantaggio materiale per l'Impero» continuò Gorgas. «Be', vadano al diavolo. Coraggio, finiamo questo lavoro. Tu» aggiunse
rivolgendosi al messaggero che aspettava con ansia di essere congedato «torna indietro, trova quel corriere e portalo qui. Ho una risposta da dargli.» Il messaggero annuì dubbioso. «E se è già partito?» disse. «Farai meglio a sperare che non l'abbia fatto» rispose Gorgas. «Perché se è partito, potrei chiedere come mai ci è voluto un giorno per questo messaggio, se il corriere è arrivato la scorsa notte come mi hai appena detto.» Il messaggero andò via in gran fretta, calpestando l'erba del cortile impregnata d'acqua. «Clefas» disse Gorgas «prendi i cunei. Quest'affare è pieno di nodi e talmente storto che si fa fatica a crederlo.» Clefas rimase in piedi per un attimo e poi lentamente si allontanò. Gorgas fece un respiro profondo e poi tornò a occuparsi di ciò che stava facendo. Infilò a forza un cuneo d'acciaio in una divisione che prendeva tutta la lunghezza del tronco dell'albero, troppo per muoverla con lo spezzone, che aveva appena cercato di rompere saltandoci sopra con tutto il suo peso. «Non riuscirai mai a farlo uscire» disse Zonaras. «Guarda» rispose Gorgas. «Ecco, passami l'ascia. Taglierò questo maledetto affare per farlo uscire, se sarà necessario.» «Accomodati» disse Zonaras porgendogli l'ascia, che era smussata da un lato per tagliare ad angolo. «Attento alla testa dell'ascia: è lenta.» «Davvero?» chiese Gorgas. Suo fratello annuì. «È lenta da anni. Bisogna togliere la testa e infilare un nuovo cuneo.» Gorgas sferrò dei colpi per qualche minuto, cercando di tagliare una fessura accanto all'attrezzo bloccato per liberarlo. Non aveva fatto alcun progresso significativo quando Clefas tornò con i cunei. Erano pesanti e incredibilmente vecchi, e le loro teste erano state schiacciate a formare schegge affilate come rasoi da generazioni di Loredan che avevano picchiato su di essi con grossi martelli. «Così va meglio» disse Gorgas. «D'accordo, Zonaras, infila un cuneo dall'altro lato: lo farà aprire.» Zonaras prese un cuneo in ciascuna mano e li sistemò nella fessura alle due estremità del cuneo d'acciaio; poi li inserì con la testa dell'ascia. Il cuneo d'acciaio venne via facilmente, ma gli altri rimasero bloccati. «Meraviglioso» disse furioso Gorgas. «Risolvi un problema e ne provochi altri due.» Zonaras sospirò. «La venatura è troppo contorta per poter essere divisa.
Avrei potuto dirtelo prima che tu cominciassi.» Gorgas raddrizzò la schiena e fece una smorfia. «Inseriremo le teste delle asce come cunei» disse «in modo da far uscire questi due. Ci riusciremo, non vi preoccupate.» Parecchie ore dopo, quando stava diventando buio, rinunciarono per quel giorno. Avevano tirato fuori i cunei normali e quello d'acciaio (che avevano reinserito, bloccandolo, ma poi l'avevano tolto di nuovo colpendolo avanti e indietro con un martello), ma sembrava che le teste delle asce non si sarebbero mai mosse. «Quello che ci serve» disse Gorgas mentre si riunivano in casa «è un segone verticale. Così potremo segare le nostre tavole invece di cercare di dividerle.» Nessuno dei suoi due fratelli disse nulla. Si tolsero gli stivali e si sedettero ai lati del tavolo, facendo spazio per appoggiare i gomiti. È curioso pensò Gorgas anche loro sono Loredan; ma naturalmente non si sono mai allontanati dalla fattoria. Sono stati i fortunati. «Potremmo costruirne uno lungo il fiume» continuò «vicino al guado, dove le rive non sono troppo ripide. Poi potremmo avere una ruota ad acqua che aziona una sega meccanica. Le ho viste a Perimadeia. Sono delle macchine meravigliose, e dovrebbe essere abbastanza semplice farne una.» Clefas lo guardò. «Lungo il fiume» disse. «Esatto» rispose Gorgas. «Dove Niessa era solita fare il bucato. Conoscete il posto.» Certo che lo conoscono. «Penso di sì» rispose Zonaras. «Ma non abbiamo bisogno di una segheria. Perché dovremmo volerne una?» Gorgas si accigliò. «Pensavo che fosse ovvio» rispose. «Per segare le tavole, naturalmente, invece di perdere tre giorni a inserire pezzi di metalli con i martelli.» «Ma non ci servono tavole» sottolineò Zonaras. «Tranne qualcuna ogni tanto. E le compriamo.» «È uno spreco di denaro» disse con impazienza Gorgas «quando abbiamo dell'ottimo legname alla fattoria. Inoltre se costruiamo una segheria a energia, saremo in grado di fornire tavole a tutti i vicini, a solo una frazione di quello che pagano adesso. È un'ottima proposta d'affari.» Clefas scosse la testa. «E chi la farà funzionare?» chiese. «Io e Zonaras siamo occupati già a gestire la fattoria. E tu abbandonerai tutto e correrai qui ogni volta che qualcuno vorrà un po' di legna tagliata? Non ti ci vedo.» Gorgas rispose all'obiezione con un gesto di diniego. «Oltre che tavole» continuò «potremo costruire recinti, pilastri, puntoni, assi di copertura e
tutto il resto. Potremmo persino costruire una nave se volessimo. Sì, penso che quella della segheria sia un'ottima idea. Come prima cosa domani mattina ordinerò agli uomini di iniziare la sua costruzione. In ogni caso darà loro qualcosa da fare.» Clefas e Zonaras si guardarono a vicenda. «Be'» disse Clefas «se farai questo allora è inutile continuare a lavorare duro domani per cercare di dividere quel tronco. Quando la tua segheria sarà pronta lo faremo segare lì.» «Giusto» aggiunse Zonaras. «Voglio dire, non c'è fretta. In ogni caso non usiamo più il fienile.» Quella notte Gorgas sognò di trovarsi in piedi fuori dai cancelli di una città. Era buio, e non era sicuro di quale città si trattasse... poteva essere Perimadeia, oppure Ap' Escatoy, e persino Scona; poteva essere un posto qualunque tra tanti. Il cancello era sprangato e fisso, e lui stava cercando di romperlo dividendolo in più parti, usando dei cunei e un'ascia. Sapeva che i cunei erano i suoi fratelli; lui era il cuneo d'acciaio, e anche le asce, che venivano inseriti nella spaccatura come cunei o vibrati come martelli. Poteva sentire i colpi del martello sulla parte superare dei cunei (il martello cade, l'acciaio viene compresso e dove finisce tutta la forza, schiacciata tra acciaio e acciaio?) con la stessa sicurezza con cui poteva sentire lo spezzone torcersi nell'incavo del cuneo. Poteva sentire la tensione insostenibile nel legno, mentre le fibre della venatura venivano strappate via... il legno non è come l'acciaio: se lo si tortura, alla fine cede e si spacca. Ma l'acciaio più lo si martella, più lo si comprime e lo si indurisce, più diventa forte. E questo, cosa abbastanza logica, è il motivo per cui i ragazzi Loredan non sono come le altre persone... Be', è la logica di un sogno, che poi scompare non appena si aprono gli occhi. Gorgas si svegliò, si rese conto che non aveva la minima possibilità di riaddormentarsi e decise di lavorare un po'. Aveva insistito nell'avere l'unica lampada a olio funzionante sul posto, e dopo aver armeggiato un bel po' con pietra focaia e un'esca piuttosto fradicia, fece luce. Aveva anche della carta... qualche foglio che aveva portato con sé, e il retro della lettera che aveva ricevuto riguardo il trattato rifiutato, che era servibile una volta stesa sul tavolo. Si sedette e scrisse tre lettere: una a sua nipote, una a un impiegato dandogli ulteriori ordini, e una a Poliorcis il Figlio del Cielo: riuscì a scrivere quest'ultima educatamente e amichevolmente, nonostante tutto. Dopo tutto c'era ancora tempo perché cambiassero idea, ed era inutile ren-
derli ostili mostrandosi stizzito solo perché sfogare la rabbia era una bella sensazione. Tenere i suoi affari personali lontano dagli affari aveva portato Gorgas ai successi che era riuscito a ottenere. Era una regola che aveva infranto soltanto quando era stato coinvolto Bardas, e quell'unica eccezione gli era costata cara, gli dèi lo sapevano. Ma Bardas era diverso: Bardas era suo fratello, Bardas era l'unico fallimento nella sua vita ricca di traguardi notevoli. E pochi fallimenti sono definitivi, ammesso che si sia sufficientemente assennati da tenere a bada i propri sentimenti. Quando terminò le lettere era ancora buio, ed era troppo presto perché qualcun altro si alzasse, così Gorgas decise di passare il tempo con un altro compito meno importante, che aveva trascurato negli ultimi due giorni. Nell'angolo della stanza c'era una bella custodia di un arco, di pelle goffrata. La aprì e prese il suo arco, quello decisamente speciale che suo fratello aveva costruito per lui tre anni prima. Le persone che conoscevano le circostanze della costruzione dell'arco erano sorprese, e persino atterrite di scoprire che lui lo aveva ancora. Avevano pensato che se ne fosse liberato - bruciato, sepolto, gettato nel mare - molto tempo prima. Non riuscivano a capire come potesse anche solo sopportare di guardarlo, per non parlare di toccarlo. Ma restava il fatto che era un arco davvero ottimo; e dato che gli era costato tanto, il minimo che potesse fare era usarlo e prendersene cura... altrimenti tutto ciò che era servito a costruirlo sarebbe andato sprecato, senza alcuno scopo. Come prima cosa passò la parte posteriore con una spazzola rigida che teneva in una tasca sotto il risvolto della custodia, per rimuovere tutta la sporcizia, il fango e altra robaccia. Poi lo cosparse con un po' di olio speciale che aveva miscelato appositamente, quanto bastava per coprire l'unghia dell'indice sinistro; l'olio teneva l'umidità fuori e dentro il tendine. L'olio doveva essere strofinato fino a farne sparire qualsiasi traccia: un lavoro che richiedeva scrupolosità e pazienza. Infine incerò la corda con un piccolo pezzo di cera d'api solida. Ormai si era fatto giorno, e non appena ebbe riposto l'arco nella custodia vide sorgere il sole. Gorgas si lavò le mani attentamente (l'olio che aveva usato per l'arco era velenoso), infilò gli stivali e andò in cerca di altri lavori da fare. Un paio d'ore dopo che Gorgas aveva pulito l'arco, una nave entrò con difficoltà nel porto di Tornoys. Era stata colpita da una tempesta inaspettata, che non era certo utile alla navigazione in quel periodo dell'anno. La nave aveva affrontato la tempe-
sta piuttosto bene, tutto considerato: aveva preso molta acqua e il vento aveva danneggiato il sartiame e aveva fatto una crepa nell'albero di maestra, che avrebbe causato un disastro se la tempesta fosse durata più a lungo. Ma la nave era ancora a galla e nessuno era rimasto ucciso o ferito gravemente. Era più di quanto ci si potesse aspettare, quando ci si comportava con leggerezza in quella stagione. Poiché era ancora presto non c'era nessuno in giro. La flotta di pescherecci era già salpata, naturalmente, a parte qualche pigro battello per le ostriche; le navi più grandi che dovevano partire quel giorno non sarebbero state pronte a farlo per un'altra ora. Avevano fatto il carico la notte prima, in modo che gli uomini potessero fare una buona nottata di sonno prima di prendere il largo. Due uomini di Gorgas giravano per la banchina, ma non erano in servizio; erano ancora sotto gli effetti della notte precedente, e girovagavano aspettando che le taverne cominciassero a servire la colazione, sperando che la fresca brezza dell'alba schiarisse le loro menti. Pollas Arteval, il comandante del porto di Tornoys - era l'incaricato più simile a un ufficiale che Tornoys aveva, anche se non era nient'altro che un fabbricante di candele che teneva un registro e raccoglieva i contributi dall'associazione dei commercianti - era appoggiato al cancello fuori dal suo ufficio e cercava di capire il luogo di provenienza di quella nave. Era vecchia ma costruita solidamente, a fasciame accavallato, a differenza della maggior parte delle corvette e dei velieri di Colleon e Shastel; sicuramente non proveniva dall'Impero, con quelle vele. Probabilmente dall'Isola - avrebbero usato qualsiasi cosa galleggiasse - ma il sartiame non era tipico dell'Isola. Guardò con più attenzione e capì cosa lo lasciava perplesso. Era un dettaglio insignificante: le barre del timone erano fissate in un incavo nella parte superiore del telaio, ma gli sembrava di aver visto qualcosa del genere prima... molto tempo prima. Tuttavia, aveva visto molte navi provenire da vari luoghi, con congegni diversi per governare e per ogni altra funzione. Decise di pensarci in seguito e cominciò invece ad assaporare l'idea del pane fresco e caldo inzuppato nel lardo di pancetta. La nave strofinò la prua contro la banchina (se avesse avuto una faccia avrebbe sorriso per il sollievo; a Pollas sembrò quasi di sentirla sospirare) e qualcuno saltò giù con una cima e la ormeggiò in fretta, mentre altri mettevano una passerella di sbarco. Gli uomini erano come la nave: non gli erano familiari, ma evocavano debolmente qualcosa che aveva visto venticinque, forse trent'anni prima. Molto probabilmente provenivano da un luogo molto lontano, che prima era solito inviare navi a Torquoys ma poi
aveva cessato di farlo per qualche ragione... guerra o politica, o semplicemente perché non c'erano guadagni sufficienti da giustificare un percorso così lungo. Circostanza abbastanza comprensibile, gli uomini sembravano stanchi e agitati - chiunque lo sarebbe stato dopo una lunga notte nella baraonda fuori Tornoys - ma non sembravano aspettarsi un meritato riposo. Avevano lo sguardo rassegnato di quelli che dovevano ancora fare molto lavoro. Numerosi uomini erano ormai sbarcati: erano circa cinquantacinque o sessanta (un grosso equipaggio per una nave di quelle dimensioni, o forse erano solo passeggeri). Poi, mentre Pollas girava la testa per sentire il profumo del pane nel forno e si voltava di nuovo, gli uomini avevano estratto spade, asce e archi, avevano indossato elmetti e scoperto gli scudi. Improvvisamente Pollas ricordò dove aveva visto una nave come quella in precedenza. Erano pirati di Ap' Olethry, schiavi fuggiaschi e disertori dell'esercito imperiale che infestavano la costa meridionale dell'Impero, e c'erano buone possibilità che non fossero giunti lì per una colazione abbondante. Pollas Arteval rimase con la bocca aperta, angosciosamente consapevole di non avere la minima idea di cosa fare. I pirati si stavano dividendo in tre gruppi, di circa venti uomini ciascuno; pensò alla sua casa, a sua moglie che apriva la porta del forno del pane, a sua figlia che tagliava la pancetta. Non poteva proteggerle, non possedeva armi e non sapeva come combattere. Non era un'abilità richiesta a Tornoys, dove non c'era niente per cui combattere. Osservò il piccolo gruppo di soldati per vedere se erano preparati a fare qualcosa, ma non sembravano essersi resi conto di cosa stava accadendo. Forse, pensò, non succede nulla di grave; forse stanno solo prendendo le spade, gli scudi e gli elmetti, ma non per usarli contro di noi. Non volendo voltarsi, indietreggiò nel portico. Sii logico, rifletté: quelli sono qui per rubare, e non faranno del male a nessuno, a meno che qualcuno non cerchi di opporsi, e nessuno sarebbe così stupido... Doveva essere stato un fraintendimento del linguaggio del corpo, un movimento troppo rapido, un gesto che ricordava qualcuno o qualcosa che doveva aver già visto prima. Con tutta probabilità il movimento fu visto con la coda dell'occhio, e si agì con l'istinto piuttosto che con il pensiero. Non poteva essere stato un gesto intenzionale, da parte di uno dei soldati di Gorgas, quello di prendere l'arco e scoccare una freccia contro un pirata, per il semplice motivo che i contingenti di sei uomini non attaccano briga con forze dieci volte superiori, nemmeno se sono degli eroi. Se la freccia
avesse mancato il bersaglio, o anche se fosse rimbalzata senza danni sul lato di un elmetto o su una mezza corazza, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma non fu così. Il pirata cadde in ginocchio, urlando per il terrore, e invece di cercare di aiutarlo, i suoi amici si scagliarono sui soldati in una mischia breve e prevedibile. Se fossero riusciti a uccidere tutti e sei i soldati nessuno avrebbe dato l'allarme, ma non fu così. Un uomo scappò, corse su per la collina molto più velocemente di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, e andò in direzione degli alloggi in cui Gorgas aveva stazionato una mezza compagnia di uomini per far sentire la sua presenza a Tornoys. Pollas si rese conto di come i pirati giudicarono questa circostanza per il modo in cui entrarono in azione. Erano scontenti ma rassegnati, come ci si aspetta da uomini che hanno appena visto un lavoro semplice trasformarsi in complicato. Altri combattimenti stavano dicendo. Oh, be', non importa. Formarono un muro di difesa, come lavoratori esausti di una fattoria ai quali è stato appena detto che devono lavorare fino a tardi. Arrivano si rese conto Pollas; ma non poteva fare nulla eccetto togliersi di mezzo insieme alla sua famiglia; e sapeva, senza riuscire a spiegarlo, che era ormai già troppo tardi per farlo. Era troppo difficile accettare la realtà della situazione. Qualche momento prima, meno di quanto fosse necessario per bollire una teiera d'acqua, tutto era normale. Poteva vedere gente che conosceva, negozianti, portuali e fannulloni che stavano sulla banchina, scappare via o inciampare e cadere; aveva già visto, più o meno, le stesse scene in sogno, quando il nemico senza nome ma familiare o il mostro lo inseguiva in un vicolo o lo cercava in casa... c'era stata la stessa illogica sensazione di distacco (va tutto bene, stai dormendo), la sensazione di essere uno spettatore non coinvolto... Qualcuno gli tirò il braccio. Si girò e vide sua moglie, che indicava con una mano, lo tirava con l'altra, e lui non riusciva a capire cosa stesse dicendo. La seguì e guardò indietro mentre lei lo spingeva via; i pirati stavano usando una panca che si trovava davanti alla Happy Return per abbattere le porte del magazzino del formaggio. Erano all'interno della casa di Sole Baven, perché lui era lì, senza vestiti, che cercava di uscire dalla finestra sul retro, ma non aveva visto cosa c'era di sotto. Cadde proprio di fronte a un altro gruppo, e un pirata lo colpì sotto le costole con un'alabarda. «Andiamo» sua moglie urlava (più o meno con lo stesso tono che usava chiamandolo per farlo tornare dal granaio quando la cena era sul tavolo e diventava fredda), e finalmente riuscì a capire il senso delle sue parole; ma
stavano uccidendo i suoi amici, e il minimo che potesse fare era stare a guardare. Sarebbe stato terribile se nessuno avesse mai saputo nemmeno come erano morti. «Mavaut, torna indietro!» era ancora la voce di sua moglie; stava guardando la figlia correre via da sola, terrorizzata e nella direzione sbagliata. Belis voleva andarle dietro, ma lui le afferrò il polso e la trattenne (a lei quest'azione non piacque). Osservò Mavaut scendere lungo la collina con la gonna mossa dal vento, e improvvisamente la vide imbattersi nei pirati, girare i tacchi e tornare indietro affannosamente. Stavano risalendo la collina, verso di loro. Se fossero scappati, sarebbero ancora riusciti a togliersi di mezzo. «D'accordo, arrivo» disse e una freccia apparve nell'aria sopra di lui, rimanendo sospesa per un brevissimo momento prima di cadergli addosso. Riuscì a vederla piuttosto distintamente, perfino il colore delle penne, e la osservò per tutta la discesa fino al suo stomaco, che trapassò uscendo dall'altra parte. Belis urlava ma dopo lo shock dell'impatto non riuscì a sentire granché, se non la sensazione strana e sgradevole di avere qualcosa di artificiale all'interno del corpo. «D'accordo» disse subito «non agitatevi, per l'amor degli dèi.» Era il momento di essere assennati, decise, e condurre la sua famiglia su per la collina, e poi lungo Pacers' Alley. Come aveva previsto, i pirati continuarono su per la collina. Avevano cose migliori da fare che infrangere l'ordine per dare la caccia a civili isolati. Si sedette sul gradino davanti alla casa di Arc Javis e guardò la freccia. Il sangue era sparso su tutta la camicia, che aveva inzuppato infiltrandosi nella trama larga del tessuto. Sarebbe stato inutile cercare di rialzarsi: le ginocchia non lo reggevano più, e sentiva deboli persino i gomiti e i polsi, ed era confuso, distratto, incapace di concentrarsi. La cosa migliore era di appoggiare la testa contro la porta e chiudere gli occhi per un po', finché non si fosse sentito più in forze. Sua moglie e sua figlia stavano discutendo di nuovo - be', discutevano sempre, perché Mavaut aveva l'età giusta per farlo - e sembravano in disaccordo su cosa fosse meglio fare: togliergli la freccia o lasciarla dov'era. Belis stava dicendo che se l'avessero tolta sarebbe aumentata l'emorragia e lui sarebbe morto; Mavaut naturalmente la pensava diversamente ed era diventata quasi isterica. Con quel poco di conoscenza che gli era rimasta, Pollas sperò che sua moglie non cedesse, come faceva di solito quando Mavaut si agitava tanto, perché morire a causa di un figlio troppo viziato sarebbe stata una cosa terribile.
Doveva essersi addormentato per un bel po', anche se non gli era sembrato di aver dormito tanto: aveva appena chiuso gli occhi per un momento. Poi sentì dei suoni diversi: erano uomini che urlavano continuamente, come portuali che caricavano delle merci. Erano ordini; riuscì a sentire la voce di un uomo che diceva a qualcuno di tenersi in riga, e un'altra voce urlò Serrate i ranghi, alzate le alabarde o qualcosa del genere. Alzò la testa - era diventata molto pesante - ma non c'era nessuno nel vicolo tranne Belis, Mavaut e lui; la battaglia, se era tale, sembrava avvenire a cinquanta metri di distanza sulla strada principale. Si concentrò, cercando di capire cosa stava accadendo solo ascoltando, ma senza riuscire a vedere non aveva la minima idea se il gruppo era quello dei pirati o quello degli uomini di Gorgas Loredan. Naturalmente non sapeva nulla di come si svolgevano le battaglie; era come cercare di capire dove si trovavano le lancette dell'orologio della città ascoltandone soltanto il ticchettio. Udì altri ordini e molte urla; non gli era mai venuto in mente quanto dovessero essere impegnati i sergenti in una battaglia e a quante cose dovessero pensare contemporaneamente; come il capitano di una nave, o il capo di una squadra di lavoro. Non riuscì a dare un senso agli ordini, però; i termini tecnici erano al di fuori della sua esperienza: portat'arm, serrare i ranghi, fronte a sinistra. Riuscì a sentire i piedi trascinarsi, le suole chiodate degli stivali sfregare sui ciottoli, qualche gemito per lo sforzo, il clangore occasionale di un'arma gettata a terra; ma non il risuonare dell'acciaio o le urla dei morenti, cioè le cose che si sarebbe aspettato di sentire. Di fatto c'era silenzio, quindi presumibilmente ancora non avevano iniziato a combattere. Si ricordò qualcosa e guardò in basso. La freccia non c'era più, e cominciò a sentire un dolore forte, come il peggiore dei mal di pancia. Dannazione pensò alla fine hanno tolto la freccia. Le due donne sedevano immobili accanto a lui, aggrappate l'una all'altra come se temessero che una delle due potesse volare via nel vento. Poi si sentì un forte clangore, e sì, la battaglia fu piuttosto rumorosa. Era come il suono di una fucina, del metallo sotto un martello... non si sentiva risuonare, ma si udivano colpi sordi e botti... quasi riuscì a sentire la forza dei colpi per il rumore che facevano, inconfondibilmente metallo su metallo, forza che veniva inferta e a cui ci si opponeva, picchiando e battendo. Ci stavano dando dentro, se si poteva giudicare dal rumore. Dietro quei suoni si percepiva lo sforzo; era necessario un grande sforzo per tagliare e schiantare elmetti, mezze corazze e armature. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi, e di isolare i suoni in modo da interpretarli meglio... una cosa
che naturalmente è molto più facile fare nel buio. Fu difficile, però: le urla dei sergenti superarono il frastuono, non facendo udire le sfumature del contatto del metallo contro il metallo, e offuscandogli la visione nell'oscurità. È tipico pensò. È la prima volta che mi trovo in una battaglia e non riesco a vedere assolutamente niente… Questo sarà un bel racconto da fare ai miei nipoti. Quasi improvvisamente la battaglia si spostò. La cosa più probabile che Pollas pensò era che una delle due parti avesse ceduto terreno o fosse fuggita, perché il rumore era diminuito allontanandosi, ma non riuscì a capire se era su o giù per la collina. Se era lungo la collina significava ciò che sperava: probabilmente gli uomini di Gorgas ricacciavano i pirati in mare (a meno che non si fossero in qualche modo scambiati di posto, così che gli uomini di Gorgas stessero attaccando su per la collina... di tattiche non ne sapeva nulla, se non che erano complicate, come gli scacchi, e lui non riusciva a battere nemmeno Mavaut a scacchi). Inoltre non riusciva più a concentrarsi bene, perché il mal di pancia gli impediva di sentire e di fare qualsiasi altra cosa, e la testa gli girava terribilmente, come se avesse appena bevuto un gallone di sidro a stomaco vuoto. Nel complesso non si sentiva affatto bene, così probabilmente era scusabile se per il momento non osservava il combattimento. Circostanza abbastanza strana, però, il dolore non gli impedì di addormentarsi; così fece... ... E poi si trovò in un letto, il suo; la stanza era buia e non c'era nessun altro, così non poteva chiedere se era vivo o morto (e non aveva modo di saperlo da sé). Capì, però, che la sua parte aveva vinto; quindi andava tutto bene. CAPITOLO NONO Nel cortile sotto l'ufficio del prefetto un pazzo declamava le scritture. Le parole erano giuste, accurate come ogni studioso avrebbe voluto che fossero, ma il pazzo le urlava con quanta più voce aveva, come se pronunciasse delle invettive. Il prefetto si accigliò, disturbato dall'incongruenza: tutto ciò che era bello e buono, non sciupato da errori od omissioni, risultava tuttavia completamente sbagliato. L'amministratore del distretto si interruppe durante il racconto, consapevole che il suo superiore non stava prestando attenzione. Essendo leggermente sordo, non aveva trovato il rumore fastidioso, ma adesso anche lui riusciva a sentirlo bene. I due uomini si guardarono a vicenda.
«Devo mandare l'impiegato a chiamare una guardia?» chiese l'amministratore. Il prefetto scosse la testa. «Non sta facendo nulla di male» rispose. L'amministratore inarcò un sopracciglio. «Disturbo della quiete pubblica» disse. «Vagabondaggio. Vilipendio della religione...» «Non ho detto che non infrange la legge» rispose sorridendo il prefetto con un sorriso. «Ma è dovere di ogni uomo predicare le scritture. È solo un peccato che abbia scelto di farlo con tutta la voce che ha.» (Ma non era questo, naturalmente; era il tono della voce che dava davvero fastidio, la rabbia selvaggia con cui l'uomo recitava quelle affermazioni dottrinali misurate e impersonali, quelle massime elegantemente bilanciate, così perfettamente enunciate che non una sola parola poteva essere sostituita da un sinonimo senza alterarne radicalmente il senso. Era come ascoltare un lupo che urlava poesia sostanzialista.) «Prima o poi» continuò il prefetto «qualcun altro chiamerà la guardia, quel disgraziato sarà allontanato e ritroveremo la pace. Fino ad allora, farò finta di non sentire. Mi scusi, stava dicendo...» L'amministratore annuì. «L'alleanza proposta» continuò «è naturalmente fuori questione; quel Gorgas Loredan non è altro che un avventuriero, un signore della guerra su piccola scala che si è insediato in un luogo remoto e trascurato e sta disperatamente cercando di procurarsi amici potenti in vista del giorno in cui i suoi sudditi si stancheranno e lo allontaneranno. Fare qualsiasi gesto che sembri riconoscere il suo regime si rifletterebbe molto negativamente su di noi. Molto semplicemente, non facciamo affari con questo genere di persone.» «Sono d'accordo» rispose il prefetto, cercando di concentrarsi. «Ma c'è di più, ne sono sicuro.» L'amministratore annuì stancamente. «Sfortunatamente» continuò «quel maledetto ha avuto un colpo di fortuna davvero straordinario. Due giorni fa il piccolo porto che è sul suo confine, si chiama Tornoys, ha subito un'incursione da parte di una nave pirata. Una sola nave, con cinquanta uomini circa; seguivano il veliero che fa da corriere e che proveniva da Ap' Escatoy, che avevano avvicinato di soppiatto mentre risaliva la costa, fino a quando è stato trascinato a Tornoys da una tempesta improvvisa il giorno precedente. L'hanno seguito nel porto, sono stati colpiti anche loro dalla tempesta, e durante la notte l'hanno superata, arrivando al porto subito dopo l'alba. Non sono sicuro di cosa sia successo dopo, ma Gorgas Loredan e i suoi uomini sono arrivati prima che potessero danneggiare il veliero e li
hanno combattuti; metà dei pirati sono stati uccisi, e i sopravvissuti sono stati rinchiusi da qualche parte in un granaio. Ha anche trattenuto il veliero, anche se non ha fornito nessuna spiegazione sul motivo.» Il prefetto si accigliò «È Hain Partek, vero?» disse. L'amministratore annuì. «E Gorgas sa perfettamente chi sta trattenendo» continuò. «Be', dovrebbe essere stranamente disinformato per non saperlo; dopo tutto abbiamo offerto grosse somme di denaro per lui e abbiamo affisso la sua immagine in tutta la provincia in questi ultimi dieci anni; naturalmente è una notizia meravigliosa che sia stato catturato, immagino. Avrei voluto però, che fosse stato qualcun altro e non questo Gorgas.» «Decisamente.» Il prefetto si appoggiò all'indietro sulla schiena. «Gli abbiamo già detto che non siamo interessati ad allearci con lui?» «Sfortunatamente sì» disse l'amministratore, prendendo una piccola figura di avorio dalla scrivania, esaminandola brevemente e poi rimettendola a posto. «Il tempismo non poteva essere peggiore. Non appena ricevuta la nostra risposta, ha fatto partire una lettera: è la più straordinaria che io abbia letto da molto tempo, perché è una miscela assolutamente bizzarra di ossequiosità e minacce... dovrebbe leggerla lei stesso, se non altro per divertimento. Il mio consulente ritiene che Gorgas sia fuori di testa, e dopo aver letto quella lettera sono incline a essere d'accordo. A quanto sembra, quando ha ricevuto la lettera in cui rifiutavamo l'alleanza, stava tagliando legna nel cortile di una fattoria.» «Tagliando legna» ripeté il prefetto. «Perché?» «Ho l'impressione che gli piaccia tagliare legna. Non per sé... è che gli piace immaginare di essere un fattore. Proviene da una famiglia di fattori, a quanto sembra, anche se dovette lasciare la casa in fretta e furia. Finora l'unica spiegazione possibile che ho sentito per ciò che ha fatto nel Mesoge è stata che era l'unico modo per poter tornare a casa.» «Sembra un folle, lo ammetto.» Il prefetto fece un piccolo gesto con le mani. «La pazzia non è necessariamente un ostacolo per il successo in questo genere di lavoro, però» osservò. «Spesso, anzi, rappresenta una qualità, se usata correttamente. Ha già detto cosa vuole da noi?» L'amministratore scosse la testa. «Abbiamo ricevuto solo un piccolo appunto che diceva che Gorgas tiene Partek prigioniero e vorrebbe che inviassimo qualcuno per discutere la questione con lui. Immagino che preferirebbe decisamente che facessimo noi la prima offerta; e la cosa è abbastanza ragionevole, immagino, dal suo punto di vista. Voglio dire che sa solo ciò che abbiamo detto apertamente, e non ha modo di sapere quanto
sia davvero importante Partek per noi.» L'amministratore esitò per un attimo, e poi continuò. «A essere sincero» disse «non ne sono completamente sicuro nemmeno io. Qual è la linea ufficiale al momento?» Il prefetto sospirò. «È abbastanza importante. Non come lo era cinque anni fa, ma rappresenta ancora una dannata seccatura; non a causa di qualcosa che ha fatto o che è capace di fare, ma soprattutto per il fatto che è ancora là fuori, e non siamo stati in grado di fare assolutamente niente al riguardo.» Si accigliò e si grattò un orecchio. «È divertente, davvero; meno imprese compie, più la sua leggenda aumenta. In alcune zone della regione di sud-est, sono fermamente convinti che controlli la penisola occidentale e che stia raccogliendo un esercito per marciare sulla Terra natia. No, dobbiamo essere in grado di inchiodare la sua testa a una porta ad Ap' Silas; se potessimo farlo, sarebbe un'ottima cosa davvero.» «Il che significa» disse l'amministratore «che dobbiamo dare a Gorgas Loredan quello che chiederà?» «Non necessariamente.» Il prefetto rifletté per un momento. Non riusciva più a sentire il pazzo; qualcuno se ne era occupato. «Non c'è motivo di dover necessariamente sostituire un problema grosso con uno più piccolo. Vediamo» continuò «se ricordo bene, questo Gorgas Loredan è il fratello del nostro Bardas Loredan.» «L'eroe» rispose l'amministratore con un sorriso. «Esatto; è una famiglia straordinaria... se solo il Mesoge producesse altri uomini così, potrebbe essere... be', interessante avere un'alleanza con loro. Sono entrambi pazzi, naturalmente, ma non si può fare a meno di ammirare la loro vitalità.» «Io lo posso fare» disse il prefetto «quando mi causano delle difficoltà. Vediamo, allora. Abbiamo bisogno di Bardas Loredan come figura di primo piano contro gli uomini delle pianure, quindi presumibilmente non possiamo giocare duro con Gorgas Loredan per paura di offenderlo...» «Non ne sono così sicuro» lo interruppe l'amministratore. «A detta di tutti Bardas odia Gorgas come il veleno, ci sono retroscena veramente straordinari al riguardo, a proposito, mi ricordi di riferirli quando avrà cinque minuti di tempo, quindi non mi preoccuperei troppo di questo. Ma Gorgas, a quanto sembra, stravede per Bardas...» Il prefetto alzò le mani. «Questo è troppo» disse. «Mi dispiace, continui. E solo che trovo tutto questo un po' sconcertante.» «Anche io» rispose l'amministratore con un sorriso. «Ma deve ammettere che è decisamente più interessante dei rendimenti trimestrali delle industrie.»
Le grosse nuvole che avevano mascherato il sole se ne erano andate, e un raggio accecante di luce color ambra abbagliò il prefetto per un momento. Spostò un po' la sedia per evitarlo. «All'età che ho posso tranquillamente fare a meno di essere interessato, finché non ho a che fare con persone insignificanti e difficili che vivono in luoghi sconosciuti» disse serio. «D'altra parte» continuò illuminandosi un po' «devo confessare che Bardas Loredan è una specie di oggetto da collezione. È ovvio che non ha avuto la minima idea della persona con cui stava parlando, e questa circostanza è piuttosto soddisfacente. In ogni caso, dove eravamo rimasti?» Il prefetto si appoggiò all'indietro, con la punta delle dita premute contro le labbra. «Abbiamo bisogno di Bardas a causa di Temrai, e adesso Gorgas trattiene Partek; ma non vogliamo essere considerati amici di Gorgas, e a Bardas non importerà se non siamo amici di Gorgas... Cosa stava dicendo riguardo al veliero?» aggiunse, appoggiandosi di nuovo all'indietro. «Lo sta trattenendo, ha detto?» L'amministratore, che stava osservando i disegni floreali lungo il bordo della scrivania, annuì. «E anche questo è strano» disse. «Vede, ci sono molti dispacci riguardanti l'affare Temrai; le scartoffie delle navi che stiamo noleggiando, lettere di credito, accordi firmati, programmi abbozzati... se si collega il tutto si ha un disegno piuttosto chiaro di ciò che abbiamo intenzione di fare, ammesso che si abbia l'intelligenza di capire tutto.» «Intelligenza che chiaramente Gorgas possiede, anche se gli incartamenti sono confusi» disse il prefetto. «È strano. Stavo pensando di fare una dimostrazione di forza nei suoi confronti perché trattiene la nostra nave, e forse anche per spaventarlo per farci consegnare Partek in questo modo. Ma questo servirebbe solo ad attirare la sua attenzione su ciò che ha.» L'amministratore si morse le labbra. «Io cerco di analizzare la situazione anche dal suo punto di vista. Come giudicherebbe la circostanza se lei stesse trattenendo illegalmente il corriere dei dispacci dell'ufficio provinciale e nessuno protestasse? Di fatto, sospetto che sia proprio questo il motivo per cui si sta comportando così, per vedere come reagiamo. Altrimenti non ha un motivo per cercare di attaccare lite con noi.» «Questa è un'ottima osservazione» ammise il prefetto. «Oh, al diavolo quell'uomo, mi sta facendo venire il mal di testa. In questo preciso istante penso che farei volentieri a meno della vitalità dei fratelli Loredan.» «Ah.» L'amministratore sorrise. «Comunque potremmo essere in grado di fare qualcosa. Sto pensando alla sorella Loredan.» Il prefetto voltò di scatto la testa. «Sa, mi ero completamente dimentica-
to di lei. Niessa Loredan: gestiva la banca a Scona e ha dato tanto fastidio ai nostri amici dell'Ordine di Shastel.» «Proprio lei» disse l'amministratore. «Al momento naturalmente sta godendo della nostra ospitalità.» «Esatto. Allora, qual è la posizione dei fratelli riguardo a lei? La amano o la odiano?» L'amministratore incrociò le braccia sul grembo. «Gorgas la ama, penso, anche se lei l'ha lasciato nei guai durante la caduta di Scona quando se l'è svignata con tutti i soldi e l'ha lasciato da solo a combattere. Ma non penso che Gorgas ce l'abbia con lei: è un uomo incline al perdono quando si tratta della sua famiglia.» Il prefetto sollevò un sopracciglio ma non comprese bene la cosa. «E Bardas? Anche lui la ama?» «Non penso» rispose l'amministratore. «Non penso nemmeno che la odi. Ma la figlia di Niessa ha giurato pubblicamente di ucciderlo, e non so se questo particolare è per noi importante.» «Oh, per l'amor del cielo.» Il prefetto scosse la testa. «Non importa, mi aspetto che tutto sia elencato nei documenti da qualche parte. Infatti devo aver letto tutto al riguardo prima di aver avuto il colloquio con quell'uomo. Immagino dunque che lei abbia qualcosa in mente.» I sorrisi dei Figli del Cielo sono belli, anche se rari. «Non proprio» disse l'amministratore. «Non più dell'idea che potrebbe esserci utile, se la situazione sembrerà sfuggire di mano. Ma sarebbe meglio rinchiuderle... entrambe, a dire il vero: la figlia oltre che la madre. Le tratterremo come stranieri illegali e lasceremo le cose così per ora.» Il prefetto si alzò e camminò verso la finestra, sotto la quale cresceva un fico, vecchio e bello. Dalla finestra poteva quasi raggiungerne la cima. «Per il momento, temo» disse «che la priorità sia di avere Partek. Se lo perdiamo adesso, dovrò rispondere a domande difficili. Faccia quello che può; ovviamente preferirei evitare qualsiasi tipo di alleanza con quell'uomo, ma sono sicuro che lei può trovare una forma che soddisferà lui e non ci impegnerà in nulla. Il secondo problema è l'affare di Perimadeia, anche se è di livello diverso rispetto a Partek, quindi stia attento per quanto riguarda Bardas Loredan. Per il resto, sono decisamente contento che lei usi il suo buon giudizio.» Volse le spalle alla finestra, e così il suo volto si trovò nell'ombra, e si accigliò. «C'è sempre il pericolo, quando si comincia a guardare a questo genere di persone a livello individuale, di perdere il senso della proporzione. Tranne Partek, nessuno degli individui citati è
anche lontanamente significativo a livello politico. È solo quando si scende alla strategia, più in basso, persino, e cioè alla tattica, che cominciano a sembrare importanti.» Scrollò le spalle e si sedette su un angolo del tavolo. «Voglio dire» continuò «che se arriva alla conclusione che il modo migliore per avere Partek è di prendere due divisioni e qualche nave di quelle che stiamo noleggiando e annettere il Mesoge, allora lo faccia senz'altro. Non sto suggerendo che dovrebbe farlo» aggiunse prima che l'amministratore potesse dire nulla «sto solo sottolineando la necessità di concentrarsi sul termine del viaggio, non sul panorama lungo la strada. La stessa cosa vale per Shastel, o per qualsiasi altro di questi piccoli regni insignificanti. Se dobbiamo sbarazzarcene, dobbiamo sbarazzarcene. Dobbiamo solo preoccuparci dell'efficienza di costo e dell'economia dello sforzo.» L'amministratore si alzò per andarsene. «È un'argomentazione valida» disse. «Avrò Partek, non abbia paura da questo punto di vista. Ma non obietterà se cercherò di farlo in modo pulito ed elegante, vero? Dopo tutto» aggiunse con un largo sorriso «non ci vuole una grande immaginazione a inviare un esercito. È inviando un esercito inferiore al previsto che si viene notati dall'ufficio provinciale.» «È terribile» mormorò Eseutz Mesatges, spostando le spalline che le pungevano il lato del collo. «Tutte queste persone vogliono comprare, e non c'è niente da vendere.» Un'altra giornata tranquilla allo Span. Di solito ci voleva mezz'ora per farsi strada nei cento metri circa attraverso il ponte; oggi c'erano voluti solo pochi minuti. Hido Glaia, disperatamente alla ricerca di tre balle di velluto verde che gli servivano per rispettare un ordine perché aveva già assicurato al cliente di averlo inviato una settimana prima, annuì tristemente. «Se questa incredibile opportunità va avanti ancora per molto» disse «ci rovinerà tutti. Se prima non moriremo di noia.» Prese un campione di tessuto, lo stesso pezzo che aveva esaminato e rifiutato il giorno prima, e quello prima ancora, e quello ancora prima. Era l'unico velluto verde sull'Isola. «Sarò talmente disperato che tornerò qui domani per comprare questo, ma allora qualcuno l'avrà già comprato. Andiamo a bere qualcosa. Sperando che sia rimasto dell'alcol su questa triste roccia.» Nel Palazzo Dorato trovarono Venart Auzeil e Tamin Votz, seduti sconfortati con davanti una caraffa mezza vuota. Appena entrarono, Venart alzò speranzoso lo sguardo. «Hido» disse «le mie impugnature d'ascia. Le hai trovate?»
Hido prese una sedia e si sedette soffocando uno sbadiglio. «Andiamo, per chi mi prendi, la fata del dentino? O pensi che sia andato in spiaggia alle prime luci dell'alba, a crearle dai relitti?» «Immagino che non le hai trovate» rispose tristemente Venart. «Il che significa che dovrò andare dai fratelli Doce e cercare di spiegare...» «Che la mia nave e la tua e quelle di tutti gli altri sono ormeggiate alla banchina» lo interruppe Hido «insieme alle loro. Penso che probabilmente già lo sappiano. Rilassati, Ven, i fratelli Doce conoscono la situazione, sei a posto. Non sei tu quello che ha un cartello di tessuti di Colleon che gli respira sul collo e lo minaccia con clausole penali. A proposito» aggiunse «per caso hai tre balle di velluto verde, di qualità standard dell'Isola?» Venart aggrottò la fronte. «Io no» disse «ma potresti provare a parlare a Triz. So che aveva comprato un intero carico qualche mese fa... sai, quando hanno liquidato Remvaut Jors. Ho idea che ci fosse del velluto verde in quel carico, anche se...» «Dio ti benedica» disse Hido balzando in piedi. «Sai per caso quanto l'ha pagato?» «Hido! È mia sorella!» «Non puoi biasimare un uomo per averci provato. Grazie.» Andò via in tutta fretta. Eseutz vuotò la tazza di Hido nella sua. «Be', non si sa mai» spiegò mentre Venart la guardava. «Potrebbero razionare l'alcol domani, se le cose continuano così.» Tamin Votz rise. «Quello che non capisco» disse «è questo: so perché nessuna delle nostre navi entra o esce dal porto, ma perché non arrivano navi straniere? Pensate che l'Impero abbia noleggiato anche quelle?» «È possibile» disse Venart. «Be', lo è» aggiunse timidamente mentre Eseutz ridacchiava. «Solo gli dèi sanno quanto è grande il loro esercito, ed è inutile dire che hanno i soldi necessari per il noleggio.» «Davvero?» Tamin Votz sorrise mentre vuotava le ultime gocce della caraffa nella sua tazza. «Sai, la cosa che trovo interessante di tutta questa situazione è il renderci conto di quanto poco sappiamo dell'Impero. Noi pensiamo di sapere, ma non è la stessa cosa. È come guardare il cielo. Lo vediamo tutti i giorni, è semplicemente lì. Ma non sappiamo come funziona, o a cosa serve realmente, o persino quanto è grande. È la stessa cosa per l'Impero, se volete il mio parere.» Eseutz aveva trovato una ciotola di olive abbandonata su un tavolo vicino. «Stavo leggendo un libro» disse con la bocca piena «che diceva che il cielo è soltanto un enorme pezzo di tessuto blu, e che le stelle sono piccoli
buchi da cui passa la luce. E così è anche per la pioggia, anche se questa circostanza mi sembra inverosimile. Perché se fosse così, ogni volta che piove dovrebbero esserci grosse pozzanghere sporche proprio sotto la stella polare. Mi chiedo se qualcuno abbia davvero controllato per vedere se si allineano. La pioggia, intendo dire, e le stelle.» Tamin inarcò un sopracciglio. «Non sapevo che leggessi libri, Eseutz» disse. «Sono arrivati avvolti attorno a qualcosa, vero?» «Molto divertente» rispose Eseutz sputando un nocciolo d'oliva. «Sappi che possiedo un intero scatolone di libri nel mio magazzino. Grosso così. E nemmeno adesso riesco a venderli» aggiunse in tono nostalgico. «Ehi, Ven, non è che tu saresti interessato...» «No.» Venart girò nella tazza il vino rimasto. «Ma immagino che tu abbia ragione» continuò. «No, non tu, lui... riguardo all'Impero. Non ho la minima idea di quanto sia grande. So solo che è... be', grande.» «È così» disse Tamin. «È troppo grande, se volete il mio parere. Ho sentito racconti persino di una guerra civile.» «Davvero?» Eseutz sollevò la testa. «Oh, aspetta. Intendi dire le voci su Partek? Perché so per certo...» Tamin scosse la testa. «Intendo dire una vera guerra civile, non atti occasionali di violenza privi di significato da parte di un gruppetto di pirati. No, dovrebbe trattarsi di una prova di forza tra la famiglia imperiale e un signore della guerra, in una zona lontana verso sud-est. Probabilmente la faccenda è stata ampliata, ma credo che in essa ci sia almeno un granello di verità. E la mia opinione è questa» continuò. «Semplicemente non so come funzionano queste cose. Se c'è una guerra civile, una vera, tralasceranno tutto il resto e correranno a combattere? O queste cose succedono tutti i giorni?» Venart scrollò le spalle. «Ha importanza?» chiese. «Possiamo essere sicuri di una cosa: l'Impero non ci ha mai dato fastidio, e non credo che lo farà mai.» «Ah sì?» chiese Tamin. «Cosa ti rende così sicuro?» «Be'» disse Venart «tanto per cominciare non possiedono una flotta, e questa è un'isola. O avevi sempre pensato che vivessimo in cima a una montagna e che avesse piovuto moltissimo?» «Hanno una flotta, però» si inserì Eseutz. «La nostra.» «D'accordo, ma è altamente improbabile che usino la nostra flotta contro di noi.» «Oh, non lo so. Circostanza più importante, non hanno bisogno di una
flotta da usare contro di noi se la nostra è in mare.» «E come arriveranno qui senza navi? A piedi?» Venart scosse la testa. «Una cosa non riesco a concepire, e cioè che l'Impero ci possa attaccare. Non ha alcun senso. Non è questo il modo in cui si comportano.» «Per quel che sai tu. Ma non sappiamo quasi nulla dell'Impero, e su questo credo che tutti siamo d'accordo.» Venart sospirò paziente. «Sono solo interessati a rendere sicuri i loro confini. Noi ci troviamo in mezzo al mare. Fine della storia.» «Forse hai ragione» disse Tamin. «Penso solo che dovremmo saperne di più su di loro, tutto qui. Per esempio, l'ammontare di affari che facciamo con loro è piuttosto insignificante... e questo ci riguarda tutti sicuramente. Potremmo mancare delle incredibili opportunità.» Venart si grattò un orecchio. «La mia ipotesi è che non hanno bisogno di nulla di ciò che noi vendiamo. Possono ottenere tutto quello che vogliono all'interno dell'Impero. E comunque non sono sicuro che sarei davvero smanioso di commerciare con loro. Non so perché, ma mi fanno accapponare la pelle.» «Ah» disse Tamin «così va meglio. Non facciamo affari con loro perché abbiamo paura di loro. O perché non ci piacciono. È un comportamento piuttosto puerile per una nazione commerciale, non pensate?» «Non lo so» rispose Venart. «Forse dipende solo da me. Ma sono così grandi, e...» «Inquietanti?» Venart annuì. «Esatto, inquietanti. Mi sento teso quando faccio affari con loro. Non posso evitarlo.» «Perché non sai nulla di loro» disse Tamin sorridendo. «Sono sicuro che se li capissi meglio, non saresti così in apprensione.» «Già» mormorò Eseutz. «Scommetto che sonò davvero dolci, una volta che li si conosce.» Gannadius? Gannadius si alzò a sedere. Era buio, ed era a malapena consapevole della presenza di Theudas, che si agitava nel sonno nel letto accanto a lui. Qualcuno aveva chiamato il suo nome. Gannadius. Sono io. «Oh» disse a voce alta; poi chiuse gli occhi. Si ritrovò nella Città (oh, non di nuovo), stavolta negli ampi spazi dove si fabbricano corde; a ciascun lato dell'enorme strada case e magazzini
erano in fiamme, e facevano un bagliore tale che era in grado di vedere come se fosse in pieno giorno. Si trovava in piedi al centro della strada, ed era una circostanza fortunata: il combattimento e le uccisioni si svolgevano ai margini, sotto le gronde degli edifici in fiamme. «Scusa» disse Alexius. «Anche a me non piace stare qui; è solo che adesso sono qui.» Gannadius tremò; non riusciva a sentire il calore del fuoco, anche se sapeva che avrebbe dovuto sentirlo. «Questo è un posto affascinante» disse. «A dire il vero, non penso di esserci mai stato prima. E sono stato nella maggior parte della Caduta, in un momento o in un altro.» Alexius indicò, anche se Gannadius non riuscì a distinguere cosa stava guardando. «Laggiù. Vedi quell'uomo della pianura con i capelli lunghi? Da un momento all'altro il tetto di quel magazzino crollerà, e lui rimarrà intrappolato e ucciso. È per questo che è importante questo istante. Ecco, guarda» aggiunse, mentre un piccolo edificio crollava in una pioggia di scintille, e qualcuno che Gannadius non riuscì a vedere urlò. «Mi ci è voluto molto tempo per capire cosa c'era di così importante in questo momento, ma alla fine ci sono riuscito. Se quell'uomo fosse vissuto, avrebbe preso parte a una gara tra arcieri; avrebbe scoccato una freccia che rimbalzando sul bordo del bersaglio, avviene una volta su un milione, avrebbe colpito in un occhio la moglie di Temrai. Be', non era ancora sua moglie, all'epoca, e non lo sarebbe mai stata; così lui avrebbe sposato un'altra e le cose sarebbero andate in modo molto diverso.» «Capisco» disse Gannadius. «Ed è questo che volevi che vedessi?» Alexius scosse la testa. «Santi dèi, no. Come ho detto è qui che ho trascorso il mio tempo ultimamente. No, è una cosa molto più importante... per te, intendo. Devo avvertirti...» «Scusami» disse Gannadius. Aveva appena notato che aveva calpestato un uomo morente. Sapeva, naturalmente, di non poter fare nulla per aiutarlo, dato che tutto quanto era già accaduto e che lui non si trovava veramente lì. Ma calpestare qualcuno era un atteggiamento contrario alla sua natura. «Mi dispiace» disse chinandosi, ma l'uomo non sembrò assolutamente averlo sentito. Aveva ferite terribili: un taglio profondo che correva in diagonale dalla giuntura del collo e le spalle, seguendo la linea della clavicola, e un'enorme ferita da coltello, grande quanto la mano di Gannadius, proprio sotto l'arcata delle costole. «Ferite da alabarda» sottolineò Alexius, che si trovava sopra di lui e fuo-
ri dalla vista. «Alabarda? Non sapevo che gli uomini delle pianure le usassero.» «Non le usano» rispose Alexius; e quando Gannadius alzò lo sguardo si rese conto che non si trovava più a Perimadeia. «È Scona?» chiese. «Esatto» confermò Alexius. «Quello che vedi è il sacco di Scona da parte dell'Ordine di Shastel.» Gannadius si accigliò. Dietro di lui, anche se non riusciva a vederli, tutti i magazzini che fiancheggiavano la Banchina degli Stranieri bruciavano, e le persone combattevano fra di loro per riuscire a salire su navi che erano già salpate, ed erano state già affondate nel porto da catapulte montate sui ponti delle chiatte di Shastel. «Ma questo non è mai accaduto» disse. «Secondo la logica hai ragione» annuì Alexius. «L'ha evitato Bardas Loredan: ha messo Gorgas fuori gioco, facendolo rinunciare alla guerra, così non c'è mai stato un assedio né un saccheggio. Tuttavia, ecco qui cos'è accaduto. Chiedi al tuo amico laggiù, se non mi credi.» «Stai dicendo che questo è ciò che sarebbe dovuto accadere.» «Santi dèi, no. Hai letto troppo Tryphaenus. Non ho mai capito il significato di fare giudizi di valore nello studio del Principio. È come dire che il sole sorge a est perché è una zona migliore. Dico solo che anche questo è accaduto. In un certo senso.» Gannadius si alzò in piedi. «Non ti seguo» disse. «E per favore, non cercare di spiegare. La mia sete di pura conoscenza non è quella che era un tempo, temo. Cosa stavi per dire? Riguardo a un avvertimento?» «Oh, sì.» Alexius indicò. «Là, guarda.» Mentre Gannadius non guardava, Scona era sparita, e loro si trovavano invece al centro di quello che Gannadius pensò essere un accampamento degli uomini delle pianure; era grande, con tende e steccati temporanei intorno a loro, in ogni direzione. Qualcuno lo stava attaccando; molte tende erano in fiamme e soldati a cavallo correvano tra le fila, incendiando i feltri incerati o mutilando a caso le persone che cercavano di fuggire. Gannadius vide un carro proprio davanti a sé. La copertura di feltro era stata quasi tutta del tutto bruciata, lasciando vedere i cerchi sporgere come costole, e sotto di essa Gannadius vide il volto di un ragazzo che scrutava, tra i raggi della ruota esterna, un cavaliere, che a sua volta lo guardava. A causa dell'angolazione, e dato che la visiera del cavaliere era abbassata, Gannadius non riuscì a vederne il volto... «Chi è?» chiese quasi inutilmente. «Indovina.»
«Capisco» disse Gannadius. Un uomo stava cercando di scivolare oltre il cavaliere, appiattendosi contro il lato di una fila di barili. Il cavaliere lo vide e si chinò in avanti sulla sella; il suo colpo finì in cima alla testa dell'uomo. «Quindi è così che tutto ha avuto inizio, immagino.» Alexius sorrise. «C'è di più, temo. Stai supponendo che questo sia uno degli attacchi preventivi di Maxen contro le tribù, in particolare quello in cui il giovane Temrai ha visto uccidere la sua famiglia. Vero?» Gannadius annuì. «Non è lui sotto quel carro?» chiese. «Certo. Ma» continuò Alexius «accadrà anche qualcos'altro. Osserva l'armatura e l'uniforme del cavaliere.» Gannadius sembrò infastidito. «Mi dispiace» disse «non sono un appassionato militare. Cos'ha di speciale quell'armatura?» «È quella della cavalleria pesante imperiale» spiegò Alexius. «Stai osservando l'annessione di quella che un tempo era Perimadeia da parte dell'ufficio provinciale. E sì, l'uomo a cavallo laggiù è Bardas Loredan; e il ragazzo sotto il carro è Re Temrai. Certo, il ragazzo è un po' più grande: deve avere ventiquattro o venticinque anni ormai... ma sembra più giovane, specialmente quando è terrorizzato. E il carro lo aiuta anche, mettendolo in ombra.» Gannadius si guardò di nuovo intorno. «D'accordo» disse «se le cose stanno così, come mai non riesco a vedere la Città? O almeno le sue rovine.» Alexius sorrise. «Il Re Temrai decise che sarebbe stato un suicidio rimanere fermo e combattere l'Impero, in particolare quando seppe chi era al comando dell'esercito. Se vogliono Perimadeia disse possono averla; ordinò alla sua gente di raccogliere le proprie cose e li guidò di nuovo verso le pianure, da dove erano venuti. Ma l'ufficio provinciale non ne rimase impressionato. Se possono andarsene argomentarono, possono anche tornare indietro. È meglio affrontarli adesso. Così inviarono Bardas e l'esercito nelle pianure, facendo affidamento sulla conoscenza del luogo e sulla lunga esperienza di Bardas. Come previsto, lui li guidò dove pensava che le tribù si sarebbero accampate non appena fossero fuori pericolo e desiderose di rilassarsi. Ci fu un sanguinoso massacro e migliaia di uomini delle pianure furono uccisi. Altri non lo furono, tuttavia. Così Bardas trascorse il resto della sua vita a dare loro la caccia, finché morì di polmonite e il suo secondo al comando, un uomo chiamato Theudas Morosin, se il nome ti dice qualcosa, guidò l'esercito a casa. Da allora, l'Impero ricostruì Perimadeia e Morosin si stabilì qui, anche se non visse a lungo, poverino. Poi un
giorno le tribù apparvero improvvisamente al confine, guidate da un giovane e forte re che era soltanto un ragazzo il giorno in cui Bardas bruciò l'accampamento e uccise la sua famiglia. Sapeva che non ci sarebbe mai stata la pace finché la Città fosse esistita. Fortunatamente era un genio militare; Theudas Morosin, richiamato in tutta fretta e messo a capo della difesa, fece un lavoro eccellente di fronte all'inettitudine e all'apatia insolita persino per gli standard imperiali, ma la Città cadde e Theudas fu uno dei pochi sopravvissuti...» Gannadius applaudì lentamente. «Ottimo» disse. «Un'opera d'arte splendida e ben costruita. Non credo a una sola parola.» «Non ci credi?» Alexius inarcò un sopracciglio. «Oh, andiamo Gannadius, da quando sei diventato così critico? Guarda.» Indicò e Gannadius tornò da dove aveva iniziato, negli ampi spazi dove si fabbricano corde di Perimadeia; solo che stavolta vide se stesso, un uomo molto anziano con un'espressione sbigottita e confusa sul volto, che veniva spinto lungo la strada da... «Theudas Morosin» disse, con il tono di voce dell'assistente di un mago che aveva appena tirato fuori dal suo orecchio un mazzo di rose. «E sì, lo ammetto, sembra Bardas Loredan con quell'abbigliamento.» «Ha persino la stessa spada» disse Alexius. «La Guelan che Gorgas diede a Bardas il giorno prima del sacco. Bardas la diede ad Athli Zeuxis perché gliela tenesse. Athli la diede a Theudas quando Bardas morì. Eccola di nuovo: le facevano davvero in modo che durassero molto a quel tempo. È quel genere di attenzione per il dettaglio che impressiona veramente le persone.» Gannadius chiuse gli occhi... e fu un errore, perché si trovò nelle miniere sotto Ap' Escatoy, che costituivano la sua allucinazione peggiore... «Non è un'allucinazione» lo corresse Alexius. «Non è un'illusione ottica, né un trucco fatto con gli specchi... nulla di tutto questo, come sai. Qualunque cosa vedi è reale: l'unica cosa che non è reale qui sei tu.» Gannadius stava per obiettare, poi esitò per un momento. «Quel sacco di Scona che abbiamo visto» disse. «Anche quello è nel futuro, vero?» «Ah!» sorrise radiosamente Alexius. «Alla fine, dopo tutto questo tempo, hai capito. Sapevo che ci saresti arrivato. Proprio così: non è ancora avvenuto. Solo perché non hai letto l'ultima pagina di un libro, non ne consegue necessariamente che il racconto non sia stato scritto.» «A dire il vero» confessò Gannadius «leggo sempre prima la fine. Trovo che mi aiuta ad apprezzare le sfumature. Stai dicendo che solo perché nulla
di tutto questo non è ancora accaduto, è già accaduto...» Si interruppe, accigliandosi. «Da qualche altra parte?» Alexius appoggiò la schiena contro il muro con i pannelli della galleria. Odorava di coriandolo. «Adesso ci stai arrivando» disse. «Adesso alla fine, stai cominciando a vedere quanto è semplice il Principio. Non posso davvero biasimarti per non aver capito prima, immagino. C'è voluto tanto tempo perché io lo capissi, e tu non crederesti ai guai che ho dovuto passare... Ricordi che eravamo soliti fare ipotesi se potevamo trovare un modo per usare il Principio per vedere nel futuro? Ci saremmo dovuti rendere conto, solo che eravamo troppo stupidi per capire quello che era ovvio: possiamo vedere il futuro perché è tutto già accaduto.» «Non ti seguo di nuovo» disse tristemente Gannadius. «Oh, per l'amor del cielo.» Gannadius sentì tutta la galleria tremare, e l'aria diventare pesante per la polvere che veniva alzata. «Possiamo osservare Theudas che uccide le tribù perché possiamo osservare Bardas che fa la stessa cosa. Possiamo osservare la caduta della Perimadeia imperiale perché abbiamo già visto la caduta di Perimadeia. Possiamo vedere tutto in quel modo, perché si tratta dello stesso evento. Potremmo vedere persino le nostre morti, se fossimo morbosamente desiderosi di farlo. Certo, è consuetudine morire prima...» Il tetto crollò, riempiendo la galleria di polvere. Era come trovarsi dentro una clessidra mentre viene rovesciata. Gannadius tossì, sentì un'asse schiantarsi dentro la testa e aprì gli occhi. «Zio?» «Theudas» disse. «Cosa succede? Dove siamo?» «Hai avuto un incubo» rispose Theudas avvicinando la lampada. «Va tutto bene. Siamo con gli uomini delle pianure, ricordi? Temrai ci ha mandati a chiamare, e ci manderà a casa.» Gannadius si sedette scuotendo la testa. «Aveva torto» disse. «Lo si può cambiare, se si trova il posto giusto e la spinta giusta. L'abbiamo fatto noi, con Bardas e quella ragazza.» Alzò lo sguardo e vide il volto di Theudas, come se lo volesse esaminare attentamente per vedere se era autentico. «Coriandolo» disse. «Non indica forse il nemico?» Theudas poggiò la lampada. «Rimani fermo, io vado a vedere se riesco a trovare quella dottoressa. Starai bene, vedrai.» Gannadius sospirò. Si era svegliato con un terribile mal di testa. «Va tutto bene» disse «erano solo gli ultimi ricordi del sogno che stavo facendo, non sono diventato pazzo. Mi dispiace, ti ho spaventato?»
Con cautela, come se temesse un'imboscata, Theudas tornò indietro. «Era un altro di quei sogni, vero?» chiese. «Pensavo che il tè al malto avesse risolto il problema.» «Non proprio» disse Gannadius. «Ma era talmente disgustoso che ho smesso di raccontarteli, così non me ne avresti fatto bere più.» Espirò e si mise supino nel letto. «Mi sembra di ricordare di aver letto da qualche parte che è un veleno lento. Be', in ogni caso fa male a te. Provoca qualcosa ai reni.» Theudas si accigliò. «Torna a dormire» disse. «Domani avremo una giornata lunga, e devi riposare. Dirò due parole al conducente, perché tu non puoi essere sballottato in un carro per tutto il giorno, alla tua età.» «Oh, non mi preoccuperei per questo.» Gannadius fece un triste sorriso. «So che sono sopravvissuto fino a tarda età, mi sono caduti tutti i capelli e anche metà dei denti. Così anche tu: sei sopravvissuto, voglio dire. Probabilmente sei morto di polmonite, ma non ci posso giurare: sto estrapolando da dati che associo.» «Zio...» «Lo so, sto dicendo di nuovo delle pazzie. La smetterò.» Gannadius sbadigliò coscienziosamente e si girò, con gli occhi ancora aperti. «Spegni la lampada» disse «prometto che cercherò di dormire.» Theudas sospirò. «Mi preoccupo per te, davvero.» «Anch'io» rispose Gannadius, cercando di sembrare assonnato. «Anch'io.» «Sei guarito allora?» Bardas sorrise. «A quanto sembra» rispose. «Almeno non sono più matto di prima. Inoltre arrecavo disordine all'infermeria, e quindi mi hanno buttato fuori.» Anax, il vecchio Figlio del Cielo che dirigeva il palazzo delle prove, annuì saggiamente. «Non è il luogo in cui vorresti stare» disse. «Quello che sanno fare meglio qui è amputare gli arti... fanno un lavoro ottimo da quel punto di vista, probabilmente perché il medico chirurgo era prima caporeparto della falegnameria: poi ha accumulato una lunga anzianità di servizio e l'hanno dovuto promuovere. Dovresti vedere alcune gambe finte che ha fatto con le ossa di balena sul grande tornio che hanno laggiù. Alcune sono vere e proprie opere d'arte.» «Non c'è da meravigliarsi» rispose Bardas. Mentre Bardas metteva le sue cose in uno zaino, Anax si appollaiò in
fondo al letto, ricordando a Bardas il folletto di un racconto che aveva sentito quando era molto giovane. Il folletto impiegava il suo tempo a costruire bambole meccaniche a grandezza naturale, meravigliose nei particolari e pressoché indistinguibili dai bambini e dalle bambine reali, e lui le metteva al posto dei bambini che rapiva dalle famiglie povere nel cuore della notte. Il racconto l'aveva terrorizzato talmente che non aveva dormito per settimane e (circostanza piuttosto illogica) aveva preso l'abitudine di toccarsi le braccia e le gambe per assicurarsi che non fossero fatte di metallo. «Allora te ne vai» disse Anax dopo essere rimasto in silenzio per un po'. «A quanto sembra» rispose Bardas. «È davvero un peccato. Mi stavo abituando a stare qui.» Anax sorrise. «Ti stavi abituando. Più di questo non può fare nessuno, a meno che naturalmente non gli piaccia colpire le lastre di metallo con i martelli. Non ridere, ad alcune persone piace. Per esempio a Bollo: vero. Bollo?» L'enorme giovane assistente di Anax fece una smorfia. Bardas rise. «Non lasciarti ingannare» continuò Anax. «Segretamente ama il suo lavoro. Quando era un bambino, veniva sempre sgridato perché rompeva le cose... e un essere così grosso, in un piccolo villaggio di contadini, è destinato a rompere qualcosa ogni tanto, è inevitabile. Qui può rompere le cose tutto il giorno e viene pagato per farlo.» Anax abbassò lo sguardo per osservare le sue dita, e poi guardò di nuovo in alto. «Se andrai in guerra, come farai per l'equipaggiamento? Non sembri avere l'occorrente.» Bardas scrollò le spalle. «Mi daranno qualcosa, immagino» rispose. «Almeno immagino...» «Mi sembra un po' lunga come soluzione» lo interruppe Anax. «Dopo tutto, qui facciamo tutti i pezzi. Perché affidarti alla buona sorte con un impiegato del quartiermastro provinciale quando puoi avere il meglio della produzione? Meglio ancora» aggiunse saltando giù dal letto «potresti avere dei pezzi fatti su misura. Almeno in questo modo sapresti che sono stati provati.» «Non ci ho pensato molto» rispose Bardas tenendo una camicia contro il petto per piegarla. «Da quello che mi hanno detto, la mia funzione principale sarà di stare in un punto elevato dove Temrai mi potrà vedere e resterà terrorizzato. E per me va benissimo» aggiunse. «Gli dèi lo sanno, non smanio certo per rimanere coinvolto in battaglia.» Anax sospirò. «Non ci ha pensato molto» ripeté. «È il vicedirettore del palazzo delle prove, o come si definisce, ed è pronto a ripiegare su un pez-
zo di robaccia preso dagli scaffali dei magazzini del Quartiermastro. Non possiamo accettarlo, vero Bollo? Immagina come la circostanza si rifletterebbe su di noi, se rimanesse ucciso o perdesse un braccio. Alcune persone proprio non pensano, è questo il loro guaio.» «D'accordo» rispose sorridendo Bardas. «Scegli dei pezzi per me, così saprò a chi dare la colpa.» «Faremo di meglio» rispose Anax. «Li costruiremo noi per te.» Bardas inarcò un sopracciglio. «Pensavo che le rompeste soltanto» disse. «Non sapevo che potevate anche fabbricare le armature.» Anax fece finta di essere offeso. «Ti dispiace? Ho lavorato lo stagno per vent'anni.» «Finché non hai accumulato tanta anzianità per cui ti hanno dovuto promuovere?» Anax gli diede una pacca sulla schiena. «È un peccato, sai» disse. «Quest'uomo aveva cominciato a capire come funziona questo posto, e viene riassegnato. È uno spreco, se vuoi il mio parere.» Prima che Bardas potesse obiettare, Anax uscì dalla stanza. Camminava talmente in fretta che Bardas ebbe problemi a stargli dietro, specialmente nel dedalo di corridoi e gallerie sotto l'officina principale, che era il luogo in cui si stava dirigendo. Bollo li seguì lentamente a una certa distanza; non era fatto per essere veloce e agile, e conosceva già la strada. «Bene» disse Anax scrutando attraverso una porta «nessuno l'ha ancora scoperto. Un giorno di questi verrò quaggiù e il luogo sarà pieno di attrezzi e affollato di persone che lavorano, e la mia officina privata non ci sarà più. Dov'è Bollo con la lampada? Abbiamo bisogno di accendere un fuoco per vedere quello che facciamo.» Quando venne fatta luce, Bardas fu in grado di guardarsi intorno. Al centro del pavimento si trovava un'enorme incudine imbullonata a una sezione di trave di quercia per attenuare i colpi. Accanto a essa sulla trave c'era un blocco per forgiare il metallo: un grosso quadrato di ferro in cui erano tagliati buchi e scanalature di varie dimensioni e profili, a semicerchio, quadrati e a rombo; in queste nicchie la lamina di metallo poteva venire martellata, per poterla plasmare in una varietà di forme, come le scanalature e i bordi sollevati. All'estremità della trave un buco a forma di coppa era stato lavorato con lo scalpello, ed era lungo circa mezzo pollice nel punto più profondo (era a forma di conchiglia, con un'estremità larga e una stretta). Bardas notò che le fibre del legno erano state martellate per renderle lisce, dure e lucenti.
«Serve per battere e incavare» spiegò Anax. «E quello è il piegatore» continuò indicando un attrezzo montato su una robusta panca da lavoro all'estremità più lontana della stanza «e lì a fianco ci sono i rulli e le forbici. È tutto quello che serve. Adesso vediamo cosa abbiamo qui dietro.» Si chinò e allungò una mano dietro il banco. «A meno che qualcuno non sia stato qui e che l'abbia già trovato, dovremmo avere... sì, eccolo qui.» Tirò fuori una lamina di acciaio, diventata marrone sotto uno strato uniforme di ruggine. «L'avevo messa da parte una quindicina di anni fa, in caso volessi costruire armature di ottimo livello. L'ho vista venir fuori da un singolo lingotto del miglior ferro di Colleon: un materiale pulitissimo, senza pezzetti di graniglia o robaccia come quella che usiamo per lavorare. Ne ricaveremo molti pezzi se taglieremo bene.» Si morse il labbro e poi continuò «Sai, probabilmente ti sembrerà stupido, ma quando lo vidi seppi che gli avrei trovato un utilizzo un giorno.» Bardas si sentì un po' a disagio al riguardo. «È sicuro di poterne fare a meno?» chiese. «Voglio dire, se è un materiale così buono...» «Va bene» rispose Anax accennando un sorriso. «Finché va a qualcuno che ne farà un buon uso.» «Non sono sicuro che mi piaccia quello che hai detto» disse Bardas. Da una scatola poco profonda che si trovava in un angolo, Anax tirò fuori una serie di schemi tagliati nel legno sottile. «Corazza per il petto» disse porgendo il più grande. «Schienale, gorgiera, cannoni di avambracci, riquadri per l'elmetto, copriguancia, copertura per il collo... al diavolo, dov'è la copertura per il collo? Ah, trovata. Sembra esserci tutto: cosciali, gambiere, cannoni... ci prenderemo la briga di fare uosa? No, non penso, sarai a stento in grado di muoverti già così. Resta?» «Cos'è una resta?» chiese Bardas. «D'accordo, niente resta. Andrà bene così. Bollo, metti il foglio sul banco in modo che io possa cominciare a segnarlo.» Con attenzione Bollo tenne il foglio fermo, e Anax passò intorno agli schemi con il gesso. «È davvero una fortuna per te che tu sia di un'altezza decente» disse. «Ho tagliato questi schemi per noi... per i Figli del Cielo, intendo. La maggior parte di voi forestieri siete buffi e piccoli.» «Come te» sottolineò Bardas. «Precisamente» convenne Anax. «Ma del resto io sono diverso, per tua fortuna. Il massimo che potresti avere gratis dagli altri sarebbero le razioni per tre giorni. Tieni fermo quel dannato foglio, Bollo, lo stai muovendo.» Ci volle parecchio tempo a disegnare gli schemi, e ancora di più a taglia-
re le sezioni con la forbice. Bollo tagliò le linee diritte, abbassando la lunga leva senza sforzo, mentre aveva la mente da qualche altra parte; Anax tagliò le curve, che Bardas avrebbe giurato fosse impossibile fare, dato che la forbice non era altro che una versione gigante di un paio di forbici, con una parte imbullonata al banco, e l'altra attrezzata con un manico di un metro. «Sei preoccupato» disse Anax tra i gemiti dovuti alla sforzo «che io riesca a tagliare questa roba come se fosse carta. Pensi che sia troppo sottile per essere buona. Be', posso solo dirti di avere fiducia.» «A dire il vero non ero preoccupato» disse Bardas, ma Anax non sembrò aver sentito, perché continuò: «Il punto è che l'acciaio è una cosa magnifica. Posso tagliarlo e piegarlo e dargli forma come se fosse pergamena o argilla; e poi quando ho finito, Bollo e il suo martello più grosso non saranno in grado di fargli un'ammaccatura. E sai qual è il segreto? La sollecitazione» continuò prima che Bardas potesse rispondere. «Un po' di sollecitazione, un po' di tensione, forse persino un po' di tortura, e improvvisamente si ottiene un'ottima armatura: la prova genuina. Ahi» aggiunse mentre si tagliava un dito su un frammento aguzzo di sfrido. «Mi sta bene: non pensavo a quello che facevo.» Una goccia di sangue cadde come una goccia d'acqua sulla superficie della sezione che stava tagliando, e rimase ferma e fiera, come la testa di un chiodo. «La sollecitazione» ripeté Anax mettendo una piastra di acciaio nel piegatore. Era un attrezzo dall'aspetto strano: due cornici quadrate, come telai di finestre, una fissa e l'altra che ruotava ad angolo retto. Anax intrappolò la piastra tra le due cornici e spinse in basso sul braccio ruotante, piegando la piastra lungo il centro come un foglio di carta. Successivamente la trasferì nel rullo, che ricordò a Bardas il grande mangano di ferro che usavano nella lavanderia dietro l'angolo del suo appartamento a Perimadeia. Anax regolò le viti di fissaggio per permettere che tra i rulli vi fosse un po' di gioco, e poi girò l'impugnatura con un gesto rapido e a scatti, e il foglio venne infilato, uscendo dall'altro lato con una curva pronunciata; il bordo all'angolo destro che il piegatore aveva inserito, era diventato una costola arcuata, che correva lungo la linea centrale del foglio. «La sollecitazione» disse di nuovo Anax. «Questo pezzetto qui» continuò passando un dito lungo la costola «è sollecitato verso l'esterno, come un arco; se ci batti sopra dall'esterno dovrai fare uno sforzo enorme per spostarlo. Così diventa la tua prima linea di difesa, vedi; segue la linea dell'osso della gamba su per il pezzo, e non importa quanto duramente si viene colpiti, quella forza non passerà e non ti romperà la gamba. Mi ringrazierai per questo, quando
qualcuno farà una finta verso l'alto e poi ti infilzerà in basso attraverso lo stinco.» Bardas sorrise educatamente. «Grazie» disse. «Questa è una protezione per la gamba, vero?» «Si chiama schiniere» lo corresse Anax «non mostrare la tua ignoranza. Ti copre dal ginocchio fino alla caviglia.» Teneva il pezzo tra le mani, unendone delicatamente i bordi, sollevandolo in modo da poter vedere lungo tutto il pezzo, mettendolo da parte dopo un po', e ripetendo il processo. «Lo sto solo regolando perché si adatti bene» continuò «non troppo stretto e non troppo lento. Non sembra, ma stai osservando il vero talento.» «Ne sono sicuro» disse Bardas. Quando alla fine fu soddisfatto (Bardas non riuscì a vedere la differenza da quando aveva cominciato) Anax andò all'incudine e prese il maglio di pelle. Poggiando il pezzo ad angolo contro il corno, diede dei colpetti al margine, sollevandolo e arricciandolo intorno al raggio a formare un bordo. La mano che teneva il maglio si alzò e cadde con ritmo rapido e impersonale; con l'altra mano lo inseriva, assicurandosi che i colpi fossero dati a spazi regolari. «Altra sollecitazione» spiegò quasi senza fiato. «Una volta che il bordo è arricciato, non puoi piegarlo tra le mani come ho appena fatto: è rigido e inflessibile, come stabiliscono i regolamenti dell'ufficio provinciale. Ecco» aggiunse mentre finiva di disegnare il bordo «questo è finito e passiamo a un altro, mentre ci ricordiamo ancora come fare. La spianatura può aspettare finché abbiamo finito.» «Adesso l'incavatura.» Anax stava lavorando sui pezzi a forma di coppa che coprivano le ginocchia e i gomiti. «L'incavatura rappresenta il momento in cui si inserisce davvero la sollecitazione.» Era in piedi di fronte all'incudine, e teneva la sezione troncata a forma di rombo sul buco scavato a un angolo tale che il centro della piastra si trovasse direttamente sopra la parte più profonda. «Ma devi ben capire la sollecitazione per fare questo» continuò «o rovinerai tutto.» Con il bordo della testa del maglio cominciò a dare dei colpetti alla piastra, schiacciandola tra il maglio e il legno. «Se la colpisci troppo forte al centro la renderai troppo sottile e le toglierai il metallo, come quando strizzi un vestito bagnato. Quella è una cattiva sollecitazione: è eccessiva, e fatta troppo presto. Devi farlo dolcemente, cominciando dal bordo dove vuoi che ci sia l'incavo, e si lavora dal bordo verso il centro... in questo modo sposti la parte sottile dai lati alla cima della cupola, dove ne hai più bisogno.» Si fermò, si asciugò la fronte con il dorso del polso e sorrise. «Io la con-
sidero un'azione sleale» disse. «Ma nessuno ha mai detto che questo lavoro fosse leale.» La sua mano destra si alzò e ricadde velocemente e con precisione, così il martello cade sotto il suo stesso peso e rimbalza dal metallo: uno sforzo minimo, visto che l'effetto veniva raggiunto con accuratezza e persistenza, per mezzo del gran numero di colpi indirizzati con precisione. «Così come esiste la sollecitazione» continuò «esiste la compressione: schiacci l'interno rendendolo più stretto dell'esterno, operando una maggiore sollecitazione; e la sollecitazione è forza, a tutti gli effetti. È quello che chiamiamo incrudimento, ed è una cosa meravigliosa, tranne quando si esagera. Ricordati questo, amico mio: la sollecitazione all'interno è la forza all'esterno, e l'incrudimento viene dal venire colpiti molto. Se capisci questo, hai capito quasi tutto.» La luce arancione del fuoco ruotava nella lucente piastra di acciaio levigato, come il vino restante in fondo a una coppa d'argento. «Penso di capire cosa intendi» rispose Bardas. «Ma battere troppo non rende l'acciaio debole?» «Ah.» Anax annuì. «Questa è una cosa diversa: è fatica. Avviene quando lo si sollecita talmente che non riesce a sopportarlo più. È una cattiva sollecitazione. Oppure diventa friabile: ciò avviene quando lo si rende talmente duro da fargli perdere la flessibilità. Quando un oggetto si indurisce troppo e lo si fa cadere a terra, si frantuma come vetro. Quest'azione rappresenta una sollecitazione, ma fatta malissimo. Comunque tu non devi preoccuparti di questo: nelle prove cerchiamo proprio difetti come questo, ed è proprio per questo che la prova viene fatta.» Quando ebbe terminato, il pezzo di acciaio da piatto era diventato perfettamente a cupola, e completamente privo di punti piatti e pieghe. «Dev'essere liscio» disse. «Se non lo sarà, ci saranno punti deboli. È per questo che dobbiamo battere ogni minimo punto allo stesso modo.» Sollevò la cubitiera, per vedere se alla luce risultava qualche difetto. «La battitura dà la forma. Anche la forma dà la forza. Guarda: è questa la forma che deve avere. Il Dio dei nostri antenati potrebbe saltarci sopra tutto il giorno con i suoi stivaloni e non lascerebbe nessun segno.» Bollo stava inserendo la sezione più grande nei rulli, con una forza tale che l'impugnatura si fletté. «È con il ricordo» continuò Anax «che si raggiunge la sollecitazione. Si deve dare al metallo il ricordo, una forma alla quale poter tornare quando qualcosa cerca di deformarlo; facendo in questo modo, quando si flette, cercherà di tornare a quella forma, che gli fornisce la forza di resistere. Il ricordo è la sollecitazione, e la sollecitazione è
la forza. È veramente semplice una volta capite le nozioni di base.» «I Figli del Cielo» chiese Bardas mentre Anax piegava con cautela una curva nella corazza, tenendola per i bordi e premendola al centro sul corno dell'incudine. Bollo aveva già piegato la linea centrale a formare una sporgenza, e l'aveva ruotata nella sua forma di base; Anax la stava regolando, con una serie di distorsioni attente e controllate. «Sarò sincero con te: non sono mai riuscito davvero a capirli. Non ti dispiace se chiedo a te di parlarmene, vero?» Anax alzò lo sguardo verso di lui e gli fece un bellissimo sorriso, mostrando tutti i denti. «Lo chiedi a me» disse. «Immagino che sia un complimento, secondo il tuo concetto. Hai pensato: i Figli del Cielo sono dei bastardi, ma lui non è come loro... è quasi normale.» Anax applicò una decisa pressione e il metallo gli obbedì. «Questo pensiero serve solo a dimostrare che tu non sai assolutamente nulla dei Figli del Cielo. Nessuno sa nulla di noi» disse premendo un po' di più «tranne noi stessi: e noi non ne parliamo.» «Capisco» rispose Bardas. «Mi dispiace, non intendevo essere offensivo.» «Non c'è nulla di offensivo nell'ignoranza» rispose in tono piacevole Anax. «Almeno non per una mente illuminata; e noi siamo illuminati, vedi... ed è questo che ci dà il vantaggio. Ma ecco cosa farò: ti darò qualche indizio. L'informazione interna è l'armatura per l'anima.» «Grazie» disse in tono severo Bardas. «I Figli del Cielo...» Anax martellava un bordo intorno alla corazza; alzò un po' la voce e Bardas riuscì a sentirlo chiaramente, nonostante il rumore stridulo e rude del maglio «... be', i Figli del Cielo sono questo.» Fermò il maglio a metà della sua discesa e lo tenne fermo per un momento. «E voi siete questo» aggiunse indicando con un cenno della testa la piastra. «O si è Figli del Cielo, e allora questa corazza sei tu. Ti è mai venuto in mente che tutto al mondo potrebbe avere un significato? Be', non sto dicendo che è così, perché sarebbe sciocco generalizzare. Ma se è vero, in tutto o in parte, allora i Figli del Cielo costituiscono il significato, o almeno sono tutto ciò di cui si tratta. Noi siamo l'asse» continuò, girando un po' il metallo «e tutto il resto è la ruota. Perciò il mondo intero e qui per il nostro beneficio... per facilitarci il nostro lavoro.» «Capisco» disse Bardas. «E quale sarebbe?» Anax sorrise. «La perfezione. Noi perfezioniamo. Rendiamo perfetto tutto ciò che tocchiamo. Be'» ammise spostando la presa leggermente sul-
l'impugnatura del maglio, «questa è la teoria. In pratica rompiamo anche molte cose e facciamo moltissimi danni. Capisci dove voglio arrivare, oppure vuoi che ti dia ancora qualche spiegazione?» «Penso di aver capito l'idea generale» disse Bardas. «Voi siete la prova.» Anax smise di fare ciò che stava facendo e fece un largo sorriso. «Che tu sia benedetto, hai davvero ascoltato per tutto questo tempo. Esatto, noi siamo la prova. Perfezioniamo testando fino al punto di distruzione. Ciò che passa la prova lo aggiungiamo alla nostra collezione, e ciò che fallisce lo scartiamo. Come per tutte le cose, questo concetto è semplicissimo, una volta che si comincia a pensare alla questione nel modo giusto.» Dopo che all'armatura venne data forma e venne levigata, Anax fece i fori per i chiodi, tagliò le cinghie e inserì le fibbie, unendo tutte le parti. «Ecco qui» disse alla fine. «Puoi indossarla adesso, se vuoi.» Naturalmente si adattava alla perfezione. Copriva Bardas come se fosse una seconda pelle: la forza all'esterno e la sollecitazione all'interno. «Che ne dite di provarla?» chiese Bardas con un sorriso. «Provarla?» Anax fece una smorfia. «A cosa pensi di servire tu?» CAPITOLO DECIMO La guerra tra gli uomini delle pianure e l'Impero iniziò un tardo pomeriggio, ai margini di un lago nella regione paludosa tra Ap' Escatoy e l'estuario del Fiume Verde. Venne iniziata, in maniera piuttosto appropriata, da un'anatra. La squadra di costruttori di trabocchi alla quale era assegnato il vecchio amico di Temrai, Leuscai, aveva terminato il legname; perciò Leuscai era stato messo al comando di una piccola spedizione di ricognizione ed era stato inviato a cercare alberi alti adatti per costituire le braccia principali dei trabocchi. Gli alberi migliori sarebbero stati i pini diritti che crescono rapidamente ma, occasionalmente, era possibile trovare un fico o un abete rosso insolitamente diritto nelle foreste verso sud. Quando Leuscai raggiunse la regione nella quale gli era stato detto di cercare, trovò le prove dell'esistenza di molti pini, fichi e abeti rossi: un numero considerevole di ceppi, segati con cura vicino al terreno da generazioni di carpentieri navali perimadeiani, che li avevano tagliati sul posto con l'accetta e poi li avevano portati in Città per farne alberi per le navi. Il tempo incombeva: in magazzino non c'erano pezzi di legno sufficientemente adatti da costituire le braccia dell'attuale produzione, per non parlare dei cinquanta trabocchi
aggiuntivi che Temrai aveva appena commissionato. Leuscai sapeva che sull'altro lato del Fiume Verde c'erano alberi adatti allo scopo... riusciva a vederli mentre sedeva su un ceppo di pino coperto d'edera e fissava la riva opposta. Tuttavia, tecnicamente, la riva meridionale del fiume era territorio imperiale o almeno lo era stato fino alla recente rivendicazione da parte di Ap' Escatoy di una lunga e stretta lingua di terra, anche se non era stato possibile far rispettare tale rivendicazione per almeno quarant'anni, dato il declino generale della città. Leuscai considerò il rischio: invadere l'Impero non faceva parte degli ordini che aveva ricevuto per la missione, e lui davvero non voleva farlo, ma aveva disperatamente bisogno di quel legname. Valutò così che la Possibilità di venire notato, e di essere eventualmente sfidato in combattimento, da parte di personale imperiale era davvero remota e non se ne Preoccupò, pensando all'accoglienza che avrebbe senza dubbio dovuto affrontare tornando a casa, o all'accampamento, senza il legname. Fece un respiro profondo e cominciò a pensare a come fare ad attraversare il fiume, che era largo, profondo e rapido. Dopo una giornata lunga e nervosa passata a pensare a una possibile soluzione, rifiutò tutte le ipotesi vagliate fino a quel momento e si diresse a valle nella speranza di trovare un guado naturale. La fortuna volle che non dovesse andare troppo in là: a poche miglia aveva trovato un passaggio poco profondo appena sopra delle spettacolari rapide. L'attraversamento in se stesso fu teso e per nulla piacevole, ma riuscirono a farlo senza perdite di vite né di equipaggiamento essenziale. Persero soltanto una mezza decina di muli di rifornimento che trasportavano cibo. Quel colpo di sfortuna cambiò i piani originali. Leuscai, che era stato cresciuto in base al principio che per morire di fame in una foresta o nei pressi di un fiume devi proprio volerlo, divise il gruppo in diverse squadre di caccia, e disse agli uomini dove e quando riunirsi, e andò in direzione della foresta. Rimase ben presto deluso. La foresta non era altro che una palude nella quale crescevano gli alberi, e gli animali che la abitavano lo videro o lo sentirono arrivare. Tornò a mani vuote e scoprì che nessun altro era riuscito a fare di meglio... ma una squadra disse di essersi imbattuta in un lago a sud, che sembrava promettente per prendere delle anatre. Leuscai non era per niente entusiasta. Ne aveva avuto abbastanza delle anatre qualche anno prima, quando era stato uno degli uomini che Temrai aveva inviato a cacciare quelle maledette creature per il cibo e per le pen-
ne, in un momento in cui erano a corto di rifornimenti, subito prima dell'attacco contro Perimadeia. Era stato vittima del suo stesso successo: avevano trovato un rifornimento inesauribile di anatre e avevano cominciato a prenderle un po' per volta, crudelmente, con reti, fionde, bastoni da lancio e frecce... in alcuni casi, quando avevano trovato delle anatre particolarmente stupide e fiduciose, le avevano addirittura uccise con le mani nude. Per settimane non aveva fatto altro che torcere colli e spennare, poiché avevano solo anatre da mangiare (che sapevano di pesce ed erano filacciose) e aveva l'odore detestabile di quelle creature nel naso. Ormai aborriva la loro uccisione, che avveniva afferrandone il collo proprio sotto la testa e torcendo il corpo in cerchio finché l'uccello moriva soffocato... ma c'erano sempre quelle che sembravano immortali, e che continuavano a resistere persino dopo che gli aveva rotto il collo e schiacciato la testa sotto il tacco; non c'è niente di più difficile da uccidere di un'anatra ferita, nemmeno un bufalo o un uomo completamente ricoperto da un'armatura. Ed eccolo di nuovo lì: doveva uccidere e mangiare ancora anatre, se voleva rimanere vivo. Forse, ipotizzò, era davvero l'Angelo della Morte per le anatre, e ucciderle costituiva il motivo per cui era stato messo al mondo (pensò al Colonnello Loredan e agli uomini delle pianure); se le cose stavano così, era inutile cercare di evitare l'inevitabile. Sì, disse, assolutamente: andiamo a strozzare delle anatre. Così andarono. Però si persero; il lago sembrava essersi spostato, perché non si trovava dove gli esploratori pensavano dovesse essere. Trascorsero la maggior parte della giornata a cercarlo, trascinandosi attraverso la palude umida e pericolosa, perdendo stivali e insudiciandosi, e aiutandosi a vicenda quando improvvisamente affondavano fino alle cosce. Quando infine si imbatterono nel lago, Leuscai fu quasi sicuro che non si trattasse di quello che cercavano: gli esploratori avevano menzionato una collina all'estremità meridionale che si ergeva sopra la linea degli alberi, e lì non c'era nessuna collina. Ma era un lago, ed era indubbiamente affollato di anatre. Erano migliaia e fluttuavano in enormi stormi neri e marroni, come i rottami galleggianti che vengono spazzati via in un lago dalla prima tempesta di pioggia estiva. Gli animali non mostrarono assolutamente nessun desiderio di andarsene quando Leuscai e i suoi uomini spuntarono attraverso gli alberi e arrivarono sulla spiaggia: schiamazzarono e si allontanarono un po', evidentemente inconsapevoli del fatto che la Morte le stesse osservando. Erano stupide e detestabili anatre. Leuscai riunì i suoi uomini per discutere sui modi e sui mezzi per proce-
dere. Non avevano reti, fionde, bastoni da lancio, cani o battelli, per cui vennero eliminati tutti i modi più tradizionali di uccisione degli animali acquatici. Avevano gli archi, ma non abbastanza frecce da potersi permettere di perderne parecchie nell'acqua o nel corpo delle anatre. «Dovremo lanciare delle pietre» suggerì qualcuno; e dato che non ci furono suggerimenti migliori, la proposta venne approvata. Leuscai, naturalmente, era un maestro nell'arte di prendere a sassate le anatre. Trovarono un buon rifornimento di pietre nel letto di uno dei ruscelli che finivano nel lago, e si misero d'accordo sulla strategia da seguire. Dal lago fuoriusciva un piccolo pezzo di terra asciutta, e uno stormo particolarmente numeroso di anatre andava su e giù nella baia a forma di ferro di cavallo. Sarebbero stati in grado di colpire le anatre da tre lati; avrebbero avuto circa venti secondi di attività intensa prima che l'intero stormo uscisse dall'acqua in un'esplosione di ali e spruzzi, lasciando gli animali morti e feriti dietro di sé. Se non fossero riusciti a colpirne abbastanza la prima volta, senza dubbio avrebbero avuto un'altra possibilità la mattina seguente, o anche la sera, se fosse stato necessario. Sarebbe stato simile al bombardamento di Perimadeia, con Leuscai e i suoi uomini a fare i trabocchi (circostanza ironica, visto il motivo per cui erano originariamente andati in quel posto). Dato che Leuscai non desiderava affatto ripetere l'attacco alle anatre, si diede molto da fare nella scelta della sua artiglieria; se un'anatra si spaventava, c'era una vaga ma noiosa possibilità che l'intero stormo si alzasse in volo prima che una sola pietra potesse essere lanciata. Così la squadra di caccia partì dall'interno e si avvicinò lentamente e con cautela alla riva, stando molto attenta a non fare rumori o movimenti improvvisi. Il Piano tatticamente era ottimo e avrebbe sicuramente avuto successo se un uomo della squadra non fosse scivolato finendo in una macchia paludosa; mentre cadeva si aggrappò al suo vicino e lo tirò giù insieme a lui. Purtroppo c'era un'anatra solitaria e avventurosa che curiosava nei cespugli al bordo del lago a qualche metro di distanza dal punto in cui gli uomini erano caduti, e le loro urla improvvise la fecero volare via, come una pietra da un motore a torsione. Subito l'intero stormo si alzò con essa, coprendo il sole come un'enorme salva di frecce lanciata sopra le mura di una città alla massima distanza. Leuscai urlò per la rabbia e la frustrazione e lanciò la pietra che teneva in mano: le anatre erano fuori dalla sua portata, naturalmente, e la pietra finì rumorosamente nell'acqua. Le anatre si girarono e volarono sugli alberi, e poi si girarono di nuovo dirigendosi verso il centro del lago,
unendosi ad altri stormi, finché l'intera superficie del lago sembrò alzarsi, come un uomo che scende dal letto. Gli uomini della pattuglia imperiale, che avevano preso il pomeriggio libero per andare a caccia dall'altra parte del lago, erano furiosi. Era tutta la settimana che aspettavano con ansia quello sport venatorio: avevano messo reti, fionde e sacchi di iuta sotto le armature, e avevano arrancato attraverso la palude per arrivare in quel luogo, e proprio mentre stavano per prendere posizione, qualcosa aveva spaventato gli uccelli e rovinato tutto. Il sergente pensò che era stata una volpe la causa di tutto: ma era troppo presto perché ve ne fossero in giro, e allora cos'altro aveva impaurito quasi cinquemila anatre? L'unica altra causa era senz'altro l'uomo, ma non poteva essere così, dato che quella era una zona alla quale era vietato l'accesso. Gli passò per la mente un pensiero... e ordinò subito agli uomini di stare zitti e restare immobili. Come pensava, le sue paure erano giustificate. Sulla riva lontana vide degli uomini muoversi. Non riuscì a scorgere molti dettagli, ma non ne aveva bisogno: erano troppi perché la loro presenza lì fosse legittima. Per un po' non riuscì a decidere quale fosse la cosa migliore da fare. Erano superiori di numero (quasi due a uno, se la sua stima era abbastanza precisa), ma lui aveva l'elemento della sorpresa, e naturalmente i suoi uomini erano fanti pesanti imperiali, circostanza che poneva l'intera questione sotto un diverso aspetto. L'opinione prevalente era che una forza di soldati imperiali che si trovava a fronteggiare avversari in numero anche doppio, poteva ragionevolmente essere considerata in superiorità numerica... Questa nozione era magnifica, e faceva meraviglie per il morale se si poteva davvero farla credere agli uomini; come loro sergente, era suo compito predicare una dottrina e crederne un'altra. L'unica alternativa era tornare all'accampamento, che si trovava a un giorno e mezzo di cammino attraverso le paludi, e lasciar decidere sulla questione il capitano Suria: questa circostanza avrebbe rappresentato tre, forse quattro giorni di ritardo, e in quel caso non sarebbe stato sicuro di poter trovare il nemico di nuovo. Alla fine il fattore decisivo fu la necessità di dover spiegare al Capitano Suria perché lui si trovasse al lago, che era piuttosto lontano dalla zona di pattuglia a loro assegnata: sarebbe stato molto più facile affrontare il colloquio se avesse scongiurato un'invasione nemica nel territorio imperiale e fosse diventato un eroe. Certo, non era una buona cosa (l'Impero approvava l'eroismo ma generalmente disprezzava gli eroi)... ma fino a quel momento, nei suoi mille anni circa di storia, l'Impero non aveva mai sottoposto a cor-
te marziale un eroe per aver messo delle reti per qualche anatra. Una volta presa la decisione diede l'ordine di avanzare. A ogni passo nel pantano che li avvicinava al nemico, il sergente metteva in dubbio la sua decisione; perché i nemici erano anche più di quanto aveva pensato, ed erano decisamente uomini delle pianure, ed erano armati con archi (cos'altro potevano avere come arma gli uomini delle pianure?)... certamente si era imbattuto in una grossa squadra d'incursione, probabilmente l'avanguardia dell'intero esercito di invasione, e lui stava pensando di dare loro battaglia solamente con un plotone di fanti pesanti. L'unico modo per evitare di venire infilzati come... be', anatre, era di avvicinarsi in gran silenzio e assalirli prima che avessero la possibilità di togliere gli archi dalle custodie. Fortunatamente (il sergente non riuscì a capire perché) il nemico sembrava determinato a rendergli il lavoro il più facile possibile. Non c'erano picchetti né sentinelle, e sembravano litigare violentemente fra loro, mostrando le spalle che fornivano un bersaglio facilissimo per un attacco. Per la prima volta da quando si era imbarcato in quella stupida impresa, il sergente cominciò a sentirsi leggermente speranzoso. Un'affermazione della dottrina ufficiale riguardo gli uomini delle pianure e che non era soltanto ottima per il morale, era che erano guerrieri piuttosto che soldati, e fondamentalmente indisciplinati e disordinati. Fu abbastanza sicuro di rimanere fuori vista finché avesse tenuto i suoi uomini appena all'interno della linea degli alberi. Aveva scelto di seguire la riva occidentale del lago, e la scelta si rivelò buona: gli alberi crescevano sufficientemente vicini sulla riva occidentale tanto da essere possibile saltare di radice in radice, evitando le fosse acquitrinose create dalle foglie. Quando raggiunsero il lato meridionale, dove gli alberi erano più vecchi e più radi, si trovarono a non più di un paio di centinaia di metri dal nemico. Tuttavia sarebbe anche potuto essere un miglio, perché il terreno diventò terribilmente umido e appiccicoso e nessuno, nemmeno il Capitano Suria e i Figli del Cielo, avrebbero potuto camminare con disinvoltura immersi fino al ginocchio nel fango nero e spesso. Ordinò l'alt e cercò di sollecitare il suo cervello a cercare una strategia migliore; una necessità sleale e fastidiosa, dato che lui era soltanto un sergente e non era addestrato, né ci si aspettava che lo fosse, come uno stratega. Quando diede l'ordine di indietreggiare, si rese conto che gli uomini non ne furono contenti, ma era un ordine, e questo bastava. Indietreggiarono di circa cinquanta metri, poi lui li guidò ad angolo retto nel profondo della
foresta, seguendo la stessa direzione per circa centocinquanta metri. Il suo ragionamento era semplice: se era necessario fare del frastuono, sarebbe stato meglio farlo il più lontano possibile dal nemico e più a lungo possibile. Avrebbe girato alle loro spalle e poi avrebbe sferrato l'attacco nel modo migliore, o almeno avrebbe camminato velocemente, nella scia della retroguardia del nemico. Non sapeva se l'idea avrebbe funzionato o no, ma era fradicio, sporco di fango ed estremamente stanco e spaventato, e non riusciva a pensare a nient'altro. Con il senno di poi si può dire che probabilmente sarebbe stata un'ottima strategia viste le circostanze, se solo non si fossero persi nella foresta. Ma era notoriamente assai difficile, in una foresta, orientarsi riguardo alla distanza e alla direzione, a meno che non si fosse un guardaboschi d'esperienza; infatti quando il sergente lanciò la carica, scoprì da solo che era andato troppo lontano, e la sua unità senza fiato e disordinata si fece largo attraverso il sottobosco sul bordo del lago e scoprì che invece di essere dietro il nemico, si trovava al suo fianco, a circa quaranta metri a est. Fu uno sbaglio: ma non decisivo. Quando Leuscai si rese conto che accanto a lui c'era una pattuglia imperiale, il suo primo istinto fu di nascondere le armi invece di tirarle fuori. Pensò di far credere di essere stato sorpreso senza permesso nel territorio a cacciare di frodo; la sua mente cercava una bugia plausibile per spiegare perché lui e i suoi uomini si trovassero lì (ci siamo persi nella foresta; mi scusi, è questa la direzione giusta per il Fiume Verde?) e non pensò che stava per combattere finché due dei suoi uomini, che avevano cercato di nascondere gli archi dietro la schiena, vennero trafitti con le lance da due imperiali. Senza che nessuno dei due comandanti lo volesse, riuscirono a creare le condizioni ottimali per uno spargimento di sangue. Ci fu giusto il tempo per la maggior parte degli uomini di Leuscai di tirare fuori gli archi, incoccare e scoccare, e per gli imperiali di circondare gli uomini delle pianure che si trovavano più vicini. Fu una battaglia breve ed estremamente insolita: i contendenti non potevano evitare di uccidere il nemico o di venire uccisi loro stessi. Gli arcieri di Leuscai scoccavano a bruciapelo, perforando con facilità le piastre delle armature con la punta delle frecce, arrivando ai muscoli e alle ossa degli avversari. La pattuglia colpiva uomini che erano in realtà disarmati, privi di armatura, scudi o spade per parare i colpi. Da un punto di vista teorico, è interessante notare che la percentuale di vittime più o meno confermò la dottrina dell'ufficio provinciale (un soldato della fanteria imperiale valeva tre uomini delle pianure) al punto che se il
combattimento fosse andato avanti fino all'annientamento, sarebbero rimasti in piedi quattro imperiali e nessun uomo della pianura. Sfortunatamente per la scienza militare l'esperimento terminò prima, perché i sopravvissuti di entrambe le parti rinunciarono a combattere come se avessero stabilito un accordo reciproco, e si ritirarono; così i dati, anche se persuasivi, non possono costituire una prova. Leuscai morì nella terza breve fase del combattimento, quando gli imperiali si avvicinarono una seconda volta dopo aver ricevuto la prima salva sterminatrice degli uomini delle pianure. Stava cercando di prendere un'altra freccia e di incoccarla, ma gli cadde nel fango, e mentre allungava una mano dietro le spalle per prenderne un'altra, un uomo, che non aveva nemmeno visto, gli infilò una lancia nelle costole. La lama era troppo larga per penetrare a fondo ma rimase bloccata saldamente, tanto che essendo impossibile estrarla, il suo possessore saggiamente l'abbandonò e cercò di finire il lavoro con la spada. Ma fece le cose troppo in fretta: invece di un colpo deciso e da manuale per spaccargli la testa, riuscì solo a dare un goffo fendente che tolse a Leuscai metà testa dal lato sinistro e lo fece ruzzolare nel fangoso pacciame. Mentre il fango gli copriva la carne scoperta, si rese conto per la prima volta della presenza di quell'uomo, che gli premeva un pesante stivale sul petto mentre tirava l'asta della lancia, cercando vanamente di liberarla. Dopo tre tentativi rinunciò e se ne andò, lasciando Leuscai a morire dissanguato. La cosa non fu assolutamente traumatica come avrebbe immaginato. Ironicamente l'ultimo rumore che udì fu lo starnazzare lontano delle anatre, che cautamente si ritiravano al centro del lago. «Meraviglioso» disse Eseutz Mesatges. «Adesso possiamo avere la guerra, farla finita, prendere i nostri soldi e recuperare le navi.» Aveva incontrato Athli Zeuxis per strada fuori da una sartoria, una delle migliori e più costose dell'Isola - una delle poche cose rimaste per spendere soldi era comperare i vestiti, e per un inspiegabile motivo c'era appena stato un terremoto nella moda femminile: l'aspetto da principessa guerriera era ormai fuori moda, morto e sepolto come le liti della nottata precedente, e il suo posto era stato trionfalmente usurpato dallo stile da carovana nomade, con sete leggere e cinte senza ornamenti. Questo abbigliamento era perfetto per Eseutz... la principessa guerriera aveva enfatizzato troppo le scollature, e la pelle la faceva sudare. «Non avremo i dettagli per un paio di giorni» disse Athli. «Dovremo a-
spettare finché riceverò il dispaccio ufficiale dall'ufficio centrale di Shastel. Ma i loro rapporti sono sempre stati affidabili.» Eseutz rifletté per un attimo. «È un preavviso breve, creerà confusione» disse. «Sarà forse anche peggio di quando tutto ha avuto inizio: troppi soldi a caccia di troppe poche opportunità, e tutti saranno disperati perché vorranno comprare prima che i prezzi schizzino verso l'alto, ma non ci sarà niente da acquistare.» «Eccetto i contratti a termine» rispose Athli. «Ed è un'area dalla quale ho sempre cercato di tenermi fuori, poiché non sono un'abile indovina. Se fossi in te, mi terrei il denaro finché le cose non torneranno normali: ben presto tutti coloro che avranno comprato troppo, spinti dall'eccitazione, vorranno vendere, e quello sarà il momento di comprare. Purtroppo» continuò «non posso seguire il mio consiglio: tutti rivorranno i loro soldi in modo da poter cominciare a spendere, e questo significa che a meno che di non ricevere una copertura dall'ufficio centrale, mi troverò in una posizione scomoda per un paio di settimane.» Eseutz sollevò verso la luce una pantofola ornata di lustrini. «Dà loro della carta. Borbotteranno ma la prenderanno. Dopo tutto, tutti sanno che i buoni di Shastel sono validi: ricorda» aggiunse sorridendo «che è questo che erano soliti dire riguardo Niessa Loredan.» «Davvero» disse Athli guardando un vassoio colmo di braccialetti da caviglia d'argento. «E se comincio a inondare l'Isola di carta, non passerà molto tempo prima che si dica in giro "è questo che erano soliti dire riguardo Athli Zeuxis". No, grazie. Dovrò stornare i crediti con Hiro e Venart. Ridurrà i miei margini, ma almeno sarò ancora qui il prossimo anno di questi tempi.» Una delle assistenti del sarto apparve dal retrobottega e cominciò a girare intorno a Eseutz con un metro a nastro. Eseutz non sembrò aver notato la sua presenza. «Non avrei nulla da obiettare al riguardo, se avanza qualcosa» disse con aria innocente. «Mi terrai in considerazione?» Athli sorrise. «No.» «Ah, be', non fa mai male provare» rispose Eseutz. «A dire il vero a parte gli scherzi, proprio in questo preciso momento mi trovo bene economicamente.» Si accigliò. «È questo che mi preoccupa: non sono solita essere in credito: esserlo è il modo che la natura ha per dirti che stai perdendo un'opportunità da qualche parte.» «Forse» disse Athli. «Ma le tue opportunità hanno la sfortunata abitudine di fallire.»
«Questa è un'esagerazione. È avvenuto un'unica volta...» «O di venire confiscate dalle tasse» continuò Athli «o rubate dai pirati, o infestate da curmilioni, o ritornate in possesso del proprietario...» «È vero, mi piace fare investimenti che offrono un certo elemento di rischio. Non mi vanno tutti male, però, sai.» «Tutti quelli che ho sostenuto finanziariamente io sono andati male.» «Oh, andiamo. E quei diciassette barili di curcumina?» Athli aggrottò la fronte. «Oh, sì» disse «me n'ero dimenticata. Lo ammetto, alla fine è andata bene, dopo che ho rilevato la quota dell'altro socio di cui avevi taciuto, e dopo che ho pagato tutte le tasse di importazione che ti eri dimenticata di menzionare. Il profitto che ho ricavato da quell'affare mi ha fornito l'olio per le lampade per una settimana.» Fece una piccola smorfia, mentre la ragazza con il metro a nastro cominciava a prendere le misure su di lei. «Senza offesa, ma correrò il rischio con Hiro e Venart, grazie lo stesso. Ehi, cosa ne pensi?» aggiunse sollevando un pendente d'argento con un'ametista. «Legherebbe bene con la seta color malva, non trovi?» Eseutz scosse la testa. «È esagerato» disse. «Ci vuole qualcosa di più piccolo e intenso con quella seta, come i diamanti. Allora, quanto pensi che durerà la guerra? Se c'è qualcuno che conosce bene questi uomini delle pianure sei proprio tu.» «Dipende.» Athli raccolse in mano con attenzione il pendente e lo mise a posto. «Con un assalto generale dovrebbe finire tutto in fretta. Se si lasciano invischiare, la guerra potrebbe trascinarsi per mesi.» «Questo Loredan» continuò Eseutz. «Che tipo è? L'hai frequentato per anni, vero?» Athli annuì. «Ho lavorato per lui come impiegata. Dèi, sembra un'altra vita. Da qualche parte a casa ho una spada che apparteneva a lui. Mi chiedo se dovrei mandargliela.» Eseutz la esaminò attentamente per un momento, come se fosse un investimento con un qualche elemento di rischio. «Hai cominciato a pensare in maniera fumosa» disse. «Be' non sono affari miei...» «A dire il vero sbagli. Ma sì, non sono affari tuoi. Credevo che mi stessi chiedendo la mia opinione su di lui come capo militare.» «Mmm. È bravo?» Athli annuì. «Si è comportato straordinariamente bene, considerando cos'ha dovuto sopportare dalle autorità della Città. Ma non penso che sarebbe stato in grado di salvarla, anche se avesse avuto mano libera. Non ha la
risolutezza necessaria per essere un generale di prima classe.» «Ma sul fatto che vorrebbe farla finita con il re degli uomini delle pianure» disse Eseutz. «C'è qualcosa di vero in questo?» Athli scrollò le spalle. «Qualcosa sicuramente sì. Ma non parlava mai molto di queste cose, così non lo so con certezza. Inoltre, da quello che ho capito, sarà soltanto una figura rappresentativa: saranno i comandanti dell'ufficio provinciale a condurre la guerra, e non so assolutamente nulla di concreto su di loro. Se fanno parte del personale dell'ufficio provinciale puoi essere sicura della loro competenza. Il lavoro sarà fatto, in un modo o nell'altro.» Tornando a casa, Athli non poté fare a meno di pensare alla guerra, e alla sua piccola parte in essa. Si chiese se c'era mai stato un tempo in cui non aveva fatto soldi sulla morte di altre persone... È questo che aveva fatto come impiegata di Bardas, ed era questo che stava per fare adesso. Tuttavia non si era mai vista in questi termini, come un avvoltoio che gira in cerchio sui cadaveri e i campi di battaglia. Si era solo proposta di guadagnare una somma notevole, per i suoi meriti, conducendo una vita indipendente. E ci era riuscita, diventando sempre più forte; solo che molte persone erano morte necessariamente perché lei raggiungesse il suo intento. Era il fattore Loredan... nonostante tutti i suoi sforzi, tutto ciò che lei era stata era avvenuto tramite o attraverso lui: come sua impiegata a Perimadeia, adesso con questa guerra... e aveva cominciato sull'Isola attraverso Venart e Vetriz Auzeil, che aveva conosciuto a causa di Bardas. Cosa c'era, si chiese, in quei dannati Loredan che davano inizio a tutto, ponevano termine a tutto, passavano attraverso tutto come un vestito imbevuto di sangue? Pensò ad Alexius e al Principio... le mancava Alexius. Come a confermare le sue riflessioni, trovò a casa Vetriz Auzeil che voleva sapere se aveva avuto notizie sulla guerra. «Intendi dire notizie su Bardas» rispose, perché era annoiata. «No, mi dispiace. Se c'è qualcosa nei dispacci da Shastel ti farò sapere.» «Oh.» Vetriz sorrise. «È così evidente?» «Abbastanza» rispose Athli chiedendosi cosa Eseutz intendesse con "maniera fumosa". Era uno strano termine da usare. «Se sei così preoccupata, perché non gli scrivi una lettera? Sono sicura che il corriere di Shastel la consegnerebbe: c'è un legame diplomatico stabile adesso tra Shastel e l'ufficio provinciale, e una volta che la lettera sarà giunta lì, la recapiterà la posta imperiale, che è eccellente.» «Grazie» disse Vetriz «ma non ho nulla da dire. Ero solo curiosa, davve-
ro; sai com'è, quando qualcuno che conosci è coinvolto in qualcosa di importante. Ti interessi.» Athli pensò che il fatto di aspettare nel portico della sua casa nell'eventualità di avere delle notizie mostrava ben più di un semplice interesse; ma sottolinearlo non avrebbe aiutato la questione. «Vuoi entrare?» chiese. «Perché no?» Athli aprì la porta. «A dire il vero» continuò «ho sentito qualcosa che potrebbe interessarti, dato che hai trascorso molto tempo ospite dei Loredan. Gorgas sta di nuovo combinando guai.» «Davvero?» disse Vetriz. «Perché non ne sono sorpresa?» «Mi verserò da bere... posso offrirti qualcosa? A quanto sembra Gorgas ha scritto al prefetto offrendo un'alleanza contro Temrai. Il prefetto l'ha rifiutata immediatamente.» «Be', l'avrei fatto anch'io» disse Vetriz. «Chi vorrebbe essere alleato con tipi come Gorgas Loredan?» Athli sorrise. «Ah» commentò «ma c'è di meglio. Un paio di giorni dopo aver ricevuto la lettera di benservito da Ap' Escatoy, Gorgas è riuscito a catturare un uomo chiamato Partek...» «Questo nome mi è familiare.» «Dovrebbe» disse Athli. «È stato per anni sull'elenco dei ricercati dell'Impero. È una specie di capo dei ribelli, a quanto sembra.» Porse a Vetriz una tazza di sidro aromatizzato in stile perimadeiano con miele e chiodi di garofano. Vetriz riuscì a non fare una smorfia quando lo sorseggiò. «Non pensavo che l'Impero avesse ribelli.» «Be', li ha» disse Athli lasciandosi cadere su un divano e togliendosi le scarpe. «Anche se odiano ammetterlo; i mandati parlano sempre di pirata o di rapinatore. Ma si sa che farebbero qualsiasi cosa per avere Partek.» Chiuse gli occhi. «Devo ammettere che provo del risentimento quando persone come Gorgas hanno colpi di fortuna come questo. Voglio dire... non sarà utile a nessuno per questo, probabilmente nemmeno a se stesso, se ci si basa sui suoi precedenti.» Vetriz era diventata insolitamente silenziosa; fissava la parete sopra la testa di Athli come se vi fosse qualche scritta sopra. Athli decise di cambiare argomento... Ma Vetriz non stava ascoltando. Oh, dannazione pensò credevo di aver finito con questo genere di cose. A quanto sembrava no: si trovava in piedi in un'officina o in una fabbrica, e la prima cosa che notò (che non poté fare a meno di notare) fu il rumore. Gli uomini stavano colpendo pezzetti di
metallo con dei martelli. La luce entrava da finestre alte, e finiva su quadrati d'argento sul pavimento, facendo sembrare il resto dell'edificio scuro e tetro al confronto. Al centro del pavimento poté vedere una pila di parti del corpo: braccia, gambe, teste, tronchi ammucchiati alla rinfusa... si trovavano nella parte buia, e lei non riusciva a distinguerli chiaramente, ma vedeva soltanto un lampo di metallo e le forme evocative di giunture e arti. Gli uomini ai banchi di lavoro picchiavano su altri arti, martellando una gamba o un tronco o una mano, che poi aggiungevano al mucchio. Perché facevano questo, si chiese? Non sembrava esserci uno scopo a picchiare contro un arto che era già reciso; o forse quella era una fabbrica in cui venivano costruiti uomini meccanici, come quelli delle fiabe che ricordava da bambina. Poi l'angolo della luce si spostò un po' e vide che stavano costruendo delle armature... (Era la stessa cosa: perfetti uomini d'acciaio, che non possono essere rotti o danneggiati dall'esterno. Se queste persone fossero un po' più intelligenti, forse potrebbero trovare il modo di fare a meno del pezzetto soffice e fallibile che va all'interno) ... E c'era qualcuno che conosceva: stavano costruendo lui, pezzo per pezzo dai piedi in su, e quando gli infilarono la testa, aveva il suo volto (ma non c'è niente all'interno. Un tempo c'era qualcosa all'interno, è consuetudine che ci sia. Forse in questo caso hanno fatto un'eccezione)... «Triz?» «Scusami» disse Vetriz. «Ero a miglia di distanza. Cosa stavi dicendo?» La battaglia non stava andando bene. Temrai si piegò allontanandosi, spostando il peso sul tallone del piede Posteriore, e tenendo la guardia alzata, i polsi in basso, osservava il nemico lungo la parte piatta rivolta verso l'alto della sua spada. Era completamente fuori dal suo elemento, naturalmente, e cercava di ricordare la posizione numero uno delle lezioni di scherma che aveva preso quindici anni prima. Aveva appena trovato la posizione numero uno quando l'accampamento subì un'incursione e non ci fu più tempo per le lezioni: il combattimento con le spade dal punto di vista scientifico era terminato. Non guardare la spada, guarda me gli avevano detto... incoraggiandolo pazientemente e a voce alta, finché era riuscito a fare ciò che gli era stato detto, così aveva abbassato la guardia alleviando il dolore ai polsi. Adesso riusciva a capire cosa avevano cercato di insegnargli: ma era troppo tardi per chiedere cosa avrebbe dovuto fare in seguito. Negli occhi dell'uomo vide solo una concentrazione intensa e determina-
ta, cosa che lo disturbò più dell'odio. Era come se potesse vedere le linee, le angolazioni, le proiezioni geometriche che stava calcolando dietro quel volto d'acciaio privo di espressione; era come cercare di fissare la pura matematica. Proprio mentre stava prendendo seriamente in considerazione l'idea di gettare la spada e scappare, l'uomo fece la sua mossa: una manovra meravigliosamente coordinata che prevedeva un passo in avanti con il piede anteriore, una potente rotazione della vita, un taglio minimo laterale con il polso piegato che dava velocità alla lama velocemente e delicatamente attraverso l'arco dell'oscillazione. In risposta Temrai balzò all'indietro con entrambi i piedi e spinse la sua spada ad angolo retto verso il volto dell'uomo, come se lo incitasse a togliergliela di mano. Sentì la scossa delle lame che si incrociavano dai polsi ai gomiti; fu un dolore sordo e che faceva stridere le ossa, come quando ci si dà una martellata su un pollice. Era andato tutto male molto rapidamente. Prima una salva di frecce era discesa su di loro dal cielo... era come quando tagliava felci per i puledri e inavvertitamente affondava l'attrezzo in un favo di vespe: la stessa sconcertante e inaspettata repentinità. L'unità si stava ancora muovendo, cercando di alzarsi da terra quando la fanteria pesante era spuntata da un boschetto che gli esploratori avevano dichiarato sgombro solo qualche minuto prima; entrarono in contatto mentre le ultime frecce ancora cadevano (come piccioni o corvi su un appezzamento di fagioli appiattiti dalla pioggia, turbinando e svolazzando). Tirarono giù gli uomini da cavallo e li calpestarono mentre si facevano strada a forza, allontanando uomini e cavalli dal loro cammino con gli scudi, colpendo le braccia, le gambe e le ginocchia scoperte come se stessero potando una siepe. Temrai aveva appena capito chi erano e da dove erano venuti quando gli uomini con le picche cozzarono contro la colonna dalla parte posteriore; poi era stato disarcionato dall'uomo che gli era accanto, ed era caduto come un sacco di farina legato male, e per un po' non aveva visto nulla della battaglia tranne gli zoccoli dei cavalli spaventati, che calpestavano il terreno tutto intorno alla sua testa. A quanto sembrava, era riuscito a parare il primo colpo... ma persino lui si rendeva conto che l'aveva fatto nel modo sbagliato, mettendosi così ancora di più nei guai. Con un movimento piccolo e preciso, l'altro uomo liberò la spada, corresse leggermente un angolo e affondò, troppo rapidamente perché Temrai potesse fare qualcosa per impedirlo. La punta della spada lo colpì in cima all'arco delle costole, ma sorprendentemente il con-
torno angolato della corazza la fece deviare e la fece scivolare attraverso il suo petto e sotto l'ascella. Senza sapere davvero cosa faceva, Temrai colpì con la spada la fronte dell'uomo, facendo un terribile rumore. L'altro fece un passo indietro, mise un piede sulla testa di un cadavere che si trovava dietro di lui, girò la caviglia e finì a terra sulla schiena, con le gambe sollevate in aria in modo talmente veloce che Temrai si sarebbe rotto i denti se non fosse riuscito a schivare le uosa. Sfortunatamente, nell'eccitazione fece cadere la spada. Quando si chinò goffamente per raccoglierla dal fango, l'uomo si stava mettendo seduto, e indietreggiava alla ricerca della sua spada. Temrai riuscì a colpire il lato dell'elmetto, e la forza del colpo rimbalzò sulla piastra inclinata; la presa era così scivolosa per il fango che non poté tenere la spada in mano, che gli scivolò tra le dita come la prima trota che era riuscito a catturare nel letto di un ruscello. Il nemico era in ginocchio, e cercava di colpirlo con la spada: tentativo che venne facilmente evitato facendo un passo indietro, ma fu un errore, poiché la sua spada si trovava adesso a circa cinque metri di distanza, dietro il suo nemico. Al diavolo tutto questo rifletté Temrai... e saltò sulla lama della spada, che stava per colpirlo, atterrando sulle ginocchia intorno al collo dell'altro, afferrandogli la testa mentre cadeva. La sua spalla colpì il terreno per prima; poi sentì un dolore lacerante al ginocchio che si era contorto facendo quasi un mezzo giro. Senza riflettere infilò le dita sotto il bordo dell'elmetto del nemico e lo trascinò verso l'alto più forte che poté. Riuscì a sentire l'uomo contorcersi e dimenarsi, cercando con le mani di afferrare le sue gambe... così tirò ancora più forte, urlando per il dolore che dal ginocchio gli saliva attraverso tutto il corpo. Il dolore era talmente forte che solo dopo parecchi secondi si rese conto che l'altro uomo aveva smesso di muoversi, strangolato dal suo stesso sottogola. Temrai capì di non poter lasciare la presa: se l'avesse fatto, tutto il suo peso sarebbe caduto sul ginocchio malmesso, e non poteva sopportare quel pensiero. «Aiuto!» urlò, ma naturalmente nessuno riuscì a sentirlo: metà degli uomini nel raggio di cinque metri erano nemici, ed erano tutti morti. Non erano quindi di nessuna utilità a un uomo che si trovava davvero nei guai. L'armatura è proprio una cosa meravigliosa pensò, per quel poco che il dolore ancora gli permetteva di riflettere. La mia mi ha salvato, la sua l'ha ucciso. È un peccato che non possiamo addestrarle a combattere da sole: allora potremmo tutti restare a casa. Poi il dolore fu superiore a tutto:
chiuse gli occhi e cercò di isolare la fitta che provava alle dita, che stavano cominciando a mollare la presa. Riuscì a sentire il bordo aguzzo dell'elmetto tagliargli la pelle all'interno delle giunture superiori delle dita. Se fosse riuscito a mantenere la presa abbastanza a lungo, diciamo per una settimana, alla fine avrebbe lasciato solo le ossa? «Temrai? Sei tu?» Aprì gli occhi. Non riusciva a vedere chi gli stava parlando, e non riusciva a capire a chi appartenesse quella voce. «Sì, certo che sono io. Aiutami, sono bloccato.» «Cosa... oh, sì, capisco. Rimani fermo... probabilmente ti farà male.» «Attento a quello che...» disse, e poi urlò e lasciò la presa aprendo le dita. Immediatamente dopo si rese conto della sensazione che gli dava il terreno sotto la schiena e la testa, e della intensità leggermente diversa del dolore al ginocchio. «Grazie» disse, e aprì gli occhi. «Va tutto bene.» Era Dassascai, la spia. «Allora, come diavolo esco da questa situazione?» Temrai inalò più aria che poté. «Cosa sta succedendo?» disse. «Abbiamo contrattaccato» rispose Dassascai. «Non è stata la mossa più intelligente, ma li abbiamo battuti perché eravamo decisamente di più. Per il momento non occorre che tu sappia altro.» «Non occorre? Oh, va bene. Puoi portarmi al sicuro da qualche parte, e poi trovare Kurrai o qualcuno...» «Non Kurrai. Non potrebbe essere di grande utilità.» «Oh» ripeté Temrai. «Dannazione, non riesco a ricordare chi è il successivo per anzianità. Trova qualcuno, in ogni caso. Devo sapere cosa sta succedendo.» «Prima le cose importanti» disse la spia. «Cercherò di trascinarti oltre quell'albero... oh, certo, non puoi vederlo da lì. Probabilmente sentirai molto dolore.» «D'accordo» disse Temrai. Lo sentì. Poco dopo Dassascai si chinò accanto a lui e chiese: «Vuoi ancora che vada a cercare qualcuno, o preferisci che resti qui? L'ultima volta che ho visto l'andamento della battaglia ho capito che li avevamo respinti, ma non so se li abbiamo sconfitti; potrebbero tornare da un momento all'altro. Non vorrei davvero che tu rimanessi qui con quel pericolo.» Temrai scosse la testa. «Farai meglio ad andare. Manda qualcuno a prendermi quando ne avrai la possibilità. E grazie.»
Dassascai fece un cenno di assenso con il capo. «Prego» disse. «Scusa se te lo chiedo, ma sei davvero una spia?» Dassascai lo guardò, sorrise e scosse la testa. «No. D'accordo, rimani lì. Tornerò il prima possibile.» Temrai chiuse gli occhi; più di ogni altra cosa, si rese conto, era completamente esausto. Sarebbe stato molto facile in quel momento mettersi a dormire. Ma non era il caso di farlo... non nel mezzo di una battaglia. Pensò a ciò che Dassascai gli aveva appena detto: non era stata una mossa molto intelligente, batterli perché erano di più. Scommetto che sei davvero una spia pensò e svenne. Quando riprese i sensi, sentì delle voci vicino a lui. «... Non aveva lo scopo di essere una battaglia decisiva, ma soltanto un'esplorazione, tutto qui, per vedere cosa stiamo facendo e per rallentarci un po'. Gli dèi ci aiutino quando verranno davvero contro di noi.» «Zitto. È sveglio.» Aprì gli occhi, e all'inizio vide tutto nero come se si trovasse sottoterra. Poi una lampada dardeggiò quando qualcuno la sollevò sopra la sua testa e la poggiò accanto a lui. «Temrai?» Lui riconobbe la voce e il volto, ma gli sfuggì il nome, cosa piuttosto strana, dato che conosceva bene quell'uomo. «Temrai, va tutto bene. Sei di nuovo all'accampamento.» Temrai cercò di muovere le labbra, ma aveva il palato asciutto e insensibile. «Abbiamo vinto?» «Più o meno» rispose l'uomo. «Li abbiamo respinti, in ogni caso. Adesso stiamo ripiegando su Perimadeia.» «In realtà» disse l'altra voce, che era ugualmente familiare «ci hanno tagliati fuori dalle pianure: è come se stessero cercando di imbottigliarci nel delta perimadeiano con le spalle al mare. Gli ultimi rapporti dicono che possiedono tre eserciti distinti in campo. Se cerchiamo di passare, ci arriveranno addosso da entrambi i lati.» «Capisco.» Pensò a Tilden, sua moglie, che si trovava nell'accampamento principale. «Kurrai è morto?» chiese. Il secondo uomo aggrottò la fronte. «Sei ridotto male, eh?» disse. «Ti sembro morto?» «Oh.» Temrai chiuse gli occhi e li riaprì. «Scusa, sì. Sono un po' confuso. Qualcuno mi ha detto che eri morto.» «Sembra che parecchie persone lo abbiano pensato» rispose Kurrai. «Spero solo che non siano rimaste troppo deluse.»
«Vittime» disse Temrai, ricordando un tempo in cui non avrebbe usato quella parola: avrebbe chiesto Quanti dei miei sono stati uccisi? Quanti dei miei sono stati feriti gravemente? «Parecchi» disse l'altro uomo, quello che non era Kurrai. Gli costò molto sforzo, ma Temrai riuscì ad aggrottare la fronte. «Definire quante vittime» disse. «Quanti ne abbiamo perduti?» I due uomini si guardarono a vicenda. «Più di duecento» rispose Kurrai. «Penso che siano più o meno duecentotrenta, più altri settanta circa feriti. Noi ne abbiamo una trentina dei loro.» Temrai annuì. «Capisco» disse. «Duecentotrenta uccisi su un'unità di cinquecento. Cosa faremo?» L'uomo che non era riuscito a identificare si accigliò. «Non so noi, ma tu dormirai: ordini del medico.» «Oh. Sei un dottore, allora?» «Cosa vuoi dire con questo? Dannazione Temrai, sono il tuo dottore da prima che tu nascessi.» Temrai sorrise debolmente. «Stavo solo scherzando.» «Col cavolo che scherzavi» rispose il dottore. «Durante la battaglia ti hanno colpito in testa?» «Non riesco a ricordarlo.» «Be', no, probabilmente no. È colpa mia, avrei dovuto esaminarti più a fondo. Ti senti male di stomaco? Hai mal di testa, vedi delle luci davanti agli occhi?» «Pensi che abbia perso la memoria» disse Temrai. «Una parte. A volte accade.» Temrai sorrise, e poi il sorriso si allargò in un ghigno. «Magari» disse allegro. «Magari.» Poliorcis il diplomatico tremò e si tolse la pioggia dagli occhi con il dorso della mano. «Ancora non siamo arrivati?» chiese. Il vetturino borbottò senza guardarsi intorno. La pioggia scendeva in gocce soffici e grosse dall'ampia tesa del suo cappello di pelle. Non sembrò rendersene conto. Molto probabilmente, per i suoi standard, quello era un giorno soleggiato. Di solito Poliorcis si fidava del suo senso della direzione: una qualità preziosa per un uomo che ha trascorso molto del suo tempo a viaggiare in luoghi non familiari. In quell'occasione, tuttavia, era completamente disorientato. La strada che il vetturino stava percorrendo era diversa da quella
che aveva preso Gorgas Loredan: o perché Gorgas gli aveva mostrato la strada panoramica, oppure perché non conosceva quella scorciatoia. Poliorcis aveva anche perso la nozione del tempo, circostanza che non era certo da lui. Lo attribuì all'effetto che quella campagna aveva su di lui. Gli ricordò le nuotate nella laguna appena fuori Ap' Sendaves, quando rimaneva a galla con la schiena nell'acqua immobile, cessando gradualmente di essere consapevole del suo corpo, di tutto ciò che c'era intorno a lui, finché fu solo una coscienza senza contesto... una consapevolezza senza nulla di cui essere consapevole. Era stata una sensazione bizzarra ma piacevole. Il Mesoge, a suo parere, sicuramente non era piacevole, e non gli dava l'idea di essere abbastanza interessante da essere bizzarro: ma lo lasciava ugualmente disorientato. Si sentiva anche troppo frastornato per ripetere ciò che avrebbe detto, o ripassare a mente gli argomenti che avrebbe usato. Era davvero un peccato: si sentiva più a disagio per quell'incontro che per qualunque altra trattativa importante in cui era stato coinvolto... ma più cercava di controllarsi, più la sua mente voleva vagare. Se non fosse stato per la pioggia, avrebbe potuto chiudere gli occhi e dormire un po'; ma niente aiuta di più a stare svegli della sensazione dell'acqua piovana che filtra sotto il colletto e lungo la schiena. Si tirò il cappello fradicio un po' più giù e rinunciò a pensare; invece fissò irritato la vegetazione bagnata tutt'intorno a lui, le siepi che gocciavano pioggia, le pozzanghere di acqua marrone che riempivano i solchi lasciati dalle ruote nel sentiero, le foglie dei romici e delle felci che scintillavano. L'aria era umida e gli faceva pizzicare la gola, e lui sentiva terribilmente freddo. Ci devono essere modi più facili di guadagnarsi da vivere rifletté per un uomo della mia età. Era assurdo che uno dei negoziatori dipartimentali anziani dell'ufficio provinciale venisse sballottato in un carro sotto la pioggia, rischiando di prendersi la polmonite o come minimo la pleurite, per andare a trattare con un lunatico che non ricopriva nessuna posizione ufficiale, e la cui autorità non era nemmeno riconosciuta dall'Impero, per poter ricevere in custodia un sobillatore di poca importanza ma che, secondo alcuni, era diventato una specie di eroe popolare per un gruppo di malcontenti che probabilmente non l'avrebbero riconosciuto se si fosse seduto al tavolo della loro cucina. Il carro si era fermato. Poliorcis sollevò la testa e alzò lo sguardo, ma riuscì a vedere solo pioggia. Il vetturino non si mosse. «Rimani qui» disse Poliorcis. «Avrò bisogno
che mi riporti a Tornoys.» Cominciò a scendere dal carro, ma con un movimento molto più veloce di quanto si sarebbe immaginato, il vetturino lo afferrò per un gomito. «Due quarti» disse. Poliorcis annuì e cercò il denaro nella manica fradicia. «Rimani qui» ripeté, e tentò di raggiungere il terreno con i piedi. Ma poiché il carro era alto, e l'orlo del suo mantello rimase bloccato in qualcosa, e lui finì in ginocchio nel fango. «Rimani qui» disse ancora una volta; poi si alzò, sporcandosi le mani di fango, e si diresse verso il cancello che riuscì a stento a intravedere attraverso la pioggia. Mentre lottava con il gancio (che era arrugginito... presumibilmente Gorgas e i suoi fratelli lo scavalcavano, e non si preoccupavano mai di aprirlo; questo spiegava perché poggiava su un solo cardine, e anche l'intrico di canapa grossolana che sostituiva l'altro) sentì le redini schioccare dietro di lui, e il rumore delle ruote che lentamente procedevano attraverso una pozzanghera. La porta della fattoria era aperta, ma non sembrava esserci nessuno in giro. «Salve!» urlò, ma non ci fu risposta. Rimase in piedi per un attimo, a osservare la pioggia gocciare da lui sul lastricato, e poi decise che la situazione era strana. Non era un Figlio del Cielo, ma rappresentava l'Impero: l'Impero non rimane in piedi a gocciare sulla porta di casa, ma entra marciando e mette i piedi sul tavolo. Almeno all'interno della casa era asciutto, e ciò che rimaneva di un fuoco dava un po' di calore. Si sistemò nell'angolo del camino, ancora avvolto nel mantello da viaggio, che ormai era costituito da tre parti di acqua e da una di tessuto. La panca era più comoda di quel che sembrava. Lasciò che la sua testa poggiasse contro lo schienale e chiuse gli occhi. Si svegliò con Gorgas Loredan chino su di lui, con un'espressione leggermente sprezzante in volto. «Avrebbe dovuto farci sapere che sarebbe venuto» disse. «Avrei mandato un mezzo a prenderla.» «Non importa, davvero» ringraziò Poliorcis, che si era appena reso conto di essersi svegliato con un terribile mal di testa. «Adesso sono qui.» «Bene.» Gorgas Loredan si sedette accanto a lui sulla panca, talmente vicino che Poliorcis dovette spostarsi un po' per evitare di trovarsi a contatto con lui. «In questo caso possiamo evitare le ciance e arrivare al sodo. Immagino che sia qui per farmi un'offerta.» «Be', sì» borbottò Poliorcis «e no.» Aveva la mente annebbiata, e non riusciva a ricordare una sola delle posizioni di contrattazione principali sulle quali aveva lavorato nel corso de-
gli ultimi giorni. «Sono qui più per chiederle cosa vuole lei da noi. Penso che capirà che siamo disposti a prendere in considerazione qualsiasi proposta ragionevole.» Gorgas sospirò e scosse la testa. «Mi dispiace» disse, «devo aver frainteso. Vede, avevo l'impressione che avremmo risolto questa situazione insieme in modo costruttivo e sensato, invece di scherzare. Addio.» «Capisco.» Poliorcis rimase esattamente dov'era. «Dopo aver fatto tutta questa strada, mi butta fuori.» «Non mi sono mai sognato di essere così maleducato» Gorgas rispose. «Tuttavia, dato che lei non sembra avere nulla da dirmi, devo confessare che non vedo l'utilità che lei si trovi qui, e dato che ha già visto tutto il paesaggio, e il nostro clima non sembra andare d'accordo con lei...» «Va bene.» Poliorcis ebbe l'infelice sensazione di aver appena ceduto l'iniziativa nelle negoziazioni ancor prima che cominciassero, e non aveva la possibilità di tornare indietro. «Ecco un'offerta priva di ambiguità: denaro. Quanto vuole per il suo prigioniero?» Gorgas rise. «Per favore, almeno facciamo finta di rispettarci a vicenda. Lei ha visto il Mesoge: a cosa mi servirebbe il denaro in un posto come questo?» Appena fuori della porta posteriore, un cane abbaiava furiosamente. Il rumore aumentò il dolore di testa di Poliorcis come dita che pizzicano le corde dell'arpa. «Molto bene, allora» disse. «Niente denaro. Cos'altro? Qualcosa che abbiamo, presumibilmente, e di cui lei ha bisogno. Arnesi? Armi? Materiali grezzi?» Gorgas scosse la testa. «Lei si prende gioco di me. Personalmente non considero questa situazione molto diplomatica. Mi dica, ci disprezzate davvero tanto? Pensate davvero che non siamo altro che banditi e ladri, di poco migliori rispetto ai gruppi che vanno in giro a rubare attraverso le finestre aperte con un uncino posto alla fine di un'asta? Pensavo che avesse capito, quando mi sono preso il disturbo di mostrarle la zona: siamo fattori, persone pacifiche che vogliono diventare amici dei loro vicini. Mostrateci un po' di rispetto e vi darò il vostro dannato ribelle gratis.» «Lei sta parlando dell'alleanza» disse Poliorcis. «Posso solo dire che sono terribilmente spiacente, ma l'ufficio provinciale ritiene che un'alleanza formale in questo momento sarebbe inopportuna.» «Inopportuna.» Poliorcis sentì come se stesse lentamente affondando nel fango fino alle ginocchia. «Vorrei solo sottolineare» disse «che quello che chiede è senza
precedenti. Non abbiamo alleanze formali con nessuno: né con Shastel, né con l'Isola né con Colleon. Per favore, cerchi di capire le nostre preoccupazioni: se stringessimo un'alleanza con voi, che razza di messaggio manderemmo agli altri, dopo aver rifiutato le loro proposte? Molto semplicemente, non è questo il modo in cui facciamo le cose.» «D'accordo.» Gorgas sbadigliò. «Se c'è una cosa di cui mi vanto, è la flessibilità. La flessibilità, il realismo, il fatto di cercare sempre l'accordo che soddisfi entrambe le parti. Lei mi sta dicendo che l'Impero non ha alleati, e sono sicuro che non mentirebbe mai su una cosa del genere. Allora dimentichiamo l'alleanza, e le dirò esattamente cos'ho in testa. La verità è che, sia che siamo alleati formali sia che non lo siamo, voglio solo che voi, l'ufficio provinciale, mi diate la possibilità di fare qualcosa che devo fare: lei ci pensi e mi dica come si può raggiungere questo accordo. Dopo tutto, è lei il diplomatico, io sono solo un soldato e un fattore, e queste questioni sono davvero al di là delle mie capacità. Devo pagare un vecchio debito... no, non è così. Devo sistemare una cosa terribile che ho fatto una volta. Vede, ho reso possibile a Temrai di saccheggiare Perimadeia. La cosa la turba?» Poliorcis lo guardò. «Lo so» disse. «Oh.» Gorgas rimase immobile, senza alcuna espressione in volto. «Cosa ne pensa?» «Non penso» rispose Poliorcis. «Cioè, so perché l'ha fatto e quali erano i suoi motivi: è stato perché sua sorella doveva molti soldi a ricchi individui a Perimadeia, e sapeva che non avrebbe mai potuto restituire quel denaro. È stata una decisione d'affari. Posso dire la mia opinione sul fatto se sia stato saggio o no da un punto di vista commerciale, ma se si aspetta che dica se lei abbia agito male o bene, temo di non poterlo fare. Non ragiono in questi termini: è come se fossi daltonico e lei volesse la mia opinione su una certa gradazione di verde. Allora» continuò «questo episodio cos'ha a che fare con noi?» Gorgas sospirò e si strofinò il mento. «Immagino che sia io a essere turbato» disse. «Non sono daltonico, come dice lei. Posso vedere che ciò che ho fatto è stato terribilmente sbagliato. Sapevo che mio fratello stava combattendo per la Città: ho rovinato la sua vita e l'ho fatto quasi uccidere. È questa cosa che devo rimettere a posto. Devo uccidere Temrai e distruggere le tribù delle pianure, combattendo fianco a fianco con lui, per ripagare il mio debito. Riesce a capire? Anche lei dev'essere in grado di capirlo. Non mi importa qual è la mia posizione ufficiale, devo trovarmi lì e fare la
mia parte, altrimenti non sarò in grado di sopportare ancora questa situazione. A causa di ciò che ho fatto sono già responsabile della morte di mio figlio: lo devo anche a lui. Riesce a vedere quanto è semplice?» Poliorcis rifletté per un po'. «Sono sicuro di una cosa» disse «lei è un uomo interessante. E se c'è una cosa alla quale i Figli del Cielo sono interessati, sono le persone interessanti. Ma riflettiamo attentamente sulla questione, d'accordo? Con tutto il rispetto, abbiamo già tutte le risorse militari che ci servono. Quando ci siamo incontrati la prima volta, lei ha parlato di arcieri e di come non ne avessimo a sufficienza. Il fatto è che li abbiamo. Abbiamo intere nazioni di arcieri nell'Impero: archi lunghi, curvi corti, curvi lunghi, arcieri a cavallo, balestrieri e altro. Le nostre fabbriche possono produrre ventimila archi e duecentomila frecce a settimana, tutti in base a specifiche identiche, anche se le fabbriche si trovano a miglia di distanza l'una dall'altra. Quindi non abbiamo bisogno di altri arcieri.» «Lei mi ha detto perché sente la necessità di combattere questa guerra. Lasci che le dica perché la combattiamo noi. Abbiamo più soldati professionisti a tempo pieno di quanti uomini, donne e bambini ci sono a Shastel, nell'Isola, a Colleon e a Perimadeia e in tutti gli altri luoghi di cui ha sentito parlare messi assieme. Abbiamo costruito quell'esercito in modo che nessuno, nessuno, potesse mai costituire una minaccia per noi. Tra i Figli del Cielo e la possibilità più remota di pericolo c'è un muro di acciaio e muscoli così spesso che nulla sulla terra potrebbe mai romperlo. Se la terra improvvisamente si aprisse e inghiottisse la nostra patria, potremmo riempire il buco con cadaveri e ricostruire le nostre case in cima a essi. No, facciamo la guerra semplicemente perché abbiamo bisogno di trovare qualcosa da fare per il nostro esercito, per evitare che si annoino e che diventino insofferenti e fuori forma; quindi comprende che non vogliamo davvero che qualcun altro combatta le nostre battaglie per noi... sconfiggerebbe l'intero nostro scopo. Mi dispiace, ma le cose stanno così. Non posso aiutarla.» Gorgas annuì lentamente, come se gli fosse appena stato spiegato un difficile calcolo. «Capisco» disse. «E prima o poi verrete qui, a portare a spasso il cane, per così dire; e sarebbe imbarazzante per voi combattere contro persone che un tempo trattavate come amici e alleati. Mi sembra abbastanza ragionevole, posso accettarlo. Ma non risolve il mio problema. Poliorcis, lo chiedo a lei perché è lei l'esperto: come possiamo sistemare le cose in modo che lei ottenga quello che vuole, questo vostro pirata, e io abbia ciò di cui ho bisogno? Dev'esserci un modo... dobbiamo solo capire
qual è.» Poliorcis aggrottò la fronte. «Devo dire che sta affrontando la notizia della vostra imminente conquista molto bene. La maggior parte delle persone probabilmente sarebbe diventata furiosa o spaventata.» «È inutile» disse Gorgas. «Lei non mi dice nulla che io non sapessi già. È abbastanza ovvio: l'ha detto lei stesso, è uno dei motivi per cui volevo l'alleanza. Ma lei è troppo intelligente per me, e lo riconosco: tuttavia non c'è motivo perché non possiamo ragionare insieme e trovare un modo per rendere l'inevitabile un po' meno doloroso di quanto altrimenti sarebbe. Flessibilità... realismo... è di questo che si tratta.» Si morse il labbro e poi batté le mani così forte che Poliorcis fece un salto. «So» continuò Gorgas «esattamente cosa possiamo fare. In questo momento mi arrendo e consegno il Mesoge all'Impero, e me e la mia gente alla vostra mercé.» Sorrise garbatamente. «E come gesto di buona volontà, apprezzeremmo molto se potessimo prendere il nostro posto come soldati ausiliari nella vostra forza di spedizione contro Temrai. Ecco, questa soluzione non copre forse tutto meravigliosamente?» Era passato molto tempo da quando Poliorcis era stato sbigottito da qualcosa, e non era sicuro di ricordare come affrontare la questione. «Sta scherzando» disse. Gorgas scosse la testa. «No, affatto. Metto in pratica quello che predico. Sto risparmiando alla mia gente gli orrori di una guerra che non potremmo mai sperare di vincere, e allo stesso tempo pago il mio debito. Se vuole che abdichi, lo farò... come può vedere lei stesso non mi trovo affatto a mio agio come dittatore militare. Dopo aver sistemato quella vecchia ruggine, voglio solo vivere qui e lavorare alla fattoria: sono sicuro che all'ufficio provinciale non importerà se farò questo. Pensi ai vantaggi: pensi a Tornoys e al Mesoge come base per le vostre conquiste in questa regione, e a quanto faciliterebbe la conquista degli stati vicini. Pensi a ciò che significherebbe per lei a livello personale: è venuto qui per prendere un ribelle, ci è riuscito, e porta a casa una nuova provincia per l'Impero. Può immaginare un risultato migliore? Allora?» Era soprattutto l'entusiasmo: lo scodinzolare di quell'uomo... era quasi più di quanto Poliorcis potesse sopportare. «No» rispose «non posso dire di poterlo immaginare. Be', mi ha dato sicuramente molto da riflettere. Va bene se mi riposo qui stanotte e mi avvio a casa domani mattina?» Gorgas gli fece un sorriso grande e luminoso come il sole che sorge. «Come vuole lei» rispose. «Dopo tutto, è lei il capo.»
CAPITOLO UNDICESIMO Svegliarono Temrai nel cuore della notte per dargli la notizia. Il messaggero aveva cavalcato dal campo di battaglia fino all'accampamento vicino a Perimadeia: era esausto e i suoi stivali erano pieni del sangue che gli usciva dal taglio di alabarda che aveva all'inguine. Molto probabilmente sarebbe morto prima della mattina seguente. Temrai si svegliò nel panico, aggrappandosi alle coperte e distorcendo il ginocchio malandato. Gli avevano detto che andava tutto bene e che non c'era nulla di cui preoccuparsi; poi avevano portato dentro il messaggero, tutto insanguinato, sorretto per le spalle da due uomini. Temrai era ancora stordito dal sonno e scioccato dal dolore alla gamba, e non riuscì quasi a capire nulla di ciò che l'uomo morente stava dicendo: sentì parlare di imboscata e perdite del settanta per cento e respinti in disordine e colpiti nuovamente prima che potessero raggrupparsi. Fu solo quando Kurrai cominciò a dire eccitato che avrebbero dovuto sfruttare al massimo quella possibilità e quindi che dovevano far seguire un massiccio contrattacco, che Temrai si rese conto che gli era appena stata descritta una vittoria, non una sconfitta catastrofica. «Abbiamo vinto» mormorò. «Che io sia dannato. Com'è accaduto?» Ormai il messaggero era svenuto: lo portarono via e lo avvolsero in alcune coperte, e morì subito dopo l'alba. Temrai sentì il racconto da Kurrai, con il beneficio aggiuntivo delle intuizioni strategiche e tattiche del generale. Tutto aveva avuto inizio quando l'esercito imperiale, che si stava riunendo con cautela dopo la battaglia in cui Temrai era rimasto ferito, si era imbattuto in una piccola squadra di rinnegati delle pianure che erano scappati dagli uomini di Temrai sin da quando la loro parte aveva perso la guerra civile. Tuttavia per l'ufficio provinciale gli uomini delle pianure erano uomini delle pianure. La loro cavalleria inseguì i rinnegati, li bloccò in una gola profonda e chiese l'intervento della fanteria. Faceva caldo e c'era tanta polvere; c'era acqua sul fondo della gola, dove si trovavano i rinnegati, ma non in alto, dove era sistemato il punto di osservazione imperiale. Il messaggero inviato al quartier generale del campo imperiale sottolineò l'urgenza dei rinforzi, e una colonna di poco meno di duemila uomini, guidata da un Figlio del Cielo, partì quello stesso giorno. Furono il loro notevole vigore e la loro forma a indurli in errore. Se fos-
sero stati più lenti o non avessero seguito la strada ottimale, molto probabilmente non si sarebbero imbattuti nelle riserve di fanteria a cavallo di Temrai, che avevano rotto le righe, erano fuggite ed erano state tagliate fuori dal resto dell'esercito all'inizio della prima battaglia e solo ora erano riuscite a trovare la strada per uscire dal territorio imperiale. Le due forze si scontrarono in una vallata tra una foresta e un fiume, e fu solo per caso che gli uomini delle pianure si trovassero in una posizione che diede loro un vantaggio tattico schiacciante. La fanteria imperiale era bloccata dal fiume, che era in piena e quindi non guadabile; una curva del fiume chiudeva uno dei fianchi degli uomini delle pianure mentre la foresta nascondeva l'altro. Il comandante imperiale era incerto se tenere la posizione e subire gli attacchi da parte degli arcieri nemici o esporsi al tiro effettuando un attacco frontale. Basandosi sulla qualità superiore delle armature dei suoi uomini, il comandante optò per l'assalto. A sua difesa va detto che l'altra scelta probabilmente si sarebbe rivelata altrettanto disastrosa. Questo però non gli fu di grande consolazione quando vide le sue prime linee cedere, come metallo difettoso sotto un martello. Dopo il cedimento di quattro reparti, che non erano riusciti ad arrivare a meno di settantacinque metri dal nemico prima di crollare in un groviglio di metallo e corpi, il comandante si ritirò verso il fiume nella vana speranza di indurre gli uomini delle pianure a caricare e ad abbandonare così il loro vantaggio. Non funzionò, perché questi mantennero la loro posizione e inviarono piccole squadre a disturbare e disorganizzare le ali degli imperiali. Alla fine, nonostante l'addestramento ricevuto e la disciplina, i soldati imperiali avevano cominciato a spostarsi con cautela verso il centro, che ritenevano un luogo più sicuro, aprendo varchi tra loro e la riva del fiume larghi a sufficienza per un improvviso accerchiamento. Gli arcieri li circondarono così da tutti e quattro i lati, e l'unica cosa che potevano fare era ripararsi dietro gli scudi e osservare le frecce cadere. Fecero qualche debole tentativo di sortita per spezzare il cordone, ma fu inutile: gli arcieri della prima fila si ritiravano quando li vedevano avvicinarsi, mentre quelli che si trovavano dietro si avvicinavano, e gli attaccanti furono decimati riuscendo ad avanzare a malapena di qualche metro. La battaglia durò sei ore, cinque di accerchiamento. Se il comandante imperiale avesse retto per un'altra mezz'ora, gli uomini delle pianure avrebbero terminato le frecce e si sarebbero ritirati, ma questo naturalmente non poteva saperlo. Si arrese e i suoi uomini furono condotti via, lasciando duecento caduti sul campo.
(Un paio di giorni dopo, una squadra di venditori ambulanti giunse al campo di battaglia: osservarono increduli la scena, e passarono i due giorni successivi a togliere le armature dai morti, a sistemare i buchi e le ammaccature e a mettere tutto sui loro carri. Alla fine vendettero l'intera partita a un rigattiere ad Ap' Idras per una somma maggiore di quello che speravano; a sua volta il commerciante rivendette le armature all'armeria imperiale di Ap' Oule con un ricarico del centocinquanta per cento, dimostrando così che persino la tragedia peggiore può essere occasione di guadagno per qualcuno.) «Abbiamo vinto» ripeté Temrai, quando Kurrai ebbe finito di parlare. «È sorprendente.» «Non essere così sorpreso» rispose Kurrai. «E non cominciare a pensare che i nostri problemi siano finiti, perché non lo sono. Non voglio preoccuparti senza motivo, ma sei consapevole del fatto che ogni nazione che è riuscita a infliggere una sconfitta significativa all'Impero nel corso degli ultimi centocinquant'anni adesso è scomparsa? Si arrabbiano terribilmente quando perdono. C'era un detto tra gli ipacriani: l'unica cosa peggiore di una sconfitta da parte dell'Impero è una vittoria.» Temrai annuì lentamente. «Grazie tante» disse. «Ancora una vittoria e siamo finiti, è così?» Kurrai sembrò a disagio e scrollò le spalle. «Voglio solo dire che è importante evitare che un successo ci dia alla testa, tutto qui. E dobbiamo ricordarci che combattere contro l'Impero è diverso dal combattere contro chiunque altro.» «Penso di aver recepito il messaggio» disse Temrai. Ormai era naturalmente troppo sveglio per tornare a dormire. In circostanze normali si sarebbe tolto di dosso l'attacco di depressione alzandosi, affaccendandosi e trovando qualcosa da fare: ma non aveva quella possibilità. Tilden non era lì, ma dall'altra parte degli stretti con quelli che non combattevano, accampati tra le rovine della Città. Più diventava irrequieto, più il ginocchio gli faceva male. Alla fine rinunciò anche a far finta di riposare e urlò per chiamare la sentinella. «Vai a svegliare qualcuno» disse. «Sono annoiato.» La sentinella sorrise e tornò poco dopo con due membri del consiglio ancora assonnati, evidentemente scelti a caso: Joducai, che era al comando della squadra di trasporto, e Terscai, il vice capo ingegnere. Poi fece il saluto e tornò al suo posto. «Temrai, è piena notte» disse Joducai. Temrai lo guardò accigliato. «Non posso evitarlo. Allora, i due isolani, il
vecchio mago e il ragazzo...» «Gli isolani?» Joducai sembrò confuso, circostanza abbastanza comprensibile. «Mi dispiace, non ti seguo.» «Abbiamo catturato una coppia di isolani che vagavano» spiegò Temrai. «Hanno detto che la loro nave è naufragata e che volevano solo andare a casa, ma potrebbero essere spie, così li ho fatti portare qui.» Terscai sorrise. «Da quando ti preoccupi delle spie?» disse. «Da quando una spia mi ha salvato la vita, immagino» rispose Temrai. «Sto pensando di reclutare la mia guardia del corpo esclusivamente fra le spie. Fatemi un favore: andate a prenderli e portateli qui.» «Perché proprio noi?» chiese Joducai. «Perché siete svegli» disse Temrai. «Tutti gli altri dormono.» Joducai sospirò. «Vedo che ti senti meglio. Era meraviglioso quando eri moribondo: si riusciva a passare una notte di riposo.» Poco dopo tornarono con i due isolani, Gannadius e Theudas Morosin. «Morosin» ripeté Temrai. «È un nome perimadeiano, vero?» Il ragazzo non disse nulla. «Esatto» rispose l'anziano. «Siamo entrambi perimadeiani di nascita. Sono suo zio.» Temrai rifletté per un momento. «Gannadius non è un nome della Città, vero?» «È il nome che ho preso quando mi sono unito all'Ordine di Perimadeia» rispose. «È tradizione prendere un altro nome, di solito di uno dei grandi filosofi del passato. Il mio nome di battesimo è Theudas Morosin.» Temrai inarcò un sopracciglio. «Lo stesso che ha lui?» chiese. «Esatto. Morosin è il nome di famiglia, e Theudas è un nome che si usa molto tra noi, se capisce cosa intendo dire.» «Non proprio» ammise Temrai mettendo il mento tra le mani. «Mi dà l'idea che mostri una mancanza di immaginazione.» «Come quando il nome di chiunque termina in ai» rispose Gannadius. «È solo il modo in cui facciamo le cose, tutto qui.» Temrai annuì. «Ed eravate perimadeiani» disse «e adesso siete isolani. Capisco... immagino che vi sentiate piuttosto a disagio qui.» Gannadius sorrise. «Lui sì» disse. «Io sono un filosofo, quindi non mi preoccupo di queste cose.» Temrai soffocò uno sbadiglio... uno genuino, anche se venne fatto con un tempismo perfetto. «Davvero. E cosa ci faceva un filosofo a vagare nel nostro territorio?» «Siamo naufragati» disse Gannadius.
«Capisco. E dove eravate diretti?» «A Shastel.» Gannadius si rese conto di non ricordarsi che tipo di relazioni intercorrevano tra gli uomini delle pianure e l'Ordine; non riuscì a pensare lì per lì a un motivo per il quale dovessero esserci relazioni cattive, o se non ve ne fossero proprio, ma ragionare non è la stessa cosa che conoscere. Tuttavia Temrai non sembrò preoccupato. «E posso chiedere perché stavate andando a Shastel?» chiese. «Io vivo lì» disse Gannadius. «Oh... pensavo avesse detto di essere un isolano.» «Lo sono. Sono cittadino dell'Isola.» «Lei è un cittadino dell'Isola, nato nella Città, vive a Shastel e ha due nomi. A volte deve pensare che la vita è un po' confusa.» «Oh, sì» rispose Gannadius. «Come penso di aver già detto, sono un filosofo.» Temrai sorrise, come se ammettesse di aver perso quello scontro. «E cosa mi dice di lui?» disse. «Lo chiedo a lei, perché lui non sembra avere un grande desiderio di parlarmi.» «È timido.» «Capisco. Anche lui vive a Shastel?» Gannadius scosse la testa. «Vive sull'Isola. Lavora per una banca.» «Davvero? Che cosa interessante... e prima di questo lavoro, è andato diritto all'Isola dalla Città dopo la Caduta?» L'espressione di Gannadius non cambiò. «Non esattamente. Ha trascorso qualche anno all'estero. Lei questo lo sa, vero?» Temrai annuì. «Era l'apprendista di Bardas Loredan» disse. «Il Colonnello Loredan lo salvò dal sacco di Perimadeia... da me, di fatto, personalmente.» Girò la testa e lanciò a Theudas una lunga e dura occhiata. «Sei cresciuto .» Per la prima volta l'aria affabile e cortese di Gannadius si attenuò un po', ma non di molto. «Cosa ci farà?» chiese. «Vi manderò a casa, naturalmente» rispose Temrai con un brillante sorriso. «Anche se nel vostro caso, Signor Filosofo, dovrò chiedervi di specificare quale casa. Sembra che lei ne abbia parecchie.» «L'Isola andrà bene» rispose subito Gannadius. «Oppure Shastel. Quello che è più conveniente.» «Ovunque ma non qui, esatto?» «Sì» ammise Gannadius. «Capisco.» Temrai sussultò per una fitta acuta al ginocchio. «Vi prego
di scusarmi» disse. «Sono riuscito a farmi male al ginocchio l'altro giorno.» Gannadius annuì. «Mi sembra di aver capito che ha strangolato un soldato della cavalleria imperiale. Non è certo un gesto da nulla.» «L'ho strangolato con la cinghia dell'elmetto, a dire il vero» rispose Temrai. «Be', penso che questo sia tutto. Credo che una nave salpi per l'Isola tra qualche giorno; non ricordo il nome, temo, ma suggerisco decisamente che vi imbarchiate: il traffico marittimo è più o meno fermo in questo momento, da quando l'Impero ha noleggiato tutte le navi dell'Isola.» Gannadius chiaramente non aveva saputo nulla di questo fatto. «Davvero? Posso chiedere se sa il perché?» «Ci attaccheranno via mare» rispose Temrai «e gli isolani hanno prestato loro le navi, dato che l'Impero non ne ha di sue. Scusate, hanno noleggiato, non prestato. Non vorrei offendere la sensibilità di voi isolani implicando che fareste qualcosa del genere gratis.» «Nessun problema» rispose Gannadius. «Come sa sono un perimadeiano, quindi non mi importa.» Temrai guardò il giovane uomo, Theudas (strano riuscire a dare un nome a quel volto dopo tutti quegli anni di incubo). Era bianco come un foglio di carta, e le sue mani erano chiuse a pugno. «Se ti capita di vedere il Colonnello Loredan prima di me» disse, «per favore salutalo da parte mia e digli di tenersi il più possibile lontano da me.» Theudas stava per dire qualcosa, ma Gannadius fu più rapido. «Ci assicureremo di riferire il suo messaggio se lo vedremo» disse «anche se penso che sia altamente improbabile. Dopo tutto l'unico motivo per cui siamo qui... senza offesa per lei e la sua ammirevole ospitalità, perché la sua gente non poteva essere più gentile... è che gli imperiali stavano cercando di ucciderci.» Temrai sorrise. «Perché vi avevano scambiati per gente di Shastel.» «Oh, lo siamo... almeno lo sono io...» aggiunse serio Gannadius «a volte.» «Dev'essere meraviglioso essere tante persone diverse» disse Temrai. «Io sono sempre stato solo me stesso. La invidio.» «Davvero?» «Certamente. Se avessi potuto scegliere la mia identità, non avrei dovuto fare le cose che ho fatto, e non mi troverei ad affrontare i problemi che mi trovo ad affrontare. Tutto ciò che sono sempre stato o che ho fatto e che ho dovuto soffrire è stato a causa di chi sono; ma lei... be', lei è fortunato.»
Chiamò con un cenno la guardia, che aprì il telo della tenda. «Grazie per esservi fermati» disse. «È stato interessante parlare con voi.» «È stato lo stesso per me» rispose Gannadius. «È stato un piacere incontrarla, dopo tutto questo tempo.» «Ap' Calick?» disse il Figlio del Cielo. «Allora probabilmente ha conosciuto mio cugino.» La colonna si era accampata per la notte, e i cuochi stavano iniziando a preparare la cena. Avevano appena ucciso e sventrato una pecora portata dai vivandieri, e stavano montando un trespolo per appenderla. Essendo un Figlio del Cielo, il Colonnello Estar se ne interessava personalmente. «Suo cugino» ripeté Bardas. «Si chiama Anax» rispose Estar. «Dirige il palazzo delle prove. È un tipo basso e calvo di quasi settant'anni. Lo ricorda di sicuro se l'ha visto.» Anche se Bardas non era nell'esercito imperiale da molto tempo (almeno non in base agli standard imperiali) aveva l'impressione che fosse insolito, a dire poco, che l'ufficiale comandante di una colonna si sedesse sotto un albero accanto a un fuoco per cucinare e chiacchierare amabilmente con un forestiero, anche se quel forestiero era nominalmente il suo cocomandante. O era annoiato, oppure trovava Bardas un compagno insolitamente affascinante, o stava approfittando dell'opportunità per valutare l'arma segreta del suo esercito con molto anticipo prima di schierarla contro il nemico. Da quel poco che era riuscito a capire sui Figli del Cielo, molto probabilmente si trattava di una combinazione di tutte e tre le cose. «Oh, sì» rispose «certo che ho incontrato Anax. Mi ha fatto l'armatura che indossavo oggi.» «Davvero?» I cuochi erano riusciti a montare il trespolo e stavano facendo passare una corda tra l'osso e il tendine delle gambe posteriori della pecora, subito sopra la caviglia. «Non lo vedo da anni. Dovrei davvero fare uno sforzo e andare a visitarlo la prossima volta che mi troverò da quelle parti. Come sta?» «Piuttosto bene» rispose Bardas. «Anzi, benissimo per un uomo della sua età.» «Bene» disse Estar, con gli occhi fissi sul lavoro che procedeva davanti a lui. «Lui è... vediamo, il figlio della sorella più grande della madre di mio padre. Immagino che sia rimasto sorpreso di trovare... be', uno di noi, a lavorare manualmente per guadagnarsi da vivere.» Bardas annuì. I cuochi avevano appeso la pecora morta e stavano co-
minciando a scuoiarla; uno di loro si chinò e le tirò le zampe anteriori, mentre l'altro fece un taglio delicato intorno alla zampa subito sotto il punto in cui avevano passato la corda, stando attento a non intaccare il tendine. «Immagino che sia ciò che gli piace fare» disse Bardas. «Non riesco a immaginare un altro motivo.» Estar sorrise. «Le cose non stanno proprio così. La verità è che Anax ha avuto una vita interessante, in un modo o nell'altro. Un tempo era viceprefetto nel dipartimento delle commissioni, proprio nel cuore dell'Impero. È stato allora che fece un errore.» I cuochi stavano incidendo la pelle lungo le zampe, seguendo l'osso con la punta dei coltelli finché raggiunsero l'ampia apertura che avevano fatto nel ventre quando avevano raccolto le interiora. «Un errore» ripeté Bardas. «Sarà meglio che non chieda nulla al riguardo.» «Oh, e perché mai?» sorrise Estar. «Non sono così crudele da dirle una cosa del genere per poi lasciare l'argomento in sospeso. Era al comando di un distretto, quando scoppiò una ribellione. Be', non si trattava nemmeno di una vera e propria ribellione: c'era un esattore che usava troppo la mano pesante, e che finì male. Era possibile risolvere la questione, ma per qualche motivo Anax sbagliò: prima ignorò l'episodio per molto tempo, e poi mandò un plotone di soldati a distruggere il villaggio. In seguito a questo avvenne una vera e propria ribellione.» Stavano tagliando la pecora intorno all'ano; uno dei cuochi prese la coda e la torse, finché le ossa si ruppero. «Capisco» disse Bardas. «Cos'è accaduto?» «La situazione si è trascinata per secoli» rispose Estar. «Anax ha inviato altre truppe, i ribelli hanno raso al suolo il villaggio e si sono nascosti nei boschi. I soldati hanno cercato di stanarli attaccando gli altri villaggi nel distretto, ma questo non ha fatto che peggiorare le cose, perché tutte le persone che lasciarono le case si unirono ai ribelli. In breve tempo nei boschi ci furono parecchie migliaia di uomini: abbastanza per infliggerci una seria sconfitta se avessimo cercato di stanarli e avessimo messo tutto a soqquadro. D'altra parte, Anax non poteva semplicemente ignorare la situazione, e alla fine non ebbe altra scelta. Tutta la questione fu un disastro, dal principio alla fine.» Stavano scuoiando la schiena della pecora, premendo in basso nel lembo dell'apertura con i pugni per evitare che la carne si lacerasse. Era un suono molto particolare. «Immagino che Anax abbia vinto, però» disse Bardas osservando i cuochi che lavoravano. «Alla fine, intendo.»
«Be', naturalmente. L'Impero vince sempre: ma ciò che importa è come. E in questo caso non abbiamo vinto bene. Ho dimenticato quanti uomini ha perso muovendosi maldestramente nei boschi prima di riuscire alla fine a bloccarli, ma saranno stati circa duecento: è un disastro in qualsiasi contesto, ma in un'azione di polizia in una provincia interna che dovrebbe essere calma e pacifica...» Estar scosse la testa. «Alla fine dovette ucciderli con il fuoco: appiccò il fuoco tutto intorno al bosco in cui si erano rifugiati, collocò postazioni di guardia sulle strade e incendiò tutto ciò che si trovava in mezzo. Nessuno di loro cercò nemmeno di uscire. A quanto sembra il puzzo era davvero rivoltante.» Per togliere la pelle dalle costole senza lacerarla, i cuochi stavano tosando le membrane tra la pelle e l'osso, facendo molta attenzione per non intaccare la pelle e iniziare una lacerazione. «Posso immaginare» disse Bardas con ironia. «E dopo cos'è successo ad Anax?» Estar si versò da bere dalla fiaschetta di legno di ciliegio che Bardas aveva visto infilata nella sua fascia. «Lo stavano per mettere a giudizio ma la famiglia chiese dei favori, e così venne biasimato pubblicamente e assegnato alla frontiera occidentale... o a quella che era la frontiera all'epoca, quarant'anni fa: naturalmente si è spostata da allora, ma Anax è rimasto dov'era. Ufficialmente era il vicedirettore del palazzo delle prove, in realtà venne messo lì e gli venne detto che non ne sarebbe uscito mai più. E lì è rimasto da allora divertendosi come meglio poteva. L'ha voluta lui, ma non posso fare a meno di pensare che è stato un modo piuttosto duro di trattare un uomo per quello che era stato, dopo tutto, un errore di giudizio.» Con la punta dei coltelli, seguendo l'osso, stavano tagliando la linea delle zampe anteriori. «Non sta a me commentare» disse Bardas. «Immagino che si debba vivere con questi rischi, una volta che si comincia ad assumersi la responsabilità della vita di altre persone.» «Oh, è l'incubo di tutti, vero?» rispose Estar con volto triste. «Sei al comando quando tutto comincia ad andare storto; oppure sei tu l'uomo che deve combattere la battaglia che non può essere vinta, o attaccare una città inespugnabile o respingere un'orda inarrestabile. Si potrebbe dire che è stato semplicemente sfortunato: chi può dire se lei o io ci saremmo comportati meglio al suo posto?» ... E alla fine, dopo molti sforzi e molta fatica, tolsero la pelle dalla schiena e dal collo reciso, in modo che venisse via intera e senza danni, pulita all'interno, senza rovinare né la pelle né la carcassa. La carne brillava leggermente allo scintillio del fuoco, come un bambino appena nato, o
un uomo che brilla per il sudore quando si toglie l'armatura in una giornata calda. Poi cominciarono a tagliare la pecora a pezzi, mentre il ragazzo che assisteva il cuoco si apprestava a rompere la testa con un grosso paio di forbici. «Farò valere il mio grado e chiederò il cervello» disse Estar con un sorriso. «Prenderlo dall'osso, sobbollire per mezz'ora in salamoia, aggiungere un paio di uova e un po' di succo di limone: è imbattibile. Alcune persone pensano che lo si dovrebbe cuocere al salto, ma per me è un sacrilegio.» Bardas scrollò le spalle. «Mia madre era solita cucinarlo quando eravamo bambini» disse «ma non ricordo com'era. Tutto quello che cucinava tendeva ad avere lo stesso sapore, in ogni caso. Da allora, il cibo non mi ha mai interessato molto.» Estar rise. «La compatisco» disse. «Si è perso uno dei grandi piaceri della vita, e adesso immagino che sia troppo tardi perché lei impari ad apprezzarlo. Ed è un peccato.» Osservò attentamente l'aiutante del cuoco. «E pensavo che Perimadeia fosse famosa per la varietà e la qualità della sua cucina.» «Lo era» disse Bardas. «O così mi dicevano. Ero contento di prenderli in parola.» «E cosa mi dice del vino?» chiese Estar. «Oppure non beve nemmeno?» «Per lo più bevevamo sidro» rispose Bardas. «Costava poco e faceva al caso. Era meglio del vino... o almeno del vino che vendevano nei luoghi in cui ero solito andare. Non penso che lei l'avrebbe gradito molto.» Stavano tagliando lo sterno con una sega. «Oh, ho bevuto la mia quota di bruciabudella» disse Estar «quando ero uno studente squattrinato. È veramente notevole pensare a come ci si abitua rapidamente a quella robaccia, se non c'è nient'altro.» Bardas notò che stava guardando i cuochi con estrema attenzione: era l'attenzione eccessiva per i dettagli del vero buongustaio. Forse Estar se ne rese conto, perché sorrise e disse: «Tutto questo fa parte dell'educazione di un ragazzo, a casa nostra. Mentre impariamo a sillabare, l'algebra di base e la geometria, ci viene insegnato l'unico vero modo di tagliare a pezzi e preparare la carne. L'idea è che quando un bambino avrà dieci anni, dovremmo essere in grado di dargli una pecora morta e un coltello affilato, andarcene per un paio d'ore e tornare per trovare un pranzo perfetto di montone arrosto, insaporito con rosmarino e alloro e servito nella maniera appropriata, in base alle specifiche stabilite dal Libro. Se adesso fossi a casa, sarei io a fare tutto questo: è privilegio del padrone di casa preparare il cibo per i suoi ospiti, e noi prendiamo que-
sta consuetudine molto sul serio. Buon cibo, buon vino, buona musica e buona conversazione: tutto il resto è soltanto un male necessario.» «Questo è un punto di vista interessante» disse Bardas con diplomazia. «Naturalmente tutto dipende dall'avere qualcosa da mangiare.» Estar si accigliò per un momento, e poi rise. «Le sfugge il punto» disse. «La vera essenza della lussuria è la semplicità. La lussuria non ha nulla a che fare con l'essere ricchi e potenti: accade che spesso le due cose vanno insieme, come i tafani e il letame. Immagini di possedere soltanto una fionda e qualche pietra: può risalire la montagna e uccidere un gallo, così come può scendere lungo la montagna e uccidere un coniglio. Mentre cammina, raccoglie delle erbe e dei condimenti necessari, e quando torna cura un po' più del necessario il modo in cui cucina il pasto. Il buon vino è fatto con lo stesso materiale di quello cattivo; per quanto riguarda la buona musica e la buona conversazione, non costano nulla.» Sospirò e mise le mani dietro la testa. «Dovrebbe leggere alcuni dei nostri grandi poeti, Bardas» disse. «Daishin e Silat e La Freccia dal Profumo di Rosa. Parlano della vita semplice... un'esistenza ideale dalla quale tutto ciò che vi è di disgustoso e di fastidioso è stato eliminato... raffinato, nel vero senso della parola. È questa la vera radice e la fonte della nostra cultura: e questo che siamo. "Nessun uomo può piegare un telo di seta perfettamente come una rosa".» «Capisco» lo interruppe Bardas prima che Estar potesse proseguire. «Allora lei cosa ci fa qui?» Estar chiuse gli occhi. «È un male necessario» rispose. «Per vivere la vita perfetta, bisogna prima avere stabilità e sicurezza. Come ci si può concentrare sugli aspetti essenziali dell'esistenza se c'è la possibilità che dall'esterno arrivi un pericolo? L'esercito e le province... sono un muro che abbiamo costruito intorno a noi, sono l'armatura di cui abbiamo bisogno per proteggerci: la forza all'esterno, e la dolce semplicità all'interno. Tristemente significa che alcuni di noi devono voltare la schiena alle cose importanti per un po' di tempo: ne vale la pena, però, perché sappiamo che la semplice perfezione sarà sempre lì, ad aspettarci quando torniamo a casa.» Aprì gli occhi e si mise a sedere. «Lei sorride» disse. «Evidentemente non è d'accordo.» Bardas scosse la testa. «A dire il vero stavo pensando alla mia casa... be', alla mia casa d'origine; ho vissuto un po' dappertutto. Ma stavo pensando al Mesoge, dove sono cresciuto. È il luogo più semplice che si possa trovare.»
«Davvero?» «Decisamente.» Estar inarcò un sopracciglio. «Ci è tornato di recente?» chiese. «Circa quattro anni fa» rispose Bardas. «E non è stato molto gradevole.» «Il Mesoge» ripeté Estar. «Non è dove suo fratello...?» Bardas annuì. «Gorgas sarebbe probabilmente d'accordo con lei» disse. «Riguardo alla casa e alle cose semplici che sono le più importanti. Credo che per lui nella vita ci siano sempre state al primo posto la casa e la famiglia, o almeno questo è quello che lui ha scelto di pensare. Anche io per molti anni l'ho fatto, finché sono ritornato a casa e ho visto di nuovo la mia famiglia.» Sorrise. «È questo che mi ha fatto arruolare nell'esercito imperiale» aggiunse. «Mi scusi, non la seguo.» «L'Impero è un luogo grande» rispose Bardas. «E io volevo mettere quanta più distanza era possibile tra me, la mia casa e la mia famiglia.» «Oh.» L'espressione di Estar suggerì che quel concetto era difficile da afferrare per lui. «Be', la sua sfortuna è la nostra fortuna. È felice di avere quest'occupazione?» Bardas aggrottò la fronte. «Non lo so» disse. «Voglio dire, non ne sono sicuro. E... be', per quanto mi riguarda è un criterio insolito giudicare qualcosa dal fatto che renda felici o no. È un po' come chiedere a un uomo che è aggrappato a un relitto in mezzo al mare se gli piace il colore.» Estar corrugò irritato le sopracciglia. «Oh, andiamo» disse «questo è sicuramente un po' troppo melodrammatico. Eccola qui: un uomo forte e sano negli anni migliori. Sicuramente deve lavorare per guadagnarsi da vivere; ma non sarebbe altrettanto facile fare qualcosa che le piace, o almeno qualcosa che non ritiene oltraggioso? È come il cacciatore immaginario con la fionda di cui parlavo poco fa: può avere anche solo una fionda e un sasso, ma ha ancora la possibilità di salire su per la collina. Se non le piace essere un soldato, vada via e faccia qualcos'altro: intrecci panieri, costruisca terrine o spaventi i passeri. Oppure si costruisca una fionda e raccolga una manciata di sassi.» Bardas sorrise. Il ragazzo era infine riuscito a rompere il cranio della pecora, e stava raccogliendo il cervello bianco e molle in una ciotola con un cucchiaio di stagno. «Ah» disse, «ma prima di poter fare questo avrei bisogno di un'armatura completa, come ha detto lei stesso. Ne avrei bisogno per essere al sicuro da tutti i miei nemici.» Estar scrollò le spalle. «Venga a vivere all'interno dell'Impero. Una volta
oltrepassate le province esterne, tutti sono al sicuro. Potrebbe allontanarsi subito dai suoi nemici, e anche se riuscissero a rintracciarla e a trovarla, non oserebbero mai creare guai all'interno dell'Impero.» «È un'offerta allettante» rispose Bardas, ricordando l'uomo e i suoi figli che avevano cercato di derubare la carrozza postale. «Ma ci penserei due volte prima di farla, se fossi in lei. Vede, ovunque io vada, questo pericoloso sobillatore assetato di sangue continua a seguirmi, e non sono sicuro che lei sarebbe troppo contento di averlo intorno.» Estar corrugo la fronte. «Intende dire suo fratello?» chiese. Bardas osservò il ragazzo che scuoteva l'ultimo pezzetto di gelatina bianca per farla uscire dal cranio. «La mia stessa carne e il mio stesso sangue» rispose. «Cosa ne pensi?» disse Iseutz. «Sei ridicola» rispose sua madre senza alzare lo sguardo dalla calcolatrice. «Fortunatamente nessuno ti vedrà vestita così, quindi non ha importanza.» Iseutz si accigliò. «Io penso che mi stia bene» disse. Nell'angolo della stanza il gatto di sua madre stava mangiando un uccellino, in modo piuttosto rumoroso, e non preoccupandosi particolarmente che l'uccello fosse ancora vivo. Iseutz lo riconobbe: era la gracula dei vicini di casa. «Potrebbe andare accorciandolo un po', non credi?» disse tirando su l'orlo della gonna con la mano sinistra. «Sono incerta: è meglio al ginocchio o un po' più su?» Niessa Loredan guardò accigliata i dischi per contare che aveva davanti a sé. «A chi importa?» chiese. «A me.» «Da quando?» Niessa rise in modo spiacevole. «E inoltre» aggiunse «se te ne intendessi un minimo di moda sapresti che questo genere è morto e sepolto ormai. Lo stai facendo solo per darmi fastidio: lo stesso motivo per ogni cosa che fai.» Iseutz non fece caso alle parole della madre: si sedette in un divanetto sotto la finestra, con la schiena rivolta verso il mare blu, ed esaminò attentamente la mano monca. «Se nessuno mi guarderà mai» disse dolcemente «che importanza ha se l'abito è passato di moda?» «Io devo guardarti» rispose acidamente Niessa. «E ho già abbastanza cose da sopportare senza che ti pavoneggi vestita in quel modo.» Alzò lo sguardo. «Tutto questo è dovuto al fatto che ho impedito che continuassi a
scrivere a zio Gorgas, vero?» Questo è quello che pensi tu. «Non ha niente a che fare con questo» disse Iseutz. «Tu pensi che tutto ciò che faccio in qualche modo riguardi te.» Niessa incrociò le braccia. «Se tu fossi davvero interessata al tuo aspetto, se fossi davvero interessata a qualcosa di normale, sarebbe diverso. Ma non lo sei... guardati, sei un mostro.» «Grazie» rispose seria Iseutz. «E adesso» continuò sua madre «insisti anche per vestirti come un mostro. E questo è troppo: non te lo permetterò, e la mia decisione è definitiva.» Iseutz guardò il mare. «Non sono un mostro» disse «sono una Loredan. La differenza è piccola ma significativa.» Niessa scosse la testa. «Ma non è terribilmente scomodo? Sembra proprio esserlo.» Lo era, naturalmente: era uno dei motivi per cui l'aspetto da principessaguerriera era morto in luoghi più razionali. Lì ad Ap' Bermidan era quasi una tortura: la pelle era rigida e appiccicaticcia per il sudore, e il solo peso della cotta di maglia che premeva sul collo e sulle spalle le stava facendo venire i crampi su e giù per la schiena. «È comodo» disse Iseutz. «Molto pi? di tutte quelle lunghe gonne orribili.» «Allora perché continui a massaggiarti il collo quando credi che non ti stia guardando?» chiese Niessa. «Posso vedere da qui che sfregando ti si è formata una piaga: ti sta bene.» Iseutz tamburellò con i talloni contro la parete. «A me piace. Penso che mi si addica.» Niessa sorrise. «Non discuto su questo. Ma lo scopo principale di indossare dei vestiti è di cercare di nascondere chi sei.» Fece schioccare la lingua... una cosa che dava terribilmente ai nervi a sua figlia. «E dici di non riuscire a capire perché non ti lascio uscire in pubblico.» Nasconde ciò che sono, come fanno le erbe da cucina con la carne guasta. «Non hai detto cosa dovrei fare con la gonna» disse Iseutz. «Tutto considerato, penso che la lascerò così com'è: dopo tutto non sono molto brava con l'ago.» «O senza» sospirò Niessa. «Adesso chiudi il becco o vai nella tua stanza. Ho del lavoro da fare.» Iseutz sorrise, e si spostò un po', in modo da poter guardare fuori dalla finestra senza allungare il collo. Il cielo e il mare erano blu, e una striscia di sabbia bianca li divideva. Era una vista monotona, ma era l'unica.
«Cos'è?» disse Niessa sollevando di scatto la testa. Qualcuno stava picchiando alla porta di sotto. «Mi ha fatto fare un salto.» Iseutz fece finta di non notare la cosa. Sperò che fosse il corriere di Ap' Muren: un grosso mercante d'aglio che veniva da Ap' Muren a volte faceva acquisti da un isolano che occasionalmente andava nel Mesoge per prendere funghi secchi e colla di pesce. Ma sua madre non faceva affari con Ap' Muren da secoli, quindi la cosa non era molto probabile. La porta si aprì, ma l'uomo che entrò non era il portiere, che invece apparve agitato alle spalle del nuovo arrivato. Si trattava di un soldato. «Niessa Loredan» disse. Era un'affermazione, non una domanda. «Cosa vuole?» «Deve venire con noi» disse il soldato, mentre altri due, all'apparenza identici, si facevano largo nella stanza superando il portiere. Le loro armature li facevano sembrare enormi e possenti. «Col cavolo» disse Niessa, ma un soldato le afferrò la nuca come un uomo che solleva un cagnolino, e la spinse verso la porta. «Cosa succede?» strillò Niessa. «Dove mi state portando?» Il soldato non sembrò aver sentito. Iseutz scivolò via dal divano sotto la finestra. «Posso venire anch'io?» chiese. Il soldato la guardò. «Iseutz Loredan» disse. «Anche lei.» «È un piacere» rispose Iseutz. «Abbiamo il tempo di prendere qualche cosa o...?» A quanto sembrava no: il soldato le afferrò un braccio e la spinse fuori dalla stanza, lungo la scala a chiocciola, tanto forte che quasi scivolò e cadde. Ai piedi della scala il soldato si fermò, le tolse la piccola spada giocattolo dalla guaina che aveva in vita e la fece cadere sul pavimento. «Da questa parte» disse. «Lungo il sentiero? Sono davvero contenta che me l'abbia detto, non l'avrei mai immaginato.» Non avevano il senso dell'umorismo i soldati: per aver detto quella frase, ricevette una spinta sulla spalla che quasi la mandò a terra. Ma riuscì a mantenere l'equilibrio quanto bastava per afferrare il polso dell'uomo con la mano sinistra e gettarlo sulla sua schiena e oltre le spalle. A giudicare dal rumore che ne seguì, non atterrò molto bene. «Iseutz!» urlò sua madre, furiosa, terrorizzata e imbarazzata. Un altro soldato stava sguainando la spada... per istinto, probabilmente, o per una risposta condizionata, ma nemmeno Iseutz ragionava bene. Saltellando avanti di un paio di passi diede un calcio in faccia al soldato a terra prima
che avesse la possibilità di rialzarsi (sentì l'osso del naso rompersi), si mosse su e giù, fece scivolare la spada dalla sua guaina con la mano sinistra e avanzò. I due soldati rimasti avevano sguainato le spade, ma non sapevano cosa fare: combattere le ragazze con una mano sola che l'ufficio del prefetto voleva vive e che erano anche capaci di lanciare per aria i caporali della guardia come petali di rose, non era decisamente qualcosa che i soldati erano disposti a fare senza aver prima appreso le regole del combattimento da un ufficiale anziano. «Iseutz» gemette Niessa furiosa «cosa diavolo pensi di fare? Metti giù la spada immediatamente, prima che vi facciate entrambi...» Se sua madre non avesse interferito, Iseutz avrebbe anche potuto lasciar cadere la spada: dopo tutto si trovava in una posizione veramente difficile. Invece, strinse l'elsa ancora più saldamente, e pregò silenziosamente la Fortuna degli Stupidi che i soldati non immaginassero che lei non era assolutamente in grado di combattere con la mano sinistra. Mentre avanzava, loro indietreggiavano: li aggirò gradatamente finché si trovò a dare la schiena alla strada. Poi si voltò e corse il più velocemente possibile. La inseguirono: i due soldati dietro di lei guadagnavano terreno, il caporale invece andava a rilento. Non riusciva a correre bene: aveva trascorso troppo tempo rinchiusa nella casa di sua madre, e non aveva fatto abbastanza esercizi. Così aspettò finché le furono quasi addosso, poi si girò, facendo sibilare la spada all'altezza delle spalle in un cerchio piatto. I soldati si fermarono subito. Uno inciampò e scivolò, e l'altro si mise in guardia difensiva e la fissò con un'espressione terrorizzata del tipo perché-proprio-io. Iseutz gli fece un largo sorriso e affondò. Non fu un buon affondo - zio Bardas non avrebbe approvato - ma il soldato non era uno spadaccino particolarmente bravo; invece di parare si tolse di mezzo saltando all'indietro, e atterrando quasi sulla mano tesa del suo collega. Arrenditi pensò. Non ti faranno del male. Invece lei allungò di nuovo: stavolta fu un affondo fatto veramente male, con la testa instabile e completamente senza equilibrio. La parata del soldato fu anche peggiore: una tipica risposta maldestra da parte di un destrorso contro un mancino. Iseutz recuperò abbastanza bene, fece una finta in basso e poi mise a segno un breve fendente di rovescio che prese la spada del soldato sulla lama, all'altezza di un dito sotto i gavigliani, e gliela tolse di mano. L'uomo rimase perfettamente immobile, a fissarla: accanto a lui il suo collega si stava rimettendo a fatica in piedi. Iseutz si voltò e corse. Le cose andavano un po' meglio adesso: il soldato si era fermato per rac-
cogliere la spada, il suo compagno che era caduto si era distorto la caviglia e zoppicava, e il caporale era ancora molto indietro. Tuttavia era solo una questione di tempo e distanza, e lei lo sapeva. Al diavolo: sarebbe stato divertente vedere quanto sarebbe andata lontano. «Iseutz!» sua madre urlò in lontananza. Probabilmente nessun altro incentivo sarebbe riuscito così bene a costringere le sue ginocchia intorpidite a continuare su per la scarpata e giù nel pendio dall'altra parte... ... Dove (non esiste un dio per la Fortuna degli Sciocchi, e io sono la sua prescelta) si trovò tra le braccia di un uomo veramente agitato che si trovava in piedi accanto a un ottimo cavallo, a cui stava stringendo il sottopancia della sella. Iseutz gridò per lo shock, trasformò il grido in un ringhio, e agitò la spada in aria: l'uomo vacillò all'indietro, scivolò e barcollò allontanandosi. Ma io odio i cavalli pensò Iseutz mentre infilava il piede in una staffa e saliva sulla schiena dell'animale, cercando di afferrare senza esito le redini con i monconi della mano destra. Fece scivolare la spada tra la sella e la sua coscia destra, premendo forte per tenerla lì, afferrò le redini e affondò i calcagni. Naturalmente non aveva la minima idea di dove andare; non era quasi mai uscita dalla casa da quando erano arrivati in quel luogo dimenticato da Dio. Ma non aveva importanza: prima o poi l'avrebbero presa, quindi era inutile pianificare un itinerario. Il cavallo, d'altra parte, sembrava avere una propria visione della situazione: non importava quanto forte lei cercasse di fargli girare la testa, prima o poi ritornava alla sua corsa prestabilita... Iseutz ipotizzò che si stessero dirigendo verso ovest, ma l'orientamento non era mai stato uno dei suoi punti forti. La spada e la cucitura rialzata di quella stupida maglia di pelle la pungevano atrocemente. Tutto considerato, pensò, non sarebbe stata troppo dispiaciuta quando tutto fosse finito. (Azioni d'impulso, riflessi rapidi, decisioni immediate; poi afferra il cavallo di qualcun altro e scappa, più veloce che puoi. È il modo di agire dei Loredan... lo zio Gorgas sarà fiero quando glielo dirò...) E poi, quasi d'improvviso, non c'era più un posto dove correre. Il mare si estendeva davanti a lei sotto il bordo di un pezzetto di terra: era arrivata a un ciglio. Il cavallo voleva andare a sinistra, seguendo la linea costiera su verso Ap' Bermidan. Iseutz non aveva alcuna idea su dove dirigersi, quindi girarono a sinistra: e ben presto si trovarono alla periferia della città, superarono le cornici quadrate di legno sulle quali i pescatori appendevano le loro
prede per essiccarle al sole e al vento. Mentre cavalcava sentì l'odore del pesce, che contorto dalla morte e dall'essiccazione in forme melodrammatiche, era rigido come assi e senza squame. Immerso in olio d'oliva oppure con un po' di burro d'aglio, quella roba aveva il sapore della legna da ardere unta, e nessuno degli abitanti del luogo l'avrebbe mai toccata. Così la mandavano nell'interno, dove era considerata una prelibatezza. Mentre raggiungeva il margine del porto, una mezzaluna poco profonda racchiusa da una lunga lingua di terra artificiale che si estendeva da uno sperone di roccia che affiorava, Iseutz vide che c'erano solo due navi in banchina. Una di esse era una galera corta e rozza... un pessimo surrogato di una nave, che costituiva tutto ciò che gli imperiali sapevano costruire. L'altra era una cosa completamente diversa: ricurva e affusolata alle estremità, elevata come una fetta di melone, con piccoli castelli a poppa e a prua che si stagliavano sull'acqua. Non era stata figlia di una mercante per molto tempo, ma persino lei riusciva a riconoscere un mercantile di Colleon a lunga percorrenza. Controllò con le redini il cavallo, si accigliò e poi sorrise. Era inutile tentare, naturalmente: non l'avrebbero mai fatta salire a bordo e inoltre il tempismo sarebbe stato sbagliato... probabilmente erano appena arrivati e non avevano fretta di andarsene. Tuttavia non vedeva nessun motivo per non provare: al massimo poteva non riuscire. C'era un piccolo gruppo di uomini che caricava barili sulla nave con un paranco. «Salve» disse Iseutz. Interruppero il lavoro e la guardarono. «Dove siete diretti?» chiese scendendo da cavallo. Ci fu un lungo silenzio, e poi uno degli uomini disse: «All'Isola.» «Che fortuna, allora» Iseutz continuò allegramente «perché è dove sono diretta anch'io.» L'uomo che aveva parlato la squadrò da capo a piedi. «È una mercante?» chiese. Iseutz si rese conto che il suo ridicolo vestito era il genere di abito che un mercante dell'Isola avrebbe potuto indossare. «Sono un corriere» rispose. «Per la Banca di Shastel. Porto solo lettere» aggiunse sorridendo «non denaro contante, quindi è inutile gettarmi fuori bordo non appena lontano dalla terra. Ho perso la coincidenza qualche giorno fa e sono davvero in ritardo, quindi se poteste aiutarmi vi sarei veramente grata. E lo sarebbe anche la Banca» aggiunse. «Non dipende da me» rispose l'uomo. Iseutz annuì. «Allora se potete dirmi dove posso trovare chi è al comando...»
L'uomo rivolse la testa verso la nave. «Il Capitano Yelet» disse. «Ha molte cose da portare? Partiremo presto, non appena questa partita sarà caricata, o perderemo la marea.» Lei sorrise, scosse la testa, sciolse la bisaccia e se la mise sulle spalle. Era sorprendentemente pesante, e mentre la teneva contro la guancia, pensò di sentire il tintinnio del denaro. «Il Capitano Yelet» ripeté. «Grazie davvero. Ci vediamo dopo.» Non fu difficile trovare il capitano, ma quando riuscì a rintracciarlo, mentre controllava gli ancoraggi nella stiva di carico, Iseutz aveva ormai avuto la possibilità di guardare dentro la bisaccia. La fortuna degli sciocchi: c'era una piccola fortuna lì dentro. «Deve stare attenta» la ammonì severo il capitano mentre lei prendeva due quarti d'oro e li metteva nell'enorme mano rotonda dell'uomo «a viaggiare da sola con tutto quel denaro.» Iseutz scrollò le spalle. «Me la cavo» disse. Caro zio... Non aveva mai provato a scrivere con la mano sinistra. Era ancora una scrittura confusa, ma molto meglio di quanto fosse riuscita a fare con il moncone della mano destra. Quando il sole tramontò e il vento diminuì, alla fine la nave rimase sufficientemente ferma così Iseutz poté mettere la boccetta d'inchiostro accanto a lei per terra con una ragionevole possibilità che rimanesse ferma. Aveva quasi trovato un tesoro, in quella bisaccia: oltre ai soldi aveva trovato un adorabile set da scrittura da viaggio, con penne, inchiostro in polvere, un piccolo e prezioso temperino, una boccetta d'inchiostro e un supporto... tutto in una scatola piatta che si poteva usare per appoggio. E la fortuna degli sciocchi non era terminata lì: dopo aver concluso i suoi affari sull'Isola, il Capitano Yelet era diretto a Barzea, dov'era sicuro di riuscire a trovare un commerciante di iuta diretto a Tornoys che sarebbe stato ben lieto di consegnare la sua lettera. Dopo tutto si stava rivelando una buona giornata. Naturalmente non era terminata: c'erano ancora un paio di gocce di sangue da tirar fuori dal sole prima che tramontasse... tempo sufficiente perché la galera dei soldati apparisse e l'arrestasse, sempre che avessero sentito parlare di quella nave e che avessero capito come stavano le cose.. Sarebbe potuto accadere questo: ma sull'altro piatto della bilancia c'era là fortuna dei Loredan...
(Dopo tutto zio Gorgas c'è riuscito: mi chiedo come abbia fatto. Ha cavalcato fino a Tornoys, il giorno in cui sono stata concepita, e ha trovato per caso una nave che era sul punto di partire per Perimadeia? Ha aperto le bisacce sul cavallo di mio padre e ha scoperto un portafoglio pieno di soldi, sufficienti a pagare un passaggio in mare? Si è fermato a chiedersi quanto in la poteva ancora andare prima che la corda finisse?) Iseutz pensò per un momento, cercando di trovare le parole giuste. Non era mai stato un lavoro facile quando le cose andavano bene... quando il corso di un'intera vita poteva dipendere da una sfumatura fraintesa, si trattava di un lavoro estremamente delicato. Caro zio, ti andrebbe bene se venissi a stare con te per un po'? recentemente le cose sono state un po' agitate... (Non c'era bisogno di specificare oltre.) ...e penso che un cambiamento di ambiente mi farebbe bene. Inutile dire che prometto di comportarmi... (Forse quella frase gli avrebbe fatto venire in mente brutti ricordi? Molto dipendeva dal fatto se la lettera l'avrebbe raggiunto prima della dichiarazione ufficiale di essere una ricercata; inoltre molto dipendeva anche dal fatto se il Capitano Yelet si sarebbe diretto subito a Barzea dopo essersi fermato all'Isola, oppure se si sarebbe soffermato lungo la costa per fare consegne e commissioni, e se il prezzo della iuta era abbastanza buono al momento da giustificare gli acquisti di materiali grezzi fatti nel Mesoge dai vari proprietari degli spazi dove si fabbricano le corde. A conti fatti, era meglio lasciar perdere quella frase: non l'avrebbe creduta comunque, né si sarebbe preoccupato più di tanto.) ...un cambiamento di ambiente mi farebbe bene. Mi sento come se fossi stata rinchiusa in questo posto desolato per secoli; e inoltre sono passati degli anni da quando ti ho visto l'ultima volta. Come stanno zio Clefas e zio Zonaras, a proposito? Ti rendi conto che non li ho mai incontrati, quindi sarebbe qualcosa a cui aspirare. Perciò, se tu potessi trovare una strada... (No. Non implorare.) ... Oh, un'altra cosa: secondo il capitano della nave su cui mi trovo, non ci sono molte possibilità di lasciare l'Isola al momento: la cosa è in rapporto con l'ufficio provinciale che sta noleggiando tutto ciò che galleggia; sono talmente in arretrato con le notizie che probabilmente ho confuso tutto... così se per caso sei a conoscenza di navi che arrivano all'Isola dal Mesoge e tornano indietro, potresti chiedere al capitano di venire a pren-
dermi e portarmi via con lui? Ancora non so dove alloggerò: non conosco nessuno sull'Isola, quindi penso che si tratterà di una locanda qualunque... (Qui ci vuole il giusto grado di pathos, o è necessario sottolineare di più la questione? No: essere ovvi probabilmente si sarebbe dimostrato controproducente.) Quando Iseutz finì di scrivere la lettera, la sigillò con una goccia della splendida ceralacca blu che si trovava nel set di scrittura; stava per premere sul piccolo sigillo di corniola quando le venne in mente che zio Gorgas poteva conoscere l'uomo che aveva derubato, e questo fatto avrebbe potuto rappresentare un problema: così segnò una grossa L per Loredan con l'unghia del pollice... e la portò al Capitano Yelet, che si assunse il compito di metterla al sicuro nella sua scatola di documenti, avvolta in un piccolo tubo di ottone. A quanto sembrava il capitano era dell'idea che lei fosse la figlia di qualche facoltosa famiglia dell'Isola, mandata all'estero per la sua prima commissione, che aveva fatto una gran confusione e aveva perso il suo battello, così aiutarla gli sarebbe stato probabilmente utile nel futuro. Iseutz non aveva detto nulla, quindi presumibilmente era stato ingannato dalla camicetta a cotta di maglia e dai cosciali di pelle elegantemente goffrata dell'aspetto della principessa-guerriera. CAPITOLO DODICESIMO «Questo prova solo quello che ho sempre affermato di noi» disse Eseutz Mesatges osservando le navi appoggio che caricavano accanto alla Banchina della Città. «Non siamo davvero gente d'affari... siamo dei romantici. Giochiamo al commercio perché è divertente, così come altre nazioni giocano alla guerra. Non siamo in affari per fare soldi: è solo una scusa per divertirsi e avere avventure eccitanti.» «Questo non è...» «Ignorala, Ven... fa solo la capricciosa» lo interruppe Athli, prima che Venart Auzeil potesse rispondere. «Vero, cara?» «Certo che no.» Eseutz si sedette sull'angolo di una grossa balla di lana di Ap' Imaz e poggiò i gomiti sulle ginocchia. «Intendevo proprio dire quello che ho detto. Se ci interessassero davvero i soldi, adesso saremmo tristi, poiché questo accordo meraviglioso sta arrivando alla conclusione... ma posso sentire il sollievo che si diffonde da voi come gli odori di cucina in un caldo pomeriggio. Eravate annoiati di sedere immobili e prendere i soldi del prefetto per non fare nulla. Adesso sta accadendo qualcosa: siete
tutti ansiosi di osservare una guerra imponente, e poi di riavere le vostre navi per potervene andare via nuovamente da questa insignificante isola e nel grande mondo. Ammettetelo» disse con un sorriso «ho ragione. Probabilmente» aggiunse «è la semplice forza dell'abitudine.» «Sì, Eseutz» disse in tono serio Athli «è come dici tu.» Doveva però ammettere che c'era una certa verità in ciò che Eseutz aveva appena detto. Come non-isolana poteva vederla; loro, naturalmente, non potevano, come ci si aspettava. La Banchina della Città prendeva il nome dal traffico per cui era stata costruita: gli scambi naturali di beni tra l'Isola e Perimadeia. Quando la banchina era stata costruita, non era stato necessario specificare il nome della città, proprio come quando si parla del cielo: non occorre identificare a quale cielo ci si riferisce. Dalla Caduta (sull'Isola la parola Caduta era ugualmente priva di ambiguità), gli affari sulla Banchina erano scesi di più di un terzo. Soltanto i mercantili di Colleon facevano scalo ormai: le navi degli isolani dirette a Shastel, all'Impero e a occidente salpavano dal Molo del Mare o dal Drutz. Era come ai vecchi tempi, dicevano le persone, vedere la Banchina affollata di nuovo; era un segno degli avvenimenti futuri, aggiunsero speranzosi, se e quando l'ufficio provinciale avesse ricostruito Perimadeia e riaperto le sue innumerevoli fabbriche. «Era ora che scavassero il Taglio» disse Venart, che aveva seguito questa linea di pensiero. «Dalla Caduta è rimasto insabbiato. Se cominceranno a usare la Banchina di nuovo...» Athli sorrise. «È un se piuttosto grosso, non pensi? La flotta non è ancora salpata, e stai già sognando nuove opportunità d'affari.» «Mi stai mettendo in bocca cose che non ho detto» rispose Venart scontroso. «Sto solo dicendo che il Taglio necessita di lavori, e più lo lasciamo così, peggio sarà.» Il Taglio era stato una meraviglia un tempo: era un canale scavato attraverso l'Isola dalla Banchina al Drutz in linea retta, proprio attraverso le basse colline sopra la Città e (grazie alla squadra di ingegneri perimadeiani che l'avevano costruita duecento anni prima) sotto la Montagna Bianca per mezzo di una galleria lunga un miglio ricavata nella solida roccia. Paragonato al Taglio, il piccolo porto fatto dall'uomo dall'altra parte era un'impresa relativamente normale: ma era il porto a fregiarsi del nome di Renvaut Drutz, il capo ingegnere, non il canale che era indubbiamente la sua opera più grande, sia in termini di grandezza sia di utilità. Questa era l'Isola. «Be'» disse Vetriz Auzeil, che sedeva tranquilla all'ombra del suo picco-
lo parasole dipinto «sono d'accordo con Eseutz; almeno penso di esserlo. Prima faranno la loro dannata guerra e noi riavremo le nostre navi, prima Ven potrà tornare al lavoro e io potrò avere un po' di pace in casa. È stato insopportabile in queste ultime settimane, senza avere nulla da fare. L'altroieri ha trascorso tre ore a fare un inventario scritto del ripostiglio della biancheria di lino...» «Solo perché non hai mai...» Vetriz lo ignorò. «Avreste dovuto vederlo: era una situazione comica. "Oggetto, un telo logoro, rammendato dai lati al centro, bianco e scolorito. Oggetto..."» Eseutz ridacchiò. Athli sorrise e disse «Davvero comodo per te, Ven. Se scoppierà un incendio, avrai un elenco per l'assicurazione.» «No, non l'avrà» obiettò Vetriz. «Quando ha finito ha messo l'elenco nell'armadio dei documenti nell'ufficio contabile. Brucerà insieme a tutto il resto.» «Mia madre era solita farlo» disse Eseutz. «Rammendare le vecchie lenzuola, intendo. Quando è morta, quasi ogni pezzetto di tessuto in casa era stato rammendato tante di quelle volte che era costituito più da fili che da tessuto. Finì tutto alla cartiera. E sì che ci potevamo benissimo permettere di comprare lenzuola nuove: è solo che lei era irrefrenabile...» «Proprio come te» osservò Athli «ma al contrario. Tutte le volte che sono venuta a casa tua giurerei di non aver mai visto lo stesso arazzo appeso alla parete.» «Quelli sono affari» ribatté Eseutz. «Sono giacenze di magazzino... Tutto ciò per cui non ho posto in magazzino lo appendo al muro. Poi quando qualcuno arriva e dice Mia cara, dove hai preso questi arazzi divini? li vendo.» Le navi appoggio erano caratteristiche dell'Isola, e non si trovavano da nessun'altra parte; erano chiatte lunghe costruite a fasciame sovrapposto, con chiglie altissime che non avevano alcuna funzione e che necessitavano di altri giorni per la costruzione. Davanti sembravano un cigno nero che planava sull'acqua. Procedevano piano, a causa del peso delle balle di rifornimenti e forniture che apparivano come per magia dalle soffitte e dalle porte dei magazzini che si affacciavano sulla Banchina. I magazzini erano probabilmente gli edifici più belli e imponenti dell'Isola: erano costruiti a imitazione di un centinaio di stili diversi provenienti da un centinaio di luoghi diversi, e non ce n'erano due uguali. I mercanti che erano contenti di vivere in appartamenti piccoli e stretti, pieni di spifferi, con porte mode-
ste in strade fatiscenti e vicoli della Città, avevano speso una fortuna per decorare le facciate e le metope dei loro magazzini, affermando che trascorrevano più tempo lì che a casa, e che era quello il posto in cui incontravano i loro clienti. La Grande Casa della famiglia Semplan era alta sette piani, aveva solide porte di ottone alte dodici piedi e spesse tre pollici, e la facciata era intarsiata di marmo di Colleon decorato con bassorilievi che raffiguravano antiche battaglie navali; un centinaio di anni prima, ogni dettaglio delle sculture era stato attentamente decorato con vernice rossa, blu e dorata, che l'aria salmastra aveva cancellato nel giro di pochi mesi. Nessuno aveva la minima idea di cosa fossero quelle navi, o di quale battaglia si trattasse; Mehaut Semplan li aveva accettati come pagamento a saldo di un debito da un cliente della Città, e aveva speso quanto aveva originariamente perso nell'accordo per trasportarli a casa e metterli su. La Casa Semplan, nella parte più bassa del Sud della Città, era nascosta dietro un magazzino di farina d'ossa. «Da dove viene tutta questa roba?» chiese Venart. «Forse l'hanno comprata da noi, ma non la riconosco.» «È orribile, vero?» convenne Eseutz. «Se guardate con attenzione, vedrete il numero di lotto e le tacche di contrassegno dell'ufficio provinciale su tutto. È tutta merce che viene da fuori: l'hanno consegnata qui e l'hanno immagazzinata gratis nei nostri magazzini, e adesso la stanno mandando a casa sulle nostre navi. Non hanno bisogno di noi per nulla.» Athli sorrise. «Possono aver usato il tuo magazzino gratis» disse. «Ma questa è colpa tua, perché non hai fatto attenzione. Eri troppo impegnata a fantasticare su quello che avresti fatto quando avresti riavuto la tua barca.» Eseutz si accigliò. «Oh, be'» disse. «Dico che hanno veramente coraggio a fare i loro acquisti, vendite e immagazzinamenti qui, come se fossero loro i proprietari del luogo, mentre noi siamo stati con le mani in mano tutto questo tempo senza avere nulla da fare. È una cosa che fa sentire inutili, in qualche modo. Sarò felice quando tutto questo sarà finito e se ne saranno andati a casa, e al diavolo i soldi.» «Sono d'accordo con te su questo» disse Venart. «A essere sinceri, mi danno i brividi. Chiunque abbia il sangue freddo di iniziare una guerra...» «Sicuramente hanno scelto il modo migliore per agire» disse Athli senza mostrare alcuna espressione. «In ogni caso è il modo più efficiente: la prepari prima, ti assicuri di avere tutti i rifornimenti e l'equipaggiamento, pianifichi la campagna con largo anticipo. Dopo tutto, guardate come ha funzionato bene con Temrai. Non penso che io sarei qui adesso se si fosse
limitato ad avvicinarsi ai cancelli della Città aspettando che qualcuno lo facesse entrare.» Circostanza abbastanza comprensibile, ci fu uno strano silenzio. Mentre la situazione si stava facendo imbarazzante, Eseutz fece un radioso sorriso e disse: «Ora che ci penso, Athli, hai deciso se entrare in affari nel campo delle armature? So che un po' di tempo fa ci stavi pensando.» Athli sospirò. «Non lo farò in prima persona. Investirò solo per conto di un'altra e sì, i controlli sono andati tutti bene. Gli dei lo sanno, c'è molta domanda di armature.» Venart si accigliò. «Io non lo farei, se fossi in te. Appena la guerra sarà finita il mercato sarà invaso con le rimanenze e i rottami: è sempre così, dopo una guerra. Mi ricordo qualche anno fa dopo la questione di Scona... e quella, ricorda, era una piccola guerra... c'erano in giro tanti rottami e cotte che non si riusciva a darli via. E anche le alabarde... le usavano come ganci o le vendevano a peso come rottami. E per quanto riguarda le frecce...» «Ah.» Athli lo interruppe «ma quella situazione era diversa. L'Impero vincerà questa guerra, e non vende mai il suo equipaggiamento, ma lo immagazzina. E dopo aver vinto e assunto il controllo della Città, scusate, del luogo dove un tempo sorgeva la Città, tutti coloro che vivono a occidente degli stretti cominceranno a chiedersi chi sarà il prossimo, e ci sarà una domanda enorme per armature e armi; non che questo sarà loro utile, ma non sono affari miei. Insieme alla carpenteria navale, le armature sono il campo migliore di investimento in questo momento.» Venart sollevò leggermente la testa. «Carpenteria navale?» disse. «Esatto» rispose Athli guardando verso la Banchina. «Quando si renderanno conto che le armature non servono, e cominceranno a fuggire.» Dassascai la spia (così chiamato per distinguerlo da un altro con lo stesso nome che riparava le tende) sedeva accanto al fuoco vicino al recinto delle anatre e affilava un coltello. Aveva una lama sottile e lunga con il dorso tagliato, del tipo che veniva usato per disossare la carne. Aveva finito con la pietra da cote e ora lo stava affilando lentamente sul lato non conciato di una cintura di pelle. Probabilmente era l'unico uomo seduto in tutto l'accampamento: Temrai aveva deciso di spostare le tribù verso sud-est, in direzione dell'esercito imperiale che si stava avvicinando dal lato di Ap' Escatoy. Dopo aver trascorso quasi sette anni nello stesso luogo, gli uomini delle pianure si muovevano rigidamente, come chi si alza al mattino dopo aver dormito troppo
poco. Metà della forza lavoro era andata via alle prime luci per cominciare a radunare la mandria. Dopo sette anni di pascolo continuo, era rimasta a stento un po' d'erba nelle immediate vicinanze dell'accampamento. Perciò gli animali non erano più vicini e raccolti, come ai vecchi tempi, ma dispersi attraverso migliaia di acri di pianura a est. Molti ragazzi che facevano parte della squadra non avevano mai visto un raduno del bestiame su vasta scala, e non sapevano bene cosa fare; per lo più prendevano l'intera faccenda come un'avventura, e il loro entusiasmo era sufficiente a non far pensare troppo gli uomini alle implicazioni della decisione di Temrai. Ogni cavaliere aveva una sacca di pelle di capra con le provviste sulle spalle, un arco e una faretra su ciascun lato della sella, un mantello e una coperta arrotolata e conservata sulla groppa. Qualche uomo indossava elmetto e cotta, o li portava avvolti in coperture di tessuto incerato o in ceste di vimini; nessuno sapeva con sicurezza dove il nemico sarebbe apparso all'improvviso... avevano già assunto molte delle caratteristiche dei folletti delle fiabe e dei demoni, che sono in agguato nei boschi scuri e balzano addosso inaspettatamente dall'ombra delle rocce alte. L'altra metà della tribù era impegnata a togliere l'accampamento: a smontare i pali delle tende, a piegare feltri e tappeti, a cercare di caricare sette anni di vita sedentaria in panieri e ceste destinati solo alle cose essenziali. Molti scartavano i tesori meravigliosi ma inutili che avevano preso nel sacco della Città: per le strade ormai indistinte dell'accampamento c'erano tripodi di bronzo e tavoli d'avorio, grandi pentole di bronzo e un enorme assortimento di oggetti in bronzo e statue di marmo (una testa qui, un braccio o un piede enorme con uno stivale là; non c'era un singolo pezzo completo, quindi l'accampamento sembrava essere stato il teatro di una battaglia tra due tribù di giganti). Ovunque era possibile, smantellavano le macchine e gli strumenti che avevano costruito nel corso degli anni: seghe, torni, macine azionate dall'acqua, trabocchi e mangani, presse e verricelli, ruote di mulino azionate dal peso di animali o dall'acqua, smembrate come carcasse nel negozio di un macellaio e caricate su carri dal fondo piatto; moltissime cose dovevano essere abbandonate, per mancanza di trasporto o per dimensioni e peso. L'enorme zangola per il burro, per esempio, che lo stesso Temrai aveva aiutato a progettare e costruire, era stata sistemata con le fondamenta di mattoni per evitare che si rovesciasse. Avevano già tolto i giganteschi telai e smantellato il capannone che usavano per il legname; adesso le cornici si ergevano dal suolo come le ossa dei morti, le
donne tagliavano gli enormi tappeti, che erano stati tessuti su di essi, in piccoli quadrati molto più pratici da trasportare. Avevano cercato di recuperare gli sbarramenti per i pesci, ma la maggior parte dei legni principali erano già marciti e non valeva la pena di portarli via; sulla riva alta dove avevano costruito bersagli permanenti per esercitarsi con l'arco, i grandi e rotondi cerchi di paglia giacevano a terra, troppo grandi per essere trasportati, con le cornici rotte e adibite a fare binari improvvisati per i carri. L'accampamento sembrava già essere stato invaso da un nemico: ovunque giaceva materiale di sterro, patrimoni trascurati ed equipaggiamento rotto, mentre i fuochi ammucchiati dove avevano bruciato il fieno in eccedenza e la biada aggiungevano il puzzo del fumo. «Allora tu non vai» disse qualcuno, mentre Dassascai faceva girare la lama avanti e indietro sulla coramella. «Certo che vado» rispose Dassascai. «Ma non ci vorrà molto a preparare le mie cose. È inutile affrettarsi per mettere via tutto e poi sedere con le mani in mano per un paio di giorni aspettando gli altri.» «Non saranno un paio di giorni, se dipenderà da Temrai» commentò l'uomo. «Domani all'alba ce ne andremo via da qui: chi e ciò che non sarà pronto, resterà.» Dassascai sorrise. «Vedremo. Penso che si sia dimenticato esattamente cosa significa spostare questo accampamento. Non siamo qui da una settimana: non si possono ammucchiare sette anni in una sacca e metterla sulle spalle.» «Questo è quello che ha detto Temrai» rispose l'uomo. «Se vuoi discutere la questione con lui, fallo.» «Non è necessario» disse Dassascai. «Devo solo piegare la tenda, prendere le anatre e sono pronto ad andare. Ti abitui a spostarti all'improvviso quando sei un rifugiato.» L'uomo sorrise. «Ne sono sicuro. È vero quello che dicono? Che sei una spia?» Dassascai piegò la testa. «Certo. Tolgo le penne alle oche solo come passatempo.» L'uomo aggrottò la fronte, e poi scrollò le spalle. «Be', se tu fossi davvero una spia, è chiaro che non lo ammetteresti.» «Pensi che io sia una spia?» chiese Dassascai. «Io?» L'uomo rifletté per un momento. «Be', dicono che lo sei.» «Capisco. E per conto di chi sto spiando? L'ufficio provinciale? Bardas Loredan? I folletti dei Denti Cariati?»
«Come potrei saperlo?» rispose l'uomo irritato. «In ogni caso, chiunque sia, non gli servirà a molto: Temrai si terrà un passo avanti, vedrai.» «Così spero, visto che dovrebbe guidarci.» Quando l'uomo se ne andò, Dassascai avvolse con attenzione il coltello in un telo oliato e lo mise a posto nello zaino. Poi tirò fuori un piccolo tubo di ottone, estrasse il rotolo di carta e lo allargò sulle ginocchia. Non c'era scritto nulla. Dopo aver guardato in giro per assicurarsi che nessuno prestasse attenzione, allungò una mano e prese un pezzetto di legno bruciacchiato dal bordo del fuoco. Lo provò su un angolo della carta: scriveva bene. Non cominciò con il nome della persona a cui stava scrivendo: solo una persona avrebbe visto quel messaggio, e non aveva bisogno che qualcuno gli dicesse il suo nome. Scrisse: Per l'amor degli dèi, mi dica cosa vuole che faccia. Arrotolò di nuovo la carta e la infilò nel tubo. Poi allungò una mano nel recinto delle anatre, prese un grosso e grasso maschio e gli ruppe il collo appena sotto la testa torcendo il corpo velocemente, come un uomo con una fionda. Quando morì, prese un coltellino pieghevole dalla fascia, lo aprì e incise l'anatra sotto le costole fino all'ano. Con una rapida rotazione del polso, che ormai gli risultava piuttosto facile dopo la lunga pratica, tolse lo stomaco e gli intestini, fece scivolare il tubo con il messaggio al loro posto, e rapidamente cucì l'incisione con un crine di cavallo e un ago d'acciaio che teneva sempre nel tessuto del colletto del mantello. Fatto questo, uscì dall'accampamento verso la bocca del fiume, dove un'unica nave era legata ai resti della vecchia banchina di Perimadeia. Arrivò appena in tempo per contattare le due persone che voleva vedere. «Scusate» disse. Gannadius alzò lo sguardo. «Sì?» «Mi dispiace disturbarla» spiegò Dassascai «ma devo mandare un'anatra a una persona. Sarebbe così gentile da portarla all'Isola per me?» Gannadius lo guardò. «Manda un'anatra a una persona?» «Esatto.» «Viva o morta?» «Oh, morta.» Gannadius aggrottò la fronte. «Ma è una cosa stupida. Si possono comprare le anatre in qualsiasi bancarella di un pollivendolo.» «Non si possono comprare anatre come questa. È un campione. Si tratta di un ordine speciale.» Sorrise. «Ho ricevuto oggi le istruzioni per la consegna. Se a questa persona piacerà il campione, le prenderà a mille per
volta. Mi farebbe davvero un grande favore.» Dassascai sorrise amabilmente e tirò fuori l'anatra da sotto la sua maglia. «Vede? Lo ammetta, è veramente un'anatra deliziosa.» «Immagino di sì» disse Gannadius. «Ma non andrà a male?» Dassascai scosse la testa. «Creda pure che quattro giorni sono perfetti per esaltarne il sapore. Il mio amico provvederà a ripagarla del disturbo, se è questo di cui si preoccupa.» «Oh no, va bene» rispose subito Gannadius. Era una questione d'onore per gli isolani: portavano e consegnavano sempre le lettere, se potevano; costituiva un'etica essenziale per una nazione commerciale. Aspettarsi una ricompensa era una grossa maleducazione, come chiedere a un uomo che affoga denaro in anticipo prima di salvarlo. «È solo che... be', d'accordo.» «Grazie» disse Dassascai facendo un sorriso radioso. «Mi toglie un grosso peso. Ho cercato di concludere questo accordo da secoli, ma ci sono state poche navi verso l'Isola, ed ero davvero preoccupato che il mio uomo perdesse interesse e l'intera questione sfumasse.» Porse l'anatra a Gannadius, con la testa dritta. Gannadius la guardò disgustato. «Senza offesa, ma mi sembra un'anatra come un'altra.» Dassascai annuì. «Esattamente. Ma è un'anatra che costa poco. È la varietà più rara e più ricercata che esiste.» «Mi sembra giusto» rispose dubbioso Gannadius. «Ma non sarebbe meglio mandarne una viva? La persona che la riceve potrebbe ucciderla e non si correrebbe il rischio che vada a male.» «Ah.» Dassascai aggrottò la fronte e sogghignò. «Ma se va in mano a qualcun altro che comincia ad allevare anatre partendo da quest'esemplare, sarebbe sicuramente la fine della mia opportunità di affari. Se lei se ne intendesse di anatre, si renderebbe conto di cos'ha lì.» «Se lo dice lei» disse Gannadius, desiderando di non essersi fatto coinvolgere. «D'accordo, a chi deve andare?» «C'è scritto» rispose Dassascai. «Non sia così sorpreso» aggiunse con un sorriso. «Alcuni di noi sanno leggere e scrivere, sa.» «Certo. Non volevo implicare...» «Allora va bene così.» Dassascai gli mise in mano un pezzetto di pergamena e vi chiuse le dita sopra, stringendo talmente forte che Gannadius trasalì. «L'apprezzo davvero molto» disse. «Una cosa di questo genere potrebbe rappresentare un'ottima notizia per entrambe le nostre nazioni.» Una nazione dovrebbe inviare anatre a un'altra nazione pensò Gannadius.
«Splendido» commentò. «Be', farò bene a salire a bordo: non voglio perdere il battello.» «Di cosa si trattava?» chiese Theudas mentre suo zio lo raggiungeva sul ponte. Theudas aveva riservato un posto per entrambi tra le spire della corda dell'ancora a poppa. «Cosa ci fai con un'anatra morta?» «Non chiedermelo» rispose Gannadius. «La devo consegnare. A quanto sembra segna l'alba di una nuova era.» «Davvero? Quando arriveremo puzzerà terribilmente.» Gannadius lasciò cadere l'anatra nel centro poco profondo di una pila di corda e vi poggiò lo zaino sopra. «Sciocchezze» disse. «Un'anatra morta si trova nel periodo migliore dopo quattro giorni. Be', nel periodo migliore della sua morte... lasciamo perdere. Smettila di guardarmi in quel modo, d'accordo? È un campione commerciale assolutamente normale. Se fosse un pezzo di tappeto o un sacco di chiodi non ci penseresti due volte.» Theudas sospirò e si accovacciò in cima alla corda. «D'accordo» disse. «È solo che mi sembra un momento strano per mandare campioni all'Isola, con questa guerra, l'accampamento e tutto. Pensavo che avessero altre cose in mente.» «A quanto pare no.» Gannadius appoggiò la schiena contro la balaustra. Sapeva che prima o poi avrebbe avuto il mal di mare, per cui stare il più vicino possibile a un lato costituiva una precauzione necessaria. «Non c'è niente di sbagliato nell'essere ottimisti» continuò «ammesso che nessuno si aspetti che io investa denaro in questa questione. In un certo senso è quasi edificante, questa fiducia nel futuro della sua gente.» Theudas scosse la testa. «O il tuo uomo è matto» disse «o ti sta facendo un brutto scherzo. In ogni caso, se fossi in te butterei quell'affare in mare subito, prima che faccia puzzare l'intera nave o saremo noi a essere gettati via.» «Non fare la lagna» lo rimproverò Gannadius. «Alla fine ce ne andiamo da qui, no? Mi ornerei volentieri dalla testa ai piedi con anatre putrescenti se significasse andarsene da qui e tornare alla civiltà. Non è andata come mi aspettavo... be', tanto per cominciare siamo ancora vivi, cosa che non avrei mai creduto quando camminavamo in quella sudicia e fangosa palude, inseguiti dall'ufficio provinciale. A dire il vero, sono stati estremamente corretti con noi. Probabilmente portare un uccello morto è il minimo che possiamo fare in cambio.» «Corretti?» Theudas lo guardò disgustato. «Non ti importa proprio più, vero?»
Gannadius rimase in silenzio a lungo. «Sai» disse «non sono sicuro che mi importi. Probabilmente questo perché non ero presente... alla Caduta, intendo dire... non ho visto le stesse cose che hai visto tu. Oh, so ciò che mi è stato detto, e credo anche che sia tutto vero. Ma l'unica cosa che mi è successa, a livello personale, è stata che mi sono spostato dalla Città all'Isola, e poi dall'Isola a Shastel, dove ho ottenuto un buon lavoro, le persone mi trattano con rispetto e dannazione sì, sono felice. Pensavo che rivedere tutto questo...» Mosse il braccio in direzione della Città distrutta, senza voltare la testa «... avrebbe reso le cose diverse, e me li avrebbe fatti odiare di nuovo. Ma non è così. Quando li guardo adesso, vedo solo un gruppo di persone talmente preoccupate dalla minaccia dell'invasione che stanno raccogliendo ogni cosa in barili e sacchi, e si stanno spostando. È esattamente quello che ho fatto io. E non posso odiare persone che sono così simili a me.» Theudas fece un sorriso triste. «Io posso.» «Sì, ma tu sei giovane e pieno di energia.» Gannadius si spostò leggermente: la sua schiena stava scomoda, premuta contro la balaustra. «Quando arriverai alla mia età, troverai che è facile dimenticare di odiare tutti i tuoi nemici; e una volta che hai smesso di odiarne uno di loro, diventa quasi impossibile odiare gli altri. Ti permetti di cominciare a pensare cose come: Le persone normali non sono colpevoli, sono i loro capi i responsabili di tutto il male che fanno; e poi un giorno incontri un capo e si rivela quasi umano, e questo è un colpo crudele, come un dito rotto per qualcuno che suona l'arpa come mestiere.» Spostò di nuovo la schiena. «È stato strano vedere Temrai» disse. «Mi ha ricordato un episodio, quando ero giovane e vidi uno squalo che era stato catturato in una rete per sgombri; l'avevano appeso dalla coda, rigido e morto, e lo tagliavano. Sembrava molto più piccolo di quanto mi aspettassi.» Theudas chiuse gli occhi. «È strano che tu dica questo. Ho pensato la stessa cosa. Certo, quando vedi qualcuno quando sei un ragazzo e poi lo rivedi da grande, succede così. Tuttavia, non mi dispiacerebbe vedere Temrai appeso. Penso che mi piacerebbe vederlo appeso per i piedi.» «È un tuo privilegio» rispose Gannadius soffocando uno sbadiglio. «Non ho mai detto che dovresti smettere di odiarlo; dopo tutto hai motivo per farlo. Dico solo che non penso che dovrei farlo anch'io.» «Potresti odiarlo per il mio bene. Non è questo che ci viene insegnato: ama gli amici dei tuoi amici e odia i loro nemici?» «Oh, d'accordo» disse Gannadius. «Per il tuo bene lo odio e spero che la
sua lucertola muoia.» (È una maledizione si rese conto Gannadius; sto lanciando una maledizione contro qualcuno che non odio per il bene di un giovane imbevuto dal desiderio di vendetta. È questo che Alexius ha fatto una volta, e guarda cos'è successo. Dèi, spero che questo mal di testa che ho sia solo un mal di testa... ... E vide dietro i suoi occhi lo squalo, il grasso e la carne spolpati dalle ossa, come i telai di una nave prima che comincino a coprire di tavole i lati. Stavano preparando un bel festino, quei cuochi che vedeva: bistecche di squalo e di orso, e aquile su spiedi come polli, che giravano lentamente sul fuoco, lupi arrostiti e riempiti di mela e castagne, grossi serpenti sventrati e trasformati nella pelle del sanguinaccio, una trancia di leone affumicato che pendeva da un gancio sul soffitto, un'intera cena costituita da animali predatori... riuscì a vederli mettere strisce di filetto di leopardo in fondo a un pasticcio, e imbottigliare ragni giganti di Colleon come piume grasse...) «Cosa vuoi dire?» disse Theudas. «Temrai non ha una lucertola.» «Vedi?» rispose Gannadius. «Sta già cominciando a funzionare.» Bardas Loredan era sicuro di aver osservato la freccia per tutto il percorso, dal momento in cui era apparsa come una piccola macchia nel cielo fino a quando lo aveva colpito; fu un periodo insopportabilmente lungo, ma non abbastanza perché spostasse il piede destro per togliersi di mezzo, anche se fece del suo meglio. Era stato strano, però, al momento dell'impatto, come il tempo può lavorare in quel modo. Era abbastanza da far credere al Principio. Quando il colpo della freccia sul copriguancia dell'elmo gli fece girare la testa - era come venire schiaffeggiati forte sul volto - era sicuro di essere morto (è consuetudine morire prima) ma a quanto sembrava Bardas aveva fatto uno sbaglio (nel tuo caso faremo un'eccezione). Invece, sentì un dolore acuto alle tempie; e se aveva capito bene le regole, al morto viene evitato il dolore, come premio di consolazione. Quando voltò la testa di nuovo, sentì i bordi frastagliati del piccolo buco che la freccia aveva fatto nell'acciaio scivolare lungo la linea della sua mascella fino al bordo del labbro, e il caldo rivolo di sangue all'interno dell'elmetto imbottito, che era molto simile alla sensazione dell'urina che gli scendeva lungo la gamba quando era bambino. Si trattava di uno shock ritardato: barcollò leggermente, poi si alzò di nuovo.
Avevano attaccato senza preavviso; si era sentito un sibilo distante, come l'olio su una padella per friggere, e aveva visto una selva piuttosto folta di frecce che si alzavano contro il sole di mezzogiorno, come un grande stormo di colombe che si levavano in volo da un campo di stoppia. Gli ci volle qualche momento per capire da dove arrivassero le frecce: da una collinetta tra la colonna e la cresta opposta della vallata. Si trattava degli arcieri avanzati, che scoccavano salve da portata estrema a un bersaglio che non potevano nemmeno vedere... una cosa che gli arcieri ausiliari dell'ufficio provinciale non avevano l'abilità o la sicurezza di fare. Gli altri componenti della colonna erano atterriti di venire uccisi da un nemico che non si vedeva nemmeno. A Bardas fece lievemente rimpiangere le miniere. Guardò intorno alla ricerca di Estar, ma non riuscì a vederlo. Nessuno sembrava dare ordini, e i ranghi pazienti e disciplinati della fanteria imperiale erano in piedi immobili, come cavalli da tiro sotto una pioggia pesante. Dannazione pensò Bardas. Avanzò fuori dalla linea e cominciò a urlare ordini militari come Fronte a sinistra e Serrate i ranghi... il genere di cose che aveva imparato nell'esercito di Maxen e pensava di aver dimenticato. Gli imperiali non erano come gli uomini di Maxen, però: erano una gioia da comandare: intelligenti e precisi, che non obbedivano soltanto alle parole di comando, ma credevano in esse, come se fossero le parole sacre di qualche religione. Era snervante quell'obbedienza totale e immediata, con tutte le sue connotazioni di responsabilità e fiducia. Non mi dite che sono coinvolto ancora una volta pensò Bardas pieno di risentimento; ma a meno che qualcuno non avesse tolto quegli uomini dalla linea del fuoco, ci sarebbero state morti e ferite evitabili; Estar non si vedeva, gli altri ufficiali erano in piedi leali quanto gli uomini. Il sangue aveva raggiunto la sua clavicola; il risvolto del suo piccolo usbergo era inzuppato come una spugna, e le estremità acuminate stavano tagliando pezzi profondi e sottili, precisi come le lame sottili dei coltelli dei cuochi mentre preparavano la pecora. È quasi una prova, ma non proprio; un piccolo buco lacerato dall'esterno, e una serie di lacerazioni sanguinose all'interno. Aveva portato l'esercito fuori colonna e in linea, e aveva dato l'ordine di avanzare. Per quel tipo di situazione gli scrittori imperiali sull'arte della guerra raccomandavano una manovra chiamata "il martello e l'incudine": si invita il nemico a concentrare il fuoco su un'avanzata apparentemente suicida della fanteria, con il corpo principale dell'esercito che sembra camminare direttamente nel diluvio di frecce (ma è per questo che esistono le
armature) mentre ali di cavalleria e fanteria leggera attaccano il retro e portano il nemico precipitosamente sulle picche degli uomini alle armi. Era una tattica abbastanza sensata, ammesso che si potesse fare affidamento sul fatto che gli ufficiali di cavalleria facessero bene il loro lavoro. Bardas li aveva visti andarsene via non appena la linea aveva piegato, cavalcando via dai nemici prima di descrivere un ampio arco e apparire inaspettatamente dietro di loro. Su quel terreno dovevano cavalcare tutt'intorno all'altro lato della cresta lontana se volevano rimanere fuori vista. Ci sarebbe voluto molto tempo prima di trovarsi in posizione, il che significava che la fanteria sarebbe dovuta rimanere fuori nella pioggia a inzupparsi. Era una scommessa... le vite di migliaia di uomini che dipendevano da una scommessa: i loro arcieri contro i nostri armieri. Bentornato al palazzo delle prove, Bardas Loredan: sapevamo che non saresti riuscito a rimanere lontano. Cosa diavolo ne era stato del Colonnello Estar? Il buon senso suggeriva che era morto nel corso della prima salva di frecce, anche se Bardas non l'aveva visto cadere. Era inconcepibile che fosse fuggito. Era, dopo tutto, un Figlio del Cielo, e persino Bardas Loredan aveva bisogno di credere in qualcosa. Se Estar era morto... cose del genere non accadono... i comandanti in capo di potenti eserciti non muoiono nella prima salva della prima battaglia che combattono, ma se era morto (e Maxen era morto, ricorda) il comando dell'esercito sarebbe passato al Sergente Loredan, finché un altro Figlio del Cielo fosse arrivato da Ap' Escatoy. Il pensiero fece rabbrividire Bardas. Bardas si trovava di fronte a un problema interessante: una questione di programmazione nell'arte del comando. Per raggiungere il nemico dovevano marciare lungo un ripido pendio. Era essenziale che si tenessero in riga; ma il semplice peso delle armature su cui tutti facevano affidamento, tendeva a farli affrettare, quasi al punto di correre. Bardas dovette puntare i tacchi nella zolla secca e friabile per mantenere l'equilibrio. Immaginò chiaramente la scena ridicola di un esercito ricoperto d'armatura che cadeva lungo il pendio sulla schiena, scivolando e schiantandosi uno contro l'altro, a gambe all'aria in un intrico di acciaio e carne... era la tipica situazione che si verificava in una guerra: era il modo in cui avvenivano i disastri e si perdevano le guerre. In un momento di grande chiarezza riuscì a vedere la scena, come se fosse già successa: un enorme mucchio di spazzatura, come la pila di pezzi che aveva fallito la prova (anche gli uomini, come le armature, avevano fallito la prova: benvenuto a casa), con gli uo-
mini delle pianure in piedi in cima alla piccola salita che scoccavano a volontà in quel caos, ridendo talmente forte che riuscivano a stento a tendere gli archi. L'immagine era così vivace che fu quasi impossibile per Bardas distinguere essa da ciò che vedeva realmente. Urlò ai suoi ufficiali, invisibili dietro di lui, di tenere le righe, per rallentare l'avanzata... be', chiunque poteva dire quelle parole, ma trasformarle in azione, facendole diventare vere, era un lavoro da comandante; lui poteva solo sperare che ci fossero uomini di questo genere nei ranghi dietro di lui. Inoltre le frecce di certo non aiutavano: ormai erano all'orizzonte, scoccate alla loro massima elevazione; rimbalzavano dalle superfici angolate ad arte delle piastre e schizzavano in tutte le direzioni, schiantandosi di lato sui volti e i corpi della quarta e quinta schiera. Non si poteva fare nulla al riguardo: dovevano essere ignorate, come tafani in una giornata calda. L'unica cosa che la schiera non poteva fare era di fermarsi e tornare indietro: se avessero provato a farlo, sarebbero immediatamente ruzzolati lungo il pendio. Si poteva solo trotterellare per quegli ultimi metri. Qualche uomo cadde, portandone con sé altri due o tre, con un tonfo e uno schianto come si sente quando avviene un incidente nell'officina di un fabbro. Non c'era tempo di badare ai caduti: avrebbero dovuto cavarsela da soli, se erano ancora in grado di farlo; c'erano uomini vivi bloccati sotto i morti, come minatori intrappolati da un crollo, e avrebbero dovuto aspettare, facendo affidamento sul generale, sul Sergente Loredan, per vincere la battaglia e sopravvivere; altrimenti sarebbero rimasti lì fino alla morte, o fino all'arrivo dei rigattieri con i loro coltelli aguzzi che raccoglievano i resti e scuoiavano le carcasse. Non avremmo mai dovuto lasciare che il comando cadesse nelle mani di un forestiero: era una ricetta sicura per un disastro. Poteva sentirli dire queste parole. Riuscirono a scendere il pendio: adesso veniva la parte difficile. Non dovevano scalare molto, ma la pendenza era molto forte e in cima c'erano i soldati nemici. Così non va bene; se avessi voluto lavorare così duramente sarei potuto rimanere in quella maledetta fattoria. Era peggio che trasportare sacchi di grano su per la scala a pioli fino in soffitta, oppure trasportare a mano legni pesanti sulle impalcature. A ogni passo temeva che le ginocchia si rompessero o il muscolo si lacerasse attraverso la parte posteriore del polpaccio; poteva sentire i muscoli assorbire il danno (non è molto intelligente, Bardas, ti farai male) e il pensiero di dover combattere contro qualcuno, se fosse riuscito a trascinarsi fino in cima, bastava a farlo ridere forte. Se volevano affrontarlo, avrebbero dovuto aiutarlo a fare gli ultimi
metri, come se fosse un vecchio che trotterellava sulle gambe. Il rumore che le frecce facevano mentre venivano deviate dalle piastre era straordinario: un urlo sibilante di frustrazione. Non tutte le frecce però venivano deviate: essendo scoccate dall'alto, gli angoli erano sbagliati, e c'erano dei punti piatti dove una freccia poteva colpire in pieno. Ogni uomo colpito ne portava giù con sé altri due o tre, mentre cadeva all'indietro e rotolava lungo la collina (se il nemico avesse avuto buon senso avrebbe fatto rotolare rocce e ciocchi) e anche questa circostanza non era certo di aiuto. Ormai il passo era più lento, ed era come se il tempo si fosse fermato (la freccia veniva verso di lui) e non poteva fare nulla tranne sforzarsi a salire facendo un altro passo, e poi un altro ancora. Ormai anche solo respirare era diventato quasi impossibile. È così che le battaglie vengono perdute, ed è così che avvengono i disastri: il mucchio di spazzatura... la pila di pezzi che falliscono la prova. Fissava direttamente un paio di stivali. Erano vecchi, consumati e rammendati in punta. Avevo un paio di stivali come questo un tempo pensò; e proprio mentre ricordava l'uomo morto a cui li aveva presi dopo una battaglia, il proprietario degli stivali gli diede un calcio in fronte. Anche questo fu un errore: gli stivali non erano sufficientemente robusti per dare calci all'acciaio. Nonostante tutto, Bardas non poté fare a meno di sorridere non aveva fiato per ridere, poteva solo sorridere - mentre sentiva l'urlo di dolore. Poi (riusciva ancora a vedere soltanto fino alle ginocchia dell'uomo) si lanciò verso l'alto con la sua picca, quel maledetto pesantissimo affare che si era trascinato dietro per tutto il tempo e che avrebbe fatto bene a usare, e zittì con un colpo l'uomo che urlava. Stiamo combattendo. Be', sappiamo come muoverci in questo frangente. Almeno è qualcosa che so fare. Seguendo la leggera velocità acquisita dalla spinta, si trascinò per l'ultimo passo fino alla cresta della salita, riuscendo a camminare sul corpo dell'uomo morto che gli aveva tolto di mano la picca trascinandola via nel suo stomaco. Mentre si gettava in avanti qualcuno lo colpì sulle spalle (fatica sprecata, cercare di colpire sulla giuntura di spallacci, schiniera e gorgiera), ma Bardas non ebbe il tempo né l'energia di affrontarlo; camminò oltre come se ignorasse un ubriaco nella strada, e tutto il suo corpo si sollevò nel fare un respiro... gli rimase in gola: era come cercare di inghiottire una mela intera. Uno sciocco stava facendo rimbalzare un'ascia in cima al suo elmo: non durò a lungo... Bardas dovette solo sollevare il braccio e farlo cadere di peso, permettendo alla massa costituita da cannoni, cubitiere, spallacci e guanti di forzare la lama della
spada in giù attraverso l'osso e la carne, con l'armatura che faceva tutto il lavoro, e l'uomo al suo interno che poteva fare ben poco. È accaduto pensò Bardas mentre liberava a forza la spada dalla clavicola recisa l'armatura è cresciuta intorno a me e mi ha sigillato al suo interno, come gli anelli di un albero: soltanto l'esterno, la parte di acciaio di me, è viva. Fecero numerose prove: spade, lance, asce e persino grosse pietre e mazze pesanti, ma non riuscirono a far fallire la prova all'armatura. Non erano della stessa lega del grosso martello di Bollo, quando schiacciava e colpiva i fogli di metallo. La loro carne e le loro ossa, d'altra parte, non erano affatto buone: l'intero lotto fallì la prova, a parte qualche pezzo che si ritirò dal test all'ultimo momento. Quando il lavoro terminò, vide il grande mucchio di spazzatura che aveva immaginato: la pila di braccia, gambe, teste, tronchi, piedi e mani che non erano riuscite a passare la prova. C'era poco da meravigliarsi, adesso che le vedeva da vicino: erano fatte dissennatamente, di un materiale diverso dall'acciaio. Quando alla fine la cavalleria si degnò di arrivare non era rimasto nulla da fare. Era chiaro che non ne furono contenti, così come non lo furono di scoprire che adesso si trovavano sotto il comando di un sergente straniero della fanteria. Il loro capitano era un perimadeiano di nome Olethrias Saravin. Bardas cercò di cedergli il comando, ma senza riuscirci. «Assolutamente no» disse Saravin. «Lei ha fatto un pasticcio l'ultima volta che ha combattuto contro queste persone, adesso ha la possibilità di rimettere a posto le cose.» Sembrava inutile discutere con lui, così Bardas lasciò cadere la questione e gli ordinò di prendere tre compagnie e alcuni esploratori e di portarle in avanti, e stavolta (se possibile) di tenere gli occhi aperti per scorgere gli arcieri nemici che probabilmente girovagavano per quei luoghi. Saravin galoppò via malamente, e Bardas diede l'ordine di accamparsi per la notte. Trovarono il corpo di Estar e glielo portarono. Non c'erano segni di lotta sopra, a parte qualche impronta. Sembrava che fosse caduto da cavallo e che avesse avuto un attacco di cuore cercando di alzarsi, senza aiuto, con l'armatura addosso. «Potremmo provare all'Onore e Gloria, immagino» suggerì Eseutz Mesatges. «Non dovrebbe essere troppo affollata a quest'ora del giorno, e lì fanno una zuppa di pesce decente.» Vetriz annuì. Non le importava dove si sarebbero sedute, ma solo di se-
dersi: aveva fatto l'errore di indossare i sandali nuovi (con le cinghie di pelle dura e i tacchi di cinque centimetri, come richiesto dall'aspetto carovana-nomade) prima di allentarli come avrebbe dovuto, e le cinghie la stavano ferendo come una seghetta ad arco. La zuppa di pesce era mediocre, e per di più i cuochi avevano lasciato le cozze e le ostriche nei gusci... «Il che dovrebbe denotare la freschezza e la volontà di tornare alla semplicità delle cose essenziali» commentò Eseutz, immergendo una cozza sotto la superficie della sua zuppa e osservandola ritornare su «ma per quanto mi riguarda ciò significa che il cuoco pensa che sgusciare i mitili è un lavoraccio... un giudizio che condivido incondizionatamente, lasciamelo dire. La parte davvero squallida è che si finisce con un mucchio enorme di gusci scartati sul bordo del piatto, che non è certo bello guardare mentre si mangia.» Vetriz sorrise distrattamente: aveva un gran mal di testa, e non era dell'umore giusto per sopportare Eseutz Mesatges. «Lasciale, allora» disse «e mangia solo la zuppa.» «E sprecare così del cibo pagato caro? Non penso proprio.» Eseutz fece una smorfia e tolse una cozza dal guscio. «La cosa peggiore sono quei piccoli affari rosa simili a scarafaggi, tutti rannicchiati in una palla come un onisco morto. Sfido chiunque ad aprire uno di quegli affari senza un palanchino e un grosso martello.» Era appena entrato qualcuno che a Vetriz sembrava di conoscere... intravide una nuca calva e un paio di spalle larghe. «Sai» disse «non ho proprio fame. Penso che andrò a casa.» «Oh, non essere sciocca» la rimbrottò Eseutz. «Se non ti piace proprio la zuppa di pesce, ordineremo qualcos'altro, Che ne dici del montone aromatizzato al curry?» «Davvero» disse Vetriz con voce più alta di quanto in realtà avrebbe voluto «non ho fame.» Parecchie persone si girarono, compreso l'uomo con la testa calva e le spalle larghe. La guardò per un momento, fece un largo sorriso e camminò verso il tavolo che si trovava sotto la finestra. Vetriz si appoggiò all'indietro sulla sedia, sentendosi piuttosto disturbata di stomaco. «Non è la zuppa di pesce, vero?» chiese Eseutz. «No» rispose Vetriz. «Non è la zuppa di pesce.» «Non sono affari miei, giusto?» disse Eseutz «Esatto» rispose Vetriz. «Non sono affari tuoi.»
«Mi sembra giusto. Se non hai fame, posso prendere il tuo pane?» Gorgas Loredan si fermò e si guardò intorno, finché vide ciò che stava cercando. Quelle spalle sottili e inarcate erano inconfondibili. Si avvicinò e le cinse con un braccio. Iseutz Loredan urlò, poi vide chi era e si rilassò. «Zio Gorgas» disse. «Ho ricevuto la tua lettera» disse lui, divaricando le gambe e sedendosi accanto a lei. Sembrava troppo grande in un luogo così comune. «Di fatto mi ha raggiunto proprio mentre stavo per venire qui. Così ho pensato che ti avrei offerto un passaggio.» Iseutz gli sorrise. «È meraviglioso» disse. «Grazie.» «Piacere mio» rispose Gorgas. «Avrei dovuto invitarti molto prima, ma non ero sicuro di come andavano le cose tra tua madre e me. Quella zuppa sembra buona.» «Mangiala tu, allora» disse Iseutz. «È disgustosa.» Gorgas scrollò le spalle. «A proposito, è vero che hai quasi ucciso un soldato? Oltretutto con la mano sinistra. Hai davvero un dono per la scherma, vero?» «Dev'essere di famiglia» commentò lei senza espressione. «Quindi sai tutto al riguardo, vero?» «Mmm.» Gorgas aveva la bocca piena di zuppa. Aprì le labbra e tirò fuori due gusci di cozze, che fece cadere sul tavolo. «È stato uno sporco trucco, se vuoi il mio parere. Vedi, io ho qualcosa che loro vogliono, ma non vogliono pagare il prezzo che voglio io... ed è una cosa stupida, perché hanno davvero bisogno di ciò che ho e ciò che voglio non costerebbe nulla. Ma le cose stanno così. Immagino che tu e tua madre avreste costituito la controfferta. È triste quando non puoi fare affari con persone come quelle dell'ufficio provinciale senza che ti rapiscano la famiglia e la tengano in riscatto. Se non fosse per il fatto che trattengono tua madre, abbandonerei tutto e li lascerei andare all'inferno.» Sollevò il piatto con la zuppa e lo inclinò versandone il contenuto in bocca. «So dell'accordo» disse Iseutz. «Non ero sicura che noi contassimo tanto per te.» Gorgas si accigliò. Masticò per un momento, facendo rumore, e poi inghiottì. «Non essere ridicola, voi siete la famiglia. Niente è più importante. Ma alla fine ho avuto la meglio... o almeno penso. Ho dato loro il Mesoge.» Iseutz spalancò gli occhi. «Cos'hai fatto?»
«Gliel'ho consegnato, gratis e senza volere nulla.» Fece un largo sorriso. «Dovevi vedere lo sguardo sul volto di quel viscido bastardo dell'inviato... be', era proprio come quello che hai tu adesso: sembrava che avesse inghiottito una ciambella e si fosse poi reso conto che era un riccio. Riflettendoci» aggiunse «può essere che abbiano cercato di prendervi a garanzia del patto, nel caso in cui io cambiassi idea. In ogni modo, qualunque fosse il motivo per cui l'hanno fatto, non ha funzionato. Se vogliono avere il loro maledettissimo pirata, dovranno darmi Niessa e ciò che ho chiesto all'inizio. Di fatto» aggiunse rabbuiandosi un po' «mi hai appena dato un'idea. Questo viaggio potrebbe rivelarsi più interessante di quanto avessi pensato.» Iseutz sorrise. «Sono contenta di averti ispirato. Senti, non voglio metterti fretta, ma questo tuo affare richiederà molto tempo? Perché vorrei andarmene il più presto possibile. Sono sicura che questi soldati hanno cose molto più importanti per la testa che fare prigionieri, ma mi rendono nervosa.» Gorgas annuì. «Saresti sorpresa» disse. «Se c'è una cosa che l'ufficio provinciale disprezza davvero è di perdere un prigioniero. Hai ragione di essere preoccupata. La cosa migliore è di farti salire a bordo della mia nave e portarti via da quest'isola. Dirò di tornare a prendermi.» «Ne sei sicuro? Non voglio essere un disturbo.» Gorgas la guardò. «Non c'è bisogno di esagerare» disse. «Andiamo, puoi essere sincera con me, sono tuo zio. Sono quello a cui hai sputato quando eri in quella prigione a Scona. È per questo che andiamo d'accordo: non facciamo illusioni l'uno riguardo all'altra. È così che dovrebbe essere, tra i componenti di una stessa famiglia.» Iseutz lo guardò aggrottando la fronte, e poi scosse la testa. «Scusa» disse. «Non intendevo insultarti.» «Ah, be', io sono a prova d'insulto» rispose Gorgas con un sorriso. «Sarò sincero con te, così come devi fare tu con me. Voglio che tu sia in salvo da qualche parte, dove gli sbirri del prefetto non ti possano prendere, perché non voglio che abbiano un altro ostaggio. Se questo significa che devo trascorrere qui cinque giorni invece di due, non è un problema; avrò così il tempo per fare quest'altro lavoretto a cui ho appena pensato. Mi stai facendo un favore, anzi due, a dire il vero, perché mi hai dato quell'idea, e io te ne sto facendo uno in cambio. Siamo entrambi contenti, e questo è un bene. Allora, hai cenato, quindi ti accompagno al molo. C'è qualcosa che vuoi portare con te, o sei già pronta?»
«Sono prontissima» rispose Iseutz. «Penso che non mi dirai qual è questa tua grande idea, vero?» «No, non lo farò. Vieni, andiamocene. In verità la zuppa non era affatto male, devo ricordarmi di questo posto. Usciremo dal retro.» Quando passarono vicino al tavolo dove Vetriz era seduta, Gorgas si fermò, annuì educatamente e continuò. «Chi era quella?» chiese Iseutz. «Un'amica di tuo zio Bardas.» «Oh» disse Iseutz. Nel frattempo, Eseutz Mesatges si era chinata in avanti per chiedere «Andiamo, chi è lui!» «Come ho detto» rispose rabbiosa Vetriz «non sono affari...» «Sei sconvolta» continuò Eseutz «perché aveva con sé una ragazza, giovane da essere sua figlia. Te ne sei liberata, se vuoi il mio parere.» «Non lo voglio» disse Vetriz «quindi chiudi il becco.» «Non dirò un'altra parola. Ma pensavo che fossi ancora legata a quel Bardas Loredan... sai, quello che è diventato un eroe ad Ap' Escatoy...» «Eseutz.» «Scusa.» Eseutz sorrise e alzò le mani. «Cambio argomento, non intendevo impicciarmi. Solo che non ci sono pettegolezzi su di te da questo punto di vista, non sei mai interessata a nessuno, quindi non puoi davvero biasimarmi se... d'accordo» aggiunse mentre Vetriz la fissava. «Parliamo di un argomento completamente diverso. Hai comprato quelle scarpe di cui mi parlavi? Io ne ho provato un paio ma mi ferivano i talloni. Sembravano uno strumento di tortura... dimentica i ferri arroventati e il resto: cinque minuti in quei sandali e ti dirò tutto quello che vuoi.» Quando alla fine riuscì a liberarsi di Eseutz, Vetriz andò diritta a casa e mise il catenaccio alla porta. Era un gesto inutile, e Venart si sarebbe infuriato quando, tornando a casa, avrebbe trovato chiuso, ma le serviva a farla sentire meglio. Andò al balcone del primo piano e si sedette dietro la tenda, a osservare la strada, finché fu troppo buio per vedere. Da parte sua, Eseutz fece un salto alla borsa merci della lana, dove non accadeva nulla, chiamò Cens Lauzeta, il barone dell'olio di pesce, che non era a casa, comprò una spigola e un calamaro al Mercato del Recupero e si fermò dal gioielliere per vedere se avevano aggiustato la sua spilla a forma di grillo, ma non era ancora pronta. Allora andò a casa. Lì trovò due uomini seduti nel portico. Uno, circostanza abbastanza seccante, era Cens Lauzeta. L'altro lo riconobbe, anche se non ne sapeva il
nome. Tuttavia si ovviò subito all'inconveniente, perché dopo averla rimproverata per essere stata fuori fino a tardi, Cens glielo presentò. Il suo nome, a quanto sembrava, era Gorgas Loredan, e aveva una proposta d'affari da fare. CAPITOLO TREDICESIMO «Lo troverei molto divertente se non fossi spaventato a morte» disse Temrai lasciando andare il manico della sega e sedendosi sulla trave. «Eccomi qui a costruire fortificazioni per Bardas Loredan, che arriverà e le cingerà d'assedio.» Si tolse la segatura dagli occhi e poi continuò: «È come quando eravamo ragazzi e facevamo a turno i buoni e i cattivi. Sfortunatamente devo aver perso il conto, così non so bene il ruolo che ho al momento.» Avevano quasi raggiunto il Fiume Grigio Ardesia quando la notizia li raggiunse: l'esercito di Cidrocai era stato spazzato via, e Bardas Loredan era ora al comando della colonna nemica in seguito alla morte del colonnello imperiale. («La mia solita fortuna» aveva detto Temrai quando l'aveva saputo. «Uccidiamo un colonnello e guarda cosa succede.») Temrai aveva arrestato la marcia immediatamente (nelle fauci della morte: sì, sicuramente. Nelle braccia di Bardas Loredan: no) e aveva mandato gli esploratori alla ricerca di un luogo da fortificare, con estrema decisione, in vista dell'inevitabile scontro. Si scoprì che non avrebbe potuto scegliere meglio se avesse deciso sin dall'inizio di scavare. A un'ora di marcia gli esploratori avevano trovato un altopiano dai lati scoscesi che saliva fino a una pianura, con un bosco da un lato e un fiumiciattolo dall'altro. Quando lo vide, Temrai non poté fare a meno di sorridere: con il tempo e un certo tipo di lavoro, poteva essere trasformato in una discreta replica della Città Tripla. «Almeno ci dà uno schema da seguire» aveva sottolineato agli ingegneri. «Copieremo nel modo migliore ciò che hanno fatto con il tempo che abbiamo a disposizione. Dovremmo riuscire a fare un bel po' di cose se ci diamo da fare e procediamo.» Non c'era dubbio: se c'era una cosa che gli uomini delle pianure sapevano fare era lavorare. Non c'erano state lamentele né obiezioni quando abbozzò la prima fase per il consiglio di guerra: scavare un canale per deviare il fiume in modo che circondasse l'altopiano da tutti i lati; abbattere e
preparare tutto il legno utilizzabile della foresta; portare i bastioni ai lati dell'altopiano per costruire piattaforme per l'artiglieria. In pratica stava chiedendo di ricostruire Perimadeia in un mese: fino a quel momento nessuno aveva ipotizzato che la cosa sarebbe stata difficile, per non dire impossibile. L'uomo che si trovava all'altra estremità della sega (un lontano parente di nome Morosai: più anziano, basso, con la testa calva e cinque volte la sua energia) sbadigliò e gli passò una bottiglia d'acqua. «Sta venendo bene» disse. «Vero?» rispose Temrai. «Meglio di quanto mi aspettassi, a essere sincero.» «Sono felici di avere qualcosa da fare» disse Morosai. «Quando le persone fanno qualcosa, non si sentono inutili. Più è difficile il lavoro, meglio si sentono.» Temrai scrollò le spalle. «Vorrei che funzionasse così anche per me.» «Ah.» Morosai annuì, facendo l'imitazione familiare di un vecchio saggio. «Non ha quell'effetto su di te perché tu conosci la verità.» «La conosco?» Temrai si fermò per togliersi la segatura dagli occhi. «Sarai il primo a saperlo, se la saprò.» «Tu sai» continuò Morosai «che se faremo la guerra contro l'Impero non avremo una possibilità di vincere. Persino batterli ci costerà più danni che altro. È la loro politica: uccidine uno e ti garantiscono di mandartene altri cinque al suo posto. È per questo che eravate pronti a fuggire, finché lui ti ha fermato.» «Davvero?» Temrai disse irritato. «Io so tutto questo? Ma pensa un po'.» «Certo che lo sai» rispose Morosai, apparentemente non rendendosi conto di quanto fosse irritante. «Non ti insulterei ipotizzando diversamente.» «Bene. E conosco anche un modo per toglierci da quest'impiccio? Un modo che non finisca con il nostro sterminio?» Morosai annuì. «Certo che lo conosci» disse. «Dovresti essere stupido se così non fosse.» Temrai si alzò e impugnò la sega. «Lavoriamo un po', invece di sedere a chiacchierare. Dovremmo dare l'esempio.» «Tu dovresti dare l'esempio» sottolineò Morosai. «Io sono abbastanza vecchio da essere scusato se non lavoro, ma mi sono accorto che non saresti riuscito a segare da solo.» Quando era un bambino, Temrai ricordò, aveva sempre odiato il cugino Morosai. «Verissimo. D'accordo, sei pronto? Dalla tua parte, allora.»
Segarono per un po', finché il legno cominciò a bloccare la lama. «Fermati» disse Morosai accigliato. «Romperai la sega se cerchi di forzare.» Temrai lasciò andare la presa e si appoggiò contro la trave. «D'accordo. Allora adesso cosa facciamo?» «Non facciamo nulla. Rimani fermo mentre io libero la lama con la seghetta ad arco.» Morosai cominciò a tagliare un cuneo accanto al taglio. Segare non sembrava dargli affatto fastidio, mentre i polsi e le mani di Temrai dolevano. «Vai avanti, allora» disse Temrai. «Qual è questo modo ovvio per uscire da questa situazione, e che conosciamo entrambi?» «Arrendersi» rispose Morosai; era già arrivato a una profondità di tre dita nel legno, e non era per nulla a corto di fiato. «Vogliono solo la terra: dagliela. Poi torneremo nelle pianure, dov'è il nostro posto. È la stessa cosa che stavi pensando di fare tu.» Temrai annuì lentamente. «Quindi facciamo i bagagli e ci spostiamo di nuovo. E il Colonnello Loredan rimarrà semplicemente a guardare e ci farà passare, senza alzare un dito. Mi dispiace, ma non riesco a crederci.» Lo scopo del lavoro era di trasformare un faggio maturo in una pila di tavole ben segate, che avrebbero formato una parte del ponte girevole sul fiume. Il progetto di Temrai per il fiume richiedeva circa un centinaio di tavole da tre metri. Fino a quel momento, lui e Morosai avevano passato tre ore a sudare e sforzarsi alla grande sega, e non avevano ancora ricavato nemmeno una tavola. «Preferisci che venga in cima?» chiese Morosai. Lui si trovava dalla parte più bassa della sega verticale per i tronchi, mentre Temrai era in cima (tradizionalmente l'apprendista giovane e in forma andava giù, mentre l'anziano rimaneva su: il significato di quella domanda fu chiaro a Temrai). «Ancora meglio» continuò «perché non vai a cercare qualcun altro per fare questo lavoro con me? So che stai facendo del tuo meglio, ma non sei proprio capace.» Temrai sospirò. «D'accordo» disse. «Hai ragione. Ma rispondi alla mia domanda, per favore. Cosa ti fa pensare che Bardas Loredan ci lascerà andare via tranquillamente?» «Perché i suoi superiori gli diranno di farlo» rispose Morosai. «Il prefetto non vuole combattere se non deve; i nostri cadaveri non gli sono di nessuna utilità, a meno che non trovi un modo di conciare la pelle umana o non si metta in affari nel ramo della farina d'ossa. Vuole la terra: se può averla libera, tanto meglio. E anche se il Colonnello Loredan volesse dav-
vero ucciderci tutti, cosa di cui dubito, per inciso, se il prefetto gli ordina di lasciarci andare, lo farà. È semplicissimo. Tu eri sul binario giusto, giovane Temrai, e poi ti sei dovuto fermare a giocare a fare il soldato. Tuttavia, sai che ho ragione.» «Tutto considerato penso di sì» disse Temrai alzandosi e togliendosi la segatura di dosso. «Ma non posso correre il rischio.» «Lo so» annuì Morosai. «È un peccato, non è vero?» Dopo avere mandato a Morosai un sostituto competente, Temrai salì sul punto più alto dell'altopiano e guardò in basso, cercando di immaginare l'aspetto che avrebbe avuto la città a lavoro finito. Dove si trovava lui ci sarebbe stata la cittadella, separata dal resto dell'altopiano da un fosso e una riva con uno steccato. Ci sarebbe stato un altro steccato intorno all'intero altopiano, con torri a intervalli regolari per gli arcieri e le catapulte. A metà del pendio ci sarebbero stati i bastioni per i grossi trabocchi, costruiti in cima a piattaforme realizzate con spesse pile ammucchiate e appiattite. Nel punto in cui il sentiero stretto e tortuoso raggiungeva la pianura ci sarebbero stati il ponte girevole e la pompa: un nome imponente per il sistema di secchi su corde che avrebbe trasportato l'acqua fino in cima. La pompa sarebbe stata alloggiata in un guscio di tavole rinforzate e sorvegliate da torri su ciascun lato; era piuttosto vulnerabile, così aveva deciso di collocarla vicino all'altro punto debole: il ponte. Se ci fosse stato il tempo, Temrai avrebbe preferito chiudere la pompa e la piccola costruzione sul ponte in una torre di mattoni o persino di pietra, trasformando così i punti più deboli nei più forti (proprio come la testa, che è la parte più vulnerabile del corpo, è protetta dall'elmo, che è il pezzo di armatura più resistente). Be', in teoria andava tutto benissimo. Restava da vedere quanto lo sarebbe stato in pratica, quando sarebbe stato messo alla prova. Morosai aveva ragione: puntare tutte le loro speranze sulle fortificazioni e le armature non era la cosa più giusta da fare. Era il modo in cui il nemico faceva le cose, non il loro; e non importava quanto fosse resistente l'armatura, era destinata a fallire se veniva colpita con un martello abbastanza grosso. Ma il pensiero di camminare verso il nemico, verso Bardas Loredan, e sperare che il buon senso e la convenienza prevalessero, era una cosa che non poteva fare... ed era, come aveva detto Morosai, un peccato, perché l'esercito e l'uomo che erano riusciti ad abbattere Ap' Escatoy probabilmente non avrebbero avuto molti problemi a rompere qualche palizzata di legno giovane. Eccomi qui, ad aspettare Bardas Loredan, saccheggiatore di città;
sembra solo ieri che io ero Temrai, saccheggiatore di città, sicuro che persino le mura di Perimadeia non fossero abbastanza forti per me e il mio grosso martello. Tuttavia, sapere qualcosa ha un valore, ma non conta finché non si fa una prova, e la prova... be', ancora non erano arrivati a quel punto. Nel frattempo avevano molte cose con cui divertirsi. Tornò lungo il sentiero, fermandosi a metà strada per osservare gli uomini che stavano scavando il fossato e ammucchiando il materiale di sterro all'interno, per costruire un'altra linea di difesa. Per lo più lavoravano in silenzio, cosa piuttosto insolita per gli uomini delle pianure, ma ogni tanto si sentivano brani di vecchie canzoni, cantate in gruppo o singolarmente. Ormai erano arrivati abbastanza giù da necessitare di trivelle e verricelli per issare i cesti di materiale di sterro fuori dal letto del canale; vide il gruppo occasionale di carpentieri dare forma al legno verde ed elastico. In seguito osservò i lunghi carri di legname che si dirigevano verso l'altopiano, con i ciocchi massicci ammassati in alto e assicurati con chilometri di corda ruvida di fibra d'erba che le donne (ufficialmente sotto il comando di sua moglie, anche se Tilden non aveva mai fatto una corda in vita sua e non le importava se qualcuno lo sapeva) intrecciavano in spazi improvvisati a un centinaio di metri dalla strada, nel punto opposto a dove sarebbe stato costruito il ponte. Poté sentire il tintinnio freddo dei martelli sull'acciaio, dell'acciaio sulle incudini, mentre i fabbri fabbricavano chiodi a migliaia, zapponi, lame d'ascia, roncole, teste di martello, pale, fasce di metallo per i barili e cerchi per le ruote dei carri. Accanto ai fabbri improvvisati osservò i bottai e i carradori, impegnati con i coltelli a petto e le asce. Accanto a loro c'erano coloro che intrecciavano i cesti di vimini, lavorando rapidamente e senza apparente preoccupazione, mentre i bambini andavano avanti e indietro nel bosco portando ramoscelli e virgulti. Sul sentiero dove si trovava, stavano scavando a lato della scarpata per costruire un punto d'appoggio per il posizionamento del trabocco; un uomo brandiva un grosso martello, l'altro stabilizzava una trivella, dandole una forte torsione dopo ogni martellata. In lontananza vide la sega verticale per i tronchi, e i lampi provocati dal sole riflesso sulla lama di una sega. C'era attività, lavoro, creazione e buona volontà, cose diverse che venivano costruite per mezzo di diverse abilità, tanto che Temrai non poté fare a meno di pensare al primo giorno che aveva trascorso a Perimadeia, quando era un ragazzo con gli occhi spalancati che camminava affascinato nelle strade vive e pulsanti per l'attività delle innumerevoli fabbriche e officine. Un giorno aveva
pensato all'epoca, vorrei che la mia gente fosse così. E adesso, grazie a lui, lo era. «Mi scusi» disse Gannadius «sta aspettando un'anatra?» L'uomo si voltò. «L'ha portata? Splendido.» Indossava un cappello: è per questo che Gannadius non l'aveva riconosciuto, visto da dietro. «Lei è il Dottor Gannadius, vero? Certo, immagino che non si ricordi di me.» «Gorgas Loredan» rispose Gannadius. «Si ricorda.» Gorgas sorrise. «Sono lusingato. Be', questa è una piacevole sorpresa, la prego, si sieda e lasci che le offra da bere.» Gannadius sorrise nervosamente. «In verità...» cominciò, ma era troppo tardi. Gorgas aveva già inclinato la grossa caraffa di sidro e stava spingendo una tazza di corno sul tavolo verso di lui. «Non è davvero ai livelli degli standard della Città» spiegò «ma è comunque gustoso. Dovrebbe provare quello che facciamo nel Mesoge in questo periodo: sono sicuro che le riporterebbe alla mente piacevoli ricordi.» «Ho sempre pensato che la birra fosse la sua specialità» rispose Gannadius, che non sapeva cosa bevevano nel Mesoge, né gli interessava saperlo. «È una sua innovazione, dunque?» Gorgas scosse la testa. «Abbiamo sempre fatto il sidro. Mi ricordo quando allargavo il formaggio da ragazzo: l'odore faceva letteralmente girare la testa. Sì, ho incoraggiato la produzione: è un prodotto che si può vendere all'estero. So che ci sono molti espatriati della Città là fuori a diffondere il gusto per il buon sidro, e vorrei che noi fossimo i primi a fornirlo. Alla sua salute, in ogni caso.» «E alla sua» rispose Gannadius. Il sidro aveva un gusto aspro e rancido, come l'aceto. «Grazie per avermi portato la mia anatra» disse serio Gorgas. «Questa è un'altra linea di produzione che ci interessa, al momento. Questa nuova specie che sono riusciti a creare... si intende di anatre, Dottore?» Gannadius scosse la testa. «So solo come mangiarle» rispose. Per qualche motivo Gorgas sembrò trovare quel commento divertente. «Ah, be', allora» disse quando si fu ripreso dall'accesso di riso «lei mi sta aiutando a dimostrare la mia argomentazione. Sono pronto a scommettere che c'è una domanda quasi illimitata di carne bianca di qualità, per non parlare delle uova e delle penne.» Tenne l'anatra dalle zampe, in modo che
la testa andasse avanti e indietro. «Sì» continuò «penso che siamo davvero sulla strada del successo con questa. Allora, come le vanno le cose? E scusi la curiosità... cosa ci faceva con gli uomini delle pianure? Non è davvero il posto in cui penserei di trovare un filosofo famoso come lei.» Gannadius spiegò... non molto bene, ma ebbe l'impressione che Gorgas sapesse già tutto. Quando finì, Gorgas annuì e gli riempì di nuovo la tazza. «È una situazione strana, non c'è dubbio» disse. «Ho la sensazione che Temrai e la sua gente non dureranno a lungo... è triste, in un certo senso; bisogna ammirarli per il loro coraggio e la loro iniziativa, e i progressi che hanno fatto nel corso degli ultimi sette anni. Oh, mi dispiace, spero che lei non pensi che stessi cercando di offenderla. Ero così abituato a pensare a lei come a un accademico di Shastel, durante la nostra piccola guerra su Scona, che mi ero dimenticato che è un perimadeiano.» «Va bene, davvero» rispose Gannadius, decisamente allarmato al pensiero che Gorgas Loredan avesse pensato a lui in qualsiasi contesto. «E sì, in un certo senso sono d'accordo con lei: trovavo molto difficile non stimare quelle persone mentre mi trovavo lì.» Gorgas sorrise. «Tuttavia» disse «è ancora un vento contrario. Per quel che mi riguarda, il loro comportamento dà l'opportunità a mio fratello Bardas di proseguire la sua carriera nell'Impero. So che deve sembrare sciocco, ma mi preoccupo per lui... be', è mio fratello, ne ho il diritto. Vede, da quando ha lasciato l'esercito, l'esercito della Città intendo, dopo la morte di Maxen, ha solo segnato il passo, vagando senza un vero scopo, ed è davvero un peccato. Pensavo di poterlo coinvolgere in quello che stavamo facendo su Scona... offrirgli il mio lavoro: dopo tutto, l'avrebbe fatto molto meglio di quanto potessi farlo io; e io ho sempre desiderato tornare a casa nel Mesoge e gingillarmi con la fattoria. E adesso» continuò con un sospiro «io ho quello che voglio, e dov'è Bardas? Presta servizio come sergente, per l'amore degli dèi, quando non rischia il collo in qualche buco nel terreno, o non fa lo schiavo in qualche triste fabbrica, mentre dovrebbe fare altro nella vita, raggiungere traguardi di cui poter essere fiero. No, se Bardas sconfiggerà gli uomini delle pianure e ucciderà Temrai, oltre a ciò che ha fatto ad Ap' Escatoy, avrà la possibilità di avere un lavoro adeguato, probabilmente in qualche prefettura, anche se è un forestiero.» Sorrise di nuovo e si appoggiò all'indietro. «Quindi, e so che posso sembrare insensibile, mi dispiace per Temrai e il suo gruppo, ma io voglio davvero questa guerra, per il bene di Bardas. Potrebbe rappresentare la risposta a molte cose per lui.»
Gannadius sorseggiò il sidro. Il gusto era pessimo, ma aveva la bocca secca. «Come dice lei» mormorò «è un vento contrario. Be', spero che le cose vadano bene per lei con il progetto delle anatre.» Gli venne in mente che se gli uomini delle pianure venivano massacrati, non ci sarebbe stato nessun progetto per le anatre: nel qual caso perché Gorgas se ne stava occupando? Ma decise di non sollevare la questione. Invece si alzò, sorrise e se ne andò, più rapidamente di quanto richiedesse l'educazione. E questa rifletté mentre attraversava la Piazza del Mercato dovrebbe essere la fine della mia grandiosa avventura: sono di nuovo a casa (be', vale come casa da ogni punto di vista), sano e salvo e ubriaco. Ma non sembrava la fine di nulla; era come in attesa, come un atleta a una fiera di paese che, ormai eliminato da una gara, ha parecchie ore per ammazzare il tempo prima di gareggiare di nuovo. Così, invece di dirigersi verso la casa di Athli, dove Theudas lo aspettava e Athli sarebbe stata inspiegabilmente contenta di vederlo sano e salvo, attraversò la strada verso la zona sud della Piazza e si diresse verso l'interno, senza sapere il perché, nella direzione del mattonificio e dell'acciaieria. Nessuno sapeva perché una nazione che rifiutava chiaramente di fare qualcosa che poteva comprare all'estero avesse deciso di fare un'eccezione nel caso dei mattoni e dei fili di ferro. Non c'erano nemmeno delle teorie al riguardo (e gli isolani avevano teorie su tutto); era solo un bizzarro incidente di commercio, al quale non andava dato nessun significato particolare. Insolitamente le grandi porte doppie dell'acciaieria erano aperte, e Gannadius si fermò per dare un'occhiata. Dapprima non riuscì a capire cosa stavano facendo. Avevano tirato su una serie di postazioni, a coppie, alte circa un metro e mezzo e a mezzo metro di distanza; attraverso ogni coppia passava una sottile barra d'acciaio spessa circa la metà della sua altezza, e aveva a un'estremità un'impugnatura a forma di L, e all'altra una fessura. I lavoranti avevano infilato i fili attraverso le fessure e stavano girando le impugnature, avvolgendo strettamente del filo intorno alle barre come la porzione sull'impugnatura di un arco. Quando non ci fu più spazio sulla barra per altri giri di fili, la sollevarono per mezzo di un taglio nella fessura a lato di ciascuna postazione e la trasportarono sopra un'incudine, sulla quale due uomini con i ceselli lavoravano per la lunghezza delle barre, tagliando i giri di filo in modo che cadessero a terra come anelli di acciaio a doppie punte, che poi un paio di ragazzi raccoglievano in grandi ceste e portavano nel retro del negozio.
A Gannadius tutto questo ricordò una cosa. Ci pensò su per un po', e poi si ricordò le fabbriche di fili di ferro a Perimadeia, dove avevano usato qualcosa di simile ma più grande per formare gli anelli delle catene. Una volta ricordata quell'immagine, Gannadius capì quello che stavano facendo: anelli per le armature, in particolare per le cotte di maglia. Per qualche motivo Gannadius trovò l'idea spiacevole. Non c'era dubbio che quella roba fosse destinata all'esportazione: non conosceva un singolo isolano che possedesse una cotta (ne conosceva parecchi che ne possedevano migliaia, attentamente conservate nella paglia inzuppata d'olio e pronte per partire con le navi; ma si trattava di una proprietà temporanea) oppure una spada che non fosse un accessorio alla moda, o un arco, o una lancia o un'alabarda. Come nazione gli isolani riconoscevano l'esistenza della guerra soltanto come qualcosa che accadeva molto lontano tra due gruppi rivali di potenziali clienti. Era una forma mentale unica, allo stesso tempo accattivante e riprovevole, come molte altre cose che li riguardavano... Scosse la testa, come se cercasse di svegliarsi. Era assolutamente improbabile che gli isolani prendessero le armi e andassero in guerra, anche se il resto del mondo sembrava determinato a farlo. Ben più che la semplice acqua separava l'Isola dagli altri, e di questo Gannadius era estremamente grato. Tuttavia, non si sentiva di vagare ancora. Era tempo di andare a casa, anche se (come ogni altro luogo che pensava fosse la sua casa) era quella di un altro. Gli eserciti dei Figli del Cielo cantavano mentre marciavano: e, in generale, lo facevano bene. In aggiunta ai segnalatori che suonavano le trombe per la carica e per la ritirata, c'erano molti soldati che portavano flauti, ribeche, mandolini, violini e piccoli tamburi insieme alle coperte arrotolate e alle razioni per tre giorni; quando ne avevano voglia, davano le picche ai vicini e accompagnavano il canto, in modo che a una certa distanza l'avvicinarsi dell'esercito sembrava più un matrimonio che l'assalto dell'Impero. Bardas Loredan, che non aveva orecchio per la musica, era rimasto affascinato da quella frivolezza apparentemente atipica; e inoltre, persino a lui piacevano le canzoni, che erano veloci e vivaci oppure veloci e tristi, ma mai noiose come le fughe raffinate e i mottetti di cui andavano tanto fieri a Perimadeia, o disarmoniche e interminabili come le canzoni popolari del Mesoge. Non riusciva a cantare e sapeva a malapena fischiettare, ma non passò molto tempo che si trovò a canticchiare anche lui, come un fannullone qualsiasi, quando i soldati intonavano una delle sue canzoni preferite.
Non riusciva a capire le parole. Erano in un linguaggio completamente diverso da ciò che aveva sempre sentito; non era il canto perimadeiano che costituiva lo standard in molti luoghi, dal Mesoge alle pianure; o il linguaggio sonoro e frizzante delle nazioni commerciali, Colleon e l'Isola (e, per definizione, Shastel e Scona), che nessuno aveva imparato deliberatamente ma che tutti avevano acquisito, come l'abbronzatura, dopo ogni contatto regolare con la gente che lo parlava; o il piatto dialetto perimadeiano che era la seconda lingua di tutte le province occidentali dell'Impero. Quando alla fine trovò il modo di chiedere, gli venne detto che le canzoni dei soldati erano nella lingua dei Figli del Cielo, e che nessuno aveva idea di cosa significassero. Per Bardas, questo fatto rovinava l'effetto dello spettacolo dei menestrelli in marcia, al punto che cominciò a innervosirsi. Trovava che il fatto che ventimila uomini potessero marciare intonando canzoni che non capivano fosse piuttosto disgustoso; potevano anche cantare la sconfitta o l'assoggettamento delle loro città natie, con descrizioni dettagliate di ciò che i vittoriosi Figli del Cielo avevano fatto agli uomini e che intendevano fare alle donne e ai bambini. Chiese all'uomo con cui stava parlando se la cosa gli desse fastidio, ma l'uomo rispose di no; le canzoni rappresentavano un'antica tradizione del servizio, e le tradizioni sono ciò che tiene unito un esercito professionale. Un uomo dovrebbe andare fiero del fatto che gli si permetta di imparare le parole e di cantarle con gli altri: erano un segreto... un mistero che veniva accettato e diventava parte di qualcosa di grande e invincibile. Non era necessario che il soldato comune capisse le parole della canzone, il piano della campagna o i motivi della guerra: si trovava lì per mettere in atto ciò che i Figli del Cielo, nella loro assoluta saggezza, decidevano di fare. Ed era tutto qui. Nonostante la disillusione, Bardas non poteva fare a meno di mormorare una canzone che era rimasta profondamente nella sua mente. Era un ritmo veloce e vivace, accompagnato di solito da tamburi e flauti... le parole, naturalmente, erano solo un suono indistinto, ma la canzone doveva essere una marcetta, non fosse altro perché era davvero difficile non canticchiarla quando si marciava... Era come un cerchio senza fine e, a meno che non si prendesse la decisione di abbandonare, non c'era motivo perché si dovesse smettere di canticchiarla. Con la stessa facilità con cui aveva preso l'abitudine di canticchiare le canzoni, Bardas acquisì quella di comandare l'esercito. Era più che altro una questione di convenienza e abitudine. Aveva imparato molto tempo
prima che il modo più facile per fare qualcosa era di farla bene; era meno faticoso dire agli ufficiali e ai sergenti qual era il modo giusto per fare una cosa, che dover risolvere il caos che avrebbero provocato cercando di capire da soli come fare. Tute le mattine, subito prima dell'alba e della sveglia, Bardas teneva una riunione del comando, dava ordini ai capi dipartimento e faceva domande sulle cose che avevano sbagliato o che non erano riusciti a fare il giorno prima. Interrogava il quartiermastro e il colonnello dei foraggieri riguardo i rifornimenti e il materiale, il colonnello degli esploratori sul terreno che avrebbero attraversato durante quel giorno di marcia, i capitani di ogni divisione sullo stato del loro comando, il capitano degli ingegneri riguardo alle sue proposte per affrontare gli ostacoli naturali o le ostruzioni; se davano risposte sbagliate diceva loro quelle giuste, con pazienza la prima volta. Richiedeva uno sforzo minore di una discussione, del sollecitare opinioni e del discutere sui meriti; e dato che lui era stato in quei luoghi in precedenza e aveva fatto più o meno le stesse cose, era inutile fare finta di ascoltare i punti di vista di quegli uomini che sapevano meno di lui sull'argomento. Sarebbe stato come discutere le lettere dell'alfabeto con un gruppetto di bambini che non sapevano ancora leggere, piuttosto che scrivere semplicemente con il gesso su una lavagnetta e dire Imparate questo. Lui era già stato in quei luoghi; era strano con quale facilità ricordasse le cose, dopo oltre vent'anni di deliberato oblio. Passarono il luogo in cui Maxen aveva riportato un'incredibile vittoria: cinquecento cavalieri pesanti contro quattromila uomini delle pianure; quasi si aspettava di vedere i corpi che ancora giacevano dove li avevano lasciati, ma non c'era niente per segnare il punto a parte un cumulo di pietre che aveva ordinato di gettare lui stesso per coprire i loro morti. Attraversarono il Fiume Cielo Blu al guado dove Maxen era infine riuscito a raggiungere il Principe Yeoscai, lo zio di re Temrai... il fiume era all'epoca in piena e quando avevano trovato Yeoscai, lo avevano visto sul suo cavallo che fissava il fiume, come se non riuscisse a credere a un dispetto così gratuito da parte del destino. Si accamparono una notte nella piccola vallata dove Maxen era morto; il suo cumulo di pietre era ancora lì, ma Bardas si accontentò di guardarlo da lontano. Da quel punto in avanti, si trattava semplicemente di ricordare: non era necessario pensare. A tre giorni dal cumulo di Maxen (se fossi stato Temrai l'avrei aperto e avrei gettato le ossa ai cani selvatici anni prima) furono bloccati da un altro fiume: il Fiume Amichevole, che aveva superato la diga e si era river-
sato nella vallata, stretta e allungata. La soluzione più facile era di costruire un ponte alla testa della valle, ma il legname più vicino era a un giorno di carro dietro di loro. Svuotò i carri dei rifornimenti e li mandò indietro con i pionieri e i foraggieri, con specifiche dettagliate sulla quantità e sulle dimensioni del legno di cui aveva bisogno, e si mise ad aspettare. Non c'era motivo perché l'esercito dovesse rimanere fermo nel frattempo aspettava: c'erano equipaggiamenti da revisionare e ispezionare, armature da riparare, stivali da sistemare e a cui rimettere i chiodi; esercitazioni con l'arco, con le armi e di parata... e c'era l'opportunità di addestrare i soldati in tecniche specifiche di cui avrebbero avuto bisogno contro la cavalleria e gli arcieri delle pianure, seminari tattici per capitani e tenenti, tribunali disciplinari che era stato troppo complesso organizzare in una sessione serale lungo la marcia, la possibilità di aggiornare e correggere le mappe piuttosto vaghe dell'ufficio provinciale. Quando tornò alla sua tenda, la notte seguente, era più stanco di quanto sarebbe stato se si fosse trovato in marcia. Si tolse l'armatura, era una seconda pelle per lui ormai, e si sentì strano e incerto sulle gambe senza quel peso sulle spalle; prima slacciò le cinghie, poi si liberò di gorgiera, spallacci, cubitiere e cannoni, quindi venne il turno della corazza e alla fine toccò alla cotta di maglia e al piccolo usbergo; era così di nuovo un vermiciattolo bianco... una chiocciola senza il guscio, si tolse gli stivali e si mise a giacere sul letto da campo pieghevole in palissandro del fu Colonnello Estar. Appena chiuse gli occhi si trovò in un luogo che conosceva bene... quasi quanto le pianure. Era buio e non riusciva a vedere le pareti o il tetto: si trattava di una galleria sotto una città, aglio e coriandolo insieme, uno scantinato sotto una fabbrica... il palazzo delle prove. Si voltò - mettendosi in ginocchio e toccando le pareti di tavole della galleria - e vide che Alexius aveva acceso un fuoco; vide il fumo sollevarsi nello sfiatatoio sul tetto, con i bordi anneriti. «Sei in anticipo» disse Alexius. «Abbiamo fatto in fretta» rispose. «Ci vuole molto?» Alexius scosse la testa. Circostanza piuttosto strana, non aveva il corpo di Alexius, o forse aveva il volto di un altro uomo sopra il suo (come una visiera) così da diventare Anax, il Figlio del Cielo che aveva fallito. «Non dovrebbe volerci molto» disse. «Prendi il martello e cominciamo.» Si ricordò della sensazione del martello di Bollo tra le mani - grosso, pesante, decisivo, la misura di tutte le cose - ma per la prima volta (quante volte era stato lì? Aveva perso il conto) aveva notato che il martello era in realtà l'Impero, perché naturalmente nulla poteva sopravvivere al martello
di Bollo, era solo una questione di tempo per vedere la sua resistenza e il suo fallimento... Il primo pezzo da provare era un braccio: un braccio idoneo alle munizioni, di basse specifiche, fatto di carne e ossa, che non ci si aspettava superasse il primo grado della prova. Anax lo mise sull'incudine e Bardas lo ridusse a poltiglia con pochi colpi ben assestati. «Fallito» disse Alexius. «D'accordo, il prossimo.» Mise su un torace: era piuttosto ben fatto, con pettorali formati e costole ben definite, e aveva il marchio degli uomini delle pianure, che rappresentava di solito una garanzia di qualità. Bardas cominciò con un paio di colpi pesanti attraverso lo sterno... «Lo supponevo» commentò Anax «belle decorazioni su un materiale scarso» ... poi metodicamente ruppe le costole, con la stessa facilità con cui si spezzano i ghiaccioli. «Fallito» disse Anax e Bardas lo gettò dall'incudine nella spazzatura. «Il prossimo» ordinò Alexius, e Bardas prese una testa. «Questo è un oggetto da collezione» commentò, perché era la testa di un Figlio del Cielo, il fu Colonnello Estar. «Ho sempre voluto vedere come si sarebbe comportata una di queste teste.» Fece oscillare il martello, usando il gomito sinistro e la spalla destra per il colpo. Il cranio si accartocciò ma rimase compatto... «È questa la qualità» disse Anax... e gli ci vollero sette colpi per distruggerlo completamente. «È la struttura delle ossa che la fa» sottolineò Anax. «Vedi, quella fronte alta e quelle guance. Lo passerò al secondo grado: non va ancora bene per lo scopo per cui è stato costruito.» Un altro torace: stavolta femminile, con piccoli seni rotondi e spalle spioventi. Era stato fatto nello stile di Perimadeia, ma la patina sulla superficie suggeriva la luce del sole dell'Isola. Rompere le costole e la clavicola era stato abbastanza semplice, ma la carne era soffice ed elastica, come l'armatura di seta imbottita delle lontane province orientali: facile da farci un livido, ma quasi impossibile da rompere, la forza dei colpi del martello sembrava venire assorbita in essa, come l'acqua nella sabbia. Alla fine, Bardas riuscì a rovinarla intrappolandola tra la testa del martello e il bordo dell'incudine. «Passa al terzo grado» disse Anax. «Notevole.» «È un imbroglio, se vuoi il mio parere» rispose Bardas. Dopo fu la volta di una mano: la mano di una ragazza con dita lunghe e sottili. Invece del martello Bardas usò l'ascia da otto libbre, e le dita vennero tolte abbastanza facilmente. «Adesso il martello» disse Alexius, e Bardas lo abbatté sul dorso, sicuro di ridurlo in poltiglia, ma non lo fece. «Ah»
fece Alexius con un sorriso «questa è un'autentica Loredan: dura come i vecchi stivali.» Per distruggerla in modo soddisfacente, Bardas dovette sudare parecchio. «Prendiamo quella testa laggiù» disse Alexius. «Questa è una sfida per te. Vediamo quanto sei forte.» Bardas fece un sorriso: la testa era calva, con una forte mascella e una grande e morbida bocca. «Lasciala a me» disse; ma i primi tre colpi rimbalzarono sulla superficie ricurva del cranio, e la testa, aprendo gli occhi e strizzandone uno, lo perdonò. «La passerò se vuoi» fece Alexius in tono beffardo. Bardas non rispose: poggiò la testa di lato e martellò la gengiva finché il cardine si ruppe, e poi attaccò le tempie. Ottenne qualche effetto, ma dovette rinunciare quando colpì corto e batté l'asta del martello contro il lato dell'incudine e ne spezzò la testa. «Dannazione. Userò l'ascia.» «D'accordo» disse Anax, «ma non è lo strumento adatto, quindi non sarà una prova corretta.» «E allora?» rispose Bardas. L'ascia fece un lavoro migliore, ma quando si sentì soddisfatto vide che non era rimasto granché della parte tagliente, e la lama era intaccata nel punto in cui aveva colpito direttamente su un occhio aperto e strizzato. La testa lo perdonò di nuovo mentre lui la toglieva dall'incudine. «Prova di quinto grado» commentò Alexius. «Non le fanno più così.» Bardas era stanco. Si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano e chiese: «Abbiamo finito?» «Quasi» rispose Anax. «Ancora una testa, e poi abbiamo finito.» Allungò una mano sotto il banco e tirò fuori la testa del Colonnello Bardas Loredan. «D'accordo, Signor Intelligentone» disse. «Rompi questa, se ci riesci, e ti offrirò una caraffa di latte freddo.» Bardas si accigliò. «Con cosa? Ho rotto il martello e l'ascia è inusabile.» «Non essere così patetico» lo rimproverò Alexius. «Quando avevo la tua età provavamo tutto a mani nude, e non ci gingillavamo con i martelli. Smettila di perdere tempo in sciocchezze e vai avanti.» Così Bardas martellò il pezzo con i pugni serrati, che naturalmente erano più duri di qualsiasi ascia e più pesanti di qualsiasi martello; ma per quanto provasse, una volta tolta a forza la pelle e la carne, non riuscì a provocare più di un'ammaccatura nel cranio. «È di qualità» mormorò Anax. «Non pensare di intaccarla, nemmeno con un maglio.»
«È spazzatura» rispose irritato Bardas. «Posso rompere qualsiasi cosa. Sarei un pessimo assistente del vice maestro di prova se non lo potessi. Ecco, dammi quello.» Indicò un braccio che Anax aveva preso dal mucchio: era il braccio che reggeva la spada del Colonnello Loredan, segato al gomito. Tagliò via la mano con il suo coltello da cucina a lama sottile, quello che usava per scuoiare e tagliare a pezzi le carcasse, e roteò l'enorme osso intorno alla testa con tutta la forza che aveva. Il rumore fu dell'acciaio sull'acciaio, perché la testa del Colonnello Loredan era un elmetto e il suo braccio un cannone con la cubitiera. «Riconosci sempre la qualità dal suono che fa» gli ricordò Anax. «Ascoltalo: è il miglior acciaio del Mesoge. Quando avrai finito con quel cranio, prenderò quel che resta per la spianatura.» «Non rimarrà nulla» borbottò Bardas; e attaccò il pezzo come se fosse un nemico e fosse in gioco la sua vita. Alla fine gli onori vennero equamente ripartiti tra il braccio e il cranio; entrambi erano ammaccati e piegati, ma un buon armiere avrebbe potuto sistemarli con un po' di colpi su un'incudine. Una qualità simile poteva sempre essere migliorata con colpi duri e abili tra il martello e l'incudine; non c'era motivo per cui non dovesse andare avanti per sempre. «Rinunci?» chiese Alexius, e gli occhi del cranio si aprirono... «Cosa?» chiese Bardas. C'era un uomo in piedi davanti a lui. «Dèi, è già mattina?» «Ha l'incontro con i comandanti» rispose il soldato. «Poi l'addestramento con le armi: sul programma c'è scritto che parlerà delle ferite e della morte con il nono, decimo e dodicesimo plotone.» Bardas sbadigliò. «Me n'ero completamente dimenticato. D'accordo, dica loro che arrivo in un paio di minuti.» Un altro aspetto piacevole dell'esercito imperiale era la sua brama di imparare. Due secoli prima, i Figli del Cielo avevano avuto l'idea di introdurre gratifiche correlate alla prestazione per gli eserciti da campo. Queste ricompense venivano calcolate a livello di plotone (darle anche agli inferiori nel comando avrebbe rischiato di incoraggiare i soldati a mettere il tornaconto individuale davanti agli scopi della corporazione) ed erano basate sul numero di nemici uccisi da ciascun plotone nel corso di una battaglia. Naturalmente le uccisioni fatte davanti a, o in pregiudizio di ordini espliciti da parte di un ufficiale venivano ignorate; solo i plotoni che avevano partecipato all'azione erano ammessi, il che ebbe l'effetto benefico di rendere ogni unità desiderosa di sfruttare il suo turno nella schiera frontale.
Conseguentemente, i seminari di combattimento tenuti da un esperto come il Colonnello Loredan erano considerati una vera opportunità per aumentare il guadagno di un plotone, e quindi erano molto frequentati. «Oggi» disse Bardas guardando i numerosi volti attenti «esamineremo le meccaniche dell'uccisione; questa lezione serve a fare in modo che i colpi che date contino, provocando quanti più danni possibile con minore rischio.» Si poteva sentire una moneta cadere. Bardas soffocò un sorriso. Se potessi vedermi adesso, Alexius: un docente al college. «Molto semplicemente» continuò «ci sono due modi per provocare danni con la spada e l'alabarda, e sono infilzare e tagliare. Alzi la mano chi ha studiato scherma o qualcosa di simile fuori dal servizio.» Un paio di mani si alzarono, e Bardas annuì. «Be', come prima cosa dimenticate tutto quello che vi hanno insegnato alla scuola di scherma riguardo il fatto che infilzare è meglio di tagliare. Certo, gli affondi uccidono meglio dei tagli, ma uccidono lentamente. Vi trovate in battaglia e il soldato nemico cerca di uccidervi: non lo volete soltanto morto, ma subito. Soprattutto, volete impedirgli di farvi del male: per questo motivo un taglio che fa un danno relativamente piccolo, recidere un pollice, per esempio, molto probabilmente sarà più utile di un affondo attraverso il polmone che lo farà morire nel giro di novanta secondi.» I soldati si agitarono un po' sulle sedie. Bardas sapeva il perché: non erano sicuri di cosa li interessasse di più... rimanere vivi o totalizzare una salutare conta dei cadaveri. Molto bene: lasciamo che tengano a mente quella divisione di priorità. «Se ucciderete un uomo o lo metterete fuori gioco, avrete bisogno di danneggiare o i suoi meccanismi o i suoi tubi; i meccanismi sono cose come il muscolo, il tendine e le ossa... i tubi sono le vene e le arterie. Ma il danno non è tutto: potete procurare danni letali e non riuscire a finire il lavoro. Importante quanto il danno è lo shock: ricordatelo sempre, se potete.» Bardas fece una pausa e bevve un sorso d'acqua. «Per una buona uccisione con un affondo, non preoccupatevi troppo della testa. I crani sono spessi: a meno che non siate sufficientemente fortunati da tirare un colpo in un occhio, orecchio o bocca, ci sono ottime possibilità di riuscire solo a rendere il vostro nemico più furioso di quanto fosse prima. Il collo va bene, specialmente se si torce la lama una volta entrati, ma è un bersaglio dannatamente piccolo e rognoso; così come lo è il cuore.
Se volete colpire il cuore, dieci volte contro una rimarrete aggrovigliati nelle costole, che sono elastiche e procurano un dolore sopportabile. Si può ridurre a brandelli il petto di qualcuno e tuttavia non fermarlo; è un colpo a basso ritorno, non qualcosa con cui volete perdere tempo in una battaglia seria.» «Se combattete contro la cavalleria, naturalmente, avete la possibilità di un affondo sotto le costole... anche se vi inginocchiate per ricevere una carica della fanteria. Così come per il cuore, avrete anche un colpo facile per il fegato e una grossa arteria. I colpi agli intestini sono probabilmente il tipo più facile di affondo, ma rimarrete sorpresi dalla quantità di robaccia che c'è lì dentro e che dovete attraversare con l'arma prima di raggiungere l'organo importante. Tenete anche a mente che i muscoli dello stomaco hanno le convulsioni quando vengono tagliati, abbastanza da spostare il colpo fuori linea. A proposito: quando bucate uno stomaco, questo scoppia come se tutta l'aria corresse fuori; vi spaventerà da morire la prima volta che lo sentirete, quindi siate preparati.» «In verità, se fate un affondo potete fare ben di peggio se cercate le arterie nell'inguine, quelle piccole sulla schiena, la parte superiore del braccio, l'avambraccio e così via. Aprite uno di questi e quasi sicuramente avrete ucciso; ma per favore tenete sempre a mente il fatto che per sanguinare fino a morire ci vuole tempo, durante il quale l'avversario è ancora armato e pericoloso. Anche se l'avete preso in pieno in un buon punto, continuate sempre, preferibilmente con un grosso taglio, solo per assicurarvi che finisca a terra. La stessa cosa per i reni, i polmoni e cose del genere. Se vi interessa solo uccidere, trovatevi un lavoro in un mattatoio. Se volete essere un soldato, concentratevi su come uccidere rapidamente.» Si fermò a riprendere fiato. Aveva ancora la loro attenzione? Bene. «Tagliare, d'altra parte» continuò «prevede sia lo shock che il danno. Recidete la mano di un uomo e improvvisamente non rappresenterà più una minaccia, anche se vivrà ancora cent'anni. Ricordate: il dolore è vostro amico, gli impedirà di prendervi; un affondo letale potrebbe non fare abbastanza male da essere notato, e se un uomo non sa che è morto, potrebbe continuare ad attaccarvi finché non sarà troppo tardi. I tagli migliori sono quelli alla testa e al collo; ma non fate la sciocchezza di cercare di tagliare la testa dell'avversario quando un bel fendente sull'arteria del collo andrà benissimo. Ricordatevi che, mentre portate la spada in alto per sferrare un grosso colpo, siete un bersaglio aperto. Dei tagli brevi fino alle ossa vi consentono di farcela: se fermate l'avversario con un colpo, potete sempre
finirlo con quello successivo.» «Infine, vi diranno che l'affondo è più veloce del taglio: forse, ma a me sembra che si faccia un'oscillazione troppo grande. Avvicinatevi prima, e poi fate partire il colpo; usate i piedi per colmare la distanza, spostate il corpo e il braccio allo stesso tempo, e non avrete bisogno di preoccuparvi troppo del taglio lento. Fatelo bene e non sapranno mai cosa li ha colpiti. D'accordo... ci sono domande?» C'erano molte domande, e per lo più intelligenti e precise. Ancora una volta Bardas rifletté che era davvero un piacere lavorare con gente che si preoccupava della tecnica e dell'abilità. Se solo avesse avuto qualche studente di quel calibro (invece di uno soltanto) quando dirigeva la scuola di scherma, forse sarebbe potuta andare molto meglio. Più tardi, il primo carro di legname arrivò all'accampamento, e il ritmo cambiò notevolmente. In pochissimo tempo il legname venne scaricato e issato dov'era necessario, dando agli ingegneri tempo appena sufficiente di finire i loro progetti. Mentre osservava le squadre di uomini che trascinavano in posizione i ciocchi pesanti, non poté fare a meno di ricordare lo spettacolo degli uomini di Temrai mentre spostavano il legname e costruivano i trabocchi e le catapulte sotto le mura della Città. Non importa da che parte si sta, ci sono pochi spettacoli che ispirano di più di un grosso numero di uomini che lavorano insieme e bene per un progetto grande e ambizioso: osservarli sollevare con le leve e issare con i verricelli enormi pezzi di legno come se fossero piume, e persino sollevarli per aria su gru e pulegge, è sufficiente a far sentire un uomo fiero di appartenere al genere umano. È così che si è sentito Temrai? si chiese. Ne avrebbe avuto il diritto, non c'è dubbio su questo. Era strano: essere tornato lì, a fare quelle cose, bastava a farlo sentire di nuovo giovane. Giovane e al comando, come Temrai contro Perimadeia. Giovane ed estremamente sicuro di sé, come Bollo che comincia a far oscillare il suo martello. Giovane e con una vita piena di opportunità davanti a sé, come Bardas Loredan che guidava l'esercito di Maxen dalla guerra a casa. Pensò per un momento al giovane che era stato per breve tempo il suo apprendista a Scona, quando aveva cercato di guadagnarsi da vivere come costruttore d'archi. Si ricordò come si era sentito, nella notte del Sacco, a torcere il braccio di Temrai dietro la sua schiena con una mano, tenendo la lama tagliente alla sua gola con l'altra. Quello era stato uno dei momenti più importanti della sua vita. Mentre lavoravano, i soldati dei Figli del Cielo intonavano fiduciosi le
adatte canzoni da lavoro. Doveva essere meraviglioso, pensò Bardas, avere quel tipo di fede: era così confortevole e molto più facile... come un ciocco che rotola sui rulli invece di venire trascinato lungo il terreno. Abbi fiducia, credi, e ciò ti renderà di nuovo giovane: è questo che un vero scopo può fare. Se solo non ci fossero gli uomini più anziani e più saggi a tenere un coltello affilato alla tua gola e a toglierti la fede, come Bardas Loredan durante il Sacco. «Andiamo in cerca di guai, penso» protestò Venart, ancora una volta. L'aveva detto tante volte che la frase stava trasformandosi in una battuta. «Vedremo» rispose qualcuno. «Li abbiamo messi con le spalle al muro. Hanno bisogno di noi: sono affari, puri e semplici.» «Sono in ritardo» commentò qualcun altro. «Non lo sono mai stati prima.» Nella Sala Lunga della Camera di Commercio dell'Isola, circa cinquanta rappresentanti della Gilda degli armatori (fondata una settimana prima) aspettavano di incontrare una delegazione dell'ufficio provinciale, su una questione (come recitava l'invito) urgente e delicata. «È rubare, ecco cos'è» insistette Venart «e lo sapete come me. Potete chiamarlo come vi pare, ma è rubare.» Runo Lavador, proprietario di sette navi, sedeva sul bordo della scrivania del Presidente, e faceva oscillare le gambe come un ragazzino. «D'accordo» disse «è rubare. È una pratica di commercio perfettamente legittima. Noi abbiamo quello che serve a loro: le navi. Loro hanno quello che vogliamo noi: i soldi. Sta alle parti dell'accordo fare la contrattazione.» «Abbiamo fatto un accordo, però» disse una delle poche persone nella stanza che erano d'accordo con Venart. «Tornare indietro... be', non mi sembra intelligente. Abbiamo già un ottimo accordo, se volete il mio parere.» Runo Lavador scrollò le spalle. «Se non vuoi stare qui, allora togliti senz'altro dai piedi. Nessuno ti costringe a fare nulla. Inoltre, non capisci la natura dell'affare del noleggio. Finora hanno avuto tutta la libertà di farla finita e andarsene, se avessero trovato un accordo migliore da qualche parte. Hanno scelto di non farlo. Adesso noi stiamo facendo una scelta: vogliamo più soldi. Possono ancora andarsene, in ogni momento. A sentirti parlare, tutti penserebbero che teniamo un coltello puntato alla loro gola.» Le porte alte e pesanti all'altra estremità della sala si aprirono, e i Figli del Cielo fecero la loro entrata. Era difficile non pensare in termini di
sfoggio e melodramma quando un loro gruppo entrava in una stanza: prima c'era una guardia d'onore di alabardieri in mezza armatura, poi un paio di segretari e una coppia di impiegati minori che portavano scrivanie e boccette d'inchiostro; poi gli stessi delegati, entrambi più alti di chiunque nel gruppo e, affrettandosi dietro di loro, tre o quattro attendenti non precisati, cuochi, valletti o bibliotecari personali. Attenzione pensò Venart arrivano gli adulti. Sperava che non gli sarebbe importato molto. Sarebbe stato così, vero? Dopo tutto, era in ballo solo del denaro, e fino a quel momento i Figli del Cielo avevano dato l'impressione di valutare il denaro come i marinai valutano l'acqua del mare. Cens Lauzeta, il barone dell'olio di pesce, sedeva nella poltrona del Presidente. Nessuno ricordava di averlo eletto presidente, ma a nessuno importava se voleva farlo. Si alzò in piedi e accennò educatamente mentre i delegati sfilavano (non c'era altra parola per descrivere la situazione) lungo la sala e si sedevano all'estremità lontana del lungo tavolo. «Buon per voi che abbiate trovato il tempo per vederci» disse Cens Lauzeta, sembrando più arrogante del solito (cosa c'era nel commercio dell'olio di pesce che causava quell'esuberanza nelle persone?). «Rappresentiamo la Gilda degli armatori dell'Isola.» «Scusate» interruppe uno dei delegati. «Non mi sembra di aver sentito parlare prima della vostra organizzazione.» «È probabile» rispose allegro Lauzeta. «Non esistiamo da molto. Finora non era stata una necessità, ma eccoci qui; quindi, se per voi va bene, potremmo andare avanti con i negoziati.» «Assolutamente sì» rispose il Figlio del Cielo. «Forse sarà sua cura dirmi cosa siamo qui a negoziare.» Lauzeta sorrise con indulgenza. «Soldi» rispose. «Finora avete noleggiato navi che appartengono ai nostri membri; nessuna lamentela da questo punto di vista, a proposito, siete stati onesti con noi e noi con voi. Ma adesso» continuò sedendosi sul bracciolo della sedia del presidente «le cose stanno per cambiare. Porterete le nostre navi in guerra; non sappiamo quanto durerà... be', chi potrebbe saperlo?... non sappiamo quando riavremo le navi, o se le riavremo. Senza offesa, amico mio, ma siamo uomini d'affari, e abbiamo avuto rapporti sull'andamento di questa guerra che hanno aperto nuove prospettive.» «Davvero?» rispose il delegato. «La prego, mi illumini.» «Se vuole» disse Lauzeta. «Una colonna è stata spazzata via; il colonnello al comando di un'altra colonna è stato ucciso in azione; il nemico si è
mobilitato ed è in marcia, pronto ad attaccare: non è questo che avevamo in mente quando abbiamo firmato l'accordo. Quegli eserciti invincibili ora non sembrano esserlo più, e pensiamo che questo cambi un po' le cose.» «Capisco» disse il Figlio del Cielo. «Ma non state mettendo in dubbio gli accordi vincolanti con i membri della vostra Gilda?» Lauzeta scosse la testa. «Non per come vediamo noi la cosa» rispose. «Diciamo che uno dei presupposti sui quali sono stati basati i contratti è cambiato. Ho parlato ad alcuni dei nostri migliori avvocati commerciali e mi hanno detto tutti la stessa cosa. Un contratto è come una casa: se le fondamenta crollano, cade tutta a terra. Per come vediamo noi la situazione, i contratti non sono più validi.» Il delegato inarcò un sopracciglio. «Davvero» disse. «Per quanto riguarda la mia comprensione da profano della legge imperiale...» «Forse della legge imperiale» lo interruppe Lauzeta. «Ma i contratti di noleggio sono stati tutti firmati qui sull'Isola, così si trovano sotto la giurisdizione delle leggi e dei tribunali dell'Isola; e le dico che al momento i contratti sono morti e sepolti. È un dato di fatto.» «È un'interessante linea di argomentazione» commentò il delegato. «Nel qual caso, ammettendo che la vostra interpretazione sia valida, immagino che vogliate che ritiriamo i nostri uomini e vi restituiamo le navi.» Lauzeta scosse la testa. «Assolutamente no» disse. «Questo rovinerebbe seriamente i vostri piani, e nessuno di noi vuole questo. No, siamo felici di continuare l'accordo se i livelli convenuti di pagamento vengono rivisti per prendere in considerazione i probabili rischi e tempi aggiuntivi. Dopo tutto» continuò con un tono più conciliatorio «l'ultima cosa che vogliamo fare è litigare su questo: l'Isola e l'Impero sono sempre stati vicini...» «No, non lo sono stati» sussurrò Eseutz Mesatges all'orecchio di Venart. «Anche con il vento a favore è un viaggio di due giorni.» «Shh» rispose Venart. Il delegato si accigliò e sorrise allo stesso tempo. «Volete continuare l'accordo esistente, ma volete più soldi. È questo che sta dicendo?» Lauzeta annuì. «In poche parole, sì» ammise. «Penso che sia ragionevole quantificare un incremento per il deprezzamento di buona volontà e per la perdita di opportunità d'affari. Cosa pensa che stia accadendo ai nostri affari normali mentre le nostre navi sono ferme? Abbiamo dei concorrenti, sa.» Il delegato conferì brevemente con il suo collega. «Quanti altri soldi volete?» chiese.
A quanto sembrò, Cens Lauzeta non si aspettava quella domanda diretta: aprì la bocca e la chiuse di nuovo, e non disse nulla. Il delegato inarcò un sopracciglio. «Dobbiamo convenire» rispose alla fine Lauzeta «su una formula che ci permetta di elaborare la situazione dal punto di vista scientifico. Voglio dire, non vorrei che pensaste che ci stiamo inventando le cose.» «Intende dire» specificò il delegato «che volete più soldi, ma non sapete quanti.» Si alzò e il resto del suo entourage fece immediatamente lo stesso. «Forse quando avrete deciso la cifra sarete così gentili da farmela sapere. Nel frattempo vi sarei grato se poteste dirmi se dobbiamo continuare a caricare le nostre navi, o se volete che le scarichiamo.» «Io...» Lauzeta sembrò non avere nulla da dire. Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, e poi Runo Lavador, che era rimasto seduto immobile e in disparte per la maggior parte dell'incontro, balzò in piedi. «Probabilmente sarebbe meglio se scaricaste» disse. «Questo finché non abbiamo definito la questione dei pagamenti...» «Mi scusi.» Il delegato aveva parlato con voce sommessa, ma tutti nella stanza lo guardavano. Con un tono di voce come quello, non c'era bisogno di gridare. «Posso chiederle chi è lei, e che posto ricopre all'interno della Gilda?» Il panico oscurò il volto di Lavador, che lo mascherò con visibile sforzo. «Sono Runo Lavador» rispose. «E sono solo un semplice armatore, tutto qui. Ma sono sicuro di parlare a nome di tutti. Non è così?» Guardò i suoi colleghi, nessuno dei quali si mosse di un millimetro. «Sono sicuro che lei capisce» disse. Il delegato lo guardò per un attimo. «Molto bene. Uscì rapidamente dalla stanza, seguito senza nessun ordine particolare dal resto della squadra. Lauzeta aspettò che le porte si chiudessero dietro di loro.» «Be', come potevo sapere?» fece, prima che qualcuno potesse dire una parola. «E non sei stato d'aiuto» aggiunse guardando in cagnesco Lavador. «Ci hai fatti sembrare un branco di stupidi.» «Io?» Mentre le urla rapidamente aumentavano, Venart scivolò via con la massima discrezione possibile. Era tentato di correre dietro ai delegati per scusarsi; ma anche quello non avrebbe aiutato. Di fatto, non poteva pensare a nessuna azione sensata tranne andare diritto a casa, e così fece. «Allora?» urlò Vetriz dall'ufficio contabile mentre lui entrava dalla porta principale. «Com'è andata?»
«Malissimo» rispose Venart lasciandosi cadere in una sedia. «Non poteva andare peggio, nemmeno se ci avessimo provato in tutti i modi.» «Oh.» Vetriz apparve sull'uscio e si appoggiò contro lo stipite. «È andata davvero male» disse. «Perché non sono sorpresa?» Venart allungò le gambe e mise i piedi su un tavolino basso. «Penso che adesso sarebbe un buon momento per andare all'estero, finché quest'intera faccenda non si sarà risolta. Sfortunatamente non possiamo farlo, naturalmente, non avendo una nave. Be', se mi capita di incontrare Cens Lauzeta in un vicolo buio...» «Cos'è successo?» Venart glielo disse. «Così, in un modo o nell'altro abbiamo architettato un modo per dare una fregatura. Avresti dovuto vedere lo sguardo di disprezzo sul viso di quell'uomo mentre usciva. Non ho mai visto nulla del genere.» «Oh, be'» rispose Vetriz. «Dovranno solo chiarire tutto di nuovo, giusto? Guarda il lato positivo: se decidono che l'accordo è terminato, avremo ancora la nave e il denaro che abbiamo già preso da loro. Se si arriva al peggio, manderemo Cens con il cilicio a strisciare.» Venart sospirò. «Immagino di sì» disse. «Ma credimi, per essere dei cosiddetti rappresentanti di una nazione commerciale, sappiamo davvero come sembrare ignoranti.» Allungò una mano e prese una manciata di acini dal grappolo di una ciotola di legno poco profonda che si trovava sul tavolo. «Far andare male le cose è un conto» commentò Venart mentre masticava. «Far andare tutto male contemporaneamente, però... è un atto di classe.» Vetriz sorrise. «Be', se la cosa ti può consolare ho appena finito di mettere in ordine i libri contabili per questo trimestre, e siamo sotto del dodici per cento rispetto all'anno scorso, quindi suppongo che Cens avesse ragione, in un certo senso. Naturalmente l'anno scorso le cose sono andate insolitamente bene, quindi in realtà non è un paragone giusto. In ogni caso, penso che dovremmo andare fuori a cena per festeggiare.» «Festeggiare cosa? Avere fatto peggio dello scorso anno? Avere offeso l'Impero?» «Perché no? Chi dice che si può festeggiare solo qualcosa di bello?» CAPITOLO QUATTORDICESIMO «Cannella» disse il prefetto di Ap' Escatoy dopo un lungo e teso silen-
zio. «Cannella, ma probabilmente non della qualità locale. Anzi, direi che è probabilmente di Cui Halla. Ho indovinato?» «Quasi» rispose l'amministratore capo. «In realtà è una nuova varietà. Il mio uomo sull'Isola me ne ha mandato una scatola con i dispacci. Credo che venga dal sud-ovest, ma mi ha detto solo questo.» «Una nuova varietà» ripeté il prefetto, togliendosi le briciole dalle dita. «Devo ammettere che lei mi sorprende. Che prospettive ci sono di assicurarsi un rifornimento regolare?» L'amministratore capo fece un cenno ai cuochi, indicando che potevano andare. «Non ne sono sicuro» disse. «Il modo in cui gli isolani fanno affari è erratico, e non so dire se si tratti di un acquisto unico o di una parte di un accordo di lunga durata. Insisteranno nel trattare come un gioco tutto ciò che ha a che fare con gli affari; fa parte della vena fanciullesca che permea ogni loro azione.» Il prefetto alzò lo sguardo. «Sembra piuttosto accattivante» disse. «Forse. Io lo trovo irritante, a essere sincero. La fanciullezza è accattivante nei bambini... negli adulti è una seccatura.» «Penso di sì» annuì il prefetto appoggiando il piatto. «Tuttavia, è bello incontrare persone che si divertono a fare il loro lavoro. Immagino che questo sia come l'introduzione del suo rapporto.» «È sicuramente una buona illustrazione.» L'amministratore si sedette di fronte al suo superiore, con i gomiti sulle ginocchia. «Personalmente non trovo che ritardare l'invasione e quindi forse rischiare le nostre forze all'interno sia particolarmente accattivante come idea. Dovremmo avere settantamila uomini a Perimadeia ormai, e invece ciondolano nell'accampamento, dimenticandosi del perché si trovano qui e di ciò che devono fare. A essere franco, questa situazione sta diventando un caos per il mio budget e sta ridicolizzando l'Impero.» Il prefetto sospirò. «Questo è intollerabile, ne convengo.» «E non è nemmeno questo il lato peggiore» continuò l'amministratore, giocherellando con un piccolo oggetto di ottone che aveva preso dal tavolo. «Temrai sta marciando in questa direzione; e se in qualche modo riesce a sconfiggere il nostro esercito sul campo? Che spiegazione daremo per questo?» «Ah.» Il prefetto sorrise. «La situazione non è così brutta. A quanto sembra si è fermato e sta costruendo una fortezza... a un ritmo veramente impressionante, devo ammettere. Sono delle persone così piene di energia... decisamente diverse dalla maggior parte delle tribù nomadi che ho in-
contrato. Quando tutto sarà finito, penso di studiarli un po' più da vicino. Quando si possiede un Impero, c'è anche il compito di conoscere le persone strane in cui ci si imbatte.» «Con tutto il rispetto» disse serio l'amministratore «penso che l'assaggio del vino può aspettare la vendemmia. Sono d'accordo, se Temrai ha fermato la sua avanzata, ci toglie in parte la pressione di dosso. Ma in ogni caso, se fossimo stati in grado di procedere in base al nostro programma originario, non sarebbero arrivati così lontano e non ci troveremmo ad affrontare la prospettiva di doverli stanare da questo nuovo modello di formicaio che stanno costruendo. Il fatto è che questi isolani ci costeranno vite, soldi e tempo. Non possiamo permettere che ciò avvenga.» Il prefetto sospirò. «No di certo» disse. «Dobbiamo fare qualcosa, sono d'accordo.» Chiuse gli occhi per aiutare la concentrazione. «È una seccatura non poter equipaggiare le navi noi stessi. Servirsi degli equipaggi dell'Isola ci rallenterà ulteriormente. Non possiamo reclutare marinai da qualche altra parte?» «Ho considerato la questione» rispose l'amministratore. «Sfortunatamente non è così semplice. Potremmo riuscire a trovare uomini a sufficienza per arrivare al numero che ci serve, ma non potrei garantire che siano qualificati. Quelle navi dell'Isola sono difficili da governare se non si sa quello che si fa. Non vorrei correre il rischio di usare equipaggi inesperti.» «Davvero?» Il prefetto aprì gli occhi. «Non è un lungo viaggio, vero?» «Non pretendo di sapere tutto su queste navi e sulla navigazione» disse l'amministratore. «Posso solo basarmi su quello che mi dicono gli esperti e, naturalmente, non sono esperti nel campo, perché le uniche persone che sanno veramente come far veleggiare le navi dell'Isola sono gli isolani. Tuttavia...» «Capisco il suo punto di vista.» Il prefetto si alzò e guardò fuori dalla finestra. Stavano potando gli aranci nel chiostro di sotto, e la simmetria del lavoro dei potatori lo attirava. «Penso che dovremo rassegnarci a un certo ritardo» disse. «O persino a una rivalutazione della nostra strategia. Fortunatamente proprio Temrai sembra darcene la possibilità.» Mise le dita a campanile, come un giocatore di scacchi che contempla una mossa dopo l'altra. «Per adesso, assegnerò il sesto e il nono battaglione all'esercito del Capitano Loredan: questo gli darà altri trentamila uomini. Quanti pensa che ne serviranno a lei?» L'amministratore rifletté un attimo. «Un battaglione dovrebbe essere più che sufficiente. Di fatto, cinquemila uomini dovrebbero bastare e avanzare.
Non sarà un lavoro difficile, ammesso che lei possa farmi avere un comandante decente.» Stavano dando agli alberi una forma, in modo che i rami creassero una sfera perfetta: era un'impresa, considerando la tendenza naturale degli alberi a spingersi di lato. L'arte è il sovvertimento della natura. «Pensavo al Colonnello Ispel» disse il prefetto. «Sarebbe l'ideale. Anzi, sarebbe sprecato per un lavoro del genere.» L'amministratore si accigliò. «Lo so, ma se Ispel è disponibile, perché non dargli l'esercito contro Temrai e assegnare questo Loredan a me? Sembra piuttosto ridicolo mettere uno dei nostri ufficiali migliori a condurre un'azione di polizia di routine, mentre un grosso esercito sul campo è al comando di un forestiero.» Il prefetto scosse la testa. «Normalmente sarei d'accordo. Ma il fatto è che Temrai non si comporterebbe così se non fosse per il Capitano Loredan. È stata la morte di Estar e la sua sostituzione da parte di Loredan a spaventarlo talmente da abbandonare la sua ottima strategia di portare la guerra da noi e di fargli scavare in terra come una marmotta. Come risultato, ho bisogno che Loredan rimanga dov'è, e questo significa che lei può avere Ispel. Ammettendo che lei lo voglia: se preferisce qualcun altro, per favore lo dica.» «Al contrario.» L'amministratore sembrò chiaramente seccato; probabilmente, pensò il prefetto con una punta di piacere perverso, perché Ispel socialmente è più alto di lui in rango, e quindi lo dovrà trattare come pari e superiore quando appariranno in pubblico insieme. Avrebbe sicuramente costituito uno spettacolo interessante. «Allora siamo d'accordo.» Il prefetto girò la testa e consultò il grosso e finissimo orologio di vetro ad acqua che si trovava in un angolo della stanza. Trasparente come l'acqua che conteneva, le pareti erano quasi invisibili, con soltanto le calibrazioni incise sui due vascelli a tradire il fatto che esisteva. Era un dono da parte di un ricco manifatturiere, che aveva cercato di ottenere un contratto per rifornire l'esercito; non l'aveva ottenuto, ma non aveva chiesto indietro l'orologio, quindi presumibilmente non gli importava di riaverlo. «Andiamo a fare due passi lungo le Gallerie?» propose. «Possiamo parlare lungo la strada. Mi sforzo di andarci in questo periodo, perché non c'è nulla come una distrazione controllata per aiutare a mantenere la concentrazione.» L'amministratore sorrise... di genuino piacere, notò il prefetto, e ne fu felice. «Speravo di poter trovare il tempo di fare un salto per l'arrivo delle
merci fresche. Ma sono stato così impegnato ultimamente...» «Davvero» lo ammonì il prefetto «nessuno è troppo impegnato per il pane appena fatto. Ho creato la regola di non fidarmi mai di un uomo che non riesce a trovare il tempo per fare i suoi acquisti.» Il portico era affollato, come c'era da aspettarsi a quell'ora del giorno. I librai e i cartolai avevano già approntato le loro bancarelle, e il numero di persone che camminavano mentre leggevano e quindi non guardavano dove mettevano i piedi faceva avanzare lentamente e con cautela. «Mi ricordi» disse il prefetto «di passare al mercato dei fiori al ritorno. Non sono per niente soddisfatto delle rose che mi hanno inviato ultimamente, e ci sono poche cose tristi come le rose mezze appassite.» L'amministratore fece un gesto di comprensione. «È un po' di tempo che dico che dovremmo comprare i fiori per tutti i dipartimenti da un solo rifornitore affidabile. Invece come avviene adesso, la qualità è piuttosto incerta. Qualche giorno fa la nostra spedizione all'Ufficio di Stato era bianca per la muffa, ed era ormai troppo tardi per prendere qualcosa con cui sostituirla.» «È un suggerimento molto sensato» disse il prefetto in un tono di voce che l'amministratore non riuscì a interpretare. «Proceda e mi faccia sapere come va a finire.» Una volta oltrepassato il portico, la folla diminuì e fu possibile camminare a passo più rapido. «Non si penserebbe mai che la maggior parte di tutto questo ha solo dieci anni di vita» continuò l'amministratore. «Mi dica, ha avuto notizie dall'ufficio dell'ispettore riguardo i loro piani per il nuovo sviluppo? Da quel che so, non hanno nemmeno confermato se terranno l'amministrazione qui, adesso che l'assedio è finito.» Il prefetto sorrise, riconoscendo l'abilità (minima, secondo lui) con cui l'amministratore aveva spostato la conversazione sull'argomento di cui voleva davvero parlare. «Posso confermare che il grosso dell'amministrazione di questa prefettura rimarrà qui» disse osservando il suo collega con la coda dell'occhio per vedere se reagiva. «Nel corso dell'assedio si era avuta la sensazione che avevamo effettivamente costruito una cittadina quaggiù, e anche molto bene, per cui sarebbe stato uno spreco raccogliere tutto e spostarsi. Sul fatto se ricostruiranno Ap' Escatoy, hanno lasciato la decisione a me.» Guardò dritto davanti e aspettò che l'amministratore rispondesse; ma aveva sottovalutato la pazienza dell'uomo. Erano quasi arrivati al cancello della Galleria quando l'amministratore parlò di nuovo. «E ha già raggiunto una decisione? Credo di no, o l'avrebbe detto.»
Il prefetto si fermò per esaminare un carro che passava con un insolito sistema per collegare i freni all'assale. Il più delle volte l'amministratore giudicava l'abilità del suo superiore di trovare interessante ogni cosa come una caratteristica innocua e a volte encomiabile; c'erano però delle occasioni in cui gli veniva voglia di dargli un pugno. «Dipende tutto» disse il prefetto «da quello che succede con Temrai e la guerra. Se riusciremo a riprendere possesso della vecchia Perimadeia piuttosto in fretta, con la possibilità di cominciare le costruzioni principali prima dell'inizio dell'inverno, allora ovviamente preferirei costruire lì: è una posizione migliore per le comunicazioni e tante altre cose, in vista dell'espansione verso occidente. D'altro lato, se non riusciremo ad arrivare in tempo per cominciare in questo anno fiscale, dovrò costruire qui ad Ap' Escatoy o altrimenti perdere il finanziamento dell'ufficio provinciale che ho faticato tanto a ottenere; è condizione della concessione che io presenti uno schema dei lavori prima della fine dell'anno, e non posso fare assolutamente nulla al riguardo. Se perderò la concessione, a parte la frustrazione, dopo tutto quello che ho passato per ottenerla, dovrò finanziare i lavori di costruzione con gli introiti delle tasse e i saccheggi, il che significa che finirò per dover fare parecchi compromessi che preferirei davvero evitare. Può rendersi conto di quanto sia strana la mia posizione.» Un lampo di luce cominciò a brillare nella mente dell'amministratore. «Certo, se lei avesse quasi la sicurezza della somma delle tasse e dei saccheggi, questo le darebbe un certo grado di flessibilità nella sua pianificazione.» «Sicuramente» rispose il prefetto senza cambiare espressione. «In questo caso, penso che sarebbe ancora più probabile ricostruire Perimadeia. Dopo tutto, tradizionalmente è stata il centro di gravità per tutta questa regione; le persone guardano naturalmente alla Città come al loro punto di riferimento economico e culturale. Tutto questo renderà il lavoro di ricostruzione a occidente più facile se riusciamo a dimostrare che stiamo continuando dove loro hanno lasciato: o che stiamo anche restaurando le cose com'erano un tempo.» Si chinò, ancora affascinato dal carro. «Ma credo che sarebbe preferibile se potessimo trovare un modo per far tornare la guerra ai tempi previsti. Questo possibile guadagno inaspettato di denaro contante va benissimo, ma non sarebbe meglio avere la concessione e anche il denaro liquido?» Si raddrizzò. «In un certo senso» continuò «il Capitano Loredan ha già fatto quello che avevo bisogno che facesse: possiamo avere Perimadeia, libera, appena riusciremo a far sbarcare uomini a sufficienza
per tenerla. Il che rende questa faccenda dell'Isola» aggiunse accigliandosi «ancora più seccante. Spero davvero che sarà in grado di risolverla in fretta. Sarebbe proprio irritante perdere una splendida opportunità a causa di uno stupido contrattempo.» L'odore del pane fresco riempiva l'aria e i due uomini istintivamente alzarono lo sguardo. «È colpa nostra: ci siamo gingillati» disse il prefetto. «E mi rifiuto di trotterellare per le strade come fa un asino in fuga. Dovremo riconoscere che abbiamo perso un'opportunità.» Affrettarono il passo, ma quando raggiunsero la galleria dei fornai, le piramidi di filoni caldi e intatti erano già state assalite e consumate, come le mura di una città bombardata da macchine pesanti. «Quando ricostruiremo Perimadeia» mormorò l'amministratore accigliandosi «avremo almeno cinque gallerie di fornai, che faranno il pane a orari diversi. In questo modo non dovremo essere così critici sul nostro tempismo.» Il prefetto sorrise «Ma se lo farà» disse «rovinerà tutto. Se garantisce la soddisfazione, si priva della gioia dell'incertezza del raggiungimento di uno scopo.» «Se lo dice lei» fece l'amministratore, per nulla convinto. «Personalmente voglio solo essere sicuro di avere del pane veramente fresco.» «Naturalmente. Cosa c'è di più importante al mondo?» La carrozza postale era in ritardo: era un avvenimento straordinario, giustificato solo in parte dall'aumento di traffico sulla strada a causa della guerra. Sul retro tra i bagagli, sentendosi come un sacco di rape, Niessa Loredan aveva un terribile mal di testa. Non sapeva né le importava dove si trovava. Era troppo caldo, la carrozza era riuscita a prendere tutte le buche e i solchi con una diligenza che sarebbe stata ammirevole in un altro contesto, e la sua vescica la stava facendo sentire a disagio. Come se non bastasse, era assillata da una compagna di viaggio che non la smetteva di parlare, o piuttosto di urlare. Era sufficiente a farle desiderare di essere rimasta a Scona e di correre il rischio contro gli alabardieri. La seccatrice aveva avuto l'impressione, gli dèi sapevano come, che Niessa volesse sapere il suo nome. «Può trovare la questione complicata» diceva «essendo una forestiera. Vediamo... se fossi un uomo mi chiamerei Iasbar Hulyan Ap' Daic: Iasbar per me, Hulyan per mio padre, e Ap' Daic per il luogo di nascita di mia madre. Dato che sono una donna, sono Iasbar Ap' Cander; il principio è lo stesso, ma Ap' Cander perché è il luogo di
nascita di mio marito. Se non fossi mai stata sposata, sarei ancora Hulyan Iasbar Ap' Escatoy, che è il mio luogo di nascita. Non si preoccupi se si sente confusa» aggiunse «ci vuole una vita perché i forestieri si abituino alle sfumature.» Niessa borbottò e girò la testa, cercando di dare l'impressione di trovare il panorama (colline di sabbia con in cima ciuffi di erba bianca e secca) incredibilmente affascinante. La seccatrice non sembrò accorgersene. «Scommetto che si sta chiedendo» continuò «cosa ci faccio su un corriere postale; be', era l'ultima cosa che avrei immaginato di fare, ma mio figlio, quello di mezzo; il più grande è a casa, naturalmente, ha ereditato la proprietà dopo la morte di mio marito ed è un musicista, e la gente comincia a pensare che sia molto bravo, e il mio figlio più piccolo è nell'esercito, è ancora un sottufficiale, naturalmente, è aiutante di campo di questo Colonnello Ispel di cui tutti parlano come nuovo comandante in capo a occidente; ma mio figlio Poriset è il capo amministratore della fabbrica delle armi ad Ap' Calick. Non è un lavoro particolarmente interessante, come ammette lui per primo, ma è il più giovane a essere stato assegnato a un incarico di tale anzianità, quindi immagino che sia un qualcosa di cui essere fieri, e se farà un buon lavoro, aumentando la produzione e tagliando i costi, o qualunque altra cosa si debba fare in una fabbrica, mi ha spiegato una volta ma sono così sbadata... e così naturalmente ha fatto in modo che io possa viaggiare sulla carrozza postale ogni volta che vado a trovare lui e sua moglie: le ho detto che si è sposato da poco? Con una ragazza piuttosto piacevole, anche se non penso che lui sia adatto a una persona così calma; tuttavia è stata una sua scelta ed è un ragazzo molto serio, per cui sono sicura che ci avrà pensato moltissimo e avrà soppesato i pro e i contro...» Niessa chiuse gli occhi e cercò di bloccare il cicaleccio. Era fiato sprecato con lei, naturalmente: era stata abbastanza a lungo negli affari bancari per riconoscere una spia quando la vedeva. Quella era presumibilmente una spia di servizio, condannata a ballonzolare su quella strada odiosa giorno dopo giorno, anno dopo anno, come procedura standard di operazione. Non era affatto brava: doveva essere la zia di qualcuno, pensò, e le avevano trovato un lavoro. In mancanza di meglio da fare, Niessa passò alcuni minuti a valutare la possibilità di spingerla fuori dalla carrozza e sotto le ruote... doveva avere forza a sufficienza per riuscirci, ma era problematico farlo sembrare un incidente. Dirle di chiudere il becco sarebbe stato semplice, ma recentemente aveva imparato a sufficienza sui Figli del Cielo per sapere che offenderne uno era una pessima idea. Quando avevo
paura che mi torturassero, non immaginavo che potessero essere così subdoli. O così dannatamente scrupolosi. «Ho bisogno di fare la pipì» brontolò. «Sa come far fermare la carrozza? Altrimenti dovrò farla sul pavimento.» Quest'affermazione zittì la miserabile bastarda. Niessa si sentì già meglio. Se soltanto avessero potuto discutere le cose apertamente dall'inizio, lei avrebbe potuto sottolineare che l'approccio familiare della chiacchierata da donna a donna era controproducente nel suo caso; avrebbero dovuto scegliere qualcosa di meno noioso dal repertorio spionistico della donna, che poteva anche essere divertente. «Temo di non saperlo» rispose la spia con una voce che era poco più di uno strillo. «È terribile che non pensino a queste cose. Non guasterebbe certo avere qui un orinatoio o una vecchia caraffa o qualcosa del genere. Penso che dirò a mio figlio di fare qualcosa al riguardo.» Nonostante tutto, Niessa non poté fare a meno di ammirare la facilità di recupero della donna. Forse avevano davvero qualcosa in comune, da professionista a professionista. Se solo avessi potuto parlare a quel livello, da donna di mondo a un'altra donna di mondo, avrebbe potuto essere anche interessante. «Allora mi dica» disse Niessa. «Da quanto fa la spia?» La donna la fissò, e poi scosse la testa. «Che cosa straordinaria da dire...» cominciò, ma Niessa la fissava dritta negli occhi. «Lei dev'essere Niessa Loredan. Mi era stato detto che sarebbe passata prima o poi.» «Allora mi conosce.» La donna rise. «La famosa strega dell'estero? Direi proprio di sì. Non che io creda a quelle cose, ma molti lo fanno. I forestieri, naturalmente» aggiunse subito. «È molto più vecchia di quanto mi aspettassi: immagino che sia questo ad avermi sviato.» «Grazie tante» rispose Niessa. «E per la cronaca non sono una strega, ma una banchiera. Non esiste la stregoneria, come lei ben sa.» La carrozza passò su una buca particolarmente profonda, e Niessa sentì i denti battere. «Deve aver offeso qualcuno, per essere stata assegnata a questo posto» commentò. «Venire sballottata in questo modo dev'essere una punizione.» La donna scrollò le spalle. «Non è lontana dalla verità» disse. «Si è trattato di una promozione collaterale. E per rispondere alla sua domanda, sono una spia da cinque anni. Prima dirigevo un ufficio nella prefettura di Ap' Escatoy. Era un buon lavoro, non mi dispiaceva affatto, ma c'ero stata
troppo tempo: non era il caso che una Figlia del Cielo con la mia anzianità facesse un lavoro in cui avrei potuto avere come superiore un forestiero. Quindi eccomi qui.» «Ha tutta la mia comprensione» rispose Niessa. «Allora, dato che è stata sincera con me, c'era qualcosa in particolare che voleva sapere? Immagino di no, dal momento che ha detto che non sapeva chi fossi. O le è stata data una serie di obiettivi nella missione da compiere se e quando si fosse imbattuta in Niessa Loredan?» «Mi hanno dato degli obiettivi molto vaghi» rispose la spia «che per lo più hanno a che fare con la fuga di sua figlia: se è stata organizzata, se è stata aiutata da qualcuno di noi, e cose del genere. Se volesse dirmi tutto in proposito, le sarei grata.» Niessa contorse la schiena in una fessura tra due barili. «Certamente ma non posso dirle granché, o almeno nulla che lei possa controllare, che è più o meno la stessa cosa. No, la fuga non è stata organizzata... almeno non che io sappia. Vede, io e mia figlia non siamo molto amiche: anzi, ci odiamo... è la semplice verità. Lei ha figli?» La spia scosse la testa. «Meglio così» commentò Niessa. «In ogni caso, è possibile che Iseutz sapesse cosa stava per accadere e avesse ideato un complotto alle mie spalle, ma ne dubito. L'avete già presa?» «Penso di no. L'ultima notizia che ho avuto era che si trovava con suo zio nel Mesoge; ma non ho autorizzazioni speciali per informazioni riservate: queste sono solo le voci che girano.» «Capisco» disse Niessa. «Sa come procede la guerra? Dove mi hanno portata non mi hanno detto nulla.» La donna socchiuse gli occhi. «Forse sa che suo fratello Bardas è al comando dell'esercito da campo.» Niessa scosse la testa. «È un comando collegiale. Il che significa che è lì solo per fare scena.» «Non più. Il Colonnello Estar è rimasto ucciso, e adesso suo fratello è solo al comando. È uno strano pensiero: un forestiero al comando di quattro battaglioni. Senza offesa, ma non mi piace l'idea.» «Dati i trascorsi, non piacerebbe nemmeno a me» borbottò Niessa. «Lo hanno già sconfitto una volta; due, anzi, dato che quando ha assunto il comando dallo zio Maxen è riuscito solo a togliere l'esercito da lì e a riportarlo a casa. È abbastanza competente come subordinato, il nostro Bardas, ma non direi che ha ciò che ci vuole per essere un capo. La stessa cosa vale
per mio fratello Gorgas, ma in dimensione minore: è un ottimo soldato, ma ha problemi ad affrontare le questioni più grandi. In realtà è questo che è andato male a Scona: non riusciva a vedere che il gioco non valeva più la candela. Badi bene, Gorgas non ha mai saputo quando lasciare: è il suo problema più grande.» La carrozza sbandò di nuovo, con più forza, e si fermò improvvisamente. Un barile di biscotti si sollevò dalla cima della pila e cadde, quasi colpendo Niessa in testa. «Se fossi in lei, farei sostituire questo cocchiere» disse; ma vide che la spia era morta. C'era una freccia proprio al centro della sua gola, che l'aveva bloccata contro il barile contro cui era seduta. Mentre Niessa la osservava, la testa della spia cadde di lato sulla spalla destra, con gli occhi ancora aperti. E adesso cosa succede? pensò rabbiosa, e si guardò intorno per vedere la provenienza della freccia. E che utilità c'è ad avere un Impero se non si riescono a tenere le strade sicure? Non sembrava accadere nulla, ma ovunque si trovassero, era un luogo tristemente aperto ed esposto. Cercare di scappare sarebbe stato un suicidio, se i banditi erano decisi a uccidere i testimoni, ma rimanere immobili non era la soluzione migliore. Era inutile cercare di nascondersi se avessero rubato il carico: l'avrebbero trovata prima o poi mentre scaricavano la merce. Quindi è finita pensò. Tutta questa strada per nulla. Che spreco di tempo e di energia. Un elmo apparve sopra la scala laterale: finalmente qualcosa su cui poter sfogare la sua rabbia; prese un barile di biscotti e lo schiantò sulla cima dell'elmo, dove le strisce che tenevano le piastre si incontravano. Il risultato fu soddisfacente, se non addirittura comico: si sentì un sospiro, e l'elmo svanì in una pioggia di pezzetti di legno e biscotti. È questo che meriti per impegolarti con uno dei Combattenti Loredan rifletté Niessa sorridendo. Solo perché sono una femmina non significa che non posso giocare duro anch'io. «Niessa Loredan?» La voce proveniva da dietro di lei, e mentre si voltava, la caviglia di Niessa rimase bloccata in una nicchia tra due scatole. Faceva male. «Ahia» disse. «Sì, chi lo vuole sapere?» «Siamo qui per salvarla.» Era un altro dannato elmo, con una specie di visiera che copriva completamente il viso dell'uomo. Era troppo chiedere che le venisse permesso di parlare con un essere umano, invece che con tutta quella ferraglia? «Cosa sta dicendo?» chiese Niessa.
«Sono gli ordini di suo fratello» spiegò l'elmo. «Siamo venuti per salvarla e portarla a casa.» Niessa si accigliò. «Quale fratello?» chiese. L'elmo sembrò confuso: era un trucchetto difficile per un pezzo di ferro. «Gorgas Loredan» rispose. «Oh.» Niessa sospirò. «Be', potete tranquillamente tornare indietro e dire a Gorgas che non ho bisogno di essere salvata, non voglio e, se lo volessi, l'ultima persona che vorrei che mi salvasse è lui. Ha capito o devo scriverglielo?» L'elmo sembrava distrutto. «Non ha compreso» ripeté. «La riportiamo nel Mesoge. C'è una nave che ci aspetta. Ma dobbiamo fare in fretta, perché tra un'ora sarà qui una colonna della cavalleria, e...» «Va bene» disse Niessa «non dirò loro la direzione che avete preso, se ve ne andate subito. Fatemi solo il favore di rubare qualcosa: cercate di farla sembrare una comune rapina.» Povero elmo pensò mentre diceva quelle parole. Poteva sentire altre voci in altri elmi... avevano tutti la caratteristica di risuonare, come un uomo in un pozzo, o come il suo defunto marito Gallas quando una volta aveva infilato la testa nel secchio del siero del latte. Gli altri elmi sembravano agitati, il che era abbastanza ragionevole. «Mi dispiace» insistette l'elmo «ma ho i miei ordini. Lei viene con me. Qualunque cosa ci sia tra lei e suo fratello non mi riguarda...» «Aspetti» fece Niessa. «Lei è un uomo di Scona, vero? Be', certo che lo è. Userà davvero la forza per rapirmi? Sa chi sono, vero? A parte essere la sorella di Gorgas, intendo.» «Sì» rispose l'elmo preso dal panico «ma non dipende da me. Devo fare ciò che mi è stato detto. Adesso si alzi e la aiuterò a scendere dal carro.» «Vai al diavolo» rispose Niessa. «Torna da Gorgas e digli che deve smetterla di fare lo stupido, perché ne ho abbastanza di lui e dei suoi ridicoli eroismi. Andiamo, non ti morderò. Non se gli dici...» In quel momento l'uomo che era salito silenziosamente dietro di lei le lasciò cadere un sacco sulla testa, la prese per i piedi e si chinò per legarla. «Era ora» disse l'elmo. «Porta tutta questa roba fuori dal carro: la useremo per lasciare una falsa pista.» All'interno del sacco, Niessa si dibatteva furiosamente. La tirarono giù dal carro senza sballottarla troppo, mentre un altro uomo si occupava del soldato che Niessa aveva ferito alla testa con il barile di biscotti, e un altro finì il cocchiere, che aveva cercato di scivolare via nonostante due frecce gli avessero attraversato il petto quasi nello stes-
so punto. Tagliarono i cavi che tenevano fermi i barili e le scatole, e li tirarono giù, lasciandoli rotolare fino a rompersi; spezie, profumi, erbe, vino e oli profumati per condire l'insalata... tutto mescolato insieme: l'odore era straordinario, strano ed esotico, tanto che persino un Figlio del Cielo avrebbe trovato difficile identificare tutti gli ingredienti. «Basta così» disse l'elmo, tirando su la visiera per asciugarsi la fronte. Sotto il metallo c'era un uomo dal volto rotondo con un naso a patata. «Voi due prendete la carrozza: ci incontreremo alla nave.» Un'ora dopo arrivò la colonna della cavalleria, proprio come aveva detto l'elmo. Trovarono due corpi, un maschio e una femmina, nudi, e un grosso mucchio di biscotti sbriciolati. Non c'erano barili né scatole... un gruppo di ladruncoli era apparso dalle dune di sabbia e li aveva messi fuori combattimento nel giro di pochi minuti, forzando i chiodi, sollevando attentamente le strisce di acciaio dei barili e raccogliendo le doghe (quelle intatte in una pila, da usare di nuovo; quelle rotte in una pila separata, come legna da ardere) e avevano rubato tutto il carico, a parte la cannella e i biscotti al miele di rosa che erano molto apprezzati dal prefetto di Ap' Escatoy. Apparentemente i rapinatori ne avevano provato qualcuno, l'avevano sputato e poi ci erano saltati sopra, in caso che qualche sconsiderato fosse tentato di mangiarli. «Questa è la partita» sospirò Habsurai, capo della banda del contingente per il taglio degli alberi, mentre l'ultimo carro di legname si fermava. «Certifico che non esiste più nulla di più grande di un dente di leone tra qui e il Fiume dei Piccioni. E se vuole che ci spingiamo oltre» aggiunse prima che Temrai potesse dire qualcosa «dovrà darci una scorta armata, perché dal punto in cui ieri stavamo abbattendo gli alberi potevamo vedere gli esploratori di Loredan che girovagavano sull'altra riva del guado di North Reach. Se vuole altro legname, dovrà combattere.» Era un'altra giornata calda: c'era una staffetta continua di bambini che sembravano stanchissimi e che si affannavano su e giù lungo il ripido sentiero con dei secchi, e gli squadratori avevano rinunciato a lavorare. Non che fossero veri e propri squadratori: le tribù non ne avevano, non avendo mai avuto bisogno di usare grossi blocchi di pietra prima d'allora. Chiunque era sprovvisto di cappello lo improvvisava: un sacchetto avvolto sulla testa e le spalle, assicurato con uno spago intorno alle tempie; i cesti di vimini larghi e piatti in cui i fornai portavano il pane; lo stendardo del gonfalone dell'ex Prefetto della Città di Perimadeia, rubato per principio du-
rante la Caduta e che finalmente serviva a qualcosa, avvolto intorno alla testa del nuovo proprietario come un turbante. Temrai indossava il suo cappuccio dell'armatura, cioè la fodera staccabile che si trovava all'interno dell'elmo che aveva comprato da un mercante dell'Isola prima della guerra civile. Il cappuccio era di feltro grigio, spesso e imbottito, ed era l'unica parte dell'abbigliamento che gli serviva alla scopo. Si asciugò il sudore dagli occhi e scosse la testa. «Circostanza che cambierebbe l'obiettivo dell'azione» disse. «Be', se le cose stanno così, pazienza. Dovremo accontentarci di quello che abbiamo. Grazie, ha fatto un ottimo lavoro.» Gli uomini di Habsurai avevano portato un carico di legname - le tavole dei tronchi segati sembravano una piccola città - ma probabilmente non sarebbero bastate. Le palizzate inferiore e centrale erano terminate, la testa di ciascun palo era stata modellata a punta, e il ponte girevole, il sentiero rialzato e la passerella erano quasi terminati, ma la palizzata superiore non rappresentava più una proposta pratica, non se volevano legno per tutti i lavori che dovevano essere ancora fatti. Temrai sedette su un secchio rovesciato e cercò di pensare a un'alternativa. Potevano costruire un semplice canale e un cumulo... be', sarebbe stato meglio di niente, ma non sufficiente, non se Bardas Loredan aveva preso a cuore le valide lezioni che gli erano state date riguardo all'uso sostenuto dei trabocchi contro una posizione fortificata. Senza legno, potevano scegliere tra la torba e la pietra; entrambe richiedevano molto lavoro, molto tempo ed erano inefficienti. Ci sarebbero volute molte persone e molto tempo per tagliare torba sufficiente a costruire un muro alto e spesso per difesa, ma almeno la torba per farlo c'era. Per quanto riguardava la pietra... be', c'erano alcuni affioramenti di granito danneggiati dagli elementi atmosferici che erano disseminati un po' ovunque, sufficienti in caso di necessità per qualche torre e cancello, ma se volevano fare di più avrebbero dovuto scavare ed estrarre la pietra. Restare seduto non avrebbe risolto nulla. Si alzò (da quando le ginocchia mi fanno così male? Sto diventando vecchio) e zoppicò attraverso la pila di legname, dove gli uomini di Habsurai stavano sollevando gli ultimi tronchi con una grossa gru. Nonostante la sua stanchezza e l'apatia, non poté fare a meno di fermarsi e guardare lo spettacolo: un tronco di quercia centenaria sollevato e spostato in aria come un giocattolo. Possiamo fare queste cose adesso: come le abbiamo imparate? Se solo avessimo un futuro, che futuro avremmo... Poi la gru si ruppe. In seguito, quando gli ingegneri la esaminarono,
scoprirono che il sostegno che supportava la trave da cui pendeva il contrappeso, era stato tagliato da legno umido, e le sollecitazioni della gru l'aveva fatto a pezzi; era un errore da principiante, se errore c'era. Mentre il contrappeso precipitava a terra, la magnifica quercia che Temrai aveva ammirato cadde, tolse uno dei due cappi dalla gabbia e girò velocissima, senza controllo sul cappio restante. Stava arrivando diritta su di lui, e per qualche ragione Temrai era troppo sbalordito per spostarsi... ... Qualcuno balzò verso di lui, come un gatto, e lo spinse via proprio mentre l'estremità del tronco turbinava sopra di lui, atterrando più o meno nel punto esatto in cui si trovava lui fino a qualche istante prima. Cercò di sollevare la testa, ma una mano lo tenne giù, ficcandogli il naso nella terra mentre il tronco tornava indietro oscillando; si schiantò a lato della gru. «Stai bene?» La voce sembrava ansiosa e familiare. «Temrai? Stai bene?» «Mmm.» Usando le braccia, Temrai si alzò da terra. Aveva la bocca piena di fango. «Grazie» disse cercando di ricordare chi fosse quell'uomo. «Dassascai, sei tu?» «Sì» rispose Dassascai. «Penso di essermi lussato la spalla. Sarebbe una bella seccatura: devo uccidere e spennare circa duecento anatre.» Con grande cautela Temrai si alzò. Verso di lui correvano uomini da tutte le direzioni. «Va tutto bene» disse «non si è fatto male nessuno...» «Parla per te» mormorò Dassascai. Temrai tese una mano e lo aiutò ad alzarsi. «E sono due» commentò. «Sembra che tu abbia l'abilità di apparire proprio quando sto per finire ucciso.» «Davvero?» Dassascai torse le spalle e urlò per il dolore. «Be', puoi mostrare il tuo apprezzamento mandando due uomini a uccidere le mie anatre. E anche un dottore non sarebbe una brutta idea. Scusa, ho detto qualcosa di divertente?» Temrai scosse la testa. «Hai vissuto ad Ap' Escatoy per anni, vero?» «Esatto» rispose Dassascai. «La maggior parte della mia vita.» «Come pensavo. Ritengo che la tua idea di dottore sia molto diversa dalla nostra. Pensavo che avrei fatto meglio ad avvertirti, tutto qui.» Dassascai borbottò. «Persino i vostri medici ignoranti dovrebbero sapere come rimettere a posto una spalla lussata» disse. «Se poi vogliono squartare qualche anatra, per me va bene.» «D'accordo, allora. Basta che tu sappia a cosa stai andando incontro.» In quel caso, bastò una torsione secca e controllata, che fece urlare Das-
sascai per il dolore, ma fu un attimo. «Vivrai» disse allegro il tagliaossa. «Riposati, se puoi» e a Temrai disse: «Vedi che non lavori per un paio di giorni. Cosa fa?» «Uccide le anatre» rispose Temrai. Il dottore annuì. «Fa movimenti ripetuti del braccio e della spalla, e non è una buona idea. Metti qualcun altro a uccidere anatre, e fallo riposare.» «Certamente» rispose Temrai. «È il minimo che posso fare.» Fu difficile trovare un volontario che uccidesse le anatre; alla fine dovette togliere alcuni lavoratori che stavano scavando il canale, e anche loro si lamentarono. Poi tornò alla sua tenda, dove aveva lasciato Dassascai sul letto. (Tilden era via a supervisionare quelli che facevano il feltro.) «Come va adesso?» chiese. «Male» rispose Dassascai con una smorfia. «Be', non ti aspetterai davvero che ti dica che sto bene; non quando ho la bella occasione per strappare un impegno da parte di un capo di stato.» Temrai sorrise. «Accomodati» disse. «Come ho detto, sono due volte che mi salvi la vita. Si potrebbe pensare che sei il mio angelo custode.» «Si tratta di illuminato interesse personale. In che altro modo potrei togliermi da quelle dannate anatre?» Nella tenda era fresco e si stava bene, mentre fuori faceva caldo: Temrai ricordò che non si riposava da quasi trentasei ore. «Bevi qualcosa con me» disse. «Volevo farti una domanda.» «Ah sì?» Temrai annuì mentre stappava la caraffa. «Riguardo alle frittelle» disse. «Hai per caso ereditato la ricetta di tuo zio?» Dassascai rise. «Oh, la ricetta è semplice: uova, farina, acqua e un po' di grasso d'anatra per ungere la padella. Me l'ha detto lui stesso molte volte. Il problema è che non la seguiva.» «Oh.» «Era fatto così» continuò Dassascai, prendendo la tazza dalla mano di Temrai. «Non ha mai sopportato l'idea che qualcuno fosse in grado di fare l'unica cosa che lui faceva meglio di tutti. Non lo posso biasimare; se sei un maestro indiscusso nel fare una certa cosa assai popolare, per quale motivo dovresti insegnare alle persone come rimpiazzarti?» «Immagino che sia così» disse Temrai. «Ma se fossi stato in lui, non avrei voluto che la mia scoperta morisse con me.» «Questo perché tu non sei mio zio» rispose Dassascai. «Sono sicuro che è esattamente quello che voleva lui, in modo che negli anni a venire le per-
sone avrebbero scosso la testa dicendo che nessuno era in grado di fare le frittelle come quelle che faceva Dondai lo spennatore di anatre. Le persone tendono a ricordare cose come questa: è un pizzico di immortalità, come essere un grande poeta. Dopo tutto, a quante persone interessa davvero la poesia, in confronto al numero di persone alle quali interessano le frittelle?» «Capisco» disse serio Temrai. «Così se voglio essere ricordato eternamente, invece di conquistare Perimadeia avrei dovuto imparare a friggere la pastella.» Dassascai sbadigliò. «È possibile. Tanto per cominciare, presenta meno incertezze. Senza offesa, ma è probabile che sarai ricordato come l'uomo che è stato sconfitto da Bardas Loredan e dall'Impero; questa è immortalità, ma non è molto positiva. Mentre se ti ricorderanno per le frittelle, sarà solo perché erano le migliori.» Si accigliò leggermente. «È questo che vuoi?» chiese. «Essere immortale?» «Assolutamente no» rispose Temrai. «Non dico di non averci pensato; come ho fatto adesso, quando osservavo le persone lavorare. Se tra cent'anni le persone si ricorderanno di me come l'uomo che ha trasformato i suoi sudditi in carpentieri e ingegneri, sarebbe molto piacevole, se io fossi qui a vedere. Ma non ci sarò, naturalmente. Sarò morto e sepolto.» Dassascai sbadigliò di nuovo e sussultò. «È un atteggiamento molto sensato» disse «viste le circostanze. Mi chiedo se Bardas Loredan pensa allo stesso modo. Al momento, lui è ricordato come l'uomo che ha perso Perimadeia; credi che desideri sistemare questa faccenda, o che non gli importi?» «È la seconda volta che lo nomini» disse calmo Temrai. «Perché?» «Non c'è un motivo particolare.» Temrai si grattò la nuca. «Stai cercando di punzecchiarmi o qualcosa del genere?» «Perché dovrei farlo?» «Non ne ho idea» rispose Temrai. «Be', immagino che potresti mettermi alla prova per scoprire eventuali punti deboli, o che potresti cercare di scoprire se impallidisco e tremo nel sentire menzionare il suo nome: è questo il genere di cose a cui una spia può essere interessata.» «Non proprio.» Dassascai porse la tazza perché venisse riempita di nuovo. «Per quel che so, e sto solo facendo un'ipotesi, le spie vogliono fatti... sai, movimenti delle truppe, disposizione delle forze, piani delle difese della città, dove sono i punti ciechi in un campo di fuoco. Non riesco a
capire come il conoscere bene una persona possa far vincere una battaglia.» «Va bene. A proposito, sei una spia? Veramente?» «No.» «D'accordo. Prendo per buona la tua parola.» Dassascai chinò la testa. «Grazie» disse. «Per curiosità, avete spie nell'esercito nemico?» «Assolutamente no» rispose Temrai. «E se le aveste, non me lo diresti. Nel caso lo menzionassi nel prossimo rapporto.» «Precisamente. Tocca a me adesso: cosa ti ha spinto a venire qui, dopo Ap' Escatoy? È ovvio che non ti trovi bene qui.» «Solo perché le persone non mi accettano, perché pensano che io sia una spia.» Temrai si morse un labbro. «In parte è così» disse. «Ma è vero, non agisci come se questo fosse il tuo posto. Saresti potuto andare ovunque: sull'Isola, a Colleon, ad Ausira; saresti potuto andare a est, oppure rimanere ad Ap' Escatoy finché non la ricostruivano. Non avresti trovato una città più congeniale?» Dassascai rise. «Non so da dove ti è nata l'idea del saresti-potuto-andareovunque. Tanto per cominciare, ho perso tutto nella caduta di Ap' Escatoy. Ho speso i miei ultimi quarti per arrivare qui, e ho dovuto fare una lunga camminata perché non potevo permettermi di pagare l'ultima tappa del viaggio.» «D'accordo» disse Temrai. «Ma poiché è chiaro che arrivare da qualsiasi parte era già un'impresa, non potevi dirigerti, superando enormi difficoltà, lo ammetto, verso una città? Verso un luogo in cui avresti potuto fare un bagno e raderti senza dover portare l'acqua in una sacca di pelle di capra per due giorni di marcia attraverso il deserto? Quello che intendo dire è che per arrivare qui hai dovuto attraversare parecchie città. Qual era la grande attrattiva che ti spingeva qui?» «Le anatre» rispose Dassascai. «Per tutta la vita ho segretamente desiderato di trascorrere i miei giorni immerso fino al gomito nella cacca e nel sangue delle anatre.» Temrai annuì serio. «Questo posso capirlo» disse. «Così non va bene. Dovrei essere là fuori a lavorare, dando l'esempio. Ma fa troppo caldo.» «Prenditela con calma quando ne hai ancora la possibilità» fece Dassascai. «Ma dato che hai sollevato tu l'argomento, dovresti capire, perché tu
hai fatto la stessa scelta.» «Davvero?» «Certo. Hai vissuto e lavorato a Perimadeia per un po'; non dirmi che la odiavi e non vedevi l'ora di terminare il lavoro e andare via da lì perché non ti credo. Se l'odiavi, come mai hai passato tanto tempo e fatto tanti sforzi per cercare di trasformare la tua gente in una replica dei perimadeiani?» Temrai sedette zitto per un po' prima di rispondere. «Sai, non ne sono sicuro. Tanto per cominciare era un effetto collaterale: dovevamo imparare come costruire macchine d'assedio per poter prendere la Città, così abbiamo imparato da soli le basi. Una volta fatto questo, però, sembrava un peccato fermarsi lì e tornare ad assillare capre nelle pianure. E no, hai ragione: non ho odiato il tempo trascorso nella Città, anzi. Mi sono divertito, e nel complesso mi piacevano molto gli abitanti.» «E allora li hai spazzati via? Senza offesa, sto solo chiedendo.» «È una giusta osservazione. Immagino che sia inevitabile; se vuoi fare del male ai tuoi nemici, finirai sempre per farlo anche ai tuoi amici. Non puoi tenere chiuse la guerra e la distruzione in una bottiglietta, come il vetriolo o il potassio: se li vuoi usare, devi agitarli.» Dassascai si mosse e si mise supino. «È vero» disse. «Ma cosa mi dici di questo fatto di imitare le persone che hai distrutto? Pensi che sia un senso di colpa? O le hai soppiantate perché volevi prenderne il posto?» Temrai si accigliò. «Non penso che sia stata una cosa deliberata» rispose. «Penso che è il modo in cui vanno le cose: più odi il tuo nemico, più gli assomigli. L'odio è una relazione estremamente intima: ti avvicina moltissimo alla persona che odi. A volte penso che non si possa veramente odiare qualcuno a meno che non lo si capisca davvero. Fare del male sì, e persino uccidere... si può fare con distacco e agendo a sangue freddo. Ma non si odiano le anatre, e molto probabilmente non si capiscono.» Dassascai sorrise. «Cosa c'è da capire?» «Ah, be', ecco qui. Quando ero piccolo e mio padre e mio zio mi hanno portato a caccia per la prima volta, mi hanno detto che un vero cacciatore deve capire ciò che uccide; e io credo sinceramente che loro amassero i cervi e i cinghiali che cacciavano. Quando ne parlavano, lo facevano con affetto, come se parlassero di persone di famiglia. Immagino che fosse perché li avevano studiati e osservati così a lungo che si erano affezionati a quegli animali. Tenevano sempre a ringraziare tutto ciò che uccidevano. Una volta, quando ero molto piccolo, chiesi a mio padre se uccidere ani-
mali in quel modo gli desse fastidio; rispose che gli dava molto fastidio, perché ogni volta sentiva di aver appena perso un amico. Non riuscivo a capire finché non sono andato a vivere nella Città; ancora non riesco a spiegarlo, ma almeno adesso so cosa intendeva dire.» «Non ha senso. Ma del resto non ne hanno nemmeno l'amicizia, o l'amore. Suppongo che debba essere come quelle terribili faide familiari di cui si sente parlare ogni tanto: non potrebbero odiarsi tanto se non si amassero anche. Come i fratelli Loredan, per esempio.» «È la terza volta.» «Cosa? Oh, sì, mi dispiace. Ma è un buon esempio.» «Hai ragione» disse Temrai «lo è. C'era un tempo in cui odiavo Bardas Loredan più di chiunque altro al mondo. Non posso dire la stessa cosa adesso. Forse dipende dal fatto che è lui che mi sta dando la caccia, invece del contrario.» Dassascai lo guardò. «Se ti ucciderà, lo perdonerai?» Temrai sorrise. «L'ho già perdonato.» La prima notizia l'ebbero dopo colazione, quando uscirono per fare affari; e anche allora ci volle un po' di tempo perché se ne rendessero conto. Per le strade c'erano soldati imperiali: mezzi plotoni agli angoli delle strade che sembravano più che altro imbarazzati, come giovani che hanno ricevuto un bidone dalle loro ragazze. Venart si rese conto che c'era qualcosa di diverso, ma era troppo presto per lui a quell'ora per considerare le implicazioni. Inoltre, gruppi di persone fermi senza scopo agli angoli delle strade erano piuttosto comuni sull'Isola. Doveva esserci una spiegazione semplice e razionale: almeno Venart era pronto a fidarsi del fatto che ci fosse. Quando raggiunsero la Piazza del Mercato cominciarono tutti a sentirsi a disagio, perché c'era un'intera compagnia di soldati, in parata ma con le armi scoperte e pronte all'uso. «Non mi dite che qualcuno ha cercato di entrare nella loro tesoreria» disse Eseutz. «Non è diplomatico.» «Quell'uomo sta affiggendo un avviso sulla porta della Sala del Mercato» sottolineò Athli. «È uno di loro?» «Non ne ho idea. Be', coraggio. Andiamo a vedere cosa dice l'avviso.» Lo stile dell'ufficio provinciale era breve, chiaro e pratico; dall'alba del diciassettesimo giorno di Butrepidon («Quand'è?» chiese Eseutz. «Oggi» rispose Venart. «Zitta.») il prefetto di Ap' Escatoy, per i poteri conferitigli
eccetera, aveva annesso l'Isola alla provincia occidentale esterna dell'Impero. Tutte le proprietà appartenenti ai cittadini dell'Isola sarebbero state, da quel momento in poi, legalmente assegnate al suddetto prefetto, in accordo con la consuetudine dell'Impero. Seguiva un elenco di regolamenti per il periodo di transizione, che portava alla completa annessione: nessuno doveva entrare o uscire dal territorio senza permesso; nessun cittadino poteva pretendere di concludere contratti vincolanti con stranieri; nessuna assemblea o riunione pubblica poteva superare le dieci persone senza previa autorizzazione; tutte le armi e le munizioni di guerra dovevano essere consegnate immediatamente; tutti i non cittadini dovevano presentarsi subito al commissario per gli stranieri; tutti gli edifici dovevano essere lasciati aperti per facilitare l'ingresso e l'inventario; c'erano vari ordini di prestazione pubblica; annunci di un censimento e di una tassazione provvisoria... «Ma non possono farlo» disse Eseutz. Nessun altro parlò. L'uomo che aveva affisso l'avviso mise il martello nello zaino e se ne andò, scambiando qualche parola con il capitano della guardia. «Va bene» disse Venart dopo una rapida conta. «Siamo solo in quattro.» «Chiudi il becco, Ven.» Vetriz stava leggendo l'avviso per la terza volta. «Ecco: tu e la tua maledetta Gilda degli armatori.» «Che cosa?» «È ciò che ha causato tutto questo» disse, a voce bassa ma furiosa. «Avete pensato di potergli pestare i piedi e di imbrogliarli per avere più soldi, e adesso guardate.» Eseutz le stava tirando una manica. «Andiamo» disse. «Allontaniamoci. Quei soldati mi sembrano molto tesi.» «Che cosa? Oh.» Vetriz e gli altri la seguirono fino a uno dei piccoli colonnati dietro la Sala del Mercato, dove c'erano già alcuni gruppi di cittadini molto agitati, non più di nove persone a gruppo. «Ecco cosa faremo» stava dicendo Eseutz, sussurrando. «Andiamo a casa, raccogliamo quanti più soldi possibile e le cose di valore che si possano trasportare comodamente, e cerchiamo di arrivare alle navi. Se solo potessimo lasciare l'Isola, non potrebbero seguirci, perché loro non hanno navi. È per questo che non possono darci una lezione.» Venart la guardò accigliato. «E come proponi di affrontare i soldati che si trovano già su quelle dannate navi? O forse ti sei dimenticata che è con quei soldati che invaderanno Perimadeia. Athli, e tu? Non ricordo: sei una cittadina o una straniera?» Athli rifletté un momento. «Ottima domanda» disse. «Sì, sono una citta-
dina, perché ho delle proprietà qui sull'Isola, ma potrei riuscire a ingannarli e far credere che sono di Shastel. Ma come vi potrà essere utile questo fatto?» «Be', qualcuno dovrà andare a chiedere aiuto» disse Venart. «Sollevare un esercito e gettare questi bastardi a mare. È per questo che devi andare a dare l'allarme...» Athli lo guardò. «Non essere stupido. Chi verrà a salvarci?» Venart non ci aveva pensato, ovviamente. «Dei mercenari» suggerì Eseutz. «Potremmo assoldare dei mercenari... al diavolo quanto costerà, dobbiamo mandarli via dall'Isola. Una volta fatto questo, saremo al sicuro.» «Stai sognando» disse Athli. «Devono esserci... quanti, cinquantamila uomini nella forza di spedizione? Avrete bisogno di almeno tre volte quel numero di uomini per riuscire a sbarcare. Dove troveremo...?» «No» interruppe Eseutz, «ti sbagli. Adesso sono cinquantamila, ma quando saranno partiti per attaccare Temrai rimarrà solo una piccola guarnigione. È in quel momento che dobbiamo agire.» Athli chiuse gli occhi e li aprì di nuovo. «Quando avranno le nostre navi. Non è un suggerimento molto sensato, vero? Non appena sapranno quello che abbiamo fatto, si precipiteranno indietro e non avremo nessuna possibilità. Hai idea di cosa fanno ai ribelli?» «Dev'esserci qualcosa...» Eseutz si fermò a metà frase: cinque soldati e un sottufficiale si stavano dirigendo verso di loro. Venart fu sul punto di fuggire, ma sua sorella lo afferrò per un braccio. «Se scappi, ti uccideranno» sussurrò. I soldati si avvicinarono e poi si fermarono. «Venart Auzeil» disse il sottufficiale. «Eseutz Mesatges.» Venart fece un respiro profondo. «Io sono Venart Auzeil. Cosa...?» «Eseutz Mesatges.» Athli, Vetriz ed Eseutz rimasero perfettamente immobili. Il sottufficiale aspettò qualche secondo, e poi annuì. «D'accordo» disse «li porteremo tutti con noi e chiariremo la cosa in seguito. Siete in arresto» aggiunse, come se fosse un ripensamento. «Da questa parte.» CAPITOLO QUINDICESIMO «Odio essere arrestata» disse Eseutz. «È una cosa così noiosa. Rimanere seduta per ore chiusa in celle, stanze d'interrogatorio, sale d'attesa e anti-
camere, senza avere nulla da fare e nulla da leggere, ed è sempre troppo freddo o troppo caldo, e il cibo...» Quella mattina si trattava dell'ufficio del segretario della Gilda, celato con discrezione al termine di un corridoio che conduceva fuori dalla galleria che correva intorno ai tre lati del palazzo della Gilda dei Marinai Mercantili. Si trattava di un luogo in cui si sognava di essere invitati: un ufficio grande nascosto lungo un piccolo e stretto passaggio, e che rappresentava un monumento alla fusione della discrezione e della ostentazione. Il segretario Aloet Cor era noto per essere un fanatico collezionista di mobili, in particolare di sedie e di tavoli delicati, costosi e scomodi di avorio costruiti dalla famiglia Arrazin di Perimadeia per sei generazioni; ad Eseutz non piacevano molto, così dicevano, ma li collezionava perché erano rari e costosissimi, e probabilmente sarebbero aumentati considerevolmente di valore adesso che la disponibilità era limitata in seguito alla morte di tutti gli Arrazin nella Caduta. Valeva la pena di sedere sulla dura panca di marmo fuori per un paio d'ore, dicevano, per dare anche solo un'occhiata alla base della lampada bizzarra e piuttosto grottesca incisa da Leucas Arrazin centocinquanta anni prima e ricavata da un unico blocco di stecca di balena. «Vieni arrestata spesso, vero?» chiese Venart. «Scusa: sono solo curioso.» Eseutz scrollò le spalle. «Dipende da dove vai» disse. «In alcuni luoghi la cosa è accettata, come il loro modo di dire salve, benvenuto nella nostra deliziosa città. Un tempo ero solita andare spesso a Burzouth, e mi davo del tu con tutte le guardie carcerarie che si occupavano delle imposte sui consumi. Eravamo soliti giocare a scacchi o cucivo bottoni per loro...» «Tu?» la interruppe Vetriz. «Da quando sei in grado di cucire bottoni?» Quella sera quel luogo era diventato l'ufficio del Maggiore Javec, appena nominato viceprefetto dell'Isola; e in qualche modo il corridoio era più buio e più freddo, la panca di marmo più dura, e vedere i famosi Arrazin non costituiva una priorità come qualche ora prima. Di fatto, Vetriz aveva l'orribile sensazione di essere stata appena aggiunta a una collezione, e di essere stata abbandonata in un magazzino ad aspettare di venire catalogata, etichettata e messa in un armadio. Un tempo conosceva un uomo che collezionava crani di uccelli; le aveva descritto il metodo per scuoiarli, eliminando tramite bollitura i cervelli e la carne, sbiancando le ossa e poi montando l'oggetto finito; lei aveva trovato la cosa affascinante, anche se disgustosa.
«Il punto che cercavo di sottolineare» disse Eseutz «è che le persone arrestano per motivi diversi. Per quel che sappiamo potrebbe trattarsi del semplice desiderio di conoscerci, nulla quindi di nefasto.» Venart sospirò. «Allora come spieghi il fatto che ci siamo solo noi qui? Pensi che, per quel che li riguarda, siamo le uniche persone che vale la pena di conoscere sull'Isola?» Eseutz fece un gesto di esasperazione con le mani lunghe e sottili. «D'accordo» disse «disperati. Personalmente, non ne vedo il motivo. Dopo tutto, non migliorerà la situazione stare seduto lì a preoccuparti a morte. Ma se pensi che questo sia un buon atteggiamento da tenere, allora fai pure...» «Eseutz.» Athli sollevò la testa e la guardò negli occhi. «Chiudi il becco. E tu Ven: so che è solo perché sei spaventato, e i battibecchi facilitano la situazione, ma stai cominciando a darmi fastidio. D'accordo?» «Parla per te» rispose subito Eseutz. «Io non sono spaventata...» La porta si aprì e le due guardie che stavano immobili come statue dietro di loro, bloccando il corridoio, gli fecero segno di alzarsi ed entrare. «Andrà tutto bene, vedrete» sussurrò Eseutz. Gli altri la ignorarono. Il viceprefetto Javec era un uomo rotondo e basso per essere un Figlio del Cielo, calvo come un uovo e con una piccola barba che ornava il suo doppiomento. Non sembrava né minaccioso né amichevole; per lo più sembrava molto stanco, circostanza naturalmente comprensibile: annettere un'intera nazione è un lavoro duro. «Nomi» disse; non ai quattro isolani ma al suo impiegato, un giovane forestiero con i capelli castani ricci. L'impiegato lesse i nomi da un elenco. La sua pronuncia era terribile: Eseutz Mesatges diventò Ee-soo Muzzertgees, mentre Venart e Vetriz scoprirono che il loro cognome era diventato Orzle. Se la cavava decisamente meglio con i nomi perimadeiani, perché a parte l'accento sulla sillaba sbagliata di Zeuxis, riuscì a pronunciarlo quasi bene. «Grazie» disse il viceprefetto, e l'impiegato si sedette e cominciò a mettere ordine in un vassoio pieno di tavole di cera, del tipo che veniva dato ai sottufficiali imperiali per compilare i rapporti. «E grazie» continuò il viceprefetto sembrando notare gli isolani per la prima volta. «Spero che questa situazione non vi abbia creato troppi inconvenienti, ma certe cose devono essere fatte. Voi siete tutti amici del Capitano Bardas Loredan...» «Mi scusi» lo interruppe Eseutz. «Io non lo sono.» Javec spostò un po' la testa in modo da guardarla senza che gli venisse il
torcicollo. «Oh» disse. «È così?» continuò, guardando Athli che annuì. «Anche per voi è così?» Venart fece un respiro profondo. «Sì, signore» rispose. «Non penso che lo abbia mai incontrato.» «Capisco» fece Javec. «Be', non posso farci nulla: dovrà restare con queste tre persone finché la guerra non sarà finita. Allora» continuò «lei è Vetriz Auzeil.» «Esatto.» Lei rimase colpita: la pronuncia di Javec era impeccabile. «E circa sette anni fa ha avuto una relazione con Gorgas Loredan.» Vetriz sospirò. «Esatto» disse prima che Venart potesse negare. Era un vero peccato: era riuscita a nasconderglielo per tutto questo tempo. «Anche se chiamarla relazione è un'esagerazione. Credo che l'espressione giusta sia avventura di una notte.» Javec annuì. «Ha ragione» disse. «È questo che dice il rapporto. Be', mi dispiace ma dovrò mettervi tutti e quattro agli arresti domiciliari per il momento... sono sicuro che siete tutti innocui, ma finché il Capitano Loredan è al comando di un grosso esercito da campo, chiunque possa venire usato contro di lui come ostaggio... be', saremmo più contenti se sapessimo che siete al sicuro. Sono certo che capirete il nostro ragionamento, se ci ragionate su un po'.» Nessuno disse nulla. «Cercheremo di rendere la situazione meno fastidiosa possibile. Sarete confinati a casa Auzeil... al numero sedici del quarto vicolo trasversale, vero? Ovviamente apposterò delle guardie; avranno il loro bivacco, la lavanderia, la cucina e tutto il resto, così non dovrete dare loro da mangiare. Potrete ricevere visite un'ora al giorno, ma naturalmente saranno presenti i soldati. Ci sono domande?» Con la coda dell'occhio Vetriz intravide la famosa base della lampada. Girò la testa per vedere meglio: era orribile come aveva immaginato. «È sovrastimata, se vuole il mio parere» disse il viceprefetto. «Naturalmente non sono assolutamente un esperto, ma trovo che gli oggetti dell'ultimo periodo Arrazin siano quasi parodie dei prodotti del periodo classico. C'è la sfortunata tendenza a cercare di fare su vasta scala le cose che sarebbe meglio fare in piccola scala. Prendete per esempio le tazze a due manici: laggiù, guardate.» Guardarono nella direzione indicata, e videro quello che sembrava un cranio umano, montato su un piccolo piedistallo di avorio. La parte supe-
riore era stata segata, trasformando la cavità del cervello in una tazza, e i due manici, fatti da falangi ossee unite, erano stati inseriti nelle cavità delle orecchie. «È un pezzo veramente interessante, vero?» continuò Javec. «Credo che originariamente fosse la testa di un principe ribelle delle tribù delle pianure: perse una guerra civile circa un secolo fa, e il suo rivale vittorioso la inviò alla Città perché venisse montata. Faceva parte del bottino portato dal Capitano Loredan, quando era giovane. Probabilmente è un esemplare unico, anche se ho una testa di cervo molto simile nella mia collezione privata a casa; è un Suidas Arrazin, del primo periodo.» Vetriz sentì che stava per dare di stomaco. «Ha un gran valore?» chiese Eseutz. «So dove trovarne un'altra come quella, se lei è interessato.» (Questa è Eseutz pensò Vetriz.) «Davvero?» Il viceprefetto Javec si chinò leggermente in avanti. «Un Arrazin autentico? Di provenienza sicura?» Eseutz aggrottò la fronte. «Penso di sì. Devo controllare, ovviamente. Se è autentico, più o meno che valore può avere?» «Il denaro non è davvero un problema» rispose Javec. «Se mi vuole dare il nome della persona che possiede quell'oggetto, seguirò direttamente io la cosa, la ringrazio.» «È Jolac Caic: possiede una bancarella lungo la banchina; chiunque le dirà come trovarla.» Mentre parlava Eseutz si rese conto di ciò che Javec intendeva dire con Il denaro non è davvero un problema. Era proprio un peccato: conosceva Caic da qualche anno, e non le aveva mai fatto del male. «Ma è passato parecchio tempo» aggiunse subito. «Per quel che so, potrebbe non averlo più.» Javec scrollò le spalle. «Sono sicuro che riusciremo a rintracciare quell'oggetto, se si rivelerà autentico. Ma questo era un inciso.» Spostò leggermente la testa e fissò gli occhi su Athli. «Allora» disse «immagino che stia per sottolineare che non ho nessuna giurisdizione su di lei perché è una cittadina di Shastel, e trattenendola rischio un incidente diplomatico. Be', tanto per cominciare penso che lei abbia una doppia nazionalità e con ogni probabilità è un'isolana come gli altri tre; ma non voglio rimanere coinvolto in questo genere di cose, perché non ho né il tempo né l'energia per farlo. Mettiamola così: le consiglio di restare dove possiamo tenerla d'occhio e proteggerla... è nel suo interesse, proprio come in quello del suo pupillo, Theudas Morosin. Voi due siete probabilmente le persone più vicine al Capitano Loredan, a parte la sua famiglia, e naturalmente questa
circostanza vi mette a rischio. Se accetta ciò che dico, e lei è una giovane donna assennata, quindi sono sicuro che accetterà, queste noiose questioni di cittadinanza e giurisdizione non sorgeranno, e non dovremo perdere tempo con esse. È d'accordo?» Athli lo guardò: era come guardarsi nella visiera lucidata del suo elmo. «Immagino di sì» disse con calma. «Dopo tutto, non credo che farei affari nemmeno se lei mi lasciasse andare.» Javic sorrise. «Grazie per avermelo ricordato. L'ufficio provinciale ha assunto la gestione della concessione della Banca di Shastel qui sull'Isola: abbiamo scritto all'Ordine per regolarizzare la posizione, e sono sicuro che non ci saranno difficoltà. Devo congratularmi con lei per la chiarezza e la completezza dei suoi registri, a proposito. Quando le cose si saranno sistemate, sono sicuro che saranno lieti di averla di nuovo come impiegato capo.» Athli lo guardò per un lungo momento e annuì. «È molto gentile.» «A meno che» continuò Javec, guardandola molto attentamente «lei non possa essere interessata a unirsi allo staff del Capitano Loredan, ovunque sarà il suo prossimo incarico. Sarebbe proprio come ai vecchi tempi, non crede?» «Non credo» rispose Athli. «Non so nulla di amministrazione militare, mi dispiace.» «Be', non deve decidere subito» disse Javec. «Vedremo come andranno le cose, d'accordo? E adesso, se volete scusarmi... grazie per il vostro tempo, e per il suggerimento su quella possibile testa di Arrazin. Sicuramente me ne occuperò.» Le due guardie fecero un passo avanti, e gli isolani si alzarono rapidamente. «Solo una cosa» chiese Athli. «Sì?» «Lei ha menzionato Theudas... Theudas Morosin? Cosa gli succederà?» Javec sorrise. «Ancora una volta, grazie per avermelo ricordato. Gli ho già parlato: si unirà al Capitano Loredan. Circostanza interessante, sembra avere una buona conoscenza del luogo, che potrebbe essere piuttosto utile, in seguito alla sua recente detenzione da parte degli uomini delle pianure. Sono sicuro che le invia i migliori saluti.» Athli si accigliò «Dunque è già partito?» «O è partito o sta per farlo.» «Capisco. È solo che ho una cosa che appartiene a Bardas, al Capitano Loredan: si tratta di una spada bellissima, e mi stavo chiedendo se Theudas
potesse portargliela.» Javec annuì. «La Guelan» disse. «È un superbo esemplare, vero? E ha anche un valore sentimentale, visto che è un regalo di suo fratello. È tutto a posto, abbiamo già provveduto. Ma grazie per aver fatto presente la questione.» Il viceprefetto fece un cenno con la testa in direzione delle guardie, e un attimo dopo i quattro isolani si ritrovarono nel corridoio, a camminare più velocemente di quanto avessero voluto per mantenere il passo. A tempo debito arrivarono a casa Auzeil, accaldati e senza fiato. La porta d'entrata era aperta, e a ogni lato c'era un soldato. «Scusate» cominciò a dire Eseutz, ma una mano sulla nuca la spinse in casa, e la porta si chiuse dietro di lei. C'erano altri due soldati nell'ingresso, e altri tre nel cortile. Uno di loro, un uomo alto e magro di circa cinquant'anni, dichiarò di essere il Sergente Corlo e disse che, se non gli avessero causato problemi, sarebbero tutti andati d'accordo. «Non mi piace affatto» sussurrò Eseutz mentre andava con Vetriz nella stanza da letto che si trovava sul retro, a sud. «Anzi, non mi piace nessuno di loro.» Vetriz non rispose: era rimasta silenziosa per un bel po'. «Non so» continuò Eseutz. «Non vedo come tutto questo sia possibile. Voglio dire: e le nostre navi? E le altre proprietà? Non possono semplicemente prenderle: di cosa dovremmo vivere, per l'amore degli dèi? E cosa dovremmo fare? Preferirei che saccheggiassero questo luogo, se poi se ne andassero e ci lasciassero in pace. Venire derubati è una cosa, ma...» «Eseutz» la interruppe Vetriz lasciandosi cadere pesantemente sul letto «ti prego. Ho un mal di testa terribile e devo stendermi per un po'.» «Cosa? Oh, d'accordo. Vedrò di riuscire a farmi portare dei vestiti... sempre ammesso che non li abbiano confiscati tutti.» Se n'è andata? Vetriz chiuse gli occhi e annuì. «Sì, grazie al cielo. È una persona gradevole, e mi piace molto, ma il pensiero di essere rinchiusa con lei a tempo indefinito è terrificante.» Posso immaginare. Vetriz sorrise. «Immagino che venire rinchiusi con chiunque sia una cosa terribile» disse. «Ma sono sicura che questo sarà il minore dei nostri problemi. Cosa pensi che accadrà? Seriamente.» Vorrei saperlo.
«Oh.» Sospirò. «Quando quell'uomo ha menzionato Gorgas Loredan pensavo di morire. Dovrò parlare con Ven di questa faccenda, e sarà altezzoso. Quando penso ai tipi con cui si è invischiato lui...» Avresti dovuto dirglielo. Ma posso capire perché non l'hai fatto. «Oh, posso sopportare Ven. Alexius, cosa pensi che accadrà? Mi sembra un'orribile confusione, ed è tutta colpa nostra. Non li avremmo dovuti provocare in quel modo.» Be', ormai è fatta. Una volta terminata questa guerra, mi aspetto che se ne vadano. Poi stara a voi cercare di ricavare quanto più possibile dalla situazione. Naturalmente si terranno le navi e anche gli equipaggi, finché non riusciranno ad addestrarne di propri. Se fossi in te, penserei a dove poter andare. «Oh» ripeté Vetriz. «Lasciare l'Isola per sempre, intendi? Non ho mai... Oh, è terribile. Non possono farci questo.» Non contarci... non hanno bisogno di voi. Probabilmente vorranno l'Isola come base navale, quindi ci sarà bisogno di qualche locanda, negozio e cose del genere. Ma tendono a preferire la loro gente, nel qual caso potrebbero evacuare tutti voi e mandarvi da qualche parte all'interno dell'Impero. È una cosa che fanno: è un ottimo modo per mantenere il controllo. Vetriz rimase in silenzio per un po'. «Allora dove pensi che dovremmo andare? A Colleon forse... ma fa caldo laggiù, e non penso che lo sopporterei. E cosa faremo per vivere? Immagino che ciò dipenda dal fatto se riusciremo a portare qualcosa con noi. Penso che potremmo aprire un negozio, specialmente se Athli verrà con noi: lei è una sopravvissuta nata, se esiste una simile terminologia. Penso che Ven abbia degli amici a Colleon che ci aiuterebbero.» È possibile. Non ci vorrà molto prima che l'Impero annetta Colleon. Personalmente, se fossi in voi, me ne andrei molto più lontano.. Lei scosse la testa. «Adesso mi stai davvero deprimendo» disse. «Non che tu non abbia ragione. Vorrei solo sapere come è possibile che tutto sia accaduto così in fretta.» È semplice. È avvenuto perché Bardas Loredan ha reso possibile per loro prendere Ap ' Escatoy. Erano rimasti bloccati lì per dieci anni, e non c'era motivo di pensare che sarebbero mai riusciti nell'impresa. Si può affermare che, se non fosse stato per Bardas, non ci sarebbero mai riusciti. Ap' Escatoy era inespugnabile, non c'era modo di aggirarla e l'Impero non possedeva una flotta. Adesso Ap' Escatoy è caduta e hanno una flotta.
Come studio su come un solo uomo pub influenzare l'intera direzione del flusso del Principio, è assolutamente affascinante. Se solo fossi ancora vivo, potrei scrivere un libro al riguardo. Per un lungo periodo, nessuno parlò. «Cosa diavolo...» Iseutz alla fine ruppe il silenzio. «Cosa diavolo ci fa lei qui?» Gorgas si accigliò. «Non è questo il modo di parlare di tua madre» disse. «Andiamo, questa è un'occasione storica: è la nostra prima riunione di famiglia da... quanto è passato, Niessa? Devono essere più di vent'anni.» Rifletté un momento, e poi schioccò la lingua. «Ma certo, sappiamo esattamente quanto tempo è passato. Quanti anni hai adesso Iseutz? Ventitré?» Al centro esatto del tavolo c'era una tazza, che Clefas aveva messo per raccogliere le gocce che cadevano dal tetto. Il loro padre l'aveva ricavata da un pezzo di piastra di acciaio tagliato da un elmo che il nonno aveva raccolto sul luogo di una delle ultime grandi battaglie combattute nel Mesoge, più di cento anni prima. Quando le gocce di pioggia cadevano in essa, facevano un rumore simile a quello di un martello leggero che rimbalza su un'incudine. «Ventitré» ripeté Gorgas quando fu ovvio che nessun altro avrebbe preso parte alla conversazione. «Il che significa che sono quasi ventiquattro anni dall'ultima volta che ci siamo riuniti tutti insieme attorno a questo tavolo. Be', non sembra essere cambiato molto qui, sono felice di dirlo.» Clefas e Zonaras sedevano immobili, come figure meccaniche nella torre di un orologio che non era stato caricato. Niessa era imbronciata, con le braccia conserte, il mento sollevato e fissava la pioggia battente fuori dalla finestra. Iseutz stava tagliando a striscioline un pezzo di tessuto, tenendone un'estremità tra i denti. Nessuno si era preoccupato di portare via le tazze e i piatti degli ultimi tre pasti, anche se Clefas aveva almeno trovato il tempo di schiacciare un paio di scarafaggi. Gorgas sedeva a capotavola. Aveva indossato per l'occasione una nuova maglia e dei nuovi pantaloni - seta di Colleon con broccato - e portava l'anello di suo padre, che apparteneva alla famiglia da varie generazioni. «Troverai che la tua stanza è più o meno com'era» disse a sua sorella. «Gli stessi lini, lo stesso letto. Naturalmente tu e Iseutz la dovrete dividere, ma non dovrebbe essere un problema. Forse dovremmo però trasformare il vecchio magazzino per le mele in un'altra stanza da letto: così la casa sarà più accogliente.»
«Tu dove dormi?» chiese Niessa senza muovere la testa. «Nella stanza di nostro padre, naturalmente» rispose Gorgas. «Come pensavo.» Iseutz aveva finito di tagliare a striscioline il suo straccetto, e cominciò a farne dei quadrati. «Avanti, dillo, dillo e facciamola finita.» «Dire cosa?» Poggiò le mani sul tavolo. «Da un momento all'altro, dirai qualcosa tipo È proprio un peccato che Bardas non sia qui, perché allora saremmo tutti di nuovo insieme. Be', non lo dirai?» Gorgas si accigliò leggermente. «D'accordo, sì, sarebbe bello se Bardas fosse qui, ma non c'è. Ormai ha una sua vita, e sta realizzando qualcosa. Sa che questa casa sarà sempre aperta per lui, se e quando ne avrà bisogno.» «Oh, per l'amore degli dèi.» Iseutz batté la mano mutilata sul tavolo. «Zio Gorgas, perché l'hai portata qui? Be', non dividerò la stanza con lei: preferisco dormire dove teniamo le trappole.» «Benissimo» mormorò Niessa. «Fallo.» «Niessa!» Santi dèi pensò Niessa, sembra proprio nostro padre. Questo sì che è... preoccupante. Gorgas guardava in cagnesco i convenuti intorno al tavolo, con le braccia incrociate. Da un momento all'altro mi dirà di mangiare il mio porridge. «E anche voi, per l'amore del cielo. Abbiamo avuto le nostre divergenze, gli dèi lo sanno... e sì, prima che qualcuno lo dica, molte sono avvenute per colpa mia, non cerco di negare l'evidenza. Ma questo è avvenuto un tempo, e ora siamo qui; e dobbiamo essere assolutamente sinceri l'uno con l'altro: nessuno di noi è perfetto.» Si interruppe, li guardò di nuovo in cagnesco e continuò. «Non volevo ricorrere a questi mezzi, ma è necessario. Cominciamo da te, Niessa: sei egoista, completamente amorale e non ti è mai veramente importato di qualcosa o di qualcuno a parte te stessa: quando le cose su Scona si sono messe male per te, sei andata via, abbandonando tutte le persone che facevano affidamento su di te: io sono stato l'unico che ha cercato di fare qualcosa; sono riuscito a portare qualcuno qui, ma a te non è assolutamente importato. Hai tradito una città... un'intera città, e tutte le centinaia di migliaia di persone che hai praticamente condannato a morte, solo perché così non avresti dovuto pagare i tuoi debiti.» «E il modo in cui hai trattato tua figlia è abominevole. Quando l'ho portata a casa a Scona, cos'hai fatto? L'hai gettata in carcere. E non cominciare a sentirti tronfia e sicura di te, Iseutz, perché sei l'ultima persona che
può farlo... hai cercato di uccidere tuo zio. No, stai zitta e lasciami finire. Hai cercato di uccidere Bardas per una colpa che non era sua. Stava solo facendo il suo lavoro, e non aveva modo di sapere che quell'uomo era tuo zio: non sapeva nemmeno della tua esistenza. Mi dispiace per quello che hai passato, ma dovrai accettare la situazione e cominciare ad agire come un essere umano normale e sano di mente, finché ricordi ancora come si fa.» «E per quanto riguarda voi due» continuò girandosi e guardando torvo Clefas e Zonaras «siete altrettanto cattivi, se non peggiori. Avevate tutto: la fattoria, dannazione, e Bardas che vi mandava i soldi, ogni quarto che riusciva a mettere insieme rischiando la vita, e cosa avete fatto? Avete dilapidato tutto, gettato via tutto.» «Santi dèi, quando penso a quello che avrei dato per avere ciò che avevate voi: stare qui, a casa, a fare ciò che eravamo tutti destinati a fare, invece di vagare nel mondo a combattere e ingannare gli altri solo per poter vivere... sapete, non mi arrabbio facilmente, ma questa cosa mi fa davvero infuriare.» Ormai tutto era silenzio: persino la pioggia sembrava aver smesso di gocciolare nella tazza d'acciaio. «L'unico di noi che può dire onestamente di aver sempre cercato di fare la cosa giusta, e di mettere gli altri avanti a sé, è Bardas... e lui è quello che non può tornare a casa, a causa di quello che noi gli abbiamo fatto. Non è così, Clefas? Zonaras? È venuto qui, quando aveva bisogno di un luogo sicuro dove andare, e non appena ha visto quello che voi due avevate fatto, è rimasto talmente disgustato da non poter sopportare di restare, così è partito di nuovo... e adesso guardate dov'è: in pratica è un rifugiato. E voi due siete da biasimare per questo, e trovo veramente difficile perdonarvi... anche se vi perdono, perché siamo una famiglia, e dobbiamo restare uniti non importa quello che abbiamo fatto.» «Ma per l'amor del cielo, perché non potete fare tutti un piccolo sforzo e smetterla di beccarvi l'un l'altro come un gruppetto di ragazzini viziati? Non è chiedere tanto, vi pare?» Per un lungo periodo nessuno parlò. Poi Iseutz ridacchiò. «Scusa» disse «ma è davvero una situazione comica. Abbiamo fatto delle cose terribili, e dovremmo comunque essere una famiglia unita e felice. Zio Gorgas, sei davvero unico nel tuo genere.» Gorgas si voltò e la fissò, facendola tremare. «Cosa vorresti dire?» chiese. «Oh, andiamo. Parli in un modo... E ti è forse passato dalla mente che
zio Bardas ha ucciso tuo figlio e ha trasformato il suo corpo in un...» «Zitta.» Gorgas fece un respiro profondo, per rimanere calmo. «Se continuiamo a colpirci a vicenda, per quello che abbiamo fatto, allora possiamo anche rinunciare subito. Non è ciò che abbiamo fatto che importa, è ciò che faremo... se proveremo tutti a farlo. Infine abbiamo tutto ciò che ci serve: abbiamo la fattoria, abbiamo noi stessi, non ci sono proprietari terrieri o forestieri che ci alitano sul collo...» «E l'ufficio provinciale?» lo interruppe Niessa, che fissava ancora fuori dalla finestra. «Immagino che si siano sciolti nell'aria.» «Posso occuparmi di loro» rispose Gorgas. «Non sono una preoccupazione. Davvero, non dobbiamo più preoccuparci di nulla, finché siamo insieme, in una famiglia. Abbiamo passato un periodo difficile, abbiamo tutti avuto dei momenti brutti; è stato un lungo viaggio, abbiamo dovuto percorrere chilometri nella direzione sbagliata solo per tornare di nuovo qui, ma adesso va tutto bene, siamo a casa. E se poteste tutti capire che...» Clefas si alzò e camminò verso la porta. «Dove vai?» chiese Gorgas. «A controllare i maiali» disse Clefas. «Oh.» Fece un sospiro, come sollevato. «Perché non andiamo tutti a controllare i maiali? Facciamo un po' di lavoro utile e costruttivo, tanto per cambiare, invece di sedere qui ad avvilirci come dei gufi.» Il suo tono di voce suggeriva che la partecipazione era obbligatoria. Fuori stava cominciando a diventare buio. La pioggia aveva trasformato la parte finale del cortile in una palude; il canale di drenaggio era bloccato di nuovo da un cerfoglio selvatico, e nessuno l'aveva ancora liberato. Niessa, che aveva solo i sandali che indossava nel deserto, sentì il fango tra le dita dei piedi. «Quanto pensi che dovremo sopportare tutto questo?» Era Iseutz, che le mormorava in un orecchio. «Pensa davvero che rimarremo qui a giocare al facciamo-finta-che-non-è-successo-niente per tutta la vita?» Niessa voltò la testa. «Non mi importa cosa pensa» disse a voce alta «o cosa pensi tu. Tutto questo è ridicolo. Adesso vattene e lasciami in pace.» Iseutz fece una smorfia. «Tu credi di poteri liberare di lui. Di dirgli che sei di un rango superiore, come a Scona. Be', non penso che funzionerà: è troppo lontana quella situazione ormai. Tuttavia, guarda il lato positivo: da quel che ho capito ha praticamente ceduto questa orribile nazione all'Impero; prima o poi lo chiameranno e lo toglieranno dal suo grigiore, e allora noi potremo andare avanti e fare ciò che vorremo.»
Il porcile emetteva un fetore terribile. Nessuno l'aveva pulito da una settimana, e la pioggia filtrava da un buco nel tetto e creava un ruscelletto di fanghiglia sotto la porta e fuori nel cortile. A Gorgas non sembrò importare della pioggia; la sua nuova maglia di seta probabilmente era già rovinata, ma lui non l'aveva notato, o non gli interessava. È come un ragazzino, eccitato perché gli viene permesso di aiutare i grandi pensò Iseutz. È davvero un peccato. In generale, sarebbe divertente avere qui anche lo zio Bardas. Lui e zio Gorgas potrebbero colpirsi fino a morire, immersi fino al ginocchio nel letame di maiale. «Andiamo, Zonaras, prendimi il rastrello» disse Gorgas. «Niessa, tu prendi la pala.» (Niessa rimase esattamente dov'era.) «Clefas, dov'è la carriola? Oh, per l'amor del cielo, non dire che ancora non l'hai riparata, perché sono sicuro di avertelo detto già la scorsa settimana. Non lavora nessuno qui, a parte me?» «È una riunione di famiglia» disse Bardas Loredan. «Immagino che dovrei dire come sei cresciuto o qualcosa del genere.» Theudas Morosin si bloccò sulla porta d'entrata della tenda. «Pensavo che ti avrebbe fatto piacere vedermi» disse. Bardas chiuse gli occhi e lasciò ciondolare all'indietro la testa. «Scusa» disse. «Non intendevo questo. È solo che avrei voluto che tu non venissi qui.» Theudas si irrigidì. «Oh?» «Se ti dicessi che speravo che tu fossi uscito dalla mia vita per sempre» continuò Bardas «penseresti che sono cattivo. Quello che probabilmente non capisci è che lo speravo per il tuo bene.» Aprì gli occhi e si alzò, ma non si avvicinò al ragazzo. «Sono davvero contento che tu stia bene e devi credermi: ma non dovresti stare qui e non dovresti lasciarti coinvolgere in questa guerra. Saresti dovuto rimanere sull'Isola: hai un futuro lì.» Theudas stava per dire qualcosa, ma cambiò idea. Sembra diverso pensò. Mi aspettavo che fosse diverso... probabilmente più vecchio o più magro, non so... ma non è così. Sembra più giovane. «Io voglio stare qui» rispose invece. «Voglio vederti sconfiggere Temrai, e punirlo per quello che ha fatto. So che puoi farlo, e voglio essere lì con te quando sarà. C'è qualcosa di terribile in questo?» Bardas sorrise. «Sì» disse «ma non ti preoccupare. Adesso sei qui, e siamo di nuovo insieme: credo che potrai renderti utile.» Theudas fece un sorriso di sollievo: era il tono di voce di quando diceva
renditi utile ai vecchi tempi. Avrebbe dovuto sapere che non avrebbe mostrato nessuna emozione, nessun abbraccio e nessuna lacrima: in ogni caso lui non l'avrebbe voluto. Quello che davvero voleva era che le cose ricominciassero da dove erano state interrotte, in quel giorno in cui i soldati di Shastel avevano fatto irruzione nella loro casa e tutto era cambiato. «D'accordo» disse. «Cosa vuoi che faccia?» Bardas sbadigliò: sembrava stanco. «Vediamo cosa ti ha insegnato Athli su come si tengono i registri. Se hai prestato attenzione, potresti essere davvero utile. E nessuno è mai riuscito a capire le scartoffie come Athli. A proposito, come sta?» C'era qualcosa nel modo in cui lo disse... ancora non l'ha saputo. Perché? Perché non gliel'hanno detto? «Stava bene» disse con cautela Theudas «l'ultima volta che l'ho vista.» «Bene. E Alexius? Come sta? L'hai visto ultimamente?» Questa volta Theudas non seppe cosa dire. Non voleva davvero essere lui a dirglielo... non se doveva anche comunicargli la notizia di ciò che era successo sull'Isola. Ma avrebbe dovuto farlo, prima o poi, e non voleva dover mentire... «Alexius» ripeté. «Non l'hai saputo.» Bardas alzò subito lo sguardo. «Non ho saputo cosa? Non è malato o cose del genere, vero?» «È morto» disse Theudas. Bardas rimase immobile. «Sono morti entrambi.» «Cosa?» «Niente, scusa. Ho saputo ieri che un altro mio amico è morto, un uomo con cui lavoravo al Palazzo. Quand'è morto?» La bocca di Theudas era asciutta. «Da un bel po'» rispose. «Mi dispiace davvero, pensavo che lo sapessi.» «Va bene» disse Bardas (è consuetudine morire prima, dopo tutto, anche se ci sono delle eccezioni). «Era un uomo anziano, ed è una cosa che prima o poi accade. È solo... be', strano. Pensavo che l'avrei saputo, se capisci cosa intendo dire.» «Per un periodo siete stati molto amici, vero?» chiese Theudas, sapendo che non avrebbe potuto dirlo in modo peggiore neanche se ci si fosse messo d'impegno. «Sì» rispose Bardas. «Ma non lo vedo da anni. Se ti ricordi con esattezza quando è morto, fammelo sapere perché mi interessa. Adesso vediamo... troviamo qualcosa che tu possa fare; o vuoi riposare? Immagino che tu abbia viaggiato per tutto il giorno.»
«Sto bene» disse Theudas. «Hai detto che volevi che facessi i conti o qualcosa del genere? Immagino che ci sono parecchie scartoffie, quando si comanda un esercito.» Bardas sorrise. «Non crederesti quante. O almeno è così con questo esercito: non ce ne siamo mai preoccupati quando mi trovavo con Maxen. Queste persone, però, hanno bisogno di pratiche, richieste, rapporti e solo gli dèi sanno cos'altro, ma non viene fatto nulla.» Theudas si sedette dietro la piccola scrivania pieghevole e instabile, che era ricoperta di pezzetti di carta e tavolette di cera. Durante il suo periodo sull'Isola non aveva fatto apprendistato, ma ne sapeva abbastanza del lavoro da impiegato per riconoscere un pasticcio quando lo aveva di fronte. «Posso cominciare a far quadrare i libri mastri del sole e della luna, se vuoi» disse. «Hai qualcosa con cui fare i conti?» «Guarda nella scatola di legno» rispose Bardas. «Cos'è un libro mastro del sole e della luna?» Theudas sorrise. «Scusa, è così che chiamano i formati standard a doppia voce nel luogo da cui provengo... voglio dire sull'Isola.» Il sorriso era ancora sul suo volto, come la visiera di un elmo: un falso volto d'acciaio. «Sai, gli introiti e le spese. Disegniamo un piccolo sole sulla parte sinistra e una piccola luna sulla destra.» «Ah. Be', sì, sicuramente. Questo sarebbe di grande aiuto.» Theudas aprì la scatola: era di legno di cedro, aveva un odore dolce ed era di una sfumatura di verde molto delicato. All'interno c'era un sacchettino di velluto, chiuso con un passamano di seta. Sciolse il nodo e tirò fuori per contare una manciata dei dischi più belli che avesse mai visto: dorati imperiali, con figure allegoriche in altorilievo su entrambi i lati. Né le figure né le leggende negli intarsi avevano significato per lui, naturalmente; erano di fattura imperiale e illustravano scene prese dalla letteratura dei Figli del Cielo e poi istoriate. «Appartenevano a un uomo di nome Estar» spiegò Bardas. «Le ho ereditate, insieme al suo esercito. Puoi tenerle, se vuoi: io odio fare il lavoro di amministrazione.» «Grazie» disse Theudas. Nella scatola c'era anche un pezzetto di gesso, che usò per disegnare le linee... righe complete per i dieci, e interrotte per i cinque. «Ma sei sicuro? Sembrano di valore.» «Non ci ho mai pensato, a essere sincero» rispose Bardas. «Quando passi del tempo con questa gente, cominci a valutare le cose in maniera diversa, se capisci cosa intendo dire.»
Theudas non lo capì affatto, ma annuì comunque. «Se ne sei sicuro» disse. «Sarà un piacere usarle.» Bardas sorrise. «Penso che sia questa l'idea di base. Senti, ci stiamo preparando per muoverci... siamo rimasti bloccati qui ben più a lungo di quanto ci aspettavamo, e siamo terribilmente in ritardo. Devo andare e controllare alcune cose. Starai bene qui da solo per un po'?» «Penso di sì» rispose Theudas mettendo i dischi sulle righe. «Ho molte cose che mi terranno occupato per un po' di tempo.» Per circa un'ora il lavoro gli riempì la mente: si cimentò con divisioni, quozienti e moltiplicatori, tracciò le entrate inserite male, combatté per dare un senso alla scrittura di Bardas. Sentì la consistenza dei dischi tra le dita, e il lieve rumore che facevano quando ne rimetteva uno nel sacchetto. Ma più si immergeva nei calcoli, più le immagini incise cominciarono a penetrargli nella testa, come frammenti di metallo gettati via da una macina e che si infilzavano in una mano. C'era un esercito che marciava per andare in guerra; in primo piano c'era un Figlio del Cielo su un cavallo alto e snello; dietro di lui c'era un mare di teste e corpi, ciascuno appena accennato da pochi leggeri tratti dall'incisore. C'era un trofeo di braccia prese e messe su un campo di battaglia per celebrare una vittoria: spade, lance, elmi, mezze corazze, braccia e gambe ammucchiate, e in cima a tutto, come un faro su una montagna, lo stendardo con il sole a raggi dell'Impero. C'era una città sotto assedio; sullo sfondo si vedevano alte torri e bastioni, e davanti al campo gli ingegneri scavavano una trincea, protetta dalle frecce e dai missili dei difensori da alti scudi di vimini. C'era un'armeria, dove due uomini sollevavano un elmetto su un palo mentre un terzo osservava. Dato che non capiva le parole, Theudas non sapeva quali guerre, assedi e città fossero commemorate, ma non aveva importanza; poteva trattarsi di una qualsiasi guerra, un qualsiasi assedio o città (dato che tutte le guerre, gli assedi e le città sono molto simili, visti da lontano, da fuori il campo di battaglia). Per quel che sapeva Theudas, poteva essere stato fatto deliberatamente: dato che l'Impero era eternamente in guerra, celebrava eternamente nuove vittorie, sarebbe stato sensato mantenere le celebrazioni della vittoria vaghe e generiche, sia che si trattasse delle immagini sui dischi per contare, sia delle marce intonate dall'esercito. Si ricordò di aver dimenticato una cosa: sul pavimento, dove l'aveva messo, c'era il suo bagaglio... un piccolo zaino e un lungo pacco avvolto in tessuto oliato. Fortunatamente, fu allora che Bardas entrò. «Mi sono appena ricordato una cosa» disse Theudas. «Mi dispiace, ma
mi era passata di mente. Ho un pacco per te.» Bardas inarcò un sopracciglio. «Davvero? È un bel pensiero. Cos'è?» Theudas si chinò, prese il pacco e glielo porse. Forse l'espressione sul suo volto cambiò leggermente quando cominciò a tirare il filo per sciogliere il nodo: ed era completamente senza espressione quando estrasse la Guelan. «Capisco» fu tutto ciò che disse, poi la rimise a posto. «Come va con i libri? Sei riuscito a capirci qualcosa?» «Naturalmente lei è libero di andarsene quando vuole» gli disse l'uomo del dipartimento degli stranieri. «Come cittadino di Shastel non è influenzato da ciò che è accaduto qui.» Comunque sottolineò che non c'erano navi in partenza per Shastel, né ora né nel prossimo futuro: in altre parole, se voleva esercitare il suo indiscutibile diritto a lasciare l'Isola, avrebbe dovuto attraversare il mare a piedi fino a Shastel. Così tornò alla casa di Athli, che era vuota. Erano venuti a prendere tutti i rapporti e le carte, per non parlare delle dieci massicce cassette blindate di ferro in cui la donna teneva i depositi della Banca; avevano tagliato le catene e i chiavistelli con ceselli e grossi martelli, lasciando segni sulle pareti e sui pavimenti come le cavità che rimangono quando vengono estratti i denti. Non avevano toccato nient'altro, però: si trattava in realtà di un'annessione, non di una caduta o un saccheggio. Era una situazione molto meno cruenta delle altre due, e per ovvi motivi: dopo tutto, che bisogno c'è di rubare quello che già si possiede? Ma non avevano preso il cibo, così si tagliò una fetta spessa da un filone di pane, e un grosso quadrato di formaggio, e li portò vicino alla finestra, dov'era piacevolmente fresco e dove poteva ancora vedere la luce del sole. Da dov'era riusciva a scorgere le cime degli alberi delle navi ancorate al Drutz. Ormai da un momento all'altro sarebbero andati nel luogo dal quale lui era appena tornato, per portare la guerra a Temrai e vendicare Perimadeia... o qualcosa del genere. Chiuse gli occhi, e poi si trovò sotto la città, direttamente sotto la casa di Athli, in una galleria... la solita galleria, che puzzava di coriandolo e di argilla bagnata. «Ma è proprio...?» cominciò a protestare, ma il pavimento della galleria cedette sotto i suoi piedi e lui cadde... ... Lungo un'altra galleria (la solita), dove stavano raccogliendo il materiale di sterro e lo caricavano per portarlo via; vide mescolati a esso molti
reperti e oggetti curiosi di centinaia di anni prima. Alcuni di quei pezzi gli erano familiari, altri no, e alcuni di questi ultimi avevano una forma davvero molto strana: erano parti di armature per creature che erano ben lontane dall'essere umane, o in parte umane, o in parte diverse. Di nuovo tu. Gannadius si guardò intorno. Non c'era nessuno che riuscisse a vedere: solo elmi e pezzi di armatura... Quaggiù. Ecco, stai guardando proprio verso di me. Una celata elegante anche se un po' battuta, il tipo di elmo che copre il volto completamente a parte le strette fessure per gli occhi e la bocca. «Sei tu?» chiese Gannadius. «Mi ricordi qualcuno con cui lavoravo, ma non riesco...» Be', certo che te lo ricordo. Sono io. Qui in questo dannato cappello di stagno. Non era un grande mistero: avevano percorso la galleria passando per un terreno adibito a sepoltura, un'enorme fossa comune per i vinti di qualche battaglia combattuta molto tempo prima; oppure avevano riaperto una galleria di un precedente assedio, dove un crollo aveva sepolto una squadra d'assalto. «Solo un minuto» disse Gannadius «non sei Alexius, non sembri lui neanche un po'. Chi sei?» Ha importanza? «Ne ha per me» rispose Gannadius rigirando l'elmo: era vuoto. Alexius non è potuto venire, così ha mandato me. Sono un amico di Bardas Loredan, se la cosa ha importanza. E tu sei Gannadius, giusto? Il mago? «No, io... Sì, il mago.» Gannadius non riuscì a sedersi, non c'era spazio, così appoggiò la schiena contro la parete arcuata e umida della galleria. «C'è un motivo per tutto questo, o è solo la conseguenza di quel grosso pezzo di formaggio che ho mangiato?» Mi ferisci. «Mi dispiace» rispose Gannadius, sentendosi a disagio di scusarsi con un'allucinazione. «Così mi pare di capire che c'è un motivo per questo incontro.» Naturalmente. Benvenuto al palazzo delle prove. Gannadius si accigliò. «Al palazzo di cosa?» Questo è il luogo in cui si viene per essere colpiti e sepolti, anche se è considerata una buona educazione morire prima. Tuttavia, tu non potevi saperlo; possiamo fare delle eccezioni. Allora, vediamo. Se ti chiedessi di
identificare il Principio con un fiume o una ruota, quale sceglieresti? «Non ne sono sicuro» rispose Gannadius. «A essere sincero, penso che nessuno dei due paragoni si adatti alla perfezione. Inoltre, perché mi chiedi questo?» Rispondi alla domanda. Un fiume e una ruota: quale dei due? «Oh...» Gannadius scrollò le spalle. «D'accordo, in generale direi che il Principio è più simile a un fiume che a una ruota. Sei soddisfatto?» Spiega il tuo ragionamento. Gannadius si accigliò. «Se avessi trattato così i miei studenti, sarei senza lavoro.» Spiega il tuo ragionamento. «Se lo faccio, potrò svegliarmi?» Spiega il tuo ragionamento. Gannadius sospirò. «D'accordo» disse. «Ritengo che il Principio fluisca come un fiume lungo un letto di circostanze e di contesti; va dove va perché il paesaggio lo porta in quel luogo. Ritengo che fluisca da un inizio a una fine, e se e quando raggiungerà quella fine, si fermerà. Ritengo che il corso del Principio possa essere deviato, ma solo sviandolo da una serie di circostanze e di contesti in un'altra serie; inoltre, ritengo che solo il corso futuro possa essere deviato: è impossibile cambiare il passato. Come vado?» Adesso spiega perché il Principio assomiglia a una ruota. Con parole tue. «Se insisti. Ritengo che il Principio giri, come una ruota, intorno a un evento; come una ruota, mentre gira sul terreno compatto si spinge in avanti, spostando quindi il suo asse in avanti con esso... circostanza che spiega perché non viviamo sempre la stessa giornata. L'analogia crolla perché gli eventi che formano l'asse, o dovrei dire l'assale, sono costantemente in cambiamento, ma la ruota continua a girare intorno a essi senza perdita di continuità... ed è per questo che è meglio pensare agli eventi come il letto e le rive di un fiume, secondo me. Ammetto però che l'analogia della ruota è preferibile perché sottolinea l'aspetto ripetitivo del Principio, che è piuttosto minimizzato con l'immagine del fiume; c'è ancora, naturalmente, perché il corso di un fiume nasce solo dopo centinaia di anni, quando cicli innumerevoli di pioggia e inondazioni hanno scavato un canale perché vi scorra il fiume. In verità entrambe le immagini sono fuorvianti: il Principio non si ripete, tende solo a fare in modo che la stessa cosa accada in continuazione. In ogni caso, per tornare alla ruota, non si può
deviare la ruota stessa, può solo girare, ma spostando l'asse si possono deviare quelle evoluzioni su una strada diversa. Questo in teoria. In pratica, chiunque sia abbastanza stupido da cercare di interferire verrà schiacciato... o finirà affogato, se preferisci. Ecco, così basta?» È adeguato. «Adeguato» ripeté Gannadius. «Be', grazie tante.» Adeguato vuol dire che non è sufficiente; tu sei il nostro uomo sull'orlo di un punto di svolta cruciale nella storia. Adeguato non fa capire nulla di tutto questo... E il tetto crollò, e la città si schiantò con esso, e dopo anche il mondo intero; ma non abbastanza da riempire la galleria. Per un momento Gannadius poté vedere tutto: città, strade, fortezze, villaggi, campi e foreste, che finivano nel buco come il latte attraverso un imbuto di stagno, e venivano assorbiti dall'argilla nera. C'era un forte odore d'aglio, e tutt'intorno a lui Gannadius poté vedere i Figli del Cielo, che osservavano la scena con un apprezzamento silenzioso e distaccato, come se quello fosse un balletto o una lezione. Riuscì a vedere navi... vaste flotte che riversavano un numero infinito di uomini d'acciaio su tutte le spiagge e i promontori del mondo, finché gli uomini coprirono la faccia della terra... «Come se il mondo indossasse un'armatura» disse a voce alta. «Bell'idea.» ... e sotto ogni città e villaggio poté vedere tunnel, gallerie e trincee d'assalto, dove uomini d'acciaio scavavano, martellavano e colpivano arti d'acciaio e teste su incudini, finché tutte le città furono minate e caddero nei camouflet, e la pelle dell'acciaio si richiudeva su tutto. Nelle miniere gli uomini d'acciaio toglievano l'acciaio dai corpi dei morti, tagliando le cinghie con coltelli dalla lama sottile e sfilando le piastre d'acciaio per raggiungere la carne sottostante; l'acciaio finì nel mucchio, nella spazzatura, ammucchiata in piramidi che toccavano il soffitto, mentre i martelli colpivano e battevano la carne, rompendo le fibre per facilitarne la cottura. E tutta la carne andava nella bocca dei Figli del Cielo, e tutto l'acciaio tornava alla fonderia, per essere trasformato in lingotti, martellato in blocchi, martellato di nuovo in piastre, martellato ancora a forma di arti, martellato ancora dalla spada, dall'ascia, dalla mazza, dalla frusta, dalla stella del mattino, dall'alabarda e dal martello da guerra ad asta lunga, messo alla prova a ogni stadio (alla prova, se la prova era necessaria) e martellato fino al punto di fallimento, che è il punto in cui la crisalide rompe le cuciture e si apre, liberando la farfalla.
«Questa è un'ipotesi interessante» mormorò Gannadius. Poi le immagini si fusero, mentre tutte le città diventavano una sola città, tutte le nazioni diventavano una sola nazione, e tutto l'acciaio diventava un'armatura di prova, e tutte le persone diventavano un solo uomo; ed era in piedi sulla sua incudine e faceva oscillare il martello, lasciandolo cadere per il suo peso, stringendo il metallo tra il martello e l'incudine in modo che fluisse come un fiume lento, o un ruscello di lava da un vulcano. «Alexius?» chiese Gannadius. Ma l'uomo scosse la testa. «Ci sei andato vicino» rispose. «Alexius è morto, mi dispiace, non potevamo più fare un'eccezione per lui, e così anche Anax, l'amico di Bardas Loredan, e anche molti altri. Sono finiti nella trincea, e la trincea è finita nella fonderia, e la fonderia è diventata blocchi, e i blocchi sono diventati me. Tu mi vedi come Alexius a causa del tuo bisogno umano di vedere un volto rassicurante e amichevole.» «Ah» disse Gannadius. «E questa circostanza è fuorviante, naturalmente» continuò «perché io non sono rassicurante e non sono amichevole, e questo è sicuro come l'inferno. Vedi, il Principio è l'Impero... è la fonderia e l'incudine, è un fiume che ti annega o una ruota che ti passa sopra. Anche il fiume di lava costituisce una buona immagine, per quel che vale. Ma personalmente mi piace l'idea del Principio che è il palazzo delle prove, perché per ogni centimetro di sviluppo dev'esserci un metro di distruzione: altrimenti, come si procede allo stadio successivo?» «Non sono sicuro di seguirti» disse Gannadius. «È giusto» rispose, mentre il suo martello distorceva il metallo. «È perché non puoi vedere l'inizio, cioè i punti da cui è cominciato. Vedi, ogni atto di distruzione comincia con un primo piccolo momento di fallimento... il primo punto in cui il metallo viene sottoposto a sollecitazione e si lacera, la prima crepa, il primo luogo in cui il materiale è battuto fino a diventare troppo sottile. Una volta che si ha questo, tutto intorno fallisce: è come l'unico puntello che si toglie per far cadere un camouflet, e poi la città cade attraverso il buco. Gorgas Loredan era un punto di fallimento, in cui la sollecitazione è diventata troppo forte; ci sono stati altri, secoli fa, alcuni di loro, come quando i Figli del Cielo apparvero, o molto recentemente, come l'Impero che mette le mani su una flotta di navi, che costituisce il fallimento che farà crollare le città attraverso il mare. C'è stato un momento di fallimento quando Alexius stupidamente ha accettato di lanciare la maledizione su Bardas, e questo fatto ha lacerato un'intera cucitura. Si può dire
che è stato come tagliare in due un tronco: un cuneo apre la crepa per inserivi un altro cuneo. Questo è l'elemento progressivo del Principio.» Rise. «Decisamente non è rassicurante» disse con un sorriso. «E decisamente non è amichevole. Un altro fallimento veramente importante è stato il momento in cui hai accettato di portare quell'anatra da Perimadeia all'Isola: quello è stato un disastro dal quale il mondo potrebbe non riprendersi mai. Ma cerca di non sentirti in colpa al riguardo: non potevi saperlo. Molto probabilmente cercavi solo di essere d'aiuto.» «Esatto» disse Gannadius. «Proprio così.» Annuì. «È una cosa comica, in un certo senso è grottesca; la distruzione e la rovina piombano addosso sull'occidente, cucite nel gotto di un'anatra. Be', questo dovrebbe averti dato molto da pensare. Grazie per avere osservato.» ... E i suoi occhi si aprirono di nuovo, mentre il piatto gli cadeva dalle ginocchia e la crosta del pane rotolava sotto la sedia. Dannazione pensò. Ma non sono sicuro di essermi convinto. È una teoria piuttosto illusoria, ma mi piacerebbe vedere qualche prova concreta. Qualcuno stava bussando alla porta; si alzò, si tolse le briciole di dosso e rispose. Sull'uscio c'erano due soldati e un impiegato. «Il Dottor Gannadius?» «Sono io.» «Il viceprefetto le manda i suoi saluti» disse l'impiegato «e ha pensato che potesse essere interessato a sapere che c'è un arrivo non previsto... una nave da Shastel. È stata portata fuori rotta e condotta qui. Il viceprefetto ha chiesto al capitano di fermarsi fino a domani mattina, così potranno portare delle lettere per lui, e ha pensato che lei poteva volere una cuccetta a bordo.» «È stato davvero un bel pensiero da parte sua» ringraziò Gannadius. «Mi piacerebbe molto. Come si chiama la nave?» «È la Povertà e Tolleranza; il suo capitano è Hido Elan, e si trova al Drutz. Hanno accettato di portarla a casa, come gesto di buona volontà.» «Buona volontà» ripeté Gannadius. «Be', oggi sono veramente tutti gentili con me.» CAPITOLO SEDICESIMO Il Colonnello Ispel, al comando della forza di spedizione dell'ufficio provinciale contro Perimadeia, effettuò uno sbarco incontrastato e inviò i
suoi esploratori. Quando questi fecero ritorno, riferirono che non c'era traccia del nemico in alcuna direzione. Ispel fece montare il campo sul terreno dell'insediamento recentemente abbandonato di Temrai, dispiegò le mappe sul pavimento della sua tenda e studiò la situazione. Poiché il nemico aveva abbandonato la sua posizione e si era mosso verso l'entroterra, la ragione per lanciare l'offensiva in questo modo era diventata obsoleta ancor prima che s'imbarcassero. Ciononostante, la sua situazione era solida; aveva poco più di cinquantamila uomini in armi, costituiti da ventimila di fanteria pesante, quattromila di cavalleria, sedicimila di fanteria leggera e poco più di diecimila fra arcieri, artiglieri, genieri e pattuglie irregolari. Lasciò duemila degli irregolari meno utili a impedire agli equipaggi delle sue navi di fuggire - erano, dopo tutto, Isolani, non una minaccia ma completamente inaffidabili - e si avviò con l'armata principale per seguire le orme di Temrai. Oltre ai combattenti, aveva un bagaglio grande ma non difficile da maneggiare e un convoglio di rifornimento, con abbastanza beni da poter accompagnare l'armata attraverso tutta la pianura e ritorno, fino in territorio imperiale... una cosa che sapeva per certa su questa campagna era che vivere delle sue risorse era fuori questione. Un così grande impaccio avrebbe ovviamente rallentato l'avanzata della sua forza principale, ma resistette alla tentazione di inviare la cavalleria troppo in avanti. Le tribù erano costituite da fanteria leggera e arcieri a cavallo estremamente abili, e ciò che aveva letto su di loro suggeriva che niente li avrebbe divertiti di più di un'opportunità di impegnare una lenta colonna non protetta dalla cavalleria, fino al punto in cui lo slancio viene meno e l'avanzata rallenta e si blocca. Inoltre, non aveva una grande fretta: i rapporti informativi dell'armata del Capitano Loredan suggerivano che Temrai si era trincerato in cima a una collina e stava attendendo la fine. Se era vero, l'unico modo in cui la sua guerra poteva essere perduta era facendo uno stupido errore, e avrebbe potuto farlo molto più facilmente se si fosse precipitato ciecamente in un territorio spoglio e in gran parte sconosciuto. La pianura si rivelò essere diversa da tutte le altre campagne in cui aveva prestato servizio. Aveva combattuto in paludi, deserti e montagne, all'inferno e in paradiso, al sole accecante e nella neve sferzante, ma questa era la prima volta che doveva marciare attraverso un panorama che era completamente, penosamente noioso. Non per niente era chiamato la pianura: una volta lasciata alle spalle la piccola frangia di montagne che davano su Perimadeia stessa, non c'era nient'altro sui due lati che terreno piatto coperto di sparsa gramigna blu e verde fin dove l'occhio poteva vedere. Non che
il panorama noioso fosse necessariamente una brutta cosa: in una campagna così aperta un'imboscata era di fatto impossibile e, a patto che si tenessero sulla strada, sarebbero stati in grado di fare un'ottima avanzata. Fuori strada, ovviamente era un'altra storia: l'onnipresente gramigna tendeva a crescere in cespuglietti grandi all'incirca come una testa d'uomo e tentare di far marciare un'armata attraverso la campagna sarebbe stato andarsi a cercare il disastro. Indipendentemente dal sostanzioso costo monetario del mantenere un'armata sul campo (ventimila quarti d'oro alla settimana), non stava affrontando problemi che richiedessero marce forzate e colonne volanti. L'unica irritante paura era che il Capitano Loredan potesse terminare il lavoro prima del suo arrivo, lasciando a lui e ai suoi uomini nient'altro da pregustare se non una lunga e monotona marcia verso casa. Ciononostante, si attenne alle procedure operative standard, tanto per sicurezza. Ogni mattina inviava esploratori, in tutte le direzioni eccetto una, e ogni mattina questi tornavano indietro con nulla da riferire. Ogni notte disponeva sentinelle intorno all'accampamento e picchetti fuori all'aperto, in modo da avere parecchio preavviso se il nemico si fosse in qualche modo materializzato e avesse tentato un attacco notturno. La sola direzione che non controllò con gli esploratori era, naturalmente, quella da cui era appena venuto, e così la prima volta che venne a sapere del reparto di incursori che l'aveva seguito fin dalla costa, cavalcando di notte e dormendo durante il giorno con sacchi sulle loro armi e armature per impedirne il lampeggiare al sole, fu quando avvenne un'improvvisa esplosione di attività nell'unico momento della giornata in cui un'armata imperiale era veramente vulnerabile: l'ora di cena. Era, naturalmente, il momento perfetto per attaccare. Era buio: gli uomini erano senza armatura, in fila alle cucine da campo; i picchetti non erano ancora in posizione e quando il nemico travolse a cavallo le sentinelle era troppo tardi per dare l'allarme. Di colpo c'erano cavalieri armati all'interno del cerchio di fuochi, che galoppavano lungo le file per il rancio tirando fendenti a mani e facce con le loro scimitarre, trafiggendo con le lance tutti quelli che abbandonavano di corsa la fila. Gli uomini che avevano già ricevuto il loro cibo gettarono piatti e tazze e tentarono di raggiungere le cataste di armi, ma i cavalieri continuavano a entrare: un'unità irruppe nelle tende, un'altra disperse i cavalli, un'altra radunò gli uomini nelle file come pony selvatici durante l'autunno, spingendoli verso un'altra unità ancora, che scattò in avanti per andargli incontro. Ispel stesso uscì inciampando dalla sua tenda con il tovagliolo ancora infilato nel colletto, l'elsa
della spada legata alle montature del fodero (per impedirne la caduta); nel tempo che impiegò a sciogliere i nodi si trovò la strada sbarrata da cavalieri che tagliavano funi di ancoraggio e infilzavano i mucchi afflosciati di tela con lunghe lance a lama stretta. Si guardò intorno e vide un varco nella fila di tende che gli avrebbe permesso di passare all'accampamento della fanteria leggera, dove erano acquartierati gli arcieri; arcieri e pattugliatori, uomini che non combattevano in armatura, avevano più probabilità di riuscire a far fronte ad un disastro improvviso come questo. Attraversò di slancio e uscì nella via principale del quartiere leggero, solo per trovarlo vuoto, con l'eccezione di alcuni cavalieri; i pattugliatori, gli arcieri e gli ausiliari mobili avevano sfruttato la loro mobilità e il loro breve tempo di reazione per uscire dall'area di pericolo e allontanarsi dal campo e dai fili taglienti delle scimitarre, ed era certo che non sarebbero tornati indietro finché non fosse stato sicuro farlo. Tre cavalieri lo videro simultaneamente; ovviamente l'avevano riconosciuto, circostanza che evidenziava la validità del loro servizio informativo. Due di loro fecero girare i cavalli, facendoli quasi voltare sul posto, ma fu il terzo uomo, che con calma piazzò una freccia sulla corda del suo arco, mirò e scoccò, a vincere il premio più ambito della serata; la piccola punta si intrufolò tra le costole, attraverso il polmone e sarebbe uscita dall'altra parte se non avesse cozzato contro la colonna vertebrale. Quando videro che era stato colpito, gli altri due cavalieri lo lasciarono sdraiare a terra; non sarebbe scappato, e ce n'era per tutti. Ispel morì in una specie di sogno, lentamente, mentre i suoi polmoni si riempivano di sangue. Lo faceva impazzire dover stare lì a terra e morire non riusciva a muoversi per niente, nemmeno per girare la testa - senza sapere cosa stava accadendo, esattamente quanti danni gli incursori stavano facendo alla sua armata. Quando non riuscì più a vedere, tentò di seguire ciò che stava succedendo dai rumori; c'erano molte urla e grida, ma se fossero i suoi ufficiali che gridavano parole di comando mentre radunavano gli uomini o solo i suoni inarticolati dei terrorizzati e morenti, questo non riusciva a capirlo. Proprio mentre era certo di poter distinguere almeno una voce coerente che dava ordini, un uomo della pianura saltò giù dalla sella e gli tagliò la testa; gli ci vollero cinque colpi per passare l'osso, e Ispel li sentì tutti. In effetti, si era sbagliato; la voce che aveva sentito gridare ordini era quella del comandante del reparto di incursori, un cugino alla lontana di Temrai di nome Sildocai, e stava cercando di richiamare l'attacco prima di
sfidare troppo la fortuna. Pareva che nessuno avesse notato la cosa, comunque, e non sembrava importare; non appena il nemico faceva un qualsiasi tentativo di radunarsi o di formare un gruppo coerente, un plotone di cavalieri gli era addosso, fendendo e infilzando dove i corpi erano più strettamente accalcati insieme, finché il blocco era eliminato. Era, gli incursori dissero in seguito, di nuovo come Perimadeia; i pochi che provavano a combattere venivano uccisi in brevissimo tempo, dopodiché era come tagliar via i rovi: un lavoro duro, pesante sulle spalle, sulle braccia e sulla schiena. Ma continuarono a lavorare e ripulirono parecchio terreno, e man mano che il lavoro andava avanti diventavano più bravi, trovarono i tagli e gli angoli più efficienti - fatica sprecata affettare selvaggiamente braccia e gambe; un colpo mirato con attenzione alla testa o al collo è sufficiente, e non colpire più forte di quanto devi, non serve a niente stancarti; cerca di prendere ritmo, è più facile così. Alla fine, l'attacco fu interrotto solo a causa di uno stupido equivoco. I cavalli della cavalleria, allontanati all'inizio dello scontro, erano fuggiti al galoppo nella gramigna e rimasero lì per un po'; ma la gramigna non costituiva un buon pasto, essendo grezza e amara, e stavano cominciando ad avere fame. Abituati a muoversi assieme, si diressero di nuovo al campo in mandria, e quando furono molto vicini un cavallo della pianura che aveva perso il suo cavaliere finì contro di loro al galoppo e li spaventò, facendoli scappare al galoppo verso la luce. Un paio di incursori ai bordi del campo udirono il calpestio di zoccoli e diedero per scontato che fosse la cavalleria nemica; diedero l'allarme e si tolsero di mezzo, e nell'arco di pochi minuti l'attacco era terminato, sebbene l'armata imperiale non se ne rese conto che dopo un po' che se n'erano andati tutti. Fu una delle peggiori sconfitte mai inflitte all'esercito imperiale: meno di quattromila uccisi durante l'attacco (duemila dei quali ufficiali e sergenti), ma più di ventimila feriti, la maggior parte con tagli intorno alla testa e alle spalle, che perdevano molto sangue da ferite fra i capelli e al collo. Passò molto tempo prima che i sottufficiali riuscissero a trovare qualcuno in grado di prendere il comando, dal momento che i superiori consumavano i pasti in mense separate in tende più grandi, e gli incursori li avevano trovati molto facilmente. Avevano anche fatto scappare o ucciso la maggior parte dei cavalli che trainavano i carri dei rifornimenti, e fu quello che causò la maggior parte delle morti. Di fronte alla scelta fra trasportare rifornimenti e trasportare i loro amici che avevano ferite troppo gravi per camminare, i soldati decisero di ab-
bandonare gran parte dei viveri, basandosi sul fatto che non erano troppo distanti dalle navi e si sarebbero dovuti arrangiare finché non le avessero raggiunte. Con così tanti ufficiali e sottufficiali morti, non c'era nessuno a dirgli di fare altrimenti; così, quando gli incursori tornarono il giorno seguente e attaccarono la colonna mentre si trascinava sui propri passi, incontrarono una resistenza solo di poco superiore a quella che avevano incontrato durante la notte. Ma quello che trovarono fu sufficiente a persuaderli a non avvicinarsi con la spada e la lancia; invece, si tennero a medio raggio e scoccarono dalla sella: non era il metodo più efficiente nel breve periodo, ma estremamente conveniente per quanto riguarda il rapporto delle perdite. Ciò che rimaneva della cavalleria imperiale tentò di scacciarli via a parole, ma non durarono a lungo; c'erano solo alcune centinaia di cavalli in mezzo a quasi quattromila uomini, e un cavallo è un bersaglio grosso. Per quanto riguarda i fanti leggeri e gli arcieri, il cui lavoro sarebbe dovuto essere quello di scacciare le mosche in queste circostanze, avevano fatto un grave errore di giudizio quando avevano presunto che abbandonare il campo e precipitarsi nell'oscurità sarebbe stata una scelta migliore che rimanere fermi. Furono i cespugli di gramigna a spacciarli; inciamparono e caddero, con storte alle caviglie e distorsioni alle ginocchia, cosicché per quando Sildocai li aveva trovati e aveva piazzato un cordone di arcieri attorno a essi, avevano rallentato più o meno fino a fermarsi, accasciati sull'erba e senza volontà o possibilità di andare avanti. La maggior parte morì lì dov'era sdraiata e il resto venne sfrondato più tardi il giorno dopo. Dei cinquantamila che erano sbarcati dalle navi, quindicimila riuscirono a tornare indietro, con gli uomini di Sildocai che scendevano alla costa per vederli andar via; degli altri trentacinquemila, almeno la metà venne lasciata indietro nella vuota pianura; Sildocai tornò a casa, la flotta fece vela di nuovo fino all'Isola, e c'era, come Ispel aveva così acutamente osservato, molto poco da mangiare nella pianura, se avevi la sfortuna di non essere una capra. Sildocai attribuì la sua vittoria a un ricordo che aveva preso durante il sacco di Perimadeia; era un libretto, intitolato L'Uso Della Cavalleria In Campagne Estese In Aperta Campagna, di Suidas Bessemin; uno dei pochi storici militari della Città ad aver mai studiato in dettaglio le campagne dell'illustre comandante di cavalleria Perimadeiano, Bardas Maxen. Il prefetto di Ap' Escatoy apprese la notizia dal più veloce e più esperto corriere del corpo messaggeri imperiale, che lasciò l'Isola venti minuti
dopo l'approdo della prima nave. Il prefetto prese la notizia con calma; avendo provveduto personalmente a far avere al messaggero il cavallo più veloce per il suo viaggio verso l'ufficio provinciale di Rhoezen, chiese un tè al gelsomino e frittelle al miele, mandò a chiamare i suoi consiglieri e si sedette per un lungo giorno e una lunga notte di ragionevole e pratica pianificazione. Bardas Loredan apprese la notizia dal corriere dell'esercito inviato dal viceprefetto dell'Isola tre ore dopo che la notizia era stata comunicata lì. Dovette farsi raccontare la storia tre volte; poi mandò via tutti quanti e rimase seduto al buio per tutta la notte. Quando finalmente venne fuori, non appariva eccessivamente preoccupato o irato; diede ordine di affrettare il ritmo dell'avanzata e di incrementare di numero esploratori e picchetti. Gorgas Loredan apprese la notizia dal suo uomo nell'ufficio del procuratore di Shastel, che si assicurò che il corriere ufficiale facesse una deviazione dal suo percorso a sud con i dispacci commerciali. Dopo aver visto il corriere, Gorgas prese l'ascia grossa, sulla quale aveva dovuto lui stesso mettere una nuova impugnatura, e passò la mattinata nella legnaia, a spaccare tronchi. Poi inviò tre dei suoi messaggeri; uno verso l'Isola, con lugubri condoglianze e offerte di assistenza; un altro sempre verso l'Isola, accompagnato da un gruppo di cinquanta uomini circa dall'aspetto feroce le cui lettere di transito li identificavano come negoziatori commerciali; e un terzo, l'uomo migliore che gli rimaneva, verso l'accampamento di Temrai all'estremità della pianura. Temrai stesso apprese la notizia da Sildocai, mentre il reparto di incursori faceva ritorno a casa molto velocemente, anche più veloce della diligenza postale imperiale. Disse ''Quanti?" e scosse la testa quando le cifre vennero ripetute. Poi tornò a supervisionare il rafforzamento dei portoni interni, e fu di pessimo umore per il resto della giornata. Il governatore provinciale apprese la notizia il mattino del quattordicesimo compleanno della sua figlia più grande. Disdisse immediatamente tutte le celebrazioni in programma, come era giusto viste le circostanze, e scrisse una lunga lettera per il prefetto di Ap' Escatoy esprimendo la sua partecipazione, il suo sostegno, la sua risoluta fiducia e il suo profondo disgusto, promettendo una nuova armata di centocinquantamila fanti, sessantamila cavalieri e un vero supporto di artiglieria, da inviare entro due mesi, e chiedendo educatamente notizie di un dipinto su seta di Marjent che il prefetto aveva promesso di mandargli un mese prima, ma che non sembrava essere ancora arrivato. Poi scrisse un'altra lettera per l'ufficio
dell'amministrazione centrale, a otto settimane di cavallo nella provincia di Kozin, chiedendo se il prefetto dovesse essere messo sotto processo, semplicemente sostituito o lasciato lì dov'era. Infine, essendo un uomo dal cuore gentile, mise di nuovo in programma il compleanno di sua figlia facendo inserire all'astronomo generale provinciale nel calendario uno speciale mese intercalatorio non ricorrente, da denominare Perdita-eRiaffermazione, a cominciare dalla mezzanotte del giorno in cui era stato raggiunto dalla notizia. In generale, si concordava sul fatto che si trattasse di un gesto particolarmente elegante e premuroso, e si discusse per un po' sulla possibilità di renderlo permanente. Gannadius apprese la notizia a cena il giorno prima che le navi raggiungessero l'Isola; un sopravvissuto della fanteria leggera imperiale, direttosi da solo verso la costa, aveva perso la strada ed era andato verso nord, dove si era imbattuto in un gruppo di messaggeri commerciali di Shastel che stavano facendo ritorno a casa con importanti notizie riguardanti probabili sviluppi nel prezzo del rame di Bustrofidon al mercato. Dal momento che il messaggio era così urgente, avevano corso il rischio di cavalcare attraverso la zona di guerra, e il loro primo istinto nel vedere un soldato imperiale che correva lungo la strada verso di loro fu quello di ucciderlo o di correre via. Quando si erano resi conto di quello in cui si erano imbattuti per caso, comunque, avevano accelerato ancora di più (dovettero lasciare indietro il soldato, non avendo cavalli liberi) e erano stati così in grado di recare la notizia alla Cittadella della chiusura delle trattative di quel giorno; un atto di eroismo da parte loro che pagò dividendi per il braccio commerciale dell'Ordine. Gannadius stesso non sembrava eccessivamente sorpreso dalla notizia; era quasi come se avesse già appreso la cosa da qualche altra fonte, mormorarono i suoi colleghi all'Alta Tavola dopo che lui era andato a letto. Questo incrementò grandemente il loro rispetto e il risentimento verso lo studioso e presunto mago perimadeiano, che continuò con la sua routine quotidiana come se nulla fosse accaduto. Quando la notizia raggiunse la provincia di Voesin, ne scaturì una piccola rivolta in quel già turbato e inaffidabile angolo dell'Impero. Un uomo apparve dal nulla nella piazza cittadina a Rezlain nel giorno di mercato, annunciando di essere l'inviato scelto da Dio, mandato a guidare il popolo fuori dalla schiavitù, e trascinando con sé un giovane sconcertato e apparentemente ebete che risultò essere l'ultimo discendente della precedente casata reale di Voesin. Circa seimila persone entrarono alla rinfusa nell'accampamento ribelle prima dell'arrivo della cavalleria; sebbene un terzo di
essi fosse composto di donne, anziani o ragazzi, riuscirono a tenere duro per sei giorni, finché venne portata un'intera compagnia di artiglieria da Ap' Betnagur e l'accampamento venne seppellito sotto una montagna di colpi di trabocco da settanta libbre. I detenuti politici nella casa di Auzeil furono fra le ultime persone sull'Isola ad apprendere la notizia, che arrivò alle prime ore del mattino sotto forma di banco, preso in prestito dalla Fede e Integrità quattro porte più giù nel vicolo, e che fracassò un pannello della porta frontale di Venart. I soldati in servizio scattarono via dal loro bivacco nel cortile per investigare, ma per allora la porta era aperta e una decina di uomini armati erano nell'atrio. Ciò che seguì non fu un combattimento realistico: un soldato arrivò fino a metà dello scalone principale prima che una freccia tra le spalle lo portasse di nuovo giù: boing-boing-boing sulla sua faccia, ma a parte questo fu tutto molto controllato ed efficiente. Trovarono Venart nascosto sotto il letto ("Te lo dicevo che era il primo posto in cui avrebbero guardato," commentò Vetriz mentre lo tiravano fuori; lei non aveva trovato di molto meglio, rannicchiata dietro le tende) e gli dissero che lui era adesso il nuovo comandante dell'esercito di resistenza dell'Isola, che era pronto per riprendere la città e spingere in mare il nemico. «Chi diavolo siete?» domandò Venart, tentando invano di tirar via il suo colletto dalla presa dell'uomo che lo aveva così salutato. «E che diavolo pensate di fare?» L'uomo ghignò. «Siamo tuoi alleati» rispose. «Gorgas Loredan ci ha mandati a salvarti. Sbrigati, la gloriosa rivoluzione non può ciondolare ad aspettarti mentre tu ti infili i calzini.» «Gorgas Loredan?» riuscì a dire Venart, prima che lo spingessero di fretta fuori dalla casa. Nel frattempo, un altro dei liberatori aveva acciuffato Eseutz Mesatges che cercava di calarsi giù per un pluviale, e portò fuori anche lei. «Chiedilo a lei» continuò il caposquadra «lei è stata l'unica della sua gente a cui lui ha parlato quando c'è stato l'incontro.» «Eseutz?» Venart appariva confuso. «Che incontro?» Eseutz stava lottando per vestirsi (aveva agguantato la prima cosa che le era capitata a portata di mano quando aveva udito la porta che si fracassava); sfortunatamente era la tenuta da principessa-guerriera, che necessitava di una forte cameriera per essere indossata). «Non so di cosa stia parlando» disse. «Stai mentendo» rispose Venart. «Per amor di dio, piantala di fare la
stupida e dimmelo, che sta succedendo?» «D'accordo» ammise con rabbia Eseutz, sforzandosi di raggiungere una bretella fuori posto che stava penzolando fuori portata dietro la sua schiena. «Sì, ho incontrato quel maledetto di Gorgas Loredan; andava in giro dicendo che dovevamo insistere con l'ufficio provinciale per avere più denaro per le navi.» «È stata un'idea sua?» «Penso di sì» disse Eseutz. «Comunque, la stava suggerendo a chiunque lo ascoltasse fra gli Armatori. Soltanto gli dèi sanno perché.» Venart scosse la testa. No, non riusciva a trovare un senso in tutto ciò, ma aveva la spiacevole sensazione che un senso c'era da qualche parte, solo che lui non era abbastanza subdolo per afferrarlo. «Così è stata colpa sua» disse «tutto questo... l'occupazione e tutto quanto. Perché stava fomentando disordini.» «Prendetevi un po' di merito» interruppe il caposquadra. «Per lo più è stata colpa vostra, perché siete ingordi e molto, molto stupidi. Ma sì, Gorgas piantò l'idea nelle vostre patetiche piccole testoline; e adesso che l'armata è stata spazzata via, vi aiuterà di nuovo a uscirne.» Eseutz afferrò il suo braccio. «Che vuol dire che l'armata è stata spazzata via?» «Non l'avete saputo?» Il caposquadra rise. «Dovete ringraziare re Temrai per la vostra libertà» disse. «Sono sbalordito che non lo sappiate. Ci sono state sommosse qui nelle strade praticamente senza interruzioni negli ultimi due giorni, e il viceprefetto non può fare niente, non con metà della sua guarnigione piena di ferite da battaglia e l'altra metà permanentemente di guardia per evitare che le navi veleggino via.» Diede una gomitata a Venart nelle costole e ghignò. «Farai meglio a sbrigarti, illustre comandante, o farete tardi alla vostra rivoluzione.» «Che vuol dire» ripeté Eseutz «spazzata via? È impossibile.» «Spazzata via. Quarantamila morti, Sorpresi nella pianura e tagliati a strisce. Devo dire che non sapevo proprio che fossero così forti. Cioè, prendere Perimadeia, sì; ma la mia vecchia nonna e la sua gatta potevano farcela. Buttar giù un'armata imperiale, invece... questo richiede del lavoro.» Guardò in alto; i suoi uomini avevano scovato Athli e avevano portato fuori anche lei. «E con questa fanno quattro» disse «bene, basterà. Ci dirigeremo verso il magazzino di Faussa; ci sono diecimila quarti in alabarde e partigiane lì dentro che il vecchio Faussa non si sa come si è dimenticato di menzionare al viceprefetto mentre facevano le confische. Una volta che
avremo portato quella roba nelle strade, la rivoluzione comincerà davvero.» A Venart Auzeil sembrava tutto terribilmente familiare: si trovava a Perimadeia la notte della Caduta, e vedere uomini armati correre per le strade era per lui una scena molto evocativa. Ma si disse che quelli appartenevano al suo esercito, ed era vero, bastava guardarli attentamente per vedere che non avevano mai maneggiato un'arma in vita loro. Ma un'ascia o una spada non sono come l'arpa o il tornio del gioielliere, non è necessario saperli usare benissimo per riuscire a combinare qualcosa, e quando il nemico non è lì in piedi ad affrontarti, anche qualcosa è sufficiente. A parte qualche sporadica ronda a piedi e le sentinelle appostate all'esterno di alcuni palazzi, non si vedevano soldati in giro. A quanto diceva il capo del drappello erano tutti barricati nel palazzo della gilda dei Mercanti di Ventura o ammassati sulle navi giù al Drutz. A Venart la cosa non piacque. «Non possiamo lasciarli lì» disse. «Come possiamo farli uscire?» Il capo del drappello sorrise e prese una torcia da un candeliere sul muro esterno di una taverna. «È facile. Guardi e impari.» La folla che circondava la sede dei Mercanti di Ventura era folta e rumorosa, ma si teneva a rispettosa distanza dopo che gli arcieri imperiali avevano dato dimostrazione della gittata delle balestre in dotazione... («Buon per noi» fece notare il capo del drappello. «Hanno inviato tutti gli arcieri con l'esercito e non sono tornati; qui hanno solo delle balestre, e possono scoccare solo un colpo ogni tre minuti.») Ma ciò che colpì maggiormente Venart fu vedere quanti erano. Non avrebbe immaginato che i suoi concittadini sarebbero stati così pronti a rischiare la vita per la libertà. D'altro canto non avevano molto da perdere. «Sì, sono proprio lì dentro» riferì qualcuno al capo del drappello: un altro degli uomini di Gorgas, probabilmente, poiché Venart non l'aveva mai visto prima, e aveva un aspetto troppo feroce per essere dell'Isola. «Avete trovato dell'olio?» Il capo del drappello scosse la testa. «Non ne abbiamo bisogno» rispose. «Va bene, formate un cordone: voglio le alabarde e le asce nelle prime due file, e i martelli dietro. Teneteli bene a distanza, perché qui fra poco scotterà.» Aveva ragione: olio, pece o zolfo erano superflui: non appena le prime torce atterrarono sul tetto di paglia la sede dei Mercanti di Ventura si in-
cendiò come un falò, illuminando a giorno la zona circostante, fino alle case dall'altra parte della piazza. La gente dell'Isola rimase scossa nel vederla bruciare: da cento anni i bravi cittadini si assicuravano che il tetto di paglia non prendesse fuoco, e non gli sarebbe mai venuto in mente di incendiarla di proposito. Per quello che sembrò un tempo incredibilmente lungo non successe nulla, e Venart si ritrovò a chiedersi se gli imperiali fossero lì dentro rigidi sull'attenti mentre morivano bruciati al proprio posto... da quello che aveva già visto riguardo a loro, non l'avrebbe escluso. Poi la porta davanti e quelle laterali sembrarono esplodere verso l'esterno e i soldati si riversarono sotto la luce, con le armature e gli elmi che brillavano abbaglianti: era come guardare del metallo fuso scorrere bianco e incandescente dal crogiolo allo stampo, e Venart non vide come potevano essere fermati, non dai suoi concittadini con qualche picca o lungo bastone. Non voleva stare a guardare, già gli veniva la pelle d'oca pensando ai tagli profondi nella carne, ma successe tutto troppo rapidamente e non riuscì a distogliere lo sguardo in tempo. Inizialmente quegli uomini si rovesciarono sulla prima fila di difesa come un maglio ardente, abbattendola, ma la massa di corpi dietro di loro assorbì la loro spinta, così come l'imbottitura all'interno dell'armatura attutisce il colpo: la carica rallentò e si fermò, raffreddandosi e concretizzandosi in singoli individui, e a quel punto Venart capì che il risultato era inevitabile. Ammassati insieme senza spazio per potere usare le armi, i soldati vennero schiacciati come un uovo in un pugno... il fragile guscio, l'armatura, che si spezza per la morbida pressione che lo circonda, che non supera la prova a questo livello. Vennero abbattuti, e gli strapparono di dosso gli elmi: vennero picchiati con martelli, asce e vanghe, zapponi e mazze, finché le lucenti forme di acciaio furono ridotte a un mucchio di rottami sparsi sul terreno, sotto i piedi della folla. Quando fu tutto finito, ci fu un lungo silenzio. È così, allora pensò Venart: e mentre la folla si allontanava dal cerchio di luce e si disperdeva giù per la collina verso il Drutz lui si chiese come aveva potuto quella strana creatura, quell'incudine morbida e flessibile, venire sottomessa così facilmente la prima volta, quando i soldati erano apparsi nelle strade e l'avviso di annessione era stato affisso alla porta. Era ancora là, o almeno c'erano ancora delle striscioline che bruciavano riducendosi in cenere, ma tutto il resto sembrava diverso, e Venart non riusciva a identificare cosa avesse cambiato tutto. Poi vide il capo del drappello, l'emissario accuratamente scelto di Gorgas, fare segnali ai suoi uomini ai
bordi della folla, dirigendo quella massa di gente senza sforzo: il tocco dei Loredan rifletté ovviamente: è questo che cambia tutto. Il Tenente Menas Onasin, a capo dell'esercito perché tutti gli altri erano morti, gettò un'occhiata dietro le spalle verso il mare. Eccoci dunque pensò. Possiamo morire in piedi o affogare. Abbiamo davvero l'imbarazzo della scelta. Gli assalitori gettavano pietre: grandi pietre frastagliate, pezzi di lastricato, braccia e teste staccate dalle statue che fiancheggiavano la Passeggiata del Drutz. L'uomo accanto a lui era stato ucciso da una testa di marmo: era un modo bizzarro di morire, con sgradite connotazioni umoristiche. Non avendo arcieri per rispondere al fuoco, non aveva altra scelta che restare lì a subire: aveva già cercato per cinque volte di andare alla carica, ma ogni volta era partito con una compagnia ed era tornato con un plotone. Era come lottare contro il mare, o una tempesta di sabbia. Il suo più grande errore era stato lasciare la protezione delle navi. In quel momento era sembrata una cosa sensata da fare: le navi, come gli edifici dal tetto di paglia, sono infiammabili, e non gli piaceva l'idea di combattere su due fronti (la folla a terra e un equipaggio in ammutinamento a bordo) mentre era intrappolato tra il fuoco sulla testa e l'acqua sotto i piedi. Affrontali sul terreno asciutto, si era detto, dove almeno possiamo stare dritti in piedi e usare le armi. Qualcuno aveva montato uno dei trabocchi leggeri che avevano installato sul castello di prua delle navi e stava facendo dei lanci di regolazione: la prima pietra cadde troppo corta e quasi fece fuori la prima fila della folla, la seconda, terza e quarta erano cadute in acqua. Se l'uomo che operava la macchina aveva metodo, il quinto colpo sarebbe atterrato esattamente al centro dell'esercito, e il Tenente Onasin non poteva farci niente. Era proprio come ai vecchi tempi, starsene lì a farsi tirare pietre da gente che imparava in fretta: Onasin era di Perimadeia, un profugo della Caduta, e aveva appreso tutto ciò che sapeva su come tremare stando fermo durante il bombardamento della Città a opera di Temrai. Per il colpo numero cinque usarono il torso di una statua, tutto ciò che era rimasto del capolavoro di Renvaut Razo Il trionfo dello spirito umano che si trovava nel cortile della Borsa del Rame sin da quando Onasin era stato lì per la prima volta quando aveva nove anni, e il viaggio era stato un regalo speciale di suo padre. Ricordava benissimo la statua: era gigantesca e drammatica, e la testa era troppo piccola per quel corpo colossale dal
petto enorme: ma quando l'aveva fatto notare gli avevano detto di stare zitto, e lui non l'aveva più detto a nessuno da allora. Ora c'erano pezzi del Trionfo dello spirito umano tutt'intorno a lui... non solo il torso, che aveva spiaccicato come scarafaggi sette uomini con le loro armature, ma anche le braccia e le mani e frammenti di panneggio, per non parlare della testa troppo piccola (che aveva schiacciato un uomo e strappato la gamba a un altro). Ricordò di aver sentito due donne dall'aspetto serio che erano state secoli a fissare la statua: secondo loro ciò che la rendeva speciale era la fluidità e la potenza del movimento. Aveva aspettato vent'anni per scoprire cosa intendessero dire. E avevano ragione: scagliato da un trabocco, il dono di Razo alla posterità fluiva come letame da una pala e aveva una potenza schiacciante. Stavano montando altri trabocchi. Era un peccato che i soldati dell'Impero fossero universalmente noti per non arrendersi mai in nessuna circostanza, perché qualche altro colpo diretto avrebbe terrorizzato gli uomini, e ciò avrebbe spezzato la formazione, e Onasin sapeva che quando ciò fosse successo la marea davanti a lui sarebbe venuta a spazzarlo via dal molo e a gettarlo nel mare alle sue spalle, e lui aveva troppa armatura addosso per nuotare. Arrendersi sarebbe stata un'ottima alternativa in quel momento: ma aveva già tentato due volte e non gli avevano creduto. Anche un altro assalto avrebbe spezzato la formazione: ma il Tenente Onasin rifletté che preferiva l'idea di morire combattendo piuttosto che annegare o venire schiacciato, quindi urlò gli ordini del caso e le prime tre file si misero in posizione. Un gradino strappato alle scale che conducevano all'ufficio della dogana centrò la fila anteriore, portando via qualche testa. Onasin alzò il braccio e fece un passo avanti, in piena traiettoria di un mattone. Rimbalzò sulla sua gorgiera, piegando il metallo così che non poteva più girare la testa. Dannazione, pensò, e abbassò il braccio per indicare l'avanzata. Dopo di che non ci fu più motivo per lui di ritenere di essere ancora in controllo di alcunché. L'impeto delle truppe alle sue spalle lo spinse in avanti come un pezzo di legno alla deriva sulle onde, e non poté far altro che continuare a muovere le gambe per non cadere e venire calpestato. Mentre veniva sospinto in avanti vide la picca dell'alabarda dritta davanti a lui, ma ovviamente non poteva rallentare, e nemmeno farsi da parte. L'uomo dietro di lui lo infilzò sulla punta come un cuoco infila lo spiedo nella carne: si sentì spingere avanti quando la punta finalmente penetrò nella parte inferiore della sua mezza corazza, poi improvvisamente si bloccò
quando la barra incrociata alla fine della punta toccò l'armatura. La pressione sul suo schiniere non diminuiva, quindi il suo corpo era schiacciato tra l'uomo dietro di lui e la barra, e come risultato principale la punta penetrò ancora più profondamente nel suo addome compresso. Rimasi lì, bloccato, perché la spinta della folla bilanciava facilmente quella dell'assalto. Scoprì di stare guardando direttamente in faccia l'uomo che reggeva l'alabarda: aveva un'espressione terrorizzata insieme a quello che può essere definito solo profondo imbarazzo (abbastanza comprensibile: dopotutto, cosa si può dire a un perfetto sconosciuto che si è appena impalato sulla picca a cui ti stai casualmente reggendo?) e se Onasin avesse avuto il controllo dei propri muscoli facciali, sarebbe stato tentato di sorridere, o persino di fargli l'occhiolino. Furono i trabocchi a salvarlo. Ce n'erano dieci in funzione e lanciarono all'unisono, schiacciando improvvisamente gli uomini nelle file immediatamente alle sue spalle. Tolto il loro peso, si ritrovò spinto all'indietro, inciampò e cadde sulla schiena, strappando l'alabarda dalle mani dell'uomo. Quindi toccò all'uomo venire sospinto in avanti: Onasin sentì la suola del suo stivale sulla mascella, e poi un dolore tremendo quando qualcuno gli salì su una spalla. Poi perse il conto e si addormentò. Quando si risvegliò scoprì di fissare dritto negli occhi un altro uomo, decisamente morto, però. In effetti c'erano cadaveri ovunque: era una fossa comune. Aprì la bocca per urlare ma gli uscì solo uno stridio, quindi cercò invece di agitare le braccia e le gambe. Funzionavano solo poco di più di gola e polmoni, ma a quanto pareva era bastato, perché sentì qualcuno gridare: «Fermi, ce n'è un altro vivo.» Non era certo del come l'avessero tirato fuori: la fossa era abbastanza profonda e ripida, quindi probabilmente qualcuno aveva dovuto saltarci dentro, sopra tutti i morti. Gli sembrò una cosa non particolarmente piacevole da dover fare... be', a lui non sarebbe piaciuto... così cercò di ringraziarli mentre dondolava in aria a faccia in giù, ma se qualcuno lo sentì non rispose. «Guarda che roba» disse qualcuno che non riusciva a vedere mentre lo giravano sulla schiena. «Non ce la farà mai con un buco così grosso.» «Saresti sorpreso» rispose qualcun altro. «Conoscevo un tizio una volta che era stato sbudellato da un toro gigantesco... quando tirarono via il corno si riusciva letteralmente a vedere dall'altra parte del buco, poveraccio. Ce l'ha fatta, però.» «D'accordo» disse la prima voce «mettetelo lì con gli altri. Se c'è un me-
dico che non ha nient'altro di meglio da fare...» «Sarai fortunato.» Alla fine il medico venne: un uomo dalla faccia triste che gli pulì e fasciò la ferita. Se la sua tristezza fosse dovuta agli orrori che aveva visto o da quanto erano remote le possibilità di venire pagato per il proprio lavoro, non era dato sapere. A quel punto la battaglia era ovviamente finita, il nemico era stato ucciso o catturato, gli incendi estinti: e la gente dell'Isola si aggirava stancamente per le strade, togliendo i rottami, riparando i danni, inciampando sui corpi che erano sfuggiti alle squadre addette ai cadaveri. Dopo aver riempito due fosse comuni, smisero di badare a certe delicatezze, caricarono i morti su due enormi navi da carico e li gettarono in mare. Anche Onasin finì su una simile nave da carico, che era stata trasformata in nave galera. Avrebbe potuto essere peggio: avrebbe potuto essere molto peggio se fosse stato un campo di prigionia imperiale. Da quello che riuscì a sentire delle conversazioni tra le guardie, spiegavano la loro umanità con il fatto che gli uomini in loro custodia erano potenziali ostaggi, ma ormai Onasin li conosceva bene. Dopotutto, questa era la loro prima guerra: ancora non avevano imparato. «È una tragedia» sospirò il prefetto di Ap' Escatoy. «È un tragico spreco, così inutile...» L'amministratore capo annuì tristemente. «È una cosa da spezzare il cuore» disse pulendosi con un panno bagnato le dita sporche di miele. «Inoltre, come dicevi, non gli è servito a niente. Anzi, se mai ha peggiorato le cose.» «Senza dubbio» annuì il prefetto. «Ma temo che si siano giocati la mia comprensione, visto ciò che hanno fatto. Lo so, la voglia di vendicarsi è una brutta emozione, ma in questo caso mi concederò questo lusso. Pagheranno per ciò che hanno fatto.» «Figurativamente parlando, ovviamente.» Il prefetto sorrise in modo sinistro. «Sfortunatamente» disse. «Vorrei che non fosse così, purtroppo la situazione è diversa.» Scosse la testa e continuò: «No, bisogna affrontare i fatti e accettarli: quella maledetta battaglia mi è costata la mia sovvenzione per la ristrutturazione, e con essa l'occasione migliore di ricostruire Perimadeia. È andato tutto in fumo, e senza che nessuno ne abbia tratto qualche vantaggio. Riflettendoci non è tragico: la tragedia possiede una certa nobiltà intrinseca che invece manca a quel disastro. È uno spreco puro e semplice.» Prese un angolo della tovaglia e lo sfregò tra le mani come a cancellare le spiacevolezze della vita.
«Ma ormai è una cosa fatta e adesso tocca noi sfruttare al meglio le circostanze che ci si presentano. Pratici, precisi e decisi» aggiunse con un sorrisetto... ovviamente doveva trattarsi di una citazione o un riferimento a qualcosa (il prefetto era un accanito utilizzatore di citazioni, sempre appropriate ma spesso astruse, al punto che era non era prudente prendere per scontato che tutto ciò che diceva erano parole sue), ma l'amministratore non riuscì a identificarla, quindi annuì e fece anche lui un vago sorrisetto di finta elegante allegria. «Dovremmo cominciare» continuò il prefetto «con la guerra. La cosa più importante è assicurarci che non si verifichino altre sconfitte. Inviate una lettera al capitano Loredan e ordinategli di rimanere dov'è e di non fare niente, ma solo di accertarsi che Temrai non gli sfugga. Voglio che il colpo di grazia venga dal nuovo esercito, quello inviato dall'ufficio provinciale. Sconfiggerli e basta non sarà sufficiente: devono essere completamente soverchiati e schiacciati se vogliamo porre questo disastro nella giusta prospettiva.» «Sono d'accordo» disse l'amministratore. «Allora, cosa mi dice dell'Isola? Sarà una cosa strana, no? Dobbiamo pure prendere delle navi da qualche parte.» Il prefetto scrollò le spalle. «Avremo comunque bisogno di navi per la guerra. Naturalmente, questa faccenda dell'Isola potrebbe rivelarsi potenzialmente più dannosa per noi di Temrai e della perdita di un intero esercito.» Voltò la testa e rimase immobile per qualche istante a guardare un gheppio su un albero di limoni nel cortile sottostante: teneva in uno degli artigli un uccellino ancora vivo, e stava cercando goffamente di ucciderlo senza lasciare la presa sul ramo dell'altra zampa. «In un certo senso» continuò «un grosso colpo come quello che ci ha inflitto Temrai non deve essere necessariamente del tutto negativo. Una volta ogni tanto può persino essere... be', quasi desiderabile. Il punto è che non c'è prestigio nello sconfiggere un avversario debole e insignificante. Una grave sconfitta invece, sempre che sia seguita poco dopo dalla vittoria totale, serve a dare al nemico una certa statura. Inoltre, ovviamente, serve a mantenere alto il livello dell'esercito: niente funziona meglio di uno schiaffo in faccia ogni tanto per impedire che ci si adagi sugli allori. D'altra parte in questa faccenda dell'Isola, come ho già detto, non c'è molto da guadagnarci. Una sconfitta per la lunga strada verso l'inevitabile trionfo è radicalmente diversa dall'essere scacciati da un posto che si pensava già sottomesso e aggiunto alla collezione, per così dire. Il peggio è che lo sanno tutti che gli isolani non sono avversari di valore o temibili guerrieri, né tantomeno nobili selvaggi
di cui possiamo ammirare le virtù primitive, eccetera, eccetera: sono omuncoli grassi e presuntuosi che si guadagnano la vita comprando a poco e rivendendo a molto.» Il prefetto si stava arrabbiando: non ne mostrava segno sul viso o nella voce, ma aveva cominciato a tormentare l'anello che portava al mignolo, rigirandolo come se stesse stringendo una vite. Quando faceva così, la gente sveglia che lo conosceva cominciava a trovare scuse per andarsene per un po'. «Tuttavia» continuò «innervosirsi per la situazione non è di alcun aiuto, e potrebbe farci commettere altri sbagli. Per questo motivo ritengo che dovremmo lasciarli stare per un po', come minimo finché non è finita la guerra.» L'amministratore annuì. «Sono d'accordo» disse. «In effetti ho riflettuto sulla questione, e suggerirei di dar loro tempo per pensare a ciò che hanno fatto e in seguito inviare una lettera offrendo loro la possibilità di comprare le proprie vite. Naturalmente» aggiunse quando vide il prefetto sollevare un sopracciglio «dovranno prima inviarci le teste dei loro capi come gesto di buonafede... ritengo sempre che far giustiziare i capi ai ribelli stessi sia molto meglio che farlo da sé: non si può far diventare un martire qualcuno che hai ucciso con le tue mani.» «È un concetto interessante» convenne il prefetto. «Poi» continuò l'amministratore «stabiliamo i termini: accettiamo la loro vile resa a condizione che mettano a nostra disposizione la loro flotta, con gli equipaggi al completo... dopotutto, è quello il nostro scopo, e su questo si baseranno i nostri superiori dell'ufficio provinciale, alla fin fine. Abbiamo bisogno della gente dell'Isola come marinai: se li massacriamo tutti fino all'ultimo, avremo le navi ma non gli equipaggi. Se facciamo a modo mio, avremo degli equipaggi perfettamente consci del fatto che le loro famiglie e i loro concittadini sono ostaggi a garanzia di un buon comportamento e di un lavoro soddisfacente...» «E in questo modo» lo interruppe il prefetto accarezzandosi il mento «volgendo questa orribile faccenda a nostro favore e riuscendo in fin dei conti a trarne qualcosa di buono. Grazie, credo che lei sia riuscito a restituirmi la fiducia nel valore che può avere la chiarezza di visione.» «Prego» rispose l'amministratore. «Uno dei piaceri della vita, per quanto mi riguarda, è trasformare un disastro in un'occasione.» Sorrise. «Fortunatamente, è un piacere che mi capita raramente di poter assaporare.» Il prefetto chinò la testa all'indietro e si mise a fissare il soffitto. «"Oh, Signore, manda in rovina i miei nemici, ma se Tu devi mandare in rovina i miei amici, concedimi di essere la loro salvezza." Sa, più invecchio, più
apprezzo Deltin: ma è sprecato per i giovani, e si deve pur avere qualcosa di interessante nel proprio futuro.» L'amministratore annuì. «Allora» disse «è tutto stabilito. Questa si sta rivelando una mattinata molto proficua. Se riuscissimo anche a escogitare un modo per ricostruire Perimadeia nonostante tutto, ci saremo guadagnati il pranzo.» Il prefetto aprì gli occhi e lo guardò. «Non me lo dica: ha un'idea.» «Solo un abbozzo» rispose l'amministratore «che prende lentamente forma nella mia immaginazione. E no, non intendo condividerla con lei, non ancora. Dopotutto non sarebbe una buona mossa rivelarla prima di essere sicuro che valga qualcosa, altrimenti metterei in pericolo la mia reputazione di saper pensare in modo ingegnoso e originale.» «Mi sembra giusto» convenne il prefetto con un sorriso forzato. «Ma un'idea ce l'ha. O almeno l'idea di un'idea.» L'amministratore fece un piccolo gesto con le mani. «Sempre» disse. «Ma cerco di comportarmi come un medico prudente: mi assicuro di seppellire i miei errori prima che qualcuno li veda.» Il messaggero partì quello stesso pomeriggio, con l'ordine di raggiungere il Capitano Loredan il più presto possibile. Era essenziale, gli venne detto, che arrivasse dal capitano prima che avesse l'opportunità di reagire alla notizia del disastro. Era una questione della massima importanza per il benessere di tutto l'Impero. Quello che l'ufficiale intendeva dire con quell'espressione era: datti una mossa, non attardarti e non fermarti a passare la giornata con qualche vecchio amico incontrato per caso, niente gite né acquisti, niente deviazioni per consegnare lettere private o campioni di merce. Ma l'ufficiale era un uomo eloquente che usava frasi a effetto, e il messaggero era giovane e piuttosto coscienzioso. Il risultato fu che partì al galoppo in una nuvola di polvere con una mappa infilata nello stivale e il cibo per tre giorni nello zaino che gli ballonzolava sulla schiena. Sembra che esista una legge di natura per cui più uno si affretta, più le circostanze si ingegnano per rallentarlo in maniera originale. Fu molto veloce fino al guado del fiume Aquila, ma era in piena: era la prima volta in trent'anni che c'era stata un'inondazione nella stagione secca, cosa che lo costrinse a tornare sui suoi passi e a dirigersi a monte del corso d'acqua verso il ponte di Blackwood. Ma il ponte non c'era: qualche idiota aveva rubato una a una le pietre dalla base del pilastro più vicino, e un bel matti-
no il ponte era crollato tranquillamente nel fiume, ostruendolo da abbastanza tempo da aver raccolto acqua sufficiente a saturare le dune sulla riva vicina quando alla fine l'ostacolo era stato portato via dalla piena. Di conseguenza anche il guado di Blackwood era impraticabile, cosa che il messaggero scoprì nel modo peggiore quando il suo cavallo affondò fino al collo nel pantano. Passò quasi tutta una mattinata a cercare di tirare fuori di lì la povera bestia prima di abbandonarla e di avviarsi a piedi verso il più vicino degli avamposti a sud. A questo punto era ormai fuori di sé per la rabbia e la frustrazione, quindi provò un enorme sollievo quando si imbatté in una piccola carovana formata da mercanti di Colleon, Belhout e Tornoy che prendevano una scorciatoia verso Ap' Escatoy. Gli ci vollero altre due ore di frustrazione quasi letale per persuaderli ad accettare una lettera dell'ufficio provinciale come pagamento per un cavallo, anche se sapeva che lo stava pagando il doppio di quanto valeva... la sorte volle che l'unico cavallo decente in vendita appartenesse a un Belhout che, membro di una nazione che rifiutava assolutamente per principio morale di leggere o scrivere, aveva estrema difficoltà ad avere a che fare con il concetto di carta moneta. Alla fine fu costretto ad usare la sua lettera di credito per acquistare da un gioielliere di Colleon, a un prezzo maggiorato del quindici per cento, dell'oro con cui pagare il Belhout: ma il gioielliere gli vendeva l'oro solo ad once intere, il che lo costrinse a comprarne tre quarti di più di quello che gli serviva... quando si ritrovò di nuovo in cammino, era ormai di una giornata e mezza nottata in ritardo sui tempi previsti, e ancora dal lato sbagliato del fiume Aquila. Aveva sempre la mappa, però: così si sedette sotto un biancospino piegato dal vento, con un pezzo di spago per misurare le distanze, e cercò un percorso alternativo. Ne trovò uno quasi subito: poteva continuare a seguire la sponda occidentale dell'Aquila fino a che non diventava la sponda settentrionale, e così evitare del tutto di attraversarlo. Era anche un percorso molto più diretto, che gli avrebbe permesso di recuperare quasi tutto il tempo perduto se riusciva a procedere a passo sostenuto. Il problema era che l'avrebbe portato a meno di un'ora di cavallo dal campo fortificato di Temrai. Esaminò tutti i rischi. Se fosse arrivato tardi, secondo quello che gli aveva detto l'ufficiale, avrebbe potuto anche fare a meno di arrivare. Era un uomo da solo che galoppava veloce: se si liberava della propria cotta, dell'elmo e avvolgeva il mantello intorno alla testa, pensò, su un cavallo con
una sella e finimenti Belhout, avrebbe potuto passare per un Belhout. Il peggio che gli poteva capitare era di venire catturato, e il messaggio non sarebbe mai arrivato... lo stesso che se fosse arrivato tardi. D'altro canto, se non seguiva quel percorso, sarebbe sicuramente arrivato tardi, mentre se rischiava c'era una ragionevole possibilità che arrivasse, e in tempo. Da quel punto di vista, praticamente non aveva scelta. Era un messaggero, non un diplomatico, né uno storico o uno studioso interessato a dettagli astrusi su tribù lontane, quindi non ci si poteva aspettare che sapesse che un piccolo gruppo tra le tribù delle pianure covava un vecchio rancore contro i Belhout, riguardo a un quasi dimenticato contenzioso su un pozzo. La squadra di ricognizione che lo abbatté dopo un lungo ed eccitante inseguimento che durò più di un'ora, si portò via la sua testa e l'appese a un palo del terrapieno su cui stavano lavorando alla fortezza, finché non la vide Temrai e gliela fece togliere. Fu solo più tardi che venne fuori la lettera, quando si divisero i beni del morto, e l'uomo che ebbe la lettera la portò a casa dalla moglie perché l'usasse per rattoppare un buco dei pantaloni da pioggia. Neppure lei sapeva leggere, ma sapeva che il sigillo con il leone a tre teste voleva dire ufficio provinciale, e tormentò il marito finché lui portò la lettera al suo caposquadra, che la portò al suo caposezione che la portò subito a Temrai. Quando Temrai la lesse prima si arrabbiò, poi si calmò. «Stupendo» disse quando gli chiesero cosa era successo. «Ordinano a Loredan di lasciarci stare, e noi intercettiamo la lettera. Altre azioni come questa e siamo spacciati.» Spiegò cosa era accaduto e lesse la parte interessante della lettera. Nessuno parlò per molto tempo. «E se la facessimo recapitare?» suggerì qualcuno. «Richiudiamo il sigillo con un coltello arroventato... magari nessuno si accorge che è stata già aperta.» Temrai rise. «All'ufficio provinciale non sono così stupidi» disse. «I corrieri imperiali devono conoscere cinque livelli di codici di sicurezza, uno diverso per ogni livello di messaggio. Se non sono in grado di fornire il giusto codice quando consegnano la lettera, vengono strangolati sul posto e la lettera viene considerata falsa. I sigilli imperiali vengono dipinti di lacca quando la cera si è raffreddata: se si tenta di manipolare il sigillo con un coltello arroventato la lacca brucia e rovina il sigillo. Ho sentito persino dire che per i messaggi importanti usano un tipo speciale di inchiostro che cambia colore quando è esposto alla luce, quindi anche se si riesce ad ave-
re una copia del sigillo sanno subito se la lettera è stata già aperta. No, abbiamo già fatto abbastanza danni per una giornata sola, non peggioriamo le cose dando loro motivo di pensare che stiamo macchinando qualcosa.» Arrotolò la lettera, la rimise a posto nel suo tubo di ottone e la lasciò cadere a terra. «Se fossi superstizioso probabilmente a questo punto rinuncerei. Che ne pensate, gente?» «Potremmo rinunciare a combattere» disse Sildocai, l'eroe della vittoria. «Se la costruzione di questa fortezza fa loro credere che rimarremo qui, sarà servita al suo scopo. Nel frattempo facciamo fagotto e ce la filiamo in piena notte, ci dirigiamo verso nord e cerchiamo di attraversare le montagne prima che ci raggiungano. Se lo facessero dopo sarebbero dei pazzi. Non dire subito di no, Temrai. Lo so, le terre dall'altra parte delle montagne sono terribili, fredde, umide e desolate... è per questo che nessuno ci abita, non vale la pena di invaderle. Ma se ci andiamo, avremo ancora una sorta di vita. Se rimaniamo qui, probabilmente moriremo. Come decisione non mi pare difficile.» «È quello che avevamo intenzione di fare» fece notare qualcun altro «quando abbiamo lasciato la pianura della Città. Allora eravamo tutti d'accordo. Nel frattempo non è cambiato nulla.» Temrai scosse la testa. «Non è vero» disse. «La differenza è che adesso Loredan e il suo esercito sono appena dall'altra parte del fiume Cigno: se cerchiamo di scappare, ci prenderà. Saremo allo scoperto: non potremo usare i trabocchi.» «Ma noi siamo più numerosi di loro» fece notare Sildocai. «Inoltre abbiamo appena dimostrato che i nostri cavalieri possono far fare una vera figuraccia alla loro fanteria pesante. Tutto questo nell'ipotesi che ci prendano, cosa che non è affatto sicura.» «Ci prenderanno, Sildocai» disse Temrai. «Contaci.» «Quello che dici non ha senso» obiettò qualcun altro. «Abbiamo appena ottenuto una grande vittoria, giusto? E... senza mancare di rispetto a Sildocai qui presente... siamo tutti d'accordo che abbia addirittura dannatamente peggiorato la nostra posizione. Supponiamo di rimanere fermi qui e di riuscire in qualche modo a respingere l'attacco di Loredan: magnifico, manderanno un altro esercito... come questo maledetto enorme esercito che Loredan starebbe aspettando. È inutile: per ognuno dei loro che uccidiamo, ne metteranno tre al suo posto. State suggerendo di uccidere ogni maschio adulto dell'Impero? Anche se potessimo, ce ne sono così tanti che i nostri figli sarebbero vecchi prima di aver finito. Non possiamo vincere: e se non
si può vincere, o ci si arrende o si cerca di fuggire. Proviamo almeno a fuggire, Temrai, finché possiamo. Non abbiamo nulla da perdere.» Temrai scosse la testa senza fermarsi a riflettere. «No. Restiamo qui. Se scappiamo attraverso le montagne ci seguirà. Sarà sempre lì. Lo affronteremo qui, e vinceremo: poi decideremo cosa fare dopo.» Aggrottò la fronte come se stesse cercando di sentire qualcosa. «Sanno che se ci affronta qui, potrebbe perdere... ecco perché hanno cercato di fermarlo. Così faremo ciò che non vogliono che facciamo, questa è la prima regola della guerra.» Sildocai lo guardò sorpreso. «Hai cambiato idea, vero? Un istante fa il fatto che la lettera non fosse arrivata era un disastro.» Temrai sorrise. «Ho avuto qualche istante per pensarci su» disse. «In effetti è un'occasione: sembrava un disastro finché non ho avuto l'opportunità di guardare sotto la superficie. No, nella lettera dicono specificatamente: non attaccate il nemico, non possiamo rischiare altre sconfitte. L'hai detto tu stesso un istante fa, noi siamo più numerosi di loro. Loredan andrà all'assalto di una postazione fortificata con un esercito meno numeroso. Possiamo vincere.» «Siamo sicuri che attaccherà?» chiese qualcuno. «Io non lo farei, e proprio per i motivi che hai appena esposto.» «Certo che attaccherà» rispose Temrai. «Altrimenti non gli avrebbero scritto per dirgli di non farlo. No, sta arrivando, e questo è un bene. Lo sconfiggeremo e poi partiremo.» «Sbagli...» cominciò a dire Sildocai. Temrai lo fermò con un cenno della mano. «Fidatevi di me» disse. «Dovete fare solo questo. So di poterlo sconfiggere: l'ho già fatto, e quando le probabilità erano a mio sfavore. Posso farlo di nuovo. Non chiedetemi come faccio a saperlo, lo so e basta.» Dopo di che, sembrò inutile continuare la discussione. CAPITOLO DICIASSETTE «È strano, questo è sicuro» disse l'ingegnere grattandosi la testa. «Si riesce a vedere dove hanno scavato un canale per portare il fiume sull'altro lato: praticamente hanno creato un'isola. Supponiamo di riuscire ad attraversare il fiume: c'è una palizzata, ma possiamo abbatterla con l'artiglieria, sempre che ci lascino passare visto che hanno più macchine d'assedio di noi e sono anche migliori. Però poi dobbiamo salire la scogliera, c'è un unico sentiero e non sarà semplice con tutte quelle trappole e quei cancelli.
Supponiamo lo stesso di riuscire ad arrivare in cima all'altopiano: lì ci sono altre due palizzate, per giunta fuori portata della nostra artiglieria, quindi un attacco preventivo sarebbe fuori questione e poi, se riusciamo ad arrivare in cima, ci troveremo a combattere una battaglia campale contro un esercito che conta almeno tre soldati per ogni due dei nostri, a seconda di quanti ne perderemmo per arrivare fino a lì. Se vuole la mia opinione... se lo scordi.» Bardas e l'ingegnere erano in cima alla collina battuta dal vento forte e vista da lassù la fortezza sembrava bellissima con i riflessi del sole sull'acqua. «Si può fare» disse Bardas. «Lui l'ha fatto, quindi si può fare.» L'ingegnere scosse la testa. «Mi spiace, non la seguo.» «Vede?» spiegò indicando la fortezza. «Quella è la copia più fedele che Temrai sia riuscito a fare della Città: ha praticamente ricostruito Perimadeia qui nelle pianure. A parte tutto il resto è una chiara ammissione di sconfitta.» «Non saprei» replicò dubbioso l'ingegnere, «non ho mai visto Perimadeia. Posso solo dirle che è un utilizzo praticamente perfetto delle risorse e della posizione. Inoltre» aggiunse «l'unico motivo per cui la Città è caduta non è stato perché un bastardo ha aperto le porte?» Bardas fece cenno di no. «Doveva cadere prima, ma io ho imbrogliato.» Si sedette su una roccia, e prese un filo d'erba per masticarlo. «Cominceremo con un bombardamento della zona in cui c'è il ponte girevole, poi faremo avanzare le torri d'assedio e... come le chiamate, quelle sezioni coperte fatte di pelli tese su dei cerchi metallici?» «So quali intende» disse l'ingegnere. «A ogni modo» continuò Bardas, «quelle lì. Qui c'è un punto cieco, vede? Se concentriamo i colpi dell'artiglieria per abbattere i trabocchi a protezione di quel punto e poi la facciamo avanzare per distruggere le difese lungo il sentiero...» «Molto semplicemente porterebbero altre macchine» obiettò l'ingegnere. «Ormai saranno diventati degli esperti, visto che sono dei nomadi: le smontano, le trasportano, e le rimontano.» «Allora dovrete fare in modo che non ne abbiano la possibilità» rispose Bardas. «Non dovrebbe essere un problema: dove vogliono andare non c'è abbastanza spazio per metterci un numero sufficiente di macchine. Temrai ha fatto l'errore di scegliere una pianta circolare. Può piazzare quante macchine vuole intorno agli altri duecentoquaranta gradi del cerchio, ma non
rappresenteranno un pericolo per noi perché gli angoli sono errati.» L'ingegnere ci rifletté sopra un istante. «Forse ha ragione» disse «se riusciamo a tenerci vicinissimi al fiume le macchine sull'altopiano avranno un gittata eccessiva. Sì, ora capisco.» Sorrise. «Mi sorprende che lui non ci abbia pensato.» «Io non sono affatto sorpreso» disse Bardas alzandosi. «Ha ricostruito Perimadeia, ma l'ha fatta troppo piccola, troppo angusta, e gli angoli non sono esatti. Si è dimenticato i bastioni che io avevo fatto erigere sul lato esterno delle vecchie mura proprio per permetterci di prenderli di mira e impedire di fare ciò che faremo noi. Vede» proseguì montando in sella «questo è il risultato per chi vive troppo nel passato: ci si crea delle difficoltà inutili.» L'ingegnere salì goffamente a cavallo e impiegò qualche istante per riprendere fiato. «Spero che abbia ragione» disse «ma allora cosa succederà se e quando riuscirà ad arrivare in cima? Loro sono comunque più di noi.» «E allora?» Bardas si sollevò sulle staffe per dare un'ultima occhiata alla fortezza, e poi continuò: «Vincevo battaglie contro eserciti ben più numerosi quando lei giocava ancora con i soldatini di argilla. Si preoccupa troppo. Per quando possono essere pronte le torri e...» «I mantelletti?» «I mantelletti, ecco come si chiamano. Quanto tempo ci vorrà?» L'ingegnere si sfregò la barba mentre rifletteva. «Tre giorni. E intendo dire tre giorni, quindi non mi venga a dire che devono essere pronti in due.» «Tre giorni andranno benissimo» rispose Bardas «basta che faccia un buon lavoro.» Si sedette di nuovo comodamente in sella, e distolse lo sguardo dalla fortezza, ma riusciva ancora a vederne la forma, il fossato, i tre livelli... sapeva che era solo un'illusione, ma gli sembrava di essere tornato a casa dopo una lunga e sfiancante campagna militare, e che quello fosse il primo sguardo emozionato alla Città. La cosa era molto strana, perché durante tutto il tempo che aveva passato lì, non l'aveva mai considerata la propria casa, ma soltanto un posto in cui vivere. «Avevo un amico» disse, anche se sapeva che l'ingegnere non era interessato, ma la cosa non gli dava fastidio, «che era un filosofo, uno scienziato o un mago... sono certo che neppure lui sapesse cos'era. Ma era solito ritenere che nella storia ci sono dei momenti cruciali, degli istanti in cui le cose possono procedere in una direzione o in un'altra, con risultati completamente diversi. Riconosci uno di questi momenti, diceva, e potrai averne
il controllo. Sarò sincero con lei, ho sempre pensato che fosse tutto un miscuglio di stupido misticismo e di ovvietà, e lo penso ancora. Ma immagino che ci sia un fondo di verità: cosa pensare quando sembra che la vita ti presenti più e più volte lo stesso momento cruciale? Se fosse ancora vivo mi piacerebbe sentire con che ragionamento proverebbe a cavarsela.» «Se vuole la mia opinione su una questione di meccanica» disse l'ingegnere «penso che stia parlando di un albero a camme.» Bardas fu incuriosito da quell'affermazione. «Si spieghi» disse. «È semplice.» L'ingegnere legò le redini alla sella per avere le mani libere e poter gesticolare. «La camma è un pezzo assolutamente fondamentale, di base: trasforma un normale movimento di rotazione» spiegò disegnando in aria un cerchio, e poi una riga dritta, «in un movimento lineare: è una cosa molto importante, giusto? Perché le nostre fonti di energia, quelle che muovono tutto, per esempio le ruote ad acqua o i pedali, sono ripetitivi, cioè descrivono un movimento circolare senza fine. La camma invece, che è solo un collegamento a uno dei punti del cerchio, lo trasforma in una spinta in linea retta. Basta aggiungere una semplice ruota dentata e non ci vuole un genio per ottenere una ruota che gira senza fine sullo stesso asse, costretta a fornire un infinito movimento lineare: per esempio tirare qualcosa. Ne consegue che il pezzo che fa tutto il lavoro e che lega il tutto, è il collegamento tra la ruota e il pezzo. Se fossi il suo amico, il filosofo, mi cercherei un albero a camme.» «L'albero a camme della fortuna» disse Bardas, pensoso. «Be', è un'idea. Ovviamente per completare l'analogia, ci dovrebbe essere un modo per fargli cambiare direzione mentre sta ancora girando in circolo. È possibile? Meccanicamente parlando, intendo.» L'ingegnere sorrise. «Certo che è possibile» rispose. «Basta solo dargli un bel colpo con un maglio.» «Perché dici che è ferraglia?» volle sapere Temrai sussultando per la fitta quando Tilden strinse una cinghia. «Gli esperti mi hanno detto che questa è probabilmente la migliore armatura sul mercato.» «Gli esperti» sospirò Tilden. «Vuoi dire quel ladro bugiardo che te l'ha venduta. Stai fermo un momento! O questa cinghia si è ristretta o tu sei ingrassato.» Temrai le lanciò un'occhiataccia. «Ecco che ricominci» disse. «Qualunque cosa io dica o faccia, tu la devi sminuire. Se questa roba non vale niente, allora perché mi avrebbe offerto una garanzia totale a vita?»
«Oh, andiamo» rispose Tilden sorridendo. «Una garanzia che dura finché sei vivo. Perciò quando ti cade a pezzi cinque minuti dopo l'inizio della prima battaglia, e tu muori...» «Ahi.» «Scusa. È colpa tua, te l'ho detto di stare fermo.» Lei gli fece indossare per primi gli schinieri che lo coprivano dalla caviglia al ginocchio. Ricordavano a Temrai due pezzi di grondaia uniti da una cerniera. «Dev'esserci un modo di impedire a queste cose di cadere e intrappolare il piede» disse «vedi questo livido? Dopo un'ora mi fa talmente male che non riesco a camminare.» «Ma quando combatti non cammini, te ne stai seduto sul cavallo, quindi non importa.» «Vero, ma devo camminare dalla tenda al cavallo e poi tornare dal cavallo alla tenda...» Dopo gli schinieri fu la volta delle ginocchiere e dei cosciali a coprirgli le gambe dal ginocchio all'inguine: erano appese con delle cinghie alla sua cintura, e venivano tenute a posto da altre cinghie intorno alla giuntura del ginocchio e alla coscia. Poi la cotta di maglia... «Non riesco ad alzarla» disse Tilden. «Certo che ci riesci, non fare la debole.» Tilden borbottò per lo sforzo, cercando di sollevare la cotta più in alto della sua testa per permettergli di infilarvi le braccia. Lui ci riuscì un attimo prima che lei la lasciasse andare. Quando infilò la testa nell'apertura del collo, i capelli gli si impigliarono facendolo imprecare. «Non chiamarmi debole» disse Tilden «altrimenti la tua stupida armatura te la puoi mettere da solo.» «Mi dispiace» si scusò Temrai in tono poco convincente. «D'accordo, cosa viene dopo? La mezza corazza, credo.» La mezza corazza e lo schiniere si univano in cima per mezzo di due cinghie da ciascun lato del collo, come gli spallacci dello zaino di un soldato, e altre due all'altezza della vita. «Alza un po' di più il braccio» borbottò Tilden stringendo la fibbia di sinistra «non mi dai sufficiente spazio... ecco, ci siamo. È abbastanza stretta?» «Troppo stretta. Allentala di un buco prima che soffochi.» «Avresti potuto dirmelo invece di lasciare che mi slogassi il polso per stringere quella cosa orribile.» Seguirono l'imbracatura del braccio: cannoni dal polso al gomito, cubitiere a proteggere il gomito stesso, cannoni dal gomito fin sotto la spalla...
altre cinghie e altre fibbie. «Cosa succede se devi pisciare?» chiese Tilden con aria innocente. «Dai l'alt a tutta la colonna e chiami un paio di armieri?» Temrai la guardò accigliato. «No.» «Oh. E cosa impedisce che si arrugginisca tutta sul lato interno della gamba? Potrebbe bloccarsi alle ginocchia, e allora che fine faresti?» «Grazie» disse Temrai. «Inoltre deve essere particolarmente sudicio quando hai bisogno di...» «Ho capito» la interruppe Temrai. «Sì, lo è. Adesso slaccia le fibbie della spalla...» «Ma le ho appena allacciate.» «Be', slacciale, vedi quegli anelli in cima agli spallacci? Infilali in modo che pendano sui cannoni...» «I cosa?» «Quegli affari lì...» Temrai cercò di indicarli con il braccio, ma la sua libertà di movimento era molto limitata. Tilden ridacchiò. «In modo che pendano sulla parte superiore del braccio» le disse severo. «Così, benissimo.» «Posso allacciare di nuovo le fibbie adesso?» «Sì.» «Sei sicuro? Non vorrei doverle slacciare di nuovo.» «Sicurissimo. Adesso metti la gorgiera... c'è un gancetto su un lato, cercalo...» «Vuoi dire questo colletto?» «Esatto» disse Temrai con tono paziente. «La gorgiera.» Tilden inarcò un sopracciglio. «Non vedo perché non potete chiamarlo semplicemente colletto.» «Perché è una gorgiera» disse Temrai. «Hai trovato il gancio? Bene. Adesso ho bisogno soltanto dei guanti di ferro e dell'elmo, e poi abbiamo finito.» «Vuoi dire i guanti e il cappello.» «Più o meno. Prima i guanti e poi il cappello.» Le porse la mano. «Devi tirarlo per il polsino... no, non il metallo, è rivestito di cuoio, vedi?» «Deve fare terribilmente caldo con tutta quella roba addosso.» «Sì, fa caldo. Adesso tienilo mentre infilo piano piano le dita... ho detto tienilo, santo cielo.» «Faccio quello che posso» disse Tilden. «Prova di nuovo.» «Così va meglio... no per niente, questo maledetto affare non è infilato
dritto, mi sta scivolando sul lato della mano. Tira il polsino...» «Sto tirando. Si è incastrato.» «Cosa? Oh, giusto. Piegherò un po' il pollice, vedi se fa differenza. Prova adesso.» Alla fine riuscirono a sistemare il guanto al suo posto. «Mi schiaccia la pelle al polso, qui tra il polsino e il cannone» si lamentò Temrai. «Dovrò fare in modo di combattere solo contro dei mancini» disse prendendo l'elmo: una celata a un pezzo che copriva il volto di Temrai come una pentola d'acciaio con una stretta feritoia per vedere all'esterno. Lei glielo sistemò in testa e si allontanò di un passo. «Temrai?» «Che c'è?» La sua voce sembrava distante e leggermente buffa, ma il fatto era che Temrai non era più lì. L'acciaio si era finalmente richiuso intorno a lui, come le sabbie mobili. «Niente» disse Tilden. «Ce la fai ad alzarti in piedi con tutta quella roba addosso?» «Credo di sì» rimbombò la voce di Temrai attraverso l'acciaio «se vado piano.» Mentre si alzava Tilden osservò le giunture, gli strati di piastre articolate, ondeggiare come fossero i muscoli di un dragone dalle squame d'acciaio. Non c'era nulla di umano tranne forse una forma vagamente familiare. «Hai dimenticato le scarpe» disse. «Le uosa.» «Cosa?» «Le uosa... si chiamano così.» «Bene. Le vuoi o no?» «Non ne vale la pena» disse l'eco della voce di Temrai. «Però ho bisogno della mia spada. Laggiù accanto al portacatino.» Tilden gliela portò. «Si allaccia anche questa?» L'elmo annuì: muovendosi prima in su, flettendo le piastre della gorgiera e poi pesantemente in giù. «Sopra la spalla e intorno.» I cannoni e le cubitiere di sinistra si sollevarono. «Sbrigati» disse. «Non posso stare così per sempre.» «Ma riesci a estrarla dal fodero?» chiese scettica Tilden mentre agganciava l'ultima fibbia. «Probabilmente no, ma che importa? È comunque soltanto un accessorio di moda. Indossando questi dannati guanti di ferro per poterla maneggiare ci vorrebbe prima qualcuno che mi piegasse la mano intorno all'elsa.»
«Sei molto buffo» disse Tilden. In realtà non credeva affatto che sembrasse buffo: ma aveva la sensazione che non gli sarebbe piaciuto sapere cosa pensava sul serio. «Qualunque cosa tu faccia, non cadere.» «Ci proverò.» Il tempo necessario a percorrere a piedi il tragitto dalla propria tenda al cancello servì a Temrai per ritrovarsi molto più a proprio agio. Era come se l'armatura si stesse adattando a lui, come l'innesto su una pianta. Era scomoda più che pesante, almeno così pensava finché non fece un movimento imprudente e si sbilanciò: allora dovette fare uno sforzo per riuscire a riportare il proprio peso sui piedi. Si chiese se era così che si era sentito da bambino quando imparava a camminare. Lo stavano aspettando: Sildocai, il suo secondo al comando, Azocai e la maggior parte della squadra di comando. «Sei molto elegante» disse qualcuno. «Riesci a respirare lì dentro?» «Sì» rispose Temrai «ma riesco a malapena a sentirvi. Qualcuno mi tolga quest'elmo.» Riemerse boccheggiando come fosse stato sott'acqua o nell'aria mefitica di una miniera. «Molto meglio» disse. «Allora, cosa succede?» Sildocai, che lo stava guardando come se non avesse mai visto nulla di simile, indicò le minuscole figure che si muovevano sotto di loro. «Quello laggiù è il suo treno d'assedio» spiegò. «Sono ancora decisamente fuori tiro: quando saranno troppo vicini glielo faremo capire. Ha messo la cavalleria davanti nel caso tentassimo una sortita per farli scappare, quindi non lo consiglio. Probabilmente impiegheranno il resto della giornata a piantare le tende e a mettersi comodi.» Temrai tentò di distinguere ciò che Sildocai stava indicando ma riuscì solo a vedere dei puntini e delle macchie. «È il benvenuto» disse «e cosa mi dite di un'incursione notturna come quelle su cui ci stavamo esercitando?» «Potrebbe andare» rispose Sildocai poco entusiasta. «Preferirei aspettare un giorno o due finché abbiano dispiegato l'artiglieria. Vorrei un'occasione per poter tagliare un po' di corde, fare qualche danno prima che comincino il bombardamento.» Temrai annuì e la sua gorgiera stridette. «Mi sembra giusto, hanno qualche intenzione di usare il fiume o no?» «Non ne abbiamo avuto nessun segno finora» rispose un uomo il cui nome sfuggiva a Temrai. «Probabilmente non vuole rischiare di affrontare le navi incendiarie.»
«È una mossa molto intelligente da parte sua» commentò Sildocai con un gran sorriso. «Be', vale la pena tenerle di riserva nel caso in cui tenti di costruire un passaggio sul fiume. È meglio che teniamo nascosta qualche sorpresa.» «Non costruirà un passaggio» disse Temrai. «Userà le barche dopo aver distrutto le nostre macchine. Quello è il momento in cui useremo le navi incendiarie. Naturalmente lui se l'aspetta, ma non potrà farci molto.» Sildocai lo guardò. «Ne sembri piuttosto sicuro» disse. «Lo sono» rispose Temrai. «Abbiamo già vissuto questa esperienza, se ti ricordi.» «Davvero?» Temrai annuì. «Oh, sì. Era una guerra diversa, ma la situazione era identica. A meno che lui non sia capace di fare meglio di quanto non abbia fatto io, so esattamente cosa farà, e ovviamente lui sa cosa farò io.» «Giusto. Hai intenzione di dirlo anche a noi oppure è un segreto tra voi due?» «Per l'ultima volta» protestò esausto Venart «io non sono il governo. Non abbiamo un governo, non abbiamo mai avuto un governo, e non ci serve adesso. Riesci a capirlo?» L'uomo lo guardò per un istante. «Va bene» disse. «Allora tu non sei ufficialmente il governo, ma eri a capo della rivoluzione e hai buttato a mare gli sbirri, quindi ti piaccia o no comandi tu. Quello che voglio sapere è: quando avrò il mio risarcimento?» Venart era sul punto di scoppiare a piangere. «Come accidenti faccio a saperlo? E chi ha messo in giro questa voce sui risarcimenti? Io non l'ho fatto.» «Quindi vuoi dire che non ci sarà nessun rimborso?» disse un altro uomo nella folla. «Giusto?» «Sì.» «Be', magari secondo te è giusto... non è mica il tuo magazzino quello che è stato incendiato. Vuoi venire con me a spiegare ai miei creditori che è giusto?» «No, non intendevo dire "giusto" nel senso che voi...» «Allora forse dovresti dire quello che intendevi» disse l'uomo guardandolo accigliato. «Potresti cominciare col dirci perché hai improvvisamente deciso che non ci sarà alcun risarcimento.» «Io non ho deciso niente» gemette Venart. «Non spetta a me...»
«Quindi non hai ancora deciso. Hai qualche idea su quando è possibile che tu decida?» Venart inspirò profondamente. «No» disse. «Ora, per l'amor del cielo, lasciatemi passare.» La folla non la prese bene. «Te ne vai via così e ci lasci a indovinare?» gridò qualcuno. «Me ne vado a casa a pisciare» rispose Venart «una cosa che voglio fare da mezz'ora ma voi non me l'avete permesso. Ora toglietevi dai piedi o uso voi come latrina, scegliete voi.» Quando finalmente riuscì a chiudersi la porta alle spalle, si precipitò oltre il cortile fino alla dipendenza come se fosse inseguito dai lupi. Ne uscì in seguito sentendosi molto meglio. È straordinario, pensò, quanto possa farci sentire così bene un atto tanto semplice. Non durò, comunque. «Ven, dove accidenti sei stato?» lo apostrofò Vetriz mentre attraversava il cortile. «Ranvaud Doce è qui che ti aspetta da più di un'ora.» Venart si fermò e la guardò «Chi?» «Ranvaud Doce. Stupido, è il nuovo presidente della gilda degli Armatori.» «Oh. E perché vuole vedermi?» Vetriz non si degnò neppure di rispondere. «E farai meglio a liberartene in fretta, perché Ehan Stampiz arriverà a mezzogiorno, e se quei due si incontrano non voglio essere nei paraggi. Quando scriverai il tuo discorso?» Venart le lanciò un'occhiataccia. «Non ho intenzione di fare nessun discorso» disse. «Adesso non ho tempo per discutere con te» disse Vetriz. «Doce è nell'ufficio contabile. Oh, non startene lì con quell'aria abbattuta.» Si scoprì che Ranvaud Doce non era affatto Ranvaud Doce, bensì Ranvaut Votz (Vetriz aveva capito male il nome: non aveva molta pazienza per i nomi) e naturalmente Venart lo conosceva da anni. «Santo cielo, hai l'aria distrutta» disse Votz. «Mettiti seduto prima di svenire, e bevi qualcosa.» «Brandy» rispose Venart. «È in quella brocca bianca.» «Dimmi quando basta.» «Quando basta a te.» Il brandy fu d'aiuto, almeno fino a un certo punto, ma era il tipo di aiuto probabilmente controproducente prima di mezzogiorno di una giornata
piena di impegni. «È meglio che non ne beva ancora» disse tristemente Venart appena ripreso fiato dopo la prima bruciante sorsata, «o mi addormenterò. Allora, cosa posso fare per te?» Votz sollevò le sopracciglia. «Bravissimo, Ven» rispose. «L'hai detto come se davvero non lo sapessi.» «Prego?» «Non essere irritante. Certi giochi vanno bene per le trattative d'affari, ma non sono molto adatte a un capo di stato.» «Oh, per...» Venart sbatté la tazza sul tavolo un po' troppo violentemente, e la parete sottile di corno gli si incrinò in mano. «Non ti ci mettere anche tu. Suvvia, Ran, sai benissimo che non sono il capo di niente. Per l'amor di dio, non sono neanche il capo di questa casa: hai visto come Triz mi comanda a bacchetta...» «Questo non dimostra niente» disse Votz smettendo volutamente di sorridere. «So» continuò «che la verità è che tu hai avuto ben poco a che fare con ciò che è successo. Non ti sei fatto vedere finché praticamente si era già a metà dell'opera: bada che non ti accuso, ma espongo dei fatti. Ma per qualche motivo la gente ritiene che sei stato tu a capo della ribellione e adesso pensano che sei a capo di un governo di emergenza. Io dico: perché no? Tu sei un tipo innocuo, non cercherai di fare il gradasso né commetterai qualche sciocchezza... sei proprio il capo di cui ha bisogno questo paese.» «Grazie mille.» «Prego. Ma ci serve un governo, Ven: magari solo le orecchie e la punta della coda. Altrimenti come riuscirà la gilda degli Armatori a far fare le cose?» Venart aggrottò la fronte. «Oh, capisco» disse. «Tu e il tuo gruppo di cadaveri ambulanti del Fortuna e Benevolenza sareste il vero governo, e io mi prenderei tutte le colpe. No, grazie tante. Non siete stati voi maledetti armatori a dare inizio a tutto questo con il vostro tentativo di dare una fregatura all'ufficio provinciale per fare più soldi?» Votz lo interruppe con un gesto della mano. «Questo era il passato» disse. «E tu eri uno di noi, ti ricordi? Sei colpevole quanto gli altri. Ma» aggiunse quando Venart fece per obiettare «tormentarsi su questo non farà salpare le navi né apparire cibo nei granai. Ti rendi conto che non è rimasto quasi più cibo su questa dannata isola dopo che quei bastardi si sono portati via tutto?» Venart rimase in silenzio: non ci aveva pensato.
«Quindi» continuò Votz «dobbiamo fare qualcosa in fretta, prima che la situazione si ritorca contro di noi. Il problema è: chi sono i "noi" in questione. Una cosa è certa: non possiamo andarcene allegramente col vento in poppa, sul mare azzurro, non se vogliamo avere anche una minuscola possibilità di poter tornare. Fatti vivo in un qualunque posto in cui l'ufficio provinciale abbia anche solo un misero impiegato, e finirai dritto in cella. Quindi, se vogliamo andare da qualche parte, dobbiamo farlo in gruppo... ma non possiamo andarcene tutti, altrimenti chi rimarrà qui a far sì che ci sia un posto dove poter tornare? Dobbiamo organizzarci, e questo è esattamente il tipo di lavoro adatto alla gilda degli Armatori.» Venart annuì. «Sono d'accordo» disse. «Quindi vattene a formare un governo. Chi te l'impedirà, visto che è nell'interesse di tutti? Certamente non io.» «Davvero non lo sai? La Gilda, ecco chi. Se stai cercando una vera minaccia per il nostro genere di vita, vai giù al Drutz e dà un'occhiata.» Venart aveva l'aria confusa. «Ma quale Gilda?» chiese. «Oh mamma.» Votz scosse la testa. «Come capo di stato sei quasi troppo qualificato. La Gilda dei Marinai Mercantili, amico mio, una brutta marmaglia di funamboli e topi di cabina ingrati che hanno già dichiarato di volerci rubare le navi... espropriate per il bene comune, dicono, frase che quei porci dei Perimadeiani usano al posto di "rubare", perché questo è: rubare, e in più costringerci a pagare loro le tasse per avere questo privilegio. Ecco perché abbiamo bisogno di un capo di stato, amico mio... di qualcuno che non appartenga agli armatori e che dica loro di non essere così stupidi. E chi meglio del capo carismatico, dell'eroe di guerra, dell'artefice della vittoria...» «Oh, smettila, Ran.» «Ma loro non lo sanno. La gente là fuori crede che sia tutto vero e in realtà è l'unica cosa che importa. Vuoi che ti rubino la nave e ti portino via i soldi? Tanto vale far tornare l'Impero e farla finita.» «D'accordo» sospirò Venart. «Ti sei spiegato.» Si accasciò sulla sedia. «Solo per curiosità» continuò «tu e i tuoi amici della Gilda degli armatori avete qualche idea pratica e costruttiva su come rimediare del cibo? O ancora non siete ancora arrivati a discutere i dettagli?» «Non c'è bisogno di fare il sarcastico» lo rimproverò Votz. «A dire la verità ci abbiamo già pensato.» «Bene. Se sono il vostro nuovo Principe Ereditario, il minimo che potete fare è confidarmi il segreto.»
«Semplice» disse Votz. «È ragionevole supporre che se Gorgas Loredan ci ha molto aiutato a liberarci degli Imperiali...» «Avete qualche idea sul perché...?» «... allora non avrà obiezioni a venderci qualche carico di cereali e di maiale salato, specialmente se il prezzo è buono. E Tornoys è nella direzione giusta, lontano dall'Impero: dovremmo navigare piuttosto vicino a Shastel, ovviamente, ma se siamo in convoglio non dovrebbe essere un problema.» «Immagino di no» convenne Venart. «Ma mi fa venire la pelle d'oca, quell'uomo. Non so, perché, ma succede.» «Be', è un problema tuo. Mentre siamo lì, ho intenzione di parlargli dell'idea di ingaggiare alcuni di quegli arcieri di prim'ordine che ha lui: un'altra cosa di cui avremo sicuramente bisogno sarà una guardia nazionale, e visto che nessuno di noi ne capisce niente sarebbe una buona idea ingaggiare qualcuno che ci possa insegnare qualcosa.» Venart chiuse gli occhi. «Aspetta un attimo» disse. «Chi è che avevi in mente per questo tuo esercito?» «Be', noi ovviamente» rispose Votz in tono paziente. «E non è un esercito, è una guardia nazionale, è molto diverso.» «D'accordo, è diverso. Ma con "noi" vuoi dire noi isolani, noi armatori o che?» «Be', non darò armi in mano alla Gilda, se è questo che intendi» rispose Votz, col tono di chi spiega a un bambino che il fuoco scotta. «Voglio dire noi, la popolazione maschile adulta e responsabile dell'Isola. Non abbiamo bisogno di quei pelandroni della Gilda: dov'erano quando si combatteva? Rintanati tremanti in prigione. Sono stati davvero utili, finché non siamo arrivati noi a liberarli.» «Stupendo» borbottò Venart. «Prima volete un governo, poi un esercito e adesso progettate la guerra civile. Questo vostro stato cresce più in fretta della gramigna. D'accordo» aggiunse rapidamente «risparmiami il ragionamento. Sono d'accordo con te: sembra un'idea sensata poterci difendere, se probabilmente l'ufficio provinciale presto muoverà contro di noi anche se, a dirti la verità» continuò aggrottando la fronte «se decidono di tornare, secondo me non abbiamo speranza. L'altra volta ha funzionato perché noi siamo stati fortunati, e loro troppo sicuri di sé. Credo che combattere contro di loro quando si saranno organizzati vorrebbe dire cacciarsi in un bel guaio.» «Davvero? E allora cosa suggeriresti?»
Venart si alzò in piedi e si voltò a guardare fuori dalla finestra. «Di andarcene» disse. «Prendere tutto ciò che si può spostare e salpare e mettere quanta più acqua di mare è possibile tra noi e loro.» Votz lo fissò arrabbiato. «Stai scherzando.» Venart scosse la testa. «In effetti credo sia un'ottima idea. Non siamo contadini né artigiani... siamo commercianti: la maggior parte di noi passa tanto tempo lontano o sulle navi di quanto ne passa a casa. Se c'è mai stata una... nazione che potesse permettersi di prendere e partire, siamo noi. Se succede il peggio, potremmo semplicemente vivere sulle navi, spostandoci come dei nomadi.» Votz fece un sorriso spiacevole. «Come la gente di re Temrai, vuoi dire. Ma certo, sicurezza assoluta garantita, nessun bisogno di preoccuparsi mai più.» «Loro vivono sulla terraferma: sono le navi a fare la differenza.» «Finché non cominciano a costruirsi navi proprie.» Anche Votz si alzò. «Fuggire non risolverà niente: dobbiamo opporre resistenza e combattere. E se dobbiamo combattere, questo è il posto migliore. Abbiamo una stupenda fortezza naturale, migliore persino di quanto non fosse Perimadeia. Abbiamo una flotta di navi, e loro no.» Afferrò Venart per la spalla e lo costrinse a girarsi verso di lui. «Possiamo vincere» disse. «Non credo» rispose Venart. «E visto che mi avete appena messo alla testa del governo...» «È quello il difetto delle teste, possono cadere.» Venart sulle prime fu sorpreso, e poi si mise a ridere. «Suvvia, Ran» disse. «Non essere così dannatamente melodrammatico. Governo, esercito, guerra civile e pure un colpo di stato... e non l'abbiamo ancora detto a nessuno.» Si allontanò da lui e sorrise. «Pensa quanto ci potremmo divertire se fossimo in tre.» C'era vento... una brezza fresca, ed era un fortuna, pensò Bardas. Si ricordava anche troppo bene di quanto rapidamente il calore delle pianure a mezzogiorno potesse far crollare un uomo prima che riuscisse ad accorgersene. Fortunatamente l'esercito dei Figli del Cielo era stato reclutato in posti diversi, molti dei quali lontani e quasi tutti più caldi di quello. Quando lui stava per crollare per il caldo, almeno la metà dei suoi uomini stava ancora bene avvolta nei mantelli soffiandosi sulle mani gelide per scaldarle. Il calore del sole aveva già fatto salire un po' di vapore dalle acque del
fiume e i contorni netti della fortezza ora sembravano vaghi e indistinti come lo sfondo di un quadro. La luce brillava sull'acqua come una fiamma: quando chiuse gli occhi riuscì ancora a vederne il riverbero rosso. «È pronto?» chiese. L'ingegnere annuì. «Bene.» Mise dietro il braccio piegato del trabocco e guardò la fortezza lontana. Era tutto calmo e silenzioso, come se il mondo stesse aspettando un suo discorso. «Con questo dichiaro aperta la guerra» disse. «Quando vuole.» L'ingegnere fece un cenno di assenso con la testa, sia a lui che all'artigliere con la mano poggiata sul bordo. L'uomo dette uno strattone alla corda e il braccio si sollevò in aria come un uomo svegliato di soprassalto: la lunga trave a sezione quadrata si piegò per l'inerzia, si raddrizzò e poi si bloccò di colpo quando raggiunse il punto di equilibrio, mentre il contrappeso sobbalzava forte nel suo alloggiamento nella base. Con uno schiocco di frusta la rete di corda impresse al proiettile di pietra un'ultima fondamentale spinta e ricadde... («Non succede niente» borbottò l'ingegnere.) ... mentre il proiettile volava velocissimo in aria, si allontanò fino a diventare un puntino nero, rallentò, si fermò in aria un istante e iniziò a discendere... («Vediamo come reagiscono» disse il capo artigliere sorridendo. «Se hanno un po' di cervello ci chiederanno di poter spostare il forte cento metri più indietro.») ... e ricadde nel fiume, colpendo l'acqua con lo stesso rumore che fa uno schiaffo sulla faccia di un bambino. Quel fuoco bianco venne bucato come una lastra d'acciaio forata da una freccia. «Ve l'ho detto che sarebbe stato corto» sospirò l'artigliere. «D'accordo, alzate di cinque e proviamo di nuovo.» Le migliorie ai contrappesi erano state un'idea di Bardas: dopotutto Temrai aveva fatto la stessa cosa, costruendo trabocchi molto più efficaci di quelli avversari sui muri della Città. Ora aveva almeno cinquanta metri di terreno utile in più rispetto al suo nemico (la sua controparte, se stesso in un precedente giro della ruota): poteva colpirli ma loro non potevano colpire lui. Più in là si posiziona il peso, maggiore è l'usura, ma maggiore è anche il vantaggio meccanico. «Macchina numero due, elevazione aumentata di cinque» disse a voce alta l'ingegnere. «Preparatevi.» Un artigliere girò un volantino, un ingranaggio si mosse e scattò. «Pronto.»
«Lancia» disse l'ingegnere, e il braccio si piegò, si raddrizzò e lanciò. «Dannazione» aggiunse l'ingegnere quando il colpo sollevò una nuvola di polvere dalla roccia del pendio. «Adesso è sbagliata la compensazione per il vento. Macchina numero tre, alzare di quattro, spostare a sinistra di due. Preparatevi.» A questa distanza ovviamente era un esercizio di abilità, l'applicazione scientifica... l'applicazione scientifica della forza a un punto preciso su una piastra vergine. Un colpetto per cominciare e dare inizio al lancio: comincia ai bordi, si fa strada intorno all'esterno, si muove gradualmente all'interno fino al punto in cui l'incavo dev'essere più profondo: è questo il modo di costringere la sollecitazione nel pezzo. «Ci siamo» disse il capo artigliere. «D'accordo, lasciamoli lì, cioè...» Posò il coltello accanto alla vite principale: come tutti i buoni coltelli da artigliere, portava incisa sulla lama una scala di precisione «...vediamo, sono dodici in alto dallo zero, e sei a sinistra. Ognuno di voi faccia tre lanci, segnate i colpi e regolate per lo zero.» Quando ogni trabocco ebbe lanciato tre colpi e i bombardieri ebbero fatto le correzioni necessarie a compensare le piccole differenze di realizzazione e allineamento di ogni macchina, il bombardamento seguì uno schema preciso. Bardas riconobbe quella fase: era come l'artigiano che lascia ricadere il martello a rimbalzare (su e giù, peso e contrappeso, come un trabocco) sul pezzo che sta realizzando mentre con la mano sinistra lo posiziona nel punto più adatto. Un colpo solo non basta, ce ne vogliono molti: un martellamento continuato e controllato, per dare al materiale la robustezza necessaria. «Peccato che ci sia tanta polvere» si lamentò il capo artigliere «non riesco a vedere nulla. Per quanto ne so, magari li stiamo lanciando tutti nella stessa buca.» «Giusta osservazione» disse Bardas. «Ma continuiamo ancora per un po'. Voglio che si sentano sotto pressione.» Ecco com'è, allora, rifletté Temrai aspettando l'impatto del colpo successivo. Adesso lo so. Il colpo ricadde, un secondo più tardi, facendo tremare il terreno. A causa della polvere Temrai non riuscì a vedere dove era atterrato, né se aveva fatto danni: era come essere al buio. Ma riusciva a sentire delle grida, e il fatto implicava che c'era un'emergenza... qualcuno stava dando ordini, qualcun altro li contraddiceva, e nelle loro voci c'era un'urgenza che non ispirava sicurezza. Avrei dovuto aspettarmelo, pensò. Ma non l'ho fatto.
Colpa mia, alla fine. Contò alla rovescia partendo da dodici, e arrivò il colpo successivo. Temrai riuscì a sentire dov'era atterrato (quando si è al buio gli altri sensi si adattano)... probabilmente troppo lungo, per la precisione era un colpo mancato, ma sembrava che si fosse abbattuto su uno dei magazzini. Meglio che siano i biscotti piuttosto che le frecce: i biscotti se necessario possiamo mangiarli anche sbriciolati. Iniziò di nuovo a contare. «Temrai?» Dannazione, aveva perso il conto. «Sono quaggiù» disse a voce alta. «Chi è?» «Sono io, Sildocai. Dove sei? Non riesco a vedere niente.» «Segui la mia voce, e tieni la testa bassa: un colpo deve arrivare da un momento all'altro.» Arrivò un altro colpo troppo lungo: era facile indovinare dove fosse atterrato, vedendo le schegge aguzze di roccia ricadere sulla passerella. «I sobbalzi stanno facendo saltare le regolazioni» osservò. «Non riescono a vedere i punti d'impatto, quindi non sanno che alzano troppo.» «Preferivo quando erano sul bersaglio.» «Anch'io.» Sildocai gli apparve davanti come se fosse stato creato dalla polvere. «Sono stato laggiù» disse. «Visto che hanno cominciato a colpire alto, ho pensato che fosse il posto più sicuro. Hanno distrutto quattro trabocchi e mezza dozzina di scorpioni: altri due trabocchi e due scorpioni sono fuori uso per il momento ma riparabili. La notizia peggiore è che c'è una grossa buca sul sentiero e dovremo riempirla in qualche modo, altrimenti siamo tagliati fuori dalle difese inferiori.» Temrai chiuse gli occhi. «Be', dovrebbero esserci abbastanza sassi e terra» disse. «Dovrete posare delle travi per tenere insieme il materiale, ancorateli con dei cavicchi come se steste costruendo una terrazza.» «D'accordo» disse Sildocai tossendo. «Quando avremo finito, che ne dici di togliere e issare su alcune delle macchine? Non servono, e messe laggiù aspettano solo di essere distrutte.» Temrai scosse il capo. «No, non lo faremo. Loro porterebbero più vicino le loro. Dobbiamo fare fermare per un po' quei trabocchi, e se non riusciamo a raggiungerli con l'artiglieria, dovremo andar lì e farlo a mano.» Sildocai aggrottò la fronte. «Preferirei di no, nemmeno con la cavalleria leggera. Il terreno è un po' troppo pianeggiante per andare alla carica dritti alla gola del nemico.»
«Non abbiamo scelta» rispose Temrai mentre un altro colpo atterrava facendogli ricadere una nuvola di terriccio sulla testa, come fa una persona a lutto a un funerale (anche se di solito si muore prima). «La loro gittata è superiore. Se ce ne stiamo qui fermi a non fare nulla, raderanno al suolo tutto.» «D'accordo» rispose dubbioso Sildocai. «Ma almeno aspettiamo finché non fa buio e smetteranno di lanciare.» «Cosa ti fa pensare che smetteranno quando farà buio? Io non lo farei. Se aggiustano le regolazioni non avranno bisogno di vedere per farci a pezzi. Stanno già facendo un buon lavoro, e questa polvere equivale al buio notturno.» «Sì, ma il polverone è solo qui. Preferirei non affrontare i loro arcieri in pieno giorno. Forse non te lo ricordi, ma fuori da questa porcheria c'è un bel sole.» Temrai ci pensò su qualche istante. «Va bene» disse. «Non mi entusiasma l'idea di dover sopportare altre tre ore di questi lanci, ma hai ragione, non vogliamo facilitare le cose per loro commettendo degli stupidi errori. Organizza una squadra d'incursione poi metti qualcuno a riparare quel sentiero. Nessuno andrà da nessuna parte finché non sarà a posto.» Sildocai se ne andò cercando di tenere la testa sotto il livello del terrapieno in cui erano stati piantati i pali della palizzata. Ciò significava muoversi come un granchio o come un uomo in una galleria dalla volta bassa. Un altro colpo atterrò, ma troppo lontano per essere pericoloso per lui. Sono tiri molto irregolari, ormai pensò Temrai ma immagino che a loro non importi: lo fanno solo per demoralizzarci. I danni probabilmente sono minimi, ma questa polvere comincia a darmi sui nervi. «Niente perdite di tempo» disse Sildocai con un'espressione severa. «L'unica cosa che ci interessa sono i trabocchi: tagliate i cavi dei contrappesi, poi quando il braccio verrà giù, tagliate i cavi di lancio, e basta. Solo per questa volta tornare a casa tutti interi è più importante che uccidere quegli idioti, quindi non andatevene in giro, non inseguiteli e assolutamente niente saccheggi. Capito?» Nessuno parlò. A quanto sembrava i suoi severi avvertimenti erano stati superflui. Probabilmente si erano offerti volontari nella speranza di riuscire ad allontanarsi da quella polvere per un'ora. C'era la tipica luna delle pianure... abbastanza luminosa da creare ombre. Sildocai riusciva a vedere i fuochi degli accampamenti verso cui erano
diretti dall'altra parte del fiume. Gli uomini seduti alla luce del fuoco non hanno una buona visione notturna, mentre invece i suoi uomini avrebbero avuto il tempo di abituare gli occhi all'oscurità: loro sarebbero stati in grado di vedere il nemico, mentre il nemico non sarebbe riuscito a vederli. Diede il segnale, e gli addetti al verricello cominciarono a calare il ponte mobile. Sildocai uscì per primo. Era una tradizione nella sua famiglia, che aveva prodotto molti ufficiali: talmente tanti, anzi, che era notevole il fatto che fosse durata tanto a lungo. Anche il padre di Sildocai era rimasto ucciso combattendo proprio contro lo stesso Bardas Loredan, poco dopo la morte di Maxen. Anche suo nonno era caduto in battaglia contro i perimadeiani. Il suo bisnonno se n'era andato allo stesso modo, anche se nessuno si ricordava contro chi stesse combattendo. Quattro generazioni di condottieri coraggiosi che andavano sempre alla testa dei propri uomini. Certa gente non impara mai. Giungere sull'obiettivo non fu un problema: si limitarono a dirigersi verso il gruppo di fuochi più vicini finché Sildocai fu in grado di distinguere le forme dei trabocchi che si stagliavano contro il cielo blu e grigio. Il vento era leggero, sufficiente a disperdere il rumore degli zoccoli dei cavalli sull'erba secca. Tutto considerato erano le condizioni ideali per un attacco notturno: furono quasi sufficienti a fargli nascere la tentazione di non badare ai saggi consigli e combattere, ma non voleva. Ci sarebbe stato tutto il tempo per questo più tardi, inoltre i suoi uomini erano stanchi dopo una giornata passata ad acquattarsi sotto la nuvola di polvere e a passarsi secchi pieni di terra per riempire la buca nel sentiero. Riuscirono nell'impresa meglio di quanto si aspettasse: si trovavano a cinquanta metri dal fuoco più vicino quando qualcuno li vide e cominciò a gridare. Sildocai estrasse la scimitarra e urlò: «Ora!» e incitò il cavallo al piccolo galoppo. L'attacco cominciò bene: il nemico comprensibilmente fuggì davanti a quei cavalieri spuntati improvvisamente dal nulla, e corse alle cataste di armi, lontane dai trabocchi, e nessuno dette fastidio agli incursori finché non ebbero fatto un buon lavoro con i trabocchi. Quello sarebbe stato un buon momento per andarsene. Sildocai fu il primo a tagliare una corda, dopo tre tentativi. Era quasi buffo... si era immaginato nell'atto di recidere il cavo con un solo colpo, passando attraverso le fibre tese quasi senza sforzo, invece lo colpì da un'angolazione strana, piegò il polso e quasi lasciò cadere la spada. Si sa-
rebbe trovato meglio con una roncola o un'arma più rigida e pesante. La sua avventura quasi finì lì: nel suo accanimento nel tagliare la corda si era dimenticato che il reciderla avrebbe fatto cadere bruscamente un pezzo di legno lungo e pesante: la trave gli mancò la spalla di non più di un paio di centimetri, e lo spaventò a morte. Sildocai quindi, dopo aver fatto girare il cavallo, scoprì che non riusciva a raggiungere l'imbracatura all'altra estremità: dovette balzare giù da cavallo, inginocchiarsi, segare il cavo con la parte della spada più vicina all'elsa, e quindi saltare di nuovo in sella (a parte il fatto che il suo cavallo si era innervosito e non voleva stare fermo, e Sildocai passò un secondo o due a saltellare accanto a un cavallo in movimento, con un piede nella staffa e l'altro che si trascinava sul terreno mentre lui si teneva aggrappato al pomello della sella con una mano e cercava di non lasciar cadere la scimitarra con l'altra). Ma era un adulto e sapeva adattarsi: e il lavoro sugli altri due trabocchi fu più preciso. In effetti si sentì abbastanza sicuro di sé da prendere in considerazione l'idea di darli alle fiamme ma il nemico si fece finalmente vivo. Fu quello il momento in cui avrebbe dovuto lasciar perdere e andarsene a casa a dormire. Il nemico non voleva essere lì... era evidente dal modo in cui avanzava: a granchio, con le alabarde e le spade ben tese davanti a loro, e sul volto il puro terrore. A spronarli c'erano un paio di ufficiali fuori di sé dalla rabbia, come contadini furiosi perché i bambini del villaggio rubano le mele dagli alberi, ma non abbastanza arrabbiati da esporsi in prima persona. Il lavoro era quasi completato: Sildocai gridò al primo e al secondo gruppo dei suoi di seguirlo e spronò il cavallo al suo passo preferito... un piccolo galoppo abbastanza veloce da avere slancio, ma abbastanza lento per riuscire a mantenere il controllo. Non esisteva una linea nemica: gli avversari stavano avanzando verso di lui in un gruppetto confuso e disordinato, e quelli che si ritrovavano ai lati cercavano di spostarsi al centro... così fece cenno al suo secondo drappello di fare un ampio giro a sinistra, e prese con sé il primo drappello dirigendosi verso destra. Il piano era di colpirli sul fianco e di respingerli verso l'accampamento in massa confusa, così si sarebbero trovati tra i piedi le eventuali truppe di rincalzo meglio organizzate. I fuochi davano luce sufficiente per vedere cosa stava facendo. Avrebbe dovuto funzionare perfettamente. Infatti... ... e invece, quando si chinò sul collo del cavallo per dare un fendente diagonale sulla clavicola di un nemico il sottopancia della sella si spezzò, facendolo scivolare seguendo la direzione del colpo. Cadde con la spalla
sul volto del morto e con la sella ancora stretta tra le cosce. Se fosse successo a qualcun altro probabilmente se la sarebbe fatta sotto mentre andava in suo soccorso, ma il divertimento è una cosa relativa, e la prima cosa che Sildocai vide quando alzò lo sguardo fu un uomo torreggiare su di lui. Indossava una camicia, un elmo e nient'altro, ed era sul punto di infilzarlo nel petto con la sua alabarda. Non poteva farci niente: quella dannata sella gli impediva di muovere le gambe, quindi tutto ciò che fu in grado di fare fu di alzare il braccio per metterlo tra sé e l'alabarda. Sul braccio indossava un cannone di cuoio bollito: la lama ci scivolò sopra come un pattinatore sul ghiaccio, e l'affondo assunse un'angolazione strana, finendo per colpirlo all'altezza della guancia e tagliandogli via un pezzo di orecchio. La sua mano si ritrovò in posizione perfetta per afferrare l'asta dell'alabarda ma, un po' per lo shock e per tutto il resto, non ci riuscì bene e la lama recise la carne tra il pollice e l'indice prima che Sildocai potesse rinsaldare la presa e a tirare. La mossa si rivelò solo in parte vincente: riuscì sì a togliere l'alabarda all'uomo, ma con quel movimento finì per tirarsela in faccia, procurandosi un altro taglio più o meno parallelo al primo, dall'angolo dell'occhio attraverso la parte inferiore del cuoio capelluto. Non poteva tenere stretta l'alabarda e la lasciò. L'uomo lo fissò, poi gli diede un calcio in faccia: fu una pessima idea per tutti e due, visto che non portava scarpe. Sildocai fu certo di aver sentito una delle dita dell'uomo spezzarsi insieme al proprio naso. Sildocai aveva ormai liberato il braccio destro e lo usò per afferrare la caviglia dell'uomo e cercare di farlo cadere... anche questo non gli riuscì bene e si ritrovò a stringere una gamba che si agitava; non riusciva a vedere quasi niente a causa di tutto il sangue che aveva negli occhi. Continuare a stringere sembrava inutile, quindi mollò la gamba e l'uomo improvvisamente spalancò le braccia e gli cadde addosso. Il colpo era stato forte, ma non abbastanza da ucciderlo: probabilmente, un taglio di scimitarra alla base del collo sotto il bordo dell'elmo. Ora quel bastardo era steso sopra di lui e aveva la bocca vicina alla sua come fosse il suo amante. Gli occhi dell'uomo erano spalancati ed emetteva degli stupidi suoni gorgoglianti: cercava di dirgli qualcosa, ma a Sildocai non interessava. «Togliti di dosso!» strillò, e finalmente riuscì a districare il braccio sinistro intrappolato. Le dita erano rigide e rattrappite (un danno permanente, osservò Sildocai, ma ci penserò dopo) ma in qualche modo riuscì ad afferrare l'uomo per la spalla e a spingere. Non voleva, ma scoprì che non aveva scelta: rotolò sulla schiena senza muoversi, ma continuò a rotea-
re gli occhi e a gorgogliare. Con un enorme sforzo Sildocai riuscì a sollevarsi in ginocchio, ma la situazione non migliorò: un uomo che correva lo colpì alla schiena, facendolo cadere in avanti e cadendo egli stesso. Dannazione, pensò Sildocai, è inutile. L'uomo si stava rialzando e accanto a lui c'era la sua spada, che gli era sfuggita di mano; ma la lasciò lì e scappò via velocissimo, e inizialmente a Sildocai sembrò un colpo di fortuna. Era una pessima fortuna, come scoprì ben presto. Il motivo per cui il tizio era fuggito senza neppure raccogliere la spada divenne terribilmente chiaro quando Sildocai alzò la testa, giusto in tempo per vedere gli zoccoli di un cavallo che si impennava su di lui. Si gettò di nuovo a terra, ma non servì: sentì un dolore terribile alla schiena, e qualcosa cedere quando il cavallo lo calpestò. Cercò di gridare, ma aveva la bocca piena di terra, e poi la botta gli aveva fatto espellere tutta l'aria dai polmoni. Gli ci volle molta fatica e molto dolore per recuperarne un po'. Ho le costole fratturate dedusse con la parte del cervello che ancora ragionava, la situazione non migliora. Sarebbe rimasto volentieri dov'era: ma riusciva ancora a ricordare che era stato a capo dell'incursione e che non appena finito il lavoro dovevano tornare a casa. Sildocai non voleva che lo lasciassero lì, quindi era molto importante che si alzasse in piedi, trovasse il proprio cavallo (o un cavallo qualsiasi) e tornasse alla fortezza. L'uomo accanto a lui stava ancora gorgogliando buffamente, come un bambino stizzoso. Sildocai rotolò su un fianco, scalciò con le gambe e riuscì a tuffarsi in avanti, alzandosi. Barcollò, rischiò di cadere di nuovo ma recuperò l'equilibrio appena in tempo. L'impresa era incredibilmente dolorosa... non dovrei farlo, un uomo nelle mie condizioni... e respirare era diventato una sfida alla forza di volontà. Fece un passo avanti, ma scoprì che forse qualcuno gli aveva rubato le articolazioni delle ginocchia mentre era steso a terra. Riuscì a rimanere in piedi, ma niente di più. «Calma adesso, amico mio, va tutto bene.» Chiunque fosse, Sildocai non l'aveva né visto né sentito arrivare: era lì all'improvviso, un uomo alla sua sinistra che lo teneva per un braccio. «Va tutto bene» ripeté. «Ti porto via da qui prima che caschi di nuovo.» Un'orribile voce cantilenante... l'accento di Perimadeia aveva sempre dato fastidio a Sildocai. «Vieni, da questa parte.» Quel bastardo cercava di farlo tornare indietro, verso l'accampamento: ma quella non era la direzione giusta, allora perché andava da quella parte? Poi capì. Era uno dei nemici che l'aveva scambiato per un amico (come l'uomo che giaceva a terra gorgogliando, e che voleva che lo aiutasse)...
be', benissimo, ma era la direzione sbagliata. Fortunatamente quell'uomo era un idiota: appeso alla cintura portava un coltello, proprio a portata di mano. Sildocai lo estrasse e glielo piantò nella schiena. Una volta tanto le cose andarono per il verso giusto, ma non aveva colpito nel punto a cui aveva mirato. L'uomo boccheggiò senza fiato per il dolore e lo shock, ma rimase in piedi. «Oddio» disse il povero disgraziato aggrappandosi a Sildocai... non si era reso conto che era stato Sildocai a pugnalarlo, probabilmente pensava di essere stato colpito da una freccia o da qualcosa del genere. Resse il peso dell'uomo sulla spalla meglio che poté, anche se era quasi sufficiente a farlo crollare in ginocchio, poi estrasse il coltello e glielo piantò sotto l'orecchio. Questa volta cadde sul serio, ma naturalmente era ancora aggrappato alla spalla di Sildocai, quindi rovinarono a terra insieme. Questo corpo fu più facile da spingere via da dosso... era morto, il che era d'aiuto... ma rialzarsi sarebbe stato probabilmente al di là delle sue forze. Be', ci aveva provato: e come era solito dire suo padre, se hai fatto del tuo meglio non posso chiederti nulla di più. Respirare diventava sempre più difficile, era come avere un morsetto da falegname che teneva stretti petto e schiena mentre il falegname aspettava che la colla facesse presa. Ma certa gente non impara mai (quattro generazioni di condottieri). Trascinò i gomiti accanto alle ginocchia e le spinse avanti, e cercò di raddrizzare la schiena... nessuna speranza. Grazie mille pensò amareggiato, indirizzando il proprio malanimo all'uomo che aveva appena ucciso. Sarei stato benissimo se tu non avessi interferito. Poi raddrizzò le gambe e le braccia: fu probabilmente lo sforzo fisico più massacrante che avesse mai compiuto in vita sua. Ne valse la pena: riuscì a riportarlo in piedi. Allora, adesso devo solo trovare un cavallo, montarci su... Notò con disappunto che non sembrava esserci rumore di battaglia. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato da quando era caduto da cavallo. Gli sembrava che fosse passata una vita, ovviamente, ma era un tempo soggettivo. Era possibile, anzi molto probabile che i suoi uomini avessero seguito gli ordini e si fossero allontanati non appena terminato il loro compito. In quel caso avrebbe potuto risparmiarsi quello sforzo per rialzarsi. Fece tre passi in avanti... una tecnica di caduta controllata, con cui si tuffava verso il terreno per poi tirare fuori la gamba all'ultimo momento. La mano sinistra gli faceva male quasi quanto la schiena... era un dolore diverso, pulsante invece che acuto. Inspirare stava diventando talmente diffi-
cile che quasi non ne valeva lo sforzo. Fu a quel punto che vide il cavallo. Erano creature sorprendenti: nel bel mezzo di una battaglia, con morte e sofferenza intorno, un cavallo scosso si ferma e si mette a brucare. Sildocai lo guardò per una decina di secondi... un'eternità in quella situazione. Stava cercando di elaborare la logistica, il sistema per arrivare fino al cavallo, salirgli in groppa e farlo andare dove voleva lui. Sapeva che il progetto era realizzabile... possiamo vincere, avrebbe detto Temrai... ma in quel particolare momento non riusciva proprio a capire come procedere. Alla fine ce la fece grazie allo sforzo e alla concentrazione. Fortunatamente il cavallo ebbe la gentilezza di rimanere fermo finché non l'ebbe raggiunto, e a quel punto Sildocai ebbe almeno qualcosa a cui appoggiarsi mentre con la mano sinistra ormai quasi inutilizzabile si afferrava il piede e lo sollevava verso la staffa. Montare in sella sarebbe stata decisamente la parte più difficile. Il massimo che poteva fare era riuscire a raddrizzare la gamba sinistra e sperare che la spinta inerziale del movimento e il suo peso corporeo facessero il resto. L'idea quasi funzionò: ma mentre se ne stava con un piede nella staffa, il cavallo decise di muoversi, e gli ci volle molto tempo per trovare la forza per far passare la gamba sulla schiena del cavallo. Quando ci riuscì, scoprì di non avere più energie, e si accasciò sul collo del cavallo, col naso nella criniera, e tentò di fare un ultimo respiro. Il cavallo continuò a camminare, e poiché era solo un cavallo, e il nemico era troppo occupato per badare a un animale disperso, continuò a procedere in direzione della sua casa, finché non giunse a un fiume. Lì si fermò a bere, dopo di che se ne andò in giro annusando, cercando l'erba, fino all'alba: fu a quel punto che qualcuno dall'altra parte del fiume lo vide e cominciò ad agitarsi. Calarono il ponte e inviarono alcuni uomini a prenderlo: al cavallo non diede fastidio, gli fecero attraversare il ponte poi gli tolsero il carico dalla schiena. «È Sildocai» disse qualcuno. «È ancora vivo?» sentì chiedere Sildocai. Bella domanda pensò. «Credo di sì. Tiratelo giù.» A quel punto Sildocai capì di essere ancora vivo, perché se sei morto non senti dolore. Dopo un po' perse conoscenza per il dolore, e quando rinvenne qualcuno che si chiamava Temrai o qualcosa del genere arrivò e gli disse che l'incursione aveva avuto successo. Lui voleva chiedergli: quale incursione? Ma non ne aveva le forze. Si riaddormentò per alcune ore, finché non lo risvegliò il rumore dei colpi dei trabocchi che ricadevano
intorno a lui (l'incursione aveva avuto successo: il nemico aveva impiegato ben cinque ore per riparare i danni che avevano causato). CAPITOLO DICIOTTESIMO «Potremmo continuare all'infinito» disse l'ingegnere «e non ci andrebbe meglio di così. Io dico di smettere di perdere tempo e di sfruttare la situazione. Altrimenti è soltanto una perdita di tempo.» Era il terzo giorno di bombardamenti. Il giorno prima era stato identico a quello precedente: sotto il calore del sole i trabocchi avevano bersagliato la palizzata inferiore, la postazione delle macchine e il sentiero. Al tramonto, gli uomini di Temrai avevano sistemato la palizzata inferiore, sostituito le sezioni frantumate e scheggiate delle macchine e avevano riempito le fenditure che erano state divelte dal sentiero. Poi, nelle prime ore del mattino, la cavalleria leggera aveva tentato una sortita e aveva reso i trabocchi inoffensivi. Nella seconda notte era cambiato il loro comandante e avevano incontrato una resistenza più agguerrita, ma avevano anche imparato qualcosa e il risultato, in sostanza, era stato identico. Per la terza notte Bardas aveva distaccato due compagnie di alabardieri per piantonare i trabocchi e aveva dato ordine che venisse innalzata una palizzata tutta sua... il tutto per sentirsi poi dire che il legname a portata di mano era stato usato per costruire la fortezza e che si sarebbe dovuto accontentare di una trincea e di un argine, il che avrebbe naturalmente richiesto tempo... «No» disse «continuiamo. Prima o poi il danno sarà tale che non saranno più in grado di porvi rimedio. Non puoi continuare a rattoppare le pezze, credimi, io ci ho provato. Possiamo facilmente perderla, questa guerra... basta un solo errore di giudizio. Preferisco sprecare tempo che vite, se non ti dispiace.» L'ingegnere scrollò le spalle. «È lei il capo» disse «e mi creda quando le dico che non vorrei il suo posto per niente al mondo.» Non ci fu nessuna incursione della cavalleria quella notte e gli alabardieri, che erano rimasti in armi per nove ore, smontarono dal servizio con la sensazione di avere riportato una vittoria morale e lasciarono il posto all'artiglieria. Fu durante il cambio, circa mezz'ora dopo l'alba, che Temrai inviò i suoi arcieri a cavallo, quasi sicuramente la sezione più efficace del suo esercito. Prima che le sentinelle di Bardas avessero il tempo di identificarli e di segnalarne la presenza, erano già stati abbattuti. Fu quindi la volta delle tre schiere, che si avvicinarono in riga e iniziarono un bombar-
damento da circa duecento metri, vale a dire più lontano della portata delle frecce dei balestrieri di Bardas. E benché fossero entro il raggio d'azione delle balestre, i balestrieri erano in grado di scoccare una freccia solo ogni tre minuti e la seconda schiera stava concentrando il tiro proprio su di loro. Bardas fece venire i pavesi d'assedio, cioè grandi scudi di cuoio di bue progettati per garantire la copertura ai balestrieri durante le operazioni di assedio; ma c'era un problema: il capo carovana aveva posizionato i carri degli approvvigionamenti intorno a loro, accerchiandoli completamente; dopo tutto nessuno gli aveva detto che ce ne sarebbe stato bisogno e doveva pur piazzare quei maledetti carri da qualche parte. Per farli uscire doveva spostare i carri, il che voleva dire farne passare circa un terzo attraverso il campo... Nel giro di un quarto d'ora le vie del campo furono stipate fino all'orlo di carri, bloccando il passaggio ai carri delle munizioni che avrebbero dovuto raccogliere le pietre dei trabocchi dal deposito. Non che importasse granché. La prima e la seconda truppa di arcieri a cavallo stavano scagliando le loro frecce contro gli artiglieri, e quelli che erano riusciti a mettersi al coperto non avrebbero potuto più fare fuoco fino a quando il nemico si fosse ritirato. «No» continuava a dire Bardas ogni volta che lo sollecitavano a fare qualcosa. «La prima regola è: non caricare gli arcieri a cavallo con la cavalleria pesante. L'ho imparato a mie spese. E se pensi che mandi la fanteria in quello...» Non c'era bisogno di chiedere cosa fosse quello; la scarica di frecce si alzava, planava e ricadeva come spruzzi di acqua bollente da un geyser; il solo pensiero di trovarsi sotto una di quelle cascate bastava a far correre un brivido lungo la schiena. «Quindi» proseguì «teniamo duro. Sai quante frecce può portare con sé un uomo delle pianure? Cinquanta: venticinque sulla schiena e venticinque nella sella. Quando hanno usato tutte le frecce se ne andranno e noi potremo continuare l'opera.» Aveva ragione, ovviamente. Non molto tempo dopo gli arcieri a cavallo si ritirarono, lasciandosi alle spalle quasi tutte le centomila frecce che re Temrai non era certo in grado di recuperare subito. Erano dappertutto: conficcate nel terreno, nel legno, con i barbigli impigliati nei fianchi delle tende e dei tendoni dei carri, schiacciate dai corpi dei caduti, conficcate obliquamente nel torace e nelle braccia dei morti e dei vivi. Ricoprivano il terreno come un tappeto di fiori sbocciati improvvisamente, tappezzavano i carri e le macchine come muschi o licheni, con le penne che sembravano ciuffi di cotone sulle paludi; il rumore delle aste spezzate dai piedi degli artiglieri che uscivano allo scoperto sembrava un falò di ramoscelli ed erba
secca. Come formiche o zanzare erano finite ovunque, come api stordite dal fumo dei mantici dell'apicoltore giacevano esauste dopo avere consumato il loro volo e la loro puntura. «Ripulite questo caos» gridava un ufficiale «e mettete in funzione quelle macchine, non abbiamo tempo da perdere. Dov'è l'ingegnere capo? Avremo bisogno di altre dodici squadre per la batteria numero sei. Elenco dei morti e dei feriti. Chi ha quel maledetto elenco? Devo fare tutto io?» Metà degli artiglieri erano fuori uso... più feriti che uccisi, ma la differenza non era poi tanta. I feriti erano distesi o seduti vicino ai carri delle munizioni, con le frecce che ancora pendevano dai loro corpi; i medici dovevano correre da una parte e dall'altra, a segare aste di frecce e a estrarre brutalmente barbigli. Le punte delle frecce recuperate le gettavano in cumuli sotto i tavoli, e non avevano tempo di guardarsi indietro e vedere quanto lavoro dovevano ancora fare. Ogni tanto qualcuno moriva, in silenzio o facendo un gran baccano, e a intervalli regolari passava un carro trainato a mano per raccogliere i cadaveri. Vennero a chiedere a Bardas cosa avrebbero dovuto fare ora. «Continuate» disse Bardas. «Continuate a sistemare il sentiero e la staccionata. Potete assegnare gli alabardieri alle macchine, purché ci sia un artigliere per ciascuna squadra per dare istruzioni.» Fecero il giro con grandi ceste di vimini a raccogliere le frecce; era materiale di discreta qualità che avrebbe fatto comodo prima o poi, se non in questa guerra in un'altra, dovunque l'Impero avrebbe deciso di dispiegare gli arcieri. Quando le ceste erano piene, sistemavano le frecce in botti vuote che venivano caricate sui carri degli approvvigionamenti. Le frecce spezzate venivano divise in due cataste: le punte tra gli scarti, le aste per il fuoco o per i carpentieri: un'asta è un'ottima caviglia per le strutture leggere, come i pavesi e gli scudi e i pavimenti delle torri d'assedio e i pioli delle scale. Un plotone di picchieri senza nulla da fare se ne stava seduto in circolo a gambe conserte a recidere le penne e a gettarle in grandi marmitte di terracotta. Le avrebbero usate i trapuntatori per imbottire i gambali. «È stato un gesto» spiegò Bardas «niente di più. E la cosa migliore da fare con i gesti è ignorarli, come faceva vostra madre quando eravate piccoli e non volevate finire il porridge.» Ma mentre parlava continuava a pensare al secondo livello della prova delle armi, la prova contro le frecce. Per rispondere alle specifiche, un'armatura doveva deviare una freccia a stiletto scoccata da un arco di cinquanta chili da settantacinque metri; oppure da un arco di trentacinque chili da trenta metri. In genere le armature
non superano questa prova e finiscono negli scarti insieme alle punte di freccia usate. Avevano rimesso in funzione i trabocchi e le travi venivano rizzate come martelli sull'incudine scuotendo la polvere giù dal fianco della collina. «Per lo più» stava dicendo qualcuno «stiamo usando le loro pietre per riparare la strada. La taglia di quei grossi massi è interessante, ma a spostarli ci vuole un bel po'. Ci farebbero comodo alcune gru in più, però; hanno distrutto quasi tutte quelle che ero riuscito a carpire alle batterie di testa.» Temrai provò a concentrarsi, ma non era facile. Si sentiva come se il tonfo delle bordate che piombavano a terra lo avesse accompagnato per anni e lui ormai non ci faceva più caso. Tempo prima, in quello stesso giorno, qualcuno gli aveva riferito che Tilden era morta, colpita da una scheggia di un tiro lungo che si era frantumata contro un affioramento superficiale spargendo i detriti sul terreno posteriore delle tende, al margine estremo. Aveva udito la notizia ma non riusciva a incamerarla; era impossibile concentrarsi con quel martellamento costante nelle orecchie che risaliva dal suolo lungo le piante dei piedi. Sapeva bene che non era altro che uno stratagemma... un espediente per spingerlo a uscire dalla fortezza e a scendere nella piana per una battaglia campale, ma lui non ci sarebbe cascato. Di lì c'era già passato. «E la palizzata?» chiese. «A che punto sono le provviste di legname?» «Proprio non va» gli fu risposto. «Stiamo dando la precedenza al puntellamento del sentiero, come hai detto tu, e per farlo stiamo usando una gran quantità di tronchi. Abbiamo cominciato a togliere i pali dalla parte posteriore della palizzata di testa; in fin dei conti lì non ci servono a molto e fino a ora siamo riusciti a sigillare le fenditure con materiale di recupero. Ma non possiamo continuare all'infinito: se togliamo ancora pali resteranno troppi punti deboli, sarebbe come andare in cerca di guai.» Temrai aggrottò le sopracciglia; rimanere concentrato su ciò di cui si stava parlando era come cercare di tenersi saldi a una corda: più si serrava la presa più la corda bruciava. «Non m'importa se scopriamo alcuni punti deboli» disse. «Un punto debole in un muro è una tentazione per il nemico e talvolta è bene offrire al nemico un'opportunità, purché si sia pronti e preparati quando il nemico la coglie. Spesso le migliori opportunità di vittoria in una battaglia sopraggiungono quando si è sul punto di essere sconfitti.»
Quella osservazione non servì ad accrescere la sua popolarità. Ma è vero, voleva dir loro, se studiate le guerre del passato capirete quel che voglio dire. Ma nessuno sembrava essere dell'umore giusto per una lezione di storia, quindi ne ignorò gli sguardi torvi e corrucciati. «In ogni caso» proseguì «continuate a recuperare materiale dal muro posteriore per ora. Questo bombardamento non durerà ancora a lungo, fidatevi.» E perché no? Si erano fidati di lui una volta, fino alle mura di Perimadeia, e allora era soltanto un ragazzo in cui niente indicava che sapesse quel che faceva, a eccezione forse di una certa capacità di trasmettere il proprio entusiasmo. Ora era re Temrai, saccheggiatore di Città, e avrebbero di certo dovuto fidarsi ancora di più. Ma non funzionava così. In ogni caso quella era la sua gente e faceva quanto le veniva ordinato. Coloro che non seguivano i suoi ordini erano già morti, uccisi durante la guerra civile. Discussero di alcune questioni di secondaria importanza relative ad approvvigionamenti e amministrazione, quindi Temrai sciolse il consiglio e uscì dalla tenda nella polvere. La morte di sua moglie riemergeva nella sua mente, come un pesce che sale a prendere la pastura, ma non vi era in lui alcuna lucida consapevolezza di afflizione o di colpa. Era stata proprio il tipo di donna che, in un altro luogo e in un'altra epoca, avrebbe potuto amare alla follia. Ma ora che doveva guardare il mondo dalle fessure della visiera di re Temrai, trovava quasi impossibile far scorrere fino in fondo la lama affilata; non c'era alcuna fenditura o squarcio, nessun punto debole in cui produrre un'opportunità. Il carro dei cadaveri gli passò accanto e lo superò mentre Temrai camminava lungo la pianura verso il sentiero. Lo guardò passare e si rese conto di riconoscere un volto che spuntava appena tra le gambe maciullate di un altro uomo. Per il momento stavano accatastando i morti in un granaio non ancora finito; i rifornimenti che avrebbero dovuto riempirlo erano stati danneggiati da un tiro lungo e sembrava un peccato sprecare lo sforzo compiuto per costruirlo. Era andato a vederlo e per qualche momento era rimasto in piedi a osservare il confuso cumulo di braccia, gambe, teste, piedi, corpi e mani ammassati insieme come provviste raccolte alla rinfusa, ma quella vista non era stata niente più che la somma delle parti. Un uomo gli passò accanto mentre correva giù per la collina, poi altri due. Ne seguirono altri; ne afferrò uno per un braccio e chiese cosa stesse succedendo.
«Un attacco» rispose ansimante l'uomo. «Dio solo sa da dove sono sbucati. Hanno una specie di ponte mobile per attraversare il fiume.» Temrai lo lasciò andare. «Capisco» disse. «Chi comanda gli uomini laggiù?» L'uomo alzò le spalle. «Nessuno, che io sappia. C'è il caposquadra del distaccamento assegnato alla palizzata, credo.» «Trovalo» intimò Temrai, «e digli che sarò lì appena potrò.» L'uomo annuì e riprese la sua corsa scivolando nella polvere come un uomo inghiottito dalle sabbie mobili. Il re si fermò a riflettere per alcuni istanti, poi girò le spalle e si diresse verso la sua tenda. Non c'era nessuno in giro che lo potesse aiutare a indossare l'armatura, ma ormai aveva capito come fare e diventava più semplice ogni volta che la indossava, con il metallo che si adattava al profilo della sua ossatura e dei suoi muscoli. Dopo averla calzata si sentiva molto meglio; a dire il vero passava così tanto tempo a portarla ultimamente che quando la toglieva le braccia e le gambe gli davano una strana sensazione di leggerezza e fragilità. Stava sistemando l'imbottitura interna dell'elmo quando vennero a dirgli che gli alabardieri nemici avevano aperto uno squarcio nella palizzata. Reagì alla notizia annuendo appena. «Chi abbiamo laggiù?» chiese. «Le squadre di lavoro, principalmente» rispose qualcuno. «Si sono difesi con martelli e zapponi. Ci sono anche alcuni fiancheggiatori e dei picchetti, e Heuscai sta scendendo ora con la colonna volante.» «Raggiungilo» ordinò Temrai «e digli di aspettarmi.» Quando lo trovò, Heuscai sembrava impaziente e sbalordito, quasi arrabbiato. «Dobbiamo sbrigarci» disse, «le squadre di lavoro non possono contenerli a lungo.» «Non ti preoccupare» rispose Temrai «so quello che faccio.» Guidò la colonna giù per il sentiero. Si avanzava a fatica; il bombardamento aveva innalzato il tiro di un paio di gradi allo scopo di abbattere la palizzata inferiore; stavano quindi passando ora alla demolizione dei margini superiori del sentiero mentre quelli inferiori erano in uno stato ancor più degradato. «Fate con calma» urlò rivolto all'indietro mentre cercava di farsi strada; e fu una vera sfortuna che una bordata atterrasse nel punto più denso della colonna proprio mentre lo diceva. Gli uomini erano troppo fitti per riuscire a togliersi di mezzo in tempo e quando la bordata toccò terra stritolò tre uomini con uno scricchiolio simile al suono di un ragno schiacciato da una scarpa. La polvere era più densa che mai, ma almeno si udiva il rumore della battaglia più in basso, che costituiva un punto di riferimen-
to verso cui dirigersi. Camminare giù per la scarpata con l'armatura pesante era per Temrai un'operazione estremamente ardua; le placche posteriori dei suoi schinieri gli si conficcavano nei talloni e pizzicavano la pelle tra i bordi degli schinieri e i bordi superiori dei suoi stivali. Non appena fu abbastanza vicino al fondo del sentiero per vedere cosa stesse succedendo diede l'ordine alle squadre di lavoro di ritirarsi. Quando gridò l'ordine la prima volta non lo sentirono, o forse non riconobbero la sua voce; erano infatti sul terrapieno rialzato sul lato amico della palizzata, cercando di impedire al nemico di sfondare una fenditura di circa due metri provocata da una bordata atterrata proprio in cima alla staccionata. Il masso, ovviamente, era ancora lì, e rappresentava l'ostacolo principale che frenava l'avanzata degli alabardieri. Mentre cercavano di scalarlo i manovali li colpivano con zapponi e mazze, scagliando colpi a due mani che facevano schizzare elmi e spallacci. Ma anziché produrre il suono di un martello che colpisce un'incudine il rumore dei colpi era sordo e continuo. Temrai ripeté l'ordine e gli uomini lo eseguirono e indietreggiarono, lasciandosi alle spalle lo squarcio. Sull'altro versante gli alabardieri si spingevano e si urtavano, facendo a gara per passare nel momento in cui la via era inspiegabilmente libera. Mentre avanzavano come schiuma e bollicine verso la fenditura, Temrai fece un passo indietro rimettendosi in riga e diede l'ordine di estrarre gli archi. Nel momento in cui disse incoccate le frecce una trentina circa di uomini avevano oltrepassato lo squarcio; altri ancora erano passati quando Temrai intimò finalmente di tenere basso il tiro e quando ordinò di scoccare la prima fila fece partire le frecce imprimendo una portata di non più di quindici metri. E per fortuna che aveva ricordato agli arcieri di tirare basso: con un raggio così ravvicinato la freccia sale e nonostante il suo ordine almeno un quarto delle frecce risultarono lunghe. Ma tre quarti di una salva furono sufficienti per gli alabardieri che tentavano di attraversare lo squarcio. Si accartocciarono come carta gettata nel fuoco formando un tappeto di ostacoli che bloccò il cammino agli uomini che li seguivano. La seconda salva ostruì ulteriormente l'apertura; la catasta dei caduti, attraversata e mossa da spasmi e contrazioni, arrivava ora al ginocchio, troppo sconnessa per essere varcata, troppo instabile per essere scalata. Ma nonostante tutto continuavano a tentare, e ogni nuova ondata veniva messa alla prova e falliva nell'intento. La manciata di uomini che riuscì infine a passare dovette in seguito superare il secondo livello della prova, scagliandosi su per la scarpata e ritrovandosi davanti la linea degli arcieri. Quelli che scampavano
alle frecce si lanciavano giù tra i colpi delle mazze, vorticando e cadendo come bordate lanciate da un trabocco. Durante questa azione Temrai non aveva nulla da fare salvo rimanere fermo a guardare; e mentre guardava pensava alla caduta di Perimadeia, al cancello, appena più ampio dello squarcio davanti ai suoi occhi, che si era aperto e che aveva permesso ai suoi uomini di passare. Non c'era stata nessuna fila di arcieri ad aspettarli allora, soltanto l'oscurità e le strade deserte, niente per poter dimostrare il suo coraggio. Adesso, intrappolato tra incudine e martello, con le bordate che ancora sibilavano e fischiavano sopra le loro teste, atterrando con tonfi sordi sul fianco della collina e sollevando nuvole di polvere, si sentì più sereno. Quando il capitano nemico diede l'ordine di interrompere l'attacco, lo squarcio nella palizzata era stato ricucito; non con il legname sottratto all'altro versante della collina ma con acciaio temprato plasmato in una massa solida e compatta. Ci risparmia del lavoro, pensò Temrai; hanno fatto un lavoro migliore di quanto avremmo mai potuto fare noi, e si fermò un istante per chiedersi se i suoi uomini avrebbero accettato di farsi strada intrufolandosi e scalando nella zona della morte come avevano fatto gli imperiali. Ma a noi non è mai capitato, non è una prova valida. Scosse il capo, quindi fece segno alla squadra di lavoro di farsi avanti e di cominciare a puntellare e a riparare i danni. «Vedi» disse a Heurrai, uno dei volti accigliati presenti al consiglio di guerra, «basta offrire loro un'opportunità e può darsi che siano abbastanza sciocchi da coglierla.» Heurrai non rispose: ciò che aveva visto lo turbava. Temrai lo capiva... in un altro momento, in un altro luogo, anche lui ne sarebbe rimasto turbato. Ma era migliorato molto da allora, aveva riparato gli squarci nelle sue difese, e ora si domandava se Bardas Loredan si fosse sentito allo stesso modo quando aveva evitato l'assalto a Perimadeia con le bombe incendiarie facendo danzare il fuoco sull'acqua che non arde. Era un'opportunità per un approfondimento inestimabile, una condivisione di esperienze che precedeva la condivisione delle idee e Temrai si sentiva come un apprendista accanto al proprio maestro. «Torneranno» qualcuno disse, e una bordata di trabocco atterrò ad alcuni metri di distanza, schiacciando un uomo e portando via la gamba a un altro. La bordata successiva fece alzare ancora più polvere e Temrai fece strada verso il sentiero dove un'altra squadra aveva già avviato le riparazioni.
«È chiaro» rispose Temrai quando ebbe ripreso fiato. «E quando ci riprovano offriremo loro un'altra opportunità. Non ti preoccupare... so già quel che succederà.» Bardas non si aspettava che la prima sortita andasse a segno. Era stato più un esperimento, un tentativo, una prova. Avevano superato il secondo livello. Non si sarebbe aspettato niente di meno. Nel frattempo aveva provato sul campo i ponti mobili e aveva potuto verificare che fossero all'altezza del compito. Ne era soddisfatto. Inviò la seconda e la terza batteria a selezionare un altro punto della palizzata, mentre il resto dell'artiglieria aveva l'ordine di concentrarsi sulla breccia esistente. Quindi diede ordine agli alabardieri e ai picchieri di formare una colonna, con la cavalleria ai fianchi. I balestrieri avevano subito le perdite più pesanti e non potevano essere di grande aiuto come unità sul campo; li relegò quindi alla retroguardia e fece avanzare al loro posto gli arcieri. Gli arcieri imperiali non erano granché a suo giudizio, o almeno questi non lo erano; disponevano di archi piatti da trentacinque chili, decisamente inferiori agli archi pesanti degli uomini delle pianure, e il loro ruolo nell'esercito era a parte, come un contorno. Questo fatto lo irritava. Se avesse voluto, l'ufficio provinciale avrebbe potuto fornirgli i migliori arcieri del mondo, con archi lunghi e ricurvi del nord, archi da spalla del sud, a piedi o a cavallo, con armature leggere o pesanti, pronti a difendersi come fiancheggiatori o con lanci di salve, a viso aperto o da dietro i pavesi. Invece tutto quel che aveva erano balestrieri e cacciatori di conigli, e né gli uni né gli altri gli sarebbero certo tornati molto utili. Ma non era importante. Poteva gestire benissimo la situazione con quel che aveva a disposizione. Concesse un'ora alle batterie per aprire i varchi, ma furono sufficienti venti minuti; quindi li riassegnò alla realizzazione di uno sbarramento di copertura sull'artiglieria nemica. La polvere era una manna dal cielo inattesa. Avrebbe potuto affrontare benissimo la situazione anche senza la polvere, ma la sua presenza rendeva più semplice quel che aveva in mente di fare. Venne corretta l'angolazione dei trabocchi sui nuovi bersagli e Bardas diede l'ordine di suonare l'avanzata. Mentre avanzavano, gli alabardieri intonarono un canto ma a Bardas non interessava più se non riusciva a capirne le parole. In questa occasione provò una tattica diversa. Anziché fare semplicemente irruzione nelle brecce con la fanteria pesante, inviò alcune compa-
gnie di fiancheggiatori per innalzare i pavesi. Come aveva previsto, gli arcieri di Temrai erano in posizione pronti a contrastare l'assalto, ma anziché trovarsi di fronte bersagli a cui sparare bordate, Bardas gli offrì il cuoio di bue, mentre i suoi arcieri rispondevano al fuoco attraverso le feritoie e da dietro i bordi degli scudi. Il risultato che ottennero non valse molto, ma non era questo che interessava a Bardas; lo scopo dell'azione era fornire a re Temrai un'opportunità per scoccare quante più frecce poteva ai pavesi senza fare danni. Sapeva che ciascun uomo della pianura portava venticinque frecce sulla schiena, sufficienti a colpire per tre minuti; una volta finite quelle avrebbero dovuto aspettare gli approvvigionamenti che scendevano dalla collina provenendo dalla cava dei rifornimenti, lungo il sentiero sconnesso e attraverso la polvere. Una volta scaduti i tre minuti gli arcieri del nemico non avrebbero più rappresentato una seria minaccia; sempre che Temrai fosse stato così poco previdente da non rendersi conto del piano di Bardas. E invece Temrai interpretò la parte come se avessero provato per settimane; i pavesi resistettero allo sbarramento: si trattava di un progetto che aveva perfezionato lui stesso, con pelli tese sostenute da fitte spirali di quella paglia intrecciata che l'Impero forniva per la realizzazione dei bersagli degli arcieri; erano state concepite da esperti per fermare un numero infinito di frecce; quando la grandine di frecce rallentò e divenne sporadica fece aprire gli scudi e passare gli uomini con le picche. Alla vista si presentava una cinta di lance densa come il sottobosco di una foresta incolta. Gli arcieri continuarono comunque a scoccare, ma le loro frecce non potevano arrivare molto lontano. Era peggio che cercare un varco in un inestricabile intrigo di rovi. La distanza da coprire era di appena venti metri; a un certo punto i picchieri furono abbastanza vicini da farsi toccare e gli uomini delle pianure tentarono di fuggire; ma vennero in soccorso le loro stesse file, sostenute dai carri degli approvvigionamenti che portavano altre frecce, protetti a loro volta dai rinforzi che stavano discendendo il sentiero. C'era una certa carenza di spazio a causa della compressione: la prima linea si ritrasse dalla cinta di lance, come bambini su una spiaggia che si ritirano al sopraggiungere dell'onda. Ma quando si appiattirono contro gli uomini alle loro spalle rimasero bloccati: non potevano far altro che guardare le picche che si avvicinavano e li trafiggevano. Alcuni delle prime linee perirono subito. Altri rimasero appesi alle picche ancora vivi, come i tocchi di carne allo spiedo che i Figli del Cielo mangiavano con riso e peperoni. La potenza dell'avanzata fu tale da farli
alzare da terra mentre ancora si divincolavano come pesci arpionati. Anche gli alabardieri erano spalleggiati e le linee di retroguardia premevano quindi per avanzare, andandosi a infittire nelle file che le precedevano tanto che anche volendo non avrebbero potuto abbassare le loro picche; le lunghe aste di frassino e di melo erano quindi costrette a incurvarsi come archi sotto il peso della carne, ma poiché erano state verificate e giudicate conformi alle più alte specifiche richieste dall'Impero non si spezzarono, né lo fecero gli uomini accalcati intorno a esse. La seconda linea del nemico si unì alla prima sulle lance, come un secondo strato di stoffa unito al primo da ago e filo; alcune aste non resistettero e si spezzarono, ma il loro numero non fu tale da fare la differenza. Dopo che le prime due linee si furono ricongiunte sulle lance, l'avanzata subì un arresto; morti o impalati, servirono la terza linea come un gambale o un altro tipo di armatura imbottita o trapuntata, resistendo alla spinta più con la morbidezza che con la forza o la deviazione: l'imbottitura dei gambali attutisce e dissipa la forza della spinta, bloccando la corsa della lama. L'impeto in avanti degli uomini con le picche si arrestò, così come era successo alla pioggia di frecce; la manovra aveva fatto il suo corso ed era tempo di passare alla seconda fase. Nel frattempo Temrai aveva intravisto un'altra opportunità. Era sul sentiero e scrutava la massa stipata che era il risultato del massacro, quando vide l'avanzata fermarsi mentre le due fazioni si osservavano l'un l'altra tra la polvere e il bosco di frassini, come due vicini ai lati opposti di una siepe. Si rivolse al primo uomo che si trovò accanto, un capo sezione di nome Lennecai, e gli tirò la manica. «Sono bloccati» disse. «Cosa?» «Sono bloccati» ripeté Temrai. «Non possono muoversi, proprio come noi. Fai ripulire il sentiero e porta giù sei compagnie di arcieri.» Ripulirono il sentiero liberando i carri e spingendoli fuori dal tratto divelto. Per lo più rotolarono giù senza far danni, rimbalzando sul fianco roccioso della scarpata e andandosi a schiantare nel legname di scarto; alcuni atterrarono come bordate di trabocco nella massa compatta dei corpi, altri dal versante opposto della cinta, altri ancora da quello amico. Lennecai fece mettere in riga i suoi arcieri in una doppia colonna e ordinò loro di girarsi su un fianco; diversi di loro avevano la visuale libera verso i picchieri e la manovra sembrava quindi poter avere un buon esito. Gli uomini di Bardas rivolsero istintivamente lo sguardo verso l'alto mentre le frecce
sibilavano e fischiavano nell'aria e riuscirono a vederle partire e arrivare, e piombare su di loro come pioggia in una giornata di vento. Non c'era ovviamente alcun modo di trarsi d'impaccio... non avevano altra scelta che rimanere lì a guardare le frecce, fitti com'erano come covoni di frumento in piedi. Non era solo la prima linea, e neanche le prime tre linee. Gli arcieri stavano concentrando il tiro su tutta la formazione, dalla prima linea alla retroguardia. Mano a mano che venivano colpiti o trafitti, gli uomini smettevano di spingere; l'impeto diminuì dalle picche gremite come la tensione da un ponte di corda quando si recide uno dei cavi portanti. La calca cominciò a crollare, come una placca di metallo schiacciata piegata dai colpi del martello, fino a quando la pressione degli uomini all'estremità opposta delle lance li costrinse a cedere terreno. E mentre indietreggiavano, la formazione perse la capacità di sopportare il peso delle picche, con l'enorme peso della carne che penzolava dall'estremità appuntita. Le picche si abbassarono come gli alberi abbattuti di una foresta lussureggiante, ammassandosi e intricandosi nel sottobosco. Ora sarebbe il momento giusto per una controffensiva osservò Temrai, e alcuni istanti dopo la vide iniziare, mentre i superstiti della sua terza e quarta linea si fecero largo a spinte e gomitate attraverso i corpi dei loro compagni, mentre cercavano di sferrare un attacco con le loro scimitarre. Il successo dell'azione fu solo parziale; non c'era ancora abbastanza spazio per brandire una spada, per sferrare un colpo dall'alto, e comunque gli elmi e gli spallacci degli uomini con le picche sopportavano facilmente i tagli leggeri inferti con la forza di braccio e polso soltanto. Al massimo potevano riuscire ad affettare qualche dito, orecchio o naso, come un guardiaboschi che rifila un tronco abbattuto. «Sta per commettere un errore» disse Bardas. I picchieri si stavano accasciando e indietreggiavano; gli uomini di Temrai invece continuavano a spingere avanti, per dar seguito a un'opportunità che non avrebbero mai immaginato di avere. Bardas inviò un paio di staffette al sergente degli alabardieri, e un'altra agli artiglieri. Anche Temrai se ne accorse, ma a quel punto non era più in grado di controllare i suoi uomini che emergevano dalle brecce e si lanciavano all'inseguimento dei picchieri, per essere infilzati all'istante dagli arcieri di Bardas posti sull'altro versante. La scossa del fuoco di raffica a distanza ravvicinata li bloccò all'istante, mentre venivano abbattuti come grano
mietuto; prima che potessero fare dietrofront e tornare indietro, gli alabardieri erano avanzati per annientarli completamente. Le staffette di Temrai giunsero in tempo per impedire ad altri di oltrepassare la palizzata, ma per quelli che erano già usciti non c'era più niente da fare. Le squadre di lavoro avevano cominciato ad ammassare i rifiuti nelle brecce per arginarle prima ancora che l'ultima squadra di inseguimento venisse massacrata. La seconda opportunità di Bardas non fu molto valida: i trabocchi riuscirono appena a scagliare due bordate nette sugli arcieri allineati sul sentiero prima che Temrai ne ordinasse la ritirata. Ripiegarono i ponti mobili e si ritirarono in buon ordine, senza alcuna interferenza da parte dell'artiglieria malconcia e in disarmo di Temrai. Quando la squadra di assalto fu in salvo, i bombardieri ripristinarono i trabocchi nella posizione precedente, bloccarono le manovelle e proseguirono il tiro sul sentiero e sulle postazioni delle macchine. «A conti fatti» spiegò Bardas, «ne siamo usciti in vantaggio. Abbiamo ucciso più nemici, abbiamo fatto sprecare loro più frecce, e ovviamente c'è l'effetto morale che deriva dall'avere concluso l'azione in vantaggio. Ma soprattutto abbiamo appreso un'altra lezione sul combattimento a distanza ravvicinata nella fortezza, e lo abbiamo appreso in un esercizio pratico anziché durante l'assalto effettivo. Tutto quel che possono dire loro, invece, è che sono ancora lì, e questo io non lo chiamo fare progressi.» Sospirò, e se anche vedeva i feriti sparsi sui carri fuori dal recinto del medico non ne fece parola. «Dobbiamo ancora fare parecchia strada» continuò, «ma poco a poco ci stiamo arrivando. Dopo tutto, Perimadeia non è stata costruita in un giorno.» «Chi, io?» Gorgas era esterrefatto. «No di certo. Perché dovrei fare una cosa tanto stupida?» L'espressione sul volto del messo non mutò. Li allevavano perché crescessero a quel modo, si domandava Gorgas, oppure scolpivano loro addosso quella maschera, negli zigomi e nella mascella, quand'erano piccoli, come una componente indispensabile del lungo apprendistato all'arte della diplomazia? «Ripeto solo quello che mi è stato detto» disse. «Le nostre fonti ci informano che la ribellione è stata innescata dai suoi uomini, su suo ordine. Il fatto che lei stia discutendo della questione con me anziché con ventimila alabardieri dovrebbe farle capire quanto ci fidiamo dei rapporti che provengono da quella fonte.» Gorgas rise come se il messo gli avesse appena raccontato una barzellet-
ta. «Be', a meno che lei non mi dica da dove proviene il rapporto non posso esprimere alcun giudizio. Può darsi che questi impiastri di cui parla siano i miei uomini, nel senso che hanno servito con me in passato, ma qualunque cosa sia avvenuta non è certo stata per un mio ordine. Non sia mai. Dopo tutto» aggiunse «non sarò un genio, ma non sono tanto stupido da attaccar briga con l'Impero per conto di un gruppo di mercanti che non mi hanno mai fatto alcun favore. Sarebbe un suicidio. Posso farle portare qualcosa da mangiare?» Il messo lo guardò sbigottito, quindi fece cenno di no col capo. «No, grazie» rispose. «Mi rincresce averla disturbata. Naturalmente, se dovesse scoprire chi è il responsabile del fatto...» «Naturalmente. Sarò lieto di avere la possibilità di fare qualcosa per dimostrare quanto il Mesoge sia deciso a diventare un leale e prezioso membro dell'Impero. È così, vero: siamo la prima nazione a unirsi volontariamente all'Impero?» «Purtroppo non lo so» rispose il messo, mentre sfregava il mantello per togliere il muschio e le foglie marce che vi si erano appiccicate. «Un'altra cosa prima che vada: ha per caso avuto notizie da sua sorella o da sua figlia? Ci sono arrivati rapporti piuttosto inquietanti che fanno pensare che siano state rapite.» «Ma non mi dica» rispose Gorgas. «No, non ho avuto notizie né dall'una né dall'altra di recente. Stavo comunque pensando di scrivere presto a Niessa. Vedrò cosa riesco a scoprire.» «Grazie» ribatté austeramente il messo mentre fissava l'ascia che penzolava dal ginocchio di Gorgas. «La lascio tornare al suo lavoro.» «Pilastri dei cancelli» rispose Gorgas. «È un peccato dover abbattere queste vecchie querce. Mi ricordo quando mi ci arrampicavo sopra da piccolo, ma ormai sono morte. Meglio abbatterle adesso che sentirsele crollare sul tetto in una notte di vento. E non c'è niente di meglio del legno di quercia per i pilastri dei cancelli.» «Senza dubbio» gli rispose il messo. Uno degli uomini della sua scorta gli teneva la staffa; il messo si diede una spinta da solo e montò rigidamente in sella. «Grazie per il tempo che mi ha concesso.» «È sempre un piacere» rispose Gorgas. Quando il messo e la sua squadra furono ormai usciti dal campo visivo, Gorgas aveva quasi finito il lavoro e decise quindi di arrivare in fondo prima di tornare a casa. Aveva fatto i tagli su tre lati per poter determinare l'angolo di caduta. Non gli restava che tagliare il quadrante rimasto fino a
raggiungere il punto in cui il sottile midollo centrale non fosse più in grado di sopportare il peso dell'albero. A quel punto gli sarebbe bastato premere leggermente con la mano per far cadere l'albero. Fu una caduta perfetta, all'incirca dove lui aveva voluto, e si concesse un momento di riposo e di compiacimento, appoggiandosi all'ascia e ascoltando il dolce picchiettio delle gocce di pioggia che cadevano dalle foglie del grande olmo alle sue spalle. Era piovuto per tutta la notte, ma al mattino il tempo era sereno e fresco. Se c'era un odore che faceva pensare a casa era il sereno dopo una notte di pioggia. Era un peccato che non potesse restare più a lungo, ma c'era da fare dentro prima di poter riprendere quel lavoro. E poi era rimasto lì per trent'anni, avrebbe di certo resistito un'altra ora senza provocare una catastrofe. Accostò l'ascia contro il tronco dell'olmo e si incamminò lentamente verso la casa. Erano lì, come sempre, a fissarsi dai lati opposti della stanza buia come due cani. Perché sua sorella e sua nipote continuassero a tenersi il broncio a questo modo non riusciva proprio a capirlo. Aveva però la sensazione che costringerle alla riconciliazione avrebbe fatto più danno che altro. «È passato qualcuno chiedendo di voi, oggi» disse. Nessuna delle due fiatò. «Veniva dall'ufficio provinciale, e mi ha informato che probabilmente eravate state... rapite, è questa la parola che ha usato. Quindi conviene che restiate dentro ancora un po', in caso abbiano lasciato qualcuno di guardia. Mi dispiace» continuò per placare le due donne che avevano preso a protestare con veemenza «ma non voglio la seccatura che ne deriverebbe se venissi preso con voi due qui, almeno finché non ho avuto modo di sistemare le cose.» Si sedette e avvicinò il boccale del sidro. Non c'era niente di meglio per farsi venire una salubre sete che abbattere un albero. «Credo che fingeremo di credere a questa storia del rapimento» disse. «Ecco cos'è successo: siete state rapite dai pirati. Mi è stato chiesto un riscatto, io ho accettato, ho pagato il riscatto e vi ho riprese, quindi sono andato a cercare i pirati e li ho sistemati. Quando qualcuno vi fornisce una menzogna così ben confezionata la buona educazione impone di stare al gioco.» Le due donne non fiatarono. Gorgas sorseggiò il suo sidro e sorrise; ce n'era voluto per riabituarsi al sapore del sidro fatto in casa, ma era uno di quei sapori a cui ci si assuefaceva gradualmente... una sorta di sgradevolezza familiare che dava conforto. «Soprattutto» continuò «non voglio cau-
sare trambusto fino a quando Bardas non ha sconfitto Temrai. Non ci vorrà ancora molto, quindi ci conviene aspettare e tenere duro. Quel dannato messo imperiale deve avere avuto sentore anche di questo, ma ovviamente non ha prove.» Niessa si rivolse verso di lui. «Che cos'è questa faccenda, comunque?» chiese. «Mi avevano detto che avevi inviato i soldati nell'Isola...» «Chi te l'ha detto?» chiese Gorgas. Niessa aggrottò le ciglia. «Uno dei sergenti che sono venuti qui giorni fa, quello alto con i capelli rossi...» Gorgas annuì. «Ho capito chi intendi» disse. «Dava per scontato che fossi al corrente di tutto» proseguì Niessa. «Spero che non si sia messo nei guai per colpa mia.» «È comprensibile» spiegò Gorgas. «Dopo tutto fino a poco tempo fa prendevano ordini da te, non da me. Va bene, ci penserò io.» Quella frase non faceva presagire nulla di buono per il rosso sergente, che in realtà si era mostrato piuttosto riluttante a parlare con lei. Ma Niessa non era disposta a cambiare discorso. «Allora, cos'hai combinato di recente?» chiese. «Lo sai che non dovresti giocare alla politica dei potenti. Non sei un politico e non sei nemmeno tanto potente.» Gorgas ridacchiò. «È come abbattere un albero» disse «basta solo fare in modo che le cose cadano nel verso giusto. Sapevo che se l'ufficio provinciale avesse fatto a modo suo io sarei diventato il loro generale e anche quello delle truppe dell'Isola che avevano sbaragliato Temrai e che Bardas sarebbe servito soltanto a radunare gli sbandati. Il che non avrebbe portato alcun vantaggio a nessuno. Per questo ho fatto in modo che la flotta non salpasse in tempo.» «Sei stato tu?» chiese Iseutz, sorridendo. «Sì, come no. E come avresti fatto?» «Facile» rispose Gorgas. «Sono andato a parlare con alcuni mercanti che conosco sull'Isola e ho consigliato loro di mettere l'ufficio provinciale alle strette per avere più denaro. A dire il vero pensavo che avrei incontrato più difficoltà a convincerli. Per una nazione che si fa chiamare imprenditoriale sono ingenui come chiunque altro. Naturalmente» proseguì «sapevo che c'era il rischio che gli Imperiali facessero quello che poi hanno fatto: annettere l'Isola e appropriarsi quindi delle navi. Ma la cosa non mi preoccupava, perché ero sicuro che Bardas avrebbe raggiunto Temrai in campo aperto anziché tentare di stanarlo. Quindi, quando gli Imperiali hanno fatto la loro mossa, ho mandato alcuni dei miei uomini a seminare zizzania sul-
l'Isola, cosa che hanno fatto. Dio li benedica, e adesso Bardas si ritrova il campo libero. A essere onesti il risultato è stato anche migliore di quanto avessi previsto.» Ci fu un istante di silenzio. Niessa scuoteva la testa con aria sdegnata. «C'è una cosa che mi fa pensare» disse Iseutz. «Hai le prove che Bardas voglia davvero essere colui che presenta la testa di Temrai al prefetto e che gli importi sul serio? Per quanto ne sai era ben felice di darsi da fare ai confini, lontano dal campo di battaglia.» «Non essere sciocca Iseutz» la rimproverò Gorgas. «Conosco bene Bardas, al contrario di te. Quando scorge un'opportunità la sfrutta al meglio. Da questo punto di vista assomiglia a me e a tua madre... credo che sia un tratto di famiglia.» «Pensa ai successi che ha ottenuto da quando è nell'esercito. Per loro ha conquistato Ap' Escatoy e ora è a capo di un esercito con un comando assegnato sul campo e la possibilità di vendicare la terribile sconfitta e riportare prestigio all'Impero. Saranno costretti a offrirgli una prefettura e faranno la sua fortuna. E poi non credo che gli piangerà il cuore al pensiero di pareggiare i conti con Temrai, anche se non si può certo definire una persona vendicativa. A differenza di altri» aggiunse con tono significativo rivolto a Iseutz. «No, quello che Bardas ha e che tutti noi invece non possediamo è il suo forte senso morale. Vorrà che Temrai venga punito non per ripicca o perché può procurargli piacere, ma perché sa che è una cosa necessaria, e non sarà tranquillo fino a quando questo non sarà fatto e non sarà stato lui a farlo.» «E tu hai preso le giuste precauzioni per fare in modo che ne avesse l'opportunità.» «Era il minimo che potessi fare» rispose Gorgas. «Se non lo avessi fatto non mi sarei sentito a posto con me stesso. E poi è stato davvero facile alla fine. Be'» continuò «adesso basta parlare di questo. Devo scrivere delle lettere. Una di voi due ha visto Zonaras? Voglio che faccia un salto a Tornoys per me.» Iseutz alzò le spalle. «Qual è Zonaras?» chiese. «Io non riesco ancora a distinguerli.» Gorgas la guardò in cagnesco. «Molto divertente» disse. «Immagino che questo significhi che non lo hai visto. Be', se lo vedi, io sono nel mio ufficio.» Quello che Gorgas chiamava ufficio era una piccola stanza sul retro della casa. In origine era stata un affumicatoio, dove i prosciutti venivano
appesi al soffitto. Gorgas ne aveva fatto riparare il tetto e aveva buttato giù una porta e una finestra. Aveva anche in mente di costruire un affumicatoio nuovo e più grande sull'altro lato del cortile, una volta terminate le riparazioni dello steccato, della legnaia e del luogo dove tenevano le trappole. Ma ci avrebbe pensato poi. L'ufficio disponeva di uno scrittoio di buona fattura con il ripiano inclinato all'altezza del petto (Gorgas era un tipo vecchio stile e preferiva rimanere in piedi quando scriveva), una mensola per la lampada che si spostava di lato ruotando su un braccio a perno, un altro braccio con un foro per il calamaio di osso e un vassoio in cima per temperini, ceralacca, pietra per affilare, scuotisabbia e tutti gli altri arnesi che si accumulano quando si passa un po' di tempo a scrivere. Sotto il piano c'era una tavola che si estraeva e poggiava su due puntelli pieghevoli; le sue dimensioni erano perfette per una tavola da contabile, con la rastrelliera per i conti su un lato. E va da sé che era stata fabbricata a Perimadeia, circa cento anni prima. Il legno era scuro e caldo per via della cera d'api, e sul piano era stato inciso il motto DILIGENZA-PAZIENZA-PERSEVERANZA, che faceva pensare che fosse stato realizzato per un cliente dell'Ordine di Shastel. Gorgas ne serbava un vivo ricordo infantile. Non aveva la minima idea di dove il padre l'avesse trovata, ma la usava come tagliere per fare e rifinire le penne per le frecce, prova ne erano le centinaia di piccoli tagli che ne segnavano la superficie. Quando l'aveva recuperata dal deposito dei mobili in disuso nel vecchio fienile, Gorgas aveva pensato di rivestirne il piano con del cuoio o di impiallacciarlo con un sottile foglio di legno di quercia di Colleon, ma alla fine l'aveva lasciato com'era per non cancellare i segni visibili lasciati dal padre. Aveva tagliato una penna nuova proprio il giorno prima, da una penna d'oca grigia; non c'era bisogno di affilarla ma lo fece ugualmente; usò il coltellino corto la cui lama era stata resa sottile come un foglio di carta da anni di affilatura e che si trovava nella casa da sempre, anche se sua madre lo aveva utilizzato in cucina, per scuoiare e tagliare a pezzi. Piegò quindi all'indietro il coperchio del calamaio. Era uno di quelli che aveva fabbricato lui stesso, anche se il coperchio e la cerniera di ottone li aveva costruiti Bardas; la cerniera era stata recuperata dai rottami di ottone presi dal rinforzo di metallo di una guaina verdognola e fragile trovata sul letto di un torrente. Gorgas intinse la penna e cominciò a scrivere. Era una lettera molto breve, vergata su un pezzetto di pergamena che era già stato raschiato tre volte; dopo avere asciugato l'inchiostro con la sabbia, arrotolò la
lettera e infilò il rotolo in un tubo in lamina di ottone con una circonferenza più sottile di una freccia. Quindi allungò una mano sotto lo scrittoio e ne estrasse una freccia. Era una freccia imperiale regolamentare, con una piccola lama minuta di sezione a diamante e un'incavatura a collo lungo. Ne estrasse la punta senza alcuno sforzo e spinse il tubo di ottone all'interno dell'incavatura quanto più a fondo gli fu possibile. Quindi raccolse una piccola borsa di cuoio dal piano dello scrittoio, la aprì e ne fece uscire alcuni cristalli marroni che raccolse sul palmo della mano. Sul vassoio c'era anche un piccolo disco di ottone, uno dei due piatti di una bilancia ormai perduta. Dopo avere posato i cristalli sul piatto prese il temperino e si produsse un taglietto sull'avambraccio, inclinando il braccio in modo che il sangue colasse sui cristalli. Quando furono completamente imbrattati, avvolse un ritaglio di tela sulla ferita e sputò accuratamente sul piatto fino a quando le proporzioni di sangue e saliva non furono all'incirca uguali. Quindi aggiunse un generoso pizzico di segatura da un cartoccio di pergamena che teneva sotto il polsino. Avvicinò a sé il braccio della lampada, portò il piatto sopra la fiamma e agitò la mistura con il manico del temperino per sciogliere i cristalli (colla, estratta da pelle non conciata lasciata a macerare). Quando la consistenza gli parve giusta, intinse la punta del dito mignolo perché vi rimanesse attaccata una piccola quantità di colla e la sparse sull'estremità dell'asta della freccia in corrispondenza del punto in cui sarebbe andata l'incavatura. Rimise a posto l'incavatura facendo attenzione a mantenerla dritta, fasciò la giuntura con uno spago sottile come uno stelo di ortica e utilizzò il resto della colla per saldarne le estremità. Da ultimo doveva contrassegnare la freccia. Intinse di nuovo la penna nell'inchiostro e con molta cura scrisse questa tra la piuma e la penna inferiore in piccole appuntite lettere da scrivano. Quindi la posò sul davanzale della finestra ad asciugare. Aveva altre lettere da scrivere e stava proprio sbrigando questa incombenza quando entrò Zonaras, come al solito senza bussare. «Be'?» disse. Gorgas sollevò il capo. «Ecco dove sei» disse. «Fammi la cortesia di andare a Tornoys...» «Come, oggi?» «Sì, oggi. Vai al Carità e Castità, non c'è bisogno che ti dica dov'è, e chiedi del capitano Mallo che sta andando ad Ap' Escatoy. Consegnagli
queste lettere e questa freccia...» «Che se ne fa di una freccia sola?» «Fai solo in modo di consegnargliela» disse Gorgas in un tono di voce che fece strabuzzare gli occhi a Zonaras. «Sa lui quel che deve farci. Dopo averla consegnata» aggiunse infilandosi una mano in tasca «e non prima, per nessun motivo, vatti a bere un bicchiere a mie spese.» Gli allungò cinquanta centesimi d'argento che Zonaras afferrò senza dir nulla. «Tutto chiaro?» Zonaras annuì. «La giumenta ha perso un ferro» soggiunse. «Cosa? Quando è stato?» Zonaras scrollò le spalle. «L'altro ieri.» Gorgas sospirò. «D'accordo» disse. «Prendi il mio cavallo, ma cerca di non farlo finire in qualche tana di coniglio. Quando torni ferrerai la giumenta.» Zonaras lo guardò arcigno. «Devo fare un po' troppe cose, adesso.» «D'accordo, la giumenta la ferrerò io. E adesso vai e ricorda: il capitano Mallo che sta andando ad Ap' Escatoy, al Carità e Castità. Pensi di ricordartelo?» «Certo.» Dopo che se ne fu andato, Gorgas si appoggiò allo scrittoio e aggrottò le sopracciglia. Se c'era qualcuno in grado di complicare una semplice commissione quello era Zonaras. D'altro canto, il pensiero di Zonaras che andava a cavallo fino al Carità e Castità di Tornoys e beveva fino a non capire più nulla era la cosa più naturale del mondo, un episodio frequente degli ultimi vent'anni, una vista tanto familiare da passare quasi inosservata. Prima di uscire dallo studio Gorgas si fermò sulla soglia e rivolse lo sguardo verso l'alto, come era sua abitudine, per ammirare lo splendido arco posato sui due pioli sopra lo stipite. Era l'arco che Bardas aveva costruito per lui, proprio come aveva fabbricato il coperchio del calamaio, lo scuotisabbia di rame e il righello pieghevole di legno di bosso in tre pezzi che Gorgas aveva sempre portato con sé ovunque andasse. A Perimadeia si era spezzato ma lui aveva conservato i pezzi e, anni dopo, il miglior artigiano costruttore di strumenti della Città lo aveva riparato, con una colla finissima di vescica di pesce e con delle tacche argentate così sottili che quasi non si vedevano. Contemporaneamente si era anche fatto fare un astuccio rigido in oro e argento per fare in modo che non si spezzasse più. CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Nella speranza di costringere Temrai a offrirgli un'opportunità, Bardas continuò i bombardamenti per tre giorni senza modificare le impostazioni; ai suoi ufficiali dello stato maggiore descrisse la situazione come un "martellamento del nemico". In realtà non capivano bene a cosa si stesse riferendo, ma intuivano il ragionamento a monte. L'ostacolo principale era ancora la disparità delle forze. Se fossero riusciti a costringere Temrai a tentare una sortita imprudente avrebbero avuto la possibilità di uccidere abbastanza uomini e portare il divario su valori accettabili. Era un valido ragionamento imperiale e loro approvavano. Malgrado ciò, l'esercito imperiale stava accusando la fatica. Un terzo degli alabardieri e dei picchieri doveva sempre essere tenuto in armi, nell'eventualità che Temrai lanciasse un attacco notturno. Un altro terzo era occupato a estrarre e a trasportare pietre per i trabocchi dai vicini affioramenti superficiali; tra l'altro le riserve di rocce utili si stavano esaurendo molto più rapidamente di quanto Bardas avesse previsto. Inoltre, due squadroni di cavalleria erano stati distaccati per fornire assistenza all'artiglieria. Ai soldati non piaceva affatto questa regressione nei compiti, mentre i bombardieri si lamentavano vigorosamente dei danni, più che dei benefici, causati dai soldati a cavallo dalle mani di pasta frolla. Anche i trabocchi stavano cominciando a cedere dopo tante ore di attività ininterrotta e Bardas si accorse con preoccupazione che il livello delle riserve di legname e di corda era basso, e nessuno dei due materiali era reperibile nei dintorni. Aveva già impartito l'ordine di abbattere le torri d'assedio appena edificate per ricavare legname e materiale vario, ma a questo punto non pareva più che fosse necessario; e poi si potevano utilizzare le coperture di pelle per costruire altri pavesi, almeno appena avesse potuto liberare alcuni falegnami dalla manutenzione dei trabocchi. Per fortuna che c'era Theudas ad aiutarlo. Disponeva di molti soldati, ma al suo servizio aveva solo alcuni scrivani competenti e sembrava che il suo lavoro consistesse quasi esclusivamente nella redazione di turni e orari, nell'assegnazione di materiali, nell'aggiornamento delle note di carico dei magazzini, nel genere di cose, insomma, che sapeva fare se era costretto ma che Theudas invece eseguiva con passione. «Non si preoccupi» gli disse il ragazzo. «Se un taccuino e una tavola da contabile potessero contribuire alla morte di Temrai allora può già considerarlo morto.» Quindi si lanciò in un riassunto a spron battuto dell'ultima disputa ai ferri corti tra il capo falegname e le batterie numero sei e nume-
ro sette riguardo a chi avesse maggior titolo per rivendicare l'ultimo fusto pieno di chiodi a testa quadra del sei... «Occupatene tu» lo interruppe Bardas con un fremito di disgusto. «Non c'è problema» rispose allegramente Theudas. Bardas sorrise. «È bello vedere che hai trovato qualcosa che sai veramente fare» disse. «Eri un apprendista arciere davvero scadente.» «È vero, ero davvero pietoso» rispose Theudas alzando le spalle. «Comunque, tutti sanno fare qualcosa.» Due uomini si incontrarono in una baracca ai margini della distesa che costituiva il deposito imperiale degli approvvigionamenti di Ap' Escatoy. Era buio e gli uomini non si conoscevano. Dopo un breve intervallo di tempo in cui i due si studiarono come fanno i gatti, uno di loro infilò la mano sotto il mantello ed estrasse un fagotto avvolto nella tela. «Consegna speciale?» chiese. «Sì, è per me.» L'altro uomo allungò la mano verso il fagotto. «Spero che lei sappia dove deve andare perché io proprio non ne ho idea.» «C'è scritto sul biglietto.» Il primo uomo indicò un pezzetto di carta attaccato alla sottile cordicella grezza che teneva insieme il fagotto. «Vedo» rispose l'altro, aggrottando la fronte. «E che dice?» «Non lo so. Io non so leggere.» L'altro uomo fece un sospiro. «Dai qua» disse. Palpò il pacchetto con fare incuriosito. «Sembra un bastoncino. Hai idea di cosa ci sia qui dentro?» «No.» «Ti piace molto il tuo lavoro, vero?» «Eh?» «Lascia perdere.» Il mattino successivo qualcuno rubò un cavallo dalla stalla del corriere grazie a una falsa richiesta scritta. Si pensò che fosse partito in direzione della guerra. Non si poteva mandare nessuno per inseguirlo ma venne aggiunto un memorandum al registro degli incidenti, cosicché la questione potesse essere vagliata in seguito. Temrai aveva perso l'abitudine di tenere gli occhi aperti. Negli ultimi giorni, quanti non sapeva dire, non ce n'era stato motivo. Non c'era nulla da vedere a eccezione della polvere, che ostruiva gli occhi e accecava comunque, tanto che era più semplice tenerli chiusi e fare affidamento sugli altri sensi per capire come muoversi. Il suo udito, invece, era diventato uno
strumento di alta precisione, tanto che dal rumore di una bordata in caduta era in grado di dire con esattezza quasi assoluta dove sarebbe atterrata. Questo metodo aveva raggiunto un'affidabilità del 99%; l'unica eccezione rilevante fu il colpo che finì a pochi metri da lui sul sentiero e che, staccando un'enorme quantità di rocce e detriti, lo seppellì. È strano, pensavo che prima si dovesse morire. Aprì gli occhi, ma non c'era nulla da vedere. Mani, gambe, testa... non poteva muovere nulla. Respirare era appena possibile, ma risultava talmente faticoso e lento da essere un lavoro a tempo pieno. Sarebbe finita bene, comunque. Sarebbero venuti e lo avrebbero disseppellito in un paio di minuti. Supponendo, ovviamente, che sapessero dove si trovava, o che fosse addirittura rimasto sepolto. Ora che ci pensava, non c'era motivo di credere che qualcuno lo osservasse nel momento in cui la collina gli era franata addosso. Anche vedere la propria mano davanti al viso era un risultato non da poco, grazie alla polvere. Quanto tempo avrebbero impiegato, si chiese, per accorgersi che non c'era più? Anche se se ne fossero accorti quasi subito, non era certo una reazione istintiva quella di dire Ehi, Temrai non si trova, deve essere rimasto sepolto vivo da qualche parte. Pensò a tutte le volte in cui era andato in cerca di qualcuno, non era riuscito a trovarlo e aveva abbandonato la ricerca irritato e infastidito, pensando che la persona non volesse farsi trovare. «Va tutto bene» disse una voce accanto a lui. «Ci troveranno. Dobbiamo soltanto avere pazienza e cercare di restare calmi.» Temrai era sorpreso, ma piacevolmente sorpreso. Non si ricordava di aver visto nessuno accanto a lui quando la collina era franata, ma grazie alla polvere la sua vista non era attendibile. «Stai bene?» chiese. La voce rise. «Mai stato meglio» rispose. «Non c'è niente di meglio che essere sepolto vivo in un buco nel terreno sotto tonnellate di detriti: mi aiuta a rilassarmi.» La voce aveva un che di familiare, molto familiare a dire il vero, ma non riusciva a capire a chi appartenesse. Tanto familiare, tuttavia, che chiedere Mi scusi, chi è lei? sarebbe parso indelicato. «Riesci a muoverti?» domandò. «No. E tu?» «Tanto poco che non pare neanche.» Era strano, pensò Temrai: riusciva a sentire l'altro uomo così distintamente che sembrava quasi che fossero seduti l'uno di fronte all'altro in una tenda. Forse la voce umana arrivava lontano tra i detriti, ma non ne sapeva abbastanza di acustica per esprimere
un giudizio. «Dovremmo provare a gridare, credo, per far sapere agli altri che siamo qui.» «Risparmia il fiato» disse la voce. «Servirebbe solo a sprecare aria. Ti dico che non ti devi preoccupare. Verranno e ci tireranno fuori, lo fanno sempre.» L'ultima affermazione era piuttosto strana, ma Temrai era troppo turbato per rendersene conto. «Da dove pensi che arrivi l'aria?» domandò. «Ah, non so proprio. Ringrazia Dio che da qualche parte arriva. E che non hai nessuna di quelle irrazionali fobie per gli spazi angusti, anche se non so proprio cosa ci sia di irrazionale nell'avere paura degli spazi angusti. Ricordo che una volta sono rimasto intrappolato in una galleria con uno che ne soffriva e che, Dio sa come, era riuscito a tenere sotto controllo la malattia per anni e anni; ma quando il soffitto ci è crollato addosso quella paura si è manifestata improvvisamente. Anzi, è morto. Si era talmente spaventato che ad un certo punto il suo cuore non ha più retto. Scusa, non è un aneddoto molto allegro, però è pertinente. La cosa più importante è restare calmi. Non senti anche tu un odore?» «Cosa? No, voglio dire, niente di particolare. Che tipo di odore?» «Aglio» rispose la voce. «Sarà la mia immaginazione. Uffa, mi si stanno addormentando le gambe. Non c'è niente di meglio di un paio di tonnellate di roccia per bloccare la circolazione.» Temrai cominciava a sentire i muscoli del torace indolenziti a causa dello sforzo che doveva compiere per sollevare il peso di terra e detriti ogni volta che respirava. «Senti, perché non proviamo comunque a gridare?» disse. «Preferisco correre il rischio di rimanere senz'aria piuttosto che rimanere qui immobile.» «Senz'altro» rispose la voce con tono indulgente. «Dopo tutto potrebbe anche funzionare. Però scusami se non mi unisco a te. Mi sto concentrando sulla respirazione e non vorrei perdere il ritmo.» Temrai cercò di gridare, ma il volume del suono che riuscì a produrre fu vergognoso, sembrava più un gatto che miagolava. E poi gli si stava riempiendo la bocca di terra. La sputò fuori quasi tutta e il resto lo ingoiò. Lo sforzo compiuto lo prostrò. «Io mi riposerei, se fossi in te» lo consigliò la voce. «O ci trovano o non ci trovano. Per una volta accetta il fatto che non c'è niente che tu possa fare. Potresti provare a fare un po' di meditazione.» «Meditazione?» «Dico sul serio. Un filosofo che conoscevo mi ha insegnato a farlo. Fon-
damentalmente si tratta di ignorare il tuo corpo... di dimenticare che esiste. Il filosofo ovviamente diceva che era tutta questione di fondere la coscienza con il fluire del Principio, ma puoi anche lasciar perdere questa parte se non ti interessa. Io la uso per addormentarmi quando sono agitato.» «Va bene» disse Temrai con tono dubbioso. «Ma non credo che provare ad addormentarsi adesso sarebbe una buona idea. Potremmo dimenticarci di respirare.» «Non devi addormentarti: questa è solo una delle cose che ti permette di fare. Puoi usare la meditazione per sopportare il dolore, per esempio, come se dovessi stare a letto immobile con una gamba rotta.» «Va bene» ripeté Temrai. «Come si fa allora?» La voce rise. «Non è facile da spiegare» rispose. «È facile farlo quando sai come si fa, ma difficile da spiegare a parole. Ti devi convincere che il tuo corpo non è lì dove credi che sia. È meglio se ci provi un pezzo alla volta. Io di solito parto dai piedi e salgo su.» Temrai si ricordò di aver pensato No, non credo che lo farò. Quel che sentì dopo fu il panico che saliva, ardeva e rapidamente si assestava, fino a che si rese conto che non gli sembrava più di avere un corpo. Ma era una sensazione gradevole, persino esilarante. Stava respirando, ma non sentiva più il peso schiacciante della terra o il dolore al torace. E non aveva neanche l'opprimente sensazione di essere in un posto preciso. Come sarebbe seccante essere in un solo luogo alla volta; si ricordava appena cosa volesse dire e non poteva immaginare di essere riuscito a sopportarlo tutti quegli anni... «Meglio?» «Molto meglio» rispose Temrai. «Devo vedere se mi ricordo come si fa quando esco di qua.» «Come ti senti?» «Come una testa» rispose Temrai. «Una testa senza corpo. Ma va bene così, anzi, è meglio. Grazie.» «Figurati» ribatté la voce. «È una delle cose più utili che mi sia capitato di imparare nel corso di una vita piuttosto avventurosa.» «Davvero?» Temrai non riusciva a capire se i suoi occhi fossero aperti o chiusi. «Penso che mi potrebbe piacere essere solo una testa.» La voce rise. Era sicuramente una risata familiare, tanto da essere sconcertante. «Attento a quel che desideri» disse. «Non sai mai chi potrebbe essere in ascolto. Era il detto preferito di mio padre, questo. Era un uomo particolarmente superstizioso, per molti versi. Non che gli sia servito mol-
to, ovviamente, ma questa è un'altra faccenda.» Temrai ebbe la spiacevole sensazione di riconoscere la voce. Solo che non era possibile. O almeno, era possibile, ma altamente improbabile. «Scusa se te lo chiedo» disse «ma chi...?» Dopo di che udì qualcosa sopra di sé e si sentì ripiegare nel suo corpo, dolorante e goffo, come un bambino che cade da un albero. Si sentivano voci, attutite e lontane, e lo sfregamento del metallo nella polvere, un rumore squillante come quello di una vanga contro le pietre. Cercò di gridare e si rese conto che la sua bocca era piena di terra e che non riusciva a emettere alcun suono. «Temrai?» chiamò qualcuno. «Sì, è lui, da questa parte. Credo che sia morto.» «Aspetta a dirlo. Signore, farei davvero volentieri a meno di questa dannata polvere.» Dovevano operare lentamente per timore di tagliarlo in due o di spezzare le sue ossa con i picconi e le vanghe. Per molto tempo non fu in grado di vedere nulla, anche se era certo che i suoi occhi fossero aperti. Gli era venuto il più forte mal di testa mai avuto. «È tutto a posto, è vivo» gridò qualcuno mentre la bordata di un trabocco atterrava nelle vicinanze facendo tremare il terreno. «Fate piano, potrebbe avere delle ossa rotte. Temrai, mi senti?» «Sì» rispose Temrai, e le parole gli uscirono dalla bocca insieme alla terra. «E per favore non urlate, ho la testa che mi scoppia.» Lo trascinarono fuori e lo distesero su una tavola. Aveva perso il controllo di braccia e gambe, e gli arti caddero con un tonfo e rimasero penzoloni dalla tavola. «C'era qualcun altro con te?» chiese uno degli uomini. Temrai cercò di sorridere. «Non credo» rispose. Ma aveva torto. Prima che lo portassero via udì gli uomini gridare da questa parte, forza, sì, è ancora vivo. «Chi è?» chiese Temrai. Uno dei portantini ripeté la domanda a voce alta. «È la spia» risposero. «Come si chiama? Dassascai... lo conosci, il nipote del cuoco.» Temrai aggrottò la fronte. «Che cos'ha detto?» chiese. «Dassascai» rispose il portantino. «Lo conosci...» «Già, la spia.» Temrai sembrava confuso. «Be', se non fosse stato per lui... Che strano, avrei giurato che fosse qualcun altro.» «Credevo che avessi detto che non c'era nessuno lì con te.» «Mi sono sbagliato» rispose Temrai. «Senti, fa in modo che si prendano cura di lui, d'accordo?»
Si presero cura di lui, come era giusto fare per qualcuno che, apparentemente, aveva salvato la vita al re, anche se non fu subito chiaro in che modo ci fosse riuscito. Lo tirarono fuori e lo portarono nella sua tenda. Non aveva nessun osso rotto, e si sarebbe ripreso in fretta. Una cosa particolare, su cui nessuno fece commenti, fu che quando lo tirarono fuori aveva in pugno una freccia, una freccia imperiale regolamentare, e quando cercarono di togliergliela serrò il pugno come se dal suo contenuto dipendesse la sua stessa vita. Era una nave: non un'armata o una flotta, non un orizzonte coperto di vele, ma soltanto una piccola corvetta a velatura quadra, primitiva, che avanzava faticosamente nel Drutz dopo una baruffa con un temporale di stagione e che conduceva il messo dell'ufficio provinciale sull'Isola. L'accoglienza che gli fu riservata sulla banchina assomigliava a una dimostrazione di forza. C'erano un plotone della Guardia Civile reclutato di recente, un altro plotone della Gilda della Sicurezza Nazionale a sua volta reclutato ancor più di recente dagli armatori, e una folla di assassini, ladri e briganti per definizione membri della Gilda dei Marinai Mercantili. I tre gruppi rivali erano fermi e silenziosi e fissavano la nave in avvicinamento e si squadravano reciprocamente con disprezzo e diffidenza mentre il Primo Cittadino Venart Auzeil cercava distrattamente di strappare un filo dal polsino e si domandava che cosa stesse davvero accadendo. Il Primo Cittadino indossava un abito di velluto rosso lungo fino a terra e un enorme cappello rosso a tesa larga; aveva rifiutato categoricamente di indossare la coroncina che avevano realizzato per lui con dei fili d'oro ricurvi e alcuni resti di una pelliccia di coniglio recuperata miracolosamente. Accanto a lui c'erano Ranvaut Votz per gli Armatori e un certo Jeslin Pedut per la Gilda, entrambi con lo sguardo rivolto caparbiamente in avanti per timore di vedere l'altro e dover dar segno di averlo notato. E infine la banda. Per la precisione era composta da due flautisti, un violinista, un suonatore di ribeca e una ragazza con un triangolo. Venart non riusciva a capire da dove fossero improvvisamente sbucati, ma parevano così felici di essere lì che non ebbe la forza di dire loro di levarsi di torno. La nave si avvicinò alla banchina e un uomo lanciò una cima e poi fece ritorno a poppa. C'era qualcosa nella sua espressione che faceva pensare che la dimostrazione di forza stesse avendo un certo effetto. Lo notò anche Venart e, nel tentativo di rassicurare i visitatori, si rivolse al suonatore di ribeca e mormorò «Suona qualcosa.» La banda si lanciò subito in una ver-
sione di "Mai più vedrò il mio vero amore", scelta dalla maggioranza, e di "Il cane del salumiere", selezione personale del violinista e della ragazza col triangolo. Il contrappunto a cui diedero vita fu sbalorditivo, ancorché non indicato per rassicurare gli ansiosi. «Oh, per carità» protestò a voce alta Ranvaut Votz; e la sua esternazione non fece che confermare il sospetto di Venart, secondo il quale la presenza della banda era in qualche modo da imputare alla Gilda. «Dite loro di smetterla di fare questo frastuono prima che diventi un atto di guerra.» Benché non volesse prendere posizione, Venart trasformò l'invito in un ordine, sostenuto dall'assoluta maestà del suo ufficio e dalla frenetica agitazione delle sue mani. Quando il baccano fu cessato, un Figlio del Cielo straordinariamente alto e magro emerse dalla piccola cabina della corvetta e si diresse lentamente verso la prua, dove si fermò per guardarsi intorno con fare impaziente. «Una passerella, presto» sibilò Venart. Qualcuno fece arrivare la passerella. A dire il vero era una lunga tavola usata per pulire il pesce, ma era quanto di più somigliante si potesse trovare. Il messo scese a terra. «Sono il colonnello Tejar» annunciò, con un leggero cenno del capo in direzione di Venart. «Sono qui a nome del prefetto di Ap' Escatoy. Desidero parlare con il capo di questa comunità.» Occorsero alcuni istanti perché Venart si rendesse conto che spettava a lui rispondere. Aveva già visto i Figli del Cielo, con alcuni aveva anche parlato, ma mai con uno così alto, spigoloso e austero. «Sono io» disse, rammaricandosi istantaneamente di avere indossato il cappello rosso che ondeggiava su e giù sul suo occhio sinistro. «Venart Auzeil, Primo Cittadino» aggiunse. Il Figlio del Cielo lo guardò. «Grazie per essere venuto a ricevermi» disse. «Possiamo cominciare, per favore? Dobbiamo sbrigare molte cose.» «Certamente» rispose Venart, e un istante dopo si ritrovò a marciare di buon passo nella scia del messo come il cane del salumiere. Fortunatamente il messo, al contrario di Venart, sembrava conoscere la strada. «Rappresenta la Gilda degli Armatori?» chiese il messo rivolgendosi indietro. «Sì, certo» lo rassicurò Venart mentre cercava di raggiungerlo con un paio di salti. Non aveva mai visto un uomo con gambe tanto lunghe prima. «E la Gilda dei Marinai Mercantili?» «Ehm» rispose Venart. «Naturalmente.» «Bene» disse il messo. «Allora non ci sarà bisogno che i loro rappresen-
tanti siano presenti durante le trattative. Presumo che lo sappiano.» «Come? Oh, sì» rispose ansimando Venart e passò la comunicazione alle parti interessate. Fortunatamente le loro gambe erano ancora più corte delle sue e non dovette aspettare per ascoltare le loro risposte. Ancora non gli era chiaro dove stessero andando, ma domandarlo pareva del tutto fuori luogo. Era vagamente inquietante pensare che il nemico conoscesse le strade dell'Isola meglio del Primo Cittadino, ma il modo più ragionevole per affrontare la situazione era di archiviare il dato come rilevante e richiamarlo in seguito, o la volta successiva in cui avesse sentito la più vaga inclinazione a sottovalutare questa gente. Si fermarono. A dire il vero fu il messo a fermarsi e ad attendere che Venart lo raggiungesse. Erano davanti ai Quattro Blasoni della Virtù, che Venart non aveva più frequentato da quando era ragazzo. A dire la verità gli sembrava di ricordare di essere stato bandito a vita da quel locale, o forse si confondeva con la Virtù Innocente nel Pascolo? «Mi sono preso la libertà di affittare una stanza» disse il messo «tramite un intermediario, ovviamente. Spero che sia di suo gradimento.» «Benissimo» rispose Venart senza fiato. «Dopo di lei.» La vista di un Figlio del Cielo nella locanda dei Quattro Blasoni suscitò una notevole dose di agitazione e sconforto che la presenza del Primo Cittadino non riuscì a placare. Il colonnello Tejar conosceva naturalmente la strada; si diresse con piglio deciso verso il bancone, salì qualche scalino, superò un pianerottolo e imboccò un corridoio. La porta era aperta e sulla tavola c'era un vassoio con del cibo e una brocca di vino. Notevole pensò Venart tra sé e sé ma è un errore tattico, senza dubbio. Perché dare una tale dimostrazione della propria forza se non per convincermi di essere più importante di quanto sia in realtà? «Ha un aspetto invitante» e si sedette su quella che pareva essere la più comoda delle due sedie. «A noi» disse il colonnello Tejar, estraendo dalla manica un blocco di carta per scrivere. «Desidera cominciare con una dichiarazione o fare domande oppure passiamo direttamente alle nostre proposte?» «La prego» rispose Venart. Forse è solo perché voleva assicurarsi che gli altri due non ci seguissero, perché sa che pub raggirare me ma non era sicuro di Votz o della Gilda. Be', visto che lo so, dovrei essere in grado di cavarmela. «Mi sono preso la libertà di redigere una bozza di contratto» proseguì il colonnello, estraendo dall'altra manica un tubicino di ottone. «Se vuole avere la cortesia di dargli un'occhiata...»
Quella gente aveva una calligrafia stupenda, continuava a pensare Venart. Anche per un documento a fini decisamente utilitaristici come questo avevano perso tempo a miniare l'iniziale con tre colori e con un tocco appena di foglia d'oro. «Voce: l'Isola dovrà entrare a far parte dell'Impero in qualità di protettorato.» «Voce: un Protettore imperiale dovrà assumere la residenza permanente sull'Isola.» «Voce: una guardia d'onore permanente dovrà scortare il Protettore; detta guardia non dovrà superare i trecento uomini in armi.» «Voce: le spese del Protettore e del suo personale verranno suddivise equamente tra l'Isola e l'ufficio provinciale.» «Voce: ...» «Mi perdoni» interruppe Venart «che cos'è un Protettore?» Il colonnello gli lanciò un'occhiata dall'alto in basso. «Un funzionario imperiale incaricato di risiedere in un Protettorato imperiale» rispose. «Ah, grazie.» «Voce: il Protettore verrà consultato in relazione a tutti gli aspetti delle politiche pubbliche, dell'Associazione o della Gilda in qualsiasi modo abbia pertinenza con il rapporto tra l'Isola e l'Impero.» «Voce: in occasione di detta consultazione, il Protettore sarà tenuto a promulgare una ratifica ufficiale di tale politica e la ratifica dovrà essere promulgata allo stesso modo della politica suddetta.» «Voce: qualora tale ratifica non fosse promulgata, la questione dovrà essere deferita ad una commissione composta in parti uguali da personale imperiale e funzionari di tutti gli enti rappresentativi dell'Isola.» Sono furbi: se vogliono impedirci di fare qualcosa è sufficiente che coinvolgano altre due fazioni e facciano in modo che queste oppongano il loro veto. «Voce: l'Impero e l'Isola dovranno stringere un patto di appoggio militare difensivo e offensivo reciproco.» Così si prendono la flotta. «Voce: nelle transazioni commerciali potranno essere utilizzati esclusivamente i pesi e le misure specificati dal rispettivo funzionario dell'ufficio provinciale.» «Voce: l'Isola e l'Impero dovranno siglare un trattato di estradizione completo nella forma regolamentare emanata dall'ufficio provinciale.» Be', c'erano anche altre voci e tutte insieme decretarono una resa abietta
e incondizionata, seppur con onore. Che cosa avrebbe potuto chiedere di più un Primo Cittadino? «Mi scusi.» «Sì?» «Solo una piccola osservazione» disse Venart. «In realtà dalle sue parole non pare che la questione dell'estradizione sia retroattiva. Vuole aggiungerlo lei o lo faccio io?» Il colonnello si accigliò. «Questa non è una condizione regolamentare dei trattati di estradizione dell'ufficio provinciale» disse. Quindi non si vincono premi se si indovina chi sarà il primo a essere estradato. «È tuttavia piuttosto usuale per noi» ribatté Venart. «Davvero? Non sapevo che aveste perfezionato accordi di estradizione.» Verissimo. «Abbiamo stipulato degli accordi» mentì Venart. «Nel corso degli anni la prassi si è cristallizzata; sa come succede, i precedenti eccetera.» E se mi chiede di citare il nome di una persona che abbiamo estradato negli ultimi seicento anni dovrò confessare che non c'è stato nemmeno un caso. «Capisco.» Il volto del messo era inespressivo. «Forse guadagneremmo in efficienza se rinviassimo le discussioni sui particolari dei termini del trattato a una fase successiva. Sarebbe un peccato mettere a repentaglio l'impulso che ci conduce alla sigla dell'accordo a causa della discussione eccessivamente dettagliata sulle questioni specifiche. Dopo tutto» aggiunse, dirigendo lo sguardo in un punto appena sopra la testa di Venart «non dobbiamo concludere la cosa su due piedi.» «Naturalmente.» Venart lesse il resto del documento, ma non ne capì granché. Non avevano scelta al riguardo, dopo tutto. «Una cosa» disse, mentre riavvolgeva il foglio. «Non credo che la questione sia stata già presa in esame, ma penso valga comunque la pena di chiederlo. Sa se hanno già pensato a chi assegnare l'incarico di Protettore? Se per caso fosse qualcuno che conosciamo la cosa potrebbe tornare utile per tranquillizzare la gente...» «A dire la verità» rispose il messo «c'è stata una raccomandazione precisa e sì, è assai probabile che lo conosciate. È il capitano Bardas Loredan.» Venart fece di tutto per non mostrare alcun tipo di reazione. «Conosco il colonnello... voglio dire il capitano Loredan» disse. «L'ho conosciuto all'assedio di Perimadeia.» Il messo annuì. «Lo so. Ne abbiamo tenuto conto quando è stata proposta la raccomandazione. Inoltre» proseguì «il Capitano Loredan conosce
bene la zona e tutto quanto la riguarda e si è certamente guadagnato la promozione grazie alla sua conduzione della guerra contro gli uomini delle pianure e poi con la questione di Ap' Escatoy. È molto stimato dall'ufficio provinciale. Può contare sul fatto che la raccomandazione vada a buon fine, sempre ammesso» aggiunse «che siate disposti ad accettare le nostre proposte.» Venart inspirò. «In teoria» disse. «Voglio dire, come punto di partenza per i negoziati. Naturalmente ci sono alcuni dettagli...» «Naturalmente.» Il messo si alzò. «Per il momento, tuttavia, forse non le dispiacerà firmare la copia che le ho appena dato.» «Firmarla?» Venart era sbalordito. «Ma credevo che avessimo appena concordato sulla presenza di alcuni dettagli specifici...» Sul volto del messo si disegnò appena un sorriso. «Indubbiamente, ma credo che converrebbe comunque poter contare su un documento sottoscritto, non fosse altro che per una misura temporanea. In caso contrario non sarei assolutamente in grado di garantire che la politica dell'ufficio provinciale in questa zona rimarrà tale e quale a tempo indeterminato.» Si girò a guardare fuori dalla finestra. «Dal momento che il contratto sarebbe soggetto a una ratifica formale da parte del coordinatore regionale, possiamo tranquillamente dire che i termini di questa bozza non sono necessariamente marchiati a fuoco, per così dire. Ma per il momento quel che mi sta più a cuore è proteggere entrambe le nostre posizioni.» Venart era titubante. Sapeva riconoscere una minaccia quando ne sentiva pronunciare una ma un'offerta di quel genere e negoziati di quel tipo potevano solo voler dire che gli imperiali si sentivano deboli. Equivaleva a un atto di disperazione da parte loro: una mossa, una qualsiasi mossa, pur di poter chiudere su una serie di problemi e potersi concentrare sugli altri. Il messo si girò di nuovo e guardò Venart dritto negli occhi. Era come fissare il fondo di un pozzo per troppo tempo. «Le posso offrire la mia personale garanzia che ci saranno ampie opportunità di discussione a tutti i livelli prima che eventuali procedure vengano poste in essere.» Bardas Loredan, pensò Venart. Be', arriva il momento in cui un uomo deve poter credere in qualcosa. «D'accordo» disse. Gli tremavano le mani mentre cercava di togliere la parte superiore dal cilindro di ottone; la carta non era stata riposta con cura e si era incastrata. Dopo che Venart ebbe fatto alcuni maldestri tentativi, il messo si chinò verso di lui, gli tolse il cilindro dalle mani ed estrasse la carta senza difficoltà. «Ha qualcosa con cui scrivere?» chiese.
«Eh? Oh, sì.» Venart tastò le sue tasche e poi la borsa alla cintura. «Almeno... ah, ecco qua.» Estrasse l'occorrente per scrivere. Era un completo che gli era stato regalato da Athli Zeuxis anni prima. Penna, calamaio, temperino... il tutto contenuto in un compatto astuccio di legno di cedro. Inumidì la pietra del calamaio con un goccio di vino, ci strofinò un poco di inchiostro e firmò il documento. Quando Temrai si sentì meglio diede l'ordine di tentare una sortita su larga scala. «Ha cambiato musica» gli venne detto. «Sì» rispose. I membri della squadra di comando, che avevano ormai perso la speranza di poter finalmente fare qualcosa, non si preoccuparono troppo di scoprire la motivazione del cambiamento. Anche se avesse spiegato di avere cambiato idea perché così gli era stato detto da strane voci che solo lui poteva sentire, agli uomini non sarebbe importato affatto. Era stato dato loro il via per l'azione e tanto bastava. Poiché sia Temrai che Sildocai erano fuori gioco, il comando generale passò a Peltecai, il cui grado ufficiale era maresciallo di cavalleria; era una brava persona ma piuttosto ansiosa, uno che si preoccupava del fatto di essere preoccupato. Si preoccupava che questa sua tendenza apprensiva potesse portare a un'esitazione a sua volta foriera di una catastrofe: per tale motivo delegava le funzioni di comando a molti altri ufficiali, conservando tuttavia la facoltà di ignorare i loro ordini se così riteneva giusto fare. Il metodo si dimostrò inutile. La squadra di comando, a suo modo di vedere, era diventata imprudente a seguito delle conseguenze del bombardamento, e Peltecai risolse di mostrare il polso fermo per impedire loro di fare mosse avventate. D'altro canto non aveva nessuna idea precisa in mente, visto che aveva delegato la pianificazione tattica ai suoi luogotenenti. E intanto il tempo passava; a meno di non decidere in fretta su cosa fare sarebbe stato troppo tardi per un'operazione diurna e sarebbero stati costretti a mettere in piedi un attacco notturno. Peltecai intuiva assai chiaramente il rischio derivante dall'essere costretto a intraprendere frettolosamente un'iniziativa rischiosa senza la necessaria pianificazione e preparazione e decise quindi di attaccare all'istante, con tutte le forze disponibili. Chiese quindi quali e quante fossero le forze disponibili e quando finalmente riuscì a comprendere le reali implicazioni della sua domanda era già quasi trascorsa la mezza mattinata. L'ultima cosa che desiderava era essere
spinto a combattere una battaglia decisiva sotto il calore del mezzogiorno, quindi assegnò un'unità su tre al servizio di guarnigione e ordinò a tutti gli altri di prepararsi all'attacco. A questo punto sopraggiunse un messaggio da Temrai che chiedeva il perché del ritardo. Agitato, Peltecai inviò una risposta in cui diceva che stavano giusto per partire; quindi cavalcò alla testa della colonna. Quali che fossero le sue manchevolezze come comandante, non gli faceva certo difetto il coraggio personale. Era deciso a condurre l'azione dalla prima linea, per dare l'esempio. La decisione si rivelò infelice. Mentre la portentosa carica della cavalleria giungeva nel raggio d'azione degli arcieri fiacchi e deconcentrati del nemico, un soldato dello sparuto gruppo di uomini veniva sbalzato di sella e calpestato dalle truppe fino a essere reso irriconoscibile. Quel soldato era Peltecai. A quel punto chiaramente nessuno sapeva più quale fosse il piano originario o chi dovesse subentrare nel comando. Intanto la cavalleria degli uomini delle pianure andava a urtare contro il muro di picche del nemico, infatti, l'azione era governata dal principio istintivo dell'ammazzane quanti più puoi e poi torna a casa. Il che parve funzionare egregiamente, almeno all'inizio. Quando la guerra era cominciata, Temrai aveva deciso che l'unico modo per sgominare le formazioni ammassate di picchieri in armatura che avrebbero facilmente trovato sul loro cammino era di impegnarsi in una tenace salva lanciata dagli arcieri a cavallo e destinata a infrangere le linee nemiche; a questo doveva far seguito un attacco deciso con scimitarre e asce da battaglia per allargare le brecce e diffondere il panico generale. Una volta fatto questo, il nemico sarebbe stato sconfitto dalla sua formazione serrata e dal suo stesso volume. Alla distanza di centro metri, quindi, gli arcieri a cavallo si portarono davanti alla cavalleria pesante e suddivisero la loro colonna in due, scendendo giù per il fronte della formazione di picche. La raffica raggiunse l'obiettivo a trentacinque metri, con gli arcieri che scoccavano le loro frecce nel momento in cui passavano a cavallo accanto al luogo designato della linea. La cinta di lance si disintegrò in due punti sotto il peso dei picchieri morti e feriti che ondeggiavano e cadevano addosso ai loro compagni della linea successiva, aggrappandosi agli uomini vicini e ostacolandone il cammino. Non appena gli arcieri ebbero il campo libero, la cavalleria pesante penetrò negli squarci della linea separando la colonna a metà durante l'avanzata. La chiave di tutto era la penetrazione. Se si fossero potuti
insinuare abbastanza in profondità nella massa dei picchieri, la loro lotta non avrebbe incontrato opposizione; d'altronde al livello del terreno non c'era sufficiente spazio per abbassare una picca o estrarre una spada e i cavalieri sarebbero stati in grado di recidere le linee come una forbice su un foglio d'acciaio che sfrutta la tensione del metallo per eseguire il taglio. Nel frattempo gli arcieri a cavallo si sarebbero tenuti a una certa distanza e avrebbero scoccato le loro frecce dalla distanza più vicina raggiungibile in direzione del resto della linea, cercando di spingerla a caricare e a rompere ulteriormente la formazione. Se fossero riusciti in questo intento, c'erano ancora le riserve pesanti e, se proprio fosse stato necessario, la fanteria. L'inizio fu estremamente promettente. Le truppe del fronte perforarono profondamente la linea in due punti, come frecce su una mezza corazza. Ma una volta entrati si accorsero che c'era un problema: il nemico non poteva fare granché per contrastarli, ma le loro scimitarre leggere e affilate non erano in grado di fendere le armature impenetrabili imperiali. Insistettero a martellare e a colpire fino a quando i bordi aguzzi si smussarono e l'indolenzimento dei muscoli di braccia e polsi divenne insopportabile a causa del trauma dell'urto che scorreva lungo le ossa. Ma era come colpire un'incudine, fatta apposta per essere colpita senza cedere, con un martello. Era una situazione di stallo. Ma in battaglia una situazione di stallo non dura mai a lungo; succede sempre qualcosa, spesso senza che nessuno compia un'azione consapevole. Mentre la cavalleria pesante continuava a martellare l'incudine senza alcun effetto, la cavalleria nemica, che era stata trattenuta come riserva per errore - ammise Bardas in seguito - scattò in avanti per ingaggiare battaglia e si precipitò contro gli arcieri a cavallo che stavano ritirandosi ma che non avevano calcolato bene i tempi. Presi dalla disperazione, gli arcieri scoccarono quante più frecce poterono. Conformemente agli ordini ricevuti mirarono ai cavalli anziché agli uomini, e il risultato fu migliore di quanto entrambe le fazioni avessero previsto. La prima linea dei soldati di cavalleria imperiale fu abbattuta in un tumulto di frastuono e polvere; la linea successiva non riuscì a fermarsi in tempo: gli zoccoli dei cavalli passarono sopra a quelli caduti insieme agli uomini, e si schiantarono violentemente come un carro senza controllo contro un muro. Sbalorditi ma sensibilmente rinfrancati a quella vista, gli arcieri a cavallo riposero gli archi, estrassero le scimitarre e caricarono, ma si accorsero immediatamente di avere lo stesso problema a tagliare l'acciaio dei loro colleghi della cavalleria pesante. Erano convinti di far indietreggiare gli imperiali con l'impeto della loro carica;
invece avevano dovuto fermarsi e restare impalati quando si accorsero nel modo peggiore che la cotta di maglia e il cuoio delle loro armature era sì sufficiente a non farsi tagliare a pezzi dalle spade imperiali di due chili, ma non forniva alcuna difesa contro ossa spezzate e traumi cranici. A quel punto le tre schiere di retrovia degli imperiali, che erano rimaste indietro e avevano appena raggiunto gli altri, fluirono sul loro fianco, bloccarono la loro via di fuga e cominciarono ad abbatterli con le loro asce come fossero una siepe troppo cresciuta. Il capitano della sesta truppa di riserva, Iordecai, si accorse di quel che stava accadendo e guidò una carica. Fu solo per disattenzione se gli imperiali non se ne avvidero fino a che non fu troppo tardi per togliersi di mezzo. Gli uomini di Iordecai erano una delle poche unità di lancieri dell'esercito di Temrai e non ebbero alcuna difficoltà a farsi strada tra la lamiera pesante. L'impatto che causarono fece spostare la bilancia dello scontro dall'altra parte. Il capitano degli Imperiali si fece prendere dal panico, pensando di essere stato ingannato e costretto a cadere in trappola e a subire quell'attacco; cercò quindi di ritirare i suoi uomini, ma lo scontro era troppo avanzato perché potessero abbandonarlo. Tentarono invece di farsi strada tra gli arcieri a cavallo, ottenendo risultati lusinghieri. Ma mentre uscivano dal fianco della mischia furono ricacciati dentro da un'altra truppa di lancieri che si erano fatti avanti su ordine di Iordecai. A questo punto l'equilibrio della retroguardia, che immaginava benissimo una vittoria conquistata dai lancieri ma non riusciva a vedere il subbuglio nella formazione dei picchieri, decise che era giunto il momento di fare la propria parte; caricarono quindi i picchieri che non erano più impensieriti dagli arcieri e avevano avuto il tempo di ripristinare un certo ordine. Quando la retroguardia, che non era dei lancieri, affondò la carica, trovò le teste allineate dei picchieri ad attenderla e a quel punto fu troppo tardi per rallentare la corsa. Bardas Loredan era su una collinetta dietro al campo e nemmeno lui riusciva a vedere granché della formazione dei picchieri; godeva tuttavia di una discreta vista della battaglia della cavalleria e decise che la sua sola possibilità di salvezza, quel giorno, era di impegnare gli alabardieri contro i lancieri in carica e sperare che arrivassero in tempo. Fecero il possibile, ma era un'azione senza speranza; dopo aver aggirato i picchieri, la fanteria nemica si era aperta lungo la loro linea di avanzata e stava compiendo delle manovre per coglierli sul fianco. Rallentare a questo punto non avrebbe probabilmente portato alcun beneficio e il capitano degli alabardieri decise
quindi di guidare la sua colonna in doppia fila al centro della linea nemica. L'effetto fu spettacolare: gli alabardieri spezzarono la linea in due, deviando completamente una delle ali. Questo servì: a questo punto erano in grado di ingaggiare la formazione del nemico e portare l'attacco su tre lati. Il loro errore fu quello di non notare i due manipoli di cavalleria pesante che non erano riusciti a introdursi nella formazione dei picchieri e si erano appartati dalla battaglia senza nulla da fare. Non erano in numero tale da causare danni decisivi, ma riuscirono comunque a fare a pezzi un buon numero di uomini. Gli alabardieri avevano un punto debole dove gli spallacci erano incurvati sulla spalla; bastava un taglio netto delle cinghie a vista con una lama affilata e gli alabardieri sarebbero rimasti con piastre di armatura svolazzanti e sciolte che ne avrebbero impedito i movimenti e avrebbero lasciato l'area delle spalle e del lato del collo completamente esposta. Non furono molti gli alabardieri uccisi in tal modo, ma numerosi quelli resi inoffensivi da un colpo di scimitarra che scorreva lungo i lati spigolosi dell'elmo e affondava nei tendini del collo e nelle clavicole. Laddove gli alabardieri riuscivano a girarsi e a presentare le armi se la cavarono decisamente meglio: l'impeto di un cavaliere che caricava rendeva molto più semplice conficcare la lancia tra maglie e carne di quanto potesse fare un braccio umano. In generale, tuttavia, il vantaggio in termini di perdite inflitte restava agli uomini delle pianure. A questo punto la battaglia era totalmente fuori controllo. Anche se le fazioni opposte avessero preso a cooperare con spirito di amicizia e buona volontà sarebbe stato pressoché impossibile liberare i singoli componenti dei due eserciti tanto da rendere possibile un'eventuale ritirata. C'erano solo due scelte praticabili: combattere a oltranza finché una delle due fazioni fosse stata completamente annientata o abbassare le armi e ritirarsi con quel tanto di ordine che era possibile. Per un bel po' sembrò che la prima opzione fosse l'unica deprimente possibilità. La cavalleria degli uomini delle pianure incuneata tra i picchieri stava per essere schiacciata ai fianchi. Bloccati al centro della mischia, i lancieri non avevano più il vantaggio dell'impeto o dello slancio ed erano per lo più intenti a smussare le scimitarre sulle armature ammaccate e deformate ancorché indistruttibili degli avversari. Il terreno era coperto da un numero consistente di alabardieri e ciò consentiva ai loro colleghi vivi di avere spazio a sufficienza per girarsi e cominciare a conficcare le lance nei volti degli uomini delle pianure. Se la battaglia fosse proseguita in quei termini, prima o poi gli imperiali avrebbero per forza prevalso e ai loro
superstiti, forse non più di alcune centinaia a dir molto, sarebbe toccato l'ingrato e faticoso compito di disfarsi dei caduti. Ma gli imperiali si fecero prendere dal panico, e forse era la cosa migliore che potessero fare date le circostanze. L'elemento catalizzatore fu un attacco furioso e immane sferrato da un giovane capo sezione chiamato Samzai su quella che fu erroneamente ritenuta essere la guardia d'onore di Bardas Loredan. Nella fattispecie, l'oggetto dell'attacco risultò essere la scorta di cavalleria di un distaccamento di trombettieri e altri musici: i loro abiti erano tanto sfarzosi e ricchi di equipaggiamento che erano finiti incuneati tra i picchieri; si trattava quindi di un errore comprensibile. Samzai non ce la fece; cadde oscillando la sua ascia ad appena una fila dall'obiettivo. Quando il suo corpo fu estratto a forza dalla baraonda sulla sua maglia si contavano diciassette buchi. I superstiti della sua sezione invece riuscirono a farsi strada a colpi e tagli tra i picchieri e a uccidere un numero sufficiente di membri della scorta tanto da arrivare a pochi passi dai musicisti, ma fu a quel punto che qualcuno prese a gridare che Bardas Loredan era morto... Una testa, il cui proprietario nessuno riuscì mai a individuare, venne innalzata su una picca e gli uomini delle pianure, inclusi quelli battuti a morte e incapaci di difendersi, presero a fare baldoria come se fosse appena stata presa una decisione di importanza capitale. Dapprima la reazione fu di esitazione, di preoccupazione che stesse accadendo qualcosa e che nessuno riuscisse a capire che cosa fosse; poi però i picchieri cominciarono a indietreggiare, lasciando cadere le loro picche, laddove era possibile, e cercando un modo per uscire dalla calca e raggiungere il campo aperto. La formazione di fanteria principale tentennò e si sciolse, e in quell'istante si creò finalmente uno spazio sufficiente perché la cavalleria potesse muoversi; alla cavalleria imperiale bastò una breve occhiata all'indietro ai picchieri in ritirata per convincersi che c'era qualcosa che non andava nella maniera più assoluta e che anche a loro conveniva ritirarsi. E più il panico saliva più la ritirata accelerava: gli uomini che stavano lentamente camminando all'indietro si voltarono e presero a correre, senza più alcun interesse per il nemico salvo nel caso in cui avesse rappresentato un ostacolo fisico. La battaglia si stava sgretolando come un fragile cesto di vimini che sparge il suo contenuto in ogni dove. Due contingenti di cavalleria pesante degli uomini delle pianure si lanciarono all'inseguimento dei picchieri imperiali; furono intercettati da un pari numero di imperiali, fatti a pezzi e dispersi. Dopo di che l'entusiasmo rivolto a sfruttare il vantaggio si calmò e gli uomini delle pianure ritorna-
rono nella fortezza il più rapidamente possibile. Quanto agli imperiali, ripresero vigore quando fu detto loro che Bardas Loredan non era morto affatto; fu Bardas stesso ad annunciarlo, avanzando a cavallo nel tentativo di capire quel che stava succedendo. La ritirata proseguì comunque di buon passo fino a che tutti gli imperiali furono rientrati all'accampamento. È sempre difficile sapere come ci si deve comportare quando si è stati allontanati dal campo, specie se quel campo si presenta deserto. Forse saggiamente, Bardas cercò di non dare peso alla faccenda. Tornò nella sua tenda, si fece portare l'elenco dei morti e dei feriti e convocò la squadra di comando. C'erano molte cose da fare: organizzare le missioni speciali per le barelle e le sepolture, assicurarsi che quanti più feriti possibile vedessero un medico anche da lontano prima di morire, appostare i picchetti e fare in modo che il campo fosse protetto adeguatamente contro eventuali ulteriori attacchi. Ci volle una giornata intera per recuperare i feriti. Bardas inviò un messaggero per ottenere la solita tregua, e gli ufficiali in capo di entrambe le fazioni raggiunsero un ragionevole accordo in base al quale ciascuna delle due parti avrebbe ripulito la sua metà del campo e riconsegnato al nemico i suoi feriti in condizioni accettabili. Più difficile fu raggiungere un accordo su come liberarsi del numero impressionante di cadaveri di cui ci si doveva occupare prima che diventassero un pericolo sanitario per entrambe le fazioni. Gli uomini di Temrai dovevano essere cremati, mentre gli imperiali richiedevano la sepoltura. Era quindi impossibile trovare un punto di reciproco accordo. I negoziatori di Bardas proposero di fare a turno: sarebbero passati prima loro, avrebbero raccolto i loro caduti, quindi si sarebbero ritirati per lasciare che gli uomini delle pianure facessero lo stesso; ma gli uomini di Temrai rifiutarono affermando che così facendo avrebbero dovuto aspettare almeno un giorno, il che sarebbe stato sconsigliabile nel caso in cui il sole avesse deciso di farsi vedere. Proposero invece di inviare entrambi dei distaccamenti di recupero che lavorassero fianco a fianco, ma agli imperiali la cosa non piaceva affatto: il rischio di un incidente era troppo alto, dissero; sarebbero scoppiate risse e ci sarebbero stati scatti d'ira. Perché invece, suggerirono, non dividere il campo in due come prima, e ognuna delle due fazioni depone i morti in due cataste, una per loro e una per noi? Il tempo passava e gli uomini di Temrai accettarono con riluttanza la proposta, anche se l'accordo rischiò di saltare quando fu ora di decidere dove dovesse venire tracciata la linea che separava il campo in due. I morti più numerosi si trovavano nel lato di Bardas e i suoi negozia-
tori temevano di concludere un accordo che li avrebbe discriminati; suggerirono quindi di dividere il campo nel senso della lunghezza anziché della larghezza. Gli uomini delle pianure rifiutarono, ma accettarono di spostare la linea di demarcazione in avanti di centocinquanta metri; in tal modo si sarebbero dovuti occupare della maggior parte dei soldati caduti durante le azioni della cavalleria, mentre gli imperiali avrebbero ripulito la zona della battaglia intorno alla formazione dei picchieri. Quando l'accordo fu raggiunto e i distaccamenti si stavano già mettendo in riga, uno degli uomini di Bardas fece notare al suo collega della squadra di Temrai che mentre durante la battaglia avevano combattuto per conquistare quanto più campo era possibile ora stavano arrabattandosi per dare via quanto più campo potevano. L'uomo delle pianure trovò l'osservazione di cattivo gusto e presentò un reclamo ufficiale, che fu ignorato. Dopo avere liberato il campo, dopo che i corpi furono portati via e dopo avere sottratto il più possibile in termini di armature, frecce, cavalli e armi, fu finalmente possibile elaborare una sorta di punteggio e annunciare il vincitore. Si trattava di uno scarto davvero esiguo. Se si calcolavano soltanto gli uomini uccisi, lo sconfitto era Temrai; ma in percentuale sulle forze totali impegnate e uccise, aveva segnato un leggero vantaggio. Se si sommavano cavalleria e fanteria, supponendo che la cavalleria rivestisse un valore superiore, Bardas era in leggero vantaggio, ma il metodo di calcolo usato non era avvalorato dal fatto che la fanteria pesante gli era più utile della cavalleria e che Bardas aveva perso più fanti di Temrai. Ma al di là di tutto, e per essere precisi, circa i tre quarti dell'esercito di Temrai erano composti dalla cavalleria, il che ovviamente rendeva l'intero calcolo totalmente falso. Poiché il fine della battaglia non era stato il territorio, e poiché nessuna delle due parti aveva perso o guadagnato un solo centimetro, anche questo criterio di valutazione non aveva molto senso. Anche l'ultima categoria, quella degli obiettivi raggiunti, era inutile: al termine dello scontro, infatti, nessuno era in grado di dire quale fosse stato esattamente l'obiettivo proprio o dell'avversario, né se tali obiettivi esistessero veramente. Se esistevano, nessuno li aveva raggiunti: di conseguenza entrambe le fazioni avevano perso... il che, naturalmente, era del tutto ridicolo. CAPITOLO VENTESIMO «Per l'amor del cielo» gridò Venart, «vuoi smetterla con quel dannato
rumore?» Il martellamento cessò. «Cos'hai detto?» Venart fece un passo avanti. Era buio e tetro all'interno dell'officina, poiché l'unica luce proveniva dalla fornace coperta. «Ho detto, vuoi smetterla... Ma non puoi diminuire un po' il rumore? Sto tentando di lavorare.» Posc Dousor, il vicino di casa degli Auzeil, uscì da dietro la porta della fornace. Indossava un grembiule di pelle e teneva in mano un grosso martello. «Anch'io» disse. «Cosa?» Dousor indicò col capo la fornace e l'incudine accanto a essa. «Non crederai che lo stia facendo per divertimento, vero?» Venart entrò e si guardò intorno. «Scusami se te lo chiedo, ma cosa stai facendo esattamente? L'ultima volta che sono entrato qua dentro, questa era una bottega di formaggi.» «Be', ora è un'officina per le armature.» Dousor si asciugò la fronte con il dorso della mano guantata. «E questo perché non riesco ad avere del formaggio da vendere, ma ho invece questo assortimento di barre d'acciaio che mi hanno rifilato dodici anni fa come pagamento di un debito, e improvvisamente tutti vogliono comprare un'armatura. Quindi» aggiunse «ho deciso di fabbricarne qualcuna. Va bene?» «Capisco» rispose Venart. «Non sapevo che tu sapessi fabbricare armature.» Dousor si accigliò. «Infatti non lo so fare» disse. «Ma imparerò. In fondo non può essere difficile, no? Si fa diventare il metallo rosso incandescente, lo si batte con un martello finché diventa sottile, poi lo si batte ancora un po' per dargli la forma voluta. E poi» aggiunse «ho comprato un libro. Se hai un libro, puoi imparare tutto.» «Be'...» Venart non era sicuro di cosa dire. Il martello era molto grosso e Dousor era un tipo facilmente irritabile. «È bello che tu sia così pieno di iniziativa, Posc, ma non credi che potresti farlo da qualche altra parte? Sai, sono stato in piedi tutta la notte a stilare i verbali del Consiglio e...» «Dove?» «Scusa?» Dousor agitò impaziente il martello. «Dove mi suggerisci di farlo?» disse. «Fuori in strada, forse? O forse dovrei buttare fuori tutti i miei mobili, trascinare questa dannata incudine dentro casa e trasformare il mio salotto in una fucina? Allora?» Il mal di testa di Venati non stava migliorando affatto. «Ascolta» disse
«in realtà non m'importa di ciò che fai, basta che tieni il livello del rumore un po' più basso. Ho delle cose veramente importanti...» «Tenere il livello del rumore un po' più basso» ripeté Dousor. «Vuoi dire battere un po' più delicatamente? Praticamente accarezzare con il martello quelle maledette grosse barre di ferro fino a farle diventare lamine piatte? Non mi prendere per i fondelli, Ven. Inoltre, mi dovresti essere grato.» «Scusa?» «Sforzo bellico» spiegò Dousor. «Munizioni. Sto facendo la mia parte per la libertà e la difesa del nostro retaggio culturale. Non mi sembra particolarmente bello che il Primo Cittadino ostacoli lo sforzo bellico per un piccolo disagio personale, non ti pare?» Venart ci rifletté per un momento. «Ascolta» disse. «E se ti trovassi una bella officina da usare... diciamo, giù al Drutz, in uno dei vecchi magazzini doganali? Potresti martellare quanto vuoi laggiù e immagino che nessuno lo noterebbe nemmeno.» Dousor si accigliò. «Sì, e pagare l'affitto a voi canaglie quando ho un negozio tutto mio che va benissimo? Ti sembro uno stupido?» «Va bene, allora, senza pagare l'affitto. Suvvia, Posc, Triz sta impazzendo.» Dousor scosse la testa. «Non posso farci niente» disse. «Mi ci sono voluti giorni per sistemare questo posto e metterci tutta questa roba e questi attrezzi. E ora tu vuoi che tolga di nuovo tutto, mi carichi tutta questa roba pesante sulle spalle per mezza isola...» «Manderò qualcuno ad aiutarti» disse Venart sospirando. «A mie spese, ovviamente» aggiunse. «Ma ci sono sempre dei disagi» insistette Dousor. «Il tempo perso a viaggiare avanti e indietro, le spese di trasporto...» «Quanto?» «Che vuol dire?» «Quanto vuoi che ti paghi» disse lentamente Venart «perché tu sposti tutti i tuoi attrezzi al Drutz e ci lasci in pace? È a questo che vuoi arrivare, no?» La fronte di Dousor si aggrottò. «In realtà questa è una cosa piuttosto offensiva da dire, Ven» rispose. «Siamo vicini da anni, da quando tuo padre era ancora vivo. E anzi, ho sempre pensato che fossimo amici. Ma ora che sei il Primo Cittadino, ovviamente, credi di poter venire qui a dare ordini...» «Venticinque? Cinquanta?»
«Ma fammi il favore» disse Dousor. «C'è anche il tempo di produzione perso da considerare. Questa finestra di opportunità non durerà per sempre, sai. Fra poco questa mania di andare a fare il soldato svanirà, e se non mi metterò in attività in fretta, guardandomi intorno scoprirò di aver perso l'occasione. E ora tu mi dici di lasciar perdere tutto...» «Centosettantacinque.» «Neanche per sogno» disse Dousor. «Non prenderò neppure in considerazione qualcosa di meno di tre due cinque.» «Trecentoventicinque? Tu devi essere...» Per tutta risposta, Dousor sollevò il martello e cominciò a batterlo sul massello di ferro che aveva lasciato sull'incudine; già da tempo si era raffreddato, ma egli sembrò non notarlo. Prima che Venart avesse una possibilità di farsi sentire di nuovo, sua sorella gli passò accanto come una furia, entrò nella bottega e afferrò Dousor per il polso. «Tu» disse. «Piantala.» Dousor la guardò. «Non cominciare. Ho un tremendo mal di testa grazie a te e al tuo incessante martellare. Devi smetterla, capito?» Presumibilmente Dousor aveva intenzione di spiegarle, come aveva spiegato a Venart, dello sforzo bellico e del suo dovere patriottico. Ma non lo fece, forse perché con l'altra mano Vetriz aveva raccolto le tenaglie, le cui punte, essendo state lasciate inavvedutamente sul fuoco, erano divenute incandescenti, e le stava tenendo a un paio di centimetri dalla barba di Dousor. «Va bene» disse lui. «Non appena tuo fratello e io avremo concordato un indennizzo.» Vetriz lo fissò negli occhi. «Non preoccuparti» disse con voce pacata «non vogliamo alcun indennizzo. Ora comincia a impacchettare tutti i tuoi stupidi strumenti mentre Ven manda a chiamare il carro per il trasporto.» Dopo di che non ci furono più rumori dalla porta accanto e Venart riuscì a tornare al lavoro. Ma anche senza il suono acuto del martello sull'acciaio non era facile mantenere la concentrazione; gli articoli dell'accordo corretti dall'ufficio provinciale erano stati scritti in termini così ambivalenti che potevano significare tutto, niente, o entrambe le cose. «Devi dirlo a qualcuno» disse Vetriz. «Diglielo, Athli. Non puoi fare un trattato di pace con il nemico e non dirlo a nessuno.» «L'ho detto al Consiglio» rispose irritato Venart. «E agli armatori, e alla Gilda. Chi altro c'è rimasto in realtà?»
«L'hai detto agli alti papaveri» gli fece notare Athli «e hai fatto loro promettere che avrebbero mantenuto il segreto. Non è affatto la stessa cosa.» «E tu pensi che siano capaci di mantenere un segreto? Ma dai...» Venart si permise un piccolo sorriso stanco. «Dire qualcosa a Ranvaut Votz e fargli promettere di non ripeterlo è il modo più efficiente di spargere notizie che il mondo abbia mai avuto. Mi aspetto che a questo punto lo sappiano fino a Colleon.» «Va bene» disse Athli. «Ma non l'hai detto a noi. Il che significa che tutti stanno correndo su e giù presi dal panico, senza sapere cosa sta succedendo. Sai cosa ha fatto Eseutz Mesatges quando ha sentito la notizia? È uscita e ha comprato quindici casse di spade e una dozzina di barili di parti di armature, dicendo che quando tutte le spade e le armature saranno confiscate, il governo dovrà pagare un risarcimento e lei immagina che la differenza tra il valore di mercato e quello valutato per il risarcimento le darà un notevole profitto. Non puoi lasciare che la gente continui a comportarsi così. Sarà il caos.» Venart batté le palpebre, poi disse: «Non sono responsabile per il modo in cui la tua amica Eseutz sceglie di comportarsi. Io voglio solo tenere la cosa sotto silenzio fino a quando avremo la possibilità di mettere a punto questi maledetti termini e condizioni. E per ora non voglio ancora farlo, per ovvie ragioni.» «Ovvie per te forse» disse Vetriz. «Illuminami.» «È semplice.» Venart mise giù la pergamena ed essa tornò ad arrotolarsi da sola. «Se riesco a tenere le cose in sospeso fino a quando Bardas Loredan la farà finita con Temrai, allora dovremo trattare solo con lui e non con un infido bastardo di un Figlio del Cielo. Allora? Se vi viene in mente un modo migliore per gestire la faccenda, a me piacerebbe tanto sentirlo. Riuscire a stare dietro ai giochetti di diplomazia di questa gente è fin troppo difficile per me, ma a meno che non riusciamo a mettere in piedi una qualche commedia, saremo in grossi, grossi guai. Oppure non avete letto quella clausola di estradizione?» Né Vetriz né Athli sembravano avere qualcosa da dire; il nome Bardas Loredan le aveva spiazzate. «Allora mi sembra che siete d'accordo, no?» disse Venart. «Anche se non sono certo di sapere da quando in qua devo ottenere la vostra approvazione per degli atti di stato. È già abbastanza brutto dover tentare di tenere Votz e quel lunatico della Gilda lontani senza avere anche voi due coaliz-
zate contro di me.» Athli sembrò riprendersi da pensieri completamente diversi. «Va bene. Ma, Ven, tentare di vincere una gara di intelligenza con l'ufficio provinciale non è molto... be', intelligente. Loro sono nettamente in vantaggio.» Venart annuì. «Sì, ma almeno io lo so. Ricordi cosa ci diceva nostro padre, Triz? Che usata in maniera appropriata, la forza di un altro può essere la sua più grande debolezza? Loro sanno benissimo che sono riusciti a confondermi; tutto ciò che devo fare è trovare un modo per rimanere confuso abbastanza a lungo perché Bardas Loredan vinca la sua dannata guerra. Guarda la faccenda da questa prospettiva, e credo che capirai cosa intendo dire.» Athli si alzò in piedi. «Spero che tu sappia ciò che stai facendo» disse. «Ricordati che questa è politica, non un contratto per le sardine.» Venart emise un gemito. «Lo so. E so benissimo che sono un vero ignorante in questo campo, non ho idea di cosa sto facendo e non mi dovrebbero permettere di governare neppure una barca a remi, per non parlare di un governo. Ma solo perché una cosa è vera non significa sempre che sia utile saperlo.» Athli gli mise una mano sulla spalla, poi attraversò il cortile diretta verso la piccola stanza che stava usando come ufficio. Non che ci fosse molto da fare; gli affari avevano subito una battuta d'arresto, lei non aveva modo di comunicare con la sede principale di Shastel, e comunque non avrebbe avuto niente da dire anche se fosse riuscita a far arrivare un messaggio. Era piuttosto deprimente; tutto ciò che aveva ottenuto con la fortuna, il duro lavoro e le sue capacità le stava ora sfuggendo tra le dita. Forse... La gente stava lasciando l'Isola, questo lo sapeva. In principio l'avevano fatto con circospezione: avevano annunciato la loro intenzione di partire per cercare del cibo, avevano caricato tutto il possibile sulle loro navi ed erano salpati da Drutz la mattina presto, senza più tornare. Ora nessuno si curava più neppure di mentire. Osservando la faccenda da una prospettiva più razionale, era strano che così poche persone, relativamente parlando, avessero fatto la cosa più giusta... naturalmente era successa la stessa cosa a Perimadeia, tranne per il fatto che lì solo una manciata di pessimisti senza speranza aveva veramente creduto che la Città sarebbe caduta. Lei era stata una di loro; e ora era tempo di andarsene di nuovo, senza vergogna né rimpianto, portando con sé gli amici che avrebbero scelto di seguirla, con la stessa calma e assennatezza con cui Niessa Loredan (per esempio) aveva abbandonato Scona...
Era vero (rifletté Athli, riesaminando i fatti come avrebbe fatto uno storico) che una volta aveva voluto bene a Bardas Loredan e molto. Amore? Era un termine sdolcinato, impreciso. Aveva lavorato con lui, fatto tutto il possibile per impedirgli di impazzire quando gli orrori del suo mestiere avevano cominciato a logorarlo, si era preoccupata terribilmente ogni volta che aveva messo piede nell'aula di tribunale, ma non l'aveva mai dato a vedere... sempre con la sicurezza di conoscerlo e capirlo come nessun altro era mai riuscito a fare. Era vero che non lo amava, anche se questo non le impediva di pensare a lui tutto il tempo... ma quello era accaduto tanto tempo fa e in un altro luogo, e lei era qui, e adesso, ed era riuscita a portarlo fino a questo punto, fino a questa conclusione. Aveva sempre saputo, in qualche modo, che fino a quando gli avesse voluto bene lui sarebbe sopravvissuto. Era come se stesse tenendo la vita di lui al sicuro, ben chiusa in una robusta scatola di legno rinforzata con fasce d'acciaio, mentre il suo corpo se ne andava in giro a fare cose violente e irreparabili al mondo. Dopo tutto, lei era un banchiere; lui aveva depositato la sua vita, e la sua fortuna, presso di lei, ne aveva fatto una sua responsabilità. Lei l'aveva portata via al sicuro fuori da Perimadeia, l'aveva custodita per lui mentre Bardas tentava di fare qualcosa della sua vita a Scona, e aveva avuto in affidamento il suo apprendista e la sua spada; e poi se l'era ripresa quando lui aveva perso tutte le sue speranze e i suoi sogni nel Mesoge, e l'aveva mandata via. Bene; e ora lui stava venendo sull'Isola, dove lei si era messa in affari come custode di depositi e creatrice di opportunità. Era arrivato il momento di restituirla, di chiudere i conti e venire liberata da ogni responsabilità; di lasciarla qui per lui, nelle condizioni in cui si sarebbe aspettato di trovarla, pagata, saldata e liquidata, e poi andare via. Alcuni clienti danno più problemi di quanto valgono. Il che lasciava solo una domanda: cosa avrebbe dovuto portare con sé? E a questa domanda, la risposta era semplice. Il suo scrittoio e la sua calcolatrice, alcuni cambi di abiti, una piccola cassa di libri e tutto il contante che sarebbe riuscita a mettere insieme nel tempo disponibile. Vetriz ben presto si stancò di guardare suo fratello affannarsi sulle sue carte e andò nella sua stanza. Era una bella stanza. Aveva un letto comodo, una poltrona piuttosto sontuosa e teatrale con grandi braccioli e gambe intagliate, una toletta in palissandro intarsiata con lapislazzuli e madreperla (l'aveva comprata a Colleon e aveva costretto Venart a trovarle spazio sulla nave, con suo grande di-
sgusto, dal momento che aveva significato gettare a mare un intero barile di aringhe essiccate), uno specchio d'avorio e ottone che dava alla sua pelle un meraviglioso tono dorato, tre cassapanche piene di vestiti, una lampada d'argento su un basamento di sicomoro tornito alto quanto lei, una rastrelliera per le sue sette paia di scarpe, una cassa per i libri con il lucchetto, un piccolo sgabello con un sedile ricamato, due veri arazzi di Shastel (uno di loro probabilmente apparteneva alla Scuola di Mavaut, ma l'altro era molto più bello da guardare), uno scrittoio e una damiera che fungeva anche da scacchiera, con un set di scacchi intarsiati (di osso e corno), una caraffa per l'acqua in ottone sbalzato proveniente da Ap' Elipha (un regalo che suo padre le aveva fatto quando aveva sei anni e in realtà voleva una casa per le bambole): tutte cose belle e solide con cui definire la sua vita. Aveva un pavimento di marmo levigato (freddo sotto i piedi nelle mattine d'inverno, ma meravigliosamente fresco in estate; a volte lei ci dormiva sopra quando era veramente caldo) e una vista sul cortile. E questo era quasi tutto. Vetriz si distese sul letto. C'era un mal di testa che si andava formando dietro i suoi occhi che un pisolino avrebbe forse potuto cacciare via. Mise la testa sul cuscino e... «... Ciao» disse. «Non mi aspettavo di vederti così presto.» «Non sono qui, ancora» rispose lui. «Ah.» Lei lo studiò attentamente. Sembrava più vecchio (be', dopo tutto c'era solo da aspettarselo, perché era veramente più vecchio), ma per il resto era praticamente lo stesso. Per qualche ragione era vestito da spadaccino, come la prima volta che l'aveva visto nell'aula di tribunale a Perimadeia; e anzi, era esattamente lì che si trovava, in piedi al centro del pavimento a piastrelle bianche e nere, come un gettone su una calcolatrice. Vetriz si chiese quale valore avesse. «Come ti vanno le cose, comunque?» domandò lui. «Be', non male» rispose automaticamente. Si rese conto che anche lei era in piedi al centro del pavimento; la divideva da lui la lunghezza di una spada, e la punta affilata della sua pregiata Spe Bref era proprio sotto il suo mento. Se le linee nere sono le unita, pensò distrattamente lei, allora io sono un dieci e lui è solo un cinque. No, non può essere giusto. «Cosa sta succedendo?» chiese lei. «Un processo» rispose; e si ritrovarono in piedi ai due lati di un bancone da lavoro, in un'officina buia, umida e dal tetto di paglia. Sul bancone tra di loro c'era un arco... del tipo che chiamavano composto, se ricordava
bene, del tipo fatto con tendini, corno, ossa e cose del genere, tenuto insieme con la colla ricavata dalla pelle e dal sangue. Era fissato in una specie di morsa di legno, con una barra dentellata posta al centro ad angolo retto. «Viene chiamato tenditore» le spiegò. «Serve ad applicare una forza di tensione e torsione. Allora, vediamo un po' quanto è capace di piegarsi questo furbacchione prima di rompersi.» ... E si ritrovarono in un sotterraneo, con il soffitto alto e il pavimento di pietra, in piedi accanto a una catasta di pezzi di armatura, parti del corpo. «Un processo» continuò lui «che è un altro modo per dire "mettere alla prova".» Con delicatezza, quasi con tenerezza, le prese una mano tra le sue e la posò piano sull'incudine. «Questo potrà bruciare un po'» la avvertì mentre alzava il grosso martello. «Solo un attimo» lo interruppe lei. «Sono certa che tutto questo sia importante e necessario, ma perché proprio io?» Lui sorrise. «Come faccio a saperlo?» replicò. «Io qui ci lavoro soltanto: dovresti chiederlo ai Figli del Cielo, loro probabilmente lo sanno.» La risposta le parve strana. «E loro cosa hanno a che fare con questo?» chiese. «Voglio dire, all'inizio loro non c'erano.» Lui la guardò perplesso. «Vero» disse. «Tieni questo per me, vuoi? È importante che tu lo tenga fermo.» Le girò la mano e posò sul suo palmo una testa di un giovane all'incirca della sua stessa età. «Re Temrai» le spiegò. «È il querelante.» «Davvero? E tu sei dalla parte dell'imputato, immagino.» Lui si accigliò. «Non ne sono più sicuro» rispose. «Ma per fortuna ora non dipende più da me.» Calò il martello, usando la schiena e le spalle per dare al colpo il massimo della forza. La testa risuonò, emettendo lo stesso suono alto e chiaro di un'incudine. «Oh, bene» disse lui. «Va bene, lasciamo perdere questa. Ora vediamo.» Allungò la mano dietro l'incudine e tirò fuori un'altra testa. «Ovviamente tu lo conosci» aggiunse «non è vero?» Lei annuì mentre lui posava la testa di Gorgas Loredan sul palmo della sua mano. «Ha preso da nostro padre» stava dicendo Bardas. «Mentre io ho preso da nostra madre. Dicono che ho il suo naso.» Sotto il colpo di martello la testa si ruppe a metà e si disintegrò come un ciocco di legno marcio; ma lui aveva preso male la mira e la testa del martello saltò via. «Ho decapitato questo maledetto martello» disse irritato. «Ma non c'è da preoccuparsi: ne ho un altro.» ... E sfoderò la sua spada, la meravigliosa e antica Guelan che Athli ave-
va custodito per lui per un certo periodo. Vetriz poteva sentirne la punta affilata che la pungeva al centro del collo. «Bene, avanti, allora» disse lui; e lei si rese conto che tutti nell'aula la stavano fissando, tutte le migliaia di persone che affollavano le balconate degli spettatori... uomini delle pianure, perimadeiani, persone di Scona, di Shastel, gente di Ap' Escatoy, gente dell'Isola che lui aveva ucciso negli anni, tutti erano venuti per vederlo combattere. Vetriz intravide se stessa, e Ven, sulla balconata posteriore dove erano seduti tanti anni prima. Provò l'impulso di agitare la mano verso se stessa, ma non lo fece. «Cosa vuoi che faccia?» chiese. «Come faccio a saperlo?» rispose lui. «Sei tu il querelante.» Lei scosse la testa e sentì la punta della spada graffiarla leggermente. «Non capisco perché» disse. «E anzi, non capisco proprio perché io sia stata coinvolta in questa faccenda, tanto per cominciare. È solo perché io posso... be', vedere tutte queste cose mentre gli altri non possono? So che Alexius pensava che in qualche modo io facessi accadere le cose, ma...» «Tu non vuoi credere in tutta quella faccenda del Principio» replicò lui. «Se vuoi la mia opinione, non è necessario complicare troppo la questione. Chiedilo a Gannadius la prossima volta che lo vedi. No, è una questione di causa; possiamo lasciare fuori anche la faccenda della colpa, quello è solo lubrificante. Ciò che voglio veramente sapere è questo: ho cominciato io, o è stato lui?» «Lui?» «Gorgas.» Abbassò la spada e la posò sull'incudine, accanto all'arco. «Rivediamo la faccenda passo dopo passo. Se Gorgas non avesse ucciso mio padre, io avrei lasciato la mia casa, avrei raggiunto lo zio Maxen e avrei causato la caduta di Perimadeia? (Per ora lasceremo fuori dalla faccenda tutte le altre città: Scona, Ap' Escatoy, l'Isola, quel piccolo modellino di Perimadeia che Temrai si era costruito; vengono tutte dopo.) Se Gorgas non avesse fatto ciò che ha fatto, saremmo forse entrambi ancora alla fattoria, a riparare cancelli e ad arare i nostri campi? Oppure sarei andato via lo stesso? Certamente tutta la faccenda si riduce a questo. Questa è probabilmente la domanda più importante in tutta la storia.» Lei annuì. «Se è stato Gorgas a causare tutto, allora è colpa sua...» «Non colpa» la interruppe lui. «Anch'io pensavo in termini di colpa, ma da quando sto con questa gente» (indicò con il capo i Figli del Cielo nelle loro sedie riservate nella fila anteriore) «penso solo in termini di causa. Se Gorgas ha cominciato tutto, allora lui è la causa. Se l'ho cominciato io,
allora io sono la causa. Cosa ne pensi tu?» «Non lo so» ammise Vetriz. «Mi dispiace.» «Personalmente, io credo che sia lui» continuò Bardas. «È logico: è lui quello che agisce nella nostra famiglia, quello che ha lo spirito d'iniziativa e l'energia. D'altro canto, io sono quello che porta a compimento le conseguenze delle sue azioni. Ora, se il Principio esistesse veramente, tutto questo avrebbe senso.» Lei lo guardò. «Cosa accadrà?» chiese. «Non c'è bisogno che te lo dica io» rispose, e svanì nel suo cuscino. Vetriz si raddrizzò bruscamente sul letto e aprì gli occhi. Si sentiva molto a disagio. Era come quella volta che aveva permesso a Gorgas Loredan di entrare nella sua stanza: la stessa sensazione che la stanza non le appartenesse più. Se c'era un senso in quello che aveva sognato, forse era proprio lì che doveva ricercarlo; eppure non riusciva a capire come il suo errore con Gorgas Loredan avesse potuto causare o far accadere qualcosa. Pensò a Niessa Loredan, che aveva pensato di poter controllare il Principio con l'aiuto di un paio di naturali, e l'aveva presa e nascosta a Scona per un po'. Non sembrava che ne avessero ricavato niente. Aveva la sensazione che avesse avuto ragione lui, e che il Principio non fosse altro che una spiegazione da leggenda popolare, come le storie raffazzonate che spiegavano perché il sole sorge a est o perché la luna cala. Se veramente esisteva una cosa del genere, doveva essere come una grossa macchina, qualcosa di simile all'enorme laminatoio che lei aveva visto nella Città la prima volta che l'avevano visitata, un enorme rullo che ruotava lentamente, trascinando dentro i lingotti di ferro, appiattendoli e poi facendoli uscire dall'altro lato; e se non si stava attenti, a chinarsi sopra il rullo c'era il rischio di impigliarsi con la manica e di venir trascinati dentro. Ma anche quello non era giusto, era troppo semplicistico. Vetriz si alzò, rendendosi conto mentre lo faceva che il piede sinistro le si era addormentato. Zoppicò fino alla toletta. Il suo viso nello specchio era morbido e dorato, come un ricordo dolce e inaffidabile. Più tardi nel pomeriggio, Bardas Loredan ricevette una visita. Una volta che lo straniero l'ebbe convinto di essere veramente chi affermava di essere, i due si sedettero e discussero nella tenda di Bardas per oltre un'ora. «Non sembri sorpreso» disse il visitatore, dopo che ebbero parlato d'affari. «Non lo sono» rispose Bardas. «Il che è strano, perché dovrei esserlo. Ma no, mi sembra uno sviluppo perfettamente logico.»
«Davvero? Be', sono affari tuoi, non miei. In ogni caso, ti stanno bene i tempi concordati?» Bardas annuì. «Assolutamente sì. Se ti chiedessi perché lo fai, me lo diresti?» «No.» Il visitatore se ne andò e Bardas fece i suoi preparativi. Indisse una riunione del suo comando, spiegò la situazione, ignorò le proteste e diede i suoi ordini. Poi tornò nella sua tenda. Appoggiata contro il letto, ancora nella sua guaina di pelle scamosciata, c'era la spada Guelan, quella che Gorgas gli aveva lasciato come regalo poco prima della caduta di Perimadeia. Perimadeia era caduta perché Gorgas aveva aperto le porte, ma questo non cambiava il fatto che la Guelan fosse ancora una buona spada, più corta di lama della maggior parte degli spadoni a due mani, con un pomo pesante e il miglior bilanciamento che gli fosse mai capitato di trovare in un'arma simile. Bardas slegò i lacci e la tirò fuori dal fodero. Nelle sue mani sembrava più leggera che mai; forse perché i tre anni trascorsi a scavare nelle miniere gli avevano rafforzato le braccia e i polsi, e si era abituato alle alabarde e alle spade imperiali a due mani molto sbilanciate. Provò il filo della lama con il pollice e chiuse gli occhi. Qualche tempo dopo indossò la sua armatura (ormai non ne notava più il peso), spinse la Guelan nel pendaglio del fodero alla vita e la assicurò con la fibbia. Poi si sedette per un'ora nell'oscurità, aspettandosi di sentire voci che per una volta tacquero; ma da qualche parte nel campo giunse fino a lui un odore di aglio e coriandolo, aromi spesso usati dai cuochi per mascherare il gusto della carne andata a male. (In quello stesso momento, dall'altro lato della palizzata, Temrai stava tendendo il suo piatto; un uomo ci stava posando sopra una sottile frittella bianca ripiena di carne speziata, sorridendo, per poi tornare ad affettare la carne con un lungo coltello dalla lama sottile.) Vennero a chiamarlo quando fu il momento. Come aveva ordinato, i picchieri e gli alabardieri avevano spalmato fango sulle loro armi e sulle loro armature, nel caso l'acciaio luccicasse sotto la luce delle stelle. Lui non aveva avuto bisogno di obbedire al suo stesso ordine; l'armatura che Anax, il Figlio del Cielo, aveva fatto per lui era leggermente brunita per la ruggine e non rifletteva più la luce. Una volta che ebbero marciato al di fuori del cerchio dei propri falò divenne troppo buio per poter vedere, ma a quel punto conoscevano la strada
a occhi chiusi. (Temrai finì il suo pasto, si alzò e si diresse verso il luminoso calore delle fornaci, dove i suoi armaioli stavano riparando i danni alle cotte di maglia. Prima riscaldavano i nuovi anelli fino a farli diventare incandescenti, poi appiattivano le estremità e vi praticavano piccoli fori, li cucivano al loro posto, li richiudevano con le tenaglie, infilavano dentro un rivetto e lo martellavano tutto intorno. Era il posto più caldo della fortezza ora che le notti stavano diventando fredde. Non era un lavoro che richiedeva grande perizia, almeno non per qualcuno che una volta si era guadagnato da vivere forgiando lame di spade nell'arsenale di stato di Perimadeia; l'acciaio passava semplicemente dal grigio opaco al rosso sangue. Ma Temrai rimase per un po' a guardarli, senza pensare quasi a niente... un pensiero che in effetti gli venne in mente era quanto sarebbe stato utile se fosse stato possibile aggiustare la pelle e la carne con la stessa semplicità con cui si aggiustava un'armatura, tramite riscaldamento, ammorbidimento e martellamento, ma non era un'idea su cui valeva la pena di riflettere troppo.) Il ponte girevole era stato ritirato ed era presidiato da sentinelle; ma nel buio gli uomini di Bardas attraversarono a nuoto il fiume senza fare alcun rumore (dopo un po' diventava piuttosto facile orientarsi nel buio) e tagliarono loro la gola, operando in base al tatto e all'odore. Bardas sperava che li avessero ringraziati dopo. Poi ruotarono il ponte, silenziosamente e con cautela. (Temrai tornò alla sua tenda, dove Lempecai, il fabbricante di archi, lo stava aspettando; aveva incollato un altro strato di tendini sul dorso dell'arco di Temrai per irrigidirlo un po' di più e aveva tirato indietro il tenditore. La colla aveva impiegato molto tempo ad asciugarsi, come sempre, ma era valsa la pena di aspettare. Temrai tese l'arco, osservando che sembrava ci volesse meno sforzo a tenderlo anche se era stato irrigidito, e si complimentò con Lempecai per il suo lavoro.) Bardas guidò egli stesso la prima compagnia dall'altra parte del ponte. Non era vanagloria od orgoglio che gli faceva desiderare di essere il primo uomo a entrare nella fortezza, ma più un senso di continuità, dal momento che lui e Theudas (che era accanto a lui, e indossava un elmo e una cotta presi in prestito che gli stavano leggermente piccoli) erano stati gli ultimi perimadeiani a lasciare la Città. Si era preparato per la tensione dell'attesa; ma aveva appena messo piede sulla riva quando una fascia di luce, sottile e appuntita come la lama di un coltello, apparve a un lato del cancello. Bardas chiuse gli occhi per proteggerli dal bagliore...
(Bardas Loredan, Saccheggiatore di Città) ... e quando li riaprì, anche il cancello era aperto. Chinò la testa per fare segno agli uomini dietro di lui ed entrò nella fortezza. «Come promesso» disse l'uomo in piedi accanto alla porta. «Grazie.» «Non c'è di che.» Non passò molto tempo prima che venisse dato l'allarme, ma a quel punto Bardas stava già guidando tre compagnie di alabardieri su per il sentiero, mentre il resto dell'esercito si riversava dentro e riempiva il livello inferiore della fortezza. Gli uomini delle pianure all'interno furono colti di sorpresa (qualcuno si era occupato delle sentinelle al cancello) e non sapevano cosa fare. Alcuni corsero verso le cataste di armi, altri nella direzione opposta, ma la fila di lance nere li radunò in gruppi come un gregge di pecore, e inoltre non avevano armature. Gli uomini di Bardas erano arrivati in cima al sentiero senza incontrare resistenza quando le grida e le urla dal basso attirarono l'attenzione del livello superiore. Sapevano cosa fare e dove andare; una compagnia si diresse verso l'accampamento principale, le altre due verso i lati, seguendo la palizzata, per respingere indietro il nemico mentre correvano. Mentre facevano irruzione nella luce dei falò, il nemico si gettò contro di loro, come un'onda che si infrange sugli scogli e poi si riversa in mare. Come era ovvio, Bardas Loredan fu il primo uomo a far scorrere il sangue. Il suo avversario era un uomo alto e magro, che non indossava altro che un elmo e agitava una scimitarra come fosse un amuleto contro una magia. Per prima cosa Bardas recise la mano che impugnava la spada; poi roteò i polsi e portò indietro la Guelan per praticare un vistoso taglio su un lato del collo. L'uomo barcollò e cadde all'indietro, e Bardas lo ringraziò. Il secondo uomo che uccise gli venne contro con una lancia e il coperchio di un paiolo. Bardas fece una finta verso l'alto e lo colpì in basso con un fendente, sentendo la vibrazione del colpo quando la sua spada colpì la tibia dell'uomo, poi ritirò la spada e la spinse nella gabbia toracica del suo avversario. Una leggera contorsione la liberò di nuovo, e Bardas fu pronto per un altro nemico, che fece rimbalzare la sua scimitarra sul suo spallaccio sinistro prima che la Guelan gli penetrasse nel collo e nella clavicola. L'uomo cadde a terra e Bardas gli passò sopra, mormorando frettolosi ringraziamenti mentre studiava il successivo nemico, un ragazzo con un'alabarda imperiale rubata. Bardas sapeva che doveva rispettare l'arma, indipendentemente da chi la brandiva; guardò la lama facendo un paio di brevi
passi lateralmente, poi fece un affondo verso il cuore del ragazzo attraverso la piega del gomito. Lo ringraziò mentre lasciava cadere l'arma al suolo, quindi abbassò la testa e la piegò verso destra per evitare il fendente di un grosso martello brandito da un uomo calvo e robusto che aveva l'aspetto di un fabbro. Guardò il fendente mancare il bersaglio, esponendo l'ascella dell'uomo (la strada verso il cuore di un uomo passa attraverso la sua ascella), ma invece di abbassare la spada per lasciar scivolare il corpo, la sollevò bruscamente inclinandola verso destra, così da ostacolare l'uomo con l'ascia dal manico lungo che era il prossimo nella fila di uomini che aspettavano di combattere contro di lui. Sorpreso, il nemico spostò l'ascia e così si ritrovò sbilanciato. Piegandosi all'indietro, Bardas fece ondeggiare la spada in un colpo corto e aprì lo stomaco dell'uomo. Mentre questi era paralizzato dal terrore e dal dolore, Bardas lo finì con un colpo alla testa che gli tagliò in due il cranio, e lo ringraziò. Stavano tirando frecce ora, abbastanza da vicino da mettere alla prova le armature imperiali. Ma Bardas l'aveva previsto; in cima all'altopiano, circoscritto dalla palizzata e ingombro di tende e di uomini morti, non c'era spazio per tattiche di disturbo. Bardas ordinò la carica e i suoi alabardieri spinsero a fondo l'attacco; alcuni caddero, ma non abbastanza da capovolgere la situazione. Il primo arciere che Bardas uccise sollevò il suo arco e bloccò l'affondo; la Guelan rimbalzò sul dorso dell'arco ma Bardas girò la lama e la guidò verso il basso contro le ginocchia dell'uomo, lasciando la sua testa a un'altezza utile. Una freccia penetrò nel cannone destro della sua armatura, ma si fermò prima di raggiungere la pelle. Bardas si arrestò per estrarla, poi allungò la spada perché trafiggesse l'uomo che gli stava correndo incontro, allo stesso modo in cui era solito tenere la paletta per la spazzatura pronta per la scopa quando spazzava via i trucioli dal suo bancone da lavoro. Il nemico seguente aveva sfoderato la scimitarra e la stava tenendo in una parvenza di posizione di difesa, ma a Bardas ormai da troppi anni era passata la voglia di cimentarsi con la scherma per perdere tempo con quel genere di cose e colpì l'uomo direttamente sulla sommità del capo, spaccandogli l'elmo e facendolo cadere in ginocchio; poi lo colpì in faccia con un calcio e lo finì con la punta della spada. Vittoria a Bollo e al grande martello, pensò mentre le sue labbra formavano le parole di ringraziamento, e poi fu pronto per un altro nemico, e un altro, e un altro ancora. Alla fine vide Temrai, seminascosto da una piccola folla di uomini semisvestiti; si era infilato un elmo e un paio di ginocchiere, ma non aveva stretto le stringhe a sufficienza e le ginocchiere gli stavano scivolando lun-
go le gambe. Bardas sorrise e si diresse da quella parte, ma prima che potesse cominciare il suo lavoro qualcuno gli corse davanti, un uomo alto con un elmo e una cotta che agitava un'alabarda e urlava con tutto il fiato che aveva in corpo. «Theudas» gridò, ma il ragazzo non lo stava ascoltando; corse dritto verso Temrai come una freccia, e quando uno degli uomini affondò verso di lui la sua lancia, non si accorse di essere stato colpito fino a quando non smise di muoversi e si ritrovò bloccato dalla traversa di una lancia. Tentò di girarsi e di colpire l'uomo, ma l'asta della lancia era troppo lunga e non ci arrivava, anche se provò due volte prima di cadere. Uno degli altri uomini lo infilzò attraverso l'orecchio (l'elmo gli era volato via, essendo troppo piccolo per lui), e Theudas smise di muoversi. Questo non va bene, pensò Bardas, e tentò di aprire gli occhi, ma erano già aperti. Il gruppo degli uomini di Temrai stava indietreggiando, tentando di entrare più in profondità nell'accampamento, dove c'erano più corpi da frapporre tra il loro re e la Guelan. Bardas li seguì per alcuni metri, fino a quando qualcosa che lo tormentava non divenne improvvisamente chiaro. C'erano meno persone di quelle che si era aspettato di trovare. Ma qui non avrebbe dovuto esserci l'intero popolo delle pianure, dal primo all'ultimo uomo? Sì, era notte; ma non aveva visto più di alcune centinaia di uomini... Poi capì. Molto furbo, pensò. Ma avrei dovuto prevederlo. A quel punto era troppo tardi. Qualcuno dal basso diede un segnale di qualche tipo e l'esercito delle pianure uscì allo scoperto, dalle tende e dai carri, dalle fosse per le munizioni e dalle trincee; erano armati con lance e alabarde (copiate dai modelli imperiali, la forma più sincera di adulazione) e si tenevano uniti in una formazione molto fitta, spingendo via gli imperiali dal sentiero e da ogni via di fuga. Mentre gli ultimi uomini che avevano fatto da esca fuggivano via a gambe levate (avevano saputo che era una trappola e che loro erano l'esca? si chiese Bardas; se fosse stato un mio piano, io non gliel'avrei detto), le linee di soldati ruotarono e si allungarono - i sergenti istruttori imperiali non avrebbero saputo fare di meglio - per completare l'accerchiamento. Nel frattempo, i rinforzi stavano salendo dal sentiero, guidati da Iordecai, l'uomo che era stato così gentile da aprire i cancelli... La faccenda non prometteva niente di buono; significava infatti che i picchieri che si erano riversati nel livello inferiore erano stati cacciati via o uccisi. Io e il mio senso dell'equilibrio storico pensò Bardas mesta-
mente sembra proprio che stia per ottenere ciò che desideravo. I polsi e gli avambracci gli dolevano per lo sforzo di manovrare la spada, la sollecitazione dei colpi si propagava dalla spada fino alle ossa del suo corpo (in un certo senso, l'armatura serve a saggiare il martello) e il sudore, scivolando giù lungo la fronte sotto la visiera dell'elmo, gli stava colando negli occhi. Li chiuse - E ora che faccio? - ma a casa non c'era nessuno. Da un falò abbandonato lì vicino proveniva un odore di coriandolo. Non avevo pensato che sarebbe stato così brutto, pensò Temrai mentre veniva portato via. Pensavo che vincere sarebbe stato sufficiente. Ma il solo sapere che lui è lì... Si costrinse a cacciare via dalla sua mente quell'immagine: Bardas Loredan che veniva verso di lui, armato. Non era sicuro di come avesse fatto a capire chi era: un uomo in armatura, con la visiera abbassata... ma l'aveva capito benissimo. Aveva fatto tutto il possibile per non farsela addosso. «Dov'è Sildocai?» chiese. «Con le riserve» rispose qualcuno. «Iordecai sta guidando l'attacco principale. Una volta impegnata la riserva, si ritroveranno tra l'incudine e il martello.» Ma cosa m'importa pensò Temrai. La sua mente non sembrava in grado di gestire un flusso coerente di pensieri; continuava a divagare, impedendogli di concentrarsi. «Bene» disse. «E il livello inferiore? Nessuna notizia da Gollocai e la sua gente?» «L'ultima volta che li ho sentiti, era tutto sotto controllo.» Non riusciva a vedere chi fosse l'uomo che gli stava parlando, e non riusciva a riconoscere la voce. «Il resto dell'esercito si è ritirato sul campo e non c'è alcuna possibilità che questo gruppo riesca a fuggire. È solo una questione di tempo ora.» Temrai rabbrividì. «Finite la questione il più in fretta possibile» disse. «E in ogni caso, accertatevi di prendere anche lui, capito?» «Sicuro. Vivo?» «Cielo, no: il più morto possibile. Voglio sapere che la sua testa è stata tagliata prima di avvicinarmi a lui.» Qualcuno rise, presumendo che Temrai l'avesse detto per fare una battuta. «A proposito» disse qualcun altro. «Quel ragazzino che ha fatto quella corsa suicida proprio ora; sapete chi era?» Nessuno disse niente e la voce continuò: «Io l'ho riconosciuto; era il nipote di Loredan. Sapete, quello che
un po' di tempo fa arrivò insieme al mago.» «Non era il nipote di Loredan» rettificò qualcun altro. «In realtà non credo che fossero imparentati in alcun modo.» «Theudas Morosin» disse Temrai. «Proprio lui. In ogni modo, quello era lui.» «Bene» disse Temrai. «Ora portatemi fuori di qui.» I soldati con le lance si stringevano l'uno accanto all'altro, cercando con la punta delle loro armi le giunture e i varchi nelle armature degli imperiali: l'interno della giuntura del gomito, lo spazio tra il pettorale e la gorgiera, tra la gorgiera e l'elmo, l'interno della coscia, l'ascella. Da parte loro, gli alabardieri stavano combattendo accanitamente (l'incudine saggia il martello), frantumando elmi e rompendo ossa e vasi sanguigni sotto le resistenti cotte di maglia. Ma i soldati con le lance avevano impeto e slancio; e mentre avanzavano sui morti e i caduti, come un mare che lambisce le rocce sulla riva, gli uomini con le asce e i martelli spaccavano elmi e armature come tordi che aprono i gusci delle lumache, o un uomo a una cena elegante che apre i gusci delle ostriche. Se Anax fosse stato vivo per sentirli sarebbe stato in grado di raccontare la battaglia solo dai suoni; la lama che risuona contro l'armatura ancora integra, il suono più cupo di un'armatura già danneggiata, lo scricchiolio dove non c'era armatura. La battaglia si svolgeva ora per la maggior parte nel buio; gli uomini di Bardas combattevano con le schiene rivolte ai fuochi dell'accampamento, coprendo la luce. Non c'era bisogno di vedere quando il nemico era dappertutto, e precisamente alla distanza di una lancia. Mentre il nemico si chiudeva intorno a lui come una galleria che crolla, Bardas ondeggiò e affondò la spada per tirarsi fuori. Il suo elmo era saltato via già da tempo, i rivetti della sua gorgiera e degli spallacci erano stati recisi da colpi di ascia deviati che erano rimbalzati sulla superficie convessa, perciò le piastre ora pendevano dalle giunzioni e dalle cinghie come frutti maturi che piegano i rami degli alberi. Il suo guanto destro si era talmente deformato per la forza dei colpi che aveva inferto che le sue lamine si erano piegate e incastrate l'una con l'altra, quindi lui l'aveva gettato via alla prima opportunità. Dietro di lui e su entrambi i lati cadevano corpi e parti di corpi; Bardas affettava e macellava con la sua spada con la perizia e la celerità di un cuoco che prepara un banchetto, e i colpi dei suoi nemici spianavano la sua pelle d'acciaio. Era quasi come ai vecchi tempi: combattere nel buio; era un lavoro duro, noioso, come prendere a calci
l'argilla, il taglio di scarti e avanzi dalla parete di fronte a lui. I suoni e gli odori, però, erano così forti e variati che lo sconcertavano, un vero banchetto per i sensi; sangue dolce e acciaio piccante, sudore inebriante, aglio e coriandolo nell'ultimo respiro di un uomo che gli cadeva accanto, e tutta la musica imperiale del palazzo delle prove. C'era un uomo che indossava un elmo a quattro pannelli di vecchia foggia, con cinghie incrociate; dopo aver parato un colpo della sua lancia, Bardas colpì nella maniera più ovvia, da sopra la spalla verso le tempie dell'uomo. Ma il rumore mentre l'uomo cadeva era sbagliato, c'era un leggero difetto nel suono normalmente cristallino della Guelan. Bardas lo notò, ma poi dovette fare un passo di lato e parare un colpo di alabarda, lasciando un'apertura su un lato di un elmo. Ma menando il colpo la spada si spezzò in due, all'altezza di una mano e mezza dall'impugnatura. No, non di nuovo, pensò, e lasciò cadere l'elsa; poi un uomo avanzò contro di lui con una lancia e lui non aveva niente con cui parare il colpo. Si girò quindi di lato, usando il lato della mezza corazza per deviare il colpo, tese la mano sinistra e percosse il viso dell'uomo con il pugno guantato. Vide il sangue sgorgare dalle linee lasciate dai bordi delle lamine, diritte come i solchi di un campo ben arato (Clefas era il migliore ad arare, ma era pigro; Gorgas era quasi altrettanto bravo, ed era sempre pronto a fare la sua parte), ma l'uomo non cadde; ritirò indietro la lancia per affondarla di nuovo, e il secondo colpo sarebbe andato a segno se Bardas non fosse riuscito ad afferrare la lancia sull'asta prima della punta e a tirarla di lato. Bardas tentò di trattenerla, ma l'uomo diede uno strattone all'indietro, scavando il palmo della mano e la base delle dita di Bardas con i margini affilati della lancia... (Bene; non esiste la prova, ma solo un'infinita varietà di modi per fallire) Lasciò andare la presa e fece appena in tempo a dare un calcio alla rotula dell'uomo. Questa volta il nemico cadde, e tutto ciò che Bardas riuscì a fare fu di schiacciare il calcagno sul suo volto, perché semplicemente non c'era tempo per raccogliere la lancia e fare un lavoro fatto bene. C'erano molti altri che premevano contro di lui, e lui era disarmato. Era un peccato: si era già fatto strada per almeno tre quarti dello spessore della linea nemica, al punto che riusciva ancora a vedere l'oscurità tra le ombre in movimento. Senza qualcosa con cui combattere, tuttavia, ora era solo un'incudine. Indietreggiò fino a quando riuscì a voltarsi, e cominciò a correre... Il che non era facile come avrebbe dovuto essere. Lo schiniere e i co-
sciali erano maciullati e incastrati, e il perno della ginocchiera sinistra era così incurvato che Bardas sapeva che si sarebbe dovuto togliere quella parte d'armatura tagliando pezzo dopo pezzo, se mai fosse uscito vivo da quella situazione. Ma anche senza l'armatura, non sarebbe andato lontano prima di inciampare e cadere. Atterrò malissimo, battendo un lato della testa. Quando riaprì gli occhi, vide contro cosa era caduto: un carro di rifornimenti con un piano molto rialzato e sospensioni a dir poco scarse. Bardas sapeva che non sarebbe stato in grado di rimettersi in piedi per un po', perciò si appiattì sulla pancia e strisciò dolorosamente sotto il carro. Era così stanco che chiuse gli occhi per un momento... ... E si ritrovò nelle miniere, come al solito; ma riusciva a vedere (anche se era buio pesto) un carrello abbandonato, e sotto di esso c'era il volto di ragazzo, che lo fissava con tutta la paura del mondo. Era di certo Temrai quello che lo stava fissando, ma era anche Theudas, che lui aveva tirato fuori da sotto il carro durante la Caduta. Perché hai paura di me, Theudas? chiese, ma il ragazzo non si mosse, né disse una parola... «... Eccolo.» Gli occhi di Bardas si aprirono di scatto; e lì, a circa venti metri dalla battaglia, c'era di nuovo il volto di Temrai. «Laggiù» stava urlando il re nemico «sotto il carro, vedete? Uccidetelo, per l'amor del cielo. Uccidetelo subito!» Si mossero contro di lui; tre uomini delle pianure con picche e scimitarre... uomini della guardia personale di Temrai. Quando furono vicini al carro, e cominciarono a cercarlo a tentoni con le lance come un uomo che tenta di raggiungere una moneta che è rotolata sotto un tavolo, Bardas si contorse per allontanarsi; una lancia gli accarezzò la guancia, lasciandogli un taglio sulla pelle, mentre tentava di indietreggiare strisciando (aveva imparato a farlo nelle miniere) e poi si ritrovò dall'altra parte, con il carro tra lui e loro. Si tirò su appoggiandosi a una delle ruote posteriori e cominciò a correre. Quando guardò da sopra la spalla li vide arrampicarsi sul carro, inseguendolo con uno zelo professionale che lui non aveva più incontrato dalla guerra di Maxen, quando il giovane che crescendo aveva alla fine indossato la seconda pelle di questo serpente aveva inseguito un gruppo di uomini delle pianure in fuga fino al tremendo e rumoroso incubo dell'oscurità, quando tutto intorno la luce dei falò strepitava contro di lui come i custodi del paradiso. È il momento di fare qualcosa di intelligente. Bardas rallentò, aspettò fino a quando il primo dei suoi inseguitori gli fu quasi addosso, poi si abbas-
sò improvvisamente. L'uomo delle pianure gli andò addosso e finì per rotolare sopra la sua spalla in un groviglio di gambe e braccia, mentre Bardas si rialzava e colpiva il secondo uomo in faccia con il guanto di ferro restante. Sentì il naso dell'uomo spezzarsi, e il fremito delle ossa che si rompevano si trasmise alle proprie ossa attraverso l'acciaio; lo sguardo su quel volto era buffissimo, una sorta di muto orrore. Poi Bardas prese la scimitarra dell'uomo e con essa gli recise il collo. Ora che aveva di nuovo un'arma, non era preoccupato del terzo uomo, di cui parò il colpo di picca quasi con indifferenza prima di recidergli l'orecchio sinistro e riportare la scimitarra in posizione orizzontale per tagliargli la gola. Quella non era un'arma che conosceva molto bene: la lama curva non era fatta per gli affondi, l'elsa era troppo piccola per la sua mano e il grande pomo piatto gli dava fastidio al polso. Però aveva tutta una serie di vantaggi rispetto a non avere niente in mano. Gli ci volle mezzo secondo per decidere cosa fare, e poi tornò a dirigersi verso Temrai con andatura sostenuta. Un paio di uomini tentarono di bloccargli la strada, ma non ci riuscirono a lungo. Temrai sembrava aver messo radici sul posto; anche nel rosso bagliore dei fuochi del campo, il suo viso era pallido come la morte e i suoi occhi erano spalancati, come quelli di un coniglio. Bardas era ormai a solo pochi metri di distanza; un uomo della guardia reale spuntò la scimitarra sul suo cannone e si guadagnò i suoi ringraziamenti, lasciando solo due uomini tra lui e il re nemico. Naturalmente uccidere Temrai non avrebbe risolto niente (probabilmente gli avrebbe fatto vincere la guerra, ma quella era l'ultima cosa che aveva in testa), ma almeno avrebbe ristabilito in parte l'equilibrio della situazione. Non aveva niente di meglio da fare. Una parata alta a destra, un giro di polso, lama verso il basso, seguita da un taglio secco proprio sotto il mento: uno di meno. Grazie, mormorò Bardas; e poi vide qualcosa che gli fece dimenticare completamente Temrai, la guerra e i modelli della storia. Vide un varco. Era un varco molto piccolo, tra l'estremità finale di una linea di nemici e l'inizio di un'altra, e si stava chiudendo in fretta; ma se fosse stato molto veloce, forse sarebbe riuscito a passarci attraverso per poi scendere lungo il sentiero senza dover combattere a ogni passo. «Inseguitelo» stava urlando qualcuno (probabilmente Temrai). Una freccia rimbalzò sulla sua cubitiera sinistra e fu sbalzata via verso la linea che avanzava. Bardas per poco non perse l'equilibrio per due volte, una volta quando inciampò sulla testa di un morto che non aveva notato, e un'altra
quando finì sul margine di un cratere lasciato da un trabocco, ma il peso della sua armatura gli dava così tanta forza d'inerzia che fu in grado di correggere i propri errori di equilibrio e continuare a correre, quasi rimbalzando sul terreno (come un martello su un'incudine). Alla fine dovette spingere via un uomo dalla sua strada e scavare un solco nella spalla di un altro, ma ce la fece. Era arrivato sul sentiero... ... Che, naturalmente, era in uno stato terribile dopo giorni e giorni di costante bombardamento. Il terreno friabile cedette sotto il suo peso e improvvisamente Bardas si ritrovò a scivolare sulla schiena lungo la discesa. Riuscì a rallentare la propria caduta puntando i calcagni nello sterro prima di finire oltre il margine del sentiero e nel precipizio, e usò la spinta per rimbalzare in piedi e tornare sul sentiero. Dopo quanto era accaduto si avventurò più lentamente sulla discesa; i suoi inseguitori stavano facendo lo stesso, quindi non era molto importante. Si scontrò contro un uomo delle pianure piuttosto stupido che non si era tolto in tempo, e lo spedì a gambe levate oltre il margine. Goffo, pensò mentre si raddrizzava a fatica. Una minaccia per il traffico, ecco cosa sono. In fondo al sentiero c'era una massa confusa di corpi, come sacchi di sabbia messi a pila per tenere fuori l'acqua da una casa; Bardas dovette fermarsi e sollevare le gambe in alto per scavalcarli. Ciò diede il tempo ai due uomini che lo inseguivano di raggiungerlo, un'opportunità che i due non vissero abbastanza a lungo da rimpiangere. Giù al livello inferiore della fortezza stavano ancora combattendo. C'erano troppi corpi sparsi sul campo per permettere manovre organizzate (ricordava a Bardas quella parte delle pianure dove i cespugli di agropiro rendevano quasi impossibile camminare) e i combattenti si facevano strada l'uno verso l'altro attraverso quella confusione e poi si scambiavano colpi dai punti liberi che trovavano. Il cancello, ovviamente, era chiuso e sbarrato, ma Bardas vide una via sgombra verso la rampa che portava agli spalti che correvano lungo l'interno della palizzata. Si fece strada trascinando i piedi verso quel punto, schivando alcuni timidi attacchi, e si trascinò esausto sulla rampa. Non riuscì a vedere nessun altro lassù con lui, perciò appoggiò la scimitarra contro la parete di tronchi e sì mise al lavoro per togliersi l'armatura. È senz'altro più facile uscire da un'armatura che entrarvi, e quando si imbatté in una fibbia distorta o rovinata, Bardas ne tagliò semplicemente la cinghia. Aveva appena tolto la mezza corazza e stava tagliando la staffa che legava il cannone quando sentì delle grida non troppo lontane. C'erano una dozzina di uomini delle pianure sulla rampa, che lo indicavano con le
mani tese e gridavano a un altro gruppo che si stava facendo strada tra i combattenti. Bardas imprecò tra i denti e continuò a tagliare, ferendosi quando la lama scivolò su un rivetto. Quando i nemici lo raggiunsero si era liberato da tutti i suoi fardelli. Gli inseguitori si bloccarono immediatamente e lo fissarono brandendo le lance. Bardas poteva quasi sentire il gusto della paura che portavano con sé ed era sicuro che se avesse battuto le mani e urlato, almeno due di loro sarebbero corsi via. Non li biasimava; nel bel mezzo di quella che forse era la più grande vittoria nella storia della loro nazione, era stato loro comandato di inseguire la sconfitta, l'umiliazione e la morte certa. «Va tutto bene» gridò allegramente. «Non mi trattengo» poi fece un balzo, posò le mani sul margine della palizzata, si tirò su e rimase a cavalcioni per un momento prima di passare di là l'altra gamba e spingersi giù. Atterrò nel fiume in posizione seduta e colpì l'acqua con un tonfo comicamente forte e tanti spruzzi. Lo shock e la spossatezza lo colpirono a metà strada tra la fortezza e il campo, e Bardas cadde al suolo, incapace di muoversi. L'ebbrezza estrema che aveva provato per essere riuscito a sfuggire alla trappola stava svanendo. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era il peso delle sue gambe e il dolore alle ginocchia. Rimase immobile per mezz'ora, con gli occhi chiusi (se qualcuno gli fosse finito addosso, avrebbe pensato che fosse morto). Non c'era più niente da vedere dietro le palpebre, e niente esisteva all'infuori del suo corpo dolorante e affaticato. Poi cominciò a piovere, e quando fu bagnato fino al midollo e quasi incapace di vedere per l'acqua che gli scorreva lungo la fronte e negli occhi, gli venne in mente che giù al campo c'erano delle tende, e posti molto più confortevoli per riposare. Alzarsi si rivelò un'operazione estremamente difficoltosa, che implicava la coordinazione di un certo numero di manovre complesse che il suo corpo non sembrava più capace di compiere. Tuttavia, dal momento che la pioggia era particolarmente bagnata e fredda, Bardas trovò un modo per rimettere tutto in moto e tornò zoppicando al campo trascinando il piede sinistro, che improvvisamente aveva deciso di aver subito una distorsione in un momento imprecisato della fuga. Il letto gli sembrava meravigliosamente comodo, ma era troppo lontano, così Bardas si accasciò su una sedia e lasciò che la testa gli cadesse in avanti sul petto. Nessuno sembrava aver notato che era tornato, il che era un sollievo; ci sarebbe stata un'insopportabile mole di lavoro da sbrigare (e nessun Theudas ad aiutarlo), e non se la sentiva di affrontarlo ora. Chiuse
gli occhi, felice dell'oscurità, ma il dolore dei muscoli e delle giunture era fin troppo predominante nella sua mente per consentirgli di dormire. Ciononostante stava cominciando ad assopirsi quando sentì qualcosa che gli graffiava la parte posteriore del collo. Avrebbe potuto essere una spina, o una scheggia d'acciaio della sua armatura, ma non pensava che fosse così. «Salve?» disse. «Salve a te.» La voce era familiare. «Chi è?» chiese. «Io. Iseutz Hedin, la figlia di Niessa. Ti ricordi di me?» «Certamente» rispose Bardas senza muoversi. «Come sei arrivata qui?» «Nel modo più classico, con una nave» rispose lei. «Abbiamo avuto il vento in poppa per tutto il tempo, quindi il viaggio è stato rapido ma eccitante. Ma vedo che in realtà non sei veramente interessato, quindi ti ucciderò e la farò finita.» «Aspetta un attimo» disse Bardas, e la paura gli fece strascicare leggermente le parole, come fa un uomo che non è completamente ubriaco, ma nemmeno sobrio. «Non ricordo, ma abbiamo mai parlato di questa faccenda? Vorrei sapere perché mi odi così tanto.» «Semplice. Mi hai rovinato la vita.» «Va bene» disse Bardas «ma è stato un combattimento leale, tu mi avresti ucciso se io non avessi...» «Non voglio parlarne» lo interruppe Iseutz. «Certo, il fatto che mi hai tagliato le dita non ha fatto sì che io ti amassi, ma, come hai detto, è stato un combattimento leale. Non è quella la ragione, come tu ben sai.» Bardas sentiva le proprie mani pulsare, dolenti per la stanchezza e il terrore. «Quindi sei ancora arrabbiata con me perché ho ucciso tuo zio...» Non riusciva a ricordare il nome dell'uomo. Hedin qualcosa. Non era il caso di tradire il fatto che aveva dimenticato il suo nome. «Davvero? Dopo tutto questo tempo?» «Sì.» «Oh. Ma anche quello è stato un combattimento leale; suvvia, sei stata anche tu uno spadaccino per un po'. Veramente, non vedo la differenza.» Sentì Iseutz espirare dal naso (terribilmente familiare, tutto questo: coltelli nel buio, non essere in grado di vedere il proprio nemico, dover fare affidamento su suoni o odori... e sì, la ragazza recentemente aveva mangiato qualcosa aromatizzato con il coriandolo). «Certo» disse lei. «Non ne sono sorpresa. Dovresti provare ad ascoltare la gente quando ti parla. Ho detto che ti ucciderò perché hai rovinato la mia vita. E l'hai fatto veramen-
te.» C'era una cosa riguardo alla paura che Bardas aveva dimenticato: il modo in cui permeava ogni altra cosa nella mente, come olio versato su una pila di carte. «Ma veramente, non c'è logica» disse. «La Città sarebbe caduta ugualmente, che l'avessi ucciso o no; la tua vita sarebbe stata ugualmente rovinata. Dannazione, se vuoi fare giochetti di logica con me, prova con questo: se io non avessi ucciso tuo zio, saresti stata in quel vicolo la notte in cui la Città è caduta? Perché se la risposta è no, tu saresti rimasta uccisa. Io ho salvato la tua maledetta vita, ricordi? Questo non conta?» «Non mi hai fatto nessun favore.» La paura stava peggiorando, non migliorando. Ci sono donne isteriche con i coltelli che dicono di volerti uccidere ma invece ti parlano; solitamente non fanno paura a uomini che si sono fatti strada attraverso un esercito nemico pensando ad altro per tutto il tempo. Ma Bardas aveva veramente paura di Iseutz, quasi al punto di non riuscire a parlare e di farsela addosso. Dopo tutto, lei era sua nipote; se l'eredità contava qualcosa, allora era veramente nei guai. «Mi sono perso, allora» disse. «Perché non ti spieghi, invece di farmi tirare a indovinare?» «Va bene, ti spiegherò.» Iseutz stava spingendo di più con il coltello. «È piuttosto semplice, in realtà. Tu mi hai resa così.» (E che disgusto riuscì a riversare in quella piccola parola...) «Hai fatto di me quello che sono ora, zio Bardas. Ti dirò una cosa, tu sei un ottimo artigiano. Sei riuscito a fare di mio cugino Luha un arco, e hai trasformato me in un altro tipo di arma, mi hai resa una Loredan. Grazie tante.» La bocca di Bardas era piena di qualcosa dal gusto orrendo. Bardas deglutì. «Sii giusta» disse. «È stata tua madre, non io.» «Oh, lei ha cominciato tutto, ed ecco perché lei non è certamente una buona assicurazione contro i rischi. Ma io mi sono allontanata da lei, avevo intenzione di diventare una Hedin, fino a quando tu hai interferito. Ecco perché io ti ucciderò.» «Capisco» fece Bardas. «Ma uccidere me non ti renderebbe ancora di più un qualcosa che tu non vuoi essere?» «No» rispose Iseutz. «I Loredan non uccidono i membri della propria famiglia. Zio Gorgas, per esempio: tu hai assassinato suo figlio e lui ti ha perdonato. Tu hai avuto la possibilità di uccidermi, ma non l'hai fatto. Mamma avrebbe potuto farmi fuori in qualsiasi momento, ma non l'ha fatto. Non è nel nostro stile.» Rise. «Più ci penso, più ho l'impressione che ti
sto facendo un favore. Forza, zio Bardas, che ragione potresti mai avere di voler restare in vita? Se io avessi fatto anche solo la metà delle cose che hai fatto tu, morirei di stanchezza, perché non riuscirei mai a dormire. La tua vita deve essere davvero orribile; voglio dire, la mia è già abbastanza brutta, e io ho appena cominciato.» «Che cosa strana da dire» replicò Bardas. «Conseguenze a parte, non mi viene in mente neppure una cosa che non abbia fatto per il meglio.» «Questo non è un discorso molto intelligente da fare, date le circostanze.» «Davvero?» Bardas fu a malapena in grado di evitare di tremare come un cane che è appena uscito da un lago, ma fu difficile. «Non credo. Tu non vuoi veramente uccidermi. Se avessi voluto a questo punto sarei già morto.» «Tu credi?» disse Iseutz, e spinse il coltello a fondo. In seguito, Bardas decise che in quel momento aveva compensato tutti gli errori che aveva fatto quel giorno, con quel suo successo tattico astutamente pianificato. Provocandola con così tanta abilità, almeno aveva saputo esattamente quando lei avrebbe colpito. Ciò gli permise di piegare la testa in avanti e di lato (ebbe ugualmente un orrendo taglio all'attaccatura posteriore dei capelli, ma niente di cui morire), spingendo contemporaneamente con forza con entrambi i piedi per spingere lo schienale della sedia verso il punto in cui sperava si trovasse il plesso solare di Iseutz. Con lo stesso movimento si gettò a terra, rotolò e allungò la mano verso il posto in cui doveva esserci (a patto che nessuno l'avesse spostato) il tagliacarte di Theudas, sul suo set da scrittura sul pavimento. Dopo tre anni nelle miniere era per lui una seconda natura, più facile da fare al buio in base al tatto e al ricordo che alla luce quando si riusciva a vedere. L'impugnatura del coltello trovò la sua mano, e l'atto di lanciarlo fu una continuazione dell'atto della presa... economia di movimenti, essenziale nelle miniere. Sentì l'impatto e il gemito di dolore (brutto segno, perché se riusciva a gridare, l'aveva mancata), ma stava già allungando la mano verso la scimitarra che aveva lasciato sul tavolo delle mappe. Iseutz disse: «Zio Bardas, no...» Poi Bardas sentì lo scricchiolio dell'acciaio che tagliava la carne e i tendini, il margine affilato che comprimeva le fibre e le recideva. «Grazie» disse istintivamente, e attese (conta sempre fino a dieci prima di muoverti: un'altra lezione che aveva imparato nelle miniere) prima di abbassare la scimitarra, mentre si alzava in piedi e cercava a tentoni la lampada e la scatola con l'acciarino.
Era già morta quando lui riuscì ad accendere la luce; il taglio della vena giugulare era un lavoro sporco ma veloce. C'era paura anche negli occhi di Iseutz, probabilmente quando all'ultimo secondo si era resa conto che voleva vivere, dopo tutto (Bardas l'aveva visto così spesso). La sua bocca era aperta e la ragazza aveva gettato via il coltello; ma nell'oscurità, ovviamente, lui non avrebbe potuto vederlo. Il tagliacarte di Theudas le aveva squarciato la guancia: era una ferita vistosa ma non grave, come quella che lei aveva inflitto a lui. Bardas si alzò e la fissò per un po': una Loredan di meno. Bene. Allora continua pensò continua. E ora ho una ragazza morta nella mia tenda. Iseutz era caduta, ovviamente, sul letto, che ora era quasi del tutto zuppo di sangue. Perciò Bardas dormì sulla sedia. Lontano dai combattimenti, in pace e tranquillità... sentì di non riuscire a ricordare un tempo in cui non c'era stata polvere e il costante bombardamento dei trabocchi. Ricordava quel posto per esserci stato tanti anni prima. Aveva avuto all'incirca dieci anni, l'intera famiglia era andata via per un giorno dopo aver sentito dire che c'erano delle oche nei livelli allagati; ovviamente non avevano trovato nessuna oca, ma avevano trovato fragole selvatiche e funghi che lo zio riteneva commestibili. Come succedeva di solito in queste occasioni, avevano portato con sé più cibo di quanto ne avevano riportato, ma non era quello il punto. Anche se nessuno lo avrebbe messo in questi termini, era un modo per allontanarsi per un po' dal resto della tribù, un simbolico atto di separazione. Era l'unica famiglia che conosceva che faceva una cosa del genere; ma era considerata una singolare eccentricità e nessuno chiedeva mai se poteva unirsi a loro. Ricordava la caverna; be', caverna era un'esagerazione per indicare un piccolo antro sotto una roccia dove c'era stato spazio a sufficienza perché un ragazzo di dieci anni ci strisciasse dentro e immaginasse di vivere in una casa, una di quelle strane abitazioni fisse in cui viveva il Nemico, quando non faceva il nemico. Lo ricordava a causa di quello strano senso di sicurezza che gli dava: pareti che erano di roccia e argilla, non di feltro. Un giorno, pensava, mi piacerebbe vivere in una casa. E così aveva fatto, anni dopo, fino a quando il Nemico (un altro Nemico, ma lo stesso) era venuto ad Ap' Escatoy e aveva abbattuto la sua casa. Lo ricordava anche perché mentre gli altri erano via dalla tribù, il Nemi-
co aveva razziato il campo; era il giorno in cui avevano ucciso la madre di Temrai e portato via la maggior parte del bestiame, causando quella carestia che aveva ucciso così tanta gente quell'inverno. Ricordava cosa aveva provato a tornare a cavallo nel campo, a vedere i brandelli di feltro bruciato che sbattevano dai pali inceneriti, i corpi lasciati a terra perché ce n'erano così tanti che ci sarebbe voluto un giorno intero per portarli via; si accigliò, sovrapponendo il ricordo a quello che aveva appena visto. (Aveva visto molte cose nel corso degli anni, e ne ricordava più di quante avrebbe voluto; ma è ciò che deve fare una spia. Vede, e ricorda: e poi fa ciò che gli viene detto.) La fessura era ancora lì (non c'era ragione per cui non avrebbe dovuto esserci); era più piccola di quello che ricordava, ma abbastanza grande per dargli rifugio per il resto della notte e un posto dove lavorare. Legò il suo cavallo al biancospino (anch'esso era ancora lì; ma ormai era quasi morto), slegò la bisaccia e strisciò nel tunnel buio. L'esca si accese al terzo tentativo (fuori aveva cominciato a piovere). Accese la sua lampada, poi la piccola stufa a olio che era appartenuta a suo zio. La fiamma tremolava in maniera allarmante, ma aveva luce e abbastanza calore da impedire che le mani gli tremassero. Era sufficiente. Tirò fuori la carne dalla bisaccia e la guardò; poi cercò la piccola scatola di legno che conteneva il tesoro più prezioso e misterioso di suo zio, il coltello per affettare dalla lama sottile. Pensa due volte, taglia una volta pensò, poi scelse il posto per la prima incisione. Era importante eseguire il lavoro con una certa misura, tirando indietro la pelle con l'indice della mano sinistra, staccandola dall'osso con la lama flessibile e affilata come un rasoio che teneva nella sua destra. Aveva fatto un lavoro simile prima, e visto fare un lavoro simile molte volte, e naturalmente una certa attitudine ce l'aveva nel sangue. Questo era, tuttavia, un caso eccezionale, e sarebbe stato infinitamente più facile evitare errori che porvi rimedio in seguito. Era un taglio di carne difficile a causa delle curve e degli angoli. Lo zio aveva fatto lavori più duri in quegli anni: lui era così bravo in questo genere di cose che la gente gli portava i suoi speciali trofei di caccia, i cervi, i lupi e le volpi, da trasformare in mantelli, tappeti e coperte (anche se non aveva mai capito perché qualcuno dovesse volere una coperta con la testa). Aveva sempre trovato quella vista affascinante, vedere come la pelle si staccava dall'osso, con un aspetto simile, eppure totalmente diverso; e nella sua mente ancora immatura spesso aveva riflettuto su quel rapporto stretto
tra la pelle e ciò che essa ricopriva, su come la pelle poteva essere parte del tutto eppure venir separata così facilmente. Queste riflessioni avevano portato ad altre: la natura della realtà esterna e interna, il modo in cui ciò che c'è sotto dà forma alla superficie, il modo in cui la superficie protegge, contiene e maschera ciò che c'è dentro. Un paradosso che l'aveva sempre divertito era il cuir-bouilli, la spessa e morbida pelle di bue rimossa, bollita nella cera e foggiata per fare un'armatura che era efficace quasi quanto una di acciaio (perché a differenza dell'acciaio il cuir-bouilli aveva una memoria: bastava schiacciarla e piegarla e ritornava alla sua forma originaria). Aveva fantasticato su un uomo bollito nella cera fino a quando la sua pelle fosse diventata un'armatura e nessuna lama poteva scalfirla... irrealizzabile, ovviamente, costruire una difesa per l'esterno che uccideva l'interno. Nessuno avrebbe mai potuto tentare un esperimento del genere, e così la sua teoria non avrebbe mai potuto essere provata. Continuò a spellare e tagliare fino a quando l'ultimo pezzettino di pelle venne via intero e gli rimasero due oggetti separati: pelle e ossa. Sollevò lo sguardo. L'acqua stava bollendo nel paiolo, quindi lui ci gettò dentro l'osso per bollire la carne e il tessuto (l'ultimo passaggio sarebbe stato sbiancare l'osso e lucidarlo), poi distese la pelle e infilò la mano nella bisaccia per prendere le cose che gli servivano: sale, erbe e il vasetto di miele. Il sale lo sparse in uno strato piuttosto alto sulla parte grezza della pelle; poi la cosparse di erbe e arrotolò la pelle strettamente, come una lettera. Alla fine tagliò la cera intorno al collo del vasetto di miele, sollevò il coperchio e immerse il rotolo nel vasetto. Rimise il coperchio e sciolse una piccola quantità di cera con la lampada per sigillare nuovamente il vasetto. Riposò per un minuto o due, più per lo sforzo di concentrazione che per la fatica fisica, nonostante anche il lavoro manuale fosse stato abbastanza duro, e aveva richiesto forza eccezionale e destrezza delle dita. Per lavarsi le mani strisciò fino all'imbocco dell'antro e le tenne sotto la pioggia, poi le asciugò su un ciuffo d'erba. L'ultimo lavoro fu di ripulire il coltello (lo zio gli aveva fatto promettere che non l'avrebbe mai lasciato arrugginire; una volta arrugginito, gli aveva detto, puoi tranquillamente gettarlo via: non riuscirai mai a farlo tornare pulito). Per un po', pensò al lavoro che aveva fatto. Poi si distese, allungò le gambe e si addormentò. Gannadius. Si mise a sedere, con la testa annebbiata dal sonno. La stanza era così
buia che non riusciva a dire se aveva aperto gli occhi o no. «Alexius?» disse. ... e Alexius uscì dall'oscurità e si sedette accanto al letto. «Mi dispiace, ti ho svegliato?» «Presumibilmente» rispose Gannadius. «Ma è tutto a posto. Come stai?» Alexius lo guardò accigliato. «Morto» rispose. «Spiacente, era solo una domanda di routine. So che sei... Mi dispiace» aggiunse Gannadius in modo poco convincente. «Va tutto bene» rispose Alexius. «Ho sempre pensato che il guadagno per la filosofia è stata una perdita per la diplomazia. Pensa, se fossi entrato nei corpi diplomatici invece che nell'Ordine, quante guerre interessanti avresti potuto far scoppiare.» Gannadius fece schioccare la lingua. «In effetti questo l'ho notato» disse. «Sei diventato molto più sarcastico e pungente da quando sei morto.» «Davvero?» Alexius sembrava preoccupato. «Sì, se ci penso in effetti suppongo che sia vero, anche se non l'avevo notato fino a quando tu non l'hai detto. Posso solo presumere che sia il risultato del fatto che vengo filtrato attraverso la tua meravigliosa personalità e la tua indole allegra ogni volta che ho bisogno di parlarti. Da qui, senza dubbio, deriva anche l'aumento del mio livello di impertinenza. Non che mi stia lamentando; avevo sempre pensato di essere un tantino troppo freddo e temperato nella mia conversazione.» «Felice di esserti d'aiuto» disse Gannadius. «Allora...» «Il messaggio, sì.» Alexius rifletté per un momento. «Non sono sicuro di come dirtelo senza sembrare tremendamente melodrammatico. Addio per sempre.» «Oh» rispose Gannadius. «Cos'è successo?» «Il pasticcio che abbiamo fatto finalmente è stato corretto» rispose Alexius. «Anche se corretto forse non è il termine più appropriato. Iseutz Hedin è morta: Bardas l'ha uccisa pochi minuti fa.» «Oh» ripeté Gannadius. «E questo come cambia le cose, esattamente? Mi dispiace, non ti seguo.» Alexius sospirò. «Vegetare qui tra l'elite intellettuale dell'Ordine Shastel non ha migliorato molto il tuo ragionamento induttivo, a quanto pare» disse. «Vediamo... supponiamo che tu possa dire che il Principio ha imposto se stesso, o è ritornato al suo normale corso... questo se usassimo l'analogia del fiume, che non mi è mai piaciuta molto. Se usassimo l'analogia della ruota, direi che ha completato una rivoluzione ed è ritornato al punto mor-
to superiore, anche se così si ignora convenientemente il fatto che è stato fuori fase per un po'. E questo, mi dispiace dirlo, grazie a te e a me.» «La maledizione.» «Oh, diavolo, ancora quella parola. La diversione, o deviazione... o dovremmo chiamarla eccentricità? Anche se in fin dei conti io lo definirei quello stupido, maledetto errore.» Scosse la testa. «In ogni caso, si è risolto. In un certo senso, ora siamo tornati al punto in cui saremmo stati se non avessimo interferito, tranne per il fatto che, naturalmente, non siamo affatto vicini a ciò che sarebbe dovuto essere, perché la città che non è caduta non è Perimadeia, è una fortezza sulle pianure da qualche parte che Bardas non è riuscito a catturare; ed è Iseutz, non Bardas, che è stata uccisa; e naturalmente, dal momento che la ruota ha fatto un giro in più e ha percorso così tanta strada, sono state coinvolte molte persone che non avrebbero dovuto essere coinvolte. Ma è finita, il che è la cosa principale. Ora tutto ciò che ti rimane da fare è scrivere l'esperimento, come un trattato. Non prendertela a male» continuò «ma io chiamerei qualcuno per scriverlo insieme a te, solo per aggiungere un punto di vista obiettivo che fa tutta la differenza. Che ne dici di quella studentessa maledettamente dotata, quella ragazza...» «Machaera?» Gannadius scosse la testa. «Ha cambiato corso lo scorso anno, ora fa Strategia Commerciale, e se la cava piuttosto bene.» «Davvero? Peccato.» Alexius sospirò. «Be', troverai qualcuno, immagino. E in ogni caso non potrai cominciare il lavoro finché le cose non si saranno calmate, quindi...» «Cosa intendi esattamente» lo interruppe Gannadius «con "calmate"?» Alexius fece un gesto vago con le mani. «Sistemate, trovato un loro livello. Vedrai.» Si alzò in piedi. «Be', vecchio amico, questo è uno di quei momenti estremamente imbarazzanti che tentiamo sempre di evitare; è stato un piacere lavorare con te. e la nostra amicizia è stata molto bella per me (anche se le conseguenze per centinaia di migliaia di persone sono state abbastanza catastrofiche). Sarebbe bello pensare che ci incontreremo ancora un giorno, anche se devo dire che in base alla mia interpretazione del Principio, è estremamente improbabile.» Fece una smorfia. «So che sembra tutto così tristemente formale, ma tu e io non siamo i tipi da fare grandi discorsi emotivi. È un peccato, probabilmente.» Gannadius annuì. «Mi mancherai» disse. «Suppongo di essere felice, se veramente è tutto finito; ma in realtà non lo sono, perché le cose sono andate così male, ed è stata veramente colpa nostra...»
«In parte colpa nostra. Non siamo stati noi a rendere la gente come è, o a causare i problemi che hanno dato il via a tutto. In un certo senso, tutto questo sarebbe accaduto lo stesso; perché è accaduto...» Alexius si interruppe, si grattò la testa e fece un sorriso mesto. «Sai» disse «avevo sperato che la morte chiarisse il mio ragionamento a questo riguardo, ma temo che non sia stato così. Non ho mai capito il Principio, e non lo capisco ora.» «C'erano due strade alternative, ciascuna ugualmente valida» disse lentamente Gannadius. «Noi abbiamo scelto. Ma ciò che è accaduto, è accaduto.» «Se usi l'analogia del fiume» disse Alexius «che a me non è mai piaciuta. Ma non capisco come si possa inserire tutto questo nell'analogia della ruota...» «A meno che» suggerì Gannadius «non si veda il Principio non come una ruota, ma come un albero di distribuzione.» «Come, scusa?» «È solo un qualcosa che ho sentito. Neanche a me sembra una buona spiegazione.» Fece un profondo respiro. «Non potremmo stringerci la mano, o abbracciarci, o qualcosa del genere? Sento che una qualche espressione fisica di saluto...» Alexius ci rifletté un po'. «Posso lasciarti con l'impressione che ci sia stato contatto fisico» disse «ma sarebbe un ricordo inaffidabile. Tuttavia, sarebbe impossibile provare il contrario.» «E ugualmente impossibile provare che ci sia stato» rispose Gannadius con un sorriso. «E ricorda, noi siamo filosofi... scienziati. Per noi, la prova è tutto.» «Va bene, allora. Addio, Gannadius.» ... Poi si rese conto che era sveglio, e aveva sognato. Fu come dopo una grande festa, un compleanno o un matrimonio: si sentivano tutti rallegrati ed esausti, e l'ultima cosa che volevano fare era cominciare a ripulire tutto. Purtroppo una parte del lavoro avrebbe dovuto essere fatta prima di poter andare a letto: la ricerca dei nemici sopravvissuti, per esempio, per non parlare dei propri feriti. «Iordecai, organizza una parte dei dettagli del lavoro» disse Sildocai. «Lissai, Ullacai, controllate le difese, nel caso attacchino di nuovo. Immagino che non lo faranno, ma sarebbe una mossa tattica davvero brillante, colpirci quando siamo più rilassati. Pajai, voglio che tu prenda venti uomini e ti assicuri che il corpo di Loredan non stia andando su e giù per il fiu-
me da qualche parte. Non si sa mai, potremmo essere fortunati.» «Va bene» rispose qualcuno. «E tu cosa farai?» «Farò rapporto a Temrai, naturalmente» rispose Sildocai. «A proposito, qualcuno l'ha visto? L'ultima volta che io l'ho incontrato stava tornando alla sua tenda, ma stavamo ancora rastrellando vicino al recinto del bestiame.» Nessuno disse niente, quindi Sildocai scrollò le spalle e disse: «Immagino che sia nella sua tenda a riposarsi: dopo tutto, non sta ancora bene dopo la botta presa quando è stato seppellito.» Attraversando il campo Sildocai vide fuochi che bruciavano dappertutto; le cataste di legna da ardere si erano bagnate con la pioggia, così gli uomini usavano le aste delle alabarde e gli stivali delle divise imperiali per alimentarli. Tutti quelli che vedeva intorno a sé si muovevano con il passo lento dell'esausto, trascinando i piedi e le scarpe pesanti per il fango. Sildocai sapeva come si sentivano; ma lui era ancora leggermente su di giri per la vittoria. Era un peccato che ci volesse più tempo per ripulire dopo una vittoria che dopo una sconfitta. Le donne e i bambini erano usciti fuori e stavano facendo del loro meglio per aiutare: toglievano maglie e stivali agli alabardieri morti, raccoglievano manciate di frecce, si affaccendavano intorno ai cadaveri per raccogliere l'inattesa manna delle cose buone che non dovevano essere sprecate. C'erano bambini che facevano rotolare elmi per terra e ridevano, eccitati per essere in piedi a un'ora così tarda; Sildocai vide una bambina fermarsi e fissare pensosamente il corpo di un altro bambino, che era uscito durante la battaglia e si era ritrovato in mezzo: era sepolto per metà nel fango, e la piccola lo stava studiando senza mostrare alcuna apparente emozione. Dall'altro lato del campo degli uomini stavano correndo su e giù scivolando nel fango, tentando di radunare dei cavalli che si erano slegati. Uno degli uomini aveva una benda completamente inzuppata di sangue intorno alla testa... ma qualcuno doveva pur riprendere quei cavalli: erano ciò che gli dava da vivere, dopo tutto. Sildocai guardò in basso e si rese conto che aveva appena messo il piede su una mano. Ah, be', pensò; probabilmente domani dovremmo tornare tutti nuovamente al lavoro, quando i trabocchi ricominceranno a colpire, ma questa notte possiamo tranquillamente dormire un po', ce lo siamo meritato. Gli venne in mente che stava morendo di fame, e probabilmente non era il solo, ma anche questo avrebbe dovuto aspettare. Qualcuno aveva pensato di portare qualcosa da mangiare a Temrai? Il lembo della tenda era tirato indietro, e da dentro usciva una luce. Sil-
docai bussò sul palo, ma nessuno rispose... dormiva, forse. Chinò la testa ed entrò. Temrai era sulla sua sedia, o almeno c'era il suo corpo. Ma il suo collo era stato reciso di netto, e la testa era sparita. CAPITOLO VENTUNESIMO «Per favore, cerchi di non pensare a questa situazione come a un passo indietro nella sua carriera» disse il Figlio del Cielo, con gli occhi fissi a un paio di centimetri sopra la testa di Bardas. «Non è niente del genere. Come ho detto prima, siamo soddisfatti dei suoi risultati. In ultima analisi, la guerra ha avuto successo; lei può aver perso una battaglia, ma ha negoziato la pace agli stessi termini che avrei ritenuto accettabili se avesse vinto. Dopo tutto» continuò «nessuno si aspettava che lei li uccidesse tutti.» Bardas annuì. «Grazie» disse. «Piacere mio. Ci rendiamo conto che ha preso il comando in circostanze avverse, che non ci si poteva aspettare che guidasse le truppe con lo stesso livello di competenza di un generale esperto, e che questi uomini delle pianure si sono rivelati un nemico inaspettatamente pieno di risorse, tenace e difficile. Lei non è stato l'unico comandante che hanno battuto. E anzi, lei si è comportato molto meglio di quanto ci aspettavamo.» «È molto gentile da parte sua dirlo.» «Niente affatto. Ed è per questo» continuò «che non ho avuto alcuna esitazione a raccomandarla per il suo nuovo incarico. Dopo tutto, uomini con la sua esperienza nel condurre un assedio mediante la costruzione di gallerie sono rari. Non che ci aspettiamo che la situazione a Hommyra duri quanto quella di Ap' Escatoy» aggiunse. «Una volta che le gallerie principali saranno completate ci attendiamo una conclusione entro pochi mesi.» Bardas annuì. «Bene» disse. «E dopo questo... be'.» Il Figlio del Cielo addirittura sorrise. «Ci sarà sempre bisogno, ne sono sicuro, di uno scavatore di prima classe. Vedo grandi cose nel suo futuro, a patto che lei mantenga la sua parte del patto.» (Era stato uno strano incontro, quasi comico; entrambi gli uomini si erano trattati con esagerata cortesia, come se la minima mossa falsa potesse causare una grandinata di frecce, seguita da una disperata carica di cavalleria in risposta. Il Capitano Loredan aveva accolto re Sildocai con tutto il dovuto rispetto, quantificato con precisione nei protocolli dell'ufficio provinciale - un generale nemico ha un grado superiore ai propri immediati
subordinati di uguale grado, ma è ritenuto uguale e inferiore per scopi diplomatici rispetto al suo immediato superiore - e aveva offerto le sue condoglianze formali per la morte di re Temrai. Re Sildocai aveva ringraziato il Capitano Loredan per la partecipazione molto gradita al suo dolore, e aveva espresso il desiderio che d'ora in avanti le loro due nazioni lavorassero insieme in uno spirito di cooperazione allo scopo di trovare un accordo reciprocamente accettabile. Il patto, che prevedeva che le tribù avrebbero lasciato le pianure per recarsi a nord in una regione selvaggia ufficialmente designata e non sarebbero tornati mai più indietro, fu concluso così in fretta e così facilmente che a un certo punto entrambi sospettarono di leggere dallo stesso foglio. Quando si separarono, erano quasi amici.) «Naturalmente» continuò il Figlio del Cielo «non abbiamo mai avuto la minima intenzione di mandarla sull'Isola.» «Veramente?» disse Bardas. Lo disse come se l'argomento fosse di interesse puramente accademico. «Assolutamente. Avrebbe rappresentato una concessione, quasi un atto di debolezza. No, l'Isola ha bisogno, mi perdoni, di un capo forte e inflessibile, per guidarla attraverso il difficile processo di transizione. Il territorio stesso, ovviamente, difficilmente vale il disturbo (a tempo debito, mi aspetto che verrà incorporato in un'altra delle sottoprefetture, l'equilibrio della popolazione verrà regolato e l'Isola verrà considerata una valida ubicazione per la costruzione di una possibile base navale); ma in questo particolare momento, la priorità deve essere di tenere al sicuro la flotta. Se le nostre esperienze più sfortunate ci hanno insegnato qualcosa, è che non possiamo più permetterci di trascurare la potenza navale.» Mi sta parlando, rifletté Bardas, proprio come a uno di noi; un subordinato, certo, ma noi include tutti noi, persino me. «Capisco benissimo» disse. «Come ha detto, è una questione di priorità.» Con magnanimità, il Figlio del Cielo si offrì di versargli dell'altro vino. Bardas aveva notato che a loro piaceva farlo, o perché provava che erano tutti ugualmente servitori dell'Impero, o perché non si fidavano del fatto che i plebei sapessero farlo senza smuoverne il fondo. Lo ringraziò con un cenno del capo. «In effetti» continuò il Figlio del Cielo «durante le mie discussioni ho trovato il capo dei ribelli molto più astuto di quanto mi ero aspettato... un grosso errore di giudizio da parte mia, devo ammettere. Be'» aggiunse increspando le labbra sottili, «non proprio astuto; era più quella curiosa mistura di furbizia e stupidità che caratterizza le nazioni dedite al commercio.
Secondo la mia esperienza tendono ad avere una prodigiosa abilità a capire le motivazioni sul piano umano individuale, mentre non capiscono affatto le questioni più generali che sarebbero perfettamente ovvie a lei o a me. Da qui» aggiunse, con un leggero sorriso «deriva la loro inclinazione all'approccio personale, e l'equivocamento... ma esiste una tale parola? Credo di no... che avremmo mandato lei, qualcuno di cui loro avrebbero potuto fidarsi e che avrebbero potuto manipolare. Naturalmente il ribelle è stato uno sciocco a basare la sua intera strategia su una promessa assolutamente non confermata, una vaga affermazione di una probabile intenzione futura. La strana debolezza che ho riscontrato tra i commercianti è il loro apparente desiderio, nonostante il cinismo, di fidarsi di qualcuno. Far sì che si fidasse di me è stato facile; persone come lui non possono fare a meno di fidarsi di coloro di cui hanno paura.» Bardas sorrise, come se fosse d'accordo con quell'affermazione. «Cosa gli accadrà?» chiese. «Al leader dei ribelli, intendo dire.» Il Figlio del Cielo lo stava guardando con la coda dell'occhio. «Oh, verrà estradato, processato e condannato; dobbiamo far quadrare i conti, dopo tutto. Fortunatamente il nostro sistema di verifica contabile ci consente di far sì che un uomo paghi per le inadempienze del suo paese; è una soluzione efficiente e umana, e semplifica la revisione delle prestazioni. Perciò re Temrai ha pagato per la sua gente, Mastro Auzeil e i suoi pagheranno per la loro; potremo così tirare una linea sotto entrambe le colonne e dichiarare chiusa quella pagina. Analogamente» continuò, con una voce così cortese che quasi strascicò le parole (ma un Figlio del Cielo non sarebbe mai caduto così in basso), «possiamo concludere il nostro coinvolgimento alquanto inutile nel Mesoge con una semplicissima azione di chiusura della contabilità.» Bardas rimase perfettamente immobile. Ovviamente stavano leggendo tutte le sue lettere. Era una procedura operativa standard quando un ufficiale era sotto esame in seguito a un'azione insoddisfacente o discutibile. La lettera in questione l'aveva raggiunto in un momento sbagliato, mentre era impegnato a tentare di risolvere un pasticcio che aveva fatto con i ruolini di servizio. «Non ora» aveva detto, e poi aveva visto l'espressione sul viso dell'uomo che l'aveva portata. Sembrava che stesse per dare di stomaco. «Cos'hai lì?» gli aveva chiesto.
«Lettera per lei» aveva risposto l'uomo. «E questo.» Aveva indicato un grosso vaso di terracotta nelle mani di un altro soldato dall'espressione turbata. «Abbiamo trattenuto l'uomo che li ha consegnati.» Bardas aveva annuito. «Ben fatto» aveva detto, chiedendosi cosa stesse succedendo. «Dammi la lettera e metti il vaso nella mia tenda. Verrò fra un attimo.» Alla fine aveva impiegato quasi mezz'ora a sistemare i ruolini, e a quel punto aveva dimenticato la lettera. Fu solo a tarda sera, quando riuscì a ritagliarsi un'ora di riposo, che vide il vaso accanto alla sedia e ricordò. Il sigillo era rotto - be', ormai c'era abituato - ma conosciuto; la Banca Loredan, il che significava che la lettera poteva provenire solo da due persone. E non riusciva certo a immaginare sua sorella Niessa che gli mandava una lettera, per non parlare di un regalo. Caro Bardas, se stai leggendo questa lettera, significa che hai vinto la battaglia. Congratulazioni! Ora, torniamo un po' indietro. Quando avrò finito di scrivere questa lettera, la darò al mio uomo nel campo di Temrai. Lavora per me già da parecchio tempo; in pratica, il suo compito è stato di assicurarsi che non accadesse niente a Temrai fino a quando tu non l'avessi raggiunto; e poi di assicurarsi, a qualunque costo, che non ti sfuggisse. Se sei riuscito a prenderlo... be', meglio, ma significa che non stai leggendo questa lettera. Se è riuscito a sfuggirti... be', è tutto a posto. Era il meno che potessi fare. So quanto e importante per te, per la tua carriera, per il tuo futuro, avere successo in questa guerra. È stato tutto così incerto, non credi? In principio stavano per mandare quell'enorme esercito, il che avrebbe significato che tu non avresti mai avuto la tua possibilità. Be', non potevamo permetterlo, no? Fortunatamente sono riuscito a organizzare una piccola diversione; gli abitanti dell'Isola sono così stupidi e avidi che ho dovuto solo suggerire che sarebbe stato meglio non accettare subito il patto e chiedere più denaro, ed è bastato. Poi, ovviamente, si sono spinti troppo oltre e si sono fatti annettere; mi sono sentito un po' stupido quando l'ho saputo, te lo confesso. Fortunatamente, però, c'è stato tempo per inviare lì alcuni dei miei uomini per dare il via a una piccola ribellione... un azzardo, ma ha funzionato. Me lo sentivo che avrebbe funzionato; perché, vedi, so che questa guerra era destinata a scoppiare per te, e che niente questa volta doveva intralciarti il cammino.
Spero che ti piaccia il regalo. È da quando eravamo bambini che costruisci cose per me (sei sempre stato quello più bravo con le mani). Ora, tu sai benissimo che non sono proprio capace di fare niente, neanche se ne andasse della mia vita, quindi ho chiesto a quell'uomo, Dassascai, di fare questo per me. Dal momento che è un sicario e anche un cuoco, dovrebbe aver fatto un buon lavoro. Altrimenti... be', è il pensiero che conta. Come sempre, il tuo affettuoso fratello, Corgas. Bardas arrotolò la lettera, poi tagliò la cera intorno al collo del vaso, sollevò il tappo e tirò fuori ciò che c'era dentro. In principio pensò che fosse la testa di un maiale, come quelle che da ragazzo lo avevano sempre disgustato, anche se suo padre e Gorgas le consideravano una prelibatezza. Il trucco stava nello scarnificare l'osso, lasciando intatta la pelle; poi questa veniva stagionata col sale e riempita di cose buone, come chiodi di garofano, pimento, basilico, grani di pepe nero e rosso di Colleon, cannella, cumino, albicocche secche e radice di zenzero, e poi immersa in un miele domestico leggero, trasparente e quasi bianco. Persino allora Bardas era stato sia incuriosito che disgustato del paradosso del dolce, delizioso e fragrante interno e del grottesco esterno; si era chiesto chi mai avesse potuto avere l'idea di una combinazione così bizzarra. Come figlio rispettoso, aveva sempre finto di mangiare con entusiasmo la sua parte, tentando di concentrarsi sul meraviglioso odore e sul sapore ricco e dolce... dopo tutto, non c'era bisogno di guardare qualcosa per mangiarla, bastava allungare il coltello e tagliarla. Questa era la stessa ricetta; immaginò Gorgas che la scriveva dettagliatamente e la inviava al suo cuoco, con l'ordine di non cercare di migliorarla in alcun modo (Gorgas aveva attitudine per la cucina e un'incredibile capacità di gustare il cibo; i dettagli per lui erano molto importanti. Riflettendoci, sarebbe stato un ottimo Figlio del Cielo). Ma non era la faccia di un maiale quella che pendeva dalla massa di capelli bagnati di miele stretti tra le sue dita; raggrinzita e distorta (probabilmente per l'azione essiccante del sale), quella era la faccia di re Temrai. Il miele colava come lacrime dorate lungo le guance paffute e del colore delle pesche troppo mature; le palpebre erano chiuse sulle orbite vuote (Bardas sapeva quanto riuscivano a vedere gli occhi chiusi) e la bocca era cucita con tendini finemente attorcigliati, che in uno o due punti avevano
lacerato la sottile pelle delle labbra quando la pelle si era contratta e ristretta. Era morbida e cedevole al tatto, come una sacca di pelle... o come le palle che erano soliti fare con le vesciche ripiene di paglia, o i gustosi budini invernali con cui sua madre riempiva lo stomaco delle pecore. Sotto la superficie dorata la pelle era pallida e striata, come quella della madreperla. (Che cosa curiosa, pensò Bardas; che cosa curiosa e poco pratica da parte dei creatori di uomini mettere la dura armatura del cranio all'interno della morbidezza della faccia. Certamente avrebbe dovuto essere l'inverso: l'osso duro e uniforme, a proteggere le vulnerabili fattezze che rendono un individuo diverso dall'altro. Da questo punto di vista, almeno, al palazzo delle prove erano più intelligenti.) Morbido e sformato, eppure raggrinzito e rugoso, Temrai appariva molto giovane e contemporaneamente molto vecchio. Sul suo viso Bardas vide il ragazzo che si era nascosto da lui sotto un carro, in un luogo non molto lontano da lì; e allo stesso tempo poteva vedere il vecchio che Temrai sarebbe potuto diventare (il fiume o la ruota, a meno che non si preferisse la teoria dell'albero di distribuzione)... e pensò per un momento al processo di conservazione (il trattamento della carne), che è un tentativo di deviare il fiume e deviare la ruota, di trovare un modo per non saccheggiare la città già condannata o uccidere l'uomo già destinato. Coloro che credevano nel Principio sarebbero stati inclini a basare su questo una teoria, come se non ci fosse già abbastanza manipolazione del materiale grezzo. «È un po' tardi per preoccuparsi di questo, ora» osservò Anax, in piedi dietro la sua spalla. «E inoltre, l'abilità di trasformare le cose in altre cose è ciò che ci rende umani. O ci rende gli umani che siamo» aggiunse, con una risatina ansimante. «Tu sai» continuò «che essiccandola e imbottendola potresti usarla come rivestimento per un elmo.» «Va via» disse Bardas. «Sei nervoso solo perché non hai mai avuto la possibilità di dire grazie» rispose Anax. «E tu eri quello che nelle miniere brontolava sempre perché non riusciva mai a vedere la faccia del suo nemico.» Bardas si accigliò. «Non ho mai pensato a lui in questi termini» disse. «E anzi, a essere onesto con te, non ho mai veramente pensato a lui come a un essere umano.» «Hai ormai perso qualsiasi possibilità, temo» disse Anax con un tono lamentoso, come se volesse dire: Te l'avevo detto. «Perché quella non è umana, è solo una cosa. Succede a tutti noi prima o poi; gradualmente ci
facciamo crescere queste pelli inumane... un po' come accade agli alberi, in realtà, solo al contrario; con noi, è la parte vivente che rimane all'interno e quella morta all'esterno. Il che mi ricorda una cosa: era o no un'armatura di ottima fattura quella che ho costruito per te?» «Sì.» «È tutto ciò che sai dire? È ciò che si chiama passare una prova: tu te ne stai lì seduto senza nemmeno un graffio e tutto quello che sai dire è sì.» Bardas sorrise. «Ah» disse «ma quella era solo la guerra. Non ha dovuto reggere a Bollo e al grande martello.» Anax sorrise; Bardas non riuscì a vedere quel sorriso, ma sapeva che era lì. «Figliolo, non c'è niente sulla terra di così resistente. È come quelle bancarelle di pugilato che vedevi da piccolo alle fiere: la regola della casa è che Bollo vince sempre. Il divertimento è vedere quanti round puoi resistere.» «Divertimento?» «In mancanza di una parola migliore...» Poco tempo dopo, Bardas andò alla garitta del corpo di guardia. «Quell'uomo che ha portato la lettera per me» disse. «Lo trattenete ancora?» Gli dissero di sì: era ancora lì. «Bene. Gli avete chiesto come si chiama?» Certo, risposero. Dassascai, ha detto che si chiamava. Non ne ha fatto un segreto. Sembrava avere l'impressione che gli sarebbe stata data una bella ricompensa. «Certamente» rispose Bardas. «Allora, prendete un paio di uomini e una bandiera bianca e portate questo Dassascai sulla collina da re Sildocai insieme a questo vaso e a questa lettera. Vi suggerisco di tenerlo ben fermo, perché potrebbe non voler andare. Poi, se fossi in voi, scapperei da lì il più in fretta possibile.» Il Figlio del Cielo si appoggiò allo schienale della sua sedia. «Per pura curiosità» chiese «cosa c'era nel vaso?» «La vittoria» rispose Bardas, sorridendo debolmente. «O almeno, qualcosa che ha ottenuto lo stesso risultato della vittoria. Lei potrebbe definirla un'arma segreta.» «Capisco.» Il Figlio del Cielo inarcò un sopracciglio. «Come il liquido incendiario che ha usato durante l'assedio di Perimadeia?» «Non proprio» disse Bardas «anche se anche quello ovviamente mi è ar-
rivato in un vaso. Mi scusi, per favore, ma sto cominciando a dire la prima cosa che mi passa per la mente.» Bardas si accarezzò il mento, come riflettendo su qualcosa. «Allora, quando dovrò partire?» chiese. «Non appena arriverà il suo sostituto: questa sera tardi o domani sul presto. Lei dovrà fare rapporto a lui non appena arriverà: è il Colonnello Ilshel. E piuttosto giovane, ma promette bene; ci aspettiamo grandi cose da lui. Dovrà sovrintendere all'evacuazione delle truppe nemiche e scortarle fino alle montagne. Dovrebbe essere un lavoro piuttosto semplice.» «Molto bene» rispose Bardas, con apparente indifferenza (e il suo viso era privo di espressione, come se fosse già morto e imbalsamato). «Allora lei è già stato sul corriere postale?» chiese il cocchiere. Bardas annuì. «Un paio di volte» rispose. Il cocchiere sembrava impressionato. «Deve essere una persona importante, allora» disse. «Mi ripete il suo nome?» «Bardas Loredan.» «Bardas... aspetti un attimo, mi ricorda qualcosa. Ap' Escatoy: lei è l'eroe.» Bardas annuì. «Giusto.» «Che io sia dannato» disse il cocchiere. «Non si incontra tutti i giorni un eroe. Allora, com'è veramente essere un eroe?» «Noioso, per la maggior parte del tempo. Con occasionali intervalli di estremo terrore.» Il cocchiere rise. «Oh, dicono tutti così quando gli si chiede cosa hanno fatto in guerra. Non le è permesso di parlarne, ho capito tutto. Allora, dove sta andando ora? Oppure anche questo è un segreto?» «Vado in un posto chiamato Hommyra» gli disse Bardas «ovunque esso sia. Lei sa dov'è?» «Hommyra.» Il postiglione aggrottò la fronte. «Be', se è dove io credo che sia, è proprio dall'altra parte dell'Impero, a est. Non sapevo che ci fosse una guerra da quelle parti, anche se ovviamente questo non significa niente.» «Mi hanno detto che mi ci vorranno sei settimane per arrivare laggiù con il corriere postale» disse Bardas. «Quindi immagino che sia quello il posto.» «Ha avuto una promozione?» «Mi hanno dato il grado di capitano.» «Caspita. Non è affatto male per un forestiero.»
«Grazie.» Bardas aveva cambiato carrozza ad Ap' Escatoy. Lo aveva disturbato la scoperta che il campo e la città temporanea sorta laggiù l'avevano fatto sentire quasi come a casa, e che aveva sentito quasi un senso di appartenenza. Aveva tentato di non riflettere troppo su quella sensazione; e allo stesso modo aveva evitato di andare sotto la porta d'ingresso della città sulla quale, a quanto gli aveva riferito qualcuno, avevano attaccato le teste di tre famigerati ribelli responsabili per la recente sommossa sull'Isola. Una volta che aveva saputo che erano là, Bardas aveva evitato di alzare lo sguardo, per paura di riconoscerli o di intravedere le scritte attaccate a quelle teste, sulle quali erano riportati in dettaglio i nomi e i crimini dei ribelli. «Questa faccenda degli uomini delle pianure, per esempio» stava dicendo il cocchiere. «Ovviamente sarebbe potuta essere gestita in maniera più intelligente, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio; ci siamo sbarazzati di loro, il loro re è morto e per di più abbiamo preso anche una flotta di navi. Tutto questo gran parlare che si fa sul fatto che sia un colpo al prestigio dell'Impero e cose del genere, è tutta invidia. Alla fine ciò che conta è chi ha vinto, non è d'accordo?» «Certamente» rispose Bardas. «Aspetti un attimo.» Il cocchiere lo guardò. «Lei c'era di mezzo, vero? Sono sicuro di averlo sentito dire da qualche parte, che il tipo di Ap' Escatoy stava combattendo nella guerra delle pianure. È giusto?» «Ho partecipato agli ultimi fuochi» disse Bardas. «Caspita! È stato in mezzo a qualche azione?» «Abbastanza.» «Ma davvero?» Il cocchiere sorrise. «Dicono che è stata l'artiglieria a fare il lavoro duro, anche se la cavalleria ha combattuto bene. È vero?» «Più o meno.» «Sono sempre gli eroi dimenticati, quelli dell'artiglieria» affermò il cocchiere con solennità. «I maledetti picchieri si danno sempre delle arie, dicono che sono loro quelli che fanno sempre tutto... e a essere onesti con loro, sono bravi... molto bravi. Ma per gli assedi e cose del genere, il corpo dei genieri non si batte. Be', basta guardare lei, per esempio.» «Io?» «Certo. Lei è un geniere, dopo tutto.» Bardas scrollò le spalle. «Suppongo di sì.» «Non c'è niente da supporre» disse con fermezza il cocchiere. «Mio pa-
dre era un geniere. Ha trascorso quindici anni sulle strade e sui ponti, poi è stato trasferito all'artiglieria, e ha fatto carriera fino a diventare sergente; non uno scavatore come lei, ovviamente, anche se uno dei miei zii...» «È il mare quello laggiù?» «Sì» disse il cocchiere. «Proprio oltre quelle colline, a circa due miglia. Seguiremo la costa fino ad Ap' Molian, poi ci dirigeremo verso l'interno per un paio di giorni verso Rhyzalia, e io mi fermerò lì. Immagino che lei prenderà la carrozza di Torrene... uno dei postiglioni è mio cognato, perciò gli chieda se per caso conosce un tizio di nome...» Non riuscì a pronunciare il nome: si bloccò, si raddrizzò sulla cassetta e cadde giù dalla carrozza. No, non di nuovo pensò Bardas e afferrò le redini, ma erano ancora arrotolate intorno ai polsi del cocchiere. Il suo corpo fu trascinato giù mentre la carrozza pian piano rallentava. Da qualche parte sul pianale dietro c'era un arco, che era in dotazione alle guardie postali, ma non si trovava dove avrebbe dovuto essere. La sua scimitarra era con il resto del bagaglio, da qualche parte sul retro. Non c'era motivo di tentare di combattere, allora; il che gli lasciava una sola possibilità, la ritirata. Scivolò lungo il sedile e allungò le mani verso le redini, perse l'equilibrio e cadde. L'ultima cosa che vide fu la ruota anteriore, che gli veniva incontro... Bardas? «Anax?» disse. Alexius. Sono passato un attimo per dirti addio. «Oh» rispose Bardas. «Allora stai andando via.» Finalmente sì. Ora lei è morta, e questo praticamente chiude i conti. «Chi è morta? Vuoi dire Iseutz, mia nipote?» No. Qualcun altro. Non so, forse non ti ricordi di lei: Vetriz Auzeil. È stata coinvolta, marginalmente. Non c'era modo di sapere dove si trovava; era così buio, senza rumori né odori. «Mi sembra di ricordare che mi hai parlato di lei» disse. «E ho incontrato lei e suo fratello un paio di volte. Erano amici di Athli Zeuxis.» Fece per aggiungere qualcosa, ma tacque. Be', so che tu sei scettico a riguardo, quindi non mi addentrerò nei dettagli. Credo che lei fosse una naturale, ma fino a che punto abbia giocato una parte significativa... anche se ovviamente deve aver avuto un qualche peso, altrimenti la sua morte non chiuderebbe la faccenda, per così dire. In ogni modo, sembra essere finita così. «Bene, allora.» Bardas decise di chiederglielo, dopo tutto. «Sai per caso
cosa è successo ad Athli alla fine?» Non ne sono sicuro. Ha avuto sicuramente una parte nella difesa di Shastel, ma se sia fuggita o no non l'ho mai scoperto. Si è parlato vagamente di lei in una delle discussioni relative alla guerra di Colleon, ma niente di conclusivo. Potevano riferirsi o alla Prima Guerra di Colleon, che e stata prima della caduta di Shastel... «Quindi non era lei» disse Bardas «sulla porta d'ingresso?» Non ad Ap' Escatoy, se è quello che intendi. No, la terza testa era di una donna di nome Eseutz Mesatges, ed è stato un errore di identità... l'hanno confusa con tua nipote Iseutz. E a essere onesti, è un nome insolito. «Non l'ho mai sentita nominare» rispose Bardas. «Grazie. Mi sento un po' meglio ora che ho saputo che Athli è riuscita a fuggire.» Be'... A ogni modo ci vedremo ancora, ovviamente, ma questa è l'ultima volta che mi vedrai come Alexius. In realtà non dovrei essere qui ora, ma... Bardas aprì gli occhi. «Sia ringraziato il cielo» disse Gorgas. «Ero preoccupatissimo.» Gorgas era inginocchiato accanto a lui, con una bacinella in una mano e un pezzo di stoffa bagnata nell'altra. La stoffa era stata strappata dalla sua camicia; Bardas vide che gli mancava un pezzo di manica. «Va tutto bene» continuò Gorgas. «Hai preso un brutto colpo in testa, ma il gonfiore è sparito e non credo che tu abbia un'emorragia interna. Bardas? Sai chi sono, vero?» «Credo di sì» rispose Bardas. «Sei mio fratello Gorgas, giusto?» «Sì, è giusto.» Bardas tentò di annuire con la testa, ma risultò essere una pessima idea. «Abbiamo costruito la casa sull'albero insieme. Su quel grosso albero di mele, prima che cadesse. C'era uno scoiattolo che era solito passare davanti alla finestra.» «Sì, è vero» disse Gorgas. «Ora stai fermo e prenditela con calma. È tutto sotto controllo.» «Dov'è papà?» Gorgas lo guardò e poi sorrise: era un ampio sorriso pieno di calore. «È da qualche parte» disse. «Non preoccuparti, tutto andrà per il meglio.» Bardas tentò di sorridere, ma gli faceva male la testa. «Non vai da nessuna parte, vero?» chiese. «Certo che no. Rimango qui. Rilassati.»
Chiuse gli occhi di nuovo; e quando li aprì, ricordò. «Gorgas?» Tentò di alzarsi, ma non ne aveva la forza. Era disteso sul ponte di una piccola nave, con la testa appoggiata sopra una vela piegata e coperto da una serie di coperte e lenzuola. Il sole era luminoso, forte, quasi crudele, ma c'era anche una piacevole brezza fresca. «Bardas?» La voce proveniva da più lontano, dall'altro capo della nave. «Stai fermo, arrivo subito.» Bardas non riusciva a muoversi, ma era in grado di capire esattamente dove si trovava Gorgas dal suono dei suoi piedi sul ponte e dalle vibrazioni che correvano lungo le tavole; era una capacità che aveva acquisito nelle gallerie sotto Ap' Escatoy. «Hai preso un colpo in testa, ricordi?» stava dicendo Gorgas (ma Bardas non riusciva a vederlo; era sopra di lui, ma dietro, e la sua ombra ricadeva sul viso di Bardas). «Sei caduto dal carro postale. Dannazione, avrei dovuto immaginare che sarebbe successo qualcosa del genere. È tutta colpa mia... avresti potuto restare ucciso.» Bardas fece un profondo respiro. La sua bocca era secca, come il cuoio indurito. «Hai colpito il cocchiere» disse. «Da settanta metri per di più. Quell'arco che hai fatto per me, Bardas, è meraviglioso. Ma avrei dovuto stare più attento.» Bardas aggrottò la fronte. «Perché?» disse. «Perché cosa?» «Perché hai ucciso il cocchiere?» «Dovevo fermare la carrozza, idiota.» Bardas immaginò il suo sorriso largo e pieno di calore. «Era troppo all'aperto per mettere un blocco stradale, e il carro postale non si ferma a prendere passeggeri a metà strada. Vuoi qualcosa da bere ora?» «No. Sì» si corresse Bardas, perché in quel momento qualcosa da bere era ciò che voleva di più al mondo. «Sta arrivando» disse Gorgas. «Non hai idea di come mi sono divertito da quel momento; tu eri svenuto, io ero convinto di averti ucciso. Perciò ho buttato via tutta quella roba da sopra il carro, ti ho caricato là sopra e mi sono diretto attraverso la campagna verso il punto dove avevo lasciato la nave; e poi quella maledetta ruota è saltata...» Bardas si accigliò. Gli sembrò di ricordare una conversazione che aveva avuto pochi momenti prima; il succo era che non era una ruota, ma un albero di distribuzione. Ma non aveva alcun senso. «Così dopo aver abbandonato il carro» stava dicendo Gorgas «ti ho dovuto portare in braccio per le ultime due miglia... e cavoli, fratello, ne hai
messo su di peso da quando ti portavo in giro per il cortile, anche se in effetti allora avevi solo tre anni. E ovviamente avevo una tremenda paura di portarti in giro e di danneggiare qualcosa... Le ferite alla testa sono davvero pericolose, sai, si possono fare grossi danni se non si sta attenti. Ti dirò... è stato solo quando ti ho portato su questa nave che mi sono ricordato di preoccuparmi del fatto che qualcuno avrebbe potuto inseguirci. Ma sembra che nessuno lo abbia fatto, fortunatamente. E quindi» aggiunse allegramente «eccoci qui: siamo partiti. Sai, è proprio come ai vecchi tempi.» «Perché hai fermato la carrozza?» chiese Bardas. «Oh... Per salvarti, naturalmente. Non crederai che sarei rimasto a guardare mentre mio fratello veniva mandato alla corte marziale, vero? Tu potrai anche avere fiducia nella giustizia imperiale, ma io no.» (Tre teste sulla porta d'ingresso: era una valida argomentazione.) «Non volevano mandarmi alla corte marziale» disse Bardas. «Mi avevano dato un altro incarico... a Hommyra» ricordò. Gorgas rise. «Non esiste un posto del genere, sciocco. Ma forza, a questo punto dovresti conoscere l'Impero: per ogni fallimento ci vuole un responsabile. Ehi, meno male che c'è tuo fratello maggiore che ti protegge! Non dovresti andartene in giro da solo.» «Ma il cocchiere l'aveva sentito nominare, credo.» «Ma certo» disse Gorgas. «Ascolta, a chi preferisci credere, all'Impero o alla tua stessa carne e al tuo stesso sangue? Eccoci insieme di nuovo, solo che questa volta sarà diverso. Te lo prometto.» La testa di Bardas pulsava. «Stiamo andando a casa? Nel Mesoge?» «Vuoi dire che non hai...?» La voce di Gorgas divenne sommessa. «Temo di avere delle cattive notizie per te» disse. «Non c'è più.» «Non c'è più? Cosa vuol dire?» «Scusami, non mi sono spiegato bene. Va bene, non meniamo il can per l'aia. La fattoria è stata distrutta, Bardas. Sono stati loro, l'ufficio provinciale.» «Ma di cosa stai parlando, Gorgas?» Gorgas tacque per un momento. «Hanno mandato una compagnia di arcieri» disse. «Nel cuore della notte, ovviamente. Hanno circondato il posto, sbarrato le porte dall'esterno e dato fuoco al tetto di paglia. Io mi sono svegliato tossendo come un matto, sono corso alla finestra e per poco non sono stato colpito. Era come l'inferno, Bardas; c'era fuoco dappertutto, non si vedeva niente: la paglia che bruciava veniva giù a mucchi, con le travi e
tutto il resto. Ho tentato di portarli fuori, davvero, ho tentato... ma Clefas era morto: il fumo l'ha soffocato mentre dormiva. Zonaras è rimasto intrappolato sotto il tetto, era lì, e urlava e bruciava e io non potevo fare niente... Guarda» disse, e si spostò in modo che Bardas potesse vedere la sua faccia. Per un istante, Bardas credette di vedere un'altra persona. «Stavo ancora tentando di aiutarlo quando è morto. Ha continuato a urlare Gorgas, aiutami fino alla fine.» Bardas non disse niente. «Iseutz era già andata via... ma tu già lo sai. Quindi eravamo rimasti solo io e Niessa» continuò alla fine Gorgas. «Solo lei e io: siamo riusciti a saltare giù dalla finestra della soffitta sul tetto della stalla delle anatre... lei ha avuto la prontezza di afferrare l'arco e le frecce, e c'era abbastanza luce, grazie al cielo; siamo riusciti a strisciare dentro la stalla e io li ho tenuti a bada fino a quando sono finite le frecce... ci hai salvato la vita, ragazzo, con questo arco, te lo dico io. A ogni modo, proprio quando pensavo che sarebbe stata la fine, ho visto un varco attraverso cui passare e ci siamo messi a correre in quella direzione. Non mi sono fermato fino a quando sono arrivato al pascolo di Clyras... sai, la strada sommersa; ora nessuno riuscirebbe mai a capire che lì c'era una strada, perché c'è cresciuta intorno la siepe. A quel punto mi sono reso conto che Niessa non era con me e quindi sono tornato indietro: era morta. Le stavano tagliando la testa con l'ascia di papà.» Gorgas tacque a lungo. «Be'» ricominciò alla fine «che potevo fare? Avrei forse potuto ucciderne alcuni e poi farmi ammazzare, ma cosa avrei ottenuto? Bisogna essere pratici. Sono tornato di soppiatto alla strada sommersa, mi sono nascosto per tutto il giorno e poi la notte sono andato a Tornoys e ho trovato questa barca. È la vecchia barca da aragoste di Lyras Monedin; ti ricordi di Lyras, quella miserabile vecchia canaglia che ci tirava i sassi quando eravamo bambini?» Bardas aprì gli occhi. «È ancora vivo? Deve avere più di cento anni.» «Ancora se la cava, apparentemente» disse Gorgas «anche se la barca ora la portano fuori Buciras e Onnyas. Be', prima che io la rubassi, in ogni caso. Quindi questo è quanto» continuò. «Tutto ciò che avevamo, tutto ciò per cui abbiamo lavorato, tu e io, tutto è andato in fumo, letteralmente. Siamo solo tu e io ora, Bardas. Siamo gli unici rimasti.» «Capisco.» Annuì Bardas. «Allora dove stiamo andando?» «Ah.» Gorgas sorrise. «Ecco quello che intendevo quanto ti ho detto che
andrà tutto bene. Ricordi Fleuras Peredin?» «Chi?» «Fleuras Peredin» ripeté Gorgas. «Era solito andare a pescare il merluzzo e quegli affarini lunghi che si dimenavano come matti con le grosse teste piatte, laggiù oltre i banchi di sabbia.» «Sì, ricordo. Cosa ha a che fare lui con il resto?» «Ah.» Gorgas fece una risatina. «Be', ho ricordato una cosa che mi ha detto una volta, su come era stato colto da una burrasca e spedito in alto mare; e che mi aveva parlato di un'isola lontanissima su cui era finito. Naturalmente ho pensato che si stesse inventando tutto, è sempre stato un bugiardo; e poi ho sentito qualcuno alla Speranze e Paure che raccontava la stessa storia circa un anno fa, il che mi ha fatto pensare. In ogni caso, per farla breve c'è veramente un'isola laggiù; ci sono stato e so come trovarla. Non è niente di speciale, te lo garantisco: mucchi di rocce, alberi e poco altro. Ma c'è acqua dolce, e un posto piatto al centro che sembra un terreno piuttosto buono, di quelli in cui si sputa un seme di mela e l'anno dopo ti ritrovi un albero. Ci sono capre che vivono sulle rocce, e tantissimi uccelli; non potresti morire di fame neanche se volessi. C'è legna per costruire, quanta ne vuoi; e per di più, sai cosa ho trovato su una delle montagne? Minerali di ferro; pepite belle grosse, proprio in superficie. Te lo prometto, Bardas: con la mia forza e le tue capacità non c'è niente che non possiamo avere lì se lo vogliamo. Solo tu e io, insieme. Sarà come ai vecchi tempi. Che ne dici?» Bardas rifletté per un momento. «Tu sei pazzo» disse. Gorgas lo guardò perplesso. «Cosa vuoi dire?» «Stai veramente dicendo che potremmo vivere insieme, costruire una fattoria, come se niente di ciò che hai fatto sia mai accaduto. Vuoi tornare a quando eravamo bambini, prima...» Il viso di Gorgas sembrò cadere a pezzi: la pelle bruciata, screpolata, infiammata e lo sguardo d'orrore. «Per l'amor del cielo, Bardas» disse. «Cosa ho fatto? Io ti voglio bene, Bardas, più che a chiunque altro al mondo, ma tu non pupi startene lì sdraiato a parlare di ciò che io ho fatto. È stata una cosa brutta... oh, sì, una cosa molto brutta, su questo non c'è alcun dubbio; e da allora, in ogni istante della mia vita, ho tentato di riparare al male fatto, nei confronti di Niessa, Clefas e Zonaras, e tuo.» «Ogni cosa che ho fatto da allora, l'ho fatta per voi tre. E sì, ho fatto alcune cose brutte in quel periodo, cose terribili, ma buono o cattivo non
vuol dire niente quando è fatto per noi, per la famiglia. Ma tu... tutte le cose che tu hai fatto, tutta quella gente che hai ucciso, con zio Maxen, nei tribunali, durante l'assedio, a Scona, Ap' Escatoy, la guerra qui; per chi li hai uccisi, Bardas? Per chiunque ti stava pagando in quel momento? Forza, rispondimi, voglio saperlo.» Bardas scosse la testa. «Non osare dire una cosa del genere. Non osare tentare di far sembrare che io sia come te.» «Oh, forza.» Gorgas stava quasi ridendo. «Hai lasciato la tua casa per cercare fortuna; questo va bene. Tutti i soldi che hai fatto, li hai mandati a casa per Clefas e Zonaras; stavi tentando di prenderti cura di loro, proprio come me. Durante l'assedio stavi combattendo per la tua città. A Scona... be', ne avevi il diritto, è tutto ciò che posso dire. Ma dopo quello eravamo pari, e tu lo sai. Ma da allora... tu, un soldato dell'Impero? Credi veramente nel destino dei Figli del Cielo?» «E cosa mi dici degli abitanti dell'Isola?» gridò Bardas. «Uccisi, resi schiavi, e tutto per colpa tua...» Gorgas scosse la testa. «Per colpa dell'Impero... la gente per cui tu combatti. Per favore... E inoltre, niente di tutto questo sarebbe accaduto se Ap' Escatoy non fosse caduta; e chi è stato a causare tutto? Ma è giusto» continuò Gorgas, parlando con voce più pacata. «Tu stavi facendo il tuo lavoro, proprio come stavi facendo il tuo lavoro quando stavi con lo zio Maxen; un soldato non è responsabile per le guerre in cui combatte, proprio come io non sono responsabile per ciò che l'Impero ha fatto agli abitanti dell'Isola... o per ciò che Temrai ha fatto alla Città. E inoltre...» Trasformò il suo orribile viso in un sorriso. «Inoltre» disse «ora tutto è finito, per entrambi. Non capisci? Possiamo lasciarci tutto alle spalle... dannazione, se anche avessi una sola virtù, sarebbe quella di essere realista. Non possiamo cambiare nessuna delle cose brutte che abbiamo fatto. Persino tentare di compensarle in qualche modo ci fa fare altre cose brutte e peggiori. Ci dev'essere un momento in cui dobbiamo dire basta, è ora di fare qualcos'altro. .. qualcosa di utile, e di decente e di buono. Io ho tentato di farlo, Bardas. Ho tentato di andare a casa, di essere ciò che avrei dovuto essere sempre: un fattore che lavora sodo e si guadagna da vivere onestamente con la terra. Ho tentato di far tornare indietro la ruota, se preferisci metterla così... e cosa è accaduto? La nostra casa non è altro che fredde ceneri e macerie, ogni cosa è rovinata, bruciata e andata. E tu... be', non devo dirtelo io, no?» Bardas stava tremando per l'ira.
«Tutto» disse «tutto ciò che c'è di male in questo mondo, è colpa tua. Tutte le cose brutte, le cose malvagie che ho fatto, sono colpa tua. E io non ti perdonerò mai. Mai.» «Oh, Bardas.» Gorgas lo stava guardando con il volto pieno di compassione. «Sai, ciò che hai appena detto in un certo modo è un atto d'amore. In tutti questi anni hai lasciato che io ti sollevassi del peso di tutte le cose cattive che hai fatto. Mi hai consentito di farlo per te. E mi sta bene, ne sono felice. Ora lascia che faccia quest'ultima cosa, per entrambi noi. Cancelliamo tutto il male, vuoi?» Gorgas fece un ampio sorriso, stirando tutte le bruciature e le ferite che nascondevano il suo volto come una celata. «Sbarazziamo il mondo dei Loredan, per sempre. Non sarebbe un bene questo, eh? Togliamo di mezzo i fratelli Loredan, mettiamoli in un posto dove non possono fare più altro danno. Non riesco a pensare a un atto più altruistico di questo. Pensaci; saremo buoni, come se fossimo morti e sepolti.» (Di solito si muore prima; ma nel tuo caso faremo un'eccezione.) «E in ogni modo» continuò Gorgas «non è che tu abbia altra scelta. Sei troppo debole per combattermi, o per saltare giù. Quando arriveremo lì, non appena avrò portato te e le nostre cose a riva, bagnerò i ponti con l'olio delle lampade e darò fuoco a questa vecchia bagnarola. Se vorrai andartene dall'isola, dovrai costruirti una nave con le tue mani.» Bardas faceva fatica a respirare. «Oppure potrei ucciderti» disse. «Potrei uccidere entrambi.» «Potresti» ammise Gorgas. «Se volessi... e a quel punto saremmo uguali, io e te... tranne per il fatto che il mio atto deliberato di cattiveria è stato all'inizio e il tuo sarà alla fine. È questo che vuoi?» «No.» «Lo immaginavo» disse allegramente Gorgas. «Quindi sembra proprio che faremo a modo mio. Ma va tutto bene; se io ti impedirò di scegliere, tu potrai dare la colpa a me per tutto. Potrai dare la colpa a me quando piove o quando non piove; potrai dare la colpa a me quando le capre mangeranno il grano verde, o il fieno prenderà fuoco; sarei felice di prendermi la colpa, sarà come ai vecchi tempi.» «No» disse a voce bassa Bardas. «Gorgas, ti prego.» «Non essere sciocco» disse Gorgas (si stava allontanando; Bardas non riusciva più a vederlo). «Immagino che dovrai semplicemente fidarti di me, Bardas. Dopo tutto, io sono tuo fratello maggiore e ti voglio bene. E non ho sempre badato a te?»
Nota dell'autore Non avrei potuto scrivere questo libro senza l'aiuto di Roger Lankford, che mi ha insegnato come costruire le armature, e lo ha fatto talmente bene che mi ha presentato il libro su un piatto d'acciaio. Ovviamente le pratiche di lavoro sciatte e inefficienti dell'arsenale dell'Impero non riflettono necessariamente le tecniche che Roger utilizza nell'Armeria di Lancaster, dove fabbrica il miglior abbigliamento d'acciaio in commercio. Ringrazio anche Michael Peters, dell'Armeria Black Hydra (non è un nome inventato) per altri consigli da esperto ("colpirti il pollice in questo momento non è una buona idea"), e Thomas Jennings, che mi ha prestato la sua fabbrica quando avevo bisogno di un luogo dove battere il metallo senza esacerbare i vicini. FINE